Fra Le Righe 5zji
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- Words: 8,329
- Pages: 51
- Publisher: Sem edizioni
- Released Date: 2014-04-22
- Author: Andrea Fantucchio
Andrea Fantucchio
Fra le righe
Fra le Righe
di Andrea Fantucchio
Collana Short list
Direttore editoriale: Cosimo de Leo
Progetto grafico: Dorando Panicolli
© 2010 SEM - Servizi Editoriali & Multimediali
Redazione, Via Volta 18 - 20094 Corsico
www.semedizioni.com
[email protected]
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assolta dall’Editore ai sensi dell’art. 74 - 1° comma Lettera C del D.P.R. 633/72 e successive modificazioni.
ISBN: 9788897093411
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Indice dei contenuti
I II III IV V VI
I
“Hesse diceva: ‘Ho costruito un castello su un'estrema e silenziosa altura; la mia nostalgia sta là e guarda fin alla noia, ed il giorno si fa grigio, principessa, dove sei rimasta?’”
Maria continuava a mordicchiare la penna. Il mostro la fissava con il suo sguardo freddo e imibile. Maledetta pagina bianca!
Alzò gli occhi dal foglio e il suo umore peggiorò ancora. Non c’era traccia della gabbia di metallo che sino a qualche minuto prima minacciava tempesta, solo nuvole panna candida e il sole che iniziava a far capolino. Bene, ora la Cinghi poteva anche portare a so il suo culone… Arpia! Cosa avrebbe scritto, lei, su una frase come quella? Già, cosa avrebbe scritto?
Chiuse gli occhi. Subito l’immagine di Marco (sì, proprio il suo Marco, quello jeans a vita bassa e gran sorriso) prese forma. Indossava una calzamaglia verde pisello, un’attillata camicia azzurra e il cappello con svolazzante cimiero. Era arroccato su una torre e l’aspettava impaziente recitando poesie. Maria si regalò il primo sorriso di quel pomeriggio.
“Magari questa storia fosse un film, così ci metterei un attimo a raccontarla…”
E quella fu la prima volta che accadde.
L’annunciò il vento che quasi staccò la finestra dagli assi, i fogli volarono sul pavimento. Maria urlò.
«Ehi, la smetti di urlare? Guarda che ho le orecchie sensibili! Soprattutto da quando qualcuno si diverte a piegarle ogni giorno» una vocina sottile come uno spillo si udì da sotto la catasta di scartoffie.
Maria si strinse forte nelle braccia.
«Aiutami a rialzarmi!»
«Chi… io?»
«No, la lampada sul comodino. Certo, se avesse le braccia… Oh, ecco fatto!» esclamò fiera la vocina «Lo diceva sempre mia madre che “chi fa da sé fa per tre”; certo diceva anche che quel taglialegna non avrebbe mai tagliato una betulla… Ma questa è un’altra storia».
Maria continuava a tremare guardando incredula lo sconosciuto che faceva capolino dai fogli e dalle matite sparse sul pavimento.
«Che c’è? Non hai mai visto un quaderno?»
Certo che aveva visto un quaderno, ma come quello proprio mai. La copertina rosa shocking gli faceva da busto e attaccate se ne stavano penzolanti un paio di braccia sottili come spaghetti. Le gambe erano altrettanto sottili e cascavano in degli stivaletti da cowboy in cuoio marrone.
«Chi … Chi …» Balbettò.
«Stretch, è un onore conoscerla signorina Maria» Il quaderno spalancò il sorriso più strano del mondo. La sua bocca era priva di denti, c’erano solo piccoli caratteri neri direttamente attaccati alle gengive che adesso formavano la parola sorriso. «Andiamo. Su, non ho tutto il giorno signorina. È ora che gli scritti prendano vita, che i sogni si realizzino, o molto meno enfaticamente che io venga pagato».
«Ma io non ho denaro…» piagnucolò la ragazza.
«Denaro, perché voi esseri umani siete così limitati nell’immaginare la trama?»
«E allora cosa vuole, signor Stretch?» Maria iniziava ad aver paura.
«Una storia. Sì, vorrei proprio una bella storia che sia calda, coinvolgente, inaspettata perfino; le inaspettate sono così rare, non che le solite siano poi milioni…»
«Ma io non ho nessuna storia, è proprio questo il problema! Ho una malattia che forse voi quaderni conoscete bene: la pagina bianca. La sindrome è terribile. E io
ne sto soffrendo in modo che lei, caro il mio signor Stretch, non immagina nemmeno lontanamente».
«Oh, la pagina bianca è un impedimento di poco conto, un piccolo ostacolo da saltare; in realtà la storia è già in testa, c’è solo da immergervisi. Ma anche quella è una bazzecola!»
«Immergersi?» Forse quello era il momento di rivelare al signor quaderno che lei di nuotare proprio non era capace. Ogni volta che ci aveva provato, il panico l’aveva assalita, come di fronte a quella maledetta frase: “Hesse diceva…”
«Esatto, immergersi. Proprio come fa quando chiude gli occhi. I sogni non sono forse storie nelle quali ci immergiamo ogni notte?»
Maria non capiva.
«E adesso si prepari…» Il quaderno balzò sul letto, ormai era a pochi i da lei. L’aria fu increspata da una folata di vento e Stretch iniziò a roteare, veloce come una trottola. Sempre più veloce, finché i suoi contorni scomparvero del tutto.
Cambiò consistenza, era uno specchio d’acqua sospeso a pochi centimetri dal suo naso.
«Mi tocchi…» ordinò.
Maria non si mosse.
«Chi fa da sé fa per tre…» e lo specchio d’acqua si riversò su di lei.
Maria iniziò a cadere, poi a precipitare, sempre più veloce. Il marrone del comodino s’immerse nel bianco della lampada e infine il celeste del soffitto inghiottì tutto.
Caldo, freddo terribile, tiepido buio.
II
«Oh, davvero non volevo, signor Stretch!» si scusò Maria rialzandosi dal cuscino di fogli che aveva attutito la caduta.
«Non si preoccupi, signorina Maria, ci sono abituato» Il quaderno raddrizzò l’orecchia sinistra troppo spiegazzata. «Per inciso, le costerebbe fatica ripormi nello zaino prima del libro di storia? È così pesante!»
«Il libro di storia? Ma certo, sicuro».
Maria gettò uno sguardo intorno. Le querce dai tronchi enormi e nodosi sembravano spingersi fin sulle nuvole incrociando i rami in un abbraccio sinistro che impediva al sole di irradiare il bosco. L’erba era piuttosto rada con qualche pigna alternata ai cappelli dei funghi che facevano capolino fra le sinuose radici. Non aveva mai visto funghi simili, con i gambi color puffo.
«Dove siamo?» domandò incerta.
«Oh, io non ne ho la più pallida idea» rispose candidamente il quaderno che stava ripulendo la copertina dai residui di terra.
«Quindi ci siamo persi?»
«Sì e no».
«Potrebbe essere più chiaro?»
«Vede, noi ci troviamo all’inizio della storia. E l’inizio non è mai del tutto chiaro. Potremmo prendere quel sentiero lì a destra e magari raggiungere Samarcanda, o quello a sinistra e trovare la strada sbarrata da un fiume. E chi può dirlo? La fantasia è così straordinaria».
Maria sconsolata iniziò a piangere.
«Su, via non pianga, non siamo mica al finale, le ho detto che questo è solo l’inizio».
Uno squillo di tromba seguito da uno scalpiccio di zoccoli li fece sobbalzare entrambi.
«Vi dico di aver visto un pezzo di cielo precipitare proprio laggiù!»
«Certo Iribus, certo. E adesso ci dirà anche che ieri notte la fata Morgana è venuta a trovarla a cavallo di una scopa».
Risate scroscianti e scalpiccio insistente.
«Vedrete, vedrete con i vostri occhi! È come dice padre Gustav, questo è un bosco maledetto!»
«Padre Gustav, quel vecchio ciarlatano che farebbe un esorcismo anche a un albero se lo vedesse troppo scosso dal vento».
«Non dovreste burlarvi così della voce di Dio Tal, soprattutto voi…»
«Non una parola Iribus, rammentate…»
Dal sottobosco emersero quattro cavalli. Procedevano in doppia fila, i due bianchi in testa e quelli marroni alle loro spalle. Anche i cavalieri erano altrettanto diversi fra loro: quelli dietro, magri come grissini, portavano un elmo con il cimiero arancione e sembravano gemelli. I due cavalieri davanti, invece, avanzavano entrambi a volto scoperto. Quello più a destra sfiorò appena Maria, come un vento estivo.
L’altro invece era… semplicemente il sole.
Maria si perse in quegli occhi di giada grandi come perle, che la luce si divertiva a tramutare o dopo o in un sogno sempre più bello e indescrivibile. Verde bosco, nocciola, oro fuso: per quanto si impegnasse, era impossibile svelarne il segreto.
«Ecco vedi, è solo una ragazza. E tu che stavi già scomodando Belzebù e i suoi
demoni» Sorrise quello bello come il sole. “Caspita, che denti bianchi e perfetti” pensò Maria che non riusciva proprio a guardarlo senza sentirsi le ginocchia molli.
«Una strega! E se fosse una strega?» domandò l’altro che la scrutava con aria truce.
«Se si tratta di una strega, è una delle più belle che abbia mai visto» Il cavaliere avanzò con andatura lenta ma decisa. Lei non si perse nessuno di quei movimenti aggraziati. Più lui si avvicinava e più la paura si dileguava. Per un momento si dimenticò di tutto il resto, perfino del suo nome.
In verità fu ben più di un momento.
«Allora?» le chiese per la terza volta lui.
«Io? Maria».
Lo sconosciuto scese da cavallo per baciarle la mano e lei sentì il cuore esplodere nel petto e le guance avvampare. Perché continuava a comportarsi come una ragazzina? Un fidanzato ce l’aveva a casa, eppure i suoi pensieri perdevano di consistenza fra quei ricami biondo cenere e nelle trame di quella voce dolce ma profonda.
«Da dove venite damigella?» Adesso era proprio di fronte a lei.
«Io?»
«Dal ducato di Milanto» suggerì Stretch che se n’era rimasto zitto fino a quel momento.
«Milanto» scandì lei cercando di non apparire insicura.
«Hanno uno strano modo di vestirsi a Milanto» Il cavaliere si sciolse in un mezzo sorriso talmente affascinante che le ginocchia della ragazza ricominciarono a tremare. Maria si sentì così imbarazzata pensandosi con la larghissima tuta del pigiama addosso. Non era un bel vedere e lo sapeva.
«Milady di Milanto, vorrei formalmente invitarvi a visitare la città di Torren» recitò con un mezzo inchino il giovane.
«Ne sarei onorata» rispose. «Il vostro nome?»
«Oh, che scortese. Sono sir Iribus di Valle Lunga, cugino del re Alibert».
L’altro cavaliere tossì rumorosamente mentre Iribus l’aiutava a salire in sella.
Cavalcare era molto diverso dall’andare in scooter, si veniva immersi nei rumori circostanti fino a diventarne tutt’uno. Lo scalpiccio del cavallo, il cinguettio degli uccelli, il vento che accarezzava ora le foglie ora i rami scuotendoli, tutto il bosco era una stupenda sinfonia di cui loro facevano parte. Divenne una poiana
che scrutava il mondo dall’alto, com’era fantastico bagnarsi nell’argento della luna. Così vicina alle stelle si accorse di quanto somigliassero ai sogni. Poi uno splendido falco pellegrino si librò maestoso. Le piume, tempesta d’oro fuso in cascate di grigio.
I due si lanciarono in picchiata ricamando figure di danze sconosciute. Ora era lui a guidare con fare deciso e mai goffo, ora toccava a lei che invece goffa lo era sempre stata solo che adesso non faceva che dimenticarsene. Galleggiarono fra i ritagli delle foglie, sfiorarono la terra bagnata con le pance e poi restando così, sospesi fra terra e cielo, continuarono a volare guardandosi negli occhi e fu più bello di qualsiasi bacio Maria avesse mai dato.
Quando si risvegliò lo spettacolo non fu da meno. Avevano ormai lasciato il bosco e si stavano inerpicando su uno stretto sentiero che si raggomitolava fra due valli. Entrambi i versanti erano coperti di neve che lasciava intravedere solo qualche roccia macchiata di muschio, doveva essere da poco giunta la primavera.
«Questo è il sentiero dei Due Amanti» spiegò Iribus indicandole le due cascate che si gettavano a strapiombo e si incrociavano a valle.
«Perché le chiamate così?»
«È in onore di un’antica leggenda. La storia narra come il principe Markus e la driade Dianae si amassero alla follia. A Dianae era possibile farsi vedere solo nelle notti di luna piena e così Markus tornava a trovarla ogni plenilunio. arono gli anni, e il principe non tradì un solo appuntamento. Entrambi sapevano di essere destinati l’uno all’altra anche se per così poco tempo. Markus però continuava a invecchiare, mentre Dianae restava sempre giovane e bella come l’acqua. E così un giorno la morte si prese il principe. La driade però non
si arrese. Tornò quassù ogni plenilunio innamorata perfino del ricordo del suo Markus. Allora gli dei, commossi da un amore così grande, ebbero pietà dei due sventurati e crearono queste cascate simbolo dell’amore periglioso ma eterno».
Maria aveva le lacrime agli occhi e Iribus dolcemente gliele asciugò.
III
«Il principe Tal è tornato! Salutate sua maestà!» Una voce profonda seguita da squilli di tromba annunciò il loro arrivo. Maria sentì vibrare Stretch e cercò di aprirlo senza dare nell’occhio. Sulla pagina bianca fecero lentamente capolino dei caratteri scarlatti:
“CAPITOLO 2: La città di Torren”.
Grasse nobildonne in svolazzanti bliaut verde pastello e viola melanzana stavano fianco a fianco a ragazzine smagrite fino all’osso coperte alla bene e meglio con sdruciti stracci di saio. E poi mercanti dal sorriso affabulatore e lo sguardo furbo, le livree verde acido dei menestrelli che intonavano qualche nota spaiata con il liuto sperando di racimolare qualcosa e bambini che si rincorrevano, tirandosi una palla di pezza incrociata con fili di iuta.
La gente di Torren era una marea che portava a riva una sola domanda: “Chi è la sconosciuta a cavallo?”
Maria sentì qualcuno più audace avvicinarsi per chiedere, altri meno coraggiosi commentare beffardi: “Ma com’è vestita? Lo sapevo che il principe aveva gusti un po’ strani…”
Gli sguardi, in particolare quelli delle nobildonne, erano code di scorpione pronte a colpire.
Fortunatamente, non ci misero molto a raggiungere il castello.
Iribus la lasciò ad attendere nel giardino reale.
All’ingresso si potevano osservare le cascate di viole e di Aster amellus, volgarmente dette “cielo stellato”. I colori freddi facevano da padroni dipingendo trame zaffiro e turchese. Spostandosi verso destra invece riconobbe il tocco più delicato ma altrettanto poetico delle rose e dei tulipani. Anche un piccolo e curioso animaletto decise di non perdersi quello spettacolo sgattaiolando giù dai rami di un’alta quercia cava. Maria in città non aveva mai visto uno scoiattolo che non stesse rinchiuso in gabbia e le sembrò che la libertà lo rendesse cento volte più bello. Si distese sul prato pulsante di vita chiudendo gli occhi per indovinare tutti i mille profumi che la avvolgevano.
«Vedo che qualcuno finalmente si sta godendo l’avventura» la voce di Stretch la fece sobbalzare.
Maria rimase in silenzio, non voleva correre il rischio di svegliarsi e veder scoppiare tutto come una bolla di sapone.
«Guardi che non succederà, signorina. I sogni finiscono solo quando decidiamo di aprire gli occhi».
«Potrebbe anche durare per sempre?»
«Sempre o un secondo, che differenza fa? Durerà finché lei continuerà a credere che sia reale. Guardi, c’è il principe Iribus!» Stretch ritornò nel suo stadio di catatonica immobilità.
«Con chi parlavate, damigella?» Il cavaliere la raggiunse distendendosi sull’erba.
«Non dovete continuare a chiamarmi damigella, Iribus» Si pentì subito di essere stata così diretta.
«Capisco, non sapete quanto vi capisco, è da quando sono nato che combatto per essere chiamato solo con il mio nome e con nessun altro che cerchino di attribuirmi».
«Che intendete?»
Iribus tacque fissandola «Facciamo un patto, io vi chiamerò come più vi aggrada e voi farete altrettanto con me» Si fermò e spostò una ciocca che gli cadeva sugli occhi. «Come volete che vi chiami, dunque?»
«Solo Maria è perfetto».
«Allora sarete solo Maria, mentre io vorrei mi chiamaste Vuoto».
«Vuoto? E perché mai?»
«Perché è così che mi sento quando il vostro sguardo non incontra il mio».
Doveva essere un vero seduttore questo Iribus, un seduttore incallito che distribuiva le sue poesie a ogni ragazza o, come le chiamava lui, damigella. E se invece avesse avuto ragione Stretch? L’amore a prima vista esiste per chi ci crede… Allora forse era il caso svegliarlo da quell’illusione. Sì, gli avrebbe detto: “Iribus, tu sei davvero tutto quello che una ragazza può desiderare, ma prima che ti faccia strane idee devi sapere che il mio cuore appartiene già a un altro. Tu troverai di sicuro qualcuna più meritevole e disponibile”.
Esatto, è proprio così che avrebbe dovuto dirgli, ma non lo fece. Lasciò semplicemente che durasse accoccolandosi sul suo petto.
Quando si decisero a lasciare il giardino, l’orizzonte fiammeggiava da un pezzo.
Salirono un paio di scale a chiocciola che si avvitavano in maniera spaventosa e si arrestarono di fronte a una massiccia porta d’ebano scuro.
«Tuo padre è quassù?» Maria iniziava a provare uno strano senso di inquietudine.
«Adesso sì, questi sono gli alloggi del mago».
«Ha scritto Esiodo: “L'uomo migliore è colui che tutto capisce da sé, sapendo ciò che in séguito meglio sarà. Ma chi non sa capire da sé né ciò che sente da altri,
quello è un uomo da poco”» recitò una voce roca al di là della porta. «Oh, principe Tal» e l’uscio lentamente si spalancò.
«Tal?» fece Maria sorpresa.
L’interno della stanza era un labirinto di provette, pergamene e alambicchi sparsi ovunque. Un grande letto a baldacchino con le lenzuola disfatte e un armadio con l’anta sconnessa rappresentavano tutto il resto dell’arredamento.
Un uomo venne loro incontro inchinandosi molto più profondamente del dovuto. Era di certo molto vecchio, come tradivano le rughe profonde che gli solcavano la fronte e le guance scavate, inoltre faceva di tutto per dimostrarlo lasciando che la fluente barba bianca crescesse incolta così come i capelli che gli arrivavano fin sulla schiena.
«Cosa vi porta qui sire, e per giunta con una…» il vecchio s’arrestò fissando Maria «… ospite».
«Re Alibert, Magus» rispose seccamente il principe.
«Oh, vostro padre è sempre lì che…» ghignò «compone poesie».
Maria si voltò verso la finestra e solo in quel momento sembrò notare il mormorio prodotto dall’uomo che v’era seduto.
Mia cara Deianira,
son anni che attendo,
ascolta ed ammira
l’uom che aspetta piangendo
La voce del sovrano era tremendamente simile alle nenie che intonano le vecchie in chiesa il giorno di Natale.
«Non dovresti andare avanti con la terapia, mago?» sbottò fra i denti Iribus/Tal.
«Sire, si può far divampare un incendio senza vento?» recitò il mago in maniera sibillina.
«Non fare il furbo con me, Magus. È ben più d’un po’ di vento quel che chiedi. Ma conosci la storia della cinghia che voleva sfuggire alla sua sorte, vero?»
«Non potrei dimenticarla neanche se volessi. Io però devo ricordare al mio illustre sovrano cosa toccherebbe invece in sorte invece a chi spezzasse la cinghia…»
Iribus ignorando Maria si avvicinò alla finestra.
Chi è che turba il triste sovrano?
Sei forse tu Deianira, amor lontano?
Il re sembrò scuotersi leggermente «Sei tu che hai rapito la mia Deianira? Sparisci, ladro! Ti farò impiccare! Guardie!» Alibert cercò di afferrare la camicia del ragazzo ma, sbilanciatosi troppo, cadde riverso sul pavimento. Si dimenava impotente mugolando. Maria vide Iribus cercare di celare il pianto mentre lo aiutava a rialzarsi.
«Andiamo, non è stata una buona idea, papà è indisposto» Stringendole la mano, il giovane la strattonò via richiudendosi la porta alle spalle.
«È sempre un onore, sire» li salutò la voce del mago seguita da un sorriso spettrale.
IV
«Iribus! Iribus lasciami, mi fai male!» Maria continuava a urlare. «Tal!»
Il principe sembrò ridestarsi dal suo torpore e, allontanatosi verso la finestra più lontana, la lasciò sola al centro della stanza. Vedendolo così cupo Maria si sentì morire. Ma che le importava? Dopotutto, lo conosceva da mai. Eppure… eppure… aveva quel desiderio inspiegabile di andare lì ad abbracciarlo come si fa con un bambino. E dirgli che sarebbe andato tutto bene. Che in un modo o nell’altro avrebbero trovato una soluzione. Maria non poteva più fingere, quella fu la prima volta in cui si rese conto di amarlo. Ma non glielo disse, non lo abbracciò, non lo baciò, se ne rimase semplicemente così, lontana solo pochi i, divorata dalla struggente incompletezza di chi desidera ardentemente qualcosa ma non ha il coraggio di andarsela a prendere.
Fu Tal il primo a muoversi venendole incontro e scusandosi con voce ora di nuovo serena. Maria non riusciva a spiegarsi come quegli occhi e quella voce potessero riempirsi di tempesta e poi d’improvviso portarti il sole. Chi era quel ragazzo? Iribus? Tal? Entrambi? E il re Alibert come mai si era ridotto così? C’era troppa confusione, e il troppo divenne oltremisura quando giunsero nella sala dei banchetti.
Un pesante tavolo rettangolare troneggiava nel centro e tutt’intorno lo scalpiccio dei cavalieri si mischiava ai risolini acuti e sguaiati delle dame.
Quello fu il momento in cui Maria si sentì più inadeguata: dovunque si voltasse
c’erano abiti dai colori sgargianti, gonne frastagliate e svolazzanti, cappelli anche a tre pieghe ornati dalle piume più variopinte. E poi i movimenti aggraziati dei paggi che chiedevano alle dame di ballare, gli inchini, la finta timidezza, le danze che ricominciavano, persino l’agnello arrosto e il pungente odore di maialino rosolato in aceto le sembrarono così distanti. Lei alle feste non ballava, troppo goffa, non mangiava, troppo vegetariana, ed evitava persino di parlare per timore di dire qualcosa di ridicolo.
Maria odiava il rumore, odiava la confusione, il suo ideale di serata indimenticabile era davanti allo schermo a riguardare per la millesima volta l’addio finale di “Casablanca”.
Non sapeva neanche come le aveva conosciute le persone che amavano stare con lei. Certo Alessia, la secchiona della classe, un altro caso che Veronica avrebbe definito clinico, ci poteva stare, ma come le era capitato Marco proprio non sapeva spiegarselo. Marco era quel genere di persona che ti capisce al volo, che sa cosa ti serve ed è lì pronto a dartelo. E Maria ci avrebbe giurato, sarebbe stato pronto a fuggire anche lì, seduta stante, per tornare in giardino a guardare la luna. Però non doveva più pensarci ormai, aveva ammesso di amare Tal e non si possono amare due persone, sarebbe stato ingiusto, sarebbe stato scorretto, si sarebbe sentita malissimo.
La fuga però non sembrava un’idea così sbagliata... ma eccole lì, pronte a placcarla, quelle mani così sicure, quei movimenti così aggraziati, quegli occhi così dannatamente perfetti. Iribus la trascinò al centro della pista e volteggiarono meravigliosamente scambiandosi sorrisi e sguardi che dicevano più di mille parole. Maria non credeva che danzare fosse così facile, bastava abbandonarsi e aver fiducia.
Lasciarono la festa solo a notte inoltrata sgusciando fra i corridoi ormai deserti, attenti a non disturbare quelle poche coppiette che cercavano un po’ di intimità ma che avevano bevuto troppo per trovarla nelle proprie stanze. Attraversarono
il vecchio portone di noce sbucando nel giardino. Il vento la costrinse a stringersi nelle braccia.
«Ti va di vedere un posto magico?» le sussurrò il giovane avvolgendola nel suo mantello.
«Di che si tratta?»
«Vieni!»
La guidò fra i fiori di cicoria e di biancospino fino all’entrata di un labirinto di siepi.
La guidava con o sicuro, si fermava solo di tanto in tanto per assicurarsi che Maria non fosse troppo stanca o che non avesse troppo freddo. Emersero sulla riva di un piccolo stagno argentato dal quale facevano capolino ninfee gigantesche grandi almeno tre palmi.
«È fantastico!» esclamò Maria mentre un luccio emergeva lesto dall’acquitrino.
Il frinire dei grilli si accompagnava al trillo delle cicale.
«Sediamoci» disse Iribus sfilandole il mantello. Si sdraiarono accucciati l’uno all’altra e perfino l’umidità divenne piacevole.
Nel silenzio interrotto solo dai loro respiri e dal leggero incresparsi dell’acqua, Maria udì un gracidio sommesso. Prima le piacque, poi si sentì pervadere da un brivido inspiegabile, era come se le rane avessero paura, come se chiedessero aiuto e non volessero restare inascoltate.
Il gracidio divenne insopportabile, lo sentì insinuarsi come un serpente fra i fili d’erba, lento e inesorabile.
Maria dimenandosi cercò le mani del ragazzo, poi il suo viso.
Sobbalzò all’indietro. Aveva toccato pelle viscida e rattrappita. Non c’era più traccia degli occhi meravigliosi e dei capelli biondo cenere, ora c’erano solo una bocca abnormemente larga, occhi orrendamente tondi, pelle schifosamente cascante.
Il mostro, con un movimento fulmineo della lingua, catturò al volo una libellula e Maria ringraziò se stessa per non aver mangiato così tanto alla festa. In verità, quel che era rimasto di Tal cercò anche di dire qualcosa, ma lei scattò in piedi come una molla urlando.
Sentì la melma invadere le scarpette di tela, ma non aveva alcuna intenzione di fermarsi. L’aria venne scossa dalla “cosa”, che accovacciandosi si diede una spinta prodigiosa per balzare proprio di fronte a lei. Maria svicolò fulminea perdendo però presa sulle ginocchia «Lasciami! Non ti avvicinare!» La corsa ricominciò, solo che stavolta la strada era senza via d’uscita, c’era il muro d’acqua a sbarrarla. Sapeva che lì dentro non aveva alcuna possibilità di cavarsela. Aveva paura, era solo il terrore a dominare sovrano. Un balzo, il freddo muro d’acqua. Acqua dappertutto.
Il primo tentativo di Maria con il nuoto risaliva a quando aveva solo tre anni, era stato papà Carlo a lanciarla con i braccioli nella piccola piscina comunale. Quello che papà Carlo non sapeva era che i braccioli erano bucati, e così c’erano voluti pochi attimi prima che la piccola cominciasse ad andare a fondo. Lei ricordava solo la luce del sole spegnersi e una gigantesca ombra calare fino a inghiottire tutto.
In quel momento si trovò a fissare la stessa ombra che si avvicinava, lenta e inesorabile. Provò a scuotersi, ma i sensi erano intorpiditi, si muoveva in un mare di gelatina. Poi qualcuno abbassò il volume. Era come vedersi attraverso una macchina da presa, i contorni sfumati, le movenze d’ovatta, il mondo che perde di consistenza, il buio.
«Non si arrenda… non si arrenda… ricordi che questo non è ancora il finale…»
«Chi sei?»
«Apra gli occhi…»
«Ti prego, solo altri cinque minuti…»
«Apra gli occhi…»
Maria alzò lo sguardo dal foglio, la classe pendeva tutta dalle sue labbra. Persino Felice Festa, l’antistudio per antonomasia, se ne stava tutto assorto a fissarla con
i suoi occhietti umidicci.
«E poi?» domandò la Cinghi riassumendo il desiderio di tutto l’uditorio.
Maria si prese tutto il tempo del mondo, godendosi le loro puerili sofferenze. Fissò la professoressa, poi di nuovo la classe, si asciugò con una manica il sudore che aveva iniziato a imperlarle la fronte, infine tossicchiò schiarendosi la voce.
Quando aprì gli occhi era avvolta in un morbidissimo oceano bianco e solo una timida luce filtrava dalle due finestrelle in alto illuminando il comodino. Non aveva per niente voglia di lasciare quel rinnovato tepore ma si costrinse a rialzarsi.
«Stretch!» urlò «Stretch, ci sei?»
Nessuna risposta.
Un brivido le pervase la schiena quando i piedi nudi toccarono il pavimento.
Si lasciò scivolare nello stretto corridoio con o d’ovatta, era ancora terrorizzata dal viscido ricordo dell’uomo rospo.
Scese le due rampe di scale che conducevano al piano inferiore.
Annusò un aroma intenso di pepe e cannella. Non mangiava da troppo, seguì la scia senza indugiare.
Una strana sensazione.
La cucina era un piccolo vano triangolare molto spartano: un tavolino nel mezzo, i doppi ripiani per la credenza, erbe e stoviglie che pendevano dai ganci sulle pareti.
Si avventò sulla pentola al centro del tavolo e la scoperchiò.
L’insolita salsina aveva un aspetto tutt’altro che rassicurante, grigiastra con venature azzurrine e piccole palline gelatinose che emergevano qua e là.
Si fece coraggio e ne afferrò una, era terribilmente molliccia. Ma non si dove fare gli schizzinosi e Maria la vegetariana si diede da fare. Certo, le sarebbe dispiaciuto davvero molto divorare un cavalluccio marino o magari lo splendido luccio che aveva visto la sera prima, ma si impose di non pensarci. Aveva fame e non voleva morirne.
Qualcosa di davvero terribile, però, l’attendeva.
La porta della cucina si spalancò e loro entrarono.
Sentì le forze mancare. Non c’era davvero possibilità che stavolta la fe franca. Certo, avrebbe potuto urlare, magari usare la pentola come arma, ma poi si sarebbe arresa.
Desiderò tanto svenire, ma la paura glielo impedì. Pensò a cosa avrebbe fatto un’eroina dei film al suo posto. Xena di certo non si sarebbe arresa, Yolanda altrettanto, c’era da scommetterci che anche lei avrebbe venduto cara la pelle, ma Maria non era né una principessa guerriera né un’impavida corsara, soltanto una ragazzina spaurita vittima di un sogno dal quale non riusciva a riemergere.
Così rimase immobile a fissarli con lo sguardo dell’animale braccato mentre loro, sussurrandole qualcosa che non comprese, si avvicinarono circondandola.
V
Il trono di ninfee galleggiava sulle placide acque di una vasca da bagno grande quanto un campo da calcio. Il gorgoglio delle bolle rosa e carta da zucchero avvolgeva tutto in una nuvola soffice e vaporosa che profumava di lavanda e ibisco.
Là, là, là, io son qua,
che mi accingo a lavar,
per la mia dolce pulzella,
dove sei Maria mia bella?
Tal si stava spazzolando con una spatola grande quanto il tronco di una quercia.
«Oh, finalmente sei arrivata, mia principessa» “Che voce dolce...” ma doveva scordarsela. Lui aveva sempre mentito.
«Cra, cra, arrivata! Già proprio arrivata!» gracidarono in coro le zelanti rane
sedute sugli spalti che circondavano la vasca gigante.
«Mamma, cra, quanto è brutta, cra! Ma cosa ha fatto alla pelle, cra? È così rosa!»
«Zitto, cra, questo è quello che succede se prendi troppo sole, sei così ignorante, cra!»
Maria non aveva mai visto rane simili, le femmine sfoggiavano piccoli ombrellini colorati e vistosi chignon variopinti delle guise più impensabili, non mancavano quelli rosa melassa e persino i gialli tamarindo. Gli uomini invece indossavano shorts bianchi da tennisti, Converse in tela grigia e i più stravaganti si concedevano anche pantaloni a righe marinare o T-shirt dei Craccron-Maiden, almeno così le sembrò di leggere sulla testa stilizzata di un rospo che suonava uno stelo di foglia.
«Non aver paura» la incoraggiò Tal. «E voi lasciatele i polsi! Spero solo che non le abbiate fatto del male o provvederò a scuoiarvi vivi io stesso!» Le rane bardate di armature a piastroni lasciarono andare Maria e balzarono via da dove erano venute.
Lei si guardava le scarpe per non dover incrociare tutti quegli sguardi tanto curiosi.
«Suvvia, non essere timida, spogliati ed entra in acqua».
La ragazza non si mosse.
«Che c’è? Perché te ne resti impalata come una statua di sale? È la pelle viscida che ti fa paura? O forse sono queste zampe così goffe e rugose? Sappi che con le stesse zampe goffe e rugose ho dato speranza e sogni al mio popolo. Ma cosa vuoi saperne tu? Per te siamo come ci ritraggono nelle fiabe, mostri figli di un incantesimo…»
Maria si sentì avvampare anche se non riusciva a spiegarsi il motivo, si limitò a incavarsi maggiormente nelle spalle.
«…Ma i mostri siete voi. Voi con la pelle liscia e le mani di fata, voi che tutto toccate e avvelenate, voi che uno stagno è solo un altro posto da insozzare e voi, sempre voi, che fate gli schizzinosi quando la nostra pelle incontra le vostre dita. Resta pure lì se ti aggrada, vorrà dire che sarò io a venire a prenderti».
«Cra, cra, cra, cra!»
«Vai capo, cra!»
«Falle vedere, falle vedere, cra!»
Con poche bracciate Tal fu a riva. Maria non riusciva a muoversi, le parole di prima avevano infranto il vetro di una finestra. Aveva voltato le spalle al ragazzo che diceva di amare solo perché non c’erano più gli occhi di giada e il sorriso perfetto. Lei Maria dell’amore eterno, lei Maria che l’aspetto non conta e sempre
lei Maria pronta a chiudersi in un angolo a piangere da sola quand’erano gli altri a tacciarla come la diversa, la secchiona, quella noiosa. Non era forse anche lei una mutante al pari di Tal?Maschera di fresco bouquet su una montagna di sterco.
Si accorse appena del freddo anello ghiacciato che le avvolgeva i polsi, della molle pelle priva di calore che sfiorava la sua, Tal infine baciò una statua di ghiaccio, ma fu sufficiente. L’incantesimo non richiedeva particolare coinvolgimento emotivo o forse, e chi può negarlo, l’essere assenti era una condizione che accelerava il processo come in un paziente sotto anestesia. Un fremito le scosse le ginocchia, brividi di febbre s’insinuarono come lingua di vipere. Non fece male, ma fu tremendamente fastidioso.
A poco a poco i tendini si restrinsero, la proporzione delle cose variò poiché le guardava dal basso, le gambe si arcuarono, Maria fu quasi soffocata dalla lingua che si avvolgeva su se stessa e non la smetteva di allungarsi.
In pochi attimi sentì i propri occhi morire e rinascere e con essi il mondo che la circondava. I rumori erano diversi, più intensi, come se qualcuno giocasse con la manopola del volume, non era mai stata interessata tanto all’aria e ai suoi fremiti, alle sinfonie di ricami che il vibrare d’insetti intesseva su quella tela. Uno di loro ò troppo vicino. Maria non ne distinse il nome né il tipo. Sentì per istinto che non le importava, doveva solo prenderlo al volo e lo fece. Patatine fritte che scrocchiano. È strano pensare come gusto e repulsione camminino simmetrici sul binario delle apparenze.
«Vedo che fai in fretta ad abituarti, sarai una splendida regina» Tal si sciolse in un sorriso indecifrabile. «Vieni, è giunto il momento che tu venga iniziata all’acqua».
Maria sentì che i mutamenti non erano ancora terminati, l’aveva percepita dal primo momento in realtà, una voglia incontrollabile, un desiderio profondo di tuffarsi. Sì, proprio lei che temeva l’acqua più di tutto dopo gli ospedali, lei che al mare indossava i braccioli e sempre lei che nella vasca aveva ancora Little Duck con l’infantile speranza che la proteggesse. Una carezza calda e ristoratrice, il profumato tepore di lavanda s’insinuò fra i pori che si dilatarono impazziti come i boccioli dei fiori quando sentono che il sole è vicino.
S’immerse fino agli occhi spingendo solo con le zampe posteriori. Quella era stata sempre una sua speranza nascosta: essere sospesa fra due mondi, fra ciò che si vede e ciò che si percepisce, uno sguardo in basso, il fondo vuoto e foriero di illusioni, uno sguardo in su, la realtà così già piena dalla quale invece immaginare di sottrarre qualcosa.
Sentì la zampa di lui cingere la sua e fu come quel sogno fra la poiana e il falco. Ecco che rivivevano. Non c’era bisogno di parlare, come in ogni vera storia d’amore, solo di lasciarsi andare, che è quanto aveva appreso con il ballo. Filarono a pelo d’acqua giocando a mischiare ordine, pelle e carezze, s’immersero giù, sempre più giù, fino a toccare il fondo. Le urla di giubilo del popolo di rane s’attutirono, i contorni si smussarono, i gesti si ammorbidirono. Maria non poteva credere che un ritaglio contenesse tutto quel mondo, sembrava non ci fosse limite a quanto potessero scendere.
Un banco di pesci simili a nastri colorati emerse da un ciuffo di Lingulodinium polyedrum,volgarmente detta “polvere di stelle”, cascata d’azzurro fluorescente in un mare di blu. E poi l’arancio delle colise, il rosso selvaggio dei pesci pagliacci, il giallo ocra intinto di zaffiro dei pesci chirurghi, Maria notò che non si esagerava affatto quando si descrivevano le loro pinne caudali come aculei simili a un paio di bisturi.
«Vuoi vedere un posto meraviglioso?» Il destino si divertiva a proporre giochi mai visti.
S’immersero in uno strettissimo cunicolo sotterraneo.
L’apertura si allargò al loro aggio e questa operazione di espansione continuò anche quando furono dentro. Le pareti erano una meraviglia e alternavano cascate di quarzi a pietre rotonde e piccole come mignoli del tutto simili alle ciliegie.
Riemersero infine in un’ampia grotta illuminata a giorno. La luce solare in realtà filtrava solo da una piccola apertura in alto fra due rigonfiamenti rocciosi ma il soffitto, incastonato di rubini, faceva da specchio riflettendola in ogni anfratto.
«Ti piace?» Maria poteva sentire il battito accelerato del suo cuore.
«È il posto più bello del mondo».
«Sai, in realtà non so, non è che abbia visto tanto. Ho sempre desiderato viaggiare…»
«E perché non l’hai mai fatto?»
Tal sembrò immergersi in un universo lontanissimo. Quel genere di universo confinato nella memoria, dove ognuno di noi fatica a tornare e dal quale tuttavia non può mai allontanarsi del tutto.
«Mio padre e mia madre un tempo erano una gran coppia di sovrani. Anzi, sono certo di non peccare di immodestia se dico che loro sono stati di sicuro i migliori sovrani che le rane avessero avuto da secoli. Però alla storia mancava un dettaglio, quel genere di dettaglio che rende la trama realmente degna di essere vissuta» Tal si arrestò un attimo. «Vennero da ogni dove con filtri di fertilità improponibili e cure estremamente fantasiose. Ma gli anni avano e la tristezza aumentava, finché un giorno mia madre, rana dalle infinite risorse, decise di prendere il toro per le corna e rivolgersi alla Vecchia del bosco e al suo magico altruismo. La Vecchia accettò, amava davvero aiutare gli altri, ovviamente in cambio di piccoli compensi. Il piccolo compenso quella volta prevedeva la vita di mia madre, insomma un’anima per un’anima. Lei fu felice, la vecchia fu felice, persino il popolo fu felice quando ricevette la notizia della mia nascita imminente. Si ritenne solo giusto non indagare sulla felicità di mio padre» Tal fissò il soffitto chiudendosi in un impenetrabile silenzio rotto solo dal gorgoglio monotono delle onde.
«Se non te la senti...» cercò di intervenire Maria che aveva un groppo in gola.
«No, è giusto tu sappia. L’ho sentito dal primo momento: tu sei diversa. Hai qualcosa di molto simile al vento, vieni con la lentezza della brezza e poi scuoti tutto con la furia della bora, ma è una scossa necessaria, di quella che fa cadere giù dai rami solo le foglie secche e i frutti vuoti» Tal si prese qualche altro attimo, poi ricominciò. «Mio padre fu davvero felice per la mia nascita, ma sentiva che qualcosa non andava. Il viso di mia madre era velato di un’inspiegabile ombra, l’ombra di chi sa che non si potrà godere ciò che ha così ardentemente aspettato. Il re insistette tanto che la regina gli raccontò del patto. Ordinò che si disponesse l’esercito, che fossero chiamati i più grandi consiglieri, pensò persino a una fuga, ma sapeva che combattere la magia con quegli stratagemmi era come voler catturare il vento con un sacco di iuta. Occorreva altra magia, un altro patto. Non c’era mago in tutta la regione che avrebbe osato sfidare la Vecchia del bosco, o almeno nessun mago che si definisse rispettabile. Fu così che dovette scendere molto più in basso, fin nei sotterranei della magia stessa, esplorare i meandri dell’arcano proibito, i Rinnegati. Una classe di stregoni banditi dall’ordine che riempiva le celle più dimenticate. Ma lui era un innamorato e si sa quanto gli innamorati siano ricchi di tentativi disperati» Tal
sorrise mestamente. «Non ci mise molto a trovare chi cercava: Magus. Il patto fu sancito, la vita di mia madre sarebbe stata risparmiata finché fossero state mantenute tre condizioni: la libertà di Magus, la sua permanenza a corte e la separazione di mio padre da mia madre finché non si fosse sciolto il sortilegio.
Anime che s’amarono alla pazzia,
amore più intenso che ci sia,
altro amor più grande è l’unica via,
la stessa carne per scioglier la follia.
Un amor che non abbia paura della forma
Un amor che il buio non interrompa
Un amor che il dolore non disprezzi
Un amor che nella rinuncia più si apprezzi.
L’indovinello si rivolgeva a me, la stessa carne per sciogliere la terribile maledizione». Tal aveva gli occhi lucidi.
Maria non sapeva cosa dire, sentiva solo che adesso la sua vita aveva un senso. Non poteva limitarsi a scorrere le solite immagini sul solito divano. A quanti era data la possibilità che le veniva offerta? Non si riferiva a tutto quell’universo di meraviglie che stava vivendo, ma alla scelta, allo scopo, in quanti ecco avevano uno scopo che li venisse a cercare? In quanti venivano rincorsi dal senso? I più erano ombre che si addensavano intorno a un lumicino, a lei veniva offerto il sole, un’impresa impossibile più grande di qualsiasi altra di cui avesse mai letto o udito, più grande di Tristano e Isotta, più grande delle avventure di Sherazade, si trattava d’inventare l’amore e non l’amore comune, ma il più grande e il più bello che si fosse mai visto.
L’aveva immaginato caldo, come abbracci che ti soffocano, fu invece freddo, corpi di ghiaccio che si sfiorano. L’aveva immaginato al buio, timido, nascosto, fu invece sfrontato, luminoso, dannatamente evidente. L’aveva immaginato triste, oh sì, davvero triste, come tutte quelle cose che fai la prima volta e che poi non ritornano mai più uguali, e invece si sentì piena, un’anfora gonfia d’acqua, riempita, soddisfatta, sicura di sé, sicura di lui, incurante del resto.
Quando finirono d’amarsi non si lasciarono andare del tutto, lei rimase accoccolata sul suo petto.
«Pensi che le stelle esaudiscano davvero i desideri di chi le guarda?»
«Credo che esaudiscano i desideri di chi ci crede».
«E tu ci credi?»
«Vorrei tanto, ora che so cosa chiedere».
«Cosa?»
Non lo seppero mai. L’acqua fu smossa da un gorgoglio terribile e il serpente afferrò Tal per le caviglie tirandolo dentro.
VI
«Non ti avvicinare!» le urlò Tal. «Va’ via! Va’ via di qui! Lui adesso sa! Va via!»
«Non posso, non posso andarmene! Non adesso!»
«Devi, se mi ami. È te che vuole, non può…»
Fu ricacciato sott’acqua.
Maria era una statua di sale. Il serpente emerse da solo, strisciando sulla riva. Lungo almeno sei metri, doppio come un tubo dell’acqua, occhi d’ambra spruzzati di verde, terribilmente penetranti.
«Hiss, ecco il sole che scioglie la neve, ecco la viandante che dorme distante, ma che alla mia fonte costante beve». Lo stesso brivido sinistro. «Hiss, non aver paura, fuggire non ora, lascia la corda, lascia che morda!»
Sentì il gelo d’inverno, e le spire che si avvolgevano intorno alle caviglie furono solo le propaggini visibili di ciò che era nascosto.
Se ne stavano tutti incollati al posto come se sapere il resto della storia fosse la cosa più importante del mondo. Anche la Cinghi smosse il suo debordante culone con l’eleganza di una balena, lentamente, a fatica.
«Su, ragazzi, è ora di are a Foscolo» Il suo tono assomigliava a quello che aveva la mamma di Maria quando s’imponeva di mangiare il sedano per la dieta.
«Sì, ma almeno ci dica come è andata a finire. Il serpente l’ha strangolata, vero? Sono sicuro che è così. Nei film d’avventura i boa non la fanno mai fare franca a nessuno. Ti afferrano la gamba così, e poi la torcono in questa maniera e…» Felice Festa stava riproponendo fedelmente la scena di uno strangolamento, torcendo il collo della sua bottiglietta d’acqua minerale.
«Che sciocco che sei, e anche ignorante. Proprio un gran bell’ignorante» intervenne Veronica con la sua aria di superiorità. «È evidente che il rospo è tornato indietro per salvarla. Ha ucciso il serpente e ha baciato Maria. Così l’incantesimo è stato sciolto e si sono trasformati entrambi. Ecco come finiscono le vere storie di principesse». Aveva gli occhi a lucciconi.
«Ma cosa dite? Le pietre rosse che emergevano dal soffitto erano in realtà le uova di una razza aliena mutante. Tutto quel trambusto le ha svegliate e i piccoli sono venuti fuori con le loro zampette pelose» Giorgio si fermò a tamburellare con i polpastrelli godendosi l’espressione di disgusto che aveva preso Veronica. «Poi sono piovuti sul serpente e hanno avuto la loro cena».
«No! No! No! Sono arrivate le altre rane a salvarli».
«E Stretch? Che fine ha fatto Stretch?»
«Già, dove si è andato a nascondere quel fifone di un quaderno?»
Maria non poteva che fissarli divertita. Aveva sempre creduto che quella fosse la parte più bella di una storia, l’interruzione. In quel momento eri un dio dannatamente potente che poteva vedere tutta la magia all’opera. Abbattere montagne, erigere castelli, mandare la tua mongolfiera in soccorso di Robinson sull’isola o, perché no, rendergli la vita difficile mettendoci qualche selvaggio un po’ più selvaggio di Venerdì. Sì, Maria era sempre più convinta che le parti più belle di una storia fossero in assoluto quelle che non leggevi.
La Cinghi mordendo ossessivamente il tappo della sua stilografica sembrava combattuta da un terribile dubbio esistenziale. Ondeggiò pericolosamente sulla sedia due volte. Fissò la classe, poi di nuovo Maria, un’altra volta la classe, poi il foglio, poteva ritirarlo e forse portarselo a casa con la scusa di voler controllare se fosse grammaticalmente corretto e magari sciropparselo tutto davanti al corso di aerobica che non avrebbe mai seguito, ma non lo fece. Non voleva aspettare tanto, quei ragazzi non erano mai stati così attenti e sì, si sentì di pensarlo (non certo di dirlo), Foscolo ormai nessuno l’avrebbe cambiato, se ne stava lì con i suoi “Sepolcri” praticamente identici da due secoli. Quella storia lì invece era viva, in divenire, mai sentita, coinvolgente. Prese la sua decisione, sofferta, ma la prese.
«Vada avanti signorina, c’è qualcosa che non ho capito».
Il serpente schizzò via e si sentì puzzo di bruciato e di uova marce. Un guscio dorato avvolgeva il corpo di Maria dandole una sensazione di piacevole tepore.
«Sono qui, non abbia paura» una voce familiare.
«Stretch?» la rana era incredula.
«E chi altri se no, signorina Maria?»
La luce implose in un piccolo globo dorato, brillante come un doblone. Aveva gambe e braccia sottili, dei fili di spago, e la testolina simile alla capocchia di uno spillo.
«Svelta! Svelta! Mi segua!»
«Ma dove Stretch? Dove andiamo?»
«Magari lo sapessi, signorina. Ma alla speranza non è dato sapere, solo provare, tentare, muoversi, brillare senza una strada precisa».
Stretch come suo solito era terribilmente enigmatico, ma vedere il serpente che ricominciava a strisciare le mise le ali ai piedi.
«Presto! Presto!» Stretch schizzò via con la velocità di una cometa fermandosi proprio dinanzi all’imponente parete rocciosa. La pietra, come cera che si scioglie in prossimità di una candela, mollemente rivelò uno stretto cunicolo buio e profondo. L’interno era un dedalo infinito di strade che si intersecavano, Maria stentava a credere che in un aggio così stretto si potesse scegliere quale percorso intraprendere.
«Dove siamo?»
«Questo è il Cunicolo delle Possibilità. Solo pochi possono vantarsi di averlo attraversato almeno una volta signorina, si senta onorata. Le possibilità sono fra le creature più sfuggevoli di ogni storia. Amano così tanto la gente eppure sono altrettanto timide, se non le si incoraggia, in un modo o nell’altro, finiscono per farsi vedere sempre di meno come le camicie che stanno infondo al cassetto, finché un bel giorno spariscono per davvero. Oh guardi, eccone una…»
Le sembrò di scorgere lo strascico bianco di un abito, ma quando si voltò c’era solo il buio.
«La seguiamo?»
«Se lo ritiene giusto...»
La rana pensò che quel labirinto fosse una creazione davvero terribile: niente finestre, niente mura, niente pavimento, niente di niente eccetto il nulla assoluto.
«Non la prenda così male, signorina Maria, ci sono luoghi peggiori. Luoghi talmente pieni che non è possibile mettervi piede, luoghi troppo definiti per poter aggiungere qualcosa, il nulla invece è talmente mutevole, lo riempia come ritiene giusto e vedrà che in un modo o nell’altro si sentirà meglio».
Maria sentiva che il serpente era vicino, ne percepiva lo sguardo fisso, famelico
su di lei, poteva perfino avvertirne il giogo di spire che bramava una preda. Desiderò fuggire via con tutta se stessa e la luce non tardò a rivelarsi guidandoli a sé.
Era un taglio di coltello, Maria si affrettò a tastarlo cercando un appiglio, un’uscita, nulla eccetto la resistenza di qualcosa di duro. Il sibilo si fece più intenso, fremiti di lingua e zanne che schioccavano impazienti, che s’impadronivano del buio. Il sudore freddo della paura si mischiava a quello caldo dello sforzo; spingeva, spingeva davvero forte Maria, in alto, con tenacia, come non aveva mai spinto. Qualcosa si mosse davvero. Prima uno strisciare sommesso, poi veemente il rumore di qualcosa che cedeva.
«Hiss, vieni da me piccolina, non indugiare o viandante, hiss, segui la vocina, non sei poi così distante».
Si fiondò nella luce. Dovette strizzare più volte gli occhi per abituarsi alla ritrovata luminosità del mondo. Un tavolo triangolare, le stoviglie appese alle pareti, la pentola ancora scoperchiata, era di nuovo nella strana cucina.
La testa del serpente emerse dalla botola, Maria fece qualche o indietro inciampando. Il rettile strisciò con la rapidità del fulmine cercando di avvinghiarla.
«Svelta! Svelta! Colga la possibilità!» urlò Stretch balzando ripetutamente sul posto.
«Non capisco, non so cosa sia questa possibilità!»
«Non è importante che lei sappia, si fidi di ciò che sente».
La rana si rimise in piedi a fatica. Cosa sentiva in quel momento? Rabbia, rabbia per quell’orrendo serpente e paura, di certo paura per le sorti di Tal. Si sentiva responsabile, ma non sapeva come quello potesse tornarle utile. Nel suo mondo non bastava odiare qualcuno per farlo sparire né si poteva fingere di sorridere e sentirsi felici, ma non erano nel suo mondo, doveva tentare. Chiuse gli occhi. Un’inspiegabile voglia di zafferano. Fu come se lo zafferano fosse la sua unica ragione di vita e le sembrò assurdo non averne portato un po’ con sé. Dov’era lo zafferano? Dove l’avevano nascosto? Adesso a malapena si ricordava del serpente che era a pochi centimetri.
Si voltò come una furia, come un’affamata che non mangia da giorni, i suoi riflessi sembravano vivisezionare tutto secondo un’ottica precisa. Pentola con salsa inutile, stupido arnese simile a un cucchiaio terribilmente inutile... eccolo! Macinino del caffè altamente interessante.
Schizzò via con Magus alle calcagna, polvere gialla, sottile come la sabbia, che s’insinua in ogni meandro, gli occhi erano terribilmente presi, sentiva perfino le narici che vibravano festeggiando per quell’aroma inebriante. Ma Maria non voleva mangiarlo, voleva farne di più, voleva toccarlo, voleva sentirlo sulla pelle, vi si voleva immergere.
Balzò in alto, molto in alto, slanciandosi sulle possenti zampe posteriori. Riuscì a cogliere ogni attimo come tante perline di una collana, la testa del cucchiaio che diventava grande quanto una pagaia, un mare a righe e quadrettini rossi che ricopriva il tavolo, le onde emesse dal sibilo di Magus che infrangeva l’aria.
Il contatto con lo zafferano fu dei più morbidi. Sentì il mondo capovolgersi e chiuse gli occhi urlando come una disperata.
«La sente, signorina? La sente? Ascolti la furia di qualcosa di nuovo che nasce, ascolti il rumore dell’inizio».
E fu l’ultima cosa che udì prima del silenzio.
Fra le righe
Fra le Righe
di Andrea Fantucchio
Collana Short list
Direttore editoriale: Cosimo de Leo
Progetto grafico: Dorando Panicolli
© 2010 SEM - Servizi Editoriali & Multimediali
Redazione, Via Volta 18 - 20094 Corsico
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ISBN: 9788897093411
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Indice dei contenuti
I II III IV V VI
I
“Hesse diceva: ‘Ho costruito un castello su un'estrema e silenziosa altura; la mia nostalgia sta là e guarda fin alla noia, ed il giorno si fa grigio, principessa, dove sei rimasta?’”
Maria continuava a mordicchiare la penna. Il mostro la fissava con il suo sguardo freddo e imibile. Maledetta pagina bianca!
Alzò gli occhi dal foglio e il suo umore peggiorò ancora. Non c’era traccia della gabbia di metallo che sino a qualche minuto prima minacciava tempesta, solo nuvole panna candida e il sole che iniziava a far capolino. Bene, ora la Cinghi poteva anche portare a so il suo culone… Arpia! Cosa avrebbe scritto, lei, su una frase come quella? Già, cosa avrebbe scritto?
Chiuse gli occhi. Subito l’immagine di Marco (sì, proprio il suo Marco, quello jeans a vita bassa e gran sorriso) prese forma. Indossava una calzamaglia verde pisello, un’attillata camicia azzurra e il cappello con svolazzante cimiero. Era arroccato su una torre e l’aspettava impaziente recitando poesie. Maria si regalò il primo sorriso di quel pomeriggio.
“Magari questa storia fosse un film, così ci metterei un attimo a raccontarla…”
E quella fu la prima volta che accadde.
L’annunciò il vento che quasi staccò la finestra dagli assi, i fogli volarono sul pavimento. Maria urlò.
«Ehi, la smetti di urlare? Guarda che ho le orecchie sensibili! Soprattutto da quando qualcuno si diverte a piegarle ogni giorno» una vocina sottile come uno spillo si udì da sotto la catasta di scartoffie.
Maria si strinse forte nelle braccia.
«Aiutami a rialzarmi!»
«Chi… io?»
«No, la lampada sul comodino. Certo, se avesse le braccia… Oh, ecco fatto!» esclamò fiera la vocina «Lo diceva sempre mia madre che “chi fa da sé fa per tre”; certo diceva anche che quel taglialegna non avrebbe mai tagliato una betulla… Ma questa è un’altra storia».
Maria continuava a tremare guardando incredula lo sconosciuto che faceva capolino dai fogli e dalle matite sparse sul pavimento.
«Che c’è? Non hai mai visto un quaderno?»
Certo che aveva visto un quaderno, ma come quello proprio mai. La copertina rosa shocking gli faceva da busto e attaccate se ne stavano penzolanti un paio di braccia sottili come spaghetti. Le gambe erano altrettanto sottili e cascavano in degli stivaletti da cowboy in cuoio marrone.
«Chi … Chi …» Balbettò.
«Stretch, è un onore conoscerla signorina Maria» Il quaderno spalancò il sorriso più strano del mondo. La sua bocca era priva di denti, c’erano solo piccoli caratteri neri direttamente attaccati alle gengive che adesso formavano la parola sorriso. «Andiamo. Su, non ho tutto il giorno signorina. È ora che gli scritti prendano vita, che i sogni si realizzino, o molto meno enfaticamente che io venga pagato».
«Ma io non ho denaro…» piagnucolò la ragazza.
«Denaro, perché voi esseri umani siete così limitati nell’immaginare la trama?»
«E allora cosa vuole, signor Stretch?» Maria iniziava ad aver paura.
«Una storia. Sì, vorrei proprio una bella storia che sia calda, coinvolgente, inaspettata perfino; le inaspettate sono così rare, non che le solite siano poi milioni…»
«Ma io non ho nessuna storia, è proprio questo il problema! Ho una malattia che forse voi quaderni conoscete bene: la pagina bianca. La sindrome è terribile. E io
ne sto soffrendo in modo che lei, caro il mio signor Stretch, non immagina nemmeno lontanamente».
«Oh, la pagina bianca è un impedimento di poco conto, un piccolo ostacolo da saltare; in realtà la storia è già in testa, c’è solo da immergervisi. Ma anche quella è una bazzecola!»
«Immergersi?» Forse quello era il momento di rivelare al signor quaderno che lei di nuotare proprio non era capace. Ogni volta che ci aveva provato, il panico l’aveva assalita, come di fronte a quella maledetta frase: “Hesse diceva…”
«Esatto, immergersi. Proprio come fa quando chiude gli occhi. I sogni non sono forse storie nelle quali ci immergiamo ogni notte?»
Maria non capiva.
«E adesso si prepari…» Il quaderno balzò sul letto, ormai era a pochi i da lei. L’aria fu increspata da una folata di vento e Stretch iniziò a roteare, veloce come una trottola. Sempre più veloce, finché i suoi contorni scomparvero del tutto.
Cambiò consistenza, era uno specchio d’acqua sospeso a pochi centimetri dal suo naso.
«Mi tocchi…» ordinò.
Maria non si mosse.
«Chi fa da sé fa per tre…» e lo specchio d’acqua si riversò su di lei.
Maria iniziò a cadere, poi a precipitare, sempre più veloce. Il marrone del comodino s’immerse nel bianco della lampada e infine il celeste del soffitto inghiottì tutto.
Caldo, freddo terribile, tiepido buio.
II
«Oh, davvero non volevo, signor Stretch!» si scusò Maria rialzandosi dal cuscino di fogli che aveva attutito la caduta.
«Non si preoccupi, signorina Maria, ci sono abituato» Il quaderno raddrizzò l’orecchia sinistra troppo spiegazzata. «Per inciso, le costerebbe fatica ripormi nello zaino prima del libro di storia? È così pesante!»
«Il libro di storia? Ma certo, sicuro».
Maria gettò uno sguardo intorno. Le querce dai tronchi enormi e nodosi sembravano spingersi fin sulle nuvole incrociando i rami in un abbraccio sinistro che impediva al sole di irradiare il bosco. L’erba era piuttosto rada con qualche pigna alternata ai cappelli dei funghi che facevano capolino fra le sinuose radici. Non aveva mai visto funghi simili, con i gambi color puffo.
«Dove siamo?» domandò incerta.
«Oh, io non ne ho la più pallida idea» rispose candidamente il quaderno che stava ripulendo la copertina dai residui di terra.
«Quindi ci siamo persi?»
«Sì e no».
«Potrebbe essere più chiaro?»
«Vede, noi ci troviamo all’inizio della storia. E l’inizio non è mai del tutto chiaro. Potremmo prendere quel sentiero lì a destra e magari raggiungere Samarcanda, o quello a sinistra e trovare la strada sbarrata da un fiume. E chi può dirlo? La fantasia è così straordinaria».
Maria sconsolata iniziò a piangere.
«Su, via non pianga, non siamo mica al finale, le ho detto che questo è solo l’inizio».
Uno squillo di tromba seguito da uno scalpiccio di zoccoli li fece sobbalzare entrambi.
«Vi dico di aver visto un pezzo di cielo precipitare proprio laggiù!»
«Certo Iribus, certo. E adesso ci dirà anche che ieri notte la fata Morgana è venuta a trovarla a cavallo di una scopa».
Risate scroscianti e scalpiccio insistente.
«Vedrete, vedrete con i vostri occhi! È come dice padre Gustav, questo è un bosco maledetto!»
«Padre Gustav, quel vecchio ciarlatano che farebbe un esorcismo anche a un albero se lo vedesse troppo scosso dal vento».
«Non dovreste burlarvi così della voce di Dio Tal, soprattutto voi…»
«Non una parola Iribus, rammentate…»
Dal sottobosco emersero quattro cavalli. Procedevano in doppia fila, i due bianchi in testa e quelli marroni alle loro spalle. Anche i cavalieri erano altrettanto diversi fra loro: quelli dietro, magri come grissini, portavano un elmo con il cimiero arancione e sembravano gemelli. I due cavalieri davanti, invece, avanzavano entrambi a volto scoperto. Quello più a destra sfiorò appena Maria, come un vento estivo.
L’altro invece era… semplicemente il sole.
Maria si perse in quegli occhi di giada grandi come perle, che la luce si divertiva a tramutare o dopo o in un sogno sempre più bello e indescrivibile. Verde bosco, nocciola, oro fuso: per quanto si impegnasse, era impossibile svelarne il segreto.
«Ecco vedi, è solo una ragazza. E tu che stavi già scomodando Belzebù e i suoi
demoni» Sorrise quello bello come il sole. “Caspita, che denti bianchi e perfetti” pensò Maria che non riusciva proprio a guardarlo senza sentirsi le ginocchia molli.
«Una strega! E se fosse una strega?» domandò l’altro che la scrutava con aria truce.
«Se si tratta di una strega, è una delle più belle che abbia mai visto» Il cavaliere avanzò con andatura lenta ma decisa. Lei non si perse nessuno di quei movimenti aggraziati. Più lui si avvicinava e più la paura si dileguava. Per un momento si dimenticò di tutto il resto, perfino del suo nome.
In verità fu ben più di un momento.
«Allora?» le chiese per la terza volta lui.
«Io? Maria».
Lo sconosciuto scese da cavallo per baciarle la mano e lei sentì il cuore esplodere nel petto e le guance avvampare. Perché continuava a comportarsi come una ragazzina? Un fidanzato ce l’aveva a casa, eppure i suoi pensieri perdevano di consistenza fra quei ricami biondo cenere e nelle trame di quella voce dolce ma profonda.
«Da dove venite damigella?» Adesso era proprio di fronte a lei.
«Io?»
«Dal ducato di Milanto» suggerì Stretch che se n’era rimasto zitto fino a quel momento.
«Milanto» scandì lei cercando di non apparire insicura.
«Hanno uno strano modo di vestirsi a Milanto» Il cavaliere si sciolse in un mezzo sorriso talmente affascinante che le ginocchia della ragazza ricominciarono a tremare. Maria si sentì così imbarazzata pensandosi con la larghissima tuta del pigiama addosso. Non era un bel vedere e lo sapeva.
«Milady di Milanto, vorrei formalmente invitarvi a visitare la città di Torren» recitò con un mezzo inchino il giovane.
«Ne sarei onorata» rispose. «Il vostro nome?»
«Oh, che scortese. Sono sir Iribus di Valle Lunga, cugino del re Alibert».
L’altro cavaliere tossì rumorosamente mentre Iribus l’aiutava a salire in sella.
Cavalcare era molto diverso dall’andare in scooter, si veniva immersi nei rumori circostanti fino a diventarne tutt’uno. Lo scalpiccio del cavallo, il cinguettio degli uccelli, il vento che accarezzava ora le foglie ora i rami scuotendoli, tutto il bosco era una stupenda sinfonia di cui loro facevano parte. Divenne una poiana
che scrutava il mondo dall’alto, com’era fantastico bagnarsi nell’argento della luna. Così vicina alle stelle si accorse di quanto somigliassero ai sogni. Poi uno splendido falco pellegrino si librò maestoso. Le piume, tempesta d’oro fuso in cascate di grigio.
I due si lanciarono in picchiata ricamando figure di danze sconosciute. Ora era lui a guidare con fare deciso e mai goffo, ora toccava a lei che invece goffa lo era sempre stata solo che adesso non faceva che dimenticarsene. Galleggiarono fra i ritagli delle foglie, sfiorarono la terra bagnata con le pance e poi restando così, sospesi fra terra e cielo, continuarono a volare guardandosi negli occhi e fu più bello di qualsiasi bacio Maria avesse mai dato.
Quando si risvegliò lo spettacolo non fu da meno. Avevano ormai lasciato il bosco e si stavano inerpicando su uno stretto sentiero che si raggomitolava fra due valli. Entrambi i versanti erano coperti di neve che lasciava intravedere solo qualche roccia macchiata di muschio, doveva essere da poco giunta la primavera.
«Questo è il sentiero dei Due Amanti» spiegò Iribus indicandole le due cascate che si gettavano a strapiombo e si incrociavano a valle.
«Perché le chiamate così?»
«È in onore di un’antica leggenda. La storia narra come il principe Markus e la driade Dianae si amassero alla follia. A Dianae era possibile farsi vedere solo nelle notti di luna piena e così Markus tornava a trovarla ogni plenilunio. arono gli anni, e il principe non tradì un solo appuntamento. Entrambi sapevano di essere destinati l’uno all’altra anche se per così poco tempo. Markus però continuava a invecchiare, mentre Dianae restava sempre giovane e bella come l’acqua. E così un giorno la morte si prese il principe. La driade però non
si arrese. Tornò quassù ogni plenilunio innamorata perfino del ricordo del suo Markus. Allora gli dei, commossi da un amore così grande, ebbero pietà dei due sventurati e crearono queste cascate simbolo dell’amore periglioso ma eterno».
Maria aveva le lacrime agli occhi e Iribus dolcemente gliele asciugò.
III
«Il principe Tal è tornato! Salutate sua maestà!» Una voce profonda seguita da squilli di tromba annunciò il loro arrivo. Maria sentì vibrare Stretch e cercò di aprirlo senza dare nell’occhio. Sulla pagina bianca fecero lentamente capolino dei caratteri scarlatti:
“CAPITOLO 2: La città di Torren”.
Grasse nobildonne in svolazzanti bliaut verde pastello e viola melanzana stavano fianco a fianco a ragazzine smagrite fino all’osso coperte alla bene e meglio con sdruciti stracci di saio. E poi mercanti dal sorriso affabulatore e lo sguardo furbo, le livree verde acido dei menestrelli che intonavano qualche nota spaiata con il liuto sperando di racimolare qualcosa e bambini che si rincorrevano, tirandosi una palla di pezza incrociata con fili di iuta.
La gente di Torren era una marea che portava a riva una sola domanda: “Chi è la sconosciuta a cavallo?”
Maria sentì qualcuno più audace avvicinarsi per chiedere, altri meno coraggiosi commentare beffardi: “Ma com’è vestita? Lo sapevo che il principe aveva gusti un po’ strani…”
Gli sguardi, in particolare quelli delle nobildonne, erano code di scorpione pronte a colpire.
Fortunatamente, non ci misero molto a raggiungere il castello.
Iribus la lasciò ad attendere nel giardino reale.
All’ingresso si potevano osservare le cascate di viole e di Aster amellus, volgarmente dette “cielo stellato”. I colori freddi facevano da padroni dipingendo trame zaffiro e turchese. Spostandosi verso destra invece riconobbe il tocco più delicato ma altrettanto poetico delle rose e dei tulipani. Anche un piccolo e curioso animaletto decise di non perdersi quello spettacolo sgattaiolando giù dai rami di un’alta quercia cava. Maria in città non aveva mai visto uno scoiattolo che non stesse rinchiuso in gabbia e le sembrò che la libertà lo rendesse cento volte più bello. Si distese sul prato pulsante di vita chiudendo gli occhi per indovinare tutti i mille profumi che la avvolgevano.
«Vedo che qualcuno finalmente si sta godendo l’avventura» la voce di Stretch la fece sobbalzare.
Maria rimase in silenzio, non voleva correre il rischio di svegliarsi e veder scoppiare tutto come una bolla di sapone.
«Guardi che non succederà, signorina. I sogni finiscono solo quando decidiamo di aprire gli occhi».
«Potrebbe anche durare per sempre?»
«Sempre o un secondo, che differenza fa? Durerà finché lei continuerà a credere che sia reale. Guardi, c’è il principe Iribus!» Stretch ritornò nel suo stadio di catatonica immobilità.
«Con chi parlavate, damigella?» Il cavaliere la raggiunse distendendosi sull’erba.
«Non dovete continuare a chiamarmi damigella, Iribus» Si pentì subito di essere stata così diretta.
«Capisco, non sapete quanto vi capisco, è da quando sono nato che combatto per essere chiamato solo con il mio nome e con nessun altro che cerchino di attribuirmi».
«Che intendete?»
Iribus tacque fissandola «Facciamo un patto, io vi chiamerò come più vi aggrada e voi farete altrettanto con me» Si fermò e spostò una ciocca che gli cadeva sugli occhi. «Come volete che vi chiami, dunque?»
«Solo Maria è perfetto».
«Allora sarete solo Maria, mentre io vorrei mi chiamaste Vuoto».
«Vuoto? E perché mai?»
«Perché è così che mi sento quando il vostro sguardo non incontra il mio».
Doveva essere un vero seduttore questo Iribus, un seduttore incallito che distribuiva le sue poesie a ogni ragazza o, come le chiamava lui, damigella. E se invece avesse avuto ragione Stretch? L’amore a prima vista esiste per chi ci crede… Allora forse era il caso svegliarlo da quell’illusione. Sì, gli avrebbe detto: “Iribus, tu sei davvero tutto quello che una ragazza può desiderare, ma prima che ti faccia strane idee devi sapere che il mio cuore appartiene già a un altro. Tu troverai di sicuro qualcuna più meritevole e disponibile”.
Esatto, è proprio così che avrebbe dovuto dirgli, ma non lo fece. Lasciò semplicemente che durasse accoccolandosi sul suo petto.
Quando si decisero a lasciare il giardino, l’orizzonte fiammeggiava da un pezzo.
Salirono un paio di scale a chiocciola che si avvitavano in maniera spaventosa e si arrestarono di fronte a una massiccia porta d’ebano scuro.
«Tuo padre è quassù?» Maria iniziava a provare uno strano senso di inquietudine.
«Adesso sì, questi sono gli alloggi del mago».
«Ha scritto Esiodo: “L'uomo migliore è colui che tutto capisce da sé, sapendo ciò che in séguito meglio sarà. Ma chi non sa capire da sé né ciò che sente da altri,
quello è un uomo da poco”» recitò una voce roca al di là della porta. «Oh, principe Tal» e l’uscio lentamente si spalancò.
«Tal?» fece Maria sorpresa.
L’interno della stanza era un labirinto di provette, pergamene e alambicchi sparsi ovunque. Un grande letto a baldacchino con le lenzuola disfatte e un armadio con l’anta sconnessa rappresentavano tutto il resto dell’arredamento.
Un uomo venne loro incontro inchinandosi molto più profondamente del dovuto. Era di certo molto vecchio, come tradivano le rughe profonde che gli solcavano la fronte e le guance scavate, inoltre faceva di tutto per dimostrarlo lasciando che la fluente barba bianca crescesse incolta così come i capelli che gli arrivavano fin sulla schiena.
«Cosa vi porta qui sire, e per giunta con una…» il vecchio s’arrestò fissando Maria «… ospite».
«Re Alibert, Magus» rispose seccamente il principe.
«Oh, vostro padre è sempre lì che…» ghignò «compone poesie».
Maria si voltò verso la finestra e solo in quel momento sembrò notare il mormorio prodotto dall’uomo che v’era seduto.
Mia cara Deianira,
son anni che attendo,
ascolta ed ammira
l’uom che aspetta piangendo
La voce del sovrano era tremendamente simile alle nenie che intonano le vecchie in chiesa il giorno di Natale.
«Non dovresti andare avanti con la terapia, mago?» sbottò fra i denti Iribus/Tal.
«Sire, si può far divampare un incendio senza vento?» recitò il mago in maniera sibillina.
«Non fare il furbo con me, Magus. È ben più d’un po’ di vento quel che chiedi. Ma conosci la storia della cinghia che voleva sfuggire alla sua sorte, vero?»
«Non potrei dimenticarla neanche se volessi. Io però devo ricordare al mio illustre sovrano cosa toccherebbe invece in sorte invece a chi spezzasse la cinghia…»
Iribus ignorando Maria si avvicinò alla finestra.
Chi è che turba il triste sovrano?
Sei forse tu Deianira, amor lontano?
Il re sembrò scuotersi leggermente «Sei tu che hai rapito la mia Deianira? Sparisci, ladro! Ti farò impiccare! Guardie!» Alibert cercò di afferrare la camicia del ragazzo ma, sbilanciatosi troppo, cadde riverso sul pavimento. Si dimenava impotente mugolando. Maria vide Iribus cercare di celare il pianto mentre lo aiutava a rialzarsi.
«Andiamo, non è stata una buona idea, papà è indisposto» Stringendole la mano, il giovane la strattonò via richiudendosi la porta alle spalle.
«È sempre un onore, sire» li salutò la voce del mago seguita da un sorriso spettrale.
IV
«Iribus! Iribus lasciami, mi fai male!» Maria continuava a urlare. «Tal!»
Il principe sembrò ridestarsi dal suo torpore e, allontanatosi verso la finestra più lontana, la lasciò sola al centro della stanza. Vedendolo così cupo Maria si sentì morire. Ma che le importava? Dopotutto, lo conosceva da mai. Eppure… eppure… aveva quel desiderio inspiegabile di andare lì ad abbracciarlo come si fa con un bambino. E dirgli che sarebbe andato tutto bene. Che in un modo o nell’altro avrebbero trovato una soluzione. Maria non poteva più fingere, quella fu la prima volta in cui si rese conto di amarlo. Ma non glielo disse, non lo abbracciò, non lo baciò, se ne rimase semplicemente così, lontana solo pochi i, divorata dalla struggente incompletezza di chi desidera ardentemente qualcosa ma non ha il coraggio di andarsela a prendere.
Fu Tal il primo a muoversi venendole incontro e scusandosi con voce ora di nuovo serena. Maria non riusciva a spiegarsi come quegli occhi e quella voce potessero riempirsi di tempesta e poi d’improvviso portarti il sole. Chi era quel ragazzo? Iribus? Tal? Entrambi? E il re Alibert come mai si era ridotto così? C’era troppa confusione, e il troppo divenne oltremisura quando giunsero nella sala dei banchetti.
Un pesante tavolo rettangolare troneggiava nel centro e tutt’intorno lo scalpiccio dei cavalieri si mischiava ai risolini acuti e sguaiati delle dame.
Quello fu il momento in cui Maria si sentì più inadeguata: dovunque si voltasse
c’erano abiti dai colori sgargianti, gonne frastagliate e svolazzanti, cappelli anche a tre pieghe ornati dalle piume più variopinte. E poi i movimenti aggraziati dei paggi che chiedevano alle dame di ballare, gli inchini, la finta timidezza, le danze che ricominciavano, persino l’agnello arrosto e il pungente odore di maialino rosolato in aceto le sembrarono così distanti. Lei alle feste non ballava, troppo goffa, non mangiava, troppo vegetariana, ed evitava persino di parlare per timore di dire qualcosa di ridicolo.
Maria odiava il rumore, odiava la confusione, il suo ideale di serata indimenticabile era davanti allo schermo a riguardare per la millesima volta l’addio finale di “Casablanca”.
Non sapeva neanche come le aveva conosciute le persone che amavano stare con lei. Certo Alessia, la secchiona della classe, un altro caso che Veronica avrebbe definito clinico, ci poteva stare, ma come le era capitato Marco proprio non sapeva spiegarselo. Marco era quel genere di persona che ti capisce al volo, che sa cosa ti serve ed è lì pronto a dartelo. E Maria ci avrebbe giurato, sarebbe stato pronto a fuggire anche lì, seduta stante, per tornare in giardino a guardare la luna. Però non doveva più pensarci ormai, aveva ammesso di amare Tal e non si possono amare due persone, sarebbe stato ingiusto, sarebbe stato scorretto, si sarebbe sentita malissimo.
La fuga però non sembrava un’idea così sbagliata... ma eccole lì, pronte a placcarla, quelle mani così sicure, quei movimenti così aggraziati, quegli occhi così dannatamente perfetti. Iribus la trascinò al centro della pista e volteggiarono meravigliosamente scambiandosi sorrisi e sguardi che dicevano più di mille parole. Maria non credeva che danzare fosse così facile, bastava abbandonarsi e aver fiducia.
Lasciarono la festa solo a notte inoltrata sgusciando fra i corridoi ormai deserti, attenti a non disturbare quelle poche coppiette che cercavano un po’ di intimità ma che avevano bevuto troppo per trovarla nelle proprie stanze. Attraversarono
il vecchio portone di noce sbucando nel giardino. Il vento la costrinse a stringersi nelle braccia.
«Ti va di vedere un posto magico?» le sussurrò il giovane avvolgendola nel suo mantello.
«Di che si tratta?»
«Vieni!»
La guidò fra i fiori di cicoria e di biancospino fino all’entrata di un labirinto di siepi.
La guidava con o sicuro, si fermava solo di tanto in tanto per assicurarsi che Maria non fosse troppo stanca o che non avesse troppo freddo. Emersero sulla riva di un piccolo stagno argentato dal quale facevano capolino ninfee gigantesche grandi almeno tre palmi.
«È fantastico!» esclamò Maria mentre un luccio emergeva lesto dall’acquitrino.
Il frinire dei grilli si accompagnava al trillo delle cicale.
«Sediamoci» disse Iribus sfilandole il mantello. Si sdraiarono accucciati l’uno all’altra e perfino l’umidità divenne piacevole.
Nel silenzio interrotto solo dai loro respiri e dal leggero incresparsi dell’acqua, Maria udì un gracidio sommesso. Prima le piacque, poi si sentì pervadere da un brivido inspiegabile, era come se le rane avessero paura, come se chiedessero aiuto e non volessero restare inascoltate.
Il gracidio divenne insopportabile, lo sentì insinuarsi come un serpente fra i fili d’erba, lento e inesorabile.
Maria dimenandosi cercò le mani del ragazzo, poi il suo viso.
Sobbalzò all’indietro. Aveva toccato pelle viscida e rattrappita. Non c’era più traccia degli occhi meravigliosi e dei capelli biondo cenere, ora c’erano solo una bocca abnormemente larga, occhi orrendamente tondi, pelle schifosamente cascante.
Il mostro, con un movimento fulmineo della lingua, catturò al volo una libellula e Maria ringraziò se stessa per non aver mangiato così tanto alla festa. In verità, quel che era rimasto di Tal cercò anche di dire qualcosa, ma lei scattò in piedi come una molla urlando.
Sentì la melma invadere le scarpette di tela, ma non aveva alcuna intenzione di fermarsi. L’aria venne scossa dalla “cosa”, che accovacciandosi si diede una spinta prodigiosa per balzare proprio di fronte a lei. Maria svicolò fulminea perdendo però presa sulle ginocchia «Lasciami! Non ti avvicinare!» La corsa ricominciò, solo che stavolta la strada era senza via d’uscita, c’era il muro d’acqua a sbarrarla. Sapeva che lì dentro non aveva alcuna possibilità di cavarsela. Aveva paura, era solo il terrore a dominare sovrano. Un balzo, il freddo muro d’acqua. Acqua dappertutto.
Il primo tentativo di Maria con il nuoto risaliva a quando aveva solo tre anni, era stato papà Carlo a lanciarla con i braccioli nella piccola piscina comunale. Quello che papà Carlo non sapeva era che i braccioli erano bucati, e così c’erano voluti pochi attimi prima che la piccola cominciasse ad andare a fondo. Lei ricordava solo la luce del sole spegnersi e una gigantesca ombra calare fino a inghiottire tutto.
In quel momento si trovò a fissare la stessa ombra che si avvicinava, lenta e inesorabile. Provò a scuotersi, ma i sensi erano intorpiditi, si muoveva in un mare di gelatina. Poi qualcuno abbassò il volume. Era come vedersi attraverso una macchina da presa, i contorni sfumati, le movenze d’ovatta, il mondo che perde di consistenza, il buio.
«Non si arrenda… non si arrenda… ricordi che questo non è ancora il finale…»
«Chi sei?»
«Apra gli occhi…»
«Ti prego, solo altri cinque minuti…»
«Apra gli occhi…»
Maria alzò lo sguardo dal foglio, la classe pendeva tutta dalle sue labbra. Persino Felice Festa, l’antistudio per antonomasia, se ne stava tutto assorto a fissarla con
i suoi occhietti umidicci.
«E poi?» domandò la Cinghi riassumendo il desiderio di tutto l’uditorio.
Maria si prese tutto il tempo del mondo, godendosi le loro puerili sofferenze. Fissò la professoressa, poi di nuovo la classe, si asciugò con una manica il sudore che aveva iniziato a imperlarle la fronte, infine tossicchiò schiarendosi la voce.
Quando aprì gli occhi era avvolta in un morbidissimo oceano bianco e solo una timida luce filtrava dalle due finestrelle in alto illuminando il comodino. Non aveva per niente voglia di lasciare quel rinnovato tepore ma si costrinse a rialzarsi.
«Stretch!» urlò «Stretch, ci sei?»
Nessuna risposta.
Un brivido le pervase la schiena quando i piedi nudi toccarono il pavimento.
Si lasciò scivolare nello stretto corridoio con o d’ovatta, era ancora terrorizzata dal viscido ricordo dell’uomo rospo.
Scese le due rampe di scale che conducevano al piano inferiore.
Annusò un aroma intenso di pepe e cannella. Non mangiava da troppo, seguì la scia senza indugiare.
Una strana sensazione.
La cucina era un piccolo vano triangolare molto spartano: un tavolino nel mezzo, i doppi ripiani per la credenza, erbe e stoviglie che pendevano dai ganci sulle pareti.
Si avventò sulla pentola al centro del tavolo e la scoperchiò.
L’insolita salsina aveva un aspetto tutt’altro che rassicurante, grigiastra con venature azzurrine e piccole palline gelatinose che emergevano qua e là.
Si fece coraggio e ne afferrò una, era terribilmente molliccia. Ma non si dove fare gli schizzinosi e Maria la vegetariana si diede da fare. Certo, le sarebbe dispiaciuto davvero molto divorare un cavalluccio marino o magari lo splendido luccio che aveva visto la sera prima, ma si impose di non pensarci. Aveva fame e non voleva morirne.
Qualcosa di davvero terribile, però, l’attendeva.
La porta della cucina si spalancò e loro entrarono.
Sentì le forze mancare. Non c’era davvero possibilità che stavolta la fe franca. Certo, avrebbe potuto urlare, magari usare la pentola come arma, ma poi si sarebbe arresa.
Desiderò tanto svenire, ma la paura glielo impedì. Pensò a cosa avrebbe fatto un’eroina dei film al suo posto. Xena di certo non si sarebbe arresa, Yolanda altrettanto, c’era da scommetterci che anche lei avrebbe venduto cara la pelle, ma Maria non era né una principessa guerriera né un’impavida corsara, soltanto una ragazzina spaurita vittima di un sogno dal quale non riusciva a riemergere.
Così rimase immobile a fissarli con lo sguardo dell’animale braccato mentre loro, sussurrandole qualcosa che non comprese, si avvicinarono circondandola.
V
Il trono di ninfee galleggiava sulle placide acque di una vasca da bagno grande quanto un campo da calcio. Il gorgoglio delle bolle rosa e carta da zucchero avvolgeva tutto in una nuvola soffice e vaporosa che profumava di lavanda e ibisco.
Là, là, là, io son qua,
che mi accingo a lavar,
per la mia dolce pulzella,
dove sei Maria mia bella?
Tal si stava spazzolando con una spatola grande quanto il tronco di una quercia.
«Oh, finalmente sei arrivata, mia principessa» “Che voce dolce...” ma doveva scordarsela. Lui aveva sempre mentito.
«Cra, cra, arrivata! Già proprio arrivata!» gracidarono in coro le zelanti rane
sedute sugli spalti che circondavano la vasca gigante.
«Mamma, cra, quanto è brutta, cra! Ma cosa ha fatto alla pelle, cra? È così rosa!»
«Zitto, cra, questo è quello che succede se prendi troppo sole, sei così ignorante, cra!»
Maria non aveva mai visto rane simili, le femmine sfoggiavano piccoli ombrellini colorati e vistosi chignon variopinti delle guise più impensabili, non mancavano quelli rosa melassa e persino i gialli tamarindo. Gli uomini invece indossavano shorts bianchi da tennisti, Converse in tela grigia e i più stravaganti si concedevano anche pantaloni a righe marinare o T-shirt dei Craccron-Maiden, almeno così le sembrò di leggere sulla testa stilizzata di un rospo che suonava uno stelo di foglia.
«Non aver paura» la incoraggiò Tal. «E voi lasciatele i polsi! Spero solo che non le abbiate fatto del male o provvederò a scuoiarvi vivi io stesso!» Le rane bardate di armature a piastroni lasciarono andare Maria e balzarono via da dove erano venute.
Lei si guardava le scarpe per non dover incrociare tutti quegli sguardi tanto curiosi.
«Suvvia, non essere timida, spogliati ed entra in acqua».
La ragazza non si mosse.
«Che c’è? Perché te ne resti impalata come una statua di sale? È la pelle viscida che ti fa paura? O forse sono queste zampe così goffe e rugose? Sappi che con le stesse zampe goffe e rugose ho dato speranza e sogni al mio popolo. Ma cosa vuoi saperne tu? Per te siamo come ci ritraggono nelle fiabe, mostri figli di un incantesimo…»
Maria si sentì avvampare anche se non riusciva a spiegarsi il motivo, si limitò a incavarsi maggiormente nelle spalle.
«…Ma i mostri siete voi. Voi con la pelle liscia e le mani di fata, voi che tutto toccate e avvelenate, voi che uno stagno è solo un altro posto da insozzare e voi, sempre voi, che fate gli schizzinosi quando la nostra pelle incontra le vostre dita. Resta pure lì se ti aggrada, vorrà dire che sarò io a venire a prenderti».
«Cra, cra, cra, cra!»
«Vai capo, cra!»
«Falle vedere, falle vedere, cra!»
Con poche bracciate Tal fu a riva. Maria non riusciva a muoversi, le parole di prima avevano infranto il vetro di una finestra. Aveva voltato le spalle al ragazzo che diceva di amare solo perché non c’erano più gli occhi di giada e il sorriso perfetto. Lei Maria dell’amore eterno, lei Maria che l’aspetto non conta e sempre
lei Maria pronta a chiudersi in un angolo a piangere da sola quand’erano gli altri a tacciarla come la diversa, la secchiona, quella noiosa. Non era forse anche lei una mutante al pari di Tal?Maschera di fresco bouquet su una montagna di sterco.
Si accorse appena del freddo anello ghiacciato che le avvolgeva i polsi, della molle pelle priva di calore che sfiorava la sua, Tal infine baciò una statua di ghiaccio, ma fu sufficiente. L’incantesimo non richiedeva particolare coinvolgimento emotivo o forse, e chi può negarlo, l’essere assenti era una condizione che accelerava il processo come in un paziente sotto anestesia. Un fremito le scosse le ginocchia, brividi di febbre s’insinuarono come lingua di vipere. Non fece male, ma fu tremendamente fastidioso.
A poco a poco i tendini si restrinsero, la proporzione delle cose variò poiché le guardava dal basso, le gambe si arcuarono, Maria fu quasi soffocata dalla lingua che si avvolgeva su se stessa e non la smetteva di allungarsi.
In pochi attimi sentì i propri occhi morire e rinascere e con essi il mondo che la circondava. I rumori erano diversi, più intensi, come se qualcuno giocasse con la manopola del volume, non era mai stata interessata tanto all’aria e ai suoi fremiti, alle sinfonie di ricami che il vibrare d’insetti intesseva su quella tela. Uno di loro ò troppo vicino. Maria non ne distinse il nome né il tipo. Sentì per istinto che non le importava, doveva solo prenderlo al volo e lo fece. Patatine fritte che scrocchiano. È strano pensare come gusto e repulsione camminino simmetrici sul binario delle apparenze.
«Vedo che fai in fretta ad abituarti, sarai una splendida regina» Tal si sciolse in un sorriso indecifrabile. «Vieni, è giunto il momento che tu venga iniziata all’acqua».
Maria sentì che i mutamenti non erano ancora terminati, l’aveva percepita dal primo momento in realtà, una voglia incontrollabile, un desiderio profondo di tuffarsi. Sì, proprio lei che temeva l’acqua più di tutto dopo gli ospedali, lei che al mare indossava i braccioli e sempre lei che nella vasca aveva ancora Little Duck con l’infantile speranza che la proteggesse. Una carezza calda e ristoratrice, il profumato tepore di lavanda s’insinuò fra i pori che si dilatarono impazziti come i boccioli dei fiori quando sentono che il sole è vicino.
S’immerse fino agli occhi spingendo solo con le zampe posteriori. Quella era stata sempre una sua speranza nascosta: essere sospesa fra due mondi, fra ciò che si vede e ciò che si percepisce, uno sguardo in basso, il fondo vuoto e foriero di illusioni, uno sguardo in su, la realtà così già piena dalla quale invece immaginare di sottrarre qualcosa.
Sentì la zampa di lui cingere la sua e fu come quel sogno fra la poiana e il falco. Ecco che rivivevano. Non c’era bisogno di parlare, come in ogni vera storia d’amore, solo di lasciarsi andare, che è quanto aveva appreso con il ballo. Filarono a pelo d’acqua giocando a mischiare ordine, pelle e carezze, s’immersero giù, sempre più giù, fino a toccare il fondo. Le urla di giubilo del popolo di rane s’attutirono, i contorni si smussarono, i gesti si ammorbidirono. Maria non poteva credere che un ritaglio contenesse tutto quel mondo, sembrava non ci fosse limite a quanto potessero scendere.
Un banco di pesci simili a nastri colorati emerse da un ciuffo di Lingulodinium polyedrum,volgarmente detta “polvere di stelle”, cascata d’azzurro fluorescente in un mare di blu. E poi l’arancio delle colise, il rosso selvaggio dei pesci pagliacci, il giallo ocra intinto di zaffiro dei pesci chirurghi, Maria notò che non si esagerava affatto quando si descrivevano le loro pinne caudali come aculei simili a un paio di bisturi.
«Vuoi vedere un posto meraviglioso?» Il destino si divertiva a proporre giochi mai visti.
S’immersero in uno strettissimo cunicolo sotterraneo.
L’apertura si allargò al loro aggio e questa operazione di espansione continuò anche quando furono dentro. Le pareti erano una meraviglia e alternavano cascate di quarzi a pietre rotonde e piccole come mignoli del tutto simili alle ciliegie.
Riemersero infine in un’ampia grotta illuminata a giorno. La luce solare in realtà filtrava solo da una piccola apertura in alto fra due rigonfiamenti rocciosi ma il soffitto, incastonato di rubini, faceva da specchio riflettendola in ogni anfratto.
«Ti piace?» Maria poteva sentire il battito accelerato del suo cuore.
«È il posto più bello del mondo».
«Sai, in realtà non so, non è che abbia visto tanto. Ho sempre desiderato viaggiare…»
«E perché non l’hai mai fatto?»
Tal sembrò immergersi in un universo lontanissimo. Quel genere di universo confinato nella memoria, dove ognuno di noi fatica a tornare e dal quale tuttavia non può mai allontanarsi del tutto.
«Mio padre e mia madre un tempo erano una gran coppia di sovrani. Anzi, sono certo di non peccare di immodestia se dico che loro sono stati di sicuro i migliori sovrani che le rane avessero avuto da secoli. Però alla storia mancava un dettaglio, quel genere di dettaglio che rende la trama realmente degna di essere vissuta» Tal si arrestò un attimo. «Vennero da ogni dove con filtri di fertilità improponibili e cure estremamente fantasiose. Ma gli anni avano e la tristezza aumentava, finché un giorno mia madre, rana dalle infinite risorse, decise di prendere il toro per le corna e rivolgersi alla Vecchia del bosco e al suo magico altruismo. La Vecchia accettò, amava davvero aiutare gli altri, ovviamente in cambio di piccoli compensi. Il piccolo compenso quella volta prevedeva la vita di mia madre, insomma un’anima per un’anima. Lei fu felice, la vecchia fu felice, persino il popolo fu felice quando ricevette la notizia della mia nascita imminente. Si ritenne solo giusto non indagare sulla felicità di mio padre» Tal fissò il soffitto chiudendosi in un impenetrabile silenzio rotto solo dal gorgoglio monotono delle onde.
«Se non te la senti...» cercò di intervenire Maria che aveva un groppo in gola.
«No, è giusto tu sappia. L’ho sentito dal primo momento: tu sei diversa. Hai qualcosa di molto simile al vento, vieni con la lentezza della brezza e poi scuoti tutto con la furia della bora, ma è una scossa necessaria, di quella che fa cadere giù dai rami solo le foglie secche e i frutti vuoti» Tal si prese qualche altro attimo, poi ricominciò. «Mio padre fu davvero felice per la mia nascita, ma sentiva che qualcosa non andava. Il viso di mia madre era velato di un’inspiegabile ombra, l’ombra di chi sa che non si potrà godere ciò che ha così ardentemente aspettato. Il re insistette tanto che la regina gli raccontò del patto. Ordinò che si disponesse l’esercito, che fossero chiamati i più grandi consiglieri, pensò persino a una fuga, ma sapeva che combattere la magia con quegli stratagemmi era come voler catturare il vento con un sacco di iuta. Occorreva altra magia, un altro patto. Non c’era mago in tutta la regione che avrebbe osato sfidare la Vecchia del bosco, o almeno nessun mago che si definisse rispettabile. Fu così che dovette scendere molto più in basso, fin nei sotterranei della magia stessa, esplorare i meandri dell’arcano proibito, i Rinnegati. Una classe di stregoni banditi dall’ordine che riempiva le celle più dimenticate. Ma lui era un innamorato e si sa quanto gli innamorati siano ricchi di tentativi disperati» Tal
sorrise mestamente. «Non ci mise molto a trovare chi cercava: Magus. Il patto fu sancito, la vita di mia madre sarebbe stata risparmiata finché fossero state mantenute tre condizioni: la libertà di Magus, la sua permanenza a corte e la separazione di mio padre da mia madre finché non si fosse sciolto il sortilegio.
Anime che s’amarono alla pazzia,
amore più intenso che ci sia,
altro amor più grande è l’unica via,
la stessa carne per scioglier la follia.
Un amor che non abbia paura della forma
Un amor che il buio non interrompa
Un amor che il dolore non disprezzi
Un amor che nella rinuncia più si apprezzi.
L’indovinello si rivolgeva a me, la stessa carne per sciogliere la terribile maledizione». Tal aveva gli occhi lucidi.
Maria non sapeva cosa dire, sentiva solo che adesso la sua vita aveva un senso. Non poteva limitarsi a scorrere le solite immagini sul solito divano. A quanti era data la possibilità che le veniva offerta? Non si riferiva a tutto quell’universo di meraviglie che stava vivendo, ma alla scelta, allo scopo, in quanti ecco avevano uno scopo che li venisse a cercare? In quanti venivano rincorsi dal senso? I più erano ombre che si addensavano intorno a un lumicino, a lei veniva offerto il sole, un’impresa impossibile più grande di qualsiasi altra di cui avesse mai letto o udito, più grande di Tristano e Isotta, più grande delle avventure di Sherazade, si trattava d’inventare l’amore e non l’amore comune, ma il più grande e il più bello che si fosse mai visto.
L’aveva immaginato caldo, come abbracci che ti soffocano, fu invece freddo, corpi di ghiaccio che si sfiorano. L’aveva immaginato al buio, timido, nascosto, fu invece sfrontato, luminoso, dannatamente evidente. L’aveva immaginato triste, oh sì, davvero triste, come tutte quelle cose che fai la prima volta e che poi non ritornano mai più uguali, e invece si sentì piena, un’anfora gonfia d’acqua, riempita, soddisfatta, sicura di sé, sicura di lui, incurante del resto.
Quando finirono d’amarsi non si lasciarono andare del tutto, lei rimase accoccolata sul suo petto.
«Pensi che le stelle esaudiscano davvero i desideri di chi le guarda?»
«Credo che esaudiscano i desideri di chi ci crede».
«E tu ci credi?»
«Vorrei tanto, ora che so cosa chiedere».
«Cosa?»
Non lo seppero mai. L’acqua fu smossa da un gorgoglio terribile e il serpente afferrò Tal per le caviglie tirandolo dentro.
VI
«Non ti avvicinare!» le urlò Tal. «Va’ via! Va’ via di qui! Lui adesso sa! Va via!»
«Non posso, non posso andarmene! Non adesso!»
«Devi, se mi ami. È te che vuole, non può…»
Fu ricacciato sott’acqua.
Maria era una statua di sale. Il serpente emerse da solo, strisciando sulla riva. Lungo almeno sei metri, doppio come un tubo dell’acqua, occhi d’ambra spruzzati di verde, terribilmente penetranti.
«Hiss, ecco il sole che scioglie la neve, ecco la viandante che dorme distante, ma che alla mia fonte costante beve». Lo stesso brivido sinistro. «Hiss, non aver paura, fuggire non ora, lascia la corda, lascia che morda!»
Sentì il gelo d’inverno, e le spire che si avvolgevano intorno alle caviglie furono solo le propaggini visibili di ciò che era nascosto.
Se ne stavano tutti incollati al posto come se sapere il resto della storia fosse la cosa più importante del mondo. Anche la Cinghi smosse il suo debordante culone con l’eleganza di una balena, lentamente, a fatica.
«Su, ragazzi, è ora di are a Foscolo» Il suo tono assomigliava a quello che aveva la mamma di Maria quando s’imponeva di mangiare il sedano per la dieta.
«Sì, ma almeno ci dica come è andata a finire. Il serpente l’ha strangolata, vero? Sono sicuro che è così. Nei film d’avventura i boa non la fanno mai fare franca a nessuno. Ti afferrano la gamba così, e poi la torcono in questa maniera e…» Felice Festa stava riproponendo fedelmente la scena di uno strangolamento, torcendo il collo della sua bottiglietta d’acqua minerale.
«Che sciocco che sei, e anche ignorante. Proprio un gran bell’ignorante» intervenne Veronica con la sua aria di superiorità. «È evidente che il rospo è tornato indietro per salvarla. Ha ucciso il serpente e ha baciato Maria. Così l’incantesimo è stato sciolto e si sono trasformati entrambi. Ecco come finiscono le vere storie di principesse». Aveva gli occhi a lucciconi.
«Ma cosa dite? Le pietre rosse che emergevano dal soffitto erano in realtà le uova di una razza aliena mutante. Tutto quel trambusto le ha svegliate e i piccoli sono venuti fuori con le loro zampette pelose» Giorgio si fermò a tamburellare con i polpastrelli godendosi l’espressione di disgusto che aveva preso Veronica. «Poi sono piovuti sul serpente e hanno avuto la loro cena».
«No! No! No! Sono arrivate le altre rane a salvarli».
«E Stretch? Che fine ha fatto Stretch?»
«Già, dove si è andato a nascondere quel fifone di un quaderno?»
Maria non poteva che fissarli divertita. Aveva sempre creduto che quella fosse la parte più bella di una storia, l’interruzione. In quel momento eri un dio dannatamente potente che poteva vedere tutta la magia all’opera. Abbattere montagne, erigere castelli, mandare la tua mongolfiera in soccorso di Robinson sull’isola o, perché no, rendergli la vita difficile mettendoci qualche selvaggio un po’ più selvaggio di Venerdì. Sì, Maria era sempre più convinta che le parti più belle di una storia fossero in assoluto quelle che non leggevi.
La Cinghi mordendo ossessivamente il tappo della sua stilografica sembrava combattuta da un terribile dubbio esistenziale. Ondeggiò pericolosamente sulla sedia due volte. Fissò la classe, poi di nuovo Maria, un’altra volta la classe, poi il foglio, poteva ritirarlo e forse portarselo a casa con la scusa di voler controllare se fosse grammaticalmente corretto e magari sciropparselo tutto davanti al corso di aerobica che non avrebbe mai seguito, ma non lo fece. Non voleva aspettare tanto, quei ragazzi non erano mai stati così attenti e sì, si sentì di pensarlo (non certo di dirlo), Foscolo ormai nessuno l’avrebbe cambiato, se ne stava lì con i suoi “Sepolcri” praticamente identici da due secoli. Quella storia lì invece era viva, in divenire, mai sentita, coinvolgente. Prese la sua decisione, sofferta, ma la prese.
«Vada avanti signorina, c’è qualcosa che non ho capito».
Il serpente schizzò via e si sentì puzzo di bruciato e di uova marce. Un guscio dorato avvolgeva il corpo di Maria dandole una sensazione di piacevole tepore.
«Sono qui, non abbia paura» una voce familiare.
«Stretch?» la rana era incredula.
«E chi altri se no, signorina Maria?»
La luce implose in un piccolo globo dorato, brillante come un doblone. Aveva gambe e braccia sottili, dei fili di spago, e la testolina simile alla capocchia di uno spillo.
«Svelta! Svelta! Mi segua!»
«Ma dove Stretch? Dove andiamo?»
«Magari lo sapessi, signorina. Ma alla speranza non è dato sapere, solo provare, tentare, muoversi, brillare senza una strada precisa».
Stretch come suo solito era terribilmente enigmatico, ma vedere il serpente che ricominciava a strisciare le mise le ali ai piedi.
«Presto! Presto!» Stretch schizzò via con la velocità di una cometa fermandosi proprio dinanzi all’imponente parete rocciosa. La pietra, come cera che si scioglie in prossimità di una candela, mollemente rivelò uno stretto cunicolo buio e profondo. L’interno era un dedalo infinito di strade che si intersecavano, Maria stentava a credere che in un aggio così stretto si potesse scegliere quale percorso intraprendere.
«Dove siamo?»
«Questo è il Cunicolo delle Possibilità. Solo pochi possono vantarsi di averlo attraversato almeno una volta signorina, si senta onorata. Le possibilità sono fra le creature più sfuggevoli di ogni storia. Amano così tanto la gente eppure sono altrettanto timide, se non le si incoraggia, in un modo o nell’altro, finiscono per farsi vedere sempre di meno come le camicie che stanno infondo al cassetto, finché un bel giorno spariscono per davvero. Oh guardi, eccone una…»
Le sembrò di scorgere lo strascico bianco di un abito, ma quando si voltò c’era solo il buio.
«La seguiamo?»
«Se lo ritiene giusto...»
La rana pensò che quel labirinto fosse una creazione davvero terribile: niente finestre, niente mura, niente pavimento, niente di niente eccetto il nulla assoluto.
«Non la prenda così male, signorina Maria, ci sono luoghi peggiori. Luoghi talmente pieni che non è possibile mettervi piede, luoghi troppo definiti per poter aggiungere qualcosa, il nulla invece è talmente mutevole, lo riempia come ritiene giusto e vedrà che in un modo o nell’altro si sentirà meglio».
Maria sentiva che il serpente era vicino, ne percepiva lo sguardo fisso, famelico
su di lei, poteva perfino avvertirne il giogo di spire che bramava una preda. Desiderò fuggire via con tutta se stessa e la luce non tardò a rivelarsi guidandoli a sé.
Era un taglio di coltello, Maria si affrettò a tastarlo cercando un appiglio, un’uscita, nulla eccetto la resistenza di qualcosa di duro. Il sibilo si fece più intenso, fremiti di lingua e zanne che schioccavano impazienti, che s’impadronivano del buio. Il sudore freddo della paura si mischiava a quello caldo dello sforzo; spingeva, spingeva davvero forte Maria, in alto, con tenacia, come non aveva mai spinto. Qualcosa si mosse davvero. Prima uno strisciare sommesso, poi veemente il rumore di qualcosa che cedeva.
«Hiss, vieni da me piccolina, non indugiare o viandante, hiss, segui la vocina, non sei poi così distante».
Si fiondò nella luce. Dovette strizzare più volte gli occhi per abituarsi alla ritrovata luminosità del mondo. Un tavolo triangolare, le stoviglie appese alle pareti, la pentola ancora scoperchiata, era di nuovo nella strana cucina.
La testa del serpente emerse dalla botola, Maria fece qualche o indietro inciampando. Il rettile strisciò con la rapidità del fulmine cercando di avvinghiarla.
«Svelta! Svelta! Colga la possibilità!» urlò Stretch balzando ripetutamente sul posto.
«Non capisco, non so cosa sia questa possibilità!»
«Non è importante che lei sappia, si fidi di ciò che sente».
La rana si rimise in piedi a fatica. Cosa sentiva in quel momento? Rabbia, rabbia per quell’orrendo serpente e paura, di certo paura per le sorti di Tal. Si sentiva responsabile, ma non sapeva come quello potesse tornarle utile. Nel suo mondo non bastava odiare qualcuno per farlo sparire né si poteva fingere di sorridere e sentirsi felici, ma non erano nel suo mondo, doveva tentare. Chiuse gli occhi. Un’inspiegabile voglia di zafferano. Fu come se lo zafferano fosse la sua unica ragione di vita e le sembrò assurdo non averne portato un po’ con sé. Dov’era lo zafferano? Dove l’avevano nascosto? Adesso a malapena si ricordava del serpente che era a pochi centimetri.
Si voltò come una furia, come un’affamata che non mangia da giorni, i suoi riflessi sembravano vivisezionare tutto secondo un’ottica precisa. Pentola con salsa inutile, stupido arnese simile a un cucchiaio terribilmente inutile... eccolo! Macinino del caffè altamente interessante.
Schizzò via con Magus alle calcagna, polvere gialla, sottile come la sabbia, che s’insinua in ogni meandro, gli occhi erano terribilmente presi, sentiva perfino le narici che vibravano festeggiando per quell’aroma inebriante. Ma Maria non voleva mangiarlo, voleva farne di più, voleva toccarlo, voleva sentirlo sulla pelle, vi si voleva immergere.
Balzò in alto, molto in alto, slanciandosi sulle possenti zampe posteriori. Riuscì a cogliere ogni attimo come tante perline di una collana, la testa del cucchiaio che diventava grande quanto una pagaia, un mare a righe e quadrettini rossi che ricopriva il tavolo, le onde emesse dal sibilo di Magus che infrangeva l’aria.
Il contatto con lo zafferano fu dei più morbidi. Sentì il mondo capovolgersi e chiuse gli occhi urlando come una disperata.
«La sente, signorina? La sente? Ascolti la furia di qualcosa di nuovo che nasce, ascolti il rumore dell’inizio».
E fu l’ultima cosa che udì prima del silenzio.
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