Luisa Grazzi - Giuliana Guerri - Alessia Pedrotti
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Titolo | La morte non è che l’inizio Autori | Luisa Grazzi – Giuliana Guerri – Alessia Pedrotti ISBN | 9788891118516 Prima edizione digitale 2013
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LA MORTE NON E’ CHE L’INIZIO
Della reincarnazione e del due le leggi avranno luminoso splendore. Il grande regno, invero mirabile e portentoso, sulla terra governerà. Fortuna, pace, unione e ordine: il Principio del Mondo si loderà per lungo tempo.
LIBRO DEI DUALI Tomo 6, Capitolo 27, Sezione 134, Sestina 87
Prologo
Nella Circolaria regnava il silenzio. Era notte fonda e le Savie dormivano. Nepthya, l’Anziana Superiora, aprì la porta della stanza con circospezione. Era giunta l’ora di mettere in atto il suo piano: controllò che nel corridoio non ci fosse nessuno e poi, decisa, si diresse alla scala della Torre. Il cappuccio della tunica era calato in modo da coprirle il capo e parte del volto, con una mano reggeva un cesto di giunco. Giunta al piano terra s’avvicinò alla porta d’ingresso. L’atrio era rischiarato dal fuoco dei sei bracieri nelle nicchie che, a intervalli regolari, si aprivano sul muro circolare della Torre. Le fiamme riattizzate al tramonto si affievolivano, per spegnersi alle prime luci dell’alba. Dalla stanza della guardiana di turno s’udiva un russare profondo: Savia Tecla aveva il sonno pesante. Nepthya aprì l’uscio con cautela adagiando la cesta sui gradini. Con il battiporta di bronzo picchiò alcuni colpi violenti, richiuse in fretta il portone e si nascose nell’ombra, pensando di confondersi tra le altre Savie che sarebbero arrivate di lì a poco. Un vagito acuto si diffuse nel silenzio della notte. Sorpresa e preoccupata, Savia Tecla guardò attraverso lo spioncino del portone ma, non vedendo nessuno, infilò la chiave nella serratura, lo aprì e uscì di corsa. Rientrò con la cesta tra le braccia e si attaccò alla corda della campana tirandola con forza. Le Savie arrivarono una dopo l’altra chiedendosi cosa mai fosse successo. Nepthya riuscì a mescolarsi tra loro con facilità, come aveva programmato. La piccola era avvolta in un brandello di tunica identica alla loro e al collo portava il ciondolo simbolo della comunità. Nepthya lo prese e lo rigirò. “Erien!” esclamò. “E’ il suo medaglione!” Un vociferare si diffuse tra le pareti ricurve. Fu Tecla a rispondere con voce agitata: “Savia Erien è voluta tornare da noi. Ha lasciato la terra, ma è rinata nel corpo di questa creatura!”
“Tecla, come fai a esserne sicura?” “Non possiamo sapere chi si reincarna in questa bambina”. Alle ultime parole fece seguito un mormorio delle altre Savie. Fu Nepthya a rispondere prima che Tecla potesse replicare. “Erien è morta oggi e la sua vita potrebbe essere ricominciata ovunque. Questa neonata è apparsa dal nulla davanti alla porta della Circolaria, ma non basta per dire che sia lei la reincarnazione della nostra sorella”. S’interruppe con un sospiro. “Però è insolito che indossi una parte di tunica e porti il medaglione”. “A me sembra più che una coincidenza” insistette Tecla. “Sul Libro dei Duali è stabilito che non possiamo sapere dove riprenderemo vita, ma non v’è scritto che sia impossibile tornare nello stesso posto da noi lasciato”. “E’ vero, finora non s’è trovata una sola sestina che lo affermi” ammise l’Anziana Superiora. Accarezzò con un sorriso il viso della bambina, che smise di piangere. “Vedete? Savia Erien ci riconosce!” affermò Tecla. Il brusio delle donne si fece più intenso, mentre si stringevano intorno alla cesta per osservare meglio. Erano tutte d’accordo con la Savia guardiana. Nepthya accolse le loro opinioni. “E sia. Erien è tornata tra noi. Accogliamola e riteniamoci favorite dalla sorte”. Le Savie formarono un cerchio e incrociando le mani sul petto chinarono la testa, recitando una preghiera tratta dal libro dei Duali: Noi ci rivolgiamo a te, Principio del Mondo, affinché questa nuova vita possa avvicinarsi alla completezza che culminerà con la fusione nell’Essenza Suprema. Nepthya dispose che la bimba sarebbe cresciuta con loro, mantenendo lo stesso nome della Savia deceduta.
Sollevò di nuovo il cesto: “Tornate nelle vostre stanze. Per ora me ne occuperò io. Domattina contatteremo il dottor Kervis per farci rassicurare sulla salute della piccola, chiedendogli consigli su come affrontare questa nuova esperienza. Poi definiremo i compiti che ognuna di noi si assumerà”. Si avviò per prima alla scala per risalire in modo che nessuno potesse scorgere sul suo volto un sorriso soddisfatto. Solo lei conosceva l’importanza di quel piccolo segno a spirale dietro il collo della neonata. Tutto procedeva come pianificato.
1
Nepthya chiuse il libro e si alzò dalla sedia. Dalla finestra entravano i raggi radenti del primo mattino. Era già l’ora di andare. Misurando i gesti come d’abitudine, l’Anziana Superiora prese l’ampolla di miele. La pianta di biantea, sensibile a ogni movimento, curvò i fiori viola verso di lei. Nepthya allargò con delicatezza i petali maculati e vi versò il liquido caramelloso; subito le corolle si ricongiunsero per raccogliere il nutrimento. “Tu non mi lascerai” mormorò la Savia osservando i fiori impazienti, “posso essere sicura che almeno tu non mi tradirai mai”. Accarezzò le foglie che fremevano alla luce. Il sole stava salendo. Doveva decidersi. Si toccò la treccia intorno alla testa per verificare di essere in ordine. Non aveva mai voluto uno specchio, lo considerava uno strumento di vanità: si conosceva bene senza doversi specchiare. Era di mezza età, con i capelli già bianchi, una ruga profonda tra le sopracciglia e altre pieghe intorno alle palpebre. Solo gli occhi marroni, vigili e fermi, rimanevano quelli di una volta. In diciannove anni s’era un po’ appesantita. Il tempo era ato in fretta, dopo l’arrivo di Erien. Aveva cresciuto la ragazza come una figlia, tenendola nella Torre, lontana dai pericoli della vita e dalle tentazioni di un mondo violento. Ora si chiedeva se non avesse sbagliato. Prima di diventare Savia Nova, Erien doveva allontanarsi dalla Circolaria per sei mesi e conoscere quello che la società poteva offrirle, così da raggiungere una maggior consapevolezza, ma centottanta giorni erano tanti. Troppi. Gli stessi principi della comunità sembravano tramare contro Nepthya e scombinarle i piani, a dispetto dei tentativi per mantenere lo stato delle cose. Neppure lei, giunta al massimo grado delle Savie, poteva infrangere una Norma. Il Libro dei Duali era chiaro. Nepthya non poteva ritardare a lungo la partenza, né impedire alla ragazza di
andarsene. Aveva già fatto tutto il possibile. Avrebbe affidato Erien a Vilya, una nobile fedele che conosceva sin da piccola. Donna Vilya era solita ospitare ogni anno le fanciulle che attraversavano il periodo di conoscenza del mondo al di fuori della Circolaria. Tutte le ragazze accolte nella sua casa avevano poi deciso che la loro strada sarebbe stata quella della comunità di Savie e questo la rincuorava. Si propose di recarsi spesso a trovarla, per verificare di persona come procedeva il periodo di prova. Quei sei mesi sarebbero ati in fetta. Erien doveva tornare alla Circolaria per diventare una Savia Nova e riportare tutto nella norma. Per forza. L’Anziana Superiora esitò davanti alla porta della giovane. “Vieni pure, madre”. La voce dall’interno era calda. Come al solito Erien aveva percepito la sua presenza ancor prima che lei avesse bussato o si fosse annunciata. Nepthya aprì la porta e si fermò sulla soglia. La ragazza si trovava di spalle e i capelli neri, folti, lunghi fino a metà schiena, mandavano riflessi bluastri. Tutto in lei rivelava la grazia: le caviglie affusolate, le forme contenute e armoniose, il collo sottile sulle spalle tornite, il modo di camminare leggero, come se sfiorasse il suolo. Alta e sinuosa, con la carnagione vellutata, le labbra piene, gli occhi grandi e neri come laghi profondi, era bella. Troppo.
Erien era rimasta affacciata a lungo. Dalla finestrella rotonda poteva scorgere il corso del fiume Endro, che girava intorno al borgo di Caleborn. Le era sempre sembrato che la valle fosse contesa tra due parti. Da un lato il bosco verde brillante e i Monti Sospiri, scuri e lucenti, trasmettevano un senso di libertà; dall’altro, la struttura massiccia dell’Esagonato e la Fortezza cupa dei guardiani soffocavano lo sguardo. Al centro si trovava il paese grigio e senza identità, come se fosse incerto da quale parte stare. Erien vi avrebbe vissuto per sei mesi. Fuori dalla Circolaria non c’era solo il panorama, visto dalla finestra, ma persone e cose, idee e fatti. Una realtà sconosciuta e diversa. Solo adesso la giovane si rendeva conto di non sapere niente di quel mondo. A volte era andata in paese per fare commissioni, ma si era trattato sempre di
tragitti brevi e in compagnia di Nepthya o altre Savie. Vivere fuori tanto a lungo era un’altra cosa e si sentiva impreparata. Era come varcare i confini dell’ignoto. Erien non riusciva neppure a immaginare come sarebbe stato. Era questo, forse, a spaventarla di più. Ma non ci avrebbe mai rinunciato. Doveva ammetterlo: voleva misurarsi con il mondo, verificare le sue possibilità, capire quello che succedeva, scoprire chi fosse. Poi, sarebbe tornata alla Circolaria, perché quello era il suo posto, ma più consapevole. Stava preparando la sacca quando Nepthya entrò. La Savia aveva un’aria preoccupata. Le rughe erano più accentuate del solito, gli occhi marroni scrutavano la ragazza, penetranti come se volessero leggerle l’anima. Erien non l’aveva mai vista così. Ma ne conosceva il motivo. “Madre, non essere turbata!” Nepthya continuò a guardarla in silenzio. “Erien non riusciva a prendere sonno Non potrai proteggermi per sempre”. Le sembrava strano dover confortare l’Anziana Superiora, che l’aveva cresciuta con attenzioni e, forse, troppe premure. “Piccola mia…” La ragazza abbassò lo sguardo. La stanza pareva tanto piccola che le sembrava di soffocare. La finestrella tonda dava l’idea di restringersi, procurandole un senso di oppressione. “Spero solo che non ti succeda nulla là fuori…”. Nepthya parlava piano, quasi avesse percepito il senso di estraneità momentanea della ragazza e la volesse tranquillizzare. “Non accadrà, vedrai!” Erien sentì il bisogno di respirare aria fresca. Oltreò veloce l’ingresso della stanza e, silenziosa, si avviò verso le scale. Nepthya la seguì.
La carrozza le aspettava per portarle a Caleborn, nella villa dove la giovane avrebbe vissuto, lavorando al podere del Gelso Bianco come dama di compagnia di Donna Vilya. I cavalli attendevano scalpitanti. Salirono in fretta e, senza più voltarsi, Erien salutò il luogo che l’aveva accolta e cresciuta.
Come di consuetudine, al Podere del Gelso Bianco, alle sette del mattino, Melisia entrava con o veloce nella stanza della padrona e scostava le tende per incontrare la luce del sole. Aveva già provveduto a far riempire d’acqua calda la tinozza di legno; lei stessa aveva aromatizzato il bagno con oli ed essenze e preparato due panni bianchi, soffici, perché Donna Vilya potesse asciugarsi. La padrona, pigramente, si toglieva la mascherina dagli occhi. Dalle tende pesanti non filtrava luce nella stanza, eppure Vilya riusciva a dormire solo con gli occhi coperti. Vezzi da nobili, aveva pensato Melisia un tempo; poi si era abituata ai capricci della donna che, in fondo, non era cattiva. Anzi, con lei era stata generosa, nominandola sua dama di compagnia. Merito delle lezioni paterne, certo, perché tra tutte le cameriere solo lei sapeva leggere e scrivere; ma si meritava quel posto giorno dopo giorno. Con la mascherina in una mano, Donna Vilya si stirava e si alzava con calma; la ragazza le augurava il buon giorno, la padrona ancora insonnolita ringraziava con garbo. Melisia l’aiutava a lavarsi, la consigliava nella scelta del vestito e del trucco, le acconciava i capelli. La padrona era esigente, ma lei sapeva come accontentarla. Dopo un’ora di preparativi, Vilya si sentiva abbastanza ordinata ed elegante per lasciare la stanza. Scendevano nel salone dove le domestiche servivano la colazione del mattino. Di solito Melisia aveva l’onore di sedere al tavolo della signora per farle compagnia. Il marito di Vilya, ricco mercante di tessuti pregiati, s’allontanava spesso per affari, ma lei non sentiva la sua mancanza: frequentava molti amici e usciva spesso. Melisia, intanto, sognava che forse un giorno, se avesse continuato ad assecondare la padrona, questa le avrebbe chiesto di accompagnarla ai tanti eventi mondani. Dopo la colazione Donna Vilya di solito la congedava per fare una eggiata
nel parco dei gelsi; ma quella mattina fece uscire le cameriere e la fissò. “Devo parlarti, Melisia” cominciò seria. Avvicinata una tazza di panna, la mescolò con un cucchiaio. Nonostante mangiasse molto e di tutto, non riusciva a ingrassare. Incerta, la ragazza non rispose subito. “La signora ha bisogno di qualcosa?” La padrona, dopo aver assaggiato adagio una punta di dolce, rispose: “No, devo solo comunicarti qualche cambiamento”. Melisia subito si agitò. “Un cambiamento? Ho forse fatto qualcosa che non avete gradito?” “No, non preoccuparti”. E mentre Vilya parlava, le cucchiaiate diventarono più abbondanti. “Tu sai che conosco l’Anziana Superiora da quando eravamo bambine e che, in nome della nostra antica amicizia, ho spesso ospitato le ragazze della Circolaria per i mesi di prova prima di diventare Novae. Ora mi ha chiesto un favore”. Melisia credette di capire e respirò di sollievo. Vilya stava per chiederle di inserire una nuova fanciulla iniziante nel gruppo delle cameriere. Per lei sarebbe stata un’ulteriore occasione per mettersi in mostra agli occhi della padrona. “Ho promesso di accogliere un’altra ragazza, ma questa volta è diverso. Sai che, diversi anni fa, le Savie trovarono una neonata abbandonata in una cesta davanti alla Circolaria. Nepthya prese a cuore la sorte di quella bambina, allevandola come una figlia e trasmettendole i principi e gli insegnamenti della religione. La ragazza è cresciuta in purezza e semplicità ed è pronta ad entrare nella comunità delle Savie. Ma Erien non è come le altre ragazze che ho ospitato: Nepthya si è raccomandata in modo particolare affinché non le manchi niente e stia lontana da ogni pericolo”. La ragazza deglutì, sfregandosi le mani, inquieta. Tutto quel discorso non le annunciava niente di buono. “Erien avrà un trattamento particolare. Dovrà prendere il tuo posto”. Donna Vilya ripulì con attenzione la panna dalla tazza. “Non pensare che io sia scontenta di te o che non comprenda la tua preoccupazione: è che non posso rifiutare questo favore a Nepthya. Oggi Erien arriverà al podere. Nel frattempo
tu ti trasferirai negli alloggi della servitù e darai una mano alle cameriere. Quando te lo chiederò dovrai farla venire con te, cercando di essere sempre cortese e disponibile e di non perderla mai di vista. Sei mesi ano in fretta e la giovane tornerà alla Circolaria, come tutte le altre che ho ospitato”. Appoggiò il cucchiaio e fissò la sua domestica. “Questo è tutto. Mi auguro di avere come sempre la tua collaborazione”. Melisia fece are qualche istante prima di parlare, sperando che gli occhi non esprimessero ciò che, in realtà, pensava. “Ma certo, Donna Vilya, farò del mio meglio per accontentarvi. Quando vorrete, starò vicino alla ragazza”. “Erien! Si chiama Erien”. Vilya si alzò e senza aggiungere altro uscì dalla stanza. Inchiodata alla sedia, Melisia era un grumo di rabbia. Maledizione! Lei si faceva in quattro per stare accanto a Vilya, e adesso un’altra donna avrebbe preso il suo posto solo perché protetta da Nepthya. Non era giusto! Certo sei mesi sarebbero ati veloci, ma se questa volta l’Osservante non fosse tornata alla Circolaria? Lei sarebbe rimasta una cameriera a vita. Tutto il suo lavoro e i suoi sogni, dove sarebbero finiti? In più, doveva fare anche da balia a quella ‘mocciosa’, pensò sbattendo con collera le mani sul tavolo.
Erien non riusciva a prendere sonno. Era la prima notte che non dormiva alla Circolaria e il suo letto soffice le mancava. Sdraiata sul nuovo giaciglio, si rigirava di continuo, mentre dalla finestra aperta filtrava la luce debole della luna e la brezza leggera e calda del vento le accarezzava la pelle. Nepthya non c’era per darle la buonanotte. Era stata come una madre per lei; una donna risoluta, che l’aveva educata con fermezza, velando nel carattere anche un lato fragile. La considerava sua maestra di vita. Le altre Savie ne erano intimorite, ma con lei non era mai stata dispotica.
Si alzò per bere un po’ d’acqua fresca. La brocca era posata sul comodino di fianco al letto. Erien ne bevve un bicchiere tutto d’un fiato e poi si avvicinò a Vilya che, da ore, dormiva beata. Quella nobildonna l’aveva accolta nella sua casa, era stata gentile e premurosa e ad Erien non dispiaceva. L’orologio a parete rintoccò due colpi. Tornò a letto e senza accorgersene si assopì. Una nuova visione l’avvolse.
Il vicolo era buio. Erien camminava a piedi nudi coperta solo da una lunga tunica bianca. Aveva i capelli scompigliati, era sporca e impaurita. Avanzava lenta, guardandosi intorno alla ricerca di un rifugio. L’aria gelida la faceva tremare; si sentiva stanca, debole. Camminava nell’oscurità cercando una via di fuga, ma intorno a lei c’era solo desolazione. Dal fondo della strada proveniva un odore nauseabondo che la costringeva a coprirsi il naso con la mano. Non riusciva a vedere nulla davanti a sé e decise di avvicinarsi. Percorse pochi i e si fermò, paralizzata dalla paura. Di fronte a lei si ergeva un muro, non di pietra, bensì d’ossa. Ossa umane. Restò ferma cercando di pensare, ma all’improvviso un urlo la fece trasalire. Si voltò. Un giovane sbucato dal nulla stava avanzando verso di lei. Era coperto di sangue e chiedeva aiuto. L’uomo le si parò davanti, la guardò negli occhi per un breve momento e poi, sfinito, le crollò addosso alla ricerca di un sostegno. Erien cadde al suolo. Spaventata cominciò a scalciare, cercando di liberarsi. Ma era troppo esile per spostare il corpo del ragazzo. Iniziò a urlare, ma la voce le si spezzò in gola. La paura la pervase, facendole mancare il fiato; il cuore cominciò a batterle all’impazzata e pianse fino a non riuscire a respirare.
Si svegliò all’improvviso agitata e sudata e si alzò, avvicinandosi alla finestra per respirare aria fresca. Quelle visioni la inquietavano e non riusciva ad abituarcisi.
2.
La processione fu annunciata dal messaggero che la precedeva di una decina di i e che gridava, con le mani intorno alla bocca, girando la testa da una parte all’altra. “Tutti in strada! Assistete all’espiazione del peccatore! Tolam il contadino sta per pagare il suo debito! Accodatevi fino al Pozzo dei Condannati!” Non era un invito, era un ordine. Gli abitanti dovevano lasciare ogni attività e radunarsi lungo le vie dove procedeva la cerimonia. Con la tunica verde delle Anziane Inferiori sotto un ampio mantello viola e il medaglione simbolo della comunità, le Savie Tecla e Mayla aprivano il corteo. Dietro di loro camminavano due nobili, seguiti dai guardiani che trattenevano con una catena spinata il condannato, vestito di bianco e sanguinante per le ferite. Le ali del popolo si riunivano alle loro spalle. I soldati a cavallo controllavano che la gente seguisse il corteo. Qualcuno portava la spada con l’elsa a forma di corna; tutti avevano la catena munita di uncini. Con l’armatura nera a scaglie, appuntita su spalle e gomiti, somigliavano a scorpioni mostruosi. Un uomo, in coda alla processione, ando accanto ad un vicolo guardò in tutta fretta attorno a sé, mentre il guardiano più vicino gli dava le spalle. Si diresse verso la stradina muovendosi tra la folla e poi, con uno scatto fulmineo, cercò di infilarvisi. “Dietro di te! Prendilo!” Al grido del compagno il guardiano si girò, afferrò la catena facendola roteare in alto. Questa si attorcigliò intorno a una gamba del fuggitivo e gli uncini gli penetrarono nella coscia. Noncurante di coloro che si trovavano sulla traiettoria, il guardiano aveva lanciato la terribile arma sopra le teste dei presenti. Poi la tirò senza pietà,
facendo arretrare il cavallo tra la folla. Il sangue schizzava a fiotti dalla gamba dell’uomo e la gente si scostava in fretta. Qualcuno piangeva, altri spingevano, ma nessuno osava intervenire. “Lascialo!” esclamò il secondo guardiano accostandosi a cavallo. “Non vedi che è spacciato? Gli hai tagliato un’arteria”. “Deve assistere anche lui alla penitenza”. “Sarà morto tra pochi minuti. Non sprecare altro tempo”. Il primo guardiano sganciò la catena, la riavvolse e si allontanò con il compagno, mentre parte della folla cercava di soccorrere il ferito.
Nel frattempo la processione era giunta nella piazza principale del borgo, dove si trovava il palco esagonale usato per le esecuzioni e le penitenze. Il popolo si radunò attorno alla struttura di legno, mentre i guardiani a cavallo si mescolavano tra la gente, controllando che tutti guardassero. Altri salirono conducendo il prigioniero, lasciato poi tremante sulla botola circolare al centro del tavolato. I nobili sedettero su due lati, le Savie sugli scranni posti su pedane e sormontati da un esagono e un cerchio. I guardiani si sistemarono tra i nobili e le donne. Tra i mantelli viola delle Savie, le corazze tetre dei guardiani e gli abiti grigi dei nobili, spiccava solo la tunica bianca del prigioniero. Savia Tecla fece un cenno con la testa e uno dei guardiani azionò una leva. Il palco si sollevò in modo che tutti riuscissero a osservare la scena. Il popolo, radunato nella piazza, guardava e taceva. Gurgon, comandante dei guardiani, srotolò la pergamena con l’atto d’accusa. “Oggi, il giorno ventiduesimo nel mese di Avres, anno tremilaquindici, dell’Era Dualitica, verrà eseguita la penitenza di Tolam il contadino, reo di non aver pagato il tributo”. Il comandante fece una pausa che si perse nel silenzio.
“Tolam, il contadino, ha infranto la Norma settantotto ventinove del Libro dei Duali, ove è scritto: è dovere del volgo provvedere al sostentamento delle Savie depositarie della conoscenza e dei guardiani custodi della comunità”. Il prigioniero teneva la testa bassa, con le spalle scosse da singhiozzi. “L’equilibrio della dualità è stato spezzato” dichiarò Mayla. “Che la penitenza abbia inizio” ordinò Savia Tecla. Due guardiani afferrarono le estremità della catena che legava il prigioniero. “Sei cosciente, Tolam il contadino, di aver offeso il Principio del Mondo arrecando un danno alle sue rappresentanti?” domandò Savia Mayla. Le estremità della catena si tesero e poi si allentarono. “Sì!” gridò l’uomo dopo uno spasmo di dolore. “Sai cosa significa offendere il Principio del Mondo?” Un altro strattone alla catena. Il contadino emise un gemito. “Significa dare potere alla parte cattiva del mondo” recitò con voce più debole. A quel punto Savia Mayla pose la prima domanda delle regole. “Che cosa rappresentano la prima causa e il suo contrario?” Il prigioniero doveva dimostrare di conoscere i principi del culto senza sbagliare una sillaba. Nelle prigioni della Fortezza, i guardiani avevano diversi metodi per inculcare la conoscenza. “Sono il dualismo del mondo materiale” rispose il contadino tra i sussulti, “per cui ogni cosa ha il suo contrario. La dualità è alla base di tutto”. “Quante e quali sono le forme di manifestazione della prima causa?” “Due sono le forme della prima causa: nuova e vecchia. Esse rappresentano i cicli dell’Universo”. L’uomo recitò la cantilena del rituale con voce sempre più debole.
“Parla più forte, canaglia!” esplose uno dei guardiani, strattonandolo. La risposta alla domanda seguente fu un grido di disperazione. “La reincarnazione è una conseguenza della dualità!” Tolam riprese fiato e continuò. “Dobbiamo reincarnarci per raggiungere la completezza, osservando gli insegnamenti scritti nel Libro dei Duali e rivelati dalle Savie”. “Che cosa sono i sei elementi?” Tra gli spettatori molti sussultarono. Era una trappola. Savia Mayla aveva invertito l’ordine della sesta e della settima domanda del catechismo. “Il Libro dei Duali risale alla notte dei tempi” rispose il prigioniero in modo automatico; “è scritto in una lingua oscura che solo le Savie possono interpretare. Esso è conservato nell’Esagonato…” La Savia l’interruppe. “Hai sbagliato. Avresti dovuto rispondere: i sei elementi sono le parti che costituiscono il mondo reale. Essi sono terra, aria, acqua, fuoco, spazio e tempo. Terra e aria costituiscono la duale della materia, acqua e fuoco sono la duale dello spirito, spazio e tempo formano la duale dell’etere”. “No, vi prego…” mormorò il condannato tremando. “Non hai imparato la dottrina” sentenziò Mayla. Tecla fece un gesto secco. “Che la tua vita sia interrotta, affinché tu possa reincarnarti e cominciare un’esistenza più consapevole”. Le catene si strinsero. L’uomo lanciò un urlo acuto e si accasciò. Il comandante Gurgon mosse una seconda leva e la botola si spalancò, inghiottendo il corpo martoriato. Il Pozzo dei Condannati aveva ricevuto una nuova offerta.
3.
La bottega del fabbro, in cui lavorava Nolak, era un locale angusto e soffocante. Era un’officina attrezzata con la fucina per arroventare il ferro, il mantice per ravvivare il fuoco nella forgia, l'incudine, il martello e altri utensili necessari. Il giovane vi lavorava da quando, come tutti i ragazzi cresciuti all’Orfanotrofio, al compimento del diciottesimo anno aveva iniziato l’apprendistato per mettere a frutto gli insegnamenti di Erech, suo precettore. Da allora erano ati sei anni e Nolak aveva affinato la sua arte: realizzava spade e pugnali con la massima precisione, tanto che molti nobili non si rivolgevano più al padrone, ma pretendevano che le loro armi fossero fabbricate solo dal giovane. Al tramonto Nolak uscì dall’officina. I capelli lunghi, neri come gli occhi, erano raccolti in una coda di cavallo. I baffi minuti che si univano a una barba a pizzetto gli conferivano un’aria interessante e autoritaria. Attraversò la piazza, avviandosi verso la bottega del falegname in cui lavorava Ziro. Tutte le sere i due giovani si aspettavano per andare insieme verso casa. Ziro costruiva cassoni, tavoli e scaffali per la custodia di pergamene e volumi, e il suo datore di lavoro era soddisfatto di averlo con sé. “Ohilà, fratello!” salutò a voce alta. “E’ da tanto che mi aspetti?” Procedeva sicuro con aria spavalda e quel sorriso malizioso che piaceva tanto alle donne. Gli occhi azzurri sempre attenti, il viso ovale e i capelli biondi arruffati gli davano l’aspetto di un ragazzo senza tempo. Guardandolo alla luce rossastra del crepuscolo, Nolak constatò per l’ennesima volta quanto fossero diversi e come non riuscisse a distaccarsi dal ruolo di fratello maggiore. Ziro era più giovane di soli due anni, ma l’atteggiamento esuberante lo faceva sembrare più piccolo. Nolak ricordava bene quella sera d’inverno di tanti anni prima, quando erano stati condotti all’Orfanotrofio da uno sconosciuto. La neve cadeva incessante e il
freddo pungeva la pelle. I bimbi impauriti erano accovacciati nell’angolo di un carretto trainato da un cavallo, stretti l’uno all’altro per cercare di riscaldarsi; si proteggevano con una coperta, che il giovane conservava ancora con cura. In quell’Istituto erano cresciuti come fratelli, ignari del fatto se, in realtà, lo fossero o meno. Nessuno conosceva la loro vera storia. “Diciamo che non sei mai puntuale, ma va bene così” rispose Nolak in tono rilassato. Ziro, sorridendo, gli diede una pacca sulla spalla e assieme s’incamminarono verso casa, percorrendo le strade meno trafficate. Benché il porto d’armi fosse consentito solo a nobili e guardiani, entrambi nascondevano un pugnale nello stivale. La via era deserta. I due giovani parlavano sottovoce. “Che ne dici di un po’ d’allenamento, questa sera? Potremmo prendere le spade e recarci subito al rifugio, così oltre a sentire le novità ci sarà possibile controllare se sono arrivati i viveri” sussurrò Nolak. “Sempre pronto per te, fratello, ma qualche volta potresti anche farmi vincere. Lo so che non sono alla tua altezza, ma sto migliorando e verrà anche il giorno in cui ti batterò, vedrai!” “Me lo auguro, Ziro, combatti peggio di una servetta”. “Ehi, bada a come parli! Stasera mi sento in forma, ti solleticherò la gola con la punta della spada!” “Abbassa la voce” cominciò Nolak, guardandosi attorno per controllare che nessuno potesse udirli, “e smettila di fare lo sbruffone”. “Quante storie! Non vedo guardiani, qui intorno”. “Non si è mai troppo prudenti” ribatté Nolak, “sai come me cosa ci farebbero se sospettassero chi siamo in realtà. Vuoi compromettere tutti?” Ziro non rispose. Era il più loquace, raccontava le cose in modo coinvolgente e
Nolak, più riservato, lo ascoltava con piacere, benché spesso lo rimproverasse di lasciarsi trasportare dall’impulsività. Erano giunti alla loro casupola ai margini del paese, che avevano rimesso in sesto dopo essere usciti dall’Orfanotrofio. Si portarono sul retro della casa e, dopo aver foraggiato i cavalli, montarono in sella, partendo al o per non farsi sentire. Quando furono abbastanza lontani dal paese, si lanciarono al galoppo allontanandosi verso sud, diretti al rifugio dei ribelli sui Monti Sospiri.
I Monti Sospiri. Dove il vento soffiava senza sosta spazzando le cime, dove la luce sbiadiva le rocce scure e la notte calava all’improvviso. L’accampamento dei ribelli era nascosto in mezzo alla boscaglia, sul fianco destro del monte. Il sentiero serpeggiava sull’altura, ando a tratti sotto gli alberi e a tratti sul precipizio, così stretto da permettere il aggio di un cavallo per volta. Dopo averlo imboccato non era più possibile tornare indietro. Nascosto tra balze, picchi e cunicoli, dal basso era invisibile, mentre sull’altro lato della montagna una parete diritta e priva di appigli, alta un centinaio di pertiche, rendeva la scalata impossibile. Il rifugio era protetto a dovere. Nolak e Ziro arono sotto uno sperone di roccia da dove si poteva vedere quasi tutto il sentiero. La sentinella sopra di loro emise un fischio stridulo, il richiamo del grifone crestato, al quale Nolak rispose nello stesso modo. Via libera. Arrivarono al rifugio e salutarono i compagni. Nel nascondiglio dimoravano una quarantina di persone, mentre gli altri rivoltosi vivevano in mezzo al popolo, celando il risentimento e l’animosità in modo prudente e accorto. Nella Sala dei Monoliti, dove i ribelli usavano riunirsi, i due giovani chiacchierarono un po’ e bevvero un bicchiere in compagnia. Di colpo Ziro si alzò, prese due spade e si diresse verso l’area di addestramento. “Fratello, ho preso le armi. Sono pronto, vediamo chi ha la meglio questa volta!”
I compagni trovavano divertente guardare Ziro e Nolak che si allenavano, perché entrambi erano abili spadaccini; ma il primo, distratto e loquace, finiva sempre per avere la peggio e si riprometteva di riuscire un giorno a battere Nolak. “Coraggio fratello, fatti sotto!” e con un balzo iniziò a menar fendenti. “Dai, fammi vedere se sei sempre in forma… para questo colpo… che ne dici? Non sei più tanto sicuro, eh?” Nolak, taciturno e concentrato, rispondeva a ogni affondo, in silenzio. Il rumore secco delle lame era accompagnato dal chiacchierare di Ziro. All’improvviso una voce di donna superò le stoccate delle armi e i commenti dei presenti. “Ecco perché nessuno è venuto a darmi una mano. Tutti qui a contemplare i due maestri spadaccini! Ci sono i carri delle provviste da scaricare e nessuno sembra essersene accorto: Ziro, vuoi smetterla e venire ad aiutarmi?” Era Leida, che addestrava i giovani alle armi bianche. Ziro si voltò per risponderle; ma non fece in tempo a proferir parola che Nolak fulmineo colpì la sua spada, disarmandolo, e gli appoggiò la punta dell’arma sotto il mento. “Dunque? Non avrei dovuto sentirmi solleticare la gola dalla tua lama?” Ziro allargò le braccia in segno di resa. “Ti ho sempre detto che devi parlare meno e concentrarti di più” continuò Nolak. “Dai, sbruffone, vai a dare una mano a Leida”. E così dicendo, tra le risate dei presenti, Nolak raccolse la spada di Ziro. “Questa volta potevo farcela, se solo tu non mi avessi distratto!” disse un po’ imbronciato Ziro, avvicinandosi alla ragazza. Leida, energica, alta e robusta, aveva lunghi capelli rossi, lisci come la seta, e il colore ambrato della pelle contrastante con lo sguardo glaciale. Il controllo totale di ogni movimento la faceva somigliare a una vera amazzone. Legava sempre un laccio di corda intorno alla fronte perché, a suo dire, le portava fortuna. Al campo, da molti anni, insegnava l’arte del combattimento ai giovani ribelli che le
mostravano un rispetto e un timore reverenziali. La ragazza scoppiò a ridere e rincarò la dose. “Non hai ancora capito che Nolak è il più in gamba di tutti? Perché pensi che sia diventato il capo? Dovresti rassegnarti all’idea che è lui il migliore, è così... e basta! E ricordati che domani sera saremo di ronda insieme. Ci troviamo al tramonto, al solito posto”. Riposte le spade, Nolak si unì al gruppetto che si avviava verso i carri da scaricare. Leida si girò. “Nolak, volevo informarti che in paese è arrivato un narrastorie. Domani terrà uno spettacolo in piazza. E’ da tanto tempo che non se ne vedeva uno, sarà il caso di tenerlo d’occhio”. “Allora andiamo allo spettacolo prima della ronda!” esclamò Ziro. “Così ci divertiamo un po’ e guardiamo che tipo è!” Leida sorrise e non rispose.
4.
Bastava il suo aspetto ad attrarre la gente. Plumis metteva delle piume colorate sulla testa, si dipingeva una maschera intorno agli occhi e appendeva dei sonagli alla cintura. Piccolo e tarchiato, indossava una calzamaglia e una camicia che lasciava intravedere il petto irsuto. Gli occhi verdi ammiccavano e i capelli neri si separavano all’aria in ciocche vigorose. Grida di bambini annunciavano il suo ingresso nel villaggio. “Venite! Plumis è qui! E’ arrivato il narrastorie!” Lui li seguiva ridendo finché un adulto non li fermava, ammonendo i ragazzi di non correre e di non gridare. Allora i bimbi ammutolivano, ma Plumis faceva uno sberleffo, mimando il comportamento rigido delle Savie, e li faceva ridere. Estraeva dalla sacca i rametti di salvia selvatica per regalarli alle ragazze al posto dei fiori e poi andava alla ricerca d’altri cespugli per non rimanerne senza. Per cominciare lo spettacolo scelse la piazza principale di Caleborn, visto che nascondersi ormai non serviva più. L’aveva fatto i primi tempi dopo il ritorno dalle Terre Straniere, ma lo avevano trovato e perquisito, come un pericoloso criminale. I narrastorie, del resto, erano tollerati dal potere come spine in un dito. Non potendo suonare o cantare perché proibito dalle Savie, s’accompagnava con un tamburo e ritmava la voce. “Gentildonne e gentiluomini! Fanciulle e ragazzi! Venite ad ascoltare la storia che sto per narrare! Vi divertirete e qualcosa di nuovo imparerete!” esclamò, ponendo l’accento sulle ultime sillabe delle frasi; tutti battevano il tempo, ma la cantilena dava vita solo a un accenno confuso di musica che i guardiani non potevano interrompere. “Quanta bella gente, e tanto intelligente! A voi, donne graziose, dono le mie mimose!” E con un inchino offrì la salvia alle ragazze, divertendosi nel vederle imbarazzate. Quando i rametti profumati terminarono, si avvicinò a una donna grassa e accigliata, allargò le mani, piegò la testa sorridendo e le stampò un
bacio su entrambe le guance. Lei rise, insieme a tutti quelli che le stavano intorno. Per fortuna almeno questo è permesso! pensò Plumis. Ammiccò con gli occhi, batté le mani e saltò. Se lo spettacolo fosse piaciuto, le offerte degli spettatori gli sarebbero bastate per sopravvivere almeno qualche giorno. Non pretendeva altro. “Andiamo a cominciare!” Fece una piroetta. “Plumis sta per narrare di una bella fanciulla la storia e di tutto il mondo la gloria!” Parlare in rima gli veniva naturale come inventare le storie che raccontava. L’interesse della gente era forte: nella penisola di Dualia non erano molte le occasioni per divertirsi. ando, alcune Savie si voltarono a guardarlo. Plumis s’accompagnò con il tamburo. “Vi racconterò una fiaba nuova, sperando che oggi non piova, una novella che sta nel palmo e nelle dita, che nessuno di voi ha mai udita! La volete sentire? E’ la storia di Malire, una ragazza molto speciale, ma che non fa la speziale!” Sperò che le Savie se ne andassero. Invece si fermarono. “Diamo il benvenuto anche alle Savie! Prego, accomodatevi col vostro abito grigio, ché alla Dottrina io son ligio!“ Aveva paura, ma continuò lo spettacolo. Un narrastorie, se ci teneva alla pelle, doveva intuire subito la pericolosità o meno di una storia e Plumis stava per raccontarne una tanto assurda che persino le Savie l’avrebbero ignorata: era solo un sogno, il delirio di una vecchia morente.
* * *
La penisola di Dualia si allargava nel Mar Gelido per miglia e miglia. I porti
principali erano tre: Dorlas a sud-est, Veria a nord ed Elleront a ovest. Correnti forti, scogliere ripide e venti impetuosi rendevano difficile l’approdo in altri punti della costa, facilitando il compito dei guardiani che controllavano le frontiere. A sud la penisola s’innestava nell’entroterra tramite il gruppo montuoso delle Dottrine, rocce scure e appuntite con valichi disagevoli, limite naturale delle Terre Straniere. Non era facile varcare quel confine per andarsene da Dualia. Plumis l’aveva fatto venti anni prima, nascosto nel sottofondo del carro di un mercante. La spada di un guardiano, fatta scorrere tra le fessure, gli aveva sfiorato il viso. Anche se lo spavento gli era rimasto a lungo, fuori dalla regione la vita era stata semplice, fino a quando la sorte gli aveva fatto rincontrare quel vecchio mercante. Vedendolo, oscuri ricordi erano riaffiorati alla mente, memorie che l’avevano convinto a ritornare a Dualia. All’inizio si era tenuto lontano da Caleborn, il borgo natio, ma poi il vagabondare senza meta ve lo aveva casualmente riportato; e dopo aver riconosciuto gli stessi sentieri percorsi da bambino, quando esplorava i dintorni del paese e si arrampicava sugli alberi, fu spinto dal desiderio di recarsi sulla tomba dei genitori.
Ma calcolò male la distanza; all’imbrunire si ritrovò in mezzo al bosco Zafir, a qualche miglio dal paese, e fu costretto a cercare un riparo. Vide una casa che non ricordava; con il tetto spiovente fino a terra, gli pareva un’imbarcazione rovesciata. Dal balcone sopra la porta pendevano coperte e stracci stesi ad asciugare, il fumo usciva dal camino storto. Ma quando Plumis bussò, nessuno rispose. Confidando in una benevola ospitalità, entrò salutando ad alta voce e si trovò in una piccola stanza in penombra. Da una pentola che bolliva nel camino l’acqua si rovesciava sui carboni. Se c’è qualcuno, pensò il narrastorie, dev’essere al piano di sopra. “Salve a tutti! Non sono cattivo, ma molto giulivo“ dichiarò. “Sono solo un narrastorie che non cerca vittorie”.
S’interruppe udendo un rantolo. E la vide. La donna era distesa sul pavimento, in un angolo. Ansimava forte. “Aiuto!” gridò Plumis”. La signora sta male! Non c’è nessuno?” Rispose solo il crepitio del fuoco. Trovarsi da solo con una malata lo angosciava. Non sapeva come aiutarla. Non aveva erbe medicinali con sé e con il buio non poteva uscire a cercarle. Le si avvicinò per sollevarle il capo. Era piccola e magra, con una raggiera di rughe su tutto il volto; i capelli ancora folti erano raccolti in una treccia intorno alla testa. Come le Savie Anziane, pensò il narrastorie. Di colpo ebbe paura. Non la conosceva. Era ato troppo tempo dalle sue scorribande nei boschi e non ricordava quella donna. Nonostante l’affanno e la febbre, il viso di lei era dolce, eppure Plumis sentiva che rappresentava un pericolo. Doveva vincere l’angoscia e pensare che si trattava solo di una vecchia ammalata e indifesa. “Signora!” chiamò. “Signora, mi sentite? Vi prego, ascoltatemi!” Non ci fu niente da fare. Le accarezzò la fronte che bruciava, poi la sollevò senza sforzo. Era leggera come un bambino. La distese su un giaciglio e mentre si domandava cosa fare, lei aprì gli occhi cominciando a parlare. Dapprima come un mormorio, la voce crebbe diventando sempre più nitida. Tra Chioma d’Acqua e Monti Sospiri una donna alla dottrina chiuderà la casa. Un occhio come il mare, uno come la terra. Folle, esiliata, la sua rovina farà. Madre più volte, rapita dalla morte,
dal suo ventre nascerà l’Eletta. Pelle perfetta, il segno a spirale del mutamento porterà perpetuo. Unica tra tanti, differente tra tutti, per sventura comincerà allora la serie. Terminerà l’attuale mondo quando la comunità del due i suoi logori giorni dissiperà. La donna ricadde esausta sul letto. Sbalordito da quel delirio astruso, Plumis restò muto. Lei gli sorrise come se lo riconoscesse; emise un rantolo prolungato, richiuse gli occhi e, con un sospiro sottile, si spense. Il narrastorie non trattenne le lacrime. “Vorrei dire qualcosa sulla vostra prossima vita, ma ora non ricordo nulla”. Si asciugò gli occhi. “Ma se è tutto vero, spero che siate felice, e sono sincero”. Plumis ripartì la mattina seguente, dopo aver seppellito la vecchia. Lasciò sulla tomba dei rami a forma d’esagono, pensando che lei l’avrebbe gradito. Riprese la strada per Caleborn, dove intendeva tenere lo spettacolo. Scacciò la malinconia e quando arrivò in vista del borgo accelerò il o. Aveva scelto di divertire la gente ed essere allegro. Sorrise. Stavolta non doveva neppure inventare la storia che avrebbe raccontato, gli bastava lavorare di fantasia sul sogno di quella poveretta. Era certo, ne sarebbe uscita una buona novella.
5.
Succedeva di rado che a Caleborn si fermasse un narrastorie e che la piazza fosse stracolma di gente. Tutti impazienti e incuriositi non vedevano l’ora di svagarsi, dimenticando i problemi. Anche Ziro e Nolak, che stavano lavorando nelle loro botteghe sulla piazza principale, richiamati dal suono del tamburo di Plumis si affacciarono a guardare. Volevano intervenire anche per verificare cosa sarebbe stato raccontato durante lo spettacolo. Dopo aver chiesto al padrone il permesso per una pausa, Ziro scorse Nolak, lo chiamò e insieme si portarono davanti al narrastorie. “Che ne dici, fratello, di questo giramondo imbrattato di colori e pieno di penne come un gallinaceo? Ci farà divertire o avremo solo un’occasione per ammirare qualche bella fanciulla?” “Sempre a pensare alle donne! Comunque vedo soprattutto Savie!” disse Nolak indicando le donne che stavano arrivando. “C’è persino Nepthya, l’Anziana Superiora della Circolaria”. “Giuro che se non la vedessi con i miei occhi non ci crederei! Non avrei mai pensato che potesse mescolarsi tra la folla per ascoltare un narrastorie. Forse anche lei sente il bisogno di svagarsi!” “Ne dubito”. “Speriamo che lo spettacolo inizi in fretta. Non ho molto tempo; stasera incontrerò Leida, perciò dovrò uscire in orario”.
Il narrastorie cominciò il monologo. Era una storia recitata in rima che all’inizio parve incuriosire la gente, invece dopo una decina di minuti qualcuno cominciò ad andarsene con aria annoiata. Anche Ziro non riusciva a capire bene il filo logico di quella storia, ma non voleva disturbare il fratello che fissava il cantore a braccia conserte seguendo
con attenzione il racconto. Perciò si guardò attorno, pensando che se ci fosse stata qualche bella ragazza non gli sarebbe certo sfuggita. Lo sguardo si posò su Melisia, che salutò con un cenno del capo. Al suo fianco c’era una ragazza dai capelli neri, lucenti. La giovane si voltò e i suoi occhi incrociarono quelli di Ziro che, sfrontato, le sorrise facendole un gesto con la mano. Ma invece di ricambiare il saluto, la ragazza restò inebetita e impallidì, quasi stesse per perdere i sensi; poi con uno scatto si girò verso il palco. Ziro era disorientato. Avrebbe voluto farsi largo tra la folla per raggiungerla e cercare di conoscerla, ma da quel veloce scambio di occhiate aveva intuito che non era il tipo di ragazza che accettava volentieri quel genere di approccio.
Ad Erien, per un attimo, mancò il fiato. Frugò nella mente, cercando di mettere bene a fuoco la visione ata. Il ragazzo che le aveva sorriso era lo stesso del sogno che, insanguinato, chiedeva aiuto. Non v’era dubbio. Le si gelò il sangue. Lei sapeva che quel giovane poteva essere in pericolo. A volte credeva d’impazzire. Visioni disordinate, che andavano e venivano, sempre confermate dai fatti anche a distanza di tempo, le procuravano un’ansia costante. Non era mai riuscita a capire se fosse un dono o una condanna e ne era impaurita. Possedeva quella dote incomprensibile fin da bambina, percepiva il dolore e le emozioni degli altri, ma di quel ragazzo non aveva colto nessuna sensazione. Forse questa volta la visione era sbagliata e non gli sarebbe successo niente. Una voce squillante e civettuola la riportò alla realtà. Melisia, al suo fianco, parlava come un fiume in piena. Ma Erien non ascoltava. Distratta dai suoi pensieri fissava il giovane, cercando di capire cosa l’aspettasse. A un tratto il narrastorie parlò di un segno e senza pensarci, Erien si toccò dietro la nuca dove, dalla nascita, aveva una strana voglia a forma di spirale. Ma non poté fermarsi a riflettere, perché Melisia la prese sottobraccio e insieme si allontanarono verso le bancarelle del mercato.
Ziro decise di rientrare alla bottega. “Nolak” sussurrò, “torno al lavoro, prima di addormentarmi qui sulla piazza. Ci vediamo più tardi”. L’amico rispose con un cenno affermativo del capo. Chissà cosa lo interessava tanto in quello spettacolo strampalato. In ogni caso, tramite Melisia, prima o poi Ziro sarebbe riuscito a sapere chi era la giovane dai capelli neri.
Intanto, sempre più impacciato, Plumis continuava il soliloquio, ripetendo frasi già dette e cercando di trovare un filo conduttore nella narrazione. “… Questa donna andava contro la Dottrina. Povera, folle e malandrina! La gente la evitava e non l’aiutava, poiché aveva gli occhi di color differente”. Il narrastorie non stava dando il meglio di sé e capiva che la gente si annoiava. E più si sforzava d’essere divertente, più appariva insulso. Proseguì dicendo: “Poi restò incinta di uno degli uomini che l’avevano avvinta. E’ incredibile, ma da lei nacque Malire, tanto bella e dolce da impazzire”. Plumis continuò cercando di non pensare alla gente che se ne andava: La fanciulla non sapeva d’esser l’Eletta, perché doveva fare la servetta. Il segno che portava, del tutto naturale, lo aveva dalla nascita e pareva una spirale. Mentre le Savie si allontanavano, una si girò verso Plumis facendolo rabbrividire. Aveva gli occhi fissi come biglie di vetro. Lui ricordava bene quello sguardo, da quando era piccolo.
* * *
Aveva solo sei anni e vagabondava per esplorare il bosco Zafir. Era ancora presto per tornare a casa e il tramonto faceva risplendere le foglie. Nascosto dietro un cespuglio, Plumis aveva visto arrivare due Savie, una giovane e l’altra più matura, che parlavano tra loro. A un tratto la ragazza era rimasta indietro e si era abbassata per raccogliere una pietra appuntita. Nel sollevarsi aveva alzato gli occhi verso l’altra donna e l’aveva colpita sulla nuca fino a farla cadere, continuando a infierire come una belva. Era stato un omicidio agghiacciante, che lo aveva segnato. Gli tremavano le gambe. Avrebbe voluto scappare, ma era troppo curioso. Cercò di allontanare lo sguardo da quella scena, ma dovunque si girasse vedeva quegli occhi scuri che lo inseguivano.
* * *
“Ehi, narrastorie! Così ci fai dormire!” La voce alta e incollerita colse Plumis di sorpresa, richiamandolo al presente. Abbozzò un inchino. “Come vuoi tu, buon signore”. “Buon signore un corno!” ribatté l’altro, puntando sui fianchi le mani grosse come pale. “Siamo qui per divertirci, non per guardarti mentre sogni”. Le braccia nerborute avrebbero suscitato timore anche se non fossero state sempre macchiate di sangue. Il macellaio era invecchiato, ma rimaneva sempre lo stesso, poderoso e forte al pari dei tori che sgozzava. Intorno all’uomo, la gente rumoreggiava. “E’ vero, sei una lagna! Datti una mossa! Vogliamo sapere come va a finire la
storia!” Plumis cercò una battuta, ma era distratto. La Savia, girata verso le altre adepte, stava dicendo qualcosa. “Certo, miei signori!” E mentre parlava raccolse la sacca e se la mise in spalla. “Domani vi tratterò come dottori. Il mio impegno non evito e della storia vi narro il seguito. Domani…” “ Ma vai a far dormire i gufi!” esplose il macellaio con un gesto d’insofferenza. Se ne andò e la gente lo seguì. Quando Plumis si accorse di non riuscire a fermare il suo pubblico, smise di recitare e alzò le spalle. Sarebbe andata meglio la prossima volta.
Dalla bottega, Ziro aveva visto la gente allontanarsi un po’ alla volta, fino al momento in cui il goffo narrastorie non aveva promesso di ripresentarsi il giorno dopo, più in forma. “Buon pomeriggio a voi!” Una voce conosciuta lo fece girare verso l’ingresso. Era entrata Melisia, seguita dalla splendida ragazza dai capelli neri. “Posso esservi d’aiuto?” domandò il padrone della bottega, andando verso le donne. “Dovremmo commissionare uno sgabello di legno per la nostra padrona, Donna Vilya, al Podere del Gelso Bianco. Lo utilizzerebbe per poggiare i piedi quando è seduta in giardino a ricamare, quindi deve essere adeguato alla sua altezza. La nostra padrona è alta come la sua dama di compagnia, questa ragazza che è con me, perciò regolatevi di conseguenza”. Ziro si fece subito avanti. “In quale tinta e tipo di legno lo desiderate?” Si voltò verso il proprietario. “Se siete d’accordo, posso servire io le signore. Sapete che ho già fatto numerosi panchetti e potete fidarvi. Voi state seguendo l’intarsio della libreria, e siamo già in ritardo sulla consegna”.
“Bene, mie signore, vi lascio in ottime mani”. Raccolte alcune tavolette di legno e appoggiatele sul pavimento alla base di una sedia, Ziro si rivolse con garbo alla bella ragazza e con un cenno della mano la invitò a sedersi. “Vi prego, accomodatevi e poggiate i piedi sopra queste assi, che mi serviranno per prendere la misura giusta del poggiapiedi”. Un po’ intimorita, la ragazza seguì le indicazioni e si appoggiò rigida alla sedia. Ziro prese le misure e con noncuranza chiese: “Non vi ho mai vista al Podere, è da poco che vi lavorate?” “Sì” rispose lei. “Vi trovate bene con Donna Vilya?” La ragazza non fece in tempo a rispondere che Melisia si inserì. “Beh, ci mancherebbe altro! Ha preso il mio posto come dama di compagnia della signora… ma è solo per sei mesi, perché è uscita da poco dalla Circolaria e sta facendo il periodo di prova prima di diventare Savia Nova”. Ziro deglutì. La ragazza sarebbe diventata una Savia della Circolaria. Che peccato! Pensò con rammarico a quella inspiegabile decisione. Se non ricordava male, quei sei mesi di prova nella quotidianità, all’esterno dalla Circolaria, servivano a consolidare la scelta della ragazza. Ma potevano anche portarla a un cambiamento di decisione. Il giovane sorrise tra sé. L’avrebbe aiutata a fare la scelta giusta. Era troppo bella per lasciarsela scappare.
6.
Savia Nepthya precedeva di qualche metro Tecla e Mayla lungo la strada per la Circolaria; dopo aver assistito allo spettacolo del narrastorie, era silenziosa e preoccupata. Il racconto di Plumis l’aveva molto turbata: troppe coincidenze e allusioni che le erano sembrate così… inverosimili. Non riusciva a capire quanta parte della rappresentazione fosse inventata e quanto corrispondesse a verità. Era risaputo che i saltimbanchi volavano con la fantasia sfruttando racconti popolari appresi durante i loro vagabondaggi, ma la storia del menestrello era troppo somigliante alla profezia. Faceva sospettare che non fosse solo il risultato di fantasticherie. Il dubbio la torturava: cosa aveva udito quel guitto e da chi? Forse qualcun altro ne era a conoscenza? “Va tutto bene?” La voce squillante di Tecla la distolse dai suoi pensieri. Erano giunte alla Circolaria. Dietro di lei, ferme sul sentiero in salita, le Savie stavano aspettando. Nepthya si rese conto di essere rimasta immobile a riflettere per diversi minuti. “Andate pure avanti e dedicatevi alle invocazioni pomeridiane” rispose sorridendo per mascherare l’ansia, “io vi raggiungerò per il Rito di Evocazione. Mandate qui una Nova con il carro, devo andare alla Fortezza”. Senza rispondere, le Savie la oltrearono chinando la testa per ricevere il segno della riconoscenza, un cerchio tracciato con la mano destra. Nepthya non aspettò di vederle entrare nella Circolaria: le inferiori non discutevano mai un suo ordine. Dopo pochi minuti arrivò la Nova conducente sul carro trainato da due cavalli. L’Anziana Superiora disse di aver fretta. Al trotto sostenuto imboccarono la strada che portava alla Fortezza dei guardiani.
Certo Nepthya avrebbe preferito trascorrere il resto del pomeriggio a studiare il libro in cui aveva trovato il presagio, nell’Esagonato. Quel luogo, dove erano conservati i volumi che formavano il Libro dei Duali, le dava un senso di protezione; invece il carro superò le pareti chiare e lisce della struttura, per proseguire verso la Fortezza. Il guardiano all’ingresso s’inchinò appena la riconobbe, salutandola nella forma dovuta. “Riverisco, Anziana Superiora, il mio dovere è servirvi”. “Voglio parlare con il comandante” rispose la Savia. Non doveva aggiungere altro. Il soldato si voltò, aprì uno spioncino sul portone d’ingresso e sussurrò qualcosa. Dall’interno qualcuno rispose. “Veneranda, abbiate la compiacenza di entrare a riposarvi nella Sala Chiara” continuò il guardiano, “il comandante Gurgon arriverà senza indugio”. Scura, squadrata, con mura alte, facciate irregolari, finestre piccole e disuguali, la Fortezza era stata costruita apposta per incutere terrore. La sua fama era peggiore dell’aspetto. Persino Nepthya vi entrava malvolentieri. Due guardiani l’accompagnarono nell’unica stanza bianca della Fortezza, con le colonne addobbate con teli viola, riservata ai suoi colloqui con il comandante. Un terzo soldato le portò un cesto di frutta fresca, altri accostarono la sedia, sistemarono i cuscini e le aggiustarono uno sgabello sotto i piedi. Mentre attendeva il comandante Gurgon, Nepthya spiluccò quasi senza accorgersene qualche acino d’uva. Continuava a credere che solo lei conoscesse quel testo raccontato come una favola dal narrastorie. All’Esagonato potevano accedere soltanto le Savie e i guardiani che lo sorvegliavano, scelti tra i più fedeli alla Dottrina. Il Libro dei Duali era composto da migliaia di volumi, disseminati tra le molteplici stanze della biblioteca. La possibilità di trovare la profezia era pressoché nulla. Eppure quelle parole erano arrivate alle orecchie di un narrastorie che aveva rivelato persino il dettaglio del segno sulla pelle, a forma di spirale. S’accorse con rabbia che il sistema di controllo non aveva funzionato. Bisognava agire velocemente per evitare che la notizia giungesse ai ribelli, impedendo che qualcuno potesse identificare l’Eletta, poiché il pericolo per l’ordine costituito
sarebbe stato incalcolabile. In gioco c’era tutto il suo mondo ed era per lei un dovere scongiurare la minaccia. “Comandante, dovete trovare una persona” disse a Gurgon appena questi entrò nella sala. Egli abbassò la testa in modo rispettoso. Nepthya spiegò i particolari e poi se ne andò in fretta. Ordinò alla Nova conducente di dirigersi verso Caleborn. Aveva altro da fare prima che la giornata volgesse al termine.
Donna Vilya, al Podere del Gelso Bianco, l’accolse di fronte alla porta d’ingresso, con un sorriso sul volto scarno. “Sono felice di vederti, Savia Nepthya. Entra, farò servire il tè”. Si conoscevano da bambine, perché le loro famiglie appartenevano alla medesima classe sociale e risiedevano nella stessa contrada. Il padre di Vilya si era dedicato con ione all’apicoltura, divenendo benestante e famoso per aver scoperto come curare diverse malattie con la propoli e il veleno di quegli insetti laboriosi. I genitori di Nepthya, al contrario, non erano mai riusciti ad andare oltre lo stato di modesti mezzadri. L’Anziana Superiora mal sopportava l’approccio confidenziale che Vilya le riservava, con la scusa di conoscerla da piccola. “Preferisco restare fuori” rispose in tono aspro per mettere l’altra in agitazione. “Dov’è Erien?” “Sta riordinando la mia camera. Devo farla chiamare?” “No, voglio parlare con te”.
Vilya indicò il giardino che circondava la villa. “Potremmo parlare mentre eggiamo nel parco”. Senza rispondere, Nepthya infilò le mani nelle maniche della tunica e s’avviò sul sentiero tortuoso che rasentava le piante. Si fermò per permettere a Vilya di raggiungerla. Rigida e spigolosa, la padrona del Podere del Gelso Bianco rimediava alla mancanza di forme con maniche ampie e diversi strati di vestiti. Era truccata più del solito, con tanta cipria che sul mento si notava la differenza di colore. Dalla cuffia estrosa spuntava una ciocca arancione: quando Vilya sbagliava le dosi della tintura, il color carota dei capelli risaltava al buio come una torcia accesa. Indicando i gelsi, dai rami fitti e intrecciati, commentò: “I bachi da seta mangiano solo queste foglie, così le piante devono essere curate. Io ripeto tutti i giorni che bisogna potarle, ma il mio giardiniere non l’ha ancora capito”. Nepthya seguiva invece i suoi pensieri. Come d’abitudine, non si perse in preamboli. “Non mi piace come stai trattando Erien. Ti avevo detto che per me è una figlia. Devi stare attenta a lei”. “Resterà qui per i mesi di prova come le altre ragazze” il tono di Donna Vilya era deciso, “e dunque la tratto allo stesso modo”. Quando la donna aveva messo gli occhi su uno degli uomini più ricchi di Caleborn che produceva stoffe preziose, si era recata da Nepthya, divenuta nel frattempo persona influente, per chiederle di farsi mediatrice in suo favore, in nome della loro amicizia. Per riconoscenza, dopo il matrimonio aveva tenuto presso di sé alcune delle ragazze che dovevano fare i sei mesi di prova prima di diventare Novae. Fino a quel momento l’accordo aveva funzionato: tutte le fanciulle vissute con Donna Vilya erano rientrate alla Circolaria. Ma Erien era diversa. “Erien non è come le altre ragazze”. Nepthya si stava irritando. “E’ cresciuta nella Circolaria ed è molto ingenua: se incontrasse un delinquente, non sarebbe in grado di riconoscerlo. L’ho vista tra la gente, allo spettacolo del narrastorie. Eppure ti avevo chiesto di controllarla”. “Appunto per questo l’ho fatta accompagnare da Melisia, che è sveglia e non si fa imbrogliare da nessuno” replicò Vilya.
“Erien non deve andare in giro, è pericoloso per lei”. “Dovrei tenerla dentro uno scrigno? I mesi di prova servono proprio a conoscere il mondo e a diventare Nova con più consapevolezza”. Nepthya si voltò di scatto. “Non devi insegnarlo a me!” esplose. Gli occhi, lo sapeva, le stavano diventando duri come pietre. “Erien deve tornare alla Circolaria dopo questo periodo, è il suo destino; non posso correre il rischio che venga distratta da qualcosa o da qualcuno. Per questo l’ho portata da te, affinché tu la controllassi. E ti avevo chiesto di farlo personalmente, non di lasciare il compito alle tue serve!” “No, non me lo avevi detto”. “Invece sì, lo ricordo benissimo. Devi comportarti come ti ho detto di fare, né più né meno”. Donna Vilya strinse le labbra colorate. “Se vuoi farmi pesare la tua posizione…” “Sai bene che la dottrina è basata sull’obbedienza e che qualsiasi inosservanza è considerata eresia. Non devo essere io a ricordarti che la sorte dei miscredenti è la stessa, sia per il popolo sia per i nobili”. Savia Nepthya fissò la donna finché fu sicura che avesse capito. Allora si voltò e senza aggiungere altro tornò verso il carro.
Quando anche Vilya se ne fu andata, Erien spostò i rami di gelso e uscì sul sentiero. Restò immobile per riflettere. Non era nelle sue intenzioni origliare. Non riusciva a capire. Perché era diversa dalle altre ragazze che erano diventate Novae prima di lei? Le sue visioni non erano così importanti, Nepthya stessa lo ripeteva sempre; ma se aveva tanto a cuore il suo futuro, perché non le aveva mai parlato con franchezza? Di tutto il discorso dell’Anziana Superiora era questo a infastidirla e a dispiacerle. Desiderava avere la possibilità di scegliere, come tutte le altre ragazze, mentre pareva che questo le fosse negato.
7.
Plumis camminava veloce, allungando i i e sforzandosi di credere che non ci fossero più pericoli. La Savia non poteva averlo riconosciuto e nemmeno sapere che quel giorno era stata vista da un bambino compiere un omicidio. Lui era nascosto dietro un cespuglio e non aveva fiatato. Se la donna avesse avvertito la sua presenza, di certo non se lo sarebbe lasciato scappare. Invece Plumis aveva vissuto tranquillo fino a sedici anni. Se n’era andato dalla Dualia, più che per paura, per seguire Laim il burlone e imparare da lui il mestiere di narrastorie. “Perciò niente timori” disse tra sé, “quella Savia stava seguendo lo spettacolo per trovarvi qualche irriverenza contro la Dottrina o il potere”. Tirò un respiro di sollievo. Nella sua storia aveva solo riempito di fantasia il sogno di una vecchia in fin di vita e in questo non v’era nulla di sconveniente. Si stava facendo troppi problemi. All’improvviso sentì un profumo irresistibile. Sul prato accanto alla strada la salvia selvatica era in fiore e Plumis si fermò per coglierne qualche rametto. Dimenticò ogni timore per danzare a lungo tra i fiori viola, inebriato dall’odore. Solo quando stava per riprendere la strada si accorse di un uomo che, seduto ai bordi del laghetto Karall, lo stava osservando. Era sulla sessantina, con i capelli grigi arruffati sul volto e la barba lunga. In mano aveva una canna da pesca e di fianco un secchio colorato per mettervi i pesci. Plumis fece un saluto allegro, ma l’uomo, senza ricambiarlo, si voltò e continuò nella sua attesa noiosa. La giornata non doveva essergli andata molto bene, visto il suo malcontento. Il cielo si stava oscurando e il narrastorie pensò che fosse ora d’andare. Non aveva ancora trovato un rifugio per la notte e non voleva certo ritrovarsi vicino ai boschi al calar del sole. Ritornò veloce sulla strada principale per continuare il cammino, ma uno scalpitio di cavalli lo fece trasalire. Alle sue spalle due guardiani arrivavano al galoppo. Era convinto che l’avrebbero ignorato, invece loro spronarono gli
animali sul viale, puntando dritti verso lui. “Seguici, narrastorie!” ordinò uno dei due. La voce giungeva distorta dalla visiera calata sulla faccia. “Ma perché, miei signori?” balbettò Plumis. “Devi venire con noi alla Fortezza, dove sarai interrogato”. “Interrogato? Ma signori, non so proprio cosa…” “Poche storie, prendi le tue cose e seguici, svelto!” Il primo guardiano toccava l’elsa della spada che sporgeva dalla fodera della sella, l’altro faceva oscillare la catena spinosa munita di uncini, che veniva usata per fermare i fuggiaschi. Il narrastorie ubbidì in modo automatico raccogliendo la sacca. Ma quando fece il primo o verso i guardiani, realizzò all’improvviso quello che sarebbe successo. Le prigioni si trovavano nei sotterranei della Fortezza per non far sentire all’esterno le urla dei prigionieri, ma la gente era al corrente di quello che vi succedeva. Chi veniva portato lì dentro ne usciva segnato per sempre. Plumis non sapeva neppure cosa i guardiani volessero da lui. Arretrò d’impulso, pensando che se fosse riuscito a scappare prima di essere catturato, forse… “Non cercare di fuggire!” Il primo guardiano estrasse la spada dalla fodera. Plumis perse la testa, si voltò e corse via. Il luogo più vicino per nascondersi era il bosco Zafir. L’idea di addentrarvisi gli faceva paura, ma i guardiani lo spaventavano di più. Senza voltarsi continuò a correre, veloce come un lampo. Sentì ridere i guardiani dietro di sé. Per loro quello era un gioco, si divertivano con lui come gatti con un topo. Buttò la sacca, ma fu l’ultimo gesto che riuscì a compiere. La catena gli si avvolse intorno, con tanta violenza che le spine gli penetrarono nella carne. Gli uncini finali gli si conficcarono nel braccio sinistro. Plumis urlò. Uno strattone lo buttò a terra. “Vieni, vieni!” esclamava uno.
Il guardiano tendeva la catena mentre il narrastorie veniva trascinato sull’erba, cosicché spine e uncini gli si conficcavano più profonde nelle carni. “Attento a non ucciderlo” disse l’altro, “deve arrivare vivo dalla Savia”. Plumis non riusciva neppure a gridare. Tra le lacrime fissò i due guardiani a cavallo e sentì le loro risate. Poi si rese conto che stava arrivando qualcuno. Si voltò. Due persone col viso coperto lo stavano raggiungendo. Mentre la vista gli si annebbiava e perdeva i sensi, sentì un rumore di spade e grida di lotta. Poi il silenzio.
La frusta di Leida s’avvolse come una serpe intorno al collo del guardiano, stringendolo in una morsa senza scampo. L’uomo cadde a terra, tirando con disperazione le corde che lo soffocavano. Non riusciva a respirare. In un attimo Leida gli fu addosso, estrasse il pugnale che teneva legato alla cinghia dei pantaloni e, senza dargli il tempo di reagire, lo conficcò con ferocia nella gola dell’uomo. Il sangue iniziò a sgorgare a fiotti, sporcandole il volto e i vestiti, ma la ragazza continuò a colpire senza sosta fino a quando un grido la fece voltare. Ziro era a terra e l’altro guardiano stava per trafiggerlo con la spada. Nella colluttazione l’amico aveva perso la sciarpa che gli copriva la faccia e ora era riconoscibile. Questo complicava le cose. Il nemico doveva per forza essere ucciso. Leida, infuriata, gli si gettò addosso con tutto il peso. La rabbia la rendeva più aggressiva. L’uomo, colto di sorpresa, cadde all’indietro, picchiando la testa al suolo. Approfittando di quel suo attimo di stordimento, Leida gli tolse la catena, gliela rigirò attorno al collo e tirò con forza. Ziro nel frattempo si era alzato e l’aveva raggiunta. Leida vide che stava bene. Meno male; l’idea di perderlo sarebbe stata troppo dolorosa per lei. Ziro era il suo mondo, anche se lui non lo sapeva nemmeno. “Leida, lascia la catena… è morto!” La donna si fermò, mollando la presa. Ziro aveva ragione. Con gli occhi sporgenti e la faccia bluastra, il guardiano non si muoveva più. Il segreto della loro identità era al sicuro.
8.
Zoccoli di cavalli rimbombavano sui ciottoli della strada. I guardiani salivano sulla via stretta tra case alte e irregolari, rovesciando ogni cosa. La gente spaventata si allontanava correndo e s’infilava nei portoni per non essere travolta. Sotto gli archi attraversati dalla luce, le armi risuonavano come campane a morto. “Largo! Fate largo!” Chiuso nell’armatura e nascosto dall’elmo, il comandante Gurgon precedeva il manipolo. D’un tratto fece segno di fermarsi, scese di sella, ordinò a due soldati di seguirlo e ad altri indicò la casa di fronte. Il resto dei guardiani rimase sulla strada insieme ai cavalli, a controllare la gente. A quell’ora, la quarta dopo mezzogiorno, molte case erano chiuse. I soldati picchiarono a una porta con le mazze ferrate; l’avevano semi distrutta quando un uomo venne ad aprire. Era il vasaio. Non a caso era stata scelta la sua abitazione: da tempo si vociferava che l’uomo simpatizzasse per i ribelli e qualcuno aveva persino raccontato che più di una volta avesse aiutato dei ricercati a nascondersi o fuggire. In piedi, di fronte a loro, l’uomo tremava. Gurgon, seguito da due scagnozzi, entrò e, senza esitazioni, iniziò a fracassare con la mazza gli ostacoli che incrociava: vasi, piatti, mensole e scaffali. “Perquisite la casa di sopra!” ordinò. I soldati si fecero largo tra i cocci per raggiungere le scale. Gurgon fissò l’uomo. “Sappiamo chi sei”. L’altro s’inchinò: “Cosa volete da me? Sono solo un vasaio, mi chiamo Ucopt. Pago le tasse e rispetto le leggi”.
“Chi c’è qui con te?” L’uomo sussultò. Lanciò un’occhiata di traverso e rispose in fretta: “Solo la mia famiglia”. Ma Gurgon si era accorto che il suo sguardo aveva attraversato la stanza, fermandosi su un paravento. Si avvicinò a Ucopt. “Chi c’è lì dietro?” domandò indicando il paravento. Senza aspettare risposta, fece partire un manrovescio che buttò l’uomo a terra. “Chi tieni nascosto? Parla!” Lo afferrò con uno strattone e lo tenne sollevato per il bavero della blusa. I piedi di Ucopt erano a un palmo dal pavimento, il viso si fece paonazzo. “Nessuno, non c’è…” Il guardiano lo interruppe con un altro ceffone, trattenendolo con una mano e colpendolo con l’altra. “Infame! Ti faccio are la voglia di dire menzogne!” Dal piano superiore arrivavano rumori secchi, tonfi, grida e pianti femminili. Lasciato l’uomo, Gurgon afferrò la mazza ferrata e con pochi colpi distrusse il paravento, solo per trovarsi davanti un cesto di vimini. Vi dormiva un bambino di pochi mesi, coperto da un panno grezzo. “No, vi prego!” supplicò il vasaio. “E’ mio figlio, il più piccolo. Non fategli del male!” Il comandante non gli badò. Regola tre del Manuale dei guardiani: un soldato non si fa mai impietosire dai civili. Gurgon scostò la culla e il bambino si svegliò, piangendo. “Vi scongiuro, è solo un neonato!” pregò Ucopt a mani giunte. Regola dodici: un guardiano prende sempre la decisione più utile. Il soldato si scostò; il vasaio prese il bimbo e si allontanò in fretta. “Non uscire dalla bottega!” gridò il comandante.
L’altro si fermò. Gurgon usò il manico della mazza per battere sui muri e sul pavimento alla ricerca di un doppio fondo. Spostandosi, sentì un rumore dietro di sé. Si voltò di scatto, ma era solo la cesta che si era rovesciata. Da sotto il panno spuntava un foglio di carta. C’erano due righe in rima, scritte a caratteri grandi e incerti: Non s’illuda quella Savia Logico intuir che lei ci travia…. Finivano con uno scarabocchio, come se chi avesse annotato quelle parole fosse stato interrotto all’improvviso. “Che cos’è questo?” Chi l’ha scritto? Il narrastorie, vero?” Il soldato si avvicinò a Ucopt, che teneva in braccio il figlio. “Dov’è? Dove l’hai nascosto?” Sbatté il foglio sulla faccia del vasaio. “Parla, o ti pentirai d’essere nato!” “Non lo so. Non ho mai visto quel foglio”. “E com’è finito nella culla, idiota?” “Io… non lo so…” Il guardiano fece partire un pugno che buttò l’uomo a terra; il bambino rotolò poco lontano e cominciò a strillare. In quel momento tornarono i soldati, conducendo una donna in lacrime e due ragazzini. “Di sopra il narrastorie non c’è” annunciò uno, “abbiamo cercato dappertutto”. Gurgon sollevò il vasaio semisvenuto e lo scaraventò verso di loro. “Portatelo alla Fortezza e fatelo parlare”. L’altro afferrò Ucopt per la blusa e lo trascinò dietro di sé, dirigendosi verso l’uscita. Ma la donna, liberatasi con uno scatto disperato, si gettò ai piedi del
comandante. “Vi scongiuro, signore! Mio marito non sa niente, è solo un pover’uomo!” gridò tra le lacrime. “Non me lo portate via!” Gurgon si chinò e la sollevò. Regola ventidue: con due prigionieri un guardiano raddoppia la possibilità che uno possa parlare. “Portate via anche lei” ordinò all’altro soldato, “uno dei due ci dirà dov’è nascosto il narrastorie”. Le guardie uscirono, portando via la donna in singhiozzi. Gurgon rimase solo nella bottega con il bimbo che strillava e gli altri piccoli immobilizzati dalla paura. Prese la catena uncinata e la fece roteare. In poco tempo, distrusse le cose ancora intere. Poi si voltò verso i bambini, chiedendosi cosa gli convenisse farne. Nella sua mente, come all’apertura di un libro, apparve la Regola quindici del Manuale dei guardiani: se le persone non possono essere utili, abbandonale al loro destino.
“Il vasaio ha parlato?” domandò Nepthya. All’ora nona dopo mezzogiorno, le finestre dalla Sala Chiara sembravano pozzi neri. I teli viola sulle colonne, alti e stretti, parevano marroni alla luce dei bracieri appesi al soffitto. L’anziana Superiora era seduta sulla poltrona di legno. Gurgon, rigido di fronte a lei, rispondeva preciso. “Dice che ha annotato lui quelle frasi e che dopo lo spettacolo non ha più visto il narrastorie. La moglie lo conferma. E’ stato il vasaio a scrivere quella specie di poesia. Non è un ribelle, voleva solo provare a buttar giù qualcosa in rima come aveva sentito fare a Plumis”. “Ma gli si può credere?” “Sì. Non abbiamo neanche usato gli strumenti di tortura: sono crollati appena li hanno visti”.
Guardandolo, Nepthya annuì. L’uomo era il suo migliore alleato. I capelli castani tagliati a spazzola indurivano un viso squadrato, dalle mascelle larghe e la pelle chiara, inciso da occhi gelidi. La corazza nera sembrava gonfiarsi sui muscoli delle braccia e del petto. Sul lato sinistro del collo spiccava il tatuaggio dei guardiani, una sorta di esagono con i vertici ondulati e una doppia spirale all’interno. Diventato comandante della Fortezza a ventotto anni, Gurgon poteva contare sulla fedeltà assoluta di tutti i soldati. Agile e intelligente, era un guerriero nato, risoluto, coerente e privo di scrupoli. Nelle sue mani, una catena uncinata poteva lasciare intatta una candela oppure spaccare in due una botte. “Dobbiamo trovare quel narrastorie” cominciò la Savia. “I miei uomini vogliono vendicare i compagni uccisi sulla strada del fiume”. Il comandante strinse i denti, piegando in basso le labbra. “Se posso esprimere un parere, Plumis è protetto dai ribelli. Solo loro potevano liberarlo e uccidere i miei soldati”. Taciturna, Nepthya seguiva con le dita le incisioni che decoravano i braccioli della sedia, nel tentativo di concentrarsi. Dopo lo spettacolo, i guardiani avevano cercato il narrastorie in tutto il paese senza scovarlo; poi, verso l’ora ottava della sera, avevano trovato i corpi di due soldati vicino al laghetto Karall. Le tracce di lotta e i rametti di salvia sparsi sul luogo avevano permesso di ricostruire l’accaduto, ma i colpevoli dell’attentato erano scomparsi. Si presumeva che avessero portato il narrastorie con loro. “Fino a poco tempo fa, i ribelli si limitavano a qualche rapida scorreria notturna”, osservò l’Anziana Superiora. “Non era mai successo che uccidessero dei guardiani in campo aperto. Questo complica le cose”. “Le semplifica, invece. La loro identità è rimasta segreta per anni perché nessuno li conosce, ma adesso stanno uscendo allo scoperto e prima o poi qualcuno li riconoscerà. Allora ne prenderemo uno e lo faremo parlare”. “Sono molto sicuri del fatto loro e il popolo li appoggia. Ci conoscono bene, mentre noi non sappiamo niente di loro”. “Non è esatto, sappiamo molto e possiamo immaginare il resto. Siamo convinti
che i ribelli si mescolino agli abitanti. Fanno la contro ronda per difendere la gente dai miei uomini e riescono a vincere. Combattono sempre in due usando solo spade e pugnali; noi abbiamo mezzi più efficaci, ma loro hanno imparato a neutralizzarli. Hanno persino identificato i punti deboli della nostra corazza, ciò significa che si stanno esercitando e hanno certamente un’organizzazione di tipo militare. Non sono in pochi e il loro rifugio dev’essere protetto, ma comunque abbastanza vicino a Caleborn”. “Potrebbe trovarsi sui monti Sospiri” suggerì la Savia. “Oppure nel bosco Zafir: i monti sono pieni di grotte e il bosco non è stato mai esplorato del tutto”. Gurgon indurì i muscoli del viso. “Secondo me, Plumis è stato portato lì”. Se Gurgon avesse avuto ragione, il pericolo sarebbe stato immenso. Come aveva fatto un giullare venuto da lontano ad apprendere quel testo che solo lei conosceva? Fino a che punto sapeva? Ai ribelli avrebbe raccontato il resto? E loro avrebbero potuto identificare l’Eletta? Non sarebbe stato facile trovare il narrastorie. “Voglio due guardiani a difesa della Circolaria” concluse l’Anziana Superiora, “di giorno e di notte, perché temo per la sicurezza delle Savie!” “Come desiderate” disse Gurgon. “Ma più importante di tutto: dovete scovare il narrastorie, il rischio è eccessivo!” Gurgon le lanciò uno sguardo poco convinto. Non poteva capire la preoccupazione di Nepthya. “Il popolo protegge i ribelli con il silenzio” affermò, “ma è sempre possibile trovare un traditore. Potremmo mettere una taglia”. “E’ un’idea, comandante. Fate uscire i vostri uomini con un editto: pagheremo seicento dranie a chiunque ci dia informazioni sul ciarlatano. Dovranno portarlo qui vivo! Vivo e in buona salute! E’ necessario che lo interroghi!” Stupito, il comandante annuì e si congedò, mentre Nepthya si sedette di nuovo. “Voglio sapere” finì in un soffio, “devo sapere…”
9.
Dal Podere di Donna Vilya una strada alberata portava al fiume. Dopo la seconda svolta le piante nascondevano la vista di Caleborn né si vedevano altre case. In quella stagione le foglie rosse degli alberi sembravano fiamme vive; oltre la via, sui campi arati spuntavano i primi fili di grano. Non c’era nessuno e quella pace era ideale per quello di cui aveva bisogno Erien: rimanere un po’ di tempo da sola. Chiuse il cancello e s’incamminò. Andare a cavallo l’avrebbe distratta, mentre lei voleva riflettere. Era convinta di aver eluso la sorveglianza di Donna Vilya e Melisia; non si accorse che, invece, qualcuno la stava guardando. Da una delle finestre aperte verso la strada, Vilya scoprì che Erien si allontanava dalla casa. Memore della sfuriata di Nepthya, fece per richiamare la ragazza; ma all’improvviso cambiò idea. La consapevolezza di trasgredire a un ordine della Savia Superiora le dava una soddisfazione acuta e un senso di sollievo che superavano ogni timore. Nepthya, di origini più che modeste, era entrata nella Circolaria solo per la morte improvvisa di una delle Savie che aveva liberato un posto. Ora basava tutto il suo potere sull’ubbidienza, la forza e la crudeltà dei guardiani; ma quello schema stava andando in crisi e prima o poi sarebbe caduto. Così, lasciare che Erien uscisse senza controllo non era solo un dispetto verso l’Anziana Superiora… La ragazza scomparve dietro gli alberi e Donna Vilya richiuse sorridendo le imposte.
I pensieri di Erien vagavano. Diventare Savia. Secondo Nepthya, è il mio destino. Ma è davvero così? Sino ad ora non ne avevo mai dubitato. Mi fidavo di lei; ho sempre condiviso e approvato le sue idee. Adesso mi sembra tutto tanto diverso! Fino a oggi, ho ascoltato solo i suoi consigli senza scegliere né dare spazio alle mie esigenze e
ai miei desideri. Ora, però, lo posso fare: l’arrivo al podere, le eggiate, il mercato, i cavalli, lo spettacolo del narrastorie, le nuove persone che mi circondano… è tutto così inatteso e piacevole! Spesso, specchiandosi, stringeva il vestito intorno al corpo e si domandava se fosse bella. A volte, senza volerlo, camminando in paese, si accorgeva di osservare i giovanotti che le avano accanto. E fantasticava. Scuoteva la testa per mandare via quelle idee che non capiva, eppure continuava a rimuginare. Non poteva farne a meno. Si sentiva come un puledro vivace che tende a strappare. Piena di dubbi, si domandava che cosa fosse davvero importante nella vita: le regole della Dualità oppure le incertezze, i sentimenti, la libertà di sbagliare, la voglia di fare qualcosa di proibito... Bello. Anzi, terribile! Doveva scacciare quei pensieri, il suo destino era diventare Savia e rimanere lontana dalla gente, senza interessi né entusiasmi; gli altri l’avrebbero trattata con rispetto o rifuggita per paura. Sarebbe rimasta esclusa, come lo era dalla nascita, da tutto ciò che era normale per le ragazze della sua età: lo sguardo di un uomo, la complicità di un’amica. Forse Nepthya, che le aveva programmato ogni attimo dell’esistenza, voleva rubarle anche il futuro. Ragionamenti pericolosi che l’allontanavano dalla Circolaria.
Le sue riflessioni furono disturbate da un rumore di zoccoli sulla strada. Erien si scostò per cedere il o. “Buongiorno Erien!” salutò il giovane biondo, fermandosi accanto a lei. Ella restò immobile per qualche attimo, mentre lui sorrise dicendo: “Non mi riconosci? Sei venuta nella mia bottega per ordinare uno sgabello”. “Sei Ziro”. La ragazza tacque subito dopo, incerta. Quando, allo spettacolo di Plumis, l’aveva riconosciuto come l’uomo delle sue visioni, ne era rimasta sconvolta; sentiva di avere un legame speciale con quel giovane, pur non capendone il motivo. Perché le appariva sempre in sogno? Che
relazione poteva avere con il suo destino? Lo scrutava sperando che non se ne accorgesse, invece il giovane esclamò: “Perché mi osservi in quel modo?”. Erien, che non voleva fare la figura della sciocca, rispose: “Tu che cosa fai qui?” Lui scese a terra con un balzo. “Son venuto a portare lo sgabello alla tua padrona. Ma vedendoti sulla strada, ti ho seguita”. “Perché?” “Che domanda! Si vede che sei cresciuta nella Circolaria!” La fissò con la testa piegata da una parte e poi continuò serio. “Volevo parlare un po’ con te, da solo”. “Parliamo, dunque” rispose la giovane in tono deciso. Ziro rise di nuovo senza rispondere. Non comprendendo perché fosse tanto divertito, Erien si voltò verso il cavallo e lo accarezzò. “Ti piacciono i cavalli?” domandò lui. “Da quando sono arrivata qui al podere. Ho imparato a cavalcare dal vecchio stalliere di Donna Vilya. Mi piace moltissimo: adoro sentire sul viso il soffio del vento, anche se non sono ancora così pratica!” “Anche a me piace”. Ziro tacque, come se stesse riflettendo. Poi continuò in tono vivace. “Senti, c’è un luogo accanto al fiume che mi piacerebbe farti vedere. E’ molto bello”. “Non so se posso allontanarmi” replicò Erien. “E’ vicino e non staremo via molto”. “Donna Vilya potrebbe cercarmi”. “Non se ne accorgerà, stai tranquilla”. “Abbiamo un solo cavallo”. “Questo non è un problema: sali insieme a me, ti porto davanti”. Fece un gesto
deciso con la testa, indicando il cavallo. “Dai, monta su!” Erien ubbidì, felice; voleva dimostrargli di non essere più una bambina, ma già una donna, esperta delle cose della vita. Così si fece aiutare a salire in sella e il giovane saltò dietro di lei. Proseguirono sulla stessa strada, verso il fiume. Ziro chiacchierava e la serrava tra le braccia, forse per paura che cadesse. Nonostante Erien fosse consapevole di comportarsi in modo sconveniente, che di certo l’avrebbe fatta rimproverare da Nepthya, trovava piacevole quell’attenzione. Presto giunsero dove gli alberi accarezzavano l’acqua con i rami. Il fiume in quel punto scorreva placido, appena increspato, mentre il rumore della corrente pareva ingigantire il silenzio. La riva nascosta da giunchi e da canneti si apriva in un’insenatura di sabbia ombreggiata a tratti. Più avanti la corrente riprendeva con forza. “E’ splendido!” ammise Erien, appena scesa da cavallo, avvicinandosi all’acqua. Ziro non rispose e dopo alcuni istanti, non sentendolo arrivare, lei si voltò per vedere dove fosse. Non scorgendolo, si domandò perché mai si fosse allontanato senza dire nulla. ò accanto a un salice; all’improvviso i rami si allargarono e Ziro spuntò da dietro le foglie. “Ciao!” esclamò, sorridendole. “Mi hai spaventata” confessò lei. “Dai, vieni, ti mostrerò una cosa”. La prese per mano e la guidò verso la riva, indicandole un branco di pesci che nuotavano accanto alla sponda e che nell’acqua limpida brillavano come lucciole. Lei rise.
Non voleva rinunciare a tutto questo per non ricadere nella solita esistenza grigia. Dopo aver dovuto seguire regole e ordini impartiti da altri, sentiva nascere emozioni nuove e vi si aggrappava con forza. Ora poteva uscire di casa, conoscere gente e scoprire di star meglio fuori della Circolaria.
Era abituata a indagare su di sé per capire cosa le stesse accadendo, altrimenti le visioni l’avrebbero portata alla follia, e non aveva dubbi; adesso era sicura, forte, orgogliosa di sé. Non poteva esserci niente di male, se quello che provava riusciva a riempirla di tanta gioia.
Il pomeriggio trascorse rapido, come non le accadeva da tempo. Ziro la riaccompagnò alla villa fermandosi a una certa distanza per non farsi vedere; poi le sfiorò la guancia con un bacio prima di salutarla. Il giorno dopo, alla stessa ora, Erien cavalcò verso il fiume senza essere notata da alcuno. Non incontrò Ziro, ma nel cavo di un albero trovò un fascio di margherite, legate da un cordone che terminava con un piccolo cavallo di legno intagliato.
10.
A tarda sera il dottor Kervis iniziò a eggiare irrequieto, avanti e indietro nel suo studio, ogni tanto soffermandosi davanti alla finestra e guardando fuori. Donago non era ancora rientrato e ciò lo preoccupava. Voleva delle risposte e subito. Con le dita affusolate si toccava la barbetta incolta, mentre lunghe ciocche di capelli corvini gli ricadevano di continuo sul viso appuntito, infastidendolo. Non dimostrava affatto i suoi quarantasette anni. Diventato medico ventuno anni prima perché quella professione gli permetteva di controllare i nuovi nati, era adesso uno dei dottori più rinomati del paese. Alla ricerca della persona giusta, aveva dovuto girare nella Dualia per anni; poi, dopo la nascita di Erien, si era fermato a Caleborn dove lavorava anche per le Savie della Circolaria. Questo lo rendeva un individuo potente, soprattutto perché si era conquistato la fiducia e la protezione di Nepthya. Soddisfatto, ripensava a come fosse riuscito a entrare nelle sue grazie. Erien si era rivelata speciale fin dall’inizio. Essere diventato il suo medico personale era stato un vero colpo di fortuna. E quei poteri straordinari... lei l’avrebbe liberato dalla maledizione che gli impediva di vivere. Troppi ricordi, troppi per un uomo solo. Non lo lasciavano mai e il tormento diventava via via più insopportabile. La ragazza era l’unica persona in grado di porre fine alle sue sofferenze, cancellando la memoria delle vite precedenti. i concitati dietro la porta del salone interruppero questi pensieri. Donago era tornato. Entrò nella stanza e dopo aver appoggiato un secchio all’ingresso, fece un inchino e iniziò a parlare: “Avevate ragione, mio padrone, il narrastorie fa parte del gruppo dei ribelli”. “Lo sapevo…” disse Kervis con soddisfazione.
“I rivoltosi l’hanno salvato dalle guardie della Fortezza e l’hanno portato via con loro. Ma non è questa la cosa importante”. “E qual è, allora?” Donago attese qualche secondo prima di rispondere, quasi volesse assaporare il momento. “Ne ho riconosciuto uno!” Il silenzio riempì la stanza. Gli occhi di Kervis si illuminarono. “E’ una notizia fantastica, Donago! Chi è? Raccontami tutto!” “Ho fatto ciò che mi avevate detto: sono andato allo spettacolo del narrastorie per tenerlo d’occhio, come vi aveva chiesto Savia Nepthya. Erien non mi ha notato, ma io ho seguito tutte le sue mosse, poiché so quanto la ragazza sia importante per voi!” “Continua, Donago” lo incalzò il medico. “La fanciulla ha visto un uomo durante lo spettacolo e sembrava turbata; poi, con la serva di donna Vilya, è andata alla bottega del falegname dove lavora questo giovane che pareva molto interessato a lei”. “Cosa c’entra tutto questo con il narrastorie?” domandò Kervis nervoso. “Perchè il ragazzo che ha salvato Plumis è lo stesso con cui parlava Erien! Il falegname è un ribelle, mio padrone!” “Ne sei sicuro?” “Sì: mentre combatteva contro i guardiani gli è caduta la maschera dal viso e ho potuto riconoscerlo”. Kervis era teso, le mani cominciavano a sudargli. Se quello era vero, si trovava in pericolo: forse i ribelli conoscevano i poteri di Erien e volevano approfittarne. Non poteva permetterlo; se l’avesse persa, il suo piano sarebbe fallito. Aveva bisogno che Erien si fidasse di lui, per continuare a starle vicino. Doveva essere sicuro di non perdere il momento giusto. Solo questo contava, perciò il falegname andava eliminato. L’Anziana Superiora
l’avrebbe aiutato, lei doveva sapere il pericolo che stava correndo. “State bene, mio padrone?” Donago lo guardava preoccupato. “Sì, amico mio. Hai fatto un ottimo lavoro. Ora vai, ho bisogno di restare solo”. Il servo fece un inchino e si avviò verso la porta d’ingresso. Ma il dottore lo richiamò. “Donago!” “Sì?” Il servo si voltò. “Chi è questo falegname?” “Si chiama Ziro, mio padrone. Si chiama Ziro…”
11.
Plumis si risvegliò intontito. Sentiva voci lontane che si sovrapponevano, senza riuscire a distinguere le parole. Tutto gli pareva ovattato, come se fosse rinchiuso in un’enorme bolla di sapone e non avesse la forza per uscirne. Gli occhi gli dolevano e non poteva aprirli, perché una benda glieli copriva. Tastandola, s’accorse che la fasciatura gli avvolgeva tutto il capo. Sul corpo, un’altra gli stringeva un braccio. Era vivo, ma a pezzi. Suoni metallici, forse di armi, gli risuonavano nella testa; da lontano arrivava il rumore di una cascata. L’aria odorava di fumo e di umido. Dove si trovava? Cercò di ricordare. Due guardiani l’avevano aggredito, afferrandolo con la catena e trascinandolo a terra. Era riuscito a lanciare un grido d’aiuto e, appena prima di sbattere la testa e perdere i sensi, aveva visto apparire due persone col volto coperto. Ora ascoltava quel brusio che, invece di spaventarlo, lo rassicurava. Sentì dei i che si avvicinavano: “Ehi, forestiero, bentornato tra noi! Come ti senti?” Era una voce femminile, dal tono energico, ma al contempo armonioso. Esitò per un attimo, poi rispose con un filo di voce. “Non riesco a vedere. Sono distrutto, come se una mandria di buoi mi avesse calpestato”. “Tranquillo” la donna aveva la voce divertita, “hai avuto la febbre e sei rimasto incosciente per due giorni interi. Devi riposare ancora un po’”. “Dove sono? Che volete da me? Perché mi avete bendato gli occhi?” “Calma, se avessimo voluto farti del male non ti avremmo di certo curato. Sei vivo e dovresti essere felice per questo. La ferita alla testa ci preoccupava, così ti abbiamo fasciato per impedirti di affaticare la vista”. “Dove mi trovo? Tu chi sei?”
“Mi chiamo Leida” si presentò la donna. “Abbi pazienza, prima o poi le tue domande troveranno una risposta. Sta arrivando il nostro capo per sapere come ti senti e interrogarti: vogliamo capire perché i guardiani ti hanno aggredito. Ma adesso riposati e, se ti riesce, prova a ricordare in dettaglio come si sono svolti i fatti. So che Nolak erà a trovarti tra poco”. “Aspetta, non te ne andare! Puoi togliermi la benda dagli occhi? Non posso stare così… ho bisogno di guardare!” La donna non rispose, ma mani decise e allo stesso tempo delicate gli levarono le fasciature. Riabituatosi alla luce e messa a fuoco la vista, distinse innanzi a lui un volto sorridente incorniciato da capelli rossi e occhi chiari che lo fissavano con attenzione. Un laccio di corda attraversava la fronte della giovane. “Sei come un fiore di salvia che il mio dolore allevia” il narrastorie non seppe trattenere il complimento. Leida si sollevò di scatto e s’allontanò in silenzio. Ora, a Plumis non restava nulla di bello da vedere e la grotta diventò all’improvviso buia e fredda. Il giaciglio era comodo, nonostante fosse stato scavato nella roccia; il narrastorie s’addormentò senza volerlo e quando si ridestò si sentì già meglio. Se era stata Leida a curarlo, era stata brava. Il desiderio di ritrovarla lo spinse, pur con fatica, ad avvicinarsi all’ingresso. Scostò la tenda e s’affacciò. Davanti a lui apparve una grotta enorme e altissima, interrotta da sostegni irregolari, molto più luminosa di quanto ci si potesse aspettare. La luce filtrava dalle aperture della volta, creando fasci nebbiosi che sembravano solidi e colpivano obliqui il suolo. Rocce lucide, come levigate dall’acqua, formavano spigoli arrotondati. Verso il fondo, il nastro nebuloso di una cascata si disperdeva in un laghetto blu. Il fumo saliva da diversi fuochi. Uomini e donne in armi si allenavano nello spiazzo centrale, mentre altri andavano e venivano indaffarati. Ovunque, senz’ordine, v’erano abitazioni di ogni tipo, rimediate con materiali di fortuna, pelli, sassi, coperte. Alcune erano costruite con rami o fascine tenute insieme
con il fango; altre, di pietre accatastate, si levavano al di sotto di rocce scavate dall’acqua. Qualche piccola grotta si apriva su quella principale; una casa era invece composta da ossa enormi e orribili. Quasi tutte le abitazioni parevano fragili, traballanti ed erano prive di tetti. Qui sotto non hanno bisogno di ripararsi dalle intemperie, pensò Plumis, ma solo di un po’ di intimità. Da lontano giungevano richiami acuti. All’improvviso un grosso uccello grigio entrò nella grotta. Le ali sbattevano con un rumore grave. Il becco robusto e gli artigli facevano paura, ma la gente sembrava non farci caso, anzi molti sorridevano divertiti. Un uomo con uno strano cappello a strisce correva dietro l’uccello gridando e chiamando. Il narrastorie sarebbe rimasto ancora a guardare quella visione incredibile se l’uomo di guardia all’entrata, che non aveva notato, non si fosse voltato di scatto. Senza dire una parola, l’individuo lo prese per un braccio e con gentilezza lo costrinse a ritornare verso il giaciglio. Poi si mise in mezzo al aggio, contro la tenda che copriva l’entrata, bloccando del tutto la visione all’esterno. Deluso, Plumis tornò a sedersi sul letto. Il profumo di carne arrostita gli solleticò l’appetito. Stava per chiamare qualcuno quando entrò un giovane bruno con i capelli lunghi, dei baffetti e una barba corta che si univano a pizzetto; gli sorrise appena si trovò dentro la grotta. “Vedo che stai meglio! Hai fame?” La voce era controllata e lenta. “Ti farò portare del cibo, ma intanto vorrei presentarmi. Mi chiamo Nolak”. “Sei il capo?” chiese Plumis un po’ intimorito. “Diciamo di sì! In realtà gli altri mi hanno eletto loro comandante, ma qui siamo tutti uguali, come una persona sola”. “Voi siete ribelli”. “Siamo solo dei combattenti che credono in un ideale: liberarci dal dominio umiliante e tirannico delle Savie, mantenute grazie ai tributi elevati pagati dal popolo. E chi non si piega viene rinchiuso nella Fortezza o condannato a morte.” “E’ una condizione che dura da molto tempo…”
“No, è una schiavitù che deve finire! Noi vogliamo poter discutere ogni cosa prima di accettarla, riacquistare il valore della persona, la dignità che ci appartiene, la capacità di costruire la nostra storia, il diritto di scegliere chi ci rappresenta. Per ottenere questo non c’è altro mezzo che impugnar le armi e lottare! E presto non vi sarà più gente torturata e gettata nel Pozzo dei Condannati, ma persone che faranno festa per le strade di Caleborn con drappi colorati in mano, cantando e ballando!” Nolak s’interruppe e riprese più calmo: “Vedi, il mio entusiasmo è dovuto al fatto che ognuno di noi sente su di sé tutte le sofferenze patite dagli altri esseri umani di questo paese”. Il narrastorie ne fu molto colpito. “Sono idee giuste, ma perché le racconti a me?” “Perché sei stato aggredito dai guardiani e questo ti mette dalla nostra parte. Per loro sei un pericolo. E’ stata Leida, con l’aiuto di Ziro, a salvarti”. “Non lo sapevo” mormorò Plumis. Doveva ricordarsi di ringraziare la ragazza. “Inoltre abbiamo bisogno di sapere alcune cose” continuò Nolak. “Leida mi ha riferito una frase pronunciata da un guardiano, mentre venivi trascinato sull’erba: attento a non ucciderlo, deve arrivare vivo dalla Savia. Te la ricordi?” Sorpreso, Plumis cominciò a balbettare. “Io… ho battuto la testa… non saprei. Non capisco, non conosco Savie e non ho mai fatto del male a nessuno. Sono stanco” concluse, “ora non riesco a mettere insieme i pensieri!” Nolak non parlò subito. Serio, lo guardava con un’espressione indecifrabile, come se stesse chiedendosi fino a che punto poteva insistere. Ma alla fine si rasserenò in viso e sorrise. “Ora riposati. Ti farò portare qualcosa da mangiare e chiederò a Leida di rifarti la fasciatura; non affaticare troppo la vista. Ci rivediamo domattina”.
Il narrastorie divorò con voracità la carne che gli avevano portato assieme a un boccale di sidro. Era affamato; gustava il cibo e beveva come se non lo avesse mai fatto prima.
Leida l’aveva medicato di nuovo, ma se ne era andata via subito e lui, deluso, era rimasto nell’angolo dove lo avevano sistemato. Mentre mangiava, ripensava alle parole di Nolak cercando di mettere a fuoco il ricordo dell’agguato, non osando immaginare come sarebbe finita se non fossero intervenuti i ribelli. Attento a non ucciderlo, deve arrivare vivo dalla Savia. La ricordava bene. Quella frase del guardiano gli ghiacciava ancora il sangue nelle vene, ma non si fidava dei ribelli: non li conosceva abbastanza e non poteva raccontare il delitto visto tanti anni prima. Nonostante all’epoca fosse piccolo, mai era riuscito a dimenticare quegli occhi vitrei e inumani, gli stessi che aveva incrociato con orrore durante lo spettacolo. Non aveva dubbi: era lei, Nepthya, allora giovane, l’assassina della Savia anziana. Ma non poteva parlarne con nessuno. Attento a non ucciderlo, deve arrivare vivo dalla Savia. Per quale motivo, se a quel tempo lo aveva visto, non aveva poi tentato di uccidere anche lui? E ora, dopo tanti anni, avendolo forse riconosciuto, perché lo voleva vivo al suo cospetto? Sarebbe stato molto più logico farlo uccidere subito. Più ci pensava e più diventava inquieto e confuso. I suoi sogni erano turbati da visioni mostruose: guardiani ricoperti di scaglie nere e muniti di catene uncinate lo obbligavano ad avanzare veloce. Correva a perdifiato, ma non riusciva ad andare avanti e scorgeva quelle ombre ingigantirsi e soverchiarlo. Sentì una mano toccargli il volto sudato; aprì gli occhi e si sollevò di scatto. Si trovò davanti il viso quieto di Nolak. “Rilassati, era solo un incubo. Qui sei al sicuro, nessuno può farti del male”. La calma del giovane riuscì a rasserenarlo. “Grazie per tutto quello che state facendo per me. Ma prima che mi i lo spavento, trascorrerà del tempo”. “Ti senti meglio? Come ti ho detto ieri, vorrei parlare un po’ con te”. “Io non so niente!”
“Lascia giudicare a me se quello che sai può esserci utile o no”. “Ma io sono solo un narrastorie senza patria!” rispose Plumis preoccupato. “Andai via da Caleborn a sedici anni e da allora ho girovagato nelle Terre Straniere. Sono tornato solo da pochi giorni; non so proprio che cosa potrei dirvi”. “C’è invece qualcosa d’importante”. Nolak sembrò indugiare per qualche momento, ma alla fine si decise. “Non c’entra né con la nostra rivolta né con l’aggressione che hai subito dai guardiani: riguarda solo me e qualcosa che mi è sempre mancata, perché sono cresciuto all’Orfanotrofio. Io e Ziro fummo portati lì da un uomo, che disse di non potersi occupare di noi. Avevo circa quattro anni e Ziro due”. Le ultime frasi erano state dette in velocità, come se il giovane avesse pudore nel pronunciarle. Plumis si sentì spinto da un moto di simpatia improvvisa e sincera: pensare che un bambino potesse crescere senza l’amore della famiglia gli dava i brividi. “Mi dispiace” rispose. “Non hai mai conosciuto i tuoi genitori?” Nolak parlava con indugio. Era evidente che quei ricordi dovevano essere dolorosi. “C’era una signora che veniva a trovarmi, ma non volle mai dirmi né da dove arrivasse né chi fosse. Conoscevo solo il suo nome: Malire. Di lei rammento solo che aveva un segno strano su un braccio, che mi portava dei regali e mi accarezzava il viso con dolcezza. Era bella, ma triste: una volta la chiamai mamma e lei si mise a piangere”. S’interruppe per qualche istante. “Un giorno non venne più. Domandai al Rettore dell’istituto se ne avesse notizie, ma lui non poté rispondermi. Non l’ho più vista né so che fine abbia fatto”. Plumis era commosso. “E io come posso aiutarti? Dimmi!” “Durante il tuo spettacolo hai raccontato la storia di una ragazza particolare, l’hai chiamata Malire e hai parlato del segno a spirale. Lei ne portava uno così, su un braccio. La ragazza della tua storia potrebbe essere lei. Capisci, Plumis? Se mi dici come hai conosciuto quella vicenda, potresti aiutarmi a ritrovarla”. Nolak concluse in fretta, come se avesse trattenuto quella richiesta a lungo. Ora Plumis era meno spaventato: sapeva che l’interesse del giovane non riguardava le Savie, né il fatto accaduto a lui tanti anni prima e che ancora lo
riempiva di terrore. Dunque poteva parlare con tranquillità della poveretta dalla quale aveva raccolto la storia. “Quel che ho raccontato allo spettacolo temo non abbia molto a che fare con la buona signora dell’orfanotrofio. Ho solo aggiunto un po’ di fantasia al sogno di una vecchia morente. La sera prima di arrivare a Caleborn mi sono perso nel bosco Zafir e cercando un riparo per la notte sono giunto a una strana casa in cui una donna diceva solo parole insensate”. “Quali?” chiese Nolak con insistenza. Plumis le ripeté senza fatica. Era in grado di imparare a memoria un testo anche dopo averlo sentito una sola volta, riassumendolo con altrettanta facilità. “Vicino a Caleborn una donna indipendente, con gli occhi di colore diverso, considerata pazza e isolata da tutti, diventerà madre più volte e poi morirà; darà alla luce una bambina, che sarà l’Eletta e sulla pelle porterà perpetuo un segno a spirale. Sarà il segno del cambiamento, poiché l’Eletta sconvolgerà il nostro mondo”. “E poi?” “La poverina morì subito dopo aver pronunciato quanto ti ho detto. Io la seppellii e mentre mi avviavo verso il paese mi venne in mente che avrei potuto sfruttare quella storia bizzarra per lo spettacolo, aggiungendoci qualche particolare di fantasia. Tutto qui”. “Ti ringrazio, Plumis” disse Nolak che non pareva molto addolorato e aveva invece un’aria soddisfatta. Salutò e uscì in fretta dalla grotta.
Accortosi dello spavento di Plumis, Nolak aveva dovuto trovare un modo per farlo reagire. Stimolato dalla storia pietosa della dama dell’orfanotrofio, il narrastorie si era confidato, permettendo all’uomo di riconoscere nella vecchia morente Sabme, la Savia della quale gli aveva parlato un giorno Atanvar. Da allora erano ati più di sei anni, eppure quel ricordo gli era rimasto sempre vivo nella mente.
* * *
Il giovane guerriero zoppicava e il maestro, prima di fargli sapere perché lo avesse fatto chiamare, gliene aveva chiesto il motivo. “Stamattina ho preso una sciabolata” rispose il ragazzo con una smorfia di dolore. Atanvar inarcò le sopracciglia e scosse la testa. “La settimana scorsa Ziro si è rotto un braccio, Leida ha la testa fasciata e oggi tu zoppichi”. Parlava come se stesse facendo l’elenco delle provviste, invece doveva essere preoccupato. “Diventa sempre più difficile nascondere le esercitazioni. Al prossimo controllo dei guardiani, non so proprio cosa inventare per giustificare queste ferite”. “La mia non si vede”. Nolak non riusciva a condividere la preoccupazione del maestro. Gli occhi azzurri lo fissarono severi. La corona intorno alla testa, simbolo del Rettore dell’Istituto, nascondeva le rughe della fronte e mascherava la calvizie. Dalle maniche della tunica chiara spuntavano polsi ossuti. Atanvar aveva sessantacinque anni ma sembrava più antico e inalterabile delle pietre dell’orfanotrofio. “Tu sei giovane e non conosci ancora la responsabilità del comando” tuonò il maestro. “Ma io sto invecchiando e presto dovrò cedere il mio posto”. Il ragazzo lo fissò. Quella preoccupazione gli sembrava eccessiva. A lui, come a Ziro, essere un rivoluzionario e mantenere il segreto pareva naturale. Era cresciuto così. Gli orfani imparavano un mestiere, studiavano i fondamenti della Dualità e il concetto della reincarnazione per diventare cittadini devoti, ma alcuni di loro intuivano che quelle credenze venivano usate da nobili, Savie e guardiani per sottomettere il popolo. Nei sotterranei dell’istituto, i maestri Erech e Galdio addestravano quella parte di giovani al combattimento contro gli oppressori. Atanvar fece un gesto d’invito. “Siediti, devo parlarti”.
Lui si guardò intorno, cercando un spazio libero. Lo studio era in disordine, ma affascinante: alambicchi che fumavano, piante appese alle travi a essiccare, insetti spillati dentro teche di vetro, congegni che si muovevano, fogli di appunti incomprensibili sparsi ovunque. Per il peso, i ripiani della libreria si erano imbarcati. C’erano libri ovunque, accatastati, sparpagliati, usati come sostegni o come contrappesi. Nolak spostò quelli che si trovavano sulla sedia e li appoggiò sopra una pila che oscillò per un po’ e cadde. “Hai quasi diciotto anni, ma mi hanno detto che non intendi uscire dall’istituto” cominciò Atanvar. “E’ vero: voglio aspettare Ziro, che se ne andrà tra due anni”. “Bene, allora abbiamo più tempo di quanto pensassi…” Il rettore parve raccogliere le idee. “Devo raccontarti una storia che risale a dodici anni fa e che nessun altro conosce. E’ importante che tu capisca bene quanto sto per dirti, perciò interrompimi se qualcosa ti risultasse poco chiara”. Il ragazzo annuì, ma era già pronto a fare domande. “Maestro, perché la racconti a me?” “Perché qualcuno dovrà sostituirmi come guida dei ribelli, e sarai tu. Quando tu e Ziro foste portati qui avevi quattro anni, ed io capii subito che in te c’era qualcosa di speciale. Eri solo un bambino, ma ti preoccupavi per Ziro, più piccolo di te, cercando di proteggerlo. Da allora ti ho osservato con attenzione: sei sempre stato più maturo degli altri ragazzi che, per organizzarsi, si rivolgono a te. Hai la stoffa del capo, anche Erech e Galdio sono d’accordo con me. Perciò, in questi due anni, il tuo addestramento comprenderà anche molti argomenti che servono a un comandante: ti insegneremo a dirimere le liti, risolvere i problemi, organizzare un rifugio, condurre una battaglia. Dovrai prepararti. Ma so che ce la farai”. “Non ne sono tanto sicuro” ribatté Nolak. “Non hai scelta!” esclamò Atanvar. “Prima o poi dovrò lasciare questa responsabilità, col ar degli anni mi mancano le forze…” Sorrise, sciogliendo l’atmosfera seria e riprese a parlare in tono più leggero. “In fondo, ho diritto anch’io a un po’ di riposo, non ti pare? Ho fiducia in te e sono sicuro della mia scelta. E finché potremo, noi maestri saremo sempre pronti a consigliarti”.
Egli non rispose. Sapeva, benché non volesse ammetterlo, che Atanvar aveva ragione. Tra i ragazzi che venivano addestrati di nascosto i migliori erano lui, Ziro e Leida. Ziro era però troppo giovane e impulsivo, mentre Leida era solitaria e assetata di vendetta. Come se gli avesse letto nel pensiero, il maestro continuò: “Ziro e Leida saranno per te dei validi aiuti. Fidati di loro e conserva la loro amicizia. Ne avrai bisogno, perché forse toccherà proprio a te affrontare gli eventi di cui sto per parlarti”. “Quali eventi, maestro?” “Si tratta di fatti talmente importanti che potrebbero sconvolgere l’intero nostro mondo”. Le sopracciglia di Atanvar s’inarcarono di nuovo. “Sono eventi raccontati da una profezia del Libro dei Duali”. “Maestro, come puoi conoscere una profezia del Libro? Sono migliaia e incomprensibili, solo le Savie più competenti riescono a interpretarle”. “Non fui io a interpretare la profezia, ma Sabme, una Savia che aveva lasciato la Circolaria. Ci conoscevamo bene e ci rispettavamo. Io avevo fondato questo istituto da diversi anni per formare ragazzi da avviare alla ribellione e lei mi dava consigli preziosi. Sabme faceva una vita molto appartata per non essere presa di mira da Savie e guardiani, ma una sera capitò qui, dicendo che era venuta in possesso di una profezia importante. Uno dei guardiani dell’Esagonato era un nostro infiltrato e le aveva portato un testo da decifrare, tratto dal Libro dei Duali”. Nolak ascoltava attento. “L’uomo aveva notato che Nepthya studiava da mesi il medesimo volume e aveva intuito che quel Libro doveva contenere parole molto importanti. Così una notte si era introdotto nel locale, aveva preso il volume, trovato il segno lasciato da Nepthya e copiato lo scritto. Sentendo un improvviso rumore di i si era interrotto, aveva rimesso a posto il Libro ed era scappato. Era riuscito a copiare solo le prime due parti delle tre che componevano la profezia, poi si era allontanato dall’Esagonato e aveva portato il testo a Sabme, l’unica in grado di interpretarlo. Subito dopo era tornato indietro”. “Da quel momento nessuno seppe più niente di lui” riprese Atanvar dopo una
pausa. “Sabme sospettò che fosse stato intercettato e ucciso dagli altri guardiani; allora, temendo che l’uomo avesse parlato di lei, venne da me, pregandomi di aiutarla a salvarsi dalla collera di Nepthya. Insieme meditammo una soluzione. Lei si nascose in un posto che io solo conoscevo e dove sarebbe stata al sicuro; poi, per essere certo che nessuno potesse cercarla, simulai la sua morte. Ci lasciammo, decidendo per il bene di entrambi di non incontrarci più. E da allora non ho più visto il suo volto”. Atanvar si interruppe, rimanendo pensoso a fissare qualcosa davanti a sé. “E la profezia?” domandò Nolak, incuriosito. “Sabme non volle tenere il testo e lo lasciò a me, dopo avermi spiegato il suo significato. Io lo bruciai. Così, l’unica conoscenza di quel brano è racchiusa oggi nella mia testa”. “Perché era tanto importante?” “Abbi pazienza, Nolak, tra poco tutto ti sarà chiaro. Prima, però, devi promettermi di non raccontare a nessuno questa storia”. “Neppure a Ziro?” Il ragazzo era dubbioso e non capiva il perché di tanta segretezza. “E’ per il suo bene: la conoscenza di quel testo è pericolosa. Io lo racconto a te, ora, perché tu comanderai i ribelli e perciò devi saperlo, come dovrà saperlo un giorno il tuo successore. E così via, finché si avvererà la profezia. Se giungerà quel momento, solo allora potrai rivelare tutto anche a Ziro e agli altri”. Atanvar concluse, fissandolo: “Prometti dunque di non parlarne. Giuralo qui, adesso”. Quando Nolak promise, il rettore, sollevato, riprese a parlare con tono pacato e recitante.
Città, terre e mari contaminati dall’agitazione la testa alzeranno allorché il Gran Maestro nella bara sarà posto e il presagio ricostruito.
Si leveranno i ribelli contro i Sei Elementi, per combattere il malvagio potere. Un’arma poderosa si forgerà, violenta tremerà la terra, aspra battaglia avrà luogo. Se più fiducia a una parte accorderà, condurrà l’Eletta una sommossa in armi e al seguito di lei i rivoltosi vinceranno. Il resto a sangue e fuoco sarà messo. “Ecco il significato della profezia” spiegò Atanvar. “Verrà un giorno una donna Eletta, destinata a guidare i ribelli in un’epica battaglia contro i guardiani e il potere. Accadrà un fatto catastrofico, la terra tremerà e si forgerà una nuova arma molto robusta; allora, se le loro forze saranno sufficienti, i ribelli potranno sopraffare nobili e Savie e spodestare l’ordine. Ma questo solo a condizione che a guidarli sia l’Eletta. L’autorità dei devoti sarà abbattuta e il mondo, così come noi lo conosciamo, avrà termine”. Atanvar s’interruppe all’improvviso. “Di quale arma si parla?” “Non posso dirtelo perché non la conosco neppure io” Atanvar indicò con un gesto largo carte e libri sparsi per la stanza. “Come vedi, sto ancora studiando la cosa”. “Come farò a riconoscere l’Eletta?” Il maestro rispose: “E’ tutto, per ora. Ti rivelerò la seconda parte della profezia quando uscirai dall’istituto e sarai pronto ad assumerti la responsabilità di un capo”. Detto questo congedò il giovane. Ma quel momento non giunse mai, poiché Atanvar morì pochi mesi dopo. Nolak, pur cogliendone le ultime parole, poté solo sentire un bisbiglio:
“Il segno… cerca il segno a spirale”.
Da allora, egli non aveva lasciato are un solo giorno senza domandarsi quale fosse la seconda parte della profezia, come avrebbe potuto riconoscere l’Eletta e cosa significasse il segno a spirale. Ma non era riuscito a darsi delle risposte finché non aveva udito Plumis parlare di quel simbolo durante lo spettacolo. Ora, dopo sei anni, Nolak conosceva la profezia per intero e benché ignorasse le caratteristiche della nuova arma, avrebbe certo riconosciuto il terremoto. Lui o uno dei suoi successori. L’importante era sapere che l’Eletta portava un segno a spirale e che doveva unirsi ai ribelli.
* * *
“Bene, fratello, ti sei divertito?” Ziro lo raggiunse con pochi i. “Hai raccontato una bella favoletta a quel povero narrastorie!” “Hai sentito?” domandò Nolak. “Mi sono persino commosso nell’udire della signora che veniva a trovarti all’orfanotrofio e che tu amavi come una madre”. Nolak taceva. “Peccato che in tanti anni, invece, non sia mai venuto nessuno a cercarci!” continuò Ziro. “Ti conosco, e so che per raccontare una tale fandonia dovevi avere dei buoni motivi!” Pur sentendosi in colpa, Nolak continuava a restare in silenzio. “Dunque?” domandò Ziro. “Perché hai raccontato quella panzana? Che cosa ha detto di speciale Plumis? Chi è l’Eletta e che cos’è la spirale?” “Non posso parlartene. Ho giurato di non farlo e devo mantenere la promessa”.
“Balle! Noi due ci siamo sempre detti ogni cosa e tu sai che mantengo sempre i segreti” esclamò l’amico. “Non insistere, Ziro. Non posso parlare per il tuo bene, che tu lo creda o no…” “Nolak, se non ti fidi più di me non hai che da dirlo! Smettila di fare il fratello maggiore, che dice al più piccolo che cos’è meglio per lui! Se non te ne sei accorto, ho cominciato a camminare da solo da un pezzo!” Si voltò e si allontanò. Ma fatti pochi i si fermò e, girandosi ancora verso Nolak, gridò: “Tra fratelli non dovrebbero esserci segreti. Ma noi, in fondo, non lo siamo!
12.
Con pazienza, Melisia aveva spiegato a Erien come comportarsi, gli incarichi giornalieri, i desideri della padrona, i suoi capricci, le sue abitudini e il modo di compiacerla per non farla inquietare. La ragazza si trovava a suo agio nel ruolo che le avevano assegnato al Podere del Gelso Bianco: essere una dama di compagnia le piaceva. Aveva appreso gli insegnamenti e messo in pratica i consigli, tanto che Donna Vilya appariva più che soddisfatta. Melisia trascorreva buona parte del tempo con la ragazza tenendola sempre sotto controllo; rispettava gli ordini della padrona, anche se cominciava a infastidirsi, poiché Donna Vilya prestava a Erien molte più attenzioni di quelle che aveva sino ad allora riservato a lei. Erien veniva trattata con maggior riguardo in quanto protetta di Savia Nepthya. Di fronte a una richiesta dell’Anziana Superiora e sua amica d’infanzia, la padrona del Podere non aveva potuto opporsi. Se dunque Melisia era caduta in disgrazia, la colpa era tutta di Erien. Il tempo ava e la domestica era sempre più irrequieta, non vedendo l’ora che quel periodo avesse fine e le cose tornassero come prima. A peggiorare la situazione, gli incarichi che le assegnava la governante facevano sì che il tempo libero a sua disposizione fosse sempre meno. Un mattino, mentre stava lucidando l’argenteria, la padrona ed Erien arono nel salone. Stavano andando insieme a fare colazione, fatto che da qualche tempo era diventato una consuetudine. “Buongiorno Donna Vilya, buongiorno Erien”. Melisia pronunciò quelle parole con rispetto, ma il nervosismo le fece aumentare i battiti del cuore; osservare quella giovane che andava così d’accordo con la padrona le causava un’inquietudine e una rabbia che riusciva a malapena a controllare.
“Buongiorno Melisia” risposero all’unisono le due donne, facendo seguire al saluto una leggera risata per sottolineare il fatto che avevano parlato in perfetta sincronia. Donna Vilya si voltò verso Melisia. “Scusami, cara, ho bisogno della tua collaborazione; sono stata invitata a cena dal dottor Kervis nella sua villa. Ci saranno persone importanti e vorrei portare Erien con me, perché è di piacevole compagnia. Purtroppo non ha un vestito adeguato all’evento e allora volevo chiederti di prestarle il tuo, quello di color azzurro”. Il viso di Melisia si fece paonazzo. “Volete dire quello con la scollatura e lo scialle in raso… che mi avevate fatto confezionare qualche mese fa?” “Sì, sì, quello che hai messo per la festa qui al Podere, quando mio marito è tornato dal viaggio”. “Ma, Donna Vilya, era stato fatto su misura per me! Non le andrebbe bene di sicuro!” replicò Melisia, sempre più impacciata. “Ma cosa dici, tu ed Erien avete la stessa taglia. Lei è solo un po’ più alta di te. Ricordo che alla festa portavi degli stivaletti con il tacco alto, perciò basterà che lei metta delle scarpe basse e le starà d’incanto. Inoltre con la sua carnagione e i capelli scuri il colore azzurro dovrebbe essere perfetto. Rimarranno tutti a bocca aperta! Allora siamo d’accordo. La cena sarà tra due giorni; dopo colazione verremo a prendere il vestito nella tua stanza”. Melisia si voltò verso Erien. Aspettava che la ragazza intervenisse in qualche modo, magari dicendo di lasciar perdere quel vestito o che avrebbe indossato qualcos’altro; invece con suo stupore la vide girarsi e seguire Donna Vilya fuori dalla stanza. Maledizione! Tremava tanto per la rabbia, che il coperchio della zuccheriera d’argento le cadde dalle mani e risuonò cupo. Prima prende il mio posto e adesso anche i miei vestiti! Ma chi si crede di essere, quella bugiarda raccomandata? Altro che Osservante, quella è una sfacciata insolente! Ma non finisce così, può starne certa… Nel pomeriggio Melisia sentì bussare alla porta della sua stanza. Aprì: l'abito era già adagiato sul letto.
Guardandolo, Erien si fermò di colpo portando le mani alla bocca. “Ma è una meraviglia, non ho mai visto un abito tanto elegante! Grazie Donna Vilya, sono sicura che mi starà a pennello!“ “Lo credo anch’io, Erien. Con il tuo portamento rimarrà senza parole anche Nepthya. Ora portalo nella tua stanza, io vado a riposarmi”. Non una sola parola di ringraziamento per lei. Melisia giurò che gliela avrebbe fatta pagare, prima o poi.
Due giorni dopo, verso l’ora di cena, Erien e Donna Vilya giunsero alla villa del dottor Kervis. Il calesse percorse lento l’ultimo tratto di strada in salita per arrivare alla casa, che si ergeva su una piccola collina. Con un inchino, il cocchiere aiutò le due donne a scendere. Erien non aveva mai partecipato a un evento così mondano, ma era tranquilla perché ci sarebbe stata anche Nepthya, insieme al padrone di casa, il dottor Kervis, l’uomo con cui era più in confidenza da anni. L'aveva curata fin da bambina, dispensandole preziosi consigli e lei gli era molto affezionata. Donago aprì ancor prima che bussassero alla porta, sorridendo; salutò con garbo e le aiutò a togliere i mantelli per riporli nel guardaroba. Alle sue spalle, Erien vide arrivare un uomo che le parve alquanto strano con quel cappello a punta, colorato a strisce rosse e blu. Aveva l’aria simpatica e sorrise alle due donne, esibendosi in un inchino esagerato. Incuriosita, la giovane chiese a Vilya chi fosse e lei rispose ridendo che l’uomo era Rodan, un nobile piuttosto eccentrico. Nell’ambiente tutti lo conoscevano e nessuno faceva ormai più caso al suo strano cappello. Il dottor Kervis le accolse nel salone. Il medico non sorrideva mai, come se non si aspettasse più nulla e fosse saturo di migliaia di ricordi delle sue innumerevoli vite trascorse. Quella sera, invece, sembrava più sereno del solito. Baciò la mano a Donna Vilya e abbracciò Erien. “Come stai, bambina? Ti trovo bellissima stasera”. “Grazie” rispose Erien un po’ a disagio. Le gote le si arrossarono e Kervis, per questo, la canzonò bonariamente.
“Non devi vergognarti per un complimento, chissà quanti ne riceverai dai giovanotti!” La conversazione fu interrotta da Nepthya, sopraggiunta nel salone. “Erien, piccola mia! Vedo che Donna Vilya si prende cura di te nel migliore dei modi e questo mi rende felice!” Sorrise, anche se i suoi occhi esprimevano qualcosa di diverso dall’amicizia. Vilya ricambiò il sorriso senza dire nulla. “Signore” intervenne Kervis, “accomodatevi. La cena sarà pronta tra poco”. Il tavolo al centro del salone era imbandito di prelibatezze; le candele si scioglievano lente, illuminando la stanza e creando un’atmosfera intima. Il soffitto alto disperdeva i suoni del chiacchiericcio in un eco leggero, mentre la musica in sottofondo allietava la serata. Cenarono con calma, intervallando cibo e pettegolezzi. Erien si divertiva ad ascoltare aneddoti di persone a lei sconosciute. Il vestito di Melisia le stava bene, le donne si erano complimentate e i signori presenti avevano lanciato sguardi d'ammirazione. Si sentiva a proprio agio, anche se sapeva che non era quello il suo ambiente. Alla fine della cena, Kervis le si avvicinò chiedendole di seguirla. Voleva mostrarle la libreria, perché sapeva che la ragazza apprezzava la lettura. In realtà il suo vero scopo era scoprire in dettaglio come la fanciulla stesse affrontando il periodo all’esterno della Circolaria. Da buon padrone di casa le offrì un bicchiere di vino, che la ragazza rifiutò non essendo abituata a bere, poi, prendendola con confidenza sottobraccio, l’accompagnò in biblioteca, una bella stanza quadrata occupata da quattro enormi librerie. Centinaia di volumi di argomenti vari riposavano sui ripiani. L’aria profumava di sapere. Il medico la fece accomodare su una poltrona rossa, al centro della stanza, mentre lui si sedette su quella di fronte. Solo un tavolo pregiato li separava. Il lampadario di cristallo rifletteva una luce debole, quella perfetta, immaginava Erien, per mettersi a leggere in tranquillità lontano dal mondo.
“Ti piace la mia biblioteca?” Kervis interruppe le sue riflessioni. “E’ meravigliosa, davvero!” “E’ un po’ il mio rifugio, diciamo così. Mi piace venirci a tarda sera; è un ottimo luogo per meditare. E di pensieri ne ho molti, soprattutto riguardo a te”. Erien si sentì arrossire; non capiva cosa volesse farle intendere. “Come ti trovi al di fuori della Circolaria? Mi sembri rifiorita. Dimmi, hai per caso dei dubbi sul fatto di diventare una Nova?” La ragazza era a disagio. Serio e attento, Kervis aveva colto subito un cambiamento in lei. Si sentiva piena di vita e fino a quel momento nessuno le aveva chiesto cosa provasse davvero. Voleva sfogarsi, raccontare... Lui avrebbe capito e l’avrebbe saputa consigliare come sempre. “Ho conosciuto un ragazzo!” Lo disse in tono fermo, senza esitazioni. Come se parlasse non di lei, ma di un’altra persona. “Ah, e chi è? Lo conosco?” “Non credo! Ziro lavora nella bottega del falegname. E’ molto gentile e premuroso... e avere l’attenzione di un giovane per me è una sensazione nuova. Mi sento diversa, piena di vita. Pensi che sia sbagliato?” “Non so, le novità sono sempre accattivanti e tentatrici. La felicità dopo un po’ scompare e potresti ritrovarti sola. Gli uomini sono abili nell’ingannare le fanciulle per poi dimenticarsene”. “Lui non è così” ribatté Erien, “è dolce e simpatico”. “Quindi questo giovane ha colpito il tuo cuore! Allora sono davvero lieto per te!” “Non capisco cosa mi stia succedendo. Sono per me emozioni nuove e mi faccio mille domande”. D’improvviso s’udì la voce lontana di Nepthya che la stava cercando, chiamandola a gran voce.
Erien si alzò di scatto. “Devo andare dottore, non vorrei che Nepthya ci trovasse qui da soli: potrebbe pensare che io le stia nascondendo qualcosa”. Si avviò alla porta d’entrata, ma prima di uscire Kervis la richiamò. “Stai molto attenta, Erien, ricordalo! Le situazioni cambiano in fretta e presto dovrai decidere cosa fare della tua vita. La scelta migliore potrebbe non essere quella che appare la più felice, ma solo tu puoi stabilire che tipo di persona vuoi diventare; indaga a fondo nel tuo animo e non essere avventata”. Poi le prese entrambe le mani tra le sue. “Sai che ti voglio bene come a una figlia. Ti chiedo solo di tenermi informato sulle tue scelte, in modo che io possa restarti vicino”. La ragazza sorrise. “Grazie delle tue parole sincere! Mi aiuteranno a capire qual è la cosa giusta da fare”. Lo baciò su una guancia e uscì.
13.
Donna Vilya aveva appena terminato di far colazione in compagnia di Erien. Chiacchieravano come buone amiche: “Cara, non trovi che sia una splendida giornata? Se ti va, potresti cavalcare un po’, so che ti piace tanto”. La ragazza, sorpresa, annuì con un sorriso; di solito la signora non la lasciava andare da sola a svagarsi, ma era un’ottima idea. Un po’ di pace, la natura e il sole caldo le parevano doni meravigliosi di cui godere senza perderne un istante. “Melisia potrebbe venire con te a farti compagnia” aggiunse poi la padrona con noncuranza. Melisia, sempre indaffarata nel riordino delle stoviglie, per l’ennesima volta fu colta alla sprovvista e, senza entusiasmo, mormorò: “Come desiderate, Donna Vilya”. Erien colse il disagio di Melisia, ma non disse nulla. Alla scuderia i cavalli erano già sellati. Vi salirono con l’aiuto dello stalliere e si avviarono. Una brezza leggera faceva ondeggiare le criniere dei puledri dal manto rossiccio, cavalcati dalle due ragazze. Andavano al o e in silenzio. Melisia, un po’ arretrata rispetto a Erien, si era imposta di non rivolgerle neppure una parola; le avrebbe risposto solo se fosse stata interpellata. Non voleva di sicuro conversare con lei. Dopo una mezz’oretta giunsero in prossimità del ponte sul fiume. Il paesaggio era splendido. Assi di legno tormentate dal tempo collegavano le due sponde. Sotto di loro l’acqua era schiumosa per la forte corrente e fredde rocce spuntavano qua e là come piccole montagne disperse in un deserto. Era bellissimo, un senso di libertà invadeva Erien. “Ti trovo silenziosa, Melisia; Qualcosa non va?” domandò Erien all’improvviso. “Non ho niente da dire, ecco tutto!” rispose secca Melisia. Ma si notava che tratteneva a stento le lacrime. Poi, come un fiume in piena, non riuscì a tacere:
“Quanto a cosa non va, dovresti saperne più tu di me! Mi hai rubato tutto, tutto quello che avevo, anche i regali”. “Parli del vestito? Non volevo ti offendessi, l’ho solo preso in prestito. Sai che non ho abiti raffinati e l’occasione ne prevedeva uno elegante; ma non preoccuparti, l’ho trattato con cura, come se fosse mio”. Mi prende anche in giro! Maledizione! Melisia, rabbiosa, colpì col frustino il fianco del cavallo di Erien che s’impennò spaventato; la ragazza venne sbalzata via e scaraventata oltre il parapetto, precipitando nel fiume. Il corpo riemerse quasi subito, inerme. Fu preso dalla corrente e trascinato con forza. Spaventata, Melisia smontò di sella e si affacciò al parapetto. Non riusciva a capire perché Erien non cercasse di nuotare o di raggiungere la riva. Di sicuro, cadendo, aveva battuto la testa e questo poteva esserle stato fatale. Melisia era stata sopraffatta dalla collera, ma non voleva che accadesse una disgrazia. “Erien! Erien, rispondi!“ gridò presa dal panico, mentre un sudore freddo le imperlava il viso. Si guardò intorno disperata. “Aiuto! Qualcuno mi aiuti! Aiuto!” Dalla parte opposta del ponte stava sopraggiungendo un cavaliere al galoppo, attirato dalle urla. L’uomo avvistò il corpo spinto dalla corrente e senza indugio si buttò in acqua per raggiungerlo, mentre Melisia correva lungo la riva. Solo allora si rese conto che quell’uomo impavido era Nolak. Il cuore le balzò in gola, togliendole il respiro. “Nolak, ti prego!” Continuava a correre senza guardare dove andava; inciampò e cadde. Distesa a terra, vide il giovane arrivare fino a Erien, prenderla per i capelli e sostenerla. Nuotando solo con un braccio, mentre con l’altro tratteneva il corpo abbandonato, Nolak riguadagnò in fretta la terraferma. Melisia si rialzò per raggiungerlo. Era ancora innamorata di lui, nonostante avesse cercato in ogni modo di dimenticarlo. Nolak sollevò tra le braccia Erien e la distese sulla riva. La girò sul fianco per farle espellere l’acqua ingerita, ma nel compiere quel movimento alcune ciocche bagnate dei lunghi capelli si separarono facendo intravedere, alla base del collo,
una macchia rossastra a forma di spirale. Il giovane si fermò e il suo pensiero corse subito alla profezia: non aveva mai visto quel segno, ma non aveva dubbi. L’elemento distintivo dell’Eletta! L’aveva trovata! Non riusciva a crederci. Era la donna predestinata, l'unica che poteva guidarli nella battaglia e farli vincere contro i guardiani, ma era essenziale che lo fe prima del terremoto. Nolak capì che doveva agire in fretta, trovando un modo per rivederla, tenerla d’occhio e condurla dalla parte dei ribelli. Doveva guadagnarsi la sua stima e diventare per lei indispensabile. Era bella e molto giovane, forse ancora inesperta. Il suo compito, pensò, non sarebbe stato difficile.
Mentre cercava di farla rinvenire, Nolak vide arrivare Melisia di corsa. “Come sta? Non è…” con gli occhi dilatati per lo spavento, non riuscì a finire la frase. ”Non preoccuparti” la rassicurò lui, “si riprenderà tra poco, è solo un po’ stordita. Ma com’è successo?” “Non so, all’improvviso il suo cavallo si è imbizzarrito. Ha imparato da poco a cavalcare, non è ancora esperta a prevedere le reazioni dei cavalli”. “E chi è? Come mai stavate cavalcando assieme?” “Lavora da poco tempo al Podere del Gelso Bianco. E’uscita dalla Circolaria e ha preso il mio posto come dama di compagnia di Donna Vilya. Ma ritornerà di sicuro da dove è venuta per diventare una Savia” “Non mi sembri molto entusiasta di avere una nuova amica, cara Melisia” sorrise Nolak, “anzi credo che tu non veda l’ora di liberarti della sua presenza. Mi sbaglio?” “Certo, sarei contenta di riprendere il mio posto al fianco di Donna Vilya. Non mi piace il lavoro che sto facendo in questo periodo. Tutto qui”. La giovane intanto aveva aperto gli occhi e lo guardava silenziosa, ancora
spaventata. “Coraggio, vi accompagno al Podere, prima che vi capiti qualcos’altro. Come si chiama questa ragazza?” “Erien” rispose decisa Melisia. “Va bene”. Sollevando la testa, Nolak si accorse di trovarsi vicino al suo cavallo. Gli altri due erano fermi sul ponte. “Vai a recuperare i vostri cavalli. Erien la porterò in sella con me, non riuscirebbe a cavalcare in queste condizioni”. Rossa in viso, Melisia rispose con prontezza. “Come vuoi, sai che mi sono sempre fidata di te”. Lo disse con una punta di rammarico, quasi a sottolineare il disagio per il fatto di essere stata lasciata da lui; ma tornò verso il ponte senza protestare. Nolak continuava a tenere Erien tra le braccia. Accarezzandole il viso, le chiese come si sentisse. Lei fece un respiro profondo che, per qualche istante, parve rianimarle il viso esangue. “Grazie, ti devo la vita…” disse piano. Poi, avvicinandolo, gli sussurrò con un fil di voce. “Dimmi almeno il tuo nome”. “Mi chiamo Nolak e non devi sentirti in debito” rispose lui sorpreso. “Sei stata fortunata che io stessi cavalcando da queste parti; ma ora cerca di rilassarti, stai tremando come una foglia”. “Ho freddo…” e benché fosse pallidissima, era davvero bella. Non sarebbe stato un grande sacrificio per Nolak cercare di conquistarla. Il giovane le liberò la fronte dai capelli bagnati, sorridendo per infonderle coraggio. Raggiunse il cavallo, aprì una sacca della sella e vi tolse un mantello scuro coprendo le spalle della ragazza, poi le frizionò mani e piedi, l’abbracciò per scaldarla. Lei gli si strinse contro, tremando. “Devi tornare subito a casa e metterti davanti al fuoco” disse lui. L’aiutò a sollevarsi, la fece salire a cavallo, poi montò in sella e con un colpo alle redini si diresse verso il Podere.
Melisia, con evidente invidia per non essere in quel momento nei panni di Erien, seguiva Nolak alla stessa andatura, a poca distanza. Intanto Erien in silenzio cercava di capire cosa fosse accaduto. Si sentiva stanca, ma avvertiva con piacere il calore del corpo del cavaliere e la protezione delle sue braccia. Erano quasi a metà strada, quando una voce li sorprese: “Fratello, cos’è successo? Erien, stai bene? Da dove state arrivando?” “Ehi, calma. Quante domande! Tu piuttosto, che cosa fai qui?” “In realtà… niente”. Ziro esitava. ”Stavi aspettando Erien!” esclamò Melisia. “Ma cosa stai dicendo?” “Dico che tu e Erien vi vedete di nascosto!“ Ziro rispose in tono urtato. “In realtà l’ho incontrata per caso un paio di volte e dato che stavo ando in zona mi sono fermato per controllare se era nei dintorni. So che le piace questo posto e non ci trovo nulla di male a fare due chiacchiere con lei”. “Ah, è così? Se Donna Vilya lo sapesse, mi spellerebbe viva, te ne rendi conto? Io devo stare con lei ed Erien non dovrebbe andare in giro da sola!” A quel punto Nolak intervenne. “Ehi, basta! Sembrate bambini litigiosi. Siamo abbastanza vicini al Podere. Ora Erien salirà sul cavallo di Melisia mentre noi torneremo indietro prima che si accorgano della nostra presenza”. Ziro aiutò Nolak a spostare la ragazza sull’altro cavallo, ma prima che Melisia potesse salirvi Nolak la trattenne per un braccio dicendole: “Lasciale il mantello, glielo toglierai non appena starete per entrare al Podere. Ora è meglio che andiate”. All’improvviso si accorse che Ziro stava sussurrando qualcosa a Erien, stringendole una mano. Erien però si voltò verso Nolak che le sorrise.
“Ci rivedremo presto” disse. “Dove?” chiese lei con voce bassa. Ziro gli rivolse uno sguardo inquieto; era evidente che quella ragazza gli piaceva. Ma Nolak doveva fare il suo dovere. “Nella bottega del fabbro…” I due giovani montarono a cavallo e, dopo aver seguito in silenzio le ragazze che si allontanavano, si diressero verso il rifugio. “Stai alla larga da Erien!” esclamò Ziro all’improvviso. Nolak cercò di calmarlo. “Non sapevo che la conoscessi! Da quanto tempo vi frequentate?” “Non credo siano affari che ti riguardano e poi non ho voglia di parlarne” ribatté l’altro, secco. “Dopotutto ognuno ha i suoi segreti, non trovi?” Nolak si sentiva in colpa. Stava per portargli via la ragazza, perché la profezia potesse avverarsi, ma si sentiva sleale. E nonostante gli avvertimenti di Atanvar sulle scelte complicate che lo avrebbero messo in conflitto con la sua coscienza, era difficile comportarsi in quel modo verso Ziro. Ma il dovere veniva sopra ogni cosa. Fatta la strada in silenzio, giunsero al rifugio separandosi subito.
Nel frattempo le due ragazze arrivarono al Podere dopo avere sbirciato che nella piazzola antistante l’ingresso non vi fosse nessuno. Non dovevano farsi vedere: Erien era ancora tutta bagnata e i capelli ricadevano disordinati sulle spalle. Poco prima si era tolta il mantello offertole da Nolak, e lo aveva consegnato a Melisia per nasconderlo. Per fortuna tutto era andato nel verso giusto! Erien era riuscita a rendersi presentabile alla padrona, alla quale aveva raccontato di essersi divertita e quanto la eggiata a cavallo le avesse fatto bene. Contenta, Donna Vilya la congedò, avviandosi a cena. Si sarebbero ritrovate poi nel salone ed Erien le
avrebbe letto qualche pagina del libro del momento, oppure avrebbero giocato a Dirsei. Finalmente! pensò Erien. Ho davvero bisogno di rilassarmi e riprendermi dallo spavento! Si sdraiò sul letto, abbandonandosi a mille pensieri. Dall’incidente non riusciva a pensare che a Nolak, a chi le aveva salvato la vita. Rabbrividiva al ricordo di quegli attimi in cui il giovane l’aveva stretta tra le braccia, avvolgendola nel suo mantello, e le batteva forte il cuore rivivendo il percorso fatto insieme a lui, mentre ritornavano al Podere. Sensazioni forti e piacevoli… Ogni tanto incontrava Ziro; gradiva che lui la corteggiasse, accettava i fiori che le donava, stava bene in sua compagnia, sorrideva alle sue battute e si divertiva, ma non aveva mai avvertito quell’emozione provata per Nolak. Quando aveva riaperto gli occhi dopo la caduta, scorgendo il viso del giovane una sorta di scossa l’aveva attraversata. Il calore di quel corpo l’aveva riscaldata e ancora la turbava. Era piena di pensieri nuovi. Palpiti di desideri proibiti. Nolak… ripetere il suo nome le creava una sensazione strana e un po’ la preoccupava. Le piaceva tutto di lui, pur non conoscendolo. C’era qualcosa d’incomprensibile in quell’in-contro casuale. Confusa, le sembrò di aver vissuto fino a quel momento in un limbo rassicurante, ma privo di quelle emozioni che fanno sentire una persona viva e presente. Ora esistere era anche desiderare Nolak e pretendere un futuro libero dalle imposizioni di Nepthya. Sentì suonare la camla, segno che la padrona aveva finito di pranzare: doveva andare da lei. Era abitudine di Donna Vilya sorseggiare una bevanda calda prima di dormire e trovava piacevole che la sua dama di compagnia la intrattenesse leggendole un libro. Erien si alzò sistemandosi le vesti. Al rifugio, Nolak s’era appartato nella sua grotta e, dopo essersi seduto sul pagliericcio, aveva ripensato alla risposta di Ziro: “Non credo siano affari tuoi… non ho voglia di parlarne… ognuno ha i suoi segreti”. Non lo aveva mai visto tanto irritato. E tale atteggiamento non faceva parte del
suo carattere. A meno che Erien rappresentasse per lui qualcosa di più di un semplice capriccio. Doveva ammettere che era diversa dalle altre ragazze finora conosciute: il suo sguardo, gli occhi limpidi e quell’aria ingenua facevano intuire qualcosa di speciale. Ma non voleva lasciar spazio a sentimentalismi. Quella donna era l’Eletta ed era indispensabile condurla dalla parte dei rivoltosi. Quindi l’avrebbe rivista presto, molto presto.
14.
Questa è brava gente, pensava Plumis dopo qualche giorno di permanenza tra i ribelli, ma andarmene è urgente! Stava meglio ed era libero di muoversi all’interno del rifugio; eppure si sentiva prigioniero e se provava ad approssimarsi alla grotta principale, le sentinelle, con gentilezza, lo rimandavano indietro. Quel buco scuro che somigliava all’uscita lo attirava. L’aria e il sole gli mancavano, aveva bisogno di camminare, vagare senza meta, ovunque il destino avesse voluto portarlo. E non aveva più la sua preziosissima salvia, che gli era caduta quando i guardiani l’avevano aggredito. In un posto dove tutti erano indaffarati, lui invece non aveva niente da fare. Nolak gli aveva chiesto solo di divertire gli uomini e le donne del campo. Quando scherzava, raccontava storie o si esibiva in giochi di abilità, tutti sorridevano; lo canzonavano, divertiti e affettuosi, ma poco partecipi. E’ brava gente, pensava Plumis, però non è qui per divertirsi! All’improvviso Rodan arrivò, nascondendo qualcosa dietro la schiena. “Come va?” gli chiese. “Sto bene, ma sono stanco di stare qui. Perché non mi lasciate andar via?” Rodan era la persona con cui Plumis aveva più confidenza. Addestrava i grifoni crestati e un giorno gliene aveva portato uno cercando di convincerlo che era anche possibile accarezzarlo, ma Plumis era rimasto lontano da quell’animale spaventoso. Sopra il capo quasi del tutto rasato, Rodan indossava uno strano cappello a punta con delle strisce rosse e blu; i baffi sottili si congiungevano al filo di barba sul mento. Gli occhi scuri erano spesso sorridenti, ma in quel momento divennero seri. “Non far domande, amico: potresti scoprire qualcosa che non ti piacerebbe. Guarda invece cosa ti ho portato!”
Mostrò dei rami di salvia appena colti. Plumis li prese e vi tuffò il viso, ebbro di quell’aroma che lo riconciliava con il luogo chiuso. Guardò l’amico. Mentre quasi tutti i ribelli venivano dal popolo, Rodan era un aristocratico per gentilezza e sensibilità, oltre che per nascita. “Grazie, era quello che volevo!” “Di nulla. Poiché dovrai rimanere qui ancora a lungo, ho pensato che ti avrebbe fatto piacere averne un po’”. Qualcosa in quelle parole non piacque a Plumis. “Ancora a lungo? Perché? Ormai sono guarito!” Rodan lo fissò. “Non ti ha detto niente nessuno?” Esitò e infine concluse. “Mi sembra giusto che tu lo sappia: le Savie hanno messo una taglia sulla tua testa”. “Che cosa?” “Offrono seicento dranie a chiunque darà sul tuo conto notizie che possano permettere di trovarti. Devi essere molto importante per loro, se ti stanno cercando in tutto il paese”. Plumis si sentì mancare e dovette odorare di nuovo la salvia. “Non capisco perché” commentò poi con un filo di voce. “In ogni caso, renditi conto che non possiamo lasciarti andare: sarebbe troppo pericoloso per tutti noi e soprattutto per te”. “Capisco…” Assunse un’aria pensierosa. “Sai, all’improv-viso non mi sembra di stare tanto male, qui! E’ un bel posto e c’è gente simpatica. Credo proprio che mi ci fermerò per un po’, senza fare fatica!” Rodan rise, dandogli un’affettuosa pacca sulle spalle.
Lì tutti si alzavano quando la prima luce del mattino penetrava dalle aperture della volta. Si erano dati un’organiz-zazione militare e si esercitavano al combattimento, ma il rifugio dava più l’impressione di una comunità di campagna che di un campo di soldati. Conservavano i cibi in diversi punti adibiti
a dispensa, organizzati tanto bene che chiunque poteva trovare subito ciò che voleva. Affinché tutti potessero mangiare quando avevano fame, grandi pentole venivano tenute sui fuochi che rimanevano sempre accesi. Persino Nolak, che era il capo, se si avvicinava a una brace che rischiava di spegnersi lasciava quello che stava facendo per attizzare le fiamme. Nolak comandava il gruppo e Ziro era il suo braccio destro; seguivano Leida, Rodan e Dania. I ribelli obbedivano tutti, perché condividevano appieno le decisioni prese. Per quelle più importanti si riunivano nella Sala dei Monoliti, discutendo a lungo da pari a pari. L’organizzazione del campo poteva far invidia ai guardiani più rigorosi. Una volta Nolak aveva coordinato un’esercitazione di fuga e Plumis, che partecipava solo come spettatore, ne era rimasto sbalordito: in pochi minuti il campo si era mobilitato e tutti si erano diretti in fretta, ma con ordine, verso la grotta dei cavalli, per poi ritornare con calma alle proprie occupazioni a esercitazione conclusa. Una grotta era adibita ad arsenale. I ribelli portavano le armi da fuori o le forgiavano direttamente presso il rifugio. Nolak aveva istruito parecchi ragazzi che lavoravano con diligenza e abilità, benché dovessero sempre fare i conti con la mancanza di ferro. Ma l’attività che impegnava tutti, indistintamente, era l’addestramento alle armi. L’area di combattimento consisteva in uno spiazzo di terra battuta riassettato dopo ogni esercitazione, in cui tutti imparavano a prender confidenza con daghe, coltelli, lance, mazze e bastoni. Leida insegnava ai giovani a usare come arma qualsiasi cosa, oltre ai metodi per neutralizzare i mezzi dei guardiani. V’erano dei manichini con le corazze nere, armati di spade, magli e catene uncinate, che Plumis guardava con orrore. Con i capelli raccolti in una treccia che le arrivava alla vita, Leida mostrava alle reclute i punti deboli dell’armatura, perché imparassero a sfruttarli. “Dovete essere decisi nel colpire” diceva, facendo roteare la spada. “Spostatevi davanti al guardiano, alla sua destra, e infilate la spada nella giuntura del petto. C’è un punto preciso dove la lama può penetrare, che si trova sopra lo sterno; ma dovete angolare bene la spada, altrimenti balzerà indietro o si spezzerà. Date un solo colpo, secco, e andrà dritto al cuore. Così!” Leida si voltò verso il fantoccio, fece un o di lato e infilò la spada al centro
della corazza. La lama penetrò come un coltello nel burro. “Il trucco sta nell’angolatura della spada” ribadì la ragazza, aggiustando il laccio di corda che portava sulla fronte, “che bisogna regolare al primo colpo, altrimenti il guardiano ha il tempo di reagire. Provate tutti, adesso, e non smettete finché non sarete riusciti a colpire il manichino in modo corretto per almeno tre volte di seguito”. I giovani si avvicinarono ai fantocci cominciando a menar fendenti, ma a uno di loro la spada si spezzò al primo colpo. “Era troppo diritta” gli disse Leida; recuperò la sua spada e la puntò contro il manichino della recluta. “Deve entrare da questa angolatura e il punto da colpire è qui, a metà del muscolo pettorale”. Il giovane annuì e Leida gli lasciò la spada. “Esercitati senza forzare, per adesso”. Presa una nuova arma, camminando avanti e indietro la ragazza controllò ogni movimento dei giovani, dimostrando spesso il fendente giusto. Quando tutti riuscirono a colpire il manichino in modo corretto, Leida rimase ferma a gambe divaricate, con un braccio piegato dietro la schiena, sopra la curva dei fianchi. “Un altro punto debole della corazza è dietro le ginocchia, proprio sulla giuntura”. Leida non dimostrava alcuna fatica. “Possiamo fare una pausa?” domandò un giovane, asciugandosi il sudore con una manica. “No!” rispose lei. “Quando vi batterete per davvero non potrete chiedere ai guardiani di riposarvi, perciò tanto vale abituarsi fin d’ora!” Nessuno osò più ribattere. Con un balzo la ragazza si spostò alle spalle del manichino e con un colpo obliquo, dato dal basso verso l’alto, gli traò il ginocchio. “In questo modo tagliate tendini e legamenti e il guardiano cadrà come un sacco di patate, poi potrete colpirlo alla gola”. Fece una pausa. “Ci sono domande?” Una ragazza alzò la mano. “Leida, stiamo imparando i punti deboli della corazza che ci servono in un corpo a corpo. Ma è quasi impossibile avvicinarsi ai guardiani”.
“Ho capito. Tu pensi che questo addestramento serva a poco perché i soldati hanno la catena, un’arma micidiale. E’ vero. Pare che il loro comandante, Gurgon, con una catena possa sfiorare una guancia senza ferirla oppure tagliare una testa di netto. Non si può combattere contro tutto questo, perciò è impossibile vincere contro i guardiani e il nostro allenamento è inutile”. Leida fece un gesto ampio con la mano. “No, ti sbagli!” Abbassò la testa come per concentrarsi. “Questa fase dell’addestramento era prevista molto più avanti, ma forse vi sarà utile già adesso.” Afferrò la catena da un fantoccio e la fece roteare sopra la testa, lanciandola poi ai piedi della ragazza che aveva fatto la domanda. “Prendila, Heliat! Prendila e falla girare, ma bassa” mise la spada all’altezza della vita, “così!” La ragazza parve esitare. “E poi?” domandò. “Poi ci penso io. Tu fai solo roteare la catena con tutta la forza che hai. E voi allontanatevi!” finì, rivolta agli altri giovani. Heliat cominciò dapprima con un movimento lento e incerto che divenne presto più regolare, ritmato e veloce. Un suono cupo e modulato accompagnava ogni rotazione, facendo drizzare i capelli in testa a Plumis. A un tratto Leida avanzò decisa con la spada alzata; l’abbassò a due mani, rapida, e l’infisse per terra, arrestando la catena di colpo. Trascinata dall’inerzia, Heliat cadde e prima che potesse rialzarsi fu bloccata dall’istruttrice che le aveva puntato il coltello alla gola. Aiutò la ragazza ad alzarsi. “Tutto bene?” domandò. L’altra annuì con la testa e Leida si voltò verso gli altri. “Quando il terreno è roccioso, bisogna utilizzare un altro sistema. Ma per oggi la lezione è finita. Riflettete su quanto avete visto e non mancate di allenarvi”. Si allontanò a i lunghi, mentre le reclute la seguivano silenziose con lo sguardo. Forse non si rendeva conto di quanto, agli occhi di Plumis, fosse bella in quel momento.
La chiamò. Lei si voltò, sorrise facendo un segno di saluto e gli andò incontro. “Ancora qui, narrastorie! Quando comincerai ad allenarti anche tu?” Era sempre così, con lui. Allegra e ironica, sembrava divertirsi nel canzonarlo, mentre lui avrebbe dato qualsiasi cosa per essere preso sul serio da lei, anche solo per una volta. Scosse la testa rabbrividendo. “Non è una cosa per me, non potrei mai diventare abile come te”. Lei alzò le spalle. “E’ solo questione di esercizio. Qui siamo tutti capaci di combattere contro i guardiani”. “Ma non ti stanchi mai?” domandò Plumis. Leida lo guardò, inarcando le sopracciglia. Egli proseguì: “Voglio dire: non ti succede mai di desiderare qualcos’altro? Divertirti, per esempio, oppure dipingere; insomma fare una vita diversa”. “Cioè essere una donna normale?” la ragazza sorrise. Anche lui sorrise. “Più o meno!” “Credo di non esserlo mai stata”. Era diventata seria e parlava fissando un punto oltre l’uomo. “Sono cresciuta in un Istituto per ragazzi e ho cominciato a combattere da bambina. E’ lì che ho conosciuto Nolak e Ziro: mio padre Erech era il loro istruttore d’armi”. “E tua madre? Anche a lei piaceva vederti combattere?” Prima di rispondere Leida sistemò il laccio di corda sulla fronte. “Non ricordo la mia vera madre: Erech e Fedya mi adottarono quando ero piccola. Fedya era molto dolce e… sì, forse, se lei fosse vissuta, sarei stata diversa. Ma morì presto. Troppo presto”. Gettò all’indietro i capelli e fissò Plumis con uno sguardo diventato duro all’improvviso. “E’ da allora che combatto contro le Savie e i guardiani, e non smetterò mai di farlo!” “C’è molta rabbia dentro di te” notò Plumis.
“Sì, ma non voglio parlarne”. “Scusami. Non volevo suscitare ricordi tristi”. Guardò Leida con dolcezza, sperando che cogliesse il suo sentimento. Invece lei gli batté una mano sulla spalla con fare amichevole. In quel momento ò Ziro, che li salutò tirando diritto. “Perdonami, Plumis”. Leida, continuando a conversare, seguì il ragazzo con lo sguardo. “E’ piacevole parlare con te, però adesso ho da fare”. “Ci vediamo dopo?” domandò il narrastorie. Ma lei era già andata via.
“Insuccesso totale, vedo!” esclamò una voce dietro di lui. Era Rodan. “E’ tanto evidente?” gli domandò Plumis. L’altro scoppiò in una risata. “Sei così trasparente, amico! Lo hanno capito tutti che corri dietro a Leida!” “Lei no, però” brontolò lui. “I suoi pensieri sono altrove” rispose Rodan. “Perché? Che cosa le è successo? Mi ha accennato qualcosa senza scender nei dettagli”. “Leida è così: non parla molto, ma non ha segreti. Tutti sanno la sua storia. Non ha mai conosciuto suo padre; della madre naturale non parla mai, anche se visse con lei fino a cinque anni, ma ricorda bene che si concedeva agli uomini di aggio per poche dranie. Era una strana donna vaneggiante, che tutti consideravano una strega, evitandola; viveva da sola e aveva gli occhi di colore diverso. Trascurava la bambina tanto da dimenticarla per strada. Leida le fu sottratta, portata all’Istituto per orfani e adottata da Erech e Fedya che non
avevano figli. La piccola crebbe con attenzioni e tenerezza, affezionandosi moltissimo alla mamma adottiva. Un giorno ci fu la Celebrazione dei Duali, alla quale dovevano partecipare tutti gli adulti, ma Fedya non si presentò: rimase a casa con la bimba che aveva la febbre alta. Qualcuno la denunciò alle Savie. Fedya fu uccisa nella piazza, dopo una punizione esemplare, e scomparve nel Pozzo dei Condannati. Le Savie costrinsero Erech e la bambina ad assistere all’esecuzione. Da allora Leida chiese al padre, che addestrava i ragazzi dell’istituto, di partecipare agli allenamenti, dimostrando subito un’abilità straordinaria al combattimento”. Plumis ascoltò senza interrompere; ora comprendeva molte cose. “Leida vive per vendicarsi e perciò non può avere occhi per nient’altro, soprattutto per un uomo” concluse Rodan.
15.
“Esiste una sola via che l’essere umano può e deve percorrere: quella indicata dal Libro dei Duali. Il sacro testo fu scritto secoli e secoli fa, dalla mano della Prima Causa, nella lingua arcaica e oscura che solo le Savie sapranno interpretare…” Nella stanza di Donna Vilya, Erien leggeva uno dei libri sulla Dualità di cui era fornita la biblioteca del podere. Non c’erano alternative: erano gli unici libri consentiti e lei stessa non avrebbe potuto immaginare un altro argomento su cui scrivere o discutere. Donna Vilya ricamava, sospirando di tanto in tanto, a volte interrompendo la ragazza con qualche domanda. “Perché, se il Libro è stato scritto tanto tempo fa, le Savie non sono ancora riuscite a decifrarlo del tutto?” chiese a un tratto. “Non ano forse la maggior parte del tempo a studiarlo?” “E’ difficile da credere, lo so” rispose Erien, “eppure ci sono almeno due motivi. Il primo è rappresentato dal linguaggio: si deve studiare giorni e giorni prima di capire le sestine tanto intricate quanto arcane. E poi c’è la questione della lunghezza: quello che noi chiamiamo Libro è in realtà formato da migliaia di volumi e occupa interi piani dell’Esagonato”. Vilya sollevò gli occhi dal ricamo. “Tu ci sei mai stata? E’ vero che l’Esagonato è così grande che ci si può perdere?” “E’ vero. Ci sono entrata solo una volta e sono rimasta nella sala di accoglienza, perché l’accesso alle Stanze del Libro è consentito solo alle Savie Anziane. Ci sono quattrocentoventi locali, suddivisi su sei piani, e centottanta pertiche di corridoi”. La padrona sorrise. “E’ un piacere parlare con te, Erien: per essere tanto giovane, sai molte cose!” “Solo perché sono cresciuta tra le Savie!” scherzò Erien.
In quel momento Melisia entrò correndo nella stanza. Vilya sussultò e si punse con l’ago. “Melisia!” esplose. “Che modi sono questi? Non sei più capace di bussare?” “Scusatemi tanto” balbettò la ragazza. Poi sembrò non trattenersi più e continuò tutto d’un fiato. “E’ arrivata l’Anziana Superiora Nepthya per incontrare Erien, l’ho fatta accomodare nel salotto grande!” ”Vedi di calmarti. Nepthya è una donna come tante e, prima o poi, anche il suo potere avrà fine. E tu sei una sciocca!” In quell’esclamazione c’era astio più verso la Savia che verso Melisia ed Erien fu sorpresa. Decise di pensarci più tardi, ora aveva fretta di raggiungere l’ospite. Erano giorni che non la sentiva. Vilya si rivolse a Erien: “Vai pure e salutala da parte mia”. La ragazza scese le scale correndo.
Nepthya l’attendeva in piedi, sotto le scale, con le braccia aperte. “Finalmente, madre! Avevo tanta voglia di rivederti!” “Anch’io, piccola mia! Ma ho avuto molto da fare e solo oggi sono riuscita a trovare un momento libero”. “Tu non pensi più a me, da quando me ne sono andata”. “Che sciocchezza: sei sempre nei miei pensieri, lo sai”. Erien l’abbracciò. “Lo so. Ma andiamo a parlare fuori di qui”. La prese per mano e la guidò all’esterno della casa. “C’è una bella eggiata verso il fiume, che a volte faccio a cavallo con Melisia”. “Melisia è quella ragazza che mi ha aperto?” s’informò Nepthya. “Sì. Era dama di compagnia di Donna Vilya prima che arrivassi io”.
Andarono a camminare sulla strada alberata che dal parco dei gelsi arrivava al fiume. Su quella strada Erien aveva incrociato Ziro e trovato i suoi segnali. Da lì si andava verso il fiume, dove aveva conosciuto Nolak. Era il posto meno adatto per portare Nepthya a eggio, poiché i suoi pensieri avrebbero potuto tradirla, ma l’idea non la spaventava, anzi la rendeva più ardita. Erien chiacchierava e rideva, girando intorno lo sguardo per cercare segni che le ricordassero Nolak. “Come ti trovi qui?” domandò l’Anziana Superiora, superato il cancello. “Vilya ti tratta bene?” “Sì, è molto gentile e premurosa con me. Pensa, mi fa uscire solo con lei oppure con Melisia perché teme che mi succeda qualcosa”. “Lo so, sono stata io a chiederle di starti vicino: ho paura per te. Tu non conosci il mondo, piccola mia, che è crudele e pericoloso”. A quelle parole Erien si fece seria. “Non ti fidi di me? Oppure pensi che sia ancora una bambina?” “Non fraintendermi” rispose Nepthya. “Non sto dicendo che tu non sia in grado di badare a te stessa; temo solo che altri possano ingannarti, facendoti credere di esserti amici per poi approfittare della tua freschezza e della tua ingenuità”. “Devo essere sicura di farmi Savia, ma rimanendo sotto le ali di Donna Vilya non lo sarò mai, ti pare?” ribatté Erien. “Magari, dovrei fare il contrario e imparare a difendermi da sola”. “Capisco…” La Savia s’interruppe. Infilò le mani nelle maniche della tunica, segno che stava riflettendo. “Capisco che stare fuori dalla Circolaria deve sembrarti molto diverso. Vai a eggio, al mercato, alle feste, agli spettacoli in piazza, tutte cose che prima non facevi, sei eccitata e confusa allo stesso tempo. Ti chiedi che cosa ti piaccia e che cosa tu voglia davvero; pensi che tra noi Savie la vita sia noiosa e piena di regole mentre altrove sia tutto diverso. E hai anche cominciato a domandarti se davvero vuoi divenire, col tempo, una Savia; non è così?” Erien chinò la testa e non rispose. Nepthya le stava leggendo nel pensiero. “Non preoccuparti, piccola mia”. La voce era affettuosa. “E’ normale che succeda. Tutte le Osservanti ano un periodo di dubbi durante la prova, ma
solo attraverso queste perplessità si raggiunge la certezza della propria strada. Le ragazze capiscono che fuori dalla Circolaria la vita è affascinante, ma piena di finzioni, e che la verità è solo nel Libro dei Duali e nella reincarnazione. Se vuoi, posso aiutarti a risolvere qualche dubbio e a capire meglio te stessa. Vuoi provare a farlo?” Nepthya la sorprendeva. Invece di rimproverarla per il suo atteggiamento la stava consolando, dimostrando di essere paziente e comprensiva. Lei, invece, faceva le cose di nascosto. Si sentiva un’ingrata. “Sì, madre, vorrei tanto che tu mi aiutassi!” confessò. “Hai ragione, in questo periodo sono piena di dubbi; non capisco cosa mi stia succedendo”. Sollevò di nuovo lo sguardo. Si accorse che gli occhi di Nepthya erano freddi, nonostante le sue parole fossero rassicuranti. Scoprire che mascherava l’irritazione mise Erien sulla difensiva. “C’è stato forse un avvenimento che ti ha colpito di più?” domandò la Savia. “Forse è successo qualcosa d’inconsueto, che non accade tutti i giorni e che riunisce la gente per la strada, come un’occasione di festa”. Erien non capiva. “C’è stato solo lo spettacolo di Plumis”. Esitava. In realtà non pensava affatto al narrastorie. Ben altro le girava nella testa, in quei giorni, qualcosa che aveva un nome preciso: Nolak. Ma Nepthya sembrò illuminarsi a quella risposta. “Che cosa ti ha colpito di quello spettacolo?” domandò in fretta. “In realtà, non ho notato niente…” “Questo è strano” l’interruppe l’altra. “C’ero anch’io e ricordo bene che il narrastorie parlava in rima, raccontando una storia bizzarra. Quando si assiste agli spettacoli, può succedere che il cantore dica qualcosa che sentiamo più vicino a noi, come se ci riguardasse di persona. E’ proprio su questo che si basano le commedie. Di sicuro è successo anche a te”. Quell’insistenza sullo spettacolo diede fastidio ad Erien. Le pareva che Nepthya stesse solo seguendo un ragionamento suo e cercasse di raggiungere uno scopo ben preciso. Per un attimo ebbe l’impressione sgradevole d’essere lontana dal suo mondo.
In quei giorni era tesa e carica di sensazioni sconosciute che non riusciva ancora a interpretare. Invece di rispondere come avrebbe dovuto, cedette all’orgoglio. “Non c’è niente da dire” ribatté. L’altra abbassò lo sguardo. “Prima mi raccontavi tutto di te. Dev’essere successo qualcosa, perché ora ti stai chiudendo in te stessa. Cosa c’è, piccola mia?” C’è che ho visto il mondo, pensò Erien, e ho conosciuto Nolak. “Non è successo niente” ripeté, mettendo nella voce più decisione di quanto volesse. “Eppure sento che mi nascondi qualcosa”. Adesso il tono dell’Anziana era meno tenero e gli occhi erano diventati duri e inespressivi. Come biglie di vetro. “Ma tu sai bene che a me puoi dire tutto. Sono stata giovane anch’io e ricordo come ci si sente”. No, tu non sei stata mai giovane. Non hai mai saputo che cosa significa uscire, andare a cavallo, eggiare per le strade, conoscere la gente. E non sai che cosa vuol dire un giovane che ti guarda con ammirazione. Il coraggio di resistere a Nepthya, addirittura di contrastarla, la sorprendeva. Era Nolak a darle quella forza che non sapeva nemmeno di possedere. “Ti ripeto che non c’è niente” ribatté. “Eppure hai parlato con Kervis, con lui ti sei confidata”. “Non sarai mica gelosa di lui?” Adesso Erien osava anche sorridere. “Che sciocchezza, tra me e te c’è un rapporto molto diverso da quello che hai con Kervis. Io ti ho fatto da madre”. Erien non rispose, perché qualsiasi cosa avesse detto sarebbe stata una menzogna. “Sento che qualcuno ci divide. Deve trattarsi di un giovanotto, solo per questo hai sentito il bisogno di parlare con Kervis e mi hai esclusa. Ma io lo capisco; immagino che tu abbia voluto sentire il parere di un uomo per sapere come comportarti”. Il tono di Nepthya era tornato soave, ma ormai Erien era diffidente. “Non c’è niente e nessuno!” rispose con forza.
“Non mentire con me, Erien!” scattò la Savia. “Ti conosco troppo bene!” “Se Kervis ti ha detto qualcosa, ha mentito”. “Kervis è una persona corretta e non mi ha rivelato nulla”. L’Anziana Superiora cambiò tono, riprendendo quello pacato e tenero di prima. “Tu non sei in grado di decidere, piccola mia. Non sai niente del mondo, devi lasciarti guidare da chi ne sa più di te e ti vuole bene”. Avrebbe vinto, prima o poi. All’improvviso, Erien capì. Se continuava a tenerle testa in quel modo, Nepthya avrebbe continuato a tormentarla finché non avesse ceduto. E avrebbe raggiunto lo scopo, perché era più forte. Quella dell’Anziana era una sicurezza acquisita in tanti anni, mentre lei l’aveva trovata solo da pochi giorni. Doveva resistere in un altro modo, e fingere di cedere per evitare di farlo. Prese un respiro per calmarsi e abbassò la testa, nascondendo l’espressione del viso che l’avrebbe tradita. Cominciò esitante, ma poi prese più sicurezza. “Certo, madre, hai ragione. Vedo adesso che ho peccato di presunzione, e ti chiedo di perdonarmi”. “Piccola mia, tu non hai niente da farti perdonare. Ti chiedo soltanto di avere ancora fiducia in me”. “Sì, madre”. Adesso era più facile. Dentro di sé, la ragazza scalpitava; ma riuscire a ingannare Nepthya le dava un senso di soddisfazione. “Allora, chi è il giovanotto?” “Madre, non c’è nessuno! Credimi! Non mentirei mai a te!” Adesso gli occhi di Erien erano pieni di lacrime. L’altra fece ancora qualche domanda, ma ora non sembrava più tanto sicura e non insistette. Lei continuò a nascondersi dietro il pianto. Soltanto dopo che Nepthya se ne fu andata, Erien si asciugò gli occhi e sorrise.
Nepthya ricevette Melisia nella sua stanza. La ragazza arrivò prima del previsto, con la testa coperta da un cappuccio nero che abbassò appena entrata. Rimase in piedi, al centro della stanza, con gli occhi che andavano da un angolo all’altro, ansiosi. La Savia si rese conto che doveva tranquillizzarla. “Non c’era bisogno che tu ti affrettassi” esordì in tono calmo. “Quello che devo dirti non è così urgente”. “Anziana Superiora, io domando scusa” balbettò Melisia. “Non ho fatto niente di male…” “Questo lo so” rispose Nepthya. Si voltò verso la pianta di biantea per nascondere il fastidio delle parole che stava per dire. “Sei qui perché devo chiederti un favore”. “Un favore? Voi chiedete un favore a me?” Adesso la voce della ragazza era incredula. Nepthya controllò con cura le foglie allungate della pianta per verificare che fossero lucide e sode. ò le mani sul taglio e sulle nervature, dal basso verso l’alto, sapendo che la pianta gradiva quelle carezze. “Faresti una cosa per me?” domandò, dando le spalle alla ragazza. “Anziana Superiora,, farò tutto quello che volete!” Melisia rispose in fretta e con entusiasmo. Sembrava che quell’idea la riempisse d’orgoglio. “Sono a vostra disposizione!” “Molto bene”. La Savia si voltò. “Prima devo farti qualche domanda. Come sta Erien? Donna Vilya la tratta bene?” Melisia s’irrigidì. “Sta benissimo, come meglio non potrebbe. E’ diventata dama di compagnia della signora e non fa niente tutto il giorno, a parte leggere per lei e accompagnarla in giro!” “Noto un certo rincrescimento nelle tue parole”. “No, Anziana Superiora, cosa dite? Io sono affezionata a Erien!”
“Però non ti piace il fatto che abbia preso il tuo posto accanto a Donna Vilya”. L’altra esitò. “Ecco, adesso che mi ci fate pensare, un poco mi dispiace”. Si riprese subito. “Ma io non sono invidiosa: Erien tornerà qui alla Circolaria, e in fondo quel posto non m’interessa tanto”. Nepthya si girò di nuovo verso la pianta. Si era accorta che una foglia stava diventando secca. Aprì un cassetto per prendere il coltello affilato che usava solo per quel lavoro. La biantea si agitò subito. Foglie e fiori si spostarono all’indietro ondeggiando, intrecciandosi e sbattendo. Nepthya tagliò con attenzione la foglia secca, posò il coltello e si voltò verso Melisia. La ragazza stava a bocca aperta, con gli occhi sbarrati. “Non avevi mai visto una biantea, prima d’ora?” domandò l’Anziana Superiora. “E’ una pianta molto sensibile, che avverte le sensazioni ed è anche in grado di dirmi se un pericolo mi minaccia. Dev’essere trattata con cura, altrimenti deperisce e muore. Ma torniamo al discorso di prima. Dunque, Erien sta bene ed esce spesso di casa. Da sola?” “Sempre con Donna Vilya o con me” rispose in fretta Melisia. “Eppure io so che a volte è uscita da sola. E questo nonostante Vilya ti abbia ordinato di controllarla”. “Forse è successo una volta, non di più. Io devo lavorare, non posso stare sempre attenta a quello che fa”. Nepthya indurì la voce di proposito. “Attenta, Melisia, non cercare di fare la furba con me. Ti spezzeresti”. “Non volevo, Anziana Superiora, ve lo giuro!” esclamò la ragazza, congiungendo le mani. “Vi prometto che, d’ora in poi, Erien non farà più un o senza di me!” “Non voglio questo, ragazza mia. Anzi, voglio che Erien continui a uscire, credendo d’essere riuscita a eludere ogni sorveglianza”. L’altra sollevò le sopracciglia per lo stupore. “Non capisco…”
“Non c’è bisogno che tu capisca. Però posso dirti una cosa: Erien deve tornare alla Circolaria e diventare Savia, perché questo è il suo destino, anche se lei ha cominciato a dubitarne. Affinché questo avvenga, dobbiamo tenerla lontano dalle tentazioni”. Melisia non rispose. “Per trovare il modo di rendere innocue queste tentazioni, devo sapere quali sono. Da qui non posso fare niente per saperlo, e Vilya si è dimostrata un’incapace. Ho bisogno di qualcuno che controlli cosa fa Erien, dove va, chi incontra, e venga poi a riferirmelo”. “Anziana Superiora, forse ho capito male” cominciò Melisia. “Hai capito benissimo”. Nepthya prese l’ampolla di miele per nutrire la pianta. “Ma io devo lavorare. Donna Vilya mi sgriderà se scoprirà che perdo tempo a seguire Erien!” “E’ un problema tuo!” esplose Nepthya, fronteggiandola. Si accorse che la ragazza era intimorita e cambiò tono. “Avrai il tuo tornaconto, non preoccuparti. E sarà molto generoso”. L’altra non rispose subito. “Potrete intercedere per me presso la mia padrona, Anziana Superiora?” domandò poi con voce esitante. “No, non parlerò a tuo favore alla tua padrona”. Voltandosi per versare il miele nei petali, Nepthya fece una pausa. Poi continuò in tono leggero. “Come ti ho già detto, Vilya mi ha deluso. Si è dimostrata debole e incapace, e non ho intenzione di ricompensarla. Il Podere del Gelso Bianco ha bisogno di una persona col polso fermo, che sappia farsi ubbidire e che sovraintenda tutte le attività della casa. Penso a qualcuno con un ruolo di direzione, che si collochi tra Donna Vilya e i responsabili dei servitori. Servimi con fedeltà, e quella persona potrai essere tu”. Melisia restò impietrita. Era evidente che non era preparata a una proposta tanto allettante, ma la sua indecisione durò ben poco. “Anziana Superiora, sarò i vostri occhi e le vostre orecchie” cominciò, inchinandosi. Forse aveva intenzione di continuare sullo stesso tono, ma s’interruppe all’improvviso. Tutto quello doveva essere troppo, per lei.
Nepthya non intendeva perdere altro tempo con quella ragazza. “Allora dimmi: chi è il giovanotto che Erien vede di nascosto?” domandò, voltandosi verso di lei. L’altra sussultò. Forse non s’aspettava quella domanda così diretta, e rimase per qualche attimo con la bocca aperta, come se stesse decidendo se parlare oppure no. “Ziro” mormorò alla fine. “Si chiama Ziro. Lavora nella bottega del falegname…” “Bene, ora puoi andare, lasciami sola”. Impacciata, Melisia arretrò di qualche o, salutò con un inchino ossequioso e sparì in fretta.
Poco dopo, rimasta sola, Nepthya meditava sulle informazioni riferite dalla ragazza. Chissà se la servetta aveva detto la verità e se era consapevole dei rischi che poteva correre raccontandole delle fandonie; si era accorta di quella sua esitazione prima di rispondere alla domanda… Ziro, il lavorante del falegname! Doveva indagare ed essere sicura dell’attendibilità della notizia, poi avrebbe ordinato ai guardiani di toglierlo di mezzo senza destare sospetti.
16.
Erien continuava a pensare a Nolak. Gli era debitrice, ma i sentimenti che le scombinavano corpo e mente andavano ben oltre la riconoscenza. Nella testa echeggiava il suo nome e il desiderio di rivederlo era travolgente. Non le importava di infrangere le promesse fatte a Nepthya o di trasgredirne la volontà, né che Donna Vilya la fe sorvegliare da Melisia. In fondo, trovando un modo per incontrare Nolak, non stava per commettere alcun crimine. Doveva solo riuscire ad andare alla bottega del fabbro in paese, senza esser vista; se l’avessero scoperta, avrebbe inventato una scusa per giustificare quella scappatella.
Quel pomeriggio Erien era nervosa. Aveva chiesto a Donna Vilya di sollevarla dal lavoro per qualche ora, al fine di riassettare gli armadi della biancheria. Contenta di quella richiesta, la padrona aveva annuito con un sorriso, osservando che la ragazza era molto più attenta all’ordine e alle sue necessità di quanto non fosse Melisia. Ma il piano di Erien era un altro. Avrebbe sistemato in fretta la biancheria e sarebbe uscita prima del tramonto, per raggiungere Nolak. Era tardo pomeriggio. La sfera purpurea svaniva pian piano sotto l’orizzonte, diffondendo gli ultimi raggi tiepidi, mentre il cielo doveva ancora sbiadire nel colore sfumato del aggio tra il giorno e la notte. Erien entrò furtiva nella sua stanza, prese lo scialle scuro e si coprì il capo cercando di nascondere il viso, nel caso avesse incontrato qualcuno per strada. Si avviò con prudenza nel viale che conduceva all’esterno del podere. Dopo pochi i si voltò, per accertarsi che nessuno la stesse osservando. Solo le finestre della cucina e la stanza di Donna Vilya erano illuminate, ma dietro i
vetri non si notavano movimenti. Rassicurata, la ragazza si allontanò. Il tratto da percorrere a piedi non era molto e la strada per ora era libera.
In quell’istante Melisia, accostata allo stipite della finestra in cucina, la vide allontanarsi. Spiandola avrebbe di sicuro guadagnato qualcosa da Nepthya; prese in fretta il mantello e uscì, mantenendosi a distanza di sicurezza, per evitare di essere scoperta. Erien non si voltò mai. Era chiaro che non sospettava di essere seguita. Camminava in fretta, come se volesse o dovesse incontrare qualcuno. Melisia questa volta si sarebbe presa la rivincita che aspettava, riferendo tutto a Nepthya e, se non fosse bastato, anche a Donna Vilya. Rise tra sé, convinta che presto l’incarico di dama di compagnia sarebbe stato assegnato di nuovo a lei. Intanto Erien era arrivata all’ingresso del paese. Abbassò la testa e si strinse nello scialle, dirigendosi verso la piazza dove si trovava la bottega del fabbro. Melisia si fermò dietro un angolo. Da lì poteva scorgere tutto senza essere notata.
Erien si fermò davanti alla bottega cercando di guardare attraverso la porta, da cui usciva il calore dei fuochi e della fucina. Nella luce debole e rossastra dell’officina si muovevano due uomini. Intimidita, Erien restò immobile contro la porta. Era indecisa; avrebbe voluto entrare, ma non sapeva quale scusa trovare per farlo. Il desiderio di incontrare Nolak l’aveva spinta sin lì, ma ora veniva la parte più difficile da affrontare: se si fosse trovata davanti solo il giovane, forse sarebbe riuscita a inventare qualcosa, ma c’era anche il suo padrone. L’uomo batteva sull’incudine un ferro di cavallo; Nolak temprava una spada, immergendola nell’acqua. Era a torso nudo e avvolto dal vapore. Erien si ritirò dietro la porta, poi qualcosa la costrinse a guardare di nuovo. Era la prima volta
che vedeva un uomo senza camicia, e quest’uomo era proprio bello: muscoloso, con la pelle scura, glabra, che si distendeva sui fasci muscolari del petto e dell’addome piatto; diverse cicatrici la segnavano senza però deturparla. Anzi, aggiungevano a quel corpo qualcosa di forte e di vitale. Al respiro, il torace si sollevava appena; un ritmo rallentato, che faceva da contrappunto al battito furioso del cuore di Erien. Avrebbe dovuto andarsene, ma era come se un’energia sconosciuta la tenesse inchiodata a quella porta.
Nel frattempo, Melisia fremeva dalla rabbia. Lì lavorava Nolak, che era il motivo per cui Erien si era allontanata. Ora non era più solo collera, ma un odio profondo che non riusciva a contenere. All’improvviso Erien si girò e fu solo per un soffio che Melisia riuscì a ritirarsi dietro l’angolo. Le conveniva nascondersi in qualche luogo riparato, prima che Erien potesse scoprirla. Con un fruscio veloce della veste, la ragazza si rifugiò sotto un portico; l’ombra dietro il portone d’ingresso le permetteva di non farsi scoprire. Avrebbe lasciato are la pupilla di Nepthya per poi seguirla di nuovo.
Il silenzio fu rotto da una voce che lei riconobbe subito. “Erien! Aspetta, cosa ci fai qui?” Era Nolak. Di sicuro aveva notato la ragazza all’esterno della bottega e l’aveva raggiunta. Ora Melisia sentiva parlare ma senza distinguere ciò che stavano dicendo. Le voci si avvicinarono e Melisia si appiattì contro il muro, attendendo. Poco dopo, attraverso la porta, vide i due giovani che camminavano, parlando in tono troppo confidenziale. Riuscì a percepire la voce della ragazza. “Non ho avuto la possibilità di ringraziarti come avrei dovuto. Ero un po’ intontita e non ti ho detto quanto ti sono riconoscente. Ho ripensato tanto a
quell’incidente; se non ci fossi stato tu, a quest’ora sarei morta”. “E’ stato solo un caso fortunato” rispose Nolak, “mi sono trovato a are mentre tu venivi trascinata dalla corrente. Ma ora devi promettermi di non pensarci più. Non voglio che una bella ragazza come te perda il sorriso, pensando a ciò che poteva succedere. Sei viva e ora sei qui! Se me lo permetti, ti riaccompagnerò al Podere. Ma prima, se ti va, potremmo fare due i e parlare un po’; avremmo la possibilità di conoscerci meglio”. Erien era intimorita dalla richiesta; rimanere da soli… ma di sicuro non poteva rinunciare. Anzi, era andata da Nolak proprio per conoscerlo meglio! “Oh, certo! Te lo devo”. Melisia attese ancora qualche istante. Quando si furono allontanati a sufficienza, uscì dal nascondiglio. Era tardi per parlare con Nepthya, stava facendosi buio. Prima di andare alla Circolaria avrebbe dovuto aspettare che si fe giorno.
17.
Le ombre sparivano sotto un cielo plumbeo che annunciava l’arrivo della notte e Ziro frustava il cavallo per arrivare a casa prima che i guardiani cominciassero la ronda. Sarebbe stato difficile spiegare da dove veniva, se l’avessero trovato in giro a quell’ora. Guardava con attenzione la strada davanti a sé per accertarsi che non vi fosse nessuno. Due persone, un uomo e una donna, camminavano verso Caleborn, tenendosi per mano. Pareva stessero eggiando. Due innamorati, senza dubbio, ma anche due incoscienti. Deviò per avvertirli di affrettarsi, ma allungò con rabbia il o del cavallo quando li riconobbe. Fermò il cavallo di fronte a Nolak ed Erien. “Cosa state facendo?” esplose. “Tra poco è buio!” “E’ colpa mia” rispose Erien anticipando Nolak. Ziro non le badò. “Ti avevo avvertito di stare alla larga da lei!” gridò al fratello. “In ogni caso avresti dovuto dirmelo!” “Ziro, aspetta… io…” cominciò Nolak. “Avresti dovuto essere sincero con me! Hai ato il limite”. Voltò il cavallo e si allontanò al galoppo sentendosi tradito da Nolak. Era rabbioso e non sapeva dove andare. Per caso ò davanti alla Locanda della Sacra Luna, si fermò senza indugio ed entrò come un fulmine sedendosi a un tavolo solitario, vicino all’ingresso. Dopo mezz’ora aveva già vuotato tre boccali di vino.
Donago l’osservava da lontano. La luce gialla delle torce appese al muro era appena sufficiente per distinguere le cose, eppure il servo di Kervis aveva riconosciuto il giovane appena entrato. Il padrone della bottega portò un’altra brocca colma e Ziro riempì il boccale,
vuotandolo d’un fiato. Sembrava fosse sbronzo abbastanza, per quello che c’era da fare. Donago fece un gesto a Saedor, seduto al tavolo accanto, che rispose con un cenno affermativo della testa. La locanda era piena di avventori. Chi si trovava per strada, nell’orario di ronda, s’infilava nella “Sacra Luna”, una delle taverne più frequentate. In quel momento l'oste stava servendo bevande per annaffiare l’arrosto e le due servette giravano tra i tavoli raccogliendo avanzi di cibo, commenti beffardi e qualche villania. La puzza dei cibi cucinati riempiva l’aria, mista all’odore dolciastro delle spezie e del vino. Si giocava d’azzardo, si beveva, si litigava. Spesso il padrone doveva intervenire per separare qualcuno che s’azzuffava: afferrava una padella e la sbatteva sulla testa del più vicino, con tanta forza da curvarne il ferro e questo bastava per rabbonire i contendenti e scongiurare l’intervento dei guardiani.
* * *
Donago aveva ricevuto dal padrone Kervis l’incarico di provocare un incidente allo scopo di far arrestare Ziro. Si era quindi rivolto all’amico Saedor e dopo avergli raccontato di avere un conto in sospeso con un giovane del posto, gli aveva chiesto di aiutarlo nel suo piano. Mentre sollevavano i boccali di sidro per suggellare l’accordo, Ziro era entrato nel locale. A Donago era parsa una fortuna inaspettata: non v’era occasione migliore di quella che si stava presentando. Aveva riferito all’amico che il malcapitato era appena arrivato e spiegato il piano che gli era venuto in mente: Saedor avrebbe dovuto scatenare una rissa, mentre Donago avrebbe evitato che l’oste potesse intervenire. Il compagno, un po’ alticcio, parve alquanto divertito. S’erano separati e avevano aspettato il momento opportuno.
* * *
Quando gli parve che Ziro avesse bevuto abbastanza, Donago si alzò e si diresse verso il retrobottega, dove sperava di trovare il taverniere. Lo vide mentre trafficava e stava per rientrare nella stanza con quattro bottiglie sotto braccio. “Che diamine volete? Non sapete che qui non si può entrare?” lo apostrofò quello. “Scusate, volevo solo una bottiglia di birra” rispose Donago. “Tornate al vostro tavolo!” Donago si scusò di nuovo; con un gesto largo del braccio fece are l’oste che lo superò brontolando. Rapido, il servo di Kervis prese una brocca di terracotta, e la calò con forza sulla testa del taverniere che crollò a terra svenuto. Lo trascinò nel retrobottega, in modo che non si scorgesse dall’esterno e tornò di nuovo all’interno del locale, appoggiandosi allo stipite della porta. Era il segnale convenuto. Il complice si alzò e si avviò verso l’uscita. Alto e grosso, con i lineamenti appiattiti, come se qualcuno gli avesse schiacciato il viso alla nascita, Saedor barcollava. ò ondeggiando vicino a Ziro e, all’improvviso, inciampò cadendo a terra. Ci fu un coro di risate. “Mi hai spinto!” gridò Saedor balzando in piedi, rivolto a Ziro. “Ti ho visto, mi hai fatto cadere apposta!” Il giovane fece un gesto vago con la mano. “Non dire idiozie” rispose, e tornò a riempire il boccale. Infuriato, l’altro cercò di sollevarlo dalla sedia. “Tirati su, che ti spacco la faccia!” Adesso non sembrava più tanto ubriaco. Ziro si alzò di scatto. Furibondo, strinse i pugni davanti al viso dell’altro. “Ma che pensi di fare, ragazzino?” Saedor non riuscì a finire la frase e la sua risata terminò con il manrovescio che Ziro gli aveva allungato con tutta la sua forza, ma l’omaccione incassò il colpo senza cadere. Poi fece partire un destro; Ziro lo evitò, colpendolo subito dopo
allo stomaco e poi sulla nuca con entrambe le mani, quando l’uomo si piegò in avanti. “Ti basta?” Il giovane sorrideva divertito. Tutti cominciarono a scommettere su come sarebbe finita. Saedor si rialzò con un balzo. “Maledetto ragazzo!” gridò. “Te la farò pagare!” Fece per centrarlo, ma sbagliò mira colpendo un altro che rispose con una pedata seguita da un pugno sul naso. In un attimo il caos era dilagato in tutto il locale. Un uomo afferrò a caso uno dei presenti, lo sollevò in aria e lo ributtò a terra e qualcuno gli si lanciò contro a testa bassa, facendolo cadere. Morsi, ceffoni, calci e bottigliate; la rissa si estese in tutto il locale. C’era un inverosimile groviglio di braccia e di gambe, tanto che era impossibile distinguere i contendenti. Volava di tutto e ovunque. L’oste, nel frattempo rinvenuto, urlò di smetterla, ma nessuno gli diede retta; allora prese a padellate chiunque gli capitasse a tiro, fino a che qualcuno lo fece svenire un’altra volta. Ziro aveva bevuto, ma non tanto da non capire quanto stesse accadendo e cercò di guadagnare l’uscita. All’improvviso un uomo lo afferrò per la camicia e dovette difendersi alla meglio in quell’enorme confusione. Poi una voce metallica che proveniva dall’ingresso bloccò tutti all’improvviso: “Fermi!”. I guardiani erano entrati nel locale. A quel punto Saedor, che si trovava vicino a Ziro, tirò fuori un coltello. La lama sfrecciò nell’aria e colpì uno dei soldati al centro della corazza, rimbalzando e cadendo sul pavimento; il guardiano raccolse il coltello e si girò gridando. “Chi è stato? Chi è l’infame?” Il silenzio, seguito alla confusione di prima, sembrava aver fermato il tempo. La gente non osava neppure respirare. E Ziro, che per un istante aveva gioito, atterrando l’ultimo avversario con un calcio, capì che era la fine di tutto.
“Il ragazzo!” gridò Saedor puntandogli un dito contro. “E’ stato lui!” I guardiani afferrarono il giovane, che tentò di discolparsi: “Non sono stato io, parola d’onore!” I soldati sembrarono incerti. Tra la gente che riempiva il locale, non avevano visto da dove era partito il coltello. “Qualcuno lo conferma?” chiese uno dei due. Donago, che non si era mosso dal retrobottega per evitare di essere coinvolto nella rissa e di essere visto da Ziro, a quel punto si staccò dalla porta. Sembrava uno dei tanti curiosi e l’unico a notarlo fu il complice, che aspettava quel segnale. “E’ stato lui di certo” dichiarò Saedor ai guardiani, “questo ragazzo è un ribelle!” Un mormorio ò tra la gente. Alcuni guardarono Ziro con un misto di ammirazione e di comione. “Come lo sai?” domandò una delle guardie. Saedor rispose come gli era stato insegnato da Donago: “L’ho visto con questi occhi: è stato lui che, insieme a un compagno, ha liberato il narrastorie e ucciso due dei vostri. Aveva il volto coperto, ma durante la lotta gli è caduta la maschera e l’ho riconosciuto”. “Non è vero!” esclamò Ziro, che cominciava ad avere paura. “Sta mentendo! Io non sono un ribelle, sono un suddito fedele dell’Ordine! Lui sta cercando di incastrarmi!” “Posso dimostrarlo subito: frugatelo, e vedrete che è armato”. Era una prova decisiva, perché nessuno poteva portare armi. Ziro fu perquisito; dentro lo stivale teneva un coltello e nella casacca un fodero in cuoio che custodiva un katar a due lame. I guardiani non ebbero bisogno d’altro. “Finalmente ne abbiamo preso uno!” Dall’elmo la voce giungeva rabbiosa e trionfante. “Sconterai tutto, ma prima ci dirai dove sono gli altri!” Ziro rabbrividì al pensiero di quello che l’attendeva. Cercò di divincolarsi, ma per quanti sforzi fe non vi riuscì, ottenendo solo di farsi legare con la
catena uncinata. “Maledetto!” gridò allora a Saedor. “Mi ricorderò di te e prima o poi la pagherai!” Ma la minaccia finì nel buio della strada, tra i guardiani che lo portavano via. Aveva paura. Mentre i soldati lo spingevano verso la Fortezza, si commiserò, imprecando contro la sfortuna e infine s’arrabbiò con Nolak, oltre che con se stesso. Alternando momenti di panico e di rabbia, Ziro capì che doveva smettere di compatirsi: in fin dei conti era ancora vivo ed era l’unica cosa che contava. Doveva rimanere lucido e per scansare il terribile pensiero delle torture che l’attendevano nella Fortezza, si convinse che Nolak e Leida l’avrebbero presto liberato.
18.
La botola si spalancò. L’uomo vestito di bianco, legato con una catena di ferro spinato, fu inghiottito dal buio. Il pozzo era un abisso nero su cui Erien si sporgeva senza vedere nulla, ma sentiva le urla. Giungevano da lontano e un eco le accompagnava. Pioveva e i suoi capelli erano bagnati e scomposti. L’acqua le rigava il viso, colandole sui vestiti. Con una mano si asciugò gli occhi che le bruciavano. Quella pioggia era calda. Si guardò. Le dita erano rosse, coperte di sangue; eppure non sentiva alcun dolore. Si alzò di scatto, terrorizzata; stava sanguinando? Da dove? Non riusciva a ragionare, sentiva solo le urla che le rimbombavano nella testa. Frastornata, si sentì inghiottire nel pozzo. Si alzò da terra dentro uno stretto cunicolo maleodorante. Numerosi topi le correvano intorno, squittendo. Non troppo lontano sentiva il rumore di una cascata e il suono dell’acqua le risuonava nel cervello, togliendole la concentrazione. Stai all’erta, si disse. La debole luce delle torce, appese alle pareti, la fece ritornare in sé, mentre il freddo intenso le indolenziva le membra. Davanti a lei serpeggiava un cunicolo; cercò di camminare a piedi nudi per un breve tratto, finché urtò un cancello chiuso. Lo aprì e all’interno scorse una galera buia e sporca, dove si trovavano un numero imprecisato di celle. Ziro, accasciato nell’angolo di una di esse, le chiedeva aiuto, ferito e spaventato. La fissava confuso, lei si avvicinò e lo aiutò ad alzarsi. “Aiutami, portami via da questo posto, ti prego!” disse il ragazzo. Poi l’immagine di lui svanì. Inaspettato sentì un dolore acuto al piede. Un ratto la stava mordendo. La stanza era invasa da topi che correvano in tutte le direzioni, assalendola. Erien urlò e corse in un cunicolo stretto fino a raggiungere una stanza quadrata. Il simbolo dell’Esagonato le saltò subito all’occhio. Dove si trovava? Grida di uomini giungevano da lontano. I guardiani
la stavano cercando… Doveva scappare. Si infilò in un’altra galleria che saliva e ne seguì il percorso. Dopo un po’ la strada riprese a scendere e il rumore di acqua si fece distinto. Una via di fuga… i ratti le stavano ancora alle calcagna ed Erien, senza esitare, arrivò alla fine del cunicolo e si gettò nell’acqua fredda. La corrente la trascinò lontano e annaspando fu risucchiata da un gorgo. I suoi sensi si appannarono e, a poco a poco, sentì che si stava spegnendo.
Si svegliò di colpo, sudata e impaurita; si alzò in fretta dal letto, si vestì e scese le scale per raggiungere la porta d’ingresso e uscire dalla villa. Non poteva perdere tempo! Doveva correre da Nolak e avvisarlo che Ziro era stato catturato e lei sapeva come salvarlo. Il sogno era rivelatore. Mentre scendeva dalle scale si fermò di colpo. Dal piano inferiore giungevano rumori deboli che non riusciva a identificare. Cercò di fare silenzio e prestare attenzione. Chi c’era nella villa? Poi riconobbe le voci di Donna Vilya che stava parlando con Kervis; di sicuro doveva esserci anche Donago il servo. Pareva solo una visita di cortesia. Si tranquillizzò. Avrebbe atteso la loro uscita e poi avrebbe fermato Kervis. Il medico forse poteva aiutarla. Gli avrebbe spiegato tutto e lui le avrebbe certo dato una mano. La sua serietà sarebbe stata il sostegno di cui lei aveva bisogno. Sgattaiolò per le scale, senza farsi notare, attraversò il corridoio e uscì dalla porta d’ingresso. Lo avrebbe aspettato lì. Il dottore, dopo poco tempo, si congedò; baciò la mano a Vilya, si rimise il mantello e si avviò all’ingresso seguito dal servo. Erien vide tutta la scena sbirciando dalla finestra. Si nascose dietro le piante del giardino e quando l’uscio si richiuse alle spalle del medico, lo chiamò a bassa voce. All’inizio lui non la scorse, ma poi, vedendola, si avvicinò con aria stupita.
“Erien, che ci fai qui?” Lei si mise un dito davanti alla bocca e gli fece segno di tacere. Condusse i due uomini per il sentiero che portava all’uscita della villa; arrivata in un punto tranquillo e nascosto, raccontò loro l’accaduto. Kervis l’ascoltò senza proferir parola, mentre Donago, al suo fianco, controllava che non arrivasse nessuno. Alla fine del racconto il dottore comprese che la situazione era grave e le promise il suo sostegno. Si sarebbero messi subito alla ricerca di Nolak. Insieme si avviarono lungo la strada, ma non si accorsero che Melisia, da lontano, li stava seguendo.
Dopo l’arresto di Ziro, i ribelli si trovarono in serio pericolo: se i guardiani fossero riusciti a far parlare il giovane, avrebbero scoperto anche la loro identità e il rifugio. La voce tra i rivoltosi si sparse in fretta; chi poteva si rinchiuse nelle grotte dei monti Sospiri, in attesa di decidere il da farsi. La prudenza suggeriva di lasciare subito Caleborn, dirigendosi verso un ricovero più sicuro, ma Nolak convinse gli altri ad aspettare almeno un giorno per tentare la liberazione di Ziro. Rodan, in quanto nobile, correva meno rischi degli altri e perciò fu lui a scendere in paese, per far provviste e apprendere le ultime notizie dagli amici aristocratici, ma soprattutto per condurre Erien da Nolak. Uscendo da Caleborn per andare al Podere del Gelso Bianco, scorse la ragazza che arrivava lungo la strada, accompagnata dal dottor Kervis e dal suo inseparabile servitore. “Erien, ti stavo cercando. Devi seguirmi, Nolak mi ha chiesto di portarti da lui; non posso spiegarti perché, ma è importante che tu lo raggiunga al più presto”. Tentava di non sbilanciarsi troppo, per non rivelare la sua complicità con i rivoltosi. “So già tutto” rispose Erien, “stavamo proprio andando da lui”.
“Mi dispiace, ma ho l’incarico di accompagnare solo te, loro non possono venire”. “Kervis è un padre per me” aggiunse la giovane “gli ho chiesto io di accompagnarmi e senza di lui non verrò!” Rodan non sapeva se poteva fidarsi dei nuovi ospiti, ma non aveva scelta. Nolak gli aveva raccomandato di portargli Erien a ogni costo, sostenendo che la ragazza dovesse assolvere un compito importantissimo. Il nobile pensò in fretta e concluse che, se i due volevano aiutare Erien affrontando rischi e pericoli, dovevano avere delle valide ragioni, in caso contrario si sarebbero tenuti alla larga dai rivoltosi. Li avrebbe comunque tenuti sotto controllo. Facendo segno agli altri tre di seguirlo, girò il cavallo per avviarsi verso la montagna scura.
Intanto, Melisia continuava a seguirli nell’ombra.
19.
I quattro cavalli procedevano uno dietro l’altro sul sentiero pietroso e disagevole che si snodava sul fianco ripido della montagna. Rodan, in testa a tutti, guidava il gruppo, seguito da Erien, Kervis e infine Donago. Il aggio era così stretto da permettere appena ai cavalli di arlo. Di lato alla salita, un precipizio minaccioso diventava sempre più profondo. Il tragitto da percorrere non era breve, e il quartetto procedeva con cautela. Nessuno parlava, tranne Rodan. Solo lui, avendo percorso tante volte quella pista, era in grado di riferire gli ostacoli che stavano per incontrare. Gli altri seguivano con attenzione i suoi suggerimenti. Per non rischiare una caduta nel precipizio, aveva raccomandato di non forzare i cavalli e di evitare movimenti maldestri. Avanzava con abilità, sicuro della via da seguire, ripetendo spesso di non guardare dalla parte del burrone. Di tanto in tanto, si udiva il verso di qualche animale di montagna. Il tempo stava cambiando e aveva iniziato a soffiare un vento insistente. Erien si stringeva nel mantello leggero; si era pentita della scelta di quell’indumento, ma la giornata dapprima soleggiata ora sembrava assumere all’improvviso un andamento opposto. Il vento le scompigliava i capelli che le ricadevano sugli occhi, mettendola in difficoltà; con una mano afferrò il cappuccio, portandolo sopra la testa. Un movimento naturale, che tuttavia bastò ad allentare il laccio sotto il mento, abbandonando il mantello all’ostilità dell’aria gelida. Erien cercò di trattenerlo con una mano, ma non vi riuscì; come un pipistrello gigante il manto volteggiò per poi cadere nel burrone, ancorandosi alla fine sui rami di un arbusto, pochi i sotto il sentiero. La ragazza richiamò subito l’attenzione di Rodan, che voltandosi fermò il cavallo con un ordine secco.
“Accidenti! Questa proprio non ci voleva! Dobbiamo recuperarlo a ogni costo, è un indizio pericoloso. Il sentiero viene percorso solo da chi si dirige al rifugio, ma se qualcuno dal basso vedesse un mantello abbandonato potrebbe insospettirsi, e per un’imprudenza rischieremmo di essere scoperti”. Il suo volto si scurì, mostrando preoccupazione. “Mi dispiace” mormorò Erien avvilita, “ma questo vento mi infastidiva, volevo solo coprirmi il capo”. “Non sentirti in colpa! Il problema ora è riuscire a riprenderlo”. A quelle parole Donago si intromise. “Mio padrone, volete che scenda io a recuperarlo?” Il medico si voltò con cautela, per studiare il viso del servo. ”Sei sicuro di farcela?” domandò dopo qualche altra obiezione. “Noi non possiamo scendere da cavallo per aiutarti, il sentiero è troppo stretto”. “Non preoccupatevi: il mantello si è fermato a pochi i da qui, e per fortuna ho con me una corda abbastanza lunga. Devo solo trovare dove assicurarla e potrò calarmi senza problemi”. “Se te la senti, dovrai legarla a quella pianta” Rodan indicò il tronco di un albero cresciuto sul bordo del versante scosceso. “Farò come dici” rispose Donago; sceso da cavallo, legò la corda al tronco indicato, tendendola un paio di volte per costatarne la resistenza. Rodan osservava attento. ”Cerca di non strattonare la fune e punta bene i piedi, accertandoti che l’appoggio sia sempre affidabile”. “Mi raccomando, non fare imprudenze” aggiunse Kervis. Donago, serio in viso, li tranquillizzò. “Non angosciatevi, posso farcela”. E iniziò a scendere lungo la parete pietrosa. Il silenzio unanime fu interrotto solo dal sibilo del vento. Donago guadagnò in fretta il punto d’arrivo.
Aggrappato alla corda con una mano, i piedi contro la parete, cercava di recuperare il mantello aggrovigliato nei rami. La pianta, cresciuta contro natura verso il nulla, sembrava volersi liberare dalle radici che l’ancoravano al pendio. Dalla posizione in cui si trovava, era difficile riuscire a districare il mantello. Donago guardò in alto. “E’ ingarbugliato tra le fronde!” “Cerca di spostarti e appoggiati al fusto della pianta” consigliò Rodan. L’altro si spostò piano e appoggiò un piede al tronco. Si allungò, afferrò la stoffa, tirò, ma non riuscì a strappare il mantello dalle foglie. Rassicurato dalla tenuta del tronco, si spostò ancora un po’ ma, a quel punto, perse l’equilibrio, rimanendo sospeso nel vuoto. Sotto di lui vi era un abisso di cui non riusciva a scorgere il fondo. Il cuore iniziò a battergli forte. Più cercava di trovare un appiglio, più gli mancavano le forze e la fune iniziava a scivolargli dalle mani. Dall’alto gli giunse la voce di Rodan. “Sotto di te c’è una pietra sporgente! Mettici su un piede, forza!” Tremando, Donago ubbidì; il suo piede trovò il sostegno. L’uomo si rilassò, cercando di riacquistare la calma. Si sollevò, fidandosi della consistenza del o; allentò la presa della fune e riuscì a portarsi a cavallo del tronco. Ormai sicuro di sé, s'allungò per afferrare il mantello e strapparlo con forza dal fogliame. “Ce l’ho fatta!” esclamò, alzando il manto come un vessillo. Ma con un colpo secco e inatteso, il tronco si spezzò. Il mantello avvolse l’uomo che cadeva, precipitando con lui. L’urlo raggelante di Donago che piombava nella voragine sembrò fermare il tempo, smorzandosi in lontananza. S’interruppe di colpo dentro il fitto della vegetazione, lasciando nei compagni solo un senso d’impotenza.
Impietrita da quel grido di morte, Erien si disperò. “E’ colpa mia! Se non avessi
perso il mantello, lui non sarebbe... non sarebbe…” Non riusciva neppure a pronunciare quella parola. Rodan, impallidito, cercò di tranquillizzarla: “Non potevi prevederlo, nessuno poteva. Ora dobbiamo mantenere la calma, è necessario proseguire. E’ stato un incidente, solo un terribile incidente”. Mentre Kervis pensava che quella morte fosse un finale per lui risolutivo, la sua insolenza gli diede la forza di accodarsi alle parole di Rodan: ”Fatti coraggio, bambina. Dobbiamo andare, non possiamo fermarci qui o qualcuno potrebbe avvistarci”. Parlava così mentre in cuor suo riteneva quella disgrazia un’inaspettata soluzione per togliere di mezzo l’unica persona che avrebbe potuto testimoniare contro di lui per l’arresto di Ziro. Erien non disse nulla; si chiuse in un sordo silenzio mentre i cavalli avanzarono, l’uno dopo l’altro, continuando la salita. Durante il tragitto nessuno disse più una parola. Ognuno, turbato, era assorto nei suoi pensieri. Quando, dopo un lasso di tempo che parve senza fine, Rodan esclamò “Siamo arrivati!”, Erien trasse un respiro di sollievo.
La voce benevola di Nolak le arrivò all’improvviso: “Eccoti finalmente! Cos’è accaduto lungo il percorso? Le nostre vedette ci hanno segnalato un incidente”. I ribelli appostati sulla montagna avevano informato gli altri, imitando i versi degli animali. Era il modo più sicuro ed efficiente per comunicare tra loro e proteggere il rifugio. Erien, pallida e con i capelli scompigliati, cercò di riferire cos’era successo. Nolak la lasciò sfogare, mentre la aiutava a scendere dal cavallo. La ragazza si appoggiò al giovane. “E’ stato atroce sentirlo gridare, sapere che cadeva e non poter fare nulla!” Lacrime le rigavano il viso. Nolak le mise un braccio attorno alle spalle. “Ora calmati. Non devi assumerti colpe che non hai… sono già capitati incidenti di questo tipo e, dovendo
affrontare pericoli in continuazione, siamo preparati al peggio. Andiamo dentro, ti farò portare una bevanda e qualcosa per coprirti”. Poi si rivolse a Rodan e Kervis: “Seguitemi”. Nolak ed Erien entrarono nella grotta principale. L’ingresso era nascosto tanto bene che la giovane non si era neppure accorta che dietro ad alberi e cespugli c’era quella spaccatura nella roccia. Rodan invece lanciò un richiamo acuto. Dagli alberi di fronte all’ingresso arrivò un battito d’ali pesante e una decina di grossi uccelli atterrarono davanti al ribelle. Grigi con striature blu, erano più lunghi di due i; la cresta partiva tra gli occhi e scendeva lungo il corpo come una criniera. Le zampe erano corte, tozze, munite di artigli ricurvi; le penne della coda sembravano rigide e taglienti come lame. I ribelli portarono fuori dalla grotta un cerbiatto morto e gli animali vi si avventarono sopra con una voracità incredibile spaccando le ossa con i becchi robusti. Divorarono il cerbiatto in pochi minuti. Impressionato, Kervis non osava immaginare come quelle bestie avrebbero potuto ridurre un uomo, se l’avessero attaccato. Poi Rodan gli fece segno di seguirlo all’interno del rifugio. Kervis si guardava intorno, stupito. Di certo non avrebbe mai immaginato che un posto sperduto sulla montagna potesse essere così ben organizzato. Intanto Erien, mentre camminava al fianco di Nolak, ritrovò la calma, tanto da poter osservare lo spiazzo che stava attraversando. A pochi i da lei, una giovane donna stava esercitandosi con la spada di fronte ad alcuni uomini. Abile e competente, mentre combatteva dava precise indicazioni su come impostare un affondo o parare un colpo, correggendo gli errori del rivale. Affascinata, Erien si fermò per qualche momento a osservare con quanta grinta sapesse destreggiarsi. “Fra poco te la presenterò. Con la spada è la numero uno, perciò ti consiglio di non litigare mai con lei!” Nolak sorrise cercando, con la sua battuta, di risollevare almeno un poco il morale della giovane. Poi, alzando un po’ il tono della voce, si rivolse al gruppetto di combattenti. ”Quando avrete finito, vi
aspetterò nella sala dei Monoliti per fare le presentazioni”. Leida rispose con un cenno della testa, continuando imperterrita la lezione; ma intanto si domandava chi fosse quella donna e cosa ci fe al rifugio.
All’interno della grotta Erien si rese conto dell’aggrega-zione e dell’efficienza di quella comunità. Era come un piccolo paese dove ognuno svolgeva la propria mansione in modo autonomo. Senza che nessuno avesse chiesto niente, arrivò un uomo con una brocca d’acqua che offrì ai nuovi arrivati. Mentre Rodan e Kervis chiacchieravano con alcuni ribelli, Nolak mostrò ad Erien alcuni luoghi della grotta: gli insoliti capanni, costruiti in prevalenza a ridosso della pietra, destinati al riposo e alla vita privata, gli spazi più ampi in cui, chi lo desiderava, poteva distrarsi trascorrendo il tempo con i compagni. In queste zone erano sistemate tavole di legno sopra blocchi di roccia, cassoni per sedersi, panche e pagliericci; inoltre numerosi ripiani reggevano coperte, cibo, armi e tutto il necessario per vivere in modo indipendente. Fasci luminosi scendevano dalle aperture della volta, fuochi sparsi creavano isole di tepore, le torce accese lungo le pareti rocciose emanavano una luce accogliente. Una cascata sottile sprofondava in un laghetto blu. A un tratto Erien si fermò di colpo, trattenne Nolak per un braccio e lo guardò negli occhi. Il suo viso serio preoccupò l’uomo. “Ho sognato Ziro. Non posso spiegarti come sia sicura di quello che sto per dirti, ma devi credermi, so dove si trova e come si può fare per liberarlo!” Il ragazzo si fece raccontare tutto ciò che lei aveva visto in sogno; poi condusse Erien nella Sala dei Monoliti, nella quale i ribelli si riunivano per prendere le decisioni più importanti. Giunsero anche gli altri e poi Rodan con Plumis e Kervis. Mentre stavano per sedersi, un rumore di spade annunciò l’entrata di Leida seguita dal gruppo di guerrieri. L’addestramento era terminato. ”Eccoci” mormorò la ragazza, sedendosi in un angolo. Nolak non perse tempo. “Volevo presentarvi queste persone. Kervis è il medico della Circolaria, alcuni di voi già lo conoscono. Lei è Erien” appoggiò una mano
sulla spalla della ragazza, “lavora al podere del Gelso Bianco, e deve riferirci qualcosa di molto importante sulla liberazione di Ziro”. Incoraggiò la ragazza a parlare. Esitante e imbarazzata, Erien iniziò a raccontare dei sogni che, sin da bambina, le erano stati rivelatori di fatti futuri e come avesse la capacità di percepire le sensazioni di un’altra persona con chiarezza. Kervis spiegò che si trattava di una forma di empatia, che la ragazza possedeva dalla nascita, forse un corredo ereditato dalla vita precedente. Un brusio fece seguito a quelle parole. “Dottore” spiegò Nolak, “devo avvisarti che molti di noi non credono nella reincarnazione, me compreso: è solo un’invenzione delle Savie per conservare il potere, che nobili e guardiani appoggiano per convenienza.” Il medico l’interruppe risentito. “Vi sbagliate. La vita è ciclica e la reincarnazione ne è una conseguenza. Ognuno di noi si reincarnerà in un bambino che nascerà nello stesso istante della propria morte, anche se in un altro luogo e in un’altra situazione, e questo neonato avrà lo stesso carattere del defunto e in condizioni simili farà le stesse scelte. Dopo la morte segue un’altra nascita, e poi un’altra ancora, senza fine!” Il tono era così deciso e severo che nessuno osò ribattere. Il medico riprese il discorso. “Conosco bene l’empatia di Erien, e anche per me risulta straordinaria. Posso solo testimoniare che le sue visioni non sono fantasie”. Detto ciò, fece alla ragazza un segno rassicurante, invitandola a proseguire. Erien continuò più spontanea e sicura, tanto che ammutolì gli interlocutori. Davanti a lei, il gruppetto di persone la scrutava, seguendo le sue parole con estrema attenzione. Terminato il racconto, Leida prese la parola: “Dobbiamo agire in fretta, la vita di Ziro è in pericolo. Ma chi può darci la certezza che questi sogni siano da interpretare come una verità assoluta? Quali garanzie abbiamo? Dopotutto, se questa ragazza si sbagliasse, potremmo perdere altre vite umane”.
Erien intervenne. “So che non è facile credermi, ma vi posso assicurare che poche volte mi sono sbagliata!” Leida replicò seccamente: “E se questa fosse una di quelle? Sarebbe una tragedia! Propongo di seguire il piano che avevamo studiato in precedenza, senza correre ulteriori rischi”. Seguì un mormorio: i ribelli parevano sostenere l’idea di Leida. “Allora fatemi venire con voi, potrei guidarvi e suggerirvi come muovervi” insisté Erien. “Sai per caso usare la spada? O dovremmo badare anche a te, oltre a difenderci dai guardiani?” replicò Leida decisa. “Nel mio sogno c’era una via di fuga e se fossi con voi non avrei difficoltà a trovarla… Vi prego, dovete solo darmi fiducia”. “E perché dovremmo? Chi ci assicura che tu dica la verità? Sei cresciuta alla Circolaria e, per quanto ne sappiamo, potresti anche essere una spia delle Savie!” Il silenzio quasi tombale fu interrotto da Nolak che disse: “Adesso basta. Tutti siamo preoccupati per Ziro, ma questo non ci autorizza a dubitare della buona fede di Erien. Garantisco io per lei e sono convinto che desideri solo aiutarci; tuttavia ritengo che non sia pronta per una missione come questa”. Allargò lo sguardo a tutti i presenti. “Qualcuno ha ancora dei dubbi?” Il consenso fu unanime. Nolak proseguì: “I guardiani non si aspettano di vederci arrivare dal posto indicato da Erien perché, a parte loro, nessuno è a conoscenza che da lì si raggiunge la Fortezza; è la via meno sorvegliata e più sicura per noi. Creeremo un diversivo e li sorprenderemo. Agiremo stanotte”. Leida si era già alzata in piedi.
20.
Per la missione, Nolak aveva pensato che sarebbero bastate tre persone; un numero superiore avrebbe creato problemi, sia per la possibilità di essere intercettati, sia perché contava molto sull’effetto sorpresa. Leida fu la prima a offrirsi volontaria. Il terzo fu Hude, un uomo alto e magro, affidabile e di poche parole, perspicace nel capire il linguaggio dei segni, abilissimo nell’utilizzo di spada e pugnale. Leida lo conosceva bene e sapeva quanto fosse determinato. Nolak si convinse che il trio avrebbe ricondotto Ziro sano e salvo a casa. Grazie ad Erien conoscevano più o meno il luogo in cui Ziro veniva tenuto prigioniero. Certo non potevano prevedere il numero delle guardie alle carceri, ma programmando l’incursione durante le ore notturne erano sicuri di non trovarne molte. Erano pronti a partire. Tra i ribelli regnava un clima di preoccupazione e sostegno, e quando Nolak, Leida e Hude si diressero ai cavalli, i compagni li seguirono in silenzio, onorando in quel modo l’audacia e il coraggio dei tre. Salirono a cavallo e nel segreto della notte si avviarono lungo il sentiero che li avrebbe portati dal rifugio ai piedi della montagna. Da lì si sarebbero diretti alla piazza principale di Caleborn dove veniva allestito il palco esagonale di legno, usato per le esecuzioni. Al centro del tavolato era collocata la botola circolare in cui venivano gettati i condannati a morte. Il foro sottostante li ingoiava in un istante e nessuno era mai tornato dalle viscere della terra. Lo chiamavano il Pozzo dei Condannati. Sarebbero scesi proprio da quell’apertura. Il piano era semplice: per evitare che qualcuno si trovasse vicino al piazzale, Rodan insieme ad alcuni ribelli che vivevano in paese doveva provocare un incendio vicino a una delle vie d’entrata al borgo, lontano quanto bastava dalla Piazza delle Esecuzioni. Le fiamme e le grida dei presenti avrebbero richiamato i guardiani di ronda, allontanandoli dal piazzale.
Quello era il momento preciso in cui Nolak avrebbe scardinato il portello e, seguito dai due compagni, si sarebbe calato nel pozzo. Erano ormai alle porte del paese. In lontananza si scorgeva il bagliore dell’incendio. Un nitrito di cavallo, il segnale convenuto, suggerì ai tre ribelli che tutto era a posto. Si diressero verso la casa di un amico vicina alla piazza, per nascondere i cavalli e poterli ritrovare subito, per allontanarsi in fretta. La piazza era vuota e per non dar nell’occhio solo Nolak si diresse alla botola; dopo pochi minuti l’aprì, grazie agli attrezzi che aveva portato con sé. Si fece poi raggiungere dai due compagni. Tutto stava procedendo come da programma. Dovevano calarsi aiutandosi con una robusta corda, intercalata da grossi nodi per permettere una presa più salda. Nel sogno di Erien, in fondo al pozzo si trovava un tunnel che conduceva alla sala delle guardie. Nolak ispezionò con una piccola torcia l’ingresso buio dell’apertura circolare e, con sorpresa, notò che più in basso erano conficcati nel muro dei grossi chiodi uncinati che potevano fungere da gradini. Decise di fissare la corda al sostegno più alto e aggrapparvisi per scendere poggiando i piedi sui ganci. Sperava fosse lunga abbastanza perché, se gli scalini si fossero interrotti, da quel punto in poi dovevano servirsi solo della fune. Leida lo seguì e Hude dietro di lei. Nolak si muoveva lento, ascoltando, sopra di sé, il respiro agitato della ragazza che procedeva nella discesa faticosa. Dal fondo del pozzo nero proveniva uno sciabordio. Il dubbio che Erien si fosse sbagliata e che quel buco finisse nell’acqua si affacciò alla mente di tutti, ma proseguirono: tornare indietro significava abbandonare Ziro a un destino orribile. Dal fondo proveniva un fetore insopportabile, tanto da costringerli a fermarsi. A turno, cercando di reggersi come potevano, si coprirono naso e bocca con dei pezzi di stoffa, per poi riprendere la discesa. Ma quando Nolak cercò di legarsi il bavaglio andò a sbattere con l‘avambraccio contro un chiodo, ferendosi. “Questa non ci voleva!” imprecò il giovane. Leida lo sentì e vide il suo braccio lacerato. Parlò pianissimo: “Lasciami la
corda, cerco di scendere avanti a te. Se dovessi calarti nell’ultimo tratto non potresti farlo, con il braccio così malridotto”. “Non preoccuparti, ce la farò! Cerchiamo di muoverci in fretta!” Man mano che scendevano, lo sciacquio diventava più forte. Dopo qualche minuto Nolak non trovò più appigli. Avrebbe dovuto proseguire con la corda, perciò sussurrò a Leida di attendere il suo segnale prima di raggiungerlo: un fischio leggero li avrebbe avvisati che aveva toccato il fondo e che la via era libera. L’umidità rendeva la pelle bagnata e appiccicosa, e Nolak, teso, procedeva a fatica con il braccio dolente e sanguinante. Poi il suo calzare si fermò su una superficie piatta; doveva essere arrivato alla parte inferiore. Poggiava sul solido, benché continuasse a sentire lo sciabordio dell’acqua. Intorno a lui qualche animale si muoveva e squittiva. Posò entrambi i piedi sul terreno scivoloso e mosse qualche o; inciampò e cadde, trovandosi con le mani sopra un ammasso di carne. Si ritrasse spaventato, rendendosi subito conto che era un cadavere, con tutta probabilità di un giustiziato di recente. Guardò in alto ed emise un fischio leggero. Leida e Hude ripresero la discesa sino a raggiungerlo. La corda era bastata, proprio come previsto da Erien. Ora i tre ribelli erano più sicuri di riuscire a liberare Ziro. Rinfocolarono la piccola torcia. Tra i topi in fuga, videro che il piano su cui si trovavano stava tra due fossi, in cui l’acqua scorreva veloce, scomparendo sotto la roccia. Quei canali dovevano servire ai guardiani per gettarvi quello che rimaneva dei corpi dei condannati a morte, se i topi non li divoravano del tutto. Trovarono l’imbocco del tunnel che li avrebbe dovuti condurre alla stanza delle guardie e uno dietro all’altro strisciarono silenziosi lungo le pareti. Torce accese lungo i lati della galleria rimandavano una luce fioca, e i tre poterono spegnere quella che avevano portato con loro. Sulla pietra, rossastra per le fiamme, videro dei buchi: nicchie quadrate, scavate a intervalli regolari dal pavimento fino all’arco del soffitto. Non riuscirono a capire a cosa servissero.
Oltre le nicchie, nella parete si aprivano dei aggi, l’uno accanto all’altro. Erano più stretti e nel silenzio si udiva un lontano gocciolio. I ribelli si guardarono, indicando i pertugi con aria esitante e indecisa, ma Nolak fece segno di proseguire. Non avevano il tempo di controllare quei condotti. Nonostante avessero naso e bocca coperti, l’odore era ripugnante.
Si bloccarono di colpo intravedendo una luce tenue e offuscata. Doveva essere il chiarore della sala di guardia. I ribelli si addossarono alle pareti in una zona buia. Sentivano risate e imprecazioni, i guardiani stavano giocando a Dirsei. Un cancello, a sbarre di ferro, chiudeva l’ingresso alla stanza. Nolak restò in ascolto per assicurarsi che nessuno si fosse accorto della loro presenza, poi fece un cenno ai compagni. Armi in pugno, lui e Leida si prepararono all’attacco, attenti a distinguere le voci per contare i guardiani. Hude, seguendo il piano, iniziò a mugolare, emettendo gemiti ininterrotti e piagnucolii strani. Una voce roca farfugliò: ”Ehi, sentite anche voi questi lamenti? Non sarà il condannato di ieri che è ancora vivo e si è trascinato fin qui?” In risposta un’altra voce borbottò: “Toccava a te dargli il colpo di grazia e se non l’hai fatto ti conviene andare a finirlo. Non è la prima volta che un figlio di cane sopravvive alla caduta!” Risero di gusto. “E muoviti, così possiamo riprendere a giocare!” esclamò un terzo uomo. Il primo si alzò e, ciondolando, si diresse verso il cancello, impugnando la spada. Aveva bevuto parecchio; del resto non doveva essere un compito piacevole fare la guardia in quel postaccio sottoterra, saturo di odore di morte. Dopo alcuni istanti, il guardiano riuscì ad aprire il cancello e non appena entrò nella zona più scura Nolak lo aggredì alle spalle e con un colpo solo gli tagliò la gola. L’uomo emise un gorgoglio sinistro. Gli altri chiamarono l’amico e, non ottenendo risposta, si alzarono e accorsero per controllare cosa fosse successo. Furono sopraffatti da Nolak e Leida e trafitti da parte a parte. Caddero privi di vita senza emettere un suono, mentre il sangue scuro si allargava rapido sul terreno.
I tre ribelli, inoltratisi nella stanza, la superarono giungendo al centro di un ampio locale: le celle erano disposte una dopo l’altra sui quattro lati. Dovevano riuscire a trovare Ziro prima che qualcuno potesse accorgersi della loro presenza. Non si sentivano rumori, ma altri soldati potevano trovarsi lì sotto; forse stavano dormendo dopo aver bevuto troppo oppure avevano già percepito qualche pericolo e aspettavano il momento propizio per attaccarli. Dovevano agire in fretta. Nella stanza delle guardie, Nolak emise il segnale utilizzato tra i ribelli, il richiamo del grifone crestato. Nessuna risposta. Lo ripeté. E questa volta, da una delle grate alla loro destra, giunse lo stesso segnale, debole ma chiaro. Ziro aveva risposto. Leida raccolse il mazzo di chiavi dal tavolo dei guardiani e le lanciò a Nolak, che con un balzo raggiunse la cella di Ziro, cercò in fretta la chiave giusta ed entrò. Il ragazzo giaceva a torso nudo di fianco a un pagliericcio sudicio. Aveva il petto coperto di sangue rappreso, i capelli sporchi e appiccicosi, gli occhi tumefatti e un’ampia ferita al ginocchio. Nolak e Hude lo liberarono dai ceppi che gli imprigionavano i piedi. “Ziro, dai, siamo venuti a prenderti” bisbigliò Nolak, chinandosi sul ragazzo. “Sii forte, ce la faremo!” Il giovane lo fissò con gli occhi sbarrati, poi gli afferrò un polso e lo strinse, come per accertarsi che il fratello fosse proprio lì. Il movimento esaurì le forze che gli rimanevano e la testa gli ricadde sul petto. “Dobbiamo muoverci subito, altrimenti siamo perduti” incalzò l’altro. “Avanti, ti aiutiamo ad alzarti, appoggiati a noi”. Ziro non rispose, cercò di muoversi e con l’aiuto di Nolak e Hude si mise in piedi. Lo trascinarono verso la sala delle guardie, per ripercorrere il tunnel e salire in superficie. In quell’istante delle urla invasero il locale. Altri guardiani con le spade sguainate correvano verso i ribelli.
“Cercate di fermarli, vado a chiamare rinforzi!” gridò uno chiudendosi la porta alle spalle per impedire ai ribelli di seguirlo. Leida, dopo aver visto come avevano ridotto Ziro, era diventata una furia irrefrenabile. “Lasciami sgozzare questi bastardi!” Con un’audacia sovrumana, infilò la spada nel costato di uno di loro e girando su se stessa colpì alla gola il secondo, che si piegò in due. Entrambi crollarono a terra, mentre lei si precipitava verso Ziro. Nolak, ferito al braccio, cercava di combattere, ma riusciva solo a parare i colpi dell’avversario, non riuscendo a trovare la forza di prevalere. Fu Hude che, arrivato alle spalle del guardiano, lo trafisse alla base del collo. Sollevato Ziro, se lo caricò sulle spalle, incamminandosi dietro Nolak sulla via del ritorno. I tre dovevano sbrigarsi: sapevano che stavano arrivando altri guardiani. Chio a chiave il cancello di ferro e, dopo aver scavalcato i cadaveri dei guardiani uccisi, si introdussero nel tunnel.
Con furia rabbiosa, i soldati cercarono di scardinare l’inferriata a colpi d’ascia. “Presto, stanno buttando giù il cancello!” esclamò Leida. Nolak lanciò uno sguardo a Hude, che ansimava sotto il peso di Ziro, afferrò la spada a due mani e si fermò. “Andate avanti, li trattengo io”. “No. Lascia fare a me! Tu non puoi farcela contro di loro”. Hude lasciò Ziro al sostegno di Leida, poi fece girare la spada davanti al viso. Gli altri lo guardarono e tentarono di protestare, ma lui li interruppe entrambi. “Cercate di muovervi. Non c’è molto tempo! Contestare non servirà a nulla. Sono pronto, anche a morire!” Nolak lo abbracciò, posandogli una mano sulla spalla senza dire nulla, e con gli occhi lucidi Leida gli augurò buona fortuna. Hude alzò la spada in segno di saluto. Tornò indietro di corsa, mentre gli altri due continuavano verso il pozzo, sostenendo il giovane ferito a forza di braccia.
Aperto un varco per are, i guardiani si lanciarono correndo lungo il tunnel. A un tratto, dalla penombra della galleria, uscì la figura di Hude, che li aspettava a gambe unite, con la spada diritta davanti a sé. Colti di sorpresa, i due si fermarono; all’improvviso il ribelle si scagliò contro di loro urlando. Intanto gli altri proseguivano nella galleria. Ziro stringeva i denti per non cedere, mentre Nolak e Leida lo trascinavano senza parlare, cercando di andare il più in fretta possibile. Le torce alle pareti illuminavano cerchi imprecisi, scoprendo i aggi laterali che finivano nel buio. E mentre il rumore del combattimento tra Hude e i guardiani si affievoliva alle loro spalle, i ribelli scorsero a breve distanza le nicchie che annunciavano la vicinanza del pozzo. Di lì a poco sarebbero risaliti dalla corda fino agli scalini, per arrivare all’imboccatura. Sulla piazza li aspettavano gli amici e i cavalli. Quella certezza diede forza ai giovani, che accelerarono l’andatura. Ma fatti pochi i si fermarono di colpo. Dal pozzo veniva un rumore di voci e stivali. Un gruppo di uomini correva verso di loro. “Guardiani!” bisbigliò Leida. “Ci hanno incastrati, siamo presi tra due fuochi!” Guardò Ziro e strinse la spada con più forza, già pronta a combattere. Nolak scosse la testa e girò intorno a sé uno sguardo rapido. Alle loro spalle, a qualche o di distanza, si apriva un cunicolo laterale, uno di quei buchi senza fine che interrompevano il tunnel. “Indietro, presto!” ordinò il giovane. Si infilarono nella galleria e all’improvviso si trovarono davanti un muro nero; come se avessero chiuso gli occhi in una notte già buia, persero ogni orientamento. Non potendo accendere la torcia, perché i guardiani avrebbero notato la luce, avanzarono a tentoni, orientandosi con il muro del cunicolo; le mani tese in avanti, tastavano e si aggrappavano alle pareti, unico riferimento in quell’oscurità. Quando sentirono i soldati correre dietro di loro, si fermarono di colpo, temendo di essere uditi. Ma i guardiani arono oltre, senza accorgersi di nulla. E i ribelli, che avevano trattenuto il fiato fino a quel momento, si permisero un respiro di sollievo. Accesero la torcia e tenendola bassa, per impedire alla luce di
allargarsi troppo, continuarono ad avanzare, seguendo il cunicolo che si snodava come il ventre di un serpente.
“Abbiamo visto che la botola del palco era aperta e siamo scesi a controllare” raccontò un capo dei guardiani, calatosi poco prima nel pozzo con il suo gruppo, al soldato che era venuto loro incontro. “Che cosa è successo?” L’uomo raccontò l’accaduto tamponandosi un taglio sulla faccia. Riferì con poche parole che uno dei suoi compagni era andato a cercare rinforzi, mentre i ribelli dovevano essersi infilati in una delle gallerie laterali. Aveva appena finito di parlare, quando una dozzina di uomini, protetti da corazze di cuoio e armati con le catene uncinate, arrivò agli ordini del comandante. Con il viso irrigidito dalla rabbia, Gurgon rivolse al soldato sfregiato uno sguardo duro. “Com’è possibile che tre ribelli, tra cui una donna e un ferito, abbiano liberato il prigioniero e ucciso sei guardiani?” L’altro cercò di giustificarsi. “Uno di loro è morto, comandante…” “Idioti!” Gurgon lo colpì con un manrovescio, gettandolo a terra. Il sangue iniziò a sgorgare di nuovo della ferita. Il guardiano non osò rialzarsi e rimase al suolo, con una mano sul viso tagliato. Ignorandolo, il comandante prese da sotto l’armatura una carta che riportava l’intrico di gallerie, la stese per terra e seguì con un dito il tunnel, dal posto dove si trovavano al pozzo. “Non ci sfuggiranno”, concluse ripiegando la carta per infilarla di nuovo sotto la corazza. “Tutte le uscite della rete sono sorvegliate. I ribelli sono intrappolati qui sotto; dovunque vadano, non hanno speranza di fuga. Li prenderemo, è solo questione di tempo”. Da lì al pozzo si aprivano tre cunicoli laterali. Gurgon divise gli uomini in altrettanti gruppi, mettendosi a capo di quello più numeroso. Avanzò in testa al manipolo, dentro una delle gallerie. Dietro di lui, i guardiani accesero le torce illuminando quasi a giorno le rocce umide per l’acqua.
Avanzava rapido, controllando il terreno per cercare qualche segno del aggio dei ribelli. Scoprì infatti una traccia: alla luce rossastra delle fiaccole vide delle chiazze per terra e si chinò per controllarle. “E’ sangue fresco. Due di voi corrano a chiamare gli altri. E voi, seguitemi!” Cominciò a correre nella galleria. I ribelli intanto procedevano a tentoni. Quello che era sembrato un unico tunnel, di collegamento tra il pozzo e la sala di guardia per permettere ai guardiani di spostare i corpi dei condannati a morte, si rivelò invece una serie di gallerie che s’intersecavano. Condotti, sale, scalini, ponti: un reticolo di strade sottoterra, a volte naturali e a volte ricoperte di frammenti di pietre. Ai ribelli sfuggiva lo scopo di quel lavoro che sembrava avere centinaia di anni. “Sai dove stiamo andando?” domandò a un tratto Leida, fermandosi. “Non lo so” confessò Nolak, “ma penso che debba esserci un’altra uscita”. Lei sistemò il laccio sulla fronte. “Anche se ci fosse, sarà sorvegliata”. L’altro non rispose. Entrambi si appoggiarono al muro per riprendere fiato. Dal cunicolo buio erano arrivati in una stanza quadrata, con le pareti di pietra; su un lato c’erano i resti di un altare dipinto di rosso. Non l’avrebbero notato se non avesse avuto come simbolo, invece dell’esagono nel cerchio, tre linee ondulate. Davanti a loro si apriva un’altra galleria, sconosciuta come quella da dove provenivano. Due ratti neri attraversarono fulminei il locale. “Dobbiamo andare” disse Nolak dopo un po’ di tempo, “Aspetta”. Leida strappò un pezzo di camicia per fasciare la ferita sul braccio del giovane. “Se continui a perdere sangue, lascerai delle tracce visibili e i guardiani ci seguiranno”. Poi si chinò su Ziro per sollevarlo da terra. Fino a quel momento il ragazzo non si era mai lamentato, ma respirava a fatica e sbatteva le palpebre. “Lasciatemi…” farfugliò in un soffio, “lasciatemi qui…”
“No!” Leida sembrava furiosa. “Condivideremo la stessa sorte, qualunque sia!” “Puoi farcela, fratello, ne sono sicuro. Andiamo, forza!” Con una mano Nolak ò un braccio di Ziro sopra le sue spalle e con l’altra lo sollevò. Sapevano di essere inseguiti da vicino. La rete di strade, che per loro era un labirinto inestricabile, doveva essere conosciuta bene dai guardiani che vivevano nella Fortezza. Era probabile che la utilizzassero anche per spostarsi da un capo all’altro del paese. E i ribelli camminavano più presto che potevano, quasi sempre in silenzio, con i sensi all’erta: occhi verso il suolo per non inciampare, orecchie tese per controllare ogni rumore. Per fortuna Ziro resisteva; ridotto com’era, riuscì a non cedere e a restare sveglio. I muscoli delle braccia di Nolak e Leida, che lo sostenevano, cominciarono a dolere e dopo un po’ furono percorsi dai crampi, costringendoli a cambiare posizione più volte. Andavano avanti a caso, cercando qualsiasi segno che indicasse un’uscita. Ma a un certo punto, giunti davanti a un bivio, Nolak rimase fermo a studiare le gallerie che avevano di fronte, e ne scelse una precisa. “Perché proprio questa?” gli chiese Leida, varcando l’ingresso. “Perché è in salita” rispose il giovane. “Noi siamo scesi nel pozzo, perciò la strada che porta a un’altra uscita deve salire”. La torcia si stava esaurendo, ma in un angolo ne scovarono altre insieme a sacchetti di ventre di maiale con la pece. Era evidente che i guardiani facevano una manutenzione regolare alla rete di gallerie, lasciando in punti stabiliti il necessario per tenere sempre accesa la fiamma delle fiaccole. I ribelli presero tutto e proseguirono.
Gurgon aveva perso le tracce dei sovversivi ed era stato costretto a dividere di nuovo gli uomini per seguire le diramazioni delle gallerie. Benché convinto che le prede non sarebbero potute sfuggire dalla rete, la mancanza di tracce l’aveva innervosito. Voleva vendicare i guardiani uccisi. Consultando la carta che portava con sé, si accorse che l’incrocio dove si trovava era uno dei punti di sosta e di aiuto, in cui venivano lasciate torce e pece. Invece non c’era nulla.
Controllando i aggi, i soldati scoprirono in uno di questi delle chiazze di catrame fresco. Era chiaro che i ribelli erano ati di lì e li precedevano di poco. Rabbioso, Gurgon mandò alcuni uomini in una galleria, spiegando cosa dovevano fare. Regola otto del Manuale: in caso di superiorità numerica, circondare il nemico abbrevia i tempi della battaglia. Tra poco li avrebbero presi.
Di tanto in tanto, Nolak dava uno sguardo a Ziro e lo incoraggiava, anche per farlo rimanere sveglio, poiché lui e Leida non ce l’avrebbero fatta a portare un peso morto. Ma era soprattutto la ragazza ad aiutarlo, parlandogli sottovoce, a volte in tono vivace, a volte tenero, a volte deciso. E Ziro resisteva. “Fermo” sussurrò a un tratto Leida, “ho visto una luce davanti a noi”. “Vado a vedere”. Nolak studiò il viso della ragazza. “Te la senti di restare qui con Ziro?” Anche se stanca, lei cercò di scherzare. “Certo, il buio è così intimo…” La galleria diritta dov’erano arrivati, scavata nella terra e puntellata da grosse travi, saliva a lunghi gradini. Su un lato si apriva un cunicolo in discesa; i ribelli vi si infilarono. Leida si sedette, facendo appoggiare sul grembo la testa di Ziro, steso per terra. Nolak prese la torcia e tenendola bassa, per illuminare solo il suolo, riprese a salire gli scalini. La tensione era tanta da non fargli sentire più il dolore del braccio ferito. La galleria, all’apparenza lunghissima, terminava invece dopo qualche pertica, all’improvviso. La volta era franata e nel cumulo di terra si apriva soltanto un buco tra due travi incastrate. Nolak scacciò un topo con un calcio, posò a terra la torcia e guardò attraverso il foro. Restò immobile per la sorpresa. Davanti a lui c’era una stanza circolare, con le pareti costellate di nicchie, a decine, fonde e buie come tanti occhi ciechi. I guardiani percorrevano la sala, infilandosi nei aggi laterali, con le torce accese. Ripresosi dallo stupore, il giovane raccolse la fiaccola e tornò indietro,
scendendo i gradini in fretta, per raggiungere Leida e Ziro. Erano stati fortunati. Se non ci fosse stata la frana, i guardiani li avrebbero visti. Ma li stavano circondando, avvicinandosi sempre di più, fino a chiuderli in uno spazio senza uscita. E a quel punto ci sarebbe stato solo da augurarsi di non cadere vivi nelle loro mani.
Leida era rimasta con una mano stretta sull’elsa della spada e l’altra sui capelli di Ziro; accortasi della luce, la ragazza sollevò la testa per fissare Nolak. Era composta e risoluta come sempre. Il giovane riferì in sintesi ciò che aveva scoperto e ripresero il cammino lungo il cunicolo inclinato verso il basso in cui avevano sostato. Avanzavano più a rilento. Sapevano entrambi che i guardiani li stavano accerchiando, ma il pensiero delle torture che Ziro aveva dovuto sopportare e il ricordo del sacrificio di Hude li spingeva a non darsi per vinti. Costretti a chinarsi per are nel varco sempre più angusto, non potevano più tornare indietro, ma solo avanzare, anche se quel budello fosse diventato un vicolo cieco e la loro tomba. Proprio quando la speranza si stava del tutto affievolendo e sembrava dovessero procedere carponi o, peggio ancora, strisciando, sentirono scorrere dell’acqua davanti a loro. Qualche o dopo il aggio diventò meno ripido e si allargò all’improvviso. Stremati dalla fatica, Leida e Nolak dovettero riposare. Fecero sedere Ziro con le spalle appoggiate a una parete e osservarono il posto. Era un locale a sei lati, diviso nel mezzo da due muretti dentro i quali scorreva veloce dell’acqua color metallo. La conduttura proseguiva dentro un tunnel buio, per perdersi chissà dove. Non si notavano altre uscite. “Adesso siamo davvero in trappola” commentò Leida con calma. Prima che Nolak potesse rispondere, da un buco a livello del suolo uscì un ratto scuro, che si fermò a guardarli incuriosito e per niente spaventato; quando il
giovane si avvicinò per colpirlo, il topo tornò veloce dentro il foro. “Questo dev’essere il canale dove arrivano i due scarichi che abbiamo visto in fondo al pozzo” rifletté Nolak. “Chissà dove va a finire”. “In qualche fiume sotterraneo che si perde nelle viscere della terra” rispose Leida, guardandosi intorno. “Io credo di no: forse s’immette nell’Endro vicino a Caleborn. Se fossimo sicuri che il soffitto è sempre così alto, potremmo rischiare di farci portare dalla corrente…” “Nolak, muoviti!” adesso la voce della ragazza era nervosa. “Qui si sta riempiendo di topi!” Stavano uscendo dal buco della parete, grossi come gatti, grigiastri, con il collo tozzo e la coda sottile; andavano verso Ziro, dapprima a rilento poi quasi galoppando, resi più audaci dall’odore del sangue. Nolak e Leida si misero davanti al compagno per proteggerlo dall’assalto. Presero i ratti a calci, ma quelli avanzavano lo stesso. Allora fecero roteare le spade. Anche infilzati dalla punta delle armi, i topi si moltiplicavano. Sembravano decine, per ognuno che moriva ne uscivano altri dal buco e parevano non aver paura di nulla, né della torcia né delle spade; alzandosi sulle zampe posteriori con squittii minacciosi, diventavano sempre più aggressivi. “Sono troppi!” gridò Leida. “Cerca di tenerli a bada!” Nolak le lanciò la spada e lei la prese al volo. Leida afferrò l’elsa con più forza, arretrando verso Ziro per difenderlo meglio, e cominciò a mulinare le due spade per calarle sulle schiene dei topi, mandando a segno ogni stoccata. Le lame rimbalzavano sulla pietra e la ragazza stringeva i denti a ogni colpo. Il sangue degli animali schizzava dappertutto, ma loro continuavano ad aggredirla. L’unica salvezza era gettarsi nel fossato e farsi trasportare dalla corrente, dovunque fosse finita; ma bisognava trovare il modo di tenere lontani i topi, che altrimenti li avrebbero seguiti anche nell’acqua. Resosene conto, Nolak sparse la pece dei sacchetti sul bordo del canale, con l’intento di darle fuoco.
Tornò indietro per sollevare Ziro e ordinò a Leida di andare verso l’acqua. Mentre arretravano, uno dei ratti saltò su una gamba di Ziro, ma Leida lo scaraventò lontano con un calcio secco e deciso. Nolak fece cadere la torcia sulla pece e appena questa prese fuoco i tre si buttarono in acqua. Le fiamme tennero i topi lontani dal canale solo per pochi minuti, ma bastò perché i tre ragazzi potessero allontanarsi trasportati dalla corrente. Quando il fuoco si spense e gli animali si gettarono nel fossato, loro erano già lontani.
Non appena giunse alla stanza esagonale, Gurgon vide solo tanti ratti che si muovevano nel canale. Capì subito cosa era successo e si gettò in acqua senza esitazione, gridando ai guardiani di seguirlo. Quella del condotto era un’uscita che non aveva previsto, ma era certo di agguantare i ribelli, in un modo o nell’altro.
Il buio li sovrastava e la corrente li trascinava a velocità vertiginosa: era come trovarsi in un abisso d’inchiostro nero. Nolak e Leida si sentivano soffocare, come se l’aria fosse diventata più pesante e li stesse schiacciando. Poi la galleria s’illuminò in un arco di luce bianca, che s’allargò poco dopo all’aperto, sulle acque distese del fiume Endro. Il cielo stava diventando chiaro per l’approssimarsi dell’alba. Dopo il buio e l’odore ripugnante, l’aria fresca inebriava come una sbornia e la luce feriva gli occhi. Assetati di spazio e di libertà, i ribelli respirarono a fondo; poi si guardarono intorno, per capire dove si trovassero. Sempre sostenendo Ziro tra loro, nuotarono per avvicinarsi a una sponda. Ma la riva in quel punto era alta e i due ribelli, esausti, non riuscirono a sollevarsi. Il peso di Ziro svenuto li trascinava verso il basso. Ma dall’alto della sponda, all’improvviso, si tesero delle mani. Corde vennero calate verso il basso, uomini scesero rapidi verso di loro lungo le funi. Erano i compagni, che li portarono in salvo sull’argine. “Come avete fatto a sapere che saremmo usciti da qui?” domandò Nolak a
Rodan, appena si fu ripreso tanto da poter parlare. I ribelli avevano portato un carro leggero, dove li avevano aiutati a salire per tornare al rifugio sulle montagne. Prima di rispondere, l’uomo si voltò verso Erien. “E’ stata lei ad avvertirci” spiegò poi, mentre la ragazza abbassava lo sguardo per l’imbarazzo. “Sembra che abbia fatto un sogno. Ha insistito per farci venire qui con il carro, dicendo che sareste usciti dal fiume proprio in questo punto”.
21.
Nepthya era assorta nei propri pensieri. La situazione le stava sfuggendo di mano. Il narrastorie era nascosto tra i rivoltosi ed Erien aveva conosciuto Ziro, ribelle anche lui. Il ragazzo non aveva parlato sotto le torture dei guardiani e i suoi amici erano riusciti a liberarlo. Donna Vilya si era rivelata un’incapace e anche l’accordo con Melisia non aveva dato i risultati sperati, almeno fino a quella mattina. Un insuccesso dietro l’altro. “Anziana Superiora, sono certa che quanto sto per dirvi sarà molto interessante per voi”. Era evidente, dall'espressione del viso, quanto Melisia fosse avida e per questo disponibile a servirla: compiaciuta, parlava con molta sicurezza. “Erien ha incontrato Nolak, amico fraterno di Ziro. Non so quando si sono conosciuti, ma ieri sera è andata da lui”. L’allarme scattò subito nella testa di Nepthya: Nolak, un altro probabile ribelle nella vita di Erien e molto più pericoloso di Ziro, perché era stata Erien a cercarlo. “Hanno eggiato, lui la teneva sottobraccio …” Mentre Melisia raccontava le circostanze dell’incontro, Nepthya aveva stretto tra le mani il vaso di miele per controllare la rabbia. Si trovavano nella cucina della Circolaria, un locale grande, ma soffocante per l’accozzaglia degli utensili e la caligine delle pareti. Il camino aperto stava al centro della stanza, la legna veniva accatastata contro una parete e dall’altra parte un lungo tavolo era ingombro di arnesi. Casseruole, coltelli, mannaie e attrezzi di ferro erano agganciati nelle nicchie; dalle travi del soffitto pendevano gabbie di legno per gli insaccati e gli aromi appesi ad asciugare. Semi diversi erano tenuti in grossi baccelli piatti e opachi come vetri sporchi, che salivano lungo gli angoli. Altri rami di spezie sporgevano dalle pareti, nei buchi tra i
mattoni riempiti di terra pressata, simili a corna sinistre. Eppure Melisia non sembrava intimorita. “Poi, ieri notte, Erien è uscita di nuovo e un uomo l’ha avvicinata. Era vestito come un signore e portava uno strano cappello. Si sono allontanati da Caleborn…” Rodan! pensò subito Nepthya, Rodan porta il cappello anche dentro casa. Era lui di sicuro! Non si poteva fidare più di nessuno, se anche i nobili erano in combutta con i ribelli. Ma i traditori avrebbero pagato e Rodan prima di tutti. Proprio quel giorno l’aveva invitata a un pranzo nella sua villa. Quando Melisia arrivò a raccontare di aver seguito Erien e Rodan fino a un luogo nel bosco Zafir, Nepthya dimenticò la rabbia che l’aveva presa. Alla fine, dopo anni di ricerche, il covo dei ribelli era stato scoperto. Dopo l’arresto di Ziro, Nolak doveva essersi nascosto nel rifugio segreto ed Erien era stata portata da lui. Così Melisia aveva visto la strada per arrivare al nascondiglio. Ora i guardiani avrebbero potuto attaccare i rivoltosi e in un solo colpo lei si sarebbe liberata delle persone più temibili, Nolak e il narrastorie. Morti, sarebbero rinati da qualche parte, ma prima di poter essere di nuovo pericolosi dovevano diventare adulti. Ed Erien si sarebbe messa il cuore in pace. Sarà una Savia straordinaria, pensò. Custode dell’ordine, darà lustro al potere e la dualità conoscerà un periodo di splendore. La profezia è chiara. Nepthya pensò di avere ormai la vittoria in pugno. Dovette faticare per non cedere all’esultanza e parlare con voce normale. “Allora hai visto dove si trova il rifugio?” domandò. “Ecco, Anziana Superiora, anche con la luna il bosco Zafir è molto buio. Io non conosco quelle zone, non ricordo bene”. Melisia aveva cambiato tono di voce. Nepthya la fissò senza parlare, chiedendosi che intenzioni avesse.
“Vi ho detto tutto quello che ho visto” continuò la ragazza, “e con il vostro permesso vorrei tornare al Podere. E’ già tardi, Donna Vilya mi starà cercando. Finché sono alle sue dipendenze, non posso disporre di tutto il tempo che vorrei. Se la mia condizione fosse diversa, sarei meno impegnata e potrei fare molto di più. Voi mi capite, vero?” Prima di rispondere, Nepthya schiacciò con un piede uno scorpione uscito da sotto la catasta di ceppi. La delusione aveva ceduto il posto a una rabbia nuova, tanto intensa da farla respirare a fatica. Sentiva che gli occhi le stavano diventando freddi e duri come sfere marmoree. “Capisco molto bene e non ti trattengo oltre. Vai pure”. Melisia esitò, cominciò un paio di frasi incerte senza finirle, poi aggrottò le sopracciglia e tacque. Il suo disappunto era evidente. Aveva provato a ottenere altri vantaggi dall’accordo, aspettandosi che Nepthya avrebbe ceduto, ma le era andata male. E non sapeva ancora quanto. L’Anziana Superiora sorrise, un’espressione terribile per chi la conosceva. Ripeté alla ragazza di uscire e la seguì verso l’ingresso. Fuori dalla Circolaria fece un cenno ai guardiani che sorvegliavano l’entrata. Mentre i due soldati si avvicinavano, sorrise di nuovo, salutando Melisia. “Vai pure con loro, vedrai che ti tornerà la memoria!” Terrorizzata, la ragazza si dimenò. Pregò, pianse, urlò tanto che uno dei soldati la colpì con il guanto di ferro per farla smettere. E la portarono via.
“Melisia è morta, padrona!” Donna Vilya, che stava controllando i gelsi del parco, si voltò di scatto. “Morta? Come, morta?” Di fronte al servo che ansimava per l’agitazione, cercò di mantenere il sangue freddo. “Calmati, e raccontami tutto dal principio”. “Mi avevate chiesto di scoprire dove erano finite lei ed Erien, che mancavano da ieri notte” continuò l’altro in fretta. “Mi sono informato: Melisia è stata vista con due guardiani che la portavano verso la Fortezza. Era semisvenuta, ma poi ho saputo che è morta!”
Torturata e uccisa, pensò subito Donna Vilya. Poveretta! Chissà cosa volevano da lei… “Ed Erien dov’è?” “E’ scomparsa, signora, nessuno l’ha più vista da ieri sera!” La padrona non rispose. Dietro la morte di Melisia e la scomparsa di Erien poteva nascondersi solo una persona: Nepthya. Stanca di vedere che la sua protetta non faceva quanto stabilito da lei, doveva aver fatto rinchiudere Erien da qualche parte e uccidere Melisia. Di colpo si avviò a o svelto verso casa. Cominciò a dare ordini prima di essere arrivata: doveva fare in fretta, se voleva salvarsi. Lasciò disposizioni sommarie alla servitù, assicurando che sarebbe tornata presto. Nessuno ci credette, ma questo a lei non importava. Si assicurò invece che tutti fossero convinti della sua intenzione di raggiungere il marito, in viaggio d’affari a Elleront, perché avrebbero potuto riferirlo in caso d’interrogatorio. E in effetti la carrozza partì diretta a est. Ma appena si trovò in una zona isolata, Donna Vilya bussò al cocchiere e gli ordinò di fare un giro largo per puntare dalla parte opposta, verso il porto di Verla. Sapeva che avrebbe trovato con facilità un aggio su qualche nave: con il denaro preso in casa, poteva comprare il silenzio di tutta la ciurma. Le avevano detto che la vita nelle Terre Straniere era molto più agevole. D’altro canto non aveva mai avuto simpatia per il potere delle Savie che trovava eccessivo e opprimente. Possedeva i mezzi e la forza per ripiantare i gelsi altrove. Senza alcun rimpianto, s’appoggiò più comoda al sedile e sorrise.
22.
Dopo il pranzo nella villa di Rodan, uno dei più sontuosi che Nepthya ricordasse, il padrone di casa organizzò un torneo di Dirsei, atempo avvincente della regione, di cui l’uomo era un giocatore accanito e imbattibile. Gli ospiti, riuniti nella sala da pranzo, sedettero ai lati del tavolo centrale, con le scacchiere nel mezzo, mentre gli inservienti portavano sidro e dolciumi. Rodan chiese a Nepthya l’onore di farle da avversario, e l’Anziana Superiora accettò volentieri. Era arrivata alla villa proprio con l’intenzione di parlargli. Non le interessava vincere: era una giocatrice mediocre, e in ogni caso non avrebbe avuto speranza di battere un campione come Rodan. Con lui, voleva scommettere su un’altra partita. Ricordava bene quanto le era stato riferito dopo l’interrogatorio di Melisia: messa alle strette, la ragazza aveva rivelato la strada per arrivare al rifugio dei ribelli. Anche se il luogo preciso era sconosciuto, i guardiani avrebbero potuto organizzare subito l’attacco; ma Nepthya, d’accordo con il comandante Gurgon, aveva deciso di aspettare. Prima dovevano conoscere il numero dei rivoltosi, la loro organizzazione, la posizione esatta del nascondiglio e le vie di fuga esistenti. Soprattutto, l’Anziana Superiora voleva assicurarsi che Erien e il narrastorie si trovassero ancora tra loro. Perciò aveva pensato a Rodan, indicato da Melisia come traditore. Avrebbe potuto farlo arrestare, nonostante il suo rango privilegiato, costringendolo a svelare tutto, ma aveva ben altri piani. Uno come Rodan, che i ribelli consideravano essere dei loro, le avrebbe fatto comodo come complice. Perciò sedette di fronte all’uomo, che sorrideva sotto il famoso cappello, con l’intenzione di riportarlo dalla sua parte. Collocarono tra loro le due scacchiere esagonali con caselle a nido d’ape, bianche e grigie. I due giocatori fissarono la posta iniziale e, quando l’Unica fu messa da parte, disposero i pezzi sulla prima scacchiera. Rodan, con quelli neri, cominciò la partita.
Le altre coppie aprirono presto le contrattazioni. Il silenzio della sala si riempì delle voci dei giocatori, che discutevano sulla cifra da pagare per il rientro dei pezzi mangiati. Le Uniche, le puntate iniziali collocate tra le due scacchiere, formarono ammassi cospicui, mentre le scommesse salivano. Invece la partita tra Nepthya e Rodan si svolgeva in silenzio. Il nobile non attaccava; pareva studiare la strategia dell’avversaria, e la sfida sembrò rimanere in parità. “Anziana Superiora, dovete spostare il vostro pezzo valente; altrimenti, il mio cultore lo mangerà alla prossima mossa” disse a un tratto Rodan, sorridendo come il solito. “E’ vero” ammise Nepthya, spostando un pezzo devoto, “ma non fatevi scrupolo, nobile Rodan. Non è detto che questo non mi sia utile in qualche modo”. “Come volete. Allora, Anziana Superiora, io trao il vostro valente” e Rodan fece scavalcare dal suo pezzo nero quello grigio di Nepthya, arrivando in una casella bianca del terzo cerchio. “Lo faccio rientrare come pezzo signore” dichiarò Nepthya, “al centro della seconda scacchiera”. Fece per spostare il pezzo, ma Rodan la fermò. “Non abbiamo fissato la penitenza”. “Poiché rientra come signore, la penitenza è il suo prezzo, due dranie”. “Ma se volete farlo rientrare al centro, che è una posizione vantaggiosa, chiedo sei dranie per il rientro”. Finirono con l’accordarsi a quattro dranie; Nepthya mise il denaro sull’Unica e collocò il valente dove aveva dichiarato. La posta iniziale aumentò mano a mano che i pezzi venivano mangiati e rientravano sull’altra scacchiera. Il prezzo delle penitenze salì e il gioco si fece più complicato. “Vedete, Rodan” cominciò l’Anziana Superiora muovendo un pezzo sorella sulla seconda scacchiera, “gli elementi del Dirsei rappresentano la Dualia: devoti, cultori, signori, valenti, sorelle, sono tutte le classi della nostra società. E il meccanismo del rientro simboleggia la reincarnazione”.
L’altro spostò un devoto di una casella. “Sappiamo che le origini del gioco si perdono nella notte dei tempi. E’ nato insieme al Libro dei Duali; perciò è antichissimo e collegato alla divinità Prima Causa”. “Esatto” ribatté Nepthya. “Scusate, dimenticavo con chi sto parlando” Rodan sorrise di nuovo. “Ma una persona intelligente come voi non si ferma alla superficie. Voi siete una studiosa e, di certo, il vostro desiderio più grande è possedere la conoscenza”. “Cosa intendente dire?” “C’è una leggenda legata al Dirsei. Narra che prima di questo gioco ve ne fosse un altro più semplice e che a trasformarlo fu un giovane nobile. Era innamorato di una fanciulla e poiché lei non lo amava, decise di utilizzare il gioco per dimostrarle quanto fosse abile e intelligente. La sfidò in numerose partite, ma la ragazza riuscì a batterlo. Così, per farla perdere, il giovane pensò di modificare le regole in modo che lei non fosse in grado di capirle. Allora cambiò i pezzi, poi assegnò loro un valore in dranie, fece diventare a sei lati caselle e damiera; infine utilizzò una seconda scacchiera e introdusse la prassi del rientro. Ma la ragazza continuò a vincere. Non reggendo al disonore, il giovane sparì e di lui non si ebbero più notizie. Il nuovo gioco sostituì quello precedente, si diffuse in tutta la Dualia e…” “Conosco la leggenda”. Nepthya sollevò lo sguardo per guardare l’uomo con severità. “Ipotizza che la religione attuale basata sulla reincarnazione non sia sempre esistita, ma sarebbe stata preceduta da un’epoca molto lunga, come il gioco Dirsei. Vi consiglio di non continuare, se non volete essere considerato un eretico”. “Voi sapete che sono un seguace sincero e devoto” il sorriso di Rodan si fece più largo. Stanca di quella schermaglia, Nepthya decise di cominciare la vera partita. “Voi non sapete, invece, che esiste un’altra leggenda” rispose, sorridendo a sua volta. “Un tempo, assai lontano da noi, un nobile uomo si stancò dei suoi privilegi e si accordò con i rivoltosi per rovesciare il potere”. “Un uomo poco intelligente” osservò Rodan.
“Ma una Savia lo scoprì; decise di far arrestare il nobile dai guardiani e fargli confessare quello che sapeva”. Nepthya si fermò, fissando Rodan negli occhi. “Continuate, Anziana Superiora, è interessante”. L’uomo spostò una sorella da un capo all’altro della scacchiera. La sua mano rimase ferma, senza dimostrare il minimo tremore. La Savia dovette ammirare il sangue freddo dell’uomo, che continuava a giocare con intelligenza e metodo, nonostante avesse capito il pericolo. Ed era in netto vantaggio, mentre Nepthya stava perdendo! “Poi la Savia si rese conto di una possibilità”, ella continuò. “Se avesse tenuto l’uomo in vita, lui sarebbe potuto rimanere tra i ribelli e riferirle quello che dicevano. Nobile Rodan, non vi siete accorto che il mio pezzo sorella minacciava il vostro cultore”. Sorò il pezzo dell’avversario. L’uomo lo fece rientrare come devoto e pagò senza fiatare la penitenza chiesta dalla Savia, un importo cinquanta volte superiore a quello reale. “Come finisce questa storia?” domandò poi. “Ditemelo voi” ribatté Nepthya. Finse di non aver visto che, con uno dei valenti, Rodan era riuscito a fare il cappio, la minaccia contemporanea di due pezzi. Lei avrebbe potuto salvarne uno; invece spostò un devoto da tutt’altra parte. Rodan rifletté a lungo senza parlare. Poi, con lentezza esasperata, come se compiere quel movimento fosse una fatica enorme, tornò indietro con il pezzo del cappio, rinunciando a mangiarne uno di Nepthya. Parlò a voce bassa. “Il tradimento del nobile era falso: lui rimaneva sempre un seguace sincero e devoto. In realtà si era avvicinato ai ribelli solo per riferire le loro intenzioni alla Savia, che rinunciò a farlo arrestare”. “Fu una decisione saggia”. Nepthya sorrise di nuovo. “I dettagli che mancano a questa storia potrete raccontarmeli dopo la partita”.
In silenzio, l’uomo abbassò la testa e l’Anziana Superiora capì di aver vinto. “Siete alla muraglia, nobile Rodan: qualsiasi mossa facciate, traerò il vostro ultimo pezzo”. Era la prima volta che Rodan perdeva al Dirsei.
Dopo la partita, quando gli altri ospiti se ne furono andati, rimasero a parlare a lungo. Rodan confermò che il rifugio si trovava sui monti Sospiri, in una grotta naturale nascosta dai rilievi, accessibile da un solo sentiero. L’entrata era sorvegliata giorno e notte, ma egli spiegò come superarla. Assicurò che, se i guardiani avessero attaccato in massa, i ribelli sarebbero stati perduti poiché non esistevano altre uscite. Mentì sul numero dei rivoltosi, affermando che erano circa una trentina: nel rifugio vivevano stabili quasi venti persone, fra uomini e donne, altri si nascondevano tra la popolazione di Caleborn. Tra questi c’erano Ziro e Nolak, oltre a lui stesso. I primi due si trovavano al rifugio. Alla fine, stremato dalla tensione, fissò la Savia, poco sicuro di essere riuscito a convincerla.
L’Anziana Superiora faticò a non manifestare soddisfazione quando l’uomo riferì che anche Erien e Plumis si celavano nel nascondiglio. Volle sapere i nomi degli imboscati tra il popolo ma Rodan esitò, tanto a lungo che Nepthya fu costretta a minacciarlo di nuovo. Alla fine il nobile dichiarò di non essere a conoscenza di quanti fossero, ma di poter indicare solo quattro persone: un contadino che aveva il campo sulle rive del fiume Endro, il macellaio, un sarto soprannominato Filo e la cameriera della Locanda della Sacra Luna. Nepthya gli intimò di non muoversi da casa; era necessario verificare l’autenticità delle sue dichiarazioni. Riteneva, infatti, che avesse capitolato troppo presto, come se già si aspettasse di essere scoperto. Uscita in fretta, la donna raggiunse Gurgon, che l’attendeva nell’interno di una carrozza chiusa.
Poco dopo, Rodan fu catturato e condotto dentro la Fortezza. Non lo toccarono con un dito, ma fecero di peggio. Nei sotterranei lo misero davanti agli attrezzi che usavano per la tortura: gli dissero di aver già inviato un drappello per arrestare le quattro persone da lui segnalate e che, se queste non avessero confermato le sue parole, lo avrebbero appeso ai pali. Lo tennero nelle segrete tutto il pomeriggio, facendogli sentire le urla dei torturati e i lamenti dei carcerati. Dei ricercati ne trovarono due, Filo e il macellaio; gli altri dovevano essere nel rifugio con i ribelli. Li misero a confronto con lui, li lasciarono tutti in una cella per poi interrogarli di nuovo, da soli e insieme. Presero il macellaio, lo misero alla ruota, e quando l’uomo non fu più in grado di parlare lo ributtarono in carcere; legarono Filo sotto una mannaia che ondeggiava e gli amputarono le gambe lentamente, un arto per volta, facendolo morire dissanguato. Alla fine, solo dopo che i due torturati ebbero ripetuto dozzine di volte la stessa versione, i guardiani furono certi che non avevano mentito e la sala tortura si fu tramutata in un lago di sangue, solo allora si fermarono. Gurgon disse a Rodan di arrivare al rifugio dei ribelli e accertarsi che tutti quelli che vi si trovavano rimanessero per la notte. Soprattutto doveva fare in modo che Erien e il narrastorie non si spostassero di lì. Distrutto, Rodan non provò neppure a parlare. Lo misero su un cavallo e lo lasciarono andare.
23.
Erien allungò una mano per accarezzare i capelli di Nolak, ma la ritrasse in fretta, per timore di svegliarlo. Esausti, dopo l’incursione per la liberazione di Ziro, sia lui che Leida si erano addormentati appena giunti al rifugio. La ragazza si alzò e uscì silenziosa dal capanno per affacciarsi in quello dove riposava Ziro. Dopo averlo curato, Kervis era rimasto a controllarne il sonno; accorgendosi della giovane, le fece sorridendo un cenno d’intesa ed Erien se ne andò rassicurata. Era mattina inoltrata e il sole penetrava nella grotta principale dalle aperture della volta. Impegnati nelle mansioni consuete, i ribelli si voltarono a guardarla mentre ava; ma nessuno le si avvicinò o le parlò. Eppure dovevano aver saputo della sua visione e del ritrovamento di Nolak, Ziro e Leida nel punto esatto da lei indicato. Le sarebbe piaciuto conversare con qualcuno, invece si sentiva isolata. Diversa. Da quando erano iniziati i sogni premonitori, ne aveva parlato solo con Nepthya e Kervis che l’avevano confortata, assicurandole che quelle apparizioni non significavano nulla. L’avevano convinta a non dirlo a nessuno, temendo che la gente potesse considerarla pazza ed evitarla. Adesso invece non era più un segreto. Si sentiva sola. Girovagava nel rifugio, sperando d’incontrare un volto amico. Persino Rodan non c’era, impegnato a organizzare un pranzo tra nobili; gli altri continuavano a lavorare. Tutti, tranne Plumis. Erano arrivati i rifornimenti e il narrastorie aveva avuto il compito di sistemarli, ma invece di farlo si destreggiava facendo il giocoliere. Girava tra le casse giocando con alcune mele e canticchiando. Erien si fermò a osservarlo divertita. Lui se ne accorse e la raggiunse. Lanciò in aria i frutti mentre faceva una piroetta, li riprese tutti insieme e fissò sorridendo la ragazza. “Non ho salvia da regalarti e solo una mela posso donarti!” Le tirò un pomo, che lei prese al volo.
Quell’uomo con lo spirito di un bambino era diverso dagli altri ribelli. Come lei, sembrava trovarsi a disagio nella grotta e con il suo comportamento leggiadro la distraeva dai pensieri. “Erien, che cosa ci riserva il futuro?” domandò il narrastorie. “Tu che vedi lontano, sai se riuscirò a giocare con sei mele senza farle cadere?” “Tu scherzi sempre” rispose la giovane. “Perché sei così assorta? La vita è troppo corta” ribatté lui. “Dovresti cantare, ridere e ballare!” Diventò seria. “Questo è proibito dal Libro dei Duali”. “Qui non ci sono Savie e nessuno si scandalizza. Vieni!” Plumis lasciò le mele e la prese per mano. Cantando, corse, girò e saltò intorno alle casse dei rifornimenti, che diventarono un appoggio per inventare i di danza. La voce profonda e le note riempirono la grotta di calore. Io sono un narrastorie lo faccio di mestiere persone tristi e serie non voglio mai vedere. Corriam con leggerezza or prendimi la mano vedrai che la tristezza fuggirà via lontano. I ribelli guardavano divertiti la coppia. Erien seguiva i i di Plumis dapprima incespicando e fermandosi, poi sempre più sicura; si mise a danzare, sollevando il vestito con una mano e con l’altra seguendo il narrastorie. Finché, esausti, si fermarono entrambi. Plumis fece una capriola e rimase steso per terra con le braccia aperte. Seduta su un sasso, Erien scoppiò in una risata.
“Sono riuscito a farti ridere” disse lui, girandosi e appoggiando il mento sulle mani. “Non mi sentivo così bene da tanto tempo!” Erien sospirò per riprendere fiato. “Grazie, Plumis! Come posso ricambiare? Ti aiuto a sistemare queste cose?” “Vuoi dire che dovremmo… lavorare?” “Prima o poi bisognerà farlo”. “Perché?” “Questa gente deve pur sopravvivere”. Erien si alzò in piedi. “Forza, in due faremo prima”. “Se è proprio necessario…” Plumis si sollevò da terra con la lentezza di un bambino svogliato. Guardandosi intorno, Erien decise che avrebbero cominciato sistemando i viveri; il resto sarebbe venuto dopo. Prese un cesto di verdura e a Plumis ne indicò uno di frutta, poi si diresse verso la grotta delle provviste. Per un po’ fecero avanti e indietro, Erien seria e attenta, Plumis saltellante in un gioco nuovo a ogni viaggio. Quando finirono di mettere a posto gli alimenti, la catasta si era ridotta della metà e il narrastorie aveva cercato di smettere il lavoro una decina di volte. Da sistemare erano rimasti stoffe, pelli e utensili di metallo, che servivano a recuperare il ferro per nuove armi. Dovevano portarli dai fabbri, nell’officina accanto al laghetto; l'acqua della cascata era utilizzata per raffreddare le armi lavorate alla forgia. Pentole, piatti, roncole e vomeri venivano fusi e riutilizzati dai ragazzi che Nolak aveva avviato a quel lavoro. I due arono accanto alla cascata. L’acqua del lago, trasparente e limpida tanto da sembrare bassissima, era colorata di blu da rocce lucide che ricoprivano il fondale. Giunti all’officina, posarono gli utensili scambiando qualche parola con gli artigiani. Era piacevole fermarsi in quella grotta, calda per le forge accese.
Da una parte si trovavano le spade già finite. Senza rendersene conto, Erien ne prese una in mano. Per qualche motivo, a lei sconosciuto, era attratta da quell’arma. “E’ pesante” notò impugnandola. Plumis si scostò. “Stammi lontano, con quell’arnese! E’ pericoloso!” La ragazza provò a fare qualche movimento, come aveva visto fare dai giovani in allenamento. Ma si sentiva impacciata, più di quando aveva provato a ballare. “Vorrei imparare a muoverla in fretta, e a combattere…” “Libera di farlo, ma adesso mettila giù!” Il narrastorie teneva le mani davanti a sé come per proteggersi. Erien posò la spada. Ritornati alla catasta dei rifornimenti, la ragazza prese una falce fienaia; Plumis mise dei piatti di ferro in equilibrio sulla testa. “Non puoi evitare di farti notare?” gli domandò Erien quando lui la sfidò a fare altrettanto. “Tu, invece, ne hai paura”. Plumis abbassò i piatti e la voce prese per un attimo un tono serio. “Perché non ti piace che la gente ti guardi?” “Perché mi vedo diversa. Ma vorrei tanto essere come tutti!” Parlare con il narrastorie le era facile. Forse perché sapeva, in fondo, che egli era simile a lei. Diverso dagli altri. Ma per Plumis non era un problema, anzi ci si divertiva. “Per merito tuo, Leida e Nolak sono riusciti a liberare Ziro dalla Fortezza. Tutti lo sanno ed è per questo che ti guardano” affermò il narrastorie. “C’è stato un periodo” confessò Erien, avviandosi verso l’officina dei fabbri, “in cui avevo paura delle mie visioni e avrei fatto qualunque cosa per non averle più. Nepthya e Kervis mi dicevano di non preoccuparmi, perché quei sogni non avevano significato”.
“Errore. Le tue visioni sono un dono, perché servono a salvare altre persone. Sono una cosa preziosa: non tenerle per te, regalale agli altri”. Erien si girò per fissarlo. “Sai, Plumis, nessuno mi aveva mai fatto valutare le cose da questo punto di vista “. Lui mise i piatti in equilibrio sulla testa e riprese l’atteggiamento leggero. “E se gli sguardi vuoi evitare, le vesti da nobile devi mutare!” Erien riconobbe che il narrastorie aveva ragione. I ribelli portavano scarpe basse, pantaloni comodi, casacche per gli uomini e tuniche per le donne, fermate in vita dalla cintura per la spada. Qualche ragazza aveva decorato la tunica con disegni o borchie, ma da lontano i ribelli sembravano tutti uguali. Anche il colore dei vestiti, scuri e smorti, aiutava il mimetismo. L’abito rosa di Erien spiccava come un fiore isolato in mezzo a un prato. “Chiedi a Leida di darti qualcosa di suo” propose Plumis. La ragazza scosse la testa. “E’ più alta e robusta di me. E poi non mi può vedere”. “Tu sei come lei” notò il narrastorie. “Ti sbagli, io e Leida siamo molto diverse”. “Solo all’apparenza” ribatté lui. Poi si dilungò nel racconto della storia di Leida. Colpita, Erien lo ascoltò con attenzione. “Anch’io non ho mai conosciuto la mia vera madre. A volte sogno una donna” confessò alla fine. “Ha un occhio scuro e uno chiaro ed è bella, ma infelice. Sono sicura che si tratti di mia madre, anche se non posso ricordarla. Fui lasciata in un cesto davanti alla Circolaria e Nepthya è l’unica madre che ho avuto”. Plumis sussultò. “Lo so” continuò Erien, “so che alcuni la considerano malvagia e sono convinti che sia lei a comandare i guardiani. Anche Nolak la pensa così. Ma con me Nepthya è sempre stata buona, e io sono sicura che non sa niente delle crudeltà compiute nella Fortezza”.
Ma l’uomo sembrava sconvolto. Guardava intorno a sé con ansia, come cercando una via di fuga. Indietreggiò di un paio di i. “Vado a controllare se Leida si è svegliata, per chiederle di darti un vestito” disse in fretta. “Ma Plumis, non abbiamo finito…” “Torno subito!” Il narrastorie si allontanò e un attimo dopo era già sparito dietro l’angolo di una grotta. Erien rimase ferma, sorpresa da quella reazione. Plumis aveva paura di Nepthya. Tuttavia non si soffermò a riflettere su quel dubbio. Le spade che si trovavano nell’officina continuavano ad affascinarla. Ne prese in mano una e la mosse rapida fendendo l’aria. La sentiva sempre pesante, eppure impugnarla le dava un senso di calma. Dimenticò dove si trovava e chi aveva intorno, dimenticò anche la sua diversità.
24.
All’improvviso davanti a lei si formarono delle ombre, spettri che crescevano dalla terra e diventavano guardiani armati di spade e catene uncinate, rivestiti da nere corazze a scaglie. Erien puntò l’arma che aveva in mano, ma uno dei soldati la spezzò con un colpo. Spaventata, la ragazza arretrò; gli uomini avanzarono con le armi alzate. Si sentì inerme, annientata. La pioggia che scendeva a gocce sempre più fitte diventò una cascata, sommergendola. Non respirava. Era sott’acqua, dentro il lago; sopra di lei la superficie accecava. Qualcosa la spinse verso l’alto. Il lago si restrinse, allungandosi, mentre l’acqua diventava solida prendendo la forma di una lama che mandava bagliori blu. Volteggiò verso di lei. Erien la impugnò: era leggera e giusta per la sua mano. La fece roteare di fronte a sé, poi la spada la ricondusse verso i guardiani. La ragazza si spostò avanti trascinata dall’arma, che infilzò un soldato traandogli la corazza da parte a parte. L’uomo si portò le mani alla pancia con un’espressione di sorpresa più che di dolore. Erien ritrasse la lama; il guardiano cadde a terra e scomparve. Gli altri ritornarono ombre e si dissolsero nell’oscurità della grotta.
La ragazza ritornò alla realtà, accorgendosi di tenere ancora in mano la spada presa nell’officina. Era turbata. Quella visione le aveva rivelato qualcosa. Puntò lo sguardo sul lago dai riflessi blu. D’istinto, ubbidendo a un impulso improvviso e prepotente, lasciò l’arma e si tuffò nell’acqua chiara. Era fredda, ma sopportabile. Nuotando, la giovane raggiunse il fondo per prendere una roccia lucida. Riemerse subito dopo, infreddolita, ma soddisfatta. Portò la pietra dai ragazzi che lavoravano da fabbri.
“Non so come si chiami” disse, mentre si riscaldava accanto al fuoco. “E’ una specie di metallo; il laghetto ne è pieno. La utilizzate per fare armi?” “No, è troppo leggera”. Erien soppesò la spada in una mano e la roccia nell’altra, incerta. Poi ricordò le parole di Plumis. Doveva far dono agli altri di quello che vedeva. “Potresti farmi un favore?” domandò al ragazzo e iniziò a spiegargli ciò che aveva in mente.
Dopo aver lasciato l’abito rosa a una donna che aveva le sue misure, Erien dovette ammettere di sentirsi più a suo agio. Con tunica verde e pantaloni grigi si confondeva tra le altre ribelli e nessuno la guardava. Era pomeriggio. Davanti alla grotta di Nolak, la ragazza assisteva all’addestramento dei giovani alla spada. Incantata, guardava le reclute allenarsi in affondi e stoccate oppure richiudersi nelle guardie. Movimenti sciolti, fluidi, naturali come il respiro; ed Erien li imitava, sentendosi a ogni o più libera. “Stai danzando?” Era la voce di Nolak che, un po’ serio e un po’ scherzoso, la guardava dall’ingresso della grotta. Erien gli andò incontro sorridendo, felice di constatare che si era del tutto ripreso dalle fatiche della notte. “Cosa stavi facendo?” domandò lui. Imbarazzata, lei esitò a rispondere. “Io… vorrei imparare a usare la spada”. “E’ pericoloso per te: potresti farti male”. “Ma qui tutti si allenano, uomini e donne allo stesso modo”. “Non insistere. Tu sei troppo importante per farti correre rischi inutili”. Per un attimo, nella premura dimostrata da Nolak, lo sdegno di Erien si sciolse;
poi il desiderio di tirare di spada, e ancora più quello di essere come tutti, fu più forte di ogni altro sentimento. “Io voglio essere trattata come gli altri. Sono più forte di quanto tu creda. Voglio provare!” Fissò Nolak dritto negli occhi. “E se tu non sei disposto a insegnarmi, lo chiederò a Leida. Lei non avrà tanti riguardi per me!” Il giovane la fissò a sua volta, inquieto. Erien si rese conto che per la prima volta, in tutta la vita, teneva testa a qualcuno e difendeva in modo aperto le sue opinioni. Strano che stesse succedendo proprio con Nolak. Ancora più strano, fu lui a cedere. “Solo un paio di colpi” disse estraendo la spada dal fodero. Chiese a una delle reclute di dare la sua a Erien, ma lei li fermò entrambi. “Ho la mia” affermò. Tornò correndo nella grotta dove alloggiava e ne uscì con una spada che mostrò a Nolak. Era come tutte le armi dei ribelli: impugnatura di pelle, elsa crociata e lama a doppio filo. Ma pesava la metà di una spada normale e mandava riflessi blu. Nolak la soppesò con aria dubbiosa. “Dove hai trovato quest’arma? E’ troppo leggera; si spezzerà al primo colpo”. “Per me va bene così” ribatté Erien. Riprese la spada e la impugnò. L’aria critica di lui non diminuì. “Durerà poco…” Poi, mentre parlava, indicò le varie parti della lama. “In ogni caso, la punta è la parte che ferisce e porta il colpo. La mediana, che è pure affilata, permette sia di parare che di colpire. La parte forte non ha filo, ma dà robustezza a tutta la lama. Ora cominceremo con le poste e i eggi”. Nolak le mostrò la posizione ed Erien lo imitò. Lui le corresse a voce il portamento del busto, delle spalle, delle gambe. Mentre ubbidiva, la ragazza si rese conto che i movimenti che le erano sembrati tanto naturali erano in realtà il risultato di un allenamento costante e di una concentrazione totale, che coinvolgeva tutta la persona. Bisognava dominare ogni muscolo, pensare a
quello che si faceva e insieme conoscere il gesto successivo, per prepararsi a compierlo senza esitazioni. Il peso andava spostato da un piede all’altro in funzione della mossa da eseguire e la spada diventava un prolungamento del braccio, un tutt’uno con il resto del busto, dal quale prendeva la spinta e dava controllo. Mai, in tutta la vita, Erien aveva avuto una consapevolezza così piena del proprio corpo, di quello che poteva fare e quando doveva fermarsi. Era l’istinto che agiva in lei, come se non avesse fatto altro che portare colpi con una spada. Forse, nella vita precedente, era stata una spadaccina brava come Nolak e Leida. Si sentiva bene, presente a se stessa e libera dai dubbi e le ansie che l’angosciavano di solito. A un tratto, Nolak si fermò. “Tu non mi hai detto la verità” cominciò, “hai tirato di spada altre volte”. “Sai che non ti ingannerei mai” rispose lei, con una punta di amarezza. “Strano, sembri già molto sicura… Vediamo come te la cavi con le parate. In guardia!” Nolak fece un paio di stoccate lente, indicandole come doveva fermarle; poi si allungò in un affondo più veloce. D’istinto, Erien si girò spostandosi dalla traiettoria e nello stesso tempo portò un colpo secco contro l’altra lama. Le due spade s’incrociarono filo contro filo. La punta della spada di Nolak si spezzò di netto. Un mormorio di sorpresa salì dai ribelli che assistevano all’allenamento. Nolak s’immobilizzò dove si trovava, quasi ammutolito dalla sorpresa. “Che razza di spada è questa?” domandò alla fine. “Dove l’hai trovata?” Erien rispose che l’aveva fatta costruire dai tre ragazzi dell’officina, con una delle rocce che si trovavano sul fondo del laghetto blu. “Non ho mai visto una lama così” continuò Nolak. “Pesa la metà di una spada normale, ma è molto più resistente”. Lei sorrise. “Non sai ancora quanto. Guarda!”
Si avvicinò a uno dei fantocci vestiti con la corazza nera dei guardiani, che venivano usati per le esercitazioni; e con una sola stoccata, senza fatica, la traò da parte a parte. Il silenzio era totale. Non un bisbiglio saliva dalle bocche dei ribelli. Poi, all’improvviso, Nolak guardò Erien: “Ecco l’arma che annienterà i guardiani, la chiameremo lamablu!”. Allora tutti proruppero in un grido di esultanza.
Una nuova arma, tanto resistente e affilata da perforare le corazze dei guardiani… come aveva detto a suo tempo il maestro Atanvar a Nolak, citando la profezia del Libro dei Duali. Non c’era bisogno di altre prove per riconoscere in Erien l’Eletta che li avrebbe guidati alla vittoria.
25.
“Perché non vuoi unirti a noi?” ripeté Nolak. “Continui a chiedermelo, ma io non capisco per quale motivo sia tanto importante” rispose Erien. “Prima non volevi neppure che imparassi a tirare di spada. Che cosa ti ha fatto cambiare idea? Il nuovo metallo che ho scoperto?” Intanto i ribelli si erano attivati per raccogliere sul fondo del laghetto la maggiore quantità possibile di quelle rocce prodigiose. Avevano interrotto gran parte delle attività per dedicarsi soltanto a forgiare spade di metallo blu. Le officine funzionavano a pieno ritmo. Divisi in gruppi, a turno raccoglievano legna e carbone, tenevano accese le fucine, colavano il metallo fuso nelle forme, battevano la lega sulle incudini e tempravano le lame nella cascata. Lui parve esitare. “Ho visto come ti muovi con la spada: con innata naturalezza! La scoperta di questo nuovo metallo è importante, perché per la prima volta possiamo perforare la corazza dei guardiani. Ma sono le tue visioni a renderti tanto importante per noi”. “E per te? Lo sono per te, Nolak?” “Lo sei, tanto che non riesco nemmeno a dirtelo”. Si spostarono verso l’esterno del rifugio per ammirare i grifoni crestati. Mentre camminavano, Erien gli appoggiò la testa su una spalla. “Non mi sento di unirmi a voi, non ancora. Capisco che abbiate dei motivi per ribellarvi alle Savie e ai guardiani, ma non riesco a condividerli. Se lo fi, sarei un’ingrata: tradirei l’affetto di Nepthya, che mi ha cresciuta”. Nolak la spostò con dolcezza e decisione domandandole: “Per te il potere delle Savie è giusto? Benché tu sia cresciuta nella Circolaria, dovresti aver capito come funziona questo mondo. Con la complicità dei nobili, Savie e guardiani sottomettono il popolo, costretto a pagare forti tributi per mantenere il loro stato.
E chi non gli ubbidisce viene gettato nel Pozzo dei Condannati dopo un processo-farsa. Per far confessare la gente e con la scusa di mantenere l’ordine, i guardiani sfogano la loro crudeltà praticando orribili torture. Anche Plumis, che non ha mai fatto del male a nessuno, è stato inseguito da quelle belve”. Erien ascoltò attenta. Nolak continuò: “Ziro e Leida lo hanno salvato; era ferito e lo abbiamo nascosto qui. Per scovarlo, i guardiani hanno messo a ferro e fuoco tutta Caleborn, distruggendo quello che trovavano sul loro cammino, torturando e uccidendo innocenti”. Erien strinse le mani. “Povere anime senza colpa, possa essere lunga e serena la loro prossima vita” bisbigliò. Soffriva, ma il giovane continuò impietoso. “Anche la dualità e la reincarnazione sono scuse per tenere il popolo sottomesso. Le Savie comandano e tramano al solo scopo di mantenere il proprio privilegio. E sono guidate da Nepthya, la potentissima Savia che governa la Circolaria e Caleborn. Quella che tu ritieni la tua cara madre, in realtà dà ordini al comandante Gurgon ed è stata vista più volte dirigersi verso la Fortezza”. Giunsero sullo spiazzo davanti all’entrata. Erien riuscì a vedere i grifoni crestati solo quando Nolak lanciò il richiamo e gli animali uscirono dagli alberi, tra i quali si mimetizzavano perfettamente. Si posarono davanti a loro. Erano tanto grossi da far paura, ma docili con i ribelli e anche Erien non li temeva. “Nolak, io ho molta fiducia in te e so che parli in buona fede. Ma… non posso credere che Nepthya comandi i guardiani. Certo è molto rigida, ma non cattiva. Almeno con me non lo è mai stata. Non posso credere che abbia una doppia faccia!” “Eppure hai visto anche tu com’era ridotto Ziro”. Il viso di Nolak si era indurito. “Lo sai che è stato torturato!” “Sono certa che Nepthya non lo sapeva!” Nolak accarezzò uno dei grifoni sul collo. L’animale voltò la testa di scatto, ma senza atteggiarsi a beccarlo.
“Allora ti dirò un’altra cosa; speravo di evitarlo, ma non mi lasci altra scelta. Abbiamo informatori ovunque e sappiamo sempre quello che succede a Caleborn e nei dintorni. Melisia è morta”. Erien si irrigidì. “Era stata portata alla Fortezza anche lei. Sembra che sia morta di crepacuore mentre la torturavano”. “Perché?“ Si morse il labbro. “Non può essere vero…” “L’avevano arrestata mentre si trovava alla Circolaria”. Nolak fece una pausa. “Credi davvero che Nepthya non ne sapesse niente?” “Ci dev’essere un errore! Non è possibile!” Una lacrima le solcò il viso. Poi, senza parlare, con rabbia disperata corse via senza voltarsi. I grifoni presero il volo strepitando. Egli non aveva mai notato che il loro verso pareva un urlo di dolore.
Temette di essere stato troppo duro con Erien. Nel tentativo di portarla dalla parte dei ribelli, non aveva considerato l’affetto che la legava a Nepthya. Doveva essere più prudente. Insistendo in quel modo correva il rischio che la ragazza potesse compiere qualche gesto inconsulto, come scappare dal rifugio e raggiungere Nepthya. Sarebbe stata una catastrofe. Scattò in piedi per raggiungere l’ingresso principale del nascondiglio. Di notte le sentinelle venivano raddoppiate, scambiandosi ogni quattro ore. Nolak parlò con Rodan, che comandava il turno, raccomandandosi di porre molta attenzione agli spostamenti di Erien. La ragazza non doveva avvicinarsi all’uscita. Rodan lo rassicurò e Nolak, più tranquillo, andò a trovare Ziro. Da quando avevano litigato a causa di Erien, Ziro aveva cambiato alloggio. Con lui c’erano Leida e il dottor Kervis. “Come ti senti?” domandò Nolak, sedendosi accanto al letto.
Appoggiato a un sostegno di pelli, Ziro era rilassato e pulito. “Benissimo” rispose sorridendo, “potrei anche alzarmi e combattere”. “Non se ne parla nemmeno” intervenne il dottor Kervis. “Le ferite non sono gravi, ma hai bisogno di riposo”. “Tu non devi far altro che ubbidire al medico. E zitto!” rincarò Leida. “Mi stanno coccolando come se fossi un bimbo in fasce” brontolò Ziro. Nolak sorrise, felice di riscontrare che il fratello sembrava del tutto ristabilito. “Hanno ragione di farlo”. Ziro lo fissò. “Se anche tu stai dalla loro parte, sono rovinato!” “Pensiamo tutti alla tua salute”. Seguì un momento di silenzio. Poi Leida dovette capire che i due amici desideravano rimanere soli e con la discrezione che le era consueta inventò una scusa per uscire, portandosi dietro il dottore. “Non ti ho ancora ringraziato” cominciò Ziro, “per avermi tirato fuori da quel posto terribile”. Nolak fece un gesto vago, per dimostrare che non era importante. “Sono io a dovermi scusare con te. Se ti ho tenuto all’oscuro di certi piani, non l’ho fatto per mancanza di fiducia nei tuoi confronti, ma perché ero vincolato da una promessa fatta ad Atanvar”. “Erien c’entra qualcosa con questi piani, vero?” domandò Ziro. “Quella ragazza è troppo importante; non dobbiamo assolutamente commettere errori. Ora non posso svelarti tutto, ma sappi che lei dev’essere convinta a unirsi a noi al più presto”. “Mi hanno raccontato che è davvero abile con la spada e che ha scoperto un metallo capace di forare la corazza dei guardiani. So tutto anche delle sue visioni incredibili: è per merito suo che siete riusciti a trovarmi”. “Vero, ma queste sono solo alcune prove dell’importanza di quella donna. Il vero
motivo è un altro: potremo sconfiggere Savie e guardiani soltanto se ella si unirà a noi”. “Capisco…” “Non darmi comprensione, Ziro”. L’altro lo fissò senza capire. “Non ho bisogno di comprensione, ma di un fratello”. Ziro gli strinse un polso, allo stesso modo di quando lo aveva visto nei sotterranei della Fortezza. E non ci fu bisogno di altre parole.
Nolak andò a riposare più sereno. Aveva ripristinato il rapporto con Ziro ed era sicuro che Erien non sarebbe scappata. Era lei l’Eletta, e lo stava dimostrando in tanti modi. Le parti della profezia andavano a posto: le parole di Atanvar, il racconto di Plumis, le doti incredibili della ragazza, il segno a spirale, tutto corrispondeva. Iniziava ad affezionarsi a lui e, con il tempo, si sarebbe convinta a unirsi ai ribelli; ne era certo. Perciò si stese sul letto con la convinzione che tutto stesse procedendo per il meglio. Non si aspettava quindi di essere svegliato all’improvviso. Voci allarmate si rincorrevano per tutto il rifugio. Pensando a Erien, Nolak si alzò di scatto. S’imbattè in Leida, che gli correva incontro affannata. “Plumis è scappato!” esclamò la ragazza. Nolak imprecò. Leida lo guidò verso l’uscita principale del rifugio, dove si stavano radunando diversi guerrieri. Rodan, steso a terra, pallido come un morto, aveva il viso imbrattato di sangue per una ferita alla tempia. Il dottor Kervis lo stava medicando.
Arrivò anche Ziro. Nolak domandò cosa fosse successo. Gli riferirono che mentre Rodan era di guardia Plumis si era avvicinato a lui. Senza sospettare nulla, Rodan gli aveva parlato per un po’; poi, appena si era distratto, girandosi da un’altra parte, Plumis l’aveva colpito alla testa. Rodan non ricordava altro. Era stata l’altra sentinella a trovarlo svenuto e a dare l’allarme. “Lo ha colpito con questo” disse Leida raccogliendo da terra un sasso per mostrarlo a Nolak. “Guarda, è ancora sporco di sangue”. “Strano” rifletté Nolak. “Plumis non è un violento e questo tipo di aggressione non è da lui”. Kervis obbiettò che i fatti dimostravano il contrario: la ferita di Rodan era stata provocata da un colpo secco e deciso, inferto senza esitazione. “In ogni caso” concluse Nolak, “la fuga di Plumis è un problema serio. Sa troppe cose su di noi, e se i guardiani lo troveranno, racconterà tutto”. Leida annuì. “Plumis non ha certo la resistenza di Ziro!” Nel frattempo Rodan si era ripreso. Anche se ancora pallido, appoggiandosi a Kervis poté rimettersi in piedi e seguire la conversazione. “Lo troveranno di sicuro” cominciò, “ricordate che c’è una taglia sulla sua testa? Suggerisco di prendere misure precauzionali: il rischio che corriamo è alto, i guardiani potrebbero aver già saputo dove ci troviamo”. In quel momento arrivò Erien correndo. Era stravolta. Si aggrappò al braccio di Nolak e disse gridando: “Dobbiamo andar via da qui! Ho sognato che i guardiani ci attaccavano! E’ orribile, uccideranno tutti!” Ci fu un momento di silenzio. Poi qualcuno esclamò: “E’ impossibile che arrivino! A meno che Ziro non abbia parlato!” Leida prese la spada. “Oppure uno di noi è un traditore! Potresti essere anche tu!” esclamò. Ziro alzò la voce: “Io non ho detto niente!”
“Non devi giustificarti e nessuno deve aver dubbi su di te” intervenne Nolak. Fissò il ribelle che aveva parlato finché questi non abbassò lo sguardo. “E invece di perdere tempo, cerchiamo di organizzarci. Tutti nella Sala dei Monoliti. Fate are parola, presto!”
L’assemblea si divise tra coloro che volevano fermarsi a combattere e coloro che volevano trasferirsi in un posto più sicuro. Alla fine prevalse la proposta di Rodan, che metteva tutti d’accordo e garantiva una via di fuga sicura. Nolak fu riluttante ad accoglierla, perché richiedeva una sacrificio notevole di vite. Eppure, quando si trattò di scegliere i volontari, si alzarono più mani del necessario. I ribelli si armarono in fretta e mentre correvano per il rifugio, chi per attrezzarsi, chi a prendere posizione, chi verso la grotta dei cavalli, giunse un’allerta dall’entrata principale. “Arrivano!” gridò la sentinella. “Stanno risalendo il sentiero!” I ribelli si divisero in due gruppi. Nolak, a capo di quello più numeroso, controllò che Leida, Rodan e Kervis gli stessero vicino. Poi lanciò un’occhiata preoccupata a Ziro. Con le redini in una mano, Ziro brandì la spada e sorrise. “Tutto bene, fratello!” Rassicurato, Nolak prese Erien per mano. “Restami vicino” le disse, “qualsiasi cosa succeda!”
26.
Gurgon era arrivato con i suoi soldati ai piedi della montagna nelle prime ore della notte. Da lì avrebbero dovuto iniziare la salita per giungere al rifugio. A un suo cenno la truppa si fermò. L’assalto era stato preparato nei minimi dettagli, a iniziare dalla scelta dei guerrieri migliori. Mancava solo l’ultima disposizione, la più importante. Nepthya non avrebbe tollerato sbagli. Gurgon si schiarì la voce. “Ascoltate: nell’attacco potrete uccidere tutti i ribelli, ma non la ragazza. Dovrete catturare Erien senza torcerle un capello. Non sono ammessi sbagli”. Un brusio si diffuse tra le file dei soldati che non comprendevano a fondo i motivi di quel comando. “Ve lo ripeto: chiunque tocchi quella ragazza non rivedrà la luce del giorno. Sono stato chiaro? Aspetto una risposta!” Gli occhi di Gurgon erano fermi e spietati. Gli uomini si guardarono l’un l’altro e risposero in coro: “Sì, signore”. Il comandante girò il cavallo e, seguito in silenzio dai suoi sottoposti, iniziò la salita verso il rifugio. Il chiarore lunare li aiutò a percorrere la stretta mulattiera. I cavalli, uno dietro l’altro, mantenevano la stessa distanza tra loro. Si percepiva solo il rumore misurato dei ramponi che sporgevano in basso, dietro ai ferri di cavallo, per fornire una maggiore presa sul terreno. Procedevano come se conoscessero il percorso, anche se in realtà era il loro istinto a guidarli.
Alla tenue luce della luna, le cime della montagna parevano sempre più vicine. Dopo qualche tempo il sentiero s’allargò e si trovarono in prossimità di uno spiazzo. Forse erano vicini al rifugio. D’un tratto Gurgon, in testa al gruppo, alzò il braccio e tutti si fermarono.
Guardando verso l’alto l’uomo scorse arbusti scuri e piante intricate. Dalle indicazioni ricevute da Rodan comprese subito che quello doveva essere uno degli ingressi al nascondiglio. Sorrise. Di sicuro, se le indicazioni non fossero state così chiare, nessuno avrebbe potuto immaginare che dietro quegli alberi si nascondesse una fenditura nella roccia. L’ingresso del rifugio era mimetizzato alla perfezione con l’ambiente circostante. Socchiusi gli occhi, Gurgon si concentrò. Regola quattro del Manuale: andare avanti, sempre; l’immobilità fa il gioco dei nemici. Scese da cavallo e si voltò verso gli uomini indicando, con un dito, una zona poco lontana. Fece capire che avrebbero lasciato i cavalli in quel luogo, per poi proseguire a piedi. Il silenzio sembrava innaturale; persino gli animali notturni non rivelavano la loro presenza. Dopo aver legato i cavalli, i soldati estrassero le spade, mettendo a punto anche le catene uncinate. Si disposero a raggiera e in piccoli gruppi si mossero verso l’ingresso, senza far rumore. Vicino alla zona cespugliosa una sagoma scura, con un cappello calato sul viso, pareva dormire. Gurgon alzò il braccio indicando l’individuo e, al suo cenno, un guardiano si portò avanti in silenzio. Con un movimento rapido affondò la spada, trafiggendolo da parte a parte, ma accorgendosi all’istante di essere stato ingannato. Arretrando di corsa, si portò a lato di Gurgon sussurrando: “E’ un fantoccio!” Il comandante capì subito: “Ci hanno teso una trappola, ci aspettavano!” Un rumore improvviso squarciò le tenebre mentre una moltitudine di uccelli scuri, dai becchi aguzzi, si materializzò sopra le loro teste. I grifoni crestati si libravano nel buio, emettendo suoni assordanti, per poi scagliarsi sui guerrieri, artigliandoli e colpendoli con il becco affilato. Erano enormi e ad ogni assalto puntavano agli occhi dei guardiani, cercando di strapparglieli dalle orbite, come se fossero stati addestrati a questo compito.
Gurgon, sbalordito, arretrò, urlando ai sottoposti di abbassare le visiere e ripararsi con gli scudi. “Non usate le spade, non servirebbero a nulla! Lanciate le catene!” Era stato colto all’improvviso da un evento inaspettato e si rese subito conto che sarebbe stata una battaglia difficile. Girando lo sguardo, vide che alcuni guardiani erano già stati feriti a morte e le bestiacce già divoravano le loro membra, straziandone i corpi. Si mise a correre e fece roteare la catena uncinata, colpendo un uccello e scagliandolo lontano. Ferito a morte, il rapace emise un urlo sguaiato, ancor più assordante degli altri, poi crollò a terra immobile. A quel punto gli altri guardiani, iniziarono a loro volta a roteare le catene nella speranza di colpire i predatori; quando i grifoni venivano intrappolati negli uncini e scaraventati lontano, si levavano stridori laceranti e prolungati. Alcuni si appostarono sui rami circostanti, emettendo senza sosta un gracchiare assordante e battendo le ali, pronti a lanciarsi di nuovo sulle prede. Lo scontro stava diventando una carneficina.
Muovendosi rapido, Gurgon raggiunse un gruppetto di soldati e ordinò loro di seguirlo. “Dobbiamo entrare nella grotta, ma tenetevi pronti a un assalto improvviso!” Roteando senza sosta la catena, cercando di crearsi un varco nel tumultuoso attacco dei rapaci, riuscì a introdursi nel rifugio seguito da una manciata di guerrieri. Alcune torce infilate nelle scanalature della pietra emanavano una luce soffocata. “State all’erta, i ribelli non possono essere lontani, saranno nascosti in attesa di attaccarci. Tenetevi pronti. Dovremo dividerci in gruppi, per avere più probabilità di stanarli”. Mentre pronunciava quelle parole, i guardiani, obbedendo agli ordini, si separavano in gruppi per controllare l’interno della grotta. Improvvisamente un boato li immobilizzò: grossi blocchi di pietra rotolavano verso di loro dall’alto
del rifugio con una forza inarrestabile, colpendoli con violenza e abbattendoli come spighe falciate dalla roncola. Mentre Gurgon cercava di incitare i suoi all’attacco, i ribelli uscirono allo scoperto, avventandosi sugli assalitori. Il combattimento vero e proprio ebbe inizio. Da una parte i ribelli, armati solo di spade e pugnali, si proteggevano con scudi artigianali; dall’altra i guerrieri corazzati lottavano con le teste riparate da elmi possenti e robusti. Sarebbe stato uno scontro all’ultimo sangue. Nonostante fossero in numero inferiore rispetto ai guardiani, i ribelli tentavano con tutte le forze di far fronte all’attacco.
Il clangore delle spade che sbattevano l’una contro l’altra era ininterrotto; ogni volta che i guardiani riuscivano a roteare le catene uncinate le urla dei ribelli, arpionati e lacerati, rimbombavano sinistre nella grotta. Gurgon, che aveva perso la catena, era ora impegnato in un corpo a corpo con un giovane ben addestrato e sentiva il sudore grondargli sul viso. Concentrato nello scontro era in difficoltà, anche se cercava di mettere in atto tutta la sua esperienza per annientare l’avversario. Ma la competenza unita alla fortuna giocarono a suo favore: finse un affondo, ma si spostò all’improvviso bloccandosi, facendo perdere l’equilibrio all’avversario che aveva cercato di parare il colpo. In un istante affondò la spada nel petto del ragazzo che, disorientato, si bloccò per un attimo, incredulo per quanto era accaduto. Cadde prima sulle ginocchia per poi crollare al suolo. Gli occhi rimasero spalancati mentre la morte lo portava con sé. Dopo aver trafitto l’ultimo dei ribelli, Gurgon, levandosi l’elmo e alzando la spada, richiamò i suoi uomini. “Cercate i feriti” ordinò, “per portarli alla Fortezza”. I guardiani si accostarono ai ribelli rimasti sul terreno, solo per constatare che erano tutti morti. Un uomo, che era solo ferito, si sollevò di scatto quando un
soldato lo tormentò con la spada; ma usò il pugnale che aveva in mano contro se stesso. “Hanno cercato la morte!” esplose Gurgon infuriato. Un gruppo di uomini annientati; ma i rivoltosi non potevano certo essere così pochi! E poi, dov’era la ragazza? Diede ai soldati l’ordine di sparpagliarsi all’interno del rifugio, di perlustrare ovunque, di seguire i cunicoli che conducevano di sicuro a grotte comunicanti. Dovevano cercare Erien e il narrastorie. E Ziro, aiutato a fuggire dalla prigione, che fine aveva fatto? I guardiani, divisi in gruppi ed esaltati dalla vittoria, esplorarono l’interno della grotta, radendo al suolo tutto ciò che trovavano, abbattendo i ripari, fracassando panche e tavoli, rompendo tutto, ma questo non servì a niente. Il rifugio era ormai deserto. Erien e Plumis, aiutati da altri, dovevano essere fuggiti prima del loro arrivo, certo lontano da quel posto. I guardiani avevano vinto la battaglia, ma erano stati raggirati e Gurgon non poteva sopportarlo.
27.
Plumis voleva raggiungere il porto di Veria e trovare un imbarco per le Terre Straniere. Si sarebbe offerto come intrattenitore della ciurma, narrando o cantando storie divertenti e forse, in cambio, il capitano avrebbe chiuso un occhio sulla sua presenza a bordo. E se, al contrario, si fosse nascosto nella stiva insieme ai ratti? In fondo si sentiva più simile a un topo che a un essere umano. Camminava evitando le strade e nascondendosi a ogni rumore, rimanendo immobile; solo gli occhi scrutavano con ansia tutt’intorno, come quelli di un sorcio perseguitato da un gatto. Dapprima aveva creduto che i guardiani lo stessero cercando perché Nepthya doveva averlo riconosciuto. Forse, quel giorno di tanti anni prima, da bambino, si era lasciato sfuggire un’esclamazione oppure aveva calpestato un ramo o fatto frusciare le foglie; non era sicuro di cosa fosse successo dopo aver visto la giovane praticante asse la Savia Anziana. Ricordava solo lo sguardo gelido che sembrava essersi posato su di lui. Allora era scappato come una lepre ferita. Ma da qualche tempo aveva cominciato a pensare che il motivo di tanto accanimento nei suoi confronti fosse un altro, magari legato a ciò che interessava anche Nolak. Il ribelle era riuscito a fargli ripetere le parole che la vecchia nel bosco Zafir aveva sussurrato prima di morire. Plumis era giunto alla conclusione che erano state quelle frasi a metterlo nei guai: lo stile era quello del Libro dei Duali, il contenuto quello di una profezia, quanto bastava per attirare l’attenzione delle Savie verso chiunque. Anche Erien doveva aver a che fare con quella rivelazione. Altrimenti, per quale motivo Nolak l’avrebbe portata con sé al rifugio? Plumis aveva intuito subito che non ne era innamorato, e non era solito sbagliarsi in quel tipo di faccende. Troppi problemi per un umile narrastorie. Aveva fatto bene ad andarsene. Sapendo di avere una taglia sulla testa, evitava ogni costruzione che somigliasse
a una casa. Persino i cani lo spaventavano, perché temeva che con il loro abbaiare potessero attirare l’attenzione dei padroni. Solo una volta non riuscì a trattenersi dall’arrivare vicino a una fattoria per cogliere un rametto di salvia; ma si allontanò subito, di corsa, piegato in due. Pensò a come fosse cambiata la sua vita. Un tempo, sarebbe arrivato cantando e ballando, avrebbe scherzato con gli adulti, giocato con i bambini e raccontato storie, per essere ricambiato con un pasto e una stalla per dormire. Era stato libero. Adesso era braccato e impaurito, schiavo degli eventi che si complicavano e lo obbligavano a nascondersi. E se fosse rimasto con i ribelli nel rifugio sulla montagna? Tra loro si era sentito al sicuro, e poi c’era Leida… la bellissima Leida! Ma era stato Rodan a dirgli che lì era in pericolo. I guardiani stavano per attaccare. Avrebbero fatto una strage. Per questo l’aveva aiutato a fuggire.
In genere solo gli occhi, immobili e freddi come biglie di vetro, tradivano la rabbia profonda di Nepthya. Non aveva mai urlato, ma quando Gurgon le riferì che Erien, Plumis, Nolak e gli altri erano sfuggiti all’attacco, nella Sala Chiara della Fortezza rimbombò un grido minaccioso. “Com’è possibile? Siete degli incapaci!” “Hanno previsto il nostro attacco” rispose Gurgon. Al contrario della Savia, la voce del comandante era priva d’espressione. “Forse Rodan ci ha traditi”. L’Anziana Superiora non rispose subito. Per lei era facile indovinare che doveva essere stata Erien a sognare l’attacco, a mettere in guardia i ribelli e forse anche a indicare come raggiungere la prigione di Ziro e consentire la sua liberazione. Strinse i braccioli della sedia con tanta forza da farsi male. Le capacità di Erien si stavano ampliando. Da principio le visioni erano confuse e inspiegabili, spesso orientate al ato, soprattutto verso la madre che non aveva conosciuto e quell’uomo biondo mai incontrato; ora sembrava invece che fossero più chiare, oppure che Erien fosse in grado di interpretarle con più facilità. Doveva aver “visto” l’attacco dei
guardiani con un anticipo tale da permettere ai ribelli di organizzare la fuga. Aveva cominciato a prevedere il futuro. La Savia avrebbe voluto consultare Kervis, ma anche il medico era scomparso. Il cadavere del servo Donago era stato ritrovato in fondo a un dirupo, sotto il sentiero che portava al covo dei ribelli; perciò era quasi certo che anche Kervis si fosse unito a loro. Nepthya avrebbe dovuto immaginarlo: sapeva quanto il medico fosse attaccato ad Erien. Entrambi l’avevano tradita. Tutto era successo nell’arco di una sola notte, troppo rapidamente perché la Savia ne fosse informata e potesse porvi rimedio. La profezia si stava avverando? No! Anche se il senso del pericolo le dava i brividi, lei era ancora in tempo a cambiare il corso degli eventi. “Pensiamo che i ribelli abbiano saputo in qualche modo che noi stavamo arrivando” continuò Gurgon, “e hanno organizzato la difesa. Ma c’è qualcosa che non quadra: tutti coloro che presidiavano il rifugio sono morti”. Nepthya lo fissò senza capire e il comandante spiegò: “Hanno cercato la morte in modo consapevole, evitando in tutti i modi di essere presi vivi. Temevano che noi riuscissimo a farli parlare”. “Perché dovevano nascondere qualcosa di molto importante” rifletté Nepthya, “oppure volevano proteggere dei compagni ancora liberi”. “Secondo noi, mentre alcuni ribelli si fermavano a combattere, gli altri erano scappati da qualche uscita segreta. Rimane da scoprire quanti sono quelli ancora in libertà”. Tra questi, di sicuro, c’erano Erien, Nolak e Plumis. “Trovateli!” scattò la Savia. “Utilizzate tutti i soldati disponibili!” Mezz’ora dopo quattro drappelli di guardiani uscivano dalla Fortezza per separarsi al primo bivio, diretti verso i punti cardinali. Dopo qualche miglio
ciascun manipolo si divise in tre gruppi, a ventaglio, in modo da controllare più territorio possibile.
I ribelli guidati da Nolak e Rodan, tra i quali si trovavano anche Erien e il dottor Kervis, allineati sulla cima di una collina osservavano preoccupati la vallata sottostante. Sotto di loro la vegetazione degradava in arbusti disseminati qua e là per poi lasciare il posto a una terra spettrale. “La Valle del Movimento” disse Rodan in tono sommesso, quasi ossequioso. “Vuoi proprio continuare?” Nolak esitò prima di rispondere. “Se i guardiani ci stanno cercando, non penseranno che siamo stati in grado di are da questa parte”. Tacque, mentre la mancanza di un qualsiasi rumore li opprimeva. Sul suolo giallo pallido, quasi fluorescente, si formavano avvallamenti, alture, rughe e coni scuri, come se un fuoco rigettato dalla terra si fosse rappreso in forme allucinanti. Nubi scure nascondevano il sole e il cielo opaco stendeva sulla terra un velo di nebbia dal quale emergevano solo le punte scure delle alture lontane. Il silenzio era assoluto: sembrava che la vita non potesse vincere tanta desolazione. “E’ la strada più sicura per noi” continuò Nolak. Rodan fece una risata nervosa. “La strada più sicura!” ripeté ironico. “Non c’è acqua per più di un giorno e la valle pullula di sketha!” Nolak non rispose. “Cosa sono gli sketha?” domandò Erien, innervosita dall’atmosfera cupa. “Carnivori che si nutrono di carogne” Rodan continuava a guardare Nolak. “Ma il peggio della Valle del Movimento è un altro…” Mentre stava parlando il paesaggio della vallata che avevano davanti cambiò. Le rocce sparirono e le alture s’affossarono mentre si innalzavano nuove guglie sassose, dove poco prima c’era solo sabbia. Nell’arco di un minuto, senza alcun
rumore, si formò un altro paesaggio. I ribelli sconcertati osservavano quello spettacolo inspiegabile. “Eccolo, il peggio” concluse Rodan con voce incerta. “La valle cambia forma e colore mentre il terreno diviene mobile. I mutamenti sono imprevedibili. Il cielo è sempre coperto e non ci si può orientare né con il sole né con le stelle. Ci si perde, si muore di sete, e gli sketha banchettano”. Un pinnacolo scuro cambiò colore e s’inclinò; come un fiore apito si afflosciò fino a terra e si sciolse lento in una pozza di sabbia rossastra. “A me non mette paura” replicò Erien, pensando che quel luogo aveva un fascino strano. Nolak stese un braccio di fronte a sé. “Le montagne in fondo, dietro la nebbia, saranno il nostro riferimento” dichiarò con calma. “Se tutti prestiamo attenzione, saremo in grado di scorgere quando sta per iniziare un cambiamento del paesaggio. I mutamenti sono preceduti da piccoli vortici nella sabbia e dalla sua progressiva variazione di colore. A questi segnali dovremo spostarci con rapidità dove il suolo è immobile. E’ difficile, essendo in gruppo, non riuscire ad accorgersi di questi segni e comunque se qualcuno dovesse cadere, saremmo subito in grado di soccorrerlo, prima della metamorfosi definitiva”. Nessuno ribatté. “Punteremo verso la cima più alta finché non avremo oltreato la vallata; poi ci dirigeremo verso ovest, per raggiungere il Taskim e ricongiungerci con il gruppo di Ziro e Leida. Razioneremo l’acqua, abbeverando prima i cavalli, e cercheremo di tenere a bada gli sketha. Possiamo farcela: siamo bene armati e addestrati”. Tutti erano d’accordo con lui. Erien ebbe l’impressione che adesso fossero meno preoccupati di prima; anzi, sembrava che la sfida li spingesse a proseguire. “Sono curiosa di vederli, questi sketha!” esclamò una donna. “Io, invece, spero proprio di non incontrarli!” rispose un altro. Si avviarono nella vallata, uniti e guardinghi; solo Rodan rimase indietro. Erien fermò il cavallo per voltarsi a guardarlo.
L’uomo non si scorgeva più. La ragazza stava per chiamare Nolak quando il nobile spuntò dalla cima della collina sul cavallo al galoppo. Doveva aver cambiato idea; teneva il cappello in mano e lanciava il grido di battaglia dei ribelli. Gli altri lo imitarono. La Vallata del Movimento si riempì dei richiami dei grifoni crestati.
Non fu facile però mantenere la direzione giusta. A volte anche le montagne lontane scomparivano dietro la coltre di nebbia e i ribelli erano costretti a procedere per istinto, lasciando andare i cavalli, per poi correggere la marcia quando le vette si ripresentavano. Procedettero in quel modo per tutta la mattina. Capirono che era quasi l’ora mediana quando una macchia chiara tra le nubi indicò la posizione del sole e si fermarono per far riposare i cavalli. L’aria era pesante e immobile, ma tiepida. Solo Nolak conosceva il punto di incontro con il gruppo di Ziro e Leida; agli altri aveva soltanto riferito che si trovava su una delle rive alte del Taskim. Ma da qualche ora, Erien aveva davanti agli occhi l’immagine di un vecchio. Il viso era raggrinzito, sciupato, con le orbite scavate, più simile a un teschio che a un volto. Era immobile; solo i capelli bianchi, lunghi e fini, sembravano allungarsi e spostarsi al vento. Durante la sosta la ragazza prese Nolak da parte e gli raccontò quello che stava vedendo. “Non rivelarlo agli altri” si raccomandò il giovane. “Ciò che descrivi è la Chioma d’Acqua, la cascata che forma il Taskim gettandosi nell’Endro. E’ il punto di ritrovo”. “Anche Ziro e Leida stanno andando da quella parte? E’ lì che vivono gli altri ribelli?” Erien era più tranquilla: adesso la sua visione aveva un nome e un perché. “Sì, il nuovo rifugio si trova su una delle rive rocciose del Taskim, poco prima della cascata. Lo scoprimmo io e Ziro per caso, quando eravamo ragazzi. Le persone che ci vivono non sono numerose, ma abili e capaci. Nessun altro sa dove si trovino, a parte me e Ziro; e adesso anche tu”.
“Perché non vuoi che gli altri lo sappiano?” Erien era felice di quella dimostrazione di fiducia che lui le concedeva. Aveva infatti l’impressione che Nolak non le fosse poi così affezionato come sosteneva. In alcuni momenti la sfuggiva, in altri era troppo premuroso. A volte pareva nascondere qualcosa di oscuro, come se avesse un secondo fine. Questo la lasciava incerta e avvilita anche se poi lui riusciva a rassicurarla. Perché, si chiedeva Erien, nelle mie visioni lui non c’è mai? E’ strano… “Non voglio che lo sappiano per prudenza” rispose Nolak, distraendola dai pensieri. “Ci siamo divisi in due gruppi perché, se i guardiani ne trovano uno, l’altro possa giungere al nuovo rifugio senza pericoli. Altrimenti il sacrificio dei compagni che si sono fermati a combattere sarebbe stato vano”. “L’hanno fatto con consapevolezza, per il popolo” disse Erien mentre ripensava ai loro volti. “Sono rimasti senza lameblu e nessuna speranza di riuscire a perforare le corazze dei guardiani. Hanno sacrificato le loro vite per salvare le nostre!”.
All’improvviso scorsero un piccolo mulinello nella sabbia, che nel contempo variava di tonalità diventando più chiara. Nolak, alzando un braccio, bloccò il gruppo. “Dobbiamo spostarci, subito, da quella parte” disse dopo essersi guardato attorno e indicando un posto fermo. Stava avvenendo un mutamento. Il gruppo si ritrovò dopo pochi minuti al sicuro in una zona poco distante. La collina, dove avevano sostato poco prima, divenne prima un affossamento, poi le rocce si ingrandirono e sbiadirono fino a diventare bianche. Un attimo dopo si sfarinarono ricoprendo di nuovo la fossa. Tutto si compì in un silenzio disarmante e con tanta rapidità che Erien si trovò il cuore in gola. Quei cambiamenti erano molto frequenti e improvvisi; senza quei piccoli segnali nulla avrebbe fatto prevedere una trasformazione radicale e questo rendeva la valle simile a un incubo. E via via, la ragazza non ne fu più tanto affascinata.
Nolak riprese il discorso con Erien interrotto poco prima: “Non era possibile lasciare le lameblu ai compagni rimasti nel rifugio: sono le nostre uniche armi contro le corazze e non potevamo utilizzarle in uno scontro già perso. Inoltre, per avere il tempo di andare al nuovo nascondiglio e riorganizzarci, dovevamo far credere ai guardiani di aver preso o ucciso la maggior parte di noi”. “Ma i soldati devono essersi accorti che tu e Ziro mancavate”. “Infatti Gurgon avrebbe dovuto pensare che, se noi fossimo rimasti in pochi, la rivolta sarebbe finita in breve tempo". Nolak sorrise. Erien lo fissò amareggiata. “Come puoi sorridere, sapendo che tanti dei tuoi compagni sono morti? A volte sembri così freddo e insensibile…” Un urlo improvviso la zittì e subito dopo Nolak corse verso quel suono con la spada in mano: uno strano animale aveva afferrato una donna per un piede e la stava trascinando nella povere. Il colore della sua pelliccia era uguale a quello della sabbia. I ribelli correvano gridando, con le spade sguainate. I movimenti della belva erano lenti. Si era spostata tra le rocce bianche, ma gli uomini riuscirono a raggiungerla, a circondarla e ucciderla. Il dottor Kervis, madido di sudore, si chinò sulla donna aggredita per soccorrerla. Sollevò il volto preoccupato verso Nolak: la ferita era orribile, il piede fatto a pezzi. “Sketha!” esclamò Rodan. “Devono essere affamati, per aggredirci in questo modo”. “Attenti!” gridò qualcuno. “E’ una trappola!” Gli sketha uscirono da dietro i massi chiari, circondando gli umani. Erano rimasti in agguato mentre il primo trascinava la donna verso il branco. Restarono fermi per qualche secondo; poi, all’improvviso, con una rapidità impensabile, aggredirono i ribelli da tutti i lati. Le rocce s’infossarono nel terreno e la sabbia diventò quasi nera; le pellicce degli sketha si scurirono allo stesso modo. Ora correvano rapidi, animando la valle di figure goffe, pelose, con il muso largo e i denti affilati. Si confondevano tanto bene con il terreno intorno che solo il loro movimento era percettibile.
I ribelli sferzavano l’aria con le spade, voltandosi in fretta verso l’animale più vicino, che emetteva un verso atroce quando veniva colpito. Grida, richiami, ombre in movimento, corpi che mutavano e occhi gialli. Il sangue scorreva abbondante. I cavalli terrorizzati s’impennavano scalciando e girando su se stessi. Alcuni sketha cercarono di avvicinarsi a loro, ma gli zoccoli li tennero a distanza, finché uno dei terribili carnivori saltò sul dorso di un cavallo azzannandolo alla gola. “I cavalli!” gridò Nolak, infilando la spada nel fianco di uno sketha. “Qualcuno li protegga!” Alcuni ribelli si spostarono verso i puledri, mentre Nolak, Rodan e gli altri tenevano a bada il grosso del branco. Erien, con la lamablu in mano, era rimasta inorridita, un po’ in disparte, senza sapere cosa fare, guardandosi intorno. Uno sketha si staccò dal gruppo e corse nella sua direzione. Lei lo fissò impietrita dallo spavento. Fu Nolak a muoversi e a mettersi davanti a lei. Lo sketha saltò e la spada del ribelle gli trafisse la spalla. Gemendo e ringhiando l’animale gli balzò addosso. Entrambi rotolarono nella polvere. Il giovane cercava di recuperare la spada conficcata nell’animale, ma la bestia, resa ancora più feroce dalla ferita, gli assestò una zampata sul braccio. Le unghie acuminate gli lacerarono la carne. Lo squarcio esteso e profondo sanguinava copiosamente, ma Nolak, con la forza della disperazione, recuperò il pugnale dal fodero sotto il ginocchio, conficcandolo nell’occhio dell’animale. Lo sketha si accasciò esanime. Nolak era rimasto incastrato sotto il carnivoro e dovettero aiutarlo perché potesse rialzarsi. “Sei ferito…” gli disse Erien, preoccupata, appena fu in piedi. Nolak rispose distrattamente. “Solo qualche graffio.” Rigirò la lamablu. “Niente male” mormorò infine. Dopo la scoperta di quelle rocce particolari, aveva forgiato anche per sé un pugnale e ora aveva avuto modo di provarne la solidità e la forza. Erien si allontanò, rattristata dal fatto che lui non le avesse neppure dato ascolto. Come poteva Nolak essere così indifferente? Due morti e quattro feriti; tra questi la donna, trascinata via per prima, che
rischiava di perdere il piede. Un bilancio assai tragico. Tutt’intorno si trovavano i corpi di dodici sketha abbattuti; il resto del branco era scappato. Per fortuna il seguito del viaggio si svolse senza incidenti, benché rallentato per far riposare i feriti. Prima del tramonto i ribelli si erano lasciati alle spalle la Valle del Movimento, dirigendosi verso un bosco per trascorrervi la notte. Erien si voltò a guardare la vallata: ora era verde e piatta come un foglio di carta, una distesa uniforme di cui non si scorgevano i confini. Gli sketha non si vedevano; ma la ragazza sapeva che erano acquattati da qualche parte, quasi invisibili, in attesa della preda.
28.
Nonostante la marcia forzata, i feriti non si lamentavano. Anche la donna colpita al piede sopportava senza protestare le medicazioni del dottor Kervis. I ribelli organizzarono il bivacco per la notte nel bosco che dominava la Valle del Movimento. Per evitare di essere trovati dai guardiani non accesero il fuoco e mangiarono carne secca; scoprirono un torrente da cui attingere l’acqua fresca e questo bastò a rallegrarli. A volte le anime semplici sono le più grandi, pensò Erien, che cominciava a stimare e ammirare quella gente. Tuttavia ebbe modo di arrabbiarsi quando Nolak organizzò le guardie notturne, escludendola dai turni. “Pensavo di essere come gli altri” ribatté seccata. Nolak rispose sullo stesso tono. “Ma non lo sei. Quando ti ho chiesto di unirti a noi, mi hai risposto che non ti sentivi pronta, perciò non puoi pretendere altro”. “Ogni cosa ha il suo tempo” replicò lei, “sei tu che devi imparare a rispettare i tempi degli altri”. “Dovresti smetterla di comportarti come una bambina viziata” ribatté Nolak. “Hai detto bene: non sono ancora una di voi e tu non sei il mio capo!” Mentre il buio calava, Erien si allontanò senza indugio. Arrivò fino al limite della radura dov’erano accampati e sostò dietro un cespuglio, dove sedette per terra, giocherellando con un rametto e spezzandolo in parti sempre più piccole. “Posso sedermi?” domandò Kervis che l’aveva seguita. Ella alzò il viso per guardarlo. “Sei quasi un padre per me, certo che puoi”. “Mi spiace vederti così inquieta”. “E’ colpa di Nolak” si sfogò Erien, “a volte mi tratta come se fossi fatta di vetro”.
“Forse pensa soltanto di tenerti lontana dai pericoli”. Il medico sedette accanto a lei, guardandola comprensivo. “A volte pare che si aspetti qualcosa da me, ma non capisco di cosa possa trattarsi”. All’improvviso si levò un suono strano, seguito da un altro simile. La ragazza sussultò e anche Kervis scattò in piedi, ma subito si tranquillizzarono accorgendosi che i ribelli erano invece rimasti calmi ai loro posti. Dovevano essere stati i richiami di un animale notturno. “In che senso?” domandò il medico, rimettendosi seduto. “Talvolta sento di essere soltanto utile a Nolak, quasi fossi uno strumento che gli serve per qualche motivo”. Erien gettò via il ramo e ne staccò un altro. “Ho spesso l’impressione di essere un oggetto, di esserlo sempre stato, anche per Nepthya. Temo che non mi abbia voluto bene, ma tenuta con sé solo per un fine preciso. E questo non lo sopporto”. Erien non pianse, ma aveva la voce esitante. “Non devi deprimerti” rispose il medico, “o pensare che non meriti l’affetto di qualcuno e che gli altri ti si avvicinino solo perché servi a uno scopo. Sei una persona meravigliosa, ma non riesci a dimostrarlo a te stessa. Devi avere più fiducia nelle tue possibilità.” Nella notte chiara Erien distingueva i lineamenti del medico e il suo sguardo indulgente. Sorrise senza allegria. “Sono contenta che tu sia qui. So che mi vuoi bene e non hai un secondo fine”. Kervis tacque ed ella ebbe la strana sensazione di averlo in qualche modo ferito. Quando lui la aiutò ad alzarsi da terra, Erien si accorse che il medico aveva le mani fredde e umide.
Qualche lucciola brillava nella radura. I ribelli dormivano; solo l’uomo di guardia e Kervis erano svegli, uno cercando di non cedere al sonno e l’altro disperandosi di non riuscire a farlo. Troppi pensieri nella testa.
Era una fortuna che l’empatia di Erien non fosse mai riferita a lei stessa, altrimenti li avrebbe scoperti tutti: Nolak, Nepthya e lui, che la usavano, ognuno per un suo fine.
* * *
Fin dalla prima notte, quando la Savia Nepthya lo aveva fatto chiamare per ricevere consigli su come allevare la piccola, Kervis aveva intuito che nascondeva qualcosa. Perché tenere nella Circolaria quella trovatella, quando sarebbe stato più ovvio affidarla a qualcuno in paese? Molte coppie desideravano figli e sarebbero state contente di adottare una bambina. Ma Nepthya aveva deciso di farla crescere con lei e la scusa che fosse la reincarnazione della Savia morta era poco credibile. Da principio il medico aveva accettato di seguire la piccola solo per scoprire qual era il segreto che la Savia Anziana nascondeva. Poi, visitando la bimba, aveva notato il segno a spirale e aveva dovuto fare appello a tutta la sua capacità di autocontrollo per rimanerne indifferente. Era ciò che stava cercando da oltre duecento anni. Erien avrebbe spezzato la maledizione di Adania, la donna bellissima con gli occhi misteriosi e diversi, attraente e imprevedibile, orgogliosa e impertinente. Kervis se n’era invaghito alla follia e ava le notti insonni pensando soltanto a lei. Ma Adania l’aveva tradito e lui, ferito nell’orgoglio, l’aveva fatta accusare di stregoneria. Torturata e condannata a morte aveva urlato contro di lui poco prima di morire, fissandolo con quegli occhi incantatori: Che tu sia maledetto! Io ti costringerò a vivere nel mio ricordo per l’eternità, senza trovar mai quiete. E per quante volte tu possa rinascere avrai memoria di ogni vita ata, ogni minuto, ogni parola, ogni gesto. Ricorderai nascite, amori, sofferenze e morti. Tutto questo ogni giorno per un tempo senza fine. Vivrai perseguitato dalle tue stesse vite! Solo la mia discendente, che porterà sul corpo il segno a spirale, potrà spezzare questa catena: se lei ti ucciderà si concluderà l’eterno ciclo e tu potrai infine ottenere la pace.
Kervis aveva riso; più che una maledizione gli era parso un regalo: sarebbe stato immortale! Soltanto dopo essere morto e rinato, aveva scoperto che quella non era eternità, ma una tortura senza tregua. Invecchiava, moriva e si reincarnava con tutti i ricordi delle vite precedenti. Rammentava soprattutto di essere morto diverse volte, e quel pensiero non lo abbandonava mai; solo lui, tra tutti gli uomini, ne conosceva il significato. Un martirio senza fine. Ogni volta che accadeva si avvicinava sempre più alla pazzia; perciò aveva cercato in tutta la Dualia la reincarnazione di quella donna che l’aveva condannato e la sua discendente col segno a spirale che l’avrebbe liberato. Neppure il suicidio poteva salvarlo. Duecento anni di punizione, finché vedendo il segno a spirale sulla piccola Erien, era iniziata la sua speranza. Stentava quasi a crederlo. E un giorno, con la pubertà, erano cominciate le visioni della giovane: una notte Erien aveva sognato la madre, descrivendola con gli occhi di colore diverso. Kervis non ebbe dubbi: Erien era la persona che stava cercando. Da allora la sorvegliava. Attendeva il momento opportuno per raccontarle tutto e per supplicarla di rompere la maledizione. Lei era buona e lo avrebbe accontentato. Kervis era stanco. Desiderava solo l’oblio, il sonno privo di pensieri e di ricordi: la pace.
* * *
Quella notte Erien rivide in sogno la madre, come da tempo non le succedeva. Non poteva certo ricordarla, eppure sentiva che quella donna fosse lei. Era bella: i capelli scuri scendevano incolti sulle spalle incorniciando un viso sottile, dal sorriso tenero; gli occhi, uno azzurro e l’altro scuro, davano un’espressione diversa alle due metà del viso, quasi fossero stati due volti riuniti. Sua madre la stringeva a sé e la cullava, chiamandola ”il mio bambino”. Erien si accorse di essere vestita come un maschio con pantaloni e casacca; un grembiule femminile, troppo piccolo per lei, era appeso accanto al letto. Ne domandò il motivo, ma la mamma non rispose. Cominciò a piangere in silenzio.
Le lacrime scendevano copiose senza alterarle il viso. Era un pianto provocato da un dolore profondo, una pena continua e senza speranza che le riempiva i giorni. Erien le accarezzò il viso inumidito e la madre la strinse a sé. In quel momento giunse un uomo senza volto. Erien ne era spaventata, ma la madre la tranquillizzò. Disse che dovevano andare a raccogliere frutta nel bosco; prese un cesto e uscì di casa, dirigendosi in fretta verso gli alberi. Tra le piante cantò un motivo triste, camminando a piedi nudi sulle felci bagnate e morbide. Era veloce e in poco tempo scomparve dalla vista; Erien ne seguì la voce, ma presto non riuscì più a sentirla. Chiamò, gridò, pianse. Rispose soltanto un’eco. Confusa e spaventata, continuò a chiamarla, tra gli alberi che il buio trasformava in creature mostruose.
Erien si svegliò in un mare di lacrime. Per un po’ restò immobile tra le coperte, attendendo che il respiro le si calmasse. Stentava a separarsi dai sogni e rientrare nella realtà: paura e angoscia le rimanevano dentro a lungo. Dovette concentrarsi per ricordare che adesso si trovava nel presente, tra i ribelli accanto a Nolak, che non era più sola e neppure piccola. Quando immaginava la mamma la vedeva sempre uguale o comunque con trascurabili varianti. Nepthya le diceva che si trattava solo di un sogno, poiché la giovane non poteva ricordare sua madre: era stata trovata appena nata in un cesto lasciato davanti alla Circolaria. Quando le Savie avevano indagato a Caleborn, non erano riuscite a scoprire nulla. Si pensava che a metterla a mondo fosse stata una viandante, morta poi in qualche punto inaccessibile del bosco Zafir. Eppure, tanti particolari così precisi e ricorrenti non potevano rappresentare solo fantasie. Erien guardò Nolak, che dormiva poco distante da lei e allungò una mano per toccarlo quasi a essere rassicurata da quel contatto. Ora l’affanno era diminuito e si era ripresa dallo spavento. Molti russavano e il concerto di fischi e borbottii le strappò un sorriso. Si rigirò tra le coperte per osservare le lucciole, accorgendosi che l’uomo di guardia si era appisolato. Si chiese se avesse dovuto andare a svegliarlo, invece non si mosse, perché in quello stesso istante notò Rodan
alzarsi dal suo giaciglio e allontanarsi dal campo. Il suo modo di fare le parve misterioso, quasi sospetto. Il tempo ò e il ribelle non fece ritorno. Aspetterò ancora un po’, decise infine Erien, poi sveglierò Nolak.
La notte era chiara e Rodan non incontrò difficoltà. Aveva riconosciuto subito i richiami, ma aveva dovuto attendere prima di agire. La sentinella appoggiava la testa sulle mani, prossima al sonno, poi si riscuoteva e si raddrizzava. Rodan attese con pazienza che si addormentasse, perché così avrebbe potuto allontanarsi senza troppi rischi. Tutti dormivano tranquilli, solo Erien aveva il sonno agitato. Si girava e si lamentava, o pronunciava parole senza senso. Quella ragazza gli metteva quasi paura. Con quelle capacità strane sembrava che potesse vedere lontano nel tempo e nello spazio, e più di una volta Rodan aveva temuto di essere smascherato da lei. Spesso Erien lo aveva guardato come se gli leggesse nella mente, come se sapesse tutto e gli domandasse perché. Ma lui era determinato a fare quello che doveva. L’uomo di guardia si era appisolato. Il nobile dette un ultimo sguardo tutt’intorno; ora anche Erien, girata sul fianco, dormiva tranquilla. Finalmente in grado di proseguire, Rodan si diresse verso il luogo d’origine del richiamo. I due guardiani, inviati da Gurgon, lo aspettavano per accompagnarlo dal comandante che voleva parlargli. Dopo circa un'ora di cammino lo raggiunsero al luogo concordato.
* * *
Gurgon era un uomo tutto d’un pezzo, cresciuto in una famiglia in cui l’ordine e il rispetto erano i concetti basilari del padre. La madre, priva di personalità, era
succube del marito, cosicché l’educazione del figlio era stata gestita soltanto dal padre, che per lui aveva già programmato una carriera militare. Il ragazzo nutriva per il genitore ammirazione e timore. Aveva deciso di diventare un soldato esemplare, studiando con impegno il Manuale dei guardiani, al quale si atteneva in modo meticoloso. L’ideatore, secoli prima, aveva riassunto in meno di cento Regole il comportamento ideale di un soldato: direttive che riguardavano tutti, dal primo comandante all’ultimo soldato, enunciando principi indiscutibili, che spesso andavano interpretati a seconda delle circostanze. Ma il giovane possedeva una sorta d’intuito innato che gli permetteva di trovare a colpo sicuro la giusta applicazione, precisa e priva di dubbi. Tra i soldati girava voce che il comandante fosse la reincarnazione dell’autore leggendario del Manuale.
* * *
Gurgon voleva sapere da Rodan quanti fossero coloro che erano sfuggiti all’attacco, se Erien, Plumis e Nolak si trovassero ancora con loro, dove fossero diretti e se contavano di essere raggiunti da rinforzi. “I segni che hai lasciato per la strada non erano chiari: abbiamo faticato a trovarli e seguirli” lo ammonì. “E’ stato difficile collocarli: avevo paura che mi scoprissero” rispose l’altro balbettando. Rodan aveva paura di lui e Gurgon sapeva che non avrebbe cercato di ingannarlo. Era la Regola dieci del Manuale: per non avere sorprese da nessuno, un guardiano deve farsi rispettare dai compagni e temere dai civili. “Si sono divisi in due gruppi che seguono strade diverse, uno al seguito di Nolak e l’altro di Ziro” continuò Rodan. “Nessuno dei due conosce la strada intrapresa dall’altro gruppo per giungere al punto d’incontro. Sono circa quaranta persone in tutto. “Solo Nolak e Ziro conoscono con precisione il punto di ritrovo; agli altri hanno
detto che si trova su una riva del Taskim e che è ben nascosto. V’è un terzo gruppo, ma non so quanti siano, perché non ne avevano mai accennato prima. La ragazza e il medico sono qui, ma il narrastorie è riuscito a fuggire”. “Tu ignori troppe cose”. “Sto dicendo il vero”. “Se così non fosse, te lo farei sputare a forza”. L’altro tacque e Gurgon sfruttò la pausa per riflettere. Gli ci volle poco per capire che gli conveniva continuare a seguire il gruppo di Nolak e mandare messaggi alle altre pattuglie di guardiani ordinando di convergere tutti verso il fiume Taskim, il più in fretta possibile. Quando gli fosse giunta la notizia sicura che i ribelli si trovassero tutti riuniti, li avrebbe attaccati in massa. Prima, però, c’era altro da fare. Gurgon ordinò ai soldati di smontare le tende: si sarebbero subito messi in marcia per avvicinarsi alla zona dei rivoltosi. Abbandonando corazze e catene uncinate, il cui rumore avrebbe potuto tradirli, avanzarono a piedi, guidati da Rodan. Per non farsi sentire, procedettero cauti, attenti a non scivolare, sfruttando ogni pianta come riparo, trascinandosi per terra e a volte avanzando carponi. Giunti a destinazione rimasero immobili tra gli alberi che delimitavano la radura, pronti a cogliere il primo movimento sospetto. Tutto taceva e il fuoco era quasi spento. “Devono sentirsi sicuri che nessuno li segua” notò uno dei luogotenenti di Gurgon. “Ma dove sono i cavalli?” domandò. Gurgon imprecò: “Maledetti!” Sguainò la spada e mentre correva verso il bivacco gridò agli altri di seguirlo. Raggiunto l’accampamento si voltò e fissò i guardiani che erano rimasti a guardarlo. “Rodan!” ringhiò. Fu sufficiente, affinché i soldati si muovessero e circondassero rapidi il nobile, bloccandolo. Lo portarono davanti al comandante.
“Spiegamelo!” ordinò Gurgon rabbioso, ma fermo. “Come hanno fatto a sapere che li stavamo seguendo?” “Dev’essere stata la ragazza ad avvertirli: lei ha degli strani poteri…” Il comandante, che nel frattempo si era infilato il guanto di ferro, lo interruppe con un manrovescio. “Sei stato tu ad avvisarli!” L’altro portò una mano alla bocca. Il colpo lo aveva buttato a terra e gli aveva spaccato un labbro. “No!” esclamò con voce rotta. “Io non gli ho detto niente! Lo giuro!” Gelido, Gurgon si rivolse ai guardiani. “Fate alzare quel traditore e dategli una lezione”. I soldati lo circondarono e lo tempestarono di pugni. Ogni volta che cadeva lo rimettevano in piedi e riprendevano a colpirlo. Questo gioco crudele durò fino a quando lo fecero crollare a terra privo di sensi. “Basta” ordinò Gurgon; “deve restare vivo. Fatelo riprendere, in fin dei conti è sempre un nobile e potrebbe esserci ancora utile”. Ordinò poi che si accendessero le torce. Intanto una nuvola aveva nascosto la luna e la notte era diventata buia, ma potevano mettersi ugualmente alla ricerca dei fuggitivi. Mentre alcuni di loro tornavano indietro a prendere i cavalli, altri uomini illuminarono il terreno.
29.
Dopo una consultazione veloce, i ribelli al seguito di Nolak decisero di proseguire verso il fiume Taskim senza più sostare, presumendo di essere braccati dai guardiani guidati da Rodan, il traditore. Era stata una decisione dura, ma necessaria. Lungo un centinaio di miglia, il Taskim scivolava tra sponde piane e sabbiose per la maggior parte del suo corso. Nell’ultimo tratto invece rombava tra pareti di roccia ripide, formando una gola profonda, dove il sole stentava ad arrivare, e terminava gettandosi nell’Endro con la cascata della Chioma d’Acqua. “Il aggio che porta al rifugio è ben nascosto” disse Nolak, “ma i guardiani incalzano, e se non riusciamo a distanziarli potrebbero scoprire dove si trova. Dobbiamo essere più veloci di loro, a costo di sfiancare i cavalli”. Il tragitto fu un incubo. Cavalcarono senza mai fermarsi per oltre un giorno, a un’andatura costante; chi rimaneva indietro, per qualsiasi motivo, doveva recuperare lo svantaggio in breve tempo. Alcuni feriti vennero legati alle selle per evitare che, a causa dell’enorme sforzo, potessero cadere. La donna ferita dagli sketha sopportò per qualche tempo quel ritmo insostenibile, poi si arrese, restò indietro e non si vide più. Aveva scelto di fermarsi per non rallentare la corsa degli altri. Giunti alla Chioma d’Acqua, Erien era esausta tanto da non riconoscere il posto apparso nella sua visione. Il Taskim si gettava nell’Endro da uno sperone alto, che era stato scavato dall’acqua come un viso grinzoso. Orbite aperte verso il nulla, bocca contratta in una smorfia, fessure profonde erano rughe sul volto cadente di un vecchio. La cascata scendeva dai lati formando fasci bianchi che parevano capelli sottili. Sotto la rupe un lago molto profondo, dall’acqua scura come quella di un pozzo, ridiventava in seguito il fiume Endro. “Coraggio, un ultimo sforzo!” disse Nolak. La ragazza non si rese conto che quelle parole erano rivolte a lei. Come in un sogno, fece un tratto in salita, lungo una strada invisibile che s’inerpicava sulla
riva rocciosa del fiume, e scese da un sentiero tra alti crinali appuntiti, infiammati dal sole al tramonto. Sentì solo che qualcuno la stava aiutando a scendere da cavallo e la costringeva a camminare. L’ultimo ricordo cosciente fu un giaciglio, su cui crollò in un sonno profondo e senza visioni.
Svegliatasi a mattina inoltrata, in uno spazio circolare, vuoto, con le pareti di pietra, vide che dall’apertura entrava una luce sbiadita; da lontano giungevano voci umane e lo scroscio incessante di un fiume. Erien aveva la schiena indolenzita e fece fatica a camminare per affacciarsi alla fenditura nella roccia. Tra i muri rotondi un viottolo scendeva a scalini irregolari, verso uno spiazzo che terminava all’improvviso sul vuoto, senza alcuna protezione. Di fronte, oltre il precipizio, una parete di roccia liscia pareva senza fine. Tutto era in ombra. Le voci udite erano quelle di Ziro e Leida. Sono riusciti ad arrivare anche loro, pensò la giovane alzando una mano per salutarli. I due proseguirono nella discussione senza accorgersi di lei. Allora si avvicinò. “… e lasciami in pace!” esclamò Ziro. Si allontanò a o svelto, zoppicando, mentre Leida restò immobile a guardarlo. Erien intuì che, sotto la scorza della combattente, Leida celava una forte capacità di amare. Era innamorata di Ziro. Plumis aveva ragione, pensò Erien, io e lei non siamo poi tanto differenti. E da quel momento, scoperta la donna, non ebbe più paura della guerriera. La raggiunse, appoggiandole una mano sul braccio: “Posso capirti…” cominciò. L’altra si scostò brusca, fissandola. “Tu non sai nulla di me! Lascia per altri i tuoi trucchi da sensitiva!” “Non sono trucchi” rispose Erien abbassando le braccia. “Vorrei non essere così, ma vedo delle cose e a volte capisco i sentimenti”. “Be’, con me non osare provarci!” “Perché tanta rabbia? Io non ti ho fatto niente. Non potremmo provare ad andare
d’accordo, invece?” Erien continuò. “A volte vedo Nolak e Ziro che sono tanto diversi, ma così vicini, anche se litigano trovano sempre il modo di riconciliarsi. Un po’ li invidio. Sono cresciuta da sola e ho sempre desiderato avere una sorella”. “Non funzionerebbe in ogni caso: siamo troppo diverse” rispose Leida. “Io non lo credo. Penso invece che siamo più simili di quanto possa sembrare. Ogni giorno scopro in me qualcosa che non sospettavo, ma che vedo in te: l’orgoglio, l’indipendenza di giudizio, la capacità di amare”. “Io ho smesso di amare da tempo, da quando mia madre adottiva Fedya fu uccisa dalle tue amiche Savie” ribatté Leida con più amarezza che rabbia. Ma Erien non voleva darsi per vinta. “Allora per te Ziro non conta niente?” “Adesso basta! Impicciati dei fatti tuoi, ragazza!” Leida si allontanò in fretta. Era brusca perché troppo onesta e sincera, oltre che molto orgogliosa ed Erien stava scoprendo di essere più simile a lei di quanto immaginasse, proprio come aveva notato Plumis. Rincorse Leida, con l’intento di rimediare all’errore e spiegarsi. Si mosse rapida sulle rocce arrotondate dello spiazzo, sotto le torri di pietra.
Il fiume aveva scavato una gola stretta dalle pareti smussate, a piombo sull’acqua. Su un lato la roccia si apriva come una bocca socchiusa. In quel buco sempre in ombra, invisibile dall’alto, gli antichi avevano innalzato le torri di pietra a ridosso della roccia. Chissà da quali nemici si erano dovuti difendere, pensò Erien, per nascondersi in questo buco. Non ricordava la strada fatta per arrivare, ma immaginava che dovesse scendere dall’alto della gola, nascosta tra i picchi rossastri. Per i ribelli era un rifugio ideale. Tutto il villaggio era costruito nella spaccatura della roccia che lo racchiudeva come le valve di una conchiglia. Su un lato scendeva un rivolo d’acqua che cadeva nel fiume in un unico salto, dieci pertiche più in basso. Leida fece per entrare in una delle torri di pietra.
“Aspettami!” gridò Erien. Leida si voltò per guardarla incuriosita, poi scosse la testa. Ma non si mosse, ed Erien la raggiunse trafelata. “Volevo scusarmi per ciò che ho detto. Hai ragione tu: non devo intromettermi negli affari altrui”. “Già” fu la sola risposta. Leida abbassò la testa per are sotto la porta. “Ma non sono io a volerlo: sono gli altri che entrano nella mia testa!” L’altra era scomparsa oltre la soglia. “E io non posso far altro che ascoltarli” finì Erien sottovoce, parlando all’apertura vuota di fronte a lei. Delusa, si voltò per andarsene. Forse erano davvero troppo diverse. “Allora è vero”. Appoggiata all’ingresso con le braccia incrociate, Leida parlava come se non si fosse mai interrotta. “Tu percepisci i pensieri degli altri”. Erien tornò indietro in fretta, sorpresa. “No, magari fosse così. Quando ho le visioni è come se all’improvviso non fossi più io, ma guardassi attraverso gli occhi di un altro; sento i suoi sentimenti, intuisco i suoi pensieri, e mi trovo coinvolta in cose che non conosco”. Leida sembrò osservarla in modo diverso. “Dev’essere poco piacevole”. “E’ terribile. Non mi ci sono ancora abituata e mai ci riuscirò”. “Hai visto dove Ziro era tenuto prigioniero e hai indicato come entrare nella Fortezza per liberarlo. Hai predetto l’attacco dei guardiani e scoperto il metallo per la lamablu. Sembra che tu veda sempre fatti importanti che interessano noi ribelli”. Erien scosse la testa. “Non ho visto né il tradimento di Rodan, né l’attacco degli sketha nella Valle del Movimento, né avevo presagito uno di quegli animali che combatteva con Nolak”.
Leida le si avvicinò per fissarla. “Pensaci bene”. Puntò un dito verso di lei. “Tu vedi sempre e solo quello che riguarda Ziro”. Fu tanta la sorpresa, che Erien rispose in modo automatico. “Non è possibile, Ziro è solo un amico per me!” Come se avesse atteso quelle parole da tempo e non desiderasse sapere altro, Leida annuì in silenzio e tornò verso la porta. Si fermò sull’entrata, girandosi verso Erien che la guardava stupita. “Com’è strana la vita, vero?” domandò sorridendo. “Tu hai visioni che non vorresti, mentre io darei la vita per averle”. All’improvviso Erien si sentì mancare. La testa cominciò a girarle e barcollò come ubriaca. Spaventata, si appoggiò d’istinto al muro e sentì la parete tremare sotto la mano. Un blocco di pietra si staccò dalla torre e cadde alle sue spalle. “Via di qui!” gridò Leida prendendola per un polso. La tirò dietro di sé correndo, mentre gli altri ribelli uscivano dalle case e si radunavano sullo spiazzo, a metà strada tra le torri e il precipizio.
Le torri di pietra ondeggiavano; alcune si frantumarono mentre sul terreno si apriva una spaccatura. Uno stormo di uccelli ò rapido tra le pareti della gola, frusciando; poi la terra si fermò e seguì un silenzio innaturale, come se persino il fiume avesse paura. Un terremoto. Neppure Kervis, tra tutti i suoi ricordi, aveva memoria di un evento del genere. Riuniti sullo spiazzo antistante le torri, i ribelli si muovevano nervosi, senza poter andare da nessuna parte. Si sentivano in trappola. “Dobbiamo fuggire subito o moriremo tutti!” Nolak cercò di calmarli. “E’ tutto finito! Le torri non tremano più”. “Ma potrebbe ricominciare!” risposero.
L’agitazione non accennava a diminuire. Abituati a correre pericoli e guardare la morte in faccia, i ribelli ora si trovavano di fronte a un rischio nuovo e inconsueto: in quel momento non c’erano rivali da affrontare, ma solo il panico per qualcosa che li faceva sentire del tutto inermi. Nolak cercava di tranquillizzare gli altri anche se, come loro, desiderava solo fuggire da quel posto. “Se usciamo da qui, finiremo in bocca ai guardiani che ci stanno cercando”. “Sta per succedere qualcosa!” esclamò una donna. “A memoria d’uomo non c’è mai stato un terremoto in tutta la Dualia”. “Si annuncia uno sconvolgimento ancora più grande!” continuò un altro. Nolak sussultò. Le ultime parole gli avevano ricordato la profezia che riguardava Erien. Era il momento di parlare chiaro, non c’era più tempo per i sotterfugi. “Ascoltate!” cominciò. “Non possiamo salire adesso: troveremmo i guardiani e il sacrificio dei nostri compagni al vecchio rifugio diverrebbe vano. Abbiamo faticato per arrivare qui e poterci riorganizzare; non rendiamo inutile tutta la sofferenza ata! La prossima battaglia che combatteremo dovremo essere sicuri di vincerla”. Tutti ascoltavano e già la tensione stava calando. “Qui siamo al sicuro e possiamo restare finché non avremo un piano che ci permetta di tornare a Caleborn senza correre rischi. Ormai siamo stati scoperti e non potremo più nasconderci come prima. Combatteremo quella che sarà la battaglia decisiva, per vincerla e rovesciare il potere delle Savie”. “Come pensi di riuscirci? I guardiani sono il doppio di noi e armati meglio; inoltre possono contare sull’aiuto dei nobili” ribatté una ragazza. Nolak si domandò se dovesse parlare della profezia. Per anni aveva mantenuto la promessa fatta al maestro Atanvar di non rivelare il presagio, ma ora… “Parla, fratello” lo esortò Ziro, “racconta quello che sai. Non ha più senso nascondere la verità: è giusto che tutti sappiano”.
Nolak spiegò la profezia e come era riuscito a ricomporla. Raccontò che Atanvar ne era venuto a conoscenza tramite Sabme e che un giorno lo aveva fatto chiamare. Il maestro gliene aveva svelato solo la prima parte, facendogli promettere di non parlarne a nessuno. Verrà un giorno una donna Eletta, destinata a guidare i ribelli in un’epica battaglia contro i guardiani e il potere. Accadrà un fatto catastrofico, la terra tremerà e si forgerà una nuova arma molto robusta; allora, se le loro forze saranno sufficienti, i ribelli potranno prevalere su nobili e Savie e spodestare l’ordine. Ma questo solo a condizione che a guidarli sia l’Eletta. L’autorità dei devoti sarà abbattuta e il mondo, così come noi lo conosciamo, avrà termine. Purtroppo Atanvar era morto prima di terminare il racconto della profezia e di poter indicare come riconoscere l’Eletta; Nolak non avrebbe mai potuto trovarla se Plumis, senza saperlo, non gli avesse detto ciò che mancava. Plumis aveva incontrato Sabme morente e raccolto da lei la seconda parte della profezia, riuscendo a ricordarla e riferirla durante lo spettacolo. Vicino a Caleborn una donna libera da vincoli, con gli occhi di colore diverso, considerata pazza e isolata da tutti, diventerà madre più volte e poi morirà; darà alla luce una bambina, che sarà l’Eletta e sulla pelle porterà perpetuo un segno a spirale. Sarà il segno del cambiamento, poiché l’Eletta sconvolgerà il mondo. Mentre Nolak parlava, Erien tremava. Intuiva che stava parlando di lei e ne era spaventata. “L’Eletta è tra noi e ha già dato prova di possedere capacità straordinarie” finì Nolak. Tutti si voltarono verso Erien, che senza accorgersi fece un o indietro. Non voleva essere l’Eletta, ma solo allontanarsi da lì e nascondersi agli occhi di tutti.
“Lei dovrebbe guidarci in battaglia?” La risata di Leida diventò presto una smorfia. “Che sciocchezza!”
“Erien è l’Eletta” ribatté Nolak. “Guardate!” Raggiunse la ragazza, la costrinse a girarsi e le sollevò i capelli in modo che tutti potessero vedere il segno a spirale dietro la nuca, alla base del collo. “Vidi questo segno il giorno in cui la conobbi, quando la tirai fuori dal fiume dov’era caduta, e capii subito che era l’Eletta. Lei ci farà vincere!” Erien si allontanò dal giovane rimettendosi a posto i capelli, mortificata come se lui l’avesse spogliata di fronte a tutti. Per qualche secondo non riuscì a proferir parola; poi, incredula di fronte alla rivelazione, bisbigliò: “Ecco perché insistevi tanto, avevi bisogno di convincermi affinché mi unissi a voi. Io ti servivo solo per questo!” Nolak fece un o verso di lei. “Erien, credimi, tu sei l’Eletta, l’unica persona che potrà farci vincere contro i guardiani. Il tuo stesso potere di preveggenza lo dimostra e troppi particolari corrispondono. Perché credi che i soldati abbiano attaccato il vecchio rifugio, se non per riprendere te? Nepthya sa bene quanto tu sia importante!” La ragazza arretrò. “Lei non c’entra! Mi ha tenuta con sé per affetto, non per servirsi di me come hai fatto tu!” “Non riesci ancora a vedere la verità? La tua cara Savia ti ha presa per un solo motivo, quello di impedirti di seguire il tuo destino” ribatté Nolak. “Quando ti ha trovata, ha riconosciuto il segno a spirale e ha capito subito che eri l’Eletta della profezia; quello che ha fatto in tutti questi anni aveva il solo fine di tenerti lontana dai ribelli!” Erien lo guardò dritto negli occhi e iniziò a indietreggiare. ”Non credo a una parola di quello che dici; Nepthya mi vuole bene, mentre tu non smetti mai di cercare di convincermi e controllarmi! Non ho intenzione di sopportare ancora le tue menzogne, ma voglio sapere, una volta per tutte, chi sono io! Tornerò da lei e mi farò spiegare ogni cosa, di me e del mio ato!” Nolak la vedeva turbata, ma voleva spiegarle che si sbagliava. Riuscì ad avvicinarsi e a prenderle un braccio. “Erien, devi credermi, non volevo mentirti. All'inizio forse ho pensato a te come alla soluzione dei nostri problemi, ma poi ti ho conosciuta e ho iniziato ad avere stima di te, a non riuscire a starti lontano. Se
ti avessi rivelato la profezia ti avrei persa, e non potevo lasciarti andare. Ho sbagliato, ma avevo paura che non avresti capito ed è quello che sta accadendo. Non andartene, hai un dovere da compiere: la donna della profezia sei tu… è il tuo destino, non puoi cambiarlo.” “Lasciami andare. Non accetterò più consigli da te, ma solo da Nepthya!” Lui continuò a trattenerla, cercando di convincerla che non poteva andare da nessuna parte, ma Erien non lo ascoltava. “Lasciami!” gridò. Si divincolò e riuscì a liberarsi. Guardò il fiume sottostante e, prima che qualcuno potesse intuire il suo proposito, con un balzo si gettò nella gola del Taskim. Un volo di parecchi metri, che terminò con l’inabissamento nelle gelide acque del fiume. Tutte le sensazioni provate poco prima le diedero una forza e un coraggio impensati. Nascosta dall’alta parete del burrone, riemerse poco dopo, trovandosi vicino a un tronco galleggiante; vi si aggrappò, accostandosi alla riva.
“No!” urlò Kervis. Con uno scatto fece per lanciarsi a sua volta, ma Ziro fu pronto a fermarlo. “Mica male!” commentò intanto Leida. “La ragazza ha del fegato!” Nolak non poteva credere a ciò che aveva visto. Si liberò della spada e raccogliendo tutto il suo coraggio si lasciò cadere nel fiume. Non gli importava di rischiare che i guardiani lo scoprissero; pensava solo a ritrovare Erien. L’acqua era gelida. Fu imprigionato in un vortice e iniziò a roteare sballottato da ogni parte. La mancanza di fiato, l’incapacità di riprendere il controllo e l’oscurità opprimente sembravano avere la meglio su di lui. D’un tratto, invece, intravide una tenue luce sopra di lui e con le ultime forze disponibili riuscì a emergere. Giunse in prossimità della riva e riprese fiato. Correndo il rischio di essere sentito dai guardiani, che dovevano trovarsi poco lontano, iniziò a chiamare Erien ad alta voce. Si immerse di nuovo per cercarla nell’acqua; lo fece più
volte, ma il lago era troppo profondo e Nolak, esausto, tornò a riva. Si accorse che Ziro e altri compagni, pur mettendosi a loro volta in pericolo, erano scesi ad aiutarlo. “L’ho persa” ansimò appoggiato al fratello. “Forse è ancora viva” rispose Ziro. “Non disperare: se è l’Eletta, la ritroveremo!” Nolak scosse la testa. “L’abbiamo persa” ripeté. In quel momento uno dei compagni esclamò: “Guardate!” e indicò qualcosa che somigliava a uno straccio abbandonato su uno scoglio. Corse a prenderlo. “E’ sporco di sangue” commentò Ziro. Con un’esclamazione Nolak strappò la stoffa dalle mani del fratello. “E’ un pezzo della tunica di Erien! La riconosco…” Non riuscì a finire la frase. “Deve essersi ferita sbattendo su questi scogli, per poi scomparire nel lago” disse un altro, “credo che non vi siano molte speranze di ritrovarla viva”. Ziro gli lanciò un’occhiata veloce e fece un gesto per farlo tacere. Ma Nolak, dopo aver lisciato con cura ogni piega della pezza, la infilò nel camiciotto e si allontanò senza rispondere.
30.
Per ora il piano stava funzionando. Raggomitolata dietro alcune rocce, intorpidita dal freddo e con i vestiti bagnati, Erien cercava di scaldarsi al sole del mattino. L’unica sfortuna era stata quella di ferirsi a un braccio con un ramo spezzato del tronco al quale si era appesa. Un piccolo taglio, che però sanguinava in abbondanza. Appena la corrente del fiume la portò in un’ansa riparata, uscì dall’acqua e cercò di riprendere fiato. Estrasse lo stiletto dal fodero, nascosto sotto un’ampia fascia che le cingeva la vita; tagliò un lembo della veste e si tamponò la ferita. Mentre aspettava di asciugarsi, osservava quell'arma e ripensava al giorno in cui, dopo la sua scoperta della pietra blu e la fabbricazione delle nuove armi, Nolak, staccandosi da un gruppo di ribelli, l'aveva chiamata in disparte.
* * *
“Questo è per te!“ le disse porgendole un piccolo stiletto dalla lamablu. “Nascondilo sotto la tunica, in questo fodero di cuoio, e non mostrarlo a nessuno. Lo ai solo in caso di estremo bisogno”. Erien gli rivolse un sorriso gioioso; mai come allora si era sentita gratificata e lo ringraziò per quel pensiero gentile. Il giovane allora sussurrò: “Non credevo di poterti rendere così contenta!” Un tenero bacio sulla fronte suggellò quell’attimo d’intimità.
* * *
Quello stiletto le era stato utile e ora, trovandosi sola a dover affrontare un percorso non privo di rischi, si sentiva più sicura e protetta. Era arrabbiata più con se stessa che con Nolak, per non aver percepito il fine di chi l’aveva accolta nel gruppo dei ribelli, non come donna ma come ‘simbolo di vittoria’. S’era quasi abbandonata a un sentimento… che sciocca! Ora, dopo gli ultimi avvenimenti, aveva deciso di buttare tutto alle spalle e ricominciare da capo, tornare da Nepthya per farsi raccontare la sua storia. Era certa che la Savia l’avrebbe accolta come sempre. Si sarebbe tenuta sulla sponda del fiume, risalendone il corso fino a raggiungere Caleborn; in caso di pericolo avrebbe cercato riparo tra la vegetazione. La distanza non era poca, ma ce l’avrebbe fatta, sostenuta dalla sua risolutezza. Si era ormai lasciata alle spalle il lago, la cascata, il rifugio; camminava a testa bassa, immersa nei suoi pensieri, con o spedito, ma sempre prudente. All’improvviso uno strano sussurro la fece sobbalzare e d’istinto si nascose dietro un cespuglio. Dopo un po’ lo udì ancora, più vicino, seguito da poche frasi mormorate a basse voce: “Erien, ehi Erien, sono Plumis, ti ho vista. Dai, vieni fuori, voglio solo parlarti. Dove ti sei cacciata?“ La ragazza abbassò un ramo e osservando di nascosto lo vide cercarla tra i cespugli. Non c’era nessun altro e si sentì rincuorata. Il narrastorie, scappato dal rifugio, ora si trovava in mezzo alla boscaglia, ma perché? Era forse diretto al rifugio alla Chioma d’Acqua? Impossibile: solo pochi conoscevano quel segreto. Decise di mostrarsi e chiedergli come mai fosse lì. “Plumis, cosa fai qui? Dove stai andando?” Egli si voltò di scatto. “Be’, fammi almeno una domanda alla volta! Non so dove sono, perché dopo la fuga ho scelto la prima strada che ho trovato. In realtà volevo andare verso il porto di Veria, ma invece son finito in mezzo a questi boschi. Hai sentito anche tu il terremoto? Che cosa spaventosa!” “L’ho sentito, ma non devi più preoccuparti: è ato e qui non corriamo
pericoli”. “Speriamo…” Il narrastorie cambiò discorso, come per evitare il pensiero. “Per fortuna ti ho vista, quasi non credevo ai miei occhi. Ma tu da dove vieni? Sai dove ci troviamo? Così almeno saprò da che parte devo dirigermi per andarmene da questo paese”. “E’ una storia lunga, e non so se posso raccontarti tutto” rifletté Erien, “ma visto che stai per andartene… sì, ti dirò cos’è accaduto”. Bisognosa di sfogarsi e sapendo che Plumis forse poteva capirla, raccontò tutto: della fuga nella Valle del Movimento, del nuovo rifugio sopra la Chioma d’Acqua, delle parole scambiate con Leida, del terremoto rivelato dalla profezia, di aver appreso da Nolak di essere l’Eletta e, infine, lo informò che per liberarsi aveva dovuto gettarsi nel fiume; ignorava se i ribelli la stessero cercando, ma in ogni caso sarebbe andata avanti fino a Caleborn, per sapere da Nepthya la verità su se stessa. Aveva parlato tutto d’un fiato, liberandosi del peso che portava dentro. ”Ora sto tornando alla Circolaria, certa che riuscirò a dimenticare Nolak. Chiederò scusa a Nepthya, le dirò che sono pentita e che sono decisa a diventare una Savia”. Benché Plumis non desse l’impressione di essere riuscito a capire molto, le rivolse all’improvviso una domanda: “Perciò sei tu la giovane donna con il segno a spirale sul corpo, che si unirà ai ribelli e li guiderà alla vittoria contro il potere delle Savie e dei nobili. Sei tu l’Eletta della profezia?” Lei scosse la testa. “Non credo, non ero a conoscenza di questo mio ruolo e non voglio combattere contro Nepthya e le Savie. Sono state loro a salvarmi e crescermi: come potrei contrastarle?” Plumis ascoltava annuendo. Serio, sembrava riflettere, forse per comprendere meglio i fatti avvenuti. Mentre lui meditava in silenzio Erien ripeté la domanda “Dimmi, come potrei combattere contro Nepthya?” Ridestandosi dalle sue riflessioni, il narrastorie le sorrise. “Dici di essere stata
salvata e allevata da lei, ma sei proprio sicura di conoscerla a fondo? Potresti dare per certo che non stia a sua volta tramando qualcosa? Sei giovane e molto legata a lei, perché ti ha raccolto e ti ha fatto da madre. Posso comprendere l’affetto e la devozione che provi, ma sai che sono sincero e ritengo che ora sia giunto il momento in cui tu debba conoscere la verità: l’altra faccia di Nepthya, quella che non hai mai conosciuto”. Iniziò a narrarle di quando e in quali circostanze era avvenuto il suo primo incontro con Nepthya; di come, nascosto dietro una siepe, da bambino, aveva assistito all’omicidio di una Savia da parte della donna, che allora era ancora una giovane Nova. Dello sguardo gelido e impenetrabile che lo aveva scosso e impaurito, imprimendosi come un tarlo nella memoria, per molti anni, fino al giorno in cui era ritornato a Caleborn e lo aveva incrociato. “Quando ho rivisto quegli occhi, credevo di venir meno” concluse Plumis. La ragazza era sconvolta. “Non posso crederci. Con me è stata sempre onesta e gentile! Forse ti sbagli, sono ati tanti anni che potresti ricordare male”. “Non ti racconterei mai qualcosa solo per convincerti che stai sbagliando. So che Nepthya non ti farebbe del male, ma ne ha fatto tanto a molti innocenti, per raggiungere e ottenere ciò che vuole: il potere! E cosa mi dici di Ziro, imprigionato e torturato? Se, grazie a te, non lo avessero salvato in tempo sarebbe morto. Io stesso sono stato perseguitato e, se prima non mi capacitavo, ora so che Nepthya voleva ottenere informazioni su quello che, a mia insaputa, avevo raccontato nello spettacolo in piazza: una parte della profezia”. “E’ stata una madre per me” bisbigliò Erien, “come posso tradirla?” “Ma lei lo ha fatto con te, per anni, senza rimorsi. Non credi che potrebbe averti tenuta legata a sé solo perché era a conoscenza della predizione? Tu sei l’Eletta e non puoi cambiare questo destino”. Pallida e ammutolita, Erien sussultò. Erano quasi le stesse parole che aveva usato Nolak prima che lei si buttasse nel fiume. Forse era stata troppo impulsiva a scappare dal gruppo dei ribelli; in fondo Nolak le aveva confessato di averla avvicinata per uno scopo, ma poi le cose erano cambiate e lei non aveva capito le sue preoccupazioni.
Nepthya invece l’aveva sempre indirizzata verso scelte stabilite, senza mai raccontarle nulla di ciò che avveniva fuori dalla Circolaria. Dove stava la verità? Si sentiva come divisa in due pezzi, uno conduceva a Nepthya mentre l’altro tirava nella direzione opposta. Ma voleva scoprire chi era in realtà, solo questo importava. Doveva tornare indietro subito e chiarire i dubbi che l’angosciavano. La sua inquietudine era evidente. L’altro fece una smorfia bizzarra. “Accetti il consiglio di un narrastorie un po’ distratto e molto matto?” Senza volerlo, la ragazza sorrise. Plumis riusciva sempre a divertirla. “Dovresti tornare sui tuoi i e accettare il destino che ti è stato assegnato. Il tuo posto è vicino a Nolak e ai ribelli: devi guidarli alla vittoria. E’ la cosa giusta”. “Eccoli, li abbiamo trovati! Sono loro, circondateli!” Gurgon indicava una direzione precisa. Il richiamo fece accorrere i guardiani verso i due, che in un momento si ritrovarono sorpresi e accerchiati.
I soldati afferrarono Plumis, ma lasciarono libera Erien. Forse pensavano che non potesse diventare aggressiva. Sbagliavano. Trovarsi prigioniera la fece andare in collera. Di scatto, Erien rubò la spada al guardiano più vicino e arretrò, puntando l’arma davanti a sé, ma così facendo suscitò solo l’ilarità delle guardie. Due le si avvicinarono; Erien colpì il primo, ma la spada si spezzò contro la corazza. L’altro l’afferrò per la vita. Lei iniziò a scalciare cercando di difendersi; colpì l’uomo alla schiena con la lama mozzata finché questo non la lasciò. Corse verso il fiume, dove non c’erano soldati, poi si sentì afferrare di nuovo. Si voltò
infuriata e con una mano artigliò il viso del guardiano graffiandolo sulla fronte. Alla fine l’agguantarono in due e per quanti sforzi fe non riuscì a liberarsi. “Tenetela stretta” disse una voce “è peggio di un gatto arrabbiato!” Era Gurgon a cavallo, che le si era avvicinato. Erien sollevò il viso a guardarlo. “Lasciateci, non abbiamo fatto nulla. Cosa volete da noi?” L’uomo scese di sella. ”Ne sei proprio sicura? Forse vuoi dirci dove si trovano i tuoi amici?“ ribatté. Stava infilandosi il guanto di ferro, ma Erien scoprì di non temerlo. Sapeva che Gurgon era legato all’alleanza con le Savie: se le avesse torto anche un solo capello, se per disgrazia lei fosse morta, Nepthya non lo avrebbe mai perdonato. La sua vita era preziosa. Non poteva morire perché si sarebbe reincarnata chissà dove e l’Anziana Superiora l’avrebbe persa. Invece Nepthya doveva tenerla vicino a sé, per controllarla e impedire che la profezia si avverasse. Ancora trattenuta dai guardiani, Erien fissò il comandante con aria di sfida. ”Gurgon, capo dei guardiani, servitore fidato di Nepthya e dei nobili! Io non ti dirò niente, perché non ho niente da dire. Picchiami pure e poi vai a raccontarlo a Nepthya, la Savia che mi ha raccolta, adottata e cresciuta. Coraggio!” “Ho l’ordine di interrogare, con le buone o con le cattive, coloro che si sono schierati con i ribelli” rispose Gurgon. Erien sorrise. “Fallo allora” replicò sprezzante. Ma Gurgon sorrise a sua volta. “Se non sbaglio siete in due, e in questo caso mi piacerebbe iniziare con il tuo amico. Forse, visto come sta tremando, avrà la lingua più sciolta della tua e la sua vita non vale neppure un centesimo di drania”. Si avvicinò a Plumis e sciolse la catena uncinata. “Allora dimmi, poeta scombinato, dove si trovano ora i ribelli e cosa stanno organizzando?“
Il narrastorie tremava. Deglutì e alla vista della catena urlò: “Per favore, non fatemi del male! Sto per andarmene per sempre da questo paese. Vi dirò tutto quello che so, poi non mi vedrete mai più, ve lo giuro!” “No, Plumis!” gli gridò Erien. “Non parlare! Ti uccideranno comunque!” “Fatela tacere” ordinò Gurgon senza voltarsi. Uno dei guardiani le mise una mano sulla bocca. “Non conosco il luogo del loro rifugio, ma posso dirvi altro, tutti i discorsi che ho sentito”. E Plumis, con il terrore negli occhi, raccontò per filo e per segno tutto ciò di cui era conoscenza, della profezia, del fatto che Erien fosse la fanciulla che portava il segno dell’Eletta, colei che avrebbe guidato i ribelli alla vittoria. Il potere delle Savie sarebbe crollato poiché era scritto nella profezia. Mentre parlava senza controllo, sembrava togliersi un gran peso dalle spalle. Appariva contento non solo di liberarsi dagli impicci, ma anche di prendersi una rivincita dichiarando che presto tutto sarebbe finito e che loro avrebbero perso.
Ma Gurgon la pensava in modo diverso, visto che Erien era nelle sue mani: se lei era la designata, la sola persona che avrebbe fatto vincere i ribelli, ora tutto sarebbe cambiato. Era inutile perciò continuare a cercarli. Gurgon rimontò a cavallo volgendosi al suo aiutante più alto in grado. “Scegli due guerrieri veloci: dovranno anticipare il nostro arrivo a Caleborn e riferire a Nepthya che abbiamo preso Erien e Plumis. Fai scortare la ragazza da una decina di soldati per riportarla da lei, come stabilito”.
31.
Per i ribelli Erien era morta. Nessuno lo diceva, ma Nolak capiva, da come gli altri lo guardavano, che tutti ne erano convinti. Non gli rivolgevano parola e lui non voleva condividere il suo dolore con alcuno. Stava seduto sul ciglio del precipizio, dal quale la giovane si era buttata e si accorgeva appena delle persone che gli avano alle spalle. Aveva una missione importante da compiere e su questo non vi erano dubbi; eppure, ora che era successo l’irreparabile, doveva ammettere che non era l’Eletta a mancargli, ma Erien. Gli piaceva tutto di lei: i suoi dubbi, i pensieri, i sorrisi. Ripensava ai gesti d’affetto, quell’appoggiargli la testa sulla spalla come una bambina, ma anche all’orgoglio, l’abilità inaspettata con la spada, la decisione dimostrata con la lamablu. Erien, arrivata quasi di nascosto, era diventata essenziale per lui. Non se ne era accorto prima perché non v’era stata l’opportunità di soffermarsi a riflettere. Un susseguirsi ininterrotto di eventi e difficoltà da superare: l’arresto di Ziro, il tradimento di Rodan, l’attacco dei guardiani, la fuga di Plumis, il viaggio verso il rifugio sul Taskim, una preoccupazione dopo l’altra l’avevano assorbito senza concedergli un attimo di tregua. Dall’arrivo di Erien nel loro gruppo si erano ritrovati braccati come prede. I guardiani cercavano lei, volevano riprendere l’Eletta. Nepthya sapeva bene che senza la ragazza i ribelli non avrebbero potuto vincere. Era stata la prima a scoprire la profezia nel Libro dei Duali. Sapeva tutto da molto tempo, ancor prima della nascita di Erien. Perciò aveva cresciuto la giovane a modo suo, facendole credere di volerle bene. Poi, quando la ragazza si era allontanata con i ribelli, la maschera era caduta e Nepthya aveva scatenato la caccia all’uomo, usando i guardiani che avevano inseguito tutti senza tregua. La vera colpevole di tutto, chiusa nella Circolaria, protetta dai nobili e dai
soldati, servita dalle Savie, decideva del destino di ognuno senza interferenze o impedimenti di sorta. Ma anche l’Anziana Superiora, da morta, non avrebbe più potuto nuocere: privi della sua guida, nobili e guardiani si sarebbero trovati allo sbando. E i ribelli avrebbero vinto la battaglia anche senza l’Eletta. Nolak si alzò di scatto e corse verso le torri. Inutile mettere a rischio la vita di un altro. Quella decisione riguardava lui solo.
All’improvviso la terra tremò, con più violenza e più a lungo di prima. Le pietre si staccarono dalle pareti e ruzzolarono lontano. Le torri ondeggiarono, caddero, si aprirono. La roccia sovrastante il villaggio crepò con boati sinistri e franò in più punti; la fessura del terreno si allungò echeggiando da un capo all’altro della spaccatura, si mosse, si abbassò. La polvere sollevata sembrava una fitta nebbia.
I ribelli corsero fuori dalle torri, gridando e chiamandosi. Quando si riunirono, scoprirono che due di loro erano morti, colpiti da pesanti pietre. “Dobbiamo allontanarci subito!” esclamò Leida tenendosi un braccio. Anche Nolak fu d’accordo. “Recuperiamo le armi e andiamocene!” Sostarono il necessario per prendere quanto si era salvato, dirigendosi verso il cunicolo che portava nella parte alta della gola. Dalle fessure della volta scendevano rivoli di sabbia e d’acqua; pareva che dovesse franare da un istante all’altro, eppure tutti si infilarono di corsa, non pensando più ai guardiani che li stavano cercando, ma soltanto a uscire da quella trappola, raggiungere i cavalli e arrivare a uno spazio aperto. Mentre risalivano il cunicolo, udirono un rumore cupo e prolungato giungere dalla crepa del terreno tra le torri e la gola; lo spiazzo crollò all’improvviso con un boato precipitando nel fiume, ostruendolo quasi per intero. Tutto il villaggio franò e le mura distrutte scivolarono lungo la parete del canalone. Al posto delle torri rotonde, costruite dagli antichi, restò solo una ferita della roccia.
La fortuna li aveva aiutati; si erano salvati e ritrovati dove avevano lasciato i cavalli, un recinto naturale sotto i picchi rossastri. Montarono in sella e si allontanarono dal Taskim, procedendo dapprima al o e poi al galoppo, sfogando l’ansia, appena il sentiero cominciò ad allargarsi.
Si fermarono dopo qualche miglio in una piana erbosa circondata da colline coperte di boschi. Ziro, che cavalcava davanti a tutti, fermatosi, richiamò l’attenzione degli altri. Si sollevò sulla sella per guardare intorno a sé. “Nolak se n’è andato” disse Leida che gli si era avvicinata, come se avesse letto nei suoi pensieri. “E’ andato via quando abbiamo lasciato le guglie del Taskim. “Non è da lui fare una cosa del genere” ribatté Ziro. Preoccupato, sentiva che il fratello stava per mettersi nei guai. “La morte di Erien lo ha sconvolto e trasformato”, notò Leida. “Maledizione!” esclamò Ziro. Cercò di trovare una spiegazione in risposta allo sguardo sorpreso della ragazza. “Vuole uccidere Nepthya. Ma è un suicidio!” “Non riuscirà nemmeno ad avvicinarla: i guardiani lo fermeranno prima.” “Non glielo permetterò!” Ziro alzò le braccia. “Lasceremo che il nostro capo affronti da solo questa battaglia? Cerchiamo i guardiani e portiamoli a combattere!” gridò. Un mormorio fece seguito a quelle parole. I ribelli erano incerti. Dopo la morte dell’Eletta, la speranza di vincere contro i soldati si era assai ridotta e la vendetta contro Nepthya pareva non riguardarli. Sembravano un branco di lupi senza capo. “E’ vero! Erien è morta, ma noi ci siamo ancora!” esclamò Leida. “Chi tra voi ha dimenticato anni di paura e di prepotenze? I nostri predecessori sono nati e vissuti nel terrore. Sin da bambini abbiamo visto le ingiustizie e siamo stati costretti a rispettare le leggi create da chi vuole esercitare sugli altri un potere assoluto. Sapete tutti cosa accade a chi cerca di ribellarsi: processi e condanne sommarie sono solo alcune delle cose che hanno escogitato per annientarci. Ma
nessuno può costringerci a fare ciò che non è giusto!” Si era alzato il vento e i capelli rossi della giovane guerriera sembravano lingue di fuoco. Ziro si accorse che gli altri la seguivano senza battere ciglio. Proseguì decisa: “La storia dell’Eletta è un’invenzione per gli sciocchi! La forza di vincere risiede in noi, nelle nostre spade, nelle lameblu che possono perforare le corazze. Cento di noi valgono più del loro intero esercito. I guardiani non hanno più armi invincibili, possiamo sconfiggerli! Possiamo distruggerli, insieme ai nobili. Possiamo fare tutto se solo crediamo in noi stessi, ma non dobbiamo più nasconderci! Bisogna lottare, non fuggire. Lasciamo che Nolak combatta la sua battaglia contro Nepthya, noi combatteremo la nostra! Siamo forti e vinceremo!” Alzò la spada che luccicò al sole. Un attimo dopo tutti i ribelli sollevarono le armi gridando: “A Caleborn!” Leida si voltò verso Ziro con gli occhi ammiccavano; il desiderio dello scontro la rendeva bella. Ziro sorrise. “A Caleborn!” gridò roteando la spada. Galoppando, i ribelli puntarono verso sud.
Kervis li seguì. La morte di Erien aveva dissolto la speranza di spezzare la maledizione di Adania, condannandolo a rinascere in eterno tra le ombre dei ricordi. Sapeva che in qualche posto la giovane si sarebbe incarnata di nuovo, ma non s’illudeva di riuscire a ritrovarla. Così avrebbe avuto inizio per lui una nuova ricerca, vagabondando da un posto all’altro, nel tentativo di trovare la sconosciuta designata, fino a morire e ricominciare tutto da capo. Seguì i ribelli perché non sapeva cos’altro fare.
32.
L’aver deciso di tornare alla Circolaria le era sembrata la cosa più giusta da fare, ma ora che i Guardiani l’avevano catturata e che con la forza la stavano conducendo da Nepthya, pensava soltanto alla fuga. Dopo tutto quello che era successo, si accorgeva di non essere più la stessa Erien di qualche giorno prima: voleva prendere da sola le decisioni che la riguardavano. Le bloccarono i polsi per impedirle di fuggire, mentre Plumis fu lasciato libero. Entrambi, circondati da quattro soldati, salirono su due dei cavalli di scorta. Dentro di sé la giovane non si dava pace, doveva assolutamente scappare. Plumis le si accostò. “Hai visto chi c’è?” bisbigliò indicando un uomo di fronte a loro. La ragazza sussultò. Era Rodan, con il suo inconfondibile cappello. Ma intuirono che doveva essere successo qualcosa: l’uomo era pieno di lividi, come se fosse stato picchiato a lungo, e due guardiani lo controllavano a vista. Anch’egli si accorse di loro e abbassò la testa. “Lo hanno malmenato” disse Plumis. “Ma perché? Sta dalla loro parte!” “Magari non si fidano più di lui” immaginò Erien, che provava più comione che rabbia. Gurgon dette il segnale di partenza e lei dovette decidere in fretta, senza esitazioni. Doveva far credere di non essere in grado di cavalcare in quelle condizioni e scivolare dal cavallo appena avessero cominciato a muoversi. Si morse le labbra. Se fosse caduta male, avrebbe dovuto dire addio a ogni speranza di fuga. Gurgon sferzò il cavallo e partì al piccolo galoppo; il drappello di guardiani lo seguì. Erien li imitò, incitando il cavallo con i piedi, chiuse gli occhi e si lasciò andare. Si ritrovò a terra, dove restò immobile, col cuore che le batteva forte.
“Fermi!” gridò qualcuno. “E’ caduta!” Plumis fermò il cavallo e scese di sella per raggiungere la ragazza. La sollevò da terra ed Erien strinse i denti senza bisogno di fingere: cadendo aveva battuto una spalla che ora le doleva. “Slegatela per favore! Non vedete che si è fatta male? Non ce la fa a cavalcare con i polsi legati!” il tono del narrastorie era accorato. A un cenno di Gurgon, un guardiano prese un coltello e tagliò la corda che le legava i polsi, cosicché la ragazza poté stringersi la spalla con l’altra mano. Non s’era fatta nulla, ma decise di simulare la sofferenza per allontanare da sé l’attenzione dei guardiani. Gurgon la guardò gelidamente e rivolgendosi ai guardiani disse: “Non si è fatta niente. Aiutatela a risalire in sella”. Ripartirono. Ingannare il comandante non era semplice, ma Erien non si perse d’animo. Doveva tentare la fuga in una zona più aperta, una valle o una pianura, magari circondata da colline vicine e boscose, in cui avrebbe potuto nascondersi. Ma dovette attendere prima di arrivare nel posto giusto. Stavano percorrendo un altopiano che preludeva al Monte Rabbar. Il sole illuminava i contorni netti delle alture, ancora vicine, con le pendici ricoperte da una fitta boscaglia; se Erien fosse riuscita a raggiungerle, i guardiani non l’avrebbero ritrovata. Se invece non ce l’avesse fatta, l’unico rischio che correva era di essere legata di nuovo. Perciò si decise: fece un profondo respiro e all’improvviso spronò il cavallo al galoppo, dirigendosi verso la montagna. Si voltò solo una volta per vedere chi la stava rincorrendo. Gurgon e altri due guardiani erano lanciati all’inseguimento, spronando i cavalli con forza, e la ragazza proseguì la fuga. Il cavallo, pur galoppando al limite delle sue possibilità, era comunque troppo lento; e lei non poteva far altro che incitarlo, come non aveva fatto mai, usando le stesse redini come frusta e gridando. L’altura pareva sempre più lontana. Erien
finalmente vide la boscaglia vicina e pensò di essere al sicuro quando qualcuno si gettò su di lei. Finirono entrambi a terra, rotolando avvinghiati sull’erba. Gurgon fermò la ragazza premendole i polsi contro il terreno. Nel frattempo arrivarono anche gli altri che si disposero in cerchio attorno a loro. Erien si divincolava e si contorceva per liberarsi. Gurgon inferocito cercava di trattenerla e così facendo si ritrovò fra le mani il medaglione dell’ordine delle Savie, che la ragazza non aveva mai tolto. “Traditrice! Non meriti di portare questo segno!” L’uomo lo strappò dal collo di Erien gettandolo lontano. Il pendente roteò in aria e cadde nell’erba, poco distante da Rodan, che seguiva incuriosito la scena. La ragazza fissò l’uomo che la sovrastava, più infuriata di lui. “Vigliacco!” Con i lineamenti sconvolti dalla collera, il comandante la sollevò con uno strattone. “Attenta a te! Ho promesso a Nepthya di riportarti viva, non illesa!” La consegnò a due guardiani e raggiunse il suo cavallo per munirsi di una corda di cuoio intrecciata. In quel momento Rodan, senza dare nell’occhio, raccolse il medaglione e lo infilò in una tasca. Gurgon raggiunse la giovane e le legò i polsi stringendo la corda tanto che in breve tempo le mani le divennero livide. Erien sopportò in silenzio quella tortura, finché il comandante, al tramonto, segnalò che potevano fermarsi a riposare. A quel punto, mentre i soldati preparavano il campo, si rivolse ad Erien: “Ti slego, perché tu possa mangiare. Non tentare di scappare, o questa volta te ne pentirai sul serio”. Seduta su una pietra, Erien annuì con la testa. La corda le aveva inciso la pelle lasciandole due solchi insanguinati; le mani, scure per la mancanza di circolazione, iniziarono a provocarle un dolore insopportabile non appena l’uomo le liberò. Erien si piegò in due, tenendole strette contro di sé, sperando che il male le
asse. Aveva pagato caro quel tentativo di fuga. Plumis le mise un braccio sulle spalle. Rodan, intanto, a poca distanza da loro, non smetteva di guardarla. Continuava a tenere una mano in tasca, stringendo il medaglione della ragazza.
Quando Nolak arrivò a Caleborn era già notte fonda. Le strade deserte, solo qualche latrato di cane lontano. Voleva raggiungere Nepthya, la causa di tutto ciò che era accaduto e della morte di Erien. Tirò le redini del cavallo. Stava giungendo dietro l’edificio quando decise di lasciare l’animale e procedere a piedi, per agire di sorpresa, evitando anche il più piccolo rumore. Era una fortuna che sulla soglia della porta ci fossero solo due guardiani, appoggiati al muro, in piedi e in silenzio. A intervalli regolari uno dei due si muoveva, rasentando la parete circolare per un breve tratto ed entrando in una zona meno illuminata, per poi ritornare verso l’ingresso. Nolak avrebbe atteso il momento giusto per coglierlo di sorpresa al buio. Si nascose dietro una pianta. Il tronco largo e l’oscurità gli permettevano di sbirciare i movimenti del guardiano senza essere visto. Era nervoso e impaziente, ma non dovette attendere a lungo: il guardiano si mosse e si diresse verso di lui. Arrivò a pochi i, poi si voltò per tornare indietro, ma a quel punto il giovane abbandonò il riparo aggredendolo alle spalle; strinse la sua testa tra le mani e girandola con un colpo secco gli spezzò l’osso del collo. Il tonfo del corpo fu però udito dal compagno, mettendolo in allarme. Il guardiano, fulmineo, corse nella sua direzione con la spada sguainata. Con la lamablu Nolak spezzò in due la spada del nemico, poi si avventò su di lui e lo trafisse a morte. Trascinò il corpo davanti alla porta in modo che la Savia guardiana potesse vederlo dallo spioncino, presumendo che gli avrebbe prestato aiuto. Nascostosi, batté più volte la porta di legno, fingendo nel contempo un gemito di dolore.
Un sottile raggio di luce rischiarò la sagoma dell’uomo ferito. La guardiana, uditi i lamenti, aprì una finestrella. Affacciatasi per sbirciare lanciò poi un’esclamazione, richiudendo di colpo lo spioncino. Spalancò il portone, ma non fece in tempo a varcare la soglia che Nolak, più veloce di lei, si infilò nella Circolaria trascinandola all’interno. Le chiuse la bocca con una mano mentre con l’altra le accostò la spada alla gola. “Un grido e sei morta” bisbigliò. L’altra scosse la testa e Nolak le tolse le mano dalla bocca. “Dove si trova la stanza di Nepthya? Parla, o dovrò uccidere anche te”. Con gli occhi spalancati dal terrore, la Savia balbettò: “Non farmi del male, ti prego. Abbi rispetto, se non della mia veste, almeno della mia età”. “Allora dimmi dov’è Nepthya e ti risparmierò la vita”. La Savia alzò un braccio indicando le scale. “Di sopra, subito a destra della scala. Ma…” Non fece in tempo a dire un’altra parola che Nolak la tramortì con un pugno, lasciandola svenuta sul pavimento. “A noi” mormorò prima di iniziare a salire la scala. Nel silenzio assoluto egli cercava di dominare la tensione crescente; un sudore freddo gli imperlava la fronte, l’odio per quella persona spietata andava crescendo. Lei era stata la causa della morte di Erien, l’unica donna che a lui importasse.
Nepthya era ansiosa, perché la sua amata pianta, la magnifica biantea, era in continuo movimento. Le foglie si agitavano quando stava per succedere qualcosa di insolito o improvviso, ma ora non c’era motivo che giustificasse quel modo di fare. Le si avvicinò mormorando parole gentili e iniziò ad accarezzare le foglie che, pian piano, rispondevano a quei tocchi leggeri tranquillizzandosi. Di solito erano così irrequiete quando stava per arrivare una persona sconosciuta. Nella Circolaria non si udiva nessun rumore. Nessuno poteva entrare; eppure, il
nervosismo della pianta stava contagiando anche lei.
Nolak aveva ormai raggiunto la stanza indicatagli dalla Savia guardiana. La porta era socchiusa, si vedeva una sottile luce sanguigna dentro la stanza, forse quella di un braciere che si andava spegnendo. In quell’ombra rossastra Nolak scivolò silenzioso e, giungendo alle spalle di Nepthya, pronunciò con rabbia la sua sentenza: “Preparati a morire!” Lentamente ella si girò, fissandolo. Lo sguardo spietato dell’uomo la spaventò solo per poco. Senza battere ciglio, guardò la spada alzata su di lei. “Cosa ti ho fatto? Non ti conosco!” “Mi conosci eccome! Sono Nolak, e solo così riscatterò la vita di Erien!” Nepthya ragionò in fretta. Dunque il giovane era il capo dei ribelli, la persona che aveva provato a portarle via l’Eletta e del quale Erien si era infatuata. Quell’uomo credeva di vincere. Così credeva lui. “Perché la vita di Erien?” ribatté l’Anziana con un sorriso di sfida. “Non si è forse schierata dalla vostra parte? Cosa vuoi dunque da me?” “Erien è morta. Si è buttata nel lago, perché aveva deciso di tornare da te”. Le foglie della biantea sbattevano come fruste. La Savia capì subito cosa doveva fare: distrarre il giovane, farlo parlare, ma soprattutto farlo spostare. “Quando? Com’è possibile? Lo avrei saputo” rispose fingendo in modo impeccabile. Era al corrente da qualche ora, avvisata da un messaggero di Gurgon, che Erien stava giungendo alla Circolaria. Doveva essere successo qualcosa, forse un equivoco tra i due giovani, ma di sicuro la ragazza era viva. Nepthya si elettrizzò. Era in vantaggio e sarebbe stata al gioco. “Forse i tuoi guardiani non lo sanno ancora, ma questa stoffa che ho portato con
me è tutto ciò che rimane della tua protetta…” rispose Nolak. La voce si era affievolita mentre parlava. Nepthya capì che poteva sfruttare il dispiacere del giovane a proprio vantaggio. “Ma se Erien è morta è solo colpa tua. Hai cercato di portarla dalla tua parte, hai giocato con la sua sensibilità e l’hai ingannata. Se qui c’è un colpevole, quello sei tu!” Mentre esclamava quelle parole, Nepthya si avvicinò all’uomo, facendolo spostare pian piano all’interno della stanza. Nolak teneva la spada puntata verso di lei che si mostrava audace, non manifestando alcun segno di preoccupazione. Anzi, lo affrontava risoluta. Spiazzato, il giovane mantenne l’arma dritta davanti a sé seguendo i lievi spostamenti della donna; a un certo punto si trovarono l’uno di fronte all’altra, ma in posizione opposta. Nella semioscurità Nolak non aveva notato la pianta alle sue spalle. Rapida, Nepthya fece un balzo in avanti e per istinto lui arretrò urtando le foglie che, in un attimo, lo avvinghiarono. La biantea non sopportava di essere toccata da nessuno al di fuori della Savia. Il veleno che emetteva, bruciante come migliaia di aghi acuminati, era in grado di paralizzare un uomo in pochi istanti. Le foglie liberarono subito Nolak, ma il dolore, insopportabile e inatteso, lo fece cadere a terra. Un momento dopo era immobilizzato; le forze lo abbandonarono e perse conoscenza. Sorridendo, Nepthya accarezzò il fogliame che ancora si muoveva inquieto.
Nolak si destò dal torpore lentamente. Non sapeva quanto tempo fosse trascorso. Il corpo era indolenzito e privo di forza; le braccia erano appoggiate sui braccioli di una sedia di legno e legate con corde di cuoio. Attraverso una sorta di nebbia vide la sua spada posata sopra un tavolo, ma nella stanza non c’era nessuno. Non
sentiva dolore, ma l’intorpidimento gli impediva di muoversi. Rimase così per un tempo che gli parve infinito; in realtà non era trascorsa neppure un’ora dal suo arrivo. All’improvviso sentì dei rumori: forse stava arrivando qualcuno. Cercò invano di gridare, ma anche la voce era poco più che un sussurro. Nepthya, seguita da due guardiani, entrò di colpo nella stanza. Uno dei soldati prese la lamablu e, mostrandola a Nolak, disse: “Che spada è questa e come può forare le corazze? Dove l’avete trovata? Quante ne avete?” Nolak raccolse le forze per rispondere e poiché non aveva nulla da perdere, con aria di sfida ribatté: “Quante bastano per uccidervi tutti!” L’altro lo colpì sul viso con il lato piatto della lama. “Parlerai!” sibilò, con il viso alterato dalla rabbia. “Alla ruota non sarai tanto sfrontato”. “Basta così!” intervenne Nepthya. “Lasciateci soli”. I due guardiani uscirono portando con loro la lamablu e Nolak rimase solo con la Savia. “Ho atteso che ti riprendessi, perché voglio che tu sappia, prima di essere condannato, tutta la verità”. Nepthya si fermò come per verificare l’effetto di quelle parole sul giovane che non volle darle la soddisfazione di risponderle. “Hai perso mio caro… e tutti i tuoi sforzi sono stati vani. Hai perso Erien, come donna e come Eletta, ma sappi che non è morta come tu credevi” continuò la Savia imibile. All’udire quelle parole Nolak si riprese di colpo. “E’ viva” ripeté tra sé, incredulo. “Com’è possibile? ” “Sta arrivando qui insieme ai guardiani”.
“Menti. E’affogata nel lago…” Nepthya sorrise. “E’ viva e sta venendo da me per entrare a far parte delle Savie, come era stato deciso. Ora lei è con noi e la battaglia finale sarà la vostra sconfitta”. Era vero! Nolak sentì gli occhi bruciargli. Non poteva pensare ad altro, solo al fatto che avrebbe potuto rivedere Erien. La Savia proseguì: “Ti racconterò una storia interessante. Parecchi anni fa incontrai una donna che aveva gli occhi di colore diverso, rari tra la gente, ed era incinta; così mi spacciai per sua amica, le prestai aiuto trovandole anche un rifugio. Molti particolari mi avevano infatti confermato che, come narrava la profezia, da lei sarebbe nata la bambina con il segno del mutamento. Quando giunse il momento l’aiutai a partorire e le mie previsioni furono confermate. Mi resi conto che la neonata era l’Eletta e che tutto stava procedendo come era scritto nel Libro dei Duali. Dovetti uccidere la madre… per sottrarre la piccola e farla ritrovare la notte stessa, fuori dalla porta della Circolaria.” Le parole di Nepthya ora giungevano a Nolak come echi lontani. “Una Savia anziana, di nome Erien, era già morente” continuò la donna “e fu un atto di pietà aiutarla ad accelerare il suo viaggio. Così, senza difficoltà, convinsi le altre che la bimba era la sua reincarnazione e avremmo dovuto tenerla con noi. Ora sai come si sono svolti i fatti; naturalmente Erien ignora tutto questo. Lei ravvisa in me la madre che non ha mai conosciuto, che non l’ha partorita ma l’ha cresciuta. Ecco perché non mi tradirà mai”. “Ti prego, fammela incontrare solo un’ultima volta; dopo puoi uccidermi e fare di me quello che vuoi”. “Tu non morirai. Non voglio che tu muoia, perché Erien non deve odiarmi; ma farò in modo che tu non possa più nuocere a nessuno e soprattutto che tu non possa rivederla mai più”. “Maledetta!” esplose Nolak. “Morirai anche tu, maledetta!” “Grida, grida pure la tua disperazione. La tua ridicola rivolta è finita” disse la Savia sfregandosi le mani e sorridendo. Poi uscì dalla stanza.
33.
La fila dei guardiani in marcia si snodava come un serpente tra gli alberi, procedendo senza fretta verso sud. Erano guidati da Gurgon, attorniato dalle insegne. Pareva che avessero smesso di cercare il rifugio dei ribelli. Devono essere molto sicuri del fatto loro, pensò Leida. Nascosta tra i cespugli di una collina insieme a due compagni, una ragazza di nome Heliat e il giovane Rufus, osservava l’avanzata dei soldati, interrogandosi sul motivo di quel comportamento. Che strategia era? Strano: i guardiani li avevano inseguiti per giorni, fin quasi a raggiungerli e ora, senza una ragione apparente, tornavano indietro. Leida non riusciva a immaginare quale potesse essere il motivo. Adesso erano i ribelli a cercare lo scontro con i guardiani, perciò avevano mandato esploratori in tutte le direzioni. A un tratto Heliat, senza parlare, indicò la coda della fila. Un uomo si era staccato dal gruppo e si allontanava al galoppo. La distanza ne confondeva i lineamenti, ma Leida lo riconobbe subito. “Quel cappello… è Rodan!” Poi la sorpresa della ribelle cedette alla rabbia. “Sporco traditore!” “Ma cosa sta facendo? Sta scappando?” domandò Heliat. “Impossibile” ribatté Leida a denti stretti, “è loro alleato. E poi nessuno lo insegue”. In quel momento tra le fila dei guardiani ci fu del movimento; tre uomini si separarono dal gruppo e presero a rincorrere il fuggitivo. Rodan si voltò a guardare e accelerò l’andatura del cavallo, mentre i guardiani si dividevano. La manovra era chiara: volevano circondarlo per prenderlo con più facilità. Guadagnavano terreno. “Guardate” disse Rufus, “lo raggiungeranno di certo”.
“No, se noi li fermiamo” rispose Leida. “Perché dovremmo aiutare chi ci ha traditi?” “Perché può dirci cosa sanno i guardiani, dove stanno andando e come mai hanno smesso di cercarci”. Leida mosse la testa a indicare le loro spalle. “Muoviamoci, presto!”
Strisciarono tra i cespugli superando la curva della collina e correndo verso i cavalli. La rapidità nel fermare i guardiani e catturare il traditore, senza essere visti dal resto della truppa, era tutto. Perciò quando i soldati spuntarono dietro la curva, i tre spronarono gli animali al galoppo sostenuto. Heliat si diresse verso Rodan per catturarlo, mentre Leida e Rufus verso i guardiani sguainando le spade. Rufus lanciò il coltello a lamablu colpendo in pieno petto un soldato che crollò a terra. Puntò poi verso il secondo, riuscendo ad atterrarlo; i due si fronteggiarono brandendo le armi. Nello scompiglio, il terzo cavallo s’impennò spaventato disarcionando il soldato che rotolò sull’erba. Leida, lanciata all’inseguimento, non poté impedire al suo animale di travolgerlo con gli zoccoli; saltando poi a terra colpì fulminea il guardiano mentre si stava risollevando dalla caduta. La spada lo trafisse infilandosi tra le scaglie della corazza e il malcapitato non ebbe neppure il tempo di rendersi conto di quello che stava succedendo. Con calma la ragazza estrasse la spada dal corpo e la strofinò sull’erba un paio di volte. “Ottima arma” mormorò tra sé, “usata bene, una spada è meglio della lamablu!” Cercò i compagni con lo sguardo. A qualche o di distanza, Rufus giaceva sul corpo di un uomo. Una spada gli fuoriusciva dalla schiena, mentre la sua mano serrava ancora la lamablu, conficcata nella gola del nemico. Heliat invece stava tornando indietro con Rodan. “Povero Rufus!” esclamò la ragazza appena vide il corpo del compagno caduto.
Leida sollevò lo sguardo incrociando quello di Rodan. Scattò all’improvviso, afferrò un piede del nobile e lo spinse verso l’alto con violenza, facendolo cadere da cavallo. “E’ morto per colpa tua, come tanti altri! Non so cosa mi trattiene dall’ucciderti!” esplose minacciandolo con la spada ancora sporca d’erba e sangue. “Non farlo, Leida!” pregò lui. “Io sono sempre stato dalla vostra parte! Ho solo finto di tradirvi!” “Hai svelato il rifugio sui monti Sospiri e ci hai fatto inseguire fino al Taskim! E non è stata una finzione!” “So molte cose sui guardiani, cose che vi saranno utili. So che Erien e Plumis sono con loro…” “Menti, carogna! Erien è morta!” Leida puntò di nuovo la spada contro il petto di Rodan. L’uomo arretrò. “E’ viva, invece; ho le prove per dimostrarlo…” Aprì il camiciotto, ma la donna lo fermò. “Lo spiegherai di fronte a tutti gli altri. E fai in modo di essere convincente!”
Rodan prese il medaglione di Erien facendolo vedere a Ziro, l’ultimo gesto per tentare di convincere i ribelli della sua buona fede. La gente lo guardava senza parlare, con le dita che tamburellavano sulle armi e le facce prive d’espressione. Leida lo aveva fatto scendere da cavallo, puntandogli la spada dietro la schiena e imponendogli d’iniziare a parlare. Il nobile raccontò ogni cosa con calma. Dal momento in cui, giocando a Dirsei contro Nepthya, aveva intuito di essere stato scoperto, faceva il doppio gioco con la Savia e i guardiani, ma non si considerava un traditore. Parlò a lungo, interrotto da qualche domanda, e quando riferì della cattura di Erien e Plumis mostrò a Ziro il medaglione, per provare che la ragazza era
ancora viva. Sembrò che la tensione si fosse un po’ allentata. “La stanno portando alla Circolaria” concluse Rodan”. “Quanti sono i guardiani di scorta?” chiese Ziro. “Una decina”. Ziro scambiò uno sguardo rapido con Leida. “Nolak si troverà a mal partito, se dovrà combattere da solo contro dieci guardiani”. “Ma non possiamo mandare nessuno ad aiutarlo: siamo già pochi per attaccare la schiera di Gurgon”. “Erien lo aiuterà” intervenne Rodan, “l’ho vista combattere: è brava con la spada…” “Taci!” lo zittì Leida, spingendogli la lama contro la schiena. Preoccupato per il fratello, Ziro non parlò subito. “Dove eranno i guardiani?” domandò poi a Rodan. “Gurgon li sta guidando verso la Bruma”. “La Foresta degli Alberi Fumo…” concluse Ziro. “Bene, è il posto ideale per un agguato. Possiamo precederli e attaccarli di sorpresa”. Leida abbassò la spada, ma la situazione per Rodan non cambiò molto. Due ribelli ebbero il compito di sorvegliarlo a vista, mentre gli altri risalirono in sella e si avviarono al galoppo verso la Bruma.
Kervis li seguì con lo sguardo; poi, con calma, si diresse da solo verso la Circolaria. Desiderava ritrovare Erien, nient’altro contava. Lei sola poteva spezzare la maledizione e lui avrebbe trovato il modo di farsi uccidere.
34.
La Foresta di Bruma era un luogo ostile e inquietante, adatto a un’imboscata; ma Gurgon, alla guida dei guardiani, aveva scelto ugualmente di attraversarla, poiché era la via più rapida per raggiungere la Fortezza. Non intendeva preoccuparsi per un eventuale attacco: i suoi soldati erano ben armati e di gran lunga più numerosi dei sovversivi, che scoraggiati per l’assenza dell’Eletta non avrebbero osato assaltarli. I ribelli, dal canto loro, la pensavano diversamente. Le lameblu li facevano sentire più determinati e sicuri: le nuove spade erano leggere e più maneggevoli rispetto a quelle tradizionali, molto più resistenti e così affilate da penetrare le corazze. Consci di questi vantaggi, galopparono senza sosta, per raggiungere la Foresta degli Alberi Fumo, anticipando i guardiani. Era un luogo spettrale. Grandi piante, con fronde fitte e ricadenti, si ergevano da un terreno paludoso. L’acqua stagnante era coperta da una nebbia grigia e compatta. Spirali di fumo avvolgevano le foglie degli alberi, come se fossero loro stesse a respirare, emettendo quei vapori plumbei. Chi tra loro non era mai stato in quel luogo, si guardò attorno sbalordito. Le piante erano enormi, con tronchi così larghi da poter nascondere anche due persone a cavallo; a parte il rumore degli zoccoli nella fanghiglia, non si udiva alcun suono. Persino le voci avevano un effetto acustico alterato: erano accompagnate da un eco, una vibrazione che le rendeva impersonali. Ziro si avvicinò a Leida. “Dobbiamo tenere d’occhio Rodan, non mi fido di lui; credo che non ci avrebbe raccontato della cattura di Erien e Plumis se non fosse stata la verità, ma ha anche rivelato ai guardiani dov’era il nostro rifugio”. Leida annuì. “Ha detto di non essere un traditore e che il suo è stato un doppio gioco, ma se ci avessero trovato per noi sarebbe finita davvero male”.
“Quindi stiamo attenti! Ora facciamo un giro di ricognizione, poi daremo istruzioni agli uomini riguardo a come predisporre l’attacco”. “So che in questa foresta c’è uno spiazzo di solito sfruttato per le soste delle soldatesche. E’ uno dei pochi luoghi identificabili, una radura dai vapori bassi e meno densi. Di sicuro i guardiani ci eranno” disse Leida. “Ottima idea”. Esplorarono il posto e dopo aver identificato la zona decisero come preparare la trappola, stabilendo gli incarichi di ognuno.
Una decina di fedelissimi, che da tempo affiancavano Nolak nelle decisioni rilevanti, tra cui Ziro e Leida, erano ritenuti fra i più esperti nell’uso delle armi e i più valorosi per l’impeto e l’audacia dimostrati. Gli altri compagni, pur ubbidendo, erano meno entusiasti e perciò Ziro decise di riunirli per rassicurarli e spronarli alla vittoria. Era una battaglia troppo importante. Si sarebbero trovati per la prima volta contro tutti i guardiani, contando però sul vantaggio del luogo e delle nuove armi. Certo la mancanza di Nolak ed Erien aveva creato un po’ di scompiglio, ma avrebbero vinto anche senza l’Eletta e non dovevano avere tentennamenti. Si mise quindi al centro del gruppo e parlò, “Sappiamo tutti che oggi sarà per noi una missione difficile. Siamo in numero inferiore rispetto ai nemici, ma le nuove armi ci aiuteranno molto dandoci sicurezza e forza. Nolak non è tra noi e sapete tutti il perché: Nepthya è diventata il suo primo obiettivo. Erien non è morta, ma è stata catturata e portata alla Circolaria. Entrambi sono perciò sempre al nostro fianco. L’Eletta ci ha seguiti, sta dalla nostra parte. Ciò significa che la Profezia si compirà così come era scritto nel Libro dei Duali e noi trionferemo!” L’appello ottenne l’effetto voluto: i compagni risposero sollevando le spade. Ziro si sentì pieno d’energia. In quel posto sinistro, dove si dissolveva ogni traccia, cancellata dall’acqua stagnante, la densa nebbia avrebbe giocato un ruolo importante nell’imboscata.
Leida, come se gli avesse letto nel pensiero, continuò sullo stesso tono. “La Foresta di Bruma sarà nostra alleata: tra gli alberi e con la scarsa visibilità, i guardiani non potranno usare le catene uncinate. Nell’acquitrino saranno impacciati dalle corazze e costretti ad avanzare con lentezza. Noi saremo più agili e con le lameblu potremo annientarli!” “La nostra vittoria è certa!” concluse Ziro, indicando lo spazio con la mano. “Circonderemo questa zona, perché di sicuro eranno di qui. Ci nasconderemo dietro gli alberi più grandi, restando uniti. All’arrivo dei guardiani aspetterete il segnale di Leida per attaccare”. I ribelli entusiasti si disposero in silenzio ai posti assegnati. L’attesa era cominciata. Tendevano l’orecchio cercando di avvertire il minimo rumore, quando all’improvviso Leida fece un cenno con la mano rivolgendosi sottovoce a Ziro: “Ascolta, senti lo sciabordio dell’acqua? Stanno arrivando. Teniamoci pronti”. Ziro sorrise alzando la spada verso il cielo, imitato dai ribelli che gli stavano accanto, mentre le piccole increspature dell’acqua preannunciavano l’avvicinarsi dei soldati. Dopo poco, dalla cupa foschia si vide emergere una massa scura che avanzava e, più si avvicinava, meglio si distinguevano le sagome nere dei cavalieri. I guardiani si erano tolti gli elmi per respirare meglio nell’umidità che li avvolgeva e procedevano in modo disordinato, a piccoli gruppi. I ribelli li lasciarono are per farli arrivare al centro dello spiazzo. Quando giunse il momento favorevole Ziro lanciò il pugnale colpendo un soldato che cadde senza un gemito, ma il tonfo attirò l’attenzione degli altri. Leida si aggiustò il laccio sulla fronte e gridò “Ora!” sovrastando il silenzio. Ziro senza esitare gridò a sua volta: “Seguitela!”
La corda, che era stata fatta scorrere tra due grossi tronchi, fu sollevata con prontezza e tesa; diversi cavalli inciamparono e caddero disarcionando i soldati, che vennero traati senza pietà dalle lameblu dei ribelli. Altri destrieri spaventati si impennarono, girando su se stessi e mettendo in difficoltà i guardiani. I ribelli, acquattati sugli alberi, piombarono sui nemici come rapaci; colti di sorpresa, i soldati di Gurgon cadevano nella fanghiglia e impacciati venivano trafitti prima ancora di sfoderare la spada.
Gurgon, girandosi, vide ciò che stava succedendo. Regola venti del Manuale: nell’ora del combattimento un guardiano non aspetta le mosse del nemico, ma le anticipa. Rapido, diede l’ordine ai suoi uomini di contrattaccare, ma troppo tardi. I ribelli brandivano spade e pugnali con una furia trattenuta per troppo tempo. Il rumore delle spade e le urla dei feriti riecheggiavano nell’aria compatta. I soldati soccombevano ormai sotto le lame, mentre fiotti di sangue avevano mutato l’acqua fangosa in una poltiglia rosso scura.
Sceso da cavallo, Ziro si avvicinò al cadavere di un guardiano per impossessarsi della sua spada, perché aveva perso la lamablu. Mentre cercava di sfilargliela fu improvvisamente assalito alle spalle da un altro soldato. Leida, che combatteva a poca distanza da lui e non lo aveva mai perso di vista, si avventò sul guardiano e con un fendente ben assestato lo colpì, amputandogli di netto un braccio. L’uomo si accasciò mentre il sangue sgorgava come acqua da una fontana. Le spade si scontravano con furore mentre gli alberi, quasi consci di quello che accadeva, sprigionavano un fumo che si infittiva sempre più nascondendo il massacro. Rodan era rimasto nascosto e osservava ciò che stava succedendo, in attesa del momento propizio per scappare. Si trovava in una situazione pericolosa. I guardiani lo avevano picchiato e non gli credevano più e i ribelli lo sorvegliavano come fosse un traditore. Doveva andarsene dalla Dualia e non farsi più trovare. Era giunto il momento! Mentre tutti erano troppo impegnati per accorgersi della
sua fuga, balzò in sella a un cavallo, spingendolo fuori della Foresta. Non si sarebbe più fermato se non in un posto sicuro, lontano da quel luogo terribile.
Lo scontro, all’inizio sbilanciato per il sovrastante numero dei guardiani, si riequilibrò per l’impeto e la determinazione che i ribelli avevano acquisito nei lunghi anni di attesa della rivolta. I soldati che, fino ad allora, si erano sentiti invincibili nelle loro armature, si accorsero che a nulla servivano le loro spade contro le armi nuove degli insorti, taglienti e affilate. Malgrado ciò si battevano come erano stati addestrati a fare, anche se rallentati nei movimenti dalle corazze e ostacolati dalla fumosa caligine nell’uso delle catene uncinate. Le loro spade si muovevano con rapidità, con colpi decisi, ma i ribelli erano come delle furie e con le loro armi spezzavano le lame nemiche. Raccolta la lamablu di un compagno caduto, Ziro si trovò a combattere da solo contro due guardiani. Con destrezza staccò la mano a uno e colpì l’altro alla gamba, facendoli cadere inermi nell’acqua. Poi si voltò per cercare Leida. Avanzava nel fango, chiamandola. “Qualcuno l’ha vista?” domandò ai compagni che, nonostante stessero combattendo, davano ascolto alla sua richiesta. “Non so… l’ho persa di vista” rispose un giovane. Un altro gli disse: ”E’ andata da quella parte” fece un cenno con la testa, “stava cercando il loro capo, Gurgon”. A quelle parole Ziro si allarmò. Sapeva dell’astio che Leida nutriva nei confronti di quell’uomo. Si mise a correre nella direzione indicatagli, con la speranza di intravederla attraverso la foschia e all’improvviso la scorse: stava duellando proprio con l’individuo tanto detestato. Ziro notò subito che il comandante combatteva con una lamablu: doveva essersene impossessato dopo aver ucciso un ribelle.
Anche Leida, che non aveva mai voluto separarsi dalla sua spada, stava duellando con un’arma uguale, ma questo non bastava a equilibrare il combattimento. Gurgon era alto e possente e Leida, pur essendo atletica e veloce, non avrebbe retto a lungo i pesanti colpi inferti con una lamablu dal comandante dei guardiani. Ziro fu assalito da un’agitazione tale da serrargli la gola. Doveva aiutarla a ogni costo. Cercò di avvicinarsi con la spada sguainata, ma proprio in quel mentre si sentì instabile sulle gambe: la terra aveva iniziato di nuovo a tremare.
Era un’altra scossa di terremoto, ma molto più forte di quelle precedenti. Un rombo percosse l’aria, le piante ondeggiarono con violenza e alcune furono divelte come fuscelli, scoprendo le radici carnose e grondanti. La fanghiglia in cui gli uomini si muovevano ribollì, creando vortici e mulinelli. Un eterno minuto a cui seguì un silenzio tombale. La battaglia si era arrestata. Incerti, i combattenti si guardavano l’un l’altro, spaventati da quella catastrofe che avrebbe potuto sterminarli tutti, senza distinzione.
Ziro, il primo a riprendersi, ricominciò a correre per raggiungere Leida, ma un guardiano, sbucato dal nulla, gli si parò davanti e con la sua arma insanguinata sferrò un colpo micidiale, che tagliando l’aria con un sibilo andò a scontrarsi contro la lamablu di Ziro. Anche se in quel momento non avrebbe voluto fermarsi, il ribelle fu costretto a fronteggiare l’avversario. Concentrando tutta la rabbia che aveva in corpo, sferrò un colpo così violento che la testa del guardiano rotolò nel fango. Poi, incurante di tutto, raggiunse la compagna, vedendola allo stremo delle forze. La sua tunica era insanguinata. Stava ormai cedendo sotto l’attacco del comandante che le urlava parole insolenti e sghignazzava. Ziro si scagliò contro di lui. “Miserabile, combatti contro di me! O forse hai paura? Mostrami chi è veramente il capo dei guardiani!”
Di colpo roteò su se stesso e la lamablu colpì Gurgon alla spalla. Non era stato un colpo violento, ma dal taglio nella corazza iniziò a sgorgare un rivolo di sangue. Il militare arretrò; dando prova della sua abilità ed esperienza, senza neppure guardarsi la ferita, ritornò all’attacco facendo indietreggiare Ziro verso un grosso albero. Nel frattempo Leida si era accasciata a ridosso di una pietra, il suo viso era pallido e il sudore le imperlava la fronte. Nel vederla così, schernita e insanguinata, il giovane ritrovò un furore improvviso e si lanciò urlando su Gurgon infilandogli la spada dritta nel cuore. L’uomo non fece neppure in tempo ad accorgersene: dalla sua bocca uscì un fiotto schiumoso, mentre il corpo inanimato cadeva all’indietro con l’arma infilata nel petto. Era finita. Il rumore e le urla, che prima avevano riempito l’aria, ora non erano più che fievoli lamenti, segno che la battaglia era giunta ormai al termine. Un vero massacro. Alcuni guardiani erano riusciti a scappare, approfittando della confusione, mentre i ribelli si stavano a poco a poco riunendo, cercando di portarsi nel punto d’inizio della battaglia. Si aggiravano tra i corpi inanimati dei nemici assestando il colpo mortale a chi non era ancora deceduto. Un uomo riferì di aver trovato il cadavere di Rodan. Forse nel tentativo di darsi alla fuga era stato colpito: dai guardiani o dai ribelli? Un interrogativo senza risposta, ma in fin dei conti a nessuno importava. Invece la certezza di aver avuto la meglio li ricompensava dei soprusi sopportati per anni e della perdita dei compagni, anche se non erano ignari dei rischi che la riconquista della libertà avrebbe comportato. Quando in gran parte si furono riuniti nello spiazzo, i rivoltosi si guardarono l’un l’altro con aria interrogativa. Nessuno osava fare quella domanda; poi qualcuno, con aria preoccupata, domandò: “Dove sono Leida e Ziro?”
35.
Aveva un piano. Pur vago, ma sempre un piano. Per ritrovare Erien, Kervis aveva deciso di entrare nella Circolaria dove i guardiani stavano portando la ragazza per farla incontrare con Nepthya. Cosa avrebbe fatto poi, non lo sapeva. L’inevitabile scontro con la Savia Superiora lo preoccupava in quanto era consapevole di quanto quella donna fosse forte; anche lei aveva un valido motivo per tenere Erien con sé. Per lui, invece, erano stati duecento anni di ricerche, viaggi, tormenti. Aveva vagato ovunque cercando la ragazza con il segno a spirale, finché non l’aveva trovata. Ora stava per raggiungere la sola persona che poteva farlo morire e rinascere senza ricordi. L’unica occasione dopo tante vite vissute. Non sapeva come, ma non se la sarebbe certo lasciata scappare. Era ancora il medico e raccontò ai guardiani davanti alla Circolaria di dover visitare una Savia ammalata. “La Savia guardiana?” domandò uno di loro. Kervis ragionò in fretta: meglio rimanere sul vago. “Poveretta” rispose, “so che ha avuto un brutto colpo”. “Quel maledetto ribelle le ha dato un pugno tanto forte che sembra non si sia ancora ripresa!” “Un ribelle è riuscito a entrare? L’avete fermato, vero?” “Sicuro, è legato e non può nuocere a nessuno. Attendiamo che l’Anziana Superiora ci chiami per portarlo alla Fortezza”. Kervis sospirò. “Allora sto più tranquillo!” Domandò se Erien fosse arrivata e gli risposero che non l’avevano vista. Bene, l’avrebbe aspettata.
Entrando, non incontrò nessuno. Fermo, alla fine del corridoio d’ingresso, dove si apriva la sala centrale con le sei colonne portanti, Kervis girò lo sguardo tutt’intorno. La Circolaria pareva abbandonata. Aveva un po’ di tempo per riflettere. Conversando con i guardiani aveva scoperto diversi fatti: nessuno sospettava che si fosse unito ai ribelli, Erien stava arrivando, Nolak non era riuscito a uccidere Nepthya e adesso era suo prigioniero. Bel pasticcio. Kervis aveva sperato che il giovane fosse riuscito a eliminare la Savia, rimuovendo l’ostacolo principale al suo piano. Ripensandoci, però, concluse che quella circostanza poteva volgere a suo favore: avrebbe cercato Nolak per liberarlo e farsi aiutare da lui. Il giovane sarebbe stato un valido alleato nello scontro con Nepthya. Per il resto si sarebbero potuti accordare. Poteva fingersi un guardiano, cercando di aggredire Nolak: a quel punto era certo che Erien avrebbe difeso l’amato. Un buon piano da perfezionare senza perdere tempo. Doveva trovare il luogo in cui Nolak era imprigionato. Un posto valeva l’altro, ma il più probabile era proprio la stanza di Nepthya. Se l’avesse incontrata, le avrebbe detto che stava cercando la Savia guardiana per curarla. Salì in fretta le scale, senza vedere nessuno. Bussò più volte, non ebbe risposta. Bene, Nepthya non c’era. Kervis sospirò e aprì la porta con cautela.
Nolak intanto s’era appisolato, mentre il corpo indolenzito cercava di neutralizzare il veleno della pianta. Fu il rumore delle foglie a risvegliarlo dal torpore. La biantea si contorse come sotto l’azione del fuoco: i fiori maculati si aprivano, le foglie allungate sbattevano tra loro con schiocchi bruschi e minacciosi. Dall’atteggiamento inquieto della pianta, Nolak capì che stava arrivando qualcuno e non era Nepthya. S’irrigidì, ma non poté trattenere un respiro di sollievo quando, dalla porta socchiusa, spuntò il viso del dottor Kervis. “Dottore! Che cosa fai qui?”
L’altro gli fece cenno di parlare a voce più bassa. “Sto aspettando Erien” bisbigliò, “i guardiani la stanno portando qui”. Per un istante lo stupore di Nolak superò l’ansia di essere liberato. Sapeva che il medico era affezionato a Erien, ma non fino a quel punto. Poi si riscosse. “Liberami, presto!” “Lo farò, se prometti di aiutarmi”. “Tutto quello che vuoi, ma liberami alla svelta!” Il medico cercò di sciogliere la corda che legava il giovane alla sedia. “Che nodi contorti!” esclamò asciugandosi la fronte. “Cerca qualcosa di tagliente, svelto!” consigliò Nolak. Kervis lo fissò. “Voglio fare un patto con te: devi aiutarmi a fare qualcosa che coinvolge Erien. Ti racconto una storia che risale a duecento anni fa”. Si voltò e sempre parlando cominciò a frugare per la stanza. “Io so che la reincarnazione non è un’invenzione delle Savie, ma è reale, perché sono stato colpito da una maledizione, che mi costringe a rinascere ogni volta con il peso della memoria di tutte le mie vite precedenti. Il ricordo di essere morto tante volte è un tormento senza fine e quei momenti mi terrorizzano. Non vivo più, al pensiero di morire. Ma c’è un modo per spezzare la maledizione…” Mentre parlava, il medico girava per la stanza spostando oggetti e aprendo sportelli e cassetti. Nolak lo seguiva con agitazione, controllando ogni tanto la porta, più interessato al recupero di un coltello che al racconto. “Devo essere ucciso da una donna con il segno a spirale” concluse Kervis. Si voltò di nuovo verso Nolak, con in mano un coltello trovato dentro un cassetto. Doveva essere quello che Nepthya usava per tagliare le foglie della biantea. “Bravo dottore, adesso taglia le corde!” esclamò Nolak. Il medico si avvicinò. “Capisci, Nolak? Solo se mi ucciderà potrò liberarmi dalla maledizione. Perciò la seguo da quando è nata”.
Era davvero convinto di quello che diceva, mentre a Nolak sembrava delirante. Ma non c’era il tempo di discutere. Conveniva assecondarlo, avrebbe trovato poi il modo di renderlo innocuo. “Cosa vuoi che faccia?” domandò. “Voglio che tu mi aiuti a farmi uccidere da Erien, ma senza che lei lo capisca: non voglio che soffra per causa mia”. Quella premura nei confronti di Erien tranquillizzò Nolak. “D’accordo, te lo prometto. Adesso liberami!” Kervis tagliò le corde che legavano il giovane alla sedia e Nolak si alzò barcollando. Rifiutò con un gesto l’aiuto del medico: voleva farcela da solo per contrastare il formicolio che gli percorreva ancora le membra. Si fregò i polsi, prese il coltello dalle mani di Kervis e si affacciò alla porta con prudenza. “Non c’è nessuno” disse voltandosi di nuovo verso il dottore. “Tu puoi uscire senza destare sospetti, ma io devo mascherarmi in qualche modo…” Guardò intorno a sé e visto su una panca il mantello da Savia se lo sistemò sulle spalle, coprendosi la testa con il cappuccio. “Andiamo” ordinò. “Dove?” domandò Kervis. “A cercare Nepthya” rispose Nolak. “Dove è lei, troveremo anche Erien”.
Le parve, come sempre, di entrare dentro uno scheletro. Dalla trave centrale del soffitto a volta partivano nervature che scendevano fino al pavimento, simili alle costole di un animale primitivo. Una gabbia. La struttura del parlatorio della Circolaria stringeva Erien come in una morsa. La penombra pervadeva la stanza e i mobili scuri aggravavano ancor di più quella sensazione di soffocamento. Un fascio di luce, proveniente dalla finestra, colpiva solo la sedia all’estremità del tavolo, posto davanti alla libreria. Su quella sedia stava seduta Nepthya: la
stava aspettando, imibile. Erien avvertì un brivido nel trovarsi di fronte l’alto scaffale in legno intarsiato, che conteneva libri antichi e pregiati sistemati con ordine quasi maniacale. Non le era mai piaciuto, così scuro, intagliato tra un ripiano e l’altro con quelle figure inquietanti, quei volti orrendi e deformi, alternati ad animali immaginari, leoni a più teste, draghi con fauci spalancate, serpenti alati muniti di artigli, ibridi metà umani e metà animali. Abbassò lo sguardo incrociando gli occhi della Savia. “Lasciateci sole” ordinò Nepthya ai guardiani che avevano accompagnato la ragazza. “Uscite dalla Circolaria e aspettate fuori”. Voleva rimetterla dentro quella gabbia, come una volta, quando la fanciulla la chiamava madre. Ma da allora tutto era cambiato. Era ato il tempo in cui Erien credeva che la vita fosse tutta lì dentro, con Nepthya e le altre Savie, dove pensava di restare tranquilla. Allora non aveva dubbi e quasi rimpiangeva quel periodo. Nepthya le aveva fatto credere che quello fosse il suo destino e l’aveva tenuta con sé solo per impedire che la profezia si realizzasse. E lei non aveva mai sospettato nulla. Come aveva potuto non accorgersi che quella donna non l’amava? Tutta l’empatia rivolta agli altri, a Ziro soprattutto, le impediva di sentire quello che la riguardava di persona. E Nepthya aveva saputo fingere in modo magistrale, alla perfezione. La stanza la opprimeva. Rivedeva Nepthya attenta, premurosa, preoccupata, sempre… quanti ricordi! Un dolore sordo allo stomaco e la nausea attanagliarono Erien, che dovette appoggiarsi al tavolo per non cadere. Si sentì serrare la gola. Cosa le stava succedendo? Avrebbe dovuto essere furibonda, non così debole e insicura. “Siediti, Erien” suggerì Nepthya, “tu non hai il dovere di rimanere in piedi davanti a me”. La ragazza sfiorò con la mano una delle sedie ma non si accomodò; le pareva che con quel gesto avrebbe ampliato la distanza tra loro, anziché ridurla. “Perché mi hai fatto portare fin qui?” domandò. Inumidì le labbra secche. “I
guardiani hanno attaccato il rifugio e inseguito i ribelli per giorni, solo per trovare me. Perché?” “Sei stata tu a scappare, di nascosto, di notte, senza un motivo. Non sapevo dove fossi, né con chi. Ho persino pensato che i ribelli ti avessero rapita”. Il dolore allo stomaco si fece più intenso. Perché Nepthya non si avvicinava e non l’abbracciava, perché non la rassicurava del suo affetto, se era stata tanto in ansia per lei? Basta, si disse, basta! Sotterfugi e menzogne devono finire! Le parole di Plumis le riecheggiarono dentro la testa: potrebbe averti tenuta legata a sé solo perché era a conoscenza della predizione, tu sei l’Eletta. Doveva smascherare le falsità, costringere l’Anziana Superiora a rivelarle chi era. All’improvviso capì come fare e parlò in fretta: “Sapevi che non era possibile. Io sono l’Eletta della profezia; i ribelli avevano bisogno che mi unissi a loro di mia volontà!” Nepthya non rispose subito. Sembrava sorpresa. Forse non s’aspettava che Erien potesse scoprire la verità. “Così sai tutto” concluse la Savia. “In fondo è meglio, sarà più facile intenderci”. Dunque è vero! Pensò Erien. Nolak non mentiva! E’ stata invece Nepthya a farlo per anni! “Per quanto tempo speravi di tenermelo nascosto?” incalzò la ragazza. “Dovevo comportarmi come era stato scritto senza sapere nulla, seguire un cammino già tracciato senza conoscerlo, come una marionetta! Era questo, che volevi da me?” Erien si frenò. Invece dell’accento fermo e deciso, come avrebbe voluto, sapeva di avere un tono accorato. “No, volevo che tu scegliessi quello che era meglio per te”. “Scegliere! Come avrei potuto scegliere, se tutto era già stato scritto?” La Savia distolse lo sguardo da lei. Girò la testa verso il braciere spento, poi tornò a fissarla.
“Non è come credi. Il tuo destino non era stabilito dalla profezia, avresti potuto scegliere. Ti dirò una cosa che i ribelli ignorano e che sono l'unica a conoscere, perché soltanto io ho letto la profezia originale nel Libro dei Duali". S’interruppe e quando riprese a parlare, lo fece a voce così bassa che la ragazza stentò a comprenderla. Singolare fanciulla, al male si legherà predetta da umile saltimbanco. Se, discepola del saggio essere onorabile, l’Eletta ne seguirà la guida dopo rivoltosi morti, prigionieri o esiliati, suprema custode sarà dell’ordine. Della reincarnazione e del due le leggi avranno luminoso splendore. Il grande regno, invero mirabile e portentoso, sulla terra governerà. Fortuna, pace, unione e ordine: il Principio del Mondo si loderà per lungo tempo. “Questa è la terza parte della profezia, quella che nessun altro conosce” spiegò Nepthya. “Esisteva un modo per evitare che l’Eletta guidasse la rivolta contro il potere. Se fosse stata indirizzata nel modo giusto e tenuta lontano dai ribelli, sarebbe diventata custode dell’ordine, dando lustro al potere delle Savie e diventando la massima autorità nella Dualia. Allora la fede avrebbe conosciuto un periodo di splendore e sarebbe giunta un’età dell’oro. Se l’Eletta invece avesse seguito l’amore, avrebbe guidato la rivoluzione e sconvolto il mondo. Come vedi, niente è già deciso”. Fu come se una lama trafiggesse Erien da parte a parte.
“Per questo mi hai tenuta con te” ansimò. “Mi hai cresciuta affinché la profezia ti concedesse una possibilità, perché tu potessi mantenere il potere!” Nepthya scosse la testa. “Non è importante il potere, almeno non quello che posso conservare io: è la sicurezza della Dualia. Tu non sai che noi Savie conosciamo e teniamo segreta la storia ata; sappiamo che prima del nostro avvento la Dualia era divisa in piccoli stati sempre in guerra tra loro, dove violenza e anarchia regnavano sovrane. Quando ho trovato la profezia annunciante la nascita dell’Eletta, che avrebbe dovuto distruggere tutto il nostro mondo, ho cercato di difendere lo stato e la classe delle Savie. Se la profezia si fosse avverata, la Dualia avrebbe potuto ricadere nel caos, mentre le Savie rappresentano la stabilità e la pace. Questo è molto più importante di tutto il mio potere. Tu sei giovane e non puoi capirlo…” Erien si appoggiò di nuovo al tavolo. Gli occhi le bruciavano per le lacrime sospese. “No, non lo capisco. So solo che tu hai sempre finto con me, che mi hai scelta per un fine che non comprendo. Non m’importa nulla della Dualia, possa andare in rovina!” Nepthya sussultò. “Non parlare così, non dire eresie…” “Dico quel che mi pare!” gridò Erien. “Sono vissuta senza affetto con te, ma ora ho trovato Nolak ed è lui a rendermi forte! Preferisco vivere un solo minuto con lui che mille anni con te! Non potrai fermarmi, tornerò da lui e guiderò i ribelli alla vittoria!” Lo sguardo di Nepthya divenne duro. “Sono ancora in tempo a fermarti. La profezia si avvererà come voglio io: se tu non li guiderai, non potranno vincere e nella Dualia tornerà la pace. Posso farlo, e lo farò, sai che ne sono capace”. “Certo” ribatté Erien. “So che hai mandato a morte Melisia, hai fatto torturare Ziro e altri ribelli, so anche che sei un’assassina”. Nepthya scattò in un grido. “Cosa? Chi te lo ha detto?” Si fermò all’improvviso. Quelle parole erano un’ammissione di colpa. “Quando eri giovane hai ucciso una Savia; lo hai fatto per entrare nella Circolaria, dove c’è sempre stato il numero chiuso”. Vedendo Nepthya a disagio, Erien capì di aver colpito nel segno. “Ma qualcuno ti ha vista e potrebbe testimoniarlo. Mi basterebbe dirlo alle altre Savie e saresti subito espulsa dalla
Circolaria e condannata a morte!” “Non potrai nemmeno pronunciare una sillaba. Ti farò rinchiudere in una zona segreta della Fortezza, da dove non uscirai più e dove i tuoi amici ribelli non potranno mai ritrovarti. Farò in modo che non escano vivi dallo scontro con Gurgon e i suoi soldati”. “Nolak mi troverà in qualsiasi posto tu mi rinchiuda”. “Il tuo Nolak è mio prigioniero. I guardiani aspettano solo un mio ordine per decidere cosa fare di lui”. “Se lo farai asse mi ucciderò anch’io. Non voglio vivere senza di lui. Mi reincarnerò in un’altra persona, chissà quale e chissà dove, e tu non riuscirai più a ritrovarmi. Ricomincerò tutto daccapo, troverò altri ribelli, combatterò insieme a loro e a un altro Nolak. Tu avrai perso comunque!” Nepthya la fissò con occhi che sembravano sfere di vetro. Erien la fronteggiò senza abbassare lo sguardo. Era lei in vantaggio.
Avevano riconosciuto la voce di Erien, anche se non sentivano con chiarezza cosa le due donne si stessero dicendo. Immobili dietro la porta, Nolak e Kervis ascoltavano Nepthya ribattere in tono freddo e autoritario. Di fronte a quell’arroganza, il giovane ribelle provò un moto di rabbia. Erien subiva quel trattamento da parte di colei che aveva sempre difeso. Poi, la ragazza rispose. Attaccava a sua volta, con decisione cruda, dura più della Savia. Nolak non poteva più attendere, doveva rivederla. Sussurrò a Kervis di allontanarsi e non farsi scorgere dalla giovane. Sarebbe entrato nella stanza per portare via Erien da lì. Kervis annuì, si strinsero la mano, il loro patto era stato chiaro e forse non si sarebbero più rivisti.
Kervis sperava solo che tutto si svolgesse come concordato. Alla fine anche lui avrebbe trovato la libertà, ma doveva indossare una corazza da guardiano. L’accordo con Nolak prevedeva che il medico l’avrebbe aggredito e che il giovane non sarebbe riuscito a difendersi; a quel punto Erien, allarmata, sarebbe senz’altro accorsa in suo aiuto. La maledizione stava per finire.
36.
Nolak aprì la porta della stanza all’improvviso. Incontrare Erien lo sconvolse, benché sapesse che era viva e che sarebbe stata condotta lì. Ma trovarsela di fronte, udire la sua voce, rivedere il suo sorriso fu un’emozione inattesa. Erien corse verso di lui: ”Ho sbagliato tutto! Pensavo che questa donna mi volesse davvero bene e non riuscivo a trovare il coraggio di mettermi contro di lei. Soltanto ora ho capito che era stato tutto calcolato: sarei stata la sua arma vincente per sconfiggere i ribelli! Non trovi che tutto questo sia ignobile?” Nolak non riusciva a parlare. L’abbracciò forte. “Ma guarda che bel quadretto!” intervenne Nepthya con un sorriso beffardo. “Come sei riuscito a liberarti? Mai fidarsi di chi ti sta accanto…” Non poté terminare la frase. Un boato sovrastò le sue parole. Nolak si rese subito conto di cosa stava per succedere: “Il terremoto! Questa volta sarà devastante... seguimi Erien, dobbiamo andarcene in fretta da qui!” Mentre cercavano di muoversi iniziarono a barcollare, ondeggiando come se un vortice li stesse inghiottendo.
Dopo le scosse premonitrici, la terra tremava di nuovo, rabbiosa e violenta. Un rombo agghiacciante scuoteva l’aria, grandi crepe si aprivano nel muro, mentre tavolo, sedie e braciere si muovevano come spettri. L’animale primitivo prendeva vita e le costole si richiudevano per inghiottirli.
Nepthya si alzò di scatto dalla sedia e si portò in un angolo della stanza, dove rimase immobile, mentre Nolak aveva preso la mano di Erien e la tirava verso la porta.
“Via, presto, tutto può crollare da un momento all’altro!“ Erien si fermò, combattuta tra il fuggire e il compatimento verso colei che comunque l’aveva allevata. Nonostante le rivelazioni che Nepthya aveva fatto poco prima, non riusciva a trovare il coraggio di abbandonarla a se stessa. “Vieni via con noi!” le gridò. Nepthya la fissò con aria di sfida. “Vattene, hai fatto le tue scelte! Devo mettere al sicuro la biantea!” Mentre pronunciava queste parole un rumore cupo scosse di nuovo la stanza e la libreria alle sue spalle crollò di colpo, assieme a calcinacci e pezzi di muro, seppellendola sotto un ammasso di macerie. Erien cercò di correrle incontro, ma Nolak la trascinò via. “Presto muoviamoci! Non c’è più tempo e per lei è finita!” La prese per mano e la portò con sé, correndo tra le crepe che si aprivano sulle pareti, scappando per evitare il peggio, con i cuori che battevano all’impazzata, più forti del terremoto, le gambe che cercavano di evitare gli squarci nel pavimento, le mani sopra la testa per ripararsi dai detriti. La scala di pietra crollava alle loro spalle mentre scendevano, cercando di sostenersi l’un l’altro sui gradini spaccati, con gli occhi che bruciavano per la polvere e il rumore oscillante che echeggiava nelle orecchie come quello di un tamburo. Raggiunsero con difficoltà l’uscita e si allontanarono quanto bastò per sentirsi al sicuro. Per qualche istante la Circolaria parve reggere alle scosse, mantenendosi eretta, alta e snella, all’apparenza immobile. Poi, all’improvviso, in un rombo assordante, si accartocciò su se stessa, come risucchiata dall’interno. Mentre la nube di polvere si andava pian piano disperdendo, rimase solo una montagna di detriti. In una manciata di secondi, paura, distruzione e morte. Le sagome scure delle Savie in fuga nel polverone, con le lunghe gonne agitate dalla corsa, sembravano anime perdute nella nebbia.
I guardiani che sorvegliavano l’ingresso erano già lontani. Erien e Nolak si guardarono intorno per trovare un cavallo e allontanarsi da quel posto, cercando di raggiungere Ziro e Leida. Mentre si aggirava tra le macerie, lo sguardo di Erien scrutava con ansia i volti che incontrava. “Non c’è traccia di Nepthya…” “Rassegnati Erien, è morta, non può essere riuscita a cavarsela. E’ meglio così per lei e per tutti”. “Non avrebbe mai accettato la sconfitta” annuì Erien. “Cerchiamo di tornare da Ziro e Leida. Ora che Nepthya è morta e tu sei con noi, riusciremo a sconfiggere i guardiani e ricominceremo da capo, con nuove regole e più libertà”.
All’improvviso dalla polvere emerse la forma scura di un guardiano. Una corazza nera, un elmo sul viso, la spada in mano. Senza una parola corse verso di loro e si avventò su Nolak. Il ribelle cercò di contrastarlo, ma l’attacco lo buttò a terra facendogli perdere il coltello. Il soldato lo sovrastò, alzando la spada per colpirlo. Si fermò con la lama in alto, mentre Nolak non faceva niente per difendersi. Per qualche momento i due corpi rimasero immobili, come statue sospese nel tempo. “No!” gridò Erien, riscuotendosi. Raccolse il coltello caduto e si scagliò sul guardiano. L’uomo abbandonò la spada e le strinse le mani intorno al collo. Fu l’istinto che spinse Erien ad affondare la lama. La stretta si allentò. L’uomo si sollevò, rigirandosi su se stesso, poi cadde a terra, mentre le mani stringevano il manico del coltello che gli sporgeva dall’addome.
Dall’elmo uscì un sospiro prolungato, più simile a un anelito di piacere che a un gemito di dolore. Fu tutto. Erien si sollevò, chiedendosi cosa fosse successo, rendendosi conto solo in quel momento di quanto fosse stato tutto così strano, senza spiegazione. Un attacco folle, una lotta assurda, l’impressione di aver recitato una farsa conclusa con quel morto come unica normalità. Solo il corpo a terra era comprensibile, quasi conosciuto. “E’ morto” mormorò Erien tremando e prendendosi il volto tra le mani. “L’ho ucciso io…” Nolak la fece voltare verso di sé. “Era un guardiano e tu ti sei solo difesa”. Addio Kervis, pensò mentre in fretta portava via la ragazza, spero che tu sia riuscito a ottenere ciò che volevi!
37.
Dal piano inferiore giungevano le voci allegre degli invitati. Il padrone di casa aveva dato inizio ai festeggiamenti per il primogenito nel momento in cui i vagiti erano risuonati nell’abitazione e la servetta si era affacciata sulle scale, strillando che era nato un maschietto. Stupida! Pensò la levatrice con rabbia. No, non sarebbe stata lei a portare il bambino dal padre, che aspettava di esibirlo a parenti e amici. Il piccolo aveva smesso di piangere, ma rimaneva con gli occhi aperti e lei non riusciva a guardarlo. “Il bambino…” sospirò la madre adagiata tra i cuscini, “portami il bambino…” Non era una donna, ma poco più di una bambina. Stravolta dal dolore e dalla fatica, il viso pallido e affilato, non poteva aver fatto niente di male per meritare quella pena. La servetta aveva appena finito di pulirla e cambiare la biancheria; tra lenzuola candide, ornate da merletti come voleva la tradizione, i capelli bagnati di sudore ricadevano in onde scure sul seno. “Portamelo, voglio tenerlo con me” insistette. La comare prese dalla culla il piccolo, avvolgendolo in una coperta morbida, e si avvicinò al letto. La madre tese le braccia sorridendo. “Signora…” cominciò la levatrice, “voi siete stanca, forse è meglio che lo vediate quando vi sarete riposata”. Con la sensibilità di madre appena conquistata, la ragazza capì. “Il bambino… sta bene?” “Sì signora, sta bene”. “Non è…” La madre s’interruppe per qualche momento. “Non è deforme, vero?” “No, è un bimbo sano”.
Ferma a pochi i dal letto, la donna posò lo sguardo sul piccolo che teneva in braccio. Era nato con gli occhi aperti, e già questo veniva considerato un segno di sventura. Aveva la pelle del viso piena di rughe, come quella di un vecchio. Ma quello che più colpiva di quel faccino appuntito era lo sguardo intenso. Occhi diversi da quelli acquosi di tutti i neonati normali, occhi seri, coscienti. Amari. Erano gli occhi di un adulto. Lei non riusciva a guardarlo. “Dammelo” insistette la madre, “è mio figlio, voglio vederlo”. La levatrice esitò ancora; poi si rese conto che non avrebbe potuto nascondere la verità ancora a lungo. Depose il bambino sul letto accanto alla madre, che si sollevò su un gomito. La ragazza rimase a osservare il figlio a lungo, senza parlare e senza battere ciglio; poi, all’improvviso, si lasciò andare sui cuscini. “Portalo via!” La voce era carica di disgusto. “Non voglio più vederlo”. Scacciò con un gesto la servetta e chiuse gli occhi. La comare rimise il bambino nella culla. Povero piccolo, pensò guardandolo, non hai colpa di essere nato così. Adesso, ata la prima impressione, il bambino le faceva pena. Con quel visino grinzoso e gli occhi pieni di dolore, sembrava intuire cosa lo stesse aspettando. Non piangeva, come se fosse rassegnato e conoscesse già il percorso della sua vita, tra dispiaceri e problemi, una lunga corsa verso l’oscurità. Era impossibile, eppure la levatrice non riusciva a staccarsi da quell’impressione. Scorgeva occhi consapevoli e tristi, come quelli di un vecchio, senza speranza, con la sola certezza della morte. Come se il bambino non aspettasse più nulla, avesse già vissuto infinite esperienze, e fosse nauseato da mille ricordi di vite ate. Era spaventoso. Povero piccolo, pensò la donna; anche se tua madre riuscirà ad accettarti, sarai sempre un infelice.
38.
Intanto i ribelli continuavano a cercare Leida e Ziro. Certo, volevano festeggiare la vittoria, ma non senza di loro. Eppure, un brutto presagio li accompagnava in quella ricerca. Si scambiavano tra loro informazioni nel tentativo di capire dove fossero finiti. “L’ultima volta che ho visto Ziro stava cercando Leida. L’avevo vista mentre combatteva contro Gurgon, ma poi c’è stata la scossa di terremoto e li ho persi di vista”. “Speriamo che non sia successo il peggio” e così dicendo si divisero di nuovo in gruppi. In quegli stessi istanti Ziro era inginocchiato accanto al corpo ferito di Leida. Dopo aver ucciso Gurgon, si era precipitato dalla ragazza che con una smorfia di dolore si teneva con una mano il fianco sinistro, poco sopra l’inguine. Ziro si era subito strappato la camicia e aveva cercato in qualche modo di fermare l’emorragia. “Fammi vedere la ferita, cercherò di tamponare l’uscita del sangue”. Leida strinse i denti mentre lui le premeva le mani sulla pancia. ”Abbiamo vinto, vero?” domandò a stento. “Sì, ce l’abbiamo fatta, soprattutto per merito tuo”. “Allora posso anche morire…” “Non devi dire queste cose, torneremo al rifugio assieme”. Mentre le parlava, cercando di rassicurarla, si rendeva conto che la lacerazione era molto profonda. A stento riuscì a trattenere le lacrime. “Tu sei forte. Coraggio, vincerai anche questa battaglia”.
Lei scosse la testa. La spada di Gurgon l’aveva colpita all’addome. Ziro sapeva che quel tipo di ferita non lasciava scampo: aveva visto altri urlare per ore prima di morire. Con una mano continuava a premere sul taglio, con l’altra aveva spostato una parte della tunica della giovane donna per rendersi conto di cos’altro potesse fare. Fu allora che vide quel segno. Unico, inconfondibile, a forma di spirale. Ziro si immobilizzò, quasi paralizzato da quella scoperta. “Tu, Leida?” mormorò. “L’Eletta sei tu!” Lei si limitò a fissarlo. “La donna che abbiamo sempre cercato! Tu, vicina a noi come nessun’altra; avrei dovuto capirlo e invece… Perché non hai parlato di questo segno quando Nolak ci ha raccontato la profezia al rifugio?“ “Io non sono la persona che stavate cercando. Non c’entro niente con la profezia. Erien è l’Eletta, io non ho mai avuto nessuno dei suoi poteri, non vedo il futuro…” “Ma noi abbiamo vinto grazie a te. Tu eri con noi, al nostro fianco. La profezia era chiara: affermava che avremmo sconfitto gli avversari solo assieme all’Eletta! Non c’era Erien con noi, c’eri tu. E’ per questo che abbiamo vinto, perché tu sei l’Eletta!” Il respiro di Leida si fece più affannoso. “Non m’importa, non è quello che conta per me. Non ho più molto tempo e prima di morire voglio che tu sappia…” S’interruppe per mordersi le labbra. “Io ti amo. Ti ho sempre amato, anche se tu non ti sei mai accorto di me. Vivevo d’amore per te”. Girò la testa dall’altra parte e rimase con gli occhi chiusi, come se si vergognasse. Ansimava.
Vedendo la ragazza così sofferente, un nodo strinse la gola di Ziro. Si sorprese di quello che lei stava dicendo. In tanti anni non aveva mai sospettato che Leida fosse innamorata di lui. Certo le voleva bene, un bene immenso, era cresciuto al suo fianco e l’aveva sempre considerata un’amica speciale, una sorella. Avrebbe fatto di tutto, pur di farla soffrire meno. Le parole gli uscirono dalla bocca senza che le volesse, senza che le pensasse. “Leida, non è come credi. Anch’io ti amo, ma non ho mai avuto il coraggio di farmi avanti. Ero convinto che tu non avessi occhi che per Nolak, lui è sempre stato migliore di me, in tutti i sensi; temevo di rovinare tutto”. Mentre parlava le lacrime gli rigavano le guance. La vedeva soffrire e non poteva fare niente. Con una mano le accarezzò il volto pallido e sudato, poi le sollevò il capo e la baciò con tenerezza. Lei abbozzò un sorriso; e per un momento sembrò calma. Serena. Ma il sangue continuava a fluire e aveva inzuppato tutta la camicia. Ziro sapeva che non c’erano più speranze. “Sono felice di morire fra le tue braccia” disse Leida in un soffio. “Ti prego, metti fine a questo supplizio… non ce la faccio più”. “Non posso…” rispose il giovane. “Non posso!” finì, con la voce rotta da un singhiozzo. La strinse in un abbraccio, piano, per paura di farle più male. “Ti prego, se mi ami devi farlo”. Leida s’interruppe con un gemito. Ziro chiuse gli occhi, si staccò da lei, si asciugò il viso con il polso. Sfilò adagio il pugnale dalla calzatura, e appoggiandole le labbra alla fronte per darle un bacio, le spinse la lama nel cuore. La ragazza smise di agitarsi e il suo respiro si fece meno ansimante; le sue dita, aggrappate al braccio dell’uomo in una stretta affettuosa, si rilassarono di colpo. Poi il capo ricadde all’indietro e rimase immobile. Mentre Ziro si disperava, abbracciando il corpo ancora caldo, i ribelli che lo stavano cercando lo raggiunsero. Uno di loro si fece avanti e si fermò al suo fianco, in silenzio.
“E’ morta! Leida è morta!” singhiozzò disperato Ziro. “Lei era la vera Eletta, e nessuno di noi l’aveva capito!” Gli altri rimasero in silenzio per qualche minuto. Poi si accorsero del segno a spirale e compresero. “Il suo corpo avrà la sepoltura che merita e la sua anima rinascerà a nuova vita. Le genti a venire la ricorderanno, per sempre”.
Epilogo
Per ore, dopo il terremoto, dalle strade di Caleborn si erano levati pianti e grida di coloro che avevano perso i figli, i genitori, la casa, tutto. Distrutta dalla catastrofe e senza guida a causa della ribellione, la cittadina aveva trascorso giorni durissimi. Poi però era emerso il carattere forte degli abitanti, soffocato ma temprato da decenni di fatiche sotto il potere delle Savie; la gente aveva cominciato a lavorare con energia e la solidarietà cominciò a diffondersi diventando lo stimolo per mitigare il dolore, per pensare a un futuro. Erien e i ribelli si adoperavano più degli altri; persino Plumis lavorava senza lamentele. Le decisioni più importanti ora venivano prese da un comitato esecutivo, presieduto dai maestri dell’Istituto Erech e Galdio, che comprendeva i rappresentanti di tutti i quartieri. In seguito, ata l’emergenza, avrebbero studiato una nuova forma di governo. C’era davvero tanto da fare. La notizia della ribellione e della sconfitta dei guardiani si stava spargendo per tutta la Dualia. Arrivavano messaggeri da ogni parte, per domandare notizie e chiedere a Nolak e Ziro di guidarli nella liberazione di altre città.
Morta Nepthya e annientati i guardiani, i nobili si erano dissociati dalle Savie. Le donne della Circolaria, allo sbando dopo la distruzione della struttura e la fine della loro Anziana Superiora, furono rintracciate ed esiliate, mentre i prigionieri della Fortezza vennero liberati. Quanto rimaneva del palazzo scuro, che incuteva tanta paura, fu smantellato per recuperare materiale utile alla ricostruzione del paese. Era trascorsa una luna dal terremoto e dalla battaglia nella Foresta di Bruma e c’era ancora tanto da fare. Convinto che tutti si meritassero un momento di svago e di riposo, Plumis organizzò una festa in piazza.
Il giorno tre del mese di Luyor, a un mese esatto dalla liberazione dal potere delle Savie e dei guardiani, Caleborn era in festa e si adornava di mille colori. Le vie strette e grigie, ancora piene di detriti, divennero un caleidoscopio in movimento. La gente correva per le strade sventolando panni multicolori, per convergere verso la piazza principale. “Non si chiama più Piazza delle Esecuzioni, ma Piazza della Libertà” fece notare Ziro a Erien. Lei annuì sorridendo. “E il Pozzo dei Condannati è stato sigillato”. “Non vi saranno più esecuzioni pubbliche; avremo solo processi regolari anziché torture” concluse Nolak. “E’ nato un nuovo mondo, in cui vale la pena di vivere”. Si trovavano davanti al palco e faticavano a sentire le loro stesse voci per la confusione che li attorniava. La gente scherzava, rideva, gridava e sventolava bandiere iridate di tutte le forme, cucite durante la notte con stoffe recuperate un po’ ovunque. Adesso quegli stracci irregolari ondeggiavano come un arcobaleno nel mare. “Un mondo nuovo che è costato tanta sofferenza” Ziro s’incupì. Nolak gli appoggiò una mano sulle spalle. “Ma non sono state inutili” disse, “e sono sicuro che anche Leida sarebbe d’accordo”. “Certo” rispose il compagno. Erien girò intorno lo sguardo, cercando qualche distrazione. Fu fortunata: a pochi i di distanza una ragazza bionda molto graziosa sembrava in difficoltà. La bandiera le si era ingarbugliata e non riusciva a districarla. “Credo che abbia bisogno di aiuto” cominciò Erien, come per caso, indicandola a Ziro. Subito il giovane raddrizzò le spalle e si aggiustò la casacca. “Non posso lasciare una fanciulla nei guai!” esclamò.
“Il dovere prima di tutto” concluse Nolak sorridendo, ma il fratello era già partito verso la ragazza bionda. Uno sguardo di intesa perfetta ò tra Erien e Nolak, che si abbracciarono senza aggiungere altro. Dalle loro spalle giungeva della musica. Con le piume tra i capelli e i sonagli alle caviglie, Plumis arrivava saltellando, suonando una cetra e cantando. Con lui uomini e donne battevano sui tamburi o suonavano strumenti improvvisati, cercando di imitarlo nel canto. La gente di Caleborn non sapeva cantare, perché le Savie lo avevano sempre proibito; ma la buona volontà c’era, e più stonavano più ridevano. Vedendo gli amici davanti al palco, Plumis li raggiunse; porse a Erien e alla ragazza bionda un rametto di salvia, poi improvvisò con loro una danza. La gente intorno li imitò. Il cerchio si allargò, se ne formarono altri tutt’attorno finché la piazza fu un vorticare di ruote multicolori che giravano intorno al palco, accompagnate dalla musica.
Vennero organizzati giochi collettivi, si mangiò e si bevve sidro per tutta la mattina. Dopo l’eccitazione e il movimento, la calma prese il sopravvento; ma gran parte della gente rimase in piazza, seduta sulle bandiere, a chiacchierare e godere del sole, che pareva festeggiare insieme all’intero paese. “Se vi fossero state le Savie non avremmo mai potuto fare una festa del genere” notò un uomo. “Grazie a voi!” “La sconfitta dei guardiani è stata merito di Leida” fece notare Erien. “Come?” domandò l’altro. “Chi era Leida?” Fu Plumis a rispondere. “Leida era l’Eletta della profezia, colei che, era scritto, avrebbe deposto il potere di Savie e guardiani. Ma, soprattutto, era una grande donna”.
Di colpo sentì che doveva parlare della ragazza, rendere pubblico quello che aveva fatto, affinché la popolazione potesse esserle riconoscente come meritava. Saltò sul palco. “Noi siamo qui a cantare e ballare per festeggiare la libertà e ci sembra straordinario, quasi troppo bello per essere vero. Ma molti di voi ignorano che ciò era già scritto, già preannunciato secoli fa, in una profezia del Libro dei Duali”. Le persone intorno erano molto interessate: nessuno parlava, seguivano con attenzione quelle parole. Plumis narrò della profezia e la storia di Leida, così come era riuscito a ricostruirla insieme agli amici; pian piano il suo racconto diventò uno sfogo. Non si nascose più dietro agli scherzi e si mise a nudo davanti alla gente. “Avrei dovuto capirlo…” ripeteva.
Avrei dovuto capirlo prima degli altri. Come ho potuto essere tanto distratto, non ricordarmi i particolari importanti? Forse, se avessi compreso, il finale sarebbe stato diverso. Sapevo chi era stata la madre naturale di Leida: una povera pazza che si vendeva per poche dranie e aveva gli occhi di colore diverso. Quando anche Erien mi raccontò che sognava sua mamma con le stesse caratteristiche, avrei dovuto ricordare subito la storia di Leida, e ragionando sarei arrivato a capire che rapporto c’era tra lei ed Erien. Erano sorelle. Padri diversi, ma stessa madre, nate a pochi anni di distanza l’una dall’altra. Loro lo ignoravano, perché quando nacque Erien, Leida era già stata adottata da Erech e sua moglie Fedya. Anche lei aveva il segno a spirale, ma nessuno lo sapeva. Abbiamo tutti creduto che l’Eletta della profezia fosse Erien. Ogni cosa corrispondeva: gli occhi strani della madre, il segno a spirale, l’empatia e le
visioni che la rendevano unica. Ma sbagliavamo. Leida era la vera Eletta, perciò i ribelli sono riusciti a sconfiggere i guardiani nella Foresta di Bruma, nonostante non fosse Erien a guidarli. Leida ignorava il suo ruolo, e quando Nolak raccontò la profezia, pensò come gli altri che si riferisse a Erien. Avevo notato che le due ragazze erano molto più simili tra loro di quanto pensassero e il loro legame era assai forte: l’empatia di Erien si rivolgeva interamente verso la sorella. Erien sognava la madre naturale, che non aveva mai conosciuto, tramite i ricordi di Leida; nelle visioni vedeva Ziro, di cui Leida era innamorata. Ora che la sorella è morta, Erien non ha più visioni. Avrei potuto capirlo e forse Leida sarebbe ancora viva.
“Ancora la rivedo mentre insegna ai giovani l’uso della spada…” Plumis abbassò la testa e cominciò a singhiozzare, mentre intorno a lui la gente era rimasta assorta in un rispettoso silenzio. Non vide che, appoggiata a Nolak, Erien piangeva e che Ziro era salito sul palco. Sentì solo una mano che gli si appoggiava sulle spalle e la voce gentile del ribelle che diceva: “Non tormentarti. Nessuno ha colpa di quello che è successo. Forse era scritto che andasse così”. Il narrastorie si sollevò. Con un inchino la ragazza bionda gli porse il rametto di salvia e lo baciò sulla fronte. Plumis rise tra le lacrime. “Dici che sto invecchiando, se le belle ragazze mi baciano sulla fronte?” “Dico che sei un rivale da non sfidare, perché le donne stravedono per te!” esclamò Ziro. “Solo perché io sono troppo serio e troppo bello!” E rivolgendosi al pubblico Plumis iniziò a fare una boccaccia dietro l’altra e ad imitare le movenze di un orso; la gente adesso rideva e anche lui si sentì meglio.
Ecco, il suo mestiere! Quando ogni cosa diventava un gioco e la gente si divertiva, Plumis stava bene con se stesso.
Ma non tutti erano interessati. Mentre Plumis cantava, una donna con un cappuccio e una sciarpa intorno al viso fece un gesto di rabbia e se ne andò. A un tratto si fermò e voltandosi lanciò al narrastorie un ultimo sguardo prima di allontanarsi. Plumis rabbrividì. Voleva guardare altrove, ma non poteva farlo, come stregato da quegli occhi scuri che lo inseguivano, paralizzato dalla paura. Occhi somiglianti a sfere di vetro e lui ricordava bene quell’espressione priva di umanità. Lo sguardo di Nepthya.
RINGRAZIAMENTI
Scrivere un romanzo a sei mani non è stata un’impresa facile!
Amalgamare pensieri e scritture differenti ha, infatti, comportato tempi di gran lunga superiori a quelli previsti. Alla conclusione di questo difficile percorso, è doveroso ringraziare le persone che hanno contribuito con indicazioni importanti, evidenziando anche errori sfuggiti alle nostre infinite riletture.
Iniziamo con la dottoressa Cristina Guarneri per il suo lavoro di revisione del testo.
Un grazie di cuore a Marco Guerri per la splendida immagine di copertina e i suggerimenti per migliorare l’elaborato; a Roberto Grazzi per i preziosi consigli e le correzioni effettuate; a Enrica, Gabriele, Laura, Marco, Riccardo per l’aiuto e l’incoraggiamento; ai colleghi per averci ispirato diversi personaggi.
Un ringraziamento particolare ai lettori che hanno deciso di trascorrere un po’ di tempo tra le nostre pagine!
INDICE
Prologo
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