Filippo Scalise
Il fotografo delle voci
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Indice dei contenuti
Capitolo 1 Capitolo 2 Capitolo 3 Capitolo 4 Capitolo 5 Capitolo 6 Capitolo 7 Capitolo 8 Capitolo 9 Capitolo 10 Capitolo 11 Capitolo 12 Capitolo 13 Capitolo 14 Capitolo 15 Capitolo 16
Capitolo 1
Un imponente palazzo neo barocco nel quartiere di Montjuic, a Barcellona. Una montagna in mezzo alla città. Colline coperte di fiori, alberi esotici e grandi cactus, proprio vicino alle fontane luminose di Gaieta Buigas. Dall’elegantissimo e imponente ingresso, alleggerito da un piccolo giardino fiorito, si accedeva, attraverso una larga scala di freddo marmo grigio-rosa, alla grande sala di attesa dello studio notarile Deis Frémont. Attraversando un lungo corridoio, suddiviso in sequenza da tre modernissime porte di cristallo e acciaio, si accedeva a un’imponente sala riunioni nella quale, le calde e vissute librerie antiche, che riempivano le pareti, sembravano in contraddizione con il restante modernissimo arredamento. Il corpo di un uomo vestito elegantemente giaceva supino su un enorme tappeto persiano dalle tinte rosse e blu. Una grande quantità di sangue, in parte coagulato, impregnava il tappeto appena dietro la nuca dell’uomo. Alberto Meriva, questo era il suo nome. A Barcellona era molto noto da quando, tre anni prima, era balzato agli onori della cronaca come il “fotografo delle voci”. Come a tanti giovani della sua età, anche ad Alberto stava stretta la vita monotona e priva di futuro, che gli si prospettava nel piccolo paese di Torredembarra, in Costa Daurada. Tante piccole case basse, dagli intonaci colorati, si ammassavano disordinatamente lungo una stretta strada litoranea, che confinava direttamente con la finissima sabbia rosa della spiaggia. Ore e ore trascorse sotto il cocente sole estivo, nella speranza di vendere bibite fresche ai turisti assetati, nessuna voglia di andar oltre.
A venticinque anni, stufo di quelle giornate sempre uguali, Alberto accettò l’invito dello zio Lorente di raggiungerlo a Barcellona per lavorare nella Compagnia Telefonica del Paese. Né il padre, né la madre si opposero a quella scelta. Forse il loro ragazzo avrebbe avuto la possibilità di fare quello che loro non riuscivano più neanche a sognare. Un abbraccio lungo quello con il padre a suggellare con il contatto fisico un patto di fiducia e di amore. Durante il viaggio in treno dalla stazione di Tarragona a Barcellona arono velocemente davanti ai suoi occhi il Parco Naturale del Garraf e l’Hospitalet de Llobregat e in quelle poche ore di viaggio maturò l’idea che sarebbe stato lui stesso l’artefice del cambiamento della sua esistenza. Giunto alla stazione di Sant Estacio rimase per lunghi minuti impietrito davanti alle bellezze architettoniche di questa sua nuova città senza fare nessun commento, nessun particolare pensiero ma solo godendosi con un profondo respiro una nuova libertà. Fu riportato rapidamente alla realtà dal sopraggiungere di una gran folla di gente che come un fiume in piena lo trasportò direttamente sul treno della metropolitana in direzione dell’Università. Un viaggio rapidissimo e in meno di dieci minuti arrivò al eg de Gracia poi, da lì, a piedi raggiunse un piccolo portone bianco lungo il Carrer de Pau Claris. La sua nuova casa: una piccola camera ben arredata, contigua all’abitazione di Lorente, gli era stata offerta dalla Compagnia Telefonica e insieme il suo primo vero stipendio. Si sentì immediatamente al sicuro e ordinatamente dispose i suoi pochi abiti all’interno dell’unico grande armadio marrone che occupava, quasi completamente la parete laterale della camera poi crollò sul letto sul quale qualcuno simpaticamente aveva lasciato una bottiglia di Porto. Erano ate molte ore e Alberto non aveva ancora parlato con nessuno. Non un saluto o una richiesta d’informazioni, nulla. Si addormentò senza togliersi gli abiti. Tante piccole luci quadrate si alternavano a consumate tastiere grigie sulla parete del centralino telefonico dell’assistenza clienti. Non era un lavoro difficile, ma era richiesta una grande pazienza e una grande capacità di ascoltare le persone; tante domande, tante proteste, tante richieste a volte veramente elementari. Aveva imparato in fretta, Alberto era sempre stato un ragazzo molto sveglio e, in poco tempo, era riuscito ad apprendere il modo di porsi al telefono con i clienti, riuscendo a risolvere serenamente tutti i problemi che ogni giorno si presentavano.
Alberto non era mai stato uno studente diligente, ma tutti lo conoscevano per una sua specialissima dote, che aveva probabilmente ereditato dalla mamma: il disegno. Era veramente bravo! Egli riusciva a riportare sulla carta le immagini della vita quotidiana con un tale realismo e precisione di particolari, che era chiamato amichevolmente “il fotografo”; ciò da quando, un disegno della classe 3^ A, eseguito per la fine dell’anno scolastico e pubblicato sul Giornalino della Scuola, venne da tutti scambiato per una fotografia. Peccato che, né Alberto, né gli insegnanti, né i parenti riuscirono a comprendere che quella dote naturale, poteva e doveva essere coltivata come una grande opportunità per un ragazzo altrimenti senza futuro. Dopo avere rappresentato le colline del suo paese stipate di filari di uva nera su una splendida etichetta per il vino rosso prodotto dalla grande casa vinicola San Laurente, di proprietà del Conte Francisco Petrosa, non disegnò più. ò il suo tempo a percorrere, a piedi nudi, le spiagge di Torredembarra per vendere bibite fresche ai turisti che, soprattutto nel fine settimana, affollavano le spiagge della Costa Daurada. Ora era felice. Aveva un lavoro, uno stipendio, una camera e una nuova città. Quasi incosciente di questa sua nuova dimensione, una domenica soleggiatissima, Alberto decise di fare una eggiata partendo dalla Placa del Portal de la Pau ma, fatti pochi i, qualcosa attirò la sua attenzione nella vetrina di un piccolo negozio. Una bottiglia di vino rosso San Laurente del 1997 con la “sua” etichetta. Entrò di scatto nell’enoteca ed acquistò la bottiglia. Una sensazione strana lo colse. Per un attimo tornarono alla sua mente decine di ritratti, paesaggi “fotografati” da ragazzo e la serenità che accompagnava quei momenti di fertile fantasia. Gli tornò una grande voglia di riprovare a disegnare. Poco più avanti, superate le bancarelle del mercatino antiquario, stracolme soprattutto di vecchi dischi di vinile e quadri di dubbia bellezza, si fermò ad acquistare un grande blocco bianco da disegno ed una confezione di dieci matite nere. Ripercorse lentamente il breve tratto di strada che lo separava dal suo
quartiere rigirando tra le mani quella bottiglia di vino come un vecchio cimelio, un pezzo della sua adolescenza, della sua vita. Rientrato a casa, con l’animo pervaso da un’inaspettata frenesia, riprodusse quella stessa etichetta in circa venti minuti, perfetta, identica, anzi meglio dell’originale. La mattina successiva portò in ufficio con sé il blocco da disegno e lo appoggiò distrattamente sulla sua anonima scrivania accanto alle luci lampeggianti del centralino.
Capitolo 2
Cominciarono incessanti le chiamate. Il signor Garrano si lamentava ancora dell’eccessivo costo delle chiamate extraurbane e pretendeva una tariffa personalizzata, poiché cliente da oltre venti anni. Il signor Guarrentes aveva deciso di interrompere definitivamente il rapporto con la Compagnia Telefonica, rea di aver consegnato, a sua insaputa, i tabulati telefonici all’ex moglie. Alberto ascoltava e rispondeva scarabocchiando sul bianco foglio posto davanti a sé. Una telefonata attirò la sua attenzione. Era la Signora Ramirez che, dopo due settimane, ancora non aveva l’attivazione della linea nella sua nuova casa di Plaza de Saint Jaime, vicino al Municipio di Barcellona. Non sapendo neanche il perché, mentre ascoltava la voce di quella donna, cominciò a scarabocchiare un volto sul foglio bianco. Man mano che la telefonata proseguiva il volto si arricchiva di particolari ma, conclusasi rapidamente la chiamata, il ritratto rimase incompleto. Alberto non si sentì di completarlo con la sua fantasia e lo abbandonò distrattamente sulla sua grigia scrivania. L’indomani, appena arrivato nel suo ufficio, richiamò la signora Ramirez con la scusa di comunicarle l’attivazione della linea e per trasmetterle le scuse della Direzione per il disguido occorsole. Nel frattempo proseguì il disegno che si trasformò rapidamente davanti ai suoi occhi e che cominciò a sembrare sempre di più a una fotografia, per la tridimensionalità che Alberto riusciva incredibilmente a dare con la matita. Conclusa la telefonata. finito il disegno. “Bello!” disse tra sé e sé. Era contento di avere ritrovato la vecchia voglia di disegnare ed era felice di poter nuovamente esprimere questa sua grande ed unica dote che lo riempiva di una energia unica e non facilmente spiegabile.
Il disegno del volto della signora Ramirez rimase lì, in un cassetto, insieme a tanti altri volti, in parte incompleti, che Alberto disegnava tutti i giorni, ascoltando al telefono le voci dei clienti della compagnia telefonica; uomini giovani e vecchi, signori arrabbiati, donne isteriche e donne dalla voce molto sensuale. Ne aveva accumulati una cinquantina nel cassetto della sua vecchia scrivania di metallo grigio e ad ognuno di questi erano legate le sue sensazioni cresciute durante l’ascolto prolungato delle loro voci. A distanza di circa tre mesi, un evento particolare cambiò la sua vita. La Compagnia Telefonica, ogni anno, estraeva a sorte il nominativo di un cliente per offrirgli un anno di telefonate gratis e quell’anno fu estratta la signora Ramona Ramirez di Plaza Saint Jaime, a Barcellona. Quella signora Ramirez, quella del primo disegno, una casualità pensò Alberto, che fu incaricato dalla Direzione di contattarla per la consegna del buono premio. Una improvvisa curiosità, mista ad un certo timore, lo convinse ad accompagnare il funzionario incaricato alla consegna del bonus, tale Bernardo Benincasa, sino alla abitazione della Signora Ramirez. Una piazza molto antica vicino al Palazzo della Generalitat ed alla Casa della Ciutat, un quadrilatero dalle linee precise ed eleganti affollato da turisti e piccioni, così si presentò quella mattina Plaza Saint Jaime. Attraversato un lungo aggio pedonale, Alberto e Benincasa, raggiunsero il portone della bella casa bianca della Signora Ramirez e suonarono il camlo. Aprì una giovane signora bionda, con il volto pallido, ma dai lineamenti molto signorili, che si informò su chi fossero. Completamente differente da quella che aveva immaginato Alberto nel suo disegno, ma perché poi avrebbe dovuto esserlo? La giovane donna invitò i due ad entrare e li fece accomodare in un ingresso molto ampio, ricco di mobili antichi e quadri futuristi alle pareti. Dopo pochissimi minuti la giovane donna tornò verso di loro annunciando l’arrivo della signora Ramirez. Alberto non poteva crederci. Era lei!
La donna del suo ritratto, identica in ogni dettaglio, anche il neo sulla tempia destra. Lo colse una vampata di caldo, poi una sudorazione fredda e la stanza cominciò a girare forte, finché fu il buio. Fu risvegliato da uno schiaffone di Benincasa e da un acre profumo che la governante della signora Ramirez gli stava facendo annusare. Ricordò immediatamente tutto! Il suo disegno rappresentava perfettamente quella donna che aveva ascoltato, più di una volta, al telefono e che ora lo guardava sorpresa e preoccupata. “Sarà stato un calo di pressione” – disse Benincasa congedandosi, imbarazzato, dalla signora Ramirez. Il giovane Alberto si riprese subito dal malore eggero e si scusò infinite volte con la donna che, assicuratasi dello stato di salute del giovane, si congedò dopo pochi minuti. Ma come era stato possibile? Come era riuscito ad immaginare il volto di quella donna, solo ascoltandone la voce? Alberto era riuscito a trasformare le sensazioni trasmesse dalla voce di quella donna in una immagine reale. La prima idea che lo colse fu quella di pensare a tutti gli altri ritratti fatti, mentre ascoltava le telefonate dei clienti della Compagnia Telefonica; erano nel primo cassetto della sua fredda scrivania del suo grigio ufficio di Barcellona. Quando si recò al lavoro il giorno dopo, era animato da una sensazione di angoscia, mista a curiosità. Voleva subito aprire quel cassetto ed andare a verificare uno per uno quei volti, che aveva sentito e riportato su carta. Voleva farlo e lo fece. Chiese all’Ufficio Centrale di poter essere affiancato al signor Benincasa, per una settimana, in sostituzione di un collega che aveva avuto un brutto incidente stradale. Nell’attesa di iniziare questa specie di test, qualcosa di strano iniziava a crescere in lui. Era animato da una forza vitale che non aveva mai sentito prima. I suoi rapporti con gli altri ne risentirono in maniera positiva. Non aveva mai coltivato amicizie a Barcellona e ava spesso da solo i giorni di festa, guardando la televisione o facendo lunghe eggiate sul lungomare.
Cominciò a frequentare un gruppo di colleghi della Compagnia, che lo invitarono, qualche sera dopo, ad una cena, in bellissimo ristorante di Barcellona, per festeggiare il compleanno di Rodrigo Mendez, il capo ufficio della Divisione Commerciale. Rodrigo Mendez era un uomo molto affascinante, che conduceva da alcuni anni, una vita molto dispendiosa e si era contornato di una serie di persone, più o meno amiche, che approfittavano dell’occasione per frequentare posti e persone ben al di sopra delle loro possibilità . Rodrigo non era sposato, ma aveva molte donne e tutti i colleghi invidiavano quel suo modo ricercato e sfrontato che gli permetteva di risultare sempre al centro dell’attenzione. Giravano voci incontrollate su una sua attuale relazione con una se molto ricca, figlia di un commerciante di armi. Si chiamava Justine Bertelli e quella sera era lì, al centro della sala dello splendido ristorante Chez Michel. Atmosfera di grande classe, pochi tavoli rotondi a sei posti; acciaio e vetro dominavano l’arredamento della sala, riscaldata da enormi tappeti scuri, che delimitavano delle isole riservate tra i vari gruppi di tavoli. Si sedette a fianco del signor Benincasa e di Paula Perez, pubblicitaria dell’ Agenzia Espana Press. Fu una bella serata, si divertì molto ad ascoltare lo storielle sconce di Benincasa e ad osservare le reazioni indecise della bella Paula alle battute più spinte. Era una bella donna bruna con delle lunghissime belle gambe, che scopriva inavvertitamente attraverso lo spacco deciso della sua gonna nera di raso. Batteva i piedi ritmicamente e nervosamente sul pavimento e continuava ad osservare il telefono cellulare nell’attesa di una telefonata, che non arrivò mai quella sera. Scambiò poche parole con lei, non era abituato a parlare con le donne e soprattutto quelle belle lo mettevano in forte disagio, così che Alberto dedicò la sua attenzione, prevalentemente, alle ridicole battute del signor Benincasa ed ai profumati piatti di pesce che gustò insieme a più di un bicchiere di vino fresco. Alla fine della serata rientrò a piedi verso casa, camminando per oltre mezz’ ora sul caldo lungomare, animato ancora più di prima dalla curiosità dei suoi volti immaginati e disegnati. Domani avrebbe saputo.
Si attardò almeno venti minuti più del solito quella mattina sistemandosi più volte il nodo della unica cravatta decente che aveva. Arrivò puntuale all’ufficio di Benincasa, portando con sé una cartelletta blu, contenente i disegni delle quattro persone che avrebbero dovuto incontrare quella mattina. Fu una esperienza straordinaria. Alla paura si sostituì una sorta di vibrazione di onnipotenza che gli invase la mente. Era riuscito praticamente a fotografare le voci di quelle persone, era riuscito a rappresentarle sulla carta, con una perfezione ed un realismo che lo lasciò esterrefatto, gonfio di una forza che non aveva mai avuto prima. Avrebbe voluto dirlo a tutti, ma si bloccò. Nessuno gli avrebbe creduto. Era troppo facile fare un bel ritratto fotografico e dire di esserselo immaginato ascoltando solo poche parole del soggetto al telefono. A mezzogiorno di quel giorno, così particolare per lui, decise di non pranzare. Si congedò dal signor Benincasa e si affrettò verso i giardini di Parc Guell. Voleva, isolandosi, pensare sul da farsi. Si sedette su una panchina soleggiata, lontano dal vociare di numerosi uomini, che discutevano della manovra fiscale del governo. La sua attenzione ricadde su un giornale abbandonato sulla panchina. Era la terza pagina del quotidiano El Pais, dedicata all’ennesimo assassinio avvenuto a Barcellona. Era il sesto giovane che veniva ucciso con una pugnalata alle spalle. In tutti casi riportati dal giornale si trattava di uomini giovani e dell’alta società ai quali veniva, dopo la morte, rasato il cranio e tagliata la punta della lingua, in un macabro rituale che si era già ripetuto sei volte. Ne aveva sentito distrattamente parlare in ufficio. Gli investigatori non erano riusciti a trovare nessun elemento utile che potesse mettere in relazione tra loro quelle morti atroci, né avevano indizi o prove che potessero far risalire ad un omicida seriale, ad esclusione delle sue rivendicazioni telefoniche. Quel particolare attirò la sua attenzione. L’omicida aveva sempre rivendicato i suoi delitti con un messaggio registrato, fatto pervenire, forse in segno di sfida, agli uffici della Polizia, a distanza di ventiquattro ore dagli omicidi. Un brivido gli percorse la schiena. Sarebbe stato in grado di disegnare il volto di quell’omicida ascoltando le poche ma atroci parole delle sue rivendicazioni?
Quella notte fu molto agitata. Alberto non riusciva ad immaginare altro che un vortice di volti, che si trasformavano l’uno nell’altro in una girandola senza fine e poi compariva lui, l’uomo ancora senza un volto, l’uomo degli omicidi seriali. Una tazza di calda verbena gli conciliò il sonno solo verso le prime ore del mattino.
Capitolo 3
Decise di puntare dritto al sodo. Non poteva permettersi di essere deriso né scambiato per pazzo ma nello stesso tempo non poteva non tentare. Chiese un appuntamento urgente con il Capitano di polizia Kemen Garreca. Fu ricevuto il pomeriggio stesso alle quattordici. ato un controllo di identità all’ingresso del palazzo della Polizia, venne accompagnato attraverso uno stretto corridoio, sul quale si aprivano numerose porte di uffici decisamente bui e spogli. L’ultima porta sulla destra faceva accedere in un disimpegno, arredato con vecchie stampe ed un polveroso divano di stoffa blu. Venne invitato ad accomodarsi e fu annunciato il suo arrivo al Capitano. Dopo solo cinque minuti il Capitano gli venne incontro e lo salutò freddamente scrutandolo da capo a piedi. Che qualcuno potesse fornirgli elementi utili a risolvere quel caso, che stava diventando il suo incubo, lo predisponeva comunque bene ad ascoltare. Alberto si presentò e dopo alcuni preamboli sulla sua attività lavorativa, venne al dunque. “Capitano, esclamò, penso di poterla aiutare ad identificare l’omicida seriale se solo potessi ascoltarne la voce registrata”. E da lì partì il suo racconto sui volti immaginati e disegnati durante le ore di ascolto telefonico alla Compagnia, gli incontri con le persone, la sorprendente corrispondenza dei particolari. Aprì una cartelletta e fece vedere al Capitano i suoi disegni. Il poliziotto fu molto scettico , molte persone squinternate si erano presentate in quei giorni alla Polizia per denunciare di aver visto il serial killer, di averlo sognato o addirittura si incolpavano di quegli orrendi delitti. Questa volta qualcosa gli diceva che doveva tentare. Doveva dare a quel giovane almeno la possibilità di provare a fare il disegno e poi, fare qualche riscontro in più, non sarebbe costato molto in termine di tempo perso e spreco di soldi dei contribuenti. Accompagnò il giovane Alberto al piano sotterraneo, attraverso una ampia scala, che partiva a metà circa del lungo corridoio. Fece scorrere la sua tessera di riconoscimento in un lettore ed un secco scatto metallico fece aprire la porta blindata, che introduceva alla Sezione Scientifica della Polizia.
Fece accomodare Alberto in una stanzetta con una scrivania e due sedie scure imbottite. “ Il Maggiore Fernando Messi , disse Garreca, è il Responsabile dell’attività di Polizia Scientifica di questo Distretto”. I due si strinsero la mano ed il Maggiore appoggiò sulla scrivania un lettore digitale con delle cuffie. “Prego, disse, queste sono le telefonate fatte dal presunto omicida”. Alberto si collocò gli auricolari ben stretti sulle orecchie ed il Maggiore fece partire la registrazione. Il tutto non durò più di tre, quattro minuti. Alberto era sconvolto, la voce si apprezzava molto bene, ma era camuffata da un filtro vocale digitale, che la rendeva simile a quella di un laringectomizzato. “Impossibile, disse, impossibile, non è la sua voce reale, non credevo”…. Si alzò di scatto molto imbarazzato, non sapeva cosa dire, si era pentito di essere arrivato sin là, perché poi, disse fra sé e sé. Il Capitano Garreca spiegò ad Alberto che si trattava di una comune tecnica di camuffamento della voce, che forse poteva essere, in parte, superata con delle tecniche di filtraggio al computer. L’attenzione degli inquirenti si era soffermata soprattutto sul contenuto delle telefonate e non sul timbro della voce, in quanto nessun riscontro sarebbe stato possibile a riguardo. Il Maggiore Messi ringraziò Alberto e gli promise un nuovo appuntamento a distanza di qualche giorno. In quelle giornate ate a lavorare distrattamente, Alberto non riusciva a pensare ad altro che a quella voce gutturale, ascoltata per quei pochi minuti negli uffici della Polizia. Per quanto si sforzasse di ricordarla non riusciva neanche ad immaginare un inizio per un disegno di un improbabile volto del killer. Forse si era sopravvalutato, forse aveva osato troppo ed ora aveva paura. Ricevette una telefonata quella sera. Suo padre, che non sentiva da oltre sei mesi. La voce stanca dell’anziano padre lo riempiva di nostalgia, pensando alla sua casa di Torredembarra ed ai suoi amici. Le spiagge assolate, il mare blu e le lunghe giornate ate senza far nulla, una corsa con Zeb, il bianco Labrador, che lo aveva accompagnato per tutta la sua gioventù e l’amore strappato di nascosto ad una turista americana. Un invito inaspettato per il matrimonio del cugino Pedro, che lo voleva come
testimone di nozze. “Ci sarò, disse Alberto al padre, sarà per me una grande gioia riabbracciare la mia gente”. Non fu necessario raggiungere la centrale di Polizia, perché quella mattina alle otto, una macchina scura lo prelevò a casa e lo accompagnò appena fuori dalla città. Era un distretto di Polizia Provinciale. Un recentissimo palazzo di vetro e cemento che mal si sposava con la restante architettura della povera periferia della città. Raggiunse rapidamente il sesto piano, dove lo attendeva il maggiore Fernando Messi, in una stanza completamente rivestita da uno strato di materiale isolante e con una enorme parete, sulla quale comparivano le immagini provenienti dalle telecamere della città, alternate a mappe geografiche satellitari. Carmen, l’assistente del Maggiore, era una splendida ragazza bruna, molto magra, con dei lineamenti molto dolci e delle carnose labbra rosse. Fu lei a portargli un caffè ed a spiegargli che a breve avrebbe ascoltato la versione ripulita delle telefonate del killer; ne rimase semplicemente abbagliato. Da molto tempo il suo interesse per le donne era praticamente nullo e si era limitato a qualche noiosa uscita serale con una collega della Compagnia Telefonica. Ma il suo pensiero fu, di colpo, interrotto dalla voce del Maggiore, che gli presentò la versione filtrata delle telefonate: “L’ ascolti e ne tragga ispirazione, vediamo se non ci ha fatto perdere inutilmente tempo”. Alberto vestì le grosse e morbide cuffie nere e, dopo aver incontrato distrattamente lo sguardo della bella Carmen, fece cenno di far partire la registrazione. Rispetto alla prima versione ora la voce era nitida, pulita ed immediatamente alcune immagini cominciarono a riempire la sua mente. Interruppe la riproduzione delle telefonate ed aprì fiducioso il suo blocco da disegno. La registrazione ripartì e contemporaneamente la sua mano cominciò a viaggiare velocemente sul foglio iniziando a tracciare i tratti di un volto umano. Le persone presenti nella sala si avvicinarono, incuriosite, alla lunga scrivania, dove Alberto stava disegnando. Qualcuno faceva scontate battute sulla probabile pazzia di quella persona e qualcun altro bisbigliava che forse sarebbe stato meglio impiegare il tempo in qualche cosa di più produttivo. I segni fatti sulla carta procedevano decisi ed il volto di un uomo stava
rapidamente comparendo sul grande foglio bianco del blocco di Alberto. Una piccola testa calva con pochi bianchi capelli rimasti sulle tempie e sulla nuca, due piccoli occhi ravvicinati, in parte nascosti da folte ciglia arricciate ed un piccolo naso con la punta arrotondata. Ogni volta che la registrazione terminava Alberto si soffermava un attimo poi, con gesto automatico, faceva ripartire la registrazione e continuava nell’opera. Comparivano ora delle sottili labbra ed un mento piccolo e regolare che chiudeva l’ovale del volto. Un volto anonimo aveva preso sembianza su quel foglio e Alberto appariva molto confuso, pur non avendo avuto nessun tentennamento durante il completamento della sua opera. Era ata circa un’ ora da quando era entrato in quella stanza, che ora appariva svuotata dalle decine di persone che l’avevano affollata quel pomeriggio. Consegnò il disegno del volto del presunto omicida seriale nelle mani del Maggiore Messi, che ringraziò ed abbozzo un sorriso. Alberto si congedò rapidamente da tutte quelle persone, ma non poté fare a meno di soffermare il suo sguardo sui brillanti grandi occhi verdi di Carmen, che ricambiò con un timido sorriso. Fu una notte tranquilla quella che Alberto trascorse nella sua piccola casa bianca di Barcellona. I rumori delle auto, che man mano si diradavano con l’avanzare della notte, lo fecero lentamente sprofondare in un sonno molto sereno.
Capitolo 4
Il mattino successivo le cose cambiarono improvvisamente. Mentre si radeva, la radio locale annunciò che, quella stessa notte, un giovane uomo era stato ucciso nei pressi della Cattedrale di Santa Eulalia e che le caratteristiche dell’omicidio facevano pensare ancora al killer seriale. Il rasoio cadde nel lavandino ed Alberto rimase immobile per un minuto, ripensando alla sera precedente ed al volto dell’uomo che aveva immaginato e disegnato. Sarebbero stati in grado di identificarlo con il suo ritratto? Quando questa carneficina sarebbe terminata? E perché un dubbio albergava nel suo inconscio? Come poteva un uomo dall’aria assolutamente comune e non aggressiva, vestire i panni di un serial killer? Domande alle quali non sapeva darsi ora una risposta. Dopo pochi minuti, terminata l’operazione di rasatura, si stava già vestendo per uscire di casa. “In effetti, disse il Professor Beniamino Pricca, è facile che possano esistere alcuni individui dalla doppia vita, che instancabili lavoratori e padri di famiglia, possano nascondere una seconda esistenza nella quale diventano crudeli esecutori di riti agghiaccianti. Un poco come il dottor Jekyll e Mister Hyde , capisce Alberto!?”. Era uno dei suoi pochi amici a Barcellona e proprio quella mattina Alberto lo invitò a colazione, in quanto voleva sentire il parere di un esperto, che potesse aiutarlo a capire di più. Quindi era assolutamente possibile che quell’ometto fosse il killer, così come gli aveva spiegato il Prof Pricca, docente di criminologia ormai in pensione. Rientrò in ufficio con la sola certezza di aver bene interpretato quella voce, di averne colto le sfumature che avevano chiaramente ricostruito nella sua mente dei tratti ben definiti, poi riportati sulla carta dai suoi gesti automatici e ben
controllati. Non stava a lui porsi ora il problema di chi fosse quell’uomo in realtà e che tipo di vita potesse vivere con quell’ aspetto assolutamente anonimo. Il suo pensiero fu distolto dall’arrivo contemporaneo di tre telefonate dirette al suo ufficio, per cui dovette concentrarsi su quelle situazioni reali alle quali doveva dare una soluzione. Dopo quel giorno, dopo il disegno del presunto killer, Alberto iniziò a divorare i quotidiani ed i notiziari televisivi nell’attesa della notizia dell’ arresto del serial killer. Ma sembrava che l’omicida fosse scomparso. Fino a qul momento non erano ate più di due settimane tra un omicidio e l’altro, ma questa volta, da oltre un mese, non si sentiva più parlare di lui ed anche l’attenzione dei media si era proporzionalmente ridotta. Fu causale, ma quel pomeriggio, Alberto decise di percorrere la lunga strada del Parco per rientrare a casa e come d’incanto, all’improvviso, davanti ai suoi occhi, comparve seduta su una panchina del parco, intenta a giocare con il suo piccolo cagnolino, la bella Carmen. Si riconobbero subito e lui in quel momento avrebbe voluto essere perfetto per lei. Si raddrizzò il collo della giacca e con un rapido gesto della mano destra, tirò indietro i suoi capelli neri. Gli occhi di Carmen brillavano insieme al suo sorriso ed alla sua dolcissima semplicità. Fu come un pugno nello stomaco. Alberto riuscì a tenere il controllo delle sue emozioni e la invitò a proseguire la eggiata con lui verso il Caffè Marsella al Carrer de Sant Pau. Fu una conversazione piacevole e lunghissima durante la quale Alberto non riuscì a staccare, nemmeno per un attimo, il suo sguardo dallo stupendo viso di quella donna. Venne a sapere che dopo l’esecuzione del suo disegno all’ufficio della Polizia, erano state riprodotte centinaia di immagini con il volto del presunto killer che erano ora a disposizione di tutti i distretti di polizia del Paese. Carmen ammise di essere rimasta impressionata dalla sua bravura e soprattutto dal suo coraggio per essersi messo in mostra senza paura. Al termine della conversazione i due si salutarono con un dolce bacio sulla guancia ed una forte stretta di mano, che già diceva tutto su quello che sarebbe successo.
Dopo questo incontro finalmente quella notte Alberto riposò tranquillo. Erano giorni che il suo sonno era disturbato dagli incubi e dalle immagini sfuocate del serial killer, sovrapposte a quelle di tutti i volti da lui disegnati in quei lunghi mesi alla Compagnia Telefonica. L’indomani trovò la banale scusa di are dall’ufficio di Polizia per chiedere notizie delle indagini al Maggiore Messi, con l’unico obbiettivo di incontrare Carmen. Il Maggiore lo accolse con freddezza e gli dedicò solo alcuni minuti nei quali gli fece capire che, nonostante la diffusione delle fotografie del suo ritratto, nessun nuovo elemento aveva arricchito quella maledetta indagine, che lo stava facendo diventare lo sberleffo della città. Questa volta fu Carmen ad invitarlo al bar della Polizia per un veloce aperitivo prima del pranzo. Una incredibile intimità si era già instaurata tra i due che in solo mezz’ora riuscirono a capire che stavano iniziando a desiderarsi. Si lasciarono questa volta con un appuntamento per la sera del sabato successivo. Furono tre giorni lunghissimi quelli che separavano Alberto da quell’appuntamento. Era la prima volta e si stava probabilmente innamorando. La notizia lo scosse proprio mentre stava immaginando il suo incontro d’amore con Carmen. Il notiziario della sera fece un collegamento straordinario proprio con la sua città per il ritrovamento deicadaveri di due giovani uomini, uccisi con il macabro rituale degli altri omicidi. Erano stati uccisi già da alcune settimane, ma solo ora, casualmente, i corpi erano stati rinvenuti: uno nella discarica comunale, probabilmente gettato in un cassonetto dell’immondizia ed un altro sotto il ponte della darsena di Port Vell. Nessuna rivendicazione questa volta, nessuna telefonata, ma stesse modalità di assassinio. Erano stati uccisi in due circostanze differenti ed in momenti differenti, probabilmente a distanza di dieci giorni uno dall’altro. Questo riordinava le mosse del killer che quindi non aveva mai smesso di uccidere. Ma perché mancavano proprio adesso le rivendicazioni, avrebbe voluto chiedere Alberto al Maggiore Messi, ma dopo l’ultimo gelido incontro, preferì tenersi il dubbio.
La sua mente iniziò a pensare improbabili scenari polizieschi dapprima verosimili, poi estremamente fantasiosi, nei quali lui compariva come l’eroe che catturava il cattivo in una buia notte di pioggia e veniva premiato da un lunghissimo bacio della bellissima Carmen. Lo riportò alla realtà lo squillo del suo telefono. Il maggiore Messi voleva vederlo subito. Una macchina scura della polizia con un lampeggiante blu lo prelevò sotto casa e lo portò direttamente all’ufficio centrale di polizia. In quel breve periodo di tempo trascorso nel silenzio di quell’auto cominciò a chiedersi se sarebbe mai stato veramente all’altezza di affrontare una situazione tanto complicata o se fosse meglio proprio adesso lasciare perdere e ritornare alla sua anonima semplicità. Era una richiesta precisa quella del Maggiore: una nuova dichiarazione questa volta registrata su un nastro, era stata recapitata al quotidiano El Pais e gli veniva richiesto di ascoltarla, per verificare almeno se si trattasse della stessa persona da lui immaginata, in quanto una prima analisi elettronica la interpretava come differente da quella precedente. Calzò la grande cuffia ed ascoltò le parole crude e strafottenti del serial killer, che in circa due minuti, rivendicava l’uccisione di quei due uomini e sfidava la polizia ad andarlo a prendere. La voce era nettamente differente. Chiese cortesemente un foglio bianco e cominciò questa volta nervosamente a disegnare un volto. Appariva molto deciso ed i suoi lineamenti erano diventati duri e una grande rabbia cresceva in Alberto mentre, con una precisione mai dimostrata, creava con la sua matita il volto di quella persona. Anche lui fu strabiliato dalla velocità con la quale terminò il disegno di quel volto ovale. Era chiarissimo, i lineamenti erano riportati con una precisione tridimensionale e venivano poste in risalto tutte le caratteristiche di quel volto completamente differente da quello partorito la volta precedente. Un uomo più giovane, capelli neri cortissimi e ciglia arcuate sottili, volto scarno ed occhi cerchiati da profonde occhiaie con uno sguardo misto tra la follia e la disperazione. Si rivolse al Maggiore chiedendo conferma sulla attendibilità della registrazione. Il Maggiore asserì che erano presenti nella dichiarazione particolari troppo
precisi relativi agli omicidi che potevano essere noti solo a chi li aveva commessi. Ma allora perché, penso Alberto, una seconda voce ed un secondo volto? Nessuno, ad esclusione del corpo di polizia investigativa, era al corrente dell’esperimento dei suoi disegni in corso, quindi nessuno poteva avere interessere a confondere le indagini per proteggere il serial killer ad esclusione di un eventuale complice. Ma tale ipotesi era già stata scartata in quanto in nessun caso gli assassini seriali agivano in associazione ad altre persone. La follia omicida veniva sempre da un isolamento di lunga durata, che portava tali soggetti deviati ad odiare il mondo circostante, Anche l’ipotesi che fossero due gli assassini non era sostenuta dai profili psicologici di questo genere di delinquenti. Pur spaesato Alberto era comunque sicuro delle sue sensazioni e del suo disegno e quindi in quel momento la sua attenzione era rivolta solo a dare credibilità alla sua dote di interprete di quella voce arrogante che ancora gli rimbombava nel cervello. Tutti i nastri delle registrazione in possesso degli inquirenti furono nuovamente inviati alla polizia scientifica per una nuova valutazione e tutti furono congedati.
Capitolo 5
Fu Carmen ad accompagnarlo sino all’ uscita principale della palazzina e lui, finalmente, ebbe il coraggio di baciarla, seguendo il suo istinto e la voglia che lo agitava da giorni. Al bacio segui un forte ma brevissimo abbraccio, poi lei scivolò via lontano dagli sguardi indiscreti dei colleghi. Prima di rientrare a casa, quella sera, Alberto percorse una stretta strada laterale, che lo condusse alla vecchia villa del Professor Pricca. L’anziano amico fu felice di scambiare qualche parola con lui. Alberto gli sottopose la questione delle due voci e dei due volti, nella speranza di ricevere, qualche elemento di aiuto per districarsi in quella che stava diventando una vicenda veramente complessa. Pricca confermò che era improbabile che gli assassini potessero essere in due, in quanto un killer seriale agisce sempre da solo e sempre da solo rivendica i suoi omicidi, per cui o la prima o la seconda voce dovevano essere state contraffatte o erano state frutto della mente squinternata di qualche mitomane. Alberto non riusciva comunque a spiegarsi la ricchezza di particolari relativa ai due omicidi, presenti sia nella prima che nella seconda dichiarazione telefonica ed a questa domanda il Professore non riuscì a dare una risposta. Forse un mitomane, assettato di notizie, aveva frugato tra le righe delle dichiarazioni della Polizia e dei commentatori televisivi e si era costruito una versione talmente verosimile da trarre in inganno tutti. Un sorso di latte freddo precedette il tonfo del corpo di Alberto sul suo letto ancora disfatto e fu l’inizio di un profondo e lungo sonno. Quando qualcosa non è chiaro nella mente di un uomo, specie se dall’intelligenza viva come Alberto, è difficile che possa venire archiviato semplicemente come un dato di fatto. Ne era assolutamente certo, le due voci
appartenevano a due persone assolutamente diverse in tutto. Ma chi poteva avere interesse ad inquinare le indagini e perche ? Mentre la sua mente era assorta in questi pensieri il suo telefono squillò e sul display comparve il numero ed il nome di lei, Carmen. Voleva incontrarlo quella stessa sera per poter continuare tutte le cose lasciate a metà. La voce dolce, risate abbozzate, pause lunghissime. Il suo cuore incominciò a battere freneticamente e una piccola quantità di sudore gelato bagnò la sua fronte. Sarebbe stato all’altezza della bella Carmen che tanto aveva desiderato in quei giorni cosi stressanti ? Fu una serata molto divertente ed Alberto non riuscì un attimo a distogliere lo sguardo dallo splendido volto della giovane, che ritmicamente si inumidiva le labbra, facendo consapevolmente impazzire il povero Alberto. Stranamente quella sera si parlò anche delle due registrazioni e Carmen più volte chiese ad Alberto cosa ne pensasse, quasi a cercare la conferma ad una sua tesi o supposizione. Non riuscirono a terminare la cena e da li a poco si ritrovarono dolcemente abbracciati sul letto ordinato di Alberto, che sicuro di sé, aveva provveduto a sistemare nel pomeriggio. E’ incredibile come a volte siano gli eventi più strani che ti portano a compiere atti imponderati che innescano incontri potenzialmente creativi o distruttivi per la vita di un uomo. Se Alberto non avesse pensato di utilizzare la sua dote di sensitivo e di artista per aiutare la polizia, ora non sarebbe tra le braccia di quella bellissima e dolcissima persona. Questa volta a morire era stata una persona molto conosciuta in città. Antonio Morales aveva fatto il sindaco della città per oltre dieci anni e ora, ritiratosi dalla politica, si dedicava solo ad opere assistenziali e sociali. Con la stessa modalità di sempre, era stato ucciso mentre rincasava dal cinema ed ora le vittime erano undici. Nessun elemento utile alle indagini sulla scena del delitto, come al solito, sempre ripulita dall’omicida. Il killer non intendeva certo adesso lasciare tracce agli investigatori, che ormai da settimane iniziavano ad avvertire la sfiducia dei loro
concittadini. Fu il governo centrale ad intervenire con l’invio di una piccola squadra antiterrorismo dell’Esercito, già più volte utilizzata in casi di investigazione di difficile soluzione in ambito non militare. La comandava un ufficiale di cinquanta anni, noto per le sue maniere non proprio ortodosse nel condurre le indagini e da otto sottoufficiali di lunga esperienza. Non fu sicuramente semplice accordarsi con la polizia locale, ma il Maggiore Messi dovette soccombere agli ordini superiori e consegnare i fascicoli degli omicidi al Colonnello Ramon Tajo, che cominciò avidamente a studiarli. Erano state uccise undici persone, una esattamente a dieci giorni di distanza dall’altra, in una sequenza terribilmente precisa. Erano stati uccisi tutti di notte e tutti erano stati accoltellati alle spalle. Undici uomini di età compresa tra i 40 ed i 55 anni, senza nessun apparente legame tra loro. A tutti era stata rasata la nuca e tagliata la punta della lingua, che non era mai stata rinvenuta sul luogo del delitto. Il colonnello Ramon Tajo per prima cosa organizzò delle ronde notturne, composte da poliziotti e soldati, nell’intento di presidiare le zone più a rischio della città . La ricerca del serial killer si concentrò su tutti gli individui psicolabili noti alla polizia della città, ma ancora una volta la ricerca ebbe esito negativo. Il militare non volle sapere nulla della storia dei disegni, frutto, a suo dire, della fantasia di una persona in cerca di facile notorietà ed il rapporto con Alberto fu immediatamente troncato. Tajo aveva di fatto preso il comando delle indagini escludendo, anche se non ufficialmente, ma praticamente, il maggiore Messi, che veniva puntualmente ignorato in ogni sua azione. Dopo una settimana, ed esattamente a dieci giorni dall’ultimo omicidio, nel pieno centro della città, poco dopo l’uscita da un affollatissimo teatro, un giovane e distinto banchiere viene ucciso con la solita modalità ed una chiamata sul telefono personale del colonnello Tajo ne rivendica la morte con l’augurio di buon lavoro.
Il Maggiore Messi stramaledisse quell’uomo che pensava di poter metter sotto scacco un serial killer, utilizzando l’esercito ed i pattugliamenti notturni. Un pugno infranse la vetrata del suo ufficio che dava sul corridoio principale e la mano del Maggiore cominciò lentamente a sanguinare, segno della sua rabbia incontrollata. Lasciò gli uffici della polizia con la mano stretta in un fazzoletto ed evitò di farsi portare a casa dalla macchina di servizio deciso a percorrere la città con i mezzi pubblici. All’altezza dei Giardini del Parc de la Ciutadella, il maggiore fu attratto da uno spettacolo che lo fece ritornare con la memoria ai suoi anni da bimbo spensierato, quando il nonno lo accompagna in quel parco a vedere il teatro dei burattini e lo spettacolo dei ventriloqui. Quel pomeriggio almeno dieci bambini seduti a semicerchio ascoltavano divertiti Paco, che faceva parlare il pupazzo dello zio Pedro appoggiato sul suo braccio; un sorriso ed un grosso sospiro cancellarono la sua disperata rabbia e lentamente si accese una sigaretta. La decisione di mettere una taglia sul serial killer quel mattino ebbe l’effetto di una bomba. Il Colonnello Tajo convocò una conferenza stampa nel Palazzo del Comune ed informò tutta la cittadinanza che il consiglio comunale, sotto sua personale insistenza, aveva deciso di mettere a disposizione di chiunque riuscisse a far catturare quell’inafferrabile omicida, una cifra veramente considerevole: 5 milioni di euro. Un grande numero di manifesti con la taglia furono affissi dai militari in tutti i quartieri della città. Sicuramente qualcuno invogliato dalla ingente somma di denaro avrebbe avuto il coraggio di uscire allo scoperto e di fornire utili informazioni per catturare il killer. Era la prima volta, dopo venticinque anni, che veniva istituita una taglia, per catturare un omicida. Il maggiore Messi non fu assolutamente d’accordo con l’iniziativa ed invitò tutti a prepararsi alla invasione di mitomani in cerca di qualche sprazzo di notorietà. La mattina seguente si presentarono circa trenta persone agli uffici della Polizia per denunciare il sospetto killer. Ma nessun riscontro a quei fantasiosi racconti fu trovato. Il colonnello Tajo a questo punto decise di fare a suo modo. “ Se questo è uno psicolabile si mescolerà tra i suoi simili, li andremo a stanare uno per uno nelle
loro case”. Forte del grande numero di mezzi e di soldati, il Colonnello diede il via ad un imponente rastrellamento in tutta la città, cominciando dalle Cliniche Psichiatriche sino ai Centri di Recupero Psicosociale, ai circoli ricreativi, scuole, fabbriche. Nel giro di una settimana, oltre trecento persone, furono praticamente sequestrate e trasferite in un albergo al centro della città per essere controllate ed interrogate. Ovviamene nella confusione generale fu arrestato anche chi psicolabile non lo era. Il capo dei vigili del fuoco ed un noto cantante rock dovettero far intervenire i giornali e la polizia per farsi riconoscere come estranei a quella stupida messa in scena. Gli interrogatori erano condotti direttamente da Ramon Tajo, che pretendeva di riuscire ad identificare il killer solamente guardandolo dritto negli occhi. La situazione che si era creata non piaceva a nessuno. Non piaceva ai consiglieri del comune che vedevano in quell’atto una sorta di stato di assedio militare, non piaceva ai cittadini che si sentivano ancora più minacciati nello loro libertà fondamentale e non piaceva alla polizia che così risultò formalmente esclusa dalla ricerca della verità. Quella sera Alberto e Carmen cenarono in un piccolo ristorante non lontano dal porto. Gustarono un ottimo piatto di pesce insieme a dell’ottimo Chablis del 1982. “Credo che si debba fare comunque qualcosa”, esclamò Carmen guardando in televisione le immagini dei rastrellamenti avvenuti quella mattina in città. “Con le informazioni in nostro possesso e le tue capacità possiamo identificare quel maledetto omicida prima che qualche altro innocente ne faccia le spese”. Il giovane Alberto intese che poteva essere la sua occasione sia per conquistare quello splendore di donna, sia per dimostrare a se stesso di essere un uomo capace di grandi azioni. Terminata la cena accompagnò Carmen alla casa del Professor Pricca. Il vecchio Professore stava riordinando delle vecchie fotografie e man mano che procedeva nella cernita tornavano alla sua mente momenti di felicità e tristezza. Una grossa scatola di legno chiaro conteneva fotografie inerenti vecchi casi irrisolti di omicidi e corpi e volti mutilati si sovrapponevano sul tavolo del
professore, formando un macabro puzzle. La visita fu molto gradita anche perché la presenza della sensualissima Carmen aveva risvegliato, come da un letargo, il vecchio professore. La salutò con un elegantissimo baciamano che Carmen accettò con grande emozione. Dopo un sorso di ottimo Porto Vintage, Carmen cominciò a parlare del caso dell’omicida seriale e di quello che stava avvenendo in città. Pricca era ben a conoscenza di tutte le vicende e sopratutto della questione delle voci e dei due differenti volti disegnati da Alberto. Era certo che l’omicida fosse uno solo e che si trattasse comunque di un soggetto estremamente furbo ed intelligente. Sicuramente aveva soppesato ogni sua mossa ed anche il camuffamento della voce al telefono faceva parte di un disegno predefinito. “A volte, disse il Professore, questo genere di individui provano una sensazione di piacere nello schernirsi degli avversari; spesso lasciano dietro di loro piccole tracce per indirizzare, a loro piacimento, gli investigatori in modo da poterli tenere sotto controllo ed agire indisturbati”. La presenza dei due messaggi registrati con voce differente doveva per forza avere una spiegazione. Probabilmente il killer era venuto al corrente di una progressione nelle indagini e non potendo rischiare di essere identificato era stato costretto a mischiare le carte in qualche modo. Il Professore chiese ad Alberto di poter vedere i due disegni eseguiti negli uffici di Polizia, nelle due diverse situazioni. Osservò a lungo ed in silenzio i due volti analizzandoli da varie angolazioni ed immaginandoli nell’atto di uccidere. Era difficile credere che l’uomo del primo disegno potesse rappresentare un omicida spietato, viste le caratteristiche somatiche e lo sguardo essenzialmente pacifico; il secondo volto aveva invece qualcosa di cupo, di acido, ma risultava al Professore particolarmente familiare. “A mio avviso, disse, dobbiamo trovare il primo uomo per incastrare il killer che è, indubbiamente, quello apparso nel secondo disegno; l’uomo del primo bozzetto è strettamente legato al killer e forse rischia di esserne ucciso”. Ma chi era quell’uomo dall’aria assolutamente comune ed insignificante, da dove poteva venire? Il professor Pricca consigliò alla bella Carmen, che lo ascoltava interessata sin dalle prime battute, di rintracciare tutte le denuncie relative a persone scomparse
nel’area metropolitana negli ultimi mesi, per valutare la somiglianza con l’uomo raffigurato nel primo disegno. Individuato quell’uomo sicuramente le indagini avrebbero fatto un o in avanti. Gli sguardi compiaciuti dei tre si incontrarono mentre Carmen ed Albereto si congedavano dal Professor Pricca.
Capitolo 6
Fu un lungo bacio. Carmen rimase colpita dalla ione con la quale Alberto la stava stringendo. Si sentivano uno parte dell’altro e il rinnovato entusiasmo che le parole ed i suggerimenti del professor Pricca avevano risvegliato in loro, rendeva l’incontro ancora più carico di emozioni. Non fu difficile per Carmen, la mattina seguente, avere accesso all’archivio delle persone scomparse presso il Dipartimento di Polizia. Indossò dei jeans blu strettissimi ed una semplice camicia bianca, molto stretta su fianchi, che lasciava immaginare, ma non mostrava assolutamente nulla. Il maresciallo Perez fu talmente confuso dalla visione di quella donna che acconsentì all’uso del suo terminale, allontanandosi per offrire a Carmen qualcosa di fresco da bere. Bastarono tre minuti per trasferire il file delle persone scomparse con tutti i relativi aggiornamenti su una piccola chiave di memoria, che Carmen fece rapidamente sparire nella stretta tasca dei suoi jeans. Nell’ultimo anno erano scomparse nella sola Provincia di Barcellona novanta persone, delle quali solo venticinque, ritrovate dopo le ricerche dei familiari e della Polizia. Dieci risultarono decedute in paesi esteri, mentre di cinquantacinque persone, tra le quali venti uomini, non si sapeva più nulla. Il campo di azione veniva allora circoscritto a quei venti uomini. Avidamente quella stessa sera Alberto e Carmen fecero are le fotografie di quei disperati per ritrovare il viso disegnato da Albereto. La prima analisi non diede il risultato atteso. Nessuno di quegli uomini aveva la più vaga somiglianza con l’uomo che stavano cercando. Per la maggior parte si trattava di uomini molto anziani dei quali nel commento descrittivo della Polizia si parlava come elementi spesso confusi da malattie neurologiche, che probabilmente si erano involontariamente allontanate da casa senza riuscire poi a ritrovare la via del ritorno o che probabilmente avevano trovato la morte in qualche piccolo lago artificiale o erano state fatte a pezzi da gang criminali, magari solo perché in possesso di un orologio d’oro o di una borsa.
Niente. Non riuscivano a trovare nessun elemento che, in quei volti o in quelle storie, potesse ricondurli all’uomo della telefonata. Quando ormai, demoralizzati, stavano per abbandonare la pista suggerita da Pricca, l’attenzione di Alberto fu attratta da un commento posto da un agente relativamente alla scomparsa di una vecchia Contessa: “Non è dato sapere se il figlio della Signora de Cabrera sia ancora in India, dove ormai ava molti mesi dell’anno o se sia da ritenersi scomparso insieme all’anziana madre”. Era l’unico uomo probabilmente scomparso, non ancora identificato, in quanto non ne era stata mai denunciata la sparizione e quindi non presente una sua fotografia in quel fascicolo elettronico. Le ricerche presero quella direzione. Sia Alberto che Carmen sentivano che quella poteva essere la pista giusta. Intanto la situazione in città stava diventando insostenibile. Il colonnello Tajo, forte della sua autorità, ma assolutamente privo di un disegno logico per dipanare la matassa di quei delitti, stava minando alle libertà fondamentali dei cittadini. In un grande numero di zone della città, identificate come a rischio, era stato istituito una sorta di coprifuoco, per cui dopo le ventidue, nessuna persona non autorizzata, poteva uscire in strada. Questo stava generando un grande malumore tra i cittadini, in particolare tra le persone che nella vita serale e notturna fondavano la loro attività lavorativa. Ristoranti chiusi, cinema chiusi, pub e locali notturni chiusi. Questa sorta di proibizionismo iniziava, ovviamente, a far comodo alla malavita organizzata, che cominciava ad aprire locali abusivi situati in zone non note alla Polizia, facendo affari milionari. Iniziava il degrado civile. Bisognava fare in fretta anche se sia Alberto che Carmen, sapevano di poter contare solo sulla loro capacità e sull’aiuto del professor Pricca. I colleghi della polizia di Barcellona si dimostrarono collaboranti con Carmen, che, a questo punto, decise di interpellare il Maggiore Messi, per rintracciare il figlio della Contessa scomparsa. Messi ricordava solo vagamente la faccenda della Contessa, ma dall’analisi del rapporto, ricavò l’impressione che le indagini furono rapidamente interrotte, anche per il volere degli eredi impazienti di incassare la cospicua eredità. Un particolare attrasse sia Messi che Carmen. Tra gli effetti personali della Contessa
fu ritrovata una catena con una piccola chiave, alla quale nessuno degli inquirenti era riuscito a dare una precisa collocazione. Cosa apriva quella chiave? Sembrava una chiave di un piccolo contenitore o di una scatola di legno, ma nulla di tutto questo era stato rinvenuto nell’abitazione della Contessa. Decisi ad andare in fondo il giorno stesso i due si recarono alla casa della vecchia Contessa. Il palazzo dei de Cabrera era un bellissimo esempio di architettura gotica conservato magnificamente lungo il carrer d’Aragò. Dopo oltre cinque minuti di attesa dietro l’enorme portone di legno scuro, un uomo molto distinto li invitò ad entrare. In casa era presente solo la nipote della Contessa, tale Esmeralda che fu, senza dubbio, turbata dalla visita della polizia. Gli sguardi di Carmen e di Messi iniziarono a vagare tra i mobili e i numerosi soprammobili della casa, alla ricerca di un indizio. Illustrarono alla Contessa Esmeralda il loro interesse a riaprire il caso della scomparsa della vecchia zia, in quanto una segnalazione anonima, aveva indicato la presenza di un contenitore segreto, nel quale poteva esserci del materiale utile alla identificazione del mandante del supposto omicidio della Contessa. Il maggiordomo, autorizzato da Esmeralda, accompagnò Carmen e Messi nella camera da letto della Contessa che, in segno di rispetto, era stata lasciata intatta. La stanza appariva comunque troppo semplice negli arredi in quanto probabilmente molti oggetti erano stati spostati dagli eredi e forse anche il prezioso contenitore poteva essere stato spostato o addirittura venduto. Prima di iniziare a cercare, Carmen si fermò a pensare: dove avrebbe nascosto lei un contenitore così prezioso. Non ebbe dubbi e si diresse direttamente nel guardaroba. Era una grande camera rettangolare senza finestre, un grande tavolo centrale e due grandi e pesanti specchiere dominavano la scena, intorno quattro grandi armadi, arredavano a tutta altezza le pareti. Il tavolo centrale non aveva cassetti ma alla base di una delle specchiere Carmen notò subito una fessura rettangolare all’altezza della bocca di un piccolo angelo dorato, che impreziosiva la splendida cornice dorata dello specchio. Con il cuore a mille, afferrò la chiave dalle mani del maggiore e la inserì nella fessura. Un secco rumore metallico fece scattare un semplice meccanismo, che
fece apparire nello spessore della cornice, un lungo e stretto contenitore. Ramon Tajo era furioso. Qualcuno gli aveva riferito di una probabile indagine parallela ed ora cercava ad ogni di costo informazioni su chi e stava conducendo indagini senza la sua autorizzazione. Il telefono di Messi squillò più volte ed alla fine il maggiore dovette rispondere al colonnello Tajo. Fu facile dare una risposta di comodo, visto che a nessuno era ancora nota la collaborazione tra lui, Carmen ed Alberto. Congedò rapidamente il colonnello con la scusa di dover terminare alcune commissioni personali. Era comunque sicuro che Tajo non avrebbe mollato ed informò Alberto e Carmen che avrebbero dovuto usare la massima attenzione e discrezione, per non farsi intercettare dalle persone ora vicine al colonnello. L’interno di quello stretto cassetto era foderato di velluto rosso ingrigito dalla polvere e conteneva una piccola pergamena arrotolata e chiusa da un sottile nastro azzurro. Venne rapidamente distesa sul tavolo ed il contenuto fece intendere che, forse, si era imboccata la strada giusta. Un indirizzo di una casa di cura Svizzera: Hopital Pinel, 245 rue de Lyon, Ginevra; il nome di un medico: Professor Gerard Melinoux. Pochi ma precisi elementi che indirizzarono le indagini verso una direzione ben precisa: era lì che avrebbero trovato forse notizie del figlio della contessa. Quella stessa mattina il maggiore Messi e Carmen furono convocati nell’ufficio del Colonnello Tajo, che pretese informazioni sui loro spostamenti degli ultimi giorni e, ricevendo risposte non convincenti, si infuriò sino al punto di sospenderli per mancata collaborazione con l’autorità incaricata dell’ordine pubblico. Le tessere di riconoscimento dei due giacevano ora sulla scrivania di Tajo e questo ovviamente complicava molto la loro possibilità di azione. Fu Alberto che dovette partire da solo per Ginevra. Era lui, d’altronde, quello che conosceva
meglio il volto dell’uomo delle telefonate, avvenute dopo i primi omicidi e quindi sarebbe stato più semplice per lui identificarlo, qualora fosse stato veramente il figlio della contessa. Partì per Ginevra quella stessa sera, con una automobile presa a noleggio. Percorse, in circa quattro ore, 390 chilometri ed arrivò verso mezzanotte a Nimes, dove si fermò a dormire. L’indomani, molto presto, ripartì per Ginevra, dove arrivò dopo altre quattro ore di viaggio. La clinica Pinel era situata su una verdissima collina ed era costituita da una unica grande costruzione disposta al centro di un curatissimo giardino all’italiana. Gli ospiti eggiavano accompagnati dal personale della clinica e dai parenti e si respirava, ovunque, un’aria di pace e serenità. All’arrivo nell’ufficio amministrativo della clinica la sua attenzione fu attratta da un busto di bronzo, che raffigurava un uomo dall’aria saggia ed importante: “Al Prof. Ignazio Alonso Medrad - emerito direttore dell’Hopital Pinel dal 1992 al 2008, esempio di onestà e dedizione alla cura delle malattie mentali ed artefice del progresso scientifico nella cura delle schizofrenie”. Immaginò subito che sarebbe stato più difficile del previsto trovare quell’uomo. “Scusi Lei non è a conoscenza della morte del Professore ?” “”Lei è un suo vecchio paziente o un amico?”. In un lampo Alberto decise di rispondere; “Sono il Professor Guillermo Zunabar di Barcellona, un vecchio collega, che avrebbe avuto il grande piacere di poterlo salutare”. L’atteggiamento dell’impiegata cambiò immediatamente ed invitò l’uomo a seguirla negli uffici della Direzione. Una donna dall’aspetto estremamente vecchieggiante lo accolse con un sorriso di convenienza e lo invitò ad accomodarsi. Emma Druchert era Direttrice dell’Ospedale da oltre quaranta anni ed aveva conosciuto e frequentato il Professore per oltre venti anni. ò oltre dieci minuti a parlare ininterrottamente delle qualità dell’uomo e dello scienziato aspettandosi sempre un cenno di consenso da parte dell’amico Professor Zunabar.
Certo di fare cosa gradita la Direttrice accompagnò l’ospite per un giro di cortesia nelle varie aeree dell’ospedale e Alberto rimase impressionato dall’ordine e dalla disciplina che regnava in quei lunghi corridoi. “Questo era lo studio del suo collega ed amico” Abbiamo lasciato intatta la sua scrivania con i suoi ultimi scritti e tutti i sui libri sono conservati nella nostra biblioteca, prego, se vuole dare un occhiata”. Casualmente, in quell’istante, la direttrice dovette assentarsi per un breve colloquio con i parenti di una ricoverata. Alberto iniziò a perlustrare con lo sguardo lo studio, cercando di identificare il luogo dove sicuramente il medico teneva l’archivio dei suoi pazienti. Ecco! esclamò tra sé Alberto, dirigendosi verso un grande mappamondo di legno la cui parte superiore scorrevole lasciava intravedere un grande numero di cartellette verdi, ordinate dentro profonde e regolari scanalature del mobile. Cercò quel nome avidamente, Luis de Cabrera…. Eccolo! Rapidamente si impadronì della cartelletta, giusto in tempo prima del ritorno della Direttrice. Visto il lungo viaggio e la fame, Alberto accettò l’invito a pranzo, cortesemente fatto dalla Direttrice. Si allontanò, con la scusa della toilette, giusto il tempo per dare una occhiata all’interno della cartelletta. Bingo! La vista di una piccola foto tessera lo fece trasalire. Eccolo! L’uomo della telefonata. Avevano visto giusto: il figlio della contessa non era morto ed era quasi certamente legato a quegli omicidi. Era la sua la voce registrata che lo aveva ispirato. Un sms a Carmen per informarla velocemente del ritrovamento e del suo rientro a Barcellona per il giorno successivo. Approfittò del pranzo per conoscere gli altri medici dell’ospedale e dovette fare molta attenzione a non farsi smascherare portando il discorso su argomenti di carattere non scientifico. Il suo pensiero era fisso sul contenuto della cartelletta, che sarebbe riuscito dolo molto più tardi a leggere. Alle tre di pomeriggio si congedò dalla Direttrice e ripartì alla volta di Barcellona. Dopo circa dieci chilometri, accostò l’auto sul ciglio della strada, spense il motore e cominciò a leggere la storia del figlio della contessa. “Autismo”, questa era la diagnosi che appariva stampata all’angolo superiore destro di ogni foglio. Relazioni di colloqui, terapie, miglioramenti,
peggioramenti. I fogli scorrevano rapidamente tra le dita di Alberto nella ricerca di un indirizzo, un recapito, un luogo dove poter collocare la figura di quell’uomo. Ecco! esclamò Alberto. Il 6 novembre del 2007 il conte Luis de Cabrera fu autorizzato a rientrare al suo domicilio in Spagna, al 23 Avinguda de Turo, Montgat , non lontano da Barcellona. Ripartì velocemente ansioso di mostrare a Carmen e Messi il risultato della sua ricerca.
Capitolo 7
Anche Carmen, nel frattempo, aveva seguito una pista. Era veramente anomalo che non ci fosse almeno qualcosa in comune, un piccolissimo legame tra le persone uccise. Solitamente, un sottile filo, lega inesorabilmente il destino delle persone uccise in maniera seriale. Rilesse con avidità tutti i verbali della Polizia riguardanti le perquisizioni ed i controlli eseguiti nelle case e negli uffici degli uccisi, ma nulla di particolare attirò la sua attenzione. Vite normali, abitudini regolari, nessun precedente penale, nessuna iscrizione a circoli sportivi o ricreativi, nessun hobby in comune, nulla. Fece scorrere la lista di tutto il materiale sottoposto a sequestro nelle abitazioni dei poveri uomini ammazzati. Molti gli elementi in comune, trattandosi di cose di quotidiano utilizzo: libri, dischi musicali, orologi, lettere e cartoline, fotografie, computer, cellulari. Nessuna relazione o rapporto fu trovato tra gli uccisi, nessun amico o luogo frequentato in comune. Carmen fece scorrere le analisi degli hard disk dei computer, ma nulla di sospetto era emerso all’ analisi degli specialisti della Polizia Scientifica. Una curiosità colpì Carmen: su tutti i computer era installato un diffuso programma per la comunicazione on-line ed in tutti i computers questo programma veniva aperto automaticamente alla loro accensione, segno di un frequente utilizzo. Poteva non essere nulla di particolare, ma era l’unica pista e Carmen volle tentare. L’ufficio del Tribunale, dove veniva tenuto il materiale sequestrato, era poco lontano dal Carrer Comtal e Carmen si ricordò che, proprio in quell’ufficio, lavorava ancora Roberto Cordoba, un suo vecchio amico d’infanzia. “Mi licenziano, Carmen…… mi licenziano se lo faccio… per favore ti prego … ma riportameli domani, altrimenti dirò che li hanno rubati!” Un grosso bacio di Carmen valse quel rischio, disse tra sé Roberto, mentre la ragazza spariva velocemente con due computer portatili nella sua valigetta.
Il bacio tra Carmen ed Alberto durò a lungo, mentre le loro mani iniziarono a cercarsi ora con una ione alimentata dalla forte complicità instauratasi tra i due. Prima di parlare dei loro progressi si amarono in silenzio. Carmen informò Alberto della sospensione sua e di Messi e della convinzione di essere seguita dai militari fedelissimi di Tajo che, da parte sua non gradiva interferenze nella sua indagine, ma contemporaneamente non disdegnava di seguire la pista altrui. Alberto mostrò orgoglioso il contenuto della cartelletta a Carmen, che approvò stringendogli forte la mano. Era inequivocabilmente il figlio della Contessa, anche se la fotografia era di qualche anno prima, la somiglianza era evidentissima. Ora bisognava rintracciarlo e capire la relazione, se mai ci fosse stata, tra lui ed il serial killer. Bisognava essere molto cauti, perché una mossa sbagliata avrebbe potuto compromettere veramente tutto. L’unica persona non controllata da Tajo era Alberto e sarebbe toccato ancora a lui recarsi a Montgat per cercare il Conte Luis de Cabrera . I due computer si accesero contemporaneamente e Carmen ed Alberto iniziarono a cercare quello che sembrava la cosa più comune per chi come quegli uomini aveva usato il computer per comunicare. L’avvio del programma di chat fu rapido e l’accesso avvenne automaticamente in quanto già presenti di default le credenziali di accesso. Una chat di incontri, una delle tante illusioni del Web, specchio della solitudine umana! Carmen chiese ad Alberto di aprire la lista dei contatti per stamparne il contenuto. In entrambi i casi almeno una cinquantina di nomi femminili in parte di fantasia. Fecero scorrere la lista di quelle improbabili persone cercando un contatto in comune: Sweetpeach. Ecco finalmente qualcosa che poteva collegare tra loro quegli sventurati. Lo stesso alias presente tra i contatti preferiti dei due uomini; solo poche informazioni descrivevano il contatto: donna, single, 42 anni, Barcellona. Nessuna traccia nei due computer di comunicazioni con quella persona, nessuno scambio di files. Bisognava osare. Per saperne di più bisognava cercare anche negli altri computer degli assassinati e poi cercare di contattare la fantomatica Sweetpeach sul Web.
Fece appena in tempo a riconsegnare i due portatili a Roberto. Nel lungo corridoio che portava all’uscita del Tribunale Carmen fu chiamata ad alta voce dal colonnello Tajo, che la invitò a bere un caffè. Tajo la informò di essere sulle tracce del killer e anzi di avere già fermato una persona sospetta che riteneva poter essere l’autore di quei terribili omicidi. Arrivati in Centrale l’accompagnò nella sala riservata agli interrogatori dei fermati. Al di là del vetro, un poliziotto minacciava, con un pugno stretto davanti al volto, un uomo incredulo e spaventato. “ E’ uno psicopatico, lo abbiamo fermato con un album di ritagli di giornale, che raffiguravano tutte le vittime dalla prima a quella di dieci giorni fa, numerate e con dei commenti che solo uno squilibrato avrebbe potuto concepire. E’ lui; ancora una notte in bianco e confesserà, io ho fiducia solo nei miei metodi”. Era la tredicesima vittima. Un se di cinquant’ anni, in Spagna per lavoro da oltre dieci mesi, era stato ucciso quella stessa notte all’uscita di un ristorante proprio mentre il Colonnello interrogava il suo serial killer. Dopo quella magra figura, Tajo era fuori di sé. Il controllo sulla popolazione diventò serrato. Le libertà essenziali dei cittadini venivano ora messe in serio pericolo. Anche a Carmen fu proibito l’ingresso a tutti gli uffici giudiziari ed il maggiore Messi venne addirittura deferito alla commissione interna per avere inveito pubblicamente contro un militare di Tajo, che maltrattava un fermato, durante un rastrellamento notturno. Diventava ora impossibile accedere ai computer degli altri uccisi per verificare la presenza della chat e di Sweetpeach nella lista dei contatti.. Questa volta fu Messi ad avere un idea. In un periodo triste e buio della sua vita si era trovato solo ed aveva usato una chat per scambiare liberi pensieri con sconosciuti, quindi ne conosceva i meccanismi. Per avere accesso alle funzionalità della chat bisognava pagare una quota mensile on line, utilizzando una carta di credito e, quindi, partendo da questa traccia elettronica, forse si sarebbe potuto ricostruire la lista di tutti gli iscritti e cercare tra questi i nomi degli uomini assassinati. Era una ragazzina sveglia la nipote di Messi ed, a soli sedici anni, dimostrava
una dimestichezza con il computer, degna di un hacker professionista. La giovane Luisa capì l’importanza di quello che le veniva chiesto e si mise immediatamente al lavoro, con davanti a sé un foglio con i numeri delle carte di credito delle persone uccise fotocopiate dai verbali delle perquisizioni. In un’ ora di lavoro, Luisa riuscì a trovare il server dei pagamenti on line della chat ed, in meno di mezz’ora, una lista interminabile di numeri e nomi apparve davanti agli occhi degli increduli Carmen e Messi. Bisognava identificare l’alias degli uomini uccisi, partendo dal numero della carta di credito. Per agevolare la ricerca, la giovane Luisa copiò la lista su un foglio di calcolo e ordinò i numeri delle carte in senso crescente, in modo da facilitare l’individuazione dei numeri in possesso di Carmen. Ci volle solo mezz’ora ed incredibilmente tutti i dieci uomini si rivelarono iscritti in quella chat ed ora se ne conoscevano anche gli pseudonimi. Fu semplice per Luisa a questo punto collegarsi alla chat e forzare le dei vari alias. La rapida consultazione della lista dei contatti diede l’esito sperato. Tutti gli uccisi avevano avuto contatti con Sweetpeach. Ora bisognava andare oltre. “Bisogna essere molto cauti, disse preoccupato il professor Pricca, l’omicida è sicuramente una persona molto intelligente e se veramente si nasconde dietro quello pseudonimo femminile, potrebbe avvertire subito di essere al centro di un complotto per intrappolarlo. E’ opportuno che usiate veramente tutte le precauzioni, senza mai dare la sensazione di volerlo a tutti i costi incontrare”. La mattina seguente Alberto partì in macchina per Montgat. La cittadina distava circa tredici chilometri da Barcellona e per raggiungerla bisognava percorrere la gran Via de les Corts Catalanes. Durante la guida dell’automobile i pensieri di Alberto si sovrapponevano in continuazione e, mentre da una parte prevaleva l’ansia di poter trovare il figlio della contessa, dall’altra subentrava la paura di dover affrontare un rischio sicuramente molto grande per lui. Da quando aveva conosciuto Carmen si sentiva molto più sicuro di sé ed avere conquistato una donna così intelligente ed affascinante aveva accresciuto molto la sua autostima. Tutto questo ora lo faceva soprattutto per lei. Aveva l’occasione di saldare per sempre con la magia dell’avventura e della complicità, il legame
con la bella Carmen. La sera si fermò a cenare ed a dormire a Montgat, molto presto, stanco, cadde addormentato sul polveroso divano della sua camera. Un caratteristico e brevissimo suono emesso dal PC dava la conferma a Carmen di avere avuto l’accesso alla chat. Si era registrata con un nome di fantasia “solitario estroverso” dichiarandosi come uomo, celibe, 44 anni, libero professionista. Cominciò a comportarsi come una persona assalita dalla solitudine e dalla voglia di comunicare, cercando comunque di attirare l’interesse. Creò un profilo di donna ideale e lo lanciò nel Web aspettando risposte o contatti. L’indomani erano presenti già dieci inviti da dieci presunte donne dai nomi più improbabili ma niente Sweetpeach. La stessa storia proseguì senza l’esito sperato per tutta la settimana. Al suo risveglio Alberto era alle porte di Montgat. Era molto tranquillo in quanto poteva contare sul fatto di non essere conosciuto e soprattutto perché avrebbe solo dovuto verificare la presenza o almeno il aggio del figlio della contessa da quella anonima cittadina. Già questo avrebbe confermato il fatto che non era assolutamente morto. La via Buenos Aires era la strada principale del paese ed il numero 45 corrispondeva ad un edificio che, ad una prima analisi, sembrava una scuola. Era una scuola ed in particolare era il Collegio Salvador Espriu. Parcheggiata l’auto poco lontano, Alberto decise di iniziare la sua personalissima indagine cercando elementi in grado di collegare il figlio della contessa a quella scuola. La sua concentrazione fu scossa dall’assordante suono di una piccola campana, che annunciava la fine delle lezioni ed, in pochi minuti, un gran numero di ragazzi di ogni età cominciò ad uscire dall’enorme portone borchiato della scuola, per recarsi chi alla fermata dell’autobus e chi dai genitori, che in grande numero stavano raggiungendo la scuola in automobile. Non ci pensò due volte e rapidamente entrò nell’atrio della scuola, approfittando
della apertura del grande portone. Un enorme cortile circondato da un elegante porticato. Al centro del cortile una enorme statua raffigurante San Giuseppe e di fianco un piccolo ma curatissimo campo di calcio. Le aule erano deserte, mentre qualche ragazzo ancora si intratteneva all’interno del cortile, chiacchierando con amici e professori. Di impulso, raggiunse una altissima porta a vetri, che recava l’insegna dell’amministrazione. All’interno due giovani ragazze battevano velocemente le dita sulle testiere di due computers, per completare il lavoro della giornata. “Buongiorno” disse Alberto, sfoderando un sorriso ammaliatore. Prontissima una delle due ragazze lasciò il suo lavoro al computer per raggiungere quell’uomo mai visto prima, ma sicuramente interessante e simpatico. Si presentò come un giornalista interessato alla storia della scuola, che risultava essere tra le più antiche del paese e chiedeva di poter essere seguito ed aiutato in una ricostruzione storica, dalla fondazione sino al presente. “Bisognerebbe farla parlare con il Presidente della Fondazione de Cabrera, pensi che è l’ultimo discendente della famiglia proprietaria dell’intero edificio che ospita la scuola ; guardi quel dipinto ….. quello è il conte Ferdinando de Cabrera, fondatore della scuola e quello nella fotografia in basso, è suo nipote Luis, l’attuale presidente della Fondazione “. Alberto riuscì a stento a trattenere la soddisfazione di averlo individuato così rapidamente e fortunosamente. “Purtroppo è partito per un viaggio in India da circa nove mesi e non abbiamo nessuna possibilità di contattarlo, credo sarà meglio farla parlare con il vecchio segretario Mario, che lavora qui da oltre 50 anni “. L’eccitazione di Carmen fu enorme e non riuscì a trattenere un urlo di soddisfazione: all’apertura della chat questa volta era presente un messaggio di Sweetpeach. Poche parole: “sono rimasta colpita dal tuo profilo e sono molto curiosa di conoscere qualcosa di più su di te, io sono disposta ad aprimi a te se avrai la capacità di conquistarmi, un bacio sfiorato Sweetpeach”. Perfetto, pensò Carmen, ora bisognava solo stare al gioco per il tempo necessario a non destare sospetti ed aspettare la proposta di un incontro. Nei giorni successivi i messaggi divennero più frequenti, ma per Carmen fu semplice rispondere, cercando di mantenere sempre elevato l’interesse
dell’interlocutore. Il contenuto dei messaggi, dopo qualche giorno, cominciò a farsi chiaramente piccante e l’intento di Sweetpeach era sicuramente quello di provocare quello che credeva essere un ignaro utente della chat. Carmen seppe stare al gioco, ma seguendo le istruzioni del Professor Crippa, non fu lei a fare il primo o per un incontro.
Capitolo 8
Vista l’ora, Alberto decise di mangiare un boccone proprio di fronte alla scuola ed ordinato un semplicissimo sandwich, si sedette su una soleggiata panchina di legno verde ad ammirare le vecchie costruzioni del paese e l’ordine architettonico con le quali erano state costruite. L’appuntamento con il segretario Mario era alle quindici. Giunse alla scuola con circa dieci minuti di anticipo ed incominciò a eggiare lungo il porticato, che circondava il cortile della scuola. Affissi ai muri le fotografie delle gite scolastiche e degli avvenimenti sportivi dell’anno. Una foto attirò la sua attenzione. Ritratto, insieme ad un piccolo gruppo di persone, appariva ben riconoscibile Luis de Cabrera: lo sguardo fisso nel vuoto ed i pugni stretti ed avvicinati l’uno contro l’altro. Cosa nascondeva quell’uomo? Che rapporti poteva avere con il serial killer? E soprattutto, ora dove si trovava? Mentre cercava di dare una risposta a queste sue domande Alberto fu destato dal rumore di una porta chiusa con decisione. Si voltò ed i suoi occhi incontrarono quelli di Mario, l’anziano segretario della scuola. “E’ la prima volta che qualcuno dimostra un interesse storico per la nostra Scuola “ disse l’anziano segretario, porgendo la mano in segno di saluto ad Alberto. Era un uomo imponente con dei lunghi capelli grigi, raccolti in uno stretto ed ordinato codino, ed un pizzetto bianco ben curato; i suoi stretti occhi neri scrutarono Alberto cercando di capire se poteva fidarsi. “ In effetti, disse prontissimo Alberto, stringendo con decisione la mano di Mario, il mio interesse, oltre che per la scuola, è anche per la nobile famiglia che l’ ha fondata: i de Cabrera “. Mario si irrigidì dicendo, bruscamente, che se si trattava di parlare della tragica morte della contessa, lui non avrebbe collaborato, in quanto stufo e provato dai precedenti interrogatori della polizia. “Sono affascinato dal pensare quante generazioni di studenti abbiano
oltreato quell’enorme portone, così come il pensare alla ione e l’impegno, che una nobile famiglia abbia deciso di spendere per tale causa”. La tranquillità dell’eloquio di Alberto gli fece guadagnare la simpatia dell’uomo che lo accompagnò volentieri all’interno dell’edificio, iniziando a raccontare come giusta fosse stata la scelta della sua scuola, come esempio di organizzazione e disciplina. Superato un lungo e buio corridoio, giunsero ad una porta a vetri, che introduceva in una biblioteca. Gli scaffali arrivavano quasi sino al luminosissimo e bianco soffitto a volta, che nella parte entrale prendeva luce da un grandissimo lucernario rettangolare; migliaia di libri erano ordinatamente raccolti sugli scaffali di legno, consumati dal tempo. Alle pareti, quasi a rappresentare una virtuale storica sfilata, erano ritratti gli antenati della famiglia de Cabrera. L’ultimo messaggio di Sweetpeach fu estremamente diretto e provocatorio e le sue parole erano già cariche di una sensuale intimità. L’invito fu estremamente preciso: a Sweetpeach sarebbe piaciuto molto incontrare questa persona, che diversamente dagli altri non aveva ancora manifestato nessun desiderio di conoscerla. Era fatta, pensò Carmen, chiudendo con un click la conversazione . L’elemento in comune a tutte quelle misteriose morti si sarebbe forse finalmente materializzato. Certo, ora il rischio aumentava, e la possibilità che un o falso pregiudicasse tutto il lavoro svolto era molto elevata. Bisognava organizzare l’incontro nei minimi dettagli, sia per non insospettire la misteriosa interlocutrice e sia per garantire la sicurezza di chi l’avrebbe incontrata. Ancora una volta la scelta sarebbe caduta su Alberto, sicuramente più adatto, in quanto assolutamente sconosciuto a Barcellona. La famiglia de Cabrera era una delle più nobili di Spagna. La raffigurazione in quei quadri di alti prelati e militari confermava l’assoluta importanza ed il potere di quella famiglia. La loro grandezza si era protratta sino ai primi del novecento, quando in seguito al crollo economico internazionale, la famiglia dovette vendere gran parte delle proprietà, mantenendo il controllo solo su alcuni possedimenti nel sud della Spagna. Un particolare colpì Alberto, che guardava incuriosito quei volti duri ed inespressivi, camminando lentamente lungo la parete della biblioteca: in tutti i quadri era sempre raffigurato, insieme
al nobil uomo dell’epoca, un levriero bianco, che posava quasi a protezione del blasonato. “ Il levriero bianco è un motivo ricorrente nelle raffigurazioni dei de Cabrera, quasi una firma ed una prova di autenticità “ disse Mario trafelato da quei pochi i nella biblioteca. “ Vede, l’amore per i cani ed in particolare i levrieri, si è tramandato sino ai giorni nostri “. Mario spalancò una grande porta finestra che dava in un grandissimo parco dietro la biblioteca. Al rumore delle finestre aperte fece seguito, quasi istantaneamente, l’arrivo di tre splendidi esemplari di Levriero bianco, che circondarono festosamente l’anziano Mario. “Anche il conte Luis aveva uno splendido Levriero di colore nero carbone, ma alla sua scomparsa il povero animale si è lasciato morire di fame nell’attesa invana del ritorno del suo padrone. Qui si ostinano a dire che è partito per un viaggio in India, ma io sono sicuro che è stato ucciso. Lo avevo messo all’erta su certe compagnie che aveva iniziato a frequentare, rientrato dall’Ospedale, ma ha voluto fare di testa sua e sicuramente qualcuno gli ha fatto del male”. L’ultimo discendente della nobile famiglia sembrava essere proprio sparito nel nulla, nessuna traccia, dal giorno dell’uccisione della contessa madre. Il pensiero di Carmen corse subito ad Alberto, ma ora una parte della sua mente ragionava per proteggerlo; aveva paura di perderlo, ma solo lui poteva fare da esca per la fantomatica Sweetpeach. Messi riuscì ad avvicinare, in quei giorni, quattro suoi amici del distretto di Polizia di Badalona, che non essendo direttamente interessati alle azioni di Tajo, avevano campo libero a Barcellona e riuscì ad ottenere il loro appoggio per garantire la protezione a chi avrebbe dovuto incontrare il sospetto killer. L’incontro doveva avvenire in un luogo affollato per permettere ai poliziotti in borghese di mescolarsi alla folla, ma nello stesso tempo bisognava garantire l’incolumità delle persone dalle eventuali reazioni dell’omicida. Il bar dei magazzini El Corte Ingles, in Piazza de Catalunya, sembrava ideale per quella trappola. La balconata in ferro battuto, che dominava tutto il semicerchio del locale, rappresentava una sede di osservazione privilegiata ed una collocazione ideale per uomini armati. Da lì si potevano tenere controllati tutti i tavoli sottostanti ed anche una porzione del giardino interno; forse quattro
uomini erano pochi per garantire una operazione in sicurezza, ma di meglio non si poteva fare in quel frangente. L’organizzazione dell’ incontro spettava ora a Carmen, che per aumentare la curiosità della sua dubbia interlocutrice virtuale, per oltre ventiquattro ore, aveva evitato di contattarla sulla chat. Già davanti a sé immaginava come si sarebbe potuto svolgere l’incontro, visto che tutti gli elementi in loro possesso indicavano che il killer dovesse essere un uomo e non una donna. Come avrebbe fatto a contattare l’ignaro compagno di chat, caduto in trappola? Un travestimento? Una complice, come esca? Un diversivo? Ora questi interrogativi iniziavano a trasformarsi in dubbi ed i dubbi facevano crescere la paura di avere preso una pista completamente errata. Alberto doveva cercare di non dimostrare troppo interesse per la storia e le abitudini del conte Luis per non insospettire Mario, ma il dubbio che qualcosa di strano fosse accaduto al povero conte, veniva alimentato dall’ansia, che cresceva nelle parole dell’anziano segretario. “Capisce, nessuno era al corrente della malattia del Conte e la pregherei di non farne cenno in un suo eventuale reportage sulla scuola e sulla famiglia. La contessa era estremamente attaccata al suo fragile figliolo ed aveva cercato di proteggerlo e farlo crescere nel modo migliore possibile nella clinica di Ginevra ”. Dal racconto di Mario il giovane Alberto ricavò un elemento molto importante. L’unico contatto che il giovane Conte aveva con il mondo esterno, oltre al personale della scuola, era rappresentato da un gruppo di allevatori di levrieri, che una volta al mese, si riuniva nella campagna vicino a Barcellona, per programmare gli accoppiamenti tra gli animali di altissimo pedigree e per vendere e compare cuccioli. Le riunioni avvenivano in una piccola tenuta a Sabadell, di proprietà di un commerciante se, che sicuramente non godeva della simpatia di Mario, visto che nelle parole del conte Luis era stato descritto, più volte, come persona poco affidabile. Alberto si congedò dopo circa un’ ora di discussione con Mario, che felice di poter ripercorrere con i ricordi i momenti della sua vita in quella scuola, si era lasciato trasportare più volte dall’emozione e più di una volta i suoi occhi erano apparsi lucidi e rigonfi di una tristezza inesplosa. Ora un altro elemento si era aggiunto alla ricerca della verità, un altro contatto,
un altro possibile collegamento con il serial killer che doveva essere attentamente vagliato. Alberto ripartì immediatamente per Barcellona. La notizia dell’omicidio di un altro uomo giunse questa volta attraverso il notiziario della radio. Stessa modalità di uccisione, stesso macabro rituale. Si trattava di un giovane commerciante di quarantacinque anni, sorpreso probabilmente dal killer all’interno della propria automobile parcheggiata vicino al Parco Guell in Carrer d’Olot. Nessun indizio, nessuna traccia, ma la firma del killer era sicura. Ora anche l’attenzione dei media internazionali era cresciuta . La città era piena di giornalisti e teleoperatori puntualmente bloccati dalle ire del colonnello Tajo, che vedeva ora il suo fallimento prendere una dimensione mediatica enorme. La prova di forza che aveva voluto dare sino al quel momento, si era rilevata perdente e nessuna delle manovre operate aveva portato elementi utili, né all’arresto del killer, né alla protezione dei cittadini. Conscio di questo, ma carico del suo fetido orgoglio, il colonnello decise di dare all’inchiesta una svolta importante, visto che godeva dell’appoggio incondizionato dell’amministrazione comunale, che null’altro poteva fare. La richiesta di raddoppiare i militari presenti a Barcellona e l’arrivo di un reparto speciale antiterrorismo sembrava per Tajo e per il Sindaco, l’unica soluzione possibile, per riportare la sicurezza nella città.
Capitolo 9
Il bacio tra Alberto e Carmen non fu preceduto da alcuna parola, ma solamente da un grande sorriso di lei, che riusciva a manifestare in maniera così semplice ed immediata, il piacere di rivedere il suo uomo. Un forzato colpo di tosse del professor Pricca bloccò le mani di Alberto, che stavano stringendo i fianchi della ragazza. Carmen ed il professore informarono Alberto della evoluzione che aveva avuto il rapporto virtuale con la fantomatica Sweetpeach che, a questo punto, sembrava essere pronta ad incontrare il giovane uomo, così ben impersonato da Carmen. Alla proposta di dover partecipare a quell’incontro come esca, Alberto reagì caricato da una energia e da un coraggio che mai lui stesso avrebbe creduto di possedere. La mano di Carmen strinse forte la sua, in segno di ammirazione. “In questa fase, disse Pricca, non riesco ad immaginare come il killer possa pensare di adescare la sua vittima, visto che sicuramente si tratta di un uomo. La cosa più semplice che può fare è quella di non presentarsi all’incontro e poi, dopo aver identificato a distanza la vittima, seguirla ed ucciderla alle spalle, come sempre è avvenuto in tutti i casi precedenti. Quindi bisogna essere pronti ad un incontro, che non si svolgerà nel luogo previsto, ma sicuramente non lontano e comunque non prevedibile e controllabile. Con solo quattro uomini a disposizione, il rischio è molto alto ”. Quella sera decisero di fermarsi a cena a casa del professore, dove furono raggiunti anche da Messi, per cercare di pianificare l’incontro nei minimi dettagli ed anticipare così tutte le mosse del killer seriale. Ad Alberto rimaneva ancora il compito di seguire la pista dell’allevatore dei levrieri, per cercare di avere ancora notizie sul Conte Luis, che sicuramente poteva essere ancora in vita. L’ultima rivendicazione del killer era stata chiaramente fatta dal Conte Luis de Cabrera.
Alberto riuscì a riprodurre il volto del conte in meno di un’ ora, mentre ascoltava la registrazione della rivendicazione, che ancora una volta, la bella Carmen, era riuscita a procurarsi, sfruttando il suo sorriso e le sua conoscenze nel Dipartimento di Polizia. Tutti gli uomini gradivano la sua presenza solo per quella semplicità e simpatia, che riusciva ad esprimere, con la sua solare bellezza. Nelle parole di quell’ uomo, Alberto riusciva, ora, a sentire anche la paura. L’immagine sempre spaventata e dimessa del Conte ritratta nei dipinti della Scuola di Montgat, avevano lasciato il segno nella mente di Alberto, che iniziava a provare un sentimento misto di tenerezza e pietà per quell’uomo. Un nuovo particolare questa volta colpi Alberto. Un ritmico rumore di fondo era presente nella registrazione ma, mascherato dal filtro usato dal computer per pulire la voce del presunto killer, era assolutamente irriconoscibile. Per quanto avesse protratto per oltre tre ore l’ascolto della registrazione, non riusciva a venirne a capo. Bisognava, a detta di Carmen, utilizzare una tecnica di filtraggio diversa, che isolasse la frequenza di quei suoni, per cercare di decifrarli. Il compito era arduo se non impossibile, in quanto l’accesso alla sede della Scientifica era ormai negato sia a Messi, che a Carmen, per ordine del colonnello Tajo. Ancora una volta venne chiamata in causa la nipote Luisa, che interpellata al telefono, prese tempo per procurarsi un software capace di rispondere alle richieste dei suoi interlocutori. La richiesta di Sweetpeach questa volta fu molto diretta ed esplicita. Le sue parole ora parlavano di contatto fisico e di feeling e facevano preludere ad un incontro sessuale. Questa volta fu difficile per Carmen posticipare l’incontro, ma accettarlo in questo momento, avrebbe voluto significare esporre Alberto ad un rischio elevato di essere ucciso. C’era bisogno ancora almeno di una settimana per pianificare l’incontro, per rendere quanto più possibile sicura l’area del contatto, sia per assicurare la vita di Alberto, che per incastrare il killer. Una semplice trasferta all’estero per lavoro, fu la prima e credibile scusa, che Carmen utilizzo per mantenere alto l’interesse di Sweetpeach nei confronti di
questo uomo, che Carmen così bene aveva imparato ad interpretare in quelle settimane. Alquanto inaspettato giunse, la mattina seguente, l’invito del colonnello Tajo per Messi e Carmen. Due auto della polizia arrivarono quella mattina, contemporaneamente, alle loro abitazioni e trasportarono i due poliziotti alla sede centrale. L’atteggiamento del colonnello sembrava cambiato, ma entrambi sapevano di non potersi fidare di quell’energumeno. “Ho deciso di riammettervi nel giro delle indagini perché ho verificato la vostra fedeltà al Distretto tra l’altro confermata addirittura dal Consiglio Comunale. E’ ovvio che in questi frangenti il comando delle operazioni debba essere concentrato nelle mani di un solo uomo, ma è sicuramente ovvio che l’aiuto di tutti e soprattutto di persone valide sia necessario, per raggiungere lo scopo ovvero la cattura del killer ”. Pistole e distintivo giacevano sulla scrivania di Tajo e prontamente furono recuperate dai due poliziotti, che freddamente ringraziarono il Colonnello. Sicuramente si trattava di un gioco ignobile del militare che cercava di riprendere il controllo su quelle persone, che al momento sembravano le uniche in grado di portare elementi utili alla cattura dell’assassino. Carmen e Messi si separarono appena fuori dal distretto di Polizia, ed in meno di cinque minuti, si accorsero di essere pedinati dagli uomini di Tajo. Da quando questa storia era entrata nel vivo, Alberto aveva praticamente abbandonato il suo lavoro, con la scusa di una lunga vacanza. Quella mattina ò nel suo ufficio al centralino e dopo aver salutato i suoi pochi amici, si affrettò a recuperare i disegni dei volti, che aveva lasciato nel cassetto della sua scrivania. Gli appartenevano e voleva averli vicini, quasi a sentirsi un traditore per averli abbandonati nel buio di un cassetto metallico per tutte quelle settimane. Li ò uno ad uno ripercorrendo con la mente i momenti che avevano portato alla loro realizzazione; lo stupore della scoperta della verosimiglianza con le loro voci e la felicità di aver dato un senso alla loro vita.
Riprese a camminare lentamente lungo il Carrer de Sant Carles, assaporando il profumo del mare, che lo riempiva di nuova energia. Lo squillo del suo cellulare interruppe quella serena atmosfera. Un saluto del caro padre, che gli chiedeva di raggiungerlo, come promesso, per il matrimonio a Torredembarra. “Ci sarò come promesso, arriverò sabato e porterò con me un’ amica”. Dopo quelle giornate frenetiche, Alberto decise di prendersi due giorni di sereno riposo insieme a Carmen, che accettò felice l’idea di conoscere la famiglia del suo uomo. Salutato Pricca, i due partirono l’indomani per Torredembarra. Un breve viaggio di circa un’ ora e mezza li portò ad attraversare gli splendidi paesi della costa: Garraf, Vallcarca, Sitges, Vilanova. La stessa sera si fermarono a dormire a la Barquera, appena prima di Torredembarra. Un piccolo ma romantico hotel situato sul mare, dove in una tiepida e stellata serata, si consumò lentamente il loro amore. Quella mattina Carmen fu risvegliata dal profumo delle fragole, che Alberto aveva abilmente preparato in piccolissimi quadratini, sommersi dallo zucchero e dalla panna. Era stupenda, coperta solamente dalla camicia bianca di Alberto, che non nascondeva praticamente nulla del suo corpo ed Alberto in quell’attimo capì che avrebbe voluto perdersi nel suo sorriso. Partirono felici verso la casa dei genitori di Alberto e quelle strade, quegli odori e quei volti allontanarono dalle loro menti le vicende oscure di Barcellona. Carmen fu accolta con un tale affetto che Alberto capì, rapidamente, che la sua scelta era stata decisamente approvata dalla famiglia, che ora lo guardava e gli parlava in un modo decisamente differente da quello di qualche anno prima. La festa fu lunghissima. Banchetti e danze si succedettero come in un festival estivo, sino a tarda notte. Si addormentarono esausti in un grande letto della casa di Alberto, illuminati dalla luna, che brillava altissima e piena, quella notte. Furono risvegliati prestissimo quella mattina da una telefonata di Messi: “Ci siamo, la trappola è pronta a scattare intorno al serial killer”.
Altri tre uomini si erano uniti al loro piccolo nucleo per garantire la sicurezza dell’incontro con il killer e la sua cattura.
Capitolo 10
I levrieri sono cani molto affascinanti. Il portamento fiero e la eleganza del o esprime chiaramente l’origine nobile di questo animale. Il levriero spagnolo o Galgo è uno splendido esemplare di levriero a pelo raso, molto affettuoso e legato ai suoi padroni, si dimostra diffidente verso gli sconosciuti. Discendente dei levrieri asiatici, il Galgo era conosciuto sin dai tempi dei Romani, mentre il suo insediamento in Spagna prima di quell’epoca, resta ancora oggi sconosciuto. Si distingue dagli altri levrieri per un pelo più duro e lungo che tende a formare barba e baffi, senza dimenticare sopracciglia e ciuffo sulla testa. La sede delle riunioni degli allevatori si trovava a Sabadell, non lontana da Santa Perpetua de Gomoda ed a circa mezz’ora di auto da Barcellona. Alberto decise di istinto di andarci proprio il mattino seguente, al suo rientro in città. Ancora molti erano i dubbi intorno alla figura del Conte Luis e la preoccupazione di Alberto era stata estremamente amplificata dopo l’ascolto della ultima rivendicazione telefonica. All’uscita dall’autostrada del Valles, un paesaggio decisamente piacevole, riempì gli occhi dell’uomo. La campagna era estremamente ordinata e terreni coltivati si susseguivano perfettamente allineati, separati solo da strette strade poderali non asfaltate. Campi di girasoli si alternavano ai vigneti, in un insieme di colori e di forme, dalle quali sicuramente un artista avrebbe potuto trarre ispirazione. Appena prima dell’ingresso a Sabadell, un segnale rettangolare di legno chiaro portava inciso il nome dell’allevamento “Las Praderas”; Alberto percorse la stretta strada a bassa velocità per evitare, alla meglio, le buche che rendevano il percorso estremamente disagevole. Dopo pochi chilometri la strada si aprì in una grande area disboscata e ghiaiosa dalla quale si poteva già vedere la casa colonica, sede dell’allevamento.
Una grande casa bianca, con un piccolo ed ordinato patio, un prato rettangolare recintato con legno bianco confinava direttamente con la casa. Appena parcheggiata l’auto, fu raggiunto da un uomo, che gli domandò cosa stesse cercando. Alberto espresse la volontà di acquistare dei cuccioli di levriero e di aver saputo da un amico, che qui avrebbe dovuto trovare gli esemplari migliori. Fu accompagnato all’interno di un grande ed umido salone, arredato unicamente con un grande tavolo rotondo, sul quale erano accatastate un centinaio di riviste, alternate a fotografie di cani. Un particolare attirò l’attenzione di Alberto: dalla finestra del salone si vedevano chiaramente cinque grandi torri eoliche bianche, che producevano un caratteristico rumore legato al movimento delle grandi pale. La sua schiena gelò di sudore al pensiero che quel ritmico rumore potesse essere quello ascoltato nell’ ultima rivendicazione telefonica e che quindi, in quel momento, lui potesse trovarsi nella tana del killer, ma il suo pensiero fu interrotto dall’arrivo di un uomo molto distinto, con dei lunghi capelli rossi, che cadevano elegantemente sulle spalle. Si presentò come il Dottor Charcot, proprietario dell’allevamento. Messi e Carmen si erano accordati su tutto. Il luogo dell’incontro con Sweetpeach era stato scelto; in un preciso schema erano stati ipotizzati almeno tre differenti scenari per il possibile contatto con il killer e tutte le contromisure sembravano, a quel punto, ben organizzate. Ora gli uomini a disposizione, oltre Carmen e Messi erano saliti a sei, ma nell’animo dei due amici aleggiava anche il sospetto che il colonnello Tajo potesse esserne venuto a conoscenza e che quindi l’incolumità di Alberto poteva essere veramente a rischio. La prescelta sede dell’incontro era ora una grande villa, sede di ricevimenti ed utilizzata, nel fine settimana, come ristorante nella periferia sud di Barcellona; la zona ben si prestava ad essere controllata in quanto dotata di un sistema di telecamere, che permetteva il controllo oltre che degli accessi, anche del parcheggio e delle zone circostanti; il salone principale aveva un' unica entrata mentre un intero angolo della sala era occupato da un palcoscenico rialzato, sul quale suonava una piccola orchestra.
Una delle quattro grandi finestre del salone comunicava con una anticamera che poteva diventare luogo privilegiato di osservazione. Agli uomini erano stati distribuiti compiti ben precisi: due sarebbero stati nel salone travestiti da camerieri, uno avrebbe sorvegliato il salone dall’anticamera, uno avrebbe controllato il parcheggio, un altro l’accesso principale, mentre il sesto uomo sarebbe stato lungo il corridoio principale di entrata della villa. Carmen e Messi sarebbero rimasti tutto il tempo a controllare la situazione attraverso la vetrata dell’anticamera, sicuri di non essere visti. Anche il professor Pricca sembrava soddisfatto del piano e questo rassicurò molto Carmen. Ancora nessuno poteva però immaginare come si sarebbe svolto l’incontro e soprattutto chi si sarebbe presentato. “Signor” ? chiese il Dottor Charcot. “Meriva, Alberto Meriva. Sono uno scrittore di Barcellona e cerco due cuccioli di levriero”. L’uomo osservò a lungo Alberto prima di rispondere, quasi a cercare di valutarne la attendibilità. “Sono certo che qui troverò gli esemplari migliori: ne vorrei uno bianco ed uno nero”, disse Alberto, guardando dritto negli occhi l’uomo che ora iniziava a compiacersi del complimento. “In effetti, posso dire senza timore di essere smentito, che i miei cani sono tra i più puri di tutta la Spagna; è stato un lungo lavoro, frutto della mia ione, che mi ha permesso di selezionare negli anni, i migliori campioni e altresì di crescerne i cuccioli, affidandoli a personale molto esperto”. Ora l’uomo sembrava aprirsi verso Alberto che pur era un interlocutore assolutamente sconosciuto. Lo sguardo di Alberto vagava rapido ed attento nel salone per cercare qualche elemento che potesse collegarlo al Conte Luis. Negli occhi del Dottor Charcot non aveva notato nulla che lo avesse insospettito, nemmeno per un attimo, ed il personaggio gli sembrava sicuramente diverso da come gli era stato descritto dall’anziano segretario Mario. Sembrava piuttosto affabile ed assolutamente coinvolto dalla sua ione per i cani, tanto che Alberto non era riuscito ancora ad interrompere il racconto delle sue recenti vittorie alla mostra canina di Lisbona. Alberto fu invitato, a quel punto, ad uscire dal salone, per raggiungere una piccola e squadrata costruzione in cemento, dal cui interno provenivano i latrati dei levrieri.
Il timore di Carmen era quello del tradimento. Se qualcuno degli uomini avesse riferito a Tajo della trappola, il rischio di uno sconsiderato ed imprevedibile intervento dei militari doveva essere tenuto in considerazione. Il rischio maggiore era per Alberto, che avrebbe potuto essere ucciso sia dal killer che dagli stessi militari, se intervenuti fuori dal programma. Toccò a Messi, questa volta, assicurare Carmen sulla affidabilità degli uomini coinvolti nell’operazione e, per far questo, mostrò alla donna i tabulati dei cellulari di quei sei poliziotti, accuratamente verificati, per escludere contatti con gli uomini del colonnello; erano uomini fidati che, anzi, nutrivano un forte risentimento nei confronti di Tajo, reo di averli relegati in secondo ordine, trasferendo il controllo della città ai suoi uomini. “ Il levriero nero non è un esemplare molto richiesto, signor Meriva, ma credo di poterla accontentare nel giro di qualche settimana “ disse il Dottor Charcot, entrando nel canile. La stanza nella quale entrarono aveva una intera parete occupata da una vecchia libreria di teak scurissimo, sulla quale erano ordinati tutti i trofei vinti dai levrieri di Charcot, accompagnati da splendide fotografie in bianco e nero dei campioni. Per un attimo Alberto trasalì nel vedere una fotografia del Conte de Cabrera, con il suo levriero nero; mantenuto il controllo sulle sue emozioni, indicò la fotografia al dottor Charcot, chiedendo notizie sull’ animale. “Lei ha scelto uno dei migliori esemplari di levriero che io abbia mai visto, Bart III dei Conti de Cabrera. Purtroppo il cane è deceduto dopo la scomparsa del padrone, il Conte Luis, persona a me molto cara”. Charcot sembrava sincero e nulla, nella sua espressione, riuscì ad insospettire Alberto. Eppure l’istinto spingeva Alberto a proseguire nella ricerca di un indizio utile al ritrovamento del Conte. Completato il giro del canile ed ascoltati disinteressatamente i racconti sui vari esemplari di levriero nei vari paesi del mondo, Alberto si fece riaccompagnare all’esterno del canile, da dove si potevano ammirare le enormi torri eoliche poco lontane. “Hanno deturpato la nostra bella campagna e le dirò che il rumore delle pale ha reso i miei animali più nervosi e meno prolifici di qualche anno fa”, esclamò Charcot. “Le mie proteste sono state inutili, una vera lotta come don Chisciotte
contro i mulini a vento”! La zona delle torri era completamente recintata e l’intero perimetro era controllato da telecamere; una piccola costruzione con una grande saracinesca metallica verde, adibita probabilmente a magazzino, occupava la parte centrale dell’impianto. “ Circa una volta ogni due settimane arriva un furgone bianco, che entra direttamente nel magazzino, ma mai nessuno ha risposto alle mie urla di protesta; pensi che anche il mio amico Conte de Cabrera, persona assolutamente tranquilla, voleva entrarvi di notte, per sabotarle, per dare un poco di pace ai nostri animali; ma, continuò il dottor Charcot, ridendo, credo che Luis scherzasse, era solo per farmi capire il grande amore che aveva per i nostri cani “. Qualcosa cominciava ad animare la mente di Alberto, ma un messaggio di Carmen lo distolse dai suoi pensieri e congedandosi cordialmente dal dottor Charcot, riprese l’auto per rientrare a Barcellona. Durante quel breve viaggio il pensiero di Alberto correva alle parole di Charcot, al rumore delle pale eoliche, alla voce del killer, al ripetitivo rumore di fondo. Avrebbe voluto tornare indietro ed entrare nel magazzino delle torri eoliche per togliersi ogni dubbio: dove si nasconde o dove viene nascosto il conte de Cabrera? Il tempo di quei pensieri e le prime case della periferia di Barcellona comparvero davanti a lui; in quel momento la frenesia di incontrare Carmen cominciò a travolgerlo. Un amore improvviso, non cercato, ma ora fortemente desiderato. Una complicità naturale. Il brillante sorriso di Carmen lo accolse nel salone della casa del Prof Pricca che, di fatto, in quelle ultime settimane, era diventata il quartier generale delle operazioni. Erano tutti presenti: oltre ad Alberto, Carmen, Messi ed il Prof Pricca, erano presenti i sei uomini del distretto di Sant Marti. Il professore, felice di questa nuova compagnia ed eccitato per il programma, stappò una bottiglia di ottimo Crianza della Bodega Resalte Penafiel del 2005, tenuto in serbo per una occasione e quella era, senza alcun dubbio, una
occasione speciale. La trappola era stata preparata senza trascurare nessun dettaglio ed i compiti affidati a ciascun uomo furono ripetuti sino allo sfinimento. La questione che comunque sarebbe rimasta aperta sino al giorno dell’incontro, ovvero come e dove il killer sarebbe apparso, nessuno poteva neppure immaginarlo. Alberto non era affatto turbato per il suo compito particolare di esca in quanto ormai trascinato dagli eventi che sembravano quasi concatenarsi in un disegno prestabilito dal destino. La serata, a quel punto, diventò più conviviale e tra quegli uomini cominciò a stabilirsi un legame di fiducia ed amicizia che ne faceva una vera squadra; ci fu spazio per qualche battuta ed il Prof Pricca tenne banco con i racconti della sua gioventù ata a risolvere i casi più intricati. Spesso quella sera lo sguardo di Carmen ed Alberto si trovarono spontaneamente, quasi comandati da forza comune che li avvicinava ed idealmente li trasformava in una sola anima. La luce colorata delle insegne pubblicitarie, che filtrava attraverso le sottili tende bianche della camera da letto di Alberto, illuminò quella notte i loro corpi stretti in un lunghissimo abbraccio d’amore.
Capitolo 11
Il colonnello Tajo non aveva alcuna nuova traccia del killer ed ormai tutte le sue energie le consumava per cercare di capire cosa stessero organizzando Messi e Carmen che, negli ultimi giorni, erano stati pedinati continuamente. All’insaputa di Carmen anche il suo telefono era caduto sotto il controllo della Polizia Militare di Tajo e tutte le ultime conversazioni con Alberto erano state puntualmente intercettate e . Tajo capiva che qualcosa di molto importante legava quelle tre persone, ma non era ancora riuscito a scoprire cosa, anche se il suo intuito gli faceva pensare che sicuramente la storia del killer rappresentava il primo interesse di quegli uomini. Deciso ad andare sino in fondo il colonnello Tajo pensò di seguire, da lontano, le loro mosse per intervenire solo nel momento della cattura del killer. Sarebbe stato il venerdì successivo l’incontro con la misteriosa Sweetpeach, che sembrava assolutamente tranquilla e nel suo ultimo contatto non aveva manifestato alcun tentennamento relativamente all’imminente appuntamento. Mancavano due giorni ed Alberto decise di ritornare ancora una volta all’allevamento di Las Praderas per cercare di raggiungere il magazzino delle torri eoliche. Questa volta ben due automobili seguivano le sue mosse e, ben addestrato da Messi e Carmen, il giovane Alberto riuscì a seminare, nel traffico cittadino, i suoi angeli custodi. Viaggiava tranquillo sulla strada per Sabadell quando, all’improvviso, ebbe una illuminazione: nella ultima fotografia, mostratagli dal Dottor Charcot, nella quale compariva il Conte Luis con il levriero nero, un terzo uomo, poco lontano dal conte, sembrava seguire la scena con attenzione ed il suo sguardo ora ritornava nella mente di Alberto. Bloccò l’automobile sul ciglio della strada ed estrasse l’ultimo ritratto del serial killer, concentrando la sua attenzione su quello sguardo, che ora, ancora di più, sembrava proprio quello dell’uomo della fotografia.
Parcheggiò velocemente l’auto vicino all’allevamento dei levrieri e chiese di incontrare il Dottor Charcot. “Il Dottore è fuori per alcuni giorni e probabilmente rientrerà il prossimo lunedì” disse, gentilmente, l’anziano guardiano, che aveva comunque riconosciuto il giovane. “Dovrebbe essere così gentile da accompagnarmi nel salone per guardare alcune fotografie dei cani, devo assolutamente fare una scelta, sono indeciso se prendere un levriero bianco o un galgo. Il guardiano accompagnò Alberto nel salone e rammentando quanto fatto dal Dottor Charcot il giorno prima, si diresse allo scaffale contenente le fotografie ed a colpo sicuro, trovò quella raffigurante il conte Luis. L’uomo era raffigurato in lontananza e non completamente a fuoco, ma lo sguardo gli sembrava inconfondibile. Con gesto rapido lasciò scorrere la fotografia tra i documenti che aveva in mano e chiese poi un parere al vecchio guardiano su alcuni levrieri bianchi raffigurati sulla copertina di un giornale. Il colonnello Tajo era imbestialito con i suoi uomini, che si erano fatti seminare da Alberto; ora più che mai era convinto della trama in corso e raddoppiò gli uomini a seguito dei tre. Anche la casa del Professor Pricca fu messa sotto sorveglianza insieme a quelle di Alberto, Carmen e Messi. Era l’unica carta rimasta in mano a Tajo e di certo il colonnello l’avrebbe sfruttata fino in fondo, senza riguardo per nessuno. Alberto si fermò sul ciglio della strada ed estrasse la fotografia. Per quanto sfuocato, lo sguardo di quell’uomo, ricordava assolutamente quello del serial killer. Quindi quell’uomo era lì e lì aveva conosciuto il Conte Luis e quindi il Dottor Charcot. Forse era ancora lì, nella zona, forse addirittura nel parco eolico. Sin dalla prima volta in Alberto era cresciuta la convinzione che ci fosse una stretta relazione tra quell’isolato parco eolico e l’allevamento e che in quel luogo, così protetto, avrebbe sicuramente potuto nascondersi qualcuno. Doveva osare, doveva provare, doveva verificare subito se la sua convinzione fosse esatta o frutto della sua fervida fantasia. Qualcosa o qualcuno si celava nel magazzino delle torri eoliche. Sapeva di rischiare molto, soprattutto ora che la morsa intorno al killer stava stringendosi dopo l’organizzazione dell’incontro con Sweetpeach.
Abbandonò l’ automobile sul ciglio di in piccolo bosco di faggi che confinava con l’allevamento dei levrieri e ritornò lentamente indietro, a piedi, evitando di are nei pressi dell’allevamento. La rete che circondava il parco delle torri eoliche era molto vicina al bosco e l’altezza degli alberi permetteva di superare l’ostacolo. Alberto si arrampicò rapidamente su un grosso faggio ed appoggiandosi ad un ramo molto lungo riuscì, senza particolari problemi, a are oltre la rete e a scendere nel parco eolico. L’erba alta indicava che da tempo nessuno era ato di li, e dopo essersi guardato a lungo intorno, iniziò lentamente a scivolare lungo il perimetro di una altissima torre eolica per raggiungere il magazzino. In meno di cinque minuti si trovò con la schiena appoggiato al muro grezzo ed umido del magazzino; nessun rumore ad esclusione di quello ritmico delle pale eoliche. Il magazzino aveva solo delle alte e strettissime finestre per cui era impossibile, per Alberto, scrutare all’interno, fino a quando non fosse arrivato all’ingresso principale del magazzino. Arrivato nei pressi della porta iniziò a percepire la presenza di qualcuno, ma per accertarsene doveva guardare attraverso le strette feritoie della porta metallica. Con il cuore in gola si sollevò lentamente fino a che il suo sguardo non riuscì a penetrare all’interno del magazzino attraverso la feritoia. Il locale era poco illuminato, ma Alberto riuscì rapidamente ad identificare, in un angolo, su una brandina metallica, una figura umana, che giaceva supina. Abbassò rapidamente la testa nel timore di essere visto e lentamente riacquistò quella favorevole posizione di osservazione, che ora gli permetteva anche di notare, all’interno del locale, una vecchia motocicletta Ducati rossa e bianca, mentre un intero perimetro del locale era occupato da un numero infinito di utensili appesi al muro con chiodi e piccole mensole metalliche. Non riusciva a distinguere il volto dell’uomo, ma non poteva neanche permettersi di rovinare tutto per fare l’eroe. Lentamente tornò sui suoi i ed in meno di dieci minuti aveva già ripreso l’automobile diretto a Barcellona. Tutto era pronto per l’incontro con Sweetpeach.
Messi e Pricca chiesero ancora una volta a Carmen se Alberto fosse d’accordo a fare da esca e come mai ancora non fosse arrivato. Pur certi di avere destato la curiosità di Tajo, nessuna delle persone presenti in quella casa immaginava di essere, in quel momento, ascoltata dai militari del Colonnello. Come in un gioco di strategia tutte le fasi dell’incontro furono più volte immaginate e ricostruite da Messi e Carmen, ignari di averlo raccontato in diretta proprio al compiaciuto Colonnello Tajo, sicuro ormai di seguire la strada giusta. L’arrivo di Alberto fu quasi festeggiato da tutti, ma in particolare da Carmen, che assetata andò a cercare subito le labbra dell’uomo che la strinse dolcemente a sé, mentre il profumo dei suoi capelli gli riempiva l’anima. Fortunatamente quella sera Alberto non parlò di quanto era successo al parco delle torri eoliche. Decise di farlo più tardi, quando finalmente, a tarda sera, si trovò solo con Carmen. La debole luce di un neon illuminava, nascosta dietro una cornice di gesso, il soffitto bianco del soggiorno dell’appartamento di Carmen ed una canzone pop americana proveniva dalle piccole casse, nascoste tra i libri su un grande scaffale bianco. Le mani di Alberto accarezzavano lentamente e ritmicamente i lunghi capelli della donna che, sdraiata sul divano, aveva abbandonato la testa sulle ginocchia dell’uomo. Ad Alberto piaceva comporre piccole trecce di quei lunghi capelli in un armonioso e lento massaggio, che faceva cadere in estasi la giovane. “Oggi ho visto un uomo che potrebbe essere il Conte de Cabrera” disse improvvisamente Alberto, liberandosi del segreto che lo appesantiva. Il racconto della visita al parco eolico fu breve, ma ricco di particolari e soprattutto ricco di quelle sensazioni che inducevano Alberto a credere che in quel parco ed in quel magazzino si nascondesse il Conte e forse anche il killer. Carmen ascoltò senza interrompere e senza mai staccare il suo sguardo dagli occhi di quell’uomo che ormai amava disperatamente. Un misto di paura ed eccitazione attraversò la mente di Carmen, che già vedeva, forse, avvicinarsi l’epilogo di quella maledettissima storia. “ Non bisogna parlarne con nessuno, ad esclusione di Messi e soprattutto bisogna evitare che ne venga a conoscenza il colonello Tajo, io credo - continuò
Alberto - che il Conte de Cabrera sia in serio pericolo e che un o falso o la sola percezione di essere scoperto, possa indurre il killer ad una crudele azione omicida “. La stanchezza e la tensione ebbero pian piano il sopravvento su Alberto e la complicità del caldo abbraccio di Carmen lo trasportarono rapidamente in un sogno popolato solo dai sorrisi e dalle dolci parole della sua meravigliosa donna. Giunse la mattina dell’incontro. Un ultimo rapido sopralluogo di Messi per verificare gli ultimi dettagli. Gli uomini erano eccitati e fortemente motivati a dimostrare il loro coraggio. Il colonnello Tajo aveva disposto, già dalle prime ore del mattino, una stretta sorveglianza su tutta l’area, ma con una tale discrezione che nessuno avrebbe mai potuto sospettare la presenza dei suoi uomini, che si erano perfettamente inseriti nell’area delle operazioni. Almeno cinquanta uomini presidiavano il locale e la zona circostante, dieci tiratori scelti erano stati posizionati alle finestre dei palazzi circostanti ed addirittura un elicottero era pronto a decollare per raggiungere l’area in meno di cinque minuti. Attraverso un sistema radio e di postazioni video disseminate in dieci punti identificati come nevralgici, Tajo controllava le operazioni in tempo reale e questa volta pregustava già il successo, che negli ultimi giorni sembrava essergli definitivamente sfuggito. Con gesti delicati, lenti e molto precisi Alberto si radeva nel bagno di Carmen ancora colmo del caldo vapore della doccia e ricco del profumo della schiuma colorata, che aveva avvolto il corpo della donna come in un abbraccio totale. Un caldo telo bianco deterse il viso di Alberto che appariva comunque disteso nonostante l’imminente incontro al buio. Qualcosa di strano fu avvertito sia da Alberto che da Messi al ristorante Bel Luna sulla Rambla de Catalunya, dove si ritrovarono insieme al professor Pricca per il pranzo. Messi era sicuro di essere pedinato ormai da diversi giorni e anche Pricca aveva notato, da almeno due giorni, un furgone bianco fermo davanti alla sua casa. Il rischio che Tajo li avesse fatti controllare era molto alto, ma ora non potevano tornare più indietro e da lì a poche ore avrebbero saputo se il serial killer fosse caduto o meno nella trappola. Un abito grigio ed una camicia bianca con collo alla se, niente cravatta, ma solo una pochette blu scura.
Apparentemente tranquillo Alberto si vestì lentamente quella sera. In quel breve periodo di solitudine ritornò con i suoi pensieri, per una attimo, alla signora Ramirez, al suo volto, al suo disegno alla scoperta del suo genio ed alla eccitazione del primo incontro con gli occhi e la bocca di Carmen. Non aveva voluto armi, non le aveva mai usate e non sarebbe mai stato capace di usarle, lui un ragazzo di un piccolo paese di mare , un venditore di bibite si apprestava a diventare forse un eroe. Un unico squillo del cellulare lo avvertì dell’arrivo della macchina di Carmen. Si pettinò distrattamente come sempre tirando indietro i suoi lisci capelli neri e chiuse dietro di sé la porta del suo piccolo appartamento. Due precise file di piccole candele bianche segnavano la stretta strada che portava dal parcheggio alla sala del ristorante. Alberto la percorse con o sicuro, senza mai girarsi indietro e con la concentrazione di che deve affrontare una gara olimpica. Il tavolo era stato scelto in una zona appartata del locale ed Alberto seduto, dava le spalle al muro, potendo vedere con tranquillità da quella posizione sia l’ingresso del locale, che la porta di uscita sul giardino. Poteva distinguere i suoi angeli custodi, che avevano già preso posizione, ma non sapeva che, mescolati tra i tavoli, vi fossero anche i militari di Tajo. Non riusciva a staccare lo sguardo dalla porta di ingresso cercando di immaginarsi l’incontro, se mai ci fosse stato. Dopo mezz’ora di attesa ancora nessuno si era avvicinato al suo tavolo, dove come da accordo preso sulla chat, trionfava nel centro un vaso di tulipani bianchi. Fu colpito dall’ingresso di una giovane donna con dei corti capelli neri e dei grandissimi occhi verdi che sembrò dirigersi verso di lui, ma la donna con o veloce si diresse decisa al tavolo vicino, dove un anziano signore la fece accomodare, dopo averla baciata sulla guancia, cingendole appena i fianchi con la mano. Insieme a Messi ed al professor Crippa era stato stabilito che, al massimo dopo un’ ora di attesa, Alberto avrebbe dovuto lasciare il locale e dirigersi verso il parcheggio, ando dall’ingresso principale e non dal giardino, che rappresentava una zona buia e poco controllabile. L’ora trascorse rapidamente. Dopo aver pagato il suo cocktail, Alberto si alzò dirigendosi verso l’uscita.
Ogni suo respiro era stato seguito dagli uomini di Tajo. In quell’ora di inutile attesa, Messi, il professor Crippa e che gli altri amici poliziotti erano stati fermati molto discretamente dagli uomini di Tajo, che ne avevano preso il posto senza attirare alcuna attenzione. Anche Carmen era stata riconosciuta dagli uomini di Tajo. Era stata fermata ed ora aspettava in una piccola stanza vicino al guardaroba, in pena soprattutto per il suo uomo. Accadde tutto in un attimo. All’altezza della toilette un cameriere lo avvicinò e gli ò un biglietto: ti aspetto alla fontana del parco. Sweetpeach. Il suo sguardo cercò rapidamente quello degli amici, ma non riuscì a distinguerne nemmeno uno nelle zone che lui sapeva controllate. Sicuro di essere protetto, ma con la gola che si era rapidamente seccata per l’ansia di quell’incontro, ritornò indietro nel salone e senza indugiare uscì dalla porta a vetri che dava sul grande e buio giardino. Nessuno degli uomini di Tajo aveva scorto il cameriere are il biglietto ad Alberto ed in quel momento la sua uscita dal salone sembrò significare la fine dell’operazione. Nessuno si era presentato all’appuntamento e per Tajo si preparava una lunga notte, durante la quale avrebbe voluto sapere tutto sulla pista seguita da quegli uomini e soprattutto come fossero arrivati a stabilire un contatto con il sospetto omicida. Messi cominciava a ribellarsi a quella stupida arroganza e l’inutile discussione con Tajo gli aveva completamente fatto dimenticare il possibile pericolo al quale stava andando incontro Alberto, che ora camminava solo e lentamente nel giardino del ristorante. Le lunghe ombre degli alberi illuminati dalle lontane luci del parcheggio si proiettavano sulla stradina di cemento che portava sino alla fontana del parco. Con grande coraggio Alberto proseguiva il suo cammino certo della protezione dei suoi amici. Gli uomini di Tajo avevano raccolto tutti in una sala vicino al ristorante,
portando via anche i poliziotti di guardia al giardino ed al parcheggio. Alberto era solo.
Capitolo 12
In Carmen cresceva lenta la paura per la vita di Alberto. L’uomo che l’aveva fermata avrebbe dovuto condurla, a breve, insieme agli altri, nel salone. Non ci pensò più di un minuto. Con un colpo secco e ben assestato, il portacenere di vetro si ruppe sulla testa del militare, che cadde tramortito in terra. Con o rapido, ma senza attirare attenzione, Carmen riuscì a raggiungere una finestra, che dava sul giardino e dopo qualche minuto, si trovava già avvolta nel buio del parco. Era stata privata sia del cellulare, che della pistola e non poteva sicuramente cercare aiuto o tornare nel salone, decise di proseguire per cercare di raggiungere Alberto. La fontana si trovava in una zona del parco particolarmente isolata e pochi lampioni illuminavano malamente la stradina, che costeggiando prima la siepe della piscina e poi il muro di cinta della proprietà, arrivava al piccolo spiazzo circondato da querce secolari, dove zampillava ritmicamente una anonima fontana di marmo bianco. La corsa di Carmen si fermò al parcheggio, ma la rapida ricerca di Alberto non diede il risultato sperato; la macchina era al suo posto, le portiere chiuse. Nessun poliziotto di guardia al parcheggio. La paura avvolse Carmen che in quel momento si pentì di aver trascinato quello stupendo e semplice ragazzo in una avventura così rischiosa. Disperatamente corse alla sua macchina e recuperò nel baule, nascosta dietro la gomma di scorta, una piccola calibro ventidue ed una torcia. Arrivato alla fontana Alberto si guardò intorno, maledicendo il momento in cui aveva deciso di non portare con se un’ arma. Una piccola luce in quel momento apparve davanti a lui proprio tra due querce, che nell’oscurità di quella notte,
apparivano animate ed i lunghi rami sembravano mille braccia pronte a soffocarlo. Lentamente, quasi ipnotizzato, cominciò ad avvicinarsi verso la luce. Fu quella stessa piccola luce ad attirare da lontano l’attenzione di Carmen, che preoccupata per le sorti di Alberto, stava per rientrare nel salone per cercare l’aiuto dei militari. Doveva essere Alberto o forse il killer. Incominciò a camminare percorrendo la stradina velocemente per brevi tratti per poi fermarsi e guardarsi indietro, il buio. Continuò in direzione della luce. Appena terminata la siepe, la fontana si presentò davanti a Carmen ed insieme alla fontana riusciva ora a scorgere davanti a sé la sagoma di un uomo. “ Alberto ! chiamò Carmen a voce alta. L’uomo si voltò rapidamente: una luce intensa, poi un intenso dolore alla tempia, fece crollare in terra Carmen colpita alla testa. Qualcuno aveva osato sfidarlo e ora pensava di poterlo prendere in trappola. La lama del coltello del killer era pronta a tagliare la gola del povero Alberto, stordito da uno spray anestetico, mentre incautamente, si stava avvicinando alla luce, che altro non era che una piccola torcia lasciata appositamente tra i rami di un albero dal killer per far cadere in trappola l’uomo. Tutti gli uomini di Tajo stavano correndo da ogni direzione verso il giardino dopo aver udito lo sparo ed il killer li vedeva avvicinarsi molto velocemente. Con un gesto rapido lasciò cadere in terra il corpo di Alberto, che aveva sollevato per iniziare il suo macabro rituale e si diresse verso il corpo della donna, che era stata colpita solo di striscio alla fronte. Pochi i fuori dal cerchio delle querce con la donna sulle spalle, due luci ed il rumore di un motore. All’arrivo dei militari più nessuna traccia del killer, solo il corpo di Alberto che giaceva supino, non lontano dalla fontana, ma vivo. A stento i militari riuscirono a tenere a bada Messi, che avrebbe voluto prendere a pugni il colonnello Tajo. Mentre dal salone venivano portati via i poliziotti complici di Messi, il professor Pricca veniva interrogato direttamente dal colonnello, che continuava a minacciarlo, urlando davanti al volto spaventato del
vecchio. “ Ucciderà Carmen, per colpa sua, disse il vecchio Pricca. Non riusciremo mai a trovarlo ed ora che abbiamo tentato di fregarlo diventerà spietato per dimostrarci che è più furbo e più potente di noi “. In un angolo del salone, solo ora, dopo oltre un’ ora Alberto cominciava a sentire le urla amplificate di Tajo, distorte dal fortissimo mal di testa, che gli provocava una nausea indicibile. “ Carmen! Carmen ! “ Le sole parole che riusciva a pronunciare Alberto, che già due volte era ricaduto in terra nel tentativo di rialzarsi dal divano, dove era stato costretto dai militari di Tajo. “ Portateli tutti al Comando e quell’uomo fatelo riprendere rapidamente, portatelo all’ospedale erò tra due ore e voglio trovarlo sveglio e collaborante “urlò Tajo ai suoi uomini, allontanandosi verso l’uscita. Viaggiò stretto tra due militari per circa venti minuti sino alla Clinica Baviera di Barcellona. In quel breve tratto di strada Alberto cominciò a ricordare tutto. Mentre si stava avvicinando alla luce nel bosco una voce lo aveva fatto girare e di colpo, aveva visto il volto del killer ed un acre profumo che bagnava il suo viso. Poi più nulla. Il killer aveva portato via Carmen in gesto di sfida verso chi aveva tentato di farlo cadere in trappola. Gli uomini di Tajo sapevano tutto, ma solo lui sapeva dopo poteva trovarsi ora Carmen. All’arrivo in Ospedale Alberto aveva solo un progetto: scappare e raggiungere Carmen prima che fosse troppo tardi. Doveva forse parlare con Tajo, ma non si fidava, avrebbe fatto uccidere Carmen pur di prendere il killer. Doveva agire subioto e da solo. Continuò a manifestare una finta sonnolenza per non fare aumentare l’attenzione dei militari verso di lui. Una piccola stanza al sesto piano dell’Ospedale, un militare dentro la stanza e due fuori a piantonarlo: impossibile scappare. Una gentile infermiera con i capelli bianchi raccolti sulla nuca ed un piccolo vassoio pieno di siringhe con gli aghi ancora infilati nelle rispettive fiale per identificarne il contenuto, per lui solo una flebo con della soluzione fisiologica ed un antiemetico.
La sua attenzione cadde su una siringa e sulla corrispondente fiala sulla quale era scritto Diazepam. Con un rapido gesto fece cadere la siringa tra le lenzuola e la fece sparire sotto il cuscino. L’arrivo di Tajo venne preannunciato al militare all’interno della camera dai due colleghi di guardia all’esterno. Il tempo per l’uomo di uscire nel corridoio a scambiare due parole con i colleghi, bastò ad Alberto per versare il contenuto della fiala nella coca cola, che il militare si apprestava a bere. Al suo arrivo Tajo trovò Alberto ancora molto rallentato dall’anestetico spruzzatogli in viso dal killer e dopo poche parole scambiate con i militari di guardia lasciò l’ospedale con l’ordine di essere chiamato subito, appena Alberto fosse stato in grado di essere interrogato. Il militare bevve avidamente la Coca Cola dopo aver finito di consumare il toast, che rappresentava per quella sera la sua cena. Dopo quaranta minuti ed dopo aver lottato con le sue palpebre che diventavano pesantissime, crollò in un sonno profondo. Sapeva di non poter perdere tempo, ma era ben cosciente di non poter rischiare troppo. La vita di Carmen era in serio pericolo e ora nessuno avrebbe potuto prevedere le reazioni del killer. Strappatasi la flebo con gesto deciso Alberto si diresse rapidamente verso il militare, che dormiva profondamente, sottraendogli la pistola d’ordinanza. La via di fuga era una sola: la grande finestra della camera aveva uno stretto davanzale ed era separata dalla finestra vicina solo da un grande tubo di rame, che percorreva tutta la facciata dell’edificio sino ad un metro circa dalla strada. Appena affacciato alla finestra fu attraversato da un brivido di paura per la visione del vuoto sotto di sé; impossibile scivolare sino al piano terra attraverso il tubo che appariva troppo fragile per reggere il suo peso. Decise di are nella stanza vicina attraverso la finestra. Solo per un attimo guardò di sotto ma il pensiero di Carmen lo caricò di coraggio ed in apnea mantenendo sempre i piedi sullo stretto davanzale, ò lentamente nella stanza vicina. Si trattava di una stanza adibita a sala riunioni, con un lungo tavolo di formica bianca sul quale disordinatamente si trovavano disposte numerose cartelline verdi. Una lunga fila di stretti armadietti di legno azzurro arredava completamente la parete più lunga della stanza. Disordinate etichette segnalavano i nomi dei proprietari degli armadietti che solo in parte erano chiusi
da piccoli lucchetti di ottone. Dopo averne aperto due che risultarono solo pieni di fogli impilati e di libri, finalmente, nel terzo armadietto Albertò trovò, ordinatamente appesi, una camicia, un maglione e dei pantaloni di velluto grigio. Li indossò rapidamente facendo sparire all’interno dell’armadietto il piccolo camice bianco che gli era stato dato all’ingresso in Ospedale. Scostata la porta della stanza vide in un angolo il militare di guardia nel corridoio intento a consumare la cena a base di tortillas. Con o tranquillo e deciso uscì dalla stanza richiudendo dietro di se la porta e dirigendosi rapidamente nel senso opposto al militare e verso le scale di servizio. Percorse rapidamente i sei piani che lo separavano dall’uscita con il solo pensiero di raggiungere in tempo il parco eolico. L’ansia per la sorte di Carmen cresceva in lui inesorabile. Non poteva fidarsi di Tajo e dei suoi militari perché, il rischio che Carmen fosse sacrificata per la cattura del killer, era troppo alto. L’unica persona amica che poteva aiutarlo era l’anziano Pricca, che nel frattempo era stato rilasciato dai militari ed era ritornato esausto alla sua abitazione di via Laietana. Ad Alberto bastò percorrere a piedi il eig de Gracia per raggiungere in circa venti minuti la casa del professor Pricca. Dall’esterno non si scorgevano militari nella zona né auto sospette, comunque doveva rischiare se voleva coltivare la sua tenue speranza. Un lungo suono di camlo fece sobbalzare l’anziano professore, che stava per appisolarsi davanti al notiziario della sera. “ Alberto !” Uno scatto meccanico ed il pesante portone di legno scuro si aprì. Rapidamente il giovane raggiunse l’abitazione di Pricca, che riuscì appena a salutarlo. “ La sua auto professore, la sua auto…. Carmen è in pericolo di vita, devo correre al parco eolico vicino all’allevamento dei levrieri. Sono sicuro che il killer si nasconde lì….. devo correre credo di avere pochissimo tempo “. La vecchia Mercedes grigia E200 era in perfetto ordine. Superata la rampa dei boxes, Alberto si trovò nel traffico della città. Le urla di Tajo si sentirono sino alle sale operatorie situate al piano superiore. “Incapaci traditori, vi siete fatti ingannare da uno stupido, dovete trovarlo, sicuramente lui nasconde notizie importanti per l’inchiesta, dovete trovarlo
subito ! ” Stava urlando con il volto arrossato, ai poliziotti che lo accompagnavano ed al malcapitato militare di guardia ancora ubriaco per il pesante sedativo. Un gran numero di militari fu impiegato per circondare la zona circostante l’ospedale e le principali vie di uscita dalla città ma Alberto si trovava già sulla autostrada del Valles. Percorse rapidamente la strada che lo separava dal parco eolico pensando a come poteva, da solo, e disarmato avere anche una sola possibilità di liberare Carmen. Le luci dell’allevamento riuscivano a malapena ad illuminare il parcheggio e per non creare nessun allarme lasciò l’auto sul bordo della piccola strada che costeggiava la proprietà del Dottor Charcot. Cominciò a camminare con il cuore che sembrava uscirgli dal petto per quanto batteva forte, la paura stava nonostante tutto per prendere il sopravvento. Come poteva lui pensare di poter far fronte ad uno spietato omicida , che aveva già freddamente ucciso tanti uomini e che ora poteva disporre della vita della sua Carmen. Non aveva tempo, non poteva rischiare e soprattutto non aveva un piano. Camminò lentamente lungo la strada che saliva verso il piccolo parcheggio dell’allevamento, iniziando già da lontano a sentire qualche breve latrato dei levrieri. Per raggiungere la rete che delimitava il parco eolico doveva attraversare tutto il cortile dell’allevamento, compreso tra la casa padronale ed il canile. Ora i latrati dei cani erano facilmente percepibili e sembrava quasi di captarne il significato, all’interno, di una discussione animata quasi umana ed Alberto intuiva che gli animali avevano percepito una situazione di pericolo. Il suo pensiero fu interrotto bruscamente dalla accecante luce di una torcia che il dottor Charcot gli puntò in faccia. Non si bloccò per la paura di essere stato scoperto, ma per il pensiero che avrebbe potuto fallire e perdere Carmen. “ Non mi faccia domande, le racconterò una storia incredibile e soprattutto ho bisogno del suo aiuto, andiamo all’ interno nel canile “.
Charcot, preso in contropiede, abbasso la torcia dal viso di Alberto ed illuminò il percorso che portava all’ingresso del canile. Furono accolti all’interno dal rumore festoso dei levrieri, che si accalcarono velocemente nell’area comune del canile, quasi come in risposta ad una misteriosa chiamata.
Capitolo 13
Fuori di sé dalla rabbia, Tajo aveva disseminato militari in tutta la città. alla ricerca del giovane Alberto. Un grande numero di SUV militari perlustravano ormai da ore le principali strade di Barcellona e soprattutto gli sbocchi di queste verso la cintura autostradale. Ma niente, nessuna traccia; Alberto sembrava essere svanito nel nulla e questa sorta di impotenza faceva salire la collera del colonnello che sapeva di aver perso la sua partita. Nessuna delle altre persone che aveva partecipato al tentativo di cattura del killer sapeva dove Alberto si fosse recato, ma sia Messi che Pricca erano sicuri che Alberto avrebbe fatto di tutto per ritrovare Carmen e dove c’era Carmen ci sarebbe stato il killer. Anche due elicotteri volavano a bassa quota sulla città, da diverse ore, ma non erano stati in grado di segnalare nulla di rilevante né per il ritrovamento di Alberto né per l’identificazione del rifugio del killer. “ Qui !? Al parco eolico, il killer di Barcellona, qui nel magazzino delle torri eoliche!? Lei farnetica Alberto, lei crede di piombare qui, nella notte, senza preavviso e di potersi prendere gioco di me ! “ urlò al quel punto Charcot dopo aver sentito il racconto di Alberto, che sicuro del suo intuito e certo di aver seguito la pista giusta, dava ormai per scontata la presenza del killer proprio li, vicino all’allevamento. “ Temo ci sia una stretta relazione tra la scomparsa del Conte de Cabrera ed il killer ed a mio avviso dopo essersi servito del Conte ora se ne starà liberando “. La prima e naturale reazione di Charcot fu quella di chiamare la polizia, ma Alberto fu velocissimo ad interrompere la linea telefonica. “Ha una donna con sé, la donna che mi ha fatto sentire per la prima volta un grande uomo, la donna che amo e la sua vita è sicuramente in pericolo, dobbiamo agire da soli e rapidamente. Charcot non sapeva se poteva fidarsi o meno di quell’uomo, ma i suoi occhi sembravano sinceri e la sua storia assolutamente plausibile; lui stesso più volte si era chiesto che fine avesse fatto Luis de Cabrera. Era sparito nel nulla, non un saluto, non un messaggio, era stata sicuramente una sparizione misteriosa.
Decise di affrontare il rischio, al massimo, avrebbe solo speso male una delle sue noiose serate all’allevamento. “ Non siamo soli “ disse Charcot accarezzando Bud uno splendido levriero nero, che sembrava essere il rispettato sovrano dell’allevamento. “ Se la tua donna è qui loro la troveranno! Dammi qualcosa che appartenga a lei, una sciarpa, un fazzoletto, qualcosa che abbia conservato il suo odore “. Purtroppo Alberto non aveva nulla con sé, ad esclusione di un piccolo bracciale di cuoio, che aveva ricevuto da Carmen quella sera stessa prima di partire per il ristorante come portafortuna. Ma cosa avrebbero fatto una volta stanato il killer ? Né Alberto né Charcot avevano una risposta. Non c’era una grande distanza tra la zona posteriore del canile delimitato da un muretto di cemento, alto circa un metro, sormontato da una rete avvolta da rampicanti ed il recinto del parco eolico; meno di trecento metri separavano la proprietà dall’ingresso del parco eolico e comunque già in parte Alberto conosceva quella zona, dopo il suo sopralluogo di qualche giorno prima. Decisero insieme che solo una grande confusione poteva riuscire a distogliere l’attenzione del killer dalla prigioniera e quindi scelsero di fare agire contemporaneamente tutti i cani dell’allevamento. “ Convinto Bud - disse Charcot - tutti lo seguiranno “. Superato il cancelletto di legno, che li separava dalla zona comune del canile, si ritrovarono circondati da una trentina di levrieri, sicuri di ricevere carezze e qualche biscotto anche a quell’ora tarda. Gli occhi di Charcot incontrarono quelli di Bud e quasi come per magia i due si fecero rispettivamente spazio tra gli altri cani e si fermarono al centro del piccolo giardino. Charcot cominciò ad accarezzare ritmicamente la nuca ed il dorso dell’animale, che socchiudeva gli occhi in una smorfia di piacere. “ Devi trovare una persona Bud, cercala nel parco; questo è il suo bracciale sentila, cercala, vai ! ” Il cane sembrava quasi annuire, mentre il sua padrone parlava, ed ora stava annusando quel piccolo bracciale di cuoio, quasi a voler distinguere tutti gli odori che lo costituivano, per sentire quello umano della donna, quello che
avrebbe dovuto seguire. Tutti i cani cominciarono ad agitarsi e ad emettere mugolii quasi umani, quasi come a voler partecipare all’analisi di quella traccia, che in quel momento rappresentava l’unico collegamento con la povera Carmen. In città un grande numero di giornalisti affollava ora la sede centrale della Polizia. Auto e furgoni con antenne satellitari stavano convergendo verso il centro della città. Si era rapidamente sparsa la voce del rapimento della donna e del fermo di alcuni poliziotti, accusati di aver fuorviato le indagini per la cattura del killer. Tajo era spazientito perché nessuno era in grado di dargli notizie su Alberto. Quell’uomo si era come volatilizzato. Inutili i tentativi di rintracciare con uno scanner il suo telefono cellulare ed inutili le informazioni che Messi ed il professor Pricca potevano dare. Si era chiarito ormai il quadro del progetto autonomo di cattura del killer, ma ora la preoccupazione per la sorte di Carmen ed Alberto aveva fatto dimenticare a quegli uomini l’astio verso il colonnello Tajo, che rimaneva, a quel punto, l’unica possibilità reale per tentare di salvarli. Nessuno conosceva le ultime mosse di Alberto prima di quella maledetta e sortunata sera. Alzò il muso verso il cielo, quasi come a ricevere una conferma delle sue sensazioni e dopo aver abbaiato ritmicamente tre volte, Bud cominciò a correre verso il cancello di legno volutamente lasciato aperto da Charcot. Questo era il segnale. Tutti gli altri levrieri si lanciarono disordinatamente dietro di lui, cominciando ad abbaiare, per incitare il loro capo e fargli sentire la loro presenza compatta. Il silenzio di quella notte venne improvvisamente squarciato dall’abbaiare dei cani, che guidati dallo splendido Bud, percorrevano rapidamente la strada che separava l’allevamento dal parco eolico. Come immaginato da Alberto i cani si diressero velocemente e senza alcuna esitazione verso quel maledetto parco eolico, dove sicuramente si nascondeva il killer e dove forse la sua Carmen stava per essere uccisa.
Gli occhi di Charcot ora avevano cambiato espressione, la vista dei cani che seguivano l’itinerario previsto da Alberto gli aveva dato sicurezza, quell’uomo aveva ragione, bisognava agire con coraggio. Una vecchia carabina calibro ventidue era da anni conservata meticolosamente dal guardiano dell’allevamento in un vecchio armadio di ferro della cantina. Charcot corse a recuperarla, mentre i cani cominciavano ad addentrarsi nella piccola boscaglia antistante l’entrata del parco eolico. Alberto cominciò a ripercorrere con la mente quanto aveva visto durante la precedente rapida visita al parco. Sapeva che il magazzino poteva nascondere il killer e, probabilmente, anche la sua Carmen si trovava lì proprio all’interno della costruzione. L’angoscia della morte di Carmen cominciava ad attanagliargli la mente e l’immagine del volto della bella Carmen attraversava di continuo la sua mente, mescolandosi alla paura della notte ed all’abbaiare vicino dei cani. Un forte scossone di Charcot lo fece momentaneamente trasalire, ma la vista di quell’uomo ora animato da un grande coraggio, lo spinse a seguirlo senza indugi,iniziando a pensare al miglior modo di entrare in quel maledetto magazzino. I levrieri raggiunsero il muro di cinta del parco e cominciarono ordinatamente a correre in fila indiana lungo il perimetro in direzione dell’ingresso principale. Charcot ed Alberto seguivano poco lontani nascosti dall’abbaiare dei cani, che copriva qualunque rumore circostante. La luce di una pallida luna riusciva a proiettare le ombre dei levrieri sul muro di cinta del parco, rappresentando la corsa di una grande cavalleria, spinta a gran forza contro un vicino nemico; la stessa luce iniziava a far intravedere le lunghe ombre delle torri eoliche, il cui rumore ritmico ora si udiva distintamente. Era stato quel rumore che aveva fatto insospettire Alberto e che lo aveva spinto sino a quel parco ed era quel rumore che ora lo animava di paura e di speranza, man mano che si avvicinava al cancello d’ingresso. Il magazzino era situato nella parte centrale del parco e sembrava quasi circondato dalle gigantesche torri, che quella notte si vestivano, ad intervalli regolari, delle lunghe ombre delle pale sulle pareti di gesso bianco. Le piccole finestre non facevano intravedere alcuna luce all’interno del magazzino e
comunque data la loro altezza da terra, non era possibile sporgersi per guardare all’interno. Mentre i cani ormai rabbiosamente si dirigevano verso la porta metallica, che dava accesso al magazzino, Alberto e Charcot decisero di guardare all’interno del magazzino attraverso una di quelle alte finestre laterali. L’attenzione di Alberto fu attirata subito da alcuni sacchi di cemento accatastati poco lontani dal muro di cinta del parco. Insieme a Charcot riuscì, in pochi minuti, a sovrapporne cinque proprio contro la parete del magazzino. Ora salendoci sopra sarebbe riuscito a vedere all’interno e forse la sua ansia si sarebbe placata se avesse potuto scorgere Carmen viva. Qualcosa di inspiegabile aveva iniziato a tormentare l’animo del Professor Pricca dopo l’ improvvisa apparizione di Alberto. Era ben cosciente del pericolo di fronte al quale Alberto si sarebbe potuto trovare, ma nello stesso tempo, non poteva tradirlo proprio adesso, rivelando a Tajo la sua posizione; avrebbe sicuramente messo a rischio entrambi i suoi cari amici. Nella sua vita si era trovato spesso a dover prendere delle decisioni rapide calcolando solo quale poteva essere il male minore, ma ora il pensiero di dover assolutamente proteggere quelle due care persone lo calava in una atmosfera di spiegabile omertà. Neppure Messi fu messo al corrente della situazione, in quanto tenuto ben lontano dal Professore, dagli uomini di Tajo che avevano avuto l’ordine di sorvegliarli a vista. Non potendo far altro Tajo decise, a questo punto, di chiudere tutti gli accessi alla Provincia, richiedendo l’invio di nuove truppe di militari al governo centrale. Un numero impressionante di giornalisti provenienti da ogni parte del mondo raggiungeva ormai quotidianamente Barcellona con la speranza di poter documentare, qualunque esso fosse, l’epilogo di quella maledetta storia. Le voci di una imminente cattura del serial killer si confondevano con le indiscrezioni relative al coinvolgimento nella vicenda di settori deviati della
Polizia, che avrebbero ostacolato le indagini per screditare l’operato dei militari. Questo ovviamente non faceva altro che accrescere la popolarità del colonnello Tajo, che ora iniziava ad apparire come l’unico in grado di traghettare la città fuori dalla palude degli omicidi e dei veleni nella quale era stata trascinata negli ultimi mesi. Pur se in apparenza la vita sembrasse scorre quasi normalmente, lungo le vie centrali della città l’atmosfera era diventata pesante nelle ultime settimane ed una sorta di paura cresceva in quella colorita popolazione abituata da sempre a non essere diffidente nei confronti del prossimo. Ci si aspettava un epilogo violento di questa storia atroce e l’attesa della notizia di nuovi morti sembrava accorciarsi di ora in ora. I nomi delle persone coinvolte iniziava a girare negli uffici, nelle scuole, nelle famiglie. Si pronosticava la morte di molte altre persone se il killer non fosse stato ucciso.
Capitolo 14
Dalla stretta finestra metallica si potevano scorgere solo in parte i due locali centrali del magazzino e sola in piccola parte si intravedeva il lungo corridoio centrale, che sembrava mettere in continuità la porta anteriore con quella posteriore della costruzione. Una piccola quantità di luce penetrava dall’alto, ma era appena sufficiente a disegnare le ombre delle grate metalliche sulle pareti ricche di scaffalature metalliche. Alberto ricordava di avere visto delle vecchie motociclette ed una piccola branda appoggiata alla parete, ma dalla posizione dove si trovava non riusciva a scorgere nulla. I latrati dei cani ora si facevano insistenti ed il gran frastuono provocato dagli animali copriva qualunque altro rumore che si cercasse di udire all’interno del magazzino. Almeno venti levrieri iniziarono, contemporaneamente, a graffiare con le zampe anteriori la porta verde metallica del magazzino, uno sull’altro, continuando ad abbaiare per sottolineare di aver trovato qualcosa o qualcuno. Altri cani cominciarono a correre intorno alla costruzione, quasi a volerla circondare in una sorta di danza rituale, che faceva presagire che presto qualcosa sarebbe accaduto. Investito dal bagliore di una piccola ma penetrante luce, che si accese improvvisamente in una delle camere più interne del magazzino, Alberto fu costretto ad abbassarsi per evitare di essere scorto. Questa era la prova. Qualcuno si nascondeva all’interno del magazzino e per il giovane Alberto non poteva che trattarsi del killer. Decisero insieme di aspettare. Prima o poi chi viveva o si nascondeva all’interno di quel magazzino sarebbe stato stanato e solo allora, Alberto ed il Dott Charcot, sarebbero intervenuti. A quel punto fu un chiaro grido di aiuto che fece gelare Alberto. Era lei, Carmen. La inconfondibile voce della sua donna aveva cominciato ora a far crescere il battito del suo cuore ed una sudorazione fredda cominciava a scendere lungo la
sua schiena. Era il momento di fare qualcosa. I cani avrebbero potuto abbaiare ancora per ore e la sorte della ragazza poteva dipendere solo da lui. In quel momento riuscì a rivedere per un attimo lo splendido volto, le labbra sensuali e gli occhi della sua Carmen, che gli sorridevano in quell’ultimo incontro avuto con lei, prima che scattasse la fallita trappola per il killer. Doveva rischiare da solo e doveva farlo subito. I cani stavano sicuramente distraendo tutti in quel momento e forse questa era l’opportunità da cogliere: mandare all’interno del magazzino i cani cercando poi rapidamente di penetrare all’interno attraverso una di quelle strette finestre. Non bisognava far rumore e l’idea del Dottor Charcot di sparare alla serratura del magazzino fu ovviamente scartata. I cani dovevano assolutamente entrare in quel magazzino. Il sistema di blocco che impediva l’apertura della porta era una vecchia serratura metallica applicata sulla superficie esterna della porta che attraverso un meccanismo semplice faceva entrare due lunghe aste metalliche nelle porzioni superiori ed inferiori del telaio della porta; sarebbe bastato forse sollevarla e scardinarla per rendere inefficace la serratura. Alberto lasciò la sua posizione di osservazione e si diresse carponi verso la porta facendosi largo, nascosto tra i cani. Raggiunta la porta si rese subito conto di potercela fare. Si trattava di una vecchia porta metallica molto leggera, che era tenuta da due vecchi cardini in parte già piegati dagli anni. Trascinato dalla disperazione di perdere la sua Carmen, con un gesto fulmineo e determinato liberò dalla rete metallica uno dei suoi sostegni, che poteva essere utilizzato come leva. Infilato il lungo sostegno metallico sotto la porta cominciò a far leva con il suo peso, ma non riusciva a sollevarla abbastanza per farla uscire dai cardini. Bastò il suo sguardo disperato a far capire a Charcot di dover intervenire. Con il peso dei due uomini ora la leva sollevò la porta di quei pochi centimetri necessari a farla saltare dai cardini. Era fatta ! In preda all’euforia Alberto scostò rapidamente la porta dal muro di quel tanto che era necessario per poter far entrare i cani. Ora non potevano più rischiare. Un breve messaggio, inviato dal cellulare di Charcot, informava in quel momento la polizia sulla posizione di Alberto e sulla
presenza del killer. Come un fiume attraverso una breccia di una diga i cani saltarono abbaiando all’interno del magazzino che ora appariva meno buio. Correvano ed abbaiavano in tutte le direzioni sollevando una grossa nuvola di polvere dal pavimento sporco e creando una situazione di caos infernale. Uno sparo ed un guaito di un cane fecero in quel momento trasalire Alberto e Charcot. Ancora uno sparo ed alcuni cani ora iniziavano a scappare dal magazzino spaventati. Se si fosse precipitato ora all’interno, sarebbe stato ucciso, e con lui anche la sua Carmen. Doveva trovare la forza di aspettare l’intervento della polizia, ma il dubbio che un ritardo potesse essere fatale, lo convinse ad agire subito. Ritornò alla stretta finestra del magazzino risalendo velocemente sui sacchi di cemento certo che poteva rappresentare l’unica via di accesso indisturbato al magazzino ora che i cani erano riusciti ad entrare. Fu semplice rompere il vetro, coperto dai latrati dei cani, e dal frastuono di materiale rovesciato durante la loro corsa all’interno del locale. Con gesto rapido abbassò la stretta finestra e si sporse lentamente all’interno controllando di non essere visto. La gran polvere e l’oscurità lo aiutarono a sparire tra le ombre del locale. “ Questa volta è mio “ disse Tajo informato dalla centrale di Polizia dell’arrivo del messaggio di Charcot, che denunciava la presenza di Alberto e del killer nello stesso luogo. Ci vollero solo dieci minuti ad allertare i due reparti speciali che avevano seguito Tajo nelle indagini ed in poco tempo quasi cento uomini si misero rapidamente in marcia verso la zona di provenienza dell’allarme. Due furgoni bianchi, assolutamente anonimi, erano stipati di uomini ed armi , la vita di Alberto e Carmen ora era veramente a rischio. Da Barcellona il viaggio non sarebbe stato brevissimo e di questo erano perfettamente coscienti sia Tajo, che fremeva di mettere a qualunque costo le mani sul killer, che Alberto che sapeva di avere poco tempo a disposizione per salvare Carmen. Si calò lentamente dalla finestra arrivando a circa un metro e mezzo di altezza dal pavimento. Si lasciò andare e cadde sicuro attutendo il colpo con le ginocchia flesse. In pochi secondi riuscì a mettere a fuoco la situazione. I cani continuavano a correre disordinatamente lungo il magazzino, alcuni di loro erano appoggiati con le zampe anteriori ad una porta di legno scuro abbaiando senza sosta, altri continuavano a girare quasi in una danza rituale intorno ad un piccolo tavolo posto al centro del locale, sollevando una polvere dall’odore sgradevole.
Nessuno avrebbe potuto notarlo e spinto da una incoscienza a lui ormai familiare, cominciò a percorrere il corridoio del magazzino deciso a trovare la sua Carmen; in quel momento il pensiero di poter essere a pochi i dal killer e di poterlo incastrare veniva allontanato dal ricordo del sorriso della sua donna. La visione di un levriero agonizzante in terra lo fece ritornare immediatamente alla realtà. Lo sguardo dell’animale incontrò il suo e nella profondità di quell’espressione Alberto lesse la fierezza di quell’animale, che lo spingeva a non arrendersi. Una fortissima rabbia cominciò a crescere in lui. Afferrato un tubo metallico molto pesante, appoggiato al muro, si diresse verso la prima porta davanti a lui. Intanto anche Charcot aveva iniziato a seguire i movimenti di Alberto e con grande coraggio si era portato al’interno del magazzino attraverso la porta scardinata e con gli occhi gonfi di terrore e rabbia camminava tra i corpi esanimi dei suoi levrieri uccisi. Ancora due spari furono esplosi in quella infernale baraonda e questa volta Alberto riuscì a vedere la mano di un uomo, che attraverso uno spiraglio di una porta interna, puntava l’arma sugli animali indifesi. Non aveva scelta, doveva tentare. La posizione dove si trovava in quel momento lo metteva in una condizione di vantaggio. Iniziò lentamente a strisciare contro la parete del corridoio per arrivare a quella maledetta porta che sembrava comunque lontanissima. Pochi interminabili minuti lo separavano dall’uomo che minacciava la sua donna. Avrebbe prima colpito il braccio di quell’uomo con il tubo metallico e poi spalancata la porta avrebbe cercato di immobilizzarlo con l’aiuto dei cani. ato il primo attimo di smarrimento e paura dopo i primi colpi di pistola ora i levrieri si erano portati tutti proprio verso quella porta dalla quale erano partiti i colpi, ma si tenevano a circa cinque metri di distanza, ringhiando ed abbaiando in un modo infernale. In quel momento la porta si scostò. La lunga canna grigia di un fucile comparve dallo spiraglio della porta ed il rumore di uno scatto metallico indicava la messa in canna di una cartuccia. Fu uno scoppio improvviso che risuonò e si amplificò tremendamente all’interno del magazzino; una fiamma azzurro-gialla fuoriuscì dalla canna e quasi contemporaneamente due splendidi animali crollarono sul pavimento in una pozza di sangue scuro.
Seguì un brevissimo silenzio che dovette sembrare ad Alberto una eternità. Il dottor Charcot dimenticando il rischio che correva si precipitò dapprima tra i suoi cani sollevando dal pavimento la elegante testa di un levriero ormai morto e poi, colto da una disperata follia, si buttò di peso contro la porta da dove erano provenuti i colpi schiacciando il fucile già pronto nuovamente a sparare contro lo stipite della porta. Un altro colpo di fucile risuonò nel magazzino ed i vetri di una delle finestre proprio di fronte alla porta andarono in frantumi e subito le schegge rimbalzarono a pioggia sul pavimento del magazzino. Charcot con rabbia spalancò la porta e si trovò di fronte ad un uomo di grande corporatura con il volto coperto da una calza metallica che lo rendeva ancora più inquietante. Come per un inconscio comando ricevuto i primi cinque levrieri che si trovavano nei pressi seguirono istintivamente il padrone e si schierarono a sua difesa davanti all’uomo ancora armato. Lo sguardo fiero dei cani si accompagnava all’atteggiamento aggressivo dei loro corpi con i muscoli tesi pronti a scattare verso quella figura che rappresentava ora il loro obiettivo. Alberto intanto si era portato di corsa di fronte alla porta ed ora si trovava a pochi metri appena dietro Charcot ed iniziava a vedere, distintamente, l’orrida figura del killer. I due furgoni bianchi dei militari lasciarono in quel momento l’autostrada del Valles. Da quel bivio ora la marcia dei veicoli doveva necessariamente rallentare, ma pochi erano i chilometri che separavano i militari dal nascondiglio del serial killer. Tajo viaggiava sul primo furgone e per tutto il viaggio non aveva aperto bocca. Lo sguardo intenso dei suoi profondi occhi neri si perdeva nei campi coltivati, che il furgone stava costeggiando, ma la contrazione serrata delle sue mandibole palesava la sua eccitazione. Con minuziosa attenzione ora i militari iniziavano a riare il rituale dell’attacco alla presunta base del killer distribuendosi ruoli e tempi di entrata in azione. Nell’arco di sette-otto minuti avrebbero raggiunto l’allevamento. In quel momento il killer con un gesto di rabbia e di provocazione gettò il fucile addosso ai cani che lo scansarono agilmente. Fu una questione di pochi secondi. Improvvisamente nella mano destra dell’uomo comparve una pistola automatica. Lo sguardo di Charcot andò, in quei pochi secondi, a cercare quello di Alberto, per cercarvi una via di scampo. Con grande freddezza il killer puntò l’arma verso
il levriero a lui più vicino e fece fuoco. Un unico colpo a quella distanza così ravvicinata, fece praticamente esplodere il cranio dell’animale e frammenti del cervello del nobile animale schizzarono sia sul volto coperto del killer che sugli abiti di Charcot ora impietrito dal terrore. Soddisfatto della sua azione con i cani distratti a guaire vicino all’animale morto, quasi a volerlo risvegliare, il killer diresse l’arma verso la testa di Charcot. In quel momento con un improvviso e deciso salto un levriero nero affondò i sui denti nel braccio del killer, stringendo come una morsa meccanica. Con una forza incredibile il killer riuscì a non mollare la presa dell’arma sollevando di peso da terra l’animale e colpendolo ripetutamente al ventre con la punta dei suoi pesanti stivali di cuoio fino a fargli mollare la presa. Con il braccio insanguinato, ma con la situazione ancora sotto il suo controllo, ripuntò l’arma verso la bocca aperta e ringhiante dell’animale. Né Charcot né Alberto capirono cosa stesse per avvenire. Un urlo disumano misto tra dolore e terrore precedette la comparsa sulla scena di un essere di piccola statura che, scostata una pesante tenda verde, che nascondeva l’accesso ad una stanza di servizio, si lanciò letteralmente addosso al killer urlando “ nooo…ora basta..i miei animali !”. Un unico colpo di pistola risuonò improvvisamente tra i due corpi avvinghiati in terra. Poi il silenzio. Anche i levrieri non ringhiarono più. Alberto aveva assistito impotente alla scena e solo adesso riuscì ad intervenire recuperando il fucile nell’angolo di quella maledetta stanza per puntarlo su quei due corpi avvinghiati che sembravano essersi pietrificati. Era deciso ad uccidere, non avrebbe avuto pietà. Fu Charcot ad intervenire per primo spingendo con un calcio il corpo del piccolo uomo che sormontava, come un gigante, quello del killer mascherato. La camicia chiara completamente insanguinata sul ventre e lo sguardo fisso nel
vuoto: Luis de Cabrera. Fu Charcot a riconoscerlo urlando il nome in direzione di Alberto, che puntava ora il fucile verso il corpo immobile del killer. Un profondo squarcio in gran parte bruciato nel centro del petto di quell’uomo maledetto, dal volto coperto, fece rapidamente comprendere la situazione ad Alberto che si inginocchiò verso l’uomo e con un gesto deciso gli tolse la calza metallica dal viso. Eccolo! “ Eccoli!” esclamò Tajo, entrando con altri venti uomini armati all’interno del magazzino, calpestando il sangue coagulato dei poveri levrieri morti. In pochi secondi la scena era completamente cambiata. I levrieri sopravvissuti avevano circondato il dottor Charcot che, incredulo, sorreggeva con difficoltà Luis de Cabrera, che in preda ad una sorta di delirio, continuava a ripetere ritmicamente: “ora basta , i miei levrieri, ora basta i miei cani”. L’amore viscerale per quegli animali gli aveva dato il coraggio di reagire contro l’uomo di cui, da tempo, era ormai succube. Era rimasto impietrito alla vista del volto del killer, ma una sensazione di onnipotenza iniziava a crescergli dentro. Era il suo uomo. Era l’uomo del suo ritratto. I lineamenti del volto sembravano essere stati copiati dal disegno fatto alla Centrale durante l’ascolo della sua voce. Ora il killer non avrebbe più parlato, non avrebbe più ucciso. “ La ragazza ! “ urlò un soldato scostando nuovamente la pesante tenda verde che aveva nascosto, sino a quel momento, il de Cabrera. Il primo a precipitarsi fu Alberto che, abbandonato il cadavere del killer ai soldati, cominciava nuovamente a temere per la vita della donna. Carmen era stata legata con i quattro arti agli angoli di un vecchio letto di ottone quasi come in un rituale di crocefissione, non aveva segni di violenza sul viso né sul corpo, ma sembrava dormire. “ E’ stata narcotizzata “ disse Tajo sollevando una piccola boccetta di vetro scuro dal comodino posto di fronte al letto. Avvicinatosi al suo volto ora Alberto ne percepiva il respiro e per pochi secondi si abbandonò tranquillo con la testa sul petto di Carmen. Quattro grandi fari alogeni posti sia all’interno che all’esterno del magazzino illuminavano a giorno lo scenario delle operazioni.
I soldati cominciarono a trasportare i cadaveri dei poveri levrieri su un furgone e per indicazione del dottor Charcot, li avrebbero portati in una vecchia stalla, vicino al canile per cremarli. Undici esemplari splendidi di levriero spagnolo uccisi nel tentativo di catturare quel maledetto killer, un sacrificio fatto senza indugi da quei nobili animali che avevano dimostrato un coraggio ed una fierezza ancora evidente nei loro vitrei sguardi. Il Conte Luis de Cabrera era ritornato prepotentemente sulla scena togliendo di mezzo il killer, che aveva tenuto in scacco una intera città per mesi. Lo aveva conosciuto nelle campagne vicino al canile mentre eggiava con i suoi cani felice di avere trovato una sua dimensione lontano dalla casa di cura svizzera. Quell’uomo dopo averne percepite le debolezze e le ansie lo aveva, in poco tempo, reso suo schiavo, minacciandolo di una morte atroce se non avesse seguito i suoi ordini. Fu confinato da subito all’interno di quel maledetto magazzino e lì aveva ato le sue giornate vivendo chiuso in guscio di rassegnata depressione. Nell’unica occasione in cui aveva tentato di allontanarsi era stato colpito selvaggiamente dal killer che aveva goduto nel fratturargli tutte le dita della mano sinistra. Un odio ed una violenza senza limiti che avevano rappresentato solo il biglietto da visita di quel maledetto pluriomicida. Aveva scelto quel piccolo uomo proprio per darsi una copertura e per cercare di confondere il più possibile le indagini della polizia. Sicuramente non poteva sapere di essere stato in pratica fotografato da Alberto, molto tempo prima della sua morte, nè avrebbe mai potuto immaginare che proprio da quel piccolo uomo sarebbe stato ucciso. Poteva udire distintamente il ritmico battito del suo cuore e questo gli dava una grande serenità. La sua Carmen era con lui, viva. Una dolce lacrima, in quel momento, tradì la forte emozione dell’uomo, che per un attimo aveva temuto di poter perdere il suo amore. Le sue dita percorsero lentamente il perfetto profilo di Carmen fino ad indugiare sul contorno delle sue carnose labbra che solo appena qualche giorno prima aveva baciato mille volte. Fu chiamato dai due militari incaricati di trasferire la ragazza in Ospedale per i controlli del caso. La prima reazione fu di salire in macchina con lei, ma
l’incontro del suo sguardo con quello di Charcot e di Tajo gli fece comprendere di dover restare. “ Devo ricredermi su di lei “ disse Tajo porgendogli la mano in segno di rispetto e fiducia. “ L’avevo etichettata come un mezzo squilibrato alla ricerca di un poco di notorietà, ma devo ammettere di aver commesso un errore di valutazione.” In quello stesso momento estrasse dalla tasca interna della sua divisa il disegno di Alberto raffigurante il viso del killer e lo appoggiò in terra proprio di fianco al viso del pluriomicida. Era semplicemente straordinario come Alberto avesse potuto riprodurne i lineamenti solo ascoltandone la voce. “ Credo che lei Alberto sia sprecato come centralinista, mi sembra più portato per il disegno, per la fotografia; lei ha in pratica fotografato una semplice voce.” Il fotografo delle voci. Questo termine cominciò a are di bocca fino ad arrivare sulle prime pagine de El Pais, dove tutta la vicenda cominciava ad essere descritta in tutte le più segrete sfumature. Si raccontava di un piccolo uomo di nobile nascita, ma di sfortunato destino, che aveva trovato un coraggio degno di un grande eroe e si raccontava anche di un insignificante ragazzo di provincia che aveva saputo mettere a disposizione della comunità una dote unica ed incredibile. I particolari reali della storia cominciarono sui giornali a tingersi di romanzo giallo e le azioni di Alberto, Carmen, Messi, Charcot e del professor Pricca venivano raccontate in modo talmente amplificato, quasi a volergli dare il peso di una azione storica. Un abbraccio spontaneo quello tra Alberto ed il dottor Charcot, che cominciò ad allontanarsi in silenzio con suoi cani lentamente sulla via di casa. Le lampade dei militari mantenevano illuminata l’area intorno al magazzino ed ora le ombre dei levrieri, che accompagnavano il loro padrone, si erano allungate a coprire tutta l’altezza del magazzino, come maestosi giganti che quella notte avevano deciso senza indugio di seguire il loro destino. Il cadavere del killer venne chiuso in una sacca trasparente e lo sguardo di Tajo non si distolse dal viso inizialmente tumefatto dell’uomo sino a che la grossa cerniera non venne completamente serrata.
Adagiato su una barella di metallo, il corpo venne trasportato da due uomini su un camion, che si allontanò per primo, seguito da due macchine dei militari. “ Credo che lei voglia raggiungere l’ospedale “ disse Tajo con un mezzo sorriso, che ora palesava la sua tranquillità.
Capitolo 15
Durante tutto il viaggio la mente di Alberto continuava a ricordare con ripetizione meccanica tutte le ultime fasi dell’uccisione del killer. I volti di Charcot e del Conte si sovrapponevano a quelli dei levrieri e poi a quello di Carmen. Si addormentò con il viso schiacciato contro il finestrino gelato dell’auto della polizia militare, che lentamente avanzava verso la città. Fu una frenata brusca del mezzo militare che lo risvegliò proprio all’ingresso del centro storico davanti alla fontana di Placa d’Espanya. In circa quindici minuti avrebbero raggiunto l’ospedale Sant Pau, dove Carmen lentamente prendeva coscienza di quello che era successo. Fu il Sindaco a decidere di convocare una conferenza stampa per spiegare come realmente si erano svolti i fatti. Già verso le prime ore della mattina un numero impressionante di telereporter si erano portati a ridosso del palazzo Comunale di Plaza de Sant Jaume ed intorno alla sede centrale della polizia. Le prime notizie erano state ovviamente frammentarie e tutti si continuavano a chiedere dove fosse il cadavere del killer e se ne esistesse una fotografia. Ma chi era quell’uomo che era stato capace di uccidere con una freddezza disumana e cosa lo aveva spinto a tanto? L’unico elemento che si era aggiunto e poteva risultare utile all’identificazione erano le impronte digitali. Il aporto ritrovato negli indumenti dell’uomo era ovviamente falso e l’identità corrispondeva a quella di un giocare di tennis spagnolo, morto venti anni prima. L’immagine del killer e le sue impronte stavano facendo il giro del mondo virtuale su tutti i server delle principali polizie del mondo, ma in quelle prime ore non era giunta alcuna significativa notizia. Sembrava non essere mai esistito, nessuna traccia della sua vita ata, nessuna
abitazione, nessun parente. Certo nei giorni a venire qualcosa di nuovo sarebbe venuto a galla, era infatti improbabile che in poche ore si potessero avere notizie di un uomo che aveva vissuto braccato in quegli ultimi lunghi mesi. Anche all’entrata del pronto Soccorso dell’Ospedale Sant Pau si era radunata una piccola folla di giornalisti, che cercava di avere notizie sulla presenza di eventuali feriti durante l’operazione di cattura del killer. L’auto militare entrò direttamente nel box riservato alle autoambulanze per evitare il contatto con i curiosi. Dal Pronto Soccorso si accedeva attraverso un lungo corridoio dalle pareti azzurre al Reparto di Osservazione, dove in una camera sorvegliata da due uomini armati, stava riposando Carmen. Gli occhi di Alberto iniziarono a gonfiarsi di lacrime di felicità ed al suo ingresso nella camera gli occhi di lei si spalancarono quasi ad averne avvertito la presenza. Un sorriso dolcissimo segnò il volto di Carmen che protese le braccia verso l’uomo che l’aveva salvata sicuramente da una orribile fine. Non parlarono. Un lungo ed intenso abbraccio riuscì a far percepire il battito del cuore della donna ad Alberto, che finalmente capiva che non l’avrebbe più perduta. Rimasero stretti così senza parlare per alcuni minuti sino a quando uno dei militari di guardia bussò annunciando una visita. Messi ed il profrssor Pricca, raggianti di felicità, entrarono nella stanza sorridendo alla vista dei due innamorati. Un abbraccio energico tra Messi ed Alberto ed una calorosa stretta di mano con Pricca suggellò un amicizia fatta di rispetto, stima ed immenso affetto. I volti di quegli uomini e di quella donna erano ora distesi e le loro parole ed i loro sorrisi iniziarono a riempire il silenzio di quella buia stanza che appariva illuminata dalla gioia di una serenità ritrovata e di una amicizia probabilmente eterna. Poco più avanti, in una camera piantonata da almeno sei uomini armati, il Conte Luis de Cabrera riposava con gli occhi aperti ed ancora pieni di terrore e con le braccia ed il volto pieni di lividi provocati dalla colluttazione con il pluriomicida.
Una fleboclisi di sedativo gocciolava lentamente portando nel suo animo una serenità artificiale che lentamente stava facendo rilassare i muscoli del suo viso, ancora contratti in una smorfia di paura e dolore. Muoveva le sue mani lentamente nell’aria a simulare una lunga carezza al suo fido levriero, che ora nella sua mente aveva preso il sopravvento, cancellando di colpo l’orrore di quei lunghi mesi ati in balia di quel maledetto omicida. Lunghe ore ed a volte intere giornate ate in quel buio magazzino del parco eolico, incatenato ad una colonna di metallo, nell’attesa del ritorno di quel maledetto mostro che era riuscito a penetrare nella sua fragile mente con l’inganno e che poi lo aveva ridotto ad uno schiavo terrorizzandolo quotidianamente. Il Conte Luis aveva perso ogni capacità di reazione e di senso critico e quasi come un automa, programmato da una forza soprannaturale, eseguiva gli ordini di quell’uomo che gli intimava di controllare l’area intorno al magazzino e di provvedere poi a registrare i messaggi per i giornali e per la polizia. Era suo malgrado divenuto complice di quell’uomo e non aveva neanche lontanamente la volontà di reagire a quella tremenda situazione, che subiva ivamente quasi felice di essere stato escluso dal mondo esterno. Ora i suoi pensieri confondevano il ato con il presente con un unico comune denominatore che riusciva a mantenerlo comunque sereno: i suoi splendidi cani, i suoi amici, l’unica cosa che sembrava, ancor di più adesso, avere dato un senso alla sua complicata e sfortunata esistenza. Si respirava un’aria diversa quella mattina lungo le affollate Ramblas. La gente stava riprendendo rapidamente le abitudini quotidiane e già si vedevano intere famiglie eggiare spensierate per le vie del centro città, accanto ai mezzi militari che venivano caricati per la partenza. Alla centrale di polizia quella mattina si sarebbero incontrati i protagonisti di questa vicenda. Il primo ad arrivare fu il colonnello Tajo, accompagnato da due ufficiali, che portavano almeno tre cartelle ripiene di documenti. Messi e Pricca giunsero appena più tardi accompagnati da una macchina militare per evitare l’incontro con i telereporter, che presidiavano ormai tutta l’area intorno alla centrale. Alberto arrivò per ultimo, dopo essersi sincerato delle buone condizioni di salute
della sua Carmen, che lentamente si stava riprendendo. Il colonnello Tajo non usò frasi di circostanza: “ Lascio questa città che non mi ha accolto sicuramente con l’onore dovuto ad un eroe di guerra, dopo aver riportato la tranquillità. Anche la limitazione della libertà individuale ha contribuito a portare a termine questa operazione, senza morti tra i civili. Un ringraziamento unico all’uomo che ha permesso di identificare il killer grazie alle sue particolari doti, diciamo, artistiche “. Nessun riferimento ai particolari dell’operazione, nessun riferimento agli altri uomini implicati ed in particolare agli uomini della polizia cha avevano agito al di fuori delle regole. Era difficile riuscire a parlarsi nella confusione della sala stampa, ma gli occhi di Tajo incontrarono quelli di Alberto e l’abbozzo di un mezzo sorriso valse più di qualunque ringraziamento. I giornalisti erano in numero tale da riempire quasi per tre quarti la piccola sala stampa del Comune e dopo le poche parole scambiate con il colonnello Tajo, rivolsero l’attenzione verso il giovane Alberto, rivolgendogli domande a raffica. Forse solo qualche mese prima sarebbe stato sopraffatto dalla sua innata timidezza, ma in quella occasione sfoggiò una sicurezza degna di un primo attore e rispose con calma alle domande riuscendo a riportare il silenzio tra i giornalisti che ascoltavano increduli la storia raccontata da quell’uomo. Messi ed il Professor Pricca sembravano ripercorrere con i cenni del capo l’intera storia che Alberto raccontava ai giornalisti ed ogni tanto si guardavano compiaciuti e fieri di quella complicità, che li aveva fatti sentire importanti e soprattutto utili ai loro concittadini. Non ci volle molto per i giornalisti, nei giorni seguenti, ricostruire la breve vita del giovane Alberto, arrivato senza progetti, da uno sperduto paese di mare e divenuto in poco tempo l’uomo più conosciuto di Spagna per la sua specialissima dote ed il suo coraggio. Il nomignolo, coniato all’epoca della scuola, fu rispolverato in un attimo e già l’indomani sulle testate giornalistiche si parlava del fotografo delle voci. La stessa Carmen, ormai quasi completamente ripresa dalla sua terribile avventura, riuscì rapidamente a rendersi conto della grande fortuna che aveva avuto a trovare un uomo straordinario come Alberto. Dopo tre giorni lasciò
l’ospedale e si trasferì a casa del suo uomo. Un amore semplice, nato quasi per caso, all’interno di una storia terribile. Un sorriso ed uno sguardo di una dolcezza senza fine avevano incontrato la semplicità e la genialità di un uomo vero. Furono giorni di sole e di baci.
Capitolo 16
“ Papà! “ urlò il piccolo Sergio. “ Alberto. mio Dio, Alberto! “. La voce di Carmen e di suo figlio risuonarono contemporaneamente nell’immenso studio del notaio Deis Frémont. Il piccolo Sergio gettò in terra il radiocomando del pesante elicottero di alluminio che aveva ricevuto in regalo per il suo terzo compleanno e si inginocchiò vicino al suo papà che giaceva dolorante sul tappeto persiano dello studio. Una grande quantità di sangue fuoriusciva dalla profonda ferita nel cuoio capelluto di Alberto, provocata dall’impatto contro l’elica metallica del giocattolo e il forte impatto sulla nuca aveva fatto dapprima annebbiare la vista e poi perdere per brevissimo tempo conoscenza al malcapitato. “ Questo maledetto infernale giocattolo! “ disse Carmen allontanando con un calcio l’elicottero che aveva colpito Alberto con forza sulla nuca. Le segretarie del Notaio e lo stesso Deis Fremont si precipitarono nella grande sala d’attesa richiamati dalle urla del piccolo Sergio che capiva di aver combinato un grosso guaio. Una delle segretarie si precipitò verso un piccolo armadio bianco nascosto dietro una pesante tenda di velluto verde per recuperare dei sali. All’interno dell’armadietto solo una grande quantità di disinfettanti e di pastiglie antidolorifiche, ma dei sali neanche l’ombra. In quello stesso momento Alberto riaprì gli occhi portandosi la mano destra alla nuca cercando di ricordare cosa fosse successo. Ricordava una luce abbagliante appena dopo il fortissimo ed inaspettato colpo dietro la nuca. Dopo la luce una forte nausea e poi il cedimento delle gambe e la pesante caduta a terra, incapace di reagire.
Ora che le forze sembravano ritornare, come d’incanto, ripensò alla scena precedente l’incidente ed alle raccomandazioni fatte al piccolo Sergio. “ Aspetta, emo l’elicottero appena fuori dallo studio del Notaio, è pericoloso potresti danneggiare qualche mobile”. Ma lo sguardo vivace del piccolo gli aveva fatto rapidamente comprendere che le sue parole non avrebbero avuto un buon seguito. Infatti. dopo solo qualche minuto, l’elicottero si era abbattuto contro la sua nuca guidato dalle mani inesperte del piccolo Sergio che cominciava solo ora ad immaginare la sua punizione. Inginocchiato dietro la testa del papà aveva cominciato a ripulire con la manica del suo maglioncino chiaro il tappeto sporco di sangue, iniziando a cercare attenuanti alla sua colpa. Se l’elicottero non avesse urtato la lampada d’ottone che dall’altissimo soffitto pendeva proprio al centro della sala l’elicottero non avrebbe deviato verso la testa del papà. Ora Alberto cominciava seriamente ad arrabbiarsi. Ancora una volta fu il sorriso di Carmen a portare calma e serenità nell’animo di Alberto, che si rialzò da terra rassicurando i sopravvenuti sulle sue condizioni. “ Notaio, mi dica dove devo firmare, poi erò dall’ospedale per verificare se la ferita ha bisogno di essere suturata.” Infatti una discreta quantità di sangue impregnava il fazzoletto chiaro che Alberto schiacciava contro la sua nuca. Era una splendida casa quella che Alberto aveva appena comprato per la sua famiglia. I suoi disegni e la sua storia avevano fatto rapidamente il giro del mondo ed ora il fotografo delle voci era conteso da case editrici e gallerie d’arte. Il giovane di Torredembarra era stato fortunato. Grazie alla sua innata dote artistica aveva trovato inaspettatamente amore, fama e ricchezza, ma aveva mantenuto inalterata la genuinità di quel giovane venditore di bevande, che percorreva a piedi le calde spiagge della Costa
Daurada.
FINE