Adamo di Compagnia
Corriere
dello
Spirito
Tavola dei Contenuti (TOC)
Corriere dello Spirito Prefazione Articoli Determinativi e Indeterminativi dello Spirito Favola dell'alba Svendita totale Offerta speciale Epifania Una "Camel" nel deserto Ansa Referendum Imbozzolato L'usato dell'oro Il baro del solitario Lettera ingiuntiva di un filosofo alla ragione Prestidigitazione Animato Peraltro Giallo censito
Formaldeide La stilografica Il controllore Antibiotico Falsariga Il settimanile Prototipo Smentita I rappresentanti di piazza Abbandono del verbo coniugato L'altro sesso Portavoce Una mano - la dizione del gesto Il luogotenente Apocatastasi Eccepire Tuttofare Il sistema Escursione termica Critica della comunicazione di giudizio Traffico
Avere Esoscheletro L'esergo Il cosiddetto Ecco Il cosiffatto L'eletto Sana e robusta costituzione Aion Meteo Lo strapazzo Il ludione Invano e anodino La compulsione del rincuorato Epigramma Precauzione Acatalessia Isteresi Eu Otto volante Elettrolisi
Sporgersi dal finestrino Brachistocrona Assonometria L'epitaffio Echologia Il padre eterno Il sincretismo Contrappunto Palinodia L'ascensore Un cacciavite a stella Il riscatto L'uomo monetale La delibera
Prefazione
Giusto in tempo. Se lo scrivente è nel topos allora il leggente è nel nomos. Il sillogismo del luogo di scrittura ripone il lettore nel territorio scritturato. Il luogo di scrittura, il topos, stampato nei margini di pagine dattilografate e riversato in più copie rimarginate, orienta, con l’ausilio di un indice, la traccia della lettura. Il segnalibro è vigile, alla vigilia della lettura il segno piroetta con la memoria, ha voce in capitolo. Il titolo manovra le dita che sostengono il volume cartaceo e nell’indirizzo medio l’interpretazione riconosce la via da seguire. Ovvia e consegue il senso comune che, da sinistra a destra, dall’alto verso il basso, il punto fermo del capoverso, cede l’assenso al retto leggere. Il nomos del leggente, corretto, non insegue la macchia tipografica, esegue un esercizio da abbecedario e sfoglia le pagine. I margini esfoliati nella congiunzione del rigo precedente e nell’opposizione del capoverso, subentrano, nel leggente, alla scorsa e la successione di parole forma il senso di marcia, il senso comune, con le note a piè di pagina e privo di appunti. Il leggente è nella successione, nella conseguenza del senso comprovato. Sarebbe riprovevole oltreare il limite di velocità e adombrare le parole nel riflesso del morfema primo. Alla prova della lettura, il leggente in luogo dello scrivente, occupa il territorio della scrittura e avoca la figura di scritturato. Lo scritturato non sottintende, dalla prova della lettura risulta la scrittura comprovata. Consulta le note a piè di pagina e, dal senso comune riscontrato, si delinea in qualità di scritturato. La riga di scrittura segnata con il dito delinea il contrassegno dello scritturato. Il topos fa posto al nomos. Il topos agisce, nella modalità della composizione, e il nomos reagisce, con l’attributo del posto spettante, del posto che rispetta il senso comune, l’assegnazione di un consenso. Il topos insegna il nomos. Il nomos è riposto nell’azione della scrittura. Un’azione che non può divenire altro, nel topos dello scrivente, che scritturazione. Il nomos è scritturato. Il nomos designa il topos. Il suddetto aderirebbe al già scritto se non trascurasse una premessa, l’entimema scritturato non esegue il sillogismo, difetta di una premessa: la scrittura è fuori luogo. Nel suddetto, lo scrivente è lo scrittore e il leggente è il lettore, il senso comune risulta dalla composizione delle ore, dal morfema terminale – il senso della misura – e nell’inequivocabile interpretazione – il senso critico – la voce, sottovoce, del lettore perequa l’invocazione, sottintesa, dello scrittore. Il senso è compiuto, lo scrittore ha evocato il lettore, il lettore ha vocalizzato lo scrittore e l’invocazione orienta, orizzonta, elegge il lettore a eletto, lo scrittore a
descrittore. Il senso comune convoca il senso del dovere. L’eletto e il descrittore non hanno tempo da perdere, l’imposizione del tempo dà alla scrittura la forma di un’azione – a tempo perso. A questo punto dovrei riporre a piè pagina una nota ove concettualizzare l’azione, ma la prefazione inerisce all’opera di Adamo di Compagnia e sarebbe intraluogo, esoluogo, evadere al margine del fuori luogo. Giusto in tempo. Lo scrivente mette in opera, opera la scrittura. Disconosce l’azione dello scrivere e opera la scrittura. Giusto in tempo non è la puntualità ad un appuntamento. Il descrittore e l’eletto potrebbero nell’assenza di una premessa, appuntare l’ora e il luogo del punto di ritrovo e comporre il topos con il nomos nella scritturazione che, dipoi, connoterebbero come scritturata. Lo scrivente opera l’incontro. La scrittura è in ritardo sulla lettura così come l’interpretazione è in anticipo sul plagio. La scrittura incontra il leggente nella eco del nomos. Prendendo in prestito una sensazionale locuzione dello scrivente – Adamo di Compagnia, il leggente opera l’eco-nomos. Nel fuori luogo della scrittura, il leggente riverbera il nome oltre l’anonimato, è nell’eco-nomos. Dall’omonimia del lettore nell’evocazione dell’eletto, secondo il rito prescritto dall’interpretazione, all’anonimato nella eco, il riverbero del nomos nella eco, disorientante. La scrittura incontra lo scrivente nella distopia. L’azione del descrittore espone l’opera della scrittura, lo scrivente, al futuro inimmaginabile, nell’immagine in dispregio dell’allucinazione, dell’allucinazione che riprende la percezione in introcezione nauseante, vomitevole in esterocezione. L’utopia della scritturazione mirante il fuori luogo della scrittura è irrealizzabile, è un pleonasmo. La distopia è il fuori luogo che non guarda al futuro per oltreare i margini della pagina, è il fuori luogo all’interno della pagina vergine, il fuori luogo che dà adito ai margini come exo-luogo, lo scrivente macchierebbe il dito con un fuori mano. La distopia dello scrivente è fuori luogo nell’azione della scrittura, l’eco-nomos è fuori luogo nella vocazione dell’eletto. Aduso ad Adamo di Compagnia sarebbe l’estemporaneo. Disdire l’appuntamento e adire l’incontro, disfare la scritturazione e addire l’opera, la scrittura di Adamo di Compagnia addice, mostra l’opera. Gli articoli non ingiungono l’ordine di lettura. Un articolo determinativo è la ricognizione nella petizione di lettura, un articolo indeterminativo è la cognizione della ripetizione della lettura. Lettura non articolata, non congiunta al titolo attestato, non la competizione dell’aver digià letto, o non ancor letto, la lettura che fa testo, con l’indice legato al dito, lettori che si leccano le dita. Giusto in tempo, come leggente ho incontrato l’opera di Adamo di Compagnia, per comodità di linguaggio abuso del di partitivo e genitivo, l’opera non è sottoscritta; ho incontrato l’opera. Giusto in tempo posso dire innanzi l’opera, che la scrittura è inazione, che la scrittura è anonima. Giusto in tempo potrò rileggere la prefazione, in un futuro distopico e
con un’evocazione echeggiante l’anonimato.
Alessio Sarnataro
Articoli
Determinativi
e
Indeterminativi
dello
Spirito
Favola dell'alba
C’era una volta un principio. Causa di sé. In effetti, il principio sussisteva nel caos. Negli affetti, il principio non aveva impulsi. Il principio immaginava un’estensione nei fatti. Privo di conseguenze, mai in tempo, c’era un principio. Il principio, nel tentativo di mutarsi in verbo: principiare, fiatò il predicato. La predica non poteva esordire dal c’era una volta; fattasi verbo, principiò il c’è due volte. Una volta la causa di sé, due volte la causa neologica, la causa efficiente. Nel due, il principio comprese l’efficienza della parola. Efficienza che nello sputo inficiava la dipendenza del causato. Nel segno dello sputo, il principio intravide il remoto e articolò la prima relazione, il coefficiente. Nella coefficienza la parola divenne in atto e la causa per sé commutò il primo efficiente. Il principio della parola, il discorso, fluiva ai margini della causa di sé e della causa efficiente con il vettore della coefficienza. Il margine limitava il due volte della causa efficiente, il causato efficiente, l’effetto come confine situava in superficie, raddoppiava la causa dipendente in causa efficiente e causa finale. Il principio nel discorso riprese la causa finale e nel finito conchiuse la causa di sé, nel punto che consegna al respiro le chiavi della parola, dopo l’invasione a singhiozzo tra una parola e l’altra. Il principio, a fortiori apprese la causa per sé. La causa per sé commutò il primo efficiente e il fine ultimo. Il principio, oramai nel c’è due volte, ricordò il c’era una volta. Ricordò il discorso e, nel particolare della lettera, rapportò l’ordine alla causa materiale. Nel due volte dell’effetto e del finito, ordinò la congiunzione in una intrinseca materia, la materia delle lettere; per comporre l’effetto e il finito abbisognava di lettere, lettere materiali, “efonti” combinate e reiterate, reiterate nella combinazione, combinate nella reiterazione. Nell’opposizione fra effetto e finito, la causa materiale adombrava l’eminenza di una causa, non causa di sé, né causa per sé: causa in sé. Causa in sé che il principio rimembrò di aver ascoltato in modalità indeterminativa nelle letture favolistiche al tramonto; causa in sé: essenza dello spirito. Alla causa materiale garbava la corrispondenza, la scrittura delle lettere necessitava di un destinatario e il principio espose la causa formale. La forma in cui ordinare le lettere: la parola. Parola che come causato, avesse l’autorità di richiamare la causa formale e l’istituzione di un ordine cui far corrispondere la combinazione e la reiterazione delle lettere, la comprensione delle cause intrinseche all’effetto e al finito, la materia e la forma. Il principio da causa in sé del c’era una volta, a causa per sé del c’è due volte, è sul punto di scrivere il ci
sarà più volte - oramai è in tempo, è nel tempo, la logica del tempo - il ci sarà più e più volte il principio dell’ordine sussistente nel caos divenuto un principio del bianco consistente al caos, l’albescere.
Svendita totale
Il negozio giuridico apre i battenti al pubblico, dispone il ritmo dell’offerta e secondo il primo accordo della scala nervosa acquisisce la domanda: che cosa è in saldo? Il listino, l’habitus è scontato, il prezzo dell’abitudine deriva dall’etimo di ricoprirsi di vesti per investire il corpo in un periodo ove il risparmio della nudità è una dilapidante modalità della caconomia. Il capo per essere registrato nel libro mastro e stornato dal listino, necessita di un verso, verso una consueta data feriale, posteriore alla successione festiva, il retaggio dello sconto segna il capoverso. Gli usufruttuari accorrono in massa, e disposti in teoria, la teoria per uno, acquistano. Sotto la spinta dell’optare disconoscono l’economia e inquinano la valuta dell’abitudine, un’azione che protratta nei giorni seguenti, sarà registrata come valutazione. Il pregio dell’abitudine consegue l’acquisizione di uno spazio condotto, il farsi largo a spallate detrae l’interesse dall’unità di misura dell’habitus, le spalle su cui indorsare le vesti, e la decurtazione dona una nuova abilità all’usufruttuario, l’abilità di dichiarare come sia aduso all’acquisto. La tratta del capoverso prosegue la data feriale concedendole una continuità analoga alla serie festiva. In vetrina il quotidiano descritto in percentuale di una stagione, in vetrina il manichino ammantato come percentuale di un corpo. L’esercizio spalleggiato è provato in uno spogliatoio, sfilato dinanzi e di lato ad uno o più specchi ad altezza d’uomo medio, dimostrato da uno scontrino fiscale e imbustato con tanto di marchio impresso, leggere e compiacersi della confezione. Approvato. Eppoi riprovato, alla seconda posa indosso della veste succede la lacerazione. Il corpo, riprovevole, esegue uno scarto, maldestro. Con un tiro mancino si porta una mano sul capo. Senza verso, controverso violenta il cuoio capelluto. Con un diavolo per capello, avvicina la mano furiosa, la manesca, ai globi oculari, testimoni il più delle volte attendibili quando ingentiliti dalle lacrime. E la visione, pur senza disdegnarle, non disegna l’imprecazione, la bestemmia o il maledetto, informa le linee dei capelli sul profilo di una parola: liquidazione. Il corpo rende soma un’espressione emotiva e avverte il rodio del fegato. Altri capelli cadono, i nostalgici del cuoio capelluto, disadattati al manesco, si adagiano al suolo nello stampo del manifesto pubblicitario: “La liquidazione veste”. L’abitudine ha lacerato il corpo, l’habitus ha indennizzato il corpo della nudità. Svestito, osserva l’epidermide e se ne appaga, svestito ammira i dettagli piliferi, svestito si sente denudato e allora si riveste con la lacerazione, la lacerazione delle vesti, la lacerazione delle
abitudini, la lacerazione dell’epidermide. Desueto, saldo, impugna l’accordo delle parti: il corpo totalmente svenduto, denudato, soddisfatto o rimborsato, a saldo della ragione, fa assegnamento sulla compravendita dello spirito, la buonuscita dello spirito, a prezzo intero.
Offerta speciale
Una massaia, non-in-dividuale, chiude la propria dimora. Sale le scale e al penultimo pianerottolo si ritrova sul solaio (nel gergo inquilinato) o, per fissare il piano dell’immagine, sulla terrazza del caseggiato. L’ambiente è plumbeo e inclinato. La donna sostiene l’equilibrio del proprio corpo con la collaborazione della mano sinistra e di un corrimano. Al limite dell’asta abbandona il contatto e scorre sul piano scoperto dell’edificio limitrofo. L’ambiente è plumbeo e orizzontale. Alcuni i decisi e l’entrata di immergenza è tosto visibile. Una spinta verso il basso sulla leva di sblocco e l’entrata è praticabile. Gradini accompagnano il percorso verso il basso, un muro e una parete impiantati ai margini dei ripiani, fungono da impedimento al disorientamento. La scala termina e un barbaglio estende lo spazio rapportato. Il supermercato. L’ambiente è illuminato, magnetico e negoziato. La massaia è salutata da un camlo ospitale. Ricambia con il ticchettio delle scarpe. L’ordine direzionale è segnato da un incrocio di sensi di marcia. Il senso di marcia orizzontale traccia la merce contingente (da tempo libero), il senso di marcia verticale traccia la merce di prima necessità (occupata e determinata). Sugli scaffali, gestori dei prodotti, sono proiettate le ombre dei corpi degli avventori. La massaia all’intersecarsi dei sensi di marcia, scruta l’offerta del giorno. È curiosa e si avvicina ai gestori che declamano su sfondo rosso il tre per due. I dotti, sempre preceduti dal pro, la priorità dell’acquisto, dispongono di una serie di barattoli. La donna paventa che siano i recipienti della solita marmellata. Prende la parola e legge: “Assoluto sotto Spirito”. La conversazione è vaga, sembra quasi incipiente, per poi ricadere nell’oscurità. La materia prima dei barattoli è condizionante. In ogni declinazione non si può sfuggire al senso dell’offerta. E in sintesi la massaia adotta il tre per due. Torna sui propri i dall’intersezione, e fruscia il denaro alla cassa, senza mora. Imbusta i tre barattoli per le due banconote, in posizione fragile per evitare che la materia prima s’incrini. Il camlo di fine rapporto erompe la vendita all’incanto, lei mostra il disincanto della pianta dei piedi. Una linea tangente la conduce alla propria dimora. La massaia non più non-individuale, schiude il primo barattolo in senso antiorario, e assapora l’“Assoluto sotto Spirito”. Il gusto è naturale. Risoluta dischiude il secondo barattolo. Il retrogusto è essenziale. Coscienziosa e soluta apre il terzo barattolo. Anestetico il buongusto. In senso orario i barattoli sono svuotati e richiusi, la materia prima riversata: l’“Assoluto nello Spirito”.
Epifania
Appaio, non rimuovo il lenzuolo, non ho esperito il torpore di un telo che muove il corpo al riposo. Compaio e non lascio traccia del cammino in un paio di piedi. Non striscio incatenato alle mie orme. Non saltello con il trasalire del respiro. Non cerco anfratti per assolvere la divisione della mia presenza, il quoziente che arresta le mie consegne. Traspaio nel gioco delle ombre eclissate, le ombre ricoperte dall’artificio dell’illuminazione e dal lecito riflesso della luce solare, corrente sulla circonferenza lineare ai raggi dell’astro. Non spingo alla caducità gli oggetti, anche se ricambiare un soprammobile frantumato sotto un mobile mi sollazza. Gli scricchiolii notturni del legno mi disturbano, tanto quanto il ronfare di un vostro piazzato di letto. I rumori nelle cavità delle pareti non li percepisco, le pareti sono ingessate e sostenute da un tutore, troppo aderenti alla prognosi della solidità per riservare una frattura nel vuoto fragile. Non mugolo, non gemo, non mi lamento, per considerazioni degne di fede chiedere al vento e al sibilo impertinente. Non sono vittima di un crimine violento, né ho da scontare debiti pregressi, né attendo la sentenza di vendetta, non sono un senza fissa dimora e né barcollo sulla soglia fra la vita e la morte. Non faccio pulizia dei rimorsi e non accumulo polvere sui rimpianti. Non sono innocente. Tra le righe sarei il negativo. La rifrazione che devia la descrizione in non iscrizione al registro delle presenze. Assente e rasente la maestria dell’intermittenza. Non saltuario, interrotto e interposto, interlocutorio, coniugo il verbo e intercorro. I descrittori mi conferiscono l’attributo fumoso, effetto obliante. Nella descrizione dimenticano la causa attizzante, scintilla e ossigeno del mio carattere infiammato. I proscrittori si riferiscono alla modalità lacrimogena, ma il sottospirito non si rivolta, forse si solleva. I trascrittori, in marca bollata, mi trasferiscono al piano trascendente, notifica dispersa appunto, per il mio stato di perenne trasloco e immanente al luogo sconosciuto. Analfabeta al corretto indirizzo, alla rintracciabilità, potrei firmare con un’incognita. Gli ascritti mi confinano all’infanzia della fantasia, l’adolescenza dell’illusione, la giovinezza della paura e la maturità del timor panico, la senilità che divaga sull’aiuola dei morti, inalante i profumi dei fiori infanti, estirpante i petali del trao, espiantante le radici dell’angoscia. Pavento che gli ascrivibili non si irrigidiscano nel batticuore. I coscritti fanno leva sulla suggestione della mia evanescenza per far trasparire la solidità dei giorni festivi, infestati. Marciano in un tempo anfibologico e armano la cronologia come bersaglio della durata, in quanto
cerchiata, accerchiata. I prescritti mi affidano alla consegna notturna, le note sul pentagramma del sonnambulismo, dell’insonnia, della dissonnia, della parasonnia, della narcolessia. Gramma dei suoni tenebrosi. L’epidiascopio del vegliambulo non è circoscritto all’esagramma. I manoscritti additano, il dito indice portato alle labbra, la media delle mie manifestazioni, una macchia sulle impronte digitali, analogia impalpabile. Gli scrittori figurano le mie sporgenze nel giro di vite. La fantasmagoria, gradazione dello spettro cromatico, d’incorporarmi ad un lancio da altezze immemorabili. Io che soffro di vertigini e che posso evocare il fantasma che dà le vertigini. Forse per questo mi associano al capogiro. Bizzarrie di chi adopera l’alfabeto nell’oscurità della composizione con l’eletto lume della disposizione. Gli scriventi adoperano l’affisso, l’eufonia della voce, una vocale prefissa al mio nome: ispirito. Ho cosparso la pagina bianca di calli anneriti: il Manifesto per l’Epifania, che fa il paio con la Diafania.
Una "Camel" nel deserto
Formicolio alle gambe, i talloni incrociati e deposti su un altipiano di sollievo, una linea asimmetrica con il bacino fa leva sull’addome per angolare il capo reclino nel prelievo della respirazione. L’estremità distale avverte il peso del territorio percorribile al quadrato, nel decubito delle pieghe locali, una ferita della terza dimensione, il soqquadro della cartografia perlustrata alla quinta potenza nei ritagli della circoscrizione esponenziale, la radice topografica. La base è il peso delle gambe nel numero intero degli arti inferiori, nella razionalità che commisura la tibia e il perone, nel gonfiore reale di un piede che moltiplica se stesso all’ennesima potenza. In porto, l’intorpidito sottostà alla banchina, ormeggia nel plantare e con la partecipazione delle dita, riduce la distanza tra o diretto e so slogato con la conversione del piede nel sistema metrico decimale. Il suolo è rappreso, il plantigrado rinsecchisce, non interra più l’impronta intera in superficie, salta in lungo verso la sabbia, l’orma è nel particolare: tallone e metatarso. Misurato, in spiaggia riprende il senso del tatto, in precedenza sfuggente, e si dirige verso la battigia, nell’operazione ha calcolato il risultato del pediluvio. I muscoli sono distesi, le caviglie sommerse. L’acqua ripiega fin su le rotule. Il bacino è assiso sul bagnasciuga. Il dorso segna un riferimento, un gancio sulla terraferma su cui appendere lo specchio d’acqua. La concitazione crinale segnala la brezza, il torace non è un anemometro e si spiaggia. L’intorpidito si sgranchisce le gambe, al palato riconosce la secchezza, granelli di sabbia inaridiscono i pori dell’epidermide, scivolano sulla colonna vertebrale, ingarbugliano i capelli, si abbarbicano ai peli. È in piedi. Schizza una circonferenza. Ogni grado angolare del cerchio è uno spicchio di deserto. Solca la sabbia, quasi a voler seminare il differenziale. Sul terrapieno, ove il vento ha depositato lo strato superficiale del territorio isolato, i granelli sono sedimentati in ghiaia. Volge lo sguardo assecondando la rosa dei venti, avvolge la vista nei colori dell’atmosfera, a in rivista la sfera. L’espressione mostra l’efficacia dell’insolazione. Desolato, osserva l’asse distale, esterrefatto si piega sulle ginocchia, con i tendini delle dita manuali estesi tocca il corpo nero sulla sabbia. È insabbiato. Sconsolato, a piè pari si sposta sul terrapieno, a piè dispari il corpo nero lo segue. Il corpo nero è scoperto, è l’ombra. I due corpi giocano al rincalzo, nella simultaneità del turno levitano la sabbia. Nello spicchio di deserto, sul terrapieno di ghiaia, i due corpi volteggiano il pi greco del girotondo. L’area della circonferenza è definita. Il capogiro verifica il capitombolo e i due
corpi si estendono al suolo oltre la circonferenza illustrata. Necessitano di un mezzo di trasporto per perlustrare la figura del deserto. L’intorpidito, steso al suolo, sovrimpresso come una didascalia, con il dorso delle mani stropiccia le palpebre, nel trasporto tasta il tessuto che ricopre la gabbia toracica e l’addome. Riconosce il volume dell’oggetto ricercato. Porta alla luce del sole il pacchetto di “Camel”. Estrae una sigaretta e l’accendino. Il fuoco genera fumo. Fuma, adombra la sigaretta.
Ansa
L’informazione trascorre sul letto. Concorre allo spartiacque del are in rassegna e consultare l’agenda. L’uniformato ha sete del corrente, idrata l’aridità del quotidiano con la lingua protesa verso il sorso offertogli dal quotidiano stampato, calco delle notizie comunicate, diffuse nel prossimo. Dalla nota del notiziario traspare la velina conoscibile. Il profumo del giornale risveglia l’appetito, la colazione è servita nell’elenco dell’appetibile. Tra un sorso e l’altro si può formulare un commento, ma solo quando la notizia stupisce, la bocca si irrigidisce in un’apertura ovale, a riprendere fiato, e il commento è d’ausilio a sostenere il mento. Soccorso per ritrovare la conformità e l’inalterabilità delle labbra. La stampa aggiornata surroga il deodorante, disposta nell’incavo tra il braccio e il torace corregge i cattivi odori della notte all’oscuro. Un buon profumo è sentore di una buona notizia. Al bar, unità di misura della pressione, la lettura è dispensata a più occhi, a più mani, il pubblico ludibrio nel brio del riguardo, del tatto. I conformati, dal carattere inchiostrato, macchiati dalla china del aparola, con la lingua scurita per l’umettarsi le dita, lo spoglio degli articoli per la presa di posizione nel ragguaglio, sono titolati come pendolari. Oscillanti tra l’inizio e la fine di un pezzo danno fondo al corso del viaggio; fermi all’editoriale attendono l’apertura delle porte per dare avvio alla scalata del lavoro. In ufficio depositano il giornale sul tavolo da lavoro e l’arredo ultimato che timbra l’orario di avvenuta mansione, diffonde la continuità del risveglio nel conforto della scrivania diuturna. In negozio le sorprese sono all’ordine del giorno, un tubo è ostile alla pressione dell’acqua, resiste fino alla lacerazione e una pozza d’acqua trionfa sul pavimento; il giornale si estende, si spiega e nell’apertura informale prosciuga la tronfia invaditrice, risaltando, nella permeabilità, il recapito di un idraulico. Al mercato il giornale non può che fungere da incarto, dopo il bando dei sacchetti di plastica, e contrassegnare sugli alimenti il corrispettivo della preparazione della ricetta stampata, le controindicazioni indicano di prestare attenzione a che gli alimenti su cui è impressa la stampa ineriscano agli ingredienti della ricetta, altrimenti il pasticcio è assicurato, nonché la notizia di un disgusto alimentare. In pausa pranzo si svolge l’inserto sportivo, il concorrente divora l’esito dell’incontro di calorie, favorisce le statistiche dei valori nutrizionali e nel lavorio metabolico ha ben impresso il parallelo della linea, mette in riga la linea del bacino alla linea delle costole. L’amaro, che rintocca l’ultima portata della pausa e riprende gli
incarichi pomeridiani, sottolinea la cronaca della competizione, il sostenitore rivive le emozioni calorose e esulta, con un rutto fagocitato, per la formazione del cuore nel beneplacito della pressione. Ammira la propria alimentazione che scongiura il crepacuore. Il quotidiano, posteriore alle pagine dello spettacolo pomeridiano, con un occhio alle condizioni meteo, termina con la velina in carta carbone: domani non attendete null’altro che l’oggi. L’uniformato nel trasporto della velina, in ultimissima esigenza scorre la pagina in refuso. Nel mezzo di trasporto prenota la fermata in periferia, alla foce del corso. Ha sete della corrente. Invaso dal quotidiano, l’uniformato esonda dagli argini, ribocca, rischia di sommergere la grafia tipo con una ridondanza di parole, ma il subisso è emendato con la rinomanza dell’ansa, ansa che lo trattiene al vaso della corrente senza trabocchi. L’uniformato è retto dall’ansa, è informato; reagisce l’agenda.
Referendum
Il dovere di riferire. Promettere di fare la tal cosa in vista della retribuzione. Ex voto suscepto aver concesso la mano scritturata. La scheda referenziale conserva l’impronta della mano, l’impressione dell’affermazione o della negazione. La pressione della reazione a(n)nulla, vale e annulla. Peraltro l’alternanza delle due compresse di votazione, per alleviare i rimpianti del futuro, moltiplica la lettura delle schede, la rilettura condivisa tra più scrutinatori e l’espressione del voto. Il referente è chiamato a trattenere il segno linguistico al monosillabo sottoscritto. Dopodiché si incrociano le dita e il segno rimanda alla previsione che l’insieme del monosillabo, in maggioranza reiterato, sia ciò di cui si parlerà. Prima del che il relatore appunta sul palmo della mano il monosillabo da plagiare e nel caso accentare. Prima del che, prima del ché, raduna i correlatori in assemblea privata del diritto di voce. Essi, sottovoce, minimizzando l’afonia, mimano l’un l’altro il monosillabo del quorum, il referente dei quali voterà per il tale monosillabo, quale un fonema; il relatore per il talaltro monosillabo, il morfema; e i correlatori senza colpo ferire, per il tal quale monosillabo quotato, il grafema. Il sindacato, latore del giuramento dichiarato, vuole rendere ragionevole la promessa del fare con il aparola, vuole rendere ragione del proprio operato votivo. Il aparola conferma l’iniziale parola d’ordine votata alla finale: devoti. I correlatori devono essere devoti ai latori del giuramento dichiarato e rassicurare la promessa dei voti, i devoti nel voto impegnano il de privativo e reversativo. Nel dopodiché delle dita incrociate, il segno non rimanda al devoto, ma al voto insindacabile. I promotori del referendum, lettori della fedeltà, non ano la parola né sollecitano la perdita della parola, chiedono di rispettare la parola, mantenere la promessa di fare, investire il voto della benedizione e inviolabilità della grazia ricevuta. Commettere una promessa è la parola d’ordine dei promotori, commettere per grazia meritata. Nel dopodiché delle dita incrociate, il segno compartecipa all’utile del monosillabo prevalente. Una lettera di assunzione distende le dita contratte, con un grazie a seguire. Dipoi al dopodiché, dallo scrutinio circola la voce di una retribuzione personale, come il voto, senza contribuzione quiescente, la grazia invocata licenzierà i malanni fino al trattamento di fine rapporto, l’infortunio assortito liquiderà il tiro mancino del destro malmesso. Il fare della promessa, la promessa commessa è all’infinito e non al participio ato, la confessione del voto fa scalpore come una contestazione, una promessa mancata e la grazia suffragata è revocata, lo
sciopero della grazia. I redenti dalla grazia possono ascoltare gli ordini del signore e a tutti gli effetti ripetere il monosillabo prevalso con la retribuzione del quieto sopravvivere nell’aldilà della certificazione. Sia l’uno o l’altro l’esito dello scrutinio il referente è intravoto, spogliato dell’attribuzione di senso e nella distribuzione priva di riferimento. Referre e non relatus. Fiat Referre, il nuovo modello dell’auto(referenzialità).
Imbozzolato
Il correttore di bozze mette in riga la scrittura. Immune all’inchiostro appena sovrapposto al foglio, munito di riga in parallelo verifica l’allineamento dei caratteri alla grafologia del reggente, il reggipenne. L’inclinazione dei caratteri all’identità di un genere letterario, nel particolare della congiuntura dei paragrafi, denota a piè di pagina la data di rettifica. La parafrasi segna nel nota bene la scadenza della rettifica con la ratifica del grafomane. Amici di penna o adulteri della penna? Nella corrispondenza della biro, la carica della sfera, dal centro del o al como sottolineato sulla superficie sferica, assegna il medesimo valore al refuso. L’inchiostro è ai margini della composizione, tra le righe. La svista residua nell’astuccio trasparente della penna. Il grafomane e il correttore carichi di rivalsa da tradimento minacciano uno strappo. La pagina, come terzo incomodo, testimone della relazione infedele, teme per la propria integrità. Ma l’editore, giudice incensurabile, cita il contratto stilografico, recita la formula del triangolo irregolare, il teorema della seduttrice: la sensualità di una seduttrice è equivalente al consenso del sedotto e dell’attratto. L’erometria da quattro soldi – letteralmente – dell’editore compensa gli espropri di penna, il correttore e il grafomane concordano circa il segno rosso di cassatura e privi di acredine da umore nero, approvano l’amicizia di penna. Depennare un amico equivale a distrarre l’inchiostro con l’incanto della pagina verginea, bianca. L’intestazione dell’epistola reca in calce il soprannome del mittente, la detestazione nel carteggio ripone in fede lo pseudonimo del destinatario. Nell’eteronimia della documentazione, titolata nell’omonimia della cartella, i residenti all’indirizzo recto e verso senso civico, impostato sulla busta, sono affrancati dalla lettera e obbligati alla costante nel rapporto epistolare, in parola di un rinnovamento delle lettere. Il grafomane adatta un titolo, consulta la grafomanzia e nel responso è titolato, ha i titoli per reggere e controllare il grafospasmo. Il correttore di bozze, tutore e grafometro, richiama alla legalità, regalità dei dati di prevendita, presentando lo spauracchio del vilipendio del senso comune direttamente proporzionale alla tabula rasa dei diritti d’autore. Se il titolato si adegua ai consigli del tutore acquisisce in nota il confronta con la tutela, diviene tutelato, in caso contrario, sempre in nota, preceduta da un asterisco, si segnala la lacuna sub iudice, sotto il giudizio del giudice. La revisione delle pagine consegna lo scambio epistolare alla perfezione delle missive. I messi comprovano la rilettura compiuta con il compromesso del testo definitivo, espunto della graforrea. Il
testo consegnato alla stampa, nel carattere tipo della grafia, in tipografia è impresso su una matrice da riprodurre. La riproduzione è accesa, si surriscalda per la monomania della stampa, varia la combinazione delle lettere in parole che rendono indecifrabile, atemporale il periodo; elimina, dopo un battibecco, la lettera irriverente nella proposizione incriminata, sovrascrive le lettere allotropiche, macchia un’intera pagina dell’ira riarsa. Idiosincratica ai numeri, graffia la successione delle pagine con la sciarada dei residui d’inchiostro. Dalla tipografia alla distribuzione alla lettura al dettaglio, l’errore di stampa.
L'usato dell'oro
I procacciatori di prelazioni soppesano l’orogenesi. Garanti del valore di mercato, si avvalgono dell’orografia in carati. I 24 carati della tenerezza costituiscono l’incorruttibilità della rendita, vitalizio terreno detratto dei minerali imponibili, eredità di una terra fertile nel rispetto dei periodi di alternanza, su cui non si edifica l’abusivismo monumentale. I 18 carati caratterizzano l’oro iscritto al collocamento, l’oro adatto alla lavorazione e a far lega con altri metalli per indurirsi e esser riconosciuto come qualificato nel settore del commercio. I procacciatori per poter mettere nero su bianco l’orografia, conseguono la licenza oronima, previo esame di estrazione alluvionale e mineraria che attesta la formazione orologica, legata alla nascita e alla finalità del bene, quasi un oroscopo. Licenza che accorda l’altezza dell’insegna del monte dei pegni: “Compro e vendo oro”. L’oro lega due soggetti ad un avvenimento temporizzato in un oggetto aureo. Un soggetto compra l’oro lavorato in oggetto, metallizzato in allegato, e lo dona all’altro soggetto. La temporalità aurea rimanda al quando dell’avvenimento e ricopre il corpo di un soggetto, o di entrambi i soggetti, con un ornamento. La sicurezza del fregio determina l’usato sicuro. Accade che in un concorso di cause minute minuziose, seconde secondanti l’ora prossima al risultato del corso temporale, il quando del tempo si corrompa in un tempo perso. Quando il tempo è tempo di crisi, recessione del tempo di acquisto, l’avvenimento temporizzato in oggetto aureo subisce una svalutazione, l’oggetto aureo diminuisce di valore, o acquista un valore di scambio per il presente appetito e l’avvenimento acquisisce l’importanza del ricordo senza oggetto, del ricordo nella memoria virtuale dei soggetti. Nel presente i soggetti appetiscono altri desideri, altri avvenimenti del quotidiano, ma privi di mezzi barattano l’unico mezzo, una volta considerato intermezzo della loro vita, il mezzo aureo, l’oggetto aureo, per attualizzare la sussistenza presentata. Dalla pianura del fabbisogno quotidiano risalgono al monte dei pegni e cedono la prelazione dell’oggetto aureo al procacciatore che soppesa. L’orogenesi registra la trasmutazione dell’oro in mezzo di scambio per il fabbisogno quotidiano. Nel valore del giorno corrente i soggetti contraccambiano il ricordo con l’attuale appetito. Nel quando del tempo recesso l’avvenimento è temporizzato in oggetti corruttibili. Corrotti e dimenticati. Nel plusvalore del giorno concorrente l’appetito tornerà a farsi sentire, a reclamare il valore di scambio consumando la muta devoluta dall’oggetto aureo. La commutazione dell’aureo in marcio
appetito. Il giorno ricorrente segnerà l’esaurimento degli oggetti corruttibili e tenterà di intaccare la memoria virtuale dell’avvenimento aureo. Ma l’avvenimento aureo ha la qualità pura della rendita, è incorruttibile. Erompe nel presente come un usato sicuro e non un abusato corrotto. È usanza che il disimpegno requisisca l’antikeimenon aristotelico.
Il baro del solitario
Conosco le regole, seguo le regole. Gioco. Conseguo il ruolo di partecipante. Eseguo lo stato di giocatore. Inseguo il premio. E sono seguito dal ivo. Perdo. Non sono in punizione, sono disperso. La regola ha imposto il sacrificio della regolazione e l’attenersi alla successione per l’azzardo dell’alloro. Allora ho lanciato la competizione, nello slancio della mano, e il compenso del colpo ha gratificato il rischio. L’omaggio ha stemperato la stagione della mia aspirazione e, nel dogma della statistica, ha contratto la rivelazione della speranza nella manodopera disperata, su cui calcolare l’onorario dell’esasperazione, il rischio calcolato. La probabilità della pena capitale ha esatto la mia testa, ho battuto più e più volte il capo contro il muro. E più che lasciare il segno sul muro portante, più che insegnare il muro maestro, ho designato l’ematoma. Meno male. Il piatto ematoma non ha potuto risolvere il problema del gramo pregiudizio, ho rilanciato e l’operazione del capotorto ha fesso la resistenza elastica della pelle, uno squarcio e dalla scorza dura del giocatore è fuoriuscito lo zampillo rosso, io avevo puntato sul nero e il sangue sgorga. Il giudizio delle genti ha tamponato il rovescio dell’imprecazione sull’intero mondo e nel cicatrizzare ho sperperato l’ingente somma dell’umano consumo. Mi fischiano le orecchie, la sirena non è una contabile. L’ambulanza ha riferito l’occupazione dell’inverecondia, dell’improntitudine al biasimo degente. Costretto alla deambulazione sono stato legato alla lettiga. Le cinghie ai polsi e alle caviglie hanno intorpidito le mie estremità e nella chance apicale ho richiesto un bavaglio, l’estremo trasporto ha richiamato, in ottemperanza alle corde vocali, l’estrazione del lotto, il primo estratto da un novantesimo di paura che permuta il grido impallidito, sgomento in urlo di gioia. E vai! Dare un avverbio al verbo di moto e commutare la deambulazione in ritorno al tavolo da gioco, al proprio posto. È preferibile tenere la bocca chiusa e impedire la libertà di espressione. Giunto in pronto soccorso, ove l’esito delle analisi è sempre in ritardo e la gnosi della sintesi in anticipo, come terzo incomodo sono stato deposto su una sedia a rotelle. Vacillante a lato e a relato di un prelato della rivelazione, ho compreso il movimento fortuito, combinazione mi muovo su due piedi, i miei piedi; combinazione sono invalido e devo esser accompagnato, spinto su una sedia a rotelle e respinto da chi non avrà mai una diagnosi, i mai paghi della ricognizione, del mezzo decorso, prognostico, gli agnosici; combinazione sono sdraiato e immobilizzato in un letto, alla luce del sole, piantato in asso come un vegetale e idratato dalle lacrime
dei parenti, parenti alla comione del genere umano, compatire che rimpiange il con-esserci nel mio stato e che morde l’esserci a piedi giunti. Congiunti e in piedi, o in ginocchio, una toppa sul rimorso. Nel reparto isolato, gli infermieri e gli infermi, svolgono la medesima mansione, sono i non mai fermi, mi intimano senza pudore di spogliarmi degli averi. Impudico, denudo perfino il mio essere. Nella timidezza della remissione ho intravisto i capi di vestiario piegati sul piano di una sedia. L’ordine dei sottoposti reclama la riconoscenza all’uniforme. Indosso la camicia di forza e la sottoveste di castità. Sono unico nei miei capi, la camicia di forza è priva di polsini, dove infilo i miei gemelli? La sottoveste non ha lembi da unire in coppia. Per giunta è castigata. Non ho più assi nella manica.
Lettera ingiuntiva di un filosofo alla ragione
Spettabile Ragione Sociale, non è abile nel corrispondere le spettanze. La sua presenza nel registro della camera di commercio non la tutela dagli ospiti inattesi e non la protegge, non la cela nella responsabilità limitata, per inciso: è lei che serve da alibi alla responsabilità. La celia dell’imprevisto è sempre munita di salvacondotto, notificata da un tasso non interessato ai depositi. Nel dato della ics, voce sotto la quale è registrata la sua presenza, stanziale, il tasso ufficiale non potrà che scavare la profondità per rilevare la superficie dell’incognita; la caverna, la sua dimora, è, senza ombra di dubbio, localizzabile. E, per cortesia, non si appelli alla sub specie possibilitatis come l’inventiva del reale, le risponderei che la contravvenzione è sub specie aeternitatis, e l’accidente sub specie praeteriti non è una competenza. Non le posso dare ragione in quando devo avere ragione. Il bilancio della partita doppia, come lei sa, ne è a conoscenza, non è retro-adeguato. Non sragioni con la medietà della dianoia, attribuisca l’intensione alla noesi, l’estensione dell’intelletto non recupera il credito, l’emendazione dell’intelletto è la prestazione che può darle credito. Il principio di ragione sufficiente è una verità di fatto che non si concilia con l’ingiunzione, potrei concederle la congiunzione; il principio degli indiscernibili, come verità di ragione, è un soggiungere giunzione a congiunzione. Riversi il valore aggiunto della situazione critica non nella struttura del responso, bensì nell’evento dell’ingiunzione. Lei, amministratrice unica, autografi l’assegno e l’ingiunzione sarà congiunzione, o giunzione soggiunta, come da verità di ragione. In tale contesto persino i saluti dismettono il disinteresse per assumere un termine creditizio.
Prestidigitazione
Nel campo scritturato il prestigio di chi maneggia la tastiera, nel palpitare dei tasti, con la frequenza di un testo, si computa con il sillabare il polpastrello dettato. Polso paralessico degli strelizzi logaedici. Il polpastrello compitante è il nunzio del callo seguente, che media l’estensione additata, prosegue l’anulare diametro della falange tondeggiante con il dito minore, minore in quanto consegue alla conta con le dita e rimanda la conclusione al lustro dell’altra mano o all’incipit del pollice opponibile. Opponibile come pronuncia dall’accento asperso nella tonicità della sillaba, dinamica o musicalità della prensione diteggiata. Sillaba per sillaba si manomette il morfema, si moltiplica la doppia articolazione del fonema nel prodotto semantico. Un dotto linguistico, dotato di lingua, favorisce il corpo con il significato vocale di soma e sema, corpo e tomba, deperire del corpo, non perire bensì degenerare, il de reversativo del fagocitare la forma o incorporarsi in una lingua, semiotica, ottica del segno. La manipolazione della digitazione adopera la destrezza e contesta il sinistrare. Il polo della destrezza si confà alla preposizione della mano destra, nella pressione sui tasti le dita mancine ostacolano la visione che grava sul destrorso. Egli ha il privilegio della preposizione e non la preminenza come causa anteriore, la previsione o l’antecedenza della memoria non grava sulle palpebre e ad occhi spalancati, a capo chino, percepisce i sinistri ostacoli, reclama l’oculatezza del versante sinistro. Il manipòlo del sinistrato si compone di più strati non sovrapposti, ma in articolazione. Il sinistrato non percepisce la catastrofe dell’urto né l’attrazione della conversione alle opportunità della preposizione, non prende posizione, non intraprende il pro della posizione nell’interposizione. Il contesto del sinistrare appercepisce l’insieme alfanumerico della tastiera, la mano destra non richiude la visione tattile tenendo in pugno le macerie delle lettere riversate e destreggiate. La prensione è in apprensione. Il contesto è segnato dai margini dell’ergonomia e dalle frecce direzionali per il senso della posizione nel testo. Di sbieco fa testo. Il polso preposto riposa il ritmo e la cadenza delle battute al minuto sul piano ergonomico, sul ripiano del sostegno di cui non ricorda il nome; il polso anteposto, nel contrappunto della frequenza, distende il ritornello della disposizione sul piano periferico della memoria, di cui ricorda il nome. I calli di ambo le mani cancellano dai tasti la letteralità e l’obbligo della pressione alfabetica, nella compressione analfabeta il ritmo assume la cacofonia di una camera chiusa, callida, ricolma di pretesti e l’eufonia
di un vano aperto al contesto. Il callifugo invertito. Invano sarebbe ricordare il nome del testo. Il dattilografo impronta la pagina da scrivere con il formato dei caratteri di stampa, ristampa i calli con l’ispessimento in stampatello, come un coreografo batte sempre sullo stesso tasto, inserisce il dato delle lettere, dato non periodicamente ripetuto, in quanto nella destrezza il dato è predato e la variazione delle lettere dà adito alla parola. Battere sullo stesso tasto nasconde l’alfabeto immutato. Con la mano ammantata plagia l’altra mano, la mano che rifà il verso all’ispirazione. L’esercizio delle dita contratte contro il palmo aspira il segno, l’esercizio delle dita distanziate dalla superficie palmare espira il contrassegno del significato. La pagina è scritturata e mostrata al pubblico. Il prestigio di chi ha maneggiato la tastiera è visibile. In visibilio, il foglio non è impresso dall’atteso formato tipo di stampa, è vergato, investito dall’eleganza e dal decoro delle linee calligrafiche. Il corsivo serigrafico. La bella scrittura si presta alla lettura e la prestidigitazione comporta segni, macchie d’inchiostro sulle dita e sull’epidermide dell’eminenza ipotenare. Il plauso percuote l’abilità manuale.
Animato
Presento l’anima. Il vento delle cose sta cambiando; è un enunciato insensato. L’avvento dell’anima fattasi corpo; è un enunciato frattale. Il convento delle anime pie in ritardo sull’eternità; è un enunciato durevole. L’evento precipitato per la spinta degli agenti atmosferici; è un enunciato meteoropatico. Insensibile, non m’invento nulla. Il fischio del vento non richiama la mia attenzione. Inatteso, reclama la disattenzione. Ingiunto, stigmatizza l’indugio. In anticipo sul tempo dell’appuntamento non incontra ostacoli, non ha modo di eludere il volume delle cose con gli interstizi nella dislocazione, ove la pressione dell’aria segnala una fuoriuscita con un fischiettio. Lo spazio di un’anima è uno spazio disoccupato. Il tempo di un’anima è un tempo pur sempre e oramai attempato. Il corpo di un’anima è la decomposizione del vissero felici e contenti delle favole. La favola di un corpo come epitaffio dell’anima nel c’era una volta una cellula uovo fecondata e ospitale. La generazione degli animalcula. Nel presentire l’anima dispenso la percezione, così come l’introcezione e l’esterocezione. Non sento l’essenza della terza persona neutra, senza la quale non riuscireste a coniugare le istruzioni animali, la persona non ha competenza in tale campo animato e men che meno l’essenza; il neutro, poi, è un riguardo prettamente corporeo. Ho affermato l’anima, non la sensazione di un’anima, sensi e azioni sono materie dell’organico. Ho affermato l’anima, non l’intuizione di un’anima, anche nell’immediato sento la convalescenza del tempo. Ho affermato l’anima con una par(an)alisi: oltre, avanti l’analisi, non la prognosi di una sintesi. Nel paradosso dell’affermazione ho oltreato l’opinione dell’anima confermata. Sono andato oltre i i e i contrapi dell’incontro desiderato. Incontro del desiderio che segna il riscontro di una mancanza, manchevolezza che nel confronto con la psiche consegna l’appagamento al piano degli affetti. Oltre il desiderio, ho intravisto il desio della poiesi, controverso e correlato all’arte della seduzione, relegato al piano degli affetti già detto, ridetto: affettato. Oltretutto l’anima ha ricambiato la retroattività dell’affermazione. Ha affermato il principio di un approccio, principio risultato di una corrisposta attrazione, al limite della malia. Abbiamo evitato le fascinazioni della vita e i meriti della copulazione, la riproduzione dell’organico. Abbiamo evitato il sovrannaturale soffio vitale, che penetra nel senso della terra e si lascia pervadere dal consenso alla terra, una volta per tutte. Abbiamo evitato che la solitudine delle nostre unicità si sposasse al comune denominatore della gioia e del dolore, nel principio di contraddizione.
L’anima mi ha animato. Ero inerte nella dinamicità dei i e contrapi, lei mi ha affermato. Lei, così ferma nel verso baciato, nel verso alternato, ha incrociato il controverso e senza ausilio di metrica ha raddoppiato la sua impronta. Non l’analogia per converso, bensì il ritornello della presenza consegna l’anima e il sottinteso, il sottoscritto, all’univoca figura. Sono in animo, mi presento: solo l’animo. Ho presentito l’anima. Ho trattato dell’anima e dell’animo e non della nostra unione a guisa dei tanti scritti filosofici per la dimostrazione dell’unione dell’anima con il corpo. Ho affermato l’anima e sono animato. L’anima ha confermato. L’anima conferma l’animo. È animosa.
Peraltro
L’un l’altro danno a divedere il confine. L’altro, affine al definito, dà fondo al qualunque, indifferente al tal quale, converge il finito reciproco, all’origine della singolarità, e il quantunque ciclico, che misura la regolarità di ciascuno. Ciascheduno non opera uno per uno, coopera a che l’uno comprovi la condivisione dell’ognuno, esamini i aggi dell’operazione nell’evidenza dell’uno per uno, uno diviso uno, risultato che fa l’uno. Il ciascheduno ogniqualvolta confronti l’operazione dell’uno per uno con la condivisione dell’uno, non opera l’uno, ma fa l’uno. Fare l’uno è il quoziente che avvalora l’uno. Privo di resto, l’uno sta a l’uno come la potenza dell’identità, qualsiasi numero che sia e non sia uno, elevato alla potenza dell’uno convalida se stesso. Il resto opera. Se il quoziente nell’implicazione del divisore non dovesse applicarsi al dividendo è per la sottrazione del resto, il resto dovrebbe essere addestrato all’addizione e operare il quoziente, ma il resto contraddice le quote condivise e, appunto, opera. Il resto opera e contraddice il fare uno. L’uno che disfa il certuno, l’alcuno evade dal fare uno, una volta ha fatto uno e condannato alla reiterazione dell’uno per uno, per tutte le volte, ha travisato le regole, con una lettura veloce e un apprendimento furtivo, nonché un’indolenza alla disparità, ha disfatto l’uno. L’alcuno disfa l’uno, ma non per questo opera. Inoperoso è, dipoi, nessuno. Nessuno nel nesso dell’uno susseguente, il progresso binario dell’uno allo zero, consegue la predisposizione dello zero, una volta per tutte. Nel nesso l’uno si consegna allo zero, zero che non specifica l’altro. Nel nesso lo zero contrassegna l’uno come nessuno. L’uno si confà allo zero nel prodotto e nella condivisione, l’uno si rifà all’uno nel nesso condizionato e sottratto allo zero. Taluno ha provato l’antecedenza dello zero, e si proietta nella posteriorità di Fibonacci. Insomma, taluno era sfinito dall’uno, solo uno. In quanto taluno, era in corrispondenza con nessuno, sommò l’uno allo zero e si ritrovò il tale uno. Taluno conobbe la scrittura di alcuno che disfa l’uno e soprattutto, il resto di ciascheduno. Nel resto che opera, taluno diede a divedere l’opera che non fa uno. Scrisse uno e riscrisse l’uno. Taluno trascrisse due volte uno. La trascrizione era però discontinua, il due volte uno era interrotto da un articolo, l’articolo che sovvertiva il prodotto, l’articolo introdotto, l’intrascritto e dal due volte uno fece mostra il due. Il due rimostrò le ragioni della propria inscrizione e diede avvio alla sequenza: il neonato più l’antenato: 0-1-1-2-3-5-813-21-34-55-89… La sequenza si diffonde nel territorio dell’uno e dell’altro.
Giunge al confine. Talaltro, un invertito, secondo qualcuno orfano, decifra la sequenza in conseguenza, il numero presente contiene in sé il numero precedente senza riconoscerlo, il numero cinque, ad esempio, contiene il precedente tre ma non lo riconosce come antenato, afferma che è cinque volte uno, cinque volte ciascheduno ogniqualvolta nella successione faccia l’uno. Al talaltro non importa la successione all’infinito, neanche per idea d’uno, desidera che l’altro sia ricondotto all’uno, che l’un l’altro dividano, e diano e divedere, il confine nel fare uno. Infine sulla linea che demarca il territorio dell’un l’altro, a margine dell’uno tale l’altro, sulla linea che emargina, peraltro opera. Peraltro opera con il resto, moltiplica il resto e anche se agli occhi dell’uno che fa il talaltro non resta che null’altro, peraltro opera. Opera l’uno e mostra l’altro. Niuno è alla mercé dell’altro. Nel caduno l’uno che fa uno e l’altro che si confà all’uno, si affannano nell’indefinito d’altro, nel peraltro che rarefà la sicurezza, la condivisione dell’ognuno. L’altro non è l’alterazione così come l’opera non è l’operazione. Peraltro dà a divedere l’affinità all’altro e il comune divisore non è di certo l’uno.
Giallo censito
Il senza fissa dimora è a pezzi. Esanimi, decomposti, brandelli di corpo senza vincolo organico sono sensibili alla testimonianza del bighellone fra i luoghi. Lo sfaccendato, senza determinata meta, inciampa con lo sguardo, il grave della visione, la visione grave, in avanzi di un corpo. A so tra i luoghi, manda all’aria lo sguardo sull’amputata anatomia, e a gambe levate, corre a riferire le coordinate della necroscopia agli uomini in divisa. La testimonianza condivisa. È preferibile che cadano le braccia a chi è di consueto in rapporto privilegiato con l’anatomopatologo. I tutori dell’integrità corporale, dopo aver legato i polsi al testimone compulsivo, si lasciano traghettare al luogo della dissezione. E in loco, ai tre corpi non regge la mandibola. Un corpo scheletrico, piegato sulle ginocchia traumatizzate, la visione genuflessa è una chiara diagnosi, completa la recisione mutilata. Gli incorporati si riprendono la mascella nel palmo della mano, meglio riprendono il coraggio a due mani e all’unisono urlano: “Mani in alto!” Il consunto sottostà all’ordine e l’altitudine ostensiva delle mani è misurata da un bisturi mancino e da garze sterili corrette. Mentre uno dei due tutori tiene per i polsi il testimone, l’altro intima al consunto di gettare i ferri della necropsia, dimodoché possa metterlo sotto i ferri. Solo il metallo inanellato rende inoffensivo il consunto, il corroso. I quattro necrofili sono avvicendati nello spazio di pochi metri quadrati – desipere in loco. Il necrologista, il testimone, con tanto di sorpresa dei due necrofobi, dà fiato alla biografia, l’incidente capitale, chiede al necroforo: “Perché è tornato in loco? Dunque l’assassino torna sul luogo del delitto è una verità speculare?” Il consunto necroforo risponde con tanto di occhi: “No!, amico mio dai polsi relati. Sono tornato, semplicemente, a concludere la scorporazione. Purtroppo la fascia oraria precedente non è stata consona alla finalizzazione e ho fatto ricorso allo straordinario. E qui non le nego una malcelata ironia, la fascia oraria prestata allo straordinario è sempre soggetta al controllo degli uomini in divisa e come può ben vedere, sono stato pizzicato!” La tetralogia del delitto è una composizione di enunciazioni in loco del derelitto mutilo. Ma qualcosa manca a che il loco divenga loculo, e non è l’epitaffio. Nelle ore medie del giorno stecchito, che fanno seguito all’immediato dell’azione scorporata, i colleghi necrobiotici dei necrofobi, ricompongono il corpo amputato. L’imputato, reo confesso, è condannato mediante rito abbreviato, alla morte per necrosi, sacrificio per cancrena, propiziante i fuochi fatui. Il testimone, il necrologista è
libero da ogni legaccio, ma più che ritornare a ciondolare, si ripromette di prendere la vita per i polsi. I due tutori dell’integrità corporale esercitano, di continuo, le mansioni a cui sono addetti: commisurare le ombre dei corpi alle fonti luminose, per ogni trasgressore dell’ombra posturale, per ogni positura scomposta, sarà nominato un tutore ortopedico. Il mistero del loculo non permette al caso di compiere il corso legale, il concorso graduale di giudizio, di essere registrato quale chiuso, definito. Chi è il designatore rigido del corpo mutilato? Quale nome possiede il corpo fatto e rifatto a pezzi? La magistrale logica dei pubblici incorporatori non può che fare ricorso a uno strumento stimato. Dobbiamo censire i corpi e differenziare chi manca all’appello, rispetto al precedente censimento. Consegnare il designatore rigido all’assente. E annoveriamo il censimento come prova della rigidità corporea, in nome del censimento. Il censimento ha luogo.
Formaldeide
L’ambiente domestico ubbidisce all’infecondità della vita. Un uomo, garante della vita, certifica il proprio umore terrestre con la quietanza d’acquisto di una donna. Una donna, mallevadrice della vita, impegna le cellule uovo per la procreazione della forma di vita e non rilascia ricevuta dell’avvenuto ingravidamento. Lo stato interessante riscuote il prestito del capitale femminile, maturato in nove o dieci mesi, in tre rate: la scadenza dei capogiri dell’uomo, primo stadio del calcolo interessato all’apprendimento della lieta notizia, l’erogazione del prestito; la dilazione delle nausee da rigurgito di bile, stadi successivi alla valutazione del tasso d’interesse, variabile; la morosità del conto alla rovescia per saldare il debito, nell’imprecazione dei giorni velocipedi, procrastinazione. Direttamente proporzionale allo stato interessante è il ritorno del capitale femminile allo stato imponibile. Solo, con la svalutazione dei tassi e privo di garanzie, è gravato dall’impianto dell’interesse saldato e bilanciato nel far reddito, monoreddito per l’interessante forma di vita. L’uomo garante, la donna mallevadrice e l’interessante forma di vita rivitalizzano la famiglia. Famiglia in ambiente domestico, al riparo dagli speculatori che riflettono i tassi di natalità. Il neonato, interessato, alimenta il consumo. Scialacqua l’imponibile della donna e l’umore terrestre, certificato dall’uomo. Gli speculatori natali fanno capolino dall’uscio dell’ambiente domestico come balie. Nel capolavoro della faccia tosta si fanno assumere con la qualifica di precettori. Un curriculum vitae sfacciato, titolato con tanto di borsa per le prime riscossioni, le referenze a faccia-vista. Nel riflesso speculare della faccia tosta, con il sussidio dello spettro cromatico, all’incasso, la donna e l’uomo riconoscono la faccia di bronzo, le cui variazioni assumono l’aspetto dell’analista finanziario e la densità del consigliere patrimoniale. La gamma del sussidio, da balia a consigliere, disperde il processo di liquidazione del capitale imponibile femmineo. La donna, in presenza di soddisfacenti fideiussioni, abbandona l’ambiente domestico per un nuovo ambiente addomesticabile. L’interessato neonato, segue da prassi, come certificato di non morosità, la donna. La gamma del sussidio, da balia a consigliere, ha coperto la rifrazione di una nuova famiglia per un tasso più conveniente di natalità, più che tabella anagrafica è un prisma adottato. Gli incentivi all’investimento del capitale imponibile femmineo quotano l’aliquota del risparmio, prestazione a che più interessi maturati nel tempo crescano nella camera di sicurezza di famiglie blindate e al riparo dal monoreddito, siano le
future obbligazioni di un deposito di rendita. La famiglia in balìa dell’età del bronzo finanziario, voltafaccia dell’età dello sviluppo economico, rinfacciata dal congiunto debito. L’uomo, garante della vita, devitalizzato della famiglia, sotto ingiunzione, ritrova l’ambiente domestico sterilizzato. L’uomo, certificante l’umore terrestre, vive nell’umidità di un ambiente domestico. È carta straccia. Gli anni di garanzia sono scaduti. O si reintroduce nel mercato del capitale, con una nuova corrispondenza femminile, o si stringe al suo ambiente. Nella stretta, che per i patologi è costretta, l’uomo si sente sporco. Lercio, al punto da percepire come zaffate gli scrosci d’acqua. Sudicio, come un uomo che non ha voluto estendere la garanzia con un supplemento annuale. Indecente, come la dissolutezza di un uomo non corrisposto. Impresentabile, come un uomo preoccupato dall’inadempienza della sua assicurazione per la vita, la penuria del premio. Prevaricato come nullatenente ufficiale dai sottufficiali avallati dall’ufficioso. Indolente, e pertanto interdetto dalla famiglia. L’ambiente domestico che si conforma alla fecondità della vita, è la dimora di microrganismi unicellulari, fecondi nella riproduzione per scissione. Metabolizzanti la sterilità finanziaria, in germe di un’evoluzione dove le nascite sono disinteressate. Dal capitale femminile al patrimonio ereditato dalla cooperazione delle donne e degli uomini. L’uomo garante, sporco, lercio e sudicio rifugge dall’ambiente domestico come dimora feconda; corre nel macroambiente della grande distribuzione ad acquistare la formaldeide, un contraccettivo. Nell’accezione dell’ambiente finanziario intende liquidare i microrganismi unicellulari. Nell’eccezione della caducità, precarietà per gli economisti, del macrorganismo, sulla soglia dell’ambiente domestico inciampa nell’ostacolo non ricompensato, il tappeto di benvenuto, garantito. Riverso muore sul colpo, di capotorto. La bottiglia di formaldeide si crepa, riversando sul corpo umano la soluzione acquosa che certifica l’umore terrestre. L’uomo, garante della vita, è imbalsamato.
La stilografica
Obliterato il biglietto, Suvvia legge e riconosce il numero del suo treno, il numero del treno che corrisponde alla prenotazione e alla decisione di colmare la distanza dal territorio d’arrivo. Il numero richiama successivi numeri e Suvvia percorre la lunghezza del convoglio su rotaie per cerchiare la diligenza al numero di carrozza, prestampato sul titolo di viaggio. Bene, il numero concorda con le unità e il vagone è l’oggetto sedentario. L’introduzione alla carrozza presenta una soglia in piedistallo e l’inerzia dei i attutiti dalla gomma. Schienali fanno da transito all’andatura svaligiata. Svogliata contro l’ignoto. Persino il portamento è privato della rinomanza dell’incedere. La valigia, appendice infiammata di Suvvia, cede la risonanza sul suolo gommoso. L’invenzione della ruota, nel tempo, ha preteso la defezione del segnale di avvicinamento. I numeri si fanno strada nel corridoio carrozzato. Il secondo posto numerato, procedendo da destra verso sinistra, il numero civico è accogliente e libero come un pied-à-terre. Suvvia puntualizza il certificato di residenza con il modello del numero in copia sul suo biglietto e mutua la residenza in domicilio del corpo. Si ferma, afferma la dislocazione comune elevando l’appendice al piano portaoggetti. Confermata nell’avvenente partenza, si lascia trasportare dal fiato mozzato sul sedile rivestito. Una boccata d’aria viziata, la schiena rivolta alla direzione di marcia, e il senso del viaggio è incorso nel viavai dei viaggiatori, nel render sedentario il tragitto e nel compilare il modulo di partecipazione al concorso dei chilometri ferrati. I culi piatti, schiacciati al rivestimento, dettano ai redattori le cronache dei trasporti su ferro, l’età del ferro di un’esperienza agiografica, il più delle volte parallela al di già ascoltato. L’orario che è un oramai attardato sul non mai, non ora. Il percorso ha inizio. La partenza non è più un luogo e l’arrivo non è ancora un luogo. Nell’intermedio del sopralluogo, Suvvia ha uno spunto di curiosità. Si alza dal rivestimento del sedentario, allunga l’altezza media del corpo con le braccia stirate al margine dei sostegni d’appoggio. In avanscoperta nel vano portaoggetti, le mani lo dileggiano con l’impronta dell’invano, maneggiano il tessuto della valigia, ne tirano il taglio come personale, ne manomettono i lembi e ne estraggono dal vano interno alcuni oggetti. Dopo la manomissione, le tattili riposano sul tavolino, piano d’appoggio smembra coppie sedentarie. In piena vista prensile un foglio vergine, esfoliato della metrica, in senso lato una penna stilografica. Suvvia adopera l’intimità delle mani per smontare la stilografica. Ne
estrae la cartuccia dell’inchiostro per poi ricomporne la forma. La cartuccia fa capolino davanti al suo sguardo. Dalla tasca interna della giacca che copre le spalle, sfodera un coltellino multiuso e un calamaio. Con l’usuale lama del multiuso asporta un’estremità della cartuccia, reggendola in verticale, dal fondo chiuso. Svita il tappo di sicurezza, antimacchia del calamaio e ne riversa il contenuto della cartuccia lacerata. Suvvia è pronta. Intinge il pennino nell’inchiostro del calamaio senza sicurezza, e lo prosciuga sul foglio. Nel mentre del rituale, il dirimpettaio, non smembrato dal tavolino, ha osservato la grazia e l’avvenenza dei movimenti articolati di Suvvia. Incantato, non riesce a distogliere lo sguardo dal foglio una volta vergine, e pian piano intinto d’inchiostro. Il dirimpettaio è senza macchia e non elegge l’inchiostro scritto in inchiostro vocale. Allineata alle sottolineature dell’inchiostro trascinato dalle parole successive, il pennino asciutto a piè di pagina, Suvvia tira su il volto, il volto della pagina, prende fiato, dopo il mozzafiato e sente il fiatone del dirimpettaio. Egli le domanda: “Giungeremo mai a destinazione?” Suvvia, con un respiro inarca le labbra, si porta le dita alla bocca e, con garbo, inchiostra la parola orale: “Qual è il suo nome?” Di fronte a una domanda annerita, l’interlocutore prende un po’ di respiro e si adegua: “Mi chiamo Ovvio.” Suvvia risponde: “Ovvio!”
Il controllore
Un cestino dei rifiuti, uno scarto gettato. Uno scarto riciclato come residuo. Un residuo inutilizzabile e cestinato. Un oggetto di consumo, usurato dal logorio dell’impegno, oppone uno specifico rifiuto. Il disimpegno che confuta il differenziale e refuta il differenziato. L’oggetto di scorta alla cosa getta la o (ob) per il progetto della res, con riserva. In fondo l’usura del consumo dà adito alla misura della conservazione, ma l’usura e il consumo indicano il costume del fuori uso da rigettare. Un monouso, dopo aver adempiuto all’usanza, è nascosto nel contenitore del disuso. Un monouso non può soddisfare l’usanza comune e nel limite del singolare è nascosto alla vista. L’usuale contenitore dei netti rifiuti pesa e soppesa l’immondo. Il mondo del recupero si consegna all’abnegazione. Un oggetto valso a qualcosa, cede la quale cosa e si avvale dello stato di invalso. L’oggetto che si è avvalso dell’uso dell’oggetto è un oggetto invalso. L’oggetto che ha ceduto la validità della quale cosa è un oggetto recuperato. L’oggetto recuperato, nell’abnegazione all’oggetto avvalso, è un oggetto dall’uso smodato, al culmine dell’improprietà, da aduso ad abuso, è un oggetto abdicato. L’oggetto abdicato è fuori uso, fuori del mondo, immondo. Prima che gli sia rappresentato lo stato di immondo, l’oggetto deve necessariamente subire i aggi A e B dell’abnegazione e dell’abdicare, l’oggetto recuperato e l’oggetto invalso. Al controllore spetta presentare l’oggetto e rappresentare l’oggetto. Il controllore si presenta al cospetto dell’oggetto usato, aduso. Ne scorge i tratti conformi, la figura dimensionale, le modalità d’uso, il perché sia di uso comune, il come sia istruito e il quando sia imperativo, presso l’ordine. L’oggetto vale a qualcosa. Soddisfatte le condizioni, assegna all’oggetto l’incondizionato recupero. L’oggetto è gettato nel contenitore del rifiuto. Il controllore torna sui propri i, si piega sull’oggetto rifiutato. Rappresenta l’oggetto, si avvale dell’abnegazione del rifiuto, le condizioni dell’incondizionato recupero hanno fatto sì, hanno affermato l’uso dell’oggetto, la cessione della qual cosa, la diffusione dell’oggetto in più campi di utilizzo, l’uso è stato confermato dall’utilizzo. L’azione, l’utilizzazione dell’oggetto quale aduso, ha reiterato l’imperativo del quando nel tempo, imperativo ato, imperativo presente e imperativo futuro, compresso l’ordine, l’oggetto durevole nei tre tempi ha dilatato l’aduso in abuso. L’incremento d’oggetto nel tempo, nell’elastico di aduso in abuso, dalla presentazione alla rappresentazione si rifiuta di sottomettersi alla valutazione del controllore. Stabile nell’impiego, non subisce
oltre le valutazioni, nel periodo di prova ha accettato il valere a qualcosa, ma ora nell’affermazione invalsa non è disposto a recuperare e rifiuta la diapositiva, la dimostrazione di controllo. Oggettivamente, si rifiuta. Il logorio ha fatto il suo tempo. Il controllore fa materia locale al manuale del supervisore, paragrafo della cosa, articolo utensile per cestinare il rifiuto dell’oggetto. L’oggetto è il prestanome dell’oggettuale, è usura oggettiva che nell’attuale l’oggetto abdichi l’uso. Nell’attuale l’oggetto dall’uso smodato è un oggetto improprio, un oggetto che rifiuta la valenza di oggetto, non un oggetto che si rifiuta di sottoporsi alla dimostrazione di controllo. Il controllore, dopo esser tornato sui propri i, ritorna al cestino dei rifiuti. Revisiona l’oggetto quale fuori uso, fuori del mondo, immondo. La visione della res, senza riserve. Nel tratto immondo dell’oggetto il controllore ha contratto la propria qualifica, nei pressi del cestino dei rifiuti, getta l’oggetto fuori uso e rigetta il rifiuto. Si rifiuta di continuare, non può procedere oltre, ha gettato l’oggetto, è tornato sui propri i con abnegazione, recuperando l’oggetto e, certo di non aver più oggettività, abdica, è fuori controllo.
Antibiotico
Il corpo temperato è soggetto alle infiammazioni. Il corpo temprato è oggetto d’infezioni. Il soggetto dell’infiammazione e l’oggetto d’infezione coincidono nel contagio. L’incidenza del contagio infiamma la moderazione del soggetto e infetta la tempra del corpo oggettuale. Un soggetto patisce la pressione dei microrganismi, il colore rosso non discrimina la cute, il divenire rosso dell’epidermide è il segnale di resa, la superficie del corpo si è arresa al patire. Patire l’infiammazione è divenire rosso. Il rosso di una ione combusta su un corpo infiammabile. Un soggetto . La resa del corpo al rosso patire accende il soggetto. Un corpo è temprato, oggetto dell’invasione dei microrganismi, resiste. La tempra resiste alla lesta propagazione dei microrganismi, ma è affetta dall’insistenza. I microbi sono molesti, si disperdono nei centri nervosi della tempra e, con un attacco simultaneo, sconfinano alla periferia per accumularsi, ritrovarsi nei centri nervosi interni. Il corpo temprato, da resistente a affetto dall’insistenza, consiste in centri infetti. L’infezione del corpo è sintomo di un corpo oggetto d’infetta consistenza. Un oggetto consistente. Il patire l’infiammazione, il soggetto e il consistere oggettivo di un’infezione, l’oggetto consistente, coincidono nel contagio. Il contagio non si limita alla resa, al patire della superficie, distrae le periferie nervose per penetrare nei centri nervosi interni, dall’epidermide all’epidemia. Dal soggetto patito all’oggetto infetto, dal generale demotismo alla comune malattia. Il corpo, soggetto alle infiammazioni, è fatto oggetto d’infezione. Il corpo esposto alla malattia comune. Malanno perequante la condizione dei corpi. Patisce non solo l’affezione, compatisce l’infezione e nel contagio si ammala. Debilitato, attutisce la non abilitazione con la posizione supina. Accondiscendente al contagio, il corpo malato chiede un soccorso esterno. Ascolta la fine del moto e, pronto al concorso di soggetto e oggetto, si dichiara vinto dai microrganismi. Mette la parola fine al decorso della malattia con l’accettazione dello stato. Vessato dalla debolezza, inascoltato al pronto soccorso e anestetizzato nel pronto concorso di soggetto patito e oggetto infetto, sollecita un bicchiere d’acqua. Il liquido potabile cita l’antibiotico. L’inadatto malato vuole porre termine alla condizione fisica patita, infetta, con un atto di deglutizione. Il farmaco è un effetto, agisce come effettivo, si fa patire dal corpo come effettuale e infetta la contesa macromicro organica. Il contagio dell’antibiotico come termine della condizione fisica, sollecitato dall’acqua, converte il corpo al torpore. L’incondizionato antibiotico.
In apnea, al termine della condizione fisica, deglutisce. Narcotizzato, il corpo contagiato trascorre la convalescenza. Dal lento soccorso, al pigro concorso, al decorso della malattia, il contagio trascorre nella convalescenza, incorre in uno stato intermedio tra l’accettazione di un antibiotico e la precettazione degli alleati. L’effetto dell’antibiotico fa lega con il torpore, sostiene la convalescenza. Il rinforzo del biotico rinvigorisce l’anti e l’antibiotico fa il suo corso. Convalescenza che diviene la maggiore sostenitrice della condizione fisica in stato salutare. Cessato l’effetto, il corpo soggetto e oggetto ausculta gli organi vitali, misura la temperatura, tampona con un palmo di sollievo la fronte madida di pericolo scampato, indenne alla condizione fisica riverisce lo stato salutare, dall’affronto microscopico al balsamo macroscopico. Soggetto del benessere e oggetto dello stato salutare, ritorna all’indole ionale. Controindicazioni: è insano che un antibiotico ponga fine alle ostilità patite e infette per consegnare l’immunità del corpo allo stato salutare.
Falsariga
Composto, al fianco del personaggio ubbidisce il disagio del protagonista. La prima parte, assegnata al protagonista, rappresenta il dramma di chi deve occupare un posto. La deposizione del n-gramma. Posto che il personaggio è sempre numerato, s’impone la precedenza del primo venuto. In ordine di apparizione, il personaggio numerato occupa il posto numerico corrispondente al proprio numero. Il numero che il personaggio esibisce varia secondo la distribuzione dei presenti. Gli assistenti sono disposti in ordine di prenotazione su file numeriche coordinate al numero fisso del posto a sedere. In base all’interesse, coefficiente della prenotazione, il plauso dell’assistente nota la base assistita. L’assistenza della base annota l’altezza del numero, dell’esibizione del personaggio e dal nota bene del conteggio in piedi, computo del bis, risulta l’area del personaggio. Area retta, base assistita per altezza del numero, uguale a un angolo giustapposto del personaggio. Si denota la generalità dell’area e l’agio del personaggio nel sostituirsi ai presenti, nell’assistere il presente. Il personaggio potrebbe occupare l’intera disposizione dei posti, nella varietà del numero la base assistita si sposta sulle coordinate dei posti a sedere, l’annotazione dell’altezza numerata è direttamente proporzionale al plauso assistenziale. L’area del personaggio è parte di un totale imposto. La prima parte, assegnata al protagonista, potrebbe risultare occupata in area dal personaggio. Il numero del personaggio interessa la prenotazione dell’assistente in prima fila, posto numero uno, presente; la base assistita, uno, annota l’altezza del numero, in questo caso numero primo, prima esibizione, e l’area (base per altezza) aggiudica la parte corretta come prima parte. Il disagio del protagonista disposto al fianco del primo personaggio, fiancheggiatore del personaggio. Fianco a fianco, il personaggio e il protagonista formulano l’esposto alla direzione. Sottoposti al contratto, messi in riga. Sovrapposti, non sopra le righe, al corpo n. Gli assistenti sono la ragione e la direzione conferma la risoluzione come imposizione. Non c’è alcuna parte riposta, il calcolo è la perfezione dell’esibizione, fa mostra di sé, senza obiezioni. L’obiezione di coscienza è esonerata dall’esposizione predisposta. L’area del personaggio, numerata dai presenti, dagli assistenti, sostituente in possibilità i presenti, assistente in atto la revisione, ha la preminenza sulla prima parte del protagonista. Il regista della composizione propenso alla predisposizione, nonché alla disposizione del pubblico, riflette sull’incognita delle variabili. E ripensando all’assegnazione dei
posti, sottoscrive un’equazione. Trasposto, il protagonista, antecedente al numero, anticipa la disposizione dei posti a sedere. Si presenta sotto forma di incognita, è l’antagonista. L’antagonista soprassiede. Emula le possibili parti del totale imposto. Simula la disposizione dei posti, la base assistita, il nota bene del plauso assistenziale e l’altezza del numero, la varietà, la variabilità, la variazione dell’esibizione. Dissimula l’indisposizione, l’antagonista è indi-esposto. Nella successione delle parti la rappresentazione si rivolge al pubblico, coinvolge la posizione numeraria, travolge la contrapposizione della predisposizione dell’atto alla disposizione patita dagli assistenti. Non si svolge per nulla l’opposizione agire patire. La trasposizione dei ruoli e l’imposizione al pubblico muta in riposizionamento degli elementi, le parti e gli assistenti nella presentazione, presente-in-azione. Le prove procedono. L’autore non mette più in riga gli ausiliari della scrittura e i recettori della scrittura, sulla falsariga del già scritturato. L’autore non promuove la scrittura propria, la descrizione, disperde il ruolo di autore, esaurisce la scrittura. Tutto esaurito. La replica in interposizione.
Il settimanile
Camera oscura. La luce di sicurezza illumina un mobile. Un ingranditore percettivo fissa il mobile alla fotografia della settimana. Sette giorni in un periodo rimpinzato dal nome ordinale: dal primo giorno, lunedì, al settimo giorno, domenica. L’ordine dei giorni è attrezzato di negativi stampati sull’anteriore dei cassetti. Il negativo del giorno ordinale è la disposizione dall’alto in basso dei sette cassetti. Il primo, il cassetto del lunedì, scorre orizzontalmente al piano della domenica, estratto dalla cornice del mobile, mette in piena vista l’intimo quotidiano. Il primo giorno è tale in quanto punto di riferimento, termine di riferimento, della settimana lavorativa. Il lavoro comincia dal lunedì, comincia il lavorio sull’intimità e il corpo deve mostrarsi dal profondo. L’indole manifesta la nobiltà di sangue. Il sangue sottocutaneo non conosce pause, irrora la distribuzione dei muscoli, immuni alla fatica; lo sforzo è il picco, il culmine di un corpo esangue, la forza è la circolazione del sangue in un corpo immune. La vita interiore nella nobiltà del lavoro fa mostra di sé dal primo cassetto, dal primo giorno della settimana. Il secondo, il cassetto del martedì, stride con il ripiano superiore. Non scivola, così come nei presupposti, sui binari premessi, contrasta con il volume del lunedì e, disarmonico alla nobiltà di sangue, contesta l’intimità. Dalla nobiltà ematica alla nobiltà d’animo, fa mostra di sé l’animosità dell’incastro. La presupposta nobiltà di sangue fa posto alla nobiltà d’animo. L’animo di piano non può assecondare la scelta stilistica del primo piano. Insofferente al rivestimento del primo cassetto, sveste l’intimità come nobiltà di sangue per vestirla di nobiltà d’animo. Non sussiste l’armonia prestabilita del primo e del secondo cassetto, il calcolo è inesatto. L’esigibilità dell’animo consiste nel dissanguare il corpo per mostrare la vita interiore. Il terzo, il cassetto del mercoledì, è bloccato. Non si apre, nonostante l’impegno e l’intenzione di confutarlo. È il ripiano tumulato. Impenetrabile, nonché inespugnabile, in quanto decomposto. È tutt’uno con la struttura del mobile. Fa tutt’uno con la cornice del settimanile. Nel mezzo dei termini di riferimento è in materia prima, in massello, due piani al di sotto l’ultima altezza del mobile. L’intimorita comodità, il riserbo di uno spazio incosciente. Se volessimo scomporlo incontreremmo la riprovazione, e per di più dovremmo smentire la struttura del mobile. Il quarto, il cassetto del giovedì, è un tiretto in memoria del precedente volume incassato. Dimostra da sé e per l’antecedente la cessione di forza. La forza interiore va al di là delle leggi fisiche, delle leggi di o. Il
tiretto scorre che è un piacere. Il piacere di un vano scorrevole. Non incontra ostacoli e l’immagine nel vuoto di contenuto assolve la forma dell’aldilà. Derivato del legno, è una figura plastica. Modella il corpo con l’aderenza di un abito talare, tallone d’Achille per un corpo sfinito dai tentativi di scomposizione del mercoledì. L’al di qua del giorno anodino. Il quinto, il cassetto del venerdì, è intuitivo. Guarda dentro la settimana e ne avverte il logorio. Il logo della settimana termina di venerdì, il logo come quintessenza dei giorni. Nell’idealità del quotidiano il quinto giorno segna il sospiro di appagamento. Il soggetto dell’enunciazione: “Pagherei affinché la settimana avesse termine.” È appagato, la settimana, nell’intuizione del venerdì, termina. La quintessenza discorre con l’idealità e pone, impone il fine settimana. L’oggetto dell’enunciazione: “Riscuoto il credito” e l’enunciato è formulato. La formula dell’enunciato: il quotidiano paga il giusto l’ordinario. Il sesto, il cassetto del sabato, è la festa della rimembranza. È un cassetto sottoposto agli altri. Stipato di vesti per l’assieme delle membra del corpo. La rimembranza è la vestizione delle membra. Il corpo vaga nei locali adibiti all’adesione. I corpi infestati si dimenano a più non posso, sgambettano per la fortuna della scoperta, dondolano fino a dedicare al cielo il dito indice, madidi di sudore. Le vesti della festa, permeate, impregnate di sudore celebrano l’aderenza al corpo. Al sesto giorno, di sabato, il corpo è il festeggiato. Bisogna staccare la spina dal circuito lavorativo, celebrare il corto circuito del quotidiano come applicazione del salvavita. Il settimo, il cassetto della domenica, è il cassetto sovrastante. L’ultimo dei sette, il più basso del settimanile è il penultimo. Avverte con un colpo di reni di non contrarsi, irrigidirsi sul senso dell’ultimo giorno. La tradizione domestica vuole che la domenica sia il giorno del riposo, il giorno delle visite attese. Il penultimo non disattende i vincoli, offre alla vista e al tatto una fascia dorsale, esige l’incolonnamento. Si cautela con le conversazioni familiari che blandiscono, vezzeggiano l’intimità. La nobiltà di sangue congloba, si raggruma in superficie alla lacerazione della vita interiore. Star ritti e ritornare al primo cassetto. Aver sempre lo sguardo alto. Procedere a capo alto. La domenica non incrocia l’ultimo giorno della settimana, è il penultimo, il giorno zero della settimana. Camera oscura. Dalla luce di sicurezza emerge un mobile. La fotosintesi della settimana.
Prototipo
Al richiamo dell’impressione risponde la ripetizione. Influisce sulla percezione lo stato del percetto. Il percetto fa incetta della prensione. La prensione non riflette solo il tatto, flette il senso della vista, deflette il senso dell’udito, genuflette il senso dell’olfatto e dà senso al flettersi del gusto. La ricetta della prensione lascia uno spazio significativo all’apprendimento. Apprendimento senza apprensione. L’apprensione non riguarda lo stato del percetto, ma il moto del percipiente. La paura dell’urto, dell’ostacolo che il percipiente motiva nel percetto. Il percetto senza moto percipiente è stato, nel campo percettivo è motivato all’incidente. Incide come comprensione del percipiente che si avvicenda al percetto. L’accidente. Le vicende del percetto tamponano la fuoriuscita del percipiente. Le vicende del percipiente fanno atto di attrizione del percetto. L’apprendimento esercita le flessioni della sensibilità e le riflessioni contingenti della comprensione. In attesa della comprensione, la riflessione del contingente. Confluisce sulla percezione lo stato dell’affetto. L’affetto è immotivato, è emotivo. L’affetto è uno stato emotivo che desta un moto affettivo. Spinge, nella cosiddetta attrazione, un affettato nel senso dell’affettare. L’affetto opera l’incontro, l’affettato precede contro l’affettare, contro chi si assoggetterà all’affettare, l’afferente. Nell’operazione dell’affetto, l’affezione relaziona nel verbo reciproco l’affettato e l’afferente, ambedue affetti. L’affetto bifronte. La percezione del percetto e la concezione dell’affetto fanno presa sull’impressione. L’impressione percepita lascia la presa. L’impressione affettata rilascia la presa nell’espressione della ripetizione. Il tipo innanzi a cui l’impressione comprime il percetto e l’affetto si conferma. Fermo allo stato del percetto ripete il moto affettivo. Affermato nel moto percipiente ripete lo stato emotivo. Confermato nella percezione e nell’affezione. Il tipo dinanzi non a inosservato, non oltrea l’emozione. Il percipiente motiva l’ostacolo al percetto. Il tipo innanzi al percetto disturba il campo percettivo, è il referente dell’avversione. Inquadrato come avverso, irretisce il verso della percezione. Percepire in attenzione il verso irretito, il percetto circuente. L’ente percipiente ad onta della versione originale della percezione, è attento al circolo avverso, al percetto tipico. Il percetto tipico, anzi avverso, assume l’autenticità del verso. Verso il percetto l’ente è percipiente. Conversione del percipiente al percetto, percezione. L’affetto è demotivato. Il tipo dinanzi è motivo di avversione. L’affetto si desta nello stato emotivo, ridesta il moto affettivo. Non può rincorrere il motivo dell’affezione né
stare fermo in attesa dell’urto afferente. Messo in opera, l’affetto coniuga l’infinito, l’affettare. Gli affetti praticano la modalità infinita. La prassi concepisce l’incomprensibilità dell’infinito. L’affetto concepisce l’incontro con l’afferente e si compiace dell’infinito. È incomprensibile che la delizia dell’incontro possa ripetersi e nonostante l’avvicendarsi di percipiente e percetto, l’incidente della comprensione, che l’infinito sia coniugabile. L’affettato e l’afferente, ambedue affetti, sono in corrispondenza reciproca all’incomprensibilità dell’infinito. Se la reciprocità dovesse consolidarsi in una relazione confezionata su un’impressione depressa, sarebbe per l’incomprensione finita di uno dei due affetti. In effetti, l’impressione depressa è preconfezionata su una percezione e un’affezione con tanto di data di scadenza. Scade al termine del finito, il percetto frenato dal percipiente e l’affetto alieno all’affettato e all’afferente. L’incidente di percorso sarebbe un contrattempo sulla coniugazione dell’infinito e sul senso della prensione. Il prototipo è avanti la forma tipica dell’impressione, è anzi l’espressione della ripetizione. Il prototipo è nell’affetto dinanzi il percetto, nel percipiente dinnanzi l’afferente e l’affettato. Una figura che si fa largo nella forma, chiede spazio alle dimensioni per non sfigurare al cospetto dell’affezione, per non essere emarginata come uno sfondo su cui non fan bella mostra di sé i percetti, su cui le rimostranze della percezione trasfigurano. In prima istanza il atempo del prototipo arreca fastidio, nell’istanza reiterata al contempo diviene, fa impressione. Espressione di una ripetizione proto-tipica.
Smentita
Esprimo il verosimile. Prendo la parola. Simile al microfono, amplifico la parola. Simile all’amplificazione, diffondo la parola. Simile alla diffusione, la parola giunge ai recettori della lingua. Simile alla lingua, la parola raggiunge chi ha diritto di parola. Simile alla direzione della parola data, chi ha diritto di parola ha il dovere di ascoltare, per poi parlare. Prende la parola. Dichiaro il vero. Dichiaro l’intento del vero. Provo il vero: uno vero, tant’è vera la prova; due vero, non mi pare vero; tre vero, a dire il vero. Con l’intenzione del vero dichiaro che ciò che segue è, senza ombra di dubbio, illuminato dal vero. È vero che la dichiarazione è pubblica. È vero che il pubblico è testimone della dichiarazione. È vero che il pubblico ne compila un verbale, una citazione in giudizio. È vero che, di conseguenza, ne redigo un comunicato, di garanzia. È vero che dichiaro la mia estraneità ai fatti. È vero, dichiaro la parola, la comunicazione verbale, ma i fatti sono menzogne. La menzogna dei fatti è vera. Infatti, il fatto fraintende il vero. Il fatto è un attentato al vero. Simile al davvero? Simile alla negazione della risposta. Fraintende il verosimile. Il fatto è simile alla bugia. Vorrebbe mettere in luce l’estensione della parola. Il fatto è oscuro e confuso. La parola è inestesa. La parola è un intento, un’intensione. È vero che la parola eccita gli animi. È vero che l’animo incita l’altro animo. La concitazione. È vero che l’animo incitato, simile all’animo da incitare, citino in giudizio l’eccitazione della parola, ma è anche vero, soprattutto nel vero, che la parola è garantita dal comunicato. La difesa del vero all’avanguardia del nevvero. Una parola, sono nel vero. Dichiara il vero. Voi, recettori della lingua, volete prevedere la parola. Desiderate essere presi in parola. Voi volete ascoltare quel che vi siete predetti in privato. La parola non è privata. La parola è pubblica e non caccia la lingua. La parola è contro la caccia. La parola è animata dalla naturalità della catena tautologica. La parola è vera come è vera la barbarie della lingua. La lingua in cattività merita un decreto della parola. Il decreto della parola equipara il vero al bene. È bene che la parola non cacci la lingua. È di cattivo gusto fare le linguacce. Il peggiorativo della lingua preda la parola. È bene che alla lingua corrisponda il divieto di caccia, senza riserve. Voi, recettori della lingua, sfogliate le pagine di un vocabolario e assegnate alla parola i sinonimi linguistici. Avocate il bolo della lingua dopo avere masticato la parola. Fermi, la parola ha un solo significato. La parola significa il vero. Gettate i vocabolari, raccogliete i dizionari e ripetete la dizione del vero. L’accento del vero. Ascoltate
la parola pubblica, la parola vera e avrete diritto alla parola, avrete diritto alla pronuncia del vero. È vostro dovere affermare la cadenza del vero. Non infirmate l’addizione della cadenza. Vedrete che una volta ascoltato il vero, lo ripeterete nel vero. Simile all’ascolto del vero sarà il diritto di parola. Diritto di parola, vero. Una parola, il fatto ne è estraneo. Il fatto è esteso ai margini del vero. Il fatto si rifiuta di prendere in parola la parola. Alla prova dei fatti la parola equalizza l’uno, due, tre vero, nella n di infatti, nei fatti. Il fatto è diffidente. Confida nella falsità. Il fatto è infido, non concede neanche una parola. Impreca la parola alla prova dei fatti. Infatti. Il fatto è doppio, la parola è unica. Il fatto è falso, la parola vera. Il fatto millanta l’estensione della parola. La parola senza il fatto, sarebbe priva di senso. Falso, non è vero; la parola è significativa. Il senso è un atto di accusa del fatto. Il fatto accusa la parola di essere insensata. Il giudizio spetta alla parola, colpevole o innocente è il significato, non il senso dei fatti. Il senso è ambiguo come il qui pro quo del racconto dei fatti. L’esposizione dei fatti, spesso, utilizza il gioco della parola senza attenersi alle regole. È regola, è di regola che il fatto sia esposto dalla parola, ma l’equivoco vuole che la parola traduca il fatto. Il fatto si verifica allorquando la parola lo traduce, è falso; la parola deve essere tradotta dal fatto, è vero. La parola è vera così come il fatto traduttore. Invero, è accaduto che il fatto abbia tradotto la parola, sì, tradotto la parola e che entrambi, nell’anfibologia, siano risultati falsi. Sia il fatto traduttore, falsato, sia la parola tradotta, falsante. La tautologia del vero incappa nella tautologia del falso. Invero, fac-simile. È vero che la parola dichiara il vero. È vero che il fatto traduce la parola. Il fatto è vero. Il verbale pubblico cita la tautologia del vero in giudizio. Scomunica la tautologia del vero e comunica la tautologia del falso. È falso che la parola sia vera. È falso che il fatto sia vero. No, comunicato prestampato. È vero che il fatto sia falso. È falso che la parola sia falsa. Una garanzia, occorre una smentita. Invero, un fac-simile.
I rappresentanti di piazza
La piazza è il luogo cartografico posto davanti agli occhi. I cercatori di visibilità scendono in piazza. Navigati, districano l’incrocio dei topoi, controcorrenti ai venti di piazza, alle masse in aria di dimostrazione pubblica. Il topos del disimpegno obbliga i ricercati al centro dell’attenzione. Le ore propizie attendono l’idoneità dell’osservazione. L’appuntamento consuma le ore inopportune. Dalle strade limitrofe i ricercati giungono a destinazione. Con il senno di poi sono persuasi di aver compiuto il proprio destino. Dipoi il destinatario si sottomette, torna in senno dell’emittente. Convinto sennò la corrispondenza disperde il recapito. Sono sempre in numero dispari, si riuniscono in disparità. Il ricercato non è pari a nessuno. Dopo il saluto di convenienza, il bacio di riconoscimento e la stretta di mano di riconoscenza, il contatto li tratta da adiacenti, limitopi, sono piazzati. I piazzati sbadigliano sull’intempestività delle ore precedenti. La precedenza contende il di ora in ora all’or ora, tende a equiparare il ricercato all’indesiderato. Nel mentre degli impegni precedenti, l’indesiderato si adegua alla manutenzione del rimedio. Istruito all’esecuzione del piano regolatore, l’indesiderato rimedia agli spazi larghi con le concessioni edilizie. È occupato, l’indesiderato occupa un luogo prefissato. La manutenzione della città a o d’uomo, percorribile da un capo all’altro con la comodità degli spazi ristretti, impone la compressione degli spazi chiusi. La vivibilità di un luogo, per l’amministrazione, è pari alla chiusura degli spazi. Il beneplacito amministrativo è il benessere dei cittadini, rimpiazzati da un salvacondotto per le zone a spazio limitato. Tutto deve avvenire al chiuso dell’ambiente, e non alla luce del sole di piazza. Gli indesiderati ricevono i moduli di richiesta consegnati dai rinchiusi, dai rimpiazzati, e li approvano, per poi accumularli su un piano occultato alla vista. Le domande abbondano e le risposte si lasciano attendere. In piazza si ragguagliano sul numero di domande, certificato nell’intempestività delle consegne. Una consegna intempestiva delimita lo spazio da tempestare di licenze ermetiche. Le ore intempestive danno un che di inevaso all’ordine del rimedio. Si avvertono i rimpiazzati che le domande di edificazione in uno spazio libero non avranno carattere etico, più o meno che mai affinità estetiche, si adegueranno al giudizio dell’amministrazione concernente lo spazio da empire. I ricercati prediligono gli spazi aperti, le distese di sguardo, la distensione delle chiacchiere, la dilatazione dei gesti. Si siedono in circolo, ai piedi di una statua ignota. È architettonico che le piazze siano
sorvegliate dal marmo di un grande uomo. Si guardano l’un l’altro e poi riguardano intorno. Hanno da compiere un destino e da evadere il rimedio. In piedi raggiungono l’orlo della piazza, dove le prime concessioni edilizie abusano dello spazio. Il condono dello spazio ristretto. La piazza ignota tende a mutare in un largo noto. Un aparola si è sparso nella quadratura del cerchio, armare il destino. I cercatori di visibilità sono muniti di picconi e piccozze e con una cadenza ritmica che si attiene alla tonalità dei clacson, le arterie spiazzate sono trafficate, abbattono l’estensione dello spazio sull’abusivismo dell’ambiente chiuso. La piazza sembra riprendere il respiro dopo averlo trattenuto per non occupare troppo spazio. Lo spazio chiuso, pronto a mutare in largo, ridiviene slargo. La piazza connota gli ampi spazi. La piazza denota lo spazio spazzato via. Il fervore del lavorio spaziale e del ritmo di percussione ha distratto i cercatori di visibilità dal diradarsi del traffico. Le forze del rimedio hanno percepito il suono delle piccozze, il frastuono dei picconi e, anche grazie alla visibilità riacquistata dallo slargo, accorrono nello spazio aperto. Le forze del rimedio spiazzate dalle plurali piazze, misure della posizione sull’orizzonte, oltreché dalla piazza pulita, vorrebbero restringerne il perimetro, con la formazione in assetto extrametrico. I cercatori assumono lo status di ricercati e fuggono a gambe all’aria, rifuggono l’evasione. È uno spettacolo meraviglioso per gli amanti delle rappresentazioni su larghi spazi, i piazzati. Il grande uomo di marmo, con l’ausilio delle tenebre e dei fiochi lumi artificiali, fa ombra ai suoi sedentari, rendendoli, nel punto, ignoti. La ricerca delle forze del rimedio si conclude per la sopraggiunta oscurità, si sentono estromessi, isolati in uno spazio chiuso e ritornano alle spiazzate arterie principali, spiazzati. I cercatori del visibile, oramai ricercati, giusto in tempo piazzati, riposano ai piedi della statua ignota, che dà nome alla piazza, appunto. Piazza dell’ignoto.
Abbandono del verbo coniugato
La voce del verbo confessa la relazione illecita in modalità del participio presente. Il verbo dislogante. Il verbo sommesso disloga dai quattro modi, i modi domestici – indicativo, congiuntivo, condizionale, imperativo – per logare il tempo presente del participio. Categorico, ignora la modalità addomesticata. Fa in modo che l’azione non sia riferita alla docile finitezza. Indomito, si concede alla modalità infinita. Il gerundio è perverso, l’infinito combacia per converso. È tempo di accedere al participio. Un tempo presente e non comato, né riato per il presente ato. I modi finiti, quieti, non hanno acquietato il modo di fuga, l’inquietudine è, in grammatica, presente. Il comodo a farsi lascia il posto all’incomodo ad analizzarsi. Il participio presente è predisposto per mutare in sostantivo, aggettivo e avverbio. Evade dalla disposizione proverbiale, dal quieto vivere degli avvisi per una fedeltà alla composizione, verbicausa, di prima, seconda o terza coniugazione. Composto, il verbo bacia i tempi composti, figli desinenti di un rapporto a lunga durata. Trasposto, si commuove, sfiora la coniugazione, compagna dei tempi ati, si svincola dall’ausiliare, precettore dei figli, e, presente in forma, scrive sul biglietto di commiato: andante. Andante ma non troppo – gli eredi adotteranno l’inflessione e il ritmo della voce del verbo, rilevano la flessione del verbo, con l’ausilio dell’aver avuto e dell’essere stati. La consorte coniugherà nell’analisi domestica, la temporalità dei modi finiti. Durante il presente – trasmutante l’azione da temporeggiante in presente, nel continuo del presente. Da logos a logante – enucleante i molteplici significati del logos nel verbo logare al participio presente. Logare: are da un’azione all’altra nel medesimo tempo presente, nel fra tempo, traare nell’azione, frazione. Partecipante del presente – non concorrente di una gara a tempo perso, intervenente in un tempo continuo, ripudiante il quotidiano e la verbigerazione riata. Assistente – ponente in scrittura l’atto di plagio dell’azione, l’atto plagiante l’azione, scritturante il plagio dell’atto in potenza di un’azione traante, di una frazione. Azionante il aggio da un’azione ad un’altra, la frazione senza finalità, l’azione non frangente la perdizione, la frazione infrangente la quotazione della denominazione e della numerazione. Le finalità quietanti i modi finiti e inquietanti i modi infiniti. Le finalità e le modalità assenti. Spaventante la durata. Non è fermo alla composizione della durata, non perdura nel tempo indicativo, non che duri nella congiunzione al contempo, nella condizione dell’in tempo, nell’imperativo dell’ordine, dell’ordinazione
temporanea, nell’infinito estemporaneo, nel gerundio del temporeggiando, nel ato temporizzato. Temporizzare la voce del verbo nella successione dei tempi è un indicativo categorico, indica la cadenza, la pronuncia, l’altezza della voce su una base riverberata, area verbale. Temporizzare la voce del verbo in una processione dei tempi, nella soggiunta secessione, è un congiuntivo categorico, si coordini, si accompagni, si congiunga la voce alla preghiera del chiaro verbo distinto. Temporizzare la voce del verbo in una cessione dei tempi è una categoria condizionale, cederei il verbo a condizione che sia un verbo composto, che rimanga al proprio posto. Temporizzare la voce del verbo in un’accezione del verbo al soggetto come pronome, è un imperativo categorico, il tu devi, tu devi al pronome il tuo verbo, l’io devo, io devo al pronome il mio verbo. Temporizzare la voce del verbo alla concessione dei tempi è un infinito categorico, concedere la causa prima, l’efficienza dei modi infiniti. Temporizzare la voce del verbo all’eccezione dei tempi è un gerundivo categorico, essendo l’incipit correlato alla finalità della causa prima. Presente nella durata, durante. Presente alla durata, perdurante. Compresente come participio della durata, infradurante, sulla soglia del predurante, sull’uscio del produrante. Nel fra tempo, in frazione. Una durata presente che schiarisce la voce del verbo all’ente, innanzi all’io sono e all’eccetera dei modi finiti e infiniti nei tempi semplici e composti.
L'altro sesso
La sessitura è la piega cucita in parte sull’intimo, in parte sull’esternazione. La piega dell’intimo scorcia il costume, è una scorciatoia per la circonvenzione dell’arto. L’ileo, l’ischio e il pube rivestiti dell’usanza si chiudono in una stanza privata, o stanzino, per ridurre l’ostensione delle spoglie scostumate. Sotto spoglie provate il costume è indossato e segnato come guaina pelvica. L’inguine è idiosincratico all’adesione e manifesta l’eruzione cutanea. Denudato e infiammato piega i lembi del costume, gli orli, e in piena dermofilia accorcia il costume. Le mani di scorta al sesso, attente a che l’indiscrezione della visione d’insieme non espropri, con sufficienza, la spoliazione, limitano la nudità alla dermoprotezione del dimorfismo. Provato il costume e raccorciata la stoffa che tesse le lodi d’onore al corpo, la nudità si delimita alla periferia del sesso. Ignudo è il corpo limitrofo alla cintura costumata, ritroso alla dermoesfoliazione. Un tronco sfacciato e delle gambe appiedate. Denudata la vita dalle bassezze sessuate, la sessuomania cautela, con la superstizione della generazione, l’epidermide pelvica nella tradizione del miracolo, il miracolo di un nascituro. La copula sessuale deve procreare l’ente dall’essere. Un accento sugli animalcula e sugli ovociti in ausilio dell’essere. L’essere procrea l’ente. L’accento della copula scompare nella congiunzione dell’onanista. La dissoluzione, le mani licenziose e il malcostume del sesso peccano di una generazione privata, di corruzione. Privata della copula, la congiunzione dilapida il patrimonio genetico per la lubrificazione della periferia scostumata. Il malcostume della prova, dell’affinità organica. L’essere niente. La cinta costumata deve divenire incinta, prepararsi al movimento di nutazione e la sessitura non le è d’ausilio, di primo acchito svelerebbe un lembo di pelle che non fa una piega per la procreazione, ma ad uno sguardo attento si nota che spiega solo la ricreazione dei desnudi. L’orgasmo, il piacere dall’accento acuto, priva la copula del grave, del peso specifico, del peso della specie. La ricreazione dei desnudi non ha nulla a che vedere con la riproduzione dei costumati. Nulla si deve prevedere della vita denudata. La ripiega dell’esternazione è parte del consesso. Il consesso è la modalità della coppia. In costanza, è la coppia di corpi che dà vita al sesso. La coppia vestita induce i corpi a ripudiare gli indumenti, piegati coppia a coppia. Le costanze composte di vesti ombreggianti, impermeabili agli agenti atmosferici, alle norme del corpo e immuni alla patita lascivia, ritornano alla semplicità della spogliatura. Le
costanze composte non fanno il paio con gli indumenti spiegazzati. Le costanze semplici s’ingraziano nella coppia, di stanza nella coppia, si accoppiano. L’attributo della costanza semplice è il sesso. Il sesso attribuito, per non rimirare la composizione della costanza vestita e indotta, la costanza composta, è desnudo. L’attributo è conseguenza della semplicità e segue la premessa della costanza semplice. Le due premesse delle costanza nella conseguenza, conclusione dell’attributo, formano la silloge della coppia. Accoppiarsi per fiancheggiare la particella pronominale riflessiva, reciproca e impersonale, si. Affermazione della coppia senza accentuazione. È necessario che le costanze semplici si attengano alle premesse, alla forma della sillessi, per non assumere lo stato di costanze composte. Dal consenso della coppia attribuito alla costanza del rapporto, segue di necessità virtù la modalità del consesso. Il consesso, impossibilitato al vizio, esterna la piega della sessitura. Il costume ristretto al cinto pelvico si esterna nella relazione dei sessi. I sessi aventi in costume la denudazione della vita dalle bassezze sessuate, si avvicinano nel contatto dei costumi. Il consesso costumato struscia le pieghe della tessitura interna sulle pieghe della tessitura esterna, stropicciare. L’azione esterna, l’esternazione è parte di un tutto travestito nell’intimo. La coppia di costanze nella modalità del consesso si compenetra alle usanze costumate. Usi e consumi di una modalità. Il travestimento della vita sull’epidermide pelvica sfila sulle pieghe dell’intimo e dell’esternazione, non per mostrare l’armonia della nudità, viceversa, per ricoprirla di costumi, relegarla ai margini dell’ignudo, del desnudo e subordinarla all’epicentro del denudare. Il malcostume della generazione e della corruzione è fuori da tutti i costumi, sia gli integrali, sia i ristretti.
Portavoce
Il carme ben dispone la voce. La voce s’intona al canto accattivante il respiro della laringe. La formula laringea incanala il sillabario nella dilogia. La voce dà il la al coro. La formula laringea convoglia la malia dell’epifora, l’ammaliamento dell’anafora, la maliarda simploche. L’esercizio del respiro nella voragine che ripete il rito della voce interiore, dell’apparato respiratorio che, fra l’espirazione e l’inspirazione, invoca l’abbecedario, è coesivo di una ripetizione. Tra l’altro la petizione di principio non è una competizione. Le corde vocali vibrano l’aria dell’opera, l’anadiplosi duplica, l’epanadiplosi raddoppia, l’epanalessi riprende il vibrato per l’immediata epizeusi, la voce evocata. Revocare la voce è l’esercizio del gorgheggio che sfigura la ripetizione. La competizione di principio del velopendulo. Avocare all’ugola il pregio, la reputazione, la sicumera delle corde vocali che consentono il balzo dall’evocazione bronchiale, risonante, all’invocazione accordata. La sinecura di un’ascensione d’aria che ritorna, il ritornello dell’opera. Il sobbalzo di sicurezza che salta all’udito. La glottide che scandisce il tempo e non il vocoder che dirige la banda del vocio. Il risalto della voce accurata. Il rincuorato dal cuore d’oro avoca l’ugola d’oro. Il rincuorato è portavoce dell’ugola d’oro. L’ugola d’oro suona il vibrafono, la fonia della lingua percossa. La lingua è inquieta, non resiste nella cavità del palato. Urta convulsa i denti, un’agitazione molare, un disordine premolare, una spinta irrequieta, incisiva sulle labbra socchiuse. Una lingua priva di giudizio. L’eufonia dell’ugola d’oro si accompagna alle note dell’ugola indorata. Uno spiraglio si apre tra le labbra dischiuse. Le labbra dorate, custodi dell’ugola d’oro e le labbra adorate in dote all’ugola indorata, si avvicinano nel sentore del respiro comune. L’aria viziata dal contatto delle pieghe cutanee è un refolo delle ugole preziose. La bocca che trattiene la trepidazione della lingua, è colta da stupore, aperta all’adorata lingua, ne agevola l’evasione. L’asfissia convoca la respirazione bocca a bocca. Le lingue si incrociano, in parola di un contatto vertiginoso. Il vortice è un intatto movimento centrifugo dall’inquietudine linguacciuta, è un movimento centripeta verso la quiete linguale. Il respiro trattenuto rilascia la rievocazione di un affanno senza voce. Dal senza fiato del primo bacio all’affanno dei baci in seguito, di seguito. Consegue il bacio vibrato e il bacio tremolo. Un contatto di lingue, mozzafiato. Nel riprender fiato, l’ugola d’oro vorrebbe ascoltare la modulazione dell’ugola indorata, ma non riesce a articolare la vibrazione. L’indorata, dalle labbra
adorate, si presenta con il nome di Raucedine. L’ugola d’oro, nel tratto di tempo adorato, soggetto alla ione, è oggetto del rincuorato, del portavoce. L’ugola d’oro è incantata. Il portavoce, il rincuorato fa i conti con la propria ugola, ne adatta il timbro, rende atto alla frequenza, ne tempera l’inflessione e la cadenza sui toni dell’ugola d’oro, senza intensità. Versatile, è un’ugola di cuore. Palpita, il rincuorato, e esprime, esegue l’accordo. Diatonico nel grado del falsetto, non risalta la voce accurata. La sinecura è ridotta all’osso, l’ascensione d’aria che ritorna, il ritornello dell’opera è a rischio scivoloni, stonature e immobilità della stecca. Per evitare l’equivoco cacofonico, la dissonanza fonica, il trillo delle note, il rincuorato estende l’opera in operazione. Biunivoco, con il cuore in gola, non a da un tono all’altro, altera il tono con la distonia. Il rincuorato potrebbe assumere il registro, il tenore del ventriloquo, ma la voce sarebbe di ventre. Una voce senza le labbra dorate, custodi dell’ugola d’oro. Una voce digerita e non una voce di cuore, da rincuorato lo si nominerebbe metabolita. Il rincuorato disincanta con le frasi fatte. O miocardio; soffia dal cuore la voce del rincuorato, il cardiotonico giunga alle labbra dorate, non digiambico, promemoria del rapsodo … O epicardio; che la voce del cuore sia importata dall’ugola d’oro, franco compulsa, al padiglione … O .. O endocardio; che l’orecchiabile ribatta a tempo di martello, la tromba di Eustachio non senta il cuore in gola, che la ridorata esporti l’intonazione della voce nel ritornello, il ritornello del portavoce, compunto non bifido.
Una mano - la dizione del gesto
Congestionare. Il gesto dà consistenza alla parola. La parola proferita, la parola che inferisce dal suono del segno il disegno del significato e il quadro del senso, riferisce il proprio destino alla spinta del gesto. Il gesto dà una destinazione alle parole. Il destinatario delle parole comprende nel proprio gesto la gestione dell’oggetto prensile. L’oggetto prensile, la cornice del disegno nel quadro, affisso, con l’articolazione della mano, sulla parete delle funzioni semiologiche. Non la chiromanzia delle linee morfematiche e fonematiche, di mano in mano grafematiche, la commisurazione in pollici, diagonale in punta di dita. Il destino della parola comunicata, sotto la spinta del gesto, fa presa nel gesto con cui il destinatario raccoglie la comunicazione. L’oggetto della comunicazione è la parola presa. L’oggetto compreso è dimostrato dalla parola appresa. Il rigetto dell’oggetto non è una parola rigettata, o forse è in proprio una parola rigettata, presa in palmo di mano, sotto la spinta di un’impresa, e gettata per la difficoltà dell’impresa, rigettata come una babele, per lasciar posto ad una parola convergente, una parola da prendere nel verso giusto. Ma la parola rigettata è una parola rappresa, una parola ingestibile che può sempre far presa nel gesto. Le possibilità del gesto assentono a che la parola rappresa abbia il tempo della rapprensione. Il gesto impugna solo la parola incompresa, la parola in assenza di destinatario, la parola sconosciuta alla res capita. La parola riflessa alorap, l’arolap che per consistere abbisogna delle gesta e non del gesto. La parola insiste ma non prende. La parola insiste ma lascia il tempo che trova. La parola insiste ma rilascia solo incomprensione, una parola che evita la manomissione. La manomissione è il gesto che destina la parola. La dizione della parola è taciturna, è in attesa. È una parola in teoria, una parola che, in fila, attende il proprio turno. Tacita, senza rimostranze, attende il gesto e cita la propria parola. L’addizione del gesto, l’ad (l’a-dito) come il verso, giusto in tempo del destino, la dizione del gesto. Il gesto ripete l’implicazione della parola, compete al gesto duplicare la dizione nella parola gestuale, la gestione della parola. La ripetizione alligna la dizione, il gesto è perdizione. Il verso, giusto in tempo del destino, indica. La manomissione indìce come gestore il dito indice. Il gesto manuale è semplificato alla direzione del primo non opponibile. La dizione della parola, l’addizione del gesto assumono, nell’esposizione dell’indice, l’indirizzo, il valore della funzione. L’indice attesta la direzione del destino, il senso del destino e segnala la giusta posizione del quadro sulla parete delle funzioni
semiologiche. L’indice ha anche l’ottemperanza di mettere all’indice la parola riflessa, l’arolap. La competizione circa quale gesto debba segnare il punto di affissione, il punto di maggiore presa sulla parete funzionale, consegna l’indice come indirizzo, al medio come punto equidistante dalla perdizione e dalla condizione. La condizione è la dizione giunta a destinazione. Il medio assegna al quadro del senso il punto in questione, sulla funzione semiologica, su cui si regge la presa. Il punto in questione è, sulla figura della funzione, il disegno del significato. Il medio disegna prima il significato, lo fissa alla parete, constata che sia nel verso giusto. Poi, al disegno sovrappone il quadro del senso e al verso giusto si aggiunge il tempo della destinazione. La tradizione della parola, l’addizione del gesto nella condizione del destino, della destinazione, congestionano la parola. La parola fa presa sul destinatario a condizione che il gesto congestioni la comunicazione. La consistenza della comunicazione, della conversione al destino. Tra l’indirizzo e la mediazione la destinazione è compiuta per il verso giusto. Il segnale d’allarme, l’emergenza che interpreta giusto in tempo le prime avvisaglie del quadro manipolato, malsicuro, scatta nella previsione dell’anulare e del mignolo, i congestionati. L’inclinazione della parola provvede a che la conversione si declini come conversazione. Il pollice è ingiusto, opponibile e inverso, non gesticola. Dammi una mano, enuncia la parola. Il gesto è la mano del destino. La mano in-di-gesta al destino.
Il luogotenente
Genius loci, tenete a mente. Il comando è mantenere la posizione. Un drappello di soldati sconfina in un luogo sconosciuto. Non segnato sulle mappe al dettaglio dei soldati in avanguardia, il luogo è omesso. All’appello del drappello, un soldato consiglia il non luogo a procedere, ma gli ordini sono chiari, una volta raggiunta la posizione è doveroso mantenerla. Il soldato è l’unico e solo dato del luogo. Il soldato è adatto al luogo. Numerare nel particolare i soldati è abbastanza frazionario, nel generale i soldati sono nel numero del drappello. Mantenere la posizione significa ricondurre il luogo sotto l’egida dei punti cardinali e dello spazio di tempo giornaliero. Prenderne possesso significa appostarsi e mimetizzarsi nei punti cardinali e nello spazio di tempo giornaliero. Ora, nel generale, i punti cardinali sono più facili da coprire per il numero dei soldati, lo spazio di tempo giornaliero necessita di dodici soldati prima del mezzogiorno e dodici soldati dopo del mezzogiorno. Il soldato è nella gerarchia militare il chiaro, l’unico e il solo dato e, in quanto tale, può e potrebbe coprire lo spazio del giorno prima del mezzogiorno, il dopo del mezzogiorno richiederebbe una doppiezza del soldato, il che equivale ad una diserzione. La legenda del luogo sconosciuto rimanda lo spazio di tempo dopo del mezzogiorno al milite ignoto. Le consegne del soldato sono di rispettare l’uniforme. Il soldato è a guardia del dato, si serve del dato per uniformare il luogo alla solitudine della piastrina di riconoscimento. Il soldato è consolidato come professionista del riconoscimento, in guardia a un luogo, di guardia nella solitudine, rapporta il dato della sola attitudine al mandato scritto e firmato nel registro delle presenze, la generalità letta dai superiori e confermata come postazione fissa in un luogo. Luogo che, al cambio di guardia, verrà incorporato nella carta strategica, nel confine, con la bandiera dello stato piantata nella terra. La terra sconosciuta sotterrata dall’alone geometrico di un emblema. Lo stato che soppianta lo sterrato, che interra i colori dell’insegna. Il superiore instrada, indirizza sulla via maestra che al silenzio cala la bandiera e l’inanità del perimetro, dell’alone geometrico; è lo spazio di tempo giornaliero predisposto al milite ignoto. Il drappello si sparpaglia nel luogo sconosciuto, copre i punti cardinali e attende l’ordine. Il tempo si sa. L’ordine non giunge. Il sole non tramonta. Il sole non sorge. La stella polare è invisibile. La croce del sud è contro sole. L’ordine ritarda, le ore sono ferme all’ombra del prender possesso, la rifrazione del mantenere la posizione, al grado zero dello gnomone. I soldati, in piedi, sostenuti
dalle armi di ordinanza, dei fucili dal manico ergonomico da tenere sottobraccio, tra il braccio e la spalla, armi portatili, con le canne ben piantate in terra, a sostegno del suolo patrio; si coordinano al luogo. L’insegna del soldato, dell’unico e solo dato, si contrassegna per le coordinate cartografiche. Il soldato prende dalle tasche mimetiche dell’uniforme un foglio di carta e una penna consunta, insegna al luogo la grafia e insieme si coordinano nel segno della cartografia. La coordinazione prima esercitata dalla grafia e poi dalla composizione della carta, stuzzica la sete di conoscenza del luogo. Il luogo sulla carta, segna, in bella grafia, la disposizione del piano terrestre, una disposizione sconosciuta, delle linee in risposta al punto in questione, il punto della risposta è non allineato, né delineato, è lineare. I soldati ricordano il consiglio consolidato del non luogo a procedere, ricordano, nonché, l’ordine di mantenere la posizione, ordine intervenuto prima del nuovo ordine, e ritornano al drappello. Il drappello prende posizione e staziona nel luogo sconosciuto. Altolà! Il soldato si sente assoldato dal luogo sconosciuto per attenersi alle linee. Il soldato non è adattabile al luogo. La risposta al nuovo ordine è una linea di condotta che riconduce il luogo sconosciuto al luogo disconosciuto. Il soldato perde la posizione, si ritira dietro le linee e disorientato, dissotterra lo sterrato, da unico e solo dato del luogo diviene il longilineo, longitudinale alle linee.
Apocatastasi
Genesi, in principio sarà stato l’incipio. Il sarà del cipio si comporrà dello stato anteriore dell’in. L’in sarà stato, in quanto, essente stato, la quantità dell’in. Il cipio sarà, nel futuro stato, la qualità dello stato. Uno stato, lo stato del principio avrà avuto dalla sua il precipuo. Il cipio è la creazione del pio. Il pio è solo. Anagramma il suo nome e ne risulta il poi. Il poi rimanda alla composizione in un tempo successivo. Il poi del pio comanda un ulteriore anagramma. Dal poi ritorna il pio. Il successo del pio dall’accesso al poi. Il pio, prima dell’anagramma in poi, e l’anagramma successivo al poi, il pio. I due pio, non sono la medesima trasposizione, il successo del pio non concede la frapposizione. Un pio è nel tempo pre-anagrammato, l’altro pio è postanagrammato. I due pio occupano una grammatica generativa, che si arrende all’identità del pio, in assenza di principio, o rende l’identità ai due pio e, identità per identità, nella comunanza, fanno comunella. La o è riempita, il cerchio vuoto è punteggiato dalla nera membrana dell’indifferenza, della non differenza. La o è una macchia per la circonvoluzione dei pio. Immettere un punto alla devoluzione del cerchio, una linea puntata, la i. I due pio decidono, all’unisono, di reiterare la i. Premettere alle i i puntini. I due pio sono i pii. I pii estendono l’anagramma dell’in poi nel dipoi e la comunione dei pii è un bene, la comunione dei beni, dipoi il processo del bene. I pii contrassegnano l’età con l’unità della pietà. La pietà come unità di misura delle età, rapporta il pio e i pii alla rassegna della pia e delle pie. L’eccesso della serie. La pia e le pie sono il perbene divisibile nella comunione dei beni, nel processo del bene. Il bene in genere. È sempre il femminile che ragguaglia sul numero, che dota una serialità al numero. Una generazione di pii si commisura al cipio. Nel cipio i pii anagrammano la paretimologia del pio. Il tropo pio, non traslato, in anagramma perde la p per un difetto di nunzio, e per conservare l’allotropia del noi. Noi conservati, ci preserviamo nella particella pronominale, nel ci. Noi nel ci. Nel cipio ci siamo, una volta pii, e ci riserviamo il poi. La qualità del cipio, la qualità dello stato, la qualità del pio, poi nell’anagramma, dall’in poi del cipio anagrammato al dipoi della comunione dei beni e della rassegna, la pietà, la generazione dei pii ci riversa il noi. Il recesso del pio nel noi. Il noi della quantità, la quantità dell’in, dell’incipio. Anteriore all’incipio, al futuro dell’incipio ci sarà stata la palingenesi. La palingenesi del pre. Nel pre dell’incipio, la e lascia spazio alla i. La i omessa, la e dimessa, la i rimessa. Dal
tempo dell’incipio allo spazio del principio. La e del pre si elide, si corrompe al contatto della generazione dell’incipio. In principio la corruzione della e avrà generato l’incipio. La e sarà corrotta dall’incipio per generare il principio. Lo stato del principio sarà stato il principio destato come qualità. Lo stato dell’in principio sarà stato la quantità di principio destato. La quantità del noi destata al ci saremo della palingenesi, ci saremo destati dalla corruzione alla generazione del principio, ci saremo stati. La qualità del noi si atterrà al destarsi al principio del futuro anteriore, si rimetterà alla traslazione del ci nel si irriflessivo. Il si irriflessivo della corruzione del noi per la generazione del destarsi. Il si irriflessivo irrelato al riverbero dello stato, il destato. Il si irriflessivo della generazione del noi dell’incipio per la corruzione del ci saremo stati in principio. Dallo stato correlato al riverbero irrelato dello stato, il sarà destato. Lo stato del principio avrà avuto dalla sua il precipuo, in principio destato. La ricreazione del pio, della ripetizione (anafora, diafora, epanadiplosi, epanalessi, epifora, simploche), dell’eppoi, della pietà, dell’allotropia del noi, del futuro dell’incipio, della particella pronominale traslata nel si irriflessivo, ritornerà nell’anteriorità della palingenesi, nel futuro anteriore del pre dell’incipio. Dallo stato al destato, dal destato al ridestato: l’apocatastasi.
Eccepire
La capienza di un vuoto. Consegnare i vuoti, dopo aver acquistato e consumato il pieno. Il consumatore al risparmio compera appieno il bene. Il bene circondato dalla materia prima del vuoto. Il bene in piena è consumato per arginare le derivazioni della materia seconda. La materia seconda erompe dal vuoto della materia prima per contenere l’inquietudine del materiale. Il consumatore è materiale, si siede ai bordi del bene e attende. Se attende con l’utensile, reperisce la materia seconda, il bene di consumo. La derivazione che finisce la materia prima. Invece, se intende la posizione di comodo come attesa della consunzione, percepisce, a fior di materia, il vuoto. Il materiale asseconda la materia. Una volta consumato il bene, consegna il vuoto della materia prima al materializzato. Il materializzato è il venditore delle materie e il renditore del vuoto. Stipula la resa alla materia prima, la concordia della resa del vuoto. Il consumatore finisce la materia, ma con un colpo di grazia è convinto di risparmiare il vuoto, la materia prima. Senza colpo ferire riconsegna il vuoto al materializzato. Il materiale si è materializzato nello scambio delle materie. La materia prima e la materia seconda, nella derivazione, consumano l’assecondare materiale, finiscono per valutare l’ordine di consegna, prima la materia seconda da svuotare e poi la materia prima da riconsegnare. La materia prima e la materia seconda, nella riconsegna, si arrendono al vuoto, al vuoto della materia prima, appunto perché non più secondata, venduta come seconda e acquistata in quanto prima. La compravendita finisce per consumare la materia prima e tradire la materia seconda. La compravendita non è delatrice della materia seconda per il prezzo rimborsato della materia prima, è l’adire, la voce chiara e distinta sul contratto materializzato. Il materializzato vende al materiale l’ordine delle materie, la prima e la seconda, ed è disposto ad acquisire il costo della materia prima riconsegnata per rimetterla al ciclo materiato. I tricicli della materia alternata, prima – seconda – prima; seconda – prima – seconda. Il vuoto restituito istituisce il bene a rendere, l’a buon rendere. Il consumatore del bene risparmia il buono rendendolo benaccetto. Il materializzato, alla deriva del ciclo materiato, conclude il negozio del beneficio. La consumazione è un intervallo nel ciclo della materia, non prevede materia prima e materia seconda, è l’azione di una materia che consuma il materiale. Il sottovuoto è una materia collusa. La collusione della materia che conserva una vaga idea di immateriale, che divaga nell’immaterialità. Il vuoto è vuoto d’aria, è un falso vuoto secondo la teoria
consumistica, il vuoto è in base al principio di svalutazione, il punto zero dell’aria. Il primo punto della collusione, del principio di svalutazione, vuole che l’aria sia privata, che sia preceduta dal segno negativo. Nel sottovuoto, la materia conserva l’aria preceduta dal negativo. Il consumo a misura zero d’aria e la conserva che precede in negativo lo zero dell’aria. La collusione della materia, avversa all’aria, che nella materia seconda riversa l’aria per il punto zero della materia prima, è nel verso negativo, o, secondo i materiali, è nel controverso, della materia conservata. Il materiale obietta al sottovuoto che una materia priva di ordine, una materia conservata, è una materia incipiente. La materia, nel ciclo materiato, è recipiente. La materia, nel sottovuoto, è incipiente. Il materico, il colluso della materia, contro obietta che il vuoto è una materia non prima, ma eccipiente. È una materia che abbisogna di un ordine successivo di materia per essere riempita; una materia insipiente, nonché prospiciente il bene. Le riserve di materia per ripianare le obiezioni del materiale al sottovuoto, per appianare le contro obiezioni del materico al vuoto, si depositano nella massima del percipiente, la materia non raccoglie obiezioni. La materia non eccepisce.
Tuttofare
È un affare incontrare il tuttofare. Il fattore partecipa il fatto. Inoltra l’offerta del fatto. Offresi lauta ricompensa a chi esegua il fatto, esclusi contraffatti; segue l’effetto del fatto. Il tuttofare, che insegue l’effetto, ad oltranza, compone l’antefatto e fissa, sotto forma di appunto, il difatti dell’incontro. Il fattore non è un benefattore, infatti l’incontro di domanda e offerta del fatto avviene in un giorno fattivo. Il colloquio ha un che di fattibile. Il fattore mette alla prova il tuttofare con la domanda: “Che diamine ci fa qui?” – “Nella fattispecie, sono per compensare il fatto.” La risposta assume le fattezze della domanda di fatto, la ricompensa potrà essere fatturata. Il fattore non è un malfattore, il misfatto dell’incontro è un artefatto. In effetti, si offre la rappresentanza del fatto, con una commissione a fatto compiuto. L’arte del fatto deve presentare un estratto del fatto avvenuto, senza congiunture del fato. Il fattore, nel farsi del colloquio, chiede al tuttofare se sia o meno munito del mobile. Il tuttofare è immune all’immobile. Fatto ad arte per pensare il fare come un verbo di già compiuto, il fare come già ricompensato, già fatto. Mai parole furono più liete all’udito del fattore, che giacché pensa fattamente compensa il fatto. Il tuttofare fa comodo al fattore, senza strafare. Il fattore fa parte dell’affare così come il tuttofare ne fa caso. Firmato il contratto, fatto l’accordo delle parti, il tuttofare è di già ricompensato. In tutto e per tutto. Giacché ha fatto tutto. A parte il fatto che affine al tuttofare è il fannullone. Il fannullone fa nulla. Il fannullone non è la compensazione del disfare. Non disfa quel che già è stato fatto. Fa nulla. All’offerta del fatto, il fannullone risponde con la domanda del nulla. Alla domanda del fattore, il fannullone non risponde, è, d’altra parte, agente nel far nulla. Non si priva del fare, non è un malfatto. Il far nulla non è l’indolenza del non fare. Del non fare niente. Il fare nulla è, appunto, il fare nulla. Non l’accidia del fare futuro quando la semplicità sarà anteriore al presente del tutto, il tutto che darà e diede il già fatto. Non la stanchezza dopo l’aver fatto tutto tranne che la ricompensa. Il fannullone all’opera del fare appello al fatto, è fattizio come un nullafacente. Nulla di più errato, il nullafacente non fa nulla, il fannullone fa nulla. Il nullafacente si dà l’assenza del fare, il fannullone si dà da fare il nulla. Il nullafacente non si presenta, annulla il presente, annulla il facente. Il fannullone si presenta nell’andar via, nel, d’altra parte, fa nulla. Nel campo dell’affare è un riscontro incontrare il fannullone. Il riscontro del nulla. Nel campo dell’affare, infine, è uno scontro incontrare l’affatto. L’affatto ripete due volte il fatto.
L’affatto è il rifatto, il rifatto due volte. Persino nel rifatto raddoppia, il rifatto due volte. Non può mai e poi mai accontentarsi del fatto due volte, si sentirebbe in debito con la ricompensa, mancante della riprova, inaccettabile come l’errore del compenso, provato e non riprovato, e il malfatto della privazione. Nel rifatto due volte è degno della ricompensa. È costantemente legato all’errore. L’affatto del rifatto constata l’errore e compie un fatto per ricompiere il fatto. Un fatto è fattibile di errore, il fatto è, difatti, a tutti gli effetti, fattivo. Alla domanda del fattore l’affatto ne rifà il verso, all’offerta del fatto risponde che è fattibile di un’ulteriore offerta. L’affatto corregge l’errore del fatto con il rifatto due volte, fare e non strafare, daffare a rifare due volte. Il factotum indetermina il fare, l’indeterminazione del fatto, nel caso che il tuttofare abbia di già fatto tutto, che il fannullone faccia nulla e che l’affatto ripeta due volte il fatto, il rifatto due volte.
Il sistema
L’azzardo del nesciente. Il risultato del coinvolgimento dello scibile nell’evenienza che. Che il nome riassuma il pro relativo all’onniscienza. Tutti sono coscienti del nome, il pronome del risaputo. È risaputo, in giro, come la sorte sia stata favorevole al nesciente. L’incosciente l’ha corteggiata, dilapidando una fortuna, in tutti i modi, ma il responso è stato: riprova, sarai più fortunato. Il cosciente ha ostentato le riproduzioni della seduzione, ma essendo cosciente dell’inconsapevolezza della produzione, ha stentato e il responso è stato: sei un bellimbusto. Il cosciente figurava la riproduzione della forma e viceversa, ha intentato causa alla deduzione della figurazione, assorta, all’induzione del figurativo, risorta, e all’inferenza del figurante, di sorta. È un cosciente figurato. È cosciente e, in quanto tale, si reputa sfortunato. Il nesciente ha incrociato la sorte, l’ha travolta e nella connotazione, nel baratto dei dati personali, lo scambio delle rassicurazioni circa lo stato fisico, il ricambio dell’innocenza precedente il fuoricampo percettivo, a sua insaputa, ha ricevuto la dinamica dell’incidente. Incide sull’azzardo del nesciente, senza preventivo, la constatazione della sorte. La sorte è rimasta colpita dall’affidarsi, dal confidare la distrazione, dalla fideiussione del nesciente e ne è divenuta la consorte. Nel caso in cui il nesciente dovesse diffidare della sorte l’azzardo non sarebbe asistematico. L’accidente dell’incontro senza puntualità, l’aporia della sorte. L’infida sorte è prevista nei corollari del sistema e tuttotondo ne risulta la dimostrazione. Lo scolio versa il fido nel tempo appuntato. L’appuntamento incrociato inaugura la serie di incontri con la sorte, il frasario assortito che dilunga la conoscenza di sorta e sviluppa l’incidente come un’incisione verso la soluzione del vitalizio. L’incisione è la lacerazione del nesciente che contende alla lacerazione della sorte il periodo di cicatrizzazione. Il segno rimarginato è il vitalizio, il segno baciato dalla sorte, la consegna del nesciente alla consorte. Il nesciente è introdotto nel sistema. Compila i moduli uno e due. Definizione uno: la sorte è impalpabile. Definizione due: la sorte è truffaldina. All’addetto alla restituzione della ricevuta di avvenuto incidente, e non eventuale, ridefinisce la modulazione, e non la modulistica, con la definizione tre: la sorte è corposa. All’obiezione se sia o meno corpulenta, risponde che la dinamica del movimento rimanda alla fermezza di Zenone di Elea. La tesi della parte è che l’incidente non sia mai avvenuto, è un evento che necessita di aggettivazione. Un evento spoglio di dinamica è un’inazione, vicendevole. Nesciente riprende lo schizzo
dell’incidente, la dinamica dell’incidente, ma la figura non provoca la reazione dell’evento e senza azione non può esserci reazione. Nesciente è sciente, l’evento ha aggettivazione, è un lieto evento. La sorte colpita è divenuta sua consorte. La tesi della parte si attiene al divenendo. L’antitesi della controparte è precedente all’evento, afferma che Nesciente era incapace d’intendere e di volere, sotto l’effetto di sostanze stupefacenti, e ha propiziato l’evento. Ma un evento propiziato, un evento in potenza non può situarsi in un’incapacità di intendere e di volere. I periti appartati han dimostrato alla perfezione che la capacità di intendere la saggezza e la volontà vanno di pari o, o in tal caso di dispari, con la potenza. La stupefacente potenza è qualità di un’unica sostanza perfetta. La pluralità di sostanze stupefacenti sarebbe concausa di un universo, in effetti impossibile. L’antitesi della controparte si contiene nel limite dell’incapacità. La sintesi sostiene il compartimento stagno, l’evento non è mai eventuale, l’evento, una volta avvenuto, ovvero convenuto secondo le testimonianze dei partecipanti all’unione del nesciente e consorte, diviene situazione. La sintesi contiene il divenuto della situazione. La combinazione e la connessione delle parti danno vita al premio, al vitalizio rassicurato. La postfazione al sistema non conclude la pratica, la pratica incide nella misura della risoluzione con cui il sistema rigenera l’incisione. I commenti sono l’appendice di una cicatrice, come coincidono le parti di una pretesa lacerata; le obiezioni di pretesa che una volta rimarginata non sarà mai più tesa e convergente verso la scienza, e le risposte alle obiezioni, la rigenerazione della scienza non è ai margini dello scibile, rimargina il conoscibile. Il girotondo dei commenti per il risaputo, in giro. Il nesciente è coinvolto, è sciente. L’azzardo del nesciente si sistema nella solvenza della sorte.
Escursione termica
Febbrile, il cursore dinamico, riporta i gradi della temperatura. Commisura il aggio di temperatura da un ambiente dinamitardo a un ambiente contaminato. L’ambiente dinamitardo tarda a manifestare il moto del cursore per poi balzarlo di un botto al limite estremo della scala. L’ambiente contaminato si misura con una scala periodica, in cui il cursore oscilla tra due gradazioni, senza mai subire la ività della reazione precedente o posteriore ai valori della gradazione. L’azione è in grado di oscillare senza mai perdere l’equilibrio dei valori. Febbrile, il cursore dinamico, ha un aspetto intimidatorio. Il termine di paragone è un comparativo di maggioranza o un comparativo di minoranza. Retrogrado, il termine di paragone, considera l’ambiente omeostatico così come l’aveva lasciato. Se il contrassegno riporta un dato numero come gradazione della temperatura, l’ambiente conserva l’eguaglianza. Viceversa, se il segno dell’ambiente è minore della temperatura gradevole, il gradiente è sterilizzato. Il gradiente sterilizzato, nel comparativo di minoranza, è meno che comune. Se il termine del paragone è la circostanza comune, contaminata, il comparativo di minoranza tranquillizza l’astante con il meno dell’oscillazione, anestetizza le due gradazioni con l’inverso dei numeri, seda le preoccupazioni numeriche con l’allucinazione dei gradini numerali. Lo squilibrio dei valori attesta il comparativo di minoranza. I due termini di paragone, il comune e il comunicato si accomunano nel grado di equilibrio, nel termine del paragone. Il paragone termina all’origine dell’uguaglianza. Il grado gradito. Il principio di autorità del barometro accorda eguali diritti al principio di tutela del termometro. Il barometro investito dalla nobiltà della pressione atmosferica e il termometro rivestito dal tutore di vetro della temperatura. Tanto gradevole quanto gradito. Graduale, il termine di paragone, accelera la preoccupazione della scala. La scala è un conduttore termico. Il cursore non conosce la perimetria dell’ambiente, la composizione e l’esposizione dell’ambiente, si affida al conduttore come una guida termica. La guida che espone in ritardo l’ascesa della temperatura e in anticipo la discesa, rimanda alla storia della temperatura, che impone i gradi di un percorso segnato in rosso sulla dilatazione termica. La storia della temperatura assegna ai gradi, tramanda, l’imperitura relazione. Relazione che non prevede graduatorie. Il più segnala il soccorso alla guida, il concorso al balzo, la spinta con l’ausilio di cavi di sicurezza, per superare la contaminazione e rincorrere l’ultimo gradino. Il gradino estremo, il gradino oltre il quale non ci
sarà piano d’appoggio. Il comparativo di maggioranza rimbalza sulla contaminazione per minare l’ultimo gradino della scala termica e travalicare il termine di paragone. Il comparativo di minoranza, nel minore dei termini possibili, decontamina l’oscillazione del cursore. L’aspetto intimidatorio assume un’altra faccia, il cursore, nel rossore, mostra la timidezza e l’oscillazione disperde la periodicità dei gradini, dei pioli, dei poli retrogradi. Si torna all’equilibrio del primo piolo, del piolo vicino terra, del piolo con un piede in terra. Relativo alla superficie della terra. Superlativo relativo. Il comparativo di maggioranza, mina i pioli, pone termine al paragone. Detona con un’escursione termica superlativa. Ma pur sempre relativa alla scala termica. Febbrile, il cursore dinamico, impazzisce, è ai limiti della scala, sovrapposto all’ultimo gradino spicca un balzo. Graduale, nel maggiore dei termini impossibili. La scala è in frantumi e il cursore è, in assoluto, oltre i relativi sostegni della scala termica. È il superlativo assoluto. Il paragone termina con l’assoluzione dei termini, l’assoluto è l’unico fattore della relazione, il vettore irrelato. Il cursore dinamico è Febbrile, è in escursione termica. Si comporta alla stregua della temperatura.
Critica della comunicazione di giudizio
In primavera si celebra la prima comunione. La stagione propizia il vero. La primavera come prima verità del nominale. Chiamati a raccolta, i giudicati convengono circa il nuovo predicato. Il soggetto con il predicato giudizioso. Il predicato nominale segue la predica del verbale. A un lustro dal giudicato, dall’esercizio degli appelli in giudizio, il primo appello in cui si esercita la facoltà di giudicare, il secondo appello in cui si dimostra il percome del giudicato e il terzo appello, o cappello, con cui il giudicato assume le sembianze della presenza, del giudice; l’indizio sfugge al giudizio. Il copricapo, dignità del verdetto. Il giudicato deve rigettare il cappello, la parte introduttiva del giudizio, e perlustrare l’indizio. Un lustro, cinque anni, non attesta il conseguimento dell’indizio. Anche se il giudicato ha dato seguito all’esercizio di giudizio, non ne ha appreso il titolo. Si è limitato all’imputazione in giudicato, reputato come sub judice. Il predicato verbale ha richiesto la prova e il dubbio è stato chiarito. La correlazione ha valore di verità inconfutabile. Il predicato verbale correlato della prova. L’esperienza è stata garantita. Il giudice ha chiamato a deporre l’esperto. L’esperto verbale, oggetto dell’esperienza, ne ha garantito la validità. L’esperto irrefutabile, oggetto di verità. L’esperienza si declina in tempi fissi ed è insensibile all’alibi dell’inclinazione. L’inclinazione è insensata. L’esperienza è un cenno d’assenso. Deposto l’esperto, il testimone del giudizio ha risposto all’appello. Il testimone non è mai assente, è sempre presente in luogo. Il testimone appostato. Il testimone che imposta la delazione di giudizio. Il punto di vista è derelato, si sposta tra gli angoli del campo percettivo. Se unisci i puntini di vista ne ricavi il semicerchio, il diametro del testimone. La semicirconferenza è il campo scevro di giudizio, in quanto la relazione è tra i puntini di vista. Eccoci al dunque. Il giudizio è relazione. Quantunque si misuri il grado di giudizio, il giudizioso ne sarà esente. In gergo giudiziario, quasi un argot quotidiano, il giudizioso è detto anche contumace. Chiunque sia sotto giudizio ha diritto ad avocare le vette del vero, a scalare il falso e ad evadere nel bello, latitare nel giudizio del bello. Dal giudizio del bello alla tradizione del canone di bellezza. Il latitante su cui pende la bellezza ricercata. Il mandato di cattura fa bella mostra di sé. La tradizione come la correlazione della prova di giudizio. Difende l’ordine della correlazione in giudicato. Qualunque sia il verdetto, il giudizioso ne è indifferente, noncurante, egli non è più in giudicato, è prosciolto dal predicato verbale, è predicato nominale. Tocca a lui il giudizio,
privo di appelli e relazionato al soggetto. È inesperto, non oggetto del giudizio. L’indizio torna al seguito del giudizio. L’indizio è il segno di una relazione, nel dunque del giudizioso segna il soggetto e il predicato. Il nome del soggetto si estende al predicato. La predica del soggetto colpisce il predicato. Va dritto al bersaglio, coglie nel segno e il soggetto è predicato. Non predicabile dal verbo, ma predicato nel soggetto. Il soggetto in predicato, un predicato soggetto. Il giudizioso, soggetto al giudizio, è nell’indizio. Dunque, è l’indizio. Il soggetto è indizio di giudizio. Non indiziato di giudizio, non oggetto, esperto di giudizio, l’indiziato è il giudicato, il soggetto verbale. L’indizio, il soggetto indizio di predicato è nominale, non nominato nel verdetto. Il nume dell’indizio, la formula di giudizio: in nome dell’indizio. Nominale nella primavera, nella prima verità della relazione di giudizio. Non derelato, né correlato al verbo, alla prova del verbo, ma relato al nominale. L’estensione del soggetto nel predicato nominale. Il soggetto si confessa ed estende, tende il getto verso il predicato. Il predicato ne accoglie il nome, ne riceve il getto del soggetto e ospita il nominale. Nel nominale, il soggetto e il predicato sono assolti nel nome del nominale. La prima verità del giudizio consegna il soggetto al nominale e rigetta il verbale. La seconda verità del giudizio, l’azione del giudizio, assegna al nominale la nominazione. La nominazione del giudizioso è chiamata, presente in appello, comunicazione di giudizio. Se il giudizioso si appella alla comunicazione di giudizio, in effetti, è una prima verità e fa seguito al predicato nominale. La prima comunione del giudizio. Invece, se il giudicato si appella al giudizio deve attendere il verdetto. Il verdetto che fa le veci della comunicazione di giudizio. Il verdetto che una volta pubblicato, il verdetto diffuso in pubblico, il verdetto pubblico, diviene sentenza, sentenza comunicata. E alla sentenza comunicata il pubblico si attiene, pena la scomunica. Al giudizio, alla comunicazione di giudizio si ritiene il soggetto nominale, il predicato nominale, giudizioso, e la comunicazione conviene con la critica.
Traffico
La struttura immobile è composta da un prefisso. L’auto è il prefisso immobile. L’immobile prevede il trasloco. L’immobile è il luogo fabbricato. Il luogo mobile, il prefabbricato è espropriato. Il luogo mobile è spianato sul pre del fabbricare, esteso nell’esproprio. Esposto all’indennizzo, previo decreto filogenetico. Il luogo immobile è la proprietà del fabbricato. Proprietà registrata nell’appalto del faidate. Il trasloco zavorra il luogo mobile con il benestare del piano regolatore, il benestare garantisce la residenza, il numero topico dell’immobile. Le fondamenta del benestare piantate nell’ontotopia. Il piano regolatore, l’ontonomia, rilascia il certificato di costruzione in luogo della legge, il beneplacito. L’immobile ne raccoglie il bene e lo rinsalda al terreno con il benestare del luogo giustapposto, l’ontotopia. Autografare, autocitare la topografia per la toponomastica. Il certificato di proprietà giustapposto al certificato di residenza notifica il luogo giusto, al posto giusto. La giustapposizione dell’immobile. Giustapposizione peraltro riconosciuta dalla posizione dello stato di cose. La giustapposizione dell’immobile, al posto giusto, è benedetta dalla contrapposizione dell’imposta. L’imposizione di un beneficio occupato da una struttura immobile. L’ontogenesi non conosce date di scadenza. È soggetta alla mora per il ritardo del benestare e, infine, è in regola con la dimora. La dimora a norma di legge. L’ontogenesi scandisce la struttura del prefisso. L’auto, nel benessere dei luoghi da fabbricare, prende possesso dell’appezzamento, del lotto di terra, il rudere di una destruttura, di un piano sterrato, per articolare il luogo fabbricato. L’ontogenesi parte dal prefabbricato, dal luogo mobile. Espropria il piano dalla mobilità, dal mobile esposto al luogo fuori posto ed edifica il fabbricato. Il decreto ontogenetico. Si attiene alle regole del piano e struttura il fabbricato in aderenza alla composizione della dimora. Il pilastro contro il luogo fuori posto, contro i rivolgimenti del luogo è in cemento armato. Colato nel sottosuolo. Per armare l’edificazione di una struttura bisogna scavare nelle profondità del suolo, la materia prima del fabbricato deve rinsaldare il legame con gli strati della terra e non attenersi al reimpianto di una superficie fragile. Il pilastro antisismico, ovattante i moti della terra incontro al mobile spianato. La fragilità di una superficie terrena è ben riconosciuta dall’ontogenesi, che ha assistito a tante frane sulla china del malessere. Il fabbricato nelle fondamenta della struttura e con il pilastro nel sottosuolo consulta la rivista della percezione e istituisce il piano del benestare. Il luogo non
è più la distesa dell’ontologia, il campo aperto al senso e al dissenso dell’essere privo di qualità, dell’ente in qualità di participio presente, è il luogo fabbricato, l’immobile dell’ontotopia. Ad onta del prefabbricato, del mobile improprio, da edificare ed espropriare, il fabbricato è nella sua solidità, la sicurezza della dimora. L’ontogenesi ha saldato, ha estinto la mora sulla scadenza e la dimora è pronta per il benestare. La dimora riscattata nel benestare. L’ontonomia regola i vari piani dell’edificio e con il beneficio del piano regolatore, il fabbricato è a norma di legge, in luogo della legge. A norma di sicurezza, la struttura immobile è fissa; il senso civico. Il piano fisso, per comporre la struttura, deve anticipare il pre, deve anticipare il prefisso, l’auto. Deve scomporre l’auto. L’auto vince l’appalto del faidate e fonda una società a responsabilità limitata. È l’amministratore unico della società e nei limiti della responsabilità opera la struttura, opera il fabbricato. Il tale auto evince dal vademecum come nei suoi compiti risulti la bonifica di terreni stagnanti, la ristrutturazione del ristagnante, per edificare il fabbricato della struttura. Nel limiti di una responsabilità, coopera ad aumentare le entrare della società. Il talaltro auto, dopo aver ammirato un luogo incontaminato e aver espresso un desiderio sul cratere di una stella caduta, dà fondo al capitale limitato e, con tutta la responsabilità dell’appagamento, edifica l’immobile. Il luogo incontaminato è il prefisso di un immobile desiderato e il talaltro auto coopera a che la società accolga nuovi soci. I soci auto-nomi richiedono la firma dell’amministratore unico per l’edificazione della società da responsabilità limitata a società per azioni. Le azioni degli auto-topi hanno cooperato a che i fabbricati s’intersecassero nel piano regolatore, fino al punto di saturarlo come un agglomerato urbano. Il prefisso dell’auto occupa lo spazio del piano regolatore, che trasloca nell’agglomerato urbano. L’auto urbano, amministratore unico della società a responsabilità limitata e amministratore delegato, in delega ai traslochi del piano regolatore, della società per azioni, convoca il consiglio sociale e la sociabilità è all’ordine del giorno. L’agglomerato urbano incrociato al piano regolatore ne denuncia le pieghe. Le grinze, le crespe della ristrutturazione del ristagnante. Le pieghe al piano regolatore sono i luoghi abusivi, i luoghi non edificati nell’ontonomia e nel benestare del luogo giustapposto, dell’ontotopia. L’ontogenesi perde di sicurezza, non si ritrova nei luoghi giustapposti. L’abusivismo dei luoghi crea una falla nella struttura del prefisso. Torna a farsi largo l’ontologia della distesa, del luogo disteso, del piano spianato. L’auto, il faidate, si affida all’altro, con un autodafé. L’altro che non edifica ma spiana la struttura all’abusivismo. Non edifica, l’altro, fabbricati, immobili, non parte dal prefabbricato, dal luogo mobile, bensì restituisce alla struttura il piano spianato. Le pieghe del piano spianano la strada al conglomerato sterrato. Il conglomerato senza fondamenta,
superficiale e ontologico. Spianare l’ontologia per l’onto-struttura di una società ad accomandita semplice. L’auto, socio accomandante, risponde per l’ontogenesi, l’ontonomia e l’ontotopia, limitato alla responsabilità dell’edificazione, dell’immobile. Limitato al piano regolatore. L’altro, socio accomandatario, risponde per il conglomerato della piega, è obbligato illimitatamente all’ontologia del piano spianato, dello sterrato e amministra la società. La società ontologica. Il prefisso dell’auto si edifica nel suffisso dell’altro.
Avere
Posseduto dal demonio. Il demo è il primo elemento del popolo. Il popolo che occupa il territorio circoscritto al demo. Il numero superiore alla dozzina che inscrive l’unità della persona, il supposito degli scolastici, nella rappresentazione. La presentazione del supposito avviene uno per uno, il cui ricordo conferma l’uno presentato, l’uno totale. Il piacere di ricordarsi dell’uno, nella percezione dell’uno totale. La rappresentazione del demo popola il territorio. Il confine della persona, del supposito, non si limita alla moltiplicazione dell’uno presentato. L’uno, nel demo, implica l’altro uno; gli altri uno sono nel plico dell’uno, nell’applicazione dell’uno. Nel demo la posizione della persona suppone una graduatoria di persone. L’uno, come persona, come prima persona iscrive il suo nome, il supposito, come prima firma nella preoccupazione del demo. L’altro uno, iscrive l’altro supposito come seconda firma nell’occupazione del demo. L’un l’altro s’iscrivono, come peraltro suppositi, all’enumerazione del demo. E via supponendo, fino al numero che oltrea la dozzina. L’ordinale non conferma la preminenza del primo firmatario sui firmatari susseguenti, ma la composizione del demo. Nel supposito, nei suppositi del demo vi è gradazione del numero, intensificazione del numero, oltre la dozzina, composizione e occupazione del demo. La presentazione dell’uno, nel ricordo dell’unica persona, della persona totale del supposito, lascia spazio alla rappresentazione del demo. Nella rappresentazione l’unità della persona, il nome della persona, il supposito, s’inscrive nel demo. Le persone, i suppositi sono rappresentati nel demo, nel territorio occupato, nella preoccupazione territoriale. Il fine della persona spazia nel confine delle persone; le persone confinate nella rappresentazione. Il territorio è popolato e i suppositi sono le persone. Inscritte nel confine del demo, affermano il popolo. I firmatari dell’iscrizione, gli uni e gli altri sono inscritti nel popolo. Il popolo del demo è posseduto. Nella rappresentazione il popolo si presenta come una lista unica, la cui apposizione è il demo. La composizione del demo ha dalla sua, dalla propria parte, il nio. Il nio non è un’ossessione del demo. Non più di quanto la ricomposizione del demo in una possessione dia senso compiuto all’indirizzo apposito. Anche se l’opinione dei demologici propende per l’indirizzo tradizionale, composito, il nio disorienta, scompensa ai margini il senso compiuto, ai margini del senso lo scompenso mostra il senso senza uscita. Se il demo è una firma apposta in calce alla lista dei suppositi, la possessione è la
coordinazione del popolo. Ma il demo, come si evince, non è in calce ai firmatari, il demo è lo spazio dei firmatari e la possessione, il nio, è il margine dello spazio. Il confine, in cui si inscrivono i suppositi, è il demo e ai margini del confine, in cui si ascrive il nio, il secondo elemento del popolo, è lo spazio della rappresentazione. Il popolo nel nio può rappresentarsi. Ai margini del confine il supposito, presentato e rappresentato nel demo, si rappresenta nella possessione del nio. Nel nio il demo si rappresenta, ritorna alla presentazione, alla presentazione del sé e afferma i suppositi come posseduti. È esemplare che il supposito riconosca nella rappresentazione di sé l’appartenenza al popolo, al popolo dei suppositi. Nel demo s’inscriveva e s’iscriveva come firmatario della lista demodossologica, nella possessione si rappresenta come l’uno per l’altro dei suppositi. Disperde la totalità del supposito per la possessione dei suppositi. Il nio è l’affine, l’affine che, ai margini del confine, ascrive il demo nel supposito, nella possessione dei suppositi. L’apposizione del demo, la composizione del demo è perfino ricomposta nella possessione del nio. La presentazione dell’uno, il ricordo del nome confermato, la persona e il supposito, inscritto al demo e rappresentato dal demo, si rappresenta nella supposizione del nio. Il nio supposto è la genia del supposito. Genia oltre il supposito, ai margini del confine in cui s’inscrivono i suppositi, ascritta al nio. Il demonio, il demo, primo elemento del popolo, spazio dei firmatari, e il nio, il secondo elemento del popolo, spazio della rappresentazione; il supposito è posseduto, ritorna nella rappresentazione di sé. Nel demonio ritorna il supposito. Ha luogo il supposito. Perlopiù di quanto non abbia luogo il supposto. L’aver luogo del supposito che, dall’unicità, dalla totalità al demo del popolo, ria alla possessione di sé nel rappresentarsi come supposito. L’apposizione dell’esorcismo per la redenzione dell’uno, per l’assoluzione dell’uno è una pratica retrograda, come anacronistico è l’anagramma della genia, del nio in noi, la congiura della progenie. I demonoi erano gli antichi all’equatore della Terra, una genia presupposta. La trasposizione del supposito che da posseduto possiede la supposizione del demonio, è la posizione dell’avere, il senso dell’avere.
Esoscheletro
L’incognita del raggio nell’uomo vitruviano di Leonardo da Vinci non si rinforza su uno schermo illuminato o con le pieghe della proiezione, la funzione della circonferenza inferisce dal raggio l’estensione scheletrica. La diagonale del quadrato, il lato al quadrato non si frappone alla fluorescenza dell’area, scartato il perimetro come lato sensu dell’incorporazione, e l’area come stricto sensu della reincarnazione, la diagonale mostra la chiarezza dello scheletro sull’opacità geometrica. La geometria si attiene alla metrica della terra, al sistema metrico terrestre. L’unità di misura è un granello di sabbia su una superficie deserta. Il punto, il granello è parte di una linea che attraversa la terra, la distanza più breve, nel sistema metrico, tra un punto e l’altro punto, tra due punti è la linea retta. La linea retta è l’infinito dei punti che contrassegna la retta tangente la curva della terra. La terra, superficie deserta, si commisura alla continuità nello spazio, è una curva che giace sul piano unidimensionale. La curva della terra ripianata nella retta tangente diviene divisibile all’infinito. Il deserto, la superficie finita e divisibile per i granelli di sabbia, diviene, nel tangere, divisibile per la distanza più breve, divisibile all’infinito. Il finito del deserto è infinito nel tangere. La retta secante taglia la superficie deserta. La curva terrestre è secata da una linea retta. La distanza più breve tra due punti interseca la curva in due e più punti e ne delinea una frattura. L’opacità geometrica dimostra due linee quasi giustapposte, una linea curva e una retta secante, con uno spazio frazionato. L’inclinazione della linea curva si declina con il clinamen della linea retta. La distanza più breve tra due punti si segmenta sui punti intersecati e la divisibilità all’infinito si frappone alla finita divisione. Il quoziente risulta periodico, una parte intera e una parte che si ripete all’infinito. La virgola, che separa l’intero finito dal periodo infinito, segna una linea di frazione. Il periodo infinito memore di un’indivisibilità, a volte è preceduto da un antiperiodo. La curva ripianata dalla tangente, si spiana con le lacerazioni della secante. L’opacità geometrica proiettata sullo schermo della necessità, dimostra uno spazio frazionato. La linearità non dimostra, mostra uno spazio frazionario. La curva terrestre, la superficie deserta è sconvolta in più punti da lacerazioni secanti, i granelli di sabbia lasciano spazio, spaziano in altri punti e nella frazione esposta spunta uno scheletro. Non è una frattura visibile sull’applicazione della figura retro illuminata, non più di quanto sia un fossile venuto alla luce per il trasbordo dei granelli di sabbia, nonché, in una parola
relativa, i resti di un che di animato. La geometria diagnostica un intervento della funzione trigonometrica e l’applicazione di un tutore angolare, in rapporto al seno e al coseno. La linearità dello spazio frazionario assegna allo scheletro la distanza brevilinea tra due punti, il punto della curva esposto alla lacerazione e il punto della retta secante che devia l’inclinazione. Lo scheletro è esterno alla superficie deserta divisibile al finito e alla tangente divisibile all’infinito, è esterno alle lacerazioni della retta secante, all’inclinazione della linea curva, allo spazio frazionato. Esterno al clinamen della linea retta, lo scheletro è lo spazio frazionario, l’esoscheletro. L’esoscheletro erompe dal carapace delle necessità geometriche, dalle proiezioni sullo schermo della necessità, per mostrarsi nella linearità di uno spazio. La perfezione di una circonferenza nell’incognita del raggio e la perfezione di un quadrato nell’invariabilità dei lati si scorporano nell’esoscheletro che disperde l’interezza delle figure in uno spazio frazionario. Lo spazio figurato, lo spazio perfezionato dall’intersecarsi geometrico, si scheletrisce in uno spazio esterno. Lo spazio frazionato diviene spazio frazionario. Uno spazio evaso dalla leggi geometriche, dalla necessità curvilinea, uno spazio che non si estende nella protezione dei confini, è uno spazio esterno, periodico, una parte intera e una parte che si ripete all’infinito, senza tralasciare le memorabilia dell’indivisibilità, la condivisione memoranda, con l’antiperiodo. Lo spazio diviene esoscheletro, lineare, curvilineo e rettilineo ma non necessario, non dimostrato, brevilineo. Uno spazio di stanza nella geografia, grafia della terra, mostra il longilineo.
L'esergo
Il valore di scambio cita la domanda e offre la risposta. Il valore di scambio cita la risposta per prevenire la domanda. La citazione della domanda per una risposta consona ai dati della richiesta cambia il valore dell’interrogazione per una esclamazione valutata. La citazione della risposta risale ai termini della domanda per una esclamazione che si interroga circa le richieste da valutare. Il cambio di valore varia in base alla datazione della domanda e dell’offerta. Una domanda al giorno d’oggi è una risposta all’indomani. Un’offerta odierna è una domanda di ieri. La valutazione delle citazioni copia le oscillazioni dell’avantieri e del dopodomani per segnare l’equilibrio dell’oggidì come compravendita. L’indice del valore si dimena tra un massimo di quesiti e un minimo di repliche, tra la quota di un’azione replicata e l’obbligazione ad un quesito reazionario. L’acquisto antimeridiano e la vendita pomeridiana sono al o del costo del denaro. Il denaro è la virtualità di una moneta di stato. L’atto della moneta segnala lo stato, avvalora lo stato delle cose. Se una cosa è priva di stigma monetario è una cosa in denaro, una cosa virtuale. Invece, se una cosa reca il quanto della moneta è una cosa acquisita. L’acquisibile del denaro e l’acquisito della cosa sono la valuta, la valuta all’ordine del giorno. La moneta che valuta lo stato come stato interessato, in credito nei confronti dei possessori di denaro, in debito, è la base del valore. L’altezza del valore si ha quando il debitore sconta il denaro in moneta. Il possessore del denaro è in debito dell’atto di compravendita. Il possessore del denaro è un debitore, possiede la virtualità del denaro e all’atto della compravendita deve mostrare la moneta sonante. Attributo della moneta è il suono, la moneta deve urtare le cose ed emettere un suono inciso. L’incisione della moneta, la concisione del denaro. La moneta ha un valore intrinseco e un valore nominale, lungi dalla reciproca corrispondenza del nome con la qualità, i valori sono in un caso, intrinseco, la materia surrogata della moneta, e nell’altro caso, nominale, il segno numerico sulla moneta, la cifra della moneta. La materia surrogata lascia la direzione dei suoni ai segni numerici. La concertazione tratta ed esegue il suono monetario sulle cifre. Il numero è direttamente proporzionale alla scala maggiore eptafonica, ovvero a partire da un singolo numero si ottiene il numero maggiore corrispondente, la moneta sonante. Oggidì il denaro virtuale per acquisire lo stato della cosa, la compravendita, deve valutare l’equilibrio della moneta, la decorrenza e i corsi della moneta. La virtualità tenderebbe a lanciare la moneta in aria, la moneta
raccolta in terra, e attendere che ricada sul piano in bilico, che faccia e tenga il proprio corso in equilibrio sul collare. Ma il tondello avverte il peso dell’inflazione e la moneta cade sul dritto o sul rovescio. La moneta scivola sulle richieste di dilazione del denaro, corre sul pendio della morosità e il denaro, con il are dei giorni, vede aumentare il proprio costo. Il debito del denaro vessa il valore intrinseco, il cartaceo. Il valore nominale è in debito di un soprannome. Un soprannome che la moneta declina dal valore intrinseco, la cartastraccia. Il denaro avverte l’improntitudine del soprannome e disteso sotto i raggi del sole, mostra in trasparenza la filigrana, ma il debito del soprannome è un colpo di sole, un’insolazione, nonché un’insolenza duratura, il facsimile del costo del denaro. La moneta sarebbe in credito di un nomignolo, ma va da sé che essendo all’ordine del giorno, sbrigativa, è spicciola. La moneta spiccia l’atto di compravendita. La moneta specula sulla propria forma e fa il proprio corso. Il denaro non può che citare la moneta e fra le oscillazioni dell’avantieri e gli indici del dopodomani, cambiare la valuta. All’ordine del giorno, il denaro per acquisire l’oggigiorno cambia la valuta, da acquisibile nell’indomani cede una parte del valore nominale per acquistare lo stato di moneta. Il valore intrinseco del denaro e della moneta recede, invero nei periodi di recessione il valore nominale disperde l’identità numerica, la cifra incisa, per rivalutare il valore elevato, in altezza, del cartaceo o del metallico. Scontare la compravendita con il saldo delle materie di produzione. Deflagra il valore della materia di produzione sul valore della materia di scambio, la rivalutazione della materia riprodotta e non del conio cifrato. Il salvacondotto del denaro nella citazione della moneta è custodito in un salvadanaio. Nel salvadanaio il denaro, custode della virtualità, è pronto ad erompere nell’attualità della moneta, nel suono della moneta ripercosso sullo stato di cose. Il salvacondotto fatto a pezzi, il denaro in pezzi nominali di moneta, dilaga sulla compravendita gli effetti del valore di scambio. Il salvacondotto del denaro si riversa nella conduzione, all’ordine del giorno, spiccia, della moneta. Il denaro cita la moneta e nel cambio di valuta si eccita. Il denaro possiede la moneta, e la sola idea lo eccita. Lo eccita l’idea che una pluralità di monete sia pari alla cartastraccia, che la cartastraccia sia nominata in filigrana. Concitato nell’ottava, la carta consonante si esercita nella scala eptafonica per perequare l’unisono. Nell’eccitazione il denaro batte le facce della moneta. Nell’eccitazione il denaro conia l’espressione cifrata equivalente al valore numerico in moneta. La numismatica del denaro. Una volta decorsa la valuta, l’eccitazione del denaro scema; il denaro, che ha citato la moneta, è nel corso della citazione. Il denaro è moneta, è stato di citazione. È nella valuta corrente della moneta. Oggigiorno è nel corso legale. Circola nel corso della moneta. Oggi come oggi può essere citato da altro denaro, può essere oggetto di
eccitazione. E come concitazione della moneta porta un esergo: a tutt’oggi, la valuta.
Il cosiddetto
Indetto partecipa. La cassetta per le lettere è stipata. In piena vista, nel campo diviso per la maggiore affluenza di utenti, fanno capolino i contenitori per le lettere. L’utente si reca nel campo moltiplicato per accampare le proprie pretese. I reclami sono un’esigenza che costringe a prendere posizione. L’utente nel campo, divide la posizione con l’esposizione delle urgenze. Gli utenti si posizionano in fila nel divisorio del campo. Il divisorio è una parte scomposta del campo diviso, una parte condivisa tra gli utenti restanti. Nel campo diviso il divisorio profila il resto della divisione. Si dividono le pretese per moltiplicare le contese. La posizione nella fila è una contesa che dà adito a ritenzione. Tenere la propria posizione e contenere gli avanzi licenziosi. I possessori di licenza non si attengono alla posizione presa e ne prendono possesso. Prendono possesso della posizione in quanto sollecitano l’ordine della ricognizione, vanno alla scoperta del primo venuto, e una volta giunti sul posto, sfilano sotto gli occhi dei posizionati. Questi ultimi, dopo la sorpresa della ricognizione, prendono cognizione del riposizionamento e la ritenzione è condita da un ritenersi sopravanzati. Gli avanzi e i sopravanzati vengono alla disposizione, perdono posizioni e caricano l’attesa del turno con un risentimento diuturno. Lo scontro si dilunga in coda alla fila e non per codardia dei contendenti ma per la presa di posizione degli sfilati che intendono la ricognizione come testacoda. Mantenere le posizioni in fila è un inciampo. La fila è indiana, frastorna, l’utente crede di imporsi con la pendenza a oriente e invece è disposto a dipendere dall’occidente. Facile l’inciampo. La deposizione del primo venuto ha luogo alla lettera. Il primo venuto nel topos della lettera, cede la propria posizione e la composizione delle lettere depone a favore del convenuto. Il primo venuto è il convenuto che lascia il proprio posto a chi lo segue dappresso. Va da sé che il dappresso, composto, è il successore del primo venuto. L’accesso alle lettere, alla composizione delle lettere è il successo dei divenuti, la distensione dell’urgenza. I prevenuti in fila, gli utenti nella posizione rappresa, maledicono la lettera e il tempo di apposizione della letteralità. Si estendono sul posto e leggono gli avvisi di lettere private delle vocali. Consonanti all’avvenuto posto sottratto per il differenziato posto davanti, riprendono le vocali. Tra gli utenti restanti vi è anche chi è disposto a trattenere la posizione pur di non perdere il seguito. È l’utente assecondato, l’utente abdicato, rinuncia alla composizione delle lettere, all’apposizione del divenuto per trattenere la posizione seconda al resto degli
utenti. Il suo è un principio, il principio di abdicare alla sovranità della lettera. L’esigenza seconda che reclama il principio incondizionato. I successori, condizionati, ringraziano il principio, non si sentono degli avanzi, anzi sono dei conseguenti, innanzi al principio. L’ultimo in ordine è l’utente con cognizione d’effetto. Non prende posizione, apprende l’ultima posizione. Domanda al predecessore se sia lui l’ultimo. Quest’ultimo, con uno certo zelo, risponde che è il penultimo. Con cognizione d’affetto, l’ultimo in ordine è volto all’attesa dell’utente che lo renderà penultimo. Con un cenno d’intesa riconosce la posizione del nuovo venuto, e con alacrità prende posizione. In ultimo, ma non per ultimo, in fila c’è l’utente che non prende posizione ma è in posa. È lo scomposto che adombra la positura. Apprensivo, non vede l’ora di apporre la lettera e sollecita i predecessori al o lungo, sospinge l’utenza e rifila alla successione la trepidazione della cessione di posto. Sarebbe disposto, lo scomposto, all’estinzione dell’utenza pur di tornare alla propria occupazione, ovvero scomporre la realtà in frammenti di slealtà. Traslati alla fila ci sono gli ottenuti, i tropi della lettera trafugata. Fanno la loro bella figura in quanto fugano le belle lettere. Indetto partecipa. Le posizioni si susseguono, i divenuti tornano sui propri i, gli aventi diritto alla composizione della lettera prendono possesso della cassetta per quel po’ che basta a che il destino sia indirizzato, il destinatario. I successori avanzano e a capo chino retrocedono verso la contrapposizione, la posizione fuori del campo diviso, la posizione invisa. Indetto compone la sua lettera, una sola lettera destinata e rinuncia ai privilegi della posizione. Al termine della fila, quando l’ultimo utente, l’utente con il torcicollo, non ha più da intendere il nuovo venuto, quando risale le posizioni ereditarie, da ultimo a primo venuto, giunge il genealogista per stipare le lettere. Nel suvvia, il figurante delle lettere, l’impostato così detto, svuota la cassetta per le lettere. Il cosiddetto, fuori campo diviso, smista la corrispondenza. Fa la posta al destino delle lettere, raddoppia il destinatario. Prende visione delle lettere, dell’allitterazione dei destini, e le indirizza ai mittenti. L’attribuzione della destinazione. Avvenuto recapito.
Ecco
Ecco: un’eco più una c consonante;
(eco)n + (c)n+1 = (ecco)n-1
Il cosiffatto
Nel quotidiano il fatto esaurisce la dose d’indipendenza. La festa, in rosso come l’allarme che incalza verso l’uscita d’emergenza, calza l’occasione e invoglia al ballo. Il festivo non ne vuol sapere dei fatti e si rivolge al ricevimento dei i. Il fatto è l’ordinario a tutti gli effetti. Il pericolo della noia, causa del fatto, è agghindato e l’evasione circoscritta alla pista. L’apripista affonda le piante dei piedi nella memoria dei i e consegna il ballo alle mani protese. Il pistillo non attende altro e estende le proprie mani sulle mani dilungate. Si affida alla memoria dei i dell’apripista e il ricordo del ballo si sviluppa in punta di piedi. Il ballo deve attenersi al tempo ato. All’uscita d’emergenza i i da compiere sono pochi, l’importante è confidare nella memoria di una fuga dal quotidiano. La festa è il rossore del pistillo al contatto, o su o, con l’apripista, il como delle gambe sulla pista circoscritta. La festa è il dì della pendenza. Pende verso un cimento nell’intraprendenza al como e dipende dall’uscita d’emergenza. La dipendenza del quotidiano è stupefacente. Lo stupefatto emerge dal dì di festa nel quotidiano dipendente. Preso di peso e prolungato nell’iperbole del circoscritto, si ritrova appiattito nella parabola del fatto. Il fuoco del como è estinto e il piano emerso è un piano vergine. Il fatto è cerchiato, comporta un cerchio alla testa del fatto compiuto, un cerchio conico che dovrebbe mettere al sicuro i piedi, un cono rovesciato in piedi. Il cono è al suo apice e non si regge in piedi. Il fatto non è ancora compiuto, è un fatto indipendente. Gli afflati ellittici lo allontanano dall’incendio circoscritto e lo rimandano sulla retta via. Ma il fuoco del fatto divampa e fa strada al fatto. Insegue le molecole di ossigeno per rammemorare lo stupefatto. La strada è bruciata sotto vari acceleranti e il fatto giunge quasi al compimento. Lo spaccio è il dolo della fiamma stupefatta, del fuoco annerito. Lo spaccio distribuisce le dosi di dipendenza in ovuli di cenere. Avviene un curioso fenomeno, il fatto incompiuto ha una temperatura critica, un calore che tiene sulle corde, che tende e non estende il fatto astenuto, ma nel momento in cui riceve la dose incenerita la temperatura cala drasticamente per il refrigerio del fatto da compiere. L’esaurimento della dipendenza dalla dose attesta il fatto compiuto e la temperatura è stabile, il fatto è stupefatto e il cono è in piedi, si tiene in piedi sull’apice. Lo stupefatto rammenta i i di ballo ma non affonda nella memoria circoscritta, è quasi sospeso sulla superficie di una ciclopista, levita sulla pista di transito. Sente di andare gambe all’aria, di cadere in piedi. Allora, punta i piedi
ed è investito da rimproveri, sta tra i piedi dei bipedi. Lo stupefatto non ha memoria e si sposta. Pesta uno dei bipedi, altri rimbrotti, non riesce a togliersi dai piedi e, più che darsi la zappa sui piedi, decide, su due piedi, di prendere piede. Ma la ciclopista non ha nulla della pista circoscritta. La dipendenza del quotidiano si esaurisce e lo stupefatto trema al pensiero del fatto. Il pensiero del fatto rizza i peli dello stupefatto, i brividi di uno stupefatto cutaneo, dalla pelle d’oca. Rincorre gli acceleranti, il fuoco annerito e consegue il dolo della fiamma stupefatta. Un frammento di memoria scintilla e lo stupefatto è in flagranza di appiccare il fatto compiuto. Altresì si ritrova sulla ciclopista e da stupefatto sfuma in assuefatto. L’assuefatto è ignifugo, ritarda la memoria del fuoco del como e alimenta in dosi maggiori la dipendenza del quotidiano. Ha bisogno di un quantitativo di accelerante maggiore per ricordare non la pista circoscritta bensì la ciclopista. La memoria non è circoscritta, ma nel ciclo di transito assuefatto. Il frammento di memoria nel fatto compiuto è la memoria a parte della ciclopista, la memoria a parte del segreto dell’oblio e che rinvigorisce nel simulacro della pista circoscritta, la ciclopista, il transito dalla memoria circoscritta al ciclo della memoria, ciclostile. Tra una dose e l’altra del quotidiano, lo stupefatto si astiene dal fatto, e la rammemorazione dei i si fa largo nella memoria con la forza del pianto, un agente estinguente. Lo stupefatto è piantato in asso dal quotidiano e si radica nel dì della pendenza. È rannicchiato in un angolo dello scrittoio e si tiene i fianchi per non rovesciare il cono in piedi. I piedi non sono al sicuro e il fatto astenuto lo rende ibile di un fatto da compiere. Non riesce a trattenere le lacrime del dì della pendenza e pendente su un fianco, rincorre gli acceleranti del dolo annerito. L’ustione del fatto, agente estinguente e agente infiammante. Appena stupefatto riprende la ciclopista e il transito dei frammenti di memoria in simulacro. L’accelerante, quotidiano dopo quotidiano, richiede una quantità sempre maggiore, al limite del naufragio da foga di annegamento, e lo stupefatto rischia la meraviglia. La meraviglia dell’overdose, della dose in eccesso di memoria, della dose nell’iperbole del circoscritto, del ciclostile, nella parabola del fatto e nel cono di base circolare, in piedi sul cerchio. Il ciclo della pista e lo scritto circolare sono le impronte, la rotazione delle orme dei i compiuti dallo stupefatto, i segnati nella memoria dei fatti. Il dì della pendenza e il quotidiano in dosi assuefatte si astengono dalla meraviglia. La meraviglia è la vigilia perenne del quotidiano e l’antivigilia del dì della pendenza. Lo stupefatto nella meraviglia ricorda, ricorda lo so, il così del fatto. Nello so si esaurisce la dose di dipendenza dal quotidiano, ancorché se ne portino i segni sulle piante dei piedi.
L'eletto
I duttili, rappresentanti della terra, aprono la campagna elettorale con la distribuzione dei vasi. La propaganda si diffonde con le donazioni dei vasai. I prodotti dell’artigianato, recipienti in argilla, sono distribuiti tra gli aventi diritto di scottatura. Gli scottati li ripongono sul piano decorativo o come avello per i fiori strappati alla terra. Estirpare dall’aiuola la vocale della persuasione. Il convincimento consonante al motto seguirà il rinsecchire dei fiori. Quando l’acqua raggiunge la temperatura di ebollizione, non per l’arsura del clima ma per un aggio di stato, un aggio di consegne, gli scottati scaraventano in terra i vasi, dopo aver sbriciolato i fiori apiti. I frammenti, i cocci sovrastano il pavimento, si profilano nell’ambiente domestico. L’avente diritto di scottatura li raccoglie e li consegna ai riavutisi dalle bruciature e insieme, si recano alla fornace della rappresentanza. Sui cocci, sui frammenti di vaso si evade il proprio dovere di rappresentato e si formula il rappresentante della terra. Il suffragio si svolge in un ambiente surriscaldato. Il suffragio è segreto. La forma del coccio è una forma difforme. Il segreto della forma è appannaggio del frammento. Il frammento forma il suffragio. La forma del frammento suffraga la rappresentazione. La formula della rappresentanza consegna la forma difforme alla forma conforme. Il vaso appartato sul piano decorativo ha assorbito la decomposizione, il disseccarsi del fiore strappato alla terra e nel frantumarsi, ne ha rilasciato l’olezzo di uno sbocciare ato. I vasai lavorano l’argilla e con la manodopera tentano di decifrare gli arcani della sedimentazione. Non divulgano i segreti del mestiere, sono i presenti alla colorazione dopo la cottura. Le donazioni propagandano lo spettro cromatico in cui risalterà la tinta del decotto. I rappresentanti della terra articolano il programma della tinta sulla maggiore visibilità in terra. La visione d’insieme avrà, se il duttile vincesse il suffragio, un’evidenza della tale tinta. La presentazione della tinta avviene in una fucina, sia per mantenere alta l’attenzione degli scottati agli ambienti surriscaldati, sia per avvalorare la fotorecezione della tinta sul metallo e non influenzarne la ricezione sulla terracotta. La propaganda è colorita, i duttili fanno appello alla resistenza della tinta alle alte temperature e alle pressioni esterne, la purezza della tinta avvalora la durata della rappresentanza; i duroni si richiamano all’impermeabilità della tinta, una tinta su cui lo spettro cromatico scivola, una tinta garante della visione d’insieme e dell’affresco. Un affresco che non sfumerà mai nel grigiore della rappresentanza duratura, la litografia di un quadro
d’insieme. Gli indotti si affidano alla tinta rivoluzionaria, la tinta che si rigenera da sé, una tinta che girovaga attorno alla visione d’insieme donandole una forte tinta, la revisione della tinta. Gli scottati, che han raccolto i vasi appena sfornaciati senza attendere il tempo necessario al consolidamento, sicché si ritrovano con delle piaghe nelle palme delle mani, sono estinti. I riavutisi dalla bruciatura sono propensi a frantumare il vaso, ricevuto per contrassegno, e a recare il coccio al tornio; sono intinti. Sia gli estinti che gli intinti sono mossi dal segreto, gli uni desidererebbero estinguere il segreto, gli altri intingersi di mistero. Il segreto è l’efficienza del suffragio che seconda la causa formale del frammento. La scala cromatica è la disposizione dei cocci sul mosaico del mistero, dai sondaggisti adeguato alla terminologia del mosaico dell’enigma. I tasselli incocciano l’intera figura del sondaggio, la raffigurazione che informa il suffragio. I sondaggisti sono gli imbrattatori, spargono i colori per cospargere il suffragio del colore più in voga, configurano la colorimetria. Il riconoscimento del suffragio avviene con la visione del coccio, il segreto non è la formula, la formula del coccio, non vi è alcuna formulazione, non è offerto al suffragista alcun formulario con cui raccogliere il frammento. Il suffragista riavutosi dalla bruciatura, ne ha ate di tutti i colori, intinge il coccio nelle piaghe delle palme e modella la preferenza del colore, ne estingue la formula, il segreto del suffragio è in piena vista appena è consegnato al tornitore, che diventa di tutti i colori. La combinazione di tutti i colori. Il frammento spogliato della tinta è pregno del colore tornito. L’eletto è il riformato dal suffragio.
Sana e robusta costituzione
L’attività fisica è mutuata in un ambulatorio. L’attore si reca nel locale e eggia. Cammina nell’ambiente della visita e mostra come i muscoli tengano il o della fisica, in orario. L’orario di visita della fisica è riportato su un diagramma tenotomico. L’attività agonistica non predilige il locale, si svolge nell’agone e richiede che all’attore corrispondano degli spettatori sedentari che lo incitino. Nell’agone l’attività è incitazione a che i muscoli dell’attore non tengano il o della fisica ma lo anticipino, siano un o avanti. L’agonista deve giungere in anticipo sulla fisica, adatto agli strumenti di precisione che assegnano il tempo effettivo di un’attività, deve fare in modo che l’effetto sia una risultanza della causa, un esercizio delle cause, perfezionato dalle concause. Gli spettatori, nell’incitazione, sono pronti ad attestare la legge dell’agone fisico, la legge agonistica e a citarla nelle riviste specializzate. L’intervista dello spettatore è una citazione che fa testo. Gli spettatori redigono le testimonianze con il paradigma del plauso pubblico spronato dallo strumento di precisione. Il tempo effettivo, il tempo di un effetto segnato, riportato dagli strumenti di precisione e comparato all’esperienza agonistica arretrata, è il riscontro di una posizione in anticipo sulla fisica, di un effetto un o avanti alla causa. La convalida di un principio nell’acclamazione del pubblico che ne chiede quasi una ripetizione, un seguito, la conseguenza dell’attività agonistica. L’attività agonistica è commutata nell’agone. L’attività fisica è per lo più per lo spareggio. L’attore è al o della fisica, tiene il o dell’atleta. Pareggia gli esercizi dell’atleta con il respiro. Il o nel locale è misurato da uno stetoscopio. L’attore è seduto con le gambe sospese su un lettino. Le muove a o di marcia, come se stesse marciando sul vapore acqueo. Il sanitarista mansuefà, prima batte con le dita le parti in compendio, il prospetto della schiena e poi, vi appone la placca metallica dello stetoscopio. Nel rispetto della contrazione. Ausculta il riverbero dell’aria, la diffusione dell’aria tra gli alveoli e le stalattiti delle polveri sottili e le stalagmiti dei fumi ivi. Un numero dirige il traffico dell’aria inspirata ed è il numero trentatré. Il sanitarista chiede all’attore di seguire le indicazioni del tre sdoppiato e di mettere l’accento sulla seconda unità del tre, considerando che la prima si è estesa in decine. Il trentatré orchestra l’espansione polmonare con il filtro dell’inspirazione per poi eseguire la fonia dell’aria nell’espirazione del doppio. L’amplificazione dello stetoscopio si flette nei padiglioni auricolari del sanitarista. Il responso della prima esecuzione deriva
dall’espansione dell’aria nei padiglioni, se l’aria assume una forma ovattata a mo’ di goccia l’attore fallisce la prova e l’esecuzione è un disastro, se l’aria riempie la camera d’aria del padiglione la prova e l’esecuzione reclamano il successo, l’esito. È il respiro che recita nell’attore il o senza sforzo dell’atleta. L’atleta si esercita nella traspirazione e l’attore recita, nell’inspirazione e nell’espirazione, la doppia cifra del o senza sforzo. È come un o a due che accenta la seconda cifra dell’atleta come traspirazione e che estende, nelle decine, la prima cifra d’inspirazione ed espirazione. Lo spareggio tra l’attore e l’atleta avviene all’ultimo respiro. È uno spareggio che pareggia l’ampio respiro dell’attività fisica. È uno spareggio che analizza il disavanzo del o dell’atleta sul o dell’attore, o viceversa. L’agonista anticipa la fisica, l’attore pareggia la fisica. Rispetto all’attività agonistica l’attività fisica occupa una posizione arretrata nel campo della fisica. Ma al pari dell’atleta, l’attore spareggia l’attività per mettere in atto l’ampio respiro della fisica. L’attività fisica nel locale deambula in uno spazio dove vige la legge della respirazione, l’attività agonistica si svolge in un agone dove evince l’aspirazione ad anticipare la fisica. Il sanitarista non redige un articolo che attesti il paradigma del plauso pubblico, dà un’occhiata al diagramma tenotomico e cronometra l’orario di visita della fisica, sottoscrive un appunto, un’annotazione, un promemoria, una gnosi di sana e robusta costituzione.
Aion
L’estemporaneo non ha alcun appuntamento. L’agenda dell’estemporaneo è di formato tascabile, solo che le tasche dell’abito sono scucite e l’agenda è un oggetto smarrito. L’abitudine a consultare il quotidiano nel giornaliero delle pagine di un’agenda è confutata dalla lacerazione dell’abito. L’abito da giorno è sdrucito dalla replica del quotidiano. L’agenda smarrita è uno strappo nel quotidiano, uno squarcio nel tessuto dell’abito, nelle abitudini intessute, da richiedere l’intervento del sarto o di una toppa. La toppa che applica allo strappo del quotidiano lo straccio del rimedio, un abito che da giorno è il brandello di un giorno o, nel ricordo d’uso della replica, il brandello di due o tre giorni. Il sarto imbastisce l’abitudine su misura dell’epidermide anallergica. Le prove allergiche adattano il sebo. Il sebo è ciò su cui scivola l’abitudine, ciò che permette di dire che l’abitudine è ben portata. Il promemoria non ha memoria, nella precedenza della memoria, nella memoria precedente non c’è alcun riferimento, alcun termine a cui la memoria possa rinviare, a cui la memoria possa cedere il o in segno di educazione al quotidiano, da cui la memoria possa svilupparsi in memore. La memoria non è riata. Il memore abbisogna del termine, del riferimento della memoria per estenderne il ricordo nell’accordo con il presente. Il memore ria l’appunto e mette un punto al periodo, i due punti del presente. Il memore è presente quando è stata presentata la memoria. La precauzione del memore che, come cauzione del ricordo, richiede la presentazione. In assenza di memoria non c’è presentazione del memore che possa affermare di avere già fatto le presentazioni, di aver assegnato un protocollo alla presentazione. L’immemore estemporaneo non ha alcun appuntamento e pertanto, è puntuale. L’estemporaneo improvvisa il proprio tempo, comincia la declinazione del tempo con la locuzione all’improvviso. L’improvvisazione dell’estemporaneo è sempre un’azione puntuale nel tempo. Non conosce l’inclinazione al ritardo o l’anticipo reclinabile. Più che altro è riconosciuta dall’altro come puntuale. L’estemporaneo incontra l’altro, il temporaneo. Il temporaneo è il memore di un appuntamento. Si è consegnato all’allarme di un multimedia per non dimenticare l’impegno preso. Al primo appuntamento è buona educazione non tardare, la serialità degli appuntamenti, poi, comporterà la diluzione dei minuti. L’allarme, salvato con un leggero anticipo sul tempo dell’appuntamento, l’anticipo è relativo alle abitudini del temporaneo, al tempo necessario all’abolizione della distanza; stordisce e rimette
sull’attenti il tempo, l’etichetta del tempo. Il temporaneo riprende coscienza del tempo non ancora perso e, nell’equidistanza dal tempo perso, non vuole macchiarsi di un neo sul proprio tempo, è giusto in tempo. L’estemporaneo è puntuale, il temporaneo non ne è sorpreso, ma la buona conversazione, che spesso non è mai conversione di tempo, vuole che si sottolinei la puntualità dell’avventore. L’estemporaneo ne è sbalordito, come meravigliosa è la risposta che sventa la puntualità della domanda: avevamo un appuntamento noialtri? Il temporaneo strabilia la propria impresa, la corsa contro il tempo, il suo andare nel tempo. Stupisce il tempo a venire e dà tempo al tempo. Comprende il tempo dell’estemporaneo e l’appuntamento dei due tempisti muta in un incontro dei contemporanei. I noialtri sono i contemporanei del tempo privo di appunti, del tempo dell’incontro che, a dire dei temporanei, è un tempo spuntato. L’estemporaneo concorda con il contemporaneo e il tempo privo di temporaneità è il tempo in tempo. L’estemporaneo percepisce uno strumento al polso del temporaneo, l’orologio. Il temporaneo, che nel fra tempo, è divenuto contemporaneo ne spiega l’uso. L’orologio è la lettura dell’ora, legge l’ora in tempo, segnala ora sei in tempo, ora sei in anticipo, ora sarai in ritardo. L’oramai convenuto. L’orologio è l’in tempo privo del tempo, sostituisce l’ora al tempo. Non il tempo in tempo, ma l’ora in tempo. L’ora circolare nel quadrante dell’in tempo. L’estemporaneo dà del buontempone al contemporaneo e gli accorda il tempismo di chi vuol dare corso al ciclo di un sistema, il sistema del tempora. Nel momento in cui il contemporaneo sfila l’orologio per deporlo come cimelio del ato e metro di un tempo cronologico, l’orologio con la funzione di cronografo, l’estemporaneo ne raccoglie la giacenza. Ne percepisce le lancette, dalle tre ordinarie alle tre di precisione e, poi, riflette il vetro di protezione del quadrante. L’estemporaneo intraprende l’aion e lo pone a contatto con il vetro di protezione, poi lo stacca dal tempo di precisione per leggerne la misurazione. Il quadrante segna lo spostamento della lancetta ordinaria, lunga e sottile. L’estemporaneo non si raccapezza, è invertito, poi osserva con più attenzione, indugia e il vetro riflette la noia. Il cronografo si protegge dall’aion con il riflesso della noia.
Meteo
Rivolgo gli occhi al cielo. Sono coinvolto, come uno scoglio, nell’infrangibile. Il mare, in mia presenza, alza la cresta. Percepisce un agente esterno, un ostacolo che si frappone alla costa. Il fondale è una superficie terrestre inondata. Sotterrato sotto un volume di acque e sommerso da una mota, impermeabile alle esondazioni, il fondale non è la profondità della terra inaccessibile ad un corpo umano privo del suffisso sub, il corpo subacqueo. È la superficie della terra inficiata dalle acque. Interrata come uno sfondo. La massa d’acqua ad un corpo acqueo è trasparente, fin dove il corpo percepisce le proprie estremità immerse. Se immergo un piede nell’acqua, l’occhio lo vede in trasparenza, ma il subcorpo è torbido e il fondale diviene sfondo. Delle acque prive di fondo. L’oscurità subacquea estende in profondità la superficie, superficie priva di fondo, superficie sullo sfondo. La superficie elevata dal fondo. Il profondo, la distanza del fondo, àncora la superficie alla profondità del fondale. Subisso di acqua e dal punto di vista della superficie elevata, uno sfondo. Un fondo profondo e, dunque, sfondo. Uno sfondo alla deriva che, nella trasparenza dell’acqua, nel terracqueo, profonde il territorio su una deterritorializzazione dell’acqua. Lo sfondo alla deriva dà fondo alle acque fin sulla riva, dove il fondale è superficiale. È superficie non inficiata dalla profondità. Il corpo affonda, non è un corpo subacqueo, affonda in superficie. La deriva della superficie nella profondità del fondale, nello sfondo, a riva affonda nel superficiale, nella superficie in cui affonda il corpo acqueo. La profondità è un epifenomeno della superficie. Il meteo della profondità, dello sguardo rivolto in basso, è Epimeteo. La superficie terrestre inondata, la riva, è la spiaggia su cui l’acqua fa da sfondo. La costa riconsegna lo sfondo profondo al fondo di terra. La sabbia entro cui dilaga la terra. Immobile, profonde la battigia. Mobile, sprofonda con il corpo. L’infrangibile, il mare, s’infrange sulla superficie terrestre. E come ostacolo recepisce, concepisce un corpo, e alza la cresta. Il corpo, sulla superficie, percepisce l’orizzonte e nuota. La curva che unisce in un contatto degli spazi, lo spazio acqueo e lo spazio celeste, è la meta del corpo acqueo. Rivolge gli occhi al cielo e nella profondità dell’atmosfera riconosce la superficie della sfera terrestre. Il cielo è la superficie terrestre, o la supereffigie terrestre, oltre l’effigie della terra. Oltre l’effigie della terra, oltre la curva che, intatta, allinea lo spazio acqueo e lo spazio celeste, oltre lo sguardo rivolto al cielo, c’è la supereffigie terrestre. Lo sguardo dell’orizzonte, lo sguardo verticale, si rivolge di un grado
verso la superficie, dopo essersi rivolto di un grado verso la profondità e percepisce la supereffigie. Il cielo è la superficie del vapore della sfera. La superficie affonda nelle profondità dell’atmosfera, negli strati dell’atmosfera. Lo strato traslato della superficie, la troposfera; lo strato che misura la profondità dell’atmosfera, che raddoppia lo strato, la stratosfera; lo strato intermedio, la mesosfera; lo strato corrispondente alle altezze della temperatura, la termosfera e lo strato più esterno, appunto, l’esosfera. Il vapore della sfera, l’atmosfera, in riva agli strati, si allinea alla deriva dell’orizzonte e disegna la curva della sfera. La profondità dell’atmosfera non è un fondale privo di fondo, uno sfondo, è una stratificazione, strati sovrapposti alla curva della supereffigie. Curva che si ritrova nei singoli strati e oltre l’esosfera, appunto, curva della sfera. Superficie che è nei singoli strati dell’atmosfera e per di più nella stratificazione. In riva al mare il cielo è la supereffigie della superficie, il doppio strato della superficie, terracquea e terrestre. Con lo sguardo rivolto al cielo, il corpo in effigie osserva la supereffigie, la superficie della sfera terrestre. Il capo inclinato nel verso del dorso, una curva concava, astrofica che sgobba sulla prostesi. La stratificazione, la profondità superficiale dell’atmosfera è un pro-fenomeno della supereffigie. Il meteo della supereffigie, dello sguardo rivolto in alto, è Prometeo. La profondità e la superficie terracquee, la supereffigie e gli strati dell’atmosfera, il meteo in superficie e il meteo stratificato, la supereffigie di Prometeo e la superficie di Epimeteo, disegnano la curva della sfera terrestre.
Lo strapazzo
In maniche di camicia lo sfollagente stiracchia gli arti superiori. L’articolazione delle braccia si spande da un minimo di novanta gradi ad un massimo di centottanta gradi. L’angolo retto e l’angolo piatto dell’articolazione. Gli avambracci distendono il segmento e diminuiscono la distanza dalla figura adiacente. I polsi prendono sul serio la geometria bidimensionale dell’area da coprire e le mani, con la palma, tracciano un perimetro, con il dorso, occupano l’area. Lo sfollagente urta le figure sottobraccio. Due o più figure sottobraccio, con un’articolazione inferiore al minimo dell’angolo retto, alla minima rettitudine, sono sospette. L’angolo giro non può essere ricavato dalla somma degli angoli sottobraccio e lo sfollagente se ne adonta. Ad onta della sua rettitudine e della piattezza, che a buona intesa sono parte di una coppia di sfollagente, urta le figure prive del senso della misura, di ogni senso della dismisura e, con un’articolazione di un quarto di circonferenza, accerchia i sottobraccio. Un quarto di circonferenza accerchia facilmente un ottavo di circonferenza. Il retto, lo sfollagente prende il goniometro di ordinanza e tira per i gomiti le articolazioni degli angoli acuti. Non si smussano gli spigoli, ma si aguzzano le semirette dell’articolazione per commisurare gli angoli retti. Sul piano non è figurato il sottobraccio, ma gli angoli retti e piatti per completare l’angolo giro. Alle figure è consentito andare in giro, sotto forma retta o piatta, mai sottobraccio, gli angoli si corromperebbero e il piano geometrico sfigurerebbe. La folla si accalca, le figure sottobraccio completano il piano pur eccependo l’angolo giro. Dissimulano l’angolo giro con la spirale sottobraccio e lo sfollagente ne è tagliato fuori, vorrebbe attenersi alla tangente ma la spirale non si presta. La spirale sottobraccio si avvolge intorno alla folla e si allontana dallo sfollagente. L’angolo giro degenera e si rigenera il senso della dismisura degli angoli. La configurazione della spirale non cerchia la folla, non accerchia lo sfollagente. Sfigurare la retta è l’inclinazione dei sottobraccio che reclinano il braccio per il logaritmo. Il girotondo dello sfollagente espunta la spirale, impuntata e raggirante la compunzione; si coordina nel concorso di curva, nella costanza incurvata. La spirale dei sottobraccio girovaga. Le figure sottobraccio danno di gomito alle figure angolari, le figure che avvalorano la gradazione degli angoli nella circonferenza del giro. Il piano del giro è una circonferenza graduata che avvalora l’angolazione delle figure. Le figure angolari convalidano l’angolo giro e si rivolgono allo sfollagente per l’inferenza del cerchio, per accerchiare.
Dal coprifuoco, lo sfollagente calcola come disperdere, allineare alla retta, la parabola della folla. Le figure sottobraccio, con i gomiti angolati attirano le figure angolari, la dissimulazione dell’angolo giro nella simulazione di una spirale forma una spirale iperbolica e non l’ellisse, concessione del goniometro alla degradazione. Lo sfollagente è un asintoto della spirale iperbolica. Non accerchia e nell’emulazione dell’articolazione retta, nell’emulazione di una retta, di una tangente al cerchio, può solo corrispondere alla retta asintotica. La spirale iperbolica è impalpabile allo sfollagente in maniche di camicia. La folla angolata e sottobraccio tiene il polso della situazione e tasta il polso all’angolo giro. Si allontana dal centro del goniometro e occupa per intero il piano geometrico. La folla è una ingente figura sottobraccio che si tiene per i polsi delle camicie, allacciata dai gemelli. Le figure sottobraccio si allacciano con dei gemelli, si tengono per i polsini della camicia con la coppia di gemelli e sono figure gemelle nell’approssimazione angolare, non deferente. Le figure angolari devono attenersi all’esatta gradualità del goniometro per non degradare nell’ellisse, le figure sottobraccio, invece, sono gemellari e approssimative. In coda alla spirale, alle figure sottobraccio, disarticolato procede lo strapazzo. Né in maniche di camicia, né allacciato per i polsini dai gemelli, lo strapazzo indossa la camicia di forza, non ha le maniche con cui articolare l’angolazione del giro, ha le mani legate e non ha le maniche che terminano con dei polsini da allacciare con dei gemelli, ha le mani libere. Lo strapazzo sgualcisce la camicia, non s’inscrive nel piano geometrico con il sistema delle coordinate polari, ma segue la spirale, segue i bracci della spirale, segue la curva della spirale come un punto di sospensione. Indossa una camicia inalienabile.
Il ludione
Diavolo, disse Cartesio. Ho rimediato il soggetto delle dispute filosofiche, ne ho rimediato la specificazione dell’io, il Dio triangolo rettangolo, e ebbene? L’argomento del genio maligno ritorna come se non ne avessi chiarito la sussistenza. Certo che no, io parlo e scrivo di essenza ed esistenza, mai di sussistenza. Se fossi costretto ad emendare la sussistenza del cogito dovrei porre l’ammenda dell’estensione, ovvero l’estensione situata in un divieto di sosta per la res cogitans, e l’impugnazione del divieto mendace, in quanto al cogito spetta la regolazione del piano d’arresto. La chiarificazione della sosta extensa consiste nella luce alogena della res cogitans. Ma nel bene, andiamo oltre e cerchiamo un luogo di sosta nei pressi della nostra dimora, la dimora della sussistenza. Non posso far sussistere l’argomento del genio maligno nella bestemmia, così come non posso far sussistere la prova ontologia con il linguaggio della preghiera. La preghiera è un’eco del cogito che si espande alla tensione di Dio. Dio, la sostanza infinita, perfetta e intelligente, è tensione, così come è il rogito dell’io; la res cogitans è attestata dal rogito e la res extensa è l’estensione di Dio limitata alla materia dell’uomo, materia che, nell’uomo, è extensa, ovvero non possiede tensione. La bestemmia è l’inganno consapevole, invero ho compreso di essermi ingannato e bestemmio contro il rogito, perché mai non mi ha avvertito della fallacia dell’atto o dell’idea infedele? Bestemmio contro il rogato per aver erogato e dato seguito al mio atto ingannato. Ingannevole è il rogato, ingannato l’erogato. Il raggiro dell’io nel girotondo di Dio. Ma la sussistenza è fuori stanza dal linguaggio. Il linguaggio è la risonanza del cogito nell’estensione, il cogito si estende nella res extensa tramite le corde vocali e i gesti del corpo, il linguaggio è la prova dialogica della corrispondenza pensante ed estesa. Quindi, nella preghiera e nella bestemmia rintraccio la chiarezza di una corrispondenza, il mittente pensante e il destinatario esteso, quasi il destino della res extensa in attesa dell’epistola e pronta a replicare, rispondere alle sollecitudini del cogito. Ma la sussistenza? La via più facile mi condurrebbe a far sussistere la res extensa come una propagazione delle onde pensanti, come la vibrazione dell’estensione sotto l’influsso del gorgheggio pensante, la sussistenza del pensante sull’esteso tramite la conversazione linguistica, sussistenza che converte l’estensione al pensiero, sempre nei limiti della res ex-tensa e non nella perfezione della tensione divina. La via più facile conduce al luogo del suvvia, suvvia lasciamo questo luogo, è facile che ci si smarrisca. Il difficile è ritrovarlo,
il luogo del suvvia, il luogo della sussistenza. Vi è mai capitato, cari lettori, di ascoltare nel far del sonno, i rumori dell’arredamento? Gli scricchiolii del mobile o il tossire dell’ambiente domestico? Sono la cacofonia dell’estensione che ingiunge la tensione della res cogitans? Ebbene, nel dubbio, non sussistono. L’argomento del genio maligno mi fa dubitare di tutto, ma nel dubbio non posso dubitare del ma, nel dubbio la certezza è il ma, il ma avversativo e, dunque, sono certo del ma. Il ma come avversativo, si oppone al dubbio, limita il dubbio e congiunge al dubbio il ma che ne fa seguito, a seguito del dubbio, a seguito dell’argomento del genio maligno, il bensì. Al ma avversativo consegue il bensì del ludione, il bensì che fa luce su ciò che consegue dal dubbio. Dal dubbio, dall’ubbia privativa del genio maligno all’indubbio del bensì, al ludione che nel bensì fa seguire l’indubbio al dubbio. È indubbio che il ludione sia una certezza, dalla precipitazione nel dubbio all’elevazione nell’indubbio, è indubbio che al dubbio faccia seguito il bensì. La prova alogena del ludione è racchiusa nella sussistenza. Il bensì sussiste al ma avversativo. Nel verso del dubbio che conversa con la materia, che riversa il linguaggio nella materia e che converte la materia al cogito, nel verso del soggetto insiste il ma, il ma avversativo. L’avversione al dubbio del ma sussiste nel bensì dell’indubbio. Al ma sussiste il bensì, l’assoggettato. La prova alogena della sussistenza del ludione è nel bensì controverso, contro il verso del dubbio e nel verso dell’indubbio. Lo sprofondamento del soggetto e la risalita dell’assoggettato, il ludione. Il dubbio del soggetto è indubbio, assoggettato. Il ludione sussiste al genio maligno, come l’indubbio sussiste al dubbio.
Invano e anodino
Svanito. Adatto a che l’effetto sia infetto, do modo all’azione di commutare in atto. L’azione dichiarata agibile, è praticabile. La pratica dell’azione requisisce la sicurezza dell’atto. Entro in azione, l’impresa, a cui faccio capo, mi assegna la turnazione. Il turno dell’azione è ripartito tra le vicende degli atti. L’avvicendarsi dell’azione è sicurezza d’atto. La vicenda d’atto richiede l’avvicendarsi delle azioni. Le azioni, non diuturne, sono stabilite nel corso di una riunione temporale, il tempo d’azione è riunito al turno della coazione all’atto e, nel contempo, alla successione della coazione all’atto. Nella vicenda d’atto, il turno d’azione, la turnazione si avvicenda nella coazione per riunire il tempo d’azione. La riunione temporale prestabilisce che per compiere un’azione siano ripetuti più e più volte, per di più volte, in un lasso di tempo, i turni a che l’impresa faccia presa sull’immediato. L’impresa mediata nel turno, nel turno ad esempio suddiviso in tre turnazioni, in un lasso di tempo giornaliero, fa presa sull’immediato, e l’azione è immediata in un solo giorno. La sicurezza dell’azione immediata, un’azione che non proroga l’inazione, è incasellata nel riquadro della commedia. La commedia è suddivisa in trenta scene, più e meno un’esplicazione del finale, che si ripetono nei dodici atti. La scena dell’azione, la scena dell’azione nei turni giornalieri, assume la sicurezza dell’atto che inscena le trenta successioni dell’azione. Un’azione non eccede il turno, accede all’immediato e concede la mediazione all’atto. L’atto è l’azione media, l’azione adatta, l’azione che riempie la scena e conclude l’atto. L’azione che, in atto, espande l’immediato nella mediazione dell’adatto. Il soggetto del turno, il turnista a fine atto è un adattato, un soggetto adatto a mettere in scena l’atto della commedia, un atto che rimedia al vano dell’intervallo. Nell’intervallo, tra un atto precedente e un atto successivo, l’adattato rigetta il soggetto nel vano. Il vano è la compressa pausa tra gli atti, la depressa pausa delle azioni. Fuori dei luoghi dell’azione e nel vano dell’intervallo. Nell’intervallo l’azione vana, la turnazione riprende il diuturno e sciopera. La riunione temporale, le fasce di tempo per l’immediato dell’azione, la concertazione tra il tempo sindacabile e il contempo impresso, il tempo imprenditoriale, non ha intrapreso il diuturno. L’impresa dell’immediato, la sicurezza della commedia, la presa dell’atto, senza l’intrapresa del diuturno, è vana. È vana la suddivisione del tempo immediato senza il termine del diuturno, priva dell’intermezzo diuturno. Invano l’azione è immediata in un solo giorno, invano l’atto media l’azione nell’adatto, la
mediazione dell’adattato. L’atto e l’azione sono una commedia priva d’intervallo. L’intervallo, l’intermezzo diuturno sopraggiunge e, giustapposto alla turnazione, la rende invano. È invano una turnazione immediata e rimediata dalla mediazione dell’adatto. L’azione senza conseguenze diuturne, perde la sicurezza dell’atto. L’atto non diuturno è disadattato e l’effetto dell’atto si manifesta nello sciopero. L’azione sciopera per la mancata adeguazione al tempo di sicurezza del diuturno. Un rischio di giro a vuoto grava sulla turnazione priva di diuturno. Il rinnovo dei turni non conserva il diuturno, ma l’immediatezza dell’azione nel corso dei giorni mediati dall’atto adatto. L’adattato nel contratto della commedia richiede e auspica più repliche possibili, per poi rimediare nel disadattato. Il disadattato concerta l’intermezzo del diuturno, invano si adopera per l’atto coatto. Invano l’infezione dell’atto si propaga, invano l’atto ci qualifica come adattati. L’intervallo tra gli atti è presente, sempiterno, secondo gli ispettori attoniti, il diuturno è la conclusione dell’atto. Un atto non opera, sciopera. Nel diuturno l’atto si adopera a che sia inadatto all’adattato, adatto al disadattato. Svanisce l’effetto dell’atto, l’azione è praticabile nell’inagibilità dell’adatto. L’azione è compiuta invano. La pratica dell’azione inquisisce la sicurezza dell’atto, anodina. L’adattato è anodino, nell’invano dell’azione l’atto è vano. Il disadattato è anch’egli anodino, ma l’inagibilità dell’azione è l’inatto dell’atto.
La compulsione del rincuorato
I demotivati del cuore sono in attesa di trapianto. I moti del cuore motivano la pulsazione. Il cuore pulsa e distribuisce nel corpo la motivazione. Il corpo motivato, sotto l’impulso del cuore, si avvicina ad un corpo uniforme, il corpo cuoriforme, e lo pressa. La pressione della motivazione in un corpo cuoriforme segnala la pulsazione. I moti del cuore, nei corpi cuoriformi, s’indirizzano verso il medesimo arresto cardiaco e, nell’aver a cuore la salute del rincuorato, sono disposti a donare il proprio cuore. Il rincuorato non ausculta il battito rimpianto ma reimpianta il battito a venire. Nelle sale d’attesa del pronto soccorso si scorgono tante coppie di rincuorati e cuoriformi, che nell’intanto dell’attesa, convengono l’un l’altro promesse a cuore aperto. L’intervento cardiaco è un intervento reciproco dilatato nella frequenza delle pulsazioni, chi ha donato il proprio cuore al rincuorato ne reclama la legittima scintilla. Chi è rimasto senza cuore chiede al cuoriforme di donargli il suo cuore e, di buon cuore, il cuoriforme gli offre il proprio cuore. Nelle sale d’attesa del pronto soccorso, nella dilatazione pulsatile, si assiste alla previsione del colpo di fulmine che si manifesterà tra i rincuorati e i donatori di cuore, e che sarà registrato dal cardiografo. I cuoriformi subiscono un incidente, collidono con l’uniforme corpo cuoriforme, in tal caso il rincuorato, e previa sottoscrizione della donazione di organi vitali, corrispondono il proprio cuore. In cuor suo il donatore nutre dei dubbi sulla dinamica della pressione, ma il rincuorato lo rincuora, appunto, con la compatibilità compressa. La pressione del rincuorato sul donatore è compressione, la pressione del donatore sul rincuorato è depressione. Le pressioni dei moti del cuore, la motivazione del cuoriforme. Il rincuorato è in estasi per il cuore nuovo, il cuore da ospitare nella gabbia toracica, protetto dal commiato organico. L’intervento incidente è di prassi che riesca, nel buon fine, ovvero tra corpi cuoriformi il riconoscimento della pulsazione è motivato, la pressione è nella norma di due cuori e un pronto soccorso, due cuori e un’impronta del concorso. Un colpo di fulmine ridà energia al cuore. Il decorso post-operatorio può essere, bensì, caratterizzato da un’infiammazione del cuore rincuorato e dal rigetto. Il rifiuto del cuore donato rende tale il rincuorato. Il rincuorato rigetta il cuore per stabilizzarsi nella pazienza del rincuorare. Se il cuore donato fosse ospitato e tenuto in gabbia tra i moti del cuore, le pulsazioni e le motivazioni, il rincuorato non sarebbe più paziente, ma dal cuore inquieto, nell’impeto di un cuore. Le nuove tecniche operatorie del pronto soccorso per un
concorso dei cuori, prevedono l’impianto di cuori artificiali, ma il rincuorato è ben cosciente della propria pazienza e per nulla al mondo si lascerebbe distrarre da palliativi artificiali. L’artificio di un cuore può solo pompare nella gabbia toracica il moto immotivato del cuore, del cuore pronto ad evadere per correre dietro, per pulsare altri cuori, in poche parole, un cuore infedele. Il rincuorato circola nella propria patologia e non vuole lacerare l’apparato circolatorio. Non tanto per la cicatrice, segno di un cuore trapiantato e di una motivazione cuoriforme, ma quanto per poter apporre la mano a fianco dello sterno del corpo cuoriforme. Il rincuorato predilige sentire, anzi contattare il cuore del cuoriforme con l’apposizione della mano sul versante della gabbia toracica ove è in isolamento il cuore. Il rincuorato esperisce la pulsazione del cuoriforme per poter affermare che è o un senza cuore, o che ha cuore. Ecco come i moti del cuore mutano in emotività. I moti del cuore nella congiunzione motivata, nella pulsazione emotiva, la forma del cuore nell’impulso emotivo. I rincuorati nella motivazione e i cuoriformi emotivi. Il rincuorato dopo vari trapianti è demotivato e compulsivo nel reiterare le donazioni e i rifiuti. Il donatore è motivato da un’incisione che lo apre alle pulsioni del cuoriforme. Ad entrambi sta a cuore la circolazione emotiva del cuoriforme. Il rincuorato demotivato può ritornare ai moti del cuore e divenire, a sua volta, donatore, nell’estasi emotiva gli sta a cuore il cuore del donatore e non lo rifiuta, anzi ne sdoppia la muscolatura e da rincuorato muta in donatore, così come il donatore a cuore aperto diviene rincuorato. Entrambi, nell’emozione cuoriforme, mostrano la palpitazione dei cuori indossando una tunica, per entrambi il cuore è coperto dalla tunica del miocardio. Il cuore sdoppiato è il miocardio.
Epigramma
La frequenza di un’azione su onde radio. La trasmittente è l’onda che s’infrange sull’azione a livello della reazione. La ricevente è l’onda che, rincorrendo le correnti, si rifrange sulla reazione sollevata dall’azione. La concorrenza dello spazio ondivago, dello spazio percorso dalle onde infrante e rifrante è la corrente dello spazio radioattivo. L’attività dell’onda radio increspa la superficie dello spazio, del corso spaziale e ne dà il segnale radio. Il segnale radio è una processione, una cessione dello spazio ivo per l’attività ondivaga. Lo spazio, prima di concorrere all’emissione di correnti inondanti, è uno svago. Uno spazio ove lo svago s’estende, l’estensione dello svago nel culmine del finito. Non che ci sia un termine, un confine allo svago, dato che nello svago lo spazio divaga, tende e intende raddoppiare il vago privo di onde. Purtroppo, il finito funziona in proporzione al confine e la finalità del finito nell’ingiunzione, nella giuntura, si ferma alla preposizione del con. Nel confine il finito si afferma ai margini del finire, al margine del confine, e lo spazio svagato, lo spazio divagato, al confine è spazio vago, spazio segnato dai frangenti di una preposizione dell’onda sul livello dell’azione. La ività dello spazio, di uno spazio soggetto alle ioni accidiose, allo svago, nella proporzione del confine è assolto con la processione del segnale attivo. Lo spazio ricorrente non è ivo di un girovagare o di un vagabondare, è lo spazio dello svago, della divagazione. Non conferisce al vago alcuna determinazione, si ritiene nell’indefinito del divagare e dello svago. È attivo il segnale radio, la propagazione di un’azione ondeggiante. Il confine ha due versanti, il confine conversa, è un confine conversante. Il versante della trasmissione diffonde l’azione, il versante della ricezione confonde la reazione, per poi infonderle le modificazioni dell’azione. La reazione, sollevata dall’azione, scorge la forma dell’azione, l’informazione e, lambita dall’ondivago, si conforma. Sperimentato il segno, l’informazione dell’azione su di sé, sul proprio territorio, il territorio sollevato, la reazione misura dapprima l’altezza sul livello dell’azione e il rimedio all’azione, dipoi si conforma all’azione, nell’ondivaga modificazione è effetto di vertigine. Si risente della ività, risente la ività dello svago, solo che nella modificazione la ività non è mai svagata, è una ività vaga, non prostetica. Vaga la reazione e nella conformità non sa che fare, non concorda con alcuna reazione esperita, è inerte e consegnata all’ondivago. Ondeggia ed è modificata dall’azione, è una reazione ricevuta. Ha ricevuto il segnale radio, il segnale
radioattivo e ne è modificata. Al giorno d’oggi i dilettanti di fisica direbbero che ne è contaminata, ma nel giorno venturo diremmo che ne è modificata. È una reazione reagita, al diverbio con l’azione risponde con il proverbio della reazione uguale e contraria. La reazione reagita non è uguale e contraria all’azione agitata, è sdoppiata dall’azione agita, che nel doppio è azione agitata, è la sonda che dall’ondivago, dalla ività dello svago riprende la prostesi per l’onda reattiva. L’azione a livello dello spazio svagato emette delle onde. Le onde s’immettono nello spazio svagato e, non infrante o rifrante, sono frante, i frangenti dell’azione. Le onde dell’azione s’infrangono, poi, sull’azione trasmittente eppoi sulla reazione ricevente. Le onde, le onde vaghe e attive increspano la superficie dello spazio e si lasciano trasportare nello spazio, sono anfibologiche, sia in superficie che nella profondità della corrente. Il segnale radio delle onde, l’attività dell’ondivago è la radiazione. Le radiazioni sono nello spazio svagato e ne modificano la composizione, o meglio, ne assegnano una composizione. Lo spazio svagato è sconfinato, scomposto in un senso di dissenso. Fuori posto e non deposto. Dissente le onde radio e la radioattività. È un dissenso ecologico. Divaga nella logica dell’eco, svaga il senso composto nel dissenso fuori posto. Lo spazio ascolta la eco della propria svagata divagazione, la logica della spazializzazione. Fino al giorno in cui è riconosciuta allo spazio la modificazione dell’azione e se ne assegnano i confini. Lo spazio ecologico in diffusione deve echeggiare la trasmissione e la ricezione delle azioni. Lo spazio è infranto dall’ondivago e rifranto nell’ondeggiante. La radioattività rimbomba nello spazio, doppia lo spazio con l’attività ondivaga, con il segnale radio, lo spazio svagato e divagato. È importante sottolineare che la divagazione dello spazio, l’ecologia della spazializzazione non è né coperta né riempita dall’attività dell’azione radio, in quanto la divagazione nello svago è tutto fuorché vuota nonché lo svago non si paralizza in presenza di un’azione, di un’onda vaga. Lo svago non perde la s, la prostesi, in presenza dell’ondivago, men che meno ne è trascinato al largo, alla deriva nella zona di confine. La radioattività modifica lo spazio, lo doppia, spazio vago e spazio svagato, l’articolazione dello spazio radioattivo e ecologico. L’eco di un segnale radio e la eco di una logica dello svago. L’epispazio in epigramma: la radioattività detona la spazializzazione; lo spazio ecologico denota lo svago dell’azione, fa brillare l’azione.
Precauzione
Nulla sfugge all’attenzione. All’erta. Il picco di attenzione assale il lasciarsi andare. La pendenza inclina alla dipendenza. La china della dipendenza allenta il freno dell’attenzione e reclina. La dipendenza non è distrazione, è l’aderenza al declivio, la coesione di due forze, la forza del pendio e il rinforzo del reclinato. Il reclinato è coerente, non insegue l’erta ma esegue la pendenza. L’esecuzione del declivio rinforza l’adagio del reclinato. Aderente alla pendenza, coeso al rinforzo del piano inclinato, e coerente con l’esecuzione dell’inclinazione, il reclinato dipende. Rifugge l’attenzione con l’adesione alla pendenza. E nell’impervio ruzzola come una grave dipendenza. Il tentativo dell’attenzione coopta per l’intraprendenza. La cooptazione verifica la pendenza su designazione dell’erta. La pendenza diviene carica della prensione, del prendere l’attenzione per l’arrampicata della pendenza, e l’intraprendente è in guardia. Con riguardo all’inclinazione e alla dipendenza rinforzata, declina il pendio per l’indipendenza dell’erta. Sugli attenti e in stato di guardia, l’intraprendente sottostà alla pendenza come inerpicata. Il rinforzo del reclinato nell’intraprendente è il puntello con cui appiana lo sforzo dell’impresa. L’angolo d’inclinazione di una pendenza dal punto dell’erta è punto d’impresa e richiede uno sforzo, l’aggravata indipendenza. Né forza del pendio, né rinforzo del reclinato, ma sforzo dell’intraprendente che sistema in equidistanza dei puntelli di sicurezza cui sostenersi nell’inerpicata. L’equidistanza è la salvaguardia dell’impresa, agganciata alle corde di sicurezza di un piano base. L’equilibrio che fa presa sull’attenzione all’equidistanza, l’equilibrio sostenuto e non l’equilibrismo alla distanza. Alla distanza subentra l’adesione alla pendenza e la dipendenza del reclinato. Attento, all’erta, nulla sfugge all’intraprendente, propende per l’inerpicata; dipendente dall’inclinazione, il reclinato rifugge l’attenzione per pendere, dipendere dalla pendenza, senza essere appeso all’equidistanza. L’uno opta, o meglio è cooptato dalla designazione dell’erta, l’altro opta per l’inclinazione della pendenza. L’uno propende per l’erta, l’altro pende per il declivio. In entrambi i casi il piano allineato è la cauzione. Il grado zero, l’angolo zero del piano è in cauzione. L’indipendenza dall’inclinazione e la dipendenza dalla pendenza sono tali in cauzione di un piano allineato, un piano zero. Dapprima delle opzioni, dell’erta e del declivio, non può che sussistere il piano zero. Il piano allineato non appiana l’erta, né ripiana il declivio, è in un caso il piano base di un’arrampicata intraprendente e nell’altro caso il piano
rialzato di un declivio impervio. L’equilibrista sottolineerebbe l’indipendenza, mettendone in rilievo la pendenza, e sopralineerebbe la dipendenza, precipitandone la propensione, lo squilibrato delineerebbe la codipendenza dall’inclinazione, ma l’occasione allineata non rende l’intraprendente equilibrista e il reclinato squilibrato. Nell’adagio dell’ascesa e della discesa il piano zero è il pianoterra della cauzione. Dallo stare in guardia dell’erta, dalla posizione dell’erta, la cauzione è la dipendenza declinata, l’angolo d’inclinazione che ripiana l’angolo piatto del pianoterra. Dal declivio impervio, dall’adesione alla pendenza, il piano zero, la cauzione è l’erta appianata, l’angolo cauto, prima del precipizio, dell’angolo dipendente dall’inclinazione. Antecedente alla cauzione è la precauzione. La precauzione è in linea con l’angolo zero, con il piano zero. Dal piano allineato la precauzione puntualizza la linea retta dell’erta e a grandi linee è allerta, nel piano di guardia, nel piano rigato, appiana l’attenzione con la domanda: “Chi va là? Di punto in bianco?”. Di certo l’intraprendente, a cui nulla deve sfuggire, per non inclinare all’impervio. L’intraprendente che si aggancia alla risposta, la risposta sul chi vive, diretta. La precauzione tratteggia l’inclinazione del declivio e nel piano di fondo, nel piano rigato, ripiana la pendenza con la dipendenza grave. Un dipendente non si sottrae alle leggi del grave, altrimenti costituirebbe un’impresa. L’impresa dell’intraprendente all’erta. Il piano rigato è il piano precauzionale, il tratto di piano distratto, ovvero nel tratto rigato il senso è unico, unico anche nella distrazione, in riga. Nulla fronteggia l’attenzione nel piano rigato. Nel piano rigato è contratto il senso unico e il non rompete le righe. Ci si mette in riga secondo il piano allineato, l’ordine della cauzione, e il sopra le righe è arringato con il tirare una riga; un piano irrigato, un piano con più righe. Nella precauzione della linea retta, del piano rigato, l’intraprendenza e la dipendenza, la designazione e l’inclinazione, la propensione e la pendenza, l’erta e l’impervio, sono la perequazione del piano rigato. La cauzione del piano allineato è l’equazione di una linea inclinata, la precauzione è la perequazione di un piano rigato.
Acatalessia
Tarasso non è appartato. Tarasso si allontana dal proprio appartamento. È in istrada. È instradato. Tarasso compartisce la strada con la via dei pedoni. A piedi, conseguono i sensi di marcia e inseguono la destinazione delle orme. Le orme indicano la forma del luogo cui sospendere i piedi. È norma che, giunti a destinazione, ci si aggiunga alla torma dei predestinati e ci si sieda in sala d’attesa con i piedi sollevati. D’intesa non accavallare le gambe, prerogativa di un solo piede a mezz’aria. Sospesi o caduti in piedi, si ha tutto ai propri piedi. Se i posti a sedere sono esauriti si rimane in piedi, su un piedistallo. In ogni caso lo stallo dell’attesa, dell’effetto della destinazione. Tarasso è ai piedi di una scala e su due piedi scende, anzi discende piede per piede. Un tornello rende la via meno ovvia. Cedere il o al verso del pirrichio. Tarasso riprende il verbo intascare ed emette il lasciaare. L’obliteratrice ronza e concede al eggero la prova di forza con il braccio mobile. Il braccio di ferro si conclude con la registrazione dell’orario di partecipazione al gioco e con il aggio del turno. Tarasso su ritrova di nuovo ai piedi di una scala, ma questa volta punta i piedi e occupa il gradino della scala. Una scala mobile per un catalettico. Il gradino lo trasporta a piè di scala e dopo il ricorso alle rampe, si ritrova sulla banchina, all’interno della linea gialla. I binari vibrano e tra uno zero di attesa e un uno di o d’intesa, il treno è visibile. I binari sono coperti e i i di Tarasso oltreano il sistema binario per raggiungere il vagone di coda. L’ultima porta, prima che il vagone con un colpo di coda si muova alla percezione, è alla portata del o. Tarasso allunga il o e sora la fessura, l’intercapedine binaria fra la banchina, oltre la linea gialla, e il vagone. È sul treno. Un suono sotterrato o uno scampanio nel sottosuolo annuncia la chiusura delle porte e la ripresa del moto. Lo stridore delle ruote sulle rotaie, del metallo sul metallo, e la cacofonia del ferro binario, amplificata dalla galleria, occupano l’ascolto dei eggeri. Tarasso è in piedi, posti a sedere sono disponibili ad ospitare il peso specifico di un corpo o di più corpi, ma, nulla da eccepire se il eggero è in piedi. Tarasso accompagna il movimento del treno, procede in lungo per il vagone e, sia nel senso di marcia che nel controsenso, percorre, moltiplica la corsa tra una stazione e l’altra. La sua inquietudine non è la diminuzione del chilometraggio con la metrica del vagone, la metrica dei i che procedono in lungo per il vagone, è il percorso, la moltiplicazione della corsa. L’inquietudine, che agli occhi degli altri eggeri appare come irrequietezza, è nella quiete del
percorso, nel numero delle morae. Alla stazione seguente Tarasso, che si ritrova in coda alla prima porta del vagone di coda, scende, sora l’intercapedine, eggia sulla banchina e ria sulla fessura binaria. È nel penultimo vagone. Lo scampanio sotterraneo annuncia la ripresa del moto e la ripresa in lungo del percorso. Tarasso percorre con il penultimo vagone, o nel penultimo vagone, la distanza tra una fermata e l’altra. Il senso e il controsenso del percorso dimostrano il trasporto di un corpo su un corpo metallico. Ancora una volta Tarasso è in coda alla prima porta del penultimo vagone, le porte si spalancano appena la resa dello stridio, delle scintille dei freni sul ferro delle rotaie, consegna il sistema binario all’intercapedine dei binari. Si ripete il soro binario e la ripresa del percorso sul vagone antecedente, e così, di pari o, fino al primo vagone che, nel senso di marcia, è il vagone della motrice. Il o lungo di Tarasso, di vagone in vagone nel senso di marcia e da motrice in motrice nel controsenso, traa nell’ultima fermata. Il percorso in lungo nel vagone è giunto al capolinea. Il tempo di apertura delle porte non è limitato alla statistica dell’uscita e dell’entrata dei eggeri ma al tempo di percorrenza dell’intero convoglio da parte del macchinista, il titolato del corpo meccanico. Tarasso sora l’intercapedine, accompagna con lo sguardo le orme del macchinista e, quando questi giunge all’ombra del primo vagone, ex ultimo vagone, vagone della motrice, ria la medesima intercapedine binaria, risale sul medesimo vagone, ora ultimo vagone, e riprende il percorso. Il trao dell’ultima fermata è il o di una fermata un po’ più lunga. Il trao riprende dall’ultimo vagone, di vagone in vagone e da motrice a motrice. Il capolinea non ha colmato la distanza dalla stazione intermedia alla stazione estrema. Il capolinea rimanda al capoverso e nel verso di marcia, nonché nel percorso controverso, Tarasso giunge all’altro estremo della linea metropolitana. Dal capolinea al capoverso dell’altro capolinea. Il capolinea, altro estremo, è un nuovo rimando al capoverso. Non siamo in presenza di un testacoda, il testacoda è la ricorrenza della motrice nel corpo meccanico, ricorre nella testa e ricorre nella coda. Il percorso di Tarasso è una moltiplicazione delle corse, delle corse prive della destinazione, è un capoversolinea. Percorre la linea. Tarasso è acatalettico.
Isteresi
Immedia e Rimedio sollecitano l’incontro. Rimedio, stanco degli incontri medi, degli incontri rimediati da un confronto dei riscontri, è solleticato da un incontro immediato. Rimedio è puntuale al riscontro dell’incontro. Il riscontro è un promemoria, un esercizio della memoria per stabilire a che punto sia degenerativo il processo mnemonico. Ha letto, da qualche parte, probabilmente in un memoriale, che il processo mnemonico sia in realtà un regresso, regredisce con l’accumulo dei ricordi e, a quel che si sa, il cumulo dei ricordi tende a regredire l’avvenimento concordato. La concordia, vissuta e accumulata nel processo mnemonico, nell’istante in cui è richiamata al presente, come una custode del vissuto e una guida del rivissuto, regredisce e non nel senso che torna indietro al periodo concorde, non giustappone la concordia. Regredisce, in quanto il periodo concorde accorda al presente la modificazione del ricordo. Il ricordo conosciuto e risaputo per i modi fini, fa in modo che il presente saputo sia risaputo nel ricordo. L’accordo del presente e del ricordo suppone nel ricordo la concordia del presente. La concordia, vissuta e accumulata nel processo mnemonico, è pronta a regredire al primo richiamo del presente. La regressione della memoria è l’avvenimento ricordato e concordato nel presente. Rimedio ricorda, nel promemoria, il riscontro dell’incontro e nel presente, in punto, ne concorda l’incontro. Nel confronto del riscontro con l’incontro, Rimedio ne concorda i pro e i contro. Il riscontro dell’incontro è l’avvenimento accumulato, l’incontro la pellicola, la patina in superficie del cumulo, l’accordo a che lo strato esterno del cumulo concordi al presente, concordi un che di non ancora accumulato. Concordare un che di non ancora accumulato, la pellicola, la patina, lo strato esterno, la superficie del cumulo che è di per sé nel cumulo. Il rimedio della concordia, invero il ritardo della concordia, fare in modo che il presente sia in ritardo nell’accumulo di ricordo. Che il riscontro dell’incontro sia in ritardo sull’incontro. Immedia si scontra sia con il riscontro dell’incontro, sia con l’incontro. I pro e i contro dei confronti non fanno media in Immedia. Immedia non fa fronte all’incontro con i riscontri accumulati e gli incontri da accumulare, sul cumulo. Immedia si scontra con il ricordo, con l’accordo e la concordia, non ha letto da qualche parte, il memoriale è improbo, la regressione del processo mnemonico, ma si diletta con il progredire dell’immediato. Immedia incontra l’immediato. L’incontro è nell’immediato. Privo di mediazioni, confronti, riscontri, l’incontro immediato affronta il contro. Di fronte Immedia si para la
commedia dei dimenticati. La fronte d’Immedia non può evitare l’affronto del dimenticato e si scontrano. Il bifronte fa sì che i due, Immedia e il dimenticato, ne portino i segni sul corpo, quali i lividi. Il dimenticato non ricorda perché sia caduto e contro chi abbia urtato. Immedia fa mente locale e trova lo spazio occupato. L’incontro nel dimenticato è un incontro da scordare. L’incontro in Immedia è tale solo nel ritardo. Immedia si attarda a farne mente locale e, nello spazio occupato dallo scontro e dai lividi corporei, afferma l’incontro. In Immedia il progredire dell’immediato è nel ritardo con cui si afferma l’incontro. Dallo scontro immediato all’incontro ritardato. Il progresso dell’immediato è il ritardo che afferma l’immediato. Un ritardo che si ripete fino alla scomparsa dei lividi, al riassorbimento del pigmento cutaneo, dell’ecchimosi livida. Immedia si attarda nell’incontro e ne è sempre in ritardo. Nel caso in cui Immedia non affondi nel contro, ma eviti il contro, eviti la commedia dei dimenticati, rincontra i successori dell’incontro. I successori, tronfi del successo, si fanno largo, procedono nei luoghi dello scontro pieni di sé. Lo spazio da essi occupato è uno spazio abnorme ed è inevitabile che si scontrino con Immedia. La deformazione bifronte lacera lo spazio, non celebra il trionfo del successo, fa ritornare i successori con il sedere in terra e, nello stupore ineffabile, essi si rialzano con un fare da nulla, come se non fosse successo nulla, come se nulla avesse intaccato e macchiato il proprio successo. Sperano che non sia tutto terminato con uno scontro immediato e che la media del successo sia quella pronosticata dal proprio agente. L’agente dei successori afferma di continuo come il successo faccia seguito ai buoni incontri, agli incontri cui possa riscontrarsi il rimedio, all’accumulo del progresso mnemonico sul pubblico incontro. Ma i successori disperano, si sono scontrati con l’immediato. Immedia si rialza dalla deformazione bifronte e dell’eccesso dello scontro non ne fa media. Ne ritarda l’immediato con l’affermazione dell’incontro. Affermazione, in ritardo, cui fa seguito il declassamento dei successori dell’incontro ai commedianti dimenticati. La sollecitazione all’incontro in Rimedio satura la puntualità dell’incontro, la coercizione del riscontro ritarda l’accumulo dell’incontro. Il riscontro dell’incontro in ritardo sul presente dell’incontro, l’incontro in ritardo sul riscontro, il confronto fuori media. La sollecitazione all’incontro in Immedia si scontra nell’immediato, l’incontro è il progredire dell’immediato, l’immediato nel dire, nel dirsi dell’incontro. Dire dell’incontro che è sempre in ritardo. Il progredire dell’immediato nel ritardo con cui si afferma l’incontro. Le sollecitazioni ad un incontro fra Rimedio e Immedia si riscontrano nel cumulo del ricordo in ritardo e si scontrano con l’immediato che tarda ad affermarsi. Rimedio è solleticato da un incontro usa e getta, Immedia è solleticata da un incontro aduso e rigettato. Nel rigetto l’immediato non tarda e nell’usa e getta
l’incontro non si attarda nel riscontro.
Eu
Il dittongo annuncia la voce del bene. La vocale congiunge l’accenno del bene all’accento perbene. La vocale velare chiude il bene alle sillabe che si spoglieranno dietro il velo palatino del dabbene per pronunciare l’ebbene. La dabbenaggine del nuncio preoccupa. Il nuncio occupa il luogo e nel da del bene ne riferisce i limiti. I margini del bene, l’origine e la finalità, arginano il da come separazione, come distinguo del bene dal male. Denuncia, nella vocale congiunta, il messaggio non recapitato, originato da un bene messo a disposizione ma non giunto a destinazione, un bene che torna alla posizione di partenza, quasi un bene indisposto. L’indisposizione è l’eccesso di bene che nella dabbenaggine si disperde tra i disposti a ricevere la missiva, i sostituti del destino, i congiunti della compitazione nel vincolo della sillaba, e il destinatario non corrisposto. Il posto del bene nella dabbenaggine, sebbene sia riposto nel destino dell’annuncio, non giunge alla pronuncia, è oggetto di denuncia. Ma la denuncia dell’omesso preannuncia l’ebbene. L’omissione non è la denuncia contro l’ignoto, è la promessa di emettere il bene, la commessa del bene. L’ebbene è il bene che tralascia il da del dabbene. Lascia il da dell’origine, della destinazione, il da che intende il distinguo e fraintende il messo e l’omesso. Dal fra del fraintendere al tra del tralasciare, al tra del da e della e. Tralasciare il da del dabbene e rilasciare la e dell’ebbene. Il messo nel tra di una membrana comunicata e non nel fra di un fraintendimento scomunicato, commette il bene. La voce del bene prova l’emissione dell’ebbene dietro il velo palatino. Si spoglia del dabbene. Ripone sulla membrana il da arginante e espone la vocale che congiunge il bene. Dall’ingiunzione di un destinatario, dall’ingiunzione di una dabbenaggine che ne sostituisce i destini nell’omesso, congiunge la e, la congiunzione e il bene alla prova dell’emissione. Non è detto che l’emissione del bene si trasmetta nell’ebbene, la membrana comunicata è molle ed è facile che condiscenda al sebbene. Il sebbene è il bene che, nell’ebbene congiunto all’emissione del bene, si rimette al dabbene. La prova della e, della congiunzione e dell’emissione, sebbene sia spoglia del dabbene per esporre l’ebbene, è, altresì, compromessa dalla difterite. La membrana difterica rimette l’ebbene al dabbene, all’origine, in questo caso, dell’infiammazione, della falsa membrana, e nel percorso del dabbene si prognosticano i tempi della missione, nonché il defluire del messaggio. Il bene incorso nel fra di una scomunica, di una membrana molle e condiscendente alla falsa membrana, all’infiammazione della
membrana, il dabbene che, per essere diagnosticato, deve rimettersi, ovvero rimettere il da del dabbene. Commettere il bene nell’ebbene, nella congiunzione al bene, deve rimettere il dabbene e prognosticare il sebbene. Nell’ebbene il nuncio rinuncia alla missione per commettere il bene, la commissione del bene. La vocale congiunta al bene, l’emissione del bene nell’ebbene, discende nel dittongo. Alla trasmissione del bene, che sposta il fraintendimento scomunicato nella comunicazione commessa, subentra la semivocale. La semivocale discende nel bene o, meglio, trascende il bene. Alla e che preannuncia il bene si compone la u che trascende. La semivocale discende nel da, nel se e ascende alla e. Nel dabbene trascende la scomunica, la destinazione del bene è spaesata. Il sopralluogo nella preoccupazione del nuncio trasla il da del dabbene, l’origine e la destinazione del bene, nel bene da pronunciare. Nel sebbene differisce il da rimesso all’origine del bene e il se come premessa del bene, la semivocale incorre nella conseguenza e nella prognosi del bene, ammette l’antecedenza della e. Rinuncia all’apposizione. È il preannuncio del dittongo. Nell’ebbene rinuncia alla posizione per conseguire la composizione del dittongo, dal bene comune, il bene che sebbene sia bene è rimesso alla dabbenaggine del nuncio, ebbene al bene commesso, alla congiunzione che discende dal bene. La semivocale trascende il bene e ne moltiplica la discendenza e l’ascendenza. Il da, il se e la e nella semivocale trascendente divengono il per. Il per del bene trasceso nel perbene. La semivocale e la vocale compongono la pronuncia del dittongo. L’eufonia discendente in cui la e precede la u. Il dittongo ascendente in cui la semivocale trascenda la vocale piena sarebbe un dittongo trascendentale e sia che il perbene non qualifichi il permesso e sia che l’orbene sia dimesso, il bene ne uscirebbe deposto. La deposizione del bene nell’orbene trascendentale, il bene che esorta il trascendente al fraintendimento trascendentale. L’orbene, la promessa del bene trascendentale.
Otto volante
In quattro e quattr’otto infilo l’uno per uno. Un dorso mi precede e un dorso estraneo al dorso precedente si concede di essere preceduto da un altro dorso. L’antecedenza dell’uno per uno produce una fila di dorsi. Sporgo il capo, sfioro con il padiglione auricolare la spalla sinistra, il per dell’uno per uno non poggia su due segmenti ma è in bilico su un unico segmento. Il per è in equilibrio sul segmento, il più dell’uno più uno. I dorsi in precedenza non sono il dorso precedente per l’altro dorso che precede, sono in numero di uno più uno che, nella successione del collo inclinato sulla spalla, cede alla mia testa sul collo il numero otto. Per evitare le contrazioni che seguono al capotorto e per predisporre il capo alla ragione verticale ritorno alla moltiplicazione dorsale. L’uno per uno lascia il tempo che trova. Non misura il tempo di percorrenza della distanza dal principio della fila, in quanto la fila è uno per uno, è una fila unica, principio e coda della fila. Non trova sollievo nel risultare unico in fila e, pronto al contatto con il principio che lo rende ostaggio della fila, il principio è uno e l’ostaggio è uno, conta l’uno per uno nel risultato di uno. Il principio è ciò che si frappone a che l’uno divenga il qualcheduno sfilato. L’operazione dell’uno elevato alla potenza dell’uno nella fila, risulta come un qualcheduno che abbia compiuto la fila e sfili il principio. L’esordio: nel campo aperto all’uno sfilato mi ritrovo in compagnia. Subentra all’uno sfilato, l’attesa per due. Non devo fregare il lobo dell’orecchio destro sulla spalla destra, anche se avevo pensato, con l’uso della ragione verticale, di alzare un po’ la spalla per evitare le contrazioni del capotorto. Mi basta voltare il capo e scorgere l’uno per due. Non il segmento equilibrato dell’uno più uno, ma i segmenti pari, i segmenti di un uno per due. Noi due, pari, siamo in attesa. In attesa che l’uno per due prenda posto sul carrello e gli venga assegnato l’uno e uno. Uno due, ci muoviamo. Prendiamo posto. Uno e uno, siamo seduti. Il braccio di sicurezza cala sul nostro ventre e ci tiene ancorati alla postura corretta, la colonna portante. La ragione verticale intima al capo di guardare innanzi e attenersi all’uno. Il giro ha inizio. I carrelli lasciano alle spalle le addizioni e le moltiplicazioni dell’uno. La parabola dell’otto volante guida la curva della postura, la curva della schiena. La colonna portante non si allinea allo schienale con le braccia tese sul braccio di sicurezza, è importante che si adegui alle evoluzioni della cinetica. Solo nei tratti in salita la schiena si schiaccia allo schienale per poi spalancare le ali nei vuoti d’aria. Planare sull’assenza di respiro con l’apnea. La rarefazione dà quel senso di
ilarità che precede il sopravvento nel braccio di ferro. Ilarità che, nei vorticosi istanti che seguono la vittoria, fa man bassa di tutte le suggestioni per arricchirsi di una pressione allentata. Giunga pure la gravità, dopo la sicurezza del sopravvento nel braccio di ferro, la depressione non mi sfiorerà alquanto. Il classico giro della morte evolve nelle ellissi moribonde e con lo sguardo ben attento a che nulla vada a finire negli occhi, scorre sulla retina l’avvento dello sfinimento. Avverto lo sfinimento e, non più finito, posso affermare, con un urlo, la mia gioia. Le braccia sono allineate alle gambe e paralizzano, con le mani, le ginocchia tremanti. Mi manca la terra sotto i piedi nell’avvento dello sfinimento. Nel ventre un brontolio, non un rigurgito, ma un’eco di una fame mai sfamata. L’ultima salita, la postura corretta, e l’ultima discesa, l’impostura dell’assenza d’aria per un corpo sfinito. Il piano d’arrivo. Da uno sfinito, volto il capo, e ritorno uno e uno finito. Il braccio di sicurezza si solleva quasi in segno di vittoria. Comprendo che non ho mai avuto il sopravvento. Ne esco sconfitto. Esco dal carrello come uno e mi ritrovo nella fila dell’uno per uno. Fila che non trova principi, ritrova l’uscita. Mi attardo, sono paralizzato e non perché abbia le mani sulle ginocchia. Dapprima genuflesso, dipoi cado al suolo, a mo’ di svenimento. Non mi va di rinvenire l’uno per uno, l’uno più uno, l’uno e uno. Allineato alla terra ricordo l’avvento dello sfinimento, mi tengo stretto alla terra, mi avvento sulla terra. Nello sfinimento ho provato la deformazione dell’uno nelle ellissi dell’otto. Dopo la pressione avverto la depressione dell’uno finito. No, non voglio. Ma che mi accade? In terra le ellissi dell’otto, le ellissi allineate alla terra rinvigoriscono il mio sfinimento. Che sia inclinato, decentrato, mio malgrado, inferente nel risollevarmi? Che debba tenere i piedi nella terra dell’uno finito? Ma, dopo le ellissi allineate alla terra, l’uno finito non può che essere infinito. Mi sollevo. In quattro e quattr’otto mi rinfilo nell’uno per uno.
Elettrolisi
L’elettrodo concorre a che l’elektron porti in dote l’organismo. L’elektron importa l’organismo sotto forma di resina difforme. Le spoglie di un organismo infondono all’ambiente quel rivestimento della nudità che, in un tempo precedente, si sarebbe denominato ambiente organico. L’ambiente che lavora a stretto contatto con gli organismi per la riproduzione del vivente. L’organismo spoglio dell’organico, circostante all’ambiente decomposto, è sottoposto alla forma della forma. Le spoglie, come forma di un organismo vivente, sono sovrastate da una forma resinale, non residuale di un ato rivestito. La decomposizione delle spoglie è tenuta a disposizione dell’esposizione, come la sillaba postonica segue la sillaba tonica. L’elektron esporta l’organismo nella formazione di un fossile. Il fossile scritturato nell’elettrolisi non è un organismo estratto dalla cava di un ambiente nell’oscurità del tempo. Men che meno è l’organico attempato, né l’organico imbalsamato, nonché l’organico seppellito. Il culto dell’organico non necessita di un’epigrafe, ma di un occultamento subgrafico dell’organismo. Il balsamo dell’organico nell’organismo fossilizzato, l’ambra gialla. È un organismo esportato, nelle spoglie, alla modalità della composizione. La composizione che, in presenza dell’ambra gialla, risplende dell’esposizione. Dalle cave di un organismo decomposto all’esportazione di un organismo composto. La difformità gioca un ruolo preponderante nella forma, sia la sotto forma che la sovrapposizione si adeguano alla regola della forma della forma. Forma della forma che non raddoppia la significazione della forma o la significanza del difforme, è la specificazione di una forma stratificata della forma. Nel genere della combinazione l’imposizione di una forma su una forma è la distinzione della significazione, la supposizione della forma nella forma è la chiarezza della significazione. La significanza del difforme, nella forma che ripete la forma, è l’intercessione, l’intercalare del significato nel significativo. Il genere intermesso, stricto sensu, nella composizione è la specificazione che stratifica la forma della forma. L’elektron è lo splendore della forma, nell’importazione della resina e nell’esportazione del fossile ambrato. Sarebbe orecchiabile, pronunciato, descrivere una forma contemporanea, una forma giustapposta all’imposizione di una trasparenza temporale, ma la scrittura, il contrattempo della scrittura, splende di difformità. Lo splendore del grafema ambrato è difforme dalla risplendente ambra gialla. La descrizione risplende della forma, la scrittura splende del difforme. Il descritto non informa lo scritto
difforme. La trasparenza che comporta la visibilità della forma cava, dell’incavo della forma, non è una trasformazione, un aggio nel tempo di una forma traata in una forma che insorge. Se proprio volessimo giostrare la significanza della trasparenza dovremmo munirci del tagliando del dissenso e non del senso diafano. Ovvero dissentire dalla trasparenza come sorgente e insorgenza della forma, per stratificare il significato in una specificazione della forma. Lo strato di significato in una composizione di senso, in un’esposizione di senso. Informare la generalità del significato nella specificazione interrelata al senso. La combinazione per converso del significato nella riesposizione della significanza. Una significanza che non fa il verso alla significazione. La significanza della forma ripudia la giustapposizione per assumere la contrapposizione del senso. La significanza del difforme non riassume il consenso contemporaneo, non riesuma l’assenso della forma sottoposta, non desume dalla forma sovrapposta la composizione della forma insorgente, consuma il senso significativo nel dissenso della significazione. La significanza è il difforme, lo splendore dell’elektron. O, nella scritturazione, è l’elettrolisi, la scomposizione del senso nella significanza difforme.
Sporgersi dal finestrino
Accelerato. Binario unico. Posti a sedere in numero precisato. Posti in piedi in numero imprecisato. Posto riservato ai mutilati ed invalidi di guerra e per servizio secondo le disposizioni di legge. La carrozza, messa a norma, prevede una riserva di spazio, un quadrato ancorato alla legge per la sicurezza sul trasporto, con apposito finestrino. L’invalido prende posto e dà valore allo spazio quadrato. L’invalido di guerra riconosce il quadro, il riconoscimento del proprio stato e la riconoscenza dello stato per chi ne ha avvalorato la patria. Il posto libero, imposto, è la condivisione dell’amor patrio, il pathos dei eggeri in presenza di una dichiarazione d’amore per lo stato. L’invalido per servizio sposta i validi eggeri abusivi e commisura l’area del quadrato alla delazione del trattamento di fine rapporto. L’infortunio sul lavoro ha tradito l’inabilità con il fine rapporto di una cessazione d’attività. L’abilità, il segreto delle ore abili al lavoro è stato tradito da una cartella clinica protetta da una parola d’ordine. La parola d’ordine: l’infortunato è inabile e anticipa la decorrenza della pensione nel limite del decennio. iamo oltre i requisiti e le rivendicazioni del fu inabile, ora invalido per servizio, e compatiamo il suo lavoro, il determinismo del lavoro nel posto assegnatogli dalle norme per la sicurezza sul trasporto. Egli impone la constatazione della propria condizione non alla condiscendenza dei eggeri, ma all’incondizionato vitalizio o propensione al lavoro svolto in abilità. Dal pathos per la dichiarazione d’amore all’ethos per l’incondizionato vitalizio. In entrambi i casi il posto riservato per legge è occupato senza riserve. Il finestrino è chiuso. Il mutilato è orribile. È l’orrore ignoto. Il mutilato con l’applicazione della protesi è l’orrore noto. L’orrore della fragilità corporea. L’asportazione di una parte del corpo, nel caso di un arto superiore o inferiore, fa orrore alla vista corporale, la corporazione dei eggeri non tollera la messa in mostra, l’artificio di corpo asportato e si allontana, alla giusta distanza, da ciò che si paventa. Lo spavento è ignoto, la distanza è indivisibile, come indivisibile è il corpo noto, ma l’ignoto condivide l’amputazione e l’impianto, l’innesto di una protesi applicata alle conseguenze di un postulato impressionabile. L’imputazione dell’ignoto provvede a che il verdetto non sia una congettura. L’ipotesi di una protesi che asporti un organo, che importi un simulacro e che comporti una manutenzione del recettore o del vitalizio è autorizzata finché non verificata. L’ipotesi deve essere certificata da una scrittura pubblica di conferma, scrittura che attesti, che faccia testo con l’identità del mutilato, che coinvolga la
fisiognomica con l’immagine del volto nel confronto con la fotografia. La fotografia è l’agevolazione di una scrittura con la firma in calce, l’identità della fotografia autografa. Il mutilato, orribile, nell’applicazione della protesi, e ignoto, nell’ipotesi di una protesi, deve contendere il posto riservato a norma di legge con l’anormalità del proprio orrore. Il mutilato ha accesso al posto riservato se non avanza delle riserve e da un’ipotesi di orrore dimostra di essere orrendo. Orrendo alla giusta distanza indivisibile. Il mutilato si riserva la sicurezza del posto e abbassa il finestrino. Senza riserva si sporge, è affacciato. Il divieto di non sporgersi dal finestrino non fa presa sul mutilato orrendo. L’orrore è un predicato del pericolo e nel caso del mutilato il pericolo è attributo dell’orrendo. Sporto dall’accelerato, sul binario unico, il mutilato convalida il paesaggio. Ma nel trasporto ricorda il percorso effettuato sul rapido, il finestrino spalancato, la faccia alle intemperie della velocità, il paesaggio invalidato e il doppio binario. Sul rapido, con la faccia sporta, il mutilato ebbe un faccia a faccia. Controcorrente, sul doppio del binario, giunse il doppione del rapido con un doppione di faccia sporta. Una faccia, senza dubbio, mutilata e orrenda. Una faccia valida. Nel faccia a faccia i mutilati discorsero del pericolante, convalidarono il monito con il decorso spericolato. Dal pathos per la dichiarazione d’amore, dall’ethos per l’incondizionato vitalizio, al logos pericolante. Ma il faccia a faccia svanisce nell’incorso accelerato e il mutilato può solo rientrare e chiudere il finestrino. Il vetro con l’artificio delle luci, ricorrente nell’elettricità, e con il fondo di una galleria, riflette una faccia. Il mutilato rinfaccia l’ignoto nel noto della protesi. La tesi diviene il pro della tesi, appunto, e il mutilato dal pathos, dall’ethos e dal logos riflette la palilalia dello specchio. Palilalia che, nell’immagine sdoppiata, confonde la protesi, diffonde il pro della tesi nella tesi approvata, nella tesi nota. Palilalia che trasporta il mutilato in eggero: è pericoloso sporgersi dal finestrino.
Brachistocrona
Brevilineo: In breve, ho poco tempo. – Curvilineo: Come sarebbe a dire? – B: Non sarebbe; il sarà del dire indica l’è del dire. Il poco è nella traiettoria dell’indicativo. Il poco tempo fa comodo al modo indicativo. E nella comodità del modo coniugo i tempi indicati. Il mio dire, in breve, è nel ventaglio che soffia dal raggio presente al raggio anteriore al futuro. – C: In lungo, dovresti dire. – B: Come, come? – C: Se ho ben compreso la coniugazione del tempo da te indicata, nel breve, dovresti modulare il condizionale. Dai raggi del ventaglio indicativo alle diagonali condizionali, i vertici del presente e del ato. – B: Sì, ma ti sfugge il qualcosa. Nella quale cosa gli angoli del poligono. Meglio, il poligono. I molti angoli esigono una corrispondenza, una comunicazione, un contatto, vada per la congiunzione. La diagonale è esatta, come participio ato di esigere, e congiunge gli angoli, dal poli al meno che poli, nel caso da te menzionato, al duo, al duopolio. Bensì, la quale cosa sfuggente è attratta dal bensì, il duopolio delle diagonali non fa al caso dell’in breve. In breve, le linee rette che congiungono i vertici del poligono, per condividere il duopolio, non sono le vie più brevi. Dovresti ricordare l’abbreviazione di Leibniz, le variazioni e come una linea retta non sia la più breve. La curva, la curva della modalità indica la via più breve. – C: Meglio. Mi attengo alla declinazione discorsiva da te proposta e nel ricordo risaputo esprimo come una curva non possa mai essere indicativa. La curva è cieca, è sorprendente in quanto tale, in quanto curva non è tale come all’imboccatura, la curva in uscita è l’emergere della meraviglia, emerge in una traiettoria sconosciuta. Questa è la brevità della curva, in breve la traiettoria sconosciuta. Una curva indicativa, come tu la intendi, è una curva segnalata, una curva preannunciata da un indicatore di traiettoria, una curva che sfocia, sbocca in un rettilineo, una curva non più breve, ma annunciante la lunga distanza, non per altro gli amanti delle alte velocità prediligono, appunto, tali curve per dar di gas, come si dice in gergo, la terminologia incline alla brevità, uscire dalla curva in piena velocità, per tradurre la distanza. La curva indicativa è una curva in traiettoria rettilinea, una curva ad alta distanza. Niente a che vedere con il rimando alle variazioni leibniziane. – B: Dal tuo punto di vista la curva come meraviglia non fa una piega. La curva non è una mera vigilia della via retta, non posso che condire il tuo dire, ma … ma la traiettoria è ciò che attraversa il gettato. Tu getti le condizioni, nel tuo concetto di breve, per la curva come distanza minima, ma non puoi, incondizionatamente, attribuirle la
nescienza. Rigetto la curva nesciente e attraverso la traiettoria rettilinea, la traiettoria che nell’attraverso calcola le coordinate della preposizione, ordina la posizione che consegue al tra. – C: Commetti un errore se vuoi significare la curva sconosciuta, la nescienza come attributo della curva. La sconosciuta ne è un predicato. La curva predica la nescienza e ne consegue la meraviglia. Vedi? Ritorniamo al preludio, al prologo della nostra conversazione, quando indicavi nel dire la traiettoria del poco. Io non indico, né condiziono. La modalità condizionale era relata al campo discorsivo delle modalità, al campo semantico della coniugazione. Nel dire non vedo il poco, né indico il breve, nel dire prendo la curva, imbocco la curva e ne percorro l’inclinazione. Il concetto di traiettoria da te esposto non mi garba molto. Sei troppo assuefatto alla posizione, alla preposizione e alle disposizioni nello spazio. La traiettoria come attraverso il gettato, nel tuo caso diviene un progettato. Nel mio caso, nel mio concetto, è un gettare la disposizione spaziale per piegare il verso nei due versanti. L’attraverso non è la preposizione che anticipa il verso, ma il verso piegato in entrambi i versi. – B: Non credo di capire e ciò avvalora il postulato dell’attributo nesciente. – C: Un attimo. Immagina di dover attraversare una curva, da un versante all’altro. Come procedi? In linea retta o segui l’incurvatura ad arco? Immagino che ti affiderai alla predisposizione della segnaletica e, nel qual caso, non attraverserai la curva, in quanto è vietato dai codici lineari. – B: Hai colto nel segno. – C: Perfetto! Se non attraversi la curva, il tuo concetto di traiettoria è limitato alla linea retta, ai codici lineari predisposti e preposti, e non alla linea della curva. Dovrai convenire che la traiettoria non è un attributo ma un predicato della curva, il verso piegato in entrambi i versanti. – B: Anche se ne convenissi, ne direi un predicato nesciente. Ma a ben vedere sei riuscito a inclinare il dire dall’indicazione alla condizione, e in breve è tempo di tagliar corto. – C: In breve, nel minor tempo a disposizione.
Assonometria
Asso è impressionato dalla reiezione. Il piano di proiezione, cui Asso volge la faccia, avanza tre linee da sottoscrivere. Asso ne è estasiato, l’entusiasmo di un’attrazione destata, e convoglia il culmine dei suoi desideri verso la triadica sottoscrizione. Purtroppo, ne è esente. Ma Asso da questo lato non ci sente, non per una volontà proscritta dal culmine dei desideri, per un’assenza di assi. Ragion per cui, culmina sempre nel voler inscriversi nel piano di proiezione. E al netto rifiuto, che equivale ad un’impossibilità alla sottoscrizione, Asso se ne fa una ragione, per poi ritornare alla carica con un unico ragionamento. Asso è cresciuto nell’insegnamento che egli è l’asso dei ragionamenti, il primo in ordine di esecuzione della ragione, e anche se a volte è preso per una premessa ad un sillogismo o per una rimessa dell’entimema, ritorna con tutta la portata del primo ragionamento. Portata che non è esente dall’importanza. È esercitato sul come emendare postulati e corollari, scolii e dimostrazioni, sul come e sull’in quanto la definizione sia derivata, l’assioma salvato dalla deriva e assurto a ruolo di salvaguardia del ragionamento, e la tesi stazioni in attesa dell’antitesi per la contesa e la sintesi. Ergo ritorna con l’asso del ragionamento. Ma il piano di proiezione è negativo, nega l’accesso e sbarra l’inscrizione. È un piano che all’avvicinarsi di Asso, muta in piano di deiezione. Non saprei quale di quante volte, ma non importa la sofisticheria ordinale, ad Asso fu risposto che l’unico procedimento che si confe alla sua natura sul piano di proiezione era appunto lo sbarramento. Per l’appunto il ragionamento riduttivo. Asso non poteva sottoscrivere il triadico proiettato ma solo ascrivere lo sbarramento all’inscrizione, ed egli, in qualità di asso del ragionamento, doveva adeguarsi, anzi anticipare l’esito della risposta. La proiezione dell’asso era possibile solo come unica linea, linea di sbarramento, il che la rendeva impossibilitata alla sottoscrizione. Ma anche questa di quant’altre volte non lo depresse, ben conscio che sarebbe ritornato. Il primo ragionamento torna sempre sul piano della sottoscrizione. Al piano di proiezione faceva un certo effetto rimandare indietro per poi far indietreggiare per poi far arretrare nell’in poi del ritiro, la causa del ritorno ineluttabile. L’impressione che l’Asso potesse non dico cifrare la sottoscrizione, ma copiarsi e ricopiarsi in un plagio del primo ragionamento, era più che vivida, tutt’altro che opaca. Il piano corse ai ripari per non degradare gli angoli delle tre facce e si figurò il decreto con cui Asso venne inquadrato come reietto. Asso non poteva che farsene una ragione, come non poteva non ritornare
alla ragione del primo ragionamento. Ma nel cammino intorno al ritorno, attorno al ritorno, il primo ragionamento crebbe e Asso ne seguì la traccia. Torniamo al ragionamento attuale e all’impressione della reiezione. Asso segue la traccia del ragionamento cresciuto in dimensione e, nel ritorno ineluttabile al piano di proiezione, ne esprime l’impressione. S’imprime sul piano come plagio del ragionamento, un ragionamento plagiato in domanda d’inscrizione, obiezione alla domanda d’inscrizione, ovvero trascrizione, e risposta all’obiezione, la sottoscrizione. Il timore del piano di proiezione, l’evanescenza degli angoli, delle rette e delle facce triadiche dei piani paralleli è divenuto realtà, è realizzato. Gli assi plagiati dalla singolarità di Asso. Nonostante i reclami di una prescrizione isometrica mai proiettata. Asso ha plagiato i piani paralleli in un diallele evaso dal primo ragionamento, ragion per cui non è più un reietto ma un proietto del piano di ragione. Asso ha ragione e con lui il piano di proiezione è in ragione del plagio. La sottoscrizione dei piani paralleli ad un piano di proiezione determina un’inversione del ritorno. È il piano di proiezione a ritornare al proietto, alla proiezione dell’Asso, sono le tre facce invertite che ritornano alla prima faccia, la faccia unica della ragione. E nel ritorno invertito si assiste alla descrizione con cui Asso accerta che il piano di proiezione sia circonreferenziale al piano del proietto. Prescrizione della proiezione nell’inscrizione del proietto. L’impressione che getta il ritorno invertito è tutt’altro che univoca. Asso è pressato dalla deiezione.
L'epitaffio
Il moribondo dispone il proprio lascito. A dispetto delle conversioni parentali, il lascito non è un’eredità attribuita dalla fede genealogica, ma la scrittura privata del moribondo. Il capezzale è il posto che spetta al titolare nella riunione di famiglia, un po’ come il capotavola nei pranzi domenicali. Con la testa sollevata, il moribondo ha la piena visuale della famiglia riunita, il punto di vista consono alla solennità dell’incontro. Egli si assicura che sia presente il segretario di famiglia, di solito un nipote che professa gli studi scolastici, che sia ligio alla scuola dell’obbligo, e con la paternale del miglior futuro contingente, gli consegna, in busta chiusa, il foglio vergine del verbale. A questo punto, è d’obbligo una panoramica sulla famiglia al capezzale del moribondo. La visione, che in realtà è una previsione, della busta chiusa suscita un’agitazione repressa. I membri della famiglia tengono a freno gli interessi personali sul lascito previsto e sulla ridistribuzione dei beni. La famiglia è legata all’idea della frazione di bene. Il bene frazionato in vita dai genitori in base alle esigenze dei figli, esigenze che si elevano alla potenza della speranza e disperazione dei figli dei figli, i nipoti in odore di scuola dell’obbligo. L’obbligo di istruzione al bene distribuito. Rilasciare i contributi per la derivazione del beneficio. La redistribuzione, invece, dal punto di vista del capezzale, dovrebbe tener conto del bilancio e della perequazione di speranza e disperazione per agevolare l’universalità del bene. Il tributo che non esasperi la stima dell’attribuzione, il beneplacito. I membri della famiglia confidano nel moribondo affinché si faccia carico del bene universale. Che il massimo del proprio lascito sia il bene universale, che i nipoti possano affrontare il futuro contingente con la predestinazione al bene universale. Dalla scuola dell’obbligo, dall’istruzione al bene ipotetico, alla categoria del bene universale, cui bisogna far fronte con una determinata spesa, stornata dal lascito. Ma il punto di vista del capezzale non si equipara ai piani piramidali, al contrario è l’apice, il vertice della piramide. Il segretario, latore del segreto, apre la busta chiusa e ne estrae il foglio vergine. Non crede ai propri occhi, l’educazione familiare all’istruzione tende facilmente dalla frazione alla rifrazione, estende l’epifenomeno ottico, disperso. Con tanto di occhi mostra il foglio privo di calligrafia ai membri riuniti. Ad occhi bassi apprendono il segreto e si rimettono alle parole, se ne saranno enunciate, del moribondo. Anche se sarà indeprecabile e pronunciato il visto di mal occhio. L’agitazione repressa ha abbandonato il consesso per lasciare posto alla
demoralizzazione. La predestinazione del bene è una dottrina adusa alla demoralizzazione. Il moribondo lancia un’occhiata al segretario con il che il segreto è macchiato sul foglio. I membri riuniti sono contagiati dal malocchio. La scrittura privata attesta la differenza fra il moribondo e il defunto. Il defunto è dislocato in un lotto, raggruppato in una fila e discriminato da un numero. Il nome e il cognome del defunto sono i riferimenti generici cui relazionarsi con l’informazione cimiteriale, il riferimento particolare è la data di morte. Il moribondo è stanco e nauseato dalle file, dalla processione di estetisti o acconciatori, dipende dall’estrazione di primo pelo, che si pavoneggiano nel pettinare la coda dell’informazione. Non ne vuole più sapere, e men che meno permetterà che la coda spazzoli l’anticamera della sua dimora. Il ricordo, poi, è l’adolescenza dell’informazione, la formazione illativa che dava diritto all’informazione inessiva. Da adolescente aveva superato con tanto di plauso, il corso di formazione elativa, e al rilascio del certificato era nel pieno della campagna d’informazione. Abile e arruolabile, era informato su quel che lo circondava. Il circondario era l’agenda su cui segnava l’informazione. Segnalato, aveva ato le informazioni ad una bella informata, benedetta, e dopo averne garantito la serietà si erano conformati. La conformazione si era, dipoi, affermata nella famiglia. Tutto era tenuto a conoscenza. Altri tempi, inoltrati nell’aspettativa. Da cui, niente fotografie di un tempo inoltrato, niente trasformismi informali sul defunto, niente concessione esequiale. Il segreto del moribondo è nella scrittura privata. Scrittura privata della data di nascita e della data di morte, l’iscrizione con cui i viventi si cimentano nel calcolo degli anni e nel compatimento se il numero risultato è sotto la media del vissuto o con coinvolgimento apionato se il numero è oltre la media del vissuto. Il moribondo lascia detto e provvede la scrittura di un epitaffio. Del proprio epitaffio. Il moribondo è colui che provvede al proprio epitaffio in scrittura. Prima detta l’epigramma al segretario, dipoi ne prega la lettura ad alta voce. Incitare e citare. Se soddisfatto dell’epi, ne richiede la copia autenticata nell’epitaffio. Viceversa, se insoddisfatto, cassa il necessario, emenda il superfluo, muta la parola chiave con il chiavistello del sinonimo o con la serratura a doppia mandata del contrario, depenna il superfluo e rettifica il necessario. La modificazione dell’epigramma in epitaffio. Il moribondo è morto, non traato.
Echologia
Quali sono i tuoi averi? In prima istanza evito la confusione e dichiaro di non possedere nulla. La prima istanza insiste sulla non pluralità dell’avere e di stanza nel singolare, presenta il mio. Il mio avere è il soggetto che richiede l’asilo verbale. Il verbo avere, come ausiliare, accerta che il richiedente, il mio, abbia tutti gli atti in regola e dà avvio alla pratica. Gli atti devono regolarizzare la posizione dell’io, la pratica evasa. L’io è un apostata del clan del destino. L’io è da sempre un affiliato del destino, un rimarcato, privo di bollo, soggetto alla determinazione. Ma il sub-iectum sempre in ritardo nella consegna delle pratiche, attardato nella pratica per la necessità della predestinazione, concilia la propria posizione con la sottoposizione del pronome all’anagrafe e l’impropria posizione con la sovrapposizione del nome all’anonimato. Il sottoposto soggetto all’anagrafe, nel nome si espone al pronome personale, al primo io. Il sovrapposto nome all’anonimato propone il mio, l’improprio, l’impersonale monomio. Il monomio sovrappone all’io anonimo la variabile impersonale, eleva l’anonimato alla potenza dell’improprio, il mio. Il monomio, innominabile nel mio, è estradato. È extra-dato. Predato, gli si consegna il foglio di via, l’esproprio cogente. Sulla sponda del determinismo, il mio pondera la flussione delle correnti, abborda l’inflessione accorrente e risponde alla domanda del nome proprio con il primo pronome. Approda sulla corrispondente proprietà omonima e propone l’omologia. Ma alla richiesta degli atti necessari alla pratica, il mio si qualifica come improprio. Non ottiene l’asilo verbale. Per tenere fede alle qualità del pronome, il mio invariabile deve tenersi stretto l’io. Per concorrere all’asilo verbale l’avere deve assomigliare al tenere. Concordare l’ottenere. Il sinonimo, il tenere, costringe l’io nella qualità del pronome. Tenersi stretto l’io è un contenere il pronome nel personale, il primo pronome, il sottoposto soggetto all’anagrafe, esposto, nel vantaggio del nome riconosciuto come richiedente asilo, è verbalizzato come uno dei pronomi, non il primo. Il pronome rifugiato nel verbo. Personalmente ritenuto adatto al verbo, il tenente è l’io pronominale. L’io non più clandestino, l’io da nominare, una volta che ha giurato sul principio d’identità. L’articolo del principio di contraddizione che, nel comma negativo, respinge il nullatenente. Il contrario del tenere, l’avere è un profugo. Estende la fuga dalla pratica. Non la pratica evasa, l’evasione dalla pratica. Il monomio estradato, extradato e il mio impraticabile. Il mio ha la potenza dell’improprio, vaga nelle proprietà del tenente e divaga nei possessi
dell’io, si svaga con gli atti pronominali. Ondivago, preso per un nullatenente, è respinto ai margini della solitudine e trattenuto, arrestato o per giocare con le locuzioni, mandato a vedere il sole a scacchi. L’accusa di non possesso, il fermo dell’esproprio cogente si sconta in un centro di recupero del soggetto. L’emarginato recuperato nel soggetto sarà poi reinserito nell’iter della pratica. Ma il più delle volte, il monomio è lasciato a se stesso. Formula poco consona, o meglio consona alla pratica del tenere e non all’impraticabilità dell’avere. Il monomio è lasciato alla potenza dell’improprio. Il monomio rilascia il mio. E improprio, non si lascia cullare dal fluire delle ipotesi: se avessi più spazio allora spazierei nel mondo, se avessi più tempo allora temporeggerei nell’eterno. Il monomio, il mio esula dall’attempato io e dal contenere spazioso. Il monomio espropria, nel mio espropria l’io del pronome personale, io che si ritrova a denunciare l’ignoto dell’essere. La firma della denuncia contro l’ignoto è “Io chi sono?”, il soggetto incognito che, nell’ignoto, disconosce il soggetto, il subiectum. Il mio espropria il tenente della sinonimia, il tenere è contrario dell’avere. Il grado del tenere diserta nel grado zero dell’avere. Non abiura la gradazione, nell’esproprio della sinonimia e del contrario si profila, spunta l’improprio dell’avere. Il mio è attualmente improprio e realizza l’improprio, il tenere è attualmente proprio ma per realizzarsi in proprio non può concedersi distrazioni, l’azione deve sempre essere presente, una qualsiasi azione al futuro lo espropria. Il tenente si ritiene sempre un nullatenente quando osserva l’altro tenente. Il tenente è in relazione al collega, concorde con l’ottenente. Il contrario dell’avere, il tenere si coniuga agli altri e nella contrapposizione modulante è un nullatenente. Il principio di identità, il comma di contraddizione, è attuale ma difficilmente realizzabile con l’ausilio dei tenenti nullatenenti. Il monomio, il mio è la frontiera dell’ausilio, è sulla frontiera di una nuova logia e anche se impraticabile, per il momento, attualizza e realizza l’improprio. La domanda iniziale: quali sono i tuoi averi, è riformulata con qual è il tuo avere. L’avere del mio è improprio. Un avere non posseduto, un avere improprio non soggetto all’esproprio, non certificato dal nome proprio e non garante delle proprietà. Un avere che non si rifugia nel verbo per consolidare lo stato del soggetto. Alla provvidenza cui si rivolge l’io per condurre a buon fine la pratica, per evadere la pratica, si sostituisce l’improvvido avere, l’evasione del mio dal gioco dell’io. Il mio avere è improvvido, un genitivo improprio che respinge la pratica sulla modulazione dell’impraticabile. Quanti sono i tuoi averi?
Il padre eterno
Un esempio da seguire. Un modello che sfila alla ribalta delle azioni. In presenza dell’azione, alla presentazione, la dedica al padre è la massima a cui non ci si può sottrarre. Il figlio dell’azione, l’addendo somma l’azione del padre, l’addizione. La dedica della presentazione è l’addizione, l’azione del figlio che apprende la lezione del padre e ne ripete le azioni. La coazione a ripetere, il figlio ripete le azioni del padre. La ribalta delle azioni è il massimo nella scala della ripetizione. L’estremo, il massimo, è la massima con cui la presentazione dura nel tempo. Il padre, nella coazione a ripetere – è un figlio – opera l’insegnamento della massima. Il padre è nella massima della presentazione. Presenta in azione la massima e chiede al figlio di ripeterne l’azione. Il figlio è ligio alla ripetizione e la coazione è nell’addizione che diverrà dizione della massima per i figli del figlio e i nipoti del padre. Se la presentazione oltrea la doppia generazione, per i pronipoti il bisnonno sarà l’edizione dell’azione. Edizione limitata all’ante-nato, delimitata dal post-ero. La dizione della massima perdura. Il figlio nel come dell’azione segue le regole dell’addizione. Il primo tratto dell’azione recita la dizione. Il figlio dice e predice il come dell’azione paterna. Come diceva il padre, la massima del padre è l’addendo con cui l’addizione consegue il risultato dell’azione. Come diceva il padre e se nella recita ci si attiene alla buona pronuncia della citazione e all’esecuzione ripetuta dell’azione citata, si può essere certi che il risultato sarà lo stesso ottenuto dal padre, un risultato presente. Come diceva il padre, e il figlio padroneggia l’azione. Padri che citano i padri, figli che incitano i figli e nella concitazione dell’azione, la massima è l’estremo dell’azione. La condizione acciocché si rigeneri l’azione. La dedizione filiale è la prova dell’azione rigenerata, invero dalla rigenerazione si sottrae l’addendo, il figlio dell’azione, e ne risulta l’addendum, l’azione eseguita dal padre. Non addenda et corrigenda, bensì la commutazione della rigenerazione. Ma sfugge la reazione. La reazione di un figlio, la reazione di un orfano. Un orfano, stando alla massima della dizione, dovrebbe essere l’anomalia dell’inazione. Insomma una contraddizione. No. Nell’insomma l’orfano è adottato, adotta l’addizione del padre reputato adatto o, nel caso in cui non dovesse compiersi la pratica dell’adozione, l’orfano sarà indetto dalla tradizione del tutore a norma di addizione, la dizione tutelare alle condizioni del tutore. Ci sono tutte le condizioni affinché l’addizione non sfugga alla dizione, finché dura la generazione. La generazione, le generazioni
perdurano la durata del padre. Il padre è eterno nel dire del figlio. Come diceva il padre, e il figlio agisce. Alla ribalta dell’azione. Al figlio si ripresenta lo stesso dubbio del padre nell’imminenza di un’azione. Il figlio confida nel come del padre. Il padre, nel come, si è domandato, nel coinvolgimento dell’azione, il come del padre, e nello svolgimento del come ha riportato il risultato dell’azione. Il figlio riporta i come dei padri e nelle generazioni susseguenti perdura l’azione risultata. L’imminenza dell’azione è coinvolta nel perdurare del padre. La generazione, le generazioni perdurano nel tempo dell’azione, dell’azione adatta al tempo dello svolgimento. Svolgere il come dell’azione è coinvolgere il tempo della generazione. È una conferma del tempo nell’azione, una conferma del padre nell’azione imminente, una conferma del padre nell’azione eterna. Ecco come il come eterna il padre, la dizione del padre. Il coinvolgimento della dizione del padre nell’addizione dell’azione è la presentazione dell’eternità. Condizione dell’eternità del padre è la dizione dell’estremo dell’azione, la dizione della massima paterna, come diceva il padre. Il figlio è un padre in eterno. Non ci troviamo in presenza di un’esigenza di editto. L’editto è un dire fuori, fuori dell’azione domestica, è un dire che abbisogna di un pubblico per legalizzare l’azione funzionale. L’azione riconosciuta e risoluta nell’editto è l’azione del funzionario. Il figlio o il padre che agisce nella risoluzione dell’editto è un funzionario dell’azione al di fuori della dizione. La controprova che l’editto rientri all’interno della dizione con l’addizione, non riesce. La rigenerazione non si riduce nella proprietà dissociativa. L’azione domestica è l’azione della dizione, l’azione ammaestrata, l’azione nell’addizione, l’abaco dell’azione, protetta nella presentazione in eterno, l’azione nell’estremo della dizione. L’editto non protegge l’azione, ma nel fuori dell’azione ne indice la risoluzione, l’azione è risolta al di fuori dell’addizione, è un’azione edetta. Non vi è traccia della dizione paterna, c’è un labile indizio di un’autorità che vorrebbe inglobare la funzione del padre. L’autorità dell’editto insegue la funzione della generazione per poter proliferare come padre e prolificare una sudditanza di figli riconosciuti, ma tutt’al più è confinata al ruolo di padrino per la cerimonia del battesimo pubblico. E per di più, l’editto non ha nulla a che fare con la presentazione in eterno, è il fuori della dizione temporanea. È il fuori nella perdizione del tempo. Macchia il tempo dell’azione, come un neo sull’epidermide. Come diceva il padre? Ricordati le mie parole figlio, risuoneranno in eterno nell’azione che tu, i tuoi figli, i figli dei tuoi figli e le generazioni filiali ripeteranno nel tempo.
Il sincretismo
L’amor sfatato. Pothos è un amante. Ama l’altro Pothos. L’amante nel topos incontra l’altro. L’altro deambula con i i smarriti e lo sguardo orientato. Svia le indiscrete occhiate degli avventori del topos con una mano atta a massaggiare le tempie pulsanti contro tempo o, con discrezione, terge il sudore di un sole indelicato. Non ricorda la provenienza del percorso, in quanto il corso dei i moltiplicato per l’orizzonte decentrato, ad oriente del cono visivo, non concorre alla formazione del ricordo. Il corso dei i ha puntualizzato la base del cono da rivoltare. L’ampia base da raggiungere per voltare il cono. La base capovolta in apice, punto di vista. L’altro attinge a piene mani ad un torrente corrente da un’altezza misurata, il panorama avallato, la sorgente dell’influsso presentita, mentre la foce è risentita per la portata delle correnti, per l’estuario. Controcorrente deambula. L’amante segue il deflusso degli avventori nel topos. Spinto e respinto in una calca di ricorrenti alla precedenza, ambula. Il rischio della spinta, come l’elastico, è nel ritorno alla posizione d’inerzia. Ritorno legato ad una contrazione dell’estensione massima. La precedenza è un’estensione massima del corpo per anticipare, in senso lato, i corpi deformi. La contrazione è il ritorno all’inerzia del corpo conforme alla propria struttura, stricto sensu. Tra estensione massima e contrazione d’inerzia i corpi conformi e deformi si svisano, si sovrastano, si scorporano, stravolti l’uno dall’altro in un’anamorfosi che svela il parapiglia. Memore delle leggi elastiche, della colluttazione, in questo caso sussiste il ricorso al ricordo, l’amante si tira fuori dal deflusso e al suo posto accorre l’amatore, l’attaccabrighe del deflusso. Colui che dall’anamorfosi estrae la morfologia dell’amor cortese, inviso. L’amante, Pothos, rimira il deflusso e l’anamorfosi degli avventori. Diviso, con un senso di stanchezza, ambula. Stanchezza non tanto fisica, ma osservata. Il viso delineato. Con lo sguardo basso, ambula e conta i i. Conteggio che non riguarda il raggiungimento di un orizzonte, ad oriente del deflusso, ma semplicemente i i disorientati. Dopo un certo numero alza il capo, allinea lo sguardo all’orizzonte, ad oriente della linea avveduta, e percepisce l’altro. È orientato. A levante del flusso, l’amante, con riguardo, percepisce emotivamente l’altro, ma non lo fissa con l’indiscreto obiettivo di farne suo. Gli avventori guardano per far proprio l’altro, lo tengono d’occhio non senza occhieggiare, per assumere l’altro come centro del campo visivo e per avvicinare lo sguardo indiscreto al tatto distinto, l’amante per disfare il possessivo. L’altro, nell’emotività, sente di
essere osservato, essere che non riguarda il possesso, e incrocia il proprio sguardo con quello dell’amante, il volto è rosso e il moto dei i li pianta in asso. Entrambi sono paralizzati nel centro dell’orizzonte, prima di riprendere l’uno il computo dei i, l’altro la controcorrente. L’amante non riesce più a tenere la stima dei i, la numerazione è distratta da un’immagine consolidata sulla retina, un’immagine irretente. L’altro è nel numero dei i, nella consecuzione dei i. L’altro, Pothos, è nel pensiero che non si dà pena dell’assenza e, appunto, nell’assenza domina l’attenzione dell’amante. Pensiero che non si limita alle osservazioni sul bello e sul sublime, agli stadi sul cammino della vita o al simposio. È un pensiero che nell’amore inclina al desiderio. Il desiderio d’altro lacera il pensiero con un’immagine non ai margini, un’immagine che non può rimarginare. Il pensiero favoleggia un incontro futuro e una conversazione che corrisponda in pieno al desiderio. Una corrispondenza che sottolinei il desiderio. Una conversazione che annunci il desiderio per converso, nei soggetti dell’enunciazione. Non manca al desiderio l’immagine. Non manca il margine di un incontro contingente. Non manca la pienezza del sentire. Non manca l’argine all’assenza. Non manca il frangiflutti alla deriva dei piaceri. Non manca l’attesa d’intesa con il desiderio. Al contrario il desiderio estirpa dal pieno dell’immagine il bordo su cui mettersi in gioco, il desio. Il desio è il desiderio di mettersi in gioco, di azzardare la totalità del desiderio in un altro desio, un altro nel desio. L’amante, Pothos, nel desio, si mette in gioco come amante del desiderio, per il desio d’altro. Il desiderio impone la corrispondenza per non mancare il declino dopo il culmine del piacere. Il desio non si espone alla corrispondenza. In effetti, a tutti gli effetti, l’amante non è corrisposto dall’altro. L’altro nella controcorrente, rifluisce senza alcuna distrazione d’immagine. L’immagine potrà ricordarla, l’immagine è nel ricordo di un incrocio privo di precedenza, un incrocio che ha paralizzato i sensi e mobilitato la ragione, una dinamica dell’incontro, ma nulla più, per il momento. La controcorrente e il riflusso occupano tutta l’attenzione e la distensione dell’altro. L’amante non è mai stato corrisposto dall’altro. Ha avuto numerosi incroci paralizzanti e mai è stato corrisposto. Non se n’è meno di tanto preoccupato. L’amante è nel desio. Il desiderio d’altro, il desio è l’amore sfatato. Il sincretismo esige che nel gioco del desio la regola di base sia appannaggio dell’amor fati. Per evitare i rischi, l’azzardo del desio, il sincretismo regolamenta l’amor fati. L’amore per il fato, il desiderio del fato. La regola del fato desidera che l’incrocio con l’altro non sia più di tanto paralizzante, ma nel rilancio dia la precedenza alla prima mossa, al primo gesto cui sussegue la congestione della gestualità, la precedenza all’amante o all’altro, rilancio che dall’incrocio conduce all’incontro. La regola del sincretismo assegna al gioco il desiderio
realizzato nell’incontro a buon fine oppure sfinito. Un incontro con l’altro, un incontro con l’amore. Che il sincretismo abbia frainteso l’amor fati come concessione regolamentare non ci sono dubbi. Il regolamento prevede e prescrive che il baro venga escluso dall’amor fati. Il baro che nel destino truffa il fato, il broglio beffato. Che l’amor fati possa incrociare l’amor sfatato è tutto da vedere nel gioco dei Pothoi. Di certo, non si farà buon viso a cattivo gioco.
Contrappunto
L’esclamazione di piacere mette fine alla conversazione dei melomani. Se s’interroga il piacere, il piacere in opera, l’esclamazione del piacere non potrà che interrompere l’ascolto. La monodia del piacere è la sola voce in risposta alla domanda di piacere. Il contrappunto risponde alla domanda di piacere con il mi spiace, ma mi piace. Il melomane è l’apionato del primo ascolto. Al primo ascolto pone la domanda del piacere. Il primo ascolto è condizionato sensibilmente dall’impazienza, il primo ascolto non è concluso dall’ultima nota, è delimitato dalla condizione iniziale del piacere. La risposta del piacere è una risposta fugace, che fugge l’intera composizione, o meglio la composizione nei tempi suggeriti. La risposta del piacere non accetta i suggerimenti, la ricetta dei tempi suggeriti dall’opera del piacere suona quasi come un’omeopatia, e il melomane, tradizionalista e impaziente, pone la domanda alle condizione iniziali, allopatiche. La dissonanza non è un problema, bensì un ulteriore condizionamento della scala diatonica, risolta nell’ascensione della condizione iniziale. In poche parole, in poche note, la condizione iniziale è l’ascensione dell’armonia sulla scala diatonica. La scala diatonica è composta da un piolo retto da due applicazioni del piolo, dette semipioli. Il piolo nell’applicazione diviene sempre un o due semipioli. L’applicazione divide per due l’intero piolo da sostegno, poggiapiedi o poggiamano, la base della verticale, in base alla verticale, in altezza di piedi o di mani. L’implicazione del sostegno dei semi, che siano semipioli o semitoni. La replica del semi per l’interezza del sostegno. L’ascensione per la scala. E la dissonanza diviene consonante alla replica dei semi, i semi assonanti. Il minimalismo e il massimalismo offrono lo spunto al melomane per tesaurizzare nel lipogramma la domanda di piacere, all’unisono. Le condizioni iniziali del primo ascolto assurgono, sulla scala armonica, agli estremi delle condizioni. Le condizioni iniziali nel massimo e nel minimo del primo ascolto impaziente. Il massimo del piacere e il minimo del piacere nel primo ascolto reiterato nell’arco della composizione. Il primo ascolto che si ripete per l’intera durata dell’ascolto. Le note spazientite dal tono del primo ascolto. La composizione minimalista condizionata dall’opera del piacere. In accordo con la didattica dell’ascolto, il melomane autodidatta, prima di essere ordinato melomane e di barrare l’autodidattica, ha ascoltato le composizioni senza il numero ordinale. E nell’ascolto ha espresso il gaudio. Va da sé che il gaudio è un piacere personale. Il piacere fatto ad arte dell’ascoltatore come
singolo. Il singolo ascolta la composizione, si dispone ai suggerimenti del tempo e ripone nell’ascolto l’afflato dell’udito. All’ultima nota, all’ultimo accordo non è sull’ultimo gradino della scala armonica, ma con i piedi ben saldi in terra. Paziente quanto un compositore. Se l’afflato si riverbera nel padiglione auricolare le sue mani son pronte a ripetere il ritmo della composizione e a plaudirne il gaudio, che scandisce le battute. Se l’afflato ronza nel padiglione auricolare le mani son pronte a riprendere possesso di un oggetto, un utensile per rientrare nel conflato dei suoni ordinari, i suoni di ogni secondo, il tic tac dell’orologio, la scansione regolare del suono, i suoni che non sorprendono e non sono ripresi nella ripetizione del plauso. Nel caso in cui l’ascolto sia in opera, il gaudio del padiglione auricolare, il gaudio della risonanza si ripete nello zufolio che invita il respiro alla danza, al ronzio compete il fischio che erompe nell’aria viziata. In ogni caso il melomane autodidatta non riconosce il contrappunto, non pronuncia il mi spiace, ma mi piace, nel gaudio non coniuga il piacere. Il melomane ammodo, rincresciuto per il contrappunto, per la formula del contrappunto, non pone la domanda del piacere. Ascolta, si limita all’ascolto. Il garbo dell’ammodo non è un piacere di comodo, un per far piacere. Se il garbo è contrito, l’ammodo si alza, con fare calmo e suggerito dai modi, dalle modalità intonate all’ambiente acustico, e va via. Il viavai dell’ammodo nelle modalità della fuga. Se il garbo è ringraziato le modalità di ascolto amplificano l’acustica dell’ambiente, la cassa di risonanza ove è custodita, al riparo da stonature, l’eufonia accordata all’intonazione, e divengono strumento della composizione, strumento in opera. L’ammodo non si spiace per il mi piace, l’ammodo ascolta la verticale dell’armonia e, nell’orizzonte della melodia, si lascia compenetrare dalla musica. Il divenire orecchio; il corpo diviene un singolo orecchio, un padiglione in cui risuona l’equilibrio della musica sulla verticale di un corpo capovolto in un singolo orecchio sull’orizzonte dell’udito, che da senso, organo di senso, è divenuto sensibile all’organismo, al divenire di un organismo, il divenire orecchio. Il melomane ammodo perde lo stato e il riconoscimento della melomania, della didattica e dell’autodidattica al responso, del privilegio nel porre la domanda di piacere, del contrappunto per divenire ammodo. Non le modalità di una strumentazione dell’ascolto, di un’azione dell’ascolto come strumento accordato alle condizioni iniziali, di un ascolto strumentale al piacere, ma l’ammodo del divenire orecchio. Prende spunto dal contrappunto che mette fine alla conversazione, il mi spiace, ma mi piace, per puntualizzare l’ascolto. Per puntualizzare, il divenire orecchio.
Palinodia
Di nuovo? Annovero i particolari. Desueto. Il novero del generale. Consueto. L’attitudine mi logora. Idoneo alla logomachia esercito la diversione della rassegna. La categoria del nuovo declina verso l’appartenenza alla domanda. L’istruzione non è a mio favore, il sussiego alla logismografia d’interesse non soccorre le occorrenze, è occasione di rimprovero, la contabilità delle circostanze realizza i numeri irrazionali; il concorso devia il soggetto della ricerca nel soggetto ricercato. Quale esito? Allogeno al logotipo, avventizio all’allocuzione delle dispute e non soggetto alle modalità della ricerca, sono il ritrovato, di nuovo? I ritrovati della ricerca, non sono l’unico, credevate che lo fossero ma il credo da più di un secolo è deceduto nelle fosse comuni, nell’ossario pubblicizzato ai margini delle strade trafficate, i mezzi che riportino i corpi alla terra sono saturi e il fine, trascurante, assegna la depressione decomposta. Nella concezione della scomposizione dei polinomi nella riduzione ai fattori monomiali. La concertazione della ricerca è in assenza di note. Il pentagramma è una linea del n-gramma. Il logogramma delinea l’ologramma. I ritrovati della ricerca, terminus post quem l’incognita del soggetto, sono assoggettati al loculo. L’esumazione del soggetto è il ritrovato della ricerca. L’esposizione è un avello spoglio. Una sciarada del cogito, un rompicapo dell’io. Un oggetto privo di soggetto, denudato, impone l’oggettuale. Un oggetto che dirige il senso dell’umore. Sovrintende al senso dell’umore. Lo sbalzo d’umore equilibra il peso specifico del soggetto, penetrabile, permeabile all’area della ricerca. L’oggetto controbilancia la tara del soggetto, impenetrabile, impermeabile al volume del ricercato. Benché ritrovato, dalla ricerca, il soggetto assegna alla composizione dei loculi il corrispettivo del rimpianto. Il soggetto, in loco, piange il trao del soggettuale. I resti del soggetto sono riposti nell’epitaffio post-soggettivo, sit tibi terra levis. Non sottratti nell’operazione da cui risulta la differenza, epigrammatizzati. Il soggetto inumato, riesumato per la ricorrenza del sub-jacere, la commemorazione delle fonti, l’accezione e l’etimologia che predicano la risoluzione del verbo. Ma va bene così, l’indirizzo del bene ha sempre modo di mostrare la via maestra; il terminus ante quem ripone il datato nel super-iectum. Il soggetto si solleva, da sub-iectum a superiectum, rigetta la deposizione nella terra. Non oltrea la via maestra, procede per un sentiero attiguo e ne supera la meta. L’autodidatta che osserva il maestro insignito e diffida gli allievi alla percorrenza. Il viatico dell’istruzione non
sfugge alle segnalazioni; intorno al favore dell’istruzione, del progetto. Dalla profondità della terra al rigetto in superficie per elevare la variazione del superiectum. La disposizione alla terra, l’assoluzione del verbo, la predicazione divenuta nominale. La sollevazione dalle profondità della terra, al rigetto superficiale trova il gettito, l’eruzione – a mo’ di geyser – che incolonna la gravità del sub-iectum, in fila per uno, nella sollevazione del super-iectum, che rigetta il terminus post quem in superficie. Il sollievo del super-iectum. Il post in supereffigie dell’ante. Il ritrovato della ricerca lascia posto al trovatello in cerca di superfici, il super-iectum. La sollevazione riprende le mosse, il percorso, nella sommossa. Nell’effigie del sub il super è in cerca di volti. Coinvolto dal ritrovato della ricerca in esplorazioni che più che altro erano implorazioni al soggetto, il super-iectum perlustra la pluralità di soggetti che hanno donato lustro al subiectum in cerca di un rigetto, di un altro iectum cui attribuire l’ante del super. Il genitivo dell’oggetto si rivolge. Il super si rivolta e il verso del getto, il partitivo per converso, l’oggetto è stabilizzato. La variazione del punto di vista, del superiectum e l’anamorfosi dell’oggetto. L’oggetto è un salva-getto, a prova di dispersioni. La goniografia disegna un nuovo – di nuovo? – punto di vista. Il trovatello, di nuovo, si trova nell’incognita del gettito in superficie e la cartina di tornasole riflette la parallasse tra il punto di vista del sub, l’oggetto che dirige il verso, il senso dell’umore, e la variazione del punto di vista del super, l’oggetto riverso in superficie, l’anamorfosi dell’oggetto. L’oggetto è il verso stabile, oramai. L’altruismo dello iectum possiede il sub e il super. L’oggetto spostato, per quanto punto fermo, è provvisto di getto, di iectum. Il terminus post quem del sub-iectum e il terminus ante quem del super-iectum stabilizzano il terminus ad quem dell’oggetto riverso. I ritrovati della ricerca e i trovatelli in cerca di sono allegati all’incognita della cartina di tornasole, alla parallasse del getto, non potrebbe essere altrimenti in una geometria in superficie. Quantunque le variazioni siano rintracciate la goniografia segue l’angolazione lineare. In rilievo sulla faccia della superficie non si adocchia, non si profila la letizia della finalità, l’eureka del ritrovato e del trovatello posti di fronte all’attitudine al ritrovo, si è travolti dall’anfratto, dall’inoltre che fronteggia il dislivello, dal voltafaccia del frattale. Altro che antikeimenon e upokeimenon adiecti. Di nuovo il sub-iectum riverbera la logorrea. Di nuovo il super-iectum verbalizza la logoclonia. Nell’impeto, non mi compete, non sono nuovo ai termini di riferimento, mi logora l’estrazione del nuovo, l’esposizione del nuovo. Il conferimento del nuovo, di nuovo?
L'ascensore
L’inquilino dello stabile isola la riconduzione delle chiavi. La forma del metallo inanellata in una custodia conforme alla pluralità delle chiavi, si concede la libertà. L’anello appuntato alla cinta in vita, aggiogato, culla le forme e le accomoda l’una incontro l’altra. La nenia del metallo intona l’abrasione dell’impatto. Le forme rifiniscono le note combinazioni e la serratura, successiva alla partitura, dell’accompagnamento è dischiusa. L’attrito del suono andante, ritma il o del portachiavi, allegro. Adagio, l’inquilino si approssima all’entrata. Incerto, si domanda come mai sia chiusa. Una deduzione, sono incerto, l’entrata è sicura, pertanto è richiusa. Il lasciaare è l’entimema dell’apertura alla proprietà, la commessa dell’usufrutto. Un’induzione, dalla mia incertezza alla sicurezza del divieto d’accesso. L’uscita, per converso, è certificata. Uniformato alla conseguenza dell’ingresso, il portachiavi sfila l’anello dal ante in vita. Plagia per l’ennesima volta la partitura della combinazione e scruta, per riconoscenza, la tonalità conforme che fungerà da movimento delle ante. Più che movimento, rotazione denotata. Nell’androne dello stabile il dozzinante, quale dozzinante? I piani sono cinque, gli interni dieci, due per pianerottolo e, insomma, sono uno dei decimali, se mi attengo alle unità abitative e non alla composizione dei residenti, tutto sommato, forse, un millesimale, solo nella riunione dei condomini; con l’anello infermo nella palma della mano e l’impatto prensile, con la diversione mutuata che lo convocherà, come assiso, in seduta, una volta ottenuta la lunga conservazione dell’unità abitativa, l’usufrutto mutuato in proprietà, fino all’estinzione dei millesimi organici, intasca l’anello, l’anamorfosi delle forme. Il suono si metamorfosa, da impatto a richiamo, all’inflessione dell’invocazione. Il fu inquilino per il sarà condomino estinto. L’inestinguibile inquilino e il condomino da estinguere richiama l’ascensore. La spia segnala la comunicazione del richiamo con un colore spiccato, non direi , un po’ di riservatezza. Una freccia, lato sensu, converte il numero del piano in tempo di attesa e la cabina scende e/o sale, il saliscendi. L’inestinguibile non rovescia il tempo di attesa con i piani a ritroso, non converte l’altezza del piano in valutazione immobiliare, è conscio che il piano terra è il luogo di ritrovo. È l’appianarsi del saliscendi. La spia trasgredisce la comunicazione, si spegne, la riservatezza del richiamo spalanca la cabina riservata all’emittente. L’inestinto è sul momento in apprensione, la formazione appianata connota che il saliscendi ripianato, livellato al piano terra è
trasceso dalla commutazione. Il contratto di fitto è scosceso dalla piattaforma elevatrice. La trascendenza deve essere mutuata dalla conseguente forma di contratto, l’acquisizione del bene immobile. La commutazione delle forme, usufrutto e usucapione, risente del contatto conforme alla concezione del diritto di proprietà privato del possesso una volta che il fitto si sarà estinto. L’inquilino, estinto il contratto d’affitto, usucapisce, per privazione, la proprietà del bene, immobile in quanto privato dell’uso, mutuato dall’uso. L’inestinguibile inquilino apprende che il rinnovo del contratto è in disaccordo con la scadenza dei termini, la proroga non esaurisce il termine e l’estensione tacita non registra l’autografia. Estinto, in qualità di condomino, trascende il piano dell’apprensione per prendere, beneficio esclusivo, il saliscendi. Appianata la prelazione il condomino è nella cabina, le porte sono conchiuse, le premesse han riportato la trazione. Il quadro degli interruttori non circoscrive le cinque unità pianificate e la t piantata, contribuisce a quotare i millesimi dello stabile, il comando del circuito avvalora la proprietà del condomino nel piano intero, proprietà nei mille piani dell’intero. Il quadro interrotto è una tabella millesimale, l’inquilino estinto, il condomino appropriato prenota le quote ripartite del mille. Trasceso nella contribuzione, ininterrotto nella proporzione, è sbilanciato tra i mille piani. Il contrappeso lo solleva dalla retribuzione del manovratore. Le funi scorrono e le guide amministrano i mille piani. Il condomino da estinguere occupa l’ascensore nella sollevazione e nella distensione, è trasceso nel piano intero dello stabile. Millesimato alle quote, cifrato nella ripartizione dei piani, aggancia nell’ascensore milleusi l’intero piano della trascendenza commutata, apprende che la forma successiva, nella serie correlata, la forma detratta, sarà livellata al piano di arresto nella sicurezza della corrispondenza al piano, la precisione della forma appianata, la recisione del piano nel pro forma. Conforme alla serie è la stabilità della cabina sul piano al millesimo, immutata al millesimo del piano tabellare. I mille piani indivisi, l’intero piano suddiviso. Non si salta fuori dall’ascensore al piano avvalorato dalla prenotazione, la piattaforma risalta il piano condominato, il pianale condonato. Il condomino, intero nello stabile trascendentale, estingue la tabella dei piani millesimali nel pro forma della piattaforma, dalla forma contratta alla forma detratta.
Un cacciavite a stella
Un operaio omeomerico osserva un oggetto. Dopo l’osservazione si riserva di conservare l’oggetto. Eppoi l’oggetto conservato nella riserva d’osservazione dell’operaio diviene un oggetto da utilizzare. Dipoi l’operaio utilizza l’oggetto conservato e osserva senza riserve un oggetto. Un oggetto osservato senza riserve è un oggetto riservato all’utilizzo. L’operaio utilizza l’oggetto riservato e l’oggetto conservato. Gli oggetti eteromerici. L’opera dell’utilizzo prevede che gli oggetti siano fissati all’uso. L’uso adopera l’oggetto, ovvero l’opera procede verso l’oggetto, l’opera adopera l’oggetto e diviene uso. L’utilizzazione dell’oggetto è l’azione dell’operaio che adopera l’opera verso l’uso dell’oggetto. Convertito all’uso, l’operaio, il soggetto che adopera l’opera per l’uso dell’oggetto, è aduso. L’operaio aduso fa il verso all’uso dell’oggetto e nell’inversione preserva l’oggetto. L’uso invertito dell’oggetto e l’operaio aduso preservano l’eteromeria dell’oggetto. Preservare l’eteromeria è servire l’omeomeria. Una vite. L’oggetto conservato e l’oggetto riservato sono attraversati da un oggetto omeomerico. Un oggetto che osserva la messa in opera dell’uso, l’uso che adopera l’oggetto, e che conserva l’utilità dell’operario aduso, l’operaio che nell’inversione dell’uso preserva l’oggetto. E nel caso particolare da una vite dalla testa a stella. E l’operaio, che adopera l’opera per l’uso dell’oggetto e aduso ne inverte l’uso, necessita di un cacciavite a stella.
Il riscatto
È perso. Sfinito è tolto di mezzo. La ricerca si conclude con la perdita. Il mezzo con il quale si ricattavano i cercatori del fine è perduto. Il mezzo di scambio per il fine ricercato non è più ripartito. L’intero si rapportava alle parti disperse. Il ricambio dei dispersi nel fondo della ricerca, nel sottofondo del cercato, valutava il resoconto come un estratto, sopravvalutava il tornaconto come un attrarre. Il tratto che interpungeva l’intero riportava la cerchia nel definito, il ritratto dell’epilogo in un segno dimezzato contraccambiava un segnale. La ricognizione del sapere reiterava il definito per delimitare i confini cognitivi. Accomunato al limite il confine del sapere era un intermezzo nella ricerca del definito. Sviava gli inquirenti dalla risposta al ricatto. L’inquirente interroga gli informatori del definito, analizza il movente della ricerca, sintetizza i dati del cercato, risolve le antitesi del definito nell’attesa del presupposto. Nell’intimo, l’inquirente è un cercatore del presupposto, bilancia l’estasi del definito nella stasi del presupposto. La risposta al ricatto era il riscatto, cui gli inquirenti non potevano sostenere, in virtù della stasi del presupposto. Se il presupposto inquisisce il definito come epilogo del prologo, il logo del riscatto come risposta al ricatto era un intermezzo, sfuggiva al definito come riferimento del presupposto, per intermezzare il ricatto nella morfologia del riscatto. È inspiegabile che gli inquirenti non abbiano avuto cognizione dell’intermezzo, loro così addentro alla ricognizione. Dalla ricerca, dal cercato, i ricercatori estraevano l’intero, i dispersi estratti combinavano l’intero, e il contratto, l’intero contratto, era il mezzo di scambio per il fine della ricerca, per sfinito. Il ricatto confinava i ricercatori nello scambio a distanza. Vicino, nel centro della ricerca, il fine era un estremo; distante, ai margini della ricerca, il fine era mediato dall’epicentro. I ricattabili cercavano nel centro storico l’estrema ratio della ricerca, il fine del ricatto. I ricattati ricercavano l’epicentro per estenderne i margini e delimitare il fine della ricerca. Entrambi erano nel predominio del fine ove è affine che la ricerca non abbia fine. I ricattatori frugavano nell’ipocentro del fine, sotto la superficie del fine, nella finalità, elaboravano, con cura, il fine. La cura del fine, la finalità prefissava il fine. I ricattatori, prefissato il fine, fissavano il mezzo di scambio per i ricattati, valutavano il ricambio dei dispersi nel fondo della ricerca e nel sottofondo del cercato, con un resoconto il fine era dato in comodato. Prefissato il fine, i ricattatori fissavano l’intermezzo per i ricattabili, il mezzo di scambio non convertiva il cambio di valutazione, non avvertiva la sopravvalutazione
dell’attrarre, invertiva la pro ratio nel rimedio e i cerchi concentrici della storia erano accuratamente allineati, istoriati, in fin dei conti il fine era delineato ad uso e diffusione del finalizzato. I ricattatori frugavano la finalità, i ricattati ricercavano il finale, i ricattabili cercavano il finalizzato. Il predominio del fine, ove è affine che la ricerca non abbia fine, concedeva ai ricattatori il dominio dell’infine. Lo scambio, dominato dal fine, infine trattava con il mezzo, il contratto, l’intero, valutava il perimetro del cercato, l’area della ricerca e il volume del ricercato. Il risultato era ripartito per i casi, l’intera occasione si risolveva in una fine a perdere. Le modalità, del resto azzardate, non si risolvevano in una perdita prevista, bensì in un vuoto a perdere. La perdita del vuoto era un’intera ricollocazione delle parti disperse e dell’intero estratto per la ricerca del mezzo di scambio. A fortiori ratione, l’extrema e la pro dimezzavano la ratio nella comparazione del mezzo di scambio, le parti disperse e l’intero estratto giustapposte nel campo finale, riposto nel campo finalizzato, frapposti al fine, estendevano il mezzo per intensificare lo scambio, senza fine. Non senza una fine il fine dilatava il mezzo di scambio. Infine il fine della ricerca. Fino al punto che il fine perse di vista l’affine e l’infine, i dispersi e l’estratto, nonché il mezzo di scambio. Sopraffino il confine assecondò il mezzo di scambio al primo cambio, la permuta del mezzo nel fine, la fine della commutazione nella moltiplicazione del mezzo nel fine. Acciocché il mezzo di scambio si svalutasse il confine si rarefece, frammezzato lo scambio sfinì, intramezzato il fine, in cambio di una fine, integrò sfinito. Il fine si tolse di mezzo, sfinito. La mutazione ebbe fine. È perso. Sfinito è tolto di mezzo. Il mezzo con cui si ricattavano i cercatori del fine è sfinito, il mezzo perduto è sfinito, ripreso da sfinito, tolto di mezzo.
L'uomo monetale
Sotto la sporgenza di un edificio, sottostante al piano esposto dalla facciata condominiale, un uomo è al riparo. Ombreggiato, non impedisce il aggio degli instradati, proietta la disposizione del proprio corpo di strada. Il aggio sottostante l’esposizione è denominato marciapiede, il percorso degli instradati. Di strada al percorso l’uomo concorre alla disposizione dei corpi nella marcia. Gli instradati nel senso di marcia, gli inflessi del viavai; l’uomo esposto alla marcia, al riparo in quanto ombreggiato. L’imposizione del senso di marcia non urta l’esposizione alla marcia. L’imposizione della marcia non avversa la disposizione proiettata. Il viavai degli instradati insegue il via libera del viadotto che fa da ponte al riflesso del senso di marcia. La composizione di strada riversa gli instradati e l’uomo di strada. Il marciapiede non è al riparo come il sottoposto il piano esposto. Il senso di marcia è accelerato da alcuni sgambati che mandano gambe all’aria i corpi che sono fra i piedi. Non sia mai che l’uomo al riparo si trovi fra i piedi degli sgambati, non starebbe più in gamba. Non prendete gli sgambati sotto gamba vi ritrovereste a gambe levate. Imprechereste contro il sottogamba per poi riavervi genuflessi a rimettere l’improperio. La maledizione che scongiura l’amputazione del senso di marcia imputato di controsenso. L’uomo di strada conversa con gli instradati, il senso di marcia è attraversato dalla conversazione. Perlopiù l’uomo richiede, chiede delle monete. Il senso di marcia e il verso della strada. Più e più volte gli instradati non conoscono la riposta e, nel dare seguito al senso di marcia, vanno per la propria strada. Conseguono il senso di marcia giornaliero che sussegue nello stradario. Potrebbero rispondere, ma la risposta non è riposta. Il senso di strada per un instradato è un senso libero da conversazione, un senso convertito all’unica forma di marcia, ecco spiegata e soddisfatta la domanda degli instradati sul perché dell’uniforme, domanda non formulata in quanto sensata. L’uomo di strada, sensazionale, divulga la risposta del senso unico. Il via libera che dà strada agli instradati. Più o meno volte gli instradati interrompono il senso di marcia alla richiesta dell’uomo di strada, sull’attenti regolano l’informazione, in segno di concentrazione portano una mano al pube e un’altra prima al gluteo consentito poi al risentito, non trovando nulla di riposto, rispecchiano la richiesta con un voltafaccia assennato, il senso di marcia riprende. Per ragionevolezza chiarisco che il senso di marcia non s’interrompe, combina la conversazione con le articolazioni dell’assenso. Se s’interrompesse il senso sarebbe la menopausa al
dissenso. L’instradato sarebbe messo in mezzo alla strada. Ma lasciamo correre, non gli sgambati. Chi più chi meno non fornisce elementi per la risposta di monete. Perlomeno un instradato estrae dalle parti del corpo riposte una forma di moneta, un conio. Dà senso alla strada con il senso del conio, al verso della strada riversa la riposta. Inverte la faccia della moneta, inverte il senso di marcia e nel conio dà senso alla richiesta dell’uomo di strada. Inverte, per giunta, il senso e risulta il senso di marcia, l’impronta del senso. L’uomo al riparo prende in consegna la moneta, la volge al dritto, la rivolge al rovescio, le facce sono un voltafaccia, il numero rovescio con l’Europa priva della Russia ad ovest degli Urali, ed un rovescio con Marco Aurelio. Un’altra moneta e il dritto volta la faccia di Dante. Un’unica moneta sfacciata, il rovescio del numero uno e il dritto dell’uomo vitruviano. L’uomo di strada, l’uomo al riparo ha ricevuto la risposta alla richiesta delle monete. Il voltafaccia del senso coniato riposto e lo sfacciato uomo della risposta di senso. L’uomo si riconosce nel corpo impresso sulla moneta. L’uomo di strada si sfila dal senso di marcia, al riparo, ombreggiato, a due i dalla facciata condominiale, sulle quattro gambe di una sedia pieghevole tiene in palma di mano il corpo della moneta.
La delibera
Rettifico, la di non specifica la posizione di una specie dal genere, del particolare dal generale, del singolare dall’universale, la categoria di una indisposizione, la composizione di un significato con il significante, la disposizione di un senso nell’assenso, l’apposizione della palingenesi nell’origine, l’apposizione del tempo nel fra tempo, la giustapposizione di preposizioni, la sottoposizione dell’interferometria al riferimento, la sovrapposizione dell’acatalessia alla ricognizione catalettica. La di, la preposizione non è il partitivo che, nella negazione, come in questo caso, quantifica la portata dell’occasione e ne avvalora la modalità tautologica. Non rafforza l’affermazione nel fermo identico che conferma l’attestazione. È vero che la di prepone il complemento, l’origine, la materia, lo scopo, il tempo, nel superlativo relativo al vero, nel comparativo di maggioranza del veridico, nel comparativo di minoranza del veritiero. La contraddizione partitiva è esposizione parziale dell’addizione verosimile sulla falsariga, la condizione dell’addizione, cambiando l’ordine della dizione la somma non muta, la falsariga sul verosimile non commuta l’addizione, la contraddizione è la prova della condizione, dalla somma addizionata. Sottraggo la falsariga, o il verosimile, e la dizione è comprovata. La tautologia partitiva è l’imposizione imparziale di tale prova, quale dizione del verosimile e edizione della falsariga nella condizione dell’addizione. L’edizione è la dedizione della falsariga a che il verosimile sia nella condizione tautologica, imparziale nevvero? La di genitiva conferisce all’antecedente il possesso del cedente, il riferimento è una concessione a che il cedente si consideri libero dell’ante. La di antecedente l’articolo determinativo articola la preposizione in un contratto. Il trattato della preposizione relativa all’articolo. La i è premessa dalla e, è iva della precedenza. La di accede alla de nel contratto. L’articolo determinativo appone due volte la consonante tautologica, imparziale, la dizione articolata e il contratto è segnato. Il segno della preposizione articolata, nella precedenza vocale e nella consonante tautologica, è attratto. Il contratto elide, d’un tratto, il tratto della preposizione e dell’articolo determinativo, articola l’attrazione. Il tratto che consegna la di alla preposizione articolata, è eliso. Non di-la, della. Non di-il, del (la tautologia antepone la vocale alla consonante, elide la consonante tautologia nella premessa della vocale tautologica). La preposizione, nella premessa, è il de semplice. Il de non sottratto, d’un tratto il de non separa i morfemi, non si prefigge il significato opponibile, non allontana il senso nel
significante, non annulla la sillabazione nella compitazione della denotazione, non sradica l’etimo per trapiantarlo in un campo semantico. Non rafforza la proprietà semantica con la designazione protosemiosica. La de come preposizione semplice è il contratto nullo, l’imperativo dell’articolazione è facoltativo, irrelato, l’articolo è indeterminato e l’effetto della preposizione errato. La traslazione della deposizione nella denominazione. La posizione del de è libera dalla preposizione, è una posizione certificata dal ritratto. Il di si ritrae dal contratto conservando, nella delibera, la premessa, la ività della precedenza. Da preposizione a in-di-esposizione. Indefinita, nel de del finito e indeterminata, non il de a termine.