Raffaele Stammelluti
Elogio del Coniglio
UUID: 4b0668a0-981c-11e5-aa22-119a1b5d0361
Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write (http://write.streetlib.com) un prodotto di Simplicissimus Book Farm
Indice dei contenuti
Intro S E N Z A R E Q U I E IL PROCESSO DI ETTORE LIVIA C L E M E N T E C O R I N N E LA COSCIENZA DI ETTORE T I Z I A N A QUEI LOSCHI FIGURI FRASCHETTA U N A M O T O P E R E T T O R E LA RAPINA I L P E S T A G G I O G U F O L A N D I A E L E T T R I C A A N N I 11 M E S I 8… P R I M E A V V I S A G L I E U N L I B R O S U I K U R D I L A C O N D A N N A A M O R T E
I L R I T O R N O
Intro
Raffaele stammelluti
Elogio del coniglio
romanzo
Questa storia è dedicata a tutti gli alcolisti che lo sono stati, e che ancora lo sono
Al Lettore
Quante volte consigliamo a un amico di leggere un libro che ci è piaciuto? E quante volte riceviamo lo stesso consiglio? Quante volte poi, dopo poche pagine desistiamo? Questo succede spesso quando si tratta di storie vere. Perché le storie vere hanno gli stessi ritmi della nostra vita: iniziano banalmente, si arricchiscono strada facendo e, a metà del percorso, giunge inaspettata la sete di andare avanti, di andare fino in fondo, nell’attesa di un
finale che ci stupisca,che ci emozioni. Voglio dare a te, lettore, questo consiglio perché ho sempre pensato che le cose belle della vita non sono una proprietà esclusiva ma vanno condivise, come un tramonto, un arcobaleno e tutto ciò che è alla portata di tutti senza distinzione alcuna. Il piacere di una buona lettura rientra tra queste. All’inizio può sembrare una storia di fantasia come tante altre, che però solo nel suo insieme assume il suo vero valore e significato, e che vale la pena scoprire. Si tratta di un romanzo ispirato ad una storia vera, la più originale e apionante che abbia mai letto. Perciò caro lettore, ti offro un buon bicchiere di vino, i cui profumi, sapori e retrogusti potrai apprezzare davvero solo sorseggiando, con calma, fino in fondo. E se ti viene voglia di berne ancora, ricordati di Ettore. Uomo o coniglio, decidi tu.
Claudia Vanzolini
S E N Z A R E Q U I E
Era disteso su una panchina. Non sentiva nel mese di marzo, né freddo, né caldo; i capelli ormai discretamente lunghi venivano smossi da qualche alito di vento ancora freddo; la barba incolta di sette, otto giorni, prevalentemente sul canuto e il viso scarno, con gli occhi incavati e gonfi gli davano dieci anni di più di quelli che effettivamente aveva. Un giubbotto color ocra lo copriva alla meglio, ma questo non gliene importava niente, era semplicemente crucciato a adirato con se stesso per aver sporcato i pantaloni con feci liquide. Da tempo non si nutriva o se lo faceva, era per quotidianamente cercare di eliminare quella reazione fisiologica ben nota a tutti gli alcolizzati: la perdita di feci e urine all’improvviso. In quel momento guardava al cielo buio e con poche stelle visibili. Si chiese se fosse giunto alla fine del suo viaggio terreno, se lo potesse abbandonare subito e se Dio gli fe questa ‘grazia’, perché non aveva più senso vivere. Tutti i suoi errori, gli anni della depressione, quelli del carcere e in fin dei conti del suo esistenzialismo, del rifiuto della realtà, lo avevano prostrato. Il suo trascinarsi nei centri di accoglienza per i ‘senza fissa dimora’ –quando trovava posto –le mense caritatevoli dove di tutte le lingue si parlava fuorché l’italiano, i gelidi inverni e le torridi estati, stagione dopo stagione, l’avevano consumato e logorato sia nel fisico che nella mente. Ora, desiderava solo andarsene in silenzio, mettere la parola “fine” sugli innumerevoli ricoveri da Pronto Soccorso per etilismo: non li contava più tanto erano frequenti; non voleva più disturbare amici e conoscenti che lo esortavano a smettere. Proprio non ce la faceva: il suo massimo, erano tre mesi di astinenza ma poi ricominciava, più di prima e in maggiori quantità. In una giornata doveva assumere quattro, cinque litri di vino e del più schifoso, soldi per i D.O.C. non ce n’erano e quando li aveva, preferiva andare sul pesante: Whisky o Vodka. Solo che quando assorbiva superalcolici diventava una bestia e non dovevi, non potevi, guai a te…Se osavi contrariarlo. Ne avevano fatto l’esperienza tutte le donne con le quali aveva avuto una relazione: erano disperate. Disperate e angosciate perché nei periodi di lucidità Ettore era un’altra persona: innamorato, sensibile, gentile, attento; sapeva anche portare mazzi di rose alla sua “bella del momento”; le faceva divertire perché
oltre a questo era spiritoso; non lesinava sui soldi, per sorprenderle con un regalo o una dimostrazione materiale del suo affetto…Ma quando iniziava a bere era come se subisse una totale metamorfosi: si chiudeva a “riccio”, finito l’amore, le eggiate romantiche, le attenzioni, la cura di se stesso, il decoro; non parlava più e se insistevi a dialogare con lui, diventava scontroso e irascibile e questa, era la disperazione delle sue donne; l’angoscia invece, rappresentata dalla difficoltà di chiudere una relazione per la quale ogni donna, avendo vissuto con lui ne conosceva il lato ‘buono’. Di tutto ciò lui era cosciente. Anche se l’alcol non gli dava più quella necessaria lucidità, capiva che il suo problema gli avrebbe ben presto fatto esalare l’ultimo respiro, che non esistevano alternative al suo dramma. La morte lo stava aspettando, ma lui se ne fregava e se ne strafregava, non gliene importava un fico secco, -la vita –si diceva, è solo un aggio e tutto continua dopo. “Forse, -continuava a pensare ricordando la parabola dei Talenti, -io sono stato indegno del mio ‘Padrone’, -invece di fare fruttare le qualità che mi erano state consegnate le ho nascoste per paura, sotto terra… Sentì le forze che lo abbandonavano, chiuse gli occhi e un sonno quasi comatoso, lo portò lontano, molto lontano…Mentre una voce appena udibile gli sussurrava: “tu non sei più un uomo ma un coniglio, Ettore il coniglio.
IL PROCESSO DI ETTORE
Le alture collinari digradavano dolcemente sull’ampia vallata dove querce e castagni, offrivano riparo a una piccola comunità di bestie evolute, e che scopiazzava –limitatamente alla loro natura, la civiltà degli esseri umani. Un acerba primavera, lenta ma sicura, iniziava a dare nuova vita ai germogli e il manto verde di piante e alberi si insinuava prepotentemente,nell’eterno scandire dei cicli della natura. La radura di fondo valle era tagliata in due da un ruscello dalle placide e diafane acque, dal suono gradevole e pacioso, offrendo ai suoi abitanti quiete e serenità. L’organizzazione di Gufolandia –così denominata questa contea in omaggio a questo volatile insediatosi da molti secoli, era quasi perfetta. C’era una giunta politica, i suoi membri ministri, e tutti coloro che desideravano fare politica, dovevano versare una quota all’erario, cosicché in caso di malversazione, la comunità era coperta, almeno in parte, dai danni provocati da eventuali e scriteriate bestie di malaffare. Il presidente della contea scelto all’unanimità, era Temistocle il gufo, data la sua lungimiranza. E nessuna delle bestie da lui governate poteva immaginare della sua ignoranza. Il carisma che suscitava lo avevano portato a rivestire quell’incarico; era pure un esperto di economia e si doveva a lui, profondo conoscitore di questa materia, se le bestie di Gufolandia avevano potuto abbandonare il vecchio baratto e sostituirlo battendo ‘moneta’. Nel corso dei suoi viaggi all’estero per documentarsi sul sistema monetario in uso presso gli umani, aveva spesso sentito parlare di ‘pizzo’ e ‘tangente’, e ad ascoltare bene, si trattava di soldi, molti soldi. Per cui quando ritornò dai suoi viaggi, la sensazionalistica notizia che avrebbero avuto le unità monetarie necessarie per incanalare nella libera economia gli strumenti per abolire lo scambio, rallegrò tutti gli abitanti. Difatti il pizzo divenne l’unità minima monetaria; 100 pizzi erano uguali a una tangente. Gli stipendi della gran parte dei dipendenti a contratto agricolo erano all’incirca di 300 tangenti; un affitto di casa costruita da un castoro costava 70 tangenti e
ogni lavoratore di questa comunità poteva dirsi soddisfatto della propria retribuzione. Di questo o, erano nati i commerci, per cui sul Viale principale Corso Darwin, c’erano le boutiques più rinomate: abbigliamento maschio e femmina; parrucchiere per entrambi i sessi; due bar centrali; un emporio, una sarta, un negozio di scarpe, uno per l’igiene personale con annessa profumeria, un negozio di articoli casalinghi e due ristoranti. Il problema degli animali carnivori era stato risolto con l’abiura di questi a cibarsi di carne: erano tutti vegetariani e vegano. Alla politica diversi dicasteri: quello della sanità presieduto da Pericle la lepre, che operava come veterinario con la sua clinica privata, ma convenzionata con la Contea; il dicastero di parchi e foreste affidato a un giovane castoro rampante, Galan; ministro dell’industria e sfruttamento delle risorse, Belvedere Bracco; ministro dell’economia, lo scoiattolo Noc-ciola; ministro degli interni, la morigerata Adonea colomba; e quello di grazia e giustizia amministrato dalla temibile Axa la volpe. V’era inoltre un tribunale, era stato creato un codice di procedura penale, e una prigione: la ‘Fortezza del Pensiero’. Riguardo alla lingua e per unificare la comunicazione, tramite l’ente bestiale della cultura, era stato ideato un idioma unico parlato e scritto, tenendo conto del numero demografico delle maggiori razze presenti in sei Contee, tutte altrettanto evolute. La lingua era il “CRASH” un misto di conigliate, di castorino, lupestre, vaccaro e bipedino, nato casualmente dall’abbattimento di un albero di notevole dimensione ad opera di un castoro, il quale lui stesso meravigliato per la potenza dei sui incisivi esclamò: “Ho fatto crasch!” Non tutte le bestie sapevano cosa volesse dire “crash” ma tutte ne capirono il significato. E così, per ogni parola adottata nel nuovo linguaggio si ricorreva nel creare un gesto, un evento che avesse un significato diretto con ciò che si voleva esprimere. Un refolo di vento, nel primo mattino, scompose i peli delle orecchie di Ettore coniglio. Lui si vergognava di essere tale, e non poteva fare nulla per sconfiggere la sua paurosa e timida natura. Aveva timore di tutto ciò che lo circondava e di tutti coloro che lo attorniavano. Per questo l’infamante accusa di codardia si era sparsa in quella piccola congrega, dai fatti dubbi e dai recenti pettegolezzi. Nella sottigliezza espressiva di voci e velate calunnie, egli era il ‘nominato’, il più infangato. Che si fosse svegliato su una panchina non l’aveva stupito più di tanto: era una sua consuetudine, ma il ritrovarsi in mezzo a strane bestie vestite di tutto punto e dai manierismi umani, con occhi penetranti rivolti alla sua persona, aveva
dell’incredibile. L’amara scoperta di ritrovarsi nella pelle di un coniglio e guardandosi meglio nello specchio di uno stagno, lo fece andare nel panico più totale. Allora s’era messo a sedere sulla stessa panchina dove aveva dormito e, spaventato, inorridito da quella inspiegabile metamorfosi, cominciò a porsi tanti interrogativi. Assorto nei suoi pensieri non si avvide di due castori che indicandolo andavano nella sua direzione, velocemente su dei monopattini. “Buongiorno,”disse uno dei castori in divisa, “Polizia di Contea…” Ettore volle dire qualcosa ma riuscì ad emettere solo un debole squittio. “Ha dei documenti?” chiese l’altro. “No, chiaramente! Non è neanche vestito… Cosa ci fa in pieno centro cittadino completamente nudo?” proseguì il castoro poliziotto mettendo una mano sul manganello. “Che lingua parla?” continuò l’altro. Ettore proseguì nei suoi squittìì, la polizia si esprimeva in “crash” ma nessuna delle due parti riusciva a capirsi. Allora il castoro più anziano prese dal cinturone quel che a Ettore pareva una radio portatile. “Castor uno a centrale…Mi ricevete?” “Parla castor uno…” Gracchiò una voce in risposta. “Abbiamo sorpreso un vagabondo: è nudo, e non riusciamo a capirci.” “Portatelo qui. E mettetegli qualcosa addosso…o e chiudo.” Gli arono ai polsi delle zampe anteriori gli elastici elasticizzati e lui in mezzo, i due castori ai lati si avviarono lentamente verso il posto di polizia, facendo tappa presso un ingrosso di vestiti. Gli fecero indossare una maglietta, un paio di jeans e delle scarpe da ginnastica. “Ora sei più presentabile,” valutò il castoro anziano. Quando dopo diversi tentativi di capire chi fosse e da dove veniva, dovettero gettare la spugna: il capo della polizia fece chiamare il coniglio più anziano della contea. “Senti,” gli disse “ parlaci tu, può darsi che tu riesca a interpretare quello che dice…”
Il coniglio anziano si sedette davanti a Ettore ed emise degli squittìì modulati: a volte striduli, lunghi e corti, ma niente. Ettore non capiva. Però cominciava a sentirsi male perché l’astinenza, che tu sia coniglio o essere umano si fa comunque sentire. Cominciò così a mimare, con grande sorpresa dei castori e del coniglio anziano, unendo le zampe a forma di bicchiere, che voleva bere. Il capo della polizia fece cenno al subalterno di andargli a prendere un bicchiere d’acqua, ed Ettore alzò gli occhi al cielo, e quando gli misero il bicchiere davanti mimò che se avesse bevuto l’acqua avrebbe rimesso tutto. “Che facciamo capo?” domandò uno dei castori. “Sembra che a questo l’acqua gli faccia schifo.” Il capo della polizia pensava e lo guardava, guardava tutti i presenti e rifletteva. Poi decise: “Portatelo al Bar A’merican Legion e vediamo che succede…Senza elastici, sembra tranquillo,” soggiunse. Fecero tutti e tre insieme un breve tratto di strada e le bestie incontrate, curiose, esaminavano quel nuovo ‘elemento’ accompagnato dai due poliziotti e chiedendosi che cosa avesse fatto. Al loro ingresso all’ A’merican Legion, gli astanti tacquero, ancora bestie di ogni genere, osservava Ettore, – ben vestite, e le femmine addirittura in gonna lunga alla caviglia e tacchi alti e cappellino. Ad Ettore sembrava impazzire, ma non sostò troppo sui capricci della natura, ne aveva già abbastanza per suo conto; appena vide la fila delle bottiglie dietro al bancone allungò il o, mise le zampe sul ripiano e con quella sinistra indicò una bottiglia. “Cos’è che vuole signore?” gli chiese la nutria che stava asciugando alcuni bicchieri. Ettore continuava a indicare sempre la stessa bottiglia. “Ma non sa parlare?” “Non sappiamo da dove viene e che lingua parla, ma tu dagli quello che vuole, paga la contea.” Rispose uno dei poliziotti. “Quand’è così,” fece, allargando le zampe sul retrobanco. “Allora, cosa le servo?”
La bestia seguì con gli occhi la zampa di Ettore e dopo qualche tentativo, ando in rassegna le bottiglie che si trovavano sugli scaffali, Ettore squittì. “Ah, bene!” esclamò Zenaide, “una Vodka alle dieci del mattino. Non sa parlare ma sa quel che vuole.” Ironizzò. Appena versato il liquore nel suo noto bicchiere a cilindro, Ettore ne fece una sola sorsata, poi indicando sempre la stessa bottiglia, fece capire che ne voleva un'altra, e poi un'altra ancora. “Per il fetore di tutte le puzzole! Ma questo la Vodka se la beve come l’acqua!” si stupì la nutria. “E tu, dagliela! “ le disse il secondo poliziotto. Mentre Zenaide versava il quarto bicchiere, nell’atto di ritirare la zampa e rimettere il tappo, Ettore, con sorpresa di tutti, la fermò: gli sfilò la bottiglia e se la infilò nei pantaloni. “Ma…Hei che maniere sono!” si lamentò la nutria. “Ti ho detto che paga la contea, metti in conto.” Le disse il castoro anziano. Insieme uscirono e tornarono al posto di polizia. Ettore aveva capito che erano interessati a chi fosse e da dove veniva, e che questo voleva dire assicurarsi altra Vodka, per cui sempre mimando le sue intenzioni, si fece portare carta e matita. Non sapeva disegnare bene, ma non gli fu difficile abbozzare un accenno di città a indicare grossolanamente palazzi e palazzoni strade e scene di vita quotidiana degli umani, tra l’altro verità. Il capo della polizia osservò lo schizzo e gli altri due poliziotti fecero lo stesso, quando si avvicinò il coniglio anziano e anche lui posò gli occhi sul disegno, ebbe un illuminazione. “Capo,” disse con voce profonda, “questa bestia è riuscita a fuggire da una grande città: è probabile che gli umani gli avessero riservato un futuro scottante. E’ per questo che non riesce a esprimersi e l’avete trovato nudo nel parco: è sotto choc e vive ancora il trauma della ‘padella’.” “Accidenti!” si stupì il capo della polizia, “non può essere che andata così.”
“Fai una cosa,” disse rivolgendosi a Gralucchio, il poliziotto più giovane, accompagnalo in albergo e gli prendi una camera, ti accerterai che nessun curioso si avvicini, meno che mai i giornalisti, i pasti glieli farai servire in camera e ogni cosa che chiede provvedi. Chiaro?” “Si capo, è chiaro.” Io intanto andrò a parlare con il magistrato. Fu così che Ettore ottenne lo status di rifugiato erbivoro; gli venne assegnata una casa in un quartiere popolare e un indennità giornaliera di 20 Tangenti per le sue spese personali, e se voleva lavorare, il tempo di parlare la loro lingua gli avrebbero trovato anche un impiego. Se non fosse stato per la sua condizione di coniglio avrebbe potuto dirsi soddisfatto ma chiaramente non lo era. Imparò comunque in fretta il nuovo idioma e frequentando alcune bestie del vicinato si accorse che Gufolandia era una manica di moralisti e salutisti: nei bar si vendevano gli alcolici ma preferivano i loro intrugli vegetali; vendevano anche le sigarette ma pochi fumavano. Spendevano soprattutto nei vestiti, le femmine poi, in borse e gingilli e scarpe. A lungo andare quella vita senza emozioni gli venne a noia e cominciò a bere forte, tanto da doversi trascinare fino a casa, se non farsi accompagnare: stava dando fastidio alla morale della Contea Soleva spesso recarsi al bar A’merican Legion per bere qualche bicchiere, forse di troppo, e così dimenticare le sue pene, ma la contea era piccola e gli animali mormoravano. A Ettore coniglio veniva spesso alla mente quel ‘male oscuro, quando moralmente disastrato usava bere. Riusciva a capire che bevendo non è che risolvesse il suo problema anzi, lo peggiorava, ma l’atto era compulsivo e irrefrenabile; ti adescava e seduceva: euforizzante prima, traditore mentre, depressivo poi. Irrinunciabile, cronico e destabilizzante. Non ti accorgevi di niente: ti sfiorava come una bella coniglietta, frenava le tue ansie, i maledetti tarli mentali, i problemi irrisolti, estromettendo la tua timidezza, riuscendo finanche a farti apparire simpatico e sicuro di te; disinibito quell’impaccio da castrone e, ammesso che tu ne sia cosciente, ridotto a una larva di coniglio, un vegetale, e sempre con le orecchie basse. La bottiglia, solo quella vedeva. Era per questo che la ‘Commissione delle libere Bestie’ si era riunita esortando la magistratura a prendere i dovuti provvedimenti per atti immorali nei riguardi
della contea. Il processo iniziava alle nove del mattino e Ettore, zampette dietro la schiena, sospirando, si diresse verso la radura dov’era stata improvvisata un aula di giustizia. La folla calcava gli spalti costruiti dai castori, perlopiù bestie inabili –data l’etàai lavori notturni di ingegneria idraulica. Gli animali erano eccitati: da tempo memorabile non assistevano, forse, a un esecuzione capitale! Il vociare del popolo bestiale venne subitamente interrotto dall’ingresso del presidente Riccardo lupo, seguito a breve distanza dal pubblico ministero Axa la volpe e da i due giudici a latere Berto caprone e Guido Todadirti castoro. “Oggi, in data 10 dicembre dell’anno bestiale 2013,” annunciò il Presidente si da inizio al procedimento nei confronti di Ettore coniglio, reo di codardia e ubriachezza continuata. Come si dichiara l’imputato, colpevole o innocente?” domandò Riccardo lupo. Ettore si guardò attorno. Il peso della vergogna, avvalorato dai bisbiglii della platea lo fecero sentire ancora più piccolo. Ne conosceva pochi di tutti coloro erano presenti. C’erano Caparbio l’asino, Merdaccia la vacca, Tedeofiuto cane pastore, Gianselmo castoro, vicino ai giudici, delegato per gli affari del tribunale e comandante delle guardie della Fortezza del Pensiero, Pia l’anatra, Giuliva l’oca, Solitario il ero, Cotenna maiale, Fuoriditesta il picchio, Luciano il merlo, Mariasol la cinciallegra, Cristoforo, piccione e viaggiatore, Anacleto il gatto, Zenaide la nutria, Altrimenti vedente, la talpa, Tequila topo, Equileo cavallo, Pericle la lepre, e tante altre bestie che chi per curiosità, chi per zelo morale, erano interessate a questo processo. “Innocente! Vostro onore.” Dichiarò Guinzaldo gabbiano, avvocato di ufficio venuto da molto lontano. Il pubblico mormorò tra i banchi frasi e commenti non certo edificanti nei riguardi di Ettore coniglio. Al che l’avvocato gli mise un ala sulla zampa: “Non ascolti, faccia come se non ci fossero.” Lo incoraggiò. “Venga data la parola al pubblico ministero.” Disse Riccardo lupo.La volpe Axa, nella sua scintillante toga nera, lasciò la cassetta di frutta, suo banco e scranno e raggiunse il centro della platea. Con la sua zampa sinistra fece un gesto per tirar
via un ciuffo di pelo che gli copriva l’occhio di vetro, gesto alquanto inutile ma di grande effetto coreografico. “Signor presidente, giudici a latere, stimabile popolo bestiale, questo coniglio ha un bel muso tosto da farsi dichiarare innocente dal suo avvocato.” Sentenziò la volpe. “Voi sapete che nel nostro panorama, la natura, quale equilibrio universale, bandisce gli impotenti, le bestie più deboli: incontrovertibile sistema per il rinnovo della razza e per la nostra sopravvivenza!” si infuocò il pubblico ministero. “Costui si è ritagliato nella nostra contea uno spazio che non appartiene alle nostre abitudini, al nostro habitat. E possiamo senz’altro accertare che è un mentitore, che ha approfittato della nostra benevolenza e ha usufruito dei beni della Contea messi a sua disposizione senza mai pagare alcunché. Adesso mi è chiaro che la sua famiglia lo ha disprezzato, e voi sapete bene che fine fa un coniglio che non è più di compagnia… I suoi parenti lo odiano, gli amici, se capissero il suo dramma potrebbero essergli solidali ma anche questa solidarietà avrà i suoi limiti nel tempo. E’ una bestia spregevole sotto tutti i punti di vista e, per i fatti accertati, quali la sua vigliaccheria, l’ubriachezza, il vagabondaggio, la perdita dell’autostima conveniente a ogni bestia decorosa, la propria dignità calpestata, recidivo ad oltranza, chiedo per lui la pena capitale e che sia messo al rogo dalla data in cui verrà depositata la sentenza. Il tutto come animal giustizia vuole! D’altronde gli esseri umani fanno di peggio:animal più, animal meno…” Concluse Axa la volpe. “Ringraziamo il pubblico ministero per il suo nobile intervento e venga data la parola alla difesa.” Consentì Riccardo lupo. Guinzaldo avvocato posò la punta delle ali sulla cassetta di ananas: Osservò il collegio giudicante, si soffermò alcuni istanti in più sul pubblico ministero, rivolse l’attenzione alla platea, ed esordì: “Signor presidente, pubblico ministero, giudici a latere, stimatissimo popolo di Gufolandia, l’accusato ha oggi le orecchie più basse del solito e ne possiamo comprenderne il motivo. Ma è vero che ci ritroviamo qui riuniti per un caso di giustizia atipica. L’impianto accusatorio, perdonatemi,” azzardò l’avvocato “è un castello di sabbia…” “Obiezione! Vostro onore.” Si alzò in piedi Axa la volpe. “Faccio notare a questo collegio giudicante che non è mai stata presa alcuna iniziativa da parte del ministero di grazia e giustizia, ma la sollecitazione a intervenire sul caso riguardante Ettore coniglio è stata messa in atto su specifica richiesta della Commissione delle libere bestie…”
“Signor presidente, se solo potessi continuare…”chiese l’avvocato. “Obiezione respinta.” Continui avvocato. “Vorrei ricordare a questa serenissima corte che alcuni costumi propri alla razza degli umani, sono stati introdotti e accettati da tutti gli abitanti di Gufolandia, e con questi anche gli alcolici.” Spiegò l’avvocato. La platea rumoreggiò come se improvvisamente avvertisse il peso di una responsabilità che non credevano di avere. “Oltreciò,” proseguì l’avvocato, “abbiamo due tipi di accusa: quella legalmente istituita, e la peggiore, quella del ‘sentito dire’, ‘potrebbe darsi’ ‘l’ho visto ma non ero sicuro che fosse lui…’ “Eccetera, eccetera. E questo tipo di accusa,” tuonò Guinzaldo, “è la più infamante di tutte, tremende sono!” alzò la voce il difensore. “E soprattutto perché non individuabili. Queste voci, signor presidente, gettano fango sul mio assistito e spero vivamente che il pubblico ministero,” proseguì guardando negli occhi Axa la volpe, “non intenda in questo procedimento riesumare i tempi dell’inquisizione: quella degli esseri umani, ben inteso, dove per un qualsiasi futile motivo o peggio ancora ‘voce’ veniva messo al rogo…” “Obiezione! Vostro onore. Obiezione e ancora obiezione!” si dimenò la volpe sul suo scranno. Si alzò nuovamente in piedi. “Ricordo a questo collegio che non sono state le cosiddette voci a portare l’imputato sul banco degli accusati, ma la reiterazione del reato e seguendo il solito ‘modus operandi’.” “Obiezione respinta,” dichiarò il presidente. “L’imputato, anche se sotto forma di scherno ha già simbolicamente scontato una pena in termini morali, e questo non deve dar luogo a pregiudizi per il procedimento in corso. La volpe Axa, digrignando i denti, si rimise a sedere. L’avvocato poté riprendere la difesa. “Al mio assistito,” disse Guinzaldo indicando Ettore, “quando ancora studiava riproduttività, è stato tolto il bene più grande: la territorialità. Non ha mai avuto radici; ha conosciuto e cercato di interpretare i deserti del suo animo senza mai riuscirvi e questa sua proiezione nell’età adulta in assenza di valori, di concrete basi morali onde distinguere il bene dal male, ne ha fatto un essere senza identità. Sappiamo che egli dichiara apertamente che la sua prima regola, è che
non esistono regole, che il suo miglior pregio, è quello di non averne e che fanciullescamente, direi quasi un ‘Peter Pan’, crede in un aquila la quale scendendo dal cielo ad ali spiegate, brandisce l’elsa di una spada spezzando ogni catena…” L’avvocato fece una breve pausa, e poi riprese ancora più apionatamente. “Andiamo, signori della corte! Non vedete in questo coniglio un barlume di romantica e nostalgica natura? Sempre ancorato ai fasti di un tempo che ormai non tornerà più? E tutto ciò che gli è capitato: le sventure domestiche, i fatti della vita, l’amore, possono trovare nei vostri cuori, se non scusanti, almeno comprensione?” domandò con fervore a chiunque lo ascoltasse. “Per i motivi addotti in questa difesa, per l’essenza stessa che anima il cuore di Ettore coniglio, rifiuto l’impianto accusatorio e ne chiedo l’assoluzione piena!” concluse l’avvocato Guinzaldo. “Ringraziamo il difensore per la sua calorosa, nonché singolare arringa.” Disse Riccardo lupo. “Pubblico ministero, a lei la replica.” “Sarò molto breve,” annunciò Axa. “Malgrado questa strenua difesa,” disse lanciando un occhiataccia nella direzione dell’avvocato. “Se lo lasciassimo libero, lo ritroveremmo ogni sera su qualche panchina, diffondendo la vergogna nella nostra comunità e ad altri centri urbani e rurali. Sempre ubriaco, incapace di reggersi in piedi, verbalmente immorale verso chiunque abbia cercato di aiutarlo. No! Chiedo per lui la pena capitale.” Il rumoreggiare della platea innervosì il presidente e richiamò gli astanti facendo suonare il camlo. Guardando severamente il pubblico annunciò: “La corte si ritira per deliberare.” Entrarono tutti e quattro in un fatiscente magazzino per attrezzi da giardinaggio. E la folla riprese a parlottare e fare commenti d’ogni genere, non mancavano i luoghi comuni e le sterili discussioni. “Per me, gli danno la pena capitale.” Disse Zenaide la nutria, tra l’altro titolare del bar A’merican Legion. “Oh, certo, può darsi che sia come tu dica,” replicò Pericle la lepre, “però mi sembra che il tuo bar sia frequentato solo da ubriaconi, quindi non solo Ettore
coniglio…” “Ma mica sei obbligato a ubriacarti ogni sera…” gli fece eco Pia l’anatra. “Ma perché non vi fate una vagonata di cazzi vostri!” sbottò Anacleto il gatto. “E no amico mio,” prese posizione Cotenna maiale, “questi sono cazzissimi nostri. Ne va del buon nome della contea, che figura ci facciamo con i nostri vicini limitrofi.” “Tu, proprio tu!” lo interpellò Anacleto, “parli del buon nome della contea, finocchio di merda! Credi che nessuno sappia dei tuoi intrallazzi con Tedeofiuto? Cotenna il porco, dovrebbero chiamarti…” Cotenna maiale che aveva il solito colorito rosa perverso, divenne rosso come un peperone e discretamente si allontanò. Intanto Ashira la pecora, nota opinionista del quotidiano ‘LaQuercia’, accompagnata dal fotografo del giornale pastrocchiava sul suo taccuino le impressioni dei presenti, raccogliendo testimonianze ed emozioni: si vide zittire improvvisamente da Gianselmo castoro presente per gli affari del tribunale, “Silenzio in aula,” ordinò, “entra la Corte.” I giudici presero posto ma restarono in piedi. “In nome del popolo bestiale, visti gli articoli 7, 9, e 11 del codice di procedura penale,la Corte condanna Ettore coniglio a mesi 3, giorni 2, di reclusione, al pagamento delle spese processuali, e che venga arrestato seduta stante. Così è deciso, così sia fatto.” Ordinò il presidente Riccardo lupo. “Non si preoccupi, “ si affrettò a dire l’avvocato Guinzaldo, “ricorreremo in appello.” Gianselmo castoro si portò alle spalle di Ettore coniglio e incrociandogli le zampe dietro la schiena gli fece un paio di giri con l’elastico elasticizzato, così chiamato dalla Contea perché in origine non si sapeva esattamente cos’era un elastico, poi tirandolo si accorsero della sua versatilità ad elasticizzarsi.
“Ettore,” gli gridò l’opinionista, “ha qualcosa da dire per la stampa?” Il coniglio era molto arrabbiato, sia per il processo, sia anche per l’inusuale accanimento del pubblico ministero, i giornalisti poi, e certi giornalisti non li poteva vedere. “Si,” rispose, “che le belle notizie non le scrivete mai, informate i vostri lettori di tutto il putridume che c’è in giro, altrimenti i vostri giornali non li vendete. Siete solo dei pennivendoli!” Lasciò così la giornalista con la matita in mano e il blocchetto degli appunti sospeso a mezz’aria su una pagina bianca. “Però, che caratterino!” La carretta della polizia penitenziaria aspettava appena fuori il perimetro dove si era svolto il processo. Alla guida del mezzo c’era un altro castoro, trainato da Argo, un San Bernardo di notevoli dimensioni. Ad Argo dispiaceva che fosse proprio lui a condurlo in prigione, gli era amico, e in quel momento non poteva neanche parlargli, era vietato dal regolamento. All’inizio avevano fatto fatica a capirsi, poi, quando Ettore riuscì a padroneggiare il Crash avevano potuto dissertare sui grandi temi della bestialità: chi sono gli umani, perché lo sono, dove vanno… La Fortezza del Pensiero era un casolare ristrutturato in tante celle singole per via della differenziazione delle razze. Al momento la prigione ospitava 16 detenuti, molti in attesa di giudizio, pochi i definitivi. Bastavano ancora quattro bestie e si rischiava il sovraffollamento. Gianselmo castoro, comandante delle guardie, seguiva personalmente l’andazzo del carcere, il direttore, De Carceris, un ghiro, non c’era quasi mai. All’ingresso, Ettore venne portato all’ufficio matricola. Un castoro in divisa stava scrivendo su un grande libro, quando vide il nuovo arrivato sbuffò e con un segno di rassegnazione si alzò. “Vieni coniglio, seguimi.” Disse portandolo in un'altra stanza. “Adesso spogliati.” Ettore si tolse le scarpe, i jeans, la maglietta e rimasto nudo attese. “Fai una flessione sulle zampe.” Gli ordinò.
Ettore obbedì. Gli era stato sempre antipatico quel rituale, ma o lo facevi da te o te lo facevano fare loro e in tutt’altro modo. Si rivestì lentamente, troppo. “Andiamo coniglio non abbiamo tutta la mattinata…” Lo sollecitò la guardia. Arrivato in ufficio, l’agente gli prese la zampa anteriore sinistra e gliela imbrattò di inchiostro con un rullo, poi la premette su un foglio di carta e la stessa cosa fece con la destra. Al termine dell’operazione gli diede di cosa pulirsi. “Bene, a dietro al banco.” L’agente si mise a sedere, aprì un registro e chiese: “Nome…” “Ettore.” “Paternità…” “sco.” “Data di nascita…” “Diciannove,undici, cinquantacinque.” La guardia alzò la testa. “Mi stai prendendo in giro?” “No agente, è la mia data di nascita.” “Gianselmooo”, chiamò l’agente. “Che c’è?” fece il castoro affacciandosi. “E qui, abbiamo un coniglio che è già morto! Dice di essere del ‘55.” “Tu segna poi faremo un controllo alle anagrafe centrali.” Disse uscendo dall’ufficio matricola. “Te li porti proprio bene 58 anni ma t’accorgerai che a noi non piacciono gli spiritosi.” Aggiunse. Ad Ettore venne consegnato un pagliericcio, una gavetta, un telo per la doccia e lo portarono alla cella 8, al piano terreno.
“Entra coniglio, il tuo nuovo alloggio.” Disse sprezzante l’agente. Sentì la porta che si chiudeva dietro di sé e lo sferragliamento del chiavistello che ava nell’altro anello, immobilizzato dal catenaccio. Tanto tempo fa, il chiavistello veniva anche chiamato catorcio. Ettore guardò con tristezza quello spazio ridotto; la cella era spartana: il posto letto dove mettere il pagliericcio, un tavolino, uno sgabello e il buiolo in un angolo, la piccola finestra con le inferriate. Ma lui non ci stava. In assenza di alcol doveva dare un senso alla sua giornata: voleva scrivere e leggere, non ammetteva di fare su e giù per la cella contando le ore, si affacciò allo spioncino e chiamò: “Tira-catorci…hei tira-catorci, alla cella 8.” Gianselmo, che comandava poche guardie del carcere, seguiva personalmente la direzione della casa di reclusione. Con un direttore che non c’era quasi mai, doveva anche districarsi in un amministrazione complessa, burocraticamente poco versatile. Diritti e doveri era il suo motto, applicava alla lettera il regolamento interno, redigeva i rapporti disciplinari occorrenti all’organismo che presiedeva all’ordinamento penitenziario, il quale decideva la concessione della semi-libertà e dei permessi premio, ottenibili dalla recente legge “Lupestri”; i detenuti avevano due ore d’aria al mattino e due al pomeriggio, potevano ricevere visite di parenti e amici; chi voleva poteva lavorare in carcere. Ma tutto questo era ottenibile rispettando i “doveri”, e per Gianselmo castoro, Ettore aveva iniziato malissimo. A quel nomignolo, ‘tira-catorci’, il comandante diede una manata sul suo tavolo di lavoro e, alzatosi in piedi, camminò sbattendo nervosamente la piatta coda sul pavimento. Ettore lo guardò divertito. Era strano vedere un ingegnere che fino a poco tempo fa progettava e costruiva dighe, con la sua salopette di jeans e quello strano cappello a visiera in uso presso gli umani. “Stammi a sentire coniglio, stabiliamo subito le regole di reciproco rispetto: primo, non chiamarmi mai più tira-catorci, per te e quelli come te io sono il ‘superiore’. Spiegò adirato Gianselmo. “Secondo, mi chiamerai solo in caso di assoluta necessità: ad esempio, se stai per morire…ci siamo intesi?”
Ettore annuì. “Allora, cosa ti serve, perché mi hai chiamato?” Ettore allungò il muso oltre lo spioncino. “Devo scrivere, mi serve carta, penna e calamaio.” “Devi fare una domandina che verrà sottoposta alla direzione, cioè a me. Se verrà accettata ti forniremo di quanto hai chiesto.” “Già”, disse Ettore dubbioso, “ma se io non ho né penna, né calamaio mi dici come faccio a scrivere la domandina?” Gianselmo rifletté, c’era qualcosa che non quadrava. “Va bene”, disse alfine, “per oggi faccio un eccezione, ti prendo la domandina a voce. Allora cosa ti serve?” “Ma se te l’ho appena detto!” brontolò Ettore esasperato da tanta stupidità. Appoggiò tutti e due i gomiti sullo spioncino e ripeté: “Car-ta, pen-na, ca-la-maio…Inteso?... Recepito…?” “Ho devo farti un disegnino…” “Va bene…” Rispose Gianselmo prendendo l’appunto. “Se la direzione approverà avrai quanto richiesto. E per oggi non ti voglio più sentire.” Bofonchiò andando via. “Se non mi faccio sentire io, ti fai sentire tu con quella maledetta coda piatta: ma perché non gli applichi i ‘feltrini’?” gli disse con una risata sguaiata. “E vieni stasera dopo mezzanotte ho qualcosa da raccontarti sugli esseri umani…” “Senti coniglio: ho cercato di essere rispettoso nei tuoi confronti perché posso immaginare quello che nella vita animale ti hanno fatto are: gli esseri umani pensano prima a mangiarti, le tue ossa le danno ai cani di città e poi c’è anche qualche ipocrita che si pente per averci fritto, ma questo non ti autorizza ad essere arrogante, prepotente, e privo di una qualsiasi sensibilità…Mi hai capito?” “Vattene affanculo sdraiacappelli!” IL castoro si allontanò senza proferire parola: offeso e umiliato, ritornò con il pensiero alla diga che tanto tempo fa aveva costruito con i suoi colleghi: creato
un paradiso e ripreso a combattere contro i veleni dell’uomo impiegando particolari filtri naturali: si stavano difendendo, per Dio! E ora un coniglio rischiava di distruggere tutto? –pensò. Avvertiva istintivamente che non era un coniglio normale, gli pareva quasi umanizzato e lui la conosceva la mentalità umana: non c’era pianta, acqua, mare, che resistesse al loro scempio. Lui, Gianselmo, lo percepiva, Ettore era venuto per annientare la loro favola e se non fosse più esistita, non sarebbero esistiti neanche loro. Ettore cominciò a zampettare per il lungo della sua cella. Non sperava vedere la sua richiesta esaudita in poco tempo: le istituzioni, lo si sapeva, avevano ritmi africani. Guardò la cella che aveva di fronte, un'altra bestia vi era rinchiusa. “Ciao”, -fece questi. “ Ciao”, -rispose Ettore, “sei un porcospino?” “Perché si vede?” “Béh, hai un bel mantello di aculei. E come ti chiami porcospino?” “Teodolindo…” “Piacere, io sono Ettore. Tu, cosa hai fatto? “Ho sparato i miei aculei nel corso di una rissa all’A’merican Legion. Ho ucciso una talpa e ferito altre sette bestie. “Ci vado anch’io all’A’merican Legion, ma non ti ho mai visto.” Osservò Ettore. “Ormai sono anni che sono rinchiuso qua dentro: sono in attesa del processo di Cassazione, o mi liberano o mi friggono.” Lamentò Teodolindo. “Allora sei veramente pericoloso…” “E si, quando mi fanno arrabbiare lo divento. Ma tu, perché sei qui?” “Codardia, ubriachezza, vagabondaggio…Ma lo sai che non ci ho capito niente…-spiegò Ettore.
“Può darsi che i giudici si siano fatti influenzare dalla civiltà degli umani.” Azzardò Teodolindo. “Cosa vorresti dire?” “Nella loro cultura e per secoli, se l’umano era pauroso, vigliacco, codardo, lo chiamavano coniglio.” Spiegò il porcospino. “Allora io sarei un coniglio? “ domandò e si domandò Ettore. “Béh, a guardarti non hai niente di diverso…perché, cosa vorresti essere?” domandò stupito Teodolindo. “Niente, niente…Ho una tale confusione in testa.” “Voi due! intervenne Gianselmo, “da cella a cella non si parla, avete quattro ore di eggio per farlo: all’interno, voglio silenzio!” Il porcospino fece un cenno di saluto ed Ettore si sdraiò sul pagliericcio. C’era un intreccio, pensò, che riguardava gli animali connesso agli esseri umani e che non riusciva a sbrogliare. Possibile, si chiedeva, che nel corso dei secoli, gli uomini avevano insultato i conigli senza ragione? E che questo insulto era così pesante che gli uomini si chiamavano conigli tra loro? E che con questo insulto non sapeva più quale fosse la sua vera natura? Era un codardo perché beveva o perché era un coniglio…Mistero! Il sole stava volgendo al tramonto ed Ettore guardando oltre le inferriate si sentì ancora più triste. Il primo giorno di prigione si stava esaurendo. Fiutò l’aria come mai gli era capitato, il suo olfatto registrava i profumi della campagna circostante e tutto il suo mondo, quello libero da ogni costrizione, si stava frantumando. Ma lui, era una bestia che si adattava a tutto. Il mattino lo ava al eggio, al pomeriggio, leggeva e scriveva. Da quando gli erano stati forniti i mezzi per farlo e qualcosa da leggere, non aveva più disturbato Gianselmo e le guardie; il suo comportamento era esemplare. Certo era stata dura per lui nei primi giorni di detenzione: l’astinenza lo aveva fatto star male da bestia, ma ata la “scimmia”, a poco a poco si era ripreso. E nel vederlo così mansueto il comandante delle guardie, Gianselmo, cominciava a ricredersi anzi, nonlo vedeva più come una minaccia, ma un coniglio pazzo che si credeva essere un
umano. Un giorno qualsiasi e dopo tre settimane dal suo ingresso, Gianselmo castoro si fermò davanti la sua cella. “Scendi in parlatorio,” fece aprendo, “ c’è una visita per te.” Ettore lo guardò stupito. Non conosceva veramente nessuno che si fosse degnato di andarlo a trovare in carcere: chi l’avrebbe mai cercato in quella manica di salutisti, pensò. Il parlatorio era deserto, c’era solo una bella coniglia bruna elegantemente vestita che sembrava aspettare proprio lui. “Ettore…” chiamò alzandosi in piedi. Lui si avvicinò dubbioso. “Ci conosciamo?” chiese sempre con scetticismo. “Forse lei non si ricorda di me, sono Fraschetta, la moglie del titolare del bar ‘Vecchia Radura’. Ci siamo conosciuti due anni fa, lei veniva sempre da noi a bere qualcosa, nella contea di Coni’s Island’s… E a dire il vero, una simpatia era nata fra noi…Intende?” Una strana sensazione pervase Ettore: tutto era uguale al suo vissuto, quello vero e non gli pareva altrettanto singolare che se stesso, le bestie che formavano quella –dicasi comunità –erano per parte dei personaggi già incontrati nell’altra vita e adesso, era faccia a faccia con il suo male, sempre se di casualità si poteva parlare. “ Fraschetta…” disse ad alta voce. Un tumulto di pensieri, di strani incroci di vita ata già vista e ripetuta in quel breve istante lo riportarono indietro nel tempo, quando non coniglio ma essere umano aveva incontrato il suo male di essere, il suo male di vivere. “Mi ricordo di te” disse alfine Ettore. “Sa, ho visto la sua foto sul giornale ‘La Quercia’…Lì per lì mi son detta: ‘Ma io lo conosco…’, però non riuscivo a darle un nome. Poi, facendo vedere la fotografia a mio marito lui la riconobbe e mi disse chi era lei, leggendo anche l’articolo, e commentando che era ignobile quel che le avevano fatto. Ma noi lo sappiamo che qui a Gufolandia sono tutti ipocriti e bigotti.” Spiegò Fraschetta.
“Beh, la ringrazio di questa visita, tira veramente su il morale.” “Le serve qualcosa?” interrogò la coniglia. “A dire il vero, ho una storia da raccontarle…” le confidò Ettore pensieroso… Fraschetta lo guardò perplessa, ipnotizzata quasi, guardando i suoi occhi baluginanti di una brutta e spaventosa realtà. Si sedette. “La ascolto,” mormorò con un filo di voce.
“Non so se riuscirò un gorno a spiegare questa strana metamorfosi, ma tempo fa non ero un coniglio ma un essere umano…” “Oh!” si stupì la coniglia. “La prego, continui…” lo invitò.
LIVIA
Rigirando il bicchiere fra le mani si guardò attorno. Tutto era lindo e pulito; i vetri delle finestre erano specchi; neanche un piccolo strato di polvere: oggetti e oggettini, soprammobili di gusto; tre bei quadri facevano un bel effetto su due pareti; divani e poltrone in pelle marrone; diversi tappeti, e un tavolino di cristallo sorretto da due colonnine in marmo venate di nero. Per qualità e scelta, pensò Ettore –c’era l’occhio e la mano di sua madre. La conosceva troppo bene. Si versò ancora da bere. Da quel poco che aveva capito, i genitori erano ben disposti nei suoi confronti, ma questo da un punto di vista materiale. Nessuna domanda a riguardo del suo ato, nessun abbraccio, alcun manifesto, normalissimo sentimento. Non poteva essere il ‘figliol prodigo’ perché era partito senza una Lira, quindi non aveva avuto niente da sperperare; non era figlio di ‘nessuno perché i genitori ce li aveva. In effetti, lui, per loro, non sapeva cosa fosse, quanto rappresentasse nella loro sfera emotiva. Vedeva attorno a lui l’aridità più profonda. La netta sensazione di una notte senza stelle. Bevve ancora ascoltando musica, poi prima che cominciasse a sbandare, andò in camera di sua sorella, tirò fuori la branda nascosta dietro l’armadio, la aprì e vi depose il materasso. Cercò un pigiama, lo indossò e ritornò nel soggiorno. Rimise tutto a posto, si mise a letto e stordito dai fumi dell’alcol, rapidamente si addormentò. A sera venne svegliato prima da sua sorella sorpresa di trovare un estraneo nella sua stanza: mangiava fuori e nessuno poteva avvertirla che a casa c’era suo fratello Ettore. Timorosa, chiamò subito al telefono sua madre. “Mamma, c’è uno che dorme in camera mia…”Disse allarmata. “Non devi preoccuparti, stupidina, è tuo fratello Ettore, è rientrato dalla Francia e siccome era stanco sarà andato a dormire.” La rasserenò. “Ah, va bene, ci vediamo stasera.” “Si, a stasera, e sveglialo, sarà contento di rivederti, sei la sua preferita…”Gli
rammentò. “Non è che si incazza?” “Ma no, così si prepara, tra non molto arriviamo anche noi.” “Se lo dici tu…” “Ciao Monica, a dopo. “ Chiuse sua madre. Monica entrò nuovamente nella sua stanza, si avvicinò alla branda e scosse delicatamente una spalla di Ettore. Ancora rimbambito dall’alcol, ebbe difficoltà a capire dove si trovasse e chi lo stesse scuotendo. “Ma chi…Hei! Dico…”Prima si guardò interrogandosi in giro, poi, alzando la testa, illuminò il volto un pò stravolto con un sorriso, realizzando dove stava e chi l’aveva svegliato. “Monica, sei tu! Che piacere rivederti, come stai?” le chiese. “Io bene, e tu?” “Può andare,” rispose Ettore alzandosi dalla branda. “Sei arrivata adesso?” “Si, ma prima ho chiamato la mamma, chi lo sapeva che c’eri tu in camera mia…” Ettore se la guardò con tenerezza, la più piccola, di nome e di fatto. Monica era nata settimina, lo stesso giorno, lo stesso mese, alla stessa ora, in cui nacque Ettore, ma quattordici anni più tardi. Aveva un viso angelico, minuta in tutto. Ettore avrebbe voluto chiamarla scricchiolo, ma non voleva offendere la sua sensibilità. “Cosa fai, ti fermi o come al solito te ne vai.” Gli chiese quasi da presa in giro. “Penso che mi fermerò un poco”, rispose ando nel soggiorno. Si versò da bere e mise un disco di Mina in sordina. “Ma dimmi di te, in che anno sei?” le domandò. “In prima liceo.”
“Ti piace studiare?” “Si, me la cavo per quel che basta.” Rispose facendo spallucce. Ettore bevve un sorso del suo whisky, si portò il bicchiere in camera e sedette sulla brandina. “A che ora tornano gli imprenditori…” Le chiese scherzando. “Alle sette sono qui, prendiamo il bibitone, e poi si cena. “Ah, e che sarebbe il bibitone? domandò Ettore incuriosito. “E’ un aperitivo di nostra invenzione.” “Benissimo! E un abitudine che mi piace. E cosa ci mettete dentro?” “Aperol, Gin, e Soda.” Spiegò Monica. “Siete ancora dei principianti, nel caso vi aiuterò io…” “Bevi ancora come una spugna?” gli chiese questa volta seriamente. Ettore la guardò sorpreso. Era la prima volta che sua sorella gli rivolgeva una tale domanda e in quel modo: a sorpresa, a freddo. “No Monica, quello è il ato,” mentì, “adesso molto meno.” “Quanto meno,” interloquì “che sei capace di andare a letto da solo?” si espresse ridendo. Ettore bevve ancora un sorso. “Lo sai che sei una piccola stronzetta?” E tu, uno intero!” gli rispose di rimando. “Hei! Rispetto per tuo fratello più grande…” “Ettore,” chiamò, “ma tu credi sia ancora una bambina stupida e ingenua?” “Non l’ho mai pensato, nemmeno quando eri più piccola.” “Allora non venirmi a raccontare balle: guardati allo specchio, sembra che tu
abbia quarant’anni invece di trenta; tu bevi come prima se non di più, ti si legge in faccia.” Era incredibile, pensò Ettore, come in due anni sua sorella avesse fatto quel o di maturità tale da distinguere ciò che era bene da quanto era male. La credeva ingenua come l’aveva lasciata, ma non era così…Era fin troppo scaltra. Le voleva bene in modo particolare perché avevo sempre avuto l’impressione che quella gravidanza sua madre non l’avesse voluta; era sempre stata trattata male e non solo a parole ma anche a suon di ceffoni: lui che era stato sempre il peggio, di botte non né aveva mai ricevute tante. Ed era veramente penoso vedere a soli sei mesi quel sederino diventare rosso per mano di sua madre, per insegnarle a non fare pipì nel pannolino…Questi erano i primi ricordi che riaffiorarono vedendo sua madre. Crudelia Demon al posto suo era un ‘angelo’…
Cominciò lentamente a vestirsi sempre accompagnato dal suo mezzo bicchiere di Whiskey e a sentire i suoi brani preferiti: era la sua alienazione per antonomasia: bere, fumare, ascoltare la musica moderna di quei tempi, ma ormai alle diciannove mancava poco e con un po’ di solerzia, cercò di mettersi in ordine. Sapeva quanto i suoi genitori ci tenevano al vestiario, anche in casa, per cui indossò anche una cravatta; non è che lo spezzato fosse veramente elegante: la camicia beige in terital aveva un colore merdolino, la giacca a pied-de-poule, leggermente più scura della camicia, era corta di maniche, quanto ai pantaloni verde bottiglia erano ritagliati per uno zompafoss, le scarpe, modello inglese, quasi senza tacco. Ma se si sedeva, poteva anche andare. Nell’attesa, approfittando che sua sorella s’era chiusa in camera, si versò ancora mezzo bicchiere di Whiskey, rimise al suo posto l’LP di Mina e perse del tempo, quello rimanente, a guardare i titoli della biblioteca di suo padre, per lo meno quel che ne rimaneva. Aveva collezionato volumi su volumi e sua madre gli andava dietro con i titoli in se.Una volta aveva anche testi rari, ma nei continui traslochi, molti si erano persi: quanti ne avevano fatti. Dal loro ritorno da Parigi, erano andati a vivere a Milano, solo otto mesi; poi a Salerno, neanche un anno. Fu la volta di Roma, Ostia e Fregene e nuovamente Milano. Ma partirono solo con Monica; i fratelli si erano arruolati volontari ed Ettore trovato un lavoro a Roma come programmatore. Fino a quando, dopo diversi tentativi di costituire una società per conto suo, il padre finalmente ci riuscì. Ettore aveva preso una brutta
piega: beveva e non poco, ciò nonostante riusciva discretamente nel suo lavoro e questo fino a quando suo padre non lo invitò a Milano e prendere le redini della divisione informatica. Tutto si sgretolò e le promesse fatte non vennero mantenute. Una lite furibonda fu l’epilogo di un rapporto di lavoro che non era stato mai retribuito come Ettore si aspettava. Cambiò diverse aziende, fino a quando nell’ultima, non né poté più di stare dietro a una scrivania. Gli offrirono un impiego come rappresentante in una Sistem-House, società che vendeva computer con pacchetti di software personalizzato. Andò avanti bene per otto mesi, ma l’alcol ingerito ogni giorno, non gli dava la lucidità e il decoro necessari per svolgere quel tipo di attività. Pensò che era tempo di cambiare radicalmente tipo di vita e andare in un posto dove ti avrebbero raddrizzato la schiena, e questo posto esisteva. Non ci pensò due volte: una notte partì, il giorno dopo si arruolò in Legione straniera. Adesso, appena tornato, fisicamente stava bene, ma aveva di nuovo ricominciato a bere forte, troppo, e già sapeva che non avrebbe smesso fino alla prossima eccitante e forte emozione. Udì le chiavi della porta d’ingresso girare nella toppa e quando questa si aprì, una furia, pattinando all’ingresso sulle sue quattro zampe, fu addosso a Ettore, slinguazzandogli tutto il viso. “Lupo! Dai…Scendi dal divano. Ciao mamma, ciao papà…Buonasera…” Seguirono i suoi fratelli, Monica fece capolino in soggiorno. Erano dopo tanto tempo, tutti e sei riuniti. Ad Ettore venne da pensare a un ricevimento, tanto erano tutti eleganti nelle loro ‘grisaglie’ e camicie bianche, o a righine blu, e naturalmente anche sua madre con un vestito al ginocchio, verde smeraldo, scarpe e borsa in tinta. “Ti sei riposato? “ gli chiese suo padre. “Si, ho dormito come un sasso, tanto che, quando Monica mi ha svegliato ho fatto fatica a sapere dov’ero e chi mi stesse chiamando.” Prima che tutti si sedessero su divani e poltrone, Ettore si accorse che era stato per pochi istanti, motivo di osservazione e curiosità da parte dei membri della sua famiglia. Stranamente anche Lupo aveva gli occhi su di lui. “Mi potete parlare,” disse sentendosi a disagio. “Non mordo mica!”
“Sono due anni che non ti vediamo…Ci fai strano con la testa rapata e quei vestiti che pare siano usciti da un carrozziere.” Gli disse suo padre. Cercò di sorridere al vile apprezzamento ma non vi riuscì. “Per quanto si possa credere,” spiegò Ettore “ in Legione non è che si guadagni poi tanto: quando hai comprato le sigarette e ti sei tolto qualche sfizio, è ben poco quello che ti rimane.” “Béh non pensarci più, anche a questa esperienza sei sopravvissuto, anzi, direi che ti ha fatto anche bene: ti vedo più robusto e in piena forma. Ti unisci anche tu al nostro aperitivo prima di cena?” gli chiese sua madre. “Si, volentieri. Ma a me con doppio Gin, grazie.” Chiese Ettore. “E tu che ne sai che mettiamo il Gin?” 0domandò sorpresa sua madre. “Monica. Mi ha spiegato cos’è il bibitone.”. Vide sua madre andare in cucina, mentre suo padre si schiariva la voce. “Allora, hai deciso cosa hai intenzione di fare?” “Mah, se voi avete un lavoro per me, qualsiasi esso sia, mi fermerei. Però sinceramente non so in cosa potrei esservi utile.” Rispose Ettore dubbioso. “Tu, te li ricordi i linguaggi di programmazione COBOL e RPG II?” domandò suo padre. “Si, basta che gli dia una riata.” “Noi al momento abbiamo un istruttore che prende cinquantamila Lire a lezione, e abbiamo tre corsi in parallelo, per un totale di nove sessioni a settimana: ci potresti far risparmiare qualcosa…Diciamo che te ne do trenta a lezione, non sarebbe male considerato, che puoi stare a casa, mangiare con noi, insomma non avresti spese…Che ne dici?” Arrivò sua madre con il carrello dei liquori e che mise di lato al tavolino di cristallo. Suo padre prese due bicchieri: uno lo porse a Ettore e uno lo tenne per sé, gli altri fecero la stessa cosa e per suo sollievo, vide Monica che prendeva un bicchiere di coca-cola. Non gli sarebbe piaciuto vedere sua sorella a quattordici
anni bere alcolici. “Per me va bene,” disse Ettore alfine. “Dammi una settimana di tempo per organizzarmi.” “Allora un ‘cin-cin’ al nuovo collaboratore della Data System Conseil & Marketing…” Tutti alzarono i bicchieri e in coro dissero cin-ci facendo tintinnare i bicchieri. Suo padre gli fece una sintetica panoramica di come era nata la società, delle difficoltà iniziali e poi reperire degli uffici che non costassero troppo cari; la svolta, l’anno ato nel quale gli incassi gli avevano potuto permettere di prendere dei locali in centro; dell’incontro con Susanna, la quale era un ottima professionista nel suo lavoro e per di più dotata di una presenza e modi eccezionali: tutte le altre aziende concorrenti gliela invidiavano. La cena, perlopiù rosticceria, fu animatamente rapida. I suoi, dopo la giornata di lavoro, non desideravano altro che andarsene a letto, Monica si fermò a guardare la televisione, i suoi fratelli uscirono e lui ne declinò l’invito, non è che fosse stanco, semplicemente cercava di inquadrare la sua nuova condizione in seno alla famiglia e la responsabilità accettata. Lui sapeva benissimo cosa volesse dire tenere corsi per programmatori: una mente lucida, pronta e ovviamente una drastica riduzione dei consumi alcolici. Prima di andarsene a letto anche lui, vide suo padre sgusciare fuori dalla stanza in vestaglia. “C’è una cosa che volevo chiederti e non davanti ai ragazzi…” “Cosa?” chiese Ettore incuriosito. “Di vestiti, hai solo questi, vero?” “Si, solo questi. “ Rispose. “Queste sono duecentomila Lire per le tue spese,” fece tirandole fuori da una delle tasche. “Poi, domani, visto che sei a corto di abiti, vai dal nostro sarto, e fattene confezionare almeno due, insieme a qualche camicia…”
“Avete un sarto!” commentò Ettore basito. “Si, ed è anche bravo. Buonanotte.” Gli augurò suo padre. “Buonanotte.” Rispose Ettore. Si sedette anche lui nel soggiorno, sul divano. Ma non per guardare la televisione, ma per riflettere. Soldi, sarto, una paga che non era male. Valeva la pena questa volta, fare attenzione a quel che faceva, tirare i remi in barca e approfittare di questo approdo. Il giorno dopo si svegliò sul tardi, la casa era vuota. Probabilmente l’avevano lasciato dormire, ma un rumore proveniente dalla cucina gli suggerì che c’era una persona. Con discrezione attraversò il piccolo corridoio, e si trovò davanti una donna sulla cinquantina, che vestita di un camice azzurro, stava facendo pulizie. “Buongiorno…” Salutò Ettore. La donna non fu sorpresa. “Buongiorno signor Ettore. Sua madre mi ha avvisato della sua presenza, vuole un caffé?” “Si, grazie signora…Come si chiama?” “Silvana…Ma può togliere ’signora’, Silvana basterà.” Ettore annuì e attese in soggiorno il suo caffé. Donna delle pulizie? -rifletté Ettore sempre più meravigliato. Due macchine di grossa cilindrata più la FIAT 128, un appartamento che come minimo costava ottocentomila Lire al mese… “Ecco il suo caffé, signor Ettore.” “Silvana, mi faccia il piacere, elimini anche per me quel ‘signore’, non ci tengo.” “Come vuole,” rispose appoggiando la tazzine e la zuccheriera sul tavolino. “E’ molto tempo che lavora per i miei?” le domandò.
“Circa tre mesi,” rispose la donna. “Si trova bene?” “Si, non posso lamentarmi.” “Va bene, grazie per il caffè.” Sorbì il suo caffé in fretta, ò sotto la doccia, fece la barba. Indossò i suoi abiti usciti dal ‘carrozziere’, salutò Silvana e con una certa premura, andò in centro. Solo nelle librerie vicine a Piazza Duomo avrebbe trovato i testi che gli servivano per i corsi. Acquistò comunque una camicia e poi si recò all’indirizzo che gli aveva dato suo padre, a farsi prendere le misure dal sarto. Si fece confezionare due abiti: un grigio fumo di Londra e uno blu scuro, più tre camicie. Erano le undici quando finì con le sue commissioni. Corso Europa era poco lontano da Via Broletto, per cui si fece una eggiata a piedi. Arrivato davanti gli uffici, non salì subito,di tempo ne aveva e si fermò al bar proprio vicino, ‘l’Europa one’ Il locale gli ricordava qualcosa, come se ci fosse già stato, come quando ti capita di rivedere per un istante lo stesso luogo e vivere lo stesso evento. “Cosa prende signore? “ gli chiese un cameriere. “Un Negroni, grazie.” Facendo mente locale e guardando bene l’uomo che stava dietro la cassa, rammentò che due anni fa c’era già stato, la sera probabilmente, ma sicuro per vedere una donna che in diverse occasioni gli aveva fatto gli occhi dolci. Poi udì una voce argentina e un cane bassotto che scappava dietro la cassa. Eccola, è lei, pensò Ettore: Livia, la moglie del titolare del Bar. Non si voltò subito, continuò a sorseggiare il suo cocktail, facendo finta di niente. Terminato, pagò, ma lei, questa volta era in cassa. Lo guardò a lungo in quei brevi istanti: quelli di uno scontrino e di un resto, ma anche lei non disse nulla. Stavano entrambi assaporando il lieto evento: quello di incontrarsi nuovamente. Ettore salì in ufficio, salutò tutti e poi se ne andò in bagno per cambiarsi la
camicia. Indossata, aveva già un aspetto migliore. Appallottolò la vecchia e la buttò nel cestino della toilette. Era mezzogiorno e mezzo e mentre stava parlando con Susanna dei corsi e illustrandogli come intendeva portarli avanti, vide la madre uscire dalla stanza con la borsa in mano. “Con una camicia decente, già andiamo meglio.” Gli disse. “Scendi con noi a mangiare?” chiese. “Si, dove andiamo?” domandò Ettore. “All’Europa one, è il bar qui sotto. Si mangia bene e si spende poco.” “Va benissimo.” Dal salone dei corsi uscì anche suo padre, da un'altra stanza il collaboratore esterno che gli venne frettolosamente presentato, poi scesero tutti insieme. A quell’ora il bar era già affollato, ma riuscirono comunque a mettere, nella saletta interna due tavolini insieme, seduti, anche se un po’ strettini, arono l’ordinazione. E Livia fece la sua apparizione. “Buongiorno…” salutò tutti. Mettendo una mano sulla spalla di Ettore, “le presento un altro dei miei figli, il maggiore.”Disse sco Renzi. .Gli occhi di Livia si posarono su di lui mentre nel coltempo gli tendeva la mano. “Da dove viene? “ gli chiese sorridendo. Ettore, che mentre gliela stringeva, non voleva stare lì a dare tante spiegazioni, tagliò corto. “Da Parigi,” rispose. “Bella città,” consentì Livia. “Ci è già stata?” domandò Ettore. “Solo una volta…”
“Beh, se ci ritorno la o a prendere.” “Ettore!” esclamò sua madre risentita da tanta faccia tosta. “Livia è sposata!” “Sarò felice di accompagnarla,” rispose Livia tra lo stupore di tutti. “A più tardi,” disse andando via. “Che sfrontata!” sibilò Clelia Renzi. “Dai Clelia, sono cose che si dicono, così, per ridere.” Sdrammatizzò suo marito. “Sono una donna, e capisco benissimo quando un'altra soffre di pruriti in mezzo alle cosce…” Arrivarono panini e birre. Loro parlavano di lavoro, Ettore aveva la testa altrove. Il messaggio l’aveva ricevuto forte e chiaro. Quando suo padre si alzò per andare a pagare, e insieme a lui sua madre, i fratelli e il collaboratore, Ettore fece finta di seguirli, poi tornò sui suoi i, motivando l’acquisto di un pacchetto di sigarette e rientrò nel bar. Maurizio, suo marito, era nella saletta interna che mangiava e Livia era alla cassa. Ettore le si avvicinò. “Cosa bevi?” le chiese. “Un calice di vino, devo ancora mangiare, grazie.” “Per me ordina un Whiskey” “Ne è ato di tempo…” azzardò Livia.. “Già,” gli fece eco Ettore. “Senti, adesso non ho tempo, bevo il Whisky con te. Ci vediamo stasera all’ora dell’aperitivo.” “Non ci sarò. E poi è meglio che tu rientra con i tuoi, mi sa che tua madre sospetta già qualcosa. Vieni a casa mia domani alle nove, Maurizio deve aprire il bar alle otto e trenta.” Gli spiegò segnandogli l’indirizzo su un pezzo di carta. “Mi raccomando, ti aspetto”.
“Non mancherò.” La rassicurò Ettore sorridendole. Salì in ufficio ricordandola così come l’aveva vista due anni fa. Per una donna di quarant’anni, era carina, fine e anche elegante. Non troppo alta, un viso ovale dei più comuni, due occhi molto scuri, un naso piccolo e grazioso e due labbra che esprimevano tanta sensualità. Una di quelle more che avevano fuoco nelle vene e in qualche altra parte. Sua madre non s’era sbagliata: l’aveva subito individuata e…Catalogata. C’era uno strano rapporto tra sua madre, lui, e le donne che sceglieva. Immancabilmente dovevano are il ‘test”’. Era lei a giudicare chi fosse degna per Ettore e chi no. L’assurdità era che fra tutte quelle che aveva bollato, ne promosse una, senz’altro carina, la solita bonazza romana, ignorante come una capra ma dal fisico prorompente. E si ricordò di quando la portò a Milano per presentarla ai suoi. Venne accolta come una Regina, la madre gli regalò anche un bracciale d’oro, e siccome non c’era posto in casa, i suoi presero per loro due una stanza in albergo. Tornarono a Roma e Rossana -ed Ettore non si dimenticò mai il viaggio di ritorno fatto in treno con il il ‘Settebello’ prima classe e prenotazione obbligatoria. Le fermate venivano chiamate con altoparlanti distribuiti negli scompartimenti. Lei sedeva di fronte a lui lato finestrino; si era appena svegliata prima dell’arrivo a Bologna…”Si avvisano i signori eggeri che siamo in arrivo alla stazione di… E lei: “Aoh! Hai sentito?...” disse ad alta voce presenti altri quattro eggeri, “sembra de stà su n’areo…Che ficata:::” Ettore non sapeva più se girarsi completamente parte finestrino o se ridere per accompagnarla e non lasciarla sola dinanzi tanta ignoranza. Pochi giorni arono dal loro ritorno a Milano che lei venne invitata a un matrimonio. Durante il pranzo successe quello che Ettore non si aspettava, e lei glielo disse, apertamente, candidamente. “Sai, al pranzo c’era un bell’uomo…” “Si, -fece Ettore con un espressione interrogativa cercando di capire dove volesse andare a parare. “Mi sono fatta sbattere nei bagni del ristorante…”
“Così…” si meravigliò Ettore, cercando di controllare la rabbia e lo stupore per tanta sfrontatezza. “Si, così.” Confermò lei. “Senti,” proseguì Rossana nel suo sciacallaggio morale, “Imiei rientrano tardi stasera…Perché non Sali su: abbiamo tutto il tempo che vogliamo… Non era possibile, pensò Ettore. Prenderla a schiaffi, a calci nel culo, strozzarla? “Fai una cosa Ross,” le consigliò Ettore, “quel ragazzo del bar dove andiamo a fare colazione la mattina, ti ha messo gli occhi addosso, vedi se ne ha voglia lui, di sbatterti, io sono un po’ stanco…” E la storia terminò. Tutte le altre, per lo più fedeli, ma non belle, sua madre le aveva bollate e alcune anche trattate male Adesso, pensava Ettore, sua madre era ancora più allarmata, perché non si trattava di una ragazzina, ma per di più della moglie del titolare del Bar dove loro andavano a pranzare ogni giorno, e questo cambiava molto le cose. Da quel giorno, cominciò a trattare Ettore con improvvisa glacialità. E lui giustificava la sua assenza in ufficio considerando che non aveva un posto dove poter lavorare sui testi di programmazione, abbastanza tranquillo e per questo lo faceva rimanendo a casa. Aspettava che la famiglia uscisse, chiamava un taxi e si recava da Livia. Inoltre,le lezioni per programmatori si svolgevano nel tardo pomeriggio o in serata e al mattino, quando Maurizio usciva, entrava lui. Ma questo, stava diventando sempre più imbarazzante per Ettore. Frequentando il locale, lui e Maurizio, avevano spesso occasione di parlare, quindi nacque poco a poco quell’intesa reciproca su molti argomenti, le loro ioni in comune, quali la letteratura e le moto. Erano ati tre mesi da quando Ettore era tornato e i clienti abituali del bar intercettavano ormai gli sguardi di intesa intercorsi tra Ettore e Livia. Nessuno avrebbe giurato che fra loro ci fosse un pur minimo sentimento d’amore o di una cotta di una quarant’enne per un trentenne. Tutti intuivano ma nessuno aveva il coraggio di parlare, e questo non faceva che aumentare la sicurezza di loro due, l’ azzardo, accrescendo quel senso di proibito, di illecito, che li vedeva ancor più schiavi del desiderio. Un sabato sera erano lì: lei, Ettore, Maurizio che parlava con un suo amico e altri
clienti. Alla cassa Livia, Ettore con il solito Negroni. “Noi avremmo intenzione di andare all’Elba, perché non vieni con noi?” gli chiese Livia. “E che verrei a fare, non avremmo un attimo di intimità, sarebbe una continua tortura averti sotto gli occhi e non poterti toccare nemmeno un istante.” Si rammaricò Ettore. “Già,” concordò lei mesta. “Di che stavate parlando?” chiese Maurizio bonariamente. “Gli stavo dicendo che forse noi andiamo all’Elba.” Rispose Livia. “Si, anzi è sicuro, perché non viene con noi?” “La ringrazio Maurizio, ma ho altri programmi.” “Dico che fra tutti i clienti che abbiamo, il signor Ettore è il più serio…” A Ettore venne un colpo. Non sapeva a cosa si riferisse quel ‘più ‘serio’, ma certamente non si sentiva la coscienza a posto; c’erano due strade che quasi alla stessa ora si invertivano: un povero diavolo che andava al lavoro, e un disgraziato che andava a scopargli la moglie… “Per carità Maurizio, tolga quel ‘signore’.” In effetti, sempre vestito elegantemente, mai un pettegolezzo, mai una parola fuori posto, e a parte quella storia con Livia che avrebbe smantellato qualsiasi robusta impalcatura di perbenismo e moralità, nessuno avrebbe potuto dire niente sul suo conto, e quando si frequenta assiduamente lo stesso locale, che più di un bar diventa in una certa ora un ritrovo per pochi eletti, ci vuole poco a farsi una nomea. Anche quando arrivava al terzo Negroni di fila, la sua lingua non si scioglieva, e rimanendo oltretutto lucido, affrontava qualsiasi conversazione senza inciampare in luoghi comuni o peggio, parlare male di persone assenti. La dose di alcol ingurgitata gli consentiva di essere spiritoso quanto bastava, mai volgare, e con questo suo comportamento aveva conosciuto un giro di persone che realmente contavano.
“Perché non viene con noi a farsi due spaghetti, stasera a casa? “ propose Maurizio. Guardò Livia poi Maurizio. “Va bene, volentieri.” Accettò Ettore. Quando varcarono la porta di ingresso, Ettore non fece la stupidaggine di andare direttamente in bagno, e questo lo salvò perché la direzione presa nel corridoio era proprio quella. Ritornò su i suoi i e chiese a Maurizio dove fosse. Mentre Livia era ai fornelli, entrambi si misero davanti al televisore per ascoltare le notizie del giorno o per lo meno quel che ne rimaneva. Ma lui, non ascoltava: delle informazioni non gliene importava niente, si chiedeva soltanto perché Livia di tanto in tanto si affacciasse a strizzargli l’occhio. Forse era ancora troppo ingenuo e non abbastanza avveduto ma avrebbe scommesso che quella donna avesse in mente qualcosa. “Dopo mangiato, se le va, possiamo fare un giro in Brera. Ci sono tre o quattro piano-bar, tutti uno meglio dell’altro; si ascolta buona musica e si beve dell’ottimo Whiskey.” Gli accennò Maurizio. “E’ tanto tempo che non ci vado: mi farà senz’altro piacere farci un salto.” Rispose Ettore. arono a tavola e Maurizio si accorse quanto Ettore fosse una buona forchetta ma quanto vino bevesse a pasto. Lui, come titolare del bar, aveva sotto gli occhi il suo conto che cresceva smisuratamente a forza di Negroni, Whiskey e sigarette, ma non diceva niente perché ogni fine settimana, come quella sera, puntualmente pagava. Però aveva anche un idea del tasso di alcolemia che aveva nel sangue, eppure pareva che assorbisse acqua. “Ma lei, Ettore, non ce l’ha una ragazza?” gli fece maliziosamente Livia. Ettore sorrise, e senza scomporsi pensò –figlia di una gran puttana, “diciamo che non ho ancora avuto il tempo di guardarmi attorno, ma non dispero, c’è Janet, quell’inglesina che viene con quel gruppo di lavoro al vostro bar: mi sta facendo gli occhi dolci. Con un po’ di pazienza e un corteggiamento adeguato penso che riuscirò ad avere ragione di lei.” Rispose sorridendo ma con occhi di ghiaccio.
Cenarono parlando di vacanze, ma Livia era gelida. Forse, -pensò Ettore, avrà avuto bisogno di un paio d’ore per sbollire la rabbia. La gelosia le si leggeva in faccia. -Stronzo fottuto, -pensava, -te la do io Janet… Terminati gli spaghetti, Livia sbarazzò velocemente la tavola, lavò quelle poche stoviglie e ridiede una riata al trucco. Si era agli inizi di luglio e la sera era gradevole eggiare per il centro di Milano; fuori c’era parecchia gente, Galleria e piazza Duomo gremite; venditori di palloncini d’ogni sorta erano negli angoli più strategici, saltimbanchi e sputafuoco davano dimostrazione delle loro doti, non mancavano i ritrattisti e i caricaturisti; ovviamente qualche pittore, senza contare gli ambulanti che camminando ti offrivano di tutto e di più. Una grande fiera a cielo aperto. Livia faceva scena muta. Parlavano solo Ettore e Maurizio. E quest’ultimo, cogliendo l’occasione della temporanea assenza di sua moglie che si era fermata davanti una boutique di abiti femminili, ripropose l’argomento della cena. Maurizio era di natura curiosa, tanto che non poté reprimere di chiedere nuovamente per quale motivo Ettore non fosse accompagnato. “A me lo può dire Ettore…” “Cosa?” “Andiamo un bell’uomo come lei non ha una ragazza?” Ettore si sentì gelare. Cosa poteva dirgli, che a casa sua aveva tutto ciò che gli serviva, e che tutto andava oltre le sue aspettative perché Livia era una sorta di ninfomane, spregiudicata, lasciva a tal punto che ti eccitava solo a camminare…? “Diciamo che sono di gusti difficili.” Rispose non sapendo più cosa inventarsi. “Magari troppo difficili per una donna…” si spinse oltre Maurizio. Ma certo! –pensò Ettore con un lampo di genio. “Non è che si può dire così, come “buongiorno…” rispose Ettore. “Capisco.” Consentì serio Maurizio: “Lei deve pensare che ognuno vive la propria sessualità come vuole.” rispondendogli quasi in tono consolatorio. “Si, sono d’accordo anch’io, però mi sembra ancora
presto per sbandierare ai quattro venti che sei ‘gay’.” E iniziò a rimuginare nero perché davanti a tutti i disastri sessuali di questo mondo farsi prendere pure per ‘finocchio’, non ci stava. “Se questo le può far piacere, ha tutta la mia comprensione e discrezione, neanche Livia saprà niente…Ed Ettore continuava a pensare: -Noo! Non è Livia che deve sapere o pensare, sei tu coglione!... “Solitamente mi confido con lei,” aggiunse Maurizio, “e lei stessa, in fatto di sesso la pensa come me: che ognuno faccia quel che gli suggerisce la sua indole.” -A posto! Pensò Ettore, -adesso sono gay. E a tutto aveva immginato, ma mai farsi are per quel che non era. Quando Livia li raggiunse il suo cattivo umore era svanito. “Stavate dicendo…?” Domandò accodandosi. “Parlavamo di moto.” Tagliò corto Ettore. Fecero ancora un centinaio di metri e si ritrovarono davanti al ‘Patuscino’, uno dei tanti piano-bar declamati nel corso della cena. Sedettero su un divanetto, ma Maurizio si spostò subito verso il piano, mentre arrivavano le consumazioni al loro lillipuziano tavolino: tutto in quel locale era ‘ino’, lo spazio ridotto al massimo. “Stai bene?” gli chiese Livia. “Si, sto bene, ma evita certe battute, perché anch’io posso essere imprevedibile.” “Stavo solo scherzando,” si scusò. “Sai benissimo che avendo te non andrei a cercarne un'altra.” Le confidò Ettore. “Sei abbastanza troia per eccitarmi altri dieci anni…” Le disse facendole un largo sorriso. Lo guardò prima seriamente, poi scoppiò in una grande risata. E Ettore gli raccontò anche della sua intima e falsa ammissione. Ancora risate e sorpresa da parte di lei.”E’ perfetto,” ammise Livia. “Potremo stare soli anche se lui è in casa.”
“Cosa intendi per ‘stare soli quando lui è in casa’?.”, si preoccupò Ettore. “Béh, si, quando lui dorme…” “Perché, quando lui dorme cosa dovrebbe succedere?” domandò ancora più inquieto. “Scopare, scopare e scopare!” “Livia, non ti ha detto mai nessuno che sei pazza?” “Si, sono pazza di te.” Bevvero ancora due Whiskey. Maurizio sembrava perso nei pezzi che il maestro suonava, nel locale: la gente non usciva ma continuava ad affluire, tanto che si dovette prendere la decisione se andare in un altro posto, o tornare a casa. Erano le due del mattino e a quell’ora in Brera c’era ancora vita notturna, ma da sagge persone che avevano bevuto fin troppo, tutti e tre furono d’accordo nel rincasare. Ma se era troppo presto per quel caratteristico quartiere di Milano, era troppo tardi per Ettore che non aveva nessuna voglia di andarsene a casa sua. “Se non hai problemi di adattamento, puoi dormire da noi.” Propose Maurizio. “Abbiamo una stanza che è sempre vuota.” “Di quei problemi non ne ho.” Affermò Ettore. “Di solito la domenica dormo fino a tardi. “Fino a mezzogiorno!” sottolineò Livia. Percorsero a piedi il tragitto del ritorno, parlando di come fosse Milano vent’anni fa. I locali notturni erano in mano alla malavita e il gioco d’azzardo era per pochi eletti che si riunivano in case private, quanto alla cocaina, chi ne faceva uso, sapeva a chi chiederla e per quel che riguardava i ricettatori, erano persone ‘serie’. Però la gente comune viveva, si divertiva e la sera usciva distraendosi, andava ai concerti, a teatro. Ora, sembrava che tutto ciò non avesse più quella scintilla entusiastica di una volta. Arrivati a casa Maurizio diede subito la buonanotte a tutti. Livia prese un
lenzuolo e lo mise sul divano; nella camera a lui destinata non c’erano mobili ma solo un divano-letto. Andò al mobile-bar, versò un Whiskey per Ettore e due dita per lei. “Non vai a dormire?” le chiese Ettore. “Mi è ato il sonno.” Rispose sorridendogli. “Dai, Maurizio si chiederà perché sei qui con me.” Le suggerì. “Non è il tipo, lui, la gelosia non sa cosa sia.” “Ma un poco di riguardo non ce l’hai? E’ pur sempre tuo marito…” “Credi che lui ne abbia per me? Quando arriva a casa mangia e si pianta davanti al televisore e fino a quando non casca non schioda. Non si parla di niente se non di pagamenti, bollette, eccetera, eccetera. Capisco che stare tutta la giornata al bar possa stancare, ma qui, in questa casa, di vita intima e personale non ce n’è traccia.” Spiegò con amarezza Livia. Ettore annuì terminando il suo Whiskey. “Vuoi andare a letto? “ gli chiese Livia. “Si, grazie. Domani devo chiamare i miei, prima che mi diano per disperso.” “Ok, buonanotte, “fece Livia alzandosi e baciandolo sulle labbra. “Ci vediamo fra un paio d’ore…” “Come fra un paio d’ore!” protestò Ettore. “Sta tranquillo, quando dorme non lo svegliano nemmeno le cannonate…E poi, sei diventato ‘finocchio’, no?” Si addormentò subito ma con il pensiero fisso che Livia sarebbe venuta a svegliarlo, poi la stanchezza e l’alcol gli tolsero le ultime forze e piombò in un sonno pesante, senza sogni. Lei no, era ben sveglia aspettando che il marito si mettesse a russare; la sua vitalità era straordinaria, la determinazione altrettanto, si stava riprendendo tutto il tempo perduto per quanto sarebbe dovuto accadere due anni fa. Tutti la credevano una santarellina, chiunque avrebbe giurato che
fosse casa e chiesa, ma la realtà di Livia era ben diversa e nessuno lo sapeva, a parte Ettore e un avvocato… Il silenzio ripiombò nella sala dei colloqui del carcere. Entrambi si guardavano senza proferire parola; fu Ettore a parlare per primo. “Vedi, questa donna di cui ti ho parlato, questo essere umano, questa femmina, solevano anche chiamarla Fraschetta…” “Oh! Come me! Il mio nome vuol dire nata da una foglia d’albero.” “Mentre invece l’attribuzione che l’essere umano da a questo nomignolo, è donna leggera, di facili costumi, non certo una santa…” “Ma a me, questo, cosa può importare,” commentò Fraschetta senza scomporsi. “Importa a me” affermò Ettore con espressione seria.” “E perché sarebbe così importante…Voglio dire cosa di male accadrebbe se ci frequentassimo? Pensa che ho già un avvocato sottomano che ti farà uscire all’appello. Non sei contento?” chiese frastornata Fraschetta che continuava a non capire. “E allora te lo spiegherò in altro modo ma in un'altra occasione: tra non molto la guardia mi verrà a riprendere per portarmi in cella.” Annunciò Ettore. “Va bene.” Consentì Fraschetta e stai tranquillo: tra non molto sarai fuori.” Ettore scosse la testa, si lasciò baciare sulle labbra e la congedò. Lei non poteva sapere che quella tragedia si stava ripetendo, anche se in canoni fantastici, su di una strada della quale il percorso era ancora incerto…
C L E M E N T E
Quando tornò alla sua cella Gianselmo lo stava aspettando. Ed Ettore prima di entrare si trattenne sul ballatoio. “Chi è quella coniglia che ti è venuta a trovare, una parente?” domandò il castoro. “Diciamo una amica.” Rispose Ettore con indifferenza. “E da dove viene?” “Da Coni’s I’slan’d…” Rispose Ettore con indifferenza, ma notando la smorfia di disgusto del suo carceriere. “Hai qualcosa contro questa Contea?” gli chiese Ettore. “E’ un ginepraio di puttane, lesbiche e froci.” Affermò Gianselmo. “E togliti quel rossetto che hai sulle labbra: sembri una checca!” Eoore, udendo quel nomignolo, si pulì in fretta le labbra. “Oh adesso posso parlare a una bestia normale.” “Vuoi lavorare coniglio?” “Cos’è oggi, il giorno delle sorprese? Avete spostato il Natale?” disse Ettore entrando nella sua cella. “Vuoi lavorare o no?” “Certo che voglio lavorare, quanto pagate?” “Cinquanta Tangenti al mese.” “Cosa devo fare?”
“Il porta-vitto.” Rispose Gianselmo. “E che lavoro é?” “E’ semplice, con un carrello i al pianterreno e sui ballatoi e dai da mangiare agli altri animali: pranzo e cena. Ogni bestia ha il suo cibo. I primi giorni un mio collega ti accompagnerà per farti vedere come funziona. Allora?” “Va bene, accetto.” “E togliti quelle tracce di rossetto dalle labbra, mi sembri una checca!” “Perché, tu con i tuoi incisivi a chi credi rassomigliare?” Agli inizi non fu così semplice come gli aveva prospettato la guardia. C’erano animali, nel caso sbagliassi, che schifavano il vitto che non era il loro, ma c’erano quelli che mangiavano di tutto, quindi dovevi fare molta attenzione. Comunque sia, una volta presa la zampa, il lavoro scorreva veloce e senza intoppi. C’era solo un problema, all’inizio insignificante, ma poi dovette risolverlo. Alla cella 11, sul primo ballatoio, c’era un randagio di nome Clemente, un incrocio con chissà quante razze, dai modi antipatici e prepotenti. Usava Ettore, approfittando del aggio del carrello, per fargli fare ogni sorta di commissione: ‘prendimi questo a quella cella…’, ‘portami questo a quell’altra…’, e così via. Le bestie, abituate come orologi svizzeri e ricevere il pasto puntualmente, si lamentavano, la guardia lo rimproverava perché faceva male il suo lavoro, e Clemente lo derideva perché correva a destra e sinistra come un matto. Per evitare tutto questo, malgrado sapesse in partenza che contro lui non ce l’avrebbe mai fatta, decise di sfidarlo. “Senti Clemente randagio, io non posso più farti le commissioni che mi chiedi a pranzo e a cena. Le bestie si lamentano, la guardia mi rompe…Se hai qualche commissione da sbrigare fallo nelle ore in cui il lavorante di sezione è aperto. Clemente iniziò a digrignare i denti e aprendo la bocca un alito fetido investì in pieno il muso di Ettore. “Non venirmi a dire quello che posso o non posso fare…Coniglio! Tu continuerai a fare quello che dico io! Adesso cammina e portati via quello
schifosissimo carrello. Io, il mangiare me lo faccio portare da casa…” Ettore non avrebbe chiesto di meglio ma are davanti la cella del randagio era un percorso obbligato e sapeva anche che la storia non sarebbe finita lì. Clemente, dalla sua cella, cominciò a insultarlo. “Oh, Ettore, te le vuoi guadagnare un migliaio di tangenti al mese, lavoro pulito, esentasse? Quando uscirai da questo cesso, vieni a trovarmi: ti faccio mettere un gonnellino, calze a rete, tacchi a spillo e ti mando a battere sul corso principale…” E seguivano a queste oscene battute, sguaiate risate. E su questi toni, Clemente continuò per giorni e giorni. Ettore non osava più andare al eggio per timore che altre bestie lo deridessero, inoltre Clemente era dotato di quella personalità trainante, dove in un carcere ti permette di fare ciò che vuoi. Come ad esempio incitare gli altri detenuti a prendersi gioco di te, a insultarti, per cui, un coro continuo di epiteti, quando le guardie non c’erano, investivano Ettore. Solo Teodolindo il porcospino non aderiva a queste manifestazioni di scherno. “Non puoi andare avanti così,” gli diceva. “Altrimenti tutti gli altri detenuti ti metteranno le zampe in testa.” Il porcospino aveva ragione, di questo o il turpiloquio degli altri carcerati lo avrebbe fatto sentire peggio. All’ora del pranzo, ando col carrello del vitto, si fermò davanti la sua cella e lo chiamò. “Cosa vuoi coniglio,” gli chiese con quell’espressione eternamente stupida. “Tu la devi smettere di insultarmi, se hai qualcosa contro di me, ce la vediamo al eggio oggi stesso io e te!” “Va bene coniglio. Mi farò un piacere di strapparti quelle orecchie da deficiente.” Tornato nella sua cella, dopo la distribuzione del pranzo, Ettore attese con ansia l’apertura dei cubicoli per l’ora d’aria. Clemente era grosso ma lui era più agile e
forse qualche zampata gliela avrebbe assestata: era una magra consolazione, ma tutto avrebbe dato pur di finirla con questa storia. Quando sentì le guardie cominciare ad aprire i cancelli, fece un gran respiro profondo e si preparò. Sul muro di cinta, agenti non ce n’erano. Ma nell’area di eggio vide qualcosa di peggio. Lui non se l’aspettava, ma venne non solo faccia a faccia con Clemente, ma con altri quattro randagi che gli facevano spalla. E senza neanche accorgersene ricevette subito una zampata sul muso che lo mandò a terra, poi approfittando di questa sua precaria posizione gli furono tutti addosso. Volarono altre zampate, finanche morsi. L’agguato durò forse non più di un minuto ma a Ettore parve un secolo. Poi lasciandolo inanime a terra, i cinque bastardi continuarono tranquillamente a eggiare. Fu allo scadere delle due ore d’aria che una guardia si accorse che mancava un detenuto alla ‘conta’. L’agente che aveva effettuato il controllo, ritornò immediatamente nell’area di eggio, trovando Ettore rantolante. “Comandante!” chiamò. “Venga presto…” Gianselmo si affrettò nell’area del eggio, si chinò sul coniglio. “Accidenti, l’hanno ridotto male. Fatti aiutare da un collega e portatelo in infermeria, io mi faccio in giro in sezione.” Disse cupo. ò due giorni in un locale che odorava di disinfettante. Due costole rotte, una distorsione alla caviglia della zampa posteriore destra e anche un morso profondo a un orecchio; qualche chiazze di pelo strappate dove si notavano i lividi e un occhio semi-chiuso. Quando Ettore aprì gli occhi, il comandante e una guardia erano ai piedi del suo letto. “Allora coniglio, ti hanno addobbato per benino. Dimmi chi è stato che lo faccio a pezzettini.” Ettore guardò il comandante, poi rivolse gli occhi al soffitto. “Non lo saprà mai!” La risolutezza con la quale aveva espresso la volontà di tacere, indussero Gianselmo a non insistere. “Prima o poi li troverò! Da solo.” replicò, andando via. Quando Ettore venne dimesso dall’infermeria, la tranquillità era tornata alla
Fortezza. Nessuno lo prendeva più in giro; ma lui quella carognata non l’aveva dimenticata e con pochi attrezzi era riuscito a costruire un rudimentale coltello. Intanto, quelli che l’avevano guardato dall’alto in basso, ora gli portavano rispetto. L’ambiente di un carcere, di per se già infuocato da bestie emotivamente instabili, aveva le sue leggi, un proprio codice. Se Ettore avesse denunciato i suoi aggressori, quella storia non sarebbe mai finita, era triste dirlo ma era così. Avrebbero dovuto trasferirlo nel carcere di un'altra contea, senza per questo garantirgli l’incolumità. Negli altri istituti di pena, avrebbe trovato gli amici di Clemente e arrivando con l’etichetta di ‘infame’ non si sarebbe salvato, e se non bastava c’erano gli amici degli amici… Al momento aveva rinunciato con le costole rotte – a fare il porta-vitto – e questo fino a quando non si sarebbe rimesso. Allora, con la mente più libera, cominciò a riflettere sulla sua condizione, chiedendosi come non mai avesse fatto, perché era diventato un coniglio e quale il motivo se ce n’era uno. Cercò di ricordare, tornare indietro nel ato, rivedere tutto ciò che la memoria era riuscita a immagazzinare di un lungo e nebuloso periodo, e tutto quel che gli veniva alla mente lo scriveva per essere certo di non dimenticarlo più. avano i giorni e lui scriveva sempre. Grazie a Fraschetta, aveva il cambio ogni settimana, più diverse edizioni di libri che alla biblioteca del carcere non avrebbe trovato. Quando Gianselmo castoro ava davanti la sua cella, lo trovava sempre intento a riempire pagine su pagine di inchiostro, fino a quando la sua curiosità ebbe la meglio sulla sua riservatezza e scontrosità. “Cosa scrivi coniglio, il romanzo della tua vita?” gli domandò. Infastidito, Ettore si girò verso quella figura che aveva interrotto il filo dei suoi pensieri. “Non è la mia storia,” asserì, “ma quella di tanti esseri umani che in un momento particolare della loro vita, per debolezza, sconforto e se vuoi anche codardia, si sono ritrovati conigli.” Spiegò. “Cosa vuoi dire?” chiese Gianselmo che non capiva. “Quello che ho detto,” rispose Ettore. “Un giorno, tanto tempo fa, non ero un coniglio, ma un essere umano.” Chiarì, ormai quasi sicuro del suo dramma.
“Ti stai prendendo gioco di me?” sbraitò furioso aprendo la cella e sfilando il manganello. “E stai calmo per una volta nella tua vita!” lo rabbonì Ettore. Il comandante si ricompose. “Ti consiglio di darmi una spiegazione credibile, altrimenti da qui non esci vivo! Non è possibile,” riponendo il manganello, “che siamo ancora nel mondo delle favole, come quella storia degli umani…” “Quale?” interrogò Ettore. “Quel burattino che si chiamava Pinocchio, ne avrai sentito parlare no?…” “Si, la ricordo. Ma quel bambino non aveva ancora la consapevolezza del suo essere: quella che da un burattino di legno, e chissà per quale magia diventato un essere umano e comportarsi come tale. Ed io, a un certo punto della mia vita mi sono ritrovato coniglio perché rifiutavo la mia realtà, la fuggivo. Insicuro, pauroso, forse codardo, non volevo staccarmi dal ato, affrontare il presente, perché tutto ciò di bello avevo conosciuto, non lo trovavo più. E per questo mi sentivo perso e perdente. La mia mentalità, il mio carattere, la mia stessa personalità era quella di un coniglio, e bevevo, bevevo per scappare da un orrido esistenziale.” Commentò Ettore chinando la testa. “Le bestie là fuori che si sono messe in testa di copiare gli umani. Credimi, vi porterà solo disastri.” “E tu, come fai a saperlo?” domandò sospettoso il castoro. “E’ sempre stato così. E’ una legge di natura.” Gianselmo si diede una grattata dietro al collo come suo solito quando non capiva o qualcosa gli sfuggiva. In quella storia non ci si raccapezzava proprio, era tutto molto complicato per lui, e Ettore se ne accorse. “Dimmi una cosa comandante, sai scrivere nel linguaggio degli umani?” mostrandogli un suo foglio di carta. Il castoro guardò quel pezzo di carta vergato di strani caratteri. “No, sinceramente no” Rispose rendendoglielo. “Sai parlare il loro idioma?”
“Meno che mai, conosco solo il mio e il crash. Però un momento coniglio rifletté Gianselmo “supponiamo che per un attimo tu stia dicendo la verità, sei ancora più pericoloso di un vero coniglio. Hai avuto il tempo per assimilare il comportamento degli umani…E hai anche la mentalità contorta di questi… Potresti anche evadere senza che io me ne accorga!” disse il castoro allarmato e con un espressione di paura alla quale Ettore non gli aveva mai visto prima.”E a cosa mi servirebbe se il mio destino al momento mi costringe nella pelle di un coniglio?” rispose Ettore con amarezza. Gianselmo castoro era ancora dubbioso, però non sapeva perché, ma l’istinto gli suggeriva di non prendere decisioni affrettate nei suoi confronti. Se avesse rivelato ai giudici della contea di questo colloquio, il coniglio rischiava veramente la pena capitale, quanto a lui, chissà che fine avrebbe fatto. Decise di metterlo alla prova. “Se è tutto vero quello che dici, allora conosci bene gli umani, avrai vissuto delle storie in quel mondo temibile e orribile…” “Si, le ho vissute: alcune difficili, altre gradevoli, deludenti, tragicomiche, di tutto un po’, un minestrone di vita che per alcuni versi non auguro a nessuno.” Ammise Ettore. “E allora raccontami quella storia di cui mi avevi parlato…” Chiese. “Amico mio,” rispose Ettore guardandolo negli occhi e sperando di non spingersi oltre la tollerabilità della bestia, “io una bella storia te la racconto, ma ho bisogno di bere. Tu portami una bottiglia di Vodka e io soddisferò la tua curiosità.” “Coniglio,” disse glaciale il castoro, “se non ti prendo a manganellate, è solo perché potrei farti molto male.” Su queste parole si accomiatò uscendo dalla cella e sbattendogli la porta in faccia. ato il chiavistello, si affacciò allo spioncino. “Stavo incominciando a fidarmi di te, ma vedo che sei solo un ubriacone e della peggior razza!” Ettore si affacciò parzialmente dallo spioncino. “Hei comandante…”Chiamò. “Guarda che ti sei dimenticato di chiudere il lucchetto.”
Gianselmo si bloccò e ancora più irritato per la sua grave manchevolezza, tornò indietro. “Avrai la tua bottiglia di Vodka,” disse a denti stretti, “ma se la tua storia non mi convince, la stessa bottiglia te la spacco in testa, poi raccolgo i cocci e te li faccio mangiare.” “Accetto la sfida.” Rispose Ettore. La sera del giorno dopo, mentre tutte le bestie detenute dormivano e le guardie notturne si erano rilassate sulle loro brandine, Gianselmo, con la prudenza di un ladro, ò attraverso lo spioncino della cella di Ettore, la bottiglia di Vodka, e questi per l’impazienza saltellava nella sua cella. Avuta la sua bottiglia ne guardò l’etichetta: “sei andato a risparmio, vero?” “Ricorda anche dove ti trovi e quanto rischio, ingrato!” gli rispose Gianselmo, aprendo la cella. Ettore se ne versò subito una gavetta piena e la bevve in poche sorsate. Con la cella aperta, sul filo di questa due sgabelli, Ettore iniziò il suo racconto…
C O R I N N E
Guardai verso la cassa e sorseggiando il mio Negroni sorrisi a Livia e lei contraccambiò al mio dischiudendo lievemente le labbra. Non era bella, pensai, ma aveva tutto ciò che un uomo potesse desiderare a letto da una donna, perché dei sentimenti non sapevo cosa farmene, non avevo necessità interiori e il bisogno della purezza di un amore sincero e duraturo.A me piaceva così com’era: spregiudicata e insaziabile, a volte temeraria, cosa che facevano di lei un Icona del sesso, discreta e riservata, a volte maligna. Eppure, a vederla così, sembrava una ‘santarellina’. Aveva gli zigomi alti, una fronte sempre coperta dalla frangetta di capelli che portava corti; un naso piccolo e regolare e quelle due labbra che quando guardavi sembravano parlare, e, senza per questo emettere suoni. Erano solo le undici e trenta del mattino: un caldo opprimente attanagliava Milano, ma non mi importava niente: il desiderio di raggiungere quello stato di leggerezza mi indusse a farmi preparare un altro Negroni; feci qualche o verso la cassa mettendomi a fianco di Livia. “Mi sei mancato stamattina” gli disse. “Volevo telefonarti e non potevo: qualcuno dei tuoi avrebbe potuto riconoscere la mia voce.” “Abbi pazienza, loro non sanno niente e se anche due anni fa ci siamo scambiate solo occhiate furtive e bramose, nessuno sospetta che tra noi vi sia una relazione. Oggi, in ufficio, dobbiamo parlare di lavoro: penso che mi occuperò dei corsi per programmatori, per lo meno è questo quel che ho potuto intuire e le sessioni verranno effettuate solo il pomeriggio e la sera. Avremo tutta la mattinata per noi, e ti assicuro che con me potrai sentirti la troia che sei…” Livia lo guardò per un istante interdetta, poi scoppiò in una grande risata. “Lo spero,” disse, “ho atteso troppo tempo.” “E bisogna essere pazzi come te per andare ad arruolarsi in Legione straniera!” gli rimproverò. Giorgio fece spallucce. “Se non mi fossi fatto male è molto probabile che ci sarei
rimasto: non c’è vita più sana di quella, qualche rischio, fiumi di birra e immancabili scazzottate. Chissà quando m’avresti rivisto…” “Beh, menomale che sei tornato, del resto non mi importa niente, ma ti chiedo una cortesia: non sparire più come è tua abitudine.” “Al momento non ho progetti.” Rispose sardonico Giorgio. “Ma se dovessi partire questa volta ti informerò.” “Stronzo” gli disse, e poi sorrise. Giorgio ò nella saletta del Bar. Gli uffici della Società di Consulenza Aziendale voluta e creata da suo padre erano al piano superiore dello stesso stabile. Si sedette a uno dei tavolini liberi, chiese a Livia che il ragazzo gli portasse una birra, e cominciò a pensare. Facendosi un esame di coscienza ammise a se stesso che alla giovanissima età di trent’anni aveva fatto ben poco a livello professionale e ogni occasione che gli si era presentata l’aveva sprecata, buttata dalla finestra, sempre e comunque per il soliti vizio… Avevo da poco disertato dalla Legione Straniera, un istituzione militare esistente in Francia e con più di un secolo di attività militare alle spalle. Per me che stavo cercando ‘l’ultima spiaggia’, era l’ideale. Una nuova identità anagrafica, vita sana, diversi reparti oltremare tra cui Djibuti, Guiana se, isole Comores e altri di minore importanza. Lo stipendio non era un granché, ma non dovevi spendere niente di tuo, se non per i vizi. Nel corso di una manovra pianificata con altri reparti, ebbi un incidente: uno strappo muscolare, di notevole entità; ai un mese in infermeria. Quando il maggiore medico fece la diagnosi, mi disse che non avrei più potuto appartenere a reparti operativi, perché inabile a truppe aerotrasportate, per cui mi rispedì a Aubagne, vicino Marsiglia, Reggimento amministrativo, e sinceramente, stare in Legione Straniera per fare l’impiegato tanto valeva ritornassi in Italia. E così feci. Che fossi un disertore non mi avrebbe cambiato la vita: le mie emozioni nel reparto cui appartenevo le avevo vissute, se non in forma completa, ma almeno provare cosa si prova a saltare da 400 metri. Preannunciando ai miei il mio arrivo a Milano, m’ero messo al coperto da far loro eventuali e sgradite sorprese: erano due anni che avevo rotto con loro, ma la risposta a questa mia improvvisata, se non fu proprio accogliente, almeno cortese.
Quando trovai i loro uffici, salì al primo piano. C’era solo una bella ragazza, che al momento mi parve la segretaria. “Buongiorno,” salutai appena la vidi, “a che ora arrivano i signori Renzi? “ domandai. “Saranno qui alle nove e trenta.” Rispose. “Stanno bene?” “Si, ma scusi lei chi è?” mi chiese sul diffidente. “Sono Ettore, uno dei figli.” “Ettore…Oh! Buon Dio, non ti avevo riconosciuto con quella testa rapata.” Ma io ancora non riuscivo a ricordare quella femmina…Tanto per usare il tuo linguaggio guardia castoro. “Ma, ma non ti ricordi di me?...Susanna?” Feci un attimo mente locale su quel bel viso, era notevolmente bello. E d’improvviso i ricordi mi apparvero nitidi. “Ma certo! Tu sei Susanna, solo che prima lavoravi per un'altra società. Si, adesso ricordo bene, ti facevano tutti il filo…” “Tempi andati,” rispose lei modestamente. “Da dove arrivi?” si informò. Feci un sorriso. “Dalla Legione straniera.” Risposi asciutto. “Sei sempre il solito Ettore: a te a una scrivania non ti ci inchioda nessuno.” Osservò, senza sapere di aver detto il vero. “Vieni, ti faccio vedere gli uffici.” Percorremmo uno stretto corridoio. “Sulla tua sinistra c’è la stanza di un collaboratore; quest’altra è quella di tua madre,” mi illustrò. “E questo è il salone dei corsi per programmatori e venditori.”
Guardai meravigliato la grande sala: tutte le pareti erano ricoperte di specchi, da terra fino in cima al soffitto, la moquette era spessa e di un bordeaux brillante, in mezzo, un enorme tavolo a ferro di cavallo, e quasi a chiudere, una grande scrivania dirigenziale. “Quello,” dissi indicandola “deve essere il posto di mio padre.” “Si. Lui tiene i corsi per venditori, un collaboratore esterno, quelli per programmatori.” “Come mai tanti specchi?” domandai. “Prima che arrivassimo noi, era un atelier di alta moda.” Spiegò Susanna. “Capisco. Begli uffici,” -considerai guardandomi attorno, “poi, nel centro di Milano devono costare un bel po’…” Sentì la porta di ingresso aprirsi. Li vidi arrivare tutti assieme. Mio padre trainato da Lupo, il nostro pastore tedesco, seguivano mia madre e i miei due fratelli; mia sorella, la più piccola, era a scuola. “Eh! Guarda chi si vede, il mercenario…”Disse mo padre dopo un attimo di titubanza. Avevo i capelli rasati a zero. “Finita l’avventura, ‘Beau Geste’?” gli fece eco mia madre che per me aveva trovato sempre nomignoli adeguati. Quando ero un adolescente per lei ero il ‘debosciato’. .Li salutai abbracciandoli uno a uno: una pura formalità. Una volta data un occhiata all’agenda degli appuntamenti del giorno e consultatasi con Susanna, mia madre si ritirò nella sua stanza, Giulio e Luciano mi fecero un cenno di saluto e uscirono. Mio padre mi accennò a seguirlo nella sala dei corsi. Si tolse la giacca e la appese al pendiabiti, sedette alla scrivania, diede un rapido sguardo alle carte nel registro delle firme e poi mi squadrò. “Allora, che hai intenzione di fare, hai qualche progetto?” mi chiese senza preamboli. “Papà, ho ato una notte in bianco, sono stanco e vorrei riposarmi un po’ prima di affrontare la questione.” “Va bene. Luciano ti accompagnerà a casa, il frigo e pieno, noi ci vediamo
stasera a cena. A soldi come stai?” “Pulito,” risposi con una smorfia. Tirò fuori il portafogli e mi diede centomila Lire. “Adesso ti lascio perché ho da fare.” “Senz’altro al bar qui di sotto.” Salutai mia madre, Susanna e uscì dagli uffici. Quando però entrai nel locale che mi aveva indicato mo padre, oltre a trovarvi mio fratello, ebbi la sensazione di aver già vissuto quell’attimo, e che quel posto non mi sembrava tanto estraneo. Era come il solito ‘déjà vu’. Cacciai dalla mente quel pensiero e mi affiancai a Luciano. “Ho parlato con papà, gli ho chiesto se potervi accompagnarmi a casa…” “Cinque minuti e arrivo subito.” Mi rispose, indicandomi una FIAT 128 blu parcheggiata poco lontano. “Avevano fatto i da gigante, -pensai, -mai avevo visto, nelle precedenti esperienze di mio padre in fatto di consulenza aziendale, un società così florida e ben organizzata; senz’altro piccola, ma sicuramente ben gestita. Quanto a me che non sapevo proprio cosa fare, poteva essere una soluzione lavorare per loro, sempre che mi ci avessero voluto. Sapevo soltanto che di torti non né avevo. Erano stati loro a chiedermi di lasciare il mio impiego a Roma, tra l’altro ben remunerato, e far parte della loro prima società di consulenza aziendale a Milano. Mi avevano promesso che avrei tenuto i corsi di informatica, che questa divisione dell’azienda l’avrei gestita io in modo autonomo, e con uno stipendio da dirigente. Io, accettai. arono le settimane, i mesi, lavoravo come un negro perché oltretutto, per i corsi per programmatori, mio padre mi aveva chiesto la stesura di un testo didattico proprio della società. Ma di tutti quei soldi promessi non vidi granché. IL discorso risolutivo e definitivo di mio padre era: “ cosa vai cercando, a casa non ti manca niente, e se vuoi andare a puttane, una cinquantamila non te la nego…” Salimmo in auto e Luciano mi chiese informazioni sulla Legione straniera, e così potei sfatare tanti miti e luoghi comuni o paradossi che ridussero questa a quel che in effetti era: un corpo di militari scelti di ottomila uomini, numericamente costante nel tempo. “Quindi, tutto qui, né più, né meno di soldati professionisti, e con una paga da
fame!” osservò mio fratello. “Noi invece ci va abbastanza bene con i corsi, sia per venditori che per programmatori, solo che non riusciamo a trovare impieghi per i programmatori: senza esperienza non ce li prende nessuno. Al contrario per i venditori, di quelli ne cercano a iosa. Adesso stiamo cercando di trovare nuovi settori per i servizi, nel caso questi due dovessero subire delle flessioni sul mercato. E la concorrenza, a Milano, non scherza.” Mi spiegò Luciano. Percorremmo Via Imbonati, praticamente la posizione abitativa era a un o dalla Comasina Eravamo arrivati a casa. Mio fratello parcheggiò l’auto nei pressi di un complesso di case signorili, con giardini interni e parco giochi per bambini, più la piscina. Salimmo al quarto piano. L’appartamento era spazioso: tre camere più il soggiorno, la cucina e due bagni, ampie balconate. “Mangia se hai fame, bevi se ti fa sentire meglio –mio fratello sapeva di quanto bevevo –ma una cosa che ti chiedo, non entrare nella mia stanza.” Mi disse, comunque sorridendo. Annuì senza stupore. Era stato sempre così, geloso delle sue cose rasente il parossismo. “Ti saluto. Ho una giornata di lavoro piena, ci vediamo stasera. Nella camera di Monica c’è una brandina con il suo materasso: usa quella per il momento, poi vedremo di sistemarti meglio.” Aggiunse. Quando lui andò via, iniziai a rilassarmi. Entrai nel salone cominciando ad aprire tutti gli sportelli di un imponente mobile in noce. Avevo un desiderio folle di rivedere le nostre fotografie, alcune in particolare. Le trovai nella loro solita scatola foderata di velluto; certo, col tempo avevano creato gl album che vidi impilati in bell’ordine su uno scaffale della biblioteca ma quelle messe nel contenitore senza un ordine e un criterio cronologico, erano sempre una sorpresa. Di alcune te ne dimenticavi, attimi fissati in un momento particolare della tua vita, gioia o dolore, tristezza, malinconia, apatia, gaudio…Un espressione voleva dire così tante cose, che ne rimanevo sempre affascinato. Misi la scatola affianco a me e mi alzai dal divano dirigendomi verso il mobile bar, e versai in un bicchiere una buona dose di Whiskey, ritornai a sedermi e cominciai nel prendere piccoli mucchietti tenendoli sulle ginocchia. A mano a
mano le scorrevo, sentivo che stavo per trovare quelle che inconsciamente cercavo, quelle… Arrivai al fascio di foto che mi interessava e le guardai attentamente una per una e attraversai, con un vecchio giradischi un LP di Françoise Hardy, la pace,la felicità e la serenità, ancora una volta, nuovamente, come se tutto non fosse mai morto, come se tutto in me vivesse ancora… Avevo solo quattordici anni e traboccavo di felicità. E non perché al mattino, quando mio padre mi svegliava per andare a scuola, mentre bevevo il mio caffelatte, a piano a piano le luci dei vani cucina si accendevano, una dopo l’altra a distanza di pochi minuti, nel complesso di case popolari che faceva d’angolo al nostro. Per me, anche se per gli altri era banale, un giorno nuovo cominciava e l’emozione che provavo nel vedere tutte quelle luminarie era l’immaginare che qualcuno come me si stava preparando, e in mezzo a questi, i miei amici e le mie amiche. Eravamo a Clichi sous Bois, un piccolo comune che sarebbe diventato tristemente famoso, ma a quello che successe mancavano ancora vent’anni. Ma questo non era tutto. In attesa che i cancelli della scuola aprissero, fumando la nostra prima sigaretta le ragazze per riscaldarsi le mani ce le mettevano in tasca, e c’era anche chi di noi queste tasche le bucava. Forse un ricordo ingenuo, ma quanto piacevole. Ero appagato perché i miei studi andavano bene: il professore era contento dei miei temi, degli scritti, e mi incoraggiava verso gli studi classici, dicendomi che se l’avrei voluto sarei potuto diventare un buon giornalista, forse uno scrittore. Ma a quest’ultima possibilità, non ci credevo. Sarebbe stato troppo bello per me poter descrivere dal vero usi e costumi di popoli sconosciuti, vivere in mezzo a loro, viaggiare, visitare luoghi insoliti e poi narrarli alla gente. Il mio idolo era Walter Bonatti, esploratore e alpinista E visto che i miei erano soddisfatti, mi regalarono il motorino. Ma tutto questo era ancora niente. Il primo giorno che entrai nella mia classe, iniziando l’anno in prima liceo, incontrai un angelo. Non avevo mai visto una ragazza così bella… Era seduta a uno dei banchi della seconda fila e sfogliava un libro di testo. Eravamo tutti e due in anticipo e quando i nostri sguardi si incrociarono, lei abbassò gli occhi continuando a leggere dal suo libro. Avevo voglia di sedermi vicino a lei, i banchi erano a due ma sarebbe stata fin troppo evidente la mia intenzione e poi di posto ce n’era fin troppo, sarei stato solo sfacciato. Con noncuranza scelsi la terza fila e vi appoggiai libri e quaderni –come si usava allora –legati con la cinghia, e mi
sedetti osservandola. Da dietro non è che potessi vedere granché, e allora, infilando le mani nelle tasche dei jeans mi feci un giro in aula facendo finta di dare un occhiata alle cartine geografiche appese alle pareti. Poi, o dopo o mi avvicinai, sentivo il rossore al viso che avvampava. Ma deciso andai verso di lei e mi presentai. “Ciao, io sono Ettore,” dissi tendendole la mano. “Io Corinne, “ mi rispose stringendomela. “Abiti a Clichi? “le chiesi. “Si.” “E dove?” “Non ti riguarda.” “Magari abitiamo lo stesso palazzo e non lo sappiamo.” Commentai con aria incerta. “Ne dubito.” Rispose. “A considerare Clichi,” proseguì “dove ci sono solo case popolari, tu dovresti abitare in un castello se è così forte il tuo dubbio.” “No! Non abito un castello e non sono la principessa, ma anche se lo fossi, tu non potresti essere mai il mio principe azzurro!” rispose alterandosi. “Beh, non ambivo a tanto, mi contenterei di fare il ranocchio.” Risposi sorridendole. “Ecco, di più non potresti essere!” “Ma ti hanno fatta nascere acida o ci sei diventata?” “Hai finito di fare domande?” fece lei irritata. “La verità sai qual è? Che tu sei piena della tua incantevole bellezza e che per
avere un tuo sguardo, bisognerebbe chiedertelo in ginocchio.” E glielo dissi a muso duro. “Basta!” disse alzando la voce. “Scusami, non volevo darti fastidio.” E me andai al mio posto dandomi dello stupido. Tanto ormai gli studenti cominciavano ad affluire, -pensai, consolandomi per aver scolpito nella memoria il suo volto. Quando arrivò la prof, perché di una donna si trattava, io ero più che mai perso nei suoi occhi verdi. M’era bastato guardarla una seconda volta per registrare ogni particolare dei suoi lineamenti: aveva un volto ovale, le sopracciglia marcatamente ad angolo retto; gli zigomi non troppo alti, un naso piccolo e regolare; due labbra così perfette che parevano dipinte. Una massa di capelli biondo cenere, le coprivano parzialmente, in quel momento il volto. Era così bella che mi sembrava una cosa impossibile conquistarla… “Renzi Ettore…” chiamò la prof. “Si,” risposi alzandomi in piedi. “Basta che tu risponda presente,” mi fece osservare, “e non c’è bisogno che ti alzi in piedi.” Sentì dietro di me qualche risatina. Non mi ero nemmeno accorto che la professoressa stava facendo l’appello. Arrivarono la seconda, la terza e quarta ora, e conoscemmo in parte i nostri insegnanti, gli altri, nel pomeriggio. Andai a mangiare alla mensa scolastica. Guardai attentamente ma lei non c’era, probabilmente era andata a casa per il pranzo. Lei non era fredda solo con me, lo era con tutti e questo in parte mi rincuorava, anche se non vedevo con quale sistema e con quali parole avrei potuto far breccia in quel pezzo di ghiaccio. La dimenticai per un po’, e mi diedi da fare con gli allenamenti di ‘palla-amano’. Giocando inizialmente classe contro classe, alla finale sarebbe emersa la squadra ufficiale del nostro liceo, ed io ci tenevo; ogni tanto, la sera, la avo
con Martine, niente di serio: qualche bacio e toccatine. Per il resto della settimana facevo il secchione. Volevo affinare la mia tecnica nella narrazione: lo facevo con piccoli racconti di fantasia che poi spedivo ai giornali, nella speranza che qualcuno di questi mi prendesse in considerazione. La domenica, visto che eravamo tutti motorizzati, uscivamo in comitiva. Ma tutto ciò, per me, aveva un sapore insipido, un alienante monotonia che mi rese ben presto apatico, svogliato e nervoso. Non ero più felice come all’inizio dell’anno scolastico, non avevo più quella inesauribile voglia di fare, di entusiasmarmi pensando a progetti futuri e cose immediate da realizzare. Martine, per quanto carina era una testa vuota, a lei bastava che la scarrozzassi in motorino ed era felice. Anche gli amici e le amiche mi stavano tediando. Solo la palla-a-mano aveva ancora un attrattiva. E la risposta a questo stato di disagio, la ebbi un giorno a scuola durante la pausa del pranzo. Mi recai alla biblioteca del liceo, a turno eravamo noi a gestirla e avevo bisogno di un libro per una ricerca che il professore di lettere ci aveva dato. Quando aprì la porta a vetri, con mio grande stupore vidi Corinne dietro al bancone dei prestiti. Nell’istante in cui si accorse di me si affrettò a nascondere gli occhiali. “Ciao, “ salutai. “Ciao Ettore, posso fare qualcosa per te?” mi chiese. “Si, mi servirebbe un libro.” “Il titolo?” domandò. “ ‘Faux jour’, di Henri Troyat.” Specificai. “Un attimo che controllo sul registro.” Mettendo sul banco un grosso registro. “Se si era tolta gli occhiali non è che potesse vedere granché,” pensai. Ma feci finta di niente. “Eccolo qui, trovato,” annunciò prendendo un modulo prestampato. “Lo compili e domani a quest’ora te lo do.” “Corinne, a me serve adesso…E’ per quella ricerca che ci hanno dato in classe, e per essere certo di ciò che scrivo, me lo devo leggere tutto!” mi rammaricai. “Mi dispiace Ettore ma non faccio eccezioni, lo avrai do-ma-ni.” Mi rispose anche sillabando.
“E Cristo!” sbottai. “Stiamo in classe insieme, dobbiamo fare la stessa ricerca, potremmo anche aiutarci se solo tu lo volessi, e mi stai cincischiando su un regolamento stupido e astruso.” “No, non ti do niente.” Ripeté imperterrita. “Lo sai che quando fai sul serio sembri anche più bella?” le dissi scherzando cercando di spegnere quel piccolo tizzone che si era . “E tu lo sai che sei un rompiscatole?” mi rispose lei. “Ma come, ti faccio la corte come non si usa più, ti farei il baciamano ogni qual volta ti incontrerei, metterei la mia giacca a vento su una pozzanghera perché tu non bagna i tuoi gentili piedini…E mi tratti come una pezza da piedi?” La vidi finalmente sorridere. “Anche quando sorridi il tuo volto si illumina come il sole, vedi, basta poco, non ti chiedo la vita se voglio stare un po’ con te, farmi conoscere, conoscerti.” “Ettore, sei proprio un italiano!” “Sei proprio una stronza!” “E tu un impertinente e maleducato!” “Senti, perché stasera non vieni a vedermi, c’è una partita di palla-a-mano, sono le semi-finali, magari deponiamo le armi, cioè i libri, e facciamo pace.” Proposi. Fu la prima volta che mi guardò a lungo, penso interrogandosi. “Dai vieni,” dissi allontanandomi, così mi fai vedere che dietro quegli occhiali c’è un essere umano….” “E tu, cerca di non inciampare nella tua superbia…” Erano ati tre mesi dall’inizio dell’anno scolastico, pensai, e non è che lei avesse fatto una seppur piccola e insignificante amicizia. Solitamente le ragazze che non frequentavano i maschi, avevano un amica. Lei niente. Dopo la scuola filava a casa e non la vedevi fino al giorno dopo. Poche e rare volte l’avevo incontrata al supermercato, ma sempre in compagnia di una stessa donna che
pensai fosse sua madre. Però, la sera in cui si disputò una partita importante di palla-a-mano la vidi sugli spalti, un po’ in disparte. Ero così distratto dalla sua presenza, così emozionato pensando al fatto che fosse venuta per vedermi e tanto impacciato nel mio gioco che feci una figuraccia. Credevo non fosse più possibile attirare la sua attenzione; non è che vi avessi rinunciato, ma il mio orgoglio mi suggeriva che doveva essere lei a rispondere al mio lontano –per così dire – inizio di corteggiamento. E invece precipitai inconsciamente i fatti, che lo feci io sbagliando tutto. Guardando quasi sempre nella sua direzione non m’accorsi di un aggio a me diretto e presi la palla in piena faccia, sprecando oltretutto la possibilità di segnare un punto a nostro favore. “Un bovino!” mi urlò l’allenatore e anche professore di educazione fisica. “Un quattro zampe che vuol giocare a palla-a-mano guardando le fichette. Alla prossima che mi fai Ettore sei fuori.” Mi tamponai le narici che sanguinavano con dei batuffoli di ovatta e ripresi a giocare concentrandomi senza più avere il coraggio di guardare su, ma al termine della partita, vidi che lei non c’era più. Sconsolato, innervosito, raggiunsi insieme agli altri i locali doccia. Mi sorbì le lamentele dei miei compagni di squadra, ma non risposi alle provocazioni: sarebbe finita alle mani ed io avevo altro a cui pensare. Quello che mi faceva più male, non erano gli insulti dell’allenatore, ma aver fatto una partita, davanti a lei, di merda. Misi i miei effetti sporchi nella sacca e andai via senza salutare nessuno, neanche gli amici della comitiva che con me giocavano e insieme a me si divertivano. A un certo punto, mentre legavo la mia borsa sul retro del motorino, e completamente preso dai miei tarli mentali mi accorsi di una figura che si avvicinava. Non l’avevo assolutamente notata. “Fa male una palla in piena faccia, vero?” mi disse. “Beh, stavo meglio prima.” Risposi sorridendo.
“Questo ti insegnerà che quando giochi, non devi guardare me.” Mi eressi e sedetti sul ciclomotore. “Ma io guardo ciò che è bello.” Le risposi. “E gli occhi sono fatti per guardare…” Lei mi osservò giocherellando con i fili del manubrio. A volte guardava a terra, poi me, a sinistra, a destra, e io cercavo disperatamente una parola, una frase da dire perché quell’istante non finisse mai. “Noi, abbiamo una comitiva…” riuscì a dire “La sera ci mettiamo sugli scalini del centro commerciale, cazzegiamo, ci facciamo due risate, niente di malizioso, un giro tutti insieme con i motorini e poi ce ne torniamo a casa. Vuoi unirti a me…Cioè a noi?” Le proposi. “Non lo so, quando c’è troppa gente non mi sento a mio agio.” Mi spiegò. “Senti, mi è venuta un idea. Domenica le ‘Galeries Lafayette’ sono aperte, potremmo andarci noi due soli.” Le suggerì. “Se siamo solo tu ed io, si ci sto. Accettò. “Per me le ‘Galeries Lafayette’ sono un po’ come andare a ‘Colazione da Tiffany’…” Aggiunse riferendosi al film con Audrey Hepburn. “Bene, tanto ci vediamo domani, ti posso dare un bacetto?” Lei mi porse la guancia e cosa inaspettata, mi ricambiò. Poi, prima che andassi via, “Ettore…” “Si…” “Anche tu sei un bel ragazzo!” disse alzando la mano in segno di saluto. Euforico, esaltato e arcifelice, sgasai e tornai a casa e mia madre se ne accorse subito. “Cos’hai oggi che non riesci a stare fermo?” mi domandò sorpresa. “Mollo Martine e mi metto con Corinne.” Le risposi con un sorriso stampato in faccia, ma era così fisso quel sorriso da ebete, che sembrava m’avessero mollato
una cinquina mentre tiravo su le labbra, e che il trauma le avesse lasciate così. “Ah, capisco,” commentò mia madre con le mani ai fianchi, “un semplice avvicendamento.” Quel pomeriggio mandai a monte lo studio, avrei recuperato al sabato, giorno che solitamente non davano compiti a casa, sta di fatto che non avrei mai trovato in quel momento la concentrazione necessaria per studiare. E come ti faceva ‘strano’ quando ti prendevi una vera cotta per una ragazza. Clichi-sous-Bois, era piccola e i mormorii, i pettegolezzi si sprecavano, e mi venne da pensare che probabilmente Corinne aveva saputo di questa Martine e che per questioni di gelosia avesse accelerato i tempi del disgelo. La domenica, alle Galeries Lafayette, Corinne si rivelò una continua sorpresa. Non solo era bella ma dotata anche di una perspicacia, un intelligenza e una sensibilità fuori dal comune: Martine non gli arrivava nemmeno alla caviglia… Con lei potevamo parlare di tutto e di niente, apprezzando senza imbarazzo i lunghi e riflessivi silenzi. Mi parlò di un suo progetto embrionale al quale stava lavorando in cui gli elementi principali: Terra, Aria, Fuoco ed Acqua, rappresentavano la coreografia di un opera teatrale. E su questa coerenza di vedute e di impegni personali, si poteva pensare a una relazione noiosa priva di alternanze, mentre invece ogni argomento divergeva sulla propria opinione, animando vivaci, a volte furiose discussioni. In breve tempo si instaurò un equilibrio fra noi che bastava uno sguardo per capirci. Avevamo ioni in comune per la musica e la letteratura, e alla fine dell’anno scolastico, conobbi i suoi genitori. Eravamo a casa sua seduti su un divano verde bottiglia; sulle poltrone, in una la madre e nell’altra suo padre. “Allora…” prese subito la parola sua madre, “da quanto tempo vi conoscete?” domandò la donna che aveva più o meno l’età della mia. “Dall’inizio dell’anno scolastico,” risposi un po’ imbarazzato. “Quindi è poco.” Minimizzò lei. “Beh, visto come girano le coppie nella nostra scuola, abbiamo Corinne ed io un piccolo record, nove mesi…”
“Voi siete giovani e vedrete, avrete altre esperienze, non voglio boicottare la vostra relazione ma a quindici anni ci si innamora facilmente, e ci si lascia altrettanto.” “Questo, ce lo dirà solo il tempo, signora.” Risposi a tono. “Tu sei italiano, vero Ettore?” mi chiese suo padre. “Si lo sono.” “E che lavoro fa tuo padre?” “E’ un programmatore dell’ I.B.M.” “Ah!” si sorprese. “Anche io lavoro in quell’ambito.” Sembrava che questo particolare avesse fatto breccia almeno nel padre. La madre taceva ma aveva sempre gli occhi fissi su di me e da quel primo incontro capìì che non le sarei andato a genio ne ora né mai, ma forse era solo un impressione.. Tuttavia, furono cortesi entrambi. Ci chiesero quali fossero o se avevamo già un orientamento sulle nostre rispettive professioni, parlammo di cosa in effetti il ’68 avesse apportato, quali cambiamenti se in male o in bene, e in tutto questo discorrere, notavo la madre più acida del padre nel giudicare questo nostro incontro, che già durava per lei da troppo tempo, immaturo e fin troppo precoce. Ma la nostra storia, quella mia e di Corinne, la conoscevamo bene solo noi, quali i sentimenti e che eravamo certi, solo col tempo, agli occhi degli altri, sarebbero emersi per quel che erano in realtà: puri e duraturi. “Credi che gli abbia fatto una buona impressione?” chiesi a Corinne una volta usciti di casa. “No, non penso. Soprattutto a mia madre. Ma sai che c’è? Buona impressione o meno non te li devi sposare e in quanto a me, sono abbastanza grande per decidere chi desidero per la mia vita. “ Mi rispose. Solo una contrarietà si interpose tra noi in quel periodo estivo. I miei genitori volevano are quindici giorni in Italia, a Rodi Garganico e quella –anche se breve separazione –pesò a tutti e due.
“Scrivimi appena arrivi, mandami il tuo indirizzo e io ti risponderò subito. I miei non so che intenzioni abbiano, te lo farò sapere.” Mi disse, quando andai a salutarla. Furono quindici giorni di noia assoluta. Se c’è un posto che ti impongono come vacanza, non è più una vacanza, ma un martirio.Avevo avuto un accesa discussione con mio padre perché in Italia non ci volevo andare e volevo restare a Clichi-sous-Bois, ma le solite parole: “non sei ancora responsabile” , “sei troppo giovane per restare da solo” , “chissà che guai ci combini”, bastarono per indurmi a non insistere, era tempo perso. Loro che da quando –guarda caso al liceo – si erano incontrati e non s’erano più lasciati malgrado il divieto dei loro genitori a frequentarsi, fino a dover scappare di casa per potersi sposare, e che su questa esperienza, avrebbero dato sempre la massima libertà ai loro futuri figli, se n’erano dimenticati. E questo mi bastò per sapere che d’ora in avanti non potevo contare sulla loro comprensione, e che fossi già adulto più di quanto loro pensassero, lo sapevo solo io. Di occasioni sulla spiaggia ce n’erano, belle ragazze italiane e straniere, che sotto il sole e che già in ridotti bikini erano più che desiderabili, ma facevo il ‘vecchio’. Me ne andavo al mare con un libro, qualche bagno e più per tedio che per piacere, andavo a pranzo con i miei. Al pomeriggio si andavano a riposare e io vagavo per l’albergo contando le ore e i giorni. Di tanto in tanto chiamavo Corinne al telefono affrontando stoicamente rimproveri da parte di mio padre per le spese di telefonia, e tutto continuava ad esser noia. Un pomeriggio, stanco di leggere feci il solito giro in albergo. L’architettura interna dell’edificio era vecchia e alle camere vi si accedeva con una scalinata a spirale che dava luogo a ballatoi. Noi eravamo al secondo divisi in tre stanze. M’ero sporto dalla ringhiera e osservavo la fontanella del giardino interno: l’unica opera mirabile di tutto lo stabile. A un certo punto mi sento chiamare da una voce femminile. “Ettore…Ettore…” Una voce piacevole per quella tonalità rauca. “Alzai la testa al terzo piano e vidi una signora che mi guardava e mi faceva dei cenni. Dapprima feci finta di niente, poi, data la sua insistenza salii andandole incontro.
“Le serve qualcosa…Signora?” domandai. “Ciao, “disse, “ io sono Mirella.” “Piacere,” risposi, “Ettore” “Si lo so, ti ho sentito chiamare in spiaggia.” Si animò mettendomi una mano sulla spalla, e avvicinando il suo volto al mio. “Lo sai che sei un bel ragazzo…” “Grazie signora, anche lei non è male.” In effetti, stavo dicendo la verità. “Ti annoi, vero?” mi chiese. “Beh,” risposi io “nel pomeriggio non è che ci sia molto da fare.” Concordai. “Ascolta, perché non vieni in camera mia, magari ci facciamo una partita a carte…eh?” Forse il mio aspetto fanciullesco, probabilmente la sua pruriginosa richiesta, mi illuminarono, e le diedi una risposta della quale nemmeno io mi sarei sentito capace. “La ringrazio signora, ma a casa ho tutto quello che mi serve, compresa quella cosa là.” Le dissi, indicandola con l’indice. “Ah!” si stupì la donna facendo u o indietro e diventando rossa in volto. Ebbe solo la forza di pronunciare quell’”Ah!” e quasi a i indietro si ritirò velocemente nella sua stanza. “Ma come…” disse Gianselmo castoro, “una femmina umana ti fa capire che ci sta, e tu la rifiuti?” “Io so com’è da voi, voglio dire tra maschi e femmine. Da noi e quasi la stessa cosa: quando un maschio si è stancato della sua femmina, anche se gli ha giurato, come lo chiamereste voi, un patto di amore eterno, si trova un'altra o più femmine; la stessa cosa succede al contrario, se la femmina si stanca del suo maschio lo tradisce con un altro. Quando si verificano queste due condizioni, il
maschio viene chiamato ‘cornuto’, e la femmina ‘puttana’.” Spiegò Ettore. “La differenza tra noi umani e voi bestie, e che quando si verificano i tradimenti non ne fate una tragedia.” Aggiunsi. “Ma questi due termini, sono degli insulti?” domandò Gianselmo. “E si, anche pesanti.” “Dai, continua a raccontarmi di questa tua femmina quando eri cucciolo.” “Non ero un cucciolo!” mi adirai. “Va bene, come vuoi, non eri un cucciolo, ma adesso vai avanti.” Gli chiese il castoro. Quindici giorni, anche con la noia ano abbastanza presto e arrivò il giorno della partenza, e in treno da Rodi a Parigi è un impresa epica, soprattutto in agosto. Partimmo la domenica mattina e arrivammo il lunedì nel pomeriggio. Tutti eravamo esausti, ma io trovai ancora la forza per precipitarmi da Corinne. Nel are davanti al centro commerciale sentì Thierry, un amico della nostra comitiva che mi chiamava. “Oh Ettore, dove vai così di corsa…” “Lo sai dove sto andando, perché me lo chiedi, deficiente…Sbrigati che ho fretta.” “E’ inutile che ti affanni tanto, Corinne è partita ieri sera con i suoi.” “Co…come? E’ partita?” “Mi ha solo detto che non ha avuto il tempo di avvertirti perché i suoi genitori hanno deciso di andare in Normandia all’ultimo momento, ti scriverà e ti farà sapere.” Mi informò l’amico. Sedetti sui gradini e incrociai le mani. Thierry si sedette vicino a me. “Tu arrivi e lei parte: non hai fortuna amico mio.” “So che ha dei parenti, su in Normandia.” gli risposi.
“Va sempre bene tra di voi?” mi chiese. “Si, va sempre bene.” “Io non ti ho detto niente,” si pronunciò Thierry guardando verso un punto indefinito, “ma tutta la comitiva dice che sei uno che ha perso la testa per una squinzia, e che non si mollano gli amici così. In pratica dicono che ti sei rincoglionito dietro quella ragazza.” Sentendo quelle parole, ne rimasi colpito. Era ato tanto tempo da quando uscimmo insieme l’ultima volta. “Di a tutti che…Che Corinne è una timidona…Insomma inventati qualcosa per far cessare le chiacchiere, quelle fanno più male dei pugni. Gli accennai andando via. La situazione non mi piaceva per niente. A quei tempi il gruppo era sacro: chi toccava uno di noi o qualcuno si prendeva la libertà di infastidire una delle nostre ragazze, ci organizzavamo ed era con catene di bicicletta che risolvevamo questo tipo di problema. Ma quando uno della comitiva mollava per una ragazza, gli si toglieva il saluto, che in gergo significava: “Sei un pezzo di merda”. Dopo tre giorni ricevetti una lettera di Corinne, spiegandomi dettagliatamente perché erano partiti così in fretta. Sua nonna stava molto male e si presumeva, stando alle diagnosi dei medici, che non ce l’avrebbe fatta a are l’estate, per cui erano andati a trovarla nel caso… Mi restava una settimana di tempo per cercare di ricucire, in sua assenza, lo strappo che s’era formato nel gruppo Li vidi un pomeriggio, dalla mia finestra, che erano quasi tutti riuniti. Deciso, uscì di casa e andai a parlarci. Quando mi videro arrivare fu appena se mi salutarono. Feci alcune domande e ne ricevetti evasive risposte, stavano cominciando a stufarmi. “Chi vi dice che ciò è capitato a me, non possa un giorno succedere anche a voi, e parlo indistintamente di ragazze e ragazzi. Chi vi assicura che in un momento particolare di questa nostra età dove per noi maschi le ragazze sono come fazzoletti di carta, e viceversa, non vi prendiate una seria cotta per qualcuno o qualcuna, e che questo vi faccia perdere a tal punto la testa da lasciare amici e amiche per dedicarle o dedicargli tutto il vostro tempo? Se soltanto voi potreste
leggere nel mio cuore quello che c’è scritto, e avreste modo di provare quella leggerezza e serenità che io avverto quando sto con lei, fareste carte false, per ottenere la stessa felicità, di sperare che la notte i velocemente per iniziare un nuovo giorno con una “lei” o un “lui”. Riflettete bene a quello che vi ho detto, non siamo più ragazzini: qualcosa in noi sta rinnovando e la “muta” ,anche se non lo volete, prima o poi cambierà, e per me, e per voi. “Aspetterò il rientro di Corinne e con lei verrò a cercarvi.” Conclusi andando via. Avrei voluto che uno di loro dicesse qualcosa, ma nessuno parlò. I miei amici non erano tipi da spaventarsi, ma probabilmente quelle mie parole li avevano indotti a riflettere, a pensare e non come al solito, da ‘caciaroni’, emettere giudizi e sentenze. D’altronde lei ed io stavamo bene così, ma non volevo rancori: in fin dei conti era il loro modo per dirmi: “Ti vogliamo bene”. Il giorno del suo arrivo, nel pomeriggio, vidi l’auto del padre entrare nella residenza dove abitavano, era circa mezz’ora che aspettavo. Mi salutò discretamente dal finestrino senza eccessi: non voleva dar intendere a sua madre che era stracotta per me, ed io non mi sbracciai in estremi saluti o effusioni particolari: fummo tutti e due molto riservati. Ma non attesi più a lungo, dopo solo dieci minuti la vidi arrivare trafelata e con uno slancio da atleta mi si buttò al collo abbracciandomi. “Quanto tempo,” disse, “mi pareva che questi giorni non assero mai!” Poi, staccandosi da me e guardandomi meglio, osservò: “Ti sta bene l’abbronzatura, sei ancora più fico!” Lei invece era esattamente come l’avevo lasciata, bianca come una mozzarella. “Non è che ci sia molto sole in Normandia.” La sfottei. Ma lei non ci fece caso. “Mi hai tradito?” mi chiese tra il serio e il faceto. “No, non ti ho tradito.” Risposi sorridendo, alla sua ingenua ma legittima domanda. “Corinne, devo chiederti una cosa a cui tengo, però non vorrei che per te fosse un sacrificio.” Le annunciai.
“E’ una cosa brutta o bella?” “Ne l’una, ne l’altra, diciamo una via di mezzo.” “Allora dimmela.” “Vorrei che tu ed io frequentassimo più spesso i miei amici, e non potrei andare con loro se non ci fossi anche tu.” “E’ importante per te?” mi chiese. “Si,” risposi, “li ho conosciuti appena arrivato a Clichi. Questa comitiva l’abbiamo messa insieme piano a piano. Con loro mi sono divertito, abbiamo litigato, fatto a botte per stronzate, ma siamo rimasti sempre uniti, spalleggiandoci a vicenda. Adesso che non sto più insieme a loro mi pesa e pesa anche a loro.” Spiegai. La vidi riflettere, e la conoscevo troppo bene per sapere che quando guardava a destra e a sinistra, quando infilava le mani nelle tasche di dietro dei jeans, avrebbe capito. In caso contrario un “no” categorico. “Va bene,” acconsentì, “usciamo qualche volta con loro.” Le diedi un bacio sulle labbra. “Vedrai sono tutti simpaticissimi, però, non fare caso al primo incontro: sarà freddo e saranno tutti affetti e affette da ipercloridia: lo faranno apposta, è una specie di test, soprattutto per te.” “A me sta bene, basta che ci sei tu…” Un sabato pomeriggio li raggiungemmo al solito posto, dove abitualmente ci incontravamo, ai giardini, quel piccolo spazio verde con solo due panchine; alcuni erano seduti sulle spalliere di queste, altri sui loro motorini piazzati sul cavalletto, le ragazze parlottavano tra loro. Appena si accorsero della nostra presenza tacquero. Ci sedemmo sulla panchina dopo un saluto scialbo e privo di significato. “A cosa dobbiamo l’onore della vostra visita?” mi chiese Gérard con tono canzonatorio. “Lo sai benissimo, ve l’avevo detto: sarei tornato con lei. E lei è Corinne, d’ora
in poi è parte del nostro gruppo.” Dissi subito. “Ma noi non abbiamo deciso niente,” ribatté Gérard. “Sai benissimo che è tutto il gruppo a decidere chi entra e chi esce.” “Allora decidete subito perché se non entra Corinne seduta stante, vado via anch’io!” “Certo che quando ti prendi una cotta…” Aggiunse Pascal “è una roba seria! Con tante ragazze che ci sono in giro…Resti sempre con la stessa.” Corinne rimaneva imibile. “Si vede che tutte le altre ragazze di cui parli, non sono così belle come lei.” Gli risposi. “Girai la testa verso Chantal: m’aveva messo una mano sul braccio. “Sarà bella, ma a noi non ci caghi più!” “Chantal, accidenti a te! Tu lo sai quanto ci tenga alla comitiva,” dissi accarezzandole i capelli, “ ma se tu capissi anche quanto sono innamorato…” “E poi, prima venivi agli allenamenti di palla-a-mano, adesso ti si vede raramente e giochi anche male.” Si lamentò Philippe. “Lo so, cercherò in avvenire di recuperare.” Risposi. “Forse è lei la causa di tutto: si sente troppo figa per stare con noi.” Soggiunse Danielle con un gesto del mento. “Dai,” rilanciò Sarah, “mica la puoi colpevolizzare se madre natura gli ha dato un bel visino, al limite gli possiamo tingere i capelli di viola e mettergli qualche anellino al naso, una spilla nella guancia…” “Il fatto è che voi siete delle sceme invidiose,” si innervosì François. “Dovreste fare basta, altrimenti esacerbiamo gli animi e invece di tenerla con noi, la facciamo scappare e con lei anche Ettore. Parla Corinne, difenditi!” La incoraggiò François “Noi non siamo qui per scatenare una guerra,” disse improvvisamente Corinne. “La colpa è forse mia che lo voglio solo per me, sono gelosa ma sincera, ma il
motivo di fondo è che sono timida e quando c’è molta gente attorno a me con cui mi devo confrontare, mi prende una sorta di panico, fino a balbettare. E’ da quando sto insieme a Giorgio che sto cercando di vincere questa mia paranoia, questa incertezza e insicurezza. Io non riesco come voi a essere disinibita, i miei genitori sono stati sempre molto severi in fatto di amicizie e mia madre decideva sempre chi dovessi o potessi frequentare: vale a dire quasi nessuno.” Proseguì sorridendo mestamente. A volte vorrei essere come voi, liberi di dire come la penso e mandare a cagare chi so io, fare ciò che mi piace quando e come mi pare. Credetemi è tanto se mia madre ha accettato la mia relazione con Giorgio. Io mi sento tanta di quella energia dentro, tanta di quella vita da spendere, che solo con lui, per la prima volta riesco pienamente ad apprezzare. Amo l’amicizia sincera, mi piacerebbe ballare e scatenarmi, andare ai concerti Rock, come posso emozionarmi davanti a una bella pianta, a un paesaggio agreste, alle bellezze della natura; amo gli animali e la notte, quando la volta celeste lo permette, guardare le stelle. La poesia che è in me, non sono mai riuscita ad esprimerla totalmente, come io desideravo e le cose belle, non quelle materiali che sfoggiano un piacere temporaneo, sono quelle nascoste, quelle che non si vedono: quelle sono eterne. Il nostro crescere è un continuo confrontarsi, questo mia madre non l’ha mai capito; nella sua ignoranza pensa che il mondo inizi e finisca dove dice lei. Credevo di amare mia madre, ma con il tempo mi sono accorta che se seguissi i suoi insegnamenti diverrei una pianta secca, inaridita non perché gli manca l’acqua ma perché piena della sua presunzione. E’ brutto dire questo ma non saprei meglio definirla, forse il solo ruolo che realmente le compete nei miei confronti è quello giuridico…Se voi mi accetterete sarò felice di stare con voi.” Concluse Corinne rossa in volto. Tutti la guardarono: dapprima stupiti, meravigliati, poi scattò una raffica di domande rivolte a lei da parte di tutte e tutti, e le ragazze e i ragazzi che erano stati i più pungenti –me lo dissero dopo –rimpiansero di essersi comportati in modo così spietato. Io stesso fui sorpreso da tanta loquacità: lo era solo con me. Io non dovevo dire più niente: l’avevano accolta. Il suo discorrere pacatamente,
precisamente e sinteticamente, il fatto di non essersi offesa quando i giudizi siano essi stati diretti o indiretti, e anche pesanti, le diedero quella simpatia necessaria e calibrata per fare la sua bella figura. Adesso eravamo in dodici, sei coppie. Nel corso della seconda liceo tutto sembrava arriderci, riuscivo anche ad andare agli allenamenti di palla-a-mano e al sabato giocare la partita settimanale. Sua madre si era un po’ ammorbidita nei miei confronti e certe sere non sempre, ci lasciava stare nel giardino condominiale fino alle dieci, probabilmente anche lei si era accorta che la nostra relazione era una cosa seria e non un infatuazione giovanile. L’estate del ’71 la ammo insieme ma senza muoverci da Clichi; i miei non poterono andare in vacanza in Italia perché non c’erano soldi e a me stava bene così, mi dispiaceva per loro, ma i troppi debiti contratti durante l’anno non gli permettevano spese straordinarie. Fu nell’anno della terza liceo che gli eventi riguardanti noi e la comitiva iniziarono a prendere una piega diversa. Chantal e Sarah tradirono la fiducia delle restanti amiche: Chantal portò via il ragazzo a Danielle, e Sarah lasciò il suo per andare a vivere con un uomo di dieci anni più vecchio di lei: soldi e uscite, vestiti e gioielli le avevano dato alla testa. François che d’adolescente non aveva più niente, stava con la sua ragazza in seno alla comitiva, quando poteva se la faceva con una quarantenne che abitava nel nostro stesso isolato. Uno di noi fece ingresso in un carcere minorile perché rubava moto, la sua grande ione, e a parte quest’ultimo, lo ‘tsunami’ ormonale scatenatosi in quel periodo, disgregò la compagnia. Solo una coppia resisteva a questo maremoto. “Non te lo dico nemmeno guardia castoro, lo puoi indovinare anche da te.” “Ma certo, è facile, tu e questa tua Corinne.” Rispose come se avesse scoperto chissà cosa. Esatto. Dopo la quarta liceo, per le vacanze estive, i suoi genitori acconsentirono che andassimo in campeggio da soli nei boschi meravigliosi del fiume Loira, visitando qualche castello. Facemmo incontri rari, a dir poco sorprendenti. Una sera, davanti al fuoco –quando ancora era permesso –sentì un fruscio dietro la nostra tenda: stavamo cuocendo della carne alla brace. “Non ti muovere, non parlare…” Sussurrai all’orecchio di Corinne. E col dito indice, le indicai il lato destro della tenda. Sarà stata a una decina di metri da noi.
Fiutava l’aria e pareva in attesa. “Dammi un pezzo di carne,” le chiesi. Lei me lo ò, mi bruciacchiai le mani e glielo lanciai. Stemmo tutti e due in silenzio e in attesa. Era difficile che una volpe si avvicinasse tanto a degli esseri umani, eppure era lì; adesso odorava la flagranza della costina di maiale che gli avevo buttato, incerta, diffidente: un o avanti, uno indietro e questo andirivieni durò diversi minuti, abbassando la testa e a guardarci. “Credi che se lo mangi?” mi chiese Corinne. “Sarà forse un impressione ma a me sembra affamata, se no sarebbe già andata via.” Le risposi. “ Non è che gli siamo molto simpatici, in generale.” Mormorai. “Dai volpe!” le sussurrò Corinne, “prendi questo boccone!” “Adesso parli agli animali?” le chiesi prendendola in giro. “Mi sarebbe piaciuto, sai quante lamentele, improperi e insulti?” ci processerebbero seduta stante per tutto ciò che gli abbiamo fatto e continuiamo a far loro. Siamo dei veri mostri.” D’un tratto, mentre parlavamo senza perderla di vista, l’animale agguantò il boccone e sparì. “Era stata un esperienza unica e a distanza di quarant’anni me la ricordo ancora in ogni dettaglio: era stata semplicemente meravigliosa!” “Senti coniglio,” lo interruppe Gianselmo, “tu hai dichiarato in matricola che eri nato nel ’55, e per coerenza numerica posso capire che questa storia della volpe, sia realmente accaduta, quindi mi chiedo se sei un diabolico attore, cioè quelli che fanno il cinema, o se è tutto reale… “Non né sei convinto, vero?” “Sono ancora perplesso, comunque, continua…”
“Alla sera seguente, con nostra grande sorpresa, la volpe ritornò, alla stessa ora, minuto più, minuto meno. A dirti la verità, speravamo fosse così, perché mentre il sole non era ancora tramontato, c’eravamo messi tutti e due a parlare dell’ incontro della sera precedente.” Adesso che era buio e che le fiamme del fuoco ingigantivano solo ombre naturali, sapevamo che poteva essere il momento buono. Avevamo lasciato dei pezzi crudi per lei, noi dovevamo aspettare che la legna al fuoco diventasse brace, e a parte i suoni notturni di animali stanziali, non c’era nulla che potesse spaventare la nostra ‘amica’. “. Entrambi, non sapevamo come avesse fatto ad avvicinarsi. Non avevamo udito alcun calpestio o scricchiolio. Era davanti a noi, alla stessa distanza, testa bassa. “Prendi un pezzo grosso,” dissi a Corinne sempre parlando sotto voce. Con la coda dell’occhio la vidi armeggiare nel pacco della macelleria, e glielo lanciammo. Mangiò davanti a noi, sempre attenta e guardinga. “Perché non cerchi di farla avvicinare,” mormorò Corinne. “Sarà difficile, “ risposi senza convinzione. “Dai, ci provo io,” insistette. Lentamente, senza movimenti bruschi, e nemmeno alzarci, io indietreggiai con il mio seggiolino e lei prese il posto mio. La mia testa doveva alzarsi sopra le spalle di lei perché io potessi vedere tutta la scena. Lei ondeggiava il pezzo di carne sotto al naso della volpe incitandola con dei versetti, che non so nemmeno io a quale animale dovessero appartenere, fatto sta che la volpe avanzò di un metro e quello che ci colpì tutti e due, è che avesse la zampa posteriore destra tranciata a metà. “Hai visto?” mi fece notare Corinne indicando l’arto parzialmente mancante. “poverina, chissà cosa le hanno fatto.” “Già,” concordai, “ qualche bastardo che ha messo sulla sua strada una tagliola. Ecco perché prende il cibo da noi: non riesce più a cacciare!” “Dici che è stata una tagliola?” mi interrogò Corinne.
“Penso di si, ed è anche probabile che abbia sofferto. Quell’arnese quando scatta non è che ti trancia di netto la zampa, ma la sua dentatura è fatta in modo tale che trattenga solo una parte di ciò che attanaglia. Alcuni animali, pur di non farsi prendere, la zampa se la recidono da soli.” “Ma allora, se è così, cerchiamo di dargli più cibo che abbiamo,” propose Corinne. “ Domani partiamo.” “Gliene possiamo dare solo stasera, qualsiasi cosa tu lasciassi da mangiare, stanotte qualche altro animale ci farebbe festa. E poi non é detto che resti qui, potrebbe anche seguirci.” “Dai, adesso lanciagli quel pezzo di carne, vedremo se resta per averne ancora.” L’esortai. Lei glielo buttò a una distanza ancora più ridotta di quel metro che ci aveva regalato, e ancora una volta lo mangiò davanti a noi. Sempre a debita distanza, ma non poco lontano. Avevamo conquistato la sua fiducia. Gli demmo quasi tutto quel che avevamo sulla brace. Masticava, inghiottiva, ma senza perderci di vista, e noi immobili, rapiti, ammirammo quello scorcio di vera natura. Anche la nostra vacanza terminò. Ritornammo a Clichi-sous-Bois paghi della nostra seppur breve indipendenza. Rivedemmo gli amici e le amiche, ma tutto era cambiato. “Avevi ragione tu,” mi disse François, imbronciato e di pessimo umore “ognuno per la sua strada: di quel che eravamo, non resta più niente.” “Non guardare a quel che eravamo,” gli risposi, “ma a quel che sei adesso e quello che sarai, Tutti noi abbiamo una strada da percorrere, credere e vivere per qualcosa che realmente ci apioni.” Mi guardò con mestizia. “Tu almeno, questa strada, l’hai trovata. Io non so ancora cosa farò e sinceramente, almeno per il momento, non me ne frega niente.” “Si, -pensai, io ero stato fortunato. Avevo ciò che desideravo. I miei brevi racconti erano apparsi su due quotidiani. Corinne stava terminando la sua opera teatrale, eravamo sempre più innamorati e per quanto pettegolezzi e gelosie, finanche l’invidia per ciò che eravamo s’era intromessa per spezzare il nostro
idillio, avevamo resistito a tutte quelle tempeste. Ormai gli esami di maturità erano vicini; quelle storie pubblicate mi davano già un orientamento di quale sarebbe stato il mio futuro professionale. Avevo tutto, non mi mancava niente. Avevo lei, la nostra comune felicità e gioia di vivere. Niente ci era indifferente: ogni più piccola cosa aveva la sua importanza, e soprattutto riuscivamo a stupirci, ancora e sempre. Lo scoglio che temevamo, l’esame di maturità, ci andò bene per un pelo; nel corso del quinto anno avevamo entrambi studiato poco e niente, ma alla fine, quel maledetto pezzo di carta ce lo diedero. Festeggiammo l’evento a casa dei suoi genitori. I miei, stavano iniziando a cambiare i loro umori e non capivo perché. Certo, erano contenti per me, almeno così mi dimostravano esteriormente, ma intuivo che c’era qualcosa che li preoccupava e mi nascondevano: il loro apprezzamento per il diploma era soltanto una facciata. Fu un giorno qualsiasi, d’estate. Rientrai a casa dopo aver cenato con Corinne e i suoi genitori. Appena arrivai trovai mia madre e i miei fratelli, tutti riuniti in soggiorno. “Ti devo parlare Ettore.” Mi disse cupo mio padre. La sua espressione era turbata. E tutto mi sarei aspettato fuorché quello che stava per annunciarmi. “Dobbiamo andare via…” Inarcai le sopracciglia. “Cosa intendi per “andare via…” “Abbiamo troppi debiti per restare in Francia. Dalla settimana prossima si scateneranno tutti quelli a cui ho dato assegni post-datati. Ho cercato per ogni verso di rimediare, ma siamo bruciati: tanti creditori alla porta e non so più come fare. Tua madre ed io abbiamo deciso di tornarcene in Italia.” Mi annunciò lapidario. “Ma…E io? Che faccio? Non posso lasciare tutto così…Voi avete deciso, avete deciso…Ma cosa sono io per voi? Un pacco postale? I miei prossimi anni, Corinne, la mia stessa vita, ma un po’ di rispetto per quello che sono riuscito io, a costruire non ce l’avete? E’ tutto il mio mondo! Non posso, non voglio, non puoi farmi questo!” Mi sfogai sembrando di impazzire o come se la terra franasse sotto i miei piedi.
“Se ne avessi la possibilità, ti lascerei qui, da solo. Ma devi venire anche tu, non avresti un futuro.” “Ma neanche in Italia avrò un futuro, se é per questo!” replicai alzando la voce. “Dammi almeno il tempo, la possibilità di cercarmi un lavoro…Di apprendisti ne assumono in ogni settore…”Ribattei quasi supplicandolo.” “Non c’è più tempo. Partiamo dopodomani, ho già fatto i biglietti e devi venire con noi.” “No! In Italia non ci vengo. Voglio restare qui! Voglio restare con Corinne,” questa volta urlando. “Ma questa tua relazione è solo un infatuazione giovanile…” Infatuazione giovanile?” lo interrogai scandalizzato. “Sono quasi cinque anni che stiamo insieme e tu me la chiami infatuazione giovanile!” “Cerca di convincetene, per il momento è impossibile. Dopo, se realmente lo vuoi, quando in Italia staremo meglio a soldi, potrai ritornare in Francia, te lo prometto.” Li guardai entrambi con odio. C’era in me tutta quella felicità che a piano a piano, come un castello, ormai di sabbia, si stava sgretolando. Non era possibile –riflettevo –che tutto ciò di bello, gradevole, con un futuro altrettanto sereno, le burrasche verbali affrontate inizialmente con i genitori di lei, quando si erano accorti che stava diventando una cosa seria, e che non né volevano saperne di un ‘italiano’, per sua figlia, ma poi ceduto all’evidenza, usando tutta la diplomazia e la pazienza che a sedici anni non hai; superato lo scoglio con i miei perché per loro scrivere, non portava soldi a casa…E che tutta la forza per affrontare questi ed altri ostacoli me la dava lei, perché per lei avrei scosso le montagne, e ci sarei anche riuscito se ciò doveva servire a che nessuno me la portasse via, si riducesse a niente. Tutto quello che chiedevo era di vivere la mia pace con lei, un posticino per noi e null’altro perché ci bastavamo a vicenda. Non avevamo bisogno di niente ma continuare così come ci eravamo trovati. Me ne andai in camera mia. Non sapevo cosa fare. Nella mia testa si accavallavano apparenze risolutive,ma senza riscontri. Ero perso. E anche se poi
sarei potuto ritornare in Francia, adesso, con quale coraggio, dove lo prendevo, per dirgli in faccia: “Sai, i miei hanno troppi debiti e allora ce ne torniamo in Italia e affanculo tutto!”. Fu una notte insonne. Non riuscivo ancora a credere che quella che mi si prospettava era una delle più schifose, abiette realtà; che da questa partenza –e ne ero sicuro –sarebbe dipesa tutta la mia vita. Scappare non era possibile, dagli amici mi avrebbero trovato subito e se la polizia se ne fosse immischiata, sapendomi da solo e senza reddito, mi avrebbero messo sul treno insieme ai miei. Da lei, non se ne parlava: i suoi mi stimavano, mi volevano bene, ora, ma fino al matrimonio ognuno a casa sua. Alla fine dovetti rassegnarmi, alternative non c’erano. Vidi alla finestra il chiarore di un alba che mai era stata così incolore e più amara. Era come se volessi scaricarmi di quel pensiero, dirglielo subito per accettare, condividere, disperarmi, insieme a lei, perché stavo male per lei. Alle otto e trenta, non né potei più, uscì di casa e mi diressi verso la sua abitazione. Il padre e la madre erano già usciti per il lavoro, non avrei disturbato nessuno. “Sei in anticipo,” disse baciandomi sulle labbra. Era ancora in reggiseno e mutandine. Poi vedendo la mia faccia scura, mi domandò: “E’ successo qualcosa?” chiese con apprensione. Dio! –pensai, -come era bella… “Si, è successo qualcosa.” Risposi alfine. Ci sedemmo sul divano del soggiorno, mi mise una mano sul ginocchio e accarezzandomi i capelli, mi sussurrò parole tenere e dolci dicendomi che finché sarei stato con lei, niente gli poteva far paura e che insieme a me avrebbe affrontato ogni problema. Sospirai. Feci in fretta quello che dovevo fare, senza virgole né punti, né pause, né riflessioni. Come un treno le dissi la cruda verità. Sentì un suo lungo sospiro, le sue dita strinsero più forte il mio ginocchio. Vidi le sue lacrime scendere a una a una, poi tante, finché si coprì il volto per
nascondere un pianto continuo, incessante e dolorante che ti entrava nel cuore e smarriva nei dedali dell’animo la vita che ci eravamo presa e ammaestrata alle nostre nature. L’abbracciai e la tenni stretta a me non so quanto tempo. Continuava ad accarezzarmi i capelli e il viso, bagnando con le sue lacrime il mio. Non mi chiese niente, sapeva benissimo che se ci fosse stata qualsiasi soluzione glielo avrei detto. Si alzò, mi prese per mano e mi portò in camera sua. In tutti quegli anni eravamo stati attenti a non andare oltre il dovuto, ma a quel punto, la nostra ione diventò avvampante e fu tutt’uno da quell’ultimo istante all’eternità… Riposi le fotografie al loro posto e cercai di non pensarci più. “Hai capito guardia castoro?” gli chiese Ettore terminato il suo racconto. “Non lo so,” proferì la bestia dubbiosa. “E’ difficile per me credere che tu sia stato un essere umano e per il momento, ho davanti a me un coniglio in carne ed ossa, che si comporta da coniglio, da vigliacco e da codardo.” Aggiunse il castoro senza pietà. “Ma mi sembra che alla tua storia manchi un pezzo.” “Non un pezzo, ma due.” Corresse Ettore. “Al nostro ritorno in Italia la prima cosa da fare erano i documenti. Andai alle anagrafe della mia zona, dichiarai la residenza, il mio rientro dall’estero e chiesi la carta di identità. Quando andai a ritirarla sul retro vi avevano stampigliato ‘non valida per l’espatrio’. Montai su tutte le furie, protestai, ma niente. Un impiegata più comprensiva mi spiegò: “E’ per via della Leva, deve fare il servizio militare…” E io a questo non ci avevo proprio pensato, ma quel che mi venne subito in mente, quanto fosse stato subdolo mio padre nel tacerlo, perché io adesso sapevo che prima di lasciare la Francia, lui sapeva. Alla chiamata mancava un anno più quello in cui lo avrei ato sotto le armi, erano due. Due anni senza potermi muovere dall’Italia. Mi sentì in quei giorni tristemente indegno, indegno per tutto l’amore che le avevo promesso. Quando finalmente assolti gli obblighi di leva e ottenuto un documento valido per l’espatrio, partii subito per Parigi. Lei non poteva avermi dimenticato, non era possibile. Quei cinque anni ati insieme non potevano concludersi a quel modo: lei da una parte, io dall’altra. Arrivai nella capitale se intorno alle otto del mattino e dalla Gare de Lyon presi un taxi. Il cuore palpitava, non vedevo l’ora di riabbracciarla, tenerla stretta a me e non lasciarla mai più. A quei tempi era facile trovare un qualsiasi lavoro, mi sarei messo d’accordo con qualche amico della vecchia comitiva per farmi ospitare; con calma e raziocinio avrei di nuovo ricreato la coreografia sentimentale di un
tempo, quella che piaceva a entrambi. Come allora l’avrei portata al Bois-deBoulogne a eggiare e vicino al laghetto sederci e conversare… Tutto questo pensavo e immaginava mentre il taxi si avvicinava a Clichi sous Bois. E il mio cuore segnò un colpo quando mi fermai davanti l’ingresso del suo condominio. Pagai e come una freccia citofonai. Una, due volte, tre…ma nessuno rispondeva. I suoi genitori erano senz’altro al lavoro, ma lei? –mi chiesi. In nessuna lettera mi aveva accennato a una possibile iscrizione all’università. Forse, - riflettei ancora, -s’era trovata un impiego… Quindi subentrò l’attesa, quell’attesa che piano a piano ti divora dentro e ti rosicchia poco a poco quei castelli di granelli di felicità che avevi messo uno sull’altro, dopo quella lunga assenza: a volte seguendo un ordine, cert’altre disordinati o come cazzo ti capitava in quel frullare instancabile del tuo cervello e della tua sete di lei. Il mio sguardo volgeva instancabilmente alla sua finestra: quante volte vi si era affacciata…parlavamo anche facendoci dei segni e con un nostro codice riuscivamo a dirci quasi tutto, soprattutto all’inizio quando i suoi genitori ancora non mi conoscevano. Le ore avano, ma di lei niente. Fu verso mezzogiorno che intravidi Thierry al centro commerciale. Quando fu abbastanza vicino, non mi riconobbe subito: dovette guardarmi due volte…”Ettore! Ma, sei tu?..Dio santo da quanto tempo…” Lo salutai a mia volta. E gli spiegai anche perché ero rimasto assente tutto quel tempo. Finite le cerimoniosità della lontananza, piccoli ricordi buttati qui e là, il nostro mutismo si fece pesante. “Sei qui per lei, vero?” mi domandò. “Si, lo sai, e vorrei che tu mi dicessi tutto quello che sai, come ad esempio perché non è in casa…Studia? Si è trovata un lavoro?” “No, niente di tutto questo.” “Thierry,” dissi serio, “cosa cazzo fa!” “Lei in effetti ti ha aspettato per molto tempo, poi ha cominciato a frequentare un
gruppo di ragazzi e ragazze…Adesso mi sembra che viva con loro…Ma non mi chiedere dove perché non so niente.” “Almeno un riferimento,” chiesi in preda al panico. “No amico mio, niente di niente, e se fossi in te lascerei stare le cose così come stanno: la marmaglia che l’ultima volta è venuta a prenderla sotto casa sua, aveva tuta l’aria di quelli che erano completamente sballati di eroina e lei anche: non è che si reggesse bene in piedi…Beh, capisci no?” cercò di spiegare torcendosi le mani. “Le danno roba da spacciare per le dosi di cui ha bisogno… Lo salutai e me ne andai sconvolto al bar del centro commerciale, ordinai un Cognac e mi sedetti a uno dei tavolini dove le vetrate si affacciavano sul suo palazzo. Fu a quel punto che ebbi l’impressione di essere la causa di qualcosa che non riuscivo ancora a definire, e forse perché non volevo credere alle parole del mio amico. Ma in fondo, -pensavo –perché mi avrebbe detto delle bugie… sapeva quanto l’amavo, non avrebbe mai scherzato su una cosa del genere… Bevvi del Cognac fino a quando mi sentì stordito. L’unica cosa da fare era aspettare il rientro dei suoi genitori e chiedere loro spiegazioni. Nell’attesa andai a casa di Thierry e lo pregai di farmi allungare sul divano: la madre non c’era e suo padre era da tempo che se ne era andato con un'altra. Gli dissi di chiamarmi alle sei del pomeriggio, tempo di darmi una rinfrescata e cercare conferma di fatti ai quali malgrado un forte scetticismo mi apparivano sempre più concreti. Ma l’attesa fu vana: non vidi né sua madre, né suo padre; rivoltai Parigi come un calzino ma non la trovai… In effetti. Non c’è molto da aggiungere… guardia castoro. Avrei voluto buttarmi al fiume, ma non lo feci: troppo vigliacco; sotto un treno, no: troppo codardo e mi sentii in quei giorni stranamente indegno. Come se fossi sporco dentro. ai giorni, settimane, nel silenzio più assoluto: ‘buongiorno, buonasera, grazie e prego’, erano le mie quattro parole consuetudinarie e di più non riuscivo a dire. Dovevo fare a suo tempo come mi diceva la testa mia, non avrei mai dovuto lasciarla.” Erano ati quattro mesi dal mio rientro. Con lei ci scrivevamo e telefonavamo, ma sapevamo entrambi che non bastava, che era troppo il bisogno
del contatto fisico, che i nostri occhi dovevano incontrarsi per suggellare l’amore traboccante uno per l’altra; era come se una parte eterea di me fosse rimasta lì con lei: la vedevo ma non potevo toccarla. Riuscivo per sino con l’immaginazione ad animare le nostre fotografie, prima e dopo lo scatto. Mi tornavano in mente i suoi odori, i suoi profumi, e la memoria olfattiva ti giocava brutti scherzi quando una flagranza da lei usata ti riempiva le narici, ravvivando immediatamente un attimo già vissuto. A volte mi pareva di impazzire. L’avevo vista nuda e poterne apprezzare le curve perfette, statuarie, come se fossero state scolpite…Ma tutto finì. E fu da quel momento che i miei contatti con l’alcol, seppur giovanissimo, divennero sempre più frequenti. Il castoro si grattala testa, mugugnò qualcosa e si alzò. “Sai che c’è coniglio? Che questa tua, diciamo narrazione, potrebbe anche essere vera, in ogni caso un po’ eccessiva anche per me. In tutta la mia vita ho visto cose che mi hanno fatto raggelare il sangue nelle vene. C’era un tempo che l’umano e le sue pazzie distruttive, con l’ausilio di quelle tremende macchine a mano, ci buttavano gli alberi addosso. Ci fu un periodo molto lungo nei quali i pesci del ruscello, della diga che avevamo costruito e con tutta la fauna alla quale avevamo dato vita, morirono. Questo, a causa di quelle sostanze che l’umano buttava nei fiumi, e non ti dico altro. Il nostro rancore nei confronti dell’umano è incontenibile…Però ti do un consiglio, non andare a raccontare a nessuno quello che hai detto a me, e io farò lo stesso: io rischierei l’ospedale psichiatrico, ma te, ti metterebbero a fuoco lento e senza processo.” “Ma è la verità.” Mi difesi. “Appunto per questo, certe verità è meglio non andarle a raccontare in giro. E dammi quella bottiglia vuota, la faccio sparire io. A proposito, adesso che ci penso, tu avevi iniziato il tuo racconto con l’arrivo a Milano, rivisto i tuoi genitori e poi a casa loro, ti sei fermato su quelle fotografie, e da questa sei partito con la storia di Corinne. Ma dopo, a Milano cosa è successo?” domandò curioso Gianselmo. “Te lo racconterò un'altra volta, adesso vado in branda…” “E ci credo,” disse il castoro facendogli notare la bottiglia, “te la sei bevuta tutta!”
Ettore si allungò sul pagliericcio. Pensava che era del tutto inutile raccontare la sua vita a quel testone di un castoro: non gli credeva, e lui ancor più scemo da pensare che gli avrebbe creduto. Era tempo perso, semmai le sue storie da umano le avrebbe scritte. –Pensò. A Gufolandia c’erano due settimanali, uno era ‘Animalrama’ e l’altro il ‘Bestial-Express’. Chissà che faccia avrebbero fatto i direttori di questi due rotocalchi, presentando loro una vera storia di un umano. La cosa era insolita, ma i giornali, cercavano storie insolite…
LA COSCIENZA DI ETTORE
Si sentì improvvisamente scosso, svegliato da un sonno pesante. Il tempo di realizzare dove fosse e chi lo stesse baciando sul petto, capì immediatamente che Livia aveva messo in atto quanto detto.. Incurante del marito si era buttata addosso a lui. “Livia per Diana! Se Maurizio si sveglia…Non voglio neanche pensarci.” “Ecco, appunto, non pensarci, ci penso io.” Rispose frettolosamente e continuando nella sua frenetica ione. La domenica, la ò con loro, non gli andava di tornarsene a casa e fece bene; al telefono sua madre era gelida, quasi gli dicesse: -Se non vieni a pranzo, ci fai un piacere… E lui stesso, non era di buon umore; l’incursione di Livia quella notte l’aveva spaventato, ma più del timore di essere scoperto da Maurizio, la leggerezza e il menefreghismo di quella donna che per il suo piacere non si fermava davanti a niente, e che per lei l’inganno e il sotterfugio fossero più importanti e maggiormente gratificanti del sesso stesso. E di questo, ne era sgomento. Si vestirono e uscirono tutti e due per andare a comprare il giornale e bere un aperitivo in Galleria. “Come vanno i corsi per programmatori?” gli chiese mentre eggiavano sulla piazza Duomo. “Bene,” gli rispose Ettore, “se non fosse per il fatto che continuano, all’atto dell’iscrizione, nel promettere un posto di lavoro inesistente. Chi si prenderebbe l’onere di assumere un programmatore senza esperienza, appena uscito da uno dei nostri corsi?” domandò e si domandò. “Nessuno,” rispose schietta Livia, “è quasi impossibile. Basta che tu scorra gli annunci economici il venerdì sul “Corriere della Sera”, e ti accorgerai che è una triste realtà. Minimo due anni di praticato. Quando lavoravo in Borsa ne
chiedevano addirittura cinque, di anni.” “Livia, la Borsa e tutt’altro mondo, qui parliamo di semplici applicazioni gestionali…Ma quanto tempo hai lavorato in Borsa?” domandò Ettore. “Vent’anni… “Caspita! E perché sei venuta via?” si interessò Ettore. “Avevano capito che stavo preparando un ‘aggiotaggio’…Piuttosto di farmi licenziare con conseguenze penali, ho preferito dare le dimissioni, punto.”
“Tu non sei una donna,” si espresse Ettore meravigliato, “sei un Diavolo.” “Può darsi, ma tu come intendi risolvere la questione? Prima o poi avrete una colonna di gente che reclamerà il suo posto di lavoro.” “Già, c’è però il fatto che, per essere coerente con la linea aziendale, nel corso delle sessioni, è un continuo chiedermi assicurazioni sul loro inserimento nel mondo del lavoro. Cosa che non è affatto vera.” Spiegò Ettore. “E’ un po’ una truffa,” osservò Livia guardando, mentre camminava, la punta delle sue scarpe. “Tu? Proprio tu mi vieni a parlare di truffe?” Le fece osservare Ettore. “Si, ma noi parlavamo di centinaia di milioni, voi di spiccioli.” “A parte gli spiccioli,” disse nervosamente Ettore, hanno pensato anche a questo. Il contratto che sottopongono loro, è a doppia firma, con delle clausole così piccole che mi ricordano quelle delle assicurazioni. “E con i tuoi come va?” domandò Livia cambiando argomento. “Mio padre immagina ma non parla. Finché tutto rientra in quella parentesi discrezionale, non gliene importa granché. Quanto a mia madre, è sicura, arcisicura che andiamo a letto insieme. Già mi trattava con freddezza quando ero arrivato da poco, adesso è diventata di ghiaccio. Una volta avuta la certezza,
farebbe scoppiare un casino, e la sua specialità è farlo in pubblico, niente di meglio del vostro locale.” “Ma non riesci a ritagliarti un posticino tuo?” gli chiese Livia interessata. “M’ero informato su delle camere ammobiliate. A parte che sono degli avvoltoi, ma poi hai limitazioni di ogni genere: dall’ora del rientro, a quella di uscita, perlopiù non ti danno l’uso del telefono, il bagno è unico e in condivisione. No, diventerebbe una sofferenza, senza alcuna libertà. L’ideale sarebbe un appartamento, ma hai visto i prezzi?” lamentò Ettore con un espressione sfiduciata. Rientrarono a casa, Maurizio si era svegliato da poco. La prima cosa che fece, dopo aver detto un buongiorno assonnato, fu di impadronirsi del giornale e mettersi in poltrona: nessun bacio, alcun abbraccio, non una parola affettuosa. Forse aveva ragione Livia, -pensò Ettore. Un pranzo scialbo, un pomeriggio noioso, non animarono quel fine settimana. A sera, prima di cena, rientrò a casa. Sua madre non lo degnò di uno sguardo. Salutò suo padre, la sorella, una rapida doccia, un cambio di abito e si apprestò a uscire nuovamente. C’era un aria così pesante in famiglia che non vedeva l’ora di scrollarsela di dosso. Era sulla soglia dell’ingresso quando si sentì chiamare da suo padre. “Ettore…” “Si?...” “Va tutto bene? “ gli domandò suo padre. “Si, perché…?” “Non lo so, ma è parecchio tempo che il sabato e la domenica non ti si vede più. Non è che ci stai preparando una delle tue?” “Ma cosa dici papà, i corsi vanno bene, da quando ho iniziato non ho mancato una lezione…Se sto fuori un po’ è perché vedo gli amici. Se non lo faccio adesso, quando?”
Il padre gli sorrise, ma Ettore si accorse, dallo sguardo malizioso cosa intendeva comunicargli. “Sai, mamma è preoccupata che in tutto questo star fuori casa, c’entri la moglie di Bellini, Livia…” “Chi?” fece Ettore cercando di esprimere quanto più poteva un reale stupore. “Quella tardona! Allora mi conosci male papà. Se devo andare a ‘rimorchio’, cerco una mia coetanea, se non più giovane.” “Va bene,” consentì suo padre. “Basta che in ogni cosa che fai o tu abbia a mente che hai anche una responsabilità morale nei nostri riguardi e nei confronti della società.” “Già, -pensò Ettore. “Tutti si riempiono la bocca di quella parola, senza nemmeno sapere dove sta di casa, e in particolare loro che dietro i soldi, promettono fumo.” “Non devi preoccuparti per questo, amici e amiche, sono ben distinte dal lavoro che faccio e dalla vostra società.” “D’accordo,” rispose suo padre non del tutto rassicurato. Cerca comunque, di tanto in tanto di are una domenica in famiglia.” Ettore sapeva cosa stesse pensando, glielo aveva letto negli occhi: indagatori senza voler forzare, non al punto di porgli dirette domande per riceverne dirette risposte. Ma in tutto ciò c’era tanta di quell’ipocrisia, forse non tanto da parte di suo padre, quanto dalla parte di sua madre. “Ciao papà, ci vediamo domani in ufficio.” Salutò uscendo di casa. Se solo avesse saputo dove era diretto e quali erano le sue intenzioni lo avrebbe buttato fuori casa senza pensarci due volte. Ma quella bramosia che caratterizzava Livia quando stavano insieme, aveva investito anche lui; come lei, si sentiva sconcio, lussurioso e lei faceva di tutto per acuire in lui questa condizione. Prese un taxi e si fece accompagnare in corso Europa. Era riuscito a convincere quella donna che amarsi con Maurizio in casa –seppur avesse un sonno pesante – era estremamente pericoloso. E mettendola per ipotesi, davanti al fatto compiuto,
che una di quelle notti il marito si fosse svegliato per un qualsiasi motivo, avrebbero, oltre alle conseguenze, dovuto mettere fine alla loro relazione. “E tu, non vuoi questo…Le aveva detto Ettore cercando di farla riflettere. Però, a questo punto, lei ebbe un idea. Certamente non è che a Ettore entusiasmasse l’alternativa da lei proposta, ma senz’altro era meno rischiosa. “Alla domenica sera,” spiegò Livia, “Maurizio doveva di malavoglia recarsi al bar per tirar fuori dal congelatore le brioches per il lunedì mattina. Odiava farlo: lasciare la sua poltrona, doversi vestire, mettersi alla guida, tirar su la saracinesca e scegliere quante e quali paste doveva disporre per l’indomani. In termini molto ingannevoli, e con la maliziosità della quale era capace, Livia recitò da maestra la sua parte. “Mi fai pena,” gli disse quella domenica sera, mentre sbuffando e maledicendo si stava preparando per andare al bar, per un lavoretto che non richiedeva neanche un ora: andare, fare e ritornare. “Ti faccio pena perché non ci devi andare tu!” gli rispose bruscamente. “Ma io ci posso benissimo andare,” gli rispose, “Sono già vestita perché starmene in vestaglia tutto il santo giorno mi sembra di essere già vecchia, e poi a me della ‘domenica sportiva’ e altre cazzate di calcio, non me ne frega niente.” “Gli occhi di Maurizio si illuminarono. Cominciò a spiegargli cosa tirar fuori dal freezer e in quali quantità, ripetendole due volte le istruzioni. “Ma scusa ‘pisquana’, le disse Maurizio, “la saracinesca chi è che te la tira su? “Non penso che Ettore non possa aiutarmi…Vero Ettore? “Se c’è da tirar su solo una saracinesca…” Così, la domenica sera, Ettore e Livia, si recavano al bar insieme, lui era diventato l’amico di famiglia, s’era trasferito a casa sua e di suo, non solo gli andava bene la moglie, ma le scarpe, le camicie, i maglioni… Lei velocemente si affaccendava al congelatore, e poi, con tre quarti di saracinesca abbassata, potevano fare in piedi ciò che volevano. Ma Livia era troppo raffinata per contentarsi delle sveltine fatte in un locale, per cui, sapendo che Ettore aveva le
chiavi degli uffici, e conoscendoli perché un giorno glieli aveva fatti visitare, lo pregò quasi, di salire su di modo che, gli disse: “Tu possa amarmi davanti gli specchi.” Questa era lei, questo era diventato Ettore. Più l’amicizia tra i due si rinsaldava con piena fiducia l’uno nell’altro, più Livia diventava oscena, sboccata nei rapporti, audace era solo un eufemismo, una porno-star non avrebbe retto alle sue esibizioni, e più Ettore si sentiva un verme. In quei venti giorni di agosto, periodo in cui anche i suoi erano andati in vacanza, cercò di preparare le basi per un nuovo articolo da far pubblicare sul settimanale al quale aveva dato il suo scritto sulla Legione straniera: gliela avevano pagato bene. Sul tavolo da pranzo preparò la sua “Olivetti 23” , inserì nel rullo un foglio di carta bianco e lo guardò a lungo. Maurizio, conoscendo le sue abitudini, gli aveva lasciato un fornitissimo bar. Indistintamente, che fosse mattino, pomeriggio, e soprattutto a sera, beveva. Con un certo criterio, ma solo fatto di buoni propositi teorici; s’era detto che quel periodo, in assenza di quella ‘ninfomane’, si sarebbe potuto riprendere; era sotto peso, una faccia incavata e trent’anni non glieli davi più. Ma il suo guaio era che se non c’era lei, c’era la bottiglia. Iniziava a porsi i primi interrogativi, visto che, non assumeva più superalcolici ma solo vino per godere di quella leggerezza, quell’essere un po’ brillo e null’altro. Ma era solo un palliativo: in realtà e forse inconsciamente non desiderava altro che un posto tutto per sé per bere quanto voleva, finanche a trascinarsi a terra. Adesso, se non cominciava a bere al mattino,le mani gli tremavano. Erano ati i venti giorni. La macchina per scrivere era sempre allo stesso posto. Il foglio era rimasto bianco. Non era che gli mancasse l’ispirazione, anzi. Al direttore del settimanale cui aveva dato il servizio sulla Legione straniera, a suo tempo, gli aveva proposto un itinerario su tutta la penisola compresa la Sicilia, e forse quest’ultima la meta più ambita, per intervistare dirigenti e funzionari che ruotavano attorno ai finanziamenti devoluti ai centri di recupero per i tossicodipendenti. Era sicuro di fare ‘centro’ per tutti gli illeciti commessi e i tanti, troppi soldi che sparivano nelle tasche di gente senza scrupoli.
Il direttore gli disse francamente, che era pericoloso. Come lui era d’accordo, ma si sarebbe tolto il coperchio di una fogna coinvolgente persone potenti e che forse, non gli avrebbero mai permesso di portare a termine questo lavoro. Proprio per questo motivo, il rischio che esso rappresentava, era stato ancora più stimolante. Il direttore non si sbilanciò: non era una decisione che poteva prendere lui da solo. Avrebbe presentato il progetto alla riunione settimanale per l’approvazione. Ma da quell’ultimo colloquio non aveva saputo più niente e lui stesso se n’era disinteressato. L’alcol che ingeriva gli toglieva ogni forza, durante i corsi per programmatori iniziava ad avere –mentre spiegava –quelle antipatiche battute d’arresto e Livia, ritornata dalle ferie lo aveva costretto a recuperare il tempo perduto. Quanto a Maurizio, era così convinto che Ettore fosse omosessuale, che se per caso, qualcuno discriminava i gay nel suo locale, prendeva subito posizione a difesa di questi, e con veemenza se Ettore era presente. E lui si sentiva tutto fuorché quel che era veramente. Chiese a suo padre se poteva dargli un mese di aspettativa perché voleva riposarsi, riflettere su come stava prendendo una brutta piega la sua vita. Così facendo, dovette confessare al padre il suo problema con l’alcol; di quell’altro, non disse niente: ancora non sapeva se considerarlo un ‘problema’, oppure un piacere che non era più piacere. Era arrivato al collo di bottiglia, e aveva un enorme confusione in testa. In quei trenta giorni, che dovevano essere disintossicanti, fece ancora peggio. Era stato sempre un estremista, per lui la via di mezzo non esisteva: o tutto o niente, sia che versasse in positivo, sia nel negativo. Arrivò finanche a portarsi Livia a casa dei suoi, sapeva che Silvana, la domestica, non avrebbe parlato anzi, gli era diventata amica, per la disparità con la quale veniva trattato lui nei confronti dei fratelli che godevano della benevolenza della “matrona”. Forse, -pensava, anzi sicuramente –era un debosciato. Tutti i piaceri, nessun sacrificio. Eppure ci doveva essere un sistema per uscire da quell’ime, da quel vicolo cieco, e lui lo trovò: demente alquanto, dissennato, irragionevole, ma a lui le conseguenze non interessavano, desiderava riappropriarsi della sua vita, cercando di cacciare via quei démoni che gliela volevano gestire.
T I Z I A N A
Per Ettore, la prigione era in quel momento, e nella sua follia, come un monastero dove poter espiare le sue pene; pagare per la condotta dissoluta e contraria a dei principi che credeva aver perso ma che nei rari barlumi di lucidità emergevano e lo facevano stare male. La Legione straniera era stato un breve anticipo di quella ricerca di riscatto. Sapeva bene che nessuno avrebbe creduto a questa sua versione, ben che fosse la pura verità. Immaginava che davanti a un giudice sarebbe stato uno dei tanti delinquenti, e che questa sua magnanima autopunizione avrebbe solo istillato l’ilarità di chiunque. Probabilmente, in un momento di massimo scoramento e totale pusillanimità, pensato al carcere come unico sistema per indurre Livia –data la sua buona posizione sociale -a emarginarlo per ovvii motivi e per lui, prendersi quella lunga pausa di riflessione che una condanna gli avrebbe dato. Un sabato pomeriggio, vestito in giacca e cravatta, aveva rapinato cinque esercizi in diverse zone di Milano, poi semi cosciente e probabilmente sfinito da tutto ciò che aveva bevuto, s’era lasciato prendere dalla Polizia di Stato. Venne interrogato, confessò tutto quello che aveva fatto, e venne associato al carcere di San Vittore in attesa di giudizio. Se cercava un posto dove purificarsi, beh, aveva sbagliato tutto. Contò sette cancelli, che uno dopo l’altro, quando la guardia lo accompagnò nel suo raggio e poi alla sua ultima destinazione, che gli si chiudevano alle spalle. Cominciò a provare quel senso di vuoto, di entrare in un dimenticatoio dove anche se diventavi pazzo, ti strappavi i capelli, ti fossi lesionato, nessuno ti avrebbe aperto per uscire. I lunghi corridoi a volta dove i i rimbombavano, gli effetti di una luce al neon tetra e lugubre, le pareti scrostate, infine il posto dove avresti dimorato, così ristretto per quattro persone, che se uno faceva avanti e indietro nel mezzo dei letti a castello, gli altri dovevano starsene in branda. I suoi compagni, due per associazione a delinquere, il terzo, un ragazzino appena ventenne che s’era fatto prendere per un po’ di ‘roba.’
“Vedrai, è la prima volta, uscirai con la condizionale…” Cercavano di ricuorarlo. E gli davano del vino perché anestetizzasse l’ansia. Ettore non se ne era accorto, ma tremava. Non ebbe mai modo di alimentarsi con il cibo dell’amministrazione, si cucinavano da per sé sui fornellini da campeggio autorizzati. Due ore di eggio al mattino e due al pomeriggio, per il resto del tempo c’era solo la cella, i libri portati dalla biblioteca. Un giorno, lo chiamarono in parlatorio. Non aveva idea di chi fosse. Dai suoi genitori non si aspettava tanta clemenza, Livia, ci avrebbe giurato, non sarebbe mai venuta in un posto come quello, ma con sua grande sorpresa, se la trovò davanti, al posto dove sedeva. “Quando quel sabato pomeriggio, non ti ho visto, ho pensato subito al peggio, e avevo ragione.” Gli disse subito. “Perché sei venuta, non è bene che una donna come te, anche se per un ora, venga in certi posti.” Le disse Ettore mestamente. “Non né ho potuto fare a meno. Ero in ansia per te. Tu non sei mai stato in galera.” “Cosa dice Maurizio?” “E’ sconvolto, è così amareggiato per te, che non credevo ti fosse diventato tanto amico. Mi ha detto di lasciarti dei soldi sul tuo libretto. Come stai?” domandò. “E’ pur sempre un carcere e si sta da schifo, mi dicono che dopo il primo grado di giudizio verrò trasferito in un altro istituto e che a quel punto, dovrei stare meglio.” Le spiegò. “Ho parlato con un mio amico avvocato, solo che lui è un civilista, ma lavora insieme a un penalista, sarà quest’ultimo ad assumere la tua difesa.” “Bisognerà pagarlo.” Le disse Ettore preoccupato. “A questo non ci pensare, è proprio l’ultimo dei problemi, ti voglio fuori da qui.”
“Livia, accidenti a te, sai come bevo e quanto bevo, sono un alcolizzato e senza rimedio, perché oltretutto mi piace ed è una delle cose peggiori perché non ti porta niente di buono. In quei venti giorni che sono stato a casa da voi, non ho scritto un rigo, e non perché mi mancasse il materiale, ma solo perché l’alcol mi toglieva ogni forza, ogni voglia di fare. Lo capisci?...” Livia lo guardò a lungo, i suoi occhi erano tristi: non è che avesse la lacrima facile ma erano lucidi. A lui gli dispiaceva vederla in quello stato, ma era diventato granitico, irremovibile sulla sua decisione. Se in un carcere che al momento ospitava 1200 detenuti, e 1199 sarebbero usciti di corsa se gliene fosse stata data la possibilità, in quel preciso istante, sarebbe rimasto. “Non mi importa niente di quello che sei, di come vivi, di quello che bevi. Io ti voglio con me, per tutto il tempo che potrò piacerti, farò ogni cosa che tu vuoi, non ti sarò d’ostacolo per nessun motivo, ma ti farò uscire e continueremo ad amarci.” Gli disse d’un fiato. Ettore sospirò. Già sapeva che dietro a lei, si sarebbe rovinato: bere, fumare, amarsi, gli ricordava un vecchio adagio e non si illudeva, non sarebbe stato facile scrollarsela di dosso. Dopo 47 giorni di detenzione, ò in giudizio. Tuttavia, rispetto al pensiero in origine, desiderava adesso, ardentemente uscire. Quanto aveva visto in quel periodo, seppur breve, gliera stato da consigliere. I detenuti che si azzuffavano pesantemente nell’ora d’aria con cocci di vetro oppure usando i coperchi delle lattine, fini e taglienti. Aveva visto un detenuto pestato in doccia da quattro individui senza che si preoccuero della sua presenza; poi l’avevano lasciato sanguinante sul piatto doccia inanime, mente l’acqua assumeva quel colore roseo. A un altro che rompeva le scatole perché voleva legittimamente qualcosa per il suo mal di denti, gli misero una coperta addosso e giù botte; traffici e altro all’ordine del giorno e tutto quanto c’era di più ignobile, lo trovavi là, in quelle mura. Il presidente aveva l’aria severa, il pubblico ministero, meno. E uno dei giudici a latere leggeva l’articolo apparso sul settimanale per cui aveva scritto, quello sulla Legione straniera. Ad Ettore, sotto esplicita consegna data da Livia al penalista, gli venne chiesto poco e niente. E il difensore, puntando molto sul fatto che scrivesse, un colpo di
testa da addebitarsi a “una vena poetica inaridita” fu la chiave di volta per non essere clementi, ma comminargli una pena inferiore ai due anni perché potesse usufruire della libertà condizionata. Livia sorrideva, era contenta. Ettore non sapeva se ridere o se piangere. Alle quattro del pomeriggio di quello stesso giorno, chiamarono i liberanti, Ettore era fra questi. ò in matricola dove gli resero gli effetti che non poteva tenere con sé nel corso della detenzione, i soldi che gli erano rimasti e i documenti. Nel momento in cui le due ante di metallo dell’ingresso del carcere, cominciarono a ritrarsi, Ettore avvertì comunque quella sensazione di tremore alle gambe, non sapeva se data dalla libertà riacquistata o dal dilemma che ancor maggiormente l’opprimeva. La vide appena uscito, aveva parcheggiato l’auto un po’ più su di Piazza Filangeri e gli faceva cenno con la mano. “Ciao,” gli disse allegramente e abbracciandolo appena fu in auto. “Ciao,” -rispose Ettore acconsentendo al suo euforico slancio. “I tuoi genitori…Insomma tutta la tua famiglia, se ne è ritornata in Francia.” Gli comunicò asciutta. “Non mi sorprende. I corsi stavano andando male, le iscrizioni erano calate, avranno fatto una montagna di debiti e come da loro consuetudine, quando il terreno scotta, sono scappati.” “Sarai ospite da noi fino a quando non troverai una sistemazione.” Gli disse Livia entusiasta. “Tutto inutile,” pensò Ettore. Trovò a casa Maurizio che l’aspettava, accogliente come sempre e come non fosse successo nulla; uno degli avvocati, il civilista, con il quale Livia aveva avuto una relazione e lui, imbarazzato, sedette nel soggiorno insieme a loro. A titolo di ben tornato gli offrirono una abbondante dose di Whiskey adducendo anche loro a un colpo di testa che solo degli ‘scrittori’ o aspiranti tali possono
avere e che qualsiasi artista in un momento di debolezza può perdere la testa. Guardò Livia che a sua volta lo guardava. Si era a febbraio e il tempo era bigio, tutte le luci del salone erano accese. Poi guardò l’avvocato e infine Maurizio, cercando di mettersi nei panni del marito. Loro tre, conoscevano intimamente Livia, ma solo Ettore sapeva quel poco di più per capire. La sua uscita dal carcere non era stato un atto d’affetto, perché poi, come diceva Livia, dopo un anno ti affezioni anche a un cane, si trattava solo di recuperare l’amante ‘disperso’ Come nella nostra vita, si può diventare un coniglio? Per tanti motivi: vigliaccheria, codardia, pusillanimità e tutti quegli aggettivi che fanno di te un pauroso, che vede ostacoli insormontabili dappertutto lenendo questi dolori interiori, e attenuandoli ad esempio, con l’alcol. Grazie a lui, io, coniglio lo sono diventato per davvero, non so in quale circostanza e perché. Mentre scrivo continuo a cercare un filo conduttore Nel profondo del suo ‘io’ però, Ettore voleva fare qualcosa per riabilitarsi, e siccome di rappresentanti ne cercavano sempre, scelse una ditta che per un paradosso, visto e considerato il suo recente retroscena, vendeva sistemi di allarme, porte blindate e serrature di sicurezza. Tre giorni di corso remunerato, tre giorni affiancato da un venditore esperto e poi da solo, nella zona di competenza. Nella prima settimana di lavoro riuscì a vendere otto serrature di sicurezza e una porta blindata, e per tutto il mese di marzo fu così. Ovviamente questo suo lavorare tutta la giornata, dava enormemente fastidio a Livia; cominciava alle nove del mattino, già in zona, a volte terminava alle otto la sera. Maurizio, appena chiuso il bar arrivava a casa stanco morto, prendeva una doccia, cenava e si sbragava in poltrona davanti al televisore. Non c’era più nessuno che pensasse a lei, si doveva contentare delle sue incursioni notturne. “Non ti vedo più,” si lamentò una notte a bassa voce. “Sai benissimo che non potrei fare altrimenti.” Gli rispose Ettore, allarmato dal rigurgito dell’antica questione. “Mi avevi promesso di non essermi di intralcio, che avresti fatto ciò che volevo…Te ne sei già pentita?” le domandò. “Tutto ciò che ti ho promesso è vero, ma anche legato al fatto di stare sempre insieme come lo eravamo prima.” Continuò Livia con toni supplichevoli.
“Sai che non è possibile. Il lavoro è tutto quello che ho e grazie a Dio sta andando alla grande. Se ti accontenterai dei nostri incontri notturni, potremmo andare avanti, sempre, altrimenti non mi lasci scelta, dovrò andare via.” Tagliò corto Ettore. “No! “protestò, “questo no…Si potrebbe trovare una soluzione…” Propose. “E quale? Mi dici che tipo di soluzione? Il lavoro, così come sta andando avanti, non mi consente di fare mezza giornata: al mattino gli appuntamenti, nel pomeriggio e alla sera i contratti. Avrei potuto già prendere in affitto un monolocale ma non l’ho fatto, vorrei che te ne rendessi conto.” Seduti al buio, sul divano letto, ognuno con i propri pensieri, arono diversi minuti. “Dimmi la verità Livia, non è che ti sei innamorata di me?” “Si,” rispose lei guardando nel vuoto, “penso proprio di si.” Soggiunse volgendo il viso verso il suo. E nella penombra Ettore poté leggervi l’immensa tristezza ch’ella provava. “Questo non doveva accadere, Livia. Ti sei fatta un idea di quanto potrebbe succedere? Avresti la forza di lasciare Maurizio? E io, cosa potrei offrirti? Oggi va bene, mi limito nel bere altrimenti non ce la farei a lavorare, ma un domani? Se mi riprendesse nuovamente voler affogare le mie ansie, le mie angosce, le mie frustrazioni nell’alcol, che cosa te ne faresti di me? Sarei solo da buttare via. E sinceramente, non avrei la forza di portarti via a Maurizio. Non avrei mai il coraggio di fargli un simile affronto. In buona parte ho già tradito la sua amicizia, se ti strapi a lui, così, è come se gli dessi una pugnalata alla schiena, e questo, veramente, questo, non potrei mai perdonarmelo.” Cercò di spiegarle Ettore. Vide Livia alzarsi lentamente e senza nemmeno dargli un bacio come solitamente accadeva dopo i loro convegni amorosi, andare via. Quanto a Ettore, pensoso, immaginava che una prossima rottura avrebbe risolto tutto, almeno il suo problema. Forse, il rimorso lo avrebbe perseguitato nel tempo ma quella donna era diventata possessiva e sapeva, anzi ne era sicuro, sarebbe andata sempre peggio. Detestava fare del male ai sentimenti che chiunque, uomo o donna che sia, avevano nei suoi confronti, ma se lui era insoddisfatto, se doveva arrivare sempre a compromessi per vivere solo una piccola parte di ciò che
realmente desiderava dalla vita, tanto valeva attaccare il male alla radice. Fu quando le annunciò che aveva preso in affitto un piccolo appartamento che le venne una mezza crisi isterica. Cercò ancora una volta di farla ragionare, che ci si poteva incontrare di tanto in tanto, ma era come parlare ai muri. Anche al sabato lavorava e la domenica la ava con una collega di lavoro, per lo meno sua coetanea e meno esuberante di Livia. Tiziana. La storia era iniziata quando le venne affidata per i tre giorni di affiancamento: stessa zona da battere, pranzo insieme, e siccome il complesso residenziale era fatto di 400 appartamenti, ebbero modo di conoscersi, fino a quando la loro sopraggiunta intimità non li unì anche nel domestico. Erano a pranzo in un bar della zona in cui stavano lavorando. Lei, Tiziana, era seduta fronte a lui e stavano consumando un panino. “Stavo pensando che è veramente stupido pagare due affitti di casa…”Commentò Tiziana mentre staccava un morso dal suo ‘contadino’. Ettore la guardò aspettando la proposta che gli avrebbe fatto e lui già intuito. “Perché non ti trasferisci da me, casa mia è più grande della tua, dividiamo le spese, e risparmiamo un sacco di soldi…” disse con un gran sorriso. Da quel giorno, uscivano insieme per andare a lavorare alla stessa ora, in coppia. La direzione gliela aveva sconsigliato: si fattura meno.
QUEI LOSCHI FIGURI
C’era solo una bestia realmente interessata a che Ettore fosse messo in libertà, e questa non era certo Axa la volpe, ministro della Giustizia e Giudice anche di Corte di Appello; si era opposta categoricamente a questa concessione e in un suo intervento sul quotidiano ‘La Quercia’, aveva alzato i toni prendendosela con le Istituzioni di ‘manica larga’, tramite giornali e settimanali, rotocalchi d’ogni genere perché tutto ciò non avvenisse: che Ettore coniglio fosse rimesso in libertà. Al che, la redattrice de ‘La Quercia’, aveva risposto con toni adeguati alla presunzione e arroganza del magistrato: ‘CONIGLIO FASCISTA METTE IN DIFFICOLTA’IL P.M.’ Axa la volpe telefonò subito alla redazione del giornale minacciando di fare radiare dall’albo professionale l’incauta redattrice. Non conosceva l’ideologia politica del coniglio, ma la sua dignità di magistrato, quella si. E’ vero che era stata messa in minoranza dal presidente e dai giudici a latere, ma queste erano questioni riservate che non dovevano essere sbattute in prima pagina. “Hai letto?” disse entrando sparata, per quel che la sua gamba di legno poteva permetterle, nell’ufficio del presidente Riccardo lupo, scaraventandogli sulla scrivania quattro copie del giornale incriminato. Riccardo lupo guardò stancamente la volpe. “Cosa vuoi che ti dica Axa,” fece sospirando, “lo sai che i giornali purché si vendano hanno bisogno di notizie sensazionalistiche. Oggi si legge, domani si dimentica…” “Io potevo applicare benissimo l’articolo 19 in virtù delle accuse ma voi me l’avete impedito!” disse la volpe rabbiosa. “A me pare che tu l’abbia a morte con questo coniglio, per questioni personali, di pelle.” Gli rispose il presidente. La volpe alzò il muso e assunse un aria che voleva essere di grande giurista. “Io applico il codice alla lettera: non ci sono né simpatie, né antipatie, e la legge è
uguale per tutti!” “Vedi cara Axa, tu ed io siamo ormai dei dinosauri. Io, dal branco di famelici lupi cui appartenevo, sono stato cacciato. Lo sai benissimo che se non porti niente in tana sei bandito, perché non servi più a niente. E in fin dei conti, mangiare vegetariano non è poi così male, se a questo aggiungi la serenità di questo posto e il prestigio della carica che rivesto, posso considerarmi appagato.” Spiegò serenamente Riccardo lupo. “Tu Axa, eviti di dover andare per pollai, per tagliole, e farti impallinare il culo e vivi comunque la tua pace, con più di una carica onorifica. Cosa vuoi di più…” “A me sembra che da quando tu sia diventato vegetariano, ti sia rincoglionito!” “Esci fuori dalla mia stanza, subito!” minacciò Riccardo lupo alzandosi sulle zampe. “Non ti permettere mai più! Ministro dei miei stivali. E ricorda che se rappresenti la giustizia, lo devi a me. Io ti ho fatta e io ti demolisco!” concluse il lupo urlando e ululando. La volpe uscì dall’ufficio con la coda fra le zampe e si immise sul viale centrale per sondare, al suo aggio, eventuali pettegolezzi in seguito a quel titolo di giornale. Ma tutti la salutarono come sempre con rispetto e i maschi, al suo incontro, si toglievano il cappello. Il sole allo Zenit splendeva. Quasi tutti gli animali rientravano nelle loro casette per il pranzo. Alla Fortezza del pensiero Ettore aveva potuto riprendere il suo lavoro di porta-vitto. Clemente randagio –dato il suo comportamento indisciplinato e istigatore alla sommossa -era stato trasferito, con quattro dei suoi accoliti nel carcere di un'altra contea: La Fortezza dei Forzati. La Fortezza del Pensiero, era un carcere per dare modo ai detenuti di riflettere sul loro comportamento, sulle regole da rispettare per la reciproca convivenza. La Fortezza dei Forzati era nata per i più recalcitranti: in copia agli umani dovevano spostare una montagna di pietre e, una volta terminato, ricominciare… Era immerso nella sua lettura quando guardia castoro ò davanti la sua cella. “Hei, fermati. Ho della posta da spedire.” Gli disse al volo. “Mi sarei fermato comunque, coniglio. Devo farti una proposta” Gli annunciò Gianselmo. “Ma prima fammi vedere cosa devi spedire…”
“No, dimmi prima della proposta che mi devi fare. “Disse Ettore testardo. “No, prima la busta, poi la proposta.” Ribatté il castoro. “Allora visto che l’ho scritto io, posso anche decidere quando spedirlo, diciamo domani, così sarai obbligato a dirmi della proposta… “Perché cos’hai scritto?”chiese Gianselmo. “Un racconto personale e importante per un Giudice. e lo voglio proporre al “Bestial Express”. “Hai ragione, adesso che so cosa contiene quella busta, puoi anche spedirlo domani…” Ettore si accorse della sua ingenuità. “Ormai lo sai, cerca di farla partire oggi, se ti riesce, per cortesia.” “Vedo che un po’di Fortezza ti sta facendo bene all’educazione…” Consentì Gianselmo. “Allora, veniamo alla proposta. Tu sei sicuro che conosci bene il linguaggio degli umani?” “Te l’ho già detto, quante volte te lo devo ripetere? Ma mi hai anche detto di non farne parola con nessuno.” “In effetti, se ci limitiamo a questo, possiamo guadagnarci tutti e due.” Asserì il castoro. “E cosa bisognerebbe fare?” “C’è il gallo, Crestacchio de Pollis che non sa più dove mettere le uova delle sue galline; Merdaccia la vacca che non vorrebbe che il suo latte andasse sprecato, glielo si munge e poi viene buttato; e c’è il ministro Noc-ciola, quello dell’economia che ha una caterva di noccioline da riempire: dieci sacchi da cinque chili l’uno, e anche lui vorrebbe trarne un profitto. Tu sei l’unico che potrebbe parlare al contadino interessato, ci vuoi provare?” “E io, che ci guadagno?” domandò Ettore. “L’anticipazione del processo di Appello. Sembra che qualcuno, anzi qualcuna sia interessata a farti uscire prima del previsto.”
“Ci sto, quando esco?” “Devo comunicare la tua disponibilità. E poi aspettare che le alte sfere decidano, ma non ci vorrà molto: questa signora, diciamo coniglia, sembra che abbia molta influenza sulle nostre quattro Contee, addirittura più di Axa la volpe.” Ma questo Ettore non lo sapeva. Poteva avere un barlume di idea di chi fosse questa gentilfemmina ma non fece niente per informarsi, non parlò con nessuno e si chiuse nel mutismo più assoluto in attesa dei nuovi eventi. Con Gianselmo si limitò solo a commentare: “Posso anche capire che vi sia qualcuna interessata a me, però se c’è di mezzo Axa la volpe, con lei è persa d’anticipo: non darà mai il nulla-osta per la mia rimessa in libertà. Mi voleva dare fuoco, figurati se mi lascia eseguire un compito così arduo e delicato. E’ anche una questione di prestigio: chi la porterà a termine, sarà investito da tanta gloria e onori che…E se questo capitasse a me, a quella volpe verrebbe un ictus.” “Staremo a vedere.” Lo rincuorò Gianselmo molto più sicuro perché al corrente di tante più cose… “Questo scambio è importante per tutta la comunità, e non è detto che in caso di rifiuto del ministro della giustizia a concederti l’anticipazione dell’Appello della pena, non intervenga il presidente in persona. Però bada bene, e mi è stato detto di raccomandartelo in modo particolare nel caso uscissi: se ti si trova ubriaco te ne ritorni in cella.” Lo avvertì il castoro. L’attesa non fu poi tanto lunga, ma come aveva previsto Ettore, Axa la volpe s’era categoricamente opposta al suo rilascio e nel suo ufficio ne stava discutendo con Riccardo lupo, il ministro dell’economia Noc-ciola scoiattolo, il presidente della contea Temistocle gufo. “Io non posso condannare e assolvere un pregiudicato –seppur con un Decreto Presidenziale…L’ignoranza che incombe ancora sulle bestie di Gufolandia,” cercò di spiegare Axa con un gesto schifato “verrebbe preso prenderebbe per un atto di debolezza del mio ministero e ciò creerebbe un pericoloso precedente nella storia della nostra giustizia.” “Potremmo far sapere agli abitanti di Gufolandia che il coniglio esce solo con la libertà condizionata, spiegare cos’è, e tutto ciò tramite i giornali.” Propose Riccardo lupo.
“Per quanti sono quelli che leggono un giornale, stai fresco…” Gli rispose Axa. “Diciamo la verità,” alzò il muso Riccardo lupo, “tu ce l’hai così a morte con quel coniglio che un eventuale suo successo in questa operazione, ti denigrerebbe come magistrato, e ancor di più come ministro. Sai benissimo che quel coniglio si sta scontando tre mesi agratisse. Non era poi così pericoloso per la contea; inoltre il suo avvocato aveva ragione: certe abitudini degli umani le abbiamo accettate, così come gli alcolici!” “Noi abbiamo creato un codice comportamentale che certo, doveva tener conto del sistema sociale, tra l’altro innovativo per ogni bestia, ma anche difenderci dagli abusi che ogni animale ne faceva o ne avrebbe fatto. Che cos’era se non cercare la nostra evoluzione con le comodità, i comfort e qualche buona abitudine degli umani? E non per questo arrivare alle esagerazioni degli stessi. Quel coniglio è un malandrino, un lestofante, e vedrete cercherà, nel caso lo rilasciassimo, trarne da questa situazione il massimo dei profitti, ma non per la comunità, ma per la sua faccia da cazzo…Scusi signor presidente…Riccardo… Noc-ciola…” “Allora mi devo aspettare un rifiuto da parte sua, Axa.” Intuì il presidente Temistocle. “Mi dispiace ma non firmerò la sua scarcerazione.” Rispose la volpe. “Bene, mi costringe ad usare l’articolo 80 della nostra Costituzione.” Minacciò Temistocle. “Faccia come crede signor Presidente, ma non sarò stata io a liberare quel furfante.” Le tre bestie si alzarono lasciando sola la volpe nel suo ufficio. Una volta fuori, il Presidente di Contea si rivolse al ministro dell’economia. “Non è che lei ci sia stato di grande aiuto. A volte mi chiedo perché l’ho nominata ministro di un dicastero così importante. Lo scoiattolo lo ignorò. Lui aveva altre mire e sapeva anche delle cose che l’attuale presidente non conosceva. Era ben informato lui su cos’erano ‘pizzi’ e ‘tangenti’, ed era per questo motivo che le sue noccioline le avrebbe vendute ad altri. Alla Fortezza del Pensiero, tramite il messo presidenziale, arrivò la
comunicazione: “Io sottoscritto Temistocle, Artemio, Gufrago, di Valle Alata, presidente della contea di Gufolandia, avvalendomi dell’articolo 80 della nostra Costituzione, concede a Ettore Coniglio , di sco, l’anticipo della data del processo di Appello per importanti affari di stato. Decreto Presidenziale Bestiale…” Sotto il decreto la firma del Presidente di Contea, timbro e data.
Gianselmo castoro si affrettò a portare la buona notizia a Ettore. Arrivato davanti la sua cella si fermò. “Prepara la tua roba coniglio, sei fuori,” gli disse sventolandogli il decreto sotto il naso. “Fa vedere, fa vedere…” Esultò Ettore. Lesse. “Non ci posso credere! In barba a quel fottutissimo pubblico ministero. Scommetto che s’era opposta,” disse battendo il dorso della zampa sul documento. “Gianselmo, cioè comandante, gli dici al lavorante di sezione se mi porta un sacco di plastica nero…” “Te lo mando. Ma devo darti anche una notizia che non ti farà piacere…” “Cosa?” domandò Ettore spegnendo sul nascere l’iniziale sorriso. “La volpe Axa, a titolo cautelativo mi ha chiesto di accompagnarvi tu, e quanti sarete, a questa trattativa con l’umano.” “Non mi fa né caldo, né freddo: non ho niente da nascondere e se devo fare solo l’interprete sarà una eggiata.” Gli rispose Ettore senza scomporsi. “A proposito,” si fermò interdetto il castoro, “cos’è una ‘eggiata’? “E’ strano: mi è venuto spontaneo. Comunque é quando vai da un punto a un altro senza fretta.”
“Ma allora, io eggio sempre…” osservò il castoro grattandosi la testa. “Certamente, con quell’andatura da Bradipo non sei il massimo dei velocisti!” gli rispose Ettore sorridendo. “Va bene, preparati, quando sei pronto chiama.” Nella busta di plastica il coniglio vi ripose tutto l’abbigliamento e 12 libri che Fraschetta gli aveva sempre portato nel corso delle sue visite: una almeno ogni tre giorni. Carote, erbe e sedani li lasciò in cella. Vi mise la sua penna, l’inchiostro e il calamaio; sopra a tutto i suoi scritti. Quanto al resto della storia che doveva seguire il binomio Livia-Fraschetta, pensò che fosse il caso rimandare. “Comandanteee, sono pronto!” urlò. E Gianselmo, che non sapeva nemmeno lui perché, gli andò ad aprire provando quel brivido di felicità, quando si esce da un posto come quello. Il castoro aprì la grande porta a due ante. Ettore gli sembrava avere le zampe come la gelatina tant’era l’emozione. Cosa avrebbe fatto esattamente, una volta fuori, non lo sapeva nemmeno lui. Ma c’era una bestia che sapeva bene cosa fare. Improvvisamente si trovò Fraschetta davanti che lo era venuto a prendere con una carretta-taxi. In quel momento si sentì come paralizzato. Adesso era certo che era stata lei ad assicurargli la libertà, ma quello non era il momento. “Ti aspettavo con ansia,” gli disse abbracciandolo e sbaciucchiandolo. “Fraschetta, ti prego, non adesso. Ho cose urgenti da fare, ti prometto che stasera sarò al ‘Vecchia Radura’ Decisamente delusa la coniglia risalì sulla carretta-taxi; non voleva contrariarlo nel suo primo giorno di libertà e accettò di buon grado questa sua decisione. Era probabile che gli avrebbero dato delle istruzioni. –Pensò Ettore e non voleva Fraschetta tra i piedi, anche se era stata lei l’artefice di tutto. Ricordava poco della vita degli umani e probabilmente l’alcol ingerito in tutti quegli anni gli aveva cancellato dalla memoria molti ricordi. Si sedette su una panchina prospiciente il centro cittadino e accese una sigaretta,ma la spense quasi subito: occhi indiscreti gli facevano pesare quel voluminoso sacco di plastica nero, e tutti lo sapevano: chi andava in giro con quel fardello, soltanto dal carcere poteva uscire.
Si avviò verso la sua abitazione, un po’ distaccata dal centro cittadino; erano delle case bestial-popolari, e lui abitava in via dei Platani al civico 3. Dovette stupirsi non poco quando, in casa, si trovò davanti una bella coniglietta. Buttò la sua busta di plastica in un angolo. “E tu, che ci fai a casa mia?” “Mi chiamo Corialba, sono dell’agenzia Coni’squill…Gradisci un drink?” “Si, una Vodka,grazie.” “Tu,” disse Corialba, “devi essere una bestia molto importante…” “E perché?” “Béh, se sono disposti a pagare 500 Tangenti per i miei servizi alla tenutaria…” “E chi li avrebbe pagate, queste 500 Tangenti?” chiese Ettore divertito. “E’ venuto un politico a parlare con la padrona…Sai di solito non origlio alla porta ma era socchiusa ed ho sentito tutto.” “Un politico eh…E cosa si dicevano la tenutaria e il politico? “Che l’Agenzia doveva mandare a casa tua la migliore, e che avrei dovuto soddisfare ogni tuo desiderio, come se fosse un ordine.” “Però,” pensò Ettore, la posta in gioco deve essere alta per tutto questo spreco… Tra l’altro per quanto bestie siano fanno presto ad assimilare le consuetudini umane. –Pensò nuovamente Ettore ancora più divertito. “Mi ha anche detto che avrei dovuto accompagnarti dalla sarta e ritirare un vestito per te e una camicia bianca con cravatta.” Specificò Corialba. “Ma guarda… che gentili!” Si versò un'altra Vodka e ne offrì una anche alla coniglietta. “Alla tua Corialba,” brindò Ettore facendo tintinnare i due bicchieri.
“A te, piace fare le cose lentamente, vero? Non sei uno di quei maschi che ti saltano addosso e fai fare alla tua femmina 36 coniglietti alla volta…” Osservò Corialba “Si è vero, mi piace fare le cose con calma, senza fretta.” Le rispose Ettore. “ Bene, allora posso fare di te ciò che voglio.” Le domandò a titolo di conferma. …”Si, così mi è stato detto.” Rispose Corialba farfallonando le ciglia. “Allora,” disse Ettore spingendola verso la porta, “te ne ritorni in agenzia o te ne vai a casa: insomma fai quello che vuoi, alla tenutaria le dici che sono stato più che soddisfatto e quando capiterà l’occasione mi servirò da lei.” “Ma, e, e non consumiamo?” “No tesoro, ho cose più importanti da fare.” “Ma il vestito,” protestò Corialba. “Ci andrò io dalla sarta.” E dandole una pacca sul culetto, la congedò. Si versò un'altra Vodka e cominciò a riflettere. –L’unico che poteva aver sborsato una tale somma e perché aveva le zampe in pasta un po’ dappertutto, e fra coloro a cui interessava entrare in contatto con un umano, non poteva che essere l’affarista De Pollis; escludeva Merdaccia la vacca perché quella era da tempo che aveva perso il ‘Nord’ più altre categorie minori che commerciavano in qualcosa. I contatti con l’umano non erano certo visite di cortesia, gemellaggi o scambi culturali. –Continuò a pensare Ettore. Era sicuro che c’entravano solo i soldi e che bene o male la loro presunta evoluzione, li stava portando piano a piano all’avidità. E quello era solo l’inizio. Probabilmente chi realmente sapeva come stavano le cose, sarebbe stato colui che non si sarebbe presentato alla riunone. Uscì di casa e si recò su corso Darwin; di sarta ce n’era solo una a Gufolandia: l’avrebbe trovata subito. Se riescono a confezionarti un vestito senza prenderti le misure, vuol dire che te l’hanno già prese, e senza che tu te ne accorgessi, e questo non è buono. Rifletté. Vide una targa in corteccia d’albero scritta a fuoco. “Sgubiccia-Alta sartoria”, maschio e femmina.
Guardò la vetrinetta. Erano esposti due abiti e alcuni scampoli di tessuto. Spinse la porta a vetro e entrò. “Appena udito il camlo della porta, l’anatra con un camice bianco e il metro al collo, gli sorrise esageratamente. “Ah, signor Ettore, che piacere vederla…” Il coniglio pensò che a Gufolandia erano tutti impazziti, mai aveva incontrato quell’anatra. “Ecco il suo vestito, come l’aveva ordinato: lo proviamo?” “Ma io non ho ordinato…E metta giù le zampe…” “Ma cos’è si vergogna? Sapesse quanti ne ho visti…” “Di che se è lecito?” chiese Ettore a zampe incrociate. “Ma di cazzi, per Diana…Ogni giorno qui sono cazzi da cagare: chi la vuole cotta, chi la vuole cruda…” “Così va già meglio.” Disse Ettore. “Via questa maglietta, si metta la camicia, su, su…Non si faccia pregare ho tanto di quel da fare, dobbiamo vedere subito se fa difetto, così abbiamo il tempo di rimediarvi.” Ettore si fece travolgere da quell’anatra iperattiva e al momento di togliersi i jeans, ebbe un moto di vergogna. “Ma signora Sgubiccia, non ha un camerino?” “Ma quale camerino, non vede che il posto è tutto qui? Ma poi cosa crede che mi ecciti a vedere quel ‘cazzino’?” Si tolse anche i calzoni, provò quelli nuovi, la camicia, fece il nodo alla cravatta e indossò i pantaloni, alfine la giacca. “Devo dire che ha fatto un ottimo lavoro.” Ammise Ettore. “Ma chi le ha dato le mie misure?” “A me basta il colpo d’occhio, caro signor Ettore: mi è bastato guardarla una
volta, il resto è stato semplice.” Commentò Sgubiccia. “E scusi, quand’è che mi avrebbe visto?” “Ma santa quercia!” esclamò Sgubiccia. “Ma guardandola attraverso la finestra di casa sua!” “Discrezione e sincerità sono il suo forte eh?” Il coniglio si tolse il vestito e indossò nuovamente i suoi vecchi abiti. La sarta piegò bene la camicia e la cravatta e il vestito e incartò il tutto in un foglio di giornale. “Ecco,” fece Sgubiccia consegnandogli il pacco. “Mi raccomando è un Cachemire molto delicato: quando lo dovrà lavare lo porti da me.” “D’accordo, “rispose Ettore salutandola. Uscendo dalla sartoria e percorrendo il corso Darwin, una carretta blu gli si affiancò. “Buongiorno signor Ettore, stavo proprio venendo da lei…” Annunciò l ‘imprenditore De Pollis. Vedo che a ritirato il vestito…Ha gradito la sorpresina che le abbiamo fatto trovare a casa?” domandò. “Mi scusi, di quale sorpresina sta parlando?” chiese Ettore che non collegava. “Su, non faccia l’ingenuo, quella diciamo…Eh, eh, signottina gentile…” “Ah! Si certo. Siete…Cioè è stato lei a…” “Si, lo ammetto l’idea è stata mia, ma abbiamo partecipato un pò tutti.” “Tutti chi?” “Ma quelle poche bestie di affari che potrebbero reggere un giorno le redini della nostra espansiva economia. Questa trattativa con l’umano è importantissima per noi, è la prima, e se va bene, se lei farà tutto a dovere, intendo come interprete, avremo la possibilità di trovare altri canali, capisce?” “Si, certo, capisco.”
“L’incontro avrà luogo domani alle 10:00. Lei è sicuro di potercela fare?” “Senz’altro, ricordo bene il linguaggio degli umani.” Assicurò Ettore. “Naturalmente, a cose fatte, ci sarà un compenso anche per lei.” “Non dubiti signor De Pollis conti su di me.” “Benissimo, la verremo a prendere a casa sua, e mi raccomando, si tenga sobrio…” Gli consigliò l’affarista facendo cenno al suo autista di partire. Ettore ritornò a casa, si spogliò, fece una doccia e si rilassò. Chi doveva incontrare, l’ho aveva appena visto, per cui fino all’indomani alle 10:00, nessuno l’avrebbe cercato, e non era certo intenzionato quella sera a chiudersi in casa. Era da tempo che sognava una serata spensierata dopo quelle tre settimane di Fortezza. C’era solo un posto dove poteva andare: Coni’s I’sland’s, dove gli alcolici scorrevano a fiumi, e la popolazione era fatta solo di conigli; i controlli sulla bestia, rari; e se proprio non riuscivi a rientrare sulle tue zampe, nessuno ti diceva niente se ti allungavi su una panchina. Inoltre c’era il ‘Vecchia Radura’, e da tempo doveva riprendere un discorso lasciato in sospeso. Già all’imbrunire la sua contea era deserta. A Coni’s I’sland’s, la vita cominciava e tutti i conigli si riversavano sulle piazze centrali, nei piano-bar o nelle case per ricevere amici e amiche; i divieti non sapevano cosa fossero; le regole, giuste quelle per una pacifica convivenza bestiale; le coniglie erano di facili costumi, non mancavano play-boy e ‘Casanova’: era ‘Il paese dei balocchi’ per gli adulti. E tutto questo a Ettore piaceva. Anche se un tarlo mentale lo tormentava in continuazione, ma quando fiutava alcol e femmine perdeva ogni ritegno. Era partito con dei buoni propositi quando aveva raccontato a Fraschetta la sua storia con Livia, quello strano gemellaggio che si proponeva in altri termini e contesti: il bar, quel posto da dove era tutto iniziato; lei, seppur coniglia, affascinante e ammaliante, disinvolta e spregiudicata; la visita in carcere e l’avvocato già trovato. Tutti fatti che si stavano dipanando in forme ed eventi parallelamente uguali. Il peggio era che potesse accadere ancora, e lui rivivere il suo triste ato, senza capirne il perché. Quando entrò, al ‘Vecchia Radura’, la sorpresa di Fraschetta fu grande. “Ettore! Finalmente! La vediamo.
“E se tu mi continuassi a dare del ‘tu’ e mi dicessi che dietro a tutta questa libertà c’è la tua zampa se non tutte quattro?” le disse cingendola ai fianchi. Lei si trattenne dall’ abbracciarlo. “In presenza di mio marito massima discrezione.” Gli disse baciandolo sulle guance come si usava tra amici. Il marito, un coniglio robusto, con degli occhiali cui le lenti erano molto spesse, dall’aria bonaria e accondiscendente, andò loro incontro. “Le presento mio marito…Ma che stupida! Voi vi conoscete già.” “Ci siamo visti poche volte,” intervenne Ettore sorridendo e stringendogli la zampa. “Come sta Ettore?” domandò Asdrubale. “Sono uscito dalla Fortezza da 24 ore, mi sento decisamente meglio.” “Bene, stasera è mio ospite, cosa le faccio servire?” Domandò. “Un Negroni, grazie.” Ettore si guardò attorno. Decisamente l’atmosfera di quel locale faceva veramente a cazzotti con quella austera del “Il Moralista”; il bar dei notabili e dei politici di Gufolandia; si salvava l’A’merican Legion… “Ecco il tuo Negroni,” lo servì Fraschetta. “Allora, cosa mi racconti… Come mai ti hanno rimesso in libertà?” lo interrogò. “I gufolandesi si sono messi in testa di trattare affari con gli umani, e siccome conosco il linguaggio, e questo tu lo sai, mi hanno chiesto se potevo fare loro da interprete.” Spiegò Ettore, quasi seccato da quella pantomima. Almeno, questa è la versione ufficiale, che tra l’altro è anche verità, ma io non credo sia solo questo: per me c’è dell’altro…” “Tipo?” domandò Fraschetta. “L’intervento di una femmina potente, dissoluta, determinata e pronta a fare di tutto per ottenere ciò che vuole.” “E chi sarà mai questa potenza! “ esclamò la coniglia.
“Tu comunque hai una marcia in più.” Commentò Fraschetta dando un occhiata al locale che si stava riempiendo. “Scusami ma al banco hanno bisogno di me, ti raggiungo appena posso…” “Non fuggo Fraschetta,” gli disse da pochi metri, “tu ed io dobbiamo ancora parlare.” Ettore continuò a guardarsi intorno meravigliato da tutte quelle bestie eleganti: le femmine soprattutto, gonne alla caviglia e tacchi a spillo; i maschi rigorosamente in giacca e cravatta, e l’atmosfera era calda e accogliente, un sottofondo musicale dei maggiori successi di Simon e Garfunkel, in quel momento , ‘The Sound of Silence’, mentre alcune coppie iniziarono a ballare.” “Non sarebbe regolare, se l’invito è mio e non suo, ma ho voglia di ballare con lei…” Ettore si voltò. Davanti a lui una coniglia in tailleur bleu e borsetta da sera, bianca di pelo e con degli occhi stranamente azzurri, aspettava una risposta. “Come si chiama?” domandò Ettore. “Allegra…” rispose. La cinse dolcemente e continuarono su un ‘lento’ appena messo sul piatto. “Cosa fa Allegra durante il giorno?” “Mi occupo delle bestie più sfortunate…Quelle ferite dai cacciatori, quelle che si intrappolano nelle reti della vita animale, assisto i perdenti…” “Non vedrei altra professione più adatta a lei.” Le disse con galanteria Ettore. “Beve qualcosa?” le propose terminato il brano. Si avvicinarono al banco. “Cosa desidera?” le chiese. “Un aranciata,” rispose lei timidamente. “Un aranciata e un Negroni,” disse Ettore ando l’ordinazione al coniglio ragazzo.
“Beve sempre così forte?” gli domandò. “E lei sempre così leggero?” Allegra si schermì: “E’ che proprio non mi piacciono gli alcolici.” “Allora non potremo mai andare d’accordo.” La rimproverò scherzosamente. “Non so perché ma ho la netta sensazione che di lei possa fidarmi.” “Chissà, dipende da cosa cerca…Vede tutti questi conigli e queste coniglie?” indicò Allegra. “Certo che li vedo.” “Apparentemente sono bestie felici bevendo, poi dipende dal carattere: c’è chi diventa iroso, chi allegro, chi euforico e poi dalla quantità che ne assorbe, ma non mi sembra che in questa conventicola,” parlando generalmente di tutti, “ci siano santi: non né vedo e l’alcol non ti da molte possibilità, solo una: quella di morire.” Ammonì questa volta seriamente Allegra. “Vorrei sapere chi sono: una bestia o un essere umano.” Le confidò Ettore. “Lei crede che le bestie non abbiano anche loro una coscienza?” lo interrogò Allegra. “In un certo senso, forse più di noi.” Ammise Ettore. “Ma aspetti un momento… Perché non si è stupita come le altre bestie quando ho detto: ‘vorrei sapere se sono una bestia o un essere umano?’ “ Chiese Ettore. “Io so molte cose di lei, ma tutte le si riveleranno a tempo debito…” Rispose Allegra enigmatica. “Come sarebbe a dire?” “Cominci a interrogare la sua di coscienza, per il momento, come bestia…” “Ci ho provato: è un chiodo fisso: sono diventato realmente un coniglio per evitare e scansare paure e problemi e mi sono messo a bere, o lo sono diventato perché codardo e vigliacco?...Non so perché le sto dicendo queste cose, ma sento
che con lei possa, tra l’altro anche aprirmi. E adesso è come se mi sentissi meglio.” Ammise Ettore. “Lei continui a porsi domande, forse troverà una risposta per tutte…Adesso mi scusi, devo andare.” Lo salutò Allegra con un bacio sulla guancia. “La rivedrò?” “E chi lo sa: il mondo può essere tanto grande quanto piccolo…” Disse Allegra avviandosi verso l’uscita. Non ebbe il tempo di voltarsi che un ghigno malefico gli si piantò davanti. “Chi era quella puttanella con la quale hai ballato e parlato un bel pò?” gli domandò Fraschetta con un espressione contorta e contrariata. Ettore fece spallucce. “Una di aggio” “Allora Ettore è bene mettere le carte in tavola sin da subito…E’ vero, è grazie a me che sei fuori, e non per quella stupida trattativa con l’umano, se vi parteciperai capirai anche perché. Forse la memoria ti ha giocato brutti scherzi e a forza di bere anche parecchi Neuroni. Ho puntato molto su di te, e come amante e come assistente ai miei affari. Per stasera farò finta di non aver visto niente, ma non ci ricascare, te ne potresti pentire!” Lo minacciò Fraschetta. La rabbia di Ettore diventò incontenibile. “Stammi a sentire tu, puttanella da quattro soldi: io non dipendo da nessuno e tanto meno nessuna, e c’è ancora qualcosa di cui dobbiamo discutere…Tu, la tua foga da troia e probabilmente i tuoi loschi affari con i quali avrò direttamente a che fare…Tutto mi si sta presentando esattamente come quando conobbi Livia, la Fraschetta bestia e umana…” “Abbassa il tono della voce o usciamo fuori…” “Usciamo allora…Signora di stì cazzi! “ La invitò Ettore. Però una volta fuori, l’aggressività di Fraschetta sembrò d’improvviso scomparire. “Non volevo, non volevo…Esser così dura con te; io di te sono innamorata e mai
potrei farti del male. E’ successo tutto quando ti ho visto ballare con quella coniglia e sono gelosa di te, questo almeno lo puoi capire?” disse in toni supplichevoli. Ettore non parlava. Si limitava a guardarla e cercare di ricordare cosa quella coniglia o donna che sia stata, le aveva fatto are quand’era ancora un essere umano. Adesso cominciava ad avere delle certezze, non che i dubbi si dissiero, c’era ancora quella cortina di misteri… Rientrarono nel locale dopo un apparente riappacificazione, anche se Ettore restava muto e freddo. Cominciarono a volteggiare insieme agli altri e la coniglia, felice, si lasciava trasportare come una piuma, facendo svolazzare la sua gonna bordeaux. “Sai, domani sono sola in casa, perché non vieni a prendere un caffé da me,” disse sbattendo le ciglia ripetutamente. “Poi potrai andare a quell’incontro con l’umano.” “Vi state proprio umanizzando: bevete anche il caffè! “ commentò Ettore meravigliato. “Sai a forza di succhi e carote, erbe varie…Sempre la stessa minestra. Anche a me piace bere gli alcolici, però mai la mattina, alla sera si. “Io, in tutte le ore, dipende come sto di umore, con chi sto, dove sto, cioè quasi sempre.” “Me ne sono accorta, e lo reggi anche bene, fin tanto che il tuo fegato non farà le bizze. Ettore non raccolse e ignorò l’ammonizione. “Allora, ti aspetto per domani?” chiese Fraschetta quasi pregandolo. “Non farei in tempo..E questo tu lo sai ma continui a far finta di niente, perché?” “Porterò pazienza,” -fece sospirando la coniglia: “l’attesa rende tutto più bello.” Commentò.
Era notte inoltrata quando uscì dal locale. Le carrette-taxi erano parcheggiate in bella fila in attesa dei clienti; lumicini protetti da vetro decorato proteggevano la luce delle candele dalla lieve brezza, rischiarando così tutta l’area prospiciente il ‘Vecchia Radura’. Ettore saltò sul primo della fila. “Gufolandia…” Annunciò al tassista. Le carrette-taxi erano organizzate per pariglie, quadriglie e sestiglie di ratti: dipendeva dal peso del cliente: Un topo-capo sedeva a cassetta impartendo gli ordini. Si sentiva bene. Dopo quel periodo di semi astinenza, l’alcol ingerito quella sera non l’aveva reso completamente ubriaco, ma datogli quel senso di tenuità leggera e piacevole. Il sentiero che il mezzo percorreva era deserto, e solo il canto di pochi uccelli mattinieri rompeva quel silenzio e quella pace naturale. Arrivato a casa, si tolse la giacca, allentò la cravatta e si sedette in poltrona. Non aveva sonno e forse –pensò –un buon libro l’avrebbe aiutato. L’imprenditore De Pollis fu puntuale. La carretta blu, questa volta era trainata da Argo San Bernardo, visto il peso di tutti gli occupanti: Il ministro Noc-ciola all’ultimo momento si era ritirato ma con tutta la falsità di cui era capace; stava organizzando il suo viaggio a Rublandia, la contea dove il permissivismo fiscale avrebbe fatto arrossire il più onesto degli evasori; c’era Gianselmo castoro, osservatore, mandato dal ministro Axa; alfine Ettore che sedeva vicino a De Pollis; Bichelunzo, topo muschiato, navigatore e segretario dell’imprenditore. La carretta blu partì. “Abbiamo tempo lungo il tragitto di fare due chiacchiere.” Disse la bestia affarista rivolgendosi a Ettore. “Come lei sa è la prima volta che ci avventuriamo in questa impresa, e non le nascondo con qualche preoccupazione. Gli esseri umani sono avidi e cercheranno di trarne il massimo profitto, se concludiamo con loro un affare…Ma noi che non siamo come loro, chiederemo di riconoscerci il giusto, considerando le ore lavoro e qualità della merce.” Spiegò il pennuto. “Naturalmente molto dipenderà da lei nel tradurre esattamente quel che dirò io, e interpretare esattamente cosa risponderà l’altro. Si sente sicuro dell’incarico del quale l’ho investita?” domandò il Gallo. “Sicurissimo dottor De Pollis. Si fidi, andrà tutto bene.” Lo rassicurò il coniglio.
“Bene, condivido il suo ottimismo. Ma mi dica una cosa, lei che ha imparato il linguaggio degli umani, avrà anche assorbito qualche loro abitudine…” “Béh, è vero che so parlare come loro, e so anche di certe consuetudini…” “E’ vero che producono molta carta?” chiese De Pollis. “Moltissima: ci nuotano dentro.” Poi sorridendo e aggiustando i suoi occhiali pince-nez sul becco… “Ma è anche vero che producono rotoli di carta per pulirsi il… “Oh si, anche quelli.” Rispose Ettore. “Ooh…Ooh…” Rise il Gallo “Che strani animali!” “Già, proprio strani.” Consentì Ettore alzando gli occhi al cielo. La carretta dell’affarista seguì lo sterrato parallelo dietro al guarda-rail, e giunsero al 24° chilometro dell’Aurelia, un uomo li stava aspettando. Un moto di reale stupore facevano frenare di colpo gli automobilisti che, ando sull’Aurelia, assistevano sconcertati a quello strano gruppo di bestiole trainate da un cane. Perplesso, l’uomo si avvicinò a quel eterogeneo e stravagante corteo di animali. “Come si salutano gli umani?” chiese in fretta De Pollis. “Lasci fare a me: durante la mia permanenza con loro ho padroneggiato anche qualcosa di questo. Ed è bene usare un linguaggio appropriato: questo è un villico, un ignorante e non dobbiamo lasciarci intimorire: non perché siamo bestie ci devono mettere i loro piedi in testa.” Spiegò Ettore. “Sono d’accordo con lei.” Concordò De Pollis. Il coniglio si schiarì la voce: “Salute a te, pezzo di merda, come sta quella gran vacca di tua madre…?” Il povero contadino sentendo parlare la bestia e su quei toni, fece un salto all’indietro. “Ma, ma allora è vero che parlate…E’ come parlate!” rispose con una brutta smorfia. “Comunque, la mia casa è laggiù,” fece indicando un casolare poco
lontano. “Vogliamo andare?” “Certo, ci faccia strada.” Gli rispose Ettore. “Ha gradito i nostri saluti? “chiese De Pollis. “Certo, ne era entusiasta.” “Emma, Emma…” Chiamò il contadino. “Affacciati alla porta, le bestie che parlano sono arrivate…” Una donna si spinse oltre l’uscio: un metro e venti di altezza, un metro di circonferenza. “Venite, venite,” urlò. “E’ tutto pronto: da bere e da mangiare.” Prima di entrare nella casa del contadino, Ettore notò quattro gabbie dove erano rinchiusi altrettanti conigli. “Quelli ve li mangiate?” interrogò a muso duro. Il villico rifletté un attimo, tanto stupido non era: “Ma no, ma no. Quelli sono di compagnia:sono in gabbia perché mia moglie stava pulendo la casa.” Entrarono. Il casolare era su due livelli, a piano terra il soggiorno. “Ettore sedette su una poltrona, De Pollis e anche Gianselmo su un piccolo divano. Moglie e marito fronte a loro su due sedie. “Dunque, parlatemi di voi: chi siete, da dove venite, cosa fate e cosa proponete.” “Io, sono Ettore, e farò da interprete,” poi indicando il pollo, imitando in modo quasi perfetto la tonalità di Alfred Hichicock quando presentava i suoi gialli in televisione “questi è l’affarista che vorrebbe proporle la sua mercanzia, il castoro si chiama Gianselmo ed è qui come osservatore…” Oltre a questo spiegò come era formata la loro piccola comunità, le Istituzioni, i servizi creati per gli abitanti, la creazione di un Codice Penale e della prigione. “Avete anche una prigione?” si stupì il contadino. Ettore assunse un aria di sufficienza. “Come da voi anche da noi abbiamo i nostri
delinquenti…Ma lei, come si chiama?” domandò Ettore. “Ah, scusate, non mi sono ancora presentato. Io sono Ernesto, e questa è mia moglie Emma.” “Abbiamo preparato qualcosina da bere e mangiare.” Disse la donna, “scusatemi pochi minuti, ritorno subito.” Aggiunse dirigendosi nella cucina. “Da quel che mi sembra di capire, solo lei, cioè, tu parli la nostra lingua.” “Si, solo io: mi è stato chiesto apposta di venire per fare da interprete.” Confermò il coniglio. “E’ dove hai imparato il nostro linguaggio?” domandò incuriosito Ernesto. “Anch’io ero un coniglio di compagnia…” “Capisco. Mia moglie ha preparato dei panini con carne e altri con vegetali, succhi di arancia, se li bevete, o altrimenti acqua.” “No, no,” si affrettò a dire Ettore, “noi, indistintamente, carnivori o meno, siamo tutti vegetariani… “Ah! Si, certamente…Immagino per non mangiarvi tra di voi.” “Esattamente. Quanto al bere a questi deficienti porterà dell’acqua, per me, se ne ha in casa una Vodka.” Pregò educatamente Ettore. “Una Vodka! Tu bevi Vodka a quest’ora del mattino?” “Si, se non ti dispiace.” “No, niente affatto, ma dico…Sei un coniglio di vita!” “Ho fatto le mie esperienze. E l’acqua mi fa schifo.” Si espresse Ettore con una boccaccia. “Dimmi dei tuoi amici…” Chiese Ernesto. “E perché li chiami ‘deficienti’.” Continuando imperterrito con la tonalità di voce del noto scrittore…”Questi quaquaraquà si sono messi in testa di copiare le abitudini degli umani e siccome
non voglio storie di alcun genere perché ne ho già per conto mio, le dirò subito che: le uova che tratta il pennuto sono quasi pulcini e quelle che non schiudono sono fraciche; il latte che produce la vacca è acido, quanto alle noccioline si son ‘date’ con il padrone. “Di cosa state parlando?” si agitò impaziente il Gallo.” “Vi sto presentando,” rispose Ettore, “nome e vostra funzione. Cos’è Gufolandia.” Nel frattempo arrivò Emma con bevande e panini. “Emma fa la cortesia,” disse Ernesto, “porta indietro i panini con la carne: questi nostri ospiti sono tutti vegetariani, e dammi una Vodka per il nostro amico coniglio, anzi, porta direttamente la bottiglia. La donna un po’ stupita, riportò il vassoio in cucina. -Che strane bestie.- Pensò. “Allora, mi sono disturbato per niente!” si lamentò Ernesto. “Consideri signor Ernesto che oltre ad essere dei truffatori stanno anche rovinando l’ambiente a loro assegnato dallo stato… Ernesto era perplesso. Nel frattempo arrivarono i panini, l’acqua e la Vodka per Ettore. La trangugiò d’un fiato e se ne riempì un altro bicchiere. “Ma dimmi una cosa,” chiese l’uomo “tu che ci fai in mezzo a loro?” “Io? Io sono uno scherzo della natura, difficile da accettare, ancora di più spiegarlo.” “Capisco…O forse no.” Fece Ernesto grattandosi il mento. “Poi c’è un alta cosa che le devo dire signor Ernesto…” Riprese Ettore continuando a bere. “Vede quel delinquente di un pennuto che si da tante arie con quei suoi occhialini sul becco? Beh, ne rimarrà stupito anche lei, ma se si arrivasse a un accordo, sempre per una lontana ipotesi, è così pieno di sé e delle umane consuetudini che non esiterebbe da subito a chiedervi pizzi e tangenti.” “Ah si?”
“Si signor Ernesto, proprio così.” Rispose soddisfatto Ettore. Il Gallo di affari d’affari, parlò in ‘crash’ dicendo esattamente ciò che lui desiderava vendere, in che consistenza; poi ò alla produzione giornaliera di uova, circa venti. E attese la traduzione. Ettore spiegò al pollo che erano arrivati ai prezzi e che l’umano chiedeva a quanto gli avremmo ceduto la mercanzia. “Non fissiamo un prezzo,” disse De Pollis, “vediamo lui quanto ci offre.” “Il dottor De Pollis chiede quante Tangenti saresti disposto a offrire.” Chiese Ettore. Ernesto inclinò la testa a sinistra, la moglie, a destra. “Soddisferò subito la sua richiesta…Emma, vammi a prendere il fucile.” “Si, insomma quante Tangenti per le uova.” Specificò Ettore. Mentre Ernesto inveiva e si agitava, Ettore coniglio ebbe una veloce, stringata e minuta conversazione con il gallo di affari. “Va bene dottor De Pollis… senz’altro… non si preoccupi, lo calmo io…” “Signor Ernesto, la prego…Forse abbiamo esagerato con il prezzo, potremo parlare di ‘pizzo’ che è l’unità minima… “Emma!” si alzò in piedi il contadino, “arrivi con quel fucile?!” “Dottor De Pollis, è meglio se ce la filiamo e anche presto: questo è impazzito.” Di corsa e a rotta di collo si avvicinarono alla loro carretta, sentendo già i primi spari che gli fischiavano fra le orecchie. E Argo, allarmato, questa volta diede il meglio di sé per lasciarsi alle spalle la pioggia di pallini che arrivavano in ogni direzione. Ernesto, abbassando il fucile, rientrò a casa. “Ma guarda che razza di animali!” confidò alla moglie. “Non ci avrei creduto se non lo avessi sentito con le mie orecchie.” Ammise.
“Certo, che bisogna dire qualcosa in loro favore: che hanno fatto presto a civilizzarsi!” osservò sua moglie. “Emma, non ti ci mettere pure tu!” rispose Ernesto sbragandosi sul divano, doppietta alla mano, ancore incredulo. Argo correva come un pazzo trainando la carretta a tutta velocità. Una volta raggiunta la necessaria distanza fra loro e quell’imprevisto pericolo il Gallo De Pollis espresse tutto il suo risentimento. “Ma cosa cazzo gli hai detto?” urlò adirato nei confronti di Ettore. -Si comincia bene, -pensò Ettore, -adesso è finita con il ‘lei’ e siamo ati direttamente al ‘tu’. “Quello che lei mi ha detto dottor De Pollis: non una sillaba in più né una sillaba in meno.” Anche se adesso collegando poche parole di Fraschetta e ritrovata la memoria a riguardo della sera precedente: ’E se parteciperai alla riunione capirai anche perché… poteva ben accettare la reazione del contadino: era legittima; la sola differenza è che lui aveva aggiunto del suo e il De Pollis inviato come vittima sacrificale…-Ma tutto questo perché? –si chiese cercando di capire. “E allora, perché si è così incavolato tanto da spararci addosso.” Continuò a inveire il Gallo. “Non glielo so dire.” Rispose Ettore alzando le spalle. “Ma mi dica una cosa dottor De Pollis,” interrogò Ettore, “fin tanto che Tangenti e pizzi non escono dalla nostra comunità tutto va bene, ma a lei chi le ha detto che questa moneta è in uso presso gli umani? Domandò. “La missiva mi è arrivata sotto forma anonima da una bestia che si è firmata in crash.” “Domani dovrò riferire in parlamento, consultarmi con i miei amici di affari e dare loro la notizia di questo fallimento, e saranno guai: loro contavano su di me per aprirgli una strada, invece glielo definitivamente chiusa.” Lamentò deluso il gallo. “Ma lei, “ interloquì Gianselmo, “ ha fatto il suo dovere. Lo sa che gli umani sono bizzarri.”
“Bizzarri o meno, per me può diventare una denuncia. Non è tanto il mancato investimento, quanto il prestigio e la moralità della nostra contea che verrà irrimediabilmente compromesso e per questo, si va sul penale.” Rispose sconsolato il pollo. Ettore, non pensò minimamente al delicato frangente e con tutta la schiettezza che gli era consona, approfittò per reclamare le sue aspettative. “Dottor De Pollis… a riguardo del mio compenso, desidero riceverlo in contanti, se non le dispiace.” Il pennuto si volse serio e con una occhiata sanguigna rispose: “Tu, tu, bestia indegna e portatore di guai, essere pervertito, fonte di sciagure, osi chiedermi un compenso?” disse a becco stretto. “Ma sei fortunato che sono una gentil-bestia e che non ti denudo all’istante dell’abito che ti ho fatto confezionare, e che non ti faccia rientrare a casa sulle tue zampe!...” “Ma pensa te, anche un compenso!” Arrivati all’altezza di casa sua, Ettore scese. “Arrivederla dottor De Pollis, mi stia bene.” “Macché arrivederla, a non più rivederti, melagramo di un melagramo.” Il coniglio osservò la carretta allontanarsi. “Ma vattelà pijar n’der secchio!” inveì facendogli un gestaccio. Prima di entrare in casa, una porzione di bianco nella cassetta delle lettere attirò la sua attenzione. Dentro c’era una busta, l’intestazione era quella della rivista “Bestial Express. Senza nemmeno chiudere la porta dell’ingresso, l’aprì. Una piccola emozione cresceva e divenne più grande quando si accorse che allegata alla lettera c’era anche un assegno di 500 Tangenti. La missiva diceva:
“Egregio signor Ettore, La nostra redazione ha molto apprezzato il suo racconto e ha deciso di renderlo Pubblico nella ventisettesima settimana di quest’anno. La invitiamo a recarsi nei
nostri uffici e prendere contatto con il nostro direttore , dottor Cavalier Testampe castoro, per pianificare insieme a Lei una serie di racconti sugli umani a cadenza quindicinale. Ci rallegriamo altresì per la spontaneità della sua storia e che ci illumina sul mondo degli umani, a noi ancora sconosciuto. Nel ringraziarLa ci é gradita l’occasione per distintamente salutarLa.”
Ettore cominciò a saltare di gioia sul divano, sulle poltroncine, era diventato euforico. Ma si calmò subito. Ripresosi dalla buona novella, si versò da bere. Ma le sue scorte di alcolici stavano terminando, per cui decise di fare una corsa al supermercato che faceva orario continuato. All’ipermercato incontrò Gianselmo che notò con molta disapprovazione quel che lui aveva nel suo carrello. “Ma bevi solo quella robaccia?” gli chiese indicando le sei bottiglie di Vodka. “Si, e adesso della migliore.” “Cosa hai combinato? Hai rapinato una banca, o che…Tu ne saresti capace.” “Nessuna rapina o qualsiasi cosa il tuo cervello contorto abbia immaginato. Lavoro, solo lavoro.” Disse mostrandogli la lettera ricevuta dal settimanale. Gianselmo castoro, lesse interessato. “Però! Vedi che quando ti ci metti diventi…A parte quelle,” disse nuovamente indicando le bottiglie, “tutt’altra bestia?” “A me piace scrivere Gianselmo. E’ vero che con l’alcol abbia sminuito queste mie possibilità, ma scrivere non è: ‘Adesso mi metto a scrivere, e lo fai…’ Scrivere è un momento particolare, un input di sensazioni, emozioni, stati d’animo, introspezioni…A me mi fanno ridere quelli che affermano –a meno che non abbiano tutta l’opera stampata in testa ‘io ogni giorno scrivo…’ Sai per quanti giorni guardavo un foglio bianco senza essere capace di vergare un rigo?
Scrivere è viscerale, è trascinare chi ti legge in un vortice di turbamento tale che il lettore non molla il libro fino a quando non lo ha terminato. E io non ho questa presunzione. Sono pochi gli scrittori che riescono ad inchiodarti in poltrona e a farti alzare solo quando la tua storia l’hanno finita.” Spiegò Ettore con enfasi. “Te ne intendi più di me, e mi piace questo tuo nuovo inizio…Diciamo professionale. Cerca soltanto che quella cosa lì, non abbia la meglio su di te.” Indicando questa volta e toccando una delle bottiglie. “Ci proverò.” Rispose Ettore. ” Ma mentalmente senza impegno.” Al crepuscolo, quando ormai tutte le bestie erano rincasate, tirato le loro tendine a quadretti rossi e bianchi delle finestre, il camino, preparandosi per la cena, un losco figuro, vestito di nero, dall’aria guardinga, si incontrò furtivamente con il suo autista. “Ha predisposto le carrette? “domandò. “Si, signore. Appena farà buio saranno davanti al deposito per caricare la merce.” “Bene. Io vi raggiungerò quando avrete terminato, adesso vai.” Allo scoiattolo Noc-ciola dispiaceva lasciare la contea, ma le ripercussioni per non aver ottemperato agli ordini del Presidente di Contea, avrebbero influito sul suo mercato; inoltre, sapeva cosa di lì a pochi giorni sarebbe accaduto: altro che pizzi e tangenti, una vera catastrofe si sarebbe abbattuta su Gufolandia e lui non voleva nulla a che farci; cercare di costituire un economia nella loro Contea era un conto, ma far decadere un Presidente era un altro. E per la giustizia, a titolo cautelativo, gli avrebbero sequestrato tutta la sua produzione di nocciole, più la multa da pagare per condotta immorale. Per questo aveva organizzato una colonna di cinque robuste carrette e trasferire così i suoi valori all’estero, nella Contea di Rublandia e che non concedeva estradizione, paradiso degli imprenditori e affaristi malonesti. Ma come il caso fa bene certe cose, dall’altra, le distrugge. Ettore si svegliò sul tardi, l’ora di cena ata da un pezzo. Si sciacquò il muso, si mise alcune gocce del suo profumo preferito Brakkar nero e indossò il suo
abito blu di cachemire. Soffriva ancora di una sensazione di rimbambimento, ma aprendo la porta di casa, l’aria fresca della sera lo fece sentire subito meglio. Doveva festeggiare il lieto evento e per farlo non c’era cosa migliore da fare che andarsene al Vecchia Radura. Ma quando giunse alla stazione dei taxi-carretta, notò con sua amara sorpresa che non ce n’era neanche uno, e la cosa era insolita: proprio a quell’ora nessuno a Gufolandia aveva bisogno del taxi e gli autisti rimanevano, perlo meno quelli notturni per non mancare l’occasione di trasportare un forestiero o un rappresentante di aggio. -D’altronde, -pensava, -non è che tre chilometri lo impensierissero, ma tutto ciò era stranamente strano. Il movimento di una carretta un po’ più lontano, lo insospettì. Si nascose dietro una pianta e osservò. Alla guida del mezzo, c’era l’imprenditore De Pollis e cosa ancor più strana, vicino a lui sedeva qualcosa che gli ricordava vagamente uno della sua razza, se non altro per la piccola parte di orecchie che fuoriuscivano da un foulard, il resto del corpo era completamente coperto da una tunica nera. Si avvicinò un po’ di più e origliò. “La trattativa è andata come aveva previsto signora. La informò il gallo. “Molto bene, tra non molto Gufolandia non avrà più un Presidente.” Affermò la bestia.” “Ma Ettore coniglio?” interrogò De Pollis, “lui non c’entra niente…” “Ettore coniglio mi serviva per dare credibilità alla trattativa.” Rispose lo sconosciuto. “E ad ogni modo ho previsto la sua eventuale difesa.” “Ma alla mia di difesa, ci ha pensato?” chiese preoccupato il gallo. “Ho previsto tutto: è in una botte di ferro. Adesso vada, io devo tornare al ‘Vecchia Radura’.” Prendendo vie traverse, per non incappare in posti di blocco –non si fidava per niente di Axa la volpe che senz’altro era stata già informata della fuga dello scoiattolo noc-ciola -arrivò a Coni’s I’slan’d senza problemi. Il Vecchia Radura era già affollato. Gli avventori occupavano tutti i posti a sedere e molti di questi consumavano i loro drink in piedi, discorrendo animatamente. Sembrava che la notizia della fallita trattativa con l’umano avesse varcato tutti i confini limitrofi, battendo sul tempo i giornali. Che un imprenditore di cui non si faceva ancora il nome avesse mal interpretato le
condizioni dei prezzi proposti, e che un anonimo coniglio che conosceva il linguaggio degli umani, avesse tradotto non esattamente, i propositi della bestia di affari e che tutti e due erano ricercati dalla polizia. Fraschetta, appena lo vide gli andò incontro. “Cosa è successo Ettore? Asdrubale ed io eravamo in pensiero per te. Vieni vicino alla cassa, soltanto io e mio marito sappiamo che tu eri l’interprete; qui non temi niente, sei fuori giurisdizione, ma se i clienti verrebbero a sapere che sei tu l’interprete, non ti mollerebbero più e non né finiresti con le domande, i ‘perché’ e i ‘per come’. “Ah Ettore!” lo salutò Asdrubale, “giornata focosa eh?” “Abbastanza…” “Le faccio servire qualcosa per spegnerla?” “Un ‘Fuoco di Russia’, grazie.” Fraschetta si fece servire un Whiskey e mentre il marito dava ascolto a un cliente, Ettore gli parlò della buona notizia. “Stamattina, dopo l’infausto incontro con l’umano, al ritorno ho trovato questa nella cassetta delle lettere.” Gli disse mostrandogli la lettera. Lei, lesse velocemente, poi guardando Ettore esclamò: “E’ magnifico, Ettore, sono fiera di te!” “Quindi, questo giro ve lo offro io.” Propose inorgoglito il coniglio senza però dimenticare che c’erano molte domande alle quali si aspettava altrettante risposte. “A mio marito, glielo diciamo dopo, quando chiudiamo…Però se la polizia ti sta cercando, non puoi ritornare a Gufolandia, ti prenderebbero subito. Per loro potresti essere un ‘caprio espiatorio’.” Azzardò Fraschetta. “Io non ho fatto altro che tradurre ciò che mi è stato detto, non è colpa mia se quello è andato su tutte le furie mandando a monte il negoziato.” Si difese Ettore. “E poi mi sa tanto che ce ne sarà più di uno di caprio espiatorio…” “Ma questo lo sappiamo io, te, e Asdrubale, lo sai che la giustizia di quella
contea ce l’ha a morte con te, e che sei fuori con la condizionale, considerò Fraschetta, ben sapendo che tutta la sceneggiata doveva essere recitata al dettaglio e nei minimi particolari, e più che mai nei confronti di Ettore. “No!” la corresse Ettore, “ o sono fuori per il volere di qualcuno o…qualcuna che ha in mente un piano ben congeniato.” “Non credi di viaggiare un po’ con la tua fantasia di scrittore e che stai vedendo oscure trame dappertutto?...Resta qui stanotte, sei al sicuro, non possono intervenire in un altra Contea.” “Se io restassi a Coni’s I’sland’s sarebbe per loro come un atto di fuga, un mio riconoscimento di colpevolezza, mentre rincasando e non allontanandomi dalla mia residenza giocherà in mio favore nel caso dovessero accusarmi di qualsiasi imputazione.” “Ma allora non riuscirò a vederti nemmeno domani…” Si lamentò Fraschetta. “Abbi un po’ di pazienza e che io possa normalizzare la mia posizione, poi con te faremo i conti dopo…” disse Ettore tra il serio e il faceto. “E ti dedicherò tutto il tempo che vorrai e…Perché anche io lo desidero ardentemente.” Era ormai ora di chiusura quando l’ultimo cliente, seduto a un tavolino, con l’espressione di chi a casa non voleva ancora tornarci: cravatta allentata, le zampe sul tavolino, gli occhi lucidi e senz’altro presosi una bella sbornia. Asdrubale era paziente, ma quello proprio non si muoveva, e allora gli andò vicino per sollecitarlo. “Andiamo, per cortesia, stiamo chiudendo.” Gli disse educatamene “E non si accenda l’ultima sigaretta con la scusa che è l’ultima.” Finalmente, barcollando sulle zampe, ebbe la forza di alzarsi e andarsene. Chiusi i conti in cassa, Asdrubale tirò la saracinesca. Insieme con Fraschetta si avviarono verso casa, Ettore, salutandoli, rimase un attimo sulla piazzetta a pensare, perché anche lì, al parcheggio dei taxi, non ce n’era nemmeno uno. Si guardò attorno e gli parve che tutto fosse tranquillo, deciso a rientrare a Gufolandia per non animare sospetti di fuga, con lunghe zampate cominciò a percorrere lo sterrato che lo avrebbe portato a casa.
Aveva fatto una decina di metri quando quattro castori in tenuta nera con la sigla sui giubbotti del . C.N.O.I. Castori Nucleo Operativo Investigativo), formato solo da castori, gli furono addosso e lo immobilizzarono con gli elastici elasticizzati. Anche se Ettore si dibatteva come un forsennato perché sapeva da dove venivano e che erano fuori giurisdizione, nessuno poteva sentire le sue invocazioni di aiuto: gli avevano tappato la bocca con il nastro isolante adesivo. In origine non sapevano cosa era quel nastro, poi impiegandolo, si accorsero della sua adesività. Caricarono Ettore su una carretta speciale e nel silenzio della notte lo portarono via. Dall’altra parte di Gufolandia, una scena obbrobriosa e analoga si stava compiendo. La volpe Axa, nella sua furia castigatrice, aveva imputato immediatamente a Ettore coniglio il fallimento della trattativa con l’umano, e pensato anche che l’affarista Noc-ciola non era del tutto in buona fede, poi con gli informatori, si sa sempre tutto, per cui aveva decretato l’arresto di entrambi, compreso il gallo De Pollis, e affidato l’incarico al C.N.O.I. e l’operazione seguita direttamente dal ministro Axa e quello degli interni Adonea colomba. In tutta questa procedura si era servita delle testimonianze di Gianselmo castoro, il quale, non poteva riferire del dialogo tra Ettore e l’umano, ma senz’altro descrivere le reazioni di quest’ultimo. Axa, aveva pensato anche di convocare Argo, il San Bernardo, ma sapeva in partenza che non avrebbe detto nulla che potesse servire per una testimonianza di accusa. Il convoglio di carrette dello scoiattolo Noc-ciola aveva appena varcato i confini di Gufolondia, quindi si trovava ancora in territorio neutro. Chiudeva la colonna, l’auto-carretta dell’imprenditore. All’improvviso, quando l’ex ministro dell’economia cominciava a sentirsi al sicuro con i suoi capitali, vennero affiancati da due lati dagli agenti del C.N.O.I., due per ogni carretta, immobilizzati e messi in condizione di non poter scappare. Fece l’apparizione il ministro degli interni Adonea colomba, dietro a lei Axa la volpe. “Leggigli i suoi diritti,” disse al capo dell’operazione ‘natura sicura’.
“Puoi squittire in silenzio o non squittire affatto. Ogni squittio che emetterai potrà essere usato contro di te. Hai diritto di avvalerti di un avvocato, se non né hai i mezzi, la contea te ne assegnerà uno di ufficio. Portatelo via. Concluse il comandante. “Bestie! Non né avete il diritto…Sono un ministro della contea e ho l’immunità parlamentare.” Si difese lo scoiattolo. “Se ricorda bene ministro,” intervenne Axa, “l’abbiamo abolita da un pezzo.” Deluso, amareggiato e sconfitto, Noc-ciola non emise più un suono. Quello che lo metteva in ansia e gli dava una tremenda angoscia, era fare il suo ingresso alla Fortezza del Pensiero e, magari come aveva preventivato, anzi sicuramente accaduto, trovarsi gomito a gomito con quel vomitevole coniglio.
FRASCHETTA
Ettore coniglio, attraverso lo spioncino scrutava i ballatoi. Tutto era silenzio a quell’ora: i detenuti a dormire,le guardie a riposare sulle loro brandine. Non osava chiamare Gianselmo, anche se questa volta non aveva nulla di cui rimproverarsi. Lui, aveva la doppia facoltà di possedere due istinti: quello razionale, della ragione e che fino a prova contraria apparteneva agli umani; poi poteva contare anche su quello animalesco, più grossolano forse, ma ben indicato per intuire con largo anticipo gli eventi che dovevano accadere. E lui percepiva chi d’altro, stavano portando alla Fortezza. Quando udì il comandante uscire dal suo ufficio con un enorme mazzo di chiavi si preparò anche lui a salutarlo convenientemente. Per la sfortuna dello scoiattolo Noc-ciola, si ritrovò alla cella 10; ad Ettore avevano dato per la seconda volta la 8. Questa quasi contiguità territoriale, aveva del comico: da una parte il menefreghismo, il disprezzo della regola, l’irresponsabilità. Dall’altra l’inconsapevolezza, l’ignoranza e la certezza di aver fatto le cose per bene. Ma la personalità di Gianselmo castoro era questa e nulla potevi fare per cambiargliela. “Dottor Noc-ciola,” -chiamò Ettore. Silenzio. “Signor ministro…Hei, mezze-maniche…” Insistette il coniglio. “Cosa vuoi avanzo di galera!” rispose alfine lo scoiattolo, pur di farlo tacere. “Guardi, che io in galera ci sono stato, ma mai come avanzo, ma come pezzo intero! Soldo di cacio.” “Voi due,” intervenne Gianselmo castoro, “niente conversazioni da cella a cella. E dormite, domani vi aspetta una dura giornata.” Li avvertì rientrando nella sua stanza nel suo box.
Lo scoiattolo sedette tristemente sul suo sgabello. Lui, non era mai stato un vero politico, non né aveva la stoffa. Aveva accettato l’incarico perché la sua posizione gli permetteva di mettere le zampe in pasta un po’ in tutti i settori dell’economia di Gufolandia. Ammetteva di aver fatto impicci e imbrogli per illeciti profitti, ma tutte le bestie che conosceva nell’ambito del commercio, facevano lo stesso. Addirittura, in epoche più remote ci fu un giudice coraggioso che aveva scoperto il baratto clandestino di merci scadute, come latte e uova. Ma era stato messo a tacere perché allora i tempi non erano maturi per scoprire il marcio del loro sistema economico. Adesso che la giustizia si era alleata con la politica, avevano necessità di un caprio espiatorio, e lui faceva al caso loro. Nello stesso tempo si chiedeva perché l’affarista De Pollis, anche lui fallimentare nella trattativa, non fosse stato riservato lo stesso trattamento. Quando Fraschetta venne a sapere dell’arresto di Ettore si recò dal magistrato di sorveglianza che, seppur dipendeva dalle volontà di Axa la volpe, era un suo carissimo amico, una piccola ione ormai remota. “Mi potresti firmare un permesso per andare a far visita a Ettore coniglio?” Domandò. “Cosa c’è tra voi due? Del tenero?” le chiese. Fraschetta non rispose ma sorrise maliziosamente. “Non essendoci un grado di parentela te ne firmo uno a titolo di ‘sostegno morale’.” Acconsentì Pisciotto leprotto. “Grazie.” Lo salutò baciandolo sulla guancia e si affrettò sulla piazza delle auto pubbliche. Ella, prendendo un taxi-carretta, si recò subito alla Fortezza. La guardia all’ingresso le guardò nella borsa; la guardia castorina le fece la perquisizione corporale. Sbrigate le antipatiche formalità venne accompagnata in parlatorio, laddove era già stata tante volte. Quando lo vide arrivare, se ne sorprese. Il muso non quello che esprimeva il dolore da carcerato, ma i tratti erano rilassati, e sorrideva. “Come stai?” gli chiese subito. “Considerando il posto,” rispose facendo spallucce, “non male, e poi comincio a
conoscerlo e a conoscerli, e so anche che questa volta non possono accusarmi di niente.” Spiegò. “Quando stamattina non ti ho visto arrivare, mi sono subito preoccupata, e a ragion veduta.” “Questa volta l’hanno fatta grossa. Subito dopo che avevate chiuso il locale, mi sono saltati addosso e mi hanno portato qui direttamente.” “Per l’appunto.” Concordò Fraschetta. “ Cos’è quella busta,” domandò notando il voluminoso involucro. “E’ un'altra storia sugli umani, non avevo sonno e l’ho scritta stanotte.” “Interessante.” Disse Fraschetta. “Io non ti ho mai chiesto niente, e non ho nemmeno ancora letto quella che devono pubblicare…Ma da dove trai la fonte ispiratrice?” chiese. “L’ultima che ho scritto, quella di stanotte, è la storia di un umano che credeva di amare i maschi, ma che quasi alla sua mezza età scopre che gli piacciono molto di più le femmine.” “Ah!” esclamò Fraschetta, “una storia a lieto fine.” “Si, a lieto fine,” sospirò Ettore. “Ma questa non è fantasia, è realtà… Me la spedisci?” “Certo. Quando hanno intenzione di processarti?” “Dalle voci che ho sentito, in giornata. E’ un procedimento spinoso e credo vogliano procedere al più presto.” “Io ho preavvertito quel mio amico avvocato, gli manderò un messaggio appena esco e gli dirò di muoversi subito.” Lo rassicurò Fraschetta. “Senti, qui c’è una guardia che posso comprare,” le disse Ettore, “fammi il piacere, in casa mia c’è del contante: fai un versamento a nome di questo,” disse andole un bigliettino. “Lui sa cosa deve fare.” “Ma, è per cosa? Se posso…”
“Sarà lui a portarmi una bottiglia di Vodka al giorno, fin quando non uscirò da questo posto.” “Non credi dovresti metterti a regime?” lo ammonì Fraschetta, rimangiandosi subito quelle parole. Ettore la guardò con i suoi occhi gelidi: quello stesso sguardo di chi non deve permettersi di ammonirlo, di consigliarlo, di aiutarlo, in quel che bevevo e soprattutto quanto bevevo. Non disse più niente. Si alzò. La conversazione era finita. Il processo era stato fissato alle 15:00 di quello stesso giorno. Ettore non ne fu stupito e neanche lo scoiattolo Noc-ciola. Insieme e con riluttanza da parte dell’ex ministro per trovarsi elasticizzato fianco a fianco con il coniglio, raggiunsero la solita radura dove all’aperto si svolgevano i procedimenti di giustizia. Mai come quel giorno l’area era stata così affollata; addirittura c’era la presenza di due settimanali e un quotidiano locale, più i media della carta stampata venuti da contee limitrofe. La composizione del collegio giudicante era sempre la stessa. Gli astanti erano seduti sulle panche a gradini, come al solito allestite dai castori. Ormai per la popolazione di Gufolandia, Ettore era diventato il ‘debosciato’, nomignolo che non aveva messo mai a tacere, anzi, se ne faceva un vanto, sempre insultando e denigrando chi cercava di aiutarlo nella sua disgrazia. Gianselmo castoro, in piedi dietro al banco dei giudici, annunciò: “Silenzio in radura, entra la Corte.” Le bestie si alzarono in piedi. Dal capanno degli attrezzi da giardino, fece l’ingresso il presidente Riccardo lupo, togato, con due giri di rafia ascellari, che conferiva al medesimo la massima autorità giudiziaria; seguiva Axa la volpe con un giro di rafia ascellare; e dietro a loro i giudici a latere, Berto caprone e Guido Todadirti castoro, togati ma senza giri di rafia. “Oggi, nell’anno bestiale 23°, 31° settimana dell’umana specie, viene aperto il procedimento contro l’ex ministro dell’economia Noc-ciola scoiattolo, il suo autista Bichelunzo topo muschiato e Ettore coniglio, detto il ‘debosciato’ e Crestacchio De Pollis rei di…” “Obiezione vostro onore, “ si alzarono in piedi i due avvocati per la difesa di
Ettore. “Avvocati, per tutte le querce! Il processo non è ancora iniziato e voi avete già da obiettare?” brontolò stizzito Riccardo lupo. “Mi scusi signor presidente,” intervenne Melchiorre orso nano, altro amico di Fraschetta e secondo avvocato insieme a Guinzaldo. “Ma il nomignolo dato ad Ettore coniglio è frutto della fantasia popolare della vostra contea: ciò non toglie che questo incida negativamente durante il corso del procedimento, alla dignità del mio assistito.” Riccardo lupo si consultò rapidamente con i giudici a latere. Ci fu un bisbiglio e dalla platea si levò una voce stridula: “Questa volta non ti salverai dal rogo!” urlò Giuliva l’oca. Ettore la guardò e gli fece una pernacchia. “Silenzio!” ammonì il presidente. “Avvocati, dite al vostro cliente di tacere ed evitare certe espressioni lesive a questa onoratissima corte.” “Certo signor presidente, voglia scusarlo.” “Ettore…” disse sotto voce Guinzaldo gabbiano, “mi raccomando…” “Ma quella…” “Si, lo so. L’ho sentita anch’io ma faccia come se non ci fosse.” “In quanto al pubblico,” aggiunse Riccardo lupo, “ancora una di queste esternazioni e condurrò il processo in un aula chiusa. Si proceda annullando il soprannome di Ettore coniglio, e lo si indichi come in epigrafe. Pubblico ministero, a lei la parola.” La invitò. Axa la volpe si mosse cautamente da dietro al suo banco, però questa volta, la frenesia di iniziare subito con la sua sfilze di accuse, la tradì. Era sempre riuscita ad evitare, data la toga che gli scendeva fino alle caviglie e così con le gonne lunghe, che qualsiasi bestia potesse accorgersi del suo arto posticcio: aveva la zampa posteriore destra offesa, e questa volta tutti l’avevano notato. Come da
copione si tolse il ciuffo di peli che gli nascondeva l’occhio di vetro, e iniziò. “Signor presidente, giudici a latere, stimatissimo popolo bestiale di Gufolandia…Voi ben sapete quanto ci sia costato in termini di tempo, fatica e sudore, la buona immagine che abbiamo sempre dato della nostra contea, a parte una sola parentesi e che non voglio nemmeno citare, le altre comunità ci stimano, ci prendono ad esempio, si consigliano con noi. Noi, siamo padri di famiglia, donne di casa, figli educati e studiosi, bestie morigerate. Ecco ciò che siamo. E mai, dico mai, voi, miei concittadini e concittadine, vi siete ridotti negli stati vergognosi nei quali si riduce questa bestia!” fece puntando la zampa a indicare Ettore coniglio. “Ed egli,” proseguì Axa la volpe, “non pago del suo licenzioso comportamento, non riconoscente dell’opportunità che gli è stata data dal nostro presidente, fallisce in una importante missione. Ma allora, io mi chiedo e vi chiedo, se questa bestia beve come una spugna, se questa bestia vi dileggia nella vostra virtuosità, se egli è incapace di qualsiasi incarico venga investito, ma cosa vive a fare? Per disturbare, annientare e ridicolizzare la nostra contea. Come già chiesi una volta, ribadisco la mia ferma intenzione di condannare Ettore coniglio alla pena capitale!” dichiarò con voce stridula il pubblico ministero. “Ma non solo queste accuse, ben altro e attribuibile a questa immonda bestia.” Continuò imperterrita Axa. “Se questo elemento, si contentasse di ubriacarsi entro i nostri confini, potremmo condannarlo seguendo il codice di procedura penale di Gufolandia. Ma egli che fa?...Se ne va gironzolando per altre contee, bevendo e strabevendo, allungandosi sulle panchine quando il suo fisico non regge più, dando l’impressione ai cittadini di questa contea che noi esportiamo solo ‘barboni…’ “Obiezione vostro onore, “ si alzò in piedi Melchiorre orso. “Dica avvocato…” “Nelle accuse del pubblico ministero, ella fa riferimento a una contea che nemmeno vuole citare…Suppongo che sia la contea di Coni’s I’sland’s, poi invece si contraddice poiché dalle sue stesse parole, esporteremmo solo barboni…. Faccio presente signor presidente che questa comunità è già di per sé di facili costumi e dubbia moralità. Non vedo come il mio cliente possa esportare la vergogna in una contea già di per sé bollata come immorale.” Spiegò l’avvocato Melchiorre. “Eccellentissima osservazione, collega.” Si complimentò a bassa voce Guinzaldo
Gabbiano. “Obiezione accolta,” decise Riccardo lupo. “Bene!” fece stizzata la volpe “Allora, ci può spiegare, pur affermando di conoscere il linguaggio degli umani, non abbia saputo trarre profitto da questa sua presunzione? E come spiega la reazione dell’umano che addirittura li ha cacciati via sparando loro addosso con il fucile? Cosa in effetti ha tradotto verbalmente per cui l’umano abbia di siffatto adoperato un arma? “ risponda avvocato, mi dica lei…” Domandò Axa. “Vostro onore, chiamo a testimoniare Gianselmo castoro, presente alla trattativa con l’umano.” Si alzò Melchiorre. “Venga chiamato a testimoniare Gianselmo castoro,” disse Gianselmo. Dopo questo breve sdoppiamento di competenze, il testimone sedette e attese. “Mi dica Gianselmo, lei conferma la sua presenza a casa di un umano chiamato Ernesto e della sua compagna chiamata Emma? “Non è che ricordi molto bene i nomi degli umani,” sbuffò “ma se con questo vuole chiedermi se ero presente al negoziato, si lo ero.” “Molto bene. C’è mai stato nel corso di questa conversazione, uno scambio di moneta, di valuta o firme apposte su dei contratti? “ domandò ancora l’avvocato. “No, nessuno scambio. Se ci fosse stato me ne sarei accorto e se ciò fosse avvenuto, il villico non avrebbe cercato di impallinarci…” Risa del pubblico bestiale. “Silenzio!” ribadì Riccardo lupo. “Un'altra domanda “ Annunciò Melchiorre. “Lei sa cosa è una Tangente?” “Certamente, è la nostra moneta.” Rispose il castoro. “E sa dunque anche cosa è il pizzo…” “L’unità minima della nostra moneta…Ma perché?” chiese Gianselmo che non
capiva. “Glielo spiego io. Vede, una tangente, nel linguaggio degli umani è una somma di denaro percepita illecitamente. Vale a dire io che sono il responsabile di un progetto, uno qualsiasi, come ad esempio una diga, per restare nella sua materia, io ti riconosco una somma se tu favorisci la mia ditta appaltatrice.” Spiegò l’avvocato. “Ma allora, è un reato!” si scandalizzò Gianselmo. “Certo che è un reato, presso gli umani, si intende…Il pizzo, è ancora peggio perché è un estorsione…Come ad esempio, se io entrassi in uno dei vostri negozi e dicessi al proprietario: ‘io o una volta al mese e tu mi dai il dieci per cento degli introiti.’ Per entrambi i reati si va sul penale, punibile con la reclusone. Capisce? Questa volta, quando la platea cominciò a rumoreggiare pesantemente e porsi domande di ogni genere, Riccardo lupo, anche lui sconvolto dalle dichiarazioni dell’avvocato, non ebbe il coraggio di imporre il silenzio. “Avvocati, prego, avvicinatevi. “Chiese il presidente. “I due legali obbedirono e Riccardo lupo chinò la testa sulle loro. “Avvocato Melchiorre è sicuro delle sue affermazioni?” “Sicurissimo, signor presidente, se vuole può verificare…” “No, no…Mi fido, la sua fama di principe del buco, la precede. Ma c’è anche in gioco l’onorabilità del nostro presidente di contea Temistocle gufo…” “Mi dispiace per lui, ma doveva informarsi meglio. La sua ignoranza ha portato sul banco degli accusati queste povere bestie, mentre invece sul banco degli imputati ci doveva essere per l’appunto il vostro presidente.” “Grazie avvocato,” disse Riccardo lupo, “devo conferire con i miei colleghi.” Dopo una breve consultazione con i giudici a latere e il pubblico ministero, Riccardo lupo che non capiva ancora per quale atavico istinto, stava cominciando a fidarsi di quel coniglio così strano e che a parte l’ubriachezza continua, non aveva nulla da imputargli, se non l’indecoroso comportamento;
doveva prendere una decisione ma il guaio era, che non aveva nessuna voglia di condannarlo. Primo perché le accuse sarebbero cadute come un castello di carte, e la seconda sensazione, forse la più forte, che tutti gli avrebbero votato contro. arono diversi minuti prima che una decisione fosse presa, ma poi a sorpresa Riccardo lupo si rivolse direttamente a Ettore. “Lei che dice di conoscere il linguaggio degli umani, sapeva di quanto ha esposto il suo difensore? “ domandò. “Conosco la loro lingua, ma probabilmente il mio alcolismo mi ha bruciato tanti di quei ‘neuroni’ da non ricordarmi più cosa fossero pizzi e tangenti.” Rispose sinceramente. “Questo procedimento sta assumendo un'altra piega nei suoi confronti e nei riguardi del suoi coimputati.” Affermò Riccardo lupo. “Perché non riesce a comportarsi secondo gli usi e costumi, le tradizioni della nostra contea, che poi è quella in cui risiede, quella che l’ha accolta indipendentemente da dove venisse e quale fosse il suo ato, perché non riesce a comportarsi come una bestia rispettabile…” Gli parlò quasi in tono paternalistico. Ettore fece un gran respiro. Osservando tutte quelle bestie con bocche aperte, orecchie ben dritte, pronte a captare ogni suono che sarebbe uscito dalla sua bocca e formularne un mentale giudizio. Con coraggio li affrontò tutti. “Da quel che vedo, voi non siete mai stati evoluti come gli umani…” Mormorii e mezze frasi si levarono dalla platea, i giudici si innervosirono. “Se è questo che tanto le interessa,” intervenne Axa la volpe, “ci stiamo ben riuscendo! “ disse con ringhio lungo e sonoro. “No! Voi non ci state riuscendo affatto. Voi non avete capito niente. Vi siete solo illusi di poter emulare gli umani e ammesso che ci riusciate non avete un idea del pericolo che incombe su di voi. Nel vostro caso, rimarrà sempre viva la vostra propria indole e se a questo aggiungerete la mentalità degli umani diventerete peggio di loro: la vostra stessa moneta è stato l’inizio, altre calamità vi cadranno addosso se non ripristinerete subito quel che voi siete. Madre natura, per sopravvivere vi ha dato l’istinto, e nessuno potrà mai togliervelo. Guardate cosa l’uomo sta facendo dei vostri boschi, “ continuò Ettore imperterrito: “
Obbligati ad arretrare sempre più all’interno, facendo tabula rasa di piante, alberi, fauna e flora. Fino a quando non saprete più dove andare; chiedetevi cosa ha fatto ai vostri corsi d’acqua, così inquinati da non potervi più bagnare se non uscendone spellati; annusate l’aria che diventa sempre meno respirabile appena vi avvicinate a un autostrada…E voi, con le vostre casupole stile “umano”, con i vostri pseudo politici, pseudo servizi, pseudo giustizia, credete di far bene. Ma voi credete veramente che un giorno avrete un sistema di vita costruito su modello degli esseri umani?” domandò facendo una panoramica visiva di tutta la platea. “Ma ritornate nelle vostre tane, i carnivori riprendano a cacciare, gli erbivori continuino a pascolare, gli uccelli a costruire nidi. Con la vostra superbia avete solo interrotto il ciclo naturale delle cose. Tornate ad essere quel che eravate e quando vedete l’uomo, fuggitelo! E io ve lo posso dire con certezza, perché prima di diventare un coniglio, ero uno di loro!” Gridò a tutti i presenti. A questa affermazione i vari “oh, uuh…”, seguiti dai “questo è pazzo”, “ha perduto i lumi della ragione”, e altre voci sul suo equilibrio psichico, si levarono coralmente dall’interno e dall’esterno del perimetro giudiziario. Questa asserzione aveva spiazzato il presidente del collegio giudicante, i giudici a latere, lasciato indifferente Axa la volpe. “Costui non è savio, è disturbato di mente.” Disse. Ripristinata la calma con più di uno scamlio, Riccardo riprese il controllo. “E potrebbe spiegare alla corte come è avvenuta, questa sua diciamo… metamorfosi? “ gli domandò. “Non lo so,” rispose Ettore, “un giorno è accaduto, ma non ricordo niente e niente mi interessa, nemmeno della condanna che mi infliggerete.” Riccardo lupo faceva un gran fatica a credere a questa storia, ma almeno, quanto aveva detto nel suo monologo di poco prima c’era del vero. Si rendeva conto altresì che se l’avesse assolto per infermità mentale, tutti lo avrebbero contestato. Ma di alternative non ce n’erano. Battendo il martelletto sul suo banco e ottenuto il dovuto silenzio annunciò: “La corte si ritira per deliberare.” “Crede di aver fatto bene a dire queste cose?” gli disse a un orecchio Guinzaldo gabbiano, mentre l’altro suo avvocato Melchiorre orso nano, lo guardava con
aria riprovevole. Ettore si guardò attorno, verso gli spalti della platea. C’era Pericle la lepre che lo osservava scuotendo la testa; Grazia colomba, ministro degli interni che si chiedeva con che razza di delinquente aveva a che fare; Caparbio l’asino che all’inizio sembrava interessato ma adesso i suoi occhi vagavano nel vuoto; Merdaccia la vacca, ruminava e sbavava; Tedeofiuto, seduto sul posteriore, lingua penzoloni, che guardava con occhi dolci Cotenna maiale: “Due finocchi conclamati,” pensò Ettore, “a questo s’era arrivati!”. Giuliva l’oca che lo guardava con aria di superiorità; Gianselmo castoro, che non voleva più rivederlo alla Fortezza del Pensiero, ma mica per niente, intuiva che questa volta non aveva nessuna colpa, se però si fosse stato zitto come gli aveva consigliato, a quest’ora era già a casa. Solitario il ero che cinguettava parole di incoraggiamento; Cristoforo piccione era fuori per lavoro; Anacleto il gatto che si annoiava mortalmente; Olimpia la nutria che cercava di comunicargli il suo assenso; Altrimenti vedente, la talpa, a malapena lo riconosceva; Gonzales il topo faceva toeletta; Equileo cavallo scuoteva la testa; Teodolindo porcospino era sempre in Fortezza; Carlotta gallina che becchettava un po’ qui e un po’ là; Sgubiccia l’anatra sarta piangeva; era anche venuta Corialba, la coniglia squillo che insieme a Fraschetta, in un angolo del comprensorio, parlavano sotto voce e avevano gli occhi umidi. “Lei lo sa che lavoro faccio, non è un mistero…” Disse a Fraschetta asciugandosi una lacrima, “era la prima volta che lo incontravo ma subito ho avuto l’impressione di trovarmi davanti una galanbestia una vera bestia bestiale, dai modi educati e dal fare per bene…Pensi che non ha voluto nemmeno consumare…” “Si, lo conosco bene, è un coniglio con la “C” maiuscola.” Rispose Fraschetta. Nel frattempo, i giudici rinchiusi nella sedicente stanza delle delibere, discutevano animatamente. “Questa volta l’avete sentito con le vostre orecchie: è pazzo!” sentenziò Axa la volpe puntando una zampa su un vecchio frigo riverso “Quindi, o ce ne sbarazziamo, o ce ne sbarazziamo. Bruciamolo e non pensiamoci più.” “Mi stai seccando con i tuoi roghi,” intervenne Riccardo, “ma gli devo dar fuoco solo per farti piacere?!” sbuffò.
“Scusate,” intervenne Berto caprone,” qui non si tratta più di infliggere una condanna penale, ma di un problema psichiatrico. Costui ha dei disturbi della personalità, e che potrei definire… Un accentuato bipolarismo.” Si illuminò autogratificandosi nel rivelare di una patologia che al momento solo gli umani ne soffrivano. “Sono d’accordo con il caprone,” intervenne Todadirti castoro. “Berto, prego, mi chamo Berto…” Puntualizzò la bestia. “Si, certo collega, chiedo scusa. Dicevo, sono d’accordo con questo caprone… Per me è molto malato.” “Stiamo perdendo tempo,” ravvisò Axa la volpe. “Questa volta vi chiedo una condanna esemplare e che sia da monito per tutti coloro che si comporteranno come Ettore coniglio. Che poi sia malato, a noi non importa niente: la selezione, questo è fondamentale, e se non riesce a farlo la natura, lo facciamo noi. Oltretutto una persona malata non avrebbe a suo seguito una coniglia tanto rinomata per ceto bestiale…” “Cosa intendi dire? “ domandò Riccardo lupo. “Che ad assistere al processo c’è quella signotta della sua amante.” Chiarì Axa la volpe. “E tu, cosa ne sai?” “Lo so, lo so, le voci arrivano anche a Gufolandia.” “Axa,” disse con esasperata pazienza il lupo, “questi sono fatti personali e che non devono assolutamente influire sul giudizio.” “E no!” ribatté la volpe. “Se lo assolvete perché è malato e lo mandate in casa di cura, quel coniglio, con tutte le conoscenze che ha questa ‘signotta’, dopo due giorni è fuori e ce lo ritroviamo tra le zampe.” “Ma bene!” si alzò in piedi Riccardo lupo furioso, gelando come mai aveva fatto i presenti. “L’ubriachezza non è mai stata molesta; abbiamo un arresto eseguito fuori giurisdizione…”
“E tu, come fai a saperlo?” domandò stupita Axa. “Ti dimentichi molto spesso che sono un giudice della Corte Suprema, è come tale ho i miei canali di informazione, e se c’è qualche bestia che dovrebbe are in giudizio, sei tu, e quella scriteriata di Adonea colomba.” La volpe tacque. Insieme agli altri giudici uscirono per emettere la sentenza. “In nome del popolo bestiale,” esordì il presidente, “ visti gli articoli 7, 9, 13, e 21 del codice di procedura penale, assolve Noc-ciola scoiattolo che viene reintegrato nel suo ruolo politico come ministro dell’economia, lo condanna a una multa, da quantificarsi per tentato trasferimento di capitali all’estero. Assolve il suo autista Bichelunzo topo muschiato dall’accusa di complicità. Assolve Ettore coniglio da tutti gli articoli a lui ascritti, perché i fatti non sussistono, e ne richiede il ricovero in T.S.O. (trattamento sanitario obbligatorio), in apposita struttura psichiatrica. E rimuove dalla carica di presidente della contea Temistocle gufo, reo di ignoranza dei costumi, della lingua parlata e scritta, delle leggi in vigore in uso presso gli umani, e lo condanna a l’allontanamento dai pubblici uffici a perpetuità.” Sentenziò Riccardo lupo. “In attesa che un nuovo presidente venga posto in carica, come da articolo quattro della nostra Costituzione, io sottoscritto Riccardo lupo, presidente della Suprema Corte, assumo tutti i poteri della contea e incarica il ministro dell’economia ad attivarsi immediatamente per il ripristino di una valuta per la nostra economia. Incarica altresì la giunta politica ad eleggere il nuovo presidente di questa contea, e incarica Adonea colomba, ministro degli interni alla supervisione di quanto detto. Incarica il ministro della giustizia di mettere in agenda” disse guardando severamente Axa la volpe, “un nuovo codice di procedura penale. Così è deciso, così sia fatto.” Concluse Riccardo lupo. Dopo l’assoluzione il popolo bestiale uscì dalla radura commentando le nuove disposizioni. L’intervento di Ettore coniglio, considerato ormai da tutti non pericoloso, ma con gravi problemi di salute mentale, aveva creato nella popolazione di Gufolandia nuovi interrogativ; si chiesero inoltre che ne sarebbe stato della loro valuta: se il governo l’avrebbe ripresa indietro. Tutti interrogativi che mettevano di male umore le bestie, non avvezze a bruschi cambiamenti, perché eternamente e istintivamente abituate a cicli naturali di vivibilità tranquilla e serena. Se da una parte le innovazioni venivano accettate con entusiasmo, queste, non dovevano essere soggette a repentini cambiamenti: ne andavano in serio pericolo gli umori che potevano, in questi casi essere
imprevedibili. Dopo l’assoluzione, Ettore ebbe modo di consultarsi con i suoi avvocati, Melchiorre e Guinzaldo. Questi due difensori gli consigliarono, almeno per un certo periodo, di allontanarsi da Gufolandia, soprattutto perché il ricovero in reparto psichiatrico sarebbe stato esecutivo appena la sentenza sarebbe stata depositata, e per questo tipo di provvedimento non c’era processo di appello. “Lei scrive Ettore,”gli fece osservare Guinzaldo, “per cui un posto vale l’altro, a meno che non voglia vergare qualcosa su questa contea, ma non credo…” “Inoltre,” intervenne l’ orso nano, “per lei, Gufolandia è una contea troppo rigida e bacchettona, soprattutto a riguardo di un costume austero per la sua personalbestialità. Le consiglierei di cambiare residenza, magari vada a Coni’s I’sland’s, dove sono tutti della sua razza e di costumi che rispecchiano la sua peculiarità.” “Ci stavo pensando, “ rispose Ettore. “Poi, faccia come crede, io sarò sempre a sua disposizione.” Disse Melchiorre stringendogli la zampa. Lo salutò calorosamente anche Guinzaldo. “Cambi aria Ettore, faccia come le ha consigliato il mio collega, anch’io sarò sempre, in qualsiasi momento, a prendere le sue difese.” “Vi ringrazio, ed è tempo che vada.” Rispose Ettore guardando oltre le loro teste: “Vedete quei groppuscoli di bestie che parlottano indicandomi?” I due legali si girarono. “Si, li vediamo.” “Quelli sono gli irriducibili che vorrebbero vedermi fritto. “Allora se ne vada subito, questo sciacallaggio morale, non farà altro che deprimerla…” lo sollecitò l’orso nano. “Si, partirò subito: il tempo di raccogliere poche cose.” Decise Ettore. “Speriamo non doverci più incontrare,” auspicò Melchiorre, “le auguro ogni bene.” “Grazie di tutto, vi comunicherò il mio nuovo indirizzo perché voi possiate inviarmi le vostre parcelle.” Disse loro Ettore congedandosi.
Anche Fraschetta era presente alle breve raccomandazioni, e salutò il suo amico avvocato ringraziandolo per il rapido intervento. Insieme, avviandosi verso la stazione dei taxi-carretta, Ettore e Fraschetta incrociarono Giuliva l’oca che li divorava con gli occhi, mormorando parolacce a mezzo becco appena udibili. “Hei oca,” chiamò Ettore ad alta voce e per farsi sentire bene, “lo sai cosa mi piaceva tanto quando ero un umano?. Il paté di fegato d’oca!” “Cannibale, maiale!” ebbe la forza di rispondere allontanandosi in fretta con il suo o sgraziato. Salirono sul taxi e si fecero portare a Coni’s I’sland’s. “Cos’è quella storia che tu eri un umano?” domandò la coniglia. “Niente, me la sono inventata io,” mentì Ettore, “nel caso avessero voluto rinchiudermi alla Fortezza, l’infermità mentale era il male minore.” “Però fra qualche giorno sarà esecutiva, che farai?” “Me ne starò buono buono a Coni’s Island’s.” “Tu sai che a casa, c’è quella stanza che è sempre vuota, perché non vieni a stare da noi…Tutto sarebbe più semplice: potremmo accoppiarci quando vogliamo.” Propose Fraschetta. “Ci penserò, non mi va di arrivare e chiedere seduta stante a Asdrubale di ospitarmi a casa sua. “ Rispose Ettore dubbioso. “Ma per lui non è un problema, anzi, ne sarà felice. Se vuoi gli parlo io.” “Mah, fai un po’ tu, l’idea non mi dispiace, almeno per il momento.” Arrivati al ‘Vecchia Radura’, molti clienti del bar erano fuori ad aspettarli. In quel processo avevano tutti sperato che a Ettore non fosse comminata un'altra e, per loro, ingiusta condanna. Gli si fecero intorno, Fraschetta per motivare un entusiasmo incontenibile, abbracciò suo marito con un eccesso di affetto, che a un cero punto scansò, per andare a complimentarsi con Ettore.
“Allora, sembra che ce l’hai fatta, noi tutti eravamo in pensiero.” “Lo devo molto ai miei avvocati, in particolare a Melchiorre, l’amico di tua moglie.” “Bene, vieni dentro, avrai bisogno di qualcosa di forte…” “Si, mi farei un buon Whisky.” Accettò Ettore. Attorno alla cassa, i clienti affluivano per ritirare lo scontrino. Al che Asdrubale propose un ‘giro’ per tutti: offriva la casa. “Se vuoi un Whisky e ti lasci consigliare, te ne offrirò uno che è speciale, lo produco io.” Disse Asdrubale con orgoglio. “L’esperto sei tu, accetto il consiglio.” Senza incaricare il ragazzo, ò lui stesso dietro al banco e da uno sportello ne trasse una bottiglia senza etichetta, di un bel colore ambrato, ne versò due dita in un bicchiere, ne prese uno per lui, e uno per sua moglie. Ettore sorseggiò e mandò giù. “Allora, cosa ne pensi? “ chiese ansioso Asdrubale. “Vellutato, gradevole al palato, di giusta gradazione. E’ ottimo.” Ammise il coniglio. “Ma avrà anche un nome il tuo Whisky, “ interrogò Ettore prendendone un altro sorso. “Si, l’ho chiamato il Whisky del ‘cervo’…” A quel punto, sentendo nominare quella bestia, il Whiskey gli andò di traverso e fra una pioggia di spruzzi e una mezza risata a stento trattenuta, Ettore dovette asciugarsi le lacrime. “Cos’è, troppo forte per te? “ ironizzò Fraschetta. “No, no, e troppo buono, ancora uno, per favore.” Fece tendendo il bicchiere. Mentre beveva e si allontanava con Fraschetta, approfittando del marito che
parlava con alcuni clienti, lei notò la sua apprensione e preoccupazione per il nuovo alloggio; cominciava a conoscerlo e sapeva che non amava rinunciare alla sua intimità domestica: aveva i suoi orari che non erano orari tanto erano sballati, non voleva che le sue abitudini che non erano consuetudini venissero in qualche modo o per qualcuno, cambiate; insomma, si svegliava quando si svegliava, leggeva molto e quando gli pareva, poteva dormire di giorno e stare tutta la notte sveglio a scrivere, presupponendo che si adeguasse a qualche direttiva casalinga, Ettore, era una tragedia, non per sé stesso ma per chi gli stava vicino. Lui, si guardò attorno. Era il festeggiato. I tavoli della saletta interna erano stati addossati alle pareti per consentire le danze e fino a mezzanotte i clienti si scatenarono nei balli da loro conosciuti, con musiche tribali. Le femmine che giravano vorticosamente, quando avano davanti a lui levavano i loro calici per un brindisi rapido e tintinnante. La loro agilità, sia dei maschi sia delle femmine, era spettacolare; le coreografie non erano studiate ma improvvisate, pur restando in armonia con i movimenti del corpo. Quasi tutti avevano bevuto abbastanza per rientrare a casa barcollando e levare un ultimo brindisi a Ettore. A mano a mano uscivano dal bar, una spessa nebbiolina di fumo azzurrognolo, dava l’impressione di essere stati in un locale degli anni ’30. Adesso che non c’era più nessuno, Fraschetta ne approfittò per parlare del problema di Ettore con suo marito. Lui, in attesa che moglie e marito parlassero, per discrezione, era andato a prendere una boccata d’aria fuori dal locale. Non ci fu molto da attendere, quando Asdrubale uscì insieme a lei, gli andarono incontro sorridenti. “Mi devi scusare Ettore,” disse Asdrubale, “avrei dovuto pensarci prima e forse ti avrei risparmiato qualche problema…” “Ma di cosa stai parlando?” si stupì Ettore. “Del fatto che già da tempo potevi trasferirti da noi, abbiamo sempre una stanza in più, vuota e che non usa mai nessuno.” “Ti ringrazio, ma appena trovo una sistemazione in questa contea, tolgo il disturbo.” “Nessun disturbo, da noi puoi stare quanto vorrai.” Gli rispose entusiasta Fraschetta.
E lei, discretamente e ogni tanto voltandosi per non farsi vedere, sorrideva raggiante. “Bene, vogliamo andare?” disse la coniglia prendendo tutti e due sottobraccio. Si incamminarono verso un viottolo. Arrivati davanti la loro abitazione dopo soli cento metri, Ettore fece finta di rimanerne. affascinato. La casetta, era tutta in legno, dal tetto spiovente; costruita su due livelli, al primo si affacciava su un ampia balconata di cui il perimetro era cinto da fioriere. Fraschetta si staccò dal marito e dal suo ‘amico’ e spinse il cancelletto su un bel giardino, c’era solo un albero: un pesco in fiore. Alla porta di ingresso, appesi ai lati degli stipiti, due lampioni in ferro battuto che emanavano, da due candele quasi consumate, una debole luce. Fraschetta aprì la porta di ingresso. “Prego,” disse ad Ettore, “e fai come se fossi a casa tua.” “Ti occupi tu della sua stanza?” chiese Asdrubale, “io sono veramente stanco, vado a leggere due righe di giornale e dopo salgo su.” “Certo, riposati. Vieni casto coniglio, anima semplice e pura.” Scherzò la coniglia. “Non ci fare caso Ettore, quando beve un po’ troppo da i numeri.” Arrivati al primo piano lo condusse direttamente nella sua stanza. Un lumicino a candela rischiarava la stanza. Fraschetta lo aveva precedentemente perché già sapeva qual’era l’epilogo della sistemazione del suo amante. Perversa e diabolica, aveva tutto sistemato per il suo piacere. Un bel pavimento di canne intrecciate rendeva l’ambiente più caldo; le pareti erano ricoperte di corteccia di quercia essiccata e trattata; il letto fungeva anche da divano; la sedia, uno scrittoio, una poltrona posta di sbieco davanti al camino. Per tutte le volte che era stato a casa sua, - pensò Ettore -quella stanza la conosceva fin tropo bene. “E’ molto ben arredata, “ disse prendendola in giro.
“Qui a Coni’s I’slan’d c’è un antiquario, se vuoi domani ci facciamo una scappata e vediamo di trovarti una libreria.” “Perché, mi darai il tempo di leggere?” sibilò Ettore sardonico.”Oh! M’hai preso per ninfomane?” “Non sei nemmeno casta e pia…” “La colpa non è mia, sei tu che sei sempre pronto!” Udirono il pesante o di Asdrubale che saliva la scala a chiocciola, e entrambi ripresero le distanze. “Allora, come va?” domandò rivolgendosi all’amico. “Bene, molto bene.” Rispose Ettore compiaciuto. “Se riuscirai, quando è in casa, a sopportare questa mia mogliettina, avrai la pace che desideri.” “Come sarebbe a dire!” Brontolò la coniglia. “Sa Ettore, quelle cose da femmine: ‘Si sposti di là, devo scopare…’, ‘Non si muova devo lavare…’, ‘Vada laggiù, devo spolverare…’. E via dicendo.” “Ma, essere indegno, coniglio neanche da riproduzione, fallimento del nucleo famigliare…Se non ci fossi io in questa casa ci sarebbero solo ragnatele, e gli scarafaggi farebbero a spallate per entrare. “ Si lamentò Fraschetta zampe ai fianchi. “Bé, io vi saluto, me ne vado a dormire. “ Sbadigliò Asdrubale. Fraschetta attese che il marito si fosse allontanato. “Adesso anch’io ti do la buonanotte, però ci vediamo tra un paio d’ore…” Gli sussurrò in un orecchio. “Come tra un paio d’ore!” “Ma si, tienimi il posto caldo, verrò quando lui dormirà profondamente.” Ettore scosse la testa: “ Sei proprio una conigliotta.”
Cominciò a spogliarsi mettendo in bell’ordine i suoi vestiti sulla sedia, rimasto in slip scese in soggiorno e con una candela nella mano, prese un intera bottiglia di Vodka dal mobile bar, un bicchiere e risalì nella sua stanza. Si mise comodo in poltrona davanti al camino e prese uno dei libri che ancora non era riuscito a leggere: “Il mistero del Santo Graal e la ricerca dell’Arca dell’Alleanza”. Era un apionato di queste storie, dal regno di Salomone al Medio Evo. Era immerso nella sua lettura da più di due ore quando udì la porta scricchiolare, dietro a questa una candela e arretrata in punta di zampa, lei. “Fraschetta, cosa fai qui!” “Te l’avevo detto che sarei venuta. Asdrubale dorme, non c’è pericolo.” Lo rassicurò togliendosi togliendosi la vestaglietta nera. E lui, che non era meno da lei si lasciò travolgere da questa sua bramosia, ma pensando seriamente che a tutto ciò, doveva mettere la parola “fine”.
U N A M O T O P E R E T T O R E
Ettore coniglio vergò la parola fine sul suo ultimo racconto, lo mise in busta, ma questa volta invece di spedirlo decise di portarlo lui stesso al giornale. Il “Bestial Express” si trovava a metà strada, tra Gufolandia e Rublandia. C’era il rischio che lo fermassero per quel trattamento sanitario obbligatorio, ma prendendolo alla leggera, si disse che con tutte le cose che avevano da fare, non avrebbero pensato a lui, tra l’altro solo di aggio. Si recò alla stazione delle carrette-taxi e si fece portare alla sede del settimanale: una costruzione molto alta e moderna. Era orario di lavoro nella sua ex contea, a parte gli operatori urbani di ecologia e qualche disoccupato che cercava lavoro, nel corso principale non c’era quasi nessuno, i colletti bianchi erano nei loro uffici, poche bestie nei bar, ed Ettore ò tranquillamente nel centro della contea senza che nessuno si accorgesse della sua presenza. Alla réception una coniglietta carina lo accolse. “Signor Ettore! Quale piacere, venga si accomodi, il direttore la riceve subito.” Il coniglio fece fatica a trattenere un complimento pesante a quella femmina, ma era veramente uno schianto!” pensò. Nell’attesa, busta sotto al braccio, si avvicinò al banco dove pochi minuti prima era stato ricevuto. “Come ti chiami dolcezza?” le domandò. “Lara” Rispose con un bel sorriso la coniglia. “Ah!”si stupì Ettore. “Mi ricorda un film dove per l’appunto la colonna sonora era ‘Tema di Lara’ “ Spiegò Ettore. Ed era molto roman…” Il direttore, un coniglio di mezza età, con i peli d’un grigio brizzolato, dall’aria matura, gli si avvicinò.
“Ettore?” chiamò. “Si, sono io. “Rispose. “Piacere, finalmente, erano settimane che desideravo incontrarla. Mi chiamo Testampe, d’ora in poi per ogni chiarimento, sia necessità, se mi posso permettere, consiglio, si rivolga direttamente a me. Venga, andiamo nel mio ufficio.” Gli annunciò facendogli strada. Il palazzo del “Bestial Express” era di quattro piani e ovviamente l’ufficio del direttore era all’ultimo. Sontuoso, spazioso, con una bella vista sulla foresta che lo circondava. “Si sieda Ettore,” indicò Testampe la poltroncina davanti a lui. “Allora, fin qui tutto bene. I suoi racconti sugli umani tirano, e abbiamo raggiunto, dalle nostre analisi che il tre per cento in più delle vendite è dovuto grazie ai suoi racconti. La società editrice alla quale siamo economicamente collegati, ha puntato molto su di lei e vorrebbe arrivare a un accordo, proponendole un contratto.” “Che tipo di contratto?” domandò Ettore. “Diciamo un uscita mensile per dodici mesi all’anno con un introito per lei, di molto superiore al compenso delle attuali 500 Tangenti…Cioè, voglio dire, quando verrà coniata la nuova moneta e in ogni caso, sempre un offerta interessante. So cosa sta pensando, che in questo momento: che il nostro giornale non sa esattamente come retribuirla, però noi sappiamo per certo che per non rischiare nuovamente di sbagliare come l’ultima volta, nella quale fra l’altro era coinvolto anche lei, il nuovo governo ha già adottato l’Euro, in uso presso gli umani. La nostra proposta iniziale e rinnovabile è di 1500 Euro da liquidarsi il primo di ogni mese. Sappiamo che se lei è capace di scriverci un articolo ogni quindici giorni, un mese le sarà più che sufficiente. Che cosa ne dice?” chiese il direttore. “A me sta bene, “ rispose entusiasta Ettore. “Bene, sapevo che lei sarebbe stato d’accordo e ho preso l’iniziativa di preparare per iscritto il nostro accordo.” Si affrettò il direttore prendendo da un cassetto dei fogli di carta dattiloscritti, in ‘crash’ e ‘conigliate’ “Una firma qui, e una qui,” gli
indicò Testampe porgendogli una penna stilografica. “Vedrà con noi si troverà bene, se poi volesse are a qualcosa di molto impegnativo, se la sua fantasia, che credo sia anche legata alla realtà, suggerirà alla nostra attenzione un romanzo, noi saremo qui a prendere in considerazione ogni sua proposta. “ “Va bene, “ disse Ettore alzandosi. “E questa?” indicando la busta che aveva appoggiato sulla scrivania. “ E’ l’ultima storia che ho scritto. “ “Me la dia, la iamo direttamene nel nostro nuovo accordo.” “Non vuole leggerla prima…?” “Ettore, lei è una bestia strana lo sa? Ho sentito molto parlare di lei, più in male che in bene. Ma forse lei appartiene a quella categoria di scrittori maledetti che se non vivono appieno determinate emozioni, non scriverebbero nemmeno un rigo. Un consiglio da buon amico, non si faccia tradire dall’alcol. Immagino che lei abbia sentito parlare di quello scrittore americano che si chiamava Hemingway…” “Si, certo. Ho letto diversi suoi libri.” Affermò Ettore. “Di lui si diceva che quando scriveva, beveva e quando correggeva lo faceva da sobrio. Ma se qualcuno beve mentre scrive, cosa fa dopo? Non deve solo correggerlo, ma rifarlo daccapo!” “Si, naturalmente, non puoi essere lucido al punto di scrivere. Delle volte mi è capitato, voglio dire bere e scrivere, poi rileggendo, era inutile correggere, valeva la pena cestinare tutto.” “Mi fa piacere che sia d’accordo con me. Lei è una bella ‘penna’, e se segue il mio consiglio arriverà oltre le sue stesse aspettative. “ Concluse cordialmente Testampe. “Ah.” Si fermò di colpo Ettore sulla soglia della porta. “Le dispiace, visto che sono qui, e che probabilmente, per non far succedere una rivoluzione, pizzo e tangente terranno ancora ‘banco’ , le dispiace se le chiedo un anticipo di 500 tangenti… “Ma certo, senza nessun problema. Aspetti le preparo un biglietto per l’ufficio cassa.”
Il direttore scrisse due parole su un accusato di ricevuta, glielo fece firmare, ne staccò la prima copia e gliela tese. “Ecco, al terzo piano la pagheranno.” Scendendo le scale, a Ettore venne un idea brillante. Si fermò alla réception. “Posso fare qualcosa per lei, Ettore? “domandò la coniglia. “Dimmi una cosa Lara, io, quando sono entrato non ti avevo detto chi ero, però tu mi hai chiamato subito per nome. Mi conoscevi già?” “Oh no…Signor Ettore. Ma la sua fama la precede.” “Hai impegni per stasera? “gli chiese a bruciapelo. “Ma Ettore, io non la conosco e…” “Che dobbiamo diventare vecchi per conoscerci,” tagliò corto lui. “Ma è che io, non so se posso…Voglio dire, lei mi capisce, ci siamo appena conosciuti e…” “E…?” “Insomma non è convenevole.” “Sei mai stata a Rublandia? “le domandò. “No, lei si?” “Più di una volta, e ti assicuro almeno una volta ci devi andare. Casinò, NightClub, ristoranti tra i più rinomati, e tanti divertimenti, una contea da mille e una notte.” “E’ troppo cara per le mie tasche,” rispose Lara abbassando il muso. “Cosa credi, che ti farei spendere? Non tirerai fuori nemmeno un soldo, sei mia ospite.” “Davvero!” sgranò gli occhi la coniglia. “Certo, a che ora finisci di lavorare?”
“Alle sei del pomeriggio.” “D’accordo, dimmi a che ora posso are a prenderti.” “Alle sette e mezza sarò pronta, l’indirizzo è via del Cerreto, 11 Gufolandia…” “Sarò puntuale.” Il direttore del giornale, rimasto solo nella sua stanza aprì la busta consegnatagli da Ettore con curiosità. I suoi racconti erano un po’ come le uova di Pasqua degli esseri umani: non potevi mai immaginare quale sorpresa vi avevano messo all’interno. Dispiegò i fogli, a dir la verità non tanti e cominciò a leggere. Contento del suo nuovo accordo con il giornale, della piccola “scappatella” con la coniglietta, prese una carretta-taxi per tornarsene a Coni’s Island’s; aveva tutto il tempo per prepararsi, finanche are al “Vecchia Radura” e trovare una scusa per Fraschetta che senz’altro lo stava già aspettando. E lui se ne stava cominciando veramente a stancare. L’aria profumata della primavera inoltrata metteva di ottimo umore Ettore, che a volte si sentiva più bestia delle altre; le valli che digradavano dolcemente, la calma, la tranquillità di quei posti avevano qualcosa di magico. Gli veniva spesso da pensare se tutto ciò stesse vivendo non fosse parte di una maledetta metamorfosi e dalla quale all’improvviso riacquisito le sue originali sembianze, se non gli sarebbe dispiaciuto rimanere un coniglio. “Ettore,” chiamò l’autista topo muschiato, “più avanti c’è un posto di blocco della polizia.” “Merda!” esclamò Ettore, “non ci voleva, non adesso.” “Ti do una buona marcia se fai una rapida conversione e rapidamente andiamo verso Rublandia.” “Non posso farlo Ettore, mi darebbero complicità nella fuga.” Scese al volo, e si mise a correre, ma allertati dalla sua fuga le due carrette della polizia si mossero subito e queste avevano come traino otto ratti, quanto al conducente, solitamente erano dei veri e propri assi delle carrette, loro facevano il corso all’accademia di polizia per “guida veloce” ed erano quasi degli stunt-
besties. Ettore non aveva più l’agilità di un tempo e la determinazione dei suoi anni in proporzioni a un essere umano erano ridotte. Per quanto corresse vedeva i suoi inseguitori avvicinarsi sempre più, fino a quando se li trovò ai suoi fianchi e buttandogli una rete addosso, lo bloccarono. Con molta difficoltà lo caricarono su una delle carrette e lo portarono direttamente al centro di igiene mentale. Si consolò del fatto che almeno medici e infermieri erano della sua stessa razza. Non sapeva nemmeno quali fossero le aspettative di vita di un coniglio. Il centro di igiene mentale si trovava alla periferia di Gufolandia, non lontano dalla Fortezza del Pensiero. Un edificio in legno dipinto di bianco, con all’interno un ampio giardino cui il perimetro era cinto da alti cespugli, garantendo ai pazienti quella riservatezza, dai più curiosi e famelici pettegolezzi. Nel momento in cui Ettore fece ingresso nel nosocomio, venne preso in carico da un infermiere e una infermiera che l’accompagnarono alla réception e li si registrò, poi lo portarono nella sua stanza. “Vedrà, qui si troverà bene,” le disse la coniglia infermiera, “sappiamo ben trattare la sua malattia e qui vi operano ottimi medici.” “Certo, che se il trattamento me lo da lei, sono certo che guarisco più in fretta.” Le disse Ettore mentre indossava un pigiama dell’ospedale. “Spiritoso,” rispose l’infermiera. “Faccia il coniglio serio: la sua reputazione la precede.” “Questa è la seconda volta che me lo sento dire: ma sono veramente così famoso?” domandò Ettore. “Come si chiama?” chiese senza darle il tempo di rispondere alla domanda precedente. “Françoise” “E’ se?” “Solo di origine.” “Lo sa che è molto carina?”
“Grazie, però adesso si metta a letto: fra non molto verrà il medico a visitarla.” Lo avvertì uscendo. Nell’ospedale c’erano divieti di ogni genere, compreso quello di fumare se non in giardino; le visite potevano essere effettuate due ore prima del tramonto, parenti o amici non importava. Però a Ettore dei divieti non interessava nulla: era lì da poche ore e senza alcol stava già cadendo in depressione. Il dottore entrò nella sua stanza. “Buongiorno Ettore, sono il dottor De Tarli: come si trova e come sta…?” “Già il nome, -pensò Ettore, -non gli ispirava alcuna fiducia. “Come mi trovo, non lo so, e come sto, da bestia.” “Vorrei vedere!” esclamò De Tarli “Forse non ha capito. Io sto male, ma male, troppo male.” “Soffre di astinenza vero?” “Certo che soffro di astinenza!” ringhiò Ettore. “A questo provvediamo subito.” Poi togliendosi lo stetoscopio dal collo, lo auscultò. Gli battè due dita di zampa in diverse parti della schiena facendogli dire ‘33’; lo fece respirare a bocca aperta. “Fuma?” “Si” “Quante al giorno?” “Una ventina.” Gli saggiò i riflessi con il martelletto. “Mi dica, quanto beve?”
“Dipende dalle giornate: a volte una bottiglia di Vodka con qualche cocktail, a volte meno” “Va bene, faremo subito gli esami ematici. Un'altra cosa com’è l’appetito?” “Attualmente non mangio quasi niente.” “Si metta a letto Ettore, le manderò un infermiera per il prelievo e cominciamo subito con una flebo.” “E cosa ci mettete nella flebo?” “Che diamine! Vitamine…A più tardi.” Disse il medico. Era tutto molto strano per Ettore. Fino a poco tempo, fa accettando la sua condizione di coniglio e libero di fare e disfare la vita da bestia a suo piacere, poteva considerarsi ancora fortunato, sapendo quale era il suo male; ma essendo ato anche per lontane fasi della sua esistenza che lo vedevano interagire come un essere umano, da una parte aveva accettato questa evoluzione bestiale che lo circondava come prosieguo della sua stessa vita biologica, dall’altra ne era spaventato perché stava ando sotto le zampe di bestie che si professavano giudici, avvocati, ministri, squillo e adesso anche medici dei pazzi. Aveva una tale confusione in testa che non sapeva come mettervi ordine. La pelle, le sembianze, l’organismo, finanche parte dell’istinto erano quelle di una bestia. Cervello, anche qui forse in parte, e abitudini tutte, quelle di un essere umano. Ed era sorprendente, con quale zelo e convinzione queste bestie fero il loro dovere. Entrò Françose, l’infermiera. Nella tasca del camice aveva un flacone con una sostanza trasparente, e nell’altra trasportava il treppiede, l’asta dove l’avrebbe appesa. “Mi dia la zampa destra, “ chiese mentre preparava l’ago. Ettore gliela tese e con l’altra cercò di trafficare sotto il camice della coniglia. “Ma insomma Ettore cosa sta facendo?” Ettore rise. “Ma, saggio il terreno…”
“La smetta o chiamo il medico!” “Perché fai la difficile? Siamo l’unica razza che veramente può dirsi amatori: rapidamente e sicuramente…” Anche Françoise rise. “Se fai il bravo ci vediamo domani che faccio il turno di notte.” Gli disse. Applicò il regolatore di flusso e se ne andò. Per tutta la mattinata e buona parte del pomeriggio fu così: flebo su flebo. Quando terminò, per quel giorno, erano quasi le cinque del pomeriggio. “C’è una visita per lei Ettore…Faccio are? “ annunciò l’infermiera aprendo la porta. “Si, faccia entrare.” Fraschetta gli si buttò al collo. “Se non mi fai venire un colpo al cuore non sei contento, vero?” Si lamentò, sedendosi sul bordo del letto. “Anche questo ti hanno fatto…Però anche tu, sai che hai un T.S.O. vagante, te ne vai in giro come un turista.” “Il fatto è che dovevo concludere un accordo con il giornale, un super accordo.” Le disse anche se era una mezza verità. Non se l’aspettava nemmeno lui il contratto annuale. “Non ti chiedo nemmeno come stai. Immagino depresso…” “Abbastanza.” “Ma anche da qui, ti faccio uscire io. Qui ci mettono i fuori di testa, e tu non lo sei! Conosco un amico mio che è un autorità nel campo della psiche bestiale, si chiama Gerundio e ha scritto diversi libri sul tema.” Affermò Fraschetta. “E’ giovane, molto aperto, e conosce bene De Tarli: In più è al suo secondo libro sulla psicologia bestiale.” Ettore udendo le parole psiche e psicologia continuava a fare un guazzabuglio mentale. Certi ricordi gli arrivavano netti alla memoria, ma non riusciva a fissarli, né a dargli un tempo, né un origine. “Cos’è un tuo ex amante?” chiese Ettore con ironia.
“Diciamo che un tempo c’è stato qualcosa tra noi, ma sono diversi anni che non ci vediamo.” “Ah beh, questo mi tranquillizza.” Continuò Ettore mordace. “Ma dai! Non sarai mica geloso di una storia di anni fa…” “Dipende, a volte ci sono i ritorni di fiamma.” “Basta così Ettore,” lo rimproverò bonariamente Fraschetta. “Ho una sorpresa per te, qui almeno non ti perquisiscono nella borsa. Tieni.” Disse andogli una bottiglia di Vodka che Ettore prontamente nascose sotto le lenzuola. “Sei un angelo, e anche molto coraggiosa. Ma non solo…Ti ricordi quando in carcere ti parlai di Livia che anche lei chiamavano ‘Fraschetta’, ma con tutt’altro significato?” “Si, me lo ricordo, ma cosa c’entra questo adesso?” si pose sulla difensiva la coniglia. “Io posso immaginare l’ambizione come qualità: da essere umano vivevo di ambizione…Credo anche che alcuni stratagemmi possano –anche se non troppo puliti –aiutare ad abbattere alcuni ostacoli, a volte pericolosi, dipende dalle conoscenze che uno ha, e tu, mi sembra che di conoscenze ne abbia parecchie…” “Non capisco dove tu voglia arrivare.” Disse Fraschetta facendo l’indifferente e guardando verso un punto imprecisato, “Te lo spiego subito. Tu e qualcun altro già sapevate che la trattativa con l’umano sarebbe fallita, perché informati a suo tempo di cos’era un ‘pizzo’ e una ‘tangente’. Fin tanto che questo tipo, di ‘moneta’ circolava nei vostri confini non sarebbe mai accaduto niente…Però visto che hai le zampe su tutta Coni’s I’sland’s , dovevi mettere le zampe su Gufolandia per qualcosa di veramente redditizio. Non so ancora a cosa tu stia mirando, ma la stai preparando grossa… Mi sto sbagliando?” “No. E allora?” disse nervosamente Fraschetta. “Bisognava trovare un modo per far cadere l‘attuale presidente: Temistocle il Gufo. E quale migliore occasione per sputtanarlo per aver ‘battuto’ una moneta
che non avrebbe avuto senso presso gli umani, se non gravi conseguenze?” le rivelò Ettore. “Hai finito?” “No, c’è dell’altro. E’ forse vero che mi ami, anche se a modo tuo, ma più in là, quando avrai raggiunto parte dei tuoi scopi, ti servirai di me per realizzare progetti molto più ambiziosi dove sarà per forza necessaria la presenza umana, quella mia, tanto sai che puoi comprarmi con molto sesso e altrettante bottiglie…Tu sei la copia di Livia!” Come se Ettore avesse parlato al vento, la coniglia cambiò completamente discorso. “Grazie, mi fa piacere, farti piacere. Lo sai che al bar non si fa altro che parlare di te? Le tue storie sul ‘Bestial Express’ stanno arrivando, non proprio con una cadenza ordinata, ma arrivano.” “Lo so, prima distribuiscono nella contea di Gufolandia, poi Rublandia, Coni’s I’sland’s, Castorvalle, Rattonzoli, Maialbassa, Lupus e Vaccarella.” Spiegò Ettore. “Però, accidenti! Se ne stupì Fraschetta.” “Quando potrei uscire di qui?” domandò Ettore senza sperare in una risposta immediata, naturalmente. “Adesso non te lo so dire, ma appena questo mio amico si incontrerà col tuo, sapremo qualcosa di certo.” Lo rassicurò. La porta si aprì e comparve nuovamente l’infermiera. “Ettore, c’è una giornalista che chiede di lei, del quotidiano ‘La Quercia’, mi pare, abbia detto così.” “Ah! La faccia are questa simpatica bestiolina.” Acconsentì Ettore sorridendo. “Bene, ti lascio a questa giornalista, ti rivedo domani. Stammi bene.” -Disse baciandolo sulle labbra.
L’opinionista, accompagnata dall’infermiera entrò nella stanza. Quando la porta venne chiusa, Ettore gli fece cenno di accomodarsi sulla sedia a un lato del letto. “Lei ha un bel muso tosto a presentarsi qui.” Le disse senza proemio. “E darmi del fascista quando non lo sono mai stato.” “Si lo riconosco,” rispose restando in piedi, e sono qui anche per scusarmi. “Si segga, invece di restare in piedi come un cavallo.” “Forse,” prendendo posto sulla sedia vicina al letto, “come ha detto lei pubblichiamo solo notizie cattive, però ahimé, deve considerare che il giornale ha una sua linea da seguire, e spesso non posso scrivere quello che vorrei, come ad esempio una storia che finisce bene, e sono qui per riparare.” Spiegò. “La ascolto.” Convenne Ettore. “Ho letto la sua ultima storia pubblicata sul ‘Bestial Express’, è molto interessante. Cosa vuole comunicare e da dove trae l’ispirazione…” Domandò Ashira la pecora.. “Si è vero. Cosa voglio comunicare? Ho già detto pubblicamente che avvicinarsi agli usi e costumi e anche i consumi degli umani può essere pericoloso per ogni bestia. Emulare una condizione diversa da quella che ci è stata imposta dalla natura, non deve essere per nessun motivo barattata per una civiltà che non ci appartiene, sempre che, quella degli umani si possa ancora chiamare civiltà. Tramite una storia di fantasia, e perché conosco bene gli umani, ho creato un personaggio così succube della civiltà degli umani, ma tanto affascinato e ipnotizzato che alla fine crederà in se stesso non più come una bestia ma come un essere umano.” Spiegò Ettore. “E da dove trae l’ispirazione?” “Come ho già avuto occasione di parlarne, per gli umani non ero un coniglio da ‘mangiare’, ma tenuto in casa per compagnia, e sotto gli occhi avevo ogni scena domestica, udivo i loro suoni vocali e appresi a riconoscerli, fino a quando potei riprodurli. Per cui l’ispirazione viene da una fonte diretta e significativa.” Mentì Ettore. “E tutto quello che sta scrivendo, immagino con un fine…Mi può dire, anzi può
anticiparmi qualcosa in merito?” “No, l’epilogo è a sorpresa.” Rispose Ettore senza sapere nemmeno lui quale sarebbe stato. “Capisco. Una domanda estranea alle precedenti. “Di lei si dice che sia un Dongiovanni, è vero o falso?” “Come tutte le bestie della mia razza vivo la mia sessualità così come Madre Natura mi comanda, se poi ci sono bestie pettegole, che dicono di me peste e corna, perché bevo, fumo e mi piacciono le conigliette, allora sarò quel che il popolo vuole.” “Senta Ettore, ritornando a questa sua straordinaria padronanza del linguaggio umano, mi può dire dell’altro?” “Vede, ci sono delle bestie che hanno doti rare e particolari, come quello dell’osservazione e dell’udito ragionato. Le potrei parlare di un cavallo chiamato Hans. Hans sapeva far di conto e compiere operazioni aritmetiche solo con l’uso di uno zoccolo, ma con una prerogativa ben precisa: se si accorgeva che tra il pubblico c’era un ignorante in materia –glielo diceva l’istinto, -non dava più sfoggio delle sue capacità. Io ho un dono: osservo gli umani e siccome sono stato molto tempo tra loro prima di capitare a Gufolandia, e quindi dare atto di queste capacità, il popolo ‘bove’ mi prende per pazzo. Quanto ad Axa la volpe,” proseguì Ettore, “quella grandissima troia –lo scriva, lo scriva pure –non me ne può fregar di meno, ci sarà un momento che tutta la malvagità che ha in corpo le si rivolterà contro.” “Vorrei avere la possibilità di farlo, ma sarei immediatamente radiata dall’albo, senza contare che un tale epiteto non sarebbe mai pubblicato. Anche a me mi sta sui…” “Mi scusi Ettore, ma lei nell’ultimo procedimento nei suoi confronti, non ha solo parlato di conoscenza degli umani, ha dichiarato di essere uno di loro: non crede stia confondendo la realtà con la fantasia, e che il personaggio dei suoi racconti sia proprio lei?” La domanda era pertinente –pensò Ettore. “Si, certamente. Ma non intendevo fisicamente…”
“Mi perdoni, ma il presidente del collegio giudicante le aveva anche chiesto come era avvenuta questa strana metamorfosi. E lei ha risposto: ‘non lo so, non mi importa di niente”…O sbaglio? “No, è tutto vero.” Confermò Ettore. “Ma una metamorfosi non è detto debba essere per forza fisica.” Rispose. “Ma allora c è qualcosa che lei non vuole dire, che sta nascondendo…” “Chi scrive, ciò che nasconde lo svela in altro modo: basta saper leggere tra le righe.” “Penso che possiamo terminare qui l’intervista. E’ stato molto cortese a ricevermi.” Disse la pecora alzandosi. Si salutarono entrambi cordialmente, e quando Ashira si chiuse la porta dietro, Ettore emise un sospiro di sollievo. Tirò fuori la sua bottiglia di Vodka, se ne versò un bicchiere intero e lo trangugiò rapidamente. Da un momento all’altro sarebbe ata l’infermiera. Ripensò alla giornalista e alle domande sibilline che gli aveva fatto, come se cercasse conferma al fatto che lui realmente era stato un essere umano. In ogni caso, continuò a riflettere, -anche si fosse avvicinata pericolosamente alla verità, non le sarebbe stata di nessun aiuto. Prima che spegnessero le candele, ò l’infermiera di turno. Gli diede due compresse e un bicchiere d’acqua. “E queste?” la interrogò guardandole nel palmo della zampa con aria sospettosa. “Una è per tranquillizzarla, l’altra per farla dormire.” Spiegò la coniglia. “A me basterebbero due ore con te per dormire e calmarmi…Ci scommetti che nell’una nell’altra mi faranno effetto?” “Lei le prenda, poi il dottore vedrà se aumentarle la dose.” Scettico, prese il bicchiere d’acqua e le mandò giù. Dalla finestra aperta, purtroppo con vista limitata, entrava la flagranza della fine di primavera, che esalava gli odori della terra, dei fiori e delle piante, in quel periodo particolare di inizio estate. Risorgere e rinascere a nuova vita, -pensava Ettore. Anche l’essere umano in quel periodo particolare dell’anno si sentiva
come le bestie, e anche lui si riempiva i polmoni d’aria, -quando poteva, -pulita e fresca che ogni spazio verde emanava. Il piacere del mare, della montagna, le serate con gli amici, la solita e colossale sbornia…Per fluttuare con la mente, scrollarsi di dosso le inibizioni, mandare a cagare i moralisti, ubriacarsi, delirare su quella –se pur fasulla, temporanea –felicità. Era tutto un mondo sconosciuto a chi non beveva. L’intelletto che vive di una fiamma nuova, rigeneratrice e che ti da coraggio e dissipa ogni bruttura della vita, che ti soccorre nei momenti bui della tua quotidianità, che ti esprime al meglio vicino a una femmina. –Questa era la sua vita, -continuò ad almanaccare, e forse la società degli umani, non gli avrebbe permesso di viverla a quel modo. –Queste bestie –diceva a se stesso, bene o male me le rigiro come voglio, le femmine non mi mancano, posso scrivere, bere, fare quello che mi pare…Perché dovrei ridiventare un umano per essere eternamente condannato come codardo, irresponsabile, ubriacone…A Coni’s I’sland’s nessuno ti dice niente. Quanto a Fraschetta, è tempo di cambiarla con una più giovane… arono tre giorni. Il medico al mattino ava a visitarlo, gli faceva sempre la stessa domanda. “Come si sente oggi?” E lui rispondeva con la stessa parola: “fiacco” Le flebo erano terminate, seguiva una terapia temporanea perché si potesse verificare quale per lui fosse la più idonea. Insomma, al momento si sentiva una cavia. –Per carità, bestiole rispettabilissime. Ma anche su quell’argomento c’era quella insana e agognata evoluzione che metteva cavia contro cavia, o qualsiasi animale da laboratorio conosciuto per gli esperimenti degli umani su questi. C’erano le bestie cavia che erano orgogliose di prestarsi alla sperimentazione del genere umano, perché ciò dava loro prestigio e riconoscimenti post-mortem; e c’erano quelle che vi si opponevano con forza chiamando in causa la crudeltà e la sofferenza subite durante i processi di ricerca. L’infermiera del servizio lo venne a chiamare: “Il dottore la vuole nel suo ufficio,” disse. Ettore si vestì in fretta e curioso di sapere cosa il medico volesse da lui, con lunghe falcate raggiunse il suo studio e bussò alla porta. “Avanti…” Ettore entrò. Una stanza di modeste dimensioni, un tappeto, un divano e due
poltroncine, e dietro la scrivania, il primario dottor Neuronis. “Si sieda Ettore.” Invitò il medico indicando una delle due poltroncine. Ettore non aveva mai visto di buon occhio gli psichiatri e quello che aveva davanti non faceva eccezione. “Ho seguito quel suo monologo al processo e lei…” “E lei, come mi vuole?” lo interruppe subito Ettore. Il dottore prese bonariamente quella battuta. “Non so da dove viene esattamente e cosa le frulla nel cervello, ma prima di tutto vorrei rispondere ai suoi quesiti, perché so che ne ha, e tanti. Adesso è la bestia coniglio che le parla, non il dottore…Abbiamo da tempo dovuto adattarci nel contrastare gli scempi che l’essere umano fa nei nostri habitat e soprattutto ciò che fa a noi di conseguenza.” Iniziò a spiegare il dottor Neuronis “La nostra comunità, e tutte quelle a cui vende le sue storie, tra l’altro, sono formate come avrà notato da molte specie animali. Prenda ad esempio Gianselmo castoro, uno dei più anziani della nostra contea, viene da lontano e arrivato qui per disperazione. E’ un castoro Canadensis, una delle bestie più intelligenti del nostro Regno. Quando un astronomo di cui non ricordo il nome, si stupì di aver scoperto sul pianeta Marte i ‘canali’, deducendo da quest’ultimi la possibile presenza di una civiltà non diversa da quella umana, Gianselmo, progettò e costruì a Gufolandia, un canale di 225 metri per facilitare il trasporto dei materiali per costruire la diga della nostra contea. Oltretutto, la specie di questo castoro ha per endemico scopo il rinnovamento dell’ ambiente in cui vive. La comparsa del castoro e la sua scomparsa, danno luogo a continue modifiche dell’ambiente e, questi cambiamenti fanno nascere altri habitat. Un nuovo specchio d’acqua può essere utile a tante specie acquatiche: lontre, topi muschiati, anatre, pesci, tartarughe, rane…E continua a tenerlo in sesto fino a quando l’ambiente in cui vivono è circondato da alberi per il loro nutrimento e per costruire le dighe. E molto di quanto le ho detto, pochi umani lo sanno a parte coloro che i castori li studiano. E’ per questo che cerchiamo di evolverci, essere indipendenti al punto da poter ricostruire dove l’umano distrugge, avere le necessarie conoscenze per avvalerci di materiali moderni come generatori di corrente, auto elettriche e non carrette, macchinari per l’ospedale e ogni cosa che l’umano ha inventato e costruito… “Vede, proseguì il dottore, “Axa la volpe, che viene dalla Francia, ha una gamba
di legno perché la sua gli è stata tranciata da una tagliola, e un occhio di vetro per una zampata datagli da un cane aizzato dagli umani per la caccia. Caparbio l’asino, anche lui non ha buoni ricordi: il padrone lo frustava e trattava male: avrebbe reso di più se preso con amorevolezza. Tedeofiuto, il pastore tedesco e cotenna maiale, sono stati cacciati via perché il contadino non ammetteva bestie gay, qui anche c’è una certa diffidenza nei loro confronti, ma nessuno li picchia. E con questo potrei fornirle tanti altri esempi, tali da giustificare una reazione estrema, di sicura e giustificata autodeterminazione. Poi, come tutte le collettività ci sono le eccezioni, come ad esempio lei.” “E perché sarei un eccezione?” domandò Ettore infastidito. “Se mai visto un coniglio che beve, fuma e ruba le moto?”replicò il dottore. “E lei come lo sa che ho rubato una moto?” –si stupì il coniglio. “Andiamo Ettore, qui a Gufolandia si sa tutto di tutti e lei, anche se l’ha abilmente nascosta, un mezzo meccanico degli umani, come può essere una moto, non a inosservata.” Era tutto vero, pensò Ettore. Era successo quando ancora abitava a Gufolandia. …Era rientrato abbastanza presto un pomeriggio dai suoi bagordi. Arrivato a casa cominciò a dettagliare il suo piano. Era un tantino audace ma se non c’era del rischio in quel che faceva non si muoveva. Fu uno dei rari momenti che si astenne dal bere. A sera dopo il tramonto, mise nel suo zainetto una lama lunga, molto sottile e ricurva, un paio di Ray-Ban per bambini, una sciarpa di lana bianca. Indossò il suo giubbottino jeans e uscì di casa, e nel più silenzio dei silenzi, si inoltrò nella notte verso la grande città. L’Aurelia era lunga e stufo di quel o da ominide, si mise a quattro zampe e corse per un buon tratto, fino a quando intravide via Baldo degli Ubaldi; per strada non c’era nessuno e poche auto di aggio non facevano certo caso a un coniglio vestito. Arrivato all’altezza di via del Corso, si immise nella via Sistina e da questa arrivò in Piazza di Spagna. Si guardò attorno: qualche ubriaco, due coppiette di aggio, un barbone che dormiva sulla scalinata. Si avvicinò rapidamente a quattro moto parcheggiate, si acquattò in attesa. Nulla. Dallo zaino tirò fuori la lama ricurva; si ricordava come usarla, gliela aveva insegnato un suo amico quand’era ancora un umano fra gli umani, e se allora funzionava, doveva funzionare anche adesso. Saltò sul
sellino di una Triumph ‘Bonneville’ e cominciò ad armeggiare con il suo attrezzo fintantoché non udì il “clic” liberatorio. Osservò alla sua sinistra, niente; alla sua destra, idem. Dallo zaino prese questa volta la sciarpa che mise attorno al collo, inforcò gli occhiali e mise in moto. Aveva qualche difficoltà ad arrivare ai pedali delle marce e del freno, ma la punta delle zampe posteriori toccavano quanto bastava. Inserì la prima dando un filino di gas e lasciando con la zampa sinistra la frizione, tanto quanto bastava per toglierla dal cavalletto laterale, raddrizzò la moto con difficoltà e poi prima che si sbilanciasse diede una forte sgasata, si impennò e fuggì nella notte inoltrata. Furono veramente pochi gli automobilisti che strabuzzarono gli occhi alla vista di un coniglio su una moto. Gli umani si rubavano le cose tra loro, ma un coniglio che rubasse una moto a loro, non s’era mai visto. Arrivò al 24° chilometro dell’Aurelia scalando le marce ed entrò nello sterrato conducente a Gufolandia, parcheggiò la moto sul retro della sua casa, e senza andare a dormire preparò l’attrezzatura per apportare subito le modifiche ai pedali. Fortunatamente, la sua casa distava qualche decina di metri dalle altre, e a parte una candela che si accese e subito si spense, era certo di non aver svegliato nessuno. La moto era nera e le parti cromate luccicavano al chiarore della Luna e attraverso i vetri della sua finestra, Ettore la guardava estasiato. Quand’era un ragazzino umano, c’era nel giro delle cattive compagnie un giovanissimo esperto di furti delle moto, e il suo sapere, la sua saggezza gliela aveva trasmessa oralmente non lasciando mai niente di scritto perché la ‘conoscenza’ non cadesse in mani sbagliate..Inoltre, -pensava – quel furto non gli avrebbe pesato sulla coscienza: la rabbia che aveva dentro per essere stato più di una volta giudicato da una volpe scema che, chissà per quale motivo gli si accaniva contro, gli dava ancora più coraggio per mettere a segno quel genere di impresa; già ribelle per conto suo, detestando ogni divieto e regola, non si sarebbe privato più di niente, e se ‘occhio di vetro’ continuava a perseguitarlo, di occhi di vetro se ne sarebbe trovati due, pensò con rabbia. A tutto questo meditava Ettore nel trionfo della sua bravata. Cominciò a lavorare sulle trasformazioni da apportare. Prese la saldatrice a pila dal suo scatolone degli attrezzi e con delle aste metalliche, fece i necessari rialzi alle pedaliere. Era intensamente impegnato al suo lavoro quando udì un frullare d’ali.
“Credi d’aver fatto bene?” gli disse Fuoriditesta il picchio, improvvisamente sceso da un albero. “Io che volo li ho visti quegli attrezzi la, si chiamano moto e inquinano l’aria dove ano.” Lo rimproverò. “Sta tranquillo pennuto, non avrete questa soddisfazione, adesso vatti a fare un buco che ho da fare, scemo di guerra.” “ Rendila subito, riportala stanotte dove l’hai presa, eviterai a tutti noi molti guai.” Soggiunse. Ma tu, devi essere proprio fuori di testa, ma non ci penso nemmeno, anzi fammi un piacere bipede vai a rompere da qualche altra parte.” “Sei un irresponsabile!” tuonò il picchio. “Si, cia,cia,cia e ricia ciaccià… Amareggiato dalle risposte, il picchio sbatte e ali e si dileguò. Riprese il suo lavoro. In pratica rifece nuove pedaliere saldandole alle originali. La cosa fastidiosa era che se usava il saldatore, doveva farlo solo con batterie scadenti. Se solo gli avrebbero dato zampa libera, la prima cosa da fare era un generatore di corrente. Ma parlarne a Belvedere bracco, ministro dell’industria e risorse, gli veniva il voltastomaco tanto era ottuso. “Heilà!” salutò Gonzales il topo uscito da uno dei suoi corridoi sotterranei. Cristo Santo!” bofonchiò Ettore ancora infastidito, “ ma tutti stanotte dovete venire?” “Visita di cortesia,” annunciò allegramente Gonzales. “Più tardi, brinderò alla tua impresa con un buon Whisky di malto.” “Almeno tu, non sei venuto a farmi la morale.” “Ma quale morale,” protestò energicamente il topo. “Con gli umani non si può più vivere…I miei amici di Gufolondia e quelli delle grandi città, si lamentano che le loro abitazioni sono invase da topicida e veleni d’ogni genere, se stiamo fuori chiamano la disinfestazione; se ci avviciniamo ai “cassonetti dello spreco” non ti dico, e nella nostra contea non si produce abbastanza immondizia per
sfamare noi tutti, è un vero problema…Hai fatto bene Ettore, gli umani non hanno nessun riguardo nei nostri confronti, non vedo perché noi bestie dovremmo averne nei loro.” “Ti va una Vodka?” gli domandò Ettore. “Ti ringrazio, ma preferisco il mio Whisky al malto.” Rifiutò cortesemente Gonzales. “Prima mi dovrò fare un giro in cerca di buoni scarti, poi berrò. A stomaco vuoto non ci riesco.” “In bocca al lupo,” gli augurò Ettore. “Già, tanto adesso non ci fa più paura…” Aveva terminato il lavoro e prima di rincasare coprì bene la moto con un telo. Come se l’aspettava, dato gli innumerevoli aggi di bestie d’ogni genere un capannello di bestie s’era fermato davanti casa sua. Come girano le voci a Gufolandia e in modo così rapido non s’era visto in nessun altra contea. Uscì da casa sua di colpo, spaventando un pò tutti. “Volete informazioni? Ambite a prossimi pettegolezzi? O vi alliscio il pelo subito!” minacciò. E il piccolo gruppo si dileguò, ma non era finita. Da lontano Ettore si accorse di una figura che per il o e la cadenza conosceva bene. Gianselmo castoro stava arrivando e con lui doveva usare le buone maniere in vista di possibili e future detenzioni. “Ciao Gianselmo.” “Ciao,” rispose il castoro svogliatamente. Fece il giro e andò sul retro, Ettore lo seguiva. Quando vide che sollevava un lembo del telo scoprendo in parte la moto, il coniglio volto lo sguardo da una altra parte. “Cos’hai combinato questa volta?” gli chiese iniziando con un tono di rimprovero.
“Lo vedi da te,” rispose Ettore con aria di sufficienza. “Certo che lo vedo: certamente non l’hai comprata, chi avrebbe mai venduto una moto a un coniglio…” “Se voglio posso anche acquistarla.” Ribatté Ettore. ”Non sei il tipo da spendere una fortuna per un gingillo di quelli, per te è più conveniente rubarla, vero?” sentenziò Gianselmo. “Si, l’ho rubata, e allora?” “Senti coniglio, io non so come spiegartelo, ma alla tua narrazione comincio a crederci; lo vedo e poi lo sento. Dalle storie che tu racconti su quel giornale, da quello che si dice di te: sei troppo diverso da noi bestie. Non voglio farti la paternale, ma ti stai lentamente e inesorabilmente scavandoti una fossa, un baratro. Prima la fallita trattativa con l’umano, e anche se sei risultato innocente, lo sai che il popolo è quello che è; continui a bere come una spugna, e adesso ti sei messo anche a rubare, non so se ti sei accorto che c’è una volpe che fin quando non ti cuoce e a fuoco lento, non si metterà l’anima in pace.” “Lo so,” consentì Ettore indifferente. “Fai in modo che non debba rivederti alla Fortezza del Pensiero. Sei intelligente, hai del carattere, scrivi bene, puoi fare qualcosa di buono, anche il politico se non avessi quel maledetto vizio. Io ormai sono vecchio, te l’ho già detto ne ho viste troppe, ma so per esperienza come vanno a finire certi fatti qui a Gufolandia.” Gli disse serenamene Gianselmo. “Certo, non vorrei mai fare il comandante delle guardie, però con la tua posizione non ti tocca nessuno.” Commentò Ettore. “Si Ettore! Sono il comandante delle guardie, ma credimi di tutta l’autorità di cui sono investito è come se anch’io fossi sempre in galera. Cosa credi, che solo i detenuti vedono le sbarre? Le vediamo anche noi! In modo diverso forse, ma le vediamo.” “Lo posso immaginare.” ammise il coniglio. “Allora fatti furbo. Vattene da questa contea, va da quei matti di Coni’s I’sland’s, dove almeno appartengono tutti alla tua razza…”
“Non possono cacciarmi, me ne andrò quando mi pare.” Rispose ostinato Ettore. “Mi sembra che tu non abbia capito niente. Beh sono fatti tuoi.” Fece Gianselmo accennando un saluto… “Ettore, Ettore… “Chiamò il dottor Neuronis, ” cosa le ha preso?” “Niente, stavo ripensando al furto della moto e quello che successe dopo.” “Ah! Ma perché l’ha fatto?” “Senta, non ha mai avuto il desiderio di possedere una cosa che le piace così tanto da fare carte false per averla, correndo qualche rischio e un brivido di paura?” “No, sinceramente no. Ho una vita regolare, niente di emozionante, se non la ricerca professionale, e a me e mia moglie sta bene così.” “Io no, stando insieme agli umani ho acquisito quel difetto. Gli occhi sono fatti per guardare, ammirare, contemplare, e di moto ne ho viste tante, ma non né ho mai posseduta una; se solo lei avesse provato per una volta la sensazione che provo io a sfrecciare a 140 chilometri orari sull’asfalto, come ho provato io, con i peli al vento, e la velocità che ti inebria a tal punto da diventare una droga, forse non sarebbe così bestia come lo è adesso. Gli umani hanno delle cose che ti fanno girare la testa. Vroom, vroom…Vrooomm!” mimò Ettore simulando le zampe sul manubrio. “Penso che oggi può bastare.” disse il medico accigliato. “Va bene,” si alzò Ettore dalla sedia, e sulla soglia della porta lanciò una frecciatina al suo dottore. “Mi raccomando, attraversi sulle strisce pedonali sempre che ne abbiate…” Rientrando nella sua stanza trovò insolitamente Fraschetta. “Ciao, come mai a quest’ora?” La salutò. “Io faccio di tutto per salvarti il culo da quella bestia rossa, e sono l’ultima a sapere delle tue cazzate, ma un po’ di rispetto ce l’hai per me?” lo aggredì verbalmente la coniglia.
“Non ho voglia di litigare: cos’è che sei venuta a sapere e che io non ti avrei detto.” “La notte te ne vai a zonzo per la grande città, e ritorni con una moto, chi sono io per sapere queste cose da terze bestie?” chiese irata Fraschetta. “Lo sai che la grande città è pericolosa? Che se ti trovano in libertà ti fanno alla cacciatora?” “Cosa sarebbe scusa, questa ‘cacciatora.’ Rise Ettore. “Che finisci al forno!” “E’ una fine scottante,” ironizzò Ettore. “Appunto, ed io di un coniglio fritto non so che farmene.” “Calmati Fraschetta, sono qui e non mi è successo niente.” Cercò di rasserenarla. “Credo che tu ti stia affezionando un po’ troppo a me.” Le disse Ettore serio. “Ed è un male questo?” chiese piagnucolando. “Nel nostro caso si. Hai un marito, e malgrado ciò fai quello che ti pare; lui non ti pone divieti, non è geloso, forse non è molto attraente ma è per me un amico e una brava bestia. Fa che non debba mai accorgersi della nostra relazione, non me lo potrei mai perdonare. E tu, lasciami libero, non mi imporre niente, il giorno che incontrerò una coniglia che mi piace più di te, non lo saprai da altre bestie ma direttamente da me.” “E credi che questo mi consoli?” gli disse piangendo come una fontana. “Dai, non è successo niente. La nostra natura, quella di noi conigli, appartiene alla natura e dobbiamo riprodurci…” “Ma io non posso,” singhiozzò Fraschetta. “Cosa non puoi?” “Fare della riproduzione,” disse asciugandosi gli occhi. “E perché?” “Perché, perché…Per scopare senza problemi mi sono fatta chiudere le tube…”
“Andiamo, andiamo, non è poi un dramma. Ma queste…Si insomma, queste tube si possono aprire o restano chiuse per sempre?” domandò Ettore incuriosito. “Non lo so, al momento dell’operazione ero così felice che al chirurgo non ho chiesto niente.” “Ti consiglio allora di lasciarle chiuse, al ritmo con il quale rispondiamo alla natura per la procreazione, avremmo già una colonia di coniglietti e non solo, nipoti e pronipoti.” “Tu credi?” “Ci metto la zampa sul fuoco. Ma dimmi una cosa, Asdrubale non si è mai chiesto come mai non figliavi?” “No, lui pensa che sia lui, che non funziona, è per questo che non lo facciamo quasi mai, ma io sono una coniglia nel pieno della mia maturità e ho le mie esigenze.” “Capisco.” Si pronunciò Ettore riflessivo. Entrò l’infermiera. “Fraschetta, in via eccezionale l’ho fatta entrare, ma non è orario di visita, se mi scopre il primario se la prende con me.” -Va bene Françoise,” intervenne Ettore, “se ne va via subito.” L’infermiera annuì e chiuse la porta. “Tieni, ti ho portato la solita bottiglia.” Disse tendendogli la Vodka. “Sei un angelo,” la baciò sulle labbra Ettore. “Adesso vai, se vuoi torna oggi pomeriggio.” “Non lo so se potrò. In questi giorni a Gufolandia mi sembrano diventati tutti matti. Molti accessi alle strade carrozzabili sono state chiuse…Stanno facendo dei lavori dappertutto, sembra che stiano installando la rete elettrica.” Spiegò Fraschetta. “Ma, ma sei sicura?”
“Si, il nuovo presidente Belvedere bracco ha autorizzato i lavori e stanno mettendo a soqquadro la contea.” “Hai capito quel figlio d’una cagna impestata, e io che lo credevo ottuso…” “Ma non ti sono arrivati i giornali? C’è una lista di tutte le innovazioni previste: oltre all’energia elettrica, si parla di nuovi commerci, auto elettriche, bus elettrici, del lavoro un po’ per tutti e visto che queste innovazioni creeranno delle vere e proprie società per azioni, hanno intenzione di fare anche una Borsa Valori.” “Caspita! E’ peggio di quello che credevo.” Esclamò Ettore stupito. “Perché peggio?” domandò Fraschetta che faceva finta di non capire. “Ma non ti rendi conto? Gli interessi che gireranno a questi mutamenti daranno vita a egoismi, prepotenze, ruberie, le bestie non penseranno altro che ai soldi…” “Qualcuno dice che è il progresso.” “Progresso un corno!” disse Ettore arrabbiato. “Fraschetta, mi scusi, ma devo chiederle di andarsene.” Intervenne ancora l’infermiera. “Vai, io non credo che starò qui per molto, ho ricevuto una lettera di quel tuo amico che si sta adoperando per farmi uscire, lo vedono che non sono matto.” “Finalmente una bella notizia!” esultò Fraschetta. “Ciao, io vado. Non vedo l’ora che torni a casa.” Ettore si rimise a letto, ma subito dopo ò il primario. “Era la sua compagna quella bestia che è uscita adesso?” chiese. “Diciamo un amica,” rispose Ettore con indifferenza, “sa com’è, le conigliette vanno e vengono…” “No, non lo so, e mi sembra che i suoi consimili di Coni’s I’sland’s siano
alquanto depravati.” “Adesso mi sembra che sia lei ad essere fuori strada, dottore. Non dimentichi che siamo conigli e quello che lei chiama depravazione, io la chiamo riproduzione.” Asserì Ettore, certamente in quel frangente, nella sua veste di coniglio. “Noi, che apparteniamo alla stessa specie, riteniamo che una compagna sia per tutta la vita.” Gli rispose lo psichiatra piccato. “E’ fuori di testa?” gli ringhiò Ettore, “quando mai si è visto un coniglio monogamo?” “Eppure io lo sono, e insieme a me altri colleghi.” Ettore rifletté. Non era il momento, dato il buon auspicio di uscire presto da quel posto, di inimicarsi quella bestia per una discussione che comunque non avrebbe portato a niente. “Posso ammettere,” disse, “ che se il vostro cambiamento è tale, quale lei lo descrive, sia un bene per la nostra razza.” Mentì Ettore. “Mi fa piacere che lei lo riconosca,” sorrise per la prima volta il medico. “E naturalmente per tutte le altre razze,” aggiunse Ettore. “Vedo che comincia a ragionare e che a quel monologo tenuto al processo non ci creda più tanto…” “Lei me lo ha esposto più chiaramente.” Ammise Ettore falsamente. “Dottore, scusi…” “Si?” “Mi tolga una curiosità, quale è l’aspettativa di vita di un coniglio che vive in libertà?” “Solitamente,” rispose il dottore, “è di dieci anni, ma per noi che abbiamo migliorato il nostro ritmo psico-biologico anche più, forse dodici anni.”
Ettore iniziò a fare un rapido calcolo. A parte i periodi vissuto da umano, lui adesso, ne aveva otto come coniglio, e se l’aspettativa di un umano era di 80 anni, quella di un coniglio, a sfondare di dodici, lui da umano ne avrebbe avuto quasi 53. Dio mio come a il tempo! –pensò. Entrò nella stanza un infermiere maschio. -E Françoise che fine ha fatto?” chiese Ettore deluso, vedendo quella bestia scialba e effeminata. “Le hanno cambiato il tuvno,” rispose questi, “destva o sinistva?” chiese preparando la siringa. “Sinistra,” rispose Ettore abbassando i pantaloni del pigiama. Terminata l’operazione Ettore si ricompose. “E tu, come ti chiami?” “Io sono Jean Dellaltvspond,” dichiarò l’infermiere. Di nome e di fatto, pensò Ettore. “Senti, mettiamo in chiaro una cosa,” gli disse serio. “Tu, sei Jean Dellaltvspond.” “Si, glielo appena detto!” “Io invece sono di quell’altr!” “sparisci culattone!” “Oh, che volgave pevsonaggio!” si offese l’infermiere alzando il muso. “Fuori!” “Anche nella mia razza!” rimuginò Ettore schifato. Non aveva sonno, scese dal letto e iniziò a zampettare avanti e indietro, pensando e ripensando a tutti i fatti che gli erano accaduti quando ancora era un umano. Il giornale pensava che fosse frutto della sua fantasia e di qualche conoscenza della razza più evoluta rispetto alle bestie, soltanto lui sapeva che era tutto vero, ma quando si verificò la sua metamorfosi, questo proprio no. Ed era forse scrivendo, dettagliando, ricostruendo che alla fine, non avendo più nulla da raccontare sarebbe giunto a quell’anello di congiunzione che lo avrebbe illuminato su quel fatidico momento. Il tempo ava e per lui molto più in
fretta. Aveva necessità di rientrare nel suo mondo, perché era sicuro, una volta riacquistata la sua sembianza umana doveva altresì combattere con una nuova veste che ignorava. Ora iniziava a capire perché la sua necessità di scrivere stava diventando prioritaria. Era come un filo conduttore che alla fine lo avrebbe forse portato alla verità oppure fattogli scoprire dei retroscena ancora più profondi e inimmaginabili. Prese dalla sua borsa i fogli, un flaconcino di inchiostro e la sua penna d’oca e si mise al lavoro… Erano ati 28 anni…
LA RAPINA
… da quando Eleonora era entrata per un breve periodo nella sua vita, e trovarsi così vicino a lei geograficamente gli suscitava uno strano effetto, di posti e momenti vissuti insieme e mai dimenticati. Naturalmente, se tutto era finito, era a causa sua. Un giorno gli disse: “Io posso combattere con qualsiasi donna che ti gira attorno, fosse anche un amica, ma contro quella, fece indicandogli una bottiglia di Whisky sul tavolo, io non posso niente!”. E così fu, la bottiglia prevalse e lei non potè niente. Era ato tanto tempo, e oggi solo al pensiero, si rendeva conto di come l’alcol avesse sconfinato nella sua vita, e gli avesse tracciato una strada completamente diversa, inverosimile e in concreto fatta solo di testarde illusioni e puerili aspettative. eggiava per le vie di Fano, nel pescarese. C’era arrivato così, senza una meta precisa, guidato da un recondito inconscio alle cose che gli erano state care e che non aveva più. Forse Dio, dopo tanti anni ati ad entrare e uscire dalle patrie galere, gli aveva dato quell’ultima opportunità regalandogli la compagna ideale, ma lui quell’occasione l’aveva buttata dalla finestra. C’erano solo due donne che realmente Ettore aveva amato nella sua vita, nel senso pieno, la prima e la seconda, le restanti, un arido deserto di finzioni e opportunismo. Era per questo che soleva dire che il suo unico pregio, era quello di non averne e chiunque ascoltando le sue storie, gli avrebbe dato ragione e non a torto trattato da coniglio, ovverosia, da vigliacco e codardo. Ma quando beveva, come tutti coloro che lo fanno - e lo sanno bene, dell’opinione altrui non gliene poteva fregar di meno. E ancora fortunato, che nel corso degli anni, trascinandosi di città in città, di paese in paese, dormendo dove gli capitava fosse una panchina, una sala di attesa ferroviaria, il pronto soccorso di un ospedale, un vagone di treno in sosta,
finanche un antro, a terra su dei cartoni, non abbia fatto quegli incontri che solo ubriaconi e barboni possono raccontarti. Cercò un supermercato e lo trovò quasi subito, non poco lontano. L’ultimo bicchiere di Whiskey l’aveva bevuto un ora fa e adesso il suo organismo reagiva male, essendo già in crisi di astinenza: tremore alle mani e quell’indecente afrore dato dall’eccessiva traspirazione. Bisognava che asse a qualcosa di più leggero, necessario non solo per la sua borsa ma anche il suo organismo e con quei pensieri, si chiedeva in che stato fosse il suo fegato e la milza. Per tanti ricoveri aveva avuto a conseguenti stati etilici e totali recuperi, tante erano le ricadute. Iniziò a girare nelle scaffalature di un mini-market, osservò quella dei superalcolici e soppesò la bottiglia che aveva appena presa in mano, riflettendo. La rimise al suo posto e si accontentò di qualcosa di più modesto: due cartoni di vino bianco. La sua voglia di bere si fece insistente e dopo aver pagato usci in fretta dal negozio. Camminava velocemente alla ricerca di una panchina discreta trovandola ai giardini pubblici. Davanti a sé aveva un edificio molto grande in ristrutturazione, forse ne stavano facendo una nuova biblioteca; non c’era quasi nessuno alle nove del mattino. Si tolse l’impermeabile, e si sedette aprendo la capiente borsa di pelle che per tutto l’aveva usata fuorché per ciò che era stata concepita; quando l’apriva emanava un odore di alcol stagnante e un nugolo di moscerini che tutt’attorno vi si avvicendavano. Si versò un primo bicchiere di vino, un secondo e un terzo, poi aprì un libro e si mise a leggere. Saranno stati non più di dieci minuti che era immerso nel suo romanzo, che la sua attenzione si spostò, alzando gli occhi, su una figura che si era fermata davanti a lui osservandolo. Lo guardò meglio e i suoi tratti gli ricordarono un evento e una sensazione di negatività e malvagità.. Adesso riconosceva quell’uomo: il suo ghigno malefico lo fece impallidire e il remoto riapparve in una crudele parentesi… In quell’anno e in quel periodo già freddo per la norma climatica, il mese di ottobre regalò ancora tiepide e soleggiate giornate. Seduto su un muricciolo, Ettore consumava un frugale pasto di pane e affettati, non gli mancava la bottiglia di vino. I suoi pensieri erano cupi e ottenebrati: gli restavano pochi
soldi e pur avendo chiesto nel corso della settimana a negozi e commercianti un lavoro giornaliero, come pulire uno scantinato, lavare una vetrina, o qualsiasi altro incarico umile, faticosa, sporca e repellente, aveva ricevuto un coro di: “No grazie…”. Non né poteva più. Rabbia e costernazione gli arroventavano l’animo, facendo crescere in lui una tremenda e insana voglia di ricorrere a mezzi estremi. Fino ad allora non aveva mai rapinato banche, ma solo cinema e fast-food. Continuando a bere il suo vino, si ricordò di altri detenuti come lui arrestati per rapina, ma nelle banche, cosa che per lui immaginava irrealizzabile da solo, alla fine, il reato di rapina pagava con la stessa condanna, indipendentemente che fosse un cinema o una banca. Terminò di bere la sua bottiglia, fece tutt’uno con carte e residui alimentari e li buttò nel cestino. Cominciò a eggiare in direzione della stazione ferroviaria, osservando e memorizzando gli istituti di credito, banche, agenzie di assicurazione. Era a duecento metri dalla stazione e sulla sua destra c’era una banca. L’orario di apertura pomeridiano era alla 15:30. Ora gli serviva di sapere a che ora partisse un treno per Milano, considerando quattro minuti dall’entrata in azione, riempire il sacchetto di plastica con il contante e portarsi sul secondo binario, tenendo agevolmente un o che non desse nell’occhio, calmo e tranquillo. La partenza di un regionale era prevista per le 16:15, alle 16:11 doveva entrare, né un minuto di più, né un minuto di meno. Aveva del tempo a disposizione, per cui acquistò presso un commerciante di liquori una piccola bottiglia di Vodka, si sedette sulla panchina di un centro commerciale adiacente, al riparo dagli sguardi dei anti e si mise a bere, proiettando nella sua mente ogni minuto, o, casse, quante e quali; interrogativi, variabili al programma di fuga e tutta una serie di accorgimenti perché andasse tutto bene, ed infine, ostacoli possibili o probabili e loro soluzione, non per ultima, l’eventuale cattura. La sua coscienza già gli rimordeva, ma non poteva continuare a quel modo. La sua fede in Dio non vacillava più ormai, era del tutto inesistente. Le nottate ate al freddo, l’errabondo girovagare senza meta né scopi, la sporcizia interiore che lo divorava giorno dopo giorno, e tanti altri motivi che facevano di lui un solitario, nomade e vagante, aggiungendo l’isolamento di ogni giorno e notte, ne avevano fatto un essere taciturno e impersonale. E l’alcol contribuiva per gran parte variegando la sua balordaggine in oscure e insensate trame
vendicative. Malgrado ciò, nei reati precedentemente commessi, non aveva torto un capello a nessuno, e così sarebbe stato anche adesso, se avesse portato a termine il suo oscuro disegno. Preferiva rinunciare, farsi prendere, ma che un innocente ci andasse di mezzo per i suoi problemi, non l’aveva mai accettato. Nel suo risibile ‘delinquenziale’, aveva anche lui un suo codice comportamentale. Stette lì a pensare mentre i minuti correvano veloci. Poteva ancora rinunciare, se voleva, salvarsi cambiando modestamente direzione e prepararsi al rientro nella casa di accoglienza che l’ospitava in quel periodo, camminare altrove, buttarsi sotto una macchina, senz’altro meno doloroso di una rapina, gridare il suo intento ad alta voce: non sarebbe stato per lui la prima volta, quando blaterava a un pubblico più divertito che stupito le sue angosce; fermare un ante e parlargli del suo malvagio progetto, della sua disperazione, del suo pianto nascosto e nascoste afflizioni, ma rimase lì, inchiodato e irremovibile, in quel salto che lo avrebbe forse portato temporaneamente su, o fatto sprofondare in un'altra tenebra della quale, per precedenti esperienze, ne conosceva i riscontri. Alle sedici zero nove si alzò. Respirò profondamente una, due, tre volte. L’adrenalina cominciava ad alzargli la pressione; i suoi occhi divennero vigili e di un estrema mobilità, non gli sfuggiva niente di quanto osservava, anche un impercettibile movimento e deciso, attraversò i pochi metri che lo separavano dalla banca. Entrò nel cilindro e attese che si chiuse. Da quel momento sarebbero stati i minuti più significativi e per i progetti che aveva: rialzarsi, in caso contrario avrebbe forse sprecato ancora tre anni in un istituto di pena. Con buona e interpretativa indifferenza osservò l’interno della struttura, scelse la cassa più vicina all’uscita; un impiegata bionda e carina stava registrando il contante di cassa. Ettore preparò la sua busta di plastica e mise sotto agli occhi della donna un settimanale aperto a metà e contenente un laconico e minaccioso messaggio, scritto in stampatello su un foglietto di carta: “Mi dia tutto il contante altrimenti faccio una strage…” Quale “strage” potesse fare, non lo sapeva nemmeno lui, non aveva minacciato l’impiegata nemmeno con un taglierino, però, l’ammonimento funzionò. La donna non si perse d’animo, né si spaventò. Cominciò con velocità e destrezza a argli banconote de 50 Euro, miste a 100, ed Ettore gongolava perché di tagli inferiori sembrava non né avesse. Ettore guardò con calma l’orologio, mancavano due minuti. Quando terminò di riempire il sacchetto, le sorrise e la
ringraziò. Ma c’era qualcosa che non andava, non quadrava per il verso giusto, in questi casi è istintivo. Si chiuse nel cilindro e appena fu fuori pensò che tre quarti del lavoro era andato bene. L’ultimo segmento, arrivare al treno. Raggiunse la stazione sempre con quella impressione disagevole e di pericolo. I tempi erano stati rispettati, e stava ora scendendo le scale del sottoaggio e il treno era già sul binario e sarebbe partito nei venti secondi successivi, eppure qualcosa lo inquietava. Era appena salito sul primo gradino del vagone scelto, quando sentì afferrarsi per le braccia da due robusti agenti della Polfer. All’istante, ogni cosa, pensiero, progetto, vennero frantumati in quella manciata di secondi; restava da sapere in che cosa avesse sbagliato: ultima e povera consolazione. L’impiegata della banca, dopo essersi assicurata che per l’incolumità dei clienti Ettore fosse uscito, aveva si dato l’allarme, ma con i tempi intercorsi nel denunciare il fatto a colleghi e direttore, Ettore aveva tutto il tempo di allontanarsi e senza fretta, i suoi calcoli erano giusti. Ma quello che lo tormentava, e non seppe immediatamente cosa, era un ex magistrato in pensione in quel momento all’interno per effettuare delle operazioni bancarie, e aveva seguito tutta la scena, poi gli era andato dietro avvisando la polizia in stazione. Seduto davanti l’ispettore, era inutile negare: troppe evidenze e ovviamente la testimonianza dell’impiegata ata dal magistrato che non si era perso un attimo della sequenza, l’impossibilità di spiegare cosa ci fe a Pavia con un sacchetto di plastica contenente 9300 Euro, lo avevano già condannato. L’ispettore era romano, come lui. “Ti saresti fatto un bel Natale.” Disse ironicamente. “Sei stato veramente sfortunato,” aggiunse facendosi serio, “se quel signore si fosse fatto i cavolacci suoi, a te non ti avrebbe preso più nessuno, è vero?” gli domandò quasi prendendolo in giro. Ettore annuì svogliatamente con la testa, non aveva nessuna voglia di parlare. Attese una decina di minuti e poi gli misero sul tavolo il verbale da firmare. “Sei invece stato fortunato al fatto che ti abbiamo preso noi, quelli della Questura sono meno teneri con i rapinatori. Svuota le tasche…”
A parte 30 Euro, un accendino e delle sigarette, non aveva granché, mise tutto sul ripiano della scrivania e si sedette. “Dove mi portate?” chiese Ettore. “A “Torre del Gallo,” rispose questi. “Ma dovrai aspettare un oretta, al momento non abbiamo mezzi.” “Prima che mi portiate in cella di sicurezza, posso avere qualcosa da bere? “ domandò Ettore. L’ispettore, a quella richiesta arricciò un po’ il naso, ma sospirando acconsentì. “Cosa vuoi?” “Un Cognac,” chiese sperando lo esaudissero. Il funzionario di polizia lo squadrò ancora una volta. “E va bene, difficile da digerire, vero?” Ettore fece un cenno con la testa, era un assenso. L’ispettore si rivolse al collega. “Fa il favore vagli a prendere quello che ha chiesto,” gli comandò dandogli 10 Euro dei soldi che Ettore aveva appoggiato sulla scrivania. Rimase così seduto cominciando a immaginare come fosse strutturato quel carcere e che non aveva mai visto. Di trasferimenti, nel corso delle precedenti detenzioni ne aveva fatti parecchi e transitato in molti, ma a Pavia non c’era mai stato. E la domanda che tutti si ponevano appena arrestati era sempre la stessa: “Con chi capiterò in cella?”. A Ettore non spaventava la privazione della libertà, non gli importava delle angherie delle guardie carcerarie, della pena da scontare e delle angoscianti attese per ottenere qualche beneficio di legge, ma con chi avrebbe dovuto trascorrere 24 ore su 24, con una o più persone, in spazi angusti, dove inutile nasconderlo, a farla da padrona era le legge di chi si imponeva, non a parole, ma a schiaffi, pugni e calci, per usare un eufemismo. Arrivò il suo Cognac. L’agente depositò bicchiere, scontrino e resto vicino le sue cose. Ettore ringraziò entrambi e bevve d’un fiato. Il sangue gli ricominciò a defluire nella vene, gli fecero fumare una sigaretta e in attesa dell’auto lo chio nelle cellette che avevano a disposizione… …Adesso, in quei giardini, a Fano, a centinaia di chilometri dove aveva avuto il
dispiacere di incontrarlo, se lo ritrovava davanti, spavaldo e memore della sua bravata di tanti anni fa. “Non si saluta più?” chiese. Ettore non rispose, continuava a guardarlo con odio, ma non rispondeva. “Non mi riconosci?” “Certo che ti riconosco, non ho dimenticato.” Rispose Ettore. “E allora?” “E allora non ti saluto…” disse freddamente Ettore guardandolo negli occhi…
I L P E S T A G G I O
Ai tempi in cui venne portato nel carcere di Pavia, rivide per pochi attimi la sezione, la sua cella e con chi l’aveva condivisa. Lui, era qualche cella più in là. Dopo tre mesi di reclusione riuscì ad ottenere un lavoro a rotazione: faceva il porta-vitto, tramite un carrello attrezzato per la distribuzione di pasti caldi a pranzo e cena. A mezzogiorno, quando Ettore ava, il lavorante di sezione era già stato chiuso in cella, per cui i “Portami le sigarette a quello…”, “vammi a prendere una scatola di pelati a quella cella…”, terminava, e nessuno poteva uscire, si distribuiva il pasto e basta. Rimaneva il porta-vitto. E l’individuo che adesso aveva davanti, era uno di quelli a cui non importava niente se gli altri mangiavano freddo o in ritardo, quando Ettore ava davanti la sua cella, doveva fargli una serie di commissioni. Le ultime celle si lamentavano per i pasti freddi, la guardia lo rimproverava, e al terzo giorno Ettore dovette porvi rimedio. Stava arrivando davanti la sua cella, e si preparò all’ulteriore richiesta fuori luogo. “Ettore, porta questo rotolo di scottex alla dodici…” “No, non te lo porto. Fallo fare al lavorante di sezione, quando è aperto, io non sono il tuo commesso.” Gli rispose Ettore. Lo guardò allora, come lo stava guardando in quel preciso istante. Ettore sapeva che era dentro per tentato omicidio, e il suo atteggiarsi a boss, non prometteva niente di buono quando riceveva un rifiuto. “E qui, abbiamo MadreTeresa di Calcutta,” bofonchiò riferendosi al fatto che a Ettore premeva che tutti ricevessero il pasto caldo, divertendosi oltremodo con una risata sguaiata. Ettore tagliò corto. “Lo vuoi il vitto?” gli domandò. “Ma portatela via quella merda, e mangiala tu!” gli rispose questi.
Ancora fece finta di non aver sentito e terminato il giro rientrò nella sua cella. Se c’è un posto dove si sa tutto e subito, questo è il carcere: che siano i detenuti o le guardie, cella per cella, sezione per sezione, telegraficamente, voci e pettegolezzi viaggiano a un incredibile velocità alterando un ambiente già focoso e saturo di rabbia. Ed Ettore ne ebbe le prime avvisaglie quasi subito. Nelle ore d’aria gli occhi degli altri detenuti della sua stessa sezione erano puntati su di lui, il suo compagno di cella non aveva detto niente, ma si vedeva che non voleva immischiarsi della faccenda, in quel momento Ettore era solo, e da solo doveva sbrigarsela. Inoltre alla chiusura delle celle gli arrivavano gli insulti, le prese in giro, tanto che alla fine si chiuse dal lavoro, ma non bastò. Quel tipo cercava lo scontro, e lui non poteva tirarsi indietro altrimenti quella storia non sarebbe mai finita. E un giorno lo affrontò. “Se devi continuare a insultarmi perché cerchi una soddisfazione, di non so cosa, va bene, ce la vediamo al eggio io e te.” “Va bene,” rispose con quel sorriso da ebete eternamente stampato in faccia. Se Ettore non l’avesse fronteggiato, chiunque gli avrebbe messo i piedi in testa, anche il più scemo della sezione, e non è che cambiando quest’ultima risolveva il problema: gli amici erano dappertutto e se non bastava c’erano gli amici degli amici. Alle 13:00, l’agente aprì le celle per le due ore d’aria pomeridiane. Ettore uscì dalla sua e guardò davanti a sé lungo il corridoio. Il suo antagonista parlottava con dei suoi aggregati. I detenuti stavano defluendo verso le scale ed Ettore si accodò tenendo con la coda dell’occhio la distanza che lo separava da un gruppetto che veniva subito dietro a lui. Girandosi, se lo ritrovò davanti troneggiando un gradino sopra a lui. Non ebbe il tempo di dire niente che gli arrivò un pugno in piena faccia, destabilizzato, rotolò fino al piano, cercò di rialzarsi ma mentre si affannava a mettersi in posizione eretta gli arrivò un calcio sul fianco sinistro e poi a ripetizione da destra e sinistra; venne di peso messo contro una parete del pianerottolo e ancora in faccia e nello stomaco; quando cadde a terra e mentre gli arrivavano da ogni dove altri colpi, cercò di proteggersi la bocca con le mani e salvarsi i denti. Le botte che prese Ettore lì per lì, non gli fecero male e al momento non sentiva alcun dolore. La mattanza
era durata forse meno di un minuto ma a lui pareva che fosse ato un secolo. “Andiamo…Andiamo…” Udì una voce che sollecitava la ritirata. Steso su un fianco, la testa appoggiata sul braccio e una caviglia dolente, cercò di rialzarsi, di mettersi in pedi ma non vi riuscì: carponi raggiunse il piano e con fatica suonò il camlo. La guardia arrivò sollecita, già sapeva in quel caso cosa poteva essere accaduto. Girò la grossa chiave e aprì il cancello: non stupito ma scuotendo la testa, squadrò Ettore con una punta di rimprovero: “Questo succede perché vi ostinate a tacere, a non segnalarci i bulli che vi riducono in questo stato. Hai visto come ti hanno conciato?” sbottò. “Mi apra la cella, per cortesia, non mi reggo in piedi,” parlò Ettore flebilmente. Aiutato dal lavorante di sezione, zoppicando, entrò nella sua cella. “Sta vicino a lui,” disse l’agente al lavorante, “chiamo l’infermeria.” Ettore si stese sulla sua branda e attese. Il medico arrivò dopo un paio di minuti. Gli toccò lievemente il costato e dalla fitta che gli procurò capì che alcune costole erano rotte; sotto indicazione di Ettore gli esaminò la caviglia e ne riscontrò una distorsione; quanto al viso non c’era più un centimetro quadrato di pelle bianca. La ciliegina sulla torta, un morso ad un orecchio. “Bisogna portarlo giù,” decise il dottore. La guardia annuì e mentre Ettore varcava la soglia della sua cella, l’agente gli domandò: “Chi è stato Renzi?” gli domandò. “Agente, non mi faccia questa domanda, non lo saprà mai, almeno da me…”
Ettore si rammentò di tutto e lui, gli stava ancora davanti. “Perché non te ne vai per la tua strada?” lo invitò. “Si me ne vado,” rispose irritato. “volevo proporti un lavoro…” Gli disse.
“Con te non lavorerei mai, e stai attento Clemente, non ci sarà una seconda volta…” Lo avvertì. Lo vide allontanarsi e lui respirò profondamente. Da quelle persone dovevi starne lontano: per un verso o per un altro avevano lo strano potere di metterti nei guai, solo che a loro dei guai non importava niente, ma a te si. Mise via il libro, quell’incontro gli aveva fatto are la voglia di leggere. Continuò a bere e pensare. C’era il problema del dove are qualche nottata al riparo, potersi lavare, cambiare i vestiti e radersi. Prese la sua borsa, indossò il vecchio impermeabile e si diresse verso gli uffici dei vigili urbani, loro, avrebbero saputo dirgli se a Fano c’era una qualche struttura che fosse una ‘casa di accoglienza’. Gli indicarono San Paterniano, poco distante da dove si trovava lui, dotata anche di una mensa dove si poteva mangiare senza pagare e un vestiario. Gli era stato detto che doveva trovarsi lì almeno per le 11:30, per fare tutto quanto di cui in quel momento aveva bisogno. E così fece. Entrò direttamente trovandosi davanti un piccolo spazio, con uno scrittoio che serviva per le registrazioni di chi avrebbe ato al coperto dieci notti. Il responsabile stava parlando con un'altra persona ma quando si accorse di lui, smise subito. “Hai bisogno?” domandò. E quello che Ettore non digeriva, erano le persone che avano direttamente al ‘tu’. Ma era lui a chiedere, quindi soprassedette. “Dovrei farmi una doccia e prendere qualche capo di abbigliamento al vestiario.” Spiegò brevemente e a distanza sperando che l’alitosi non lo tradisse. L’uomo lo guardò letteralmente dalla testa ai piedi, con piglio severo, dagli occhi indagatori: secondi per lui che furono di vera vergogna. Se questa è l’assistenza, pensò, -te la facevano pesare. Già,” rispose soltanto l’uomo. Poi continuando ad osservare i suoi cenci più che vestiti aggiunse: “a prima al vestiario, non vorrai mica rimetterti quei panni dopo la doccia!” sentenziò.
Ettore stette lì a guardarlo con aria schifata. “E dove si va per il vestiario?” domandò. “Scendi le scale, la seconda porta a sinistra.” Gli indicò con un gesto della mano. La scalinata portava giù, come se si fosse in un sotterraneo e, gradino per gradino ne ammirò le mura con i soffitti ad arco, e pietra a vista. Il Convento – pensò. Un ala del Convento adibita all’assistenza degli indigenti. Alla sua destra intuì che la grande sala con i tavoli apparecchiati con piatti e posate di plastica fosse la sala mensa. E dall’aspetto sembrava una di quelle trattorie caratteristiche che si trovano nei paesini, in montagna. Stava continuando ad osservare estasiato le mura interne, quando udì una voce provenire dalla sala alla sua sinistra, con un anta della porta aperta. “Avanti il prossimo…” Chiamò una voce di donna. Non c’era nessuno che aspettava per cui entrò. “Buongiorno…” salutò impacciato. “Ciao giovanotto! Cosa ti serve?” gli chiese un arzilla signora sulla sessantina. “Tutto,” rispose Ettore. La donna sorrise e si preparò. “Mi servono calze, slip…” Andava in senso logico e priorità d’urgenza, “pantaloni di taglio classico, verdi vanno bene, blu e beige, giacche leggere a tinta unita abbinate ai pantaloni, cinte, camicie, cravatte…” “Hei! Ferma un po’…adagio. Non ho mica trentasei mani.” Lamentò la signora, ammassando sul banco quel poco che aveva trovato. ò venti minuti nel vestiario; provava solo le giacche, per i pantaloni gli bastava chiudere il braccio a gomito, se entrava, andavano bene, per le camicie conosceva il suo collo, quanto al resto andò ad occhio. Con due borse di plastica piene di indumenti risalì le scale e si chiuse nel vano doccia. Quando ne uscì, pulito, vestito, sbarbato, era un altro.
ando davanti al responsabile gli chiese se aveva posto per dormire. “Adesso vai in sala di attesa, dopo pranzo vediamo.” Gli disse indicandogli una stanza adiacente dove dalla porta a vetri si notava già quanta gente era lì per mangiare. Sospirò ed entrò. Una piccola folla eterogenea per razza e colore della pelle aspettava: chi in piedi, chi seduto, alimentando un brusio in tante lingue. Sguardi furtivi e rapidi lo misero a disagio, e notando l’abbigliamento degli altri, avvertiva di essere fuori luogo, fuori tempo, e fuori da tutto quel piccolo mondo che chi come lui, e per ogni storia possibile e inimmaginabile era caduto in miseria, una miseria diverse dalle altre, quella in cui la dignità si perdeva negli spazi bui di strade senza luci e neanche lumicini. Poteva anche giudicare, ma in silenzio, perché non era meglio di quella gente, o almeno non gli sembrava fare niente per uscirne fuori, soprattutto in considerazione che beveva troppo per avere la necessaria lucidità per guardarsi attorno senza curarsi del baratro in cui stava sprofondando. E quella gente lì, a parte qualche eccezione, ognuno di essi era lo specchio di Ettore. Quel primo pasto a San Paterniano lo ricordò per molto tempo. Riuscì a mangiare tre piatti di pasta, un discreto secondo, che molti contestavano ritenuto non sufficiente, e tutto ciò in un vociare dai toni alti e sgradevoli. Pranzavano un ottantina di persone in tavoli ognuno per otto posti. Coloro si conoscevano chiacchieravano animatamente e dal poco che Ettore poteva udire, discorsi e conversazioni sterili, senza dati di fatto, sconclusionati, per le recenti bevute. Ma la gran parte di questo ‘parlare’ era reiterato fino alla nausea da come raccogliere dei soldi per il pomeriggio e la serata e l’obiettivo primario, erano i preti della zona: quali davano, quanto davano, cosa inventare per intenerire il cuore del curato, cosa non dire, essere franchi o far prevalere l’ipocrisia. Ettore ci stava pensando, ma quanti preti erano stati visitati e stravisitati? Si chiese. Terminato il pranzo, risalì le scale ed entrò nella sala di attesa ormai vuota. Si sedete e aspettò che il responsabile lo chiamasse. Alcuni ospiti della mensa si erano fermati a parlare, altri appoggiati al muro di un condominio fronte al centro di accoglienza, aspettando chissà che cosa; alcuni, con lo stesso vizio di Ettore bevevano dai cartoni di vino senza vergogna né ritegno. La stradina pareva un ritrovo quotidiano all’aperto, un mercato senza merci, una desolazione piccola e perenne, ma ben grande per una piccola città.
Ettore si chiedeva se un giorno anche lui sarebbe diventato così: senza dignità né amor proprio, senza decoro, né rispetto per se stesso, chiedendo soldi a destra e sinistra, e iniziare un giro interminabile di centri di accoglienza… Vide la porta della sala di attesa aprirsi. “Vieni,” lo invitò il responsabile. Dal cassetto dello scrittoio prese un registro e lo aprì. “Hai un documento?” chiese. Ettore lo prese dalla tasca dei pantaloni e glielo porse. Mentre scriveva gli elencò una serie di norme da rispettare pena l’allontanamento. “Non si fuma all’interno della struttura; non si portano bevande alcoliche né droghe; massima educazione verso gli operatori e gli ospiti, cura e igiene della persona…” Lo guardò per un istante ed Ettore fece cenno d’aver capito. “L’ospitalità è valida dieci giorni,” riprese “si entra alle 19:15, la sveglia è alle sette, alle sette e trenta la colazione, alle otto si esce, intesi?” terminò rendendogli il documento. “Sei romano?” domandò. Ettore col mento accennò a un “si”. “Beh, per essere un romano sei di poche parole.” Aggiunse. Ma Ettore non voleva dire nemmeno una sillaba: l’alitosi avrebbe potuto tradirlo. Lui salutò e ringraziò. Una sensazione di leggerezza lo pervase. Cosciente del fatto che dieci giorni sarebbero volati, il solo pensiero di potersi lavare e radere ogni mattino lo misero di buon umore. D’altronde, -pensava –un dormitorio non poteva essere peggio di una galera…
G U F O L A N D I A E L E T T R I C A
Ettore coniglio l’aveva fatta franca ancora una volta, grazie alle conoscenze di Fraschetta era riuscito a farsi dimettere dall’ospedale psichiatrico per l’interessamento del dottor Gorundio, luminare della psiche bestiale. La prima cosa che fece fu di andare a recuperare la suo moto sul retro di casa sua. La ritrovò come l’aveva lasciata sotto un telo, coperto a sua volta da rami e frasche. Tolte queste si assicurò che il serbatoio fosse ancora pieno, e in effetti per i chilometraggi che intendeva fare bastavano largamente per un'altra settimana. Al mattino gli era stato comunicato che avrebbe lasciato il reparto quel giorno stesso, nel pomeriggio; quindi ebbe tutto il tempo di inviare Cristoforo il colombo viaggiatore a portare un messaggio al ‘Vecchia Radura’ e che annunciava il suo ritorno. Montò sul sellino, diede contatto e sgasò, attirando l’attenzione dei pochi anti. Ingranò la prima e in un turbinio di terra e polvere partì alla volta di Coni’s I’sland’s. Era per lui una sensazione meravigliosa percorrere lo sterrato a più di cento chilometri all’ora, vedendo attorno a sé gli animali della foresta – per lo meno i cosiddetti evoluti -che scappavano udendo quel fracasso e quell’odore detestabile di carburante. Quando arrivò, trovò Asdrubale e Fraschetta che insieme ad altri amici e clienti del bar lo stavano aspettando. Non pago di mettersi in mostra con la sua Triumph, una volta spento il motore, assunse anche quella posa in una nota fotografia di Marlon Brando: zampe penzoloni sul manubrio, sguardo strafottente e canzonatorio. Sorrise. “Ciao, banda di smidollati!” disse ai presenti. Non ricordava chi l’avesse detto, forse in un film, “gentaccia, mi siete mancati!” E tutti si avvicinarono. Asdrubale aveva gli occhi lucidi nell’ammirare quel gioiello, Fraschetta sorrideva contenta che fosse di nuovo lì con lei, e gli altri si complimentarono per qualcosa che avevano visto solo in qualche rivista che effettuava servizi all’estero.
“Ma come te la sei procurata?” chiese Asdrubale con gli occhi appiccicati al motore, “Mi piaceva, l’ho presa in prestito.” Rispose come se fosse una sua consuetudine. “Va là Ettore, dì piuttosto che l’hai rubata…” Intervenne Fraschetta mettendogli una zampa sulla spalla. “Asdrubale,” lo chiamò Ettore, “tu di moto te ne intendi, vuoi provarla?” gli propose. “Ma, ma dici sul serio? Me la faresti provare?” spalancò gli occhi incredulo. “Non solo te la faccio provare, fatti anche un bel giro.” Gli disse Ettore contento di vederlo così eccitato. Il coniglio non si fece pregare due volte, inforcò la moto, si fece prestare i RayBan di Ettore e sgasando partì con un impennata. Fraschetta ed Ettore, insieme ai clienti rientrarono nel bar. “Hai visto che anche questa volta sei fuori?” gli disse strusciando il muso vicino al suo. “Dai, ci sono i clienti che ci stanno guardando,” la rimproverò Ettore. “Appena ritorna Asdrubale andiamo a casa, inventati che sei stanco e io ti accompagno.” Gli propose. “Va bene,” rispose Ettore consenziente. Tanto sapeva che qualsiasi rifiuto sarebbe stato inutile. “Che cosa mi racconti di Gufolandia?” si interessò Ettore. “Beh, un po’ di notizie ci sono…” “Sono tutto orecchi, però prima fammi preparare qualcosa di forte.” “Un “Fuoco di Russia?” lo consigliò. “Si, va bene quello.”
“ Il nuovo presidente della contea è Belvedere bracco…” Iniziò Fraschetta. “Questo te l’avevo già detto. Al ministero di parchi e foreste è andato all’amministratore delegato della Fr & Le, frasche e legna Crazupòlo castoro; all’economia e finanze, c’è Sbreccata civetta; alla sanità è rimasto Pericle la lepre; all’industria e sfruttamento delle risorse di contea, Gennaro procione; agli interni é rimasta Adonea colomba: per la difesa ambientale il giovanissimo neo ministro Galan lupo…Solo che il presidente, che sicuramente avrà qualche interesse economico nell’energia elettrica, pur nominando Gennaro procione e il giovanissimo Galan, li ha messi subito da parte.” “Ancora quella lì?” si stupì Ettore riferendosi al ministro degli interni. “Lo? sai che porta il nome di un ragno?” “Chi Adonea” “Si, l’ho letto in clinica su un libro che trattava di questo argomento.” La informò. “Dici davvero?” si stupì Fraschetta. “Certamente. Ma dimmi alla giustizia?” chiese Ettore ansioso. “ Hanno rinnovato il mandato a quella troia.” “Axa la volpe! Se solo un fulmine le cascasse in testa, sai quanto ci guadagnerebbe il ‘Regno Bestiale’ !” commentò Ettore schifato. “Con cariche di minore importanza sono rimasti Gianselmo castoro che tu conosci bene; Riccardo lupo e i giudici a latere formano sempre il collegio giudicante; ministro del lavoro, è Piantopian bradipo, venuto anche lui da molto lontano per problemi ambientali. E poi ho saputo di un certo Trulicchio che potrebbe diventare ministro dell’energia, poiché lo scopo attuale del presidente è di portare la corrente elettrica in ogni casa, nei commerci, nei parchi e nelle vie.” Concluse Fraschetta. “L’energia elettrica!” esclamò sbalordito Ettore. “Ma sono impazziti o cosa?...Allora, quello che mi avevi preannunciato in clinica, ammesso che ce la facciano, diventerà realtà…”
“Dimenticavo,” si toccò la fronte con una zampa Fraschetta, “in seguito alle continue incursioni aeree di falchi, non proprio civilizzati e alla sparizioni di diversi ratti della nostra contea, Belvedere ha preposto per la difesa, Edgardo oca selvaggia, comandante della squadriglia aerea per pattugliare il nostro spazio aereo.” Ettore si mise a ridere che non la finiva più. “Ma cos’hai da ridere tanto,” mentre anche lei contagiata dal suo amante lo seguiva. “Va bene la squadriglia aerea, ma la torre di controllo, dove la mettono, su un albero?” “Scemo, cosa ne so io, di torri di controllo…E smettila di ridere!” anche se continuava a ridere anche lei. “Senti,” le disse facendosi serio,” stasera non ci sarò. La comunicazione di un giornale di Rublandia, mi ha invitato a un colloquio nei loro uffici, vorrei andarci per sapere di che si tratta, ti dispiace?” domandò Ettore con molta dolcezza. “Ma sei appena tornato, e un pezzo che non ti vedo, non puoi rimandare?” si lamentò la coniglia. “Sai che posso lavorare a casa, quindi abbiamo tutto il tempo per vederci, però a questi incontri di lavoro non posso rinunciare, né rinviare, non li decido io quando e dove. “Va bene,” accettò sconsolata Fraschetta. “Quando parti?” domandò. “Appena Asdrubale ritorna con la moto, vado.” “E non ti prendi niente con te, nemmeno un piccolo bagaglio?” “Te l’ho detto è il tempo di un incontro, però erò la notte a Rublandia: non so quali sono le leggi a riguardo del transito con una moto, quindi erò per la foresta e stanotte dormirò in albergo.” Udirono il motore che si avvicinava e ne intuirono che Asdrubale stesse ritornando. Uscirono dal bar.
“E’ fantastica!” disse raggiante e spegnendo il motore, un vero gioiello.” “Mi fa piacere che tu l’abbia apprezzata, adesso me la riprendo e vi saluto, fino a domani non ci sono.” Annunciò Ettore mettendosi alla guida. “E dove vai?” gli chiese Asdrubale. “Te lo spiegherà Fraschetta.” “Sta attento Ettore, tu sei uno specialista per ficcarti nei guai…” Lo ammonì l’amico. “Promesso, starò attento.” rispose sgasando e impennandosi. Aveva una gran voglia di are per Gufolandia e fare ingoiare, rombando nel centro cittadino, un po’ di polvere ai suoi ex conteani. Quindi prese lo sterrato e a gran velocità si avvicinò alla frontiera di contea. Da lontano vide la casupola di dogana con i soliti due poliziotti, cominciò a scalare le marce e arrivato davanti a loro si fermò. “Hai niente da dichiarare?” gli chiese uno degli agenti. “Siamo mai andati a pranzo insieme?” gli domandò Ettore divertito. Il poliziotto lo guardò basito, si grattò la testa e riuscì a parlare: “No, non mi sembra. Ma perché mi fa questa domanda?” “Perché tu capisca, testa di rapa, che alla gente che non si conosce si da del ‘lei’…” “Ah! Beh, certo, ma alla domanda che le ho posto non mi ha risposto. Ha qualcosa da dichiarare?” “No, niente,” rispose Ettore. “E questa?” domandò quell’altro indicando la moto. “Questa è una Triumph Bonneville, omologata, e di libera circolazione perché non avete ancora un Codice della Strada, e indicazioni in materia.” Rispose Ettore.
I due agenti si scambiarono un occhiata perplessi. “Vada pure,” disse uno di loro. “Stia comunque attento perché sta attraversando un centro di contea, ci sono anziani e bestioline…” Ettore ripartì ma non si recò a Rublandia, parcheggiò la moto in Via del Cerreto, al civico 11. Suonò al camlo e attese. Lara si affacciò quasi subito alla finestra e quando si accorse di lui, il suo sorriso svanì. “Che cosa se venuto a fare,un altro bidone?” domandò con un tono glaciale. “Al contrario dolcezza, sono qui per riparare, ho avuto un contrattempo che mi ha visto lontano dalla mia contea, e non ho potuto avvertirti, se ti va sempre di andare a Rublandia, ti ci porto con questa.” Le disse Ettore indicando la moto. Gli occhi della coniglia cominciarono ad addolcirsi. “Però non si fa come hai fatto tu,” blaterò, “non si promette una serata da mille e una notte e poi sparisci nella natura.” “Lo so. Fatti bella e…Posso entrare?” “Oh, si che stupida, ti ho lasciato fuori, prego vieni.” Lo invitò Allegra. Ettore entrò nel giardino, salì tre scalini e la porta si aprì. Il coniglio se la guardò meravigliato. “Hai un fisico da far paura, sei uno schianto!” Le disse. “Stavo pensando, che a Rublandia possiamo andarci anche dopo,” aggiunse cingendola ai fianchi, “perché tanta fretta, abbiamo tutto il tempo,” proseguì iniziando a toccarla. “Oh Ettore, non così in fretta, beviamo prima qualcosa, conosciamoci meglio…” “Ottima idea, conosciamoci meglio…” Belvedere bracco era andato a Palazzo del Governamento. Quello che lui considerava Palazzo, era un residuato di una costruzione in cemento che gli umani avevano lasciato ancor prima che la ‘Terra Promessa’, vale a dire la riserva naturale, fosse loro concessa per ripopolare la foresta quindi senza presenza dell’essere umano. Quel giorno il presidente riceveva i ministri da lui
scelti per attuare la riforma di governo e dare un addio a tutto il vecchiume, rimodernare le infrastrutture, dare slancio a una nuova economia, favorire gli scambi commerciali con altre contee e punto di orgoglio, la sospirata rete elettrica. In quel momento riceveva il ministro degli Interni Adonea colomba. “Attualmente, signor presidente, è previsto un bando di concorso per 30 aspiranti reclute riservata ai conigli, e cinque civette. Abbiamo bisogno di velocizzare le informazioni e in genere la comunicazione per rapidi interventi. Il nostro parco mezzi necessita di carrette più veloci, e la ristrutturazione della sede dell’Accademia di Polizia.” Spiegò il ministro. “Vede se l’installazione della rete elettrica rispetterà i tempi che io e l’ingegnere Trulicchio abbiamo previsto, sarà possibile costruire carrette elettriche, per il resto lo consideri già fatto. “La ringrazio signor presidente.” Belvedere congedò il ministro degli Interni. Aveva aspettato per occupare quella carica per tanto tempo, ed era giunto il momento tanto atteso e che le cose andassero come voleva lui. In un futuro prossimo l’energia elettrica gli avrebbe consentito di realizzare industrie, punti di credito e commerci, dove lui si preparava a gestire il tutto con una buona dose di avidità e pochi scrupoli. Quando tutti i suoi più stretti collaboratori avrebbero immerso le loro zampe e assaggiato il potere del denaro e che la loro evoluzione consentiva, non si sarebbero più tirati indietro se qualche piccola manovra finanziaria avrebbe dato loro più potere e un immenso prestigio. Chiese al suo segretario se Axa la volpe, che gli aveva chiesto udienza, era arrivata. “E’ in sala di attesa, signor presidente.” Rispose Geremia Lupo. “La faccia are.” “Ministro Axa! Quale piacere rivederla, la prego si accomodi.” Le indicò la sedia Belvedere. Invece del sottanone che solitamente Axa indossava per nascondere la gamba
offesa, aveva osato il tailleur che portava come se fosse un letto disfatto; per coprire l’occhio di vetro, si era fatta confezionare da Sgubiccia la sarta un cappellino che scendeva leggermente sotto le sopracciglia e che lo nascondeva quanto bastava. “Allora ministro, qual buon vento la porta?” chiese il bracco. “Vento di tempesta, signor presidente.” Rispose Axa. “Me ne parli, cos’è questo vento di tempesta?” “Dopo attente riflessioni, credo di aver scoperto qualcosa di aberrante. Lei sa che ho molti canali informativi, l’altro giorno mi sono recata in Banca per acquistare delle azioni della S.P.A. (Società di Paccottiglia Animale), però tutti i nostri più ricchi conteani ne avevano fatto incetta, sembravano finite, però volli comunque andare allo sportello per vedere se qualcuno le avesse disdette…” “Sii…” “Ora il capitale di questa società è di 10.000 Euri. Di titoli disponibili ce n’erano ancora 250, facendo i conti, e con le voci di chi ne deteneva X, chi Y, eccetera eccetera, mi sono accorta che sono state stampate 250 azioni in più del capitale. Mi può spiegare lei come è potuto accadere”? “Per tutte le querce!” esclamò il presidente, “c’è qualche furbetto che ne ha fatte stampare di più…” “Esattamente signor presidente.” Belvedere bracco fece finta di riflettere, assunse un espressione pensierosa e preoccupata, poi alzando il muso parlò: “Faccia una cosa Axa, indaghi per conto suo, ma mi raccomando riferisca soltanto a me, soprattutto la massima discrezione.” “Senz’altro signor presidente.” “Mi dica, a che punto siamo con il nuovo codice di procedura penale?” chiese Belvedere. “Mi è costato qualche nottata in bianco, ma è pronto.”
“Molto bene. Immagino che lei voglia arrivare a una soluzione definitiva nel caso di Ettore coniglio, è vero?” “L’attuale codice non gli darà la possibilità, questa volta, di sfuggire alla nostra giustizia. Di questo coniglio io conosco un aspetto che nessuno sa.” “Mi sembra però che lei nel giudice Riccardo lupo abbia sempre trovato uno scoglio…Azzardò il bracco.” “In effetti. Ma le assicuro che il nuovo codice lo inchioderà ato da un nuovo elemento di prova e che nella nostra comunità, non erà certo inosservato.” “E quale sarebbe questo elemento?” “Mi perdoni, signor presidente, ma a tempo debito lo saprà anche lei.” “Certamente, capisco la sua diffidenza, ma nel caso il Giudice Riccardo lupo fe ancora resistenza e contravvenisse alla sua tesi accusatoria e risparmiandogli ancora la pena capitale?” “In quel caso solo la più alta carica della nostra contea potrebbe decidere del verdetto, quindi lei, signor presidente.” Spiegò Axa sibilando. “Axa, lei ha l’esperienza e l’ambizione necessarie per condurre lodevolmente il suo ministero, e credo, anzi ne sono sicuro ci intenderemo bene. Nel caso scoprisse delle incongruenze nell’emissione dei titoli della S.P.A., si ricordi di non essere precipitosa,” si raccomandò il bracco guardandola fissa negli occhi, “e in quanto al procedimento di Ettore coniglio, se anche questa volta il giudice Riccardo si opporrà alla pena capitale le assicuro il mio sostegno.” “Gli occhi della volpe si illuminarono di piacere pregustando il rogo e le membra bruciate di Ettore coniglio. Aveva altresì capito l’antifona del presidente che con le sue parole gli aveva comunicato.’una zampa lava l’altra’, ed era dispostissima ad accettare qualsiasi compromesso pur di condannare il coniglio. “Mi tenga aggiornato costantemente, attenda pazientemente l’occasione in cui Ettore sbaglierà nuovamente, ne sono sicuro, molto presto, e ci toglieremo questo sassolino dalle scarpe.”
“Va bene signor presidente. La saluto.” Disse la volpe alzandosi. Belvedere bracco chiamò il suo segretario, gli comandò che non voleva essere disturbato per nessun motivo e, alla sua scrivania si mise al lavoro. Anche lui non era ignorante in fatto di economia, e quando a Gufolandia c’era ancora il baratto, le merci di scambio oscillavano e dall’offerta e dalla richiesta. Adesso che sarebbero girati nella loro economia titoli azionari, per intorbidire le acque non c’era nulla di meglio di creare una Borsa Valori, il sistema bancario lasciava troppe tracce, e quindi un organo di controllo che avrebbe gestito solo lui. Prese carta e penna e iniziò a buttare giù –la costituzione glielo consentiva –una bozza di legge. L’estate stava volgendo al termine e le giornate a Gufolandia scorrevano frenetiche. Con l’arrivo dell’elettricità, erano in progetto altri commerci; tutti sapevano che i benefici erano tanti, anche il più ignorante delle bestie avrebbe saputo trarne vantaggio. L’ex presidente di contea non era stato perseguito in giustizia ma bandito dai Pubblici Uffici a perpetuità. Pericle la lepre, che non si era mai immischiata di faccende politiche, adesso come ministro della sanità, sapeva di poter contare su una marcia in più per ammodernare la sua clinica di apparecchiature elettriche che prima e ancora adesso funzionavano a manovella. Sbreccata civetta, ministro dell’economia e finanze esaltava il suo ruolo con una mole di lavoro davvero enorme, tanto da dover chiedere almeno otto coniglie come collaboratrici, visto che qualsiasi commercio richiesto e che riguardasse l’elettricità avrebbe richiesto la sua autorizzazione e la sua firma. Adonea colomba, agli interni, sperava presto modernizzare il parco auto della polizia con auto elettriche a batteria. Quanto ai castori, tradizionalisti, non vedevano di buon occhio questa novità, per loro era andare incontro a immani sciagure. Belvedere bracco che non voleva apparire di persona in eventuali malversazioni, scelse la sua eventuale vittima in Sbreccata civetta convocandola a Palazzo.
Come si usava per le bestie di un certo rango, soprattutto le femmine, quel giorno e per quell’occasione indossò un vestito blu con cinta alla vita, scarpe e borsa in tinta, un cappellino con veletta. L’unico cruccio di Sbreccata e che lei non voleva ammettere, era quella fessurina sul becco superiore che mentre parlava, ogni tanto, mandava schizzi di saliva a chi gli stava davanti. Belvedere, appena fu arrivata la ricevette subito. “Si sieda ministro…Sempre elegante.” Si complimentò il bracco, pensando “ma quanto sei brutta.” “Grazie signiof pfesidente…Mi dica.” “Ho preparato una bozza di legge e che arricchirà di prestigio la nostra comunità. Lei la dovrà studiare e dettagliare,” spiegò Belvedere andole quattro fogli scritti. “E’ il progetto per una Borsa Valori.” “Intefeffante,” si entusiasmò Sbreccata dando una rapida occhiata alla bozza. “E anche appaffionante.” Il presidente trasse dal taschino della giacca un fazzoletto e si asciugò un occhio. “Bene. Vorrei dirle anche questo: vede in questo momento mi sto occupando di molte cose. Ho sempre stimato il suo lavoro in altre occasioni e apprezzato le sue qualità professionali. Mi permetta a questo punto di regalarle questa mia idea, di farla completamente sua, sia in pubblico che in privato. Io non farò altro che approvare, certificare, complimentare, il suo disegno di legge, e naturalmente gestito da lei. “E’ un gfande ofnofe che lei mi fa signof prefidente. “Io mi limiterò, ma solo simbolicamente, ad esercitare il mio potere tramite un ordine di controllo, ma questo solo perché lo devo fare. Non interferirò nella sua amministrazione, voglio che questa idea sia completamente sua e solo sua.” “Non so come fingfafziafla signof pfefidente.” Belvedere teneva ormai il fazzoletto a portata di zampa. “Non deve, la contea è fiera di lei. Ci vedremo domani all’inaugurazione di questo grande evento.”
Adonea colomba, ministro degli interni e Axa, stavano discutendo dell’unico argomento ormai sulla bocca di tutti. Sedute a un tavolino interno del bar “Il Moralista”. Si chiedevano cosa sarebbe successo quella sera, se tutto fosse andato bene, o se per loro una meta tanto ambita e tecnicamente pericolosa non si fosse rivelata una catastrofe. A un certo punto furono sorprese da delle urla agghiaccianti provenienti dall’esterno del locale. Erano così forti che vollero andare a vedere cosa stesse accadendo. La scena era raccapricciante. Fuoriditesta il picchio che stava, o almeno cercava,di stabilizzarsi sul deretano di Caparbio l’asino che scalciando e ragliando chiedeva aiuto. “Fermatelo! Per carità fermatelo! Ha detto che sono un bell’albero e cerca di farmici sopra una casetta.” Intervenne Sgubiccia l’anatra che anche lei udendo quei ragli disperati era uscita dalla sua bottega. Appena accortasi di quanto stava accadendo, riuscì a saltare sul culo della povera bestia e allontanare quella furia scatenata. L’asino ancora sotto choc, non riusciva a parlare se non a monosillaba. “Calmati Caparbio, Fuoriditesta è andato via…” Lo rincuorava l’anatra. “Raccontaci cosa è successo… Le altre bestie che avevano assistito alla scena si avvicinarono per capire meglio. “Quell’uccellaccio della malora! Ha scambiato le mie chiappe per un tronco d’albero e stava iniziando a fare il suo buco, era come se un trapano mi entrasse nella carne. E era anche convinto,” spiegò Caparbio. “Diceva: oh che bell’albero, oh che bell’albero, quasi quasi mi ci faccio una casetta…Capite gente? Voleva farsi una casa sulle mie chiappe!” “Troppi buchi s’é fatto quell’uccello: a forza di bucare si è bevuto il cervello!” commentò una bestia errante. Arrivò la polizia, corpo dei castori, e cercarono attraverso le testimonianze di capire chi era la bestia che aveva aggredito l’asino. Le bestie dissero loro chi fosse, ma lo zelo dei poliziotti fece si che tutti i testimoni vennero convocati al posto di polizia, per tracciare un eventuale identikit del pennuto. Rientrate nel bar Axa e Grazia colomba discussero del fatto.
“Si stanno verificando strani episodi nella nostra comunità,” commentò Adonea sorbendo il suo ‘Granaglie-Mary’. “Per esempio?” chiese la volpe. “Stavo ando ier l’altro davanti la casa di Carlotta gallina, lei non si era accorta della mia presenza. D’un tratto la vidi letteralmente distruggere due delle sue uova con un tale accanimento che pensai fosse in preda d’una crisi isterica. La volevo denunciare per ovicidio ma ho pensato che di questi tempi moderni tutti noi abbiamo degli squilibri. Comunque me ne andai via angosciata.” “Beh, visto che siamo in argomento, anch’io ho qualcosa di strano da raccontarti.” Annunciò Axa. “Noi sappiamo che le dicerie e i pettegolezzi, sono lo sport della nostra contea, però fino a quando sono solo voci non gli dai tanto peso. Ti premetto che non ho pregiudizi di sorta: ognuno vive la propria sessualità come vuole,” assicurò Axa. “Fino a quando la storiella di Tedeofiuto cane pastore e Cotenna maiale che se la facevano insieme era frutto di qualche maldicenza non vi davo alcun peso, pensavo che la loro amicizia fosse stata giudicata dai nostri abitanti, un assurdo del bestial-popolar.” Spiegò trangugiando un sorso del suo ‘Rossomalpel. “Era pomeriggio inoltrato e stavo rincasando quando udii dei grugniti molto forti, quasi a farmi pensare che Cotenna fosse malato. Discretamente mi appostai e vidi l’orrore che si stava consumando sotto i miei occhi e lo schifo più totale: Tedeofiuto che si montava Cotenna maiale! Ti rendi conto? “Fece scandalizzata la volpe. L’immoralità, la decadenza…Nella nostra comunità li abbiamo accettati perché fuggivano dall’uomo, noi non abbiamo mai condannato questi fatti, ma sarebbe ora di dare anche a questo argomento maggiore attenzione.” Sbuffò la volpe. “Io devo andare, ho chiesto a Sgubiccia la sarta di confezionarmi un vestito per stasera.” Disse Axa alzandosi. “Anche tu?” si sorprese Adonea colomba. “Perché tu?... “ gli fece eco Axa. Le due amiche risero. “Speriamo che Sgubiccia non abbia consigliato a entrambe lo stesso modello.” Si preoccupò Adonea. “Dai, non lo farebbe mai…” Si pronunciò Axa.
Uscendo dal bar, le due bestie incontrarono l’imprenditore De Pollis, agitato e fuori di sé. “Signora ministro,” disse rivolgendosi a Adonea colomba, cappello alle ali, “non è un caso che l’abbia incontrata.” Le due femmine si guardarono perplesse. “Mi dica De Pollis, cosa le è successo?” domandò la colomba. “Una delle mie compagne, Carlotta, deve essere impazzita: sta distruggendo tutta la mia produzione di uova e non solo le sue ma anche quelle di altre galline…” “Le mando subito due agenti a casa.” Disse risoluta Adonea. Il ministro fece un cenno a Fu-fu, il merlo fischiatore, poliziotto aereo di contea e questi trasmise l’allarme al commissariato di polizia. Ma quando la squadra arrivò era già troppo tardi. Presa da un raptus pazzoide, Carlotta aveva distrutto tutte le uova. Adonea osservò lo scempio inorridita. “Quante uova erano in procinto di schiudersi? domandò. “Beh, dopo la fallita trattativa con l’umano, tutte.” Affermò il gallo. Adonea infuriata e sconvolta dal massacro diede ordine di arrestare Carlotta. “Ti dichiaro in arresto Carlotta per ovicidio. Spera solo che ti diano l’infermità mentale…” “Voi non crescerete i miei piccoli alla luce delle lampade elettriche!” inveì Carlotta. “Portatela via.” Ordinò la colomba. E rivolgendosi ad Axa: “Sai cosa volesse dire?” “No, ma hai ben visto che non era in sé.” “Non ci sono parole,” si lamentò il gallo prostrato sedendosi su una cassetta. “La comprendo,” lo consolò Axa posandogli una zampa sull’ala. “Coraggio,si
faccia forza, mi spiace che questa sera sarà festa, chiederò al nostro presidente di indire un giorno di lutto bestiale. Quei pulcini in arrivò erano la nostra gioventù, una nuova generazione bipedina…Voglia al momento accettare le mie più vive bestianze.” “La ringrazio signora ministro.” Rispose il gallo abbassando la testa ma cominciando ad avere i primi rimorsi per quanto gli era stato di fare e lui acconsentito. Le due femmine andarono via e all’altezza del bar A’merican Legion, si separarono. La coincidenza volesse che Ettore dopo aver ato due ore di piacere con Lara coniglia, si era bevuto quanto bastava per essere alticcio e più che euforico. Naturalmente, disinibito e forte di quanto aveva ingerito, si fece un piacere di vedere a pochi metri la sua acerrima nemica Axa la volpe. “Toh! Guarda chi c’é…Come vuoi che ti chiami, occhio di vetro o gamba di legno? Se fossi in te mi metterei a disposizione per un museo di scienze naturali.” La sfottè. “Non mi dia del ‘tu’ e non mi disturbi altrimenti chiamo la polizia.” Rispose la volpe alzando il muso. “Sai cosa c’è ‘gambadilegno’? Sei così brutta, ma così brutta che nessuno si accoppierebbe con te, quale maschio ti vorrebbe? Ecco perché sei così malvagia. Saresti più bella impagliata, troia!” la insultò. “Prima o poi ci rivedremo in tribunale e la farò a pezzetti!” rispose Axa. “Ti mangeranno prima i vermi, essere schifoso!” ribatté Ettore. La vide allontanarsi digrignando i denti e con i peli irti sul groppone. Al crepuscolo l’eccitazione delle bestie di Gufolandia era al massimo della rispondenza desiderata dal corpo politico, quindi dal presidente di contea, sia da Trulicchio castoro al quale, se il progetto avrebbe avuto il successo sperato, sarebbe stato nominato ministro dell’energia, una carica di notevole entità e dai ragguardevoli guadagni. Lui non era come i suoi consimili, si riteneva un progressista, e anche ambizioso. La radura principale, quella dei grandi eventi era un cerchio quasi perfetto: di
giorno ombreggiata da grandi querce secolari, di sera, dava un senso di naturale protezione. Per l’occasione, oltre alle luminarie fisse erano state anche installate delle lampadine sui rami più bassi; il palco delle autorità drappeggiato di rosso, con al centro una grande coccarda circolare gialla, verde e azzurra, simboleggiava i colori di Gufolandia: il giallo del sole, il verde della natura, l’azzurro del cielo. Circa settecento bestie di tutte le razze si accalcavano nello spiazzo in attesa dei loro politici; la polizia castorina vigilava con un serrato servizio d’ordine pubblico. Ettore non si era messo in abito. Indossava una polo gialla, un pantalone di taglio classico blu e mocassini neri. Sempre più su di giri, prendeva per i fondelli chiunque gli si avvicinasse, visto che tanto per cambiare, si era fornito di una bottiglia di Vodka che gli fuoriusciva vistosamente da una tasca laterale dei pantaloni. Anche lui era eccitato, anche se moderatamente prevedendo che con questa sfrenata modernità, la contea rischiava di andare in malora. Le diversificazioni ambientali erano per lui tali, che una bestia anche se quelle sotto i suoi occhi non se ne rendevano conto, non avrebbe retto a mutamenti sovrastanti la loro reale natura, e da quella serata si aspettava di tutto. Lo salutò Gonzales il topo. “Ciao Ettore, come va?” “Come ieri,” rispose svogliatamente. “Avete fatto un buon lavoro tu e i tuoi amici ratti.” Apprezzò Ettore indicando lampioni e lampadine. “Lo puoi ben dire! Se quel generatore funzionerà lo si dovrà anche a noi e qualche altra bestia. Insieme abbiamo recuperato tutti i pezzi per l’assemblaggio.” Spiegò Gonzales. “E dove li avete presi?” domandò Ettore. “Rubati agli umani. Trulicchio ci faceva uno schizzo del pezzo che gli serviva con la sua descrizione di come erano fatte queste parti, e noi eseguivamo.” “Si, ma per fare funzionare il generatore ci vuole nafta,” rifletté Ettore, “quella dove la prendete?” “Trulicchio ha preparato con l’aiuto di altri castori una conduttura che lui chiama pipe-line: praticamente è un lungo tubo del diametro di due centimetri che si
estende per tre chilometri sotto terra e collegato a un serbatoio della guardia forestale.” Illustrò il topo. “Allora la contea ruberà la nafta agli umani!” “Certo! E per i nostri consumi non gli faremo certo un danno. Adesso ti saluto, con gli amici ci facciamo un giro delle nostre tane-bar organizzate per l’evento. Inutile dirti che arriveremo già conciati e fatti e strafatti…Ciao Ettore.” Da lontano Ettore cominciò a vedere i lampeggianti delle auto blu e delle scorte. Il convoglio iniziava con la carretta del presidente, seguita dalle carrette dei suoi ministri; ai loro fianchi due cordoni della Guardia Presidenziale in monopattino. A una a una, si fermavano davanti al palco, scaricavano le bestie politiche insieme ai loro portaborse e proseguivano per lasciare il posto a un'altra, fino a quando tutta la giunta politica di Gufolandia fu presente. Ettore vide Lara che lo stava raggiungendo, dopo quelle due ore ate insieme, lei se n’era innamorata e non vedeva l’ora di stare di nuovo tra le sue zampe. Tutto il pubblico acclamava i politici: chi fischiava ognuno con il suo suono, chi batteva le zampe, chi saltava euforico, c’era un gran trambusto. Un po’ più distante c’era il bar “Il Moralista” che con le porte aperte serviva cocktail pagati dalla cassa della contea; c’erano i soliti bigotti: Maguarda la vacca, Giuliva l’oca, Cotenna maiale insieme a Tedeofiuto, De Pollis sempre affranto, il dottor De Tarli insieme al primario del centro di igiene mentale dottor Neuronis. Ettore, sottobraccio a Lara si avvicinò al gruppetto lanciando per ogni singola bestia un insulto a bassa voce, ma nel ristretto cerchio di notabili c’era una bestia che non aveva mai visto prima d’ora. “Vieni,” disse a Lara “adesso ridiamo.” La coniglia senza dire niente, si fece trasportare dall’umorismo da poco conosciuto di Ettore e insieme si avvicinarono. Impettito nella sua uniforme, con appuntati 17 nastrini per altrettante missioni di ricognizione, attacco e smembramento del nemico insieme alla sua squadriglia di oche selvagge, il colonnello Edgardo, torreggiava sullo sparuto gruppo di suoi ammiratori, e tra queste la bestia più insignificante della contea: l’oca giuliva.
“Oh, mio eroe! Come sei virile nella tua divisa di generale…” “Colonnello signora,” precisò, “colonnello di squadriglia.” “Oh! Che uccello che sei, mio colonnello!” proseguì Giuliva l’oca mulinellandogli attorno. Sgubiccia l’anatra, distante da quelle bestie, non s’era fatta travolgere dall’entusiasmo di tutta quella pluralità; i suoi occhi erano incessantemente rivolti alle taglie dei presenti immaginando quanti e quali vestiti avrebbe potuto confezionare per maschio e femmina con l’avvento dell’elettricità. Lavorava come una matta, metteva i soldi da parte per un giorno poter aprire un suo atelier di alta moda, e organizzare sfilate. Si ispirava a Ghior, Schianel e Balanino. Ettore e Lara erano a pochi i dalla bestia in divisa. “Salute bella gente! Spero di non aver disturbato i vostri sproloqui,” disse alzando platealmente una zampa. “Ma cosa sono quei musi tristi! Ah, capisco non vi hanno dato ancora da bere…Che selvaggi! Coraggio,” fece allungando la bottiglia ai presenti, “zio Ettore vi offre un goccio della sua riserva personale. Bevete pure dalla bottiglia, non mi fate schifo. E beh, siete proprio mosci per un elettrica serata…” Mentre si voltava con alle spalle Lara che a stento tratteneva le risate si trovò faccia a faccia con il colonnello Edgardo che con occhi torvi e dissenzienti se lo guardava. “E tu? Chi saresti? L’uccello Padulo?” lo sfotté barcollando. “Signore,” disse roco il colonnello, “io non so chi sia questo uccello ma le con…” “Te lo dico io, è quello che vola all’altezza del culo!” Freddo e glaciale, il militare non si scompose. “Giovanotto, penso che lei abbia già bevuto abbastanza per questa sera. Vada altrove a smaltire la sua sbornia.” Sempre in bilico sulle zampe posteriori, Ettore ne portò una all’altezza della fronte a imitazione del saluto militare. “Signorsì, signore!” rispose con un quanto mai tragico e maldestro dietrofront.
“Vieni Ettore,” lo invitò Lara, “non hanno spirito, non gli piace ridere e da quel che vedo,” facendo una panoramica sul gruppo, “nemmeno sorridere.” Si sistemarono su una cassetta di frutta, e bevendo tutti e due dalla stessa bottiglia, attesero il grande evento. “Ettore,” disse Lara “vorrei darti un pegno del mio amore. Lo accetteresti?” Il coniglio si fece serio. Pensò che Lara era mille volte meglio di Fraschetta. In poco tempo aveva capito tutto di lui, da come si esprimeva, alla dolcezza dei suoi modi e delle sue parole e soprattutto da non porgli vincoli o situazioni nelle quali c’era sempre da rompersi la testa per trovare soluzioni. Era semplice e chiara come l’acqua, non riusciva a nasconderti niente, leggeva e discuteva, e di pari a lei non né aveva mai incontrate. “Quale è il pegno che mi vuoi dare?” le domandò. “E’ questo pendaglio con la pietra verde,” disse togliendosi dal collo uno dei tre che portava. “Ognuno di noi,” proseguì, “ha un colore che gli porta fortuna, e io penso che il tuo sia il verde,” spiegò mettendoglielo al collo. “Grazie, io non ho nulla con cui contraccambiare.” “Di tempo prima che illumino tutto ce n’è ancora tanto, perché non mi racconti una delle tue storie su gli umani. Le ho lette tutte, mi piacerebbe sentirla da te, con la tua voce.” Ettore le accarezzò il muso. “E’ solo questo che desideri?” ”Si, solo questo.” “Allora ascolta…”
A N N I 11 M E S I 8…
Ero solo io quel giorno a are in giudizio… “Vuoi dire andare in tribunale per una condanna?” interrogò Lara. Si, risposi. Gli agenti di polizia penitenziaria mi avevano messo nella gabbia degli imputati e nell’attesa che il collegio giudicante comparisse, accesi una sigaretta. Cosa stupida. “Renzi,” mi riprese una delle guardie,” in aula non si fuma.” La spensi con indifferenza, tutto mi era indifferente. L’ennesima condanna e qualche altro anno da scontare in una patria galera, con l’aggiunta del sovraffollamento, dilemma perenne delle carceri italiane e di qualche altro paese. Considerando anche un gran numero di cittadini stranieri, per i quali i nostri istituti di pena erano alberghi, facendo il loro porco comodo e cercando di mettere i piedi in testa a noi italiani. Entrò il collegio giudicante: presidente, giudici a latere, pubblico ministero. Il mio avvocato era uno assegnatomi dal ‘gratuito patrocinio’, ossia un avvocato di ufficio, quindi per la difesa non mi aspettavo nulla di straordinariamente positivo. D’altronde, cosa poteva dire? Ero stato preso in flagranza di reato, e non poteva certo dichiararmi innocente. Aprirono il procedimento e dopo le poche frasi consuetudinari del presidente la parola ò subito al pubblico ministero. La guardai. Pareva che i suoi occhi mi fulminassero, e una donna che riveste quella carica –presuppongo per rivalità con i colleghi maschi –è molto più severa, molto meno indulgente.” “Ci troviamo, signor presidente, davanti un caso di recidiva specifica. Sappiamo che il Renzi non avendo mezzi di sostentamento, con lo stesso ‘modus operandi’ compie questo tipo di reato per vivere e qualsivoglia motivazione egli adduca è irrilevante ai fini del nostro codice di procedura penale. Da troppo tempo ormai entra ed esce dalle case circondariali cui viene
assegnato. Sempre con lo stesso obiettivo. Reiterare il suo reato. E’ di conseguenza inutile aggiungere altro. Per la recidiva specifica, le aggravanti prevalenti sulle attenuanti generiche, chiedo a questo collegio una pena di anni 4 e mesi 6 di reclusione e naturalmente addizionate dalle condanne definitive, ancora da espiare.” I giudici a latere prendevano appunti e al tempo stesso si consultavano con il presidente. Quest’ultimo mi guardò e si rivolse al mio difensore. “Avvocato, proceda…” “Signor presidente, pubblico ministero, giudici a latere, il mio assistito non è un rapinatore con l’intenzione di vivere con illeciti profitti. E’ solo un alcolizzato, un dipendente da alcol, la cui schiavitù lo porta di conseguenza a procurarsi il denaro in forma disdicevole per soddisfare una patologia che oggi comincia ad essere riconosciuta come malattia. So di non potervi chiedere la detenzione domiciliare perché il mio cliente non ha un abitazione. E nemmeno la sospensione condizionale della pena in quanto la condanna supera abbondantemente i due anni, e tra l’altro, beneficio di cui il mio assistito ha già usufruito. Però date le condizioni patologiche, vi chiederei una congrua, quanto significativa riduzione della pena, insieme alla clemenza che la vostra serenità e comprensione potrà illuminare.” Concluse l’avvocato. “Renzi, ha qualcosa da dire?” chiese il presidente. “Mi rimetto alle parole del mio difensore.” Risposi. A un cenno del presidente, giudici a latere e pubblico ministero si ritirarono per deliberare. Da parte mia non speravo in sconti o riduzione della pena. Il pubblico ministero aveva i capelli rossi, quel rosso e volpino ed io, con le donne dai capelli rossi ero sempre caduto male, peggio che mai se questa era un pubblico ministero. Quando venne letta la mia condanna, guardando quella donna dal piglio severo e che continuava a gelarmi con gli occhi, come se la rapina l’avessi fatta a lei, mi preparai alla nuova legnata, ma non arrivò, almeno per la condanna in oggetto. E capii simultaneamente perché quella signora tanto distinta nella sua toga nera, stava continuando a consumarmi con il suo sguardo malefico: doveva essere
stata messa in minoranza dagli altri componenti del collegio giudicante. Mi condannarono a tre anni e basta, ma con le pene definitive il conto saliva a undici anni e otto mesi, con la liberazione anticipata per buona condotta, potevo scendere a otto anni, e carcerazioni così lunghe né avevo mai atte.” “Ettore,” lo interruppe Lara “ma tu stai parlando in prima persona…Si, insomma come se queste cose fossero capitate a te…Ma allora tu?” Sospirai. Se tu ci vuoi credere, si, prima di diventare un coniglio ero un essere umano. “Oh!” esclamò Allegra. “Ma allora tutto quello che dicesti nell’ultimo processo è vero…” Si, è vero. Confermai. “Ma come può accadere un mutamento tale, come è successo, non riesco proprio a spiegarmelo.” Si interrogò Lara. Ettore faceva un po’ di fatica nel tradurre in ‘crash’ le sue disavventure: era un conto scrivere nella loro lingua, un altro era la traduzione simultanea. Forse lo so, risposi, ma ancora non è venuto il momento di parlarne. Devo verificarlo su me stesso, devo scoprire quale sortilegio, alchimia o, chiamala come vuoi mi ha trasformato da umano in coniglio. Perché dietro questo aspetto animalesco c’è ancora qualcosa di cui mi debba convincere. “E poi, dopo la condanna cosa successe?” mi chiese ancora Lara. Gli agenti di polizia penitenziaria mi fecero uscire dalla gabbia, mi ammanettarono e mi ricondussero nella casa circondariale di cui non voglio fare il nome, in una città che si trova nella alta Italia. Le cose andavano molto male in quel carcere. Troppi abusi venivano compiuti dagli agenti e se ti lamentavi eri segnato per tutto il soggiorno, ti umiliavano. Le perquisizioni in cella erano spartane e dopo il loro aggio i nostri già ridotti spazi rassomigliavano a degli accampamenti di zingari. C’era una guardia che mi aveva puntato: si vede che a pelle gli stavo antipatico -certo non era Gianselmo -e un pomeriggio, rientrando dal eggio, questa guardia, come a tutti i detenuti mi ò il metal-detector davanti e dietro. Quando mi voltai dandogli le spalle, questi mi disse: -Vieni indietro…
Forse lui non riusciva a fare un ettino in avanti. Già furibondo per cazzi miei, mi voltai e gli dissi: “Agente, io non ho gli occhi dietro la testa, e se per caso le pesto un piede, lei troverà il motivo che sta cercando per indurmi a una reazione violenta e farmi un rapporto disciplinare. E’ quello che sta cercando, vero?” Vi furono pochi secondi di silenzio, poi parlò: “Vai Renzi, vai…” E così era ogni giorno, per l’una o per l’altra cosa, c’era sempre da discutere. Quando oltrearono il limite, la protesta di noi detenuti divenne corale. “Eravamo in quattro, tutti in attesa di essere ricevuti dal comandante degli agenti di polizia penitenziaria. Era il mese di agosto, in piedi, appoggiati alle pareti in un ambiente saturo di caldo e afa. Da giorni avevamo indetto uno sciopero dei detenuti, astenendoci da qualsiasi lavoro, dei lavori che gli agenti non potevano svolgere perché erano i più umili. Quale guardia si sarebbe messa a pulire il corridoio di una sezione, le docce, le parti in comune; non si pulivano nemmeno il loro piccolo box; e in cucina, c’era solo un agente che ripartiva il lavoro a quattro detenuti cucinieri; chi avrebbe dato da mangiare a quattrocento carcerati, pranzo e cena? Chi avrebbe distribuito il sopravvitto, vale a dire la spesa che ogni detenuto poteva fare acquistando diversi prodotti per l’igiene, l’alimentazione e soprattutto sigarette? Chi avrebbe portato nei cassonetti dell’immondizia buste su buste di rifiuti? A parte noi, non lo avrebbe fatto nessuno. Certamente non loro. A noi mancava tutto e le scorte di sigarette che ci eravamo fatti in previsione di questo sciopero si stavano esaurendo: a un detenuto puoi togliere tutto, ma se gli neghi anche le sigarette, almeno per lo sciopero che avevamo indetto, diventava un arma a doppio taglio. Perché, per ordine del comandante, le sigarette non sarebbero state distribuite per tutta la durata dello sciopero. Quel giorno avevo indossato una maglietta bianca sbracciata, un calzoncino verde e degli infradito. Una delle guardie, che diciamo, ci guardava, mi fece cenno di entrare. Insieme agli altri tre io ero diventato un “agitatore”. “Buongiorno,” dissi entrando. La porta del suo ufficio venne chiusa e io in piedi, davanti la sua scrivania, aspettavo. Il comandante mi guardò per alcuni secondi. Non so se esaminasse il mio vestiario o cercasse di capire cosa mi frullasse in testa, ma avere un
comandante ‘Testimone di Geova’, certamente non ti favoriva: indifferente a chi non pensava, non credeva come lui, ovviamente rigido e severo nei confronti di chi avesse sbagliato, questa marcia in meno per me non dava, anche se Dio fosse sceso in Terra, ragione delle nostre rivendicazioni. “Renzi, la vogliamo finire con questo sciopero?” Mi chiese con un tono conciliante. “Ci rimettete solo voi. Credete siamo stupidi, che non sappiamo che tra poco non avrete più niente da fumare se non la vostra idiozia?” aggiunse. Lo guardai a mia volta come aveva fatto lui nei miei confronti per qualche istante. “Tra qualche giorno,” dissi, “dovrete chiamare un impresa di pulizie, aumentare il vitto perché quelli che abitudinariamente si cucinano in cella, avranno finito anche le scorte alimentari e tutta la sezione prenderà da mangiare dal carrello, e i porta-vitto li dovrete scegliere fra il vostro personale…”Commentai cercando di modulare la voce e che mi desse un tono deciso e minaccioso. “E voi non fumerete!” mi ringhiò in faccia, sporgendosi dal suo scranno. “Noi abbiamo sbagliato, ma non per questo ci si deve trattare come cani rognosi, a partire dalle perquisizioni in cella: abbiamo trovato le impronte dei vostri scarponi sulle nostre magliette…Non mi dica che non sia voluto. Altri effetti di vestiario buttati a terra.” Spiegai, cercando di mantenere il controllo. “Può capitare,” rispose, “ma certamente non voluto.” Aggiunse senza convincermi. “Io so che non è stato lei a organizzare questo sciopero,” riprese spazientito, “ma sa parlare, trascinare, e se continua in questo suo assurdo comportamento, mi vedrà costretto a prendere provvedimenti.” “Sono stanco di spiegarle qualcosa che non vuole capire e…Prenda i provvedimenti che ritiene necessari. Non sarò io, uscendo da quella porta,” feci indicandola, “a dire lo sciopero è finito!” “Vada Renzi, vada…” urlò sprezzante con un gesto della mano. “Ma io non capisco una cosa,” accennò Lara perplessa, “ gli umani sono così intelligenti, con tante qualità, fanno delle cose belle, come ad esempio regalandoci questa terra protetta, facendo una panoramica sulla radura con la zampa, e poi si perdono per poco, quando tutti potrebbero vivere bene senza
contrasti: non riesco proprio a persuadermene.” Vedi, per quanto gli esseri umani siano del regno animale la razza più intelligente del pianeta, e questo tra virgolette è ancora da provare, la conoscenza, il sapere, l’ingegno, le motivazioni, le ambizioni, l’orgoglio e ben altro, portano l’umano ad essere prepotente, malvagio e questo perché il prestigio, il controllo su altri esseri umani, l’avidità, la bramosia del potere, li portano ad essere cattivi, egoisti, cinici. Certo, non tutti sono così. “Ma questo,” rifletté Lara “è simile a quello che tu dicevi sempre al processo, che stiamo andando contro natura.” Si, esattamente, e l’uomo non fa niente per rispettarla, coccolarla, vezzeggiarla, ammirarla. La natura potrà sempre imporsi all’umano ma quest’ultimo non ad essa. “Ma allora queste bestie che copiano gli umani stanno diventando come essi, anche io, e…Anche tu.” Si interrogò Lara. Non lo so. Risposi scuotendo la testa, ma di una cosa sono certo: chiunque sottovaluti la potenza della natura è in torto e chiunque non la rispetti, prima poi farà i conti con essa, ella non ha paragoni, può essere amabile, dolce, ricca, gradevole, colorata, strabiliante, enigmatica, poetica, profonda, ma anche duramente spietata. “E poi, cosa successe? Intendo lì al carcere…” Domandò Lara. Beh, uscì dalla stanza del comandante, non parlai con gli altri tre, e loro ovviamente, presente la guardia non mi chiesero niente. Ma già dal giorno seguente ci furono i primi detenuti a ‘mollare’, soprattutto a causa del tabacco, e questo inizio di sgretolamento cominciò a preoccuparmi e impensierire coloro che tenevano ancora duro. Gli agenti che montavano di turno in sezione capivano e questo tentennamento acuiva negli animi delle guardie il sottile piacere della prossima e non più lontana disfatta. E se qualcuno si lamentava per qualsiasi motivo, ti rispondevano beffardamente: “Fate uno sciopero…” Al quarto giorno quasi tutti i detenuti ripresero le loro mansioni lavorative; la normalità si ristabilì: avevano vinto loro a fronte delle nostre debolezze, ma oltre a questo, il comandante non si era dimenticato di me. Un giorno, attorno alle cinque del mattino, tre agenti entrarono nella mia cella e
quella del compagno che stava con me. Mi svegliai subito e visto il loro numero e gli sguardi rivolti a me, già sapevo. “Renzi, prepara la tua roba: sei in partenza.” Non dissi niente, c’era poco da dire, me l’spettavo. Presi una busta di plastica nera e iniziai a riporvi i miei effetti di vestiario, le scarpe contenute in sacchetti più piccoli, ai alla roba invernale e a piano a piano il sacco si faceva sempre più pieno.” “Sbrigati Renzi,” Mi sollecitò una delle guardie, “non abbiamo tutta la mattinata!” Continuai con la solita flemma facendo finta di non aver sentito. Replicare non serviva a niente, sapevo che nei trasferimenti le scorte si preparavano con largo anticipo. Alla fine, sopra a tutto misi la cosa più importante che avevo: una pila di 400 fogli scritti a mano. Il mio primo romanzo sull’etnia Kurda della Turchia, non un mattone di storia, non un saggio, ma rispettando cronologicamente eventi e date di fatti realmente accaduti, inserito un racconto di fantasia, mi restava solo da batterlo a macchina. Riposi nella sua custodia la mia ‘Olivetti 23’, salutai il mio compagno di cella che nel frattempo aveva preparato il caffè, bevvi sotto lo sguardo irritato degli agenti, raccolsi il mio sacco e insieme a loro uscì dalla cella. Percorremmo una parte del piano e scendemmo le scale fino al livello terra. A quell’ora c’era un tetro silenzio e gli odori che respiravi, malgrado le finestre aperte, erano quelli del chiuso e della muffa che si appiccicava alle pareti, e del dopobarba dozzinale. A volte pensavo a tutta quella gente che stava al di fuori del perimetro carcerario e che non aveva mai provato quella sensazione di impotenza, frustrazione e umiliazione coronanti la nostra quotidianità. In carcere, all’epoca di ‘Tangentopoli’, c’erano finite persone illustri, fino a un giorno prima rispettate, stimate, riverite e temute, poi d’un tratto, dal limbo della loro ricca cornice materiale fatta di lussi spropositati, sprechi del denaro pubblico se non appropriazione indebita e sollazzi dei più meschini, si erano ritrovati nell’esigua cella di San Vittore, a Milano. La casa in centro e la dépendance a Piazza Filangeri numero civico, 2. Complimenti! –pensavo. E’ bello e gratificante salire i gradini della società, quanto più scomodo, imbarazzante, scenderli…Chi aveva
resistito si era fatto tre, quattro anni di galera; chi invece vuoi per orgoglio, dignità e la condizione cui era sottoposto non ce la fece, si suicidò. Ci fu anche un noto imprenditore che preso nella morsa dei giudici di quell’epoca, gli avevano dato gli arresti domiciliari, che all’uscita del carcere disse: “Se le nostre carceri sono queste, allora tanto vale non arrestare nessuno.” E cosa pensava di trovare in un carcere questo noto affarista, un albergo a cinque stelle?... “Ma cosa hanno di tanto terribile le carceri umane?” domandò Lara che non capiva e non poteva capire. Fai conto che a te ti prendano e che sopra il tuo corpicino ci mettano una gabbia dalla quale non puoi uscire se non per altrui volontà, che attenzione non è detto sia la più giusta, e che ognuno che a e vede dove sei, e come sei catalogato nella società, simbolicamente, ti sputino in faccia. Ecco, questo è un carcere.” Spiegai a modo mio. Vuoi un sorso? le proposi offrendogli la bottiglia. “Si, solo uno, altrimenti poi mi comincia a girare la tesa,” accettò bevendo a canna. “Ma allora gli umani fanno di tutto per distruggersi, trattarsi male.” Si, è vero, le risposi La vita in carcere è malsana dal punto di vista psicologico e del trattamento ed è fuori da ogni schema umanitario. La detenzione non fa che incattivirti e se ti si prospetta una carcerazione lunga e senza via di uscita, la tua malvagità cresce col tempo, scaricando sul sistema la tua folle rabbia, l’incontenibile odio accumulato nel corso degli anni detentivi. Questo però non vuol dire che solo il sistema è se vuoi, per certi versi impreparato, e soluzioni drastiche e inumane vengono prese quando, sto parlando di me come carcerato – dalla nostra parte si arriva agli eccessi: anche il detenuto come la guardia ha i suoi torti. Ma questo non ti deve far pensare che solo nelle carceri è così. Anche la gente libera si costruisce la sua gabbia e a volte ci si chiude dentro senza ricordare più dove ha messo la chiave. Si vive essenzialmente di beni materiali che fanno la gioia degli occhi, ma non quelli della spirito; non ci stupisce più un cielo stellato o dei colori di un tramonto, siamo rimasti veramente in pochi ad esserne meravigliati. “Ettore, ma tu cosa credi di questa vita, che tutto finisca con la nostra morte?” E’ unna bella domanda. Ci ho pensato spesso. No, non credo che tutto termini con la nostra morte, ci deve essere un non so che di più grande, di
immensamente più grande che ci aspetta dopo, non so cosa, ma c’é. “E come te lo raffiguri, il dopo?” Questo è impossibile saperlo, ma credo senz’altro in qualcosa di più bello e significativo. “Dai, vai avanti con quella storia”…Mi pregò Lara. …Dovemmo restare una settimana nella casa circondariale di Genova in attesa di essere tutti e quattro, immaginavo per destinazioni diverse e difatti non li vidi più, trasferiti in altri istituti di detenzione. Furono sette giorni di patimento perché allora non esisteva ancora la ‘spesa straordinaria, quella che ti consentiva appena arrivato di comprare sigarette e generi alimentari che ti portavano subito. La mia arrivò dopo due giorni; previdente, e in odore di trasferimento, ordinai più sigarette di quanto me ne servissero. Ma i pochi mezzi di cui disponevano i detenuti della cella nella quale mi avevano assegnato, dimezzarono letteralmente la mia scorta e, parlando sempre di tempi andati, si usava dividere con i più sfortunati tabacco e sigarette. Certe volte nel corso delle due aria al mattino, mi soffermavo, sempre con la dovuta discrezione, a osservare gli altri detenuti cercando di intuirne l’indole e il profilo caratteriale da come camminavano, dalle movenze e dal frasario, e se tu facevi attenzione, ne trovavi sempre qualcuno di particolare; tra questi ce n’era uno che mi faceva pena ma anche sorridere: vicino alle pareti del gabbione di cemento, circa trenta metri per diciassette e alto cinque; rasentava le pareti del perimetro interno: avanzava con il o del pugile. Non alto ma tracagnotto, alla gamba sinistra piroettava un pugno col destro, e alla gamba destra tirava di pugno con la sinistra, in un susseguirsi di pantomine pugilistiche comiche e maldestre. O lo faceva per intimorire gli altri che eggiavano: -Guardate, ho fatto del pugilato…O forse, realmente si allenava, ma certamente per quelle mimate espressioni, non era il eggio, il luogo più adatto. L’attesa era snervante e a parte l’ora d’aria, mattina e pomeriggio non c’era nulla che potesse realmente interessarmi; la biblioteca era chiusa per inventario quindi, non potendo leggere una buona parte del mio piacere quotidiano si perse in quei giorni. Il romanzo sull’etnia kurda l’avevo lasciato in deposito, era inutile portarlo in cella per poco tempo e tra l’altro se non riuscivo a ritagliarmi il mio seppur piccolo spazio vitale, desistevo. Dovevi sopportare di tutto: televisione
sempre accesa… “Cos’è una televisione?” lo interruppe Lara. Un giorno te lo spiegherò, diciamo brevemente che è come una scatola dove fanno scorrere delle immagini, e se a Gufolandia gli va bene con l’elettricità, potrebbe arrivare anche da voi. Ti dicevo…Improperi e pugni battuti sul tavolo quando giocavano a carte, discorsi o conversazioni demenziali, accordi e promesse reciproche, per, una volta scontata la pena e ritrovata la libertà, ‘lavorare insieme’, chi eggiava avanti e indietro se lo spazio te lo consentiva, insomma una bolgia infernale dove la concentrazione necessaria non l’avresti mai trovata. Non riuscivo a stare sdraiato sulla mia branda inerte. I pensieri andavano e venivano, ma non erano i tarli della carcerazione, riuscivo seppur a fatica ad andare oltre, a crearmi delle mie fantasie, dei transiti intellettivi per diversificare giornate noiose di caldo afoso. Molte parentesi ate della tua vita, in quel luogo ti vengono alla mente, chiedendoti quando ne avevi la possibilità, vale a dire quando eri libero, perché non le averle messe in pratica, lo potevi fare, avevo l’opportunità di attuarle, ma poi l’alcol prevaleva, lasciandomi con un pugno di mosche in mano e tanta, tanta amarezza. Uno psicologo se mi disse una volta che io non ero un alcolista, ma un estremista: c’era da crederci? Forse si. A poco a poco vedevo gli altri andarsene a dormire. Un'altra giornata era ata, a parte due incollati al televisore, gli altri si erano spogliati e per pudore coperti per metà sotto al lenzuolo; l’aria stagna era opprimente e da quando avevano aggiunto le grate alle sbarre, sia di giorno che di notte le celle diventavano roventi. Giusto prima che anch’io me ne andassi in branda ò la guardia di sezione per chiudere i blindati, aveva un foglio in mano. “Renzi, domani sei partente, preparati la roba stasera.” Finalmente, dissi ad alta voce. Misi della busta di plastica quel poco che mi ero portato e me ne andai a letto.” “Chissà dove te mannano…” Si chiese o mi chiese il detenuto che dormiva sotto di me.
Non mi importa, basta che vada via di qui, sette in cella siamo troppi. Risposi. “Un carcere vale l’altro, sempre carcere é.” Ribatté lui. Non è vero. Affermai. Sei mai stato a Fossombrone? domandai. “No.” Sono tutte celle singole, spiegai, quando vuoi stare in compagnia te ne vai al eggio, ma quando vuoi stare per cazzi tuoi, rientri in cella e non trovi nessuno con cui devi fare discussioni per quello o quell’altro motivo; le cose tue non te le tocca nessuno; il vitto non né più né meno che quello di una caserma militare; i benefici arrivano puntuali, le perquisizioni in cella vengono fatte con il rispetto dei tuoi effetti, e c’é un silenzio tombale. “Sai che allegria!” rispose lui schifato. Ci fu un attimo di silenzio e la conversione riprese con quei toni che volevano essere concilianti. Succedeva spesso in carcere: dalle poche parole emerse in un dialogo, sapevi già se su quel detenuto potevi avere un ascendente o meno. “Mah, sarà come dici tu, ma io in una cella da solo m’annoierei a morte: (ti viene incontro ma cerca di restare sul suo concetto); “Qui vedo l’amici miei, dopo il eggio famo due chiacchiere e se c’è qualche discussione rattizza l’amicizia, no?” Ma che sei romano? Chiesi. “No,” rispose, “de Trastevere. Ma perché niente, niente lo sei anche tu?” Si, lo sono, ma non di Trastevere. “Strano, nun se sente l’accento romano. E de dove saresti?” domandò. Prati. Risposi. “Ah! El quartiere dé borghesi…Ma allora ciai li sordi…” Macché, forse una volta, stavamo bene, poi è cambiato tutto. “Inzomma, invece da salì le scale, le avete scese…” Osservò continuando a
parlare quel buon romano caratteristico. Si, le abbiamo scese, e mica scalino per scalino: a ruzzoloni. Risposi. “Solo che n’mezzo la tu famija se nun ce so artri carcerati, tu nun te sei fatto solo le scale in discesa, tu te sei fatto proprio na capriola pé venì in questo posto dimenticato da Dio.” Misi le mani incrociate dietro la testa con gli occhi rivolti al soffitto. Si, questo posto è schifoso, lo sappiamo tutti, ma Dio non ci ha dimenticati, soprattutto a noi. risposi, chinando la testa e guardandolo in faccia. “E che avremmo fatto noi delinquenti pé meritacce la su comione, borghé?” Te lo ricordi cosa disse Gesù al tagliaborse che era stato crocifisso vicino a lui? “Più o meno.” Gli disse che la sua fede l’aveva salvato e sarebbe andato in paradiso assieme a lui. Spiegai sentendomi quasi ingenuo.”E ci andò…Voglio dire in paradiso?” mi chiese. Questo non lo so, risposi sorridendo: io non tengo l’anagrafe dei graziati… “A borghé, lo sai che me sei simpatico, peccato che te ne vai domani. Svejame che te saluto.” Ogni tanto, dissi a Lara guardandola negli occhi, riuscivo anche a esserlo, ma per me poco voleva dire simpatia o antipatia, oppure dare l’impressione di snobbare gli altri, era la mia riservatezza, la mia discrezione, il voler non essere mai invadente che mi faceva apparire quasi misantropo. Mentre invece socializzavo volentieri, tollerando a volte l’impossibile e se in determinati casi reagivo bruscamente, inopportunamente, me ne pentivo subito. Ma in carcere era sempre un problema, ma non solo per me, per tutti: mentalità, concetti astrusi e arcaici, usanze e rituali prosaici, frasari e movenze bullesche; dipendeva molto chi ti aveva educato, dove eri stato educato: se i tuoi in casa, o
gli amici in strada. Ignoranza e aggressività completavano il quadro e, data la mia personalità avevo spesso difficoltà a socializzare. L’incontro casuale con quel romano e il dialogo erano stati resi possibili dalla mia determinazione a sostenere la mia tesi sulle carceri, dalla conterraneità e dal fatto che ogni detenuto che sente parlare di Gesù, ne avrà sempre il massimo rispetto. “Che mondo strano è quello degli umani.” Dichiarò Lara “Ma chi era Gesù per cui chi ne parlava, aveva il rispetto degli altri?” domandò. Ci sarà un momento, credo, che ti spiegherò anche questo: parlare di Gesù non è semplice e bisogna sapere accettarlo, per quello che si è a noi rivelato…Dai, mi sa che ci siamo, le dissi prendendola sottobraccio e vedendo che i politici si erano alzati in piedi. Stasera, o ogni casa e vie saranno come dicono, illuminate, oppure assisteremo a un bel fuoco d’artificio…” Commentai. “Ma, e il resto della storia?” domandò Lara. Te la racconterò presto, promesso. Gli risposi. Non sapeva bene cosa lo impensierisse quella sera, si sentiva bene e allo stesso tempo a disagio, voleva bere e divertirsi con la sua nuova compagna, eppure c’era un freno cerebrale che lo stava turbando senza sapere esattamente a cosa fosse riferito…Non ci pensò più, l’indomani, con le idee più chiare, avrebbe forse capito di cosa si trattava e perché fosse così forte la sensazione che stesse per accadere qualcosa.
P R I M E A V V I S A G L I E
Ettore si accorse che fra tutta quella folla di bestie, erano poco lontano anche Asdrubale e Fraschetta: fece finta di non vederli. Non aveva nessuna intenzione di rovinarsi la serata per la gelosia di lei nei confronti di Lara. Fraschetta aveva una certa età, Allegra era più fresca e giovane: un pretesto più che sufficiente perché le due coniglie venissero alle zampe. Per cui se ne stettero in disparte, confondendosi fra quella fiumana di bestie. Intorno al perimetro della radura erano stati accesi dei fuochi contenuti in latte riciclate da una discarica. Altre lampade a candela poste in appositi sostegni a prova di vento vacillavano nella sera. Per quell’occasione ogni bestia di Gufolandia aveva indossato il vestito migliore, e nei bagliori ondeggianti di quei lumi, i colori degli abiti assumevano straordinarie sfumature. A un cenno del presidente fatto dal palco, la folla si azzittì. “Conteani è oggi per noi un grande giorno, anche se siamo di sera…” Le bestie risero. “O per meglio dire, una stupenda serata.” Esordì. “Dopo tante fatiche, ringraziando tutti coloro che hanno permesso questo, quindi a partire dall’ingegnere Truliccho, castoro di grande esperienza, alla sua equipe, ai ratti e i cani che hanno per noi rubato agli umani un po’ dei loro preziosi marchingegni, la nostra comunità ha oggi un generatore di corrente elettrica. Cosa vuol dire,” fece una pausa per schiarirsi la voce. “Che da questa sera in poi, nelle vostre case ci sarà la luce, le vie e i parchi saranno illuminati, che in futuro prossimo avremo carrette elettriche, bus elettrici, scatole per le immagini, scatole per la voce, e tante, tante altre meraviglie che questa scoperta ha dato agli umani e adesso a noi. Oltreciò sono stati stanziati dei fondi per chiunque volesse investire in commerci con l’ausilio dell’energia elettrica. Cosa dirvi di più miei bestiali consimili, se non dare l’ordine al nostro caro ingegnere di azionare il generatore.” Concluse Belvedere Bracco. Tutte le bestie applaudirono: esultanti di gioia aspettavano questo momento. I conigli saltellavano, i castori, ma in segno di protesta, facevano risuonare le loro code al suolo, le anatre svolazzavano in cerchio, i ratti si erano uniti in cerchi concentrici che si stringevano e si allargavano, le oche starnazzavano, lontre,
uccelli acquatici, rane gracidanti, un coro di maiali, le vacche muggivano, i cavalli nitrivano, i lupi ululavano, i cani abbaiavano, i porcospini facevano attenzione a non muoversi troppo, gli asini ragliavano e in quel concerto di suoni, solo due animali non parlavano e non manifestavano: Axa la volpe e Ettore coniglio. Ricevuto il segnale dal presidente, non si udì più un suono. Tutti guardavano nelle direzioni dove erano state installate le luminarie: nelle case, nei giardini prospicienti e ai viali. D’un colpo fu luce. Dapprima abbagliati e poi accecati, si coprirono tutti gli occhi, le talpe addirittura si rifugiarono nelle loro tane e i topi fecero lo stesso. Poi, iniziarono gli “Oh!”, gli “Uh” insieme a una gioia incontenibile che ognuno palesava col proprio linguaggio. Tutto adesso, pareva per loro come di giorno. Le bestie sorridevano di piacere, il fatto singolare era che uno dei lampioni era proprio sulle teste di Ettore e Lara: lui che stava bevendo a canna, e lei che gli stava appiccicata addosso. Si sentirono improvvisamente osservati. Ettore, con la bottiglia in bocca, restò in quella posizione, roteò gli occhi a destra e sinistra, mise la Vodka dietro la schiena e alzando una zampa: “Salve,” disse, “bella serata eh!” poi girando la testa alla sua sinistra perché nella coniglia che gli stava accanto ricordava una testa già vista, trovò Allegra. “Anche lei qui, alla festa?” le disse Ettore. “E me la chiama ‘festa’ questo scempio? Si è mai visto degli animali che maneggiano l’elettricità?” disse in toni seri Allegra.” “Ha ragione,” concorò Ettore, “è solo uno scempio. Come stanno i suoi protetti?” domandò. “Bene, qualche problema con l’alcol, ma gli stiamo vicini con la nostra Associazione e i volontari che si prestano a qualche sacrificio…E lei, Ettore, ne avrebbe bisogno.” “Di cosa se è lecito?” “Prima di tutto una bella disintossicazione, poi capire insieme perché beve…” Spiegò Allegra.
“Signora, io non penso proprio di disintossicarmi, io sono già intossicato e per me non c’è rimedio.” Rispose Ettore . “Non si sa mai. La saluto, ci incontreremo ancora…” disse Allegra scomparendo tra la folla. Iniziarono i balli. La musica bestiale era un misto di suoni della foresta accompagnati dai percussori di tronchi cavi, che infondevano l’agitazione tribale e le pose arcaiche dei loro antenati incivili: la tradizione, per certi versi, restava. Ettore, a un certo punto se ne fregò della presenza di Fraschetta, prese Allegra per i fianchi e si buttò assieme a lei nella mischia per ballare. “Ti piace la serata?” le domandò. “Si, molto, è tutta l’atmosfera, è raro che ci si trova tutti quanti o quasi, insieme qui radunati. Mentre volteggiavano tra le bestie, Asdrubale, che arrivava sempre con l’ultimo treno per afferrare le cose, indicò a Fraschetta la nuova coppia. “Hai visto!” fece indicandola con la zampa. “Finalmente vedo Ettore con una femmina. Non gli ho mai detto niente, sai quanto sono discreto…” Fraschetta fece roteare una zampa come per dire: “Lo sappiamo…Lo sappiamo…” “…Ma cominciavo a pensare che fosse un diverso, tu no?” la interrogò. “Beh, no, insomma non lo so, non ci ho mai pensato.” Rispose non sapendo cosa dire. “Ha anche buon gusto, guarda com’è carina eh?” “Senti Asdrubale, ignorante come un caprone, lo sai che il galateo impone che un maschio, in presenza di una femmina, anche sua moglie, anzi soprattutto se è sua moglie, non fa complimenti ad altre femmine? Lo sai, si o no? “si arrabbiò la coniglia. “Scusa, non volevo mica offenderti.” “Lascia stare, piuttosto andiamocene a casa che tutta questa calca mi sta
esasperando.” “Certo, permetti un attimo?” Vado a salutare Ettore. “E salutalo…” inveì spazientita Fraschetta, zampe incrociate, battendo ripetutamente la zampa al suolo. Asdrubale si fece largo tra le bestie che ballavano fino a quando raggiunse il suo amico. “Ettore, Ettore… Gridò. Il coniglio si girò e riconoscendolo gli andò incontro portandosi dietro Allegra. “Ciao,” salutò Asdrubale abbracciandolo, “come stai?” “Bene, e tu?” domandò Ettore. “Bene, bene, cosa mi racconti?” “Ti presento Lara la mia compagna…Lara questi è Asdrubale un mio carissimo amico…” “Piacere,” disse la coniglia tendendogli una zampa. “Vuoi bere qualcosa con noi?” propose Ettore. “No, grazie, c’è Fraschetta che mi sa aspettando, ha le querce di traverso e vuole andarsene a casa.” “Ah, beh salutala da parte mia.” “Presenterò,” disse Asdrubale andando via. “E tu che vuoi fare dolcezza? Vuoi restare o andare?” “Possiamo rimanere ancora un pochino?” chiese cantilenando. “Certo che possiamo restare, quanto piace a te.” Gli rispose Ettore accarezzandole il muso.
Si sedettero su di una panca guardando coloro che ancora ballavano, a qualche bestia ubriaca che inciampava sulle sue stesse zampe, alcune coppiette che copulavano nei cespugli e quelle che allampanate dai fumi dell’alcol non sapevano cosa fare, restare o andarsene. A una certa ora, quasi le due del mattino, Ettore accompagnò Allegra a casa sua. “Perché non ti fermi da me,” gli chiese. “Stanotte non ti sarei di compagnia, ho un sonno tremendo e domani vorrei alzarmi presto per recuperare i miei effetti e la moto, sperando che almeno Asdrubale sia già sveglio.” Rispose Ettore. “Come vuoi, anch’io voglio andare a dormire, domani festa o non festa per me è lavorativo. Ettore le diede un bacio, le augurò una buonanotte, e se ne andò. Ma non in direzione di casa sua, prese la direzione che portava al ruscello, gli rimaneva ancora della Vodka e aveva la necessità di riflettere a quel tormento che aveva in testa. Come se fosse guidato da un entità invisibile, arrivò ai bordi, lì sedette e stette a contemplare lo specchio d’acqua che placidamente correva e che, pensava Ettore, non si fermava mai. Bevve un sorso e accese una sigaretta; tre quarti di Luna rischiarava quello spazio verde e lucente. Si chiese per la millesima e una volta se, tutto ciò che osservava era bello, se riusciva a emozionarsi e ancora a stupirsi di quanto fosse caleidoscopica la natura, perché istupidirsi con l’alcol, perché rovinarsi ciò che la mente registrava spontaneamente che alla vista, all’udito, nella mente e nel cuore gli si dipanavano ripetendosi incessantemente…Bevve a canna un altro sorso:-Perché con l’alcol queste cose diventano tutte più belle, -rispose a se stesso. E continuò a bere, almanaccando sui doveri e i piaceri, il suo destino che somigliava a un insolito e indecifrabile enigma bio-genetico, senza voler ammettere a se stesso la causa del suo malessere interiore. Stava bene così, amava come s’era organizzata la sua vita e non voleva, a scanso di equivoci, riflettere più di tanto e non scoprire la sua vera verità. Per rinforzare i suoi astrusi concetti, si sforzò di pensare che rubare non era un
reato, che le colpe erano di quelli che inventavano cose belle, senza darti possibilità di ottenerle. –Che parola grossa, ‘rubare’. –Pensò ad alta voce. Non se ne pentiva affatto, non gli pesava sulla coscienza, non aveva alcun rimorso. Buttò dei sassolini nel ruscello. Albeggiava ormai, il mattino era fresco e profumato, la brina aveva bagnato erba e fogliame. Si sentiva bene, leggero come l’aria che respirava. Incosciente e ubriaco, si deliziava del suo stato. In quel momento di estasi amava tutti, avrebbe sostenuto anche una conversazione con Axa la volpe, se lei lo avesse voluto… Qualcosa però in quel primo albore lo portò a un livello di coscienza più attento. Davanti a lui le acque del ruscello si misero a ribollire così forte che dovette fare qualche o indietro. Si accorse che un effetto molto luminoso stava prendendo forma, fino a quando divenne molto appariscente e iridescente, variando dall’ocra, al beige e al bianco, nelle sfumature ch’egli non aveva mai viste. Immediatamente attratto da quello splendore, si accorse di trovarsi davanti a un grande uccello. “Chi sei?” chiese timoroso. “Oh bella! Chi sono? Sei ancora pieno di quella robaccia,” disse il volatile indicando col becco la bottiglia vuota. “E a te, cosa interessa?” domandò Ettore diffidente. “Mi interessa, mi interessa, eccome! Io sono la tua coscienza, quella che nella tua immaginazione spezza ogni catena, ricordi? L’aquila buona…” Ettore guardò meglio l’uccello e adesso che aveva preso forma completa, sospeso a 50 centimetri sopra il ruscello, riuscì a scorgere l’elsa di una spada lunga e lucente. “Ma sparisci, sei solo un allucinazione!” gli rimbrottò Ettore. “Non sono un allucinazione, deficiente! E nemmeno quando ancora ne avevi una, di coscienza, ti ho mai abbandonato. Quando ne avevi una tutto andava bene, ma per strada ti sei perso e io sono qui a ricordarti che il tuo tempo sta per scadere.” Ammonì la figura piumata.
“Ma di quale tempo vai cianciando?” “Gli anni ano Ettore, e da coniglio quale sei, rapportato a un essere umano, hai…Diciamo 56 anni: Vuoi proprio morire da coniglio? Non credi sia tempo di tirare i remi in barca e cercarti un approdo?” “Senti, essere strafottuto, che non nemmeno so chi cazzo sei, se non frutto delle mie fantasie alcoliche: primo, sono una bestia e coscienza non né ho…” “Oh si, che ce l’hai,” gli ripetè l’aquila ‘buona’. Solo che l’hai messa sotto i piedi insieme alla dignità e il tuo amor proprio e a tuoi pregi, diventando una merdaccia.” Parlò senza mezzi termini l’uccello. A quell’insulto Ettore afferrò la bottiglia vuota e gliela scagliò contro, ma quando si accorse che aveva ferito l’aquila alla testa, nascose la mano. “Guardami bene Ettore, è l’ultima volta che mi vedrai poi, non potrò più fare niente per te…E con un battito d’ali, la testa sanguinante si allontanò nell’alto del cielo. Quella visione, il fatto stesso di aver per pochi minuti parlato con chi, non sapeva, ma che in effetti fosse parte del suo immaginario, l’aveva scosso. Ancor di più il fatto che l’avesse ferita e nella sua lucidità, si disse che lui non avrebbe mai fatto una cosa del genere, non avrebbe mai fatto del male a un essere vivente, anche da ubriaco perso, non rientrava nei suoi principi, e allora si accorse, per la prima volta che l’aveva infranto. Si guardò la zampa con la quale aveva lanciato quella bottiglia e affranto nel suo rimorso si mise a gridare a tutta voce alla volta celeste: “Aquila, aquila buona, non volevo farti del male!...” E ripetè due, tre, quattro volte la stessa frase senza ottenere risposta. Questa volta con le orecchie basse, raggiunse la sua dimora. Dormì poche ore, in preda a sogni brutti e nefasti. Ciò che aveva visto e sentito gli ronzava in testa e non riusciva a pensare ad altro. Cercava di convincersi che era stata solo un allucinazione, ma più ava il tempo e più si convinceva che tutto era reale. Cercò di scrollarsi di dosso quei pensieri e dovendo affrontare anche Fraschetta, per recuperare i suoi effetti, si preparò allo scontro, lasciarla non sarebbe stato facile. Era già tardi e il bar di Asdrubale aperto e lei doveva essere in casa. In taxi-carretta vi si fece portare.
Quando arrivò si accorse subito che da dietro le imposte della finestra al pian terreno, lei lo stava osservando. Con o lento e l’espressione di un condannato a morte, varcò il cancelletto, percorse la parte di giardino e quando fu arrivato all’ultimo gradino la porta di ingresso gli si spalancò davanti. Non gli diede nemmeno il tempo di entrare che gli buttò le zampe al collo implorandolo. “Ti prego, non mi lasciare, non ho che te, nessun maschio vorrà più di me, e solo tu mi piaci.” “Mi spiace Fraschetta, non posso andare avanti così.” Disse provando per lei tanta pena. Non servirebbe a niente continuare e poi non ce la faccio più a tradire la fiducia di una bestia che mi si è sempre dimostrata amica, e in quanto a te, non puoi accettare quello che io sono, meriti di più, anche se sei una troia.” “Perché tu cosa sei?” gli domandò Fraschetta. “Un alcolizzato, uno che ruba, uno che oggi c’è e domani no, uno che se ne frega di tutto e di tutti e che accetta come unica compagna la bottiglia.” Rispose. Ettore cominciando a mettere alla rinfusa i suoi effetti di vestiario nella borsa. “Ma io avevo progettato un futuro meraviglioso per noi,” proseguì la coniglia imperterrita, “Una degna di un Re e una Regina, un progetto che ci renderà ricchi e poterci permettere tutto il lusso che vogliamo…” Ettore smise per un attimo di riempire la borsa e la guardò negli occhi. “Ma di cosa stai parlando…Progetto, ricchezza…” “Si, andremo a vivere a Rublandia dove non c’è estradizione.” “Sai cosa me ne importa dell’estradizione…Vado via, cambio aria!” “Ma io non dicevo solo per te…Anche per me” Ettore si fermò nuovamente, questa volta stupito. “E perché andresti a cercare un posto sicuro come Rublandia?” domandò Ettore basito. “Per via di quel progetto.” “Cos’hai combinato.”
“Sai, domani si inaugura la Borsa Valori, e il titolo che maggiormente attirerà gli investitori sarà quello della ‘Nature Green Bestial Energy…Quello legato a tutto ciò si potrà creare con l’elettricità.” “E allora?” domandò sempre più sconcertato Ettore. “Quando il titolo si sarà stabilizzato ad una quotazione che io riterrò interessante, l’ingegnere Trulicchio sotto lauto compenso provocherà una fuga di nafta e farà in modo di inquinare le acque. Il titolo scenderà ai minimi e io per una manciata di spiccioli raccoglierò più del 50% delle azioni che attualmente sono in mano a quel figlio di una cagna Belvedere Bracco. E per questo che diventeremo molto ricchi. Naturalmente gestirò tutta l’operazione da Rublandia con il tramite di presta-nome… Ettore si appoggiò al suo bagaglio, guardò fuori la finestra, sperando che avesse udito male, ma nei pochi secondi che seguirono ne dedusse che aveva sentito benissimo. “Ma, ma…Chi ti ha insegnato tutte queste cose! “Tu, con i tuoi articoli sul ‘Bestial Express’, quando parlavi di quegli umani imprenditori finiti in carcere per aver fatto tutte quelle cose, diciamo non proprio pulite.” Gli illustrò Fraschetta con tutta la semplicità di una neofita, ma fin troppo decisa. “E tu, tu avresti il coraggio di mandare in malora flora e fauna per la tua avidità!” “Non la mia, anche la tua.” “Tu sei pazza da legare! Motivo in più per togliere il disturbo.” “Vieni,” disse Ettore, “prima di andare via voglio salutare tuo marito e saldare il conto che ho ancora n sospeso. Si incamminarono, lei silenziosa al suo fianco, lui altrettanto con o deciso. “Ti prego ancora una volta, poi non lo farò più. Resta!” “No!”
E i pochi i che li separavano dal “Vecchia Radura” divennero pesanti e glaciali. Quando entrarono nel bar, pareva che avessero contaminato tutto l’ambiente tant’era il silenzio e l’atmosfera pesante. I clienti, per coloro che avessero intuito la relazione amorosa di Ettore e Fraschetta, diventava un cruccio: da quando Ettore era arrivato a Coni’s I’sland’s, e ancora prima, ogni sera che c’era lui non ci si annoiava mai, aveva sempre un inedita storia da raccontare sugli umani, e se sapevano, tacevano, anzi provavano del dolore per Fraschetta che rimanendo sola con Asdrubale, si sarebbe lasciata andare, e tutti sapevano che Ettore, le aveva dato una nuova gioia di vivere. “Allora, ci lasci?” gli domandò subito Asdrubale. “Però, prima di andare beviamo qualche bicchiere insieme…” Annunciò Ettore facendo segno al ragazzo di avvicinarsi. “Questo giro lo offro io,” gli disse, “e queste sono per te, aggiunse dandogli una mancia di dieci Euro.” “Oh, grazie Ettore! Lei è proprio una brava bestia.” “Amici, amiche, bestie e bestiacce, bestiottine e bestiotte…” La clientela rise. Ettore salì su uno sgabello. “Sto per salutarvi e come potrei farlo se non alla maniera consuetudinaria come noi ubriaconi ci salutiamo? Ma bevendo, bevendo e ribevendo. Insieme a voi mi sono trovato bene, insieme al mio amico Asdrubale e la mia amichetta Fraschetta, a tutti quelli con cui almeno una volta ho bevuto. Non so cosa mi aspetta il domani e non so se resterò a Gufolandia, è tutto un ‘forse’, come naturalmente lo sono sempre stato…un ‘forse’. No ho nient’altro da dire, vi prego bevete e divertitevi.” I clienti applaudirono, le due gemelle coniglie, Crescenza ed Escrescenza, abituali ubriacone del ‘Vecchia Radura’ gli si avvicinarono, “Ettore, ci porti con te? Siamo sicure che ovunque andrai non ci mancherà mai la ‘boccia’.” Il coniglio se le guardò divertito. “Non posso portarvi con me.” Rispose. “E perché?” chiesero le sorelle all’unisono.
“Primo, perché non so ancora se vado via; secondo, perché in qualsiasi luogo io vi portassi, berreste tutto voi senza lasciare una sola goccia a me.” “Hai sempre la battuta pronta,” fece Escrescenza abbracciandolo. “Dai, andate a bere e divertire,” le allontanò Ettore con una pacca sul culo a entrambe. Asdrubale, lui, e Fraschetta riluttante, fecero tintinnare i bicchieri. “Alla vostra,” disse Ettore. “Alla tua, ovunque tu vada.” Gli augurò Asdrubale. Fraschetta se lo guardava con algido stupore. Si chiedeva come fe, dopo tutto quanto c’era stato fra loro ad essere così indifferente, riuscire a divertirsi, ridere e sorridere, quando lei aveva un nodo in gola e spasmi allo stomaco dal nervosismo. Lo osservava bere, e se ne era sempre meravigliata di come reggesse l’alcol ma era anche troppo per i suoi gusti: adesso, glielo poteva dire in tutta franchezza, non aveva più il timore che lui la riprendesse, anche dandogli un buon consiglio, o soffocato ogni parola, espressione, movenze che potessero allontanarlo da lei. A suo modo e davanti suo marito, adesso si sentiva forte, e lui poteva solo incassare…Dando sfogo alla sua rabbia per averla lasciata. “Tu bevi troppo, Ettore. Poi ritornando a Gufolandia, sarai sempre a rischio.” Gli disse altera. “Rubi, bevi, te ne freghi del mondo intero. Noi non saremo dei santi ma tu stai rovinando la tua vita, e finirai i tuoi giorni in galera dimenticato da tutti, anche gli amici ti volteranno le spalle.” “Fraschetta!” si stupì Asdrubale, “ma che discorso è questo? Ettore è sempre stato un amico e sempre lo sarà e se un giorno gli capitasse di cadere, noi lo aiuteremo a rialzarsi.” La coniglia assunse un espressione beffarda, poi indicandolo con una zampa, replicò: “Questo un amico? Ma se non pensa che a ubriacarsi dal mattino quando si sveglia, a notte inoltrata quando non regge più. Che bell’amico che abbiamo!” “Ettore, scusala, non so cosa gli abbia preso.” “Non fa niente Asdrubale. In parte ha detto la verità e forse ce l’aveva sullo
stomaco da parecchio tempo. Si vede che alla sua età i piaceri materiali della vita non le interessino più ma solo quelli spirituali. In fin dei conti, è sempre stata una ‘santarellina’.” Le disse Ettore a titolo di rivalsa. “Può darsi che io vivrò facendo casa e lavoro, ma tu, proprio tu,” battendogli con la zampa sul petto, “le tue uniche mura saranno quelle di una prigione!” “Basta così! Fraschetta ti prego!” si adirò Asdrubale. “Si, basta così,” gli fece eco Ettore. “mi fai il conto per piacere…” “Non ho voglia adesso, quando i la prossima volta.” “Va bene, ti saluto Asdrubale, alla prossima.” I due conigli si abbracciarono, poi a distanza Ettore salutò anche lei: “Donna Fraschetta…” inclinando lievemente il capo, senza baci e rituali amichevoli. Quando Ettore fu uscito, Asdrubale affrontò sua moglie. “Si può sapere cosa ti è preso? Ettore è uno dei più cari amici che abbiamo.” “Lo so io, lo so io.” Rispose tamburellando la zampa sulla cassa. Ettore sistemò la sua borsa da viaggio sul retro del sellino, avviò il motore e voltandosi una volta indietro, vide Fraschetta attraverso la porta a vetri che lo guardava penosamente. Lui alzò la zampa in segno di saluto e questa volta la coniglia rispose; forse si sbagliava, ma gli sembrava che piangesse. Ingranò la marcia e partì. Aveva in mente di cambiare zona, forse anche andare in un'altra regione dell’Italia, lontano da quelle bestie che si ritenevano evolute o cercavano a tutti i costi di esserlo, ma desiderava anche portarsi dietro Lara e mentre sfrecciava sullo sterrato in direzione di Gufolandia, pensò che per viaggiare in due sarebbe stato più comodo per lei e i bagagli che dovevano portarsi dietro, un side-car, e di questi, anche volendolo rubare ce n’erano rimasti pochi in giro, pensò. Lo avrebbe costruito lui. Lara era al lavoro, quindi andò direttamente a casa sua, ripose la moto sul retro, la coprì con il solito telone e si fece una lista di tutto quanto doveva acquistare per apportare le modifiche che aveva in mente, e prendendo la sua carretta per la
spesa si recò Bestial Center del Bricolage, un supermercato per gli apionati del fai-da-te. Acquistò delle tavole di noce di media grandezza, dei tubi di acciaio, del piombo da fondere, una ruota a raggi, dei cuscinetti a sfera e delle sospensioni adattabili al side-car e due cuscini per l’abitacolo, colla, viti e chiodi. Tornato a casa si mise al lavoro. Mentre stava segando le assi di assemblaggio notò che la contea era inverosimilmente silenziosa, non ci aveva fatto caso arrivando, ma il solito vociare di commercianti, venditori ambulanti e il piccolo mercatino che si teneva ogni giorno per qualche ora, erano spariti, alcun suono, nemmeno il aggio di qualche carretta e, facendo mente locale, pensandoci bene, al supermercato del bricolage era stato l’unico cliente. Lasciò per alcuni minuti il suo lavoro e ò sulla facciata principale di casa sua. Silenzio. Non era normale, pensò. Una bestia che lui avrebbe riconosciuto a distanza, si stava avvicinando. Era Gianselmo castoro. “Che succede stamattina?” gli domandò subito appena si fu avvicinato. “Un guaio,” rispose questi. “Con la serata di ieri sera o se preferisci la nottata, ogni bestia invece di andare al lavoro, è rimasta a casa. In piedi ci siamo solo io e te: io perché ho la responsabilità del carcere, tu perché quando bevi sembra che butti giù acqua.” “Dovrei ridere?” rispose Ettore continuando con i suoi attrezzi. “Non c’è proprio niente da ridere, quello che sta succedendo è una vera sciagura.” Disse il castoro scuotendo la testa. “E perché, i detenuti sono chiusi in cella, le guardie ci sono visto che sei qui, cosa temi?” “Intanto, se qualcuno non si sveglia, i detenuti a pranzo non mangiano e questo è il primo dei problemi; secondo, se non arriva il rifornimento di sigarette, sarà un macello.” “E come mai il supermercato del bricolage era aperto?” domandò Ettore.
“Quelli hanno avuto la licenza da poco, è loro interesse, almeno per il momento non chiudere nemmeno un giorno.” “Mi sembra che le vostre regole si stiano incrinando.” Accusò Ettore. “Non penso che una serata di bisboccia possa cambiare il nostro modo di vivere, però in effetti, c’è qualcosa che non mi convince del tutto.” “E sarebbe?” chiese ancora il coniglio. “Per il momento è solo un impressione, sai una cosa istintiva, ma gli ultimi fatti, vedi Fuoriditesta il picchio, oppure Carlotta gallina, e alla Fortezza i detenuti sono stranamente tranquilli…” “Non so cosa dirti,” rispose Ettore serrando un bullone. “Ma tu, cosa stai facendo?” domandò Gianselmo. “Mi sto costruendo un side-car, nell’evenienza che abbia voglia di andar via da Gufolandia, ma porto con me anche Lara.” “E lei è d’accordo, chiese il castoro.” “Non glielo ancora detto.” “E se non le andrebbe di seguirti, che fai la leghi?” gli disse Gianselmo sfottendolo. “Nessun problema, parto da solo.” “Da te, solo una risposta del genere potevo aspettarmi. Ma non consideri mai qualcuno che ha dei sentimenti per te?” “Mi sembra proprio strano che tu bestia mi parli di sentimenti. Sai spiegarmi cosa sono? Oppure è uno di quegli argomenti che trattate o cercate di avvertire come gli esseri umani.” “Forse, non mi sono spiegato bene, o tu non capisci un accidenti! Ti parlo della considerazione che puoi avere per qualsiasi essere vivente per il quale ti da stimoli a fargli piacere, ad aspettarlo con ansia se ritarda a un appuntamento, a
farti pena se non ha da mangiare, se non ha da bere, e intendiamoci non quello che bevi tu, insomma qualsiasi cosa, evento, fatto che potrebbe amareggiare chi vuoi bene.” “Si, può darsi che sia come tu dici, ma per il momento ho solo confusione in testa, e non per quello che bevo, ma per ciò che sono senza sapere chi realmente sono.” “Cos’è quel pendaglio che hai al collo, un amuleto?” “Questo?” rispose Ettore prendendolo in mano. “E’ un pegno d’amore che mi ha dato Lara.” “Ma allora ti vuole bene…” “Si, penso di si,” rispose Ettore Alzandosi. “Continuerò oggi pomeriggio. “Ti va qualcosa da bere?” domandò al castoro. “No, devo ritornare in Fortezza, fra poco sarà mezzogiorno e se i viveri non saranno arrivati per quell’ora i detenuti cominceranno a lamentarsi.” “Ma chi è il vostro fornitore?” chiese Ettore. “Ha un deposito di alimentari a mezzo miglio da Vaccarella.” “Vuoi che ti ci vada io?” propose il coniglio. “Mi faresti un gran piacere, penso che poi in serata tutto si normalizzerà. Ti darà anche i tabacchi. Nel frattempo cercherò di capire come mai l’addetto al carico non si è ancora fatto vedere. E…Grazie Ettore, è un bel gesto da parte tua.” Disse Gianselmo. “Niente, niente…” Gianselmo se ne ritornò a grandi i al carcere, mentre Ettore, mettendo via gli utensili e parte del side-car, caricò sul bagagliaio della moto due grandi sacche e partì in direzione di Vaccarella. La strada era sconnessa. Molte bestie erano state impiegate per darle un minimo di viabilità ma grosse buche restavano da coprire e facevano sobbalzare
pericolosamente la moto di Ettore. Il cielo era nuvoloso ma al momento e per parecchie ore non si prevedeva pioggia, almeno stando alle previsioni istintive dei colombi metereologici e quel pensiero gli fece venire in mente di apportare un ulteriore modifica al side-car: un telo trasparente da applicare per riparare il eggero che vi sedeva dentro. Zigzagava velocemente tra le cunette e i dossi. Non aveva mai pensato che l’aquila del suo immaginario potesse diventare una realtà e non si perdonava di averla ferita. E si chiedeva altresì se potessero esistere storie come le stava vivendo lui. Forse, continuava a pensare, una punizione che il Signore gli aveva mandato per farlo rinsavire dal suo debosciato comportamento. La paura, la codardia, appartenevano nel linguaggio degli umani, a considerare un tale uomo un coniglio, e per quanto arcaica fosse questa definizione, ella trovava ancora riscontro nei centri rurali e laddove l’ignoranza ancora prevaleva. Ma cosa poteva fare lui per recuperare le sembianze umane…L’aquila l’aveva rimproverato, gli aveva detto che era rimasto poco tempo, ma indicazioni utili per uscire da quella pelle, o da tutta quella situazione non gliene aveva date… Si fermò come gli aveva detto Gianselmo a mezzo miglio da Vaccarella. In effetti c’era una sorta di capanno con su scritto in ‘crash’ Alimenti per tutte le bestie. La vicino c’era un Gufo che matita impugnata nell’ala destra e cappellino con visiera, prendeva nota dei contenuti delle cassette esposte fuori. “Buongiorno,” disse Ettore salutando. “Buongiorno,” rispose la bestia. “Secondo te è il modo di presentarsi davanti a una bestia amante della pace e della tranquillità con un affare del genere?” domandò irritato il vecchio gufo. “Sono venuto al posto dell’addetto che ritira ogni giorno gli alimenti e le sigarette per il carcere di Gufolandia.” Spiegò Ettore. “Ah! Ed è con quel mostro che ti sposti? Quando ero giovane io, volavo…” “Aoh!” gli ringhiò bruscamente Ettore, “Ma che mi ci vedi le ali a me?” L’uccello mise a fuoco Ettore sistemandosi gli occhiali. “Ma tu non sei un pennuto…E sia, ma preferisco ancora le nostre buone carrette a traino variabile. Vieni che ti do il cartone della Fortezza.” Lo invitò a seguirlo.
arono in mezzo a diversi scaffali da dove sporgevano frutta, verdura, cereali, granaglie e altro. Il castoro prese un cartone e lo mise sulle zampe tese di Ettore. “Aspetta, mancano le sigarette…Ecco qui, due stecche di Lontre senza filtro. Sei a posto. E scomparire dalla mia vista con quell’aggeggio infernale.” “Grazie,” rispose Ettore pazientemente. Ma lui era anche dispettoso per cui una volta sistemato il cartone sul bagagliaio e legatolo, accese il motore sgasando e gli fece due giri attorno alla piazzola, proprio davanti al suo deposito. “Che tu possa farti incornare da qualche cervo!...” gli gridò il vecchio gufo. Ma Ettore non poté udirlo, riprese la strada del ritorno. Voleva fermarsi a Vaccarella, ma aveva promesso a Gianselmo che sarebbe arrivato per tempo ad evitare eventuali lamentele da parte dei detenuti. Arrivò alla ‘Fortezza del Pensiero’ fermandosi davanti il grande portone a due ante e suonò due colpi di clacson. Vide uscire di corsa Gianselmo. “Non suonare quell’affare per carità, le bestie sono già nervose per conto loro.” “Ma cosa è successo, prima mi hai detto che erano stranamente calme.” domandò Ettore meravigliato. “Non è questo.” Gli comunicò il castoro allarmato. “E che da quando hanno voluto mettere le spie luminose sui ballatoi, i detenuti hanno cominciato a lamentarsi, e loro la luce non la vogliono; dicono che gli impedisce di dormire, e stanotte nessuno ha chiuso occhio: né guardie, né detenuti.” “Beh senti, questi sono problemi dell’amministrazione carceraria, il mio l’ho fatto, adesso vado a casa, devo terminare quel lavoro che hai visto. A proposito si è svegliata Gufolandia?” domandò Ettore. “Si, penso di si. Ma sembrano tutti dormire in piedi. A qualche bestia gliene ho chiesto il perché e alcuni mi hanno risposto che l’energia elettrica è così bella che sono andati a letto con la luce accesa. Puoi immaginare…” “Saranno sconvolti,” immaginò Ettore.
“Magari! Sono fuori di senno. La radura è ancora un accampamento di zingari, ci sono rifiuti dappertutto e gli spazzini pare che dormano sulle loro scope.” Che successo l’energia elettrica, veramente…” ironizzò il coniglio. “Non ti ci mettere anche tu, adesso sparisci, ci vediamo dopo.” “Ciao tira-catorci!” Ettore rientrò a casa, si spogliò, si mise una tuta blu da meccanico e continuò ad armeggiare al suo side-car, con vicino a sé una bottiglia di Vodka: una saldatura, un bicchierino, fino a quando nelle prime ore del pomeriggio l’opera fu completa. Guardò moto e side-car uniti contento del suo lavoro e accendendo il motore andò a provarlo sui terreni più impervi e limitrofi della contea. Le sospensioni erano perfette e gli agganci d’urto montati sul telaio rispondevano bene nel distribuire gli impatti su tutta la struttura. Dopo aver fatto diversi giri di prova rientrò a casa e vi trovò Lara che lo stava aspettando. “Lara! Che bella sorpresa.” Lei, senza aspettare che scendesse dalla moto in uno slancio gli buttò le zampe al collo.”Non vedevo l’ora di vederti, mi sei mancato.” Gli disse naso contro naso. “E questo?” chiese indicando il side-car, “che roba è?” “ Se vuoi è un posto aggiuntivo per fare stare più comodo il eggero o per portare dei bagagli, ma se preferisci puoi stare sul sellino dietro a me.” “Oh Ettore! Che bella così modificata. E mi ci faresti fare un giro?” domandò la coniglia impaziente. “Facciamo una cosa, ti avevo promesso che saremmo andati a Rublandia. Io adesso mi faccio una doccia e mi cambio e tu, vediamo…Stai benissimo così. Dai entriamo in casa e stasera ci divertiamo.” Le illustrò il programma Ettore. Lara zampettava dall’euforia. Mise su un vecchio grammofono a pile un disco dei Platters e si sedette sulla poltrona dove solitamente, davanti al camino , Ettore si rilassava leggendo. Era buio quando uscirono di casa. Ettore fornì a Lara un giubbotto di pelle pesante e anche lui ne indossò uno, poi gli diede un paio di occhiali da
motociclista e una sciarpa di lana. Parati contro il freddo della notte, non andarono subito a Rublandia. “Ettore, dove stiamo andando? Questa non è la strada per Rublandia.” Gli chiese abbracciandolo al torace. “Dobbiamo fare una deviazione presso gli umani,” rispose forte per farsi sentire. “E che ci andiamo a fare, io ho paura.” Paventò Lara. “Niente paura, stai insieme a me.” Imboccata l’Aurelia, Ettore sfrecciò arrivando al massimo della potenza consentitagli dal motore.Lara era elettrizzata e non avendo mai provato una simile esperienza, quando arrivarono al primo distributore di benzina, aveva tutti i peli del corpo irti come quelli di un porcospino. Il benzinaio che da dietro la vetrina aveva visto arrivare la moto, non fece caso a chi fossero i eggeri, un po’ assonnato li servì. “Quanto?” domandò. “Il pieno, e se mi riempie anche questa tanica da cinque litri,” estraendola dal fondo del side-car. Fu quando al manico della tanica, tenuta da una zampa di coniglio che al benzinaio gli vennero gli ‘svarioni’. “Oh mamma santissima, Vergine dell’Incoronata, e de tutti li santi romani!” elencò facendo tremare la mano che teneva la manopola di erogazione. Mentre piano alzava il viso e i suoi occhi scoprirono chi aveva sotto agli occhi, fu tutt’uno: mollò l’impugnatura del distributore, buttò via il cappello con visiera e corse via urlando: “La fine, la fine del mondo è arrivata!” Ettore con calma scese dalla sua Triumph, continuò a erogare la benzina, riempì anche la tanica e tornarono indietro. “Ma cosa gli ha preso a quello là “non ha mai visto dei conigli? Eppure in cucina ci usano in tanti modi…” “No dolce, si vede che quel tipo non ha mai visto conigli, su una moto; comunque venti Euro di risparmiati, e anche la ‘fine del mondo…’ “
A Rublandia, a differenza di Gufolandia, la contea non aveva mai espresso il piacere nell’avere l’energia elettrica: tutto continuava nella tradizione, la più semplice, la meno onerosa e la meno pericolosa quale la candela. Il viale principale, largo e lungo era dotato di molti lampioni sia sulla destra che sulla sinistra. E malgrado i diversi locali quali ristoranti, pub e casinò, tutto era raccolto, caldo e intimo. Le coppiette eggiavano sul Corso delle Alci, bestie di affari alloggiavano nei migliori alberghi, i ristoranti erano così pieni da dover prenotare, e l’atmosfera che si respirava era quella di bestie ricche e agiate. Ettore preferì lasciare la moto, nascondendola nella boscaglia subito prima di entrare nel centro bestiale: non sapeva veramente quale sarebbe stato l’effetto nell’introdurre una moto in quell’oasi di pace. Ebbero fortuna, dopo aver atteso una ventina di minuti che un tavolo si liberasse al ristorante ‘Lo Zuccone’, cucina locale ma molto sofisticata, e cara. Il cameriere, un coniglio in giacca bianca, pantaloni neri e farfallino li accolse mostrando loro il tavolo, accese la candela al centro e diede a Ettore il menù. “Cosa ti andrebbe dolcezza?” le chiese. “Prenderò quello che prendi tu, non né ho proprio idea.” Anche a Rublandia vigeva la legge presente in tutte le altre comunità: si mangiava solo vegetariano e vegano. “Cosa posso servirvi?” chiese il cameriere. “Prenderemo due tortini di carote, sedano e zucchine.” Rispose Ettore. “E da bere?” “Un Conigliate rosso del ’98, e dell’acqua con le bollicine.” “Benissimo, grazie.” “Ti piace qui?” Sondò Ettore. “E’ meraviglioso, l’atmosfera è così intima e calda e poi, stare insieme a te, è tutto così romantico…Però mi avevi fatto una promessa, raccontarmi il resto di
quella storia sugli umani…O su, come tu…L’avevi vissuta…” “Quale momento migliore…” Rispose Ettore.
U N L I B R O S U I K U R D I
…Era un mese che ero arrivato a Imperia, altra città del Nord Italia, e tutto in quel carcere, come fosse una miniatura, mi sembrava molto ridotto. A partire dall’ingresso, alla casa circondariale: una sola porta blindata; nessun cortile o spazio per parcheggiare i mezzi della polizia penitenziaria; due cellette di attesa, e l’ufficio matricola per la gestione dei documenti dei detenuti; due, per così dire sezioni: la prima a sinistra, piano terra e primo piano, quest’ultimo senza pavimento ma con il ballatoio e le celle così strette che volendo are in due nei sensi opposti bisognava mettersi di fianco. Un lavandino, un cesso alla ‘turca’ privo di qualsiasi intima protezione; i letti a castello, due, e che occupavano la gran parte della superficie disponibile, un tavolino e due sgabelli. C’era da mettersi le mani nei capelli. Mentre invece nell’altra ala, le celle erano più spaziose con una parete sottile che divideva la parte giorno dal bagno e dalla doccia. Con il compagno che divideva con me lo spazio ridotto nell’ala di sinistra, ci eravamo messi d’accordo che in caso di grosse necessità fisiologiche, l’altro sarebbe sceso al eggio e viceversa, questo per garantirci reciprocamente un minimo di privacy. Furono tre mesi di sacrificio. A volte, in quella sezione che cadeva a pezzi, le docce in comune erano intasate: e chi osava, metterci i piedi dentro sapendo che i musulmani ci pisciavano facendolo addirittura davanti a te. A pezzi, ci lavavamo in cella… A metà di novembre riuscì a are nell’altra ala e le cose cominciarono a andare meglio. Il mio nuovo compagno, parlava poco e come me leggeva molto, l’ideale. E per prima cosa richiesi in matricola e al direttore il permesso per tenere in cella la macchina per scrivere. E ò ancora un mese prima di ottenerla. La sera dopo cena evitavo di battere a macchina. Ma una delle tante serenelle quali solitamente ascoltavamo il notiziario e i fatti del giorno, Gaetano ed io sentimmo dei lamenti provenienti dal piano terreno, dov’erano le cellette.
Lamenti di dolore, alternati a pianti e mugugni, invocazioni ai Santi, frasi religiose, richieste di perdono, di pietà, che gli si risparmiasse l’inferno… Molti altri detenuti si affacciarono, si poteva sentire ma senza vedere niente, e con quelli in faccia ci scambiavamo espressioni interrogative e di perplessità; d’altronde, quello che noi sapevamo è che era stato arrestato per piromania: gli agenti della polizia di stato l’avevano colto in flagranza, mentre con aria di sfida osservava compiaciuto il rogo a cui aveva dato fuoco: una catasta molto alta di legna secca nei pressi di un bosco. Continuava in questa sua litania senza sosta disturbando tutte e due le sezioni. Fino a quando l’ispettore di turno e due agenti non andarono a chiedergli perché si lamentava e quale era il suo problema. Noi potemmo sentire tutto: “Pietà agenti, vi chiedo pietà, non posso tornare indietro, ormai è troppo tardi per potervi porre rimedio.” Blaterò fra le lacrime. “Cosa c’è di tanto grave per cui lamentarsi, ti piace il fuoco, sei un piromane… Avrai la tua condanna e sconterai la pena che ti commineranno.” Sentenziò l’ispettore. “Ma lei non capisce, il fatto non è così…” Insistette lui. “Ma se ti hanno preso in flagranza, che addirittura ti compiacevi dello spettacolo.” “Ma non era quello lo spettacolo, non mi godevo il rogo della legna che bruciava…Ma di quella puttana che ci avevo buttato dentro!” Esclamò. Noi, come gli altri detenuti, potevamo solo ascoltare però potemmo intuire le facce delle guardie a quella confessione, non chiesta, non provata, e della quale nessuno era a conoscenza se non lui stesso! “Era la mia amante,” proseguì l’uomo nel suo racconto. “Io non sono ricco però un po’ di soldi ne ho da parte, la casa è mia, la pensione buona, e questa donna mi ricattava dicendomi che avrebbe spifferato tutto a mia moglie se non le avessi dato i soldi che voleva…Una sera che mia moglie non c’era la invitai a cena, feci tutta la sceneggiata dicendogli che le avrei dato tutto quello che chiedeva, purché non rivelasse niente a mia moglie. Lei si rilassò, la feci bere, e quando mi accorsi che non più tanto lucida, un po’ brilla, le diedi una martellata in testa e mi cascò a terra, la legai mani e piedi e la lasciai lì. Accatastai tutta la legna che potei e
quando il fuoco avvampò bene, ce la buttai dentro. La sentì urlare in modo disperato, urla inumane, da far rabbrividire: stava bruciando viva. Poi quando non sentì più nessun lamento capì che era morta, subito dopo arrivarono gli agenti di polizia, ma non si accorsero di niente, se non del fuoco, ma io non sono un piromane…” “Ce ne siamo accorti,” rispose con un grugnito l’ispettore. “Sorvegliatelo, vado a chiamare il magistrato.” Il giorno dopo, al eggio, avevamo l’argomento su cui dissertare e naturalmente tutti furono unanimi dell’esprimere la stupidità di quest’uomo. Sapemmo poi che in primo grado il pubblico ministero aveva chiesto trent’anni di reclusione. Con l’età che aveva era arrivato al ‘capolinea’. “Nelle settimane successive continuai ogni pomeriggio a battere a macchina il mio romanzo ed ebbi la forte sensazione, a mano a mano che andavo avanti con il lavoro, che qualcosa sarebbe accaduto, quell’intuito che ci sussurra a volte un evento che si dovrà verificare senza sapere se buono o cattivo. In tanti anni di carcere avevo vissuto esperienze non gradevoli, pericolose in grado di rendermi la detenzione più dura se non allungarmela, ma c’era sempre stato qualcuno lassù che mi prendeva per i capelli e mi tirava fuori dai guai…” E ti assicuro Lara, dissi roteando il mio bicchiere, che solo a viverle queste situazioni dove non vedi via d’uscita, che accade ciò che non ti saresti mai aspettato. “Ad esempio?” domandò la coniglietta. C’è stato un episodio, sempre nello stesso carcere, al quale, ancora una volta non immaginavo quale potesse essere la soluzione, per me non ce n’erano: da come si erano messi i fatti, avrei dovuto pagare anche se da innocente, con tutte le attenuanti, con tutte le motivazioni che avrei fornito, per me non c’era salvezza. E ancor meno vedevo l’intercessione di un ‘Lui’ che dal cielo mi avesse protetto. Lo chiamerò semplicemente Alì, uno dei peggiori e cattivi mussulmani che avessi mai incontrato sulla mia strada in tanti anni di detenzione. In remote discussioni di politica e religione (attenzione, due elementi questi che accendevano la miccia), di accesi dibattiti, di schieramenti estremisti dell’islamismo, compresa l’ovazione che ebbero tutti coloro di fede islamica inneggiando all’11 settembre come un evento di straordinaria importanza storica,
di memorabile colpo dato all’Occidente. Io e altri detenuti italiani eravamo ati su tutto per evitare il peggio. Rumeni e albanesi se ne infischiavano e si cercava in massima parte di abbozzare più che controbattere. “Alì, riattizzava la sua presunta fede eccessiva e mal riposta traendo la forza dagli sciagurati e ignoranti che lo seguivano e che gli tenevano banco, offendendo e umiliando il malcapitato di turno. Chissà perché in prigione mi sono sempre ritrovato a fare il porta-vitto. E quando avo per la distribuzione del pane e della frutta, Alì allungava il braccio, arrivava al cesto della frutta e si serviva. E allora, dovetti mettere il carrello lontano dalle sua mani. Lui, offeso, cominciava a gridare e in toni maleducati chiedermi altra frutta. “Frutta, dammi altra frutta…Ti spacco il culo merda di un italiano!” mi diceva. Soprassedevo e andavo avanti. Questo si ripeteva all’ora del pranzo e all’ora della cena: ma il codardo, nell’ora d’aria taceva. Ancora una buona parte di italiani affollava le nostre galere. Però sembrava che molti di noi, per paura o indifferenza lasciassero correre, mettendo in evidenza una chiara e palese debolezza. Erano sempre più numerosi gli arabi che ci schernivano e approfittavano delle nostre risentite risposte per accusarci di razzismo. Quando non sapevano che dire, ricorrevano a questa parola e su tre, due erano vaffanculo e l’altra razzista. Alì continuava nel suo turpiloquio incessantemente, ormai mi aveva preso di punta. Nei termini più spregevoli che nella nostra lingua conosceva i ‘figlio di puttana’ e ‘pezzo di merda’, quest’ultimo insulto molto grave in galera, si perdevano. Seguivano le oscenità che aveva imparate dagli italiani. Tutto quanto poteva uscire da quella bocca –in parte deformata a causa di un taglio che per metà gli lasciava scoperto un mezzo incisivo –di schifoso e disgustoso, lui me lo spiattellava in faccia ogni qualvolta poteva. Rapato sempre a zero, occhi tondi e infossati, naso schiacciato, non era brutto solo dentro ma anche fuori. E la sua pelle olivastra ti dava immediatamente l’impressione di un essere viscido e di istantanea riluttanza. Ormai erano giorni che tutto ciò continuava; i miei nervi cominciarono a cedere, a rodermi l’animo e memore di fatti già raccontati non intendevo questa volta prenderne ancora. In tutto quel periodo avevo accumulato una tale rabbia da
immaginare cose atroci per la mia vendetta risolutiva; non era più una scazzottata quella che volevo, ma il sangue scorrergli sulla pelle. Quel che avevano fatto a me era il libro “Cuore” a confronto di quel che io volevo fare a lui.Gaetano, il mio compagno di cella, detenuto di vecchia data e di antiche tradizioni carcerarie sapeva ovviamente tutto e un giorno dopo aver distribuito il pranzo, mi affrontò. Anche la sua dignità era suscettibile di riscontri negativi, visto che in ogni situazione –parlando sempre di tempi ati –il tuo compagno ti copriva le spalle. “Cos’hai intenzione di fare?” mi chiese a freddo mentre stavamo pranzando. “Gaeano aveva ormai sessant’anni, un fisico esile e non più la grinta di una volta. Dentro ormai da quindici anni, era stanco. Pur sempre temuto per le sue amicizie, scontava l’ultima pena. Chiedere a lui un suo intervento mi pareva poco dignitoso e certamente avrei compromesso quella stima che lui aveva per me, ma questo era ciò che pensavo io. Nel frattempo, avevo quasi terminato di battere a macchina il mio libro e Don Paolo il cappellano del carcere, in buoni rapporti con un editore di Imperia, mi aveva promesso di presentarglielo appena fosse stato ultimato. E per me, in quell’ultima detenzione le cose si stavano via via sistemando; ormai mancavano pochi mesi al fine pena e l’idea di prolungarmi la carcerazione per via di uno stolto non mi andava giù, ma tant’è: continuare a essere ridicolizzato e offeso, nemmeno. Mi rivolsi a Gaetano che pazientemente aspettava una mia risposta. Domani mattina al eggio lo vedrai! E non aggiunsi altro. Lui mi guardò negli occhi cercando nei miei una possibile risposta, ma non credo vi riuscì. Gaetano mi conosceva bene: 24 ore su 24, per mesi accanto a una persona basta poco per capire quali sono le tue intenzioni, ma conoscendo la mia natura mite, non poteva certo sospettare quello che mi frullava in mente per mettere fine a quel massacro verbale. Dopo pranzo lavai piatti e stoviglie: Gaetano amava cucinare, lo distraeva e non ebbi mai il coraggio di togliergli questa sua ione, al pomeriggio si faceva le sue due ore d’aria e poi si immergeva nelle sue letture. Quando alle tredici
aprirono le celle per il eggio e Gaetano scese, mi misi al lavoro. I coltelli di plastica potevano esserti utili fino a un certo punto per mangiare, non certo per tagliare carne o altro di tale consistenza. Come tutti i detenuti usavamo i coperchi delle scatole di pelati, naturalmente affilati: ne avevamo sempre una buona scorta, e gli agenti, sapendo bene che i coltelli di plastica si rompevano troppo facilmente, chiudevano un occhio su questi taglierini improvvisati. Ne scelsi tre. Dalla cucina m’ero portato via un mestolo dal manico lungo e non troppo spesso; sul tavolo del bagno, con la parte inferiore di una “moka” modellai i tre coperchi ottenendone semi cerchi piatti; li allargai poi leggermente quanto bastasse per poterli sovrapporli sul manico di legno e ottenerne una lama quasi continua e fissandoli strettamente con del nastro da imballaggio; non mi interessava provocare delle ferite profonde, ma solo riempirlo di cicatrici al viso…Terminato il lavoro lo posai sul tavolo e lo guardai a lungo, lo presi in mano e lo testai: sfidavo chiunque a se quello che avrebbe preso la lama in faccia non sarebbe dovuto ricorrere a decine e decine di punti di sutura. Ne saggiai ancora la fermezza e la manualità: pareva una mezza spada. Bastava solo stare attenti a non toccargli la giugulare. Nascosi sotto il materasso l’arma. Di li a poco Vittorio sarebbe rientrato in cella ed era probabile che volesse riaprire l’argomento, quindi mi misi in branda e feci finta di dormire, in realtà mi addormentai veramente, ma prima di questo vidi nel mio immaginario le scene che mi si sarebbero svolte davanti ai miei occhi: un fuggi fuggi di detenuti, il sangue di quella bestia che colava sul suo volto, cercando di scappare, ma l’area di eggio era così piccola che bastava chiuderlo in un angolo e, prima dell’intervento degli agenti tutto il tempo per ridurgli la faccia in brandelli, per ogni insulto e oscenità rivoltami. A sera, alla distribuzione della cena, Alì non fece niente per sminuire il mio odio. Parlava e straparlava, me ne diceva di tutti i colori e io gli ridevo in faccia, ero così contento che mi insultasse che pregavo non smettesse mai: mi aiutava ad acuire la mia profonda avversione nei suoi confronti, l’astio, il rancore, il disprezzo. Al mattino seguente, la guardia mi chiamò per la distribuzione del latte; sbirciai dallo spioncino della cella di Alì, ma tutti dormivano e fra l’altro la sua branda era fuori dalla mia portata visiva. Alle sette rientrai in cella. Gaetano dormiva ancora e fino alle nove meno dieci
non seppi cosa fare: ansia e angoscia permeavano quel sottile strato di coscienza che ancora m’era rimasto. Era la prima volta in vita mia che m’ero costruito un arma, da ragazzino m’era capitato di usare le catene di bicicletta, ma erano altri tempi, non colpivamo mai in faccia. Mai usato un coltello, e mai e poi mai avrei voluto arrivare a quegli estremi: facevo paura a me stesso. Per lesioni di quel tipo rischiavo una pena supplementare da sei mesi a un anno e di sicuro il trasferimento in altro istituto, giocandomi anche la carta del libro, ma non mi importava di niente, dovevo metterlo a posto e non solo, sarebbe stato da esempio per tutti quelli come lui, quei bastardi che come i ratti diventavano forti in gruppo, ma si cagavano addosso se erano soli. Avevo nascosto il mio pseudo taglierino nella calza lunga, a ridosso del polpaccio: difficile rilevarlo con il metal-detector manuale: per fare defluire tutti i detenuti in tempi ragionevoli, ti avano l’apparecchio velocemente. Stranamente alle sue abitudini, quel mattino scese anche Gaetano; di tanto in tanto, di sfuggita i nostri sguardi si incrociavano: i suoi, lo si notava, pieni di curiosità, i miei, inespressivi. Quel giorno era il nostro turno scendere per primi, l’ala destra. L’ala sinistra dopo di noi. arono cinque minuti buoni prima di vedere qualche tesa di mussulmano. A mano a mano i restanti detenuti si riversavano disordinatamente nella piccola area di eggio ma di Alì non se né vedeva l’ombra. Eccitato e apprensivo osservavo smarrito tutta quella gente, testa per testa, senza poter intravedere quella che mi interessava. Quando la guardia chiuse la porta blindata del eggio, un dubbio mi assalì: “Non è sceso perché ha intuito…Ha sgamato.” La verità la seppi quando venni chiamato in cucina per la quotidiana distribuzione del pranzo. Alì, insieme ad altri due detenuti era stato trasferito in un altro istituto di pena, e questo era accaduto al mattino presto, alle cinque, quando ancora dormivo. Non sapevo se ridere o piangere. Tutta quella tensione accumulata in uno scontro sicuro mi fece sentire improvvisamente leggero. Anche questa volta qualcuno Lassù, ci aveva pensato. “Nei giorni seguenti proseguì più serenamente la battitura del romanzo e senza aspettarne la fine, approfittai del aggio di Don Paolo per dirgli che ormai ero
al termine e che avrei avuto la necessità di fare quattro copie dell’originale. “Quante pagine sono?” mi chiese. “Quattrocento,” risposi. Sui suoi tratti si disegnò subito un espressione di stupore. “Sono milleduecento copie! Così tante?” “Si, -confermai. Lì.” indicai girandomi in direzione del blocco di fogli ordinati,” ci sono quattrocento pagine…” “Beh, intanto finiscilo, io cercherò di trovarti una copisteria che ti faccia un buon prezzo…Visto il numero. Quando me lo dai?” “Quattro giorni.” Confermai. Il cappellano sembrava più eccitato di quanto lo fossi io, ma forse pensai, era solo contento per me, gioioso ch’io avessi comunque, in quell’ambiente, portato a termine il mio progetto, e che dalla descrizione della trama che io gli facevo a puntate quando aveva la possibilità di fermarsi davanti la nostra cella, ne prevedesse un consenso positivo anche da parte dell’editore; ansie e angosce e quindi per quanto potessi ripetermi: “Andrà come andrà…” per eludere quella fatica che ti provoca il tormento di un attesa, che doveva ancora iniziare e quella sensazione di affanno e leggera tachicardia che mi obbligavano a interrompere quei dieci, quindici minuti come se fossi a “bout de souffle”, il mio lavoro di battitura, mi stava consumando giorno dopo giorno. Dicevo a me stesso: “Ma chi vuoi che te lo pubblichi un romanzo sui kurdi: in Italia è tanto se sanno dov’è il Kurdistan sulla carta geografica e in quante parti e suddiviso…” E fu così ogni giorno, ogni ora, ogni minuto fino a quando vergai la parola ‘fine’ nel centro di tre quarti di pagina. Posai gli occhi sul mio lavoro per circa un ora, leggendone a tratti qualche periodo. Feci finta di esserne disgustato, criticai pesantemente alcune pagine. Avevo promesso a me stesso, costi quel che costi di portarlo a compimento; avevo fatto ricerche per un anno intero e ato altri tre a imbastire la trama, otto anni di carcere dove nei primi quattro li trascorsi a pensare che ne dovevo fare otto, e negli ultimi quattro svegliarmi dal mio torpore detentivo e trovarmi un occupazione; la voglia di scrivere mi era tornata e come per incanto, dovessi per ordine di un ‘entità’ invisibile occuparmi proprio di quell’etnia sofferente,
denigrata, torturata e imprigionata senza lo straccio di un processo; le informazioni di cui necessitavano si materializzavano da sole senza che fi nulla per ottenerle. Al momento in cui la trama del mio romanzo necessitava di costumi e tradizioni e poter scrivere di queste, conobbi in carcere un kurdo e da quel momento potei vestirlo del suo abito tradizionale e anche una donna, avevo tanti di quei particolari da poter celebrare un matrimonio, mi tradusse alcune espressioni italiane in lingua curda, mi trasmise il pensiero, la poesia, la letteratura e vasta cultura del suo popolo: amanti della natura, dell’arte e della pittura. Il mio lavoro era finito, non avevo più nulla da fare. Ma dal momento che lo consegnai a Don Paolo, tuttavia negando a me stesso una qualsivoglia riuscita, iniziò per me la vera fase di tormentosa attesa. Non riuscivo più a leggere, andavo al eggio svogliatamente e il mio secondo turno trimestrale di portavitto era terminato. Ormai, mi restavano ancora due mesi di carcere da scontare, per me, una eggiata. Fu nel mese di novembre, verso la fine, che vidi nuovamente Don Paolo. Il suo volto era raggiante. Mi avvicinai al cancello con cautela, come se sulle inferriate asse l’alto voltaggio, ma il sorriso del nostro cappellano non mi ingannava, era una certezza. “La signora,” disse, che è la titolare della casa editrice, l’ha trovato molto bello e te lo pubblica subito.” Spiegò. “A quelle parole dette così semplicemente, come era solito fare, un impressione e al tempo stesso di sfinimento mi pervase. Non dissi banalmente ad uso di tanta gente trovandosi davanti un evento straordinario, di ripetere. No, avevo ben capito. Ma l’emozione più grande fu quando una sera, dopo la cena, Don Paolo si presentò con un cartone abbastanza voluminoso. Pregò la guardia di aprire la cella e mi consegnò cinquanta copie del mio libro. Ne erano state stampate 250, pochine, pensai. Ma il fatto di vedere materialmente l’opera, con la sua copertina, seppur riduttiva, mi emozionò a tal punto che dovetti sedermi sul letto. La dentro c’era una parte significativa della mia vita, della mia adolescenza. E la ragazza che avevo tanto amato, la rivestì di un costume kurdo, e per la seconda
volta la feci vivere nel mio cuore, protagonista della mia storia. Era un omaggio per lei e tutto l’amore che poté darmi fino a quando il destino non ci separò. Gaetano scese dalla sua branda e anche lui osservò ammirato quelle cinquanta copie impilate. “Beh, cosa aspetti?” mi disse improvvisamente nel silenzio, data l’ora e il momento. “A darmela!” Ero tanto frastornato che non capivo. “A darti cosa?” domandai. “A darmene una copia, rimbambito!” mi rimproverò scherzando, “con dedica,” sorridendo. Ne presi una, scrissi all’interno una frase amichevole e gliela consegnai. Lo vidi arrampicarsi sulla sua branda ma prima di immergersi nella lettura, volle sapere di Alì. “Cosa avevi in mente quel giorno?” mi chiese. “Lo sai che me ne ero completamente dimenticato…” “Meglio così,” rispose lui. “Meglio un corno!” diss io preso dal panico. Alzai il materasso, la mezza spada era ancora lì. La disincastrai: roba da prendersi un rapporto disciplinare per niente e dire addio almeno a tre mesi di liberazione anticipata. Pensai. La mostrai a Vittorio e lui nel vederla fischiò. “Avevi intenzioni serie quel giorno,” mi disse senza troppo stupore. “Non né potevo più e a te non avrei mai chiesto niente.”Gli confidai. “Che non né potessi più lo sapevamo tu, io, guardie e carcerati e che tu ti fossi preparato un gingillo del genere…E che cazzo ci fai con quell’arnese ancora in mano!” Lo nascosi sotto il plaid.
“…Lo supponevo. Ma che tu credessi che non t’avrei tenuto fianco nel caso ne avessi avuto la necessità, hai sbagliato.” “Gaetano, io sono fatto così,” ammisi francamente, “non voglio coinvolgere nessuno nei miei dissidi personali, soprattutto quando hai intenzione di usare un aggeggio simile.” Lo vidi annuire seriamente. Forse era d’accordo, forse no. Non l’avrei mai saputo. “Beh, adesso smontala e fai in modo che ridiventino normali taglierini: è da tempo che non ci fanno una perquisizione in cella. “Adesso lo faccio, risposi prendendo l’arma e andando in bagno.” Quando terminai l’operazione mi spogliai e me ne andai a letto. Ero troppo stanco per mettermi a leggere, finanche una semplice occhiata all’impaginazione. Ero sfinito dalle emozioni. Diedi la buonanotte a Gaetano cercando di non pensare più a niente e prendere sonno nell’immediato. Ma prima che mi addormentassi lui disopra la sua branda mi disse ancora una cosa. “Lo sai cos’è strano?” mi domandò. “No…” “Leggere un libro e sapere che chi l’ha scritto ti dorme sotto…La tua branda!”
“Ci sono molte cose che non capisco,” ammise Lara con espressione dubbiosa mentre terminava il suo tortino di verdure. “E resteranno incomprensibili perché la natura vi ha collocati laddove dovete vivere. Che l’umano non abbia rispetto del suo regno, che comprende anche il vostro, un giorno pagherà e sarà un conto salato: i cambiamenti climatici sono un preavviso, l’estinzione di alcune specie di bestie ne è un altro, l’inquinamento delle acque altrettanto e via discorrendo, ti potrei fare un elenco che non finisce più” gli parlai con un piglio severo. “E tu, Ettore? Parte bestia, e se è vero quello che mi dici, parte umana, da che
parte stai? “domandò Lara. “Al momento, né dall’una né dall’altra parte. Non credo a bestie evolute, non voglio fare parte di essere umani che fanno scempio dei beni più preziosi che Gaia ci ha dato.” Rispose. “Chi è Gaia?” “Alcuni, chiamano il nostro pianeta, Terra, altri, ancora affascinati da questo, lo chiamano Gaia. “E poi, cosa successe? Intendo alla fine della prigione…” Erano le nove del mattino quando da Roma arrivò l’ordine di scarcerazione. La sera prima avevo preparato tutto quanto dovevo portare via e ovviamente la notte, avevo dormito poco e niente, ma l’eccitazione e l’euforia mi avevano dato nuove energie. Tutti quegli anni di carcere non mi avevano piegato, non mi ero arreso a una realtà evidente e troppo cruda da diventare una bestia, così inferocito per il male visto e vissuto. Ma ero sempre me stesso, continuando nel mio credo ad essere tutto sommato ingenuo, di poter essere adulto senza rinunciare alla semplicità infantile, a fidarmi quando qualcuno mi chiedeva aiuto, e se poi la falsità sopraggiungeva a mio descapito me ne facevo una ragione senza pensarci più di tanto; ero fatto così e ata la cinquantina ormai, non potevo cambiarmi. Mia madre mi diceva sempre che ero un coglione perché troppo buono, ma le relazioni sentimentali avute negli anni ati non erano dovute come molti invidiosi dicevano, al mio aspetto fisico. E’ vero, ho avuto donne belle, ma dovute a due interiorità simili e che si erano incontrate, al mio essere che non innalzava barriere selettive o radicava paletti inaccessibili o invalicabili. Per me era difficile mentire se non per vergogna. Bastava che mi guardassi negli occhi per leggervi come in un libro le mie ansie, i miei dolori, le gioie, i disappunti, la mia testardaggine, la mia vita senza regole, gli sbalzi di umore, indotti dal mio immaginario in quella o quell’altra situazione, dalle persone che frequentavo, dal mio circondario brutto o bello, ostile o gentile… La guardia mi venne ad aprire. “Renzi, sei pronto?” “Voleva che fi la muffa qua dentro?” risposi scherzando.
E per una rara volta vidi anche lui tirare le labbra ma forzatamente. Avevo sempre pensato che se un agente di polizia penitenziaria avesse potuto scegliere, non avrebbe mai fatto quel lavoro massacrante. Per quanto vero che alcuni di questi abusavano del loro potere scaricando sui detenuti malcontento, tensioni e frustrazioni, era altrettanto vero che la maggior parte di essi, ed esse –perché anche la polizia penitenziaria femminile esiste e con le stesse difficoltà dei loro colleghi maschi –svolgevano questo lavoro correttamente. Noi contavamo i giorni, loro contavano noi ma, sebbene appartenenti a due condizioni estremamente diverse, eravamo entrambi dietro le sbarre. Presi il sacco di plastica nero e salutai Gaetano calorosamente. “Tra non molto sarai fuori anche tu.” Gli dissi con rammarico non potendo nascondere un espressione di tristezza. Lui annuì. Quell’anno e qualche mese era scorso fra noi nella massima tranquillità e rispetto delle personali abitudini, dei nostri orari; dell’intuire quando era il momento di parlare e quello di tacere, di coesione e complicità in quell’universo carcerario di quotidiane contraddizioni. Adesso, non sapeva chi gli avrebbero messo in cella: poteva andargli bene, poteva andargli male. Quando la porta di ingresso principale si aprì, vidi Don Paolo che mi aspettava. Sarei stato suo ospite per una settimana e in quei sette giorni dover decidere cosa fare: tornare dai miei che erano a Nizza, in Francia –anche avendo la sensazione di una accoglienza falsata, oppure andarmene altrove. Erano diciassette anni che non li vedevo e non credevo assolutamente che l’aver pubblicato un libro servisse come un buon biglietto da visita o di buon auspicio: loro ne avevano fatte a me quante io ne avevo fatto a loro. Cominciai a riflettere bene sul da farsi. Un lavoro a Nizza tramite mio padre o i miei fratelli l’avrei sicuramente trovato, e in fin dei conti per uno che aspirava a vivere contando sui proventi di ciò che scriveva, s’era partiti col piede sbagliato. 996 copie mi fruttarono 996 Euro che Don Paolo mi consegnò appena arrivati a casa sua. I giorni da libero avano in fretta e al quinto lessi negli occhi di Don Paolo un inizio di preoccupazione nei miei riguardi. Avevo ripreso a bere e quando la sera si parlava del più e del meno nel suo salottino, se ne accorgeva. “Non è con quella roba lì che risolverai i tuoi problemi.” Mi disse senza
preamboli. Era un eco. Una frase che risvegliava in me sopiti e maledetti ricordi. Faceva male sentirtelo dire, soprattutto da un persona che aveva stima di te. “Lo so,” risposi distrattamente. “Però sembra che tu non faccia niente per astenerti,” aggiunse. Lo guardai senza replicare. Sapevo che ogni scusa era un palliativo, ogni motivazione assurda e puerile e che qualsiasi cosa dicessi in mia difesa era solo un arrampicarsi sugli specchi. “Hai provato a chiamare i tuoi?” mi chiese. “Ancora no.” “Ettore…” disse chinandosi verso di me, “gli anni di carcere che hai scontato, quelli precedenti, erano dovuti solo a questa tua debolezza. Hai distrutto la parte e gli anni più belli della tua vita. Tutto quello che hai ato non ti ha insegnato niente?” “Si,” consentì. “E allora, riabbraccia i valori nei quali credevi e ancora credi: l’ho letto nel tuo libro e io so che caratterialmente e interiormente sei come il tuo protagonista, non è difficile intuire che dietro la figura di ‘Marwan’ ci sia tu.” Commentò Don Paolo accalorato. Con un sorriso tirato feci una smorfia con la bocca. “Forse è solo un problema esistenziale,” dissi senza esserne convinto. “I problemi esistenziali!” tuonò. “chi più chi meno li abbiamo tutti, fanno parte della nostra vita, del nostro quotidiano, ma li affrontiamo e li risolviamo. L’esistenzialismo non può essere la panacea di tutti i mali. C’è bisogno di coraggio, di palle quadrate, di spina dorsale e una buona base di ottimismo… Smetti di commiserarti, rialza la testa, riappropriati delle tue capacità, so che ne hai!…” Quella sera telefonai a mio padre e parlai anche con mia madre: l’accoglienza
verbale fu calorosa, quasi spiritosa. Per cui ai l’ultimo giorno a vagare per Imperia cercando di evitare i bar. La sera stessa salutai Don Paolo e presi il treno per Nizza. Vi rimasi tre mesi in quella città. Lavoravo come operaio nelle pulizie industriali, ma il fatto che tra me e la portinaia del condominio dove abitavano i miei e al momento anche io, ci fosse del tenero, guastò tutto. I miei non ammettevano questa unione: ne andava del loro buon nome. Continuai a lavorare e ad abitare a casa di questa donna. arono degli anni e non contavo più i ricoveri per alcolismo. Un giorno stufo di quella vita rientrai in Italia. Cominciai a vagare per regioni, città, paesi, dormendo dove capitava, sporco e con un odore addosso che nemmeno i cani si avvicinavano. Una mattina, a Spello, un piccolo paese dell’Umbria, mi svegliai: la sera m’ero fatto un giaciglio di foglie secche. Avevo la sensazione che le ossa non fossero più le mie e la difficoltà a coordinare i movimenti. Dei ragazzi mi videro: “Guardate, un coniglio, prendiamolo!...” “Questa è la mia storia,” concluse Ettore bevendo un sorso del suo vino. “Che tu ci creda o meno è andata così.” “Ma…Perché? Come è potuto accadere?” chiese Lara sconcertata. “Non lo so esattamente, forse si, ma credo anche non scoprirò mai niente se resto a Gufoandia, devo andare via, non so dove, ma andare…”
L A C O N D A N N A A M O R T E
Ettore e Lara rientrarono molto tardi da Rublandia. Dopo il ristorante erano andati in un pub ad ascoltare musica e poi avevano deciso di andare a teatro, alla prima di ‘madama Conerfly’. Arrivati a Gufolandia, Ettore la accompagnò a casa sua. “Non ti fermi da me?” gli chiese vedendo che non scendeva dalla moto. “No, voglio andare a casa, perdonami ma proprio non mi va.” “Ma allora non mi ami più!” “Lara, io so che nel mondo bestiale amare vuol dire accoppiarsi, e questo non vuol dire che se non mi va non ti ami più. Ho solo un calo.” “Sarebbe a dire?” “Che stasera non mi funziona!” rispose Ettore irritato. “Ma è una cosa eggera o permanente?” “Spero eggera,” confidò Ettore sospirando. “Buonanotte Lara, ci vediamo domani.” “Ciao, buonanotte.” Rispose lei delusa. Arrivato a casa, parcheggiata la moto sul retro, Ettore si buttò sul divanetto. Non sapeva più cosa fare. Lui poteva supporre che quei cali erano dovuti all’alcol, se ben ricordava gli effetti di questo, al consumo abbondante e prolungato. Ma al momento non gli era di conforto sapere se funzionava o meno. Quello che realmente gli arroventava il cervello, era dove andare in quelle vesti; cosa poteva fare per tornare alle sue origini, qual’era l’inganno, la soperchieria che tale l’aveva reso.
Bevve ancora qualche bicchiere pensando sempre al suo problema fino quando cotto completamente non si addormentò. Venne svegliato di soprassalto da colpi violenti dati alla porta, non riusciva a capire chi fosse data l’ora che lui credeva fosse, pensava di aver dormito pochissimo ma erano già le dieci del mattino e all’improvviso la polizia castorina, seguita dal ministro degli interni Adonea colomba fecero irruzione in casa sua. “Ettore coniglio!” chiamò “Ti dichiaro in arresto per vilipendio a un alto magistrato della corte e a un ufficiale del Regio Esercito Bestiale.” Annunciò. “Hai il diritto di restare in silenzio, qualsiasi bestialità tu dica potrà essere ritorta contro di te, se non hai un avvocato, la contea te ne procurerà uno d’ufficio… Portatelo via.” “Proprio non vi arrendete, vero? Se non mi vedete fritto non siete contenti… Siete peggio degli umani!” Ettore venne portato alla Fortezza del Pensiero per l’ennesima volta e anche quest’altra sarebbe stato processato. Lui che voleva andare via, si ritrovava al punto di prima e qualcosa gli sussurrava che data l’insistenza, avevano macchinato bene per una condanna definitiva, quella capitale. “Inutile dirti che non sono affatto felice di vederti…” Mugugnò Gianselmo castoro mentre l’accompagnava in cella. “Io si, ma in altre circostanze.” Rispose Ettore. “Sta attento a quello che dirai o non dirai al processo: ho l’impressione che questa volta ti hanno incastrato.” “Davvero!” fece finta di stupirsi Ettore. “E menomale che è solo questa volta. Quando è fissato il processo?” domandò. “Per oggi pomeriggio, vorrebbero eliminare la tua questione una volta per tutte.” “Poverini! Gli sto proprio sullo stomaco.” Si ritrovò nella cella dove l’avevano messo la prima volta e stranamente non vide Teodolindo.
“Hei Gianselmo…Che fine ha fatto il porcospino?” “E’ stato graziato da Axa la volpe, adesso fa il suo guardaspalle.” “Però, si è sistemato l’animale!” pensò Ettore. Ebbe il tempo di consumare il pranzo con un buon vino fornitogli da Gianselmo, di scambiare due chiacchiere con lui, ma soprattutto, entrambi, di chiedersi il perché di tante cose, e tutto senza trovare uno straccio di risposta. Ettore terminò la sua bottiglia, fumò una sigaretta. Pochi minuti ormai lo separavano dall’inizio del processo e questa volta erano tre le carrette che lo avrebbero scortato: gli interni e la magistratura non volevano rischiare una sua eventuale fuga. Gli avevano legato tutte le zampe per rendergli impossibile ogni movimento. La radura dove si tenevano generalmente manifestazioni pubbliche e processi, non era mai stata così affollata di bestie d’ogni razza, perfino Cocco l’armadillo che anche lui si era trasferito per motivi ambientali, assisteva a come la giustizia veniva applicata a Gufolandia. Al solito, i castori erano stati impiegati per i lavori di struttura quali le panche e il mobilio fatto a semicerchio dei magistrati. L’ammasso era così numeroso che i castori dovettero piazzare altri sostegni per le panche aggiuntive e fare in modo che ogni bestia potesse avere una buona vista su questa aula all’aperto. Un tiepido sole un po’ velato giocava con le fronde degli alberi circostanti, mossi da qualche refolo di vento. Ettore arrivò alle 15:00 in punto e accompagnato con quattro agenti di scorta al banco degli imputati. Salutò il suo avvocato, Melchiorre orso. Subito dopo, il collegio giudicante uscì da quella pseudo stanza, che prima era stata adibita ad attrezzi di giardinaggio. Sempre lo stesso, e lei, con un ghigno malefico più malefico del solito, la temuta, draconiana, Axa la volpe. “In nome del popolo bestiale…” Annunciò Riccardo lupo restando in piedi, “Dichiaro aperto il giudizio nei confronti di Ettore coniglio. Avvocato,” chiese il presidente, “a scanso di equivoci, ci sono preliminari?” “Nessun preliminare, signor presidente.” Rispose Melchiorre orso.
“Imputato si alzi!” Ettore obbedì. “Lei è accusato, secondo il nuovo codice di procedura penale, dell’articolo 7, ubriachezza continua, deliberata, insistente con l’aggravante della reiterazione; dell’articolo 9, discredito e dileggio nei riguardi della contea; dell’articolo 7bis, ubriachezza molesta, e dall’articolo 11, insulto nei confronti di un alto magistrato della contea; reiterato nei confronti di un alto ufficiale del Regio Esercito Bestiale. E’ applicabile anche l’articolo 23, detto ‘ballerino’, che sostituisce tutti gli articoli del codice di procedura penale, e che viene applicato secondo la gravità del caso, a discrezione del collegio giudicante.” Spiegò Riccardo Lupo. “Le hanno cucito addosso un articolo che potrebbe portare solo lei.” Lamentò a bassa voce il difensore. “L’imputato si ritiene colpevole o innocente?” chiese il Presidente. “Innocente per tutti i capi di accusa, signor Presidente.” Dichiarò l’avvocato. Il solito brusio del pubblico bestiale, il vociare e i fischi erano davvero assordanti, molto, ma molto di più di tutti i precedenti processi. Si capiva che nessuno più voleva di Ettore a Gufolandia. “Pubblico ministero, a lei la parola.” “La ringrazio signor presidente.” Sempre con prudenza, muovendo a piccoli i la sua zampa di legno, si pose al centro della radura. Con quel gesto familiare agli astanti, tolse il ciuffo di pelo che gli copriva l’occhio di vetro. “Signor presidente, giudici a latere, stimatissimo popolo bestiale,” iniziò Axa, “ci troviamo qui riuniti per definire una volta per tutte l’infamia che questa bestia,” fece indicando Ettore, “ha portato nella nostra bene amata comunità. Il rigore con il quale applicherò i mezzi che la nostra giustizia ci ha dato, sono ancora degli eufemistici strumenti per quanto io ritenga nefasta e obbrobriosa questa storia; noi, ci preoccupiamo maggiormente di cosa è la detenzione a vita…Ma noi,” disse allargando le zampe, “non siamo esseri umani che
risparmiano i loro delinquenti: assassini, violentatori, pervertiti, con il carcere a vita, no! Noi siamo più democratici, non diamo sofferenze quotidiane a vita; sappiamo quale è il patimento di chi anche se ha sbagliato dover are il resto dei suoi giorni dietro le sbarre. Noi, siamo più sensibili, più civili, li bruciamo e basta! Gli esseri umani sono incivili!” cominciò a scaldarsi Axa, “noi siamo più umani di loro e loro più bestie di noi…” Tenendo poi un gomito piegato con una parte della toga che scendeva a imitazione di un filosofo greco, proseguì: “Il nostro contesto, la vita tutta e che ci avvolge e coinvolge come la stiamo attualmente costruendo, è testimone della buona strada intrapresa e non sarà certo un coniglio alcolizzato a distruggerla, e vi spiegherò anche perché, visto che lui è qui sotto mentite spoglie…” A queste ultime parole il presidente Riccardo lupo, si aspettava una reazione del pubblico: lui stesso non aveva ben afferrato la sibillina affermazione di Axa. Non disse niente e la lasciò proseguire. “Con l’arrivo dell’elettricità,” proseguì Axa “si auspicherà che molti commerci prendano vita, di conseguenza apriremo le porte ad altre contee…” “Obiezione vostro onore,” si alzò in piedi Melchiorre orso. “Dica avvocato,” lo invitò il presidente. “Non mi sembra che questo sia un processo ma ha tutta l’aria di un comizio politico…” “Obiezione accolta. Pubblico ministero, veda di stare in tema, se non le dispiace.” “Signor presidente, arriverò subito al dunque.” Rispose Axa piccata. “Quale figure potremmo fare se nostri probabili clienti in scambi commerciali si accorgessero che sul nostro suolo permettiamo la pubblica ubriachezza? Cosa penserebbero di noi?...” rivolgendosi un po’ a tutti e facendo una pausa, avvicinandosi ancora di più a una parte del pubblico. “E chiedo a voi madri, a voi padri, lascereste i vostri figlioli andare soli a scuola sapendo che nei dintorni c’è una bestia stravaccata su una panchina, magari con una bottiglia nella zampa e la sigaretta in un'altra? No, certamente no!” urlò con espressione scandalizzata. “Pubblico ministero, la pregherei di stringere e venire al dunque.” Chiese Riccardo lupo.
“Senz’altro signor presidente, sto per terminare.” “Voi sapete, carissime bestie, che a differenza degli umani abbiamo una forte, quanto mai allenata memoria olfattiva. Voi vi siete accorti, anche se cerco di nasconderlo, che ho una zampa di legno: regalo di un bracconiere: il fatto avvenne in Francia un paese non lontano dal nostro. E anche per questo che sono qui. Un pomeriggio, il mio fiuto avvertì odore di carne. La zampa si era cicatrizzata ma non potevo più cacciare. Però nel bosco vi trovai due umani, un maschio e una femmina. Fui sorpresa di vederli quanto loro lo furono di me. Mi buttarono del cibo che afferrai e scappai via…” Le bestie ascoltavano tutte col fiato sospeso e le orecchie ben dritte, compreso l’avvocato di Ettore che non poté a quel punto non ricordare quella fantastica parentesi vissuta con la sua ragazza: tutto combaciava. “…Per due giorni mi nutrirono, poi non li vidi più. Ma avevo registrato il loro odore e quello del maschio in particolare, mi si impresse nella memoria…” “Obiezione! Vostro onore. Qui mi sembra che si sta veramente uscendo fuori dal seminato: che si ritorni al principio con il quale questo giudizio è stato richiesto.” Alzò la voce Melchiorre orso. “No!” si inalberò subito la volpe, “Quello che sto per dire rientra in modo inequivocabile nel procedimento a carico dell’imputato.” Riccardo lupo, dopo un attimo di esitazione fece prevalere la personale curiosità. “Obiezione respinta, prosegua pubblico ministero.” Con aria di superiorità e gelido trionfo Axa incrociò gli occhi con il difensore di Ettore. “Già all’arrivo di Ettore coniglio nella nostra comunità, il mio istinto richiamava in me dei ricordi senza capire quali; un velo di probabili casualità mi faceva dubitare e per molto tempo rimasi, ogni qualvolta lo vedevo, a riflettere sul comportamento di questa bestia, ma non era questo il punto. L’odore, l’afrore di questo coniglio risvegliava in me la paura atavica dell’essere umano! Quello che in questo preciso istante avverto!” “Oh…” Si udì dalla platea in esclamazioni di stupore corali. Tanto che il presidente dovette intervenire più di una volta per richiamare le bestie al
silenzio. “Pubblico ministero, avvocato: avvicinatevi. Axa, per Diana! Sei sicura di quello che stai dicendo?” chiese Riccardo lupo. “Sicurissima.” “Avvocato, lei era al corrente di tutto ciò?” “No signor presidente, non né sapevo assolutamente nulla.” Mentì il difensore. Gianselmo castoro che si occupava degli affari del tribunale, guardava Ettore penosamente. “Continui pubblico ministero.” Invitò il presidente. “C’è molto poco da aggiungere. Io non so per quale alchimia, per quale strana e innaturale metamorfosi questo umano sia diventato un coniglio. Però la nostra contea ha accolto una bestia con la mente di un umano, e in diverse occasioni ha ribadito che noi, ciò che attualmente siamo e che in un futuro prossimo potremmo essere evolvendoci, siamo contro natura, e sono sicura farà di tutto per intralciare e sabotare i nostri piani. Non aspettiamo che il peggio avvenga. Gli umani sono capaci di tutto pur di far prevalere i loro egoismi, e la loro scienza li aiuta nell’inventare cose vergognose, danneggiando la natura. Noi solo abbiamo capito come usare le loro conoscenze, noi solo abbiamo la saggezza per impiegarle a fini benefici. E nulla di più certo che Ettore coniglio sia stato l’oggetto di un esperimento diabolico che da umano l’ha tramutato in coniglio per venire a spiare i nostri progressi e ostacolarli.” Improvvisamente, parte della folla bestiale cominciò con un lancio di pietre a danno di Ettore e il suo avvocato. Gli istinti animaleschi stavano prendendo il sopravvento, quando Axa, al posto del presidente Riccardo calmò la platea. “Cari consimili, calmatevi. Egli non sfuggirà alla nostra punizione, lo sa anche lui. E se ormai è certa la sua condanna a morte, vorrei chiedere a lui se ciò che ho dichiarato è vero.” Ettore era stato sorpreso dalla verità e autenticità di quelle asserzioni. La grinta iniziale e la certezza che ancora una volta –malgrado quell’articolo ambiguo, il 23 –se la sarebbe cavata con poco, se non con l’assoluzione piena, l’avevano
prostrato. Ma non tanto per il vero, quanto per aver toccato un ricordo doloroso. Adesso, dinanzi tutte quelle bestie che gli inveivano contro si sentiva spossato, stanco di combattere una guerra impari. Il suo carattere autodistruttivo stava riemergendo, i suoi estremismi facevano nuovamente capolino, imperterriti quasi a beffarsi di lui. E lui non ce la faceva più a lottare. “Si, è vero,” affermò Ettore, “sono stato un essere umano|” Un ghigno di trionfo balenò nell’occhio di Axa. Finalmente la sua fama di magistrato oculato e giusto era stata pubblicamente avallata, e proprio dal suo accusato. Era tempo che Riccardo lupo si fe da parte: i suoi sentimentalismi nuocevano a tutta la razza bestiale. “Lo avete sentito tutti!” fece Axa puntando la zampa in direzione di Ettore. “Si mette male Ettore,” gli confidò l’avvocato. “Cercherò comunque di difenderla. Il pubblico ministero credo ne faccia una questione personale, anche se non è stato lei a metterle una tagliola sulla sua strada e perso un occhio a causa di un cane aizzato dagli umani.” Ettore restò in silenzio. “La falsità di costui mi fa rizzare tutto il pelo e se avreste anche voi –disse rivolgendosi a tutto il pubblico –un minimo di bestialità vi si rizzerebbe anche a voi. “Disse Axa guardandosi il pelo. Le altre bestie fecero lo stesso, ma nessuna lo aveva così irto come quello della volpe. A un certo punto, sbavando: “E’ tempo di fare giustizia! E non si immagini lei, signor presidente,” fece con tono arrogante, “che lei possa considerare un qualsiasi motivo di clemenza.” “Pubblico ministero!” ringhiò adirato Riccardo lupo alzandosi in piedi, “la richiamo all’ordine! E se solo mi cita un'altra volta su questi toni, sarà lei a prendere il posto dell’imputato… Però il presidente non aveva considerato l’effetto trainante della volpe che, attraverso acclamazioni e ovazioni sostenevano la pubblica accusa. “A morte!” gridò un coniglio, uno vero. E quella parola coraggiosamente detta da uno della sua specie trascinò il resto
del pubblico in un tumulto di epiteti e insulti contro il presidente del corpo giudicante. Solo dopo aver goduto di quei pochi minuti di acclamazione, di piacere, Axa la volpe alzò le zampe e le bestie si calmarono. “Vi prego conteani…Vi prego, calmatevi. Lungi da me di trasformare questo processo in un circo. Voglia scusarmi signor presidente, ma come vede non solo io ma tutta la contea chiede quanto a suo tempo chiesi io per l’imputato. Ripiegata la toga sulla zampa di legno, studiando bene questa volta a interpretare un ‘Cesare’ del senato romano, espresse il suo verdetto. “Signor presidente, giudici a latere, visti gli articoli del nostro codice di procedura penale e per i reati ascritti a Ettore coniglio, chiedo la pena capitale e che venga subito eseguita.” Terminò Axa raggiungendo il suo scranno. “Ringraziamo il pubblico ministero per il suo intervento. Avvocato Melchiorre, a lei la parola.” “Grazie signor presidente. Vorrei prima di tutto soffermarmi su un dettaglio di poco conto ma interessante. Se veramente il Pubblico Ministero ha avuto la sfortunata occasione di incontrare l’imputato e come quest’ultimo ha ammesso, dovrei pensare che la signora volpe ha scoperto l’elisir dell’eterna giovinezza: non vi sembrano eccessivi 40 anni di vita e oltre per una volpe?” Disse l’avvocato soffermandosi ad osservare le reazioni dei presenti e del collegio giudicante. Il Presidente osservò il Pubblico Ministero. “Ci dica Axa quale è l’aspettativa di vita di una volpe?” domandò Riccardo Lupo. “Alcune di noi,” rispose tranquillamente la volpe, “con l’atavica sapienza dei nostri avi possono vivere fino ai 50 e in piena forma. Vuole mettere in discussione la ‘conoscenza’ dei nostri Padri e la natura alchimica che ci è stata tramandata?” rispose Axa rivolgendosi al Presidente. “Anche gli umani sono dotati di ‘elisir di lunga vita’ e non è stato mai mistero per noi volpi.” “E’ per me molto difficile credere che la sua personale esperienza tanto a lungo datata possa essere ricordata così nettamente ed esserne così sicura da mettere a morte una bestia.” Disse l’avvocato. “E gli umani che tanto temete sono alle vostre porte, non fraintendetemi, non mi riferisco alla loro presenza fisica, ma al loro pensiero che a piano a piano state facendo vostro.
Nella mia comunità,” proseguì il difensore, “non abbiamo dei bar, dei negozi, o degli ingegneri e tanto meno l’elettricità, non né abbiamo bisogno. Viviamo naturalmente. E come dice Ettore coniglio il vostro operato è un andare contro natura. Ora supponiamo che per un momento Ettore coniglio sia stato veramente un umano, ha mai dato prova nella vostra comunità, a parte il bere, di farvi del male, vi ha mai minacciato?..”Si!” gridò forte l’oca Giuliva. “Mi ha detto che lui quando era un umano gli piaceva non so cosa, ma fatto con il mio fegato e non vorrei trovarmi uno di questi giorni senza: da quella bestia ci si può aspettare di tutto!” “Ma andiamo, per piacere,” proseguì l’avvocato Melchiorre “Sono cose che si dicono, ma non si fanno e probabilmente Ettore avrà risposto a una sua provocazione. Ha mai danneggiato, sabotato, distrutto dei vostri beni da quando vive nella contea? Non mi sembra. Ora, anche se lui ha vissuto da umano, cosa che stento a credere anche dinanzi la sua ammissione non si è mai comportato come tale. Esistono dei confini che vanno aldilà della nostra bestiale comprensione e se questa metamorfosi è realmente avvenuta non sarà certo stato lui ad averla chiesta!” “E invece si!” affermò deciso Ettore. “O meglio, se non l’ho chiesta, non ho fatto niente per evitarla.” Confessò zittendo anche il suo avvocato. “E certamente non per una strana alchimia come dice quella stronza di volpe.” “Signor presidente,” -si alzò Axa “la prego di richiamare l’imputato a più bestiali comportamenti: sappiamo cosa vuole dire ‘stronza’ nel gergo degli umani.” “Si controlli Ettore,” ammonì pazientemente Riccardo lupo, che poi non vedeva affatto male quel vocabolo usato dagli umani: ad Axa gli stava proprio bene, pensò. “Scusa pelo rosso, tanto ormai più che friggermi non puoi…” Proseguì Ettore. “E’ un luogo comune. Da noi esseri umani, quando uno è debole, si dimostra vigliacco o codardo, gli diciamo che è un coniglio.” Spiegò. “Quando avo in giudizio presso gli umani, il presidente, il pubblico ministero, i giudici a latere, non si chiedevano perché avessi commesso quei reati. Per loro li avevo fatti e basta. E se gli spiegavo che ero un alcolizzato, uno di questi mi rispose che era ancora peggio, perché traevo il coraggio per commetterli, e non perché sentissi meno la mia vergogna. Voi, io, siamo la faccia di una stessa medaglia; voi, io,
siamo solo un illusione: io, che cerco di stare bene stando male; voi, con la vostra voglia di protagonismo, di eccellere, e di fatto non rispettare i vostri istinti o servirvene quando vi fa comodo.” Disse ancora Ettore guardando Axa la volpe. “Vi dovrebbe fare sentire peggio di un essere umano. I vostri avi vi hanno trasmesso per generazioni gli impulsi bestiali, ore state perdendo anche quelli…” Un silenzio tombale era sceso su tutta la platea. Molte bestie non capivano le parole di Ettore, ma pareva che ne afferrassero il senso. “In ogni caso,” proseguì Ettore, “é veramente la prima volta che vengo giudicato da così fini narici. E mi chiedo quanto il pubblico ministero possa avvalersi del suo odorato come prova, indipendentemente che io sia colpevole o meno.” “Deve replicare pubblico ministero?” chiese Riccardo Lupo “Nessuna replica signor presidente.” “La corte si ritira per deliberare,” annunciò. Entrarono tutti e quattro nel solito capanno e seduti a un tavolo rudimentale cominciarono a disquisire. “Penso non ci sa molto da aggiungere,” Si pronunciò subito Axa. “Giudici a latere?” domandò il presidente. “Niente da dire. Il caso mi sembra evidente: abbiamo un umano tra noi, seppur in veste di coniglio ma pur sempre un umano. Penso sia meglio sbarazzarcene.” Dichiarò Berto caprone. “In più alcolizzato.” “E io invece,” parlò forte Riccardo lupo, “sono contrario alla pena capitale: che sia umano, bestia, mostro del XXI° secolo, io non lo brucio.” Axa se lo guardò con indifferenza. Mettendo le zampe sul tavolo e facendosi dondolare sulla cassetta di frutta, gli rise in faccia. “Lo sapevo, Riccardo. Fin dall’inizio sapevo che saresti stato contro di me, per cui mi sono coperta le spalle, e questa volta non potrai fare niente per salvare quella specie di ‘cosa. Questo,” proseguì mostrando un foglio arrotolato, “è un
decreto presidenziale che mi da la facoltà di sollevarti dall’incarico in caso di un eventuale quanto mai assurda tua clemenza. Le prove ci sono, e perché le ho portate io, e per ammissione dello stesso coniglio. Con un gesto spregevole della zampa: “Adesso per piacere metti da parte i tuoi sentimentalismi e rendi pubblica la sentenza.” Riccardo lupo diede di sfuggita un occhiata al decreto, poi sospirando sapeva che non c’era più nulla per salvare Ettore dal rogo. “Non è così che le nostre razze si evolveranno, non certo uccidendo!” Le disse prima di uscire dal capanno. “In piedi, entra la corte.” Annunciò Gianselmo castoro. “In nome del popolo bestiale, visti gli articoli 7, 9, 7bis, 11 e 23 del codice di procedura penale, condanna Ettore coniglio al rogo. L’esecuzione avrà luogo il 19 novembre 2014 al crepuscolo.” Riccardo lupo, dopo l’annuncio della sentenza si ritirò e Axa la volpe approfittò di quel momento per lanciare il suo proclama. “Ascoltate popolo di Gufolandia!” esordì. “Ho messo da parte Riccardo lupo con un decreto presidenziale perché indegno di ricoprire una carica così importante. Ne prenderò io il posto come unico amministratore della giustizia. Non ci saranno più giudici a latere, ma solo io deciderò chi assolvere e condannare. Ora vi chiedo, questo coniglio,” disse indicandolo, “è un pericolo per il buon andamento del nostro bestiale statuto. Non sappiamo cosa gli frulla in mente e ne sono certa, se assumesse nuovamente sembianze umane potrebbe distruggere tutto quel che abbiamo realizzato. Volete la sua morte, si o no?” Da un primo momento a un altro di lunga esitazione, seguì un grido acuto: “A morte!” fece sentire il suo starnazzo Edgardo oca selvaggia. Seguirono due, tre, quattro grida fino a quando tutta la platea insorse con un “A morte…” generale. Seguirono le acclamazioni ad Axa che tronfia si godeva quel momento di popolarità, a Riccardo lupo nessuno pensava più. Il gesto della volpe, quello di rivoltare un sistema, non era né più né meno di un golpe, con la differenza che a descapito di un evoluzione che si erano promessi ritrovato pericolosamente un rigurgito dell’istinto animalesco e semplice corso degli eventi, equilibrante nuovamente forza e debolezza.
Il vociare continuava e per calmare tutte le bestie, Axa alzò le zampe. Rivolgendosi all’imputato, ne ordinò alla polizia penitenziaria di riportarlo alla Fortezza del Pensiero fino al giorno e ora dell’esecuzione. “Ho cercato di aiutarla, ma lei non me né ha dato modo, perché…” Gli chiese l’avvocato Melchiorre. “Avvocato,” gli rispose Ettore, “le aspettative di un coniglio non sono quelle di un umano, e io da umano vissi. Vivere da bestia non mi interessa più e tanto meno sotto le spoglie di un coniglio. Per quel che mi è rimasto da vivere tanto vale andarsene. Ho sprecato la mia vita dietro a una bottiglia, è tempo di finirla.” L’avvocato annuì tristemente. In quel mentre gli si avvicinò Lara. “Io non so perché queste bestie ce l’hanno con te, non mi interessa. Ma tu non devi morire. Lo baciò sul muso e scomparve così come era apparsa. Ogni giorno Gianselmo rischiava il suo posto di lavoro portando a Ettore una bottiglia di Vodka; scriveva e non parlava quasi mai; non è che gli fosse rimasto molto da dire, ma chiedere perdono a chi l’aveva amato e compreso, quello si. In tutte le sue relazioni amorose, non aveva mai trovato alcunché di emozionante: scialbe, eggere, a volte insignificanti. Ma una di queste, no. E prima di lasciare quella pelle di coniglio, volle scriverle una lettera.
“Cara Eleonora, quasi trent’anni sono ati da quando ci siamo incontrati. Eppure rivedo come se fosse ieri i nostri giorni: io a bere, tu a tormentarti, fino a quando l’inevitabile ci separò. Da allora, a parte frivole e discontinue pseudo storie di amore, non ce n’è mai stata una che avesse il tuo caratteriale sentimento: un fiume in piena che straripava, che mi coinvolgeva e sconvolgeva, nei miei rari momenti di lucidità, lasciandomi apionato; erano tutte le stesse e non come te. Il tuo portamento e le tue movenze erano aliti di leggiadria, il tuo dolce parlare la musica di cento violini che sempre vive e mai stona; la tua statuaria bellezza una scultura che nessuno mai avrebbe potuto comprare.
Tutto era bello in te, e quando me ne accorsi quel giorno a Ventotene dove, tra i nostri ludici spruzzi vidi in te la fanciullezza della donna adulta, mai timorosa di esprimere la sua semplicità, consapevole del suo amore e che tu mi davi a cascate senza troppo chiedere, capì quanto avevo perso.
Oggi sto per lasciare l’ insulsa pelle, quella che a te non piaceva e per la verità nemmeno a me: ho fatto troppi danni agli altri e a me stesso.
Ettore.”
Rilesse due volte e pensò che non c’era niente da aggiungere: in quelle poche parole aveva detto tutto ciò era importante, per lui e per lei, e non voleva trascinarsi in penose e patetiche scuse di atti ed eventi dei quali non né fu consapevole. L’importante che lei sapesse di un sentimento che ancora viveva e, se anche persisteva il desiderio, sapeva altresì che non sarebbe mai tornata indietro. E riesumato quel che un tempo era stato. Chiamò Gianselmo e gli consegnò la lettera. “Me la fai spedire per posta aerea,” gli chiese. “Senti coniglio, visto che ti rifornisco di Vodka ogni giorno, e che si da al caso che devi morire…Non è che avresti un'altra storia da raccontarmi sugli umani?” gli domandò. Ettore se lo guardò sbalordito soprattutto per quel “Visto che devi morire…”, ma poi pensò che era nella natura bestiale non prestarci troppa attenzione e ancora meno provare della pena. “No,” gli rispose, “mi dispiace Gianselmo, non ho più nulla da raccontare e penso che se l’avessi, non né avrei proprio voglia.” “Va bene, fa niente. Di un po’, funziona bene quel tuo aggeggio infernale?”
“Cosa, la moto? Si, perché?” “E quando sarai morto, cercherò di guidarla…” “Sparisci coda piatta!” gli rispose Ettore voltandogli le spalle. Uno spicchio di Luna rischiarava debolmente la sua cella; le luminarie interne al carcere erano state vietate visto l’effetto devastante sui detenuti. Era tardi ma lui non riusciva a dormire. Seduto sullo sgabello e guardando oltre le inferriate, i suoi pensieri viaggiavano sovrapponendosi, a volte staccandosi dai primi per giungere subito alla fine dell’episodio sul quale stava riflettendo, cert’altre perdendone il filo. La fine dell’autunno faceva presagire a un gelido inverno e lui calcolò –e se ne stupì –quanti anni gli fossero restati da vivere se fosse stato un umano. Ne avrebbe avuti 59, il giorno della sua condanna a morte: -Che strano presagio, meditò. –Era vero, -continuò a riflettere, -che quando te ne stai per andare fai un bilancio della tua vita, ma poi che calcolo stupido: vivere da essere umano per morire da coniglio. Si versò un bicchiere di Vodka continuando a guardare la Luna e pensò a Gianselmo: all’inizio quella bestia gli era antipatica, poi col ar del tempo aveva iniziato a stimarla e volergli bene. Si stese sul pagliericcio e si addormentò, più per l’effetto dell’alcol che per la stanchezza. Si svegliò improvvisamente dopo poche ore di sonno. Il vociare e il trambusto che proveniva dall’esterno della sua cella, lo avvertiva che qualcosa era accaduto. Gianselmo trafelato, si fermava a ogni cella e all’occupante parlava in fretta per poi are immediatamente al cubicolo successivo. Quando arrivò davanti la sua, Ettore poté immaginare cos’era successo. “Non bere acqua per nessun motivo!” gli disse annaspando. “Non né ho nessuna intenzione.” Gli rispose Ettore. “Già, avvertimento inutile per te, vero? Comunque, se ti venisse a quella tua mente bacata di farlo, per una volta bere acqua, non lo fare: il ruscello è
inquinato, c’è una fuga di nafta. E scappò via per avvertire il resto dei reclusi. Belvedere bracco accompagnato da Trulicchio castoro, constatavano lo scempio che si stava verificando nelle acque del ruscello: pesci morti contro le pietre; la colonia di castori fuori dallo specchio d’acqua con la diga che non faceva che peggiorare le cose; alcune bestie acquatiche raggiungevano da sole la clinica di Pericle la lepre. Il panico si era diffuso in tutta la contea e siccome il ruscello ne attraversava altre, con la deviazione che Trulicchio aveva creato, avrebbe insozzato altri vivai “Cosa intendi fare e come,” chiese nervosamente Belvedere all’ingegnere Trulicchio pensando ai suoi titoli azionari che tra non molto sarebbero cominciati a scendere. -Ho fatto chiudere l’erogazione di nafta alla centrale.” Mentì il castoro. “E poi?” “Bisognerà costruire più a monte della diga un bacino di contenimento per ripulire quello sottostante e avvisare tutte le contee che si servono del ruscello di non consumare acqua. Spiegò Trulicchio. “Allora, disse il bracco altero, “invece di scambi commerciali, gli mandiamo merda alle altre contee!” “Non so come sia potuto accadere,” cercò di spiegare il castoro grattandosi la testa, “avevamo messo anche delle guaine di protezione sulle tubature…” “Beh, lei ha combinato il disastro e lei lo risolva, e prima di stasera.” “Signor presidente, per ripulire il bacino ci vorrà tempo…” “Quanto tempo?” “Dipende da quante bestie avrò a disposizione per pompare le chiazze di nafta e ripulire tutto.” “Ci si metta di impegno Trulicchio altrimenti la cito in giudizio per ‘disastro ambientale’ e la faccio are sotto le grinfie di Axa la volpe. Deficiente!” minacciò Belvedere bracco.
“Si signor presidente,” rispose il castoro con il berretto in mano, “farò del mio meglio.” Aggiunse falsamente timoroso. “Ingegnere dei miei coglioni!” lo apostrofò andando via. I lavori iniziarono comunque di gran lena. Non solo tutti i castori vennero chiamati per ripulire il bacino, ma tutte le bestie abili si misero all’opera: non volevano distruggere l’ambiente, ma nemmeno rinunciare all’elettricità. Nel frattempo Fraschetta che da lontano seguiva tutta la scena, gongolava perché i piani fatti a proposito del ribasso sui titoli azionari acquistati tramite un presta nome di Rublandia, stava funzionando. I risparmiatori impauriti dal disastro stavano vendendo a rotta di collo, tanto che Belvedere Bracco, presidente anche dell’organo di controllo sulla Borsa Valori, fece chiudere la seduta anticipatamente: il 35% dei suoi capitali era già, al momento andati in fumo. La coniglia invece aspettava che il titolo rasentasse quel minimo da poter arraffare tutto. Se la maggior parte degli abitanti di Gufolandia era stata impiegata per il lavoro di bonifica, Axa la volpe dirigeva una sua squadra scelta, per la messa in opera del patibolo riservato a Ettore coniglio e, da come era intenzionata ad allestirlo sembrava organizzare più una festa di paese che un esecuzione. Indifferente all’accaduto per via della nafta, si dilettava a impartire ordini a destra e manca. Attorno al catasto di legna da ardere alto circa un metro per uno quadrato, ammassato al centro della radura, aveva fatto installare su tutta la circonferenza, tronchi cavi da percussione per l’accompagnamento del ‘prima’, per l’esultanza del ‘dopo’. La banda musicale con i loro primitivi strumenti avrebbe suonato l’inno di Gufolandia, un pezzo preso in prestito al compositore umano Smetana: “La Moldavia”. Tutto il resto della strumentazione compreso i percussionisti, servivano a sfogare gli istinti bestiali con ritmi tribali da loro composti. Axa, osservava beata gli operai al lavoro. Finalmente aveva avuto la sua rivincita e che poi, in fin dei conti non gli era costata molto. Aveva già un idea di quello che sarebbe stato il futuro di Gufolandia in seno alla giustizia, certamente lei mirava alla presidenza instaurando un regime dittatoriale, ma il bracco non era un ostacolo insormontabile. Lei aveva fatto buon viso a cattiva sorte, ma non ignorava dei traffici che egli stava orchestrando: aspettava solo di prenderlo con le zampe nel sacco e servirlo su un piatto di argento alla sua giustizia. Tolto di mezzo quell’imbecille, -continuò a pensare osservandolo da lontano, -
Gufolandia sarà solo mia. E mentre il bracco sorridendo la salutava, lei rispondeva al saluto agitando la zampa: “Ciao stronzo, ciao…” Lasciò le consegne al suo nuovo segretario e guardaspalle, Teodolindo porcospino, nel ato geometra di dubbio conto, oggi assassino, ma graziato. E andò a festeggiare le sue vittorie al bar “Il Moralista” Non era molto affollato. C’erano i soliti pezzi grossi della politica, gente inabile al lavoro manuale malgrado l’emergenza inquinamento. Si sedette a uno dei tavolini, si fece servire un succo di sedano e carote –quanto rimpiangeva le belle e grasse galline di un tempo –e si fece portare anche il giornale ‘La Quercia’. Evidentemente non tutte le bestie si allineavano con le ultime imprese della volpe. Il quotidiano titolava: “Un ministro assassino nella nostra giustizia”, e sotto in più piccolo: “Chi è in realtà Ettore coniglio?”. La redattrice, Ashira la pecora, descriveva un dettagliato curriculum di Axa, e un compendio delle disavventure del coniglio, il quale secondo l’opinionista non meritava la pena di morte in quanto le accuse erano troppo lievi per una condanna simile. Se poi fosse stato realmente un essere umano, poteva aiutare la comunità a gestire le modernizzazioni in atto. Ecco che quell’articolo le stava rovinando la mattinata. Ma tant’è, pensò. La popolazione bestiale era con lei; ovunque andasse veniva rispettosamente salutata: che fosse per timore o apprezzamento non gliene importava niente. Lei era rimasta la bestia che era, con tutti i suoi istinti, ma con un arma in più: abbindolare tutte quelle bestie con le modernità richieste fino a quando non né avrebbero fatto più a meno e poter, di siffatto modo schiavizzare la sua contea, estenderla, appropriarsi con la forza se necessario di altre comunità, e le galline poi, gliele avrebbero servite i suoi stessi sudditi. Erano le tre del pomeriggio quando su richiesta di Ettore Gianselmo castoro gli portò una seconda bottiglia di Vodka. “Credi che ti servirà a eliminare il dolore?” osservò il castoro andogli la bottiglia attraverso la spioncino. “Oh no, per niente. Ma per lo meno andrò al rogo ridendo, e poi farà male, lo so.” “Vedi, mi spiace amico mio.” Disse Gianselmo. “Adesso che ti conosco, che non sei pericoloso né come coniglio, né come umano, beh, credo sia una vera
ingiustizia.” “Ti ringrazio, ma era destino che finisse così.” “Lo sai che fra un ora dovrai prepararti?” cosa vuoi, il vestito blu o qualcosa di più semplice?” “Portami solo una camicia bianca, un pantalone blu, mocassini neri, un foulard, un maglione giallo con scollatura a ‘V’. Gli comandò. “Nient’altro, no?” rimbrottò beffardo Gianselmo. “No grazie, può bastare.” “Ma guarda che tipo!” si lamentò la bestia. Ettore si versò da bere e meditò lungamente su quel che avrebbe trovato dopo la morte. Lui credeva fermamente che la vita sul pianeta Terra era solo un aggio, e solo una minima parte quantificabile in proporzione a quanto ci aspettava nell’aldilà. Già prima della sua metamorfosi si parlava di “Meccanica Quantistica”, non sapeva esattamente cos’era, ma da quello che aveva capito, i quanti ti permettevano di tornare nel ato…Forse dopo la nostra morte ci si reincarnava…Ma rinunciò, era troppo complicato, un vero rompi-capo. Quando il castoro ritornò con i vestiti richiesti Ettore andò su tutte le furie. “Non penserai mica che io vada al rogo con un paio di pantaloni così sgualciti, eh?” “Ma Ettore, cosa vuoi importi agli altri se i tuoi hanno la piega o meno.” Gli rispose Gianselmo con pazienza. “Importa a me. Acchiappa Sgubiccia la sarta e fammeli stirare.” “Ettore! Per il fetore di tutte le puzzole! Devo prendere la carretta della polizia penitenziaria e andare fino in centro…Ma, ma ti sembra possibile?” si crucciò Gianselmo. Ettore incrociò le braccia. “O ci vado con i pantaloni stirati o mi presento a pelo!” dichiarò.
“E va bene, per tutte le querce! Che testa di rapa…Fino all’ultimo, e rompiballe!” Presa la carretta trainata da quattro ratti, Gianselmo si immise sul corso principale. Sia a destra che a sinistra, ai bordi delle strade, le bestie camminavano verso il centro imbestialite; in fermento parlottavano fra loro: oltre a non poter bere l’acqua, non si potevano neppure lavare. Giunto nel centro di Gufolandia, notò ancora più agitazione. Chiunque si era messo a pulire il bacino principale accusava problemi di respirazione e adesso protestavano con il presidente Belvedere, perché fosse loro riconosciuta un indennità per le esalazioni che respiravano, e reclamavano almeno le mascherine di protezione per proteggere in parte l’olfatto e i polmoni. Una quarantina di bestie operaie attorniavano l’uomo politico minacciando uno sciopero. Un grosso castoro, agitando una pala, rappresentante sindacale del CIB (Conforme Indennizzo Bestiale), si fece avanti. “Signor presidente, questi operai rischiano un vero problema alle vie respiratorie. Il miasma è impossibile da sopportare, non siamo per nulla protetti e la diga di contenimento messa su in fretta e furia rischia di sgretolarsi da un momento all’altro, ancor prima che riusciamo a ripulire il bacino sottostante. Se lei non ci mette una firma su questo documento che ci riconosce un indennizzo per questo lavoro extra, noi incrociamo le braccia e lasciamo che la natura faccia il suo corso.” Concluse il responsabile sindacale. “Dico! Ma voi siete impazziti? In questo momento mi venite a chiedere un indennizzo? Fate il vostro lavoro e poi ne parleremo.” Rispose Belvedere scocciato dalla richiesta. “E no, signor presidente, voi politici vi conosciamo bene…Prima l’indennizzo con tanto di firma su questo documento,” indicò il castoro presentando il documento “e poi ci rimettiamo al lavoro. Se salta il contenimento, salta anche lei e tutta la sua amministrazione…” Belvedere bracco si sentiva con le spalle contro un albero. “Mi dia quel foglio,” disse al rappresentante sindacale. Cominciò a leggere e le pupille gli si dilatarono: “Ma questa è una rapina!” “No signor presidente, se considera che molti di noi avranno da questa
esperienza dei danni permanenti. Firmi e non si faccia pregare, il tempo stringe.” “Datemi una penna…” Belvedere bracco firmò. “Grazie signor presidente, abbiamo moglie e prole.” “E, e io che c’entro? Cioè, è tanto quello che chiedete alla cassa della contea…” “Il bilancio,” rispose il castoro, “lo faremo dopo aver ripulito il bacino e le assicuro signor presidente che quello che chiediamo è ben poco in rapporto a quante bestie, in questo sporco lavoro, ci lasceranno la pelle.” Subito dopo aver interrogato la sua pressappoco coscienza, si chiese se non era il caso di consultarsi con la volpe, alla quale spiegare quanto era difficile quel momento e se non fosse il caso di rimandare l’esecuzione di Ettore coniglio. “Mai!” scattò Axa. “Nulla dovrà ostacolare il processo della giustizia. Si farà e basta!” Belvedere sapeva che non il caso di replicare. Per giunta la volpe, visto le intenzioni del bracco, scansò Teodolindo porcospino al quale aveva lasciato le consegne e prese a dirigere bestialmente le operazioni di allestimento: i bracieri che avrebbero dovuto illuminare la radura; il rito che stonava completamente con la luce artificiale, era stato sostituito da grandi conche su treppiedi, ognuna ogni cinque metri; scelse i percussionisti più bravi; il palco dal quale lei e i politici avrebbero seguito la cerimonia era stato drappeggiato di rosso. Visto come si stavano mettendo le cose, Gianselmo, ottenuta la stiratura dei pantaloni, ritornò subito alla Fortezza del Pensiero. “Tieni,” gli disse andogli gli abiti attraverso lo spioncino. Comincia a prepararti, tra non molto andiamo.” Aggiunse Gianselmo. “Puoi stare qui, non mi ci vorrà molto.” Gli disse Ettore. Indossato i suoi vestiti, bevve gli ultimi due bicchieri di Vodka. “Se non la strizzi la bottiglia non sei contento eh?” osservò Gianselmo.
“Pensa agli affari tuoi, coda piatta.” “E smetti di chiamarmi coda piatta!” Uscendo sul ballatoio vide altri quattro agenti di scorta. “Ci sarei andato anche da solo.” Disse loro. “ Non c’era bisogno di tutta questa forza pubblica.” “Dai Ettore, andiamo.” Lo sollecitò il castoro. La carretta pronta per uscire, era quella a sei posti; Gianselmo dava ordini al capo conducente che, questa volta, visto il numero dei eggeri, era trainata da Argo cane San Bernardo e amico di Ettore. “Non ho proprio fortuna con te,” gli disse appena si accorse chi era il suo eggero. “O ti porto in prigione oppure al patibolo.” “Non te la prendere Argo, verranno giorni migliori.” Filosofò Ettore. La carretta procedeva lentamente e a maggior ragione quel giorno, tanto che a un certo punto ma controvoglia, Gianselmo dovette sollecitare il o di Argo. A mano a mano si avvicinavano alla radura, sui lati della carreggiata, le bestie vestite a festa con le sporte piene di cibo, si accalcavano e con curiosità guardavano al condannato. Ettore li osservò con ilarità: sembravano i romani quando venne loro inaugurata la metropolitana… Arrivati al piazzale prospiciente la radura, Ettore venne fatto scendere e subito accompagnato sull’impalcatura a lui destinata, legato a un palo avendo il tempo di meravigliarsi di quante bestie erano venute ad assistere al rogo di un coniglio, mancava solo chi distribuisse gelati, pop-corn, coca-cola e mostaccioli. Davanti a lui, circa quindici metri, il palco delle autorità: sullo scranno più alto il presidente Belvedere, alla sua destra, in toga rossa ed ermellino, accessorio questo che fece molto discutere la popolazione bestiale, Axa la volpe, alla sinistra, poco gradito, Trulicchio castoro e nella fila più bassa i detentori degli altri ministeri e funzionari. Axa la volpe si alzò “Che venga dato fuoco ai bracieri. E i pompieri adibiti a questo servizio, eseguirono. Illuminato il terreno, Axa sedette e si alzò il presidente Belvedere che con un cenno della zampa autorizzò l’inno territoriale e
tutti si alzarono mettendosi una zampa sul cuore e chi calzava un cappello se lo tolse. “Ma che bravi!” pensò Ettore disgustato. Terminato l’inno territoriale, fu la volta dei percussionisti che si sfrenarono sui loro tronchi: i bracieri accesi e quei ritmi tribali creavano un atmosfera surreale. Bestie che si alzavano in piedi gridando “A morte…A morte…”. E la volpe che assisteva orgogliosa a questo suo trionfo si alzò ricevendo ancora ovazioni: “Axa…Axa…Axa…” . Tanto che il presidente si sentì escluso e sotto stimato. Quando Axa alzò le zampe il popolo si ammutolì. Il silenzio regnava incontrastato: nulla si mosse più, nessun mormorio, pareva che gli animali avessero addirittura smesso di respirare.Al momento in cui Axa sedette, i due pompieri si avvicinarono al catasto di legna sul quale era Ettore e appiccarono il fuoco. Ma qualcosa non andava per il verso giusto. Una nube di fumo denso e impenetrabile alla vista coprivano Ettore. Sentì di colpo una bestia che armeggiava dietro alle sue zampe. “Non so chi tu sia, o cosa tu sia, ma non ti faccio bruciare vivo da quella stronza.” Disse la voce. “La tua moto funziona bene?” “Si, certo.” “Bene, allora preparala perché ne avremo bisogno. Approfittiamo del fumo, ho fatto mettere da uno dei pompieri molte foglie verdi, ma abbiamo pochi minuti, poi la cortina si dissiperà.” Ettore saltò giù dal palco non sapendo ancora chi era quell’anima pia. Insieme corsero verso casa sua. Ad aspettarli c’era Gianselmo e Lara, e potè nella penombra riconoscere Riccardo lupo. “Grazie,” ebbe il tempo di dire Ettore. “Più tardi, adesso dobbiamo filare.” “Gianselmo, mettiti nel fondo del side-car, Riccardo al posto del eggero, Allegra dietro a me…Aspettate, dimenticavo qualcosa di importante. Entrò in casa, prese tre libri li mise in una busta di plastica che diede ad Allegra. Accese il motore e partirono sgasando.
La folla bestiale, nel silenzio più completo, non ci capiva più niente dietro quella cortina di fumo densa che mai legna secca avrebbe provocato. E la prima che si alzò in piedi, immaginando l’inganno, fu proprio lei: Axa la volpe. Ma grande fu il suo stupore quando vide un palo nudo e una moto che gli ava vicino a forte velocità. “Ettore!” fece digrignando i denti. “La tua esecuzione è solo rimandata… Colonnello Edgardo.” chiamò, “raduni la sua squadriglia, e me li porti tutti qui!” Ordinò. In brevissimo tempo, tolte le uniformi da cerimonia, le oche selvagge volarono in direzione dei fuggiaschi in formazione. Librati nel’aria il comandante Edgardo ò le modalità di attacco. “L’biettivo principale, miei prodi, è Ettore coniglio alla guida del mezzo, fermato lui, li lasceremo tutti alla squadra di terra che ci segue.” “Modalità di ingaggio, signore?” “Disarcionarlo!” Ordinò il colonnello. “Bene signore! “ rispose il vice-squadriglia. Le oche sorvolarono l ‘unico sterrato che si presentava accessibile a un fuggiasco così veloce, malgrado fosse ormai buio, la scia luminosa lasciata da Ettore per rischiarare la strada era evidente anche tra le fronde e i rami fitti della vegetazione sottostante lo spazio aereo, “A ore dieci, signore…” “Ala destra al bersaglio, seconda ala destra in appoggio.” Comandò il colonnello Edgardo. Le due oche alla destra della formazione scesero giù in picchiata prendendo alle spalle Ettore il quale si abbassò istintivamente, e una delle oche sbatté la testa contro un ramo; l’altra rialzò il volo giusto in tempo e ricominciare la discesa a cuneo: arrivata a un altitudine di cento metri raddrizzò l’assetto con un looping da maestro per poi mettersi in retta di volo all’altezza del coniglio. La spinta del
looping e la chiusura totale delle ali fecero di lei una freccia che si avvicinava pericolosamente alla testa del coniglio, fino a quando il becco dell’oca non fu parallelo al muso di Ettore, che di colpo Lara mise fuori combattimento con il sacco di libri che Ettore gli aveva dato. Data la velocità dell’oca, questa, con la deviazione infertagli dal peso ricevuto sul capo, cambiò traiettoria e nei secondi successivi, impossibilitata a correggerla, schiacciò il becco contro un grosso albero. Ettore era in difficoltà: lo sterrato pieno di buche e insidie come le sporgenze delle radici degli alberi, non gli consentivano alte velocità, per cui, in quel momento le anatre selvatiche avevano la meglio in rapidità. Intervenne l’ala sinistra. Una di queste, ò sopra la testa del gruppo molto più veloce della moto e anticipatala di mezzo miglio, anche lei sfrecciò in alto per poi, a bassissima quota rasente il terreno, proiettarsi di faccia al gruppo in senso opposto. Questa volta Ettore non sapeva cosa fare per proteggersi: a quella velocità l’impatto sarebbe stato disastroso. L’oca si avvicinava sempre più: 400, 300, 200 metri. “La tanica di benzina,” gridò a Riccardo lupo, “svuotala presto…” Il lupo si mise all’opera e fu solo quando le ultime gocce cedettero che Riccardo poté fargli uno scudo. L’oca penetrò col becco in parte nell’involucro metallico e così vi restò ruzzolando sul terreno. Sotto richiamo del comandante la squadriglia, mal ridotta, ritornò alla base. Anche Ettore ridusse sensibilmente la velocità, il gruppo, senza sapere dove dirigersi puntò verso Nord.
I L R I T O R N O
Erano riusciti ad arrivare fino nelle Marche, nei pressi di Carpegna, quando dovettero lasciare la moto per il serbatoio a secco. Avevano viaggiato tutta la notte, stanchi e affamati si fermarono e accesero un fuoco per scaldarsi. Tutti e quattro, riuniti vicino alle fiamme, pensierosi, riflettevano molto alla fuga, ben poco su quello che si erano lasciati alle spalle. Ma qualcuna,senza intenzioni ostili li aveva seguiti e di colpo si accorsero che Mariasol, la cinciallegra, si era appena posata su un ramo vicinissimo a loro. “Mariasol!...” si stupì Gianselmo. Ma ripreso il controllo, “Sei qui in veste di spia?” domandò minaccioso. “Ma quale spia!” rispose Mariasol, “Di piuttosto in veste di ‘sciagura’, ma come si dice: ‘ambasciator non porta pene’ “ “E quale sarebbe questa sciagura?” chiese Ettore. “Al mattino seguente la vostra fuga,” iniziò a raccontare Mariasol, “dopo aver lavorato tutta la notte con luce di fuochi e candele che si spegnevano ripetutamente, i castori affiancati da tutte le bestie abili, continuarono i lavori di pulizia del bacino principale: li aiutava anche quello scriteriato di Belvedere bracco che i castori cacciarono via subito perché non sapeva dove mettere le zampe e alla fine rimasero solo quelli della tua specie…” Sottolineò le cinciallegra. Ma il bacino di contenimento era stato costruito troppo in fretta; la deviazione delle acque operata dall’ingegnere Trulicchio aveva già invaso altre Contee: averli avvertiti non servì a tanto, ce n’erano alcune all’oscuro di tutto il dramma che si stava consumando a Gufolandia. I primi problemi sorsero quando uno dei castori si accorse che dal bacino sovrastante quello principale, c’erano piccole falle che col are del tempo diventavano sempre più ampie e allora smisero di pulire e cercarono di tamponare le fughe ma, una né riparavi e altre si aprivano: era un corri-corri generale che creava solo confusione e panico. Molte bestie fiutando l’immane catastrofe fuggirono mentre un incazzatissino Belvedere bracco, cercava di rispedirli sul luogo di lavoro. arono alcuni minuti, noi pennuti non potevamo fare altro che assistere impotenti. A un certo punto udimmo un boato: acqua , fango e tronchetti di albero si riversarono sui castori al lavoro, ma la cosa peggiore furono le pietre che caddero sui quei povere bestie, una vera ecatombe. Tutte le case che si trovavano sul aggio di
quella fiumana vennero travolte e con essa gli occupanti: erano stati avvertiti di lasciare, per sicurezza, i loro alloggi, ma cert’uni non vollero convincersene.” Spiegò disperata Mariasol “Di Gufolandia è rimasto ben poco e i pochi sopravvissuti si stanno portando ai confini di altre Contee. Le tensioni stanno crescendo: Coni’s I’slan’d per esempio, rifiuta qualsiasi bestia che viene da Gufolandia…E’ tutto un casino.” “Avevi ragione tu,” disse Riccardo a Ettore. “Noi dobbiamo essere quel che siamo, punto.” “Si, “ gli fece eco Gianselmo. “Ero veramente stufo di chiudere animali in gabbia, come fanno gli umani. Quale può essere la differenza se poi alla fin fine ci comportiamo esattamente come loro; dov’è questa presunta evoluzione se non in beni materiali e totale mancanza di animo in ciò che facciamo?” Si chiese e chiese agli altri. Lara con le zampe posteriori raccolte e il muso sopra le ginocchia, non parlava, ascoltava e più che altro era preoccupata di doversi riadattare a un nuovo habitat. Ettore le lesse nel pensiero. “Da quello che so io, questa regione è piena di verde, di foreste e c’è anche una grande riserva naturale, verso l’Umbria: non avrai problemi ad ambientarti,” le disse con dolcezza. “Perché, tu non resti con me?” domandò Lara allarmata. “Io,” disse guardando tutti e tre, “devo seguire la mia strada, la mia realtà, che sento non sia questa. Ma prima di lasciarvi vi farò scuola: vi insegnerò cosa c’è da sapere tutto quanto è necessario sugli umani, quando evitarli, quando fidarsi e quando accettarli. Solo se sarò sicuro che avrete imparato il minimo indispensabile, allora io potrò andare via tranquillo. E quello che io vi consiglio, allontanatevi l’uno dall’altro riprendendo i vostri istinti bestiali: Riccardo, continua a cacciare, ce la puoi fare; Gianselmo, anche tu puoi fare molto, puoi insegnare ai giovani i segreti e gli stratagemmi del tuo lavoro all’asciutto, e continua a costruire dighe; Lara trovati un compagno e a mangiar carote, fanno bene alla vista e cerca di non farti mangiare.” “A proposito di mangiare, quando si mangia? “ domandò Gianselmo. “La roba che mangi tu te la devi cercare da solo, non la troverò mai in un
negozio di alimentari. A Riccardo e Lara ci posso pensare io, ma a te no.” Precisò Ettore. “Riccardo e Lara, voi rimanete qui, io vado a fare spesa in città.” “Hei, ma se poi ti prendono? “ disse Riccardo lupo. “Non mi prenderanno.” “E la spesa come intendi farla, rubandola o pagandola?” insistette Riccardo. “Sarà un gioco da ragazzi.” “Che vuol dire ‘Gioco da ragazzi…’” Chiesero tutti e tre all’unisono. “Già, è Beh, che sarà semplice. “State qui, ci vediamo tra un paio d’ore.” Ettore sapeva quel che faceva, però non sapeva se faceva bene o male. Si incamminò verso il centro cittadino rasentando le mura e con la speranza di trovare quella calma di paese così come l’aveva conosciuta tanti e tanti anni fa, quando gli fu data l’opportunità di ascoltare un concerto. Era lì che voleva andare a fare provviste: un ristorante noto. Quando arrivò all’estremità del bosco e si accorse delle prime abitazioni, con cautela si tenne sempre vicino alla cinta erbosa; avvicinatosi alla piazza principale di Carpegna; considerò la distanza da attraversare e non poteva che farlo in velocità. Erano le undici, l’ora in cui i cuochi iniziavano la preparazione per il pranzo e sapeva benissimo che cuoco e aiuto cuoco facevano sempre una pausa per fumarsi una sigaretta o per mangiare prima che arrivassero i clienti: il momento giusto per riempire la sporta che si era portato dietro. Invece di prenderla in diagonale, con i furtivi, rasentò e costeggiò i margini alberati. C’era tranquillità, pochi anti e nessuno s’accorse di lui quando saltellando aprì la maniglia della porta del ristorante. Si nascose immediatamente sotto a un tavolo e attese. Sentiva qualcuno armeggiare in cucina e dato che non udiva parlare immaginò che fosse solo. Ancora meglio, pensò. Intanto si diede un occhiata intorno, ma oltre ai tavoli e le sedie non c’era nulla che lo potesse interessare. A parte il Bar. Si avvicinò all’uscio della cucina, c’era in effetti una sola persona indaffarata a grosse pentole e notò che il retro della cucina era aperto. Dovette
armarsi di santa pazienza prima di vedere il cuoco prendere il suo pacchetto di sigarette e uscire. Appena fu libero di muoversi andò subito al grande armadio frigo, ne aprì un anta e cercò bistecche, carote, sedani, mise tutto nella sporta e fuggì via. Che lo vedessero o meno non gli importava niente, aveva preso quello che voleva e al bar, al volo, anche due bottiglie. Quando ritornò nella piccola radura dove aveva lasciato i suoi amici, notò che non c’era più nessuno. Lì per lì rimase perplesso, era come se al momento, gli avessero fatto un tradimento, ma poi a freddo, ragionando, niente gli fece più piacere. Non avevano bisogno di lui per sopravvivere, e per quanto riguardava gli umani, a Gianselmo, nelle sue detenzioni, aveva avuto il tempo di fargli lezione sul linguaggio umano parlato e scritto: forse non lo parlava ma sapeva leggerlo, ma solo i primi basilari rudimenti, quelli che potevano salvargli la vita a lui, e se avesse avuto fortuna, a una nuova colonia di castori. Altra sorpresa fu che i libri che aveva portato con sé e che avrebbe regalato loro non c’erano più. Nel sacchetto di plastica c’erano: ‘Il piccolo principe’, il ‘Cammino della felicità e ‘Zanna bianca’. Adesso era contento: sapeva che sarebbero rimasti amici in eterno; che tutto quanto aveva fatto per loro non lo avrebbero mai dimenticato, e che lui non si sarebbe mai scordato cosa per salvarlo avevano fatto. Rattizzò il fuoco ridotto a brace con altri pezzetti di legno, aprì una delle bottiglie di Vodka che aveva sgraffignato al ristorante più una bottiglia di Whisky, e si mise a bere, per lo meno felice di aver riacquistato una parte della sua indipendenza. Quel suo maglione giallo e sotto la camicia insieme a pantaloni e scarpe lo proteggevano dal freddo, a lui il pelo non bastava e le temperature si erano notevolmente abbassate. Quando si svegliò nel tardo pomeriggio, sapeva che la rimanente luce solare non era abbastanza, neanche per fare qualche chilometro; sbocconcellò qualche carota senza appetito e si rimise a bere per stordirsi e poter aver l’indomani presto, la forza necessaria per affrontare un lungo viaggio. Camminava ormai da una settimana, sempre nei boschi adiacenti le città, i paesi, evitando le grandi o medie metropoli. Si alimentava sempre meno ma beveva sempre più. E non faceva troppa attenzione quando in astinenza non prendeva le dovute precauzioni per procurarsi l’alcol a lui necessario. A volte camminava e cadeva, si rialzava, ricadeva e dov’era si addormentava. Forse durò due mesi
questo viaggiare a zonzo, senza una meta, sporco da puzzare come una capra; gonfio sul muso, orecchie basse si trascinava senza riflettete, pensare che così facendo sarebbe andato incontro a morte certa, ma a lui di morire non importava niente. Le poche ore che riusciva a dormire erano popolate solo da incubi e brutti sogni, ma a smettere, da solo, non ce l’avrebbe mai fatta. Era notte quando con la scarsa lucidità che gli era rimasta si ritrovò in una grande città, o almeno così credeva; c’erano molte luci sulle strade e alcuni negozi erano illuminati. A stento raggiunse un giardino, il terreno era bagnato e dovette appellarsi a tutte le sue forze per salire su una panchina e sdraiarvisi. La sporta vicino a se, si addormentò sperando che fosse la volta buona per non svegliarsi mai più. Ma non fu come aveva sperato. Si destò sulla stessa panchina, a metà intontito e con una grande confusione in testa ma questa volta più del solito. Non aveva il senso del tempo, né dove si trovasse. Da una postura distesa cercò quella eretta e con molta difficoltà vi riuscì. Non fu però un coniglio a mettersi seduto correttamente. Attonito guardò le sue gambe e i suoi piedi, le braccia, le mani, il busto, si toccò il collo e la testa, occhi, naso labbra, orecchie e mento…Aveva tutto! Tutto ciò possiede un essere umano. Tutto era accaduto veramente oppure aveva sognato? Gli eventi remoti erano così ben impressi nella sua mente che non poteva credere non averli vissuti, che era certo poterlo raccontare senza omettere nemmeno una virgola. Il giardino dove si trovava era parzialmente illuminato, ma il traffico nelle strade faceva pensare a un tardo pomeriggio: aveva dormito, se ben ricordava, un tempo infinito. Accanto a lui trovò una borsa di materiale sintetico, la aprì e subito si diffuse un acre odore di alcol stagnante: ne era completamente impregnata; c’erano carte scritte e una bottiglia di vino semi vuota e qualche bicchiere di plastica. Nel fare questi semplici movimenti si accorse che le sue mani tremavano e ne intuiva il motivo. Bevve subito tre bicchieri di vino e si sentì meglio. Ma ciò non bastò. Iniziò ad avere delle allucinazioni. Vedeva Allegra che a pochi metri da lui gli parlava: “Stolto! Non esistono aquile che spezzano catene liberandoti da ogni male…Gli ostacoli si superano, ma da lucidi non da ubriachi, non ridotti a larve umane che non reggono nemmeno in piedi…” “Ma quell’aquila è la mia coscienza!” protestò Ettore ad alta voce. “Stupido! In questo momento la tua coscienza potrei essere io, e anche cretina
perché ti sto ad ascoltare… Adesso, cercava di ricordare quanto tempo aveva ato a Gufolandia, ma tutto gli era completamente annebbiato e, visto lo sforzo che richiedeva continuò a bere rallegrandosi di essere ancora un essere umano, anche se non capiva chi l’avesse vestito, i suoi, quelli da coniglio gli si sarebbero strappati appena iniziata la metamorfosi…Oddio, pensò, io sto diventando pazzo! Sapeva tuttavia di essere sporco, l’afrore che i suoi piedi emanavano era insopportabile;le mani violacee, forse per il freddo. Si toccò nuovamente il viso, lo sentiva gonfio e doveva avere un aspetto orribile. Si rese conto stringendo un po’ gli occhi –e non era un abbaglio –che due donne stavano giungendo nella sua direzione; avevano un aspetto familiare: continuando a osservarle, attese che gli fossero venute vicino. “Ciao amico, come stai?” disse la più anziana delle due. “Allegra…? Tu dovresti essere Allegra,” poi volgendosi verso l’altra più giovane, “e tu Lara.” interrogò Ettore. “Forse intendi Paola e Simona…” “Boh, c’è qualcosa che non torna…” disse Ettore completamente fuori. “Non ti ricordi? Dobbiamo andare in clinica a curarci.” Gli disse ancora Paola Ettore non si rese subito conto di questo presunto ricovero, non rammentava niente in proposito, ma sapeva che di Paola si poteva fidare. Ma dei frammenti o periodi di conversazioni fatte in ato su questo argomento una vocina gli sussurrava che era vero. Considerò la debole forza fisica, lo stato di abbandono totale in cui versava e al quale si era ridotto ed era quasi certo che sarebbero bastati ancora tre giorni per lasciare la vita terrena. “Si, si,” rispose. cercando di alzarsi senza riuscirvi, “andiamo in clinica.” Ci vollero entrambe le due donne, una a destra e una a sinistra per sorreggerlo, l’auto era poco distante. Si impose prima di tutto una deviazione a casa di Marco, presidente di un'altra associazione benefica, perché fe una doccia e si cambiasse: così com’era conciato era impossibile presentarlo. Già sotto una
doccia calda cominciò a svegliarsi, gli era stato preparato un abito grigio, una camicia bianca, una cravatta e delle scarpe. Così vestito aveva già un altro aspetto. Non parlava, non reclamava, non si interessava, si faceva solo guidare. Nel corso del tragitto dovettero fermarsi almeno tre volte, tremava come una foglia e l’astinenza era pericolosa. Paola lo sapeva, non era alla prima di queste esperienze. Assunta quella dose di alcol a lui necessaria, gli prese una logorrea e ininterrottamente, fino a destinazione raccontò a Paola la trama di un libro che ricordava aver letto. Arrivati in clinica, misero a sedere Ettore, mentre Paola espletava le formalità del ricovero. Fu in quell’attesa che Ettore cominciò a ricordare bene chi era Paola e come fosse entrata nella sua vita di alcolizzato. Era una delle tante sere di inverno dove un buon numero di senza tetto cercava un posto dove dormire, ma non la semplice casa di accoglienza che più di dieci notti non ti dava; queste persone volevano una situazione abitativa che gli desse un po’ di respiro, almeno per l’inverno incombente. Ettore faceva parte delle quattordici persone che sarebbero state ospitate in una struttura per ‘L’emergenza freddo’. La sera ricevevano, dopo cena, la visita di tanti volontari delle più diverse categorie. Paola era ed è ancora tutt’oggi la presidente di una Onlus la quale aiutava le famiglie indigenti, che si adoperava nei confronti di chi per un motivo o chi per un altro si erano trovati in mezzo a una strada, spesso senza più affetti, certamente senza lavoro. Ettore, insieme a un altro ospite erano i due casi di alcolismo cronico. E lui, anche se beveva quei quattro cinque litri di vino, riusciva a tenere una posizione eretta, forse leggermente ondulatoria e un barlume di offuscata lucidità. Si usciva dal centro di accoglienza alle otto del mattino, si rientrava alle sette di sera, con l’altro che a secondo di quanto aveva bevuto, piegato se non del tutto disteso. Erano così tanti i volontari che venivano a far loro visita che era impossibile per Ettore ricordarseli tutti, ma ce ne fu una di queste che lo colpì, quando una sera, con cinquanta centimetri di neve, portò loro comunque paste e altri dolciumi. Ogni volontario si prodigava nel portare qualcosa: abiti caldi, scarpe, e ancora tanta di quelle cose utili per chi non aveva niente o per chi aveva perso tutto. E non solo, tra questi, c’erano anche chi cercava di alleviare con comprensione e discernimento, i mali interiori che affliggevano questa gente e più di tutto, dall’emarginazione cui soffrivano. Tutte queste persone lavoravano nell’ombra, non si aspettavano né un “grazie”, né un riconoscimento, lo facevano e basta.
Alla fine del periodo invernale sei di questi sarebbero stati scelti per proseguire il programma di reinserimento. La scelta non avveniva con un sistema arbitrario del tipo ‘svalutativo’ men che meno valutando il ato individuale, ma più di tutto era presa in considerazione la buona convivenza civile, l’educazione verso gli altri e naturalmente l’indole mite. Fra questi sei c’era anche Ettore. Anche se tutti sapevano che beveva, non aveva mai dato luogo a discussioni o liti con altri ospiti: se lo faceva, –come aveva sempre detto – restava da solo. I groppuscoli caciaroni, coloro che insozzavano lo spazio dove si erano messi a bere con cartoni di vino, bottiglie e altra immondizia, non li accettava. Condividere accettare con questa gente l’irosità se una pattuglia di aggio vedendo quel poco decoroso quadretto, chiedeva i documenti. Tutte queste persone le evitava. Fu così che, dalla località in cui avevano svernato furono trasferiti in una casa più confortevole, senza limiti di orario per il rientro e l’uscita; ognuno aveva le sue chiavi e disponeva dei suoi orari come desiderava. Erano ancora sei mesi di tranquillità. In questo periodo, per ben due volte, Ettore cercò di smettere da solo, ma puntualmente come un cronometro svizzero, dopo tre mesi ci ricascava. Non contava più ormai le persone che lo esortavano a non continuare su quella strada e a disintossicarsi. Per sei, sette volte fu ricoverato in diversi pronto soccorso perché trovato inanime a terra o disteso su una panchina nell’impossibilità di svegliarlo. E non cambiò nulla quando tutti e sei vennero trasferiti in un appartamento a Pesaro: in due per ogni stanza, con un salone che poteva ospitare una trentina di invitati, due bagni, cucina e aria condizionata. Le lunghe attese dei bus extra urbani erano finite, a dieci minuti di cammino c’era il centro, nel caso la sera volessero distrarsi con un po’ di animazione. Ettore scriveva, o almeno cercava di farlo. Ma come poteva mettere insieme la sua creatività sempre rassegnata a massicce dosi di alcol. Leggeva quello che scriveva, strappava e ricominciava, rileggeva e cestinava. Nell’appartamento si erano accorti tutti che non mangiava quasi niente: saturo di zuccheri si teneva a stento in piedi. Per affrontare i diversi problemi di convivenza –non sempre facili – Paola aveva chiesto a tre signore di far loro visita una volta a settimana perché ogni componente la piccola comunità gli potessero essere d’aiuto nel loro confrontarsi e limare quelle antipatie embrionali che occasionalmente nascevano nel gruppo. Ma anche questo tipo di assistenza non fece cambiare atteggiamento
a Ettore: dal momento che beveva gli stava bene ogni cosa. Altri volontari si erano associati a questo tipo di visite; cene e pranzi venivano organizzati periodicamente. Uno dei canali televisivi nazionali si occupò della loro situazione, facendo parlare ospiti e volontari e cosa stesse organizzando questa Onlus per tirarli fuori dall’indigenza ma soprattutto trovare loro un lavoro, punto cruciale che una crisi, credibile o meno, ridotto all’osso le disponibilità di offerte. L’Associazione aveva un grande peso economico da affrontare: l’affitto dell’appartamento, le derrate alimentari condivise con la Caritas di Pesaro, e tutte quelle necessità quotidiane di sei adulti maschi con un età media di cinquanta anni, oltre alle famiglie con prole che già da tempo seguivano. Tutto ciò, pareva lasciare Ettore indifferente. Sembrava avesse dimenticato le nottate ate al freddo steso su una panchina, buttato fuori da un pronto soccorso in piena notte, allontanato dalla Polfer perché trovato sdraiato nella sala di attesa, o altri posti di precario ricovero. Aveva un debito di riconoscenza morale verso tutte queste persone che si affiatavano attorno a lui. A volte ci pensava ma il suo vizio prevaleva su ogni logica e razionale ragionamento. Era il mese di luglio quando arono nell’appartamento, e fu nel gennaio 2014, che le sue condizioni psico-fisiche cominciarono ad alterarsi ulteriormente, ormai si alimentava così poco che ricominciò a perdere i liquidi fecali per strada, a non lavarsi più e per continuare a bere si sforzava di mangiare quanto bastava per sostenere i litri di vino che consumava, ma non funzionava: il rapporto solidoliquido era completamente sballato e cinque litri di vino erano troppi per ottanta grammi di riso. Il tremore lo affliggeva sin dal mattino e lo tirava giù dal letto. Cominciò anche a svegliarsi di notte e per non disturbare il suo amico di stanza, prendeva la sua borsa e andava a bere in bagno. Certe volte, gli amici con i quali coabitava lo sorprendevano mentre ritornava in stanza con la sua borsa, non dicevano niente ma lo guardavano con pena. Loro sapevano chi era realmente Ettore quando nei momenti di sobrietà l’avevano sentito parlare, dissertare su più di un argomento, della sua ione per la letteratura e per lo scrivere e la pittura. Anche nel vestire si distingueva perché tale era l’impronta che i suoi genitori gli avevano dato. Ma adesso, era ridotto a un niente, irriconoscibile, assente e peggio che mai un fisico ancor più deteriorato assieme a una psiche stravolta e non più affidabile. La sua deambulazione cominciò ad allargarsi e il pericolo di una neuropatia degli arti inferiori poteva aggravare ancora il precario stato di salute.
Pareva avviarsi lentamente ma certamente, verso una sicura e indecorosa fine, quando Paola convinse il consiglio di amministrazione della Onlus, che un ricovero in una clinica specializzata per le dipendenze si imponeva. Ne parlò con lui subito, ma ormai Ettore aveva preso una decisione. La ascoltò comunque e gli disse che era d’accordo per il ricovero, ma i rimorsi di coscienza erano troppi per continuare a vivere, e con una decisione quasi disperata, per non impensierire più nessuno, per non dare ancora della pena a chi lo stimava e gli voleva bene, prese una decisione drastica: finirla da solo. Si recò in Umbria, a Spello, dove da una panchina si potevano ammirare tutti i verdi, gli ocra, della terra coltivata. Stette lì un intero giorno continuando a bere e ammirare quei colori. A sera inoltrata si preparò un morbido letto di foglie e li si addormentò… Si era assopito sulla sedia dove l’aveva lasciato Paola. “Ettore…Ettore…” Lo svegliò. Aprì gli occhi. “C’è la dottoressa…” gli disse volgendosi verso una donna in camice bianco. Realizzando quasi subito dov’era e perché ci fosse venuto, mise a fuoco la figura che lo guardava sorridendo. Malgrado lo stato di semi incoscienza non aveva dimenticato le buone maniere. Si abbottonò la giacca, si alzò parzialmente in piedi e sfiorò con le labbra la mano della dottoressa. “Piacere, “ disse, “sono Ettore Renzi.” La donna ne rimase stupita. Ma questo particolare, quello del ‘baciamano’ gli venne raccontato in seguito da Paola, lui non ricordava niente. “Se tutti gli alcolizzati fossero così…”Aveva commentato la dottoressa. Lo vennero a prendere due infermieri: ormai da solo non riusciva più a camminare; venne aiutato a spogliarsi e una volta messolo a letto, sentì solo l’ago che gli penetrava nella vena del braccio per una flebo immediata, si addormentò e per due giorni rimase in uno stato soporifero. Udiva i rumori ma gli arrivavano ovattati; immaginava che l’avessero imboccato perché non ricordava di essersi alzato per mangiare e tutto continuava ad essergli estraneo, avvolto in una nebulosi frammentaria di ricordi mista a sogni e realtà. Il corpo se lo sentiva etereo, senza peso e che le forze lo stavano abbandonando.
Questo stato durò fino al quarto giorno. Riuscì a mettersi in posizione eretta e con la giraffa che sosteneva il flacone della flebo, andare fino al fondo del corridoio dove in una piccola sala poté fumarsi una sigaretta, la prima. Paola lo era già venuto a trovare, ma al momento non se né ricordava, e quando ritornò per la seconda volta gli raccontò tutti i particolari che lui ignorava del tutto. “Quando ti ha visto il primario, “ disse, “si è messo le mani nei capelli. Non voleva tenerti qui, per loro era troppo rischioso, nel tuo stato dovevano trasferirti in ospedale, ma la dottoressa che ti ha accolto si è opposta: “No! Lo teniamo qui!” aveva detto. Spiegò Paola. “Si è presa una grave responsabilità.” Aggiunse. Ettore guardava Paola mentre le raccontava aneddoti e particolari. Aveva un bel viso, sempre aperto al sorriso, capelli sul corto biondi, occhi penetranti ed era anche una ‘tempesta in gonnella’: difficilmente perdeva una battaglia che affrontava a favore degli altri, e come lei tanti, tante, che riuscivano a fare, creare, organizzare e gestire ciò che le istituzioni non volevano o potevano fare. Il recupero di Ettore era lento ma progressivo. Poteva alzarsi ma per scendere e salire le scale doveva tenersi strettamente al corrimano e questo, senza provare un estenuante fatica. Fece conoscenza con alcuni ricoverati ma le poche parole che riusciva a dire lo chiudevano in una sfera impenetrabile, quasi da misantropo. Vedeva gli altri, malgrado le loro patologie ridere, scherzare e parlare, lui era come bloccato e i suoi giorni erano appesi ai fili dei ‘ma’, dei ‘se’ dei ‘forse’. Non poteva farci niente. Tutto il suo ‘mondo’ era crollato lasciandogli un grande vuoto. Non si riconosceva in mezzo ai suoi simili e a parte Paola che frequentemente si recava a fargli visita, non vedeva pressoché nessuno. Matteo, responsabile del Centro di Ascolto della Caritas diocesana, era troppo impegnato a fronteggiare le povertà del territorio e poté rendergli visita solo una volta. Non riusciva nemmeno a seguire il programma psico-terapeutico, era troppo debole psicologicamente per affrontare anche gli incontri collettivi che seguivano dopo la riabilitazione fisica. Buchi di memoria, amnesie e molti punti interrogativi affollavano la sua mente. Ancora una e tante volte, si chiese chi fosse e cosa ci stesse a fare a questo mondo. Si sentiva inutile, inetto, fuori da ogni contesto civile e umano: si sentiva
ancora un coniglio, un uomo che non era un uomo, mentre da un'altra parte i sensi di colpa lo divoravano. –Quante persone, -si chiedeva, -aveva fatto soffrire per quel suo stramaledetto vizio e quante ancora era disposto a farne penare. Solo a questo pensiero immondo si sentiva mancare e un senso di vertigine lo costringevano a sedersi o allungarsi sul letto. Era tremendo per lui pensare alla dimissione dalla clinica. Verso la fine di aprile arrivò. Fisicamente, ovviamente stava meglio, moralmente meno. Paola lo venne a prendere e lo portò a casa. “Allora, come ti senti?” domandò necessariamente. “Bene, in generale. Qualche lacuna forse, e un senso di spossatezza.” “Devi riposare Ettore, fare delle eggiate senza stancarti e non pensare a niente, fai per il momento il vuoto nella tua mente. I valori sono quasi tutti rientrati, ma ci vorrà ancora un po’ di tempo e giorno dopo giorno migliorerai sempre più.” Gli disse. Sentiva che Paola aveva ragione. Del suo ato aveva sempre e ancora una vaga idea. Ma la storia di Gufolandia, permeava oltre la sua coscienza, aldilà dell’immaginabile, come una parentesi che poteva toccare con mano. Gliela avrebbe raccontato a Paola? –si chiese. L’avrebbe creduto? Forse, continuò a riflettere, non era necessario. Era così fantastica quella storia che al limite, togliendo qualche piccante parentesi sarebbe piaciuta a un bambino o a dei ragazzi che giovanissimi avevano già iniziato a consumare alcol, senza immaginarne le conseguenze. Però la voleva raccontare e così fece, lentamente, senza fretta. Nel frattempo, per dare alla sua giornata un senso, incontrò Matteo alla Caritas. Avevano sempre parlato di letteratura e messo giù qualche abbozzo di progetto, ed Ettore aveva anche bisogno di guadagnarsi qualcosa per sostenere le spese quotidiane. Un tetto sulla testa non gli mancava, da mangiare nemmeno, perché grazie alla Onlus e la Diocesi di Pesaro aveva tutto ciò; gli mancava quel poco che serviva alla sua indipendenza e dignità. Fu così che nacque il progetto “Innamorarsi della Letteratura”. Inizialmente prevedeva tre conferenze presso le librerie del centro su autori classici dell’800 e del ‘900. Ettore scelse Ugo Foscolo, Ippolito Nievo e Giacomo Leopardi. Andarono tutte bene. Aveva riacquisito la padronanza della parola, della comunicazione, anche se davanti un
piccolo pubblico; il timore di incepparsi, di quelle lunghe e antipatiche pause l’avevano accompagnato in ogni incontro. Quando terminò con le conferenze, Natale era vicino, impensabile organizzarne altre e anche se i giorni di festa portarono quel po’ di tristezza, ma non né ebbe alcuna emozione negativa. Certamente gli dispiaceva non andare a Nizza e are le feste con il padre, la sorella e i fratelli ma pensava, ci saranno state senz’altro occasioni. Nei mesi di gennaio, febbraio, un'altra buona notizia gli diede modo di pensare che tutto quanto aveva ato se l’era lasciato alle spalle, e che la negatività avesse messo finalmente la parola ‘fine’ sul periodo che l’aveva prostrato. Una ‘borsa lavoro’ di 500 Euro era stata a lui destinata per solo un mese, si intende, ma erano soldi piovuti dal cielo, visto che comunque era sempre in bolletta. A questo punto Ettore, era pervaso da un ottimismo incrollabile, stava riabbracciando una serenità che non ricordava più come fosse e quanta immensa gratificazione potesse fare bene allo spirito. Un giorno, però, la domanda per lui rituale, si pose ancora una volta: “E se tutto ciò finisse?”, “Se le cose belle durano poco e gli venissero a mancare per chissà quale motivo? Rimuginò. E questo pensiero velato iniziò il suo valzer. Troppe volte aveva perso e la realtà, quella che desiderava, lontana da raggiungere. Non voleva soldi o castelli, ma vivere tra la buona e brava gente, quella che ancora aveva un motivo di stupore, una finestra ferma sul tempo per assaporarne maggiormente quel che il giorno ti riservava e con il are delle ore, svelava. Voleva per tutti pace e bene. Lui voleva quello che questo mondo non poteva dargli perché era contorto, sballato, contro natura, e questa era la sua maggiore afflizione. Un pomeriggio, tornando dalla biblioteca si fermò come impietrito davanti il supermercato di casa sua. Il suo impermeabile svolazzava, i capelli scomposti da un forte vento, lo sguardo fissamente rivolto all’ingresso dell’esercizio. Pensava e ripensava. E’ vero che era un coniglio? Ovverosia un codardo o un vigliacco che non riusciva a combattere la sua realtà, pensò. Diversi minuti trascorsero. Poteva chiamare al telefonino chiunque delle persone che gli erano state vicine: conoscenti, amici, amiche e dire: “Sto per fare una cazzata…” Poteva girare alla sua sinistra e rientrare a casa, ma rimase lì immobile come paralizzato, senza riuscire a muovere un muscolo e con un tremendo desiderio che non voleva reprimere.
Non chiamò nessuno in suo aiuto, non svoltò a sinistra, entrò direttamente al supermercato. Come colto da un raptus, a i veloci raggiunse lo scaffale dei superalcolici e prese una bottiglia di Vodka, la prima che trovò. Entrato in casa salutò gli ospiti con calma. Qualche parola ma nulla di particolarmente impegnativo che potesse dar luogo oppure originare una lunga conversazione. Aveva fretta. Fortunatamente per lui il compagno di stanza non c’era. Tolse l’impermeabile buttandolo sul letto, allentò la cravatta, e aprì la bottiglia versandosene in un bicchiere di plastica una dose abbondante che buttò giù in poche sorsate. Respirò a fondo rievocando la sensazione psico-fisica di chi non toccava alcol da nove mesi, sentì il calore dentro, quasi un fuoco che lo ravvivava e inebriava, e una leggerezza tale da sentirsi ancora una volta etereo ma nel senso che lui intendeva. Bevve ancora un bicchiere intero e poi andò a fumarsi una sigaretta fuori al balcone. In quel momento voleva bene a tutti, non c’era nulla che potesse farlo arrabbiare, deluderlo, il mondo era bello con tutte le sue cose al suo posto, gli uomini erano buoni, e si rammaricava che quell’istante da lui vissuto, non potessero viverlo gli altri. Aveva perso. Quattro giorni, quattro bottiglie di Vodka. E a Paola che non sfuggiva niente, se ne accorse subito. Ma oltretutto sapeva benissimo quali erano gli effetti dell’alcol su Ettore. L’espressione del viso cambiava completamente, non biascicava sulle parole ma diceva cose stupide o cretine, accompagnate da un ironia fuori luogo. Stava in casa quando lo chiamò al telefono. “Ettore, puoi scendere? Sono in macchina, ti devo parlare…” Quando fu all’interno dell’abitacolo Paola non scese in preamboli. “Hai ricominciato a bere! Poco, ma hai ricominciato. Ti si legge in faccia.” Lo rimproverò. Era inutile negare, non sarebbe servito a niente. “Si è vero. Non è così grave, ma è la verità.” Rispose. “Facciamo una cosa, avverto la clinica e visto che questa volta non sei così
malconcio, epuriamo subito la questione.” “Ma…Tornare in clinica? Un'altra volta? “ si stupì Ettore. “Facciamo ancora in tempo, se non ti avessi detto niente tu avresti continuato a bere, e peggiorato la situazione. Dai, ti farò sapere quando prepararti. Spero solo ci sia posto.” A marzo, a distanza da un anno dal suo primi ingresso, Ettore affrontò di malavoglia il nuovo percorso, questa volta più psico-terapeutico che psico-fisico. Per lui, a parte la dottoressa che lo aveva accolto la prima volta, gli altri dottori e che comunque erano stati vicini a lui nel primo ingresso, non li ricordava più. Non rammentava nemmeno che all’interno della struttura c’erano delle riunioni collettive che affrontavano il problema psicologico: figure professionali destinate a far comprendere i danni provocati dall’alcol sull’organismo. Tutto ciò Ettore lo ignorava, volti, infermiere, operatori, tutti con la loro specializzazione li aveva dimenticati o mai registrati nella memoria. Era tutto nuovo, come se in quella clinica non ci fosse mai entrato. Fu al ventesimo giorno che la preoccupazione del padre malato gli diede una leggera tachicardia. Parlò con Paola del problema e si risolsero al fatto che alla fine del ricovero mancavano solo sei giorni. Non era sicuro ma qualcosa di grave stava per accadere: avvertiva quella sensazione che un figlio può avere quando un genitore è prossimo alla morte. I medici erano contrari a dimetterlo prima della fine del percorso, ma nessun motivo plausibile lo rimosse dalla sua decisione, doveva partire. Solo lui poteva ascoltare le ultime parole di suo padre. Non aveva mai visto un morto. E in quella stanza di ospedale che dava più l’idea di una clinica costosa, con luci soffuse e pareti dai colori tenui e riposanti, sotto un lenzuolo color salmone e nel silenzio che si imperniava di solennità all’evento, c’era suo padre. Le braccia lungo i fianchi. Il volto non sereno, poteva rassomigliare a quello di un uomo che riposava profondamente nel sonno ristoratore di una grande fatica, quella della vita. Ettore ara arrivato a Nizza il giorno prima, il tempo di lasciare il bagaglio a casa
di suo padre e prepararsi a quell’incontro il giorno dopo; i medici gli avevano dato al massimo tre mesi di vita e lui si era preparato ad accudirlo in casa, nel caso fosse stato dimesso, ma non servì. Al mattino, due parole con lui e quanto, a fatica, riusciva a dire. Ettore era seduto vicino al suo letto. “So che non sono stato un buon padre per voi.” Disse con una voce appena udibile. “Ma se non vi ho imposto nulla, è perché volevo comunque farvi felici. Nelle vostre richieste, le più disparate, ci volevano soldi, tanti soldi, e mamma e io, per non farvi mancare niente, non abbiamo mai messo una Lira da parte, mai avuto una casa nostra, mai avuto per voi un punto di riferimento. Eravamo nomadi. Quando il terreno scottava bisognava andare altrove e voi non avete mai avuto radici e seguendoci vi abbiamo tolto la cosa più importante che possa avere una famiglia: un punto centrale, in qualsiasi terra, ma sempre quello.” Concluse affannosamente. “Papà, questo è il ato e se non altro abbiamo fatto tutti e quattro esperienze che altri si sognano o si sognerebbero di fare e quel che sappiamo lo dobbiamo a voi.” Rispose Ettore. Vide suo padre addormentarsi di colpo e Ettore, preoccupato, chiamò l’infermiera. “Non è niente,” disse la donna, “alterna fasi di sonno a poche di lucidità, è l’effetto della morfina.” Spiegò. La notte, una assistente di turno, alle quattro del mattino lo chiamò al telefono annunciandogli il decesso. Prese un Taxi e insieme a sua sorella andarono in ospedale. Lo guardavano tutti e due uno affianco all’altra. Dissero una preghiera. Ettore non seppe se lo fece per convinzione o per convenzione, ma la disse. Discretamente un infermiera aprì la porta della stanza. “Desiderate qualcosa? Un caffè, un succo di frutta? ”domandò quasi sussurrando. “Un caffè, grazie.” Rispose Ettore.
Ritornò ai suoi pensieri e a quel corpo inanime: ne aveva tanti e si rincorrevano in un turbinio di eventi che ordinava con fatica, perché gli pareva, anche se suo padre aveva gli occhi chiusi, che in qualche modo lo osservasse. I vivi li potevi conoscere guardandoli negli occhi mentre parlavano, i morti no. Ormai, non aveva più niente da fare a Nizza. Salutò sua sorella e suo fratello, l’altro non si sapeva dove fosse andato a finire: da anni non dava più notizie. Credeva di dover versare qualche lacrima per suo padre ma non gli vennero. Quando rientrò a Pesaro, Paola, Matteo, Don Marco e tanti altri gli furono vicini, ma non si sentiva triste se non per il fatto che con suo padre, non era mai riuscito a parlare, a confrontarsi, mai seriamente. Terminò la stesura della sua storia e la inviò a un autore che come lui dava spazio agli animali con brevi ma significativi interventi. Ne mandò una copia a una cantante che udì un giorno dire in televisione che, se qualcuno o qualcuna avesse da dire, di mandarle il lavoro, e un'altra la mandò a un giornalista di una delle rete nazionali. E attese. Era per lui una vana speranza, vederselo pubblicare. Era ancora in dubbio sulle sue doti di narratore, ma gli piaceva scrivere e non desiderava null’altro se non continuare a farlo. Per lui troppo importante sviscerare con similitudini, allegorie e molta fantasia i mali della società. arono i giorni, le settimane, ed Ettore disperava ricevere notizie sul suo romanzo. Durante le sue vuote giornate, stava analizzando gli elementi del prossimo racconto, e allo stesso tempo dipingeva e viveva di quel poco ricavato vendendo i suoi quadri nei mercatini rionali. Ettore amava l’arte e poteva esprimerla solo dando vita ai suoi personaggi descrivendoli, in mancanza, la sua immaginazione li trasformava in colori cui era racchiuso il suo mondo. A dicembre del 2014, Ettore ricevette una lettera, sulla busta c’era l’intestazione di una casa editrice. Non sapeva cosa c’era scritto e aveva paura di aprirla. Qualsiasi comunicazione contenesse positiva o negativa, gli era ormai indifferente. Aveva capito il motivo delle sue continue distruzioni. Aveva pensato che il suo subconscio doveva annientare ogni cosa bella prima che lo fero gli altri, al posto suo. Ma era solo una porta chiusa ermeticamente non lasciando are nessuno, né uomo, né donna. E quando riuscì ad aprirla, dall’altra parte c’era
Lara che gli sorrideva. Finalmente aveva fatto pace con se stesso…
F I N E
R I N G R A Z I A M E N T I
Vorrei esprimere i più sentiti voti di gratitudine e amicizia al Cav. Rep. dott.ssa Paola Ricciotti, presidente dell’associazione Onlus i “Bambini di Simone” compreso il consiglio di amministrazione; al Cav. Rep. Matteo Donati, responsabile del centro di ascolto della Caritas di Pesaro, al Cav.Rep. Don Marco di Giorgio, direttore della Caritas diocesana di Pesaro, che in ogni momento, anche nelle ricadute, hanno creduto in me, e senza il loro aiuto, oggi non potreste leggermi. Lo staff medico di “Villa Silvia”, in particolare rivolti, alla dott.ssa Federica Aliotta, il primario, dott. Roberto L.M. Romanelli, il dott. Gianni Castellucci, il dott. D. Agostini, la dott.ssa A. Stotskaya, la dott.ssa Moroni, le infermiere e gli infermieri di “Villa “Silvia” e Franco. Le amiche più care, Laura, Loretina, Cri-Cri, Simona, Claudia, Anna, Franca, Lucia Mangano, Marika, Maria, Graziella, Maria, Serena, Antonella, Sara, Giorgia, Catia, Franca, gli amici più cari: Oliano, Gigi, Corrado, Mario, Peppe, Vincenzo, Massimo M. Dario, Mimmo che ce l’ha fatta, Pierpaolo, Rocco, Marco, Rosario, Massimiliano e Luca, Gianni Minelli, Giancarlo Trapanese, Florindo F. e a tutti coloro che per un qualsiasi motivo mi sono stati vicini; ai miei fratelli Remigio e Ferruccio, a mia sorella Patrizia. A tutto il gruppo di Shekinah.