Writer’s Dream presenta
CORSETTI, VELLUTO E PIRATI
In collaborazione con: Writer's Dream: www.writersdream.org
A cura di: Linda Rando Antonino Lo Iacono Jessica Pes Giampiero Possieri Tanja Sartori Luisa Malfa
Gli autori selezionati: David Kumada Stefano Pastor Lucia Guazzoni Alain Voudì Maurizio Maggi Alonso Gutierrez Chiara Zanini Fabrizio Mancini
Immagine di copertina: Elisa Tajana
La presente opera è concessa con licenza Creative Commons Attribuzione – Non commerciale – Condividi allo stesso modo http://creativecommons.org/licenses/by-nc-sa/3.0/it/deed.it
Prefazione
Vi svegliate, intontiti. Siete su una grande nave. Avete una benda su un occhio. I vostri stivali sono pesanti e fanno un rumore infernale. Il cappello calato sul viso vi dà fastidio. Il profumo salmastro del mare vi punge il naso e iniziate ad avere un po’ paura. L’imbarcazione è vuota, non sembra esserci nessuno a bordo. La nave, però, procede spedita verso la sua destinazione, a voi sconosciuta. In alto, in cima al pennone, spicca una bandiera nera, con un teschio al centro e due ossa incrociate fra loro.
Pirati. Sì, pirati. Pirati a cui questi prodi uomini e donne hanno dato vita. Una raccolta di racconti tutta di stampo piratesco che vi farà esclamare: Arr! dall’emozione (o dalle risate) e vi farà venire una tremenda voglia di rum. Dopo mesi di attenta valutazione, di editing (anche di problemi) e di attesa, finalmente potrete avere fra le vostre mani la miglior raccolta sui pirati che si sia mai vista sul mercato editoriale – siamo modesti, e allora? –, sì, perché finalmente “Corsetti, velluto e pirati” di Writer’s Dream prende vita! A cura di Linda Rando, Antonino Lo Iacono, Jessica Pes, Giampiero Possieri, Tanja Sartori e Luisa Malfa potrete leggere i raccolti scelti degli autori David Kumada, Stefano Pastor, Lucia Guazzoni, Alain Voudì, Maurizio Maggi, Alonso Gutierrez, Chiara Zanini e Fabrizio Mancini. Quindi? Che aspettate? Armatevi di coltelli e spade, di cannoni e armi da fuoco, di rum e chissà cos’altro per salvare le donzelle in difficoltà... o per rubare tesori nascosti, a voi la scelta. Immergetevi nel mondo piratesco in cui noi siamo già caduti e al grido di “per il corpo di mille balene!” lasciatevi risucchiare dall’odore dell’oceano, dalle tempeste notturne e guidate la vostra nave oltre i venti e le avventure! Ma state attenti. Perché...
“... un boato improvviso mi riempì la testa e un fischio acuto mi penetrò le orecchie. L’acqua era fredda e mi risvegliò quasi di colpo. Il cuore mi batteva all’impazzata. Una palla mi ò vicina con un gorgoglio sordo. Riemersi dal buio in un caos di spruzzi e fumo puzzolente. Un panno di velluto marrone cadde a poca distanza da me; la nave su cui mi ero imbarcato bruciava. Mi attaccai a un pezzo di legno che galleggiava lì vicino, sputando sangue, muco e acqua salata.”
Anime in Mare
di David Kumada
Il Tamigi scorreva calmo nell’accompagnare, come un cane da eggio, là dove a Greenwich si allarga e si incontra col mare, l’anziana gentildonna, che affrontava i generosi raggi di maggio con il suo fedele parasole a fiori. Ella si trattenne per qualche istante a osservare i gabbiani e ad ascoltare le loro garrule risate, mentre, acrobati del cielo, si esibivano in evoluzioni aeree sempre sorprendenti e mai una uguale all’altra; poi prese a discendere la piccola scalinata che conduceva ai moli dove alcune barche vuote erano ferme a galleggiare oziose. Oggi era una giornata di festa per i pescatori, (tutti a casa con le loro famiglie e chi non aveva moglie e figli era sicuramente in taverna a scolarsi qualche boccale) e quello sarebbe stato un posto decisamente tranquillo per leggere un po’ in santa pace, magari su quel piccolo battello azzurro, che con la sua tenda verde pareva proprio perfetto, oppure su quello bianco, all’ombra, che dondolava nella frescura. La signora stava ancora esitando nella brezza odorosa, ferma e indecisa sul pavimento di mattoni rossi della riva, quando un gruppo di giovinastri, sicuramente ex galeotti, le si fecero innanzi con dei ghigni maligni che raccontavano fin troppo bene l’infamia dei loro portatori. “Hullo, vecchia baldracca!” le fece il più alto e smilzo. Gli altri tre ceffi parevano essere stati pescati da un assai sfortunato assortimento di biscotti bruciacchiati e venuti male. Quello quadrato, dal volto butterato che pareva uno Shortbread Finger, avvolto nel suo completo bianco e stretto che lo fasciava quasi come una glassa al limone sudaticcia, le sbarrò la strada con il suo petto enorme, pieno di peli.
Omino-di-pan-pepato, a cui mancavano vari denti, ridacchiava con quel suo “har-har” stridulo che non preannunciava nulla di buono. Fu però quello pieno di foruncoli con l’accento scozzese, Scoones, quello che davvero prese l’iniziativa. “Fuori il grano se non vuoi grane!” e colpì con un buffetto abbastanza deciso la madama, che lasciò cadere il libro che recava in mano. Ora il volumetto, caduto di piatto sul suo dorso ricoperto di velluto, frusciava avanti e indietro accarezzato dal vento salato, osservando impotente dal suo angolo di prospettiva situato tra i loro piedi.
Golfo di Napoli, 5 Agosto 1626
Non ho mai visto una città tanto sconquassata. Sarebbe pure stata bella se non fosse per tutte le macerie e i corpi abbandonati che ci sono in giro. Altro che grandi affari, qui gli unici a sarsela sono i becchini e i predatori. Poi ci sono le suore che vanno e vengono a prendersi cura dei poveri disgraziati che hanno perso la casa o la famiglia. Sono stato in bettola ma mi hanno detto che è morto pure l’oste, e che tutte le bottiglie con qualcosa di buono dentro sono andate distrutte con il terremoto di una settimana fa. Lo dico sempre che se un anno comincia con il martedì, non può venirne niente di buono. Infatti anche io sono nato esattamente 21 anni fa, di martedì in un anno che inizia di martedì... che vi aspettavate? La mia vecchia mi ha sbattuto fuori di casa, giù a Siracusa, quando avevo sette anni. E ha fatto bene, aggiungo io, meno bocche da sfamare, senza contare che spesso le alleggerivo il borsellino senza che se ne accorgesse! Comunque questa città puzza di morto e per vedere qualcosa di bello mi tocca girarmi e guardare il mare. Quello sì che mi fa dimenticare tutto, anche quell’inutile sacco di pulci che mi porto appresso, Botolo, il cane più idiota che un marinaio ubriaco possa avere l’accidente di trovarsi tra le braghe. L’altro
giorno era un po’ giù, allora gli ho dato un goccio di sidro per rinfrancargli lo spirito di canaglia che si ritrova. È andato su di giri e si è innamorato della gamba di legno del Capitano, che per poco non lo faceva secco tirandogli fuori le budella a mani nude. Potevamo farci qualche salsiccia e spacciarlo per agnello al mercato della carne, almeno avremmo fatto due soldi da spendere al bordello. Ma eccola qui la bestiaccia! Sempre a slinguazzare da tutte le parti pur di ingozzarsi a tradimento. Ma tanto su Napoli non avevo comunque niente da dire.
Genova, 1 Ottobre, Racconto di Agapino
Signore, è il tuo umile e molto travagliato servo che ti scrive: ho perduto il mio breviario da qualche parte, anche se l’ho cercato praticamente ovunque. Continuo a pentirmi e a dolermi, a dolermi e a pentirmi ma davvero non lo riesco a trovare. I marinai continuano, nominando il Tuo Nome invano, a offendere la mia tunica, dicendo che come prete valgo anche meno di Satana in persona. Ma anche Giobbe dovette confrontarsi con le ingiustizie, tuttavia non si lasciò piegare... e io farò altrettanto. Invoco la Tua infinita misericordia affinché i cuori di costoro si redimano e si volgano a Te.
Nizza, 15 Settembre, racconto del Capitano
Avrò fors’anco un’appendice lignea in luogo della gamba (è peraltro una qualità di noce pregiata, dalla quale è stato ingegnosamente ricavato anche l’elegante e robusto armadio della mia cabina!) ma non vi permetto di guardarmi con quello sguardo di commiserazione del tutto non richiesta.
Io posseggo, in vero, un intelletto ’sì sopraffino e versatile da valere ben più di questo peso chiamato corpo, alle cui regole dobbiamo purtroppo sottostare. Non siamo fatti, tuttavia, per vivere da soli... e io ho il mio equipaggio: io sono il cervello, Calogero è il mio braccio, Agatino il mio cuore, Herbito la mia gamba e Fugassin... la mia tasca! Poi c’è Mad Becky, la donna. Era da tempo che volevo sfatare la superstizione che una femmina a bordo portasse sventura. Scommettendo con altri uomini di mare, poveri loro, nessuno dei quali capaci di battermi a carte o in un duello all’ultimo sangue (ma questo prima che perdessi la gamba di carne e ossa) avevamo discusso a lungo sull’argomento. Nonostante accarezzassi spesso l’idea di arruolare la prima piratessa al mondo e dunque are alla storia come esemplare di capitano dalle ampie vedute, devo ammettere di non aver avuto il coraggio di fare il grande o di mia iniziativa. Fantasticavo comunque, spesso, sul tipo di donna che avrei trovato adatta. Doveva essere bella, giovane ma non troppo, agile e spregiudicata, orgogliosa ma anche intelligente. Mi capitava a volte di fissare il guardo sulla furbizia di una o sul fascino d’un’altra... ma qualcosa, quel guizzo speciale che andavo cercando, mancava sempre. Un giorno frate Agatino, vedendomi pensoso, mi chiese. “Fratello Capitano, cosa ti cruccia?” A lui forse potevo confidare il mio progetto ma gli risposi evasivamente, spiegandogli che non riuscivo a venire a capo di un gran dilemma. Quello mi disse che il Signore avrebbe di certo provveduto se la causa del mio agire era giusta, e dunque per un po’ di tempo accantonai le mie strane fantasie e mi concentrai sulla storia del tesoro di Eurizia. Non era tanto dei dobloni d’oro che subivo il fascino, quanto della leggenda stessa. Alcuni sostengono che Eracle in persona avesse lasciato una chiave, reale o simbolica, per accedere a una enorme fortuna, sulla quale numerosissimi corsari legalizzati o anche pirati ricercati dalle autorità, avevano provato, inutilmente, a metter le grinfie. Incredibile come la moderna tecnologia ci abbia permesso di navigare in ogni direzione del mondo e tuttavia, ancora, abbiamo misteri insoluti da risolvere da qualche parte, vicino alla costa. Potrei scrivere un libro in proposito: “Scogliere dannate!”
Marsiglia, 7 Ottobre, Racconto di Alderico Fugassin
Intanto mettiamo le cose in chiaro. Tirchia sarà vostra madre! Io ho solo lungimiranza e senso per gli affari. Non sia mai che un giorno ci ritroviamo squattrinati e affamati più di quanto non siamo ora. Qui ci vuole un bilancio completo di tutte le entrate e uscite, onde arginare le spese inutili. Per esempio, queste nuove scialuppe di salvataggio le dovevamo fare per forza in legno, tra l’altro così poco economico? Sono secoli che i cinesi fanno tutto con il vimini... Avete mai visto quelle loro efficientissime pagode? Quelli saprebbero costruire perfino le loro madri con il vimini... e noi neppure una semplice scialuppa! No, no, no... non è tempo di sperperare. Ma un investimento giusto l’ho fatto e mi congratulo con me stesso. “Bravo, Alderico!” mi sono detto, quando ho scucito la mappa a quel vecchio trinchetto di Venezia! Mi è bastato offrirgli un bicierin de vin del valore di pochi spiccioli. È di fatto il potente sonnifero che vi ho disciolto a essere stato alquanto dispendioso!
Barcellona, 18 Ottobre 1626, Racconto di Herbito
Il problema è che non abbiamo un’unità di misura esatta, un parametro definito o
un temperamento adatto quando parliamo di Dio, specialmente in musica. Sì, possiamo creare canzoni e sinfonie bellissime da udire ma mi chiedo se non siano solo sollazzi estetici fini a se stessi. Mi deprime ammetterlo ma ad ora non ho ancora composto nulla che avesse in sé la scintilla divina. Certamente e senza falsa modestia posso ben dire di essere un musico dalla tecnica invidiabile, acclamato da tutti gli orecchi che contano nella società. Tuttavia, ora che la vecchiaia bussa alle mie porte, mi sento come se non avessi concluso niente, e ho deciso che è giunto il momento che veda un po’ il mondo e che ricerchi il Padre Nostro che è nei cieli. O nei mari, spero... Stavano cercando un musicante su questa nave. Sul bando era scritto: “Poiché ’l mio equipaggio è senza dubbio disordinato ed inefficientissimo al punto da condurmi giornalmente allo sforzo prolungato della mia preziosa ugola, arruoliamo cantore o musico che scandisca ’l tempo per comandar la ciurma nelle molteplici faccende di bordo.”
Montpellier 22 Ottobre, Racconto di Becky
Grazie Edmund. Puoi davvero stringerti la mano da solo, perché... il perché lo sai. Ricordo ancora la prima schioppettata che ho tirato, era a un pivello con la faccia da duro che se l’è svignata frignando come un colabrodo (e tu pensa a scrivere quello che ti detto io, senza obiettare! Ho detto frignando come un colabrodo e aggiungo anche dannato!) “Dove vai, donnetta?” gli ho fatto io, e ringraziasse il suo stramaledettissimo angelo custode che il mio archibugio era caricato a sale! Ma il piombo per lui sarebbe stato troppo, del resto aveva solo provato a farmi aprire le gambe, non aveva mica tentato di piantarmi un pugnale nel petto!
Forse quella gran lavoratrice di strada di sua madre non gli ha insegnato che le donne vanno prese con dolcezza, quindi posso proprio dire di avergli dato una bella lezione che non scorderà presto, almeno ora gliela ricorderanno le sue chiappe dolenti per un bel po’. Comunque conosco gente che è morta per molto meno e ben gli sta che ora sta suonando l’arpa in cielo, tra gli angeli. Mi viene quasi il voltastomaco quando penso a quelle brutte facce che si rodono il fegato in mezzo alle nuvolette, e quando li sento che mi mandano le peggiori maledizioni me la rido alla grande, perché tanto ormai loro sono solo cibo per i vermi! Come quel bellimbusto di Jack il Farabutto, che mi aveva combinato quel bello scherzetto da idiota, mettendo quel serpente velenoso nella mia tenda. Avreste dovuto vedere la sua miserabile faccia quando se lo è invece ritrovato nelle braghe, o meglio fra le ***** (e non censurarmi, razza di educanda da bordello che non sei altro!) Bene, parliamo del presente, non voglio che mi scambiate con una sentimentale che si perde nei ricordi felici. Ora sono di nuovo in mare... sto tornando, Edmund. Sto tornando e voglio la tua inutile pellaccia di codardo per decorare il mio paralume!
Stretto di Gibilterra, 3 Novembre, racconto a più voci.
Che c’è da dire su questo luogo? Niente... due pezzi di terra e uno spiraglio di mare. Tanto valeva che me ne stessi sotto coperta a togliere le pulci a Botolo. Ma per l’amor di Dio, quanta immensità in un luogo così ameno. Se mi racchiudo un momento in preghiera credo di riuscire a sentir gli angeli! Guarda poi quelle navi mercantili, devono essere dei veneziani! Chissà quante spezie pregiate trasportano, devono valere moltissimo. E questa cattedrale segnata sulla mappa, esisterà davvero? La mappa dice, a quarantacinque gradi
dall’ametista... sicuramente ci sono pietre ancor più preziose! Mi chiedo inoltre se Eracle abbia davvero costruito una statua con una chiave in mano come recita la leggenda, ma non mi stupirei che questa storia possa celare un’allegoria che potrebbe solamente essere compresa da uomini di una certa levatura. Ad esempio, guardando il riflesso dell’arcobaleno, mi vien da pensare che il colore verde ha sicuramente una associazione con un intervallo di quinta... ma l’intervallo più divino mi pare quello di sesta, a cui associo un colore viola... E poi li chiamano uomini! Guardali, tutti qui con un pezzo di carta o libro in mano! Fortuna che io non ho imparato a leggere, altrimenti sarei finita come loro. Quel frate mi ha talmente infastidito con le sue preghiere notturne che ho buttato il suo stupido libro in mare!
In mezzo al mare, poco dopo.
Agapino si accucciò giusto in tempo, mentre il pugnale che gli avrebbe volentieri traato il cranio si infilzava vibrante contro l’albero maestro. Mad Becky diede un poderoso calcio contro uno dei nemici che si stavano lanciando all’arrembaggio e ridacchiò esaltata, sfoderando la spada. Il capitano tirò fuori una carabina e prese a bersagliare, riparato dal timone, quei poveri barbari senza cervello. Herbito incitava i marinai in combattimento con il suo tamburo da battaglia, tentando di vincere la paura e l’emozione del suo primo scontro. Fugassin era inseguito da due omaccioni per nulla raccomandabili. Perdeva denaro da una tasca, mentre correva, e quello era per lui il peggiore affanno, anche se riuscì a cavarsela salvando la pellaccia, dato che i suoi assalitori si erano fermati a raccogliere i soldi come piccioni attratti dal grano. Calogero aveva protetto le spalle di Becky parando un colpo di spada diretto alla sua schiena sinuosa. Lei non lo ringraziò... ma i loro sguardi si incontrarono per
un lungo, intenso istante. Proseguirono dunque nella lotta prendendo direzioni diverse, lui a poppa, lei a prua. Fu solo a battaglia conclusa che la ciurma si accorse di aver perso Calogero. Il suo cane, Botolo, andava cercandolo in maniera frenetica e disperata e assistere a quella ricerca inutile era davvero una visione strappalacrime. Herbito si mise a battere un ritmo lugubre di congedo mentre Agapito recitò una preghiera funebre che riecheggiava nel tramonto. Il Capitano si tolse una volta tanto il cappello e restò fermo con lo sguardo perso all’orizzonte; Mad Becky finse indifferenza e si allontanò dal gruppo dicendo: “se fosse stato un vero uomo non si sarebbe fatto ammazzare come un cane...” Fugassin tentò di risollevare il morale facendo notare a tutti come avrebbero certamente potuto risparmiare sulla lapide, visto che il corpo era finito in chissà quale abisso ed era irrecuperabile. Ebbe come reazione una scarica di epiteti poco gradevoli con allegata la minaccia di essere buttato in mare per far compagnia all’anima di Calogero e da pasto fresco per gli squali.
Ricordi del Capitano
Quando vidi Mad Becky per la prima volta, era in abiti femminili, sulla spiaggia di Tripoli. Guardava la luna seduta sulla rena fredda, senza curarsi della sabbia che le si attaccava alla gonna, che teneva annodata in modo sbrigativo, cosicché non le fosse d’impaccio. Aveva in qualche modo staccato l’ingombrante intelaiatura della sottogonna fatta di vimini e ossi di balena, che ora giaceva abbandonata come una carcassa più indietro sulla spiaggia davanti alla fastosa villa dove era in corso un ballo molto noioso pieno di vecchie mummie rinsecchite. Capii subito che era una creatura del mare sotto mentite spoglie appena aprì la bocca.
Con voce rauca mi raccontò di essere alle calcagna del marito, un inglese, che credeva erroneamente di essersi sbarazzato di lei spingendola giù da una rupe. Quello che Becky voleva era vendetta, ma capii che era mista a un amore grande e non ricambiato e dunque acconsentii ad accompagnarla sulla mia nave fino in Inghilterra. Mi mancherà molto quando ci saremo separati ma così è la vita di noi uomini d’equipaggio. Eccola di ritorno. Sta guardando i minuscoli che ho sulla mappa e finge di capire cosa vi sia scritto. Dovrei insegnarle a leggere ma temo di urtare il suo orgoglio. Leggo ad alta voce come se lo fi per me stesso, e lei annuisce. Ricordo l’indovinello che Fugassin aveva decifrato in parte, in catalano.
“Dalle colonne d’Ercole a 38 gradi ad Est Riposa la chiave d’Eurizia Là dove la croce è segnata Nel buio profondo della sapienza”
Confessioni di Agapino, 18 Novembre 1626
Scrivo queste mie ultime memorie con le forze finali che il Signore mi ha concesso prima di richiamarmi a sé. Ho consegnato il messaggio a Don Alejandro di Granada ma costui, a quanto pare, era una spia dei nostri nemici, come lo era Fugassin. Il capitano, prima di morire sotto le torture, ha rivelato il luogo segreto della posizione esatta del tesoro di Eurizia. Si tratta di un libro che narra la vera storia del Nostro Signore Gesù Cristo e il
mio cuore è in preda agli spasimi pensando che ne utilizzeranno il potere per soggiogare l’umanità intera per moltissimi anni a venire, istituendo regimi di sangue e terrore. Di Herbito non so nulla. Era troppo vecchio per poter sopportare il lungo cammino sull’altipiano e lo abbiamo lasciato in città. Temo per la sua vita e prego per la sua salvezza. Chiedo perdono a Dio per la mia inettitudine. Signore, pietà... misericordia...
Londra, 1661
A Shortbread Finger venne quasi un colpo quando vide lo sguardo dell’anziana signora animarsi di una luce consapevole e feroce. Gli altri tre rimasero di pietra mentre Rebecca Emma Cartbone, in arte Mad Becky, vedova del defunto Edmund Philip Cartbone, deceduto per un incidente mortale sulla scogliera di High Cliff in Cornovaglia, tirò fuori dal bastone del suo paralume un acuminato stiletto. Con gesto preciso ed esperto sfregiò in maniera leggera ma convincente le carni dei suoi assalitori, che estremamente confusi si dettero alla fuga. Rebecca fece un ghigno enigmatico, raccolse il suo libro e, dopo averlo liberato dalla polvere di strada, lo richiuse, per poi continuare calma la sua eggiata.
Post scriptum: Herbito non seppe mai che fine fecero il Capitano e la sua ciurma ma l’esperienza lo segnò molto: dopo essere tornato a Barcellona compose una serie di sinfonie sacre di grande valore artistico. Si spense nel suo letto all’età di 73 anni.
Calogero non morì affogato, ma riuscì miracolosamente a nuotare fino a riva. Perse però la memoria per alcuni mesi e si imbarcò per il Nuovo Mondo.
Quando si ricordò della sua precedente vita e soprattutto di Botolo, si trovava nei Caraibi, nelle patrie galere del governatore.
Inaffondabile
di Stefano Pastor
La prima volta che vidi Lady Stuart me ne innamorai. A dire il vero non sapevo neppure cosa fosse l’amore, avevo solo sedici anni, e gli ultimi due li avevo ati in mare, imbarcato sul galeone, quindi non è che di donne ne avessi viste molte. Eppure fu così, e ne ebbi conferma nei giorni seguenti. L’amavo, l’avrei amata per sempre. Lady Stuart era giovane, molto più giovane del marito, ma era pur sempre una donna ai miei occhi. Inoltre era una Lady, e io solo un mozzo, il gradino più basso nella gerarchia della nave. Non avevo speranze. Che ci fe Lady Stuart su quella nave era un mistero. Era sola, il marito non l’aveva accompagnata. Non era neppure venuto ad assistere al suo imbarco. Io ero sul ponte, quel giorno, abbagliato dalla sua bellezza. Mai mi sarei aspettato che la moglie di Lord Stuart, il nostro armatore, potesse essere così perfetta. Era scesa da una luccicante carrozza bianca, trainata da otto cavalli altrettanto bianchi, e il suo abito era un tripudio di pizzi e merletti, del tutto inadeguato alla vita di bordo. Le sue gonne erano talmente ampie che era stato necessario allargare la erella per permetterle di salire a bordo. Il suo sguardo calmo, pacato, denotava una sicurezza e una forza che non avevo mai trovato in nessun’altra prima di allora. Il suo portamento era regale, neppure per un istante aveva chinato gli occhi. Era conscia di chi era e del potere che deteneva. Ne aveva tutte le ragioni, in fondo. Suo marito, il Conte, era primo cugino del re, terzo in linea di successione al trono, e lei era la dama più benvoluta a corte. Per questo la ragione della sua presenza sulla nave era ancor più misteriosa.
La seconda cosa che notai di lei, dopo la sua bellezza, fu il fatto che fosse sola. Non parlo del marito, della cui assenza ho già detto, ma non vi era nessuno con lei, neppure una cameriera personale. In compenso aveva un bagaglio di otto pesantissimi bauli, pieni di vestiario. Vedendola mi domandai chi l’avrebbe aiutata a indossare abiti così complicati. La sua vita era trasparente, il suo petto strabordante, le gonne talmente ampie che era impossibile avvicinarsi a meno di un metro da lei. Dalla parrucca candida una cascata di boccoli accarezzava le sue spalle. Gli occhi erano azzurri, come il mare calmo. Io li vidi chiaramente, ma lei non mi notò. Il capitano la sommergeva di inchini, e a ragione: da quella donna dipendeva il suo futuro. Se n’era parlato tanto, e tutti avevano da dire la propria: che era lei a comandare in famiglia, che Lord Stuart era un burattino nelle sue mani. E conoscendo il Conte era facile immaginarne la ragione. Non la udii parlare. Lady Stuart dominava su chiunque con un solo cenno della mano. Del resto rimase sul ponte solo pochi istanti, e subito fu accompagnata nella sua cabina. Io feci carte false, quel giorno, per poter lavare il ponte, pur di essere nelle vicinanze se lei si fosse fatta vedere. Ottenni il mio premio, e continuai, giorno dopo giorno, fino alla tragedia.
Fu subito chiaro cosa avesse in mente quella donna. La nave era appena salpata quando il nostromo ci raggruppò. Annunciò che Lady Stuart aveva espresso il desiderio di avere un cameriere personale. Poi, senza alcun indugio, designò Mike per quel compito. Di sicuro Mike era il più adatto: da quasi due anni era primo cameriere di bordo, serviva personalmente il capitano e ogni personalità che ci aveva accompagnato. Però, in quella specifica situazione, lo trovai di cattivo gusto. Mi stupì che nessuno fe commenti. Cercai di agganciare lo sguardo di Mike. Un tempo eravamo stati amici, veri amici. Anche se adesso non lo eravamo più, lui avrebbe potuto aiutarmi lo stesso, se solo avesse voluto, mettere una buona parola col capitano per far
designare me al suo posto. Lo so, era un’assurdità, per quale ragione un mozzo avrebbe dovuto essere promosso a cameriere? Cameriere di Lady Stuart, addirittura. Ma ero molto giovane e ingenuo, e ancora credevo che i sogni potessero avverarsi. Inutile dire che Mike neppure si rese conto della mia presenza. Io attendevo la sua reazione, speranzoso. Lui ebbe il buon gusto di abbassare il capo e ammettere: «Non credo di essere la persona adatta, lo faccia fare a Jonas.» Jonas era il cameriere più anziano, quello a cui Mike aveva depredato il posto e, nell’occasione, perse per un attimo la sua imperturbabilità e si permise un sorriso. A quel punto il nostromo emise la sentenza. «Non è possibile, Lady Stuart ha chiesto espressamente di te.» Mike era morto. Lo compresi all’istante, come lo compresero tutti i presenti. Capii anche la ragione per cui Lady Stuart si trovava su quella nave. La comprese pure Mike. Lo vidi impallidire, vidi il terrore nei suoi occhi. Fu in quel momento che tornò a vedermi. Quando tutti abbassarono il capo per non incontrare il suo sguardo, gli rimasi soltanto io. E mi implorò, mi implorò di salvarlo. Non c’era salvezza per Mike, l’aveva fatta troppo grossa, e io lo sapevo bene. Non aveva più amici su quella nave, lo detestavano tutti. Anch’io non gli rivolgevo più la parola da tanto tempo. All’inizio non era così, Mike era allegro, pieno di vita, benvoluto da tutti. Era il mio idolo, ciò che avrei voluto diventare. Lo ammiravo. Era solo un mozzo, proprio come me, ma lo era già da cinque anni. Era salito giovanissimo su quella nave, a undici anni, ed era diventato subito il beniamino di tutti. Non era molto intelligente, ma sapeva farsi benvolere, il suo sorriso sincero e il suo buonumore erano contagiosi. Io avevo quattordici anni, due meno di lui, ma mettevo piede su una nave per la prima volta. Non per mia scelta, era stato mio padre a deciderlo. Diceva che ero uno scapestrato, che avevo bisogno di essere raddrizzato, ma non era vero. Non
ero né più né meno degli altri ragazzi della mia età, non combinavo tanti guai ed ero disponibile all’occorrenza. Mi padre lo fece solo per i soldi, per la paga che gli avevano promesso. In un certo senso mi vendette. Sì, fece proprio così. Senza Mike non ce l’avrei fatta. Troppe regole, troppi ordini. Io ero il più basso in gerarchia, tutti potevano comandarmi, ed ero tenuto a obbedire sempre. Non avevo più tempo per respirare, il lavoro mi uccideva, finivo per sbagliare e poi dovevo subirne le conseguenze. Ero stato frustato più di una volta. Mike aveva cambiato tutto, mi aveva salvato. Perché lui ci sapeva fare, sapeva come eludere gli ordini, come rabbonire chiunque. Col tempo c’era riuscito, aveva distolto l’interesse da me, ed ero diventato un mozzo qualunque. Forse in quei giorni non l’avevo compreso appieno, ma Mike mi aveva salvato la vita. Non sarei riuscito a resistere a lungo, se non ci fosse stato lui. Diventammo amici, e tali restammo per quasi sei mesi. Di più che amici, fratelli di sangue. Nonostante la fatica e il lavoro massacrante, quello fu il periodo più bello della mia vita. Finché non arrivò lui, Lord Stuart. Era un viaggio lungo, di quasi sei mesi, avremmo dovuto accompagnarlo a controllare certi suoi possedimenti, sparsi in ogni parte del globo. Prima ancora che salisse a bordo, avevo già sentito un sacco di pettegolezzi su di lui, perché io non ero uno stupido, mi piaceva essere informato. Ero un ficcanaso, dicevano gli altri. Avevo sentito che aveva gusti particolari, che era un pervertito, che gli piacevano i ragazzi. Mi ero premunito, facendomi assegnare compiti magari sgradevoli, ma che mi avrebbero tenuto lontano dai suoi occhi. Sepolto nella stiva, piuttosto, in mezzo al pesce puzzolente. Avevo anche avvisato Mike di fare lo stesso. Non mi aveva ascoltato. Si trovava sul ponte, il giorno in cui Lord Stuart era arrivato. Tendeva le vele, i muscoli in mostra, a petto nudo. Anche se ero nascosto, potrei giurare di aver visto gli occhi di Lord Stuart luccicare, mentre lo guardava. Lord Stuart era sulla cinquantina, un perfetto aristocratico con la puzza sotto il naso, almeno all’apparenza. Tra parrucche incipriate e fazzoletti da mano, indossava più merletti di una signora, persino il capitano era imbarazzato in sua
presenza. Quella sera Mike fu chiamato nella cabina del Lord per aiutarlo e vi rimase per tutta la notte. Il giorno dopo fu reso noto che era stato promosso: era diventato primo cameriere di bordo, addetto alla cura personale dell’armatore. Venne un’ultima volta, nella cabina che dividevamo, a raccogliere le sue cose. Io l’avevo già visto succedere, tra i marinai più anziani, ma mi disgustava. Il capitano detestava certe pratiche, non le tollerava sulla sua nave. Chiunque fosse colto a compiere atti di sodomia veniva abbandonato su una scialuppa, in pieno mare, con un otre d’acqua e viveri per pochi giorni appena. Ma Lord Stuart era Lord Stuart. Il padrone della nave, dell’intera flotta, e poteva fare ciò che voleva. A me questo non importava. Per me Mike era Mike, il mio idolo. Non poteva vendersi in quel modo. Fare certe cose, poi! Ancora mi ostinavo a credere che fosse stato costretto, obbligato, che non potesse essere una sua scelta, che mai si sarebbe sporcato solo per poter indossare un parrucchino. Invece compresi subito che non era così, lo capii dai suoi occhi. Non era stato un caso e neppure un incidente. Lui era salito su quel ponte per mettersi in mostra, nella speranza che accadesse proprio quello che era successo. Bastò uno sguardo per rendermene conto, e fu la fine della nostra amicizia. Forse sarebbe finita comunque, forse non gli sarei interessato più, ora che era salito di grado, che era diventato un mio superiore. Ma fui io il primo a rifiutarlo, distogliendo gli occhi da lui. Non ci parlammo quel giorno, non ci parlammo mai più. Non fui il solo a comportarmi così. Mike perse tutti i suoi amici, per una ragione o per l’altra. Gli rimase solo Lord Stuart, con cui ava tutto il suo tempo. Subito no, perché ero troppo arrabbiato, ma in seguito mi chiesi la ragione della sua scelta. Non c’era sbocco per noi, poveri analfabeti, mozzi eravamo e mozzi saremmo rimasti. Quella era forse l’unica occasione che mai avrebbe avuto in tutta la vita. Però comprenderlo non equivaleva ad accettarlo. Mike aveva fatto una cosa orribile, la stava ancora facendo, e questo mi riempiva di disgusto. Non l’avrei potuto perdonare mai. Per me era morto.
I sei mesi arono e tornammo in Inghilterra. Mike aveva sperato fino all’ultimo, ma le sue speranze non furono ascoltate. Quando Lord Stuart scese dal galeone, era solo. Mike era stato solo un sollazzo per lui, di cui non aveva più bisogno. Era diventato scomodo, adesso, inutile. Mike mantenne il suo grado, continuò a essere primo cameriere, ma di nuovo la sua carriera aveva subito un arresto, l’occasione era ata e non sarebbe tornata mai più. Ed era rimasto solo, senza amici, senza il rispetto di nessuno. Lo temevano, perché ora lui poteva comandarli, ma non avevano più alcuna considerazione di lui.
Sì, in quel frangente era morto, spacciato. Se Lady Stuart aveva chiesto espressamente di lui poteva esserci una sola spiegazione: la nobildonna era a conoscenza di quello che era accaduto sulla nave, tra Mike e suo marito. E se Mike era la ragione della sua presenza lì, non poteva esserci alcun dubbio su ciò che dominava quella donna: la sete di vendetta. Se non poteva esercitarla su Lord Stuart, era inevitabile che la deviasse sul povero Mike. Le donne sapevano essere subdole, me l’avevano raccontato, c’erano cento modi di distruggerlo impunemente. Accusarlo di furto, per esempio, farlo impiccare. Oppure di aver attentato alla sua virtù. O peggio ancora, tante piccole angherie che avrebbero ridotto la sua vita a un inferno. Mike avrebbe pagato per il suo errore, col proprio sangue. In quel momento mi mancò la nostra amicizia di un tempo, mi mancò di non poterlo aiutare, qualsiasi cosa avesse fatto, fui triste per lui, addirittura dispiaciuto. Ma che potevo fare io, che ero solo un mozzo? Quando anch’io distolsi lo sguardo, Mike si sentì perduto. La sua voce tremava mentre pronunciava quelle che lui stesso era convinto dovessero essere le sue ultime parole. «Come desidera Sua Signoria. Prenderò servizio immediatamente.» Si allontanò impettito, come un condannato a morte, senza girarsi mai. Quel giorno gli dissi addio, certo che non l’avrei più rivisto.
Lady Stuart non lo uccise. avano i giorni e Mike era ancora vivo. Però cambiò lo stesso. Non abbassava la guardia, mai. Bastava un rumore un po’ più forte per farlo strillare. Alla fine era ridotto all’ombra del ragazzo che avevo conosciuto. Io non ero stupito che fosse sopravvissuto, in fondo. Lady Stuart era l’essere più perfetto dell’universo, e quindi ero convinto che dovesse essere anche giusta e magnanima. La sua bellezza aveva stregato chiunque sulla nave, e nessuno riusciva a capire come Mike potesse essersela cavata. Lui cercava ogni scusa per starle lontano, proprio come io cercavo ogni occasione per avvicinarla. Ma lei non mi vide, mai. Ero solo il mozzo che lavava il ponte dove lei camminava, che lucidava le maniglie delle sue porte, che portava l’acqua per le sue necessità. Il suo sguardo non si abbassò mai su di me, ai suoi occhi ero invisibile. Lady Stuart guardava il mare. ava ore a scrutare l’orizzonte, come se aspettasse qualcosa che tardava ad arrivare. In quei momenti io mi offrivo di fare la vedetta, salivo su, in cima all’albero maestro, e lì avo ore a osservarla, completamente dimentico del mio compito. La vegliavo, lei sola, sul bordo del castello, ferma a guardare l’immenso. Nessuno la disturbava mai, sembrava un fantasma, ammantata della sua solitudine. In quei momenti mi chiedevo cosa fe in realtà su quella nave, perché una nobildonna come lei fosse stata relegata a un compito così prettamente maschile. Non credevo che fosse la vendetta a spingerla, non era per Mike che si trovava lì. O forse sì? Cento volte fui sul punto di parlargli. Non a Lady Stuart, non avrei mai osato, ma a Mike. Anche lui era sempre solo, pareva asse la sua vita a nascondersi, non solo da lei, ma da tutti quanti. Cento volte fui sul punto di rompere il silenzio che ci divideva, ma non ne ebbi mai il coraggio. Lui mi aveva abbandonato, ci aveva abbandonati tutti, e non poteva più tornare indietro.
Eppure la conosceva più di tutti noi, lui avrebbe potuto svelare il segreto che la circondava. Ne aveva paura? Era terrorizzato da quella donna? Cosa gli aveva detto, cosa gli aveva fatto? Perché, nonostante tutto, lui era ancora vivo? C’era un’altra cosa a dividerci, qualcos’altro che non potevo perdonargli. Lui era il suo cameriere personale, lui l’aiutava a vestirsi e spogliarsi, lui le era vicino, forse la toccava pure. Non mi importava che lei lo odiasse, ne ero geloso. Non gli potevo perdonare neppure questo.
Eravamo in viaggio da circa un mese, a metà strada dal Nuovo Continente, quando avvenne la tragedia. In parte fu colpa mia, perché ancora una volta i miei occhi erano rapiti dalla vista di Lady Stuart e non riuscivo a notare nient’altro. Fu proprio lei a dare l’allarme, perché li vide prima di me. In seguito me lo chiesi mille volte se le cose sarebbero potute andate diversamente, se solo fossi stato più attento. Forse non saremmo riusciti lo stesso a sfuggire, la loro nave era più veloce e maneggevole, ma almeno avremmo avuto una speranza. Quando Lady Stuart si mise a urlare e io sentii la sua voce per la prima volta, mi congelai di colpo e alzai gli occhi. La nave era lì, stagliata all’orizzonte, ed ero stato uno stupido a non vederla prima. Con tutta probabilità era in vista da almeno un’ora, dalla mia postazione di vedetta. Lady Stuart li riconobbe subito, anche se era impossibile stabilire che bandiera battessero. «I pirati! I pirati!» gridò. Neanche in quel caso c’era terrore nelle sue parole, rendeva solo noto qualcosa di molto importante. Mentre scendevo dall’albero, col cuore in gola, già paventavo la punizione che avrei dovuto subire. Non mi rendevo ancora conto di ciò che significasse realmente, ovvero la morte per tutti noi. La nostra era una nave mercantile, non era attrezzata per combattere. Soprattutto
nessuno di noi lo sapeva fare. Neppure si accorsero di me e compresi che erano terrorizzati, tutti quanti. Uomini forti, robusti, che sempre tuonavano i loro ordini, ora correvano urlando in preda allo spavento. Nella confusione totale vidi Lady Stuart tornare nella sua cabina. Lei non piangeva, non si disperava, non tremava neppure. Il suo sguardo era sempre lo stesso, come se neppure una vicenda così grave potesse scalfire la sua esistenza. Mi ritrovai una pistola in mano e mi dissero. «Spara appena arrivano abbastanza vicini!» Non ricordo neppure chi me la diede. Solo che io non la sapevo usare, non avevo idea di come si caricasse e neppure di come esplodere il colpo. Tutti si stavano armando, vidi persino il cuoco correre fuori dalla stiva brandendo una mannaia. A costo di sembrare un vigliacco, come in realtà ero, lasciai cadere la pistola e indietreggiai, cercando di tenermi lontano il più possibile dal bordo della nave.
Non fu una cosa veloce, il galeone dei pirati impiegò più di quattro ore ad affiancarci. Furono sparate palle di cannone, ma quasi tutte andarono a vuoto. Noi non li colpimmo mai, un paio delle loro penetrarono nel castello di poppa, uccidendo alcuni uomini. Quando la nave pirata ci raggiunse, io cercai rifugio nel castello di prua, dove era la cabina di Lady Stuart. Quel ponte lo conoscevo così bene, per quante volte l’avevo lavato, in quegli ultimi tempi, fino a renderlo lucido. Non saprei dire cosa fosse stato a spingermi lassù. La volevo difendere? Ero pronto a sacrificare la mia vita per lei? No, non ero un eroe, tremavo soltanto. E mai avrei avuto il coraggio di aprire la sua porta. Rimasi solo lì, inginocchiato a terra, nascosto dietro la ringhiera, ad assistere alla disfatta. Quando i pirati riuscirono ad affiancarci, la loro potenza di fuoco ci sopraffece. Benché fossimo un galeone, e potessimo quindi sembrare una nave da guerra, eravamo sempre stati adibiti a scopo commerciale, non vi era nulla a bordo in grado di intralciarli. Bastarono poche cannonate a distruggere le nostre batterie. L’albero maestro fu falciato e crollò travolgendo parte dell’equipaggio. A quel punto avevamo già perso. Quando ci abbordarono iniziò la carneficina.
Non era loro intenzione affondarci, intendevano prima depredare le nostre merci. Noi eravamo in gran numero, almeno due volte superiori ai pirati, ma non avevamo ugualmente nessuna speranza. Nessuno di noi era stato addestrato al combattimento, e le forze della nostra nave erano già state decimate dall’artiglieria nemica. Sarebbe stato un massacro, lo sapevo, saremmo morti tutti. «Non restare lì, vieni dentro.» Mi paralizzai, la voce arrivava dalle mie spalle. Una mano si era posata sul mio braccio. Alzai gli occhi a guardare chi mi stesse sovrastando. Lady Stuart era più bella che mai, nel suo abito candido, una visione angelica. E stava parlando proprio a me. «Muoviti, non c’è più tempo.» Cercai di ragionare, di essere un vero uomo, almeno per una volta. «Non può restare qui, Milady, è troppe pericoloso!» Lei mi tirò per un braccio e persi l’equilibrio finendo a terra. «E muoviti! Smettila di perdere tempo!» Iniziò a trascinarmi, senza neppure darmi il tempo di rialzarmi. Cercai di ricompormi e di rimettermi in piedi, invaso da ogni sorta di emozione contrastante. Vergogna, orgoglio, paura, imbarazzo, amore. «Cosa... cosa...» riuscii appena a dire, prima che lei mi trascinasse nella sua cabina. Non fu affatto gentile, mi diede una spinta tale che mi ritrovai di nuovo a rotolare sul pavimento. Lei si affrettò a chiudere la porta, mentre lì fuori la battaglia infuriava, e mi sparò un ordine secco. «Spogliati!» Rimasi a bocca aperta, steso a terra. Lei si mise a urlare, facendomi sobbalzare. «Togliti quegli abiti, subito! Spogliati completamente!»
Non avrei mai osato farlo lì, in sua presenza. Avrei preferito morire, piuttosto. Lady Stuart prese degli abiti da un armadio e me li gettò ai piedi. Li riconobbi con uno strano turbamento. Erano la livrea e il parrucchino del primo cameriere. In quel momento mi ricordai di Mike e mi guardai intorno. Ma lui non c’era, non avevo idea di che fine avesse fatto. «Dov’è Mike?» le chiesi. «Indossali tu. E sbrigati.» «Perché?» Era assurdo disubbidire a un suo ordine, e in un simile frangente poi, ma ero troppo sconvolto per ragionare. «Vuoi avere salva la vita? Indossa subito quegli abiti!» Li raccolsi, incerto, imbarazzato, timoroso, senza avere il coraggio di spogliarmi. «Perché io?» Perché avrebbe dovuto salvare proprio me tra tutti quanti? E come avrebbe potuto farlo? Non ero stupido, capivo bene che la sua vita non era in pericolo: lei era Lady Stuart, il riscatto per la sua liberazione sarebbe stato favoloso. No, nessun pirata avrebbe osato torcerle un capello. Ma io? Non c’era salvezza alcuna. Né come mozzo, né come paggio, ancor meno come cameriere. Ero l’essere più inutile e sacrificabile dell’universo. Quella donna non aveva idea di cosa stesse facendo. «Ti vuoi sbrigare? Non c’è rimasto più molto tempo!» Mi girai, per non guardarla, come se ciò potesse impedire a lei di guardare me, poi iniziai a spogliarmi, il volto in fiamme. «Cosa devo fare?» «Tutto quello che ti chiedo, e senza fare mai domande.» «Sì, Lady Stuart.» «Lavati, prima, c’è una bacinella, su quel mobile. Usa il sapone, non devono
capire chi sei.» A torso nudo andai a fare ciò che mi chiedeva. «Dov’è Mike? Che ne è stato di lui?» Stavolta si degnò di rispondermi. «Non ne ho la minima idea.» «Io non sono capace» mormorai. «Non so quali siano i suoi compiti.» «Il tuo unico compito è obbedirmi, e vedrai che riusciremo a cavarcela entrambi.» Scossi il capo. «Mi uccideranno lo stesso.» «Faremo in modo che ti considerino indispensabile.» Mi girai a guardarla, dimenticandomi le mie nudità. Lady Stuart stava sorridendo. Ed era assurdo, in mezzo a quella battaglia. «È impossibile» mormorai. «Non c’è niente di impossibile per me.» Perché io? Non riuscivo a capire, e sapevo che lei non avrebbe risposto a quella domanda. «Smettila di perdere tempo.» L’abito di Mike era troppo largo per me, in compenso il suo parrucchino mi stava stretto e prudeva. Mi sentivo un idiota con quell’abito. Eppure Mike aveva rinunciato a tutto pur di indossarlo. Lady Stuart mi raggiunse e me lo sistemò personalmente. Mi pulì anche il volto con un fazzoletto, nei punti che mi erano sfuggiti. «Sei basso. Quanti anni hai?» Mi tremava la voce. «Sedici. Sedici e mezzo.» «Sei lo stesso basso. Sembri più giovane.» Questo era un bene o un male? Non riuscivo a capirlo.
«Che ne sarà di Mike?» mormorai. Mi sentivo in colpa, come se avessi rubato il suo posto. Avrebbe dovuto esserci lui lì, avere una possibilità. Anche se ero convinto che niente avrebbe potuto salvarmi. Lei fece solo una smorfia, che trovai spiacevole sul suo volto perfetto. «Non c’è più tempo. Dovrai fare tutto quello che ti chiedo, hai capito?» Annuii.
Impiegarono quasi mezz’ora ad arrivare. Io sentivo morire i miei compagni, mentre la battaglia impazzava, ma non trovai mai il coraggio di aprire la porta e guardare fuori. Lady Stuart impiegò questo tempo a farsi bella, anche se non ne aveva alcun bisogno. Non mi diede altri ordini, né indicazioni su come comportami. S’incipriò, si colorì le guance, indossò i suoi gioielli più preziosi, e quando ebbe finito riluceva come un sole. Chiunque sarebbe stato estasiato dalla sua presenza. Quando le urla cessarono, mi diede un solo ordine. «Resta sempre dietro di me.» E il suo gioco ebbe inizio. I primi a trovarci furono due pirati disgustosi, avanzi di galera della peggior specie, con le mani sporche di sangue e le spade sguainate. Eppure non fecero proprio niente, davanti alla sua bellezza. Lady Stuart era al centro della stanza e la dominava. Il suo ampio abito bianco la riempiva. Io scomparivo alle sue spalle. Uno dei pirati ordinò all’altro. «Va’ a chiamare il capitano, digli che l’abbiamo trovata.» Non fece altro, non cercò di aggredirla e neppure di toccarla. Perché Lady Stuart era Lady Stuart, sono certo che qualunque altra donna avesse incontrato non avrebbe avuto scampo. Neppure notò la mia presenza.
Il capitano arrivò dopo un paio di minuti, e non era solo. C’erano quattro uomini con lui, armati fino ai denti. Lady Stuart non si scompose. Il capitano era abbastanza giovane, alto e muscoloso, la pelle cotta dal sole, una barba tendente al rossiccio. Non aveva evidenti segni di cicatrici né menomazioni, ed era quindi probabile che fosse solito incantare il gentil sesso. Ma contro Lady Stuart non aveva difese. «Milady!» la salutò, in tono ironico. Non era stato un caso, sapeva benissimo chi fosse. Era probabile che avesse assaltato la nave proprio per lei. Di certo valeva assai più delle merci contenute nella stiva. Però non l’aveva mai vista, non aveva idea di chi si sarebbe trovato di fronte. Lady Stuart era sempre perfettamente immobile, pareva una statua. «Quali sono le vostre intenzioni nei miei riguardi, capitano?» Il pirata era divertito da quella donna che non urlava né piangeva, e neppure mostrava di aver paura di lui. «Temo proprio che dovrà seguirmi sulla mia nave, Milady» disse in finto tono cerimonioso, sempre ironico. «C’è una nuova cabina che l’aspetta.» Lady Stuart tese le braccia di lato, in perfetta sincronia. «Dovrò cambiarmi d’abito, allora. Non posso venire così.» Le sue dita si muovevano, invitanti, simulando le onde del mare. Ci vollero alcuni secondi prima che capissi che stava chiamando me. Io tremavo. Finora neppure mi avevano visto. Quelli potevano essere gli ultimi istanti della mia vita. Guardavo le sue mani, senza capire cosa mi chiedesse di fare. Erano mani delicate, coperte da un guanto bianco, semi-trasparente. Quando ebbi compreso, mi feci avanti. Due dei pirati subito puntarono le pistole. Mi costrinsi a continuare, fingendo di non averli visti. Sfiorai la sua mano, poi la liberai dal guanto, usando tutta la delicatezza possibile. Girai intorno al suo abito vaporoso e feci lo stesso con l’altro guanto.
Solo allora Lady Stuart, con un movimento leggiadro, portò una mano al collo e iniziò ad accarezzarselo. Pareva infastidita dalla gorgiera, che lo ricopriva. Andai alle sue spalle e mi sporsi per raggiungerla. Non fu facile scoprire come sfilarla, ma alla fine ci riuscii. Lady Stuart si trovò col collo nudo e prese a massaggiarselo, in modo languido. I suoi spettatori, dapprima perplessi, iniziavano a essere turbati. Lady Stuart accarezzò con le mani l’ampia gonna che la circondava. Io ero imbarazzato. Voleva denudarsi davanti a loro? Fino a che punto sarebbe arrivata? Qual era il suo gioco? Me ne resi conto di colpo, quando vidi quegli uomini abbassare le pistole che tenevano puntate contro di me. Mi avevano dimenticato. Peggio, ora ero utile, volevano che continuassi. Per quanto mi addolorasse esporla ai loro occhi, mi misi subito a cercare il sistema per sfilare quella gonna. Trovai i legacci e li sciolsi. Scivolò ai miei piedi, morbidamente, suscitando un respiro appena affannato di quegli uomini. Ce n’erano altre, sotto, due strati di sottogonne, ma non persi tempo e sfilai anche quelle. Apparve l’impalcatura a cerchi concentrici, di stecche di balena, e attraverso quella la sua biancheria intima. Ero preso anch’io dalla stessa frenesia, perché ogni capo che cadeva a terra era una speranza in più di sopravvivenza. La liberai da quella scomoda gabbia, e riuscii a mormorare alle sue orecchie: «Ancora?» Le sue mani accarezzarono la schiena. Con mani tremanti iniziai a sbottonarle l’abito. Quando cadde a terra apparve il corsetto che modellava le sue forme. Le giarrettiere reggevano le calze, anch’esse candide, e lasciavano intravedere lembi di pelle nuda. «Che sta facendo, Lady Stuart?» chiese il capitano, che aveva perso molta della sua sicurezza. Lei accarezzò il corsetto, e compresi cosa mi stava chiedendo. Era legato strettissimo. «Non era l’abito adatto per sopportare disagi, non crede anche lei, capitano?» Lui stava per rispondere, quando io iniziai a liberarla. Rimase a bocca aperta,
mentre le forme della nobildonna rifiorivano. Persino lei lanciò un sospiro voluttuoso quando il corsetto crollò a terra e riprese a respirare normalmente. Non era rimasto molto da togliere, ma lei sembrava decisa ad arrivare fino in fondo. «Cosa crede di dimostrare, con questo?» disse il capitano, adocchiando però i suoi accoliti. Quella donna era troppo importante per lui per rischiare di scatenare la libidine dei suoi sottoposti. «Andate fuori!» ordinò. «Andate fuori tutti!» Non la presero bene, ma furono costretti a ubbidire. Il più anziano, quello che probabilmente era il suo secondo, osò opporsi. «Vuoi restare solo? È troppo pericoloso! Ti sta tendendo una trappola!» Qualunque fosse il gioco di Lady Stuart lui non poteva opporsi, era già perduto. Un minuto dopo eravamo soli, noi tre, in quella cabina. L’ultimo abito cadde, e Lady Stuart restò a petto nudo. Io cercai di non guardarla, mi inginocchiai ai suoi piedi e mi misi a sfilarle le giarrettiere. Poi toccò alle scarpette, e alle calze, una dopo l’altra. Chiusi gli occhi quando le tirai giù le mutande. Era nuda, completamente nuda davanti a quell’uomo, ma ancora non era paga. Era rimasta solo la parrucca. Andai alle sue spalle, cercando di non guardarla, e gliela sfilai. Una cascata di capelli biondi le cadde sulle spalle. La voce del capitano era roca. «E ora? Cosa intende fare ora?» Lady Stuart sorrise, mettendo in mostra il corpo statuario, i seni pieni e sodi che non avevano bisogno di alcuna impalcatura, la vita sottile, la pelle candida come la neve. «Ora mi rivesto» disse. La sua voce divenne insinuante. «Amo cambiare abito molto spesso, durante il giorno. Spero che sarà così gentile da permettermi di portare con me anche il mio guardaroba.»
Il mio respiro si bloccò, perché in quell’istante compresi il suo gioco. Io facevo parte del suo guardaroba, anzi, ne ero un pezzo indispensabile. Era questo che gli offriva in cambio della mia vita? Gli stava promettendo altri spettacoli come quello? Tanti altri? E perché lo stava facendo, per me? Era assurdo, eppure non vedevo altra spiegazione. Era buffo, di certo quel pirata aveva violentato più di una donna, eppure davanti a Lady Stuart abbassò il capo. «Si rivesta, allora. Si sbrighi. Dobbiamo cambiare nave.» Poi fece dietrofront e uscì dalla cabina, chiudendo pure la porta dietro di sé. Non mi aveva degnato di uno sguardo. Incontrai gli occhi di Lady Stuart: erano calmi e gelidi, e stavolta stava guardando proprio me. Mi sentii a disagio più che mai, cercai disperatamente di non abbassare lo sguardo sulle sue nudità. «L’hai sentito, sbrigati! Aiutami a rivestirmi!»
Uscire da quella cabina fu terribile. C’erano sangue e morti ovunque. Io ero solo, a trascinare otto bauli. Nessun pirata accennò ad aiutarmi. In quegli otto bauli c’era la mia vita, dovevo farcela, dovevo riuscirci anche se pareva impossibile. Me ne caricai uno in spalla, e mi misi a scendere la scala per portarlo sul ponte. Erano stati radunati tutti lì, i pochi superstiti alla carneficina. Riconobbi il capitano. Radunato Anche lui insieme alla truppa, per loro non aveva alcun valore. Ne contai solo una trentina, degli oltre cento membri dell’equipaggio. Cercai di distogliere lo sguardo, ma non fu facile. Che ne sarebbe stato di loro? Li avrebbero uccisi tutti? In fondo, persino in quell’occasione separato da tutti gli altri, riconobbi Mike. Era terrorizzato, e stavolta aveva tutte le ragioni per esserlo. Sapeva che stava per morire. L’avrebbe salvato? Se ci fosse stato lui al mio posto, Lady Stuart l’avrebbe salvato lo stesso? Ne dubitavo molto. Ma cos’avevo io in più di lui? Perché lo stava facendo?
Mi sentivo un ladro, non potevo farne a meno. Mike era vestito come me, o forse dovrei dire che io indossavo i suoi vestiti. Mi mancò di colpo la sua amicizia, mi ricordai di tutto quello che aveva fatto per me e di come io l’avessi rifiutato. Provai il desiderio di salvarlo, a qualunque costo. Alzai la voce e dissi un’assurdità. «Mike! Vieni qui ad aiutarmi! Da solo non ce la faccio!» Era pazzesco, stavo attirando inutilmente la loro attenzione su di me, non gliel’avrebbero mai permesso. Eppure indossava il mio stesso abito, questo avrebbe fatto la differenza? Poteva bastare? Quell’abito poteva essere un lasciaare? «Sbrigati!» urlai ancora. Era paralizzato dal terrore, confuso, incredulo. Fece un o avanti senza accorgersene. Poi un altro e un altro ancora. Emerse dalla massa dei prigionieri. C’era il capitano della nave pirata, sul ponte, e mi stava guardando mentre arrancavo già per quelle scale. «Sbrigati!» urlai ancora. «Ce ne sono altri sette da portare giù.» Mike stava per piangere. Era circondato dai pirati, non osava fare un o di più. Il capitano dei pirati alzò la voce. «Anche quello è suo? Ne ha due?» Mi congelai. Non si stava rivolgendo a me. Lady Stuart doveva essere uscita dalla cabina, stava scendendo le scale. Mi affiancò e poi mi sorò. Ora indossava un abito più pratico, di velluto verde, con gonne meno ampie. Non aveva rimesso la parrucca, sostituendola con un cappellino. I suoi occhi erano gelidi. Era stato tutto inutile, non l’avrebbe mai perdonato. Non dopo quello che aveva fatto con suo marito. Gettò appena un’occhiata a Mike, con un’espressione che non riuscii a identificare. Poi sorrise. «Non ha idea di quanto mi siano indispensabili, capitano, ma presto
avrò modo di mostrarvelo.» Il capitano restò immobile per un istante, poi fece un lieve cenno di capo. I pirati che circondavano Mike si allontanarono. Non stetti a ragionare sul perché Lady Stuart si fosse comportata così e avesse deciso di salvarlo dopo ciò che aveva fatto. Non c’era tempo. «Vieni ad aiutarmi!» urlai. Mike corse.
Due ore dopo affondarono la nave con tutto l’equipaggio rimasto, capitano compreso. Mike piangeva, guardando dall’oblò della cabina in cui ci avevano rinchiusi. Singhiozzava e si disperava, anche se quegli uomini che ora stavano morendo ormai lo detestavano. Però un tempo erano stati suoi amici. Non avevamo scambiato neppure una parola tra noi, non c’era stato il tempo. Eravamo distrutti, quei bauli erano troppo pesanti persino da portare in due. Quando avevano finito di trasbordare il bottino, eravamo partiti. Per un attimo ci eravamo illusi che li avrebbero lasciati vivere. La nostra cabina era solo uno sgabuzzino, ci stavamo a malapena in due, ma quella di Lady Stuart era accanto alla nostra, e sapevo che era la più bella di tutta la nave. Nessuno ci aveva fatto del male, e non riuscivo a capire il perché. In fondo non esistevamo, ci consideravano parte del bagaglio della nobildonna, alla stregua degli altri bauli. Ma eravamo vivi, entrambi. Arrivò il momento in cui Mike mi abbracciò, sempre piangendo. Io l’avevo salvato, capivo che mi stava ringraziando, che era disperato, eppure mi dava
fastidio essere toccato da lui. Dovevo decidere. Mike non mi avrebbe mai parlato, non ne aveva il coraggio, dovevo essere io a fare il primo o per ritrovare la nostra amicizia. Ma mi staccai dal suo abbraccio e restai in silenzio.
Quella sera ci portarono da Lady Stuart, perché la nobildonna doveva cambiarsi per andare a cena col capitano. Fu più facile stavolta, grazie alla presenza di Mike. Lui doveva averlo già fatto un sacco di volte, ogni suo movimento era elegante e impeccabile. Io cercai di imitarlo. Ci richiamarono alcune ore dopo, per vestirla per la notte. Poi alla mattina, due volte, e tre il pomeriggio. Lady Stuart si cambiava d’abito in continuazione, e ogni volta lui era lì ad assistere. Il capitano era stregato da lei. Quel pirata sanguinario, i cui ordini facevano tremare l’intero equipaggio, pendeva dalle sue labbra. Si accontentava di guardarla, non aveva mai osato sfiorarla con un dito. Lady Stuart si spogliava oltre il dovuto, restando invariabilmente nuda davanti agli occhi famelici del capitano. Io soffrivo, in quei momenti, una sofferenza quasi fisica. Più per la presenza di Mike che per quella del capitano. Insieme la spogliavamo, in quella che era diventata quasi una danza. Il fatto che fossimo entrambi maschi non infastidiva il capitano, anzi valorizzava l’atto stesso, perché non c’era nulla a distoglierlo dalla bellezza della nobildonna. Cosa stesse accadendo tra di loro non ci era dato sapere. Era probabile che la richiesta di riscatto fosse già stata inoltrata, ma Lady Stuart era comunque considerata un’ospite e trattata come tale. Non ci era permesso di uscire dalla cabina se non in occasione della vestizione, persino i pasti ci venivano serviti lì. Andò avanti quasi una settimana, prima che qualcosa cambiasse.
Una notte qualcuno venne a svegliarmi. Dormivamo insieme, io e Mike, perché il letto era uno solo. Ma lui stava attento a non sfiorarmi mai, giacché aveva capito che tolleravo la sua presenza a malapena. Lui era già sveglio, gli occhi spalancati, non fiatava. Alzai la testa, col cuore in gola, senza capire. Lei era lì, Lady Stuart. Era stata lei a svegliarmi. Era sola, non c’era alcun pirata con lei. «Vieni, sbrigati!» Indietreggiò e uscì dalla cabina. Non capivo, era piena notte, non era possibile che dovesse cambiarsi d’abito proprio in quel momento. Mi alzai come un sonnambulo e mi rivestii. Guardavo incredulo la porta lasciata aperta: non c’era nessuno di guardia. Mike era ancora immobile sul letto, e fui costretto a rivolgergli la parola, per spronarlo. «Su, muoviti!» Lui scosse il capo. Mi arrabbiai e lo tirai per un braccio. «Smettila! Bisogna fare come dice! Ne va della nostra vita!» Non c’era nessuno sul ponte, la nave era immersa nel silenzio della notte. Io non riuscivo a capire come fosse possibile, non eravamo prigionieri? La porta della cabina di Lady Stuart era lì accanto. Bussai pianissimo, timoroso di essere sentito da orecchie sbagliate, poi fui costretto ad aprire, giacché non vi era stata alcuna risposta. Spinsi dentro Mike con violenza, dato che continuava a sembrare imbalsamato. Lady Stuart era sola, nella sua veste da camera viola, piena di pizzi e merletti. Si era già messa in posa, al centro della stanza, le braccia alzate, come una statua.
Iniziai a sentirmi a disagio proprio come Mike, era la prima volta che ci lasciavano soli. Com’era possibile? L’aiutammo a spogliarsi, come ormai avevamo imparato a fare. Quando non le restò altro che la biancheria intima, mi fermai incerto. Che bisogno c’era di andare oltre, visto che stavolta non era presente alcun pubblico? Ma incontrai il suo sguardo e fui costretto a continuare. Quando cadde l’ultimo capo di vestiario e lei restò nuda, io, con gli occhi chini, le chiesi. «Quale vestito desidera indossare, Milady?» Ma lei non c’era più, era già scivolata sul letto, sinuosa come una gatta. Mike aveva uno strano sguardo, che non riuscii a decifrare. «Spogliati» disse lei. «Vieni qui con me.» A chi stava parlando? Che significava? Tenevo gli occhi fissi su Mike, perché non avrei sopportato di vederlo ubbidire. «Non farti pregare! Non costringermi a farlo!» Mi girai a guardarla col cuore in gola. «Io? Sta dicendo a me, Milady?» Non era possibile, non potevo crederci. Ero troppo giovane, invisibile, Mike mi sovrastava su ogni cosa. Era a lui che lo stava chiedendo, non poteva essere altrimenti. «Vedi un altro uomo, qui dentro? Ci sei solo tu.» Sobbalzai, lei era inginocchiata sul letto, completamente nuda, neppure aveva tentato di coprirsi. La sua bellezza non era mai stata così fulgida. «Cosa devo fare?» mormorai. Il suo sguardo continuava a essere imibile. «Mi devi dare un figlio, ragazzo. Devi fare in fretta, prima che lo faccia qualcun altro.» Mi ero paralizzato, di più, congelato.
Lei continuò: «Non voglio che il futuro Lord Stuart sia il figlio di un pirata. Un giorno potrebbe essere re, e non voglio che abbia un padre del genere.» Riuscii a balbettare: «Io? Perché io?» «C’eri solo tu, non ho avuto scelta. Chiunque, ma non un pirata.» La voce mi tremava sempre più. Feci qualcosa di assurdo, che solo un minuto prima mi sarebbe sembrato inconcepibile. Indicai Mike. «C’è lui!» Di nuovo tornò quella strana piega sulle labbra di Lady Stuart. «Lui non ce la fa, ci ho già provato. È un mese che ci provo. Non ho fatto che spogliarmi davanti a lui, ma è stato inutile.» Poi sentenziò: «È come mio marito.» Istintivamente mi allontanai da Mike, ma lo negai: «Non è così, lui l’ha fatto per interesse, solo per quello.» Lady Stuart tirò un sospiro, con aria triste. «Anche Rupert lo credeva, per questo l’ha lasciato. Ma si sbagliava. Quello che il tuo amico cercava era diverso. Lui non voleva soldi né potere, e neppure fare carriera, desiderava solo essere se stesso, ma era troppo vigliacco per scegliere un altro sistema. Solo con Rupert non correva alcun rischio. È per quello che l’ha fatto.» Guardai inorridito Mike. «Tu... tu...» Sembrava quasi sollevato, dopo le parole di Lady Stuart, per la prima volta nella sua vita non era più costretto a fingere. «Che significa? Perché?» «Rupert ha bisogno di un erede, disperatamente bisogno. Un erede che lui non mi può dare. Non è mai stato un marito, non è in grado di adempiere ai suoi doveri.» Ero sempre più confuso. «Ma...» Indicò Mike. «Lui gli andava bene. Era il padre ideale per suo figlio. L’aveva persino amato. Sono salita su quella nave apposta, per dare un figlio a mio marito. Ma è stato tutto inutile, neppure Rupert era riuscito a capire.»
La verità era così sconvolgente che non sapevo più cosa dire. «Io...» «Tu eri l’unico. Non ho trovato nessun altro. Non posso portare a Rupert il figlio di un pirata, non lo accetterebbe. Neppure io l’accetterei mai.» «Ma... ma...» «Il gioco si è spinto troppo oltre, non è più possibile fermarsi. Morgan mi vuole, mi desidera, non so per quanto ancora potrò resistergli» agganciò i miei occhi. «Io non voglio un figlio da lui.» «Sono un mozzo» mormorai. «Sono solo un mozzo.» Lei mi sorrise, per la prima volta. «Non vorresti essere il padre del futuro Re d’Inghilterra?» «Non l’ho mai fatto» ammisi con voce rotta. Il suo sorriso restò immutato. «Neppure io.» Sì, lo vedevo che era giovane, persino più giovane di quanto mi era sembrata. Ed era possibile che fosse davvero vergine, visto il marito che si era scelta. Continuò a sorridere. «Per me non sarà un sacrificio» mi disse. Neppure per me lo sarebbe stato, non avevo desiderato altro dal primo momento che l’avevo vista. «Suo marito...» mormorai. «Lord Stuart...» Il sorriso divenne malizioso. «Oh, sono certa che approverà la mia scelta.» E aggiunse: «Spogliati.» Di nuovo guardai Mike, incerto. «Lui deve assistere?» «Il caro Mike farà la guardia perché nessuno ci disturbi. In fondo me lo deve, non credi?» Mike distolse lo sguardo e si girò verso la porta. Era una pazzia, stavo facendo una pazzia, ma proprio non mi importava. Ero
disposto anche a morire pur di restare al suo fianco. Andai su quel letto.
Mike aveva preso una coperta e si era coricato sul pavimento. Non potevamo più dividere lo stesso letto, dopo quello che avevo saputo. Eppure era triste vederlo così. Non riuscivo più a essere arrabbiato con lui, non potevo più continuare a tacere. «Da quant’è che sei... così?» Non rispondeva. «Ma con Lord Stuart! Come hai potuto con lui? È... vecchio, è disgustoso!» Si rattrappì ancora di più, sotto la coperta. Sospirai. «Su, vieni sul letto, smettila di comportarti in quel modo.» Finalmente mi parlò, dopo tanto tanto tempo. «Tu no, te lo giuro! Con te non avrei mai... non pensarlo neppure. Tu eri mio amico, era diverso. Non ho mai pensato a te in questo modo.» Gli credevo, sì. Questa volta stava dicendo la verità. «Su, vieni a letto.» Era più vecchio di me, più forte di me, eppure era così fragile. Cercò di tenersi discosto, ma io lo abbracciai. «Ce la faremo, vedrai» gli mormorai, come se fosse un bambino.
ò più di un mese ma alla fine arrivò il giorno. Il giorno più brutto della mia vita. Il giorno in cui il capitano Morgan, il pirata, prese la mia bellissima Lady Stuart. E il peggio fu che dovetti assistere. Lo dovemmo fare tutti e due, io e Mike. Del resto noi eravamo solo parte della mobilia. Non la violentò, no, fu anche troppo delicato con lei, e Lady Stuart non si oppose
affatto. Io avevo capito che sarebbe successo, l’avevo capito già da alcuni giorni, quando avevo visto nascere uno strano sorriso sul volto della nobildonna. Allora avevo compreso che ce l’avevamo fatta, che Lady Stuart attendeva un figlio da me. Tutte le notti veniva a liberarci, perché lei non era prigioniera, lo poteva fare, e tutte le notti noi giacevamo insieme. Era stato un mese folle, stupendo, anche se sapevo che lei si stava servendo di me. Ma ora non le ero più necessario, avevo adempiuto al mio dovere, adesso era Morgan la fonte del suo interesse. Ormai lo dominava, avrebbe potuto fargli fare qualunque cosa avesse desiderato. E quella notte accadde, si diede a lui completamente. Noi, fermi, immobili come statue, fummo costretti a guardare. La voce di Lady Stuart era suadente, mentre accarezzava i muscoli del pirata. «Fammi tua, non desidero altro. Dammi un figlio, che possa essere il nuovo Lord Stuart.» E poi ancora, sempre più insistente: «Un giorno tuo figlio siederà sul trono d’Inghilterra, Morgan. Sarai fiero di lui.» Di nuovo quelle parole. Erano come tizzoni ardenti nella mia carne, e lui la possedeva, continuava a possederla davanti ai nostri occhi. Notte dopo notte, assistevo ai loro amplessi, e non potevo fare niente, anche se non avrei desiderato altro che ammazzare quel bastardo. Ma non potevo, perché con la sua morte tutti noi saremmo stati perduti. Dovevo solo restare a guardare. Pareva si divertisse, ad avere noi come pubblico, o forse mai ci considerò esseri umani, ma solo suppellettili.
Io e Mike tornammo amici, al di là di quello che era accaduto. In fondo ci avevano usati entrambi, Lord e Lady Stuart, come noi avevamo usato loro. Nonostante tutto eravamo fin troppo simili. Tornammo a parlare, a fare sogni, progetti. Accarezzammo persino l’idea di
riuscire a sopravvivere a quella folle avventura. Continuavo a non capire Lady Stuart. Lei aveva detto di non aver avuto scelta, che ero stato il solo che aveva trovato, eppure non riuscivo a crederle. Avrebbe avuto tutto il tempo di scegliere qualsiasi marinaio, uomini giovani e forti, eppure era venuta da me. Questo avrebbe dovuto significare qualcosa, no? Non lo sapevo, ero confuso più che mai, la ricordavo calda tra le mie braccia, traboccante di ione, eppure quella stessa ione ora la riversava su Morgan, che fino a un attimo prima aveva detto di odiare. Era tutto finito? Completamente finito? L’avevo perduta per sempre?
Ci liberarono due mesi dopo. Lo stato di Lady Stuart era appena evidente. Gli occhi di Morgan brillavano d’orgoglio mentre ci accompagnava a terra. Anche gli otto bauli di Lady Stuart la seguivano, e noi ne facevamo parte. Avevamo il cuore in gola, io e Mike, ci tenevamo stretti per mano senza neppure osare respirare. La libertà era vicinissima, il riscatto doveva essere stato pagato. Morgan la accarezzava, la riempiva di baci, il capo di Milady era posato sulla sua spalla. «Come lo chiamerai, amore mio? Quale sarà il nome di nostro figlio?» «Che nome vorresti, mio signore?» «Gli daresti il mio nome? Avresti il coraggio di farlo?» La risata cristallina di Lady Stuart mi fece sobbalzare. «Morgan! Re Morgan. Suona divinamente.» «Lo faresti davvero?» «Per te farei ogni cosa, lo sai.»
Ero disgustato, avevo solo voglia di vomitare. Ci lasciarono su una spiaggia deserta, e non fu facile strapparlo da lei. Pareva non volersene più andare. Lei era in lacrime, nel momento dell’addio, così disperata che persino io ne soffrii. Poi i suoi compagni lo trascinarono via e noi restammo soli. Mentre la scialuppa si allontanava, guardavo disperato quegli otto bauli. «Mi devo cambiare» disse Lady Stuart. Ora non piangeva più, il suo volto era completamente asciutto. Deglutii. «Verrà qualcuno a prenderci, Milady?» «Nessuno sa che siamo qui, dovremo adattarci.» Mi agitai. «Quando il riscatto è stato pagato, non...» «Non c’è stato alcun riscatto!» ribatté lei. Non capivo. «E ci ha lasciati liberi lo stesso?» Apparve un sorriso malizioso. «Penso di essermi guadagnata abbondantemente la libertà.» Deglutii di nuovo. «Il capitano Morgan...» «Oh, mi amava, non poteva fare a meno di me. Non mi avrebbe mai ceduta per nessun riscatto. Non l’ha neppure chiesto.» «Non capisco» dovetti ammettere. «Però non poteva rinunciare. Nessuno avrebbe potuto. Per quanto mi amasse non poteva rinunciare a un’occasione del genere.» Ero sempre più confuso. «Che occasione?» «Ma quella di mettere suo figlio sul trono! Come fai a non capire? Nessun uomo, neppure un pirata, potrebbe rinunciare a un’occasione del genere!»
Deglutii per la terza volta. «Allora, vogliamo muoverci? Devo cambiarmi d’abito!» Questa volta mi beccai pure uno schiaffo quando cercai di spogliarla più del necessario, e compresi che adesso non serviva più. Indossò un abito semplice, quasi mascolino, che mi riempì di stupore. Indicai i bauli. «E questi, Milady? Dobbiamo portarceli dietro?» Lei li guardò inorridita. «Sei pazzo?» Fu così che li abbandonammo sulla spiaggia e andammo alla ricerca di un centro abitato.
Impiegammo quasi tre mesi per tornare in Inghilterra, e lo stato di Lady Stuart era adesso evidente. Lei ci portò con sé, nonostante i miei timori che ci avrebbe scaricato. Quando sbarcammo finalmente nella nostra terra, gli occhi di Mike brillavano. Cosa si aspettasse realmente non ero certo di capirlo. Neppure io avevo idea di quale sarebbe stato il mio ruolo adesso. Lady Stuart non ci aveva detto mai niente, era tornata a essere la nostra padrona, e non ci reputava degni di alcuna confidenza. Lasciammo Londra quasi subito, diretti verso i castelli della Scozia. Il viaggio durò due settimane e fu disagevole per la nobildonna. Si avvicinava ormai al settimo mese di gravidanza quando raggiungemmo la dimora di Lord Stuart. Mi disgustava vedere Mike emozionato come una ragazzina, e stavo peggio ancora quando pensavo che presto avrei perso Milady per sempre. Si liberò subito di noi, che venimmo alloggiati in due camere piccole ma dignitose, insieme alla servitù.
Avrei dovuto essere felice che almeno non ci avesse abbandonato alla ventura. Erano tempi duri per l’Inghilterra, divorata da guerre intestine, e di certo nessuno di noi ci teneva a tornare a navigare. Eppure non era facile accettare di non essere più niente. Per Mike era anche peggio, si struggeva e basta. Io non riuscivo a capire: il mio caso era evidente, ma come poteva lui languire per un essere così spregevole? arono quasi due settimane prima che ci mandassero a chiamare. Lord e Lady Stuart stavano eggiando nei giardini del castello, seguiti dalla loro corte. Lady Stuart nascondeva il suo stato sotto un abito ampio e vaporoso, e non aveva bisogno di alcun sostegno. Il marito non la lasciava mai sola, segno questo che le sue condizioni non lo imbarazzavano. Era anzi estremamente gentile con lei, quasi servile. Mike tremava mentre li raggiungemmo. Ci eravamo ripuliti, ma non avremmo mai potuto essere alla loro altezza. La voce di Lady Stuart era priva di alcuna emozione mentre mi presentava al marito. «Rupert, caro, questo è il padre di tuo figlio.» Sprofondai dinnanzi allo sguardo di Lord Stuart. Non l’avevo mai visto così da vicino, e al di là del suo abbigliamento e dei modi affettati, aveva uno sguardo vigile e intelligente. Mi sentii nudo davanti a lui, mentre studiava ogni particolare del mio corpo. Ero così teso che se avesse cercato di toccarmi mi sarei messo a urlare. Invece commentò: «È un po’ basso.» «È giovane, caro. È solo un ragazzo.» «È un po’ basso lo stesso.» Indicò Mike. «Lui sarebbe stato meglio.» Non c’erano dubbi su ciò, ma Lady Stuart sbuffò. «Come vuoi, caro. Allora tienitelo. Io mi prendo questo.»
Diede una spinta a Mike, mandandolo verso il marito e mi prese per il braccio. Non le fu facile farmi muovere, mi ero congelato. Lord Stuart studiò Mike e scosse la testa. «E così sei riuscito ad arrivare qui. Ce l’hai fatta» sorrise. «Su, vieni con me. Abbiamo sprecato fin troppo tempo.» Non vidi altro, perché Lady Stuart mi trascinò via. Ero sempre più confuso. «Cosa...?» Lei sospirò. «Temo che dovremo aspettare ancora un po’» mi accarezzò una guancia. «Ma tra un paio di mesi il bambino sarà nato, e noi saremo liberi di fare quello che vogliamo.» Avevo paura di parlare. «Non è stato un caso, vero? Non ero l’unico?» Lei alzò le spalle. «Lasciamo che lo creda, per noi è meglio così.» Il cuore mi batteva all’impazzata. «Lei... tu mi hai scelto?» Rise soltanto e mi portò via. E...
Ma questa è un’altra storia. L’inaffondabile Lady Stuart mise al mondo un erede maschio, e io non ebbi voce in capitolo sulla scelta del nome. In realtà non avevo voce in capitolo su niente, ma dopo il parto tornai a frequentare la sua camera, con buona pace di Lord Stuart, che ormai non faceva più mistero della sua infatuazione per il mio amico Mike. Divenni l’amante di Lady Stuart? Non proprio. Restai al castello con loro? Neanche. Lady Stuart aveva adempiuto al suo compito di moglie fedele e adesso era davvero libera. Il mondo ci attendeva, e le avventure che avrei vissuto insieme a lei sarebbero state incredibili e fenomenali. Ma questa è un’altra storia, ve l’ho detto, e chissà che un giorno non ve la
racconti. A presto, amici miei.
La Rosa Insanguinata
di Lucia Guazzoni
Nella primavera del 1640, a Madrid, Alvaro de Fuentes y Aguillar aveva compiuto quattordici anni e suo padre, don Julio, gli aveva regalato la spada di famiglia in acciaio temprato di Toledo, spada che il giovane aveva usato contro lo stesso padre, ferendolo a morte, la notte che lo aveva scoperto ad insidiare la sua giovane sorella, Manuela, di dodici anni. Si raccontava che don Julio, sanguinante e rantolante, avesse camminato nel patio cercando aiuto e che si fosse aggrappato al rosaio di rose bianche che lui stesso aveva piantato quando era nata Manuela e che le rose si fossero macchiate del suo sangue. Alvaro era sparito la notte stessa, senza che nessuno capisse la ragione del suo folle gesto e il Re in persona aveva firmato un decreto che lo condannava all’esilio perpetuo, pena la morte per impiccagione e la confisca dei beni. Non si sentì più parlare di lui. Manuela e sua madre rimasero nella grande casa vuota e silenziosa e, dopo qualche anno, la ragazza andò sposa di un nobile piuttosto anziano che aveva chiesto espressamente al Re di poter dare aiuto alle due donne, ormai ridotte all’indigenza. Mentre la madre decideva di rinchiudersi in un convento, la ragazza si affezionò al gentiluomo che la trattava più come una figlia che come una moglie e soddisfaceva ogni suo capriccio, così da darle la serenità che aveva perso da bambina, al punto che un giorno lei osò confidargli quel segreto che le pesava addosso: la ragione per cui il fratello aveva ucciso suo padre. Circa dieci anni dopo, all’inizio del 1650, quando la Spagna vantava un impero coloniale vasto e ricchissimo e i pirati diventavano i padroni dell’Oceano, attaccando le pingui navi olandesi, si, inglesi e portoghesi che solcavano i mari da e per le colonie del Nuovo Mondo, cominciò a correre voce di un vascello che attaccava solo navi spagnole affondandole e uccidendo gli
equipaggi senza pietà, vendendo poi come schiavi i sopravvissuti. Era il Sangre de Rosa, un vascello velocissimo che compariva all’improvviso, attaccava e affondava, la bandiera pirata che sventolava beffarda, il teschio che teneva in bocca una rosa insanguinata; il suo Comandante era un mito, forse un demonio, venuto da chissà dove, che non dormiva e non mangiava mai, adorato dai suoi uomini e sempre con gli occhi tesi a cercare navi spagnole da distruggere. Tutti lo conoscevano come La Rosa, proprio per quel fiore che ornava la sua bandiera. Ma Gisela Maria Consuelo de Cahil y Ovejuna di tutto ciò non sapeva nulla e quel mattino, affacciata alla finestra del palazzo di suo padre a Siviglia, dove era arrivata il giorno prima da Madrid, era eccitata e felice per la prossima partenza per le Indie. Suo padre, don Sebastian de Cahil, era stato nominato Visitante dal Re e avrebbe dovuto raggiungere Santo Domingo il prima possibile; la morte improvvisa di sua moglie Margherita lo aveva fatto decidere di portare con sé Gisela: gli era stato assicurato che Santo Domingo fosse un luogo pacifico e con uno splendido clima e quindi non aveva visto ostacoli a far partire la figlia. I Visitantes erano nobiluomini fedelissimi al Re e nominati da lui stesso per controllare l’operato dei Viceré nel Nuovo mondo, avevano poteri immensi e molti, alla fine del loro incarico, restavano nelle Colonie col titolo di Capitano e con gli stessi poteri reali, al di sopra di qualsiasi Viceré e Governatore, facendo una vita da nababbi in posti meravigliosi e ricchissimi. Don Sebastian aveva in mente proprio questo: al termine del suo incarico, che sarebbe durato dai tre ai quattro anni, e dopo aver riportato in Spagna la figlia per accasarla in modo egregio, contava di tornare e stabilirsi in una delle colonie a vivere una serena vecchiaia. Naturalmente non ne aveva fatto parola con la figlia ancora, ci sarebbe stato il tempo più avanti. Ora l’unico suo problema era il viaggio: circolavano voci di pirati sanguinari, ma la nave che li avrebbe portati al di là dell’Oceano, la “Santa Maria del Pilar”, era una delle più grandi della flotta spagnola, con otto cannoni e un equipaggio di gente fidata, perciò don Sebastian si sentiva abbastanza tranquillo. Seduto alla sua scrivania, seguiva con indulgente bonarietà i preparativi della fanciulla, ascoltandone il chiacchierio e pensando per l’ennesima volta alla fortuna che aveva avuto quando un suo bracciante gli aveva portato la sua bambina più piccola, Dolores, di cinque anni, pregandolo di prenderla a servizio da lui, dato che non ce la faceva a sfamare una bocca in più. Margherita, sua moglie, si era subito affezionata alla bambina e quando, l’anno seguente, era nata
Gisela, aveva deciso col marito di addestrare Dolores per farla diventare la duena della figlia, una specie di governante-amica-confidente che l’avrebbe seguita per sempre. Dolores si era rivelata intelligente e pronta all’apprendimento e ora era perfetta per sua figlia, capace di redarguirla e insegnarle come comportarsi in ogni occasione, forse meglio ancora di quanto avrebbe fatto una madre. Gisela si affacciò alla finestra per l’ennesima volta, dicendo a Dolores: – Che splendida giornata! E quante navi! Hai visto quella che è entrata in porto poco fa? Dici che è uguale alla nostra? Dolores sorrise. – No, Gisela, la nostra è molto più grande. – Più grande? Non vedo l’ora di vederla! E ci saranno delle stanze per tutti? E una sala da pranzo? E un luogo dove eggiare? Dolores annuì, si era informata bene sul viaggio e poteva rispondere con certezza. – Sì, Gisela, ci sono delle cabine per tutti, io e te dormiremo nella stessa, e poi ci sarà una Sala da Pranzo e il ponte per eggiare. – Ma ci saranno tempeste? Uragani? La ragazza si fece il segno della croce. – Madre de Dios! Speriamo di no! – E i pirati? Ci sono i pirati? Li vedremo? Dolores la guardò, severa. – I pirati non sono un divertimento, señorita! E non nominarli mai, porta male! Gisela tornò ad affacciarsi alla finestra, secondo lei i pirati erano figure romantiche e avventurose e, benché avesse sentito storie di abbordaggi e massacri, era certa che fossero inventate, di sicuro il Re non avrebbe permesso che ci fossero persone che potevano affondare le sue navi e uccidere i suoi equipaggi, quindi per lei i pirati erano solo eroi leggendari che giravano per i mari con galeoni dipinti di nero e con la bandiera col teschio e le tibie incrociate, forse per vendicarsi di un amore perduto. La folla nella strada era fitta, mercanti, marinai, pescatori e lei concesse loro un sorriso, la piccola bocca dischiusa sui candidi dentini che sembravano perle: non si accorse del giovane appoggiato a una bitta che la osservava già da parecchi
minuti e, anche se se ne fosse accorta, non ci avrebbe fatto troppo caso, era abituata a vedersi ammirata, sapeva di essere bella e non ne provava imbarazzo. Il giovane aveva i capelli di un biondo scuro, nascosti sotto a un tricorno nero e anche la redingote che indossava era nera e lucida. Il soggolo di pizzo candido faceva risaltare la carnagione abbronzata e gli occhi spiccavano come due carboni ardenti. Rimase ancora qualche minuto a osservare la fanciulla, che sembrava parlare con qualcuno all’interno della stanza e che andava e veniva dalla finestra, i riccioli scuri che dondolavano maliziosi e le braccia scoperte che sembravano colore dell’alabastro, candide e tornite. Un uomo vestito da marinaio si avvicinò al giovane, gli sussurrò alcune parole e lui fece un cenno di assenso e si avviò, tornando a voltarsi un paio di volte, come riluttante ad abbandonare la visione di quella fanciulla alla finestra. Don Sebastian si alzò, dicendo con finta serietà: «Vado nel mio studio a leggere le mie carte e voi smettetela di chiacchierare e finite i bagagli o questa sera vi lascio qui tutte e due!» Gisela e Dolores si affrettarono a riempire i bauli e quella sera stessa si imbarcarono sulla Santa Maria del Pilar, pronta a partire con la marea all’alba. La ragazza non riuscì a dormire, affascinata dai mille rumori, dalle voci, dagli odori che la circondavano, eccitata per l’avventura che stava per intraprendere. Suo padre rimase a parlare col Comandante della nave, un vecchio lupo di mare che aveva attraversato l’Oceano parecchie volte e che conosceva tutto e tutti, ben visto a Corte e amato dal suo equipaggio e ne trasse la certezza che il lungo viaggio, quasi due mesi, sarebbe stato una eggiata senza pericoli né per sé né per sua figlia. Quando all’alba la nave spiegò le vele candide uscendo dal porto di Siviglia e puntando la prua verso il mare aperto, Gisela si sentì commuovere, lo sguardo che non sapeva se soffermarsi sulle coste spagnole che stava per lasciare o sulle onde verdi-azzurre che sembravano chiamarla verso l’ignoto, affascinandola. La prima settimana ò quasi senza che nessuno se ne accorgesse: il tempo rimase buono, mare calmo e sole scintillante, Gisela e la sua duena si divertirono a eggiare per il ponte, o a restare sedute sul cassero, riparate dagli ombrellini, a osservare le manovre dell’equipaggio, chiacchierando piacevolmente con gli Ufficiali di bordo che facevano a gara per raccontare le meraviglie di Santo Domingo, destinazione finale del viaggio.
Don Sebastian parlava volentieri col Comandante, Ramiro Ortega e quel mattino gli chiese, curioso: – Pensate davvero che non abbiamo nulla da temere dai pirati? L’uomo gli lanciò un breve sguardo. – Señor, siamo un galeone spagnolo a pieno carico, sono certo che a Siviglia c’erano spie che hanno contato ogni sacco che abbiamo caricato a bordo. Siamo una preda ambita. Ma tutti sanno anche che abbiamo dieci colubrine e cento uomini rotti a mille battaglie e dubito che qualche pirata osi attaccarci. Gisela, che aveva ascoltato la conversazione, chiese: – E La Rosa? Il pirata che ha una rosa sulla bandiera? Anche lui avrebbe paura di noi? Il Comandante fece un piccolo sogghigno. – No, forse La Rosa non avrebbe paura di noi. Ma dicono che in questo ultimo anno sia rimasto lungo le coste di Santo Domingo senza avventurarsi in mare aperto e io spero che continui a restare lì! Non mi piacerebbe affatto incontrarlo! – È davvero così feroce come dicono? E perché si chiama La Rosa? Romero Ortega la guardò serio. – Non lo so se è feroce, señorita e non voglio appurarlo di persona! Il nome? Forse non è vero. Forse nemmeno esiste. Ma ora basta parlare di pirati, è un argomento noioso e irritante. Parliamo invece della festa che verrà organizzata in vostro onore all’arrivo. Gisela si lasciò volentieri trascinare in una conversazione frivola, mentre il Comandante si allontanava e suo padre restava pensieroso, appoggiato al parapetto osservando il mare; il dubbio di aver commesso un grave errore a portare per mare la sua unica figlia gli sfiorò la mente. Ancora una settimana, erano già nel bel mezzo dell’Oceano e un mattino, non era ancora l’alba, don Sebastian entrò nella cabina dove dormivano la figlia e Dolores e le svegliò con voce pressante. – Gisela, figlia mia, alzati e vestiti in fretta, anche tu Dolores. Poi chiudetevi dentro a chiave e non uscite fino a che non verrò io stesso a chiamarvi, inteso? Gisela lo guardò sorpresa. – Che sta succedendo padre mio?
– C’è un vascello che ci ha seguito tutta la notte e ora è molto, molto vicino… il Comandante non è sicuro se sia una nave amica, quindi restate chiuse qui senza fiatare, qualsiasi rumore possiate sentire fuori, capito? Dolores era già in movimento, il baule dei vestiti di Gisela spalancato, il viso pallido. – Su, Gisela, alzati, svelta, credo sia meglio se indossi questo. La fanciulla guardò il vestito di velluto azzurro scuro che la duena le aveva disteso sul letto e annuì, aveva capito al volo, era un vestito da viaggio, niente sottogonne, accollato e con le maniche lunghe e aderenti, poco appariscente e di una semplicità quasi monacale. Se avessero dovuto calarsi su una scialuppa per sfuggire a dei nemici, sarebbe stato l’ideale. Don Sebastian guardò fisso la ragazza che serviva sua figlia fin da quando erano ambedue bambine e disse, serio: – Ti affido la vita di mia figlia, Dolores. La ragazza chinò appena il capo. – La difenderò con la mia stessa vita, don Sebastian. L’uomo fece un pallido sorriso. – Forse ci stiamo preoccupando per niente… forse è solo una nave che sta facendo la nostra stessa rotta, ma il Comandante preferisce non correre rischi. Senza dire altro uscì e Dolores si affrettò a chiudere la porta con il catenaccio, aiutando poi Gisela a indossare l’abito di velluto: si vestì poi a sua volta, un semplice abito di lana grigio e, quando furono pronte, sedettero sulla cuccetta, vicine, tenendosi le mani. Gisela sussurrò. – Credi che siano i pirati? Dolores strinse le labbra. – Dio non voglia, mi querida! Ma resteremo qui fino a quando tuo padre verrà a dirci che è tutto finito. Intanto fuori si sentivano voci concitate, richiami, grida, un solo colpo di colubrina e ci fu un forte impatto contro la fiancata della nave che buttò quasi a terra le due ragazze. Gisela disse, pallida. – Che è stato?
Dolores le strinse le mani, la voce appena un sussurro. – Sembrava… come se un’altra nave fosse venuta a sbattere addosso a noi… Le urla e le grida salirono di intensità e sembrò che fuori della cabina fosse scoppiato l’inferno; le due ragazze non osavano nemmeno fiatare, gli occhi fissi alla grande finestra di poppa, dalla quale non si vedeva nulla se non sbuffi di fumo, mentre spari e tonfi sordi rimbombavano fin dentro le ossa. Gisela sussurrò: – Se almeno si potesse vedere qualcosa… sapere come sta andando la battaglia… Dolores fece un piccolo sospiro spaventato. – Fino a che si sentono spari, il combattimento sta andando avanti… è quando ci sarà silenzio che sarà il momento più pericoloso. Ma sembrava che il silenzio non volesse venire. C’erano voci rauche, ordini urlati, cozzare di spade e scalpiccio sopra le loro teste in una cacofonia terrificante che gelava il sangue nelle vene delle due ragazze. Poi, quasi per incanto, il silenzio arrivò; un silenzio rotto da gemiti e lamenti, invocazioni, imprecazioni, ma non si sentivano più né spari né rumore di spade e Dolores strinse le mani di Gisela, tremando. – È finita… – Come? Dolores si strinse nelle spalle. – Non lo so. Aspettiamo. ò ancora del tempo e poi la voce soffocata di don Sebastian chiamò da fuori. – Gisela? Dolores? Aprite la porta, sono io. Dolores fu svelta ad andare ad aprire, ma appena tolse il catenaccio la porta si spalancò e don Sebastian fu spinto dentro, pallido e scarmigliato e con un braccio sanguinante, tenuto strettamente da due uomini dall’aria feroce. Dietro ai tre, un uomo alto, col viso abbronzato e una camicia di seta bianca aperta fino alla vita, madido di sudore e con i capelli scomposti, fissò le due ragazze con aria quasi gentile.
– Chi di voi è la figlia di quest’uomo? Gisela si fece avanti. – Sono io. Gisela Maria Consuelo de Cahil y Ovejuna. E voi, chi siete? L’uomo fece un inchino beffardo. – Io sono La Rosa, señorita. E voi siete miei prigionieri. Con un cenno indicò agli uomini che tenevano don Sebastian di andarsene e disse, severo: – Mi avete dato la vostra parola, señor La Rosa! Il giovane annuì, gli occhi fissi su Gisela. – E la manterrò. Non un capello verrà torto a vostra figlia, siatene certo. Portate via l’altra ragazza e mettetela con gli altri. Don Sebastian guardò la figlia e mormorò: – Mi dispiace, querida, non avrei dovuto portarti con me…. il señor La Rosa mi ha promesso che non ti sarà fatto alcun male e che, appena arrivati a Santo Domingo, ti caricherà su una nave diretta in Spagna. Gisela lo guardò pallida. – E voi, padre mio? E Dolores? La Rosa si intromise, seccamente. – Basta chiacchiere, adesso! Portate quest’uomo e la ragazza sottocoperta con gli altri, svelti. Señorita, vi prego di restare ancora un poco in questa cabina, verrò io stesso ad aprivi quando sarà il momento. Senza attendere risposta, girò le spalle e uscì, seguito dai due uomini che trascinavano Dolores e don Sebastian. Gisela li seguì fino alla porta, ma lì fu respinta dentro e sentì che chiudevano a chiave da fuori. Il terrore la gelava, non riusciva a comprendere cosa fosse successo, come mai suo padre fosse prigioniero. Dov’era l’equipaggio? E il Comandante? Possibile che quel pirata, quel La Rosa che sembrava quasi una leggenda, fosse riuscito a sopraffare un intero equipaggio di uomini esperti? Rimase nella cabina col cuore sempre più angosciato, camminando avanti e indietro, a tratti andando al finestrone di poppa, ma senza osare aprirlo e affacciarsi, troppo spaventata da quello che avrebbe potuto vedere. Sul ponte sopra di lei si sentivano i, movimento, un parlottio continuo, a
volte ordini perentori, la voce di La Rosa si distingueva sopra le altre, imperiosa e decisa e intanto le ore avano. Venne buio, in cabina non c’era neppure una lampada e Gisela cominciò ad avere fame e sete. Pensava a Dolores, perché l’avevano portata via? E perché invece lei era stata lasciata in quella cabina? La sete le stava seccando la gola e fuori era subentrato un silenzio quasi innaturale; il galeone sembrava fermo, dondolando appena sulle onde. In quel silenzio pesante, la fanciulla sentì un lento gocciolio, proprio al centro della cabina. C’era qualcosa che trapelava dal ponte superiore, forse acqua o acquavite e stava formando una piccola pozza in terra. Lei si avvicinò allungando le mani a coppa, se avesse potuto raccogliere un poche di quelle gocce e dissetarsi, sarebbe stata meglio. Quando ebbe raccolto un po’ di liquido nelle mani, le avvicinò alle labbra e leccò, facendo subito un verso di disgusto, aveva un sapore orribile. In quel momento un raggio di luna entrò dal finestrone e illuminò in pieno la pozza e le mani di Gisela e lei lanciò un urlo straziante, mentre cadeva svenuta a terra, la gonna che si imbeveva di sangue, scuro e denso, lo stesso sangue che le copriva le mani e le aveva sporcato la bocca, sangue che gocciolava dal ponte superiore. Quando riprese i sensi, la cabina era illuminata da parecchie lampade e accanto a lei c’era un ragazzo biondo con gli occhi azzurri che le sorrideva incoraggiante. – Va tutto bene, señorita. Lei volse lo sguardo, c’erano degli uomini che la fissavano curiosi e davanti a tutti La Rosa, con la fronte corrucciata. – Che diavolo avete fatto, señorita? Vi siete messa a bere sangue? Lei distolse lo sguardo da quella goccia che le aveva fatto credere di poter bere e si guardò le mani, pallidissima. – Avevo sete… – Potevate chiamare. Qualcuno vi avrebbe portato da bere. Comunque adesso abbiamo spostato quello che era sul ponte. Nossè, dalle da bere.
Il ragazzo si affrettò a porgerle un bicchiere pieno di acqua e lei bevve, grata. La Rosa disse ancora: – Dovreste togliervi quel vestito macchiato… e lavarvi la faccia e le mani. La cena sarà pronta tra breve. Gisela non osava muoversi, si sentiva le gambe molli. Chiese, la voce tremula: – La… cena? – Sì, io ho fame e presumo che anche voi abbiate voglia di mangiare. Quindi, cambiatevi in fretta e raggiungetemi in Sala da Pranzo, stanno già apparecchiando. – Mio padre? Dolores? – Vostro padre sarà con noi. Se Dolores è la ragazza che stava qui, no, non ci sarà. – Ma sta bene? È sana e salva? La Rosa fece una piccola smorfia. – Sana e salva, señorita. Su, muovetevi, svelta. Fece per uscire ma Gisela disse: – Ho bisogno della mia duena per cambiarmi d’abito. Il giovane pirata la osservò un lungo istante e poi indicò il ragazzo biondo. – Nossè sarà la vostra duena. La fanciulla strinse le labbra, cocciuta. – Un uomo? Non mi lascerò certo spogliare da un uomo! Una fragorosa risata fece eco alle sue parole e anche La Rosa ebbe un lieve sorriso. – State tranquilla, Nossè non è un uomo! Uscirono tutti all’infuori del ragazzo che aveva un piccolo sorriso divertito sul bel viso da cherubino e si affrettò a chiudere la porta e a porgere una mano a Gisela dicendo: – Venite, scegliamo il vestito adatto per la serata e poi vi aiuterò a togliervi questo vestito macchiato. Vi pettinerò, anche, dovete essere bellissima stasera.
Lei lo fissò, incerta. – Non ho niente contro di voi ma davvero non credo che vi permetterò di spogliarmi! O di pettinarmi! Siete un ragazzo, ma pur sempre un uomo! Nossè fece un sospiro quasi comico. – Sapete perché hanno riso tutti, prima? Lei negò, rigida e il ragazzo continuò, tranquillo. – Perché io non sono un uomo, señorita. Non più, almeno. Oh, di aspetto sì, ma… mi manca qualcosa per poter essere un uomo. Qualcosa che mi è stato tagliato via quando sono stato preso prigioniero dal Sultano Ibrahim, dieci anni fa. Gisela era diventata pallida come una morta e sembrò boccheggiare, mentre il ragazzo annuiva, serio. – Vedo che avete capito. Per questo non sono un uomo, né lo sarò mai. Perciò state tranquilla, so come si veste e si spoglia una donna e anche come si pettina, si lava e si trucca, ero lo schiavo delle concubine del Sultano, nel suo harem. Continuando a parlare aveva fatto alzare Gisela e ora le stava sciogliendo i lacci del corpetto, sereno e abile. – Vedete, avevo solo due anni quando mi hanno rapito e portato a Tunisi, dove mi hanno venduto come schiavo. Il Sultano è stato buono con me, mi ha portato nel suo palazzo e mi ha messo subito con le sue concubine che mi hanno coccolato e trattato come un giocattolo fino a quando ho compiuto sette anni. – Non molto buono se vi ha fatto… quello che vi ha fatto! Nossè sorrise appena. – Non ha fatto male, señorita. E allora non capivo a cosa servisse. E quando l’ho capto, ormai ero abituato e non ci pensai più. – Che nome è quello che portate? – Nossè! Non capite? No sé, non so. Era tutto quello che sapevo dire a ogni domanda che mi facevano quando mi portarono dal Sultano. Non so. E così mi chiamarono Nossè. – Ma ora siete con un pirata…
– Sì, señorita, sono col señor La Rosa da un paio d’anni. È stato lui a portarmi vai dal Sultano e a prendermi come suo schiavo personale, è buono e gentile con me. – Schiavo personale? Ma è terribile! – No, non molto. Anche la vostra duena è una schiava, non è così? Gisela lo guardò, offesa. – Certo che no! È venuto suo padre a consegnarcela poco prima che io nascessi, la sua famiglia era molto povera e mio padre la accolse come una seconda figlia, affidandomi a lei! – Ma in effetti è come una schiava. Non è libera di andarsene dove vuole, non può sposarsi se lo desidera a meno che non siate voi a deciderlo, deve obbedire a tutti i vostri ordini… è come una schiava. Gisela taceva, guardando Nossè che aveva sciorinano i suoi vestiti sulla cuccetta, guardandoli con aria critica; ne sollevò uno di velluto arancio con una grande scollatura ornata di pizzo color ecru e disse: – Vi piace il velluto, vedo. Questo è perfetto, giratevi che vi aiuto a indossarlo. Gisela obbedì meccanicamente e il ragazzo eseguì con perizia, infilandole il vestito, allargando le sottogonne, stringendo il corpetto con i lacci e poi la fece girare, le mani delicate che le sfioravano la pelle, mettendo a posto il pizzo sullo scollo, gentile. – Ora i capelli, señorita. Sedete qui. Di nuovo Gisela lo lasciò fare, la mente occupata a pensare a Dolores, alle parole di Nossè, davvero l’aveva sempre trattata come una schiava? E adesso… adesso sarebbe stata venduta, come un oggetto, come qualcosa che si può buttare, senza alcun valore. Rabbrividì e Nossè disse, svelto: – Avete freddo? Aspettate, dovete avere di sicuro delle sciarpe per coprirvi le spalle. – Non è il freddo. Lui sollevò appena un sopracciglio. – Ah no? E cos’è? – È che… ho paura, Nossè.
Il ragazzo le fece una leggera carezza su una guancia, tenero. – Non dovete, señorita. È tutto finito, ora non c’è che un viaggio piuttosto lungo davanti a voi, trattata come una regina, e poi un altrettanto lungo viaggio per rientrare in Spagna. Di che avete paura? Vista così, effettivamente, non c’era di che temere e Gisela fece un piccolo sospiro. Inutile continuare a pensare a quello che sarebbe potuto accadere: ora la cosa più importante era affrontare quella cena con un uomo che aveva ucciso e preso prigioniera una nave intera, un uomo che sottocoperta teneva un equipaggio da vendere come schiavi, un uomo che si faceva chiamare La Rosa. Nossè stava cominciando a diventare nervoso. – Andiamo, señorita, al Capitano non piace aspettare. La spinse quasi verso la porta, la spalancò, la precedette lungo il piccolo corridoio che portava alla Sala da Pranzo, dove già tante sere aveva cenato con il Comandante Romero, i suoi Ufficiali e suo padre, Dolores al suo fianco. ando davanti al boccaporto che si apriva sul ponte, Gisela diede un’occhiata: apparentemente era tutto tranquillo, il ponte luccicava d’acqua e c’erano degli uomini che chiacchieravano, forse di guardia o forse solo a godersi la pace dopo la battaglia. Il mare si stendeva liscio e scuro, le vele erano state alzate e il galeone stava navigando lento e pesante. La Sala da Pranzo era illuminata con candelabri d’argento e il tavolo rotondo era apparecchiato con porcellane e argenteria, i bicchieri di cristallo che scintillavano e la tovaglia candida che sembrava di neve; La Rosa stava in piedi al lato opposto alla porta, si era cambiato anche lui, indossava una redingote di seta blu notte e una gorgiera di pizzo bianco, i capelli tirati in un codino e gli occhi mobilissimi che sembravano vedere tutto. Accanto a lui due uomini, giovani e feroci come lui, vestiti elegantemente, ma che non potevano nascondere il fatto di essere pirati: uno di loro aveva un orecchino d’oro rosso e l’altro una cicatrice su una guancia. Appena la videro le fecero un inchino, ma Gisela non aveva occhi che per suo padre che, pallido e con un braccio fasciato, se ne stava in un angolo come in castigo. Andò verso di lui, ma l’uomo fece un cenno negativo, indicando La Rosa che le offrì una mano, quasi divertito. – Venite a sedere qui, señorita, al mio fianco. Vostro padre starà tra i miei ufficiali, Diego Espada e Luz del Diablo.
Lei abbassò gli occhi, i nomi erano terrificanti e uno dei due sembrò capirlo perché fece un sorrisetto di presa in giro. – La Rosa, la señorita non apprezza i nostri nomi! – Dici? Dovrà abituarsi. Si girò verso Nossè che era rimasto in disparte e ordinò: – Fa cominciare la cena, Nossè, ho fame. I piatti si susseguirono e tutti mangiarono quasi in silenzio, fino a che l’ultima portata fu presentata e Nossè si ritirò, assieme a un giovane cameriere, lasciando i commensali a sorseggiare CognacCognac. Gisela non sapeva che fare, se alzarsi e andarsene o restare, lo sguardo che continuava a cercare di incrociare quello del padre che invece sembrava stranamente restio a guardarla. I due ufficiali si alzarono, salutarono e uscirono. La Rosa versò del Cognac nel bicchiere di don Sebastian, dicendo, calmo: – Voi capite che non ho nulla contro di voi, señor. Ma capite anche che devo fare quello che i miei uomini si aspettano da me. L’uomo sorseggiò il liquore e annuì, serio. – Capisco señor La Rosa. Anche se non approvo, naturalmente. Il giovane fece un breve sorriso. – Avreste preferito restare con gli altri? Nella stiva? A pane e acqua? Don Sebastian lo guardò seccato. – No, señor. Ma avrei preferito che il nostro futuro non fosse appeso a un filo! – Oh ma non è affatto appeso a un filo! Raggiungeremo Hispaniola e da lì manderemo una richiesta di riscatto al Re di Spagna, sono sicuro che sarà pronto a pagare molto bene per riavere il suo Visitante. Appena riceveremo il pagamento, voi sarete accompagnato a Santo Domingo. Qui sarete libero di salire su una nave e tornare in Spagna, dove vostra figlia nel frattempo sarà già arrivata. Quindi, vedete, nessun filo! – E gli altri? Il Capitano Romero? Gli Ufficiali? E Dolores, la duena di mia figlia?
La Rosa fece un verso di disgusto con le labbra. – Non siete mai soddisfatto, señor! Non potete pretendere che lasci tutti liberi, no? E per loro non c’è di sicuro nessuno che pagherebbe un riscatto, quindi mi frutteranno di più vendendoli come schiavi. La ragazza troverà certamente chi sarà felice di portarsela a casa, Santo Domingo è pieno di nuovi arrivi dalla Spagna che vogliono far crescere le figlie con una parvenza di etichetta di Corte e faranno a gara per accaparrarsi una vera duena! Quanto agli uomini, i saraceni pagano bene per rematori e anche i coloni cercano braccianti, staranno meglio che continuando ad andar per mare col rischio di morire in una tempesta o di essere presi dai pirati! – Scoppiò a ridere per la sua battuta e guardò Gisela che non osava nemmeno respirare troppo. – Voi cosa ne dite, señorita? – Io… vorrei che Dolores fosse qui. – Invece ci sono io. Non vi piace la mia compagnia? – Sì, certo, ma…. Don Sebastian disse, come tra sé: – Che strano nome, il vostro. La Rosa… come mai? E la vostra nave, Sangre de Rosa… e dove è andata? Il giovane bevve un altro sorso di Cognac e rispose calmo. – L’ho mandata avanti, è più veloce di questo galeone. Abbiamo trasferito un poco del carico nelle sue stive e ci precedere. Quanto al nome… mi piacciono le rose. – Bianche. – Esatto, bianche. È un delitto? L’uomo disse, fissandolo: – No, non lo è. Conoscevo un mio pari a Madrid, anni fa. Si chiamava Julian de Fuentes y Aguilar e aveva un figlio di nome Alvaro e una figlia di nome Manuela. Il giovane non batté ciglio e don Sebastian proseguì. – Il giovane Alvaro uccise suo padre e fuggì e il Re confiscò i suoi beni ed emanò un editto per impedirgli di tornare in Spagna o in qualsiasi altro posto governato dalla Corona. Dicevano che si fosse dato alla pirateria. Che odiasse gli spagnoli.
La Rosa scrollò le spalle, indifferente. – Allora? Cosa c’entro io? – Non lo so. Ma anni dopo venne fuori la verità: don Julian insidiava la giovane figlia e Alvaro lo aveva ucciso per difendere la sorella. Fu lei stessa a confessare la verità al marito che lo disse al Re e così il bando su Alvaro fu tolto e se oggi tornasse in Spagna ritroverebbe i suoi beni e il suo onore. Un lampo era ato negli occhi scuri di La Rosa che chiese, con voce indifferente. – Il marito? Era sposata, la sorella? Don Sebastian negò, calmo. – No, all’epoca dei fatti era poco più di una bambina; ma poi rimase sola con la madre, senza beni, senza l’appoggio di parenti maschi, e un gentiluomo si fece avanti chiedendola direttamente al Re, che gliela concesse. È molto più anziano di lei ma l’ha sempre trattata bene, più come una figlia che una moglie, accontentandola in ogni suo capriccio tanto da ottenerne la fiducia. La madre, invece, si trova in un convento di Clarisse a Burgos. Il giovane si alzò di scatto e disse: – Vi farò riaccompagnare nelle vostre cabine. Mi dispiace ma dovrete restare rinchiusi durante il giorno, non voglio che i miei uomini vi vedano eggiare come se foste liberi, voi capite, vero? – Certo, capisco. Senza dire altro il giovane uscì e don Sebastian sussurrò in fretta a Gisela: – Ti trattano bene? Ti hanno fatto del male? – No, padre, e tu? – Oh, io sto bene, mi hanno medicato il braccio ferito. Mi dispiace per il capitano Romero e l’equipaggio ma non sono riuscito a far cambiare idea a La Rosa. – Oh padre mio, e Dolores? Nossè ha detto che la venderanno come schiava! Don Sebastian fece una leggera carezza sul viso della figlia e sorrise appena. – Non ci pensare, mi querida. Speriamo soltanto che davvero La Rosa rispetti la parola data.
– Tu credi che lui e Alvaro de Fuentes siano la stessa persona? – Non lo so. Se così fosse, non avrebbe più ragione per continuare a fare il pirata per i mari, potrebbe rientrare a Madrid con tutti gli onori. Nossè entrò e disse: – Andiamo, vi riaccompagno nelle vostre cabine. In silenzio raggiunsero le cabine e don Sebastian e Gisela furono chiusi dentro a chiave, mentre nel corridoio Nossè si preparava a dormire disteso a terra. Aveva l’incarico di sorvegliare i prigionieri e avrebbe eseguito il suo compito con estrema perizia, come faceva con ogni ordine che La Rosa gli impartiva. I giorni seguenti furono di nuovo noiosi e lenti da are; Gisela restava chiusa in cabina, quasi sempre con Nossè, che le raccontava del periodo che aveva ato a casa del Sultano, delle concubine, dei gioielli e la faceva ridere e commuovere di volta in volta, ma lei cercava sempre di riportare il discorso su La Rosa, provava un’attrazione irresistibile verso quel giovane di bell’aspetto e con gli occhi crudeli che sembrava indifferente a tutto e a tutti. Rivedeva il padre soltanto a cena e lì non poteva parlare liberamente con lui, dato che c’erano sempre gli Ufficiali di La Rosa e il pirata stesso, che dirigeva la conversazione sugli argomenti che più gli interessavano. Chiese così notizie del Re, della Corte, dei balli che erano in voga, delle armi che usava l’esercito reale, dei cavalli, delle feste, delle guerre in corso. Don Sebastian non perdeva occasione per tornare a parlare dei De Fuentes y Aguillar e anche se il giovane non sembrava interessato, pure non lo interrompeva e ascoltava con aria indifferente. Gisela lo guardava con occhi affamati, sperando che il suo sguardo di fuoco si posasse su di lei. Una sera persino lui disse, con aria bonaria: – Siete deliziosa stasera, señorita. E lei si sentì infuocare il cuore come se avesse ricevuto il complimento più importante del mondo. Avrebbe voluto potersi confidare con Dolores, capire se quello che stava provando era un sentimento vero o solo una infatuazione. Fino a quel momento non aveva pensato all’amore, se non come a un gioco senza troppa importanza: l’essere corteggiata faceva parte della sua vita, ma nessuno le aveva ancora fatto provare i palpiti che provava ora. Un pomeriggio, seduta davanti al finestrone di poppa, chiese a Nossè che stava seduto a terra ai suoi piedi: – Il señor La Rosa ha una casa a Hispaniola?
– Certo señorita. Una bellissima, grandissima casa con decine di schiavi. E cavalli, piantagioni, campi. È un signore molto ricco. Lei fece una smorfia. – Oh, lo immagino! Con tutto il bottino che si porta a casa a ogni razzia! Nossè disse, serio: – Non dovete parlare così, señorita. Lui è un uomo molto buono e non fa mai del male gratuitamente. E la sua parola è sacra, non ha mai mancato alle sue promesse. – Tu lo rispetti molto, vero? Nossè chinò appena il capo, un lampo di puro amore negli occhi. – Io lo adoro, señorita! Lui è il mio dio, il mio padrone, il mio tutto! Morirei per lui. – Ma ti tiene schiavo. – Dove andrei se mi lasciasse libero? Sto bene solo quando sto con lui. – E se ti vendesse? Se si stancasse di te e ti mandasse via? Il ragazzo la fissò, offeso. – Non dite queste cose nemmeno per scherzo! Gisela stava per ribattere quando notò all’orizzonte una nave che sembrava veleggiare verso di loro e sentì un tonfo di speranza al cuore. – Guarda, Nossè, una nave! Ma anche sul ponte l’avevano vista e dopo una mezz’ora La Rosa in persona venne nella cabina. – Señorita, si sta avvicinando una nave spagnola e di sicuro chiederanno di salire a bordo. Ora, se volete che vostro padre e il resto dell’equipaggio continuino a vivere, dovrete fare esattamente come vi dirò, avete capito bene? Lei lo sfidò con lo sguardo mentre diceva: – Ho capito. Cosa dovrei fare? – Fingere di essere quello che siete realmente! Una giovane signora in viaggio per Santo Domingo, assieme al Visitante Reale. Lei sobbalzò appena.
– Ci lascerete ricevere a bordo gli inviati di quella nave? Mio padre ed io, assieme? La Rosa ebbe un breve sorriso ironico. – No, señorita, solo voi ed io! Io sarò il Visitante e voi sarete… la mia sposa. Credete di essere in grado di comportarvi in modo normale? Gisela si sentì arrossire, il pensiero di essere la sua sposa, seppure per finzione, la metteva tremendamente a disagio e nello stesso tempo le accendeva il sangue. Disse, cercando di apparire calma: – Naturalmente, señor. Ma mi servirà una donna al mio fianco, nessuna signora che si rispetti viaggia da sola, seppure col marito. Il giovane indicò Nossè che ascoltava attento. – Vestite lui da donna, nessuno se ne accorgerà. E state pronta a salire in coperta quando vi manderò a chiamare. Ho già organizzato una cena con gli ospiti e vi prego di essere allegra, gentile, affascinante e serena, come si addice a una giovane sposa felice! Senza attendere risposta uscì e Nossè scoppiò a ridere. – Vestirmi da donna?! Magnifico, señorita! Posso scegliere io il vestito tra quelli della sua duena? – Nossè, se solo potessi are un messaggio a quella gente… avvisarli che siamo prigionieri, che La Rosa è un pirata, che vogliono farci del male, che la nave è nelle loro mani e…. Il ragazzo le prese una mano, il viso serio. – Señorita, davvero volete vedere il sangue scorrere di nuovo? Se farete una cosa del genere, gli ospiti saranno uccisi e la nave abbordata, e state certa che non saranno loro i vincitori. L’equipaggio del señor La Rosa è un equipaggio di pirati, crudeli e decisi e farebbero presto a distruggere quella nave. È questo che volete? Ancora sangue? Non pensate poi a ciò che potrebbe fare a voi e a vostro padre il señor La Rosa, sentendosi tradito? Vi prego, fate come ha detto, aiutatemi a travestirmi da donna e cercate di sembrare normale e serena, ne va non solo della vostra vita ma anche quella di vostro padre, dell’equipaggio prigioniero e di quello della nave che si sta avvicinando.
Gisela non disse altro, il ragazzo aveva ragione, non avrebbe concluso nulla se non far massacrare altra gente. Così scelsero l’abito per Nossè che si vestì con grande ilarità, al punto tale che a un certo momento anche la fanciulla si trovò a ridere, divertita, poi si lasciò aiutare a prepararsi. La nave spagnola aveva calato le vele e una scialuppa si stava avvicinando. Gisela non sapeva se suo padre fosse stato informato, ma di sicuro non sarebbe stato presente alla cena e sperò che almeno lui potesse far qualcosa per salvare tutti. Ci vollero quasi due ore prima che un uomo dell’equipaggio venisse a prendere Gisela e la sua duena, agghindata in modo tale che nessuno avrebbe riconosciuto il giovane Nossè. Lungo il breve corridoio l’uomo sussurrò alla fanciulla: – Il señor La Rosa mi ha detto di riferirvi che vostro padre è sotto la minaccia di un pugnale e che se non vi comporterete come ci si aspetta da voi, sarà morto. Lei annuì, pallida, poi fece un profondo respiro, alzò il capo ed entrò nella Sala da Pranzo con un sorriso smagliante sulle labbra. La Rosa, elegantissimo in un completo giallo oro, la camicia candida e i polsini di pizzo, le andò incontro e le baciò la mano, girandosi poi a presentarla a tre uomini che si inchinarono, compiti. – Questa è la mia deliziosa moglie, Gisela Maria Consuelo de Cahil y Ovejuna. Gli uomini si presentarono, uno era il Comandante della nave che navigava lentamente al loro fianco, un galeone da trasporto che stava rientrando in Spagna carico di spezie e schiavi, e gli altri due erano ricchi commercianti entusiasti di Santo Domingo e delle sue ricchezze. La cena cominciò in modo piacevole, Gisela faceva il possibile per essere la padrona di casa perfetta, quale si aspettava La Rosa, e dopo un po’ si rese conto che non stava fingendo, che davvero immaginava di essere sua moglie e che la cosa le piaceva moltissimo. La conversazione ava agilmente dal tempo che avevano trovato fino a quel momento “Perfetto”, come disse La Rosa, mentre i tre affermarono che avevano trovato tempesta appena partiti da Santo Domingo; poi arono alla
descrizione dell’isola, della città, del porto e delle piantagioni, le miniere d’oro, la popolazione. Gisela ascoltava interessata e quasi dispiaciuta di dover ripartire subito per la Spagna senza avere il tempo di vedere quel posto che descrivevano come meraviglioso. Poi il Comandante ò all’argomento principe di ogni conversazione tra viaggiatori. – Ho sentito dire che i pirati incrociano in questi mari. Avete avuto incontri poco piacevoli, fino ad ora? La Rosa negò, placido. – Assolutamente no. E voi? – No, anche se temiamo che prima o poi verremo intercettati, la notizia della nostra partenza credo sia stata data a tutti e di sicuro sapranno quello che trasportiamo. Il giovane ebbe un lampo negli occhi e chiese, sollecito: – Avete un carico importante? – Spezie, per lo più. E schiavi. Ma anche una decina di casse di oro puro, ed è a quello che di sicuro i pirati punteranno, anche se abbiamo cercato di tenere segreta la cosa. Gisela guardò il giovane che fece un sorriso serafico. – Ma sarete bene armati e pronti a difendervi, immagino! – Sì, abbiamo quattro colubrine a bordo. Ma l’equipaggio… non saprei quanto sia affidabile, lo abbiamo racimolato al momento, il nostro equipaggio originale è stato messo a terra da una febbre malarica. E di questi non si sa nulla, potrebbero benissimo essere tutti pirati di Hispaniola! La Rosa sorrise appena. – Speriamo di no, señores! Ora, vogliamo are al Cognac? Mia cara, vi dispiace se vi lasciamo? Gisela chinò il capo in cortese assenso e i quattro uomini si ritirarono nella piccola cabina adiacente, dove portarono bicchieri di cristallo e bottiglie di Cognac. Nossè fece un gemito. – Stanotte spariranno le casse d’oro, ne sono sicuro!
La fanciulla lo guardò, sorpresa. – Cosa te lo fa pensare? – Lo sguardo del señor La Rosa! Sarà meglio se torniamo in cabina, señorita e ci chiudiamo dentro! Ora faranno ubriacare quei tre, poi li riaccompagneranno a bordo, per pura gentilezza, e una volta lì andranno a prendersi le casse dell’oro. Prima che quei tre si risveglino, noi saremo lontani e non si accorgeranno che manca il loro prezioso oro forse fino all’arrivo in Spagna! Gisela seguì Nossè e rimase sveglia, curiosa di sapere cosa sarebbe accaduto. Vide La Rosa in persona salire sulla scialuppa con i tre uomini, chiaramente ubriachi, e appena dietro a lui un’altra scialuppa scivolare silenziosa sull’acqua scura diretta alla nave. Col fiato in gola attese, aveva paura di sentire spari, urla, di vedere battaglia e sangue, ma il silenzio persistette, poi la scialuppa rientrò veloce, mentre la nave spagnola riprendeva la sua rotta. Per lungo tempo Gisela rimase a guardare la silhouette della nave che svaniva sul pelo dell’acqua, le vele al vento, la luna che la illuminava, e si sentì quasi soddisfatta, come se anche lei avesse partecipato a quella ruberia e ne fosse complice. Nossè dormiva ai piedi della cuccetta e lei vi si distese, chiudendo gli occhi e rivedendo il viso maschio e abbronzato di La Rosa, i suoi sguardi ironici, la sua bocca dura. Il mattino seguente La Rosa bussò alla porta della sua cabina e, quando Nossè aprì, entrò con un lieve inchino. – Siete stata bravissima, señorita. Nessuno ha sospettato nulla. Lei chiese: – Nemmeno che avete preso il loro oro? La Rosa corrugò la fronte. – Chi ha detto una cosa simile? – Oh, immagino. Non sareste un pirata se aveste lasciato sfuggire una preda così preziosa! Il giovane fece una smorfia divertita. – Vedo che la cosa non vi dà molto fastidio! Sì, ho preso il loro oro, non se ne accorgeranno che all’arrivo in Spagna e allora sarà difficile per loro stabilire chi lo abbia preso e quando. Penseranno forse di essere stati imbrogliati al carico, a Santo Domingo. E di sicuro non penseranno a me, don Sebastian de Cahil y Ovejuna, Visitante del Re. Lei ribatté: – Perché usate il nome degli altri? Perché non usare il vostro, ora che
è di nuovo un nome onorevole? La Rosa impallidì sotto l’abbronzatura. – Non capisco cosa vogliate dire, ma in ogni caso non sono affari che vi riguardano! Le voltò le spalle e uscì. Nossè sospirò. – Si sta innamorando di voi, señorita. E non vuole, così vi tratterà ogni giorno peggio, fino a che voi lo odierete e così sarà felice. Gisela lo guardò a occhi spalancati. – Ma cosa dici? Innamorarsi di me? – Certo. Siete bella, intelligente, coraggiosa. Ma lui teme di diventare debole se cede all’amore e così… anche voi vi state innamorando, vero? La fanciulla arrossì. – Sciocchezze! Come potrei innamorarmi di un uomo che vende gli esseri umani come schiavi e che deruba e uccide la gente? Il ragazzo sorrise, malizioso. – Forse proprio per questo vi state innamorando! Nei giorni seguenti La Rosa evitò di incontrare Gisela, anche a cena, quando lei arrivava, lui se ne andava, adducendo la scusa che aveva già mangiato e che aveva altro da fare. Ma nei rari momenti in cui si incontravano, i suoi occhi non riuscivano a staccarsi dal viso gentile e dolce della fanciulla che, a sua volta, sembrava agganciarsi ai suoi occhi. Prese l’abitudine di andare a trovarla alla sera, al buio; sedeva con lei di fronte al finestrone, guardando le stelle e così parlavano, apparentemente senza dirsi nulla di importante. La Rosa chiedeva notizie di Corte, nominava persone che aveva conosciuto e lei rispondeva di buon grado, poi era Gisela a chiedere di quel porto affascinante che era diventato Hispaniola, il covo dei pirati. La Rosa raccontava di come Hispaniola fosse stata il primo porto di Santo Domingo, ma, quando tutti i pirati del Nuovo Mondo avevano deciso di trovarsi lì, la corona spagnola aveva imposto ai coloni di trasferirsi dall’altro lato dell’isola, fondando Santo Domingo. Descriveva coloritamente i personaggi, le navi, le avventure trascorse, tralasciando i particolari più cupi e sanguinosi, e lei a volte persino rideva ad ascoltarlo parlare di assalti all’arma bianca e di arrembaggi, come se non fossero che storie inventate. E ogni sera si sentiva più attratta da quel giovane avventuriero e più spaventata
per ciò che la aspettava; aveva potuto parlare col padre per pochi minuti e lui le aveva confermato che sarebbe rimasto prigioniero a Hispaniola fino a che il suo riscatto non fosse arrivato dalla Spagna e che gli altri, tutti gli altri, sarebbero stati messi all’asta come schiavi. Aveva potuto vedere Dolores, apparentemente stava bene, ma era spaventata. Gisela si sentì in colpa, lei temeva di non rivedere più La Rosa, mentre gli altri temevano per la propria vita. Quella sera il giovane entrò nella cabina e sedette davanti al finestrone, il viso cupo. – Sta cambiando il tempo, Gisela. Ho paura che incapperemo in una tempesta, tra breve. Lei si sentì tremare. – Ma… che succederà? Lui le prese d’impulso una mano, stringendola. – Nulla, señorita, ve lo assicuro! Io farò in modo che non vi accada nulla! – Ma… la tempesta… – Ci sarà vento, le onde saliranno fino a questo finestrone, la nave danzerà una sarabanda e poi… sarà tutto finito e tornerà il sole! Lei sorrise appena. – Così semplice? Bruscamente lui si alzò. – Sì, così semplice. Tutte le tempeste finiscono in nulla. Fino a che ci si è in mezzo sembrano non finire mai, ma poi di colpo tutto è ato e ci si dimentica. Se ne andò e Nossè spense la lampada che già ondeggiava ai movimenti della nave. – Stava parlando di sé, señorita. È in piena tempesta e spera che tutto i e di potervi dimenticare. Gisela non rispose e quella notte non dormì. La nave ondeggiava e balzava sulle onde sempre più alte, mentre il cielo si era fatto cupo e scuro e il vento fischiava tra le sartie, sbattendo le vele con schiocchi secchi e terrificanti. Abbracciata a Nossè, che cercava di rincuorarla, Gisela rimase per due giorni affondata nella cuccetta, spaventata da quei rumori spaventosi che sembravano spaccare in due la nave, le onde che battevano sul finestrone come a volerlo spezzare e la tempesta che infuriava tutto intorno a loro. La Rosa non si fece vedere se non
all’alba del terzo giorno, quando entrò a rassicurarla: era bagnato e stanco, aveva il viso tirato e i capelli attorcigliati intorno al capo, ma cercò di sorriderle. – Il peggio è ato, Gisela. Prima di sera saremo in acque tranquille e domattina ci sarà uno splendido sole. Lei si slanciò nelle sue braccia, incapace di resistere. – Oh, Alvaro, ho avuto tanta paura! Lui si irrigidì ma non la respinse. – Perché mi avete chiamato con quel nome? – Perché è il vostro nome! Perché volete continuare a negarlo? Il giovane fece un sospiro stanco. – Ormai non conta più, Gisela. È troppo tardi. Ma la fanciulla lo strinse, apionata. – Non è troppo tardi! Avete il perdono reale, potete riprendere il vostro posto e dimenticare questa… parentesi! – Parentesi? Gisela, sono anni che affondo, incendio e saccheggio navi spagnole! Come pensate che potrei tornare in Spagna? Mi impiccherebbero prima ancora che mettessi piede a terra! – Forse il pirata La Rosa, ma non Alvaro de Fuentes y Aguillar! Lui la fissò un lungo istante, poi la staccò da sé e disse a Nossè: – Restate qui, la tempesta non è ancora finita ed è pericoloso uscire sul ponte. Ma come aveva promesso, prima di sera il mare si calmò, il vento calò di intensità e in cielo si accesero le stelle, così che al mattino seguente fu una giornata talmente bella che sembrava il primo giorno della Creazione. Gisela uscì sul ponte, assaporando l’aria salmastra e pulita e lì incontrò il padre che le strinse le mani, commosso. – Anche questa prova è superata, figlia mia! – Sì, padre, ho avuto paura ma meno di quanto pensassi. E poi Nossè mi è stato molto vicino, è un ragazzo meraviglioso.
– E cosa dici del nostro pirata? Anche il señor La Rosa si è comportato bene. Lei arrossì abbassando gli occhi. – Oh sì, benissimo. Ma… non credi che dovrebbe prendere il suo nome e smetterla di fare il pirata? Don Sebastian la guardò, intento. – Gliene hai parlato? – Sì, ma non mi ascolta. Anche se… – Si interruppe e l’uomo la incitò: – Anche se? Cosa gli hai detto? – Nulla. Anche se penso sarebbe la cosa migliore per lui. Don Sebastian annuì, cupamente. – Già, sarebbe la cosa migliore. Ma non può smettere di colpo, i suoi non glielo permetterebbero mai. Ha promesso loro il ricavato dell’asta dell’equipaggio, non acconsentirebbero mai a perdere quel denaro. E lui non può tornare a essere Alvaro de Fuentes se lascia vendere come schiavi quegli uomini. È in un bel dilemma, Gisela e non so come ne uscirà. La fanciulla non parlò più ma quando alla sera La Rosa andò a sedersi come al solito di fianco a lei davanti al finestrone, gli chiese, pacata: – Cosa contate di fare? Il giovane rispose senza guardarla. – A che proposto? – L’equipaggio. Alvaro de Fuentes. Me. La Rosa girò il capo di scatto, gli occhi ardenti che la fissavano come a volerla bruciare. – Voi? Che parte avete, voi, in tutto questo? Gisela sospirò, doveva proprio farlo, anche se sia suo padre che Dolores le avrebbero detto che era sbagliato, che una signora non si espone in quel modo assurdo. Lo fissò bene in faccia e sillabò, sicura: – Io vi amo, Alvaro. E voi amate me. Ma non potrò mai amarvi come La Rosa. Quindi…. Per lunghi minuti restarono a fissarsi e poi il giovane distolse gli occhi e fece una breve risatina. – Quindi, devo trovare una soluzione, dite? – Sì, penso sarebbe il caso. La Rosa si alzò, le prese una mano e vi posò le labbra, bruciavano come fuoco e
lei assaporò la potenza di quel bacio che sembrava lasciarle un marchio. Poi lui le lasciò la mano e mormorò: – Tra due giorni saremo a Hispaniola. Da lì vi accompagnerò personalmente a Santo Domingo e vi imbarcherò su una nave diretta in Spagna, come ho promesso. – Avete due giorni di tempo per trovare una soluzione ragionevole per tutti, quindi. Lui sorrise appena. – Non vi arrendete mai, eh? – No, señor, mai. Specialmente quando è in gioco la mia vita, il mio futuro. E il vostro. Senza rispondere il giovane uscì e Nossè fece un verso con le labbra. – Siete pericolosa, señorita! Come pensate che La Rosa possa risolvere questo dilemma? O cede ai suoi uomini e voi lo odierete, o cede a voi e i suoi uomini lo uccideranno! – Lui troverà la soluzione, ne sono certa. Per tutto il giorno seguente non lo videro e quella sera mandò a dire che Gisela doveva rimanere in cabina per la cena, che aveva cose importanti da discutere. Nossè scosse il capo. – Sento aria di guai! Ha convocato Diego Espada e Luz del Diablo, i suoi secondi. Gisela impallidì. – Cosa credi che voglia fare? – Non lo so, ma temo per la sua vita. Non si può portare via il bottino a dei pirati e continuare a vivere! Questo era anche quello che aveva pensato in quei giorni La Rosa e quella sera aveva preso una decisione che sapeva sarebbe stata importante per molte persone. Da quando aveva saputo che avrebbe potuto riprendere la sua vita in Spagna, aveva sentito che qualcosa era cambiato dentro di lui e la conoscenza di Gisela gli aveva intenerito il cuore. Per la prima volta in lunghi anni di odio e sangue ora sentiva di desiderare la pace di una casa, la dolcezza di una moglie, la felicità di una famiglia e la giovane incarnava tutto ciò. Ma non poteva cancellare con un colpo di spugna il ato e nemmeno gli uomini che assieme
a lui, seguendolo ovunque, erano diventati la sua famiglia in quegli anni disperati. Così, quando Diego Espada e Luz del Diablo entrarono in Sala da Pranzo, li accolse con un sorriso. – Venite, amici miei, stasera ho grandi novità da riferirvi. Cenarono, parlando poco, e quando la cena finì, La Rosa versò il Cognac e brindò, gli occhi fissi ai suoi due compagni di avventura. – Questo è un brindisi di addio, amici miei. Da domattina io non sarò più La Rosa, ma Alvaro de Fuentes y Aguillar. Diego chiese, brusco: – Come conti di effettuare questo aggio? Alvaro sorrise, tranquillo. – Con uno scambio, amici. Lus del Diablo sollevò un sopracciglio. – Uno scambio? Che genere di scambio? – La mia vita e quella di tutti gli altri in cambio delle due navi, il galeone su cui siamo e la mia Sangre de Rosa. Un lungo silenzio seguì le sue parole; Diego sorseggiava il liquore, pensieroso e poi chiese, guardandolo: – Che ne sarà di La Rosa? Il giovane fece una breve smorfia. – Dipende da voi. Se volete, potete lasciarlo in vita. Uno di voi prenderà il nome e continuerà a battere i mari con il mio vessillo. Luz Del Diablo scoppiò in una fragorosa risata. – Non male come idea! Diego, potremmo darci il turno! E ci lasci le due navi? – Sì, con tutto il carico. Mi prendo i prigionieri, li lascerò liberi a Santo Domingo. Ah, e l’oro. Quello resta mio! Diego annuì. – Mi sta bene. Ma ti tradiranno, qualcuno di loro dirà che non sei Alvaro ma La Rosa. – Li smentirò. La loro parola contro la mia. Se poi La Rosa continuerà ad
attaccare le navi spagnole, mi crederanno! Luz del Diablo confermò. – Sono d’accordo. E mi sta bene. Il carico di questo galeone farà felici tutti, in fondo non credo che la vendita di quei quattro uomini renderebbe di più. Alvaro alzò il bicchiere, il viso pallido. – Allora siamo d’accordo? La Rosa è morto, è nato Alvaro de Fuentes y Agiullar! Con voce decisa i due ripeterono: – Viva Alvaro de Fuentes y Aguillar! Si lasciarono con una stretta di mano e il giovane ricadde a sedere, ancora incredulo. Era finita! Poteva andare da Gisela, dirle quanto l’amava e poi avrebbe potuto far ritorno in Spagna, ritrovare sua sorella, sua madre, la sua casa… ricordare La Rosa soltanto come una pianta di rose candide che si erano macchiate del sangue di un uomo che lui aveva dovuto uccidere. Per prima cosa andò nella cabina di don Sebastian e gli comunicò la sua decisione. L’uomo lo ascoltò in silenzio e poi annuì, commosso. – Avete fatto la cosa giusta, don Alvaro! Io testimonierò, se ce ne fosse la necessità, che non siete voi La Rosa ma uno dei vostri due amici e che anche voi eravate prigioniero, come noi. Seriamente il giovane disse: – Vi ringrazio, Don Sebastian. Ora però vorrei chiedervi anche un’altra cosa. Riguarda vostra figlia Gisela. L’uomo accennò un sorriso. – Che dovete dirmi, señor? – Voglio chiedervi la sua mano. È stato merito suo se ho finalmente desiderato di tornare a vestire i panni di Alvaro, ha avuto fiducia in me e mi ha conquistato col suo amore puro e incrollabile. Don Sebastian gli tese la mano. – Vi concedo la mano di mia figlia, don Alvaro. So per certo che la farete felice. Ora, volete essere voi stesso a informarla delle vostre decisioni? – Sì, grazie, vado subito. Si fermò un istante fuori dalla porta della cabina di Gisela, il cuore in subbuglio. Poi bussò e spalancò la porta, accogliendo la fanciulla che si gettò tra le sue
braccia. – Oh, Alvaro, hai risolto i tuoi problemi? – Sì, querida. Tutti i prigionieri saranno liberati e andremo assieme a Santo Domingo. E, se vorrai, ci sposeremo. Lei fece un gridolino di gioia alzando il viso e finalmente Alvaro poté posare le labbra su quelle di lei e gli sembrò di toccare il paradiso. Nossè tossicchiò appena. – E io? Che succederà di me? Alvaro lo guardò, sorpreso. – Tu verrai con me, è ovvio! Sei o non sei il mio schiavo? Il ragazzo fece un ampio sorriso felice. – Sì, señor, sono il vostro schiavo! Per sempre! Gisela chiese. – Potrò rivedere Dolores? – Rivederla, riprenderla con te, Dolores è libera da questo momento, come tutti gli altri. Domattina saremo a Hispaniola e da lì andremo a Santo Domingo. Ma prima dovrò mettere a posto le cose con la mia casa, la mia gente. Ho dei doveri verso di loro, non posso abbandonarli. La fanciulla gli accarezzò il viso, commossa. – Io ti aspetterò. Ma il giovane scosse la testa. – No, mia carissima, tu sarai con me! Non voglio più lasciarti nemmeno un minuto! – E poi? Dimmi ancora che faremo, mi piace sentirti parlare e programmare il nostro futuro. Il giovane rise, tornando a baciarla sulla fronte. – Oh, ci sono tante cose da fare! Tuo padre dovrà restare qui almeno tre anni e noi avremo tutto il tempo per preparare il rientro in Spagna. Ci sposeremo subito, nella cattedrale di Santo Domingo e andremo ad abitare nella mia casa sul mare, vedrai, è bellissima, degna di te. E appena tuo padre avrà finito i suoi impegni, ci imbarcheremo su una nave e andremo a Madrid, ti porterò nella casa dei miei avi, ti presenterò a mia madre e a mia sorella, ti piaceranno e tu piacerai a loro. Ti adoreranno
quanto io ti adoro! – E La Rosa non esisterà più! Il giovane rise divertito. – Oh no, mia cara, La Rosa continuerà a esistere, ma non sarò io! Le uniche rose che vedrai saranno quelle dell roseto di rose bianche nella mia casa di Madrid e quelle rosso sangue in questa a Santo Domingo! Lei ridivenne seria. – Mai più rose insanguinate, amor mio! E il giovane confermò, solenne. – Mai più, querida! Da oggi in poi le uniche rose saranno del colore della tua pelle e avranno il tuo profumo! I due giovani si baciarono, finalmente liberi da pensieri malvagi, mentre don Sebastian andava a informare i prigionieri che la loro odissea era terminata e che avrebbero potuto tornare liberi; Dolores pianse abbracciata all’uomo che la mise al corrente velocemente di quanto era accaduto e poi la accompagnò di persona nella cabina di Gisela. Le due fanciulle si abbracciarono, sotto lo sguardo indulgente di Alvaro che poi si appartò con don Sebastian. – Spero che tutto fili liscio, forse non tutti i miei ex compagni saranno d’accordo con questa mia decisione. – Temete problemi? Ma Alvaro sorrise, sicuro: – No, señor, basta problemi! Da oggi in poi sono solo Alvaro de Fuentes e non avrò più nulla a che vedere con un certo pirata soprannominato La Rosa! Appoggiati al parapetto i due uomini guardarono le coste di Santo Domingo che sfilavano davanti a loro, spiagge candide e palme fin quasi in acqua, cielo azzurro e mare calmo e don Sebastian mormorò: – Dicono che sia un’isola meravigliosa. – Sì, lo è. E non so ancora se resterò in Spagna o vi farò ritorno. Dipenderà da Gisela, farò soltanto quello che lei desidererà. L’uomo sorrise appena. – Credo che lei farà quello che vorrete voi! Risero, e Alvaro indicò l’albero maestro dove si stava alzando la bandiera pirata
col teschio con la rosa rossa tra i denti. – Ecco, tutto si è compiuto! Questo galeone è diventato proprietà di La Rosa! – Non siete pentito? Ma il giovane scosse deciso il capo. – No, nel cambio sono io quello che ci guadagna! Ho trovato l’amore e riavrò la mia famiglia, cosa posso volere di più? – E non dimenticate il perdono reale! Risero divertiti mentre il grosso galeone entrava maestoso nel porto di Hispaniola, salutato a gran voce dagli equipaggi delle navi pirata alla fonda. Dal cassero, Diego Espada gridò rivolto a tutti e a nessuno in particolare. – La Rosa è tornato! Urrà per La Rosa! Il coro di urrà che si levò dagli equipaggi fu come un boato e Alvaro sorrise, avvicinandosi a Gisela e andole un braccio intorno alle spalle. Lei sussurrò: – Vi mancherà tutto questo? Lui la guardò con uno sguardo pieno d’amore e mormorò a sua volta. – Spero che sarete voi a gridare urrà per me, da adesso in poi! E mentre il vessillo con la rosa insanguinata sventolava superbo, i due giovani si baciarono, tra le grida di tutti quelli che li guardavano, tra commenti di fuoco e fischi di approvazione. La Rosa era tornato. Era tornato a essere un giovane uomo con un futuro davanti, non più fatto di ruberie e arrembaggi, ma d’amore e serenità. Era tornato per lavare il sangue di quella rosa e farla ridiventare candida.
La polena
di Alain Voudì
Sono stato a lungo in dubbio sull’opportunità di proporre questa storia: di fatto, secondo gli antichi canoni, questa non è neppure davvero una storia. I precetti, infatti, insegnano che un racconto ben costruito deve avere un inizio, un centro, e una fine; purtroppo, questi precetti non tengono conto del fatto che una vita non è spesso vasta abbastanza per contenere una storia intera, e a volte nemmeno molte vite sono sufficienti. Nel caso specifico, questa vicenda non ha ancora avuto fine; il suo inizio è forse antico quanto il mondo; e il suo centro, se vogliamo trovarne uno, è una polena.
Conobbi l’Artefice in occasione di una delle numerose notti di festa che animavano il Gatto Guercio quando il mondo era più giovane, e anch’io non scherzavo. Al mio arrivo il grog scorreva già in abbondanza e la nostra voluminosa ostessa era fieramente all’opera per contabilizzarne il flusso, aiutata in questo dal suo infallibile gattaccio, che non ha mai permesso ad alcuno di uscire dalla Taverna senza aver regolato il conto delle sue bevute e, se necessario, anche di quelle altrui. Quando domandai la ragione del festeggiamento, mi fu risposto che la Flying Scotchman era stata affondata.
Come molti, conoscevo la Scotchy. Era un vecchio tre alberi che aveva visto tempi migliori, un brigantino a palo allora dedito al piccolo contrabbando, noto soprattutto per tre sue caratteristiche salienti: era molto veloce, o lo era stato nei suoi giorni di gloria; ben poco armato, salvo che per un breve e movimentato periodo della sua esistenza; e sempre, invariabilmente, disperatamente,
sprovvisto di un qualsivoglia bottino che fosse per noi di qualche valore – tanto sprovvisto, in effetti, che nemmeno si perdeva tempo a inseguirlo, quando lo si avvistava all’orizzonte. Tutto ciò considerato rimasi perplesso alla spiegazione, e chiesi maggiori lumi. Per tutta risposta, fui rimandato all’Artefice.
Era costui un individuo affatto banale, un ometto dall’aspetto ordinario e dai modi dimessi che aveva da poco acquistato una caracca appartenuta in origine a un mercante portoghese, fino a quando l’equipaggio non aveva stabilito che il valore del suo carico, pur suddiviso fra tutti, era comunque ben superiore alla paga promessa, e aveva agito in conseguenza. Dopo svariati aggi di mano la caracca era giunta fino all’Artefice, che l’aveva riarmata a proprie spese ed equipaggiata per i suoi fini. I quali, apparentemente, si erano limitati alla sola caccia alla Scotchy.
– Non sono sempre stato un marinaio, capisci? – mi confessò l’Artefice, dopo che lo ebbi rifornito di grog.
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Prima di prendere il mare, quando ero giovane, capisci?, ero carpentiere, ed ero anche bravo, molto bravo, e scusa se me lo dico da solo. Non è che sono mai stato un’aquila, ma con le mani ci ho sempre saputo fare, fin da piccolo, tanto che appena ebbi l’età giusta mio padre mi spedì a bottega da un carpentiere, giù a Bristol, nei cantieri. Mi feci la mia brava bottega per un po’, capisci?, ma poi anche il mio padrone se ne accorse, e mi tolse dalla pialla per mettermi all’intaglio: all’inizio al tornio, per fare le colonnine per le balaustre, ma non ci volle molto prima che mi mettesse uno scalpello in mano per intagliare fregi e ogni genere di rifiniture. Ero proprio bravo, sissignore.
A quell’epoca – ero ancora un ragazzo – lavorava, nella bettola di fronte alla bottega, una cameriera proprio carina. Ripensandoci adesso, sarà stata la solita puttanella da porto, ma allora ero molto giovane, capisci?, mi sembrava la ragazzina più bella del mondo e io, vergine come l’Eden, non avevo quasi nemmeno il coraggio di rivolgerle la parola, figurati il resto. Lei ava, e io rimanevo con il mazzuolo alzato e lo sguardo perso nel vuoto a fissare la porta dov’era entrata e a sospirare come un idiota, ci perdevo il sonno la notte: insomma, ero proprio cotto come un pollo. E non avevo il coraggio nemmeno di offrirle da bere, capisci? Così feci l’unica cosa che sapevo far bene: nel tempo libero, iniziai a ritrarla su ogni scheggia di legno che mi restava in mano. Ne facevo figurine in ogni posa, la trasformavo in una dea, in una santa, in una madre, ogni forma e dimensione mi andavano bene, purché fosse lei, sempre lei, solo lei. E pensare che ora non ricordo nemmeno più come si chiamasse.
Un giorno riuscii a mettere le mani su una trave che avevamo scartato perché crepata, e non andava ormai più bene nemmeno per farne tavole. Eppure, in qualche modo, quella stessa crepa che l’aveva condannata ad ardere l’aveva anche arricchita, perché io vedevo in quella fenditura un disegno, capisci?, come se una forma interna stesse lottando per spogliarsi del superfluo ed emergerne. Una forma che io conoscevo molto bene. Senza neanche chiedere il permesso al mio padrone, presi la trave e aiutai quella forma a venire alla luce. Ci lavoravo in ogni momento libero, ed era veramente la cosa più bella che io avessi mai fatto fino ad allora. Perfino il mio padrone, dopo un po’, smise di scuotere la testa rimproverandomi il tempo perso, finché una volta lo sorpresi a esaminare il mio lavoro, quando pensava che io dormissi. Quella mattina lo trovai in piedi, davanti alla mia statua praticamente terminata. Non si voltò nemmeno, quando lo raggiunsi. Saremo stati in silenzio forse cinque, dieci minuti, capisci?, così, solo a guardarla. Senza muoversi, mi disse solo: “Te la sentiresti di rifarla uguale, ma più in grande?”
Al cantiere era allora in allestimento un nuovo postale destinato alle Colonie, e il mio padrone aveva ricevuto l’incarico di realizzare alcune strutture del castello e del giardinetto. Con la mia statua a disposizione, non gli ci volle molto per
convincere l’armatore ad affidarmi la realizzazione di una piccola polena, capisci?, da mettere a prua, come quelle dei galeoni. Quando si è giovani, si pensa che la bellezza sia nella perfezione. Per lo meno, lo pensavo io. La mia cameriera era carina, ma certo non perfetta. La mia polena sì. Ne arrotondai i seni, assottigliai i fianchi, resi le sue curve leggere, morbide, aggraziate, più che una fanciulla sembrava un’onda, capisci?, un’onda salita dalla chiglia ad accarezzare il bompresso. E il suo viso – oh, il suo viso! In un viso gli occhi sono tutto: poco importa dei lineamenti, o delle labbra, o di quanto gli zigomi siano allargati o il mento sottile. Lo sanno anche i banditi di strada: nascondi gli occhi e avrai nascosto l’anima. E alla mia polena avevo dato gli occhi più belli che donna abbia mai avuto: giuro su Dio che potevo sentire lo sguardo di quegli occhi sulle mie mani, mentre le scorrevo sulla sua superficie, lisciandola, curandola, cercando e sciogliendo con i polpastrelli ogni nodo del legno che alterasse anche la sola luce di quel corpo perfetto. E l’espressione di quegli occhi, quando sfregavo delicatamente i suoi fianchi, era l’espressione che ogni uomo vorrebbe vedere negli occhi di una donna. Mi si strinse il cuore, il giorno che dovetti prepararla per spedirla al cantiere.
La sera precedente l’allestimento, il capomastro venne a esaminare il mio lavoro. Verificò con cura che ogni incastro fosse ben realizzato e che ogni perno per il montaggio fosse al posto giusto e ben solido, poi si fermò di fronte alla mia polena e la guardò per la prima volta in quanto tale. Rimase in silenzio per diversi secondi, poi allungò una mano e con aria di approvazione la fece scorrere lentamente sulla superficie del legno che tante volte avevo accarezzato. E io vidi gli occhi della polena seguire quel gesto con lo stesso sguardo rapito ed estatico che avevano avuto seguendo le mie mani. Non lo so cosa successe in me, in quel momento, ma sentii montarmi dentro una rabbia profonda, capisci?, un moto di disgusto per quello che sentivo come un tradimento, un tale senso di nausea mi prese lo stomaco che dovetti uscire di corsa dalla bottega per vomitare fiele nel vicolo a fianco. Quella notte non dormii. Mentre mi rigiravo sul pagliericcio in cerca di sonno, mi resi finalmente conto che di lì a poche ore la polena non sarebbe stata mai più mia, capisci?, che altre
mani l’avrebbero sfiorata, e ciascuna di queste avrebbe ricevuto in regalo quello stesso sguardo assorto e riconoscente che avevo scolpito per me solo. All’improvviso, decisi che quello sguardo sarebbe stato mio, e solo mio. Nel buio scesi in bottega e misi mano allo scalpello un’ultima volta. Non ci sono parole per definire la differenza di uno sguardo. A me bastarono pochi minuti di lavoro per modificarlo impercettibilmente. Eppure, anche se nessuno sarebbe stato in grado di esprimere a parole la portata di quei pochi colpi di scalpello, ecco che il sorriso dolce e grato che mi era stato tolto dal capomastro si era trasformato in un sorriso più lontano, distaccato; lo sguardo, da trepido, era diventato quasi severo; l’espressione prima accogliente si era ora mutata in blando rimprovero. L’atteggiamento stesso del corpo, pur inviolato, lungi dal trasmettere il suo caldo invito originario sembrava adesso altero, inaccessibile, come quello di una Dea. Se qualcuno se ne accorse, non lo disse mai. La mia polena fu portata via il mattino dopo, e montata al suo posto sulla prua della Goldmouth.
Mentre la issavano sotto il bompresso, cercai i suoi occhi. Ci fissammo a lungo. Lo so, mi prenderai per matto, ma giuro che sentivo in quel nuovo sguardo il peso del rimprovero per quello che le avevo fatto, e che solo allora compresi: le avevo tolto l’innocenza, capisci? Fissando quegli occhi, che io le avevo dato, mi resi conto di averla creata libera, innocente appunto, e alla prima occasione, ecco: l’avevo condannata proprio per aver usato quella libertà che le avevo dato io, e per questo gliel’avevo poi tolta, capisci? L’avevo punita, io che l’avevo creata, per qualcosa che le avevo dato io stesso. E lei lo sapeva – oh, sì, l’aveva capito subito, lei – e ora mi guardava, ferita, incredula, e io non fui capace di reggere quello sguardo addolorato, per quanto fosse opera mia. Non andai più a vederla, finché rimase in cantiere, e trovai una scusa per non andare al varo, quando lo lasciò per prendere servizio.
Non mi credi, vero?
Sì, hai ragione, non mi crederei nemmeno io. Chi potrebbe essere tanto ingiusto con una sua creatura? Eppure è vero: io lo sono stato. E ne ho pagato il prezzo.
Non so cosa mi successe, dopo. Quando ci ripenso, ora che sono ati tanti anni, mi convinco che tutta la mia abilità mi era stata data con il solo e unico proposito di liberare quella forma dal legno, capisci?, e che fatto questo la mia vita non avesse più alcuno scopo, e fosse inutile come il calco di un capitello al termine della costruzione. Non so. Fatto sta che non riuscii più a realizzare niente di buono, dopo quel giorno. Lasciai la bottega, malgrado le proteste del mio padrone. Non tornai più a scolpire il legno.
Il guaio è che non sapevo fare nient’altro. Vagai, allo sbando, tra una piccola occupazione e l’altra. Conobbi la fame, e il freddo. Mi misi a rubacchiare, a ‘vivere di espedienti’, come si dice ora. Frequentavo taverne, dormivo dove capitava. Una mattina mi svegliai con un tremendo mal di testa e un sapore schifoso in bocca, sentendo il mondo barcollare sotto di me. Quando uscii all’aperto, vidi solo acqua. La costa era già lontana. Conosci la storia: mi dissero che avevo firmato come carpentiere a bordo di un mercantile diretto alle Colonie. Magari era anche vero. Comunque rimasi. Non sembrava peggiore di altri posti dove già ero stato a quell’epoca. Mi sbagliavo: lo so che lo dicono tutti, ma venne fuori presto che il capitano era una carogna, e gli ufficiali anche peggio. Del resto, che altro ti puoi aspettare da gente che recluta con grog drogato e randello? Scoprii che molti dei miei nuovi compagni, a bordo, si erano svegliati al largo come me. Beh, lo sai come succede: il primo viaggio lo finimmo; il secondo no. Qualcuno aveva sentito parlare di quest’isola: vendemmo qui nave e carico, e ci disperdemmo tra i Fratelli. Come carpentiere di bordo trovai subito un ruolo e mi imbarcai di nuovo, ma questa volta per mia scelta.
Forse era destino, forse solo il caso, ma proprio quell’inverno incrociammo un certo postale che riconobbi fin da lontano. Ridi pure, ma io mi sentivo eccitato all’idea di rivederla, capisci? E fummo anche fortunati: malgrado fosse più veloce di noi, riuscimmo lo stesso a intercettarlo e convincerlo a fermarsi, sparando un unico colpo davanti alla sua prua. Ma proprio quando iniziava già a sembrare un attacco tranquillo, senza bisogno di più violenza di qualche bel ceffone al comandante per convincerlo ad aprire la cassa, ecco che un qualche loro imbecille testa calda ebbe la stupida idea di spararci addosso all’ultimo momento. Non fece un gran danno, ma versò del sangue, e sai cosa significa questo secondo le nostre regole.
Non che mi importasse qualcosa di quei deficienti bastardi, ovvio, li gettassero pure tutti a mare, che mi cambia? Ma l’idea di dover distruggere la mia polena, di vederla bruciare senza far niente, non potevo sopportarla, capisci? Così presi la parola e cercai di convincere i miei compagni a salvare almeno la nave. Non ricordo di preciso cosa dissi, ma infine decidemmo di tenere la nave per noi, dividendoci su entrambe e arruolando con la forza qualcuno dell’equipaggio originario per completare i ruoli. Gli altri li buttammo ai pesci. Avremmo fatto meglio a buttarceli tutti, secondo le usanze: due notti dopo, i superstiti riuscirono a liberarsi, sgozzarono nel sonno i miei compagni e si ripresero la nave, scomparendo nel buio. Ma li avremmo reincontrati presto.
E io nel frattempo avevo rivisto la mia ragazza. Ti ho già detto che ero eccitato all’idea? Appena riconobbi la nave, da lontano, capii che tra me e la mia polena c’era un legame, come se le avessi lasciato qualcosa di mio, e sentii che per tutto quel tempo mi era mancata e che, almeno in parte, il mio malessere era dovuto al fatto che l’avevo ferita, e l’avevo persa, capisci?, e io volevo davvero tornare da lei, e riparare al danno che le avevo fatto, e ridarle l’espressione che le avevo tolto, così che quando da bordo ci spararono addosso, e capii quello che sarebbe dovuto succedere, mi sentii male, proprio male, capisci?, come avessero colpito me invece dei miei Fratelli, e corsi alla mia polena, come per chiederle aiuto, e invece... invece... Tu lo sai come succede, vero? Erano ati più di tre anni dall’ultima volta che
l’avevo vista, e tre anni, in mare, possono essere molti per un pezzo di legno. Non so quando, in qualche momento lungo quei tre anni, qualche idiota volenteroso si era messo in testa di proteggere la mia polena dalla salsedine, e così l’aveva dipinta tutta col pattume. L’avevano dipinta, capisci?, coperta di sego e biacca dalla testa fino al ventre, e il sale ci aveva fatto la crosta sopra, così che il colore, da biancastro che già era, si era poi mutato in un giallo bruno e malato. Il viso lo avevano colorato come a una puttana, capisci?, con dei labbroni rosso marrone e gli occhi, gli occhi poi avevano delle righe nere tutt’attorno, ma non seguivano nemmeno i contorni, capisci?, e ne deformavano i lineamenti, e ora la mia polena sembrava un mostro, e mi fissava infuriata con quegli occhi artificiali, come se fosse colpa mia. Io non volevo questo, come potevo sapere che l’avrebbero dipinta, come potevo sapere quale nave avremmo incrociato e come potevo sapere che avremmo dovuto incendiarla per colpa di un deficiente che aveva sparato, e volevo solo che smettesse di guardarmi così. Allora le promisi che non avrei permesso che la distruggessero, a costo della mia stessa vita. Per questo la salvai, anche se invece della mia vita finì che andò persa quella dei miei Fratelli.
E lo sai cosa successe poi? Appena la Goldmouth fu di ritorno a Boston, un gruppo dei cosiddetti gentiluomini del posto, seccato per l’assenza della Royal Navy, decise che doveva arrangiarsi; così acquistò la nave, la riarmò con una banda di zappaterra sfaccendati, dotandola poi di tutti i pezzi da quattro e perfino da dodici libbre su cui riuscì a mettere le mani, e infine la ribattezzò Revenge of the Colonies e ce la spedì contro.
Sì, ci montarono anche due pezzi da dodici, alla cacciatora, di prua, su un postale, pensa tu, si vede che a comandarli c’era qualche signorotto terrazzano che magari pensava “più grosso il cannone, più grosso il danno”, sai com’è, e scommetto che se ne avessero trovati anche da ventiquattro avrebbero provato a montarci pure quelli, quegli idioti, così si sarebbero affondati da soli e ci avrebbero tolto il problema.
Ci diedero la caccia per tutto l’inverno, e per parte della primavera successiva. E
cercavano proprio noi, per via dell’attacco alla Goldmouth, capisci?, e anche se il loro compito era proteggere il traffico fuori Boston, capitava spesso che venissero a cercarci anche più a sud, capisci? Ormai eravamo diventati la favola della Fratellanza, e tutte le volte che si entrava in una taverna c’era sempre qualcuno che si premurava di segnalarci che la Revenge era appena ata da qui, o da lì, e che vi stava cercando, e sarà meglio che vi leviate di mezzo alla svelta. Non riuscivamo ormai nemmeno più a reclutare gente per rimpiazzare le perdite, tanto era triste la nostra fama.
Un paio di volte, quell’inverno, andammo vicini a essere presi, tanto erano veloci, ma per fortuna erano marinai così scarsi che riuscimmo sempre a tenerli a distanza fino alla sera, per poi seminarli nel buio. Avevamo anche pensato di catturare un’altra nave, buttare tutti ai pesci, tenerci quella e affondare la nostra, tanto per confondere la pista, ma non ne trovammo mai una anche solo abile: solo vecchi mercantili lenti e scassati. Stavamo quasi per rassegnarci a sciogliere la ciurma e separarci una volta per tutte, quando la nostra fortuna si esaurì, e un mattino ce li trovammo a meno di una lega, con la costa del Connecticut sottovento a non più di sei leghe. Issammo la bandiera rossa: tanto ormai non avevamo più nulla da perdere.
Malgrado la bandiera rossa, comunque, voltammo loro la poppa. Che accidenti volevi che fimo? Eravamo sottovento, loro ci sopravanzavano di almeno due nodi al gran lasco, e nemmeno avevano fuori i coltellacci – e magari neanche sapevano di averli. A girarci e affrontarli di bolina, tanto valeva ammazzarci tutti subito, tanto più che la Revenge era anche una buona boliniera, perfino con tutti quei terrazzani a bordo. No, l’unica speranza era che fossero così idioti da avvicinarsi abbastanza da riuscire a sorprenderli con qualche manovra improvvisa e abbordarli prima che riuscissero a poggiare. Così abbattemmo a una quarta dal traverso e proseguimmo per un po’, aspettando che ci raggiungessero, e provando anche a cambiare bordo ogni tanto, capisci?, per stancarli e metterli in difficoltà, e un paio di volte credemmo davvero che avrebbero straorzato, visto che per la foga di inseguirci
manovravano veramente da schifo. Tanto da schifo, in effetti, che impiegarono quasi due ore a portarsi a mille iarde, pur con i loro due nodi in più, e qualcuno già sperava di riuscire a raggiungere la costa, ormai quasi in vista, e magari arenare e disperderci a terra, bandiera rossa o no. Ma sarebbe stato pretendere troppo, e quando arrivarono a portata dei cannoni da dodici eravamo ancora troppo al largo per sperare di farla franca. Ci preparammo alle manovre, pensando di batterci. Ma pensavamo male.
Perché tu che avresti fatto, al posto loro? Sei al lasco e sopravvento, e anche di bolina avresti lo stesso un paio di nodi in più; le tue batterie sono affollate di pezzi da quattro libbre: che fai? Ti fai sotto e carichi a mitraglia, no? Poi abbatti, cambi bordo, ci massacri con l’altra batteria, ti allontani, orzi, ricarichi, e ricominci daccapo, capisci?, tanto con l’abbrivio che hai potresti anche girarci attorno, nel tempo che noi bracciamo un pennone. E invece quei deficienti di coloniali che fanno? Ci puntano dritti in poppa, e appena arrivano a portata fanno fuoco con i due pezzi da dodici di prua, tutti e due assieme! Da non crederci, ti dico! Sai quanto pesa un pezzo da dodici? Hai idea del rinculo? Ecco: immaginane due, sul castello di un brigantino leggero, che fanno fuoco in batteria! Pensa ai due strattoni che si prende il dormiente, pam, pam, in mezzo secondo, due lampi, e vedi pezzi di castello che volano da tutte le parti! Uno spettacolo! Con una sola bordata si fanno quasi saltare via il bompresso, con gli stralli che schizzano via, il trinchetto che si inclina addirittura all’indietro (e buon per loro che erano al lasco, altrimenti ce lo lasciavano), la civada che penzola fuori bordo, il mascone che si spalanca che nemmeno un boccaporto: peccato essere stati troppo lontani per vederli bene, perché chissà la loro faccia, loro che pensavano di farci a pezzi.
Eppure, purtroppo per noi, malgrado tutto ci erano riusciti. Sarà stata la fortuna dei principianti, ma facciamo appena in tempo a sentire il botto ed esultare per lo spettacolo che una delle due palle ci prende in pieno nel giardinetto, sfonda la vetrata, attraversa due o tre paratie, e si pianta proprio in mezzo ai barili di polvere sotto coperta. Siamo saltati in aria come i fuochi del cinque novembre.
Nel giro di un secondo, prima stavo gridando di sollievo, poi sento come un calcio nella schiena, mi trovo per aria, e un attimo dopo sono a bagno, con mezzo mondo che mi piove addosso da tutte le parti e rottami e schegge dappertutto. Non so come ho fatto, ma in qualche modo sono riuscito ad aggrapparmi a un pezzo di baglio che mi era quasi caduto addosso e a tenere la testa fuor d’acqua, pur con la schiena che mi faceva un male d’inferno. Di tutti quanti c’erano a bordo, eravamo sopravvissuti in forse una dozzina. E cosa succede? Nei pochi minuti che impieghiamo a renderci conto dell’accaduto e cerchiamo di radunarci, non si sa bene per fare cosa, la Revenge arriva a venti iarde, e quei bastardi coloniali iniziano a divertirsi prendendoci di mira, capisci?, ci sparano addosso dalle murate, come fossimo ochette nello stagno, fanno fino a gara a chi ne affonda di più, uno, due, nel giro di un minuto restiamo in tre a galla, e io mi infilo sotto un barile scoperchiato che avevo vicino, e sento lo stesso i colpi che fioccano nell’acqua attorno a me, e penso che brutta morte è non poter nemmeno reagire, perché potevo solo stare aggrappato sotto al barile mentre la Revenge si avvicinava, capisci? Ormai stavo soltanto aspettando che mi colpissero, e proprio in quel momento alzo gli occhi, e cosa vedo? Vedo lei, ecco cosa vedo. Me la trovo proprio sopra, la mia polena, ferita, penzolante, che mi fissa dall’alto con una faccia sconvolta, e tu dirai che sarà stato per via del disastro del rinculo dei dodici, ma io in quel momento lo sapevo che invece stava cercando me, sotto il barile, con quegli occhi atroci che mi fissavano attraverso le fessure, e sapevo, l’ho sentito per certo, capisci?, che me l’aveva giurata, e che era per lei, solo per lei e per quello che le avevo fatto, che meritavo quella morte infame.
Mi credi matto, vero? Lo so, lo vedo da come mi fissi che mi credi matto, ma tu non puoi capire il rapporto che c’era tra me e lei, nessuno lo può capire, lei era parte di me,
capisci?, io l’avevo creata e le avevo dato parte della mia anima, ed è per questo che mi bastava uno sguardo per capire tutto quello che pensava, capisci?, perché lei era come me, e io le avevo fatto male, e lei cercava solo di proteggersi, capisci?, e di punirmi, anche, e me lo meritavo, ma non potevo, capisci?, non potevo, non potevo, non potevo...
Proprio a quel punto, quando ormai penso che ci siamo, e chiudo già gli occhi nell’attesa del prossimo colpo, d’un tratto sento quelli sotto coperta che chiamano aiuto per turare le falle nel fasciame, e finalmente i fucilieri la smettono col tiro a segno e corrono anche loro a sgottare, lasciandomi lì, a fissare la mia polena e sentire su di me tutto il suo odio, e vedere nei suoi occhi la promessa che ci saremmo rivisti, e che la prossima volta non l’avrei scampata.
Sono sopravvissuto. Io solo tra tutti. Chiamalo caso, se vuoi. In qualche modo sono riuscito a raggiungere Long Island a nuoto, e la prima cosa che ho fatto è stata di andare a cercarla. Ho raccolto informazioni in tutte le taverne della costa, da sud a nord, fino a che non ho saputo che era riuscita a rientrare a Boston, malgrado la prua a pezzi, ma che nessun cantiere l’aveva voluta, ché nessuno aveva più interesse a ripararla, e così l’avevano tonneggiata su una secca fuori mano, zavorrata perché le maree non se la portassero via, e lasciata semplicemente lì a marcire.
Ormai si trattava di lei o di me, capisci? Me l’aveva detto, con quello sguardo, me l’aveva giurato, che non mi avrebbe lasciato andare, che non mi avrebbe mai perdonato, io dovevo fare qualcosa, capisci?, prima che potesse riprendersi e colpirmi di nuovo. Fu per questo che una notte mi ritrovai di fronte alla chiglia della Revenge con un secchio di pece e una miccia accesa. Di quella notte ricordo solo il suo sguardo, che non vidi mai, per via del buio, ma non importa, capisci?, perché anche in quell’oscurità potevo sentirlo sopra di me, come se fosse il mio stesso, e sapevo di aver vinto, e sentivo infine la sua
rassegnazione, e la sua impotenza, e sapevo, lo sapevo, capisci?, io lo sapevo, che era la stessa impotenza che avevo provato io sotto il barile, e lei aspettava, e c’era disperazione nel suo sguardo che io non vedevo ma sentivo, e io dovevo, ma me ne stavo lì, e non potevo, e aspettavo, aspettavo, venne il giorno e io stavo ancora aspettando, e lasciai lì il secchio e la miccia ormai spenta, e non alzai nemmeno gli occhi, e me ne andai. Me ne andai.
Mi trasferii a sud, a Nuova Amsterdam; cambiai nome, e provai a rifarmi una vita, cercando di non pensare a lei, che intanto marciva nel fango. Perché non l’avevo fatta finita, quando ne avevo avuto l’occasione? Perché non l’avevo bruciata, risparmiandole l’umiliazione del fango? Più di una volta pensai di tornare a Boston e terminare quello che avevo cominciato, ma tutte le volte me ne mancò il coraggio, perché sapevo che una volta sul posto me ne sarei rimasto lì a guardarla, e me ne sarei tornato indietro senza riuscire a distruggerla, capisci?, come avevo fatto la prima volta. Fu allora che iniziarono i sogni.
La sognavo quasi ogni notte: a volte era lei ad affogare nel fango, a volte ero io stesso, e a volte io ero lei, a vedere dal di fuori me stesso annegare, e non sapevo più nemmeno se io ero io o ero lei, o lei era me, fino a che sognavo solo occhi, occhi di legno, e infine anche da sveglio, ovunque guardassi c’erano occhi, tanti occhi, occhi ovunque, occhi di legno che mi fissavano. Non potevo lasciare che mi distruggesse così. Tornai a Boston.
E lei non c’era più. Per qualche tempo sperai che una tempesta avesse strappato la Revenge alla secca e l’avesse portata ad affondare al largo, ma poi venni a sapere che era stata acquistata da un mercante scozzese che la stava riarmando, ufficialmente per il trasporto del tabacco. Un postale per trasportare tabacco, si è mai sentito? Capii
subito che era destinata al contrabbando, e che ci saremmo reincontrati; in ogni caso non potevo scappare per tutta la vita. Così tornai in mare, e aspettai. La ribattezzarono Flying Scotchman.
-o-
– L’avevano ribattezzata Flying Scotchman, e io l’ho affondata, capisci?, e così ora è finita per davvero – concluse semplicemente l’Artefice, posando il gotto del grog e uscendo dalla Taverna. Lo guardai uscire, con un misto di sgomento e comione. Sembrava sollevato.
Non lo rividi mai più, e non so che fine abbia fatto, né se sia ancora vivo, da qualche parte nel mondo. Ma da allora, ogni volta che solco quel tratto di mare, mi pare di sentire uno sguardo ostile venire dal fondale, uno sguardo che attraversa la carena e fruga per le stive, come di occhi, occhi di legno in cerca di qualcuno che non hanno ancora trovato. E ogni volta provo pietà per l’Artefice.
Al Qantara
di Maurizio Maggi
Una morte prematura, a sud di Ras el-Ush, può arrivare in molte forme, la più comune per mano dei pirati. Ti porteranno via la barca e le armi, si prenderanno la tua vita e perfino parti del tuo corpo. L’anima è la sola cosa che non potranno rubarti. Io fui un’eccezione.
«Senza scorta fino a Massaua, capitano, ho capito bene?» Il capo-posto della stazione doganale di al-Qantara ci squadrò dal pontile, le gambe larghe e le mani sui fianchi. «Contiamo sulla velocità.» «Mai vista un’unità militare cristiana così piccola navigare da sola. Non in questi mari.» «Siamo dell’Ordine di San Benedetto, ce la caveremo.» Indicai gli altri militari che m’accompagnavano, una donna e tre uomini. Quello scosse la testa. «Siete il primo transito del 1851. Spero vi porti fortuna.»
Le porte di al-Qantara si chio alla nostra poppa con un sordo rumore di metallo. Sugli argini, i fellahin smisero di zappare e alzarono la testa verso i giganteschi spintori a cremagliera. Le mura di ghisa e ferro zincato emergevano dai vapori d’azoto liquido delle torri di raffreddamento. Quelle porte erano per me un addio all’Europa, una cortina che si chiudeva sul ato. Erano Hernan
Cortés che si bruciava le navi alle spalle. E il futuro davanti, soprattutto. Un mondo nuovo di fronte a me. Oltre la prua del nostro dhow che avanzava a quattro nodi nelle acque ferme del canale, intravedevo una vita d’avventura e ione. All’imbrunire, i miei compagni si rannicchiarono uno a uno a ridosso dell’impavesata. Io stavo in piedi e guardavo avanti. Stringevo gli occhi per indovinare le forme del paesaggio lontano e mi chiedevo cosa mi aspettasse, nella navigazione della vita. «Il Grande Lago Amaro.» Il vecchio arabo alla barra aveva indicato l’orizzonte. Sono certo che intendeva fare un commento geografico e non c’era nessuna allusione al mio destino. Lo lasciai al suo lavoro e mi avvicinai in silenzio ai miei compagni. Cominciò così, la mia discesa verso le acque del Corno d’Africa.
Le stelle erano già alte quando mi accovacciai in coperta, appoggiato alle brande. Erano ancora rollate nei loro alloggiamenti, nessuno le aveva spostate. Tutti preferivano dormire sul legno umido del ponte piuttosto che rinunciare a quel modesto riparo. Il vecchio aveva detto che potevano arrivare colpi vaganti da terra. Aveva tirato in ballo rivalità tribali, ma sapevamo che non era così. Entrambe le sponde del canale Negrelli erano in mano agli alleati Copti, ma la guerriglia sobillata dai turchi era una spina nel fianco. Ancora per poco, però. Le bande di Janjawid che operavano nel Darfur, quelle dei beduini Banu ‘Amir che infestavano la penisola arabica e ancor più i pirati del Mar Rosso: per tutti loro si avvicinava un pericolo mortale. Lo stillicidio di attacchi alle linee di rifornimento per l’Africa Orientale, come una malattia endemica, frustrava da anni le offensive dell’OSB dall’Etiopia verso il Sudan. Ma ora avevamo un’arma nuova che li avrebbe spiazzati. Un’arma superiore alla loro immaginazione. Decisiva e letale, l’arma viaggiava in silenzio, su quel piccolo dhow anonimo e senza scorta. Quell’arma ero io.
Mi svegliai davanti alle luci di Port Tawfiq. Nel golfo, con tutte le vele alzate e un vento teso al giardinetto, la velocità salì a dodici nodi. A fine giornata rilevammo Ras Shukeir al traverso a dritta. Da un’altana, i soldati ci salutarono con l’eliografo e ci comunicarono che non c’erano unità ostili in vista. A sud delle miniere di sodio il controllo turco era completo e non c’era più copertura delle nostre artiglierie costiere. Non sarebbero bastate le fasce da materasso delle brande a ripararci. Prendemmo perciò il largo, approfittando della notte ormai vicina e del vento da nord-ovest. Il sole spuntò che eravamo in pieno Mar Rosso, alla latitudine di Mersa Um Gheigh, un sorgitore senza importanza, sulla costa occidentale. Ma eravamo alla latitudine di Hanak, sulla costa orientale. Da lì arrivarono i guai.
«Hanak.» Angelopoulos, del Genio Fuochisti. Si era affiancato a me, a mezza nave, i gomiti appoggiati al capo di banda. Guardavo da un pezzo in quella direzione e non era difficile indovinare perché. «Non era che un miserabile villaggio di pescatori fino al ’48, prima del conflitto con la Porta. Ora fa paura» continuò quello. Sembrava in vena di chiacchierare. «Un ridosso formidabile per i pirati.» Boselli, Logistica di Proiezione, s’era aggregato a noi. «Mi chiedo quando lo raderemo al suolo.» Ancora quell’ossessione di prendere Hanak. Avrei potuto spiegargli perché era impossibile. Con un po’ di pazienza, anche perché era inutile. Avrei potuto dirgli molte cose che facevano parte della mia speciale formazione, ma non volevo svelare la mia identità. Per loro ero solo un ufficiale addetto alle previsioni meteo. All’epoca ci consideravano una specie di stregoni, nella migliore delle ipotesi. Degli imboscati, nella peggiore, ma per me andava bene così. Le mie consegne erano chiare: mantenere un basso profilo e raggiungere a qualsiasi costo il Comando Navale di Massaua per assumere la direzione delle operazioni anti-guerriglia in tutto il Corno d’Africa. Una nuova specializzazione bellica, l’Ingenium, che il nemico ignorava e che presto avrebbe cambiato tutto. «Vele a ore nove!» gridò il ragazzino in testa d’albero. Erano loro. «Effendy, che dobbiamo fare?» chiese il timoniere. S’era rivolto a me. Ascoltare i dialoghi degli altri è una deformazione professionale, dai tempi dell’Accademia. Dei miei quattro compagni di viaggio sapevo molte cose,
ormai. Tutti di ritorno da un’ordinaria, ata in qualche fumeria di Port Said; nessuno a casa, gente pronta a rischiare se necessario, ma senza esperienza di combattimento in mare. Anche il vecchio doveva averlo capito. Verso oriente, le navi s’erano fatte più vicine. I camini delle camere di combustione brillavano al sole. «Otto legni: non abbiamo speranze.» Buchner, Genio Trasmissioni, mai sparato un colpo in vita sua. «Niente disfattismo, tenente» dissi io. «Prenda il telemetro a collimazione e la bussola e rilevi testa e coda. Boselli, sottocoperta e rizzare ogni cosa: stanotte balleremo. Kremer, mi porti la cassetta macchine metriche.» Kremer era pilota di un pedestre da battaglia, l’unica con pratica di scontri a fuoco, anche se dentro un automa corazzato di venti tonnellate non è come guardare il nemico in faccia. Io non avevo sperimentato né una cosa né l’altra, ma niente m’avrebbe impedito di arrivare a Massaua e attuare il mio piano. «Mando in temperatura l’archituono, capitano?» chiese Angelopoulos. «Prematuro. Hanno vento favorevole su questa andatura e si terranno su una rotta convergente. Per qualche ora non si sparerà.» «Capitano, la vostra valigetta.» Kremer posò ai miei piedi la cassetta di palissandro indiano e la aprì. Sollevai l’anemometro oltre la mia testa, sopravvento al sartiame di dritta. «A naso, saranno venti nodi di reale» disse lei. «Le misure del nemico si prendono con gli strumenti non col naso. Allora, Buchner!» «Sì signore. Capofila a nove miglia per zero otto sette, coda per zero otto quattro.» Estrassi l’aritmometro a cilindro. Era un apparato riservato, ma non avevo scelta. Angelopoulos e Kremer vennero a curiosare alle mie spalle.
«Un totalizzatore Troncet?» «Più o meno» dissi io. Ruotai i dischi per inserire i dati: velocità, vento, rilevamenti. Tornai alle navi pirata. La loro linea di fila si stava sgranando. Tenevo d’occhio il cronografo. A sei minuti tornai a chiedere un rilevamento. «Buchner?» «Capofila a otto miglia punto nove per zero otto sette, coda per zero otto due.» «La fila si allunga. Su quella rotta ci saranno addosso fra otto ore e mezza. Se stringono, si sgraneranno ancora.» «Accostiamo a terra?» chiese Angelopoulos. «Negativo. eremmo troppo vicino ai forti di Berenis e con la luce. Timoniere! Alla via per uno sette cinque!» Non gli dissi che le nostre rotte si sarebbero incrociate vicino all’isolotto di San Giovanni. Un avamposto conteso, che in quel momento poteva essere in mano turca. Lì i pirati ci avrebbero scaricato addosso tutto il loro peso di fiancata. In silenzio, si sedettero uno vicino all’altro, appoggiati alla scassa dell’albero. Potevo capire la loro angoscia, nel vedere il grado più alto della nave baloccarsi con strumenti di calcolo di fronte a duecento pirati o forse più, ma come diceva il padre istruttore, all’Accademia, il calcolo può essere più affilato di una lama.
Nessuno parlava, a parte qualche raro ordine del timoniere per i suoi giovani marinai. Il vento girava a tratti da occidente e le onde al traverso ci facevano rollare. Gli sguardi dei miei compagni erano incollati alla linea di fila dei pirati, sempre più vicina ma sempre più sgranata. Il giro di vento aveva messo in difficoltà i nostri avversari. Tre grossi legni persero acqua. Gli altri, a quel punto, strinsero l’andatura. L’isola di San Giovanni si avvicinava. Pregavo che non fosse in mano turca: una sola salva dei trabucchi a vapore non ci avrebbe lasciato speranza. A tre miglia dall’isola eravamo a portata di tiro, ma non successe nulla. Dai loro sambuq, un miglio da noi verso levante, si alzò un pennacchio di fumo. Con i bruciatori accesi e un’artiglieria più pesante della nostra, forse potevano già colpirci.
«Armare l’archituono» dissi ai miei. Si alzarono tutti e quattro insieme. In pochi secondi accesero il bruciatore e portarono il pezzo in coperta. Stavano inchiavardando la bocca da fuoco, quando le navi nemiche poggiarono. Le fiancate si coprirono di sbuffi di vapore. «Al riparo!» gridai. Il fischio dei proietti lacerò l’aria. Mi rialzai dal ponte. Lungo, ma una nuova salva era in arrivo. Eravamo troppo distanti per rispondere e San Giovanni sempre più vicina. «Niente uccelli su Zabargad, effendy.» Il vecchio aveva ragione. Non c’erano i soliti stormi che si notano fin da lontano su ogni isolotto e non si alzava un filo di fumo. Un secondo fischio e ci buttammo ancora sul ponte. Ero al riparo dell’affusto quando ci colpirono. La vibrazione dell’impatto non fu forte, ma non era un buon segno: molla a frammentazione. Aveva diffuso la sua nuvola di morte tutto attorno. Le spirali a lama curva avevano investito Angelopoulos e Kremer. Il greco aveva il volto sfigurato. Il sangue gli colava sulla bocca e sul naso e respirava a fatica. La se aveva una gamba recisa poco sotto il ginocchio. Non si muoveva ma forse era soltanto svenuta per il trauma. Boselli, coperto dal quartiere di prora, gridava. Le molle avevano falciato anche uno dei marinai. Era steso vicino all’albero. L’altro piangeva e gli scuoteva le spalle. Il vecchio gridava parole che non capivo, forse il nome del ragazzo. Buchner e io eravamo quasi illesi, a parte qualche stella ad ardiglione piantata nelle gambe e sulla schiena. Boselli si trascinò verso di noi: aveva un piede spappolato. «Orza!» gridai al vecchio. «Hanno aggiustato il tiro, non lo vedi?» Piangeva e pregava, con gli occhi al cielo, ma eseguì l’ordine. Regolai la scotta per aiutarlo. Kremer s’era svegliata e gridava forte. Era stata lucida abbastanza da stringersi un emostatico al ginocchio, ma le serviva la morfina. Presi la siringa ipodermica. Il vento stava rinforzando e a barca sbandata non fu facile iniettarla. «Tenga duro Corinne, a Massaua le metteremo una protesi tedesca. I loro snodi cardanici ad aria compressa fanno miracoli. Camminerà come noi, vedrà.» Era incosciente e non mi rispose. Era una bugia, in ogni caso. Sedai anche Boselli e
mi avvicinai ad Angelopoulos per fare altrettanto, ma era morto. Presi la sua arma da fianco, una Volta-Barsanti a idrogeno. «Poggia! Rimettiti in rotta!» Il tubo di mandata s’era staccato e innaffiava la camera di fiamma. Il vapore s’alzava fischiando ma il vento lo spazzava via all’istante. «Buchner, spenga il bruciatore, stiamo sprecando carbone!» I pirati dovevano are sottovento all’isola. Avremmo avuto dieci minuti di pace. Fu allora che vidi qualcuno su San Giovanni. Il corpo era riverso sul pianale di un’altana. Mentre l’isola sfilava sotto di noi, potemmo vedere il resto. Corpi ovunque: accasciati sugli affusti, sulle rampe di salita ai cammini di ronda. Molti erano a torso nudo, la pelle coperta di bolle giallastre, le divise rosse col segno bianco-crociato dell’Ordine di Malta sparse in giro. «Gas vescicanti. Bastardi senza Dio!» Buchner strinse i pugni. «Lasci perdere, li abbiamo usati noi per primi. Mi aiuti a buttare i cadaveri in mare, piuttosto» dissi io. «Oltre il ridosso dell’isola saremo a tiro. Ci faranno a pezzi.» «Non andrà così, vedrà.»
Sapevo quello che dicevo. I pirati, quattro sambuq e un boum a basso pescaggio, accostarono per allontanarsi dai vapori invisibili del veleno. Noi al contrario orzammo ancora e ci portammo fuori tiro. Le vele erano state danneggiate dagli ordigni a molla e la nostra velocità si ridusse, ma avevo in serbo un’altra sorpresa per i nostri cacciatori. Radunai i sopravvissuti a poppa, vicino alla barra. Portammo lì anche i due feriti, più che altro per tenerli d’occhio, perché non erano coscienti. «Ascoltatemi. Fra un’ora sarà buio. Possiamo avvicinarci a terra senza timore delle artiglierie costiere. eremo dentro le isole degli Hutaym, nei bassi
fondali. I sambuq non possono farlo.» Il vento stava rinforzando. Il vecchio parlò al ragazzo e insieme serrammo i terzaruoli bassi. Buchner guardava il nostro archituono Krupp da 37 mm. Un modesto deterrente, con due soli uomini a fare da serventi. «Prima delle secche, lo affonderemo» gli dissi. «Meglio essere leggeri che forti, in notti come questa.»
Il vento rinforzò ancora. Affondammo il carico e spostammo parte della zavorra più sopravvento. Alleggerito, il nostro dhow planava sulle onde e, a dispetto della velatura danneggiata, teneva bene il o. Ogni tanto, un’onda più alta frangeva in coperta. Prima che l’oscurità fosse completa, Boselli e Kremer morirono. Stimai che le navi pirata, che intanto si erano portate sulla nostra scia, fossero a mezzo miglio. Potevano sparare da quella distanza, ma solo con i pezzi in caccia e, data la difficoltà d’individuare il bersaglio, non provarono nemmeno.
Era burrasca ormai. Affondammo i cadaveri. Diedi le loro pistole al vecchio e al ragazzo. Ci liberammo anche di archituono, bruciatore, refrattario, affusto, le parti più pesanti, ma eravamo troppo invelati: sotto le raffiche più forti si doveva sventare tutto. Il vecchio fece ammainare la maestra e alzammo una vela da tempesta. Le onde salivano sul ponte sempre più spesso e il mare era bianco attorno a noi. Il fiocco si strappò. Non serviva più a nulla e anzi, la parte finita in acqua si era incattivata nella briglia e rischiava di frenare la prua. Un’onda più grande e ci saremmo traversati: sarebbe stata la fine. Il ragazzo si mosse per andare a imbrogliarlo. Gli feci segno di imbracarsi, ma quello puntò il dito verso di noi e gridò parole incomprensibili. Ci voltammo: appena sopravvento c’era un sambuq. I pirati dovevano essere sorpresi quanto noi. Da quella distanza potevo vederne le facce e sentire le grida. Cercavano, come noi, di sopravvivere, ma erano più numerosi e qualcuno corse alle armi. Gridai al ragazzo di liberare il fiocco e puntai le mie Volta-Barsanti, ma i pirati scomparvero nel cavo di un’onda. Mi inginocchiai a ridosso dell’impavesata in attesa che riemergessero. Sparai con entrambe le armi senza prendere la mira e mi abbassai per evitare i colpi delle balestre.
«Buchner! Una mano al ragazzo!» Il nostro scafo in vetromadera era leggero e con prestazioni fuori del comune, ma un pessimo riparo contro le armi da getto, a distanza ravvicinata. Un frangente ci investì e inondò il pozzetto. Mollai una delle pistole e mi agguantai al capo di banda, a rischio di essere colpito. Il rumore del vento era assordante. L’amaro del sale mi riempiva la bocca e il naso bruciava. «Allora? Buchner!» Mi voltai verso prua. Era sulla coperta, gli occhi sbarrati al cielo e un quadrello di ferro piantato in fronte. Presi la sua pistola e tornai al bordo sopravvento. Il sambuq si era incagliato, finalmente. Un treno d’onde lo investì e lo ribaltò. Nessuno poteva essere sopravvissuto e i sambuq rimanenti avevano lo stesso pescaggio e dunque uguale destino. Troppo tardi per risalire: erano spacciati. Alle mie spalle il vecchio gridò. Il ragazzo era scomparso. Mi alzai in piedi. Si era agguantato alla briglia. Solo le braccia emergevano dall’acqua, le mani strette alla catena. Il vecchio rizzò la barra e corse verso prua. Un frangente lo sbalzò fuori bordo prima che fosse all’albero. Le sue braccia si agitarono fra le onde che lo trascinavano via. Il ragazzo lo seguì.
Presi la barra. Cercavo di indovinare le secche sottovento, ma l’acqua polverizzata dalle raffiche a quaranta nodi copriva il mare, bianca come un sudario. Alla luce intermittente dei lampi, vidi il boum pirata dietro di me. Un uomo era a prua, in equilibrio sul bompresso, una mano allo strallo e l’altra a indicare al timoniere verso dove accostare. La cresta di un’onda lo portò all’altezza della mia poppa, una lunghezza appena da me, sulla sinistra. L’uomo a prua, ora lo vedevo bene, era vestito di nero come la morte. Sguainò l’alfanje e la puntò verso di me. I suoi occhi, dalla fessura della kufiyya, giurerei che brillassero come quelli di un gatto e di un demonio insieme. Estrassi anch’io la mia corta sciabola d’arrembaggio e la puntai verso di lui. Per un tempo che non saprei definire rimanemmo così, con il vento e l’acqua che ci colpivano e le nostre armi puntate. Tranciai la scotta con un colpo secco, rinfoderai e affondai l’ancorotto di poppa. Con un ferro che arava sul fondo e la maestra a bandiera, la barca rallentò. Non molto, ma abbastanza da far sì che i pirati sfilassero sottovento. L’uomo in nero corse verso poppa agitando le braccia. Il suo timoniere cercò di imitare la mia manovra ma non fu abbastanza rapido: erano
davanti a me ormai e correvano veloci verso le secche.
Un banco poco più grande della mia barca affiorava sottovento a me e accostai per incagliarmi lì dietro. L’impatto mi sbalzò in avanti. Rotolai sulla coperta. Mi aspettavo che il dhow cedesse, ma ero finito sulla sabbia. Il boum si era incagliato a sua volta, ma sui coralli, due lunghezze sottovento. Aveva disalberato ed era sul punto di spezzarsi. Il timoniere doveva essere finito in mare. Vedevo solo l’uomo in nero. Il mio modesto ridosso poteva forse salvarmi, ma per lui non c’era speranza. Mi arrampicai sulle griselle, con l’acqua nebulizzata che mi frustava la faccia. Faticavo a respirare e anche solo a tenere gli occhi aperti. Un fulmine cadde poco lontano. Alzai il pugno verso il pirata e gridai con tutte le mie forze, scandendo bene le parole. «Io sono Ephrem Valery d’Azincourt! Io non ho paura di voi!» Un tuono assordante seguì il mio grido.
Ma le mie parole non erano rivolte al pirata soltanto. Dentro di me, una sfida blasfema che non potevo arrestare, montava e puntava in alto, oltre il mondo degli uomini. Pensieri che mi dicevano che ero sopravvissuto, unico fra i miei compagni, contro otto legni dei pirati del Mar Rosso. Un senso d’onnipotenza ubriacante, come mi fossi dimostrato superiore alla Morte stessa. Fu allora che successe una cosa inaspettata. L’uomo s’inginocchiò, rivolto a Oriente e appoggiò la fronte su quel che restava della coperta. Pregava il suo Dio, che poi era anche il mio. Scesi dalle griselle. Mi sentivo piccolo e meschino. Alzai gli occhi al cielo e ringraziai il Signore per la lezione di umiltà che aveva voluto impartirmi. Mi tornarono alla mente le parole del mio padre istruttore: “Incontrerai molti tipi di persone nel tuo lavoro, Ephrem. Quando sarai bravo, riuscirai a riconoscerli e a usare un diverso registro con ognuno di loro: uomini di potere, uomini di guerra, uomini del denaro o della fede. Quando sarai ancora più bravo, dietro il potere, la gloria, il denaro, alla fine, vedrai soltanto uomini.” Sul mio viso, le lacrime si mescolavano agli spruzzi del mare. Guardavo
quell’uomo e ammiravo la dignità con cui attendeva la fine. Un giorno sarebbe arrivato il mio momento e mi chiesi se sarei stato capace di fare altrettanto.
Un brivido mi scosse, ma non era solo il freddo. Avevo sconfitto il mio angelo della Morte, potevo fare altrettanto col suo. Colsi una cima e mi portai a prua, il più possibile vicino al relitto incagliato. Con un lancio perfetto, da sopravvento, potevo arrivarci. Fischiai forte, quello alzò la testa verso di me. Mi bilanciai bene sulle gambe. Ci sono lanci fatti bene, che svolgono la cima in tutta la sua lunghezza. Altri sono mediocri e altri ancora goffi e inefficaci. Era una competizione usuale fra noi allievi, all’Accademia e io ero un buon lanciatore, ma quella notte il merito, ne sono certo, non fu soltanto mio. La cima volò e descrisse un arco, pulito e perfetto come quelli delle più belle architetture di Roma. Attraversò quel cielo minaccioso e l’acqua che ci sferzava, superò le onde, ignorò il rombo assordante della tempesta e atterrò là dove volevo che arrivasse. Il pirata balzò in piedi e la agguantò. Si liberò di pantaloni e camicia, che il vento subito sollevò e trascinò via. Scese in acqua e cominciai a recuperarlo. Si era girato con la nuca verso di me, perché il vento non gli spingesse il mare in bocca, e non poteva darmi grande aiuto. La cima mi segava le dita, le sentivo sanguinare, ma non mi sarei fermato per nulla al mondo. Lo portai a bordo, alla fine, e caddi in ginocchio, esausto. Anche lui s’inginocchiò di fronte a me. «Salam aleikum.» Lo disse con un filo di voce. «Aleikum salam» risposi io. Lineamenti del viso dolcissimi, da adolescente, i capelli lunghi e spioventi sulle spalle, come gli arabi della costa. Il corpo sottile tremava per il freddo. Il corsetto che lo avvolgeva presentava un’estesa macchia di sangue sul fianco. Non sapevo, in quel momento, se saremmo sopravvissuti alla notte, e il nostro confronto, quell’inseguimento mortale, le minacce a lame sguainate da una barca all’altra, tutto mi sembrò assurdo. Lo trascinai sottocoperta e gli dissi che volevo medicarlo. Mi appoggiò le mani alle spalle, per tenermi a distanza. Mi fissò senza dire nulla. Cosa temeva? Volevo solo medicarlo. Accesi una luce Murdoch e gli mostrai ancora le medicine. Sospirò e sciolse la stringa che chiudeva il corsetto. Lo sfilò dalle spalle con un gesto deciso. Gridò per il dolore nel farlo,
ma gridai anch’io. Non per il dolore, però. Alla luce della termolampada, quelle gambe e quelle braccia, glabre, eleganti, ora vedevo che non potevano essere di un maschio. Il suo seno, i capezzoli duri per il freddo, era pieno. Il mio pirata era una donna.
Mi disse di chiamarsi Laila, mentre la medicavo. Gli occhi scuri come il caffè si inumidirono di lacrime nell’operazione, ma non emise un grido. Avevo diviso con lei l’ultima dose di morfina, sciolta nella borraccia perché il tempo d’insorgenza del farmaco ci lasciasse entrambi lucidi abbastanza per quel lavoro delicato. Ne avevo bisogno anch’io, infatti. Svanita la tensione, mi ero reso conto degli ardiglioni ancora piantati sulla schiena. Fu delicata nell’estrarli, o forse era solo il papaverum che cominciava a fare effetto. Conoscevo già la sensazione di calore del corpo e di assenza di problemi nella mente, ma quella volta fu diverso.
È difficile ricordare certi dettagli, chi cominciò o come. Mangiammo qualcosa, forse del panbiscotto inumidito dal mare, e quando le porsi la ciotola, lei vi sprofondò il viso, la leccò fino nel fondo. Ma forse no, forse era la mia mano che lei leccava e non ricordo se vi fossero briciole o altro. Le sue labbra mi accarezzarono il braccio, fermandosi di tanto in tanto per qualche piccolo bacio e più su, fino a sfiorarmi il viso. La termolampada si esaurì ma mi resi conto che si era sfilata il panno che aveva in vita. Si sbarazzò dei miei pantaloni da fatica. Le sue gambe mi avvolsero. I talloni mi premevano sulle reni con un ritmo animale. Le dita sottili mi afferrarono i capelli e il suo respiro caldo mi riempì le orecchie. Parole che non comprendevo, forse qualche dialetto dell’interno, sussurrate con una voce profonda, dolce. Quel suono e la sua lingua che mi sfiorava mi davano un brivido elettrico. La pelle mischiava all’odore della salsedine un aroma di spezie e d’arance e mi parlava di una cultura antica, che mi ero illuso di avere appresa solo sui libri. Il suo petto spingeva contro il mio, il cuore mi batteva forte, il respiro accelerava e la sua voce si faceva più acuta, le unghie si piantavano nella mia schiena e il grido, alla fine, il suo e il mio insieme. Per un istante coprì il brontolio del mare e il fischiare angosciante del vento sul
sartiame. Crollai sul pagliolo e lei sopra di me. La sua mano che cercava nel buio e il mio mantello che ci copriva entrambi sono l’ultima cosa che ricordo, di quella notte.
***
La tempesta ci superò. Al sorgere del sole esaminai i danni. Lo scafo non aveva falle, il timone era salvo e con la maestra principale, anche se piena di strappi, si poteva navigare. Il relitto del boum era scomparso. Con il paranco di drizza, scaricai a mare altra zavorra. Attorno a noi il fondale non superava il metro e, con l’aiuto di Laila, rimorchiai il dhow fuori dalle secche. Le dissi che l’avrei lasciata libera se mi avesse aiutato a raggiungere la mia destinazione. Ci fu poco tempo per parlare, dato che facevamo le guardie al timone. Neppure ci fu occasione per altri contatti intimi, tanto che poche ore dopo la partenza dalle secche, dubitai che fosse accaduto qualcosa fra noi e mi convinsi che la morfina mi aveva causato un delirio. Si muoveva bene sulla barca, come se ci fosse nata e forse era proprio così. Alla barra era più brava di me. Sotto i 15° di latitudine, il vento divenne meno costante, ma lei non si distraeva. In due giorni fummo a Massaua. Era il giorno della Santissima Epifania e l’attracco era un caos di natanti d’ogni dimensione, ma soprattutto piccoli shashah e huri di pescatori. Sbucavano dal fumo di scarico delle vaporiere ed era impossibile tenere lo stesso bordo per più di cinquanta metri. Davano manate sui fianchi della mia barca, agitavano in aria pesci o caschi di banane. Gridavano in dialetti che non conoscevo e gli animali a bordo berciavano più di loro. Al pontile dell’Ammiragliato, una squadra di askar mi attendeva con un vecchio Cugnot a tre ruote. Laila si era messa una mia camicia sopra il corsetto. Le arrivava fin sotto il ginocchio e con la kufiyya, poteva are per un uomo. «Capitano Valery d’Azincourt. La mia cassetta, prego.»
«Sissignore. Vi aspettavamo.» Il fumo del trattore inondava il pontile. La corona dentata del portatreno vibrava come una foglia al vento e copriva le voci del porto. Cercai i suoi occhi. Per un secondo soltanto, come farebbe qualsiasi europeo con un marinaio o con un servo. Cosa mi aspettavo di leggere in quel breve istante? Commozione forse o magari una lacrima. Sciocchezze.
A metà della piazza che mi separava dalla casa in pietra del Comando, la cercai ancora. Stava entrando nel suq. «Ferma autiere! Devo conferire col mio marinaio.» Non so che mi prese, ma dovevo dirle qualcosa, non potevamo lasciarci in quel modo. Mi infilai di corsa fra i primi banchi del mercato, scostando in malo modo ragazzetti che tendevano la mano e adulti che mi mettevano sotto il naso focacce calde fermentate o datteri secchi, carichi di mosche. Mi alzai in punta di piedi e mi parve di vederla. Ripresi a correre e urtai un venditore di spezie. Cadde sui suoi barattoli di legno. Pepe, chiodi di garofano e non so cos’altro si sparsero attorno. Una donna emerse dal fumo del suo friggitore di rame e brandì verso di me uno spiedino, gocciolante di burro fuso. Gridava e minacciava. La spinsi di lato e continuai. Con un balzo entrai in un cerchio d’uomini che, appoggiati sui talloni, stavano mangiando. Un altro balzo e ne fui fuori. Un anziano si alzò e mi disse qualcosa d’incomprensibile. Svoltai in un vicolo, fra povere capanne di stuoie e galline che razzolavano nella polvere. Travolsi una venditrice d’acqua. Le sue compagne, sedute per terra, con gli otri fra le gambe, urlarono tutte insieme. Più avanti, saltai su un tavolo, davanti a una baracca di quelle che servono birra di radici e idromele. Potevo spaziare su un brulicare di teste rasate, turbanti e acconciature abissine: lei non c’era. Il pennacchio di fumo del mio Cugnot si alzava in lontananza. Una donna uscì dal locale. Piangeva e indicava ai presenti i boccali rovesciati e le stoviglie rotte. Dal fondo del vicolo altre donne si avvicinavano. Più d’una raccoglieva sassi da terra. Il mare umano del suq non mi dava speranze. Mi maledissi per non averla fermata subito. Una serie di fischi mi riportò al presente. Un anziano bulukbascì avanzava fra la folla, menando grandi colpi con lo scudiscio in pelle di ippopotamo. Non c’era
cattiveria nei suoi gesti, anche se il curbasch doveva lasciare il segno sotto quei panni sottili. Sembrava un contadino che avanza nel campo con la falce fienaia o un pastore che governa gli armenti. Dietro di lui, due askar ridevano e guardavano le ragazze che si riparavano dai colpi e cercavano di scappare. Sulla via del Comando, il sottufficiale mi avvicinò. «Signore» mi disse, «ciò che si perde nel suq, non ritorna mai più.»
***
Il locale ginnastica all’Ammiragliato era gremito. Solo gli ufficiali generali e superiori avevano trovato posto nelle seggiole, poste in circolo attorno a me. Gli altri si affollavano dove potevano, la maggior parte in piedi. I giovani guardiamarina si erano arrampicati sul quadrato svedese e sulle spalliere alle pareti, come moderni montagnardi. Molti ufficiali erano seduti sui cavalli o su altri attrezzi. Qualcuno era seduto a terra e c’erano anche degli askar che sbirciavano dalle finestre basse. Mi ero messo al centro della sala, accanto a un tavolino. Sapevo che era una sfida e volevo uscirne con un risultato chiaro: vincitore o sconfitto. L’ammiraglio Blucher mi introdusse. «Signori. Il capitano Valery, diplomato all’accademia Navale e dottore della Scuola di Londinium.» Seguì un gran mormorio a queste parole. «I nostri alleati di Albione» proseguì l’ammiraglio, «hanno messo a punto nuove tattiche di contrasto alla pirateria. Il capitano Valery ha il compito di renderle concrete in tutto il Corno d’Africa. A lei capitano.» «Permettetemi un saluto ai miei compagni appena scomparsi. Vorrei ricordarli per nome: tenente Leopold Buchner, sottotenente Marcello Boselli, pilota collaudatrice Corinne Kremer, capo fuochista Konstantinou Angelopoulos. Quattro giovani vite, recise per mano dei pirati. Hanno fatto il loro dovere: noi non li dimenticheremo.» Lasciai are qualche secondo di silenzio. Un po’ di retorica avrebbe indorato la pillola. «Quei banditi del mare, che fra parentesi hanno anche ucciso tre marinai
indigeni, avevano otto legni. Tre erano troppo lenti e hanno desistito, degli altri non se n’è salvato alcuno.» Molti sorrisi compiaciuti. «Arrivavano da Hanak.» Di certo si aspettavano l’ennesimo piano d’attacco. Spiegai come una penetrazione via terra fosse impensabile. I rilievi dell’Hijaz non permettono di avvicinarsi con le slitte a vela, l’unico mezzo sicuro per attraversare il Regno di Saud. Almeno per le nostre truppe, che non possono contare su alcuna simpatia fra i nomadi di quelle terre. Aggiunsi che un porto naturale di isole e lingue di sabbia di trentacinque miglia di fronte e quindici di profondità non si prende dal mare. I pennacchi di fumo delle nostre cannoniere mettono i pirati sull’allarme. Di attacco notturno, non se ne parla. Con i fondali cartografati solo in parte e instabili a causa dei sedimenti, finiremmo incagliati al primo errore. Delle nuove aeronavi, l’Ammiragliato non si fida: troppi danni collaterali. «È venuto da Londinium per dirci che Hanak è imprendibile?» disse un ufficiale dalla prima fila. Molte voci gli diedero ragione. L’ammiraglio intervenne. «Signori, ciò che dice il capitano Valery, lo dice Roma, non Londinium, vorrei che fosse chiaro. Prosegua capitano.» Attesi il silenzio totale. «Prendere Hanak non è difficile. È inutile.» Vi fu ancora un mormorio, ma la curiosità è un meccanismo micidiale, una volta innescato. «Perché non riusciamo a sorprendere i pirati? Qualche idea?» chiesi. Generali e superiori si guardarono fra loro e scossero la testa, ma fra i guardiamarina si alzarono due mani. Ne indicai una a caso. «Hanno buone spie, signore. Vedono le navi quando carbonano.» «Signore, dalla quantità capiscono anche dove siamo diretti» aggiunse il vicino. «Perfetto. Creeremo una Linea di carbonamento: navi su un bordo costiero sempre cariche. Quando una cannoniera in uscita intercetta la linea, la carboniera più vicina la accosta, la rifornisce e ritorna in linea. Il nemico saprà all’ultimo momento che ci muoviamo e non saprà per dove.»
Nelle prime file, due ufficiali stravaccati sulle poltroncine, si tirarono su. Molte braccia conserte si aprirono. «Perché noi non riusciamo a prevedere le sortite dei pirati?» continuai. Si alzarono molte mani, anche fra i tenenti e qualche capitano. «Le loro navi partono e atterrano da qualsiasi punto della costa, sono leggere, le carenano sulla spiaggia. Non devono rifornirsi, gli basta il carbone per gli archituoni.» «Quasi corretto, signori. Siete sicuri che non debbano fare rifornimento? Cosa mangiano, cosa bevono?» «Comprano nei suq locali, tramite tanti piccoli intermediari. Non possiamo controllarli tutti.» «Davvero? Che succede se adesso ci alziamo tutti e andiamo a comprare banane al suq di Massaua?» «Le banane finiscono» gridò un guardiamarina dal fondo. Seguirono grandi risate dei compagni. Qualche ufficiale si voltò per individuare lo spiritoso. Il gioco stava funzionando. «Va bene, va bene, è corretto. Qualcuno rimarrà senza banane?» «No, le faranno venire da Moncullo, ma costeranno di più.» «Bravi. Chi ha detto che costeranno di più?» «Sottotenente Angelique Duvalier, signore.» «Riposo, riposo. Quindi, non potrebbe l’aumento del prezzo di alcuni generi essere un segnale che qualcosa si muove?» «Ma i prezzi possono aumentare per mille motivi.» Ormai parlavano senza alzare la mano, quello che volevo. «Secondo l’albionico John Stuart Mill, dell’Ingenium di Sua maestà, è possibile stabilire una relazione matematica fra l’andamento dei prezzi e molti altri
fenomeni, ivi inclusa la domanda anomala. Conosci i prezzi e conoscerai la domanda anomala.» «È affascinante, capitano, ma qui non abbiamo matematici.» «Non servono. I calcoli li faranno a Londinium, con le nuove macchine analitiche del signor Babbage e con una speciale lingua matematica che lady Byron, onorevole contessa di Lovelace, ha graziosamente voluto inventare.» «Per rilevare i prezzi possiamo usare l’apparato del Servizio Dogane» disse uno degli ufficiali superiori. «Signore, ottimo suggerimento» dissi, «e gli stessi funzionari prenderanno nota dell’anagrafica di ogni pirata ucciso.» Si alzò un mormorio. Dal fondo qualcuno chiese perché. «Inoltre, i corpi saranno a disposizione dei parenti e sarà abbandonata la pratica delle fosse comuni e della calce viva» dissi ancora. «La carota non serve con quella feccia, signore» urlarono dalle spalliere. «Nessuna carota. Voglio ricostruire il philum dei pirati, capire da quali villaggi arrivano, chi sono i loro parenti, individuare i reclutatori. Dobbiamo conoscerli se vogliamo distruggerli.» «Capitano, tutto questo va bene per le flotte pirata, ma le piccole bande di una sola barca? Sono imprevedibili e imprendibili, mi creda.» «E cosa fanno queste piccole bande della merce depredata?» chiesi. «La rivendono su qualche suq, in genere nei nostri.» Molti risero. «E noi li intercetteremo sulla via dei mercati, stracarichi, lenti e molto prevedibili.» L’ammiraglio fece cenno alle ultime file di tacere, il brusio rendeva difficile l’ascolto, ma erano segnali di sorpresa non di dissenso. «Creeremo una flotta di sambuq armati, con equipaggio indigeno e ufficiali dell’Ordine. Saremo i pirati dei pirati!» Si udì un urrà isolato. «Inoltre, un buon servizio di previsioni meteo ci dirà in anticipo le loro mosse.»
«Tutto questo funziona se alle spalle esiste un sistema di comunicazione.» Il contrammiraglio non aveva parlato fino a quel momento. «Signore, grazie per averlo sottolineato. Qui non siamo in Europa e non c’è l’epistemografo. Da Port Said, i messaggi arrivano con corrieri cammellati e su rotaia, torri a specchio costiere, anche eliografi navali e perfino aerostatici. Ognuna di queste linee è vulnerabile e può rilasciare informazioni al nemico. Nessuna garantisce l’arrivo del messaggio.» I miei interlocutori mi guardavano in silenzio. Ormai avevano capito che se enunciavo un problema ne avevo la soluzione. «Faremo di queste parti, un unico organismo. Ogni messaggio viaggerà su più linee. La ridondanza garantirà l’arrivo: se un corriere a cavallo sarà fermato, erà un codice eliografico; a una torre a specchi presa dal nemico, sostituiremo un eliografo aerostatico o navale.» Molte mani si alzarono. «Signore, non aumentiamo anche la possibilità che il nemico ci intercetti?» Le altre mani si abbassarono. «A monte, spezzeremo i messaggi in parti prive di significato, a valle le ricomporremo. I corrieri non avranno più l’obbligo o il dovere morale di tacere, se catturati. Che dicano quello che sanno, tanto sarà inutile.» Ci fu un gran mormorio e molte teste annuirono. «Ridondanza più frammentazione: questo nuovo sistema prende il nome di Semeion.» È importante dare un nome ai progetti, è come una bandiera per gli uomini, li aiuta a finalizzare gli sforzi. Nel gruppo dei guardiamarina, molti prendevano appunti. «Non dovremo più concentrare truppe per la difesa di singole linee di comunicazione: ne avremo mille, ma nessuna vitale. Sarà il nemico a dover disperdere le forze se vorrà attaccarle, ma non gli servirà a nulla.» Qualcuno accennò a un applauso ma li interruppi con un gesto, non avevo ancora
finito. «Sul mio dhow, avevo un archituono da 37 mm ma non ha sparato nemmeno un colpo. A uccidere i pirati è stata la micidiale combinazione di alcuni piccoli ordigni.» Sollevai il coperchio della valigetta in legno viola che avevo sul tavolino. I più vicini allungarono il collo per sbirciare all’interno. «Uno è questo.» Picchiai con l’indice sulla tempia. «E questo è l’altro.» Estrassi l’aritmometro. «Questa piccola macchina da calcolo a cilindro può risolvere problemi balistici e di navigazione. Servirà per la decodifica dei cifrati e il pretrattamento dei rilievi meteo. Ogni unità dal plotone in su ne sarà dotata e da domani iniziano i corsi d’addestramento alle macchine metriche.» Mi aspettavo il mormorio che ne seguì. A nessuno piace tornare sui banchi di scuola, ma ormai li avevo conquistati. «Loro erano più numerosi e meglio armati. Noi avevamo la scienza.» Appoggiai la mano sul coperchio aperto della valigetta. Lo chiusi con forza e il rumore, secco come una fucilata, fece sobbalzare quelli delle prime file. «Abbiamo vinto noi.» L’applauso che seguì fu generale e non mi sorprese. Ci sarei rimasto male se fosse mancato.
Nel suo ufficio privato, l’ammiraglio si complimentò con me e mi comunicò l’immediata promozione a capitano di fregata. Mi mise al corrente dello stato dell’arte precedente il mio arrivo. «Pur non avendo tecniche comparabili alle sue, qualcosa abbiamo fatto. Abbiamo rintracciato dodici persone che hanno visto in faccia il capo dei pirati di Hanak. È una donna. Questa è la composizione facciale dei bozzettisti.» Mi ò un disegno a carboncino. Mi sentii mancare. «Capisco il suo turbamento, capitano. È di una bellezza rara e chi l’ha vista dice che il ritratto non le rende giustizia. Deve credermi.»
Gli credevo, perché quella donna l’avevo vista bene: era Laila.
***
Con un rastrellamento l’avremmo forse rintracciata, ma non potevo raccontare ciò che era successo in quei due giorni. E poi, forse si era già imbarcata su qualche sambuq diretto a oriente. Mi dedicai all’attuazione del mio piano e alla costruzione dell’Ufficio Ingenium. I risultati dei nuovi metodi furono incoraggianti. Riuscimmo a sorprendere molte flottiglie pirata e i nostri sambuq armati facevano stragi dei loro carichi commerciali. Non avevo l’obbligo di imbarcarmi, ma cercavo sempre di farlo se vi era probabilità di intercettare Laila. Temevo di vederla ritornare cadavere a Massaua, e dopo una sortita fortunata dei nostri, mi precipitavo sempre al reclusorio di Dahlak Kebir, dove si accatastavano i corpi dei pirati uccisi. Tormentavo il Residente, più molesto degli sciami di mosche che giravano sui cadaveri, perché completasse l’elenco dei caduti il più presto possibile, e lo compulsavo, in cerca del suo nome. Tutto questo veniva scambiato per dedizione alla causa e presto venni promosso capitano di vascello. Venivo ammesso nel circolo degli ufficiali generali e non si prendevano decisioni importanti senza il mio parere. I miei subalterni, uomini e donne, venivano rispettati da tutti, a prescindere dal grado. L’espressione “Ufficio Ingenium”, scandita con voce maschia a un picchetto o sussurrata con aria di mistero a una signora nei ricevimenti del circolo ufficiali di Massaua, aveva sempre un effetto magico.
***
I pirati reagirono. Un giorno fui convocato dall’ammiraglio. «Convogliano le navi dirette ai suq, capitano. Che si fa?» «Bombardiamole con gli aeromobili» dissi io.
«Quei bestioni non sono molto precisi, lo sa.» «Se attaccano una formazione numerosa, qualcosa colpiranno.» «Ricorreranno ai convogli notturni.» «Ma è difficile viaggiare di conserva di notte, e poco redditizio. Con meno soldi da spartire, e più pericolo, voglio vedere quanti li seguiranno.» Avevo ragione, ancora una volta. Gli attacchi piratici diminuirono. Dopo qualche tempo, capirono l’importanza del Semeion e lo attaccarono. Ma come previsto, non avevano forze adeguate.
Intanto, mi ero persuaso che, mentre cercavo il contatto con quella donna, anche lei cercava me. Assaltò due volte Massaua, di notte, perché di giorno i nostri specchi ad alta luminanza erano una barriera insuperabile. Con un coraggio che rasentava la pazzia, invece che sui magazzini commerciali o sull’arsenale, i suoi pirati puntarono alla mia residenza. Inoltre, era sempre puntuale ai miei tentativi di intercettazione. Non era possibile che non avesse capito il nostro sistema, dopo anni di applicazione. Sembrava che mi aspettasse. Una volta riuscii a vederla. Nel fumo della battaglia, la riconobbi per il suo portamento. In equilibrio sul capo di banda, affrontava due Fusiliers Marins che la attaccavano alla baionetta, uno per parte. Si muoveva ancora come una gatta. Arretrò per evitare il fendente di uno dei due e con un movimento continuo, si piegò sulle ginocchia, si avvitò e colpì l’altro alle caviglie. Quello si afflosciò come un sacco vuoto, il suo fucile roteò in aria e cadde in mare con lui. Il fusilier rimasto ruotò i fianchi e si protese in un affondo. Lei fece un o indietro e il vapore degli archituoni la nascose. «Accosta, idiota! La capisci la mia lingua?» gridai al mio timoniere. Quando riuscii a riprendere il contatto visivo, era sola. Alzò l’alfanje verso di me, come se mi avesse riconosciuto. Ma non mi sembrò una minaccia, come quella notte. Un saluto piuttosto.
***
Gli anni avano e il nostro fronte di terra, sostenuto da rifornimenti stabili, avanzò fino alle porte di Khartoum. Una rivolta religiosa fece pendere la bilancia per la Sublime Porta. Arrivarono nuove armi, come le micidiali mitragliatrici a centrifuga o gli sparafiamma Bunsen a fuoco azzurro, ma non bastarono a contenere l’esercito del Madhi, un’orda di fanatici incuranti delle ferite e del dolore. La sera, i traccianti illuminavano l’orizzonte sopra Cassala, sempre più vicini. Se non fosse stato per i gas, non li avremmo fermati. Il fronte resse, ma la presa di Khartoum diventò un miraggio.
Il Semeion ne risentì. Perdemmo centinaia di altane da segnalazione e i corrieri non avano più. Per i pirati fu una boccata d’ossigeno e allargarono i ranghi. Il Mar Rosso diventò ancora più strategico, ma i nuovi endoreattori Congreve da segnalazione, capaci di salire a duemila metri, offrirono un’alternativa alle altane e tornammo a prevalere.
Il nemico adottò allora una strategia d’infiltrazione più insidiosa. Loro erano dappertutto e da nessuna parte, erano fra noi. La cosa era aggravata dalle forti immigrazioni dall’Arabistan, messe in moto dalla nostra stessa strategia d’impoverimento economico della costa orientale. I rastrellamenti erano quotidiani ma mai risolutivi. Applicando il Protocollo Lombroso, eravamo in grado di prevedere, in base ai dati antropometrici, la pericolosità sociale dei fermati. C’erano errori, ma su dieci giustiziati, solo due risultavano in media innocenti. In un caso del genere, dicevamo che l’Indice di Danno Collaterale era del venti per cento. Può sembrare molto, ma i bombardamenti con gli aeromobili hanno un IDC superiore al trentacinque.
***
Laila, non la incontrai più. Il suo nome non figurava fra i caduti ed era sempre il capo della flotta di Hanak, a quanto ne sapevamo. I suoi attacchi divennero più
radi e così le segnalazioni degli informatori. Gli anni non avevano spento il fuoco che mi bruciava dentro. Al contrario, l’assenza di avvistamenti mi rendeva furioso. Organizzavo sortite sempre più ardite, anche nel cuore della notte, sfruttando la nostra crescente conoscenza dei fondali, ma soprattutto i canali d’atterraggio fra i banchi di madrepore, aperti dai genieri a colpi di dinamite. Gli imbarchi mi costavano fatica, perché non ero più un ragazzo. Il fronte intanto ristagnava alle porte di Khartoum, ma l’Ammiragliato apprezzava il mio lavoro e, quando il vecchio Blucher se ne andò, subentrai al contrammiraglio.
Ero sempre a capo dell’Ingenium quando la arrestarono, per questo la portarono da me. C’era stato un attentato al porto. Un pescatore, un infiltrato madhista, si era fatto esplodere vicino allo scalo del naviglio sottile. Le ferroguide che scendevano a mare erano cariche di torpedini e l’esplosione aveva fatto un macello, investendo parte del suq. Lei era finita nella retata. Aspettava nel corridoio e il cuore mi batteva tanto forte che mi venne istintivo di parlare ad alta voce, come per coprirne il rumore.
«Dunque, sembrerebbe lei?» chiesi all’askari che l’aveva scortata. Mi aveva dato un ferrotipo. Mi tremavano le mani e faticavo a tenere ferma l’immagine metallica. «Sissignore. La Fisiognomica dice: corrispondenza novantasette per cento.» «Fatela entrare e lasciateci soli.» Piedi nudi, pantaloni shalwar e ampia camicia. E attorno al collo, la kufiyya nera, come sua madre. Sì, perché quella non poteva essere lei. Dopo vent’anni, non poteva essere così. La sezione Fisiognomica mi preparava ogni anno un bozzetto che teneva conto dell’invecchiamento. Venti disegni, li avevo attaccati alla parete uno dopo l’altro. Ognuno era stato una ferita, come i ferri che inchiodavano i martiri. Neppure poteva essere una ragazza qualsiasi, la somiglianza era stupefacente. «Come ti chiami? Questo puoi dirmelo.» «Yasmeen.»
«Quanti anni hai?» «Questo dovresti saperlo.» Mi avvicinai. Il cuore mi batteva sempre più forte. La presi per un braccio e la portai vicino alla finestra. Quella che mi era parsa una kameez di foggia indiana era una vecchia camicia delle nostre, di quelle che ancora si chiudevano con lo spago di lino sul davanti. Da vicino vidi che era consunta e rattoppata, ma soprattutto vidi le cifre ricamate sul cuore: EVdA. Quella camicia era mia. «Diciannove?» chiesi, ma sapevo già la risposta. A breve distanza, quel sentore di agrumi e spezie di tanti anni prima mi arrivò dritto nel cervello, ma forse fu solo la mia suggestione, non so. «Rimani con me, Yasmeen, nessuno ti farà del male» le dissi. «Non sarai prigioniera, ma libera come tutti.» «Come tutti?» ripeté lei. La piazza del suq, i banchi lontani gli uni dagli altri dei tre metri prescritti dalle norme anti-terrore, sembrava vuota. All’unico accesso non murato, un gruppo di militari perquisiva una famiglia. I bambini, appiccicati al muro, le mani in alto e i cani che abbaiavano a dieci centimetri dalla loro faccia. Il battito delle pale di una piattaforma di sorveglianza, in volo statico proprio sopra di noi, copriva ogni rumore. Lontano, sopra l’agglomerato immenso di baracche in cui era cresciuta la città, due aeropattugliatori d’appoggio seguivano un rastrellamento. Solo dei puntini da quella distanza, ma si vedevano bene le scie bianchissime di vapore che si lasciavano alle spalle. «Ti lascio sola a riflettere. Fai la tua scelta.» Uscii, lasciando la finestra aperta.
***
Scelse per lei e anche per me. Me l’aspettavo ed ero disposto a correre il rischio. Perciò non mi lamentai quando mi processarono per la sua fuga. Un processo a porte chiuse, ché l’Ordine di San Benedetto non voleva scandali. Dissero che ero
stanco, troppo coinvolto sul fronte pirati, che dovevo cambiare aria. Così mi mandarono qui in Brasile, come legato dell’OSB presso la Compagnia di Gesù. Né di Laila né di Yasmeen ho più avuto notizie. Nelle liste dei caduti non ci sono. Ho ancora amici che mi informano, anche se ormai, con la ripresa delle fosse comuni, l’anagrafica non è precisa come ai miei tempi. L’Ufficio Ingenium non esiste più da un pezzo. Il nome lo usano ancora ma per me sono solo un branco di torturatori. I miei si sono rifiutati di collaborare con quei damerini laureati a Nuova Amsterdam. Chi ha potuto s’è riciclato nel settore civile, gli altri per la maggior parte sono finiti a morire sotto le mura di Khartoum o si fanno di laudano dalla mattina alla sera. La vigilia di Natale, il Santo Padre ha fatto un bel discorso ai comandanti militari di tutti gli ordini, riuniti in piazza San Pietro. Ha detto che non basta bombardare, che bisogna conquistare i cuori e le menti. Grandi elogi, da Berlino a Parigi. Oggi, giorno di Santo Stefano, le nostre aeronavi ad ala rigida hanno bombardato tutti gli insediamenti sospettati di dare asilo ai pirati. Si parla di due milioni di profughi solo in Arabistan. L’ha detto il prassinoscopio, adesso è lui che ci informa. Sono obbligato ad averne uno in ufficio, ma appena posso lo spengo. Questa non è più la mia guerra.
Quando arrivai qui, sono ventinove anni ormai, questa costa era un’unica giungla lussureggiante. Ora mi guardo attorno e vedo ziqqurat abitativi a telaio meccanico di cento metri d’altezza collegati da strade in petrobitume a quattro corsie. La Compagnia di Gesù non si è opposta, dicono che bisogna tagliare l’erba sotto i piedi della guerriglia. Sono anche proprietari del 20% delle azioni del cartello dei costruttori. Del resto, l’OSB è il maggiore azionista della Mahd Al-Dhahab, che ha trasformato le coste del Mar Rosso in retroterra logistico per lo sfruttamento dei sedimenti minerari. Mi hanno detto che molti dei vecchi villaggi costieri non esistono più. La gente vive nelle scatole abitative delle piattaforme d’altura, adesso. Gli operai non fanno storie, anche se sono tutti ex-pirati: i principali sindacalisti sono nei nostri libri paga.
Così va il mondo in questi ultimi giorni del ’99. Il nuovo secolo sta arrivando e non certo in punta di piedi. Il tempo dei pirati è finito. E anche il mio.
Il Fuoco dell’Inganno
di Alonso Gutierrez
«È tutto quello che abbiamo trovato, signore» disse l’uomo intabarrato nel pesante mantello scuro, poggiando il bauletto sul tavolo pieno di carte. Il notaio non si scompose più di tanto. «Va bene, ora puoi andare, Joseph.» Quando questi fu uscito, egli aprì il bauletto, tirando fuori i fogli che conteneva. Sciolse la cordicella che legava quei documenti e iniziò a leggere. Frammenti di lettere e pagine di ricordi si dispiegarono tra le sue mani.
***
“... un boato improvviso mi riempì la testa e un fischio acuto mi penetrò le orecchie. L’acqua era fredda e mi risvegliò quasi di colpo. Il cuore mi batteva all’impazzata. Una palla mi ò vicina con un gorgoglio sordo. Riemersi dal buio in un caos di spruzzi e fumo puzzolente. Un panno di velluto marrone cadde a poca distanza da me; la nave su cui mi ero imbarcato bruciava. Mi attaccai a un pezzo di legno che galleggiava lì vicino, sputando sangue, muco e acqua salata.”
***
Marianna si aggiustò il corsetto in modo che non le togliesse il fiato e indossò il
verdugale, aiutata da una cameriera. Lo brucerei, assieme a questo vestito! Pensò, cercando di non scomporsi di fronte alla serva. La pelle bianca le dava un’aria di acerba gioventù, ma aveva già compiuto vent’anni e ora quel che più le interessava era trovare un marito adatto alla sua condizione sociale, per non rimanere zitella. Il pensiero di poter diventare come sua zia Olga le metteva i brividi. Lei, la più bella donna di Pavia, come raccontava suo padre, aveva rifiutato ogni pretendente. Finché la sua bellezza sfiorì e l’unica cosa che le rimase fu il rimorso di essere stata troppo altezzosa. Ora, nei suoi salotti, organizzava matrimoni per le giovani fanciulle della buona società e spettegolava su chiunque le capitasse a tiro. Proprio in quel momento entrarono le sue sorelle: Angelina e Beatrice. «È arrivata una lettera di nostro padre!» fece Angelina, tutta eccitata, la più giovane delle due. «Che meraviglia!» esclamò Marianna. «Presto, presto... leggiamola.»
Île Bourbon2, aprile 1686 Mie care Angelina, Beatrice e Marianna, quest’anno il clima è stato meraviglioso e il raccolto di caffè eccezionale. Già tre navi sono partite alla volta di Venezia. Il capitano, il Signor Orlando, è incaricato di vendere la merce e di consegnare a voi la lettera di credito che riceverà. Con quei denari mi raggiungerete e, tempo un anno ancora, faremo ritorno tutti assieme a casa, dove intendo rimanere. Per la felicità di Marianna ho trovato un fidanzato tra i nobili che dimorano sull’isola e desidero che facciano reciproca conoscenza. Per evitarvi un viaggio via mare più lungo del necessario, vi imbarcherete sulla nave del capitano Orlando a Marsiglia, seguendo, poi, la rotta costiera fino alle Azzorre. Durante il tragitto, il San Calisto, la nave su cui viaggerete, caricherà tessuti e armi da caccia in Linguadoca, tutte merci molto utili da queste parti. Se tutto andrà per il meglio, conto di vedervi entro sei mesi dalla data di questa mia. Mi raccomando, la vostra partenza da Marsiglia è fissata per il 25 del mese di giugno. Il capitano Orlando vi attenderà al massimo per tre giorni, poi salperà con la prima marea del mattino.
Spero che i al più presto questo tempo, per riunirmi a voi, dolendomi solo che vostra madre non possa più esser con noi tutti. Il vostro affezionatissimo padre.
Una lacrima di commozione cadde dal volto di Angelina.
***
Il mare cominciava ad agitarsi e, lentamente, la corrente mi spinse via. Non osai gridare aiuto, mentre sulla tolda delle navi gli uomini si scannavano con amorevole precisione. Qualcuno, però, mi vide lo stesso, sbalzato qua e là dalle onde e, senza tante grazie, mi sparò un colpo d’archibugio, che mi mancò per un pelo. Non mi rimase che metter la testa sott’acqua e sperare in bene. Riemersi dopo un po’, col cuore che mi batteva forte per la paura e la mancanza d’aria. Sotto di me il nero delle profondità del mare. Pezzi di legno, corpi e barili semivuoti mi circondavano sparsi. La battaglia infuriava ormai lontana; ne potevo solo sentire i rumori e vedere il fumo degli incendi. Rimasi qualche tempo a scrutare quel che stava accadendo, poi, come preso da una furia ossessiva, mi misi a nuotare in direzione del sole che stava calando lentamente. Nuovamente aggrappato a una tavola di legno, nuotai, nuotai e nuotai finché le forze mi sorressero, infine mi adagiai su di essa e mi feci dolcemente cullare dalle onde. La paura di finire in acqua e di affogare mi impedì di cadere addormentato. Il mare non si era ingrossato quanto temevo all’inizio del mio naufragio, ma nemmeno era rimasto calmo e piatto, così, oltre alla stanchezza per la lunga nuotata, alla sera mi ritrovai anche con le mani rattrappite e dolenti per lo sforzo di tenermi aggrappato. La notte calò scura e totale, solo lievemente disturbata dal rossore degli incendi delle navi in fiamme all’orizzonte.
D’improvviso, un forte rumore di risacca mi fece trasalire. Scogli! pensai, e in quel momento la mia tavola si schiantò contro uno di essi. Mi ritrovai sbalzato e subito dopo ricaddi in mezzo alla schiuma, sbattendo il fianco destro contro la roccia tagliente. Un dolore acuto mi tolse il fiato. Sentivo la pelle grattare contro migliaia di minuscole lame di pietra e l’acqua salata entrare nelle ferite, mentre il sangue bagnava lo scoglio e colorava l’acqua di un rosso cupo, che si confondeva con la schiuma delle onde. Poi, poco distante da me, vidi la linea scura di una piccola spiaggia e, con il filo tenue della speranza di salvarmi da quel supplizio, mi aggrappai con le punte delle dita alla sommità dello scoglio; con sforzo immane mi tirai su, lanciandomi dall’altra parte, non senza aver prima lasciato parte della mia carne su quel microscopico lembo di terra, malvagia e santa al contempo. Finii ancora in acqua, ma stavolta i miei piedi toccavano. Le ferite cominciarono a bruciare e dolermi maggiormente. Mi trascinai a fatica e raggiunsi la spiaggia. Affondai i piedi nella sabbia fredda, cercando di avanzare per alcuni metri, poi crollai. Mi svegliai che era giorno fatto. Il sole era caldo e mi infastidiva. Ero arso dalla sete e dolorante in tutto il corpo. Sciacquai le ferite con l’acqua di mare e il primo bruciore mi fece piangere; lasciai andare una scarica di bestemmie che faceva spavento, poi mi ripresi e mi feci il segno della croce, chiedendo perdono per il mio atto e rendendo grazie per essere ancora vivo. Lacero nelle vesti, nella pelle e nell’anima, cercai di andare oltre la spiaggia, ma finita la sabbia, dall’altra parte della bassa vegetazione e delle canne, una scura e immobile acqua pareva aspettare solo me. Una palude sussurrai a me stesso. Non avevo una meta e, a quel punto, neanche una speranza. Mi diressi verso il monte che si ergeva poco distante, ma dovetti are dalla spiaggia perché le paludi arrivavano fino alle sue pendici. Un fagotto scuro tra i rottami portati dalle onde attirò la mia attenzione. L’uomo era svenuto, ma non mi pareva ferito; cercai di voltarlo, ma questi, con un guizzo inaspettato, mi puntò un coltello alla faccia, poi vidi che cambiò espressione e tolse l’arma. «Sei messo peggio di me!» disse. «La fortuna non è mai stata dalla mia parte.» «Chissà! Ma oggi sei vivo» fece, indicando il fumo nero all’orizzonte.
«Chi sei?» «Il mio nome è Gaspard, e tu? Sei un marinaio?» «Ero imbarcato sul Meribe, un galeone...» «Spagnolo!» esclamò scuotendo il capo. «se! Ci siamo scontrati con delle navi da guerra spagnole.» «E avete avuto la peggio...» «Capita! Hai dell’acqua?» «Vieni!» disse asciutto, dopo avermi nuovamente squadrato dalla testa ai piedi «Ci sarà da camminare per un po’. Cerca di resistere.» Mi condusse verso le paludi, poi, attraversato un piccolo canale naturale quasi completamente insabbiato, cominciò a salire su per la collina, girando a sinistra, verso un piccolo e basso promontorio che dava su un bacino di acqua salmastra. Seguì il profilo del monte, tenendolo alla destra e, infine, entrò in una fitta macchia di alberi. Lo seguii fino a una casupola in pietra e legno, nascosta alla vista sia dalla parte del mare che da quella delle paludi. «Questo è il mio rifugio» disse orgoglioso. A me interessava poco, a dir la verità, ero più attirato dall’acqua che c’era nel barile posto subito fuori della porta. Sì, certo, quell’uomo, il suo modo di fare, la casa nascosta tra gli alberi, tutto mi aveva dato una strana sensazione, ma era come se non mi importasse, come se avessi chiuso la mente a ogni cosa e nulla potesse toccarmi. Tuffai la testa nel barile e bevvi avidamente, così avidamente da mandarmi l’acqua di traverso e quasi affogarmi, ora, proprio quando la mia salvezza era ormai quasi certa. Mi lasciai andare per terra, tossendo come un tisico e mischiando acqua e polvere sulle mani, il corpo e il viso. Quando mi fu ata, anche gli occhi erano pieni di fango. «Hai finito?» mi chiese senza un filo di comprensione. «Ti sei bevuto la più merdosa acqua piovana che sia caduta da queste parti nell’ultimo anno.»
Lo guardai stordito e con lo stomaco che quasi si rivoltava. Mi lasciò vomitare, poi mi porse una grossa fiasca di acqua pulita. Nella capanna c’erano altri tre uomini: un corpulento omone detto Bibe, pieno di tatuaggi; un rugoso sdentato, con una cicatrice che gli correva da sinistra a destra lungo tutta la pancia, e un giovane, di non più di diciannove anni, con un vistoso fazzoletto rosso a pois bianchi che usava soprattutto per coprire la mancanza della parte superiore dell’orecchio destro. «Perché vi nascondete qui?» chiesi, mentre mangiavo una grossa fetta di pane nero. «Il nostro lavoro non è ben visto da tutti» rispose asciutto Gaspard. «Che siate banditi è fuor di dubbio...» «Non volgari banditi!» rispose risentito. «Siamo pirati.» Lo guardai con la faccia ebete di colui che pensa Non ci credo! ma che al contempo vorrebbe che tutto non fosse una favola. «E la vostra nave?» chiesi. «Colata a picco!» rispose seccamente. «Avevamo una barca, non molto grande, ma che teneva bene il mare. Ce l’hanno affondata senza tanti complimenti.» «Chi l’ha affondata?» chiesi un po’ scioccamente. «Le navi del Re, chi altri?» Mi sentii un imbecille. «Ma che pirati siete, adesso?» chiesi. «Gente che affonda le navi!» mi rispose serio, guardandomi con un filo di comione, mista a sconforto. Capii che per essere stato aiutato in un momento di estremo bisogno, stavo facendo troppo il cretino e che il mio interlocutore aveva molta pazienza con me, ma non mi trattenni dal chiedergli come fe. «Hai intenzione di tornare a combattere per il Re, o vuoi diventare un uomo libero?»
Rimasi interdetto da quella domanda. Non avevo alcuna intenzione di tornare a impegnare la mia vita per qualcuno o per qualcosa; ne avevo avuto abbastanza di parole vuote e di persone inutili, tronfie del niente di cui vivevano. «Cosa mi stai proponendo?» chiesi curioso, dopo essermi guardato gli stracci che indossavo. «Voglio metter su una vera banda per depredare ogni nave che i in queste acque.» «Pirati di terra, dunque.» «Io non sto scherzando!» mi disse brutalmente. «Stasera ti faremo vedere come.» «E se non accettassi?» «Posso trovarne altri come te, ma se non ti schieri con noi, diverrai nostro nemico.» Non avevo molta scelta, dunque, ma non mi parve un ricatto; meglio una vita sempre in bilico che la schiavitù su una nave da guerra. Accettai quasi senza pensare. Quella sera stessa Gaspard e i suoi compagni mi portarono in cima al monte e accesero un gran fuoco. «Stasera è la sera giusta!» esclamò d’un tratto. «Notte senza luna e buio pesto. Ci scambieranno per il faro che si trova trenta miglia più a sud.» arono alcune ore senza che accadesse niente, poi vidi palesarsi all’orizzonte una sagoma scura che si avvicinava pian piano. «Andiamo!» fece Gaspard, e si precipitò giù, lungo la ripida discesa. Lo seguimmo senza indugio in una corsa a perdifiato, vedendo solo le sue gambe che si muovevano rapide nell’oscurità quasi totale del bosco.
***
Sul ponte di coperta l’aria pareva più fresca e il grande telone di cotone chiaro riparava dai raggi diretti del sole. Marianna guardava il mare, sognando avventure mozzafiato nelle calde Mascareignes; solo il pensiero di non conoscere già il suo futuro fidanzato la intristiva. Chi potrà mai essere costui? Pensava. Forse un basso e grassoccio signorotto pieno di trine e di sudore, oltre che di boria e quattrini, con un feudo sperduto chissà dove o la sola rendita data dai suoi schiavi e dalle sue piantagioni. E se, invece, fosse stato un baldo e aitante giovane, costretto a emigrare per non disperdere il patrimonio di famiglia? Oh, Signore, fa che sia bello e forte e che mi stringa dolcemente tra le sue braccia, facendomi sentire... «Non è conveniente che una ragazza del vostro rango sia vista dai marinai» la fece trasalire una voce alle sue spalle. «Stavo godendomi l’aria pulita, Capitano, dentro si soffoca.» «Baronessa... il sole non fa bene alla vostra pelle e i marinai sono gente rude e sgradevole, che conoscono solo donne di malaffare e voi siete una nobildonna di alto rango...» «Ho capito» fece. «Torno nel mio alloggio a far compagnia alle mie sorelle.» «Vostro padre vi ha affidate direttamente alla mia custodia...» ma lei non lo considerò e ò oltre, andando a chiudersi in cabina. All’interno il caldo era opprimente e, anche con il grande finestrone spalancato, l’aria pareva ribollire. Angelina e Beatrice leggevano, mentre una cameriera stava seduta in mezzo a loro, muovendo ritmicamente un ventaglio. Marianna rimase disgustata da quella scena; le sue sorelle avrebbero dovuto prendere la salutare aria di mare, anziché farsi sventolare da una serva nella stretta e bassa cabina di una nave da trasporto. Corse verso il finestrone e dette di stomaco appena più in là del parapetto. La cameriera lanciò un grido: «Signorina! Vi sentite male?» Marianna si tirò dentro. «È questo caldo soffocante» mentì. Un bussare insistente le fece trasalire «Sono Orlando! È accaduto qualcosa? Posso entrare?» La cameriera si affrettò alla porta per sbarrare l’ingresso.
«Tutto bene, capitano» disse Marianna. «Solo un piccolo capogiro che ha fatto preoccupare la mia cameriera.» Rumore di i pesanti fece intendere che l’uomo si era allontanato. «Non resisterò qua dentro per tutto il viaggio!» mugugnò lei. Le due ragazzine ridacchiarono tra loro, ma l’attempata domestica rimase seria. «Baronessa!» la richiamò. «Vostro padre si è molto raccomandato col capitano Orlando che non dimenticaste mai, nemmeno per un minuto durante questo viaggio, quale sia il vostro rango. Io farò in modo che ciò non accada!» Marianna non ribatté. La fantesca aveva tutta la fiducia del padre e l’aveva allevata e protetta sin da quando era piccola. Suo padre sco le voleva un bene dell’anima, ma era anche un barone e una persona che non avrebbe mai dimenticato il proprio rango. La donna aveva sempre agito come se fosse lei la madre delle ragazze, portando loro tutto il rispetto dovuto, ma dimostrando anche tutta la propria inflessibilità, quando necessario. Questa era stata l’unica condizione da lei posta per occuparsi delle bambine, quando erano rimaste orfane della madre. La ragazza si sedette sulla panca sotto la finestra e rimase in silenzio a contemplare il mare e la scia lasciata dalla nave.
***
«Sei pronto a uccidere?» «Cosa?!» feci, in tono di replica. «Sei pronto a uccidere?» mi chiese ancora con voce rabbiosa il mio maturo compagno. Esitai. «O uccidi senza pietà o sarai ammazzato come un cane!» fece, indicando la goletta che stava per fracassarsi contro gli scogli. «Se è il prezzo della mia libertà...»
«E allora non esitare!» continuò, porgendomi un coltellaccio. La nave puntò dritta contro gli stessi scogli che avevano accolto me il giorno prima e, nell’attimo in cui andò a schiantarsi contro le rocce, percepii nuovamente il dolore che avevo provato io quando la risacca mi ci aveva sbattuto sopra. «Adesso!» urlò Gaspard, lanciandosi in acqua. Le grida dei marinai sulla nave sovrastavano il rumore delle onde. La campana d’allarme suonava incessantemente, mentre il fasciame lanciava gemiti acuti e schianti paurosi. Mi stupii di me stesso quando mi accorsi di aver raggiunto il vascello in sì poco tempo. I miei compagni stavano già salendo una murata, arrampicandosi come gatti sul mascone di destra; un bagliore attirò la mia attenzione, poi udii lo sparo e una palla mi sibilò vicino a un orecchio. Gaspard si lanciò oltre il parapetto e col suo spadone ò da parte a parte colui che mi aveva sparato. Mi lanciai anch’io sulla nave e scannai d’un sol colpo il primo marinaio che mi capitò a tiro. Non feci caso al sangue che schizzò via da ogni parte. Lo sconcerto e la sorpresa erano piombati a bordo della goletta e, prima che qualcuno degli imbarcati potesse reagire, già cinque di loro erano ati a miglior vita per mano nostra. Il capitano e un tipaccio coi capelli lunghi e unti, tenuti da una reticella e da una grossa pezzuola, si misero a guardia di una porta mezza scassata, brandendo le loro spade. L’ufficiale fu facile preda di Bibe, il quale lo disarmò in pochi secondi e lo ferì al fianco destro, ma l’altro si rivelò un osso duro. Con la sua arma vibrava fendenti così violenti e repentini da farmi più volte credere che sarei morto di lì a pochi istanti. Nei suoi colpi c’era una furia e nei suoi occhi scuri una violenza e cattiveria tali da mettere soggezione anche al buio. Fu il mio grosso compagno a risolvere la situazione: dopo aver ferito e disarmato il capitano, approfittò di un attimo in cui il mio avversario gli dava le spalle per schiantargli una gamba con un solo colpo secco e deciso di spada; l’uomo crollò a terra in un lago di sangue e riempì l’aria col proprio grido di dolore. Lo finii senza rimorso e fui felice di aver spento quegli occhi malvagi. Tiratomi su, affrontai il nostromo e, senza dargli il tempo di raccomandarsi l’anima, lo pugnalai al ventre, infilzandolo più e più volte.
Solo quando Gaspard mi fermò, mi accorsi che la nave era ormai nostra. Gli sguardi terrorizzati dei marinai mi inebriarono e mi sentii onnipotente. Mentre i nostri compagni tenevano a bada l’equipaggio catturato, io e Gaspard ci dirigemmo verso la porta rotta, ma in quel momento esatto essa si spalancò e uno sgabello volò fuori, prendendomi in pieno una spalla. «Marianna! Ferma!» fu il grido acuto che fuoriuscì dalla cabina, ma nulla poté fermare quella furia, che si gettò addosso a entrambi brandendo un altro sgabello. Gaspard, sorpreso, fu spinto via e quasi cadde, mentre io, fortunato come al solito, mi presi un’altra sgabellata, ma in pieno petto. Rimasi senza fiato e stavo per essere sopraffatto dalla donna, quando il mio compagno, più lesto e avvezzo di me, ancora una volta risolse la situazione, puntando lo spadone al petto della ragazza. «Non esiterò a uccidervi se non vi fermerete!» fece rabbioso. Lei lasciò andare lo sgabello. Gaspard tirò fuori una pistola e sparò con freddezza al marinaio a lui più vicino, che cadde senza un gemito. Gli altri indietreggiarono. «Tutti a terra!» gridò il pirata. «Prendete delle corde e legateli!» ordinò. Obbedimmo senza fiatare. Portammo tutti i prigionieri a terra e li assicurammo ai primi alberi del bosco dal quale eravamo discesi. Le donne furono legate a parte. Attendemmo l’alba montando a turno la guardia. Il capitano perdeva molto sangue, ma la sua ferita non era mortale; mi feci dare da Gaspard un corno di polvere e ne versai un po’ sul taglio. L’uomo mi guardò con gli occhi dispiaciuti e umidi di chi sa come andrà a finire la faccenda. Detti fuoco alla polvere con un acciarino e una vampata bianco-argentea gli uscì dalle carni; gridò rauco per il dolore, contorcendosi contro l’albero al quale era legato. «Grazie» disse, quando si fu ripreso. Gaspard ò in rassegna uno per uno tutti i marinai superstiti, poi indugiò sulle tre fanciulle e la fantesca. «Uomini!» gridò, «vi propongo la libertà! Libertà in cambio di servizio.
Diverrete pirati come noi e obbedirete solo a me e al mio secondo. Stanotte avete visto quanto io, il Moro e i nostri tre compagni siamo determinati. Bottino, donne e acquavite vi aspettano, ma dovrete giurarmi fedeltà assoluta.» Il Moro, pensai, ne ha di prontezza e fantasia quest’uomo. «E se non volessimo?» urlò improvvidamente una voce in mezzo al gruppo. Gaspard estrasse la pistola e fece fuoco, guardando quel marinaio che stramazzava esanime a terra. «Viva il nostro capitano! Viva i pirati!» urlò il loro mozzo. «Io sono Gaspard!» «Viva Gaspard!» gridarono in coro gli altri. «Viva Gaspard! Viva i pirati!» «Andiamo, uomini. Su quella nave c’è un bottino che ci aspetta!» disse, indicando la goletta semi affondata. I marinai, non appena liberi, corsero verso la nave sbattuta dalle onde, organizzandosi in una lunga fila per il amano delle merci contenute nella stiva. «Liberateci!» ordinò Marianna, ma Gaspard scosse il capo. «Voi valete un sostanzioso riscatto» disse. «Non si lasciano scappare certe occasioni.» «Per voi ci sarà solo la forca, se non ci libererete immediatamente!» continuò lei. «Vedete, damigella» fece mellifluo, «da queste parti si usa che i ricchi incappati nelle mani dei pirati riacquistino la libertà pagando in moneta sonante, o ritornino a casa un pezzo alla volta.» «Mio padre vi farà dare la caccia da tutte le marine del mediterraneo e io riderò, vedendovi penzolare presto da una forca!» gridò la ragazza, per nulla intimorita. «Se tu non fossi una merce preziosa, ti darei in pasto ai miei marinai!» grugnì Gaspard, guardandola dritta negli occhi scuri.
Un tuffo al cuore mi prese improvviso. Due occhi così profondi, tanto da potermici immergere dentro, non li avevo mai visti. Pupille talmente scure da attirarmi verso di esse, rimanendone stregato. Lei se ne accorse e, malgrado la rabbia che la divorava, ricambiò il mio sguardo. «È merce, El Moro» mi sussurrò Gaspard, andandosene. El Moro... mi aveva cambiato nome ancora una volta. Forse sono io il suo secondo, pensai. E gli altri saranno d’accordo? Lo accetteranno? Dieci casse di fucili da caccia, quattro barili di polvere, due di vino, dieci fiasche di acquavite, mele, carne affumicata, farina, verdure fresche, olio, stoffe, pellame, pane e, inaspettate, mille monete d’oro; questo fu il bottino sottratto alla goletta, oltre a legname per le riparazioni, chiodi, attrezzi vari e asce da boscaiolo. I resti della nave vennero accatastati per essere poi bruciati. I marinai erano al settimo cielo e quella sera festeggiarono mangiando e bevendo fino quasi a scoppiare. Gaspard fu molto generoso, dividendo le monete in parti uguali fra gli uomini, non tenendo niente per sé, ma mettendone via solo una piccola parte per tutta la compagnia. Distribuì le armi, ma fu attento a trattenere la polvere e le munizioni: l’alcol gli faceva paura. Controllò personalmente che coloro che erano stati scelti per i turni di guardia non bevessero, ma lasciò gli altri liberi di festeggiare fino all’eccesso. Verso l’una di notte il campo era quieto, ma i prigionieri non dormivano. L’ex capitano della goletta aveva la febbre, ma per fortuna la ferita non si era infettata. Toccò a me fare il primo turno di guardia e questo non mi dispiacque. Le due ragazzine erano ancora impaurite, malgrado le rassicurazioni del nostro comandante, e si stringevano alla cameriera. L’unica che pareva incurante di ogni pericolo era la mia bella signora mora dagli occhi scuri. Non riuscivo a staccarmi da lei, da quel mare profondo del suo sguardo, nel quale avrei volentieri fatto naufragio. Eppure non riuscii a dirle niente. Al mattino, dopo aver messo gli uomini al lavoro per costruire il campo dove ripararci, andai da Gaspard. Già da lontano i suoi occhi vividi mi scrutarono animosi.
«Gaspard» iniziai trepidante, «mi hai nominato tuo secondo senza chiedere ai tuoi vecchi compagni. Io sono l’ultimo arrivato ed essi potrebbero non riconoscermi come loro superiore...» Il suo sguardo duro mi troncò le parole. «Il capo sono io» mi disse asciutto. «In questa banda le mie decisioni sono legge e tu ti adatterai, come gli altri!» Annuii senza fiatare e, turbato, tornai al mio posto. Nelle notti seguenti, sfruttando ancora la mancanza di luna, depredammo con lo stesso metodo altre due navi; pochi dei loro marinai sopravvissero a quegli assalti e ancor meno ne accogliemmo nella nostra banda. Di un legno ci impadronimmo senza doverlo poi affondare, poiché aveva riportato solo pochi danni. Ribattezzammo Fenice quel veloce brigantino, insediandoci su di esso come si conviene a veri pirati. Gaspard tirò fuori, come per magia, una bandiera della marina di Sua Maestà e la fece issare a poppa. «Che le pare, signor Orlando?» chiese all’ufficiale, il quale stava prendendo un po’ d’aria sul cassero. L’uomo, tenendosi la ferita, lanciò un’occhiata al nuovo vessillo, poi si sedette. «Ci impiccheranno tutti!» sentenziò. Gaspard proruppe in una grassa risata. «Ci impiccheranno senza neanche chiederci se stiamo dalla vostra parte o meno!» «Mi impiccheranno comunque!» gli rispose.
***
«La situazione non è delle più rosee, mio valente e fidato amico» disse il duca
all’uomo gobbo che gli stava davanti. «Già tre navi sono scomparse in quel tratto di mare nel volgere di pochi giorni; una carica di oro e merci diretta all’Île Bourbon e due dirette ad Algeri. Sulla prima nave viaggiavano le figlie del barone Graziottin, un nobile di Parma con vasti possedimenti nelle nostre colonie.» «Mi è giunta voce che siano cadute vittima dei pirati...» disse il gobbo, con voce rauca. Il duca si mostrò preoccupato. «Le tue informazioni sono sempre di prim’ordine, ma non ho ricevuto alcuna richiesta di riscatto...» «Arriverà, signor Duca, è solo questione di tempo. Ho, invece, una preghiera da rivolgervi, mio signore...» fece il gobbo. «Ti ascolto.» «Ho ragione di ritenere che tra quei banditi si trovi anche un ex ufficiale della marina di Sua Maestà, un tale Gaspard Deiot, di cui conosco personalmente le capacità. Vorrei che quell’uomo mi fosse consegnato.» «Perché ti interessi a lui?» «Perché è un valente marinaio.» «Vedo che lo ammiri.» «Di più, molto di più. Mi ritengo suo amico, anche se le nostre strade si sono divise. Il Re ha bisogno di uomini fidati per combattere la guerra che sta per scatenarsi e il comandante Jean Bart vuole Gaspard al suo servizio come corsaro per Sua Maestà.» «Sarai esaudito. Cosa suggerisci di fare per catturare quei pirati?» «Signore, bisogna prenderli tra due fuochi, tagliargli ogni via di fuga e costringerli a non usare gli ostaggi come scudi.» «In che modo?» «Le notizie che ho su quella banda sono abbastanza dettagliate e mi hanno già
permesso di elaborare un piano: circondiamoli con le navi della marina, occupiamo l’isola di fronte al loro rifugio e riempiamo la costa di uomini a cavallo, così non avranno più alcun posto dove nascondersi e saranno costretti ad arrendersi per non perire.» Il duca ci pensò su qualche momento, poi annuì.
***
«La nave è quella» fece l’uomo, indicando il Fenice alla fonda nell’insenatura della piccola isola. Il loro campo è qua, sotto il costone, protetto dal monte e dal bosco. Il gobbo parve soddisfatto. «Ci sono anche le donne?» chiese apprensivo. «Difficile dirlo.» «Continua a sorvegliarli. Osserva le loro mosse e informami di tutto, ma non intervenire, qualsiasi cosa accada; noi, intanto, li circonderemo. Molto probabilmente ci sarà da combattere.» «Non temete, ho imparato molto in tutti questi anni al vostro servizio.» Il gobbo fece una smorfia simile a un sorriso e se ne andò. Dietro a un’alta macchia aveva nascosto il cavallo, vi saltò in groppa e si allontanò al galoppo. ***
«Orlando, ho una missione per voi» disse Gaspard, non appena l’uomo gli parve abbastanza in forze. «Questa è una richiesta di riscatto per voi e le ragazze» fece, porgendogli una lettera. «Portatela al governatore di Marsiglia, il duca di Saint Jacques. Io attenderò vostre notizie per un mese, poi leverò le ancore e non risponderò più della sorte delle donne.»
«Vi fidate di me, anche se vi sono ostile?» «Non ho alcuna fiducia in voi, per questo vi farò accompagnare da Louis, il vostro ex mozzo, il quale si è dimostrato molto in gamba e sa farsi rispettare.» «Lo avete trasformato in un assassino, la cui ferocia è inferiore solo alla vostra!» «Noblesse oblige!» «I due piccioncini tubano» cambiò discorso Orlando, indicando me e Marianna che conversavamo a prua della nave. «Siete sicuro che il vostro secondo vi permetterà di farle del male?» «Quel che accadrà, se non tornerete entro il mese pattuito, non è affar vostro; pensate alla vostra vita, invece. Louis verrà con voi. Ha l’ordine di uccidervi, se tenterete strani scherzi.» «Non oserà...» «Non vi consiglio di metterlo alla prova... Partirete domattina.»
Marianna aveva dimostrato di non disdegnare la mia compagnia. Fin dalla notte in cui io e Gaspard l’avevamo rapita, ella mi era entrata nella mente e, malgrado la distanza sociale che ci separava e le crudeltà che avevo commesso e a cui aveva assistito, non mi aveva mai trattato come un estraneo, mentre chiunque altro le si avvicinasse riceveva solo parolacce e modi sgarbati. Ora lei era lì, di fronte a me, e mi parlava, ma io non capivo niente di ciò che diceva, rapito dai suoi occhi e dalle sue grazie. Da sopra il corsetto intravedevo due seni rosei che contrastavano con il colore ambrato del suo viso. I capelli neri, sciolti, si muovevano al ritmo del vento. Le sue vesti, non più fresche di bucato, ondeggiavano mosse dalla brezza marina. Cosa stava dicendo? mi chiedevo Non saprei... don... don Cervantes, mi pare. E poi? Poi, cosa? Ah, El Cid e cos’altro? Parlava di un tale Pézénas, o è un paese? Ma che posto sarà mai? Io, in fondo, sono solo un povero marinaio ignorante...
«Ma voi non mi ascoltate...» Beccato! «No... Sono rapito dai vostri occhi!» «No?! Non faccio discorsi interessanti, allora.» «No! Cioè, sì! Siete molto interessante, ma sono rapito dal vostro sguardo.» «Marianna.» «Come?» «Mi chiamo Marianna» disse, avvicinandosi leggermente. Provai a darle un bacio sulla bocca. «Baronessa!» Quel grido ci fece trasalire entrambi. La matura cameriera la stava richiamando con fermezza, mentre le due ragazzine ridacchiavano dietro di lei. La donna si avvicinò alla sua padrona e, senza parlare, le fece segno di ritirarsi. «Sono grande abbastanza da poter fare le mie scelte!» disse la ragazza. «Farete quel che vorrete dopo sposata, se vostro marito ve lo permetterà!» rispose la donna, prendendola sottobraccio e portandola con sé fin dentro l’alloggio. Le sorelle le seguirono in silenzio. Quella notte un altro fuoco si accese sulla cima del monte, ma l’orizzonte rimase sgombro. All’alba, quasi tutto l’accampamento stava ancora dormendo; Gaspard, Louis e un altro paio di marinai svegliarono Orlando. Confabularono qualche attimo, poi si alzarono e, dopo aver bendato l’ufficiale, si allontanarono tutti assieme verso l’entroterra. Attesi impaziente il ritorno del mio capitano. Nel frattempo misi l’equipaggio al lavoro, controllando che ognuno svolgesse il proprio compito. A metà mattina Gaspard fece ritorno e mi guardò con quei suoi occhi fiammeggianti.
«Orlando è partito» mi disse quasi in un sussurro. «Non ti affezionare alla ragazza; lei non è del tuo stesso rango e non erà mai la vita con te e tu non potrai offrirle nessuno degli agi a cui lei è abituata. Divertitevi, ma ricorda che una volta pagato il riscatto, lei tornerà nel suo mondo.» «E se Orlando non tornasse?» «Tornerà, tornerà. Non temere.» arono altri giorni, nei quali l’unica occupazione di tutto l’equipaggio fu di tenere pulita e in ordine la nave. Gaspard era il più attivo di tutti e controllava assiduamente il lavoro dei suoi sottoposti, giungendo a far ridipingere completamente lo scafo del Fenice. Sfruttò l’ultima notte senza luna facendo accendere un grande fuoco in cima al monte, poi ordinò di nascondere il brigantino dietro un’isoletta a poca distanza. Alcuni uomini vennero lasciati sulla spiaggia, vicino agli scogli, in modo da segnalare l’eventuale naufragio di qualche naviglio. Verso le tre l’aria calma della notte venne scossa dal fragore di uno schianto e poco dopo un piccolo fuoco si accese basso nel buio: era il segnale. La veloce goletta mosse verso il fuoco sulla spiaggia e in un baleno giunse nei pressi degli scogli; tre lance vennero rapidamente calate in mare e col vigore dei remi accostarono la nave naufragata. A bordo le grida degli uomini erano alte e il movimento frenetico, perciò nessuno si accorse del pericolo che veniva dal mare. I pirati arrembarono il vascello con l’aiuto di rampini e corde e, non appena furono a bordo, assalirono chiunque si trovassero davanti. I marinai attaccati, dapprima, offrirono una blanda resistenza, poi, riorganizzatisi, formarono un solido muro umano, contro cui ogni attacco risultava vano. Diversi colpi di moschetto riecheggiarono nella notte. A quel punto capii che stavolta Gaspard aveva trovato un osso duro da rodere anche per i suoi denti e decisi di dargli manforte. Detti ordine di calare in mare le ultime due scialuppe e mi diressi verso la battaglia. Gaspard, sorpreso dalla reazione degli attaccati, fu costretto alla difesa, asserragliandosi sul castello per poter respingere gli assalti del nemico. Incitai gli uomini a vogare con più foga per accelerare il nostro intervento, giungendo in breve sotto alle murate del nostro obiettivo. Indicai ai marinai
dell’altra lancia di aggirare la goletta, poi feci lanciare ai miei i rampini d’arrembaggio, coi quali salimmo a bordo. Sul ponte fummo accolti da diverse fucilate; la prima scarica lasciò a terra tre dei nostri e, subito, ci trovammo in difficoltà, rischiando di essere ributtati in mare. Se ciò non accadde, fu grazie alla tenacia del mio equipaggio. Ci lanciammo contro i nostri avversari in una mischia furibonda, dove le spade cozzavano contro altre spade, producendo piogge di scintille, sangue e moncherini, ma nessuno ebbe la meglio. Le nostre armi da fuoco erano scariche e dovevamo difenderci solo con le armi bianche, mentre gli altri, incitati dal loro corpulento ma deciso comandante, oltre a non tirarsi indietro dallo scontro, ogni tanto riuscivano a far partire qualche colpo di archibugio o di pistola. Due dei miei uomini stramazzarono al suolo proprio accanto a me, colpiti dal fuoco avversario, mentre io, dal mio canto, riuscii a infilzare uno dei loro, ma questo non risolse la situazione. Stavo per gridare a Gaspard di fuggire, quando, dal giardinetto, saltarono a bordo i marinai della seconda scialuppa. Gli avversari, presi alle spalle e alla sprovvista, vennero sopraffatti, lasciando sul tavolato una dozzina dei loro, massacrati dalla nostra furia. Il sangue dei morti e dei feriti colava in acqua scivolando giù per il bolzone. I superstiti si arresero immediatamente, ma Gaspard non si dimostrò tanto pietoso, ando subito a fil di spada gli ufficiali, tranne il comandante, che venne impiccato senza tanti complimenti all’albero maestro e lasciato lì a penzolare. La proposta, poi, fu sempre la stessa: O con noi, o in pasto ai pesci! Nessuno fece l’eroe. Dopo aver depredato la disgraziata nave, la incendiammo e, come sempre, il nostro capitano spartì il bottino in parti uguali fra tutti i componenti della ciurma, compresi gli ultimi arrivati, riservandone una piccola parte per tutta la confraternita. Io e lui ne ottenemmo come gli altri. Le nostre prigioniere ci guardavano da dietro ai vetri dell’oblò della loro cabina, chiuse là perché non sfruttassero l’occasione dei nostri arrembaggi per tentare la fuga.
«Donne!» esclamò uno dei nuovi marinai. «Cosa c’è? Non ne hai mai vista una?» gli chiese Gaspard. «Capitano, una donna a bordo porta sfortuna e qui ce ne sono tre...» «Sono nostre prigioniere, merce; e resteranno a bordo! Puoi sempre andare a far compagnia al tuo vecchio capitano...» l’uomo abbassò il capo. Gaspard si guardò intorno, ma nessuno fiatò. Tornati al campo, per festeggiare, vennero distribuite acquavite, pane, carne e frutta secca e mele. Solo gli uomini di guardia non ricevettero niente da bere. Il resto dell’equipaggio mangiò, bevve e danzò fino a cadere stordito dall’alcol. I primi raggi del sole trovarono tutti gli uomini addormentati. Mi ridestai con la testa che mi girava per la sbronza. Anche le guardie dormivano. Tutto era troppo calmo, persino i fuochi si stavano spegnendo. Barcollando, mi diressi alla tenda delle prigioniere e notai che l’uomo di guardia non c’era. M’infilai dentro, deciso, e trovai il marinaio nudo e svenuto sul giaciglio che doveva essere delle donne, ma di esse nessuna traccia. Realizzai che l’ira di Gaspard sarebbe stata terribile e, schiumante di rabbia, lanciai l’allarme e presi a calci ogni uomo che incontrai sul mio cammino. «Che succede?» grugnì il nostro capitano, uscendo seminudo dalla propria tenda. «C’è che questi maiali si sono addormentati e hanno fatto fuggire i nostri ostaggi!» urlai. «Maledizione!» imprecò. «Prendi subito degli uomini e ritrovale!» Ubbidii all’istante, prendendo con me i più decisi: Jerome il sordo, Juan il Catalano e Baptiste, il più sudicio di tutti. Bibe volle seguirci per forza. Ci inoltrammo nel bosco e seguimmo il sentiero principale, sbucando sul lato della collina che affacciava sulle paludi. Non fu difficile ritrovare le tracce delle fuggitive e, poco più di un’ora dopo, le avvistammo. Procedevano spedite, malgrado l’ingombro delle loro vesti. Iniziammo a correre verso di esse, convinti che le avremmo raggiunte in breve
tempo. Eravamo proprio nel mezzo di due acquitrini quasi asciutti, quando mi prese una strana sensazione. Qualcosa non andava. Troppa calma intorno, troppo facile raggiungerle. E poi erano in tre! Dov’era finita Marianna? Rallentai di qualche o e fu la mia salvezza. Dagli alti cespugli intorno sbucarono d’un tratto una dozzina di soldati, che fecero fuoco su di noi. Il sordo e Baptiste caddero fulminati all’istante. Juan e Il Catalano vennero feriti gravemente e subito catturati. Io, riparato dal corpo di Baptiste, presi solo una palla di striscio a un braccio. Bibe tirò fuori le pistole che teneva alla cinta e sparò sui soldati, colpendone due. Ci demmo alla fuga, mentre i militari ci sparavano addosso. Guadagnammo fortunosamente il bosco, riuscendo a far perdere le nostre tracce. Nascosti, attendemmo che i nostri inseguitori si fossero allontanati, poi ci addentrammo nel folto degli alberi, seguendo cautamente i sentieri. A un certo punto Bibe fece cenno di fermarmi. «Dobbiamo allontanarci in fretta o ci cattureranno» gli dissi serio. «Devo ricaricare le pistole» dichiarò, poi si sedette e cominciò a introdurre la polvere nelle canne. L’odore della laguna giungeva pungente fin là. Dovetti attendere che terminasse, poi ci rimettemmo in cammino. «Le donne ci sono sfuggite!» imprecai. «Quelle tre a causa dei soldati, l’altra non l’abbiamo nemmeno vista.» Già, l’altra, pensai. Dove sarà finita Marianna? Mi fermai per controllare intorno, ma vidi solo alberi e terra arida. «Smettiamo di cercare» dissi. «Le donne non sono più importanti ora. Dobbiamo avvisare Gaspard di quel che è accaduto. I nostri compagni sono in pericolo. Ci rimettemmo in marcia guardinghi, dirigendoci verso il nostro campo.
ando nei pressi del rifugio segreto di Gaspard e della sua piccola banda, la capanna dove mi aveva portato la prima volta, lacero e assetato, decidemmo di fare una sosta per riposarci. Il corpulento Bibe entrò, mentre io rimasi fuori a fare la guardia. Dopo neanche dieci minuti il mio compagno russava. Decisi di aspettare ancora un po’, prima di chiamarlo. Proprio in quel momento un rumore leggero attirò la mia attenzione. Mi nascosi in mezzo ad alcuni cespugli, pronto a metter mano alla spada, e la mia sorpresa fu enorme quando, dal fitto del bosco, vidi spuntare Marianna, vestita con una camicia di tela grezza e un paio di pantaloni tutti strappati; alla cintura pendeva un coltellaccio. Furba! pensai, ha indossato gli abiti di quel disgraziato che se l’è fatta scappare da sotto il naso. Lei, cauta, si avvicinò alla casupola e fece per sbirciare all’interno da una finestrella. Le saltai addosso deciso, sorprendendola completamente. Si dibatté nel tentativo di liberarsi di quella stretta, ma più si dibatteva, più io la stringevo forte. Alla fine si accorse che ero io quello che la teneva ferma e si acquietò. Nella lotta, la camicia si era strappata e lasciava scorgere i tumidi seni della ragazza. La sua pelle chiara aveva acquistato un colore rosa ambrato, ma io rimasi cieco, attirato solo dalla sua bellezza. Non capii più niente e li baciai; lei non si ribellò. In un attimo tutto scomparve e la mia vita fu solo il suo corpo che pulsava, mentre si strofinava al mio. Le mie mani correvano veloci su quei fianchi torniti e accarezzavano le sue grazie, fresche e lisce come l’ebano. Un turbine di sensazioni si impadronì di me, facendomi schiavo del suo sesso; nemmeno il leggero dolore ch’ella provò, quando la penetrai, ci fece smettere e tornare alla realtà. Niente ci distrasse dal nostro desiderio; poi rimanemmo lì, l’uno nell’altra, avvinghiati a noi, scevri da ogni contatto col mondo che ci circondava. Marianna mi guardò e mi sorrise, felice; ricambiai quel saluto meraviglioso e mi sentii cadere dentro ai suoi occhi. Mi prese la mano e mi baciò e io mi sentii suo schiavo, pronto a morire per non perderla. «Ti amo» mi sussurrò dolcemente. Per un attimo il dubbio mi turbinò nella mente, riempiendomi i pensieri.
«Anch’io...» dissi a malapena, mentendo a me stesso. «Perché sei tornata indietro?» le chiesi. «Mi sono persa» rispose. Dei rumori lontani ci distrassero. «Tuona» feci, tendendo l’orecchio. No, erano colpi di cannone. Anche Bibe fu svegliato da quei rumori e non capii se rimase più stupito per quel che vide, o per lo scontro che aveva intuito essere in corso. Uscimmo di corsa dal bosco e proprio allora un drappello di soldati a cavallo spuntò tra la vegetazione. Strinsi Marianna a me, tirandola fra i cespugli più alti. I soldati arono veloci senza vederci e si diressero verso il mare. «Gaspard è in pericolo!» esclamò Bibe. Man mano che ci avvicinavamo al mare, il rumore dello scontro si faceva sempre più distinto e forte. Echi di fucileria ci giunsero chiari, assieme a grida e bestemmie. Ci mettemmo al riparo degli alberi che costeggiavano le pendici del monte e il fato ci fu propizio. Un drappello di soldati ò proprio allora al limitare della fitta macchia, trascinandosi dietro alcuni marinai del Fenice, quelli solitamente incaricati di sorvegliare il fuoco che accendevamo in cima alla collina per far naufragare le navi che poi depredavamo. Incatenati com’erano, non potevano opporre alcuna resistenza. L’ufficiale che comandava quella piccola schiera smontò da cavallo e scelse degli alberi frondosi, segnandoli con alcuni colpi della sua grossa spada, poi fece un cenno e gli sventurati vennero trascinati a forza dai carcerieri, mentre gli altri soldati puntavano loro contro le armi, chi le alabarde, chi delle lunghe pistole a tamburo a ruota, che riconobbi perché il capitano della mia vecchia nave ne aveva ricevuto una in dono da parte di un suo amico, ufficiale a Le Havre. A turno, quegli sciagurati, vennero accostati alle alte piante e impiccati senza tanti complimenti. Non ci fu scampo per chi affrontò il supplizio con dignità, né per chi tentò di ribellarsi, né per un paio che tentarono di fuggire, inseguiti e infilzati. Fu uno spettacolo terribile, che mi chiuse lo stomaco, vedere quei corpi che si dibattevano negli spasmi di una fine più lenta di quella che avrebbero dovuto
fare. Nessuno ebbe pietà di loro, nemmeno dopo morti, lasciando i loro corpi a penzolare, mossi dalla brezza del tardo pomeriggio. Uscimmo dal bosco dopo un bel po’ che i soldati se n’erano andati. Gli echi della battaglia ci giungevano tuttora chiaramente. Un gruppetto di marinai resisteva ancora, asserragliato a bordo del Fenice, disalberato e incagliato contro gli scogli. Dalla collina vedevamo chiaramente lo schieramento di cavalleggeri sulla spiaggia e, in lontananza, altre navi a bloccare ogni via di fuga. Un colpo di colubrina partì dalla nave, andando a esplodere sul bagnasciuga. Subito una salva di fucileria partì dai soldati, seguita da un colpo di cannone, che si abbatté sulle martoriate strutture del brigantino. D’un tratto una bandiera bianca cominciò a sventolare dal cassero di poppa; le armi tacquero e vennero lanciate fuori bordo. Gli uomini attesero a braccia alzate, disposti in fila, l’uno accanto all’altro. Diverse lance vennero calate in acqua dai soldati, che, armati fino ai denti, si diressero verso la nave. Una volta a bordo legarono tutti i marinai e li trasbordarono a piccoli gruppi sulle imbarcazioni. In piedi, sulla prima barca, stava un uomo con in capo un gran cappello piumato e una giacca di velluto marrone scuro, dalla quale fuoriusciva il gran colletto di pizzo inamidato di una candida camicia; polsini, anch’essi di pizzo, facevano bella mostra di sé appena al di fuori delle maniche della giacca. Lo riconobbi per la sua aria distaccata e superiore al contempo. Gaspard aveva deciso di arrendersi, ma mostrando tutto il suo disprezzo verso chi lo aveva vinto. Sbarcò sulla spiaggia con le catene ai piedi, che egli portava come comodi stivali di camoscio sulla pelle nuda. Mentre guardavamo questa scena, fummo circondati dai soldati. Bibe se ne accorse per primo e, voltandosi, fece l’atto di prendere le pistole, ma non ne ebbe il tempo, perché venne infilzato con la baionetta da un giovane sergente. Egli strabuzzò gli occhi per la sorpresa e cadde al suolo senza un gemito.
Io e Marianna fummo fatti prigionieri e condotti, legati, fino alla spiaggia. La devastazione regnava ovunque. Il nostro campo era pieno di crateri e cadaveri. Piante e tende bruciavano assieme, sollevando un denso fumo nero. A un certo punto un gobbo si fece largo tra i soldati, poi ci vide e cambiò direzione. Fece un profondo inchino dinanzi a Marianna, ordinando ai soldati di liberarla. Io fui guardato di traverso. Se potessi ti spellerei con le mie mani, fino a strapparti il cuore, fu il discorso che mi fecero quegli occhi chiari. «Mademoiselle» disse, rivolto a Marianna «Le vostre sorelle sono in salvo e in viaggio verso la residenza del duca di Saint Jacques.» Poi si voltò e, rivolgendosi all’uomo col cappello disse, con grande enfasi: «Gaspard, amico mio!» e spalancò le braccia verso di lui. «Quanto tempo senza vederci!» «E non ti avrei voluto rivedere ancora per lungo tempo!» disse. «Questa volta è diverso, amico mio...» «Già. Stavolta sei tu il padrone.» «Noi siamo soci, Gaspard, e io non abbandono i miei soci in cattive acque, specialmente se poi sono anche miei amici.» «Quando siamo stati amici?» «Non ho mai smesso di interessarmi a te, Gaspard e ti dico che i tuoi servigi alla Corona saranno riconosciuti. In nome dell’amicizia che ho sempre avuto per te, ti chiedo di aver fiducia.» «Avrò fiducia in te solo dopo che mi avranno impiccato» gli rispose placido. «Non credo che ti darò questa soddisfazione...» Mentre Marianna veniva liberata, io fui strattonato dai militari e trascinato verso i miei compagni già in catene. «Lasciatelo!» urlò lei, ma il gobbo fece cenno di proseguire. «Dove lo portate?» gridò Marianna, trattenuta dai soldati.
«A Marsiglia, Mademoiselle» rispose il gobbo. «Verrà processato per i suoi crimini.» «Dimmi, almeno, come ti chiami...» mi gridò di nuovo. «Alonso» feci. «Alonso, e poi?» mi domandò ancora. «Solo Alonso.»
***
Due anni di bagno penale mi avevano cambiato profondamente. Ora odiavo il mondo con tutto me stesso, ma non potevo più sperare di potermi vendicare: il gobbo e il duca di Saint Jacques erano morti, entrambi per mano degli imperiali. La guerra mi aveva tolto la possibilità di soddisfare la sete del loro sangue. La lurida feccia come me, ora, poteva bramare soltanto di far compagnia ai topi delle fogne, o di imbarcarsi su qualche nave, e io mi ritrovai sulla banchina del porto a contemplare la linea filante della nave con le insegne regali; i miei pensieri erano rapiti dai ricordi della mia vita. Fenice, lessi. Ha lo stesso nome della vecchia nave di Gaspard, pensai. Salii sulla erella con le gambe che mi tremavano per l’emozione. Detti il mio nome al nostromo, il quale mi fece firmare la lettera d’imbarco, mettendomi in mano un sacchetto di monete. «Avanti un altro!» urlò, colla sua voce rozza. Quando alzai gli occhi rimasi fulminato per lo stupore: Gaspard stava in piedi sulla turga centrale, fiero e altezzoso come sempre, ostentando il suo cappello piumato contro il vento. Mi scrutò per un attimo, poi mi fece cenno di avvicinarmi. «El Moro!» chiamò con grande enfasi. «Per tutte le sirene dei sette mari, sei l’ultimo che avrei mai pensato di vedere in questo mondo. Ti facevo già ad arrostire all’inferno!»
«Anch’io!» risposi. «Il giudice è stato benevolo. Scommetto che voi c’entriate qualcosa...» Rise divertito. «C’è tanta gente che mi aspetta, laggiù, ma dovrà avere ancora pazienza. Sei stato pagato?» «Sì, capitano.» «Bene!» esclamò «Allora offrimi da bere.» Quello era giorno di mercato e nella piazza grande c’era aria di festa. Molti marinai vi si recavano per fare acquisti, prima di finire i soldi della paga, giocandoseli ai dadi o alle carte nelle osterie. Qua e là saltimbanchi e giocolieri intrattenevano bambini e adulti, mentre l’aria era piena dei profumi delle spezie giunte da terre lontane. Agli angoli della piazza e dentro i canti delle vie, ragazze discinte adescavano uomini di ogni età e giovani effeminati si offrivano ai rudi marinai. I mendicanti importunavano chiunque dimostrasse di avere un soldo da spendere, ma tra i banchi e la folla, i veri padroni erano i borsaioli. La taverna era lurida come tutte le altre taverne di qualsiasi porto, ma l’acquavite era buona. «Dicono che l’oste pisci dentro ai barili per migliorarne il sapore» mi disse Gaspard ridendo forte della propria battuta, mentre tracannava il terzo bicchiere. «Dunque, amico mio, hai deciso di tornare sotto il Re...» fece. «Non ho scelta» risposi. «Alla fine questo è l’unico mestiere che so fare. Dove siamo diretti?» gli domandai. «Dunkerque. Siamo sotto il comando di Jean Bart e dobbiamo scortare delle navi mercantili nel canale, ma, detto tra noi, io ho altre idee...» disse parlando sottovoce e mostrandomi una carta di Cuba.
***
«Non c’è altro?» chiese l’uomo elegante, aggiustandosi la bianca parrucca incipriata. «No, mio signore» rispose il notaio «Questa è l’unica testimonianza che abbiamo potuto trovare.» «Qualcun altro ne è a conoscenza?» «No. Il mio uomo è fidatissimo e ne rispondo come di me stesso.» «Voi cosa ne pensate?» «Sono ati più di cinquant’anni, signor principe. Nessuno l’ha saputo prima; nessuno lo saprà d’ora in poi.» «E quest’uomo, questo... Moro, che fine ha fatto?» «Con tutto il rispetto, Signore, era un volgare pirata; sarà sicuramente morto in qualche scontro con gli spagnoli o gli inglesi. Con me ho anche una lettera del governatore di Fort de , alla Martinica, in cui si dice che quel suo amico, quel Gaspard, è deceduto per una ferita infertagli da una palla alla testa nel 1689 ed è stato sepolto in mare. Vostro padre...» «Signor notaio» lo interruppe il principe, andosi un fazzoletto sul collo sudato, «il mio segretario le pagherà la cifra pattuita, più un piccolo extra per il silenzio del suo emissario.» Il notaio comprese subito che doveva tacere e si allontanò deferente. Non appena fu uscito, il principe prese un piatto d’argento che si trovava su di un mobile, dietro la sua scrivania e vi mise dentro tutte le carte che stavano nel bauletto e dette loro fuoco. Con una di queste si accese una lunga pipa di radica e, incurante del fumo e dell’odore di bruciato, si mise a contemplare la fiamma che ardeva intensa. «Io, Juan Alonso Rodrigo de Veraz Castillo, principe di Saragoza e barone di Parma, figlio di un pirata. Ridicolo!»
Il Tesoro più Prezioso
di Chiara Zanini
Linette inspirò a fondo, cercando di incamerare almeno una boccata d’aria; quel dannato corsetto rigido la faceva soffocare. Certo, era soddisfatta dell’abito, rubato a una donna che, a giudicare dal bagaglio sfarzoso, doveva essere come minimo una contessa. Era di un bel velluto verde brillante e in ottime condizioni, ma il tessuto pesante la faceva imperlare di sudore e aveva l’impressione che le costole, costrette nella morsa del bustino, stessero per sbriciolarsi. Non sarebbe mai riuscita a capire come potevano certe donne muoversi con grazia, parlare e perfino sorridere imprigionate dentro simili strumenti di tortura. Scosse la testa per scacciare quei pensieri molesti: aveva una missione da compiere, non poteva distrarsi. Si guardò intorno con noncuranza, osservando la gente che si accalcava sulle banchine. Veracruz era una città straordinaria e il suo porto, affollato da navi possenti capaci di sfidare l’oceano, non poteva lasciarla indifferente. L’allegro chiasso che guizzava tra la ressa di persone la distraeva ma, vagando con lo sguardo, riuscì lo stesso a individuare la sua preda che eggiava in mezzo alla confusione. Linette sorrise tra sé e spostò lo sguardo su Killian che, in piedi al suo fianco, alzò con espressione ironica un sopracciglio, per invitarla a dare inizio alla recita che avevano provato e riprovato decine di volte. Fergus, seduto dietro il finto banchetto d’imbarco che avevano allestito davanti a una nave mercantile, la guardava di soppiatto con aria maliziosa. Linette aspettò ancora un istante, per assicurarsi che l’uomo al quale era rivolto lo spettacolo si avvicinasse abbastanza da sentirla, poi esclamò a pieni polmoni: “Quindi mi sta dicendo che non troverò nessun posto sulla vostra nave?” Piantò lo sguardo dritto in quello di Fergus, con l’impressione che delle fiamme stessero per uscirle dagli occhi e incenerirlo. Il maledetto scozzese pel di carota pareva incapace di cavarsi dalla bocca un sorrisetto divertito. Per fortuna la
matassa di barba lanuginosa che non tagliava da mesi nascondeva quasi del tutto le labbra. A giudicare dalle grinze a lato degli occhi il farabutto era fuori di sé dal divertimento, ma inghiottì chissà come una risata prima che schizzasse fuori, racimolò un’espressione grave e rispose, anche lui quasi gridando: “Sono spiacente, signora, ma non posso proprio aiutarvi.” Aveva calcato il tono sulla parola ‘signora’ senza riuscire a trattenere l’ilarità, tanto che Linette sentì prudere le mani per la voglia di appioppargli un pugno in pieno viso, ma un’occhiata al cipiglio irritato di Killian la convinse a lasciar perdere. “Oh, ma è una vera disdetta!” gemette, alzando le braccia al cielo, per riabbassarle appena si accorse che l’uomo a cui era rivolta l’intera messinscena si era fermato proprio alle sue spalle. Non era il caso di esagerare, Killian gliel’aveva ripetuto fino alla nausea, così si sforzò di abbassare il tono della voce. “Lei non capisce, per me è assolutamente necessario raggiungere Siviglia il prima possibile” riprese piazzando le mani sul banchetto e sporgendosi in avanti con enfasi. “Ho ricevuto stamattina la notizia che la mia cara zia soffre di violente emicranie, devo andare da lei per esserle di conforto in un momento così difficile.” Il petto le vibrò per una risata irrefrenabile, all’espressione comica di Fergus, che aveva spalancato la bocca per la sorpresa. Sapeva di essere brava a recitare; quando ci si metteva, era un’attrice provetta. Si morsicò con forza un labbro prima di scoppiare definitivamente a ridere, e riuscì perfino a spremere dagli occhi la parvenza di una lacrima, che era di divertimento ma sperava potesse are per disperazione. “È davvero sicuro di non poter trovare un posto, nemmeno nelle sentine? Posso pagarla bene. Lei capirà, non posso restare lontana dalla zia finché soffre a quel modo…” Fergus continuava a fissarla stralunato. Stava per parlare, ma si zittì quando l’uomo alle sue spalle fece un o avanti e si fermò di fianco al banchetto, proiettando con la sua mole un’ombra sulle carte che lo ingombravano. Linette raddrizzò le spalle, rimangiandosi un sorriso esultante prima che potesse comprometterla; il pesce aveva abboccato. “Signora, sono desolato di dovermi intromettere in questa discussione, ma non ho potuto impedirmi di sentire che vi trovate in una situazione incresciosa” disse
il nuovo venuto. Linette inspirò, di nuovo lottando con il corpetto che le stritolava il busto, poi si voltò lentamente, cercando di appellarsi a tutte le divinità del fascino che conosceva per risultare irresistibile. A giudicare dall’occhiata lubrica che l’uomo le rivolse, ci era riuscita. “Sì, signore, sono davvero disperata” disse squadrandolo da capo a piedi. Visto da vicino era meno ripugnante di quanto si aspettava, se si escludevano i denti marci e il ventre prominente, che stava quasi per schizzare fuori dalla casacca. “Devo partire oggi stesso per la Spagna, ma ho già girato tutto il porto e non ho trovato posto in nessuna nave. Pare che non ci sia alcun modo di salpare da Veracruz, di qui a parecchi giorni.” Chiuse gli occhi per un istante, sia perché le mancava il respiro sia perché avrebbe aggiunto una nota melodrammatica alla sua interpretazione, poi li riaprì e restò in attesa. La sua vittima si ò un dito lungo il colletto, come se non potesse sopportare oltre la calura del mattino. Un sorriso compiaciuto gli attraversò le labbra. “Forse potrei esservi di aiuto” disse. Era il momento di stringere i nodi della trappola. “Non vedo proprio come potreste!” proclamò Linette alzando la voce di un’ottava. Si costrinse ad abbassarla quando si rese conto che stava starnazzando come un’oca, ma l’effetto che voleva era stato raggiunto. “A meno che non abbiate modo di camminare sulle acque come Nostro Signore e portarmi in braccio dall’altra parte dell’oceano, è improbabile che voi possiate aiutarmi.” Notò inorridita che una nube aveva attraversato il volto dell’uomo; forse aveva esagerato, e ne ebbe la conferma quando vide che Killian, al suo fianco, si era irrigidito, stringendo le labbra in una evidente smorfia di disapprovazione. Linette sentì un rivolo di sudore colarle lungo la schiena. Dopo un attimo di incertezza, l’uomo parve riprendersi, recuperando il suo sorriso tanto ampio quanto disgustoso, e lei tornò a respirare. “Lasciate che mi presenti,” riprese l’uomo, incurvando le spalle con finta modestia. “Sono don Pedro Vázquez y Serrano, e si dà il caso che io sia il comandante di un galeone in partenza, giustappunto per Siviglia, e proprio stamane” disse. Linette represse a stento un sogghigno. Conosceva alla perfezione il nome dell’uomo, e praticamente qualsiasi cosa che aveva detto o fatto nelle ultime due settimane, visto che Killian gli era stato appiccicato notte e giorno per spiarlo. Si
finse comunque all’oscuro di tutto, sbattendo con cura le ciglia per fissarlo ammirata, cercando di distogliere lo sguardo dalla dentatura raccapricciante. “Baronessa Linette de Beaufort. Sono oltremodo lieta di fare la vostra conoscenza,” disse, sfarfallando un po’ troppo sulla parola ‘oltremodo’. Si esibì in un inchino perfetto, per poi sforzarsi di assumere l’espressione più ottusa del suo repertorio. L’uomo si accigliò di nuovo. Era un osso duro, non concedeva facilmente la sua fiducia. “Ma allora vostra zia …” disse, perplesso. “La mia cara zia, di origini si, è andata in sposa a un marchese andaluso. Lei è tutto ciò che mi è rimasto al mondo” lo anticipò Linette, strizzando gli occhi per far uscire qualche altra lacrima, il che, con quel caldo opprimente, non era del tutto improbabile. “Da circa due anni mi sono stabilita nelle sue tenute, ma mi ha permesso di lasciarla otto mesi fa, per venire a visitare le colonie. Sperava che qui avrei potuto introdurmi nella buona società” continuò abbassando le ciglia con aria pudica, lasciando intendere che la fantomatica ‘cara zia’ desiderava anche che la nipote si accaparrasse un buon partito. “Sono giunta qui insieme alla mia dama di compagnia, ma purtroppo è deceduta qualche mese fa per febbre terzana. E ora che ho saputo che mia zia è tanto malata non posso sopportare di starle lontana un giorno di più.” Glielo avevano sempre detto, i suoi occhi trasparenti come l’acqua sapevano fare miracoli, e si accorse subito che, finalmente, era riuscita a vincere le difese dell’uomo. Il comandante deglutì visibilmente, poi si profuse in un inchino, le prese con fervore la mano e la baciò. “Non so se oso troppo e mi dimostro troppo importuno, ma sarei estremamente lieto se voi, signora, accettaste di viaggiare sulla mia umile nave. Partiremo nella tarda mattinata e, oso sperare, i venti ci saranno favorevoli così da farci raggiungere la Spagna prima del previsto” proclamò con enfasi, per poi rifugiarsi in un colpetto di tosse. “Anche se… vi confesso di sperare che il viaggio durasse molto più a lungo, per avere il privilegio di conversare con voi per parecchi dei mesi a venire.” Era fatta; Linette represse un grido di esultanza e si limitò ad abbassare le ciglia con finta sorpresa. Il sole le stava cuocendo le guance, ma avrebbe giocato a suo favore: il rossore si poteva far are per timidezza. “Non posso credere che la sorte sia stata così generosa con me” mormorò. “Sarebbe un onore, un vero onore approfittare di una simile gentilezza” continuò, notando il guizzo di gioia che sfolgorava sul volto dell’uomo. “Darò disposizioni perché veniate pagato
profumatamente per l’incomodo.” Il comandante, come si aspettava, scosse la testa con vigore. “No, no, cara baronessa. Insisto perché siate una mia gradita ospite.” Perfetto, pensò Linette. Stava andando tutto come avevano previsto, e lo sguardo soddisfatto di Killian la colmò di beatitudine. “Vi ringrazio di cuore per la vostra cortesia” gridò, per poi sforzarsi di riportare il tono a un livello più ragionevole. “Ovviamente, verrà con me anche il mio domestico,” aggiunse con noncuranza, indicando Killian con un gesto della mano. Alto e aitante com’era somigliava ben poco al servitore di una fanciulla di buona famiglia, ma il ribaldo fu abbastanza furbo da accennare un inchino compito e abbassare lo sguardo, prima che il comandante potesse insospettirsi. L’uomo non riuscì a trattenere un moto di fastidio. “Ovviamente” rispose secco, squadrandolo con aria altezzosa, poi tornò a girarsi verso di lei. “Volete seguirmi? Immagino abbiate del bagaglio con voi, posso chiedervi l’onore di scortarvi presso la mia nave, in modo che possiate mettervi a vostro agio?” Linette abbozzò un sorrisetto di circostanza e afferrò con un po’ troppa irruenza la mano che il comandante le stava tendendo, che per fortuna, estasiato com’era, non si accorse di nulla. “Ma certamente. Incontrarvi è stata una vera benedizione, non sapevo più cosa fare” disse lanciando a Fergus, che era ancora seduto dietro al finto banchetto e la guardava allibito, un’occhiata trionfale. “Non preoccupatevi del bagaglio,” continuò poi, rivolta a Killian, che, prevedendo dove sarebbe andata a parare, la guardava di sbieco come un corvo che arruffa le penne, “se ne occuperà il mio domestico.” Il resto fu una eggiata. Salì sul galeone con Killian alle spalle che ansimava trascinando un’infinità di borse, che avevano rubato qua e là e riempito di cianfrusaglie. Finalmente, poteva rilassarsi un po’. Ora toccava a Killian mettersi al lavoro, e iniziò non appena furono a bordo, guardandosi intorno con attenzione e studiando ogni dettaglio della nave e del suo equipaggio. La cabina che il comandante le aveva assegnato era piccola, ma confortevole. Il mobilio consisteva solo in un letto di una piazza e mezzo, un baule e una comoda poltrona, ma Linette non aveva intenzione di lamentarsi. Per farle posto, il comandante doveva aver sloggiato qualcuno dei suoi sottufficiali, costringendolo a dormire su una branda negli alloggi della ciurma. Non doveva
aver accettato con entusiasmo la novità. Quando, finalmente, furono soli, Linette esplose. “Levami di dosso quest’affare, che non riesco a respirare!” ordinò a Killian, che aveva già riaperto la porta per sbirciare nel corridoio. “Dovresti tenerlo ancora un po’” rispose lui, lanciando intorno occhiate prudenti. “L’allocco potrebbe tornare.” “Ma sei matto? Qua dentro non si respira. Io non lo tengo un istante di più,” disse stizzita. Dopo tanta fatica, si meritava come minimo una montagna di elogi. Killian dovette intuire la sua irritazione, perché chiuse la porta, si avvicinò fissandola con un luccichio in quei suoi occhi neri come il carbone, e le regalò uno dei suoi irresistibili sorrisi di sbieco. “Sei stata brava,” disse posandole con delicatezza una mano bollente sul collo, “non avrei saputo fare di meglio.” Poi, l’afferrò per la vita e la fece ruotare di scatto su se stessa, cominciando a tirare i lacci sulla schiena per allargare il corpetto. Era sempre così; le girava intorno come un giaguaro, guardandola come se volesse inghiottirla in un boccone, poi non la toccava nemmeno. Non voleva ‘attentare al suo onore’, diceva. Proprio un pirata gentiluomo doveva toccarle in sorte. “Basta che serva a qualcosa,” borbottò lei, abbandonandosi senza fiato agli scossoni con cui tentava di liberarla da quell’inferno. Quando, finalmente, la pressione si fu allentata, Linette si buttò a pesce sul letto, concedendosi un lungo, delizioso, sospiro. “Servirà, servirà. Il tesoro dev’essere qui, da qualche parte” rispose Killian, guardandola con un’occhiata strana. Doveva aver notato solo in quel momento la scollatura generosa dell’abito. Linette mugolò soddisfatta. La notizia che avevano ricevuto un mese prima era delle più allettanti. ‘Il diciotto luglio 1641 partirà da Veracruz un galeone diretto a Siviglia, con a bordo uno dei tesori più preziosi che si possano immaginare.’ Non aveva chiesto a Killian da dove arrivasse la soffiata, lui aveva le sue fonti e non le condivideva mai con nessuno. Si era occupato lui di tutto: aveva studiato la rotta che la nave avrebbe seguito, il comportamento del comandante e dell’equipaggio durante l’imbarco e aveva formulato il piano per introdursi nella nave al momento della partenza. Avrebbero potuto limitarsi a un semplice
arrembaggio, come più o meno tutti i pirati della zona, ma Killian era fatto a modo suo. Secondo lui, era più efficace avere già a bordo del galeone qualcuno della propria banda, in modo da scovare in anticipo dov’erano le merci più preziose, e poterla sabotare dall’interno prima dell’arrivo del resto dei pirati. E quello che decideva lui non si metteva in discussione. Killian era il capo. Quanto a lei, aveva avuto tutto il tempo per dare libero sfogo alla fantasia, immaginandosi fino all’ultimo doblone del tesoro che avrebbero trovato, e le decine di abiti e gioielli che avrebbe comprato con la parte che le sarebbe toccata di quella fortuna… Un sogno delizioso. “L’hai colpito, quel babbeo” disse Killian strappandola ai suoi sogni a occhi aperti. C’era davvero, quella nota di gelosia nella sua voce, o se l’era solo sognata? “Che credevi? Ci so fare, io, con gli uomini” rispose, offesa più di quanto avrebbe voluto. “Certo, ricordo bene come hai fatto perdere la testa a quell’ammiraglio, tre mesi fa” replicò lui e, stavolta, non c’erano dubbi sul tono ironico. Suo malgrado, Linette sentì che le guance diventavano roventi. Quella volta era stata un fiasco totale; doveva distrarre la preda il tempo sufficiente per consentire alla banda di salire sulla nave e trafugare il bottino, ma l’uomo si era dimostrato irreprensibile. Era troppo timorato di Dio per permettersi anche solo di guardarla negli occhi, ed era letteralmente fuggito quando aveva provato a parlargli. “Tu pensa a fare il tuo lavoro” sbottò, velenosa. Ma Killian non aveva intenzione di lasciar perdere. “Stavolta andrà meglio” la canzonò. “Non sei ‘oooltremooodo’ lieta di conoscere il comandante di questa nave?” “Se non la smetti ti stacco la lingua e la appendo al pennone più alto di questa dannata bagnarola.” “Diavolo di una donna, e io ti…” rispose Killian, ma si interruppe quando sentì un lieve bussare alla porta. Linette schizzò in piedi, facendo a Killian dei gesti frenetici per intimargli di rimettere a posto il corpetto. “Chi è?” chiese trattenendo a stento un singulto
quando lui tirò con forza i primi lacci. Dietro la porta, le rispose la voce incerta del comandante del galeone. “Er… Va tutto bene, signora? Mi è sembrato di sentire una discussione, e temevo che…” “No, tutto bene” lo interruppe Linette gridando per impedirsi di scoppiare a ridere per il solletico. Sentire le mani di Killian così vicine al suo corpo le faceva sempre quell’effetto. “Posso… Potrei chiedervi di aprire la porta, se non vi è troppo di disturbo? Oserei domandarvi una cosa, ma non so se…” “Tra un istante sarò da voi” ansimò Linette di nuovo senza fiato, voltandosi verso Killian, che le premeva ancora le mani sulla schiena. “Diavolo di una donna, eh?” gli sussurrò, notando divertita accendersi una luce nei suoi occhi scuri. Si fermò un istante a rimirarsi nello specchio che troneggiava a lato del letto, l’unica concessione al lusso della cabina. La vita le era tornata sottile come un giunco; valeva la pena di rinunciare a respirare, se i risultati erano questi. Si sistemò i capelli quel tanto che bastava per tornare decente, e si affrettò ad aprire la porta. “Comandante! Che piacevole sorpresa!” gorgheggiò, notando divertita che Killian, alle sue spalle, fremeva di indignazione. Quella missione, in fondo, si stava dimostrando molto più interessante del previsto. Il comandante inarcò un sopracciglio, perplesso. “È qui anche il vostro domestico? Credevo di avergli assegnato un posto sul ponte di batteria” disse. Linette scosse la testa, divertita solo all’idea che Killian, con il suo aspetto nobiliare malgrado gli abiti dimessi, fosse disposto a are la notte da quelle parti. “Non badategli. Sta solo riordinando il mio bagaglio. Sono tutta per voi.” L’uomo sorrise compiaciuto. Poteva anche essere il comandante di una nave da guerra, ma in fondo era un sempliciotto. “Mi rendo conto di essere un po’ precipitoso ma, forse, la signoria vostra gradirebbe una eggiata sul ponte di coperta?” chiese. Linette sussultò. Sapeva che sarebbe stato necessario ‘socializzare’ con quello smidollato, ma sperava non dovesse accadere così presto. “Non avete guardato fuori, comandante? Temo che il tempo volga al brutto. Ho troppo timore di prendere un’infreddatura, avventurandomi all’aperto” disse. Killian, alle sue spalle, pareva a disagio; camminava frenetico su e giù per la cabina, torcendo i
suoi abiti come se tenesse per il collo il governatore di Veracruz e gettandoli di malagrazia nel baule. La bugia che si era inventata era pietosa, e la vide riverberarsi sul volto del comandante. “Un’infreddatura. A luglio. Dite davvero?” chiese inarcando un sopracciglio. “Non si può mai sapere quel che può portare questo tempo imprevedibile. Magari, si prepara un temporale, chissà?” rispose Linette, affrettandosi a prendere il comandante sottobraccio. “Ma… allora non potrete rifiutare una cena in mia compagnia, questa sera, nella mia cabina personale. Che ne dite? Così sarà sventato il pericolo di un’infreddatura. Certo, siamo a bordo di una nave, ma possiamo permetterci tutte le comodità, non temete. Vi farò preparare una cena sontuosa, degna di quella creatura adorabile quale voi siete.” Non aveva scampo, doveva accettare, capì Linette ingoiando fiele. “Oh, sarei oooltremooodo lieta di cenare con voi, questa sera” trillò, ridacchiando quando sentì che Killian, alle sue spalle, si lasciava sfuggire con un grugnito un boccale di peltro pieno d’acqua. Il comandante, a quel baccano, si irrigidì e lo squadrò con un’occhiata malevola, ma era troppo eccitato per perdere tempo a rimproverare un domestico maldestro. “Benissimo, signora. Vi farò scortare nella mia cabina questa sera, alle otto in punto, siete d’accordo?” “Perfetto!” disse Linette, riuscendo perfino a far sbocciare sulle guance un delicato rossore che sperava potesse are per gioia pura. “Mi permettete, ora di ritirarmi? Così potrò prepararmi per l’appuntamento…” disse, poi gli sbatté la porta in faccia e si girò verso Killian, che la fissava furioso. “Dovevi proprio accettare? Come farò a proteggerti se non ti avrò sott’occhio?” disse lui quasi digrignando i denti. Si sforzava di tenere basso il tono della voce, ma la collera, dal modo in cui sibilava ogni parola come se lo disgustasse, era evidente. Linette si sentì invadere da una sensazione di beatitudine. La parola ‘proteggerti’ le sventolò intorno al corpo come un refolo d’aria fresca. Sapere di aver fatto vibrare le corde della gelosia di Killian era una delle soddisfazioni maggiori che
la vita poteva riservarle. “Quante storie” disse agitando una mano davanti alle guance incandescenti. Altro che infreddatura; quella dannata cabina pareva un forno. “Se terrò impegnato il comandante, tu potrai andare in giro per la nave, alla ricerca del tesoro. E, se per caso fosse proprio nella sua cabina, tanto meglio, riuscirò a scovarlo e potremo andarcene da qui” continuò, gettandosi di peso sul letto e stiracchiandosi con voluttà fino all’ultimo muscolo. Quella finzione stava cominciando a stancarla. Non era mica facile inventare una fandonia dietro l’altra. Killian non pareva per nulla placato. “E se tenta di spingersi oltre? E se scopre che non sei una baronessa e chiama le guardie? E se cerca di farti del male?” “E se non intendessi rifiutare le sue proposte?” replicò Linette, indispettita. Lo vide sbiancare in volto, e serrare le labbra in una linea stretta di pura frustrazione. “Non guardarmi così. Non sono una donnaccia” mugolò Linette, sentendosi rimpicciolire sotto il suo sguardo severo. Lentamente, le ombre scivolarono via dal volto di Killian. Si sedette al suo fianco, e le prese una mano. Il suo calore le guizzò dalle dita lungo tutto il braccio. “È solo che non voglio che ti accada nulla di male” mormorò, e lei sentì la felicità rintoccarle nel petto come una campana. Recuperò in un attimo il buonumore. “Non ti preoccupare. Basta seguire il tuo piano, l’hai studiato tanto a lungo che nulla può andare storto. Troveremo il tesoro e faremo il segnale, così quella dannata testa da forca di Fergus assalterà la nave. E, se qualcosa non va per il verso giusto, avviseremo comunque i nostri compagni, così verranno a prenderci.” Killian annuì, si rialzò e strinse le labbra, portandovi una mano , come faceva sempre quando pensava a qualcosa. Linette sapeva per esperienza che, in quei momenti, non c’era verso di distoglierlo dalle riflessioni. Lo conosceva abbastanza bene da essere certa che, ormai, aveva archiviato il ‘pensiero Linette’ e stava decidendo quale doveva essere la prossima mossa. “Ora, se non ti dispiace, devo prepararmi per la serata che mi aspetta” disse alzandosi anche lei con un sospiro. “Quanto a te… sciò,” continuò, indicandogli la porta della cabina, “devi andare in giro per il galeone a caccia di tesori.” ***
Moriva dalla voglia di spalancare la bocca in uno sbadiglio liberatorio, ma si trattenne. Killian era fuori, chissà dove, a esaminare la nave palmo a palmo. Era sicura che non lo avrebbero scoperto, quando quel dannato irlandese decideva di rendersi invisibile nessuno era capace di stanarlo. Non aveva comunque motivo di preoccuparsi; dovunque fosse stato, a mezzanotte in punto, come d’accordo, l’avrebbe raggiunta nella cabina del comandante. Erano già le undici, ma un’ora poteva essere brevissima, o incredibilmente lunga. In compagnia di don Pedro Vázquez y Serrano pareva, purtroppo, non finire mai. Nell’ultima mezz’ora si era applicata a fargli bere il corposo vino rosso della Navarra che le aveva offerto con grandi cerimonie, e a farlo parlare, alla ricerca di qualche indizio utile, ma l’uomo aveva continuato a sproloquiare e guardarla con un’aria lussuriosa che le faceva rizzare i peli sulle braccia. “Che carica importante la vostra, comandante. Di tutta responsabilità” borbottò Linette, cercando di scacciare il nervosismo. Doveva ammetterlo: quando Killian era nei paraggi, si sentiva molto più al sicuro. Ora che era lontano, temeva che da un momento all’altro il suo interlocutore avrebbe smesso di parlare e le sarebbe saltato addosso. Per fortuna, abboccò all’amo, invece di continuare a far scivolare lo sguardo dentro la scollatura. “Oh, sì, grande responsabilità” biascicò. “Sapete, il governatore di Veracruz mi ha affidato un incarico di prestigio. Ho un tesoro prezioso, con me, a bordo di questa nave.” A Linette quasi andò di traverso il vino che stava trangugiando. “Un tesoro?” balbettò, sforzandosi di spalancare le orecchie per udire bene la risposta. Il comandante ridacchiò, le pupille leggermente fuori fuoco. “Già, ma è un segreto, non se ne può parlare” bofonchiò, portandosi un dito tremante alla bocca in un vacuo invito al silenzio, per poi scoppiare in una risata sgangherata. Linette sbuffò; da quell’incapace non si poteva ricavare nulla di buono, ma non le era sfuggita l’occhiata che l’uomo aveva rivolto a un cofanetto sulla sua sinistra, che troneggiava giusto al centro dell’ampia scrivania. “Oh, ma davvero?” disse con noncuranza. Si accorse che stava stritolando il bicchiere che aveva in mano e si impose di allargare le dita, una a una, prima di mandarlo in frantumi. Avrebbe voluto urlare per la gioia; il tesoro doveva essere lì dentro, non c’erano dubbi. Ma, subito dopo, incurvò le labbra in una smorfia di
delusione; quanto denaro poteva stare dentro una cassetta così piccola? Invece che dobloni, conteneva diamanti, decise. Un tesoro di tutto rispetto. Scacciò con un gesto del polso la preoccupazione; doveva concentrarsi su questioni più urgenti. Il comandante le aveva incollato di nuovo lo sguardo addosso, ormai sempre più eccitato. Linette si alzò, agitando con insistenza il ventaglio davanti alla scollatura, cercando di nasconderla. “Che caldo, questa sera è un vero tormento,” disse, senza riuscire a trattenere un’occhiata nervosa al cofanetto che pareva invitarla ad avvicinarsi. L’uomo si alzò a sua volta, e Linette constatò con orrore che, malgrado tutto il vino che aveva ingurgitato, era ancora abbastanza saldo sulle gambe. O non aveva bevuto quanto sperava o era formidabile nel controllare l’ebbrezza. “Caldo? Oh, sì, signora, stasera è davvero difficile sopportarlo. Forse sareste più a vostro agio se vi toglieste gli abiti?” la provocò ridacchiando. Un’onda gelida le scivolò giù per la spina dorsale, irrigidendo le braccia e ghiacciandole le dita. “Che cosa intendete…” mormorò, ma non riuscì a terminare la frase, perché il comandante le si avventò addosso, afferrandola per la gonna e tentando nello stesso momento di allentare i lacci del corpetto. “Ma come osate!” gridò Linette cercando di sfuggire alla sua presa. Riuscì a schizzare dall’altra parte della cabina, ma l’uomo fu lesto a riacciuffarla per un braccio. “Avanti, signora, non resistete. Ho visto come mi avete guardato, per tutto il giorno. Sono certo che anche voi desideriate una conoscenza più intima.” “Avete frainteso” ansimò Linette tentando di nuovo di divincolarsi, ma il comandante era forte, e ben determinato a soddisfare il proprio desiderio. Linette urlò di nuovo, questa volta di puro terrore, e serrò gli occhi, sentendo che l’uomo con una mano la inchiodava sul pavimento e con l’altra armeggiava con la gonna tentando di sollevarla. Poi, scoppiò il caos. Qualcuno spalancò con uno schianto la porta, che sbatacchiò con violenza contro la parete. Seguì il fracasso di una breve lotta, il tintinnio di una cascata di vetri in frantumi e il tonfo pesante di un corpo che crollava a terra. Linette osò riaprire un occhio, e si trovò davanti Killian, con lo sguardo infuocato e il viso stravolto dalla rabbia. Brandiva in una mano quel che restava della bottiglia di vino, che aveva spaccato sulla testa del comandante;
nella foga di irrompere nella cabina, aveva quasi divelto la porta dai cardini. Don Pedro giaceva bocconi ai suoi piedi. Killian le si avvicinò lentamente, rassettando con delicatezza la gonna che le si era allargata attorno alle gambe come la corolla di un fiore. “Stai bene?” chiese ansimando e carezzandole una guancia. La pelle si infiammò sotto il suo tocco. Ora che lui era vicino, non c’era più niente da temere. “Bene, sì” mormorò, tirandosi su e guardando con un’occhiata velenosa l’uomo che aveva tentato di assalirla. “Che hai trovato?” chiese, con la mente ancora in subbuglio. Sembrava impossibile, ma Killian faceva più fatica di lei a dominarsi. Si rialzò di scatto e si avvicinò alla porta, cercando di rimetterla a posto e di sbarrarla dall’interno. “Nella stiva ci sono alcune guardie, ma dovrebbe essere abbastanza facile liberarsene. Ho trovato parecchio legname, casse di oro e argento e barili pieni di spezie, zucchero e tabacco. È un bottino interessante, ma non abbastanza da valere il disturbo” disse, mentre si affannava a imbavagliare e legare il comandante svenuto, stringendo le corde con più forza del necessario. “E tu?” Linette si lasciò sfuggire un sorriso compiaciuto. “Io, mio caro, ho trovato il tesoro,” disse, indicando con gesto trionfale il cofanetto. Killian la guardò perplesso, e le toccò spiegare. “Il nostro amico comandante mi ha gentilmente confermato che a bordo del galeone c’è un tesoro, e ha guardato proprio in quella direzione.” Il volto di Killian era ancora incredulo, ma afferrò comunque un tagliacarte sul tavolo e forzò la serratura senza tanti complimenti. Linette non riuscì a trattenere la curiosità. Saltò davanti a Killian e spalancò il coperchio del cofanetto. Il cuore perse un battito quando vide cosa conteneva. Carte. Solo un ammasso di inutili carte. Disgustata, ne afferrò una con la punta delle dita. “E questo che cos’è?” mormorò, sventolando in aria il foglio ricoperto di segni per lei incomprensibili. Tanta fatica, giorni e giorni di appostamenti, analisi e congetture, per niente. “Da’ qua” disse Killian strappandoglielo di mano.
“E tu? Da quand’è che sai leggere?” brontolò lei indispettita. Killian grugnì qualcosa di indistinto, immerso nella lettura. “Ah, già, dimenticavo, eri al servizio di un conte, prima di diventare pirata,” continuò. Visto che non c’era verso di distrarlo, si rassegnò a confrontare il profilo sgraziato del comandante del galeone, un probabile conte a sua volta, con quello nobile e sicuro di Killian, l’irresistibile irlandese. Con una massa di riccioli scuri che il nastro di cuoio riusciva a stento a trattenere, e le ciglia lunghe e morbide come il pelo di un gatto, doveva aver fatto perdere la testa a una buona dozzina di fanciulle. Prima di conoscerlo, Linette si arrangiava a vivere rubacchiando quel che poteva agli avventori delle bettole di Port Royal. Grazie ai capelli color miele e agli occhi limpidi e innocenti, non era troppo difficile irretire gli uomini il tempo sufficiente a volatilizzarsi con la loro borsa. Per una sina sbandata dall’aspetto fragile, senza casa e senza famiglia, era l’unico modo per guadagnare qualcosa. Poi, aveva incontrato Killian, e la sua vita era stata stravolta. L’aveva portata via con sé, sostenendo che, da sola, avrebbe fatto una brutta fine, e l’aveva reclutata nella sua banda di pirati. Poteva sembrare illogico, ma non per Killian. Lui aveva un rigido codice di comportamento, che faceva rispettare a tutti. Le aveva raccontato la sua storia: lavorava presso un conte, che lo aveva fatto quasi impiccare quando lo aveva sorpreso a rubare. Non gli aveva creduto nemmeno un istante. Era molto più probabile che, con quei dannati occhi neri come l’ossidiana, avesse conquistato il cuore della figlia del suo padrone, e per questo fosse stato scacciato. Mentre lo fissava come se potesse traarlo con gli occhi, si accorse che era impallidito. “Che hai?” chiese Linette. “Qui ci sono tutti i nomi dei corsari al soldo dell’Inghilterra.” “Corsari?” ripeté perplessa, arricciando le labbra intorno alla parola sconosciuta. “Indica le persone che sono al servizio di un governo, che le autorizza a rapinare le navi mercantili dei propri avversari,” spiegò Killian in tono sbrigativo. Linette corrugò la fronte, ancora perplessa. “Le autorizza a rapinare… e che differenza c’è con i pirati?” chiese.
“I pirati rubano per il proprio interesse, i corsari ostacolano le navi spagnole per una causa” disse Killian. Poi, si alzò e la prese per una mano. “Guarda qui” disse senza riuscire a trattenere l’irritazione. “Vedi cosa c’è scritto?” chiese, piantandole davanti al naso un foglio e indicando una riga irta di segni aguzzi come lame di coltello. Linette si indispettì. “Sai benissimo che non ci riesco” sbottò. Killian le aveva insegnato a parlare come una nobile, ma non, ancora, a leggere. Gli vide negli occhi che non intendeva offenderla. “C’è scritto Killian. Killian O’Donovan” disse, addolcendo il tono di voce. “Su questi documenti sono annotati nomi di corsari, il numero di uomini di cui dispongono, i covi in cui si nascondono, le rotte che seguono per intercettare le navi spagnole. C’è tutto quello che serve per incastrarci. Questi fogli sono davvero un tesoro.” Di tutto quello che aveva detto, un solo concetto le si era impigliato nella mente, come un pesce molesto. Il nome di Killian era su quella lista. “Dunque tu sei…” mormorò, ma sobbalzò quando sentì bussare alla porta. “Comandante? Abbiamo sentito dei rumori, possiamo entrare?” disse qualcuno. Linette sbarrò gli occhi, cercando conforto in quelli di Killian, che aveva recuperato in un attimo il suo sangue freddo. “Signore? Signore qualcosa non va?” continuò la voce dall’esterno. Si udì il sibilo di una lama che veniva sguainata dal fodero. Killian scattò accanto al cofanetto, afferrò tutti i documenti e se li cacciò a forza sotto la camicia. Poi, le fu accanto in due balzi e le strinse un polso con fervore. “Sbrigati, Linette” disse. “Esci dalla finestra e vai a dare il segnale alla nostra nave. Fergus non può essere lontano. Io intanto cerco di trattenerli.” La guardò ancora un istante con gli occhi fiammeggianti, mentre il trambusto dietro la porta chiusa cresceva. Poi, si avvicinò e la baciò. Il cuore le balzò in gola, il sangue le turbinò nelle orecchie colmandola di gioia fino alla punta dei capelli, ma, dopo un attimo, era già tutto finito, Killian si era allontanato, le aveva lanciato un’ultima occhiata struggente e l’aveva spinta via. “Sbrigati” disse un’ultima volta mentre correva da una parte all’altra della cabina e si impossessava di tutte le armi che riusciva a trovare. Linette sgusciò fuori dalla finestra nello stesso istante in cui la porta andava in frantumi e un nugolo di schegge saltava in tutte le direzioni. Si ritrovò appesa
nel vuoto, aggrappata a un’esile sporgenza. Poteva farcela, si convinse, era ben allenata. Concentrò tutta la forza che aveva sulla punta delle dita, e iniziò ad arrampicarsi più veloce di una scimmia. Il mare sotto di lei ribolliva inquieto, e schizzi d’acqua salmastra la investirono, inzuppandole gonna e sottogonna e rischiando di farle perdere la presa. Le mani scivolavano sul legno di quercia dello scafo, umido e ricoperto di cristalli di sale, ma strinse i denti, continuando a salire e sforzandosi di escludere dalla mente il clangore delle spade che cozzavano tra loro, attutito dal fragore delle onde. Non era abituata a pregare, ma senza che volesse le affiorò alle labbra un’invocazione al Signore Misericordioso perché proteggesse il suo Killian. Riuscì a raggiungere il parapetto del cassero di poppa. Si sporse, pronta a salire, ma tornò ad accucciarsi in fretta non appena individuò il timoniere. Pian piano, con le dita intirizzite per il panico anche se l’aria era ancora torrida, si spostò lateralmente lungo il bordo esterno della ringhiera. Il buio della notte era dalla sua parte, perché sgattaiolò sul ponte di coperta senza che nessuno se ne accorgesse. Si appoggiò con la schiena alla parete della struttura del castello di poppa, lasciando andare un sospiro di sollievo così profondo che avrebbe potuto accasciarsi a terra, poi si morse le labbra, per ritrovare la concentrazione. Il ponte era immerso nella semioscurità e disseminato dei corpi di alcuni marinai che dormivano. La maggior parte della ciurma si trovava nel primo ponte di batteria, immersa, sperava, in un sonno profondo. Killian l’aveva previsto, e aveva avuto ragione: l’equipaggio del galeone doveva aspettarsi che un eventuale attacco sarebbe arrivato dall’esterno, non certo a bordo della propria stessa nave. Se restavano svegli i marinai di vedetta, tutti gli altri potevano permettersi di riposare nel ponte di batteria, o, al massimo, su quello di coperta, pronti a balzare in piedi e impugnare le armi non appena fosse scattato l’allarme. Linette sperava solo che nessuno avesse a portata di mano un moschetto, altrimenti beccarla sarebbe stato semplice come sparare a una quaglia. Lasciò vagare lo sguardo davanti a sé; a quindici metri di distanza c’era l’albero di maestra, che ospitava la prima coffa di vedetta; impensabile cercare di andare oltre e neutralizzare anche la sentinella dell’albero di trinchetto. Tutto quello che doveva fare era correre a perdifiato verso le sartie che sorreggevano l’albero di maestra, arrampicarsi fino all’altezza di venti e a metri, mettere fuori combattimento la guardia e accendere un fuoco di
segnalazione a Fergus, per dargli l’ordine di attaccare. Facile come camminare a testa in giù sul pennone più alto della nave, con dei pesi attaccati alle caviglie. Sbuffò, per darsi coraggio. La vita di Killian era nelle sue mani. Si cavò in fretta le scarpe, con quei tacchetti avrebbe fatto un baccano del diavolo, e si lanciò a piedi nudi nella corsa più folle della sua vita, con l’impressione che i polmoni stessero per scoppiare, compressi com’erano nella stretta del dannato corsetto. Guizzò tra un corpo e l’altro, riuscendo, per puro miracolo, a non svegliare nessuno, finché raggiunse la meta. Allungò una mano verso le corde delle sartie, con il cuore che le rimbombava nelle orecchie, ma si bloccò, con tutti i sensi all’erta; un marinaio si era mosso. L’uomo sbatté intontito le palpebre, ma la individuò subito. “Signora? Avete bisogno di qualcosa?” balbettò ancora confuso, ma con una mano che già strisciava verso il pugnale che teneva al fianco. Non aveva tempo da perdere. Linette incamerò quanta più aria poteva e spiccò un balzo, afferrando le sartie e riuscendo a mettere il piede su una grisella, ma l’uomo, molto più veloce di quanto si sarebbe aspettata, schizzò in piedi e si aggrappò alle gonne che le frullavano intorno al corpo. Si sentì trascinare giù e maledisse per l’ennesima volta il vestito, che la intralciava nei movimenti. Si azzardò a lasciare la presa, per avere le braccia libere. Piombò con tutto il suo peso addosso all’uomo, che rotolò a terra per l’impatto, poi scattò in piedi rapida come una gatta; si ritrovò tra le mani senza neanche sapere come un mucchio di corde pesanti come macigni, e gliele scagliò addosso. Il marinaio crollò a terra stordito. Linette si immobilizzò, guardandosi intorno terrorizzata, ma sembrava che la fortuna fosse ancora dalla sua parte: il resto dei marinai continuava a dormire placidamente. Si affrettò a legare e imbavagliare l’uomo, dandogli un altro colpo in testa per sicurezza, poi si impadronì del suo pugnale e si aggrappò alle sartie, cominciando ad arrampicarsi. Man mano che saliva l’aria si faceva più fresca, dandole un po’ di sollievo. Le stecche del corsetto parevano volerla infilzare a ogni movimento, ma non poteva perdere tempo per fermarsi e allentarlo. Killian era chissà dove, e non era detto che fosse riuscito a liberarsi delle guardie che avevano fatto irruzione nella cabina del comandante. Il fatto che l’allarme non fosse ancora scattato era un buon segno, ma non significava certo che erano fuori pericolo.
Si morsicò con forza un labbro prima che la preoccupazione le indebolisse le mani, già spellate dalle corde in canapa ricoperte da una patina salmastra, e le fe perdere la presa. Se fosse crollata a terra, non sarebbe mai riuscita a dare il segnale a Fergus, e sarebbe stata la fine. Dopo tanta fatica e non poche imprecazioni, giunse in vista del posto di guardia. La sentinella, per quello che riusciva a vedere nelle tenebre fitte, era poco più che un ragazzo, per di più dall’aria assonnata. “Signora!” esclamò sbalordito appena si accorse di lei, balzando in piedi sull’attenti. “Cosa fate qui?” Linette si issò sulla piccola piattaforma, stravolta dalla stanchezza. Quella nottata sembrava non voler finire mai. “Non ho potuto resistere alla tentazione di godere della vista che c’è da quassù,” disse, senza riuscire a mascherare l’affanno per la corsa e il terrore che le attorcigliava le budella. In quelle condizioni non avrebbe ingannato nessuno. Sapeva di avere i capelli arruffati e il vestito fradicio e mezzo strappato. Il ragazzo corrugò la fronte, insospettito, e si sporse leggermente per guardare in basso. “Ma come è possibile che vi abbiano lasciata…” mormorò. Era la distrazione che aspettava. Linette sfoderò il pugnale che aveva sottratto al marinaio sul ponte di coperta, e lo puntò dritto alla gola del ragazzo, cercando di irrigidire le labbra nella smorfia più truce che conosceva. “Giù le armi” disse, indicando con un cenno del mento il coltello che la vedetta teneva ancora infilato nella cintura, senza aver avuto il tempo di impugnarlo. Riluttante, il ragazzo lo sfilò e lo gettò lontano, seguendone la traiettoria con aria turbata, come se la sua ancora di salvezza avesse preso il volo. Linette annuì soddisfatta. “Vieni qui,” intimò, “senza fiatare.” Il ragazzo, di nuovo, obbedì; lo legò stretto alla ringhiera della coffa, strappò un lembo della sottoveste e glielo ficcò in bocca, poi si disinteressò di lui. Aveva ben altro a cui pensare. Accese un fuoco, sentendo il calore fiamme cantarle nelle vene come una benedizione. Adesso, era tutto nelle mani del dannato Fergus. Dov’era? A poche miglia di distanza, intento a scrutare le tenebre in attesa del loro segnale? O non era forse nella cabina che di solito occupava Killian in qualità di comandante, a scolarsi tutte le scorte di whisky, in compagnia del resto della ciurmaglia? Uno strillo la distolse dai pensieri. Il marinaio che era di vedetta sull’albero di
trinchetto aveva attaccato a gridare come un pappagallo, ma Linette non si preoccupò. Il ragazzo non sembrava armato di moschetto e comunque, distante com’era, era fuori dalla sua portata. Ora che aveva il fuoco di segnalazione, Linette purtroppo non poteva impedire che l’allarme saettasse da una parte all’altra della nave. Killian le aveva ordinato di restare al sicuro sulla coffa di vedetta fino a quando Fergus non avesse iniziato l’attacco, ma era fuori discussione. Doveva trovarlo, e assicurarsi che non fosse in pericolo. Tornò a scendere giù per le sartie più in fretta che poté, stavolta allentando, almeno un po’, i lacci del corpetto per muoversi con agilità. Si buttò a terra proprio nel momento in cui alcuni marinai, svegliati dalle grida, si accorgevano del fuoco che ardeva sulla cima dell’albero di maestra. Linette si aspettava che sarebbe scoppiata una confusione infernale, ma non certo così in fretta. Si ritrovò in un istante circondata da uomini che gridavano senza capire veramente cosa stava succedendo. Fu proprio la confusione a salvarla. Senza che nessuno le badasse, si lanciò verso il castello di poppa, scese in fretta alcuni gradini e spalancò la porta dell’ufficio del comandante. A parte don Pedro, che era ancora steso a terra legato e cercava furioso di gridare malgrado il bavaglio, non c’era traccia di Killian. Linette non si perse d’animo. Si voltò e si precipitò di nuovo giù per le scale, verso il ponte di batteria. Si ritrovò in mezzo ad almeno una cinquantina di uomini che correvano in ogni direzione. Avevano capito che qualcosa non andava, ma non, ancora, che cosa. Linette si fermò e spalancò la bocca. “Al fuoco!” gridò, con tutto il fiato che aveva in gola. Un ufficiale le si piantò davanti e l’afferrò per le spalle. “Dove?” chiese, con gli occhi fuori dalle orbite per il terrore. In realtà, si sentiva più scossa lei di quel poveraccio, ma riuscì a ordinare alle braccia di fare un gesto vago, che indicava tutto e niente. “Di sopra,” mormorò, stralunata, sperando che la sua agitazione fosse scambiata per la semplice isteria tipica delle donne. “Sul ponte di coperta.” L’ufficiale non si fermò oltre a indagare. Scattò su per i gradini che portavano in superficie, tirandosi dietro una buona metà degli uomini che le brulicavano intorno.
Linette si sforzò di riprendere fiato, ma l’aria non voleva saperne di riempirle i polmoni. Corse su e giù per i corridoi, ma non riuscì a vedere Killian da nessuna parte. Rassegnata, imboccò la rampa di scale che scendeva verso la stiva, ma un paio di marinai, insospettiti dai suoi movimenti frenetici, la seguirono. Nella fretta, scivolarono crollandole addosso e trascinandola in una caduta rovinosa al piano di sotto. Linette si rimise in piedi, sentendosi tutte le costole ammaccate ma, per una volta abbastanza agile, riuscì a liberarsi del primo uomo, che cadendo era rimasto senza fiato, e a sgusciare via dalla presa del secondo, che tentava di agguantarla per i capelli. Gli rovesciò addosso un barile pieno di aringhe in salamoia, e si rimise a correre senza neanche guardarsi alle spalle. S’infilò dentro una porta e se la tirò dietro, sbarrandola dall’interno. “Killian!” gridò, terrorizzata. Non aveva idea di dove si fosse cacciato; la stiva, a parte mucchi di corde, vele di scorta e barili pieni di cibo, pareva deserta. Gli unici rumori che sentiva erano quelli dei marinai sui ponti superiori, che si agitavano come un plotone di formiche. Linette si fermò, sforzandosi di ragionare e di rallentare il battito del cuore, così violento che pareva stesse per sfondare il petto. Da qualche parte nelle vicinanze udì il cozzare ritmico di alcune spade, che le riverberò lungo le braccia come se fosse stata lei a ricevere i colpi, e il grugnito di uomini impegnati in un combattimento. Linette strinse i pugni e corse nella direzione dei rumori, finché non sbucò in un’ampia sala ingombra di barili, e individuò Killian, circondato da tre ufficiali. Doveva aver lottato con foga, riuscendo a tenerli in scacco, ma ora era stanco, perché, pur continuando gli affondi con una grazia e un’agilità che faceva sembrare i suoi avversari degli orsi ammaestrati, stringeva gli occhi in una smorfia ogni volta che doveva schivare, e ansimava pesantemente. Linette trattenne il respiro per l’angoscia quando notò un taglio profondo sulla sua spalla destra, da cui colava sangue in abbondanza. Non poteva restare a guardare. Afferrò il moncone di un vecchio remo da scialuppa che trovò in un angolo, e si avventò su uno degli avversari di Killian. Maneggiare quell’affare non era per niente facile, e infatti riuscì solo a colpirlo di striscio; l’uomo sobbalzò e si voltò inferocito. “Linette! Va’ via di qui, subito!” gridò Killian, e la preoccupazione che intercettò sul suo volto bastò a ripagarla di tutta l’indifferenza che le aveva mostrato per
mesi. Strinse più saldamente l’impugnatura del remo, sforzandosi di guadare l’ufficiale dritto negli occhi. Quando lui attaccò con un affondo della spada, Linette riuscì a deviare il colpo con la sua arma improvvisata, ma la lama spezzò il remo in due, e le restò in mano un moncherino inservibile. “Linette!” gridò ancora Killian, stravolto. Era riuscito a liberarsi di uno dei suoi avversari, infilzandolo a una coscia, ma era a corto di fiato, e l’altro gli si avvicinava con affondi rapidi e sempre più insidiosi. Aveva perso secondi preziosi per guardarlo, e l’ufficiale che le stava davanti ne approfittò. Scattò in avanti, mulinando la spada con un colpo che, se fosse stato appena più vicino, le avrebbe fatto a fette la pancia. Linette si scansò, e si mise a correre in tondo per la stanza, inseguita dall’uomo che, a questo punto, doveva pensare che avrebbe anche potuto trarre un certo divertimento da quel diversivo. Fuori di sé per l’angoscia, Linette gli rovesciò addosso tutto quello che trovava per strada, barattoli di miele, bottiglie di whisky e posate, senza riuscire ad arrestarne la carica. L’uomo cambiò all’improvviso direzione e le sbarrò il o. Linette cercò di nuovo di sfuggirgli, ma lui l’agguantò per un braccio, affondandole dolorosamente le unghie nella pelle. “Fine della corsa, vipera” disse, e Linette sentì le gambe afflosciarsi per il terrore, sotto il suo sguardo implacabile. Il primo colpo di colubrina le fece perdere l’equilibrio. Il pavimento fu scosso da un tremito furioso, che la sbalzò da terra mentre il suo assalitore veniva catapultato contro una parete, strabuzzava gli occhi e restava immobile in una posa scomposta. Il secondo colpo ribaltò l’intera stanza, mandando a cozzare l’una contro l’altra decine di bottiglie, che andarono in frantumi e ricoprirono il pavimento di un viscido strato di liquore e frammenti di vetro. Linette sbatté contro un tavolo e si accasciò a terra, gridando terrorizzata. Qualcuno la afferrò da dietro, prendendola per le spalle, e lei urlò ancora più forte, cercando di divincolarsi. Riuscì a girarsi di scatto e a mollare un ceffone al suo aggressore, per poi immobilizzarsi quando si accorse che era Killian, che la guardava con il fuoco negli occhi. Alle sue spalle, l’ultimo ufficiale con cui si era scontrato era riverso a terra, in un lago di sangue. La mano di Linette tremò violentemente, e lui la strinse tra le sue. “Stai calma, è
tutto a posto” disse. “Fergus sta arrivando.” Linette si lasciò sfuggire un singhiozzo, mentre lacrime di paura e di sollievo le scivolavano lungo le guance. Lui le lasciò andare la mano, e la prese tra le braccia, stringendo, se possibile, perfino più forte del corsetto, fin quasi a soffocarla. Ma era una stretta a cui non avrebbe rinunciato per nulla al mondo. “Non dovevi venire a cercarmi,” le sussurrò in un orecchio. “Ho avuto paura di perderti.” “E perché… maledizione… non me lo hai detto prima?” mormorò Linette. Il groppo di emozioni che le si era incastrato in gola le arruffava la voce. Lo sguardo severo di Killian si addolcì, e le rivolse un’occhiata soffice come una carezza. “Non credevo… Non sapevo se anche tu…” cominciò, poi strinse la mascella e tacque. “Oh, al diavolo,” sbottò Linette, afferrandogli il viso con le mani e baciandolo con tutta la ione che le ardeva nel corpo. Si sentì naufragare nel suo abbraccio, perdendosi nella gioia di averlo vicino. Poi, quando riaffiorò in superficie e riaprì gli occhi, vide che Killian la stava fissando come se avesse tra le mani uno zaffiro grande come un uovo di struzzo. Il cuore le fece una capriola nel petto. Di sopra, sentì i suoni della battaglia smorzarsi lentamente. Fergus e i loro compagni avevano abbordato la nave, ed erano riusciti a impadronirsene più in fretta del previsto. Diavolo di uno scozzese, ora sentiva perfino la sua risata tonante farsi largo tra i tintinnii delle spade e i radi colpi di moschetto. Linette si sciolse delicatamente dalla stretta di Killian, allungando le mani sotto la sua camicia per prendere i documenti che avevano sottratto al comandante, ancora impregnati del tepore della sua pelle. “Ne valeva la pena?” chiese dubbiosa, guardando i fitti simboli incomprensibili che si srotolavano sulla carta. Cercava i segni che Killian le aveva mostrato, quelli che indicavano il suo nome. Se non li avesse trovati, avrebbe ingoiato tutti quei fogli. Uno a uno. Killian sorrise, e la tensione che gli aggrottava sempre la fronte si dissolse. “Ne valeva la pena,” disse, “grazie a questi riusciremo a salvare le vite di tanti poveri diavoli come noi. Ma…” continuò, guardandola fisso negli occhi e catturandole una ciocca di capelli. Se la rigirò tra le dita, osservando pensoso i riflessi dorati alla luce incerta della stiva.
“Ma?” chiese Linette, sentendo una scintilla di calore scoccarle al centro del petto. “Ma non ci sono dubbi” rispose lui. “Il tesoro più prezioso di tutti… sei tu.”
Predatori
di Fabrizio Mancini
Mar dei Caraibi, 1718 d.C.
Tristan era in piedi sulla coffa di maestra, l’alto albero centrale di legno d’abete scricchiolava sotto la pressione esercitata dalle vele quadre, a esso assicurate tramite i forti pennoni. La notte era buia e senza luna, persino le stelle sembravano aver paura di fare capolino dalla fitta coltre di nubi. Il vento ululava, le vele schioccavano e il mare si infrangeva con violenza sulla prora lanciata a tutta velocità. L’intera nave sotto di lui era immersa nel buio più totale. L’unico contatto con la realtà, per Tristan, era proprio il vento che gli sferzava con violenza il viso. Socchiudendo gli occhi scrutò davanti a sé. C’erano ancora. I due puntolini luminosi che stavano seguendo dalla distanza erano ancora lì, davanti a loro, e lentamente sembravano ingrandirsi. Si erano fermati. «Proprio come lui aveva detto», sussurrò il marinaio. Guardò sotto e davanti a sé, naturalmente non poteva vedere nulla, ma sapeva che lui era lì. In piedi sul castello di prua. Gli sembrava di vederlo, le gambe leggermente divaricate, le braccia incrociate
sul petto, perfettamente immobile nonostante l’impetuoso beccheggio della nave, quasi fosse una statua di granito. Tristan poteva immaginare i lunghi capelli corvini che sventolavano liberi, il volto bellissimo e affilato, distorto da un ghigno di soddisfazione e gli occhi verdi, con quella luce che intimidiva chiunque li incrociasse. Ash il capitano della Morgana.
Solo un paio di anni prima la Morgana era comandata da Hector Blake, un vecchio lupo di mare conosciuto per essere una vera canaglia, un uomo che aveva un senso dell’onore del tutto personale. Blake aveva navigato in lungo e in largo per circa una quarantina d’anni, e non c’era marinaio che non lo avesse almeno sentito nominare. Dapprima era stato un temibile pirata, aveva scorrazzato e depredato per i sette mari, ma in vecchiaia era riuscito a ottenere da Re Giorgio I di Gran Bretagna una “lettera di corsa”. Grazie a quest’ultima poteva arrembare e saccheggiare tutte le navi appartenenti ai paesi in guerra con l’Inghilterra, senza rischiare di essere, nel caso di cattura, appeso per il collo come pirata.
Due anni prima
Ash arrivò sulla banchina del porto di Liverpool, dove era ancorata la Morgana, in una fredda e limpida mattina di Marzo, e si fermò a osservare l’imponente nave. Tristan fu il primo a scorgerlo: era affacciato alla battagliola di dritta quando lo vide arrivare e fermarsi sotto la nave. Quello strano uomo era abbigliato completamente di nero con un’ampia camicia dalle larghe maniche e il colletto dai lunghi pizzi, e stretti pantaloni di velluto infilati dentro alti stivali.
Osservava rapito la nave. La Morgana era un gigantesco vascello di prima classe a quattro ponti, lungo più di sessanta metri e largo quasi diciotto, con un dislocamento di circa duemilatrecento tonnellate, e poteva ospitare più di ottocento uomini di equipaggio. L’armamento era a dir poco spaventoso, aveva quattro batterie: la prima composta di quaranta cannoni da quarantadue libbre, la seconda con trentacinque da ventiquattro libbre, la terza da venti cannoni da diciotto libbre, e la quarta da venti mezze colubrine da nove libbre, più otto cannoni da caccia. Il fasciame di quercia che la rivestiva era dipinto di un viola scuro, tranne le ampie strisce nere che si alternavano all’altezza dei portelli dei cannoni. L’albero di bompresso, che partiva quasi in orizzontale dalla prua, era dipinto anch’esso di nero. Sotto di questo era incastonata una polena dall’aspetto terrificante. Uno scheletro dai lunghi capelli ondulati, abbigliato con logori abiti femminili, sembrava fuoriuscire dalla prora lanciando un grido muto, con il braccio destro proteso e un dito scheletrico a indicare in avanti. Ash, con gli occhi colmi di tanta meraviglia, alzò lo sguardo e fissò Tristan. Il ragazzo ebbe un brivido, e dapprima distolse lo sguardo, poi si allontanò dal parapetto. L’altro ghignò e si incamminò senza indugi verso la stretta erella della nave. «Che strana coincidenza», tuonò Blake quando Ash si presentò da lui chiedendogli di poter far parte dell’equipaggio. «Proprio qualche ora fa abbiamo trovato due nostri gabbieri sgozzati in un vicolo dietro una taverna», ma alla sottile allusione l’altro si limitò a un’alzata di spalle. Comunque a Blake poco importava come fosse andata, gli serviva un nuovo gabbiere, e lì davanti a lui ce n’era uno.
Nei giorni a venire fu subito chiaro che il nuovo arrivato era più di quello che avrebbe voluto far credere. Abbigliato sempre di tutto punto in nero, riusciva comunque a essere più veloce
e agile di tutti gli altri gabbieri, che si muovevano sul sartiame con abiti comodi e solitamente a piedi nudi. Era abilissimo con la spada, che maneggiava in modo efficace ed elegante, inoltre dimostrò di essere anche un’abile stratega, consigliando sempre nel modo migliore Blake su come pianificare qualche azione. Le voci sul suo conto avevano preso a serpeggiare fra la ciurma, la più frequente delle quali lo vedeva come ufficiale disertore della marina di sua maestà. Ma tutti erano sicuri almeno di un particolare, cioè che Ash non fosse il suo vero nome. Tristan non sapeva chi fosse e da dove venisse, ma lo temeva, sentiva che in lui c’era qualcosa di sbagliato, qualcosa di terribile. Ma allo stesso tempo lo ammirava e si trovava a osservarlo di nascosto, desiderando di avere la sua sicurezza e fierezza.
Tutto accadde in un torrido pomeriggio di Agosto, mentre la Morgana veleggiava nel mar dei Caraibi, diretta all’isola di Tortuga per far rifornimenti e concedere all’equipaggio il meritato riposo. Ash raggiunse il capitano sul castello di poppa. «Posso chiedervi il permesso di radunare l’equipaggio?» gli chiese. Blake sorrise, aveva preso a ben volere il nuovo ed eccentrico gabbiere. «Per quale motivo Ash?» volle sapere. «Desidererei fare un annuncio agli uomini, vorrei ringraziarli per avermi accettato tra loro.» «Singolare la vostra richiesta» Blake sollevò un sopracciglio, grattandosi la folta barba ormai più bianca che nera. «Ma vi sarà accordata», sorrise. «Signor Kunte», chiamò il capitano rivolgendosi al suo quartiermastro. Il secondo in linea di comando lo raggiunse immediatamente, era un uomo di colore, gigantesco, uno schiavo che si era guadagnato la libertà e il rispetto con il filo della spada e la forza dei muscoli. «Si capitano?»
«Raduni l’equipaggio», ordinò Blake, poi si volse verso Ash e sorrise strizzandogli l’occhio. Il quartiermastro impiegò ben poco a radunare la ciurma, che si schierò sotto il castello di poppa in attesa. Il capitano si fece avanti e salutò gli uomini, che gli risposero festanti. «Il nostro nuovo gabbiere mi ha chiesto di potervi parlare», disse il capitano, la ciurma si zittì incuriosita, la cosa era decisamente strana. «E io ho acconsentito», continuo Blake. Un mormorio sommesso serpeggiò fra l’equipaggio. Ash si avvicinò al capitano e senza neanche guardare la ciurma estrasse la spada puntandola al volto di Blake. «Io vi sfido Hector Blake, per il comando della Morgana», gridò. Il gelo scese sull’equipaggio, nessuno disse una parola, tutti sapevano di avere il diritto di ambire al posto del capitano sfidandolo in duello, ma nessuno lo avrebbe mai fatto. Kunte si avvicinò al suo capitano con la mano sull’elsa della spada, gli occhi ridotti a una fessura, i denti digrignati. Blake sapeva che a un suo gesto il quartiermastro avrebbe fatto a pezzi Ash, o sarebbe morto provandoci. Ma il capitano alzò una mano per fermare il suo secondo. «No, signor Kunte. Ash è nel pieno del suo diritto. Nessuno di voi c’era, ma io stesso mi guadagnai il mio primo comando in questo modo», poi fissando Ash, aggiunse: «Sapevo che sarebbe accaduto, dal primo momento in cui vi ho visto entrare nel mio ufficio.» L’altro lo fissava con sguardo inespressivo. Tristan era malinconico, anche lui, come Blake, sapeva che Ash non era solo ciò che sembrava, percepiva la sua energia, e sapeva che da lì a poco sarebbe stato il nuovo capitano della Morgana. Ma Tristan in realtà era inquieto con se stesso, perché si sentiva colpevolmente felice di quel cambiamento. Era affezionato a Blake, ma sapeva che con Ash tutto sarebbe stato più vero, pericoloso ed eccitante. «Domani mattina», gridò Blake ad Ash.
L’altro ghignò e fece no col capo. «Ora» Blake trasalì ma non si tirò indietro. «Bene», rispose, poi fece qualche o di lato, si tolse la giacca ed estrasse la spada. Ash non si mosse, restando in piedi al centro del castello di poppa con le mani lungo i fianchi e la punta della spada sguainata verso il basso. «A voi la prima mossa», si limitò a dire. Blake non se lo lasciò ripetere, lanciandosi come una furia verso il suo avversario. In gioventù era stato un abile spadaccino, freddo e rapido, ma ora poteva contare più sull’esperienza di mille battaglie che sul suo fisico. L’altro si limitò a schivarlo senza neanche alzare la spada. «Se mi concedete la nave, posso risparmiarvi la vita e lasciarvi incolume a Tortuga», si offrì Ash. «Mai», gridò il capitano. «La Morgana è mia.» E si lanciò ancora all’attacco. Ash si mosse così rapidamente che nessuno capì cosa accadde. Ma un attimo dopo, il capitano era appoggiato contro il suo avversario, con la lama insanguinata della spada di Ash che gli fuoriusciva dalle scapole. «Sbagliato», gli sussurrò Ash all’orecchio. «La Morgana è mia.» Spinse via il corpo di Blake, facendolo franare sul ponte, il legno di quercia emise un suono sordo. Poi ripulì la lama della sua spada sulla camicia del vecchio capitano. Kunte lo fissava con la furia negli occhi. «Se qualcuno non è d’accordo», gridò Ash, spazzando la ciurma con lo sguardo, per poi fissarsi negli occhi del quartiermastro, «può prendere la sua spada ora e sfidarmi per il comando.» Nessuno parlò, e Kunte tolse la mano dall’elsa. «Bene», continuò il nuovo capitano. «Tornate ai vostri compiti. Signor Kunte, faccia ripulire e buttare il corpo di Blake a mare.» L’altro non rispose subito, Ash lo fissò alzando il sopracciglio destro.
«Sì, signor capitano», disse in fine Kunte.
Ash iniziò subito a depredare e devastare ogni obiettivo che a suo giudizio poteva fornirgli ricchezza, e in poco tempo la lettera di corsa venne revocata alla Morgana. Erano nuovamente pirati. Era effettivamente consuetudine che le navi corsare attaccassero anche navi del proprio paese, per fare ciò usavano uno stratagemma molto semplice: una volta compreso di che nazionalità fosse una nave, bastava avvicinarla alzando bandiera di una qualsiasi nazione che fosse in guerra con questa. A quel punto la nave mercantile, solitamente poco armata, per evitare problemi innalzava a sua volta un vessillo della stessa nazionalità del veliero che si avvicinava. A quel punto, la nave corsara, forte del suo “lasciaare” ammainava la bandiera falsa e innalzava quella autentica, e senza dare il tempo al mercantile di fare altrettanto lo arrembava. In tal modo, gli eventuali superstiti non avevano il diritto di gridare all’atto di pirateria, erano stati loro a dichiararsi come paese nemico. Tale consuetudine veniva accettata dai sovrani di tutti i paesi, che chiudevano un occhio e facevano un sorriso quando venivano a conoscenza di tali aggressioni. Naturalmente, purché non si toccassero i loro personali interessi. E fu proprio questo che portò alla revoca della lettera di corsa per la Morgana. Il capitano Ash, infatti, non faceva distinzione tra le sue prede, non sprecandosi nemmeno nel gioco dei vessilli. Questo per la maggior parte dei suoi uomini non fu un gran problema, lui portava ricchezze e loro ne erano soddisfatti, in fondo erano sempre stati pirati, e lo sapevano. Di rimando i pochi contrari fuggirono al primo approdo, oppure si ritrovarono in pasto agli squali. Tristan, dal canto suo, nel tempo era divenuto uno dei preferiti dal capitano, il suo valore in battaglia era ineguagliabile e la sua abilità con i pugnali cominciava a essere raccontata nelle taverne.
Ammirava Ash sopra ogni cosa e non lo avrebbe mai abbandonato, mai. Fino a quel momento almeno.
***
Cominciava a farsi giorno e, nelle prime luci dell’alba, Tristan, riusciva a intravedere la sagoma del veliero che avevano seguito negli ultimi giorni. Le due lanterne appese agli angoli della poppa, che aveva osservato per tutta la notte, ora sembravano vicinissime. Fece un fischio sommesso e vide la figura in nero, in piedi sulla prua, muoversi leggermente e fargli poi un cenno con la mano. Era il momento. Il ponte di coperta iniziò a riempirsi di ombre silenziose, che andavano lentamente preparandosi all’arrembaggio. Il bagliore delle lame sguainate arrivava fino a lui. L’equipaggio del mercantile sembrava non averli ancora visti. La morte era venuta a prenderli quella mattina, e loro non erano ancora pronti ad accoglierla. D’improvviso il suono di una camla lacerò l’aria, sul mercantile era partito l’allarme. Grida confuse si alzarono sul ponte di coperta. Grida di terrore. Quegli uomini erano marinai, non guerrieri. Sopra la testa di Tristan sventolava il nero vessillo della Morgana, uno scheletrico volto di donna che ghignava sadicamente.
Dalla coffa, Tristan riuscì a vedere i volti di alcuni uomini del mercantile, che alla vista del vessillo scoppiarono in lacrime. Il vascello torreggiava sul mercantile di almeno tre metri, e quando si incrociarono, i portelli della nave pirata si aprirono rivelando le nere bocche della morte. Tutte le batterie della fiancata di dritta spararono in sequenza, riversando tonnellate di piombo nello scafo dell’altra nave.Una palla di cannone centrò in pieno la base dell’albero di maestra, che si spezzò, e restando appeso alle sartie fece inclinare leggermente la nave. L’aria puzzava dell’acre odore della polvere da sparo, il mercantile era avvolto in nere volute di fumo, mentre le schegge di legno volavano come proiettili abbattendo i pochi fortunati scampati al cannoneggiamento. Ma non era ancora finita. Le batterie cessarono il fuoco e i cannoni da caccia smisero di spazzare il ponte superiore. La Morgana si affiancò al mercantile cozzando con la murata contro quella dell’altra nave. A quel punto, grida di eccitazione si alzarono dal ponte della nave pirata, e buona parte del suo equipaggio saltò sulla nave arrembata. I primi portavano lunghe funi che usarono per assicurare insieme i due velieri. I pirati si riversarono sul mercantile come un’orda di lupi affamati. Alcuni saltarono direttamente sul ponte, sfruttando la maggiore altezza della loro nave, altri arono dai loro alberi a quelli del mercantile, balzando come scimmie. In poco tempo l’equipaggio della nave abbordata venne trucidato, e solo quando le ultime grida si spensero, Ash salì sul mercantile. In ginocchio, al centro di un cerchio formato dai suoi uomini, trovò il capitano della nave e altri due componenti dell’equipaggio. «La nave è sua», riuscì a balbettare il grasso mercante, mentre gli porgeva i
documenti di carico. Ash abbozzò una smorfia. «Non ne dubitavo», si limitò a rispondergli, leggendo compiaciuto l’elenco del nuovo bottino. «Capitano Ash!» un grido attirò la sua attenzione. «Guardi cosa ho trovato sotto coperta.» Il capitano si voltò e gli altri uomini si scansarono. «Un regalino per lei», disse Kunte, mentre trascinava di peso quello che sembrava a prima vista un enorme fagotto di pizzi e tessuti colorati. Quando il quartiermastro lo lanciò ai suoi piedi però, il fagotto gridò. Ash si abbassò e aiutò la ragazza a mettersi in piedi. «Mi lasci», disse lei sprezzante. Il pirata abbozzò un sorriso sbieco. «Chi è?» disse, rivolgendosi al capitano del mercantile. Questo titubò un istante, poi sentendosi lo sguardo smeraldino che lo fissava disse: «Natalie Hunt, figlia del conte Hunt, della corte di sua maestà.» Ash scoppiò in una risata. «Il bottino è più ricco di quel che pensavo.»
Tristan osservava la scena da dietro alcuni compagni. Quando vide Natalie in volto, il suo cuore perse un battito. Era la creatura più bella che avesse mai visto. I biondi capelli le scendevano in boccoli fino alla vita, gli occhi azzurri avevano un leggero taglio orientale, mentre gli zigomi alti e il piccolo naso la rendevano delicata e bellissima. La donna indossava un abito dell’azzurro del cielo, l’ampia gonna e sottogonna, insieme al corsetto ricamato, le conferivano l’aspetto di un angelo.
Ash prese la ragazza per un polso. «Credo che lei salirà a bordo con noi», dichiarò. Tutta la ciurma si lanciò in grida di giubilo. «E chiunque osi torcerle un capello, se la vedrà con me», aggiunse. Nessuno gridò più. Quando cercò di trascinarla, Natalie fece resistenza, liberandosi dalla stretta e assestando uno schiaffo in pieno volto al capitano dei pirati. «Io non mi muovo», sentenziò. Tra i pirati scese un silenzio imbarazzato. Ash le si avvicinò regalandole il suo ghigno più beffardo, poi la colpì a sua volta con un ceffone, facendola cadere a terra in lacrime. «La porti a bordo», ordinò a Kunte, che prese la ragazza urlante e se la caricò sulla spalla destra. «Ammazzate gli altri», disse poi risalendo sulla sua nave.
Tristan, vedendo Ash schiaffeggiare la ragazza, aveva estratto dalla cintura uno dei suoi pugnali da lancio. Stava per colpire il suo capitano, e solo per un niente era riuscito a riprendere il controllo di se stesso.
I giorni trascorrevano tutti uguali per Natalie: le era stata assegnata una piccola camera di fianco a quella di Ash, e non aveva mai incontrato nessuno, a parte il cuoco che le portava il cibo, da quando erano partiti lasciando affondare il mercantile. La mattina del quinto giorno sentì bussare alla porta. «Non ho le chiavi», gridò. La porta si socchiuse e un giovane pirata sgattaiolò all’interno, Natalie si strinse in un angolo.
«Non vi preoccupate, non voglio farvi del male», disse Tristan. «So che non avete le chiavi», le sorrise.«Ho bussato perché non avrei voluto disturbarvi nel caso foste stata addormentata.» La ragazza non gli rispose. «Vi ho portato questo», le disse porgendole un libro. «Non ho trovato di meglio, qui non si legge molto.» Lei prese il volume tra le mani. «Shakespeare», bisbigliò. «È meraviglioso, vi ringrazio.» Tristan si diresse verso la porta. «Quale è il vostro nome?» gli chiese la ragazza. «Tristan», si limitò a dire lui, poi sgusciò fuori in silenzio richiudendo la porta. Nei giorni successivi, Tristan, andò a far visita a Natalie tutte le volte che poteva. Parlavano molto e mentre lui le raccontava dei suoi innumerevoli viaggi, lei gli parlava della vita a corte. Il tempo ava allegramente, e tra i due si instaurò un legame molto intenso.
Tristan venne a sapere che Ash era deciso a chiedere un riscatto per la ragazza, ma seppe anche che se le trattative non lo avessero convinto, non avrebbe esitato a ucciderla. Prese allora la sua decisione.
Mentre la Morgana era alla fonda in un’insenatura nascosta non molto lontano dal porto di Liverpool, lui decise di agire. L’avrebbe fatta fuggire quella notte. Parlò della sua idea a Natalie, che dopo una prima incertezza accettò.
In piena notte andò a liberare la ragazza, e mentre gli altri dormivano, i due salirono sul ponte senza fare il minimo rumore. L’idea era quella di scendere in acqua silenziosamente e nuotare fino alla riva poco lontana. Stavano per scavalcare la battagliola di dritta quando un rumore attirò la loro attenzione. Tristan si voltò e trasalì, a pochi metri da loro c’era Ash che li osservava divertito. «Credevate veramente che non sapessi dei vostri teneri incontri?» disse loro il capitano. Natalie era raggelata. Anche Tristan fu in un primo momento terrorizzato, poi la rabbia prese il sopravvento. «Non vi permetterò di farle del male», ringhiò. Ash ghignò, come era ormai per lui una consuetudine. «Avevo grandi progetti per te, ragazzo», gli disse. Il giovane pirata ebbe un fremito, il suo capitano, l’uomo che ammirava e venerava, lo stava tenendo in grande considerazione. «Vi ringrazio capitano», riuscì a dire, «Ma io la amo», estrasse i pugnali. «Più della mia stessa vita.» «Vuoi veramente batterti con me ragazzo?» gli chiese Ash, che non aveva ancora toccato la spada. Tristan si mise davanti a quella che ormai considerava la sua dama. «Appartenete a mondi diversi, appena l’avrai salvata ti abbandonerà», il capitano guardava oltre i due, lo sguardo perso sulla lingua argentea disegnata sull’acqua dalla luna. «Sarai fortunato se non verrai appeso per il collo, incriminato del suo rapimento.» Il ragazzo si bloccò, voltandosi impercettibilmente indietro, verso di lei. «Ti amo», gli bisbigliò Natalie.
Tristan attaccò. Il capitano ruotò con leggerezza su se stesso mandando a vuoto il primo attacco del ragazzo, e solo dopo si decise a estrarre la spada. Questa volta fu Ash ad attaccare, e con sua somma sorpresa, mancò il bersaglio. Tristan era agile e leggero. Il capitano sorrise, sarebbe stato divertente. In pochi attimi il ponte si era riempito, tutti erano stati svegliati dalle grida, ma nessuno si sarebbe intromesso. Tristan lanciò uno dei suoi pugnali direttamente al volto del capitano, ma questi, con un fulmineo movimento della spada, lo deviò. Ogni volta che uno dei due attaccava, l’altro rispondeva prontamente neutralizzandolo. Erano in stallo. Anche se entrambi sapevano che prima o poi uno dei due avrebbe sbagliato, e l’altro lo avrebbe ucciso. Il ragazzo lanciò un altro pugnale e ancora Ash lo schivò, ma non si accorse di un terzo, lanciato quasi in contemporanea, e venne ferito di striscio a una guancia. La ciurma si agitò, il loro capitano non aveva mai subito ferite. Il giovane pirata tentò subito un affondo ma Ash, ruotando su se stesso, riuscì ad agguantargli il polso piegandoglielo dietro la schiena, e bloccandolo con il filo della spada sotto la gola. Era finita, e Tristan lo sapeva. Un grido lacerò la notte e un dolore lancinante esplose nel fianco del capitano. Natalie aveva raccolto uno dei pugnali di Tristan e si era lanciata su Ash come una furia.
Kunte intervenne prontamente abbrancandola. Il capitano lasciò andare il ragazzo, che si voltò osservando inorridito la scena. Sapeva che ora li avrebbero trucidati entrambi. Ash si sfilò il pugnale con una smorfia di dolore. «Non morirò certo per questo», disse buttandolo in acqua. Dopo aver fissato a lungo negli occhi Tristan continuò: «Lasciateli andare. Hanno guadagnato la loro libertà.» Natalie, liberata da Kunte, corse tra le braccia del ragazzo. «Grazie capitano», disse Tristan. «Spero ne valga la pena», sorrise Ash, era la prima volta che lo vedevano sorridere veramente, con gli occhi e con il cuore. I due furono accompagnati sulla spiaggia da una scialuppa, mentre il sole stava sorgendo. Rimasero a fissare il vascello che si allontanava, finché questo non sparì sotto l’orizzonte.
La Morgana imperversò per i sette mari per molti anni, divenendo leggenda come il suo capitano. Tristan non incontrò più quella nave, né tantomeno Ash. Ma continuò a interessarsi alle storie che si narravano su quel veliero. Poi un giorno non se ne parlò più. Ash era scomparso, misteriosamente, come era arrivato.
Indice
Prefazione Anime in Mare Inaffondabile La Rosa Insanguinata La polena Al Qantara Il Fuoco dell’Inganno Il Tesoro più Prezioso Predatori