ANDARSENE
di
Pietro Panico
INTRODUZIONE.
Mettendomi nei panni di un lettore sul punto di approcciarsi a questo libro, sorge spontanea la domanda:
Quale l'utilità di questi scritti?
Il libro è di per sé un continuo susseguirsi di avvenimenti, si suppone personali, o quanto meno narrati in prima persona in forma quasi di diario postumo; a che scopo quindi raccontarli?
A che scopo tutto questo inarrestabile parlare di sé?
Mi chiedo se non sia solamente una grande celebrazione di egocentrismo, un voler mostrare al mondo il proprio vissuto nel desiderio di ricevere quante più possibili attenzioni, soldi e fama, come solitamente viene fatto in questi casi.
La speranza intima è di non rientrare in tutto ciò, ma che tutto quanto scritto possa avere utilità al lettore nello strappargli qualche sorriso e, cosa per me molto più importante, qualche riflessione.
Che le situazioni descritte siano poi realmente accadute o meno e che le persone incontrate esistano davvero non è di per sé fondamentale.
Sarebbe per me fondamentale che se una persona scegliesse di usare il proprio prezioso tempo per immergersi in questa lettura almeno che la stessa, con le sue vicende narrate, possa in qualche modo servirgli da ispirazione a:
Non mollare anche in situazioni difficili od insolite ed a cercare di osservare da sé stessi la propria vita per esserne gli unici giudici affidabili.
Essere il più possibile sinceri verso la propria persona e dare maggior ascolto alla propria incorruttibile coscienza per cercare di correggere il tiro dove si riconosce che c'è qualcosa di sbagliato.
Avere la forza nel fare il primo o per seguire delle scelte spesso contrarie alla logica ma che si sente siano la cosa giusta da fare. Ma anche vedere l'altra faccia della medaglia di certe scelte, ovvero le tante fantasticherie mai realizzate ed il dover costantemente rimettere i piedi per terra e ridimensionarsi alle spesso difficili circostanze.
Tentare costantemente di adattarsi alle stesse circostanze frutto di una scelta di vita che è solo ai primi tentativi nello schivare gli ingiusti meccanismi della
società, nella ricerca di qualcosa di autentico.
Evadere da ciò che è considerato dall'opinione comune la normalità, magari per poter semplicemente ammirare lo scorrere del paesaggio fuori da un finestrino e sentire l'aria accarezzare il volto.
Sfiorare o spesso prendere frontalmente determinate riflessioni non rimandabili sull'essenza della vita stessa, dovute a situazioni a volte estreme.
Inseguire sempre, in ogni spostamento ed in ogni permanenza, quel qualcosa che si spera di raggiungere quando si sceglie per intelligenza, convenienza, coraggio, e chissà perché ci si è costretti, di mollare tutto quanto, il posto in cui si è, il lavoro che si ha, le comodità e le molte “certezze”. Un qualcosa definibile con ciò che fa vibrare l'anima e soddisfare il bisogno innato di fare esperienza della vita, comprendere.
Andarsene, in cerca di questo qualcosa.
ARGENTINA, il ritorno in sud America.
Stavo scappando dall'Australia, dove mi auto-alienai semi-coscientemente per mesi, lavorando come gli schiavi di un tempo che venivano allegramente motivati a suon di frustate, dandomi poche tregue a causa di certi miei esperimenti sui limiti fisici dell'uomo.
Ho scritto stavo scappando, perché oltre ai capelli e le tante gocce di sudore che
lasciai dietro di me lasciai anche varie multe per eccesso di velocità, abbandonai una macchina nell'outback in Western Australia, con la quale però riuscii a vedere infiniti miliardi di stelle ogni notte, e migrai sulla costa est, dove gli ultimi giorni presi ancora altre multe durante la ricollocazione di un veicolo da Cairns a Sydney, 3000 km da fare in 3 giorni, da solo. Non pagai mai nulla di quelle multe raddoppianti di mese in mese.
Così, stanco di tutto questo mio sudare e perdere capelli che a quanto pare rischiava di diventare invano, volli tentare una scelta direi piuttosto istintoevasiva e tornarmene in sud America, dove già ero stato altre volte; in cerca della terra promessa dove i soldi che misi da parte in pochi mesi di lavoro in condizioni spesso disumane, si sarebbero moltiplicati spropositatamente grazie ad una semplice conversione di valuta, permettendomi di viaggiare senza freno per un bel periodo di tempo.
Come mi aspettavo lasciai il paese con la tensione interna dovuta alla certezza di non essere totalmente in regola e con la conseguente paura di essere bloccato in aereoporto.
Arrivai nella bella Buenos Aires, con un volo diretto da Sydney di solamente 14 ore, ando dalle parti del polo antartico.
Durai giusti dieci giorni in Argentina, spendendo buona parte del tempo in compilare, recuperare e spedire trafile di documenti per recuperare altri soldi inerenti le tasse pagate in Australia.
Queste attività mi presero talmente tanto tempo che non socializzai più di tanto, come ero invece solito fare, con le altre persone in ostello.
La mia voglia di lasciare l'Argentina fu causata dai prezzi spropositati, principalmente, ma anche da varie disavventure che, per mostrare un po' come gli eventi che accadono magari non siano proprio casuali ed abbiano una sorta di ciclicità fino a che non vengano compresi ed affrontati, preferisco descrivere in seguito.
Inoltre giunsero varie volte al mio organo uditivo racconti che venivano trasmessi per via orale dai saggi nomadi incontrati in viaggi precedenti, a riguardo del mito dei due paesi con il più basso costo della vita in sud America: Il Paraguay e la Bolivia.
La parola degli altri viaggianti, nel descrivere un posto, non venne mai messa in dubbio minimamente da me, ma ascoltata ed assorbita profondamente in ogni piccolo consiglio che sarebbe potuto rivelarsi utile in futuro.
Così seguendo l'onda della mia percezione delle circostanze e della mia voglia subcosciente voglia di avventura al decimo giorno argentino mi ritrovai seduto in un autobus in direzione Paraguay. Volli arrivarci però allungando e deviando a Foz do Iguaçu, nel Brasile di frontiera, dove ai tre giorni abbastanza normali.
Normali chiaramente dal punto di vista di qualcuno che sta viaggiando ed ha giornate raramente le une uguali alle altre.
Mi accampai in un ostello e ricordo che la seconda notte vomitai per del cibo avariato; nonostante questo al mattino mi andai a vedere le cascate (tra le più belle al mondo) con la febbre e applicando la teoria del:
“Tutto prima o poi a”.
PARAGUAY, non voglio guai.
Il aggio di frontiera tra Argentina e Brasile mi fece notare come fosse facile contrabbandare qualsiasi cosa tra questi due paesi, visto che controlli particolari non esistevano e avano macchine caricate di roba di ogni genere; ma non vi fu nessun tipo di paragone con la frontiera fra Brasile e Paraguay.
Nella città di Foz do Iguaçù avano dei piccoli pullman, che la collegavano con Ciudad del este in Paraguay; le due città divise dal rio Paranà ed unite da un alto ponte sopra di esso.
Quel mio ultimo giorno a Foz presi il pullmino di un autista vistosamente paraguayano, patriottico al massimo, con dentro appese le madonne, gingilli vari, bandiere e colori paraguayani ovunque; musica popolare paraguacia al massimo ed uno stile di guida aggressivo a distinguerci nel traffico calmo del primo pomeriggio brasiliano.
Non sapendo dove si trovasse la frontiera non dissi niente all'autista, che stranamente non si accorse del mio borsone e dello zaino, non mi invitò quindi a scendere alla stessa.
Superato il ponte che segnava il confine ero in Paraguay e scesi dopo qualche minuto a o d'uomo nel centro di Ciudad del Este. Non avendo subito i timbri sul aporto, cominciai automaticamente a fantasticare a tutti i vantaggi di cui avrei potuto usufruire da quel mancato controllo. Nel frattempo, eggiando, mi iniziai a domandare dove diavolo fossi finito e curiosavo ovunque con lo
sguardo.
Dopo aver conversato con un ante alla buona in portugnolo (un mix indistinto, dalle percentuali variabili, di portoghese e spagnolo, che di solito apprende rapidamente per osmosi dall'ambiente circostante chi viaggia in sud America), compresi che avevo bisogno di farmi i timbri sul visto, altrimenti avrei avuto problemi quando un giorno avessi deciso di lasciare il Paraguay od in caso di controllo documenti.
Tornai quindi verso il ponte seguendo la strada principale ed un o dopo l'altro mi cominciai ad accorgere del “panorama” che mi circondava; la differenza con Foz do Iguaçù era veramente notevole, nonostante fossero divise solo da un fiume.
A Ciudad del Este buona parte delle macchine degli anni 80, e forse anche prima, erano sopravvissute e circolavano rumorose per le sporche e affollate strade. La strada che pensai dovesse essere una delle più importanti pullulava di tizi che cambiavano soldi lungo i marciapiedi sgangherati. I cambiatori vedendomi are con lo zaino ed il maledetto borsone spezza-spalla e toglifiato che mi portavo appresso da mesi, mi sventolavano i loro fogli di carta colorati nella speranza mi fermassi a trattare.
Proseguii camminando, vedendo scorrere nella mio campo visivo vecchi palazzi alti e tetri con impolverate insegne invasive di shopping di ogni genere, ovunque. Molte delle insegne erano cinesi e la gente con aria losca in giro contribuivano a rendere quel posto quasi surreale ai miei occhi stupiti e recettivi come quelli di un bambino di fronte ad una novità. Se non fosse stato per tutte quelle persone in giro, sarebbe potuta sembrare una città abbandonata a se stessa da decenni.
Arrivai al ponte e ai la presenziata ma incontrollata frontiera paraguayana per tornare dal lato del Brasile. Seguii istintivamente il comportamento delle persone che di abitudine fanno avanti e indietro tra i due paesi; qualcuno di loro sicuramente trasportando merce illegale, materiale elettronico sopratutto. Feci anch'io ando dalla Fiscalização Brasiliana un cenno con la testa ai disimpegnati addetti al controllo, quasi un saluto. Proseguì camminando per una cinquantina di metri, ai sul marciapiede opposto e tornai in dietro.
Mi fecero il timbro di uscita dal Brasile, dimenticandosi inoltre di chiedermi un fogliettino detto cartão de entrada/saìda, che viene compilato quando si entra e andrebbe conservato, pena multa se perso, all'uscita.
Una volta tornato sul lungo ponte, proseguivo sul marciapiede, che era isolato dalla strada e dal bordo, da alte reti di metallo arrugginito.
Assistetti allo svolgersi di una scena davvero particolare, stavano arrivando da Ciudad, camminando verso di me, due ragazzi di cui le facce segnate già raccontavano molto a proposito della loro vita. Stavano spingendo un trasportino, di quelli a due ruote che si usano per le consegne. Sopra al trasportino era posizionato un cassone nero piuttosto grosso, assicurato da uno mentre l'altro lo spingeva; i due d'un tratto si fermarono, lo sollevarono con sforzo ed, attraverso una tratto del ponte dove era stata spaccata la rete, iniziarono a calarlo rapidamente con una corda a cui era stato fissato sulla riva brasiliana del fiume.
Gli ai a fianco e mentre si guardavano intorno, rapidi ed a tratti durante quella loro faticosa impresa, per un istante incrociai lo sguardo con uno dei due, che evidentemente mi valutò come non influente nello svolgimento della loro attività. Eseguivano dei movimenti veloci e di una certa professionalità, senza ansia, come chi ha fatto la stessa cosa svariate volte e comunque ha fede che andrà tutto quanto bene!
Mi chiesi quale potrebbe essere stato il contenuto di quel cassone.
Raggiunta la imigracion del Paraguay, all'altro capo del ponte, non ci fu nessuna domanda particolare, sospetti o perquisizione bagagli; l'addetto mi fece il timbro e tornò comodamente seduto nel suo ufficio a leggersi il giornale. Nuovamente a Ciudad del Este ai un po' di tempo entrando in alcuni shopping per farmi un idea sui prezzi della merce, fantasticando già di diventare un fortunato venditore di prodotti vari, sfruttando il cambio valuta tra le due frontiere.
Era impressionante, quei palazzi brutti e decadenti esternamente riservavano al loro interno un lusso che non avrei mai immaginato; con negozi di gioielli, profumi, televisori, computer, tanta roba moderna e firmata, ma anche tanto di seguridad armati di fucile a pompa in fronte a certe vetrine. Tornai all'aria aperta e decisi di prendere un autobus per andarmene da quello strano posto, cestinando all'istante tutto quel mio fantasticare sul diventare un furbo venditore. Magari avrebbe potuto anche funzionare, ma dovermi adattare a quella realtà da videogame mi scoraggiò in partenza.
Nella stazione degli autobus, detto Terminal in spagnolo, scelsi tra le poche destinazioni l'unica che mi sembrò logica, partì al pomeriggio per Asuciòn, la capitale del Paraguay, e vi arrivai che era sera tardi.
ai la notte nella stazione degli autobus di Asunciòn, mangiando buonissime chipa, un pane di amido di tapioca e mais con uova, formaggio, ed altri ingredienti segreti che i venditori di etnia Guaranì non vollero rivelarmi nonostante la mia insistenza. Finii poi a dormire su di una ampia panchina di legno con la fresca brezza portata da un temporale che aveva lavato le strade e resa piacevole l'altrimenti calda temperatura estiva.
Mi ingegnai per vari minuti in una tecnica antifurto nella speranza di evitare che mi venissero sottratti i bagagli durante il riposo. Lo zaino servì quindi come cuscino ed il borsone, al mio lato per terra, era annodato in qualche maniera al mio braccio.
Sebbene le misure antifurto adottate ebbi il dubbio che qualcuno mi scandagliò esternamente le tasche durante il sonno; mi svegliai di soprassalto vedendo un ragazzo che si allontanava e dopo aver controllato di avere ancora tutto ed aver proferito brevi imprecazioni mentali, nonostante non mi venne sottratto nulla, sapevo già che non era in Paraguay che sarei rimasto.
Seguii quindi il consiglio di un viaggiante argentino tendente all'alcool, conosciuto giusto due giorni prima in ostello a Foz e scelsi di andarmene in Bolivia, paese che già da tempo occupava i miei pensieri.
Di mattino presto le prime biglietterie delle varie agenzie stavano già aprendo.
In molti posti del sud America, i bigliettai gridavano le destinazioni offerte dall'impresa da dentro al loro stanzino. Ma spesso, credo più per un innato istinto di competizione tra di loro che per un eventuale provvigione sul venduto, stavano liberi a so per la stazione e bastava che ti vedessero guardarti attorno indeciso per far si che ti iniziassero a pedinare. Ti approcciavano poi ripetendo a raffica i nomi delle destinazioni servite dalle loro linee, sperando di accalappiarsi un possibile cliente con la loro melodia persuasiva. Col tempo sviluppai una tecnica personale che mi fece ottenere quasi sempre degli sconti inaspettati.
Riuscii a trovare una biglietteria ad un buon prezzo per la Bolivia, con destino finale Santa Cruz de la Sierra. Per pagare meno presi il biglietto solo fino a Villa Montes, che si trovava sulla strada giusto ato il confine paraguayano;
l'autobus sarebbe partito quella sera.
Approfittai della gentilezza della bigliettaia e le lasciai borsone e zaino nel suo stanzino per andarmi a farmi un giro per le strade di Asuncion.
La città nel centro era carina, ma ci rimasi straniato quando vidi delle baraccopoli subito dietro ad un edificio vittoriano, che secondo le numerose bandiere doveva essere una casa del governo; ando poi oltre le baracche arrivai al rio Paraguay.
Nel fiume sostava, ormeggiata ad una piattaforma metallica, l'imponente immagine della potenza militare paraguayana: Consisteva in una smilza imbarcazione di una trentina di metri, armata di alcune mitragliatrici. Grigia e solitaria vedetta del fiume. La osservai camminando lungo la sponda sabbiosa, raggirando rami e immondizia accatastati dai periodi di piena. Sembrava la marina si fosse dimenticata di quel suo mezzo e due pescatori andarono a tenerle compagnia su di una barchetta a remi.
Rimasi un buon tempo seduto e riflettendo, e fui felice di essere già in partenza da quello strano paese.
Tornai al terminal degli autobus prendendo in centro uno dei fantastici micro (venivano chiamati così gli autobus urbani di piccole dimensioni); sembravano usciti da un altra epoca, tutti colorati e rappezzati alla meglio e mi chiesi come potessero farcela a camminare ancora.
Dopo aver atteso del tempo nel Terminal, il bus per la Bolivia partì mezzo pieno. Addirittura ad una prima sosta, ancora in città, avemmo i 2 pasti inclusi nel
biglietto, cosa per me mai successa prima. Riso in bianco con carne fritta e riso in bianco con pollo sarebbero serviti a soddisfare le circa venti ore di viaggio.
Quel pasto fu il primo decente da quando vomitai di notte, pervaso da una sensazione di benessere cominciai a dormire pesantemente appena finito l'ultimo boccone ed aver assistito alle povere costruzioni della periferia che sembravano non voler cedere più il o alla natura.
Mi svegliai che era buio profondo ed il vecchio e rumoroso autobus avanzava a stento lungo una strada infinitamente dritta, sterrata e piena di buche. Scorrevamo lenti nel mezzo di una foresta dai bassi arbusti nella regione del Gran Chaco*(é una regione snodata tra Brasile, Bolivia, Paraguay ed Argentina, caratterizzata da una vegetazione molto tipica), con le cicale che cantavano forti ed incessanti per accompagnarci.
ai lungo tempo mentalmente sveglio, riposando il corpo per quanto si poteva a causa dei sobbalzi e godendomi la piacevole sensazione dell'aria fresca che entrava dal finestrino spalancato. Aprii gli occhi quasi per sbaglio e sulla mia sinistra affiorò in un tratto senza alberi una meravigliosa luna piena e rossa poco sopra all'orizzonte. La fissai con rispetto e stima fino a che non ricaddi nel sonno con un sorriso nell'animo per aver occasione di assaporare il creato.
Ci fermammo durante la notte per il controllo dei documenti della frontiera paraguayana e l'apposizione dei timbri, continuò poi il viaggio ed io non sapevo se avevamo già ato o meno quella linea immaginaria disegnata sulle mappa; un'altra volta mi resi conto di come il confine degli stati e l'esistenza degli stessi sia solamente una creazione dell'uomo.
La probabile conferma arrivò all'alba, quando questa strada sempre diritta e piena di fosse e senza nessun accenno di insediamenti umani divenne
improvvisamente velata da un manto di asfalto nuovo e liscio; era l'inizio della Bolivia, pensai, e l'autobus avanzava ora tranquillo dopo ore di dura prova per l'impianto ammortizzante.
E così, anche il Paraguay era rimasto alle mie spalle, appena assaggiato, come un barattolo che si apre e non piacendo il contenuto viene subito richiuso e messo da parte.
BOLIVIA, sai quello che lasci e non sai quello che trovi, questa è la tua vita.
Con la luce del nuovo giorno ci fermammo per un altro controllo dei documenti in una specie di piccolo castello del nuovo millennio presidiato dall'esercito boliviano. Il militare che faceva i timbri, dalla faccia e dal modo di parlare, mi fece intuire che fosse leggermente brillo; ne ebbi la conferma dopo un mese quando mi accorsi che mi mise il timbro di uscita dalla Bolivia anzi che quello di entrata, costandomi 10 minuti di spiegazioni all'ufficio immigrazione dovendo dimostrare di non essere un clandestino.
Finiti i controlli ed i timbri proseguimmo il viaggio, ma l'autobus, che chissà da dove venne riciclato, cominciò a dare problemi al motore e ci fermammo varie volte nel caldo in mezzo al Gran Chaco. I due autisti boliviani quando l'autobus si fermava aprivano il cassone del motore al lato dell'autista, regolavano e stringevano dei bulloni per poi far tossire un po' il mezzo e farlo smuovere nuovamente.
Notai che nessuno dei eggeri si lamentava o sbuffava a causa delle impreviste soste, qualcuno chiese che stava succedendo agli autisti e poi si sparse la voce a tutte quelle teste curiose che sbucavano da dietro ai sedili. Si era
tutti quanti sicuri in qualche maniera di arrivare a destinazione prima o poi ed io non avendo nessuna fretta o nessun impegno programmato in particolare ci sarei rimasto un tempo indeterminato rilassandomi in quel viaggio.
Dopo una mezzora venimmo fermati nuovamente per altri controlli in un posto di blocco dell'esercito Boliviano; quando diedi il aporto vidi che il militare aveva appoggiato sul tavolino di fronte a lui, in attesa di essere ripreso, un libro sugli illuminati e commentai la cosa in qualche maniera che probabilmente non venne compresa.
Vari soldati molto giovani assistevano accalcati dietro una rete, tutti tristemente vestiti uguali e tutti speranzosi di vedere qualche bella ragazza.
Lasciammo quel posto e dopo alcune ore avanzando a tappe a causa del motore, stavamo percorrendo delle strade tortuose e mi svegliai. Eravamo in mezzo a delle lievi montagne verdissime con formazioni rocciose che sgorgavano qua e là spezzando l'omogeneità del paesaggio, ogni tanto ando tra i villaggi di case di fango essiccato alcune persone ci salutavano lungo il cammino.
Non avevo nessuna aspettativa sulla Bolivia. Sinceramente le uniche cose che sapevo riguardo a questo paese, se non per detta di altri viaggianti, erano l'esistenza di un lago prosciugato e tutto bianco dal sale ed il nome della capitale sbagliata, La Paz.; oltre chiaramente ad il basso costo di vita.
Finalmente a causa del cambio di paesaggio realizzai a pieno e fisicamente di aver cambiato stato. I miei occhi diventarono come due imbuti, tutto ciò che vedevano vi converse dentro per rimanere impressionato indelebilmente.
Sentendomi estasiato da quella novità fu così tanto l'entusiasmo che ripetutamente annusavo l'aria per poi spruzzare fuori a voce bassa: “Boliviaaaaaaa”. Come una pentola a pressione che è colma di energia e usa la valvola di sfogo per dissiparne quella in eccesso, emettendo un sibilo. In più quell'autobus malconcio era il mezzo migliore per fare un viaggio del genere; lentezza, soste continue, senza aria condizionata, finestroni che
si spalancano. Alternai qundi testa e piedi a penzolare fuori al vento ed al sole, con un placido sorriso stampato sul volto a godere a pieno tutti questi lussi in una volta sola.
Mi resi conto solo al pranzo che avevo quasi sicuramente dormito quando invece sarei dovuto scendere alla mia fermata prevista, Villa Montes; stavo quindi finendo a Santa Cruz de la sierra, ma riflessi che tanto per me non vi era molta differenza. Speravo solo non mi dessero problemi per la differenza che, teoricamente, avrei dovuto pagare in più; ma una volta a destino non se ne accorse nessuno.
L'arrivo a Santa Cruz nel terminal degli autobus prese più di un ora di circonvallazione, ando per la arrangiata periferia. Notai subito che era una città veramente grande in estensione, appresi in seguito che era stata costruita a cerchi concentrici chiamati anillos (anelli).
Mentre avanzavamo nel traffico per quello che poi scoprii essere il segundo anillo, rimasi affascinato nel vedere la statua del Cacique Chiriguano, un monumento dedicato ai chiriguanos (una popolazione india) raffigurante un imponente indio in assetto da caccia con lo sguardo a scrutare in lontananza. Divenne successivamente un mio punto riflessivo.
Uscito dal terminal degli autobus mi trovai in un caos di venditori ambulanti
seduti a terra e gente che gridava le varie destinazioni; riuscii a sgusciarne fuori e presa in mano la lonely planet (una guida fatta volutamente per i viaggiatori, dove vengono indicati posti dove dormire, prezzi, mappe e molti consigli) cominciai a dirigermi verso un ostello che vi era indicato dovendomi bloccare ogni poco per cambiare spalla allo scomodo borsone che mi portavo dietro.
Camminai una buona mezz'ora e arrivato al posto indicato mi accorsi che avevano fatto un errore ed avevano stampato quel punto da tutt'altra parte rispetto all'indirizzo scritto su di un'altra pagina. Così letta bene la mia nuova destinazione iniziai a camminare vari chilometri nel crepuscolo lungo la circonvallazione del centro, detta primero anillo, fino ad arrivare dal lato opposto.
L'ostello non esisteva e lonely planet mi aveva fregato. Ebbi fortuna e mi intrufolai nel primo residencial economico che trovai.
INCONTRI.
Quella sera stessa uscii a fare un giro e camminai un centinaio di metri oltre il residencial fino ad arrivare ad una grossa rotonda con al centro una statua, doveva essere una cosa tipica di quella città.
Se alcune ore prima camminare lungo il primero anillo non mi aveva dato un immagine così drastica della città,quando arrivai alla rotonda ed attraversai la strada...Era un degenero indescrivibile, un traffico pazzesco con tutti che suonavano i clacson, puzza di gas di scarico, fumate nere, sporcizia ovunque e gente gridando.
Attraversando quella strada scoprii poi di essere entrato nella Ramada, un quartiere di mercato operativo tutti i santi giorni dell'anno. Le persone andavano avanti e indietro scansandosi in mezzo alle bancarelle ed ai tanti venditori ambulanti che gridavano, tutti si accalcavano per salire sui vari micro con le più diverse destinazioni.
Andai dritto seguendo uno stradone, con un largo marciapiede centrale e delle corsie esterne separate da degli spartitraffico dove correvano a singhiozzi i micro, fermati di frequente dalle persone. Vi erano signore che vendevano la cena, servendo strane pietanze da dei pentoloni, mi ci avvicinai ma l'odore mi spinse via. Trovai un punto ad un centinaio di metri più avanti dove c'erano delle bancarelle che vendevano film e musica, con delle tv a dimostrare che i dischi funzionassero. Mi fermai dinnanzi ad una bancarella, con addirittura un televisore al plasma che pareva totalmente fuori luogo e mi sedetti sullo spartitraffico di cemento a guardarmi lo spezzone di un documentario sugli animali della savana.
Come erano strane le persone in giro, cominciai ad osservare le facce di tutti quanti. I miei occhi volenterosi di estrapolare l'essenza del volto Boliviano, saltavano da una parte all'altra nel movimento della folla, come a voler trovare un immagine stereotipica che lo riassumesse e catalogasse. Stavo già razzisticamente trovando gli aspetti in comune tra la maggior parte di loro, l'altezza, le proporzioni del corpo e la fisionomia generale. Non fu difficile notare come fossero pressoché tutti discendenti degli indios.
Mi concentrai sulla stradina pedonale di fronte a me, da cui veniva vomitato buona parte del flusso di persone di ritorno a casa nella sera. Stavo quasi per andarmene quando il mio sguardo cadde immobilizzato in due occhi leggermente allungati e stupendi... Era fantastica, con una armonia nei lineamenti del suo viso indio di una bellezza arcaica; i capelli scuri raccolti in una treccia che le cadeva lieve sul davanti.
Ci fissammo intensamente, mentre lei camminava nella mia direzione per un tempo breve, che non seppi quantificare, ma che ebbe molto valore. Sentii crescere qualcosa dentro durante quel tempo, e dall'essere seduto stancamente ed incurvato su quello spartitraffico sentii riattivarsi tutta una serie di meccanismi che mi misero in uno stato di veglia, e mi raddrizzai progressivamente. Mi ò davanti e buttò la pattumiera in un cassone sul marciapiede; tornò poi indietro proseguendo verso destra ed io riuscii a guardarle il corpo mentre sfilava fieramente tra le persone. Come ero già certo avendole visto solo il viso, ebbi la conferma della mia intuizione, era stupenda ...Vestiva bassi sandali modello antica Roma, con dei fuseaux attillati verde acqua che le accoglievano alla perfezione le gambe atletiche e vagamente arcuate, il sedere che sembrava implorasse di essere guardato e accarezzato era modellato divinamente e prendeva forma da dei fianchi femminili che si andavano affusolando in una vita stretta . Un vestitino nero, sulla parte superiore del corpo, esaltava la drittezza della sua postura e le spalle impostate. C'era un qualcosa nella sua camminata, un agilità spontanea nel movimento. Sprigionava un insieme di femminilità e forza naturale, era una guerriera. Sparì dal mio sguardo e tornandomene nel residencial scrissi su carta che avevo visto una ragazza bellissima ed avrei voluto rivederla, controllai l'orario e crollai nel sonno.
Il giorno successivo entrai nel panico, ando la mattinata saltando da un posto all'altro per tentare di prelevare dei soldi e ci riuscì soltanto nel primo pomeriggio.
Compreso il vantaggio del cambio moneta, volli festeggiare quindi la mia venuta in Bolivia andandomene al ristorante. Mangiai in uno su cui mi era caduto l'occhio il giorno precedente, un certo Pollos Irala.
Scoprii fin da subito che facevano pollo praticamente ovunque a Santa Cruz e che la totalità di essi era gestita da famiglie di cinesi.
Il posto era in stile fast food improvvisato e mal organizzato; con questi
sedicenni che vi lavoravano incuriositi dalla mia presenza, visto che palesemente non ero indigeno. Quando feci l'ordinazione facemmo entrambi fatica a capire cosa stessi dicendo. Pagai ed arrivò rapidamente un mezzo pollo con patatine fritte e verdure e lo mangiai come se fosse stato un sacrificio religioso. Fu il mio inno al raggiungimento della terra promessa; persone agli altri tavoli mi osservavano curiose, probabilmente scommettendo se fossi riuscito a mangiare tutto da solo.
Nonostante fossi stato male di stomaco non molti giorni prima, per il tipo di situazione mentale che stavo vivendo ed anche per la fame accumulata arrivai ad ingurgitarmi tutto quanto in tempo record, mangiai pure parte delle ossa. Una piacevole soddisfazione mi pervase, misi uno stuzzicadenti in bocca e mi alzai salutando i camerieri che risposero con cenni allibiti, qualcuno fece dei commenti e battutine che finsi di comprendere. Uscii per strada sentendomi immune dai ogni possibile pensiero loro o di chicchessia, ma soprattutto dai processi digestivi che normalmente dopo un pasto del genere mi avrebbero mandato in coma.
Libertà da molte delle regole, canoni di vivenza nella società. Stavo vivendo in un mondo solo mio, perso in un posto per me totalmente casuale del sud America.
Non sapevo bene dov'ero, Santa Cruz, una città che non avevo manco scelto come meta e c'ero finito praticamente per sbaglio, non sapevo cosa stavo facendo e nemmeno dove sarei voluto andare o cosa diavolo cercavo di ottenere.
In quel momento come agli antichi piaceva dire, a pancia piena si pensa meglio, ebbene a causa del cospicuo pranzo le mie associazioni mentali mi portarono a sentirmi felice. Felice semplicemente di aver la pancia piena a scoppiare e forse si, di essere totalmente perso e senza obbiettivi.
La sera ritornai allo stesso punto ed alla stessa ora di quella precedente e rividi sorpreso la ragazza ma ci fu solo uno sguardo fugace; rimasi deluso ma ebbi la conferma che probabilmente lei lavorava in quel mercato, dove ancora non avevo avuto coraggio di metterci piede.
ò un altra notte nello stesso residencial, dove avevo un comodo letto matrimoniale solo per me ed addirittura un ventilatore.
Piovve quasi tutta la giornata ed al pomeriggio quando smise volli andarmene ad un supermercato; quando uscii pioveva come spesso accade a quelle latitudini tropicali in una maniera devastante.
Alle strade già ben allagate andava aggiungendosi altra acqua; attesi un tempo all'entrata del supermercato osservandomi comodamente quello spettacolo della forza della natura.
Non sapendo quando avrebbe smesso, d'un tratto decisi di cambiare il mio ruolo in quella situazione, ando da osservatore asciutto a nuotatore urbano professionista.
Mi lanciai in strada e dopo una breve corsetta iniziale, piegato in avanti a capo chino per proteggermi, capii che non sarebbe servito a salvaguardare la mia secchezza corporale; così mi donai all'evento imprevisto iniziando a eggiare lentamente ed a testa alta come se nulla stesse succedendo.
Fui fradicio dopo meno di un minuto sentendomi come il tizio di “I'm singing in the rain”, con sprizzante gioia sguazzai negli allagamenti; mi misi a farmi lo shampo sotto un getto d'acqua di una grondaia e facendoci anche dei gargarismi.
Notai, vicino a me, delle persone che aspettavano i micro proteggendosi sotto ad una balconata, gli ai davanti agitandomi come un idiota dalla felicità e strappai vari sorrisi; poi proseguii torcendomi giusto un istante per salutarli, scivolai e caddi a terra scoppiando a ridere ubriaco di pioggia torrenziale.
Tornai al residencial dove mi asciugai come potevo; come bastino poche semplici cose per rendere una giornata interessante.
La sera non stava piovendo più e mi aggiustai per andare allo stesso punto alla stessa ora delle sere precedenti nella speranza di rivedere la bella guerriera indios.
Già cominciavo ad avere delle ansie sul come avrei fatto a conoscerla, maggiormente dovute al fatto che non mi sapevo esprimere ancora decentemente in spagnolo. Mi avviai in direzione del caotico mercato della ramada e mi sedetti sopra allo spartitraffico in attesa di scorgerla.
Un micro si fermò davanti a me coprendomi la visuale della stradina da cui sarebbe dovuta arrivare, manco a farlo apposta lei sbucò di fronte al micro alla mia sinistra per poi armi davanti nel poco spazio tra me ed il veicolo mentre parlava al telefono; mi guardò maliziosamente e rimasi pietrificato. Continuò la sua sfilata sapendo di essere ammirata, fino a salire su di un altro micro. Rimasi seduto dov'ero e quando arrivò a o duomo il micro su cui era salita, lei stava in piedi in mezzo al gran casino di persone che tornavano alle loro case, ci fissammo profondamente mentre il micro avanzava, entrambi con gli angoli della bocca che abbozzavano un sorriso per l'energia pura che ci stavamo scambiando. Sbocciammo entrambi ai limiti di resistenza in una risata silenziosa e seguii il mezzo allontanarsi, rimasi felicemente beato su quello spartitraffico di cemento.
Il giorno seguente decisi di trasferirmi in un altro residencial, cercai parecchio lungo il primero anillo, senza trovare nulla libero o a buon prezzo, poi mi decisi ad entrare nella Ramada.
Prima di trovare una stanza vagai la mattinata chiedendo in tutti quelli della zona, fino a che trovai questo chiamato cruz verde, dove un ragazzino alla reception mi disse che il prezzo a notte era solo 25 bolivianos, mi chiesero se avessi il papel(documento) e dovetti aspettare il pomeriggio perché mi preparassero la stanza.
Durante i miei primi viaggi ero solito chiedere di poter vedere la stanza e dar un occhiata in giro prima di confermare la mia permanenza e pagare la notte, ma col tempo persi questa sana abitudine. In Bolivia probabilmente vi avevo rinunciato completamente non aspettandomi mai nulla di grazioso in particolare.
Dopo una scorpacciata di pollo e patatine da un ristorante cinese mi trasferii al nuovo residencial; una ragazzina mi accompagnò a scegliere una stanza al secondo piano. La scelta non faceva molta differenza, ma comunque presi quella con le delle ampie finestre che davano in due corridoi con delle tende semitrasparenti e praticamente ogni persona che ava buttava l'occhio involontariamente all'interno. La stanza aveva quattro letti e chiesi scherzando se per caso mi avrebbero messo altre persone a fare compagnia, disse che mi avrebbero avvisato e ci rimasi un po' perplesso. La perplessità sulla mia nuova scelta a scatola chiusa si trasformò in meraviglia incredula quando visitai i bagni in comune al piano di sotto.
Se lo stato generale della palazzina, a partire dalle condizione delle pareti e dei pavimenti, lasciava intuire la qualità del servizio, il bagno era uno spettacolo nella sua unicità. Vi si arrivava dopo un breve corridoio stretto nel quale bisognava mettersi di profilo se vi si incontrava una persona venendo dal senso opposto. La stanza con i bagni era ad L, con 3 stanze per la doccia, tre gabinetti, due lavandini otturati con uno specchio basso e largo ma deformatore di
immagini (meglio così forse, per dire basta al narcisismo!). Mi guardai un po' la faccia, tuttavia non ero messo così male, forse avrei dovuto tagliarmi i capelli. ai a verificare le condizioni dei cessi e notai che non c'erano le chiusure delle porte, entrando nel penultimo l'odore mi diede un infame pugno allo stomaco. C'era una “spruzzata” che trasbordava fuori, i cessi erano tutti senza tavoletta e coperchio, mi spiegai il motivo di quelle “spruzzate” fuori bordo solo con il tempo e lunghe riflessioni, ovvero l'usufruttuario di turno del servizio saliva con i piedi sopra al vaso e dopodiché si accovacciava per favorire l'operazione di rilascio materiale di scarto, con l'inconveniente di sporcare spesso anche fuori.
Il livello igienico in cui era tutto il residencial lasciava immaginare ad una imminente chiusura alla prima visita di un ente sanitario; per il prezzo che pagavo non ebbi da lamentarmi e comunque ci si faceva l'abitudine abbastanza in fretta.
Insomma avevo finalmente raggiunto il mio tanto agoniato paradiso fiscale, ora dovevo cercare come are il tempo in qualche maniera.
Iniziai quindi dopo qualche giorno a ricercare la ragazza dallo sguardo incantatore tra le bancarelle dello snodato e grande mercato. Era una pazzia, camminavo abbastanza piano facendomi i muscoli del collo a furia di guardare a destra e sinistra per scovare il posto dove avrebbe potuto essere. In alcune vie vi erano corridoi paralleli di bancarelle che mi costringevano a percorrere più volte avanti e indietro gli stessi spazi, il tutto con queste donne che vedendomi osservare acutamente pensavano che stessi cercando della merce da comprare.
ai più di 2 ore fiutando in giro con i sensi tutti all'erta in attesa di trovare il motivo di tanta ricerca. Fino a che la trovai, si limava le unghie seduta su di uno sgabellino dando le spalle. Riai un paio di volte dalla sua postazione tentando di attirarne l'attenzione, alla fine le chiesi informazioni su dove mi trovassi mostrandole una mappa e dicendole che mi ero perso.
E fu così che riuscii a conoscerla ed iniziai a farmi vivo di frequente al suo punto vendita. Era maledettamente attraente e cercò fin da subito la confidenza ed il contatto fisico con me. avo a volte qualche ora a tenerle compagnia mentre lavorava alla sua bancarella di scarpe improvvisando conversazioni in spagnolo. Si chiamava Marisol.
Le donavo molta considerazione in qualche maniera e lei si sentiva a suo agio e mi dava degli sguardi complici che avano dalla curiosità al desiderio sessuale. Giocava a calcio e ballava merengue ed il suo corpo non lo smentiva. Avevo dei picchi ormonali assurdi standole vicino mi provocava volutamente e mi dovevo trattenere dal saltarle addosso.
Fin dall'inizio però sentii qualcosa di strano e come già intuivo, visto che la sentivo frenata arrivò il giorno che mi disse di avere già due figli ed un marido che viveva in casa con lei e la famiglia.
Era una ragazza molto forte anche caratterialmente e così suggeriva l'espressione del suo volto. Mi dispiacque per lei quando iniziai a conoscerla meglio, a 23 anni aveva già dei figli a cui badare lavorava ed andava alla scuola serale. Una vita piena di doveri la sua, iniziata a 6 anni vendendo cose per strada. Mi sarebbe piaciuto aiutarla in qualche maniera, quando in realtà a mala pena bastavo a me stesso.
Durante quei giorni che ai seduto a parlare con lei, purtroppo si sparse la voce per quel tratto di mercato che fossi il suo amante e da quel momento lei per difendersi diventò visivamente ostile verso di me da un giorno all'altro, finché dopo vari tristi momenti fui costretto a non farmi più vedere al suo lavoro.
Un peso nella zona del diaframma.
Sembra che qualcosa là dentro sappia già cosa è meglio per noi stessi o quanto meno avvisa che la maniera in cui stiamo interpretando una situazione è errata.
Marisol mi rimase ossessivamente in testa per tutto il tempo che restai in Bolivia. Feci cose platoniche mai fatte prima, tra cui regalarle fiori, naturalmente raccolti da qualche parte, e scriverle fantomatiche lettere di pseudoamore in uno spagnolo dai dubbi significati e facilmente fraintendibile. Per consegnarle una lettera che scrissi feci un atto da psicopatico, dopo aver atteso quasi la totalità della sua giornata di lavoro nascosto tra le bancarelle spiandola di quando in quando in attesa che finisse, riuscii a raggiungerla solo dopo che era già salita su di un micro; corsi dietro al micro manco fosse stato il mio unico mezzo di salvezza e dopo aver dato qualche colpo sulla carrozzeria l'autista si fermò per farmi salire. Lei era seduta e girò lo sguardo dall'altra parte, non salii sul micro, sentendo qualcosa di strano e consegnai la lettera dal finestrino ad una donna seduta indicandole a chi era destinata.
Un sospetto si era insinuato dentro di me e quasi a cercare una conferma seguii il micro, che avanzava lento ed imbottigliato nel traffico, stando sul marciapiede opposto. La vidi ad un certo punto tenere un bambino in braccio ed ebbi uno shock.
Compresi che probabilmente assieme a lei c'erano anche altri della sua famiglia ed iniziai ad autopunirmi pesantemente prendendomi a pugni in testa da solo.
Un vero e proprio malato di mente che scontrandosi con l'impossibilità di realizzare tutte le sue fantasie con l'oggetto desiderato, elaborate in ore ed ore di masturbazioni mentali, non poteva reagire diversamente.
Rimasi ferito dentro ed incolpando me stesso delle azioni intraprese per chissà quanto tempo e nonostante ciò continuai ad insistere.
È strano come ciò che quasi la totalità chiama amore, innamorarsi ed amare, spesso non sia semplicemente una forma di egoismo puro; l'istinto a riprodursi e l'aspetto del piacere mascherato di tanti bei fronzoli, il cercare nell'altra persona qualcosa che sentiamo mancare nella nostra vita, come se debba essere l'altra persona a colmare questo vuoto con la sua presenza.
RAMADA, la vita di tutti i giorni.
La vita nella Ramada era più o meno simile nella sua quotidianità, ed io approfittai nel conoscere il centro di Santa Cruz e gli altri quartieri segnati da contrasti assurdi tra ricchezza e povertà.
In giro vidi cose veramente strane, una di cui rimasi particolarmente colpito lasciava riflettere su come siano facilmente abbindolabili le nostre menti.
Nelle zone di mercato si trovavano oltre ai negozi ed alle bancarelle fisse moltissimi venditori ambulanti, era una grossa fetta di cittadini che tirava a campare in questa maniera. Solitamente i venditori erano divisi tra chi vendeva ricariche per cellulari, chi orologi, chi vestiti, o chi vendeva spiedini di carne oppure chicha (bevanda di mais fermentato od altri ingredienti) ed i vari refrescos con più zucchero che acqua.
Si distinguevano dalla massa dei vari venditori ambulanti coloro che io battezzai
i maghi, che appunto mi impressionarono per le loro doti. Erano persone “normalissime”, dei peruviani a detta del popolo, (come per dire gente venuta da lontano) che avevano ricevuto una sapienza da fonti misteriose per questioni riguardanti la salute dell'umanità. Spesso vestivano un camice bianco in stile medico, ma qualcuno invece si presentava con un vestire elegante; i più avanzati erano muniti di microfono ed altoparlante in modo tale da attirare intorno a loro più persone possibile. Si fermavano, con un banchetto di fronte, agli incroci delle strade del mercato e osservandoli durante mesi riuscii a capire il loro sistema.
Mostravano schede con nomi e spiegazioni di patologie di vario tipo, con allegate foto scaricate copiosamente da internet di deformità, irritazioni, obesità assurde, organi e budelli malformi e bruttezze di ogni tipo.
Avevano quasi sempre dei vegetali sul loro banchetto come radici di zenzero o confezioni di pillole varie.
Il sistema dopo alcune osservazioni capii che funzionava tipicamente in questa maniera:
Un complice si avvicina al banchetto dove il mago, iniziando il suo show, si era appena messo a parlare ad alta voce. Poi il complice che restava a dargli corda gli faceva anche qualche domanda con espressione di studiato interesse; la curiosità umana era forte ma la diffidenza anche, quindi questo primo complice serviva praticamente da esca per far si che si creasse un gruppetto di poche persone interessate che poi man a mano andava aumentando.
Vidi alcuni maghi avere un evoluzione del loro business fantastica nel giro di alcune settimane; la loro esibizione migliorava di volta in volta, così come il loro vestiario ed i loro rimedi e gingilli vari. Parlavano per lo più dei problemi di
salute delle persone. Davano, tra le tante nozioni ai limiti della fantascienza, anche qualche consiglio utile.
Si conquistavano, con un semplice ma efficace meccanismo di terrorismo salutisco, rapidamente l'attenzione dei anti, mentre enfatizzavano ogni problema mostrando foto di qualche oscenità dalla loro collezione.
Quando incontravo uno di questi maghi puntualmente mi fermavo considerandolo uno spettacolo unico a cui assistere; avevano una capacità nel parlare, saper prendere le persone dal loro punto debole, che era fenomenale, certo per un uomo occidentale moderno abituato a spot pubblicitari questi maghi erano poco più che dei dilettanti.
Davano consigli utili e tecniche segrete gratis, con ricette a base di erbe o suggerendo combinazioni alimentari miracolose. Avevano, alla fine del sermone, o un libro di ricette oppure pastiglie di integratori alimentari (che magari non centravano nulla con le malattie di cui avevano parlato) a disposizione di vendita. Le persone gli lasciavano bei soldi ed io sotto sotto li stimavo per essere così professionisti nel dare una bella sciacquata al cervello del popolo ed approfittare della creduloneria generale basata sulla paura.
Una delle altre cose che mi incuriosirono nei primi tempi, anzi forse fin dal primo giorno, dopo aver immancabilmente notato nel mio eggiare muratori o autisti, ma anche gente qualunque, con un bozzo deforme al posto della guancia, fu di scoprire cosa diavolo mantenessero in bocca per riuscire a conciarsi così.... Erano foglie di coca.
Le foglie venivano vendute tranquillamente al mercato in grossi sacchi, la mia curiosità si fece alta e vidi la questione di provare come una cosa innocente e naturale, anzi direi quasi obbligatoria. Sapevo che la coca era in usanza tra gli
imperatori Inca, probabilmente per sentirsi come delle divinità avrei concluso solo in seguito.
Le foglie di coca contrariamente a quanto si possa pensare, non erano considerate una droga, almeno, in Bolivia ed erano legali. Utilizzate dalla notte dei tempi per non sentire la fatica e sentirsi più attivi, avevano un blando effetto a detta degli indigeni, paragonabile al caffè si potrebbe dire.
Tuttavia le quantità facevano la differenza e la dipendenza esisteva, altrimenti non avrei visto tanta gente are giornate intere con “il bozzo alla guancia”.
La mia curiosità mi condusse tra le bancarelle ed il via vai di gente della Ramada, qualcuno mi indicò una bancarella, intavolai una breve conversazione con la venditrice sentendomi un po' a disagio per la novità della cosa; le feci giusto qualche domanda basica per poi comprarmi un sacchettino da 10 bolivianos di foglioline verde intenso a punta di lancia.
Misi subito qualche foglia in bocca e cominciai a masticare camminando fino alla piazza in centro e sentendo il sapore leggermente amaro di pianta tra lingua e palato.
Quel giorno, forse a causa di tossine in circolo o chi lo sa, avevo un mal di testa di sottofondo, di cui molte persone ne sono affette quotidianamente senza farci più caso. Era come se la testa fosse dentro una campana che lasciava percepire ai 5 sensi il mondo esterno in maniera offuscata. Dopo qualche minuto masticando e muovendo le foglie da una guancia all'altra sparì il mal di testa.
Iniziai a vedere i colori come fossero più vividi ed osservai tranquillamente il
cielo nuvoloso senza nessun tipo di fastidio. La campana attorno alla testa sembrava essersi dissolta, mi sedetti su di una panchina nella piazza centrale della città, osservando le lievi sensazioni che si presentavano.
Le nuvole si aprirono e comparve il sole che fissai senza strizzare minimamente gli occhi per alcuni secondi come nulla fosse.
Iniziai a sentirmi più concentrato, con un livello di attenzione a ciò che mi succedeva intorno più alto. Percepii anche meglio il mio proprio corpo provocando una vasodilatazione generale quasi a comando. Stavo provando sensazioni nuove a livello fisico, ma la mente sembrava restare lucida, anzi quasi più reattiva agli stimoli esterni. Mi cimentai anche in riflessioni filosofiche che sembravano crearsi e trasformarsi in parole in maniera più agile del solito; tutto ciò non durò molto tempo e non volendo esagerare non feci che masticare per mezzoretta per poi sputare un piccolo ammasso verde.
Tornato la sera al residencial misi da parte quel sacchetto con le foglie e me ne dimenticai quasi, per svariato tempo.
Sempre in quei primi giorni, visto che volevo fare qualcosa di produttivo mi comprai al supermercato un set di pastelli pennarelli e fogli e mi misi a fare qualche graffito colorato.
Ebbi l'idea di vendere per strada anche alcuni miei vestiti, di cui non mi importava più niente. Dopo la prima settimana mi feci spiegare dal personale del residencial, dove poteva essere un posto ideale per vendere e mi consigliarono di andare alla nueva feira, non proprio vicino. Mi preparai di mattina, presi il sacco a pelo con racchiusi dentro i vestiti e me lo caricai sulla spalla a mo di vagabondo dei vecchi tempi; poi saltai sul micro esatto e dopo la normale difficoltà di stare dentro un mezzo pubblico vi arrivai. Era un mercato enorme,
non fatto di baracchine ma di vari stand in delle strutture di cemento; stesi il sacco a pelo sotto di un porticato visto che il cielo prometteva pioggia.
Stavo tentando di vendere varia roba, tra cui un jeans di marca rinomata comprato in Australia in un posto dove vendevano roba usata ed il ricavato andava in beneficienza, ricordo che costava 5 dollari ed una volta nel camerino misurandolo infilai una mano in tasca ne uscì una banconota da cinque e quindi lo comprai. Sempre tra questa merce che tentavo di vendere c'era una felpa firmata presa in Italia, molto cara teoricamente, ma con il gioco dello scambio codice a barre ai prodotti la riuscii a pagare praticamente come una canottiera.
Se la mia infanzia ed adolescenza era ata tra miriadi di situazioni volte sempre all'appropriarsi di oggetti in maniera non proprio lecita per una sorta di mia tendenza alla cleptomania, ora mi trovavo nella situazione opposta, ovvero tentando di vendere cose che già avevo.
Mi sentivo a disagio, non mi sarei mai immaginato che sarei finito a tentare di vendermi i vestiti, non perché per me avessero chissà quale valore, ma più che altro per la presa di coscienza che i soldi si sarebbero esauriti prima o poi e quindi avrei dovuto allenarmi su come sopravvivere.
Un duro colpo per me fu quello di scoprire che dal conto australiano che avevo mi erano stati sottratti diversi soldi a mia insaputa, per fortuna me ne accorsi in tempo ed in Argentina prelevai tutto ciò che rimaneva sul quel conto portandomi le banconote nascoste in diversi punti tra zaino e mutande.
Facevo quindi i conti la realtà che il mio paradiso fiscale non era andato proprio secondo le aspettative.
Fui cacciato da una guardia del mercato che mi disse che non potevo vendere in quel punto perché i proprietari delle tiendas pagavano l'affitto, gli chiesi come avrei potuto fare e mi rispose seccato di andare più in là da qualche parte, muovendo il braccio come per mandarmi a fare in culo.
Attraversai la strada e mi misi di fronte ad altri casermoni adibiti a negozi, buttai le cuffie nelle orecchie ed approfittai di una radiolina che avevo per tenermi su col morale, ero molto frustato.
Una canzone anni 60 de “Los Iracundos” non poteva che capitare alla perfezione in quel momento per rendermi particolarmente speranzoso verso la mia vita, che a quanto pare aveva preso una piega sempre più strana ed inaspettata fino a poco tempo prima. Mi sentii molto coinvolto dalle poche parole che compresi.
Con el saco sobre el hombro
voy buscando mi destino
no me importa a mi la gente
mas yo sigo mi camino
con el saco sobre el hombro
y mil sueños en mi mente
de la vida no me asombro
si luchar es lo corriente
de la vida y del amor
yo quiero ser un triunfador
de la vida y del amor
y seguire buscando mi felicidad
porque en alguna esquina
esta esperando por mi
con el saco sobre el hombro
voy cruzando la ciudad
uno mas de lo que anhelan
el amor si es de verdad,
calles parques muchos bares
son testigo de mis ansias
y el amor que estoy buscando
es mi unica esperanza
yo quiero ser un triunfador
de la vida y del amor .....
Era già ata l'ora di pranzo ed io proseguivo senza cibo dal giorno prima; avevo fame ed erano ore che stavo sotto il sole. Le persone si fermavano per dare un occhiata ed alcuni mi chiesero anche i prezzi, allontanandosi poi titubanti alle mie risposte.
Evidentemente chiedevo troppi soldi a gente che andava al mercato per spendere poco invece; comincia a scocciarmi e per ingannare il tempo iniziai a gridare con
un improvvisato accento napoletano da venditore professionista, che stavo vendendo:
“Robba bueeeeenaaaaa”....“Robba bueeeeeeeeeeeeeeeen”.
Non successe niente e tornai al mio quartiere sconfitto. Il mio primo giorno come venditore di strada non diede i risultati sperati.
Una di quelle sere ci fu un trambusto madornale giusto sotto al residencial, donne che gridavano disperate, arrivò l'ambulanza ed anche la polizia quando tutto era quasi finito, venne ucciso un uomo da una coltellata.
Tornai per strada varie volte tentando di vendere vari disegni che avevo fatto e non ebbi risultati, tranne un giorno che andai nella piazza 24 de septiembre, il punto più centrale della città dagli anelli concentrici. Dopo che venni cacciato dalla piazza principale, mi sistemai in una piazzetta secondaria dietro la cattedrale, feci amicizia con una poliziotta leggermente strabica e le feci una scritta con il suo nome, Maria.
Poi arono due ragazzi ed uno, osservando i vari disegni sull'asfalto, mi chiese di fargli una scritta inneggiante ad un gruppo di persone: “Los foradazos”. Se ne andò e gli feci un rapido disegno ed una volta tornato gli piacque e me lo pagò bene, inoltre il grasso ragazzo mi spiegò che ci avrebbe fatto delle magliette per il carnevale che si stava avvicinando.
CARNEVALE, vamos Inacio.
Grazie al ragazzo che mi comprò il disegno per farci le magliette ebbi l'illuminazione che credetti geniale di copiare la sua idea. Feci per 2 giorni avanti e indietro a ritmi di un pazzo tra mercati cercando il materiale, serigrafie che accettassero il lavoro ed in stanza a disegnare qualcosa di originale. Comprai per mia fortuna solo una dozzina di magliette dai colori assortiti, scelsi un disegno con scritto “carnaval cruceño 2013” e portai il tutto alla serigrafia che mi avrebbe fatto il lavoro, sarei dovuto are al pomeriggio a prenderle. Mi fece aspettare fino alla sera e mi fece una lavoro grossolano costringendomi poi ad aggiustare le scritte a mano con dei pennarelli.
Ma poco importava, il giorno dopo ero pronto per andare a vendere magliette di carnevale in centro. La situazione quando uscii di mattina dal residencial iniziò a farmi capire cosa fosse il carnevale a Santa Cruz; cominciai a vedere qualche persona qua e là nel mercato della Ramada con i vestiti macchiati d'inchiostro. Fatti a piedi i 100 metri per arrivare al primero anillo mi accorsi che alcuni dei micro cittadini erano quasi totalmente coperti di fango che vi era stato spalmato a mano da dei ragazzini, a giudicare dalle impronte, rendendo quindi difficile capire che linea fosse.
Entrai nel centro in cui era stato bloccato il traffico veicolare, molti negozi erano protetti da strati di cellofan e sacchi di plastica, ed io non capivo ancora bene il motivo di tutte quelle protezioni. Vidi alcune strade addirittura serrate con reti di metallo e guardie di sicurezza per impedire che qualcuno ci entrasse comunque magari scavalcando, erano le strade con i negozi più chick; vigeva una situazione di coprifuoco quasi.
La piazza principale era anch'essa irraggiungibile, chiusa al traffico umano. In centro le persone che incontravo erano vestite con delle specie di grembiuloni con le scritte di carnevale ed il gruppo di appartenenza, roba tipo: la banda del grasso, los locos ecc ecc. Erano tutti sporchi di inchiostro. Io continuavo a camminare cercando dove ci sarebbe stato il gran casino di gente e dopo vari giri e pause, senza vendere nulla, incontrai la via dove vi era più gente. Vi era un continuo via vai di persone di ogni età armati di pistole ad acqua caricate però ad
inchiostro, gavettoni e secchiate d'acqua, bande di trombettisti che suonavano allegre musiche che avano continuamente e sfilate di belle ragazzine vestite a tema e danzando coreografie.
Mi piazzai a terra con le magliette esposte nel loro cellofan di protezione, tenendone una aperta in mano a mostrare la bella scritta sul retro. Buona parte delle persone era troppo presa nel battagliare, camminare, bere, ridere e scherzare che erano veramente in pochi a guardare le mie magliette. Riuscii comunque a venderne una ad un ragazzo mezzo brillo, ci avevo guadagnato bene e mi sentii felice e fiducioso che sarei riuscito a venderle tutte.
Rimasi un altro paio di ore senza venderne nemmeno un'altra, osservando la gente in festa, finii stancandomi e tornai a “casa” sapendo che era solo il primo giorno di carnevale ed avrei avuto quindi tempo ulteriore.
Sin dai primi giorni dell'arrivo a Santa Cruz avevo iniziato a fare amicizia con il personale del residencial. Conobbi Inacio, uno sfiancato ragazzo di 28 anni addetto alle pulizie; praticamente si limitava a are la pezza sui pavimenti dei tre piani, pulire i bagni quando ne aveva voglia ed aprire il portone d'ingresso in vetro a chi arrivasse dopo le 11 la sera. C'era anche Efrain, di cui impiegai settimane per comprendere il nome, con un ruolo jolly, Julia la recepsionista e Maria la ragazza delle cabine telefoniche ed i computer, poi si aggiunse anche , forte ragazzo delle Yungas*(le Ande).
A parte Inacio erano tutti molto giovani, Efrain e Julia lavoravano ed andavano contemporaneamente a scuola.
Il secondo giorno di carnevale mi alzai pigro al massimo pensando che sarei andato in centro pomeriggio a vendere le magliette ma sapendo forse inconsciamente che non lo avrei fatto.
Inacio era molto curioso e spesso mi veniva dietro di soppiatto nelle mie uscite, marinando il lavoro quando mancavano i padroni. Era un ragazzo piccolo e minuto e dava idea di fiacchezza; si lamentava calmamente, con quella sua voce simile ad uno squittio, del caldo mentre ava lento lo straccio nei corridoi ombrosi.
Iniziò ad entrare in confidenza con me appoggiandosi quasi per sbaglio alla finestra della mia stanza, che dava nel corridoio, forse per sbirciare cosa vi fosse dentro quando mi vide; cominciammo così a conoscerci. Mi insegnò un poco di spagnolo inconsapevolmente, veniva dalla vicina Cochabamba e per lui tutto era un “ratto”. Usava la parola ratto in un sacco di contesti e situazioni diverse, a volte significava un ladro, a volte in un istante, e a volte tanto; era una parola magica e lui era un mago, perché riusciva a farsi capire quasi sempre da me ed aveva la pazienza di cercare di comprendermi. Pensandoci in seguito bene notai che con la sua faccia scavata ed aguzza, le sue orecchie leggermente a sventola, la forma dei denti e l'angolo delle sopracciglia, assomigliava vagamente ad un furbo roditore.
Spesso gesticolavamo ampiamente nei corridoi per comunicare e chi ci vedeva poteva facilmente credere che eravamo due scemi od al massimo sordomuti che chiacchierano.
Come seppe che sarei uscito quel pomeriggio di carnevale volle affiancarmi, sapeva dei miei propositi da venditore, a cui però rinunciai senza troppa esitazione, volendo are del tempo in sua compagnia.
Ci facemmo un giro per il mercato sbucando in Avenida grigotà, lo stradone dove vidi la bella ragazza, anche qua nonostante non fosse nel centro c'era qualche movimento di piccole bande armate di super-liquidators. Alla fine ne comprai uno anche io da un ambulante ed iniziammo a fare un avanti e indietro
tra mercato, primero anillo, ed al residencial per ricaricare l'arma ad acqua e inchiostro che comprammo. Iniziammo così a farci prendere anche noi dalla frenesia del carnevale, camminavamo per le strade sporcando i vestiti di qualche ignaro ante.
Inacio era diabolico e con le sue tecniche riusciva a sporcare le persone senza farsi scoprire, tenendo il braccio dietro la schiena e nascondendosi, una volta colpito il bersaglio, tra le genti. Gli proposi di andare verso il centro perché là avevo visto il grosso della gente il giorno prima; il carnevale vero e proprio. Lessi nella sua espressione che era un po' contrariato, probabilmente perché avrebbe dovuto essere sul posto di lavoro; ma forse anche perchè, da boliviano, sapeva che nell'ormai sera era pericoloso starsene in giro. Ci dirigemmo comunque verso nord seguendo il primero anillo, arrivati ad un certo punto, dove sarebbe stato possibile girare verso destra ed andare in direzione centro, decidemmo che era troppo tardi e ci saremmo andati il giorno dopo che era anche il suo giorno di riposo. Facemmo un centinaio di metri tornando indietro e mi accorsi che mentre parlavo Inacio non mi stava più ascoltando ma guardava dall'altro lato della strada in lontananza, iniziò a parlare da solo sospettoso e capì allora che c'era qualcosa che non andava.
Mi spiegò che aveva visto due ragazzi che rubavano i soldi ad una signora che vendeva per strada; attraversammo e ci dirigemmo curiosi verso lei che nel frattempo era stata circondata da alcune persone che stavano tentando di consolarla, piangeva dicendo che le avevano rubato tutto, era disperata, questa scena mi prese al cuore così tanto che mi immedesimai nella signora; sarà che avendo venduto per strada anch'io sapevo di come era straziante are ore lavorando con l'incertezza di avere un qualche guadagno. Da che la signora diceva le avevano rubato anche parecchio, l'equivalente di mezzo stipendio più o meno. Io e Inacio dopo averla ascoltata per poco, proseguimmo a camminare in questa viuzza che partiva diagonale dal primo anello e puntava in direzione del nostro residencial, entrambi zitti fino a che ammo oltre un ragazzo seduto a cui io nemmeno avevo fatto caso, Inacio mi disse di sederci un attimo, frettoloso. Appoggiamo le chiappe sul marciapiede e mi informò sicuro che quel ragazzo seduto che avevamo appena ato era uno dei due ladri e si era semplicemente tolto una maglia che aveva e se ne stava seduto là tranquillo, sapendo che
nessuno gli avrebbe dato fastidio per paura. Rimasi sconvolto non capendo come mai non se ne andava e soprattutto perché la signora non mandasse qualcuno a fare giustizia. Mentre pensai così il tizio si alzò e si incamminò in un'altra stradina; noi osservavamo la scena da una cinquantina di metri. Sentii una fitta di disagio per quella situazione e quando lui sparì dalla vista mi venne in mente una scena che mi era successa si e no un mese prima.
Mi trovavo a Buenos Aires, e l'ostello in cui dormivo era praticamente in una delle vie più importanti, avenida 9 de julio vicino all'obelisco. Era un giorno infrasettimanale e scesi che erano le 10 di sera per strada cercando un telefono pubblico, feci pochi i e venni fermato da un bambino seguito da un suo amico più grande. Il bambino mi chiese se avevo qualche moneta, io che cercavo spesso di aiutare chi mi chiedeva, misi la mano in tasca e gli diedi 1 peso, aggiungendo pomposamente qualche parola nei mio neo-spagnolo. Il bambino sentendo il mio accento differente capì subito che non ero del posto e pensò fossi un turista abbiente probabilmente, perché estrasse un foratore per legno affilato sulla punta ed iniziò ad intimidirmi di dargli tutti i soldi che avevo. Mi spaventai sul momento dell'azione immediata ed inaspettata del bambino e lui esperto nel suo mestiere lo percepì, cominciandomi a punzecchiare con quell'arnese sulle costole facendo la sua faccia più cattiva possibile e minacciando come poteva. Io iniziai a ridere nervoso per la situazione non sapendo più come reagire ed avendo paura che sarebbe andato a chiamare i rinforzi. Me ne andai in crisi e cercai di mettermi a parlargli con il mio spagnolo maccheronico, tentando di persuaderlo a ridarmi l'importante telefono da 30 dollari che nel frattempo mi aveva velocemente sfilato di tasca. La mia fortuna fu un ragazzo che ò e con tono autorevole disse al bambino di ridarmi il telefono, lui obbedì a mia sorpresa quasi subito. Ringraziai il ragazzo e mi vergognai con me stesso, di come avevo mascherato con buonismo la mia reale paura nonostante mi fossero già successe situazioni di quel tipo o peggiori. Mi promisi che la prossima volta che mi fosse successo qualcosa del genere avrei reagito diversamente. E dentro me fui sicuro che ci sarebbe stata un altra occasione.
Mentre rivivevo questi ricordi che ritornavano alla mente come un sogno ad occhi aperti, manco a farlo apposta il ladro tornò indietro sui suoi i ed io presi la mia decisione; mi alzai di scatto e dissi a Inacio di seguirmi dirigendomi
verso il ladro che si era rifermato nello stesso punto dove aveva seduto in precedenza. Mi fermai dinnanzi a lui tenendo una distanza di sicurezza.
É arrivato il giustiziere del popolo. Disse l'antipatica voce dentro la mia testa, non gli diedi ascolto.
Il ragazzo era alto per essere boliviano ed anche robusto per essere uno di strada, gli chiesi con calma ma con voce decisa, riuscendo a nascondere il nervoso, se fosse stato lui ad aver rubato i soldi alla signora, rispose affermativamente aggiungendo che aveva restituito tutto; lo fissai e gli credetti, pensai che molto probabilmente era quello il motivo per cui se ne stava lì tranquillo. Volli avere una conferma e tornai indietro dalla signora che non piangeva più ma era ancora disperata e triste, tentai di chiederle qualche informazione più precisa sulla storia, nel frattempo il ladro restituitore se ne andò.
Inacio all'improvviso vide tre ragazzi, di cui due a petto nudo e con atteggiamento esaltato, che venivano a o svelto verso di noi da un altra via, si spaventò e mi disse che erano amici dei ladri che volevano pestarci perché ci eravamo intromessi. Inacio fece per andarsene ed io mi girai con le mani alzate in segno di pace verso i ragazzi che erano già troppo vicini, ma loro mi guardarono appena andando diretti a parlare con la señora derubata.
La situazione era surreale ed io che non capivo ancora lo spagnolo avevo difficoltà doppia a realizzare cosa stava succedendo, immaginai addirittura che questi tre ragazzi volessero picchiare la donna; ma Inacio mi fece capire che questi nuovi 3 erano “buenos”, tacitamente io e lui ci alleammo quindi con questi ed iniziammo la caccia ai ladri. D'un tratto uno dei buenos, alto e fisicato, si mise a correre e mi accorsi che aveva puntato un ragazzo in fondo nell'oscurità e quando lo raggiunse iniziarono a picchiarsi. Era ora di are l'azione e mi misi a correre per raggiungerli, estasiato di poter scaricare un po' del mio mal di vivere, erano avvinghiati a terra ed atterrai con una ginocchiata in faccia al “cattivo” che stava tuttavia reagendo bene; il bueno si rialzò e scappò e con lui
anche gli altri. Mi ritrovai a riempire di pugni nelle reni del ragazzo che si rannicchiava su se stesso, iniziai a gridargli addosso come un forsennato di darmi i soldi della signora, e gli tastai le tasche mentre lui ripeteva:
“No tengo nada, notengonada, notengonadaaaa”.
Stavo scaricando la troppa energia repressa, insoddisfazioni, non facevo l'amore da un pezzo e le adrenaliniche botte anche da un altro; giustificavo a me stesso tutta la violenza dovuta al mio malessere come senso di giustizia verso la povera señora, ma mentre gli davo quei pugni sentivo ben chiaro dentro me stesso qualcosa che mi diceva: “Cosa stai facendo?”.
Lasciai stare il “cattivo” alzandomi da lui che quando si girò e potetti vederlo bene in faccia, mi accorsi essere il ragazzo con cui avevo parlato prima che aveva restituito i soldi rubati. Mi riconobbe ed iniziò a inveirmi contro riprendendo fiato, chiedendomi perché lo avevo picchiato sapendo che non aveva più nulla e tutti i soldi erano in mano del suo complice che era fuggito.
“Yo no tengo nadaaaaaaaaa”.
Improvvisamente mi sentii enormemente dalla parte del torto, sentendomi un vile, gli chiesi scusa brevemente e me ne andai di fretta con un alone di vergogna.
Il poveraccio tentò di lanciarmi qualche pietra dietro, una volta che ero a distanza; era proprio arrabbiato per le botte prese e sinceramente mi dispiaceva per tutto l'accaduto.
Buono, cattivo, è tutto relativo
Raggiunsi Inacio che una volta vista la situazione movimentarsi se ne era tornato zitto zitto vicino a dove era stata rubata la señora, gli altri 3 buoni erano spariti. Quando gli fui ben vicino ed iniziai a parlargli, sbarrò gli occhi guardando oltre la mia spalla, e mi avvertì mentre iniziava a girarsi su se stesso per correre che lo sfortunato ladro stava raggiungendoci con una bottiglia in mano. Non capii bene le sue parole ma lessi la paura nel suo sguardo ed automaticamente spaventato cominciai anche io a corrergli dietro, percependo l'altro che ci inseguiva.
Fatti una ventina di metri scansando le tante persone sul marciapiede del primero anillo, successe un fenomeno molto strano, fu quasi come se mi osservai dall'esterno vedendomi correre con un'espressione di chi si lascia travolgere dagli eventi... Ma perché stavo scappando? Mi fermai di colpo, mi girai e vidi il ragazzo che mi stava inseguendo rallentare i suoi i fino ad arrivare a arrestarsi due metri da me con la bottiglia di birra in mano leggermente sollevata. Lo osservai tranquillo superficialmente ma con i nervi tutti caricati come un elastico teso e pronto a scattare, che situazione, a volte sembra di essere in un sogno. Mentre avevo questi concetti che si formavano nel cervello non in forma di parole ma quasi come verità assolute, lampadine che si accendono nel buio e mostrano cose prima nascoste ed incomprensibili. Mi stava minacciando nervoso con parole che non stavo seguendo perché ero preso totalmente dalle mie sensazioni interiori, dall'osservazione di un nuovo assetto del mio stato di coscienza. Per aver una conferma di ciò che stava accadendo, come si dovrebbe fare nei sogni dandosi un pizzicotto per capire se la situazione è reale, gli diedi con la sinistra uno schiaffetto senza forza ma rapido, che lo raggiunse alla guancia. No, non era un sogno.
Si incazzò tremendamente e fece per colpirmi con la bottiglia, io schivai arretrando e vidi con la coda dell'occhio, durante il movimento, un qualcosa di lungo a terra sulla destra; mi chinai velocemente per prendere la mia presunta arma difensiva consistente in un listello di legno leggero, ma lungo un metro. Mi
resi conto della probabile inefficacia di quel legno mentre mi spostavo perché arrivava un colpo di bottiglia calante sulla mia testa e mi buttai verso il basso e di lato quasi perdendo l'equilibrio e cadendo. Lui al posto di approfittarne si chinò e prese il listello nella sua sinistra lanciandomi dietro la bottiglia, che a quanto pare non stava funzionando, la quale si infranse sulla strada dietro di me. Era fisicamente abbastanza pesante, ma aveva intuito che ero più veloce di lui e mentre mi guardava, valutando cosa fare, mi avvicinai con il o sicuro tentando di riparare i miei errori con la diplomazia.
Mi piazzai davanti a lui e assicurai i suoi avambracci chiedendogli sinceramente scusa svariate volte, ma non ne voleva sapere, iniziò a dire che avrei dovuto seguirlo perché mi avrebbe portato dalla polizia. Insistetti alcune volte mostrandogli il volto e dicendo di colpirmi con il bastone che aveva così saremmo stati pari (chiaramente mi sarei spostato) e non sembrava averne intenzione, quindi dopo aver insistito inutilmente per qualche minuto gli girai le spalle seccato e feci per andarmene; come mi voltai mi diede a tradimento una forte botta sulla nuca che mi mandò a visitare tutte le stelle dell'universo.
Ritornò al cervello la connessione con l'organo visivo e l'organo propriocettore che stavo cadendo in avanti come un sacco per quel colpaccio ma riuscii a rimettermi dritto istintivamente, mi girai e lo guardai in faccia con espressione grave e decisa dicendoli che sarebbe finito tutto in quel momento. Dopo una breve esitazione riprese a parlare e non sembrava ascoltarmi, quando feci per andarmene di nuovo lo vidi con la coda dell'occhio che voleva attaccarmi nuovamente e persi il controllo. Iniziai a riempirlo di pugni, lo buttai a terra e gridandogli addosso di andare per la sua strada e lasciarmi stare.
Dentro di me speravo che qualcuno di tutti quei anti che allargavano la loro traiettoria di fronte a quella scena si fermasse per dividerci. Avevo davvero paura che si fermasse la polizia e sapevo, per conto di Inacio, che in Bolivia erano corrotti al massimo e mi avrebbero messo in prigione solo per il fatto di essere un gringo, anche se fossi stato totalmente dal lato della ragione. Era una tecnica usata per estorcere qualche soldo agli stranieri, mi fermai un attimo per
guardarmi attorno e Inacio era sparito.
Il poveraccio nel frattempo implorava che lo lasciassi stare mentre era per terra. Disse che se ne sarebbe andato ed io il giustiziere pollo gli credetti e come mi alzai, spostai e feci per andarmene si rialzò e mi rivenne dietro daccapo, sembrava una storia senza fine, mi disse tra il minaccioso ed il disperato che la sua massa, il suo gruppo, stava arrivando.
Mi rivenne incontro ancora e tra spintoni e pugni schivati finimmo in mezzo alla strada sulla prima corsia; le macchine suonavano, volevo andarmene il prima possibile, gli diedi un montante destro degno di ring mentre cercava di approssimarsi, sulla punta del mento seguito da un altro sinistro. Barcollò all'indietro stordito ma la sua stazza sembrava tenerlo in piedi.
Lo tirai per terra in qualche maniera e lo continuai a colpire come fanno in quei brutti incontri alla televisione, l'ira era talmente tanta che cercavo di traumatizzarlo anche con le parole; d'un tratto ebbi paura di poterlo uccidere dai tanti colpi che gli stavo infliggendo. Quando realizzai questo pensiero mi alzai di scatto ed iniziai a scappare, non senza dargli un ultima occhiata fatto qualche metro... Si stava rialzando ancora nonostante il sangue gli colasse sul volto mischiato all'inchiostro del carnevale; aveva un occhio parecchio gonfio ed il labbro e forse il naso spaccato. Abbandonai le infradito a terra e mi misi a correre a piedi nudi, svoltando due strade prima di arrivare al residencial, dove nessuno si accorse dello stato malconcio in cui entrai.
Mi fiondai rapidamente nella mia stanza, sdraiato sul letto con una mano sul cuore che pulsava impazzito. Ebbi dei film mentali paranoici sul disagiato ragazzo che entrava nel residencial con la sua banda senza nulla da perdere nella vita e pronta alla vendetta, o ancor peggio la polizia boliviana.
Poco dopo invece sbucò alla finestra la faccia interrogativa di Inacio, che iniziò a giustificarsi per non avermi aiutato, scusandosi addirittura per non essersi fermato a difendermi da quel ratto; mi chiese poi se andava tutto bene e di raccontargli cosa era successo.
Riflettemmo su di una coincidenza, avevamo io e lui infatti parlato giusto qualche giorno prima di peleas(combattimenti); mi aveva chiesto in quell'occasione se ero buono a pelear in strada, dicendomi che in Bolivia era importante. Sembrava quasi che me la avesse chiamata.
Speravo soltanto che quel ratto non si ricordasse la mia faccia facilmente distinguibile nella moltitudine di lineamenti indio.
Il giorno dopo camminavo per le strettoie del mercato guardandomi frequentemente alle spalle, sospettoso, immaginandomi che qualcuno mi accoltellasse da un momento all'altro; questa mia paura più o meno irrazionale durò la bellezza di tre giorni.
Al pomeriggio parlai al telefono con mia madre, dopo parecchio tempo, iniziai con buoni propositi la cara e breve conversazione ma finì tutto in grida insensate per vari e stupidi problemi familiari.
Caduto in afflizione rifiutai di andare alla battaglia di carnevale in centro assieme a Julia ed Efrain.
La mattina seguente mi svegliai pensando che sarei dovuto andare a vendere le poleras(magliette), invece poco dopo trovai Inacio e già capii che sarebbero cambiati i miei piani; facemmo quindi un giro per il mercato.
Comprai un super-liquidator per me ed uno anche a lui, che me lo chiese indirettamente con un suo fare tutto particolare; praticamente contrattò sul prezzo con la venditrice, quando in realtà non aveva un soldo. Poi quando fece abbassare il prezzo abbastanza, lamentando la bassa qualità della plastica, mi guardò dal suo metro e mezzo, alzando le spalle ed aprendo un po' le braccia, dicendo squittante qualcosa tipo:
“Solo 15 bolivianos”.
Mi strappò un tenero sorriso ed avendomi stimolato una sorta di istinto paterno non potetti fare a meno di comprarglielo.
Riuscii a convincerlo a venire in centro con me, lui non si era mai spinto cosi “lontano” ed osservava le abitazioni chiedendomi varie volte se mancava molto e se ero sicuro che ci fosse stata tanta gente dove stavamo andando; dovevo rassicurarlo continuamente perchè non era abituato ad allontanarsi troppo dalla sua tana e visto cosa era successo l'ultima volta la sua paura gli faceva fiutare l'ambiente con fare attento.
Raggiungemmo dopo vari giri, a causa del coprifuoco in alcune strade, i punti dove vi era il vero casino. Comprammo dalle venditrici ambulanti con le carriole bottiglie di plastica piene di inchiostro per tingere i vestiti e vi caricammo le nostre armi. Ci fermammo poi in vari punti ad osservare le ragazze e tutti i anti, era una massa di gente macchiata su tutto il corpo di inchiostro blu, rosso,verde e nero, schiume bianche e tutti i vestiti bagnati. Io e Inacio eravamo ancora immacolati praticamente ed iniziammo senza accorgercene ad entrare in alcune battaglie.
Era un divertimento puro e sembrava di essere tornati bambini, ammo praticamente tutta la giornata a camminare e correre avanti e indietro cercando sempre nuove zone di guerra; ricaricando le nostre munizioni con ogni tipo di liquido che ci asse sottomano, ballando, seguendo qualche banda di trombettisti e sporcando quei pazzi che avevano avuto il coraggio di vestirsi bene in una situazione del genere.
Ci furono momenti di panico quando cominciarono a vedersi in giro dei ragazzi che secchiavano le persone con barattoli di vernice per carrozzerie color argento cromato; oppure essendo loro stessi praticamente argento ti si spalmavano addosso contagiandoti di quel colore. C'erano venditori di salcicce ed i soliti churrasco con le carni al fuoco colorate di inchiostro, ma vendevano comunque a gente che masticava con denti e lingua colorati fregandosene altamente; la musica, le bande di musicisti che si spostavano e tutti beatamente ubriachi ovunque. Inacio ad un certo punto si prese uno schiaffo appiccicoso, spalmato da un ragazzino che aveva la mano intrisa della vernice nera per lucidare le scarpe di pelle. Iniziò a bruciargli metà faccia, tantissimo a detta sua, e quindi come incontrammo la prima venditrice si comprò anche lui la vernice per lucidare le scarpe ed iniziò la sua attesa vendetta. Si fece un bello strato totalmente nero sulle mani divertendosi come un matto mentre andava alle spalle delle ragazzine e spalmandole la faccia ed i capelli.
Come per una sorta di legge del karma sembrava che più danni fe agli altri, più gli altri ne facevano a lui. Inoltre essendo noi sempre più sporchi, le persone che incontravamo non ci pensavano due volte prima di spruzzarci addosso.
Ad un certo punto lui stava parlando girato verso di me quando qualcuno lo spruzzò a distanza ravvicinata centrandogli bocca e occhi, iniziò a sputare e mi sorrise dicendo che andava tutto bene, aveva i denti blu e rimase semi accecato per qualche tempo.
Vi erano punti dove c'era più che altro aggio di persone che andavano da una
parte all'altra ed ogni tanto si scatenavano vere e proprie battaglie a cui noi davamo la caccia avidamente, scoppiò anche una rissa sotto dei porticati dove rimanemmo schiacciati qualche minuto.
Era una pura pazzia tutta quella festa e vi saremmo rimasti a oltranza.
Tornammo al residencial solo la sera tardi e quando entrammo nei bagni del primo piano per guardarci allo specchio, scoppiammo a ridere non credendo entrambi a come fossimo conciati.
Io e Inacio, i guerriglieri.
Le risate si attenuarono un po' e si trasformarono in manifestazioni di finta delusione, non tanto per i vestiti, Inacio aveva irrimediabilmente rovinato i suoi migliori, ma dal fatto che l'inchiostro non veniva via dalla pelle manco a scorticarsi per mezzora con la spazzola ed il sapone, in realtà eravamo troppo contagiati dal divertimento per importarcene.
Forse stando le ore bagnati l'inchiostro aveva avuto modo di penetrare in profondità.
Inacio poi ebbe una geniale idea ed aprì lo sgabuzzino dove vi erano i prodotti per pulire ed iniziò, senza però molta efficacia, a sperimentarli tutti su se stesso:
Prodotti per pavimenti, per lucidare i vetri, alcool, ogni tipo tipo di flacone ava per le sue mani; iniziò ad un certo punto a volere anche della benzina.
Io, spavaldo, lo rassicuravo che avevo una tecnica infallibile e bastava spalmarsi di olio e poi arci sopra il sapone, ci provai ma non cambiò nulla. Ci volle una settimana di trattamenti, provando i miscugli di prodotti più improbabili che venivano in mente a Inacio.
Fui felice che infine andò tutto via, compresa la mia paranoia di rimanere tatuato a vita in quella maniera completa e insensata ma al giorno d'oggi forse originale.
Il carnevale sarebbe dovuto durare ancora due giorni, per un totale di cinque, ma continuò imperterrito per altri quattro; era come un virus per la città e non voleva saperne di estinguersi. Bande di ragazzini, che oramai erano giorni che giravano con strati di tintura dei vari colori addosso, spesso assalivano i micro, di cui molti erano ancora coperti dal fango, dall'esterno spruzzando nei finestrini aperti alle povere persone che avevano ripreso a lavorare. Oppure si spruzzava addosso volutamente a chi era vestito bene, sapendo che erano macchie irremovibili. Dalle finestre le persone lanciavano secchiate d'acqua secondo me di dubbia provenienza e gavettoni in testa alla gente; la sporcizia in giro era sempre di più, macchie difficilmente rimovibili ovunque, anche sugli edifici. Ma era come se la voglia di divertirsi non volesse mai finire, anche chi si lamentava quando veniva colpito, sotto sotto riconosceva l'allegria pura e sana, e dopo qualche imprecazione e bestemmia tornava sereno, non proprio tutti chiaramente. In giro per la Ramada venivano spruzzate di inchiostro le merci dai ragazzini e le venditrici dovevano stare sempre all'erta.
Fu una vera e propria guerriglia urbana e personalmente dopo la fatica dei primi giorni a togliere il colore dalla pelle, desistetti di uscire per strada se non per le cose indispensabili, ero un bersaglio facile visto che avevo le macchie sulla pelle dei giorni precedenti e sembravano essere un invito alle persone a colpirmi. Mi “limitai” quindi dal balcone del secondo piano a gettare secchiate dell'acqua sopra le teste dei anti, la cosa particolare era che utilizzavamo l'acqua sporca o quella con cui Inacio aveva appena finito di lavare i pavimenti di una stanza. Venimmo infine scoperti dalla proprietaria del residencial, che lo colse in
flagrante con i secchi in mano e si prese un cazziatone non indifferente, mentre io ridevo coprendomi la bocca per non farmi sentire, nascosto in una stanza vuota.
Quell'ilarità vigeva come un regime di dittatura e sembrò in tutti quei giorni di vivere in un fantastico parco giochi per l'infanzia.
La domenica fu l'ultimo giorno del carnevale, anche se qualcuno disse che la follia andò avanti ancora in altre periferie della città.
Ricordo perfettamente che era una domenica perché al terzo piano del residencial, in cui vi era un grosso salone, facevano la messa ogni santa volta. Successe anche delle volte che li sentissi iniziare criminosamente alle 6 del mattino con le prove degli strumenti e le prove “canto”. Era una chiesa animista improvvisata, di quelli che cantano e ballano durante il rito.
Fatto sta che c'era un altro dettaglio costruttivo del Residencial che dal mio punto di vista non era proprio indifferente e contribuiva ad espandere il suono fino alla mia stanza. L'edificio, contando anche il pian terreno, era composto da quattro piani, il primo piano comunicava con il terzo oltre che dalle scale anche da delle aperture nel pavimento dei corridoi del secondo e del terzo piano, le quali oltre a non avere una apparente funzione erano anche pericolose visto che erano delimitate solo da un murettino alto 30 cm. C'era anche da considerare che ogni tanto la corrente mancava per giornate intere (oltre all'acqua, che mancò per vari giorni) e quindi non era così difficile potersi fare un volo di un piano, oppure di due come io speravo succedesse ai mattutini credenti del terzo.
Gli strumenti musicali utilizzati scoprì poi essere in realtà solamente uno, una pianola elettronica in cui il suonatore scarsamente dotato metteva una monotona base di batteria ed impostava il suono dell'organo. Imparai nel giro di qualche
settimana la hit parade animista. Il pianolista, che secondo me era anche il prete, sbagliava le note e perdeva facilmente il tempo, le cantanti che erano alcune di quelle che andavano alla messa avevano delle voci lagnose e stonatissime.
Più di tanto non mi potevo lamentare, mi ero aspettato il peggio da quel posto fin dal primo giorno visto il prezzo e vista la zona. Me ne restavo nel letto al massimo una decina di minuti ascoltando curioso la mia sveglia domenicale, per poi prendere e scendere in strada per mantenere lo stato di quiete interiore ed evitare che i nervi venissero sovra-stimolati di primo mattino. C'erano tra l'altro due altoparlanti sul lato esterno dell'edificio che diffondevano i suoni della messa anche per strada. Il posto dove stavo io non era l'unico adibito a chiesa ma facendo una eggiata domenicale per la Ramada se ne trovavano parecchi e si mescolavano nell'aria e riecheggiavano preghiere altisonanti per tutto il quartiere, un po' come nei paesi islamici quelli che gridano dalle torri per richiamare i fedeli; qui però sembrava esserci quasi una competizione tra le diverse chiese, a chi si accaparrava più credenti.
Tuttavia dopo il carnevale, anzi forse proprio quella domenica iniziarono al terzo piano anche i riti pomeridiani.
Da quello che compresi nella mezzora che ebbi il coraggio di rimanere nella mia stanza, venne un altro prete da un altra città, era un evento speciale e quindi c'erano più persone del solito. Questo prete aveva vari difetti di pronuncia e sembrava parlasse vagamente come paperino, ma comunque parve che la sua parola pie.
Finite le “belle” parole, cominciò a fare delle specie di esorcismi a queste povere persone che non sapevano come fare per risolvere i loro problemi che esponevano a tutti quanti parlando nel microfono, si affidavano quindi speranzosi nelle sue mani.
Tutto questo si ripetette in varie occasioni ed iniziai istintivamente, quando purtroppo ero costretto nella mia stanza, a fargli i versi dimenticandomi o facendo finta di non sapere che come li sentivo io mi potevano sentire anche loro.
Spesso una donna riempiva lunghe ed angoscianti mezzore, piangeva e si disperava per qualche motivo. Lei era presente anche durante la settimana con il suo piagnisteo che non capii mai se fosse un'esercitazione in vista del rito domenicale o realmente fosse straziata così tanto.
Dopo circa una settimana dalla fine del carnevale ed il ritorno alla vita boliviana di tutti i giorni, Inacio sarebbe dovuto tornare in breve a Cochabamba, sua città natale, visto che stava da un mese a Santa Cruz. Vi era venuto in perlustrazione, sondando e fiutando cautamente il terreno per capire se fosse favorevole ai suoi interessi. Lasciò il lavoro ed io pensai di prendere il suo posto, ma c'era già un concorrente, per fortuna in un certo senso.
La vita boliviana media di tutti i giorni non era faticosissima pensandoci, ma era lunga e richiedeva pazienza. La maggior parte delle persone lavoravano 12 ore al giorno, ma se eri un venditore di strada anche di più, senza un giorno di vacanza; ogni venditore l'imprenditore di se stesso e se voleva campare meglio lavorava il più possibile. Molte robuste campesinas (lavoratrici dei campi poi trasferitesi nelle città) andavano in giro a vendere con delle carriole solitamente strabordanti di frutta o cuocendo sulle stesse spiedini di carne, giornate camminando chilometri per i quartieri di mercato. La miglior probabilità di lavorare investendo poco e con del lucro in Bolivia era sicuramente avendo a che fare con il cibo.
Il carnevale era quindi ato ed io avevo abbandonato vilmente la mia illuminazione di vendere magliette.
AMICIZIE.
Iniziai una sorta di routine, con forse poco da raccontare.
Questo è il brutto della routine, di una vita in cui tutto scorre per inerzia sul piano ed i giorni sembrano uno uguale a quello seguente e non vi sono particolari stimoli esternamente a smuovere le acque; l'unica operazione sensata in momenti del genere sarebbe forse quella di non avere inerzia dentro se stessi ovvero di cercare anche in situazioni esterne all'individuo ripetitive una maniera via via più consapevole di approcciarsi alle stesse.
In maniera tale non dovrebbe più esistere la noia, ma “carpe diem”, cogliere l'attimo, vivere ogni momento trovando in esso motivo di evoluzione personale.
Mantenendo questo punto di vista, anche eventi in apparenza negativi e sfavorevoli al soggetto possono in realtà essere considerati di grande aiuto se si pensa a come spingono al miglioramento.
Comunque, approfittai, con la scusa di riposarmi, per avere dei giorni abbastanza tranquilli se non per il fatto che mi creai stimoli volontari per apprendere nuove cose cercando di smuovere le acque appunto. Entravo spesso nelle lan house ando qualche ora ogni giorno cliccando da una parte all'altra, navigando nell'oceano di informazioni del web cercando qualcosa che mi fosse utile. Purtroppo incontravo un informazione di un tipo e subito dopo una che diceva totalmente l'opposto, la mia sete di conoscenza non trovava pace, come forse dovrebbe essere.
Inacio ò a trovarmi gli ultimi due giorni che sarebbe stato a Santa cruz, ma si
era trasferito in un altro residencial nel frattempo. Quel giorno parlammo di ragazze e oltre a raccontarmi le sue avventure, che io giudicavo abbastanza improbabili, mi spiegava di come fosse normale che in Bolivia a 15 anni siavessero già dei figli e di come fosse normale andare a vivere nella famiglia di una nuova fidanzata con magari già 4 o 5 marmocchi a seguito. Ciò mi fece riflettere su come vi sono limiti imposti dalla cultura e dalle tradizioni più che altro.
Facemmo un giro in una direzione in cui non eravamo mai stati insieme, di fronte al posto dove pernottai i primi giorni. Inacio aveva un sottofondo di tristezza nel suo cuore; voleva trovarsi una donna e farci dei figli, visto che nonostante i 28 anni iniziava a sentirsi vecchio. Faceva il gran consigliere su come conquistare le boliviane e mi consigliava di invitare una possibile ragazza al cinema. Mi sembrò una buona idea e volli subito sapere dove fosse un cinema a Santa Cruz, così fermai il primo signore che veniva camminando dal senso opposto e gli chiesi se sapeva dove potevo trovarne uno; mi guardò sorpreso e si girò dicendo che ce lo avevo davanti indicando un grosso edificio con una scalinata di fronte. Data la buffa coincidenza mi sentii in vena di offrire a Inacio un film al cinema, pensando che magari non c'era mai stato.
Salita la scalinata entrammo nella biglietteria, ed io guardandomi attorno notai che non c'erano le locandine dei film in programmazione da nessuna parte e mi fu impossibile non notare un travestito a pochi i da noi che ci ammiccava. Arrivava al metro e 85, con delle zeppe e due tette che mi chiesi come si potesse ficcare tanta plastica dietro la pelle senza che si rompesse. Chiesi allora alla bigliettaia che spettacoli stavano dando, mi disse che il film finiva e riniziava da lì a un ora e io spontaneamente chiesi quale fosse il film; mi spiegò che trasmettevano solo film per adulti, diedi una risata immaginandomi se avessi portato, dietro i consigli di Inacio, una ragazza in quel cinema senza saperlo finendo come De Niro in taxi driver. Uscimmo e Inacio continuava a dare varie occhiate rapide al travestito, mi chiese qualche informazione a proposito e gli spiegai che non era proprio donna al 100% quella, mentre ci sedemmo sulle larghe e numerose scalinate blu che scendevano al livello stradale. Si era incuriosito molto del trans, forse si era innamorato di quei lineamenti artificiosi così “insoliti” pensai.
Era il tramonto ed in quell'atmosfera di lenta e rilassante calma Inacio iniziò a farmi dei giri di parole assurdi e non capivo dove volesse andare a parare, sentivo stesse cercando di ottenere qualcosa da me ma ci mise una vita a farmelo capire ed inoltre persi per un pezzo il filo dei suoi discorsi. Infine capii che gli servivano 50 bolivianos perché doveva pagarsi due giorni di stanza e avrebbe ricevuto lo stipendio soltanto il giorno seguente; io dissi che glieli avrei prestati aggiungendo sarcasticamente:
“Non è che scappi senza ridarmeli poi ?”.
Ma la mia intuizione aveva visto giusto. Tornammo verso il residencial e lui mi aspettò di sotto senza volersi far vedere dagli ex colleghi ed ex padroni; poi tornai con 60 bolivianos dicendoli che almeno avrebbe avuto anche i soldi per fare la colazione il giorno dopo, se li prese senza esitare e gli diede anche una rapida controllata per contarli. Ci salutammo e come già sapevo non lo avrei mai più rivisto, ma in fondo lo capivo e gli volevo bene; veniva da un certo tipo di realtà e la vita gli aveva insegnato ad approfittare di ogni briciola in ogni minima situazione...Come un ratto.
Iniziai ad andarmene a so volendo conoscere meglio la città, ricordo che andai nel parco urbano che Inacio mi aveva suggerito, descrittomi da lui come bellissimo e molto caratteristico. Fu una delusione unica, non era molto grande ed era sporco di immondizie lasciate da chi vi ava e non ripulito da parecchio o forse da sempre. In più stavano costruendo delle strade pavimentate all'interno, riducendo ulteriormente lo spazio verde.
Mi sdraiai in un prato dall'erba alta fissando il cielo, tuttavia era sempre bello starsene coccolato nella natura, respirare un aria più pulita, percepii di come oramai mi ero abituato all'inquinamento da traffico da non fare più caso alle fumate nere ed il puzzo di smog.
Fui tanto estasiato dal prendere il sole, visto che era parecchio tempo che non lo facevo, che mi misi in mutande e dormii una mezz'oretta; fui svegliato di colpo da tre agenti di polizia che mi invitavano a vestirmi con tono sgarbato. Io avevo immaginato quando mi misi in mutande che ciò sarebbe potuto succedere mi ero già preparato uno schema d'azione mentale; iniziai, divertendomi nel cervello ma in apparenza serio, a chiedergli il motivo fingendomi ingenuo. Mi dissero che non si poteva e basta e replicai che ero semplicemente in costume da bagno, come quando si va al mare e nel mio paese si poteva fare; il tutto parlando con un aria innocente. Uno dei tre poliziotti mi rispose che in Bolivia non si poteva ed io affermai pensieroso che evidentemente aveva ragione perché in Bolivia il mare non avendolo non lo potevano sapere, sembrò essersi offeso e mi ripetette di rivestirmi. Misi i pantaloncini con molta calma ed avevo notato che mentre parlavo con quello al centro l'altro a sinistra giocherellava facendo roteare con il polso il manganello. Lo guardai mentre finivo di vestirmi e gli dissi che avevo avuto paura che volessero picchiarmi visto che teneva el baston in mano, l'espressivo agente dal manganello roteante fece un sorriso malizioso esaltato dal potere del suo ruolo ed anch'io continuando a sorridergli tornai a sedermi. Lo stesso sbirro mi invitò a mettere la maglietta e gli risposi tranquillamente che faceva caldo quel giorno e stavo benissimo così, ringraziando per la proposta con fare disinvolto, come si fa con amici quandoti offrono del cibo che non vuoi. Se ne andarono dicendomi che mi sarei bruciato e probabilmente me lo auguravano.
Dopo qualche giorno dallo svanito Inacio notai che era arrivato un nuovo personaggio nel residencial, ed aveva la stanza affianco alla mia. Era un bianco caucasico come direbbero in un film di ammerri-cani. Incrociammo gli sguardi per tre giorni di fila senza parlarci ed io avevo un presentimento anzi, quasi una certezza che era un tipo molto strano e che era italiano anche lui e stava messo un po' male... Anche lui.
Più o meno in questi giorni facevano due settimane che mangiavo esclusivamente frutta, a chili naturalmente nel tentativo di purificare l'organismo e sottomettere la gola al mio volere. Ebbi la febbre un pomeriggio e delirai
sdraiato nel letto sudando e parlando da solo in italiano, dicendo le cose più assurde, cantai musiche neomelodiche napoletane sentendomi un tenore ad un certo punto, emozionato sino ad avere lacrime agli occhi; simulando addirittura immaginarie conversazioni con la bella Marisol. Arrivai presto ad esaurirmi e mi assopii un poco, quando sentii suonare un cellulare in una stanza non lontano; rispose un :“PRONTO?”.
Era il signore della stanza affianco alla mia e dato il modo di rispondere era italiano quindi. Stava parlando con la madre e dall'accento pensai che fosse siciliano ma doveva vivere sicuramente al nord; stavo sentendo tutto e sorridendo al soffitto pensai che quasi sicuramente pure lui aveva sentito tutto della mia mezzora di delirio quando parlavo da solo, non mi importava onestamente e mi promisi che l'avrei conosciuto.
Me ne andai dopo al parco a prendere il sole sapendo che mi avrebbe dato una mano a riprendermi con la sua energia e così fu; sulla strada di ritorno ebbi la visione che avrei incontrato l'italiano.
Ed infatti tornando lo scorsi da lontano tra il aggio delle tante persone, se ne stava seduto su di un gradino alla sinistra dell'entrata del residencial, appoggiato al vetro di pollos fang un altro “ristorante” dove facevano polli, sempre gestito da cinesi. Sembrava osservare distratto il movimento delle persone del mercato, ma il suo sguardo troppo fisso faceva capire che la sua mente era altrove; strizzava gli occhi arricciando un po' il naso ed accennando una mezza smorfia con la bocca. Portava un paio di jeans larghi e consunti, delle ciabatte crocks arancioni ed una sbiadita canottiera tutta a piccoli scacchi bianchi e neri, capelli arruffati e barba leggermente incolta sul volto segnato. Una sigaretta che si fumava da sola penzolandogli dalla mano da lavoratore rifletteva il sue essere stanco e desperado.
Notai tutti questi aspetti di lui, mentre mi avvicinavo dalla destra rispetto all'entrata del residencial, camminando sotto ai portici. Si girò repentinamente ed
io mi sentii quasi “scoperto”, gli feci un cenno con la testa di saluto ma non mi fermai, avendo una sorta di brutto presentimento.
Più tardi lo riincontrai al primo piano, nei bagni “extralusso” del residencial, gli feci un breve sorriso e lui ruppe la barriera del silenzio imbarazzato con la frase:
“Che fai non ci conosciamo?” e fu così che iniziammo a parlare.
A parte qualche telefonata erano quasi 2 mesi che non parlavo in italiano con qualcuno e ne fui ben felice; sinceramente ci prendemmo in simpatia a vicenda già dopo pochi minuti. Si chiamava Emanuele, era di origine siciliana e viveva vicino Torino da una vita; aveva 35 anni ma sembrava molto più vissuto, tipo il capitano di una nave antica, naufragato anche lui in Bolivia.
I primi giorni me lo sentivo eccessivamente addosso, visto che mi veniva a procurare ogni poco e cercavo per quanto possibile di evitarlo, con la scusa che resse solo fino ad un certo punto di essere impegnato a studiare lo spagnolo. Venivamo da due realtà diverse e sentivo a pelle che avevamo mentalità e modi di essere molto differenti. Tuttavia aver incontrato un altro italiano, in Bolivia, in quella città, in quel quartiere e soprattutto in un posto zozzo come quel residencial aveva delle probabilità bassissime di poter succedere, quindi dal mio punto di vista non poteva essere una coincidenza, doveva pur esserci un motivo come sempre avviene negli incontri lungo il percorso.
Fatto sta che nonostante le differenze diventammo buoni amici.
Per Emanuele non era la prima volta che veniva in Bolivia. Si sposò con una Boliviana da cui ebbe un figlio che quando lo conobbi aveva pochi mesi; a
Dicembre avevano, lui moglie e figlio, abbandonato la nave Italia candidata ad un probabile affondamento. Aveva vissuto dei mesi, praticamente fino al momento in cui comparve al residencial, a Los Negros, un villaggio a qualche ora fuori Santa Cruz, vicino alla giungla; poi iniziò ad avere divergenze con la suocera, che come era arrivato in famiglia pretendeva che lui fe la sua parte in famiglia arando i campi di mais a mano. Ebbe molte discussioni e mi disse che la moglie da quando erano arrivati in Bolivia era cambiata, involvendosi alla sua mentalità originaria e primitiva sotto forte influenza della madre, tornando addirittura a vestire i costumi tipici Aymara (popolazione indigena boliviana con lingua, usi e costumi propri).
Io ed Emanuele ci raccontavamo le nostre vite ed io ascoltavo interessato i suoi monologhi, cercavo di capire come funzionava il suo modo di pensare, i meccanismi nel suo motore celebrale che ogni tanto sembrava si incepero e la rielaborazione era costretta a ripartire daccapo, costringendolo spesso a ripetere svariate volte lo stesso concetto semplicemente cambiando o invertendo le parole e sporadicamente usando dei sinonimi.
avamo ore a parlare, spesso seduti giusto fuori dal residencial, osservando e commentando i vari anti come due vecchie signore vicine di casa di un qualsiasi paese italiano che criticano dai loro balconi sopraelevati la ignara plebe.
Ci sentivamo ed eravamo diversi dal boliviano medio, ed attiravamo l'attenzione. Vincenzo mi ripeteva spesso questo suo concetto di cercare di dare nell'occhio il meno possibile e mi disse notando il mio look, che ero già sulla buona strada dal punto di vista dell'abbigliamento, che da come scritto in precedenza lui rispettava dei rigidi canoni di mimetizzazione con il popolo. Andavo in giro in infradito (dopo aver abbandonato le mie la sera dell'incontro di lotta libera mi comprai un altro paio che erano della larghezza giusta ma più lunghe di 3 dita sul retro, chi mi vedeva pensava che non potessi permettermi di meglio) pantaloncini da me tagliati e cuciti in tempi diversi con lenza da pesca, magliette spesso macchiate, bucate ed usurate ed i capelli lunghi che legavo
sporadicamente. Non curavo quasi per niente il mio aspetto estetico eppure pensai tra me e me che nonostante tutto ancora mi mancava qualcosa per raggiungere il suo livello.
Le nostre precauzioni nel vestiario non bastavano a quanto parve perché comunque cadevano sguardi su di noi di frequente; parlavamo entrambi a voce alta ed io spesso ridevo a squarcia gola per il suo modo di fare ed i suoi racconti.
Svariate volte mentre sedevamo si avvicinarono persone tentando di venderci della roba presa chissà da dove, orologi o gioielli maggiormente ma anche cellulari, oltre i soliti venditori di gomme da masticare e sigarette.
Il mio nuovo amico ci teneva molto a che fossimo indiscreti e mi confermò a sostegno di quest'importante cosa la storia dei poliziotti corrotti a caccia di gringo da spennare.
Mi raccontò quindi che poco tempo addietro lui ebbe una discussione con la suocera e preso dalla rabbia del momento aveva scagliato una sedia da una parte, la suocera chiamò la polizia e lui venne arrestato rimanendo più di un giorno in cella dove dovette dormire sdraiato per terra nel mezzo di altre persone. Il giorno dopo grazie anche alla moglie che parlò con le guardie, pagò la golosa cifra per un boliviano di 400 dollari e lo fecero uscire, nonostante non avessero avuto nessun valido motivo per tenerlo dentro... Almeno stando al suo racconto.
Terminai la terza settimana a sola frutta e volli festeggiare il risultato raggiunto all'insegna del controsenso, andandomi a fare una abboffata di carne in una delle churrasquerias del primero anillo; invitai anche Emanuele che però preferiva mangiarsi il suo quotidiano “guiso de fideu”, degli spaghetti spezzati e scotti ammollo in un sugo brodoso di carne, spendendo solo 5 bolivianos. Lo stimavo profondamente, per lui il cibo non aveva nessun effetto sulla psiche e sulla
salute, gli bastava sentire vagamente di aver buttato qualcosa nello stomaco e tutto era a posto. Mi andai a fare una mangiata di carne pazzesca e insensata; sapevo ciò che avevo davanti era privo di importanza se non magari dannoso per il mio corpo, ma non mi importava, volevo festeggiare la vita quel giorno soddisfando l'insoddisfabile attaccamento al “piacere dei sensi”. Tentai inoltre di attaccare bottone con le cameriere ma non ci fu verso.
Me ne andai poi con la pancia piena al supermercato e come avevo anticipato ad Emanuele tornai alla Ramada con una bottigliozza da un litro e mezzo di un economico ma promettente vino rosso: “el toro viejo”. Ci facemmo dare due bicchieri di plastica e sempre per rispettare la sua idea del non farci notare andammo a bercela sul balcone del secondo piano, il mio punto prediletto. Io non bevevo da tempo e diventai brillo all'istante, cominciammo quindi a ridere e schiamazzare attirando comunque l'attenzione di qualche ante della strada di sotto. Stavamo inneggiando alla grande, poi andammo giù da Fango, così avevamo iniziato a chiamare il cinese proprietario del ristorante pollos fang, giusto di sotto al residencial. Emanuele iniziò a bere birre una dietro l'altra e mi spiegò, tra i vari discorsoni che facevamo, che in ato era stato messo in una comunità di recupero per gli alcolisti perché beveva alla grande.
In Italia si svegliava di buon ora al mattino ed iniziava la sua maratona alcolica con una bottiglia di vino appena svegliato, se non ce la aveva scendeva in paese dalla montagna dove viveva e se la comprava; se non aveva i soldi si faceva “prestare” delle monete da qualcuno che incontrava nel tragitto per poterla comprare. Arrivava a bere sulle 5 bottiglie al giorno di vino, poi aveva giorni in cui variava la scelta in altre bevande tipo whisky, ma era uno abbastanza tradizionalista.
Lo avevano internato quelli del comune perché dovevano averlo trovato conciato male e praticamente si era dovuto disintossicare ed ora mentre era mezzo ubriaco (ma dal suo punto di vista sanissimo) mi rassicurò che lui oramai con l'alcool non aveva più nessuna dipendenza, ed io mentre muovevo lentamente su e giù la testa con finto fare comprensivo, pensai che mi sarebbe piaciuto credergli.
Era abbastanza un campo di battaglia fisicamente, era stato investito da una macchina ed operato ad una gamba per una brutta frattura e per errore la gamba era rimasta più corta di 3 cm, il che gli conferiva un andatura zoppicante tutta particolare; aveva gli occhi sputtanati perché lavorò come saldatore per vari anni e infatti vantava un abbronzatura che non sarebbe più andata via al volto e braccia; mi spiegò inoltre dei danni al cervello causati dalle onde elettromagnetiche quando si salda. Un altro episodio che lo segnò fu che una volta mentre era ubriaco insieme ad un suo amico (che morì per essersi danneggiato il fegato), aveva iniziato a sentirsi strano e recatosi all'ospedale gli fu diagnosticato una emorragia interna sempre al cervello. Per me dopo aver accumulato tutte quelle sue informazioni sul suo conto fu inevitabile tirare alcune conclusioni.
Insomma ne aveva ate parecchie ed in un certo senso tutto questo si rifletteva nella sua persona.
Spesso capitava che gli parlavo e mi accorgevo che non mi stava seguendo nonostante mi guardasse, soprattutto quando riprendeva discorsi suoi che aveva lasciato a metà più di un minuto prima.
Non vi era molto da fare per me a Santa Cruz, a parte parlare con Emanuele, andare nelle lan house a farmi un po' di cultura via internet oppure perseguitare Marisol, ma da tempo vi era qualcosa che mi faceva vibrare l'anima, stavo progettando un mio piano di esplorazione del parco nazionale Amborò,
PARTENZA, vaya con dios!
Era giunto il tempo di abbandonare Santa Cruz, troppi segni me lo
confermavano. Era più di un mese che vi ero arrivato e mi mancava viaggiare, inoltre non stavo più sulla cresta dell'onda.
Avevo questa idea che mi frullava per la testa da poco più di una settimana e sentivo che non avrei potuto rimandare; mi ero già comprato varie cose visto che avevo intenzione di farmela in sopravvivenza per qualche tempo. Presa la decisione fui pronto ed abbastanza attrezzato nell'arco di due giorni.
Ficcai le magliette di carnevale rimanenti, di cui una la avevo regalata a Marisol ed una la conservai per me, in una busta e mi decisi a venderle. Raggiunsi avenida grigotà e mi misi sul marciapiede centrale, dove a quell'ora serale si andavano sedendo i vari venditori; partii con il prezzo di 30 bolivianos, abbassandolo di 5 ogni mezzora. Nessuno sembrava volesse comprare, il carnevale era già finito, la scritta non aiutava e la mia pazienza neanche. Mi stavo annoiando ed avevo già tutto pronto per la mia partenza, volevo quindi sbarazzarmi in fretta di quel mio piccolo fallimento imprenditoriale. Un ragazzo, che si fermò a guardare le magliette e gli piacevano, mi chiese quanto volevo ed io risposi scherzando che era lui a fare il prezzo, mi ero stancato di Santa Cruz e volevo andarmene. Mi disse che non aveva soldi mentre ripiegavo nel cellofan la maglietta che si era misurato e fece per allontanarsi; aveva fatto giusto qualche o ed io gli fischiai dietro e come fece per girarsi gli tirai dietro la maglietta che gli piaceva. Il suo volto si fece sorridente ed io gli feci il pollice, felice.
Per me in quel momento quella felicità derivante da un semplice gesto valse molto di più di qualche foglio di carta con sopra scritti dei numeri. Era una felicità spontanea causata dalla libertà dallo schema mentale del profitto e dal fare esclusivamente il proprio interesse.
Così seguendo quel flusso emotivo che mi stava facendo sentire pieno di energia buttai la spugna intrisa del malumore della lunga, piena di aspettative ed infruttuosa attesa ed incominciai a gridare:
“Poleraaas oferta libre!!!” (magliette offerta libera).
Buona parte delle persone pensavano scherzassi e quando mi chiedettero il prezzo più volte ed io rispondevo puntualmente sorridendo che erano loro a sceglierlo la maggior parte non mi credeva; alcuni si sentivano addirittura presi in giro andandosene, come se io avessi avuto una qualche tecnica di raggirarli all'ultimo.
Stavo approfittando della situazione per studiare la strana psiche umana in un certo senso, era tutto buffo ed i venditori ai miei lati iniziarono a farsi curiosi e non pensavano fi sul serio fino a che videro che lasciavo realmente scegliere il prezzo al cliente. Alcune persone dissero ironicamente che mi avrebbero pagato zero, ed io risposi che se era quello il valore che consideravano giusto a me sarebbe andato bene.
“Quiero irme, es usted que escoje el precio”.
Finiva che se mi credevano mi pagavano anche abbastanza bene. La cosa fenomenale è che non me ne importava assolutamente niente del guadagno e realmente avrei accettato qualsiasi offerta; godevo di quel curioso momento di osservazione da un insolito punto di vista.
Un altro venditore di poleras ad una decina di metri alla mia sinistra, si mise a gridare come me, affermando di avere i prezzi migliori dei miei, ci guardammo e scoppiammo a ridere entrambi. Mi venne vicino e mi chiese perché stavo facendo questa pazzia, gli spiegai che non volevo più stare a Santa Cruz; dopo qualche minuto lo vidi che parlava al telefono facendo sentire a chi stava dall'altro capo delle rime che iniziai a improvvisare:
“Lleva la polera oferta libre, porque yo queiro irme” mi registrò anche, considerandomi una specie di fenomeno da baraccone.
Ridevamo tutti io e gli altri venditori, quando fini quella mezzora di euforia, avendo venduto tutto facendo più soldi di quelli sperati, feci un inchino ai colleghi ed augurai a tutti una buona continuazione di serata; mi augurarono buon viaggio.
“Vaya con Dios”. Qualcuno mi disse.
Quanta gente favolosa esiste al mondo.
Il progetto di andare nel parco nazionale Amborò includeva tra i vari punti fondamentali anche il giaguaro, con il quale avrei voluto avere un incontro ravvicinato.
Immaginavo l'idea di trovarmene uno di fronte farmelo amico e diventare una specie di balla coi lupi con il giaguaro come compagno di avventure.
Emanuele se ne era partito qualche giorno prima di me tornando al villaggio della moglie, ci salutammo felici di esserci conosciuti ed entrambi fiduciosi verso la vita; vivevamo in un posto che credo qualunque connazionale si sarebbe indignato al solo vederlo in foto dall'alto della sua confortevole modernità, ma a noi stava bene, ci si poteva adattare ad ogni circostanza sopratutto quando era una libera scelta.
Scelsi di andarmene quindi, sapendo che mi sarei dovuto adattare nuovamente a qualcosa.
Lasciai il famelico borsone che avevo riempito fino all'orlo con la solita roba che si accumula quando si permane in un posto ad una signora, sorella di Julia la recepsionista. Ogni tanto la pagavo abbastanza per farmi lavare i vestiti e ne era felice; spesso giocavo con la figlia, senza padre come molti bambini boliviani, che mi adorava. Josefin era il suo nome, avrà avuto forse 5 anni e mi insegnò anche lei alcune cose. Pagai la signora per il favore e forse più per aiutarla indiscretamente e le dissi che se non fossi più tornato a Santa Cruz avrebbe avuto diritto a tenersi il borsone e tutto il contenuto.
Il riporre totalmente fiducia in persone quasi sconosciute, se non per un istintiva percezione di bontà nelle suddette, spesso dava buoni risultati. Avevo quasi imparato dopo alcuni episodi avvenuti mesi prima, a non essere troppo legato a nessun tipo di bene materiale, poiché sembrava mi accadessero situazioni che quasi mi obbligavano a rendermi conto della semplice ma dura da comprendere verità:
Niente ci appartiene in questa vita.
Per il mio viaggio decisi di are prima del parco nazionale a La Higuera dove venne catturato Che Guevara.
Mi diressi a piedi al terzo anello dove, come Emanuele in precedenza mi aveva spiegato, avrei dovuto prendere uno degli stessi autobus che usava lui per andarsene a Los Negros. Lo zaino che per curiosità pesai da qualche parte raggiungeva quasi i venti chili. Regalai prima di lasciare la Ramada un libro a
Marisol che non mi rivolse nemmeno la parola.
Ero felice, me ne stavo andando finalmente. Comprai i soliti 2 chili d'uva di Tarija dolce e succosa nel mercato ed arrivato al piazzale indicatomi dal mio compaesano aspettai tutto il pomeriggio l'autobus che mi avrebbe portato fino a Vallegrande. Partimmo al tramonto e maledissi mentalmente Emanuele che nelle ultima ora ata insieme mi aveva ripetuto qualcosa come cinque volte di prendermi il posto lato finestrino, cosa che irritava il mio ego molto arrogante dai tanti viaggi fatti in autobus e che ben era convinto di sapere quale fosse il posto migliore dove sedersi; capitò, quasi a spronare quella parte di cui si è succubi buona parte della propria esistenza (salvo che si inizi ad osservare se stessi), che al posto che scelsi al momento di acquistare il biglietto corrispose sull'autobus un posto dove il finestrino non esisteva ed era sostituito da una tela di plastica opaca unita alla meglio con nastro adesivo. Feci un viaggio scomodo e stretto con il rumore del vento che batteva forte sulla tela e senza poter goder il panorama del tramonto.
Arrivammo alle 2 di notte a Vallegrande a quasi 2000 m sul livello del mare. Volli cercare di dormire nel terminal del paese ma non me lo permise una guardia dicendo che stava chiudendo e non vi si poteva rimanere; così uscii fuori e percorsi un centinaio di metri nella lieve nebbia, fino a trovare un campo da calcio con l'erba incolta, dove buttai il sacco a pelo per terra giusto dietro ad una zona di erba più alta. Dormii poco, male per il freddo e leggermente impaurito che venisse qualcuno a svegliarmi, ma con la prima luce mi alzai sereno sorridendo al sole che finalmente si rifaceva vivo e rimisi a posto le mie cose scattante.
Entrai dopo una breve camminata nel paese vero e proprio e mi misi a gironzolare, qui le persone erano vestite diversamente rispetto a Santa Cruz a causa della temperatura della quota. Sostai nella piazzetta principale mangiando l'uva rimasta. Vidi spuntare da una via fiancheggiante la piazza un ragazzo ed una ragazza chiaramente non boliviani che si guardavano attorno, poi dopo piccoli battibecco tra loro tornarono da dove erano venuti. Erano forse le sette
del mattino visti i movimenti di persone; iniziai così a chiedere informazioni su come arrivare a La Higuera e mi dissero che non era vicino e ci si arrivava solo in taxi. Dopo aver dialogato con vari anti mi diressi verso un'altra piazza dove mi fermò un tassista chiedendomi se stessi andando alla Higuera, mi propose un prezzo che mi sembrò esagerato e gli dissi che avrei potuto andarci a piedi gratis; mi informò che era lontanissimo.
Arrivai nell'altra piazza scendendo una strada e trovai la giovane coppia di prima su di una panchina con degli zaini grossi da viaggiatore, ci facemmo un cenno e ci mettemmo a chiacchierare. Erano argentini ed anche loro avevano la mia stessa meta e quindi mi unii a loro. Trovammo un tassista che ci portava chiedendo meno e mi accorsi che pagata la mia parte sarei stato prossimo a finire i soldi liquidi nuovamente.
Partimmo subito per la nostra destinazione, conoscendoci nel frattempo tutti meglio; io sedevo di fronte col tassista che dava anche parecchie informazioni sulla vita del Che, il ragazzo argentino era già molto acculturato in proposito, ne aveva letto libri e diario. Parlammo dei nostri viaggi ati, mentre quel cascione di macchina, come avrebbe detto Emanuele, si inerpicava a fatica per le strade sterrate e tortuose fino a che arrivammo dentro una nuvola oltre i 3000... Ero per la prima volta sulle Ande.
Era tutto fantastico, salendo di quota ci facemmo tutti zitti a parte il tassista che vi era abituato e continuava a parlare, mi sentivo più leggero, l'aria era fresca e pizzicava quasi, dopo una breve occhiata di confronto capii di non essere l'unico a sentire delle sensazioni strane nel corpo.
Uscimmo di colpo dalle nuvole, per procedere su di una specie di stretto altipiano in cui la strada filava pressoché dritta, con i campi di mais e patate che scendevano ai lati scoscesi della strada, i sole illuminava il paesaggio di fronte a noi e le montagne erano ovunque nei nostri orizzonti.
ammo vari villaggi di agricoltori e qualche pueblo e mi chiesi come potessero delle persone vivere in questi posti, ma il solo paesaggio e l'aria che si respirava ripagava totalmente la vita faticosa dei campi.
Arrivammo scendendo dopo un ora e mezza ad una quota più tollerabile alla quebrada del churro, una specie di burrone di difficile accesso dove venne ferito e catturato il Che e la sua banda.
Qui conoscemmo una famiglia che viveva in questa casa molto rustica costruita con blocchi di fango essiccato, lasciammo gli zaini in macchina e scendemmo lungo un percorso, con la donna che diceva di avere 70 anni ma si faceva fatica a crederle, aveva denti bianchissimi e la pelle scura con poche rughe. Ma quello che mi stupì maggiormente erano i suoi occhi che lasciavano trasparire tutta la serenità che portava dentro, forse frutto della vita distaccata dalla società in mezzo a quelle fantastiche montagne.
Camminava veloce seguendo il percorso calante in mezzo a pannocchie e alberi, anche lei raccontandoci a proposito di Che Guevara, per i due argentini era un mito io a parte i famosi tratti stilizzati e qualche cenno sulla vita ne sapevo veramente poco a confronto. Arrivammo al punto dove venne catturato dall'esercito boliviano e sostammo in quell'angolo ombroso lontano dal mondo, sotto un albero di fico (La Higuera appunto) e questo torrente, dove il Che ed i suoi soldati arrivarono dopo mesi di vita nascondendosi nella foresta e tra le montagne, pescando, rubando patate nei campi e vivendo di ciò che la natura poteva offrirgli.
Quando li catturarono erano magri e malconci, il Che venne sparato ad una gamba e dovette risalire il ripido sentiero ferito e con le mani legate; un immensa fatica. Ci raccontò la señora che avevano i capelli tanto impastati dallo sporco che sembravano di pietra.
La señora, abituata allo sforzo, salì con rapida tranquillità quando tornammo indietro, io faticavo a starle dietro e cercavo di concentrarmi sul respiro profondo e lento con il naso. La ragazza argentina rimase molto indietro a causa dei capogiri che le vennero ed ebbe quasi uno svenimento ed il fidanzato, non so con quale forza, se la caricò in spalla e a poco a poco risalirono. Io e la señora ci fermammo seduti su di una pietra ad aspettare che gli altri 2 ci raggiungessero e chiacchieravamo sotto il caldo sole con le tante verdi montagne di fronte a noi.
Se non le facevo domande rimaneva in silenzio senza problemi, non sentendosi obbligata a parlare come si fa tra la maggior parte delle persone che non si conoscono per mascherare il disagio; ma stando affianco a lei il disagio era inesistente, anzi percepivo molta calma ed apprezzai moltissimo i momenti di silenzio. Aveva un modo di parlare molto pacato e rilassante e mentre ci guardavamo avevo molta voglia di accarezzarle il volto, che occhi dolci che aveva, emanava una bontà immensa e credo che mi innamorai di lei e della sua semplicità d'essere.
Mi feci raccontare di quando lei era ragazza, era nata e cresciuta in quel posto e vi stava da praticamente sempre, aveva nove figli di cui buona parte a Santa Cruz che raramente andavano a trovarla.
Poi tornò a spiegarmi, forse convinta che io fossi a caccia di informazioni sul Che, che ricordava le notti, sempre quando era giovane, che videro per vario tempo le luci delle torce in lontananza sulle montagne opposte al burrone ed era la banda del Che che dissotterrava patate.
La sua famiglia per alcune settimane gli andò a portare del cibo, venendo ricompensata in dollari americani; loro non avevano idea di chi fosse, supponevano che fosse un bandito.
Successe poi che la banda affamata rubò troppe patate ad un contadino, che fu in paese a denunciarli alla polizia e così l'esercito boliviano, pagato dalla CIA, potette scovarli.
Lei mi aveva fatto notare come era usurato il suo maglione e quando arrivammo in cima alla loro casette le regalai il mio che avevo nello zaino. La coppia di argentini fu gentilissima e gli diede una bella donazione di denaro, era gente che meritava veramente tanto. Conoscemmo il marito della señora che era un po più vecchio ed una figlia molto carina sui 30 anni; mi venne una tentazione di rimanere là con loro a fare una vita dei campi e penso che avrebbero anche detto di si, visto il tipo di persone. Vivevano in condizioni umilissime e praticamente senza denaro se non le donazioni di qualche sporadico turista e qualche tubero venduto in paese; prima di noi erano ati dei si 2 mesi addietro. I soldi gli servivano per farsi controllare dai camici bianchi qualche volta l'anno, ma davvero la señora emanava salute, spensieratezza ed una sorta di armonia con l'universo da ogni piccolo dettaglio.
Forse realmente meno si ha e meglio si sta.
Svegliai il tassista che si era bevuto qualche cerveza e si era svaccato sul sedile russando. Partimmo diretti al villaggio de La Higuera a qualche kilometro, dove Che Guevara venne portato dall'esercito in attesa di istruzioni sul da farsi, vi rimase un giorno imprigionato in una scuola ed infine fucilato.
Sentire la storia della sua vita mentre visitavamo quei posti mi ispirava molto, i suoi viaggi in moto e le battaglie. Arrivati al villaggio le persone che incontrammo, una vecchina sopratutto disse di come tutti avessero avuto paura, non sapendo chi fosse quest'uomo e la sua banda che l'esercito aveva catturato; non sapendo che si batteva per il bene della gente come loro, si nascosero sbarrando le finestre delle case. Se il pueblo avesse saputo chi realmente era,
sarebbero intervenuti per tentare di salvarlo ci disse.
La Bolivia aveva diverse prospettive per il suo futuro nella visione del Che, che considerava avesse una posizione strategica da cui far partire moti rivoluzionari che avrebbero liberato tutto il sud America dalla sua condizione di continente sfruttato.
Entrammo nella scuola dove venne trattenuto, sino a che venne dato l'ordine, si dice della CIA e venne sparato. In questa stanza vi erano moltissime foto, bandiere, ricordi e fototessere dediche di gente venuta da ogni parte del mondo a rendere omaggio. Conoscemmo anche le due bambine figlie della custode, erano deliziose. È incredibile come siano diversi i bambini cresciuti lontano dalla civiltà e di come tendano a mantenere quella bellezza interiore anche crescendo. Si vergognavano un po' inizialmente, ma la curiosità verso noi stranieri era tanta e quindi dopo averci studiato qualche tempo si avvicinarono e ci gironzolavano intorno e giocammo assieme.
Sentire quelle storie e stare in posti del genere continuava a ispirarmi, come era bello sapere di qualcuno che asse la propria vita inseguendo i propri ideali.
Podran morir las personas pero jamàs sus ideas.
Presi nettamente la decisione che volevo fare anche io qualcosa di grande ed utile nella mia vita e credo che in molti di noi risuoni questa sensazione, la voglia di migliorare se stessi e ciò che vi è attorno...Evoluzione.
Era pomeriggio e la coppia di argentini aveva un autobus per Cochabamba che sarebbe partito da Vallegrande a breve. Dovevamo muoverci a tornare in dietro,
caricammo una viaggiante svedese ma che parlava uno spagnolo perfetto ed io e gli argentini la scambiammo per un'indigena stranamente bionda; scese poi ad un paesello lungo la strada. Durante il ritorno iniziarono i discorsi critica verso la società in cui viviamo; caricammo poi un agricoltore con il quale io parlai molto, curioso di sapere come era la sua vita. Nonostante lui mi fe notare la fatica che faceva tutti i giorni a raccogliere le patate su e giù a quasi 3000 metri io leggevo nella sua espressione la felicità e la spensieratezza di sottofondo. Ci chiedevamo tutti se fossero davvero necessari tutte le cose che abbiamo noi abitanti delle città, i due porteños chiedevano informazioni su quanto costasse un terreno da quelle parti e ripetevano che vi si sarebbero trasferiti, eravamo tutti d'accordo sulla presa in giro della nostra società. Su come fosse tutto un benestare illusorio dato semplicemente dal possedere cose e potersi permettere degli inutili e molto spesso dannosi vizi. I soldi non facevano assolutamente la felicità e le persone incontrate quel giorno furono una delle conferme che ebbi nella mia vita.
L'autista si era comprato da una indigena de La Higuera una bolsita di foglie di coca ed iniziò il rituale del coquear a cui rinunciai. L'argentino che sedeva davanti era la prima volta che provava e si lascio sovraccaricare dal tassista che vi era ben abituato, me ne accorsi perché iniziò a mettere una foga esagerata nei suoi discorsi, ma tutto questo era sensazionale visto che lo faceva vomitare fuori tutto ciò che aveva nella testa nella sua forma pura, senza limiti o distorsioni per la solita paura che abbiamo di essere giudicati dagli altri. Io ascoltavo curioso mentre godevo il paesaggio con la testa al sole fuori dal finestrino e la polvere che mi colorava il viso.
ammo un punto con uno strapiombo sulla destra di almeno 1500 metri con in basso una piccola valle ed un altra montagna che risaliva dal versante opposto. Il tassista guidava veloce ed alla grande, conoscendo a memoria ogni curva di quelle strade pietrose e arse, ed era un bel divertimento tutto ciò, accarezzavo l'aria con la mano penzolante e danzante al termine del mio braccio che sporgeva fuori, accarezzavo tutto quel paesaggio in realtà, accarezzavo tutta quella situazione.
Arrivammo a Vallegrande in un tempo record. Mi salutai con i 2 argentini che avevano come meta finale il Perù e con il tassista, al quale dopo tanti bei discorsi non riuscii a non notare lo strano sguardo venato di brama con cui contava i soldi guadagnati quel giorno. Lo avevamo nel sangue pensai.
Era già il crepuscolo ed io spesi quasi tutto ciò che mi rimaneva per comprarmi un biglietto dell'autobus direzione Santa Cruz per scendere a Samaipata ed entrare nel tanto desiderato parco Amborò. Ci fu un po' di confusione ed infine comprai il biglietto per un villaggio più vicino pagando forse la metà per poi scendere a Samaipata comunque, quel trucchetto sembrava funzionare bene in Bolivia e mi piaceva rischiare.
Avevo da aspettare delle ore per il mio autobus, lasciai lo zaino nell'ufficio dell'impresa dopo aver fatto il ruffiano e mi diressi nel centro del paese a cercare fonte di nutrimento; ricapitai nella piazza dove ero stato al mattino e vi erano molte campesinas vendendo delle pagnotte di mais e formaggi freschi che con gli ultimi soldi comprai .
Salii verso la parte alta del paese fino ad arrivare ad un mirador(punto per osservare) dove guardai riflessivo le ultime luci del tramonto; tesi l'orecchio perchè sulla sinistra a dieci metri un ragazzo parlava suavemente ma al tempo stesso come un professore ad alunni molto interessati a due ragazze che lo ascoltavano senza perdere una parola; iniziai anche io a rubare quei preziosi suoni. Parlava di Dio, di come avesse creato tutto quanto perfettamente, di come fossimo una infinitesima parte dell'universo, ma collegata con il tutto. Forse era un prete ma aveva dei punti di vista troppo avanti per esserlo. Guardavamo le nuvole sullo sfondo, arrossate dal tramonto e spiegò quel concetto che si impara alle scuole elementari del ciclo dell'acqua ma con una nuova prospettiva che faceva emozionare, tutto è perfezione nella natura. Rimase in silenzio per un tempo, ed io assaporai quel silenzio fissando le nuvole.
Se ne andarono dopo cinque minuti e così feci anch'io pentendomi un po' per
non averci parlato e di non aver preso appunti delle cose di cui sentii parlare, poiché erano veramente interessanti.Calava il buio, ero in pantaloncini e canottiera, ed iniziava il freddo.
Ridiscesi la cittadella fino al terminal dove ai il tempo restante seduto su di una panchina; faceva freddo ora ed io ripetevo un esercizio che per caso avevo scoperto funzionare in quelle situazioni, ovvero di non considerarlo e concentrarmi sul rilassamento delle varie parti del corpo, che in risposta a ciò diveniva più caldo nonostante restassi pressoché immobile.
Arrivò infine l'autobus, chiaramente nuovissimo e di superlusso... Ma che importanza aveva, l'importante era che importasse me stesso facendomi spendere poco importo. In tutti i miei viaggi cercavo sempre il prezzo più basso e raramente me ne pentì, barattavo volentieri la comodità con la possibilità di poter viaggiare per più tempo.
Sedevo dentro l'autobus con lo zaino sulle ginocchia e la testa appoggiata sopra, dormendo a sprazzi e dopo alcune ore ate sobbalzando nel buio più totale della fitta vegetazione andina di bassa quota, mi svegliai in alcuni pueblos senza avere la forza di chiedere a qualcuno dove fossimo. Sapevo che non sarei sceso alla fermata per cui avevo pagato ed anche se se ne fossero accorti non avevo maniera di pagare la differenza, quindi continuai a dormire “beatamente”. Mi svegliai mentre avamo tra delle luci e vedevo basse abitazioni, chiesi dove eravamo a qualcuno e mi dissero che era Samaipata ma l'autobus aveva fatto già la sua fermata; mi stavo già rassegnando al ritorno a Santa Cruz rimandando vigliaccamente a chissà quando tutta la mia avventura nel parco nazionale Amborò. Ero stanco, guardai gli scuri monti sulla sinistra per qualche secondo. La voce affliggente nel cervello mi parlò:
“Ma dove credi di poter andare, ci rimarrai secco”.
Inevitabilmente comparve una sensazione di impotenza e paura a sopraffarmi, ma mi ricordai intuitivamente poi dell'unica e grande certezza della nostra breve boccata d'aria chiamata vita, la morte; quindi al posto di essere bloccato dalla paura l'emozione fluì per trasformarsi in un impulso di azione improvviso, dato dal rendermi conto che non aveva senso rimandare qualcosa quando non avrei potuto più avere una seconda occasione e quando in realtà il destino finale sarebbe stato sempre lo stesso.
Mi alzai di scatto e barcollai fino all'autista chiedendogli di fermarsi, si destò e mi rispose che lo stava già facendo ed a distanza di poche centinaia di metri si fermò in un posto illuminato a comprare delle foglie per allenarsi un poco la mascella e tenersi sveglio. Presi lo zaino, scesi dall'autobus e feci qualche metro sprofondando con metà scarpe nel fango; la cosa non sembrò essere un buon auspicio.
Camminai nella direzione da cui era venuto il bus senza sapere né dove fossi e né dove stessi andando, erano le prime ore dopo la mezzanotte ma sapevo calmamente e senza aspettativa che sarei arrivato in qualche posto utile per farmi un pisolino; trovai dopo qualche centinaio di metri un piccolo ospedale ed entrando nel parcheggio riempii la bottiglia di acqua da un rubinetto per innaffiare il prato.
Subito dopo mi misi nel sacco a pelo tentando di dormire su di una panchina là vicino, con la solita premura di tenere una mano fuori dal sacco a pelo infilata in una fibbia dello zaino, per svegliarmi se qualcuno avesse tentato di sottrarmelo. Era sabato sera e qualche gruppetto di ragazzi ubriachi gironzolava ancora in quel paesello ed alcuni rimasero ad osservarmi curiosi.
Le benvenute luci del nuovo giorno mi fecero uscire indolenzito, stiracchiante ed allegro dal sacco a pelo, bevvi un poco d'acqua, ricomposi il non grande ma pesante zaino ed usai un asciugamano, ricevuto in regalo da una persona importante mesi addietro, come un poncho che mi avrebbe protetto dall'umidità.
Iniziai a camminare osservando le stesse montagne della notte appena finita ma ora potevo vederle meglio e non sembravano più tanto minacciose, ma anzi dalle forme dolci; vi erano delle abitazioni lungo alcune stradine che salivano sui fianchi. Chiesi ad un simpatico signore mattutino come si arrivava al parco nazionale Amborò e mi spiegò che dovevo aspettare qualche ora ed andarci in collettivo(taxi economico) perché era lontano; ci volevo andare a piedi e mi indicò dove avrei dovuto svoltare verso sinistra, uscendo dallo stradone principale...Ridacchiava informandomi che ci avrei impiegato tutta la giornata.
Seguii le sue indicazioni e presa la sinistra iniziai la salita su questa strada in terra battuta, mi soravano macchine e furgoni carichi di persone sul cassone dietro, andavano a lavorare i campi e ci scambiammo sguardi e saluti.
ai di fronte a dei veri e propri castelli dell'alta borghesia cruceña(di Santa Cruz) con giardini curatissimi. La strada era quasi sempre in salita ed era una bella cosa perchè consentiva di scaldarmi, ma comunque sia procedevo pigramente prendendomi varie soste.
Arrivai in cima ai monti che fino a poco tempo prima vedevo dal basso nel giro di una mezzora, guardai per qualche tempo la cittadella da sopra.
Il sole iniziò a farsi vedere dal mezzo di basse nuvole e nonostante le due notti dormite alla buona mi sentii subito bene; guardai le montagne che spuntavano là dietro il crinale su cui mi trovavo. Presi una boccata d'aria, mi risistemai il “poncho” e quindi lo zaino sulle spalle; ero pieno di energie e vedevo i colori delle montagne di un verde intenso e penetrante.
Iniziai la marcia con un sorriso ad accompagnarmi senza sapere bene dove stavo
andando e quando vi sarei arrivato, semplicemente un o dopo l'altro.
La strada ciottolata era sempre una salita e quando tornava leggermente in piano era un piacere perché potevo godermi il meglio paesaggio; la fretta che avevo era quella di entrar nel parco nazionale, che immaginavo tipo il giardino dell'Eden, il prima possibile per potermi trovare il posto più idoneo all'accampamento dove prevedevo di restare almeno una settimana visto le pesanti scorte alimentari che mi portavo appresso.
ai una salita e si aprì una vallata sulla destra ed una vista mozzafiato, o forse il fiato si stava già mozzando a causa del peso dello zaino. Vedevo campi coltivati e qualche mucca al pascolo, ma tutto dava un idea di una buona relazione armoniosa tra l'uomo e l'ambiente circostante.
Ci fu una lieve discesa in cui comunque ogni poco stavo ad aggiustarmi lo zaino sulle spalle, cominciava a darmi fastidio l'attrito delle spalline per il peso. Osservai in lontananza una strada che era cominciata da un bivio addietro e correva ora bassa nella valle per poi salire in fondo sulla sinistra a dei gruppi di capanne.
Il sole si spostava lento verso il punto in cui le ombre diminuiscono e continuavo camminando. Iniziai a fermarmi a causa del peso sulle spalle che volevo scaricare ogni tanto. Ci fu un altra salita abbastanza lunga e poi la strada iniziò a scendere curvando a tornanti. Erano già ate diverse ore quando raggiunsi un piccolo ruscello che attraversava il cammino dove trovai una mucca di un marrone scuro che si fermò del tempo a guardarmi. Buttai lo zaino da un lato e presi la mia bottiglia che si era svuotata troppo rapidamente, la riempii di quell'acqua fresca ma piena di un microqualcosa dentro visto il torbido colore, la bevvi lo stesso senza pensarci due volte. C'erano anche due asini risalendo il movimento dell'acqua di qualche metro, mi avvicinai e gli lasciai un ricordo della mia presenza svuotando il mio intestino nel loro territorio.
Defecare all'aria aperta è sempre una bella sensazione, e l'acquattamento a terra è la posizione più idonea e naturale per farlo, stando seduti su di un gabinetto non si esprime mai appieno il proprio potenziale.
Riposai all'ombra qualche tempo finendo un panetto di mais con il formaggio che avevo conservato dalla sera prima e, dal sapore, il formaggio aveva già iniziato ad andarsene a male per il calore.
Masticavo osservando i nidi di uno stormo di pappagalli verdi, quasi fosforescenti, fare avanti e indietro da una grande parete rocciosa brunorossastra di fronte ai miei occhi. Erano tantissimi, forse centinaia, ed emettevano dei suoni stridenti e singolari, belli e perfettamente sincronizzati nelle loro manovre.
Bevvi ancora qualche sorsata d'acqua special e rincominciai la salita che si prospettava. Non feci nemmeno 50 metri che mi fermai di nuovo, con un bruciore allo stomaco e mi sedetti tranquillo su di un masso senza togliermi lo zaino dalle spalle aspettando che asse.
Non accennava a are il buciore e rimasi seduto fino a che non sentii una motoretta che scendeva e riiniziai quindi a muovermi.
Era la salita più ripida fino ad ora, con molti tornanti che dovevo prendere dal lato esterno altrimenti mi spezzavano le gambe ed equivaleva ad arrampicarsi, avanzavo piano ma costante.
Quando incontrai la motoretta, il pilota la fermò e parlammo; chiesi al ragazzo, che mi guardava strano, quanto mancasse al parco nazionale Amborò, disse che sarei arrivato al pueblado de la yunga da li a poco; vi arrivai solo dopo 2 ore massacranti. arono altri due veicoli diretti nella mia stessa direzione e fui tentato di chiedere uno strappo, ma volli farcela esclusivamente con le mie forze.
Terminò la faticosa salita con i tornati (ma la strada continuava salendo) e per festeggiare e distrarmi mi misi a sollevare dei pietroni che incontrai credendo di essere un qualche supereroe dei poveri di fantasia.
Dopo un bel rettilineo quasi piano ed un ultima salitina arrivai al preannunciato pueblado de la yunga e mi buttai a terra all'ombra di un caseggiato.
Il posto era molto carino, sebbene ero in sud America sembrava in un certo senso in stile alpino; c'era questo spiazzo erboso con le varie casette intorno, mucche che pascolavano tranquille e dei cani che mi videro in lontananza abbaiandomi contro fin da subito.
Feci diventare l'acqua special una limonata special e ne sorseggiai un poco rilassandomi.
Vidi delle persone in lontananza uscire da una casa e farmi dei cenni ma io non mi mossi minimamente, stavo troppo bene in quel momento. Venne poi a raggiungermi una signora con dei moduli da compilare per entrare nel parco, mi fece un sacco di domande e voleva che la pagassi 15 bolivianos di tassa turistica, le lasciai 2 fogli da 1 dollaro americano che conservavo nel portafoglio; andoglieli contemplai il simbolo della piramide con l'occhio che tutto vede delle verdi banconote.
Protestò brevemente che non fossero Bolivianos ma alla fine se li prese, le dissi che valevano la stessa cifra chiedendomi nel frattempo quando mai li sarebbe andata a cambiare...
Mi disse di seguirla, lasciai lo zaino a terra e attraversai l'erbosa piazza al suo lento o fino a raggiungere la casetta dove c'erano due ragazze con quattro bambini e molti bei cani. Cominciammo a chiacchierare, le due ragazze erano maestre ed i bambini dalle guance rosse gli alunni della scuola. Mi sentivo da sempre e forse per sempre uguale ai bambini, ma in un contenitore più grande e destinato a creparsi con l'azione del tempo.
La señora mi disse anche che avrei potuto rimanere a dormire nella posada che avevano appena finito di costruire, che aveva. “Anche l'acqua calda!”. Le sottolineai che non avevo davvero più un soldo.
Le domande continuarono in quanto lei era la custode del parco e cercava di assicurarsi che non fossi intenzionato a dare fuoco a tutto quanto. Su delle mappe avevo visto che vi era un bel fiume da quelle parti ed era il mio obbiettivo, ma la signora mi scoraggiò parecchio dicendo che era a giorni di cammino, ed era obbligatoria una guida per evitare di perdersi.
Ritornai indietro a prendermi lo zaino, salutai e continuai prendendo una strada, diretto ad una foresta di cui la signora mi aveva parlato.
Un serpente mi attraversò la strada rapido e nonostante in Australia avessi imparato a prenderli, questo mi spaventò e mi riportò alla realtà visto che ero partito in un altro mondo con il nastro dei pensieri automatici.
È veramente difficile stare concentrati in ciò che si fa; a partire dalle piccole azioni, se possono sembrare fatte bene da un osservatore esterno è semplicemente perché chi sta eseguendo l'azione lo fa meccanicamente a forza di abitudine, potendo concedersi così viaggi intergalattici con la sua mente, senza poi ricordarsi molto delle azioni fatte o dei pensieri e stati d'animo vissuti; la vita acquista quindi sembianze di un sogno troppo spesso.
Sbagliai la scelta di una strada ad un bivio, ed arrivato ad un punto senza proseguimento se non entrando in dei campi, conobbi un ragazzino con una bicicletta che mi riportò indietro; parlava in un modo dialettale e non lo capivo molto Mi fece belle domande, sincere, come ad esempio perché andavo in giro con lo zaino, da dove venivo, gli dovetti parlare un poco in italiano per fargli capire che il paese Italia era veramente lontano e non era un villaggio con un nome strano da qualche parte in Bolivia, mi sorrideva mentre dicevo scemate in una lingua a lui sconosciuta. Chiacchierammo interrompendoci solo nelle salite; mi venne un capogiro in un tratto e fui felice ci fosse compagnia con me, ci lasciammo poi al bivio con il ragazzino che fiero mi raccontava di come raccogliesse patate e mi buttò improvvisata qualche frase aymara. Cercai di estrapolargli qualche informazione su avvistamenti del tigre(giaguaro) da quelle parti, mi raccontò dettagliatamente che suo zio ne aveva ammazzati alcuni perché gli attaccavano le vacche. Ero estasiato da quei racconti, ma lui ne parlava senza troppa enfasi. Lo salutai e mi disse di andarlo a trovare quando fossi tornato indietro.
Ricominciai a salire per qualche chilometro probabilmente, sentivo l'attrito del mio corpo sfregare la superficie del nostro pianeta, ma lubrificavo il meccanismo con la forza di volontà e concentrandomi sul respiro quasi esclusivamente, ed il tutto fluiva sotto i miei piedi senza troppe pause.
Finalmente arrivai all'ingresso del bosco de los helechos che era tardo pomeriggio. Entrai seguendo questo stretto percorso tra i cespugli e con alberi che si ripiegavano al di sopra creando una sorta di tunnel ancora in salita. Fino a che ando il crinale la vegetazione cambiava di colpo, gli alberi erano
totalmente diversi, ed anche l'odore dell'aria e l'umidità mentre scendevo; avevo raggiunto il lato di foresta amazzonica del parco nazionale. Fuori da questo percorso creato da qualcuno in tempi ati era praticamente impossibile addentrarsi tanto era impermeabile la vegetazione della foresta.
C'erano a tratti delle erelle e scalini di legno che furono costruite non oltre 20 anni prima, nella speranza di creare un percorso turistico per questa meraviglia sconosciuta che però non ebbe mai il successo sperato. Essendoci un umidità altissima era tutto quanto, io compreso, marcio ed alcune delle tavole di legno del percorso si ruppero quando vi ai sopra; sembrava un posto uscito dal giurassico, aveva tutto l'aria di una foresta antica ed io ero il malcapitato stuntman di indiana Giovanni nella situazione e senza nessuno che mi filmasse.
Ero totalmente barcollante ed oramai procedevo per forza d'inerzia lasciando scaricare i i flaccidi. Raggiunsi dopo 1 ora di cammino dentro questa giungla d'alta quota una piattaforma di legno scricchiolante rialzata su di un pendio, era il mirador, un punto di osservazione di cui mi aveva parlato la signora. Scaraventai lo zaino, che mi aveva amichevolmente creato delle vesciche sulle spalle, per terra ed dopo 5 minuti di rianimazione ero già all'opera montando la tenda visto che stava facendo scuro e dovevo sbrigarmi anche perché non vedevo l'ora di sdraiarmi.
Mentre montavo la tenda notai che non si vedeva a più di una ventina di metri, stavo nel bel mezzo delle nuvole e l'umidità era altissima.
Entrai dentro la tenda ed ordinai dal menù del giorno due scatolette di sardine con un emulsione olio-succo di limone ed un pomodoro che avevo incontrato sulla strada quel mattino. Era un cibo insolito ma favoloso in quel momento, mi sistemai come meglio potevo nel sacco a pelo cambiandomi i vestiti e mettendomi i jeans ed un altra maglietta; i vestiti che mi tolsi erano fradici di sudore e umidità.
Mi accorsi che non avevo il maglione ricordando fulmineamente di averlo regalato alla signora giusto il giorno precedente, era buio ormai ed iniziava il freddo dei quasi 3000 di altitudine.
Crollai nel sonno immediatamente che era da poco sera e mi svegliai credo a mezzanotte con una fredda umidità che traava penetrando avidamente la fine tenda, il sacco a pelo estivo, i pochi vestiti, la pelle, i tessuti connettivi di tutti i tipi, fino ad entrare nella profondità delle ossa. Presi tremante l'asciugamano che avevo usato come poncho e lo usai come una coperta arrotolandomici dentro; era bagnato di sudore ed umidità anche quello, ma avrei tentato qualsiasi cosa per ridurre quell'inevitabile sofferenza. Ricordai le parole della señora quando le regalai il maglione, che mi aveva chiesto se fossi stato sicuro che non mi sarebbe servito e lanciai brevi maledizioni verso me stesso.
La notte intera patii un freddo infame e non c'era niente che potessi fare per scaldarmi un poco di più se non fremere. Sentivo spesso grida di animali a me sconosciuti e che non riuscivo a identificare minimamente, ma ero troppo stanco per provare paure o preoccupazioni.
Più che dormire fu un conto alla rovescia perché fe giorno, e quando “luce fu” caddi in un sonno profondissimo.
Mi alzai con degli sforzi assurdi per urinare e compiendo quell'operazione osservavo il burrone dinnanzi a me coperto progressivamente da una nuvola che vi strisciava dentro dal crinale opposto.
Il sole dava notizie della sua esistenza a tratti tra i banchi di nuvole ed ogni sua comparsa, che esponeva tutto il paesaggio sotto una luce diversa, quasi di calda
speranza, veniva rapidamente annullata da un grigiume denso e soffocante.
Cercai di rendermi gradevole quel posto, ma tutto sembrava dirmi che me ne sarei dovuto andare. Non c'era nemmeno legna secca per poter fare un fuoco e cucinare riso e patate che avevo con me, per non parlare della mancanza di acqua visto che il fiume, il rio san rafael, era a 3 giorni per chi conoscesse il cammino e l'unico spazio per potersi muovere era la piattaforma sgangherata perché la vegetazione era impenetrabilmente fitta ed il terreno molto in pendenza. Sebbene sapessi che con molti sforzi avrei trovato una soluzione, mi sentii abbattuto psicologicamente e fisicamente da tutti quei fattori negativi.
Facevo fatica a muovermi, stimavo di aver percorso una trentina di chilometri di cui buona parte in salita, con lo zaino pesante 20 kg, avendo mangiato poco e con le tante ore di sonno perse e ando il freddo.
Mangiai l'ultima scatoletta di sardine e decisi dopo aver messo al timido sole le mie cose che avrei continuato a riposare ancora per un bel pezzo e mi abbandonai distrutto nel mio giaciglio.
Quando mi ripresi un poco, solo dopo alcune ore, smontai lentamente tutta la baracca e rapidamente tutte le mie belle idee di sopravvivenza; smisi di crederci.
Dovetti riiniziare con una salita per uscire da quel bosco antico ed inospitale e fu un impresa titanica per la mia condizione fisica, avanzavo come uno zombie; ma nonostante ciò riuscii ad essere ottimista fermandomi spesso ad ammirare quella vegetazione unica nel suo genere e deviando brevemente dal percorso dove la foresta lo permetteva. Gli alberi chiamati helechos erano di un tipo che non avevo mai visto che lasciava intuire una specie risalente alla preistoria.
La stanchezza non mi lasciava godere appieno di quel luogo, era già primo pomeriggio ed io pensavo quasi esclusivamente ad uscire da quella nuvola umida e malefica, non avrei mai voluto are una notte uguale all'ultima, lunga e intensamente vissuta in ogni suo minuto.
Avevo esplorato non solo un posto totalmente diverso da tutto ciò visto fino ad allora, ma avevo esplorato anche internamente me stesso in qualche maniera, scoprendomi impotente di fronte a madre natura e dovendo ridimensionare molti parametri della mia fallibile “sicurezza di sé” ed opinione personale sulle mie capacità.
Provavo tuttavia dignità nell'aver compiuto quell'impresa il giorno precedente.
Una volta ato sull'altro lato della montagna ed uscito dal bosco fu un sollievo, c'era il sole ed il cielo era blu intenso. Era incredibile come cambiasse tutto quanto nel giro di centinaia di metri; quel bosco aveva un qualcosa di singolare, forse era maledetto. Ma credo che il messaggio era la forza della natura, la sua forza più antica che nonostante tutta la sua apparente immobilità e bellezza può mettere alla dura prova chi la sceglie.
Incontrai un cavallo al suo stato naturale e cercai di avvicinarlo, come mi sarebbe piaciuto poter farmi portare da quella maestosa creatura, saremmo andati ovunque insieme; rifiutò subito il contatto e la mia vicinanza.
Ora la strada era quasi tutta una discesa e mi sentivo anche meglio probabilmente per la quota che ava dai 3000 ai 2000 del villaggio de la Yunga.
Arrivai al pueblo(villaggio appunto) in un paio d'ore, la signora del giorno prima mi vide arrivare verso la sua casa, sorrideva perché già sapeva fin dal principio che non cela avrei potuta fare a rimanere più di una notte. Le raccontai un po' cosa mi era successo e lei mi invitò a rimanere a dormire nella piazza erbosa, ci riflessi sopra pochi secondi pensando che avrei dovuto continuare, ma gambe e piedi chiedevano clemenza. Accettai l'invito e sistemai la tenda vicino ad una casa disabitata.
Mi misi a continuare di leggere un libro sdraiato su questo bel prato, in pace con tutto quanto, il sole mi scaldava evaporando la sensazione di bagnaticcio che mi era rimasta molte ore addosso. Fu un momento di rilassamento estremo, era un massaggio terapeutico che stavo ricevendo.
Iniziai ad avere una fame assurda, che in realtà avevo ignorato tutto il giorno precedente e la mattina, preso come ero dal camminare e dagli stress vari.
Avevo ancora quasi tutte le provviste immacolate con me, tra cui riso e patate oltre a carote e barbabietole.
Tornati alla casa della custode del parco, chiamandola da fuori ad alta voce.
Vacche e galline gironzolavano libere e qualche cane mi fissava scodinzolante. La custode mi invitò ad entrare con la sua voce bassa dall'interno; in casa aveva una confusione pazzesca e viveva sola, mi fece are nella stanza sul retro che era la cucina. Aveva un solo fornello con una bombola del gas collegata. Si stava cucinando del riso con lo zucchero e la cannella insieme e l'odore era buono. Le chiesi se potevo approfittare per cucinarmi qualcosa, avevo anche il pentolino con me.
Da buona donna con un innato istinto materno, senza fare parola iniziò tagliuzzando le carote, la cipolla ed a cucinare per l'ospite d'onore.
Io la osservavo mentre si muoveva, era bassina ed il suo volto non era indio, aveva più di 70 anni e standole a distanza ravvicinata mi sembrava di sentire un lieve odore di urina, ma probabilmente neanche io profumavo...
La sua pelle era molto rugosa e cadente e sembrava affaticata, mi dispiacque un poco per lei.
Chiacchierammo molto, mi stupivo di me stesso che senza accorgermene stavo migliorando il mio spagnolo, pareva che quelle ore ate a stretto contatto con la natura avessero influenzato positivamente la mia disinvoltura nell'esprimermi. Le chiesi se non le dispiaceva di non vivere in città e mi spiegò che aveva provato ad andarsene in città ma non le piaceva, e conoscendo Santa Cruz, come la capivo.
Cucinò con molta calma e non volle ascoltarmi quando le chiedevo di calare più riso e una patata in più, poiché ero sicuro che avrei potuto mangiare per 4 persone, dal suo giustissimo punto di vista aveva già fatto tanta roba, e mi diceva che avrei mangiato una metà il giorno seguente perché era troppo; io acconsentivo con la salivazione di un cane.
A quanta distanza mi trovavo dal luogo in cui ero nato? In mezzo alle montagne, seduto in una cucina di una umilissima casa con una signora che non immaginava come fosse la mia vita, cosa avessi fatto nel ato; tutto ciò valeva anche per me verso di lei ed era sempre in situazioni come queste che percepivo quante persone buone ci sono in questo mondo. Io e la donna eravamo curiosi l'un dell'altro e non vi era nessun tipo di critica da parte di entrambi in cosa usassimo il tempo che ci era stato concesso di vivere. Era solo un parlare
ed ascoltare, un volersi trasmettere qualcosa e voler ricevere qualche notizia su cosa avano in onda sulle frequenze lontane.
La signora mi raccontò alcune storie del giaguaro, di cui una con protagonista una turista tedesca che si era persa nella giungla ma si era salvata dopo alcuni giorni a quanto pare inseguita dal felino e di persone che invece non erano più tornate indietro...
Io le raccontai di alcuni miei viaggi e lei ascoltava attentamente viaggiando con l'immaginazione nei suoi pensieri; infine mi fece vedere alcune sue foto personali.
Quanto è bello conoscere certe nuove persone, donare qualcosa e riceverne qualcosa d'altro senza mai averlo chiesto, ogni volta era come conoscere qualcosa di nuovo anche in se stessi.
Quasi come forma di ringraziamento le regalai una bottiglia di olio extravergine di oliva dicendole che era prezioso e che le avrebbe fatto benissimo ed una grossa barbabietola. Dopo un attenta squadratura dei miei regali fu molto felice perché erano cose che lei non si poteva procurare facilmente.
L'acqua del pentolino si asciugò e volli ritirarmi alla mia tenda non vedendo l'ora di mangiare, avevo l'alito pesante dalla fame. Salutai la signora dicendole che ci saremmo risalutati al mattino e lei già mi domandava perché non fossi rimasto qualche tempo; che tenerezza mi trasmesse, da quando il marito era morto se ne viveva sola in una piccola valle tra le montagne.
Mi lanciai nella tenda frenetico ed iniziai a divorare bruciandomi quasi il palato,
dovetti sputare il boccone, 3 cani mi avevano seguito sentendo odore di cibo e si erano piazzati all'ingresso della tenda; aprì la cerniera e guardai quello che mi stava davanti. Mi sentii un cane anch'io a mangiare in quella maniera; richiusi la cerniera e cercai di essere il più lento possibile per assimilare al meglio ogni piccola molecola, fare durare di più il cibo e sentirmi sazio prima. Dopo pochi ridicoli minuti di mosse calcolate mandai tutto a quel paese mi diedi a fare il cane pazzamente gioioso, inveendo con i colleghi la fuori che da me si aspettavano qualcosa, e divorando senza manco masticare a momenti; ripresi il controllo solo verso la fine del pentolino lasciando giusto un pugnetto sul fondo per il giorno dopo.
Dormii una notte che sembrò di un comfort unico rispetto alla precedente e l'unica cosa ad interrompere il mio sonno spaventandomi fu un cavallo che annusava da fuori la tenda in corrispondenza di dove tenevo la testa; appena capii cosa era mollai vendicativo un pugno contro la tela tesa dal muso del poveretto che scattò e corse via. Diedi una risatina ebete pentendomi per quella violenza gratuita.
Mi svegliai con la pioggia che filtrava nella tenda gocciolandomi in faccia, era la rischiarata del giorno in arrivo; aspettai un poco sdraiato guardando il color grigio all'interno della tenda e sentendo l'offuscato e costante rumore dell'acqua che vi cadeva sopra.
Cominciai a prepararmi lo zaino che tenevo vicino a me, e appena smise un po' di piovere uscii fuori e piegai la tenda alla buona rimettendola nella sua custodia. Mi misi ancora l'asciugamano a mo' di poncho ed estrassi una mantellina para acqua verde che intelligentemente avevo pensato di comprare per l'occasione.
Riiniziò la pioggia forte ed io aspettai sotto una parte di tettoia della casa abbandonata di fronte alla quale avevo accampato. Guardavo la casa della signora sperando di poterla risalutare e nello stesso tempo sapendo che se mi avesse visto mi avrebbe invitato a rimanere là vista la pioggia. E vi sarei rimasto
sicuramente, ma senza aver un particolare motivo non avrei voluto.
Zaino in spalla.
Partii lo stesso sotto la pioggia pensando che un po' di acqua non mi avrebbe fatto male ed incominciai la discesa rendendomi conto che frenare con i piedi era abbastanza faticoso, in più spesso scivolavo per il fango che si era formato e l'acqua che scorreva sulla strada.
Smise dopo un ora, quando raggiunsi il punto con la pendenza più ripida ed i tornanti ripetuti. Mi rifermai al ruscello dove avevo incontrato la mucca due giorni prima, sostai giusto pochi minuti a bere l'acqua special finalmente; ero abbastanza disidratato con la gola e la bocca totalmente secca.
Tornò la pioggia ed io ripresi a camminare con la bottiglia di nuovo piena di liquido vitale; le gambe erano doloranti.
Mi sentivo come una specie di esploratore maledetto che aveva perso il suo cammino ma ero deciso a tornare indietro in giornata a tutti i costi. Riuscii a fare una pulizia mentale ed a concentrarmi esclusivamente sul respiro nasale lento e costante, o dopo o senza altri pensieri inquinanti, tenevo lo zaino leggermente sollevato con le braccia, come fosse stato una vaso che caricavo sulla schiena a causa dello scorticamento sulle spalle a opera delle bretelle. Incominciò a piovere fortissimo e nonostante il para pioggia diventai zuppo e sudato e sapendo a grandi linee il percorso che mi aspettava da affrontare sembrava ci volesse ancora più tempo rispetto all'andata.
Ma il tempo è sorprendentemente relativo ed impostando e mantenendo i propri
pensieri su certe lunghezze d'onda o meglio ancora non pensando proprio, ma portando l'attenzione sui dati in ingresso dai cinque sensi si riesce ad cambiarne la propria concezione a proposito. Il voler arrivare alla meta influenza la percezione del tempo, torna così estremamente utile rimanere concentrati il più possibile su cosa sta succedendo non considerando quindi la meta d'arrivo od il movimento delle lancette di un orologio.
Sapevo di essere già stanco ancor prima di iniziare ma avevo trovato la forza di volontà giusta per spingere alla testa di quella competizione interiore la mia determinazione, distaccando tutti gli altri aspetti che non mi fossero utili. Non mi fermai mai, sapendo che se lo avessi fatto non avrei avuto più la stessa spinta a riprendere. Avanzavo inesorabilmente e quando vedevo una salita gli sorridevo e la affrontavo deciso, facendo il respiro più profondo e intenso per mantenere il o spedito e non rallentare di fronte alla difficoltà.
Andavo alla grande, stavo sfidando me stesso, e spingevo e spingevo e spingevo.
Arrivai in relativamente poco tempo, rispetto all'andata, al culmine di una salita e la pioggia si attenuò, quasi a darmi spazio; guardai la stessa valle di due giorni prima ma ora sembrava che tutto fosse scrutato da una prospettiva diversa, nonostante il posto fosse esattamente lo stesso sembrava differente perché era cambiato il mio modo di relazionarmi con esso.
Camminai lateralmente fissando la valle finché dopo pochi i mi girai totalmente fermandomi, dirimpetto ad essa e cominciai a gridare agitandomi e scuotendomi come un esaltato:
“I'm the king of the world,
this is my world!
Anyone can't stop meeee!”
Mi immaginai di venire colpito da un malore o magari da un fulmine per quello che sembrava uno sfidare le divinità. Mi sentii bene, aver fatto così era stato come affermare una incontestabile verità a me stesso, come fare una scoperta eclatante e indimenticabile. Aver avuto un ulteriore conferma di come ci si può convincere di qualsiasi cosa in cui si ha fede.
Arrivai ancor più convinto fino all'ultimo crinale e andolo scorsi Samaipata, là in basso nella foschia della piovosità che era tornata a crescere. Mi sedetti ad ammirare quella isola di civilizzazione nel mezzo di montagne e fitte foreste. Stavo per festeggiare ma mi promisi di aspettare che vi fossi arrivato veramente.
Misi lo zaino al contrario facendomelo sballottare sulla pancia ed iniziai cautamente l'ultima lunga discesa. Si scivolava parecchio sul fango e surfai spesso per metri senza cadere miracolosamente.
Entrai nella cittadina e mi riparai finalmente sotto una tettoia di una abitazione lungo la strada principale, la vieja carretera por Cochabamba(vecchia strada per Cochabamba).
Non so per quale motivo ma ebbi un flash, un immagine di una ragazza che arrivasse ed entrasse nella vicina porta della casa contro la quale appoggiai la schiena qualche minuto per riposarmi.
Mi misi a fare delle flessioni ancora esaltato da quell'energia che avevo sentito poco prima sul crinale gridando alle forze.
Poi feci stretching alle mie povere gambe, mi sentivo stanco e dolorante ma fresco mentalmente. Mangiai quel poco che rimaneva nel pentolino pentendomi di non aver insistito alla signora di cucinare di più!
Spuntarono una quantità di ragazzini che uscivano da scuola e tornavano a casa proteggendosi dalla fitta pioggia con i loro giubbetti sopra la testa, piegati in due e correndo, poi arono alcune macchine station wagon sgangherate con dentro qualcosa come una dozzina di alunni l'una. Andavano con il portabagagli aperto che consentiva agli ultimi che vi erano saliti di viaggiare seduti con le gambe penzoloni sfiorando l'asfalto con i piedi.
Arrivò dalla sinistra una ragazza mi guardò in faccia curiosa ed entrò nella porta dell'abitazione di fronte alla quale stavo sostando.
Mi stupii di quella cosa, rimanendomi il dubbio se fossi stato io a creare quella realtà, oppure se ebbi una previsione sul futuro prossimo; pensi qualcuno e lo incontri poco dopo, molto strano.
Sempre ebbi la credenza che quando succedevano cose del genere era perché stavo seguendo la strada più giusta per me e quegli avvenimenti ne erano dei segni di conferma.
Mi rimisi in sesto e decisi di farmi un giro per Samaipata.
Era una cittadella molto carina ed anche abbastanza turistica con degli ostelli e addirittura qualche ristorante-pizzeria Italiano. Ero interessato nel prelevare dei soldi e dormire una notte comodamente in un bel letto di ostello. L'unico posto dove era possibile prelevare era chiuso e aspettai nella piazzetta centrale mezzora prima che aprisse.
Una volta dentro al negozio fui guardato da rapide occhiate dubbiose e preoccupate, il poliziotto che stava seduto si alzò in piedi, probabilmente dovevo avere un aspetto che non ispirava molta fiducia. Tentai di prelevare da una carta e non funzionò allora sperai che un'altra carta Australiana che avevo ma senza soldi dentro, anzi già mandata in negativo, potesse in qualche modo fare credito. Niente, non funzionò e le due signorine al bancone continuavano un po' a guardarmi straniate e per un secondo mi preoccupai sulla mia sorte, poi le feci un sorriso ed uscii.
Male che andava sarei tornato nel bosco, solo dopo essermi procurato della legna secca per fare il fuoco ed acqua però, pensai di trovare un tassista disposto ad accompagnarmi fino a Santa Cruz con la promessa a dita incrociate che lo avrei pagato là una volta riusciti a prelevare dei soldi.
Con l'aspetto che avevo ero certo nessuno mi avrebbe creduto, così presi la via che tornava verso la carretera in direzione Santa Cruz, senza sapere bene il perché ma in maniera istintiva.
Percorsi giusto qualche centinaio di metri quando un camion mi suonò, pensando di essere leggermente in mezzo alla strada mi spostai di lato, quello si fermò più avanti e quando lo raggiunsi mi chiese se andavo a Santa Cruz, risposi di si e gli spiegai che non avevo un soldo, si fece pensieroso ma mi fece salire lo stesso.
Era un signor camionista, solitamente era sempre gente simpatica chi dava i
aggi e lui sembrava confermare la regola; forse già il fatto di fermarsi per far salire qualcuno che non si conosce implica un certo grado di apertura mentale, fiducia in se stessi e nel prossimo.
Ci fermammo dopo meno di un chilometro si comprò un sacchetto di foglie e mi offrì la masticata, però aveva anche una bustina con della polvere bianca che pensai inizialmente fosse cocaina e glielo chiesi, scoppiò a ridere spiegandomi che era bicarbonato, ci tenne a mostrarmi tutto il procedimento e l'arte del “coquear”, orgoglioso di quell'arte boliviana.
Cominciammo una conversazione che nel giro di poco si trasformò in frasi cannonate fuori dall'entusiasmo per quasi tutte le 3 ore fino a Santa Cruz ed io che ero salito sul camion ancora bagnato credo che ci misi talmente tanta energia nel parlare, che mi ritrovai perfettamente secco nel giro di poco tempo, con il corpo che scaldava.
Mi raccontò della sua famiglia, era un tipo tosto, tarchiato lavoratore dei campi nel ato ed ora proprietario di un terreno che faceva lavorare agli altri per lo più, trasportandone poi i frutti a Santa Cruz.
Ricordo l'espressione del suo volto quando gli raccontai che in Germania non esistono limiti di velocità in alcune strade, mentre noi stavamo percorrendo lenti ed a stento le salite della tortuosa veija carretera.
I paesaggi erano stupendi, ammo el Fuerte dove c'erano delle rovine Inca, ed incontrammo delle montagne con grossi speroni rocciosi che sembravano meteoriti caduti dal cielo e conficcatasi nella terra per come si stagliavano, imponenti proiettili cosmici.
Eravamo diventati amici di breve termine, parlavamo come i pazzi e ci andammo a genio fin da subito; in questo tipo di incontri che si sa che dureranno poco, si cerca di prendere tutto il meglio che si può dalla situazione.
Arrivammo al un punto in cui la strada costeggia il rio Piray per chilometri, per arrivare poi fino alla periferia della grossa città, Santa Cruz; scendevamo di quota lentamente e ci ritrovammo in piano quasi all'improvviso. Il vecchio camion ce l'aveva fatta anche per quel viaggio.
Raggiungemmo a Santa cruz e lui mi lasciò al sesto anillo dove doveva scaricare la sua merce. Lo salutai calorosamente, avevamo masticato quasi tutte le foglie del sacchetto ed avevo dal lato della guancia ancora alcune foglie ammassate, la bocca come anestetizzata ed una presenza generale felice del ritorno alla comodità urbana.
Mi incamminai in direzione del residencial, stava già facendo scuro.
Camminavo e mi accorsi che la fame, i dolori che mi avevano tormentato principalmente alle gambe ma anche in buona parte del corpo erano totalmente spariti e non avevo un filo di stanchezza addosso.
Iniziai a camminare più svelto; lieve il o sempre più svelto, più svelto - più svelto- piùsveltoooo!!! Sembravo una locomotiva a vapore in partenza, iniziai a correre in maniera sciolta, professionale e concentrata, come se non avessi avuto nemmeno lo zaino addosso e le stanchezze accumulate da giorni di fatiche.
Ripresi a camminare alcune volte per dei semafori rossi e per attraversare la strada, arrivai all'ultimo pezzo correndo lungo la grossa avenida Grigotà e
quando vidi la statua del Cachique Chiriguano dalla lontananza iniziai a correre fortissimo; avevo troppa energia in corpo che cercavo di esprimerla in quella maniera. Gli ai di fianco rallentando fino a fermarmi per ammirare l'idea di forza che emanava, pensai che in qualche vita precedente ero stato lui. Quel forte indio, cacciatore teso alla conquista della sua vita.
Camminai infine, entrando nella Ramada e mi comprai i miei tanto amati 2 chili d'uva dolcissima di Tarija. Mi ripresentai al residencial, salutai il personale, che mi chiese che cavolo avevo combinato visto che ero sporco di fango e visibilmente conciato; mi feci dare una stanza ed una volta dentro buttai lo zaino a terra ed iniziai a fare flessioni a ripetizione come un forsennato ed aggrappato sullo stipite delle porte a tirarmi su, dovetti impormi di fermarmi ma non ci riuscivo, mi sentivo una forza spropositata addosso e pareva che non mi stancassi mai. Deviai infine l'attenzione di tutta quella inaspettata energia sul mangiare e finii sforzandomi i 2 chili d'uva visto che fame non ne avevo, dopo di che mi sdraiai sul letto con il cuore impazzito e appena si calmò leggermente, dopo chissà quanto, crollai addormentandomi.
SANTA CRUZ.
Mi svegliai che avevo dormito qualcosa come 15 ore, ma non avevo particolari dolori come mi sarei potuto aspettare e mi sentivo freschissimo in realtà. Come possono poche molecole di un qualche principio attivo, cambiare drasticamente equilibri e meccanismi nel corpo producendo effetti infinitamente più grandi, o come sono relativi dunque i limiti del corpo umano.
Andai in bagno, un nuovo giorno era iniziato, e mi sembrava che non me ne fossi mai andato via quei giorni; quel posto sarebbe diventato la mia casa base inevitabilmente, scusavo me stesso dicendomi che vi ero tornato per prendere il borsone e basta, e che sarei ripartito rapido all'ignota avventura, ma sapevo in realtà che tutto quel posto aveva preso spazio sufficiente nel mio cuore e nella
mia abitudine per poter generare una caduta gravitazionale verso lo stesso di tipo affettivo.
Era la sicurezza data dall'abitudine, sebbene possa essere una brutta o nociva, la si conosce e la si preferisce quasi sempre a qualcosa di sconosciuto.
E così era per me con quella città, con quel quartiere di mercato sporco e violento ma sincero nei suoi istinti più bassi e soprattutto pieno di stimoli; pieno di pazzi, di musicisti, di artisti, di ladruncoli, di gente disposta a tutto e di chi doveva sopravvivere... Tutti. Tutti vi si adattavano probabilmente senza chiedersi se esistesse di meglio da poter almeno sfiorare brevemente nella propria esistenza che non fosse il semplice sopravvivere in un ambiente malsano.
Ero ormai adattato perfettamente alla situazione, anzi, al caso Ramada, prendendo di tutto ciò che percepivano i sensi solo i lati positivi, scherzando sui negativi.
Era un posto secondo me estremamente sincero perché tutto il marcio dentro della razza umana era espresso in bella vista, e quel modo di guastare la terra con orrende costruzioni, le macchine inquinanti, cibi inadatti, bambini sniffando colla, la corruzione evidente, lo sporco e l'immondizia infestante sembrava riflettersi direttamente nell'anima delle persone che vi vivevano e l'anima delle persone rifletteva verso l'ambiente le attitudini, obbligatoriamente deviate dall'influenza esterna, nuovamente; creando così un circolo infinito.
Questa sporcizia di pensiero facilmente individuabile già in una breve conversazione con buona parte delle persone in città era del tutto comprensibile quindi, e solo poteva lasciare felici quando si scoprivano le insperate doti e pregi che alcuni individui coltivavano nel loro piccolo, nascoste dentro di sé, alcune qualità fondamentali in noi esseri umani. Questi rari casi quindi riuscendo a
tenersi a galla nel mare della sopravvivenza con i loro ideali; prendendo ogni tanto una boccata d'aria guardando il cielo, mentre tutti gli altri restavano immersi senza mai tornare a galla, lottando per il poco e marcio nutrimento là in fondo al mare, morendo prematuramente affogati dalla loro stessa foga per prendere il più possibile.
Il posto bugiardo erano secondo me quei paesi occidentali dove tutto sembra ricco, pulito, bello e sicuro, ma tutto questo è solo un'apparenza, una facciata, perché dietro la faccia pacciuta e ben ingrassata dei desideri materiali abbastanza soddisfatti, ma fini a se stessi, si perpetua un vuoto esistenziale incolmabile.
E chi sente minimamente quel vuoto di significato della propria esistenza vuole restare nell'illusione che si starà meglio avendo quella cosa in più, spesso vista come indispensabile, o raggiungendo un qualche tipo di traguardo, piuttosto che cercare di favorire lo sviluppo di qualcosa di fondamentale al proprio interno.
Si è raggiunto quasi il massimo dell'utilità dei mezzi tecnologici per far si che si possa avere un esistenza tranquilla, piena di tempo libero, ed invece è tutto fatto in maniera tale che si debba are la vita lavorando, per comprare tra l'altro nuovi giocattoli inutili, alimentando i propri vizi, sperando di colmare...
Ma alla fine della storia siamo tutti “bravissime persone”, spinti dalle circostanze ad adattarci, facendo sempre ciò che crediamo sia meglio per noi stessi, raramente curandoci delle conseguenze verso gli altri dei nostri atti. Cosa potrebbe succedere se ognuno desse agli altri ciò di cui hanno bisogno per un esistenza normale? Se ognuno iniziasse a dare semplicemente notando la necessità che ha l'altra persona, magari anche senza che essa chieda nulla?
Il che può essere giusto un sorriso a volte. Sarebbe un circolo di ribilanciamento in scala globale basato su di una forma di baratto in cui si dà nei limiti del
possibile a chi chiede, sapendo, ma non pretendendo comunque, che si potrà ricevere da qualcun altro quando se ne avrà bisogno. Ciò sarebbe improntato sul benessere collettivo e non esclusivo del singolo, essendo noi tutti insieme particelle incoscienti facenti parte di un organismo più grande, il pianeta sul quale siamo messi; la collaborazione di tutti verso tutti dovrebbe creare una situazione di vero benessere generale e tempo libero utile per dedicarsi a temi realmente importanti.
Il giorno dopo tornò Emanuele e fu un bel momento, avevamo voglia entrambi di festeggiare la nostra rimpatriata, di essere ingordi di vita nel senso più fisico e materiale possibile.
Ed io capii in quei giorni di come fossi su di un altalena invisibile, incapacitato a scenderne.
La vita è un altalena,
più forte ti slanci in avanti tentando progressi;
più forte tornerai indietro,
se cerchi di saltare
cadi in basso e poi devi rialzarti.
Caddi in basso, come quella volta a 12 anni che saltavamo dalle altalene per vedere chi arrivava più lontano, era fine novembre, io saltai e rimase impigliato un laccio del giubbotto nell'altalena e la mia convinzione di arrivare lontano si infranse invece nell'acqua sporca e gelida della pozzanghera sottostante in cui atterrai di faccia piattamente; tutti quanti risero a crepapelle. Tornai a casa e sotto la lunga doccia calda ripensai alla scena e ci feci una bella risata sopra anche io. Avrei voluto raggiungere il punto più lontano permesso dall'altalena, staccarmi e continuare l'avanzata volando.
Emanuele era molto diverso da me, forse era più uno che viveva alla giornata contrariamente a quanto spesso mi accadeva di trovarmi coinvolto in un fantasticare sconclusionato sui miei possibili futuri di gloria e successo, fantasticare che non mi permetteva di vivere il presente, chissà come mai da qualche tempo mi trovavo a fare amicizia sempre con questo tipo di persone.
Alla fine dei conti vivevo anche io alla giornata, ma conservavo sempre grandi speranze, e spesso illusioni, verso il futuro. Forse questo tipo di persone che capitavano sul mio cammino erano delle specie di avvisaglie, segnali atti a farmi capire dove mi avrebbero portato, col ar del tempo, certe strade che inconsciamente per certi tratti intrapresi.
Lavaggi del cervello vociavano nella mia testa a volte, frasi ascoltate infinite volte sin dall'infanzia inneggianti a fare come fanno giustamente tutti quanti, a ricercare le sicurezze nella vita, ad aggrapparsi sempre al primo stretto e scomodo appiglio e non lasciarlo finché non si avrebbe avuto la certezza che vi fosse un appiglio più comodo poco più sopra e così via, continuando l'arrampicata fino a trovare una comoda rientranza dove non far più nulla od il minimo indispensabile sino alla fine dei propri giorni. Mentre dopo brevi ma intense scalate sentivo di essere riuscito ad arrivare non chissà quanto in alto, ma abbastanza da capire che su quel versante non si arrivava da nessuna parte se non che in trappole da cui era difficile uscirne, certo le rientranze più in alto si scalava più erano grandi e comode e piene di intrattenimenti, ma la sensazione interiore di prigionia era sempre la stessa. Ma ero sicuro, diamine
non poteva essere tutto li, il senso solo quello di una cosa fine a se stessa. Capito questo mi ero in qualche maniera lanciato giù dalla montagna, spostandomi alla base avevo cercato un versante forse con un percorso più lungo ed impervio da affrontare, ma variopinto e ricco di segreti in ogni sua sporgenza, da contemplare e comprendere, di prove da affrontare per migliorare me stesso, che mi avrebbero dato la motivazione di poter arrivare fin in cima a godermi il paesaggio, guardare in giù il percorso fatto ed essere pronto a spiccare il volo.
Magari prima di lasciare la vetta urlando con un megafono dalla cima in aiuto alle persone sul versante sbagliato, e senza ombra di dubbio avendo lasciato traccie del percorso da me seguito e consigli a chi dietro, come a sua volta aveva fatto chi mi aveva preceduto.
Fattostà che ora io ed Emanuele riuniti iniziammo a bere trovandone forse tacitamente un punto di conciliazione. Compravamo bottiglie di vino e bevevamo nelle mangiatoie popolari o nei vari pollai cinesi.
Scodelle prese da un pentolone comune oppure pollo stagionato ad ormoni, patatine fritte e alcool di bassa qualità.
Il popolo boliviano ci guardava curioso e si davano gomitate sparlando basso di noi, classificandoci quasi sicuramente come borrachos (ubriachi), io non vi facevo troppo caso, anzi avevano ragione. Emanuele cercava di salvare un qualche residuo di quella idea sottile di avere una certa immagine dignitosa o quantomeno di giustificare il nostro comportamento, dicendomi che loro, i boliviani, non capivano che bevevamo il vino solo per accompagnare il pasto, in realtà era una scusa per finirsi, lui tra l'altro ancora prima che l'ordinazione arrivasse, una bottiglia da un litro e mezzo in due.
Io sapevo che sarei ripartito a breve per un giro più lungo e la mia scusa per abboffarmi e bere era di accumulare energie per quando ci sarebbe stato bisogno, in stile scorte di grasso per l'inverno dell'animale che va in letargo; la realtà era invece che non ce la facevo a tenere “l'accordatura” presa durante i giorni a so lontano dalla città e tornavo automaticamente a normalizzarmi verso la stonata melodia che era di abitudine. Tutto questo andò avanti per 5 giorni e l'alcool sembrava servire a vedere tutto quel posto sotto un ottica diversa.
L'altalena stava oscillando verso l'indietro e la differenza era che mentre quando si va avanti si può vedere più o meno distintamente dove si sta andando, l'obbiettivo a cui si tende allungando la mano stirando le dita fino alla punta delle unghia (non tagliate di quei tempi), quando si va indietro non si vede nulla se non ciò che si aveva di fronte allontanarsi progressivamente; potendo solo sperare di non cascare proprio là in fondo ed avere speranza di riuscire ad accumulare l'energia esatta con una bella mossa per ritornare a slanciarsi in avanti e magari anche più forte e veloce di prima.
Emanuele da quando ci eravamo conosciuti andava tutte le mattine al consolato italiano a fare dei lavoretti, così diceva lui, ed il console gli ava 70 bolivianos al giorno, senza i quali non avrebbe avuto modo di sopravvivere. I connazionali a cui si era rivolto erano stati in dovere di aiutarlo vista la sua situazione.
Non mi specificò mai che tipo di lavoretti fe all'ambasciata e nella mia testa immaginai che si presentava semplicemente a riscuotere i soldi oppure effettuava lavori di pulizie e giardinaggio, ma forse non voleva parlarne per orgoglio, ed io non gli chiesi mai altro.
Stava aspettando anche di ricevere una bella cifra sempre dal consolato con cui avrebbe dovuto avviarsi un attività in società con la moglie, vendendo lui uova a Los Negros, e polli lei.
Dei 70 bolivianos ad andarsene in cibo erano credo la metà rispetto ad alcool e sigarette.
Gli raccontai, per quanto riuscivo a fargli capire, del mio breve viaggio appena terminato e gli descrissi della corsa che avevo fatto dopo giorni di stanchezza avendo masticato le foglie di coca. Lui era piuttosto contrario all'idea del “coquear” e cercai di controbattere le sue opinioni al riguardo esaltandone gli aspetti positivi, ma nel bel mezzo di una frase in cui mi interruppe mi resi conto di che dipendenza assurda gli avrebbe potuto dare il masticare visto il suo psichismo. Mi pentii all'istante di avergliene parlato e di esser stato insistente ma per sua fortuna non aveva mai provato.
“Io non le faccio queste cose”. Così diceva.
Spesso si critica le altre persone per le loro scelte che in buona parte sono solo delle reazioni a qualcosa e non potevano fare diversamente; poi stranamente sembra che si capiti nella stessa situazione da loro vissuta, facendo magari anche di peggio.
Chiacchierare con Emanuele era stimolante al massimo e cercavo sempre di capire come funzionassero gli ingranaggi all'interno della sua testa quando in realtà capivo a mala pena come funzionano nella mia. Parlavamo di cose casuali a voce alta in questi postacci mentre ci cibavamo, oppure seduti nelle strade ad osservare le altre persone e fare amicizia con qualche indigeno. A volte nei suoi discorsi emananti sapori di tabacco e alcool tendeva a farmi da padre e cercai anche se a volte controvoglia di ascoltarlo ed estrapolare tutto ciò che vi poteva essere di utile nelle sue parole; sapevo che era sempre in buona fede sebbene mi sembrassero assurdi certi suoi concetti.
Faceva il marpione indistintamente con le ragazzine di 15 anni nel posto in cui mangiava tutti giorni a pranzo il suo guiso de fideos, salvo rare occasioni. Mi spiegava, in vena patriottica, di come noi fossimo attraenti e ben visti agli occhi dei boliviani e non perdeva un occasione per fare vanto delle nostre qualità di fronte ai locali; era, si potrebbe dire, lo stereotipo dell'italiano all'estero. Tentai di seguire i suoi consigli su come abbordare le cholitas, ma, non credendoci neanche io in quello che facevo, ricevetti solamente brutte occhiate e maleparole e vi rinunciai.
Credevo e ne ebbi conferma chiedendo, che in generale ci trovassero strani più che altro, e così era. Julia, la recepcionista con la quale avevo fatto amicizia, non sapeva spiegarmi il perché, ma disse che già come camminavamo eravamo strani e mi domandai se forse avevo iniziato anche io a zoppicare come a Emanuele.
Julia era molto carina per la sua età ed in un certo senso non riuscivo a inquadrarla sessualmente nel mio cervello perché mi venivano de sensi di colpa come se fossi stato un pedofilo. Oltre tutto era una ragazza d'oro con una forza di volontà non indifferente, era uscita di casa a 12 anni da sola venendo in città, la sua camminata era bene impostata. Mi sarebbe piaciuto molto darle amore, farla sentire donna; ed avevo la certezza che crescendo avrebbe fatto innamorare parecchie persone.
Le volevo talmente bene che non mi sarei mai permesso di usarla tristemente per alleggerirmi i testicoli e mi limitai esclusivamente a manifestarle il mio affetto; era una sveglia ragazzina purtroppo per lei però già alla ricerca di figli. Spesso arrivai a darle fastidio volendole spiegare che, secondo il mio punto di vista, era troppo giovane per questo e che doveva tutelarsi perché i figli poi le sarebbero rimasti mentre quasi sicuramente l'uomo se ne sarebbe scappato, e che avrebbe messo al mondo degli individui solo per egoismo.
Se fino a poco prima capitava che Julia mi fe gli occhi dolci, dopo questi discorsoni mi escluse dalla lista di un probabile padre dei suoi figli. Come aveva
ragione Vincenzo nel dire: “Loro sono naturali”. La natura chiama alla riproduzione.
Mi ripresentai la terza mattina dal ritorno a Santa Cruz al posto in cui ava Marisol per andare al lavoro, speranzoso di poterle parlare. Lei mi vide da lontano e ò volutamente a qualche metro senza guardarmi, dopo un poco di esitazione mi diressi dove lei lavorava salendo al primo piano di una palazzina là di fronte, che era a sua volta piena di negozietti ma in buona parte chiusi. Da quella postazione la riuscivo a vedere e mi notò subito. Cosa stavo facendo e cosa volevo ottenere non lo sapevo nemmeno io e mi sentivo un idiota, ebbi una visione di lei che saliva dove stavo io.
E così accadde, mi raggiunse decisa e me la trovai affianco, dopo 10 minuti che stavo la sopra guardando le bancarelle da quella nuova prospettiva. Era nervosissima e mi chiedeva perché stessi la a guardarla, io le risposi di calmarsi che le volevo parlare; puntavo a chiederle di poter essere semplicemente stare in amicizia come quando ci conoscemmo, visto che oramai mi evitava totalmente. Le dissi che me ne stavo andando da Santa Cruz, cercando un qualche appiglio per una conversazione più tranquilla, ma non le importava. Mi giro le spalle e fece per andarsene ed io le andai dietro di qualche o dicendole che pensavo fosse più coraggiosa; si girò di scatto scatenando la sua furia distruttrice, iniziò a malmenarmi come meglio poteva sorprendendomi con quella sua reazione inaspettata. Evidentemente dovevo averle toccato qualche nervo scoperto.
Dopo qualche botta isterica che mi diede per difendermi scattai veloce e sicuro e la avvolsi fermamente, braccia comprese, e la strinsi.
Se fin dal momento in cui avevo deciso di andarla a trovare ero entrato in uno stato di agitazione, da quando mi aveva alzato le mani contro mi ero come “risvegliato” qualcosa si era mosso dentro di me ed avevo ritrovato un equilibrio interno.
Le dissi calmo fissandola negli occhi che non mi piaceva fare così e di smetterla per favore ed ora fu lei ad essere sorpresa dalla mia reazione.
In quella intimità obbligata, il suo sguardo era di odio verso di me, mi avrebbe potuto uccidere soltanto con quel modo di guardarmi e nonostante ero fisicamente più forte mi sentivo debole dinnanzi la sua fiera dignità. Ci fissavamo negli occhi da quella distanza ravvicinata ed io cercavo di captare la sua essenza e nello stesso tempo inevitabilmente le trasmettevo qualcosa di me stesso.
Fu un momento di vuoto puro, senza un solo pensiero, le guardai le labbra contratte dalla rabbia, ma nonostante ciò ne fui attratto sentendo di volerla baciare, la riguardai negli occhi percependo qualcosa ed il mio abbraccio forzato nel frattempo non era più stretto.
La sua espressione era sempre la stessa ma vi era un retrogusto che si stava insinuando, maturando nel suo sguardo, mi stava osservando dentro.
Una forza ci stava attirando lentamente uno verso l'altra, come il magnetismo di due calamite di poli opposti che vengono avvicinate ma tenute frenate sentendone chiaramente la voglia di unirsi.
Arrivò improvvisamente una sua vicina d bancarella che salendo le scale e vedendo la scena gridò il suo nome. Finì quello strano momento, Marisol si sciolse facilmente da quell'abbraccio inizialmente forzato ma ormai molle ed io rimasi fermo ed impotente, osservandola andarsene.
Entrai poi in crisi tutto il resto di quello strano giorno, facendo come sempre degli sforzi con me stesso per tentare di comprendere ciò che era successo, il perché della mia sofferenza e cercare di cavare qualcosa di buono da quell'evento per me mai successo prima.
Mi dispiacque molto di come finivano delle situazioni che potrebbero essere diverse, diedi la colpa del mio sogno infranto a come le madri crescono le proprie figlie dicendole che l'uomo vuole una sola cosa da loro, cosa che in generale è vera e quindi di come crescano molte ragazze influenzate da questo pensiero, non pensando che magari potrebbe esserci qualcuno a cui interessa non prendere ma dare, non rubare ma donare. Riflessi sul come molte donne si dedichino esclusivamente per un solo uomo che magari non le merita minimamente. E quanto piacere avrei voluto darle e picchiai i pugni contro muri e porte dei bagni dalla disperazione.
Ma solo da un analisi postuma riuscii a comprendere che in realtà fosse stato come pensavo, ovvero che mi interessava darle anche il più piccolo dei piaceri, la avrei lasciata stare nelle sue scelte.
Ero un egoista possessivo alla fin dei conti.
Bisognerebbe spiegare cos'è l'amore e darne soprattutto ai propri cuccioli per far si che non crescano bisognosi di quell'attenzione che è mancata in tenera età, per poi imparare per osmosi dalla malata società, dai film o per emulazione involontaria una falsa copia all'insegna della dipendenza affettiva, la morbosità dell'attaccamento, l'esclusività di sentimenti e l'amore a condizione che.
Erano idee che predicavo agli altri ma ero il primo a sbagliare e inoltre senza accorgermene in tempo.
Chi ama lascia liberi.
Raccontai inevitabilmente ad Emanuele dell'episodio successo quella mattina; preso com'ero da un loop infinito di pensieri ed emozioni. Lui però ragionevolmente riuscì a farmi vedere le cose sotto un altro punto di vista, stupito che ancora stessi dietro a quella ragazza che aveva già dei figli ed un marito; chiaro che non sapeva come ne ero infatuato. Mi aprì gli occhi dicendomi che mi era andata benissimo in realtà, perché se fosse stata una persona di un altro tipo mi avrebbe solo usato, mi disse che ero totalmente matto e forse aveva ragione visto che fantasticavo di portarla con me in Italia, anche con i 2 figli; volevo toglierla da quell'ambiente, ma chi ero io per pensare che a lei magari invece non pie stare li?
Davo ragione ad Emanuele, ma sapevo che qualcosa non si era manifestato totalmente, credevo fosse qualcosa di esterno a me ma poi capii che invece si trattava di qualcosa di interno; il non avere aspettative, non avere rimorsi e rimpianti verso le azioni compiute e non; ciò che in tutta quella storia non si era manifestato, se non un breve lampo mentre fissavo da distanza ravvicinata gli occhi di Marisol, era la mia coscienza.
Se non che il discorrere su queste faccende con Emanuele mi fece capire uno dei punti chiave nel suo alcolismo. Riuscii a leggerlo tra le righe, qualche piccola incrinazione nel tono della voce e l'espressione del volto, anche lui aveva sofferto in “amore” ed era finito con il bere; e bevemmo anche quel giorno.
Ne siamo tutti malati, carenti, vogliamo essere contagiati dall'attenzione e l'affetto di qualcuno.
E quando questo qualcuno arriva, che crediamo sia la salvezza nella nostra solitudine, si finisce spesso in una gabbia, dopo la fase iniziale di ormoni sballati che ci inducono all'accoppiamento, spesso termina ogni possibilità di evoluzione propria, dedicandosi all'altra persona con buona parte delle proprie energie.
Promisi con il are del tempo che avrei iniziato ad amare prima di tutto me stesso a costo di rimanere solo lungo tempo.
Le precedenti esperienze avute mi erano servite in parte a sfatare, almeno da un punto di vista intellettuale, il mito del ricercare compulsivamente la masturbazione usando il corpo di una donna (popolarmente scopare), come obbiettivo, o punto fondamentale, della propria vita; poi da un punto di vista istintivo bisognava fare i conti con la cosa.
Ricordo parentele più o meno strette che fin da bambino mi indirizzavano in una ben precisa maniera verso le bambine, come quasi se avessero dovuto istruire una mia sessualità ancora dormiente, la cui base era il conquistare il sesso femminile. Succedeva che percependo l'assurdità e la forzatura di quella situazione senza capirne il motivo, ma spinto a “farmi avanti” per non deludere le aspettative, mi comportavo in maniera non spontanea sapendo che dovevo cercare di ottenere un qualcosa, che ancora non mi era ben chiaro, dalle fanciulle.
Non capivo perché i “grandi” volevano che mi comportassi in maniera speciale con le bambine ma sentendomi forzato in quella cosa appresi automaticamente dei comportamenti che mi recavano per lo più disagio e che non mi spiegai per molto tempo.
Gli anni arono e sentivo tutti quanti parlare di masturbarsi e dovetti provare
anche io senza sentire di per sé nessun piacere particolare, se non poi creandomi dei film mentali su cose che non successero mai o con teatrale pornografia, poi divenni viziato come tutti quanti, in una cosa che mi chiesi sempre quanto fosse normale e che reale utilità avesse visto che se ci dovesse essere sperma in eccesso si eliminerebbe da sé nel sonno. Poi tutti parlavano di sesso anzi di scopare ed infine provai anche io a martellare avanti e indietro sentendomi appagato, riconoscendo che era una cosa bella e che avrei ato le mie giornate così; ma sentendo fin da subito qualcosa di sbagliato nel come lo si faceva e nella visione generale, ed all'inizio anche mia, a proposito.
Iniziai quindi un lavoro di cambiamento su me stesso capendo che “scopare” era un piacere egoistico, mentre fare l'amore doveva per forza essere un qualcosa che andava oltre, forse una comunione tra due anime che conoscendosi avevano un'ulteriore opportunità di crescita.
Il pomeriggio tardi ero solo al mio solito posto di meditazione-riflessioneprogettazione e a volte semplicemente vuota osservazione della massa di persone brulicanti nel mercato. Al secondo piano del residencial seduto con le gambe penzoloni oltre il bordo e le braccia appoggiate alla sbarra di metallo con il corpo flosciamente rilassato in avanti, dedicando i miei pensieri esclusivamente sul da farsi. Era un po' di tempo che stavo così senza trovare una risposta a ciò che volevo fare a partire da quel momento. Avevo in serbo l'idea di tentare nuovamente di trovarmi una schiavitù, volevo dire lavoro, ma non trovavo stranamente nessuno che mi assumesse (non che mi fossi impegnato molto a cercare, scoraggiato dagli stipendi bassissimi) e di rimettermi per strada a tentare di vendere vestiti non se ne parlava proprio; mio padre nonostante la difficile situazione in cui si trovava mi disse che mi avrebbe prestato dei soldi visto che stavo finendo i miei, ed io benedii varie volte lui ed il rapporto di cambio eurobolivianos.
Speravo che la città potesse offrirmi qualche sorpresa, e così fu successivamente, ma quel cercare di convincermi a restare mi lasciava un amarezza sottocutanea.
Desistetti da ogni forma ulteriore di creare pensieri o più che altro assecondare tutti quelli che si formano e arrivano chissà da dove creando insensati vortici confusionari; iniziai cercare di pensare come mi disse qualcuno “out of the box”, fuori dalla scatola. Un modo di pensare solitamente usato per risolvere gli enigmi, ma scoprii che, a patto di ricordarsene, poteva essere usato anche nella vita, dove spesso ci si dispera per questioni da niente, arrovellandosi con pensieri angoscianti. Consiste nell'estraniarsi dalla situazione o dal problema corrente per cercare di vedere il tutto in maniera complessiva; uscendo fuori dalla scatola appunto, capendo quindi come stanno realmente le cose da un punto di vista esterno il più possibilmente oggettivo e non coinvolto emotivamente o psicologicamente. É un po' come non farsi vincolare da dei parametri che non sono imposti da nessuno se non noi stessi, che ci mettiamo questi paraocchi che limitano le possibili alternative ad una apparentemente irrisolvibile situazione.
Mi resi conto che in realtà potevo fare tutto quello che avessi voluto nella vita, sentii questa sensazione molto forte con tutto me stesso, come essere stato bagnato da una secchiata d'acqua all'improvviso. Chissà perché in quel momento guardai di sotto alla strada di mercato e la mia attenzione fu catturata da una station wagon che ava a rilento tra le persone camminando; sul vetro davanti, come spesso facevano i tassisti, vi era appiccicata una scritta che lessi subito:
Solo dios sabe el tu destino.
Seguii la macchina are silente e concentrato e quando vidi il lunotto posteriore la frase continuava rispondendo con:
“El viajante”.
L'emozione che provai fu unica, ebbi una tempesta di brividi lungo la schiena, la
famosa secchiata d'acqua, e risi allegramente scuotendo la testa; questo non potetti evitare di riconoscerlo come un chiaro segno di evidenza di ciò che realmente volevo fare.
Seppi che sarei ripartito a breve quindi.
Il giorno seguente andai con Emanuele prima al consolato e poi all'immigracion, dove lui doveva farsi accettare dei documenti e aveva bisogno dell'avvocato e parlare dei problemi che stava avendo con sua moglie, io avevo bisogno di farmi fare il timbro sul aporto per la seconda ed ultima volta per ottenere altri 30 giorni di visto.
Uscimmo presto ed andammo a prenderci un caffè alla fine del tercero anillo, non lo bevevo da una vita e ne presi anche un secondo, la caffeina iniziò a girarmi sconosciuta nel corpo mettendomi mal di testa e sonno al contrario di ogni cristiano di questa terra; facemmo un giro a piedi e dopo prendemmo un taxi per arrivare all'ufficio dell'immigraciòn.
Una volta arrivati vidi l'avvocato, era veramente grasso come Emanuele mi narrava da qualche giorno, e guardandolo in faccia non mi diede per niente una bella impressione. Iniziò, finiti i saluti e capendo che anche io ero italiano, a strofinarsi le mani e chiedere 100 bolivianos a testa per farci saltare la coda, che proseguiva lentamente all'esterno e sotto il sole, per farci entrare dal retro ando davanti a tutti. Io dissi senza pensarci due volte che avrei fatto la coda, Emanuele strizzava gli occhi ritmicamente ogni secondo e mezzo guardando nel vuoto, mentre l'avvocato cercava di persuaderlo, era la sua espressione mentre rifletteva traendo lente le sue conclusioni dal movimento di tutte le rotelle nella sua capa..
Il “ruolo” che viene ricoperto in questa società da certi elementi riesciva a
trasmettere in una certa misura soggezione ai noi comuni mortali, come nei film di fantozzi dove si ascoltano sempre i titoli prima del cognome: “Ragionere, geometra, supermegadirettore” ed automaticamente tutti rispondono al suo potere con rapida sottomissione.
Vidi con la coda dell'occhio mentre andavo in fila che Emanuele lo stava pagando per farsi condurre al magico ingresso sul retro alla faccia di tutti quelli in coda.
Gli occhi dicono di più delle parole.
La coda durò un paio d'ore ricordo che mi scambiavo sguardi con una bella 35enne una decina di persone più indietro e riuscii così a rendermi interessante l'attesa. Quando mi fecero are dal cancello e preso il numero entrai per sedermi, incontrai un altro paio di occhi che mi lasciarono di stucco. Era una ragazzina brasiliana sicuramente, snella, morena con degli occhi verdissimi e penetranti. Si accorse forse che rimasi impressionato e cercava poi continuamente il mio sguardo tra le persone che ci avano di fronte, mi sentivo strano ad essere osservato; ci fissammo varie volte per alcuni secondi e la stimavo, era molto coraggiosa e curiosa allo stesso tempo ed ero io a fuggirne dallo sguardo. Come era diverso incontrare degli occhi tra la moltitudine di persone distratte e riuscire a trasmettersi delle belle sensazioni nella maniera più arcaica che esiste, semplicemente osservarsi senza giudizio o riserve. Ero tutto emozionato per quegli avvenimenti e sembrava che svanita quell'ubriacatura della caffeina mi sentissi molto più connesso con il presente.
La ragazzina si alzò con i genitori e andarono da un altra parte, mi lanciò un ultima occhiata, le sorrisi augurandole il meglio mentalmente.
Cambiai di posto e si sedette dopo al mio fianco una donna con in braccio un
bimbo di pochi mesi; lei guardava dall'altro lato e rivolgeva il volto del bimbo verso di me. Io e l'infante ci scrutammo normalmente senza espressioni particolari ed io mi emozionai maggiormente che prima, lo fissai negli occhi e formai coscientemente queste parole nella mia testa: “Tu hai tutte le possibilità della vita davanti a te, potrai essere tutto ciò che vorrai, fare qualsiasi cosa” il bimbo sbocciò in un sorriso luminoso e lo seguii spontaneamente, mi emozionai a tal punto che mi scesero le lacrime dalla gioia.
Venne il mio turno, mi fecero infine il timbro per il rinnovo del visto ed uscii al sole allegro come non mai, che momenti intensi si nascondono in cose semplici.
Trovai l'avvocato là fuori da solo e lo approcciai chiedendogli dove fosse Emanuele, mi rispose che avevano sbagliato a compilare dei documenti invertendo due lettere del suo cognome ed era così costretto a rifare tutto d'accapo; l'avvocato approfittò della situazione cominciando a chiedermi se avessi avuto bisogno di un visto per rimanere più tempo. Gli spiegai che avevo ottenuto altri 30 giorni e poi basta me ne sarei andato e lui iniziò ad insistere dicendomi che avrebbe trovato un sistema, che lui aveva le conoscenze e roba di questo tipo, io gli sorridevo pensando a quanto fosse affamato e avido, pronto a sfruttare una nuova opportunità; lo salutai.
Tornai alla Ramada a piedi e riincontrai Emanuele già un poco storto per i corridoi del residencial e mi chiese di andarlo ad accompagnare a fare una commissione in un altro posto, mi pagò ancora tutto quanto lui ed arrivammo fino a El Torno tirando dritto per qualche chilometro di micro accompagnati da un fantastico musicista andino che suonava chitarra e flauto di pan fissato al collo contemporaneamente; parlavamo come da abitudine in Italiano altisonante, con tante occhiate, occhi, code d'occhio ed orecchie puntate su di noi.
Arrivati là cominciammo a vagare per il compito che ci eravamo posti, trovare del carbone ed una carriola. Li trovammo facilmente in quel villaggio in mezzo alla vegetazione che si faceva sempre più verde e fitta in direzione Samaipata.
La strada era il fulcro della vita e le vie in terra battuta che da lì si ramificavano, cosa normalissima in molti posti del sud America, offrivano una visuale delle case indigene.
Emanuele da buon visionario aveva notato, nei suoi lunghi momenti di osservazione delle persone che avano per la Ramada, la quantità di soldi entranti nelle tasche delle cholitas che vendevano spiedini di churichì, chorizos e corazòn (tutte frattaglie di poco costo del pollo) con alla fine una piccola patata lessa, cuocendoli su delle griglie fissate sopra le loro carriole. Così decise di fare quel mestiere anche lui e facemmo i giorni precedenti vari giri procurando pacchi di stecchete di legno, che avevo notato le cholitas tendevano a riciclare facendoti mettere in bocca qualcosa che aveva in precedenza messo in bocca qualcun altro. Emanuele trovò anche la griglia e si era informato sui prezzi delle frattaglie varie, facendo tutti i suoi calcoli.
Trovammo il carbone da una famiglia con un piccolo cortile con i sacchi in vista dalla strada ed io che mi ero appena scolato un jugo de caña (succo estratto dallo schiacciamento della canna da zucchero) delizioso e ghiacciato, mi caricai il sacco pesante sulle spalle e mi sporcai parecchio per la polvere nera che mi nevicava addosso. Facemmo giusto qualche centinaio di metri fino al luogo dove avevamo visto la carriola in precedenza. Emanuele comprò una di quelle usate, nonostante lo sconto ottenuto il prezzo pareva mantenersi a buon mercato, probabilmente perché erano molto richieste in Bolivia o forse perché i venditori capirono al volo che eravamo stranieri. Comunque sia Emanuè (come iniziai a chiamarlo) ci sapeva davvero fare, rispondendo al prezzo esclamato dal venditore con quella sua tipica frase:
“Nada menos?”. Pronunciata con un retrogusto siciliano che doveva apparire molto convincente alle orecchie dei venditori locali nel fargli abbassare il prezzo, sempre.
Io non ci sapevo fare, o forse capivano che avrei comprato lo stesso.
Andammo a mangiare ad un pollaio cinese là sulla strada principale, Emanuele voleva offrirmi come mi aveva promesso, mi presi un altro succo di canna, comprammo il nostro litro e mezzo di Toro Viejo ed arrivammo al “ristorante” con la carriola ed il sacco di carbone appoggiato dentro, io sporco di nero in faccia, le braccia, la maglietta ed addirittura le scarpe, non capivo come avessi potuto sporcarmi tanto. Lui chiese ai cinesi, che già ci guardavano strani, di lasciare la carriola dentro ma quelli giustamente non volevano saperne e allora dopo qualche lamento la lasciò parcheggiata fuori. Dal tavolo che scelse appositamente perché era di fronte alla vetrata con una incomparabile vista strada, poteva lui e dovevo io, come sostegno psicologico nei suoi confronti, tenere d'occhio la carriola. Emanuele si girò con la testa ripetutamente e con una costanza incredibile per tutto il tempo che rimanemmo là dentro; era preoccupatissimo che qualcuno potesse rubargli il suo nuovo mezzo per vivere, frutto di una sua idea ponderata da osservazioni sul campo evari giorni di riflessione; mi spronava spesso di controllare che non si avvicinasse qualcuno sospetto ai dintorni della carriola, quando andò in bagno mi raccomandò per ben tre volte di non staccarle gli occhi da dosso. Era molto nervoso, soprattutto inizialmente, di non poterla tenerla parcheggiata vicino a lui all'interno del ristorante cino. Notai che anche questa mangiatoia era piastrellata stranamente come tutti gli altri, pensai che i cinesi in Bolivia dovevano avere un qualche commercio di piastrelle perché erano gli unici ad averne di simili dai colori vividi.
Mi chiesi cosa cavolo ci facevano tutti sti cinesi in Bolivia. Per quanto avevo visto fino allora, noi, i cinesi, i brasiliani ed contadini russi (che si vestivano tutti uguali con delle salopette blu scuro cappello di paglia e camicia) eravamo gli unici stranieri per le vie di Santa Cruz de la sierra.
Ebbi dei problemi a far capire il mio spagnolo ai cinesi al bancone e dopo forse un minuto di spiegazione e malintesi ci mandammo entrambi affanculo mentalmente, verbalmente e gestualmente nelle rispettive lingue e gestualità.
Arrivò la mia importante dose di quarto di pollo con patatine fritte e riso bianco, in cui intravvedi tracce impercettibili di una carota grattugiata e sperai che non ve ne fossero anche delle altre di tracce impercettibili, ovvero i segni di una possibile vendetta cinese mescolati nella pietanza. Cercai di mangiare ma mi era difficile a causa dello sforzo fisico che avevo appena finito, stavo sudando ancora e sentivo il bisogno di tranquillizzarmi un attimo per ristabilizzare i battiti del cuore, ma mangiai e bevvi lo stesso ed una volta fuori mi presi anche il terzo succo di canna. Diedi al mio corpo una botta di zuccheri non indifferente, a cui andava sommato l'effetto del vino e, non meno trascurabile, l'effetto di un quarto di quei maledetti polli arancione fluorescente che secondo me ad un analisi di laboratorio sarebbero risultati più “riforniti” di una farmacia.
Quando uscimmo ero in uno stato confusionale più totale, pieno a scoppiare, sotto il sole dell'ora di pranzo e mi sembrava di stare in una sauna; ebbi la sensazione di mancanza d'aria ma in qualche maniera smisi di dar retta a quei pensieri all'istante. Emanuè, che oramai aveva ripreso le bevute mattutine, già aveva bevuto prima che lasciassimo Santa Cruz; era bello allegro e pimpante e volle spingere lui la carriola, sorridente con quella sua andatura leggermente claudicante datagli dalla gamba rimasta più corta. Osservandolo attentamente dal dietro mi sembrava fosse nato per quel tipo di mestiere, si mise a cercare un taxi che ci portasse indietro, io, lui ed il suo nuovo business su ruota.
Lo seguivo per inerzia quando invece avrei avuto davvero voglia di buttarmi su qualche panchina in mezzo a quella polverosa strada, ma anche per terra.
Sarei partito all'indomani anch'io, era sicuro, decisi... Tutta quella materialità mi faceva male, lo stare con Emanuele me lo faceva capire con tutta la mia essenza ed il mio corpo.
Sembrava quasi che fossi un masochista, avo ore studiando come migliorare l'efficienza ed il rendimento del corpo in base alle sostanze che vi si introducevano per poi mettere in pratica la teoria appresa; e poi spesso
sperimentavo tutto l'opposto volutamente, con l'idea di vedere dove fossero i limiti e quanto ci fosse di vero nelle cose apprese, o forse era tutta una scusa per abbandonarsi alla brama ed autodistruggersi.
Sembrava che usassi me stesso come cavia dei miei esperimenti, senza sapere quanto potesse essere utile questa abitudine ormai fissata. Forse era una sfida personale, oppure la paura di rimanere statico su di un livello mi faceva tornare in dietro ciclicamente a rivivere determinate cose, fino ad aver esaurito l'esperienza in questione ed aver acquisito reale libertà di scelta e poter avanzare senza rimorsi di essersi perso qualcosa.
Diventai l'ombra di Emanuele per una buona mezzora facendo uscire qualche suono monosillabico ogni tanto dalla bocca giusto per dargli idea che fossi a posto però lui non si accorse di molto. Analizzai me stesso, guardai il cielo azzurrissimo con varie nuvole color panna morbida e scolpita e quando scoprivano il sole mi facevano abbassare la testa facendo fatica a tenere gli occhi aperti. Tentare di “connettersi” con tutto ciò che vi era attorno risultava impossibile da come l'organismo era impegnato nel lavorio delle sostanze introdotte.
Trovammo il taxi dopo che io rischiai di essere investito e tornammo a Santa Cruz. Eravamo in 5 persone sui sedili di dietro con parte dei bagagli trasportati che spuntavano tra le nostre teste ed una eggera in parte seduta sopra di me con cui feci amicizia nonostante la mia catalessi postprandiale. Per i tassisti boliviani i clienti potevano essere trasportati pure sul tetto delle loro cascione inspiegabilmente immortali; riparate sempre e comunque finché morte non le separi dal loro autista o forse finché non fossero esplose come in un film americano e sicuramente anche là il buon boliviano avrebbe trovato qualcosa da recuperare. Ammiravo quel tipo di mentalità e modo di agire conseguente alla situazione economica difficile, ma che spinge le persone ad usare l'ingegno e riparare ciò che non funziona piuttosto che buttarlo via.
Volevo intimamente andarmene.
Lasciammo la carriola ed il sacco di carbone all'agenzia dell'autobus che avrebbe preso l'ndomani Emanuele per andarsene a Los Negros. Tornammo alla Ramada, la nostra base e ammo il resto della giornata consacrandoci all'alcool e facendo delle eggiate in cui io giravo sporco di carbone senza importarmene minimamente.
Si poteva arrivare a dei punti di disinteresse verso il proprio aspetto esteriore incredibili, non sapevo se li raggiunsi conscientemente per esempio come successo ai capelli che da quasi un anno non tagliavo, oppure a furia di vedere certe scene di quell'ambiente ci si amalgamava a tal punto da non dare più tanto peso ad una questione, specialmente nella civiltà occidentale, di importanza primaria: l'apparenza.
Ricordo che oltre a vedere indigeni sfoggiando i loro vestiti tipici, la cholita ed il corrispettivo chollo, le donne aymara, le quechua, qualche guaranì e chi invece si vestiva in maniera “moderna”, vidi varie volte la donna sacchetto, così la battezzai mentalmente.
Era una vecchiarella ricurva che la mia immaginazione, unita alle realtà che si vedevano tutti i giorni, mi fece comprendere fosse stata una campesinas arrivata in città dopo anni ed anni di sudore a lavorare i campi. Era finita risucchiata da quella vita che non la aveva condotta allo sperato benessere urbano dove si auspicava a non piegarsi più come nei campi; vagava quindi come molti, ma non faceva la carità, lei raccoglieva piegandosi tutto il giorno buste di plastica e bottiglie, ed era vestita totalmente dalle stesse. Pensai che probabilmente sotto gli strati di sacchi doveva esser nuda; di notte senz'altro la avrebbero isolata bene. La sua magrezza risultava ancora di più dal ringonfiamento di tutte quelle buste di plastica svolazzanti che in qualche modo le restavano addosso. Il suo sguardo era totalmente perso, si trascinava nelle sue perlustrazioni anche altri sacchi trasparenti a loro volta pieni di buste di plastica bottiglie e quant'altro,
facendoli strisciare a terra nel suo triste portarsi avanti .
Una altra scena che vedemmo io ed il mio compare, che fu una delle più toccanti che vidi in vita mia, successe sempre in quei giorni di offuscamento alcolico e eggiate con qualche commissione o semplicemente ando il tempo per il nostro pazzo quartiere, anzi probabilmente proprio quella nostra ultima sera insieme. Vedemmo sul primero anillo dove la sera si mettevano varie campesinas mendicando appoggiate al muro e sedute sul marciapiede sporco e disseminato di ogni tipo di cartaccia che chiunque gettava senza pensarci due volte. Le povere donne non parlavano neanche si limitavano a guardarti e muovere il cappello e le labbra, su e giù. Arrivammo ad un punto dove vi erano radunate in cerchio un gruppetto di persone che guardavano per terra, quando riuscimmo a vedere anche noi, c'era in mezzo al gruppetto questa vecchia campesinas magra con molte rughe cadenti, seduta per terra a gambe incrociate, teneva tra le mani un bebè che allattava con un biberon pieno di acqua soltanto credo. Il bebè era veramente minuscolo e nato molto prematuramente, lasciammo istintivamente qualche moneta, quella scena trasmetteva una sensazione di umanità incredibile perché era chiaro che il bebè non poteva essere figlio di quella donna anziana e vissuta e lei aveva scelto di prendersene cura nonostante la sua situazione sicuramente già tanto difficile, la sua vita per strada.
Che tu possa crescere al meglio piccolo essere, scoprire la tua verità e compiere tutto ciò che tu possa immaginare farti sentire vivo, evolverti senza limite.
Vedere tutti i giorni la povertà mi portò inevitabilmente a delle riflessioni.
Quali obbiettivi nella vita poteva riuscire ad avere una persona che ava la giornata cercando di raccimolare giusto il necessario per il pasto seguente? Mi chiesi spesso se esistesse almeno l'idea di una vita alternativa nella testa di queste persone, ma mi convinsi quasi che la forza dell'abitudine, sempre lei infida, riesca a fare sembrare normale qualsiasi cosa si faccia.
Mi chiedevo quale fosse la differenza tra, da un lato, una persona come la donna sacchetto che camminava senza tregua durante tutto il giorno accumulando buste e bottiglie di plastica che poi probabilmente avrebbe rivenduto per chissà quanti centesimi al chilo per mangiare, così fino a che l'aria sarebbe entrata ed uscita dai suoi polmoni ed i suoi occhi avrebbero avuto la forza di schizzare da un lato all'altro dello spazio circostante in cerca di materie plastiche; dall'altro lato, una persona supponiamo italiana che ava la giornata lavorandone minimo 1/3, dormendone più o meno un altro terzo e potendo vivere, rari casi fortunati, il restante terzo.
Ah! Nella considerazione sul reale tempo che può essere vissuto, andrebbe tra l'altro sottratto il tempo per arrivare al lavoro nel traffico, la pausa pranzo ingozzandosi rapidamente e dopandosi di caffè per il sonno non ristoratore che si fa, le trafile al supermercato per procurarsi il cibo, gestire i figli e tutte le obbligazioni che bisognano adempiere per timore di finire per strada come la donna sacchetto; quando in realtà, rendendosi conto, lo si è di già un po' una donna sacchetto.
La condizione esteriore data dalla presenza di beni materiali in più e momenti di tranquillità a agiatezza, non per tutti chiaramente, sembrerebbe fare la differenza, ma lo sguardo nella maggior parte delle persone presenti la mattina schiacciati in treno o rinchiusi e soli nell'automobile per andare al lavoro spesso rievocavano la stessa vacillante espressività della donna sacchetto.
L'essere umano, qualcosa di magnifico, piegato ad un esistenza con la semplice funzione di ingranaggio del sistema economico esistente.
Arrivò la notte e andammo a dormire ben abbeverati e più tardi del solito, osservando i vari ladruncoli che già dopo le 11 cominciavano a giocare appunto a guardie e ladri con le “guardie” del mercato. Non potrò evitare di raccontare
qualche avvenimento a proposito di queste guardie, ma più avanti, ora a parte la scazzottata non era ancora successo niente di particolare che mi fe pensare a loro riguardo.
La mattina Emanuele tornò a rifare tutta la storia con avvocato e burocrazie varie, ci vedemmo quasi verso ora di pranzo e ci salutammo per la seconda volta, essendo entrambi felici di esserci incontrati nuovamente, anche se per pochi giorni. Stimai sempre di Emanuele la sua capacità di accettare le mie differenze da lui ed il fatto che non insisteva mai troppo nel voler affermare i suoi punti di vista rispetto ai miei e le sue abitudini rispetto alle mie; aveva molto questa mentalità del vivi e lascia vivere che lo rendeva proprio una persona di buona compagnia e riusciva a farsi volere bene da tutti, o quasi! Capii col tempo che in parte se non mi contraddiceva dipendeva con quanta importanza ad esempio gli parlassi di determinate questioni. Potevo are idee o concetti per me illuminanti solo parlandone senza nessuna voglia di convincerlo, quando molto spesso non conoscevo completamente e non ero certo neanche io di ciò di cui parlavo.
Ci salutammo calorosamente e gli dissi che sarei partito anch'io nel pomeriggio in direzione Tarija, da dove veniva la dolce uva che mangiai quasi tutti i giorni che vissi a Santa Cruz; Tarija città natale di Marisol e come dicono i Boliviani dove si trovano le più belle donne della Bolivia. Erano già dei bei motivi per andarci, soprattutto l'ultimo, ma vi era anche un quarto motivo in realtà. Leggevo il nome della città suddetta molto spesso e mi capitava sempre a pennello mentre pensavo determinate cose, tipo farmacia Tarija, bar Tarija, ascoltando uno spot in radio di un negozio a Tarija e così seguendo a iosa; potrebbe darsi che aveva la stessa frequenza di nomi di altri città nell'entrare nel mio campo percettivo e magari ero semplicemente io a farci più caso, comunque approfittai di quel indizio per sceglierlo come destinazione.
Emanuele partì, diretto al villaggio nativo di sua moglie ai bordi della giungla, Los Negros, sarebbe quindi iniziata la sua attività di venditore di uova e venditore ambulante di spiedini di carne durante il weekend, mi immaginai la
vita improvvisata che gli si sarebbe prospettata davanti. Cel'avrebbe fatta pensai, era forte ad adattarsi.
In Italia ò un periodo, la cui durata mi rimase sconosciuta, rivendendo rame e metallo che recuperava in giro. Mi raccontò delle sue scorrazzate per i paesi guidando un trerruote con il vino a fargli compagnia; ma la cosa più bella, mi spiegò, era sopratutto non avere qualcuno a cui dover rispondere ed organizzarsi autonomamente le spedizioni nei vari luoghi.
Vivere, fare quello che si sente nel proprio cuore indipendentemente da ciò che è considerato normale. Tenere viva quella curiosità verso il tutto che si ha da bambini.
In un diario, forse un anno prima del momento narrato, scrissi a proposito:
Fuggi viaggi giri ti muovi
per arrivare dove?
dove finisce la strada.
Da piccolo avevi questo sogno: “Prendere la prima strada e andare sempre dritto”.
Forse è questo il tuo destino, vuoi vedere dove finisce e COSA C'È OLTRE.
Lasciai poche ore dopo il residencial informando i miei ormai amici che vi lavoravano di aver scelto di andarmene a Tarija. Nel frattempo era arrivata una ragazza che si era presa una stanza, mostrava i braccialetti che faceva e vendeva per strada, aveva una figlia con se ed era argentina pensai dall'accento, mi vide regalare un libro a Julia e mi guardò curiosa, era un libro che conosceva, capendo probabilmente a quali influenze ero assoggettato. Probabilmente lei girava arrangiandosi il continente con la figlia di pochi anni, ma che aveva uno sguardo intelligente e vissuto.
In Bolivia era pieno di ragazzi, argentini soprattutto ma anche cileni e peruviani, che vivevano con l'arte di strada ed io spesso mi fermavo a guardali nelle loro esibizioni di giocoleria o a suonare strumenti musicali, stimandone il livello di libertà mentale e distaccamento da quella falsa sicurezza che dà una vita abitudinaria nella società.
Presi zaino ed anche il borsone spezzaspalla e toglifiato stavolta, il quale era stato conservato sebbene la sorella di Julia si fosse trasferita da un altra parte e mi diressi al terminal compressato in un micro tentando di tener d'occhio come meglio potevo le mie cose, rimaste in un angolo davanti alla posizione in cui ero stato spinto dalla flusso di persone che entravano.
I micro in Bolivia non avevano fermate prestabilite, si fermavano dove qualcuno lungo il percorso alzava il braccio o qualcuno da dentro il mezzo diceva, anche a voce stanca, distratta e bassa:
“Parada por favor”.
Non mi spiegai mai come potesse l'autista captare quelle flebili parole nel
trambusto del traffico. Quando il micro poi raggiungeva il punto di saturazione, l'autista non potendo fare altrimenti non accoglieva più nessuno fino a che qualcuno non fosse sceso e quando qualcuno che stava in fondo doveva scendere, come me in quel caso, era una bella avventura. Era indispensabile aver sviluppato la capacità di saper aprire le acque come Mosè prima che le porte si richiudessero per tornare ad essere inghiottito dall'onda di persone.
Arrivai al terminal e come mi aspettavo, subii la solita scena dei venditori che ripetevano meccanicamente ed all'infinito i nomi delle destinazioni e notai che alcuni facevano i trasfertisti su lungo raggio, arrivando addirittura fuori dal terminal cercando così di aver un vantaggio sulle compagnie concorrenti.
Mi aggiunsi io gridando casualmente e non so per quale motivo:
“Nueva york...NUEVA YOOOOORK”.
Entrai dopo essere ato davanti ai venditori ambulanti di archi che avevo notato il giorno del mio arrivo. Mi recai verso destra ed iniziai a gironzolare guardando le varie destinazioni ed i bigliettai cominciarono a perseguitarmi curiosi prima con lo sguardo poi alcuni proprio fisicamente, cercando di capire dove volessi andare. Sinceramente avevo ancora qualche dubbio su Tarija, e pensavo magari di cambiare con La Paz per poi essere ad un o dal Perù. Alla fine involontariamente con tutto quel mio girare osservando e chiedendo informazioni, riuscii a mettere i bigliettai in competizione l'uno con l'altro e trovai un biglietto per Tarija ad un prezzo veramente basso che mi invitò ad andarci.
L'autobus partiva all'imbrunire per arrivare il giorno seguente ancora nel buio, almeno questi erano gli orari previsti.
Andai a mangiarmi un pollo da dei cinesi, ed elaborai una teoria mentre lo masticavo che probabilmente tutti quegli ormoni con cui li pompavano per farli ingrassare in fretta, cosa di cui però non fui mai sicuro, davano al mio corpo l'equilibrio che solitamente cercavo nello stare a contatto con una donna. E secondo me mi stavano dando una sorta di dipendenza danneggiando la mie possibilità riproduttive.
Fatto sta che io ed Emanuele notammo che quando arrivavano i carichi di polli, tutti distribuiti dallo stesso produttore come potevo leggere sui marchi commerciali nei vari ristoranti. Questi polli erano tutti della stessa dimensione e di un arancione carota, forse a causa di qualche trattamento. Mi chiesi se sarei diventato arancione anche io un giorno a furia di mangiarli e pensai che probabilmente quello sarebbe stato il male minore.
Il presidente boliviano sostenne qualche tempo prima che mangiare pollo rendeva l'uomo marica (effemminato), in un certo senso gli diedi un parte di ragione.
A parte gli scherzi molte signore mi raccontarono di come il menarca si stava anticipando nelle ragazzine, la comparsa di tettine nei maschi ed altri amorfi episodi.
E non nego che o' Giovann* non diede molti segni di vita in quei periodi.
*nome attribuito al membro maschile da un adorabile signore della provincia di Avellino, conosciuto anni addietro, che si trascinava piano ed aiutato con un bastone alla stazione dei treni, dove rimaneva ore semplicemente guardando i anti. Io ed amici, ancora adolescenti, lo conoscemmo ed andavamo a farci
raccontare le sue storie mentre si sganasciava dalle risate e prendeva in giro i anti ed anche noi visto che non lo capivamo sempre. Si godeva la vita stringendo amicizia con chiunque asse a tiro della sua panchina. Ci diede dritte formidabili all'approccio del sesso femminile, di cui indimenticabili canzoni dialettali da cantare alle nostre future belle, inneggianti ad un ambiguo bastone: “É bello lungooo, è bello drittooo è bello duroooo”, che a quanto pare furono di successo nella sua gioventù.
MOVIMENTO.
Partii da Santa Cruz con un autobus che non sembrava messo malissimo dal fuori ed il nome stampato sulle fiancate prometteva trionfante la nostra direzione: expreso del sur.
Dentro era già sporchissimo e notai che mancava il bagno come quasi sempre negli autobus boliviani. Ma il bagno sarebbe stato là, giusto alla prossima fermata quindi perché mai preoccuparsi? A meno che non si abbia mangiato qualcosa per strada mettendo a dura prova l'apparato gastrointestinale, cosa non difficile da quelle parti, il quale avrebbe potuto ricambiare il favore della scelta fatta, basata solo sul risparmio, con scariche gioiose ed incontenibili della sua pronta reattività ai nuovi stimoli alimentari.
Partimmo, ciao Santa Cruz, a mai più rivederci! E via, strade prive di traffico, sfrecciando su di un qualche anello periferico della città, circonvallando tutto quanto sino ad arrivare ad ovest direzione Cochabamba. Poi, dopo La Guardia, schivando le montagne a virare verso sud tra filari di pinete e successivamente le verdi e immense pianure del Gran Chaco, in direzione sud-sud-sud! scivolando dritti per centinaia di chilometri fino a Villa Montes che non vidi per la seconda volta nuovamente e stranamente causa sonno.
E poi altri 150km in linea d'aria per voler arrivare a Tarija la linda, come cantò un'intonata señora salita sull'autobus in partenza tentando di raccimolare qualche moneta; cantava bene le sue canzoni patriottiche e malinconiche esportandole nelle altre provincie.
Mi svegliai che era tutto buio e ripresi lentamente conoscenza, eravamo in montagna, fermi prima di una curva in discesa ed un camion nella direzione opposta si era messo di traverso non gravemente, altrimenti sarebbe caduto nel burrone sulla nostra destra, ma non riusciva a fare manovra; incastrato e rischiando tutto in caso di falso movimento. Pioveva leggermente, rimanemmo fermi parecchio prima che spuntarono da non so dove delle pale e alcuni uomini dell'autobus scesero a scavare un pezzo della parete argillosa sulla nostra sinistra per far si che il mezzo riuscisse a ripartire.
Rimasi pigramente seduto all'asciutto ad osservarli giustificandomi che vi fossero già abbastanza persone aiutando, me ne pentii successivamente per non aver approfittato dell'occasione di imparare qualcosa di nuovo ed aiutare anche qualcuno al posto di poltrire; tuttavia era bello vedere la dedizione di quelle persone scavando la fiancata, qualcuno beveva e tutti scherzavano. Dei eggeri, molti, tra cui io che risentivo del liquido ingerito il giorno precedente con Emanuele, continuarono a dormire. Tutto rientrava nella normalità, non vi erano lamentele da parte di nessuno e solo qualche domanda curiosa.
Mi risvegliò una esplosione di gioia delle grida delle persone nel buio illuminato dai fari delle macchine che si erano aggiunte. Il camion ripartì grattando via con la scocca la parte che rimaneva dallo scavo e anche noi ripartimmo con le prime luci del giorno e, non troppe, forse 6 ore di ritardo.
La ruta nacional 11, che stavamo percorrendo, era molto bella, piena di curve e saliscendi con parti ad arco scavate nella roccia dove mi domandai come fe il pullman a non incastrarvisi come un grosso tappo. Salimmo rapidamente oltre i 3000 e notai ancora che le persone si zittivano, nonostante ci fossero due
neonati urlando raspandoci i timpani, ognuno concentrandosi sulle sensazioni interiori dovute alla salita in quota e tutti i sobbalzi; pareva che quello svarione di curve, salite, discese fino sopra i tremila e guida veramente veloce di chi conosce bene la strada, aiutasse all'introspezione.
Arrivati ad Entre Rios al mattino notai che vi era anche un signore americano tra i eggeri che prese il suo zaino e strane attrezzature e scese in quel villaggio, ci salutammo con lo sguardo.
Quando ciò succedeva mi sembrava quasi un modo di solidarietà e rispetto, come un riconoscere nell'altra persona alcune caratteristiche simili, traducibili in parole con:
“Per essere anche tu, uomo bianco originario di un paese, che a detta dei media è vanto di modernità, cultura e benessere, spinto da queste parti forse hai qualcosa che ti ronza per la testa con vibrazioni simili alle mie.”
Doveva essere un ricercatore, pensai, comunque un altro essere che si diresse in un altra direzione.
Altre ore di viaggio tra le montagne arono, Arrivammo a Tarija che già si scorgeva da lontano planando dalle montagne.
Impiegai solo mezzora di tempo per decidere di non rimanerci più di una notte. Ad accogliermi trovai freddo ed un cielo grigio Milano che mi invitava seriosamente ad andarmene; dopo vari giri come sempre trovai la stanza più economica in un alojamento di campesinos, notai che comunque i prezzi erano più cari rispetto a Santa Cruz.
Volli conoscere la città, era molto carina quasi con uno stile mediterraneo e con il sole avrebbe dovuto essere splendente, camminavo per le strade alla ricerca delle belle ragazze tanto descritte in leggende e canzoni.
Rimasi deluso, mi ritrovai infine su di un ponte ad osservare un fiume che scivolava da qualche parte, sentendo solitudine mentre osservavo il paesaggio spento. Avevo creato nel mio cervello un'aspettativa enorme di donne stupende e ovunque in un posto ospitale e quasi paradisiaco. Le poche persone andavano in giro in giacca e vi era un aria triste, quasi da paese nordeuropeo; mi resi conto che molto probabilmente ero arrivato nel periodo sbagliato e che molto probabilmente era meglio prendere con le pinze quello che sentivo dire alle persone.
Viaggiare, a volte significava scappare da qualcosa, a volte tentare di raggiungere qualcosa.
La mattina seguente comprai un biglietto per Tupiza e l'autobus sarebbe partito la sera, ai la giornata bighellonando in giro; la città era veramente linda rispetto ad altre che vidi in sud America e le persone avevano tratti più europei data la vicinanza con l'Argentina. Feci amicizia con le señoras delle mangiatoie popolari nel mercato e mi fermai a mangiare trippa con patate ed altre cose con nomi strani.
Pensai di prelevare dei soldi in vista della decisione di andarmene ad Uyuni al famoso salar ed ebbi ancora una volta una visione, lo sportello del bancomat risucchiarmi la carta. Arrivato in una via principale dove vi erano varie stanze con sportelli bancari, entrai in una ma mi fermai prima di inserire la carta e con fare superstizioso, dovuto alla visione, uscii ed entrai in quella accanto e accade che la visione si realizzò; lo sportello si mangiò la carta realmente. Al posto magari di rimanere sorpreso per miei ipotetici poteri di previsione del futuro,
presi a pugni prima la macchinetta e poi a me stesso mandandomi mille maledizioni, sentendomi in qualche maniera responsabile di quell'accadimento.
Dovetti rimanere altri 2 giorni a Tarija perché la banca apriva di lunedì ed era sabato. Calcolai, in preda a paranoie, una settimana di stretta sopravvivenza con ciò che avevo con me se qualcosa fosse andato storto e non avessi più rivisto la carta; ma alla fine tutto quanto sarebbe andato bene, i problemi come arrivavano se ne sarebbero andati ed avrei potuto risparmiarmi un po' di sangue amaro; male che fosse andato avrei trovato un sistema, questo modo di pensare mi rassicurò all'istante e smisi di preoccuparmi.
Il giorno seguente andai ancora a mangiare la trippa dalla stessa señora che mi diede una porzione abbondante pescando a fondo col mestolo nel pentolone, a causa della mia scelta di fiducia e tutti gli elogi che le feci.
ai la giornata camminando nei mercati e saltando qua e la come un bimbo per non raffreddarmi visto che mi ostinavo a rimanere in pantaloncini e maglietta corta; girovagavo sempre a caccia di donzelle che non riuscivo a trovare e quando infine ne trovai alcune carine in giro non riuscii ad agganciarle. La Bolivia, scoprii in seguito, era uno dei paesi al mondo meno ospitali verso gli stranieri e ne ebbi continuamente le conferme.
Dormii la seconda notte a Tarija e per mia fortuna riuscii a farmi spostare il biglietto d'autobus al giorno seguente senza pagare nessuna differenza; sempre il giorno seguente andai anche nella banca corrispondente allo sportello che si era mangiato la mia carta a reclamare.
Una volta alla Banca prima mi mandarono a cercare a piedi per la città il tizio che stava sul furgone blindato a riempire gli sportelli automatici, non lo trovai e ritornai alla banca, dove era arrivata nel frattempo la carta che non credettero
fosse mia e dovetti andare all'alojamento e tornare con il aporto per dimostrarlo, ci misi ore e chilometri a piedi per tutti questi spostamenti.
Vi erano un gruppo di campesinas dentro la banca con i loro vestiti tipici, ed il contrasto era evidente.
Che stranezza di come tutte le banche fossero sempre ben fatte ed anche quella in cui mi trovavo non era da meno, le pareti lise e bianche, schermi al plasma, rifiniture curate, persone vestite bene; bastava poi fare un o al di fuori, per strada, ed aver l'impressione di entrare in un altra dimensione parallela. Credo bastasse solo questo dettaglio per mettere il dubbio sulla loro ragione d'esistere. Maghi dell'usura e possessori del mondo e della facoltà di decidere la sorte di tutte le persone che probabilmente ignorano quei semplici ma efficaci meccanismi con cui si è tenuti alla catena e che purtroppo la maggioranza di noi non vede.
Ci furono discorsi che facevamo io ed Emanuele di come avessimo profonda stima e ammirazione verso le persone che riuscivano a rubare alle banche, senza fare del male a nessuno chiaramente, con assalti ai furgoni porta valore od ancor meglio con i sistemi di hackeraggio informatico; visto che la ricchezza è ormai costituita manco più dalla quantità di fogli di carta colorata o metalli sbirluccicanti posseduti, ma da numerini virtuali che si spostano da una parte all'altra, creati tra l'altro dal nulla. Numerini che sanciscono la vita della stragrande maggioranza delle persone.
La sera la ai aspettando nel terminal dell'autobus con destinazione Tupiza.
Arrivarono un gruppetto composto da due ragazzi e due ragazze, che attirarono l'attenzione di tutte le persone presenti che aspettavano per la loro partenza, presentandosi allegramente ad alta voce.
Le due ragazze cantavano insieme od alternandosi, un ragazzo suonava la chitarra e cantava ogni tanto e l'altro suonava la trombetta.
Iniziarono a cantare canzoni popolari cilene ed alcune argentine della fantastica Mercedes Sosa, erano bravi, ma non solo dal punto di vista tecnico, ci mettevano molto amore in quello che stavano facendo e si capiva che lo fero non solo per sopravvivere ma a loro premeva realmente di poter allietare l'attesa delle persone là presenti.
Ricordo bene tutti loro, il ragazzo con la chitarra molto magro e sporco, con delle foglie in bocca per non sentire il freddo e probabilmente anche la fame, il calmo trombettista era il più tranquillo e ben messo di loro, le due ragazze cantavano socchiudendo gli occhi ondeggiando soavemente il corpo portandosi la mano al cuore istintivamente e l'altra protesa verso il pubblico.
Ad un occhio superficiale sarebbero sembrati leggermente dei disperati, ma guardando bene nei loro di occhi si vedeva la felicità di chi stava seguendo la propria stella e la trasmettevano perfettamente con quelle belle canzoni popolari.
Mi rimase un sorriso stampato in faccia per la breve ma intesa durata del gran concerto di cui assistevo totalmente coinvolto in prima fila, spesso non capivo le parole, ma mi riuscivano a trasmettere qualcosa di speciale.
L'ultima canzone cantarono tutti e quattro, tutta l'attenzione delle persone presenti in quel terminal era verso di quei magici ragazzi e tutto sembrava essere sintonizzato alla loro empatica frequenza; qualcuno muoveva le labbra sussurrando le parole della conosciuta canzone, qualcuno dondolava ritmicamente la testa, tutti li fissavamo ed ammiravamo ed io mi innamorai
profondamente di quel momento:
Del cerro vengo bajando,
Camino y piedra,
Traigo enredada en el alma, viday
Una tristeza...
Me acusas de no quererte.
No digas eso...
Tal vez no comprendas nunca, viday
Porque me alejo...
Es mi destino
Piedra y camino...
De un sueño lejano y bello, viday
Soy peregrino...
Por mas que la dicha busco,
Vivo penando...
Y cuando debo quedarme, viday
Me voy andando...
A veces soy como el rio:
Llego cantando...
Y sin que nadie lo sepa, viday
Me voy llorando...
Es mi destino,
Piedra y camino...
De un sueño lejano y bello, viday
Soy peregrino...
Con la cadenza di quelle rime si cullava la mia essenza. Ero talmente coinvolto in quelle parole per me molto significanti che alla fine mi strapparono le lacrime che scivolarono lentamente ma rapidamente nascoste:
Soy peregrino...
Arrivò l'autobus per Tupiza che presi felicissimo di essere venuto fino a Tarija semplicemente per aver avuto l'occasione di vivere quel momento, quanta positività mi trasmisero quattro ragazzi con una canzone.
Arrivai a Tupiza, quota 3100 metri dopo ore di continua oscurità, curve e
montagne, alle prime ore del mattino e mi infilai rapido nel sacco a pelo su di una panchina dentro il Terminal; si congelava realmente ed un altra volta mi trovai a pregare paziente e tremante il momento che il sole si fe vivo, non ero l'unico a are quelle ore così, quasi ogni panchina era occupata da qualcuno che dormiva come me alla meglio aspettando la luce.
Quando il sole diede notizia di sé uscii vittorioso dal mio freddo sudario e mi misi a farmi scaldare le ossa per una buona mezzora avendo il tempo per guardarmi attorno.
Tupiza era in una valle in mezzo a delle ripide montagne di pura roccia che andava mostrandosi sempre più rossa con la progressiva salita del sole, un paesaggio semidesertico semplicemente fantastico.
Iniziai poi il mio giro di ricognizione alla ricerca di un biglietto per Uyuni e lo comprai da una agenzia con l'ufficio in posizione più sfavorevole rispetto agli altri, visto che era seminascosto, ma la donna dentro gridava alla grande e mi conquistò con il suo prezzo scontato pur di vendere.
In quel terminal vidi i primi backpackers di lingua Inglese a distanza di due mesi .
Dopo 2 ore di attesa prendendo sole e bevendo spremuta d'arancia fatta al momento da un ambulante, partii alla volta di Uyuni sedendo nei primi posti dell'autobus.
Notai con le prime salite che eravamo il secondo autobus di una carovana di 3 che facevano lo stesso percorso e probabilmente procedevano così in caso, non
improbabile, che uno dei 3 si fosse rotto, ci sarebbero quindi stati gli altri due per aiutarlo.
Fu un viaggio unico percorrere quella strada sterrata che immaginai essere tra le più spettacolari al mondo, snodandosi follemente per più di 200 km percorsi nel tempo record di 9 H, quasi sempre oltre i 3000 metri di altitudine ed ogni volta che si ava un valico il tipo di formazione cambiava totalmente.
ammo un posto di controllo dell'esercito boliviano ed imboccammo così la strada in direzione Uyuni; le prime catene, che sbucarono fuori dopo una curva, a cui sorridevo allibito come un bambino di fronte ad un evento nuovo ed imperdibile, erano rosse come il sole quando tramonta ed uscivano sprezzanti dal terreno con le loro pareti di netta roccia aguzza in contrasto al cielo azzurro e magnetico, mentre prendemmo ad avanzare in una piana brulla percorsa da un piccolo fiume, con delle piante ed arbusti di un verde tenue e qualche casa sporadica.
Per lasciare successivamente spazio e di maniera quasi improvvisa ad altre catene beige chiaro con forme squadrate e che sembravano scolpite o costruite da qualcuno. Salite-discese-curve prese a pochi centimetri dall'orlo di precipizi. Avrei potuto rimanere all'infinito seduto ammirando tutto ciò, che mi riempiva sempre saturandomi inverosimilmente, e questi paesaggi si susseguivano in una maniera incredibile.
Ad un certo punto ci fermammo nel mezzo del nulla, ed io che stavo nei primi posti potei vedere il eggero che stava salendo in quel posto improbabile per aspettare un aggio, era alto con dei capelli castani arricciolati e lunghi che si calavano dal cappello di paglia che indossava; non aveva una fisionomia indio. Riuscii a intravedere che ava dei soldi all'autista chiedendo di abbassare il volume della musica perché doveva “Fare il suo lavoro”.
Al che entrò rapido nel corridoio con allegri schiamazzi richiamando l'attenzione di tutti quanti i seduti, cominciò ad andare avanti e indietro e poi si presentò, iniziando a parlare in maniera coinvolgente; fissai la sua carnagione chiara ma con la pelle vissuta ed il volto ricoperto dalla barba incolta nel tentativo di studiarlo. Mostrò un altoparlante a batteria che aveva e lo andò a posizionare in fondo all'autobus tenendo in mano un microfono senza fili.
Era uno di quei maghi della medicina alternativa e mi accorsi immediatamente che aveva un modo di fare singolare ed unico.
Si accattivò da subito la simpatia del pubblico, io compreso. Come avevo spesso visto fare anche ad altri alla Ramada, che addirittura per essere più credibili arrivavano a vestire il camice bianco, iniziò a mostrare da un raccoglitore foto di malattie e la degenerazione a cui si è arrivati a livello fisico e non solo. Aveva una qualità nel parlare davvero singolare, era un attore bravissimo in realtà e me ne accorsi giusto dopo pochi minuti di osservazione. Si spostava frenetico nell'autobus per coinvolgere il più possibile tutte le persone presenti con i suoi discorsi salutistici. Diceva cose realmente interessanti ma in una maniera tale da poter essere comprese anche da un illetterato e totalmente ignorante verso certe tematiche; infatti, a esclusione mia, tutti sul quel pullman erano campesinos o comunque sia vivevano in posti realmente sperduti lontano da probabili fonti di cultura.
Il nostro intrattenitore catapultatosi all'improvviso nell'autobus diede uno show fantastico; riusciva scrutando leggermente le varie persone a capirne alcuni difetti a detta del sistema medico “di fabbrica” e vi faceva leva alla grande. Agì sopratutto su argomenti riguardanti la sfera sessuale, stimolando l'attenzione di tutti che si sentivano coinvolti in qualche maniera.
Lo comprovai mentalmente molto quando, ando a mostrare nei suoi fascicoli altri problemi di salute, spiegò di ogni malattia mostrata le cause scatenanti, avendo quindi l'approccio giusto verso la guarigione da qualsiasi malattia-
problema-situazioneindesiderata ovvero rimuoverne le cause.
Ogni eggero lo ascoltava ad orecchie da ladro sentendo citato magari proprio quell'incurabile male da cui era afflitto. Fu molto interessante anche quando mostrò foto del colon, di come sarebbe fonte di tanti problemi a causa del suo graduale intasamento dovuto ai residui non espulsi (leggi merda) e per rendere l'idea ai campesinos gli fece un esempio pratico mimando di quando si va in bagno con gli occhi che escono da fuori per sforzi che risultano alla fine invani o poco “produttivi”, accovacciandosi sul posto recitando una scenetta di sofferenza da premio oscar. Conquistò le risa di tutti quanti, che probabilmente si rivedevano nella situazione descritta e lui dopo aver suggerito qualche prodotto alimentare ricco di fibre ò poi ad un altra branca della pseudoconoscenza che alcuni cercano di farsi al fine di mandare avanti la macchina chiamata corpo alla meglio.
Avevo, ad un certo punto, perso il filo dei suoi discorsi, tornando ad osservare le montagne ora divenute pietrose e quasi nere, quando ricatturò la mia attenzione perché si fece serio. Estrasse un bicchierino di plastica con delle tacche laterali ed un tappo, era un contenitore che già conoscevo.
Iniziò a spiegare di come la propria urina fosse la cura di tutti i mali, affermando che lui ogni giorno non perdeva una sola goccia di quel prezioso liquido e che la beveva direttamente dalle sue mani, come stava finendo questa frase si appoggiò alla spalla di un eggero che impiegò qualche secondo prima di collegare quelle parole a quel gesto eseguito con teatrale non-chalance, e tentò in ritardo di sgusciar via da quella mano suscitando l'ilarità generale.
Le prime risate dei eggeri di quando il tizio iniziò a parlare del costume di bere la propria urina, si trasformarono in sguardi di bambini a scuola mentre il maestro spiega, ed anche il più miscredente pareva essersi convertito a quella nuova teoria, qualcuno fece anche delle domande sulle quantità e modalità di assunzione. La cosa per me difficile da concepire era il fatto che bene o male
tutti gli davano retta su questa cosa di bersi il piscio e tutti gli aspetti positivi che ciò apportava, quando la sensazione che provavo era traducibile in:
“Senti chi parla!”.
Visto che aveva dei denti terribilmente gialli e malmessi o mancanti.
Ci sapeva realmente fare, ad un certo punto senza che centrasse nulla con il sermone che stava dicendo, forse volendo movimentare la situazione, si girò di scatto verso di me e mi chiese se fossi argentino, gli risposi negativamente sorridendo ai suoi modi, disse che si capiva perché altrimenti stavo già dormendo a causa dell'erba che loro fumano e che facevo bene a godermi il paesaggio. Mi disse che era stato in Europa ed aveva viaggiato molto, gli credevo perché lo si capiva dallo sguardo. Dopo una pausa, un altra volta girandosi improvvisamente, volle saperne di più su di me:
“De donde viene?”.
Gli raccontai brevemente le mie peripezie; era quasi un anno che mancavo dall'Italia, paese genitore.
Questo uomo era veramente un elemento particolare che teneva le redini di tutto il pubblico e lo dirigeva nella direzione voluta col suo colloquio senza appuntamento.
ava da momenti di comicità a momenti di tragedia mostrando le foto dal suo
raccoglitore. Era equadoreño come indicava la bandierina sul cappello ed informò che aveva aperto il suo studio di medicina naturale a Tupiza.
Era forse un'ora che parlava con pochissime interruzioni tra battute risa e racconti, riusciva a are concetti piuttosto seri, a volte esplicitamente a volte tra le righe, non riguardanti soltanto la salute ma anche più profondi. Dopo farsi serio in maniera teatrale, che personalmente mi faceva sorridere comunque ma gli altri eggeri non sembravano capire che stava recitando una parte; iniziava dando le sue occhiate torve e autoritarie mettendo in soggezione i campesinos con frasi di terrorismo salutistico, come di solito ci si comporta per addestrare un cane, scattando subito dopo con una qualche battuta sdrammatizzante.
Arrivò quindi ad un certo punto dopo tutto questo tempo che estrasse dalla borsa che portava con se delle bocce contenenti pastiglie che capii essere di olio di fegato di merluzzo, ed iniziò vantarne l'utilità lanciando slogan con voce alta, dura e precisa:
“Para el nino crescer fuerte!”
“Para que el hombre sea realmente macho!”
Dopo tutto quell'avvicendarsi di malattie enfatizzate alla grande e disastri fisiologici incombenti, aveva l'attenzione di tutti quanti che non avendo molta conoscenza in materia pensarono che quelle pilloline color ambra avrebbero risolto qualsiasi problema. Il nostro interlocutore iniziò quindi a regalarne una o due a tutti quanti dicendo che avrebbero dovuto inghiottire la pillola 2 volte al giorno. Una al mattino ed una la sera, con un bicchiere riempito della propria urina... E le teste dei eggeri che dondolavano accondiscienti fissando la pillola magica loro donatagli, immobile nel palmo della mano.
Qualcuno iniziò ad ingollare le pillole, anche 2 contemporaneamente; così, meccanicamente senza neanche preoccuparsi di sapere che roba fosse in realtà; si erano fatti fare un benevolo ma bel lavaggio del cervello.
Ed in realtà è, a mio avviso, ciò che succede anche in un qualsiasi paese “moderno”, la differenza sta nel fatto che a noi moderni ci viene detto qualche nome tipo: METRANQUILLITSOKEMINTOXICOBEN .
Nomi così difficili che solo a sentirli nominare una seconda volta si butta giù tutto, avendo paura che la malattia peggiori soltanto all'idea di udir una terza volta quelle bestemmie simili a maledizioni di magia nera, essendo fiduciosi nella realizzazione di qualche avvenimento misticamente promesso.
Dopo aver regalato le pillole, che vantava venissero dalla Cina, ed era vero visto alcuni ideogrammi sulla confezione (ma giudicai essere roba proveniente da qualche mercatino, cinese appunto, e pagata per il valore grazie al quale è famosa la roba cinese cioè poco), iniziò a dire che voleva vendere quelle che aveva con sé, che erano mooolto difficili da trovare e cose di questo tipo.
Chiese “soli” 50 Bolivianos per non ricordo quante pilloline... Nessuno si mosse...
Come iniziò a parlare di soldi l'aria si fece differente e sembrava che ognuno guardasse da qualche altra parte distaccato; vidi il nostro amico showman attenuarsi un poco, appoggiarsi contro un sedile e guardandosi attorno colto da pensieri. Durante quell'escalation di quiete, lui stava ricaricando la sua molla interna, al che si girò di scatto verso di me e mi chiese, confondendosi sulla mia origine, se in Francia bevessero l'urina. Gli risposi ridendo che in Francia
personalmente non lo sapevo e gli chiesi per riempire il silenzio se le pillole fossero d'olio di fegato di merluzzo, avendo intravisto sull'etichetta la dicitura in Inglese. Lui mi confermò ed io volli non so per quale motivo recitare come lui e risposi con finto stupore che dunque quelle pillole erano molto buone per la salute delle persone e che vengono date anche ai bambini in crescita.
Sentendo le parole e lo strano accento di un “gringo” venuto da un qualche paese dall'altra parte del mondo dire quelle cose, una señora di sedile più in là con bambino e marito, si affrettò a chiederne 50 bolivianos; il tizio, che era balzato allegro sull'autobus per poi tranquillizzarsi quel minuto dove nessuno sembrava interessato a sborsare nulla, tornò a spingere in avanti la sua opera teatrale. Tutto generoso diede una manciata in più alla señora lanciando altisonante e sicuro di sé qualche slogan nel frattempo. Dopo questo avvenimento la maggior parte cominciarono a chiamarlo da una parte e dall'altra dell'autobus per comprare le sue pillole magiche ed io osservando bene feci una stima approssimativa su quanti soldi stava ricevendo; alcuni eggeri si fecero una scorta pensando a quando mai avrebbe potuto ripetersi un occasione del genere. Non so se qualcuno si rese conto ma lo showman intascò più dello stipendio medio mensile di un abitante di città solamente in un tratto di viaggio in autobus.
Raccontò scherzoso anche di come aveva camminato vario tempo per quelle deserte montagne visto che non erano ati gli autobus che aspettava il giorno precedente, poi fece capire che sarebbe sceso prendendo uno dei tre autobus che lo avrebbero portato in dietro verso Tupiza.
Lo avevo aiutato inconsciamente, quasi per scherzo, e quando arrivò il suo momento di scendere salutò tutti quanti stringendo qualche mano, ribadendo alcuni consigli come non bere bibite gassate e non mangiare pollo; erano tutti felici alla fine dei conti, lui aveva venduto alla grande ed i eggeri avevano la loro pillola magica risolutrice. Prese il suo altoparlante in fondo al corridoio e correndo arrivò alla porta dell'autista, ma prima di varcarla si bloccò, si girò, tornò in dietro lentamente verso di me con quel suo sguardo da uomo di mondo e sempre recitando una sorta di scenetta, inchinandosi simpaticamente e dando
carica alle poche ma soppesate parole disse:
“Italiano... Buena suerte”.
Mentre mi allungava la mano che ci stringemmo vigorosamente e sorridendoci, mi fece l'occhiolino, saltò giù dall'autobus balzellando e sbracciando per fare fermare l'ultimo dei tre autobus che andavano in senso opposto, suscitò ancora le risate di tutti quanti con le sue grida all'altro autobus che ancora doveva raggiungerlo. Lo seguimmo con lo sguardo e con il pensiero ancora per un tempo, fu una specie di uragano ato tra di noi.
Mi rese felice il suo ringraziamento e fantasticai che avrei potuto scendere ed iniziare una collaborazione con costui, fingendo di non conoscerci e salendo in punti diversi sui vari autobus e magari girarci il sud America in questa maniera; ma maggiormente avrei voluto imparare di più su quel suo modo di fare che nascondeva in realtà una persona molto intelligente, arrivata coscientemente a quel lavoro che eseguiva in una maniera del tutto unica e molto fruttuosa a quanto parve.
Fu un esempio di destrezza ed intelligenza non indifferente per me e lo studiai per tutto il tempo che ci accompagnò nel viaggio, ascoltando attentamente le sue parole suggestive e le sue astuzie comportamentali.
Iniziò dopo qualche tempo una discesa ripida e da un pendio opposto tra le varie curve dal paesaggio di incrinati pendii si schiuse alla nostra vista una cittadella perfettamente mimetizzata in quel tratto arido e dalle tonalità grigie e marrone scuro.
Per entrare nella cittadella l'autobus ò da una delle due vie di accesso attraversando un ponte su di un fiume inesistente in quella secca stagione, c'erano una infinità di macchine scassate ed abbandonate ovunque, a volte per un terzo sprofondate nel terreno duro ma che ritorna fangoso e morbidamente penetrabile durante le piogge.
Mi chiesi profondamente quale fosse la ragione d'esistere di questo posto. Probabilmente anche qualche indigeno, vedendomi, si chiedeva quale fosse la ragione della mia esistenza in posti simili. Ma la loro timidezza era più forte della curiosità e si voltavano rapidamente al mio scambio di sguardi durante il viaggio.
Arrivammo nella piazza centrale di Atocha, così si chiamava la città dalle case di fango che coprivano un bel pezzo di pendio, dove facemmo più di mezzora di sosta per il pranzo. Mi diressi istintivamente verso il letto del fiume, che scoprii invece esistere ma ridotto ad un rigagnolo, per liberarmi dai liquidi in eccesso; osservai come era tutto pieno di sporcizia di ogni genere e stavo quasi terminando l'operazione di svuotamento serbatoio, fino all'ultima goccia, quando mi trovai 2 campesinas ed una bimba che si andavano accovacciando a pochi metri sulla mia sinistra.
Incredibile come fosse diverso il modo di pensare e di agire, avevamo lo stesso istinto ed ammirai la totale assenza di pudore o di distinzione dei sessi; il naturale ascolto dei proprio bisogni e non resistetti alla tentazione di fotografarle di nascosto.
Ero nel pisciatoio (e non solo) comune, eletto spontaneamente all'unisono da tutti i membri che si fermavano in quel paesello in mezzo alle aride montagne e nessuno di tutte le persone che si vennero ad aggiungere si preoccupava più di tanto di eventuali sguardi.
Ma ad esempio a Santa Cruz de la sierra la cosa era più schietta e ad impatto, forse anche perché accadeva in un contesto urbano. Spesso eggiando sul primero anillo, limite orientale della Ramada, si vedevano persone “cambiare l'acqua al pappagallo”; le femmine accovacciandosi con la gonna che le copre abbastanza, mentre gli uomini (specialmente se ubriachi) tranquillamente fertilizzando l'asfalto fermi sul marciapiede e rivolti verso il traffico della strada mostrandosi in bella vista a bipedi e scatole metalliche mobili anti di fronte.
Mi sedetti su di un microsgabello nella casetta di fango di questa grossa señora che dopo avermi scrutato un poco nella piazzola di sosta mi invitò ad entrare, con il suo sguardo e con strane parole farfugliate meccanicamente ad ogni ante. Volli provare un piatto di carne di lama e patate; delizioso...Ma delle dimensioni tendenti al piattino di poca utilità che a una tazzina di caffè espresso, la sola vista della porzione di poca utilità fu abbastanza a are maggiormente la mia fame e mi rassegnai all'idea di fare il bis.
Ripartimmo da Atocha con qualche eggero in più risalendo per la nostra strada, con l'autista che teneva alti i giri dell'autobus, dure e tortuose curve fino a svettare sopra lei tutta; fangosa città sperduta oltre i 3000 metri ora rinsecchita al massimo in attesa delle future piogge.
Sparì in breve dalla nostra vista e ci vennero in contro nuovi paesaggi di formazioni rocciose dai più svariati colori e delle forme insolite, a lunghi tratti punteggiature di erbacce cresciute a dare un tocco di vita a tutta quell'apparente aridità.
Scendemmo lievemente da alcune montagne dopo ore di sbalzi di quota e tornanti; ci trovammo su di un piano con erbacce qua e là e qui vidi per la prima volta dei lama pascolare, avevano quasi tutti degli orecchini colorati per distinguerli ed adornarli, strani animali loro. Oltre quella piccola pianura vi erano delle vere e proprie dune di sabbia e ne fui sbalordito dall'esistenza, in quel luogo caratterizzato dal vasto numero di paesaggi così diversi tra di loro nel
giro tutto sommato di pochi chilometri.
Prese a soffiare un forte vento che prima di raggiungerci notai visto che in lontananza si formavano mulinelli di sabbia, poi ne fummo investiti completamente e noi eggeri dovemmo chiudere tutti i finestrini, ma nonostante ciò la polvere sabbiosa e fine entrava comunque nell'autobus da qualche fessura. La visibilità era bassa, paragonabile alla nebbia invernale della fredda, umida e inospitale penuria padania, ma nonostante tutto il nostro guidatore avanzava costante ed impavido.
Il vento permaneva ma una volta usciti da quell'area di dune sabbiose potei finalmente riaprire il finestrino e godermi il sole che già tendeva a completare la sua bella comparsa quotidiana.
UYUNI, tempo e pazienza ed arriverai ovunque.
Saltai giù dall'autobus ad Uyuni che il sole era procinto a scomparire e iniziava già il freddo. Dopo aver schivato qualche agente del turismo che mi propose dei tour iniziai a vagare per le larghe e polverose strade semideserte alla ricerca di un posto dove dormire, trovai tra le case belle, le fatiscenti e quelle ancora in costruzione, un ostello e mi presi un letto in una stanza da 12 completamente vuota.
Andai a farmi un giro nell'oscurità sempre in divisa calzoncini e canottiera con un freddo che mi sfidava a non muovermi continuamente. Uyuni notai che era già un paese più turistico, anzi forse la presenza del Salar era l'unico motivo attuale della sua esistenza e si trovavano per la maggior parte ristorantini gestiti da famiglie, negozi di vestiario andino, agenzie di turismo, ostelli e alberghi.
Dopo parecchio tempo ero ricapitato in un posto molto turistico che in qualche maniera però manteneva intatta la sua tipicità.
Tornai all'ostello dove avrei potuto godere di un letto, non riuscivo a dormire e avevo tutta una strana sensazione nella testa dovuta molto probabilmente ai 3600 metri di quota.
Al mattino feci conoscenza con 2 ragazze ed un ragazzo che arrivarono durante la notte. Erano tutti e 3 cileni ed il ragazzo che stava viaggiando da qualche giorno con una delle ragazze si era riincontrato casualmente con l'altra ragazza conosciuta alcune settimane prima.
Viaggiando non è raro che succedano cose del genere visto che esiste, come scrissi inizialmente, una specie di circuito basato in parte anche sul aparola e quindi chi si muove da una parte all'altra senza troppi piani, era facile che fe tappa negli stessi posti di altri come lui; che a loro volta vi erano stati raccomandati o avevano seguito la loro ispirazione arrivandoci.
Capitò anche a me in altre occasioni di ritrovare per caso persone conosciute in precedenza.
Cominciai facendo amicizia con questi ragazzi cileni e naturalmente parlavamo del salar che era il motivo principale per cui chiunque si sarebbe inoltrato fino a lì.
Io andai subito a dar una vuelta per cercare qualcuno che mi affittasse una bicicletta; con l'intenzione di girarmi il salar con una bici per qualche giorno. Dopo una superflua ricerca di un'ora, desistetti dalla mia idea rendendomi conto
di non essere minimamente attrezzato per niente di simile e mi ricordai anche la sofferenza patita a causa del freddo dormendo nel sacco a pelo sulla panchina due notti prima. Il solo ricordo di quelle emozioni tolse ogni minima idea dal mio cervello di compiere quell'impresa, optai quindi per la scelta di ogni comune cristiano viaggiatore di fare il tour guidato in macchina.
Tornai quindi all'ostello dove dopo una lunga attesa il ragazzo, e la ragazza cilena furono pronti, l'altra ragazza cilena aveva un suo tour già prenotato.
Quando uscimmo a cercare un agenzia di turismo che ci fe un buon prezzo, mi resi conto di come mi sarebbe piaciuto in quel momento avere più soldi. Incontrai un gruppo di giovani israeliani, che generalmente era tanto se ti rivolgano la parola, i quali stavano partendo per un tour in jeep di 4 notti, che, oltre al salar, prevedeva anche vulcani, laghi coloratissimi ed il deserto di Atacama in Cile. Mi venne fatta una proposta last second abbastanza buona e tentante dalla signora di quest'agenzia dove si erano affidati gli israeliani, ma non potevo permettermelo, dovendo farmi i conti in tasca per il futuro.
Mi promisi, che sarei ritornato in quel luogo con una bicicletta o anche a piedi per essere a pieno corpo in tutti quei favolosi e difficilmente accessibili posti mostrati nelle fotografie appese alle pareti delle agenzie turistiche ed appese nella mia mente in attesa di essere un giorno vissute dal vivo.
Trovammo infine un agenzia a buon prezzo per il tour di un giorno e partimmo di li a poco.
Vi erano degli argentini che si unirono a noi di cui 3 ragazze e 2 ragazzi. Iniziammo subito a fare amicizia e come mi aspettavo erano sempre contenti nel conoscere un italiano, essendo molti di loro discendenti. Si stiparono tutti quanti dietro io ricevetti il posto d'onore davanti sulla jeep, di fianco alla nostra guida
che aveva un marcato accento della regione di Potosì.
Questo accento era secondo me molto simile al calabbrese, sia nella musicalità delle frasi, che nelle parole, ad esempio: “quatro” pronunciato “quàccio”. Cosa che mi rendeva la conversazione quanto mai gradita e divertente.
Il ragazzo guida, che mi dava quindi a pensare ad un timido calabrese dell'altipiano boliviano ci iniziò a spiegare tutte le varie informazioni, di come un tempo vi fosse il mare a quel livello di 3600 metri. Il mare una volta ritiratosi aveva lasciato un lago salato che poi seccandosi aveva regalato agli esseri in grado di apprezzare la distesa di sale più grande al mondo, con una profondità dello strato di sale variabile dai 7 ai 20 metri.
ammo prima dal cimitero dei treni, dove vi erano locomotive e vagoni abbandonati, un tempo utilizzati per il trasporto dei metalli estratti dalle miniere fino all'oceano in Cile, dove poi venivano caricati sulle navi diretti in Europa.
Il panorama, come tutta quella parte dell'altipiano era di tipo semi desertico, terra arsa di un marrone chiaro e vi era della gente che stava gironzolando in questo deposito, tra cui poi anche il nostro gruppo, giocando ad arrampicarsi sul quei grossi scheletri di ferraglia, vi restammo forse più di un ora nonostante la guida disse che saremmo rimasti soltanto pochi minuti.
Dopodiché ci dirigemmo ad un mercato artigianale di campesinos costituito da baracche e creato sfruttando il turismo, in cui vendevano maggiormente manifatturati in lana di alpaca colorati e caratteristici. Dopo varie trattative, parlando e rispondendomi da solo, comprai un caldo maglione ed un cappello.
E finalmente ci dirigemmo verso il tanto atteso salar, entrandovi da un villaggio chiamato Colchani. Ci fermammo inizialmente nel luogo dove, a forza di spalate e pazienza, estraevano il sale per farci mattoni con cui venivano costruite singolari case. Donne e uomini spalando il sale creavano dei piccoli cumuli, caricati successivamente sopra ad una camionetta; notai che tutti avevano la “guancia gonfia”.
Qui, appena scendemmo dalla jeep, la ragazza cilena si tolse le scarpe e si mise a camminare a piedi nudi sul quella superficie di sale un po' sporco e sottilmente coperto d'acqua; mi spiegò che era buono fare così per togliere la negatività dal proprio corpo e mi misi a piedi scalzi ancora prima che finisse di parlare, in breve tempo tutti quanti la seguirono.
Ognuno poi si mise a vagare istintivamente da qualche parte, trotterellando al rallentatore, qualcuno scambiando brevi parole con gli addetti spalatori e praticamente tutti assaggiammo una scaglietta staccata dal suolo a verificare che fosse realmente sale.
Dopo un bel pezzo risalimmo sulla vettura dirigendoci verso il centro della distesa .
Superammo quella parte dove si estraeva, ancora in maniera primitiva si potrebbe affermare, il sale, per entrare nel vero e proprio Salar de Uyuni.
Finalmente... Ero arrivato in quel luogo da me tanto sognato, udito ed immaginato da tempo; senza nessuna ragione particolare se non la pura curiosità di vedere dal vivo qualcosa di lontano anzi remoto ed unico nel suo genere.
Tutti noi ci facemmo in silenzio spontaneamente mentre la jeep accarezzava quieta il suolo ed io volevo agganciare a me stesso ogni singola particella di quella bianca, piatta e silenziosa distesa salata; ognuno di noi era rapito totalmente da quel paesaggio.
Il pavimento totalmente bianco rifletteva fortissimo la luce del sole perpendicolare e ci vollero varie strizzate d'occhi per adattare un po' la vista.
Arrivammo e ci fermammo in un punto oltre un hotel a solo pian terreno ornato di bandiere di tutto il mondo, tragicamente costruito con blocchi di sale la in mezzo a quello splendore, tuttavia non stonava molto, nonostante fu secondo molti una pessima trovata.
Saltato giù dal 4X4 non dedicai più di un breve sguardo a quella costruzione dove si fermavano le jeep di tutti i turisti, intenti a farsi mille foto riconoscendo magari la bandiera del loro paese tra le altre.
Adesso tocca fare una critica, dunque:
Oramai con l'avvento dei social network, delle fotocamere digitali e della nostra magnifica società dell'immagine, si può notare sempre di più come la maggior parte delle persone arrivate in un posto abbiano come primo, e spesso unico, interesse fare fotografie. Arrivano già armati di fotocamera accesa, ed appena raggiunto il punto ideale, iniziano a mitragliare foto a ripetizione, dove spesso si sforzano sorrisi tirati, anche se non vi era nulla di divertente in quel momento; pose emulando i modelli nei calendari. Mi meravigliai in varie occasioni, osservando inevitabilmente le persone arrivare, fare foto, controllare rapidi a testa china sul display che siano venute bene, farne qualcun altra per sicurezza e poi andarsene senza magari aver dato nemmeno un occhiata profonda e sincera al panorama che avrebbe dovuto essere il motivo teorico della loro venuta.
Non assaporano minimamente ciò che lo spettacolo della natura regala ai loro organi di senso. L'unica preoccupazione probabilmente è di mostrarsi in futuro agli occhi dei conoscenti, acquistando consensi, gelosie, invidie ma sopratutto popolarità.
Diedi le spalle alla costruzione, presi ed iniziai la mia lenta e scalza camminata verso l'orizzonte bianco da cui si staccava netto il cielo azzurrissimo.
Nella direzione in cui procedevo, potevo vedere due catene montuose molto in lontananza che sbucavano appena dalla bianca superficie e sembravano sospese, galleggiando in aria per l'effetto del calore e della distanza; forse una era l'isola che non c'è ed io avrei dovuto arrivarci per bloccare il mio processo di crescita e invecchiamento, rimanere per sempre così...
Camminai in compagnia di me stesso, dimenticando progressivamente il gruppo, il tour e tutto il resto, fino a che la curiosità mi fece voltare per controllare, e vidi che mi ero allontanato già parecchio, anche alcuni degli altri se ne andavano per la propria direzione camminando.
Guardavo la curvatura terrestre, appena percettibile, dove il bianco ava in maniera così netta al blu. Avrei potuto andare avanti a camminare verso quelle montagne, quell'assenza di rumori se non il vento, quella mancanza di eccesso di stimoli visivi se non luce del sole riflessa in poche ed essenziali tonalità, in realtà mi riempivano tendendomi per bene a continuare sulla mia direzione con la sensazione che avrei raggiunto un traguardo interiore proseguendo la mia avanzata lenta.
L'idea di continuare a camminare a oltranza mi tentava molto, richiamandomi
quasi magneticamente, la sensazione del silenzio dell'universo che mi trazionava a percorrere la via che a lui conduce.
Dovetti lasciarmi andare alla forza di gravità sedendomi a terra altrimenti avrei continuato quell'avanzata senza più fermarmi.
Sedetti per un po' di tempo guardando quell'infinito, mi sentivo compreso in quel colmante silenzio, percependo di essere parte di un qualcosa, quanto mi sarebbe piaciuto capire...
Tentavo di concentrarmi per agganciarmi a qualcosa, un silenzio che permaneva per brevi istanti, interrotto però dal ronzio ipnotico dell'alveare insensato e fastidioso dei pensieri.
Sdraiatomi a pancia in su ed a gambe e braccia aperte, con il sole che mi scaldava, fissai il cielo di un blu avvolgente e vibrante come un neon guasto, mai vista prima tanta semplicità e purezza di colori, forse avrei potuto vedere anche le stelle sforzandomi; rimasi del tempo concentrando lo sguardo esclusivamente in un punto e tentando più o meno consciamente di interrompere il chiacchiericcio mentale, arrivarono momenti in cui riuscivo a focalizzare come una specie di occhio del ciclone, con un moto che sembrava dirigersi verso lo spazio. Era un fenomeno che mi accadeva con la giusta concentrazione ma che tuttavia non riuscii a comprendere se era dovuto ad un difetto della vista o davvero alla visione di qualcosa di più sottile.
Mi domandai seriamente se fosse stato reale trovarmi in quel posto e cosa ne avrei ricordato e pensato a proposito un giorno; mi sembrò che dissolto in quel momento ci fossi io stesso che dal futuro mi stavo osservando, scura e piccola forma macchiando la bianca distesa. Lo sforzo di avere una mente libera, spruzzi di coscienza.
Dopo una quantità di tempo indeterminabile, forse quasi due ore, vennero a ripescarmi con la jeep; nessuno a bordo parlava, nemmeno io che dall'inizio del tour cercavo di procurare le risa al gruppo per accattivarmi la simpatia generale. Ripescammo. grazie all'autista che aveva tenuto tutti d'occhio, anche il ragazzo cileno ed una delle argentine, anche loro si erano incamminati verso altre direzioni.
Mentre continuavamo l'avanzata nel veicolo qualcuno tentò di iniziare un discorso, ma scemava sul nascere ogni tentativo lasciandosi riportare tutto al silenzio, come una forma di rispetto solenne verso il luogo e verso la propria essenza che percepiva di dover sfruttare il momento e che non c'era spazio per le maschere. Il salar suscitò in me, e credo anche in tutti gli altri, un impressione specifica che era indirizzata all'osservazione di se stessi.
Era possibile sentire nell'aria che ognuno di noi era immerso nella sua meditazione personale ad una profondità solitamente difficile da raggiungere per chi ignaro dell'esistenza di quello stato di calma interna. Forse laggiù qualcosa si creò, o già c'era e venne riscoperta, incagliata inemovibile sul fondo; rimanendo là per ogni volta che si volesse provare ad immergersi ricordandosi cosa vi è stato lasciato e che probabilmente c'è ancora molto da scoprire scandagliando laggiù e che quel qualcosa potrebbe espandersi fino ad affiorare in superficie.
L'autista ci condusse dopo un tratto di guida e qualche sporadica informazione, in un altra parte del salar, verso un suo limite, dove avremmo potuto trovare dell'acqua non totalmente assorbita nel sale; girò parecchio ma trovammo solo un punto in cui non superava il dito di altezza.
Era infatti famoso il salar anche per molte foto spettacolari che vengono scattate, con la giusta quantità d'acqua, dando un effetto da camminatore sull'acqua che sfida le leggi della materia ad ogni turista.
L'acqua da noi trovata non era abbastanza, ma nessuno volle risalire in macchina per tornare indietro, iniziò per la terza volta quello strano ma spontaneo processo di irraggiamento del gruppo, ed ognuno riprese a camminare silente per la propria direzione, assorto in se stesso, compagno della propria solitudine.
Ripresi ad immergermi in quelle sensazioni specifiche, osservai anche un po' gli altri, per quanto potessi distinguerne a malapena i lineamenti vista la distanza, date le movenze lente davano l'impressione di essere tutti quanti ispirati dalla magia del posto.
D'un tratto iniziai a sentire dei suoni strani di cui non trovavo nessuna spiegazione razionale, una novità erano per il mio orecchio quelle vibrazioni.
Cercandone mentalmente la spiegazione pensai fosse il vento che ando in qualche gola delle montagne producesse quel suono, che era basso e con delle frequenze che sembravano elettroniche.
Rimasi troppo curioso e mi stavano venendo i dubbi di avere anche probabili problemi di udito, oltre che di cervello e vista, ed alla fine camminai verso la ragazza cilena chiedendole a voce alta, mentre mi avvicinavo al suo spazio riflessivo senza però invaderlo, se anche lei stava sentendo quel suono.
Lei mi rispose affermativamente che era il suo amico ad emetterlo cantando dalla gola, facendola vibrare in una determinata maniera. Rimasi allibito e non mi spiegavo come potesse fare quel suono; tra l'altro era arrivato a piedi piuttosto lontano tant'è che lo vedevo della grandezza di una formica, eppure la strana melodia che faceva mi raggiungeva seppure bassa in intensità, conservando il suo essere fantastica.
Come ritornammo in macchina feci i complimenti al ragazzo cileno e gli chiesi umilmente come faceva a fare quel suono, mi disse lievemente timido che si era allontanato molto volutamente per non farsi sentire; poi mi diede qualche informazione che catturai avidamente.
Mi spiegò che era un canto ancestrale mongolo e che consisteva nel are gradualmente dalla lettera I alla lettera U vibrando il suono dalla gola; praticamente come nella scala dei colori vi sono infinite tonalità intermedie tra due colori, così anche tra due vocali. Spostandosi quindi sulla scala tra queste due vocali sarebbe stato possibile, tramite un lungo allenamento, riuscire a emettere quei suoni realmente sensazionali, cosa che il cileno scherzando disse di procurargli una sensazione di estasi mistica.
Proposi ispirato di restare sul salar fino al tramonto e tutti erano della stessa idea, autista compreso.
Tornati in macchina arrivammo vicino all'estremità del Salar da dove eravamo entrati e trovammo un punto ideale, dove vi era uno specchio d'acqua a riflettere il sole.
Aspettammo il tramonto parlando tra di noi di viaggi, di strani avvenimenti, di cosa volevamo nel futuro e tanti altri discorsi stimolanti. Ognuno raccontava della sua terra, ridemmo e scherzammo come se fosse stato da più tempo che ci fossimo conosciuti.
I viaggianti e tutte le nuove persone conosciute, orientate su interessi spesso non convenzionali, persone spesso ricche di consigli, suggerimenti e informazioni; costoro spesso possessori di chiavi che aprono nuove porte per nuove
destinazioni interiori ed esteriori.
Succedeva di ricevere un informazione che si stava cercando dalla bocca di qualcuno che la diceva senza alcuna seconda intenzione, ma con la massima spontaneità; risposte arrivate dalla parte meno aspettata.
Iniziò a fare freddo praticamente subito dopo che espressi il mio desiderio salutando il sole che ci lasciava nelle sue tonalità calde e nostalgiche, hasta mañana!
Tornammo ad Uyuni ed io, forse motivato dai discorsi sulla politica appena iniziati, avevo deciso di partire all'istante e salutai tutto il gruppetto frettolosamente con abbracci e felicitazioni.
Tornai a piedi all'ostello in fretta nel ormai buio e presi “mi mochila” ed il borsone maledetto dirigendomi alla strada principale da dove partivano gli autobus; impiegai del tempo saltando da un agenzia all'altra su due lati stradali, ero indeciso se andare a Potosì o ad Oruro, o chissà dove.
Entrai nello stanzino d'attesa di un'impresa che a quanto pare faceva buoni prezzi e cominciai a bombardarli di domande visto che l'autobus fermo là davanti sarebbe partito a breve e non avevo ancora scelto la mia destinazione. L'autobus andava fino a Sucre (la capitale boliviana, non La paz come molti pensano) ando per Potosì.
Diedi una rapida occhiata alla mappa e considerai che avrei potuto arrivarci ugualmente ad Oruro ed anche a La Paz volendo, essendo bene o male le città in progressione una dopo l'altra. Ottenni in breve tempo l'attenzione anche delle
persone sedute ad aspettare con tutto quel mio aprire borse e guardare il manuale e fare domane se Oruro fosse una città interessante, se ci fossero belle ragazze...cose di questo tipo e riuscii involontariamente a mettere un po' di allegria alla situazione. Un ragazzo cominciò ad aiutarmi a decidere quale fosse stata la scelta migliore, dandomi varie informazioni generali.
Poi all'improvviso ricordai il ragazzo cileno che era stato a Potosì e ne aveva parlato bene, quindi alla fine feci tutto l'opposto di quello che sembrava avermi interessato fino a qualche secondo prima e mi presi un biglietto per Potosì schiaffando il mio aporto sul bancone generando qualche risata.
Quanto adoravo quel mio vagare senza meta, scadenze o progetti in particolare, se non investire su me stesso in ciò che mi faceva essere vivo.
Quel non saper mai cosa avrebbe riservato il giorno seguente, e scegliere la propria destinazione ad istinto (od a volte con il lancio della monetina!) o seguendo indizi e suggerimenti, sapendo che anche là, oltre, qualcosa la vita avrà sempre da offrire.
E viaaaa! Un'altra notte in autobus salendo per le montagne delle quali intuivo la bellezza nonostante l'oscurità, con le stelle e la luna crescente a svelarne i profili scolpiti, dormii alla grande respirando quell'aria pura dal finestrino socchiuso.
POTOSÌ, sfida.
Dopo varie ore l'autobus arrivò, senza problemi questa volta, a parte qualche mia giravolta di testa per la quota, a Potosì; era l'una di notte forse e dove scesi non vi era in giro un anima e constatai subito che tutta la città era in pendenza.
Il pullman ripartì all'istante dopo avermi lasciato fuori dal terminal vecchio che purtroppo era a cancelli chiusi, quindi non vedendo un posto dove attendere il giorno iniziai a vagare, non feci neanche 50 metri ed incontrai due signori di fronte ad un residencial che mi chiesero se stessi cercando un posto dove dormire; all'inizio non li considerai molto pensando che avrei trovato da me una soluzione, poi si misero a dirmi che era molto pericoloso a quell'ora e molto probabilmente era vero, alla fine dopo qualche parola uno di loro mi condusse sino ad un alojamento. Mi diedero uno stanzino di servizio al pian terreno, giusto dietro la reception, spendendo 20 bolivianos, c'era addirittura una televisione e la muffa sulle pareti a dare fragranza allo stanzino. Mi infilai sottocoperta nel letto congelato e dormii ancora fino al mattino presto.
Mi sistemai, come ogni giorno accadeva, con tutte le massime cure ed attenzioni verso il lato estetico ed l'aspetto esteriore; questo lungo procedimento molto riguardevole nella sua accuratezza questa volta mi prese più tempo del previsto perché dovetti vestire, oltre ai pantaloncini e la cannnotttiera, anche una felpa ed il cappellino andino.
Mi fiondai in strada e fermai una donna con un bambino, per farmi fotografare sfoggiando il mio look frutto di lunghi ed accurati secondi e la signora mi fece anche una bella foto.
Iniziai a bighellonare nell'aria fresca e secca, venni a sapere che Potosì era una delle città più in alto al mondo, trovandosi infatti a 4000 metri sul livello del mare e si sentiva...
Volevo dirigermi in centro e la strada era un poco in salita, avevo il cuore che martellava nelle orecchie come se avessi corso e mi fermai parecchie volte sentendomi fiacco.
I marciapiedi erano in piano orizzontale rispetto all'inclinazione del livello stradale con delle scale lungo il loro cammino, arrivanti anche al metro e mezzo di altezza, senza nessun tipo di protezione lato strada. C'era il rischio di cascare di sotto in mezzo alle macchine facilmente se non si prestava attenzione, urtando qualche persona magari.
Raggiunsi un punto dove la salita si attenuava e vi era uno spiazzo con dei binari che tagliavano la città, la terra brulla, secca e molti venditori ambulanti.
Seguendo con lo sguardo i binari che proseguivano verso destra e curvando, la vidi; sembrava una piramide sia per il colore giallastro che per la perfetta forma ad angolo sui 120 gradi.
Era il cerro rico, la montagna svettante alle spalle di Potosì, rimasi lungo tempo a fissare questa montagna che si stagliava solitaria e imponente la davanti e nel frattempo appariva il formicolio definito come farfalle nello stomaco, probabilmente una bella scarica di adrenalina; ebbene iniziò a fissarsi una nuova sfida nel mio cervello mentre osservavo le due linee oblique del suo profilo che andavano a unirsi fino a punto più alto, detto vetta.
E lassù sarei arrivato, così decisi all'unanimità di tutte le mie parti distinte, pensiero, emozioni e corpo.
Mi ricordai comunque che il ragazzo cileno mi aveva raccontato della possibilità di fare dei tour nella miniera all'interno della montagna ed arrivato singhiozzando fino in centro trovai varie agenzie. Tentai prima di entrare gratis nella casa de la moneda, un museo con monete, quadri e altre cose, ma la guardia mi sorprese nel tentativo e feci finta di non sapere che si pagava per entrare; mi
fece uscire subito.
Tra le varie agenzie che osservai dall'esterno ce ne fu una dove un ragazzo vedendomi guardare le fotografie esposte mi chiese se avessi voluto fare l'escursione; mi feci condurre all'interno per curiosità ed il ragazzo cominciò a darmi mille spiegazioni a proposito del loro tour, parlando con quel suo accento calabro-potosino, mostrandomi foto e insistendo su come il loro fosse il migliore di Potosì. Io ascoltai tutto quanto dondolando la testa su e giù, già sapendo che il tour non l'avrei fatto ma tuttavia mi interessavano quelle informazioni, quindi vi spesi un buon quarto d'ora di ascolto.
Dissi alla fine al ragazzo che ci dovevo pensare e credo che ci rimase un po' deluso, allora gli chiesi con tono malizioso cosa sarebbe successo se gli avessi trovato un gruppetto di persone ad unirsi al tour, mi rispose reattivo che si ci sarebbe stato un bello sconto per me.
Uscii e mi diressi fino ad un punto alto della città appena fuori dal centro, per vedere meglio la mia nuova sfida che mi aspettava paziente là davanti; rimasi alcuni minuti in osservazione.
Dopo di che ridiscesi verso la zona più centrale e trovai un internet point, iniziai a cercarmi qualche informazione sul cerro rico che scoprì superare i 4800 metri ed inoltre tentai di programmare le mie tappe nei giorni seguenti.
Parlai con mia sorella che mi disse che sarei dovuto tornare a casa a metà maggio, perché lei se ne sarebbe dovuta andar via ed era il mio turno a tenere il mio cane; avrebbe anche voluto che ci incontrassimo per qualche giorno, e così volevo anche io.
Entrai vagamente in crisi a quel pensiero visto che non mancava molto a maggio, comunque cercai subito di essere sensato e le dissi nel giro di pochi minuti, che mi andava bene e dopo aver improvvisato nella mia mente le scrissi le possibili e forse le uniche fattibili, per motivi finanziari e di tempo, opzioni.
Rimasi d'accordo con mia sorella che mi sarei dato da fare a considerare nell'insieme i vari fattori e le avrei fatto sapere a breve la mia decisione.
Tornai quindi verso l'alojamento nella parte bassa della città, e ai di lato ad un mercato che vidi all'andata; deviai quindi la mia camminata nel mercato e mi comprai con una spesa irrisoria parecchie banane, forse 24 più ancora altre che mi gettò dentro la busta la venditrice volendosene sbarazzare. Questa era un'altra tecnica sviluppata con il tempo:
Prendevo sempre le banane con la parte esterna minimo con le macchioline nere fino ad essere marce in qualche punto, questo comportava spesso che mi venissero regalate o fatte a buon prezzo, allora che nessuno le voleva comprare quando in realtà era il momento perfetto per il consumo immediato.
Mi sedetti su di un marciapiede nello spiazzo dove si fermavano alcuni micro diretti ai vari pueblos della zona ed iniziai a nutrirmi contemplando tranquillamente le circostanze.
ò un signore vestito abbastanza bene e mi scrutò rapido e curioso, mi fece un ammiccamento con la testa; dopo un minuto tornò in dietro con una bustina di latte che mi regalò forse pensando che fosse la disperazione della fame a spingermi a mangiare tutte quelle banane.
Lo ringraziai grandemente e questa situazione mi diede da pensare; probabilmente per ispirare questo sentimento di misericordia non dovevo avere un bellissimo aspetto. Regalai successivamente la bustina di latte ad una povera e vecchia venditrice di non ricordo cosa seduta per terra fissando il nulla; la quale sicuramente, vista la sua magrezza, ne aveva più bisogno di me. Mentre le mossi su e giù la mano dinnanzi il suo volto facendole segno di prendere la confezione, un po' distrattamente reagì, la prese ed ammiccò anche lei come il signore che mi fece la donazione; così il cerchio si era chiuso.
ai quindi il resto di quella giornata eggiando, vidi in una piazza dei calcio balilla ed i ragazzi che vi giocavano, un giovine che si lanciava pazzamente con una bici da downhill tra le scalinate del centro schivando i anti; dedicai inoltre molto tempo a nutrirmi in dosi massicce di frutta del mercato, volendo accumulare più energia possibile in vista dell'impresa prevista il giorno seguente.
La sera presto già ero nel letto, nuovamente nel mio stanzino prediletto, e mi misi a studiare la lonely planet del sud America rifugiato sotto le coperte congelate.
Essendo nello stanzino che era per il personale nel retro ufficio e sarebbe dovuto servire a chi era in recepcion per dormire, vi era l'unica finestrella in alto aperta per lasciare entrare un po' di aria dal salone d'ingresso.
La recepsionista che chiacchierava con qualche amica si preoccupò che ascoltassi la loro conversazione e dopo aver bussato mi chiese di accendere la televisione, che vi erano bei programmi e si vedeva benissimo, su questo andazzo; le dissi sinceramente di non preoccuparsi che non mi interessava minimamente di cosa stesse parlando con le sue amiche ed avendo aperto la porta in mutande cercai di impostare un discorso per cercare di invitarle ad entrare nello stanzino a riscaldarsi con me. Ma vi era la maledizione della castità che mi stava perseguitando da quando misi piede in Bolivia e niente successe.
Ritornai ai miei studi che valutavano le opzioni rimaste ed il fatto che sarei potuto restare legalmente in Bolivia ancora per un mese; tuttavia poi imparai un trucchetto per potervi rimanere più o meno a tempo indeterminato senza rischiare troppo.
Presi penna e carta, visto che scrivere le cose d'abitudine mi aiutava a riflettere, altrimenti poi la mente si perdeva in quel suo fantasticare inutile dei pensieri associativi per risvegliarsi dopo mezzora pensando: dove sono stato?
Tra i vari fattori da considerare vi erano il costo della vita nei due paesi dove ero indeciso di andare, Perù o Brasile, e soldi necessari per arrivarvi, il costo e la data di un volo che sembrava essere a favore del Brasile, l'idea di conoscere nuovi posti fantastici nettamente a favore del Perù, ma a vantaggio del Brasile il fatto che avessi amicizie sparse qua e là che volendo mi avrebbero potuto ospitare.
Feci come al solito vari schemi e progetti che alla fine risultavano sempre molto generali, visto che raramente succedeva qualcosa nella maniera prevista in questi schemi, succedeva spesso ciò che volevo ma seguendo percorsi non immaginati.
Per sicurezza approssimavo tutti i vari costi in eccesso e mi resi conto che non avrei potuto viaggiare chissà fin dove, mi preoccupai lievemente e decisi che avrei dovuto interrompere quel mio vagare....Ah se mi fossero arrivati i soldi che aspettavo dall'Australia mi sarei dato alla pazza gioia; iniziando i miei balzi da un posto all'altro senza aver nessun problema frenante. In realtà quel vagare era possibile anche senza soldi, con l'unica differenza di allungare i tempi di spostamento ed accorciare la cintura dei pantaloni.
Mi rivenne per associazione in mente che nel mio eggiare di quel giorno in quella cittadina, che rispetto alle altre città sembrava quasi medievale a causa dei molti edifici d'epoca conquistadores, vidi un negozio in una via centrale che vendeva cose utili per la casa ed altre cianfrusaglie e la mia attenzione era stata attirata da dei bastoni per scopa di legno, ben torniti e levigati. Questi oggetti mi fecero pensare all'arte marziale del bastone.
Buttai da parte quaderno degli appunti e lonely planet, pensando che avrei seguito la via obbiettivamente migliore e più sensata.
Al mattino ero già sveglio da un pezzo ma rimanevo a letto aspettando le prime luci, quando arrivarono scesi, anzi salì, in strada in pantaloncini da guerra, maglietta trasformata con forbice in canottiera e scarpe da tennis bianche immancabili. Arrivai fino alla piazza principale dove mi bevvi qualcosa come un litro e mezzo di spremuta di pompelmo, arancia e mandarini da un venditore con il carretto felice di iniziare la giornata con un buon cliente e mi sedetti un po' al sole su di una panchina rimanendo così una mezz'oretta, scambiandomi gli sguardi con el cerro rico.
Quando mi sentii riscaldato ed ottimista a sufficienza partii, seguii le due vie che avevo visto su di una mappa in direzione dell'obbiettivo, poi iniziò una discesa e non fu difficile orientarsi visto che la montagna stava proprio là davanti.
Andai per 2 o 3 km di salita fino ad arrivare alla base della montagna poco più in altitudine della città, dove era piazzato un cartellone accogliente con tanto di foto di Evo Morales, informazioni varie e la grossa scritta: corporaciòn minera de Bolivia.
Poco oltre al cartellone iniziò la mia “ascesa”, la strada proseguiva verso destra pavimentata per un tratto con alcuni micro e macchine impolverate che vi
avano.
Io presi ed, al posto di seguire la strada, andai dritto per dei gradini molto alti e irregolari scavati nella roccia e nel terreno dai minatori.
Continuai a seguire quella mia traiettoria immaginaria che voleva farmi arrivare verso la vetta in linea retta, chiaramente ciò era abbastanza impossibile ed un cristiano normale avrebbe seguito quella miriade di strade di terra battuta già di loro in pendenza.
Ma se volevo fare quella cosa l'avrei fatta in maniera originale, ed avanzando rimanendo coerente con me stesso fui costretto varie volte ad arrampicarmi letteralmente. Camminai per la strada solo per brevi tratti dove era impossibile seguire l'immaginaria linea retta ed ero costretto a continuare da un altro punto. Arrivai quasi ad un terzo della salita e mentre iniziai ad inerpicarmi in un tratto piuttosto in pendenza, formato da queste pietre giallo rossastre che rotolavano troppo facilmente, sentii abbaiare sopra la mia testa e quando raggiunsi il culmine e fui sulla strada battuta vidi due cani, mamma e cucciolo; la madre mi abbaiava insistentemente avendomi sentito arrivare da quella direzione insolita. Accarezzai un poco il cucciolo e notai subito che vi era un binario di legno mezzo storto diretto ad uno dei vari ingressi della miniera. La miniera, come mi aveva spiegato il ragazzo in agenzia del giorno precedente, era una specie di formicaio a causa di tutti i cunicoli scavati al suo interno durante i secoli.
Me ne andai perché la cagna diventò un po' troppo nervosa che accarezzavo il suo cucciolo. Feci una ventina di metri verso destra, seguendo la strada questa volta, e vidi uscire dal cunicolo che entrava nella terra due minatori che spingevano un carretto pieno di pietre sui binari; rimasi ad osservarli. Erano completamente ricoperti di polvere con il loro abbigliamento da minatore del 1700, direttamente lo stesso che usavano i primi minatori probabilmente, e sicuramente come i primi minatori avevano la guancia deformata per il costante e massiccio coquear, masticare foglie di coca. Spinsero il carretto fino ad un
punto dove poi azionarono una leva e rovesciarono di lato le pietre dallo stesso scosceso fianco da dove ero salito; capii quindi da dove provenissero tutte quelle pietre che mi fecero sudare freddo varie volte, mentre mi mancò la sicurezza del suolo sotto i piedi e mi ritenni felice che non fossero usciti a scaricare mentre io risalivo alla buona dal versante, chissà che divertimento sarebbe stato!
Mi salutai con i minatori che finalmente mi videro e che chiesero dove andassi e voltandomi lentamente ed in modo teatrale indicai la cima.
Ripresi la mia salita con delle soste piegato in due per mancanza di fiato.Fu una battaglia psicologica difficilissima per me, avrei voluto mollare ad ogni o cedendo alla forza di gravità, ma la forza di volontà spingeva il corpo a proseguire. Controllare il respiro era quasi impossibile e sentii varie volte delle sensazioni di svenimento a causa dello sforzo in alta quota, ad un certo punto mi iniziarono a fischiare le orecchie ed iniziai anche a vedere dei puntini rossi in un ordine ben preciso, una nuova costellazione personale che non mi abbandonò per tutta la salita, anzi strizzando gli occhi la rividi anche nei giorni seguenti.
Ad un certo punto intrapresi solo dopo alcune belle e profonde boccate d'aria un lungo tratto non lontano dalla pendenza verticale e pieno di pietre aguzze che spesso rotolavano via al minimo contatto. Ero già a buon punto quando mi trovai in un pezzo di quella scalata molto ripido ed all'improvviso scivolai leggermente con un piede, istantaneamente sentii come il corpo ghiacciarsi e buttai rapido la mano sinistra a cercare qualcosa agganciando una pietra che si mosse un po' ma non mi tradì, ma lo fecero alcune pietre subito sotto che mi colpirono sulle caviglie ed altre sotto ai miei piedi.
E qui come in una metafora della vita, non potevo tornare in dietro, non potevo restare lì perché ero già stanco e da qualche parte pur bisognava andare, no? Così iniziai a muovermi verso sinistra, con molta cautela e soppesando i miei movimenti. Raggiunsi una parte meno slittante e completai gli ultimi metri di quel tratto che mi aveva regalato una scarica istantanea di adrenalina non
indifferente, lo guardai dal bordo della strada quasi a rassicurarmi da quel mio nuovo punto di vista; ero prossimo alla fine della mia “ascesa” e rendendomi conto del rischio che avevo appena ato già mi sentii sicuro che avrei proseguito come tutti gli altri cristiani che volevano arrivare in cima, ovvero dai percorsi battuti. Volendo farla comunque a modo mio continuai correndo a tratti, cosa che rispetto alla scalata sembrava quasi un giochetto, sebbene dovessi fermarmi inevitabilmente a riprendere fiato ogni poco. A quel punto inoltre era quasi impossibile scalare ancora, a meno che si avessero le scarpette e l'attrezzatura, essere l'uomo ragno, od aver ricevuto una benedizione contro la legge di caduta dei corpi verso il livello inferiore più prossimo.
Vidi virando un tornante che vi era un camion betoniera più sopra, c'era qualche lavoratore che mi lanciò un'occhiata mentre li raggiungevo. ai poi davanti a questa mezza dozzina di operai, una trentina di metri dalla la vetta, che calavano con un tubo del cemento all'interno di una grossa crepa nella roccia; mi applaudirono ridendo quando gli ai davanti facendo il vittorioso, mi inerpicai fino all'ultimo pezzetto dove qualcuno in ato aveva costruito con delle pietre una torretta di 4 metri che segnava il punto più alto della montagna.
Mi arrampicai fin lassù arrivando oltre i 4800 metri e finalmente mi sedetti esausto e trionfante.
C'era il sole fisso in un cielo blu intenso, il vento e piccole nuvole solitarie che si spostavano costanti; probabilmente avrei dovuto sudare per tutto quello sforzo compiuto ma l'aria era talmente rarefatta che sembrava il sudore evaporasse ancor prima di uscire dai pori della pelle.
Era il punto più in alto rispetto a tutto il resto, il puntò più alto raggiunto in vita mia con le mie forze; ammiravo tutto ciò che alla vista si offriva e solo questo bastò a gratificarmi totalmente e restituire tutte le energie spese con tanto di interessi. Il cerro rico svettava più alto rispetto a tutte le altre montagne brune all'orizzonte.
Mi sentii benissimo, Potosì era una specie di ragnatela, là in fondo a destra. E che valore, che importanza avevano tutte le cose, gli pseudoproblemi, che vi succedevano osservando beatamente da quassù, tutto si faceva effimero visto da quella prospettiva.
arono due ragazzi da una stradina più in basso sulla sinistra, ci guardammo e ci salutammo ed uno mi fece una foto, erano ben vestiti ed attrezzati di scarponcini e zaini, e masticavano; chiacchierammo un po' praticamente gridando dalla distanza ma io non avrei lasciato quel posto raggiunto con tanta fatica per un bel pezzo concentrato come ero nel farmi coinvolgere dalle sensazioni. I ragazzi con cui scambiai le battute erano due europei e se ne andarono scendendo la strada, da cui probabilmente erano anche venuti.
ai minimo una mezzora su quella rocciosa vetta, poi scesi e mi diressi lentamente verso un altro picco arretrato e più basso rispetto a dove ero appena stato, da dove erano arrivati i due ragazzi. C'era un piccolo spiazzo con, su di un bordo, vari gruppetti di pietre messe una sopra l'altra con dei fogli di carta in mezzo; mi avvicinai ad osservare i fogli e capii subito che erano delle preghiere e dei fioretti di alcune persone che erano arrivate fin lassù a chiedere misericordia.
Forse avrei dovuto chiedere anch'io qualcosa, ma onestamente non mi potevo lamentare, qualsiasi entità, energia o dio esista mi aiutava già abbastanza.
Tentai di farmi delle foto con l'autoscatto mentre facevo una verticale con il magnifico sfondo delle montagne, ma fu un impresa che abbandonai dopo pochi tentativi. Tornai poi al punto di osservazione sulla torretta della cima più alta nei miei orizzonti.
Potevo vedere delle dighe alla destra della città, gli spiazzi delle industrie di selezione dei minerali alla base della montagna, alcune strade che sfuggivano dalla città, qualche nuvola oscurava nel suo aggio gli amati raggi di sole e rimisi la canottiera che avevo tolto salendo. Il disagio fisico della quota iniziò a farsi sentire e capii che era tempo di andarsene nonostante sarei rimasto molto più.
Scesi dal mio podio personale e andai a scambiare quattro chiacchiere con i minatori, mi spiegarono che lavoravano per trovare argento, tungsteno ed altri metalli. Venni a sapere in futuro che la quantità di argento estratta dal cerro rico e dalla Bolivia sarebbe bastata per costruire una erella fino alla Spagna, per rendere l'idea di come i conquistadores saccheggiarono questa nazione.
Guardando la città in basso stimai quanto tempo avessi impiegato per salire fin lassù, e mi dissi che sarebbe stato un record personale, così pensai perché fui sicuro che non ci sarebbe stata una seconda volta.
Discesi senza minimo dubbio che non sarei ridisceso, anzi valangato, da dove ero salito, immaginandomi pietre rotolanti, fedeli e rapide al mio seguito; iniziai quindi a seguire con la vista e poi camminando i tortuosi tornanti simili a piste viste dall'alto, cercando di mantenere un orientamento sulla strada da seguire. Mi girai, salutai la mia torretta elevata beatamente sopra la vita mediocre di noi comuni mortali ed iniziai a molleggiare verso il basso.
Mi persi più volte a causa dei vari bivi e preferii spesso tornare indietro piuttosto che lasciarmi scivolare dalla fiancata, mi misi anche ad eseguire dei sollevamenti rocce durante il percorso sentendomi ancora una volta un folle esaltato.
Riai vicino al punto in cui vi erano i 2 minatori che scaricavano il carrello dalle pietre e vedendomi gridarono: “Conseguisteee?”.
Gli risposi affermativamente e mi fecero il pollicione con belli e ampi sorrisi!
ai da un punto veramente singolare, non percorso all'andata; vi erano una decina di casupole una affianco all'altra, costruite con mattoni di pietra uniti malamente, i tetti erano delle lamiere di metallo con le pietre buttate sopra per far si che il vento non derubasse tutto; da una porta semiaperta intravidi dei bambini e dietro loro qualcuno cucinava probabilmente. Tra le prime due case e le successive, che sorgevano tutte attaccate in fila, utilizzando una parete rocciosa come lato posteriore vi era un cunicolo d'ingresso alla miniera.
Quell'immagine fu di per sé molto triste, ma anche il sinonimo della adattabilità ed inarrestabile voglia di sopravvivenza della razza umana. Famiglie di minatori che vivevano nella polvere, sul pendio di una montagna ando buona parte della giornata dentro le viscere del cerro rico che purtroppo dal momento in cui vi si faceva ingresso per lavorarci si aveva una aspettativa di trent'anni di vita al massimo; visto le polveri sottili, tra cui amianto, altamente tossiche. Un lavoro duro come pochi, eseguito ancora come da tradizione: a martello, scalpello e dinamite; il tutto per trovare dei pezzettini di metallo per crearne, in parte, gingilli che tanto piacciono alle persone per adornare il loro aspetto esteriore, convinti di acquisire valore indossandoli.
I minatori pagati a quantità di metallo trovato non avevano nessuna sicurezza. Prima o poi sarebbe finito l'argento nella loro montagna, come prima o poi finiranno tutte le risorse del pianeta sfruttate dal nostro egoismo.
Continuando la discesa notai che da un lato del cerro si staccava una piccola vetta con sopra una chiesa od un mausoleo, in onore sicuramente a tutti i morti prematuri di quella caccia al metallo.
Alla fine arrivai alla base dove vi era il cartellone con Evo Morales, incontrai vari minatori ed una campesina magra ed impolverata che se ne tornava a casa; le mie gambe già mandavano segni di pietà, comunque riuscii grazie alla soddisfazione verso me stesso ad arrivare fino alla piazza principale che ora era in pieno movimento. Mi tracannai altre spremute d'arancia da un altro spremitore ambulante, il quale era sempre al posto giusto ed al momento giusto, che delizia.
Rimasi un po' di tempo ad osservare il via vai di persone, vidi alcuni turisti che si recavano in macchina con la guida del tour verso la montagna, sarebbero arrivati solo ad un terzo dell'altezza vestiti da minatori e regalando le ioni principali ai veri muratori come omaggio; foglie di coca e bibite gassate, il tutto stando massimo 2 ore tra andare e tornare. Fui contento di aver fatto il tour gratis e personalizzato.
Quando mi alzai dalla comoda panchina ed attraversai la piazza incontrai tre argentini con cui ero stato al Salar qualche giorno prima, fu divertente e ci raccontammo cosa era successo in quel breve periodo, loro mi guardavano stranamente e capii solo dopo qualche minuto che ero completamente impolverato. Arrivarono anche le altre due ragazze argentine a completare il gruppo, poi iniziammo a vagare per il centro. Mi proposero di seguirli il giorno seguente verso un lago termale in un pueblo vicino, ma io che già mi ero fatto i conti in tasca ero cosciente di non poterci andare e che se ci fossi andato poi mi sarei fatto prendere la mano e sarei rimasto poi troppo coinvolto, mi dispiacque perché erano gente buena e mi ci sarei aggregato volentieri, però la mia corrente interiore mi direzionava da altra parte ed inoltre essere un lupo solitario aveva sempre i suoi vantaggi.
ammo del tempo insieme ed incontrammo anche altri argentini di strada, poi, ad un mercato mentre cercavo un posto dove mangiare e loro compravano assortite bottiglie dei vari alcool, ci perdemmo di vista lasciandoci con le ultime parole: “Ci vediamo dopo”.
Uscendo dal mercato mi ritrovai a seguire la strada distratto e capitai incoscientemente nella stessa strada del giorno prima dove vidi i bastoni per le scope, balzandomi all'occhio quello stesso negozietto attraversai la strada, entrai e chiesi alla señora a quanto vendesse uno di quei pali pagando subito e soddisfatto i miei 60 centavos di boliviano. Ora ero in possesso anche di un bastone magico con cui mi presi fin da subito la confidenza richiesta, ma anche il rispetto dovuto visto che dopo qualche minuto mi ero già bastonato la testa involontariamente varie volte, vibrando colpi casuali nell'etere.
Discesi quindi fino all'alojamento prendendo zaino e borsone (sempre lui quel maledetto) ed aspettai in una strada là vicino un micro che mi avrebbe portato al nuovo terminal degli autobus. Una ragazzina sui 15 anni mi tenne compagnia, era una accalappiatrice di clienti per i tassisti, visto che era un punto strategico per loro. Mi riempì di domande sul perché fossi là, perché viaggiassi, da dove venissi, a cui risposi come cercavo di fare sempre, in maniera esaustiva e tentando di ispirare in lei qualcosa che la spingesse a seguire i propri sogni nella vita e la propria felicità reale.
Salii sul micro, ed arrivai compresso al nuovo terminal e questo fu il più moderno in assoluto che vidi nel mio migrare sudamericano; era strutturato sulla base di un grande cerchio con le tiendas delle varie agenzie al piano di sopra, il quale era formato solo da una erella che seguiva tutta la circonferenza, e tre raggi-erella che partivano verso il centro dove c'era un bar, dall'alto sarebbe stato uguale al segno della pace suppongo.
E qui si verificò un evento quasi ipnotico, le solite urlatrici delle varie destinazioni sfruttavano il fenomeno dell'eco dato dalla cupola rotonda, evitavano quindi di perseguitarti per il terminal, ma attiravano fin dal punto opposto della circonferenza con dei languidi richiami che risonavano al mio udito come la melodia delle sirene di ulisse, al sovrapporsi dei nomi delle città:
“La paaaaazz, Oruroooooo, Tarijaaaaa, Cochabambaaaa”.
Sarei andato ovunque in quel momento.
D'un tratto si facevano silenti, poi quando una di loro, la più vicina alle scale, avvistava un probabile viaggiatore (alias cliente) salire al secondo piano iniziava col dire la destinazione della propria impresa e le altre più lontane seguivano a catena sommandosi sull'eco iniziando quel coro eterogeneo, in cui come sempre si percepiva un tono di sfida e competitività tra le voci.
Sfide canore, come i grilli che quando comincia uno cominciano altri dieci, centuplicandosi così la loro potenza sonora entrando in risonanza nei timpani, martellandoli.
Dopo che persi l'orientamento a girare il quel diabolico cerchio del suono, procurando il biglietto più economico, mi ritrovai a rivedere le stesse facce varie volte e mi sentii confuso, alla fine individuai una faccia di una venditrice già nota e mi comprai rapido un biglietto per Cochabamba la sera stessa, saltando Oruro, che veniva prima in quella direzione, ma mi era stata sconsigliata.
Lasciai zaino e borsone maledetto nello stanzino dell'agenzia, mi misi il cappellino e maglione di alpaca, presi il nuovo bastone e mi gettai fuuuoooooooriii da quel posto; non dopo essermi tolto una piccola soddisfazione lanciando in un momento di silenzio un grido stridulo, simulando una voce femminile, con il nome di qualche destinazione ed aver ricevuto la risposta delle venditrici che a pappagallo seguivano iniziando daccapo ed a effetto domino la tarantella, sorrisi da solo a quello strano meccanismo automatizzato.
Una volta all'aria aperta iniziai ad allenarmi col maneggio del bastone, in una maniera casuale ed istintiva, mi sentii abbastanza portato, comprendendo tuttavia
che avrei dovuto imparare parecchio.
Feci anche amicizia con un cane randagio che mi si attaccò addosso dopo qualche carezza e ci coccolammo a vicenda; entrambi scodinzolanti e già consideravo vagamente di portarlo insieme a me, ma non avrei potuto.
Lo indirizzai infine verso una pattumiera poco distante, dove rimase distratto dagli odori e all'inizio mezzo incastrato mentre infilava la testa nell'apertura basculante del cestino; dimenticò della mia presenza e rientrai nel terminal.
Quando si approssimò l'ora di viaggiare ero seduto sopra il mio zaino sul marciapiede del terminal, osservando in pace il pueblo con il quale avrei viaggiato insieme, vi era una distinzione di personaggi che sarebbero corrisposti a due autobus differenti. I campesinos ed io, all'autobus più economico; gli altri, di tipo un po' misto, a quello leggermente più caro, ma dotato del sempre elogiato servizio “cama”(letto). Gli autobus cama praticamente avevano i sedili reclinabili, non lontano dall'essere orizzontali ed erano di conseguenza più comodi, mentre il normale era definito semicama, con il sedile appena reclinabile e che spesso non sarebbe più tornato indietro, oppure con nada mas che un normalissimo sedile duro e stabile.
Avrei dormito anche in piedi quella notte e quindi non sussistevano molti problemi sulla sistemazione per dormire. Salito sull'autobus in partenza ebbi dei disguidi con una campesina che aveva preso il biglietto all'ultimo e affermava, con ragione sua ma errore di chi le vendette il biglietto, di avere il mio stesso posto, alla fine mi alzai andando a sedere da un'altra parte, anzi da altre tre parti prima di trovare un buco che non fosse prenotato.
Partimmo, ed ebbi un vago rammarico di non viaggiare di giorno per poter ammirare nuovi paesaggi, tuttavia riuscii abbastanza ad intravederli, rischiarati
dalla luna che si avvicinava alla sua luminosa pienezza.
COCHABAMBA, la forza di credere.
Mi svegliai durante la notte nella periferia di Oruro ed a prima vista diedi ragione al cileno che me l'aveva descritta come: “La ciudad mas fea”, la città più brutta, dove rimanemmo fermi ore in una piazza senza apparenti motivi.
A metà mattino arrivai alla fantomatica Cochabamba, persi un po' di tempo al terminal, ma non troppo e iniziai a vagare fuori esplorando come fosse la città visto che avevo una mezza intenzione di rimanervi fino allo scadere del visto.
Volevo farmene una idea sincera, quindi mi sarebbe servito un posto dove dormire prima di tutto.
ai il resto della mattino chiedendo prezzi nei vari alojamentos e residencial, ma sembrava tutto più caro rispetto a quanto pagavo a Santa Cruz, in qualsiasi posto andassi; nonostante fossero delle bettole. Infine arrivai oltre il centro e trovai un posto veramente pulito e relativamente moderno. Nel pomeriggio volli consumare ulteriormente le mie povere gambe avanti e indietro sperando di incontrare qualcosa, qualsiasi cosa di interessante che la città mi avrebbe potuto offrire.
Mi piaceva e incuriosiva poter osservare quello che mi circondava, notai fin da subito i fantastici autobus di linea nella città, erano quasi tutti vecchi automezzi della chevrolet e dodge degli anni che furono con quelle forme tondeggianti caratteristiche, colorati nei modi più strani e pieni di scritte che inneggiavano alle qualità dell'autista. Erano presi, anzi adottati, sicuramente anche questi in
qualche economica maniera dagli stati uniti. La sera mi ritrovai casualmente nella piazza principale piena di gente dove si stava tenendo un evento a livello mondiale, chiamato l'ora della terra; praticamente avrebbero staccato la corrente alla città per un ora. Fui ben felice di essere in centro e non altrove nell'ora in cui sarebbe mancata l'illuminazione, immaginandomi che dalle parti del terminal e nelle periferie, sicuramente ci sarebbe stata parecchia gente dandosi alla “pazza gioia” nell'acquisire, beni di prima necessità e non, approfittando di quell'evento così favorevole e ben venuto.
Riuscii ad infiltrarmi tra le prime file dinnanzi ad un angolo della piazza in fronte al municipio, dove con moltissimi bicchieri con dentro una candela accesa posizionati sul suolo avevano scritto grandemente: 60 +.
Qualcosa non era stato considerato e come staccarono la spina alla città due grossi gonfiabili pubblicitari a forma di bottiglie di coca cola, non più alimentati, presero a sgonfiarsied uno stava cadendo sulla scritta infuocata. Le persone incominciarono a saltare pazzamente contro il gonfiabile e riuscirono a salvare la situazione che speravo si avverasse; uno dei simboli della decadenza artificiale creata dall'uomo rovinando in un elemento fondamentale creato dalla natura, il fuoco. Riuscirono a salvare la situazione.
Dopo ci furono vari gruppi di musica e di danze popolari, di cui un gruppo di percussionisti verso la fine che fece ballare la massa di persone smovimentando la situazione del popolo, già sorpreso ed un po' timido verso quell'evento inusuale.
Erano presenti anche gruppi di scout che facevano giochi di gruppo saltandosi addosso formando un cerchio, qualcuno aveva la scusa per ubriacarsi e confondersi tra i sani, anche gli artisti di strada ed i venditori, tutti là si erano concentrati.
Il giorno dopo volli andare al Cristo de la Concordia, una statua posta su di un'altura simile al cristo redendor di Rio de Janeiro. Presi un micro americano traballante e rumoroso come un camion da trasporto pesante che ando per il mercato si bloccò completamente in fila in questa via stretta a senso unico piena di gente a fare provviste; fui l'ultimo ad abbandonare la nave alzandomi come un vecchio e proseguendo a piedi, vi era carneficina e pescado in vendita ovunque in quel tratto.
Vidi incredulo varie señoras vendere, ben scuoiati e puliti chiaramente, dei simpatici animali con quattro zampette, lunghi minimo minimo 30cm, senza contare una coda apparentemente rimossa, inoltre conservando la loro testa integra con le orecchie corte e tonde, i denti e la forma del muso aguzza; non potevo credere che a detta loro fossero conejos de montaña, conigli di montagna, perché ero sicuro fossero quei simpatici animali che fanno pensare a malattie, tante brutte cose e sbiancare e gridare certe persone alla sola vista. Ognuno aveva i propri gusti, pensai divertito.
Chissà perché, ma associativamente pensai al mio compagno amichevole di eggiate e per un certo verso insegnante di spagnolo da strada i primi tempi a Santa cruz, Ignazio; sperai di incontrarlo, non tanto perché mi doveva dei soldi, ma perché comunque eravamo in un buon rapporto prima che sparisse e non gliene volli mai. Avrebbe potuto darmi qualche dritta su Cochabamba e magari trovarmi un lavoro, cosa quasi impossibile in maniera pulita se non si aveva un permesso, tuttavia la strada poteva avere abbastanza da offrire in Bolivia per chi sapeva usare la testa.
Arrivai dopo aver preso un altro micro aerografato e fiammeggiante fino alla base del monte con il cristo, questa volta scelsi di consacrarmi al riposo visto che le gambe oramai rischiavo di farmele amputare da come dolevano. Presi la funicolare e quando arrivai in cima fui felice di leggere vari cartelli di pericolo che invitavano a evitare di essere vittima dei delinquenti e non salire e scendere dalla scalinata, ma utilizzare la funicolare appunto; adorai quell'onestà.
Nella cabina della funicolare feci delle foto a 2 cholitas vestite quasi uguali. Spesso andavano in giro a braccetto vestendosi completamente uguali di colori sgargianti e luccicanti, con delle gonne frastagliate a bande verticali arrivanti appena sopra il ginocchio con tanto di sottoveste di pizzo bianco che si intravedeva quando camminavano, scarpe nere con un piccolo tacco e la immancabile doppia treccia con dei finti fiori o altri gingilli colorati alla fine. Per un occhio europeo inesperto la cholita avrebbe potuto facilmente essere scambiata per una “zingara alla moda”.
Seguii le mie due nuove curiosità nei loro movimenti, fino a sotto la grossa statua dalle braccia aperte, chissà qual'era il mondo interiore della cholita. Nella sua uscita quotidiana per le strade di città abituata ad un corteggiamento costante ed insistente fatto di fischi, pacche e insulti da parte del chollo, il suo corrispondente maschile, ragazzetti spesso sul rachitico sfoggianti look alla Elvis Presley; ma tutto faceva parte del gioco e nelle reazioni violente delle cholitas, si notava un retrogusto di soddisfazione nella loro espressione mentre maledicevano o malmenavano il loro importunatore del momento, dopotutto sotto sotto erano contente di essere considerate anche se in quella maniera.
Il panorama di Cochabamba là sotto non mi entusiasmava molto ma vi rimasi moltissimo rilassandomi a causa della stanchezza e spossatezza fisica accumulata che la notte di sonno in un letto non aveva colmato come speravo.
Alla fine ridiscesi con la funicolare e mi persi in un quartiere più moderno dove c'erano cinema multisala, qualche palazzone e la parte benestante della città. Trovai un ristorante popolare con pure dei brasiliani che vi facevano la pausa pranzo, dove si pagava a peso; sfruttando l'alta affluenza di persone a quell'orario mangiucchiai abbastanza in piedi e senza dar nell'occhio prima della pesata in bilancia, che nonostante ciò superò il chilo.
Mentre mangiavo quel banchetto sentivo rimorso di coscienza, dannata dipendenza dal cibo, quanto tempo della nostra vita si a lavorando per
poterselo procurare, andarlo a comprare, cucinare, digerire, guarire dalle malattie dovute agli eccessi ed all'ignoranza in materia, scannarsi l'esistenza per sopravvivere.
Finii di mangiare quasi a forza per quella pessima abitudine radicata profondamente in me stesso del non buttare via niente che avessi pagato, a costo di farmi del male da solo; oggi stavo mangiando e domani non avrei avuto la certezza di poterlo rifare e questa era la scusa buona per fare scorta nei momenti di abbondanza.
Appena uscito mi sdraiai su di una panchina distrutto e preso da processi chimici interni, che comportarono nel giro di pochi minuti una produzione di gas indescrivibile, diventai una specie di echeggiante macchina a vapore e speravo che non vi fossero anti nella zona, per il loro bene.
Cominciarono a tornarmi dei dubbi, visto che tempo prima mi capitò di vedere cose bianche simili a chicchi di riso nel gabinetto mentre ammiravo una mia tra le mie ultime splendide creazioni. I dubbi erano relativi al fatto che mi fossi preso dei vermi intestinali, molto in voga in sud America.
Quando terminò la mia nuova attività di fornitura gratuita del gas me ne tornai al residencial, mi caricai addosso tutte le mie cose, salutami tristemente la piccola e bella recepcionista morena con un neo vicino la bocca che la rendeva ancor più graziosa; avevo deciso in uno stato abbastanza confusionale di tornarmene a Santa Cruz de la Sierra.
Andai fino al terminal, qualche chilometro a piedi con il sole e quasi 30 kg addosso e la pancia piena a scoppiare, maledetto borsone; fermandomi soltanto in un internet point dove parlai in chat con mia sorella che mi trovò un volo di ritorno per l'Italia a buon prezzo, da Salvador de Bahia in Brasile e lei come un
angelo lo comprò senza nessun tipo di storie o premesse, insomma in uno stato confusionale e postprandiale erano state prese decisioni imminenti sul futuro.
Mi ritrovai quindi nel classico casino da Terminal degli autobus, schivai qualche approcciante venditore e mi comprai un biglietto per Santa Cruz la sera stessa. Lasciai i miei averi dietro al bancone della bigliettaia che mancavano 5 ore alla partenza.
Uscii fuori e mi feci un bel giro per il mercato, di frutta per lo più, e rimasi sorpreso a trovare bancarelle con le scarpe da ginnastica di marche famose in tutto il mondo buttate a terra in mucchi su dei teli, con tutte le persone che rovistavano cercando quelle adatte; le scarpe sarebbero potute sembrare nuove da come venivano tirate a lucido e si intuiva che non lo erano principalmente dalle suole già consumate. Anche le scarpe quindi come le macchine e chissà cos'altro ancora scartato dai paesi “ricchi” erano riciclate ed avevano anche un bel mercato in Bolivia.
Mi comprai due succhi da una bancarella di cui il secondo mi diede il disgusto dopo il primo sorso perché sapeva di medicinale, chiaramente per quella stessa pessima abitudine citata prima lo bevvi lo stesso nonostante il sapore invitasse a svuotare il bicchiere per terra.
In quel mercato caotico raggiunsero rapide il mio sguardo delle grosse nuvole, intensamente grigie nel crepuscolo, mi raggiunse anche la pioggia portata da un forte vento arrivato improvvisamente. Ero leggermente disorientato nel labirinto di bancarelle e lo sciame di genti che si disperdevano nel mercato però alla fine trovai la mia strada ed tornai veloce al riparo dall'acqua nel terminal degli autobus.
Non mi ero bagnato molto, ma da un momento all'altro iniziai a sentirmi strano,
per fortuna ero coperto con la felpa e cappellino di alpaca pensando così di essermi salvato da un ipotetico malanno ed iniziai a fare avanti e indietro dentro il terminal che a causa pioggia era maggiormente pieno di persone. D'improvviso stavo eggiando come un naufrago, lentamente e strisciando i piedi con le braccia conserte, mi sedetti dopo una mezzora che ero febbricitante.
La temperatura esterna si era abbassata notevolmente e c'era una tempesta che faceva rimbombare tutta la struttura del terminal e insieme ad essa il mio corpo che entrato in risonanza a quella condizione atmosferica iniziò a tremare; la mia temperatura interna si andava alzando repentinamente.
I tremori aumentarono nel giro di poco tempo, cambiai di posto varie volte con quel mio andare lento e spaventato, mi risedetti più volte rannicchiandomi con le ginocchia al mento e fremendo i denti. Alle persone presenti che aspettavano l'autobus si erano quindi aggiunte anche quelle che si riparavano dalla pioggia, ma in tutto quel caos nessuno sembrava notare che stavo malissimo, neanche chi avevo affianco si girava al tintinnio irrefrenabile dei miei denti che battevano.
“Perderai l'autobus. All'ospedale cosa ti faranno? Devi chiedere a qualcuno di chiamare l'ambulanza o potrebbe essere tardi ...Nessuno ti aiuterà ...pensano che sei un disperato che ha fame o un drogato, come fai? non hai nessun tipo di assicurazione, perché non ne hai fatta una? Sei un irresponsabile...questa volta ci rimani fregato...”
I pensieri che si susseguivano senza controllo ed a ruota libera iniziarono a preoccuparmi seriamente e per un secondo immaginai un ambulanza che mi venisse a prendere, le persone che mi caricavano sul lettino dell'ambulanza ben coperto, caldo e comodo. In quell'ansia e panico crescente quest'immagine sembrò quasi piacevole e risolutiva, me ne stavo assuefacendo e quasi parve ci stessi sperando.
La febbre avrei potuto scommetterci che toccava, se non superava, i 40 gradi ed in quello stato era difficile pensare qualcosa che non tendesse al catastrofico. sforzai di svuotare la mente da tutte quelle inutili perversioni, avevo bisogno di reagire; mi alzai e dopo un ultimo spostamento mi risedetti esanime, debole e fragile come non mai, auto-illudendomi con frasi giustificanti, insicure ed impaurite nella mia testa; ero una piccola foglia tremante nel vento.
“Adesso a...Adesso a? vedrai che a è già successo altre volte, si dai dovrebbe are...Dovrebbe...Spero.”
Quella reazione non sarebbe bastata, mi rialzai con uno sforzo che sembrò insormontabile e con tutta la mia volontà, come fossi pronto a tuffarmi in una mia immediata intuizione; seguii il mio istinto e mi tolsi velocemente senza indugio la felpa ed il cappellino di alpaca andandoli, ora scattante, ad appoggiare sopra il mio borsone oltre il bancone dell'agenzia dove avevo comprato il biglietto. Non dissi niente a nessuno del mio male, perché non sarei riuscito ad articolare bene una sola parola.
Rimasi in canottiera e pantaloncini corti, scottante e tremando impensabilmente, mi misi a eggiare frenetico ma con andamento inceppante per il fremito, sembravo un tossicodipendente in crisi di astinenza agli occhi di qualcuno che incrociò i miei. Iniziai a formulare delle parole fisse in testa ,convinte, chiare e sicure:
“ADESSO STARAI BENE, CORPO SEI FORTE, ELIMINA QUESTO MALE, REAGISCI !”
Mentre camminavo ripetevo questo concetto con il massimo della fiducia e determinazione, mi diressi fino all'uscita dove le porte erano aperte ed entrava
soffiando forte il vento freddo e umido, temporalesco; mi piazzai la davanti a recepire ancor di più l'ostilità del tempo, uno spasmo di brividi mi scosse fortissimo, come un onda mi travolse in tutto il corpo; rimasi fermo percependo volutamente e appieno tutte quelle brutte e spiacevoli sensazioni a livello fisico, volli vivere ogni istante senza fuggire dalla sofferenza. Mai tremai tanto in vita mia.
Dopo quel minuto immobile, di tanta agonia pura, molto provante ma forgiante al tempo stesso per la mia forza di volontà, tornai all'interno dove continuai lottando per un'ora contro quel male, vagando per il terminal con lo sguardo fisso nel nulla ma dritto di postura e concentrato sui miei i e sul respiro, in tono di sfida a quel male che mi voleva piegato e tremante. ata la lunga ora sentii il bisogno di andare in bagno, urinai denso, giallo scuro, caldo e acido, con un alta quantità di schiuma che si formava nel water. Bevvi quel poco d'acqua che riuscivo dal rubinetto e notai subito che avevo smesso di tremare e mi stavo già sentendo meglio.
Dopo un'altra ora ero seduto sull'autobus con a destra il finestrino e dietro alla sua protezione dagli agenti atmosferici e Cochabamba che stava per essere lasciata. Tornai a coprirmi con l'asciugamano a mo' di copertina ed appena partiti nel giro di alcuni km mi sentii sudare lievemente, la fronte era fresca ora ed una sensazione di benessere totale di tutti i sensi comparve a tenermi una deliziosa e tanto attesa compagnia. Quello stare bene fisicamente rafforzò a maggior ragione la fiducia verso le mie capacità.
Prima di cadere nel sonno riflessi consciamente sulla forza che hanno il modo di pensare, anzi di interpretare la realtà, nel disporci con un atteggiamento differente di fronte ad un evento di qualsiasi tipo, ottenendo quindi un risultato differente.
Avevo superato una situazione, per me allora un male, che si era presentato all'improvviso, forte e straziante; affrontandolo in una lotta di pazienza e fede,
secondo dopo secondo.
SANTA CRUZ, il ritorno.
Mi risvegliai di riflesso al fermarsi dell'autobus in un imprecisata ora notturna in un imprecisato punto all'inizio della giungla amazzonica sulla nuova carretera per Santa Cruz, che non avevo ancora percorso.
Eravamo bloccati in fila insieme a molti altri autoveicoli, dopo alcune ore in dormiveglia, ancora rilassato dalla ristorata condizione di salute, scesi a dare un occhiata alla bellezza della scura giungla, fitta ed impenetrabile che iniziava molto vicino al ciglio della strada.
Avremmo dovuto raggiungere la destinazione alle 6 del mattino, per l'ennesima volta non sentii nessuno dei eggeri lamentarsi minimamente per il disguido, provai piena ammirazione per i pazienti e fiduciosi boliviani; solo un signore che aveva fretta per dei suoi impegni, da come lo udii bisbigliare ad un altro eggero, prese e si incamminò lungo la strada sperando in un aggio più avanti, oltre il motivo della nostra immobilità.
All'albeggiare il nostro autobus si mosse nuovamente qualche centinaio di metri e la circolazione riprese a sensi alternati dopo qualche ora. Il problema era stato un incidente non grave tra tre camion causato dalla forte pioggia della sera precedente, che finalmente ammo e potemmo iniziare a filare spediti con la vegetazione tipica dell'Amazzonia a chiudere, come due alte pareti laterali, la strada ben piena di curve.
Sole caldo a tratti nascosto dalle ombre degli alberi, così amabile a svegliarmi
affettuoso dal finestrino spalancato. ammo vari villaggi, alcuni di vere e proprie capanne di Indios e avanzammo fino ad uscire dal tunnel verde della giungla entrando in una parte piana con fermata in tutti i vari pueblos. Infine dopo Montero iniziò il piano di cui Santa Cruz era l'unica città di grandi dimensioni e la raggiungemmo dopo una cinquantina di km arrivando infine al terminal degli autobus di pomeriggio con 12 ore di ritardo.
Avevo deciso che avrei provato a vivere in un altro barrio*(quartiere) e quindi mi mossi con un micro verso l'Abasto, un quartire famoso per il mercato al coperto dove arrivavano camion carichi di frutta e verdura da tutto il territorio boliviano; non vi ero mai stato prima.
Spesi inutilmente la serata cercando un residencial che mi accettasse, gli addetti alla reception mi guardavano con occhio storto e percepivo a pelle la loro diffidenza, chiaramente il mio aspetto comprendente barba incolta, capelli lunghi, vestiti che non avevo avuto tempo di lavare ed il bastone che si era aggiunto al mio equipaggio (borsone pesante che tu sia sempre maledetto), mi davano un aria sospetta dal loro punto di vista. Mi venne chiesto in tutti i posti dove tentai di pagarmi un letto per dormire se avessi avuto il documento e gli mostravo il aporto, dove tra l'altro nella foto scattata in inverno ero biancastro e rasato a zero come uno costretto ai lavori forzati con la correlata espressione tipica; non sembrando io ad una prima occhiata.
Venni rifiutato in vari posti, in alcuni mi venne chiesto se fossi colombiano, mi vidi rispondere che non volevano avere problemi e persino che non accettavano stranieri; oppure dicevano prezzi spropositati per farmi andare via. La situazione raggiunse il colmo quando entrai in un posto in cui la signora al bancone mi disse che la stanza valeva 80 bolivianos a notte, sapendo che era una cifra spropositata, io afflitto risposi che andava bene e la signora trovò poi la scusa che non poteva ospitarmi perché non avevo un documento boliviano e lei non voleva avere problemi con l'autorità.
Nell'ultimo posto dove entrai, chiacchierai con una ragazza e due ragazzi alla reception, a cui feci il moralista sapiente improvvisato, dovuto alla mia tristezza accumulata di sentirmi rifiutato in ogni posto solo perché non fossi boliviano ed a causa del mio aspetto. La ragazza alla fine si scusò per avermi giudicato in base all'apparenza e mi spiegò con calma che la polizia aveva fatto delle perquisizioni tempo prima trovando parecchi clandestini, contrabbandieri e piccoli esponenti del narcotraffico che si nascondevano in quelle pensioni sparse per la città; quindi avevano avuto dei problemi i proprietari tacciati di non aver, come dovuto, controllato i documenti; a reazione di tutto ciò ora non accettavano più stranieri.
Me ne tornai direttamente alla Ramada, dove speravo nella fiducia verso di me da parte delle persone del residencial che già mi conoscevano.
Le strade erano precocemente tranquille per quell'ora, ed era cambiato il tempo anche a Santa Cruz; arrivai in quelle vie di mercato da me conosciute bene per le bazzicate quotidiane, entrai sorridente nella mia casa-base e venni accolto ridendo a crepapelle da Efrain e Hugo, i due ragazzi che lavoravano là al fidato residencial.
Mi diedero la mia stanza solita. Ero di nuovo al punto di partenza ma questa volta deciso, e vagamente costretto dalle circostanze, che avrei combinato qualcosa di buono per riuscire a mantenermi a Santa Cruz.
Iniziai a spingere un po' la mia vita, dopo 3 notti mi pagai anticipatamente 2 settimane ottenendo un bello sconto. Fin dal giorno dopo il mio arrivo andai al parco urbano ad allenarmi nei maneggi con il bastone e quando presi un po di confidenza, dopo un lungo indugio, mi buttai in strada sul grosso incrocio del secondo anello giusto fuori il parco; aspettavo che il semaforo rosso scattasse per partire all'azione, una cosa veramente utile era che i semafori di quelle stradone a 3 corsie avevano il conto alla rovescia ed il semaforo che scelsi durava 70 secondi.
Inizialmente mi sentii molto strano ed impacciato percependo gli occhi degli autisti addosso mentre facevo avanti e indietro di fronte alla prima fila di macchine roteando il bastone tra le mani, finì per cadermi per terra varie volte di tanto a disagio che provavo, prima del mio terzo semaforo rosso mi distesi un po' e riuscii ad essere più presente a me stesso scaricando lentamente quell'inutile tensione interna; dovuta all'educazione impressa dalla nostra società dove quello che stavo facendo era visto come qualcosa di cui non andare proprio fieri, ma in realtà mi accorsi che non stavo facendo del male a nessuno e sorrisi a me stesso, non mi sarei mai aspettato di fare una cosa del genere nella mia vita ed in fondo chi se ne sarebbe fregato mai tra gli autisti di giudicarmi, ed anche se lo avessero fatto non mi avrebbe riguardato sinceramente, pensassero quello che vogliono. In seguito a queste riflessioni il nodo di disagio si sciolse trasformandosi in una situazione che mi divertiva.
Quando iniziò il terzo semaforo feci finta di essere da solo e mi concentrai al massimo esclusivamente su ciò che stavo facendo, per essere fluido e continuo nella sequenza di movimenti che avevo faticosamente imparato; come a conferma della mia nuova situazione interiore sbucò una mano tesa da un finestrino a darmi un boliviano, mi sentii subito felice e come si fece verde saltai sul marciapiede schivando le macchine che riprendevano nella loro direzione ed aspettando impaziente quei 30 secondi verdi per ricominciare al rosso seguente.
ai due ore riposandomi ben poco e ringraziando sinceramente chiunque mi desse qualcosa ed alla fine feci un bel gruzzolo di monete con cui mi sarei pagato qualche giorno di cibo alla Ramada.
Questa mia nuova attività mi lasciò un sorriso per tutto il resto della giornata, ma mi ci vollero due giorni di riposo fisico prima di poter tornare alla mia postazione, che come avevo scoperto dalla prima volta, era contesa tra alcuni artisti, di cui uno formidabile che palleggiava e sospendeva roteanti 3 palle da basket con praticamente ogni parte del corpo, oltre a venditori di bibite e lavavetri.
C'erano chiaramente gli orari in cui si concentravano più macchine e si creava una sorta di concorrenza.
Io avevo usato i 2 giorni di riposo istruendomi via internet sulle tecniche di maneggio del bastone ed iniziai ad imparare quest'arte piuttosto in fretta. A volte fu difficile trovare un semaforo libero e mi toccò camminare chilometri tanti erano i ragazzi che campavano così a Santa Cruz. La maggior parte facevano giocoleria con i birilli, le palline, con il diablo o con le due stecche di legno con un cilindro in mezzo, c'era anche qualche ragazzino che accennava a posizioni di break dance, insomma ognuno ci dava dentro. Io in un certo senso mi distinguevo leggermente perché ero l'unico, a quanto mi parve, che usasse un bastone.
Presi la mano nel giro di poco tempo e maneggiavo fluido ed abbastanza veloce, iniziai ad aggiungere qualche mossetta scenica tipo ruote salti calciati nel vuoto mischiandoli al maneggio; un giorno iniziai a fare anche la bandiera sul palo del semaforo, la cosa più efficace comunque era il sorriso e l'inchino finale ringraziando il pubblico.
La mia “rovina” fu scoprire un chioschetto dove vendevano jugo de caña e praticamente appena guadagnavo 5 bolivianos al semaforo li andavo a spendere là, tracannandomi mezzo litro di dolcezza, poi tornavo alla battaglia contro il mio nemico immaginario che mi attendeva al semaforo rosso; ma bastava bere due succhi di fila che cadevo in sonnolenza comatosa su di un prato del parco.
ai quasi 3 settimane così, lavorai al semaforo ed instaurai una relazione maggiormente amichevole con lo staff del residencial trascorrendo lunghi momenti a chiacchierare ed il mio spagnolo migliorò ancora; purtroppo loro non avevano la tendenza che poteva sembrare fastidiosa, ma utilissima in realtà, del correggere gli errori, quindi imparai determinate parole semplicemente
scimmiottandole da loro, senza manco capire cosa significassero in realtà od avendo alcuna idea come si scrivessero.
Si inizia a parlare spesso senza soppesare le parole che si stanno usando, illudendosi di capirsi a vicenda, quando ognuno intende cose diverse in base al proprio vissuto.
Sempre la sera spesso sedevo con i 2 ragazzi dello staff ad osservare i maliantes (delinquenti) che già dalle nove eggiavano tra le stradine del mercato in chiusura; vidi tra le tante delle scene molto divertenti.
Ricordo un signore chiaramente ubriaco che avanzava barcollando e non potendo più resistere all'istinto di svuotare la vescica si rivolse contro una saracinesca non lontano ed inizio a liberarsi, subito due ragazzini gli si avvicinarono quatti da dietro ed uno gli infilò una mano in tasca prendendogli il cellulare, poi iniziarono a correre ed il povero urinatore che aveva capito tutto si imbrattò distrattamente i calzoni e le scarpe; realizzò l'accaduto ma nonostante ciò portò a termine la sua lunga operazione, ando poi a guardarsi attorno con espressione dubbia e sconsolata.
Vi erano parecchi ragazzi della sorveglianza privata del mercato che giravano la notte fischiettando, tra cui uno che ava spesso nel residencial ed ebbi modo così di conoscere il suo mestiere più da vicino.
Andavano vestiti con abiti pseudomilitari, ed un gilet nero con sul retro la scritta gialla seguridad e tante tasche, una torcia, un manganello ed un paio di manette; da notare che tutto il loro abbigliamento non era niente di ufficiale, ma comprabile da qualsiasi persona in determinati negozi trattanti questi articoli.
Tramite questo ragazzo e racconti di altre persone, venni a sapere che guadagnavano ben 3000 bolivianos al mese contro i circa 1000 medi del pueblo; si potrebbe pensare che svolgessero una missione pericolosa quando capiti il turno notturno di sorveglianza meritando tale valore, ma al contrario oltre ad essere spesso disinteressati a are guai, avevano un bel sistema per arrotondare ulteriormente lo stipendio.
Appena venivano a sapere di qualche furtarello, si fischiavano da una parte all'altra del mercato riunendosi quei 3 o 4 che erano, poi appena scovato il colpevole si facevano dare una parte dei soldi rubati oppure compravano a basso prezzo l'oggetto che era stato rubato, rivendendolo poi ai negozianti.
Si davano un gran da fare, spesso durante la notte udivo concerti di fischietti.
Il loro lavoro non era comunque tutto rose e fiori e scoprii non da subito che fu uno di loro che venne ucciso la mia prima settimana dall'arrivo in Bolivia.
Sempre in uno di questi giorni in circostanze che non compresi bene, ma collegate alla prima morte, venne uccisa un altra persona che si nascondeva da tempo, in un altra palazzina giusto dietro al residencial dove stavo io. Nei giorni seguenti vi furono proteste e chio le saracinesche di alcuni negozi per paura; al terzo giorno vi fu la sfilata del carro funebre con donne disperate nelle prime file.
Una delle ultime sere delle prime due settimane dal ritorno a Santa Cruz stavo osservando dal primo piano il movimento della Ramada che si andava calmando, si avvicinò a me una quarantenne leggermente tarchiata e con un una lieve tendenza all'irsutismo che mi faceva sospettare il fatto che fosse una vera donna, chiacchierammo una decina di minuti e visto che mi faceva troppi complimenti senza nemmeno conoscermi iniziai ad insospettirmi; decisi di volermela
scrollare di dosso usando tutta la gentilezza di cui disponevo e le chiesi se mi prestava della carta igienica perché dovevo andare in bagno e non ne avevo.
Ci dirigemmo verso la sua stanza dove mi invitò ad entrare mentre cercava un rotolo, mosse distrattamente delle buste e degli oggetti in mezzo alla confusione che aveva nella stanza, poi come io feci qualche o, sempre parlando distrattamente, tornò in dietro e chiuse la porta. Capii inevitabilmente gli sviluppi possibili della situazione.
Considerai l'idea vantaggiosa di scaricare un po' di energia, ma seppi nella mia totalità che non era davvero quello che volevo, non con quella persona che stava parlando di cose totalmente casuali con un retrogusto preciso che sapeva di voler fare qualcosa con me per poi ottenere qualcosa d'altro da me.
Presi la mia carta igienica, di cui lei si era dimenticata, mi alzai e feci per andarmene ma cercava di trattenermi, mi dispiacque per lei e le dissi che non potevo darle quello che stava cercando e lei al posto di darmi uno schiaffone visto che la tacciavo di prostituta, iniziò a trovare varie scuse che volevano confermarmi che lei era una brava persona; mi indicò la parete dove vi erano tre grossi sacchi di yuta contenenti alghe, il suo commercio e la sua fonte di sopravvivenza a detta sua.
Le diedi un abbraccio sincero per la pena che mi fece ed uscii di scena.
Ebbi la conferma delle mie intuizioni quando la vidi entrare spesso nelle camere di vari uomini nei giorni seguenti e presero a girare le voci su di lei; mi lodai per essermi risparmiato qualche malattia venerea e la dignità della mia decisione.
Un'altra delle disavventure che mi convinsero a lasciare Buenos Aires mesi addietro, aveva molto in comune con quello che avevo appena ato, e l'esperienza vissuta mi aveva messo in guardia che le cose non si ripetessero nuovamente.
Ero appena arrivato in città, e trovato l'ostello e lasciato zaino e borsone maledetto, decisi di andarmi a fare un giro in centro; lasciai, tornando sui miei i, quasi tutti i soldi che avevo con me sotto al cuscino ed uscii. Dopo un pezzo eggiando trovai in pieno centro una ragazza bionda e carina che mi fermò dandomi dei foglietti pubblicitari che sponsorizzavano una sala da biliardo, e parlando in uno spagnolo rapido, di cui non capii molto, mi invitò a seguirla.
Scendemmo delle scalette ed entrammo in un locale sotto il livello stradale, mi diedi delle occhiate in giro, e si, vi erano parecchi biliardi, ma stranamente c'erano solo ragazze dentro. Non impiegai molto a capire di essere in una specie di bordello. Mi invitarono a sedere su un divanetto, mentre mi sforzavo di mettere subito in chiaro che non avevo un soldo, redendomela tra me e me per la situazione. Mi sedetti su sto divanetto rosso con due ragazze ai lati di cui una mediocre ed una fantasticamente bona, mediterranea dalle curve esplosive ed il fare molto sensuale; dopo pochi minuti chiacchierando mi accarezzavano entrambe le gambe e le spalle ed io cominciai ad eccitarmi. Parlavo quasi esclusivamente con la bona, nel mio spagnolo improvvisato, e le spiegavo che non avevo soldi per pagarla, ma che lei era bellissima ed io avrei voluto conoscerla quando non stesse lavorando.
Arrivò una donna che credo fosse stata la proprietaria che mi chiese se volevo una birra, ma io rifiutai; si ripresentò lo stesso dopo poco con un bicchiere di coca per me e due cocktail a loro.
Divenni subito sospettoso, e proposi alla accompagnante mediocre di sorseggiare la mia coca perchè avevo paura fosse “modificata”, con la coda
dell'occhio la seguii mentre portò il bicchiere alla bocca, ma vidi che non deglutì niente, così il sospetto si fece più evidente.
Pensai che era meglio andarsene, solo che era tanto bello avere questa bontà al mio fianco, mi sentivo ricompensato finalmente delle mie fatiche e del mio pazzo andare da una parte a quella opposta del globo, decisione che presi in pochi giorni, tutto sembrava così bello e stimolante ora.
Mi tacciai da solo nei miei pensieri come paranoico, e mentre chiacchieravo cominciai distrattamente a bere qualche sorso di coca.
Volevo a tutti i costi conoscere questa bella prostituta ed era solo ciò a trattenermi.
D'un tratto mentre ascoltavo le due ragazze conversare tra di loro iniziai a sentirmi strano, doveva essere il jetlag di 12 ore pensai, ma nel giro di 2 minuti mi iniziai a sentire confuso e mi parve di essere leggermente ubriaco, mi alzai di scatto... Dovevo andarmene.
Subito venni circondato dalle due ragazze più la signora che mi aveva offerto da bere e vi erano due uomini non lontano che mi fissavano. La signora pronta mi invitava a rimanere e quando dissi mezzo moscio che dovevo andarmene prese un foglietto e mi diede il conto da pagare, non ricordo il valore, ma era qualcosa di spropositatamente alto per una coca e due cocktail. Dissi subito di non aver quasi nulla se non pochi pesos e la signora mi disse di mostrarle il portafogli; feci tutto quello che diceva come se non avessi avuto altra scelta, lei rovistando il portafogli e poi mettendomi le mani in tasca, e le lasciavo fare tutto con un sorriso incosciente e da idiota sulla faccia. Mi avevano drogato, me ne rendevo conto ed al tempo stesso non me ne fregava nulla. Riuscii ad andare via, anzi mi lasciarono andare senza prendermi neanche i pochi spiccioli che avevo, perché
la ragazza bona disse alla signora che avevo ripetuto a lei varie volte di non aver soldi con me.
Rimasi in uno stato confusionale assurdo e feci fatica a ritrovare l'ostello, crollai a letto e rimasi storto per altri due giorni; riuscii a ricordare ed a comprendere l'episodio solo dopo del tempo. Fortuna volle che non bevvi tutto il bicchiere...
Dall'istante in cui ero arrivato a Santa Cruz per la prima volta vidi le bancarelle chiuse, mi stavo dirigendo inutilmente a tentare un ultimo approccio con la bella Marisol, ci furono due giorni di pulizia e disinfestazione di tutto il quartiere di mercato ed era pieno in giro di persone armate di scopa che spingevano le cartacce da una parte all'altra, poi ò un camion serbatoio che gettava acqua e disinfettante; rimase effettivamente tutto molto pulito, ma dopo poco tempo sarebbe stato tutto sporco un'altra volta, nonostante assero ogni notte gli spazzini a rastrellare.
Conobbi anche un piccolo mercato che esisteva solo il sabato, situato alla fine di avenida grigotà. Vicino alla statua del Chiriguano, che spesso contemplavo, partiva una stradina che veniva chiusa al traffico in quel giorno della settimana e là si trovavano venditori di animali; c'erano file di cuccioli di cani e gatti tristemente chiusi nelle gabbie, tacchini, anatre e polli tenuti nei sacchi di yuta. La cosa che mi sorprese maggiormente furono gli impavidi galli da combattimento, i più forti addirittura tenuti in borse appositamente create dove spuntava solo la testa e le zampe.
Vi erano varie fasce di prezzo in base alla prodezza del gallo o alla bellezza del piumaggio ed ogni tanto i venditori davano piccole dimostrazioni aizzando i galli l'uno contro l'altro; un gallo scappò lanciandosi in mezzo al traffico con le persone che gli correvano dietro tentando di riacchiapparlo.
SANTA CRUZ, ultima settimana.
Dopo poco più di 2 settimane del mio ritorno a Santa Cruz con inaspettata sorpresa si fece vivo anche Emanuele. Era letteralmente scappato dal villaggio della moglie, a causa di pesanti controversie che gli si rivoltarono contro, una di queste controversie prese la forma di un mattone volante, tiratogli in faccia dalla moglie, portava ora una nuova ferita verticale sul labbro inferiore ad andarsi ad aggiungersi alle sue glorie di battaglia.
Se ne era andato via da casa della suocera già dopo qualche giorno dal suo arrivo, aveva quindi lasciato parte della sua roba in quella casa e si era trasferito in un alojamento, che mi descrisse popolato da vari esemplari del famoso coniglio di montagna, la specialità culinaria di Cochabamba.
Non era più riuscito a far partire il suo business con le uova, ma in compenso aveva acchiappato molta clientela vendendo spiedini di carne con la carriola ed i suoi affari andavano alla grande, tant'è che si trovava ogni giorno la fila di persone ad aspettarlo; se mancava un giorno, il seguente gli chiedevano tutti dove fosse stato. Conquistò con il suo fare la simpatia del pueblo.
Tornava quotidianamente alla casa della suocera per vedere il figlio di pochi mesi ma le cose si misero peggio, da quello che interpretai, leggendo tra le righe dei suoi discorsi, aveva fatto qualche danno o si era lasciato prendere dal bere festeggiando il suo successo, alla fine era arrivata la mattonata in faccia ed era scappato 2 giorni dopo, di mattina presto per non farsi vedere da nessuno.
Emanuele voleva già da tempo tornarsene in Italia, per domenticare tutta quella situazione difficile in cui si trovava, ma il console italiano voleva che lui rimanesse per poter crescere il figlio, gli aveva quindi allungato una prima parte di soldi che sarebbero dovuti servire all'attività di venditore di uova a lui e sua
moglie di polli. L'ambasciatore iniziò a dubitare delle sue intenzioni, quando sorprese Emanuele “brillo” in qualche chiamata, il generoso console, che aveva perso il figlio a causa di un ubriaco, iniziò a cambiare tutta quella sua disponibilità in domande sospettose e probabilmente qualcosa alla fine era andato storto nel loro rapporto.
E fu così che ci ritrovammo ancora io e lui nella loca Ramada, senza nessun appuntamento ma ricaduti entrambi magicamente nel suo campo magnetico.
Le scene assurde che vedevamo erano come sempre all'ordine del giorno in quel posto dove mai mi spiegai come faccessero le persone a rimanerci; sembrava oltretutto che vi fosse una concentrazione di pazzi e gente strana spropositata. Tra l'altro anche noi due italiani davamo nell'occhio sempre, venendo giudicati strani da tutti, ed alla fine dei conti eravamo gente strana pure noi.
Nelle nostre lunghe chiacchierate sedendo sullo scalino per entrare da fango, il cinese dei polli, continuavamo la nostra attività di osservatori della massa di persone del mercato.
Ricordo discorsi di Emanuele in cui puntava a spiegarmi con una nota di disappunto, dovuta alla sua relativamente cattiva esperienza, di come fossero dei senza civiltà le persone in Bolivia; diceva, ignorando completamente alcune nozioni di storia dei popoli, che queste persone erano i figli, o forse i figli dei figli, dei pellerossa che salutavano con “Augh”, andavano in giro a cavallo con la penna in testa sparando le frecce. Confondeva gli indios sudamericani con gli indiani d'America. Tutto era poi contestualizzato in un periodo non preciso che lui definiva:“Ai tempi del selvaggio West”, pronunciato ogni volta chiaro e con occhi spalancati, mani che si aprivano scenicamente a voler introdurre un'epoca fantastica.
Ancora, come quando ci conoscemmo, ogni giorno venivamo accostati da qualche venditore ambulante che notando il nostro essere gringos collegava il ciò con l'idea che fossimo disposti a spendere soldi. La provenienza di alcuni di questi oggetti, concludemmo, era facilmente ricollegabile ai concerti di fischietti che udivamo la notte.
Ci fu una volta che si avvicinò furtivamente a noi, mentre sedevamo, un ragazzo sfilando da un canovaccio bianco un coltello enorme, quasi un machete ma più curato nella costruzione e cercava di vendercelo rapidamente guardandosi intorno.
Un altra volta osservammo tristemente la scena di un ragazzo che malmenava la sua fidanzata davanti a tutti quanti, io ed Emanuè dovemmo trattenerci per non intervenire ricordandoci che se la polizia ci avesse visto invischiati in un litigio ci avrebbe arrestato anche se dalla parte del giusto, semplicemente per chiederci la tassa per uscire dalla galera e loro avere una bella giornata.
Tra i tanti un particolare soggetto era il tastatore di sederi, lo vidi alcune volte aggirarsi mentre vendeva della merce, come ava qualche cholita, che davvero sempre eggiavano in piccoli gruppi, tutte tenendo le delicate mani dinnanzi giocherellando con qualcosa per scaricare la loro insicurezza interiore; lui le si avvicinava lesto dal dietro e le strizzava le chiappe.
Un altro particolare soggetto era un vecchio di chiara discendenza africana, forse l'unico che vidi in Bolivia, camminava rigido e lento per le vie del mercato con in mano un vassoio con bicchieri contenenti gelatine colorate e così lui gommosamente gridava: “HeladINAAAAAA”. Con quella sua voce estremamente nasale e con la lingua tirata in dietro contro il palato, gelatinosa appunto.
Imparai dopo poche prove ad imitarlo alla perfezione e quando ava nel mio raggio uditivo non lesinavo nel fargli eco, successe una volta che quasi mi scoprì. Eravamo entrambi per una stradina del mercato e quando sentii il suo richiamo gli feci eco perfettamente, tant'è che nessuno dei tanti anti si accorse di nulla. Lui che veniva nella mia direzione con quella sua lenta cammina dovuta all'età, dai etti ravvicinati in cui non fletteva mai le ginocchia, si bloccò iniziando a scrutarsi attorno con gli occhi iniettati di sangue; feci finta di guardare dei film proiettati ad una televisione in una bancarella vicino ma continuai ad osservarlo di nascosto.
“HeladINAAAAA” riprese ad invocare dopo alcuni secondi, scrutando a scatti tutte le persone che avano, vedendo se sarebbe riuscito ad individuare la fonte di quella presa in giro che da giorni lo affliggeva.
Gli ai affianco per vederlo meglio, era tutto teso e con espressione nervosa in quella sua ricerca visiva...Mi allontanai una decina di metri alle sue spalle, ed in mezzo ad altri anti tuonai un bel: “HELADINAAAA”.
Non volli controllare la sua reazione ma fu un vero e proprio divertimento.
E tra i tanti personaggi della Ramada ancora i vari pseudomedici, maggiormente peruviani, dal camice bianco; in quei pochi mesi da quando li avevo trovati per le strade alcuni di loro avevano migliorato le loro performance abbastanza. Ora nel loro lavorare per strada a favore dell'umanità intera si erano affinate le tecniche, il solito che stava ad un incrocio vicino a “casa mia” iniziò a vendere anche una guida da lui appositamente creata su come combattere le malattie, ed iniziò a presentarsi con quel suo fare regale con frasi del tipo:
“Forse mi avete già visto sul canale7 durante un importante programma mentre venivo intervistato....bla bla bla”.
Un altro camice bianco ambulante, spalmava una crema verde evidenziatore sulla faccia di brufolosi adolescenti promettendo miracoli; un altro ancora il rimedio per i denti perfetti che prometteva in varie fasi, che avrei sfidato chiunque a ricordare, il miracolo. Faceva infine sciacquare la bocca al volontario di turno e sputare in una bacinella mostrando vittorioso a tutti quanti come era sporca.
Con Emanuele ci facemmo tante risate di soppiatto infiltrandoci negli ammassati gruppetti di persone che seguivano avidamente tutte le parole pronunziate dall'oratore del momento.
A proposito di oratori, ve ne era uno che lo era nel vero senso della parola, somigliava realmente all'immagine stereotipica di Gesù, con capelli e barba castani lunghi e incolti, magro con il volto sullo scarno e vestito alla buona. Lo trovavo la sera che se ne andava sulla avenida grigotà a predicare con un megafono, si spostava frenetico da una parte all'altra con i suoi sandali, fermandosi per diffondere degli strani sermoni scritti da lui personalmente suppongo, con toni che assomigliavano ad un misto tra un politico ed un condannato a qualche pena; non riuscii a capire se lo fe per racimolare qualche moneta o per bisogno di fare qualcosa di utile verso il prossimo, perché nessuno gli prestava molta attenzione.
L'ultima settimana andai “al lavoro” credo una sola volta, dedicandomi alla mondanità con il mio connazionale e sapendo che avrei lasciato definitivamente quel posto avevo iniziato a fare ancor di più le cose che mi avano per la testa e per lo più dopo aver bevuto vino.
Studiai alcune frasi in Aymara, una lingua andina, e mi dilettavo a parlottare con le campesinas del residencial chiedendole tra le tante cose: “Naiampi casarini muntati”, se si volessero sposare con me ed improvvisando conversazioni in cui
non capivo nulla se non il linguaggio del loro corpo. Le donne Aymara si divertivano da morire e mi presero in simpatia ed approfittarono varie volte chiedendomi di salirle al secondo piano la loro merce, ingombrante e pesante, che portavano raccolta in un telone colorato caricato poi sulla schiena; queste donne basse e tarchiate avevano una forza straordinaria e ce la potevano fare da sole tranquillamente, ma aiutarle le strappava sorrisi ed inoltre mi diedero anche qualche mancia.
Prima che ritornasse Emanuele, mentre eggiavo la sera sempre sulla grigotà, vidi un ombra che mi seguiva a distanza troppo ravvicinata e quando mi fermai per voltarmi, mi salutò questo ragazzetto che sembrava abbastanza amichevole, dopo poche frasi iniziò a parlare a bassa voce chiedendomi se potevo fargli un favore.....Fare una determinata cosa a lui, io non capii inizialmente nulla di quello che diceva perché stava usando dei verbi per esprimere l'azione che voleva io fi che non avevo mai sentito prima; gli feci ripetere varie volte perché realmente non capivo. Ripeteva le sue parole curandosi che nessuno oltre a me lo sentisse finché alla fine trovò dei sinonimi per lasciarmi intendere che voleva che io lo prendessi sessualmente, scoppiai a ridere e gli domandai perché non si trovasse una ragazza che erano fantastiche; lui rispose che lo sapeva ma preferiva essere dominato dai maschi, rimasi un pò straniato da quella sua spontaneità e dopo averlo salutato me ne andai pensando da dove potesse arrivare tanta malattia da fermare le persone per strada rivelando le proprie oscure perversioni.
Considerando che il boliviano medio portava i capelli corti, tra l'altro tagliati tutti quanti alla stessa maniera, forse il mio portare i capelli lunghi dava a pensare che ero un “alternativo”.
Forse, non c'era bisogno d pensare, ma bastava fiutare visto che avevo gli ormoni a mille essendo stato con l'ultima ragazza a capodanno.
La conobbi i miei ultimi giorni in Australia e quasi mi fece desistere dall'idea di
partire per l'Argentina.
Nacque in Sudan e si trasferì in Australia a 9 anni di età, era forse la ragazza più nera che avessi mai visto in vita mia ed era una pantera letteralmente, con un di dietro meraviglioso, di una solarità ed estroversione fantastiche, e fummo selvaggi come due animali ma ci fu anche moltissima tenerezza. Mi invitò a seguirla per vivere con lei ma io avevo il mio sogno da inseguire e vari incubi da cui scappare, sicché la lasciai andare e presi la mia direzione fuori dalla terra dei canguri.
Sempre parlando di donne, con cui andò veramente male per tutta la permanenza in Bolivia io ed Emanuele cominciammo ad avere strane tentazioni vedendo le solite prostitute che dalle 6 di sera, appena la luce cambiava in oscurità, sbocciavano ad un incrocio con il primero anillo a 100 i dal nostro residencial. Le loro sembianze invitavano a guardare da un altra parte, tuttavia iniziammo ad interessarcene comunque a causa della nostra dipendenza da quel basso istinto di svuotare il sacco.
Io che pensai di andare in fondo alla questione riuscii a trovarne solo una tra loro che mi interessava vagamente ma poi quando si faceva sera tardi non la trovavo mai, evidentemente era sempre occupata e forse fu meglio così, visto che il rischio di essere fregato era sempre presente.
Anche a Emanuè, come accadde a me in Argentina, successe di essere drogato, ben 2 volte in cui gli vennero sottratti soldi e cellulare, alla terza si fece furbo e lasciò stare in tempo.
Si avvicinavano gli ultimi giorni del visto boliviano e della mia permanenza a Santa Cruz, Emanuele avrebbe lasciato la città un giorno dopo di me diretto in Sicilia per andarsene a stare dalla famiglia, impiegandoci due giorni e prendendo
tre aerei, in un certo senso tornando a casa sconfitto. Bevemmo un po' in tutti quei giorni, la mia penultima serata ci trovammo “en la disco” a bere birra, con le cholitas che ballavano la cumbia e le loro danze sacre dai ripetitivi movimenti, dovemmo ritirarci presto per evitare sicuri problemi per strada; in tre mesi non tornai mai a “casa” oltre le 11 di sera, orario del coprifuoco.
Il mio penultimo giorno andammo all'aeroporto perché lui voleva controllare quanto gli avrebbero fatto di multa ed avendo sforato il tempo permesso dal suo visto di più di 3 mesi avrebbe dovuto pagare circa 2000 bolivianos; poi andammo a fare un giro allo zoo e tornati alla Ramada al pomeriggio, iniziò il delirio.
Fui coinvolto senza troppa resistenza, anzi nulla, in questa emanueliana idea di festeggiare alla grande; si era comprato due bottiglie di uno sconosciuto superalcoolico e supereconomico al sapore menta; per descrivere la qualità del prodotto mi bastava notare che le bottiglie erano di plastica, le stesse dell'alcool per i pavimenti, ed il sapore non era da meno.
La mia gola resisteva ad ogni sorso mentre lui si tracannò i tre quarti di una bottiglia di un colpo solo; stavo masticando da tempo delle foglie che si era portato dietro dalla sua fuga da Los Negros e capii successivamente, dopo che gli fece effetto il mix foglie-alcool, uno dei motivi probabili dei suoi problemi con la moglie e la suocera.
Uscimmo per strada e Emanuele iniziò a sudare freddo dalla fronte e barcollava, lo vidi fare strane espressioni mentre torceva la testa come per divincolarsi da qualcosa e ne uscì qualche rutto sbuffante.
Cominciai a preoccuparmi che collassasse all'improvviso tra le bancarelle, evitai però di trasmettergli la mia apprensione chiedendogli se stava bene, perché
avrebbe peggiorato la sua situazione psicologica; iniziai a dirgli di mettersi due dita in gola e vomitare ma non non gli piaceva l'idea, allora prese la bustina di bicarbonato di sodio che davano con le foglie e se la versò tutta in bocca. Al che vi introdusse anche una bella manciata di foglie ed iniziò masticarle, ma erano talmente troppe che alcune obbligatoriamente cadevano svolazzanti verso il suolo durante la sua ruminata. Sembrava che sarebbe caduto anche lui da un momento all'altro come un pugile dopo aver ricevuto una pesante scarica alla testa ma, mistero davanti ai miei occhi, riuscì a trascinarsi con quell'andatura barcollante più del previsto. Io gli stavo a lato leggermente arretrato, pronto a prenderlo appena sarebbe cascato, ma non cadde... Si riprese dopo qualche minuto, probabilmente perché si era riempito la bocca inverosimilmente di foglie, che a quanto pare lo avevano aiutato a superare il momento di crisi.
Mi rasserenai dal pensare al peggio, visto che iniziava l'oscurità ed iniziavano ad esserci in giro i maliantes, non avrei voluto vedere la stessa scena che io ed Emanuele vedemmo qualche tempo prima, capitare proprio a lui.
La scena ebbe come protagonista un ragazzo ubriaco che camminava barcollante e due maliantes che lo aiutarono a cascare a terra senza molto sforzo rubandogli tutto quello che aveva, si fece piagnucolante mentre lo aiutammo a rialzarsi.
Arrivammo ad una delle innumerevoli bancarelle che vendevano dischi musicali, con ritmi tendenzialmente tutti uguali, e lamentose cantilene con parole di pseudo amore.
Emanuè si comprò vari CD solo dopo aver seccato la venditrice per mezzora, che non so come riusciva a mantenere la pazienza con lui; doveva provarli tutti per trovare le sue canzoni preferite, e cercava di spiegare alla venditrice, intonando alcune melodie, quali fossero le canzoni che stava cercando. Io nel frattempo inizia a dare fuori di senno, non riuscendo a stare fermo a causa delle foglie che masticavamo continuamente. Me ne andavo in giro camminando sulle mani e facendo la bandiera sui pali, saltavo da una parte all'altra, me ne andai per
i fatti miei poi, capendo che Emanuele voleva tempo e visto che non potevo avvicinarmi alla bancarella dove stava lui. Nel suo stato psichico si innervosiva molto facilmente e mi invitava fermamente a non parlare con la venditrice, non fare domande ed a non toccare niente dei cd esposti. Era diventato piuttosto paranoico e forse io senza rendermene conto, ero troppo agitato e stavo andando contro la sua legge fondamentale del non dare nell'occhio.
Si comprò una decina di dischi come ricordo della Bolivia, personalmente avrei preferito dimenticare per sempre quelle musiche lagnose e malinconiche che mi tennero compagnia per tutte le eggiate nel mercato, ma, difficile da credere, ognuno aveva i suoi gusti.
Comprammo ancora foglie e alcool e ci devastammo abbastanza. Finimmo la serata dopo lunghi schiamazzi quasi all'alba, sulla balconata al primo piano guardando il mercato semi deserto ed oscuro nella notte.
La mattina seguente lui uscì presto per questioni importanti, e non ci salutammo come da rituale, ma forse fu meglio così; salutare gli altri con l'idea che li si incontrerà poco più tardi, perché in realtà il tempo è relativo ed esiste solo nella “nuestra cabeza” e ci si ritrova dopo anni, o chi lo sa dopo la morte, come se fosse ato qualche minuto.
Nonostante le differenze tra i nostri caratteri fu un piacere conoscere ad Emanuele, uomo semplice ma puro di cuore, che riusciva a farsi voler bene dalla maggior parte delle persone.
Salutai il restante personale del residencial che fu dispiaciuto della mia partenza, perché oramai la mia presenza era abitudinale.
Arrivai camminando con zaino, bastone e l'immancabile borsone maledetto fino alla fine della via a senso unico che collegava il residencial al primero anillo che tante volte avevo percorso; mi voltai e rimasi immobile ad osservare la decadenza di quel posto, mi scivolò qualche lacrima verso il basso; dopo tutto mi ero abituato a tutte le sue stranezze e lo ringraziavo per avermi offerto una moltitudine di esperienze invivibili altrove.
Adios Ramada!
IN TRENO.
Dopo le immancabili difficoltà del tragitto in micro verso il nuovo terminal degli autobus, che era stato costruito attaccato alla stazione dei treni, ebbi da aspettare 1 ora salii dopo aver mostrato il aporto sul il vagone di seconda classe dove avevo il posto prenotato. Stranamente avevo comprato il biglietto alcuni giorni prima questa volta, visto che il treno verso la frontiera circolava poche volte a settimana e non volevo rischiare di non trovare posto cercando il biglietto all'ultimo secondo; pagai per alcune stazioni prima della meta finale, risparmiandoci qualcosa. Il vagone era semivuoto, così appena notai che il posto lato finestrino che avevo scelto era in un punto in cui non vi era finestrino mi spostai verso il fondo.
C'era una anziana frenetica che appena mi sedetti iniziò a parlarmi a raffica di dove stesse andando ed il perché non curandosi che non la stessi ascoltando minimamente, e quando capì che non la stavo ascoltando iniziò col toccarmi dentro la spalla, alla fine scesi dal treno fino alla partenza pur di evitare i discorsi di quella folle.
Il treno che era composto da una motrice e quattro vagoni di cui quello di prima classe aveva il servizio “cama” con i sedili ben reclinabili ed imbottiti; io che avevo voluto prenotare, come sempre del resto, la cosa più economica che esista pagai per la seconda classe, paragonabile lontanamente ad uno dei peggiori treni regionali circolanti in Italia. Non mi preoccupai inizialmente che i posti erano larghi al massimo 80 cm da dividere in due persone e che il viaggio di quasi 600km sarebbe durato la bellezza di 18 ore, il che significava che il treno avanzava ad una stratosferica velocità media di 30 km/h.
Arrivò il momento della partenza e l'inizio di quel nuovo spostamento fu goduto appieno, prendevo appunti mentre osservavo i paesaggi pianeggianti susseguirsi senza fretta e le persone che scendevano e salivano in sperdute e piccole stazioni senza marciapiedi. Olezzi di gas di scarico della motrice mischiati al caldo odore dei boschi del gran Chaco, il profumo della moltitudine di fiori colorati e della polvere che si alzava col nostro aggio ed il vento, fattore amalgamante di questi elementi.
Tutto ciò mi stimolava a riflettere sulla relatività degli eventi, e soprattutto del mio viaggiare:
Io sono fermo, è la terra che scivola sotto ai miei piedi ed il paesaggio che scorre ai miei lati
per portarmi da qualche parte. E se io voglio stargli dietro devo fare, fare qualcosa.
É come un infinito tapis roulant, esteso in tutte le dimensioni, ma se smetto di muovermi non vedrò mai cosa c'è oltre e resterò bloccato nello stesso punto.
E tutto quel muoversi ed agitarsi non è fine a se stesso, non è come sfogliare delle fotografie in un album, ma lo spostamento, per quanto sembri casuale, è voluto inconsciamente, è strettamente collegato alla voglia di conoscere qualcosa di più in questa vita, la verità, nascosta là da qualche parte, ma anche in ogni piccolo dettaglio intorno a noi.
Feci delle foto ad una bambina bellissima seduta dietro di me, nel suo essere spontanea ed innocente; la quiete interna e le riflessioni avanzavano a scatti,
visto che alla seconda stazione salirono alcune venditrici ambulanti di cibo e bevande che ripetevano ad ogni aggio la loro tarantella. Mi chiesi quanto potesse essere vantaggioso l'umile lavoro di queste persone, visto che il treno era mezzo vuoto.
Nel giro di varie stazioni iniziò a riempirsi ed io fui costretto a ricredermi e spostarmi varie volte cedendo il posto al proprietario di turno, rimasi stabile nel mio penultimo posto prendendomi lo spazio “per due” per diverse e comode ore.
Ci allontanammo da un sole calante sull'orizzonte, con il treno che ballava come una barca in alto mare sfiorando impavido picchi di supposti 60 chilometri orari.
Quando fece buio ci fermammo una bella mezzora in un paesello dove salirono una quindicina di bambini, venditori per la maggior parte ed altri a tenergli compagnia, con i loro vassoi e cesti e vendevano per lo più assado (spiedini di carne) e una pietanza il cui nome e tonalità non dimenticherò mai perché mi venne bombardata nei timpani per ore e ore da loro:
“MAJADITO-MAJADITO-HAY MAJADIIIITTTTTTO (gridato rapido-rapidoleeentttto), aguitAAAAAAA Y refreSCOOOO, HAY ASSAAAADOOO”.
E così avanti all'infinito, ogni volta che avano avanti e in dietro per i vagoni sballottanti fino a vendere tutto, ci accompagnarono fino alla stazione dove un altro treno, preso uno scambio, ci attendeva paziente per poter tornare indietro, su quella linea a binario singolo.
Non resistetti alla fine e spesi una bella somma da questi bambini che oramai mi avevano fatto il lavaggio del cervello peggio di una pubblicità televisiva; era
bello osservarli perché per loro quel lavoro era preso come un gioco, che genuina filosofia di vita!
Al silenzio dei bambini appena scesi prese il via il sonno generale, nonostante alcuni venditori avano avanti e in dietro lo stesso durante la notte, bisbigliando le loro parole:
“naranja, jugo de naranja...”
Caddi in un gustoso sonno accucciato nonostante gli scomodi sedili rigidi come non mai, finché ad una stazione salì parecchia gente ed un grassone nervoso mi obbligò a cambiare posto, visto che aveva prenotato il mio, ma non avrei potuto, e nemmeno voluto, stargli affianco perché non ci saremmo entrati in due là dentro.
Tornai così al posto che mi era stato assegnato dalla biglietteria a Santa Cruz, più avanti, lato finestrino dove il finestrino non c'era; vi trovai seduta una signora che tipicamente, come molte boliviane, aveva il culo grosso.
Non avrebbe avuto senso chiederle di lasciarmi sedere vicino all'assente finestrino, così mi incastrai come meglio riuscii al suo fianco. In realtà avanzavano forse pochi centimetri tra i nostri corpi, ma notai inevitabilmente che la panchetta del sedile, che era senza un qualunque tipo di divisore ma era come un largo posto da dividere in due, era semi-sfondata nel centro; quindi sia io che lei tendevamo inevitabilmente, nonostante lo sforzo di starci lontani, a slittare verso quel punto anche per causa degli ampi sobbalzi ed eravamo con rassegnazione obbligati a stare attaccati.
Mi risvegliai varie volte durante il buio, perché la mia testa le cadeva sulla spalla e venivo allontanato con una scrollata, e vice versa feci io con lei, ma poi al mattino ,dopo quella lotta notturna continua, eravamo piacevolmente appiccicati come una coppia di vecchia data che si era ricongiunta dopo una lunga lite; mancava solo un abbraccio tra noi due, perfetti sconosciuti. Rimanemmo così sebbene io fossi già sveglio, fino a che anche lei si destò ed allora dovetti rimettermi composto, tirandomi su a forza verso il corridoio per evitare di stare proprio appiccati.
Scesi alla fermata per cui mi ero comprato il biglietto e data un occhiata in giro e chiesta qualche informazione risalii sul treno. Avevo fatto bene a non comprarmi il biglietto fino alla destinazione finale, Puerto Quijarro, perché non vi era nessun tipo di controllo del biglietto a bordo, ma unicamente nella stazione di partenza.
Arrivato a destinazione iniziai a cercare assolutamente un bagno, visto che avevo dovuto trattenermi tutta la notte dalla presenza di gas che chiedevano di essere lasciati liberi di diffondersi nell'ambiente circostante, avevo iniziato infatti il giorno prima un trattamento contro i vermi intestinali, che a quanto pare aveva effetti secondari facilmente indovinabili.
Vagai dalla stazione verso il centro di questa polverosa cittadina di frontiera, in buona parte ancora in costruzione. Dopo vari giri mi trovai una bella stanza, abbastanza economica tutta per me, al quarto piano di una delle due palazzine di quel paese in forte espansione negli ultimi tempi.
Ero uno dei pochi accomodati nel residencial di nuova costruzione; vi ai tre notti.
Una buona parte del primo giorno dovetti obbligatoriamente dedicarlo alle corse
in bagno, partorendo minuscoli e sottili vermiciattoli. Non potevo mai allontanarmi troppo che rischiavo di cambiare colore ai pantaloni.
I 4 giorni in quel posto di frontiera arono al rallentatore, il giorno quando non ero in bagno o a camminare casualmente per le strade, entravo in un caro e lento internet point, dove cercavo di farmi un idea di cosa avrei fatto una volta in Brasile, visto che sarebbero rimasti 22 giorni dal aggio della frontiera al mio volo; tenevo in conto che avrei dovuto sostenermi a “bastonate” ai semafori, molto probabilmente.
Secondo le mie stime sapevo che non ce la avrei fatta fisicamente a tenere il ritmo necessario per lavorare varie ore tutti i giorni, così mi comprai un sacchetto da 10 bolivianos di foglie di coca, sapendo fin troppo bene che avrebbero aiutato molto a non sentire la stanchezza fisica. Chiesi varie informazioni al venditore del negozio di alimentari; del tipo se avessi potuto are la frontiera senza aver problemi per quel sacchetto e lui mi disse che avrei dovuto farlo piccolo piccolo e nascondermelo addosso nei vestiti, che se me lo avessero trovato avrei ato dei guai probabilmente, o bene che andava mi avrebbero fatto mangiare tutto all'istante.
Risi a quell'affermazione immaginando che avrei potuto spiccare il volo come superman se lo avessi fatto.
Il secondo giorno ai la frontiera e mi feci a piedi qualche chilometro per arrivare alla città brasiliana di Corumbà, incontrai anche un cerbiatto che vagava lungo la strada e riuscii ad avvicinarlo abbastanza prima che scape. Arrivato a Corumbà feci vari giri e mi venne una lieve depressione a vedere la differenza dei prezzi con la Bolivia, mangiai un açaì(una specie di gelato fatto esclusivamente di una frutta amazzonica) e prelevai dei reais.
Tornai indietro in Bolivia il giorno stesso riando a piedi per la frontiera; considerai quindi di come avrei potuto eludere in parte le varie storie sulla durata dei visti, guadagnando tempo sui timbri. Sfruttando la totale assenza di controllo della frontiera avrei potuto evitare di ricevere i timbri sul aporto al mio ingresso rimandandoli di qualche tempo prolungando così la durata del visto. Restava il fatto che se per caso fossi stato sottoposto ad un controllo e non avessi ancora fatto apporre il timbro sul aporto sarei risultato clandestino.
Il terzo giorno ò pressapoco come il primo, ovvero lento. Tentai solamente di andare a piedi ad un lago non troppo lontano ma fui aggredito da una moltitudine di mosquitos che abbondavano in quella regione di pantanal.
L'ultima notte scavalcai un piccolo cancello che dal quarto piano del residencial portava sul tetto completamente piatto se non per degli steli di acciaio da costruzione in vista, rimasti là in attesa di un nuovo piano in futuro. C'era una piacevole aria e sedetti a guardar la luna ancora una volta piena e grande, svelante la già spenta cittadina con colonne di fumo che salivano dai mucchi di immondizia bruciati all'imbrunire. Sembrava la luna segnasse periodicamente delle fasi nella mia vita, ed ora toccava alla fase ritorno al luogo d'origine.
BRASILE, l'immancabile.
La mattina seguente mi recai alla frontiera con zaino in spalla, bastone ed il borsone maledetto, che ancora non avevo avuto coraggio di gettar via sebbene mi portassi dietro molte cose inutilizzate e fosse pesante e scomodo da portarsi dietro. Mi fecero rapidamente i timbri sul aporto lato Bolivia e poi ci furono quattro ore di coda prima della fiscalizaçào brasiliana, ad ogni boliviano veniva richiesto dove avrebbe alloggiato una volta in Brasile e di mostrare il biglietto di ritorno in patria, siccome non erano concessi visti che non fossero di turismo ai boliviani, ed a giudicare dalle apparenze erano ben pochi quelli che avevano intenzione di andare in Brasile come turisti.
In coda alla frontiera feci amicizia con 3 ragazze tedesche di cui una parlava spagnolo bene e le altre due se la cavavano, stavano andando a Bonito a fare le escursioni nel Pantanal matogrossense.
Ottenni un timbro per soli 30 giorni e questa era, non contando quella mezza giornata due giorni prima, legalmente la mia quinta volta in Brasile, da subito iniziai a sentirmi allegro come fin dalla prima volta era successo, immaginando donne, feste, spiagge e tutte le opportunità che questa terra aveva da offrire ad un andarilho (chi viaggia di zaino in spalla).
Cambiai due autobus cittadini con le tre tedesche che mi seguivano, fino ad arrivare alla rodoviaria (stazione degli autobus) di Corumbà. Oltre che con le 3 tedesche feci amicizia anche con due simpatiche nonne di Campo Grande, capitale dello stato del Mato grosso del Sud in cui ero; estrapolai più informazioni possibile su di quella città e se vi avessi trovato connessioni per Salvador de Bahia dove avevo il mio volo di ritorno.
Arrivati alla rodoviaria e persi di vista le tedesche a cui stavo facendo un po' da guida visto che non capivano il portoghese, vennero acchiappate da uno di una agenzia di turismo che le fece entrare nel suo ufficio, nel frattempo sedetti su delle seggiole dove vi erano parecchi boliviani pronti al viaggio; era tutta gente che andava a tentare la fortuna da un altra parte, a São Paulo probabilmente.
Iniziai a giocare con una simpatica bimba boliviana, facendole giochi di prestigio con le monete che la facevano divertire parecchio, mi divertivo molto anche io in realtà; dopo mezzora di giochi vidi le tedesche uscire dall'agenzia turistica e salire su di un furgoncino dirette alla loro escursione e ci salutammo.
Poi partirono anche buona parte dei Boliviani e quel salone aperto sui lati e coperto da una tettoia che era la rodoviaria di Corumbà rimase pressapoco deserto.
Conobbi in breve un signore che mi avvicinò; apparentemente sarebbe potuto rientrare nella categoria degli elementi speciali della Ramada. Sembrava più vecchio degli anni che avesse, magro con capelli e barba più sul grigio che brizzolati, occhiali a fondo di bottiglia ed un fare inquieto mentre ciabattava da una parte all'altra nello spazio coperto del terminal rodoviario; si proponeva a scaricare e caricare le valigie da quei pochi autobus che arrivavano e gli veniva allungata qualche mancia per ciò.
Era figlio di una barese ed un greco, nato in Grecia sui 50 anni fa stimai, e dopo aver scaricato bagagli da un ônibus appena arrivato se ne venne a stare a fianco a me nuovamente; iniziò a raccontarmi parte della sua vita, aveva girato parecchio per il mondo e conosceva svariate lingue come ebbi conferma. Quando era giovane, mi disse, lui ed un amico comprarono una jeep e viaggiarono per parecchio tempo in lungo ed in largo per tutta l'Africa, mi brillavano gli occhi a sentire i suoi racconti ma allo stesso tempo sentivo la paura che sarei diventato come lui un giorno, un disperato ad una prima occhiata superficiale, vivendo clandestinamente al confino in paesi lontani.
Mi disse che aveva conosciuto un ragazzo italiano, giusto il giorno prima, a cui aveva venduto un po' della sua erba; non sapevo se dicesse la verità ma mi si drizzarono le antenne visto che erano svariati mesi che non fumavo e si andò formando una frase nel cervello che disse tranquillamente un: “E perché no”. Gli chiesi se me ne procurava e lui, che non aspettava altro che quella domanda in realtà, mi chiese di prestargli dei soldi perché aveva fame; gli diedi qualche moneta, dopodiché sparì a procurarsi del cibo.
Il terminal era molto tranquillo e da un pezzo si era fatta notte, dopo pochi minuti riapparve parlando inglese con due irlandesi ed una tedesca, anche io mi
aggiunsi alla conversazione e lui sparì nuovamente per caricare delle valigie su di un altro ônibus, dopo 5 minuti lo persi d'occhio. Conversai parecchio con questi tre nuovi compagni ridendo e scherzando, anche loro andavano a Campo Grande ma io naturalmente avevo pagato per l'ônibus più economico che sarebbe partito mezz'ora dopo il loro,
Si ripresentò successivamente il signore greco con a seguito un ragazzetto, che stranamente non notai da subito, piuttosto malconcio; insistetti al greco di procurare l'erba e mi chiese i soldi, gli diedi altri reais e disse che sarebbe tornato nel giro di poco allontanandosi, il garoto (ragazzo) che sentendo la parola “maconha” si era illuminato rimase attaccato fedelmente a me, fino al ritorno del greco.
Era di Campo Grande il garoto e vi stava ritornando dopo una fuga in Bolivia, approfittando del trucchetto della frontiera non si era fatto fare i timbri d'entrata in Bolivia rimanendovi svariato tempo clandestinamente, non capii però facendo cosa e dove di preciso; l'unica cosa di cui fui certo era che era sporco e puzzava come se se la fosse fatta sotto, sia la parte liquida che la solida.
Disse di essere un DJ che suonava ai rave party, se ciò era vero tirai le mie conclusioni sulla particolarità di questo garoto, dovuta a qualche droga di troppo; aveva gli accumuli di saliva secca ai bordi della bocca e rideva stranamente roteando gli occhi con le sue occhiaie vistose, tuttavia ci feci amicizia.
Il greco tornò con o svelto lamentandosi che aveva dovuto pagare caro il mototaxi per procurarsi l'erba e mi diede una cima di discrete dimensioni tornando al suo lavoretto di scaricatore di bagagli, pensai che quest'erba fosse una fregatura visto che non aveva un odore particolare. Io ed il seguace garoto uscimmo dal terminal e ci mettemmo in disparte e creai il cannone mettendoci buona parte della cima e metà sigaretta, il tutto arrotolato in un tovagliolo da bar, che il garoto mi assicurava perfetto per lo scopo. Venne fuori una discreta torcia ma era veramente pesante, fumai a forza qualche tiro prima di arla a lui che
fece due tiri ed iniziò a tossire maledicendomi per averci messo dentro il tabacco. Dopo aver strappato la parte dove lui aveva poggiato la bocca, fumai quasi tutto il resto tossendo il più delle volte e cominciai in breve a sentirmi fuori totalmente; lo obbligai a finirla facendogli la morale, fece ancora qualche tiro ed in breve andò fuori, più di quanto già non fosse, anche lui.
ò, con veramente pochissime probabilità che ciò si avverasse, in quell'istante una signora che capii successivamente essere una sua ex insegnante di scuola, tempestò il malridotto ed ora anche sballato ragazzo di domande; lui non si scompose apparentemente ma rispose tranquillamente a quella donna che probabilmente si chiese cosa diavolo fosse successo a quel suo alunno, dal modo in cui lo fissava con un misto tra pena, disgusto, comione e rimprovero.
Aspettammo l'autobus improvvisando brutte copie di parkour e stonati beat-box; poi tornò il greco e chiacchierammo per un po' di tempo. Arrivò l'ora del mio ônibus, che era lo stesso del garoto, salutai e ringraziai il greco che tuttavia era di nuovo troppo preso dallo scaricare le valigie e dal ciabattare da una parte all'altra sbuffando per la piega che aveva preso quella sua vita.
Una volta saliti il garoto voleva sedersi vicino a me che ero nei posti in fondo ed avevo un posto libero affianco, ma lo spedii al suo posto senza esitazione alcuna, dicendogli stizzito che era meglio che ognuno se ne stesse per conto proprio, in realtà non volevo farmi un viaggio con la sua puzza sotto al naso.
L'infida erba di campo mi aveva messo brutalmente KO, nascosi ciò che rimaneva dietro la tendina del finestrino e cominciai ad avere delle vampate di caldo miste poi a sudori freddi. Qualcuno mi si sedette a fianco purtroppo e fui obbligato a stare seduto composto, avrei voluto denudarmi da come sudavo ma non avevo la forza di togliermi la felpa che mi ero messo, con la testa appoggiata al sedile di fronte al mio non so come ma riuscii ad addormentai sebbene fossi svarionato come poche volte in vita mia.
A breve l'autobus era fermo e ritornai alla realtà con le luci interne che vennero accese e mi abbagliarono, sentii una voce altisonante provenire dall'ingresso che invitò tutti quanti a rimanere seduti. Era un agente della policia federal a parlare e sentii come un pugno nello stomaco, fu la paura a colpirmi. Salì un altro poliziotto ed il primo percorse tutto il corridoio ando oltre il mio posto ed entrando nel bagno per controllarlo, poi iniziò a rovistare le pattumiere, sotto i sedili ed infine si diede ad aprire i bagagli sopra le nostre teste che erano dei eggeri dietro di me. Allo sballottante effetto dell'erba si era aggiunta ora questa situazione paranoica che stavo somatizzando troppo rapidamente, dovevo fare qualcosa altrimenti avrei destato sospetti; mi asciugai la fronte, avrei voluto alzarmi fare una camminata, sciacquarmi la faccia... Mi tolsi la felpa cercando di prendere l'aria che mi sentivo mancare, stavo male dalla tanta ansia, una sensazione di oppressione mi rendeva irrequieto, ma la coscienza doveva assolutamente fare qualcosa per cercare di dominare lo sballo dell'erba e la situazione percepita come pericolo.
Il mio pensiero andava fisso alla busta contenente foglie di coca nel maledetto borsone nella stiva ed in parte alla poca erba che avevo nascosto vicino a me; iniziarono dei film mentali automatici che già erano proiettati a grande schermo nella mia testa, film che mostravano scene di un arresto, la perdita di un volo e problemi, problemi e problemi.
Riuscii grazie ad un immenso sforzo cosciente e mirato a deviare tutti quei pensieri automatici che erano solo nocivi ed inutili, pensando che alla fine i problemi non esistevano, tutto prima o poi sarebbe ato e male che fosse andata avrei ato qualche noia che si sarebbe risolta in un modo o nell'altro. Non mi sarebbe servito a nulla essere agitato, mi tranquillizzai parecchio con questo nuovo assetto mentale. Il poliziotto arrivò a rovistare il mio zaino che avevo raggiunto una lucidità di pensiero e calma interna per me incredibile; mentre fino a pochi minuti prima affannato stavo svampando sudore freddo, forse ora sembravo, visto dal fuori, semplicemente un po' stordito giustamente come chi viene svegliato di soprassalto.
Dissi all'agente che mi aveva appena domandato se lo zaino fosse del mio vicino che era il mio e con voce calma e lenta lo avvisai che avevo un coltello nello zaino, dopo una breve ricerca trovò il coltello, che era da pesca, lo guardò per qualche secondo e poi lo ripose, risistemò lo zaino e mi chiese il documento; mi domandò poi dove stavo andando ed il perché. Mentre rispondevo notai come il muscoloso agente soppesava le mie parole e sembrava che avrebbe facilmente letto ogni piccola ombra di incertezza, risposi il più sinceramente possibile ormai rassegnato a quella situazione. L'agente ò a controllare gli altri e riuscii a calmarmi ulteriormente.
Dopo una ventina di minuti ci fecero scendere tutti quanti, eravamo in un punto d'ingresso di una caserma con la strada che ava attraverso all'edificio, vi erano parecchi agenti della policia federal con le mitraglie in mano e giubbotti antiproiettile; ci fecero mettere tutti gli uomini da una parte contro una parete e le donne contro la parete opposta e vidi il garoto con cui avevo fumato mentre venne portato via da un agente.
Arrivò un altro agente con un cane, un giovane pastore tedesco, che venne condotto sull'ônibus, io aspettavo il prossimo evento concentrato ma senza emotività, appoggiato con la schiena contro la parete, tutto sarebbe andato bene e mi sentivo stranamente tranquillo.
Il cane ridiscese a quanto pare senza aver trovato la benedetta erba di campo, che in realtà era il male minore, poi venne liberato e saltò di sua volontà dentro la stiva che era appena stata aperta, lo fecero scendere riallacciandolo al guinzaglio e ci fecero scaricare tutti i bagagli posizionandoli in una fila da due sulla linea bianca a metà della strada d'ingresso nella caserma. Tornammo alla nostra sfilata contro le due pareti, dissero una frase del tipo che se avessimo avuto da dichiarare qualcosa avremmo dovuto farlo in quel momento; era una situazione che avrebbe messo tensione anche a chi aveva tutto in regola, semplicemente il fatto di vedere degli agenti armati ed essere divisi tra donne e uomini metteva realmente soggezione.
Il cane venne avvicinato alla fila dei bagagli dove avevo posizionato il mio e dopo averne annusati una decina lo aveva quasi raggiunto...Ero immobile sguardo fisso sul borsone, avevo un silenzio interiore per me abitudinariamente impossibile da ottenere, non vi erano ne pensieri ne parole che ronzavano per la testa, vuoto puro e assoluto, ero un tutt'uno con il mio borsone. Espirai lentamente mentre il muso del cane vi si posò sopra tastando con il suo olfatto, sembrò che il tempo quasi si fermasse; quei pochi secondi si erano drasticamente dilatati alla mia percezione, fissai il cane che sembrava sostare più del dovuto, ma suo muso d'un tratto slittò magicamente sullo zaino seguente ed io ripresi ad inspirare accennando un sorriso.
Dopo alcuni minuti ricaricammo tutti quanti i bagagli nella stiva e mentre ogni eggero tornava al proprio posto vidi il garoto tornare all'ônibus, evidentemente non aveva i documenti e quello fu il motivo per cui venne preso in disparte; poi ripartimmo.
La mattina arrivammo a Campo Grande, dove ritrovai nella rodoviaria i due irlandesi e la tedesca, scambiammo qualche chiacchiera ed anche il loro onibus era stato fermato ed erano stati controllati dalla policia federal, ne furono spaventati abbastanza. Sedevano comodamente su dei tavolini facendo colazione ad un bar, con 2 computer portatili controllavano informazioni su internet; sarebbero andati a Rio de Janeiro.
Il garoto spari dopo qualche tempo senza che ci parlammo neanche, in realtà mi aveva fissato per un po' appena scesi dall' onibus, ma sapendo che mi si sarebbe appiccicato addosso creandomi problemi, lo ignorai.
Mi comprai un biglietto per Goiania e andai a far colazione su di una panchina fuori da un supermercato dopo una bella camminata, pranzai addirittura ad un ristorante e dopo aver pagato il conto, sebbene fosse poca cosa, iniziai a
piangermi addosso nuovamente per quanto tutto fosse caro rispetto alla Bolivia.
Partii al primo pomeriggio e sfilammo in posti mai visti prima tra gli stati di Mato Grosso do Sul e Goiàs, avanzando sulle colline tra campi verdi di coltivazioni e pochi boschi sopravvissuti all'uomo.
Quando facemmo sosta ad un ristorante lungo la strada per la cena dell'autista, chiacchierai con un ragazzo fazendeiro con la camminata a gambe divaricate e quel suo stile cow-boy, veniva da un qualche villaggio dello stato di Goiàs, parlammo per lo più di argomenti agricoli e gli descrissi i miei spostamenti recenti; a lui piaceva il suo posto e la sua terra che lavorava e non lo avrebbe mai cambiato con nessun altro disse.
Al primo chiarore del giorno seguente, dopo la notte tra campi e paeselli, raggiungemmo Goiania, la capitale dello stato di Goiàs. Era ancora presto e quindi rimasi a dormire qualche tempo sulle panchine della rodoviaria, poi iniziai la mia ricerca di un ônibus che mi avrebbe condotto fino a Salvador; là, a forse duemila chilometri sulla costa nordestina.
Le agenzie delle varie compagnie iniziarono ad aprire; qui le tecniche di vendita dei biglietti erano sempre in stile sud americano, ma non c'era paragone con l'approccio aggressivo dei bigliettari boliviani. Trovai tra le poche, una compagnia che faceva un buon prezzo per Salvador senza cambio a Brasilia, l'ônibus sarebbe arrivato dopo tre ore, ero già tentato a comprarmi il biglietto, ma senza apparente motivo volli aspettare e quando mi rifeci vivo ate due ore e mi dissero che l'autobus aveva avuto dei problemi e non sapevano quando sarebbe arrivato; avrei dovuto andarmene prima a Brasilia quindi e l'ônibus che vi andava sarebbe partito la sera.
Tornai poi a chiedere informazioni alla compagnia dell'ônibus problematico,
sarebbe ato alle 9 di sera mi disse ma aspettai ancora a comprarmi il biglietto, lasciai zaino e borsone maledetto alla simpatica rivenditrice dai capelli rossi e ai la giornata in giro per Goiania.
La città era visivamente ricca rispetto alle altre Brasiliane che già avevo visto, per lo più di tipo commerciale, con negozi di ingrosso e non, ovunque. Girai parecchio guardandomi in torno, alla fine capitai in un parco dove fumai il restante dell'erba selvatica che avevo; feci amicizia con un ragazzo peruviano assieme al suo cane, si stava esercitando in giocoleria con 6 clave, mi spiegò alcune sue tecniche e di come si guadagnasse bene ai semafori di Goiania.
Lui guadagnava mediamente più di un impiegato, tant'è che viveva in una casa pagando l'affitto, alternava ogni giorno varie arti di strada, così da usare parti del corpo diverse potendo riposare a turno i diversi muscoli utilizzati e massimizzare il tempo ai semafori rossi e quindi i guadagni.
Gli automobilisti maledicevano il rosso impazienti, noi lo veneravamo sperando durasse il necessario a finire un'esecuzione degna dell'apprezzamento dell'inscatolato pubblico.
Il peruviano era un vero professionista in quello che faceva ed anche lui come me, e forse come tutti quanti, era innamorato delle brasiliane. Mi sconsigliò di lavorare a Salvador, perché la situazione era pessima, a fatica si arrivava a raccimolare 20 reais al giorno e gli credetti conoscendo il posto. Dalla sua lunga esperienza, Goiania e Brasilia erano il meglio per l'artista di strada, non vi era molta concorrenza come in Bolivia o Perù e piovevano monete, il lato negativo era però il costo della vita in queste città, decisamente alto.
Ci salutammo ed iniziai ad avere una sensazione di panico affiorante, impazzii a trovare un gabinetto perché ebbi l'ultimo effetto collaterale del rimedio contro i
vermi; vagai mezzora in una folle ricerca prima nel parco e poi in un dannato quartiere residenziale senza l'ombra di un bar. Capitai in una via leggermente in salita e stavo a stento trattenendomi dall'abbassarmi i pantaloni perché vi era gente, per mia fortuna trovai un benzinaio con il negozio annesso, entrai spalancando la porta chiedendo dove era il bagno senza nemmeno salutare. La porta mi venne indicata, corsi spalancandola e sbattendomela dietro e miracolosamente riusci a sganciare la bomba giusto un attimo prima che mi esplodesse addosso.
Ringraziai immensamente tutta la forza dell'universo per aver creato esattamente in quel punto preciso della superficie terrestre un benzinaio, con una porta non chiusa a chiave vicino all'ingresso, ed il tanto cercato trono della gloria, dove si emettono importanti decisioni, solo a pochi i dall'entrata dello stanzino.
In quello stato di beatitudine dato dall'improvviso rilassamento dopo una situazione post-panico, uscii da quell'oasi di felicità salutando e ringraziando ora con parole di gioia la commessa e camminai quei chilometri che mi separavano dalla Rodoviaria.
L'ônibus a quanto pare non arrivò all'ora prevista, mi venne detto dalla bigliettaia, la quale ricordava fossi là da parecchie ore aspettando, che forse sarebbe arrivato durante la notte od il giorno seguente. Sentendosi poi un po' dispiaciuta per me, consultandosi con altri dell'impresa mi vendette il biglietto per Salvador con un fortissimo sconto; ne fui ben felice, avrei aspettato anche qualche giorno per pagare quella cifra.
Avrei voluto are la mia serata in strada a “bastonare” a qualche semaforo, mi sentivo in forma, ma non avevo idea precisa di quando arrivasse l'ônibus e quindi non potei, feci brevi eggiate in questi centri commerciali costruiti assieme alla rodoviaria. Infine tutti quanti i negozi chio ed io andai a dormire come meglio potevo, ovvero contorsionisticamente su delle scomode seggiole di fronte alla piattaforma di imbarco che mi fu indicata. Fu una notte
lunga, come quasi tutte quelle dormite fuori da un letto.
L'ônibus diede segno della sua reale esistenza in tarda mattinata con più di un giorno di ritardo ed a stupore dell'autista ero l'unico nuovo eggero, eravamo forse in 8 in tutto a bordo.
VERSO LA COSTA.
Sprofondai nel mio sedile e rapidamente in un sonno senza sogni.
Mi svegliai che avevamo già ato Brasilia, la capitale e scendevamo dal planalto dal distreto Federal, lo statarello a forma di rettangolo dove si trova.
Brasilia, una delle capitali più nuove al mondo, venne costruita dal nulla nel giro di qualche anno, sostituendo cosi Rio de Janeiro. Scelsero un luogo che fosse più centrale rispetto alle vecchie capitali che fronteggiavano la costa, venne inaugurata quindi nel 1960 la città dal plano piloto (piano pilota). Costruita rapidamente rispettando vista dall'alto, il disegno di un aeroplano, o secondo alcuni, una farfalla. Progettata ad incastro nel lago artificiale Paranoà, divisa in superquadras ovvero settori in base al tema ( hotel, quartiere popolare, bancario, finanziario). Con l'Eixo monumental, la 250 metri larga strada che sarebbe la fusoliera dell'ipotetico aereo, l'ala nord e l'ala sud, e tutte le strade, le vie ed i quartieri con nomi del tipo SCS 723, bloco d, superquadra eratroppodifficileusarenomipercomuniesseriumani.
Definita la capitale del terzo millennio, capolavoro della modernità secondo il parere comune, classificato solo dopo qualche minuto al suo interno, capolavoro della pazzia humana ed una “cagata pazzesca” secondo me e moltissimi altri.
Cemento ovunque e traffico destinato a diventare sempre più insostenibile, la città ò da 0 a 2,6 milioni di abitanti in 50 anni di vita, tutti camminando di fretta ammassati in quei pochi posti dove non si poteva andare in macchina.
Mi sentii felice nell'essermi risparmiato di rivederla, forse sarebbe potuta piacere ad un'apionato di architettura moderna, io provai al suo interno un senso di smarrimento misto a confusione, nervosismo ed infine odio; ne evasi il prima possibile quella volta.
Vi ero già stato un anno e mezzo prima appunto, per determinate circostanze.
Avevo una fidanzata a Lençois, bellissimo e sperduto paesello antico di cercatori di diamanti nello stato di Bahia. Vivevamo insieme buona parte del tempo, avevo sforato i 90 giorni l'anno di visto e preoccupato decisi di recarmi all'ambasciata italiana di Brasilia (quando in realtà sarebbe bastato andare all'ufficio di polizia federale più vicino), così lasciai il paesello con un autobus vecchio e scassatissimo con sopra solo agricoltori della zona che avevano venduto i loro prodotti al mercato e tornavano in dietro con ciò che rimaneva; un bellissimo viaggio che durò tre ore al posto di una, a causa delle varie soste nelle case lungo il percorso dove veniva offerto continuamente cibo e caffè.
Arrivato a Seabra, da dove partivano ônibus per Brasilia, decisi di fare l'autostop e dopo solo cinque minuti si fermò un camionista che andava a Goiania, ando quindi per la capitale.
Feci i 1200km di distanza in 2 giorni, ma in assoluta comodità da quell'alta posizione privilegiata della cabina di guida in più il simpatico autista mi offrì alcuni pasti.
Ricordo che mi raccontava che fino a poco tempo prima caricava tre ragazze al giorno per sfogarsi; poi un giorno ebbe un'illuminazione e si rese conto che avrebbe potuto resistere quella settimana al massimo che mancava di casa; aveva moglie e figli.
Mi lasciò infine nella periferia d Brasilia, dove dopo numerosi casini dovuti agli insoliti e maledetti nomi che avevano perversamente attribuito alle strade capii come orientarmi, dormii anche in un ostello che mi spennò vivo ed alla fine scoprii che non avevo bisogno dell'ambasciata italiana, dove mi recai comunque senza che mi fecero entrare perché ero in pantaloncini corti e ciabatte. Vidi uscire da quell'ambasciata connazionali a dir poco ambigui, uno con catene ed orologio d'oro con una camminata ed un occhiata che invitavano rapidamente ad abbassare lo sguardo.
Riuscii a fare il mio timbro alla policia federal in aeroporto dove mentii alla funzionaria dicendole che avevo bisogno del rinnovo visto perché stavo insegnando Inglese a dei bambini in una comunità ed inoltre c'era la ragazza con cui volevo stare altro tempo e forse sposarla.
Fu così che ottenni il rinnovo e lasciai quella città il giorno stesso, tornandomene a Lençois nuovamente in autostop, a piedi ed in autobus; conoscendo personaggi che mi diedero aggi con i quali mi feci un sacco di belle risate a parte uno che volle essere pagato a cui diedi giusto qualche spicciolo e mi lasciò con qualche maledizione. Seguii strade secondarie che affiancavano il fantastico rio São Francisco, pieno di alberi di mango e panorami stupendi. Conobbi in un posto dove mangiai una famigliola che mi ospitò per una notte a casa loro, ricordo il figlio che mise nello stereo a pieno volume Laura Pausini per farmi sentire in qualche maniera a casa. Impiegai alla fine una settimana per tornare a Lençois dalla ragazza, fu una delle più avventurose vissute sino ad allora.
Guardavo ora il paesaggio sfilare, forse 200 chilometri ancora e saremmo entrati nello stato di Bahia, cercavo con lo sguardo un piccolo paesello a prima vista insignificante, ma che ricordavo bene essere più o meno in quella zona.
Poco prima di arrivare a Formosa, dove dormii una notte in quel viaggio tempo addietro in autostop col camionista, ammo per la fiscalização, una specie di dogana; qui vi fu di nuovo una perquisizione della polizia federale. Mi fecero ancora domande mentre sedevo al mio posto e l'agente metteva mano ad ogni tasca dello zaino, fui il primo dell'ônibus ad essere invitato a scendere e come misi piede a terra vidi che un altro agente aveva già perquisito due valigie ed ora stava iniziando con il mio borsone maledetto, e sentii una rapidissima scarica di adrenalina diffondersi per il mio corpo.
Attendevo dietro di lui a braccia conserte e concentrato nel presente, ancora una volta ero un tutt'uno con il mio borsone in tela, lo vidi aprire la cerniera ed iniziò a spostare vestiti e le cose che avevo dentro, sembrava cercasse di fretta e male....Forse non si sarebbe accorto...Poi smosse il pentolino, la rete di patate e la busta di riso, e quindi la vide.
Prese in mano la busta di plastica color verde e piena di foglie; io lo osservavo con la mente sgombra e candidamente assente. Tastò un poco la busta guardandola incuriosito, poi la aprì, ne annusò il contenuto, la riguardò non capendo cosa fosse... Infine la richiuse appoggiandola dentro il borsone aperto e strabordante di cose, senza manco voler soddisfare la sua curiosità. Mi disse di avvicinarmi, e mi chiese di aiutarlo a chiudere il borsone, gli dissi di non preoccuparsi che lo avrei chiuso io.
Risistemai il borsone nella stiva e sedetti al sole con un sorriso celato per un mio altro piccolo successo, aspettando che finissero la procedura con tutti gli altri eggeri; ne approfittai per chiacchierare scherzoso con l'autista ed un agente, che mi raccontarono di trovare spesso piccoli contrabbandieri e qualcuno che trasportava droga che viaggiavano di ônibus ultimamente. Arrivai alla
conclusione che le foglie di coca non erano perseguitate nonostante fossero illegali oppure non erano conosciute dagli agenti brasiliani; non ebbi mai la certezza delle mie considerazioni al proposito, comunque restava il fatto che ne servivano grossi quantitativi per ottenerne sufficiente polvere. Fatto sta che l'agente dovette identificare le foglie come fossero spezie o tè.
Vi era un gran parcheggio di lato alla casa della polizia, pieno fino a scoppiare di mezzi sequestrati, e mi feci un breve giretto là dentro visto che andò per le lunghe la perquisizione bagagli.
Lasciammo quel punto della rodovia per Salvador solo dopo che aprirono una cassa di legno nella stiva dove un ragazzo stava trasportando una moto come bagaglio e vollero controllarla smontandone alcuni pezzi.
Ritornammo finalmente ad avanzare costanti ed io scrutavo paziente, infine arrivò un piccolo paesello che aspettavo di vedere, con buona parte delle case povere in mattoni a vista, era Vila Boa.
In quel viaggio in autostop dell'anno e mezzo prima, io ed il camionista avevamo scaricato una ragazza bellissima e stranamente piena di cicatrici sospette sulle gambe sode, coperte poco da quel suo vestitino corto nel caldo del sertão.
Ci aveva accompagnato con la sua allegria per mezzora, le avevo dato un bel bacio quando era scesa, mi chiese se fossi rimasto là anch'io ma non potevo perché avevo paura che sarei stato espulso per superamento dei giorni del visto e mi sentivo fedele alla mia fidanzata, così mi ero fatto lasciare il numero di cellulare che però persi, promettendole che la avrei sentita e rivista. Mi chiesi se fosse ancora in quel posto sperduto dopo questo tempo trascorso, mi venne la tentazione di scendere ma la volontà fu troppo debole e rimasi pigramente seduto; quanti alberi, monti rocciosi, sfilava tutto così rapidamente. Appoggiai la
testa contro il finestrino, le occasioni capitano una volta sola.
Mi risvegliai al tramonto che eravamo già in Bahia da un pezzo, riconobbi le immense distese dei campi di soia geneticamente modificata che tanto andavano di moda in Brasile, stavamo ripercorrendo a ritroso tutta la strada che feci di autostop con quel camionista, ero ancora impressionato da quel posto sebbene fosse la seconda volta che vi riavo; campi a 360 gradi attorno a noi, la curvatura terrestre percettibile, il sole basso e dietro le nuvole...Solo campi per centinaia di chilometri. Un tempo tutti quei chilometri erano di boschi e forse si è davvero in troppi su questo pianeta.
Dormii pesantemente buona parte del restante viaggio non svegliandomi nemmeno a Seabra dove mi ero proposto di scendere per andare a Lençois a chiedere, forse non invano, ospitalità a quella mia ex fidanzata, o a qualche conoscente, evidentemente ero destinato a proseguire.
A feira de Santana scesero i pochi eggeri rimanenti, e feci l'ultima ora da solo in tutto l'ônibus. osservando la miriade di favelas che aprivano le porte ad una delle città più negre del sudamerica.
La soleggiata Salvador, o Salvadô come veniva chiamata dai bahiani, mi accolse con un cielo cupo e piovoso dopo circa 24 ore di viaggio; camminai nella rodoviaria dove ai più volte in vita mia, di solito sempre pullulante di persone ed ora semideserta.
Pensavo sul da farsi, Salvador, da cui sarei partito in aereo non mi stava dando buoni segni di accoglienza ed al mio volo mancavano quasi 3 settimane. Riflessi sulle varie opzioni che avrei potuto scegliere, tra cui tornare in dietro ed andarmene a Lençois; in fine mandai tutto al diavolo. Salii al piano superiore già sicuro di cosa avrei fatto, appena finita la rampa di scale guardai a sinistra, c'era
una biglietteria con scritte le varie destinazioni a vista, di cui la prima era Aracaju.
Così mi comprai un biglietto per Aracaju, dove già ero ato varie volte e rimasto per svariati giorni del tempo; avevo una splendida amica, che se le cose fossero andate come desideravo magari avrebbe finito con l'ospitarmi.
Questa amica, in realtà era stata un'altra ragazza abbaglio che presi, nel senso che la conobbi un giorno in cui ero appena arrivato in Brasile; era molto bella allora, con un vestitino pieno di fiori a mostrare le belle forme del corpo e la sua carnagione morena. Persi la testa per lei e cercai di tradire quella fidanzata che avevo a Lençois ed avere due donne in due stati diversi, ma non riuscii nei miei egoici intenti. Questa garota di Aracaju sembrava inoltre divertirsi a darmi corda sentendosi considerata da qualcuno, e lasciai definitivamente la ragazza con cui stavo sperando che lei allora si sarebbe concessa. Questa ragazza mi rimase in mente come una sorta di disturbo ossessivo-compulsivo e sebbene fosse ato quasi un anno da quando l'avevo vista l'ultima volta, nutrivo ancora il desiderio di rivederla convinto tra l'altro di amarla. Se fossi stato più sincero con me stesso avrei visto che in realtà l'unica cosa che mi importava era di “farmela” e di portare a compimento uno dei tanti punti di un immaginario programma malefico, creato da quello che credevo fosse una pura ed innocente mente, basato sul puro “piacere personale”. Il punto in questione consisteva nell'avere una (o più, ancor meglio) compagna in Brasile; compagna esotica che avrei poi portato in Italia, come un trofeo di guerra, da mostrare nelle mie eggiate per le strade e nei ritrovi con le parentele, suscitando immaginavo l'invidia generale e ricevendo continue lodi e lusinghe, per essere uno di quei: “Ragazzi che ce l'avevano fatta”.
Alle 6 di pomeriggio ripartii di onibus percorrendo la BR 101, la fantastica strada che da Natal, Rio Grande do Norte, segue tutta la costa fino all'estremo sud del Brasile. Rividi molti posti già conosciuti in ato e riaffiorarono ricordi.
Alle 11 di sera arrivai ad Aracaju che pioveva fortissimo, ma il frastuono dell'acqua contro l'immensa tettoia della rodoviaria era rilassante ed ipnotico. Finii per sdraiarmi su dei posti messi in fila per chi aspettava gli arrivi.
Inevitabilmente per associazione fui alla prima volta in assoluto in cui mi fermai in quella città. Ero arrivato di pomeriggio e lasciate le mie cose in un posto, mi ero subito mosso in direzione del mare; avevo infatti l'abitudine, arrivando in nuovi posti sulla costa, di fare come prima cosa, quasi fosse stato un battesimo, un salto alla spiaggia.
Arrivai di sera in quella che scoprii poi essere chiamata praia dos artistas, dove tra l'altro lavorava anche l'amica in questione. Lasciai il marciapiede del lungomare e mi incamminai sulla sabbia diretto verso il bagnasciuga; la spiaggia era molto larga e notai che in fondo, verso dove ero diretto, c'erano svariate persone. La luna era quasi piena ed immaginai che fossero coppiette che andavano a ammirare quello spettacolo. Avvicinandomi però mi feci sospettoso, notando che c'erano solo maschi. Senza che mi accorgessi iniziai a trovarmi accerchiato da un gruppo di ragazzi che mi si approssimava progressivamente da ogni direzione. Rimasi fermo ed iniziai a ruotarmi su me stesso con l'agitazione che montava dentro, in breve fui circondato da forse 6 o 8 di loro che si mantenevano a qualche metro di distanza. Mi sentii completamente senza scampo ma quella stessa rassegnazione alle inevitabili circostanze, stranamente fece scomparire in me ogni traccia di paura od aggressività; mi feci immobile ed il flusso di pensieri sembrò avermi abbandonato diventando totalmente presente a me stesso non più dominato dall'emotività e completamente vivo nella situazione.
ai il mio sguardo su alcuni di loro, non preoccupandomi di chi ci fosse alle mie spalle, certi tenevano una mano dentro il costume, come a voler farmi intendere qualcosa che però non mi misi a voler interpretare.
Sentii dentro me stesso una forza della quale sospettavo l'esistenza e che per
fortuna dava sempre cenno di sé nei momenti di maggior bisogno; lo sentivo, ero pronto allo scontro e sicuro come non mai di me stesso. ando il mio sguardo serio alternativamente su quelli di fronte a me ed immediatamente ai lati strinsi i pugni e li alzai mettendomi in posizione di guardia. Rimasi così, fermo senza far nulla se non osservarli, dentro avevo una calma incredibile ed al tempo stesso sentivo di avere i riflessi tutti al massimo delle loro capacità di veglia; li avrei distrutti ne fui certo in una maniera profonda ed indescrivibile. I secondi arono e nessuno accennava a farsi avanti, così alla fine abbassai le braccia e mi avviai camminando lentamente, ando ben a fianco ad uno di loro.
Percorsi un centinaio di metri con quell'andatura, smisi sentire quella forza scorrermi dentro e tornarono a succhiarmi le energie la miriade di pensieri; mi misi quindi a correre pauroso dell'accaduto ed iniziai a razionalizzare l'esperienza.
Parlai con qualche venditore del lungo mare ed i giorni seguenti con la ragazza motivo della mia venuta in quella città; se secondo i miei ragionamenti il gruppo che mi aveva accerchiato era probabilmente di froci in richiesta di una prestazione, cosa che però non sembrava dai loro sguardi, secondo loro erano invece spacciatori che tenevano come da prassi la mano nei pantaloni a volermi indicare che fossero armati. Non scoprii mai la verità e certamente non mi interessai nemmeno a voler fare un secondo tentativo per capirci meglio.
La cosa per me fenomenale fu che mi parse di aver fatto sentire loro la mia forza, una forza non dei muscoli, ma di un altro tipo, ed il fatto che non ci fu bisogno né di dire una parola né di are ai fatti fu per me una prova schiacciante di questa impressione.
Conoscevo già varie pensioni economiche uscendo dalla struttura della rodoviaria e giusto ata la strada ma stavo troppo bene dove stavo per muovermi; spalmato su quelle sedie con lo zaino come cuscino. ò la mezzanotte, presi un pezzo di carta da dentro lo zaino, trovai uno spazio bianco
tra le cose scritte alla rinfusa in precedenza e la penna iniziò a muoversi creando segni con determinati significati.
25/04 è appena iniziato.
Una notte a dormire nella rodoviaria mi aspetta.
Pioggia, grilli e tranquillità.
Ed io stavo benissimo, sdraiato per quanto era possibile con gli occhi socchiusi nonostante la forte luce delle lampade al neon, le cicale (credevo fossero i grilli quelli che facevano il caratteristico rumore) che si erano nascoste da qualche parte vicino a me, la pioggia forte che mi scoraggiava ad uscire allo scoperto, il non sapere come me la sarei cavata quest'ultimo periodo, la stanchezza di giorni accumulata, il senso della vita e mille altre cose, stavo bene come non mai e non mi importava minimamente di nulla di quello che sarebbe successo e che avrei ato un'altra notte così. Forse sarei potuto morire, anzi sublimare in quel momento di tanto che mi sentivo bene, rilassato ad ogni livello ed in ogni parte all'unanimità.
I pensieri iniziarono a perdere le loro abituali connessioni per portarsi sulle frequenze del mondo dei sogni dove tutto succede e può essere fatto succedere.
Ma non potrebbe essere forse lo stesso con la vita “reale”? Durante il sogno si vedono cose inverosimili ed improbabili eppure vengono accettate dalla nostra bassa consapevolezza come reali. Ma quando capita di riuscire a rendersi conto mentre si sogna di essere appunto in un sogno, allora tutto si può far succedere.
Il sonno che stava prendendo il sopravvento fu interrotto da un rumoroso gruppetto eterogeneo di persone che venne a sedersi proprio davanti a me. Erano in sei e parlavano alla grande, non mi innervosirono, come mi sarei aspettato da me stesso in un altro contesto, e rimasi ad ascoltarli.
La vecchia bassina e la signora che mi sedavano giusto di fronte toccarono dentro con i piedi e per sbaglio il mio bastone che spuntava per terra nella fila davanti, così volli spostarlo per evitare che gli desse fastidio. Vedendomi muovere il borsone ed il bastone, la signora pensò che avevo timore toccassero le mie cose quindi mi rivolse la parola rassicurandomi. Iniziò dopo qualche secondo a farmi delle domande, e dopo soli pochi minuti stavo raccontando i miei ultimi spostamenti e loro, la vecchia, la signora, due ragazze un ragazzo ed un altro signore mi stavano ad ascoltare curiosi. Iniziammo fin da subito a scherzare come spesso succede con gli allegri brasiliani.
Loro stavano aspettando un parente che tornava da Brasilia dopo mesi che ci aveva vissuto e l'ônibus che aspettavano era in ritardo, sicché parlammo bellamente per forse un ora.
Il parente alla fine arrivò e stavano per andarsene ed iniziarono a salutarmi, quando la nonna, che mi aveva fatto crepare dalle risate con il suo modo di essere, tornò indietro e mi chiese se avessi voluto andare a casa loro, dopo i primi due no che diedi per educazione, accettai ben volentieri e sorridente, alla terza volta che mi fecero la proposta.
Caricai le mie cose su di una macchina e mi trovai diretto verso non so dove con la signora, una delle ragazze ed il ragazzo.
In macchina continuammo a scherzare, ma c'era un retrogusto nell'aria di lieve tensione; tuttavia sentivo a pelle che era brava gente, scherzavo tentando di compromettere un indesiderato ed involuto trapianto d'organi, dicendo che i miei reni ed il fegato non erano più buoni e li avevo già rovinati, nonostante la lieve tensione ridevamo tutti quanti.
Le strade erano allagate dalla tanta pioggia che era scesa, valutai inconsciamente e per abitudine le possibili vie di fuga, arrivammo in un posto che mi sembrava molto periferico visto alcune case stile favelas. Parcheggiata la macchina li seguii ando un cancello ed entrando nella loro tipica casa brasiliana.
Cosa che non mi sarei aspettato rimasi ospitato a casa loro, rimandando ogni giorno al seguente la mia partenza, fino a starci le due settimane e mezzo che mi mancavano al volo; mi trovai molto bene, strinsi amicizia con tutti loro ed in particolare con la donna di casa con cui creai un intimità particolare che ci portò, quasi per scommessa, ad abbassare l'amicizia e l'intesa in rapporti sessuali avuti in casa, di nascosto dai suoi figli quando ne avevamo l'occasione e finalmente dopo mesi soddisfai il mio istinto animale che tanto mi aveva agoniato negli ultimi tempi.
Cercai anche di trovare la garota conosciuta l'anno precendente per la quale avevo perso la testa, ed avendo anche il suo indirizzo decisi di farle una sorpresa presentandomi a casa sua. Lei non c'era in casa ed anzi sapendo successivamente che ero andato a trovarla mi scrisse un messaggio chiedendomi chi diavolo mi avesse detto di farlo. Rimasi molto rattristato pensando ai tanti chilometri percorsi nella speranza che i miei sforzi venissero ripagati nella maniera che mi aspettavo. Impiegai nonostante questo altri mesi per dimenticarla definitivamente.
I giorni arono rapidi ed arrivò infine quello che ci dovemmo salutare, ai quelle due settimane e mezzo all'ingrasso, facendo un po' di sesso e leggermente tendendo alla pigrizia per riposare i miei sensi e godendo di tante sane risate
grazie all'immensa e contagiosa allegria brasiliana.
ABBANDONO, si chiude un'altra fase.
Giunse il momento di abbandonare il mio vagabondaggio, tornai con l'autobus a Salvador arrivandovi di mattino presto, rimasi a prendere un po' di sole fuori dall'aeroporto aspettando varie ore il momento del volo, mi iniziò a prendere una sensazione di nostalgia di tutto ciò che avevo vissuto, la sensazione di star tornando ad una realtà indesiderata e limitante.
Presi l'aereo dopo varie ore e riflessi per tutta la durata del volo fino ad essere perfettamente cosciente che non mi sarei fermato in Italia per lungo tempo, ancora prima di esserci ritornato.
Dopo lo scalo in Germania arrivai nella patria natale, era un anno che vi mancavo, incontrai con immenso piacere la mia famiglia e qualche amico, ma fin da subito sentivo quella sensazione di smarrimento e disagio che mi faceva dubitare della realtà della situazione. Ero certo che la mia essenza sicuramente avrebbe continuato a chiedermi emozioni e nuove esperienze e non avrei potuto dirle di no; lei non avrebbe mai voluto vedermi incatenato ad una vita usuale, non avrebbe mai voluto lasciarmi sfuggire nessuna delle tante creazioni fantastiche che si possono incontrare nel cammino. Ero certo che non avrei trovato il coraggio di fermarmi, ed ebbi paura che non vi sarei mai più riuscito.
Vita mia dove mi stai portando?
PERMANENZA IN ITALIA.
ai l'estate tra brevi spostamenti a carattere di vacanza lungo lo stivale, fino a decidermi col darmi da fare nuovamente.
Dopo forse un mesetto di permanenza, lasciai quindi perdere la movida del paese in puglia in cui mi recavo spesso l'estate e la mia fallimentare ricerca di esaltare di fronte a conoscenti ed amici il mio ego a causa dei viaggi appena compiuti. Tornai verso il paese del nord Italia dove crescetti, sempre con il mio cane che mi accompagnò in ogni spostamento.
Quel mese tuttavia fu molto utile, anzi indispensabile per comprendere delle cose.
Quanta falsità e quante maschere usai di fronte agli altri... Quanti bei discorsi sui miei viaggi e le mie avventure, il tutto unicamente per esaltare la mia storia personale...Usare la loro approvazione per sentirmi meglio con me stesso, per sentire che ero qualcuno e che valevo qualcosa se gli altri mi approvavano in quella maniera.
Accorgendomi, come avveniva ciclicamente per questa cosa, che quella strada di soddisfazione dell'ego mi portava solo ad un infelicità profonda come un piccolo evento metteva in crisi il mio presunto “valore personale”, presi così il distacco dal mondo, ancor prima che il piccolo evento ebbe modo di succedere vedendo per la prima volta qual'era la dinamica reale che mi spingeva a cercare le altre persone.
Tentai, dopo di essermi accorto di queste cose, esperienze piuttosto dure, volte a farmi cambiare qualcosa in me stesso. Feci tre giorni di digiuno, dopo forse settimane in cui mangiavo inutilmente come un porco, nella speranza di
diventare più gonfio per poter fare un'impressione di un certo tipo sulle altre persone in base al mio aspetto esteriore.
Il digiuno fu piuttosto sofferto, al terzo giorno ebbi un brusco aumento di energia ed iniziai a fare attività fisica come un matto, terminata la quale però mi venne una presa allo stomaco dalla fame, aspettai un po ed infine non riuscendo a resistere mi bevvi 2 tazze di cioccolata con un casino di zucchero e collassai sul letto.
Oltre al digiuno sperimentai il sonno polifasico, che durò se non erro 6 giorni, dove iniziai a scrivere parecchio; dormivo mezzora ogni tre ore e mezza di veglia, il tutto rigorosamente regolato da sveglie. Fu veramente difficile gli ultimi giorni riuscire a restare sveglio e dopo il collasso avuto alla fine cedetti.
Usavo la cioccolata come stimolante, e probabilmente a causa del principio attivo del cacao, la theobromina avevo attacchi di pianto emozionale al solo scrivere delle mie avventure ed al riaffiorare dei ricordi.
Tornato al nord iniziai ad esercitare la mia forza di volontà dandomi ad un nuovo impiego, visto che trovare un lavoro da dipendente in giro era difficile a causa della crisi economica, ma in realtà non mi degnai neanche di cercare; cominciai così a vendere tramite internet svariata roba appartenuta alla mia ormai separata famiglia oppure roba che io accumulai, più o meno legalmente, durante gli anni prima di iniziare a vagabondare da una parte all'altra del pianeta.
Il lavoro, del tutto nuovo per me, mi piacque fin da subito e mi fu molto utile a causa del non avere nessun capo a cui rispondere se non a me stesso ed alla mia voglia e pazienza a mettermi in gioco ed al conoscere nuove persone dei più svariati tipi, che mi costrinse ad imparare a relazionarmi negli affari.
Mi capitò di vendere cose che non funzionavano a prezzi anche alti, purtroppo mi ci sentivo obbligato per riuscire nel mio intento, che era nuovamente quello di farmi qualche riserva liquida per partire all'arrembaggio nuovamente.
ai quindi buona parte dell'estate vendendo roba tramite internet e scrivendo.
Ricevetti inoltre i benedetti soldi che mi aspettavo dal governo australiano, ed anche dei soldi, grazie alla conoscenza delle regole sul lavoro di mio padre, dall'agenzia dell'entrate. Inoltre le vendite arrivarono piu o meno sui 2000 euro in 2 mesi se non erro.
Mi iscrissi anche ad un bando per entrare a lavorare in una compagnia di crociere. Volevo tentare di entrare come tour escort, praticamente accompagnando le persone dalla crociera a fare le escursioni nei posti in cui ci si sarebbe fermati.
Ero abbastanza determinato, ma sentivo un lieve disagio a livello animico, che sembrava avvisarmi che non era quello che realmente volevo.
A livello mentale la vocina me la raccontava con tante fantasie, del tipo:
“Così tra stipendio, mance ed il fatto che non avrai spese, riuscirai a mettere un bel po di soldi da parte, poi sicuramente ti scoperai un sacco di turiste e starai in giro per il mondo mentre ti pagano”.
....E tante cose di questo tipo.
Poi i molti conoscenti a cui raccontai che andavo a fare quelle selezioni contribuirono ad alimentare le mie illusioni, dicendomi che mi avrebbero preso sicuramente, che ero perfetto per quel lavoro.
Studiai per un mese spagnolo, che parlavo maccheronicamente dai miei mesi trascorsi in Bolivia, imparai la grammatica e terminologie marittime anche piuttosto bene. Arrivarono quindi i giorni della selezione ed andai a Roma, affidando questa volta il mio cane ad un signore per 4 giorni.
ai la prova scritta ed una volta agli orali, mi diede l'impressione che gli esaminatori capissero a pelle di quanto in realtà io fossi una specie di vagabondo inaffidabile sul lavoro, pronto ad andarmene quando ne avessi avuto abbastanza; forse mi tradii inconsciamente con qualche frase.
Dopo una settimana seppi di non essere ato alla fase successiva per sole 6 persone davanti a me, ne presero soli 20 su più di 300.
Quando vidi la graduatoria rimasi un po' perplesso su cosa avrei fatto in quel momento, ma sinceramente non mi sentii molto toccato, anzi forse fui felice.
Compresi che ci sarebbe stata solo una cosa da fare per me allora.
RITORNO IN VIAGGIO, ciclo continuo.
Ero quindi pronto a ripartire, non sapevo bene dove andare, ma sapevo di dover andare e basta.
Pensavo di tornarmene in Australia, ma avevo paura che mi sarebbe stato impedito l'accesso a causa delle varie multe non pagate che pendevano sul mio nome e quindi era un rischio che non mi sentivo di correre.
Si affacciò nella mia mente l'opzione sud America richiamato dall'idea di andare all'avventura e pensando in particolare al Venezuela, ma scoprii che la situazione in quel paese era pressoché disastrosa e per fortuna non ci andai perchè peggiorò di parecchio nei mesi seguenti.
Pensai anche alla Colombia ma il volo era troppo caro.
Infine scelsi di tornarmene in Brasile, contando per iniziare l'appoggio di Selma, così si chiamava la signora che mi aveva ospitato a casa sua nel mio ultimo soggiorno, a cui chiesi se sarebbe stato un problema se mi fossi presentato là. La risposta fu che le porte per me sarebbero state sempre aperte e quindi come ormai d'abitudine o per istinto mi comprai un volo, che sarebbe partito dopo una settimana, senza troppe chiacchiere mentali.
Lasciai a mia sorella, anche lei da oltreoceano nel frattempo rimpatriata, la continuazione di quei pochi annunci attivi che mi erano rimasti su internet, e lei riuscì a vendere qualcosa; speravo che non avrebbe avuto problemi visto che diedi qualche fregatura a qualcuno ed usai come contatto il suo numero di cellulare.
Partii questa volta attrezzato come non mai, visto che col are del tempo la sensazione definibile come: “parto per non tornare mai più” si stava facendo sempre più forte.
Questa volta avevo un grosso zaino regalatomi dalla mia sorella maggiore che ero andato a trovare dopo qualche anno che non ci vedevamo, ed uno zainetto della sorella più piccola con dentro il mio portatile; per la prima volta dopo più di due anni di viaggi me lo sarei portato insieme, decisione presa dopo essermi fatto due conti che con i soldi spesi negli internet point me ne sarei comprato senz'altro uno nuovo di pc.
La prima settimana di settembre rimisi piede in Brasile, atterrando a Natal.
Feci amicizia sul volo col mio vicino di posto, un ragazzo milanese che era il decimo anno che se ne andava a jericoacoara a are il freddo e triste inverno lombardo, facendo kite surf, fumando maconha ed andando alle feste.
In aereo ordinammo vari bicchieri di vino finché le hostess ce ne portarono, poi ammo alla birra; si unì verso la fine del viaggio al nostro chiacchierare un altro italiano, un imprenditore dal marcato accento milanese che per me sentirlo parlare era tutto un programma.
Parlava solo di costruire edifici, del cambio valuta euro-real e mille altre cose finanziarie che mi facevano comprendere quanto fosse triste essere schiavi della propria ricchezza.
Poi vista l'insistenza del kitesurfista nel parlare di figa e feste anche il nostro imprenditore lumbard per non dover far svalutare l'impressione di se stesso che
premeva di farci percepire, dovette adattarsi. l'impressione che premeva di fare agli altri si basava sul fatto che parlava spesso di cifre a vari zeri come se niente fosse, e parlava solo di affari; facendo si che le persone lo considerassero importante per quello.
In poche parole il suo lavoro-schiavitù era il suo centro di gravità, sembrava essere l'unica cosa che aveva nella sua vita...Tolto quello mi chiesi quanto sarebbe rimasto per lui.
Dicevo il costruttore per non far svalutare l'impressione che gli premeva avessimo di lui si adattò e per stare in risonanza con discorsi del ragazzo si mise a dire che anche lui adesso aveva iniziato a darci dentro. Oramai non gliene fregava più un cazzo, aveva le sue belle fighe che si scopava.
Il caro imprenditore mentiva, anche il ragazzo in parte mentiva e lo capivo dal tono della voce.... Perchè? Perchè cambiava quando dicevano la bugia, ed anche il mio tono cambiava ugualmente, ed era per questo che potevo riconoscere in loro la menzogna ugualmente a come la riconoscevo in me stesso.
Ed io stesso mentivo, ma non riuscivo a fare altrimenti, non volendo sentirmi “inferiore” dicendo che le mie esperienze sessuali non erano state poi così tante nella mia vita fino ad allora. Che grandissima assurdità.
Raccontai alcune che mi erano successe a distanza di mesi con un fare che lasciasse intendere a loro che per me quella fosse roba all'ordine del giorno.
Terminò il volo e li salutai visto che sarebbero scesi a
Fortaleza.
E così ero in Brasile, l'ennesima volta!
Avevo un mal di testa atroce dovuto al viaggio ed all'alcol, era sera e dopo l'ormai conosciuto pezzo a piedi dall'aeroporto ad uno stradone principale presi un onibus che mi accompagnò alla rodoviaria, schiacciato come sempre tra la ressa di persone al ritorno dalla giornata lavorativa, tornò lievemente la sensazione di euforia che percepivo come un leggero formicolio allo scroto e mi si stampò il classico lieve sorriso del ritorno in Brasile. E già il Brasile, lo avrei potuto riconoscere ad occhi chiusi, semplicemente fiutando l'aria.
Arrivato alla rodoviaria mangiai ad un “comida por quilo” del cibo ormai semifreddo e mi misi a tentare di dormire sulle panchine, la guardia non mi permise di sdraiarmi svegliandomi fin da subito; trovai un sistema appoggiando le gambe sullo zaino grosso e la testa in avanti sullo zaino piccolo che mi stava in braccio. Dormii a sprazzi ed alla meno peggio come in ogni viaggio.
Mi presi al mattino come aprirono gli sportelli un biglietto per joào pessoa che ancora non avevo visitato, dopo poche ore di onibus vi arrivai.
Vi furono una mistura totale di impressioni nell'arrivo in questa città dall'uscita della rodoviaria dove vi era casino di genti e mi sentii come se fosse per la prima volta che ero in Brasile, impacciato con quei due zaini, tutto quel peso addosso e la paura che qualcuno mi fregasse tutto, visto che tenevo parecchi reais tranquillamente in tasca.
Arrivato ad un lago artificiale c'era in opera tutta una sfilata perchè era il giorno di commemorazione dell'indipendenza brasiliana.
C'erano in giro parecchie ragazzine vestite a tema e ragazzi coi tamburelli e trombette, camminando poi lungo l'avenida io che stavo osservando al dettaglio tutto ciò che mi succedeva attorno, sia per curiosità, sia per studiare i venditori ambulanti, visto che prima di partire mi ero posto un obbiettivo che sarei riuscito a creare qualcosa che loro non avevano o a fare in modo diverso ed originale una cosa da loro normalissima.
Ci fu una rissa ad un certo punto dell'avenida ed a distanza di poco arrivarono i poliziotti della policia militar, gente che realmente sembrava stesse andando in guerra.
Camminai tutta la mattina e parte del pomeriggio senza niente nello stomaco, feci svariati chilometri con 27 kili di roba addosso, mi persi leggermente per Joào Pessoa fino a sbucare sul lungomare che percorsi alla ricerca di un posto dove stare.
Trovai infine l'ostello e mi pagai una notte.
Nei 3 giorni che ai a Joào conobbi una coppia, lui se lei costa avoriense che da 1 mese erano arrivati in Brasile e contavano di girarsi il sud America in più di un anno, un ragazzo del sud che si era trasferito ed infine impossibile da dimenticare un signore canadese, che sembrava molto più vecchio di quanto in realtà dichiarava di essere.
Iniziai con questo signore di nome John una conversazione in inglese che si
protrasse per ore al di fuori della stanza che avevamo in comune, parlammo un po' di tutto ma sopratutto di cose riguardanti il complottismo di una elitè verso la razza umana.
Costui era molto interessante come persona e lo erano anche gli argomenti che trattava; viveva in giro per il mondo da circa 25 anni. Purtroppo il suo aspetto dava un unica impressione, ovvero che non fosse totalmente a posto con il cervello.
ava svariate ore piegato sul suo portatile a navigare su internet e scrivere articoli su dei siti.
Tirava sue conclusioni logiche sugli avvenimenti attuali del nostro pianeta, e la cosa triste era che i suoi ragionamenti erano convincenti e le sue visuali erano delle più catastrofiche.
Vi fu un pomeriggio che io ed il se ammo eggiando sulla spiaggia seguendo il discorso del pazzo John che sembrava non finire mai. Le cose di cui parlava erano convincenti a livello psicologico, ma sentivo sempre un pizzico di dubbio dentro di me a proposito di quello che diceva e mi chiedevo cosa cambiasse realmente nella mia vita sapere tutte quelle informazioni, che per lo più non erano altro che sospetti.
L'ultimo giorno fui invitato dal ragazzo trasferitosi dal sud del paese, un simpatico tal Cleber, sua madre più la coppia se a fare un giro sulla macchina che aveva noleggiato.
Premettendo che Cleber, che da poco si era trasferito in città, lavorava in banca
ed aveva quindi un buon stipendio rispetto alla media brasiliana, ci dirigemmo verso sud cercando una spiaggia bella ed arrivammo infine a Jacumà e dopo mille peripezie per trovare un parcheggio senza rischiare di rimanere bloccati nel fango, facemmo una lunga eggiata sulla spiaggia sempre in direzione sud fino ad arrivare a delle barrachine-ristoranti sopra una falesia dove ci fermammo a mangiare. Mi mancava la spiaggia, il mare ed il profumo di libertà che il Brasile sapeva trasmettermi anche in una giornata nuvolosa come quella.
Cleber ordinò un casino di roba incluso un bel pescione arancione buonissimo, oltre a tutti gli accompagnamenti ed immancabili giri di caipirinha. Fin da subito mi preoccupai un poco di quanto cavolo avrei dovuto pagare alla fine.
C'era una bellissima brasiliana tra le altre a portarci da mangiare al tavolo e la mia attenzione era costantemente catturata da lei e se ne accorse credo, rimasi un poco deluso quando la vidi salire in moto con un tizio piccolo e dal mascellone, la stereotipica faccia da granchio brasiliana.
Ci divertimmo e mi sfondai lo stomaco di cibo, facendo anche lo spazzino delle cose lasciate dagli altri.
Iniziò a piovere, e rimanemmo riparati come meglio potemmo; infine venne l'ora del conto che Cleber come avevo sperato volle pagare; allora vidi la scenetta interessante che penso sia stata la cosa che mi giustifica nel riportare l'intera vicenda.
La madre già dopo qualche sorso di caipirinha cominciò ad allisciarsi il proprietario del ristorante a varie riprese, dando un impressione tra le righe che il figlio fosse in qualche modo una persona importante; poi alla fine si venne ad aggiungere Cleber, spiegando che lui era un funzionario del banco do brasil e che gli era piaciuto il ristorante e:
“Sa....Potrei dire ai colleghi, e ben inteso, persone di un certo livello, di questo posto dove si mangia così bene, sono sicuro che verrebbero ben volentieri fino a qui”.
Insomma tutte storie in tono semi-seduttivo e allettante che indussero il proprietario a non fare pagare il conto a Cleber speranzoso di aumentare esponenzialmente i suoi clienti in futuro.
Rimasi meravigliato con quanta destrezza fossero, madre e figlio, riusciti ad ottenere ciò, e mi chiesi se fosse una loro abitudine adottare quella strategia vincente, facendo questo giochino in ogni posto e ottenendo grandi mangiate a gratis.
Cleber per quelle poche ore sommate che lo conobbi mi diede tuttavia l'impressione di una buona persona, ma notai che “stranamente”, come appresi da delle foto che mi mostrò, sembrava si portasse la carissima madre insieme un po' dovunque!
Lasciai Joào Pessoa quel giorno stesso avendo l'autobus la sera in direzione Aracajù.
Avevo ancora dei dubbi sulla scelta di quella meta, ma come si rivelò con il tempo anzi, per la mia comprensione postuma, fu una scelta ottima.
Dopo la notte di viaggio dove mi addormentai all'istante nel mio sedile e come sempre incredibilmente mi svegliai che l'autobus entrava nella rodoviaria di
Aracaju dove stava già albeggiando.
ai un oretta fermo ad aspettare che i primi onibus cittadini partissero e dopodichè mi diressi in centro dove sceso nel terminal di scambio volli proseguire a piedi tutto il vialone che mi portava nel quartiere del santo Antonio, con la sua chiesetta in cima alla collina.
Non potevo crederci di essere di nuovo in questo posto, mai avrei creduto di tornarvi; arrivai fino a destinazione come spesso attirando lo sguardo dei curiosi che raramente vedevano un gringo con lo zaino, anzi gli zaini, in spalla da quelle parti.
Fermo fuori dal cancello di casa Selma erano le 7 del mattino e dopo qualche minuto di grida si fece viva Selma, da come intravidi dalla porta-vetro d'ingresso non dopo essersi guardata allo specchio per risistemarsi la faccia. Venni accolto in casa e sinceramente non le diedi tantissima attenzione, perchè mi premeva scaricare il peso da dosso ed anche perchè mi sembrava di essere stato là giusto qualche giorno prima.
E qui iniziò una fase che durò 6 mesi, di cui sarò costretto a non rispettare l'ordine cronologico, visto che mi è difficile ricordarlo, ma a descrivere un po' casualmente gli avvenimenti.
CASA SELMA.
Dunque, da dove iniziare...Fu una fortuna conoscer Selma sotto molti aspetti e fin da quando arrivai misi subito in chiaro la mia buona ed ascetica intenzione di non aver nessun tipo di relazione sessuale con lei vista la differenza di età, ma le
cose andarono poi diversamente. Avevo in mente un piano, non seppi mai bene cosa, ma avevo la sensazione che sarei riuscito a fare qualcosa di grandioso, ed il motivo di quel mio ritorno in Brasile era stato quello principalmente.
Iniziai, dopo forse uno o pochi giorni a darmi da fare per cercare di avviare un qualche tipo di commercio, Selma mi invitava a rilassarmi ed a non prenderla troppo sul serio che ero appena arrivato e dovevo riposarmi, ma ero in uno stato psichico incentrato sul voler sforzarmi di riuscire a fare qualcosa, qualcosa di grandioso usando la mia intelligenza e mettendomi alla prova.
ai un mese in cui considerai le più disparate idee di come fare grana, ero totalmente convinto che grazie alle mie capacità cognitive avrei avuto “successo” ma come sempre le cose non vanno mai come ci si aspetta, avevo idea inizialmente di comprare un macchinario per fare i gelati e vivere di quello.
Andai a fare l'imbianchino nella casa di proprietà di Selma, situata in un quartiere ancora più periferico e piuttosto pericoloso; lei si volle trasferire ad ogni costo dopo che vari proiettili vaganti colpirono la parete frontale.
Per una decina di giorni fui quindi impegnato anche in questa attività, imbiancai buona parte delle pareti interne e diedi alla facciata una bella tinta arancione.
Da notare che vi era un ragazzo all'inizio che imbiancava insieme a me, dovetti mettere da parte il mio orgoglio, avendo già imbiancato molte volte in ato, mentre mi spiegava come si faceva con le tinte brasiliane.
Sempre in questo primo mese volli tentare di lavorare per il caju-cap di Aracaju.
Il Caju-cap era una lotteria settimanale con in palio di solito macchine e moto a cui ogni settimana partecipavano una cifra impressionante di pieni di speranza.
Selma ci lavorava dentro facendo la rappresentante di quartiere, tramite il fratello ipermaterialista Genilson che era un rappresentante regionale di sto caju cap. Il lavoro di Selma si basava quindi nel distribuire e riscuotere settimanalmente i biglietti e gli incassi ai vari venditori ambulanti. Nei primi tempi vi era un pienone in casa ogni venerdì. Un pienone di venditori caju cap, di biglietti e di soldi; bisognava contare tutto quanto perfettamente, ma nonostante questo ogni settimana mancava qualcosa. Da delle mie brevi osservazioni fu facile dedurre che i venditori approfittavano della bontà e dell'ingenuità di questa donna, o forse non sapevano contare molto bene.
Poi la sera arrivava un agente di polizia privata armato che restando in macchina parcheggiato fuori, riscuoteva il malloppo.
Il malloppo le volte che stavo là arrivò anche ai 2000 reais, tolti già il guadagno dei venditori su ogni biglietto 10% ed il guadagno di Selma, un altro 10 %.
Il buon Genilson si pigliava un altro 10 %, avendo però “sotto di lui” vari venditori di quartiere come Selma. Ma il più furbo di tutti, senza dubbio, restava il tizio là in cima della piramide caju cap, senza muovere un dito e soprattutto senza farsi un o a piedi con i biglietti da vendere in mano sotto al sole.
Volli tentare anche io di fare l'omino alla base della piramide caju cap, Selma mi diede una maglietta da “Vendedor” griffata ed una ventina di biglietti.
Me ne andai a piedi fino in centro dove rimasi affiancato alla barracca mobile di Zè Carlos, un fratello di Selma. Un'individuo pieno di risorse e secondo me capace di stupire scenziati per le sue capacità, ma parlerò di lui e le nostre avventure più avanti.
Lo salutai essendo da mesi che non ci vedevamo, ma non si era accorto che nel frattempo me ne ero volato via in Italia ed ero tornato indietro, per lui il tempo realmente non esisteva.
Rimasi vicino a lui chiacchierando parecchio, ma soprattutto volevo cercare di riuscire a vendere per lo meno un biglietto della lotteria, iniziai quindi gridando: “CAJU CAAAAAAAAAP” con il famoso accento napoletano del venditore rionale del pesce. Riuscii dopo 3 ore piuttosto alternative a vendere 4 biglietti, guadagnando ben 4 reais, e quella fu la prima e l'ultima volta in cui mi cimentai in quel settore.
Nel primo mese ai tra l'altro ore intere a cercare merci su internet confrontando poi i prezzi delle stesse cose in giro per Aracaju, realmente cercai di tutto e per la maggior parte delle cose non valeva la pena (mi informai addirittura di importare dall'Italia bottiglie di olio extra vergine d'oliva per poi rivenderle). ai molte ore al computer anche per un altro motivo, per il quale mi tenevo sveglio a caffè la notte; era infatti questo l'unico momento dove in casa c'era silenzio e riuscivo a concentrarmi per dedicarmi alla scrittura della prima parte di questo libro.
Mi decisi infine a comprare 3 paia di occhiali ray ban falsi, con custodia e tutto quanto che arrivavano da San Paolo, pensando che avrei usato la scusa dell'essere italiano per appioppare ad ignari brasiliani dei presunti originalissimi occhiali che ricevevo via posta dai miei collaboratori in Italia, Selma fu la mia complice ed unica a sapere dell'inganno. Sembrava vi fossero buone speranze all'inizio di vendere e guadagnare circa il triplo per ogni paio, il che non era una cifra indifferente, perchè effettivamente gli occhiali erano manifatturati in
maniera pressochè identica all'originale, ed anche gli “esperti” facevano fatica a riconoscerne la falsità.
La nostra speranza si infranse quando una parente, interessata agli occhiali, se ne fece prestare un paio da Selma, per farli poi analizzare da un centro ottico che le disse che erano falsi.
Assistetti impotente mentre Selma le dava un paio nella sua custodia con tranquillità, intuendo che la parente, che mi puzzava di vipera, avrebbe fatto qualcosa di losco.
Per molto tempo mi rimasero invenduti questi tre occhiali, e dimenticai quasi di averli.
Feci “inaugurare” inoltre un piccolo cuida-se de crianças (prende-si cura di bambini) a Selma nella propria casa, pubblicizzato da una fascia che mandai a fare e che piazzai all'ingresso; dopo alcuni giorni cominciarono a presentarsi varie mamme a chiedere informazioni. Dopo del tempo arrivarono i primi bambini.
ato quindi il magico mese, come spesso accadde, mi ritrovai ad avere lavoro seguendo un consiglio di Selma, comprai un carretto di patatine fritte, ovvero un carrettino di lamierino di acciaio con un piano con vasca per friggere ed una piastra per fare tapioca (piadine di farina di mandioca) che però usai in rare occasioni. Uno scomparto sottostante dove mettere la bombola del gas più altre cose utili, una vetrinetta sulla parte frontale, ed un altro piano superiore dove appoggiare maionese, ketchup ecc.
Ci volle del tempo naturalmente sia per avere l'idea del carrettino che per trovarlo proprio; giravo parecchio in bicicletta, all'inizio con quella senza freni di Mateus, figlio adottivo (nipote in realtà) di Selma, il quale piuttosto menomato intellettualmente, si era schiantato battezzando così la bicicletta, giù dalla discesa del santo Antonio; discesa piuttosto ripida con in cima una chiesa e di sotto un semaforo. Fattostà che Mateus si fece la discesa senza freni ma soprattutto gridando esaltato: “ADRENALINAAAA!” Solo che il semaforo di sotto era rosso e quindi prese in pieno da una macchina che ava all'incrocio, lo portarono all'ospedale.
Per evitare di litigare con Mateus, piuttosto paranoico e molto attaccato alle sue poche cianfrusaglie di beni materiali che possedeva, ma soprattutto per essere più indipendente mi volli comprare una mia bicicletta.
Così durante una eggiata di tarda mattina in havaianas, cannottiera e costume probabilmente, tra le strade in zona stazione abbandonata mi trovai un tizio che vendeva biciclette.
Era un nero che sopravviveva così, facendo il meccanico, di fronte al suo buco pieno di ferri che dava sulla piazza dinnanzi alla fatiscente stazione, vi erano parcheggiate forse 5 o 6 biciclette, ne vidi una che mi piacque abbastanza in stile custom americano e gli diedi 40 reais quando ne voleva 6o. Mi rendevo conto di aver preso una specie di scassone roteante ma il fatto di aver ottenuto 20 reais di sconto mi sembrò una gran cosa. Tornato a casa fui preso per il culo dalla maggior parte dei presenti che mi fecero notare che al massimo, ma massimo proprio si pagherebbero 20 reais per una bici del genere, a mala pena funzionante.
Come accennato, trovai in fine un posto dove si vendevano carrettine e scelta la mia e fatte tutte le storie per pagare arrivò a “casa Selma” dopo qualche giorno.
Il giorno dopo alle prime luci del mattino, andammo io e Selma al mercadào, un mercatone dove arrivano all'ingrosso le verdure dai campi.
Mi comprai un sacco di patate da 50 kg, lo caricai sulle spalle dietro la testa ed iniziai a camminare rapido in direzione casa, con Selma che mi parlava dietro insistendo che dovevamo prendere un taxi e non potevo portarlo così che mi sarei fatto male, poi ad un certo punto mi lasciò andare avanti fino a che la persi, anche perchè il sacco era pesante ed io praticamente corricchiavo per arrivare prima. Arrivai a casa avendo fatto solo 3 pause dove lasciavo il sacco per terra per poi ricaricarmelo da solo in qualche maniera, distrutto ma esultante di avercela fatta.
Il giorno seguente fummo in centro a cercare olio per friggere (una bagna del famoso olio di palma) e nel pomeriggio fui pronto al primo giorno di lavoro.
Mi preparò tutto quanto lei e come fui pronto alzai il carrettino sulle due ruote frontali ed iniziai a lasciarmi andar giù per la discesa per poi spingerlo nella babilonia periferica di Aracaju fino dinnanzi ad un supermercato dai prezzi bassi proseguendo per la strada. Il supermercato chiamato tabajara che vendeva anche all'ingrosso, riusciva ad avere i prezzi sempre più bassi rispetto agli altri, ed era sempre pieno di gente. Girava voce che comprasse i carichi di merce da camion rubati, pagandoli quindi decisamente meno. Mi piazzai la davanti e la vendita fu piuttosto scarsa, avrei cambiato punto visto che non mi importava di stancarmi e fare strada in più.
Optai quindi per il secondo punto vendita che avevamo stabilito ovvero di fronte ad una chiesa non molto lontano, in una posizione abbastanza strategica su di una strada trafficata e vicino ad una scuola.
Il giorno seguente mi recai li, e la vendita fu molto buona e promettente.
Mi faceva strano vendere patatine fritte e tutti i miei gesti erano ancora macchinosi e lenti, dovevo tenere a mente sempre i aggi da fare per servire ogni cliente e mi sentivo di non riuscire a star dietro con i tempi.
Volendo poi fare le cose sempre in maniera originale, mi ero fatto fare una fascia di tessuto da poter appendere con scritto in bella grafia a pennello: BATATIXA refrigerantes sucos, visto che non avevo intenzione di vendere solo batatas fritas ma di guarnirle con dei wurstel(salchixa) tagliati a fettine sottili oltre a ketchup e maionese; copiai quindi la ricetta salchipapa che fare vidi in Bolivia dalle venditrici ambulanti.
Così avevo infine un lavoro, e la gente era abbastanza curiosa della mia batatixa ma in pochi avevano il coraggio di sperimentarla, comunque sia, le vendite ingranarono abbastanza bene nel periodo iniziale.
Purtroppo però non si può mai prevedere tutto ed a inizio dicembre il prezzo del sacco di patate era già raddoppiato, il che significava meno lucro; senza contare che se per qualche giorno di fila vendevo poco o non trovavo le forze per andare a lavorare, una bella parte delle patate nel sacco, nonostante le coprissi, marcivano a causa del caldo afoso brasiliano.
Il puzzo di patate marce era disgustoso, molto simile all'odore della merda, anzi peggio, bisognava quindi cercare tra le patate nel sacco fino a trovare quelle andate a male, da cui se si poteva recuperavamo la parte buona. La parte marcia consisteva in una specie di liquido colloso simile a sperma, di cui il tremendo fetore non andava via dalle mani manco a pregare; era un compito spregevole ma bisognava farlo.
Mi irrobustii abbastanza in questi primi mesi, dovuto al fatto che almeno una volta a settimana mi facevo la fatidica corsa con il sacco da 50 kg sulle spalle, allo spingere il carrettino carico per salite e non meno facili discese, ed al fatto che mangiavo qualche porzione di patatine fritte quasi quotidianamente visto che se non le vendevo nel giro di poco si raffreddavano e non erano più appetibili, oltre alle abbuffate in casa Selma.
Ogni volta che facevo la fatidica corsa, era sempre una sfida con me stesso, sentire la volontà vincere lo sforzo presente in ogni centimetro del corpo mi piaceva parecchio; le gambe che dovevano pompare come due pistoni obbligate a fare qualcosa per cui non erano probabilmente previste, il sudore scendeva grondando dalla pelle ed i denti si serravano nella parte in salita. Una volta che raggiungevo casa puntualmente mi mettevo a fare esercizi a corpo libero, per completare quello che per me era alla stregua di un allenamento per partecipare alle olimpiadi a cui mi approcciavo con enorme dedizione, costanza e voglia di migliorare. Il punto era che non c'era nessun olimpiade in programma nella mia vita, e tutti quegli sforzi all'occhio comune erano sinonimo di malattia mentale.
All'occhio comune in realtà quelle corse col sacco vennero interpretate anche in un'altra maniera.
Per dirigermi dal mercadào verso casa, inevitabilmente avo di fronte all'ospedale universitario, dove tutti i giorni c'era un gruppeto di persone aspettando l'onibus. Un fratello di Selma, un certo Nicinho, lavorando come bigliettaio, mi aveva detto alla prima occasione che ci incontrammo, di avermi visto are a quella fermata correndo con un sacco di patate sulle spalle e che i presenti sull'onibus commentarono la cosa convinti che fossi stato qualche d'uno che aveva rubato tutta quella cosa e che stava scappando dopo aver commesso il furto.
In casa si fecero anche preoccupati che a furia di fare quelle corse prima o poi qualcuno, fiducioso dei propri sospetti, avrebbe avvisato la polizia ed io avrei
ato del tempo a dover dare spiegazioni.
Queste mie spettacolari corse col sacco furono interrotte due volte a causa di un brutto strappo al collo che mi pigliai, non concedendomi i dovuti tempi di riposo ed alzando a freddo il sacco da terra.
Tra l'altro lo stesso Nicinho mi aveva proposto di farmi avanti e contattare l'impresa di onibus per lavorare con loro, magari comodamente all'interno di un qualche ufficio. Mi lasciò dei contatti ed avrebbe messo una buona parola per farmi assumere, oramai però avevo il mio lavoro e mi piaceva molto di ciò che facevo.
Nel frattempo tra il primo ed il secondo mese vi erano vari marmocchi che gironzolavano per casa, di cui uno, Bruno che era una peste. Arrivai ad acchiapparlo ed a gridargli in faccia un giorno e poi andò a riferire alla madre che lo avevo picchiato, probabilmente lo traumatizzai non poco; dopo qualche tempo non venne più. Tra gli altri marmocchi ne venne uno bellissimo, Miguel sui quattro anni con i capelli lunghi e degli occhi sveglissimi, diventammo buoni amici in breve e lo andavo spesso a prendere a scuola, portandolo sulle spalle, come faceva mio padre con me a suo tempo. Compravo poi spesso un anguria e varia frutta in una piccola merceria vicino alla sua scuola e ci facevamo la strada di salite e discese tra le sgangherate abitazioni fino a tornare a casa Selma.
Furono la madre ed il padre ad informarsi qualche giorno prima sul prezzo e tutto quanto; strana coppia loro visto che lui era negrissimo e lei morena chiara ed un po' bruttina, Miguel inspiegabilmente era chiaro e dai bei lineamenti. Miracoli di combinazioni genetiche.
Durante la mia attività di venditore indipendente di patatine fritte conobbi parecchie persone, in molti infatti erano incuriositi dal mio accento diverso e ciò
era un buon motivo per iniziare una conversazione.
Mi viene difficile riuscire a ricordare tutte le facce che mi arono davanti e le tante parole scambiate, per lo più da parte mia il tutto consisteva nel ripetere frasi già dette; ma ci furono svariate occasioni di conoscersi meglio con chi mi stava di fronte.
Posso ricordare senz'altro che quei mesi di lavoro con le patatine fritte per strada mi furono soprattutto utili a conoscere i più svariati tipi di persone e di comprendere un po' meglio lo psichismo della gente ed il mio.
Conobbi una piccola comitiva di ragazzi della chiesa che ogni tanto dopo la messa si piazzavano su di un muretto di lato al mio carrettino, di cui uno che era leggermente storpio da un lato del corpo (cosa piuttosto comune in Brasile da quanto osservai in molti mesi) ma pieno di fede e gentilezza.
Trattavo tutti quanti super-bene e non potevo fare altrimenti, avendo già sviluppato in parte dentro di me quella capacità di mettersi nei panni degli altri, mi sembrava tanto un peccato vedere la porzione da 2 reais e da 3 reais di patatine tanto carenti da mio punto di vista, così che caricavo spesso il cliente. C'era di buono che quando gli caricavo la porzione le persone tornavano sempre.
Capitò a volte che ci fosse una festa oppure una qualche cerimonia più importante in chiesa, tipo le comunioni o le cresime e vi fosse il pienone di persone che uscendo dalla chiesa con i bambini mi assalivano nel vero senso della parola, ed io che 2 mani c'avevo come avrebbe detto mia madre, le muovevo freneticamente da una parte all'altra dietro al mio carretto mentre le patatine friggevano nell'olio.
Sbucciavo patate ormai ad una velocità record e con una tecnica fenomenale, avevo imparato a compiere gesti in apparenza semplici a velocità stratosferiche ed alcune azioni riuscivo a farle facendo compiere ad una mano un'azione ed all'altra un'altra azione. Prendere i soldi e dare il resto, mettere le salse- il saletogli le patatine dalla friggitrice-e-scolalevelocementeconunamanomentreconl'altraleprendi-elemettiinaltosull'espositore. Il tutto cercando di mantenere l'attenzione costantemente su tutti i fattori contemporaneamente.
Devo dire che era un bello stress, ma sotto i baffi me la sogghignavo divertito di tutto quel gran da fare (non sempre). Sapevo che se ci avessi messo troppo tempo i clienti se ne sarebbero andati o avrebbero avuto un giudizio negativo, spazientiti dall'attesa e quindi cercavo di fare il più veloce possibile; mi sentivo una macchina da guerra. In queste situazioni mi capitò di servire le patatine mezze crude pur di non perdere clienti al momento, capii poi che però facendo così non sarebbero tornati una seconda volta probabilmente.
Una sera terminata la vendita, mi feci una doccia veloce ed andai con Selma la figlia Paula e 2 loro amiche che stavano uscendo per andare ad una festina, arrivato sul posto io che avevo molta fame, da sentirmi il buco nello stomaco, non ebbi pazienza di aspettare che finissero di cucinare e mi bevvi una lattina di cachaça mischiata con una di coca cola a stomaco vuoto ed in pochi minuti.
Poi mangiai e continuai a bere ancora non ricordo che miscugli di roba, mi ritrovai ubriaco quasi fin da subito, venimmo via presto per fortuna e parcheggiata la macchina che Paula aveva, vomitai l'anima sul marciapiede.
Arrivati in casa sbandando a piedi, non dopo aver mandato a fare in culo in italiano più o meno chiunque mi rivolgesse la parola ed imprecai dicendo prima di accasciarmi sul divano a Selma:
“Loro ci vogliono uccidere, loro lo sanno” sembrando forse uno svitato, ma intendendo dentro di me che non era possibile che fosse legale ed incitato l'uso di una sostanza che fosse capace di ridurre una persona in tale stato.
Mi sentivo morire, il cuore era super accellerato ed ero in una totale agonia facendo molta fatica a respirare, pensai realmente che forse ci sarei rimasto, mi addormentai infine e, meno male, mi svegliai il giorno seguente.
Non bevvi più nulla fino a natale.
Ci fu una volta che ben ricordo, stavo per finire le patate che mi ero portato dietro, c'era un pienone di gente mai visto prima fuori dalla chiesa ed i guadagni promettevano bene; cominciai quindi a cercare di far avere messaggi a Selma per farmi portare più patate, ma sentii a pelle qualcosa di strano che stava succedendo a casa sua. Andai su di giri quando vidi che, dopo tutto un casino che feci per trovare un telefono e chiamarla mi rispose e sembrava mezza umbriaca.
Finii tutte le patate che potevo vendere, con un rancore pazzesco visto che dovetti mandar via parecchia gente dopo averli fatto aspettare inutilmente.
Corsi verso casa spingendo il carrettino come una furia, dominato da pensieri malevoli che volavano a mille.
Quando entrai in casa avevo il cuore che impazzava e dopo brevi domande ed aver visto Selma che si chiudeva nella stanza ed aver visto che c'erano molti ospiti che facevano farra (festina a base di birra carne e musica, tipica brasiliana), il nervoso aumentò.
La goccia che fece traboccare il vaso fu che vidi un'ospite (infido ed indesiderato dal mio punto di vista) con una busta piena a scoppiare con circa 5 kg di patate dentro in procinto di portarsele via. Ed io che necessitavo disperatamente patate per lavorare e contribuire in buona parte a mandare avanti la baracca, mi sentii ben in diritto di iniziare a gridare, come un matto in faccia a questo piccolo nucleo familiare di 3 persone più 2 bambini rappresentato dall'abile signora sgraffignatrice di patate, che erano dei buoni a nulla e che se ne dovevano uscire di casa; Paula la figlia di Selma mi fece capire che non avevo potere di fare ciò visto che quella non era casa mia.
Mi imbestialii totalmente sentendo ancor di più la mia reale mancanza di potere decisionale, risposi prontamente che visto che ero io a portare parte dei soldi in quella casa avevo anche il diritto di decidere, così mandai fuori una decina di persone.
Mi andai poi a sedere nel retro, il “quintal”, sentendo il fuoco scorrermi dentro e provando una leggera soddisfazione data da quella sensazione di dominio sugli altri.
Rimasi così mezz'ora, appena mi calmai iniziai a percepire l'enorme stronzata che avevo fatto e quindi presi ed uscii di casa andandomene a piedi nella notte, arrivai fino al grande ponte che collegava Aracaju con Barra dos coqueiros, camminai per la prima volta a piedi sul ponte che era semi deserto a quell'ora, con i pensieri che continuavano a tormentarmi ora inneggianti al senso di colpa. Arrivato a metà del ponte osservando tutte le luci della città da lontano nella notte riuscii a tranquillizzarmi, a ricordarmi che era tutto un gioco alla fine dei conti.
Guardando poi giù vidi le acque del fiume Sergipe e mi venne voglia di saltare di sotto, che bel tuffo sarebbe stato pensai, immaginai la sensazione dell'adrenalina
spargersi rapidamente nel corpo mentre avrei sentito il vuoto dei primi metri.
Mi ripresi da quelle idee e tornai verso casa.
Selma quasi ogni sabato si comprava le sue birre dalla merceria di fronte casa e ci fosse qualcuno o no iniziava a bere.
Con Selma ci furono varie discussioni, ma soprattutto tanto sesso, mai avrei immaginato in vita mia che avrei copulato in maniera tanto intensa con una donna 28 anni più vecchia di me.
Andarono a farsi benedire tutti i miei buoni propositi di non farmi più coinvolgere dall'aspetto sessuale e mi lasciai dominare da ogni tipo di istinto animale; venimmo colti in flagrante persino 2 volte dai suoi figli, per non parlare di Mateus il tardo che da un'altra stanza con le televisioni accese, compensava molto bene la mancanza di cervello con un'udito spiccatissimo riuscendo a sentire le nostre conversazioni a bassa voce su argomenti spesso molto personali.
Selma fu fin da subito la donna che mi ò in ogni aspetto della mia vita, morale, fisico e psicologico, rendendola per me una persona veramente speciale.
Più o meno a novembre iniziai a fare un secondo lavoro oltre a vendere patatine fritte, iniziai a vendere giornali al semaforo come si presentò casualmente l'occasione.
L'appuntamento era di mattina il lunedì ed il giovedì, ci facevamo trovare sulla
strada a doppia carreggiata vicino alla chiesa dove vendevo patatine pomeriggio e sera.
Eravamo in 4 ad andare, io Mateus, Diego il figlio della sorella di Selma e Thiago un amico di Diego.
DIEGO.
Con Diego mi conobbi già dalle prime settimane dopo essere arrivato, visto che vi fu una festa nel quintal di Selma a causa dell'arrivo di un fratello adottivo che però era fuggito in tenera età finendo poi chissà dopo quante avventure e quanto tempo a fare l'avvocato, vivendo a migliaia di kilometri da lì nello stato di Santa Catarina ed essere piuttosto benestante; ma cosa che interessò di più il sottoscritto in quella festa furono le 2 figlie bionde di cui una piuttosto carina, il girare la carne sulla griglia (fatta a partire un cerchio di automobile) e bere birra per annebbiare la mente e sopportare meglio quella situazione di frasi fatte, finto interesse nella vita altrui, sfogo vario e in realtà anche molta voglia di alegria tipica brasiliana, per dimenticare le amarezze della schiavitù moderna andando su di giri e ritornando un po' bambini spensierati, cosa che compensava e sorava i lati negativi!
Diego suonava una chitarra durante la festa e parlando un poco insieme mi fece capire che anche lui era uno spirito libero ed aveva viaggiato un po' in autostop per il Brasile, non potevo fare a meno di aver pregiudizio verso di lui visto che gli mancava qualche dente davanti e ogni tanto gli scivolava di sotto un filo di bava mentre parlava senza che se ne accorgesse, oltre comunque ad avere l'aspetto generale di un trasandato.
Facemmo conoscenza realmente solo quando una sera di fine ottobre apparve in casa Selma tutto agitato, spiegando che era stato cacciato dalla casa della madre,
dove aveva una stanza tutta sua ma nel fondo del quintal, come fosse quasi una cuccia, dal compagno di lei a causa di un litigio; senza chiedere minimamente permesso sapendo della grande accoglienza e bontà della zia che naturalmente avrebbe acconsentito.
Iniziammo quindi a conoscerci, ed in quel periodo Diego era nella sua fase sem freio (senza freno) come si era autoproclamato.
Aveva trovato lavoro con un tizio che faceva serramenti e lo aiutava nelle saldature e trasporto materiali apprendendo un nuovo mestiere, tornava ogni sera pedalando come un forsennato sulla sua bicicletta “sem freio” fino ad arrivare a casa Selma tutto sudato (cosa normalissima ad Aracaju anche dopo una normale eggiata) e puzzando della giornata (o forse giornate) di lavoro.
Chiacchierammo parecchio in quelle 3 settimane che rimase, fino a trovarsi una casa in affitto insieme al suo amico Thiago, che in realtà ci sarebbe rimasto dentro poco e lo fece più per aiutarlo e per avere un posto dove svagarsi e fumarsi l'erba.
Rimanevamo di notte davanti casa o dietro nel quintal e mi fumai con lui in varie occasione dell'erba, dal mio punto di vista devastante.
Era singolare il modo di Diego di fumare, praticamente ogni mega tiro che faceva tratteneva il fumo nei polmoni il più a lungo possibile, assumendo un'espressione ridicola di uno che sta per soffocare, con una vena che gli pulsava verticale sulla fronte ampiamente stempiata, i denti mancanti ed il fisico scheletrico. Era un personaggio.
Era molto intelligente e parlavamo di ogni tipo di argomento e le nostre conversazioni erano stimolanti, tendeva un po' ad essere un demagogo (come lo definiva Selma) ovvero qualcuno che dice tanto e sembra intelligente ma all'atto pratico combina poco o niente, oppure lo definiva anche un falso profeta, in effetti era informato su di una miriade di argomenti a stampo new age, che nella maggior parte dei casi non lo portavano da nessuna parte.
Viaggiava molto con la testa, ma il bello era che riusciva a mostrare con la propria schiettezza un altro punto di vista alle persone e soprattutto rispondeva a tono (forse anche troppo) a chi lo contestasse o andasse contro di lui e sbatteva in faccia sentenze alle persone senza troppi problemi.
Qualche volta lo andai a trovare nella casa che aveva riuscito a prendere in affitto, dove ormai, dopo “stranamente” aver perso il lavoro vi ava buona parte delle giornate tra fumarsi cannoni e stare ore intere su internet .
Stavo un po' in guardia con lui poiché non volevo farmi trascinare sulla sua strada e trovarmi poi a are le giornate ad annebbiarmi il cervello fumando maconha.
Tuttavia ci divertimmo parecchio quelle volte che fumammo insieme, poi io andavo fuori come un pazzo dopo qualche tiro non essendoci più abituato.
Una sera lo accompagnai nella boca, un punto non distante da casa di Selma da dove lui si riforniva, il posto era abbastanza nascosto, in una parte dove vi era stata un'altra invasào (quando la gente invade un territorio ed iniziano a costruirsi le case, a distanza di tempo la prefettura sblocca il terreno demaniale ed autorizza la costruzione) vista la continua espansione della città.
Era ai piedi di un colle, uno dei due ragazzi sparì dalla vista per andare a prendere l'erba. Diego che sempre mi offriva da fumare mi aveva chiesto di contribuire all'acquisto ed io gli avevo dato qualcosa; ma fu forse allora, in un certo senso grazie alla causa economica che mi si accese una lampadina d'allarme.
Facevo tanta fatica per guadagnare qualcosa vendendo patatine fritte ed inoltre contribuendo in buona parte alle spese della famiglia, non potevo permettermi di mettermi a fare il cannaiolo e sinceramente sapevo che non era ciò che volevo.
Presi quindi un po' le distanze da Diego per questo motivo e credo che se ne accorse.
Ma la nostra amicizia tristemente finì in modo brusco ed inaspettato, una mattina a vendere il giornale.
Prima parlerò di questo mio lavoro che feci complessivamente non più 5 volte credo.
Come già scritto era di lunedì e giovedì, ci facevamo trovare la mattina presto, alle 5.30 con le prime luci dell'alba al punto di incontro con una combi (furgoncino wolksvagen degli hippy) bianca, come ce ne erano a migliaia in Brasile, che ci caricava sopra insieme agli altri ragazzi che venivano tutti dal quartiere japàozinho.
Il lavoro lo avevamo preso tramite Enrique uno zio di Lucas figlio di Selma.
Sulla combi ne eravamo più di una dozzina, e la maggior parte erano adolescenti dai 14 ai 16 anni, abbastanza decelebrati, che schiamazzavano stronzate in continuazione e mi sembrava di essere tornato in quell'atmosfera da scuola, dove era un continuo cercare di dire o fare la cosa più tosta per acquisire la considerazione del gruppo ed una certa posizione, oppure doversi “difendere” a tono dagli attacchi verbali per non mostrarsi una facile preda ed essere preso di mira dal gruppo.
Mi era davvero difficile sopportare quel tratto che facevamo da quando salivamo fino alla sede del giornale, dove ad ognuno veniva dato un pacco da 40 giornali il lunedì e forse cento il giovedì, dove però il giornale consisteva in poche
pagine per lo più di pubblicità e annunci.
Tutto il lavorio mentale, forse basato sull'importanza che davo a me stesso, mi faceva sentire devastato dopo quella mezzora ata in compagnia di questi adolescenti.
Mi sorprendeva di come questi adolescenti non avessero rispetto, o quanto meno timore di fronte a chi era di qualche anno più grande di loro, ciò mi spiazzava, in quanto mi aspettavo un trattamento diverso rispetto a quello che tenevano tra di loro.
Sarà stato che eravamo tutti con cappellino e maglietta gialla f uguale e quindi questo azzerava eventuali differenze.
Per fortuna Diego e Mateus, anche Thiago poi, ci pensavano a tener testa al gioco di prese per il culo e ci prendevano anche gusto. Io essendo straniero e quindi avendo un accento per loro strano, avendo anche i capelli lunghi (cosa insolita e considerata un po' da gay) e standomene sulle mie, incitavo abbastanza alla presa per il culo, ma solo qualcuno più temerario tra di loro si fece avanti, e chiaramente non avendo lo slang brasiliano non vi era modo per me di rispondere e quindi finivo covando ira nel mio silenzio.
E pensare che tutta quella sofferenza era data solo dall'enorme importanza che davo a me stesso.
Dopo aver preso ognuno il suo pacco di giornali si rimontava sulla combi che ormai erano le 7, e già faceva caldo ammassati uno sopra l'altro dentro al furgoncino, ed a coppie venivamo scaricati in dei punti strategici prescelti,
incroci grossi e trafficati con semaforo dal rosso abbastanza lungo.
Io stavo di coppia con Diego, la prima volta fummo scaricati vicino allo stadio ed io dormii buona parte della mattinata sdraiato in un aiuola con dei bei fiori sotto ad un palazzone, vendendo solo 4 giornali.
C'è da dire che il lunedì pagavano una quota fissa di 25 reais e se si vendevano più di 25 giornali si prendeva 1 real in più a giornale venduto, ci davano una bottiglietta d'acqua, un succo di frutta ed un panino inclusi. Quindi mi dicevo, ma chi me lo fa fare di stare a sgambettare sotto al sole gridando :
“ O Jornaaal!!!”.
Al giovedì ci lasciarono invece in uno dei punti più trafficati a quell'ora del mattino, lungo l'avenida Rio de Janeiro. Diego con fare furbo e rapido si volle scegliere il semaforo che aveva una parte all'ombra, io non dissi niente e mi recai a quello perpendicolare totalmente sotto il sol quente, che si rivelò il lunedì seguente molto meglio. Conobbi anche due ragazzine di cui una mingherlina ma graziosa, anche loro camminavano avanti e indietro sotto al sole ed al semaforo, distribuendo però volantini pubblicitari.
Non eravamo infatti gli unici a stare al grosso incrocio, c'erano almeno altre due coppie che facevano volantinaggio, uno o due lavavetri ed al semaforo dove mi misi io c'era un tizio che vendeva: “ Agua di coco, AGUA!” che mi rimase impresso nella memoria con quella ripetuta pappagallata con voce mascolina e secca.
Ed al giovedì seguente si ruppe l'amicizia tra me e Diego.
C'era stato disagio da parte di Diego perchè io, avendo capito la portata di quel punto avevo venduto la volta prima, di lunedì, parecchi giornali ed ero andato oltre i 25 guadagnando infine sui 50 reais, scammellando però parecchio sotto al sole; come diventava il semaforo rosso scattavo da sotto allo stesso e percorrevo all'incontrario per forse 200 metri le 3 corsie di macchine gridando praticamente con o da maratoneta, poi come dopo forse un minuto che il semaforo verde era scattato e la fila in fondo iniziava ad avanzare io mi mettevo praticamente a correre sul marciapiede per beccare l'inizio del rosso e rifare tutto daccapo.
Diego vedendo che stavo vendendo molto bene volle venire nel punto dove stavo io, che probabilmente preso com'ero nella foga di vendere giornali gli risposi un bruscamente dicendogli che facevo 2 ore io là e poi avremmo fatto cambio. Ferii probabilmente il suo orgoglio non facendogli sentire potere decisionale.
Sudai come un porco quella volta che guadagnai 50 reais ed un leggero mal di piedi al giorno successivo.
Lui che aveva brama di stare al “mio semaforo” per guadagnare di più non ebbe pazienza di aspettare la fine delle mie due ore al tal semaforo come avevamo stabilito(volevo andargli in contro) e vedendo che ne stavo vendendo parecchi mi si piazzò davanti per rubarmi le due file di macchine tutto nevrotico.
Io mi vidi costretto, per evitare il litigio, a prendere ed andarmene ad un'altro semaforo che era opposto a quello dove stava lui inizialmente. Finii comunque di vendere i miei ed in più nel frattempo che aspettavo che un ragazzo mi portasse con la moto un altro pacco di giornali mi misi a vendere quelli di Diego per aiutarlo a are i 25 giornali e guadagnare 1 real in più fino ai 30 che aveva nel suo pacco, lo feci con calma naturalmente, Diego non riuscì a recuperarmi nonostante rimase più tempo di me nel punto con più macchine. Se riuscii a venderne tanti infatti non dipese tanto dalla quantità di macchine, ma
dal fatto che mi feci in 4 per riuscire a venderli.
Come dicevo la mattinata andò finanziariamente più che bene, ma percepii di ritorno sulla combi l'inizio dell'ostilità di Diego verso di me, che al momento che venimmo pagati mi chiese (si aspettava che lo pretendessi in realtà) quanto doveva darmi per i giornali suoi che avevo venduto, non capiva in realtà che lo avevo fatto per dargli una mano e per are il tempo, visto che in realtà la avevo presa come una sfida quella cosa di riuscire a vendere più giornali possibili.
Poi nel marasma di stronzate volanti sulla combi tra adolescenti ed il resto (io compreso) nell'afa difficilmente sopportabile del quasi mezzogiorno, con tono arrogante Diego mi disse che dovevamo fare un conto unico io e lui dei giornali venduti per poi dividerlo in parti uguali, perchè, ed era vero, dove stavo io inizialmente, c'erano molte più macchine. Il suo ragionamento sarebbe stato anche giusto, ma io essendomi fatto un culo assurdo per venderne parecchi dopo una breve pausa gli risposi a tono :
“ si così io corro per vendere i giornali e tu stai seduto oppure il contrario guadagnando lo stesso” si insinuò sottile dentro di me la rabbia, per una questione primitiva di territorio, di approvvigionamento al cibo (soldi guadagnati).
Quindi al giorno di lavoro successivo, un giovedì, si ruppe definitivamente la nostra amicizia, Diego arrivò la mattina presto che puzzava ancora di alcool, non ci scambiammo una parola nonostante io cercassi di essere amichevole verso di lui, che mentalmente era già sul piede di guerra.
Una volta che la combi ci lasciò al nostro punto al semaforo lui parti a razzo verso il punto dove di solito stavo io e già seguendolo a o lento, sospirai
guardando verso il cielo; come chiedendo: “Perchè? Cosa mi TOCCA FARE”.
Arrivai al semaforo che stava già spacchettando i giornali senza degnarsi di guardarmi e gli chiesi con voce abbastanza calma che stava facendo, dicendogli che potevamo fare metà del tempo a testa in quel punto e che se voleva poteva iniziarci lui. Lui mi rispose secco che ci sarebbe rimasto lui per tutto il tempo.
Io volli lasciar perdere e me ne andai al semaforo perpendicolare dove già avevo venduto bene la volta scorsa, ma il flusso incontrollabile ed indipendente da me, di pensieri cominciò a raffica, automatico, senza darmi tregua, nonostante inizialmente avessi abbastanza accettato quello “spodestamento” sapendo che avrei venduto bene lo stesso.
La cosa, a furia dei pensieri susseguirsi in un turbinio inarrestabile mi prese molto a livello emozionale, generandomi molta ira frammista a paura delle conseguenze.
Perchè mai?! IO! Dovrei farmi mettere sotto da lui?
La cosa si fece insopportabile, dopo 10 minuti tornai al semaforo dove stava lui senza manco aspettare il verde per attraversare la strada. Iniziai a tentare di parlarci ma la sua arroganza era troppa, ed io non sopportai più la mia situazione interiore. Mi provocò, dopo che ebbi ceduto e mi misi a minacciarlo di andarsene, mi chiese con insolenza che cosa avrei fatto altrimenti se non se ne fosse andato di là.
Scattai e gli presi la testa stringendola a morsa con il braccio sinistro, assicurando la presa col braccio destro ed in qualche modo mentre ero accecato
da quella rabbia lo buttai a terra.
Era il mio modo di esprimere: Tu non mi domini! E L'intenzione era quella di tenerlo bloccato a terra.
Solo che fin da subito lui si mise a tirarmi forte i capelli a scalciare e mi colpi in faccia malamente con 2 pugni.
Io lo presi da terra che stava supino, agitandosi e lo sollevai non so come per poi risbatterlo di schiena contro l'alfalto con tutta l'IRA che avevo in corpo.
Lo lasciai e quando si andò per rialzare inginocchiato gli diedi un pugno in faccia. Infine si rimise in piedi.
Si mise a scappare ed io gli andai dietro, non soddisfatto perchè l'ira voleva che gli fi ancora più male.
Lo raggiunsi che camminava sui binari abbandonati che separavano le due carreggiate dell'avenida Rio de Janeiro, prese in mano una pietra di quelle modello ferrovia e la scagliò mancandomi perché ero ancora lontano, mentre mi avvicinavo ne raccolse un'altra, io mi fermai guardandolo ed incitandolo a lanciarmela.
Vi fu come un angelo, un signore che ando da li in macchina rallentò fino a fermarsi per gridarmi: “Deixa ele Rapaz”, lascialo ragazzo, io persi l'attenzione da Diego che nel frattempo prese ad andarsene a o svelto.
Tornai a prendere i miei giornali e per un po' tentai anche di venderne altri, ma avevo ancora il cuore accellerato ed i pensieri che mi tormentavano a mille.
Una cosa era successa la quale avevo percepito preoccupandomi nell'istante stesso in cui succedeva ed il ripensarci in seguito mi fece riflettere molto.
Era l'immagine della testa di Diego mezza spelacchiata contro l'asfalto mentre le due ruote di una macchina avano a soli 5 cm da essa ed era la seconda volta che mi capitava la stessa cosa. Le cose avrebbero potuto mettersi molto male cominciando da idiozie di questo tipo .
Iniziai a sentire paura che Diego tornasse indietro armato di qualche coltello o qualcosa del genere, riuscii dopo non so quanti tentativi a contattare Selma per avvisare quelli del giornale che me ne stavo andando.
Mi spesi giusto quel poco che avevo preso di monete dala vendita di forse 2 giornali in 2 ore per salire sull'onibus (in brasile non avevano biglietti, o possedevi una tessera magnetica con l'abbonamento oppure una volta salito pagavi con le monetine ad uno seduto al alto di un tornello che ti faceva poi are) e scesi nel quartiere 18 do forte dove lavoravo vendendo patatine, per poi recarmi a casa.
Selma era già stata a casa di Diego per verificare se stesse bene e portargli del ghiaccio, e Diego era ben arrabbiato e deciso in ammazzarmi. Tutto questo avvenne pochi giorni prima di natale.
Io ebbi paura di incontrarlo nel periodo seguente. E così terminò la nostra amicizia, le volte che ci incontrammo, sia per strada che in casa di Selma, lui non mi degnò del minimo sguardo. Ci fu una festa sempre in casa Selma a distanza di un mese circa ed io vedendolo e non sopportando più quella situazione di voluta non considerazione mi avvicinai verso di lui e gli chiesi perdono con il cuore in mano, mi sorrise e ci demmo la mano per poi abbracciarci. Ma oltre questo evento non ritornò mai la bella amicizia che aveva iniziato a nascere tra noi due.
Come poteva a volte un piccolo momento ed un grande orgoglio rovinare tanto.
ai la vigilia di Natale in casa da solo, visto che alla festa da maria baixinha ci sarebbe andato anche Diego, ed io recente in famiglia volevo evitare che qualcuno fe commenti, non tanto per me stesso ma perchè empaticamente avrei sofferto anche io immedesimandomi in lui e nel suo orgoglio ferito dalle botte prese. O almeno io mi sarei sentito così nei suoi panni. Avevo anche paura si riaccendesse il conflitto.
Ma che importanza aveva, oramai sembrava che assi i natali così, solo ma senza rimpianti.
Verso natale era fenomenale come tutti si affrettassero agli acquisti di cose e alimenti; quello fu il mio primo natale in Brasile, nonostante i viaggi precedenti.
Ad Aracaju andava forte il Winchester, una specie di pollo grosso non ben identificato, definito come ave, volatile, e dalle mie osservazioni di provenienza ed allevamento dubbio.
Il più costoso si presentava bello impacchettato di una plastica dorata nei banconi dei surgelati del supermercato ed era tutto razziato da parte dei consumatori, ebbi “fortuna” e ne comprai uno anch'io, visto che sembrava che in famiglia non si aspettasse altro, ma dopo natale.
C'era ficcato dentro un lato una specie di fischietto rosso di plastica che quando il volatile era pronto sarebbe dovuto scattare ed uscire fuori per avvisare. Rimase in forno un tempo incalcolabile e detto sinceramente non era manco niente di speciale come sapore.
Tornai solo altre due volte ancora a vendere giornali, stranamente adesso gli adolescenti sembravano portarmi una specie di rispetto dovuto al timore di essere picchiati, ma già sulla strada del ritorno qualcuno aveva già cominciato a fare le prime battute a proposito dell'accaduto con Diego.
Fosse stato solo per il lavoro non ci sarei più tornato, ma c'era un concorso a premi con in palio delle motorette, più giornali si avevano venduti più biglietti si prendevano e si aveva possibilità di vincere, speravo tantissimo di essere io il vincitore, perché già da tempo fantasticavo sull'avere una moto e girarmi il sud America così, speravo che fosse la volta buona.
A volte tutto quanto mi iniziava a stare stretto, fin già dopo le prime settimane.
LENALDO.
Lenaldo era un'altro personaggio che conobbi nella permanenza in casa Selma; all'inizio, quando entrai in casa le prime due settimane in maggio prima di tornare in Italia, egli si mostrò molto diffidente verso di me riempiendomi di
ogni genere di domande su cosa fi nella vita, da dove venissi, chi fossi e tanto altro anche piuttosto personale con un fare inquisitivo.
Quando lui capì che ero inoffensivo e che non c'era da preoccuparsi sul mio tipo di persona, iniziò a prendermi per il culo. Già inizialmente mi parlava come si fa con chi è straniero ed è appena arrivato nel paese, tipo parlando con la voce alta e coniugando i verbi all'infinito ed io continuavo a ridere sentendomi trattato così.
Approfittando quindi del mio portoghese fuori allenamento e del fatto che non conoscevo le loro parole dialettali, Lenaldo ci diede dentro ed anche quando tornai a settembre, era sempre su quell'andazzo, ma grazie a lui imparai in sacco di insulti e doppi sensi ed infine a furia di essere attaccato imparai anche a difendermi, sebbene mai mi piacque la lotta verbale che eppure andava tanto forte da quelle parti.
Al mio ritorno in settembre diventammo più o meno amici, sebbene, essendo lui conoscente di Selma da quasi sempre e furono anche fidanzati un breve tempo in gioventù, si sentiva in diritto, pensavo io ma in realtà lo faceva con quasi tutte le donne, di palparla di sfuggita e fare sempre quello con la mano morta che faceva finta di scherzare ma in realtà smaniava per portarsela a letto.
Ci furono varie occasioni dove fu realmente messa alla prova la mia capacità di resistenza alla rabbia, visto che l'incontrollabile dialogo interiore preso nei suoi viaggi, del tipo che loro due scopavano a mia insaputa ed io che ero già diventato molto possessivo verso Selma, entravo in un conflitto pazzesco e senza fine non potendo esprimermi per non sollevare sospetti sulla relazione clandestina tra me e lei. Volevo gridare in faccia a Lenaldo che non doveva permettersi di toccarla, come se lei fosse un mio oggetto, e che gli avrei spaccato la faccia se lo avesse fatto ancora. Tra l'altro sembrava che lui sospettasse una qualche relazione tra me e Selma e dalla mia visuale soggettiva ero convinto che lui lo sapesse con certezza e fe apposta a toccarla solo per vedere quando
sarebbe stato il momento che avrei ceduto e sarei scoppiato confermando le sue intuizioni.
Ci fu un pomeriggio che non riuscii a sopportare più quella che vivevo come un umiliazione straziante dinnanzi ai miei occhi alla quale non potevo intervenire, mi avvelenavo letteralmente il fegato e lo stomaco mi bruciava di una lotta interiore senza fine e risoluzione. Trovai via d'uscita andando nel quintal, prendendo una barra di metallo da costruzione che iniziai a picchiarla violentemente contro la parete immaginando di colpire la faccia di Lenaldo fino ad esaurirmi, dopodichè mi sentii bene e riuscii ad essergli amico quel che restava della giornata.
A parte questi episodi dove palpava Selma a cui dovetti abituarmi ad assistervi tacitamente, ce la ridevamo abbastanza insieme.
Il primo mese dal mio ritorno in settembre, anche Lenaldo mi aiutava a cercare su internet per un possibile commercio, condividevamo l'idea di comprare una macchina per fare gelati, lui inoltre avendo lavorato in una fabbrica di gelati sapeva ogni trucco del mestiere, che diceva mi avrebbe insegnato.
Cosa ci frenava era il prezzo del macchinario ed il fatto che ci mancavano soldi per comprarlo a vista, e comprarlo a rate significava lavorare per forse 5 mesi nella speranza di riuscire a guadagnare il giusto per pagare la rata mensile.
La cosa era difficile, investii molto del mio tempo in ricerche, telefonate, preventivi e progetti, ma alla fine niente fu concluso. Visitammo anche io, Selma e la figlia Paula un, non saprei come definirlo, un sottano direi dove il proprietario ci faceva i gelati con 2 macchinari vecchi ed una decina di congelatori grossi dove li stoccava; il posto era una specie di corridoio ad altezza stradale che se vi fosse stata un'ispezione sanitaria questo non avrebbe mai più
venduto un pezzo di cibo in vita sua.
Ci diede un sacco di informazioni, ma il macchinario era troppo vecchio e lento, così desistimmo.
Ci andammo all'insaputa di Lenaldo che, come di sua personalità in tutta questa faccenda guardava solo al proprio vantaggio, rendendo una possibile società tra me, Selma e lui totalmente squilibrata a favor suo.
Dopo quell'esperienza con Lenaldo dove da socio si trasformava in furbone, ad esempio una volta trovato il macchinario voleva comprarselo da solo dicendo che ci avrebbe concesso qualche secchio gratis a me e Selma, lo lasciammo perdere ed anzi in accordo non gli dicemmo mai più nulla dei nostri probabili “business”, visto che lui se poteva remava contro oppure sembrava ci portasse sfortuna volutamente.
Lenaldo aveva fortemente sviluppato questa caratteristica tipica di molti di noi, per cui viveva sempre nell'ottica di fottere il prossimo per aver qualcosa di meglio per se stesso e se per caso non vi riusciva covava invidia.
Si divertiva sottilmente nel fottere il prossimo e fare scherzi e prese in giro a chicchessia era il suo chiodo fisso.
Nel mio primo soggiorno in casa Selma portò una gallina come dono per il pranzo di tutta la famiglia, lui stranamente non aveva fame e non mangiò. Una volta scaldata nella pentola e servita era quasi immangiabile di tanto piccante che ci aveva messo. Se ne stava seduto sulla sedia guardando la tv e facendo finta di nulla, mentre Selma, con tanta cattiva immaginazione, credetti io in quel
momento non conoscendolo ancora, lo incolpava di averci dato la gallina con tanto piccante apposta.
Ma ripensandoci ed avendo conosciuto il tipo potrebbe essere che Selma non si sbagliasse minimamente; accadde infatti in ato lei mi raccontò, che aveva un forte mal di testa e Lenaldo le diede in mano due pilloline dicendole che prendendo quelle le sarebbe ato; le pilloline erano clonazepam ed ebbero un effetto tale da lasciarla dormire per 24 ore di fila, dove ogni tanto qualcuno ava il dito vicino al naso suo per controllare che respirasse ancora.
Tante cose ci sarebbero da dire sulla storia di Lenaldo, le poche utili a dar un idea di lui, che venni a sapere in quei sei mesi, alcune delle quali lui nascondeva con vergogna, le scriverò ora.
Nacque nello stato di Sergipe, fu sempre di bella presenza, anche in gioventù a detta di Selma, e sempre piuttosto sveglio ed attento al suo aspetto esteriore, sempre profumato e pettinato quasi ad un livello femminile.
Fin dai primi momenti che ci conoscemmo, tra il continuo scherzare ci teneva spesso ad informarmi che lui era già stato pieno di soldi un tempo ma poi aveva perso tutto quanto, “quebrei” come dicevano in Brasile (ruppi).
Ma prima di esser “ricco” non raccontava che dopo i 20 anni a causa di certe amicizie entrò in ambienti leggermente criminosi, vagò anche mano a mano che i suoi affari andavano migliorando, abitò in altri stati, Goias e Maranhào.
Riuscì ad arrivare al benestare grazie al fatto che per un periodo di tempo si diede al rubare le mucche di notte dai campi, rivendendone poi la carne, di come
tutto ciò si svolgesse non ne seppi mai nulla di preciso.
Successivamente arrivò a trattare con la compravendita di auto usate, questo fu lui a dirmelo, e gli andava bene; comprava da una parte e rivendeva da un'altra guadagnandoci qualche migliaio di reais a botta.
Tutto finì quando fu lui ad essere fregato, rubarono il camion che trasportava le varie vetture che aveva comprato, perdendo così di colpo tutto il suo gran investimento. Questo fu quello che mi raccontò una sera mentre guidava la sua moto ed io ascoltavo seduto dietro.
Ma credo che vi fossero anche altri motivi della sua perdita di denaro, forse anche di tipo giuridico.
Quando lo conobbi era entrato nella sua fase di “pentimento e redenzione”, per cui tentava di mostrarsi esteriormente come una buona persona, anche se bastava un minimo di capacità di osservazione per leggere la furbizia nel suo sguardo.
Era diventato ufficialmente un evangelico, ed era sempre pronto a difendere la sua nuova confessione religiosa, come ogni buon evangelico d'altronde.
Solitamente gli evangelici in brasile, erano persone a detta di Selma, e lo riscontrai successivamente anche io in vari casi, che si avvicinavano a questa religione dopo che i loro progetti di arricchirsi non erano andati a buon termine da cattolici, speravano quindi che una volta evangelici, il Dio che pregavano avrebbe esaudito con più probabilità tutti i loro desideri.
Lenaldo quindi, rispettoso della sua nuova confessione, non beveva e manteneva a volte una specie di facciata da credente, guadagnandosi umilmente da vivere con la vendita e riparazioni di cellulari.
In varie occasioni mi portò in giro in moto raccontandomi un po' della sua vita, cosa piuttosto difficile tra gli schiamazzi in casa Selma ed il continuo via vai di persone.
Ebbene realmente mai vidi una casa un vita mia tanto animata come quella di Selma, credo che non vi fu un solo giorno in quei 6 mesi che restai dove non venne qualcuno a trovarla; per non parlare delle telefonate.
Non so perché, era come se vi fosse stata una specie di calamita in quella casa, forse a causa dell'accoglienza della padrona o forse per un qualche mistero di convergenza di forze, qualcosa di mistico insomma.
Verso fine settembre Lenaldo mi invitò una sera ad andare a casa sua a dormire, io sentivo qualcosa di sospetto, visto che non vedevo motivo per tale invito, sospettai che fosse in progetto nella sua testa di farmi delle advance, visto che buona parte delle sue battute e doppi sensi parlavano di buchi del culo. Alla fine mi rassicurò e ci andai, ma percepivo dal suo sguardo furbo che aveva un secondo fine in quell'invito.
Così dietro di lui in moto che guidava, rispettando segnaletica e semafori solo quando non poteva fare altrimenti, arrivammo a Nossa senhora do soccorro, un paese prossimo ad Aracaju; ci fermammo al supermercato dove comprò un taglio di carne costoso, cosa che ci tenne molto a sottolineare, ripetendo che lui a me, essendo suo ospite, mi doveva trattare bene.
Arrivati a casa sua, abbastanza umile ma che per lui vivere da solo andava più che bene, Lenaldo si era fatto diverso, non so se per la stanchezza o se perché non essendo da Selma non aveva più bisogno di recitare una parte.
Si fece molto serio e non parlammo quasi per niente durante tutta la gran cena, costituita da riso in bianco vari pezzi di carne fritta in padella e qualche fetta di pomodoro, poi si mise a vedere la tv mentre io tentavo con il pc che mi ero portato appresso di acchiappare una rete wi fi non protetta, per controllare su internet se vi fosse qualche macchinario per fare gelati in vendita.
Mi disse che al mattino sarei andato con lui alla “feira das trocas” (fiera dei cambi) a vendere una cosa.
Alzati al mattino e mangiato qualcosa mi fece vedere il cerchio di moto che aveva intenzione di vendere alla fiera, lo pulimmo un po' dal grasso e dalla polvere e poi lo mise in una scatola che aveva più o meno le stesse dimensioni. Avrei dovuto dargli una mano a venderlo.
Salii dietro di lui sulla moto e fu difficile impedire che la scatola che tenevamo tra la sua schiena e la mia pancia cadesse ad ogni curva.
Arrivammo nei pressi della rodoviaria di Aracaju, e da li Lenaldo proseguì per alcune strade in apparente stato di abbandono in mezzo al nulla ed alla vegetazione, fino a che arrivammo nei pressi di uno spiazzo in terra battuta, grande forse come mezzo campo da calcio tra dei canneti dove vi erano parcheggiate parecchie moto e macchine ai lati della strada, era la fiera degli scambi.
Dopo aver visto il posto come era nascosto dalla città, le faccie losche di chi vi bazzicava dentro e le cose che vendevano, mi ci volle poco per capire che non si trattava di una fiera ma di mercato nero.
C'era parecchia gente quel giorno che andava avanti e indietro tra le baracchine. Le baracchine vendevano per lo più cellulari e roba elettronica, qualcuno film , ce ne erano due che vendevano cibo ed altre due che facevano scommesse su di una ruota della fortuna.
Nota presto che c'erano due ragazzi che stavano a guardia di un canneto dove dentro avvenivano gli scambi più “sostanziosi” ma anche stando io nel reparto elettronici mi vennero fatte proposte di acquisto, marijuana e cocaina.
Lenaldo mi fece fare senza volere un giro perlustrativo in cui addocchiava i cellulari alle varie bancarelle. Ad un certo punto mi fece fermare su di un piccolo cumulo di terra leggermente rialzato, in modo tale che io fossi abbastanza visibile e mi disse di iniziare a tentare di vendere il cerchio ed il prezzo era 250 reais, lui sarebbe andato un attimo in città a fare degli affari e poi sarebbe tornato.
Rimasi quasi un ora in piedi sotto al sole mattutino già caldo, ogni tanto qualcuno tra la folla si fermava chiedendomi il prezzo del cerchio ed il modello, che non sapevo rispondendogli casualmente che era adattabile a varie moto, c'era gente piuttosto sospetta in generale e buona parte delle cose vendute, i cellulari soprattutto, erano di provenienza troppo sospetta.
Infine Lenaldo tornò ed in contemporanea mi si era avvicinato un ragazzo sui trenta, magro con il figlio e mi chiedeva informazioni; tra l'altro sentendo l'accento diverso le persone mi facevano spesso domande di dove fossi ed io rispondevo sempre Argentino. Lenaldo accostandosi iniziò a far finta di non
conoscermi e mi chiese il prezzo del cerchio, io rimasi un po' impacciato non capendo a che gioco stesse giocando, il tizio magro col figlio se ne andò; mi misi a parlare con Lenaldo cercando di capire quale cavolo fosse la sua strategia, ma non ci organizzamo visto che se ne andò via daccapo a vedere altri telefoni. Ricevetti successivamente altre visite in cui qualcuna Lenaldo interveniva, ma ogni volta io facevo fatica a capire se a Lenaldo stava bene il prezzo che l'interessato offriva, andò via un interessato e stavo quasi per incazzarmi con lui perchè non mi faceva capire niente quando tornò il tizio magro col figlio che era interessato ancora a comprare il cerchio, voleva sapere per che moto fosse.
Io mi ripresi la storia che era adattabile a vari modelli, quando poi lui fece il nome del modello della sua moto, Lenaldo si mise a dire che si andava bene, ne era sicuro.
Alla fine il tizio, dopo che Lenaldo fece finta di esserne interessato facendomi alcune offerte che lo mandarono in agitazione, se lo comprò per 230 reais.
Misi i soldi in tasca e dopo aver fatto un giro mi riavvicinai alle spalle di Lenaldo che stava ad una bancarella e gli diedi i soldi. Mi lasciò la bellezza di 10 reais per il lavoro fatto, non protestai molto visto che mi risuonava in testa il lavaggio del cervello che mi aveva fatto la sera prima al supermercato secondo cui lui trattava bene l'ospite, che stava comprando carne di prima scelta solo per me e palle varie che disse semplicemente per farmi sentire che non mi avrebbe dovuto niente in futuro.
Mi comprai veloce 2 caldos de cana (il famoso succo estratto dalla canna da zucchero) spendendo 5 reais.
Poi lui mi disse sempre tenendo un aria distaccata, facendo sempre finta di non conoscermi, di iniziare ad avviarmi; così mi avviai a piedi per qualche centinaio
di metri sulla strada asfaltata, mi venne poi a recuperare con la moto per non far insospettire qualche possibile curioso sul fatto che ce ne andavamo via insieme.
Io che avevo preso tutto quello come un gioco, non avevo considerato che il furbo Lenaldo mi aveva fatto vendere il benedetto cerchio, che in realtà era per un altro tipo di moto e totalmente inutile per l'ignaro compratore, il quale una volta scoperto l'inganno sicuramente non avrebbe avuto un bel ricordo di me; sperai non mi capitasse di rincontrare quel tizio in giro.
Lenaldo invece se ne stava bello tranquillo e felice, aveva fatto qualche affare con i cellulari e venduto il suo cerchio, a detta sua lo aveva pagato 150 reais guadagnandone quindi 80, ma per quanto conobbi poi Lenaldo meglio, ebbi dubbi anche sul fatto che l'avesse pagato.
Tornammo a casa sua e si mise a preparare alla consegna uno dei suoi acquisti del giorno, prese il cellulare e gli diede una pulita, poi prese dello scotch trasparente e ne tagliò una parte della stessa dimensione dello schermo appiccicandocela sopra, in modo che sembrasse quella pellicola trasparente di protezione che si trova sui cellulari nuovi; poi prese un caricabatterie nuovo che aveva comprato, di quelli cinesi da pochi reais, e sostituì senza difficoltà la cassettina di plastica che entra nella presa con una originale della stessa marca del telefono. Aveva così creato un cellulare simil-nuovo da cui avrebbe guadagnao un'altro centinaio di reais.
Poi uscimmo e tornammo in moto verso casa Selma.
Avvicinandoci al ponte che ava sopra un fiume dividendo Nossa Senhora do Soccorro da Aracaju, Lenaldo rallentò bruscamente prendendo una stradina laterale per poi fermarsi in un punto da cui si vedeva il ponte. C'era un posto di blocco della polizia prima del ponte mi fece notare mentre indicava in
lontananza, e mi disse di scendere dalla moto; sinceramente non capivo dove fosse il problema visto che avevamo il casco entrambi e ne io ne lui niente da nascondere, su di lui non ne fui mai poi così certo in realtà. Lenaldo usò la scusa che avendo il computer con me nello zainetto la polizia mi avrebbe chiesto di dimostrare come ne ero entrato in possesso ed essendo straniero ero sospetto e lui, sempre molto attento a pensare a se stesso, non sapendo se io fossi tutto in regola preferì togliersi ogni tipo di responsabilità con la polizia; mi disse anche altre cose a mo di scusa ed io per evitare problemi alla fine accettai di andarmene a piedi.
ai quindi per il posto di blocco della polizia, in tutta tranquillità camminando e a mala pena mi degnarono di uno sguardo. Aveva comunque ragione Lenaldo sul fatto che fermassero chiunque fosse in due sulla moto.
Cercavano le bande di malviventi e chi non era in regola con il veicolo.
Arrivai a piedi dopo un paio di chilometri fatti sino oltre la fine del lungo ponte ed infine Lenaldo mi raggiunse, mi chiesi se non fosse peggio fare tutti quegli strani movimenti, che realmente se qualcuno ci avesse notato avrebbero giustamente insospettito.
Queste meno di 24 ore ate da solo con Lenaldo mi fecero comprendere con maggior chiarezza il suo mondo.
Varie volte ancora durante la mia permanenza ad Aracaju bazzicai con lui ed altre 2 volte lo accompagnai alla feira das trocas, il mercato nero, sebbene permanesse al solo pensiero una lieve paura di rincontrare il tizio magro a cui avevamo bidonato il cerchio per moto sbagliato.
Parlerò dell'ultima volta più avanti, in cui riuscii a vendere un paio di occhiali falsi Ray-Ban che avevo.
Starsene in giro con Lenaldo non era poi malaccio ed ogni tanto mi divertivo proprio ad osservare il suo modo di agire per la strada, era un cafajeste, un cafone, a detta di Selma ed era abbastanza vero.
Non perdeva occasione di molestare a parole qualche bella ragazza anche in maniera piuttosto invadente del tipo piazzandosi davanti al cammino di lei cercando di attirare la sua attenzione con un fare misto tra il pornoattore ed un attore di filmetti ammerricani. Quelle non lo cacavano di striscio, se non per insultarlo, ma lui se la rideva sotto ai baffi ed io mi scompisciavo dal ridere, oppure se non c'erano donzelle nei paraggi prendeva per il culo la gente.
In Brasile, generalizzando, c'era molto machismo (maschilismo) e gli uomini si sentivano più virili se avevano più donne e molte donne accettavano senza troppe storie che il loro compagno ne avesse più di una. Era proprio irradicato nella cultura, anzi nel sangue direi.
Lenaldo prendeva per il culo chiunque, anche il proprio figlio di 9 anni, che apparse a novembre quando la madre venne da Goiania a portarglielo e praticamente lo abbandonò in mano a lui andandosene dopo qualche giorno; mi chiesi quale condanna fosse spettata al bimbo per dover are il proprio periodo di crescita sotto l'insegnamento del padre in questione.
Ma forse, evento frutto della bilancia divina, il figlio di Lenaldo, David, era molto onesto e con uno sguardo sincero, quasi angelico, al contrario del padre. Era divertente quando iniziandosi a portare il figlio appresso a casa di Selma, Lenaldo venisse spesso smascherato proprio da lui nelle tante bugie che diceva.
Era infatti talmente abituato a mentire che non se ne rendeva conto neanche e lo faceva anche per cose di poco conto. Spesso riceveva chiamate al cellulare ed inventava ogni genere di storie per sistemare i propri affari, sempre con un sorriso malizioso stampato in volto. Chiaramente dopo aver visto con quante menzogne si relazionava con gli altri era logico che non potevo aspettarmi personalmente un trattamento diverso.
Ma Lenaldo non fu sempre tutto pimpante con la voglia di scherzare come quando lo conobbi, tutta quella era una facciata, una maschera, come ognuno di noi ne avrebbe di varie.
Verso novembre, stranamente, Lenaldo iniziò a farsi vedere sempre meno fino a scomparire per un mesetto, ricomparendo a natale, solo dopo una telefonata che Selma gli fece preoccupata che gli fosse successo qualcosa.
Era in apparenza depresso; seduti in ora serale nel quintal, già nel buio ma illuminati dalla luce che giungeva dall'interno della piccola casa, osservavo il suo volto.
Mi parve di vederlo per la prima volta essere se stesso, non c'erano ne scherzi, ne fare chiassoso, ne tutto il suo show a cui eravamo abituati. Se ne stava lì, zitto fissando il vuoto con quella sua faccia da granchio; io cercavo, sentendomi chissa perchè in dovere, di tirarlo su di morale. In realtà quell'apparente depressione era perchè forse si era reso conto di qualcosa nella propria vita.
Dava risposte brevi e calme e realmente sembrava un altra persona, era come se non stava più dando importanza a molte cose.
Anche a gennaio lo vidi poco ma non me ne preoccupai in realtà, tutto preso come ero dalla rabbia che mi veniva ogni volta che presentandosi palpava Selma ad ogni occasione propizia; ero felice che finalmente potevo respirare un po' meglio.
JOSÈ CARLOS, la sua storia.
Mi è inevitabile di non scrivere a proposito del fratello adottivo di Selma, Josè Carlos, chiamato da tutti Zè Carlo o Zè e da me affettuosamente Zè Zè, o Zè CAAAAA nei momenti in cui non mi dava retta; con Lui ai vari e caratteristici momenti.
Alto, forse quasi 1 metro e 90, con il volto largo, sopracciglia che spesso si rialzavano ed espressione di chi si è svegliato ancora sbronzo dal giorno precedente; sempre la stessa espressione, in qualsiasi momento della giornata lo si incontrava.
I capelli castani e arricciolati, la barba spesso incolta oppure fatta a parte il baffo, la pelle scura ma non troppo di oriundo del suo volto attonito. Le mani lunghe e sproporzionatamente grandi per la sua altezza, forse grandi quasi come i piedi.
La sua calma e pacatezza nel parlare e nell'ascoltare ed i suoi riflessi lenti; il suo ritmo estremamente lento ma resistente fino a snervare o stancare chiunque tentasse di stare al suo o, o seguire il suo sconnesso filo logico esposto con una parlata cantilenante.
Ebbene si, ebbi l'onore di conoscere Zè Carlos ed al mio ritorno ad Aracajù in settembre facemmo amicizia, non so come ma stranamente dimenticai l'impressione d'uomo di rua (strada) che ebbi di lui alla sua prima apparizione a casa di Selma... Ma sforzando brevemente la brutta memoria che mi ritrovo...
Posso ancora sentire il suo alone espansivo di sudore acre mentre entrava per la sgangherata porta d'ingresso, la sua espressione accigliata mentre mostrava a Selma l'unghia del suo pollice sinistro che se ne era venuta dopo esser tristemente marcita.
L'unghia aveva terminato di prestar servizio, a detta di Selma (che nel frattempo tentava di spiegare a Zè chi io fossi e come lei mi avesse conosciuto, ma senza guadagnare particolare attenzione da parte sua) a causa della sua abbastanza recente attività nel settore riciclaggio.
In questa sua nuova attività, intrapresa dietro immancabile consiglio della sorella, Zè Carlos fu attratto dall'idea di accrescere il suo stipendio di lavoratore autonomo, cattando lattine, plastica, metalli e qualsiasi cosa i suoi occhi, all'apparenza persi in un altro mondo, potessero scorgere per le strade e le sue lunghe dita afferrare.
Come notai con il are del tempo frequentandolo sembrava avesse un potere innato nello scovare il luccichio di una lattina per terra, da distanze inverosimili, sembrava “fiutasse” il materiale riciclabile.
Iniziai ad attribuirgli seriamente dei poteri quando, una sera seduti al suo punto vendita in centro, lo vidi chiamare una lattina distante una ventina di metri come se essa fosse un cane addestrato, e la lattina, quasi a conferma di ciò, corricchiare saltellando trascinata da un improvviso vento fino ai suoi piedi, facendo quindi sbocciare istantaneamente un soddisfatto e grande sorriso sul suo
volto.
La lattina, come da rituale, venne poi presa e posizionata in verticale e tallonata fino all'appiattimento con il suo piede destro; ogni lattina sempre esclusivamente con il destro, fino ad avere a furia di schiacciare dolore ad appoggiare il tallone camminando... Ma non cambiò mai il piede.
Quasi dimenticavo che ad ogni lattina, prima di essere tallonata, aggiungeva una pietruzzella, in maniera tale che la bilancia segnasse qualcosa in più al momento della vendita.
Quando intese che il riciclaggio dava realmente lucro, iniziò a darsi a pazze scorrazzate notturne spingendo il suo carretto, evitando il pazzo traffico giornaliero e rincasando soltanto all'alba, o anche prima, in caso la caccia fosse andata bene.
Il carico del suo carretto era variabile principalmente in funzione di quanta monnezza fossero in grado di buttare per le strade le persone.
Laddove l'essere umano errava lasciando con disinvoltura cadere una lattina di birra vuota, pronto interveniva Zè, che al suo primo aggio ristabiliva inconsciamente l'ecosistema terrestre e i meccanismi economici; vendendo ciò che trovava per strada gratuitamente diminuiva la disuguaglianza sociale.
Dopo alcune settimane di intensa caccia notturna era capace di riempirsi il suo umile monolocale di sacchi pieni di lattine, plastica, ferri, rame, alluminio e robaglia di ogni genere; sino a raggiungere un punto di saturazione così alto da obbligarlo a camminare di lato per arrivare al bagno sul fondo e condividere il
proprio letto da una piazza e mezzo con sensuali sacchi di materia inerte.
La situazione di casa sua al momento della saturazione poteva essere descritta come il peggior incubo per una madre fissata con l'ordine e l'igiene, visto che realmente si navigava nella monnezza.
Ma prima di parlare della fase della vita di Zè Zè dedicata al riciclaggio ed ai suoi lavori, bisognerebbe dare sicuramente altri accenni della sua infanzia e gioventù, o almeno di quel poco che ne riuscii a ricostruire da racconti di suoi familiari e qualche suo breve accenno tuttavia impossibile da approfondire visto che era sua abitudine sviare i discorsi lievemente impegnativi.
Nacque nello stato di Bahia, nella parte nord quasi al confine con lo stato di Sergipe, in un villaggio in pendenza su di un monte, in una famiglia molto numerosa di una ventina di individui che viveva di ciò che la terra gli donava.
Ammazzavano quasi una gallina al giorno, si spaccavano la schiena sotto al sole e tutto il giorno affrontavano i saliscendi per il monte, questo ricordava principalmente Zè.
Spinto dalla sua ribellione naturale e caratteristica verso ogni forma di obbligo iniziò a scappare di casa fin da bambino.
La sua famiglia arrivò a legarlo per evitare che scape.
Venne un giorno trovato da Jeanne, la sorella di Selma e madre di Diego, mentre
dormiva su di un marciapiede...Aveva soli 9 anni. Lei lo portò a casa loro dove venne ben accolto da Maria baixinha (baiscigna) la madre di Selma, piccola ma dal cuore grande, che ne divenne la futura madre adottiva, e da tutta la famiglia di cuore aperto.
A quel tempo anche loro vissero per un periodo in un interiore della Bahia, chiamato Paripiranga.
Gli diedero un bagno e gli diedero da mangiare, rimase con loro per 15 giorni, poi i genitori, che nel frattempo lo stavano cercando, lo ritrovarono e lo riportarono a casa.
Poco dopo tutta la famiglia di Selma tornò a vivere nello stato di Sergipe sempre all'interno in un altro paesello.
ato del tempo Zè scappò di nuovo e sapendo che la famiglia in cui era stato si era trasferita in Sergipe decise che li avrebbe raggiunti.
Il suo viaggio fu una vera e propria avventura, saltava di nascosto sopra camion che trasportavano merci e soprattutto ortofrutta facendosi trasportare da una parte all'altra del sertào brasileiro, sopravvivendo di ciò che trovava, senza avere un'idea chiara di dove stesse andando, ma determinato su chi stesse cercando.
Riuscì a coronare il sogno di molti bambini piuttosto svegli che, fiutando già nei primi anni di vita l'odore di una prigionia fisica e mentale che inizia a formarsi intorno e dentro di loro e sembra solo peggiorare con il are del tempo, vogliono scappare da tutto ciò che è definito normale nella nostra società e starsene in fuga a so per il mondo in cerca della libertà.
Questa sua prima ventata di vita durò più di un mese, tempo che a quell'età deve esser stato per lui molto intenso, fino a che in qualche maniera arrivò in un paesello nell'interno dello stato di Sergipe e ritrovò la sua nuova famiglia.
Nonostante allora Zè avesse incontrato una condizione di vita forse più favorevole rispetto a quella da dove proveniva, continuò sempre a mantenere il suo fare ribelle, cosa che lo portò con gli anni ad essere piuttosto solitario.
La sua nuova famiglia riuscì anche a costringerlo ad andare a scuola in certi periodi.
Gli anni arono e divenne infine un elemento fisso ed abbastanza stabile della famiglia, la quale dopo vari spostamenti negli interiori dello stato, venne a stabilirsi definitivamente nella capitale, Aracaju.
Zè Zè crebbe, e crebbe parecchio, alto, magro e molleggiante.
Raggiunta la maggiore età torno nella Bahia dalla sua vecchia famiglia per farsi vivo e farsi fare i documenti che non aveva fino ad allora avuto.
ò non so bene quanti anni a vivere alla giornata, “fazendo bicos” come si diceva là, mi raccontò che per un periodo costruì trappole per gaiamon (dei granchi d'acqua dolce che vivono nel fango delle mangrovie) che poi catturava e vendeva.
Lavorò inoltre 9 anni come venditore di picolè (gelati col bastoncino) in spiaggia, spingendo un piccolo carrettino a due ruote.
Oltre alle sue, forse precoci ma comunque spontanee, avventure a partire dai suoi nove anni, e la sua vita principalmente per strada, questo lavoro (oltre ad altri che fece, ad esempio segando gli alberi nel sertào) contribuì a forgiare l'incredibile forza resistente di questo personaggio fuori dal comune.
In quei 9 anni vendendo gelati, camminava tutti i giorni e specialmente il fine settimana, mentre tutti si rilassavano nel giorno di riposo, avanti e indietro per la kilometrica spiaggia di Aracaju, sotto lo scottante sole tropicale, senza poter sapere come sarebbe andata la vendita ma sapendo con certezza che i gelati si sarebbero sciolti se non venduti.
Comunque sia i suoi sforzi giornalieri erano ricompensati e la sua vendita era abbastanza lucrativa.
Purtoppo Zè si fece prendere abbastanza presto dal vizio alcoolico e dal vizio del gioco d'azzardo.
La sera lo si poteva trovare ad un bar nel japàozinho, quel quartiere periferico e violento dove anche lui abitava, non lontano dalla casa di proprietà di Selma, giocando a carte con soldi e bevendo contemporaneamente.
I suoi “amici” di gioco e di bevute non impiegarono molto tempo a scoprire una qualche caratteristica nel cervello di Zè che lo rendeva, soprattutto dopo che la percentuale di alcool si fosse alzata un po', economicamente una facile preda.
Sicché una parte del suo denaro guadagnato con kilometri su kilometri di camminate sulla spiaggia e tanto sudore perso, veniva reidratato in forma di alcool ed un altra parte gli veniva fregata subdolamente dai suoi compagni a carte, che senza dubbio per nessuno dei presenti, meno Zè Carlos, imbrogliavano.
Zè infelicemente ce ne mise a capire cosa succedeva realmente, nonostante non vincesse mai, cosa che attribuiva alla sfortuna, o alla bravura degli altri giocatori, probabilmente non accettò mai questo fatto nonostante fosse evidente e riuscì ad uscire dal gioco e dall'alcool solo grazie a Selma.
ZÈ, l'acolismo ed il suo modo di essere.
Zè Zè come dicevo si fece prendere troppo facilmente dall'alcool, esso divenne un suo compagno frequente e di difficile separazione, accompagnandolo periodicamente in maratone di giorni e notti intere, questo per anni di seguito, arrivando spesso a limiti del coma etilico a furia di bottiglie di cachaça.
Era capace di spendere i soldi messi da parte in 3 mesi di duro lavoro in 15 giorni dove si distruggeva.
A questo proposito il saggio Zè disse: “O dia depois dà muita dor de cabeça, e a unica maneira de fazerlo ar è beber de novo”. (il giorno dopo da molto mal di testa e l'unica maniera di farlo are è bere di nuovo). Con la sua espressione accigliata e comprensiva della semplice realtà degli eventi.
Selma fece parecchi sforzi per togliere Zè dalla strada che lo stava portando più velocemente di altri alla morte, era costretta ad andarlo a prendere e portarlo a forza fuori dal bar, o prendere in custodia i soldi messi da parte da Zè per evitare che se li bevesse o fe fregare tutti, sentendosi un po' come la sua puttana. Gli fece anche cambiare quartiere per evitare che frequentasse certe persone, prendendogli una casa in affitto più vicino a dove stava lei nel quartiere Santo Antonio.
Zè Zè che navigando nell'alcool non capiva le azioni altruiste di Selma, le interpretava a maniera differente, gridandole dietro ladrona e trattandola male; fino a che arrivò il punto che Selma si stancò di stargli addosso e di tentare di aiutarlo e lo mandò a se-foder, lasciandolo solo a se stesso.
Zè ò una settimana intera bevendo l'impossibile ed arrivò a stare malissimo vomitando sangue; ritornò infine da Selma per riconciliarsi e da quel giorno non bevve più... per parecchio tempo.
Selma era l'unica persona che si interessasse un poco della vita di Zè Carlos.
Come risaputo da molte, ma forse non abbastanza, persone, l'alcool brucia il cervello, e certamente Zè, a causa dei suoi dosaggi pesanti e ripetuti nel tempo, sarebbe potuto servire come una qualche cavia da esperimento scientifico a dimostrazione di ciò, ma anche di molte altre cose.
L'alcool sospettai che ebbe parecchi effetti su di Zè, oltre ai probabili danni al cervello che caratterizzavano quella sua lentezza di vita, sebbene fu sempre abbastanza particolare di testa, danni al fegato, che forse però furono causati da un altro avvenimento, molto interessante che racconterò tra poco e di cui sono obbligato a parlare; e inoltre danni al subconscio ed alla psiche.
Questi danni a strutture tanto delicate e complesse sembra abbiano causato un fenomeno in Zè, di cui ne parlò apertamente con Selma, l'unica persona con cui si confidava, solo dopo anni.
Zè sentiva le voci...ed arrivò, in stati di alcoolismo profondo, a vedere anche presenze.
Supposi che probabilmente le voci, cosa che purtroppo abbiamo tutti, si acutizzarono di conseguenza a profondi periodi di solitudine che rappresentavano l'essenza della sua vita; le voci principali che gli tenevano compagnia erano quelle di una coppia, un uomo ed una donna.
Essi esprimevano giudizi su buona parte degli avvenimenti della sua giornata. Sostanzialmente era la donna che commentava quasi ogni cosa con la formla:
Esse fii da pexti experto (este filho da peste experto, questo figlio della peste furbo)...Seguito poi da innumerevoli varianti a seconda della situazione, e tutte le varianti comunque incentrate sul sospetto verso la persona presa in considerazione od a volte anche verso egli stesso. L'uomo di solito si limitava a concordare il giudizio della donna.
Mi raccontò Selma di una volta che alle 2 di notte, sentì bussare freneticamente alla porta, era Zè, ch'entrò in casa tutto agitato chiudendosi la porta alle spalle col terrore nello sguardo dicendo che “os caras” lo stavano inseguendo con “o facào”(un coltellaccio che si usa per aprire i cocchi, un machete in pratica). Selma che stava avendo una paura fottuta, e si aspettava da un momento all'altro qualcuno che sfondasse la porta, incominciò a tranquillizzarsi ed ad insospettirsi quando vide che il tempo ava ed i probabili inseguitori ancora non si
facevano vivi; la cosa era strana.
Zè Carlos d'un tratto iniziò a gridare: “ECCOLI” o qualcosa del genere indicando la porta che dava nel quintal, che era chiusa.
Allora Selma capì, dopo altre visioni di Zè, che lui stava avendo delle allucinazioni. O forse chi lo sa, riusciva a vedere una dimensione ai più sconosciuta.
Gli diede un calmante per farlo dormire, nonostante tutto Zè, non fidandosi, piazzò delle pentole dietro alla porta d'ingresso ed alla porta sul retro, così che se qualcuno fosse entrato avrebbe fatto casino. Tuttavia mi rimase il dubbio se Zè realmente non stesse fuggendo da qualcuno; infatti parte della sua storia che io ebbi modo di conoscere, non era proprio delle più pulite.
Tentò di fare carriera come ladro per un periodo, ma le cose non sembravano essere facili per lui nemmeno in questo ramo; ci fu una volta che tentò di entrare nella casa di qualcuno per rubare, ma le cose non andarono come previsto.
Avendo la maggior parte delle case del popolo brasiliano, soprattutto nel nord, nordest e nel sertào solo il piano terra e a causa del calore, e forse anche dei pochi soldi, i tetti erano fatti nello stesso modo in cui si farebbe un fienile, ovvero stando da dentro la casa si potevano vedere le travi di legno inclinate su cui venivano fissati i listelli ed al di sopra appoggiate le tegole.
Non era difficile che qualche gatto, o qualche oggetto volante, spostasse una tegola facendo piovere in casa.
Noi ci mettevamo sotto dei secchi, oppure ogni tanto si tentava di raddrizzarle da sotto con un bastone lungo o magari salendo sul tetto stando attenti a non romperle. Cosa che feci anche io tra i vari lavori alla casa di proprietà di Selma.
Era un lavoro abbastanza pericoloso visto che avevano i fili della corrente scoperti che ando da un pilone all'altro per strada poi si connettevano ad una colonnina sul tetto della casa.
Avendo compreso questo presupposto sulle case in Brasile e tornando a Zè, di notte arrampicatosi sul tetto della casa della sua preda, iniziò spostando tegole per poi calarsi dentro, ma qualcosa andò storto e rimase mezzo incastrato là sopra tra listelli e tegole.
Riuscì a scendere solo grazie all'aiuto misericordioso del buonanima padrone di casa da dentro.
Un altro episodio del tentativo di far strada sulla via del crimine di Zè, iniziò come una fesseria e finì malamente.
Insieme ad un suo amico di Itabaiana, quando ancora non stava totalmente solo, rubarono varie bottiglie di cachaça e vodka in una merceria dove tra l'altro erano clienti abituali, il proprietario scoprendoli lo disse alla polizia.
Zè ed il suo complice quindi per evitare di essere presi fuggirono ad Estancià, un paese quasi al confine con lo stato di Bahia.
Ora non saprei cosa scrivere... Forse sempre per una strana bilancia divina, o karma, o kiccavololosà, quel giorno qualcuno rubò una radio ad Estancia.
Questo ladro era alto e portava una maglietta a righe rosse e bianche, così fu descritto alla polizia da quello a cui era stata fregata.
Zè Carlos, come già scrissi, era di per sé alto, in più quel giorno anche lui portava una maglietta a righe bianche e rosse mentre se ne andava a so per il paese sentendosi al sicuro.
Fu acciuffato dalla polizia come lo incontrarono e lo sbatterono dietro le sbarre, qui rimase per 8 giorni in cui i “simpaticoni” tentarono di fargli confessare qualcosa che lui non aveva commesso.
Per aiutarlo a far uscire le parole da bocca arrivarono a torturarlo ed un polizziotto gli fece bere 1 litro di olio esausto di motore.
Venne lasciato andare infine quando si resero conto che era stata una curiosa coincidenza ma alla fine Zè non centrava nulla.
Tornato ad Aracaju venne accudito da Selma la quale mi raccontò che per un po' Zè pisciò color petrolio.
E credo che fu proprio qui che il povero fegato suo, già messo duramente alla prova dalle tante bevute, sventolò bandiera bianca. Gli venne diagnosticata
epatite di non so quante lettere dell'alfabeto.
Le allucinazioni lo accompagnarono anch'esse per del tempo, successe una volta che venne chiamata Selma da una vicina di casa di Zè Carlos, il quale continuava spaccando oggetti di vetro in casa sua.
Quando Selma arrivò a casa sua, lui stava fuori di senno.
Aveva in casa una collezione di bottiglie di vetro che aveva raccolto in chissà quanto tempo e dopo tante fatiche ed avrebbe poi dato al riciclaggio in cambio di denaro; ebbene le stava scagliando tutte quante contro le tegole del tetto, riempiendo di vetri e tegole rotte ovunque.
Praticamente vedeva delle facce che gli parlavano spuntare dalle tegole e spaventandosi ed arrabbiandosi gli sparava contro le bottiglie.
Al tempo in cui tornai ad Aracaju, in settembre, lo conobbi che ava le sue giornate per strada, al suo punto vendita come scrissi in precedenza, lavorando con il suo carro, anzi la sua carovana come la battezzai tra me e me, vendendo cocchi, bibite, caramelle e sigarette sfuse.
Dico carovana perchè il suo carro era piuttosto grosso, tutto in legno massello, una sorta di bilanciere con come perno un asse con 2 ruote di automobile, l'impugnatura da una estremità dalla quale lui tirava come fosse un'animale da soma.
Sinceramente non so bene il perchè ma cominciai ad avvicinarmi a lui, era una sorta di simpatia a pelle, forse mi attirava quel suo essere molto tranquillo contemporaneamente alle sue innumerevoli stranezze.
Iniziai a are del tempo con lui quando capitava e ci stavo bene insieme, era totalmente assente in giudizio.
Senza farlo apposta cominciai, se così si può dire, a studiarlo e devo dire che sotto certi aspetti era veramente fenomenale. Un'altra cosa molto divertente era che in quei mesi in cui io me ne tornai in Italia lui aveva perso quasi tutti i denti, e la sua espressione ed il suo modo di parlare erano ancora più caratteristici; se già normalmente era piuttosto pigro nel parlare, ora la sua cantilena sbiascicata mi suscitava inevitabilmente un sorriso mentre lo ascoltavo.
Non si capiva bene cosa fosse a muoverlo nella sua vita, essendo scapolo e senza figli da mantenere, senza nessun tipo di illusioni e progetti per il futuro, e nonostante tutto ciò lavorava come un cane!
Forse era l'odore dei soldi o forse semplicemente un impulso di movimento, dettato dal dover sopravvivere.
Riusciva a mettere da parte qualche soldo, ma poi non si sa bene il perchè ne perdeva buona parte in qualche maniera insensata, sembrava persistesse sempre in un loop infinito.
Poco prima che comprassi il carrettino, non senza esser stato ispirato da lui ben'inteso, decisi di accompagnarlo ad uno show che ci sarebbe stato in breve.
Ad Aracaju chiamavano show degli eventi di musica dal vivo e concerti di solito, fattostà che quella notte cantava qualcuno di abbastanza famoso e ci sarebbe stato il pienone di gente sicuramente.
Pranzai e fui rapido da Zè Zè che era da poco ato mezzogiorno, lui stava ancora cucinando, per il pranzo e per la cena.
Dopo lui aver pranzato riempii dei contenitori di plastica con la cena sua ed io andai a riempirne uno da Selma prendendomela abbastanza con calma; quando tornai stava ancora in ballo per sistemare la sua carrozza con tutte le merci che si era comprato.
Aveva comprato non so quante casse di birra, acqua e refrigerantes (bibite gassate). Uscimmo di casa infine che erano quasi le 4 del pomeriggio ed il suo carro era pieno di roba.
Zè mi diede la sua bicicletta, uno dei forse pochi buoni acquisti che aveva fatto, una bella mountain-bike, robusta e veloce, e finalmente partimmo, lui tirava il suo carro ed io gli stavo dietro pedalando piano.
Cosa che scoprì in seguito per tirare delle somme, ci separavano circa 10 km da casa di Zè, ben vicino a quella dove stava in affitto Selma, al punto dove ci sarebbe stato lo show, situato di fianco allo shopping riomar, un grosso centro commerciale.
Avanzammo forse 2 chilometri fino a fermarci al CEASA una grande struttura
dove si trovava per lo più frutta e verdura all'ingrosso, qui Zè comprò vari sacchi di ghiaccio con cui riempì i tre grossi cassoni di polistirolo pieni di bibite, comprò anche una trentina di cocchi verdi e fissò il tutto quanto come meglio poteva con delle corde elastiche. Sopra al mucchio posteriore dei cocchi aveva piazzato anche degli sgabelli di plastica per far si che i clienti e noi potessimo sederci ed un eggino che avrei usato io per vendere lattine spostandomi.
Ripartimmo in direzione dello show ed io ora che la carrozza di Zè era ancora più piena, piena a scoppiare, dovevo stare un po' più attento poiché ogni tanto a causa delle buche lungo il cammino perdeva qualche cocco ed io li raccoglievo e li piazzavo nuovamente sopra.
Inoltre Zè Zè aveva sta mania di vendere le caramelle nonostante gli dessero un lucro di pochi centesimi, si portava dietro un'infinità di vasetti di plastica pieni di caramelle, gomme da masticare e biscotti, che durante la sua trainata chilometrica era abbastanza facile che cadessero; addirittura si portava pacchetti di fiammiferi e pacchetti di sigarette da vendere sfuse.
Per dare un idea migliore della situazione, eravamo al tramonto ed ancora non a metà strada, Zè trainava il grosso carro camminando svelto e sotto sforzo costante tra le due staffe, tutto proteso in avanti, spingendo e bilanciando con le mani un asse traverso di legno di fronte a lui che univa le staffe ai suoi lati.
Nelle buche che non riusciva ad evitare doveva stare attento non solo perchè rischiava di perdere la merce, ma anche perchè se la parte anteriore si alzava oltre un certo punto di equilibrio , il carro perdeva il bilanciamento e si impennava; rimetterlo a posto poi sarebbe stato un bell'affare. Riusciva infatti a disimpennarlo una persona da sola solamente senza carico e comunque con difficoltà.
Al suo carro tra l'altro aveva fatto saldare ai 4 angoli del pianale una struttura per proteggere la merce dalla pioggia con un telone a righe gialle e blu; poi lui ci aveva pitturato a tema giallo e blu tutto il carro ed anche i cassoni in polistirolo rendendolo molto singolare.
Dalla parte di sopra della struttura del telone antipioggia ci aveva appeso ovunque vi fosse un po' di spazio lattine vuote, così, un tocco personale per abbellire il suo mezzo e mostrare le marche di bibite che aveva in vendita.
Le lattine vuote mentre avanzavamo urtavano una con l'altra creando una sinfonia, un po' come quei camli orientali che mettono all'ingresso delle case e tintillano con il vento.
Nonostante fossimo in Brasile e non ci fosse niente di strano in qualcuno che tira un carro a piedi per strada, Zè attirò la curiosità di qualcuno, vista la voluminosa mole di quello che si tirava appresso.
Svoltammo ad un incrocio immettendoci in una strada più grossa, con tutte le difficoltà di accelerazione in partenza, dopo un centinaio di metri Zè, con cui scambiavo qualche breve parola ad alta voce seguendolo in bici, mi avvisò che poco dopo ci sarebbe stata una salita; iniziò quindi ad aumentare il o, ando al “trotto” ed infine ad un vero e proprio “galoppo”, iniziò addirittura a distanziarmi ed io dovetti alzare la marcia alla bici e darmi da fare coi pedali.
Lo affiancai che avevamo iniziato la salita, che per una persona a piedi od in bici non era molto in pendenza, ma per qualcuno trainando tutto quello sicuramente doveva avere un altro effetto; Zè infatti aveva imparato con la propria esperienza pratica, e non con teorie imparate sui libri, che per vincere l'inerzia molto più alta in salita rispetto al piano, avrebbe dovuto arrivare alla salita con velocità; aveva anche imparato, cosa che mi spiegò in seguito, che se si fosse fermato
ripartire era molto più difficile.
Mi girai a guardarlo e la sua espressione era pura concentrazione e sforzo fisico, rimasi totalmente stupito e affascinato, Zè stava grondando sudore.
La sua velocità andò smorzandosi mano a mano che aumentava la salita, ma il suo sforzo era sempre costante ed al massimo delle sue capacità, fino a che non arrivò in cima e dopo un tratto piano iniziava la discesa, leggermente più pendente della salita. Io andai giù rapido con la bici aspettandolo più avanti vedendo che scendeva piuttosto piano.
La discesa infatti era anch'essa molto difficile da fare in quanto il carro tendeva a prendere velocità e Zè si doveva sforzare di contrastarlo.
ato questo tratto facemmo ancora qualche paio di chilometri e svoltati in una strada secondaria Zè, per recuperare le energie, si comprò qualche pezzo di bolo de puba (torta fatta con l'amido di un tubero) che mangiammo e si accese la canna d'erba che si era preparato a casa.
Si fece anche una pisciata alla maniera sua, infatti così si era abituato a fare durante le giornate ate a vendere tra la folla, tirava su per un pezzo una manica del costume (in Brasile, nei posti caldi, si usavano per lo più come pantaloncini corti delle specie di pinocchietto di materiale sintetico che potevano anche essere usati per il mare) e facendo uscire il pisello dal lato pisciava dentro una bottiglietta, risultando quasi insospettabile nel suo atto alla moltitudine di persone del centro.
Ripartimmo, percorrendo altri chilometri, oramai era buio, e già dalla salita
aveva iniziato ad essere trafficato in giro, non era facile avanzare occupando lo spazio di una macchina ma con la velocità di uno che cammina rapido; spesso sulle strade più grandi sembrava che le macchine ci venissero addosso per poi sorarci all'ultimo, ma mi abituai dopo breve.
Facemmo un altra breve pausa e fumammo l'altra metà della canna che Zè aveva conservato.
Vi fu poi l'ultimo tratto che consisteva nel are su di un ponte per poi scendere ed arrivare nella penisola dove c'era il grosso centro commerciale e quella sera lo show.
La salita era più ripida di quella già affrontata e Zè che a causa di un semaforo che ci aveva obbligato a fermarci prima di essa non aveva potuto prendere velocità, avanzava piano ed io scesi a piedi dietro di lui spingendo il suo carro con una mano e tenendo con l'altra il manubrio della bicicletta.Era una bella scenetta, tutto sommato.
Dopo un grande sforzo riuscimmo ad arrivare in cima; qui Zè come non arrivarono macchine, cosa che durò minuti visto che c'era un traffico assurdo di gente che tornava da lavoro ed andava allo show, girò il carro per fare la discesa al contrario, ovvero stando lui dietro, che era più facile.
Ci mise un po', fermandosi un paio di volte a riprendere fiato, era visibilmente stanco.
Infine arrivammo di sotto ed io andai in avanscoperta con la bicicletta per vedere se trovavo un buon posto dove piazzarci a vendere, c'erano parecchi tizi ai due
lati delle strade che sventolavano biglietti in mano per venderli all'ultim'ora guadagnandoci sopra la commissione. I posti adibiti dalla prefeitura per i venditori erano già tutti occupati, c'era stato un sorteggio a inizio pomeriggio, forse all'ora in cui noi eravamo da poco usciti di casa.
Tornai da Zè ad avvisarlo che eravamo arrivati tardi, andammo in fine, dopo che la sicurezza non ci permise di rimanere in un posto, in un punto alla fine praticamente, dopo di noi infatti non c'erano altri venditori ambulanti.
Zé iniziò a sbaraccare tutto quanto, per prima cosa gli sgabelli poi prese le nostre razioni di cibo e cenammo.
Nel giro di un'ora iniziò a riempirsi di gente. ato ancora qualche tempo mi decisi e piazzai la cassa piccola di polistirolo sopra al eggino, la riempimmo di birre e ghiaccio ed iniziai ad andare in giro gridando: “CERVEEEEEJAA!”.
Mi diedi un gran “d'affare” tutto il periodo prima che iniziasse il concerto ed alla fine. Infatti non era permesso di entrare nello spiazzo dove c'era lo show vero e proprio se non si avesse il biglietto (tra l'altro carissimo), tuttavia io con il eggino riuscivo ad arrivare ben bene di fronte all'ingresso principale, dove ero l'unico a vendere cerveja (birra). Anche all'interno dello show era chiaramente venduta, ma a prezzi più alti; iniziai così un via vai spingendo sto benedetto eggino e gridando tra l'ingresso dello show ed il carrorifornimento-Zè-Carlos. La mia furia venditrice aumentò quando mi scolai una bottiglia di un imbevibile vino rosso che mi ero portato dietro in caso di necessità.
Andai presto fuori giri ed iniziai a non stare più fermo, esaltato, ed a tratti gridavo parecchio; conobbi anche un po di comparse nel mezzo del casino di cui mai ricorderò bene le faccie e le conversazioni. Ricordo solo di una ragazza
brutta e grassoccia che mi stava appiccicata e di varie genti mezze m'briache che insistevano perchè gli fi sconti fedeltà.
Zè ci teneva che io non abbassassi il prezzo sotto quello stabilito, ma pur di vendere qualche sconto lo concedetti.
Alcuni clienti poi si incuriosivano e mi chiedevano di dove fossi e ad anche qui mi finsi argentino a volte.
C'era un casino assurdo, tra musica, traffico di macchine, persone e venditori ambulanti di bicchieri colorati e gadjet fluorescenti. Vi erano anche i parcheggiatori abusivi ovvero gruppi di ragazzi che si erano occupati grossi spiazzi di terra battuta vicino allo show, li avevano circoscritti con del nastro tipo lavori in corso, e si piazzavano in mezzo alla strada davanti alle macchine facendo casino con dei fischietti, gridando e facendo cenno di entrare nel loro parcheggio, concorrendo con gli altri gruppi. La frenesia era al massimo.
Dopo l'inizio dello show ci furono forse 3 ore abbastanza morte, dove tutti stavano dentro, Zè che era sfiancato socchiuse gli occhi una mezzoretta seduto sullo sgabello ed appoggiandosi al carro mentre io sorvegliavo la sua merce, poi fece su un'altra canna d'erba sotto mia pressione.
Quella notte fu forse l'unica in 6 mesi di Brasile dove usai un maglione per coprirmi.
Arrivò la fine dello show e come iniziarono ad uscire le prime persone tornammo attivi nella vendita. Riniziarono le mie scorrazzate spingendo il eggino.
Dopo aver visto che Zè approfitava dei momenti liberi o dell'occasione per raccogliere da terra le lattine che gettavano con noncuranza i anti, accartocciandole sempre col colpo di tacco di piede destro ed ammucchiandole in un sacco, approfittai anche io nei miei giri “a eggio” per raccogliere lattine da terra e metterle in una busta; per poi darle a Zè al momento del mio rifornimento di birre o ghiaccio. Mai avrei immaginato di far anche quello in vita mia, ma era tutto nuovo e mi piaceva l'idea di sperimentare come (sopra-v)vivea uno alla Josè Càrlos.
Ben presto avevo le mani appiccicose della mistura di liquidi che inevitabilmente mi colavano addosso durante la raccolta.
Si fece l'alba ma nonostante questo e nonostante lo show fosse finito c'erano ancora parecchie persone non contente che piazzarono ai lati della strada le macchine con gli impianti audio ultra modificati; roba da forare i timpani a arci affianco.
Mettevano un tipo di musica chiamato pagode, e ballavano davanti al baule della macchina aperto mescendo il culo fino ad arrivare a terra e facendo varie mossette in stile simil michael jackson; peccato che la maggior parte dei danzanti fossero maschi all'apparenza piuttosto froci, ma dalla mentalità loro quello era il sistema migliore per attirare l'attenzione sulle ragazzine...
Nel frattempo iniziò a farsi giorno ed iniziò una coda enorme di traffico sul vialone dove stavamo, un misto di ragazzi che se ne tornavano a casa e gente che andava a lavorare.
arono anche i primi onibus urbani, ed io presi ad affiancarli a piedi
riuscendo a vendere bicchieri, di plastica sigillata, d'acqua; chiaramente gridando e marcando il mio accento straniero il più possibile per attirare maggiormente l'attenzione.
Dopo una bella cagata sugli scogli del oceano non lontano da li, ai la mia ultima mezzora di vendita con un gruppo di ragazzi che mi pagarono anticipato tutte le birre che avevo nella cassa di polistirolo, e dovetti però aspettare finché non finissero; sniffavano cocaina nel frattempo ed erano abbastanza fuori di senno, ci fu un momento che sparirono ed io che avevo preso i soldi pensai ad andarmene, ma presto tornarono e volendo anche offrirmi la loro specialità che tranquillamente rifiutai. Siccome sembrava andare per le lunghe alla fine gli mollai le birre restanti in mano e me ne andai; erano piuttosto conciati con orme di “zucchero a velo” sotto le narici e sopportare i loro discorsi era diventata un'impresa.
Se già durante la notte si erano visti i primi ragazzini catta-latte ufficiali quando fece giorno si potevano vedere gli stessi, tutti sporchi e vestiti di cenci che si tiravano appresso sacchi di plastica enormi pieni di lattine pressate, poi arrivarono persino 2 camion che per come Zè mi spiegò gliele pagavano a peso al momento. I ragazzini avrebbero poi utilizzato i soldi guadagnati faticosamente in una notte per scopi probabilmente non molto furbi.
In un certo senso quello del riciclaggio era un sistema per tenere pulito e dare di che mangiare anche a qualcun altro.
Zè anche grazie al mio aiuto si era riempito un grosso sacco a ¾ ma non ne era soddisfatto, volendone raccogliere ancora.
Venne il momento di andarsene che erano ate le 8 del mattino e già faceva caldo. Rimettemmo tutto a posto sopra il carro e partimmo, Zè procedeva al
rallentatore trainando la sua fatica stanco come non mai; continuava inoltre a fermarsi ogni volta che scorgeva una lattina per raccoglierla. Io lo affiancai fino al ponte per dargli una mano a spingere il carro sulla salita. Se io mi sentivo a pezzi, soprattutto da dopo che era ato l'effetto del vino, non osavo immaginare lui, che si era trascinato dietro tutto la sua carovana. Arrivati sopra al ponte ci guardammo, mi disse di andare se volevo perchè lui sarebbe tornato con calma per: “Catar unas latas”(cattare qualche lattina).
Non mi capacitai di come potesse essere così folle al momento.
Volai con la sua bici e le ultime forze che mi rimanevano a casa Selma e mi feci una bella dormita.
Capitò successivamente, forse proprio quel giorno una volta sveglio nel pomeriggio, preso ancora da quella sensazione di meraviglia, che volli tentare di quantificare in numeri gli sforzi di Zè Zè. Feci brevi calcoli approssimativi sul peso che aveva trascinato e sulla distanza percorsa.
Mi resi conto allora che Zé aveva trainato, considerando il peso a secco del carro più le casse di birra, i grossi scatoloni di polistirolo pieni di acqua e ghiaccio, i cocchi e tutto quanto; qualcosa come minimo 500 kg di peso, su due ruote neanche troppo gonfie, per 10km all'andata ed a tratti correndo praticamente, e qualcosa in meno di peso per altri 10 km a tornare, senza quasi aver chiuso occhio per tutta la notte e mangiando a fatica visto che non aveva più i denti per masticare. Era un'impresa eccezionale dal mio punto di vista, ma Zè riuscì a fare anche di meglio, o di peggio!
Zè guadagnò anche abbastanza bene quella notte, e mi diede una parte di soldi per averlo aiutato a vendergli le birre e cattare le lattine, chiedendomi amichevolmente se per me era abbastanza quello che mi stava dando.
Varie altre volte fui con Zè agli eventi che puntualmente erano in programma ad Aracaju ed ogni volta fu un avventura. Ma ne racconterò solo in seguito.
ME STESSO, istinto animale.
Tornando al periodo prima che avessi il carrinho da batatinha tramite un amico di Selma, un certo Wallace, che aveva lavorato in una pizzeria italiana sulla orla, il lungomare di Aracaju, venni raccomandato ad andare a parlare con il proprietario del ristorante, un Italiano che non c'era quasi mai in Brasile, ma per coincidenza in quel periodo c'era.
Mi acchittai con una sgargiante camicia a mezze maniche splendentemente rossa, tutto ingellato e la sera seguente alla telefonata presi l'onibus per arrivare alla orla; ero in ritardo a causa del odioso traffico cittadino dell'ora de: “gli schiavi rientrano nelle tane”, e corsi dalla fermata fino al ristorante. Qui mi fecero aspettare un po' e ricordo che chiacchierai un po' con la cassiera che era una bellezza brasileira fenomenale e mi eccitava solo lo starle di fronte; sperai che mi prendessero a lavorare in quel ristorante solo per vedere ancora quella ragazza.
Infine venne il proprietario ed uscimmo fuori a parlare, era del nord ma non ne riuscii a identificare bene la provenienza dall'accento, era un imprenditore e da come capii aveva altri ristoranti oltre a quello in altre nazioni; non era capace di parlare portoghese, nonostante sua moglie fosse brasiliana, e parlava con clienti e camerieri mischiando italiano e spagnolo, ma si faceva capire.
Mi fece parlare un po' di me stesso, mi sentivo teso ed un poco in ansia, mi chiese se avessi un visto permanente, che non avevo, ed allora mi disse che
sarebbe stato un rischio sicuro per lui prendermi a lavorare nel ristorante perché una volta al mese avevano controlli fiscali e teneva tutti in regola, ebbe però un idea di farmi fare il rappresentante di pasta fresca fatta a mano da vendere poi agli altri ristoranti della città.
Gli lasciai il numero di telefono di Selma, poiché non ne avevo uno ancora, ma non si fece mai più sentire. Nonostante la voglia di rivedere quella bella femmina, una volta preso il lavoro di venditore di patatine fritte, non ebbi mai più la voglia di apparire a quel ristorante, per quella strana proprietà del preoccuparsi di cosa si pensa che gli altri pensino di noi. Quindi temevo di rincontrare il proprietario e fare una “brutta figura” avendo paura di sentire vergogna quando ipoteticamente mi avrebbe chiesto se avessi trovato come guadagnarmi da vivere e mi sarebbe toccato ammettere l'umile lavoro che stavo facendo, “ferendo il mio orgoglio” nel farlo. Avrei dovuto invece sentire dignità per come dal nulla ero riuscito a metter su qualcosa. Quando avo da quelle parti addirittura attraversavo la strada per camminare sul marciapiede opposto per non essere visto facilmente, quanta assurdità può essere raggiunta nella vita.
L'amico di Selma, Wallace, appariva tutti i giorni in casa sua per appioppargli la sua figlia di 12 anni, una tal Laila che se non fosse cambiata lasciava intendere che mestiere avrebbe fatto da grande, e ava anche per provarci un po' con Selma.
Wallace tendeva a balbettare e raccontarla lunga; secondo Diego se ne era fatta di droga, a me stava abbastanza simpatico lui.
Laila un giorno se ne venne fuori che voleva avere un figlio, perchè la sua amica, coetanea, lo aveva avuto già ed il padre si incazzò come una iena. Selma aveva in parte cresciuto Laila da quando aveva 3 anni, poiché il padre le aveva lasciato intendere che la madre era morta o chissà dove, Selma scoprì ad un certo punto che in realtà la madre era viva ed aveva sempre vissuto ad Aracaju.
Era mezza matta a quanto parve, era lesbica e viveva con la compagna, tra l'altro venne a stare in una “villa” (inteso come piccoli appartamenti economici, accollati uno sull'altro e con i servizi in comune) vicino a noi.
Selma si sentì ingannata da Wallace per tutti quegli anni in cui lo aveva aiutato a crescere la bambina, e quindi si era rifiutata di crescerla oltre i 9 anni.
Forse a causa che la madre di Laila ora stava vicino a casa di Selma, ad un certo punto padre e figlia iniziarono a farsi vedere sempre meno. Fino a che arrivò una lettera per presentarsi alla giustizia per Lucas, figlio di Selma. La bambina lo accusava di averla stuprata.
La bambina nonostante la sua appena adolescenza aveva già degli sguardi maliziosi, che rivolgeva spesso anche a me.
In realtà la madre aveva scoperto che la figlia aveva stranamente perso la verginità e cercando un colpevole la aveva obbligata a confessare e lei aveva mentito dando il nome di Lucas; il quale ò dei giorni in cui tutti quanti meno Selma, io compreso visto che nutrivo antipatia nei suoi confronti per il fatto che lui dormisse nel letto matrimoniale con Selma, lo credevano coinvolto.
Dopo tante paranoie e quasi un'azzuffarsi tra Paula e la madre di Laila, tutto andò liscio alla fine per il povero Lucas, Wallace non si fece mai più vivo e si trasferì con la figlia in un altro quartiere.
Per quanto mi riguardava avevo resistito al mio proposito di non avere nessun
coinvolgimento fisico con Selma forse solo una settimana, e nel primo momento di debolezza l'avevo coinvolta nei miei bisogni animali. Iniziò così una routine di sesso con Selma e lo facevamo spesso ed anche più volte durante il giorno di nascosto dagli altri membri della famiglia nel quintal; erano, soprattutto all'inizio, situazioni adrenaliniche in cui difficilmente si andava oltre la sveltina.
Ma il nostro fare le cose di nascosto era inevitabile che prima o poi venisse scoperto e così avvenne in varie occasioni.
In un'occasione ci fu Paula la figlia di Selma, poco più grande di me tra l'altro, che in un primo pomeriggio pigro dove sembrava tutti quanti dormissero, ci colse in flagrante mentre prendevo Selma dal dietro in un momento di massimo piacere e l'assurdo fu che non riuscii a fermare i miei movimenti nonostante ci fosse Paula oltre la porta che mi guardava scandalizzata. Poi feci una lettera di scuse a Paula inventando non so quante assurdità per giustificare la mia deplorevole condotta.
In un'altra occasione io e Selma, che aveva bevuto, facemmo la doccia insieme finendo inevitabilmente per fare sesso; appena usciti ci vide con la coda dell'occhio il figlio Lucas, il quale dopo aver fatto finta di niente per qualche minuto scoppiò in un attacco d'ira abbastanza comprensibile. Quella sera Selma in lacrime, sentendo di non essere libera di “godersi la vita” per render conto ai propri figli decise di scappare di casa. La fuga non fu molto lunga ed in realtà piuttosto prevedibile. Prendemmo poche cose e ci recammo in taxi a casa di Maria baixinha, la madre; la quale ci accolse benissimo ed anzi diede tutta la comprensione di questo mondo alla figlia, dicendole di fare che cavolo voleva lei della propria esistenza, fregandosene di quello che potevano pensare gli altri, fossero stati anche i propri figli. Maria baixinha, o mamae (mamma) come presi a chiamarla e tutti quanti la chiamavano, dal canto suo comprendeva benissimo la figlia visto che lei stessa aveva avuto svariati figli e svariati compagni ed amanti nell'arco della sua vita; inoltre conservava, nonostante gli oltre 70 anni di età, un forte appetito sessuale e si ritrovava allora ad stare con 2 uomini molto più giovani di lei, cosa che non nascondeva minimamente a nessuno.
Mamae ci diede una stanza tutta per noi, ai molto tempo a fare l'amore con Selma sentendo tuttavia che tutto quello era sbagliato, che la stavo mettendo in una situazione difficile a causa del mio smisurato egoismo. Rimanemmo là giusto una notte e dopo pranzo tornammo a casa Selma, facendo finta che niente fosse successo. Da quel momento in poi i suoi figli mi guardarono sempre con un occhio diverso, sebbene dopo del tempo sembrò quasi che nulla fosse successo, se non che tutti in casa mi considerarono, non senza torto, un approfittatore.
Ma il primo a scoprirci, e questa fu l'unica volta che mi dispiacque seriamente, fu Miguel. Una mattina in cui i bambini del “cuida-se crianças” dormivano tutti, andati io e lei dietro nel quintal, lei aveva appena preso il mio membro in mano quando all'improvviso spuntò lui che ci guardò per un secondo e poi scappò, avendo quasi istintivamente compreso che stava assistendo a qualcosa alla quale era meglio non assistere. Mi chiesi se non avesse un po' traumatizzato il bimbo quella visione. Poi Selma si mise a raccontargli che mi stava facendo un massaggio alla gamba, Miguel rimase zitto ma credo che, essendo lui molto sveglio, non se la bevette facilmente.
Miguel fu come un figlio per me, come già scrissi lo andavo a prendere a scuola spesso e avamo del tempo giocando insieme; feci anche qualche piccolo esperimento con lui, ancora così giovane e puro, non ancora rovinato dalle maschere che si usano nello stare al mondo.
Un esperimento consisteva nel dargli la possibilità di scegliere tra il mangiare riso fagioli e carne oppure frutta (gli preparavo un piatto pieno di manghi, goiabas, banane e papaya tutto tagliato a pezzetti) forse attratto dai colori, o forse per come volevo verificare dall'esperimento per “istinto naturale” sceglieva di mangiare frutta.
Ci facemmo varie volte pranzi a base dell'anguria che mi compravo al mercatino quando lo andavo a prendere che spesso poi finivano in una lotta a spalmarci in faccia le bucce; ci divertivamo parecchio, in casa pensavano che io fossi un po' infantile ma non me ne fregava nulla. Gli facevo fare anche cose spericolate tipo arrampicarsi, fare la lotta con me e roba di ginnastica; portandolo molto spesso in giro con me sulle spalle.
Quando arrivai la prima volta in casa di Selma in maggio c'erano 2 cani presenti, Eiko ed Era, al mio ritorno la cagnetta Era, che era intelligentissima e scovava facilmente i topi, era morta. Eiko, che era un suo figlio e veramente un cane un po' brutto a vedersi, invece continuava ad esistere.
Medio piccolo di tipo lupoide, con le orecchie a punta, il pelo ispido e nero brizzolato da farlo sembrare già vecchio nonostante avesse 3 anni soltanto. Eiko era una fonte costante di zecche che gli facevano quotidianamente prelievi del sangue non indifferenti; si riempivano tanto da sembrare fagioli.
Poi Eiko si grattava spargendoli per tutta la casa ed era nella normalità per noi schiacciare le zecche che si arrampicavano sulle pareti, le più grosse scoppiettavano schizzando sangue rappreso.
Non era proprio una bellezza quell'operazione ed Eiko di certo non era proprio ben voluto ed il ben venuto in casa Selma.
Era piuttosto “rueiro”(de rua, di strada ) e quando usciva se ne stava in giro delle ore per poi tornare spesso pieno di zecche, probabilmente prese nell'erba alta o chissà dove, o con qualche nuova ferita dalle battaglie con altri cani.
In casa quasi nessuno gli dava un minimo d'attenzione se non per sgridarlo o scacciarlo da mezzo, magari con un calcio (non forte chiaramente).
Io, amando i cani, iniziai fin da subito a prendermene cura, era commovente il modo in cui dopo avergli dato una carezza non mi si scrollava più di dosso tutto felice; davvero non era abituato a ricevere affetto. Scoprii che era anche discretamente intelligente e gli insegnai vari comandi, come seduto, zampa e terra. Iniziammo anche a dargli il bagno più spesso ed a tagliargli il pelo per evitare che prendesse le zecche, ma non c'era molto da fare a riguardo.
Eiko a causa dei giochetti che gli insegnai riacquistò molto più valore agli occhi della famiglia e amici, e di tutti quelli che venivano spesso a visitarci.
Mi prese anche abbastanza a genio e quando uscivo di casa mi seguiva standomi vicino, ma non mi ascoltava molto, mi accompagnava ovunque volendo, ma ero io ad incitarlo sonoramente ad andarsene sbattendo le ciabatte per terra per far si che non mi seguisse fin troppo lontano.
Successero vari episodi in cui si rafforzò il nostro legame padrone-cane; per esempio una volta mi aveva seguito fino al supermercato, dove gli avevo insegnato ad aspettarmi fuori, da premettere che lo portavo in giro sempre senza guinzaglio visto che Eiko non lo aveva mai conosciuto e si era abituato a spese sue a stare attento alle macchine (era stato investito più di una volta). Tornando poi verso casa ma facendo un'altra strada ci trovammo nella piazzetta della chiesa del Santo Antonio e ci venne incontro una banda di cani, dopo averlo un po' annusato lo assalirono. Conoscendo la psiche di un cane tornai indietro correndo e sbattei forte i piedi per terra per fare rumore e gridando a braccia apperte, il gruppo di cani di cui alcuni anche grossi si spaventò e lo lasciarono. Eiko, che stava già pancia all'aria, si rimise a quattro zampe e mi corse avanti.
A partire da quell'evento ed anche altri uguali in cui gli salvai il pelo mi riconobbe come maschio alfa, in grado di prendermi cura di lui, e mi trattò sempre con rispetto ascoltando alla perfezione i miei comandi.
Oltre ad essere rueiro era anche molto sottomesso e le prendeva sempre da tutti gli altri cani, ma aveva capito che standosene in giro con me nessuno gli poteva fare del male.
Tra l'altro ogni tanto appariva un randagio che veniva ad ingropparsi ad Eiko il quale restava piuttosto imibile, ci chiedemmo se in realtà non gli pie.
Un altro episodio che gli successe e confermava la sfortuna di questo cane, oltre alle varie volte che venne investito di fronte casa, fu un pomeriggio come tanti altri in cui, gli demmo una lavata nel tentativo di rimuovere le numerose zecche.
Dopo avergli fatto il bagno con abbondante sapone gli ammo sopra al pelo una boccetta di rimedio contro i parassiti che ero andato a comprare poco prima. Successe che per sbaglio una piccola parte del liquido finì troppo vicino alla bocca di Eiko, e lui leccandosi la introdusse nel suo corpo.
Poco dopo, continuava a muovere la bocca e “leccarsi i baffi” con fare ossessivo, iniziò a tremare con uno sguardo molto impaurito, finchè non arrivò a fare schiuma bianca dalla bocca; lo avevamo avvelenato. Io e Selma che assistemmo a tutta quella scena eravamo entrati in panico totale, prendemmo del latte e cercammo di obbligare Eiko a berlo ma la cosa era molto difficile perchè riuscivamo a tenerlo fermo a fatica e si divincolava cercando di scappare.
Eiko vomitò il latte che aveva ingurgitato a forza e tremava come una fogliolina
indifesa. Lo continuammo a bagnare con la canna dell'acqua al fine di togliere il veleno dal corpo, che supposi poter essere assorbito anche dalla pelle.
Arrivò un momento in cui Selma stava telefonando al veterinario ed io mi trovai solo con lui nel quintal; mi sentivo più calmo, lo accarezzai ed accovacciato alla sua altezza lo guardai negli occhi rassicurandolo con il mio sguardo, poi tentai istintivamente di fare qualcosa per aiutarlo. Iniziai a are i palmi delle mie mani lungo il suo addome sentendo come se gli assi la mia energia. Iniziai a dirgli a bassa voce che presto sarebbe stato meglio.
Sembrò migliorare leggermente, o quanto meno stava più tranquillo, arrivò Selma ed ora che Eiko si fidava di me riuscimmo a fargli bere a forza più latte, che poi vomitò.
Come mi riavvicinai a lui accovacciato mi si incollo addosso, praticamente sentendo di istinto che lo stavo aiutando, lo toccai ancora in quella maniera, quasi massaggiandolo si potrebbe dire.
Dopo una mezzora ritornò tra noi l'Eiko di sempre, pimpante corrichiò oltre la strada per rotolarsi nell'erba alta di un canale di scolo.
Diego ci disse poi che quella boccetta di veleno che gli avevamo applicato abbondantemente addosso era da diluire in poche goccie per ogni secchio d'acqua e veniva solitamente usato per le mucche; ci mancò poco che non fimo fuori il povero cane.
A novembre successe anche che Selma smise di colpo di lavorare per il fratello Genilson, come distributrice di biglietti della lotteria Caju-Cap ai venditori di
strada. Da un pezzo infatti le vendite andavano piuttosto male ed a mala pena a lei venivano in mano 100 reais a settimana, cosa però che non valeva tutti gli sbattimenti che doveva farsi ad andare dietro ad alcuni dei suoi venditori.
Si era molto ridotto il loro numero con il tempo, visto che in molti si accorgevano che era difficile guadagnare qualcosa di utile con questa attività e c'era inoltre una concorrenza spietata.
Di quei 5 o 6 rimasti a Selma solo 2 forse erano onesti e puntuali, mentre gli altri lasciavano piuttosto a desiderare.
Ce ne furono 2 che in diverse occasioni, vedendosi magari 200 reais in mano (ma loro spettava solo il 10 %) iniziavano a bere spendendosi tutto quanto.
Per Selma era molto difficile stargli dietro ed i venditori, che avevano anche loro i propri problemi, tendevano ad approfittarsi di lei.
Ci fu un venerdì in cui Selma si introdusse in casa di uno di loro che tardava a presentarsi tenendo il cellulare spento, trovando la porta aperta ed i biglietti ed i soldi appoggiati su un tavolo; il tizio era in un altra stanza dormendo profondamente a causa alcool.
La goccia che fece traboccare il vaso si presentò una mattina sotto forma di una ragazza abbastanza carina che stava parlando con Selma, che io sdraiato sul divano, dove dormivo la notte, col primo sole basso e dritto negli occhi ancora assonati non vidi però bene; notai solo che aveva delle labbra carnose e vagamente alcune linee del suo profilo.
Avevo da tempo infatti smesso di dormire nel materasso a terra nella stanzetta con Mateus, perchè puzzava di muffa e mi sentivo mancare l'ossigeno.
Per un tempo provai anche a dormire nel quintal nella rede (amaca) che mi regalò Maria baixinha, ma i mal di schiena non tardarono a farsi sentire.
Così dormivo o sul divano oppure su di un materasso a terra posizionato all'ingresso, dove circolava meglio l'aria, mettendo un lenzuolo appeso sulla recinzione a mo di tenda, per far si che non mi vedessero in mutande dalla strada, beninteso non che mi importasse molto.
avo infatti buona parte delle giornate a piedi scalzi senza maglietta ed in costume. Ahime niente di più bello che vivere col minimo indispensabile di vestiti.
Quando mi ripresi dallo stato di dormiveglia capii che la ragazza voleva lavorare per il Caju-cap e Selma le fece la registrazione in un modulo, dove si lasciava scritto indirizzo e numero di telefono, e le diede 50 biglietti da cominciare a vendere.
Arrivato il venerdì sera la ragazza non si presentò a consegnare i soldi e la matrice dei biglietti venduti e non c'era modo di contattarla; io ero tornato dal vendere patatine fritte piuttosto presto e diedi una mano a Selma a cercarla, andammo all'indirizzo che ci aveva indicato, ma nessuno sembrava conoscerla. Era praticamente sparita.
La sera stessa ci fu un po' di tensione tra Selma ed il fratello Genilson che già da tempo la spronava a fare di meglio, dicendole che non si stava impegnando come un tempo.
Il buon ipermaterialista Genilson, ed aggiungerei molto egoista, come pochi ne conobbi, era basso e grasso tutto pancia e collo, con gli occhi leggermente fuori dalle orbite; aveva una ione smodata per il cibo e rimasi impressionato nel vederlo abituato a mangiare non da un piatto ma da una bacinella.
Mi piaceva di lui che era molto attivo, aveva vari lavori contemporaneamente, aveva costruito il suo benestare economico partendo dal nulla (ci sarebbe chiaramente da chiedersi, conoscendo il tipo, a spese di chi?) ed aveva un modo schietto di parlare con gli altri. Prendeva per il culo chiunque, e da come mi disse Selma si comportava così davvero con tutti quanti, dal cattatore di lattine al prefetto di Aracaju, senza nessun tipo di distinzione.
Mi stava piuttosto antipatico e cercavo sempre di evitarlo sentendomi spesso offeso e non in grado di rispondergli a tono, ma c'era da riconoscergli che nella sua avidità e brama aveva acquisito una certa sicurezza di sé che si notava a prima vista.
La settimana seguente, ando da una discesa, non ricordo bene il perché, forse avevo fatto la spesa al mercatino vicino alla scuola di Miguel, guardando per caso dentro un bar dove stava per tenersi una festina scorsi 2 ragazze, ed una di loro mi sembrava di averla già vista ma non mi ricordavo dove. D'un tratto ricollegai le labbra carnose ed a canotto che avevo scorso, era lei!
Tornai indietro ed entrai nel bar e senza troppi peli sulla lingua e forse anche un po' inconsciamente le dissi:
“Hey! Ma tu sei la garota(ragazza) che rubò il caju-cap?”.
Lei ci rimase di stucco ed iniziò a darmi un sacco di scuse, capii che lavorava in quel bar e l'altra ragazza affianco era una sua superiore. Le avevo fatto fare un brutta figura nel suo posto di lavoro.
Uscimmo fuori ed era abbastanza nervosa io mi sentivo calmo e la stavo ad ascoltare, sotto sotto visto che era carina, mi partì un film mentale dove speravo che mi fe una proposta sessuale per farmi tener chiusa la bocca. Alla fine la lasciai e tornai veloce ed esultante verso casa per avvisare Selma.
Uscimmo di casa di nuovo ed io fomentavo Selma, che era tutta nervosa fumandosi una sigaretta dietro l'altra, a fare a botte con la ragazza.
Arrivati là non la trovammo ma tornò dopo poco nervosa, ed iniziò la discussione a cui io assistevo.
Infine furono recuperati i biglietti mancanti e si scoprì che la ragazza era stata mandata da una certa Wilma, venditrice abituale di biglietti per Selma, che aveva trovato il sistema, non molto furbo di per sè, per fregare qualche centinaio di reais.
Dovette intervenire il buon Genilson infine, che quando si trattava dei soldi si faceva valere alla grande e con ogni sistema che gli fosse utile a raggiungere i suoi scopi, e giustizia fu fatta.
Di domenica avevo preso l'abitudine di andarmene a mare, che tuttavia non era vicinissimo a dove stavamo noi, bisognava fare quasi 15 km per arrivare alla praia dos artistas, oltre la orla (il lungomare) nel punto secondo me più carino, oppure are il ponte sul rio Sergipe ed arrivare alla praia della barra dos coqueiros , un altro municipio, ma dove fui solo una volta.
A volte andavo di bicicletta ma per lo più in ònibus, che di domenica erano anche piuttosto scarsi.
Impiegavo fino a 2 ore per arrivare alla praia dos artistas, a causa di un cambio di onibus da fare nel terminal centro o nel terminal mercado.
Infine riuscivo ad arrivare agli archi sulla orla, che era il punto più movimentato e mi piaceva per quello.
Una delle prime volte che fui là, forse ad ottobre, ricordo che nonostante già fi sesso con Selma non ero abbastanza soddisfatto, arrivai alla spiaggia e mi sentivo più determinato che mai, totalmente sicuro nel mio intento, che avrei trovato una “bella figa” quel giorno e l'avrei conosciuta.
Iniziai a scandagliare la moltitudine di persone che affollavano l'enorme spiaggia di domenica.
Come era classico in Brasile, c'erano gruppi di giovani suonando tamburi per lo più e gente cantando, sambando, bevendo birra e fumando maconha.
Non era difficile, soprattutto nella Bahia, trovare quelli che facevano capoeira in spiaggia, un vero spettacolo, e la domenica in spiaggia si respira proprio Alegria.
Continuavo a guardare da una parte all'altra, fino a che, percorsi qualche 200 metri, vidi una bella morena perizomata ad una ventina di metri da me; di colpo mi fermai e rimasi un poco in osservazione. Poi come vidi la ragazza scambiare il mio sguardo, utilizzai una strategia di avvicinamento. Approfittai che lei aveva le sue cose vicino ad un carrino di churrasco, che vendeva spiedini di carne e birre ghiacciate, mi comprai qualche spiedino ed una birra e mi unii al gruppo che stava li intorno al churrasquinho ed iniziai a socializzare, dopo vari sguardi complici iniziai a parlare anche con lei, era veramente carina, con bei lineamenti del volto al contrario di molte brasiliane morene, ed un corpo agile e sensuale.
Nel gruppetto i maschi tendevano a starle un po' addosso, così io mi trovai a parlare con una donna rivelatosi poi mezza matta. Era bahiana e stranamente bianchissima (nella Bahia l'80% della popolazione era raça negra) lei invece stava un po' addosso a me che in realtà ero molto attratto dalla ragazza, non so come, ma forse già abbastanza bevuta la donna si trovò a raccontarmi che era stata stuprata da un negrone immenso, alto e tutto muscoloso. Dai suoi racconti infervoriti dall'alcol sembrava che l'uomo fosse stato una specie di leggenda vivente a causa della sua forza bruta e che tutti quanti a Salvador temevano, anche la polizia; mi trattenni a stento dal ridere quando indicò con le mani la supposta dimensione della “pinta do cara”(minchia del tizio) che era proporzionata a quanto pare con il resto del corpo.
Non so quanto vi fosse di vero nelle cose che mi raccontava e nemmeno compresi il perchè me le stava raccontando.
La ragazza a cui ero interessato aveva una figlia a quanto pareva, e mi misi a giocare con la bambina per accaparrarmi l'attenzione della madre. Ascoltando i
discorsi del gruppo carpii che la ragazza era fidanzata con qualcuno il cui nome sembrava destare la sorpresa di molti, un tal dei tali del quartiere Terra Dura se non mi sbaglio; quartiere situato dietro all'aereoporto.
Poi quando parlai nuovamente con la ragazza, oltre a conoscerci un po' meglio, mi racconto che il fidanzato la tradiva da più di un anno con una sua amica.
Lei, che non era di Aracaju ma del confinante stato di Alagoas, pensava di ritornare dalla sua famiglia vicino a Maceio con la figlia. Ci conoscemmo meglio in quelle ore e feci anche amicizia con il resto del gruppo tra spiedini di carne e birra.
Mi disse anche che era dimagrita parecchio perchè ultimamente le cose non le andavano benissimo, aveva ato anche tre giorni senza cibo e bevendo solo acqua.
Se già era bona con un corpo così mi immaginavo oltre al fatto che me lo indicava come a voler attirare la mia attenzione, le sue belle gambe ed il sedere con ancora più carne addosso.
Rimasi comunque un po' colpito dalla sua storia e intimamente mi sarebbe piaciuto aiutarla.
Venne l'ora di andarsene e mi trovai, forse non per caso, a camminare con la ragazza e la sua bimba; mi venne dietro lei in realtà accompagnandomi fino al terminal da praia degli onibus, c'era molta attrazione a pelle ed avevo voglia di toccarla e baciarla mentre rimanemmo fermi in un punto all'ingresso del terminal prima di salutarci. Lei sembrava guardarsi intorno, per controllare se vi fosse
qualcuno che conosceva pensai.
Le chiesi se mi lasciava il suo numero di telefono e mi disse che non poteva perchè aveva il telefono rotto, io tra l'altro non mi ero ancora procurato un cellulare, mi disse che quella sera sarebbe stata con la figlia alle giostre sul lungomare dove eravamo ati a piedi, poi ci salutammo e ata la strada si girò a sorridermi.
Che bella che era, rimasi tutto felice mentre aspettavo il mio onibus.
Tornato a casa non raccontai niente a nessuno e mi preparai per tornare là. Arrivata la sera presi la bicicletta che mi diede problemi e dovetti tornare indietro a lasciarla per prendere l'onibus. L'onibus tardò parecchio prima di arrivare e raggiunsi il punto indicatomi sul lungo mare che erano già sera, aspettandola poi per un paio d'ore invano...Mi chiesi magari se non fosse venuta lì prima ed io fossi arrivato in ritardo; pensando a come sarebbe stato meglio scambiarci un contatto telefonico sentii che a volte la tecnologia era proprio.
La domenica seguente volli tornarmene di nuovo alla praia nella speranza di ritrovare la ragazza, ci andai con la bicicletta di Mateus nonostante avessi già comprato quel catorcio della mia.
Partii tutto scannato, mi facevo a cannone ormai la famosa discesa del Santo Antonio, dove Mateus si era schiantato, con quale precauzione però. Mi fermavo infatti sulla sommità aspettando che scattasse il verde di sotto, attendevo qualche secondo e poi mi lanciavo giù.
Arrivai alla orla e mi misi a fare le trazioni alla sbarra in una di quelle aree per
gli sportivi che erano tanto comuni sui lungomare brasiliani.
L'idea era quella di arrivare in spiaggia tutto pompato dall'esercizio fisico, in modo da sembrare più virile ed attraente... E vabbe, l'importante era crederci.
Mi sparai buonissimi succo di canna e acqua di cocco, incatenai la bicicletta ad un palo, ed iniziai la ricerca della fantomatica ragazza, ma dopo ore di ricerche ed attese non la trovai.
Un po' deluso da tanta ed insoddisfatta aspettativa che mi ero creato a causa del flusso ininterrotto di chiacchiere mentali e fantasticherie, presi d'accapo la bicicletta e continuai a procedere verso sud lungo la strada; pedalai senza idea di quanto tempo avrei continuato a farlo, rendendomi solo conto che il sole se ne stava bello alto sopra la mia testa.
Pedalai e pedalai fino ad arrivare ad un punto dove la strada che correva su di una bassa falesia costeggiando la spiaggia era stata mangiata dal mare e finiva così, in un magnifico panorama da fotografia, con un vecchio faro ormai non lontano verso sud, vegetazione bassa e verdeggiante sulla destra ed il mare come sempre un poco mosso sulla sinistra; il cielo azzurrissimo con qualche nuvola spumeggiante.
Mi innamorai di quell'immagine dinnanzi ai miei occhi, dimostrante una natura che si riprendeva il suo spazio usurpato dall'operare dell'uomo.
Proseguii conducendo la bici sulla spiaggia sino ad arrivare ad un punto dove vi erano solo mangrovie e la marea alta non permetteva di are, se non per delle strade in sabbia interne dove si divertivano proprietari di fuoristrada e buggy.
Riuscii ad arrivare all'estremità più a sud e rimasi là un tempo a contemplare ed a riflettere.
Stavo avendo un problema che volevo risolvere, ovvero ero ossessionato dal voler far sesso, la cosa era piuttosto forte e se non riuscivo a farlo con Selma mi masturbavo ossessivamente.
A cosa avrebbe condotto un'esistenza volta principalmente a soddisfare questo bisogno-dipendenza istintivo? Quasi che iniziavo a masturbarmi in quella solitudine piuttosto che fare lo sforzo di stare con me stesso, anzi in me stesso, ma mi resi conto della cosa inutile che stavo per fare e desistetti.
ò del tempo ed infine mi avviai sulla strada del ritorno, la pelle già mi bruciava di tanto sole preso e mancanza di acqua da bere.
Non capivo come mai, ma procedevo sempre più lentamente sentendo di fare sempre più sforzo con le gambe, incredibile ma iniziai a crede che forse le mie gambe stavano cedendo a causa degli eccessivi sforzi della mattinata.
Forse è una mancanza di sali minerali? Già voleva farmi preoccupare l'insinuante vocina.
Infine mi accorsi, arrivato stremato ad un punto in cui quasi mi vennero i crampi e dovetti scendere dalla bici, che la ruota posteriore non girava bene nel cuscinetto, in cui probabilmente era entrata sabbia e gli faceva fare tanto attrito da funzionare come un freno; dopo pochi metri che percorsi a spinta la ruota si
bloccò totalmente e così me la caricai sulla spalla. Mi feci più di un ora a piedi così, sotto al sole, stanco, assetato e con la pelle che mi bruciava.
Arrivai infine, benedicendo il cielo, all'inizio della Orla.
Mi mangiai un Açai, troppo piccolo come sempre. Ebbi la fortuna che l'autista dell'onibus mi fece salire a bordo con la bicicletta, che gli spiegai si era rotta, senza manco pagare il biglietto, altrimenti mi sarebbe toccato farmi ancora una 15 di km con la bici in spalla.
Tornai a casa ed ebbi febbre la notte, a causa probabilmente del troppo sole preso, o forse a causa della “caccia” andata male.
In quel periodo mi era venuta la fissazione che mi dovevo, e volevo inoltre, sposare; non sapevo ancora con chi in realtà ma ciò sarebbe stato funzionale a farmi restare in Brasile ed altre varie nazioni del sud America a tempo indeterminato.
Questa fissazione era anche derivata dal fatto che avevo bisogno di prendere la cittadinanza brasiliana perchè non avevo nessuna intenzione di tornare in Italia, neanche sul lungo termine.
Mi recai in centro una mattina con Selma per sbrigare delle faccende ed approfittai per entrare in un cartorio (ufficio comunale) che mi era stato indicato, dove arrivato il mio turno parlai con un signore che mi diede informazioni per ottenere un visto permanente, a detta sua l'unica cosa fattibile per me ed anche la più facile da fare era sposarsi.
“Pegue uma menina por aì e se case com ela” (prenda una ragazza da qualche parte e si sposi con lei).
Uscii da quella stanza tutto felice e saltellante, al rincontrare la ragazza alla reception le dissi che avevo risolto il mio problema di visto, di cui le avevo parlato appena arrivato, e che mi bastava sposarmi; le chiesi se si voleva sposare con me e si emozionò, poi uscii in strada positivo come non mai, mi sarei sposato pensavo.
Rimasi su quell'onda per del tempo, forse settimane, tra l'altro manco a farlo apposta sembrava capitassero molte occasioni di ragazze, donne ed adolescenti a cui interessavo; mai mi sentii tanto desiderato in vita mia credo. Il fatto di avere principalmente una fisionomia relativamente fuori dal comune nel quartiere periferico dove stavo e di parlare con un accento insolito attirava il gentil sesso nei miei confronti.
Mi venivano seriamente fatte anche proposte piuttosto esplicite alle quali rifiutavo per bruttezza della pretendente o per assenza di un qualche minimo interesse.
Da sempre ero alla ricerca di quello sguardo, l'incontrarla avrebbe detto molto di più di tantissime parole e ragionamenti.
Ero convinto che nell'aspetto esteriore avesse espressione anche l'interiorità dell'individuo e quindi forse come sempre andavo alla ricerca di una ragazza esteticamente speciale in qualche senso...Che mi fe innamorare.
La ragazza conosciuta in spiaggia mi era piaciuta parecchio, credo a livello di attrazione fisica più che altro.
arono forse altre due domeniche e decisi di tornare alla spiaggia per cercarla di nuovo; ci voleva un po' di fortuna per aver successo. Mi feci lo stesso percorso della prima volta che la vidi, controllando costantemente tra la folla domenicale se fosse in una posizione più difficile da trovare.
Ad un certo punto la vidi sotto ad un ombrellone insieme a due maschi e la figlia, la cosa forse mi aveva leggermente insospettito a livello istintivo e proseguii dritto quando mi vide e mi chiamò facendomi cenno di andare da lei.
Mi presentò uno dei maschi che era purtroppo il suo fidanzato ed un amico suo.
Io mantenni apparentemente un apparenza tranquilla, ma dentro sentii come una sensazione di strazio, a parole traducibile in un: “Nooooooo” , lungo e sconfitto.
Ma la speranza è sempre l'ultima a morire come dicono, e forse lo è anche l'idiozia avrei detto in seguito.
Finsi di conoscere la ragazza a malapena e per sbaglio non facendo minimo accenno al fatto che non ci eravamo trovati all'appuntamento quella sera alle giostrine; iniziai a chiacchierare per lo più col suo fidanzato ed il suo amico, lei vedendomi ancora in piedi mi invitò a sedermi e restare là con loro e non so perchè ma non me ne andai subito come avrei dovuto fare usando un minimo di raziocinio, ma accettai e rimasi con loro per altre ore quasi, fino a che non se ne andarono.
Il tutto era molto strano, parlavo con questi 2 ragazzi senza che me ne fregasse minimamente nulla di loro, dei discorsi che facevamo, né di cosa potevano pensare di me. Mentre vi parlavo la mia attenzione interiore era totalmente rivolta verso di lei. Non so spiegarlo bene, stavo semplicemente recitando una parte da bravo attore.
Mi offrirono della birra che per fortuna, come poi ebbi modo di riflettere, rifiutai.
Iniziai inevitabilmente a parlare di me stesso e senza accorgermene diedi un sacco di informazioni sul mio proposito a questi due. Loro tuttavia, notai fin da subito, erano diversi dal brasiliano medio che di solito conoscevo in spiaggia o nelle festine a base di birra, erano calmi e gentili ma soprattutto molto distaccati e nonostante tentassi di essere amichevole con loro capii che non gli fregava di fare amicizia con me. Eppure mi ascoltavano, anzi mi facevano anche domande sul mio conto.
Arrivò un punto in cui gli mostrai un paio di occhiali falso ray-ban, che mi ero portato appresso sperando appunto di farne interessare qualcuno che avrei potuto conoscere, ed iniziai raccontandogli la palla che li importavo dall'Italia e che se volevano prendevo ordinazioni su colore e modello.
Sembravano interessati; essendomi inoltre magicamente arrivato un cellulare in regalo, riciclato da Selma, giusto in quella settimana mi scambiai il numero con l'amico del fidanzato, covando dentro di me con la speranza che la ragazza ne venisse in possesso per contattarmi.
Cercai quindi di informarmi un po' meglio su cosa facevano nella vita questi due
ragazzi. Le loro risposte furono sempre molto vaghe, il fidanzato veniva da Manaus mi disse, e mi disse che faceva serramenti, stranamente dalla stretta di mano non mi diede l'impressione di uno che faceva lavori manuali, ma notai già da quel momento che aveva praticamente ad ogni dito un anello color argento.
Avevo l'impressione che mi mentissero, buttando lì, la prima cosa che gli ava per la testa, assecondandomi.
Il fidanzato tra l'altro aveva vari tatuaggi, catene e bracciali luccicanti, tutte cose a cui io non attribuivo un particolare significato se non quello di apparire; aveva inoltre un grosso tatuaggio colorato su di un braccio con una carpa mi parve.
Come ne avevo l'occasione mi scambiavo sguardi intensi e penetranti con la ragazza, che mi sorrideva appena nascosta al fidanzato. Tutta quella situazione era assurda, tuttavia sembrava che sotto sotto mi pie quella cosa, il rischio.
Vi fu un momento che mai scorderò dove io ero seduto sulla sabbia e da qualche secondo ci fissavamo negli occhi complici quando con la coda dell'occhio percepii la testa del suo fidanzato che era seduto ben di fronte a me su di una sdraio girarsi velocemente nella mia direzione, una scarica di adrenalina istantaneamente percorse tutto il mio corpo e riuscii ad essere più rapido, mantenni la posizione del corpo e della testa immobile e lanciai il mio sguardo tutto sulla destra, sentendomi letteralmente invaso dalla sua attenzione; come se fossi consapevolmente nel centro del suo mirino rosso ed una mossa sospetta mi sarebbe costata una pallottola in fronte.
Mi fissò qualche secondo, guardando poi rapidamente anche la sua ragazza, per poi tornare ai suoi pensieri ed alla sua birra.
Mi sentii quella lieve sensazione di sudar freddo are come a sciogliere piano tutta quell'adrenalina messa in circolo in così poco tempo.
Incredibile come meccanismi istintivi come può essere il rilascio di adrenalinanoradrenalina nel lotta-fuggi sia molto più intelligente e veloce sopratutto di una qualsiasi strategia elaborata al pensiero.
In parole povere: se mi fossi messo a pensare mi sta per scoprire mentre fisso la sua donna ciò potrebbe evolversi molto probabilmente in un conflitto, non avrei manco finito di ascoltare la prima parola formularsi nel cervello che mi avrebbe già beccato in pieno.
Istinto: a volte salva, a volte ammazza.
Lo avevo fregato per quel momento sentii ma percepivo a pelle che sospettava di me e detto sinceramente non avevo un motivo molto plausibile di stare li sotto all'ombrellone insieme a loro che non fosse un molto probabile interesse nella ragazza, visto che di ridere e scherzare come si era soliti con i 2 ragazzi come si era soliti fare in situazioni del genere non c'era l'ombra, ma in fondo mi autogiustificavo a rimanere potendo essere razionalmente anche qualcuno in cerca di amicizia.
Al tizio dopo quel momento la cosa iniziò a puzzare un po' troppo e notai che se prima mi dava pochissima attenzione, adesso stava lì ogni poco a controllare se stessi guardando la “sua donna”.
Diminuii molto la quantità e la durata dei nostri sguardi per paura di essere scoperto.
Capitò un momento in cui andai a farmi il bagno e la ritrovai sul bagno asciuga con la figlia, allora parlammo un poco, le dissi che ero arrivato tardi alle giostre dei bimbi quella domenica sera che ci eravamo dati appuntamento, sembrò sorpresa e felice nel sentire che ci ero andato davvero, sembrava felice probabilmente anche per la mia faccia tosta di stare là per lei cercandola con lo sguardo nonostante il fidanzato e le rischiose conseguenze, che allora ignoravo, che avrei potuto are. Poi mi allontanai andando dove stava il suo fidanzato per non dare troppi sospetti.
Tornai daccapo sul bagnasciuga alla vista di un tizio, un nero che aveva una specie di tavola di legno circolare che iniziando a correre lanciava roteando sul pelo dell'acqua come fosse un frisbie per poi saltarci sopra ed avanzare in equilibrio per la distanza più lunga possibile.
Mai vidi niente del genere ed il tizio si sparava fino a 20 metri in equilibrio sul pelo di quei pochi centimetri d'acqua mentre l'onda che stava per arrivare richiamava l'acqua dell'onda precedente.
C'erano anche 3 bambinetti evidentemente di rua con lui a cui mi unii e mi fecero provare l'arnese spiegandomi come fare.
Io, con la capa deviata che stavo avendo quel giorno, la maggior parte delle cose che facevo erano solo per attirare l'attenzione della ragazza su di me. Oltre alla decina di metri che riuscii a fare in equilibrio sulla tavola circolare, mi misi a fare anche le verticali cercando di rimanere più tempo possibile fermo immobile.
Un vero show da baraccone sulla spiaggia, un po' come fanno quegli uccelli gonfiando il piumaggio e facendo danze per mostrare alla femmina quanto sono
bravi, forti ed idonei alla riproduzione ed io mi sentivo in quel periodo super forte a causa dei tanti sforzi fisici a cui mi sottoponevo e decisamente idoneo alla riproduzione vista l'intensa attività sessuale che praticavo.
Arrivò il momento che se ne andarono ed io e lei ci scambiammo solo un breve sguardo. Rimasi lì da solo ancora poco tempo ed infine volli tornarmene a casa anche io per farmi una bella magnata domenicale al posto di spilucchiare spiedini ed acqua di cocco.
Arrivato a casa raccontai un po' della mia giornata, Selma disse al figlio Alan che ero stato alla spiaggia in cerca della bella ragazza che avevo conosciuto.
Non so bene come ma quando dissi che lei non era sola ma c'era anche il fidanzato, per curiosità Alan iniziò a farmi domande a proposito del tizio. Mi venne in mente che quando conobbi la ragazza avevo sentito di sfuggita che parlavano del suo ragazzo con toni omertosi.
A casa c'era pure Lenaldo ed iniziò anch'egli a chiedermi più informazioni. Quando gli spiegai il punto preciso della spiaggia dove andavo di solito, ovvero vicino a dei grandi archi in cemento piastrellati di blu sulla orla, mi fecero capire che quello era il punto dove andavano tutti i disadattati ed i criminali della città.
Iniziò un bombardamento di domande da parte di tutti quanti i presenti i casa in una specie di climax ascendente per ogni indizio che davo, che praticamente terminò quando descrissi che il fidanzato della ragazza oltre a portare molti gingilli argentati era tatuato su di un braccio con un pesce tutto colorato.
Mi dissero tra lo sgomento di Lenaldo, Selma, Paula e Alan e le risa isteriche di
Lucas e Matheus, che il pesce era il simbolo di una fazione criminale denominata PCC (pesese) Primeiro Comando da Capital e chi ne faceva parte si tatuava in quella maniera.
Io che avevo sinceramente avuto un qualche tipo di intuizione primordiale che fossero malavitosi quei due, nonostante ne stessi avendo ora la conferma mi era difficile crederci del tutto, mi sembrava fossero solo tante coincidenze che scatenavano la fantasia di quelli in famiglia, ed al posto di essere preoccupato ridevo da come ero spiazzato.
Mi dissero che ero fortunato che non mi avessero fatto fuori, perchè a questo tipo di persone una delle cose che proprio non andava giù era di essere cornuto.
Quando feci sapere che tra le tante cose che avevo detto a proposito di me stesso ai due c'erano anche le informazioni del quartiere del Santo Antonio dove abitavo ed addirittura la strada ed a che altezza! Lo avevo detto sentendo che l'amico del fidanzato era del quartiere Cidade Nova, praticamente attaccato al nostro. Ed oltre a questo dissi a tutti che avevo anche scambiato il numero di telefono con il tizio; regnò il panico....Selma si fece molto preoccupata dicendo che questi banditi non si sporcavano le mani ma mandavano qualcuno ad ammazzarti ed io praticamente gli avevo servito comodamente il piatto dicendogli addirittura dove abitavo... Non proprio furbo direi...
Ricordo Selma imprecare la misericordia di dei e santi, Alan e Lenaldo che mi parlavano addosso con gli occhi fuori dalle orbite, si andò avanti così per un bel pezzo.
Il colmo fu che avevo anche avuto intenzione di chiedere un aggio all'amico del fidanzato che era in macchina ed andava nella mia stessa direzione.
Mi ringraziai da solo mentalmente che non bevvi nulla là con loro, altrimenti capace che mi sarei anche messo a dirgli che stavo li per conoscere meglio la ragazza, di tanta ingenuità che ebbi quel giorno.
Potrebbe essere ingenuità, o forse una specie di tendenza avuta in tutta la mia vita di andarmi a mettere in situazioni rischiose, un misto di curiosità, voglia di avventura e volersi mettere costantemente alla prova in qualcosa che non si conosce; od ad un livello più profondo forse per convincersi che si può tutto nella vita e certe esperienze è istruttivo viverle. Magari forgiano e possono tornare utili in futuro, finchè si riesce a raccontarle, come direbbe mio padre.
Analizzando la questione in seguito, era come se effettivamente a livello inconscio io avessi saputo che era rischioso stare la insieme a loro perchè lo sentivo, tuttavia affrontavo quella situazione per me nuova prendendola per tale. Non comportandomi ovvero in conseguenza a schemi di esperienze già vissute (personalmente o udite-viste in storie) in precedenza, come si è soliti fare, ma tentando il più possibile per me in quel momento di cercare uno stato di calma interiore, ovvero assenza di pensiero.
Ma la cosa più bella fu che nonostante la grande scoperta, a cui io ancora non volevo credere, essendo forse il mio cuore troppo forte sulla parte razionale, non mollai l'osso.
Continuai ad andare alla stessa spiaggia, più o meno una domenica si ed una no, ed ogni tanto la sera al punto sul lungo mare con le giostre, sempre sperando di incontrarla.
Avevo maturato una voglia matta di ritrovare la ragazza sola, per prenderla, lei
con la sua bambina e scappare via, insieme da qualche parte.
Certi discorsi di Selma poi non avevano fatto altro che alimentare questo mio desiderio, del tipo che il giorno che la rividi, arrivati a casa il suo fidanzato l'avrebbe presa a botte per quelle due ore a mare in cui lei volutamente mi aveva invitato a restare con loro, per farle dire chi ero io e come mi aveva conosciuto. Sempre secondo il parere soggettivo di Selma (che di già sotto sotto, nonostante mi cercasse moglie tra le femmine che conosceva, si era affezionata a me e non voleva perdermi per un'altra), la ragazza mi voleva usare semplicemente come un oggetto, per vendicarsi con il suo fidanzato del tradimento che lui le aveva fatto ed io ne avrei ate veramente di brutte. Disse che ero stato fortunato quella volta perchè:
“Mulher de malandro nào pode deixarl-o”.(Donna di malandro non può lasciarlo).
Non ricordo poi quante altre ipotesi udii di quei tempi, tutte molto in stile telenovelas che tanto andavano in Brasile ed alimentavano la fantasia perversa del popolo.
Solo che in fondo potevano aver ragione, e davvero, mi feci più cauto. A casa dicevo che andavo ad un'altra spiaggia onde evitare polemica, ma poi in realtà andavo là apposta per cercare lei, mi avvicinavo all'area di probabile incontro prendendola alla larga; ovvero osservando da lontano, camminando nel mezzo della spiaggia e non prossimo al bagnasciuga dove stavano la maggior parte delle persone.
Ci fu una volta che lasciai le mie cose da una coppia ad un ombrellone e procedetti nuotando nell'acqua bassa, sentendomi una specie di agente segreto, fino al punto in cui avrebbe potuto essere, ma non la trovai.
Svariate volte ai di là, ma non la rividi mai più, sarà stato il destino, sarà stato forse un angelo che mi proteggeva come dicono e voleva solo il mio bene, non saprei, ricordo che al tempo mi giravano le palle ad una velocità stratosferica.
Arrivavo ogni volta alla spiaggia carico di aspettative, di frasi epiche che avrei detto, di azioni spettacolari che avrei fatto ed una volta là rimanevo deluso che di lei non ci fosse ombra.
Magari, e lo sperai in seguito per lei, se n'era tornata a stare dalla famiglia.
Non riuscii più a godermi la storia di andare a mare di domenica ad Aracaju alla stessa maniera. La vissi in maniera leggermente ossessiva e malinconica di qualcosa che non si era realizzato.
Ciclicamente capitavano queste “ragazze impossibili” nella mia vita da cui prendevo sempre una bella batosta alla fine e sembrava non riuscissi ad uscire e nemmeno ad accorgermene del ripetitivo ciclo.
Tutto questo dovrà aver pure un senso, un insegnamento da cogliere.
A PROPOSITO DI CRIMINALITÀ, ormai normalità.
C'era un bambino di nome Eduardo, ma chiamato da tutti Dudù, che pressoché
tutti i giorni prendeva ed entrava in casa di Selma dove le porte erano sempre aperte, nel vero senso della parola ovvero che la porta d'ingresso che in realtà era a vetro e scorrevole era bloccata e non si poteva chiudere facilmente ed inoltre per il caldo veniva tenuta sempre aperta. Se il cancello all'ingresso che chiudevamo con una catena e luccheto era chiuso Dudù lo scavalcava, mentre suo fratello minore chiamato Pinchuco ava da un buco tra le sbarre.
Dudù e fratello provenivano dalla casa successiva a quella attaccata alla di Selma salendo per la strada.
La loro famiglia era mezza disastrata e Dudù non andava manco a scuola, in un certo senso per fortuna direi.
Cresceva quasi allo stato brado, sempre a piedi scalzi per strada e coperto unicamente dal costume, negro ma non molto scuro di pelle.
Fummo noi ad insegnargli i nomi dei colori che nonostante i suoi 10 anni ancora non conosceva, insegnargli a scrivere sarebbe stato pretendere troppo, la sua attenzione si perdeva facilmente e chiaramente come poteva aver voglia di imparare determinate cose, in apparenza inutili, quando poteva giocare tutto il tempo?
Ogni tanto la madre, una donna sui 30 ma già grassa e trascurata, come molte brasiliane a quell'età, si ricordava della sua esistenza gridando in mezzo alla strada:
“Eduuuaaaardo”.
Il padre di Dudù invece si vedeva poco, era un criminale, anche lui dei PCC come mi raccontarono, ma non aveva un ruolo di particolare importanza almeno a me così pareva viste le condizioni nelle quali vivevano.
Lo zio invece si vedeva spesso, anzi più che altro si “sentiva” spesso; si metteva, quando ne accumulava un po', a bruciare fili elettrici ed altre cose per scioglierne la plastica e ricavarne rame e metalli per poi rivenderli al riciclaggio.
Si piazzava per fare questa operazione davanti casa sua ata la strada, in una piccola fetta erbosa, dove poi c'era il muro di confine dell'ospedale universitario. Dietro a questo muro tra l'altro c'era un ginko biloba e per un mese fummo costantemente sommersi dal puzzo rancido dei suoi frutti maturi.
Dicevo dello zio di Dudù che bruciando i materiali faceva la fumata nera della plastica bruciata e noi la sorbivamo senza lamentela. Fosse stata un'altra persona costui, od anzi tutti noi un altro luogo, visto che non c'era niente di strano in bruciare roba per strada in Brasile, gli si avrebbe potuto dire qualcosa.
Inoltre lo zio di Dudù era piuttosto particolare, spesso sotto effetto di droghe od ubriaco; si stingeva i capelli coll'acqua ossigenata, cosa che risaltava parecchio essendo lui moreno scuro.
Per un periodo se ne andò in giro con i capelli rasati da un lato ed il cespuglio afro e ossigenato dall'altro, sbandando mentre camminava e spesso chiacchierando da solo.
“Sentivamo” anche tutto il resto della famiglia a volte, che si facevano certe belle fumate d'erba nel quintal di casa loro, ed, a vento favorevole, si fumava ivamente e gratis anche in casa Selma.
La famiglia di Dudù aveva già avuto diverse volte problemi con la giustizia e Dudù nella sua innocenza aveva già visto parecchie cose con i suoi giovani occhi.
Ricordo sua madre raccontarmi che lo aveva visto mentre già faceva, con le dita a gesto di pistola, finta di sparare agli elicotteri della polizia; i quali non era raro veder are sopra il nostro quartiere mentre si fiondavano da qualche parte.
Dudù aveva già preso ad aver paura degli sbirri e se era per strada e vedeva una macchina della polizia scappava a nascondersi tutto spaventato senza che avesse commesso nulla, così per riflesso istintivo appreso in famiglia.
Mi chiedevo che futuro potesse avere un bambino crescendo con quel tipo di influenze.
Venne una domenica, ero deciso come spesso ad andare a mare, questa volta volevo andare alla praia da atalaia nova, nel municipio di Barra dos coqueiros, ato il grande ponte di Aracaju dove una sera ebbi l'idea di tuffarmi.
Uscii di casa al mattino, la giornata era meravigliosamente limpida e già faceva caldo, andai a piedi per la salita per poi ridiscendere ed arrivare alla fermata dell'onibus davanti all'entrata dell'ospedale universitario.
Stavo appoggiato alla pensilina rilassandomi nella bella calma domenicale; nonostante il giorno non lavorativo c'erano molte persone che aspettavano.
Mi sedetti per qualche tempo, quando ad un certo punto un ragazzo in bicicletta si avvicinò ad una ragazza in piedi che stava parlando al cellulare, proprio là giusto a due metri sulla mia destra. Il ragazzo rallentò ma senza fermarsi proprio al suo lato, allungò la mano e le prese il cellulare senza sforzo minimo. Io che stavo seguendo tutta la scena immaginai fossero amici e che fosse uno scherzo, capii che così non era in una manciata di secondi quando vidi il ragazzo iniziare a pompare con le gambe sui pedali e la ragazza rimasta di stucco.
Mi alzai di scatto e nonostante calzassi le havaianas iniziai a correre dietro al ladro.
Lui stava prendendo velocità inizialmente, e riuscii a guadagnare terreno su di lui solo grazie alla salita piuttosto inclinata che incominciava dopo la fermata, ancora qualche metro e fui ben dietro di lui.
Si girò un momento per controllare e si prese uno spavento vedendo che gli ero quasi addosso, perse istantaneamente l'equilibrio e cadde dalla bici. Cadendo perse di mano il cellulare che si aprì al contatto col terreno, lasciò a terra la bicicletta e preso dalla paura iniziò a correre per la salita; io mi fermai visto che il cellulare era stato recuperato ed a quanto pare avevo una bicicletta extra pronta ad essere cavalcata.
Nei pochi secondi che mi fermai a fare quelle considerazioni un ragazzo alto e muscoloso mi ò a lato correndo, anche lui dietro al ladro, fece una ventina di metri ma poi desistette pure lui e tornò indietro. Nel frattempo tutto il popolino della fermata era in trambusto, la ragazza venne a raccogliere i pezzi del suo cellulare da terra, forse mi ringraziò ma non le prestai attenzione perchè dalla
sommità della salita il ragazzo-ladro tornava verso il “luogo del delitto”.
Iniziò, mentre avanzava con o deciso ma lungo e molleggiato a causa della discesa, a gridare qualcosa minaccioso; io feci qualche o avanti pronto per il conflitto, ma ero tranquillo come sicuro che non sarebbe successo.
Il tizio alto e muscoloso, che dal taglio di capelli sembrava uno della polizia militare, non perse la sua seconda occasione di farsi valere ed iniziò a corrergli incontro, assieme a lui partirono altri 2 uomini, il ragazzo ò istantaneamente dalla minaccia alla fuga. Lo acchiapparono poco oltre la fine della salita, io li raggiunsi camminando, nel frattempo si erano fermate anche 2 macchine sul posto, ed i proprietari erano scesi a “dare una mano” a suon di botte pesanti sul poveraccio che stava rannicchiato su se stesso a terra cercando di proteggersi. Quando lo vidi cercò di rialzarsi ed il tizio alto gli sparò un calcio in faccia che lo fece ricoricare all'istante; lo stavano massacrando in 5 o 6.
Istintivamente, come avevo poco prima corso dietro a lui per il furto, ora entrai in mezzo al cerchio di picchiatori dicendo con calma di smetterla e mi chinai a raccogliere il ragazzo aiutandolo ad alzarsi, era tutto pieno di sangue in faccia e singhiozzava una lamentela incomprensibile; il cerchio si sciolse ed ognuno di loro se ne andò via da qualche parte.
Aiutai il ragazzo a camminare per qualche metro, nella discesa che ava davanti casa di Selma. La madre di Dudù mi venne incontro ed iniziò a parlare con il ragazzo linciato, si conoscevano a quanto parve, io gli diedi 2 sincere parole di conforto e me ne andai.
Andai dritto fino in casa Selma, in casa avevano sentito il casino per strada ma non sapevano cosa fosse successo esattamente. Dopo brevi spiegazioni che diedi successe un'altra volta il finimondo in casa; per fortuna erano presenti in pochi.
Iniziarono a tormentarmi con la loro mentalità omertosa secondo la quale bisognava farsi sempre i fatti propri, altrimenti si rischiava di pagare con la propria pelle; chissà che non avessero ragione.
Io volevo uscire subito per non perdere l'autobus per la spiaggia, Selma ed il figlio Lucas invece mi trattenevano in casa dicendo che questi delinquenti non ragionavano e se il ladro sfortunato mi avesse rivisto non avrebbe collegato la mia faccia con quella di uno che lo aveva aiutato a non prendere ulteriori botte ma con uno dei tanti che lo aveva pestato a sangue, e capendo che abitavo là sarebbe venuto a vendicarsi prima o poi.
Sicuramente c'era una parte di paranoia in tutto quello, tuttavia era anche verissimo che nella città di Aracaju in quanto a violenza non si scherzava molto. Nel nostro quartiere non era raro che sentissimo spari di pistola vagare nell'aere.
Quando capitava di sentirli automaticamente, almeno io, ne tenevo il conto; poi nei giorni seguenti giravano le voci su cosa fosse successo.
A conferma di questa mentalità omertosa c'era il fatto che io avevo iniziato a correre dietro a ladro, e probabilmente se non lo avessi fatto nessuno si sarebbe cimentato nel far giustizia come accade nella maggior parte dei casi.
Avrebbe forse prevalso quella caratteristica presente di solito tra gruppi di persone che non si conoscono, dove ognuno vedendo qualcosa che non va pensa dentro di sé che ci sarà sicuramente uno tra gli altri presenti che si prenderà la responsabilità di intervenire; col risultato finale che vince la linea di minor resistenza e nessuno si smuove di un centimetro.
Invece può bastare a volte che uno parta come una scintilla e tutti dietro a razzo a bruciare vivo il malcapitato di turno e da come ebbi l'impressione, a sfogare la propria rabbia accumulata alla prima occasione utile.
Selma andò a vedere in casa della famiglia di Dudù cosa fosse successo, mentre io fui obbligato alla segregazione, al suo ritorno ci fece capire che il ragazzo era fuori di senno dalle tante botte prese e minacciava di ammazzare tutti quanti; alla fine io uscii ma con il vincolo di prendere l'onibus ad un altra fermata per evitare di essere visto.
Fui a mare a godermi la mia domenica, o almeno quello che restava della mattinata, visto che di solito lavoravo vendendo patatine anche di domenica pomeriggio, anzi soprattutto di domenica.
Ebbi leggermente la preoccupazione di rincontrare il ragazzo voglioso di vendetta nei giorni seguenti ma per fortuna non si fece più vivo e la famiglia di Dudù non capì che io ero coinvolto in quella storia.
La criminalità era normalissima ad Aracaju; non era paragonabile alle città più pericolose ma teneva banco comunque. Oltre agli spari ed i comunissimi rumori di sirene della polizia e gli elicotteri, notai che c'era una cosa che teneva “o povo brasileiro”(il popolo brasiliano) sempre in quel tipo di atmosfera giornaliera ed assetto mentale da “guerriglia urbana”.
Infatti oltre agli strumentalizzatissimi telegiornali, tra cui in primis, quello della soggettivamente peggiore rete tv al mondo, la GLOBO, c'era un canale con un programma che trasmetteva notizie di violenza non stop chiamato cidade alerta.
Le notizie erano presentate da un tizio con un accento tutto particolare, molto teatrale, che non lesinava insulti ai criminali; il tutto poi era simile a quei notiziari inutili che parlano di calcio e commentano ad esempio la partita appena terminata, rivedendo magari le azioni più importanti con il replay. Ecco! Questo programma era uguale e non esitava a mostrare più e più volte la scena del crimine con tanto di cadaveri in bella vista oppure un inseguimento con sparatorie in diretta e l'immancabile commentario volgare del presentatore.
Tutto ciò dal mio punto di vista non faceva altro che alimentare nella gente da un lato, la paura e l'omertà e dall'altro una inevitabile desensibilizzazione verso la violenza ed anzi una visione quasi di normalità della stessa.
I poliziotti della policia militar tra l'altro andavano vestiti in assetto realmente da guerra ed a me facevano sinceramente più paura loro che i malandri.
Un giorno mentre vendevo patatine fritte sentii arrivare lungo l'avenida un gran fracasso di sirene e clacson ed una volta che mi arono di fronte, vidi una mezza dozzina di macchine della polizia e varie moto, sopra due camionette c'erano dei ragazzi tutti piegati ed a testa bassa e con le mani dietro la schiena ed i poliziotti in piedi con i fucili a pompa pronti in mano.
Scene di questo tipo non erano una novità da quelle parti.
IL MIO LAVORO, na batatinha.
Tornando a parlare del mio punto vendita di patatine fritte, ormai fatto da mesi,
le vendite andavano a volte bene e a volte male, dipendeva dai giorni della settimana, dagli eventi della chiesa, dal meteo, dalle feste di quartiere e dipendeva anche se erano i giorni di fine mese prima che il popolo ricevesse il tanto sperato stipendio, ed in pochi in questo caso si concedevano una porzione di patatine fritte.
Divenni specializzato e molto rapido nei gesti in ogni cosa che facevo, sbucciavo le patate in tempo record e sprecando pochissima buccia, poi le tagliavo spingendo bruscamente la leva dell'attrezzo fatto apposta per farne uscire i bastoncini e scolavo energicamente l'olio rimestando le patate pronte nella cesta metallica, il tutto con dei gesti da professionista, fluidi nella loro esecuzione.
Nei giorni di festa o solitamente la domenica dopo messa, avevo il pienone di richieste ed allora realmente impostavo la velocità della mia macchina corporea al massimo, non stavo fermo un secondo ed ogni cosa che facevo abbisognava il suo tempo che conoscevo per abitudine, e riuscivo ad incastrare una operazione con l'altra; il tutto per non fare aspettare troppo i clienti ed evitare che se ne andassero spazientiti, cosa che nei primi periodi mi provocava molta afflizione.
C'era di buono che in questi momenti di ressa le patatine le servivo bollenti e croccanti mentre se rimanevano invendute e si raffreddavano diventavano molli. Ovviai poi a questo problema rifriggendole una seconda volta e spesso, quando non finivano direttamente nel mio stomaco, anche una terza.
Altro aspetto positivo del momento di ressa era che essendo le patatine appena fritte e quindi di consistenza croccante e piuttosto rigide, riuscivo a farcene stare di meno nel piattino, usando quindi meno materia prima e guadagnando di più.
Vi furono volte dove riuscii a guadagnare 100 reais in 2 ore di lavoro dove letteralmente mi muovevo come una macchina inarrestabile; mi accorsi ogni
tanto di qualcuno che restava affascinato da tutti quei miei movimenti calibrati e veloci, io stesso mi chiesi in varie occasioni, soprattutto per quanto riguarda sforzi fisici, dove fosse il limite della macchina umana.
Dentro di me anelavo ad avere tutti i giorni vendite come quella, non mi importava di stancarmi perchè mi pesavano molto di più le serate dove avo ore seduto senza vendere nulla osservando il traffico ed i anti e perdendomi nel flusso straziante dei miei pensieri.
Il mio umore infatti dipendeva molto da come stesse andando la vendita, visto che ero totalmente identificato in quel mio lavoro e mi sentivo inoltre responsabile di aiutare in casa. Se per fare la strada del ritorno, che tra l'altro era in parte in salita, il carrettino era più leggero sentivo anche il mio umore assecondare quella leggerezza e la stanchezza fisica non sembrava intaccarmi.
Arrivai finalmente un giorno a promettermi che il mio umore non sarebbe mai più stato influenzato da quante patatine avessi venduto ma che io sarei rimasto indifferente a ciò, fiducioso che non mi sarebbe mai mancato ciò di cui avevo bisogno per andare avanti; riuscii a ricordarmene spesso e per me fu bel o.
Non identificarsi interiormente in ciò che succede esteriormente direbbe qualcuno.
Mi ero posto l'obbiettivo che ce la avrei fatta ad aiutare la famiglia di Selma a sollevarsi dalla situazione di sopravvivenza in cui si trovavano da parecchio tempo e davvero ci mettevo tutto me stesso in buona parte delle occasioni. In certi giorni Selma arrivava persino ad incitarmi a non lavorare ed a riposarmi, ma come mi riposavo per 2 o 3 giorni di fila mi uscivano tutti dei dolori nel corpo di cui non comprendevo la natura e che risolvevo non dando al corpo il tempo necessario per ristrutturarsi, rimettendomi subito a lavorare e fare sforzi
fisici.
Le vendite peggiori furono durante dei giorni di pioggia, dove uscito di casa tutto speranzoso che smettesse, portandomi dietro un grosso ombrellone per evenienza, mi ritrovavo, magari giusto dopo aver finito di sistemare tutto quanto e messo a scaldare l'olio, così:
Impiedi ed immobile, riparato per quanto si poteva dall'ombrellone fino a che non smettesse.
Se c'era annesso poi il vento mi volavano via le cose dal carrino ed ero costretto a sistemare ogni oggetto in posizione strategica, l'acqua poi entrava del bacinellone d'olio bollente facendo degli scoppiettii che facevano schizzare olio bollente attorno, erano dolori.
Come già scritto mi ero oramai fatto la mia clientela di fiducia, ad alcuni preparavo una mega porzione da 5 reais che al posto di essere nel piattino la schiaffavo dentro un sacchettino di carta che assorbiva anche l'olio in eccesso.
Per quanto riguarda l'olio, che in realtà era una bagna di grasso di palma, con alcuni accorgimenti lo riuscivo a riutilizzare parecchio prima che diventasse scuro e puzzasse.
Avevo preso anche altri accorgimenti che mi permettevano di guadagnare qualcosa in più cercando di tagliare gli sprechi; ma nonostante ciò verso natale dovetti smettere di vendere perchè il prezzo del sacco di patate era triplicato toccando i 120 reias, quindi sarebbe significato lavorare per coprire le spese a mala pena e, chiaramente, non ne valeva la pena. Feci una pausa da quel lavoro
per qualche settimana, per poi tornare all'opera a gennaio ed avere una nuova idea per ampliare il mio business, ma ne parlerò più avanti.
Agli inizi di dicembre mi toccò tra l'altro farmi rinnovare di altri tre mesi il visto da turista, che era tra le tante attività l'unica cosa che non stavo proprio facendo, non fosse stato per una gita di mezza giornata organizzata ad un lago con la famiglia di Selma dove ci ubriacammo tutti quanti e ballai forrò e arrocha con svariate signore. Dopo vari giri di telefonate mi recai all'aereoporto di Aracaju dove venni mandato a comprare l'equivalente italiano delle marche da bollo e mi diedero un appuntamento per la settimana seguente. Mi fecero tutto quanto senza farmi troppe domande ed anzi ci fu della confusione con il calcolo dei giorni che avevo già usufruito durante quell'anno ed infine mi trovai un timbro sul aporto con maggior tempo a disposizione per rimanere in Brasile. Non poteva andar meglio.
Avendo ato quasi tutti i giorni svariate ore per strada vendendo patatine fritte avevo avuto modo di conoscere i bazzicanti di quella zona; oltre alla cricca della chiesa come arrivavo trovavo buona parte della volte un gruppo di pensionati che sedevano per terra o dove capitava, si spostavano poi per cedermi il mio spazio vendita salutandomi col nomignolo che mi avevano appioppato:
“O Batata”(il patata).
Rimanevano al mio fianco fino al tramonto e ci feci un po' amicizia mentre sbaraccavo il mio carrino per sistemare tutte le cose ed iniziare a friggere.
Nonostante la condizione fisica di alcuni di loro, parlavano di “buceta” (borsetta, ovvero vagina) a più non posso, altrimenti di politica o di calcio...
Comunque con loro ne uscì anche qualche conversazione interessante.
Oltre a loro fissi sul posto, c'erano poi quelli che erano fissi al bar al lato opposto dell'avenida, dove spesso mi facevo cambiare i soldi, ed anche i ragazzi impiegati di una lanchonete (chiosco che vende panini bibite ecc.) sempre nella piazzetta davanti la chiesa.
Tra i frequentatori del bar, ce n'erano 3 con cui mi relazionai con più frequenza, avevano in comune tra di loro il fatto che fossero quasi sempre sotto alcolici; cachaça oppure birra.
Quello che si faceva vivo più spesso era uno completamente sordo, che emetteva qualche suono primitivo simile al lamento di un cane ma comunicava per lo più, come è normale, con i gesti; incredibile da credere ma mi accorsi che ci capivamo abbastanza bene e ci furono volte che mi raccontò addirittura eventi successi e li afferrai a grandi linee, meravigliato profondamente da quel modo di comunicare, dove non esistono parole ma solo gesti che richiamano immagini mentali corrispondenti.
Si presentava per lo più chiedendomi a gratis qualche patatina e non riuscivo mai a dirgli di no, forse felice di aver occasione per esercitare quella nuova forma di comunicazione.
Ogni tanto poi arrivava assieme ad un altro uomo, anche egli bizzarro, del bar che si comprava 2 porzioni e ne dava una a lui, quest'uomo conosceva abbastanza bene il linguaggio dei segni ed era uno spettacolo per me vederli chiacchierare.
Anche il sordo era bizzarro, ogni volta che attraversava la strada faceva delle scenette di teatro, comprensibili per lo più solo a lui, alle macchine che lo lasciavano are con paura di “investire il matto”. Era bizzarro probabilmente perchè oltre ad essere sordo beveva, e quindi come un ubriaco che parla a vanvera, lui iniziava a muoversi a vanvera gesticolando frenetico cose al mondo esterno.
Poi c'era l'altro frequentatore assiduo del bar, che in tutti quei mesi vidi sobrio solo una volta, in cui tra l'altro ci rimasi male per come fosse serio e “sobrio” appunto.
Lo vidi tutte le altre volte arrivare con la sua andatura scoordinata tipica dell'ubriaco, chiedendomi patatine a scrocco oppure una porzione da 1 real, che gli davo dentro un bicchiere di plastica, prendendo le patate mezze bruciate ma non gli importava, anzi quelle gli piacevano di più.
Si devastava di alcool da mezzogiorno in poi, aveva i capelli totalmente bianchi nonostante fosse sulla 40ina e la pelle del volto arrossata a chiazze e si desquamava, capitava che gli fi credito, era uno dei pochi a cui lo facevo, ma mi pagò sempre.
L'altro tizio che non mi comprò mai nulla, ma ava sempre per scroccarmi qualche patatina, era esplicitamente un tossico, probabilmente dipendente dal fumare crack, o “fumar a pedra” come dicevano là.
Spesso lo vedevo are avanti e indietro spingendo un carrello della spesa che usava per trasportare oggetti metallici che raccattava in giro per poi rivenderli. Aveva un fisico fenomenale, che realmente avrebbero potuto farci una statua, le sue proporzioni erano insolite, era di altezza media con le spalle molto larghe e la vita stretta che le faceva sembrare ancor più larghe; le gambe erano arcuate,
con, chissa come mai, un polpaccio che era il doppio dell'altro e mai ebbi il coraggio di chiedergli cosa avesse fatto. Come si capiva facilmente visto che se la girava sempre a torso nudo era muscoloso ed asciutto ed emanava un misto tra agilità e forza; mi dispiaceva quasi di vederlo sprecato in quella vita.
Un personaggio con un fisico come quello avrebbe dovuto fare come minimo l'atleta di qualche disciplina, o potrebbe aver fatto il culturista.
Divenne una specie di mio idolo e lo ammiravo letteralmente facendo intimamente il tifo per lui mentre lo vedevo gironzolare per le strade con il carrello.
Mi intristii molto quando tornato a gennaio a vendere dopo le settimane di pausa, lo rividi dimagrito di brutto, restava sempre la sua forte e strana struttura fisica ma era ormai scheletrico, tutto meno il polpaccio che era rimasto sempre grosso stonando con tutto il resto. A furia di droghe si stava autodistruggendo.
Ma oltre a questi elementi conobbi anche delle ragazze, che concorrevano nella mia ricerca di una moglie per ottenere un visto permanente, con qualcuna mi scambiai anche il numero ma poi sul punto di conoscerle lasciavo perdere sentendo che non facevano per me; ci fu una che aveva anche lei un carretino ed insieme ad una amica vendevano tapioca recheada non lontano da me, la conobbi e ricordo che avevo principi di erezione soltanto a parlarci. Purtroppo era fidanzata.
Tentai di conoscere anche una parrucchiera di un negozio vicino al bar, ma anche lei era fidanzata con 1 figlio che si portava al lavoro.
Per non parlare di tante altre che mi promettevo che mi sarei “scopato”, avverando finalmente quel sogno di avere più donne contemporaneamente, ebbene si! Forse tutto quel gran da farsi a vendere patatine fritte e vivere in una periferia brasiliana poteva avere il giusto vantaggio per quell'insoddisfabile animale che mi portavo dentro.
Erano veramente tante le ragazzine che mi venivano dietro, ed arrivai a credere di “emanare” un qualche cosa, credo, che attirasse il gentil sesso e non solo.
Vi era infatti anche un travestito di quasi due metri, tacchi inclusi, che faceva il parrucchiere sempre nella piazzetta della chiesa e mi riempiva di complimenti.
Per non parlare di certi ragazzi omosessuali che si soffermavano lungo tempo per chiacchierare con me ed infine ero costretto ad essere scortese per mandarli via.
Compresi cosa significava per una ragazza subire le molestie verbali di un uomo che “ci prova” e dovetti ammettere che era realmente seccante; vedere qualcuno che ti parlava con ben chiaro il suo secondo fine in testa.
Ci fu un ragazzo, che come notai aveva anche un figlio, con cui chiacchieravo quando si fermava al mio punto, faceva il grafico di lavoro ed io gli avevo spiegato che sapevo creare scritte piuttosto bene; finché se ne venne fuori una sera chiedendomi se volevo andare al cinema con lui. Rimasi un po' attonito non capendo perché mai un ragazzo che mi conosceva a malapena mi avesse fatto quel tipo di invito, di solito erano cose che si chiedevano ad una ragazza pensai; gli domandai con calma se gli piero gli uomini e mi rispose affermativamente, al che gli dissi ridendo che non ci sarei andato al cinema con lui. Iniziò a scusarsi sinceramente, poi ogni volta che lo rivedevo mi veniva una lieve agonia omofoba, come se il tizio potesse contagiarmi la sua omosessualità.
A causa di questo evento e di altri arrivai ad avere la paranoia di essere omosessuale anche io, e che i gay lo sentissero a pelle e fosse quello il motivo per cui ci provavano con me.
Riuscii a liberarmi di questa paranoia solo grazie al fato che ne parlai con Selma, che al bisogno mi faceva da psicologa.
Tra l'altro dopo lunghe riflessioni avevo capito che per “scopare”, per il motivo fine a se stesso per cui lo si fa in apparenza ovvero sentire piacere, poco cambiava se lo si faceva con un uomo, una donna o persino degli animali, l'importante era ficcare il pisello dentro ad un buco e fare avanti e indietro.
La natura deve perpetuarsi, ed ha trovato un meccanismo intelligente per spingere l'uomo a farlo, la sensazione di godimento.
Ma non era questo, il godimento, quello che volevo per me, od almeno sentivo lievemente e speravo che ci dovesse essere dell'altro.
Quando arrivava il momento di approfondire la conoscenza di una ragazza, lasciavo sempre perdere oppure succedeva qualcosa di storto, me la raccontavo da solo dicendomi che se avevo tanta scelta tanto valeva scegliere bene. In fondo mi sarei “svuotato le palle”, come si suol dire, usando Selma per lo scopo, con il vantaggio che siccome le era stato asportato l'utero dopo l'ultimo parto non poteva rimanere incinta e quindi potevo venirle dentro a volontà.
Sotto sotto in realtà, sentivo che quella situazione, che da tempo avevo sperato
mi succedesse, ovvero dove attraevo l'interesse comune ed avevo l'opportunità di crogiolarmi nei piaceri della carne, si era infine avverata e mi accorgevo di non saperla gestire e che in realtà non era quello che volevo.
Avevo una sensazione, sottile direi, a livello mio profondo, che mi avvisava che se mi fossi lasciato andare a scopare a destra ed a manca, mi sarei perso in un certo senso, avrei perso me stesso.
Arrivò l'occasione anche per darmi conferma di questa sensazione, ed arrivò precisa ed a capodanno inoltre, la strage degli innocenti!
Mi trovai solo in casa con Selma e Daiane la madre di Miguel, che già in un occasione mi ero forzato di baciare per voler assurdamente fare ingelosire Selma e tenerla maggiormente sotto il mio controllo.
Daiane era bassina con degli occhi sul verde, ma strabica, il naso grosso e le labbra anche ed aveva anche la scogliosi, un lieve ritardo mentale e lentezza nel vivere. Era un po' tutta storta e le piacevo parecchio, provai a baciarla una sera ma non sentii nulla, come se stessi baciando un muro, fù orribile.
Tra l'altro prima di baciare lei quella sera, era da un paio d'ore che, messo piede per strada, mi convinsi con tutto me stesso che mi sarei baciato una quel giorno. Incredibile quanto possa fare il potere della convinzione, o forse chissà, in certe occasioni si riesce a prevedere un inevitabile futuro.
Tornando a capodanno, dicevo che ero solo con loro due, e non so bene come, probabilmente il tutto favorito dall'alcool, ma Selma lanciò la sfida chiedendo a Daiane se lei avrebbe “scopato” con me, la sua risposta dopo qualche risolino fu
affermativa, ed io per virilità sentii che non potevo rispondere diversamente.
Guardai Selma diritto negli occhi, come a dirle:
“Perchè mi fai questo?”, mi accorsi allora che avevo iniziato a tenerci parecchio a lei e soffrii pesantemente al cuore per quello che stava succedendo.
Si creò una situazione assurda, dove io insistevo che loro due si baciassero e toccassero tra di loro, cosa che rifiutarono disgustate. Chiedevo quello perchè avevo difficoltà ad eccitarmi visto che era una cosa di cui io non avevo avuto minimamente voglia, ma avevo accettato per non venir meno alla stupida mentalità machista.
Un occasione come questa di trombarti 2 donne insieme, non puoi mica perdertela giusto??!?!
Alla fine dopo chissà quanto tempo che Daiane mi mungeva il pisello con la bocca, e Selma che mi schiacciava il perineo (punto magico secondo lei) con un piede mi rilassai da tutte quelle mie tensioni e mi abbandonai al momento, il mio pene ora riempiva la bocca di Daiane, la feci sdraiare sul letto al lato di Selma. Iniziai a penetrare Selma mentre toccavo la vagina di Daiane con la mano.
Durò un po' tutto quello, Daiane tuttavia non si voleva fare penetrare e diceva di continuare con Selma, che era lei che a me piaceva, io oramai dominato dal mio lato animale cercavo di convincerla mentre pompavo ritmicamente Selma di farsi penetrare anche lei.
Ci fu un istante in cui presi coscienza di cosa stava succedendo davanti ai miei occhi, vidi l'espressione di Selma ben lontana dal sentir piacere o dal fingere e Daiane totalmente neutra... Avevo altri due esseri viventi di fronte a me da cui mi ero separato come chiuso nella mia bolla del piacere, sentii pianamente lo squallore di quella situazione forzata.
Volli terminare il tutto, arrivando dentro Selma, poi loro andarono in un'altra stanza ed io rimasi un breve tempo seduto a riflettere, nonostante la calma dell'orgasmo mi sentivo scosso per l'accaduto.
Era già la seconda volta che mi succedeva quel tipo di esperienza e mi ero reso conto pienamente che non era giusto utilizzare così delle persone per il proprio piacere egoistico.
Feci giusto in tempo a rivestirmi che arrivò gente in casa. Ci fu un po' di casino ed abbondante abbeveraggio, mi trovai dopo del tempo nella camera da letto di Selma a luci spente, con Daiane ed il figlio Miguel che dormiva.
Ci palpammo un po' sdraiati nel letto ed interrotti da gente che entrava a sprazzi.
Se quella presa di coscienza che avevo avuto in precedenza galleggiava ancora dentro di me, quando mi accorsi che la vagina di Daiane puzzava, di pesce avariato mi parve, mi venne una punta di disgusto e si smorzò tutta la mia restante voglia animale di “scopare”.
Quante occasioni perse, quanti orgasmi non avuti, eppure il senso di quelle mancanze oltre la brutta cosa a volte di non sentirsi all'altezza, di non sentirsi “uomo”, era sempre di fondo la sensazione ineludibile del rimorso di coscienza
che la ragazza in questione la stavo semplicemente usando per assecondare il mio istinto animale. Quel tipo di sensazione mi perseguitava come una fiammellina dentro che non vuole saperne di spegnersi ogni qual volta si presentavano situazioni simili.
Avrei dovuto incontrare l'amore, non il sesso.
Solo quello mi avrebbe salvato, altrimenti la fiammella prima o poi il lato animale sarebbe riuscito a spegnerla definitivamente, ed allora mi sarei abbandonato al piacere dei sensi, senza combinare più nulla di utile in questa vita per me stesso e per l'umanità se non riprodurmi per il proseguimento della specie.
Con Daiane ci fu un'altra occasione, dove la accompagnai da casa di Selma verso casa sua che stava costruendo un suo zio un mattone alla volta con molta calma.
Non mi invitò dentro casa, probabilmente vergognandosi un po' del posto in cui viveva. Ma non c'era bisogno di entrare in casa per farsene un idea, il posto era a metà strada tra casa Selma ed il bairro japàozinho, dalla sommità di una collina si scendeva esclusivamente a piedi un pezzo molto ripido che arrivava in una piccola conca tra tre colline, dove avevano costruito abusivamente; quando pioveva l'acqua sicuramente si sarebbe riversata la nel mezzo.
Era veramente ai limiti della povertà e mi diede in futuro tristezza pensando a Miguel crescere in quel, soprattutto dopo averlo visto martoriato dalle zanzare.
Rimanemmo seduti per terra ad accarezzarci e darci dei bacetti a cui lei era un po' restia, quando mi accorsi che stavo facendo tutta quella tenerezza con l'unico
intento di scoparmela, lasciai perdere tutto quanto, la salutai e me ne andai sentendo chiaramente che non me ne fregava assolutamente nulla di lei, mi sentii strano.
Da quel giorno in poi, credo, fino alla mia partenza da Aracaju smisi di cercare assiduamente moglie e ragazze per far sesso, ricerca che comunque fu infruttuosa in quel periodo.
Ci fu una sera dove venne una ragazza, Raquel, che a me tra l'altro piaceva un po', sia perchè morena scura sia per la voce calda e sensuale, tornava dalla palestra dove si era da poco iscritta con l'intenzione di tonificare il culo; ad un certo punto cominciò a sentirsi male.
In Brasile c'era pieno di ragazzi e ragazze ce si pompavano in palestra ed anche grazie a qualche “aiutino”, i maschi le braccia e le femmine il di dietro, che secondo me era fantastico nella sua sproporzionatezza.
La facemmo uscire fuori casa sul retro, nel quintal, rimasi un momento da solo con lei e non so quale strana idea mi ò per la testa ma visto che mi sembrava in panico le dissi di darmi retta e respirare piano come stavo facendo io. D'un tratto s'afflosciò molle e riuscii a prenderla prima che battesse a terra la testa; controllai subito il cuore ed il respiro perchè ebbi paura che fosse morta fulminata. Per fortuna era solo svenuta, ma non eravamo tranquilli, sempre per fortuna arrivò giusto in quel momento il “buon” Genilson il quale si era comprato A VISTA!(cosa rarissima) una berlina e già girava pieno di sé per le vie di Aracaju, mostrando tutto il suo potere monetario che si andava accrescendo con il suo nuovo veicolo in distinguersi tra le utilitarie del popolino.
Senza troppi giri di parole decidemmo di portarla all'ospedale, visto che non si svegliava manco a buttarle acqua fredda in faccia, presi Raquel in braccio, che
sicuramente pesava più di un sacco di patate e feci mente locale nel momento in cui la piazzavo alla bell'è meglio dentro la macchina che le corse con i sacchi a qualcosa almeno erano servite.
Genilson guidò come un matto tagliando tra il saliscendi delle stradine secondarie che si inerpicavano nei quartieri vicino al nostro e per fortuna arrivammo tutti quanti vivi all'ospedale. Una volta attivati là Raquel iniziò a riprendere conoscenza. Nel frattempo la avevamo portata dentro al pronto soccorso; c'era un salone d'attesa con parecchie persone, parlai con tutta la foga di questo mondo con l'attendente all'ingresso, la quale mi rispose senza fare una piega che non c'erano medici liberi. Io rimasi scandalizzato per quel modo di essere trattati in un pronto soccorso. Mi aspettavo per lo meno un certo tipo di accoglienza, che avrebbero preso la ragazza e piazzata su di un lettino con delle flebo o qualcosa del genere.
Per fortuna lei sembrò riprendersi e stare abbastanza bene, quindi ce ne andammo.
Come lei venne a sapere che la avevo aiutata mi fu molto riconoscente, come lo venne a sapere suo marito divenne geloso più del solito.
Da quando mi ero comprato il carrino delle patatine aspettavo impaziente la prima occasione di andare ad uno show con Zè Zè, sicuro che avrei fatto centro e venduto alla grande.
L'occasione non tardò ad arrivare, nei primi di novembre.
C'era uno show sempre in quel posto dove già ero stato assieme a Zè, lo
shopping riomar il grosso centro commerciale.
Era un venerdì giorno che comunque avrebbe dovuto essere normalmente proficuo al mio punto vendita solito davanti alla chiesa, ma non potevo perdermi lo show con le sue moltitudini di genti.
Sbucciai patate a più non posso fin dal primo pomeriggio, andando di fretta perchè volevo arrivare allo show presto per scegliere il posto più vicino all'ingresso e vendere meglio.
Riempii un secchio ed una cassa di polisterolo di patate ed acqua ghiacciata e mi portai anche un bel mucchio di patate non sbucciate. Comprai varie casse di lattine di bevande e birra, che stipai nel compartimento frontale fatto apposta del carrino. Avevo inoltre doppia carica di salse, ketchup, mostarda e maionese; ero pieno di piattini e stuzzicadenti e doppia carica di sale.
Considerando che la bombola del gas, necessario per fare la fiamma e friggere, era piena e tutto il resto del carico, il carrettino era pesante come non mai; ma niente in paragone con la “carrozza” di Zè Zè che come sempre si caricava all'inverosimile di ogni genere possibilmente vendibile.
Lo raggiunsi appena fui pronto con il mio carrino, ma lui con la sua calma tipica brasileira, ed ancor più tipica sua, stava ancora sistemando tutte le cose.
Io che ero impaziente di arrivare allo show il prima possibile mi avviai da solo dicendogli che lo avrei aspettato al CEASA dove lui ero solito comprare i cocchi ed il ghiaccio; era una mia strategia per mettergli fretta.
Faceva caldissimo, non c'era l'ombra di una nuvola nel cielo azzurro evidenziatore; finalmente ero là, presente in quel momento mentre tenendo sollevati i due manubri ben più pesanti del solito spingendo il mio mezzo per le strade, sorridevo a tratti sebbene lo sforzo.
Con il carico più pesante si notava maggiormente che c'era un difetto di costruzione nel mezzo ed un manubrio era lievemente più in basso dell'altro scaricandoci sopra più peso affaticandomi il braccio sinistro. In parte il problema si ovviava da solo con la pendenza verso destra della strada, mi chiesi se magari non fosse stato costruito volutamente così, tenendo conto di quel fattore appunto.
Il peso si faceva sentire e contrarre tutto il tempo le braccia era stancante, trovai quindi un sistema, alzando i manubri verso l'alto, con una mossa simile al sollevamento olimpico, li portavo fino a poco oltre l'altezza delle spalle trovando un punto di equilibrio dove il peso scaricava quasi tutto sui due pneumatici frontali. Se per caso avessi sollevato un po' di più i manubri il carrino si sarebbe ribaltato in avanti, il che mi obbligava a prestare attenzione al cammino in caso, non difficile, vi fossero delle buche.
Arrivai all'altezza del CEASA ed aspettai Zè in un punto tenendo il carrino in ombra; ò più di un ora prima di vederlo apparire da lontano mentre sfidava il traffico di una grossa rotonda aspettando il momento propizio per vincere l'inerzia e lanciarsi in avanti senza essere preso in pieno da qualche automobile.
Mi raggiunse infine ed parcheggiammo i nostri mezzi da combattimento all'ingresso, Zè si comprò una quantità non indifferente di cocchi che legò sul carro, e del ghiaccio del quale me ne diede un poco per tenere al fresco le mie patate sbucciate e metterne dentro nello scompartimento lattine.
Ripartimmo e fu un avventura fare i km che ci separavano dallo show, ma questa volta non mi annoiavo perchè anche io ero sotto sforzo impegnato a spingere il carrino.
Era una scena singolare, Zè Carlos, alto, trainando la sua carrozza piena a scoppiare di roba ed io più piccolo spingendo il mio carrettino subito dietro di lui.
Una sorta di tenerezza percepivo tentando di osservare quella scena dall'esterno, Zè ora aveva un discepolo che lo seguiva fedele. Zè Zè amante, finchè morte non li separi, della solitudine sembrava sotto sotto felice di avere un compagno di avventure, sorridendomi le volte che per caso ci guardammo.
Quando arrivammo dopo chissà quanto al ponte giusto prima del centro commerciale, io andai avanti sulla salita, non senza sforzo, lasciando il mio carrino in cima per poi tornare indietro a dare una mano a Zè a far avanzare il suo.
Era già scuro da un pezzo ed arrivati alla porta dello show. che era dal lato opposto rispetto al precedente, e rispetto al quale non c'erano tuttavia molti venditori, nonostante lo spazio disponibile ci venne incontro un addetto che ci disse quale fosse la zona dove avremmo avuto diritto a piazzarci. E così dovendo rispettare le disposizioni restammo comunque piuttosto distanti dall'entrata.
Iniziammo i preparativi sbaraccando tutto quanto, piano piano comparvero anche altri venditori e solo verso le 11 comparirono le prime persone, notai fin d'allora che il pubblico era per lo più composto da famiglie con i bambini o nostalgici del cantante in questione. Un pubblico molto diverso da quello della volta precedente in cui erano tutti ragazzi vogliosi di ubriacarsi.
La notte e la vendita furono nerissime sia per me che per Zè Carlos, assistetti impotente il continuo aggio di persone per niente interessate a comprare da mangiare.
Successe poi che poco prima dell'inizio dello show, secondo il a parola dei venditori uno accanto all'altro fino ad arrivare a noi che stavamo verso la fine, che era arrivato un camion di una marca rinomata di birra e si era messo a distribuire lattine gratis, danneggiando non poco noi venditori.
Riuscimmo a vendere le prime cose solo ate le 3 del mattino quando le prime persone se ne andavano via. Le vendite non furono senza sforzo, infatti io non accettavo di essere venuto fino a li per non vender niente e ci misi del mio gridando per promuovere la mia merce, ero l'unico a farlo e potevo sembrare un po' matto, ma non mi interessava.
Le patatine a furia di stare sbucciate si erano scurite ed una volta fritte rimanevano molli e puzzavano, ne assaggiai qualcuna e facevano veramente schifo ma le vendetti ugualmente, fregandomene se qualcuno avesse avuto da ridire, mascherando il sapore con tanto sale e le salse. Alla faccia dell'intossicazione alimentare.
Giravano là fuori dallo show in molti di quelli che vendevano i biglietti che continuavano gridando velocemente:
“Pista ou camarote” in base a dove era il punto da dove guardare il concerto, se dalla pista ovvero in piedi davanti al palco, oppure il camarote, una piattaforma privilegiata.
Ma anche a loro la vendita non andò per niente bene.
Tra di loro c'era un malandro che si era comprato dei biglietti e cercava di rivenderli, zoppicava ed aveva un braccio sottosviluppato con la mano ritorta, si fece dare con la prepotenza una birra dalla venditrice al mio lato, cosa che mi irritò, poi ò da me pretendendo che gli dessi qualcosa, rimasi immobile rispondendogli: “Nào”. Semplicemente iniziò a dire che lui era un tal dei tali del quartiere della coroa do meio e che li tutti lo conoscevano. Era mezzo schizzato ed alla fine se ne andò visto che lo fissavo e basta senza aprir bocca. Zè quando il tizio gli chiese qualcosa si girò proprio di spalle innervosito ed imprecando tra sé e sé, si portava dietro una spranga sempre, che teneva nascosta tra le assi del suo carro in caso gli fosse servita a risolvere casi del genere.
Il poveraccio non riuscì mai a vendere i suoi biglietti, visto che le persone lo scansavano a causa del suo aspetto fisico storpiato.
Riuscii dopo tante fatiche a guadagnare 50 reais, considerando che vendevo le porzioni ad una cifra quasi doppia del mio prezzo abituale, cifra che non valle per niente il gioco; Zè si rifece un pochino, anche lui verso la fine.
Nel momento in cui tutti uscivano vidi da lontano arrivare Genilson, il fratello di Selma, con la sua inconfondibile andatura boriosa con la pancia a precederlo e le braccia che dondolavano verso l'esterno, quasi a voler occupare più spazio mentre camminava.
Mi sentii nervoso istantaneamente sapendo già che si sarebbe messo a sfottermi, poi una volta saputo che dopo essermela fatta a spinta fino a li non avevo venduto niente ci avrebbe dato dentro e non sarei riuscito a sopportarlo; prima
che arrivasse mi allontanai di parecchio con vergogna, facendo finta assurdamente di andare a pisciare. Lo vidi che scambiò qualche parola con Zè e poi se ne andò assieme a 2 ragazze, forse tra le tante che rimorchiava nonostante fosse sposato, probabilmente a causa del suo potere economico .
“A chiesto di me?” Domandai a Zè una volta tornato, sempre per quella triste tendenza di importarsi dell'opinione altrui.
Zè capendo il mio stato d'animo mi disse che manco a lui piaceva molto Genilson, il quale tra l'altro una volta lo aveva minacciato di dargli una coltellata con un machete in mano per un litigio tra ragazzini.
Zè era uno che come capii più avanti covava tutte le sue rabbie in silenzio, ma se si arrabbiava secondo me sarebbe stato capace di uccidere.
Aspettammo l'alba per andarcene via, nonostante il posto si fosse svuotato da un pezzo, per non incappare in qualche ladro mattutino.
Approfittammo così del tempo da aspettare per cattare lattine, oramai non ci vedevo niente di strano in farlo e corricchiavo da una parte all'altra riempiendo un sacco di plastica, in competizione con i bambini ed i catador di professione, i quali magri come un chiodo agivano con una rapidità estrema.
Infine dopo riaver organizzato le cose sui nostri mezzi ripartimmo; Zè come previsto si fermava spesso a raccogliere ulteriori latte, io non ne potevo più, dopo la mezzanotte ero riuscito a dormire anche un oretta con la testa appoggiata vicino alla friggitrice, spenta visto che non stavo vendendo nulla, ma mi sentivo sconfitto dentro avendo guadagnato alla fine di tutto quel casino una cifra che se
fossi rimasto al mio punto di vendita solito avrei probabilmente anche superato, senza contare le tante patate già sbucciate che avrei dovuto buttare via, ed ora mi toccava arrivare anche a casa.
Dopo aver aiutato Zè a salire il suo carro per il ponte, ci salutammo la sopra ed io mi avviai verso casa, arrivandoci dopo quasi due ore. Lui invece, come poi venni a sapere, non soddisfatto delle sue vendite fece tutta la strada di ritorno verso il centro cattando lattine, per poi arrivare al suo punto vendita abituale e rimanervi fino alla sera a vendere...Era una macchina da guerra:
Come la volta scorsa (e chissà quante altre volte prima e quante ancora finché avrà fiato in corpo) sveglio sin da presto aveva ato la mattinata girando in bicicletta per comprare ancora altre casse di lattine di birra ed altre merci, poi si era dovuto cucinare per il pranzo, la sera ed il giorno seguente. Preparato il suo carro, cosa che gli prendeva un paio d'ore di tempo, eravamo arrivati allo show dopo i faticosi km trainando su due ruote un peso da 5-600 kg calzando havaianas sull'asfalto bollente. ata tutta la notte sveglio per vendere poco o niente.
Poteva capitare in certi momenti che Zè avesse l'impressione di star vendendo molto vista una discreta affluenza, il punto era che magari compravano solo qualche sigaretta sfusa o delle caramelle, e fare il proprio guadagno su quelle cifre era un'impresa; ma Zè non mancava mai di portarsi ogni tipo di merce, anche i 20 centesimi moltiplicati per un tot di clienti facevano la loro differenza.
La mattina, dopo aver risistemato faticosamente tutto quanto secondo un ordine esatto, per farci capare tutto quanto sulla sua carrozza, aveva ato ore cattando lattine e plastica dirigendosi nel frattempo (sempre trainando il suo mezzo pesante) verso il centro, per poi rimanervi tutto il giorno al caldo appiccicoso sperando ancora di vendere il più possibile, per poi ritrainare ancora il tutto per altri km fino a casa sua approfittando sempre del percorso per cattare oggetti riciclabili che non sfuggivano mai ai suoi occhi. Arrivato a casa
sbaraccare tutto il carro dalla merce invenduta (non poca) ed infine coricarsi a letto dopo forse 40 ore di veglia.
40 ore sveglio ate in una maniera direi unica nel suo genere, sebbene tutti lo credessero mezzo matto, ed in parte lo era, io ne stimavo profondamente la sua forza, la sua tenacia e la sua stessa follia.
La mia via del ritorno fu una sofferenza unica, avevo fame di tutta la notte ata sveglio e senza cibo, e spingere il carrino ancora praticamente pieno, visto che non avevo venduto secondo le aspettative, sembrava renderlo ancora più pesante.
Avanzavo a o svelto, zitto, e con espressione afflitta spingendo il mio insuccesso, il mio corpo dolorava ancora dal tragitto di andata, ma non potevo sottrarmi al viaggio di ritorno; alzavo lo sguardo di tanto intanto dalla strada e dai miei tormenti mentali, vedendo i punti di riferimento avvicinarsi troppo lentamente in proporzione alla voglia che avevo di buttarmi a letto e dormire.
Raggiunsi il centro e mi fermai un attimo a bere da una fontanella, mi sentivo come il formicolio nelle estremità del corpo, da li poi avanzai subito capendo che se mi fossi fermato ancora non avrei più trovato le forze per riprendere. Finalmente un segnale amico mi strappò un sorriso, la chiesa del Santo Antonio che si staccava bianca sulla collina alla fine dell'avenida Joào ribeiro, più di un km tutto dritto; poi la salita della chiesa e forse un altro chilometro fino a casa di Selma.
Arrivai fino al famoso semaforo ADRENALINA dove Mateus si era schiantato in bicicletta finendo all'ospedale e che anche io avevo preso a sfidare molto spesso; potevo scegliere di andare dritto prendendo la ripida salita del Santo Antonio, oppure fare tutto un giro verso sinistra per poi are dal quartiere 18
do forte e tornare a casa dal percorso che abitudinalmente facevo nel vai e vieni dal mio punto vendita, ma ciò sarebbe significato allungare di parecchio.
Presi la rincorsa e come il semaforo si fece verde iniziai ad avanzare praticamente correndo a tutta dritta per inerpicarmi sulla salita, sempre più lentamente poi a causa della pendenza che andava crescendo; mi ritrovai in breve ad avanzare guadagnando un o alla volta con la testa bassa ed il corpo quasi parallelo al suolo, ringhiavo dallo sforzo. Quasi alla fine della salita non potendo vedere davanti a me, presi una buca piuttosto profonda con una ruota e rimasi bloccato, per fortuna un ragazzo che ava di là mi aiutò ad uscirne, poi volle aiutarmi a spingere il carrino ma gli dissi di lasciarmi stare che a me piaceva fare da solo, mi guardò un po' perplesso e se ne andò. Arrivato in cima, per miracolo si direbbe, visto che quel tipo di sforzo era difficile da affrontare in condizioni normali, ed io avevo molta stanchezza addosso, non volli fermarmi a recuperare il fiato e tenendo il carrino in equilibrio, cercando il punto di minor sforzo, continuai avanzando.
Nonostante fossi realmente distrutto mi imposi di riabbassare i manubri per sentire il peso sulle braccia, della serie quello che non ti uccide ti fortifica. Che era da tempo diventato il mio motto intimo.
Arrivai a casa e salita la piccola rampetta finalmente mi sbarazzai del carrettino appoggiandolo subito dopo l'entrata.
Trovai Diego che in quelle settimane viveva da noi e non avevamo ancora litigato, era rimasto sveglio tutta la notte ed ora stava davanti al computer, la sua faccia era di uno fuori completamente, al vedermi scoppiò a ridere raccontandomi che c'era stata una festa piena di gatinhas(gattine, belle ragazze) e mel'ero persa.
Nonostante lui fosse già bello che conciato, io volli darci di mio ed andammo nel quintal a fumarci una canna d'erba con la quale a mala pena osai qualche tiro pesante, stanco come ero, Diego invece fumava sempre con la sua tecnica di soffocamento, trattenendo il fumo sino ad avere gli occhi sbarrati, le vene del collo in fuori e l'immancabile vena verticale sulla fronte pulsante. A causa della festa appena ata c'era casino ovunque e bicchieri e bottiglie vuote sparsi in giro.
Rimanemmo un'ora a parlare, Diego ad un certo punto stava parlando male di una parente, quando la stessa comparse e si fece finta di niente; incredibile la doppia faccia della gente, probabilmente anche di lei stessa, la quale non aveva potuto non sentirci ed anzi forse avendoci sentito ci teneva ora a mostrarsi in un certo modo per far si che rivalutassimo la nostra soggettiva opinione su di lei, od almeno così mi parve.
Poco dopo andai a collassare da qualche parte per svegliarmi solo nel pomeriggio.
La sera andai a trovare Zè che era arrivato da poco e stava sbaraccando la sua mercadoria, aveva una faccia devastata e si muoveva ancor più lentamente di come era solito fare; era stanco come mai ne vidi qualcuno in vita mia che si avvicinasse a quel livello. Tuttavia, anche se la sua vendita al pomeriggio non era stata buona, aveva ancora lo spirito giusto per sorridere, probabilmente felice di essere tornato alla sua tana.
Alla mia domanda come fosse andata la vendita al pomeriggio potei facilmente dedurre non fosse stata buona, poichè mi aveva enunciato tutte le cose vendute.
Aveva infatti una ottima memoria per quanto riguardava la mercanzia, ricordava il numero pressochè esatto delle cose vendute, cocchi, bottigliette d'acqua, lattina
grande o piccola di birra, quante sigarette di tale marca o dell'altra. Era un fenomeno.
Inizialmente con fare psicopatico aveva appreso ad appuntare con la sua stentata calligrafia ogni cosa venduta su di un taccuino, per poi fare una volta a casa il bilancio della sua situazione economica, che nonostante gli sforzi forsennati di una vita non accennava a migliorare di una virgola.
Lo salutai infine lasciandolo alle sue cose. Con il tempo e dopo riflessioni sui processi che avvenivano anche in me stesso, come in chiunque, e dopo aver letto qualcosa a proposito; arrivai a comprendere che Zè non avendo una fidanzata, avendo smesso da anni di andare a prostitute perchè la cosa influiva negativamente sul suo bilancio economico e praticamente non masturbandosi credo mai, si ritrovava con un mare d'energia sessuale a disposizione.
Tutta quest'energia per lui era inevitabile di non spenderla in sforzi fisici ed imprese ai confini della resistenza fisica e dell'umano; sentiva secondo me l'esigenza istintiva di fare qualcosa per dissiparla.
A Zè Zè sarebbe potuta capitare un'apparente fortuna, come vincere al Caju cap che giocava ogni settimana, ma, secondo le mie riflessioni, una volta arrivato ad una situazione economica migliore, che gli avrebbe permesso di riposarsi, non sarebbe stato felice e sarebbe caduto nel alcolismo fino a farsi fuori probabilmente.
Quelle sue interminabili fatiche sotto sotto gli piacevano, sorridevano i suoi occhi dopo una sessione di traino pesante mentre con la cannottiera tutta sudata e riprendendo fiato si riposava un momento appoggiato al suo carro fumandosi una sigaretta o dell'erba... Tutto quello lo faceva sentire vivo.
Tutto sommato la sua vita, nonostante ogni tanto si lamentasse per via dei soldi, gli andava bene così com'era, e per quanto mi riguardava lo ammiravo parecchio nel suo totale disinteresse per le cose del mondo, solamente concentrato a vivere la sua giornata con quella sua calma.
Un'altra sua lamentela, che durò dei mesi ,cominciò a metà novembre quando si fece tirare i pochi denti che gli rimanevano e si mise una dentiera, tornando a parlare più decentemente e potendo finalmente masticare il cibo; non fosse che la sua gengiva non smetteva di essere infiammata causandogli dolore mentre mangiava.
Nel bel mezzo di un discorso era frequente che interrompesse la persona che gli parlava, che ovviamente lui non stava seguendo, e si mettesse ad aprire la bocca indicando il punto dove gli faceva male, chiedendo all'interlocutore se la gengiva fosse arrossata.
Non volli mai più ripetere quell'esperienza di vendita allo show, non solo perchè mi era andata male, ma anche se fosse andata bene non mi sarebbe mai più ato “per l'anticamera del cervello” di rifarmi tutti quei chilometri spingendo il carrino.
La volta seguente che fui allo show con Zè Zè, mi feci più furbo e coincidenza mi andò anche bene.
Avevo ato sabato pomeriggio e sera al mio punto vendita vendendo patatine fritte, avevo venduto parecchio lavorando in modalità macchinario a controllo numerico per buona parte del tempo, guadagnando più di 70 reais; tornato a casa mi aspettava un cassone di plastica termica riempito di lattine che avevo
comprato e ghiaccio. Mangiai di fretta qualche tapioca recheada, poi legai il cassone al portapacchi della bici di Zè che mi aveva prestato e mi fiondai a cannone giù per la discesa del Santo Antonio fino ad arrivare allo shopping Riomar. Zè si era piazzato tra i venditori più lontano dall'entrata, forse arrivato tardi come sempre; gli altri venditori venivano in macchina trasportando i loro carretti a gruppi su dei rimorchi dividendo tra loro la spesa.
Balzai giù dalla bici tutto sudato ed iperattivo, in canottiera con i muscoli delle spalle ben in risalto, mi sentivo fortissimo, avrei potuto muovere il mondo di tanta energia che avevo in corpo. Mi aspettava il eggino che Zè si era portato dietro per farmi il favore. Ci piazzai sopra il cassone ed iniziai a girare tra le file delle genti in procinto di entrare nello show. Mi ero preparato in quei giorni anche delle fasce con scritte colorate in stile graffiti per attirare l'attenzione, ma la cosa che fece la differenza, e fu la mia riuscita di quella notte, fu che ero l'unico a riuscire agilmente a vendere birra proprio davanti all'ingresso e mi piazzavo in piedi su dei i del eggino per essere visibile da più lontano lanciando inoltre ripetuti schiamazzi.
Svuotavo velocemente il cassone a causa degli impazienti ed assetati che aspettavano in lunghe file il loro momento di entrare ed a maggior vantaggio la mia birra costava meno che quanto la avrebbero pagata una volta dentro lo show. Concessi sconti se ne compravano in quantità ed iniziai quindi un avanti e indietro vendendo anche birre per Zè Carlos quando le mie stavano per finire.
Ci fu un ragazzo che presa una birra dal cassone, iniziò a chiacchierare, aveva vissuto in Italia a Firenze e se ne sentiva uno strano accento tosco-brasiliano, ci scambiammo anche il numero perchè diceva che avrebbe aperto un ristorante e gli serviva qualcuno per lavorare. Mi resi conto che tra tante chiacchiere da bevuto che io ascoltavo non vedendo l'ora di sparire, non mi aveva pagato il paio di birre che s'era bevuto, ma non mi sfiorò minimamente di andarlo a cercare, la mia giornata era andata alla grande e non avrei sopportato di parlare in Italiano con quello neanche un secondo in più.
Avevo sviluppato durante i miei viaggi una sorta di italianofobia, che mi faceva evitare, al contrario di come farebbero molti connazionali felici di ritrovarsi in un paese estero, il contatto con qualsiasi italiofono. Era una specie di paranoia, di essere contagiato dalla mentalità da italiano medio dalla quale me ne scappavo da tempo, ma anche volendo essere sinceri una paura di essere giudicato dal connazionale che sempre mi trovava strano.
Se in Italia da bambino ero tacciato di terrone o immigrato, quando andavo in vacanza al sud ero tacciato di milanese. In Brasile di argentino o portoghese, in Argentina di brasiliano; in Australia di sud Americano....Un senza terra insomma, ed in realtà non avevo mai capito neanche io bene da dove venissi, e sto cercando ancora adesso di capirlo.
In poco più di un ora, terminai il mio lavoro; denaro in tasca e cassone vuoto tornai da Zè, gli lasciai il eggino ed i soldi delle lattine che gli avevo venduto secondo il prezzo che lui mi aveva detto, prezzo che in realtà non potevo rispettare per non perdere clienti, e fui in sella alla sua bici dritto a pedalata costante verso casa; ando dal centro a quell'ora c'erano solo puttane e trans che non mancarono di farmi i classici elogi.
All'una ero già a letto pronto a dormire, era stato un giorno fruttuoso, avevo guadagnato al netto un ottantina di reais, considerando che il salario minimo di uno ad Aracaju era di circa 600 reais al mese ossia 30 reais la giornata, non c'era male. Ciò che mi dava soddisfazione era che non mi ero fatto quel travaglio di spingere il carretto fino in capo al mondo.
Ci furono altri show in quel periodo e Zè raramente ne perdeva uno, nonostante spesso la vendita non fosse buona e realmente il gioco non valeva la candela. Selma si metteva d'impegno per farlo desistere a fare ogni volta quella “loucura” di trainare quel peso per tutti quei chilometri per infine vendere solo una “minxaria”(un niente, una miseria). Zè, piuttosto testardo, non si perse mai d'animo, giustificandosi che non poteva fare altrimenti per sopravvivere; la scusa
teneva ma non giustificava il fatto che egli trasportasse una quantità allucinante di roba di cui se gli fosse andata bene ne avrebbe venduto un quarto.
Ma secondo la sua testa, non si poteva mai sapere, poteva essere che capitava un giorno molto fortunato dove tutti sarebbero andati solo da lui a comprare, ed allora sarebbe stato un dispiacere se avesse finito la merce quando ancora c'era qualcuno a farne richiesta; quindi era meglio avere una pesante scorta, in caso di evenienza.
Zè Zé non considerava mai nei suoi calcoli economici la fatica fisica che avrebbe fatto per vendere la sua merce, era come se la sua forza fosse una risorsa inesauribile e quindi trascurabile nell'equazione.
Per lui nell'equazione esisteva soltanto: “Compro a 1,5 e vendo a 3”. Se si fosse dato un valore allo sforzo fisico che compieva quotidianamente e se qualcuno per caso avesse in mente di pagarlo per quello, credo che sarebbe stato ricco.
Come ho scritto era anche piuttosto testardo, se capitava infatti che una persona ad uno show gli chiedesse uno sconticino lui raramente lo concedeva. Non capiva infatti, e non c'era modo di convicerlo, che era meglio guadagnarci qualcosa in meno ma almeno vendere piuttosto che tornare a casa riportando indietro tutto quel peso.
Era anche molto diffidente verso le persone in generale, avendo sempre il sospetto intimo che tutti lo volessero fregare, ed aveva i suoi motivi per agire così; si comportava in questo modo anche con i membri della famiglia, addirittura anche con Selma che era l'unica ad andarlo a trovare ed a prendersi cura di lui nei momenti di maggior bisogno.
Tuttavia con me Zè riuscì a prendere un po' di fiducia, avendo visto che un giorno che gli bucai la ruota alla bicicletta che mi aveva prestato fui subito a fargliela sistemare e gli feci anche montare il cavalletto, cosa che non era da tutti magari, me la prestò sempre poi. Da notare che la mountain bike ed un televisore lcd da 30 pollici erano le uniche 2 cose carine e di un qualche valore di cui lui fosse in possesso e, chiaramente, ci teneva in modo particolare.
Arrivò anche a dirmi di sua iniziativa che se avevo bisogno della bici nei fine settimana potevo prenderla, nonostante sapeva che io avessi la mia scassona; erano atti esclusivi di chiara fiducia ed amicizia da parte sua, roba da farmi emozionare.
Se era diventato diffidente verso il mondo, fu in reazione ad una vita dove tutti s'approfittavano come potevano della sua ingenuità.
Quando mi lasciava la sua bici me la sciallavo parecchio e non so come miracolosamente non gliela ruppi mai. Mi facevo arrivando a massima velocità le vie del centro nelle ore di punta facendo slalom nel traffico aggressivo, divertendomi a pompare sui pedali frenando il meno possibile, schivando gli ostacoli e saltando i marciapiedi, il tutto era una bella stimolazione sensoriale che allenava la mia capacità di attenzione e concentrazione. Questa cosa era ancora più divertente quando lo facevo con la bici di Mateus, senza freni.
Venne un altro fine settimana ed un altro show era in programma, di un certo Pablo cantante romanticone, e questa volta si sarebbe tenuto in centro, nella piazza a fianco al mercato. La serata era molto piovosa ed appena smise uscii a piedi per raggiungere Zè a dargli una mano e fargli compagnia. Dopo una lunga ricerca alla fine lo beccai ad un angolo, c'era tanta gente in giro e molte macchine che chiamano paredào (paretona) a causa del baule pieno di casse, che pompavano musica pagode, dal mio punto di “udito” inascoltabile e che sembrava uscita da un cartone animato se non fosse per le tante allusioni sessuali.
Iniziò a piovere e mi riparai sotto un porticato di un palazzo vicino al suo carro, lui invece non ne voleva sapere di allontanarsi dallo stesso e rimaneva coperto dal telone fissato alla struttura e dopo un po' tiro fuori anche un grosso ombrellone.
Come smise di nuovo, riempimmo una cassa di polisterolo, di medie dimensioni, di birre e ghiaccio, me la caricai sulla spalla ed iniziai a girare per vendere. Non riuscivo a mettermi in un buon punto perchè c'erano degli addetti alla sicurezza che non mi facevano eggiare liberamente e mi respinsero da vari punti; tornai da Zè, toccava desistere.
Riniziò a piovere fortissimo ed io mi riparai ancora sotto al portico, schiacciato in mezzo a gruppi di ragazzi che si ubriacavano se non lo erano già; la musica del concerto era soffocata dalla pioggia e dalla musica delle macchine con gli impianti stereo al massimo che rimbombavano pagode contro le pareti del portico.
Il vento era forte ed osservavo Zè che non si era smosso dal suo carro, mettendo in sicurezza gli oggetti facili da perdere. Permaneva in piedi con il grosso ombrellone in mano lottando contro il vento, fu tutto bagnato in breve. Mi diede una triste impressione di un cane randagio che ava la propria vita tremante ed indifferente in balia degli eventi.
ò una noiosa ora sotto al portico, dove mi limitai ad osservare cosa succedeva in torno a me, sentii freddo per la prima volta dopo mesi. Zè tremava inzuppato, cercai di convincerlo brevemente a venir via, visto che non stava vendendo praticamente niente con tutta quella pioggia, ma chiaramente non ne voleva sapere. Una notte a tremare bagnato fradicio lo attendeva ma la speranza di vendere era sempre l'ultima a morire in lui.
Come smise di piovere lo salutai dispiaciuto di non accompagnarlo in quella avventura e andai via verso casa, non potendo evitare di vedere gli adolescenti per lo più tornare di nuovo a muovere il culo davanti al baule delle macchine aperte.
Zè rimase in giro a vendere fino alla sera del giorno seguente nonostante si sentisse la febbre addosso.
Prima che smettessi per alcune settimane verso natale di vendere patatine, successe che un giorno mentre vendevo si fece vivo un ragazzo, che ogni tanto mi chiedeva a scrocco qualche patatina e spesso gli rifiutavo; comparve improvvisamente dalle mie spalle a sinistra spaventandomi volutamente, probabilmente a livello inconscio si accorse che sembravo uno senza i riflessi per reagire, avendo lui percepito la mia paura.
Domandò una porzione con molta prepotenza, sottintendendo dal tono di voce che non l'avrebbe pagata, gli risposi negativamente ma con un tremito nella voce, essendo stato colto di sorpresa in quella situazione e sentendo paura. Si arrabbiò visibilmente ed iniziò a minacciarmi forse sotto effetto di droghe mentre si allontanava, dicendo che mi avrebbe fatto vedere lui cosa sarebbe successo e che io non sapevo chi era lui.
Vicino a me c'era quel tizio che solo una volta vidi sobrio che mangiava una porzione di patatine ed aveva assistito alla scena. Si mise a dirmi che quel ragazzo che mi aveva minacciato era uno pericoloso ed altre storie rafforzando negativamente la cosa; finii per lasciarmi abbindolare ed ebbi paura di veder il ragazzo da un momento all'altro tornare in dietro magari anche con la sua banda, ma non arrivò nessuno.
Quando venne la sera mi ritirai prima quando di solito lasciavo il posto minimo alle 9, 9 e mezza, a volte anche fino alle 10.30 se si vendeva.
Ebbi visioni paranoiche di qualcuno che mi assaltasse rubandomi i soldi guadagnati quel giorno e facendomi qualche danno; nulla successe ed io ai male quelle ore, inutilmente angosciato come accade in ogni preoccupazione.
Arrivato a casa raccontai l'accaduto a Selma, tentando orgoglioso di nascondere la paura che avevo provato. Lei si preoccupò ed aveva intenzione di andare a parlare con il prete della chiesa e di andare a cercare questo ragazzo per dirgli di lasciarmi stare, mi sentii colpito nella mia dignità di uomo e non le avrei mai permesso di agire così.
Allora Selma mi disse che la mia unica alternativa era di spaccare la testa al ragazzo con un palo o qualcosa che lei stessa cercava di farmi portare dietro, al fine di lasciarlo tramortito per poi chiamare la polizia dicendo che il tizio mi aveva cercato di rubare; la polizia non avrebbe esitato a darmi ragione secondo lei. Il modo in cui si stava cercando di farmi reagire non era proprio in linea con il:
Porgi l'altra guancia.
Ma non accettai esplicitamente neanche la seconda alternativa, forse avrei tentato di risolvere la cosa a parole, pensavo.
Fui altri 2 giorni a lavorare, giorni che ai in uno stato di tensione costante aspettando da un momento all'altro che il ragazzo si presentasse.
Al terzo giorno lo vidi attraversare l'avenida sulla mia sinistra, armi davanti lanciandomi una breve occhiata e proseguire dritto per le stradine in salita del quartiere 18 do forte, avevo già i nervi tesi ed il cuore accellerato, pronto allo scontro.
Dopo poco tornò in dietro, forse ricordandosi che aveva qualcosa in sospeso con me, si affiancò al mio lato ed iniziò a dire qualcosa, lo fissai ben dritto negli occhi e dopo un po' distolse lo sguardo.
Continuai facendo le mie operazioni di frittura patatine, cercando una sorta di calma interiore, in fondo fino a che il tizio non mi avesse attaccato io non mi sarei mosso.
Col braccio sinistro tenevo in mano il cestello per scolare l'olio, iniziai a stringerlo forte nella mano serrata, avendo tutta la muscolatura dell'avanbraccio tesa con tanto di vene in vista, lo riguardai di nuovo negli occhi, fermandomi per qualche istante dalle mie operazioni in una posa in cui esprimetti tutta la forza che avevo dentro senza muovermi di un centimetro, lasciandogli intendere che ero pronto a spaccargli in faccia il cestello se non se ne andava.
Disse qualcosa del genere: “Prendere quest'olio bollente in faccia deve far male è?” il suo tono di voce non aveva più dello spaccone ma adesso sembrava quasi timido, poi se ne andò ed il problema si risolse nella migliore delle maniere, che mai mi sarei aspettato, senza che ebbi bisogno di proferire una sola parola.
Venne un giorno che sembrava essere come tanti altri, un giovedi, ma in tutti quei mesi sembrò sempre esserci qualcosa di nuovo a rendere ogni giornata degna di esser vissuta.
Si presentò Lenaldo, sarei andato con lui il giorno seguente nuovamente alla feira das trocas (mercato nero) a fargli compagnia e nel tentativo di vendere gli occhiali rayban falsi che ancora avevo con me.
Venerdì mattina mi venne a prendere in moto e ci recammo al posto che come descrissi era piuttosto nascosto. Una volta la, c'era poca gente, lui cominciò a trattare per dei cellulari mentre io tolsi un occhiale dalla custodia e lo tenni in mano in bella mostra eggiando tra i banchetti, parlai con qualcuno e ci fu un grassone si mostrò abbastanza interessato.
Lenaldo nel frattempo mi aiutava reggendomi il gioco con qualche commento, sempre usando quella tecnica del far finta che non ci conoscessimo. Dopo un tira e molla sul prezzo dove io non accennavo a voler abbassare con il grassone, abbassai di qualche decina di reais e lui accettò, però ad una condizione.
Voleva che fossimo andati in centro a fare controllare gli occhiali da uno specialista che confermasse che fossero un paio di rayban originali.
Per quanto riguardava questa cosa di farli controllare da uno specialista, ero abbastanza tranquillo poiché mi era già successa quella situazione. Tempo addietro mi ero fatto il giro del centro assieme niente di meno che con Lenaldo, il quale voleva comprarmene un paio, o forse si era interessato anche lui a questo commercio, visto che insisteva sul sapere quanto li pagassi e dove li prendessi fiutando che non gliela raccontavo giusta. Girammo parecchi negozi di ottica dove Lenaldo il furbo entrando iniziava dicendo che gli occhiali erano suoi ed erano originali e lui voleva capire la differenza tra il suo paio ed uno falso.
Fu molto divertente vedere che oltre a cascarci i negozianti ci fornivano tutte le
informazioni sui parametri usati per distinguere l'originale dal non.
Della proposta del grassone mi preoccupava, non conoscendolo e visto l'ambiente in cui mi trovavo, che il tizio mi avrebbe portato da qualche parte per poi lasciarmi in mutande; Lenaldo mi guardava maliziosamente facendo finta di non capire che gli chiedevo con lo sguardo se mi potessi fidare di questo tizio.
Cominciai a cercare delle scuse che però non reggevano ed alla fine non sapendo più che pesci pigliare chiesi, davanti al grassone ed ad altri che ci stavano intorno, a Lenaldo se veniva anche lui. Si mise a ridere chiedendomi: “Pra fazer o que?” (a fare cosa?). Gli altri, forse non proprio portati al raziocinio, non capirono e non immaginarono manco lontanamente che eravamo complici. Rimasi qualche secondo guardandolo negli occhi cercando di cogliere un qualche tipo di segnale ed infine sembrò rasserenarmi con lo sguardo, misi da parte i timori e fui in macchina con il grassone ed un suo amico.
Detestai quella situazione che si ripeteva per la seconda volta, dove Lenaldo mi metteva a rischio senza farsi troppi problemi, ed inoltre per tutto il tempo che avamo insieme al mercato nero dovevo far finta di non conoscerlo rendendo impossibile comunicare con lui certe cose direttamente. Avremmo seriamente dovuto metterci d'accordo in precedenza su di un codice per capirci pensai, ma oramai le decisioni erano state prese.
In macchina i due parlavano del più e del meno, ad un certo punto il grassone mi chiese se conoscessi Lenaldo, gli dissi che lo avevo già visto altre volte ed il grassone e l'altro ragazzo si misero a parlarne piuttosto male, dicendo che sembrava proprio un imbroglione ed altre cose, io li assecondai, in realtà non pensandola in maniera molto differente. Cose che poi io riferì a Lenaldo e lui si sganasciò dalle risate.
Arrivati in centro facemmo il giro di almeno 5 negozi di ottica ed un venditore ambulante di occhiali, che tra l'altro fu l'unico a riconoscere che gli occhiali erano un falso.
Nei negozi di ottica in cui entrai, di cui due furono gli stessi dove ero stato con Lenaldo, usai una piccola ma efficace tecnica psicologica che mi avvantaggiò.
Appena entrati nel negozio mi rivolgevo gentilmente e con una punta di seduzione alla commessa, iniziando un discorso abbastanza articolato affermando che gli occhiali erano originali per poi chiedere alla commessa del momento se lei riuscisse a confermarlo controllando i dettagli dell'occhiale. La commessa probabilmente avendo già recepito lo stimolo iniziale che l'occhiale era originale era molto di più predisposta a darmi conferma alla fine di tutto. Il grassone con paura di prendere una fregatura insistette con ogni persona con cui parlammo parecchio per esserne il più possibile certo.
Per quel breve, ma per me lunghissimo, tempo entrai nella mentalità della menzogna liscia, tipica tra i commercianti quando dovevano vendere; per me oramai quegli occhiali erano originali al 100% e quando lo dicevo me ne sentivo totalmente convinto e sicuro.
In un ultimo negozio dove entrammo il grassone mi prese gli occhiali di mano, intuendo che forse con la voce e le parole che usavo riuscivo ad influenzare l'opinione delle commesse.
ò gli occhiali alla ragazza dietro il bancone chiedendole brusco se fossero stati originali od un falso; lei iniziò a guardarne i dettagli ed io la osservavo molto bene, presente a me stesso. Il grassone spazientito di tanto tempo per dare una risposta le sollecitò la domanda nuovamente; la ragazza come intuendo la tensione di qualcosa che sembrava dipendere da lei, mi guardò negli occhi un
attimo ed io fissandola in profondità feci come un micromovimento affermativo con la testa, quasi fosse un cenno, si rivolse subito al grassone dicendogli che si, erano originali.
Tornati a dove avevamo parcheggiato la macchina, il grassone era ancora indeciso; forse stando giornalmente in quell'ambiente di scaltri, riusciva a fiutare che gli occhiali erano falsi. Decise infine, dopo proposte che rifiutai di prezzi irrisori per tutti e tre insieme, di comprarne un paio solo che gli lasciai a 130 reais, praticamente poco più di quanto li avevo pagati. Fui felice tra l'altro perchè non si accorse ma comprò l'unico paio che aveva una piccola parte rotta e che difficilmente sarei riuscito a vendere a qualcuno.
Tornai a casa a piedi ed arrivato trovai Selma che era stata parecchio in pensiero per me ed era molto arrabbiata con Lenaldo per avermi lasciato andare da solo. Anche Lenaldo stava là, mi chiese sfacciato 20 reais per avermi aiutato a vendere gli occhiali, gliene lasciai 10, con rancore sempre per il fatto che mi aveva lasciato solo; avendo ottenuto quindi ciò che lo tratteneva la in casa di Selma se ne andò rapidamente.
Il secondo paio lo vendetti ad un ragazzo del chiosco vicino a dove vendevo patatine fritte nel mio ultimo periodo, non senza difficoltà ed il terzo paio, il più bello secondo me a causa della montatura color argento e le lenti a specchio, a Zè Carlos che me lo avrebbe pagato in 2 rate. Con lui solamente fui sincero svelandogli la provenienza reale degli occhiali.
Altra stranezza di Zè Carlos si era voluto comprare questi occhiali per proteggere gli occhi dalla polvere mentre tirava il suo carro solo che ogni poco doveva tirarli su e questo lo sfastidiava; fini per usarli poco avendo speso soldi per una cosa inutile.
La cosa mi dispiacque e cercai anche di trovare qualcuno a cui avrebbe potuto rivenderli, dopo averli accantonati per un periodo riprese ad usarli quando qualcuno gli fece complimenti che gli stavano bene; ed in effetti sembrava quasi una specie di attore di film.
All'inizio di gennaio si presentò, come a voler compensare il fatto che non stavo vendendo patatine fritte a causa dell'elevato costo della materia prima, un amico di Selma intento a coinvolgermi nel realizzare delle belle idee che mi aveva proposto tempo addietro. Era un tizio conosciuto come Gil Bala, al quale avevo lasciato intendere le volte precedenti che ci sarei stato a mettermi in società con lui per fare qualche tipo di commercio. Tra le varie idee di cui già mi aveva parlato c'era quella di vendere cianfrusaglie come casse acustiche, radioline fatte all'interno di lattine di coca o ricambi per i cellulari, in centro la mattina. Avrei così potuto fare, una volta ripreso a vendere patatine fritte pomeriggio e sera, due lavori contemporaneamente. La cosa tuttavia mi puzzava, sapendo che avrei dovuto fare un investimento iniziale cospicuo comprando ad esempio queste radioline, senza sapere effettivamente se sarebbero poi piaciute al popolo.
Gil Bala dal canto suo le stava tentando tutte per sollevarsi dalla brutta situazione di sopravvivenza in cui si trovava e veniva ogni tanto a mangiare da noi forse anche per risparmiare qualcosa sul cibo.
Se la sua situazione economica era cattiva la colpa, per come disse Selma, non era neanche sua, aveva un cuore molto grande ed aveva aiutato troppo gli altri ritrovandosi alla fine col culo per terra.
Quel giorno di gennaio però sembrava avere un'idea veramente buona; aveva da poco iniziato a lavorare come parrucchiere, mestiere che sapeva fare perfettamente, in un salone. Pensava quindi, dopo tanti calcoli che mi spiegò nei dettaglia, di prendersi in affitto una stanza dirimpetto ad una via nel centro per aprire a sua volta un parrucchiere. Gli mancavano però i soldi per cominciare quella cosa e mi chiedeva se avessi potuto prestargli qualcosa promettendomi
che io non avrei fatto nulla, lui avrebbe lavorato ridandomi ogni mese la parte che pagavo di affitto più del lucro. Mi disse anche che quando fosse stato capace di sostenersi autonomamente coi propri guadagni avrebbe continuato a darmi dei soldi per riconoscenza.
Il, chi lo sà, malefico destino volle che poco prima di incontrarlo in casa Selma avessi ato del tempo con Zè Zè fumando maconha, sentendomi quindi sballatissimo. Ora mi trovavo faccia a faccia con Gil Bala, il quale tra l'altro era leggermente deformato nel volto e nel corpo essendo cresciuto in altezza ma con alcuni lineamenti che erano sproporzionatamente rimasti quelli di un bambino, che mi parlava cercando di mostrarsi serio e convinto delle proprie idee ma aveva delle continue esitazioni nella voce.
Il contrasto tra le cose che diceva che avrebbe volute fare e la sua stessa strana, per come la vedevo io amplificata dall'effetto cannabinoide, presenza, mi pareva assurdo e si fece sempre più evidente.
Non riuscii più a resistere a quella che mi sembrava una situazione inverosimile ed iniziai a ridergli in faccia fragorosamente. Al che dal disagio si fece ancor più insistente a parole, sentendosi quasi scoperto sul fatto che non era minimamente certo delle cose di cui mi parlava ed era come se io notassi in pieno la maschera che stava usando, vedendolo per quello che era in realtà.
Gli dissi appena mi calmai un attimo di perdonarmi per quell'attacco di ilarità, lasciandogli capire che non era il momento migliore per me di parlare di quelle cose e gli chiesi se avessimo potuto rimandare la conversazione ad un'altra volta. Poi andai in stanza di Mateus e dopo momenti ati a ridere da solo ripensando all'accaduto mi misi a dormire.
La volta che lo rincontrai avevo avuto il tempo necessario di pensare e fare le
mie considerazioni e lo aggiornai. Mi sarebbe davvero piaciuto aiutarlo ma dovevo farmi i conti in tasca con quello che avevo, sapendo che la sua idea andava abbastanza sul lungo termine, nel quale io però non riuscivo a visualizzarmi. Dovetti purtroppo venir meno al tacito accordo che avevo preso con me stesso e più o meno esplicito con lui, che lo avrei sostenuto nella sua idea. Ci rimase un po' triste e deluso al conoscere le mie decisioni, ma forse la cosa lo spronò a mettersi ancor più d'impegno ed alla fine riuscì da solo nel suo intento di aprirsi un'attività.
Lo stimai nella sua determinazione e dovetti ricredermi sui tanti giudizi che gratuitamente avevo fatto nei suoi confronti; giudicandolo per le apparenze e non vedendo in realtà che era qualcuno che poteva sbagliare ma sapeva sempre rialzarsi e non si dava per vinto.
Dopo aver ripreso il lavoro con le patatine a gennaio, lavorata forse nemmeno una settimana al mio solito punto davanti la chiesa, volli tentare e lanciarmi in qualcosa di nuovo.
Dopo aver discusso la mia idea con Zè, mi feci coraggio ed un pomeriggio subito dopo ora di pranzo arrumai rapido il carrino e fui giù dalla discesa del Santo Antonio, sapendo che al ritorno mi avrebbe aspettato la salita.
Inoltre da alcuni giorni mi ero messo a mangiare esclusivamente frutta e verdura crude, mi era capitato però di mangiare un'insalata che avevo condito con ogni genere di cosa e purtroppo mi c'era scappato sopra anche troppo piccante; avevo mangiato lo stesso il tutto a forza tra imprecazioni e lamenti.
Dal giorno seguente mi ritrovai con una serie di afte su lingua e bocca che bruciavano da morire e mi impedivano di nutrirmi a sufficienza per le intense attività che facevo e convivetti con una fame costante per una settimana.
Feci tutta l'avenida joào ribeiro fino ad arrivare in centro al posto dove stava Zè Zè già da qualche ora. Mi affiancai a lui col mio mezzo e sistemato tutto quanto, iniziai a friggere; ci furono due ore circa morte, dove non vendetti praticamente nulla, poi da un momento all'altro al popolo venne fame ed iniziarono richieste su richieste.
Mi diedi un gran d'affare per tener o alla clientela e nel giro di un ora e mezza vendetti tutto quanto totalizzando 70 reais, tentavo di stimolare le persone a prendersi qualcosa da bere indicando Zè, il quale mi aveva aiutato a sbucciare le patate e friggere altrimenti non cel'avrei fatta da solo a tenere testa alle innumerevoli richieste.
Preso da quell'onda di frenesia positiva iniziai tutto esaltato ad illustrare a Zè un'intuizione che avevo avuto. Consisteva nel metterci in società e trasformare il suo carro in uno abilitato a friggere patatine; avremmo fatto una fortuna ne ero convinto, in quel punto del centro pieno di anti le patatine fritte sarebbero andate a ruba. Zè avendo constatato che la cosa per me quel giorno era stata lucrativa sembrò d'accordo.
Quella sera tornai a casa col carrino e l'umore leggero.
Anche il mio peso corporeo si fece più leggero ed a causa di quelle brutte afte in bocca che non mi facevano mangiare a sufficienza ed il tanto lavoro persi quasi 10 kg in pochissimo tempo e chiunque mi vide mi domandò preoccupato cosa mi fosse successo.
Da quel momento iniziai tutta una serie di progetti a carta e penna sul come attuare la modifica al carro di Zè; il mio inoltre sarebbe rimasto a Selma, la quale
avrebbe venduto al mio punto solito; parcheggiando il carrino alla vicina casa della sorella. Si mostrò d'accordo all'idea e decisa a lavorare col mio carrino visto che oramai era uscita dal caju-cap e non c'erano più bambini da curare, o meglio continuavano ad esserci ma senza che i genitori pagassero. Così facendo avrei aumentato le entrate in casa Selma, la avrei resa più indipendente e dopo un po' magari sarei stato in grado di partire per andare da qualche parte. Niente sembrava fare una piega nei miei ragionamenti.
Il progetto nel suo ultimo aspetto combaciava con la mia sensazione che stava sorgendo, avevo infatti iniziato ad essere stufo di stare ad Aracaju, sentivo voglia di altre avventure e di conoscere posti nuovi, la situazione in casa inoltre cominciava a starmi stretta ed ero stanco di tante fatiche.
Oltre a questi miei motivi personali, c'era anche qualcosa che non dipendeva da me e la quale non potevo eludere, in realtà potevo ma con delle conseguenze; mi sarebbe scaduto il visto turistico ai primi di marzo e mi rimanevano quindi solo 2 mesi di permanenza legale e non mi ero ancora sposato! In caso avessi sorato questa data rimanendo in territorio brasiliano chiaramente nessuno sarebbe venuto a cercarmi, ma al momento di lasciare il paese mi avrebbero chiesto di pagare una multa proporzionale ad i giorni di visto sforati, in caso, molto probabile, che fossi stato impossibilitato nel pagarlo mi avrebbero lasciato andare via ma se fossi poi ritornato avrei dovuto pagare prima di uscire dall'aereoporto, altrimenti niente Brasile.
Feci un bel disegno su come avevo intenzione di fare il “restyling” del carro di Zè, dedicando una metà alle patatine fritte ed il resto a quello che aveva sempre fatto.
Gli mostrai il progetto, anzi gli spiegai meglio la mia visione mimando le cose direttamente sul suo carro, dopo vario tempo infine mi comprese e sembrava stargli bene.
Mi dedicai per una decina di giorni quasi totalmente a quel mio nuovo progetto, feci fare dalla serigrafia delle grosse fasce plastificate, per evitare che si rovinassero facilmente, con scritto a grafia fiammeggiante:
“Fritas quentes” (fritte calde). Era un nome che tanto aveva voluto Zè Carlos, poiché era lo stesso della baracchina dove aveva lavorato insieme a Selma anni addietro, entrambi impiegati dal padre di Diego, vendendo patatine fritte appunto. Vendevano alla grande arrivando a vendere anche 3 sacchi (150kg) in un giorno; fu infatti Selma ad insegnarmi tutti i aggi di un lavoro che sembrerebbe stupido ma aveva bisogno di tanti accorgimenti.
Prese le misure del pianale del carro di Zè feci il disegno di una base di metallo che avevo intenzione di fissare sopra lo stesso, per poi appoggiarci sopra gli strumenti del mestiere e cercare di dare un minimo di idea di igiene.
Dopo una ricerca riuscii a trovare chi mi fece la base di metallo secondo le misure, gli lasciai un acconto e sarebbe stata pronta in qualche giorno.
ai altro tempo cercando dai rigattieri una fiamma di quelle industriali con il o, ma poi ebbi l'idea di comprare una friggitrice elettrica in modo tale da non avere la spesa della bombola del gas.
Ci si potrebbe chiedere ora, seguendo un certo filo logico, che anche l'utilizzo di elettricità avrebbe dovuto avere un suo costo; invece non era così.
Infatti pressoché ovunque in Brasile i cavi della corrente non viaggiavano sotto
terra, come in Italia o tanti altri posti più “sviluppati”, ma c'erano dei pali a sezione I prefabbricati di cemento, tra l'altro uguali in tutto il paese ed anche piuttosto facili da scalare, su cui viaggiano i cavi scoperti. In molte persone quindi, soprattutto nelle favelas, facevano “o gato” (il gatto), ovvero usando l'ingegno e con un minimo di accortezza, si agganciavano con dei fili a due dei quattro cavi. Un cavo faceva la massa ed in base a quale si sceglieva degli altri si avevano 120 volt o 240 se non mi sbaglio.
Fortuna vuole che Zè si era comprato tempo prima un coso per fare “o gato”, era stato costruito con 6 tubi in pvc, di quelli da idraulica, che si avvitavano uno con l'altro per fare due canne lunghe più di 3 metri, dentro ognuna scorreva un filo che uscendo da un estremità aveva un gancio, mentre dall'altra estremità i due fili si univano finendo in una presa. Così grazie a questa semplice ma ingegnosa invenzione ci si agganciava alla corrente senza usare scale per raggiungere i cavi sui tralicci per la strada, rischiando la propria incolumità (ogni tanto comunque si sentiva di qualcuno che c'era rimasto secco per farlo).
La cosa più bella era che si ciucciava energia gratis, infatti la pratica del gato non era perseguita dalle forze dell'ordine; almeno per chi lavorasse per strada. Per chi lo fe a casa propria, byando il contatore, erano multe, ma in tanti lo facevano lo stesso speranzosi di non essere scoperti.
Altra cosa che invece facevamo in casa Selma legata al risparmiare sulla bolletta, riguardava l'utilizzo dell'acqua.
Vuoi che in un clima caldo come quello reperire acqua per una città intera non era cosa facile, vuoi anche che ne sprecavano parecchia in casa visto che si facevano fino a 4 doccie al giorno, vergognosi di poter odorare di sudore, ( tra l'altro io che ne facevo solo una inizialmente ero visto come uno zozzone), fattostà che la bolletta di per sé già alta ato un certo valore di utilizzo saliva esponenzialmente.
In casa Selma avevano trovato il sistema semplice ma efficace per imbrogliare su sta cosa visto che sforavano abbondantemente ogni mese la soglia della bolletta ragionevole. Il contatore, come probabilmente ovunque, era posto sulla linea di un tubo e roteando un meccanismo al suo interno con il aggio dell'acqua, faceva muovere dei numerini sul visore come fosse il contachilometri di una macchina. Quando il contatore superava la soglia più o meno a metà del mese, svitavamo i bulloni alle sue estremità per rimontarlo al contrario sul tubo, facendo così girare i numeri a ritroso sino a raggiungere a fine mese un valore entro la soglia. Il rischio era quello di un controllo, ma era piuttosto raro ed inoltre raddrizzavamo il contatore nel periodo in cui arrivava la bolletta, consegnata a mano da un addetto.
Andai con Zè Zè un pomeriggio ad un negozio specializzato e comprammo la friggitrice elettrica ed una vetrina-stufa, di quelle dei cornetti del bar, per tenere calde le patatine e che fungeva anche da espositore; comprammo inoltre una gran quantità di piattini e salse e tutto quello che ci sarebbe servito, dividendo ogni spesa a metà.
In realtà non fu così poiché io stavo finendo i soldi e come spesso accadeva nonostante quello mi ero buttato speranzoso ed a capofitto in una nuova cosa.
Arrivò, dopo mie continue telefonate, il giorno che fu pronta la base metallica che avevo mandato a fare. Zè ed io fummo fino al posto, piuttosto lontano, dove c'era l'officina che costruiva cose con la lamiera. Zé mi diede la sua bici e lui venne portandosi dietro un altro carro che si era comprato, che più o meno aveva la stessa dimensione dell'altro suo ma non aveva tutta la struttura superiore con la tenda. Non si capiva bene come mai si fosse comprato quest'altro carro, sembrava fosse per il riciclaggio quando arrivava al punto che la sua tana era satura di monnezza e andava a venderla.
Legava entrambi i carri fuori da casa sua con delle catene ad una grondaia, era
sicuro che glieli avrebbero rubati in caso non lo avesse fatto, e visto il posto era molto probabile.
Zè tra l'altro sembrava attrarre i maleintenzionati e varie volte gli rubarono in casa perchè aveva lasciato la porta aperta, o meglio il cancello.
Casa sua infatti era concepita e forse più appropriata ad essere un magazzino, con un unico stanzone ed un bagnetto sul fondo; lo stanzone dava direttamente sulla strada e la sua proprietà era protetta solo da questo cancello scorrevole che Zè aveva adornato dall'interno per “proteggere la privacy” con un enorme lenzuolo.
Arrivati sul posto in due ragazzi stavano ancora lavorando sulla base, segnale che avevano iniziato a farla all'ultimo momento. Ma come si sa chi fa il lavoro sa sempre il fatto suo ed a volte conviene far finta di metterci giorni per costruire qualcosa a cui serve solo qualche ora, per dare l'idea della difficoltà del lavoro svolto e chiedere più soldi. La finitura era molto grossolana ed in certi punti la lamiera non aderiva bene all'intelaiatura, in altri non era bene a filo rischiando di tagliarsi se si ava la mano sopra distrattamente.
Ma valse la pena di per sé, anche per il fatto che la lamiera era a specchio e faceva un bell'effetto, misurava 1 metro per 1,20 ed era pesantuccia.
Una volta finita, la caricammo sul carro alternativo di Zè e tornammo verso casa, arrivati all'altezza della stazione abbandonata facemmo cambio e mi misi io al traino; poi non seppi bene cosa successe, Zè prese altre vie perpendicolari cercando materiale riciclabile, per approfittare di quel viaggio, ed io continuai per la mia strada. Ci perdemmo di vista dopo che lo vidi fermarsi intento a smontare un televisore per recuperarne le bobine di rame, mi trovai a procedere per una salita del bairro 18 che ava davanti alla caserma militare, avanzando
proteso in avanti e rubando un o alla volta il terreno che mi mancava per arrivare in cima. Era davvero pesante come cosa ed era per quello che mi piaceva. Sentivo tutti i muscoli del corpo sotto sforzo spingendo come una locomotiva.
Aspettai un po' Zè là in cima ma non lo vidi arrivare, al che decisi di proseguire per la discesa che era molto ripida la quale di solito, ando da quelle parti, mi divertivo a fare in bicicletta a razzo.
Non avevo preso infatti le stesse vie percorse all'andata che erano meno in pendenza ma più o meno consciamente avevo fatto la stessa strada che facevo in bici.
La discesa fu qualcosa di veramente difficile, la tentazione era di lasciarsi andare e prendere velocità ma non esistevano freni se non i miei piedi e il carro aveva solo 2 ruote.
Successe infine quello contro cui lottavo continuamente nella speranza che non succedesse, mi si ruppe nella maniera classica l'havaianas uscendo la plastica dell'infradito dalla sua posizione, lasciai involontariamente alzare un po' troppo il manubrio ed il carro uscì dal punto di equilibrio impennandosi di colpo e mi ritrovai alzato da terra ancora attaccato al manubrio per qualche secondo ed il carro strisciò il culo per dei metri.
Solo grazie ad un signore riuscii a disipennare il carro arrivando infine a casa di Zè Carlos il quale era tutto preoccupato e mi aveva cercato per tutto il quartiere dove c'eravamo lasciati. Non gli raccontai dell'accaduto e per fortuna non si ruppe nulla. Eravamo quindi quasi pronti ad iniziare a lavorare insieme, mancavano solo poche cose.
Trovai in quei giorni un cucciolo di gatto tutto nero dagli occhi verdi proprio sotto il carro di Zè, e visto che da molto ne desideravo uno lo agguantai e lo diedi in regalo a Selma.
Riuscii in qualche maniera ad umanizzarla (era femmina) un minimo, la abituai a mangiare solo carne cruda e pesce ed inoltre era piuttosto attiva a cacciare eri e lucertole. La chiamai pantera ed era veramente una bella gatta.
Un giorno apparve con un criceto grosso e peloso che aveva stanato dentro casa e vi viveva chissà da quanto tempo nascosto. Di topi in casa cen'erano ogni tanto, soprattutto nel quintal, ma un criceto non lo avrei mai immaginato.
Anche Zè aveva avuto una gattina in quei mesi, ma infine stufo che gli cagasse dentro casa ed ignaro di come insegnarle a farla fuori, la abbandonò all'incrocio di un grosso viale; ritrovandola dopo una settimana schiacciata da una macchina senza che ciò gli procurasse il minimo rimorso.
Fummo pronti al nostro primo giorno di lavoro insieme, andammo in centro e ci piazzammo al suo punto vendita, io lo avevo seguito con la sua bici. Al suo punto non c'era bisogno di fare il gato per prendere la corrente, poiché c'era già una presa, che qualcuno aveva fissato tempo addietro, ad un palo e bastava metterci la spina della nostra prolunga.
Misi i grandi fascioni attorno ai 2 lati del carro di Zè ed iniziammo a friggere.
La vendita fu nella norma, il punto, che non avevo considerato nei miei
ragionamenti, era però che dovevamo dividere il guadagno in due. La cosa allora significava che dovevo sperare di vendere almeno il doppio di quel giorno. Per quanto riguardava Zè lui continuava anche a vendere le sue bibite e cocchi e tutto il resto, diminuendo però il suo carico di un cassone di polisterolo, per far spazio al necessario per vendere patatine fritte.
VIA DI CASA, non ogni male viene per nuocere.
Dopo 2 giorni all'inizio del nuovo lavoro, non so come ma mi ritrovai a litigare con Mateus, il quale era di norma nervoso e facilmente irritabile e la sua voce diveniva uno strillo da checca quando era particolarmente arrabbiato. La cosa per fortuna non arrivo alle botte e dopo che lui mi rinfaccio che nessuno mi obbligava a vivere là con loro presi il mio zaino ed iniziai a riempirlo dei vestiti; Selma che mi stava al lato iniziò a piangere vedendomi fare quella scenata e si mise a cercare di calmarmi e convincermi a rimanere la con loro.
Non ci fu verso per me di darle retta e mi accorsi guardandola di come le volevo bene, presi il mio zaino, probabilmente avendo dimenticato anche varie cose nella furia di andarmene, e mi incamminai per la stradina di fronte casa che dopo la curva e la ripida discesa arrivava fino alla tana di Zè Carlos.
Lo zaino stranamente era sempre stato dentro l'armadio e non tolsi per i primi mesi tutto ciò che vi era dentro, se non l'indispensabile. Era come se inconsciamente lo tenessi sempre pronto per una immediata partenza.
Il litigio con Mateus era stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso del mio stress accumulato di tanti sforzi che sembravano non ripagarmi. Avevo questa sensazione a pelle che mi stavo fossilizzando in una situazione da cui non sarei più uscito, ma che mi avrebbe inesorabilmente risucchiato portando anche me ad un livello di esistenza molto basso, non solo esternamente, preoccupato
costantemente di trovare un sistema per sopravvivere, ma soprattutto internamente costantemente travolto dalle emozioni. Quindi “esperavo” che qualcosa succedesse.
Scrissi queste considerazioni al proposito di questa sensazione, che secondo me era insita un po' in tutti i brasiliani.
Il verbo portoghese esperar, corrispondente al verbo italiano sperare ma anche al verbo aspettare.
Rende chiara l'idea che usando un verbo solo per esprimerne due dai sensi diversi, vengono fusi e confusi i due significati, che in italiano sono ben distinti.
E così il brasiliano a cui chiedi cosa stia facendo là seduto e ti risponde che sta aspettando che l'onibus arrivi...O...Forse sta sperando che l'onibus arrivi.
Ebbene si, si riflette questo problema grammaticale anche nella vita di tutti i giorni; non sai se stai aspettando o se stai sperando che qualcosa succeda.
Nonostante la lite appena ata ed il sangue che bolliva ancora dentro di me, mi sentii che avevo fatto la cosa giusta, ero felice di essere uscito di là dopo mesi, la vita familiare mi era diventata stretta. Sentivo quotidianamente soprattutto la mancanza di uno spazio per me stesso, dove magari potermi rilassare senza ascoltare le stronzate che sparavano Lucas e Mateus dalla mattina alla sera, quelle dette dalla tv sempre accesa e quelle delle continue visite di persone gradite e non.
Era di mattina e trovai Zè in casa per fortuna, appena mi vide con lo zaino in spalla si preoccupò che stessi partendo da Aracaju, visto il nostro business appena iniziato che da solo non sarebbe stato facile per lui da fare.
“Vai viajar?” mi chiese.
Gli spiegai dell'accaduto e gli domandai se mi faceva rimanere li per quella notte, poi avrei trovato un'altra sistemazione.
Come già scritto ero a corto di soldi, mi ritrovavo con soli 30 reais in tasca, le spese per il nuovo business e l'aiutare la famiglia di Selma ad andare avanti avevano prosciugato le mie riserve.
Quello che restava della mattinata andai con Zè in centro a lavorare. A pranzo andai per la prima volta a mangiare a Padre Pedro, una mensa per chi ne aveva bisogno dove si mangiava un pasto completo con il prezzo simbolico di 1 real.
Non si mangiava male e non c'erano solo i poveri a mangiarci ma anche lavoratori di qualche negozio o chi ava di là per curiosità; l'unico problema era la fila da fare e capitava che ad una certa finisse il cibo. Vi mangiai a pranzo e cena per i giorni seguenti.
Quel giorno cenai sempre da Padre Pedro ed alle 9 mollammo il punto, al ritorno io andai avanti con la bici per poi aspettarlo alla sua tana, avrei dormito la quella notte. Venne Lucas a portarmi il materasso di spugna che usavo da loro, poiché alla buona Selma si sarebbe spezzato il cuore vedendo in che condizioni mi sarebbe toccato stare da Zè Carlos.
Sentivo una leggera frustrazione di sottofondo al mio umore, mi sentivo che mi ero liberato dallo stare in casa di Selma, ma le mie condizioni economiche non mi permettevano di starmene per i fatti miei e mi trovavo ora a dovermi appoggiare a Zè e dover stare tutto il giorno in stretto contatto con lui, e stare ai suoi ritmi non era per niente facile e dopo un po' stancava. Mi chiesi per quanto sarebbe andata avanti quella situazione. Ero certo che non sarei tornato indietro, ne andava del mio onore verso me stesso.
Piazzai il materasso a terra, non senza dover spostare della roba, nell'unico buco libero nella tana di Zè ovvero all'ingresso; e quando dico ingresso intendo letteralmente all'ingresso. La mia testa sfiorava le sbarre del cancello coperte dal lenzuolo, che se qualcuno per strada avesse voluto farmi uno scherzo la notte sarebbe stato fin troppo facile; parte dei piedi del materasso finiva sotto il tavolo dove si mangiava e tutt'attorno era un accozzaglia tra la bicicletta di Zè, qualche mobile sconquassato e sacchi su sacchi di lattine schiacciate e plastica, ed una trappola per topi contro una parete a forse 80 cm dalla mia testa.
Dormii bene sentendo la frescura della notte are attraverso il lenzuolo che mi separava dalla strada.
Il giorno seguente aprii gli occhi ricordandomi dove fossi e cosa era successo, restando fermo nel letto il tempo di realizzare tutto quanto e rendermi conto che non c'era tempo da perdere.
Di mattina fui con Zè in bici a cercare alcune piccole cose che ci mancavano, a pranzo mangiai da Padre Pedro con 1 real ed il pomeriggio fummo a lavorare.
La sera mi telefonò Selma dicendomi che c'era una buona notizia, lei che era
stata mortificata dalla mia decisione aveva parlato con una “sorella” adottiva, una certo Aninha (all'anagrafe uomo ma poi trans-formato in una tettona che viveva allora in Spagna guadagnandosi da vivere secondo antichi stratagemmi), la quale molto dispiaciuta a sentirla triste ed incastrando la cosa con un favore di cui aveva bisogno, disse che potevo andare a stare all'appartamento che aveva in centro.
L'appartamento era disoccupato da parecchio e c'era stata una perdita d'acqua che si era infiltrata fino al piano di sotto, erano quindi necessari dei lavori, ma le chiavi le aveva solo Aninha che stava in Spagna appunto; le inviò per posta ma arrivarono dopo settimane.
ai la mia seconda notte da Zè rassicurandolo che dal giorno seguente avrei avuto una sistemazione, visto che iniziavo a leggere disappunto nel suo volto per il fatto che dovevamo condividere la sua tana.
La mattina seguente mi feci trovare in centro dove mi era stato spiegato telefonicamente, l'appartamento era a metà altezza in un fatiscente palazzo di 14 piani che svettava tra la maggior parte degli edifici bassi circostanti, adibiti per lo più ad attività commerciali.
Selma e la figlia stavano già li con idraulico, amministratrice e vicini; mancava però la chiave e c'era bisogno di qualcuno che aprisse la porta.
Uscii in bicicletta perchè ricordavo un posto dove avevo visto uno che faceva i doppioni ad un banchettino lungo l'avenida Joào Ribeiro; lo trovai e mi seguì anche lui in bici fino all'appartamento, mi divertii per quel breve tratto a fare un po' il matto nel mezzo del traffico per lasciarlo indietro.
Il povero ometto che nonostante avesse capito fin da subito che i due lucchetti dell'inferriata davanti la porta erano quasi impossibili da sce, ò forse un'ora tentandoci e sudando freddo dal disagio perché più il tempo ava più tutti quanti capivano che non era capace di farcela. Alla fine prese 20 reais per il disturbo, che probabilmente era quello che voleva, e venne sostituito da un altro fabbricante di chiavi che era conosciuto dall'amministratrice, un'occhialuta signora, bassa, magra, iperattiva ed a quanto pare lesbica.
Prima che arrivasse l'amministratrice aveva dato qualche notizia “biografica” dell'uomo in questione, che a detta sua aveva un ato non proprio pulito ma ora si guadagnava da vivere onestamente avendo fatto del suo talento un mestiere. Certo per lui nella vita le porte erano sempre aperte in tutti i sensi. Come ci raggiunse e si mise all'opera non persi occasione di starlo a guardare in ogni movimento ed a conoscerlo meglio. Ci chiacchierai un poco per curiosità e dopo qualche battuta che gli feci mi disse che in caso stesse ando qualche difficoltà non ci avrebbe pensato due volte ad aprire la porta di casa di qualcuno.
“Bisogna pur mangiare no?”. Mi disse con tono di ovvietà.
Alla fine spaccò la chiusura dentro i lucchetti che bloccavano la grata facendo leva con un ferro ed aprì la porta di casa semplicemente con un cacciavite piatto. Praticamente smontò la mascherina verticale che copriva la toppa della serratura e l'attacco della maniglia, per poi rompere un pezzetto di strato di legno sopra la toppa ed avere il meccanismo di chiusura ben in vista; dopodiché bastava spostare dei leveraggi da una parte sempre con il cacciavite e scattava la serratura.
Entrammo quindi nell'appartamento a cui diedi solo una rapida occhiata.
Visto che Selma sapeva che stavo mangiando da Padre Pedro mi diede qualche
soldo e pranzai ad un comida por quilo sotto l'edificio, poi andai da Zè ad aiutarlo a sistemare il carro per are il pomeriggio fino a sera (cena da Padre Pedro) lavorando a vendere patatine. La notte, non dopo svariate raccomandazioni da parte di Paula la figlia di Selma, che era stata cresciuta da Aninha, dormii nella mia nuova casa.
Paula rimase non poco scandalizzata quando ad una certa età la madre le spiegò che la zia Aninha in realtà era un transessuale.
E la zia Aninha era rimasta molto triste quando aveva saputo che Paula aveva uno squilibrio ormonale a causa dello stress che si portava dietro, dalla morte del padre, ed aveva il testosterone alto, oltre ad essere obesa si ritrovò ad avere una peluria che se continuava così sarebbe diventata barba. Sperai per lei che riuscisse a superare quella sofferenza interna che viveva di continuo, poiché a parte per la sua salute, aveva la fisionomia di una bella ragazza.
E così, mi ritrovai da un giorno all'altro in una situazione a me più favorevole, ed a quanto pare il mio istinto aveva agito molto bene.
Era un appartamento di modeste dimensioni e tutto all'interno parlava di sesso. C'erano foto in seminudo di Aninha, qualche pene di plastica e parecchi dvd porno di ogni perversione sessuale; anche l'arredamento aveva “un no so che” che pareva uscito dal set di un film pornografico. C'era una piccola cucina , il salotto all'entrata e due camere da letto.
Niente balconi, ma due finestre da cui avevo una bella visuale e spesso buon venticello a rinfrescare, il rio Sergipe davanti che sfociava nel mare in fondo sulla destra ed oltre esso la Barra dos coqueiros ed il verde della vegetazione. Non potevo crederci, finalmente uno spazio tutto mio! Mi sdraiai completamente nudo sul letto e feci un lungo sospiro, come di sollievo....Spensi la luce e buona
notte mondo.
FESTA, niente più che un mal di testa.
Arrivò in quei giorni un momento del quale da tanto tutti ne parlavano e che le pubblicità pompavano fragorosamente, il Precaju, una specie di carnevale anticipato, ad Aracaju appunto.
Sarebbero stati quell'anno solo tre i giorni di pura follia a rispetto dei cinque degli anni precedenti.
La festa, che consisteva in una sfilata di carri musicali per vari chilometri sul lungomare della città, era chiusa, nel senso che venivano chiuse dalla polizia tutte le vie che si immettevano sulla avenida beira mar (lungo mare appunto) e si poteva entrare solo dopo una rapida perquisizione. Venivano montati degli spalti lungo il percorso e dei palcoscenici. I carri dai colori e le forme più assortite, consistevano in dei camion trasformati in una cassa acustica vagante ed ultrapotente; al di sopra del rimorchio c'era come un terrazzo da dove si esibiva il cantante o la banda di turno ed anche i posti vip del valore inestimabile. Attorno ad ogni camion c'era una quantità di persone, pagate per farlo, che tenevano una lunga corda descrivendo una grossa ellisse; poteva entrare all'interno della corda solo chi aveva comprato la prevendita che consisteva in una canottiera tutta colorata, una tipica per ogni “bloco”(così chiamato il camion con la sua cordata).
Chi comprava la canottiera, a prezzi non indifferenti, godeva di una posizione abbastanza privilegiata, non dovendo stare schiacciato tra la ressa di comuni mortali al di fuori della corda ed avanzando libero di ballare. A quelli che tenevano la corda toccava un bel lavoro.
Migliaia e migliaia di persone ogni anno riempivano le larghe carreggiate dell'avenida beira mar e naturalmente c'era bisogno di venditori su venditori per saziarli. Ogni anno quindi chi aveva intenzione di vendere, ed erano veramente parecchie persone che lo volevano, si doveva registrare in una lista dalla quale venivano poi sorteggiati i fortunati che avrebbero venduto all'interno dello show, ovvero lungo il percorso seguito dai vari “blocos”, in punti prestabiliti.
A chi non fosse capitata la fortuna di essere sorteggiato non restava che vendere al di fuori dello show, principalmente lungo le vie d'accesso che vi si immettevano.
Venne una mattina lunedi presto, scesi per l'ascensore con la bici di Mateus (oramai la mia scassona era abbandonata a se stessa) che tenevo la notte dentro l'appartamento, mi fiondai da Zè e dopo il dovuto tempo di prassi per che fosse pronto, feci un salto a casa di Selma, poi io e lui ci avviammo pedalando in direzione del parque da cementeira, posto dove ci sarebbe stato la registrazione per partecipare al sorteggio come venditori all'interno dello show.
Come da prassi di Zè Carlos, facemmo un giro assurdo e sicuramente allungando parecchio, sotto il forte e netto sole brasiliano.
Arrivati sul posto, c'era il mondo intero in file interminabili per iscriversi. Zè con la sua tipica pazienza ed indifferenza al dolore ed alla fatica si andò a mettere in fila, io lo seguii; poi come vidi una signora, che avevo visto durante altri show ed era quella un po' che coordinava la sicurezza e la scelta dei posti da assegnare, mi incamminai per andarle incontro.
In realtà la avevo vista quella mattina stessa intervistata dalla televisione, mentre
riferivo a Selma che ci avevo parlato in varie occasioni; lei mi disse che era amica di suo fratello Genilson, il quale conosceva, facendo anche il giornalista in radio, parecchie persone di ruolo in città.
Sicché quando le fui vicino personalmente e ci fu un attimo dove nessuno le stava addosso, la salutai chiedendole se si ricordava di me, l'argentino che vendeva patatine fritte agli show, si ricordò. Poi le dissi che ero un amico di Genilson e volevo sapere se c'era un sistema per “are la selezione” e poter vendere dentro al Precaju. In parole semplici stavo cercando di corromperla in qualche maniera per are furbamente ed ingiustamente davanti a tutti gli altri grazie alla sua raccomandazione. La sua espressione si fece un po' strana capendo dove volevo andare a parare, mi chiese se avessi ottenuto il certificato il quale garantiva che conoscessi le norme di igiene e salute, necessario per chiunque avesse intenzione di vendere cibo. Il certificato, che si otteneva solo dopo 3 giorni di corso, non ce lo avevo e non immaginavo esistesse ed era ormai troppo tardi per farlo, allora non ci fu più niente da fare.
Andai ad avvisare Zè che rimase un po' deluso e ci mise un minuto intero a realizzare che era inutile restare in coda perché senza il certificato non si era accettati al sorteggio.
Si convinse infine quando chiesi a qualcuno tra quelli della coda ed in vari ci mostrarono il certificato.
Zè di suo, se fosse stato da solo, può darsi che sarebbe rimasto là 3 ore facendosi tutta la coda per poi essere rifiutato.
Ce ne andammo avendo alla pratica perso solo tempo, ma Zè non si abbatteva mai, la dimensione del tempo per lui aveva tutto un altro significato, si fumò una cannetta di erba delle sue nel parco ed il suo umore si riassettò ancor meglio in
modalità zen.
Ci sarebbe quindi toccato vendere fuori dallo show il che era, secondo lui, sicuramente meno lucrativo. Zè Carlos lo sapeva bene visto che ci aveva lavorato in diverse occasioni, di cui ne ricordava in particolare una.
In quell'anno, che ben ricordava, si era messo in società insieme ad un altro ed erano stati estratti nel sorteggio, potendo quindi vendere dentro il Precaju, Zè invesi di suo 1500 reais in birre ed altra roba da vendere. Mi raccontò che entrava ed usciva dai punti di accesso portandosi pesanti sacchi di ghiaccio sulla testa e casse di birra, mentre tutt'attorno a lui stava il finimondo di gente festeggiando tra cui doveva aprirsi il varco, e la fastidiosa “zuada”(musica o suoni assordanti) che a lui mai piacque. Andò avanti così per i 5 giorni che durò il precaju.
Alla fine della festa il suo socio gli diede in mano 1500 in biglietti tenendosi per sé svariate migliaia di reais. Zè non la prese certo molto bene e voleva ammazzare il tizio.
Il suo socio di quel tempo era tra l'altro ancora in circolazione, da un carro in centro vicino a Zè, vendeva:
“Uva mel a 1 real e 96! è isso mesmo!” (Uva miele a 1 real e 96! È proprio così!) Così cantava in ripetizione una voce registrata per gli altoparlanti. Il tizio era un vero furbacchione ed aveva la bilancia manomessa. Gli comprai 2 kili d'uva un giorno, essendo sicuro che mi aveva fregato me la feci pesare ad una bilancia seria in una merceria ed era poco più di 1kg. La volta successiva gli chiesi ancora 2 kili e vedendo che ripeteva il giochetto gli rinfacciai, davanti alle persone che stavano per acquistare, che lo sapevo che imbrogliava perchè avevo a casa la bilancia. Me ne mise dentro la busta un bel po' per farmi stare zitto, ma
non ci tornai mai più da lui.
Ero abituato a mangiare molta frutta ed era abbastanza normale vedermi con la bicicletta stracarico di buste piene di ogni prelibatezza tropicale e con il tempo imparai a non farmi fregare tanto facilmente come agli inizi.
Quei giorni prima della festa lavorai con Zè in centro, era molto comodo per me, poiché il punto vendita era molto vicino all'appartamento, Zè inoltre preparava lui tutto quanto il suo carro e quindi io dovevo semplicemente farmi trovare là quando lui arrivava.
Venerdì fu il giorno dell'inizio del Precaju e sembrava quasi si respirasse nell'aria la sensazione di qualcosa che stava per succedere, grandi masse di persone che si andavano concentrando nello stesso punto per fare baldoria, in qualche maniera si percepiva dalla distanza.
Dopo i lunghi preparativi iniziò la marcia mia e di Zè verso la speranza. Lo precedevo con la sua bici e lui avanzava con il suo carro stracarico come non mai, andai in avanscoperta arrivando a trovare un punto abbastanza buono e centrale rispetto al lungomare nell'avenida Francisco porto, dove c'erano anche i cavi elettrici in vista da cui avremmo potuto prendere l'energia per friggere.
Erano forse le 6 di pomeriggio ma in giro c'era già un casino di genti, polizia e traffico paralizzato a causa delle strade chiuse; alla fine Zè mi raggiunse e ci piazzammo al primo posto libero dopo i tanti venditori seguendo il marciapiede.
Sbaraccammo tutto quanto con calma, c'era un albero al nostro lato dove mi arrampicai e feci il gato con il fatt'apposta che aveva Zè per rubare la corrente,
lasciando i i tubi nascosti dentro la chioma dell'albero.
La serata iniziò e così il mare di gente che affluiva di continuo, poi iniziò anche la musica su di un palco allestito oltre lo sbocco dell'avenida Francisco Porto nella larga dalle tante corsie avenida beira mar.
Ascoltavamo arrivare da lontano i rumori mescolarsi ed io sedevo a sbucciare patate; nonostante il casino di persone che ci ava di fronte, praticamente quasi nessuno si fermava, essendo tutti febbricitanti di are il varco dei controlli ed entrare dentro nel vivo della festa. Speravo che al termine sarebbe andata meglio di come stava andando allora.
Arrivò il momento in cui il primo bloco, a o d'uomo e fermandosi ogni poco, raggiunse l'altezza della beira mar dove stavamo noi, allorchè la curiosità fu più forte e lasciai Zè per andare a dare un occhiata da vicino; in realtà non c'era bisogno del mio aiuto.
All'ingresso dell'avenida mi controllarono i poliziotti con dei metal detector portatili e sentii la lieve sensazione d'ansia che sempre mi prendeva per paura incosciente di non avere mai tutto a posto e secondo la legge.
Poi fui dentro e veramente c'era un casino assurdo, pieno di gente con tanta voglia di divertirsi.
Vi restai mezzora guardando due blocos are per poi tornare al carro assieme a Zè.
ò la notte e la vendita fu quantomai nerissima, vendemmo non so con quale strategia di convincimento solo 4 porzioni di patatine a delle persone che si erano fermate al carro per altre cose; non restò che raccattare lattine di prima mattina per poi andarsene.
Notai che molti tra gli altri venditori vicino a noi, non se ne andavano, sarebbero rimasti per 3 giorni di fila nello stesso posto notte e giorno, per evitare che arrivasse un altro venditore a fregargli la postazione.
Zè stava visibilmente contrariato, la sua espressione tradiva i suoi brutti pensieri e mi portava rancore per averlo fatto mettere in quel business, era stato lievemente scettico fin dall'inizio nonostante il mio entusiasmo ed ora vedeva confermati i suoi sospetti ed io non potevo dargli torto.
Mi sentivo realmente dispiaciuto che le nostre vendite a quanto pare non accennavano ad andar bene e l'idea sembrava non funzionare come mi aspettai.
La seconda notte di Precaju ci andai, non in veste di venditore però, ma come festaiolo.
Lasciai la bici di Mateus, senza manco provare a nasconerla nell'oscurità e senza manco legarla appoggiata ad un palo e mi diressi all'ingresso da dove partiva la sfilata dei camion musicali; c'era una ressa incredibile che forzava ad imbuto per are dal controllo. Infine fui dentro e camminando recuperai qualche bloco che era già partito.
Mi divertii parecchio marciando e saltando con il bloco di chiclette com banana ed il bloco di Claudia leite; cantanti molto conosciuti.
Fu un continuo bere birra e fare chilometri ballando, l'unica pecca fu che mi era partito la fissazione dopo poche birre e continuavo a cercare qualche bella ragazza da approcciare, non concludendo nulla di fatto. Alla fine della fiera il motivo fondamentale per cui rimasi tutte quelle ore in mezzo al frastuono, esaurito il divertimento iniziale, era squallidamente quello di cercare di sfogare l'istinto alla riproduzione.
ai anche a trovare Zè, che stava al punto del giorno precedente, infine verso le 4 del mattino uscii, ripercorsi a piedi tutta la strada fino al punto dove avevo lasciato la bici, che nessuno aveva avuto il coraggio di rubare. Mi diressi a casa di Selma, la trovai sola che guardava la TV sdraiata sul letto, aveva bevuto ed iniziò a chiamarmi amore.
Mi aveva aspettato tutto il tempo, sperando in cuor suo che fossi tornato da lei e non che avessi ato la notte con un'altra donna; facemmo l'amore apionatamente e più volte.
ò anche il 3 giorno di Precaju e forse il seguente, poco più di una settimana da quando il carro fu pronto, Zè Carlos mi disse che non ne voleva più sapere di quel lavoro in società e che non dava; allora si mise di mezzo Selma per aiutarci a trovare un accordo ed evitare eventuali litigi. Da parte mia ero tranquillo e lui ugualmente; per me l'importante, ed il motivo per cui avevo spinto tanto per attuare la mia idea, era che Zè fosse felice e non si affaticasse troppo visti i suoi quasi 50 anni a portandosi appresso tutto quel peso. Avevo un forte senso di amicizia verso di lui.
Secondo la soluzione giusta e logica di Selma io avrei pagato a Zè la parte messa da lui per comprare tutto quanto, che era ben oltre il 50% a testa visto che aveva anticipato su varie cose prendendo tutto il materiale che avevamo; restava il fatto che non avevo più un soldo e avrei potuto pagarlo solo un poco alla volta con i
guadagni fatti dalle vendite.
Rimasi d'accordo con Selma che lei avrebbe continuato a vendere con l'attrezzatura nuova davanti casa sua mentre io sarei tornato al mio punto solito davanti la chiesa.
Non ò neanche un giorno perchè Zè, da un certo punto di vista per mia fortuna, cambiasse idea. Si presentò da Selma annunciando il suo ripensamento ed iniziò a portarsi via la roba, per poi pagarmi la parte che avevo messo io e mi ritrovai così qualche soldo in tasca.
Zè tornò a lavorare in centro, avendo ora il guadagno delle patatine interamente per se ed io fui felice perchè avevo ottenuto quello che avevo sperato per lui fin dall'inizio.
Gli avevo rotto le palle infatti fin da quando mi ero comprato il mio carrino per convincerlo a convertire il suo e vendere anche lui patatine; ed ora lo stava facendo caricandosi meno peso da trainare ogni giorno, motivo per il quale lo volevo convincere a cambiare il suo business.
Durante il mio tentativo per cercare di metter su il business assieme a Zè Zè e quando iniziammo davvero per quelle poche volte, il mio carrino nel frattempo era stato usato da Selma di fronte casa; avevo mandato a fare delle frecce di legno con scritto batatinha che appendemmo a 2 pali lungo la strada, per farci pubblicità, ma non si riusciva a vendere a causa della brutta posizione in curva e discesa, dove una macchina fermandosi rischiava di essere travolta e portata via in caso asse l'onibus.
Dopo la decisione di Zè, tentai anche io di vendere comodamente di fronte a casa Selma per qualche tempo ma non ne valeva la pena, così tornai al mio posto solito.
Il mese di febbraio ò molto in fretta, mi facevo in bici quasi tutti i giorni dall'appartamento in centro dove stavo fino a casa di Selma, dove mi aspettava il carrino spesso già pronto, poi lo spingevo al mio punto vendita e finita la serata me ne tornavo in bici all'appartamento in centro.
Quando compravo il famoso sacco di patate, con cui continuavano inarrestabili le mie folli corse, o delle altre cose necessarie lasciavo tutto a casa sua chiaramente.
ULTIMO MESE, agli sgoccioli.
Selma cominciò sempre più spesso, soprattutto all'inizio febbraio a venire “da me” a “dormire”.
Se normalmente avevamo una abitudine sessuale che nonostante fosse di nascosto era piuttosto frequente, ora che eravamo liberi da ogni potenziale elemento di disturbo facevamo sesso sfrenato per tutta la notte ed iniziai a sentirmi una specie di porno attore, maestro nell'arte del sesso e raggiunsi un alto livello di autocontrollo, sentendomi realmente benissimo e pieno di vigore per tutto quel periodo.
Sapevo che stava giungendo il termine del mio visto ed avevo bisogno di far più soldi possibile prima di partire per andarmene da qualche altra parte, così pensai di cercarmi un secondo lavoro e chiedere in un posto che da tempo mi era venuto
in mente ovvero il mercato dove compravo puntualmente i sacchi di patate.
Vedevo ogni volta che ci andavo ragazzi che facevano i facchini caricandosi i carri di roba da portare in altri punti della città, oppure scaricando i camion.
Era un lavoro che iniziava alle 3 di notte, alzando e spostando pesi e tirando il carro per tutto il tempo fino alle 8 di mattina oppure, a chi ne aveva le forze per restare, fino a mezzogiorno.
Parlai con qualcuno e mi dissero che bastava che gli avessi portato un mio curriculum e copia dei documenti e poi avrei potuto pagare in anticipo il noleggio di un carro ed iniziare a lavorare.
Il punto era che non si era pagati ad ora, ma a camion scaricato oppure a viaggio fatto in caso si fe facchinaggio, compresi che c'erano giorni buoni e giorni non.
Arrivò la notte che avevo intenzione di andare a dare i fogli necessari al responsabile del mercato ed iniziare a lavorare, avevo dormito nell'appartamento giusto 2 ore avendo finito di lavorare vendendo patatine poco prima ed ora già mi ritrovavo sulla bicicletta tornando nella direzione da dove ero venuto.
Dentro di me c'era una lotta in corso, ero indeciso se mettere il mio fisico ancora più sotto sforzo di quello che già non facevo oppure avere la notte per riposare e fare buon sesso quando Selma restava da me.
Percorsi poche centinaia di metri e mentre si formulavano pensieri di indecisione nella mia testa, cercavo un qualche segno che mi dicesse cosa fare, quando improvvisamente saltò la corrente in tutta la città credo, o almeno dove stavo io sicuramente.
ai sotto il palazzone dello stato di Sergipe ed imboccai l'Avenida Joao Ribeiro completamente nell'oscurità se non per la chiesa sopra la collina del Santo Antonio che svettava come sempre bianca, ferma e distinta nel cielo notturno.
Quella mancanza di elettricità mi sembrò un chiaro segno di: “Non ci andare!” eppure continuai avanzando in direzione del mercato, avrei dato un occhiata comunque, magari là era illuminato.
Arrivai sul posto ed anche là era tutto all'oscuro se non per qualche faro di macchina che illuminava un camion mentre un ragazzo a metri da terra sopra il rimorchio lanciava roba di sotto ad un altro per scaricarlo.
Rimasi forse mezzora sulla bicicletta a guardare quella scena sentendo un freno dentro di me che mi impediva di farmi avanti a chiedere per lavorare, sembrava inoltre fosse fiacca la cosa e secondo il mio pensiero razionale non ci sarebbe stato lavoro per me quella notte.
Al ritorno allungai il cammino prendendo altre vie secondarie, mi ritrovai nella rua Santa Rosa che a quell'ora pullulava di poveri e drogati dormendo sui marciapiedi, prostitute e malandri. Mi disse Selma in seguito di non are da quelle parti ad una certa ora perchè era pericoloso.
Tornai all'appartamento ed arrivai al settimo piano con la bici in spalla per delle tortuose scale a chiocciola pressoché inutilizzate, come poi fui dentro l'appartamento tornò la corrente, lasciandomi piuttosto incredulo per quegli eventi per me così bizzarri.
Lasciai poi perdere quell'idea e non fui mai più a chiedere di lavorare in quel posto ne in nessun'altro.
Nel grosso edificio dove adesso vivevo c'era anche un signore italiano. Ebbi modo di conoscerlo una mattina mentre accompagnavo Selma a prendere la lotaçào (taxi condiviso dal percorso fisso) per tornare a casa sua, aveva un cane e scambiate due parole capimmo entrambi di essere italiani. Sentii vergogna, per paura che mi lui mi chiedesse chi fosse Selma. Per la prima volta mi preoccupai di cosa pensasse una persona della mia relazione con Selma, donna ben più grande di me, infatti normalmente vivevo la cosa nella più totale indifferenza, essendo uno straniero in quella città, ma il solo parlare con un italiano mi mise a disagio.
Mi sorse poi l'italianofobia di cui parlavo ogni volta che uscivo od entravo dall'edificio per paura di incontrare quel signore e di sentirmi giudicato; lo rividi solo una volta ed a pensarci ora questa fu una delle paure più assurde che ebbi, visto che alla fine ognuno a troppi problemi già nella propria di vita per stare a pensare più di tanto a quello che fanno gli altri.
Ci fu una domenica mattina che decisi di andarmene a mare, era presto ed ebbi la geniale idea di fare un brodo che sarebbe stato pronto al mio ritorno.
Presi la pentola più grossa che trovai, la riempii d'acqua un goccio d'aceto e pezzi d'ossa di vacca con qualche residuo di carne attaccato e misi sul fuoco a fiamma bassa ed una volta tornato ci avrei aggiunto le verdure.
Uscii di casa con l'intenzione che sarei arrivato alla prima spiaggia giusto per farmi un tuffo ed essere indietro nel giro di un oretta. Già il vento fresco mentre pedalavo per le vie deserte mi fece sentire bello sveglio e presente, la giornata era magnifica. Arrivai alla prima spiaggia a poco più di 2 chilometri dallo shopping riomar.
Capitai in un momento di bassa marea e c'era una zona della spiaggia dove era rimasta dell'acqua formando delle piscine naturali poco profonde, l'acqua all'interno era della temperatura perfetta. Mi sdraiai a pancia in su e chiusi gli occhi, iniziai non so il perchè a concentrarmi sul corpo, ando a rassegna ogni parte sentendo la sensazione che suscitava.
Mi accorsi che avevo i muscoli praticamente tutti contratti, come quasi se stessi facendo uno sforzo, con le orecchie immerse potevo sentire amplificata gracchiare ogni articolazione. Come portavo l'attenzione su di una parte mi sembrava che il lieve ondeggiare dell'acqua mi aiutasse a decontrarre, rilassando a poco a poco il corpo intero.
Mi ritrovai dopo un po' in una situazione di profonda rilassatezza e di ignara meditazione, finii per cadere nel sonno. Quando riaprii gli occhi notai che la marea si stava alzando facendo tornare la piscina naturale un tutt'uno con il mare da cui si era separata ore addietro.
Non conscio del tempo ato presi la mia bicicletta e continuai il mio giro per la spiaggia proseguendo verso sud, con la vana e fioca speranza di rivedere la famosa ragazza del malvivente.
Per fortuna non c'era, quando improvvisamente mi ricordai della pentola sul
fuoco mi dissi che tutto sommato non c'era da preoccuparsi la fiamma era al minimo e la pentola piena d'acqua, me la presi con comodo pedalando e godendomi la rilassatezza raggiunta ed il buon umore.
Fu così finché non chiesi l'orario ad un ante e mi resi conto che erano ate tipo 3 ore, allora mi misi a pedalare velocemente con immagini di disastri sfrecciando di continuo per la mente tormentandomi.
Immaginavo il palazzo intero preso dalle fiamme, e le conseguenze che ci sarebbero state; il travestito dell'appartamento ci sarebbe rimasta malissimo ed avrei dovuto pagare danni per chi sa quale valore, l'ansia mi assalì al seguitare in questi pensieri.
Feci uno sforzo pensando che stare in ansia ed aver paura non mi sarebbe servito a risolvere qualcosa così cercai di recuperare quella rilassatezza che avevo sperimentato in spiaggia mantenendo il più possibile la concentrazione esclusivamente sul pedalare veloce.
Arrivato sotto il grande palazzo vidi due camion dei pompieri e parecchie persone fuori con occhi allarmati guardarsi attorno.
raggiunsi l'ascensore ed il portiere mi chiese chi ero e gli dissi il numero dell'appartamento ed ebbi la conferma che i pompieri erano là specialmente per me.
Raggiunto il piano trovai svariate persone nel pianerottolo ed i pompieri avevano già finito il loro lavoro. L'inferriata davanti alla porta era stata divelta, la porta dell'appartamento era intatta meno la serratura che dai i colpi presi aveva
scaricato l'urto sullo stipite in legno, spaccandolo.
Nonostante tutto il trambusto mi meravigliai di come non mi sentissi agitato, ma quasi curioso di quell'esperienza insolita; una volta ata la porta non trovai nulla del disastro che mi ero immaginato. A Parte il forte puzzo di bruciato era tutto quanto in ordine.
La pentola era stata messa nel lavandino ed era piena d'acqua.
Un pompiere mi fece qualche domanda e mi fece firmare un foglio, erano arrivati giusto pochi minuti prima di me, li aveva chiamati un vicino sentendo il puzzo di bruciato ed avendo visto che bussando alla porta di casa nessuno rispondeva; pensavano fossi svenuto o qualcosa del genere.
Chiusi la porta in faccia ai curiosi e mi misi alla finestra; tolsi l'acqua dalla pentola per vedere il contenuto e trovai roba simile a carbonio radioattivo al posto delle ossa; poco dopo fui da Selma a pranzare e raccontare l'accaduto.
Dopo le tante risate per non piangere, decidemmo inizialmente di fare silenzio per dei giorni con il sorello di Selma per poter escogitare il sistema migliore di faglielo sapere, ma sicuramente qualcuno del palazzo la avrebbe avvisata, così Selma prese e la chiamò e ci parlai anche io naturalmente non dicendo che mi ero allontanato per più di 3 ore con una pentola sul fuoco e mentendo anche sui dettagli dell'entità del danno.
Non ò infatti molto tempo che già qualcuno la aveva avvisata, un gay che stava sul mio stesso piano, che tra l'altro mi dava spesso certe occhiate, aveva fatto la spia il giorno stesso, ma noi per fortuna lo avevamo battuto sul tempo.
Ci fu un'altra domenica dove andai assieme a Selma, un suo fratellastro chiamato da tutti Hulk (che era tra le tante comparse in casa Selma) per la sua stazza, la ragazza di cui Hulk era l'amante visto che il marito era sempre via ed una loro amica a fare un giro sulla sua combi.
Hulk si faceva vivo con frequenza, soprattutto in compagnia della ragazza e qualche birrettina che si scolavano in casa Selma.
Fummo verso nord, con questa combi senza revisione, guidati da Hulk che si fermò da vari venditori lungo il cammino per comprare amendoin (arachidi bollite), camarào (gamberetti) ed un frango assado (pollo allo spiedo).
Era fenomenale il suo modo di fare con i venditori, prepotente misto ad un tono di voce di chi subisce un torto; otteneva larghi sconti ovunque rifiutandosi di principio di pagare qualsiasi prezzo gli venisse detto.
Faceva così in ogni posto e situazione e mi chiesi se ci riuscisse anche alle casse del supermercato o per pagare le bollette, fattostà che il suo sistema per quello che vidi funzionava.
Oltre Barra dos coqueiros, lasciando la “civiltà” per entrare nel verde della caratteristica mata atlantica brasileira ammo da un posto di blocco della polizia senza essere fermati, ci fu un esplosione di gioia di Hulk ed io lo accompagnai gridando, in caso fosse stato fermato gli avrebbero sequestrato il suo amato mezzo.
Dopo aver seguito questa strada nella natura arrivammo in fine in un posto carino dove c'era una sorgente d'acqua potabile e cristallina. Si poteva fare il bagno e mangiare da qualche baracchina o ristorante.
Sebbene Hulk avesse comprato un pollo intero di cui se ne mangiò quasi metà da solo più il normale riso e fagioli, senza contare il continuo mangiare durante il viaggio, ordinò un pesce più contorni e mangiammo sia io che lui come maiali.
Al farmi il bagno mi sentivo talmente pieno che ebbi paura di restarci secco nell'acqua, mi sentivo quasi sballato per tutto quel cibo, ancora non avevo bevuto nulla.
Poi venne l'amante dell'amica che stava con noi, di cui lei ci aveva già detto tristemente ogni difetto ed aspetto peculiare prima che arrivasse, dando almeno a me un'idea tutta diversa dalla persona vera e propria.
Dopo qualche ora quando iniziò a farsi scuro, ci recammo a Pirambù, io in realtà già da un pezzo non vedevo l'ora di andarmene via e stare un po' per i fatti miei; mi era difficile reggere quelle festine a base alcolica per più di un breve periodo e sentivo chiaramente di allontanarmi progressivamente da me stesso con l'alcool ingerito ed il tempo che permanevo in quelle situazioni.
Arrivati ad un bar mi misi a bere birra anche io, ma non riuscivo ad ubriacarmi a quanto mi parve, o meglio sentivo l'alcool salire dentro di me ma mantenevo sempre una specie di compostezza e lucidità mentale.
Iniziai ad osservare le persone con cui stavo, notando tutte le assurdità delle loro ed anche mie manifestazioni esteriori.
Ci fu un punto dove qualcuno andò in bagno, come si allontanò abbastanza gli altri cominciarono a parlare dietro a quella persona.
Dopo del tempo fu in bagno qualcun'altro e parlarono dietro anche a lui, per poi smettere e fare finta di niente quando la persona tornava. Successe un'altra volta e quando poi ci andai io in bagno, mi sentii sicuro che in quel momento stavano sparlando di me. Quando tornai al tavolo chiesi sarcasticamente se almeno di me avessero parlato bene, suscitando un lieve disagio in tutti quanti, probabilmente centrai in pieno la mia intuizione od ancor più probabile trasparì la mia arroganza.
Rimasi malamente sorpreso da quella costatazione di bassezza dell'essere umano, pronto a parlar male per atempo della persona con cui stava ridendo e scherzando giusto qualche momento prima e di tanta ipocrisia che leggevo tra le righe in tutti i discorsi che mi toccava ascoltare.
Continuai bevendo nella speranza di offuscarmi e poter essere anch'io come gli altri con cui stavo, ma non ci fu verso.
D'un tratto mi allontanai con la scusa di farmi un giro e fui a dare un occhiata alla fiera che stava tenendosi la vicino, mi ritrovai ad andare oltre girando per qualche via del paese ed infine in uno spiazzo dove oltre una strada finivano le costruzioni ed iniziavano i coqueiros (piantagioni di alberi da cocco).
Guardai il cielo scuro...Quale ragione alla mia esistenza? Perché tutto ciò? Perché una continua sensazione interiore che mi perseguitava a cercare qualcosa e non riuscivo ad essere come gli altri?
Tornai al bar e mi sedetti al tavolo come rinvigorito dentro, sembrò quasi che non avessi proprio bevuto nulla, anzi mi sentii più “sveglio” e mi dissi che tanto valeva volgere quella situazione a mia utilità approfittandone per osservare le relazioni tra le persone ando il resto della serata pressoché zitto. Quando mi chiesero il perchè di tanto silenzio non mi sprecai nemmeno a giustificarmi più di tanto. Selma con il suo senso femminile sentì che c'era qualcosa che non andava in me ed iniziò a farmi domande, le dissi che ero stanco.
Successe ad un certo punto fra i tanti discorsi che non portavano a nulla e mai sembravano finire che Hulk disse una frase del tipo che se una bella ragazza gli avesse fatto una proposta sessuale lui non avrebbe certo rifiutato, sostenuto dal fatto che l'uomo aveva il suo istinto a cui non poteva certo sottrarsi; al che la fidanzata si mise a piangere ed iniziò tutta una diatriba sull'argomento.
Hulk era forse l'unico che mi andava a genio in un certo senso, era guidato solamente dal suo impulso animale, ma per lo meno era sinceramente se stesso e diceva le cose in faccia.
Anche Selma la presi in antipatia quella sera, era diventata insopportabile come ogni volta che beveva d'altronde. Cadeva la sua maschera di altruismo dovuta secondo me in buona parte alla morale cattolica e veniva fuori una Selma totalmente differente, senza un minimo di “tatto” ma anzi piuttosto grezza.
Finalmente arrivò il momento di andarsene, l'amica andò via in macchina con il suo amante ed io e Selma sedevamo sul fondo della combi di Hulk.
Selma si fece appiccicosa non sentendo lo stato interno in cui stavo in quei momenti, la allontanai con gentilezza allora si mise a cercare di baciarmi, cosa
che non faceva mai, e ci baciammo un po', il suo modo di baciare era tutto scordinato a causa della sua ubriachezza e la cosa mi diede fastidio, la guardai in faccia e mi sembrò di vederla grottescamente brutta; poi mi infilò una mano nei pantaloni prendendomi l'arnese. Il tutto avvenne con un fare rozzo, quasi come se stesse cercando il suo oggetto di piacere; la respinsi dicendole di smetterla che era ridicola. Sentivo una specie di disgusto verso lei ma soprattutto verso me stesso, di essermi ridotto a stare con una donna più vecchia per soddisfare a piacimento tutte le mie pulsioni sessualei ed a stare in compagnia di persone che non avevano nulla da darmi se non il farmi comprendere quanto fossi caduto in basso.
Nulla da un punto di vista interno, si potrebbe dire per lo spirito.
Selma aveva problemi con l'alcool e non riusciva a controllarsi minimamente arrivando quasi ogni volta che beveva al punto di offuscarsi totalmente ed andare a dormire, mi dispiaceva molto vederla ridursi così ogni volta.
Iniziò un litigio tra me e lei che da ubriaca mostrava la sua altra faccia e scoprivo ogni volta qualcosa che mi faceva pentire tantissimo di are i miei momenti con lei. Arrivò un punto del breve litigio dove le presi la lattina di birra che stava bevendo e la lanciai furiosamente fuori dal finestrino; ci rimase molto male, fece per prenderne un'altra dal cassone, ma gliela tolsi di mano mettendola vicino al finestrino.
“Scegli” le dissi. “O la birra o me”.
ò un lungo minuto di faccia a faccia dove lessi chiaramente la sua indecisione. Dentro di me vedendo tutto quell'indugiare sentii il sentimento, che comunque esisteva, che provavo per lei, morire.
Infine “scelse me” ed io misi a posto la birra nel cassone, poi lei si rifiutò di bere per quello che rimaneva della serata.
In altre poche occasioni dove si beveva arrivò pietosamente a chiedermi il permesso se poteva bere, ciò mi diede dei sensi di colpa non indifferenti riguardo al mio modo di agire spesso molto estremo.
In vino veritas
Comunque sia ci riappacificammo bene o male fin da subito e proseguì la nostra follia di quel febbraio.
Una sera che lei non venne da me, mi ero comprato dell'erba da Zè Carlos e me la fumai a casa da solo, andai fuori a bestia e non riuscivo a prender sonno, i miei pensieri che scorrevano associativamente senza sosta d'un tratto si volsero alla mia partenza in breve e mi figurai mentalmente questa frase che fu uno shock tremendo per me:
“Come farà Selma senza di me?”.
Fui scosso come da un brivido ed iniziai a sbattere la testa contro una porta piangendo per la disperazione. Andai avanti così per del tempo senza riuscire a calmarmi.
La sera seguente Selma venne a dormire all'appartamento e dopo qualche
sessione spinta di sport da letto rollai dentro una carta marrone un bel cannone pieno d'erba; lei aveva fatto solo un tiro per sbaglio in vita sua non conoscendo quindi l'effetto della cosa.
L'erba sembrava non fare nessun tipo di effetto sul momento, ma io avendola provata il giorno prima avevo idea di com'era. Selma iniziò quindi a farmi notare che non sentiva niente, le dissi di fare tiri più pesanti e lo fece.
A canna finita dopo qualche risa, Selma si stese sul letto a pancia in su e rimase per un ora letteralmente paralizzata, inizialmente la presi sul ridere poi capii che non scherzava quando mi chiese di spostarle le gambe...Non ce la faceva da sola.
Per fortuna lei a parte qualche domanda sulla durata di quell'effetto, non si preoccupò molto ed io (che dentro di me speravo di non averle combinato un danno irreversibile) riuscii a farla stare tranquilla e senza ansia fino a che ò tutto quanto.
IN PARTENZA, destinazione non prevista.
Il giorno di marzo della fine del visto si avvicinava sempre di più e non sapevo bene cosa fare, era certo che sarei uscito dal Brasile ed almeno per un mese, visto che ad inizio aprile, data del mio primo ingresso in assoluto in quel paese, il conteggio del visto sarebbe cominciato nuovamente ed avrei avuto diritto ad altri 3 più 3 mesi. Le storie del visto sinceramente non le avevo mai capite a pieno e non erano mai stati molto fiscali quelli della policia federal con me.
Chiesi dei soldi in famiglia, pieno di vergogna ma purtroppo senza alternativa. Nonostante i tanti sforzi di quei mesi, per mandare avanti la famiglia e sostenere
le mie spese mi ritrovavo ora con ben poco.
Dopo varie valutazioni tra cui l'idea di tornare in Bolivia dove si viveva con molto poco, e che già conoscevo, per restarci un mese; la spinta verso l'ignoto tuttavia ebbe sempre la meglio su di me e di tornare in Italia non se ne parlava proprio. Lonely planet mi diede il giusto imput, sarei andato alla triplice frontiera un posto a migliaia di chilometri da Aracaju, lungo il rio delle amazzoni dove confinavano 3 paeselli su 3 sponde appartenenti rispettivamente a Brasile, Perù e Colombia.
Immaginavo che un posto del genere avrebbe offerto molti vantaggi, avrei magari trovato un qualche modo di commerciare cose da un paese all'altro ed in caso fosse andata male sarei tornato indietro dopo un mese, od anche prima, facendomi fare il timbro d'uscita dal Brasile sul aporto, per poi non mettere quello di ingresso e non risultare presente sul territorio brasiliano. Mi entusiasmava soprattutto che avrei visto il rio delle amazzoni che da tanto desideravo vedere e vissuto qualche nuova avventura.
Decisi, come spesso accadde, in maniera repentina che la mia partenza sarebbe stata nell'arco di 3 giorni e sarei arrivato a destinazione con vari giorni di sforamento del visto, ma non importava.
In quegli ultimi giorni Selma si fece molto malinconica per la mia prossima partenza, soffrimmo molto entrambi, nonostante la differenza di età ed il fatto che il nostro rapporto era quello di due amici che si vengono incontro anche a letto, solo il pensiero della separazione mi dava sofferenza.
Andai a stampare in centro da una macchinetta automatica delle foto che mi ero fatto e mi ritraevano per lo più nudo ed in pose statuarie e gliele regalai. La scoprii piangere di nascosto un giorno ed abbracciandola forte scoppiai a
piangere anche io, era una donna eccezionale e la sua presenza mi sarebbe mancata moltissimo.
Tra di noi si era sviluppato con il tempo qualcosa di veramente forte che non mi sarei mai aspettato.
Volli cercare di evitare di salutare tutte le persone che avevo conosciuto in quei mesi, non piacendomi i saluti.
Fui a salutare il mio buon compagno di avventure Zè Carlos e gli dissi già da qualche giorno prima, visto che avevo smesso di lavorare, che poteva vendere al punto davanti alla chiesa dove ero solito farlo io, molto vicino a casa sua.
Zè Carlos iniziò così a vendere al mio punto e sembrava andargli bene, non fosse che congelava le patatine fritte non vendute, per poi rifriggerle i giorni seguenti fino a che diventassero quasi nere, inoltre non cambiava l'olio per friggere; la speranza era che non venisse un intossicazione alimentare a qualcuno.
Avevo inoltre trovato un ragazzo disposto ad offrirmi 500 reais per il mio carrino, ma infine lo lasciai a Selma come mezzo per sostentarsi.
Avevo un onibus per Salvador quell'ultima sera, era una domenica e ai il giorno intero con Selma a casa sua da soli, facemmo sesso un paio di volte, ma ci premeva molto di più parlare uno con l'altro ed abbracciarci; piangemmo tutti e due, lei moltissimo. Ancora non mi sembrava vero che fosse giunto il momento di partire.
Quando arrivò l'ora, poco dopo il tramonto, lei mi disse di andare altrimenti avrei perso il mio mezzo, non mi avrebbe accompagnato alla porta di casa per non soffrire troppo; la lasciai nel quintal salutandoci con un bacio ed un forte abbraccio, mi presi lo zainetto che avevo con alcune cose che mi aveva dato lei ed altra roba.
Mai fu tanto strano uscire dal cancello di quella casa, percorsi venti metri quando mi sentii chiamare; Selma stava gridando il mio nome; mi girai senza fermarmi e c'era lei mandandomi baci e facendomi il segno del cuore con le mani, poi corse dentro casa. La tentazione di tornare indietro a rincuorarla fu enorme, ma dovevo andare avanti, se fossi tornato indietro da lei in quel momento non avrei avuto più il coraggio di partire. Camminavo rapido nell'aria rinfescata della sera e sentivo qualcosa morirmi dentro, dopo un ultimo pianto dove disperato mi chiedevo perchè mai una donna con cui avevo quel bel rapporto dovesse mai essere più grande e con dei figli, che cosa ingiusta era. Perchè?
Interruppi quello stato di disperazione e sentendomi pervaso completamente da quelle emozioni mi feci una promessa... Sarei stato forte da quel momento in poi.
Arrivai all'appartamento e presi il mio zaino, lasciai una carta con scritta una dedica per Selma ed uscii di casa.
Andai in centro e presi un onibus che mi avrebbe portato fino alla rodoviaria dove mi aspettava l'onibus per Salvador.
Per le strade di Aracaju c'era gente in festa, era iniziato il carnevale in Brasile, un momento di “alegria” che per me era una sinfonia triste di sottofondo.
La mattina all'alba arrivai a Salvador da Bahia, nella sua immancabile la sua rodoviaria-centro di gravità dove ai dio solo sa quante volte fino ad allora.
Comprai un biglietto per Belem che sarebbe partito di primo pomeriggio. Anche a Salvador c'era pieno di gente che tornava dalla notte ata a fare baldoria nella follia del carnevale.
Arrivò il momento di prendere l'onibus per Belem, il quale era mezzo vuoto, mi aspettavano 33 ore di autobus.
Il mio umore era uno dei più bassi mai avuti ma mi sentivo abbastanza tranquillo, quasi come se avessi fatto degli sforzi fisici prolungati ed ora mi sentissi stanchissimo.
Dormii buona parte del viaggio, la mia malinconia era richiamata dal fatto che nel posto davanti al mio c'era un ragazzo che come c'era campo telefonava alla fidanzata e piangeva; la stessa scena si ripeteva dietro, dove invece c'era una ragazza carina che parlava con il fidanzato appena lasciato, insomma era uno strazio.
ammo all'interno per arrivare a Belem e non lungo la costa; si era fatto buio da non molto tempo ed io stavo con gli occhi chiusi cercando di addormentarmi, quando successe una cosa incredibile. Sentii una voce forte e chiara sussurrarmi nella testa:
“Querido” (caro). Era la voce di Selma, che riconobbi istantaneamente ed aprii
subito gli occhi guardandomi attorno sorpreso come non mai per quel fenomeno.
Richiusi gli occhi tentando in qualche maniera di mettermi in ascolto e di comunicare come si farebbe in una telefonata, ma non c'era campo... La cosa non ebbe modo di ripetersi più.
Razionalizzando poi quel fenomeno di presunta telepatia mi accorsi che doveva essere capitato più o meno nel momento in cui l'onibus si trovava in linea d'aria più vicino ad Aracaju.
Per il resto del viaggio il giorno seguente vidi vari paeselli dove festeggiavano il carnevale spensierati. Era strano assistere a tutto quel festeggiare a bordo dell'onibus che avanzava a o d'uomo nei momenti di ressa, tutto ciò mi faceva sentire ancor di più estraneo al sentimento di “alegria e folia” generale; anche il tempo ci metteva la sua parte e rimase grigio tutto il viaggio; e ci furono anche forti pioggie nel Maranhào, con punti dove l'onibus ò in pozzanghere profonde quanto mezza ruota.
Mi piacque molto il paesaggio di palme tra lo stato del Maranhào e del Parà, palme da cui raccoglievano un frutto per estrarne una parte e farne un dolce aggiungendoci un casino di zucchero.
Belem venne raggiunta dopo la mezzanotte e dopo un viaggio lunghissimo, mi buttai sulle sedie d'aspetto nella rodoviaria e totalmente senza sonno a causa dell'eccessivo riposo di tutte quelle ore di viaggio ed aprii la mie Lonely Planet. Come già scritto avevo intenzione di risalire tutto il rio delle amazzoni fino al confine con Perù e Colombia, ma non so bene come, forse vedendo le mappe del sud America, mi venne l'idea improvvisa di andare in Guyana se.
Iniziai a fare calcoli logico-razionali devastanti, scrivendo su pezzi di carta i fattori da considerare come soldi da parte, valuta nei paesi in cui sarei andato e tempo per arrivare a destinazione da tenere in conto siccome era in scadenza il mio visto e non volevo pagare multe e tante altre cose.
C'era da tenere anche in considerazione che da una settimana a quella parte, manco a farlo apposta era piovuto il finimondo in Amazzonia, soprattutto nelle zone in cui avevo intenzione di andare e c'era il rischio che fossero bloccati i trasporti.
Per arrivare alla triplice frontiera da Belem erano sulle 2 settimane di navigazione, cambiando a Manaus.
Arrivarono le 5 del mattino, di tanti calcoli che feci quasi mi andò in fumo il cervello ed infine chiusi la benedetta guida e gli occhi forse solo mezzoretta; si venne poi a sedere vicino a me un vecchio dalla faccia vissuta.
Iniziammo a parlare e gli chiesi cosa ne pensava della Guyana se, mi rispose per prima cosa che là era buono per lavorare nelle miniere d'oro; mi si drizzarono di colpo le antenne ed iniziai a tempestarlo di domande.
Non tenni conto che i racconti di cui parlava si riferivano ad un epoca dei “garimpeiros” di decenni fa.
Mentre parlavamo si avvicinò anche una bella ragazza che si sedette dietro di me, il vecchio la tirò in mezzo nel discorso ed in breve lui se ne andò e ci trovammo soli a chiacchierare; lei stava andando al negozio in cui lavorava e come ogni mattina si fermava nella rodoviaria quasi un'ora perchè arrivava
troppo presto per aspettare per strada.
Era molto carina, con dei vaghi tratti da indio ed un bel corpo; dopo del tempo che parlavamo sembrava avessimo già molta confidenza e le prendevo le mani accarezzandogliele mentre ci guardavamo negli occhi; ma come mi disse che aveva due figli ed il suo ex che andava a trovarla mi sentii come una spia di allarme accendersi nel cervello.
Mi chiedeva se sarei rimasto li a Belem, ma non potevo a causa del visto in scadenza, non che se avessi sforato i giorni qualcuno sarebbe corso a cercarmi beninteso. Mi feci lasciare il suo numero di telefono ed infine andò via.
La mia indecisione sul da farsi si fece tremenda dopo questo evento; era molto carina, avrei potuto fermarmi giusto qualche giorno per conoscerla meglio e combinare qualcosa, avrei conosciuto anche la città di Belem che mi mancava. Eppure quel camlo di allarme dei figli ed ex mi demotivava molto; d'un tratto mi resi conto che mi ero totalmente dimenticato di Selma e dello stato d'animo malinconico con cui avevo fatto tutto il viaggio sino a lì e mi sentii rinvigorito dalla conoscenza di questa femmina. Sembrava come se la sofferenza dell'imminente separazione fosse stata per me talmente forte, che, per sopravvivere, avevo rimosso ogni legame affettivo con il ato.
Mi feci un giretto giusto fuori dalla rodoviaria e notai che c'era pieno di gente con lineamenti da indio, anche il loro accento era per me strano rassomigliando per certi versi, nonostante la distanza, a quello di Rio de Janeiro, ben diverso da quello del nord est brasiliano.
Chiamai Selma da un orelhào (orecchione, ovvero telefono pubblico) per avvisarla che il viaggio era andato tutto bene.
Dopo varie considerazioni infine ebbi la trovata, sarei uscito dal Brasile nel confine con la Guyana se, dove mi avrebbero messo i timbri di uscita sul aporto, poi sarei tornato indietro senza are dall'ufficio immigrazione e sarei tornato a Belem per stare con la ragazza appena conosciuta, non faceva una piega il mio ragionamento.
Presi un onibus e mi diressi al porto, osservando la città di sfuggita. Era molto simile alle altre, con alti palazzi nuovi nella sua area considerata più bella.
Al porto ebbi un ultimo momento di indecisione, avevo da mesi creduto che sarei andato a finire alla triplice frontiera ed invece ora partendo da una “casualità” istintiva e poi lungamente ragionata, mi trovavo ad aver scelto in qualche ora il mio nuovo destino; mi comprai un biglietto per Macapà, capitale dello stato dell'Amapà, ad un giorno di navigazione da Belem.
Dopo una lunga attesa venne il momento di prendere il battello, il cielo era cupo e la pioggia fortissima.
Il salire a bordo fu una vera corsa, ognuno dei eggeri si spintonava per prendersi il posto migliore dove appendere la propria amaca, io che stavo tra gli ultimi a salire la presi con calma, tutti quanti in fretta e furia attaccarono le amache
a dei ganci posti contro le travi del soffitto metallico nel ponte centrale ed in quello inferiore ed erano tutti ammassati. Continuai con curiosità dritto verso poppa e ato un piccolo corridoio oltre i bagni mi ritrovai in uno spiazzetto totalmente a poppa che era vuoto e vi erano i ganci per appendere l'amaca.
Mi piazzai là, sogghignandomela perchè sentivo di essere stato più furbo di tutti quanti gli altri che con tanta fretta non si erano accorti di quello spazio, della serie gli ultimi saranno i primi. Sperai che non venisse nessun'altro a stare là.
Poco dopo venne un tizio alto, grosso e chiaramente europeo con il figlio e si piazzarono vicino a me, venne poi anche un ragazzo brasiliano; eravamo così in quattro ma ben larghi e comodi, mentre nel grande spazio del ponte centrale una volta che la persona si fosse sdraiata sull'amaca poteva sentire distintamente i corpi delle persone affianco ed i loro movimenti premerle contro.
Salpammo allontanandoci da Belem con i suoi grattacieli, non avevo per niente conosciuto la città, ma non mi importava perchè contavo di ritornarci in breve, “giusto il tempo di mettere il timbro sul aporto”.
Ero emozionato alla vista del rio delle amazzoni che sembrava un mare per la sua vastità, da tanto tempo avevo desiderato vederlo ed ora vi stavo navigando dondolando sdraiato nell'amaca a godermi la forza della pioggia ed il panorama da essa offuscato.
Il nostro avanzare era lento e costante ed il paesaggio pressoché sempre uguale, avremmo circumnavigato l'isola di Marajò, alla foce del rio e famosa per la polizia che andava in giro sopra i bufali e le bistecche di bufalo.
ammo in punti dove non si vedeva altro che acqua torbida all'orizzonte ad altri con delle specie di corridoi d'acqua tra un isola e l'altra larghi un centinaio di metri.
In questi corridoi si poteva ammirare da vicino la vegetazione fittissima piena di palme dal tronco fine e alto dell'açaizeiro, la pianta delle bacche di açai, una delle fonti principali di cibo per gli indigeni.
Si iniziarono dopo qualche ora a vedere le prime sporadiche capanne-palafitte dove bambini ci osservavano are; queste popolazioni che vivevano sulle isolette lungo il fiume erano chiamati ribeirinhos ed una delle prime cose che notai fu che nonostante l'aspetto molto umile, queste case di legno sperdute nella foresta pluviale erano dotate di antenne paraboliche.
Venne l'ora del pranzo, purtroppo da pagare a parte, e consistette in riso fagioli e pollo; lo stesso venne servito per cena se non che c'era un pezzo di carne bollita al posto del pollo e lo stesso ancora il pranzo del giorno seguente.
Si faceva abitudine al rio amazonas molto presto ed il viaggio era monotono, un evento particolare che mi faceva schiodare dall'amaca era ogni volta che avamo di fronte ad un piccolo assembramento di case lungo il corridoio d'acqua ed alcuni bambini ribeirinhos, vedendoci arrivare dalla lontananza, ci anticipavano sulla nostra rotta con delle piccole canoe di legno, a volte a motore ma per lo più con un piccolo remo. Una volta che li affiancavamo lottavano con il loro piccolo remo sotto la pioggia e contro le onde smosse dal battello per restarci a fianco il più possibile ed immancabilmente, come a premiare la loro volontà, qualcuno tra i eggeri gettava in acqua una busta di plastica con dentro vestiti oppure biscotti e cibaglie varie, che loro raccoglievano cercando poi di recuperarci ancora, nella speranza che qualcuno lanciasse qualcos'altro.
Fu molto strano assistere a quelle scene e cercavo di immaginarmi come fosse la vita di uno di quei bambini ribeirinhos, che bell'evento non doveva essere per loro il aggio di un battello che gli regalava doni della città.
In mezzo alla fitta foresta ogni tanto si scorgevano dei siti dove venivano segati i preziosi alberi, da lavoratori indigeni, per poi essere trasportati su delle chiatte e rivenduti per far arrivare chissà dove nel mondo il pregiato legno della foresta amazzonica, il quale se veramente si comprendesse il valore che ha si penserebbe molto prima di buttare giù un albero.
Il viaggio era reso ancor più pesante, a causa della musica che veniva dal ponte più alto, dove c'era un piccolo bar con qualche brasiliano che continuava a bere birra; quel tipo di musica, chiamata melody scoprii in seguito, era qualcosa di indescrivibilmente inascoltabile.
Venivano remixati i testi di canzoni abbastanza conosciute in una vocina elettronica ed accellerata che sembrava uscita da un cartone animato, su di una base ritmata sempre uguale per tutta la durata della canzone e per tutte le infinite canzoni che mi dovetti ascoltare, sembrava l'esperimento di un dj alle prime armi.
Piovve per quasi tutto il tempo della traversata, tempo che ai per lo più sdraiato nell'amaca a dormire conciliato dal dondolio ed a scrivere.
Venne la notte, dormii a tratti e godetti nei momenti di veglia la tranquillità del nostro scivolare lento sul grande fiume. Era una tranquillità velata di un non so che malinconico.
ata la notte mi ritrovai il giorno seguente a chiacchierare con il tizio alto e grosso che stava con il figlio, era un se in vacanza. Iniziai a sforzarmi di parlare un se zoppicante e rubando la maggior parte dei termini dall'italiano o dal portoghese sizzandoli; in qualche maniera ci capimmo.
Il tizio andava a Cayenne, la capitale della Guyana se, vi si era trasferito da poco. Era un giocatore di rugby forse anche abbastanza rinomato, aveva iniziato a fare il professore di educazione fisica e visto che in Francia andava male per la storia della crisi economica si era rotto ed aveva deciso di andarsene in Guyana, dove le offerte per quel tipo di mestiere abbondavano. Sarebbe andato a vivere in un villaggio di indios nel mezzo della foresta amazzonica, raggiungibile solo via canoa risalendo il fiume Oyapock, oppure con un piccolo velivolo.
Parlammo parecchio e da quello che capii il tizio mi avrebbe aiutato una volta in Guyana.
Parlai anche con qualche nativo che era diretto a Macapà in quei brevi sprazzi di sole dove quasi tutti quanti si andava sul ponte più alto all'aria aperta. Beninteso che anche i ponti inferiori erano tutti aperti dai lati se non per dei teli impermeabili che venivano srotolati in caso di pioggia con vento.
I viaggiatori erano tutti calmi e ci si godeva il paesaggio fitto ed immutabile scorrere lento davanti ai nostri occhi.
Mi dissi tra me e me che fu una fortuna che non avessi scelto di risalire il rio in direzione della triplice frontiera, circa 14 giorni in quella maniera dovevano essere infinitamente lunghi.
Il tizio se era molto socievole ed estroverso e parlava con tutti quanti nel suo portoghese stentato mentre il figlio adolescente e molto timido stava sempre zitto e lo seguiva impacciato come un'ombra.
Nel ponte più basso c'erano cassette di frutta ed altre cose che venivano trasportate, tra cui anche una moto.
Ci accostammo una mezzora ad una segheria nel mezzo della foresta e ci caricarono anche delle grosse assi di legno.
Non mi accorsi che dopo la conversazione col se oramai avevo tacitamente deciso che avrei proseguito il mio viaggio, o quanto meno non sarei tornato indietro proprio subito.
Qualche ora dopo il tradizionale pasto brasiliano, ci avvicinammo sempre più a Macapà, incrociammo due grosse navi transoceaniche trasportanti minerali, rimasi affascinato dal are ben vicino ad una di queste e riflessi su cosa non fosse capace di costruire l'uomo ed arrivare nei posti più impensabili e tutto questo ingegno purtroppo solo spinto dal vantaggio economico.
Sbarcammo al porto di Santana, ad una decina di chilometri da Macapà, mi affiliai al se, avremmo preso un taxi insieme per arrivare in città.
Lo sbarco a Santana ebbe un qualcosa di fiabesco, il porto era pieno di barchette di legno e qualche battello e vi erano delle palafitte, baracche colorate e case a mattoni a vista sullo sfondo; il cielo era grigio di una pioggia in attesa di cadere e le strade erano tutte in terra battuta piene di pozzanghere e sporcizia ovunque.
C'era un vivo movimento di persone in giro, in realtà avrei proseguito il mio viaggio a piedi od in onibus in direzione Macapà, ma il se non aveva pazienza ed inoltre io avevo fretta di uscire dal Brasile per la storia del visto in scadenza.
Trovammo un tassista che ci avrebbe portato fino a Macapà nel punto da dove partivano i 4x4 diretti in Guyana se.
Partimmo in direzione della città, il panorama che scorreva fuori dal finestrino dava l'impressione dell'intricata ed inespugnabile natura della foresta amazzonica squarciata nettamente da una strada; ed a testimoniare il aggio dell'uomo, oltre allo squarcio, rifiuti gettati ovunque a stonare sulle varie tonalità dello splendente verde.
Arrivati a Macapà ci mettemmo d'accordo con degli autisti di 4x4 che avrebbero trasportato io, padre e figlio si più altri due si che si erano aggiunti a noi ed altra gente del posto.
In quel punto ove si radunavano gli autisti, che avano il tempo giocando a carte usando come tavolo due cassette di legno una sopra l'altra, c'erano anche dei bambini a piedi scalzi sul cemento che giocavano ad uno strano gioco.
Due tenevano in mano una mazza fatta con un pezzo di legno recuperato da qualche parte e stavano ad una ventina di metri l'uno dall'altro di fronte ad una bottiglia di plastica, poi si lanciava una pallina, uno batteva e correvano.
Li rimasi a guardare per del tempo cercando di capire lo scopo del gioco senza riuscirci, pensai dovesse essere cricket o qualcosa del genere.
Facemmo un salto alla rodoviaria ata la strada e qui feci una chiamata a Selma, informandola sul mio viaggio. Il se poi mi offrì un gelato e mi
disse che se avevo problemi economici avrei potuto contare su di lui, lo ringraziai ma non volli approfittarne.
Arrivò il momento di partire con i 4x4, il mio zaino venne caricato sulla stessa vettura che presero i si, mentre io avrei viaggiato su di un altra vettura.
I si partirono ed io mi diressi con il ragazzo che guidava la mia e quella che scoprii poi essere la sua compagna a cercare gli altri eggeri in giro per la città.
Macapà, per quegli stralci di impressioni che la mia parte visiva registrò, era veramente un posto particolare, sembrava costruita su delle colline più o meno a muzzo come la maggior parte delle città in Brasile, c'erano però dei punti nelle parti basse dove le strade erano in terra battuta e le case di legno e dall'aspetto piuttosto abusivo, costruite rialzate rispetto al terreno. Le case diventavano delle palafitte in caso di forte pioggia o straripamento del fiume probabilmente. Ci fermammo davanti ad una di queste case, era già calata l'oscurità ed un signore ne usciva salutando la sua famiglia, io assistevo alle scena con il braccio e la testa appoggiati fuori dal finestrino; l'aria era calda ed umida e c'era il fremito di insetti cantando a far vibrare l'aria, sembrava potessi fiutare il profumo di quel posto.
Ripartimmo e dopo qualche giro per le trafficate strade ci fermammo davanti ad una merceria dove salì una ragazza carina, dai tratti indio ma con la pelle molto chiara, resa quasi bianca dal contrasto ai capelli tinti di rosso .
Mi si sedette accanto e già iniziammo a starci un po' stretti dietro, poi tornammo alla rodoviaria dove avremmo preso l'ultimo eggero, approfittai dell'occasione per provare per lo meno una volta la specialità dell'amazzonia, l'açaì, nel posto originario.
Cenai quindi in questa baracchina nel parcheggio della rodoviaria mentre gli altri mi aspettavano.
L'açai che presi, mi venne fornito con l'abbinamento più improbabile mai sperimentato, ovvero insieme a carne allo spiedo e farina di tapioca. Scoprii quindi che la polpa di açai di suo non era per niente dolce e lo diventava solo a patto di metterci dentro quintalate di zucchero, cosa che feci, per accompagnare il tutto con pezzetti della carne. La cosa suonò vagamente come mangiarsi gelato e carne insieme.
Al momento di pagare tentarono di spillarmi il doppio facendo l'associazione abituale straniero uguale ricco, gli lasciai in mano quello che mi sembrava giusto pagare e me ne andai senza dire tante parole.
L'ultimo eggero era arrivato nel frattempo e finalmente partimmo verso la nostra meta, schiacciati in quattro sui sedili posteriori e con il portacarichi pieno zeppo di roba ed altre cose che ci toccò tenere sulle gambe.
Quasi 600 km di strada si prospettavano dinnanzi, appena usciti dalla città iniziò a piovere mentre avanzavamo verso nord; attaccai un po' bottone con gli altri eggeri, solo uno di loro andava in Guyana se mentre gli altri due si sarebbero fermati ad Oiapoque, ultimo paese brasileiro prima della frontiera.
Mi interessai fin da subito a parlare con la ragazza carina, dopo qualche frase le chiesi il motivo del suo viaggio.
“Vou fazer programa em Oiapoque” Mi rispose (vado a fare programma in Oiapoque). Nonostante io sapessi perfettamente il significato di quella frase, visto che garota de programa (ragazza di programma) era in tutto il Brasile sinonimo di prostituta, non so bene perchè le chiesi se lavorasse per la televisione.
“Nào, vendo o meu corpo” mi rispose in tutta tranquillità e mi stupii di come ci fosse assenza di vergogna nella sua voce ed assenza di giudizio in me stesso.
Le risposi che per lo meno faceva un lavoro dove non c'era mai crisi economica, mi disse sempre con il massimo di disinvoltura che ad Oiapoque c'era una casa chiusa dove andavano molti si una volta ata la frontiera e chiaramente pagavano bene. All'animale dentro me venne la tentazione di farle un qualche tipo di proposta ma per fortuna l'idea morì sul nascere, poi non ci parlammo praticamente più.
La strada che percorrevamo era asfaltata solo per il breve tratto iniziale in rapporto alla nostra meta finale. Iniziato lo sterrato ci fermammo ad una stazione dove il pilota, perchè di un pilota si trattava, si prese qualcosa da mangiare e svariate lattine di redbull; avrebbe guidato per tutta la notte. Io approfittai della pausa per andare al cesso, ma furono solo tanti sforzi per lo più inutili ed infruttuosi; era praticamente da quando ero partito da Aracaju che non riuscivo ad andare in bagno normalmente.
Ripartimmo ed il nostro pilota guidava sempre più come un matto con il suo fuori strada ed il piede pesante sull'accelleratore, nella notte più totale della foresta amazzonica ed a tratti sfidando imibile una pioggia fortissima. Noi eggeri si tentava tutti per quanto possibile di dormire ma era pressoché impossibile vista la strada sterrata; mi ritrovai allora in una specie di stato meditativo dove il corpo era rilassato ed il “richiamo” a non perdersi nel flusso automatico dei pensieri era costituito dalle continue botte che davo con la testa al vetro oppure alla ragazza al mio lato e dalla nausea che a tratti provavo a causa
dei continui sobbalzi.
Il pilota si tenne sveglio grazie alla redbull ed alla concentrazione della sua guida spericolata in condizioni a dir poco estreme.
Sopravvivemmo alla notte e con le prime luci del mattino ci fermammo, il nostro pilota sentiva strani rumori ad una ruota anteriore della sua toyota ed era sicuro che se avesse continuato ci sarebbero stati danni più seri, ci fece quindi scendere.
Avremmo aspettato l'onibus che faceva quella strada, non che ve ne fossero altre beninteso, in direzione Oiapoque che nel giro di mezzora ci avrebbe raggiunto.
Approfittai di quel lasso di tempo per godermi un po' i dintorni.
Non pioveva più da qualche ora e la nebbia notturna si andava sollevando con l'aumentare della luce del giorno; eravamo sulla sommità di una lieve altura dopodichè la strada proseguiva scendendo per poi risalire dolcemente, dritta e marrone rossastra. La vegetazione ai fianchi della strada era tipicamente amazzonica, ovvero fittissima e quasi impossibile da penetrare.
L'onibus arrivò ed il nostro pilota ci salutò pagandoci la corsa fino ad Oiapoque che distava ancora un'oretta. Una volta saliti, come sempre in ogni onibus non troppo vecchio in Brasile, c'era l'aria condizionata ghiacciata e probabilmente questo fattore insieme ai sobbalzi continui contribuì a smuovere la mia triste relazione con la toilette, che come già scritto da giorni era molto deludente. Ordunque mi trovavo a sentire un movimento nelle viscere che erano sempre più in tensione.
Cominciai a star male vivendo una lotta psicologica per riuscire a trattenermi fino a destinazione.
Alla fine ringraziando il creatore di ogni cosa esistente arrivammo ad Oiapoque ed appena giunti nella rodoviaria e sceso dall'onibus corsi alla ricerca di un bagno.
Ricordo ancora l'incontro fugace ma liberatorio con questa bellissima turca; il mio apparato digerente aveva atteso cotanti giorni lavorando in silenzio per poi sfornare una sua creazione dalle dimensioni mostruose, la mia soddisfazione fu totale mentre osservavo quel pezzo d'arte immobile al mio sguardo fiero.
Uscito dalla rodoviaria mi sentii più leggero e non solo a causa della bellissima cagata, ma perchè mi mancava il mio zaino; con me avevo solo il aporto ed i soldi, il resto era tutto nello zaino e mi chiesi dove fosse finito l'altro 4x4 ed i si poichè là non c'erano. A causa della sosta nel bagno avevo perso di vista anche gli altri che stavano con me sulla toyota.
Mi feci indicare da un tassista dove fosse l'ufficio immigrazione della policia federal e là mi diressi a piedi.
Arrivai agli uffici ed incontrai di nuovo i si con il mio zaino, una volta dentro mi misero il timbro d'uscita e non mi chiesero nulla per il giorno di ritardo che non avevo potuto evitare.
Poi mi incamminai assieme al gruppetto di si attraverso la piccola
Oiapoque, arrivammo fino al fiume, l'Oyapock appunto, che segnava il confine tra Brasile e Guyana se. Si poteva vedere in lontananza a stonare con il paesaggio un ponte finito di costruire da poco che univa le due sponde ma era ancora chiuso al traffico ed in assurda attesa che le varie diplomazie si mettessero d'accordo rimaneva totalmente inutilizzato.
Su questo lungo fiume vi erano vari barcaioli che trasportavano le persone da una sponda all'altra; salii insieme ai si su di un'imbarcazione lunga e sottile in direzione di saint George del'Oyapock poco più a nord ati sotto il ponte.
Arrivati dall'altra parte, il se mi fece capire che io sarei dovuto andare a Cayenne, la capitale della Guyana f., mentre lui andava a farsi un giro in canoa con gli altri si per poi raggiungermi li. Mi lasciò un bigliettino con scritto Rndv (rendez-vous) un indirizzo e numero di telefono; sarei andato a stare da lui per qualche tempo compresi.
La fortuna sembrava essere decisamente dalla mia parte, e non avevo dovuto preoccuparmi molto di questo cambio di nazione; quando ci eravamo appena conosciuti, ancora in navigazione sul rio delle amazzoni avevo avuto modo di spiegare al se che mi stavo dirigendo in Guyana giusto per trovare lavoro e fare qualche euro per poi tornarmene in Brasile o forse viaggiare ancora. Lui mi aveva spiegato che aveva un amico che lavorava come guardia forestale e gli avrebbe chiesto se ci fosse stato qualcosa per me e a detta sua c'erano buone possibilità di trovarmi un impiego.
Per quanto mi riguardava, da quando ne avevo scoperto l'esistenza, volevo riuscire ad entrare a lavorare in una delle varie miniere d'oro presenti in quel paese.
Mi ritrovai quindi insieme ad altre persone su di un van mercedes nuovo e pulito di come non se ne vedevano mai in Brasile ma sicuramente in Europa si e pagai il viaggio con gli ultimi reais rimasti.
Ci fermammo su insistenza dell'autista poco dopo la partenza ad un ufficio della gendarmeria se dove mostrai il aporto e la signorina sorridendomi mi disse che non mi servivano timbri visto che ero cittadino europeo e mi trovavo in Europa. Chiaramente era un paradosso visto che non potevo sbagliarmi sul fatto che fossi in sud America, eppure la Francia avendo il suo dominio anche in quella parte del mondo aveva tentato di europizzarla, cosa che a parte la critica era a mio vantaggio. Fu inevitabile non notare il tocco Europeo, anzi direi se visto che in Italia non è che fosse proprio così, delle strade, asfaltate belle e lisce, i tanti cartelli stradali ed autovetture del mercato europeo; tutto questo sempre attorniato dalla vegetazione, che seppur meno fitta restava amazzonica ed a cui non faceva differenza nessuna un lato o l'altro di un fiume, Europa o sud America.
ammo un posto di blocco dove ci vennero rapidamente controllati i documenti oltre il quale l'autista mi chiese dove volevo andare, gli risposi a Cayenne e mostrandogli il bigliettino che mi era stato lasciato dal se, mi disse che quello non era a Cayenne ma era un altro municipio vicino comunque. Gli dissi di portarmi a Cayenne. In breve la strada si fece tutta un saliscendi e piena di curve, mi ritrovai a sudare freddo con molta nausea, infine non ce la feci più e dissi all'autista, che era brasiliano per fortuna, di fermarsi perchè dovevo vomitare.
Purtroppo ci mise un po' a capirlo ed infine aprii la portiera mentre ancora non eravamo fermi ed in parte mi vomitai sui vestiti.
Avevo provato l'inutile tentativo di superare il bisogno di vomitare ma non c'era stato verso di vincere la nausea e mentre vomitavo sentendomi il collo gonfio dal sangue, la faccia bollire e le lacrime dallo sforzo mi sentii molto presente a quel
momento, non esisteva più ne vergogna per la mia azione ne pensieri; solo un cosciente osservatore interno di tutti quei fenomeni, la sofferenza ed il mio corpo a tenere la portiera aperta mentre il vomito andava a cadere sull'asfalto. A giudicare dalla composizione del vomito mi sembrava di riconoscere cose mangiate da troppo tempo per essere ancora nello stomaco, ed anche la forza dei conati sembrava provenire da più in fondo.
La mia vicina mi offrì dei fazzoletti per pulirmi un poco, eseguii i gesti come senza forze, stremato da quell'atto giunto quasi alla fine del traguardo di una settimana continuamente in viaggio. Chiusi gli occhi e riuscii a dormire.
Cayenne distava giusto 100 km dal punto di partenza, ed avvicinandoci l'autista iniziò a lasciare le persone al proprio domicilio; io nello stato in cui mi sentivo e con l'odore di vomito addosso provai vergogna di farmi trovare al punto indicatomi dal buon se. Dissi quindi di lasciarmi nel posto più economico della città dove poter dormire.
Mi lasciò davanti ad un albergo, entrai e mi presi una stanza alla cifra di 50 euro, che al momento però mi lasciò indifferente; mi buttai sul letto totalmente nudo, sentendomi completamente distrutto e caddi istantaneamente nel sonno.
CAYENNE, un nuovo inizio, col piede sbagliato.
Mi svegliai dopo qualche ora, sul finire del pomeriggio. Scesi di sotto e cominciai a chiacchierare con chi riuscivo in un se incomprensibile e sostituito per lo più da lunghe pause cercando parole in qualche tassello della memoria che però risultava vuoto, obbligandomi quindi a cercare sinonimi od a ricorrere alla gestualità esagerata.
Uscii per comprarmi qualcosa da mangiare e prelevare dei soldi, mi rimanevano solamente 400 euro, che significava al massimo 6 notti in albergo senza contare che dovevo pur mangiare. Questa presa di coscienza non fu proprio facile da accettare e la preoccupazione, come ogni volta in situazioni simili, tendeva ad affiorare e cercavo di scacciare i pensieri con un sospiro e ando all'azione.
Non so bene perché, credo per una sorta di dannato orgoglio, non telefonai al se che era stato tanto gentile e disponibile con me, sapevo che mi avrebbe aiutato, ma era come se non volessi ammettere a me stesso di aver bisogno dell'aiuto di qualcuno; ma evidentemente fu così che doveva andare la storia. Rimandai con varie scuse il momento della telefonata fino a che me ne dimenticai proprio.
Coincidenza volle che c'era un brasiliano nell'albergo che lavorava in un miniera d'oro ed era di permesso, ci parlai quella sera ed il giorno seguente mi diede un indirizzo a cui sarei dovuto andare a chiedere lavoro.
Mi feci molto attivo, anzi irrefrenabile, fin da subito; motivato come non mai a trovarmi un lavoro ed una sistemazione non tanto cara.
Mangiai soltanto sacchetti di patatine fritte, salame, mele e barrette di cioccolato che compravo da un mercatino gestito da cinesi vicino l'entrata dell'albergo; tutto ciò per mancanza di attrezzatura per cucinare e per spendere soli pochi euro.
Mi comprai un cellulare, stampai curriculum, sfogliai ogni giornale, feci chiamate e bazzicai di continuo per la piccola città in cerca di lavoro.
ò la seconda notte in albergo, l'indomani pomeriggio mi sarei incontrato con
un signore che affittava le stanze a settimana a prezzi sicuramente più convenienti che il posto in cui stavo. Lo aspettavo alla rotonda di fronte all'albergo, che stava giusto fuori dal centro, vidi arrivare una station wagon tutta vecchia e scarruppata, il guidatore mi fece un cenno e si fermò ad un uscita della rotonda poco più avanti. Lo raggiunsi e mi affacciai dentro il finestrino del eggero; il tizio non aveva proprio un bell'aspetto e non mi stava facendo una bella impressione con le sue espressioni del volto.
Mi fece salire ed iniziò ad avviarsi per la strada e parlarmi in se ed io non stavo capendo niente, non so bene come ma dopo poche frasi ci ritrovammo a parlare in inglese, probabilmente lui era della Guyana. Mi chiese dove fossero le mie valigie e gli dissi che non avevo niente con me, volevo solo dare un occhiata al posto per poi decidere se rimanervi. Il tizio di colpo fermò la macchina, che non erano manco 100 metri che eravamo partiti, iniziò a farsi irritato ed insistente.
“Mi hai fatto venire fino a qui solo per perdere il mio tempo” disse stizzito con gli occhi aguzzi, il mio istinto mi mise sull'allerta, restai per qualche secondo zitto cercando un ascolto non rivolto alle altre parole che stava dicendo, ma al suo tono di voce e soprattutto alle mie sensazioni interiori; non ebbi più dubbi. Gli dissi che avevo cambiato idea, lo salutai senza aspettare una risposta e scesi di colpo dalla macchina senza spiegazioni, sentendolo che mi malediceva nel frattempo e ripartì tutto accellerando con la sua scassona.
Tornato in albergo raccontai l'accaduto alle due donne della reception che mi dissero che avevo avuto fortuna e che il signore in macchina probabilmente voleva fregarmi.
Questa Guyana se sembrava avere molte sorprese da darmi... Ed in effetti così fu, cose che non mi sarei mai aspettato di vivere.
ò il resto del terzo giorno, come gli altri vissuti intensamente in ogni minimo istante e ò anche la terza notte di poche ore di sonno; al mattino seguente mi svegliai presto e mi incamminai in direzione di un grosso centro commerciale a vari km di distanza vicino al quale avrei dovuto trovare, come mi venne indicato, un posto dove vendevano caterpillar e dove avrei trovato a chi chiedere per lavorare nell'orpaillage (miniere d'oro).
Sbagliai strada, non che lo sapessi beninteso, fino a che incontrai per strada una signora, che mi parve dai lineamenti latinoamericana, venire in senso opposto e chiedendole indicazioni mi fece capire il mio errore.
Iniziai a parlarle con il mio se novello, ma sfortuna volle che non ricordavo più il nome del centro commerciale. Tentai di dare qualche spiegazione finchè, dopo aver tentato con lo spagnolo ci ritrovammo a parlare portoghese e capii che la donna era brasiliana, automaticamente le raccontai del mio precedente vivere in Brasile e dopo vari tentativi lei indovinò il nome del posto che cercavo e mi diede le indicazioni giuste per arrivarvi.
Sarei dovuto tornare per un pezzo lungo la strada da dove ero venuto e feci questo pezzo a piedi insieme a lei, finii involontariamente per raccontarle che cercavo lavoro e stavo messo in una situazione non proprio delle migliori. Mi lasciò il suo numero di telefono e mi disse di richiamarla nel pomeriggio che forse mi avrebbe dato una mano, si chiamava Ray.
Dopo un continuo procedere a zig zag che mi costò circa 3 ore di camminare alla fine arrivai, costeggiando per un bel tratto una superstrada, al rinomato centro commerciale e trovai il posto che vendeva caterpillar; entrai dentro e salito in un ufficio lasciai il mio curriculum ad una segretaria, venne anche il suo capo e dopo la stretta di mano mi scrutarono un po' e tentai di buttar lì qualche frase in se che mi ero imparato a memoria nel tentativo di spiegare cosa sapevo fare e soprattutto per cercare di far una bella impressione. Non andai oltre a qualche parola sgrammaticata e spalmata tra un sorriso e l'altro di disagio; mi
disse che mi avrebbero fatto sapere e me ne andai. Non li sentii mai più.
Per il secondo giorno di fila mi ritrovai con lo zaino pronto e due bustone grosse all'entrata dell'albergo, speravo che quella seconda volta andasse bene e che non fossi costretto a ar un'altra notte in albergo.
Avevo sentito Ray al telefono di primo pomeriggio e mi aveva detto che se volevo sarei potuto andare a stare a casa sua per qualche tempo e sinceramente ne ero ben felice. Mi dissi che se la donna avesse cambiato idea, sarei partito a piedi quella sera stessa e me ne sarei andato a dormire da qualche parte accampato.
Aspettai tutto il pomeriggio e finalmente arrivò verso le 9 di sera, era in macchina con una sua amica, caricai la roba nel bagagliaio ed una volta salito tentai di mostrarmi cordiale, educato e simpatico. C'era musica evangelica riprodotta dall'autoradio e le due donne sedute davanti a tratti cantavano le loro lodi.
Dentro me si accese lieve una piccola spia di allarme, un ricordo di parole captate in varie occasioni in Brasile, secondo le quali chi era evangelico o evangelista era qualcuno che ne aveva combinate di sporche, gli era andata male ed essendo superstizioso ora cercava di mostrarsi credente dinnanzi a Dio per far si che lui gli desse una spintarella nella realizzazione dei propri progetti egoistici. Il buon Lenaldo era uno di questi, ma ebbi modo di conoscerne altri di questo stampo.
Percorsi pochi km ed avendo girato a sinistra all'inizio di un cimitero, che tra l'altro avevo visto quella mattina stessa perso nei lunghi giri, entrammo dentro un grosso cortile di cemento circondato da casolari di legno tutti attaccati e dipinti di bianco e rosa.
La casa di Ray stava ad un angolo del cortile, presi le mie cose ed entrai; come si poteva intuire dal fuori era una casa molto modesta.
Mi presentò subito 3dei suoi figli, un adolescente di 14 anni, una bambina di 4 che iniziò a saltellarmi attorno e chiamarmi ton-ton (zio) ed il figlio più piccolo di appena 8 mesi; poi mi indicò il letto dove avrei dormito e sistemai le mie cose. Cenammo ed infine fui a dormire; strano come non mai mi sentivo in quel letto, quante situazioni del genere mi erano già successe, riflettevo. Quante volte ancora mi sarebbe successo qualcosa del genere? Quante volte ancora mi sarei riuscito a salvare ad un metro dal precipizio?
Il giorno seguente iniziò presto, con Ray che usciva per andare al lavoro. Avrebbe parlato di me al suo capo, lavorava come parrucchiera in un centro estetico e poteva essere che il suo capo avrebbe avuto bisogno di un segretario che parlasse varie lingue; le diedi la mia disponibilità visto che mi andava bene di tutto per come stavo messo a soldi.
La notte precedente, prima di dormire avevamo parlato abbastanza, mi andò a genio come persona per lo meno sulle prime, era più giovane di quanto pensassi, aveva poco più di 30 anni. Era molto credente, come del resto ogni brasiliano medio; al mio ringraziarla per avermi ospitato mi disse che non dovevo ringraziare lei ma Dio... Lessi nella sua espressione come una vena di rammarico nella sua decisione di ospitarmi e sentii a pelle che era leggermente interessata a qualcosa di me.
Accompagnai la bimba alla scuola vicino casa ed iniziò questa nuova fase.
IL BABYSITTER.
Durai un mese esatto a casa di Ray, mi ritrovai con i giorni a are in fretta e tutti molto simili l'uno con l'altro; giorni fatti di una routine di portare a scuola Eva, la bimba di 4 anni, riprenderla a pranzo, riportarla il pomeriggio e riprenderla più tardi.
Poi mi ero, aimè, proposto di aiutare Ray per quanto potevo e sinceramente sembrava non aspettasse di sentire altro e così mentre accompagnavo Eva spesso spingevo anche il eggino con il neonato Manù per fargli pigliare una boccata d'aria.
Eva era molto allegra e vivace, come ogni bambino non ancora deformato dalla fuorviante educazione del resto, e per quanto mi interessava le lasciavo fare quasi tutto quello che voleva, il punto è che poi dovevo render conto delle sue azioni alla madre; in breve mi feci ostile, schizzato ed a volte violento pur di farmi ascoltare, come la maggior parte dei genitori con i figli.
E poi ci stava Taylon, il 14enne, che erano più le volte che a scuola non ci andava e tornava a casa in anticipo, e si piazzava davanti alla televisione.
Io per lo meno approfittavo di quelle volte ed anzi, non speravo in altro, perchè almeno quando lui rimaneva a casa non mi toccava stare dietro a Manù il neonato e potevo uscirmene a cercare lavoro.
Cercai lavoro veramente ovunque ma mi sentivo molto limitato nel tempo da poter dedicare a ciò a causa del fatto che dovevo curare i bambini di Ray, ma d'altronde non potevo fare altrimenti ed era anche abbastanza giusto così. C'era stato una specie di accordo più o meno esplicito tra me e Ray dove io oltre a curarle i bambini, facevo da mangiare, qualche faccenda di casa e la spesa ed in
cambio potevo stare da lei senza spese; insomma facevo il babysitter.
Non ci volle molto tempo prima che il tutto iniziò ad andarmi stretto.
Imparai a pulire il culo del neonato, lavarlo, mettergli il pannolino e dargli il biberon e sinceramente erano tutte cose che non mi entusiasmava molto fare. La cosa divertente era che non erano ati molti mesi da quando ebbi un periodo in cui desideravo avere un figlio ed il vivere queste situazioni mi fu utile a vedere le cose da un punto di vista meno egoista e più vicino al nuovo arrivato su questo pianeta.
Il povero Manù piangeva disperato buona parte del tempo, privato dell'importantissima presenza materna, visto che Ray usciva alle 7 del mattino e tornava solo ad ora di cena; mi domandavo con che coraggio una donna lasciasse il proprio figlio in mano praticamente ad uno sconosciuto buona parte della giornata.
La risposta era che lei non poteva fare altrimenti, lavorava così tanto per cercare di guadagnare più soldi per andare avanti e nella speranza di vivere meglio; non era per niente facile per lei da sola, sebbene prendesse degli aiuti dal governo se per ogni figlio. Ne aveva 4 di figli, ognuno avuto con un uomo diverso, di cui una che viveva col padre e non vidi mai.
La sua era una situazione difficile ma anche piuttosto comune tra le donne brasiliane.
Quando Ray tornava a casa di sera voleva sapere da me una specie di resoconto di come fosse andata la giornata, mettendomi in una situazione di sentirmi
sempre in difetto; era tra l'altro sempre molto nervosa, stressata a mille dalle tante ore di lavoro e quando arrivava c'era sempre qualcosa che non era stato fatto come lei si aspettava.
Dal canto mio non è che fossi proprio un maestro della collaborazione, dimenticavo spesso di dare il latte in polvere più altri intrugli di polverine al malcapitato Manù e di pulirle la casa non ci pensavo proprio; per lo meno cucinavo per tutti quanti, quello si.
Inoltre non dicevo niente a Taylon che saltava scuola ed anzi lo coprivo di fronte alla madre mettendomi nei suoi panni ed avendo io stesso vissuto, giusto fino a pochi anni prima, la triste situazione dell'essere obbligati ad andare a scuola ad essere ammaestrati.
La casa, che come già scritto era proprio umile, era circondata sul lato esterno da un solco nel terreno dove finivano le acque di scarico nostre ed delle abitazioni di quel quartiere. Le strade di tutta la città erano bene o male fatte con dei canali che le costeggiavano dai due lati, il punto è che dove stavamo noi c'era pieno di topi.
La cucina era una stanzetta posta fuori dalla casa ed aveva delle feritoie nelle pareti che la rendevano uno dei punti favoriti dei topi, ed in varie occasioni ne colsi in flagrante qualcuno mentre ripuliva i nostri avanzi. Quantomeno loro sembravano apprezzare le cose che cucinavo ed erano evidentemente ben nutriti viste le dimensioni.
Qualche altro topo di taglia più piccola conviveva con noi in casa, senza destare la minima preoccupazione di Ray che dopo averglieli fatti notare in varie occasioni continuava a guardare la tv come se nulla fosse. Si nascondevano dove riuscivano e come cascava qualche briciola a terra, dopo qualche tempo si
vedeva l'animaletto scattare in un operazione di recupero, da un certo modo di vedere la cosa erano molto collaborativi, evitandoci di pulire per terra assiduamente.
Nei primi giorni ci fu una sera dove mangiai in maniera copiosa bistecche di maiale, lenticchie ed altre cose, la notte iniziai a stare male; avevo brividi di freddo e la febbre, la cosa non si risolse fino a che non andai in bagno a vomitare l'assurda quantità di cibo ingurgitata ore addietro.
Ray mi sentì e venne a bussare alla porta del bagno per chiedermi se stavo bene, tirai lo sciacquone del cesso, mi lavai faccia e bocca e le aprii la porta rassicurandola. Vestivo solo le mutande e mi accorsi dell'occhio con cui mi guardava, un misto tra la premurosa e l'interessata.
Forse non avevo cotto bene la carne di maiale di disse, probabilmente era vero. Mi buttai a letto considerando che continuavo ad avere problemi di salute e quasi sicuramente erano in ragione alle situazioni che vivevo; continuavo a cercare nell'abboffarmi di cibo una compensazione di un qualche disagio.
Feci anche delle considerazioni sul mio rapporto con Ray, ogni sera dopo essere tornata a casa si metteva una vestaglia bianca, era bassa e bruttina ma il suo seno era grosso a causa dell'allattamento ed a volte la sentivo farsi volutamente provocante mentre mi ava affianco.
Visto che avevo abbandonato da poco una routine di sesso sfrenato con Selma e da quando ero partito dal Brasile non avevo “scaricato” il sistema, la tentazione di lasciar nascere qualcosa con Ray era tanta ed ebbi anche varie occasioni.
Non ebbi bisogno di grandi ragionamenti ma fu più una cosa istintiva il mio rifiutare di aver un qualche tipo di rapporto più intimo con lei; mi conoscevo troppo bene per non sapere che se solo fosse successo una volta avrei finito per prendermela a cuore, anzi a testicoli, e trovarmi ingabbiato in una situazione di difficile uscita. Ray, dal canto suo, aveva solo da guadagnarci nel senso che aveva qualcuno che le curasse i figli e se per caso si fosse fatta mettere incinta da me, cittadino europeo, avrebbe finalmente preso anche la cittadinanza europea, cosa che come ebbi modo di capire le interessava molto.
I giorni avano e Ray, forse anche a causa di questo mio rifiuto fisico verso di lei, si fece un po' indisponente con me. A dirla tutta sembrava che mi “capitassero” cose che non facevano altro che aggravare la mia situazione di “gentilmente ospitato” in casa sua.
Una di queste avvenne una mattina in cui avevo appena cambiato il pannolino a Manù, lo avevo lasciato sul letto ed Eva lo stava tenendo d'occhio, mi girai qualche secondo per preparare la pozione da mettere nel biberon e lui ne approfittò per tuffarsi di testa giù dal letto; iniziò a strillare ed io cercavo di calmarlo pensando tra me e me a come diavolo fosse successo che ero finito a fare il babysitter. Avevo una responsabilità non indifferente e se per caso fosse successo qualcosa ad uno dei figli di Ray, coi quali non me la sentivo di rapportarmi come un tiranno, ne sarei stato direttamente responsabile e la cosa non mi piaceva assolutamente.
Dissi a Eva di non dire niente alla madre e lei, che mi adorava tra l'altro, fu di parola, purtroppo alla sera al ritorno di Ray lei prese il figlio per allattarlo e toccandogli la testa si accorse del bernoccolo, iniziò ad imprecare ed ebbi sensi di colpa a non finire ed iniziarono tutta una serie di giustificazioni da parte mia.
Ray mi disse che dovevo sempre tenerlo d'occhio il figlio e la cosa mi fece sentire che le mie finestre di libertà si sarebbero ristrette ancor di più.
Covai rancore e crebbe lo strazio dentro di me, ma non potevo andarmene, li per lo meno avevo un posto dove dormire e da mangiare ed inoltre aspettavo delle risposte per dei lavori dei quali Ray mi aveva parlato, lei aveva infatti il contatto di un signore che lavorava nelle miniere d'oro.
Manù di suo se la viveva veramente male, sempre distaccato dalla presenza materna e costretto a are la maggior parte delle giornate dentro la culla con tanto di sbarre, per lui insormontabili, attorno.
Solo in seguito mi sarei reso conto a come si venga abituati alla sofferenza fin dai primi istanti di vita, privati contro natura dalla propria madre. Manù si dimenava e piangeva disperato, cercando di uscire dalla sua piccola prigione, incompreso da tutti e trattato come qualcosa di fastidioso e scomodo. Aveva costantemente degli sfoghi sulla pelle, macchie rosse dovute al distaccamento da Ray, la quale, dopo consiglio del famigerato medico, attribuiva la colpa ad un qualche insetto (che stranamente però colpiva solo lui in casa) e lo riempiva di pomate medicinali.
Sempre parlando di Manù, ebbi in seguito alcuni rimorsi di coscienza riguardo a dei trattamenti a cui lo sottoposi; quando gli facevo la doccia, solitamente dopo che si era cacato sotto, lo vedevo gridare e piangere a causa dell'acqua fredda che naturalmente non poteva essere riscaldata e siccome non smetteva un giorno iniziai a scuoterlo dalla rabbia. Mi accorsi che smise di piangere per qualche istante; cominciai così ogni volta che lo mettevo sotto il getto della doccia a farlo ruotare, metterlo a testa in giù tenendolo per una caviglia, poi per un braccio, poi l'altra caviglia e poi lo facevo volare in aria, tutti questi movimenti sembravano calmarlo o quantomeno lo concentravano su quelle nuove sensazioni, scatenando il suo istinto di sopravvivenza. Si faceva subito molto calmo e attento. Sperai, solo a distanza di tempo, di non aver traumatizzato il povero bimbo di soli 8 mesi, ma se era vero il detto che ciò che non ti uccide ti rende più forte, Manù ne avrebbe senza dubbio beneficiato in futuro.
Un altro evento c'era stato nei primi giorni, che non seppi bene in che maniera interpretare, iniziò con Ray chiedendomi di darle il aporto perchè voleva vedere se poteva fare qualcosa per me, non ricordo riguardo cosa, poi la sera stessa tornò tardi; era stata ad una preghiera collettiva su di un monte di quelli che attorniavano Cayenne. Al ritorno a casa, dandomi il aporto in mano, mi disse che lo aveva dato al loro prete che lo “aveva letto” in una maniera particolare e che profetizzava che io avrei trovato qualcosa di molto buono nella mia vita e che la mia venuta in Guyana f. aveva un senso.
Sebbene sembrassero parole campate per aria e molto generali, la notizia un po' mi rincuorò, solo successivamente interpretai che Ray probabilmente aveva voluto il mio aporto per farne una copia e, perchè no, comunicare magari alle forze dell'ordine che stavo a casa sua. Cosa non sbagliata da fare, visto che a tutti gli effetti non mi conosceva; aveva già avuto problemi in ato inoltre, mi raccontò che già aveva ospitato persone che poi le avevano rubato la roba in casa. Ma la sua religione le imponeva in un certo senso di fare queste azioni di “aiuto” verso il prossimo, io però da lei lavoravo praticamente quindi non era cascata proprio male; non potevo comunque negare che mi era utile anche a me quella situazione e le ero in fondo riconoscente.
Fin da subito cercò di farmi approcciare alla sua setta religiosa, gli evangelici; e fin da subito volli evitare ogni tipo di coinvolgimento mettendo subito in chiaro che non avevo nessun tipo di confessione religiosa o almeno che le mie sensazioni interne ben poco si riflettevano nelle religioni che conoscevo. A volte Ray si faceva quasi convincente
al riguardo; un volta mi disse che mi bastava inginocchiarmi, incrociare le mani, abbassare la testa e chiedere che Dio mi avrebbe dato.
Varie volte mi ero comportato così in vita mia, di cui l'ultima la notte che
vomitai nel cesso, chiedendo di farmi stare bene.
L'affermazione di Ray mi fece riflettere ancora una volta sul come crediamo, anzi creduloniamo, nell'esistenza di un entità magica che tutto sa e sempre ci tiene sott'occhio, unicamente per giustificare la nostra esistenza e per chiedergli favori affinché la nostra vita scivoli via senza difficoltà e piena di belle cose; e se ci comportiamo “bene ” verso il prossimo è solo per speranza di entrare nelle grazie di questa entità ed avere così più favori da essere esauditi o sperare di andare in paradiso dopo la morte del corpo fisico e non per un istinto di giustezza.
Non si considera inoltre che anche cose che, in apparenza e secondo opinione comune, arrecano sofferenza, se vissute con un certo intento lasciano qualcosa di utile all'individuo che le vive; qualcosa a volte ottenibile solo ando per un certo tipo di esperienze.
La Guyana se di esperienze me ne aveva già iniziate a regalare, ma altre ancora ne avevo da are.
Un'altro motivo per cui mi tenni ben alla larga dall'andare a messa con Ray, che voleva fin da subito farmi conoscere al loro prete, era perché mi aveva accennato senza volerlo del “dismo” che consisteva nel versare la decima parte di quello che si guadagnava alla chiesa. Un'altro motivo ancora, per il quale mi sentii di dover prendere distanze da Ray era perché faceva programmi tutti suoi sulla mia vita; questo motivo era di fondo lo stesso per cui non avevo più sentito il se che voleva aiutarmi, sentii “a pelle” anche allora che lui avrebbe cercato di organizzarmi tutto quanto e sarei arrivato a non sentirmi più padrone delle mie scelte e dipendente da lui.
Questa cosa con Ray era dal mio punto di vista fenomenale e successe in varie
occasioni. Pianificava tutti i i che io avrei compiuto là in Guiana nella mia scalata verso il successo, non capendo che per me tutto quello era solo provvisorio.
Tornando un po' alla mia triste situazione a donne, che mi sembrava nerissima e mi sentivo gli ormoni a mille ed ingestibili. Ci fu un pomeriggio che dopo aver riaccompagnato Eva a casa me ne ritornai davanti alla sua scuola dove c'era una cabina telefonica, avevo in appuntamento una telefonata con Selma a quell'ora; la chiamai e facemmo “sesso telefonico” nel senso che sia io che lei ci toccavamo mentre ci dicevamo belle paroline al telefono, il fatto è che lei stava a casa sua chiusa in una stanza, mentre io stavo in mezzo alla strada coperto giusto da qualche asse di legno. Ebbi un eiaculazione devastante e mi trovai il costume inzuppato sul davanti di liquido, il momento finale avvenne mentre dei bambini giocavano nel cortile della scuola, sperai, solo in seguito, che nessuno mi avesse notato.
Incredibile di come, a patto che non si sia iniziato a fare qualcosa per comprendere due cose in proposito, si venga troppo spesso dominati dai più bassi istinti, di cui quello alla riproduzione è forse il più forte.
Come già scritto accompagnavo tutti i giorni Eva a scuola, quantomeno cercai di approfittarne per conoscere le maestre, ingenuamente davo molta confidenza ad Eva e non sembravo ricordarmi che i bambini imparano in fretta a mentire per poter stare alle regole di un mondo malato. Facevo così affidamento su di lei, trattandola direi quasi come se fosse una mia coetanea, che qualche volta riuscì a fregarmi dicendomi che non c'era scuola quando invece ci doveva andare, oppure dicendomi di portarla a scuola in orari sbagliati, mi fregò sempre fino a che, stanco a mia volta dei rimproveri che Ray mi faceva, divenni una specie di despota inflessibile.
Difficile da credere ma fu proprio grazie ad Eva, di soli 4 anni, che riuscii ad ingranare alcuni concetti chiave della lingua se ed ogni giorno mi
insegnava su mia insistenza delle paroline nuove di questa lingua per me troppo raffinata.
Involontariamente per ricambiare questo le insegnai ad andare in bicicletta, nel farlo mi parve di rivivere la scena di quando mio padre tentò di farmi imparare ma perse la pazienza in breve ed io mi sentii un incapace chiudendomi in me stesso, imparai anni più avanti da solo. Ci voleva in effetti molta pazienza a seguire Eva e spiegarle come fare ma soprattutto ad aiutarla a superare la sua paura di cadere, imparò ad andarci in 2 giorni e mi sentii orgoglioso mentre mi guardava pedalando tutta felice con quel suo luccichio negli occhi.
Ray non fu molto felice che io le avessi insegnato ad andare in bici; non fu neanche molto felice quando venne a sapere dai vicini che lasciavo Eva libera di giocare tutto il pomeriggio nel cortile.
Io del resto ci provavo a dire ad Eva che sua madre non voleva e che doveva stare in casa, ma ero io il primo a non considerare giusta la cosa ed alla fine dopo che lei iniziava a farmi la vocina tenera gliela davo sempre vinta, per lo meno fino a che non mi feci tiranno.
Taylon, il fratello, la batostava parecchio, tra percosse e maleparole e mi sembrava tanto ingiusto che la trattasse così ed infine dopo settimane, mi ritrovai anche io costretto ad agire in quel modo per essere ascoltato e dettare “il modo giusto di vivere per un bambino” secondo Ray.
Che possa un giorno esistere una società dove i bambini non vengano trattati come dei deficienti solo perché non ancora in possesso di un amplio linguaggio per esprimersi e perché non ancora in possesso delle maschere menzognere adatte per rapportarsi con gli altri matti di questa società, essendo loro per lo più se stessi nel pieno della purezza percettiva ed espressiva.
E che possa un giorno esistere una società dove la loro volontà, se ancora pulita e non viziata, non venga sottomessa a quella di una persona più grande di età; ma che gli vengano mostrate e date le possibilità di provare le alternative e gli effetti ad ogni atto corrispondente in maniera tale da creare in loro una capacità di scelta non condizionata da dogmi ed imposizioni, ma libera e cosciente.
Per quanto riguarda il poco tempo libero che avevo, per lo più quando bidonavo Eva e Manu al fratello Taylon che saltava scuola, cercavo lavoro con ogni mezzo.
Mi ritrovai a macinare chilometri in diverse occasioni, ci fu un giorno in cui avvisai Ray che sarei mancato tutta la mattinata e me ne andai a piedi fino al porto di Degras des Cannes a lasciare curriculum a delle segherie di legno ed altri posti, mi feci come minimo 30 km tra andata e ritorno sotto il sole cocente a lato della linea bianca per lo più seguendo una grossa strada. Questi miei spostamenti avevano un non so che di vagabondo, avrei potuto cercare dei mezzi che ci arrivassero ma forse la situazione economica in cui ero mi suggeriva di risparmiare il più possibile. In questi vagabondaggi da una parte all'altra di Cayenne e zona limitrofe mi piaceva soprattutto quando trovavo alberi da frutta e mangiavo gratis quello che l'ambiente mi offriva. Quelli mi sembravano dei chiari segni su come il pianeta non fosse un posto ostile e la vita non fosse dura, bastava avere fede e lungo il percorso c'era pieno di risorse da cui fruire.
Nei miei primi giorni in assoluto a Cayenne, quando ancora stavo nell'albergo, ebbi la forte tentazione di comprarmi una mountain bike con i soldi rimasti e mettermi a pedalare e vedere un po' fin dove la strada mi avrebbe portato; l'idea mi faceva paura ma mi elettrizzava al tempo stesso e sinceramente sentivo che non avevo niente da perdere.
Mi dicevo che sicuramente sarebbe stato meglio comprarsi una bicicletta ed
essere più libero di spostarsi che spendere gli ultimi danari pagando un albergo per espletare la normalissima funzione di dormire. Ma arrivò veloce il giorno in cui conobbi Ray e forse quello che mi proponevo era un o a cui non ero ancora pronto e mi mancava il coraggio necessario.
La paura più grande che in generale ci tiene legati a questo sistema e ci frena dal fare scelte che il nostro ci implora è quella di morire di fame.
È una lotta del raziocinio per sopraffare lo spirito che deriva da un condizionamento che ci è stato imposto da sempre secondo cui in questa vita bisogna aggrapparsi quanto mai più forte alle certezze ed al cammino più facile e più vantaggioso.
Mi dissi che se qualcosa fosse andato storto da Ray mi sarei ricordato di quei segni degli alberi da frutto lungo le strade e che li avrei assecondati.
Mi ero imposto che sarei andato in Guiana se per lavorare e fare dei soldi, questa scelta, di per sé contraria alla volontà più intima della mia essenza a cui di are il proprio tempo lavorando gliene fregava ben poco, doveva essere sostenuta da un continuo ed incessante lavorio mentale di pensieri volti a convincermi nella giustezza della stessa, anche se tutto sembrava suggerirmi il contrario.
Questi pensieri, frasi formulate in lingua italiana e con la mia voce figurativamente dentro la mia testa, ad un attento e postumo esame si svelavano non appartenermi neanche. E così quelle tante parole in successione del tipo:
“Devi trovarti un lavoro altrimenti morirai di fame” Oppure “Si, e se ti compri la
bicicletta e te ne vai come farai? Consumerai tante energie ed avrai tanta sete, troverai dell'acqua?” Od anche “Dai puoi farcela, basta che ti trovi un bel lavoro, magari in miniera, così ci stai per qualche mese e guadagni un sacco di soldi e chi lo sa ti porti via qualche pepita d'oro e poi così sarai libero” e tantissime altre frasi su questo andazzo, mi accorsi che non erano mie come dicevo, ma frasi che avevo ascoltate ripetute da svariate persone durante gli anni e che io interpretavo in quei momenti come miei propri ragionamenti. In realtà erano come delle registrazioni che toccato un determinato argomento, per associazione partivano a musichetta tormentandomi.
Lo strano è che avevo già vissuto in ato esperienze di viaggio “on the road” e ben sapevo come quando si segue la propria strada, ciò che fa vibrare l'anima si potrebbe dire, le cose accadano da sole. Non c'è più bisogno di preoccuparsi di nulla, che le cose arrivano come per magia nei momenti di maggior necessità.
Ed invece si va avanti perpetuando nelle scelte falsamente razionali, visto che i pensieri non sono manco i nostri, al posto di seguire il proprio impulso interno.
Cercavo lavoro oltre che in giro anche da internet, ma c'erano pochissime offerte; per poco non venni preso in una distilleria di rum al confine con il Suriname, ma quando seppero che stavo a Cayenne mi rifiutarono nonostante davo loro disponibilità immediata.
Tra le varie mi iscrissi anche a pole emploi, una specie di agenzia di collocamento se, dove poteva esserci qualche speranza, posto che come sempre raggiunsi a piedi. Andavo a piedi praticamente ovunque, cosa che sembrava da matti alle persone a cui lo dicevo.
Un giorno però presi un van perché sarei andato a farmi un giro a Kourou un'altra piccola città non molto lontano da Cayenne, famosa perché c'era una
base di lancio per lo spazio, purtroppo trovai l'ufficio di collocamento chiuso e quindi mi guardai un po' intorno per poi scegliere di andarmene a mare.
La spiaggia era carina, con delle palme e prati verdi e curati prima di essere raggiunta, il mare era mosso, la sabbia grossa e degli scogli naturali bruni e levigati su cui si infrangevano forti le onde. Da li si poteva vedere all'orizzonte la ile du salut (isola del saluto) usata un tempo come carcere dai si e famosa per il mitico Papillon con la sua fuga.
Rimasi là qualche tempo sdraiato sulla sabbia a rilassarmi, poi mi misi a fare qualche esercizio a corpo libero ed a sollevare dei grossi sassi che avevo trovato compiacendomi degli sforzi, che alla fine dei conti mi facevano sentire vivo. Infine mi stancai di stare a Kourou, e come chiesi l'orario ad un ante mi resi conto che avevo quasi sicuramente perso il van di ritorno per Cayenne, mi sarebbe toccato tornare a piedi fino a casa pensai, lo stesso ante si offrì di darmi un aggio fino ad una grossa rotonda usciti dal centro abitato da dove avrei potuto trovare qualcuno a darmi un aggio, lo ringraziai tante e montai sopra, chiacchierammo senza troppo disagio fino al punto che mi aveva indicato.
Là scesi e feci un centinaio di metri a piedi in direzione di Cayenne, dove c'era spazio per la fermata di emergenza al lato della strada. Un'asiatica era già li a fare l'autostop, mi unii a lei e nel giro di 5 minuti si fermo un veicolo, lei venne caricata ma il conducente si rifiutò, sebbene avesse spazio, di caricare anche me; fantasticai su delle ipotetiche perversioni di questo autista.
Aspettai una mezzoretta finchè si fermò una macchina sportiva e venni caricato da due ragazzi che andavano a Cayenne, non che vi fossero molte destinazioni possibili visto, e per fortuna aggiungerei, che tutta la viabilità in Guiana se era costituita per lo più da una strada principale che seguiva la costa da est ad ovest.
Iniziai spontaneamente a chiacchierarci, quello seduto al eggero era figlio di una dominicana e di un guianense parlava quindi varie lingue il che ci rese più facile il comunicare. Gli raccontai un po' della mia vita e lui mi raccontò della sua; faceva il muratore e mi diede varie dritte su posti dove chiedere per lavorare. Quando gli raccontai dei miei viaggi mi diede una delle dritte più dritte che ebbi mai udito, mi disse che avrei dovuto comprarmi una di quelle telecamerine che si montavano su di un caschetto, per poi starmene a so per il mondo e filmare tutto quanto; poi avrei fatto dei montaggi e creato delle specie di documentari da rivendere ad emittenti televisive per finanziare i miei spostamenti. L'idea mi piacque e chissà che non avrei finito per farlo davvero un giorno.
Prima di arrivare a Cayenne ci fermammo in un paese quasi attaccato che si chiamava Balatà, accostammo davanti ad una casa e loro si misero a parlare in un se per me ben poco comprensibile con la gente del posto. La gente del posto erano tutti creoli, ovvero discendenti diretti degli schiavi africani che in tutte e 3 le Guiana andavano per la maggiore. In quel posto, Balatà, erano gli unici a viverci. Le case erano tutte catapecchie di legno e mi diede l'impressione che i due ragazzi che mi stavano dando uno strappo si fossero fermati per fare un certo tipo di rifornimento “sostanzioso”, volli farmi gli affari miei e mi misi a guardare da un'altra parte mentre il gruppetto parlava tra di loro. Poi ripartimmo e mi lasciarono ad un bivio a Cayenne e con una bella idea in testa.
Un altro posto dove mi ritrovai ad tornare di frequente e che non era distante da casa, mi era stato descritto da Taylon che probabilmente ci andava alcune volte in cui saltava la scuola, era una vecchia cava di qualche tipo di pietra ed un giorno durante degli scavi non finiti bene si era riempita d'acqua proveniente dal sottosuolo e secondo la storia, che aveva un non so che di leggenda, erano morte anche delle persone durante l'evento.
Il posto era carino, c'era questo laghetto del diametro nella parte più larga di qualche duecento metri dall'acqua azzurra che andava facendosi cupa per la profondità, circondato da vegetazione super verde e dalla falesia rossa su di un
lato. L'unica pecca erano i rifiuti abbandonati in giro.
Mi facevo il bagno ma raramente rimanevo in acqua più di un minuto, mi metteva paura quel posto, nuotavo a fatica e mi sentivo tirare verso il basso, forse il motivo era la mancanza di sale.
Scoprii dopo poco tempo che dietro una collina dalla parte opposta del laghetto dove andavo c'era un'enorme discarica a cielo aperto, ma l'acqua del laghetto sembrava essere pulita ed era popolata dai pesci e, secondo le leggende di Taylon, anche da qualcos'altro. Taylon mi metteva in allerta con delle storie che vi fosse un mostro dentro le acque del lago che tirava sott'acqua le persone che andavano a farsi il bagno da sole.
Prima di arrivare al laghetto si ava per un piazzale in terra battuta dove c'erano parecchi rottami metallici abbandonati, questo posto divenne la mia palestra.
Avevo una grossa ruota da trattore che mi divertivo a ribaltare andando da un punto all'altro, poi c'erano dei tubi di metallo che usavo come pesi oppure nei giorni di nervosismo mi sfogavo battendo un tubo sulla ruota sdraiata con tutta la forza che avevo e tante altre cose che mi ingegnai a fare per fare un po' di esercizio fisico.
Erano ate quasi 3 settimane dal mio ingresso in casa di Ray e sembrava che non riuscissi a trovare lavoro, ma non persi mai la speranza; una mattina camminando lungo la route de la Madaleine mi decisi finalmente ad entrare in un posto dove vi ero ato svariate volte davanti ma non so perchè non vi ero ancora entrato.
C'erano dei grossi capannoni tutti scarruppati e da quanto riuscii a tradurre leggendo la scritta a grosse lettere, di cui qualcuna era andata persa negli anni, lavoravano il legno; mi presentai senza manco il curriculum ed entrato nella reception parlai con una signora bassina, avvizzita ed a forma di pera, le dissi che cercavo lavoro. Pensava che io fossi brasiliano ed iniziò a parlarmi in un portoghese dal forte accento se, per me fu un sollievo poter parlar portoghese perchè mi permetteva di esprimermi, cosa per me ancora impensabile da fare parlando se.
Mi disse che forse avevano bisogno di qualcuno, mi fece aspettare quasi un'ora, seduto all'aria condizionata, finchè arrivò suo figlio per conoscermi, gli spiegai che avevo già lavorato in una fallegnameria in Italia producendo porte e finestre; al ragazzo, che purtroppo o menomale non parlava portoghese, sembrai andare a genio nonostante rimasi per lo più muto a parte qualche parola farfugliata e gesticolazioni varie mentre mi mostrava alcuni macchinari nel capannone.
Mi disse di tornare nel giro di una decina di giorni, avrei fatto una settimana di prova, uscii di là felice e saltellante, finalmente si era presentata un'occasione.
Un posto in cui presi abitudine a frequentare ogni volta che avo da quelle parti era un internet caffè dove avevo intensamente addocchiato una commessa, l'avevo conosciuta poi la seconda volta che mi ero recato nel posto. Si chiamava Vena ed era di Haiti, aveva un volto felino con gli zigomi alti e gli occhi svegli, la carnagione scura ed il seno procace.
Mi feci vivo sempre più spesso fino a fare amicizia con lei e l'altra commessa, che pure era carina.
Vena si fece molto interessata a me fin da subito, purtroppo però mi prese come una specie di gigolò, anche a causa di certe coincidenze che capitarono e miei
continui sbagli a parlare il se che fecero sorgere molti equivoci.
I giorni in casa si fecero più difficili del dovuto e tutto sembrava dirmi che era giunta l'ora di andarsene, arrivarono altre 3 persone che sarebbero rimasti con noi, una donna più o meno coetanea di Ray sua figlia sui 9 anni e suo figlio sui 20.
La donna era stata ospitata da Ray per prendersi cura della casa e dei suoi figli, ciò era un chiaro segnale che evidentemente a Ray non stava tanto bene quello che facevo; iniziammo anche a stare stretti, dormivamo in 5 nella stanza e la casa era praticamente un bilocale.
Per quanto mi riguardava ne approfittai subito per avere più libertà e me ne stavo praticamente tutto il giorno fuori casa, limitandomi solamente ad accompagnare Eva a scuola.
Ray iniziò visibilmente a stufarsi della mia presenza, visto che non le ero più di tanto utile, venne una sera che volle parlarmi, mi prese in disparte e mi chiese se potevo contribuire a pagare le bollette della luce e dell'acqua. Le dissi che non potevo, ed era la verità e sinceramente mi dispiaceva di non poterla aiutare.
Nel giro di qualche giorno mi fece capire che il suo ex fidanzato, con cui si era rimessa insieme, sarebbe venuto a vivere da noi e che a lui non sarebbe piaciuto condividere la casa con un altro maschio.
C'era anche l'altro ragazzo appena arrivato in realtà, che era si fidanzato, ma non veniva considerato una minaccia a causa della voce molto effemminata probabilmente.
Io capii al volo quello che c'era da capire, e me ne sarei andato il prima possibile, anche senza avere un posto dove andare a stare.
Arrivò la domenica, Ray non era in casa, stava da qualche parte a riaccendere il fuoco della relazione con il suo ex fidanzato e sarebbe tornata solo la notte, ma tutti gli altri erano presenti; il tempo di preparare lo zaino e senza troppe spiegazioni me ne andai via da quella casa e da quello che per me era diventato un inferno.
RESISTENZA, stringere i denti.
Camminavo, zaino in spalla prendendo profonde boccate d'aria, aria di libertà.
Ogni volta in cui succedeva qualcosa di simile la sensazione era quella, ed era cosa “buona e giusta”.
Sapevo perfettamente dove mi stavo dirigendo, la settimana precedente, in una delle mie lunghe camminate per la città me ne ero andato in direzione opposta alla solita, fino ad arrivare sopra un monte, ben visibile dal nostro quartiere, chiamato montaigne du tigre.
Quella mia visita precedente, in apparenza casuale, era stata inconsciamente una perlustrazione del posto per vedere quanto fosse fattibile viverci e la prima impressione era stata positiva. Avevo visto che l'accesso era vietato, ma non sembrava esserci nessuno a vigilare ed anzi avevo incrociato delle persone, a cui piaceva farsi le corse in salita, che arrivavano fino a sopra tranquillamente.
Ora avanzavo per una strada principale che fuggiva dalla città, il mio sguardo batteva a tratti la cima del monte alto al massimo 300 metri stimai.
Avvicinatomi di circa un chilometro lasciai la strada principale girando a sinistra, qui la strada iniziava a salire leggermente; dopo un centinaio di metri c'erano svariate palazzine in costruzione, finite le quali iniziava con un tornante verso destra la salita vera e propria. A poca distanza c'era una sbarra abbassata con tanto di cartello con scritto accesso interdetto, area militare e tante altre cose. Da qui in poi c'era solo la strada ben asfaltata circondata da una vegetazione spontanea e rigogliosa, alberi alti e profumo amazzonico; tenevo i sensi abbastanza allerta onde evitare di esser visto da qualcuno. Le uniche forme di vita che incontrai furono delle scimmiette che saltavano sugli alberi e fatti quei 4 o 5 tornati arrivai in cima.
Si avano dei campi da tennis abbandonati, per poi raggiungere una specie di piazzale con delle piccole caserme tutte uguali con porte e finestre murate; li tutto quanto era in uno stato di abbandono, non molto datato tuttavia. Sempre nel piazzale c'era una cisterna per l'acqua di cemento ed una alta struttura metallica pitturata bianco e rosso con varie antenne per le telecomunicazioni e due strutture più piccole al suo fianco.
Proseguii dritto fino a raggiungere dopo si e no duecento metri l'ultima caserma sul cui retro c'era una scala di legno che saliva su di un grande davanzale coperto da una tettoia. Lasciai là il mio zaino ed altre buste che avevo, poi attaccai la mia amaca, regalo di Maria baixinha, e me ne tornai alla “civiltà” in cerca di cibo ad uno dei tanti negozi cinesi, il giorno seguente sarebbe stato il primo del periodo di prova nella fallegnameria.
Al ritorno verso il monte era già calata la notte ma c'era per fortuna la luna a rischiararmi il cammino, mi sentivo bene a camminare nella vegetazione in
attesa di raggiungere il mio posto scelto per dormire. Notai che la vita notturna una volta tra gli alberi era dettata dagli insetti ed iniziai ad essere una facilmente individuabile preda, forse a causa del mio sudore italiano che attraeva le zanzare in cerca di cibo prelibato.
Mentre salivo iniziai a dimenarmi schiaffi sul corpo di tanto in tanto, una volta raggiunta l'amaca e sdraiatomi la situazione si fece ancor peggiore.
Tentavo di dormire ma, forse per un principio vendicativo, fui martoriato da un'intera nazione di zanzare che a quanto pare ci tenevano molto ad onorare i pochi fratelli, parenti alla lontana od addirittura connazzionali, che gli avevo fatto fuori e lo facevano senza pietà.
In breve tentai di difendermi come meglio potevo; mi arrotolai a doppio giro nel lenzuolo da letto matrimoniale che avevo e dormii vestito, facendo uscire da una maglietta, che usai per proteggere la faccia, solamente il naso per respirare. Non ci fu davvero niente da fare, le zanzare riuscivano a succhiarmi il sangue attraverso il lenzuolo con estrema facilità; addirittura riuscivano anche a fare il loro lavoro dalla parte di sotto, traando oltre al lenzuolo ed i vestiti anche l'amaca fatta di tessuto grosso. Fu una tortura atroce, dentro di me si scatenò una lotta mentale, dove per istinto sentivo il bisogno di grattarmi ma raziocinando sapevo che se avessi iniziato a grattarmi sarebbe stato peggio, aumentando esponenzialmente il prurito per entrar poi in un circolo vizioso che avrebbe avuto fine soltanto quando sarei arrivato a strapparmi la pelle dal grattare.
E così resistetti fermo e immobile, Dio solo sa quanto tempo, alla tentazione di grattarmi mentre le zanzare si davano alla pazza gioia con il mio sangue, forse tanto raro da quelle parti; sperai di cadere nel sonno o perdere i sensi pur di non avere più quella dannazzione da sopportare, ma oltre alle punture il fastidio era aumentato dal continuo ronzio ad alta frequenza vicino alle orecchie, che già da solo avrebbe reso impossibile il sonno a chiunque.
Arrivai infine al mio limite...Lo superai, anzi lo lasciai proprio indietro fino a non ricordarmi più a che punto è che lo avevo ato e d'un tratto scattai senza più controllo della volontà sul corpo. Fu di riflesso istintivo come quando la mano tocca qualcosa di bollente e si ritrae senza spazio ad esitazioni, mi lanciai con le mani grattandomi tutto il corpo accompagnato da un urlo di battaglia a squarciare la notte. Visto da una telecamera sarei potuto sembrare una persona tranquillissima che dopo ore di immobilità assoluta e tranquillo sonno scattava in preda ad un attacco schizzofrenico, udito da una distanza in cui non fossi stato visibile sarebbe potuto sembrare l'ultimo suono emesso dalla bocca di una persona che sta per esser sciolta nell'acido.
Saltai giù dall'amaca continuando a grattarmi ovunque come impazzito, fu molto particolare come il mio “osservatore interno” seguiva tutto quel dimenarsi automatico senza riuscire ad intervenire; dopo mezzo minuto circa riuscii a calmarmi. Mi rimisi dentro l'amaca cercando di avvolgermi il meglio possibile e senza lasciare un centimetro di corpo scoperto. Fu una notte lunghissima dove non raggiunsi mai il sonno profondo e le zanzare mi abbandonarono solamente all'alba.
Il giorno era iniziato, l'appuntamento al posto di lavoro era per dopopranzo; la mattina, dopo aver sistemato l'amaca e nascosto le mie cose nella vegetazione, scesi quasi subito dal monte, portandomi uno zainetto che usavo per trasportare le poche cose che mi servivano. Mangiai da un albero vicino al mio rifugio dei piccoli frutti arancioni che erano per lo più seme e buccia, ma si succhiava quello che si poteva; era una pianta piuttosto presente nella zona.
Durante la discesa feci un tornante ed appena si riaprì la visuale della strada davanti a me, mi trovai una macchina bianca che stava salendo, mi venne un groppo allo stomaco. Il veicolo si affiancò, c'era solo il guidatore dentro ed era un militare. Mi chiese cosa stessi facendo là, non erano forse manco le sette del mattino, gli risposi che stavo facendo un giro per vedere il posto e fare delle foto; mi chiese di aprire lo zaino per mostrargli il contenuto e di dargli un mio
documento, per fortuna mi ero portato il aporto appresso ed anche chissà perché la macchina fotografica.
Dopo una breve occhiata al aporto me lo porse, al ché gli chiesi come mai fosse vietato salire sul monte e lui confermò le voci che avevo sentito chiedendo informazioni a chi capitava nei giorni precedenti. Quel posto era una zona militare ed era stato abbandonato a causa di continue epidemie di dengue che i soldati contraevano.
Fu per me inevitabile non pensare di riflesso alla notte ata devastato dalle punture di zanzare killer ed inarrestabili; il militare mi salutò mentre proseguivo la mia discesa.
Questa non ci voleva proprio, per lo spauracchio della dengue a cui però non diedi molto peso, ma soprattutto per sta storia che a quanto pareva i militari facevano ronda a controllare che nessuno salisse sulla montagna nonostante la zona militare fosse abbandonata. Raggiunta la sbarra all'inizio della salita, venni recuperato dal militare in auto che stava tornando indietro, il quale mi indicò l'asfalto poco più avanti, c'era un bradipo che attraversava. Mi fermai ad ammirare la lentezza di questa creatura e gli feci qualche scatto con la macchina fotografica.
Arrivai in centro e ai la mattinata bighellonando in giro ed andai a trovare Vena, mi sembrava di iniziare a sentirmi debole, sicuramente a causa della tanta strada che percorrevo a piedi, il poco cibo che mangiavo e la notte ata senza dormire.
Arrivò in fine il primo pomeriggio e mi feci trovare al capannone dove avrei iniziato a lavorare, seduti su delle travi di legno c'erano un gruppetto di persone, mi avvicinai e li salutai, erano tutti brasiliani a parte un nero che doveva essere
del posto.
Chiacchierammo un poco e gli spiegai che stavo li per fare una prova.
Poco dopo arrivarono i padroni ed io venni affiancato a qualcuno, più che lavorare guardai gli altri farlo, cercavo di mostrarmi il più operativo possibile, sapendo che quella settimana era di prova.
Quelle poche ore arono in fretta e poco dopo già mi trovavo fuori dal capannone camminando in direzione del monte dove “alloggiavo”, mi fermai prima ad un grosso supermercato dove mi comprai bottiglie d'acqua e varie confezioni di datteri, fichi secchi e noci, poi proseguendo feci tappa ad uno dei tanti negozi cinesi e mi comprai degli zampironi contro le zanzare; cercavo di prepararmi il meglio possibile per la notte, non avrei mai sperato di arne un'altra uguale alla precedente.
Mi sentivo stanco, avevo camminato chissà quanti chilometri anche quel giorno ed avevo la stanchezza della notte precedente non dormita, arrivato dietro alla casermetta, ripresi le mie cose nascoste nei dintorni ed agganciai l'amaca.
Poi mi presi il mio asciugamano e la saponetta e ripercorsi la strada al contrario per qualche centinaio di metri fino ad arrivare al piazzale circondato da caserme dove c'era il grosso serbatoio d'acqua e l'antenna. Sotto il grosso serbatoio c'era un attacco per l'idrante antincendio, del classico rosso visibile da lontano.
Aprii la valvola ed iniziò ad uscire acqua in pressione, mi spogliai nudo e mi acquattai sotto al getto freddo, lavandomi come meglio potevo.
Mi asciugai e tornai alla mia amaca, era appena scesa l'oscurità ed iniziavano a farsi vive le zanzare, non sapevo bene cosa fare ed approfittando della stanchezza accesi due zampironi che piazzai sul pianale in legno sotto di me e mi buttai sull'amaca arrotolato nel lenzuolo come meglio potevo, sperando che funzionassero le mie armi difensive.
Dormii piuttosto bene rispetto alla notte prima, non fosse che mi sentii tremare e venire la febbre, ma per fortuna subii poche punture quella notte.
Mi alzai di mattino presto, era martedì e quel giorno avrei avuto la giornata intera di lavoro, mi sentivo debole. Siccome mi ero alzato in largo anticipo approfittai del tempo utile per trasferirmi. A lato della casermetta dove stavo c'era quello che doveva essere stato un campo da basket circondato da una rete con un cancelletto aperto che dava su di una ripida discesa ricoperta d'erba per un tratto per poi riprendere la vegetazione selvaggia. Spostai le mi cose sotto un albero, montai con calma la tenda e ci lasciai le mie cose dentro. Tornai sui miei i e mi voltai per controllare che la tenda fosse ben nascosta nella vegetazione e lo era. Poteva essere scoperta solo se qualcuno si fosse inoltrato per un pezzetto nella vegetazione, sperai che nessuno fosse tanto temerario e fortunato da arrivare fino a quel punto del monte e trovare la mia roba; dentro la tenda c'erano tutti i miei averi.
Mi incamminai in direzione del lavoro, che stava a 5 o 6 chilometri dal punto di partenza e ci impiegandoci un'ora ad arrivare. Iniziò la mia giornata di lavoro e mi affiancarono ad un signore brasiliano, un certo Vessenaldo, o qualcosa del genere, magro e frenetico nel lavorare.
ai la giornata interamente a spostare travi di legno di ogni tipo, dimensione e peso e tagliarle con la sega circolare; iniziai a sentirmi sempre più debole, a pranzo mangiai a fatica la confezione di datteri che avevo con me, sembrava
fosse faticoso addirittura ingoiare il cibo.
C'era molto caldo, cosa normalissima da quelle parti, ed a causa di ciò non mi accorgevo più di tanto di avere la febbre. Continuai anche il pomeriggio a spostare travi da una parte all'altra e tirarle mentre venivano tagliate a misura dalla sega circolare; arrivò infine l'ora di andarsene ed ero a pezzi. Mi fermai al supermercato a comprare altre due bottiglie di un'acqua particolare ricca di magnesio e per questo motivo più cara, usata di solito dagli sportivi e da me allora nella speranza che mi desse una mano a combattere la spossatezza che stavo vivendo; poi mi incamminai per tutto il percorso fino a raggiungere la sommità del monte.
Dalla base del monte a salire, dovevo tenere tutti i sensi ben allerta, onde evitare di esser visto dai militari di ronda e la cosa non era facile; ero costretto a stare ben concentrato soprattutto sui rumori, con paura che sbucasse una vettura all'improvviso da un tornante, quindi per precauzione camminavo a bordo della strada dal lato della discesa, casomai avessi sentito qualche rumore sospetto mi sarei lanciato di sotto nella vegetazione. Facevo spesso pause, sia per riprendere fiato che per restare in ascolto. Non incontrai nessuno.
Non mi lavai neanche alla mia “doccia personale”, raggiunta la tenda e felice che nessuno la avesse fatta sparire la aprii e mi lanciai dentro addormentandomi quasi all'istante.
Mi risvegliai poi, forse prima di mezzanotte, cominciando col fare delle considerazioni sulla mia situazione che non sembrava essere delle migliori.
Avevo la febbre e mi sentivo debole, probabilmente mi ero preso la dengue, non avevo molti soldi e centellinavo le mie spese, spese che consistevano quasi solamente in mangiare e lo stretto necessario. Sembrava tra l'altro che nonostante
gli sforzi fisici compiuti non avessi fame. Mi chiedevo quanto tempo sarebbe durata quella situazione, l'aria di libertà che avevo provato andandomene via dalla casa di Ray si stava trasformando in un aria densa, pesante e piena di sofferenza.
Avrei avuto bisogno di studiarmi gli orari in cui i militari facevano la ronda, in maniera tale da sapere più o meno con esattezza a che ora avrei potuto abbandonare ed accedere alla mia zona ricovero. Se i militari avessero capito che mi accampavo là sopra, nella loro zona interdetta, non mi avrebbero sicuramente lasciato restare, senza pensare a quali avrebbero potuto essere le possibili conseguenze della mia infrazione.
Un'altra considerazione era che distavo parecchio dal posto di lavoro ed ancor di più dal centro della città e ciò mi faceva perdere tempo ed energie; avrei avuto bisogno di una bicicletta, ma era un investimento non indifferente per come stavo messo a soldi ed inoltre era più facile essere individuato dai militari salendo il monte con la bici.
L'indomani avrei fatto solo mezza giornata di lavoro alla mattina, avrei quindi dedicato il pomeriggio per trovarmi un posto dove stare; la mattina avrei cercato di parlare con quel mio collega con cui avevo lavorato quel giorno spiegandogli la mia situazione. Lui abitava con la sua famiglia in una casa di legno giusto dietro il capannone dove lavoravamo, c'erano spazi aperti d'erba oltre casa sua e sperai che mi desse il permesso di accamparmi là, sarebbe stato perfetto vista la vicinanza al lavoro, però avevo paura di ritrovarmi poi in una situazione di dipendenza simile a quella ata a casa di Ray.
Infine dopo chissà quante altre lunghe riflessioni mi riaddormentai, felice di non poter essere raggiunto dalle zanzare, protetto nella mia tenda.
Mi svegliai questa volta con lieve febbre e tutto indolenzito, peggio di quanto non era stato il giorno precedente, e mi avviai verso il lavoro. Mi sarebbe piaciuto starmene a riposare ma non potevo, era la mia settimana di prova e chiedere la malattia mi sembrava la peggiore delle maniere per iniziare quel lavoro, che dopo tante ricerche era sembrata l'unica mia opportunità. ai la mattinata con un altro collega, anche lui brasiliano, era un ragazzo poco più grande di me, si chiamava Adriano e tra un discorso e l'altro inevitabilmente finii per spiegargli dove stavo vivendo.
Il pomeriggio me ne andai in centro all'internet cafè dove stava Vena, la bella ragazza che avevo conosciuto. Non era certo il migliore dei modi che avevo per presentarmi, mi sentivo la febbre alta e dolori nel corpo, ma stavo là più che altro per fare qualche ricerca su internet ed avere delle notizie da Baby, l'altra ragazza che lavorava in quel posto, la quale mi aveva detto che mi avrebbe ato il contatto di un convento dove ospitavano i bisognosi. Non ci furono buone notizie quel giorno; Vena era molto dispiaciuta per la mia situazione, Baby anche e mi prendeva per matto, dicendomi che dovevo lasciare la Guiana se per tornarmene in Italia dalla mia famiglia, che non aveva senso per me restare in quelle condizioni e probabilmente aveva anche ragione.
Il fatto che avessi la febbre mi rendeva piuttosto delirante e sembrava quasi che ormai non mi importasse neanche più di sentirmi male. Dopo aver ato qualche ora all'internet cafè, mi avviai per quella decina di chilometri che mi separavano dalla mia tana.
Arrivato alla strada che saliva lungo il suo fianco e compiuti stanco alcuni tornanti ebbi un attimo di esitazione nell'avanzare e tesi l'orecchio, stava arrivando una macchina dalla cima. Mi lanciai subito nella vegetazione alla mia destra, la macchina però si fermò prima di raggiungermi per del tempo e delle persone scesero a fare qualcosa. ati una decina di minuti nascosto finalmente il veicolo riprese la marcia e se ne andò, lo spiai dopo che si era lasciato dietro il posto in cui ero, era una camionetta di militari.
Tornai sulla strada e restando sempre sull'allerta mi andai a fare una doccia veloce all'attacco per l'idrante, mi sentivo svenire.
Entrato nella tenda mangiucchiai a forza qualche frutto essiccato e caddi nel sonno.
Il giorno seguente avrei avuto una giornata intera di lavoro, mi svegliai pieno di dolori nelle ossa, muscoli ed articolazioni, alzandomi ed uscendo dalla tenda con molta fatica.
Arrivato al posto di lavoro, sulla ruote de la Madalaine, dopo una camminata a o costante e sofferente, iniziò la giornata da schiavo. Venni purtroppo affiancato a Vessenaldo a spostare le travi di legno tutto il giorno e fare i compiti fisicamente più pesanti.
Facevo fatica a reggermi in piedi e mi sentii venire in più di un occasione, Vessenaldo dopo aver fatto finta di niente per del tempo si accorse di come stavo messo e commentò la cosa in qualche maniera. Mi muovevo al rallentatore per alzare da terra anche dei semplici listelli ed in ogni momento libero ne approfittavo per appoggiarmi con il corpo contro qualcosa o sedermi, sentendo le gambe che non ce la facevano a reggere il mio proprio peso. Il collega cominciò a chiedermi cosa avessi e gli spiegai in breve le mie vicende, avevo dolore in tutte le parti del corpo, ma oltre alla spossatezza nei muscoli e le articolazioni malfunzionanti il dolore sembrava provenire dalla profondità, dalle ossa. Mi faceva male persino dietro gli occhi e se li muovevo verso gli estremi ancor di più; avevo una respirazione lenta e leggera ed anche il cuore sembrava, nonostante gli sforzi fisici sollevando pesi, non farsi sentire proprio.
Vessenaldo mi disse che mi ero preso la dengue quasi sicuramente, visto che a detta sua ne avevo tutti i sintomi e mi diceva di andarmene all'ospedale, io
facevo il finto ottimista sforzando un sorriso e dicendo che non era niente di grave.
Quel giorno fu uno dei più lunghi mai vissuti, la febbre, la grande spossatezza generale e gli intensi dolori alle ossa mi fecero vivere ogni minimo movimento nella pienezza della sua sofferenza, anche il semplice parlare era per me uno sforzo che mi risparmiavo ben volentieri. Ogni trave che spostavamo fu un'agonia difficile da descrivere; smisi di preoccuparmi a che ora sarebbe finito tutto quello, uscendo fuori dal concetto dello scorrere del tempo.
Dissi ad Vessenaldo che non sarebbe stato male per me se avessi potuto accamparmi là vicino al capannone, mi rispose che per lui problemi non ce n'erano ma avrei dovuto chiedere ai padroni; non ebbi il coraggio di farlo, preoccupandomi di cosa avrebbero pensato di me.
Avrei dovuto resistere un mese, giusto il tempo di prendere i primi soldi, poi forse mi sarei potuto permette di prendermi una stanza in affitto, forse. Di per sé non mi dispiaceva il posto dove stavo, anzi, lo trovavo molto bello; immerso quasi totalmente nella natura. Purtroppo però era lontano dal centro e dal lavoro e la cosa mi costava un notevole spreco di energie fisiche senza contare che ero accampato in una zona militare e se fossi stato colto mi avrebbero come minimo invitato a sloggiare.
Mi ritrovai infine, ma stranamente senza un minimo di emozione per la cosa, fuori dai capannoni e sulla strada del ritorno; feci tappa al grosso supermercato e mi comprai 2 bottiglie d'acqua più altre cibaglie. Avanzavo come un vecchio, ogni mio o era sofferto e lo zainetto con quelle 4 cose dentro sembrava pesasse 50 kg. Sebbene stessi semplicemente camminando in piano mi fermavo ripetutamente per riprendere fiato; la schiena mi doleva come non mai e nelle soste mi dovevo piegare in avanti appoggiando le mani alle ginocchia e respirare a fondo per alleviare la sofferenza. La mia mente era molto annebbiata ed avanzavo per inerzia, trascinandomi un metro dopo l'altro. Il dolore era tale che
sembrava mi fossi fratturato più o meno tutte le ossa del corpo ed anche camminare era una sfida impossibile. Arrivai alla base del monte e sperai con tutto me stesso di non incontrare nessuno perché sarei stato troppo lento a nascondermi.
La salita, dopo una giornata intera a camminare e lavorare sotto il sole a spostare travi con la febbre e dolori da lasciarsi cadere a terra, fu davvero massacrante; in più punti fui obbligato a sedermi a terra od addirittura sdraiarmi sul cemento incapace di proseguire, arrivai alla tenda avendoci impiegato quasi il doppio del tempo rispetto agli altri giorni.
Mi buttai dentro sfilandomi i vestiti lentamente e da sdraiato, rimasi fermo ed in uno stato di incoscienza per un bel pezzo, avevo la febbre molto alta ed il corpo quasi impossibilitato a muoversi dal dolore diffuso. Quando mi ripresi un poco cenai quel poco che riuscivo ad ingoiare, poi mi ritrovai sdraiato fissando i quattro lati della tela grigia della tenda che andavano ad unirsi un metro più in alto di me, fuori era già notte. Mi rivolsi al creatore di ogni cosa in questo mondo.
Ad Egli non chiesi un aiuto, come sembrerebbe normale un figlio chiedere al proprio padre, Lo ringraziai del fatto che stessi facendo quell'esperienza tanto faticosa e di dolore, Lo ringrazia di essere ancora vivo e di aver avuto l'occasione di stare vivendo tutto ciò nella mia vita.
I dolori, la sofferenza e la stanchezza erano molto forti, la testa ed il corpo scottavano di febbre eppure dentro mi sentii molto calmo. Ero sicuro che tutto quello sarebbe ato ed era solo questione di tempo, ma non sarei fuggito da quella situazione con i pensieri o cercando una via più facile per alleviare la mia agonia; sarei rimasto in quella sofferenza sguazzandoci letteralmente dentro fino all'ultimo, volevo sentirla tutta perchè sicuramente aveva qualcosa da insegnarmi.
Pensai che inoltre non volevo morire, cazzo! C'erano ancora tante cose che avrei voluto fare, vedere e capire in questa vita.
La notte ò, togliendo la mia condizione corporea, “tranquilla”, il giorno seguente mi misi in marcia verso il lavoro accompagnato dalla mia sofferenza fisica, la febbre sembrava essere leggermente più bassa. Fu un'altra giornata piena e massacrante affiancando Vessenaldo a spostare travi e segarle. La giornata di lavoro terminò e sebbene fossi ai limiti della resistenza umana e l'unica cosa sensata sarebbe stata farmi portare in ospedale e collassare su di un lettino facendomi nutrire con le flebo, con tanta buona forza di volontà presi e trascinai il mio corpicino malconcio quei 3 o 4 chilometri fino in centro, all'internet point.
Qui ai un po' di tempo cercando una sistemazione ed a parlare con Vena che mi dava una mano col se. Trovai una persona tra i numeri chiamati che affittava stanze a settimana, lo contattai e fu Vena a parlarci spiegandogli che sarei andato la a vedere il posto e che però io non parlavo bene se, ci diede l'indirizzo approssimativo e uscii di là. Forse fu la prima volta che mi presi un autobus per spostarmi, fino ad arrivare al quartiere Cabassou non lontano dalla casa di Ray, dove iniziai a cercare quel benedetto posto.
Siccome non lo trovavo iniziai a telefonare alla persona che affittava per chiedere migliori spiegazioni ma non ci fu verso di capirsi, soprattutto per un mio problema di comprensione del se dove le parole dritto e destra mi suonavano perfettamente uguali, alla fine, dopo essermi bruciato anche due ricariche telefoniche, il tizio al telefono mi disse che avevano già affittato la stanza. Ci rimasi piuttosto male.
Era già sera da un pezzo e non mi restava che avviarmi verso la monaigne du tigre e are un'altra notte in tenda, la febbre verso quell'ora diventava più alta,
scottavo. Mi feci un tratto a piedi tentando la fortuna chiedendo alle persone che incontravo se conoscessero qualcuno che affittava stanze, ma ricevetti solo risposte negative.
Entrai in un merceria di cinesi per prendermi qualche cibaglia ed una volta fuori mi sedetti contemplando i miei dolori e la mia situazione, mi sentivo un vagabondo.
Mentre ero preso nei pensieri mi comparve davanti il mio collega Adriano in bicicletta ed iniziammo a parlare, al chiedermi cosa ci fi da quelle parti gli spiegai che avevo quasi trovato una stanza in affitto ma all'ultimo la persona sembrava aver cambiato idea. Adriano si fece un po' pensieroso, entrò nella merceria a comprarsi una birra volendo offrirne una anche a me, che viste le mie condizioni rifiutai. Mi disse poi di seguirlo e mentre ci incamminavamo mi propose che se volevo potevo stare a casa sua fino a che non avessi trovato una stanza in affitto.
“Ho un balcone, se vuoi ti diamo un materasso e puoi dormire li”. Una frase del genere che se mi fosse stata detta in un altra situazione mi avrebbe generato automaticamente una controbattuta del tipo: “E se piove?”. Ma data la mia situazione accettai all'istante, sembrandomi essa caduta dal cielo, alla sola idea di un materasso morbido su cui riposare e di non dovermi fare altri chilometri a piedi sino alla cima del monte, con la febbre, i miei compagni inseparabili di dolori, la preoccupazione di incontrare i militari e solo una piccola torcia a farmi luce ed attirando, sicuramente grazie ad essa, milioni di zanzare.
Arrivammo in breve a casa sua, viveva nella citè Cabassou, un agglomerato di case popolari in stile moderno nel quartiere Cabassou. Salimmo al secondo piano di una delle ultime palazzine ed entrati in casa c'erano due donne su di un divano, la madre e la sorella che adocchiai fin da subito sentendomi frizzolare il sangue per la sua presenza. Puzzavo e la cosa mi causava vergogna, chiesi se fosse possibile farmi una doccia e loro molto gentili mi diedero tutto l'occorrente
più alcuni vestiti di Adriano per cambiarmi. Poi mi invitarono a cenare ma dovetti rifiutare gran parte delle cose non riuscendo a mangiare pressoché nulla che fosse troppo elaborato, la cosa li fece preoccupare. La preoccupazione aumentò quando Adriano dovette insistere parecchio per convincermi a prendere un'aspirina visto che ritenevo inutile l'uso di qualsiasi tipo di medicinale. Infine mettemmo il materasso sul balcone, che comunque era abbondantemente protetto dal tetto, e mi addormentai sfinito ed all'istante in quella morbidezza.
Venne il giorno seguente, sabato, sarebbe stato l'ultimo della settimana di prova ed ero felice perchè finalmente dopo il lavoro avrei potuto riposarmi, pensavo che avrei ato tutto il tempo a disposizione sdraiato a dormire per recuperare e le forze e nella speranza che assero i dolori alle ossa e la febbre.
Mi avviai a piedi verso il lavoro, sentivo il corpo essere al culmine della sua capacità di sopportazione, mi feci coraggio pensando che ne avrei avuto ancora solamente per qualche ora; l'ultimo sforzo finale mi dissi.
La mattinata per fortuna fu di lavoro soltanto nelle prime ore, poi si pulivano i macchinari e si spazzava in giro per togliere la segatura accumulata in una settimana nel capannone; i padroni ci tenevano che avesse un bell'aspetto il loro posto.
A mala pena riuscivo a tenere la scopa in mano ed approfittavo dei momenti in cui non c'era nessuno nei paraggi per fermarmi ed appoggiarmi contro qualche pila di legni e chiudere gli occhi, mai fui tanto devastato in vita mia. Scoprii in seguito che la dengue veniva chiamata in inglese breakbone fever, ovvero febbre spezza ossa. Avevo anche dei puntini rossi sul corpo, ma in maniera lieve rispetto agli altri sintomi. Finita la mattinata di lavoro mi misi d'accordo con Adriano che sarei andato sul monte a prendere tutte le mie cose per venire a stare a casa sua, per lui non c'era problema.
Fin dal primo sguardo Adriano mi era piaciuto, gli avevo letto negli occhi qualcosa di singolare ma che non seppi definire al momento, ma che ripensandoci in seguito avrei definito come forza d'animo.
Il ragazzo, un certo Giancristoff o chissà come si scrive, che figlio dei proprietari ed era un po' quello che mi diceva cosa fare sul lavoro, ebbe una piccola discussione con la madre, la quale diceva che non avevano bisogno di me mentre lui voleva tenermi; infine mi disse che non c'era molto lavoro in quel momento ma che all'inizio del mese seguente ci sarebbe stato, mi diede quindi appuntamento per una data. Non mi preoccupai molto e ebbi fiducia che le cose sarebbero andate per il meglio, per ora mi importava poter riposare e risolvere quella mia pessima condizione fisica.
Andai prima in centro a rassicurare la bella Vena, che tanto si preoccupava, a dirle che avevo trovato una sistemazione temporanea ed a vederla.
Mi incamminai poi in direzione del monte, il mio corpo era come un elastico teso al limite estremo e pensavo che sarebbe bastato tentare una corsetta per farmi schiattare. Mi ci vollero molte pause per riprendere fiato, ci furono dei momenti dove mi si bloccò tutto il sistema motorio che si ribellava continuamente a tutti quei miei movimenti forzati impedendomi di proseguire, mi riuscii a trascinare ancora una volta fino alla cima del monte e dovetti nascondermi qualche tempo nella vegetazione, a causa di alcuni addetti per le antenne che tardarono ad andarsene. Arrivato al giaciglio avrei dovuto smontare la tenda e rimettere tutto in ordine per poi scendere di nuovo e farmi altri chilometri a piedi; non ce l'avrei mai fatta. Era pomeriggio, ed una volta entrato nella tenda caddi sdraiato e mi addormentai bellamente.
Il mattino dopo con calma smontai la tenda ed organizzai il mio zaino grande in modo da avere meno cose possibile tra le mani. Lo zaino, che già di suo pesava sui 25 kg ed era faticoso da portare, parve pesare una cosa improponibile per le condizioni in cui stavo messo.
Avevo oltre a quello una busta con il mio portatile, che era sopravvissuto a tutti i miei spostamenti da settembre a quella parte, e nell'altra mano la tenda ripiegata nella custodia. Avanzavo traballante e precario come non mai, fermandomi al massimo ogni cento metri a riposarmi. Fare la discesa caricato di tutti quei pesi fu una tortura atroce e mi sforzai di non fermarmi proprio, mi sentivo mancare e le braccia a causa delle bretelle dello zaino che non facevano circolare quel debole flusso sanguigno che mi pulsava nel corpo, ed erano pervase da formicolio. Per lo meno mi ero svegliato con la febbre bassa, riuscii non so come a sopportare il dolore e fermarmi con meno frequenza e dopo un tempo per me interminabile riuscii ad arrivare a casa di Adriano. Qui pranzai riso fagioli e carne, che sicuramente fu la cosa più sostanziosa che introdussi nel apparato digerente nell'ultima settimana, dopodiché crollai nel sonno.
La sera rifiutai nuovamente il cibo mangiando solo un po' di banana chips, perchè non ce l'avrei fatta a mangiare nient'altro. Venne anche un amico di Adriano, un ragazzo se alto e magro che si era trasferito in Guyana per qualche tempo. Iniziai una conversazione con lui in inglese, cercavo di mostrarmi capace ed intenzionato a continuare la conversazione esternamente; internamente stavo vivendo una tortura, a causa del mio stato alterato di coscienza avevo una percezione della realtà molto acutizzata e mi sentivo supersensibile e spaventato. Il ragazzo ad un certo punto sedeva al mio lato e per sbaglio mi toccò un attimo dentro con il gomito, scattai come una persona sui tizzoni ardenti di tanto che mi sentivo fragile e vulnerabile. Sembrava avessi paura che una persona potesse ferirmi semplicemente con un tocco.
Il giorno seguente non avrei lavorato, per fortuna pensai, mi alzai sentendomi decisamente meglio, senza febbre e con i dolori meno presenti; compresi quella mattina che il peggio era ato.
UNA NUOVA TANA.
Parlai quel giorno con Adriano e prendemmo accordi che sarei rimasto da lui a stare un mese, gli avrei pagato 200 euro di affitto più dell'altro per luce, acqua, gas ed internet. Il prezzo non era male, tuttavia c'era sempre da tenere conto che non avevo un mio proprio spazio, se non il materasso che uscivo fuori sul balcone solo la sera, un piccolo divanetto dove mi sedevo durante il giorno ed un minifrigo spento che usavo come armadio per metterci qualche vestito ed oggetto personale; niente di più.
La cosa non mi dispiaceva, anzi ero ben felice di aver trovato quella sistemazione e ci tenevo che tutto scorresse senza problemi per poter rimanere là fino all'arrivo di tempi migliori.
Quella domenica riposai quasi tutto il giorno recuperando decisamente le inimmaginabili fatiche della settimana precedente e dal giorno seguente mi rimisi a bighellonare per le strade di Cayenne.
Mi sarebbe convenuto cercare un altro lavoro, sapendo che se alla falegnameria avessero cambiato idea sarei stato obbligato a farlo, quindi non rimasi con le mani in mano.
Il martedì mentre stavo all'internet cafè dove lavorava Vena, notai un signore, evidentemente un muratore dal modo in cui era vestito. Sfogliava delle cartelle di documenti seduto ai tavolini e notai che mi aveva lanciato qualche occhiata, dopo qualche esitazione, causata come da una sorta di presentimento, mi feci avanti a chiacchierare con lui.
In breve, nonostante non sapessi far nulla di quel mestiere, mi ero trovato un nuovo lavoro ed avrei iniziato il giorno seguente.
La mattina ben presto ero già sulla strada, da casa di Adriano verso il centro, un o dopo l'altro come sempre. L'appuntamento con il muratore era alle 7 nella piazza delle palme.
Iniziai così questo nuovo lavoro e, per fortuna, non vi durai più di una decina di giorni. Con il muratore ci capivamo alla perfezione siccome era brasiliano, si chiamava Paulo e come venni purtroppo a sapere solo in seguito era conosciuto in città come Paulo “sem futuro”, ovvero Paolo senza futuro; era un soprannome che gli era stato appioppato non certo casualmente.
Notai che fin dal primo giorno non mi accennò minimamente a quanto fosse la paga giornaliera, quando glielo chiesi il secondo mi rispose che doveva valutare, perchè io non sapevo fare niente ed inoltre dipendeva da quello che avremmo fatto durante la giornata. Mi feci sospettoso ma rinnegai le mie intuizioni.
La giornata di lavoro tipicamente iniziava alle 7 del mattino, cosa che significava per me alzarmi alle 5 e mezza e farmi una bella camminata per arrivare in centro, poi in base a quello che c'era da fare mi toccava faticare od ancor meglio are un bel tempo senza far niente guardando Paulo lavorare.
Il mio livello di vitalità sembrava star crescendo dopo le brutte condizioni fisiche ate per la supposta dengue, in questo ultimo periodo infatti ero dimagrito moltissimo, ero realmente ridotto a pelle ed ossa ma senza aver perso eccessivamente i muscoli; sembrando una specie di Bruce Lee.
La pausa pranzo con Paulo non esisteva ed io non mi lamentavo visto che non sentivo ancora molto la fame; anche lui di per se non mangiava nulla fino a sera. Si svegliava presto bevendo solo caffè e poi già verso le nove del mattino
iniziava a bere birra, non beveva nemmeno l'acqua che secondo lui era inutile all'individuo. Era magro e tutto storto e artritico ed il vizio dell'alcool era causa probabile, o magari anche conseguenza, di tutto questo suo stile di vita che lo aveva portato ad essere conosciuto come “sem futuro”.
Mi comprava dei succhi di frutta oppure delle bibite gassate che costituivano, tranne poche eccezioni, l'unica fonte alimentare che entrava nel mio apparato digerente fino a sera; senza farlo apposta avevo preso anche io l'abitudine di Paulo a non mangiare mentre si lavora. Per quanto lo riguardava la cosa gli faceva molto comodo visto che così non doveva spendere troppi soldi per me ed inoltre così non mi fermavo per la pausa pranzo; credetti che se fosse stato possibile mi avrebbe fatto nutrire di sola aria.
Si finiva di lavorare verso le 7 di sera, poi mi toccava farmi un po' di spesa e farmela a piedi fino a casa; ripresi a mangiare cibo più o meno normale in quei giorni, visto che alla sera ero assalito da una fame poderosa. Mangiavo quasi esclusivamente dei minestroni di patate, verdure e carne, cenando minimo alle 9.
Non mi dispiaceva quel lavoro a dirla tutta, anzi fare tanti sforzi fisici sembrava, contrariamente a quanto avrei immaginato, restituirmi la vitalità persa durante la malattia; con Paulo iniziammo anche un rapporto quasi amichevole, non fosse che lui mi voleva sempre tenere sotto, facendomi sentire che non ero all'altezza del lavoro e che era quasi un favore che lui mi faceva lavorare, visto che nel frattempo imparavo il mestiere; in pratica tutte scuse che avrebbe usato poi al momento giusto per non pagarmi o darmi una miseria.
Mi faceva fare sempre le cose più pesanti come impastare a mano con la pala il cemento sotto il sole equatoriale, scaricare e spostare mattoni e buttare giù i muri con la mazzetta; quest'ultima cosa mi piacque particolarmente e Paulo che se ne accorse mi incitava, come un tifoso mentre la sua squadra del cuore sta per fare gol, mentre libravo un colpo dietro l'altro. C'è da dire che sempre a causa della mentalità che avevo sviluppato del “ciò che non mi uccide mi rende più forte”
facevo spesso le cose nella maniera più difficile e faticosa e nei momenti di pausa, o quando Paulo andava a comprarsi da bere, mi mettevo a fare verticali, ad alzare i mattoni od a maneggiare la mazzetta come fosse un'arma da guerra. Ma la cosa forse più caratteristica di quel lavoro era che Paulo, essendo rimasto senza furgone probabilmente dopo un test di guida in stato di ebrezza che sicuramente avrà ato a pieni voti sforando la capacità dello strumento, negli spostamenti da un cantiere all'altro mi faceva trasportare alcuni arnesi da lavoro sopra un eggino, che spingevo tranquillo per le vie di Cayenne.
Ogni sera poi arrivato a casa e dopo mangiato, appena piazzavo il materasso sul balcone e mi ci sdraiavo crollavo in un sonno profondo istantaneamente ed era fantastico.
Venne un giorno, forse il sabato di quella settimana ed insieme a Paulo, dopo varie peripezie perchè non avevo con me il documento, prendemmo un taxi ed andammo a Balatà il quartiere forse più periferico di Cayenne, dove già ero ato. Potevo ora avere conferma delle impressioni in quella breve visita precedente, poiché davvero le case erano tutte di legno e lamiera e la gente tutta nera.
Avremmo dovuto rivestire il primo piano di una casa, che era in legno, con una gettata di cemento. Mi proposi, tra i vari preparativi che c'erano da fare, per tagliare con il flessibile una grata di ferro che sarebbe servita da “anima” per il pavimento, spaccai un disco a causa della posizione sbagliata in cui Paulo mi disse di tagliare. Un frammento del disco mi ò non lontano dal volto, dopodiché Paulo, con quel suo fare molto sicuro di se tipico, prese in mano l'arnese convinto che io non fossi capace di tagliare, si mise con la faccia ben vicino al punto di taglio ma per fortuna per lui non gli successe nulla.
La giornata era caldissima come di norma in quella fascia del mondo e dopo altri preparativi dentro casa venni affiancato ad un altro a fare bèton, come dicevano loro.
Venne una camionetta a rovesciare un carico di sabbia e sassi nel cortile, poi scaricammo chissà quanti sacchi di cemento da 25 kg e li buttammo sopra la sabbia, si spaccava la confezione con una palata e si la rovesciava rimuovendo la carta della stessa.
Iniziammo a mescolare bene i componenti con le pale per poi innaffiare il tutto con una canna d'acqua. Oltre a me e Paulo c'erano anche altri due tizi, un Guianese ed un Haitiano; poi c'era anche quello che aiutavo a spalare. Era chiamato da tutti Maranhào, come il nome di uno stato brasiliano del nord-est dal quale proveniva, ed era grosso come poche persone esistenti sulla faccia della terra.
Maranhào poco dopo che avemmo iniziato si sparò una baguette da mezzo metro con un vasetto di maionese intero, serviva a dargli energia mi disse. Mentre spalavamo rimestando il cemento, cosa che io avevo imparato a fare nei giorni precedenti con Paulo, parlammo un po' e ci stavamo simpatici.
Aveva una struttura fisica veramente pesante, la testa era grossa con lineamenti da indio, era alto poco oltre il metro e ottanta e mi chiesi quanto diavolo dovesse pesare nonostante avesse giusto un accenno di pancia.
ava la maggior parte delle sue giornate a fare il cemento e visto che non aveva la macchina che lo impasta da sola, doveva farlo per terra manualmente, spalando e mescolando tutto il tempo. Addirittura chiudendo gli occhi e solamente ascoltando la sua voce non era difficile immaginarne l'aspetto; la voce era alta ma allo stesso tempo cavernicola, come se gli risuonasse nell'ampio torace, era una voce buona e scherzosa ma che incuteva rispetto allo stesso tempo, come il proprietario del resto.
ai qualche ora in coppia con Maranhào ed il compito era veramente difficile, era un continuo infilzare la pala nell'impasto sollevarla e rigettarla dal lato, per poi infilzare ed “aprire” l'ammasso per rendere tutto il più omogeneo possibile, io stavo semplicemente in pantaloncini corti ed a torso nudo esibendo il mio fisichino asciutto e scolpito, tanto minuto affiancato a Maranhào, che tanto piaceva alla grassa proprietaria di casa, la quale continuava ad offrirci gazzose. Mi dissero tutti quanti che se avessi voluto avrei potuto prendermi una pausa per “farmi una scopata” con la signora, la quale mi faceva allusioni continue ed abbastanza esplicite. Mi venne vergogna ma presi tutto sul ridere.
Con le mie scarpe da tennis ai piedi sprofondavo nel cemento fino al polpaccio e muoversi era veramente difficile. Considerando che a stare fermi al sole senza far niente si sudava già, dopo manco un minuto di movimento grondavo di sudore peggio che in una sauna. Dopo aver rimestato circa metà del composto Maranhào avrebbe continuato da solo, nonostante la sua mole aveva una forza ed una velocità straordinaria nello spalare ed io, si potrebbe dire per una sfida con me stesso, gli ero stato al o, non sottraendomi alla fatica per esempio caricando meno la pala o facendo pause, anzi quelle due orette ate con lui spinsi come una furia. Maranhào mi fece i suoi complimenti per la mia forza e mi fece sinceramente notare che dovevo mangiare, ero troppo magro, mi ero già stancato parecchio, ma ci fu ancora tutto il pomeriggio di lavoro pesante.
Bisognava portare con dei secchi il cemento fatto al primo piano dove veniva colato sul pavimento e messo a livello dal Guianese e da Paulo. Paulo in realtà rispetto a noi altri non faceva quasi niente, avendo avuto problemi al braccio sinistro, lavorava giusto per qualche tratto ando il tempo per lo più a fumare sigarette, bere birra, scherzare con Maranhào e gridare dietro a me ed al tizio di Haiti; “Bèèèèèton, bèèèèèèton!”. Un richiamo crudele che ci spingeva a fare più in fretta, rischiando di fracassarci qualcosa in caso fossimo caduti per gli scalini.
Il tipo di Haiti portava un secchio mentre io, dopo qualche prova, avevo capito di trovarmi meglio portandone 2 alla volta, uno per mano per bilanciarmi; l'alzata dei gradini era fuori misura e c'era proprio da divertirsi.
Per un bel pezzo il signore di Haiti, che mi parlava in un se per me incomprensibile, si mise a cantare delle canzoni evangeliche nella sua lingua creola. Nonostante la fatica aleggiasse nell'aria un brivido di felicità trasportato dall'onda sonora su cui mi sentivo perfettamente sintonizzato, mi pervadeva di continua. Maranhào ogni tanto partecipava alle lodi dell'haitiano gridando con la sua voce possente:
“Gloria ao Senhor” o “Gloria à Jesus” e cose di questo tipo.
Mi sentivo un misto tra il divertito e l'emozionato ascoltando le devote canzoncine dell'uomo di Haiti con la sua voce esotica e le baritonate di Maranhào alla fine delle strofe. Sorridevo catturando il cielo azzurrissimo e la bellezza delle nuvole con le loro forme, sentivo tutto questo appartenermi intimamente, o forse no, non appartenermi ma che io fi parte di tutto quello; brividi mi percorrevano la schiena. Era proprio una bella giornata e l'umore di tutti quanti era molto alto; stavo bene, stavo vivendo.
Maranhào mi disse che era Deus a dargli la forza di fare un lavoro così duro e giudicando quello che riusciva a fare e la sua stazza, il suo credo doveva essere sicuramente molto forte. In effetti glielo si poteva leggere nell'espressione del volto, una calma profonda mentre spalava, quasi come se tutta quella fatica servisse a redimerlo.
Andammo avanti tutto il pomeriggio, fino a terminare il cemento impastato nel cortile, avevo già notato da un pezzo che mi bruciavano dita e palmi delle mani e le cosce dove sfregavano i secchi che trasportavo; erano delle semplici vesciche a causa dell'attrito, pensai.
Il dramma venne quando finimmo di lavorare; mi sedetti per rassettarmi, sporco di cemento letteralmente dalla testa ai piedi, ed iniziai a pulirmi con la canna dell'acqua, il cemento si era attaccato in vari punti alla pelle. Provai a togliere qualche grumo, ma non si staccava facilmente. Maranhào mi vide ed iniziò ad agitarsi con Paulo dicendo che doveva assolutamente portarmi all'ospedale perchè stavo messo male, il cemento mi aveva mangiato gli strati superficiali di pelle sino ad arrivare alla carne, soprattutto ai lati delle cosce dove, finito sotto il jeans tagliato corto che portavo, aveva sfregato ad ogni o e contatto con i secchi per tutte quelle ore.
Paulo si mise con pazienza in ginocchio davanti a me bagnandomi le gambe con l'acqua e rimuovendo con le unghia i grumi che tra l'altro si erano incrostai tra i peli; sembrava una scenetta di amor paterno vista così. Maranhào stava incazzato sia con me che con Paulo, il quale non mi aveva avvisato di mettermi dei pantaloni lunghi per quel tipo di lavoro; Paulo gli rispose che dovevo “farmi le ossa” o qualcosa del genere.
Alla fine vista la situazione venni fatto entrare nella casa del vicino dove mi feci una doccia. Prima mi cosparsi il corpo di olio da cucina e poi un casino di sapone nel tentativo di ammorbidire il cemento già duro ma l'unica soluzione efficace ed aimè inevitabile fu quella di sfregarmi forte la pelle con una spugna per i piatti, scorticandomi in tutti quei punti dove il cemento aveva attecchito, fu una vera tortura e compensavo il dolore bruciante con la respirazione di una donna incinta mentre partorisce.
Il ragazzo proprietario di casa mi regalò gentilmente un pantaloncino, visto che dovetti buttare via il mio; dovetti buttare anche scarpe e calzini e solo la maglietta si salvò, avendo lavorato a torso nudo fin da subito.
Venne il momento di andar via, Maranhào ebbe una breve discussione per farsi dare i soldi dalla padrona di casa. Dico breve poiché alla signora non credo sarebbe piaciuto veder Maranhào arrabbiarsi. Salutai il mio nuovo amico
Maranhào, con il quale mi sarebbe piaciuto conoscerci meglio e chi lo sà, are le giornate spalando cemento sotto al sole e gridando Alleluia! Mentre il creatore di ogni cosa ci donava forza, vigore e gazzose, pane e maionese per andare avanti.
Tornammo in macchina a Cayenne, era sera. Durante il viaggio, in uno stato di ansia, chiesi a Paulo i soldi che mi aveva promesso per la giornata di lavoro, ma come mi aspettavo rimandò al giorno seguente; volli credergli.
Mi lasciarono ad un bivio e mi incamminai verso casa, sentivo la stanchezza ed il bruciore della carne aperta principalmente su mani e gambe ma una sensazione di forza e calma mi pervadeva.
In un paio di giorni direi quasi miracolosamente le ferite erano già coperte da croste e riuscivo ad usare le mani, cercai quindi Paulo per avere altro lavoro e sopratutto i soldi che mi spettavano.
Ci furono altre giornate di lavoro insieme, di cui una intera la ai pitturando a rullo delle stanze, lavoro che sapevo fare da anni. Paulo, furbamente, mi trattò anche in quell'occasione come se fossi un incapace, tecnica sempre utile a non farmi sentire poi all'altezza di chiedere di essere pagato per ciò che avevo fatto.
I miei timori si trasformarono in certezze un giorno dopo l'altro, a maggior ragione quando seppi da uno zio di Adriano che Paulo era conosciuto dai brasiliani di Cayenne come “senza futuro”. Infatti Paulo ultimamente sembrava lavorasse per lo più con cinesi.
Riuscii un pomeriggio ad ottenere qualcosa. Dopo ore di appostamento per
beccare Paulo nel momento in cui avrebbe ricevuto dei soldi da un cliente, gli fui addosso e mi diede 150 euro, valore a dir poco ridicolo rapportato ai giorni di lavoro ati con lui, dalla mattina alla sera.
Non sarebbe finita così, smisi di lavorare per lui ed iniziai a cercarlo esclusivamente per farmi dare altri soldi, coltivai un rancore indescrivibile per aver permesso ad una persona, anzi a me stesso, di farmi trattarmi così.
ò del tempo e mi presentai un pomeriggio a casa sua, era al terzo piano di una palazzina fatiscente dove abitavano per lo più cinesi, il cancelletto d'ingresso era aperto così presi ed iniziai a salir le scale inondate da strani odori di cucina asiatica. Bussai alla porta di legno che non parve difficile da sfondare, dettaglio che considerai in uno dei miei film mentali successivi. Mi aprì una donna, presumibilmente la compagna di Paulo dicendomi che lui non c'era, colsi l'occasione per dirle che io non stavo molto a posto con la testa, avevo dei problemi e Paulo mi doveva dei soldi sicché volevo evitare di far danni, lei si spaventò e volle chiamarlo al cellulare. Evidentemente avevano già avuto molti problemi di questo tipo sentendo come lei insistette perché lui venisse li a pagarmi, poi mi ò la comunicazione e Paulo a giudicare dalla voce stava bello che incazzato, non ne venne fuori niente di che se non un altra promessa di pagamento. Pensai malvagiamente di tenermi il costoso cellulare della sua compagna ed anzi di entrare in casa per sequestrare qualcosa, ma non ce la feci, anzi mi dispiacque profondamente di aver spaventato una persona innocente.
I pensieri al riguardo mi tormentavano, pianificai addirittura di entrare in uno dei suoi piccoli cantieri per rubare qualche macchinario che sapevo lasciasse li.
Ci fu qualcuno che ebbe la stessa idea e che però la portò a compimento, forse fu un certo Cabeludinho, un altro ragazzo che lavorava sporadicamente con Paulo e con cui lavorai insieme 2 volte, anche lui non ricevendo soldi doveva aver agito di conseguenza.
Pualo lo ritrovai in altre tre occasioni credo, di cui una per strada dove fece finta di non vedermi ed entrò in una merceria cinese per comprarsi da bere; gli andai dietro ed iniziai a discuterci, c'era anche un suo amico con lui. La cosa brutta era che sapevo che se ci fossi venuto alle mani, cosa di per sé inutile, avrei perso ogni speranza di prendere ciò che mi spettava. Si concluse anche quella volta con un nulla di fatto se non un'altra promessa di pagamento ad un giorno che non sarebbe mai arrivato. La scusa che usava era che se lui non veniva pagato, siccome non aveva terminato i lavori in cui lo avevo aiutato, non poteva pagarmi. C'era in ciò molto di vero ma il punto era che Paulo raramente finiva un lavoro iniziato. Presi i primi soldi per l'acquisto dei materiali ne combinava qualcuna per tenerseli e non fare più niente; una volta assistetti personalmente ad una delle sue furbate, fece comprare un bel po' di mattoni per poi farmene caricare una parte sulla macchina di un suo amico e portarli in un altro cantiere intascandosi soldi da una parte e dall'altra. Finiva per bersi i suoi guadagni e viveva in una condizione piuttosto precaria nonostante i suoi quasi 50 anni, affermando spesso, forse per farmi pena, che in casa gli mancava pure il riso.
In un'altra occasione che lo vidi, dovetti prima aspettarlo parecchio sotto casa sua, all'entrata della quale c'era Cabeludinho sdraiato per terra nel sotto scala che dormiva su di un cumulo di sabbia lasciata li. Mi avvicinai e russava, quando lo toccai dentro borbottò qualcosa e tornò nel suo stato comatoso, era ubriaco marcio. Ad un certo punto scese dalla palazzina il figlio di Paulo, un bambino vivace sui 9 anni, quando gli chiesi dove stava suo padre mi rispose che sarebbe arrivato in breve, poi sapendo lui che cercavo il padre per i soldi mi disse, per farsi notare più che altro, una cosa che per me fu tristissima.
“Se metti la mano nella tasca di Cabeludinho ci sono i soldi che gli ha pagato mio padre”. Rimasi qualche istante fermo a guardarlo ed era serio, nonostante la sua tenera età ed il suo aspetto innocente, doveva aver visto tante di quelle scene a causa del padre da fargli elaborare mentalmente un'azione del genere. Cercai di spiegargli in qualche maniera che era sbagliato fare così e sembrò ravvedersi; Paulo infine arrivò ma non ci fu niente da fare.
L'ultima occasione in cui vidi Paulo fu a distanza di settimane, mi ripresentai in casa sua, ad un orario che ero quasi certo di trovarlo, la mia carica di rabbia ed adrenalina era altissima, ma era mescolata ad una paura di me stesso, paura su quello che avrei fatto e paura di cosa sarebbe potuto succedere.
L'odio era forte in me ed il plesso solare era stretto in una morsa di dolore ad indicarmi che i miei pensieri erano errati. Immaginavo infatti continue scene di violenza in cui avrei spaccato la faccia al muratore e combinato chissà quali danni in casa sua, per poi portarmi via quanto poteva aver un qualche tipo di valore; a cosa sarebbe servito tutto quello non aveva una risposta. L'unico senso era quello di compensare l'ingiustizia subita.
Salivo le scale con il fiato corto, il cuore batteva impazzito ed ogni muscolo teso, l'adrenalina in circolo in preparazione all'imminente scontro.
Bussai alla porta, venne la sua compagna ad aprirmi, dall'apertura riuscii a vedere Paulo dentro una stanza, sdraiato sul letto in mutande; si alzò e venne verso di me, ad accompagnarlo vennero due bambini con tanto di pannolino e potevo vedere l'altro suo figlio nel corridoio. Ebbi una presa di coscienza, non avrei potuto mai picchiare un uomo davanti ai propri figli, sarebbe stata una cosa vile ed uno shock tremendo per dei bambini vedere il proprio padre malmenato; la rabbia, l'odio, la paura, tutto scese di colpo. Non furono dei miei pensieri forzati a farmi cambiare lo stato emotivo, ma una constatazione istantanea della condizione che mi si parava davanti agli occhi. Il mio sangue ferveva dalla tanta energia ma ero in uno stato di calma e dominio di me stesso e così parlai con Paulo, fissandolo ben dritto negli occhi.
Uscii di là senza aver ottenuto un soldo, ma solo un'altra promessa, augurai con tutto il mio cuore il meglio a Paulo. Non lo cercai più.
Per fortuna mi era stata pagata la settimana di prova alla falegnameria e ripresi a lavorare da loro il giorno che mi era stato indicato dai padroni, lavorandoci poi per un mese e mezzo circa.
Feci presto amicizia con i colleghi, con i padroni invece mi esprimevo per lo più in monosillabi sentendo che il mio se non era ancora comprensibile. La mia economia non era certo florida ma cercavo di rimanere ottimista sapendo che mi sarei sistemato nel giro di qualche mese in maniera migliore, tenendo quel lavoro.
I giorni avano e ripresi il peso che avevo perso durante la terribile settimana di dengue con molta rapidità ed anzi sembravo e mi sentivo ancor più forte di prima.
Continuavano comunque le mie lunghe eggiate quotidiane tra casa, lavoro ed il centro dove avo i pomeriggi assieme a Vena.
La mia situazione economica era rispecchiabile in una cosa che mi successe tutti i giorni nel mio stare in Guiana se, durante le camminate trovavo a terra monetine da uno o due centesimi, nei giorni fortunati addirittura da 5 cent. Le monetine erano tutte scurite e rovinate, ma non esitavo a raccoglierle, per poi metterle da parte nel mio armadio-frigorifero a casa. Non so bene come riuscissi a trovarne almeno una ogni dannato giorno, forse dipendeva dal fatto che spesso ero sommerso dai pensieri e camminavo con la testa bassa o forse il “bisogno di soldi” era talmente acuto da farmi scorgere il minimo luccichio sull'orizzonte asfaltato. Fattostà che quel mio raccogliere centesimi da terra rappresentò intimamente come vissi quel paese.
eggiando per il centro tra l'altro era inevitabile che non notassi i poveri ed i disperati ed ogni volta che li incontravo pregavo che non mi aspettasse la stessa sorte; una vita senza speranza.
Da tempo, anzi esattamente dalla volta in cui venni a conoscenza della perversione del meccanismo economico al quale siamo assoggettati, avevo iniziato a sperare in un mondo diverso. Ero partito dal mio paese natale e dopo vari spostamenti avevo trovato in diverse occasioni qualcosa che mi aveva profondamente colpito, lo sguardo di certe persone che vivevano lontano dalle città, magari in paeselli sperduti lungo la costa brasiliana vivendo di pesca, oppure lo sguardo di umili persone vivendo sulle ande di quello che la terra gli dava; uno sguardo vivo.
Ero adesso ancora in sud America, ed a Cayenne c'erano brasiliani, peruviani e latinoamericani in generale, eppure la faccia delle persone aveva per lo più quello sguardo spento che si incontrava di solito nelle città europee; dove le persone non sono niente più che lavoratori afflitti in volto dal peso della loro catena.
Tutti, a parte i turisti, sembravano essere li in Guyana se per un unica ragione: I soldi.
Auspicavo come scritto in un mondo diverso, forse utopistico come viene solitamente generalizzata la cosa per tagliare corto e non pensarci troppo, eppure dovevo sempre scontrarmi con la realtà di un mondo funzionante con il denaro e per il denaro; dove si vive per esso e senza di esso, a meno che si riesca ad essere autosufficienti, si è in condizioni molto limitate. Questa realtà, a cui non volevo credere, mi era schiaffata cruda in faccia ogni volta che mi toccava ricominciare da capo adattandomi ad un nuovo posto. Sperai sempre intimamente dentro di me che tutto quello un giorno avesse avuto fine e che si interrompesse il maledetto sistema creato esclusivamente per favorire i pochi e distaccati elementi in cima alla piramide sociale a discapito della stragrande
maggioranza della popolazione di questo pianeta.
La Guiana se comunque per me fu anche fatta di piccoli godimenti e sane soddisfazioni. Uno di questi godimenti fu la pioggia.
A metà aprile iniziò la stagione delle piogge e le precipitazioni erano pressoché quotidiane, mi ritrovai quindi con il ritorno in fallegnameria in molte occasioni a spostare travi con Vessenaldo sotto cascate d'acqua per ore intere, ed era bellissimo.
Ad un certo punto diventò talmente normale lavorare sotto l'acqua che non abbassavo nemmeno lo sguardo lasciando entrare le gocce negli occhi, e quasi speravo che piovesse ancor più spesso. L'acqua aveva un effetto vivificante rinfrescando il corpo dal costante calore ambientale.
In molte altre occasioni capitò che tornassi verso casa nel mezzo di vere e proprie tempeste tropicali; sembrava l'acqua lavasse dal corpo ogni fatica ed ero praticamente l'unico in giro a piedi per le strade senza un minimo di ombrello o mantellina, andando avanti così, investito dagli eventi atmosferici come se niente fosse ed anzi cogliendone aspetti positivi che erano trascurati dalla maggioranza. Quando poi raggiungevo casa puntualmente c'erano gli sguardi stupiti dei familiari di Adriano a chiedersi forse se fossi stato normale.
La casa di Adriano era un appartamento in degli edifici popolari dove ci si metteva in lista per ottenere un affitto a prezzi più vantaggiosi. Il quartiere chiamato cabassou, ma in particolare in quell'area dove stavamo noi, era quasi totalmente assegnato ai creoli o gente del Suriname e della Guyana; praticamente erano quasi tutti dalla pelle nera per le strade, ed io potevo facilmente sentirmi fuori luogo, venendo come sempre scambiato per un brasiliano.
A venti metri sotto casa c'era una merceria cinese dove vendevano beni alimentari di prima necessità e cianfrusaglie; al di fuori e sotto un porticato al lato della stessa si concentrava un grosso gruppo di ragazzi, tutti neri sempre, che giocavano a carte a soldi e bevevano. La cosa però più caratteristica del quartiere era che era piuttosto dimenticato dalla polizia visto che vi succedevano cose di ogni tipo ogni santo giorno e vigeva una sorta di omertà tra i residenti.
Si riconosceva di essere entrati a citè cabassou dal forte odore di erba che aleggiava nell'aria ad ogni ora del giorno e della notte.
Una domenica mi decisi ad entrare in un casolare sempre nel nostro quartiere, Cabassou, dove puntualmente e solo quel giorno della settimana c'erano una miriade di persone e la quasi totalità di loro era creola. Sebbene fossi l'unico bianco nessuno mi prestò molta attenzione o mi chiese qualcosa, ed una volta dentro mi trovai in una specie di piccola arena dei gladiatori; i gladiatori erano però dei galli che, messi prima in delle gabbie al centro dello spiazzo circolare in sabbia, venivano poi aizzati l'uno contro l'altro. Quando i galli si facevano sufficientemente nervosi le gabbie venivano sollevate ed partivano ad attaccarsi. Lo “spettacolo” era di per se triste e piuttosto monotono, ma il pubblico che riempiva gli spalti ad ogni beccata di un gallo contro l'altro esultava o fremeva. Parecchi soldi giravano in mano a dei tizi che tenevano le scommesse che erano secondo me l'unico motivo dell'esistenza di una cosa tanto cruenta. Assistetti ad un paio di incontri e poi me ne andai.
Tentai di tornare la domenica successiva per immortalare qualche immagine, ma come mi videro che cercavo di entrare con una macchina fotografica appesa al collo, mi fermarono respingendomi a parole; un tizio dal volto furbo e vissuto con una mazzetta di soldi in mano che contava avidamente mi disse che dandogli 20 euro sarei potuto entrare. Rifiutai la proposta.
Nel periodo in cui arrivai da quelle parti, il governo se si era inventato una maniera di impegnare gli abitanti di citè Cabassou mettendone molti a riverniciare i tanti edifici-caserme. Gli edifici a loro volta erano distinti con grosse lettere dell'alfabeto bianche in un quadrato blu, cosa che dava maggiormente l'idea di essere in una specie di ghetto.
Nonostante l'aspetto di ghetto o prigione dalla libera entrata e uscita, solo una volta vidi la polizia dentro Cabassou e guarda caso fui proprio io volerla fare chiamare.
Mi svegliai una mattina presto, era di domenica, sentendo battere forti colpi alla porta ma fortunatamente non era la nostra ma quella di un vicino; ripresi a dormire come se niente fosse per qualche tempo, almeno fino a che non iniziarono le grida.
Da una finestrella in alto nel nostro bagno, che dava nel corridoio del condominio, non si riusciva a vedere ma a sentire fin troppo bene, la lite che stava avvenendo giusto a qualche metro, sulla porta di casa della vicina.
Impiegai del tempo per capire in che lingua fossero i dialoghi, alla fine riconobbi una specie di inglese alla lontana, doveva essere probabilmente quello parlato in Guyana dai creoli.
Era un uomo a gridare, incazzato da far paura, mentre due donne piangevano disperate. La cosa sembrò piuttosto seria, mi consultai con Sandra, la madre di Adriano, la quale mi esortava a farmi i fatti miei e disse che mi conveniva lasciare stare, le continue grida delle due donne spaventate però mi suggerivano vivamente di intervenire. Resistetti in questo conflitto fino a che non ascoltai il chiaro rumore di percosse che il tizio diede ad una delle donne. Al che scattai pronto ad intervenire, aprii la porta di casa sentendo la forza scorrermi dentro,
come girai l'angolo però vidi qualcosa che mi fece fermare di colpo. Il tizio, che per fortuna era di spalle e non mi vide, aveva in mano un coltellaccio da 40 cm di lama, lo brandiva in alto mentre una signora gli stava davanti per bloccarlo; cercava di divincolarsi per colpire la ragazza che stava a terra piangendo e cacciando fuori dalla bocca gridolini terrorizzati.
Carpii dai pochi dettagli colti quale sarebbe potuta essere l'evoluzione della scena e per istinto di sopravvivenza tornai dietro l'angolo per rientrare subito in casa. L'uomo con il coltellaccio era stato tradito dalla ragazza e poteva darsi che preso da quella sua ira avrebbe potuto scambiarmi per qualcun altro.
Dissi a Sandra che la situazione poteva mettersi male ed io non volevo avere morti sulla coscienza, lei telefonò ad una vicina chiedendo a voce molto bassa di chiamare la polizia; non voleva fosse direttamente nostra la responsabilità di quell'atto.
Per fortuna non ci scappò il morto ed arrivarono in cinque minuti due poliziotti armati, il tizio dal coltello non oppose resistenza e venne portato via.
La polizia se che vidi a Cayenne non era certo paragonabile a quella brasiliana per quanto riguardava l'impatto visivo ed i modi di fare ma si dava molto da fare soprattutto per quanto riguardava l'immigrazione clandestina.
In Brasile problemi di immigrazione non ne avevano, ma per contrastare l'inevitabile violenza creatasi dalla diseguaglianza sociale c'era uno speciale corpo, la policia militar, che andava per strada vestiti tutti di nero ed armati peggio di soldati, incutendo timore solo a vederli. Se qualcosa per loro era sospetto, prima ti agguantavano e sbattevano a terra e solo successivamente cercavano di capire se i loro sospetti fossero giusti.
A Cayenne venni fermato una mattina presto, mi stavo recando alla falegnameria e per mia fortuna dopo la volta con Paulo a fare betòn presi abitudine a portarmi dietro il aporto; mi tagliarono la strada con un furgone bianco senza scritte, mettendomi già in uno stato di allerta con quella manovra minacciosa. Scese uno in divisa domandandomi brusco dove stessi andando ed il documento, dopo una breve occhiata al aporto se ne andò e ripartirono tirando le marce, senza manco chiedermi scusa per quel modo di fare non proprio simpatico a cui dovevano attenersi.
Iniziai inevitabilmente una riflessione su come non sia giusto che un individuo non possa essere libero di camminare sul suolo del pianeta, dove è stato concepito che egli abbia due gambe appunto per spostarsi oltre alle risorse intellettuali perchè possa superare gli ostacoli posti dalla natura nel suo viaggio alla scoperta di nuove terre, in caso non sia in possesso di documenti d'identità, aporti, visti e quant'altro.
Seppi poi che se fossi stato fermato senza il aporto con me, sarei stato innanzitutto caricato sul furgone per poi essere portato da qualche parte e riempito di domande, piuttosto che accompagnarmi a casa per prenderlo.
Il punto è che, come già scritto, venivo troppo spesso scambiato per un brasiliano ed i brasiliani non erano proprio ben visti da quelle parti. Questo problema si fece sentire ancor di più quando ebbi bisogno di fare cose “importanti”.
Necessitai di aprirmi un conto in banca che sarebbe servito per incassare l'assegno che avrei preso come primo stipendio e le banche, che chiedevano un sacco di certificati e garanzie, non me lo avrebbero mai aperto un benedetto conto. L'unica fu aprire un conto alle poste.
Impiegai un mese solo per riuscire ad essere atteso e parlare con qualcuno all'interno degli uffici. Gli orari di apertura coincidevano con quelli in cui lavoravo e potevo recarmi solo al mercoledì ed al sabato uscendo di corsa dal lavoro. Mi ritrovai in lunghe code fuori dagli uffici ed una volta arrivato all'ingresso puntualmente venni respinto. Il respingente venne attuato in tutti i casi da alti, grossi e nerissimi individui che non ne volevano sapere di ascoltare il mio se incespicante. Mi tacciavano di brasiliano più altri insulti gratis, per poi spintonarmi via.
Avevo bisogno di un “rendez-vous” con uno degli sportelli e senza di quello non mi era permesso manco di entrare a chiedere informazioni. Tentai di prenderlo telefonicamente ma rispondeva un centralino automatico che mi rimandava a farlo via internet, tentai di farlo via internet ed il primo appuntamento possibile era a distanza di settimane.
Per aprire un conto alle poste inoltre c'era bisogno di un documento firmato dalla famiglia di Adriano dove loro dichiaravano che io ero ospite a casa loro, ed avevo bisogno di un assegno che dimostrasse che avessi un reddito.
Mi scontravo continuamente contro la durezza della realtà, dove sentivo a pieno la mancanza di libero arbitrio in questa società ed il dover sempre attenersi a delle regole ed a delle burocrazie inutili se non per fare perdere tempo alla propria esistenza. Il mio malcontento era grande e non comprendevo come diavolo fosse possibile che qualcuno avesse creato un sistema tanto perverso e contrario alla natura umana; vissi quei mesi in Guyana se sentendomi in molte occasioni trattato a pesci in faccia e compresi come doveva sentirsi un clandestino che provava ad integrarsi in un nuovo paese e non fu per niente bello. Non aprii mai un conto.
Un'idea che si andò formando nella mia immaginazione fu quella di ottenere la
chomage, ovvero il sussidio di disoccupazione, sarebbero bastati 4 mesi circa di lavoro con contratto. La chomage sarebbe durata se non mi sbaglio 6 mesi, il che mi avrebbe permesso di viaggiare per quei mesi ricevendo al tempo stesso un salario.
Ma il contratto non arrivava e le difficoltà sembravano per me sempre molte, quasi un invito costante ad andarmene.
Anche con Vena le cose non andarono proprio bene, era una ragazza che non si concedeva facilmente e fin da subito mi respinse affermando che non poteva far nulla con me perchè io non ero suo marito. Le dissi che sarei stato suo marito se è questo che voleva e per fortuna mi rispose di no.
La andavo molto spesso a trovare al lavoro per poi fare il tragitto in autobus insieme e sebbene avessi chiaramente capito di piacerle ò un tempo che per me sembrò infinito prima che si lasciò andare.
Un pomeriggio sedevamo davanti ai computer del suo internet caffè, nascosti dallo sguardo dei suoi padroni cinesi, mi sentii la ione crescere dentro mentre ci fissavamo negli occhi chiacchierando a bassa voce, ad un certo punto avvicinò le sue labbra alle mie per darmi un dolce bacio che non mi sarei mai aspettato.
Vena era carina forte ma non era certamente sprovveduta, faceva tanto la difficile con me perchè aveva ben intuito che io poi me ne sarei andato e la sua paura era di farsi mettere incinta da uno che poi non avrebbe più rivisto.
Riuscii dopo vari tentativi a scoprire dove abitava visto che lei non ne volle
sapere di dirmelo. I tentativi consistettero nell'avventurarmi per la parte del Cabassou, dove la vedevo scendere dall'autobus ed avviarsi, chiedendo ad ogni ante se sapesse dove abitava una bella ragazza haitiana di nome Vena.
Abitava nella parte più estrema del quartiere, sul pendio del colle prima della famosa mountaigne du tigre ove accampai una settimana; il tratto di strada che raggiungeva casa sua era sterrato ed ovunque erano abbandonati rifiuti di ogni tipo. Tra i gruppi di case, per lo più ad un piano o grosse ville trasformate in condomini, la vegetazione era fitta e bambini giocavano scalzi. ato uno spiazzo su di una piccola collinetta usato come parcheggio si accedeva ad un terreno delimitato da una staccionata in legno con all'interno una villa a due piani.
Mi ero impuntato quel giorno che la avrei cercata fino a trovarla e finalmente dopo aver seguito una strada a istinto e chiesto informazioni ad un ragazzo mi venne indicata quella casa. Varcato l'accesso c'erano galline ovunque in giro e roba di ogni tipo accatastata, frigoriferi sventrati e mobili vecchi e mezzi distrutti, oltre alla solita sporcizia. Salii al primo piano e bussai ad una porta indicatami da una signora e vidi Vena aprirmi con espressione sorpresa mentre le porgevo un fiore.
Presi quest'abitudine di regalarle dei bellissimi fiori che raccoglievo in giro ed ogni volta le strappavo lusingato un sorriso ed un luccichio negli occhi emozionati.
Mi invitò ad entrare ed accomodarmi, la sua casa consisteva in una stanza soltanto dove c'erano incastrati due letti, un frigorifero, un tavolo ed un mobile con la tv.
Per andare in bagno o cucinare le toccava uscire di “casa” per usare degli spazi
comuni alle persone di quel piano; non era infatti l'unica ad abitare là. La grossa villa, probabilmente appartenuta in ato a qualche se che andava da quelle parti in vacanze, era ora letteralmente invasa da gente per lo più di Haiti, ognuno pagava l'affitto per stare in una stanza, ci stavano anche dei pannelli di legno alti sui 2 metri messi a divisorio in un salone, così da ospitare due diverse famiglie. Vena viveva con il fratello che però si faceva vedere solo di sera per dormire.
Sebbene la finestra fosse aperta dentro la stanza c'era un forte puzzo di muffa ed una lieve traccia di urina.
Mi affacciai alla finestra prendendo boccate d'aria fresca, era buio e le cicale cantavano, tanti alberi si affiancavano all'abitazione. Compresi perché Vena ci tenesse a far si che io non sapessi dove abitava, ciò le procurava vergogna. Dopo qualche tempo di conversazione iniziai a farle un discorso dicendole che doveva assolutamente uscire da quel posto, che non era giusto che vivesse in quelle condizioni. Io non so da che canto parlassi visto che avevo unicamente un materasso su di un balcone, materasso che era posizionabile e fruibile solo per la notte.
Purtroppo vi erano giorni in cui, secondo abitudine brasiliana, si davano festini di famiglia a base di vatapà (piatto tipico a base di gamberetti), churrasco e cerveja, che si protraevano fino a tarda notte. I festini si svolgevano in sala e sul balcone, impedendomi di dormire se ne avevo bisogno fino a che tutto non fosse finito.
A casa di Adriano i sabati erano più o meno tutti sulla stessa onda, si riuniva la famiglia, arrivavano quindi altre sorelle con i rispettivi mariti e figli e si iniziava a bere; in alcune occasioni mi divertii, in altre volli scomparire non vedendo l'ora che tutto finisse per poter andare nel mondo dei sogni, sentendo che si cercava quelle risa per non sentire la monotonia e la tristezza di una vita tutta prestabilita.
Strinsi abbastanza amicizia con la sorella di Adriano più carina, di un paio d'anni più piccola di me. In realtà l'unica cosa che mi spingeva a parlarci era farle il filo per ottenere qualcosa da lei. Riconobbi inizialmente che c'era attrazione tra di noi, ma come comprese dopo che mi misi a dire, convinto che fosse motivo di vanto e dimostrazione di virilità, che uscivo in cerca di donzelle e che per me una sola non bastava, mi chiuse ogni opportunità e tornò a frequentare un suo ex fidanzato che ogni tanto restava da noi a “dormire”. Tra l'altro nei primi giorni in cui arrivai a casa loro lei aveva subito un incidente ed era rimasta sfigurata con entrambe le braccia rotte; rimase piuttosto sconvolta dall'evento, non volendo per un lungo periodo uscire di casa per vergogna di mostrarsi in quella maniera. Lasciando da parte il fatto che se avo del tempo insieme a lei era solamente e tristemente per un secondo fine, riuscimmo ad avere anche conversazioni molto interessanti ed a stampo filosofico e situazioni in famiglia molto divertenti.
Non mi rendevo conto ma lasciavo inconsciamente trasparire al sesso opposto quanto il mio interesse verso loro fosse unicamente volto a soddisfare il mio bisogno sessuale, che dopo aver lasciato il Brasile era diventata una debolezza incontrollabile.
Rimanendo in tema, tornai a trovare Vena a casa sua in altre occasioni, in una di queste apparve appena uscita dalla doccia coperta esclusivamente da un largo asciugamano arrotolato dal seno alle cosce. La sua pelle color caffè era liscissima e splendente e le gocce d'acqua ancora presenti sul corpo la rendevano tremendamente sensuale. Non resistetti dall'accarezzarla, i suoi occhi castani mi fissavano in un misto di desiderio e paura, le strappai qualche bacio ma mi spronò a smetterla, poco dopo arrivò il fratello e terminò il magico momento che si stava creando ed io me ne andai.
Conobbi in quei giorni parte della sua cerchia, tutta gente di Haiti immigrata in Guyana se. C'era la sua migliore amica, che in realtà conobbi dalle prime volte che feci il tragitto in autobus con Vena, potevano sembrare sorelle avendo
entrambe dei lineamenti per me molto insoliti; gli zigomi alti ed il viso che si andava affusolando dolcemente verso il mento, gli occhi leggermente a mandorla, il naso poco pronunciato e le labbra abbastanza carnose. Erano una giusta e ben fatta via di mezzo tra indios e africani, con uno sguardo che sembrava quello di un gatto.
Oltre al fratello di Vena, conobbi anche suo cugino con il quale intavolai alcune conversazioni e che mi raccontò come fosse la vita ad Haiti. Conobbi anche altri amici di Vena e ai dei pomeriggi a casa dell'amica, dove si riuniva tutta una combriccola di Haitiani. Loro parlavano per lo più creolo ed in se più che altro per rivolgersi a me, nonostante questo non mi sentivo per niente fuori luogo anzi mi divertiva osservare la mentalità di questo popolo. Vena invece era piuttosto a disagio della mia presenza, molto probabilmente anche perchè mi autoinvitavo ai loro incontri e facevo spesso l'idiota per are il tempo. Lei infatti tendeva sempre ad escludermi da ogni attività dove fosse presente un suo familiare. Quando capii che si vergognava di me pensai bene di farmi conoscere dalla sua gente in maniera che mi accettassero nel gruppo, mostrando i miei lati migliori; solo allora lei, che dal mio punto di vista aveva una mentalità molto arretrata, si sarebbe lasciata conquistare.
Dava moltissima importanza a quello che gli altri potessero pensare di lei e la cosa mi metteva nervoso, ma più la questione sembrava essere difficile più sembrava che ci prendessi gusto a farle il filo.
Alla fine venni più o meno accettato nella loro combriccola nonostante quelle che dal loro punto di vista erano mie stravaganze caratteriali, l'unico rimpianto che ebbi fu di non poter partecipare a delle specie di riti religiosi che andavano a fare tra la boscaglia sul monte vicino casa sua. Ci fu una volta che venni invitato ad aspettare altrove mentre per due ore circa si assentarono. Poi li andai a prendere assieme ad una cugina di Vena che mi diede uno strappo con la macchina, Vena, la sua amica e suo cugino. La loro espressione era strana e mi domandai se i loro riti non fossero di natura orgiastica.
Il fanatismo religioso in Guyana se era a dei livelli strepitosi, dando da lavorare a parecchi “pastori”.
Ebbi modo di conoscere uno di questi “pastori”, marito di una delle sorelle di Adriano, il quale tra una frase e l'altra su Gesù parlava di soldi e di affari. Riuscii a capire che fare una chiesa là a Cayenne significava una certa e sostanziosa fonte di guadagno ed infatti pullulava di chiese di ogni tipo e di credenti sbracciando e cantando nel fine settimana.
IL MESE DI MAGGIO, ed inizio giugno a chiudere un altro ciclo.
Maggio ò molto rapidamente, cercai una sistemazione migliore ed altri lavori, ma sembrò che fossi destinato a ristagnare nella situazione di allora. Iniziai a proporre a Vena, che pure cercava casa, di andarcene a vivere insieme, lei chiaramente rifiutò, capendo quali fossero le mie reali intenzioni.
Iniziavo già a fare piani, con l'inizio di giugno supponevo che mi avrebbero fatto un contratto quelli della falegnameria, cosa che sarebbe rientrata nel mio programma per ottenere la chomage.
Arrivò, improvvisamente qualcosa che fece cambiare tutto e mandò all'aria i miei piani.
Era un giorno di lavoro e mentre affiancavo Adriano in alcune attività mi sentii trattato male in più occasioni, fino a che per orgoglio sbottai chiedendogli di parlarmi con rispetto visto che non ero il suo schiavo. Adriano rimase zitto, ma a quanto parve, anche lui per orgoglio, non ingoiò il boccone facilmente.
Quella sera stessa mi si avvicinò cautamente sul balcone di casa, senza incrociare nemmeno un secondo il mio sguardo e fissando un punto imprecisato della strada mi disse che quella era l'ultima settimana che potevo restare li da loro, gli risposi tranquillamente che non c'era problema e se ne andò, sempre senza guardarmi.
La realtà era ben diversa ed il problema invece c'era, mi diedi da fare per cercare una stanza quei primi giorni, ma parve non esserci verso, cercai addirittura di convincere Vena ad ospitarmi a casa sua, avrei dormito sdraiato per terra o sul pianerottolo fino a che non avessi trovato altro; l'importante per me era di non essere costretto a tornare ad accamparmi sulla montaigne du tigre.
Affittare una stanza comportava spesso il dover pagare una cauzione più due mesi di anticipo, cosa che da solo risultava inconcepibile e tentai di convincere Vena anche su questa cosa di trovarsi una stanza con me, facendo pesantemente leva sul fatto che era invivibile il posto dove stava lei.
Vena non ne volle sapere delle mie idee, arrivai ad un punto che smisi di dar retta ai tanti pensieri; alla fine dei conti tutto si sarebbe risolto in qualche maniera, come sempre era successo sino ad allora e non avevo motivo di preoccuparmi.
ò una notte, che mi portò consiglio; sarei tornato in Italia. Per me ormai non aveva più senso restare là, capii che era un continuo insistere a lottare per sopravvivere senza aver chissà quale aspetto positivo e di arricchimento personale.
In realtà mi sarei reso conto solo in seguito che la Guyana se, con tutte le
difficoltà ate in soli 3 mesi, mi era servita moltissimo come del resto ogni esperienza nel vissuto di una persona.
Organizzai il mio ritorno nel giro di due giorni e per mia fortuna non mi lasciai dominare dalla fretta. L'idea fu quella di andare nel vicino Suriname per prendere un volo diretto in Europa meno caro rispetto ai voli da Cayenne per la Francia, mi sarei così fatto anche un breve giro per il tratto di costa fino a Paramaribo, la capitale. Stavo in procinto di acquistare il biglietto quando per fortuna mi ricordai di controllare la storia dei visti. Il visto del Suriname era ottenibile con soldi e solo dietro domanda in largo anticipo, e la cosa non era conciliabile con i miei tempi.
Pensai allora di tornare in Brasile, seguendo a ritroso il percorso dell'andata, prendendo un volo da Fortaleza, ma proprio in quei giorni c'erano state devastanti alluvioni che avevano bloccato la strada da Oyapoque a Macapà. Pareva che la Guyana se, un tempo giustamente adibita a colonia penale, nel momento in cui finalmente mi ero deciso a mollare la presa non mi volesse più lasciare andar via, trattenendomi obbligatoriamente in una situazione che andava sempre più complicandosi.
Aspettavo inoltre di ricevere il pagamento del mese di maggio che avevo lavorato, ricevetti un assegno il 7 mattina, e nonostante avessi preso la decisione che appena presi i soldi me la sarei filata, rimasi a lavorare anche dopo la pausa pranzo. Per la prima volta da quando iniziai a lavorare nella falegnameria mi avevano messo a fare un finestra completamente solo in ogni sua fase e mi dispiacque quasi dover andarmene proprio quel giorno.
Dopo aver tagliato a misura gli assi e mentre battevo i chiodi dentro il legno per fissare dei traversi, iniziai a sentirmi totalmente presente in quello che facevo, ogni colpo di martello era preciso e dritto e la mia concentrazione massima, affascinato in ogni gesto che compivo. Sentii pace dentro quel pomeriggio, avrei potuto andarmene ed invece avevo scelto di rimanere e lavorare gratis; sentivo il
contatto del legno sui palmi delle mani ed accarezzavo soddisfatto la mia creazione.
Uscii di là molto bene, non importandomene minimamente della settimana di lavoro che non mi sarebbe stata retribuita. Non so bene perché ma non dissi niente a nessuno dei titolari e dei colleghi ed il giorno seguente, un sabato, semplicemente non mi presentai, quella sera trovai un aereo da Cayenne a Parigi; sarei partito lunedì. Ottenni soldi per pagarmi il volo in parte da una mia zia, essendo che non riuscii a riscuotere l'assegno in una banca qualsiasi come credevo.
Vena non prese molto bene la notizia della mia partenza, vedendo confermati i suoi sospetti, piuttosto fondati, e le paure per le quali non si concesse mai oltre un certo punto, secondo cui a me interessava esclusivamente fare sesso con lei, per poi andarmene per la mia strada abbandonandola.
La vidi l'ultima volta la mattina del giorno della mia partenza, mi recai a casa sua trovandola per fortuna, iniziammo a parlare e dopo un poco che ci fissavamo profondamente negli occhi iniziai ad accarezzarle il viso e la baciai piano, prima su di una guancia e poi in bocca; sentii che oltre al mio egoismo di fondo le volevo anche del bene.
Iniziò un crescendo di sensazioni a cui lei un po' si abbandonava ed un po' resisteva, la toccavo in tutto
corpo sentendo come le piaceva che lo fi, iniziai a toccarle il seno ed a morderlo dolcemente, tentò senza crederci di farmi smettere e di divincolarsi ma al tempo stesso gemeva dal piacere, le misi una mano in mezzo alle gambe ma mi fermò con forza questa volta, con espressioni che sembrava stesse avendo un orgasmo. Arrivai a non capire più nulla di quello che stava succedendo, mi
sbottonai il pantalone tirando fuori l'arnese duro e pronto all'azione, lei si coprì il volto con le mani non volendo guardarmi. La toccai dolcemente ma non ci fu più niente da fare. La sua volontà era ferma e più forte della tentazione che cercavo di metterle.
I pensieri iniziarono a parlare in maniera aggressiva, suggerendomi che avrei dovuto obbligarla, non riuscivo minimamente ad accettare di essere rifiutato così vicino al “traguardo”. Riuscii fortunatamente a domare quelle brutte idee che mi balenavano incontrollate per la testa.
Cercai di prendere Vena da un lato più razionale, mentendole dicendo che se avesse voluto avrei perso il mio volo per stare là con lei, con l'unico vero intento che si concedesse in quel momento. Per fortuna invece insistette sul fatto che io avrei dovuto prendere il mio volo per tornare a casa mia, dalla mia donna che mi aspettava. Era infatti convinta che io avessi una moglie in Italia ed altre amanti in Brasile.
La lasciai furioso e malamente, senza quasi salutarla se non per un brusco “adieux” che suonò più come un insulto. Tornato a casa mi masturbai per scaricare la troppa tensione accumulata, e subito dopo mi resi conto di come mi ero comportato da folle, accecato unicamente dai miei istinti e di quanto fossi niente più che un egoista di merda, pronto ad ogni genere di menzogna ed a are sopra le altre persone per ottenere il mio piacere. Tornai a casa di Vena cercando di rimediare e le chiesi scusa per quanto successo, mi perdonò e ci salutammo con un dignitoso abbraccio.
Ci promettemmo che ci saremmo rivisti appena lei fosse venuta a vivere in Francia assieme ad altri suoi fratelli.
Venne il pomeriggio ed il momento di partire, abbracciai la madre e la sorella di
Adriano ringraziandole per l'ospitalità e per l'aiuto. Adriano poi mi accompagnò in macchina fino all'aereoporto, ammo il tragitto in completo silenzio lasciando morire la falsità di discorsi che nascevano spinti dal disagio; là lo salutai con una vigorosa stretta di mano, dimenticando ogni tipo di rancore ed anzi ringraziandolo per essermi stato amico ed avermi dato una mano nel momento di bisogno, e forse ringraziandolo sotto sotto anche per avermi detto che non potevo stare più da loro. Mi trovavo ora in aereoporto e sembrava che stessi lasciando in quel paese molti pesi che mi portavo addosso. Respirai le ultime boccate d'aria equatoriale ed amazzonica, sentii il caldo sole premere sulla mia pelle e guardai verso il cielo perfettamente azzurro.
Che mi possano perdonare tutti quanti e che io possa perdonare me stesso per come mi sono comportato con loro.
Giunse l'ora di partire, l'aereo si staccò dal suolo e vidi l'intenso verde perdersi, lasciato alle spalle; adesso solo oceano e nuvole davanti. Ore e migliaia di chilometri di volo fino a destinazione.
Arrivai la mattina a Parigi, venni trattenuto 5 minuti all'areoporto da una guardia che non credeva fossi io quello ritratto nella foto del aporto. Una volta fuori immancabilmente volli farmi un giro per il lungosenna. Il cielo era grigio cupo e presi della pioggia e sembrava ridicola rispetto alla tanta presa in Guyana se. Vidi la tour Eiffel ed il louvre dal fuori, ma la cosa che più mi colpì fu quando arrivai a Notre Dame. Rimasi qualche tempo all'esterno osservando le sculture sugli archi per me molto bizzarre. Infine entrai, era pieno di turisti e non feci che un breve giro all'interno, la mia attenzione invece fu subito richiamata da un'acquasantiera sulla mia sinistra, sopra la quale lessi una scritta inglese ed improvvisamente capii e mi scesero le lacrime dall'emozione.
La frase scritta diceva qualcosa del genere:
“Tu che vai in giro per il mondo, quello che stai cercando è qui.”
Per me la cosa assunse un profondo significato, capii da cosa derivava tanta sofferenza, tanta incomprensione, tanto cercare in giro risposte. Quello che stavo cercando era qui, dentro me stesso. Mi promisi che mi sarei dedicato realmente a me stesso da allora in poi, che non avrei più perso tempo in cose futili.
Arrivai alla stazione gare de Lyon e presi un biglietto su di un treno notturno che sarebbe arrivato in Italia il giorno seguente.
Nel bel mezzo della notte ci furono dei controlli della guardia di finanza, mi perquisirono con molta cura e mi fece svuotare completamente lo zaino. Dovetti anche fare da interprete multilingue per far si che i finanzieri si capissero con una coppia di peruviani ed un magrebino che parlava il se.
Arrivato in seguito a casa, come sempre incredulo di essere nuovamente a quello che mi sembrava il punto di partenza, caddi in uno stato catatonico, ando le giornate mangiando e dormendo; non uscendo quasi di casa e non volendo vedere nessuno tra vecchi amici e conoscenze, cosciente del fatto che questa volta non avevo intenzione di mettere in scena il solito teatrino dove solitamente, tornato dopo un viaggio, non facevo altro che raccontare storie per cercare la considerazione altrui.
A confermare che fossi sulla strada giusta strada, senza che muovessi un dito e nel giro di una sola settimana si presentò magicamente l'opportunità di lavorare come custode di uno yacht in una città sul mare. Venni preso senza particolari difficoltà e mi ritrovai in una situazione molto favorevole al mio spirito assetato di conoscenza. Lavoravo, per modo di dire, completamente solo se non per rare occasioni, ed inoltre vivevo a bordo dell'imbarcazione autogestendomi completamente; finalmente potei avere la sufficiente quantità di tempo libero per
dedicarmi con buona parte delle mie energie alla cosa che dopo innumerevoli peripezie avevo compreso che mi interessasse realmente, e forse la più importante a cui avrei potuto interessarmi, e mi ci gettai dentro a capofitto:
Uomo conosci te stesso e conoscerai l'universo e gli dei.
CONCLUSIONI, qualche conclusione finale.
Non posso ricordare o semplicemente immaginare senza rammarico il fatto che molti di noi, anzi la maggior parte degli abitanti del nostro magnifico pianeta, siano costretti a are l'esistenza usando la propria capacità di fare quasi interamente per perseguire lo scopo di avere un tetto dove dormire, cibo da mangiare, un partner per riprodursi e qualche piccolo divertimento; cose che dovrebbero essere, come avviene per ogni animale libero in natura, già presenti nella vita di un individuo e spettanti a lui di diritto per il semplice fatto che egli esiste.
Molti di noi poi tristemente felici per ogni piccolo traguardo raggiunto, in questa corsa dietro a cose che dovrebbero occupare solo un posto piccolo e marginale, di cui non ci si dovrebbe preoccupare più di tanto; un po' come succede con per il prendere l'aria che si respira, sempre presente e gratuitamente fruibile da tutti, senza particolari sforzi se non quello quasi nullo di essere vivi.
É però inevitabile notare che ci è stato creato ed imposto davanti a un mondo oggettivamente perverso dal quale sembra molto difficile uscire.
Un mondo dove, per fare un paragone, puoi prendere una boccata d'aria solo se fai tutta una serie assurda di movimenti, tra l'altro utile solo a pochi ed a
discapito di molti altri; movimenti che costano sicuramente molta più energia rispetto alla cosa più naturale che sarebbe semplicemente inspirare ed espirare, che però è quantomai ostacolata, e solo dopo che avrai eseguito i movimenti obbligatori potrai, se ti va bene, dare una rapida boccata d'aria, peraltro inquinata.
La propria capacità di fare potrebbe, avendone ognuno l'opportunità di investirla diversamente, essere usata invece per scopi molto più elevati.
Mi domando spesso quale piacere possa avere (anche considerando la cosa sul lungo termine come può essere la durata di una vita umana) chi sta in cima alla piramide sociale, nel vedere il resto del mondo sottomesso a lui ed operativo unicamente per soddisfare i suoi vizi più strani; come tutto questo “piacere” possa perpetuarsi fino alla fine dei propri giorni e non scadere in noia. Non avere un minimo di rimorso di coscienza e quel lampo di domandarsi, a maggior ragione quando tutto va egoisticamente bene: non può essere che sia solo questo, qual è il senso?
Arrivo, per cercare di comprendere cosa a per la testa di queste persone, ad ipotizzare se non potrebbe essere che questi che dominano il mondo, ammesso che esistano, abbiano creato e mantenuto nel corso dei millenni un sistema sociale ed economico di questo tipo (chiaramente ingiusto agli occhi di chi può vederlo) per tenere chi sta alla base della piramide, gli schiavi e cioè la maggior parte della popolazione mondiale in una situazione evidentemente difficile magari appunto per far si che sorga in alcuni tra questi un impulso di rivalsa.
Se vivessimo in un mondo normale, senza disuguaglianze, senza conflitti e violenze, dove si lavora il minimo indispensabile, si collabora e si ha molto tempo per sé stessi, non potrebbe essere che l'uomo tenderebbe per forza d'inerzia a seguire la via più facile e tranquilla che la vita già gli offre per ritrovarsi così ad oziare senza nessun tipo di impulso a fare un qualche tipo di lavoro di perfezionamento di sé.
Non potrebbe essere, come spesso dimostrato, che a causa proprio della difficoltà che l'essere umano sia maggiormente spinto a fare qualcosa? Essendo quindi essa quasi una benedizione ed uno strumento utile per accellerare il proprio percorso evolutivo.
A controprova di questi ragionamenti vengono però molti esempi di popolazioni, considerate dal degenerato uomo moderno come semplici primitivi, che vivono in condizioni, pacifiche e di collaborazione comune, avendo alcune di esse uno sviluppo dei vari aspetti dell'essere umano molto più armonico e completo ed in certi ambiti molto più evoluto rispetto al suddetto uomo “moderno” ormai snaturato.
Credo che bisognerebbe quindi tentare fare qualcosa, tentare un rinascere dalle proprie ceneri, quanto meno per sé stessi, sarebbe il minimo, e facendolo è inevitabile che si faccia qualcosa anche per gli altri e per chi verrà dopo.
Altrimenti ho paura che chi verrà dopo troverà niente più che deserto; tutto automatizzato, prestabilito, piatto e regnato dall'incoscienza per chi sta nella parte ricca del mondo e tutto ancor più misero ed ai limiti della sopravvivenza per quelli nella parte povera, e la vita dell'essere umano si perpetuerà senza ragion d'essere finché la cenere non verrà spazzata via dal vento.
Quante volte sembra che non si prenda la via più facile e scontata. La via, secondo i più, giusta e dal soddisfacimento immediato dei “bisogni”. Eppure un perché ci dovrà pur essere, un perché a tutto quel volersi lanciare verso l' ignoto.
Forse la parte più profonda e reale di un essere in cerca di comprendere se
stessa, alla quale non importa di fare cose che il condizionato raziocinio ritiene giuste; ma vuole sempre proseguire in quel viaggio senza meta finale ed evolvere, affidandosi solo al suo intuito e decisa nel portare l'individuo verso l'unica probabile direzione sensata dell'esistenza.