La ballata dei Dead Cats
di Pierluigi Felli
Pubblicato da Fuoco Edizioni in Smashwords
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1^ Edizione Dicembre 2013
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«No trips for cats»
Indice
Cap. 1 - Due vecchi gatti e un topolino
Cap. 2 - Celeste nostalgia
Cap. 3 - Biografia non autorizzata
Cap. 4 - Tra vero e fanta calcio
Cap. 5 - Sabaudia, vicino Mompracem
Cap. 6 - Un salto nel 1915
Cap. 7 - I Cesaroni
Epilogo
Autore
Cap. 1 - Due vecchi gatti e un topolino
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Come in «The Ring», quel celeberrimo film in cui non si capisce nulla, anche qui c’entra una videocassetta.
Strano a dirsi ma ogni evento che vi racconterò è dipeso da un semplice, retrò, malregistrato, economico, ex vergine Vhs for daily use da 120 minuti. Eppure credetemi: è andata proprio così.
Tutto è cominciato la mattina del mio settantottesimo compleanno, e da fonte Istat a settantotto anni esatti l’uomo muore.
La donna può arrivare, almeno dalle parti di Okinawa, anche a duecento. Ma l’uomo no. L’uomo muore proprio a settantotto, e se c’è qualcuno che questa età è riuscito a superarla, allora vuol dire che è un baro, che è un ufo, o che quegli anni in più li ha rubati ad un altro.
Non mi dilungo dunque nel dirvi che io, quel giorno là, mi alzai dal letto con una certa apprensione nel cuore.
Feci un lungo respiro di momentaneo sollievo solo quando pensai al fatto che erano le sei e quindi davanti a me, dato che avevo visto per la prima volta la luce alle ventuno e venticinque, avrei avuto quindici ore abbondanti.
La mia vita, come si dice, l’avevo svolta. Non mi ero fatto mancare molto, nel bene e nel male, e da qualche tempo Ettore e la moglie mi avevano pure reso
nonno.
Che bel quadretto! Tenero, dolce, edificante. Patetico.
Poi finalmente arrivò quel filmato e, come accennato, ogni cosa cambiò.
A pranzo c’erano tutti, non che fossimo una famiglia numerosissima – del resto non eravamo né zingari né seguaci di Chiara Lubich – ma c’eravamo tutti: io, mia moglie di settantaquattro anni, mio figlio di trentasette, mia nuora (mi pare si dica così) di trentuno e il mio nipotino di due. Quest’ultimo l’hanno chiamato Spartaco. Mi piace Spartaco. Spartaco Kirk Douglas. Spartaco Landini, difensore grezzo del Palermo negli anni settanta. Del secolo scorso, ovviamente. A quei tempi i calciatori di venticinque anni ne dimostravano il doppio e anche qualcosa in più. Pelato a centro testa, capelli soltanto ai lati e a coprire la nuca, basettoni e facce vissute di gente che era rimasta, anche con la maglia addosso, povera e contadina.
Spartaco comunque mi mancava proprio. Spartaco De Santis suona pure male. Sembra un nome da Banda della Magliana. Anche questa, roba del Novecento.
Altri tempi, altre tempre.
La lasagna fumava e la besciamella colava ma non troppo. Solo con il secondo, però, mi accorsi che nulla era stato lasciato al caso: e qui bisogna dire che il pollo, tranciato, era stato posizionato esattamente al centro della padella, e tutte le patatine a tocchetti intorno. Acqua frizzante, quella che fa le bollicine blu, vino rosso che macchia il bicchiere e insalatina al radicchio di ulteriore contorno. Quando giunse sul tavolo la torta – con la candelina che sembrava per
diametro un candelotto e due numeri di cera, il sette e l’otto, a far da grattacieli – ci sentimmo ognuno più felice di quello accanto. Io soffiai e loro applaudirono. Spartaco immaginò che ce l’avessimo con lui e quindi l’operazione fu ripetuta dieci volte e i battiti di mani non finirono praticamente più.
Dovevo sentirmi proprio bene, quel giorno, per essere uno a cui restavano poche ore. Al punto che la statistica ufficiale, forse, poteva essersi anche sbagliata. Nel momento in cui arrivarono i regali giunsi però ad affermare, cinico e freddo, che nessuno doveva permettersi di criticare l’attendibilità scientifica degli addetti alle previsioni funebri.
Perché era meglio la morte di quei regali lì.
Mia moglie mi donò una rosa. Il che è anche romantico se non fosse stato per il bigliettino di accompagnamento, sul quale aveva scritto: «Con stima e simpatia.
Rosanna».
Figlio e nuora, invece, avevano speso – ci tennero a dirlo – un sacco di bigliettoni, non bigliettini, per l’attrezzatura completa Amplifon. D’accordo che ero diventato sordo, ma rimarcarlo così! Comunque stavo per aggiungere come una campana ma mi sono bloccato quando ho pensato: ma come fa una campana, che è oggetto e non animale, ad essere talmente sorda da assurgere addirittura a termine di paragone, a detto popolare, ad emblema della sordità?
Spartaco, Spartacuccio mio, infine mi aveva assestato il colpo di grazia. Perché mi regalò un ciuccio di gomma cigolante, che mi fu ato come si fa col testimone e pure con la faccia, saggia, di chi ti vuol dire: «Vedrai ti servirà».
Per fortuna nel pomeriggio, quando ognuno fu tornato a casina propria, che poi era la stessa per tutti e tre gli ospiti, mi venne in mente, così come si obbedisce ad un impulso esterno, di andare ad aprire la cassetta della posta, mansione che, di regola, svolgevo invece poco dopo le undici. Mezzo dentro e mezzo fuori ci trovai un pacchetto. A causa della posizione non occorse neanche l’aiuto della chiavetta per estrarlo. Lo sfilai con facilità e lo aprii senza supporre alcun meccanismo al trinitrotoluolo.
Avvolta da un cartoncino marrone e assolutamente priva di apposito, specifico e caratteristico contenitore, mi ritrovai tra le mani una videocassetta. Il mistero me lo sono giocato nelle prime righe, del resto.
Il donatore, che si era firmato Baconchi, aveva pensato di darmi già un indizio scrivendo su una targhetta adesiva il titolo Fedayn. Ma io chiamavo mia moglie Henrietta, figuratevi un po’ come stavo di memoria, e di conseguenza non colsi un granché da quella parola chiave.
Incuriosito sì, ma vieppiù meditabondo, salii le scale a tre a tre come facevo da adolescente eccitato e senza curarmi di lei – sempre mia moglie – prima ai e poi, invertendo l’ordine cronologico del proverbio di dantesca memoria, guardai.
Il filmato durava un minuto e venti secondi soltanto, ma era un documento d’epoca. Almeno per me. Le immagini sortirono l’effetto di aprire uno squarcio nella mia memoria seppellita dagli anni.
Mai auguri, in sintesi, furono più graditi.
C’era una telecamera fissa e una voce, fuori scena, intervistava una quindicina di minorenni inquadrati. Il frastuono di uno stadio a fare da sfondo non disturbava le parole ma si sentiva eccome.
«Mi spiegate un po’ cos’è il Cucs?», domanda il giornalista.
«So’ pezzi de mmerda er Cucs, so’ pezzi de mmerda.
Er Commando Ultrà Curva Sud so’ pezzi de mmerda», risponde ripetitivo, perché forse non si era capito bene, uno a nome di quelli attorno, che intanto, sballati gasati praticamente fusi, si accalcavano per farsi vedere nonostante tutti portassero delle calzamaglie di lana giallorossa, fatte in casa come le fettuccine, a coprire l’intero capo ad eccezione degli occhi.
«Cos’è?», insiste.
«Il Commando Ultrà Curva Sud», risponde ancora il ragazzo non capendo che non si voleva conoscere solo il significato letterale della sigla.
«So’ tutti venduti aa’ Roma», si intromette un altro dalla zazzera lunga e scapigliata e con solamente naso e bocca coperti da un fazzoletto western. «’A Roma je a i stricioni, le bandiere, i tamburi…»
«Noi nun c’avemo gnente», torna a conquistare il primo piano quello di prima. «Noi semo i Fedayn… nun c’avemo gnente…», ribadisce esaltando inconsapevolmente l’orgoglio della povertà.
«Fedayn cosa vuol dire?», tenta ancora l’autore del reportage, ma con una tonalità decisamente più da timido, denotando così un inizio di difficoltà nel tenere a bada quel gruppo, esiguo nel numero ma sempre più scalciante e aggressivo.
«Fedayn… semo i Fedayn. Ognuno lo interpreta come je pare…», e l’intervista finisce là.
Ora tutti i ragazzetti cominciano a gridare «Fe-Fe-Fedayn! Fe-Fe-Fedayn!», ognuno accompagnando all’urlo di guerra una mano a mo’ di pistola, con indice e medio alzati e il pollice divaricato verso l’interno.
Poi i primi piani sfumarono e la cinepresa venne allargata verso altri giovani che, all’indirizzo della opposta Curva Nord (lo striscione degli Eagles’ ers si vedeva, nitido, per un paio di secondi), presero a scandire, guidando in tal modo altre migliaia di simili, buoni cinque o sei «Lazio Lazio vaffanculo!».
Era il 1980. Il giorno del derby. All’Olimpico di Roma.
Un bel po’ dopo hanno innalzato anche quello di Torino, ma allora ce n’era uno e solo uno e non occorrevano specificazioni.
Dicevi «all’Olimpico» e tutti capivano.
Da una parte i romanisti, dall’altra i laziali. Da un lato i luoghi comuni – spesso
veri proprio perché largamente diffusi – parlavano di proletariato; dall’altro sembravano predominare i borghesi piccoli piccoli. Di là i plebei, grevi e feroci come tutti i parvenu, e di qua i patrizi, proprio nel significato originale di legittimi discendenti dei Padri fondatori del calcio a Roma. Lì tutti si spacciavano per comunisti vicini all’Autonomia di via dei Volsci, strada di quartiere antifascista per eccellenza, ma ben pochi sapevano certo spiegare il perché; mentre qui tutti si dichiaravano fascisti organici ad Avanguardia, ovviamente senza capirci una mazza. Testaccio contro Prati fungeva più da slogan che da altro. La classificazione manichea potrei supporre che servisse a qualcuno, ma fatto sta che era accettata senza critica né analisi perché in fondo faceva comodo, in essa ci si rispecchiava e poi faceva tanto tribù, dando in tal modo senso di appartenenza.
Perché quei fanciulli, a dirla tutta, erano soltanto ragazzi da stadio. Adolescenti infelici, ribelli, privi di ideologie radicate e pieni di rabbia verso il mondo. Solo la Roma o solo la Lazio. Il resto niente, altro che noia.
Eppure, benché tutto apparisse becero, crudele, truce… eppure era possibile respirare un non so che di ammaliante nell’aria. Un’aria drammatica come quella della Turandot, al tempo stesso allegra come quella del Barbiere di Siviglia, comunque romanamente antica, ultimo simulacro moderno di gladiatori, e belve, e sangue.
Quella, insomma, era Roma.
Ed io, quindicenne senza peli, stavo tra i bastardi biancazzurri, destinatario di quella serie di ritmati vaffa.
La videocassetta lasciatami come regalo per il mio settantottesimo compleanno portò con sé il potere, magico, di togliermi dalle spalle il peso di sessantatré
primavere per così farmi tornare, almeno nello spirito, al primo derby vissuto da ultras. Ultras, non ultrà. I primi erano “di destra” mentre i secondi “di sinistra”. Non si è mai capito il senso di tale piccola grande differenza.
Il mattino successivo mi svegliai lo stesso alle sei e senza dire una parola misi su la moka Bialetti, feci la doccia, mi vestii alla moda delle pantere grigie e sortii.
«È uscito» è italiano, «è sortito» è romanesco. E ancora: «è andato» è italiano, «è annato» è romanesco moderno, «è ito» è romanesco antico. Antico quanto Belli, Trilussa e la Lazio.
La mia consorte Henrietta dormiva ancora della grossa quando, ormai si erano fatte le sei e trentacinque, giunsi davanti all’edicola più vicina a casa mia. Era ancora chiusa anche se i pacchi dei giornali erano stati già buttati davanti alla saracinesca laterale.
Mentre, usando un coltellino da giovane marmotta, tagliavo il nastro altrettanto tagliente che compattava la pila delle riviste e dei fumetti, ebbi un attimo di sollievo perché soltanto in quel momento realizzai che era martedì, e il martedì esce Topolino.
Da tempo, ormai, la Disney Italia aveva ordinato ai propri sceneggiatori e disegnatori la realizzazione di nuovi personaggi da affiancare ai vecchi.
Brutta aria tirava per gli storici Mickey Mouse e Minnie, per Paperino e fidanzata pennuta, per il commissario Basettoni e il sottoposto Manetta, per Archimede e l’assistente Flip, per Pippo e Pluto cani diversi, per zio Paperone e il nemico Rockerduck, per Eta Beta e Cip e Ciop, per i supereroi Paperinik e
Super Pippo, per i coniugi Orazio e Clarabella, per i cattivi Gambadilegno e Macchia Nera, per Trudy e la strega Amelia, per la Banda Bassotti e Nonna Papera, per Gastone e Paperoga.
Brutta aria, credetemi, da quando su tutti ha prevalso Papertotti.
Fu per questo che, individuati i Topolino (il nome della testata almeno era rimasto quello delle lontanissime origini), vi lasciai cadere sopra un fiammifero .
Tutto qua?, voi direte. Innanzitutto prendersela con un topolino è il minimo per un gatto, e poi per ora tutto qua, rispondo.
Il teppismo, non lo si dimentichi mai, è fatto di piccoli gesti quotidiani.
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Cap. 2 - Celeste nostalgia
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L’indomani incontrai il Baconchi.
Ci vedemmo alle sette e mezza del mattino. Mentre la rivoluzione russa, la vecchia guardia, si sa, non dorme.
Comunque faceva freddo. Nebbia bassa padana, quindi molta umidità e goccioline d’acqua che sembravano galleggiare nell’aria. Il sole, quel giorno, avrebbe di sicuro perso a vantaggio del grigio plumbeo. Plumbeo mi è sempre piaciuto, fa tanto Scozia, Galles o su di lì. Per il resto faceva freddo, l’ho detto e lo ridico perché sono vecchio. I vecchi ripetono in continuazione gli stessi pensieri.
Anche questo è noto.
Baconchi mi apparve enorme pur non essendolo mai stato. Con l’aria dell’ex qualcosa che a causa dell’età si lascia andare, più che grosso era bolso, gonfio. Appesantimento da eccesso di ragù. E poi zoppicava vistosamente.
Duecentocinque di diabete, mi disse. Ghignando come a voler imitare Robert De Niro: occhietti quasi serrati, metà cinese e metà appena svegliato, e troppa espressività nel volto e nelle rughe verticali. Perché ci sono anche quelle orizzontali, è bene specificarlo. Queste ultime sono quelle, dette a zampe di
gallina, che i culi chiacchierati fanno sparire grazie all’intervento del chirurgo estetico o del visagista delle dive.
Ad ogni buon conto, il sorrisetto veniva accompagnato da una sequela di impercettibili movimenti del capo – capo nel senso di testa perché se c’era un capo quello ero io. Su e giù, ammiccava e lo muoveva appena, dall’alto in basso e viceversa. Poi aprì bocca.
Senza salutarci e nella più assoluta mancanza di convenevoli, prese a parlare. Scevro di preamboli, dritto al sodo come se ci fossimo lasciati il giorno precedente e non ventitré anni addietro. Come se ci fosse un discorso lasciato in sospeso e da riprendere subito perché urgente, importante, addirittura fondamentale per le sorti dell’umanità tutta.
«Secondo te, capo…», ve l’avevo detto io, «quand’è che è finito tutto?»
I laziali sono fatti così, anche se non amano apparire li riconosci tra mille. Non portano addosso segni distintivi, né ora né li hanno mai portati, se non, al limite, una testa d’aquila d’oro mimetizzata tra i peli del petto o un tatuaggio poco sopra il cuore. Niente di ostentato, di appariscente o di pacchiano, il laziale non sente il desiderio di dare visibilità al suo credo. Tanto è inutile. Perché ce l’ha scritto in fronte, che è laziale.
Si vede anche se non si vede, si capisce anche se non apre bocca, si intuisce anche se i laziali non si vestono tutti uguali come gli olandesi e gli Hare Krishna ma ognuno come gli pare. Il laziale commerciante non addobba il negozio con i vessilli della propria squadra; come l’impiegato non attacca alcun manifesto di calciatori al muro della sua stanza d’ufficio. Al limite un gagliardetto all’angolo. Buono buono, piccolo piccolo, zitto zitto.
I laziali sono silenziosi come i serpenti, alteri come i rapaci, arroccati come le tartarughe, riservati come i panda e come i panda in via d’estinzione. Ma tutto sommato reggono alle intemperie e anche se non diffondono la fede – perché il laziale non influenza mai nessuno, neanche i figli – loro, in fondo, quando c’è da uscir fuori dal nido escono. E soprattutto, come tra me e il Baconchi, si capiscono al volo. La lazialità, del resto, non è movimento di popolo, ma setta per iniziati. Iniziati decisamente poco illuminati, ma non stiamo qui a guardare il classico pelo nell’uovo.
Sei righe fa ho scritto loro e non noi. Ci sarà da preoccuparsi?
«Tutto, caro Baco, secondo me è finito con i Mondiali del ’90…»
«Dici?»
«Dico. L’Olimpico nuovo, senza più il marmo levigato e senza più sole ad illuminarlo, segnò simbolicamente il transito dal ato al futuro, da ieri a oggi, dalla storia moderna alla storia contemporanea. E noi abbiamo sempre avuto un debole per…»
«Per le ragazzacce dai fianchi larghi e dai seni prosperosi?»
«Sì, amico mio, è vero. Ma anche per l’Ancien Régime.»
«La tua, insomma, è memoria collegata non ai fatti ma alle sensazioni. È tutta
questione di odori. Pare strano ma l’Olimpico ristrutturato, o meglio ricostruito, ha acquisito un odore completamente diverso da quello precedente.
Prima, l’odore dei ricordi degli avi, dei penati, delle epopee e dei travagli ristagnava sulle panche verdi de legno fracico e sotto il tabellone che lampeggiava sempre le stesse due pubblicità; sul muretto dove potevano sostare solo in pochi e lungo i fossati dove, anche se in ritardo rispetto ai cugini, iniziarono a girare le prime canne; nei cessi dove ancora non c’erano murales né agivano i writers, ma solo scarabocchiatori dilettanti di incredibili piselloni; e tra gli striscioni appesi, panni sgualciti le cui lettere, indurite perché a vernice e non stampate, avevano cominciato a screpolarsi. Per non parlare del parterre, dove campeggiava, solenne, una scritta nera enorme (COSTRUIAMO L’ANTIROMANISMO firmato ESCATENA) che soltanto oggi potremmo definire ironica.
Tutto, prima, era impregnato di storia nostra, mentre da quell’anno là in poi ogni elemento componibile della struttura ovoidale fu assemblato solamente pensando al futuro.
E noi – proprio quando si dice: senti quanto profuma di nuovo – comportandoci in sintesi né più né meno delle bestie, a fiuto non l’abbiamo riconosciuto. Quindi ce ne siamo allontanati, restando, appunto, chi lupi senza tana e chi aquile senza nido.
È proprio vero che gli anni ottanta sono terminati con il millenovecentonovanta…», e sospirò alla eh già già. «Complimenti! Ti ho ritrovato con l’arguzia di sempre.»
«Ma no… è che volevo dire…»
«Sì lo so. Ho capito cosa vuoi intendere. A volte certe mode o comportamenti nati durante una decade, poi hanno continuato ad esistere e persistere anche dopo la scadenza. Invece questa volta no. Tutto pare sia cambiato, orologio alla mano, esattamente il primo minuto del primo gennaio. Mah! O forse non è così…»
«Forse invece non è soltanto colpa del vetro trasparente che in curva ha sostituito la roccia bianca, quella bucherellata dal vento e dal tempo. Forse l’entusiasmo è venuto a mancare appena tre anni dopo, quando si sono autosciolti, diciamo così, gli Eagles’ ers.»
«Sono?»
«Vabbe’: ci siamo sciolti. Anche se…»
«Anche se io facevo parte dei Dead Cats, i Gatti Morti. Che però costituivano la prima costola nel corpo degli Eagles.»
Oramai è chiaro che avevamo iniziato a parlare ad intermittenza come i nipotini Qui Quo e Qua. Peraltro nell’elenco Disney li avevo clamorosamente dimenticati. «In ogni caso, risponde ad un dato di fatto che la scomparsa degli Eagles’ ers dallo stadio e degli ES dai muri di Roma ha comportato di rimando il crollo dello stimolo principale che ci aveva portato ad unirci: l’amicizia, in alcuni casi la fratellanza, e comunque, a mo’ di simbolo, il dovere della colletta per comprare un panino – che per dirla alla Tony Santagata basterà – a chi di noi non poteva o faceva finta di non poterselo permettere.
Lazio non solamente nel significato di squadra da seguire ma anche come unione sotto una sigla che era famiglia ed esercito. Oltre che distorto e malato senso dell’amore.»
Palese, a questo punto, è che all’università avrei dovuto prendere Sociologia invece di Giurisprudenza. Ma andiamo avanti. Tiremm’ innanz’, direbbero mia moglie e mio figlio dando però alla frase un significato più universale.
«Spezzato il nesso con gli Eagles», concluse il Baconchi, «c’è stato lo sfaldamento generale. Diaspora, anche se tocca dirlo a bassa voce. Ognun per sé e chi s’è visto s’è visto.»
Baconchi era riuscito ad unire due pezzi di proverbi diversi con una semplice congiunzione: potenza della letteratura popolare!
Chi se ne tornò a casa, e per restarci anche di domenica; chi rimase in curva nostra, ma defilato; chi si spostò in Tevere non numerata o in Curva Sud; chi rinfoltì le fila degli Irriducibili, i nuovi padroni della Nord; e chi divenne romanista. Perché il laziale, come ebbe a dire il decano dei giornalisti romani Fulvio Stinchelli, «in un certo senso è capace di tutto».
Una volta ne incontrai uno, malato terminale, che ci tenne subito ad informarmi circa il fatto che lui era diventato della Roma. Notizia che, a suo dire, andava diffusa capillarmente. Alla mia meraviglia non si scompose, spiegandomi con tranquillità che «è sempre mejo che more un romanista che un lazziale».
Ah i «lazziali»!, pensai. Caustici, inglesi, macabri, auto sarcastici anche in punto di morte.
«E se fosse», riprese il vecchio Baconc, «che invece è stato lo scudetto della Roma del 2001 a provocare l’esaurimento delle ultime forze rimaste?»
«Questo lo escludo», risposi categoricamente. «Non si può mollare in corrispondenza dell’accadimento di un fatto che non poteva non accadere», aggiunsi.
Dalla Sociologia ero ato ai rudimenti di Matematicae Fisica.
«E tu hai già capito dove voglio andare a parare», continuai. «L’esistenza della Lazio è costellata di tante singole tragedie, umane e sportive. Il Toro ne ha avuta una, immane, che lo ha reso leggenda, mentre noi», ho detto noi, «siamo stati toccati da una serie continua di disgrazie, e tutte sono puntualmente arrivate all’indomani di una gioia. Solo per elencare queste congiunzioni astrali ci vorrebbe un libro. Ma a differenza del Torino non siamo neanche simpatici. In quest’ottica non può e non deve meravigliare il tricolore della Roma targato nuovo millennio, perché tutto è in linea con quanto avvenuto l’anno precedente: la Lazio vince il campionato – sul come lo sanno pure le donne e i fanatici del rugby – e ce la fa non soltanto a sorpresa ma anche in corrispondenza con i cento anni dalla nascita. Due scudetti per la Lazio in così tanto tempo – 1974 e 2000 – e il secondo che arriva proprio in occasione dell’anniversario più atteso. Ogni evento sembra segnato dal fato, tutto è troppo bello e irreale per poter durare… ed infatti! La gioia viene letteralmente soffocata l’anno successivo, appunto il 2001, segnato dal primo posto dell’unica squadra che non doveva arrivare prima. Quindi, voglio dire, il laziale sa che la felicità è merce rara che si acquista pagando un prezzo salatissimo. Il laziale, insomma, quando vince non è mai contento a mille perché una parte di sé è consapevole che quell’allegria prima o poi, più prima che poi, la sconterà e pure con gli interessi. Per questo il tifoso biancoceleste, a differenza di quello romanista, è sempre disilluso, chandleriano, distaccato, quasi freddo. Ma è l’aplomb di chi già sa cosa sta per regalargli il destino. E chi già sa non si stupisce e di rimando non si lascia abbattere nemmeno da un trionfo giallorosso, tutto sommato atteso. Ad esemplificazione:
il romanista sul 3 a 0 a proprio favore dice mo’ je ne famo altri tre, mentre il laziale, nella identica situazione di vantaggio, guarda il proprio vicino di posto e gli fa: speriamo di riuscire a pareggiare.»
È sempre più evidente quanto io meriti l’appellativo di «De Crescenzo del calcio capitolino». Perché se la Roma è Storia, la Lazio è Filosofia cartesiana.
Basta qualche cenno per rendersene conto…
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Cap. 3 - Biografia non autorizzata
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La Lazio ufficialmente vede la luce il 9 gennaio 1900 a Roma, su una panchina di Piazza della Libertà, partorita da un gruppetto di Piedi Zozzi, così come erano chiamati i frequentatori assidui di un preciso barcone ormeggiato sul Tevere, quello gestito da un equivoco oste: il sor Pippa Nera. Ma in realtà è concepita quattro anni prima.
Ci troviamo ad Adua, Abissinia, ed è il primo giorno del mese di marzo. Brutto mese, marzo, per i romani.
Adua per l’Italia è come Waterloo per la Francia o come rammentare Little Big Horne ad un soldato americano.
Adua, nome da femmina, è la madre di tutte le sconfitte. Sinonimo di disfatta e di vergogna.
Il generale Baratieri, reduce dei Mille e governatore d’Eritrea, è coadiuvato dai subalterni Dabormida, Arimondi, Ellena ed Albertone nel comando di circa diciassettemila uomini, tra i quali convivono anche bianchissimi Alpini e nerissimi Ascari. Tutti agiranno in nome di un‘Italia mossa più dalle frustrazioni di quel delinquente di Crispi che da vere e proprie ambizioni di protettorato.
Dinanzi e contro sono schierate le fazioni indigene guidate dal negus Menelik II
e dalla regina Taitù. Hanno lance, spade e fucili regalati dalla stessa Italia pochi mesi prima. Null’altro. Però sono centomila, quella è la loro terra ed è massacro.
Una della compagnie dei Bersaglieri inviate su quel lembo d’Africa è composta quasi esclusivamente da romani.
La notte prima della battaglia – notte di scaramucce e di assoluta mancanza di raccordo tra le tre colonne in campo – è già foriera di pessime sensazioni e ancor più cupi presentimenti. Messa in conto la mala parata, i soldati si riuniscono poco prima dell’alba attorno alle cuccume del caffè e, un po’ per dire e un po’ per esorcizzare la morte, decidono che, qualora dovessero riuscire a tornare a Roma, lì non si sarebbero più persi di vista.
Avrebbero fondato un club, un «clèbbe», una società sportiva fatta per stare sempre insieme, per giocare, per vivere. In fondo sono ragazzi poco più che ventenni.
«Dato che qui sarà difficile farcela, per mantenere la speranza propongo di chiamarla Lazio, come quel cavallo che vinceva tutte le corse», dirà il sottufficiale Luigi Bigiarelli.
Sul dato le fonti sono soltanto orali, ovviamente, ma è un fatto che le cronache ippiche della seconda metà dell’Ottocento ci parlano di «un purosangue che fa sfracelli». Lo chiamano Lazio, degno predecessore dei Ribot, The last hurrà e Varenne del secolo successivo. In effetti anche nel romanzo di Emilio De Marchi Il cappello del prete, scritto nel 1888 e considerato il primo giallo-noir italiano della storia, si parla di questo prodigioso animale.
«… e a te, amico, presento il conte Ignazi di Roma, che ha portato il suo famoso Lazio.»
«Che vinse il derby di quest’autunno?»
«Precisamente…»
I ragazzi con le piume nere sul fez siglano il patto. Il nome è tratto e in sequenza decidono colori, simbolo e motto. Un’aquila per la legione, nessuna legione senz’aquila.
In memoria di Cesare, quello delle Idi di marzo, non fosse altro perché i Cesaroni ancora non erano nati. La lupa è scartata perché rappresenta il focolare domestico, la tranquilla vita nell’aurea domus cittadina. L’aquila invece è sinonimo di ignoto, avventura, espansione e colonialismo.
È più adatta a chi, forse con l’indolenza che contraddistingue ancor oggi il romano, di lì ad un paio d’ore si sarebbe lanciato all’arma bianca urlando al vento quelle cinque lettere che da allora in avanti non avrebbero indicato più solo una regione o un quadrupede.
Da quella guerra, di quella compagnia ne torneranno indietro nove, soltanto nove, e fonderanno la Lazio.
Una squadra di calcio che, come quel cavallo là, prende a vincere un po’ contro tutti o quasi. O questo almeno fino al 1927.
Siamo in pieno Fascismo, periodo di aggio dagli anni del consenso di massa a quelli del regime, o diciamo che così ci ha raccontato De Felice. Il Duce del calcio se ne frega ma ha due figli, Bruno e Vittorio, fissati con la Lazio. Quando può li accompagna per mano allo stadio della Rondinella, nel quartiere Flaminio, sede scelta per necessità ma che si rivelerà indovinata perché sita in una zona ben collegata con i rioni – Monti (uno dei tre rilievi raffigurati nello stemma di questo rione è infatti chiamato Il Laziale), Borgo e Prati – dai quali la domenica partono il maggior numero dei tifosi biancocelesti. E a forza di sentire i figli, il cavalier Benito si apionerà alle sorti di quella squadra al punto che ne diventerà «socio sostenitore» versando la quota di lire mille, cifra simbolo in quel periodo di aspirazioni mensili e canore.
Nonostante ciò, però, comincia a prender piede l’idea e di conseguenza il progetto di creare a Roma un’associazione sportiva che potesse competere alla pari con le grandi potenze calcistiche del Nord Italia. Volendo, è la nuova Roma Imperiale che lo esige. Alla riunione sono convocati tutti e otto i sodalizi dell’urbe: Alba, Fortitudo, Roman, Audace, Juventus Roma, Pro Roma, Romana e Lazio. Tutti accettano o sono costretti ad accettare la nascita della Roma. Tutti tranne la Lazio, che dice no per quel po’ di follia che ben si sposa con l’aristocrazia dei sentimenti. Quest’ultima frase l’ho copiata a qualcuno che si voleva riferire ai laziali, ma non ricordo chi.
Comunque, a tal proposito, si narra che Mussolini in persona convocò a Palazzo Venezia il gerarca del Partito Nazionale Fascista console Giorgio Vaccaro, tesserato della S.S. Lazio e principale oppositore alla fusione.
«Perché?», disse solamente il Duce ad un interlocutore fatto restare, benché capo della Milizia, in piedi davanti alla sua scrivania.
«Se voi mi consentite un minuto soltanto, eccellenza, vorrei ricordarvi il
Piave…»
«Cosa c’entra il Piave», chiese ancora calmo l’uomo più potente d’Italia.
«C’entra, eccellenza. Perché la Lazio, sul Piave appunto, perse sei calciatori su undici.»
«Ebbene?»
«Ebbene i settantasette giocatori di quelle altre sette squadre con le quali ci dovremmo unire sono tutti rimasti a Roma. Imboscati. Quindi, con tutto il rispetto, eccellenza, noi siamo contrari alla fusione. Noi semo e resteremo la Lazio.»
Seguì un minuto pieno di silenzio e di pensieri. Poi Mussolini congedò il sottoposto accennando una smorfia, nella quale qualcuno volle ravvisare un abbozzo di sorriso, e borbottando un eloquente: «Va bene. L’Italia è chiamata a cose più importanti che stare appresso all’orgoglio della Lassio.»
Sette energie di uomini e di mezzi confluirono e da sette organici se ne ricavò uno composto dai migliori di ognuno. Va da sé che la Lazio divenne minoranza ed iniziò a perdere i derby, non quelli ippici, con scientifica regolarità.
Del resto quello era periodo di assemblaggi. Il Napoli e la Fiorentina nacquero ad esempio quali frutto di incroci
«rafforzativi della razza». Come quando fecero sposare il Savoia nano con la montenegrina alta e bona. Da allora in poi seguirono per la Lazio altri trent’anni ininterrotti di serie A. Quindi la B, alti e bassi. Perché la Lazio sa bene come si fa a vivacchiare senza mai emergere veramente né affondare definitivamente. Al compimento del sessantacinquesimo anno della Società Sportiva, la stessa dirigenza, in pompa magna dentro un ambiente carico di formalismo, esordirà nel gala dell’anniversario facendo leggere ad un proprio iscritto un foglio di presentazione sul quale la Lazio viene definita «una vecchia barca di sessantacinque anni che da sessantasei attraversa momenti difficili». E pensare che il bello doveva ancora arrivare: uno scudetto conquistato schierando per lo più atleti provenienti dalla serie C, calciatori che come raggiunsero l’apice già dal dì successivo cominciarono ad inabissarsi: Re Cecconi si finge per scherzo rapinatore e viene freddato dal gioielliere, all’allenatore Maestrelli se lo mangia il cancro in un niente e Frustalupi – bel cognome – va a schiantarsi con la sua auto addosso ad un guard-rail. Ma la Lazio oramai è questa: due coinvolgimenti nel Calcioscommesse e uno nel processo a Calciopoli, retrocessioni a tavolino, penalizzazioni fino a meno nove sotto lo zero iniziale della classifica, tragedia, commedia degli equivoci, farsa, pochade, stupefacente abilità nel risollevarsi dopo le cadute e sconcertante capacità di complicarsi l’esistenza. Sotto la bandiera della Lazio troviamo di tutto: dalla grandissima sega all’eccezionale goleador, dal nobile con la puzza sotto il naso all’ergastolano Concutelli. L’ambiente Lazio incarna il concetto di diversità unito alla sorpresa, il rifiuto della massa ed al contempo il saper essere nazione. Lazio Patria Nostra, potremmo sintetizzare. La Lazio, poi, è la contraddizione in persona. E proprio facendo leva su quest’ultima peculiarità che viene costruito a tavolino il fascino nero della Lazio. La tifoseria biancoceleste sembra, e forse lo è davvero, la più snob e fighetta di tutte. Nessuno, ma proprio nessuno, perde mai l’occasione di puntualizzare, in tivvù o su giornali e libri, il fatto che la Lazio viene seguita da «apionati tiepidi» (ossimoro?), «ipercritici, che non disdegnano fischiare i propri beniamini. A Roma una minoranza silenziosa con scolarità alta, che abita nei quartieri cosiddetti bene e vota Movimento Sociale». Oggi si dovrebbe dire votava.
Il tutto detto, o scritto, sempre per indirettamente far emergere e dunque elogiare l’altra parte: casinara, di bocca buona, che non discute ma ama, grassa, supplì, crocchette, fámose du’ bucatini, intimamente e politicamente più rossa che gialla, Roma città aperta, cadevano le bombe a San Lorenzo, la gente onesta che
ha cacciato i nazisti, Alberto Sordi e Gigi Proietti, volemose bbene, viva er Papa, Potere Operaio, sémo i più forti der monno, all’occorrenza malandrini, quattro salti in gattabuia non hanno mai fatto male a nessuno, ma il martedì sera, mi raccomando, tutti davanti al televisore perché ci stanno I Cesaroni. Ovvero l’oste (dato che ce stai portace n’antro litro che noi se lo bevemo), il meccanico, gli studenti e le donne – soprattutto le donne perché il romanista è per la parità dei sessi (noi no) – che meglio hanno saputo mettere in sceneggiato e sceneggiata il tipico tifoso giallorosso.
Quello cioè genuino, sincero, di cuore, simpatico, dalla battuta pronta, che vota Veltroni. Anche qui andrebbe scritto votava perché siamo nel 2043 e quindi l’ex sindaco sarà morto, no?
Dio mio quanta normalità dentro quest’altra parte!
Molti degli elencati luoghi comuni radicatisi nel tempo corrispondono a verità. Altri no. Ma controbattere punto su punto a cosa servirebbe? Possiamo segnalare che Aldo Fabrizi e Anna Magnani erano della Lazio – Nannarella ad una precisa domanda su questa fede calcistica risponderà: «Poverini, me fanno tanto pena. Arriveno sempre dietro a quarcun altro…» – o che la Garbatella, dove «vivono» i Cesaroni, luogo di culto e pellegrinaggio, una volta era quartiere laziale. C’è anche una foto che può valere, se non da prova, almeno come indizio… ma ripeto: cui prodest? Sono laziale, di scolarità alta, quindi traduco.
A chi giova? Cosa otterrei, ora, nel puntigliare? Oramai la storia dei due club è scritta e non c’è più niente da fare, disse il laziale Bobby Solo (ovviamente Little Tony era romanista). Perché tanto la Roma continuerà a puntare sui brasiliani e la Lazio, per dispetto, non la smetterà mai di acquistare calciatori argentini. Sul perché il mistero è fitto. Forse perché la Roma è solare come Salvador de Bahia e la Lazio è lunare come un’arida pampa. Forse per la semplice assonanza nei colori sociali o forse perché la Roma è una samba estiva mentre la Lazio è un autunnale tango. O forse ancora, non escludiamolo a priori, perché la Roma è
tecnica mentre la Lazio è tattica, perché a noice piàciono i colpi de Stato militari mentre a loro il Progresso di una democrazia carioca.
A me non resta che unicamente lo sfizio – perché solo di capricciosa voglia si tratta – di raccontare la caratteristica base del laziale, mix appunto tra contraddittorietà – angelo sporco – e inqualificabilità. Perdinci! Ora che ci penso ci vorrebbe un romanziere per tentare di definire l’indefinibile per antonomasia.
Sulla Lazio, insomma, si dà per accertato che sia ritrovo per romani chic, benestanti, abbronzati professionisti ben caratterizzati a suo tempo da Christian De Sica sugli schermi. Eppure la Lazio, come entità e non come SpA, è questo e tanto altro. È appunto un gran calderone di differenze, di convivenze, di palesi controsensi. A differenza della Roma, che in ragione proprio della sua natura profondamente popolare è uniforme, statica, dunque prevedibile nei comportamenti e nelle reazioni.
La Lazio, al dunque, è ciò che non t’aspetti, è congrega di mattoidi, è un guaio sempre dietro l’angolo. E il laziale – arriviamo al sodo – è quel signorino di cui si parlava prima, ma è anche centro di malaffare nelle martingale clandestine degli anni ottanta. È accusato di non essere romano verace, ma al tempo stesso ha avuto come idolo un centravanti che è nato a Campo de’ Fiori e si chiama non a caso Giordano Bruno, che c’ha la faccia impunita del romano, gli occhi furbi e neri che girano a mille, si rasa ogni due giorni come chi fa tardi la notte nei night e ha il naso affilato del centurione nemico di Asterix. Altro che Totti, se un pittore volesse dipingere un romano antico prenderebbe a modello Bruno Giordano da Trastevere, uno che tra una prodezza e l’altra spollicchiava a poker l’algido Brian Laudrup, il centrocampista danese che appena giunto nella Caput Mundi si ritrovò come compagni di stanza «signorini» come Giordano, Manfredonia e Montesi. I primi due sono finiti pure a Regina Coeli, mentre del terzo si sono perse le tracce. C’è un amico, Kongo, che dice di averlo visto girare per Fregene, al mare d’inverno, a torso nudo, pieno di tatuaggi galeotti, ancora con i baffoni neri, perso in chissà quali pensieri, «rubò la palla ad un ragazzino ed iniziò a palleggiare». Il più pasoliniano di tutti, Montesi aveva un futuro
davanti a sé ma se lo giocò a dadi e perse.
La Lazio, va ancora detto se no qualcuno lo potrebbe dimenticare, ci tiene tanto a dare questa immagine elitaria di sé, ma il problema è che non ci riesce. Probabilmente perché l’alta classe spesso attira il marcio, e il luridume è cosa nostra. A volte ha colpe, altre volte nemmeno le ha.
Ci si trova, la mettono in mezzo anche quando non c’entra niente. Come quando rapiscono Emanuela Orlandi dentro il Vaticano. Lei ha quindici anni, è il 1983, periodo buio per l’Italia tutta tranne che per me. L’adolescente scompare nel nulla e così partono le ipotesi, le congetture, le rivendicazioni, le telefonate anonime, i mitomani, gli sciacalli. Arriva di tutto e si pensa a tutto. Al banchiere Calvi, trovato morto impiccato sotto il ponte dei Frati Neri di Londra; al cardinal Marcinkus, il più ricco e discusso dei presidenti dello Ior, la più ricca e discussa delle banche; agli affari con la mafia; ai ricatti della mafia; all’attentato a Giovanni Paolo II; ad Alì Agca; ai Lupi Grigi, la P2, spionaggio internazionale, Oral Celik e altre amenità. Tra le telefonate attendibili ne arriva una anche di un certo Pierluigi, o si chiamava Mario, che rivela l’implicazione di un giocatore della Lazio – sempre la Lazio, in mezzo – all’epoca identificato in Arcadio Spinozzi.
Arcadio «picchia per noi», gli gridavamo dagli spalti, e aveva pure il volto truce e la barba mediorientale, che non depone mai a favore. Ma povero cristo non c’entrava proprio. Poi ano venticinque anni, di Emanuela nessuna traccia ma sbuca una pentita che giura sul coinvolgimento mani e piedi della famigerata Banda della Magliana, l’organizzazione criminale romana che per un paio di decadi agisce come e peggio della Camorra.
Lei è stata l’amante del boss Renatino De’ Pedis, sparato sette anni dopo il sequestro e al centro di una polemica post mortem perché sepolto dentro una cripta riservata agli alti esponenti della chiesa cattolica. Il motivo di tale privilegio è dato dal fatto che, dicono amici e familiari, «era un benefattore, uno
che ha donato un miliardo di lire ai poveri», oppure, sostengono i maligni, più semplicemente per i favori che in vita aveva fatto al cardinal Poletti… Ma la Minardi – così si chiamava la gola profonda – non era stata soltanto la donna del capo ma anche, ancor prima, la moglie legittima di Bruno Giordano.
Che, poveraccio pure lui, non c’entrava niente, anzi si era separato già poco dopo il matrimonio, ma intanto la stampa il nome suo lo fa. Ve l’avevo detto io: la Lazio ce la fanno entrare persino quando si dovrebbe evitare anche il solo nominarla. Come quel giorno prima delle rivelazioni dell’ex signora Giordano, quando fece scalpore l’omicidio di due fidanzatini falciati sull’asfalto da un automobilista ubriaco: esce subito fuori che l’assassino è un diffidato ultras della Lazio e che a bordo della sua macchina viaggiava una pregiudicata evasa. Sono una coppia violenta e lei risulta esserlo più di lui se è vero che, poco prima di montare sul veicolo, dentro un pub lo aveva abbattuto con un calcio alle palle. La ragazza, dimenticavo, si chiama Valentina e di cognome mette Giordano. Ovviamente la specificazione, ininfluente ma morbosa per il lettore, va su tutti i quotidiani. Bruno, il padre, si sbraccia per metter in chiaro che non la vede da tre anni, che se cambia registro la perdona pure e che lui comunque ha da tanto tempo una nuova consorte e due pargoli, fratelli della sorellastra. Però serve a poco, perché ormai la notizia è andata: Giordano, la Lazio, sempre ficcati dentro ad ambienti oltre la borderline.
La Lazio, mi pare chiaro, ha almeno due nature: una di facciata, giacca e cravatta, e una buia, appunto nera e profondamente votata all’autodistruzione. Vivi in fretta e muori giovane sembra il vero motto di chi veste quella maglia celeste con i bordini bianchi e di chi la domenica li va a tifare. Due tifosi uccisi da armi da fuoco sono lì a dimostrare anche, purtroppo, che questi sostenitori «poco caldi rispetto agli altri» ci stanno, rischiano, esistono e smettono di esistere. Dimostrazioni di questa dannazione che prende chi diventa laziale se ne possono fare a iosa. Di uomini bislacchi che ci hanno fatto innamorare la Lazio ne ha accolti a bizzeffe, e fatto strano è che tutti avevano diciamo caratteristiche comuni, tratti psicologici riconducibili al prototipo laziale. Essere di riferimento che, senza dover andare in Tanzania come è stato fatto per l’homo habilis habilis, si potrebbe ricavare anche in laboratorio se fimo accoppiare l’erede di Fiorini con la figlia di Gascoigne.
Bomber Fiorini ha, in barba al soprannome, sempre segnato col contagocce. Una rete ogni quattro partite, non di più, ma non era questo che importava. Il tifoso laziale non ha mai guardato ai risultati ma all’atteggiamento sul terreno di gioco: grinta, sofferenza, argentina durezza, faccia a faccia, non un o indietro, maglia sudata, un po’ di sangue non guasta, il ricevuto cartellino giallo è un andare in sollucchero mentre il rosso è un brodo di giuggiole. Poi se arriva anche il goal è meglio. Ma solo poi, perché prima della vittoria c’è l’onore.
Quanto detto certamente non vale però nel derby, dove più si vince imbrogliando e corrompendo e più siamo contenti, ma questo è inutile che ve lo spieghi.
Giuliano Fiorini aveva la faccia scavata e gli occhi cerchiati di chi ha conosciuto le notti, il vino e la malinconia.
Questo bastava per farne un idolo. Quanto a noi, avevamo visto giusto perché lui sbuffava, arrancava, lottava, imprecava, eccome se imprecava, e un giorno fece pure il resto. Cioè siglò un goal, anzi il goal, che ci impedì di sprofondare sotto il punto di non ritorno. Salvo poi andarsene via. Così, senza clamori, ci salutò che era estate con un abbraccio più plebeo che patrizio e andò via. Poi, qualche lustro dopo, a quarantasette anni di età, lasciò tutti per davvero. Al funerale, su in Emilia, non c’era tanta gente ma dalla bara pendeva un gagliardetto triangolare della S.S. Lazio.
Giuliano Fiorini è stato un nostro, tipico, centravanti.
Un centrattacco da Lazio, se pensate solo al fatto che era nato con una gamba più corta dell’altra. Se Chinaglia, dunque, fu Long John, allora Fiorini era Long John Silver.
Ovvero un pirata d’area, uno sgraziato zoppo che però non mollava mai.
Comunque, Giuliano, anche senza quella rete al Vicenza ti avremmo amato lo stesso.
Il mondo, invece, cominciò a conoscere veramente Paul Gazza Gascoigne durante i Mondiali italiani del ’90, sempre il ’90. Sto riferendomi alle notti magiche durante le quali Schillaci prima segnava e subito dopo esibiva i suoi occhi da qualcuno volò sul nido del cuculo. Diciamo pure preistoria. Be’, l’Inghilterra era guidata da un ventitreenne con talmente tanta classe nei piedi che oltremanica già lo paragonavano a George Best, il loro Pelè bianco.
E mai raffronto fu più azzeccato, purtroppo. Esiste un accostamento di termini per individuare con precisione quelli così: genio e sregolatezza. Figure sulle quali c’è poco da dire, se non che sono fatti, nati appunto così.
Prendere o lasciare. A chi volesse sposarli consiglierei il lasciare, anche se io più che consigli amo dare il cattivo esempio.
Comunque Gazza era forte e pazzo davvero. Per lui il gioco del calcio era letteralmente un gioco, non uno sport e ancor meno un lavoro. Come il circo ha il clown, ugualmente il calcio aveva Gascoigne. In campo un pagliaccio, con i bambini Scaramacai, ma la notte Pierrot. Già a vent’anni, infatti, prima di prendere sonno una lacrima gli rigava il volto. Gazza non riusciva a spiegarsi neanche il perché, semplicemente la levava con uno scatto di mano e riprendeva, beato, a sognare quei mondi alternativi, lasciati in sospeso la notte precedente, che solo i puri di cuore sanno immaginare. Quella goccia però non dipendeva né dalla congiuntivite né da un colpo di vento, come avrebbe ipotizzato anche una
mamma sassone, bensì consisteva in un’avvisaglia. Nulla più di un avvertimento circa quanto, di lì a poco, sarebbe esploso in tutta la sua drammaticità. Forse Gazza era predisposto, chissà, ma sicuro i suoi comportamenti, da simpatici, stravaganti, comici e goliardici divennero man mano problematici, caratteriali, patologici. Aveva esordito nella Premier League quando i brufoli ancora stazionavano sulle sue guance paffute, anche se a dirla tutta già per colazione tuffava i biscotti nel Vov invece che nel latte.
Specializzato in scherzi da Amici miei, li dispensava a tutti, nessuno poteva dirsi esentato. Né i compagni di squadra, né i dirigenti, né il magazziniere, né lo staff e né tanto meno l’arbitro, che una volta si ritrovò in mano una gomma da masticare datagli da un Gascoigne per nulla arrabbiato per l’ammonizione ricevuta. Accettato e benvoluto dai suoi stessi avversari, spesso anche loro vittime, Gazza alternò al suo are dal Newcastle al Tottenham Hotspur e dalla Lazio ai Rangers di Glasgow, e poi dal Middlesbrough all’Everton fino ad andare a finire in America e addirittura in Giappone, tutta una serie di infortuni di gioco, di cui due gravissimi, roba da chiudere la carriera, e liti, risse nei pub, travestimenti, palloni che sparivano sotto la sua maglia durante la partita, pazzarellate, in campo con il naso rosso posticcio, risa, lacrime e birra. Fiumi di birra. Poi arrivarono pure gli arresti, i ricoveri in clinica per disintossicarsi, uscite, ricadute, ancora alcool, la separazione da Cheril, l’unica che l’abbia veramente amato, e dalle due figlie
di quest’ultima, che non erano biologicamente le sue ma Gazza come sue le aveva sempre trattate. Quindi la fine dei giochi. Gascoigne, oramai grasso e patetico, non reggeva più i novanta minuti e una vita da atleta. Fuori dalla giostra gli si spensero le luci e una volta dentro la clinica psichiatrica non ne uscì più. Con la Lazio giocò sì e no un paio di campionati, trascorsi più in infermeria che sui verdi prati all’inglese orgoglio dei nostri stadi.
Poche partite, in sintesi, e soltanto sei goal. Era venuto per farci conquistare il mondo e alla fine, in lacrime per quello che lui sentiva come un fallimento, se ne tornò oltre le bianche scogliere di Dover lasciando negli almanacchi la
registrazione di sei misere reti. Una però alla Roma, di testa, all’incrocio dei pali, da venti metri, per un pareggio acciuffato come al solito in odore di gong.
E uno al Pescara, quando saltò sei avversari come birilli dal centrocampo fino ad entrare con tutta la palla in porta.
Ancor oggi questo goal è ricordato ai nipoti attorno al camino da vecchi nonni pazzi come «il più bel goal della storia della Lazio». Bellissimo almeno quanto bellissima fu la confessione di Gascoigne durante un’intervista di qualche anno dopo quel Pescara-Lazio: «Prima di entrare in campo, quel giorno, mi ero scolato due bottiglie di whisky…». Vero, autentico doping.
Gazza, quando varcò per la prima volta la soglia dell’ospedale per le malattie mentali, aveva quarantuno anni. Farmaci e cure del sonno lo fecero entrare in uno stato di semi incoscienza, di ebetismo, di alienazione. Lì dentro dimenticò molto del suo ato ma in molti non dimenticheranno lui. Una volta, al telegiornale, l’inviato nipotino di Sandro Paternostro da Londra dirà: «Gascoigne riceve in clinica ancora cento lettere al giorno.
E-mail e missive di carta che ora non può leggere e che forse non leggerà mai. E nonostante la Lazio sia il club nel quale Paul Gascoigne abbia meno giocato rispetto a tutti gli altri, circa ottanta di queste lettere arrivano da Roma…»
o e chiudo. Ad occhio e croce mi sembra abbastanza quanto detto sull’invisa Lazio e sulla sua ancor più invisa tifoseria. Binomio che ha assaggiato e mandato giù di tutto, non in ultimo goal a tempo scaduto presi e a tempo scaduto fatti; imprevedibilità congenita; accuse di fascismo e neofascismo; Giorgio Chinaglia più che boia chi molla fu però il grido di battaglia; scioperi, contestazioni, rivolte di piazza, intrighi di palazzo, notte buia alla corte di Francia, incontenibile ilarità e durevole tristezza. In Borsa come i più ricchi e a fare collette televisive come i
più poveri. «Venghino siori venghino»: questa è la Lazio! Stadi vuoti da terzi in serie A e stadi stracolmi da terz’ultimi in serie B. Ma il laziale è riuscito a superare ogni catastrofe…
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Cap. 4 - Tra cattivo e fanta calcio
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Sono arrivati gli anni 2017, 2018 e 2019.
Il primo è servito per chiudere i battenti e dunque scomparire dalla geografia del calcio italiano.
Il secondo per riposarci, assenti da qualsiasi competizione ufficiale.
E il terzo per risorgere. Per ricominciare dalla Terza Categoria, che, sempre per le donne di prima, corrisponde all’ultima serie, quella che da bambini chiamavamo Serie Zeta.
La Lazio era tornata ai laziali. Lazionariato popolare.
Nuova denominazione sociale ma antica pasta antibarilla.
In tre-quattromila attorno a terreni di pozzolana sino ad un attimo prima abituati ad ospitare sì e no le fidanzate dei ragazzi in campo. E così, piano piano, si è cominciato a risalire. Le famose risalite successive alle discese ardite: Lucio Battisti. Altra faccia mogia di laziale morto prematuramente.
Come il Wimbledon in Inghilterra – parlo della Tradizione ridotta a club di football senza stadio e costretta a riprendere daccapo un cammino interrotto dal tribunale e dalla malasorte – anche la Lazio riprese a vincere.
Come quel cavallo là e come fu fino al millenovecentoventisette.
La Terza e Seconda Categoria (serie locali quasi rional-parrocchiali) furono vinte senza perdere neanche una partita. Bello sforzo e niente da stupirsi dato che era riuscito pure al Sora.
In Prima fu annotata l’unica sconfitta, contro la Romulea, ma la vittoria finale arrivò con dieci domeniche d’anticipo.
In Promozione qualcosa non girò per il verso giusto.
Qualche peccato di presunzione, un paio di acquisti sbagliati, un meccanismo mal registrato o comunque non oliato come doveva essere, e così la Pescatori ci fregò all’ultima giornata di una lunghezza, come ai bei tempi.
Ma la lezione servì a tal punto che l’anno successivo fu una autentica eggiata – solo un pareggio contro il Casalotti – ed anche in Eccellenza si vinse al primo aggio.
Solamente quattro pareggi e tre sconfitte targate Almas Roma, Lupa Frascati e Cynthia Genzano nell’arco di una spensierata stagione di fede assoluta.
Una volta in serie D, ci restammo due anni. Come da programmazione: uno di assestamento e uno per puntare alla vetta. Festicciola – non festa, festicciola – nella partita che diede la matematica ed in tal modo si tornò tra i professionisti.
Anche in Seconda Divisione la (nuova e vecchia) Lazio ci restò il paio d’anni preventivati, mentre lo stazionamento in Prima Divisione durò tre anni e quello nella serie cadetta quattro.
Occorre fare qualche calcolo, ma il 2036 fu anno di gioia vera. Rieccoci nella massima serie. Soffrendo, come da prassi e dna, ma soprattutto da uomini liberi.
Che frase quest’ultima, eh? Sembra proprio che io l’abbia estrapolata dal discorso di apertura di un neoeletto sindaco di Palermo.
Le novità simboliche – perché nel calcio, come nella monarchia, la forma è anche sostanza – furono sostanzialmente due: lo stadio e la maglia.
L’Olimpico, grazie a Dio, era stato chiuso al calcio da anni. Il Flaminio, grazie invece alla Federazione Italiana Rugby, era stato assegnato esclusivamente alla palla ovale. Naufragato il «Progetto Cisco», alla Lazio vennero prestate le tribune del sca Gianni di San Basilio, utilizzate fino al campionato di Eccellenza compreso. Infine ci fu il trasferimento definitivo all’Eagles Stadium, unica idea buona di Lotito, da lui avanzata a suo tempo e quindi realizzata da altri, dai successori. Soltanto lo stadio, però, e niente supermarket per la spesa, appartamenti per tifosi in grana, ufficio postale da cui far partire lettere d’epurazione, farmacia per un iniezioni controllate, point per lo shopping in franchising del marchio Lazio (scusate se ho scritto «marchio» in italiano) e cose così. Niente «cittadella», dunque, ma semplicemente uno stadio. Bello, raccolto,
all’inglese, da quarantamila anime, con solo il vezzo di un museo interno sulla storia della Società Sportiva Lazio. Fortunatamente il sito fu trovato dentro le mura di Roma (e precisamente sull’Isola Tiberina per statuire, deduco, un certo isolamento) e non, come paventato tanti anni prima, in zona Bufalotta o addirittura nel comune di Valmontone. Non fosse altro, tale decisione, per evitare di essere presi in giro vita natural durante, perché a quel punto sarebbe stato arduo difendersi dagli sfottò dei cuginastri: tra bufale e montoni come avremmo fatto a dimostrare di non avere anche un’anima burina, pecorara, ciociara?
Ancora in fase di progetto su plastico, invece, l’idea degli ultras di far destinare un appezzamento di terreno adiacente all’impianto a cimitero privato per i tifosi «desiderosi» di essere seppelliti affianco al luogo dove avevano trascorso metà delle domeniche della loro vita primaveril-autunnal-invernale. Qui non ci sono state mezze misure: c’è chi ha sorriso per la stravaganza, chi ha fatto un o indietro per il raccapriccio e chi, come me, ha approvato e basta. Già molto in voga in Argentina (ovviamente…), era parso un doveroso omaggio a chi, di sicuro dopo una decisa grattata de’ cojoni, avrebbe acconsentito. Sto pensando al Malaria, a Pomezia, a Tarzanetto, ad Agip, a Cancro, a Portobello, al Fionda, al Nibbio, a Moby Dick e a tanti altri che magari non ho conosciuto personalmente ma che ci sono stati, eccome, quando non era facile ma era bello starci. Gente illustre? No. Gente di curva.
Da ultimo la maglia.
Questa volta non nell’accezione più diffusa e retorica di «attaccamento alla maglia» ma proprio nel senso di lana-cotone senza contaminazioni di acrilico. Pantaloncini bianchi e già citata casacca aderente celeste con bordi bianchi. Basta. Ammessi solamente i numeri – da 1 a 11 senza uscite a cavolo tipo «a me datemi il 77 perché amo le gambe delle donne» – e null’altro. Niente sponsor (non storcete la bocca perché l’Atletico Bilbao ha fatto centodieci anni di A senza alcuna pubblicità), niente cognomi dietro e niente mini-loghi o pecette disseminate sulla muta a mo’ di tante pustole, come sparpagliate e ridicole decorazioni.
Via tutto questo e ritorno agli albori, o quantomeno agli anni ’60-’70: Coppa Italia, coppetta delle Alpi (detto tra noi: ma che cazzo era la Coppa delle Alpi?) e scudetto tricolore cucito con ago e filo all’altezza del petto.
Tentativo romantico di tornare a quelle sensazioni, con la Lazietta che si fa grande in campo e sugli spalti tanti spettatori, un po’ ivi, allietati, a proposito del bon ton laziale, da Luciano il netturbino del Tufello, la domenica trombettista, o da Leonida il tribuno, sempre su e giù davanti al suo stadio-teatro, con la corona di alloro in testa a declamare gli stornelli della Roma sparita… Fior de limoneee/ come ce semo accoppiati bbene/ tu c’hai ‘na zinna sola/ e io un palloneee.
E per le trasferte niente accordi insulsi sul cambio di tenuta «perché altrimenti si confonde con quella degli avversari» (come se qualcuno in Italia avesse ancora il televisore in bianco e nero), ma anche fuori porta sempre la stessa maglia. Non nera, gialla, giallonera, blu, celestina con il blu sudore sotto le ascelle o persino bianca immacolata perché, megalomani frustrati, fa tanto Real, ma semplicemente la nostra maglia, cristo!
La Lazio accettò soltanto contro i biancazzurri del Napoli di scendere sul terreno di gioco con la seconda mise, la mia preferita lo confesso, quella cioè anni ’80, bianca in alto, celeste in basso e aquila blu al centro, con la testa di profilo e le ali spiegate lungo il costato fino ad avvolgere anche le braccia in puro stile Sampdoria. Altra squadra però dal pedigree non tanto puro. «Belle parole, bella favola, bello tutto», mi disse il Baconchi interrompendo quella specie di Dieci Comandamenti che stavo sciorinando. «Ma stiamo nel 2043», concluse, «e oramai è tempo di chiudere il cerchio.»
«Con chi ce l’hai…», lasciai cadere la frase senza nemmeno arricchirla con un portentoso ma antiestetico punto di domanda.
«Ce l’ho con quelli di sempre. Ed è giunto il momento di pareggiare i conti.»
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Cap. 5 - Sabaudia, vicino Mompracem
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Quelli di sempre non è che sia espressione chiara. Cosa voleva intendere il Baconchi? La Roma, i romanisti, le forze dell’ordine, la stampa o la Fgci? A seconda dei periodi, l’avversione nei confronti di uno di questi ha prevalso sugli altri, anche se in un giallo i primi due sarebbero risultati i sospettati stabili. E anche quel di sempre, che tanto dava un senso di perenne, mi fece propendere per A o B. Personalmente, premessa una spiccata idiosincrasia verso C (C come Carabinieri, ad esempio), ho da una vita considerato i romanisti come gens e non la Roma come societas i veri nemici da Risiko. Io, però, e non lui. Perché lui, il Baco, voleva tessere il bozzolo contro la Federazione Gioco Calcio per tentare di andare a pari con la Roma, che si era aggiudicata gli scudetti del 1942, 1983 e 2001. L’obiettivo, dunque, era il tre a tre e palla al centro. Sempre secondo lui, infatti, la Lazio, oltre ai tricolori 1974 e 2000, si trovava ancora nella realistica possibilità di potersi giocare una finale scudetto contro il Genoa e così, in caso di vittoria, fregiarsi del titolo ingiustamente assegnato ai liguri nel 1915! Roba grossa, insomma. Roba da spiegare nei dettagli e comunque da aula di giustizia. Ma soprattutto roba poco interessante per uno a cui – come me – restava per logica anagrafica poco da vivere e quel poco avrebbe voluto giocarselo, sicuramente, ma non usando come strumenti le carte bollate e i reperti d’archivio. Gli hooligani, del resto, usano altre armi… Alla fine, però, diedi il mio sì all’avventura propostami dal Baconchi e, pur senza entusiasmo e condivisione, lo feci per amicizia e perché non si nega mai l’appoggio a chi fa regali tanto belli. Certo io mi sarei dedicato ad altro e in confidenza su un’idea diversa ci avrei lavorato con maggiore entusiasmo. Avrei voluto, e lo comunicai pure al mio pard, concentrare le residue energie su
un’azione educativa – ne selezionai una su tutte – consistente nel colpire uno a caso dei Cesaroni sul set. Nello specifico avevo anche creato una sezione distaccata dei Dead Cats, la cosiddetta Colonna SUCASUC. Spranga Un Cesaroni Anche Solo Una Comparsa. «Una cosa non esclude l’altra», semplificò Baconchi. Detto fatto e nel breve volgere di un giro di palla infuocata ecco che due arzilli mattacchioni, Jack Lemmon e Walter Matthau, presero appuntamento, anziché con un geriatra, con un legale. Ad attenderli ci sarebbe stato l’avvocato Yanez de Gomera IV, mica uno qualsiasi. Figura assolutamente sopra le righe, l’avvocato de Gomera, con la d minuscola, a suo modo aveva fatto scuola. Professionista più da questura che da foro, più da strada che da studio legale, era stato un asso del diritto dell’immigrazione. Stranierologo di fama, dunque, si era procurato qualche sortita gratificante nel campo del diritto sportivo sfruttando l’invasione nei campionati italiani dei calciatori extracomunitari, i quali per un verso o per un altro abbisognavano spesso e volentieri della consulenza, dell’intervento o comunque dell’ausilio di un tecnico della giurisprudenza. Si trattava del figlio illegittimo di seconda moglie idrofoba del terzo discendente in linea retta del portoghese di nobili origini che girò mezzo mondo prima di approdare a Mompracem e diventare il miglior amico di Sandokan. Spavaldo avventuriero dal misterioso ato, leale e coraggioso, fu pronto a cacciarsi sorridendo nelle situazioni più folli, così qualcuno aveva scolpito sulla lapide tombale del ben più famoso avo. A seguito di nove operazioni di chirurgia maxillofacciale, l’avvocato era riuscito nel suo intento di identificazione con il fratello di latte (tipo Pato-Falcao) della Tigre della Malesia. Moderno clone, aveva assunto le sembianze dell’antico Yanez: i capelli fluenti, biondastri e ribelli che fuoriuscivano a onde da un cappellaccio da marinaio ammutinato, decoravano un volto solcato da rughe costruite su un tavolo di clinica. Grinzosità però molto somigliante a quella, autentica, del pescatore cubano di tonni. Orgoglioso della propria pelle indurita dalle lampade in sostituzione del sole, pelle di tonalità rossastra vicina al cuoio
di sella trattato dalle chiappe di un cow-boy, Yanez IV ancor più ci teneva a sfoggiare degli occhi grigioverdi che parevano due perle (importate da Labuan) e dei folti mustacchi dai riflessi dorati e dal colore della canapa indiana intrecciata con la stoppa dell’idraulico. Philippe Leroy, in sintesi, ne sarebbe andato fiero. Ci ricevette in una reggia, ridotta a rudere, di Sacramento, vicino Sabaudia. Qualche chilometro da Roma ma «ne vale la pena», mi assicurò l’amichetto Baconciccio de’ Baconciccis (questo, forse, il suo vero nome). La dimora – perfetta copia anche in questo caso del Malcha Mahal, antico palazzo della dinastia dei Nababbi – era stata fatta erigere evidentemente schiavizzando di notte e al nero centinaia di Singh Senza Nome del popolo Tamil. Appena poggiati i piedi dentro la proprietà privata, iniziai a notare alcuni cartelli in latta di paperonesca memoria, quali: «Siete entrati nel dominio dei Gomera», «Non calpestate l’orto indiano» e «Attenzione: cani in agguato». In effetti, il primo benvenuto ce lo diedero ventiquattro alani arlecchino comandati dall’ultimo esemplare ancora in vita di alano blu dei Romanov. Il lancio di polpette avvelenate – da buon gatto ne vado sempre in giro con una scorta nello zaino – fu bloccato pelo pelo da un ultrasuono, che li chetò tutti all’istante tramutandoli in statue di sale. Il prolungato suono del fischietto fu opera del maggiordomo, a cui era stata mozzata la lingua come da lontanissimi usi locali. Con lo sguardo smarrito degli amputati alla nascita, ci accolse all’orizzonte con le mani relegate all’altezza del pube, ritto e impettito, quindi in sintonia con la fila di bottoni che gli chiudevano l’uniforme indossata dalla fascia che cingeva il punto vita fin sul colletto di plastica dura. Scontato che portasse anche il turbante, bianco con banda gialla trasversale retta da una spilla d’argento raffigurante il suggestivo casato delle Tigri Perdute. A gesti – e come se no? – fece strada sin all’interno della sala principale, costeggiata da quattro archi privi di porte ed avvolta da una costante semioscurità. Giusto il tempo di sederci ed ecco che le nostre nari furono anestetizzate da un tornado di odori. Più che dalla cucina parevano però provenire dagli abissi, da cunicoli sotterranei direttamente collegati con la Mombay segreta: riso, spezie varie non al momento individuabili, patata dolce, tè, cipolla, ananassi, sesamo, soia, petali di rosa di serra, bambù, sandalo, zoccolo, Doctor Scholl, infradito, incenso, zafferano, putrido Gange e secrezioni di ghiandole sudoripare con grado di acidità e reattività all’olfatto molto ma molto simile a quello del piscio. Convinti di essere stati teletrasportati nel sultanato del Brunei o, in subordine, nel principato di Sarawak, facemmo buoni dieci minuti di anticamera prima di
essere ammessi al cospetto del novello Yanez. Nell’attesa ci fece compagnia il suo segretario personale, tale Prendi Gengi. Il piccolo schiavo, che ovviamente non percepiva compenso alcuno perché «l’indigenza già di per sé arricchisce l’animo», aveva un unico compito e non poteva permettersi altro – pena l’essere sbranato dalla muta di cani (lo specifico perché non vorrei che qualcuno pensasse alla moglie cannibale del maggiordomo) – se non consegnare all’avvocato il bigliettino da visita del cliente ed annunciarne la presenza. Stop. Da buon conoscitore del proprio io, il sottocasta riusciva, anche se parzialmente, a contenere, grazie al fatto che indossava anch’egli una livrea da cocchiere, l’orrendo afrore proveniente appunto dalla sua persona. Questo è un dato di fatto. Sul cassazionista, che comunque ci apparve dinanzi pavesato nella seta, si raccontavano invece storie fantasmagoriche. Noi, mentre ne aspettavamo la comparsa, abbiamo anche avuto il tempo di ascoltarne un paio, narrateci di nascosto da Prendi Gengi – che non era né muto né obbediente – a seguito di incipit quali «mi ricordo che…» e «voi non potete avere idea di quando», ad esempio, «tentò di suicidarsi con la polvere dei gioielli di famiglia dopo aver perso una causa, o di quando imbalsamò temporaneamente in aula un pubblico ministero usando una tecnica egizia tramandata solo ai maschi della sua dissoluta e vagabonda dinastia». Tutte parole comunque espresse con l’intenzione di esaltare e sponsorizzare il proprio marajà. Successivamente alle presentazioni, con uno scontato «allora ditemi tutto, qual è il problema?» iniziò il colloquio. Anch’io, che nella notte dei tempi avevo svolto la professione senza però capirci niente di diritto dello sport, di norma ero abituato a cominciare alla stessa maniera il rapporto di lavoro con un soggetto. Parlò per primo Baconchi. Il progettista. «Allora, l’idea è questa. Le premetto che tutto è abbastanza fuori dal concetto di ordinaria querelle…» «Questo lo lasci giudicare a me. Lei vada avanti, la prego», rispose Perry.
«D’accordo, sì. Diciamo che nello studiare gli almanacchi del calcio ho scoperto – sa, io sono un fissato – che il campionato 1914-15 è stato dalla federazione sospeso la mattina del 23 maggio 1915, cioè il giorno antecedente alla dichiarazione dell’Italia di entrata nella Prima Guerra Mondiale contro l’AustriaUngheria. Insomma si era in procinto, come si trova ancor oggi scritto sui libri scolastici, di «attraversare il Piave». A quei tempi non c’era il girone unico nazionale perché il torneo era strutturato attraverso un sistema abbastanza complesso che prevedeva in partenza tre gironi settentrionali (uno ligurepiemontese, uno lombardo-piemontese e uno venetoemiliano). Le prime due classificate di ognuno andavano a comporre un altro girone la cui vincente sarebbe stata la prima squadra finalista per il titolo di campione d’Italia. In contemporanea si giocavano le partite dei due gironi centrali (uno toscano e uno laziale) e di quello meridionale (unico, campano). Anche qui, le prime due classificate rispettivamente del toscano e del laziale si sarebbero scontrate tra di loro in un altro mini-girone, la cui vincente avrebbe dovuto affrontare la vincitrice del girone campano, da cui ancora sarebbe uscita fuori la squadra per la finalissima contro quella del Nord. Orbene mi segua: il Settentrione ancora non aveva laureato la finalista anche se il club del Genoa, ad una giornata dalla conclusione del secondo turno, aveva un vantaggio di due punti sulle inseguitrici Torino e Inter. Così il Centro, sempre ad una giornata dal termine, vedeva la Lazio prima con anche qui due punti su Roman e Pisa. Nello specifico mancavano le partite Pisa-Roman e Lazio contro Lucca, squadra cuscinetto ultima a zero punti. Nel Sud invece, dove tutto si svolgeva in modo più sbrigativo per l’esiguità del numero delle partecipanti, già era noto il nome della compagine – cioè l’Internazionale di Napoli – che avrebbe dovuto incontrare presumibilmente la Lazio e poi, in caso di successo, il Genoa. Diciamo il Genoa anche se con il Toro e soprattutto l’emergente Inter di mezzo nulla poteva darsi per scontato. A questo punto le alte sfere della federazione calcistica che fanno? Invece di sospendere il campionato in attesa di tempi migliori per ultimarlo – in fondo mancava soltanto uno scampolo – decidono sì di fermarlo ma al tempo stesso stabiliscono arbitrariamente di assegnare il tricolore al Genoa! Questi sono i fatti. Fatti, appunto, e non mie opinioni. Ora noi due», e disegnò con pollice e indice un tratto d’unione tra lui e me che gli stavo appollaiato accanto, «vorremmo, mi scuso se non indovino i termini esatti, impugnare quella decisione, chiedere alla Federcalcio che revochi quello scudetto e ordini, oggi, anche se a distanza di centoventotto anni, di giocare le partite rimaste. Scontato, e quindi non dovrebbero esserci problemi sul fatto, che al posto di alcune società di allora potranno esserci le legittime discendenti: la Lucchese per il Lucca, la
Roma per il Roman e il Napoli in vece dell’Internazionale di Napoli.» «Ha detto bene: solo però da quest’ultimo punto di vista non dovrebbero esserci problemi. Perché per il resto, già di primo acchito me ne vengono in testa almeno un paio. Il primo problema si chiama prescrizione e il secondo mancanza di legittimazione attiva.» «Mancanza di che?», chiese il Baconchi. Io avevo capito ma non dissi a. «Di legittimazione attiva. Le spiego… ma andiamo con ordine. Premesso che in generale la questione mi intriga, innanzitutto le dico che la prescrizione in sintesi vuol dire che ogni persona ha un tempo massimo, stabilito dalla legge e che varia a seconda della materia, per esercitare e quindi far valere un proprio diritto. Nel caso nostro dovrebbe essere un anno dal fatto, dall’emanazione del provvedimento che si vuole impugnare, che si vuole far annullare. Quindi – primo impedimento – noi stiamo fuori di, me l’ha suggerito lei, centoventisette anni. A meno che – per un avvocato c’è sempre un a meno che – l’inganno, l’inghippo non sia stato ufficialmente scoperto in questi ultimi dodici mesi, e questo me lo dovrà dire lei… Se il comportamento della Federazione Italiana Gioco Calcio di quel tempo è venuto da poco alla luce a causa ad esempio di un documento che ci rivela l’esatta dinamica dei fatti, documento reperito appunto solo da poco, allora possiamo affermare che il primo problema non è più un problema. Intanto che lei ci riflette, o al due: il diritto da far valere deve essere, come accennato di sfuggita, proprio. Nel senso che io, per andare ancora avanti per esemplificazioni, non posso, almeno come regola generale, battermi in giudizio per far affermare un diritto che non è mio ma di un altro. Quindi… quindi il titolare dei diritti della Lazio sarà certamente colui che la rappresenta, cioè il presidente, che infatti quasi sempre è anche legale rappresentante della società. Lui dunque, e non voi due, dovrebbe trovarsi qua, davanti a me, in nome di quello che mi dicono essere il club più in voga nella Roma bene.» «Aridaje co’ ‘sta Roma bbene», commentò ad alta voce il mio amico. «Ma se anche Gassman, nell’Audace colpo dei soliti ignoti, fa presente al commissario che la percentuale di laziali in carcere è di gran lunga maggiore rispetto a quella
dei romanisti, che altro tocca fa’ per sfatare questo fastidioso preconcetto? Vuole che le faccia qualche nome famoso del ato? Perché se inizio, poi faccio notte…» «No no, lasci stare», lo bloccò il principe, «dicevo così, tanto per dire. Non che ce l’abbia con i pariolini della Capitale… ma è solo che io, è più forte di me, nonostante sia di sangue blu o forse proprio per questo, non sopporto tutte quelle parti di città dette bene. Non è una questione di Roma, perché non frequento neanche la Sabaudia bene come non amerei far parte della Napoli bene o, che so, della Firenze, della Torino o della Catania bene.» «Non generalizzi», ribatté Baconchi con un guizzo di genialità. «Questa vergogna non la proverei se, ad esempio, abitassi nella zona più in di Lecco…» Per merito di quest’ultimo assunto, l’avvocato si girò di scatto e con occhi sgranati verso di me, complice del relatore nonché sino a quel momento soprammobile. Il minuto che seguì fu carico di perplessità generalizzata. Perlomeno fino a quando il Baconchi, sempre più sicuro del fatto suo, rientrò in argomento ribattendo ogni eccezione. «Carissimo avvocato de Gomera», disse mentre di pochi centimetri sollevava il sedere per staccare mutande e pantalone da una pelle evidentemente appiccicaticcia, «nun c’è probblema.» La certezza dei grandi, pensai. «Per prima cosa la tranquillizzo riguardo alla prescrizione.» Quest’ultimo termine, ad essere giusti, lo pronunciò con quattro zeta. Una per Zorro, una per Zagor, una per Zeman e l’ultima in onore di Zlatan Ibrahimovic, che a me stava antipaticissimo ma se la Roma non ha un tricolore in più nella bacheca lo si deve a lui e solo a lui. «Io sulla vicenda», spiegò il Baconchi, «ci ho lavorato, e bene, per mesi. Ricerche, viaggi, richieste di nulla osta, giorni dentro gli archivi, faldoni consunti, nascosti e rosicchiati da centenarie tarme. Senza parlare degli starnuti e della polvere. Tanta polvere. Per proporre alla Paramount Picture un soggetto per
l’ennesimo episodio di Indiana Jones sono mancati soltanto gli scavi, perché per il resto ho dovuto affrontare di tutto. Ma ne sono uscito con questo», e mise sul tavolo un foglio incartapecorito e imbustato dentro un contenitore di plastica morbida e trasparente. «Questo foglio qua è la prova», concluse, «di quanto le ho esposto. Chiaramente ho ritenuto saggio far autenticare la copia da un pubblico ufficiale con tanto di timbro attestante data e provenienza. Stiamo perciò abbondantemente nei tempi.» «Bene», rispose solo l’avvocato. Quello stravagante ma vero. Non io, misero ex. Il problema della prescrizione pareva a naso superato. Restava però quello, ininfluente, delle doppie lettere inopportunamente sparse dal mio socio su molte parole del suo accresciuto vocabolario e quello, invece condizionante, di chi poteva considerarsi legittimato. «Riguardo infine a chi ha interesse», fugò ogni dubbio il Baconchi, «vorrei comunque farle presente che secondo me, anzi secondo anche migliaia di persone, il diritto di rappresentare ufficialmente una qualsiasi società di calcio non spetta a chi la gestisce, cioè il presidente, ma al popolo. Prima di svelare le carte e andare al sodo, vorrei spendere ancora due minuti nel sollevare una questione di diritto allo stato puro, una questione non pratica ma da tavola rotonda, da esperti, da studiosi. Una questione di lana caprina che nulla dà e nulla toglie alla nostra controversia. Soltanto per istigare la folla, affermo il diritto degli Eagles’ ers – oggi ancora in Esilio ad Ilio, nell’antica Troia dalla quale partì chi, Enea, poi approdò sulle coste del largo Lazio fondandolo – ad agire per conto della Lazio perché a questa hanno dato più di chiunque altro in un periodo in cui, se non ci fossero stati gli Eagles a arla, la Lazio sarebbe affondata per sempre. È retorica, questa?» No, pensai senza aprire bocca. Ma per qualche momento mi era sembrato un proclama da Brigate Rosse in gabbia. «Non lo so», rispose invece Yanez de Gomera IV, «ma di certo sono meravigliato. E non solamente perché lei, voi, rendete epiche gesta di calcio che non lo sono, eroiche, per antonomasia. Dico unicamente, e non vado oltre in giudizi che non mi competono, che c’è qualcosa di grottesco in queste falangi di squattrinati, che sono gli ultrà, quando si battono per difendere l’onore di gente, calciatori&company, che vive in maniera opposta a chi li idolatra e quindi, di
conseguenza, non sa neanche dove stia di casa, l’onore. Il tutto in nome di una maglia, di un’ideale, di un concetto impalpabile e quasi ultraterreno. Filosofia spicciola, la mia? Anche in questo caso non lo so, ma da operatore del diritto posso dire, e tagliamo viulentemente la testa al topo, che la sua tesi sulla legittimità ad agire è interessante e rivoluzionaria. Ma come tutte le idee rivoluzionarie, almeno fino a quando non vengono fatte valere con le bombe, anche questa qua è assolutamente minoritaria, dunque perdente qualora volessimo tentare di esporla in aula per convincere dei giudici vecchi bacucchi.» «Va bene», parlò ancora Baconchi, «ma tanto le avevo detto che la mia non è una teoria da proporre. La situazione è molto più semplice.» «In che senso?», chiese il giurista. «Nel senso che il pacchetto di maggioranza, nella Lazio, è detenuto dalla Compagnia Acciaio & Affini…» «E allora?», mi intromisi io. Che, anche se momentaneamente defilato, sono sempre il protagonista di questo romanzo, non lo si dimentichi. «E allora», andò ancora avanti il Baconchi lasciandosi sfuggire un eloquente sorriso, «la Acciaio & Affini a sua volta è controllata dalla Nuova D.C.» «Diccì non starà mica per Democrazia…» «Mi stupisco di te», rivolgendosi al sottoscritto. «A parte il fatto che lo scudo crociato è sparito dalla politica da mezzo secolo, avresti dovuto subito intuire che D sta per Dead e C per Cats… e lo sai tu chi è l’amministratore delegato della Nuova D.C.? Ah! Mi pare evidente che tra Nuova e D.C. vada sottintesa la parola banda.» «No, non lo so chi è. Diccelo, avanti.» «C’est moi. Sono io che presiedo la Nuova D.C., la stessa che controlla la Acciaio & Affini che a sua volta controlla la Lazio…» «Da questo punto di vista», intervenne l’avvocato precedendo la mia incredulità,
«penso proprio che potremo dormire sonni tranquilli: la Lazio, per intercessione sua, ci darà l’ok. Anche se dovrà portarmi in studio il presidente in persona per la sottoscrizione della procura. Però, anche dando questo per scontato, adesso che ci penso ho una terza preoccupazione: a quanto mi ha raccontato, nel 2017 o 2018 la Lazio, pur soltanto per un’annata, ha chiuso i battenti…» «Duemiladiciassette», specificò il diabolico tessitore. «D’accordo, duemiladiciassette. Ma il busillis», e qui venne fuori il leguleio nascosto in Yanez de Gomera IV, «può esser dato dal fatto che, una volta rinata l’anno successivo, questa nuova creatura, pur essendo nella sostanza e nell’anima la Lazio, tecnicamente invece, cioè ponendo attenzione alla ragione sociale e ai titoli conquistati sino ad allora, non è la stessa di prima. Ne simboleggia l’ideale continuazione, ci siamo, ma per la legge non ne è l’effettiva continuazione. Proprio perché c’è stata interruzione, iato.» Iato mi fece impazzire. Non tanto però quanto l’immaginare il Baconchi padrone occulto della S.S. Lazio. Lui, grasso, perennemente impataccato, ex adolescente solo, poi uomo solo ed ora vecchio ancor più solo, di inaudita solitudine. Lui, er Baconchi, collezionista di sciarpe ultras anni ’80, onanista compulsivo, potenziale serial killer, vincitore di Gratta e Vinci, ha trovato il modo di indirettamente investire il malloppo nella Lazio. Razza di amico mio, ti voglio bene anche se ti reputo il più inadatto degli inadatti a segnare una tacca nella più inadatta delle società di football. Mi consolai solamente pensando al fatto che nulla, ma proprio nulla, nemmeno il Baconchi, per la Curva Nord sarebbe stato peggio del nuovo Presidente. Inadeguato quanto mi pare, il Baco si presentò comunque preparatissimo all’appuntamento. Poche frasi per dimostrarlo. «In effetti questo problemino di marchio c’è stato. Come del resto ancor prima l’aveva avuto il Palermo, la Fiorentina, il Napoli, la Pistoiese e il Messina, solo per citarne alcune di tante. Ma come lo hanno risolto loro, l’abbiamo risolto noi. In tribunale ci siamo ricomprati tutto. Dignità compresa.»
Il mezzo pomeriggio terminò così. Con il versamento di un acconto di cinquantamila rupie, la consegna da parte del Baconchi di tutte «le carte» eventualmente utili per la causa – qui da intendersi sia come controversia giudiziaria che nel senso di ideale patriottico – e l’arrivederci (Roma) a quindici giorni. Il tempo cioè occorrente al legale per studiare il tutto, approntare la strategia d’attacco e ovviamente redigere l’atto di instaurazione del procedimento. Una volta fuori dall’abitazione del viceré di Mompracem, mi rivolsi incuriosito verso il mio complice. O forse ero io il complice suo. «Ma davvero hai fatto i soldi, Baco’?» «Macché… io nun c’ho ‘na lira», mi rispose con un’affermazione d’altri tempi. «Diciamo che se fossi femmina», concluse, «e stessi per maritarmi, porterei allo sposo solo la dote delle nullatenenti. Quella che a Roma, al tempo dei papi, si chiamava la dote del conte di Carpegna.» «E in che consiste?», domandai con odisseo desiderio di conoscenza. «Zinne, culo e…» «Noblesse oblige», commentai. L’anima del carbonaro si era irrimediabilmente impossessata del Baconchi. Torna all’indice
Cap. 6 - Un salto nel 1915
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Trascorse tutto sommato in fretta quelle due settimane, altri due mesi e si alzò un polverone che non vi dico.
The Polveron, per dirla solo all’inglese.
L’azzeccagarbugli non si rivelò tale perché individuò con precisione ogni mossa. Ci spiegò infatti che aveva voluto evitare di rivolgersi in prima battuta al giudice statale in quanto per far ciò, come previsto dalla clausola compromissoria detta anche vincolo di giustizia, avrebbe dovuto preventivamente chiedere l’autorizzazione alla Federcalcio, che novantanove volte su cento non la concede. Tanto valeva a quel punto adire direttamente l’organo della Fgci adibito a risolvere le controversie tra società sportive, che è il Collegio arbitrale federale. Soltanto in caso di diniego da parte del Collegio, ecco che sarebbe allora stata investita della questione la Camera di conciliazione del Coni («cosa assolutamente da non augurarsi», ci disse, «perché il tentativo di pace è demandato ad un collegio arbitrale presieduto dal romanista Camilli») fino a poter addirittura giungere, dopo un paio di ben assestati «no», al Tribunale Amministrativo Regionale, meglio noto come Tar. Con calcolato rischio di sanzione da parte della federazione calcistica perché, è notorio, i panni sporchi vanno lavati in famiglia.
La noiosa spiegazione che ci sorbimmo durante il secondo incontro con il de Gomera fu peraltro tanto inutile da poter essere bollata come sfoggio fine a se stesso di erudizione tecnica e nulla più. Conoscere l’iter dall’inizio alla fine ancor meno ebbe senso se si pensa al fatto non trascurabile che il nostro, di
percorso, si concluse positivamente già in sede di Collegio. Cioè subito, alla prima botta.
Con il Genoa contro interessato e Pisa, Roma e Napoli per una volta in aiuto (perché non alimentare una speranzina?,
si dissero), i rappresentanti della federazione ci diedero clamorosamente ragione. Senza tirarla troppo per le lunghe – perché i fans di Felli non vogliono spiegazioni ma emozioni, non amano i cavilli ma la carne – diciamo solo che lo scudetto fu revocato e le partite allora mai iniziate furono messe in programma. D’estate, tra la fine di un campionato e l’attesa dell’inizio di un altro, e comunque meglio del Trofeo Birra Moretti (anche perché gli ultras bevono Peroni), si giocò per l’assegnazione del Tricolore 1915. Accostamento tra parola e numero che non avrebbe potuto capitare più a ciccio.
Mentre i difensori – avvocati, non stopper e libero – del Grifone ligure affilavano gli artigli in vista dell’appello e mentre Torino e Inter avevano deciso di stare fuori dalla disputa (chissà se per non inimicarsi il Genoa o perché già tanto avevano vinto nella loro storia), la Lazio rifilava tre picchi ad una demotivata Lucchese rendendo in tal modo vana la contemporanea vittoria della Roma col Pisa, le quali invece si sbranarono molto più di quanto non dica il risultato di 2 a 0.
Fuori in tre, non rimaneva che il Napoli quale secondo e ultimo ostacolo prima della finalissima contro un Genoa «affinestrato».
Una sola partita, secca, sul lontano campo neutro di Cagliari ma con i tagliandi perfettamente divisi a metà tra le tifoserie.
Come da tradizione, nessuna cronaca della partita. A noi interessano gli spalti.
Il popolo laziale, assoluto dominatore negli anni ottanta del secolo scorso ma poi crollato in folklore e mai più ripresosi appieno, perse a vantaggio dei Tuppe tuppe marescia’ la sfida dell’entusiasmo, della coreografia e della voce.
Divisi e diversi in tutto, l’unione di intenti e di «mentalità» la trovarono senza preventivi accordi solo nei cori anti forze dell’ordine. Per rendere l’idea…
Dodicesimo del primo tempo, partono i napoletani.
Anzi i partenopei: Mestiere da assassino: celerino/ mestiere disumano: vigile urbano/ mestiere da mignotta: la poliziotta.
I laziali ascoltano e sentenziano con uno swing sincopato e abilmente cadenzato: Ri-spettiamo-solo-i-pompieri.
Alla fin fine nulla di molto diverso dai nostri canti su… La Uno bianca/ lalalalalallà/ la Uno bianca/ lalalalalallà/
la Uno bianca/ lalalalalallà-lalallà prendendo in prestito le note di I love you baby del film Il cacciatore per ricordar loro le imprese dei serialsbirri assassini di Bologna; o dai Celerino basco nero/ il tuo posto è il cimitero e La disoccupazione t’ha dato un bel mestiere/ mestiere di merda/ Carabiniere rubati dalle curve perché il marchio doc l’avevano i cortei estremistico-politici.
Una volta si diceva novantesimo perché le partite esattamente tanto duravano. Oggi si dice ancora così anche se, con il recupero, i minuti di un incontro sono diventati novantacinque se va bene. Comunque sia – gli slogan e le canzoni ora non c’entrano più – eravamo giunti agli ultimi dieci secondi d’orologio prima dei previsti supplementari (i coglionelli possono leggere extra-time) quando
il Napoli ci mandò a casa grazie al super gollasso di Pedro Arancio Ruiz Dinamite detto Olé.
In momenti come quelli non è vero che non si pensa a niente. Perché a me, ad esempio, al goal di Olé tornò in mente ancora e sempre il Napoli.
I racconti di mio padre fermi al 1962, quando la Lazio, per la prima volta nella sua storia in serie cadetta, non tornò in A per colpa del Napoli, con il quale pareggiò – fatale, quel punto perso – nonostante il laziale Seghedoni avesse segnato un goal tanto potente da bucare persino la rete della porta. L’arbitro disse che la palla era andata fuori e non volle nemmeno controllare le maglie della porta letteralmente sforacchiate, spaccate…
E i ricordi miei risalenti all’ultima giornata del campionato 1972-73. A pochi minuti dal termine di un altro Napoli-Lazio eravamo noi i campioni d’Italia in quanto le rivali di volata, Milan e Juventus, stavano rispettivamente perdendo di brutto a Verona e pareggiando a Roma contro i giallorossi. Poi segnò Oscar Damiani del Napoli e tutto sfumò, con noi ad uscire dal San Paolo sotto una cappa assordante di Juve-Juve perché i napoletani, si sa, in fondo vorrebbero essere tutti assunti dalla Fiat.
Pensieri che mi portai appresso fino all’uscita. E il brutto è che non ci furono nemmeno i consueti tafferugli, ottimo diversivo per riuscire a farli andare via dalla capoccia.
Tranquilla, infatti, la marea celeste riprese lenta la mediterranea strada del ritorno.
Anche quella volta la mia cara accozzaglia di balordi aveva perso.
Quasi superfluo rilevare che, nell’azione precedente alla loro rete, il nostro centravanti aveva ciccato il pallone a trenta centimetri dalla riga di una porta lasciata dagli avversari sguarnita.
Tutto insomma nella norma: saremmo tornati a volare basso – aquile coccodè – nell’attesa (come sa aspettare il laziale lo sa fare solo il contradaiolo del Bruco) del successivo quarto d’ora di notorietà. L’Istat sa che di momenti da prima pagina nazionale la Lazio ne vive uno ogni tredici anni. Se il papà dice al figliolo «dai su non te la prendere, sarà per la prossima volta», be’ sappiate, giovani e sparute nuove leve, che quella prossima volta vuol dire «fra tredici anni».
La regola di un tutankhamonico e al tempo stesso totocalcistico 13 – degna della serie cinematografica che faceva però precedere il numero dal giorno (e non dal selvaggio) Venerdì – accompagnò per davvero la nostra mitica armata nell’arco di tutto il secolo scorso. Tanto per elencare: la Lazio nasce come società di podistica per poi aprire la sezione calcio nel 1902. Nel 1915 c’è lo scudetto (rubato) del Genoa e nel 1927 nasce l’AS Roma dopo quel po’ po’ de macello che sappiamo. E ancora: dopo sessant’anni filati di serie A, è stato appena accennato, la Lazio retrocede per la prima volta in B nel 1961, ma nel 1974 vince il primo scudetto, il 1987 è l’anno del «meno nove» (ovverosia quello della Lazio più amata di sempre) e nel 2000 viene conquistato il secondo e ultimo tricolore. Tra un evento e l’altro ano sempre tredici anni e i dodici di mezzo sono di anonimato o quasi.
Come quando vincemmo per la prima volta la Coppa Italia (1958) e dovemmo attendere appunto tredici anni per far registrare un secondo successo: la oramai famigerata Coppa delle Alpi del 1971. Continuo? Perché se continuo debbo entrare nella fantascienza, nel fantacalcio, e non conviene a nessuno.
Tredici anni, comunque, che io e il Baconchi, Madame Morte permettendo, avevamo deciso al volo di trascorrere dedicandoci notte e giorno alla distillazione clandestina del bourbon e alla creazione di nuovi cocktail, tutti però a base di pepe di Cayenna e nitrato di scimmia.
Futurismo!
Sbronzi di Riace Boom-Boom (appunto un nostro intruglio) mischiato a sua volta con la tequila (e anche un po’ Bonetti), ci dirigemmo però, a i incerti e tra una fermata di filo e un viaggio in bus, verso il santuario della Garbatella…
Oggi, che sono lucido, diciamo abbastanza lucido, posso pure ammettere che sulla carta potevamo trovare obiettivi non solo migliori ma anche più giusti. Come ad esempio colpire e quindi punire l’ideatore-sceneggiatore della serie tv La nuova squadra, giunta ormai all’edizione 44, peraltro un buon numero per noi gatti. Ma il fatto è che, quando ci muovemmo verso il quartiere loro che era stato nostro, noi eravamo ciucchi. ‘Mbriachi fracichi. Più facile arrivare alla Garbatella, dunque, che mettersi ad indagare su chi diavolo fosse stato il colpevole creatore artistico di quelle puntate di tanti anni prima trasmesse su Rai 3 sotto il cappello di una schizofrenica sigla, preludio alle imprese degli uomini di un commissariato di Napoli.
In proposito due parole si possono pure spendere. Per quel che serve.
Quando erano non da molto solamente iniziate le indagini sull’omicidio di un tifoso della Lazio da parte di un poliziotto, ecco vediamo partire la fiction di cui sopra, che poi tanto finzione non sembra proprio. Perché si inventano – inventano per modo di dire – una storia pressoché uguale a quella reale. Peccato solo che nel telefilm il piedipiatti che uccide l’ultrà è innocente, ci mancherebbe, e lo vogliono incastrare proprio i teppisti, cioè i veri colpevoli, che per di più vengono dipinti tanto forti da poter influenzare, pressandole, sia l’opinione pubblica che persino la magistratura. Sì, il Commando Ultrà Curva Gelli.
Che dire, allora, a tutti i componenti della troupe che, convinti o con la scusa della professione fa lo stesso, si sono prestati a tale sciacallaggio – con tutto il rispetto per lo sciacallo, che è animale utile – e a tale inversione della verità dei fatti al fine di influenzare, loro sì, la magistratura vera? Soltanto che siete gente senza idee, onore, dignità e fegato. Gente che andrebbe querelata dagli ultrà del Napoli, ai quali consiglio vivamente di andare a recuperare l’episodio ventitré.
Fine del capitolo, che è meglio.
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Cap. 7 - I Cesaroni
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Io e il Baconchi siamo due ragazzacci fortunati. E affermo questo perché, a proposito di cast, quello dei Cesaroni lo beccammo in piena attività.
Sulle transenne avevano scritto «È severamente vietato entrare» (poi qualcuno mi spieghi l’avverbio) e il cartello sembrava proprio rivolgersi a noi due. A noi che, fin da piscialletto, per non pagare il biglietto curva da duemiladuecento lire ci arrampicavamo su per l’Olimpico arrivando a scavalcare, non sazi, tutte le vetrate di divisione dei settori. Una volta, pensate, ad un Lazio-Juventus mi venne a riprendere mamma, tutta trafelata, perché un carabiniere – ecco spiegata ogni cosa – segnalò la stonatura della presenza di un bambino dall’apparente età di dieci anni assiso sulla poltroncina d’onore accanto a Gianni Agnelli!
Va da sé che ad entrare entrammo.
Spacciandoci per presidente e tesoriere (Baconchi era il tesoriere esperto in offshore) dell’Amendola Fans Club sez. Pineta Sacchetti, fummo in grado di avanzare più o meno indisturbati per quasi cinquanta metri. Al guardiano che ci trotterellava due i dietro, proprio in memoria della maleducata abitudine del finto avvocato bianconero (che rispondeva alle interviste camminando), impapocchiammo che eravamo lì «venuti apposta per consegnare un regalo al nostro caro Claudio per il suo ottantacinquesimo compleanno».
Ma di anni in realtà ne compiva ottantaquattro – porta patens esto nullo claudaris
honesto – e quindi non ci restò che correre.
Noi davanti, le guardie dietro e… oh bella, chissà perché sento che non mi state credendo… prima a zig zag e poi dritti per dritti imboccammo esattamente il set durante un ciak. Ebbene sì, ragazzi, ho sempre sognato di fare l’attore e il fatto è che mi stava pure riuscendo bene.
È vero infatti che il regista disse «stop!», ma è altrettanto sacrosanto che l’operatore non gli obbedì e continuò a filmare e a riprendere tutto. Sia i cosiddetti esterni che gli interni. Meglio il singolare, forse, perché noi solo dentro un locale ci ficcammo. Quello giusto, però. Quello nel quale stazionavano di regola gli attori della regina dell’auditel-share della televisione di casa nostra, primato assoluto che si consolidava da ben cinquant’anni. Toccare i Cesaroni equivaleva a mettersi contro non dico Dio e Patria ma sicuramente la Famiglia italiana. Almeno quella che ama rispecchiarsi nello schermo ultrapiatto del salotto buono.
Ma non divaghiamo, perché una volta entrati ci guardammo, io e Pinotto, con quello sguardo obliquo che hanno gli amanti del Cuba libre nel pieno espletamento delle loro funzioni. Come a dire: e mo’ che famo?
Dato che si era creato l’impantanamento, pensai bene di uscirne fuori impugnando la rivoltella. Ed era carica.
È chiaro che fu un attimo. Tutti, come mante acquattate sul fondale, si appiattirono al suolo tra urla di terrore e gridolini isterici. Tutti nel senso di protagonisti, figuranti, comparse e maestranze. Soltanto i caratteristi – cioè i veri falliti – tifavano per noi.
Poi notai una lavagnetta nera, come quelle che si trovavano nelle scuole di una volta, con tanto di scritta in gesso «Roma-Lazio 3 a 1».
Fissata dietro il bancone, non poteva non notarsi.
Piuttosto era stata posta lì proprio per far sì che, ad ogni inquadratura di scena girata in quella sorta di quartier generale, tutti a casa la vedessero. Che fastidio!
In realtà non mirai, perché il mio braccio alcolizzato segnava nell’aria imperscrutabili ghirigori, ma indubbiamente sparai, la colpii e la frantumai. Quindi godei.
Come la mano fantasma di suor Dentona da Fatima aveva deviato la traiettoria dei proiettili sparati da Alì Agca verso Giovanni Paolo II salvandolo, così probabilmente la mano strabica di suor Paola da Talenti aveva diretto il mio colpo verso il bersaglio più innocuo.
Fiat voluntas tua. E Agnelli questa volta non c’entra.
Nel vedere il replay in tivvù – perché Canale 5 ci fece uno speciale, è il minimo – mi accorsi però che la pistolettata non fu affatto casuale. Perché in effetti io entrai, poi sfarfallai l’arma, notai il risultato vergato sulla lavagna in memoria ai posteri, ed in ultimo premetti il grilletto.
Nessun caso, dunque, anche in considerazione del fatto che ancor prima di tutto ciò urlai un rimbombante «A ‘nfamoni!!!» e un altrettanto roboante «A amici de
Lotito!!!» che la dice lunga sul nesso di causalità tra offesa, accusa e bersaglio.
Certo, a proposito di nessi, in virtù dei litri di bevanda castrista che avevamo ingurgitato, mi sarei dovuto esprimere diversamente. Che so: «Viva Villa!», «Viva Zapata!», «Viva la revoluciòn!». Ma che volete che vi dica: a me è uscito fuori solo quel che ho detto ed ora è troppo tardi per dichiararmi prigioniero politico.
Approfittando tuttavia del fatto che era scoppiato un milleottocentoquarantotto, ci perdemmo nella folla. Io ghignando fiero e Baconchi zoppicando alquanto. Poi, ma quasi subito, con una strizzata d’occhio che voleva significare, come nel tempo che fu, «ci vediamo al solito posto e chi arriva prima aspetta», le nostre strade si divisero.
Nessuna Volante ci acchiappò sia perché la macchina della polizia si chiama pantera – e la pantera è un grosso gatto che mai avrebbe tradito due minitaglie feline – e sia perché i gatti, ancorché morti, conoscono strade di Roma che voi umani non potete neanche lontanamente immaginare.
Il covo dell’appuntamento, ad ogni buon conto, si trovava nei meandri della Piramide Cestia. Zona quasi centrale, munita di apposita fermata di metropolitana, a due i dalla sede degli Irriducibili.
Nei meandri comunque l’ho scritto non tanto per il suono, ma perché volevo intendere proprio dentro la piramide bonsai di Roma, quella che se non fosse per il traffico attorno potrebbe servire a qualche morto di fame per portarci la fidanzata d’estate. Tipo: «Chiudi gli occhi, amore, e dammi un bacio, che a me basta uno schiocco di dita e un voilà per concretizzare i tuoi sogni di egittologa del cazzo!».
Il fantastico reperto archeologico veniva aperto ai turisti solamente un giorno all’anno. Niente di più permetteva la rigida sovrintendenza ai beni culturali della Capitale.
Negli altri trecentosessantaquattro dì fungeva da nostro rifugio. I Dead Cats della Lazio, adoratori di divinità animistiche, da millenni si radunavano all’interno della Piramide Cestia. Su questo, qui lo dico e qui lo nego, sarà imperniata l’ultima avventura di Harry Potter scritta dalla Rowling… Prenotatela!
Dunque tra una riunione pre-derby e una spennellata di striscione, noi dei Gatti Morti dentro questa piramide compivamo riti propiziatori, veglie alla Luna, sacrifici umani, sedute spiritiche, danze macabre, evocazioni del Maligno, vivisezioni, orge, masticazioni di tabacco tolteco, cannibalismo, necrofilia e gran magnate de coda alla vaccinara.
Ci tenevo a rivelarlo in anteprima.
Intanto era scoccata la fatal mezzanotte e i Ris di Parma, quei coglioni dei Ris di Parma, ancora non ci avevano scoperto. Il buio, in compenso, si prestò ai dialoghi serrati, ai botta e risposta, alle confidenze amicali, all’alta poesia…
«Vecchio Baco, oramai è finita. Non ci restano che poche ore. Buone però per sognare un mondo alternativo…»
«Dove magari non nasciamo tifosi della Lazio ma, dico a caso: del Lanerossi Vicenza!»
«Bella squadra de sfigati. Con quella pecora sorridente sul petto… comunque me so’ simpatici. Quand’ero ragazzino la lotta per non retrocedere era sempre a tre: o noi, o la Sampdoria, o il Lanerossi. Mi stupisco che tu possa averci preso subito, ma forse il Vicenza potrebbe andare. Bella la maglia, a strisce verticali biancorosse, e pesante la dose di malasorte, se pensiamo che con Paolo Rossi…»
«Che comunque era cento volte meno bravo di Giordano e, guarda che ti dico, pure di Pruzzo.»
«Vabbe’, sarà. Però con Pablito il Lanerossi aveva vinto lo scudetto se non ci fosse stata di mezzo la Juve, che come al solito gliel’ha rubato all’ultima giornata.»
«Come al solito per modo di dire, perché nel 2000 siamo stati noi a fregarlo alla Juve all’ultima di campionato.»
«Non sottilizziamo e torniamo al Vicenza. Anzi al Lanerossi Vicenza, che fa più bei tempi andati. Abbiamo detto: maglia, sintonia per la zona retrocessione, e aggiungiamoci pure giocatori improponibili come Sidney Cunha Cinesinho, che pesava centoventi chili, o Ezio Vendrame, il figlio dei fiori, e il gioco è fatto.
Senza parlare del gruppo dei Vigilantes, che aveva uno striscione incredibile con al centro una specie di boia del Ku Klux Klan. Insomma, non c’è bisogno di tirar mattina per affermare che io, se rinasco, rinascerò tifoso del Lanerossi.»
«E io no. Non fosse altro perché i vicentini sono detti magnagatti e quindi a noi,
che semo i Gatti stanchi Morti della Lazio, appena arriviamo a Vicenza ce se cucinano spacciandoci per coniglio alla cacciatora. Quindi idea bocciata. Comunque non ti preoccupare e vai avanti, che abbiamo tutta la notte pe’ fa’ fuori la Lazio.»
«Dato che l’abbiamo nominata, allora io propongo la Sampdoria. Lo confesso: ho sempre amato la Sampdoria.»
«Amato?»
«Vabbe’ amato… diciamo che j’ho voluto bbene come a ‘na sorella. E poi, parliamoci chiaro: che gli manca alla Sampdoria?»
«Che le manca, non gli, dato che la Samp è femmina.
«È ovvio, come tutte le donne di angiporto… Ma comunque che c’entra? Io voto Sampdoria innanzitutto perché è una squadra marinara. E poi perché ha il simbolo del barbuto pescatore, quasi un Braccio di Ferro avanti con l’età, che si può facilmente tatuare sull’avambraccio;
ha la maglia più bella del mondo; una curva molto pittoresca; e infine perché tutti hanno sempre avvicinato, per colori e calore, il Genoa alla Roma e la Samp alla Lazio.
Voglio dire che se una coppia di laziali fa un figlio e lo abbandona all’ombra della Lanterna, ebbene quel figlio…»
«Di puttana.»
«Ma che simpatico però… quel figlio nascerà doriano.
Matematico.»
«Ummm… Non m’hai convinto… C’è qualcosa che non mi quadra. È come se una vocina mi dicesse, mi suggerisse che non è il caso di scegliere un club contro il quale la Lazio ha giocato e si è scontrata. Sento una voce che mi dice che non è affatto giusto.»
«Ispirato, mo’ senti pure le voci.»
«Non vedo cosa ci sia di strano e soprattutto cosa ci sia da ironizzare. Essendo ubriaco, è normale ascoltare consigli dall’oltretomba. Sì, ho detto bene: dall’oltretomba.»
«D’accordo, andiamo avanti. Adesso però parlo io, anche se penso che sarebbe il caso di darci una regola.
Magari una sola ma diamocela. Qui non stiamo mica giocando, qui ne va del nostro futuro di ultras.»
«E meno male che ero io l’ubriaco…»
«Diciamo che la squadra su cui puntare il nostro ato, o meglio futuro impossibile – cioè la nostra second live – deve possedere…»
«Non dire possedere che mi arrapo.»
«Ti perdono. Allora deve avere la caratteristica di rappresentare un qualcosa… quasi un valore transnazionale.
Che quindi vada oltre la singola città. Né più né meno della nostra vecchia Lazio, che non ha mai rappresentato solo Roma.»
«Bene! Ci sto e peraltro l’ho già trovata. La squadra che risponde ai tuoi canoni è, reggiti forte: la Ternana!»
«Ma che cazzo c’entra la Ternana…»
«La Ternana, no? I colori accesi verde e rosso, e poi non lo so… i Freak Brothers avevano uno striscione lunghissimo…
come quello nostro degli Eagles…»
«Ma vattene va’! A te e ai Freak Brothers.»
«Oh n’ te ‘ncazza’… sembra chi sa ch’ho detto…»
«No vabbe’, non è che me la so’ presa. Però tu me dici la Ternana… dai su!»
«Ho sbagliato, ti chiedo scusa. Forse allora potrebbe andare bene la Pro Patria?»
«Ecco. È in momenti come questo che mi chiedo se tu ci fai o se sei proprio un oligofrenico. Ma se ho appena parlato di transnazionalità…»
«E ho capito ma… se a te fa quell’effetto là la parola possedere, io invece basta che sento il termine trans e non ci capisco più niente. Vado in confusione.»
«Quindi, ora che sei tornato momentaneamente in te, puoi ben capire che se c’è una società di cui basta il nome per comprenderne l’ispirazione di base quella è la Pro Patria. Di Busto Arsizio sì, ma nel complesso squadra nazionale e nazionalista per eccellenza.»
«E quindi non va bene perché a noi dell’Italia non ce n’è mai fregato nulla.»
«Esatto. Anche se, ora che ci penso, questo discrimine dell’ultranazionalità ci impedisce i tanto amati voli pindarici. Forse è meglio andare a ruota libera, al limite tenendo conto di qualche assonanza con la nostra precedente vita di laziali e niente più.»
«Allora va bene L’Aquila Calcio.»
«Penso sia tipico dei genialoidi autistici come te alternare attimi di nulla ad eccezionali picchi intuitivi. Però non possiamo sceglierla lo stesso a causa dell’antica amicizia che ci lega con il Chieti.»
«A forza di dire no, però, Mariuccia è rimasta zitella.
Proverbio chietino.»
«Ma no, non disperare. È solo l’una di notte, abbiamo tempo. La Rondinella 1946, ad esempio, mi piacerebbe sia perché ho un debole per le seconde scelte di una stessa città, sia perché il nome è uguale a quello del nostro glorioso stadio delle origini – lo stesso che, tanto per contraddirci ancora, durante la Grande Guerra fu offerto alla patria come orto di guerra – e sia perché la Fiorentina la preferisco come carne al sangue.»
«Con me, che sono sempre stato affascinato da Firenze, sfondi una porta aperta. Ma nemmeno la Rondinella può andare… e lo sai perché?»
«No.»
«Perché occorre mantenere la dignità e quindi non è possibile degradarsi da aquila a rondine.»
«Che peraltro, almeno da sola, non fa primavera.»
«A questo punto bisogna organizzarsi. Partiamo con il mito fattosi club. In quest’ottica il massimo è il Fanfulla di, anzi da Lodi. Strabiliante, una società che sceglie il nome di una persona, di un eroe, e lo fa proprio. Fanfulla, cinquecentesco soldato di ventura, insieme a cavalieri come Brancaleone da Genazzano, suo compagno di fortuna nonché primo ultras della Lazio, e guidato da Ettore Fieramosca da Capua, fu uno dei tredici che a Barletta vinsero il primo derby con la Francia. Emblematico!»
«Per me potrebbe pure andare. Peraltro io c’ho anche un figlio che si chiama Ettore… ma…»
«E riecco il ma.»
«Senti ragazzo: nella vita c’è sempre un ma… ma non te lo voglio neanche spiegare perché dovresti averlo capito da solo, che anche il Fanfulla non va bene. Discorsi già fatti. Diciamo che ho amato troppo la Legione Straniera per stare dalla parte di un antise e finiamola qua.
Rimanendo invece in tema, assai meglio il Gladiator. I nomi che finiscono con la consonante mi fanno impazzire.
Evocativo del Colosseo, di Spartacus, della Roma più purpurea.»
«Sì, però vista dall’altra parte. Tra un capitolo e l’altro mi hai detto che hai un nipote di nome Spartaco. Bene!
Spartaco è nome di battesimo tipicamente romano… eppure Spartaco era tracio, nemico di Roma, si ribellò a Roma e Roma lo crocefisse sulla via Appia insieme a tutti gli altri gladiatori di Capua – Capua ritorna – che da lui furono condotti durante la rivolta. Migliaia di schiavi fatti morire lentamente a testa in giù perché avevano osato opporsi a Roma. Soltanto a Spartaco, a cui fu riconosciuto ardore in battaglia e immenso coraggio, fu dato l’onore di morire sì in croce ma guardando in faccia il nemico.»
«Mo’ c’abbiamo pure ‘o professore.»
«No. Quello sei te, che hai studiato. Io dico solamente che il Gladiator di Santa Maria Capua Vetere, odierna
Capua, non va perché da quelle parti c’è sangue di discendenti che hanno odiato Roma più dei Tarantini e dei Cartaginesi messi assieme. Insomma: sarebbe come tifare per l’Albalonga.»
«Così però stiamo a otto. Spulciando e scartando, cosa resta?»
«Il Savoia, ecco cosa rimane! È la squadra del Re e noi siamo monarchici. La Repubblica (af)fondata sul Lavoro la lasciamo ad altri…»
«Sì, ma il Savoia 1908, mitica quanto vuoi, è pur sempre ‘na squadra de
napoletani. E poi lo sai che i primi incidenti della storia tra tifosi di calcio furono registrati il 24 giugno 1923 tra la gente di Torre Annunziata e uno sparuto gruppo di sostenitori laziali in trasferta, oggetto di fitta sassaiola, come scrisse Il Messaggero? A ‘sto punto scegliamo il Sibilla Cuma, no? Nome misterioso che associa un luogo oramai in rovina – e le rovine attraggono quelli come noi – all’idea di un oracolo, di una profezia.»
«Nefasta. Considerato che arriva da una donna e per di più campana. Femmina più Campania Infelix uguale Strega di Malevento. Proverbio laziale.»
«Parla pe’ te. Perché io con lo Strega, per quanto è buono, ci pasteggio.»
«E se ritornassimo alla vecchia idea della Cisco?»
«Hai detto bene: vecchia. Noi abbiamo seguito la Cisco solo per compatire, per soffrire insieme a Paolo Di Canio, ingiustamente cacciato dalla Lazio. Poi, lo sai meglio di me, terminata la carriera di Di Canio calciatore è svanito anche il nostro sogno di una Nuova Lazio. E amen.»
«E se, a proposito di andiamo in pace, optassimo per una squadra religiosa? Dico… tanto per arruffianarci Gesù e compagnia in vista della nostra, ormai prossima, ultima trasferta nell’aldilà. Ci pensi? Potremmo scontrarci contro gli Ultras Mater Dei nelle finali paradisiache della Clericus Cup.»
Sarcasmo in articulo mortis dovrebbe essere il motto del laziale, ve l’avevo detto.
«E tu, conoscendoti, hai già il nome del club da tifare, no?»
«Certo: è la Samagor, cioè la squadra del quartiere dove sono cresciuto. Sa sta per Santa, Ma per Maria e Gor per Goretti. Protetti dalla Trinità, potremmo arrivare persino ad impensierire la Juventus. Già mi pregusto il super derby con il Milan, squadra del Diavolo, e anche quelli, minori, con i patrioti dell’Itala San Marco, con i pesciaroli della Sambenedettese, con i maghetti del San Felice Circeo, con gli Alcolisti Anonimi del Sangiovese, con il Naples di San Giuseppe Vesuviano, o anche con il Borgo San Michele, il Quartu Sant’Elena, il…»
«O magari, perché no, con il Santos.»
«No eh?»
«E no porcamadosca! No quantomeno perché saremmo in troppi, di raccomandati dal papa.»
«Guarda, ora, a meno che non volessimo decidere di puntare all’estero, non ci resta che scegliere tra le uniche due squadre italiane che già dalla denominazione comunicano al tifoso un non so che di lontano, di irraggiungibile.
Di magico.»
«E sono?»
«La Stella Polare e il Clodiasottomarina, è chiaro.
Analizziamo: la prima prende il nome dal principale corpo celeste dell’Orsa Minore che si trova in prossimità del Polo Nord. Peculiarità è che la stella polare non è nel corso dei secoli sempre la stessa. Ad esempio, nel 3000 avanti Cristo era l’Alfa Draconis, mentre nel 7500 sarà l’Alfa Cephei e nel 14000 la stella Vega. Se già non ci state a capire niente vuol dire che stiamo sulla buona strada. La stella polare consiste nel punto di riferimento massimo per ogni navigante, ovvero l’ideale per disorientati cronici come i sottoscritti. Ma se non ti soddisfa, allora ecco a voi il Clodiasottomarina. Chiariamoci subito: è la squadra di Chioggia, in provincia di Venezia. Ma nell’aria porta con sé…»
«La puzza de vongole.»
«Mamma mia quanto sei materiale! È il profumo degli abissi oceanici, del Kraken, dello squalo, dell’orca assassina, del Poseidon, del Titanic, di Love Boat…»
«Mare profumo di mare/ con l’amore io voglio giocare/ è colpa del mare/ del cielo e del mare…»
«Bravo. Lo vedi che ci sei? Parteggiare per il Clodiasottomarina è come schierarsi con l’Impero Sommerso di Atlantide nella millenaria lotta contro il continente Mu. Senza tralasciare che Clodia è l’antico nome di Chioggia, e lo sai chi gliel’ha affibbiato?»
«Colonia romana, presumo.»
«Doppio bravo… e pensa che ho già il nome del gruppo ultrà: Cloro Front. Forse un po’ troppo goliardico…
ma questi sono dettagli.»
«Allora, a parte il fatto che il cloro penso sia tipico delle piscine e non del mare, comunque ti rispondo. Punto uno… anzi partiamo dal punto due che è più semplice:
Chioggia è una comunità chiusa, e in quanto tale non accetta estranei. Pensa solo che più del sessanta per cento di quella popolazione ha gli stessi due o tre cognomi.
Una volta mi sembra di aver letto un qualcosa del genere.
Comunque, appena ci presentiamo ci becchiamo subito una medusa in faccia. Quanto invece alla Stella Polare, c’è molto di positivo, non ultimo il luogo in cui gioca, che è praticamente Roma. Ma il problema sta nel fatto che la Stella Polare è il club della Guardia Costiera.»
«Embè? Tifoseria non legata ad un luogo preciso ma proveniente da tutta Italia. Ci pensi che bello? Gruppi di veterani e marines impazziti in Libano che ogni male detta domenica vagano come bucanieri zombi sul lido di Ostia. Mi sembra uno scenario apocalittico.»
«Fantastico direi, se non fosse che, anche se costiere, sempre guardie so’, compare mio bello.»
Bocciata, per un motivo o per un altro, anche la tredicesima candidata, ci dirigemmo con la fantasia verso quanto, almeno fino a poco tempo prima, si voleva evitare: l’estero.
«Facciamo questo gioco…»
Lo disse come quando, da pischelletti, si proponeva Fiori Frutta e Città. E come se non fossero, per di più, scoccate le quattro e mezza del mattino.
In ogni caso, il temuto gioco consisteva nel quasi urlare una disciplina sportiva per poi – a chi faceva prima – enunciare il nome della squadra ideale. Innanzitutto si decise all’unanimità di restare nell’alveo del calcio, suddividendolo però a seconda della nazione in cui viene praticato.
Tipo: «Calcio inglese!»
Io dico «Manchester City» e lui una frazione di secondo dopo spara «Everton». Quindi si discute un po’, si valutano i pro e i contro e infine si va ad eliminazione.
Al Manchester City ci univano i colori, la dannazione di vivere insieme ad una squadra, storicamente superiore, dalla casacca rossa e l’avere avuto un gruppo ultrà chiamato Cool Cats, i Gatti Sornioni, dalle evidenti assonanze fonetiche
con i nostri Dead Cats.
«Però è una squadra comunista!», disse il Baconchi con tale incrollabile certezza da non lasciar spazio a tentennamenti né ancor meno a tentativi di ribattuta. Il City fu bocciato soltanto, per dirla con termini appropriati, perché sostenuta da una tifoseria tendente a sinistra.
Tutto qua. Ma evidentemente abbastanza per il mio amico, uomo invece dalle berlusconiane definizioni spicce.
L’Everton, quindi, ò il turno di qualificazione senza colpo ferire e tutto sommato solamente in ragione dell’esclusione precedente. Interessante però la genesi di questo antichissimo club, che nasce a Liverpool per merito di un gruppo di religiosi clamorosamente non orientati verso il nome della città nonostante il Liverpool non fosse stato ancora fondato. Ovviamente – tutto il mondo è paese, diceva Nonna Papera – l’Everton veste in blu mentre gli altri calzano il rosso…
Una identica motivazione di partenza ci fece, all’unisono, gridare «Espanyol» quando arrivò il turno del calcio iberico. Seconda squadra di Barcellona, al color blaugrana (ovverosia Bologna torbido) del team con il nome della città, l’Espanyol si oppone con una tenuta a strisce verticali. Una bianca, una azzurra, una bianca, una azzurra…
Lo stesso sistema primitivo dell’uso della vista come foriera di immediate sensazioni e sintonie ci portò alla scelta dell’argentino Racing Avellaneda, infimo sodalizio di Buenos Aires.
Il metodo delle nazioni terminò abbastanza presto, con il Brasile. Forse capimmo che così non saremmo andati lontano, ed infatti anche l’esser rimasti imbrigliati tra il Gremio di Porto Alegre e il Vasco da Gama contribuì non poco all’ennesimo cambio di rotta: era giunto il momento di decidere ponendo l’attenzione non ai colori, all’ideologia o ad una certa storia simile ma alla simbologia.
Inenarrabili consultazioni enciclopediche andate avanti fino alle sei fugarono i residui dubbi. Da questa terna di club – Queen’s Park Rangers, Charlotte Bobcats e Go Ahead Eagles – doveva per forza uscirne uno, quello in nome del quale avremmo valicato le Colonne d’Ercole.
Prima dell’ultima disamina, però, vorrei spendere due parole a favore del Gremio, perché io una volta sono andato a letto con una fica di Porto Alegre che, vi giuro, se non fosse stata un uomo me la sarei pure sposata.
Purtroppo, sia l’alcool che il sonno incipiente decisero per noi. Sui Go Ahead Eagles, infatti, non ricordo alcuna discussione. Mentre l’aver pescato i Bobcats senza pensare che stavamo addentrandoci nel basket fu indicativo del livello del nostro termometro mentale.
Sul Queen’s Park Rangers c’è poco da dire, se non che avrebbe vinto. Già, proprio così, l’équipe londinese aveva tutte, ma proprio tutte, le carte in regola. Le solite già viste, anche se la differenza a favore del QPR la fece la loro mascotte: un malefico gatto nero la cui sagoma campeggiava su ogni vessillo dei Rangers. Poi però la scoperta che il club dei Guardiani del Parco della Regina era stato acquistato dalla figlia della Santanchè rese vano ogni sforzo sino ad allora compiuto.
Per «salvarci» da un nuovo e assurdo elenco – magari con puntate nell’hockey
su ghiaccio, nella tauromachia e nei gruppi rock (boia chi ha amato i Police) – intervenne l’aurora, anteprima della nostra alba più bella.
Il Baconchi, devo ammettere con lo stesso tocco maestro di Diabolik, spinse il bottone che azionò un cubo di marmo, sganciandolo così dall’incastro ove sino ad allora aveva riposato insieme a tutti gli altri compiramidi.
Non cercate come al solito l’errore poiché io sono un neologista della scuola transalpina di Dard.
Insieme al pulviscolo entrarono raggi sparsi di sole e suoni bluette di sirene della madama.
La dimenticata e fantomatica squadra di calcio e non solo della Chin8… Neri di Littoria mi venne in mente proprio in quell’esatto frangente. Troppo tardi, purtroppo, perché io ebbi unicamente il tempo di scarrellare la P38 e niente più. Ricordo soltanto che baciai su una guancia il Baconchi, lo strinsi a me con un certo pathos e quindi gli dissi che quello sarebbe stato un buon giorno per morire.
Il mio vecchio amico, grugnendo con acuti da porcellino prima di fargli la festa, mi comunicò tutto il suo disappunto verso la mia constatazione. E si arrese proprio nell’esatto momento in cui poggiai l’arma sulla mia tempia.
In fondo ero arrivato a settantanove. Avevo beffato pure l’Istat.
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Epilogo
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Ancora da Il cappello del prete di Emilio De Marchi…
«La giornata non avrebbe potuto essere più splendida.
Grande fu il concorso delle carrozze, dei four-in-hand, dei tilbury, dei coupés, dei breaks, delle belle signore, e forte il numero delle scommesse.
I bookmakers fecero splendidi affari, e più di duecentomila lire girarono in poche ore sul campo del turf.
Andreina batté d’una lunghezza Lazio, il grande favorito, e diede la vittoria alle scuderie napoletane…»
Era il 4 aprile 1888 e da allora il cavallo Lazio non vinse più. Corse altre sedici volte, poi fu messo a riposo. Due anni a svolgere la mansione della monta, quindi divenne cavallo da carrozza per signore. Nel mese di febbraio,
un po’ a causa del freddo che gela i tendini e un po’ per colpa di un ciottolo mal messo lungo il ponte Sublicio, Lazio si azzoppò, cadde e non si rialzò. Di cure non se ne trovarono e ancor meno di veterinari pietosi. La marchesa che usciva
al tramonto e rientrava all’alba non ci pensò due volte a sostituirlo e così Lazio fu trattato come si conviene.
Leggenda romana vuole che sia stato abbattuto dalla fucilata di un palafreniere nelle prime ore del primo giorno del mese di marzo dell’anno del Signore mille e ottocento novanta sei.
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Pierluigi Felli (Roma 1965) è un avvocato che dal 2003 ha deciso di smettere con la professione forense per dedicarsi interamente all’attività di scrittore. Da allora ha pubblicato trentatré opere, tra le quali ricordiamo La ballata dei Dead Cats, Quando suona il gong (con Antonio Romano), Sahara Sabbia e Sangue, Chi muore si rivede, Odissea nella nebbia, Celeste nostalgia e La fredda notte di Babbo Natale, tutti editi dalla Fuoco.
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Per Smashword la Fuoco Edizioni ha pubblicato:
L’artiglio del Drago
Iran, prossima guerra?
Il mistero di Calatubo
La seconda vita di Bettino Craxi
Chi muore si rivede
L’Estate in tavola
I segreti del debito pubblico
Il cuore di Sarah
La guerra dell’acqua
Italia, Potenza globale?
Il ritorno dell’Impero di Mezzo
Sahara sabbia e sangue
Il lato oscuro dell’America
Celeste nostalgia
Gli italiani nella guerra di Corea
Oro blu
Portaerei Italia
Verso la fine dell’economia
Guerra economica e intelligence
Il Vangelo secondo sco
Assassinio sull’Isola delle oche
Un’economia più umana
La fredda notte di Babbo Natale
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