Miriam Spizzichino
Le “malattie” del nostro mondo
Racconti brevi
Youcanprint Self - Publishing
Titolo | Le “malattie” del nostro mondo Autrice | Miriam Spizzichino Immagine di copertina | © Zffoto - Fotolia.com ISBN | 9788891132550 Prima edizione digitale: 2014
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Alle mie sorelline Jael e Lior, sperando che tutta la sporcizia di questo mondo non le scalfisca mai.
Indice
1.Introduzione
2.La farfalla che spiccò il volo
3.16 Ottobre 1943
4.La “Gioia” ritrovata
5.Bisogno d'amore
6.Lui e lei, lei e lui
7.La solitudine dell'abbandono
8. Una lettera per te
9. Paura di amare
10. Ringraziamenti
Introduzione
In molti mi hanno chiesto perché avessi scelto come “libro d'esordio” una raccolta di racconti brevi incentrata sulle “malattie” del nostro mondo. “Hai solo vent'anni, perché la decisione di un libro così impegnativo?” Ho deciso di dare la risposta qui, in queste prime pagine di introduzione.
Viviamo in un mondo in cui tutto è incentrato sulla società, su ciò che ci gira intorno. Ogni nostra scelta che, in apparenza, può sembrare libera, è spesso dettata da ciò che viene inculcato nelle nostre menti da chi ci circonda. Una madre, un marito, un politico, un compagno di classe. In questo libro, ho deciso di raccontare storie vissute nel silenzio. Quanti di voi avranno sentito parlare di Adele che, per cercare di non sembrare un impiastro agli occhi della madre, sfogava tutte le sue repressioni mangiando? Come se potesse conferirle un maggiore controllo sulla sua vita, fin troppo manovrata dalla donna che chiamava “mamma”. Oppure la storia di Alida che, nonostante il clima di guerra e persecuzione che tirava, cercava di mantenere unita la propria famiglia di religione ebraica perché trovava stupido morire per i contorti ragionamenti di un uomo che lei stessa definiva malato.
Nel leggere il mio libro, sicuramente potrete notare che tutte le protagoniste sono donne. Tale scelta non è casuale. Le donne, infatti - almeno per quanto mi riguarda - sono la forza motrice di questo mondo e il modo in cui loro affrontano i problemi è molto più introspettivo. Elaborano il dolore in maniera diversa rispetto agli uomini ed è proprio questo il loro punto di forza.
Come è nata la voglia di raccontare le problematiche sociali che attanagliano il nostro mondo? E' tutto iniziato grazie ad una collaborazione con “Wild Italy”, un blog online. Con la redazione creai la mia rubrica “Riflessioni dal mondo” nella quale, attraverso dei racconti brevi, narravo storie di pura invenzione per parlare di tematiche sociali che i media tradizionali non volevano o non potevano trattare. Racconti che, a loro modo, considero "introspettivi”.
Con il are del tempo, decisi di aprire il mio blog personale chiamato “Pensieri Senza Confini” e da lì iniziai a pensare ad un libro in cui avrei potuto raccogliere tutti quei problemi costantemente presenti, ma di cui se ne sente parlare fin troppo poco. Disturbi alimentari, guerre dettate da meri ideali come quella di Hitler sulle teorie di pulizia razziale, violenze sulle donne, omofobia e tanto altro ancora.
Nei miei racconti si denota anche la capacità d'influenza che i problemi hanno sulla nostra vita. Tendono, infatti, a modificarla fino a cambiarla radicalmente. Alcuni hanno incontrato la morte, altri hanno ricominciato a vivere, accettando ogni conseguenza.
Ci tengo a ricordare che ogni riferimento a fatti realmente accaduti e/o a persone realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.
Tutti i fatti narrati sono puramente inventati o sola fonte di ispirazione.
Detto questo, Buona lettura. Miriam
La farfalla che spiccò il volo
La perfezione che regnava nella mia camera faceva da contrasto al disordine che dominava sovrano, all'interno del mio corpo. Un letto matrimoniale, forse troppo grande per una come me, decorato da coperte in puro cashmere e seta. Una scrivania sempre in ordine e poco vissuta che assomigliava molto a quella delle cliniche che tanto odiavo, ma che cosa potevo aspettarmi? Ci ho vissuto dentro per mesi e non sono neanche guarita del tutto. Mi credono malata. Io però mi sento spenta. La forte illuminazione della camera mi infastidiva. Riusciva a far luce ovunque, tranne che nel mio animo. Ogni giorno, si presentava ai miei occhi una camera spoglia della mia personalità, quell'identità che ancora stavo ricercando in me. Chissà se sarei riuscita a trovare me stessa, nonostante le pressioni di mia madre e la forte assenza di mio padre. «Adele, sei in camera tua?» Che tempismo perfetto. Eccola lì, sul ciglio della porta, mia madre Emma. La donna che mi ha messo al mondo diciotto anni fa e che continua a tenermi solo per lei. Sarei stata la sua ombra, per sempre. «Ricordi che sto preparando la nuova collezione per la sfilata? Vorrei che tu sfilassi con l'ultimo abito, quindi, come ogni modella che si rispetti, cerca di entrare almeno in una taglia 38!», continuò a dire, facendomi l'occhiolino, per poi richiudere la porta. Io portavo la taglia 38, perché non se n'era accorta? Corsi verso la mia grande debolezza, lo specchio, ed è lì che i miei occhi erano puntati: il mio corpo. Un corpo assetato di un'eccessiva magrezza, un corpo che non trovava pace, un corpo che odiava guardarsi, un corpo che voleva annientarsi.
«Sono grassa..», ripetevo dentro di me. Troppo grassa per farmi notare da una donna che aveva avuto tutto dalla vita. Una carriera ben avviata nel mondo della moda, la teatralizzazione di un matrimonio perfetto e una figlia che non riusciva a staccare quel maledetto cordone. Lei si era autoconvinta che tutto andasse per il verso giusto, ma non si rendeva conto dei forti problemi che si erano creati all'interno della nostra famiglia e l'unica a pagarne le conseguenze era proprio la sottoscritta.
Come un flashback, la mia mente tornò indietro di un anno. Eravamo nella mia scuola, nello studio dello psicologo ed i miei genitori erano entrambi lì. «Signori Giordano, vi ho mandato a chiamare perché si è venuta a creare una situazione da non sottovalutare. Vostra figlia Adele soffre di stati d'ansia e i professori mi hanno pregato di chiamarvi urgentemente a colloquio. Volevamo approfondire questo problema poiché è un vero peccato per una ragazza come lei, iniziare a smettere di vivere. Ha solo 17 anni e penso che qualsiasi problema abbia, sia possibile risolverlo con l'aiuto di tutti.», disse con fare serio e professionale, alternando lo sguardo tra mia madre e mio padre. Bastarono quelle poche parole per scatenare una vera guerra ed è proprio lì che sentii, per la prima volta, la parola “Anoressia”. «Mia figlia ha questo forte rapporto di amore e odio con la madre e non vorrei che, per assomigliare alle modelle che tanto venera, si sia buttata in qualcosa di più grande. Io sono un medico, lo so che mia figlia ha bisogno di aiuto.», sbottò mio padre, infine, dopo aver parlato per una ventina di minuti su quali potrebbero essere i problemi da cui derivavano i miei attacchi di panico. «Se tua figlia ha un disturbo alimentare non è di certo colpa mia, ma tua! Un padre sempre assente! Se la trovi anoressica, invece di pensare ai pazienti, dedica il tuo tempo a lei! Curala, se sei tanto bravo!», iniziò ad urlare mia
madre, facendomi vergognare. Era andata completamente fuori di senno ed entrambi giocavano a fare da “scarica barile” quando in realtà la colpa era soltanto mia. Io che mi sentivo sbagliata. Io che non volevo essere lì in quel momento. Io che sarei voluta scappare via. «Calmi. Vi prego di mantenere la calma. Per oggi è abbastanza. Ho avuto la conferma che mi serviva: vi serve aiuto. Nessuno escluso», esclamò lo psicologo, cercando di calmare gli animi. Infine, rivolse il suo sguardo a me. «Non preoccuparti, guarirai e starai meglio.. Fidati di me.» Io mi sono fidata, ma quando si ha vicino una madre che cerca di sotterrare i problemi è tutto difficile. Ho fatto terapia fino al compimento dei 18 anni. Sono stata sbattuta in cliniche diverse, sempre per lo stesso problema. Pensavo di esserne uscita completamente, ma una volta tornata a casa il male inesorabilmente tornava. Non osavo pensare che la fonte di tanta sofferenza fosse mia madre. Che poi, forse, in tutti quei pensieri non c'era un filo di bugia, ma mai lo avrei ammesso.
Arrivò l'ora di cena ed io mi diressi al patibolo: un lungo tavolo in legno, apparecchiato con una maniacale perfezione. «Tuo padre stasera non viene a cena, ha una riunione importante», mi precedette mia madre. Annuii silenziosamente e mi accomodai. Una misera insalata con qualche pomodorino nel contorno. A quanto pare, mia madre aveva preso seriamente l'idea di mettermi a dieta per indossare l'abito più importante della serata. Ormai ero abituata a vivere situazioni simili, non era la prima volta che mi capitavano. L'80% delle volte era lei a non volermi far mangiare e il restante 20% mi era ato l'appetito. In fondo era comprensibile, lei mi considerava come un “trofeo” da mostrare alle sfilate ed io mi sentivo morire. Non ero più la sua bambina, ma un manichino vivente. Una volta calato il sipario e tolto il vestito, come per magia, tornavo la
figlia grassa e impacciata di sempre. Chi poteva mai desiderare un tale impiastro? Non le sarebbe mai ato per la mente di lasciarmi, un giorno, il suo Atelier, piuttosto l'avrebbe venduto. Mangiai controvoglia quello che era nel piatto, ma non riuscì a finirlo per il nervoso che avevo accumulato. Lei se ne accorse. Del nervoso? No, del piatto e a quanto pare ne fu contenta. «Oh, non hai finito di cenare? Bhè, sei entrata nell'ottica della dieta! Potresti fare la modella, sai? Se fossi solo... meno... Niente, niente.», le sue parole si bloccarono. Neanche lei riusciva a definire il mio “Essere”. Dovevo essere meno grassottella? Meno timida? Meno impacciata? Meno che cosa? Non lo sapevo neanche io. Questi erano i momenti in cui sentivo la mancanza di mio padre Enzo, l'unica persona che era realmente in grado di capirmi, nonostante il lavoro lo portasse via da me. Decisi di soffocare tutti quei problemi in un bicchiere d'acqua e me ne andai a dormire. Chiusi la porta della mia stanza e lasciai il mondo fuori.
2.00 A.M. Lo stomaco iniziò a brontolare, facendomi perdere completamente il sonno. Decisi di alzarmi lentamente e mi diressi verso la cucina, sperando di non trovare mia madre. Aprii la porta e trovai mio padre intento a cenare. «Tesoro, che succede? Non hai sonno?», esclamò guardandomi con fare preoccupato. Adoravo quando si allarmava per me, forse perché era l'unico. Mi diressi verso di lui, sedendomi al suo fianco. «Io, veramente... Mi sono svegliata perché ho fame..» sussurrai, quasi vergognandomi di quell'affermazione. Come se fosse una colpa avere uno stomaco che brontola per essere riempito.
«E allora che aspettiamo a far carburare questo pancino?» mi rispose, apparecchiando velocemente anche per me. Lui e le sue manie di grandezza avevano fatto sì che la pasta sarebbe bastata per tutta la famiglia, così impiattò quella grande dose di carboidrati ed i miei occhi, in tutta risposta, brillavano davanti a tale visione. Presi la forchetta, stavo per portarmela alla bocca quando tentennai, ripensando alla sfilata imminente. «Tua madre continua a farti pressioni su pressioni, non è vero? Stai tranquilla, non le dirò niente.. Sei così magra, bella e piena di vita, pensi che se ne accorga?» domandò, abbozzando un sorriso. In tutta risposta, finalmente, assaporai la mia prima pasta, dopo quasi un anno. Continuammo a chiacchierare ancora per qualche minuto, ma la serenità di prima venne interrotta dai miei sensi di colpa che cercavo di nascondere agli occhi di mio padre. Cancellai ogni traccia, mettendo le stoviglie a lavare. Mamma non se ne sarebbe accorta ed io sarei stata “in pace con me stessa”. Peccato che mi sbagliavo. Quando mio padre se ne andò a dormire, rimasi un altro po' in cucina, da sola, e sentii il bisogno di continuare a mangiare. Da quanto tempo non mangiavo così bene? Peccato che quella fame si era trasformata in un qualcosa di più infimo e nevrotico. Sentivo il bisogno di mangiare, mangiare e mangiare. ai in rassegna qualsiasi cosa mi capitasse davanti, finché non mi fermai improvvisamente. I sensi di colpa stavano tornando e non sarebbe bastato pulire i piatti e buttare nella spazzatura le prove della mia colpevolezza. Dovevo espellerle anche dal mio corpo. Iniziai a camminare verso il bagno, in modo quasi meccanico. Setacciai tutti i cassetti nella tormentata ricerca dei lassativi, ma non ne trovai. In questi casi, c'era solamente una cosa da fare. Aprii il lavandino nel disperato bisogno di attutire i rumori dei conati di vomito che di lì a poco mi sarei autoindotta.
Mi abbassai china sul water, chiusi gli occhi e mi infilai due dita in gola. Scusa papà. Non c'è niente di più devastante del combattere contro sé stessi. E' una lotta tra te e il tuo corpo. Chi vincerà? La ragione o l'istinto primitivo e quasi di sottomissione nei riguardi del cibo? Sì, perché il cibo ci rende schiave. Lo dice sempre mia madre, senza rendersi conto del dolore che mi causa, facendomi sentire diversa. Forse la colpa è solo e soltanto mia, ma è anche vero che mai nessuno potrà capirti quando gli spettri risiedono dentro te. Tu sei l'unica a sapere quello che provi e dovrai contare solamente sulle tue forze. Il male non è condiviso, ti appartiene. Ti si attacca alle carni e alle ossa, ma questo non puoi permetterlo di dirlo e preferisci tenerlo per te. Ecco, forse è andata proprio così la mia storia. Una vita piatta, silenziosa, nella quale se qualcuno avesse voluto entrarci in punta di piedi, lo avrei percepito ugualmente e l'avrei cacciato. Preferivo la solitudine e il calore delle mie felpe, sempre più grandi di me per nascondere il mio peccato mortale. Eh sì, perché stavo andando incontro alla morte, lo sapevo, e nessuno sarebbe riuscito a fermare questo processo ormai fin troppo avviato, ma soprattutto nessuno avrebbe saputo il mio segreto. Neanche tu, mio caro papà.
arono i giorni, tutti in egual modo, e finalmente arrivò la grande serata in cui avrei debuttato nella sfilata di mia madre.
Dall'ultima volta, le cose non erano cambiate. Ho continuato a are le giornate senza mangiare e nel caso in cui mi concedevo il lusso di un'insalata, correvo in bagno per vomitarla. Credevo che così facendo mi sarei presa gioco del mio stomaco. Lui si sarebbe sentito appagato ed io avrei raggiunto quella scarna magrezza che desideravo tanto sfiorare. Sul primo punto mi sbagliavo, sul secondo mi ritrovai ad aver ragione. Avevo perso molti chili e, guardandomi allo specchio, il mio viso risultava scavato e le ossa del corpo erano leggermente sporgenti. Tutti sembravano far caso a questo cambiamento repentino, nonostante fossero già abituati alla mia “ostentata magrezza”, e sembravano spaventati. Eppure mi sentivo bene con me stessa e avrei voluto continuare a vivere la mia vita in questo modo. L'essere ogni oltre modo magri, secchi stava diventando come una droga. Più ne ottenevo, più ne volevo. Una continua ricerca del mio corpo che man mano sentivo sempre più goffo ed ingombrante.
Mia madre entrò in stanza, portandomi il vestito. Mi sentivo fiacca e lei sembrava notarlo. «Adele, che ti prende? Sei svenuta per tutta la settimana, spero non si ripeta stasera alla sfilata! Capisco il caldo, ma a questo punto prendi degli integratori. Tieniti in movimento!», mi bacchettò, posando l'abito sul mio letto per poi scomparire in salotto. L'abito era lì, a pochi metri da me, e sembrava fissarmi nella sua perfezione. Decisi di provarlo.
Il corpetto, impreziosito da piccoli punti luce, mi calzava a pennello, se non fosse stato per lo scollo a V con cui avrei dovuto mettere in mostra un seno prosperoso che da mesi mancava, come le mie mestruazioni. Solo ora mi resi conto che pensavo di avere tutto, ma non mi era rimasto niente. Neanche la mia
folta chioma che, improvvisamente, da qualche settimana si era indebolita a tal punto da cominciare a spezzarsi. Stavo perdendo i miei capelli. L'unica soluzione? Un taglio netto. La mia femminilità era stata annientata.
Ciò che rimaneva di me era uno stecchino ricoperto dalle smagliature che regnavano sovrane sulla mia pelle, che non era abbastanza elastica da seguire le mie abitudini masochiste. La parte inferiore dell'abito era caratterizzata da una particolare sovrapposizione del tessuto che lo rendeva asimmetrico. In totale contrasto con il corpetto, ma non ci facevo più molto caso. Tornai verso il mio armadio per rimettermi in tuta da ginnastica quando, ad un tratto, la vista cominciò a farsi sfuocata. Iniziai a barcollare, avvertendo dei forti giramenti di testa e ciò che mi spaventava maggiormente era la non padronanza del mio corpo. Successe tutto così in fretta. La stanza sembrava rimpicciolirsi vorticosamente e, nonostante il silenzio assordante, nelle orecchie risuonavano i rintocchi del mio cuore che, come un orologio a pendolo, piano piano rallentavano gradualmente, scandendo inesorabilmente quel momento. Mi stavo perdendo e potevo coglierne ogni tetra sfumatura. Non dovevo arrendermi, non potevo. Recuperando in qualche modo le forze, riuscii a dirigermi in bagno nel disperato tentativo di agguantare, dall'armadio delle medicine, qualcosa che potesse far interrompere questa giostra mortale. Era tutto inutile, sapevo che in realtà i miei medicinali non avrebbero fatto niente per il mio cuore che aveva deciso di arrendersi, di sventolare bandiera bianca. Al contrario, quelle medicine avevano il brutto vizio di buttarmi giù invece di aiutarmi veramente. Mi ero scavata la fossa da sola. Quando varcai la soglia del bagno, le mie gambe non ressero più e, come due tronchi segati, cominciarono a piegarsi, trascinandomi sul pavimento. Le pareti bianche si fecero grigie, poi sempre più scure, fino a scomparire. I miei occhi si chio come un sipario. Il mio triste spettacolo era finito, la mia scarna esistenza era stata messa a tacere per sempre e lasciai questo mondo così come ci ero entrata. In punta di piedi, con un abito che mascherava la vera me
stessa, ma con un paio di ali che lentamente si facevano spazio tra il tessuto e le ossa per portarmi via da lì. Finalmente ero libera. Finalmente la farfalla aveva spiccato il volo.
16 Ottobre 1943
28 Settembre 1943 Con l'arrivo delle leggi razziali, la mia famiglia si è divisa. Mio fratello e mia sorella sono scappati. Giacomo, mio marito, ha deciso di rimanere a Roma, un “bonaccione” come lui non avrebbe mai pensato di venire maltrattato dalla sua stessa patria.
Era un lunedì sera, stavo finendo di sistemare la cucina e la mia bambina già dormiva nel suo letto. Mio marito e mio figlio grande erano andati ad un incontro con dei correligionari e sarebbero rientrati dopo cena. Avevo quasi finito di pulire i piatti, quando mi parve di sentire delle urla dalle scale. Riconobbi la voce di Giacomo e di mio figlio Marco, non feci in tempo ad aprire la porta che piombarono in cucina. «State boni, non urlate che sennò i vicini baccaiano e me svegliate Sara, bella de mamma sua!» esclamai, puntandogli contro l'unica arma a mia disposizione: una paletta di legno appena lavata. «Alida, per quanto è vero che esiste Dio... Mo je stacco la testa a tuo figlio!» ribatté mio marito, venendomi incontro con gli occhi rossi dalla rabbia. «Che oltretutto è anche tuo figlio, però so dettagli..» posai la paletta sopra una pentola che stava ad asciugare e presi per il colletto Marco. E' sempre stato un po' ribelle, ma era un'adolescente e quindi cercavo di capirlo nei limiti del possibile.
«Mamma, non ce la faccio più... Vojo scappà come zio Giacobbe e zia Rosa! Ma che stamo a fà ancora qua? M'hanno negato tutto.. Pure il diritto de studià!» iniziò a dire, sedendosi poco distante.
Ascoltavo con piacere le sue idee da giovane libero, ma come potevo scappare con una bambina di 7 anni e lui di 16? Era impossibile. «Ma le senti le fesserie che dice?! Marcù, tu ancora non hai capito che Roma è la nostra città ed è qui che dovemo da stà! Non me ne frega niente delle leggi razziali, io sono italiano... Sono nato qui!» la voce di mio marito sovrastava di gran lunga quella del mio bambino. «E lascialo parlare, dai! Marcuccio, bello di mamma, continua...» mi sedetti accanto a lui, dopo aver zittito mio marito e lo incoraggiai a parlare. Ci hanno tolto tutto, ma non il pensiero e se Marco aveva qualcosa da dire era giusto rimanere ad ascoltarlo... Qualsiasi decisione avremmo preso. «La nostra patria non è questa, ci venderanno ai tedeschi... Sarà Mussolini a farlo!» dette queste ultime parole, si alzò da tavola e se ne andò nella sua stanza, comunicante con quella della sorella.
Mio marito si sedette accanto a me e mi strinse le mani. Aveva lo sguardo sconvolto, sentivo che sotto sotto c'era qualcosa che non aveva il coraggio di dirmi. «Sono due mesi che tuo fratello e tua sorella sono partiti e non abbiamo più avuto loro notizie... Non voglio fare l'uccello del malaugurio, ma che ne sai? E' tutto così pericoloso. C'hanno levato la licenza, i nostri averi e pensavamo di rimanere ancora al sicuro. Poi so arrivati i tedeschi e hanno voluto 50 chili d'oro due giorni fa. Non posso pensare di andarmene con due figli e una moglie, non me lo perdonerei se vi succedesse qualcosa... Piuttosto morirei io.» I miei occhi si scontrarono con i suoi ed iniziammo a piangere silenziosamente. Sapevamo già come sarebbe andata a finire e, proprio per questo, non potevamo rimanere ancora a lungo qui. Dovevamo salutare Roma.
«Dobbiamo proteggere la nostra famiglia. Lisetta mi ha detto di aver dato sue figlie alle suore, le fanno à pe cattoliche. Credo che sarebbe meglio mandare Sara là.» ruppi quel silenzio con una frase troppo azzardata, infatti mio marito si volse e mi fulminò con uno di quei sguardi che avevano il brutto vizio di spiazzarmi. «Tu sei matta! C'ha 7 anni... Je fanno er lavaggio del cervello e dovemo pure pagà! Dove li trovamo i soldi? Diventa cattolica pe davvero e manco se n'accorgemo. Poi dijelo te a mio cugino, il Rabbino...» Mi alzai da tavola bruscamente. Ne avevo abbastanza. La situazione era delicata, il denaro scarseggiava e la sua unica preoccupazione era la religione? «Hai altre idee? No. Non si tratta di un lavaggio del cervello, ma di insegnarle a dire qualche preghiera come l'Ave Maria nel caso in cui i tedeschi vengano a controllare. Alla fine, anche se fosse, meglio cattolica che morta, non credi?» «... Domani ci informiamo e... Ce la mandiamo. E Marcuccio però?» Domandò con il groppo in gola. La fine era vicina e noi non pensavamo di doverci fare i conti adesso, avevamo ancora tanto da vivere. «Ci pensiamo domani.» Conclusi per poi andarmene a letto. Lasciai mio marito solo con i suoi pensieri, mentre io me li portai sotto le coperte.
1 Ottobre 1943 Erano ati pochi giorni da quella decisione e, dopo tanti ripensamenti, lasciammo Sara con la promessa di venirla a trovare almeno una volta al mese. Non so se saremmo riusciti a mantenere la promessa perché io e Giacomo avevamo pensato di venirla a prendere una volta finita la guerra. «Mamma, che facciamo adesso?», domandò mio figlio. Il mio sguardo andò sulla stella gialla che portava sul petto. Quel simbolo urlava un solo nome riconoscibile a tutti: "Ebreo". Eravamo tutti schedati. Perché non
siamo scappati anche noi? Mio marito tirò fuori dal giaccone una busta da lettera e la porse a mio figlio. «Mettila subito in tasca.», borbottò con fare sospetto. Marcuccio si sbrigò a riporla dove il padre gli aveva detto, senza opporre resistenza. Giacomo si mise davanti a lui, gli mise le mani sulle spalle ed iniziò a parlare con lo sguardo cupo. «Guardami Marcù. T'abbiamo dato un dono prezioso che non deve finì in mano ai tedeschi.» «Il regalo è nella busta?» «No, bello de papà. Il dono prezioso è la tua vita. Qui c'hanno levato il lavoro, l'istruzione, la libertà. Siamo diventati na razza e nemici dei tedeschi. Devi scappare e in quella busta c'è la tua libertà.» Appena finì di parlare, lo spinse leggermente verso di me. Lo strinsi forte contro il petto. Il mio bambino era diventato grande troppo in fretta. L'abbraccio si dissolse tra le lacrime di entrambi. «E' arrivato il momento, vieni. Papà ti spiega un po' di cose prima di andare.», lo prese sottobraccio mio marito. «Alida, vai a casa. Ci penso io a lui.», mi liquidò cosi ed io mi sentii sola.
Arrivò l'ora di cena ed io ero nella mia piccola casa, sola con mio marito. Immaginavo mio figlio in viaggio verso la meta che tanto desiderava raggiungere: la Palestina. Io e mio marito eravamo riusciti a metterci in contatto con la “Delasem”, la delegazione per l'assistenza agli immigrati che si era prodigata di aiutare i giovani ad espatriare all'estero. Per farlo, però, prima
doveva are per Modena, dove avrebbe alloggiato in una villa con altri ragazzi che dovrebbero avere all'incirca la sua età. I miei figli mi mancavano già, ma non potevo essere egoista e lasciarli morire al mio fianco. Quando li misi al mondo feci una promessa a Dio: proteggerli a costo di perdere la mia stessa vita. Quella protezione era venuta a mancare, non mi era più possibile mantenerla, e così, a malincuore, era giunto il momento di lasciarli andare al loro destino. Che ne sarà della nostra famiglia?
14 ottobre 1943 Ero in casa a preparare il pranzo quando mio marito entrò bruscamente in cucina, facendomi sobbalzare. Lo sentivo che blaterava discorsi sui tedeschi e la comunità ebraica, aggirandosi per l’appartamento come un leone in gabbia. Continuavo a non capire e proprio per questo decisi di bloccare il suo andirivieni nervoso per saperne di più. C'era qualcosa che non mi quadrava e avevo paura che c'entrassero qualcosa i miei figli. Quattordici giorni senza la loro presenza erano asfissianti e insopportabili oltre ogni immaginazione. L'ansia continuava a non darmi pace perché di loro non avevamo più notizie da troppo tempo ed era diventato pericoloso perfino girare per strada, quindi non sarei potuta andare a trovare la mia piccola Sara. Mio cugino, rimasto anche lui a Roma, era stato picchiato qualche giorno fa da alcuni teppisti che urlavano “Ebrei, feccia dei ghetti!”. Il tempo stava diventando incerto e l'aria che si respirava emanava lo stesso tetro presagio. «Giacomo, ti si sente fino all'altra camera. Che succede?» Domandai con un filo di voce, impaurita dai film che si stagliavano nella mia mente. «I tedeschi, Alida. I soldati tedeschi hanno saccheggiato ieri la biblioteca della Comunità e quella del Collegio Rabbinico. Questo è un affronto alla nostra cultura! Per chi ci hanno preso? Continuano a torturarci, Alì!» Mentre mi raccontava quanto era successo, non riusciva a smettere di camminare e, anche se l’avevo convinto a sedersi sul letto nella nostra camera, cominciò a
tracciare dei solchi nel pavimento a forza di camminare intorno al materasso. Doveva sfogarsi in qualche modo e io non sapevo cosa dirgli perché in fin dei conti aveva ragione. Ci avevano chiesto 50 chili d'oro e glieli abbiamo dati in tempo. Per farlo, ho dovuto dire addio perfino ai gioielli che mi erano rimasti di mia madre. Poi, non contenti, sono venuti a perquisire gli uffici della Comunità per prendere tutto il materiale d'archivio. Adesso la biblioteca. L'odio riesce ad arrivare anche a questo. Incredibile!
«Hai notizie di Marcuccio?», chiesi cercando di cambiare discorso. Al momento la mia priorità era un'altra: miei figli. Per quanto riguardava Sara, sapevo che stava bene con le suore e le sue amiche ebree che, come lei, si trovavano lì per lo stesso motivo. «Sembra che vada tutto bene. Non preoccuparti Alì, nostri figli sono al sicuro... Il problema siamo noi.» Mi rispose, evitando di inciampare nei miei occhi. «I nostri figli hanno bisogno di noi, soprattutto la piccola... Non posso lasciarla in questo mondo così, non possono strapparmi dai miei figli. Non dobbiamo morire, non dobbiamo...» E scoppiai a piangere, correndo verso di lui. Una volta ero io la più forte della famiglia, ma davanti a certe situazioni non ci riesco. E' più forte di me. Mio marito mi accolse tra le sue braccia e rimanemmo così per qualche minuto. Stretta in quell’abbraccio sentivo il mio volto bagnarsi da piccole gocce, come se dall'alto stesse piovendo. Non erano le mie lacrime però. Erano le sue.
16 ottobre 1943 Erano le 5.15 di un sabato mattina. A Portico d'Ottavia, zona in cui abitavo, regnava la pace. La città doveva ancora svegliarsi e si sa che durante le festività si rimane a letto un po' di più. Io avevo l'abitudine di svegliarmi verso le 6 del mattino, ma quel giorno era il terzo giorno di Sukkot, la festa delle capanne, ed era anche Shabbat, quindi decisi di posticipare ogni sorta di pulizie in tarda mattinata. Volevo dormire ancora qualche ora, ma così non fu.
Alle 5.30 di mattina, una quindicina di minuti più tardi, siamo stati svegliati dalle urla dei vicini. «Aiuto! I tedeschi!» gridavano disperati sbracciandosi dalle finestre. Mi affacciai velocemente anch’io , nonostante fossi ancora intontita dal sonno, e vidi dei camioncini degli SS in cui venivano ammassati alcuni ebrei di nostra conoscenza. C'erano molti soldati tedeschi armati. Non ne avevo mai visti così tanti in vita mia e la maggior parte di loro si avvicinavano con fare minaccioso ad ogni casa. Nelle mani tenevano dei fogli. Non potevo crederci... Cercavano gli ebrei? Alzai lo sguardo al cielo e notai con stupore che molti uomini, padri di famiglia, stavano saltando da un tetto ad un altro per scappare. Noi donne avremmo potuto anche cavarcela con scaltrezza, ma loro no. Una volta abbassate le mutande, si sarebbe scoperta la loro vera identità.
«Giacomo, sveglia! Ci stanno i tedeschi! Stanno portando via tutti! Esterina, Davidino.. Ho visto anche il figlio de zia Lella!» Strepitai presa dalla disperazione mentre mio marito si alzava vorticosamente dal letto per cercare i vestiti. Non avevamo scelta, dovevamo scappare via dal ghetto. «Bisogna scappare dai tetti, vieni con me.» Esclamò mio marito, prendendomi la mano. «Lo sai che soffro di vertigini, sarei di ingombro... Vai, scappa. Saprò cavarmela, tu no. Lo scopriranno subito che sei ebreo!» Ribattei, distaccandomi da lui. Provò a rispondermi per cercare di convincermi, ma lo zittii subito. Non c'era tempo e i tedeschi stavano per arrivare anche nel nostro palazzo.
«Quando tutto si sarà calmato tornerò qui, nella nostra casa. Ci vediamo presto.» Mi baciò. Un bacio leggero. Uno di quelli che si danno la mattina, appena svegli, prima di correre in bottega. Un bacio veloce, ma spensierato. Ecco, questa volta sentii la differenza. La percepii dai nostri occhi lucidi. In poco più di un minuto avevo perso mio marito e chissà quando lo avrei rivisto.
ai due minuti in preda all’ansia e nervosismo, finché all'improvviso sentii i rumori di i pesanti che percorrevano frettolosamente le scale. Sentii distintamente bussare ad ogni porta, mentre donne e bambini si disperavano. Bussarono anche alla mia ed io trasalii. Era arrivato il mio turno.
Nella mia mente, come un flashback, ripercorsi tutta la mia intera esistenza. Quelle volte in cui mi mettevo vicino a mia madre che faceva l'uncinetto e la guardavo, incantata dalle sue mani che sembravano “fatate”. Ricordai il primo bacio a Giacomo, sotto il porticato, nascosti, perché in pubblico non si poteva. Mentre raggiungevo l'ingresso per andare ad aprire, con la mente pensavo al primo giorno in cui varcai quella porta tra le braccia di lui, appena sposati. E in quella notte concepimmo il frutto del nostro amore, Marco. Sentii una forte pressione sulla porta, stavano cercando di aprirla ed io, in tutta risposta, la feci scattare due volte prima di spalancarla completamente, ritrovandomi di fronte a due soldati tedeschi armati e un uomo, presumibilmente italiano, che in mano teneva alcune scartoffie. Le gambe mi tremavano, ma non dovevo darlo a vedere. In gioco c'era la mia vita e mai l'avrei lasciata, abbandonando i miei figli per sempre.
«Lei è la signora Di Castro, sposata in Piperno?» domandò l'italiano, leggendo quei cognomi dai documenti che teneva in mano. Eravamo tutti schedati e lo sapevamo benissimo. «No, mi spiace. E' andata a casa dei parenti per le festività, insieme al marito e ai figli. Io sono Maria, devo tenerle pulita la casa mentre è via.» risposi con nonchalance, mentre cercavo di rimanere lucida e calma. Potevo sentire il battito del mio cuore che risuonava sempre più forte nelle mie orecchie. L'uomo riportava in un tedesco “italianizzato” le mie parole. Avevo fatto bene ad imparare un po' di quella lingua, sapevo che mi sarebbe tornata utile, purtroppo. «Dove si trova la famiglia?» mi incalzò nuovamente l'uomo. «Io sono nuova, non le so proprio dire.» ribattei, sbiascicando una parlata con il dialetto tipico del sud, in modo da potermi camuffare meglio.
L'uomo e i soldati continuarono a confabulare tra loro, controllando e ricontrollando i fogli. «Venga con noi...» mi presero di forza ed iniziammo a scendere le scale bruscamente. Chissà dove mi avrebbero portato. La mia fine era vicina? Lo sentivo.. Ma non potevano ammazzarci tutti! Allora, che ne sarà di noi?
Una volta scesi in strada, mi resi finalmente conto di ciò che stava succedendo. Gente che urlava, bambini che si attaccavano alle gonnelle delle madri, anziani buttati da una parte all'altra per cercare di caricare più camion possibili. Dove ci avrebbero portato? «Moriremo tutti, ci uccideranno.» sentivo urlare da persone che cercavano di scappare, ma venivano riprese e picchiate violentemente. «Ruhe! Ruhe!» urlavano le SS. Volevano il silenzio assoluto e se qualcuno gridava, ci sarebbero state altre botte date a mano nuda o con le armi che avevano a loro disposizione. Rabbrividii e chiusi gli occhi. Non volevo vedere.
Arrivò il mio turno e un soldato tedesco mi spintonò sopra il camion, ormai fin troppo pieno. «Maria, Maria.. Ma che ci fai lì?» sentii urlare. Iniziai a guardarmi intorno, era una voce conosciuta. «Lasciatela, è la mia donna di servizio! Maria, scendi giù! Quante volte devo dirti di non fraternizzare con gli ebrei? Aiutatela a scendere!» continuò ad urlare ai soldati e all'uomo italiano che, nel frattempo, si era riavvicinato a noi. Si rivolse nuovamente alle SS che, con sguardo torvo, si apprestavano a farmi scendere per poi spintonarmi verso di lei. La mia salvezza. Era Anna, un'amica d'infanzia di mia madre.
Ci allontanammo velocemente da lì, per evitare di essere riconosciute da qualche correligionario meno fortunato. Il mio cuore si stringeva nel vedere tutta quella situazione. Forse sarei riuscita a salvare qualcuno, ma in quel momento la mia priorità era andarmene da lì per proteggere la mia vita ad ogni costo.
Arrivammo dopo qualche ora nella sua dimora fuori il fulcro della capitale, riuscendo a scappare ai controlli maniacali dei tedeschi che avevano bloccato tutto. «Alida, menomale che stai bene. Appena ho saputo quello che stava succedendo sono corsa da te, sperando di trovarti ancora sana e salva! I bambini? Tuo marito?», iniziò a domandarmi visibilmente preoccupata ed io cominciai a raccontarle tutto quello che era successo nei giorni precedenti, dal convento di Sara al viaggio di Marco, per poi are a Giacomo che era scappato di tetto in tetto per cercare di uscire dalla zona dove abitavamo. Anna scoppiò a piangere ed io mi ritrovai a consolarla, quando in realtà ne avevo più bisogno io di lei. Non sapevo come sarebbe andata a finire e se sarei tornata a vivere, perché quella che vivevo non era vita. Avrei riabbracciato miei figli e mio marito? Speravo davvero di poterli incontrare di nuovo in un futuro prossimo. Tutti insieme, a cena fuori, come usavamo fare ogni sabato sera all'uscita di Shabbat. Quella vita, che per me era quotidianità, mi mancava veramente e avrei fatto di tutto per riaverli al mio fianco. Mi ritrovai invece a vivere di ricordi e andò avanti così fino alla fine della guerra. Anna non aveva una famiglia. Aveva solo mia madre – che vedeva più come una sorella maggiore - e io, insieme a mia sorella e mio fratello, eravamo i suoi “nipoti”. Mi immagino la sua preoccupazione quella mattina del 16 ottobre, quando venne a sapere della retata al ghetto e, sapendo che miei fratelli erano partiti, è venuta a salvare me.
Lei mi ha protetto nella sua casa e io sono stata nelle sue calde braccia, mentre piangevo per la separazione dalla mia famiglia. Finalmente, dopo tanti anni, ho riscoperto l'amore di una madre e sono riuscita a sentirmi di nuovo “figlia”. Chissà se anche la mia piccola Sara viene coccolata come me. Ho vissuto con lei senza mai uscire per paura di essere catturata. Sono stata mesi senza sapere che fine avesse fatto la mia famiglia. Confondevo il giorno con la notte e il tempo ava senza che io me ne accorgessi fino a quando, una
mattina, Anna, spalancò la porta della mia camera e urlò: «Sono arrivati gli alleati... Alida sei libera! Roma è libera!» Finalmente mi rividi lì, come in un film, nella mia casa, insieme ai miei bambini che si divertivano a giocare come una volta. Mi sentii nuovamente nel calore del mio letto, con accanto l'uomo che avevo sposato e che amavo più della mia stessa vita. «Devo andare dai miei figli!» Furono le prime parole che esclamai, con le lacrime agli occhi, e così feci. Era il 4 giugno 1944, una data che non dimenticherò mai.
Una settimana dopo Camminavo per le strade deserte, era mattino presto. C'era chi dormiva tra le braccia del marito o chi, tra le braccia, teneva il proprio cucciolo da allattare. C'era chi doveva alzarsi, ma proprio non ne aveva voglia e poi c'ero io che camminavo a i incerti nella Capitale che riconoscevo a stento. Eppure ci ero nata e cresciuta. Mi dirigevo verso il convento che aveva accudito la mia bambina per tutti questi mesi e nel frattempo mi domandavo quanto fosse cambiata e se mi avesse perdonata di tutto. L'avevo abbandonata, è vero, ma per la sua incolumità.
Persa nei miei pensieri, com'ero, non mi resi conto di essere giunta a destinazione. Bussai due volte e mi aprì la stessa suora che a suo tempo si occupò di prendere in custodia la mia piccola Sara. «Salve, in che cosa posso esservi utile?» mi domandò, sicuramente non riconoscendomi. «Sono venuta a prendere la mia bambina, Sara Piperno.» risposi con gli occhi lucidi e notai che con la mia semplice frase, anche la suora si emozionò e con un fil di voce mi disse di seguirla. Dopo aver percorso qualche metro, mi fece cenno di entrare in una piccola
stanza dove una bambina stava pregando, dandoci le spalle. Ci volle qualche secondo per realizzare chi fosse, era la mia piccola Sara. Mi avvicinai lentamente per non disturbarla. «Ascolta, Israele, il Signore è il nostro Dio, il Signore è Uno.» pregava ad occhi chiusi. «Ascolta le mie preghiere, riportami dalla mia famiglia... Dio, aiutami.» continuava a dire e lì non ressi più. Mi avvicinai a lei, le porsi una mano sulla spalla ed esclamai «Non c'è stato un secondo in cui i miei pensieri non fossero rivolti a te e Marcuccio.»
Successe tutto in una frazione di secondo. Sara che si alzò in piedi, in lacrime, e mi abbracciò. Un abbraccio che riuscì a suggellare nuovamente la nostra unione, senza più interferenze. Un abbraccio di una bambina che per mesi è stata separata dalla propria famiglia, senza punti di riferimento, se non le suore a lei sconosciute da sempre. Un abbraccio di una madre che finalmente era riuscita a ricongiungersi con il proprio cuore. «Vai a prendere le tue cose, amore mio. E' tutto finito, si torna a casa.» mi limitai a dire, con le lacrime agli occhi. Eravamo entrambe visibilmente emozionate e nessuna parola sarebbe bastata per colmare tutta quella distanza che si era andata a creare per colpa della guerra. Per tutto il tragitto verso la nostra casa, Sara era curiosa di sapere che cosa fosse successo in tutti quei mesi, ma soprattutto dove fosse andato il fratello ed il padre. Per quanto riguarda Marco, ero felice di dirle che si trovava in Palestina, nella terra promessa, e che avevo ricevuto una sua lettera in cui mi diceva che sarebbe tornato tra qualche settimana, mentre per Giacomo non mi ero sbilanciata. Neanche io sapevo che fine avesse fatto, forse si era rifugiato al sud o anche lui verso la terra promessa. L'unica cosa di cui ero completamente certa è che ci saremmo rivisti a casa, era questione di settimane o, nel peggiore delle ipotesi, mesi. Il sorriso sul volto di Sara mi fece capire che tutto stava andando per il verso giusto. Non c'era niente di cui preoccuparsi, il peggio era ato e finalmente saremmo tornati ad essere una famiglia serena, nella nostra umile dimora, anche se - dopo tutto quello che era successo - non sentivo più Roma come la mia città. Mi ero sentita “venduta” dal paese per cui avevo dato tanto, ma speravo che quella
situazione si potesse attenuare nel tempo. Il tempo avrebbe cicatrizzato ogni ferita. Per adesso però, era tutto così vivido e doloroso. erà.
*** 1950. Erano ati 6 lunghi anni dal giorno in cui rimisi piede nella mia casa, in.sieme a mia figlia Sara. Marco, il più grande, aveva fatto ritorno qualche settimana più tardi, portandoci una grande sorpresa: la sua fidanzata Esther, una ragazza che come lui, aveva trovato rifugio nella terra promessa. Molte cose erano cambiate in questi anni. Le persone avevano ricominciato a vivere, nonostante le grandi perdite. Molti miei amici non hanno più fatto ritorno da quei “campi di lavoro” che, in realtà, si scoprirono dopo essere “campi di sterminio”. Una volta entrati lì, era una continua lotta per non venire uccisi. I superstiti erano pochi e le loro condizioni erano pessime.
Per anni cercai mio marito, sperando si fosse potuto salvare, ma dopo mesi di ricerche, venni a sapere dalla Comunità Ebraica di Roma che un sopravvissuto, in una sua testimonianza, aveva fatto alcuni nomi di persone viste ad Auschwitz e tra quelle c'era lui. Il mio unico amore. Giacomo. Il tempo, da quel giorno, cominciò a scorrere così lentamente, nonostante fossi costantemente cosparsa dall'amore dei miei figli e di Esther, che abitava con noi. Purtroppo, quando ci dimentichiamo dell'armonia che regnava all'interno del nostro cuore questa, come un acquerello, inizia a sfumare i ricordi più belli che automaticamente diventano i più dolorosi. Non ci fu più una notte in cui riuscii a dormire serena. Ero in costante attesa di una luce che mi avrebbe portato nuovamente tanta felicità. Qui era tutto quasi perfetto, ma non abbastanza senza di lui. Avrei voluto dirgli tante di quelle cose,
eppure mi sembrava di avergli detto tutto. Scoprii amaramente che durante sedici anni di matrimonio avrei potuto evitare certe litigate, avrei potuto dirgli più spesso quanto lo amavo e forse ci saremmo permessi di fare quel terzo figlio che tanto volevamo, ma che per via del Nazismo non abbiamo più messo in conto.
Nei primi anni del dopoguerra, molte persone si allontanarono dalla religione che, secondo loro, aveva portato soltanto morte e tante disgrazie nel corso dei secoli. Erano tutti così scoraggiati. Noi, invece, ci attaccammo ancora di più a Dio. All'inizio per implorare il ritorno di Giacomo e alla fine ci ritrovammo a pregare affinché avesse potuto trovare la pace in questo mondo e oltre. Ci speravamo tanto. Sara, ormai tredicenne, era diventata una donna e tale si sentiva, grazie anche al Bat Mitzvà, maggiorità religiosa ebraica, svolto l'anno precedente. Marco, invece, dopo qualche anno di fidanzamento si sposò con la sua amata e divennero genitori di una meravigliosa bambina che chiamarono “Chaia”, dall'ebraico “Vita”. Ed è proprio su questo che vorrei soffermarmi maggiormente.
Hitler, un uomo dalla mente contorta al potere della Germania, ha cercato di sterminarci tutti. Uomini, donne, bambini. Eppure il circolo della vita è inarrestabile ed eccoci qui. Noi siamo ancora qui e non cesseremo di esistere per delle teorie infondate sulla purezza della “razza” ariana.
Chaia, mia nipote, è amore, grinta, felicità, spensieratezza, come tutti gli altri bambini nati nel dopoguerra. Il loro sguardo aveva un punto in comune: la voglia di vivere. Quella che non sono riusciti a toglierci.
Caro Hitler, a causa tua molte vite sono state spezzate, tante famiglie divise e milioni di
storie dimenticate nei campi. Campi in cui risuonano ancora le risate stroncate dei 207 bambini che non hanno fatto ritorno a Roma. Campi in cui le persone hanno sofferto, cominciando a pregare la morte che al confronto sarebbe stata una eggiata. La morte, lì dentro, era diventata “di casa”. Una complice, un'amica, pronta a “salvarti” da tanto dolore. Alla fine tutto tornerà, per chi avrà tempo di aspettare. Ogni volta che rivolgo lo sguardo a mia nipote, noto alcune espressioni che mi ricordano Giacomo. Lui vive in noi e sarà così per sempre. La vita va avanti. Deve andare avanti. Dopo anni siamo riusciti ad acquistare quella “continuità” che mancava e il coraggio di cambiare e di rimettersi in gioco. Siamo andati nello Stato di Israele, all'interno di un Kibbutz e abbiamo riscoperto la gioia di vivere. Mi spiace Hitler, qualsiasi piano avessi progettato le cose non sono andate come volevi. Io sono qui e fino al mio ultimo respiro racconterò il coraggio di un marito che ha fatto di tutto per salvare la propria famiglia. Racconterò la storia di due bambini cresciuti troppo in fretta. Racconterò la solitudine di una donna, rimasta vedova troppo presto. Racconterò perché non bisogna dimenticare ciò che è stato, affinché non si ripeta più. Lo dobbiamo a noi stessi, che in poco tempo ci siamo ritrovati senza il diritto di vivere, ma soprattutto lo dobbiamo a tutte quelle persone che in quei campi sono rimasti. Per sempre.
La “Gioia” ritrovata
Era una notte buia e fredda. Il Duomo era ormai coperto di nebbia, nella piazza orfana dei anti i lampioni si riflettevano sulla terra umida ed io camminavo senza meta dirigendomi verso un’ampia via pedonale. Non c’era nessuno e l’unico rumore che sentivo era il cadenzare dei miei i. Camminavo incerta tra le vie di una città che mi opprimeva. Ovunque poggiavo i miei occhi, gonfi e lucidi dal pianto, vorticava nella mia mente il ricordo di lui che qualche ora prima mi picchiava violentemente. Non bastavano le mie lacrime per calmarlo e neanche il sangue che percorreva lentamente il mio corpo, in seguito ai tagli che lui stesso mi aveva procurato. Improvvisamente squillò il mio cellulare. Guardai il display e un brivido mi percorse la schiena. Era lui. Dopo due minuti il telefono squillò nuovamente e andò avanti cosi per molto. Era sempre la stessa persona che chiamava insistentemente, proprio per questo, alla fine, mi decisi a rispondere. «Tommaso, per favore... Ho bisogno di rimanere sola», sussurrai ancora in lacrime. L'uomo della mia vita mi aveva messo le mani addosso e non era la prima volta. Le nostre litigate sfociavano sempre e solamente in violenze nei miei confronti ed io non riuscivo a placare questo suo animo “vendicativo”. «Eleonora, ho sbagliato.. Cambierò.. Torna a casa da me, ti amo!», esclamò quasi piagnucolando, come sempre. Attaccai spaventata dal suo “Ti Amo”. Come poteva dire di amarmi dopo tutto quello che era successo? Litigavamo, si trasformava in un mostro ed iniziava a picchiarmi. Poi, una volta ato tutto, tornava “con la coda in mezzo alle gambe” da me, suo unico amore, a detta sua. Lui lo chiamava “amore”, io la chiamavo “paura di rimanere soli”. Tommaso era un uomo dalla mente malata ed io me ne resi conto dopo un anno dalla nostra convivenza, quando iniziarono le violenze psicologiche e quando la mia autostima pian piano si abbassava di livello fino a scomparire del tutto. Non c'era niente da fare, in qualsiasi cosa era meglio lui... Perfino a fare la lavatrice!
Eppure abbiamo lottato così tanto per stare insieme. Lui, un 45enne con un matrimonio alle spalle. Io, una 23enne fresca di laurea. Inizialmente lo stimavo come una figlia con suo padre. Lui, un imprenditore cortese, dal cuore gentile, colto ed intelligente. Io una lavoratrice scaltra, grintosa e con una grande voglia di vivere. Chi avrebbe mai previsto tanto dolore in una coppia come la nostra?
Dopo qualche ora decisi, finalmente, di tornarmene a casa. Lo trovai lì, sul letto dove per tante volte consumammo il nostro amore, ad aspettarmi. Non disse niente, fino a quando non mi misi sotto le coperte, una volta disinfettata ogni ferita... Tranne quella che per troppo tempo aveva portato il mio cuore. «Io, davvero, non so che cosa mi sia preso... Potrai mai perdonarmi, amore mio?», mi domandò abbracciandomi. Mi lasciai cullare nella sua calda stretta, fino a che non mi addormentai. Cambierà, o almeno così speravo. Un po' per la speranza con cui mi addormentai e un po' per lo shock della giornata ata, mi ritrovai a sognare il giorno in cui feci la sua conoscenza, due anni fa. E' stato un fidanzamento “lampo”, il nostro. Lui che, quando l'ho visto per la prima volta, era in crisi con la moglie (donna molto più grande e molto dittatrice). Io all'epoca avevo a malapena 21 anni e non avevo ancora capito che cosa fosse il vero amore, o almeno fino a quando i nostri sguardi si incrociarono. Fu così che in pochi mesi riuscì a separarsi da quella donna che da anni lo teneva in pugno, per vivere una storia con me. Per un anno approfondimmo la nostra amicizia e come due “fidanzatini” ci scoprimmo l'un l'altro. Il nostro ato, le nostre debolezze e i nostri sogni. Lo presentai ai miei parenti e dopo qualche mese mi chiese di andare a convivere. Io i suoi genitori non li ho mai conosciuti. Quando era un bambino di all'incirca 8 anni, fu abbandonato dal padre e vent'anni dopo perse la madre in un'incidente stradale. Proprio per questo, il suo sguardo si rabbuiava ogni volta che si toccasse il tasto “famiglia e parenti”. Ogni Pasqua, ogni Natale, qualsiasi ricorrenza dedicata allo “stare in famiglia” per lui era un dolore che riusciva a sotterrare solamente con l’uso della violenza. Peccato che chi ne pagava le conseguenze, ancora una volta, ero io.
Mi svegliai la mattina seguente piuttosto trafelata e sul mio comodino trovai una rosa. Prevedibile, come sempre. Dopo essermi lavata e vestita, scesi al bar per fare colazione ed infine mi diressi a lavoro. La giornata ò come tutte le altre, all'interno dello studio legale in cui lavoravo come segretaria. Durante la pausa pranzo, mentre parlavo con alcune colleghe, si aprirono discorsi sterili riguardanti Vip rifatte, uomini maledettamente sexy e il ciclo. Ecco, fu in quel momento che realizzai di non aver avuto ciclo mestruale durante il mese appena trascorso. Cavolo, avevo un ritardo allucinante!
Quando smisi di lavorare, mi diressi verso la prima farmacia aperta e comprai l'oggetto che, in questo momento, mi metteva una gran paura: il test di gravidanza. Una volta raggiunto il bagno di casa mia, sospirai lentamente e aprii la scatoletta. Nel silenzio assordante della casa, provai a fare il test e, dopo qualche minuto, quella linea sottile sembrava quasi urlare la mia nuova scoperta. Aspettavo un bambino. La mia prima reazione? Scoppiai in lacrime. Come potevo dire all'uomo che tanto aveva paura di crearsi una famiglia che presto avremmo avuto un bebè? Non lo avrebbe accettato assolutamente.
Arrivò l'ora di cena e mi ritrovai a tavola con Tommaso. «Ele, che hai? Ti vedo assorta nei tuoi pensieri... Qualcosa non va?», mi chiese in tono neutro ed io sobbalzai a quella domanda per poi riprendermi, facendo finta di niente. «Niente, niente... Ho avuto una giornata stancante a lavoro!», ribattei con nonchalance e la serata ò abbastanza silenziosa, escludendo la voce della televisione che rimbombava per tutto il salotto. Come era sua abitudine, dopo cena, Tommaso scese per andare a bere qualcosa con i suoi amici, mentre io mi diressi sotto le coperte, addormentandomi in pochi minuti.
Era notte inoltrata, ma non sapevo con precisione l'orario. Venni svegliata dalle urla di Tommaso che provenivano dal bagno. Mi precipitai da lui per vedere che cosa fosse successo e lo trovai lì, in lacrime, davanti al test di gravidanza che ingenuamente avevo nascosto nel mio cassetto, senza pensare che lui, di tanto in tanto, amava curiosare là dentro. Non dimenticherò mai la puzza di alcol che emanava il suo alito. «Perché?! Chi ti ha detto…io non volevo!!», gridò preso da un attacco irrefrenabile di rabbia. Io rimasi senza parole, non riuscivo a dire niente. Ero spaventata e, istintivamente, feci due i indietro. Tirò un pugno sullo specchio, mandandolo in frantumi. In tutta risposta, mi precipitai verso la camera da letto, presi solamente lo stretto necessario e scappai dall'inferno che si sarebbe prospettato quella notte con lui accanto. Me ne tornai a casa dei miei genitori, ai quali non dissi nulla. L'unica scusa che trovai fu quella del famoso “viaggio di lavoro”. Era la classica giustificazione che inventavo ogni qualvolta avevo bisogno di staccare la spina.
arono i giorni, che diventarono settimane ed infine mesi. Il tempo ava velocemente, la pancia continuava a crescere e la gravidanza sembrava andare a gonfie vele, togliendo le forti nausee che non mi davano pace nonostante fossi incinta di 7 mesi. Erano ati sei lunghi mesi dal giorno in cui lasciai quella casa e, di tanto in tanto, Tommaso si faceva vivo telefonicamente per sapere come andasse con “quell'esserino all'interno della tua pancia”, così diceva senza sapere che fosse una bella femmina. Avevo già deciso il suo nome: Gioia.
Un pomeriggio, mi dirigevo verso lo studio medico in cui facevo abitualmente le ecografie e lo ritrovai lì, in piedi, con un mazzo di fiori in mano. Non sapevo se esserne felice o triste, provavo delle sensazioni confusionarie e così decisi di avvicinarmi a lui con cautela. «Ciao Ele, ho pensato di venire a vedere come.. funziona qui.», fu capace di dire solo questo.
«Bah, solitamente si tratta di una semplice ecografia.», ribattei sarcastica e poi entrai con lui al seguito. Mi sentivo a disagio, ma decisi di non darlo a vedere. Finita la visita, Tommaso mi invitò a salire in macchina per andare nella nostra casa. Blaterava discorsi come: «E' ora di tornare a casa e affrontare la realtà dei fatti. Sei incinta!» Mi fidai di lui e sbagliai.
Una volta arrivati a casa, si scatenò l'ira funesta di un uomo che per 7 mesi aveva mandato giù cose che non erano di suo gradimento. Un uomo che finché si trattava di stare con una donna in menopausa andava tutto bene. Un uomo che per cercare di rivendicarsi della sua mascolinità negata, si rifaceva con una ragazza molto più piccola di lui che diceva di amare. Prima le battutine spregevoli sul fatto che a quarantacinque anni suonati si era fatto incastrare da una “ragazzina”, poi ha iniziato a picchiarmi. Voleva annullarmi e io non potevo fare niente per difendermi, se non cercare di proteggere la mia bambina. Non contento mi puntò un coltello alla gola ed io mi spaventai così tanto da sentire del calore in mezzo alle gambe. Lui era sopra di me e se ne accorse. La sua reazione fu quella di scappare da quella casa, lasciandomi sola. Io, invece, mi contorcevo per via del dolore dovuto dalle contrazioni. In quel momento tutti i miei sogni si volatilizzarono. Chiamai il 118 che tardò ad arrivare e fu così che partorii da sola in quella stanza vuota di ogni felicità, dove il dolore faceva da cornice ancora una volta. La vidi ancora sporca di sangue, decisi di tenerla tra le mie braccia per cercare di darle calore, ma soprattutto amore. Per mesi e mesi fantasticai sul suo arrivo, sul colore dei suoi capelli, sul suo sguardo e invece, adesso, era tutto inutile. Rimase ancora un po' tra le mie braccia, per poterla assaporare qualche minuto in più, prima di lasciarla andare definitivamente. La corsa in ospedale fu vana, era nata morta. Non ho fatto in tempo a sentirmi madre che subito mi era stata portata via da qualcosa di più grande e la colpa era solamente mia. Io che lo avevo perdonato e lui che mi avrebbe voluto uccidere.
Tagliai i ponti con tutti e con lui in primis. Gli unici contatti che avemmo furono tramite i nostri avvocati perché mi ero finalmente decisa a denunciarlo grazie all'aiuto di una donna speciale: mia madre. In quei mesi scoprii di avere ancora bisogno di “sentirmi figlia” e nonostante le indelicatezze di molti che, chiamandomi, dicevano «Dai su, tranquilla... Ne farai un altro!», la mia vita continuò con più forza. Lo dovevo a lei, la mia piccola Gioia che non era neanche stata riconosciuta come bambina. Per la legge è solo uno scarto. Qualcosa da buttare via, un essere mai esistito. Per me è stato un avvenimento che mi ha radicalmente cambiato la vita e ancora mi domando se sia stato un bene o un male.
arono gli anni e finalmente incontrai l'amore, quello vero. Ci sposammo e la piccola Gioia tornò tra noi, ma sotto un altro nome: Viola. Certo, un figlio non potrà mai sostituire un altro, ma ingenuamente mi piace pensare che una parte di Gioia sia racchiusa dentro me e l'altra dentro Viola. Gioia era uno sprazzo di felicità arrivato nel momento sbagliato e con l'uomo sbagliato. Che felicità avrebbe mai potuto desiderare da un padre così? Lui ha fatto lo stesso errore che il padre, anni prima, aveva fatto con lui. Strano, solitamente quando si soffre per qualcosa si cerca il modo per non ricadere in quei comportamenti, per non sbagliare. Lui, invece, aveva fatto la stessa cosa e anche di più, cercando di togliermi la vita.
Per quanto riguarda la legge italiana, Tommaso sconterà la sua pena di tentato omicidio, nei miei confronti e non in quelli di mia figlia, con un piccolo periodo in carcere, ma spero che, una volta fuori di lì, i sensi di colpa non lo abbandoneranno a tal punto da non riuscire più a guardare in faccia una qualsiasi bambina. Quando si accorgerà di essere pronto a diventare padre, spero sia troppo tardi. Non si tratta di cattiveria, ma di una vita spezzata ancor prima di iniziare solo ed esclusivamente per un suo egoismo. Un uomo che non voleva diventare padre e che, a sua volta, non mi ha reso madre.
E per quanto riguarda me?
Io, finalmente, ho ricominciato a vivere la mia ritrovata serenità accanto a Pietro, mio marito, l'uomo che è riuscito a farmi rinascere proprio come la fenice risorge dalle sue ceneri. Ed io così ho fatto. Ora eravamo io, lui e lei. La mia vita aveva più senso, adesso. Finalmente madre. Finalmente moglie. Finalmente donna.
Bisogno d'amore
eggiavo per le vie centrali di Roma con una scatolina di macaròns appena comprati e mentre gustavo il mio preferito, alla rosa, vidi due innamorati intenti a scambiarsi delle effusioni davanti Palazzo Fendi. Misi a fuoco entrambe le figure perché, come sempre, ero una grande impicciona e scoprii che quei due non erano altro che Andrea e Viviana, due miei compagni di corso. Si amavano, o così sembrava, fino a quando lui non l'ha tradita per poi lasciarla ed infine tornare, come se nulla fosse accaduto. Lei era innamorata e decise che sarebbe stato lui l'uomo della sua vita, a costo di dividerlo con altre cento ragazze. Idea che non condividevo, ma se erano contenti perché rovinare il loro "bellissimo" futuro poligamo?
Continuai a camminare verso casa con la scatola di macaròns che, nel frattempo, era completamente vuota. Una questione mi ha tenuta impegnata per tutto il tragitto: nel mondo siamo milioni di persone e, la maggior parte, sono in cerca della propria anima gemella che puntualmente pensano di aver scovato, ma alla fine si ritrovano a dover mettersi in gioco nuovamente con una nuova persona. Un ciclo che continuerà per molto tempo. Ricominciare da zero, per costruire un futuro. Le storie d'amore sono dei film che proiettiamo nella nostra mente, dove sentiamo di stare un o avanti a ció che siamo realmente. Ci frequentiamo e sentiamo di essere già una coppia, ci fidanziamo ed é come se fossimo, improvvisamente, sposati. Senza accorgercene, tutte queste aspettative vengono lentamente deluse e, alla fine, iniziamo a pensare di non appartenerci piú, fino a diventare due estranei come agli inizi. Ecco che la storia diventa solamente un involucro di plastica dove cerchiamo di contenere, o nascondere, la nostra paura piú grande: Rimanere soli. Forse parlavo così perché ero stata appena lasciata da Lorenzo, un ragazzo conosciuto all'Università che si professava innamorato di me. Lui era solo e
aveva bisogno della mia compagnia per sentirsi amato, ma chi ci pensava a me se anche lui mi vedeva come una bambolina da mettere in esposizione? “Sabrina la bambola da compagnia”, ecco che cosa ero ai suoi occhi. Era capace di vedere in me la Sabrina dal fisico slanciato che ama “coccolarsi” ogni giorno dentro una palestra di fiducia. Sapeva soffermarsi sui miei lunghi capelli neri come la pece. Ogni tanto ammirava i miei occhi grigi come il mare in tempesta in una domenica invernale, senza però riuscire a perdersi in essi. Forse nessuno ci era riuscito mai. Ho solo vent'anni, della vita ancora non ci capisco molto, eppure ogni volta che si parlava di amore ne rimanevo affascinata. Quale forza motrice poteva superare un cuore in procinto di scoppiare? Nessuna, credevo.
Arrivai nel mio appartamento e il fiume di pensieri sembrava non placarsi. Dal mio ultimo “tira e molla” con il ragazzo in questione decisi di non frequentare più nessuno, come se fossi stata illusa così tanto dall'amore da non volerci più credere. Era più forte di me. Dovrebbero scrivere un libro, in nome della ricerca scientifica femminile, sui comportamenti devianti dei ragazzi moderni. Sicuramente aiuterebbero molte donne come me! La serata ò nella più completa solitudine, se non fosse per quattro chiacchiere che riuscii a sbiascicare con mio padre e lui sì che la sapeva lunga sull'argomento.
Dicono che la notte porta consiglio ed io vorrei davvero stringere la mano a chi ha tirato fuori questa stramba teoria così assurdamente vera. Era notte e mi rigiravo nel letto, fino a che i miei pensieri notturni si scontrarono nuovamente su di lui: Lorenzo. La prima volta che l'ho visto in facoltà sembrava un vero disastrato per lo sciatto modo di vestirsi. Jeans strappati, t-shirt abbinate a felpe sempre in contrasto tra loro e infine
portava sempre lo stesso cappello logorato, abbinato ad un paio di Rayban che per la loro feticità sembravano sopravvissuti alla guerra del 15-18. Eppure, nonostante tutto, sentivo che qualcosa mi legasse a lui e fu così che iniziammo a frequentarci, a piacerci, ad amarci. Gli amici lo chiamavano "modestino" e io, completamente cotta, ignoravo quella parte di lui che, purtroppo, faceva capitolino sempre, in ogni momento della sua vita. Dicono che per capire meglio una situazione, o vederci chiaro in una storia, bisogna allontanarsi dalla presunta fonte del "problema" ed io, a distanza di settimane dalla rottura, iniziai a rendermi conto che quel nomignolo, in fin dei conti, gli calzava a pennello. Potevo convivere la mia quotidianità insieme ad una persona che si concentrava sul suo "Alter-Ego" grande quanto il Colosseo? Mi addormentai con questo pensiero "filosofico".
La mattina dopo, mi svegliai e con un balzo felino, mi ricordai che quel giorno avevo lezione all'Università. Indossai un jeans attillato, abbinato ad una maglia con stampa etnica sui colori del verde e un paio di stivali neri, mentre per quanto riguarda i miei lunghi capelli decisi di raccoglierli in uno chignon per tenerli ordinati. Tempo di prepararmi e già si era fatta l'ora di andare, così presi la mia borsa e mi diressi verso la facoltà.. Erano le 7 di mattina e, solitamente, verso quell'ora, molti iniziavano a svegliarsi, o perlomeno a stiracchiarsi, per prepararsi ad una nuova giornata ed io, invece, mi stavo dirigendo in un luogo dove ero sicura di incontrare il mio ex-ragazzo e il suo spiccato senso di egocentrismo. Il nostro rapporto si basava sull'incomunicabilità. Quando uscivamo insieme, o quando capitava di incontrarci per sbaglio dopo esserci lasciati, erano piú le volte che mi parlava della sua vita piena di eccessi, come se andare in discoteca comportasse un grande senso di ribellione sociale, invece di chiedermi semplicemente come stavo. Che cosa c'è di più importante di un uomo che ti chiede come procede la tua vita o se stamattina ti sei alzata con il sorriso sulle labbra? Molti pensano che per dare di più alla loro donna, devono essere loro stessi quel
"più" che manca ed è lì che prendono un granchio colossale. Non abbiamo bisogno di uomini pompati o regali da tanti carati quanto l'amore che proviamo, ma vogliamo la semplicità delle parole e dei gesti. Lorenzo non l'ha capito mai e continuava a pensare al suo corpo o a rimanere attaccato al suo telefono, aspettando disperatamente l'ora in cui mi avrebbe dovuto riaccompagnare a casa e tornare, finalmente, alla sua vita.
Una volta finita la lezione, mi apprestai ad uscire. Stavo per salire in macchina, quando mi ritrovai una figura fin troppo conosciuta davanti... Era Lorenzo. «Ciao Sabri, come stai? Cercavo proprio te, ho bisogno di parlarti.», esclamò portandomi una mano sulla guancia per tentare di accarezzarmi, ma mi distaccai prontamente da quel gesto subdolo e la sua carezza non andò “in porto”. «Lorenzo, ho fretta. Che cosa vuoi da me?», chiesi imbronciata, con un tono di voce che era tutto fuorchè felice della sua presenza fuori luogo. «Perché ci siamo lasciati?», domandò secco, senza tanti giri di parole. Un velo di rabbia si dipinse sul mio volto che aveva visto e sentito fin troppo. Dopo settimane ancora voleva spiegazioni, peccato che già gliele avevo date. Per tre volte. «Tanto per iniziare, perché ogni volta che ti parlo non vengo ascoltata. Sei troppo impegnato a pensare alla tua “bellezza” e perdi di vista tutto, anche me. Come potrei stare con un uomo incentrato nel suo egocentrismo? Un uomo che, a questo punto, penso sia in grado di sapersi bastare. Non hai bisogno di me, Lorenzo.», affermai schietta per poi salire in macchina. Non feci in tempo a mettere in moto che me lo ritrovai al posto del eggero. «Il problema che non sei mai riuscita a percepire è la mia carenza di autostima che tendo a sfogare in questo modo. Non lo faccio apposta, ma non ho mai smesso di amarti.», iniziò a dire per poi continuare «La mia colpa è stata pensare che non mi avresti mai lasciato e quando mi hai detto addio mi sono sentito morire.», gli occhi di Lorenzo ormai erano lucidi ma, nonostante tutto, sentiva ancora di dovermi dare le spiegazioni che non era mai riuscito a darmi.
«Devo smettere di pensare solo a me stesso e di attirare l'attenzione di tutte le ragazze solo per lo stupido gusto di sentirmi bello e desiderato, ma ho bisogno di te.», concluse abbassando lo sguardo. «Ti rendi conto della richiesta che mi stai facendo? Io non devo aiutare nessuno, non sono una crocerossina. Devi avere bisogno di me perché mi ami, non devi amarmi perché hai bisogno di me. La noti la differenza?», replicai cercando di calmarmi. Qualche lacrima iniziò a fare capolino anche sul mio viso, ma cercavo di non dargli peso, togliendole frettolosamente con la manica della felpa. «Stare con me è un'avventura continua.. Forse delle vere certezze non le otterrai e se ci rimettessimo insieme non so quanto potrebbe durare, come ovviamente non lo sai neanche tu, ma ti prometto che mi dedicherò solo a te e sarò più responsabile. Sono pronto ad iniziare una storia seria e giuro che ti saprò amare veramente. Si tratta di fiducia, quello che so di non essermi mai meritato, ma ora sono qui. Mi sento così ridicolo. Sabrina dimmi di sì.», e si azzittò con un groppo in gola. Gli accennai un sorriso, ingenuamente. Lui, in tutta risposta, mi accarezzò il viso ed io non lo scostai. Eravamo così vicini e sentivamo entrambi di voler annullare quella distanza che ci separava. Ci avvicinammo ancora, mentre continuavamo a guardarci con sguardo rapito. Socchiudemmo entrambi gli occhi e, come per magia, suggellammo quelle promesse con un bacio. E fu così che tornammo insieme.
arono i mesi, arrivò l'anno nuovo e con lui tanti buoni propositi come quello di cambiare veramente. Lorenzo, infatti, non riuscì a modificare tutti quei comportamenti che mi facevano sentire sempre più sola. L'incomunicabilità continuò a regnare sovrana nella nostra storia. Sì usciva e preferiva rimanere attaccato al cellulare, piuttosto che guardarmi negli occhi, baciarmi, sfiorarmi o anche solo eggiare mano nella mano, scambiando due chiacchiere e qualche risata. Per non perdermi d'animo, decisi di cambiare alcune cose all'interno della mia vita e iniziai un percorso di volontariato in un centro diurno per disabili. Dicono
che fare del bene ti fa stare bene. Avevano ragione, io mi sentivo così soddisfatta!
Iniziai a are le mie giornate insieme ad altri volontari che, come me, avevano una gran voglia di aiutare il prossimo ed è lì che conobbi Marco. Il nostro incontro è stato piuttosto bizzarro. Era il mio primo giorno all'interno della struttura ed ero capitata in un laboratorio manuale. Lì c'era una varietà di donne e uomini disabili che creavano manufatti artigianali da poter vendere nel “mercatino” che veniva allestito dall'Istituto. Il ricavato, ovviamente, sarebbe andato in beneficenza. Tra questi, c'era un uomo sulla quarantina che aveva dei problemi a livello del sistema nervoso, in particolare modo nella sfera riguardante la sessualità. Aveva completamente perso i freni inibitori e i responsabili del laboratorio aveva consigliato a noi ragazze di rimanere a debita distanza con il soggetto in questione. Un giorno, mentre lavoravo insieme ad un'altra ragazza, cercò di venirmi addosso per toccarmi e io, in tutta risposta, urlai spaventata. Non fece in tempo a sfiorarmi che Marco, volontario come me, lo allontanò da me e riuscì a calmarlo da questa “crisi” che si era impossessata di lui. «Tutto bene?», domandò una volta sistemata la situazione. Sorrisi, ringraziandolo più volte e poi decisi di offrirgli un caffè. Da qui iniziò la mia amicizia con lui. Un'amicizia che con il tempo si trasformò, ma io all'epoca ancora non lo sapevo.
Un giorno dovevo dirigermi all'Istituto per aiutare i responsabili a sistemare il mercatino e non avevo la macchina. Lorenzo si offrì di accompagnarmi, per poi rinfacciarmelo durante tutto il tragitto. No, non era minimamente cambiato. A volte mi piacerebbe salire sul primo aereo e andarmene, da sola, con la voglia di ricominciare, sperando di riuscire a trovare il mio posto in un mondo che, per ora, sento cosi soffocante. Una volta arrivata a destinazione tirai un sospiro di sollievo. Arrivata dentro la sala, scoprì che avrei lavorato fianco a fianco con Marco e tra una chiacchiera e una risata, riuscimmo a far are la giornata in serenità. Non mi ero mai sentita così, era una strana sensazione. Alle 19.00
staccammo da lì e poco prima di uscire mi sentii chiamare da una voce familiare. «Sabrina, ti posso accompagnare a casa?», mi chiese Marco dopo avermi raggiunto. All'inizio tentennai, infine accettai. Salimmo in macchina ed iniziammo a chiacchierare. Alla fine, invece di andare a casa, ci ritrovammo in giro per Roma a bordo di una piccola macchina. Andavamo dove l'istinto ci portava e si fecero le 22.00. Non sentivamo il bisogno di mangiare o la stanchezza di una giornata di lavoro, eravamo felici insieme. Iniziammo a parlare della nostra vita, dei nostri sogni e di ciò che ci rendeva tristi ed io parlai di Lorenzo e del nostro rapporto vissuto in solitudine. Il tempo continuava a scorrere. I secondi che avano, inesorabilmente, andavano perduti e il momento di tornare a casa si avvicinava sempre di più. Frasi mai pronunciate, gesti che possono cambiarti la vita. Sarebbe andato tutto in una frazione di tempo chiamata “ato”. Quella che vogliamo sempre cambiare. Quella di cui siamo perennemente scontenti. Quella in cui risiedono i nostri rimorsi e i nostri rimpianti. Così, senza pensarci due volte, forse presa da quella nuova sensazione che mi guidava, lo baciai e lui, con mio stupore, rispose a quel gesto inaspettato. Eravamo lì. In un luogo in cui eravamo completamente soli. Con il cuore tra le mani e la mente chissà dove. Non pensavamo alle conseguenze, in quel momento non importavano. Due mani che si sfioravano, due cuori che battevano sempre più vicini. Persi nel nostro grande segreto e mio peccato. Mise le sue mani sotto la mia maglietta, toccandomi la schiena e quando iniziò a sfiorarmi punti in cui solamente Lorenzo aveva avuto accesso, il tutto mi si propose davanti agli occhi come una doccia gelata. Quasi come se fosse stato un flashback, tornai alla realtà. «Scusami Marco, non posso.», scesi dalla macchina e me ne andai lasciandolo solo.
Me ne tornai verso casa, perdendomi nel candido bianco della città. Percepivo che nell'aria qualcosa stava cambiando. Risaltarono ai miei occhi alcune coppie che eggiavano mano nella mano. Non sentono freddo perché a riscaldarli c'è qualcosa di ancora più grande. Io, invece, al contrario, tremo. Nevica ovunque, anche nel mio cuore.
Arrivai a casa e mi diressi subito a letto, senza rispondere agli insistenti messaggi di Lorenzo. Rimasi sveglia fino alle quattro di mattina. La notte ava e andava via, mentre i miei pensieri rimanevano lì. Davanti ai miei occhi, indelebili.
La mattina dopo decisi di non presentarmi al centro per disabili e ai la mia giornata a casa, con l'ingombrante presenza di Lorenzo che continuava a “dare i numeri”. «Dove sei finita ieri?! Non hai risposto ai miei messaggi!», continuava ad urlare. Come se un rapporto fosse basato sul rispondere a degli sms. «Se ti premeva tanto saperlo, potevi chiamarmi o provare a venire a casa. Sicuramente dentro le mura domestiche sarei dovuta tornare, no?», risposi in tono alterato. Non accettavo una ramanzina da lui, quante ne avevo mandate giù. Se iniziavo a parlare io, sarebbe finita ancor prima di dire “A”. «Lorenzo, mi spiace. Io non credo di amarti più.», conclusi ammettendo quello che cercavo di nascondere a tutti, perfino a me stessa. Lui, in tutta risposta, bofonchiò un “puttana” e se ne andò. In fondo me lo ero meritato e anche lui.
Ci fu un minuto di silenzio, poi afferrai le chiavi della macchina e mi precipitai verso l'Istituto. Avevo un folle e disperato bisogno di vedere Marco. Doveva sapere, doveva. Iniziai a correre per le lunghe scale che portavano al laboratorio manuale e mi scontrai proprio con lui, davanti alla porta d'ingresso. «Sabrina..», si limitò a dire. «No, Marco. Lascia parlare me. In queste settimane ate insieme ho sentito un qualcosa che per altri non ho sentito mai. Ho lasciato Lorenzo, ma non sono venuta qui per chiederti di stare insieme. Mai lo farei. Non devi essere la mia seconda scelta, soprattutto dopo la mia fuga dell'altro giorno. Però vorrei che ti ricordassi di me, sempre. Anche quando non riuscirai a trovarmi perché sarò troppo sfuggente da ciò che eravamo o saremo. Vorrei che ti ricordassi di me
fino a quando il tuo cuore batterà ancora, fino a quando continueremo ad amarci e sai che io continuerò a farlo. Vorrei ti ricordassi di me quando non vorrai pensarmi, ma invece lo farai. Vorrei ti ricordassi di me perché nonostante sia stata una stronza nei tuoi confronti, io sono qui... A chiederti perdono.», e mi azzittai con gli occhi completamente lucidi. «In quel poco che ti ho conosciuto, sono riuscito a capire come sei fatta e come ragioni. Non voglio essere la tua seconda scelta e non lo sarò perché sento di essere la prima. Ti amo anche io, con la differenza che io l'ho capito subito. Quando i miei occhi hanno incontrato i tuoi. Ogni volta che ti avvicinavi a me, non ti rendevi conto della mia incapacità di respirare. Sei una meraviglia, mi togli il fiato e io voglio prendermi cura di te... Se solo me lo rendessi possibile. Azzeriamo tutto, ricominciamo.», ribattè prendendo le mie mani tra le sue. Finalmente potevo dirmi completa. E' vero, il tradimento è una malattia sociale che andrebbe estinta. Se non ami una persona, non puoi continuare a starci fino a quando qualcosa cambia. Però, a volte, l'istinto prevale su tutto. Certe volte siamo animali travestiti da uomini e non ci piace ammetterlo, ma è così. L'incomunicabilità tra me e Lorenzo aveva fatto dissolvere il nostro rapporto lentamente, ci è voluto solo del tempo per capirlo veramente. La storia è andata dritta verso il capolinea e anche se avessi voluto aggiustare ulteriormente le cose, non sarebbe servito a niente. Il vero problema è che lui pensava troppo a sé stesso, con il risultato di ritrovarsi ad amare la sua immagine, la sua vita. Non sarebbe riuscito ad innamorarsi davvero di una ragazza, fino a quando le cose sarebbero andate così. Avrebbe continuato a vivere nel suo narcisismo. Incomprensioni, distacco e solitudine erano all'ordine del giorno durante il mio rapporto con Lorenzo, mentre adesso con Marco è tutto diverso ed io finalmente ero riuscita a sentirmi amata per la prima volta da un uomo che riusciva a comprendermi e a desiderarmi ogni giorno sempre di più. E' questo che auguro ad ogni donna: sentirsi amata.
Lui e lei, lei e lui
La vidi qualche fila davanti a me e fu come un lampo. Come se qualcuno avesse messo in pausa il film della mia vita per permettermi di godere al meglio quel momento. Bella era bella, questo è indubbio. Non troppo alta, bionda, occhi marroni che diventavano a tratti quasi verde acqua se illuminati dal sole che filtrava dal finestrone dell’aula universitaria, dove me ne innamorai a prima vista. Era ottobre, un ottobre che riscaldava ancora i romani con un clima non troppo rigido. “Che faccio”, pensai, “mi butto e provo ad attaccare bottone?” Ho sempre pensato che quando hai paura di fare qualcosa devi prendere coraggio e riuscire a dire o fare quello che devi nei primi 20 secondi. ato quel piccolo lasso di tempo, hai già buttato il peggio alle spalle e ti accorgi di essere a metà strada. Quei 20 secondi di fronte a lei non li ottenni. Riuscii a farlo quando capii, per vie traverse, quale fosse il suo nome e, tramite uno stupido pretesto, finalmente entrai in contatto con lei. Se ci penso oggi mi viene da sorridere.
Dopo un anno che conosco questa ragazza ho fatto di tutto: corse a perdifiato per le strade per tentare di raggiungerla (anche se sapevo di non riuscire a farcela); chiamate infinite nel cuore della notte, nelle quali viaggiavo insieme a lei sulle ali delle nostre fantasie più belle. Siamo diventati complici, prima che due amici e due persone che si vogliono un bene quasi più profondo dell'amore. Due persone che si capiscono al volo con una parola, un semplice sospiro, dei pensieri rimasti in sospeso. E’ quanto di più bello ci possa essere. Riuscire a tenere veramente a una persona. Capire che è l’unica al mondo capace di farti ridere come nessun altro. L’unica persona per la quale faresti qualsiasi cosa. L’unica per la quale aspetteresti tutta la vita. La donna che pensi di poter amare per tutta la vita. Quella donna che irrompe come un ciclone nella tua vita e rimescola le carte che fino ad un momento prima avevi disposto ordinatamente sul tavolo, facendoti capire come la vita non sia mai immobile. Cambia sempre e noi con lei.
Sarò un folle se dico che, anche se non vuole storie, l’amerò sempre e comunque? Credo di no, visto che quando ti innamori, sai che potrai amare in ogni caso quella persona….da amico, da confidente, da spettatore o da protagonista della sua vita. Faresti tutto per lei perché, fondamentale, vuoi anche la felicità di un'altra persona, oltre la tua.
Il rapporto con lei crebbe sempre di più, fino a diventare una sorta di dipendenza per entrambi. Una volta conosciute le sue debolezze, le sue paure e il suo ato, mi sentivo in dovere di proteggerla da ciò che il mondo riservava a persone sensibili come lei. Consumammo il nostro amore dentro il suo letto e fu in quel momento che scoprii il suo segreto più grande: era un'autolesionista.
Quanto è brava, lei. Brava a nascondere il proprio dolore dietro un sorriso e delle magliette a maniche lunghe. Guardatele i polsi. Ascoltate il sangue che pulsa, non le sentite le urla? Quante cose non dette, represse in un taglio netto. Quello che vorrebbe dare alla propria vita.
Io tutte quelle cose non le sapevo. Io, suo migliore amico. Io, il suo Emanuele. Lei non me lo voleva dire. Lei, la mia migliore amica. Lei, la mia Giordana.
Ne parlammo e anche a lungo, ma non riusciva ad uscirne fuori. Era più forte di lei. Continuava a ripetermi di stare bene, ma io sapevo che non era così. Quella lama era diventata un suo appoggio, ma invece di farla rimanere a galla, l'avrebbe fatta sprofondare giù. In un baratro sempre più profondo. Ed io non potevo farci niente. Quel mio senso di impotenza è una colpa che mi porto
ancora dietro.
Uno dei problemi per cui iniziò a farsi del male era il suo corpo. Diceva di non trovarsi bene e che non le apparteneva. Non rispecchiava la sua “anima”. Con il tempo ho tratto le mie conclusioni: capire l'autolesionismo da fuori è molto difficile. Giordana mi confessò che anche per lei era così. Lei che lo viveva giorno per giorno. «Emanuele, non è facile da spiegare. Tagliarsi, graffiarsi e ferirsi non è un modo per attirare l'attenzione dei miei genitori che sono sempre assenti. E' solo che attraverso quei tagli riesco a sentirmi bene. Riesco ad esternare ogni mio dolore e sofferenza.», mi ripeteva in continuazione come se si aspettasse un “Sì, hai ragione.. Fai bene, ti capisco!” Trovare una giustificazione al male che si stava procurando era impossibile. Quel dolore carnale riusciva ad offuscare ogni ferita psicologica insostenibile. Con quel taglio, si autoconvinceva di saper gestire tutto, anche il dolore. E ci riusciva, almeno per quello fisico. Forse era proprio questo il problema. Finchè non sarebbe stata in grado di controllare anche quello psicologico non si sarebbe fermata. Mi domandavo chi avrebbe vinto. Lei o la morte? Perché è questo che faceva: metteva a repentaglio la sua vita.
Una sera gli urlai contro di smetterla, era diventato tutto così troppo doloroso e lei mi rispose: «Secondo te lo faccio volontariamente? E' una cosa che succede e basta. Non ci sono spiegazioni. Ne sento il bisogno, lo faccio e quando guardo le cicatrici sui miei polsi mi stupisco.»
Il suo era un tentativo estremo, uno sfogo, il surrogato del “suicidio”. Il suo era un continuo entrare ed uscire dalle cliniche, interminabili corse al pronto soccorso con le sirene spiegate. Eppure, faceva are qualche mese, per poi ricadere nel baratro.
Non avrei mai condiviso le sue perverse idee di piacere, ma l'amavo e sarei rimasto al suo fianco fino alla fine. In salute e in malattia. Per sempre.
***
La mia vita universitaria scorreva in solitudine, ma poco importava ero lì per studiare. Non comunicavo con gli altri studenti, preferivo rintanarmi in biblioteca a consultare libri che mi sarebbero tornati utili per gli esami finali.
Quando, ad un tratto, mi piombò davanti un ragazzo del secondo anno, come me. Lo sapevo perché il suo viso non mi era nuovo. A lezione scrutavo tutti, ma non rivolgevo parola a nessuno. Fu lui a parlare per primo, facendomi un grande sorriso. «Ciao, tu devi essere Giordana.. Vero? Ti ho visto a lezione e mi domandavo se ti andasse di studiare insieme!», esclamò avvicinandosi. La sedia accanto a me era libera così, dopo un mio accenno positivo, si sedette al mio fianco. L'idea di studiare non era male, se solo fosse stato quello il suo vero intento. In realtà aveva cercato in ogni modo di attaccare bottone e lo notai dalle sue mani leggermente sudate e dall'emozione che si riusciva a scorgere mentre parlava. Osservavo scrupolosamente ogni suo piccolo gesto e per tutta la durata della sua compagnia, ne rimasi affascinata.
Ci scambiammo il numero e poi le nostre strade si separarono, almeno per quel giorno. Senza volerlo, i nostri incontri diventarono sempre più frequenti e “casuali”. Ormai non c'era più bisogno di dire “vediamoci in biblioteca alle 16.00” perché sapevamo che dal lunedì al venerdì, dalle 16.00 alle 19.00, i posti 10 e 11 diventavano automaticamente nostri. Mancava solamente la scritta “riservato” sulle sedie ed il quadro era completo. Con il are dei mesi scoprii che il suo era stato un “pedinamento” ben congegnato al fine di conoscermi e scambiare quattro chiacchiere. Alla fine siamo diventati amici e forse anche qualcosa di più.
Dopo un anno di conoscenza ci siamo resi conto che in un modo o nell'altro ci completavamo. Lui amava tutto di me, o almeno così diceva. Se solo sapesse quello che realmente accadeva all'interno della mia mente ogni volta che qualcosa non andava come volevo. Se solo mi tirasse su le maniche, scoprirebbe il mio grande segreto. Quello che mi porterò nella tomba. Quello che tengo nascosto da molti anni. C'è voluto un po' per dare un nome al mio disturbo e per trovare il mio “equilibrio” senza farlo sapere a nessuno. Ero autolesionista.
Il giorno in cui lui mi confessò il suo amore, rimasi senza parole e scappai. Non sapevo come comportarmi perché mai nessuno aveva “osato” amarmi. Come è possibile provare un sentimento così forte per una persona come me? Lunatica, antipatica, solitaria, scontrosa. Lo chiamai la sera stessa in preda al panico, dopo essermi tagliata. Non dissi niente in merito alla ferita, ma arrivai dritta al punto. Io e lui non potevamo stare insieme. Non volevo avere storie, non avevo intenzione di impegnarmi con nessuno. Volevo pensare solo a me stessa. Tutto avrebbe filato liscio se solo fossero cose vere. In realta, avevo maledettamente bisogno di lui, ma volevo proteggerlo dal futuro che gli si sarebbe prospettato davanti se solo si fosse fidanzato con una ragazza così
problematica.
Cercavo di renderlo un'amore platonico, ma quando ci ritrovammo a “studiare” nella mia camera da letto, finimmo nel consumare il nostro amore nel modo più carnale possibile. Iniziammo a spogliarci ed io mi denudai completamente davanti a lui. Non parlo di una nudità fisica, ma mentale. Ero lì, completamente vulnerabile, tra le sue braccia. Eppure mi sentivo protetta, una sensazione che da troppo tempo non riuscivo a provare. Mentre facevamo l'amore, buttò distrattamente un occhio sui miei polsi e notò i tagli. Ebbe un sussulto e si allontanò da me di qualche centimetro. Gli raccontai la verità, glielo avevo permesso. «... Perchè non me lo hai detto? Io posso darti una mano, Giordi...», furono le prime parole che uscirono dalla sua bocca. I suoi occhi lucidi, cercavano di nascondere un velo di tristezza. «Non c'è niente di cui parlare, Ema.. Io sto bene, eh! Mica sono malata.», risposi noncurante delle sue reazioni. Per me era normalità da, ormai, 5 anni. Per lui da almeno 5 secondi.
Iniziò ad attaccarmi e ad urlare che tutto questo non era normale e che non avrei potuto mantenere la situazione sotto controllo ancora per molto. Voleva aiutarmi, è vero, ma lo faceva nel modo sbagliato. Ci conoscevamo da un po', ci eravamo completamente denudati di ogni nostro piccolo, o grande, segreto, eppure ancora non riusciva a capire come bisognava prendermi. Cominciò a chiedermi le motivazioni, il perché mi tagliassi. Si possono fare domande del genere? Sconvenienti e taglienti come lame e sentirlo dire da me era una sorta di eufemismo.
«Io non ti capisco, non esistono motivazioni giustificabili», continuò a ripetere
scuotendo la testa, mentre io provavo ad elencare tutte le problematiche che mi avevano portato ad affrontare un rito così drastico e pericoloso. Il problema sono io, non c'è niente da fare. Io che non riesco a convivere in armonia con il mio corpo che per la società moderna risuona come “grasso”. Io che non riesco più a guardarmi allo specchio. Io che mi stupisco ancora nel vedere come certe ferite si rimarginano nel tempo e altre rimangono così vivide. I miei polsi gridavano aiuto, ma nessuno li avrebbe soccorsi. Era il mio modo di sfogarmi. Troppe cose non riuscivo a tenere sotto controllo, come il rapporto con il cibo o i miei attacchi di panico continui. Nei miei tagli riuscivo a trovare la giusta valvola di sfogo per dimostrare a me stessa che sarei riuscita a tenere sotto controllo il dolore fisico. Niente mi spaventava, ormai. Neanche il sangue che per molte ragazze della mia età causava svenimenti improvvisi e crisi isteriche che sfociavano in pianti nervosi.
Dopo quella volta in camera mia, io ed Emanuele non riuscimmo più a vederci come prima. Lui era distaccato, forse mi vedeva diversa dall'immagine di me che si era costruito. arono i giorni ed i nostri rapporti si azzerarono. Eravamo due sconosciuti. Mentre camminavo verso l'Università, una foglia gialla si posò sulla mia spalla per poi scivolare giù. L'autunno era arrivato, ricordandomi che il tempo continuava a are ed io stavo perdendo completamente il mio unico sprazzo di spensierata felicità. La foglia ha cominciato a muoversi comandata dal vento, si allontanava proprio come Emanuele aveva fatto con me. Quante cose sono accadute e quante ancora ne accadranno, ma in tutto ciò lo avrei voluto sempre al mio fianco. E invece ha deciso di andarsene via con la prima piccola brezza autunnale. E' andato via.
Dopo qualche settimana, invece, fu proprio lui a rompere quel silenzio e mi venne a cercare nel mio appartamento. «Non approvo ciò che fai, ma ti amerò sempre e comunque.», si limitò a dire e mi baciò. Non se n'era andato. Non mi aveva abbandonato. Era qui, accanto a me. Aveva accettato la mia condizione e, nonostante non l'approvasse, aveva deciso che voleva amarmi. Seguii il suo volere. Mi feci amare e lo amai. ionalmente. Incondizionatamente.
L'autolesionismo è una malattia silente che si manifesta in vari modi e in pochi riescono a darle un nome. E' un peccato che non trova pace e si macchia continuamente di dolore e repressione. Pensi di avere tutto sotto controllo, ma non è così. Ci misi qualche anno per capirlo e, una volta assimilato il vortice in cui mi ero cacciata, ne riuscii ad uscire fuori per sempre. Emanuele mi rimase accanto per tutta la terapia, senza giudicarmi nelle eventuali ricadute ed incitandomi nei momenti in cui riuscivo a sentirmi più forte. Riesco a guardarmi allo specchio, dopo anni in cui tentennavo per poi abbassare la testa. Ammiro con fierezza le cicatrici che si fanno spazio sulla mia pelle perché non sono altro che un'armatura. La mia corrazza. Adesso niente mi scalfisce più e gli attacchi di panico sono notevolmente diminuiti per poi sparire definitivamente.
Dall'autolesionismo si può guarire. Ci ho messo molti anni per capirlo, ma nonostante tutto sono qui a godermi la vita che Dio mi ha riservato, senza pressioni.
Ci sono voluti 5 anni e un “incontro-scontro” con l'uomo che mi ha cambiato radicalmente la vita, per sempre.
La solitudine dell'abbandono
Ero seduta sul grande divano logorato che troneggiava nel mio salotto. Gli unici “rumori” percepibili erano le gocce d'acqua del rubinetto che, nonostante avessi chiamato più volte un idraulico per sistemare la perdita, con il loro ritmo irregolare scandivano il tempo che ava. Una volta non riuscivo a sopportare quel disturbo e preferivo mettere una spugna sul fondo del lavandino per attutire qualsiasi piccolo rumore. Adesso, invece, era l'unica strana “presenza” a farmi compagnia. Quei “plin, plin” rompevano la staticità della mia casa ed io mi rendevo conto di essere viva, anche se tutto intorno a me sembrava morto. Come mio marito.
Non riesco a spiegare le emozioni negative che si provano quando perdi una persona con cui hai ato oltre sessant'anni della tua vita. Succede e basta. Lui era il mio unico appiglio in vecchiaia, quando i nostri figli, ormai, ci avevano “abbandonato” per pensare alla loro vita. Abbandonare. Un verbo che mette paura a tutti. Anche a me. Volente o nolente, ci ho dovuto però fare i conti, insieme alla solitudine che mi attanaglia ancora, da quando ho perso lui un anno fa. Si può dire che mi sono lasciata morire anche io. Stavo lì, ferma, ad aspettare la morte come se fosse una vecchia amica che mi avrebbe fatto ricongiungere con i miei cari.
I miei figli, troppo impegnati a pensare alla carriera, mi avevano dimenticato. Mi chiedo come sia possibile “dimenticare” chi ci ha cresciuto nel bene e nel male. Eppure lo hanno fatto. Si sono dileguati dopo la morte di mio marito, appena terminato il funerale. Puff, spariti.
Mi hanno lasciata sola quando io, per la prima volta, avevo veramente bisogno di loro. E' proprio vero: “una mamma è buona per cento figli, ma cento figli non sono buoni per una madre”. Io l'ho capito a mie spese. Mi domando che cosa stiano facendo adesso, i miei due figli. Ricevetti la conferma di queste mie paure sull'abbandono quando mi ruppi il braccio. Mio marito già non c'era più e l'unica cosa che feci fu quella di chiamare il mio primo figlio, Daniele. Lui mi portò all'ospedale e una volta medicata iniziò a blaterale strani discorsi sull'efficienza delle case di riposo. Mi voleva rinchiudere in una struttura per non doversi più occupare di me. Mai glielo avrei permesso. Non che le case di riposo siano malvagie, per carità! Il fatto è che quella sarebbe stata un'ulteriore giustificazione per dirgli addio veramente. Lui e l'altro mio figlio, Luca, sarebbero stati “tranquilli” - con la madre in buone mani - e piano piano, una volta abituata all'ambiente e alle persone, avrebbero allentato i ritmi nel venirmi a trovare. In poco tempo mi sarei ritrovata nuovamente sola. Il senso di solitudine, ovviamente, non era migliorato rimanendo a casa, ma perlomeno questo era il mio appartamento dove per sessant'anni ho vissuto con mio marito e non in una sterile camera di un ospizio.
Qui possedevo i miei oggetti più cari che sicuramente non sarei riuscita a portare tutti lì. Qui risiedevano i ricordi più dolci di una vita ata accanto all'uomo della mia esistenza. I miei figli pensavano che con qualche parola sarebbero riusciti a sradicarmi dal quartiere dove avevo vissuto per tutti quegli anni. Ogni persona anziana (sì, perché inutile nasconderlo... Sapevo di aver raggiunto la terza età), nel corso del tempo consolida le proprie abitudini che con il are degli anni diventano sempre più forti. Per me la routine quotidiana era diventata un punto di riferimento e cambiare totalmente vita mi avrebbe fatto del male. Lo sentivo.
E' difficile privarmi di tutte queste cose che sono essenziali nella mia vita. Non ho bisogno di una badante o di farmi rinchiudere in una casa dove qualcuno, stipendiato, avrebbe pensato a me.
Non riuscivo più a comprendere miei figli e queste loro strambe decisioni. Se ero diventata un peso, avrebbero potuto dirlo apertamente. Anche se, vista la loro assenza, continuavo a non capire come sarei potuta gravare sulle loro spalle.
arono i giorni, le settimane ed infine i mesi quando, un giorno, squillò il citofono. Era mio figlio e al suo seguito c'era una ragazza minuti. Era mora, con degli occhi azzurri mozzafiato e un grande sorriso che avrebbe saputo illuminare il mondo intero. Sì, devo dire che era veramente carina e sarebbe stata un'ottima fidanzata per mio figlio... Peccato che presi un granchio colossale. «Mamma, lei è Janet e ti darà una mano con le faccende domestiche. In settimana verrà a vivere qui, nella mia vecchia stanza.», esclamò mio figlio facendosi vedere felice. Io, in risposta, misi il grugno per tutta la giornata e, una volta rimasta sola con Janet, non le rivolsi parola. Continuavo a non accettare il fatto che fossi invecchiata e determinate cose, che prima mi risultavano facili, adesso erano un po’ più complicate da fare.
Una volta trasferitasi nel mio appartamento, Janet si dava da fare sia nelle faccende domestiche, sia nel farmi compagnia ed è proprio quest'ultima mansione che mi mandava su tutte le furie. «I miei figli ti pagano per aiutarmi nelle faccende domestiche, non sei costretta a tenermi compagnia.», sentenziai in modo scontroso mentre lei continuava a guardarmi stupita. «Signora Laura, ma io sono felice di farle compagnia.. Sto tanto bene con lei e non sa quanto sia importante per me.», mi rispose lei porgendomi la mano che con fare circospetto afferrai per potermi alzare dal divano su cui ero seduta. Oramai, a 86 anni suonati, mi pesava anche questo. Inizialmente non capii quel suo modo di fare fin troppo affettivo, ma con il are degli anni e con l'aumentare della confidenza scoprii la sua storia.
Janet era una donna di trent'anni scappata dal suo paese d'origine per la troppa povertà che non le permetteva di mantenere la sua famiglia. Suo marito si dava da fare grazie a dei lavoretti manuali occasionali, il figlio studiava alle elementari e suo padre era costretto sulla sedia a rotelle. Quando provai ad aprire il discorso sulla sua vita e, in particolar modo, sulla sua famiglia, notai la tristezza che si impossessava del suo sguardo. I suoi occhi vitrei spiegavano in modo abbastanza esplicito ciò che la bocca non riusciva a spiegare. Sua madre era morta nel darla alla luce e da quel momento il padre decise di non risposarsi. Janet non ha mai vissuto una figura materna all'interno della sua casa e proprio per questo sentiva di aver fallito in qualcosa, anche con suo figlio. Pensava che, non avendo avuto una madre e non essendo stata completamente “figlia”, non sarebbe riuscita a crescere il suo bambino nel migliore dei modi. Secondo me si sbagliava. Non avevo mai visto una donna così forte e coraggiosa da abbandonare la sua famiglia e il suo paese per cercare di guadagnarsi da vivere. La metà dello stipendio che riceveva, e forse anche qualcosa di più, andava nel suo paese natale e veniva usato per non far mancare niente al padre e al piccolo Diego, così si chiamava il bambino.
Attraverso le sue parole, ritrovai una nuova me e capii che in fondo non tutti i figli abbandonano la propria famiglia per cattiveria o egoismo. Lei lo aveva fatto per loro e ogni giorno continuava a ripetermi quanto le mancassero, ma non poteva fare niente. Almeno non adesso.
Quando mi ammalai qualche anno più tardi e venni ricoverata d'urgenza all'ospedale, lei fu l'unica che mi rimase accanto davvero e non lo fece per soldi, ma per amore. Riscoprii il suo “essere figlia” ed io mi risentii madre per terza volta. I miei figli, ormai adulti, pur sapendo quanto le mie condizioni di salute fossero gravi, non riuscivano a trovare il tempo di venirmi a trovare. Sarebbe bastata anche una chiamata, invece preferivano mandare messaggi sintetici sul telefonino di Janet.
Ero qui, in una stanza d'ospedale dalle pareti bianche, dentro un letto perfettamente pulito e statico. Non sentivo più le gocce d'acqua del rubinetto e ciò mi ricordava sempre più che non mi trovavo nella mia dolce casa. Ho mandato Janet a riposarsi un po', dopo le due nottate che aveva fatto per non lasciarmi sola e io, invece, adesso, avevo bisogno di far compagnia a me stessa. Avevo bisogno di quella solitudine che per molto tempo aveva fatto da padrona nella mia vita. Quando sei sola, riesci a scorgere delle piccole sfumature che a fatica risaltano quando si è distratti dalla presenza di qualcun'altro. Iniziai a pensare alla mia vita e decisi di prendere carta e penna per tutelare la mia vera famiglia, nel momento in cui il mio cuore cesserà di battere. Proprio per questo ho deciso di parlare di me, della solitudine che mi ha attanagliato da quando è morto mio marito e della rinascita inaspettata grazie ad una figlia acquisita. E pensare che mio marito, in giovinezza, voleva tanto avere una figlia femmina.
Quando il mio corpo sarà freddo, nessuno potrà più far caso a quella donna che per anni ha soffocato gli urli di un dolore straziante: l'essere abbandonata a sé stessa, senza poter contare neanche sull'aiuto dei figli. Daniele, Luca, ricordate ancora quei giorni di pioggia in cui non potevate uscire a giocare a pallone e si rimaneva in salotto a ridere e scherzare? Ricordate tutte quelle volte in cui litigavate per gelosia ed io cercavo sempre di trovare una soluzione perché mai e poi mai avrei voluto vedervi discutere? Ricordate le favole raccontate prima di andare a dormire, le ninne nanne cantate insieme, le discussioni affrontate perché non condividevo alcune vostre scelte, le corse in motorino dove venivate sempre scoperti da me o da vostro padre, le soddisfazioni durante la carriera scolastica, i primi amori in cui cercavo sempre di darvi consigli ed infine i vostri matrimoni? Mamma non vi ha mai abbandonato, neanche durante il divorzio di Luca o la perdita del bambino di Daniele. Vi ho amati fin dall'inizio. Ricordo ancora la prima volta che vi ho visti, qualche minuto dopo avervi partorito. Quella sensazione di puro amore che non mi ha mai abbandonato nel corso degli anni, neanche quando eravate in preda alle vostre crisi adolescenziali e mi mancavate di rispetto, mandandomi a “quel paese” come se nulla fosse... Senza sapere che
tutte quelle brutte parole mi ferivano.
In questo mio introspettivo “testamento”, se così si può chiamare, ho voluto raccontarvi la mia storia. Una donna abbandonata a sé stessa e terribilmente sola. Mi spiace solo che in tutti questi anni non vi siate accorti di niente, o forse avete fatto finta di non capire. Non so come andranno le cose e se vivrò ancora, ma di una cosa sono sicura: Janet è riuscita a farmi provare nuovamente una sensazione che credevo spenta da anni, ormai. La sensazione di essere madre, quella che avrei dovuto mantenere fino al mio ultimo respiro, ma così non è stato. Una percezione innata che voi avete annullato, allontanandomi dalle vostre vite, ma ora basta parlare di voi.
Janet, cara. All'inizio, quando ci siamo conosciute, pensavo fossi solamente una scocciatrice in più da tenere a casa. Una di quelle che avrebbe distrutto la mia routine quotidiana e invece non è stato proprio così. So che ti sentiresti molto a disagio se solo iniziassi a scrivere tutte le emozioni che hai fatto resuscitare nel cuore di una vecchia scontrosa come me. Sono stata felice di averti saputo dare tutto il calore possibile, quello che purtroppo non sei riuscita ad avere da tua madre a causa della sua prematura scomparsa. Spero che tutti i miei insegnamenti ti siano stati d'aiuto e continueranno ad esserlo nel corso della tua vita. E' a te che vorrei lasciare tutti i miei beni, tra cui la mia dolce casa in cui potrai abitare insieme alla tua famiglia che ha tanto bisogno di cure economiche, ma soprattutto affettive.
Adesso so di poter morire con la speranza di aver lasciato qualcosa in questo mondo, di aver costruito qualcosa e tutto ciò lo hai reso possibile tu. Figli miei, spero davvero che i vostri bambini non facciano il vostro stesso errore in futuro perché non c'è niente di più devastante del sentirsi “scartata”, messa da parte come un cimelio scalfito dal tempo che è stato usato fin quando ce n'era il bisogno per poi venir buttato in cantina. La solitudine è una brutta malattia, ma giunta al capolinea della mia esistenza mi
sono resa conto che grazie all'aiuto di un angelo, Janet, è possibile uscirne.
Una lettera per te
Cara Valentina, sono tua madre e oggi più che mai, nel giorno del tuo diciottesimo compleanno, sento il bisogno di scriverti. Quando scoprii di essere incinta, vedevo il mondo a colori ed insieme a tuo padre Gianni, eravamo così felici. Per molti anni avevamo provato ad avere figli, ma senza successo. Fertilizzazione in vitro, iniezione intracitoplasmica di sperma e così via. Quasi non ci credevo più, era diventata solamente una perdita di soldi e noi ne avevamo bisogno per tirare avanti. arono tre lunghi mesi caratterizzati da una forte tristezza. Io e tuo padre non parlavamo molto, eravamo sempre più afflitti dall'idea che non avremmo avuto figli. Nessuno ci avrebbe chiamato “mamma e papà”, ci era stata negata una gioia che tutti dovrebbero provare almeno una volta nella vita ed era tutta colpa mia. Quando ogni speranza sembrava persa, una sottile linea sul test di gravidanza mi fece tornare il sorriso. Ti amavo già. Certo, io e tuo padre avevamo 50 anni suonati, ma poco importava. Finalmente saresti arrivata tu, piccolo nostro amore. arono 9 mesi di gravidanza e tutto sembrava procedere alla perfezione. Non ti muovevi molto all'interno della mia pancia, te ne stavi buona buona e ogni tanto provavi a cambiare posizione. Il dottore era intenzionato a farmi fare l'amniocentesi però poi, visti i miei trascorsi, cambiò idea e la sconsigliò. Anche io e Gianni non volevamo farla se questo significava rischiare di perderti.
Porgesti il tuo saluto al mondo durante una mattina di primavera e niente poteva essere più azzeccato, tu che per noi sei stata la nostra “primavera anticipata”, tu
che hai fatto rifiorire il nostro cuore spoglio. Iniziarono a controllarti e sentivo che qualcosa non andava. Dopo maggiori controlli e visite arrivò la notizia: eri affetta dalla Sindrome di Down. Io ti avrei amato comunque, ma ero preoccupata per come ti avrebbero accettato gli altri. Come in un film iniziai a pensare al tuo primo giorno di scuola, quando i tuoi compagni ti avrebbero catalogata come diversa oppure a tutte le volte in cui saremo in giro per la nostra città e le persone ti guarderanno come se non avessero mai visto una bambina down.
Con il are dei tuoi primi due anni di vita, tutte queste mie paure vennero attenuate, grazie anche all'aiuto di tuo padre che cercava di darmi la forza necessaria. Nonostante ti amassi, sentivo che tutto questo fosse successo per colpa mia e dei miei problemi. Cercavo un capro espiatorio e lo trovavo sempre e solo dentro di me. Ciò non fece che peggiorare la situazione.
I primi momenti sono stati difficili, colmi di domande a cui non sapevo dare risposta, ma adesso sento di essere la mamma più felice al mondo. Inizialmente, come ti dicevo prima, ero alla ricerca di un capro espiatorio e subito dopo ho sentito la necessità di elaborare un lutto interiore. Avevo perso l'immagine della mia figlia idealizzata con conseguenti investimenti affettivi ed aspettative. Inizialmente cercavo di negare tutto ciò e subito dopo, invece, sviluppai un grande senso di protezione nei tuoi confronti. Entrambi i comportamenti erano sbagliati. La realtà dei fatti era che io, madre alle prime armi, sentivo uno scarso senso di padronanza a livello organizzativo e relazionale. Non sapevo come rapportarmi con te, né come gestire questo cambio di routine. E' ovvio che avevi maggiormente bisogno di attenzioni, rispetto agli altri bambini.
I primi ostacoli con il mondo esterno non tardarono a farsi sentire e arrivarono il tuo primo giorno di scuola. Mi ritrovai ad affrontare, già dall'asilo, le perplessità e le riserve degli altri genitori preoccupati della tua presenza, come se potesse logorare in qualche modo l'apprendimento dei loro bambini. Per non parlare
della struttura materna che non garantiva l'assenza di barriere architettoniche e, proprio per questo, la tua assenza dalla casa in cui eri stata “protetta” diventava una preoccupazione. In quei momenti, la presenza della tua insegnante fu un sollievo per me. Mai nessuno mi aveva tranquillizzato in quel modo, facendomi sentire meno sola. Non ero l'unica mamma a trovarmi in una situazione del genere e ciò mi rasserenava.
Alle elementari non ci furono grandi problemi perché la tua “immaturità” rispetto agli altri bambini, faceva ridere anche te ed insieme ai tuoi compagni trovavate sempre un punto di incontro.
arono altri anni e arrivò il tuo ingresso nella pubertà con tutti i cambiamenti fisiologici del caso. Una volta cominciato il liceo, sembrava che ti fossi integrata completamente nella tua classe, ma solo dopo qualche mese, quando i gruppi tra adolescenti erano già formati, ricevesti la tua prima vessazione. Mentre eri intenta a disegnare, attività che ti piaceva molto, un ragazzino iniziò a prenderti in giro per l'espressione facciale che era tuo solito assumere quando ti concentravi, ma tu non gli davi neanche adito. Ad un certo punto, preso dall'ira di non essere riuscito a farti piangere, prese il tuo disegno, lo accartocciò e lo scaraventò a terra tra le risate di tutti i tuoi compagni. Il dolore nel vedere il frutto del tuo lavoro a terra e la vergogna per la battute che iniziavi ad incassare ogni giorno, ti portarono a piangere ogni mattina, una volta arrivate davanti al portone della tua scuola. Ci volle qualche mese e l'aiuto del sostegno scolastico per capire che cosa stava succedendo. Una volta chiamato a colloquio il bullo, venne sospeso per soli 2 giorni da scuola, ma prima di andarsene, cercò di colpirti infuriato. Lessi il terrore nei tuoi occhi e, come ogni mamma sarebbe disposta a fare, mi sono messa in mezzo tra di voi, proteggendoti. Il pugno lo presi io, ma non aveva importanza.
Ti ritirammo da quella scuola e ne provammo un'altra per evitare di giungere alla
drastica soluzione di portarti altrove e/o di ghettizzarti. Tutto sembrò andare per il meglio e arrivata ad oggi, io e tuo padre, possiamo dire di essere veramente soddisfatti di come sono andate le cose. Quest'anno hai la maturità e sarà sicuramente un o importante, una rivincita per te, alla faccia di tutte quelle persone che diciotto anni fa non avrebbero scommesso niente sul tuo futuro.
Sei diventata indipendente, ma hai pur sempre bisogno di noi, i tuoi genitori. Ti abbiamo avuto troppo tardi, ma fosse stato per noi saresti nata almeno vent'anni prima. La cosa che in questo periodo mi spaventa è: quando non ci sarò più, chi baderà a te?
Quando sei nata ti volevo tutta per me, solo adesso mi rendo conto che quando una madre mette al mondo un figlio deve essere consapevole del fatto che lui sarà una parte del proprio cuore che verrà donata al mondo e che, un giorno, dovrà camminare per i propri i, costruendosi un futuro nella sua più totale indipendenza. Sarebbe stato così anche per te? Non lo so, ma di una cosa sono sicura: io e tuo padre ti aiuteremo a raggiungere quella tanto desiderata indipendenza per poterti sentire finalmente, a pieno titolo, cittadina del mondo.
Valentina mia, finisco di scrivere questa lettera sapendo che tu non la leggerai mai personalmente. Se tu sapessi, mi avresti certamente chiesto con quel tuo faccino vispo “mamma, ma allora perché lo hai fatto?!” Devi sapere, tesoro mio, che questa testimonianza è dedicata a te, ma è rivolta a tutte quelle persone che vedono l'handicap come un problema sociale quando, in realtà, l'unico ostacolo è dato da loro che continuano a vedere la disabilità come un'erbaccia da estirpare.
Cari ragazzi, mi rivolgo a voi ora. Valentina è una ragazza come tante. Valentina potrebbe esservi sorella, cugina, zia e un giorno anche figlia. Valentina ha voglia di ridere e giocare, proprio come voi. Valentina vuole impegnarsi per avere un mondo alla portata di tutti. Valentina vuole lavorare e rendersi utile per la società. Valentina mangia un po' di tutto, ma le verdure proprio no.. Quelle non le sono mai andate a genio, soprattutto i broccoli. Anche voi? Allora vedete, in fondo non siete così diversi. Valentina vuole essere libera di rapportarsi con tutti, senza vedere strane smorfie di disappunto che si colorano sul viso di chi viene “disturbato” dalla sua presenza. Valentina ama il calcio e tifa la Roma. Valentina è stata tanto desiderata dai propri genitori, come anche voi. Valentina ama indistintamente. Valentina piange quando sente di non farcela. Valentina si arrabbia davanti alle ingiustizie. Valentina si ribella come tutti gli adolescenti alla sua età. Valentina è in ognuno di noi... Allora perché discriminarla? Perché dovrebbe essere diversa? E da chi?
Paura di amare
Mi chiamo Flavia, ho 20 anni e sono una deviata sessuale, o almeno così mi definiscono da quando ho fatto “Coming Out” durante l'adolescenza. Vivo in un paesino del sud composto da circa duemila abitanti, ciò non ha reso le cose meno difficili perché tutti sapevano tutto. Provate ad immaginare una ragazza che fino al compimento dei suoi diciassette anni si è sentita costretta (per via delle mentalità troppo chiuse, lesbofobe e sessiste) a dover nascondere a tutti, specialmente alle vecchiette di paese che amano spettegolare, la sua vera identità. Mi sentivo falsa con il mondo intero, anche con me stessa. Recitavo una parte che non era mai stata mia e che mi portava a fuggire da ogni corteggiamento maschile con la solita giustificazione del “mi sono appena lasciata, scusa... Non me la sento”. In realtà io me la sentivo di amare, ma non lui. Non un uomo. Io volevo amare una donna. E questo i miei genitori non lo accettarono mai.
Non è facile ritrovarsi in una situazione del genere dove si vede la propria situazione sentimentale “bloccata” da un grande masso che pesava costantemente sul cuore. Di omosessuali, qui, ce ne sono pochi e alcuni sono stati costretti ad andarsene, come Luca che cinque anni fa lo videro baciarsi con un altro uomo nel bagno di un pub. Inutile dire le botte che prese, fino a fargli uscire il sangue. Non fu un caso unico e questo mi buttava giù ancora di più. Io non ero mai stata picchiata, se non da mio padre, ma la discriminazione nei miei confronti la sentivo forte ugualmente.
Non so precisamente quando è iniziata la mia omosessualità, mentirei se dicessi che da bambina mi divertivo a giocare con le bambole. In realtà volevo che i miei genitori mi comprassero quelle macchinine super accessoriate con cui mio fratello Stefano poteva trastullarsi per ore ed ore fino allo sfinimento. Quando mio madre mi metteva davanti alla televisione per farmi vedere i classici Disney - che quasi sicuramente molti bambini prima di me avranno amato - io guardavo
affascinata il principe e, una volta finito il cartone, prendevo un bastoncino e facevo finta che fosse la mia spada. Io volevo essere quel principe alla ricerca di una principessa da salvare. Per non parlare di tutte le volte che mia madre rincarava la dose, dicendo: «Quando la smetterai di fare il maschiaccio? Devi essere una donna! Sarebbe bello se indossassi un vestito o una gonna, ogni tanto.»
Verso i diciassette anni, finalmente, dopo una dura fase di auto accettazione in cui cercavo di capire realmente che cosa fossi, iniziai a sentirmi più sicura di me. Essere o sentirsi lesbica non è una malattia, ma uno “status relazionale” (come amavo definirlo). Io sono lesbica, tu sei gay, lui è etero. L'unica differenza è che abbiamo scelto di amare il nostro stesso sesso, ma avrei assicurato a chiunque che io, come ogni omosessuale, amavo nello stesso modo e con la stessa intensità di un etero. Ciò che ad un etero sembra “anormale”, per me è normalità e viceversa.
Iniziai così a confessarmi con le mie amiche più care che pensavo mi avrebbero compreso, ma fu lo sbaglio più grande della mia vita. Persi l'affetto di tutte loro che avevano cominciato a guardarmi diversamente. Sembravano distaccate e quando provavo a relazionarmi nuovamente con loro, ricevevo delle battute di scherno che mai mi sarei immaginata. Tra le tante chiacchiere che cominciarono a girare nel mio liceo, arrivò la notizia ai miei genitori. Risultato? Non mi parlarono per 8 lunghi mesi. Il giorno stesso in cui lo vennero a sapere, mio padre corse a scuola, mi fece uscire prima e, dopo essere arrivati a casa, mi picchiò violentemente. Non aveva intenzione di capire e non se la sentiva di accettare quel “dramma” che secondo lui avrebbe afflitto la nostra famiglia per sempre. Anche mamma era di questa opinione. La stessa madre che tanto diceva di amarmi. Non le rivolsi più parola. Dopo otto lunghi mesi di solitudine, cercarono di tessere nuovamente il rapporto, ma era troppo tardi. Lo avevano rovinati con le loro stesse mani per paura di ciò che potesse pensare o dire la gente, ma soprattutto perché davano per scontato che non mi sarei sposata e non avrei avuto figli. Io, invece, volevo sposarmi e diventare madre, ma con la donna che avrei amato. Dopo un periodo di riavvicinamento, i miei genitori si allontanarono di nuovo e questa volta per sempre.
Ero l'unica a combattere per una battaglia che toccava solamente me e, in quel momento, iniziai a sentirmi quel valoroso principe che durante l'infanzia sognavo di essere. Una volta dichiarata ufficialmente, la lesbofobia divenne la mia quotidianità. Per la gente, soprattutto di sesso maschile, era inaccettabile “essere lesbiche” e alla base di questa loro discriminazione sociale c'era un qualcosa di più profondo: la convinzione sessista che ogni donna debba apparire e comportarsi in un certo modo, eticamente accettato dall'uomo. Le donne dovevano mantenere una sorta di “regole” sociali che io, in qualità di lesbica, riuscivo ad infangare anche solo esistendo.
Il mio ultimo anno di liceo fu terribile. Dalle battute di scherno eravamo ati ad atti di vero bullismo nei miei confronti. Le ragazze della mia classe non mi hanno più chiamato per nome, ma preferivano urlare l'appellativo che tanto le disgustava: «Lesbica». Durante l'ora di educazione fisica non mi fu possibile entrare negli spogliatoi femminili, mi accusavano di guardarle mentre si cambiavano, ma tutto questo non era assolutamente vero e fu così che mi ritrovai a dovermi vestire nel piccolo bagno della scuola. Dopo quell'episodio anche i ragazzi iniziarono a prendermi di mira, bussando alla porta, mentre ero intenta a spogliarmi in pochi metriquadri, per urlare «Maschio mancato, esci fuori che facciamo festa!» oppure «Maledetta lesbica!». Era tutto così terribile e ingestibile, data anche la forte omertà che caratterizzava i miei professori. E fu così che decisi di venire a scuola direttamente in tuta da ginnastica. Purtroppo il loro odio verso di me non finì lì. Secondo me, erano solamente spaventati da un qualcosa che consideravano “diverso” e quindi cercavano di farsi vedere forti ai miei occhi. Fatto sta che resero la mia vita impossibile. Durante l'ora di educazione fisica mi tiravano delle forti pallonate e tornavo a casa livida. Nelle ore di lezione, invece, si divertivano a puntarmi contro l'accendino o, nei casi più estremi, a tagliarmi qualche ciocca dei miei lunghi e folti capelli. Dicevano: «Tanto non ti servono, sei un uomo.»
Mi diplomai e scappai. Lasciai una lettera ai miei genitori dove cercavo di rassicurarli che, fuggendo, sarei andata incontro alla mia felicità. Gli chiesi di non cercarmi, a quanto pare non ebbero problemi a rimanere con le mani in mano. Anche loro si erano finalmente tolti un grande peso che gravava sul loro tetto coniugale. Destinazione? Londra.
Luglio. Agosto. Settembre. Ottobre. I mesi arono velocemente ed io mi ero ambientata sempre di più in quella città dall'aspetto magico. Era tutto così perfetto! Una sera, mentre ero in giro su Facebook, ricevetti un messaggio di posta da una ragazza inglese che diceva di avermi vista in una pagina contro la lesbofobia e che avrebbe voluto tanto conoscermi. Ci misi un po' per decidere se accettare o no quell'invito, non avevo mai avuto rapporti con donne e, dopo aver spulciato le sue foto e qualche post, mi resi conto che anche lei aveva il mio stesso orientamento sessuale. Mi sarei dovuta buttare?
Cinque giorni dopo, alle 17 in punto, mi “buttai”. Si chiamava Abigail, aveva un fisico longilineo, una lunga chioma bionda e due occhioni nocciola in cui mi sarei potuta perdere. Non avevo visto niente di simile nel paese da cui provenivo e per la prima volta nella mia vita mi sentii felice. Parlammo per ore ed ore della nostra vita e anche dei progetti futuri. Mi trovai leggermente in difficoltà con la conversazione in lingua inglese, ma a quanto pare lei non sembrava badarci più di tanto. Scoprii in seguito che anche lei era venuta ad abitare a Londra poiché la sua famiglia non aveva accettato la sua sessualità. Veniva da Berlino in cerca di serenità, proprio come me. In quell'istante, mi sentii sempre più vicina a lei.
Con il are delle settimane, iniziammo a sentirci sempre di più fino a rivederci per il nostro secondo appuntamento dove riuscimmo a scambiarci il nostro primo bacio e da lì fu subito amore. Un amore che riempie. Un amore che tiene a galla. Un amore che fa sperare nel lieto fine, quello che in tanti anni mi era stato negato.
Cominciammo ad amarci prima in gran segreto e poi, lentamente, ufficializzammo il tutto. A distanza di un anno, nonostante i tanti progetti, ancora non siamo riuscite a sposarci, ma conviviamo. Londra, a differenza dell'Italia,
accetta i matrimoni gay e molto probabilmente ci sposeremo nell'Abbazia di Westminster. Di figli ancora non se ne parla, ma dopo il matrimonio penso che non tarderanno ad arrivare. Matrimonio a cui i miei genitori non parteciperanno. Nipoti che i miei genitori non cresceranno.
Sono ati anni dalla mia fuga e ancora mi domando come sia stato possibile tutto ciò. Io e Abi amiamo sognare ad occhi aperti, progettare il nostro futuro, condividere ogni cosa, uscire con i nostri amici, stare abbracciate sul divano a guardare un film, etc. etc. Questa è la nostra semplicità e fa male sapere che in alcuni paesi ancora viene contestata. Come si può pensare che un rapporto così vivo e colmo d'amore sia spregevole e contro natura? Per me, stare con lei, è la cosa più naturale al mondo, come se fosse sempre stato così fin dall'inizio. Ero riuscita ad annullare tutto il dolore e le indecisioni adolescenziali causate da una sempre più fitta paura del risultare diversa agli occhi degli altri. Invece è stato tutto così semplice e “scontato”, come respirare. Lei è stata così. La mia boccata d'ossigeno in una giornata di pioggia.
Ringraziamenti
Vorrei ringraziare, in primis, la mia famiglia, sempre presente in ogni sorriso e in ogni lacrima. Voi che mi avete spronato a buttare su carta tutto ciò che il mio cuore aveva da esternare... Perché lo sapete bene che nelle cose ci metto tanto amore, quello che mi avete insegnato a donare. Un ringraziamento speciale a Matteo, mio amico e collega, per il suo grande aiuto e per i consigli preziosi che porterò sempre con me. E per ultimi, ma non meno importanti, un ringraziamento a voi che leggete. A voi che mi seguite fin dagli inizi, oppure a voi che mi avete scoperta tra gli scaffali di una libreria. A voi che vi siete resi partecipi in questa nuova e fantastica avventura, oppure a voi che non lo sapevate e adesso ne siete incuriositi. A voi che, spero, continuerete a seguirmi, perché sognare insieme a me non fa mai male.. O almeno credo!
Spero che questa non sia la fine di un percorso, ma l'inizio di una nuova vita.
Grazie a tutti e al prossimo libro. Miriam