Il Giusto Ordine delle Cose
Damiano Lotto
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Copyright© 2012 Damiano Lotto. I edition: 2012.
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In copertina: solitudine e rovina nei deserti di Babilonia; di Silvia Diaferia, ispirato al racconto "Il Giusto Ordine delle Cose". Copyright© 2012 Silvia Diaferia, http://magixday.deviantart.com/
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Indice
Il giusto ordine delle cose Shibartz Il calendimaggio delle streghe Il mangiatore di Sogni Cinque chiodi Automaton Doll Waterloo – tragedia Alfieriana in cinque atti Il paladino meccanico Tiger, tiger burning bright, in the forest of the night! The Superior Day
Il giusto ordine delle cose
Fece il suo grandioso ingresso nella sala il corteo e intorno piovevano petali rossi: sulla barocca portantina, retta da otto colossi negri della Gedrosia, stava il trono laccato d'oro e tempestato di pietre luccicanti. I suonatori di flauto piroettavano e suonavano ritmi indemoniati, mentre la sala dall'alto soffitto risuonava come una campana percossa dal martello. La cacofonia di grida eccitate e di strumenti musicali esotici cresceva e cresceva, mentre accompagnava verso la scalinata di marmo bianco il corteo delle principessa, che stava seduta sul trono come un gioiello prezioso. Ma ecco che d'un tratto ogni rumore e musica si zittirono di colpo, ogni occhio si levò in alto. L'uomo nascosto dietro all'arazzo, dall'altro lato della sala, aguzzò lo sguardo sul minuto ometto che era salito sulla larga balconata, in cima alle due rampe di scale dall'aspetto maestoso. I fedeli erano ammutoliti: stringevano convulsamente le mani alle vesti, delle semplici tuniche fatte di sacco, e, uomini e donne, giovani e vecchi, persone che erano state, ricchi e poveri, nobili e porcai, trattennero il respiro. E l'uomo piccolo, il Santo, attorniato da una fila di poderose guardie, sollevò le raggrinzite mani al soffitto e con bassa voce prese a salmodiare una nenia ipnotica. Il Santo era basso, vecchio e rugoso come le pieghe di antichi secoli ammonticchiate le une sulle altre; vestiva un abito bianco, con un vistoso pettorale d'oro che gli pendeva dal magro collo. Dapprima in modo flebile, poi sempre più forte, le sue parole sconnesse uscivano dalla bocca dai denti storti rapendo le menti dei discepoli. Un'attesa spasmodica minacciava di far esplodere la sala. E infine, al culmine dell'attesa, mentre gli uomini e le donne si stiravano come corde tirate dalle mani del Santo, dal soffitto scuro e in mezzo ai lampadari cosparsi di mille globi barianiani scese una nebbia luminosa che pulsava come fuoco. La folla dei fedeli gridò estatica e il fuoco scese ed esplose in una coltre come di neve, che scese sulle loro teste e sulle loro mani e spalle senza bruciare. Al
semplice tocco la loro mente fu rapita ed esplosero una frenesia e una gioia così incontenibili che da ogni gola proruppe un grido di furore così forte da far tremare le colonne. I fedeli si abbandonarono a ogni sorta di celebrazione e danza e schiamazzo e festa, come se ognuno fosse posseduto da cento demoni del piacere. L'uomo dietro all'arazzo era piuttosto indifferente alle magie da stregone del Santo, ma si era perso tuttavia per qualche secondo nella contemplazione di quel calderone di umanità impazzita, tanto che non aveva colto il momento nel quale la principessa, la sposa, veniva condotta su, lungo la scalinata. Quando guardò ancora vide che la sposa era già di fronte al Santo. Si fissò sull'ampia fronte sgraziata gli occhiali telescopici; la sposa indossava broccato e seta bianca merlettata e un velo le copriva il capo. Era un gioiello di rara bellezza, ma non riuscì a fare a meno di notare come non fosse niente di più che una ragazzina di poco cresciuta. Non era però un fatto di cui stupirsi, conoscendo gli ormai decadenti costumi dell'Impero. «Ed è anche troppo per quel vecchio degenere!» mugugnò Ashgar, fissando da dietro gli occhiali il volto di quello che chiamavano “Santo”, che nel fissare ogni centimetro quadrato della sposa era completamente spiritato, percorso da emozioni che di ultraterreno avevano ben poco. Fece un gesto imperioso con la mano avvizzita e quella, con un o ieratico, quasi che fosse uno di quei disegni di sacerdotesse morte che marciavano in processione sui bassorilievi e sugli arazzi dell'antico tempio, avanzò verso di lui. Egli le prese la mano e sebbene fosse quasi più basso di lei, si protese in avanti per sollevarle il velo. Ma fu la sposa a muoversi subito verso di lui, afferrando la testa del vecchio con entrambe le mani. Il bacio fu come un annegamento dei sensi e il vecchio roteò persino gli occhi all'indietro, completamente posseduto da quella bocca. “Non le manca certo l'intraprendenza!” pensò Ashgar, ma non aveva tempo per riflettere sui gusti di una ragazzetta dalla dubbia moralità. Il momento era quello giusto: il Santo, rapito dalla sua nuova sposa, si districò di malavoglia dal suo abbraccio e badando bene a metterle le mani dappertutto, si diresse senza indugio con lei alla grande porta sul fondo della balconata. Quel portale conduceva alle stanze superiori, dove erano le sale dell'harem del “Santo”. Ma
dove soprattutto erano le stanze dei tesori. Ashgar balzò fuori dal suo nascondiglio, tirandosi sulla testa il cappuccio di tessuto marrone. Con quattro balzi delle sue lunghe e massicce gambe scese lungo la scaletta laterale che dalle alcove coperte di arazzi del fondo della sala scendevano fino al piano terra; la folla che era stata “toccata” dallo Spirito di Fuoco del Santo, si dimenava in una calca terribile intorno a lui, in una frenesia orgiastica che vorticava come uno stormo di rondini. Ashgar, nonostante il nome¹, era un gigante: sovrastava il più alto degli uomini ossessionati e le sue spalle erano larghe come un armadio. In condizioni normali non sarebbe ato certo inosservato come ora, ma i cultisti avevano le menti ottenebrate dal Fuoco Sacro disceso su di loro; scostava con le sue mani enormi uomini e donne via dalla sua strada, che lo fissavano con occhi privi di intelletto, anche quando cadevano a terra malamente. Tutt'intorno era un sabba di ombre demoniache, proiettate contro le colonne possenti e istoriate. Ad Ashgar non importava di quegli omuncoli e non si prendeva nemmeno la briga di giudicarli. I profeti di sventura correvano da un capo all'altro dell'Impero Meccanico gridando che la fine era vicina, ma non occorrevano le loro profezie deliranti per capirlo; il fottuto mondo stava entrando nella sua ultima ora, mentre gli oceani e i mari si restringevano morenti sotto un sole impietoso; il vento eterno del deserto conteneva un lamento di demone mentre soffiava sulle città decadenti e spopolate e gli uomini si aggrappavano al relitto del mondo, chi sperando nelle Macchine, chi nella propria ricchezza, chi in piaceri annullanti come quelli. Gli sguardi delle figure ieratiche di sovrani di altri tempi, i cui nomi erano stati dimenticati, che occhieggiavano dalle loro alcove e bassorilievi erano però pieni di rimprovero verso la folla di intrusi degenerati che infestava le loro antiche dimore. Ashgar non aveva interesse né per gli uni né per gli altri; in pochi leonini balzi, che non si sarebbero detti possibili nella sua imponente figura, raggiunse la base della scalinata. Nonostante il fracasso di cimbali, crotali e flauti e le grida sentì il sonoro distinto “CLACK” del portale che si chiudeva; veloce salì le scale e raggiunse la balaustra. Davanti al portone che si era appena chiuso attendevano le grosse guardie del Santo. Le guardie non erano certo dei pusillanimi drogati come i fedeli del culto e lo fissarono da sotto i loro grugni spaventosi con una certa sorpresa. Chi era quel gigantesco omaccione che era venuto fuori dalla calca, con quegli occhi orrendi?!
Ma Ashgar aveva una “risposta” per le domande che senz'altro frullavano nel microscopico cervello delle guardie; più veloce dell'occhio cacciò fuori la borsa della Polvere Luccicante di Pyras e scagliò la sabbia rossa in faccia agli uomini. Al contatto con la luce e con l'aria la polvere si incendiò istantaneamente, in un torrente di fuoco. Le guardie gridarono quando vennero accecate e le loro barbe presero fuoco. Ashgar balzò su di loro tra le fiamme (il suo mantello non era un semplice telo di stoffa, ma un Instrumentum Diaboli, fatto della barba di un Efreeti schiavo) mentre erano ancora confusi e mulinò le sue enormi mani. Un pugno sotto il mento mandò al suolo il primo, una gomitata precisa nello stomaco lasciò lungo disteso il secondo e prima che il terzo potesse tirare fuori dalla cintura la pistola, lo afferrò per il collo e glielo spezzò come se fosse di tenero legno. E quindi veloce estrasse uno strano oggetto di terracotta: un lungo tubo simile a un cannello affumicatore, dall'anima di metallo interna. Una Chiave di Stupefacente Apertura, il cui acquisto aveva rappresentato un grave alleggerimento della sua borsa; ma quando la porta si aprì in un attimo al semplice tocco della Chiave, si concesse un breve sorriso. Valeva tanto oro quanto pesava, e anche di più! Per un breve attimo gli ò per la mente la possibilità di che cosa fosse successo, se lo avessero colto così, con le mani nella marmellata, con quegli oggetti “magici” addosso. Sarebbe finito nella più profonda delle prigioni Imperiali, in attesa di una cruenta esecuzione! Ma più i rischi sono alti, maggiore è la speranza di ricchezza! I torvi pensieri scomparvero come stormi di uccelli scacciati da uno sparo e Ashgar corse dentro la porta colossale, richiudendola con uno scatto secco dietro di sé. Dall'altra parte vi era un lungo corridoio, coperto di tappeti spessi come la lanugine di un behemot, e dalla volta alta quanto le sale di un tempio egizio, tetro e buio. In fondo campeggiava l'intelaiatura metallica e antica dell'ascensore. Attraversò rapidamente il corridoio e raggiunse le porte laccate di rosso e di azzurro e fece scattare il pulsante di apertura. Fin qui tutto bene! Sulla pulsantiera c'erano tanti piani verso l'altro quanti ve n'erano verso il basso, e premette il pulsante per l'ultimo piano. La macchina saliva sulle corde, tirata dal contrappeso e da ingranaggi giganteschi, come amano in Babilonia, da tempi immemori, fin da quando la paura per la “magia”, li fece correre a nascondersi dentro città di ferro, senza sole, e fidarsi soltanto di opere di ferro e bulloni.
La macchina si arrestò con una brusca frenata; era pronto a tutto, ma quando le doppie porte si aprirono, lo accolse una bizzarra scena che non si aspettava minimamente. Un altro corridoio di fronte a lui, che poteva essere la copia di quello che aveva lasciato, solo che ancora più buio, se possibile, con fiammelle piccole che creavano ombre colossali. Non era deserto: il Santo giaceva al suolo scomposto come un uomo a cui abbiano spaccato la testa e la novella sposa stava in piedi sopra di lui, paralizzata. Ashgar rimase in uno stato di sorpresa solo per alcuni attimi; balzò come un leone sulla sposa, afferrandola per un braccio ed esclamò: «Che diamine sta succedendo qui, ragazza?!» Ma quella volse su di lui da sotto il velo un volto rigato di lacrime, la faccia di una bambina: «E' finita! Ora è tutto finito!» gridò. «Cosa sarebbe finito?» gridò Ashgar «Hai ucciso tu l'uomo?» e i suoi occhi si mossero rapidi e ansiosi sul pettorale d'oro. «Ucciso?!» esclamò lei improvvisamente, come se si fosse d'un tratto risvegliata da un sogno. Ashgar stava cominciando a pensare che la ragazza dovesse essere completamente pazza, quando il suo istinto gli disse che qualcosa si era mosso, dietro di lui: si volse come una vipera. Il Santo non era più a terra, dove lo aveva visto fino a un momento fa! Era abbarbicato a una colonna costruita nella forma di una palma del deserto. Ashgar fece per muoversi, ma le mani del vecchio si erano già strette contro un anello di metallo, e rapido come il morso di una mangusta un meccanismo scattò. Dardi dalla piuma rossa scattarono fuori dalle colonne intorno e il gigante sarebbe forse riuscito a schivarle, ma non la ragazza. Per un bizzarro istinto che neppure ricordava di possedere si lanciò a protezione della bambina e sentì l'acuto dolore di molti dardi che gli si conficcavano nella carne. Erano sicuramente avvelenati, pensò. E già la vista cominciò ad annebbiarsi; la ragazza dietro a lui cadde in un mucchio, con uno sguardo di puro orrore in visto, fissato come pietra nel volto del Santo.
Quando i sensi tornarono nel corpo di Ashgar fu il dolore a farsi vivo per primo. Una fitta lancinante alle braccia gli suggerì di sollevare gli occhi coperti di nebbia verso l'altro: i suoi polsi erano crudamente incatenati a grossi anelli di ferro piantati in una parete di pietra. Era nudo, eccetto le corte brache che teneva sotto il kaftano con cui era entrato nel palazzo (era scomparso anche il mantello di Efreeti, naturalmente). Un'alta finestrella con le grate sporcava di una luce pallida il pavimento davanti a lui: la sua mente confusa registrò tappeti lisi, di uno stinto azzurro e più indietro le sagome confuse di cassettoni o armadi. Non era sempre stata una “cella”, quella stanza. Ma ora lo era, ed era lui quello che ci stava chiuso dentro! Le orecchie ripiene come di strati e strati di cera captarono un suono, in fondo alla stanzetta; i suoi occhi cercarono a fatica di focalizzarsi in quell'area risparmiata dalla luce, completamente buia, in attesa di qualche minaccia. Ma una figura bianca aleggiò e non era un fantasma... la ragazzina! Ashgar ebbe subito la mente sveglia e lucida: se li avevano rinchiusi insieme significava che una punizione orrenda attendeva sia l'uno che l'altra. Ashgar si accorse con stupore che non vi era paura o tensione nel suo volto. C'era soltanto un'energia febbrile dentro a quegli occhi scuri, ora che aveva tolto il velo; il volto era troppo giovane, ma senza luce. Era consumato dalle pozze scure degli occhi, che erano come sifoni neri dentro cui convergeva e spariva la luce. La ragazza lo fissava e si chiese se trovasse spaventoso di fissare un uomo nudo incatenato a una parete. I muscoli che un tempo si potevano dire massicci non facevano più bella mostra di sé come una volta sul petto invecchiato, ma era pur sempre più massiccio di molti uomini giovani; i suoi capelli radi e bianchi, una cicatrice sopra l'occhio destro che correva fino al mento (e che aveva risparmiato per miracolo l'occhio stesso), la bocca solida e quadrata e lo sguardo da falco sopra la folta barba anch'essa bianca come le mani dell'immacolato Imperatore, facevano di lui una vista piuttosto inquietante. Eppure la ragazza non sembrava avere paura. E Ashgar disse: «Sei straordinariamente tranquilla, per una che ha cercato di uccidere il Santo!» Lei aprì un attimo di più gli occhi e poi disse, con voce sottile: «Come sapete che ho tentato di ucciderlo?»
«Chi altro vi era là con voi? Non credo vi fosse un assassino nascosto dietro le colonne...!» rispose, saggiando la resistenza, intanto, degli anelli di metallo: non molto solida... «E nessuno può introdursi in quelle sale, se non il Santo stesso!» «Anche voi siete arrivato fin là!» osservò lei. «Io mi sono aiutato con molti gingilli pericolosi: e ho osservato e aspettato per lunghi giorni, spiando e scrutando, prima di tentare l'impresa!» «E che impresa volevate tentare?» chiese con curiosità la ragazzina; Ashgar dovette ammettere che ne aveva di coraggio (oppure era semplicemente folle). Egli rispose: «Rubare un tesoro! Ecco cosa volevo fare... immagino che non costi nulla ammetterlo, adesso! Le stanze del tesoro, come appresi qualche mese fa quando mi venne proposto questo... “lavoro”... stanno nell'ultima sala in cima alla torre del palazzo; il pettorale d'oro del Santo è la chiave delle porte: di quel vecchio degenere e della sua pseudo religione con cui si è rintanato a fare soldi in questo luogo desolato, non mi importa nulla. Ero sulle tracce di quell'affare e meditavo di sorprenderlo nella vostra... diciamo “intimità nuziale” e sottrarglielo, ma a quanto pare mi hai preceduto... anche se non capisco in che maniera tu volessi ucciderlo, né Perché: non saresti mai uscita viva da questo luogo!» «Un ladro, eh?» rispose invece lei «Non lo sembrate affatto!» e così dicendo si alzò dall'angolo tra la cassapanca e un armadio dove si era accoccolata e facendo frusciare le vesti gli si avvicinò. Non l'avevano né legata né le avevano tolto i costosi abiti: Ashgar immaginò che non pensassero che le sue braccia sottili potessero aprire la porta che... si voltò di sfuggita verso l'altro capo della stanza, e scoprì con estrema costernazione che non vi era nemmeno una porta! Cosa diavolo poteva significare?! La ragazza aveva ancora indosso i profumi di cui era stata incensata e lavata prima della cerimonia e il suo odore gli riempì il naso piatto (spaccato non poche volte). I suoi capelli erano lunghi e neri, portava grandi orecchini rotondi alle orecchie ben tornite. «Pensavo che i ladri fossero magri e dal naso fine e sottile!» disse, sedendosi accanto a lui. «E io non pensavo che una bambina potesse avere così tanto sangue freddo!» sbottò infine Ashgar «Cosa ti impedisce di sganciarmi da queste manette, o
meglio, cosa ti impedisce di scappare fuori da qui, prima che tornino i carnefici?» «Avevo messo in bocca una pasticca di veleno del Loto Giallo...» rispose invece lei, raggomitolandosi contro il suo ampio fianco, ed era veramente minuscola in confronto: a tutti gli effetti una ragazzina. Ma la voce e gli occhi erano quelli di chi ha visto cose orrende ed è cresciuta troppo in fretta. «... quando baciai il Santo gliela infilai a forza in gola: credevo che il veleno avrebbe agito subito, e infatti cadde al suolo appena fuori dell'ascensore... ma non potevo immaginare che si rialzasse! Forse è vero quello che dicono: egli è il Santo e i veleni non possono toccare il suo corpo!» «O più semplicemente ha assunto tanti antidoti, quel vecchio laido, che non morirebbe neppure se la Shibartz² del Veleno lo mordesse!» esclamò Ashgar. «Non importa più! Ho desiderato la sua morte con tutta me stessa... e ho fallito! Non è servito a nulla entrare nelle sue grazie, nascondendo chi fossi per lunghi mesi... e la vendetta che ho covato per anni come un uovo di serpente velenoso... è finita, finita!» il bel viso le si distorse in un cipiglio spaventoso, mentre stringeva un pungo e fissava con intensità spasmodica il vuoto davanti a sé «Ora non c'è più nulla da fare: aspetto qui la morte, assieme a voi, signor ladro!» i suoi tratti si addolcirono e lo guardò, da sotto le lunghe ciglia nere «Mi dispiace per la vostra vita; nessuno può avere simpatia per un ladro, ma dal momento che dividiamo lo stesso fato, vi compatisco: sebbene io non sia mai più stata viva da molti anni; non sentirò nulla quando mi strapperanno da questo mondo!» «Per quanto mi riguarda, se permetti...!» rispose secco Ashgar «... non ho come progetto di lasciare le cuoia in questo posto!» «E cosa vorreste fare?» «Perché non c'è nessuna porta, e Perché non sei legata?» chiese a bruciapelo il gigante. «Perché questo piano della torre è completamente chiuso, dall'esterno: e la porta non servirebbe che a tenere fuori lui, non a imprigionare noi!» «Lui... chi?!» fece Ashgar. «La bestia prediletta del Santo...!» rispose la ragazza, come se parlasse di
qualche amorevole cucciolo, tenendosi le gambe con le braccia contro il piccolo petto «La notte viene lasciato libero di vagare per la torre, chiuso in questo piano: e quando ha fame si alza dal suo giaciglio, cercando gli schiavi o i condannati a morte che vengono lasciati qui dentro... e li divora fino all'osso!» «Dici cose orribili, con quel tuo bel faccino!» rispose Ashgar «Come ti chiami?» «Che importa ora?» «Che devi scostarti, anche se non hai un nome!» imprecò «Non ho intenzione di rimanere inchiodato qui mentre l'animaletto del Santo cerca le mie budella!» La ragazza si alzò dubbiosa, scostandosi da lui; e Ashgar diede prova che il suo aspetto non era solo per spaventare le bambine. Flesse i muscoli e con un singolo colpo secco strappò le catene, come se fossero di plasti-ceramica. La ragazza batté le mani e gridò: «Incredibile!» «Erano bigiotteria, non vere manette!» sputò Ashgar, massaggiandosi i polsi «Vecchie come le scarpe di mio nonno!» Ma aveva appena finito di parlare che un ruggito spaventoso scosse l'aria e non era né il verso di un leone e neppure quella di una pantera, ma qualcosa di più grosso, orrendo e primordiale, un qualcosa che da lunghi eoni la terra non aveva mai sentito ruggire sotto il sole o sotto la luna, e della quale avrebbe fatto volentieri a meno. «Il mostro!» esclamò allora la ragazza, presa dalla paura, che traforò come burro il suo muro di indifferenza «Verremo divorati!» gridò aggrappandosi istintivamente al braccio di Ashgar. Disse Ashgar: «Dov'è finito il tuo sangue freddo, ragazza?» Rispose: «Azadeh...!» «Eh?» «Il mio nome... è Azadeh!» «Perché dirlo ora?»
Nascose il piccolo viso contro il suo braccio: «Non voglio morire come una bestia, come una schiava senza nome...!» «Bene, Azadeh, adesso parli meglio di prima!» sbottò Ashgar «Ma non è per niente detto che dobbiamo morire adesso: hai ancora almeno una di quelle pillole di Loto Giallo?» Sollevò lo sguardo e lo guardò dubbiosa; «Sì, nel corsetto, ma a cosa...! Nessuno riuscirebbe a infilarlo nella bocca della bestia, se è questo che state pensando, senza rimetterci il braccio o peggio!» «Non è detto!» sorrise Ashgar, con il sorriso di un lupo «E non darmi del “voi”, mi chiamo Ashgar...» e così dicendo fissò lo sguardo intorno alla stanza e vide diverse ciotole di legno in fila sopra all'armadio. «Prendi qua, questa ciotola!» disse sbrigativo «Il loto giallo funziona solo quando si sbriciola e finisce nello stomaco, vero? Altrimenti saresti morta anche tu nel mettertelo in bocca! Pestalo in questo vasetto...!» «Ma come...!» prese a dire lei, ma lui la spostò di lato con un solo braccio, come se fosse fatta di carta leggera e aggiunse: «Devo spostare questa cassa... quanto vuoi scommettere che troveremo qualche topo morto qua dietro?!» Lei lo guardò completamente confusa, non riuscendo a capire la sua strana ironia, mentre Ashgar dava mano alle cassapanche. I i strascicati, enormi, cominciarono a pestare dentro uno dei corridoi più lontani, poi si arrestarono; Ashgar non sapeva che aspetto avesse l'interno della torre, ma da come arrivava il suono doveva essere piuttosto caotico, pieno di vani aperti. “Bene” pensò. Azadeh, utilizzando un lembo della ricca veste, prese a pestare il veleno nella ciotola. Ashgar, spostato il baule fin sotto alla finestra, vi montò sopra e in questa maniera riuscì ad arrivare quasi al soffitto. Staccò il lungo e, si augurava, solido bastone per la tenda, che da tempo era scomparsa, che stava ancora sopra la finestra. Non era molto lungo, ma era in ferro battuto e una delle due estremità era lavorata a foglia lanceolata e forse sarebbe servito a qualcosa. O forse no. Balzò giù e Azadeh disse: «Comincio a capire che cosa vuoi fare, ma come farai a...?!»
Non la lasciò terminare; disse in fretta: «Presto! Reggimi questa!» le mollò in mano il bastone. Poi tornò alla parete da cui aveva spostato la cassapanca e trovò una folta striscia di muschio. Ne grattò una buona parte con le mani e tornò alla ciotola. «Con la scarsa umidità che possiamo spremere da questo...» disse «Dovrei riuscire a impastare questa polvere il tanto che basta per spalmare la nostra “arma”...!» «Non riuscirai mai ad arrivare vicino al mostro, per colpirlo!» esclamò la ragazza «Non abbiamo nemmeno tempo per i tuoi intrugli!» Ora la bestia era più silenziosa; non si udiva alcun rumore dall'esterno della stanza. Era in agguato proprio là fuori? Oppure non era ancora così affamata e aspettava che fossero loro a correre fuori in preda al panico, e assalirli e ucciderli a sorpresa? «Quanto sei brava a correre?» chiese allora lui, guardandola in modo grave. Lei aprì la bocca per parlare, ma poi la richiuse, e disse: «Sei un uomo spietato, Ashgar il ladro!» «Non sono più giovane...» rispose, spremendo il muschio «... e non corro come un tempo: in più serve una certa forza per colpire il mostro, che non credo tu abbia: se riesci a sfuggirgli abbastanza a lungo sei tu quella che si troverà più al “sicuro”, Perché io dovrò avvicinarmi abbastanza da sentire il suo fiato!» «E se sopravviviamo, cosa farai dopo?» chiese. «Io finirò il mio lavoro e tu il tuo!» rispose Ashgar cupo. Azadeh strappò allora la parte inferiore del lungo vestito, rivelando lunghe e bianche gambe. «Mi impedisce i movimenti...» disse brevemente e poi si avvicinò fino allo stipite della porta, ma prima di uscire, si volse indietro e disse: «Non mi sono mai fidata di nessuno, ma mi fido di te, ladro!» e scattò fuori, dentro l'aria fredda e sospesa di notte della torre deserta. La torre era stata un'unità residenziale, forse un harem, visto che si sviluppava rotonda tutt'intorno a una grande sala centrale, con moltissime stanze tutte collegate, in maniera caotica sembrava, verso di quella e tra di loro. Ogni porta era stata tolta e la decadenza regnava; gli arazzi pendevano mezzi strappati, i mobili marcivano sul posto, nel corridoio dove era sbucata un lampadario era
crollato da anni sul pavimento, in un ammasso di legno e cristalli frantumati. Vide una sagoma, nera e gigantesca, stagliarsi contro la fuga di vani aperti, oltre i resti del lampadario, laggiù in fondo. Due occhi bruciavano di fuoco verde screziato come malachite, fissi su di lei. L'immensa bestia non era venuta a cercare il suo cibo... perché sapeva di avere tutto il tempo. Azadeh corse via con il cuore spezzato, sperando di avere davvero gambe veloci come diceva sua sorella. Il mostro balzò a balzi lenti e pesanti, finalmente eccitato dalla prospettiva della caccia; si era ingrossato in maniera orrenda, con il ventre gonfio che toccava terra, a forza di “cacciare” solo facili prede e incedeva lento. Azadeh corse sotto il telaio crollato di una grande porta, chinandosi e rotolando; il mostro arrivò con un certo ritardo, sbavando e ringhiando e si schiantò sulle travi che lo ostacolavano, sbattendo il suo brutto muso. Divelse con forza incredibile il vecchio legname, ma questo lo rallentò ancora. La ragazza diede di sfuggita uno sguardo al mostro, ora che era più vicino e lo distolse subito. Era come un incrocio tra un immenso felino e un canide, la faccia, il muso, screziato di macchie leopardesche, zanne lunghe come la sua testa! Una mega-iena! Bestie immonde che si dice vivano ancora solo nelle leggende, un mostro preistorico che azzannava e uccideva bestiame e uomini nel tempo dopo la Caduta, uscendo da profonde grotte ai margini del deserto. Lo schianto di legno e mobili era violento e lei correva zig-zagando di stanza in stanza, sfruttando ogni angolo e curva di quel labirinto involontario per distanziare la bestia. Ma il mostro con un balzo faceva venti dei suoi i, e a forza di sbattere sulle pareti e contro gli armadi che spaccava in mille pezzi con il muso, la sua furia diventava sempre più grande. Il fiato di Azadeh era corto e improvvisamente sbucò, involontariamente, nella grande stanza centrale. Ogni altra apertura era troppo distante e la sala era troppo grande per poter evitare la mega-iena. Fece ancora uno scatto in avanti, meccanicamente, ma già sapeva di non poter fuggire alla tonnellata di carne assassina che le latrava ormai addosso. “Il ladro deve essere fuggito...” pensò, senza rendersi conto se fosse delusa, terrorizzata, rassegnata o qualsiasi altro sentimento vorticoso che le mulinava davanti agli occhi “... ha approfittato della distrazione del mostro... perché avrebbe dovuto rischiare la vita, per me?”
Ma improvvisamente il vecchio pavimento cedette sotto il peso assurdo del mostro e la mega-iena si trovò con le zampe anteriori conficcate nel pavimento. Uggiolò in preda alla paura, ma d'un tratto da dietro si levò un'ombra e Ashgar comparve, fosco come il turbine, e conficcò nella schiena la sua improvvisata arma. La mega-iena urlò e si scrollò di dosso l'uomo, in una furiosa massa di pelo e latrati. Ashgar rotolò via e gridò: «Presto, di qua!» Azadeh lo raggiunse al volo e afferrò quella sua grossa mano protesa. «Corri!» gridò, come se ci fosse bisogno di dirlo. La mega-iena prese a ruggire e ritraendo le zampe dal pavimento con uno sforzo spaventoso sparse pezzi di legno tutt'intorno, come un mulinello di tempesta. Si voltò in preda alla furia più cieca, lo “spiedo” ancora conficcato tra le scapole, e balzò dietro ai due bocconi di carne che gli avevano inflitto dolore. Ma improvvisamente si fermò, mugghiando. Cercò freneticamente di strapparsi con le fauci lo spiedo dalla schiena, ma non ci riuscì. Si rotolò su sé stessa e saltò a destra e a sinistra come se fosse circondata da un nugolo di vespe, sbatacchiando le zampe per aria, con la lingua di fuori, in preda a spasmi terribili. Schiantò una parete e rotolò via in mezzo a calcinacci polverizzati. I mobili rimasti venivano spaccati negli spasmi convulsi, insieme a vetrate e tutto quello che capitava sotto il suo peso. Infine si bloccò, incapace anche di latrare e di muoversi. Fissò con occhi vitrei, dove la luce verdastra si andava spegnendo, forse cercando ancora i due umani che non era riuscita a ghermire: anche morente avrebbe tentato di azzannare e di divorare. «E' morto!» esclamò Azadeh. «Quel tuo veleno è micidiale!» rispose Ashgar e poi, in tono pratico, ignorando subito il mostruoso cadavere disteso al suolo «Cerchiamo una via di uscita... ci deve essere una porta o un portone... non so se vi saranno delle guardie: ma con tutto questo baccano saranno allertate! Certo che penseranno si tratti del banchetto della bestia, ma...!» «Perché non sei scappato da solo?» disse allora Azadeh. Lui mollò la mano che stava ancora stringendo, e voltandosi dall'altra parte disse: «Come arrivo alle stanze del Santo, altrimenti? Mi serve una ragazza:
fingerò di essere un servo; e tu un'ancella che devo condurgli!» «Sei un ladro!» protestò Azadeh «A che ti serve un mezzuccio del genere? Ci dev'essere un altro motivo!» Ashgar si fermò a metà, mentre le voltava le spalle. «Volevi uccidere il vecchio degenere: hai parlato di vendetta!» rispose «Non ho idea né mi interessa quale sia il motivo del tuo odio contro di lui, ma se una giovane donna, mentre il mondo sta finendo, è così determinata da non badare a niente, nemmeno alla propria vita, per ammazzare qualcuno, il suo odio merita senz'altro tutto il mio rispetto! Sarebbe uno spreco, se tu morissi prima!» Azadeh era sorpresa, ma poi disse: «E' bizzarro il cuore di Ashgar il ladro...!»
Il Santo scagliò il vassoio pieno di datteri contro la parete: ladri, assassine, puttane, nel suo palazzo! Ogni vivente sulla terra cospirava per rubare le sue ricchezze! Venuti da chissà dove, dagli angoli più sporchi dell'universo, per portare via il suo potere! Con le mani che gli tremavano cercò di calmarsi, attirando a sé i bianchi fianchi di una delle sue ragazze. Non c'era bisogno di arrabbiarsi in quel modo, no. Il potere era suo: l'assoluto dominio sui suoi “discepoli”. Facevano qualsiasi cosa per lui... dopo avergli dato tutti i propri averi, in cambio del Fuoco della Felicità, che dà l'oblio dal dolore. Lo avrebbero servito per sempre, pur di estasiarsi in mondi lontani dalle brutture e dalla paura. La Paura sì, quella che aveva tarlato, tanto tempo fa, il suo corpo, prima di essere Santo, prima di essere quello che era. Ma ora non più. «Forza, più forte!» esclamò, alla ragazzina dallo sguardo spento che stava massaggiando le sue spalle flosce e morte... «E tu là... più calore!»; l'altra ragazza, completamente nuda, con gesti meccanici girò le manopole che aprivano di più il sifone dell'aria calda. I Sacerdoti Meccanici non sarebbero mai venuti a cercarlo per la punizione di aver ri i focolai della blasfema “religione”: per loro erano soltanto il
lucido acciaio e l'ingranaggio, a dare forma al mondo. La superstizione aveva distrutto il mondo, dicevano. Eppure egli sapeva che cosa bruciavano le macchine, i motori delle Magillu e le fornaci Imperiali... non era un potere derivato bulloni e ingranaggi! E osavano perseguitare lui, lui che offriva rifugio dalle pene del mondo con il suo Fuoco? Forse erano stati loro a mandare quel “ladro”. E quella puttanella. O forse no. Ma era circondato dalle sue ninfette, e quei bastardi ormai erano carne per il suo Cucciolo. Un “GONG” risuonò nel palazzo e lui sollevò una mano in maniera noiosa, per scacciare invisibili mosche e i suoi pensieri. «Entrate, entrate!» vociò. Entrò, dalla pesante porta di legno scuro, riparata dietro tendaggi porpora, un'altra ragazza, vestita fino alla testa, e uno dei suoi soldati, che rimase fermo al limite del cono di ombra proiettato dalle lampade. «E' questa la ragazza per stanotte?!» disse, guardando la ragazza velata con sospetto «Non avete trovato niente di meglio...?» «Mio padrone, i fedeli stanno ancora festeggiando...!» rispose con voce roca il servo «Non è facile in questo momento trovare altre ragazze...!» Il Santo rigirò le dita esili dentro al pettorale d'oro, che indossava seppur nudo fino alla cintola, e disse: «E che ne è stato del ladro e della puttanella? Il mio Cucciolo ne ha banchettato a dovere?» Il Santo si alzò a sedere e scacciò con un gesto la vecchia ragazza; fece un gesto a quella nuova, che si sedette dietro di lui, le mani conserte sul grembo. «Solo macchie di sangue sulla parte, e i ricchi vestiti strappati e masticati, mio signore!» rispose il servo, con la testa bassa, come se non osasse neppure incontrare gli occhi del Divino.
«Che mi importa dei vestiti!» rispose il Santo, indicando alla ragazza di massaggiargli le spalle, sempre troppo doloranti «Se li era guadagnati, nonostante tutto, la ninfetta!» La ragazza prese a massaggiarlo, con calma, con movimento sinuosi, ma improvvisamente una cosa fredda scivolò sul suo collo e con un sussulto il Santo si trovò una corda di seta stretta alla gola! Cercò di gridare, ansimando, ma la stretta, seppure quella di una ragazzina, era forte e inesorabile come l'odio. Il servo rimase imibile e il Santo cercava di lottare, ma l'anello con la Polvere di Sogno e la sua Magia erano deposti sul cuscino, troppo lontano. La voce che incantava le folle non uscì dalla gola strangolata, gli occhi che avevano visto ogni sorta di miseria e di ricchezza schizzavano dalle orbite come un pesce delle profondità e imploravano aiuto, ma aiuto non venne, non venne dal servo, che ora lo fissava apertamente, imibile e tremendo al tempo stesso, come una statua proveniente dal ato, uno degli antichi signori del palazzo risorti dalle statue per giudicare la sua fine, e non venne dalle ninfe che lo circondavano, prive di senno e di emozioni, distrutte dal Fuoco. La stretta intorno al suo collo divenne spasmodica e infine mortale; il Santo rovesciò gli occhi all'indietro come qualsiasi uomo mortale e ricadde, ormai freddo cadavere, tra i cuscini preziosi e il vapore asfissiante. Azadeh lasciò cadere le mani tremanti e parve improvvisamente piccolissima, soltanto una bambina. «Hai avuto la tua vendetta?» chiese Ashgar. Lei non rispose subito; infine disse, fissando lo sguardo che si stava spegnendo come carboni dentro a un focolare deserto: «Anche mia sorella implorava con quegli occhi spaventosi... mi implorava silenziosamente, ma io potevo solo guardare... e quest'uomo mostruoso rideva, mentre lei moriva: ora sì, ho avuto quello che volevo! Adesso non cerco più nulla!»; poi si rivolse a lui: «Ti ringrazio, Ashgar il ladro... ora puoi tornare ai tuoi tesori!» Ashgar esitò qualche secondo di troppo, fermo dov'era; «Rimarrai qui sul serio, allora, nonostante ti abbia detto che cosa intendo fare?»
«Io sono come morta, te l'ho già detto... rimarrò qui, con il corpo dell'uomo che ho odiato, aspettando la fine che ho procrastinato troppo a lungo!» e dopo che ebbe così parlato Ashgar assentì gravemente e la lasciò in silenzio, assieme a quelle ancelle inebetite alle quali la morte aveva già portato l'anima negli inferi.
Risalì veloce il corridoio che conduceva alle scale e agli ascensori; il palazzo era ancora immerso nel buio, non giungeva un suono, né dall'esterno, né dalle sale più in basso, ma presto l'alba sarebbe sorta sopra il deserto e le costruzioni screpolate dal sole e il palazzo sarebbero tornati a rianimarsi. L'uomo che gli aveva commissionato quel “lavoro” aveva parlato di una sala, oltre il colonnato di serpenti; una porta di cristallo vursio protetta da un Incanto di Annullamento difendeva la sala. Non sapeva se aspettarsi che l'uomo dicesse il vero, ma aveva accettato di fare quello che gli veniva chiesto e avrebbe scoperto presto la verità. Ecco l'arco, sorretto da sue serpenti scolpiti; nessuno in Babilonia avrebbe mai scolpito i Serpenti, non con quel significato recondito che là rappresentavano. Perché i Sette Serpenti erano la sorgente del Sogno, e il Sogno della Magia, che distrusse il mondo (e un giorno, presto, lo avrebbe annichilito definitivamente). Quella parte del palazzo era perciò antica, più antica dei Re dei Sette Deserti, che vennero a dorso di cammello dalle profondità tenebrose dei Monti Morti a oscurare il mondo, prima dell'avvento dell'Imperatore, quando venne rifondata nel metallo la sacra Babilonia. Entrò sotto l'arco, dove vi era solo buio; ecco le colonne, attorcigliate di serpenti, proprio come gli era stato detto. Ed ecco la porta, baluginante nell'oscurità di fioca luce azzurra. Tenendo davanti a sé il pettorale (che raffigurava un intrico di sei Serpenti) si avvicinò cautamente alla porta. La luce si intensificò per un attimo, ma quando sporse in avanti la “chiave” la luce ebbe un ultimo battito e poi si spense. Sorrise, come un avvoltoio. Spinse i due battenti, che si aprirono verso l'interno come posseduti di volontà propria. Al di là si apriva un vasto salone circolare e al suo interno un goffo, strano macchinario. Aveva vagamente la forma di una vecchia teiera persiana; essa poggiava su sedici zampette, storte e di tutte le forme (a piede di leone, di capra, a stelo di rodeshia e via discorrendo). La
pancia gonfia, con molti tubi che uscivano verso l'alto, come strane ciminiere, e la testa a beccuccio, ma sormontata da una calotta rigonfia, con spuntoni, come un riccio di mare. Era completamente bianca, assolutamente antica, totalmente bizzarra e fuori posto. In una parola, una macchina dei sogni. Erano state proprio “macchine” come quelle, nei tempi remoti, a dischiudere le porte del Mondo del Sogno ai mortali e a segnare la loro distruzione; perché il potere dei Sogni distorce la realtà e la piega al volere del potere, e questa viene chiamata “Magia”. Ma i pensieri e i sogni si riversarono incontrollati nel mondo e come una marea di follia, incrinarono la Terra. I Sacerdoti Meccanici dissero che soltanto nella macchina, quella di ferro e ingranaggi, è possibile sfuggire alla follia del Sogno; ma nelle loro oscure mani erano molte le Macchine dei Sogni ancora funzionanti. L'Impero Meccanico si fondava in realtà su quelle macchine divoratrici di Sogni, portati via come minerali dai giacimenti o ricavati da bestie contaminate dal Sogno; e se nei paesi del nord, come nel tetro Balmung, i Maghi puri erano ancora venerati, questo non era tuttavia tollerato nell'Impero. Le Macchine erano usate soltanto dalla “saggezza” dei Sacerdoti. Non poteva essere tollerato il tradimento dell'uomo che si faceva chiamare Santo. Era da quella Macchina che traeva la magia del Fuoco della Delizia: e Ashgar aveva ricevuto un incarico. Rubarla all'uomo che voleva farsi dio, ovvero, distruggerla.
Azadeh sentì vibrare il soffitto e il pavimento e le sue compagne lobotomizzate non si mossero né cambiarono espressione; una continuava a stare seduta sulla poltrona e l'altra ai piedi del divano e fissavano con uno sguardo vacuo il cadavere del Santo, il loro padrone. Il vapore continuava a soffiare dal sifone, ma improvvisamente ebbe un sussulto e calcinacci piovvero dal soffitto. La fronte del Santo si imperlò di polvere di lapislazzuli pallidi piovuti dal soffitto, sul quale era disegnato con pietre preziose la volta notturna. Forse la notte era già scomparsa, all'esterno. Forse l'alba, l'ultima, era sorta. Ma a lei non importava affatto. Il tuono si ripeté e tutto fu sconquassato; ora non vi erano più interruzioni tra un terremoto e l'altro e ogni cosa vibrava come un diapason; cominciò a sentire dall'esterno della sala le grida. Ma nessuno venne a cercare il Santo.
«Ora tornerò da te, Ghazal!» che vuol dire “gazzella”. Era fiera delle sue belle gambe, che la facevano correre veloce, ma non abbastanza perché le mani del Santo non la raggiungessero. Una orribile crepa si aprì nel soffitto e un blocco di pietra si schiantò dall'alto sulla testa di una delle ragazze. Il sangue da sotto il masso si allargava tremando sotto le scosse, come una sorgente di acqua nera che gorgoglia fuori da un pozzo. Ma quando il sangue raggiunse i suoi piedi e un boato tremendo la mandò quasi a cadere per terra, improvvisamente, ebbe paura. Non aveva deciso che non vi era più niente per lei? Che era già morta? Cos'era questo improvviso e vigliacco risorgere del desiderio di vedere il cielo, sentire il vento e di vivere?! Non aveva compreso ancora, Azadeh, che alla fine ogni uomo o donna cerca sempre la vita, anche dal più profondo abisso di morte, anche se il nulla cosmico li circonda da ogni dove. E allora con gambe malferme si alzò, mentre tutto si riduceva in polvere.
Il corridoio era sommerso di pietre cadute di cadaveri di uomini; l'ascensore era precipitato e attraverso una gigantesca crepa poteva vedere il cielo schiarito del mattino e i distanti minareti che crollavano, sommersi come da una nube di luce prismatica. Non c'era modo di lasciare il palazzo, ora, e si diede della sciocca. Eppure non aveva mai avuto tanta paura come ora, quando il momento era vicino. Strani vapori o ombre baluginanti salivano dal pavimento, in ondate, come risacca di marea. Erano quelle le energie cosmiche liberate dalla Macchina dei Sogni? Proprio di fronte a lei comparve per un attimo un ovale perfetto, come una lente piazzata di traverso nell'aria e per pochi istanti sulla sua superficie si disegnarono scene fantasmagoriche, di grovigli di occhi, di tentacoli ultraterreni, di colori e di abissi. Trattenne un urlo, ma la lente, una finestra su di un altro mondo, trascolorò rapida come era comparsa annullandosi. L'aria vibrava e il pavimento si spaccò a metà sotto i pesanti tappeti e tra i crolli di polvere davanti a lei le sembrò di cogliere una figura, fatta di ombra. Un nome si formò sulle sue labbra, Ga...! Ma ecco che un grido risuonò dietro a lei; imponente (e non troppo fermo sulle gambe a causa del sisma magico) comparve correndo Ashgar.
Azadeh sollevò la mano, fece per dire qualcosa, ma lui la prevenne; l'afferrò, se la caricò in braccio come se fosse una bambina piccola e disse, forte, ridendo: «Credevo che volessi morire!» «Io... io ho avuto paura... sono una vigliacca!» rispose tremando Azadeh, con l'occhio ancora fissato verso il punto in cui aveva intravisto quell'ombra. «Chi ti dirà “vigliacca” perché hai voluto vivere, quello è molto più codardo di te!» sbottò Ashgar «Ma adesso tieniti... ho recuperato alcuni dei miei attrezzi magici... ma non so se funzioneranno! Ho mandato in tilt (a martellate!) la macchina dei sogni e l'energia del Sogno si sta scatenando dappertutto, sbriciolando letteralmente questo palazzo! Non so se qualcosa di “magico” in questo inferno funzionerà!» Azadeh non rispose, si rannicchiò contro di lui. Anche se Ashgar il ladro era vecchio, il suo petto era largo e conteneva ancora una potenza che pochi giovani potevano vantare, anche nei loro anni migliori. Corse portando lei in braccio (ora indossava di nuovo quel suo mantello di Efreeti) e raggiunse in un balzo il bordo del crepaccio che era divenuto il bordo del palazzo. Saltò senza fermarsi e gridò una parola (qualcosa di arcano, che Azadeh non comprese affatto): il mondo roteò, il cielo sopra e poi sotto e viste apocalittiche di palazzi e torri che si sfaldavano e loro sospesi nel vuoto, che levitavano in mezzo a cerchi di fuoco! Ma il mantello di Efreeti si consumava incendiandosi e pur rallentando la caduta, il terreno si faceva troppo vicino! Azadeh chiuse gli occhi. E improvvisamente sentì uno scossone, cadde in terra e sentì un colpo forte in testa. Spalancò gli occhi come un sognatore che emerge da un incubo e si trovò distesa, a faccia in su, a guardare le cime delle torri che si piegavano su di lei. Ashgar comparve nel suo campo visivo, la raccolse di peso e portandola come un sacco sulla spalla si lanciò tra le macerie vorticanti. Si lanciò con lei sotto il contrafforti massicci del colonnato della sala inferiore e tutt'intorno fu di colpo buio, polvere e rombo assordante.
«Apriti!» sentenziò Ashgar, poggiando la Chiave di Stupefacente Apertura contro le macerie crollate, che li serravano da ogni lato. E le rocce, come se fossero una porta, si aprirono, lasciando entrare la violenta luce del giorno!
«E' portentoso quello strumento!» esclamò Azadeh, lacera, sporca di polvere, ma viva «Sei sicuro, signor ladro, che non finirai sulla forca?» «I miei datori di lavoro sanno essere indulgenti, quanto fa loro comodo!» rispose, aiutandola a uscire dalla “grotta”. Erano sopravvissuti al crollo nascondendosi sotto i resti del salone principale, che era stato costruito da mani sagge e non avare di solidità. Erano stati seppelliti, ma la magia degli artefatti di Ashgar, come si era visto, era molto potente. «Come farti quasi uccidere, per portare a compimento il loro lavoro?» soggiunse Azadeh. «Non spetta a me indagare sull'operato dei Sacerdoti Meccanici!» disse il gigante. L'esterno era il ritratto della desolazione; il palazzo-città era un indistinto cumulo di macerie, su cui già volteggiavano i saprofagi. Non una torre era rimasta intatta; qua e là mozziconi di muri e di colonne si elevavano verso il cielo come dita scarnificate. «La Macchina dei Sogni... è distrutta?» chiese Azadeh. «Credo sia stata risucchiata “dentro sé stessa”, nel mondo del Sogno...» rispose insicuro Ashgar «... ma non ne so abbastanza di magia per poter spiegare che cosa sia successo!» «Quindi questa è la fine dell'uomo che tutti chiamavano Santo...» mormorò Azadeh «... e di tutti quelli che hanno cercato fuga dalla realtà seguendolo! Ma alla fine dovevano morire comunque: almeno sono morti con la mente piena di dolcezze!» «Non è un brutto modo di morire, ma a me non piacerebbe comunque!» rispose Ashgar. «E ora che farai, signor ladro?» chiese invece la ragazza, «Tornerò dai miei datori di lavori e chiederò il mio pagamento...!» «Vorrei venire con te: non saprei come sopravvivere da sola ad un viaggio nel deserto!» disse Azadeh.
«Allora hai deciso di vivere?» chiese l'uomo. «Dal momento che sono viva, sì, devo vivere...» rispose «... altrimenti lo spettro di mia sorella verrà a perseguitarmi! E questo viaggio, lo so, non sarà nemmeno “noioso”: sono anche un poco eccitata di scoprire di più su di te, signor ladro!» Ashgar si tirò la barba e grugnendo rispose: «Non c'è proprio nulla da scoprire su di me! A meno che non ti interessino le marce al caldo, le notti al freddo ed essere sempre i viaggio, a rischiare la vita in qualche fetido vicolo!» «Io invece, quando ero piccola, ho sentito una storia!» esclamò con gli occhi luminosi Azadeh (Ashgar rimase sorpreso nel non più scorgervi il colore nero che aveva creduto fosse la loro tinta!) «La storia che un tempo l'Impero non era così decadente e che vi erano, allora, ancora uomini prodi e coraggiosi. E di un eroe di quei tempi, un gigante generoso che svettava in mezzo ai suoi simili, alto come un pino sopra a un colle. Adesso quell'eroe dovrebbe avere la barba bianca come mio nonno, e molte cicatrici di ate battaglie! Ti dice qualcosa, signor ladro?» «Assolutamente nulla: gli eroi non esistono se non nelle favole, ragazzina!» rispose Ashgar «E se ne dovessi vedere uno in giro, non lo riconosceresti nemmeno: il loro tempo è finito, disperso in sogni fatti a occhi aperti, o nel mormorare del vento del deserto!» Azadeh si aggrappò al suo braccio, dicendo: «Anche se il mondo deve finire, questo genere di cose rimarrà fino all'ultimo: e io so che ne saprei riconoscere uno, se lo vedessi!» Ashgar non rispose, ma il vento del deserto prese a fischiare sommesso.
Shibartz
Liberamente ispirato a ''On your Mark'' di Hayao Miyazaki
1
''Come un anello di luce sorto da mari senza tempo tenebra in luce e luce in buio così splendeva, rubandoci la vista e il senso, la Bestia forgiata di fiamma.'' Da La fondazione di Balmung, XVI, 2, 3.
Attraverso il denso strato di nubi elettriche l'agile navetta di classe Sirrush³ rimbalzava sulle onde ionizzate, e scie azzurro-verde correvano nella sua coda, dentro alla notte perenne di Babilonia. «Dieci secondi all'impatto!» gridò il tenente da sotto all'elmetto agli uomini stipati dentro al ventre della nave. L'impatto venne inaspettato quanto tremendo e più di un soldato volò via dal suo posto in un mucchio scomposto, mentre tutto l'abitacolo andava sotto-sopra, come una nave rovesciata sulla chiglia dentro al maëlstrom. «Uno, due, tre!» abbaiò il tenente, da un punto confuso dietro le loro teste «Sbarcareeee!!!» Gli uomini balzarono avanti, spinti dalla voce del comandante come cavalli spumanti sul morso.
Il portellone anteriore, sagomato come la bocca di un drago, si spalancò in mezzo a fumo e macerie. La prua del Sirrush era conficcata come un punteruolo incandescente dentro alla doppia parete di ceramite del palazzo. Sulle piastrelle colorate giacevano grossi blocchi di cemento e scomposti cadaveri vestiti di lunghe tuniche. Un tuono lontano, nel profondo delle contorte sale, echeggiò, il suono di un “GONG”, un avvertimento, un allarme, la voce profonda del tempio del Culto. Ma mentre il suono si affievoliva quasi come risposta scoppiarono in ogni direzione crepiti, fucilate e bestemmie. Si combatteva sala per sala, e i soldati dalle maschere da insetto non concedevano nè si aspettavano pietà. Le precise salve dei soldati babilonesi falciavano come grano gli uomini ammantati e solo qualche volta un proiettile di risposta colpiva uno dei soldati dell'Imperatore Meccanico, ma rimbalzava inoffensivo contro gli strati di corazza. I cultisti del Culto della Mano Spezzata cadevano e morivano. Aveva osato levarsi in potere contro il Culto Imperiale, di sua maestà l'Imperatore e di sua terribile eccellenza il Grande Sacerdote Reva Ksathra. In una stanza di colonne ritorte dieci cultisti caddero tra polvere di vetro in pozze di sangue, senza neppure riuscire a sollevare le armi, assieme alle schiave bambine che avevano rapito nella brulicante città di acciaio e buio. Nella ''Sala del pozzo'' l'Artefice Mastro del Culto venne scagliato in pezzi da una granata, con altri cinque. Eppure il Grande Maestro del Culto era trincerato dentro alla ''Camera dei Segreti'', tutta ricoperta di affreschi egizi e sumeri, in fondo a un corridoio stretto e invaso di statue di gatti e Ibis azzurri. Due soldati giacevano morti tra il fumo, e mentre le scariche di fucile continuavano a rintoccare come tuoni in una tempesta, non era possibile tuttavia avvicinarsi neanche di un metro alle barricate piazzata tutt'intorno alla massiccia porta. Improvvisamente risuonò nuovamente quel sinistro “GONG” e questa volta era un presagio di morte. Un lampo tenebroso spaccò da dentro la barricata in una pioggia eruttante di schegge. Una sagoma di luce riempiva completamente la soglia della Camera dei Segreti, luce nel buio e oscurità dentro alla fiamma. Dentro alla luce c'era una sagoma esile e senz'altro umana, ma la luminosità era così forte da far strizzare e accecare gli occhi ai soldati, pur dietro alla maschera piena di sensori e luccicanti “BIP”, vertice della tecnologia dell'Impero delle Macchine. Quella tecnologia non poté salvarli. L'aura di luce si fece più forte, lampeggiò come il pulsare di un'esplosione
solare: e il corridoio venne compresso e schiantato come da un pugno invisibile, un maglio di forza che stritolò ogni cosa, mura, pavimento e uomini. Persino il tenente lasciò cadere il fucile e gridò: «Una Shibartz! Hanno liberato una Shibartz!» «Indietroooo!!!» gridò un'altra voce, un soldato senza nome. La confusione riempì i cuori dei soldati e il corridoio divenne un caotico parapiglia fumoso, mentre l'essere di luce avanzava sommerso di un orrore antico come il tempo. Ma un soldato, nel mezzo della fuga precipitosa, conservò la propria prontezza di spirito. In terra giaceva dimenticato il corpo dal cranio perforato del sergente Abel e vicino, il fusto nero di un lanciarazzi Skorpion VI. Si gettò sull'arma e si inginocchiò a terra. La cosa di luce era a meno di 6 metri e con ogni probabilità se anche l'arma avesse potuto sortire qualche effetto contro la creatura di sicuro lui era troppo vicino per non essere spazzato via dall'esplosione. Ma nessun pensiero del genere attraversò la sua mente quando fece fuoco a bruciapelo. Il proiettile carico di esplosivo liquido andò diritto contro il petto della creatura e si bloccò, come in un sogno distorto, a un centimetro dal corpo oscuro dentro all'alone luminoso. Gli immensi poteri della Shibartz bloccarono in aria il proiettile, ma esso esplose in un'accecante palla di fuoco un secondo dopo: la barriera del mostro tuttavia trattenne gran parte della violenta energia cinetica e impedì che l'esplosione si propagasse all'esterno. Il soldato senza nome volò via tra detriti e fuoco, ricadde pesantemente al suolo, con le orecchie completamente sorde e roteanti fuochi negli occhi, ma vivo! L'elmetto rotolò via e per lunghi attimi tutto fu buio. Subito venne circondato dai suoi commilitoni, che provarono a tirarlo in piedi e gridavano qualcosa; era tutto un roteare di facce, ma le sue orecchie erano completamente sorde. Il tenente gli poggiò una mano sulla spalla e disse qualcosa che gli sembrò il rombo dei marosi. Qualcuno lo appoggiò contro la parete e una faccia famigliare gli fece una strizzata d'occhio, dietro quei baffetti impertinenti. Girò intorno gli occhi appannati; un altro soldato, con la fascia del medico, era vicino a lui e gli bendava la testa. Tutto l'ambiente era pieno di fumo e quando però riuscì a guardare nella direzione del corridoio, vide soltanto un grande buco nero, fiaccole di legno spezzato incendiate, una falla nel soffitto, dai bordi spezzati,
tubi di metallo contorti che sbucavano dal cemento spaccato. E i suoi commilitoni che correvano al di là, come fiammelle di Sant' Elmo, sopra il pavimento lucido del fondo del corridoio, che per il fumo e per i suoi occhi sembrava liquido come acqua. «Ti sei guadagnato la tua paga oggi, soldato!» esclamò nelle sue orecchie ferite il medico del plotone e Sendomir Nibiru sentì che aveva ragione, anche se il fuoco della Shibartz che aveva spento bruciava ancora nei suoi occhi frastornati. Il concerto crudele delle armi si era finalmente zittito. Le urla si erano spente e nel fumo sospeso dentro alle sale e ai corridoi si aggiravano soltanto soldati, nel mezzo di puzzo di incenso e di sete bruciate. Cercavano tra i cadaveri se vi fosse qualche sopravvissuto, ma il Culto della Mano Spezzata era stato completamente estinto. Erano arrivati anche altri soldati, che non indossavano l'uniforme come gli altri. Erano quasi armature medievali, barocche, che li facevano sembrare davvero enormi, dalle forme di goffi granchi, ma non lo erano affatto, né goffi né inoffensivi. Erano la scorta di un Sacerdote Meccanico di alto rango, che doveva esaminare i resti del Culto e la tecnologia che avevano sottratto, e recuperarla; nonostante il Grande Maestro fosse morto infilzato dalle baionette dei soldati, ultimo dei suoi, nel fondo della Camera dei Segreti (ma prima di morire aveva sussurrato parole terribili da sotto la sua maschera, che avevano raggelato tutti coloro che era riusciti a sentirle). Sendomir aveva sentito i suoi compagni parlarne, ma non era in verità molto interessato alle profezie di morte di un mistico, sebbene a Babilonia si dica che le parole bagnate di sangue siano sempre vere e contengano frammenti di futuro. Molti pensieri riempivano la sua mente e appena riuscì reggersi in piedi aveva chiesto di poter far parte del gruppo di ricerca che doveva stanare eventuali sopravvissuti. Il tenente lo aveva guardato con ammirazione e certo pensava che fosse a caccia di una medaglia, ma Sendo (come lo chiamavano tutti, perché il suo nome era lungo e ingombrante) aveva altro in mente. Hairy stava cercando da un pezzo di accendersi l'ultima sigaretta, tutta storta, ma alla fine esclamò: «Bha! Maledetti ometti incappucciati! E questa era l'ultima!» e la gettò via, dentro il pozzo buio che si apriva sotto di loro, uno dei tanti fori che si erano aperti nella struttura a causa dell'impiego degli esplosivi. Sendo proiettò la luce della torcia verso il basso, quando, da uno spazio molto lontano, dentro al tempio, venne il grido: «Eccola! Abbiamo trovato la Shibartz!»
Sendo schizzò via, lasciando indietro uno stupefatto Hairy. Con piedi più veloci di un'areo-slitta raggiunse la profonda sala sotterranea, che giaceva, sepolcro per i morti del Culto, sotto i corridoi tortuosi del tempio. Quando arrivò sulla rotonda soglia, si schiantò contro un muro di uomini, che erano tutti là ammassati, senza riuscire a fare un o di più. Sendo si fece strada in mezzo a loro, ma, giunto davanti a tutti, si bloccò a sua volta, fissando la scena. Hairy, arrivato di corsa, gli fu subito dietro, e gridò: «Ma che ti è preso? Cosa c'è da guardare? Sei schizzato via come se avessi visto la faccia del demonio...! Ehi..!» Sendo non lo ascoltava; camminò avanti, in mezzo ai detriti crollati dal soffitto, bruciati e fusi dal calore insopportabile della Shibartz che lo aveva attraversato sfondandolo, e in mezzo ai mormorii sconvolti dei suoi commilitoni arrivò fino al corpo che giaceva in terra, sul pavimento il cui marmo era annerito tutto intorno. Avvolta in vesti lunghe e ieratiche (come avevano potuto resistere al calore insopportabile?) giaceva quella che sembrava soltanto una bambina; i lineamenti non erano quelli della loro terra. Non erano i tratti abbruttiti e degenerati che si vedono in molti abitanti dei blocchi più profondi di Babilonia, né i tratti orientali di coloro, come Sendo, che hanno conosciuto le città aperte, sotto il sole, delle altre città dell'Impero. Erano lineamenti morbidi e innocenti e gialli erano i capelli che scendevano scomposti e mal curati sulle orecchie. Sendo si inginocchiò al suo fianco, e, nell'orrore generale, la prese per le spalle e appoggiate sulle piccole labbra azzurre per il freddo, o forse per la morte, le sue dita e si accorse che invece era ancora viva, quando una sottile condensa si formò sul metallo dei guanti. «È viva!» esclamò, sollevandola, e il suo braccio, ricadendo inerte lungo il fianco, rivelò una specie di tatuaggio, che ancora brillava come carbone ardente, che rappresentava un complesso marchio di segni serpentiformi. «Ma che diamine ti salta in mente!?» esclamò Hairy, che era entrato insieme a lui «Quella è una stramaledetta Shibartz! E quel segno... l'Imperatore mi fulmini, è il segno dei Sette Serpenti!» e quel nome era tabù e soltanto i Sacerdoti potevano pronunciarlo. «Non credevo potesse essere morta...!» rispose invece Sendo, come se non trasportasse in braccio uno dei mostri più spaventosi del mondo «È incredibile! Sembra soltanto una bambina... eppure... eppure hai visto le fiamme, il terrore! E
un esplosivo al deuterio liquido è riuscito soltanto a tramortirla e a scagliarla qua sotto! Non ha nemmeno un graffio!» Sendo la teneva ammirato, ma Hairy disse: «Ti rendi conto di che cosa stai tenendo tra le braccia?!» «Presto! Dammi la borraccia!» disse invece lui, senza ascoltarlo. «Cosa vuoi fare?!» esclamò l'altro. La borraccia di cui parlava Sendo era uno strumento indispensabile al soldato babilonese; progettata per resistere anche a un proiettile, manteneva la bevanda chimica al suo interno sempre alla stessa temperatura; un sorso di quel composto poteva sostenere per un intero giorno un soldato, anche sotto il sole del deserto, o nelle profondità umide e cancrenose della città. Hairy prese la borraccia ne estrasse la cannuccia retrattile senza dire altro, la porse all'amico, badando di tenersi il più lontano possibile dal ''mostro''. «Ehi!» esclamò Sendo, ignorandolo del tutto «Beve!» e infatti la bambina prese a succhiare a piccoli tentennanti sorsi. «Sarà meglio chiamare i Sacerdoti...!» bofonchiò Hairy, dando mano al ricevitore. Ma Sendo non lo ascoltava; fissava la creatura che ingollava come un pulcino il liquido azzurro, ma, improvvisamente, ella aprì per un attimo gli occhi verso di lui. Erano profondi come mari primordiali, azzurri, cupi e blu nelle pupille; con stupore si fissarono su di lui, come una creatura appena sorta dal mare nei primi giorni del mondo che fissi con stupore il cielo. Poi scivolò indietro di nuovo, nell'incoscienza; la luce di quegli occhi cadde nuovamente verso il basso di quegli abissi dove era nata. E Sendo mormorò: «Stupendo...!». Il Sacerdote Meccanico, avvolto nella sua elaborata tunica bianca e nera, con la maschera che rappresentava un vecchio, bianca come ossa umane sbiancate⁴, si chinò sulla bambina e con voce spettrale, da far venire i brividi, disse: «Una Shibartz, senz'altro! Come è riuscito questo culto eretico a trovarne una? Sarà necessario indagare! Sì, indagare a fondo...!» e poi alzandosi disse: «Dov'è il soldato coraggioso che l'ha ritrovata?»
«È quell'uomo laggiù, mio signore!» rispose rispettosamente il capitano della sua guardia del corpo, con una voce cavernosa sotto l'armatura. Sendo stava in un angolo, fissando il vuoto, come perso in qualche profondo pensiero. «Si dice che un uomo comune non possa toccare una Shibartz senza impazzire o morire!» sentenziò il sacerdote «Appuntategli una medaglia e dategli, presto!, una licenza, che vada lontano e dimentichi!» e fece un cenno ai suoi soldati. Il capitano disse con voce spaventosa: «Portatela al Tempio!» La Shibartz venne chiusa dentro a una tenda a sacco anticontaminazione e caricata su di una barella corazzata; scomparve con i soldati coperti di ferro dentro al Sirrush sacerdotale e in un lampo di luce e di fuoco prese il volo dentro alla notte della nera città. Sendo fissò per qualche attimo il mezzo volare tra due edifici, prima di scomparire in uno dei pozzi profondi che congiungono la città bassa con quella alta. Gli occhi blu della Shibartz rodevano la sua anima come un tarlo.
2
''Oscure figlie della notte e del sogno vengono dalle regioni dell'inverno per portare in sale di luce lo spirito del guerriero che giace tra mille spade fracassate.'' Da La fondazione di Balmung, XI, 4, 1
''Jarmal'' era un locale piuttosto noto per i militari del blocco 4C. Una luce in pozze si diffondeva sui tavoli di mogano e plastica e c'era sempre poca gente; il caffè non era nemmeno pessimo, pur essendo quello sintetico. Sendo era in “licenza”, ma quella parola non significava nulla per lui in quel momento. Sul tavolo, assieme al caffè che si andava raffreddando, giaceva ignorato il mazzo di fiori per quella ragazza con le efelidi che Hairy gli aveva presentato, e che doveva incontrare quella sera. Ma il suo sguardo vagava vuoto al di sopra delle teste degli avventori di Jarmal, mescolandosi al vapore sempre più rarefatto che saliva dalla tazzina. A un tratto Sendo balzò in piedi ed esclamò: «Hairy, io me ne vado!» Hairy lo fissò perplesso e rispose: «Cosa?! E dove? Mancano ancora tre ore al tuo appuntamento!» Sendo mugugnò: «Devo schiarirmi le idee... vacci tu!»
«Ma... che diavolo?!» berciò l'altro ma Sendo non rispose; lanciò delle monete sul banco e uscì fuori, nell'aria buia. Anche ad Hairy era stata concessa una licenza, ma oltre a bighellonare da un locale all'altro, scoprì che non sapeva che altro fare. Sapeva fin troppo bene che cosa tormentava Sendo, e i suoi tentativi con ragazze e localacci non avevano portato nessun beneficio all'amico; il suo umore anzi lo aveva contagiato e la vita di prima, tra bettole e donnacce gli era diventata improvvisamente estranea. Bevve la sua brodaglia nera, pagò il conto e prese il mazzo di fiori abbandonato da Sendo, borbottando, e uscì dal locale, nelle gallerie della città. Ogni strada in Babilonia era una galleria; gli edifici crescevano come funghi su di un tronco marcio, gli uni sugli altri, e nuove case e palazzi venivano costruiti sopra i precedenti, spesso occludendo vie, porte, interi quartieri, che divenivano così quasi grotte, catacombe sepolte. Hairy camminava nell'eterna oscurità, illuminata da opachi fari e lampioni, chiedendosi quando fosse stata tolta l'ultima luce ai livelli inferiori, ma doveva essere stato molto, molto tempo fa. Raggiunse la più vicina stazione dei treni proiettile; ma rimase là, a fissare le carte che i treni facevano volare al loro aggio, e quando uno si fermava, le pozze gialle che macchiavano la banchina, ogni sette minuti precisi; si stufò preso di guardare la gente che saliva e scendeva, dalle facce scure e dagli occhi spenti. Decise di prendere il treno che si era appena fermato; e improvvisamente si sentì tutto animato, ando attraverso la folla morta, ridacchiando tra sé e sé, come uno sciocco che conosce un segreto noto soltanto a lui, una pentola piena di monete d'oro seppellita in un campo. Accelerò il o, prima che le porte si chiudessero, e quasi andò a sbattere con una ragazza minuta, che guardava per terra, tutta infagottata in un kaftano marrone. Lei lo guardò con occhi spaventati, ma lui con un largo sorriso e un gesto teatrale, le offrì i fiori di Sendo e lei li prese di riflesso; la lasciò confusa, tra la folla che andava e veniva senza senso, con le porte che si chiudevano dietro di lui, i fiori cresciuti in serre artificiali, ma pieni di colori contro il kaftano monocromo e la nera Babilonia.
Entrò nell'alloggio che divideva con Sendo e trovò che l'amico non era tornato. La scrivania di Sendo era più in disordine del solito; la giacca di rappresentanza (usata per la recente cerimonia di consegna della medaglia) giaceva spiegazzata sulla spalliera della sedia, fogli e carte scomposti formavano alti mucchi e il cappello con le mostrine della polizia stava abbandonato su di un grosso, all'apparenza antico, libro dalla copertina scura e sporca. Non sapeva dove se lo
fosse procurato, visto che a Babilonia non esistono libri; forse da quel venditore di cose esotiche dove Sendo andava spesso ultimamente. Aveva visto anche lui il vecchio dietro al bancone, rugoso e scuro come un maledetto libro di negromanzia, e gli aveva messo addosso i brividi più di quanto non volesse ammettere. Qualsiasi cosa ci fosse scritta in quel libro, scommetteva che non era una lettura che potesse piacergli. Ma ecco che sentì i i veloci di Sendo nel corridoio e la porta si aprì e l'amico entrò, pieno di energia nervosa. Entrò senza parlare, e subito, gettata la giacca sul letto, si sedette sulla sedia girevole e con il volto illuminato soltanto dalla piccola lampada da tavolo, disse: «La trasporteranno domani notte, dal Centro Medico di Osservazione al Tempio del Domani!» Non c'era bisogno di chiedere di chi stesse parlando; Hairy invece disse: «Il Tempio del Domani! Il sacro suolo dei Sacerdoti Meccanici, dove ciascuna porta è sigillata da 50 parole magiche, per tenere rinchiusi orrori che nessun uomo può vedere senza impazzire! Una volta che sia portata là dentro, nessuno la rivedrà mai più!» «Per questo...» disse piano Sendo «... per questo devo agire adesso! Ma tu, sei sicuro amico mio di voler ascoltare quello che sto dicendo? Di finire anche tu dentro a questo affare?» «E tu, sei sicuro di voler correre dietro agli occhi di fuoco di quel mostro, di quella Shibartz?» lo pungolò Hairy. «Sono posseduto da un demone, Hairy!» esclamò, camminando su e giù per la stanza come un leone in gabbia «Da quando ho visto quella sagoma di luce dentro al corridoio i miei sogni sono pieni di corone di fuoco e di occhi azzurri... azzurri come il mare che non ho mai visto! Il mare, Hairy! Le sue onde rumoreggiano durante tutta la mia notte e anche quando mi sveglio, rimango a fissare queste vuote tenebre dall'oblò⁵, fino al mattino!» «Ma io non temo i demoni!» rispose l'amico, tirandosi uno dei suoi irriverenti baffi da sparviero, e ridendo forte «Non ti ho accompagnato quando sei voluto entrare nel giardino del vecchio Mustafà, per scrivere il nostro nome sulla porta del suo harem, di cui si era vantato tanto ''nessun uomo potrebbe mai entrare''? Faceva paura a tutti, il vecchio, con la sua barba nera e gli occhi come il demonio, anche alle sue stesse concubine, ci scommetto... almeno, a giudicare
dall'accoglienza che ci hanno riservato, credo proprio di sì!» «Però soltanto tu ti divertisti!» esclamò Sendo «Ma questa volta non troveremo ad accoglierci annoiate ragazze vestite di veli, vecchio mio!» «Ci ho pensato a lungo e questa Babilonia non fa per me!» rispose forte «I Sacerdoti sono esseri schifosi e rabbrividisco al pensiero dei loro artigli che si posano su quella povera creatura, Shibartz o non Shibartz!» sorrise come un gatto «Questa volta anch'io sono rimasto rapito dagli occhi azzurri e dai capelli d'oro!» Le Shibartz, per le quali anche un uomo come Hairy era disposto a fare una follia, erano figlie dei Sette Serpenti, gli antichi abomini che nella leggenda vivevano al di là della realtà, nei reami dei Sogni, dove erano stati scacciati dalla Ragione e dall'Ingranaggio all'inizio dei tempi, quando era stato stabilito il perfetto Mondo Meccanico dell'Impero. Le Shibartz erano dunque esseri stregati, fatti di fuoco e di fiamma, e di frammenti di Sogni viventi: il nome che era stato dato loro nella terra dei Deserti nei canti degli shi`r , era quello di ''streghe'', ma erano conosciute con lo stesso nome anche nelle lande ghiacciate di Balmung, generate da sogni tenebrosi sognati prima che l'uomo sorgesse dal fango. Nel mito erano tutte femmine e nascevano dalla terra, dal tronco di un albero o dai sogni: non dal grembo di una donna umana, perché non erano umane. Tuttavia nè Sendo nè Hairy pensavano a queste leggende, perché... perché neppure loro lo sanno. «E cosa faremo, allora?» disse forte Hairy, pronto all'azione, come sempre. «Entreremo come lupi a caccia dalla porta principale del Centro Medico...!» rispose Sendo «E faremo tanto di quel casino che i Sacerdoti Meccanici ci rovesceranno addosso tutto l'inferno di cui sono capaci!»
3
''Vidi nella nebbia, il sogno dello schiavo; vidi il sogno del Padrone: ed entrambi brillavano come oro, uno di monete, l'altro di una moneta chiamata“libertà”. Ma se io fossi una Shibartz, cosa potrei sognare?'' Teldarin, Massime
Nessuno guardò due volte i due soldati della polizia Imperiale, quando entrarono dalla porta principale del Centro Medico, baldanzosi e sicuri di sé; i soldati sono una vista comune quella notte. I due salutarono a piene mani e con larghi sorrisi le due infermiere della reception e procedettero a o di marcia verso l'ascensore del primo piano, come se sapessero esattamente dove stavano andando. Sorrisero e salutarono nella telecamera posizionate nell'ascensore all'annoiata guardia che fissava i monitor dalla sua guardiola, prima di premere il pulsante per l'ultimo piano sotterraneo. Nel basamento era una gran confusione, un via vai di medici infagottati in pesanti tute anticontaminazione e soldati armati, e tutti erano così presi dallo spostare strani aggeggi, dall'andare e dal venire e tutto il resto che quando le porte dell'ascensore, in fondo al corridoio, si aprirono, nessuno badò ai due uomini che ne uscirono e presero a camminare diritti in mezzo a tutti, verso i laboratori più profondi del piano. Ma un medico si voltò, e vide i due bizzarri soldati, che non portavano le insegne del Sacerdote incaricato dal Tempio, e che se ne andavano in giro con gli
stivali negli ambienti che avrebbero dovuto essere mantenuti asettici, e gridò: «Ehi, voi due, dove andate?!» Allora il primo dei due uomini, dai capelli ricci e neri, disse: «Ci hanno scoperti!» Rispose l'altro, toccandosi i baffetti, ridendo: «Così pare!» Nelle loro mani comparvero due maschere antigas e quello con i baffetti spalancò la sua palandrana e ogni tasca interna era piena di bombe fumogene. Il medico aprì la bocca incredulo, sbiancando come un morto di tre giorni, ma già le bombe volavano per aria. In un attimo fu l'inferno: lo stretto corridoio si riempì di vapore bianco e fu impossibile distinguere il nero dal bianco. I soldati privi di visore e accecati, sbattevano gli uni contro gli altri, e andavano a scontrarsi con il personale medico che era in preda al panico. Ma i due intrusi erano già arrivati, senza sparare neppure un colpo, alla Sala Medica numero 7. Cinque medici provarono a fermarli, ma vennero sopraffatti dalla loro forza bruta. Sendo bloccò la grossa porta rinforzata dall'interno, preoccupandosi anche di sparare al quadro dei comandi di apertura, e gridò: «Sbrigati, Hairy!» con voce soffocata da sotto il mascherone anti gas, e nell'urlo della sirena dell'allarme. «Con calma! Lo sai che le cose fatte in fretta non vengono bene!» esclamò l'altro, tutto preso a fondere con un microlaser portatile la serratura del caveau del laboratorio. Un medico si riprese dal colpo in faccia che aveva ricevuto, che gli aveva incrinato gli occhiali della maschera, e gridò: «Ma chi siete voi? Vi rendete conto di che cosa state facendo?!» «Oh, ma sta zitto!» esclamò Sendo, dandogli un bel colpo in testa con il calcio della pistola e lasciandolo ulteriormente contuso sul pavimento. «Fatto!» gridò Hairy e la porta si spalancò con un colpo secco verso l'interno. Rapidi si lanciarono dentro; era una grande stanza circolare, buia eccetto per alcuni led accesi a intervalli irregolari sul soffitto. Pesanti macchine pendevano dal soffitto, con braccia meccaniche dalle orride appendici, seghe, mole e trapani e ganasce. Faceva un freddo spaventoso e vapore bianco strisciava sul pavimento percorso da nodosi cavi. Su di un grosso tavolo operatorio giaceva un corpo, ma quando furono vicini i due uomini tirarono un sospiro di sollievo involontario,
per quanto la vista del cadavere, sui cui si erano scatenate le macchine mediche, fosse orrenda. Non era la Shibartz, ma qualche poveraccio usato per esperimenti orribili, raccolto tra i senza nome della città buia. «Di qua!» esclamò Sendo, indicando una porta a destra, in realtà una paratia di metallo grigio. «Questa porta non sarà facile...!» disse Hairy, dando mano al piccolo flessibile laser. «Aspetta! Si può aprire da questo lato!» disse Sendo «È chiusa soltanto per chi sta all'interno!» e infatti premendo il pulsante la porta scivolò nella parete con un suono di risucchio, rivelando una stanza illuminata da una fastidiosa luce elettrica, che era tutta vuota, eccetto un grande disco di vetro al centro, una cupola sigillata e dentro una figura addormentata su di una scomoda fodera di cuoio. «E come facciamo ad aprire questa?» disse Hairy. Sendo tornò nella stanza principale e afferrò uno dei grossi bomboloni di etere che stavano lungo le pareti, e «Così!» esclamò, scagliandolo come una mazza contro la cupola. In un fracasso assordante il plastivetro andò in frantumi e Sendo si chinò sul corpo addormentato. Le avevano fatto indossare una camicia medica e rasato completamente i capelli. Strappò con rabbia i tubi e i cavi che le perforavano un braccio e le orecchie e la raccolse in braccio. «Dorme, con tutto questo casino?» sbottò Hairy. «È drogata...!» rispose Sendo. «E lasciami aggiungere: drogata e tosata peggio di una pecora! Barbari Sacerdoti!» sputò Hairy «Come si fa a tagliare via i capelli a una donna, anche se in miniatura?!» Sendo prese in braccio la Shibartz e fissò negli occhi l'amico. Esclamò: «Hairy, sei pronto?!» «Come sempre...!» disse ridacchiando e prendendo mano alle cariche esplosive. Gli ''assedianti'', che da fuori cercavano di sfondare la porta bloccata da Sendo
furono fatti esplodere all'indietro dalla violenza dell'esplosione. Le cariche divelsero gli stessi stipiti e lanciarono uomini e pezzi di metallo in ogni direzione. Sendo e Hairy si lanciarono fuori come due torrenti estivi durante un temporale. Nessuno riuscì a rimettersi in piedi per fermarli. «L'ascensore è senz'altro bloccato!» gridò Hairy, che faceva strada. «Le scale! C'è da sfondare la porta!» ringhiò Sendo, che lo seguiva con la Shibartz in braccio. «Via, via se ci tenete alla pelle!» abbaiò allora Hairy ai soldati e ai medici rimasti e presa una bomba a mano la scagliò contro la porta delle scale di emergenza, che stava in fondo. Uomini terrorizzati si lanciarono da tutte le parti, mentre, come al rallentatore, la micidiale sfera di metallo rotolava in aria e rimbalzava una volta sul pavimento di linoleum e la seconda contro la porta. Un lampo accecante e un tuono sostituirono il gentile ''TOC'' del corpo contundente contro il metallo. Hairy, che era davanti, volò indietro con le gambe più in alto della testa, e Sendo si riparò dall'onda d'urto balzando dentro a uno stanzino laterale, quasi travolgendo un infagottato medico che svenne sul colpo al vederlo. «Sfondarla!» urlò Sendo «Non farla esplodere con noi inclusi!» Hairy aveva tutta la faccia bruciacchiata, e i baffi abbrustoliti e arricciati. E alzandosi disse: «Il risultato è quello che conta! Adesso la tua maledetta porta è aperta, no?!» E corsero su per le quindici rampe si scale, con il fiato mozzo e le porte che si spalancavano appena un soffio subito dopo il loro aggio, e rigurgitavano soldati armati e urlanti, le armi che sparavano a mitraglia come una gradinata estiva e il rimbalzo di proiettili sui corrimano e sui gradini, in uno schianto di scintille. «Su su su!» gridò Hairy, correndo con le sue gambe lunghe e storte sull'ultima rampa di scale. Spalancò con un calcio la porta che dava sul parcheggio sotterraneo e si lanciò dentro, correndo verso il primo automezzo a portata di mano. Era una larga e grossa autoambulanza corazzata, una versione molto più grande di un'aereoslitta. Hairy si arrampicò su fino alla portiera, Sendo gli era dietro in un baleno, misero lunga distesa la Shibartz priva di sensi sul largo sedile e mentre una masnada di
soldati inferociti si riversavano dalla porta delle scale Sendo premette il pulsante di accensione e ci diede subito dentro a tavoletta, quando ancora l'ambulanza era ferma con i motori appena avviati. Il mezzo scattò sul posto a destra e a sinistra come un cavallo impazzito, con il muso urtò l'ambulanza vicina e con il retro schiantò un pezzo di colonna di cemento. I soldati balzarono indietro di fronte al behemot che scartava rombando come una belva, i reattori a piena forza che sputavano calore e fiamme. «Vai vai vai!» gridò Hairy e Sendo diresse la gigantesca macchina a tutta forza in avanti, contro la sbarra chiusa e la rampa che usciva nel buio artificiale. La rampa usciva dal Centro Medico e correva tra palazzi altissimi, che erano come i pilastri di una grotta e sostenevano una volta di acciaio; lassù brillavano luci, come sfere fantasma o lanterne nel fondo di una miniera. Tre Sirrush correvano verso di loro nell'etere nero e saturo di vapori: non intimarono loro di arrestarsi. La prima Sirrush si schiantò sul fianco dell'areoambulanza facendo quasi volare via il volante dalle mani di Sendo; pezzi di metallo e scintille volarono in aria nello scontro titanico. «Tienila! Tienila!» gridò Hairy e fu in quel momento che finalmente la Shibartz si svegliò. Si alzò a stento, aggrappandosi al sedile, e aprì quei suoi grandi occhi spaventati, per ritrovarsi in un altro luogo sconosciuto, dentro all'inferno di metallo schiantato. «La principessa si è svegliata!» esclamò Hairy «E senza nemmeno il bacio di un principe!» La Shibartz fissò allarmata quello strano essere che aveva parlato, con i baffi bruciati e la parte superiore della maschera anti-gas ancora in testa, così che sembrava un osceno incrocio tra un crostaceo e un umano, ma Sendo, che era a visto scoperto, si voltò brevemente e disse: «Non farle vedere quella tua brutta faccia! E adesso tenetevi, tutti e due!» La Shibartz aprì la bocca, ma chi poteva sapere se era in grado di parlare come gli umani? Di fatto non ebbe il tempo per dimostrarlo: si afferrò istintivamente al braccio di Hairy e un attimo dopo Sendo sterzò a sinistra, perdendo per un attimo contatto con la fiancata del Sirrush e subito dopo sterzò tutto al contrario, andando con violenza a speronare il muso a forma di drago. Hairy e la ragazza
furono quasi sbalzati fuori dall'abitacolo per la violenza dell'urto, e presero un bel pò di botte, ma Sendo non aveva finito. Premette sull'acceleratore come se dovesse sfondarlo e fare un buco nell'abitacolo con i piedi. La massa superiore dell'areoambulanza, che era più lenta del Sirrush, ma più massiccia, premette con tutta la sua forza contro il mezzo dell'esercito. Il Sirrush fu schiacciato con così tanta forza che si impennò sulla punta, colpì con violenza la rampa (che entro centro metri si sarebbe interrotta, e poi vi era solo il vuoto!) e la divelse in uno schianto di plasticemento. La Sirrush si spaccò in due, in un'accecante esplosione di deuterio e fiamme. Tutt'intorno all'abitacolo divampò il fuoco e i vetri corazzati si incrinarono. Ma le fiamme si spalancarono a destra e a sinistra e non vi era più nulla: la rampa era crollata, e soltanto la tormentata parete della città (di loculi, torri e torrette e lampeggianti flash) si parò vicinissima davanti a loro. «Tenetevi forte!» gridò Sendo, puntando diritto contro il muro di nero acciaio. Hairy afferrò la Shibartz e la spinse dietro di lui, un attimo prima dello schianto accecante. Entrarono direttamente nel terzo piano del Centro Commerciale Gamma 4, sfondarono due pareti, attraversarono tutta la hall in mezzo al panico più assoluto di cittadini terrorizzati, divellendo anche la fontana decorativa con la statua dell'Imperatore, ma non si fermarono neppure quando sfondarono la parete opposta. In un marasma di vestiti da donna, giocattoli per bambini e parte dello stand di dolci di ''Akmer zuccheri e pasticcini'' (in particolare il bancone, una buona dose del banco frigo e anche il tetto a bascula, per non parlare di una quantità impressionante di dolci di tutti i tipi) che volavano tutt'intorno a loro come relitti trascinati via in un tornado finirono attraverso l'intercapedine tra i palazzi, nera più del nero e sommersa di cavi spessi come tronchi. Ma ancora la violenza cinetica dell'ambulanza non si era placata. Con il muso ormai ridotto a una sagoma informe sfondarono anche l'ultima parete e il mezzo si impennò di traverso nel cortile tra due blocchi abitativi, e là rimase immobile. Una famiglia stupefatta fissava a bocca aperta il muro improvvisamente crollato, tutti seduti intorno alla tavola in uno dei milioni di monolocali oscuri della città. La grossa, rossa, portiera dell'ambulanza cadde con un rumore sonoro proprio nel loro salotto e un sorridente, ammaccato, e molto poco fermo sulle gambe Hairy rimbalzò giù assieme a quella. Sendo lo seguiva
subito dietro, aiutando la Shibartz, che, a dispetto del suo nome terribile, era spaventata quasi quanto i poveri cittadini che fissavano ora Hairy che tentava di sorridere loro e contemporaneamente di mettersi in piedi, ora la casa distrutta, ora la loro povera minestra coperta di muro sbriciolato. «Scusate! Scusate!» ripeteva Hairy frastornato, ma Sendo lo spinse avanti a calci e sotto gli occhi allucinati della famigliola l'incredibile terzetto uscì dalla porta d'ingresso! «Dovremmo essere nel blocco 14...» disse Sendo subito, pratico, con del sangue che gli colava dal sopracciglio sinistro, quando furono nel corridoio del condominio, che si stava riempiendo di gente, che li fissavano come se vedessero il demonio personificato «... tra poco tutta questa sezione sarà piena di soldati impazziti come un vespaio preso a calci! Ma non bloccheranno gli ascensori, altrimenti non potrebbero muoversi neppure loro...! E ancora non sanno di preciso dove siamo!» «Fantastico!» esclamò Hairy «Perché non lo so neanche io! Mi sento come quella volta che mi hai portato in quella bettola nel blocco 27! Quell'intruglio viola che mi hanno fatto bere mi ha fatto finire su Marte per tre giorni: adesso sto uguale, solo che sento solo le botte e la testa massacrata, e nemmeno la consolazione del gusto dell'alcool!» «Sei tu che mi ci hai portato!» rispose Sendo «E so dove siamo, Perché il numero del blocco è stampato su ogni corridoio di ogni singolo maledetto palazzo!» si rivolse alla Shibartz, che lo stava fissando con quegli occhi blu, lontani come il mare che non aveva mai visto: «Tu stai bene? Riesci a correre?» Lei lo guardò con una strana espressione e fece un vago cenno di assenso con la testa. Almeno capisce cosa le dico!, pensò Sendo. Non che avesse dubbi: aveva visto come un lanciarazzi non le poteva fare neppure un graffio! «Bene!» esclamò «Perché adesso dovremo fare una lunga corsa...! Fino all'ascensore principale del blocco... e poi...!» «E poi?» gli fece eco Hairy. «E poi scenderemo fino ai livelli inferiori!» rispose Sendo. «I livelli inferiori!»
«È l'unico modo per uscire da Babilonia, vecchio mio... almeno visto che siamo a piedi!» rispose; e poi, afferrata la mano della Shibartz, che sussultò nel contatto, come se fosse la prima volta che qualcuno faceva quel gesto, disse: «Forza, andiamo!» La ragazzina si lasciò trascinare via leggera come una colomba, e doveva essere la prima volta che il mondo vedeva una Shibartz che veniva tratta in quel modo! «Allarme! Allarme! State per lasciare l'ecosfera abitabile! Allarme! Rischio di contaminazione esterna!» gridavano le gracchianti voci artificiali nei megafoni, ma Sendo continuava a guidare diritto il vecchio sgangherato mezzo che avevano comprato nei pozzi sotto Babilonia⁸ con gli ultimi quattrini rimasti, un vero pezzo di antiquariato che correva su quattro autentiche ruote di gomma. La galleria saliva e saliva ed era tutta oscura; gli allarmi continuavano a risuonare e a chiamare dietro di loro, invano. «Non ci inseguono più?!» gridò Hairy, volgendosi indietro, fuori del finestrino dell'autocarro. «Hanno paura di andare all'esterno!» replicò Sendo «Ma se un Sacerdote darà loro l'ordine saranno subito dietro la nostra coda come mega-iene affamate...!» Ed ecco che di fronte a loro si profilò una lontana luce, che non era luce elettrica, non era una fosforescenza sotterranea... era pura e splendida luce vera. Quando le corsero incontro e improvvisamente esplose intorno a loro anche la Shibartz si coprì gli occhi, non potendo sostenerne la visione. Ma dopo qualche secondo di accecamento correvano sotto al sole incandescente dell'esterno sulla striscia grigia della strada. Intorno erano rovine di palazzi e di un'antica città, che un tempo era stata Babilonia, tutti coperti di verdi alberi, che crescevano tra le finestre e sui tetti spaccati. Lontano tremolava l'orizzonte, rosso e marrone e color sabbia del deserto, al di fuori della cintura di acque che i due grandi fiumi formavano incontrandosi, un oro-verde drappeggio di macchie di vegetazione, pozze e lagune fluviali, dove sprofondavano antiche costruzioni. Si volsero indietro, e su di loro giganteggiava la mostruosa sagoma di Babilonia, la città ziggurat, che per miglia e miglia gettava la sua ombra, alta e metallica, toccando il cielo come la torre di Babele del mito. Come strani uccelli rigidi in cima lampeggiavano di riflessi metallici le navi imperiali, tra le torri argentee dove vivevano come Divinità i Signori dell'Impero, nei loro giardini pensili.
Ma distolsero subito lo sguardo per guardare l'acqua e le piante che a stento ricordavano e per respirare l'aria calda e intrisa di odori pungenti. Uno stormo di uccelli dalle lunghe gambe spiccò il volo da un acquitrino presso la strada, che in parte vi sprofondava, confondendo la sua traccia sotto il multiforme pelo dell'acqua; mentre sollevavano alti spruzzi andovi in mezzo la Shibartz si sporse dal finestrino per guardare gli uccelli e gridò: «Ooo!» «Allora sai parlare!» esclamò Sendo. Ma la Shibartz, rivolgendosi verso di lui, non rispose, e lo guardò intensamente. Le avevano preso dei vestiti, naturalmente, nel mercato nero dei pozzi; adesso vestiva alla Babilonese e il kaftano di colore chiaro e blu le copriva la testa completamente rasata, come anche le braccia con i segni dei Sette Serpenti. Di fronte a loro cominciarono a profilarsi le propaggini di una specie di centro abitato; coloro che non seguivano i dettami dell'Ingranaggio e del Meccanismo, erano stati costretti a vivere all'esterno, dentro all'aria che portava germi e malattie, vivendo come potevano, senza il o delle grandi macchine che producevano cibo quasi dal nulla. Era un insediamento sorto tra le rovine della vecchia Babilonia e in parte costruito nuovo con mattoni essiccati al sole; ma Sendo fermò il furgone appena fuori delle prime case e disse: «Da qui in poi devi andartene per la tua strada...» sorrise alla ragazzina «... noi avremo dietro tutto l'Impero babilonese: ce li trascineremo dietro per un pò, appena troveranno il coraggio di mandare delle navi fuori dalla città...!» «Qual'è il tuo nome?» disse allora la Shibartz, rivelando una voce sonora e squillante. «Attento, Sendo!» esclamò ridendo Hairy «Stai per dire il tuo nome a una Shibartz!« «Credo che adesso sia un pò troppo tardi per preoccuparsi!» rispose lui «Io mi chiamo Sendomir Nibiru, mia signora!» «E io sono Hairy Delbin!» rispose con un inchino svolazzante rovinato soltanto dall'impedimento dello stretto abitacolo. La Shibartz li fissò, quelle due facce irriverenti e sciocche, e alla fine capì forse qualcosa di chiaro soltanto a lei, e finalmente sorrise, con un volto così luminoso da far impallidire le fornaci atomiche di Babilonia. E disse: «Quando mi hanno
presero dal mercato dove vendono umani e mi portarono dentro al tempio degli uomini incappucciati, ero molto piccola... non ho mai visto la luce del sole vero, non ho mai saputo che esistesse un mondo come questo, e neppure che gli esseri umani potessero sorridere o provare sentimenti. Credevo che il mondo fosse soltanto una macchina sorda, che mio padre fosse soltanto il Caso: quando sono venuti i soldati e hanno ucciso tutti gli altri uomini, non ho provato nulla. Mi dissero che dovevo difendere il Sacro Culto, che ero stata tolta dal mercato degli schiavi perché avevano visto il potere in me. Ho fatto quello che dovevo fare, ma... altri uomini incappucciati e con maschere sul viso mi hanno portato in un altro posto, ma anche questo, sebbene non vi fossero statue e incenso, ma luci elettriche e metallo, era freddo come il precedente. Ma ancora non ho provato nulla: perché invece ora la mia pelle è calda? E perché voi, che siete uomini come gli altri che ho incontrato fino ad ora, non siete freddi e immobili come fantocci? Perché, nonostante io possa bruciare ogni cosa con il fuoco, non avete paura come gli altri, e non volete nulla da me? Perché mi avete portato qui fuori, sotto il sole e lontano dalle tenebre?» Sendo sorrise e disse: «Perché io e quest'idiota con i baffetti siamo soltanto degli sciocchi gentleman!» Hairy lo scosse per una spalla, ed esclamò: «Sendo! Non abbiamo più tempo per flirtare! Stanno arrivando!» e indicò il cielo oscurato da Babilonia, dove pullulavano come stormi di corvi puntini neri di aereomobili. «Vai, vai!» esclamò allora Sendo, facendola smontare «E prendi questi... sono gli ultimi nostri risparmi...» disse, ficcandole un borsello di pelle «... lasciare una ragazzina come te a sé stessa, mi ripugna, ma, il cielo mi danni, sto parlando a una Shibartz! La gente che vive fuori di Babilonia non è fredda come coloro che vivono nell'ombra, sono sicuro che troverai molta buona gente!» «Sendo!» esclamò con urgenza Hairy. «Addio!» disse allora; e Hairy le prese la piccola mano e la baciò, e disse: «Addio, principessa!» E senza aspettare che lei potesse ringraziare, o parlare, o salutarli ancora, perché erano degli stupidi che odiavano gli addii, sgommarono via con il furgone sgangherato. La Shibartz, che non aveva neppure un nome, perché nessuno aveva mai pensato che fosse necessario ne avesse uno, guardò i suoi salvatori
allontanarsi nella polvere e mormorò: «Sendomir, Hairy...» e poi si accorse che dentro il borsello c'era qualcosa di duro e di quadrato. Allora svolse il pacchetto e trovò che Sendo le aveva lasciato quel vecchio libro che aveva trovato dal rigattiere di cui Hairy aveva paura. Non era un libro di magia nera, ma qualcosa di un tempo antico, quando i libri si leggevano per vivere avventure impossibili e per sognare... chissà che cosa aveva voluto fare, quello sciocco di Sendo, lasciandolo alla Shibartz! Fece scorrere le dita sulla copertina rovinata e lesse il titolo: ''Alice nel Paese delle Meraviglie''. E in quel momento con grande frastuono arono sopra di lei ronzando le navi babilonesi, che andavano in caccia dei due nemici dell'Impero, nere lance che interrompevano la luce solare. «Ehi! Ragazzina!» esclamò una voce dietro di lei «Cosa fai là? Vieni via, non rimanere vicino alla strada! È pericoloso attirare l'attenzione dei soldati imperiali!» era una vecchia signora del villaggio, che la chiamava dalla soglia di una delle prime case. Allora lei si volse e disse: «Ma non sono di qui: non so dove andare!» «Vieni, vieni qui!» esclamò quella, e Shibartz si avvicinò alla soglia della sua casa; e la donna disse: «Ragazzina, che occhi strani che hai! Da dove vieni? E come ti chiami?» La Shibartz fissò il libro che aveva in mano e poi sorridendo a sé stessa, rispose veloce: «Alice!»
Il calendimaggio delle streghe
Sotto l'ombra ondeggiante dell'insegna della fetida locanda, la vecchia Marga si curvò con la sua schiena gobba sopra ai piattini dei suoi amati gatti e rovesciò il contenuto della sua sporta. Le ombre erano già lunghe e risuonò in alto il richiamo della campana, e la vecchia Marga si affrettò a correre indietro a casa, con il suo o caracollante, prima che la notte avvolgesse le strade senza luci. Le tenebre erano la casa del demonio e dei cuori neri, non dei figli del Signore; erano anche la dimora delle bestie e di ciò che non è umano... ed era anche una notte speciale e terribile, quella. Tanti occhi luminosi famelici spuntarono nell'ombra del vicolo e puntarono i piatti di Marga. Con un miagolio sonoro tutto il vicolo, quasi che fosse un'unica entità singola di pelo e code, si lanciò sul cibo della vecchia. Ma un altro paio di occhi, che stavano ben più in alto rispetto alla testa di un gatto, brillarono non meno ferini di quelli. Un gatto soffiò, gli altri puntarono la coda come punti esclamativi e ci fu un fuggi-fuggi violento, ma un felino grosso e troppo goloso non fu altrettanto pronto e finì diritto diritto nel sacco. La bestia si dimenava come un ossesso, come un demonio, ma non c'era alcuna possibilità di fuggire. E Sendril il ladro disse: «Mi dispiace fratello randagio, ma stanotte ci sei finito tu nella pentola!» Ma non aveva certo il tempo di rimanere là a parlare con un gatto. Se non avesse fatto in fretta, qualcuno sarebbe morto quella sera, e si trattava di un uomo, questa volta! “Anche se è una canaglia figlio di una madre bastarda!” si disse, saettando nella notte come un'ombra.
«Sendril, figlio di un cane!» esclamò il grosso bandito tatuato, fronteggiandolo con tutta la sua imponente stazza «Mi auguro per te e per il tuo amico che tu
abbia portato quello che ti è stato chiesto!» «E' qui con me!» berciò Sendril, mostrando il sacco inerte «E adesso fammi strada, o vuoi far aspettare che quel tuo agghiacciante padrone chiami uno dei suoi demoni per farti muovere?» Al menzionare il “padrone” il bandito sbiancò, sebbene di cose ne avesse viste, di uomini spaccati a metà da un colpo di spadone e torri bruciate fino alle fondamenta, si affrettò a far strada allo smilzo e dinoccolato ladro. La stamberga dove si era riunita la peggior feccia di Angaria cadeva a pezzi; il tetto era squarciato nel mezzo, e la luce di una luna verdastra entrava chiazzando di colori ultraterreni i sei uomini, le pareti muscose, il pavimento cosparso di detriti, e un uomo con pesanti paludamenti neri che stava legato come un salame e buttato come un sacco in mezzo a loro. «L'uomo è qui!» ruggì il grosso bandito tatuato, entrando, con una voce da orco, che pareva dovesse dire da un momento all'altro “dove sono i bambinetti da mangiare?” e l'uomo a terra sollevò a stento una faccia devastata dai pugni verso i nuovi arrivati. Sendril entrò dopo il gigante e l'uomo legato esclamò, con le labbra spaccate: «Pezzo di idiota! Cosa ci fai qui?!» «Sono anch'io contento di vederti, Morbius!» esclamò allegramente il ladro, grattandosi il naso sottile e lungo. «Spero...» disse allora una voce orribile, graffiante come metallo sull'ardesia «... spero che il nostro “ladro” dal sorriso pronto... abbia anche qualcos'altro di pronto... per me!» «Lo ha portato, padrone!» vociò il gigante tatuato, ma quella voce abbaiò: «Non sto parlando con te, Kragan!» e tutta la baldanza da ogre di Kragan si ridusse a un minuscolo refolo di voce che gli scappò tra i denti gialli e mezzi rotti. Sendril, con disinvoltura, si fece avanti e disse: «Ecco qua! Te l'ho portato, come promesso! E ora libera il mio amico!» «Amico!» disse la voce spaventosa, e dall'angolo più buio della stanza emerse un ceffo tutto vestito di nero, il volto esangue, pallido come un libro di magia nera, ma gli occhi febbrili, senza posa, e portando alle labbra troppo turgide una mano su cui campeggiava un vistoso anello di rubino, disse ancora: «Trovo
sconcertante sentire in bocca a un tizzone sputato dall'inferno come te, messer...» lo disse con un tono ironico, ma in bocca a quell'uomo l'ironia era come una pioggia di acido sull'erba fresca, e non faceva ridere nessuno «... messer Sendril, la parola “amico”! Eppure sei tornato... cosa ti lega mai a un mago fallito come questo, da rischiare la tua vita, nonostante tu fossi riuscito a fuggire?» Sendril rispose, con una scrollata di spalle: «La mia professionalità, suppongo...! Mi hai chiesto una vita, in cambio della vita del mio compagno... anche se la sua pellaccia, intendiamoci, non vale una mezza pergamena di quelle con cui si titilla tutto il giorno...!» «Sendril, idiota!» berciò Morbius dalla sua scomoda posizione. «... ma che ci volete fare!» proseguì quell'altro, posizionandosi proprio ai limiti della luce lunare (e intanto la luna saliva nel cielo, accompagnata da vapori verdi, e c'era qualcosa di strano, nella sua faccia, come osservare la faccia scheletrica di una vecchia strega delle paludi) «Quando mi si incarica di qualcosa... mi prude il naso, non posso resistere! Anche se questa volta mi è stato fatto rubare qualcosa che di solito non rientra nel mio repertorio...!» «Basta parlare!» sibilò come un serpente l'antico stregone Baoriano «E' quello che deve essere, quello che tieni in quel sacco?!» Sendril disse: «E cos'altro può essere? Il cuore strappato della figlia del governatore di Seltia!» Morbius diede un basso sibilo e prese a imprecare come una fornace che sputa fiamme e tizzoni: «Sendril, di tutte le cazzate che hai fatto...! Imbecille, pezzo di demente!» «Sì, sì, ti voglio bene, vecchio mio!» rispose lui, ma il vecchio stregone si fece avanti, impaziente, venendo inondato dalla luce della luna (che ormai era gigantesca, troppo grande, nel cielo) e gridò: «Il cuore di quella femmina! Sì! Quello sciocco del governatore ora piange amare lacrime, per essersi opposto a me, Markar lo stregone! Di fronte a questo anello si sono piegati in epoche remote re e regine ben più orgogliosi di Braenor di Seltia... io lo trovai tra le rovine di una città morta di Baoria e non sapresti tu, Morbius, povero maguccolo da baraccone, e tu Sendril, con quel naso infedele, non sapreste nemmeno immaginare quale potere si dischiude tra le mie mani! Eppure Braenor osò rifiutarmi sua figlia, la bella Ilea dai fianchi d'ebano... e ora il cuore di quella
puttana sarà mio, strappato dal suo petto! E Braenor ancora non sa quale altro orrore stia per abbattersi sulla sua casa! Ma ora, ladro, dammi quella preda!» «Aspetta!» disse Selidor, dando occhiate nervose alla luna, che stava raggiungendo lo zenit «Non vuoi sapere come il miglior ladro di Angaria sia divenuto anche un assassino?» «E che importa? Il sangue dell'omicidio ricada sulla tua tesa, Sendril!» «Non vuoi sentire di come ho attraversato le porte del palazzo del governatore, come un fruscio nella notte?» insistette quello. «Sentirai frusci di unghie di esseri d'ombra graffiare il tuo cuore, se non mi dai subito quel sacco!» berciò al colmo dell'impazienza il mago. «E di come sono entrato nella camera della ragazza, che dormiva ignara, il pugnale nella destra, simile a uno spettro, simile alla morte?» «Tu!, vedrai la morte! A che gioco stai giocando, sciocco ladro?» «Allora... reclami come tuo questo prezzo dell'omicidio?» disse improvvisamente Sendril, mentre la luna era immensa sopra il cielo. «Mio! Sì, mio!» e con rabbia gli strappò il sacco di mano, e lo aprì (e intanto Sendril cominciò ad allontanarsi, indietro, pian piano, e i suoi piedi si fermarono vicino alla testa del mago Morbius). Ma ecco che con un urlo il mago esplose: «Sendril! Non il più grande ladro, ma il re degli sciocchi! Così verrai ricordato, mentre sprofondi nel tuo sangue! Cos'è questo?!» e agitò il gatto morto in aria, e i peli ritti, coperti di energia elettrostatica, rilucevano nella luna malsana «Come hai potuto pensare di potermi ingannare?» «Ma io ti ho ingannato, Markar!» gridò Sendril, mentre improvvisamente un suono cupo riempiva l'aria e il cielo rombava. Gli uomini di Markar si guardarono l'un l'altro, pallidi come stracci immersi nell'ammoniaca e Markar stesso gridò: «Cos'è... cos'è questo rumore?» «Sei uno stregone, e non lo sai?» disse il ladro «Non lo sai che notte è questa?!» «Il... il calendimaggio!» esclamò Morbius «Sendril, sei un pazzo, tu lo sai che cosa...!»
«Io spero solo che le storie che tu, mago da baraccone, non fossero soltanto farloccate buone per imbonire le ragazzette!» gridò Sendril, nel rumore sempre più forte, a cui si mescolavano ora fioche grida, stridii, graffi e risate orrende «Altrimenti non porteremo il culo fuori di qui!» Morkar guardò in alto e una densa nube nera, come di milioni di locuste, oscurava il cielo ad est e diveniva sempre più grande, come una colonna di fumo nero che il vento trascina. «Non è possibile!» gridò «Che magia è questa?» «Non hai ancora capito...? E'...!» prese a dire Sendril, ma non terminò mai quella frase. In un attimo un miagolio assordante riempì l'aria e agghiacciò il sangue nelle vene a tutti. E poi il rombo cessò, di colpo. La luna si spense... e Sendril forse gridò, forse fu Morkar a gridare. Quello che il ladro seppe fu che si era caricato Morbius sulla spalla, proprio come se fosse un sacco e che era corso fuori, con le gambe che mulinavano come due pale. Grida inumane e schiocchi violenti, di ossa, di uomini, che si spezzavano, riempirono l'aria dietro di loro e l'insopportabile miagolare, gigantesco e cavernoso, infieriva sopra a tutto. Sendril non si voltò indietro nei vicoli bui e tortuosi, finché non raggiunse il Ponte della Dama, e sull'arco teso sull'acqua nera, finalmente mollò a terra il mago, con un sonoro “ahuch!”. «Morbius, avevi ragione!» sputò il ladro, sputando con le parole anche un polmone. Era schiantato, e avrebbe giurato che gli fossero venuti i capelli tutti bianchi. «Ragione! RAGIONE?!» gridò il mago, rotolandosi come una larva di bruco «Slegami, che ti dimostro io che cos'è il torto e la ragione! Che follia... che follia hai fatto?!» «Vecchio mio!» disse il ladro, chinandosi a tagliare le corde (ma scoprì che le mani gli tremavano... a lui tremavano!) «Non potevo certo strappare il cuore a quella bella figliola! Lo sai che nonostante tutto, sono contro la violenza sulle donne, sempre che non siano loro a cominciare! E la figlia del governatore ha un davanzale e dei fianchi troppo desiderabili, per essere sprecati in questa maniera!»
«Ma... che cosa hai fatto?!» Sendril tagliò le corde, e disse: «Le storie di magia che raccontavi erano vere! La notte di Calendimaggio le streghe sono fuori a caccia e i gatti sono i loro famigli: guai a chi uccide un gatto in questa notte: le streghe verranno a strappargli il cuore!» Ma ecco che nell'aria risuonò un altro miagolio spaventoso, che non era di un gatto, perché nessun gatto possiede una gola così smisuratamente immensa, e si affievolì, lontano, verso la luna immersa in un bianco chiarore, quasi come un feto dentro al liquido amniotico, agghiacciando ogni dormiente nella città di Seltia. «Hai sentito!» esclamò Sendril «Vecchio mio, non credo di voler rimanere di fuori ancora, questa notte... non in compagnia di quel miagolare!» E persino Morbius, che aveva visto i libri rilegati in pelle umana della Biblioteca Nera, rabbrividì; perché aveva visto nella casa, aveva visto emergere dalla parete, come un volto che emerge da uno specchio, l'immensa testa ferina del gatto dagli occhi di giada e le zanne come travi, grande come un uomo adulto. E non vi era una luce bestiale in quegli occhi, no! Brillavano di lucida malvagia intelligenza umana!
Il mangiatore di Sogni
Il fulmine squarciò a metà la massa compatta di buio e di ondate furenti. Per un attimo tutti gli oggetti brillarono come se percorsi dal fuoco. Il pennone che piegato in maniera pericolosa sotto il vento violento ondeggiava sopra i marosi aperti come un baratro, gli uomini dalle facce demoniache e l'esplosione di luce sulle loro armi d'acciaio, nella pioggia sferzante che si rovesciava come schiaffi di un gigante, e Sendril con la faccia spaccata, in ginocchio, che riceveva un altro pugno in faccia. Sendril sentì il sapore di sangue in bocca rinnovarsi, mentre la pioggia e il vento gli strappavano il sangue dal labbro spaccato, spargendolo con la spuma vaporizzata nell'aria nera, e girò la testa da sotto in su verso il pezzo di grugno da forca che lo sovrastava, due metri e dieci di pura ignoranza piratesca, muscoli e una grande voglia di trasformargli la faccia in poltiglia di oloturia. Sendril abbozzò un sorriso, e disse: «Non hai niente di meglio da fare con questo tempaccio, Olakor, che appiattirmi la faccia?!» La sua voce era un refolo inconsistente nel caos degli elementi spaccati, ma Olakor, con tre dita nella cintura, l'occhio artificiale che brillava nei lampi in maniera più orribile di quello vero, come se fosse più vivo e demoniaco quello dell'altro, lo sentì bene; ondeggiò assieme alla sua nave che si rovesciava a destra e a sinistra sulla sua gamba di legno a punta, si fece sopra Sendril e li rifilò un manrovescio che avrebbe staccato la testa a un marinaio di acqua dolce. «Sendril, figlio di un cane!» esplose il pirata, che alcuni soprannominava “il guercio”, altri “lo storpio”, i più “la bestia” «Cos'altro di meglio potrei fare?! Potrei essere alla fonda a bere vino scadente, con una donna per braccio, o potrei essere sul ponte di una nave Almericia, a sparare piombo e a spaccare teste con la mia spada! Ma questa sera mi diverto così, a spaccare la tua, di testa invereconda!» “Dov'è finito quell'inutile mago, per Baal e per tutti gli altri nefandi Dei?!” si disse Sendril; Morbius doveva essere da qualche parte nella sentina che si nascondeva, o meglio, era preferibile pensare che stesse acquattato nell'ombra ad
architettare uno dei suoi incantesimi per tirarli fuori da quella spiacevole situazione. Il termine “mago” dovrebbe significare che poteva fare il diavolo a quattro con gli elementi terrestri, richiamare le dannate forze dell'inferno, scatenare diaboliche forze cosmiche! E se una volta Sendril avrebbe riso, adesso non rideva più molto pensando al potere della magia. Ma per il momento l'unica forza diabolica che vedeva scatenata era quel Korlo sulla sua faccia, il picchiatore della ciurma di Olakor. «Olakor, vedo che non la stai prendendo bene!» provò a guadagnare tempo il ladro «Non ci siamo fatti più di una bevuta in ato?! Perché devi essere così precipitoso e fare qualcosa di cui poi senz'altro ti pentiresti?!» Olakor prese a tamburellare nervoso sull'elsa diamantata della sua spada, il che era brutto segno. «L'unica cosa di cui mi pento, è di non averti ato tutta la mia spada attraverso lo stomaco a Karopli... ti dovevo lasciare sulla spiaggia, sfilato come un'aringa!» abbaiò il pirata, riuscendo a sembrare persino più spaventoso dell'abbattersi incessante della tempesta «Così non dovrei avere ora il dispiacere di far stancare i pugni Korlo per smantellare quella tua inutile e fastidiosa faccia!» «Via! Per un furtarello tra amici!» buttò là il ladro. «Mi rubasti mezzo bottino del sacco di Karopli!» ululò Olakor «E ora ti trovo a sgusciare sulla mia nave come il ratto di sentina che sei... e cerchi ancora di derubarmi, cane rognoso! Ma questa volta hai infilato le due dita sporche nella tasca sbagliata...!» e così dicendo tirò fuori dal corsetto piratesco un lungo ciondolo di rubino rosso, di un colore cupo come il sangue e dai riflessi mobili come il fuoco, che il lampo illuminò di bagliori ultraterreni tali da accecare gli occhi «L'occhio di Baal! Era questo che cercavi, vero?» bestemmiò il pirata «Il diavolo mi porti, se capisco come hai fatto a sapere che era nelle mie tasche! Ma sei poco saggio: tra tutti i tesori e i gioielli che se ne stanno nelle loro fosse e sotto le rovine, proprio qui dovevi venire a farti staccare la testa dal collo?!» «Se solo tu mi lasciassi spiegare...» prese a dire Sendril «... credo che potremmo arrivare a comprenderci a vicenda...» «Comprenderci?!» «Non crederai che sia tanto stupido di venire a guardare la tua brutta faccia, quando, come dici giustamente tu, ci sono tanti tesori in giro che aspettano
soltanto di essere raccolti?» mise su una faccia innocente, il ladro, che però non gli riuscì molto bene, visto il suo naso, la bocca rotta e il rollare della nave «Ovviamente c'è un ulteriore motivo... se tu mi lasciassi spiegare, forse potremmo evitare un disgraziato accidente che potrebbe capitare da un momento all'altro!» Olakor rise, rise di cuore! «Sendril, non credi che ti conosca bene? Quale accidente?! Parli del tuo, del tuo corpo che scivola dentro alle catacombe del mare, a congelarsi per sempre l'anima dannata nelle profondità! Perché altro sulla mia nave non può accadere! O parli di quel mago da quattro soldi, che si nasconde ancora da qualche parte? I miei lo stanno cercando, e sta sicuro che lo troveranno! Era questo il tuo piano? Il tuo “disgraziato accidente”? Il tuo mago che se ne esce dal nulla lanciando lampi viola? Osi sfidare la sorte fino a questo punto?!» Sendril rispose: «Ti sbagli: la mia fiducia in Morbius è pari a quella che nutro nell'ispirare pietà con il mio naso rotto al tuo Korlo. Non sarebbe sbagliato tuttavia dire che la disgrazia possa venire da quel mezzo mago... in realtà è proprio a causa sua se sono in questa situazione!» «Ah! Che storia interessante stai per raccontare, sperando di compare del tempo che non hai?!» rispose il pirata. «Niente di speciale! Solo di poveri uomini che volevano attraversare il territorio dei cacciatori Ind...!» «I cacciatori di teste! E che diavolo ci facevi in quella terra di mangiatori di carne umana?!» sbottò Olakor, e Sendril si concesse un sorriso interno; i pirati sono quelli che possono resistere di meno a una bella storia. Tempo, aveva bisogno di tempo per trovare una soluzione! «Niente di che...!» rispose prontamente «Non mi ero comportato molto bene a Barsi, la città del Sultano di Rem's; un tipaccio dalla barba nera come il demonio aveva parlato un po' troppo in una certa locanda di come il Sultano fosse molto geloso del suo harem e io mi sentii punto sul vivo, nel mio orgoglio, intendo! E questo tipo barbuto era, pensa un po' te, una delle guardie del cancello esterno del palazzo... e andò avanti (non ci si può più fidare di avere della manodopera seria, al giorno d'oggi!) ancora parlando di certi tesori, delle casse di oro... e persino di alcuni libri proibiti di magia che avrebbero dovuto risalire al vecchio
Festo, il grande mago! A me luccicarono gli occhi, ma luccicarono anche a quello sciagurato di un mago che mi porto dietro... che dire? Lo sai come sono fatto...!» «Lo so bene, cane!» rise il pirata «E come fu l'harem del Sultano?!» «Olakor, vecchio mio! Una delusione: le tanto decantate concubine erano tutte magre donnette senza chiappe... e quanto al tesoro, il caro Sultano aveva solo monete di rame nei suoi forzieri... quelli che non erano vuoti intendo! In poche parole, era in bancarotta e io fesso come pochi mi sono lanciato a derubare un poveraccio! Per non parlare dei libri di magia nera, che non erano altro che volumi di un certo prestigiatore da quattro soldi dell'Era Terza, che al massimo poteva far sparire una colomba in un cappello!» «Ben ti sta! Ma immagino che al Sultano non abbia comunque fatto piacere che qualcuno scoprisse che i suoi decantati preziosi erano soltanto chiacchiere!» Sendril sospirò. «No di certo! Per questo il giorno dopo stavamo scappando come indemoniati... quel cane mise persino una taglia sulla nostra testa, dicendo che “lo avevamo derubato di 10 madie d'oro”! Quale oro?! Quale madia? Sacchi di schifoso rame! Per questo finimmo nel territorio dei mangiatori di uomini degli Ind, cercando scampo per le nostre poco regali chiappe!» «Ma ancora non capisco che cosa sia successo laggiù e Perché tu sia venuto a derubare me, a mille miglia di distanza, e farti ammazzare da Korlo e non dagli spiedi dei cacciatori di teste!» «Te lo dissi, per colpa del mio mago!» ma Sendril non terminò la frase che un trambusto scoppiò sotto coperta e nel soffiare del vento, come il lamento di mille sirene maledette, emersero altri due marinai tatuati, che reggevano un sacco, o meglio, un uomo, fradicio come un sacco, che era Morbius. Era terreo in volto, ma Sendril sospettò subito che non si trattasse della paura dei pirati. E che non fosse nemmeno così atterrito per la sorte sua... «Ecco il tuo mago!» sbottò Olakor, ma improvvisamente Morbius saltò su e gridò: «Sendril, non abbiamo tempo! Sta arrivando!» «Per Baal!» imprecò Sendril e anche Olakor rimase interdetto, perché aveva visto la paura sulla faccia del ladro, una delle poche espressioni che di rado prendevano casa sulla sua brutta faccia.
E d'un tratto nel rumore del vento indiavolato si scatenò un subitaneo e incongruente silenzio. Sì, il vento era caduto di colpo, come chiudere una porta, e il mare non mugghiava più. I lampi non brillavano più e le tenebre erano più fitte che mai. Olakor imprecò in modo orribile e gridò: «Che diavolo succede?!» Ma sul ponte non erano più soli; una figura di ombra più scura e densa delle ombre stesse, del fondo del mare, degli abissi della maledetta notte, era in piedi con loro, qualcosa che non era un uomo, stava là assieme agli uomini. Allungò un flaccido braccio e toccò un marinaio, che era bloccato e ipnotizzato dal terrore come un ratto sotto lo sguardo di un serpente... e il marinaio urlò. Le tenebre percorsero il suo corpo, lo divorarono come una gangrena e divenne tutto nero. Il corpo si agitò sommerso di tenebre, come se gli si fosse stato gettato addosso un mantello nero, e sembrava un uomo che avesse preso fuoco, solo che erano ombre le pullulanti fiamme che lo consumavano. Allora tra i pirati scoppiò l'orrore. Sendril fu finalmente libero. E si lanciò su Olakor. «Che...! Che cos'è quella cosa?! E che stai facendo, maledetto?!» bestemmiò il pirata, sollevando le mani per difendersi dall'attacco. Sendril gli andò addosso con tutto il suo peso e i due uomini si trovarono a terra, lottando come bestie e rotolando sul ponte in un unico ammasso di arti. Ma Olakor era più forte dell'asciutto Sendril e con uno sforzo sovraumano lo scansò di lato, e lo mandò a sbattere contro la spalletta del ponte. «Cane! Cane traditore!» abbaiò il pirata, e aveva preso mano alla spada. Ma ecco che la figura di ombra era dietro di lui e Olakor aprì la bocca per urlare. Le tenebre, come una cosa viva, come scolopendre nere si riversarono dentro la bocca aperta e una massa come di pece ricoprì il corpo sconvolto dal dolore. Quello che era stato Olakor crollò in mucchietto di nera materia ai piedi di Sendril, e fu su di lui che rivolse lo sguardo la materia d'ombra, la figura umanoide fatta di incubi. Eppure una sola cosa di Olakor si era salvata: la gemma, che rosseggiava di colori incredibili in mezzo al nero, che rotolava pericolosamente via sul ponte inclinato. Sendril si tuffò ad afferarla: sollevò in alto l'occhio di Baal e questo risplendette. E l'essere di tenebra si fermò, indietreggiò e improvvisamente un rovescio di
onde colossali spazzò il ponte con violenza mostruosa, e le onde erano aperte su di loro come la bocca di un mostro abissale. La tempesta era tornata a scatenarsi, sfondando la “bolla” che sembrava averla circondata con l'arrivo dell'entità. Sendril gridò: «Morbius!» ma venne travolto dalla forza delle acque.
Su di una spiaggia percossa dal vento e dalle onde bianche di spuma furiosa Sendril si accasciò sulla sabbia impastata. Gli scogli neri intorno a lui erano tempestati dalla forza delle onde, ma nella sua mano era ancora salda la pietra rossa. E d'un tratto vide davanti a lui una sagoma nera, svenuta, sul limite delle acque. Corse e rivoltò con la faccia all'aria Morbius, che prese a sputare acqua e alghe. «Lo sapevo!» biascicò il mago «Che quell'incantesimo di “respirare sott'acqua” mi sarebbe servito!» «Al diavolo tu e la tua magia!» esclamò Sendril. Morbius spalancò gli occhi e gridò: «La pietra! Hai preso la pietra?!» Sendril disse: «Eccola qui, mago del demonio!» e gli diede un gran pugno in faccia. «Perché mi colpisci?!» si lamentò il mago. «Questo è per tutti i pugni che ho preso su quella dannata nave... tutto per questo gran casino che hai combinato!» esplose Sendril e il mago seppe che aveva ragione. Perché quando vennero accerchiati nelle paludi dai tetri, silenziosi, cacciatori Ind, con le loro facce dipinte di bianco come teschi, il mago aveva evocato per la loro salvezza qualcosa dalla terra, lo spirito della Morte. E questo era venuto, vincolato da incantesimi più vecchi dell'uomo, e aveva seminato la morte tra i cacciatori. Ma mentre Sendril fissava impaurito e affascinato la scena, Morbius aveva cominciato improvvisamente a tremare e con un urlo orrendo si era voltato... e aveva preso a correre! Sendril sul momento non aveva compreso, ma poi gli vennero in mente le parole lette, prima di lanciarlo via, su quel
compendio di inutili giochi di prestigio della Terza Era trovato nel palazzo del Sultano: “sono sciocchi i mortali che credono di poter vincolare forze che esistettero prima di loro, e che esisteranno dopo che la terra sarà un arido sasso nel vuoto”. E anche lui aveva cominciato a correre, mentre l'essere venuto dal mondo dei morti si voltava verso di loro: solo l'occhio di Baal, come appresero da un adoratore del demonio di Prana, nella loro folle fuga, poteva scacciare il Mangiatore di Sogni. Il Mangiatore di Sogni era inesorabile, e non dava mai tregua alla sua preda. Era la Morte, che tutto spegne e consuma, che neppure il mare può fermare, perché essa ha più fame dello stesso crudele mare.
Cinque chiodi
Un sole limpido, appena dopo il temporale, faceva brillare le gocce di pioggia sulle gemme bianche e rosa. I giovani alberi si contendevano lo spazio contro i vecchi, sugli ampi prati, presso la curva della strada. Un bosco di rami curvi e nodosi, cresciuto di sua spontanea volontà; nessuno veniva però a cogliere in autunno le mele di quel bosco, perché la maggior parte erano aspre e selvatiche, e ... quel posto era troppo vicino alla montagna. I ruderi che spuntavano come mozziconi bianchi nel mezzo delle chiazze degli alberi dimostravano che non era stato saggio vivere troppo vicino agli Dei. Sulla strada che i rami costeggiavano i due viaggiatori camminavano a o lento; il più alto dei due si schermò la fronte scura, fissando lo sguardo sulla montagna che incombeva con la sua ombra, in mezzo a banchi di nuvole che vorticavano risalendone i fianchi. Una lingua di neve scivolava rotolando in ampie volute bianche giù per una stretta valle (era una nevicata fuori stagione, l'ultima dopo la fine dell'inverno), ma il rumore della slavina non giungeva fino a loro, rendendo tutta la scena come un sogno. Due grossi monoliti costringevano la strada a restringersi e incurvarsi e l'uomo più piccolo disse: «Signore, di qui in poi è il dominio della montagna...! Non dovremmo proseguire oltre!» «Quell'uomo che sto cercando: si trova lassù!» rispose, secco, l'uomo alto, che veniva da molto lontano «E ora avanti, canaglia! Non ti hanno convinto quel sacco di monete, prima? Ora fammi strada, visto che ho comprato il tuo coraggio con l'argento!» L'uomo piccolo si strinse nelle spalle, combattuto tra la paura ancestrale e dei racconti che vorticano nelle stalle e intorno al focolare, come spettri neri, e il desiderio del brillante argento. E ancora di più della montagna e delle sue storie, in quel momento aveva paura
dello straniero. Scuro in volto e dagli abiti pesanti, gli occhi troppo mobili sotto a palpebre che raramente si chiudevano, vi era in lui un'agitazione di folle, una smania insoddisfatta, e strani erano gli anelli sulle sue dita, come il bastone di legno di agrifoglio, irto di “scorni”, nodi e punte, che portava al fianco. Ma poi si scosse: il desiderio dell'argento era più forte della paura! Salirono tra i due massi e scure rocce erano disseminate tutt'intorno al sentiero. Non si udivano forti suoni, neppure il verso di animali; e l'odore della neve era forte. Raggiunsero un basso boschetto di mughi, dal penetrante odore di resina. E il piccolo uomo disse, a mezza voce, per non offendere il silenzio: «Signore! Sentite come non si ode un solo suono? In questa montagna vivono gli Dei; non gli uomini! Non andiamo a cercare quella persona! Non ci sono impronte nel fango fresco: non ci sono altri uomini quassù!» Rispose l'altro: «Cosa puoi saperne, tu? Tu guidami sul sentiero, fino alla roccia che ti dissi!» e poi lo sguardo si fece lontano, come se la luce avesse abbandonato i suoi occhi e si fosse rintanata nel fondo del cranio, a fissare mondi distanti, che non stanno sotto il cielo. «L'ho inseguito nelle foreste del Parneissos! E attraverso le paludi di Morìa!» esclamò, percorso da un'energia nervosa inarrestabile «E sempre mi stava davanti, sempre sfuggente, le sue tracce evanescenti come il ricordo di un sogno! Ma proprio una settimana fa ritrovai le sue tracce a Bodhem; aveva dormito con una prostituta e molti lo avevano visto pavoneggiarsi nella locanda! Come sempre ha fatto, nonostante lo sceriffo di Parampolum lo stesse tallonando con 8 uomini, da giorni!» «Parampolum è distante leghe!» esclamò il piccolo uomo «Nella pianura florida dei Tre fiumi! Cosa c'è di tanto pericoloso in quest'uomo, perché lo sceriffo di laggiù lo abbia inseguito per leghe e leghe?!» Rispose: «Invero è pericoloso! E non erano 8 uomini qualsiasi; uno di essi era il noto Milstone, il baviero di Bildenstreim! Si dice che nessuna bestia possa nascondere le sue tracce, nessun animale sfuggirgli, egli è il cacciatore migliore delle Terre Alte! E poi vi era anche Rodin il Segugio, e Elkel, il cacciatore di taglie, con il suo breviario di piombo, che fu un uomo di chiesa... e molti altri! Sono stati radunati tutti per molto oro, per stringere l'ultima morsa mortale
intorno al suo collo!» Ma l'uomo piccolo, fissando le orride rocce che sporgevano più sopra, dalle forme contorte e strane, e il fischio sottile del vento che si materializzava come cosa viva roteando il nevischio in circoli bianchi, pieno di ansia, disse: «Ma nessuno venne fino al nostro paese... se tanti cacciatori famosi e avventurieri fossero ati sarebbe stato impossibile non vederli... invece nessun uomo ò di qui!» L'uomo respirò forte, e strane luci di follia rotearono negli occhi; e rispose dicendo: «... ma l'uomo, il maledetto uomo, venne colto nel sonno a Bodhem! Miracolosamente fuggì dei boschi, ferito, ma i suoi inseguitori erano come lupi famelici, non gli diedero tregua! E infine lo raggiunsero, e...!» Ma si interruppe; il sentiero di fronte infatti, dopo una brusca discesa che evitava una nuda parete di nera pietra (acque stillanti e barbe di muschio secolari la rendevano tale), dentro cui l'immaginazione eccitata vedeva facce di streghe e volti di demone, risaliva verso quello che sembrava un largo spiazzo, come sospeso sopra il vuoto, un prato cresciuto su di un roccione sporgente che si protendeva verso il vuoto. «Laggiù, ecco, laggiù!» gridò l'uomo, improvvisamente animato e con un'energia insospettabile si lanciò in avanti. La guida conosceva quel luogo; e rabbrividì al pensiero, ma non voleva neppure rimanere indietro, sotto quelle rocce orrende. Lo rincorse e nonostante fosse un uomo di montagna si ritrovò ad ansimare per stargli alle costole. E finalmente lo raggiunse, che già aveva varcato la “soglia”; il “sasso di porta” era una pietra spaccata, che formava una specie di arco. Era opera della natura, ma la gente diceva che era opera di magia. E quella era la soglia per le case degli Dei, che vivevano sulla montagna. Il largo spiazzo che si stendeva al di là, da cui si vedevano tutte le valli e le montagne, era come una balconata sospesa sul mondo. Ed era un cimitero. Massi erratici erano disseminati sulla piana, dove pozze d'acqua rendevano molle la terra e riflettevano lampi di sole; croci di legno scomposte e pile di pietre segnavano il luogo dove erano stati sepolti antichi uomini. Nessuno del villaggio sarebbe mai venuto a farsi seppellire là; erano sepolcri antichi, di un altro tempo e si sussurrava sottovoce che solo gli stregoni e le
streghe erano seppelliti là, lontano dal consorzio umano. Ma chi aveva piantato le croci di legno? Eppure lo straniero corse in mezzo alle pietre, senza timore, e con occhi da pazzo si guardava intorno, smanioso, finché non mandò un grido: «Ecco! Qui!» e si inginocchiò nell'erba bagnata e cominciò a spostare pietre muscose. «Cosa fate?!» gridò allarmato la guida «Questo luogo è sacro...! Gli Dei guardano il mondo da qui e quanto ritornano dalle nuvole nere all'alba per ritornare sottoterra, si riposano tra queste tombe! Se profanate questo luogo, la sfortuna e la maledizione si abbatterà su di noi... e anche su tutto il villaggio!» «Silenzio!» gridò lo straniero «Cosa puoi saperne tu, che sei nato nel fango, di Dei, della morte, e del mondo di là?!» e folle continuava a spostare pietre, e gridava: «Qui! Qui sei finito!» E con orrore infinito della guida lo straniero toglieva pietre e anche sassi che apparentemente erano parte del pianoro da secoli; il vuoto che si formava nella rada erba cominciava a formare un'orrenda sagoma, la sagoma di una fossa! E infine da sotto terra cominciarono a sbucare forme orribili... vesti antiche mangiate dal verme e ossa sbiancate che sbucavano da esse, come lampi in un ammasso di nubi. «Cosa avete fatto?!» gridò la guida «Perché avete profanato questa tomba?!» «Ecco l'uomo!» gridò lo straniero «L'uomo che stavo cercando...!» «Un uomo... morto?!» esclamò la guida. Ma l'altro non lo ascoltava: «Lo raggiunsero qui, i nove... lottarono e alla fine lo uccisero: seppellirono il corpo nel luogo che sta fuori dal mondo degli uomini, perché egli era uno stregone! E si dice che il corpo di uno stregone morto sia maledetto anche nella tomba! Questo avvenne più di trenta inverni fa...! Ma finalmente ti ho trovato! Ora i lunghi, infiniti e amari giorni della vendetta... saranno consumati!» Sganciò il suo bastone dalla cintura e da una borsa sotto il vestito estrasse cinque lucidi oggetti. Cinque chiodi di metallo nero. «Questi sono i chiodi della bara di una strega!» esclamò «E ora osserva, piccolo uomo, la forza della mia sete di
vendetta!» La guida cadde a sedere, sconvolta dalla paura di quello che stava per succedere; lo straniero gettò i chiodi dentro alla fossa e sollevò il bastone in aria e gridò: «Kt'an, ftal o surnib'oel!» E subito il silenzio fu rotto da un rombo sotterraneo che saliva e saliva e come se sotto di loro i cancelli dell'inferno si fossero schiantati, il terremoto fece tremare tutto il pianoro; le croci crollarono su di un fianco, i segnacoli di pietre si schiantarono e la guida credette di aver gridato. Ma non appena il silenzio immondo tornò pesante come una cappa un urlo ancora più orrendo si strozzò senza suono nella sua gola. Il morto si alzò a sedere dalla sua fossa, scrollando terriccio e lombrichi con mani d'osso. E fissò le orbite vuote intorno e fissatele infine sullo straniero, disse (o meglio, un vento di morte uscì dalla mandibola spaccata, e nel vento vi era voce da un altro universo): «Chi sei tu? Perché mi hai richiamato dal mondo della morte?» «Non mi riconosci, figlio di un cane?!» gridò, follemente, lo straniero «Sono venuto per avere la mia vendetta!» «La tua... vendetta?» rispose la voce dall'inferno «Mi hai strappato dall'eterno dormire sotto stelle rovesciate e cieli di altri universi, per una vendetta? Nonostante io sia già morto?» «Sfuggisti alla mia vendetta, con la tua morte!» esclamò lo straniero, brandendo il suo bastone «Per questo ti ho richiamato: non hai il diritto di riposare sotto le stelle del Mare Astrale, mentre il serpente nero del rancore mi divora il cuore!» «Oh!, così sia, dunque!» rispose il morto, sollevandosi dal suo sepolcro «Rispetto questo tuo odio bruciante!» Rimase, impossibile a dirsi, in piedi, le ossa che sbucavano nel suo antico paludamento; rimase con occhi pieni di notte a fissare lo straniero. E disse: «E dunque, non vuoi dirmi chi sei? Perché non riesco a riconoscere il tuo volto!» Lo straniero gridò: «Nuova Medea, 1002 AP... in primavera; erano in quattro! Tu irrompesti nella Biblioteca delle Arti Arcane con il tuo mantello svolazzante, borioso e pieno di te: quattro fratelli ti sfidarono, ma tu, cane!, li uccidesti!»
«Ah!» esclamò il morto «Ora ricordo! Mi ricordo di te, e dei tuoi fratelli!» «E dunque, sei pronto?» Non vi furono più parole; lo straniero sollevò il bastone e questo brillò brevemente, ma prima che qualsiasi magia si scatenasse da quello, la mano del morto si sollevò rapidissima e un lampo di luce ne scaturì rapida come il guizzo dell'ombra di un uccello nel sole e con uno schianto orrendo trafisse a metà la fronte dello straniero. Egli cadde indietro in un mucchio scomposto, il cranio spaccato! «Non hai imparato nulla!» disse il morto, avvicinandosi al cadavere «Non ricordi perché sono (ero!) famoso? Jean Antoine Court dalla mano di fuoco! Questa pietra di Jadiar...» e agitò la mano scheletrica, dove era incastonata, nell'osso stesso, una pietra rossa di fuoco «... contiene magie spaventose, che rispondono alla mia volontà più veloci di ogni incantesimo o parola! Nemmeno i nove riuscirono a strappare la mia mano, per impossessarsi della pietra: sbagliavi, se credevi che dopo la morte ne fossi stato privato!» E così detto raccolse il suo bastone e rivolto alla guida, che giaceva più morto che vivo, gli occhi bianchi di terrore assoluto, disse: «Seppelliscilo! Metti un'alta pila di pietre... benché uno sciocco, Beldi dal Bastone era sicuramente un uomo degno di rispetto: il suo odio è stato così forte, da ritornare da solo dalla morte pur di cercare la sua vendetta!» E allora la guida guardò e vide prima di crollare dal terrore che il volto dello straniero non era quello di un uomo appena morto, ma un teschio rinsecchito che notti e giorni lunghi trent'anni avevano consumato fino a sbiancare l'osso!
Automaton Doll
Sendomir Nibiru è sfuggito dalle grinfie dei Sacerdoti Meccanici; la Shibartz che ha salvato e la nera Babilonia sono lontane dietro di lui. Sempre fuggiasco percorre i Sette Deserti, e per le sue imprese tra gli Uomini Blu si guadagna la loro amicizia. Giunge alla città di Ur, triste e decadente, dove trova un motivo per fermarsi a lungo. Gli occhi dell'Imperatore sembrano rivolti altrove, lasciandogli il tempo per respirare l'amara aria percorsa dai profumi delle case da thè e dai bandi dei profeti di sventura, che profetizzano la fine dell'Impero e della Terra.
L'odore forte di sandalo e delle gerbere invadeva l'aria della sera, che rimaneva sospesa, calda e soffocante, sopra i tetti frastagliati, le strade contorte e la tenda per la festa (il tendone teso tra i palazzi sulla piazzetta del Cane), che dalla finestra spalancata Sendomir Nibiru vedeva solo per uno spicchio di rosso colore . Un distante suono di voci e di flauti proveniva dalle strade, e i flauti erano come spettri di vento. La festa degli Saimat era proprio quella notte, quando sarebbe sorta la prima luna di primavera. Seduto sui tappeti persiani che coprivano l'intero pavimento, Sendomir, che gli amici chiamavano Sendo, fissò il basso tavolino di legno scuro, istoriato, sopra cui era appoggiato il piatto dal prezioso orlo blu e oro. Formaggio molle, cetrioli e il fagotto di carne fritto, che a Ur aveva un nome diverso da quello che conosceva lui, rimanevano intonsi; gli toglieva l'appetito l'aria triste della sera, quando le voci luci e colore si confondono fino a spegnersi in un uniforme grigio e poi nero, pochi istanti prima che le lampade comincino a sfrigolare nelle strade. Un divano dalla struttura di legno, basso quanto il tavolino, stava in fondo alla stanza, un piccolo ambiente dalle pareti gialle e curve, la volta a botte; due lampade che emanavano una fioca luce erano intelaiate in quello che doveva assomigliare a un cesto di vimini, ma composto di sottile metallo, e illuminavano a stento le pesanti coperte e i molti cuscini dai disegni geometrici, che giacevano
sparsi sul largo letto. La donna che sedeva con una strana rigidezza sul letto indossava sul corpo nudo soltanto un kaftano dai preziosi ricami e teneva tra le mani affusolate un Tar, ma negli occhi non vi era nessuna luce, nessun sentimento, e reggeva lo strumento in maniera goffa, come un principe vissuto nelle mollezze nel suo palazzo potrebbe reggere in mano una pala. I suoi capelli erano lunghissimi e neri e il viso perfetto, ma immobile come quello di una bambola; una breve scarica di elettricità illuminò i due parallelepipedi bianchi che le spuntavano ai lati della testa, dove avrebbe dovuto avere le orecchie, quando Sendo si volse a lei e disse: «Suonami qualcosa!» L'automaton doll si volse brevemente a guardarlo con i suoi occhi viola inespressivi e facendo un breve cenno di assenso con il capo prese il plettro di ottone che le giaceva in grembo e, con mani che d'improvviso divennero abili mani di suonatrice, suonò una vecchia melodia, che si levò contro il soffitto basso in volute che riassumevano insieme il vento sul deserto, un amore perduto, il viaggio senza ritorno di un soldato. Sendomir si era fermato a Ur, pensando di rimanervi solo pochi giorni, ma erano già ate settimane. Tutto il denaro messo da parte come soldato, e i regali degli uomini blu, si assottigliavano in maniera preoccupante, e non tanto per la schifosa pensione dove era alloggiato, ma per le sue continue visite alla “Casa dei Piaceri di Tafetè”. Ma Sendo non vi andava per il sesso che offrivano a pagamento le automaton doll, gli androidi che le mani dell'uomo avevano costruito riscoprendo antiche tecnologie perdute, da prima della Catastrofe. Quella automaton, che si chiamava “Zeta” (era in realtà meno che un nome: era la sigla stampata sul suo braccio destro), sapeva suonare in modo meraviglioso e la sua voce, quando cantava, era stupenda. Quando suonava e cantava, Sendo era sicuro, i suoi occhi diventavano meno meccanici e lui vi scorgeva una luce di tristezza che però nessun altro era in grado di vedere. «Chi ha insegnato a questa doll a suonare il Tar?» aveva chiesto Sendo a Taferè, una gigantesca vecchia mal truccata, adornata di ricchi abiti e di orecchini d'oro enormi, la tenutaria (umana) della casa di piacere. «Che vi importa?» aveva risposto, sventolando il suo piumino di penne di uccello verde «Quella doll serve in questa casa da quando mio padre, il principe di Rodia, si è messo negli affari con le doll: Perché infatti, diceva, rovinare
buone ragazze di famiglia, quando può pensare una doll ai bassi istinti della nostra gioventù? Le doll sono costruite per questo... lo sa l'Imperatore che programmi ci infilino in quelle teste inespressive! Qualcuno l'avrà programmata per suonare, cantare... con quel suo bel faccino, che non invecchia mai!» mentre lei lo era diventata, vecchia e orribile, pensò Sendo «E per far godere i fianchi di molti uomini, anche! Cos'è quella faccia... siete geloso!? Sciocchi uomini: non vi capisco, perché finite sempre con il perdere il senno con quelle bambole?!» Sendo non aveva risposto; ascoltando Zeta chiuse gli occhi e non riuscì a comprendere come la musica che usciva dalle mani dell'androide potesse essere frutto soltanto di un programma. Lo colse un pensiero bizzarro: lo sapeva Zeta cosa stava suonando? Provava piacere nel suonare e nel cantare? «Zeta, ascolta...!» la fermò allora Sendo, appena ebbe terminato il brano e prima di cominciarne un altro «Tu lo sai che cosa hai appena suonato?» «L'uomo blu sull'oasi...» rispose con voce limpida, priva di tono come ci si aspetta sia un androide, ma con uno strano accenno in fondo, come dovrebbe avere un essere umano. «Chi ti ha insegnato a suonare?» «Non capisco, Signore!» rispose, e forse non capiva la domanda sul serio. Lo fissò ancora per qualche istante, poi, pensando che l'uomo fosse stanco della musica, si alzò, ripose lo strumento e si avvicinò a lui. Si sedette al suo fianco: il kaftano allentato mostrò diverse parti del suo corpo, che erano in tutto e per tutto come quelle di una vera donna, solo che erano perfette e sarebbero prima state distrutte dal fuoco, che non dalla vecchiaia. Lo guardava con uno sguardo triste, non poteva sbagliarsi questa volta!, ma anche con una domanda, se dovesse accostarsi ancora di più a lui. «Zeta!» esclamò Sendo «Cosa provi quando sei costretta a are le tue notti con uomini sempre diversi? Non odi tutto questo?» I suoi occhi viola rimasero fermi, atoni, e disse: «Odiare? Io esisto per i desideri dei miei padroni, non so bene che cosa voglia dire questa parola!» «Umpf!» sbottò Sendo, spazientito e allungò una mano per toccarle la spalla, ma questa volta fu lei, con sua sorpresa, a parlare: «Signore, perché voi invece, in
tutte queste notti, siete sempre venuto qui a trovare Zeta?» «Ti da fastidio?» «No, come potrei? Sono una doll...» parve pensare e l'energia elettrica percorse le sue “orecchie” (dovevano essere costruite in quel modo, altrimenti una doll poteva essere confusa con un vero essere umano) «... ma voi siete un “padrone” strano: invece di giacere con me, preferite sentirmi cantare, o suonare il Tar! E' così interessante la mia voce?» Sendo sorrise, un lusso che dalla fuga da Babilonia si concedeva molto poco spesso: «Non mi stancherei mai di ascoltare la tua voce!» La doll mostrò per la prima volta un'espressione diversa; pareva “sorpresa”, ma prima che Sendo potesse dire qualsiasi altra parola, dalla strada si moltiplicarono i fischi, le grida e il suono dei sistri, e lui, alzandosi, esclamò: «E' arrivata la festa! Andiamo alla finestra a vedere!» «Non vorrei vedere, Signore!» rispose inaspettatamente la doll «Quei sistri e quei flauti hanno un suono malvagio, mi spaventano!» «Non provi odio, ma paura sì?» disse allora Sendo; e che “suono malvagio” poteva esservi in quei flauti? Si alzò, richiuse il kaftano sul davanti, perché anche lui non indossava nulla, e andò da solo alla finestra. Nella curva strada sottostante, ben tre piani più in giù, la rada folla degli abitanti di Ur si divideva con un misto di apprensione e di schifo, al aggio di un colorato serpente rumoroso. Era la processione dei Saimat, gli uomini scuri, che molti chiamavano con disprezzo “diavoli neri”. Soltanto quella notte era loro concesso dal Satrapo di Ur di professare liberamente il loro credo, e di darsi alla violenta e licenziosa baldoria che li contraddistingueva. Qui e nelle altre città dell'Impero. Vivevano ai margini della società, come vivevano ai margini della città; a Ur avevano le loro case, come formiche, dentro al gigantesco sistema fognario della città, che si estendeva oltre le mura antiche a sud, crollate da secoli, come una palude artificiale, dilagando nella pianura in rugginosi canali, dove spuntavano rovine di macchinari, fabbricati distrutti e contorti ammassi di rifiuti.
Sendo si sporse a guardare; in testa al serpente umano di corpi scuri, semi-nudi, che si contorcevano in una danza dalle movenze isteriche, due curvi uomini spingevano un carro leptoniano, che pieno di luci splendenti, i mille bulbi delle lampadine legati in catene che sprizzavano luci, arrancava tra i fumi e gli scoppi assordanti che riempivano la stretta strada di una cacofonica follia. Subito dietro venivano uomini armati di sistri, di tamburi, nudi eccetto che per un perizoma, che in piroette rappresentavano la “corte del Re”. E dietro veniva il “dio”. Prima che la Civiltà Tecnologica del Vicino Oriente raggiungesse il suo apice, e le Macchine del Sogno fero crollare il mondo, prima ancora che i berberi uscissero dal deserto infido, già i Saimat adoravano il “dio”, un dio che nessun uomo aveva mai visto. Era stato sostituito con l'Ariman degli zoroastriani, con il serpente del mitraismo, con il Satana dei Cristiani e la sua forma era sempre mutevole, finché ora assomigliava a tutti e a nessuno, ma dentro era rimasto sempre lo stesso. Era un essere a tre teste, come il mitico Sirrush; una testa era uno scorpione, una seconda testa era un serpente con le piume, la terza testa era un rospo. Erano le tre creature preistoriche, che un tempo (e anche ora) si potevano rintracciare in bassorilievi spaventosi in certi templi di pietre megalitiche e in camere sotterranee lontano dalla luce in luoghi dove gli uomini non devono spingersi. Il mostro a tre teste si agitava e soffiava e scuoteva le piume e improvvisamente davanti comparve un Saimat vestito di piume di corvo e un altro, che portava in volto una maschera fatta di specchi, che rifletteva i volti dei presenti, ma non aveva un viso proprio. Poi vennero due uomini che reggevano la testa di un toro e l'uomo con la maschera di specchi, con l'aiuto del corpo, mimava una lotta contro il toro. Ma ecco che il mostro a tre teste si fece sopra al toro e con chele di scorpione, con morso di serpente, con lingua di rospo tentava di portare via la preda all'uomo con il volto di specchio e al corvo. Sendo fissava la scena affascinato e il rullo dei tamburi e l'isteria dei flauti cresceva sempre di più, ma d'un tratto il mostro a tre teste deviò dall'assalto mimato al toro e si girò verso la folla di ignari abitanti di Ur, che assisteva alla scena chi con disgusto, chi con risate, chi deridendo i feticci degli uomini scuri. E come in una scena al rallentatore da sotto la maschera del mostro spuntarono lame di crudo acciaio e ci fu un balenio azzurro. Un cittadino di Ur cadde a terra
e la folla intorno non si rese conto immediatamente di che cosa stesse succedendo. Ma dopo pochi attimi di confusione Sendo aveva capito, ed era balzato via dalla finestra! La folla non rideva più: gridava ora! Strida spaventose si levarono nelle vie contorte, i flauti presero a suonare con un'intonazione infernale, si udì lo schianto del carro leptoniano che cadeva in mezzo al selciato, in un frantumarsi di lampade e suonò, distinto, alto, lo scoppio di un'arma da fuoco. «Cosa succede, Signore?» chiese l'inespressiva doll, a Sendo che si era lanciato di dosso il kaftano e stava rivoltando i propri vestiti, lasciati in un angolo. «Vestiti!» gridò, che ancora si stava infilando i pantaloni; ma la doll lo fissò, immota, e non comprendeva cosa le avesse detto. Sendo corse nuovamente alla finestra e la scena era divenuta una bolgia infernale; per terra sfrigolavano le lampade esplose ed era pieno di cadaveri. Un gruppo di uomini scuri, sfondata la porta di uno dei palazzi vicini, stava trascinando fuori gente inerme, gli occhi come di fuoco, le mannaie alzate. «Merda!» imprecò Sendo. Aveva trovato la giacca, ma le pistole e il fucile erano rimaste nella bettola dove alloggiava; con sé aveva soltanto la daga dalla larga lama. Si volse a Zeta, ma questa era ancora là, seminuda, che guardava con occhi morti ogni suo movimento. «Maledizione!» imprecò «Cosa fai con quello sguardo? I Saimat hanno deciso che stanotte sarà una notte di massacro...! Per l'Imperatore, che questa stessa scena non si stia ripetendo in ogni città o villaggio babilonese...! Non rimanere là imbambolata, dobbiamo scappare di qui!» «Scappare?» disse la doll, con lo sguardo perso «Io sono un androide servitore, non posso lasciare questo luogo! Il mio padrone...!» Sendo voleva prenderla a pugni... e in fondo, non era semplicemente un automa, quello? I Siamat sarebbero entrati come un'orda di violenza, l'avrebbero straziata e fatta a pezzi (odiavano tutta la civiltà e la tecnologia imperiale) e quelle dita non avrebbero più suonato il Tar, la voce si sarebbe persa per sempre. «Chi sono, io?!» gridò allora Sendomir.
«Che... che cosa?» «Sono il tuo padrone, stanotte, non è forse vero?!» esclamò lui di nuovo. La doll parve contemplare quell'opzione con i suoi occhi meccanici, e infine disse: «E' invero la realtà, mio Signore, anche se non è strettamente logico!» «Lascia perdere la logica!» sbottò Sendo «Come tuo padrone ti dico: “scappiamo da questo posto!”» L'androide allora si alzò, e disse: «Se il mio Signore vuole così, allora andiamo!»; Sendo si fece avanti e le strinse il kaftano con la cintura; non gli piaceva l'idea, strano concetto del pudore, che mostrasse ogni cosa all'aria! Già sentiva tutta la casa di piacere risuonare di urla, e al piano terra il suono di una pistola e il clangore del metallo. La prese per mano, ma la doll si impuntò d'un tratto e voltasi verso il Tar che giaceva sul letto, lo guardò intensamente. «Va bene, prendilo!» esclamò Sendo. La doll allora lo raccolse e portandolo in braccio come si tiene un bambino, lo seguì svelta fuori della stanza. Il corridoio, basso come la stanza, a volta, era invaso di uomini mezzi nudi e di androidi che si guardavano intorno spaesate. Sendo trascinò Zeta giù per tre brevi scalini a circa metà del corridoio, ma ecco che improvvisamente la porta davanti a lui si spalancò come schiantata da un toro e comparve sulla soglia un omone brutto, grosso e in mutande, che fissò Sendo con occhi di fuoco e con la voce di una cascata di massi, gridò: «Che il demonio mi possa incenerire la barba!» ed era ben lunga, folta e nera come il paiolo del demonio «Se non è questo Sendomir Nibiru, figlio di un cane!» «Barluga!» esclamò Sendo «Cosa diavolo ci fai in un bordello?!» «E il soldato Sendomir?!» gridò quell'altro «Devo essere baciato dalla sorte... prima sento gridare “i diavoli neri”! Poi sento lo scoppiare di fucili... e chi trovo?! Il mio vecchio nemico: qui! Nessuno baderà adesso se ti spacco la testa in due!» Piegò le mani grosse come badili, ma Sendo si precipitò a dire: «Barluga, adesso non è il momento!»
Ma il colosso sventagliò un pugno titanico verso la sua faccia. Sendo si lanciò in basso, evitandolo per un soffio, ma il pirata era già alla carica come un ariete. Si buttò su Sendo come una locomotiva e tutti e due finirono a gambe all'aria, in un groviglio di violenza. Per Sendo sarebbe stato un bruttissimo momento, se sul fondo del corridoio non fosse improvvisamente comparso un Siamat, nudo, con una maschera orrenda (di un uomo scorticato) sul volto, tra piume di uccello verde e blu, che sollevò un pugnale già sporco di sangue: altri due energumeni dalla pelle scura balzarono fuori da dietro le sue spalle e si gettarono contro gli uomini che scappavano dalle loro alcove. Un uomo grasso, un mercante del Clan del Sale, venne colpito dal basso verso l'alto da un pugnale largo quanto un remo e le sue budella si riversarono per terra con uno schiocco. E nello stesso istante Sendo sferrò un calcio potente allo stomaco di Barluga, che si mise a ridere! Il figlio di un principe decaduto della città alta cadde a pochi metri dai due lottatori, con il cranio spaccato e Barluga stava per spezzare a metà il braccio di Sendo, quando uno dei diavoli si avventò su di loro. Il pirata lo vide con la coda dell'occhio e gridando una bestemmia orribile, si voltò, afferrò il suo braccio armato e con l'altro, presolo per lo stomaco, lo sollevò da terra come se fosse un bambino e lo lanciò attraverso il corridoio, per schiantarlo sulla parte, in un rumore secco di ossa rotte. Il secondo arretrò sorpreso, ma Sendo saltò in piedi e roteando la daga che era finalmente riuscito a estrarre lo colpì con furia alla base del collo. Tenendosi lo squarcio da cui il sangue eruppe come un torrente estivo del deserto il Siamat crollò indietro morente. Il Siamat mascherato cominciò a urlare qualcosa nella sua lingua blasfema e Sendo ne aveva sentite troppe per non capire che stava farfugliando qualcosa che non erano semplici bestemmie. «Magia!» gridò. Ma Barluga era già ato all'azione: afferrò una grossa cassapanca che ornava il corridoio, la sollevò sopra la testa e la scagliò attraverso 8 metri con una forza spaventosa. Lo stregone Siamat vide ingigantirsi l'ombra su di lui e non fece in tempo a finire di vomitare il suo incantesimo che venne schiantato. «Brutti uomini feticcio!» esclamò il pirata, anche se Sendo non capiva bene che intendesse con “uomini feticcio” «Cosa diavolo vogliono? Come osano
immischiarsi nel nostro regolamento di conti?!» «Dannato cervello vuoto!» esclamò Sendo «Lascia perdere la tua vendetta...! E cosa mai ti posso aver fatto, ad ogni modo?!» «Tre anni nelle carceri imperiali, come li chiami?!» abbaiò il pirata «Io ero un soldato e tu un pirata... non c'era nulla di personale, lo giuro!» esclamò Sendo. «Al diavolo!» sputò il gigante «Quei diavoli neri sono scatenati: guarda come hanno spaccato il cranio di quello là! Se anche ti spacco la faccia in due, poi mi troverò coperto di di ometti scuri, che mi morderanno con i loro pugnaletti come tante formiche!» «E' quello che sto dicendo!» disse Sendo «Prima cerchiamo di uscire di qui, poi risolveremo ogni nostra... come dire... “incomprensione”!» «Con un'ascia in mezzo agli occhi, la risolveremo, cane!» urlò Barluga «Ma va bene, andiamo via di qui... e un attimo! Chi è questa bagascia che ti stai portando dietro?» Zeta fissò il gigante con occhi non del tutto inespressivi; non guardava neppure dalla parte degli uomini morti in mezzo a grosse pozze di sangue che si allargavano. «E' una doll, non vedi?» rispose Sendo. «E che te ne fai? Vuoi fare all'amore in strada, in mezzo a quei satanassi?!» «Basta parlare!» sbottò Sendomir. Barluga borbottò qualcosa, ma sapeva anche lui in che situazione fossero; il corridoio si era magicamente svuotato, c'erano solo loro. Dal basso venivano attutiti rumori di lotta, ma dovevano are di là se volevano uscire. Il pirata non pensò nemmeno a vestirsi. Afferrò uno dei coltellacci di un Siamat morto e fece strada. Era uno spettacolo spaventoso e Sendo non dubitava che anche il più invasato degli uomini scuri sarebbe stato colto dal terrore di vedere quel gigante seminudo, il corpo ricoperto di cicatrici e tatuaggi (come soltanto nel mare che solcano i cacciatori di crio-balene se ne vedono), l'arma in pugno e gli occhi di fuoco, la forma stessa della violenza.
Scesero le scale, Sendo trascinava la doll, che ritrasse lo sguardo nel vedere i molti cadaveri che affollavano il primo piano e i pianerottoli fino al piano terra (e non incontrarono nessuno, erano tutti fuggiti o morti) e Sendo si chiese che sorta di reazione troppo umana fosse quella. Attraversarono l'atrio dalle pareti rosse e dalle lampade allungate e come due lupi balzarono fuori in strada. Un denso puzzo di fumo riempiva l'aria e volute di fumo nero già si levavano dai tetti del palazzo di fronte. Dalle finestre spaccate provenivano grida strazianti e si vedevano agitarsi masse di corpi, sagome restituite dallo stagliarsi contro le lampade di braccia armate che calavano su corpi inermi. «Togliamoci di qui!» gridò Barluga «In strada siamo un bersaglio troppo facile! Ma dove accidenti andare?! Quei diavoli saranno dappertutto!» «E la tua nave¹ , dove diamine è?» esclamò Sendo. «Decollata, con ogni probabilità!» ringhiò il pirata. «Come sarebbe a dire?!» «Il mio secondo ha l'ordine, se appena scoppia un casino, di mollare le ancore e girare la coda verso il pericolo e la prua verso il cielo!» rispose Barluga. «Lasciando a terra il suo capitano!?» «I capitani si possono rimpiazzare, le navi no!» Sendo imprecò, poi aggiunse: «Non avevo capito come potesse essere dura la vita dei pirati!» «Il tuo conforto mi da il voltastomaco!» «Allora senti: c'è una via di fuga dalla città...» rispose Sendo «... potremmo anche giocare a nascondino tutta la notte, ma prima o poi arriveranno i soldati e non farà piacere a nessuno trovarsi in mezzo perché pioverà letteralmente fuoco nelle strade; men che meno a noi due, un pirata e un disertore!» «Ah, questo sei adesso?» fece Barluga «E cosa proponi, dunque!?»
«A sud, fuggire attraverso le “fognature”... la città allagata!» «Ma è il covo di quei diavoli!» «Confido che siano tutti sciamati in città e troppo occupati nel saccheggio!» rispose Sendo «Non ci sono porte, né drappelli di soldati per quella via... oltre le acque stagnanti c'è subito il deserto... e poi potremo spaccarci la testa a vicenda, guardando gli incendi di Ur da una distanza sicura!» «Allora facciamo così... ma...!» rispose il gigante «Sei proprio sicuro di portarti dietro quella palla al piede?» e indicò la doll. Zeta guardò con occhi spenti il pirata, e disse, rivolta a Sendo: «Signore, per la vostra sicurezza, il gigante ha ragione...! Perché portarmi con voi?» «”Gigante”?» sbottò Barluga. «E perché dovresti pensare alla mia sicurezza? E la tua, stupido androide?» sbottò invece Sendo. «Le automaton doll sono programmate perché il piacere e la salvezza vitale del più vicino umano siano sempre garantite...» rispose Zeta «... è mio dovere non...!» «Al diavolo il tuo programma!» esclamò Sendo «Stai zitta e stammi dietro! E vedi di tenere chiuso quel maledetto kaftano!» «Sì, padrone!» disse dunque la doll. Barluga si grattò la lunga barba; «Sendomir Nibiru!» esclamò «Sei caduto proprio in basso!» Sendo non rispose a nessuno dei due.
Zeta mosse le lunghe gambe sciacquando i piedi nelle acque scure. Era stata trascinata fuori dal bordello senza alcuna calzatura e ora, dopo aver marciato per tutta la notte attraverso la città sconvolta dal delirio e dalla violenza, aveva i piedi completamente piagati.
Stava appoggiata contro una parete nera, sulla cui cima ondeggiavano piante dal fusto a barbigli, e cespi di muschio crescevano tra le crepe; davanti a lei una pozza profonda, dentro la quale il pavimento inclinato di un antico edificio sprofondava sotto le acque. Con i suoi occhi meccanici poteva vedere sotto il pelo dell'acqua, nonostante la notte rendesse tutto nero e più profondo. Sale e soglie e vani oltre di quelli giacevano sotto le acque, e grandi macchinari corrosi. Pesci predatori scattavano nelle sale vuote e sopra le creste dei muri sommersi, sorpresi dall'ombra bianca di Zeta, che improvvisamente era giunta a macchiare il loro perfetto cielo nero. Da sotto un arco distrutto filtrò della luce elettrica che sbiancò i marcescenti mattoni e subito comparve Sendo, reggendo una delle torce che avevano trovato nella città saccheggiata. E disse, sedendosi vicino alla doll: «I Saimat stanno battendo tutti i confini della “palude” (come a Ur alcuni chiamano quelle rovine) come dei diavoli: le loro torce si riflettono come sciami di fantasmi sulle acque nere! Ma sembrano avere paura di entrare oltre le acque nere che ristagna tra questi edifici! Né io né Barluga riusciamo a capire il perché! Non è questa la “casa” di quei demoni?» sbottò, parlando praticamente con sé stesso. Zeta lo fissò a lungo, senza rispondere, i parallelepipedi percorsi da brevi scariche elettriche e gli occhi, Sendo l'avrebbe giurato, colmi di qualche insondabile tristezza. O di pensieri che soltanto un automa poteva possedere. «A cosa stai pensando?» disse allora lui. «Stavo pensando...» cominciò a dire, fermandosi subito. «Cosa succede? Parla!» la incalzò. «Stavo pensando a quando sarò anch'io un rottame, abbandonato sul fondo di acque come queste...» rispose la doll, tornando a fissare i propri piedi immersi «... quando la ruggine simile a un corallo mi coprirà del tutto e i pesci faranno la loro casa nel mio corpo distrutto...!» «Non è un pensiero confortante, pensare alla morte... non in un momento come questo, se non altro!» rispose Sendo. «Morte... cessazione di ogni attività vitale... il contrario della vita...» disse la doll, senza guardarlo «... ma una doll non è veramente viva, come i pesci che guizzano sotto il pelo dell'acqua: quando sarò rotta e i miei pensieri spenti, sarò
un'altra cosa. Sarò così diversa da non riconoscermi più, così tanto che nessuno potrà capire che un tempo avevo la forma di un essere umano, ora che sarò un roccia del fondo che tiene ferme le radici degli anemoni...!» Sendo rispose: «Anche i marinai quando muoiono diventano covi di creature marine e i relitti delle loro navi sono case di corallo...! Ma non per questo non si chiama in modo diverso: è pur sempre “morte”...» «Gli androidi non nascono, quindi non possono morire!» rispose la doll, voltandosi a fissarlo; il suo sguardo non cambiò, solo gli occhi meccanici erano sempre curvi sotto il peso delle tristi palpebre. «Trovo difficile pensare a te come a un “oggetto”: il mio fucile o il mio tostapane non si mettono a riflettere su come saranno quando verranno gettati in una discarica!» sbottò Sendo. «Le automaton doll non dormono e non conoscono i sogni...» disse allora Zeta «... gli esseri umani possono mischiarsi ai Sogni e le loro anime scendere nel Mondo dei Sogni, quando muoiono: ma la mente delle automaton è una mente di metallo e di metallo è la loro anima... essa scenderà sotto le acque, coprendosi di animali marini e di ruggine, fino a dissolversi!» «E cosa ne sarà allora del tuo Tar?» Zeta teneva sempre tra le mani il Tar, esattamente come lo aveva preso e portato per tutto il viaggio dal bordello a quelle rovine, e lo toccò con dita amorevoli, fissandolo d'un tratto con sgomento, come se lo vedesse per la prima volta. Sendo riprese: «Anche gli uomini, che finiscano nel Sogno o in qualche paradiso pieno di fanciulle dagli occhi di cerva, diventano un inerte cadavere, in questo mondo! E quello che sapevano fare, cantare, ridere o fabbricare gioielli... se ne va con loro, sotto la tomba... che differenza c'è tra te e loro?» Zeta non rispose. Chiese di nuovo Sendo: «Dove hai imparato a suonare e cantare?» «Molto tempo fa...» rispose allora «... la mia padrona un giorno mi sorprese sotto gli alberi della tenuta, che cantavo imitando gli uccelli che sentivo tra i rami; e mi disse: “hai una bella voce! E' un peccato non esercitarla!”. E quindi, anche se
sono solo un'automaton doll, mi insegnò molte canzoni e melodie...!» Non per la prima volta Sendo si chiese quanti anni avesse realmente Zeta; le automaton possono vivere molto di più di un essere umano, ma il modo in cui vengono trattate, cioè come schiave, le rende spesso inutilizzabili dopo ben pochi anni. E anche quando si dimostrano più durature e cambiano di padrone, la loro memoria viene cancellata e nuovi programmi vengono installati, per servire a uno scopo diverso. Perché i ricordi di Zeta non erano mai stati cancellati? Chi mai avrebbe potuto essere questa "padrona" che le aveva insegnato a cantare? E se lei era un androide con ricordi e pensieri, che differenza c'era in fondo con un vero essere umano? Ma proprio in quel momento tornò a i pesanti Barluga, provenendo da un'altra strada diversa da quella per cui era arrivato Sendo e subito sbottò: «Stai perdendo tempo ad amoreggiare, Sendomir Nibiru? Ti sei portato dietro questa bambola fin qui per toccarle il culo, come ultimo ricordo prima che gli uomini neri ti squarcino il ventre?!» «La tua finezza mi commuove, lo giuro!» esclamò Sendo. «Racconta la tua poesia ai Saimat...! Presto potrai dirglielo di persona, faccia a faccia!» rispose Barluga. «Si sono mossi?!» balzò in piedi Sendo. «Una dozzina di quei satanassi neri¹¹ ha deciso che questo posto non fa loro così tanta paura!» rispose Barluga, sistemandosi sulla spalla un lungo fucile Saimat «Sono arrivato tanto vicino da sentire il loro alito; ma erano così presi da non accorgersi neppure di me!» Sendo dubitava che se anche fossero stati vigili e all'erta come topi del deserto all'imbocco della loro tana avrebbero scorto il pirata; pur grosso com'era era agile e silenzioso come una pantera. «E quel fucile che arricchisce così splendidamente il nostro attuale povero armamentario...» disse Sendo «... immagino sia un regalo che ti ha fatto uno di loro, che era troppo curioso?»
Era un vecchio modello, dall'aspetto crudo, con una collana di piume e artigli di rapace che pendeva sul calcio e numerose tacche, che tenevano il conto degli uomini che erano stati ammazzati. «Ora non ficcherà più il suo sudicio muso nei cespugli!» disse Balruga «Da quel che ho sentito del loro barbaro linguaggio la metà di loro ucciderebbe sua madre pur di non entrare in questa area delle “paludi”, mentre l'altra metà vorrebbe tornare al saccheggio... questo posto ha qualcosa dicono, “legato agli dei”... ma pare che il grosso uomo nudo, l'uomo vestito di blu e la donna meccanica... l'abbiano fatta grossa!» «Di che stai parlando?!» «Quell'uomo magia che ho schiacciato con la cassapanca... pare che fosse il fratello dello sciamano... e questo di cui stiamo parlando è più spaventoso di un branco di mega-iene affamate!» tuonò il pirata «I Saimat che dicevo se ne stavano là che ormai avevano deciso di tornare a fare il loro bravo massacro... ma ecco che sento un latrare improvviso e dalle tenebre spunta un incubo sputato dall'inferno...! E tutti gli uomini a terra, a toccare i sassi con le fronti, terrorizzati!» «Ma di che stai parlando?!» fece Sendo. «E' arrivato un... “messaggero” e ti giuro vecchio mio, che anche a me mi si sono agghiacciati i polsi! Perché non era un uomo, ma grosso animale... sulle prime...» disse Barluga, con una strana (per lui!) inflessione tremebonda nella voce «... sulle prime pensai fosse un leone, ma poi mi accorsi che era tutto nero e grosso quanto un orso...! Non ho mai visto niente di simile! E si mise a ringhiare contro gli uomini e... e tienti forte, vecchio mio, perché non sono sicuro nemmeno io di quello che ho visto!» «Vuoi parlare, demone di un pirata?» chiese Sendo. «Che quella bestia ha parlato!» sbottò Barluga «Dalle sue fauci sono usciti suoni... era la voce di una persona, una voce umana! Non fare quella faccia: non son ubriaco né ammattito e non ho più grog in corpo di un qualsiasi marinaio medio. Ti assicuro che se fossi stato ubriaco, la sbornia mi sarebbe ata in un momento!» «La mia faccia più che stupita...» rispose Sendo «... è la faccia agghiacciata di
uno che ha compreso che i diavoli dell'inferno gli si sono rovesciati addosso... dovevi proprio ammazzare quell'uomo magia?!» «Preferivi che ti cuocesse il culo con una fiammata?!» esclamò di rimando il gigante. «Preferisco che ti mi dica che cosa disse il... “messaggero”!» «Non molto; io credo fosse la voce dello sciamano: ha promesso con la sua orrenda forza sovrannaturale che avrebbe distribuito generosamente morte e scuoiamento, se se ne fossero stati ancora là a bighellonare: dovevano prendere i tre fuggiaschi! E gli uomini lo hanno preso molto sul serio: come degli invasati si sono alzati e si sono lanciati dentro al buio, con le loro torce alzate, per fortuna nella direzione opposta a dove stavo nascosto!» «E quella... bestia?» chiese Sendo, sudando freddo. «Ha preso a seguire i demoni neri come l'ombra della notte!» esclamò «Non deve avere un buon fiuto, perché un animale vero avrebbe potuto fiutarmi!» Disse allora improvvisamente Zeta:«Lo sciamano degli Saimat è forte nella stregoneria: si vanta di aver dormito nelle grotte di Lankror e di aver camminato con gli spiriti dei Sogni! La sua lingua è sciolta come poesia lunare, conosce le parole che danno vita al Sogno ed ha chiamato dalla notte e dall'aria la creatura...!» Gli uomini si volsero a guardarla; «Che cosa dici?» esclamò Sendo. «Padrone!» rispose lei, alzandosi in piedi di scatto, con luci negli occhi «Ho paura! Sento la mente dello sciamano che fruga nella notte, camminando su zampe di bestia!» e si aggrappò a lui, nascondendo il bel viso di bambola nel suo petto. «Che ha questa doll?!» esclamò Barluga «Come può un androide avere paura?! E cosa sta dicendo, Sendomir?» Sendo non gli rispose; strinse invece d'impulso Zeta e i suoi capelli profumati sommersero completamente i suoi sensi, come le acque scure sommergevano le antiche rovine. Per le porte di Ekimmu! Avrebbe spezzato lui stesso con le sue mani quel bianco collo, prima che i Saimat o l'uomo magia e le sue stregonerie
potessero toccarla! E poi ne avrebbe uccisi quanti più possibile con il suo coltello, prima di farsi sommergere da una marea di carne e pugnali! «Andiamo via di qui!» disse alla fine «Se la bestia non ha il naso... la mente dello stregone però forse ci vede in modo migliore...!» rifletté per qualche secondo, sebbene i suoi processi mentali fossero un po' sconvolti, non solo per la notte, la paura... ma anche per causa di Zeta, ancora abbarbicata su di lui «Forse questo è un loro luogo sacro: avrei dovuto prestare maggiore attenzione ai segni e ai pali decorati che abbiamo trovato quando ci siamo precipitati in queste rovine... i Saimat hanno paura di entrare, non so che cosa temono, ma forse lo stesso che li spaventa, è anche quello che in qualche maniera confonde la “vista” della creatura soprannaturale che hai visto, Barluga! Altrimenti ci sarebbero già addosso!» «E su cosa basi queste tue idee?!» sbottò il gigante «Sei divenuto uno stregone?!» Sendo non lo era, ma lui aveva visto il fuoco della Shibartz e il confine tra la solida realtà e un mondo di follia non era più così invalicabile per lui. Capiva un po' meglio, ora, le parole oscure della veggente della tribù degli uomini blu, presso i quali si era fermato. “Il Sogno (il Mondo dei Sogni) morirà con la morte dell'uomo e con esso morirà il Mondo” aveva detto. Che fosse questo il senso della magia? Se era tutto come un sogno, allora le bestie potevano parlare e vedere con occhi di uomo! «Dobbiamo raggiungere il deserto!» disse «I Saimat non ci vanno... stregoni che li spingano o meno!» Barluga grugnì; finché si trattava di nemici “solidi”, a cui fosse possibile spaccare la testa, per il pirata non esisteva la parola “paura”, ma quell'affare era tutt'altra cosa! Anche nel meccanico impero di Babilonia il più umile dei pescatori gettava in mare un'offerta all'oscuro demone del mare prima di prendere il largo e le paure ancestrali erano sempre pronte a riemergere anche nel cuore più forte o miscredente. Si staccò Zeta di dosso e le disse: «Riesci a correre?» «Sì padrone!» rispose, con occhi pietosi.
«E allora corriamo!» Tutta la “palude” era un'immensa fogna a cielo aperto; un'antica parte di Ur, costruita fuori dalle mura della primordiale città, era stata sommersa da una piena, quando i notabili della città (che vivevano nella cosiddetta “città alta”) avevano aperto le chiuse della diga per affogare i ribelli che, ancora come oggi, avevano assalito le mura della città alta. Quella volta erano stati i cittadini di Ur a ribellarsi all'autorità del satrapo; le acque avevano affogato decine di migliaia di poveracci e la città dei miserabili era divenuta una città sommersa. Anche le fogne erano state dirottate verso quell'enorme cloaca e ora in mezzo a edifici sommersi crescevano catapecchie dal tetto di muschio, infinite buganville poggiate sul fango, spettri di fabbriche semi-sommerse e percorse dai canali fetidi. Ma la zona nella quale Sendo e i suoi compagni si erano rifugiati dalla furia dei Saimat era ancora più antica; gli edifici inclinati, che emergevano da acque nere, erano fatti di grandi pietre e sotto il pelo delle acque occhieggiavano statue e misteriose colonne, che parlavano di tempi lontani e perduti. Balzavano come lupi nella notte, ma Zeta li rallentava non poco; ma nemmeno Barluga disse una sola parola su quel fatto e anzi si mise quasi a spingerla e per poco non la prese in braccio. Come una specie di vago riflesso parve loro di scorgere, distante, a destra, il riverbero di fuoco, ma subito si spense. Sendo capì subito che erano i Saimat, che avevano spento le torce per cacciarli al buio. Spinse avanti con ancora più forza la doll, ma ecco che in quel momento un suono mostruoso risuonò in mille echi dietro di loro, o forse davanti (era impossibile discernere le direzioni nel labirinto!), e non era solo il ruggito del leone, né lo strido dell'avvoltoio, ma entrambi i versi mescolati in modo orrendo, come se qualunque cosa avesse emesso quel grido avesse contemporaneamente una gola di uccello e una di leone. E il verso terminò su di una nota stridula e con una risata che sembrava umana. «Per il cancello di Ekimmu!» bestemmiò Barluga «Che diavolo era quello?!» «Zeta!» gridò Sendo, ma la doll lo fissò con occhi spenti. Non potevano procedere a caso nel buio in quella maniera e le torce che
portavano annunciavano a tutti la loro posizione. Sendo guardò Barluga e sebbene metà delle loro facce fosse immersa nelle tenebre si capirono al volo; il pirata annuì in maniera grave. Sendo afferrò Zeta per la vita e stupendosi di quanto fosse leggera, pur essendo un androide, la trascinò su per una scalinata di pietra che era comparsa diritta davanti a loro. Salirono 20 gradini e si trovano su di un pianerottolo mezzo crollato. Non c'era altra via di fuga, ma erano più in alto e un solo uomo alla volta poteva salire la scala. E loro non avevano intenzione di fuggire! «Usa tu il fucile!» esclamò il pirata «Ha una sola cartucciera, ma lo sai usare meglio di me!» Sendo fece un rapido accenno con il capo; spostò la doll dietro di sé e si mise in attesa, scrutando il buio. Qualcosa si muoveva tra gli edifici e un brillio lampeggiò per un attimo. Sendo fece fuoco. Sentì un grido strozzato e un gran rumore di i in corsa. Allora Barluga afferrò una delle loro torce e la scagliò con violenza verso il suolo. Una lampada barianiana non funziona con l'energia elettrica, ma intrappola un piccolo fuoco di plasma al suo interno, che la rende quasi eterna. Tale era la natura di quella costosa lampada che il pirata gettò, che al suo impatto esplose in una palla di fuoco. In un lampo subitaneo le pareti spaccate di due grandi mausolei si illuminarono di rosso e il fuoco strisciò in mille riflessi sulle acque nere. Non meno di dieci Saimat furono colti in campo aperto, le armi alzate, gli occhi bianchi stupefatti. Sendo fece fuoco cinque volte prima che la fiamma si smorzasse e cinque uomini cascassero a terra. Nel riverbero morente gli altri demoni si diedero alla fuga, con alte grida, ma numerosi brillare di monili e di piume scintillavano al di fuori dello stretto cerchio rosso della fiammata quasi estinta. Ma dal nulla risuonò ancora quel latrato e si levò un grido tra i Saimat, che pareva il verso di uccelli rapaci. Nell'ultima luce una sagoma nera come il vuoto tra le stelle balzò tra gli edifici e Sendo si chiese se Barluga non avesse sbagliato nel descriverla, perché era molto più grande di un orso! Era come fumo, come una macchia nera, che aleggiava sulla soglia della luce. Le forme mutevoli sembravano la criniera del leone, un attimo dopo una corona di
piume; due globi di luce, due occhi spettrali, che non erano un sogno, saettarono nel centro della testa. La cosa emise un basso gorgoglio e Sendo notò con orrore che pur sembrando composta di fumo, l'acqua sotto le sue zampe veniva turbata. Era una cosa “reale”, dunque! Si chiese se un proiettile potesse perforare e uccidere un essere come quello, ma forse esisteva un solo proiettile che potesse servire a qualcosa, se quello che pensava del Sogno e della magia era vicino alla realtà, pensò, tastandosi la tasca anteriore della casacca. Un suono, diverso, si levò improvvisamente contro le strida dei Saimat e il latrato del mostro e Sendo si voltò sconvolto: Zeta stava cantando! Era in piedi dietro di lui e cantava con la sua voce armoniosa, le mani giunte sul petto, gli occhi chiusi. E doveva essere pazzo, perché cominciò a vedere luci baluginare da sotto le acque. Nell'acqua sorgevano milioni di luci, come se un banco di pesci elettrici o di meduse fosforescenti fosse sorto dagli abissi di un mare sconosciuto. La bestia uggiolò e si guardò intorno confusa, mentre la luce cresceva. I Saimat presero a urlare e una colonna d'acqua esplose al di là di un grande edificio, come se una balena fosse saltata in superficie per respirare. Finalmente le luci raggiunsero il pelo dell'acqua e Sendo si lasciò sfuggire un grido; era una creatura immensa, il cui dorso incrostato di barbe, licheni, pezzi di metallo e detriti, immondizia e piante marine era incastonato come di gemme luminose, come tante lampade barianiane, che emettevano una fantasmagorica luce. La creatura sembrava un incrocio tra una testuggine e un ragno e Sendo vide con stupore che le zampe che pullulavano ai suoi fianchi erano zampe meccaniche. Si trascinò fuori in un tripudio di cascate d'acqua e marciò diritto contro la bestia dello sciamano. La belva, roteando gli occhi, sembrò prima rimpicciolirsi di fronte alla luce e al mostro luminoso, ma poi il suo corpo fumoso parve ingrandirsi, come un felino che piega la schiena, e divenne un enorme globo di solida tenebra. Si lanciò sul dorso della creatura misteriosa e con zanne di ombra colpiva e spezzava lampade e lacerava il dorso scaglioso furiosa come una iena. La creatura cercava di scrollarsi di dosso la belva e nel farlo si schiantava a destra e a sinistra, spaccando enormi sezioni di edifici. La scala e il pianerottolo sui cui erano riparati Sendo, Barluga e Zeta tremò come percosso da un terremoto, ma la doll continuava a cantare.
Cantava con parole che Sendo non comprendeva, in una lingua diversa, che da tempo gli uomini non udivano più; ma la bestia ululò al vento stellare e dando un'occhiata di fuoco alla doll, abbandonò l'indistruttibile dorso della creatura ragnesca e balzò in aria, contro l'androide. Sendo provò a fare qualcosa, ma venne semplicemente sbalzato via come un fuscello da una delle zampe del mostro e cadde giù. Un tonfo e i polmoni si riempirono di acque gelide. I suoi occhi non videro più nulla e tutto era nero e silenzio. Ma ecco che mentre il suo corpo toccava il fondo di pietra, come un peso morto, luci gli saettarono davanti agli occhi e come in un sogno, o in una visione, vide tutto il suo campo visivo riempirsi degli occhi di fuoco della Shibartz, la Shibartz che aveva liberato dai sacerdoti a Babilonia. Sembrava guardarlo con disapprovazione e non pareva più tanto una bambina. “Hai salvato una Shibartz, che per la gente comune è come la morte, come un dio di terrore... non salverai anche la donna dal cuore di metallo?!” corsero i pensieri nella sua mente, ma era davvero qualcun altro, che gli parlava nella testa? Riaprì gli occhi e vide sopra di sé galleggiare il corpo di ragno meccanico della creatura, che da sotto era completamente oscuro. Aveva sentito parlare nelle leggende dei fantomatici “costruttori” o “artefici”, mistiche macchine del tempo ato, di quanto la Civiltà Tecnologica dell'Oriente era al suo apice. Prima che le macchine del sogno spaccassero il mondo. Era uno di quelli, quella creatura? E sotto le acque vide altri corpi giganteschi librarsi tra rovine megalitiche, in profondità oceaniche di palazzi smisurati, ed era come un sogno. “Zeta ha chiamato questi... artefici? Ma come...!” pensò il suo cervello obnubilato “Zeta!” Subito fece una forza mostruosa sulle braccia e pur vestito e con ancora il fucile impigliato nel braccio si slanciò verso la superficie come un siluro. Emerse in un getto d'acqua e respirò così forte da farsi male ai polmoni. I suoi occhi saettavano intorno... dov'era Zeta? Poi guardò oltre la schiena poderosa del primo artefice e vide una scena spaventosa. Un'immensa massa nera, simile a petrolio, pulsava come l'esplosione di un tumore e colava addosso al palazzo di fronte. La massa nera era semitrasparente e bocche e facce la percorrevano come spettri nel vento. Un oggetto
chiaro... Zeta! Era stata assorbita dentro al grumo di gelatina nera e scivolava lentamente verso il suo centro, apparentemente priva di vita. Gli artefici intorno a lui cominciavano a ritirarsi in acqua e le luci si stavano affievolendo... forse la canzone di Zeta, ora muta, li aveva svegliati e ora tornavano al loro sonno? Ma a Sendo interessava soltanto una cosa. Si lanciò a nuoto in avanti, attraversò tutto lo specchio d'acqua come se fosse un natante a motore, balzò sulla solida roccia e senza nemmeno pensare si lanciò dentro al blob nero. Fu come attraversare un muro di ragnatele e una stretta gelida gli traò il cuore. Ma un fuoco ardeva dentro di lui, più forte del gelo mortale di sogni morti di cui era composto il mostro (come faceva a sapere che quella massa nera era la bestia? Lo sapeva e basta!). Era il fuoco della Shibartz, che era rimasto dentro di lui. Marciò avanti tirando e strattonando e strappò con le sue mani il catrame che lo avvolgeva. Affondò fino alle ginocchia in un denso liquido nero, che non era né catrame né petrolio. L' “interno” del blob era grande come il piano inferiore del palazzo, che riempiva interamente; isolotti metallici spuntavano dentro al mare come inchiostro e piloni di pietra iscritti e catene pendevano dalla volta curva, gommosa, come una spettrale rovina maledetta. Sendo individuò davanti a sé la doll che giaceva come un cadavere sulla superficie della palude. Con fatica immensa si fece strada verso di lei, ma dalle rovine sorsero figure da incubo, allungate creature che sembravano una parodia della figura umana, gommosi come colla, neri come il catrame. Sendo afferrò il fucile e sparò contro le loro teste, ma le fece soltanto scoppiare come bolle: anche privi di testa, gli orrori continuavano a rifluire e gonfiarsi e restringersi mentre avanzavano verso di lui, fortunatamente lenti quanto la morte. Sendo arrivò prima di loro alla doll e cercò di sollevarla, ma era pesantissima e impeciata nel liquido nero nel quale stava lentamente sprofondando. (Una luce si accese, pallida e orrenda, al di là della coscienza di Sendo, in alto sul tessuto gommoso, che alzandosi verso il cielo diveniva come un tunnel verso
altri mondi. E una voce che era un soffio di vento, orribile, parlava... “uomini bianchi, morirete! La vendetta della gente di Yari...! Brucerete, brucerà la civiltà, brucerà la vostra tecnologia, le vostre macchine, brucerà il mondo e solo i figli di Yari danzeranno sotto i cielo precipitati, al suono dei flauti dei loro dei!”). La doll aprì gli occhi e l'avrebbe guardato con stupore, se avesse potuto. E disse: «Perché sei qui, padrone?» «Per tirarti fuori, che altro?!» imprecò lui «Non c'è modo di fermare quegli esseri gommosi?! E questo catrame è appiccicoso come il cuore di satana!» «Non si possono fermare...!» rispose la doll «Sono memorie, ansie e sogni morti... di cui si alimenta la “magia” dell'uomo magia dei demoni neri! Vai via, padrone! Devi salvarti...» e lo guardò con occhi straziati, enormi. «E per te...!» disse Sendo, fissandola negli occhi «... va bene morire, invece?!» «Sono una macchina, padrone!» Sendo sentì il sangue corrergli alla testa, e afferrandola con entrambe le braccia da sotto, immergendosi così fino al collo nel catrame, gridò: «Non me ne frega un dannato accidente se sei una macchina o no! Ma chi ti credi di essere?!» le vene del suo collo e i muscoli si ingrossarono come corde di ancoraggio e con occhi di fuoco, trascinandola fuori dal catrame, petrolio o sangue di sogni morti che fosse gridò: «I tuoi occhi meccanici hanno il diritto di vedere qualcosa di meglio!!» Ma i mostri neri incombevano, come il buio dietro il tramonto, e la luce spettrale si fece più forte. La doll si aggrappò stupita a Sendo e con voce soltanto un poco incrinata, disse: «Perché, padrone...?!» «Zeta!» rispose Sendo, afferrando il fucile e strappando dalla tasca della giacca il proiettile che vi teneva quasi come un talismano «E' al di là di quella luce, che si trova la fonte di energia di questo mostro? Dove si nasconde l'uomo magia?» «E'... e' la luce che conduce all'anima dello sciamano...» rispose Zeta «... la magia dei sogni che cavalca sul vento di Parola! Ma un'arma degli uomini non traerà il velo dei sogni!»
Ma Sendo infilò quell'unico proiettile nella cartucciera ormai vuota del fucile, prese la mira e fece fuoco. Il colpo disegnò una traiettorie luccicante, traò la testa del mostro più vicino che ormai incombeva su di loro, che esplose in uno scoppio di lucciole rosse, e volò dentro alla gola di luce. E si sentì uno schianto, e poi un lampo. L'automaton doll spalancò gli occhi, sorpresa, nonostante fosse una macchina; un'ondata di maremoto di nero liquame proruppe da tutti i lati, ma Sendo, tenendola stretta con un braccio intorno alle spalle, disse: «Questo proiettile me lo diede la veggente degli uomini blu, dicendo che era forte la “magia” in esso; ora capisco meglio cosa mi disse! Era stato di un grande cacciatore, mi disse; era per quell'uomo qualcosa di più di un pezzo di ferro, qualcosa che era carico di memorie, e di sogni... per questo motivo può uccidere altri sogni, può attraversare il velo e colpire i miei nemici!» E l'onda li travolse. Il colosso di fango nero vibrò spaventosamente e sopra le alte cime dei palazzi fu per un attimo immobile. Ma poi in un fracasso orrendo si sbriciolò semplicemente in pezzi, in un crollo di tonnellate di tessuto gommoso e in torrenti di petrolio nero. I palazzi furono scossi da un tuono e un urlo non umano, come di milioni di gole che gridino di orrore in un unico momento, fu finalmente rilasciato dentro alle rovine della città. E si affievolì lontano, perdendosi nel vento e nel sole che sorgeva sempre più grande. Non molto dopo, presso una pozza nera di acqua, Sendo aprì gli occhi. Credeva di essere morto, ma il suo cuore batteva ancora. Sopra di lui un'automaton doll nuda lo vegliava con occhi pazienti. «Zeta!» esclamò «Come abbiamo fatto a sopravvivere?!» «Il corpo di un'automaton è molto resistente, padrone!» rispose e nel suo volto nulla era mutato; la stessa espressione assente, gli stessi occhi tristi. «E come mai allora ti sei scorticata i piedi, camminando senza scarpe?» rispose lui «Stupida che non sei altro, mi hai fatto scudo con il tuo corpo?» e fece per alzarsi a sedere, per vedere se fosse rimasta “danneggiata” da qualche parte, ma si accorse di essere avvolto da ogni parte da misteriosi filamenti d'oro. «Cos'è questo?» esclamò.
«L'Artefice...» rispose prontamente Zeta «... si sta assicurando che le tue funzioni vitali, padrone, non siano a rischio di malfunzionamento o cessazione!» Sendo si voltò e si accorse con un certo spavento che proprio dietro di lui, dal bordo dello specchio d'acqua emergeva la testa enorme dell'artefice; nei sei occhi di vetro meccanici scorrevano luci azzurre e verdi e dalla “bocca” (un'apertura luminosa sotto la maschera degli occhi) un fitto nido di fili dorati scendeva fino a lui, ed erano gli stessi che lo avvolgevano. Correnti d'oro correvano in su e in giù per i fili, come minuscoli ragni. «Nanobot...» disse Zeta, pensando che Sendo si stesse chiedendo che cosa fossero. «Al diavolo!» esclamò lui «Dì a questo... coso... che io sto benissimo... che non c'è bisogno di ispezionarmi!» «Non posso dire che cosa fare all'Artefice!» «Ma non li hai chiamati tu... con il tuo canto?!» Zeta assunse un'aria assente, mentre i bagliori elettrici si facevano fitti nelle sue “orecchie”, segno che stava pensando. «Padrone!» disse alla fine «Non lo so che cosa ho fatto! Quando è comparsa la bestia di sogni morti la mia mente ha vagato lontano e... e ho visto come in una visione, come un sogno che noi automaton non possiamo cogliere né provare, lo “spettro” dell'uomo magia, che cercava il cuore del mio padrone come un mendicante cieco! Era una visione orribile, uno spettro di larve essiccate, che brancolava tra le rovine: il mio spirito si è perso e qualcos'altro ha parlato per me, e ha cantato!» «”Spirito”, Zeta?» fece Sendo e per la seconda volta fu sicuro di cogliere la sorpresa sul suo faccino artificiale. I filamenti d'oro si cominciarono a ritirare dal corpo di Sendo e con suo grande sollievo vennero tutti ritratti dentro alla bocca dell'artefice. La sua mente era piena zeppa di domande... c'era una strana connessione tra l'automaton doll e quelle creature. Ma cos'erano quegli esseri, in definitiva? Le leggende dicevano di macchine senzienti, dei-macchina, costruiti per preservare e mantenere la civiltà Tecnologia dell'Oriente, ma quella definizione era per lui oscura, quanto per qualsiasi altro vivente di quei tempi remoti. Come avevano fatto a sopravvivere per migliaia di anni? E continuavano forse a compiere il loro eterno
lavoro, come un tempo? A giudicare dalle rovine intorno a lui, molto probabilmente no. Ma cosa ne sapeva la sua piccola mente umana? «E gli altri Saimat... e Barluga, che fine hanno fatto?» chiese allora. «I tuoi amici neri...!» rispose una voce tonante e con la voce comparve anche l'uomo, il pirata Barluga in persona, da dietro una colonna spezzata «... sono stati fatti volare via come pagliuzze da questi grossi cosi qui!» e indicò con il suo grosso dito gli artefici (perché infatti oltre a quello che si era “occupato” di Sendo ce n'erano altri cinque o sei che nuotavano nello specchio d'acqua, alcuni sotto il pelo, altri quasi del tutto emersi, che stavano “tastando” le pareti butterate o i macchinari arrugginiti con quei misteriosi filamenti d'oro) «E ora che uno di quei cosi ti ha succhiato per benino, come una grossa zanzara...!» «Non mi ha “succhiato”!» esclamò Sendo «Ma questo mi pare significhi che ci siamo liberati del problema dei Saimat!» E come a sottolineare le sue parole, un rombo distante scoppiò nel cielo; «I Sirrush!» esclamò Sendo «L'esercito alla fine è arrivato: mi dispiace quasi per gli uomini scuri... sarà una strage, e già dopo che hanno perso il loro capo!» «L'uomo magia?» disse Barluga «E chi lo avrebbe ammazzato?!» «Io!» fece Sendo «Ma sarebbe troppo lungo spiegarti come!» Il pirata agitò la grossa mano, e con aria feroce disse: «E a me non interessano le tue storielle, Sendomir! Gli ometti scuri sono morti o scappati, il mostro nero è esploso come una bolla di sapone... per la barba di Lamatshu!, se non ho visto cose bizzarre questa notte! E adesso anche questi ragni: ma non cambia la sostanza dei fatti...! Sei pronto, Sendomir Nibiru?! Estrai la tua arma, e preparati a farti staccare la testa!» «Fermo! Ancora con questa storia, stupido Barluga?!» esclamò Sendo, ma il pirata aveva già preso in mano il coltellaccio dalla lama seghettata, e senza rispondere gli si lanciò contro, come una valanga di muscoli inferociti. Ma Zeta si lanciò in mezzo, buttandosi su Sendo e gridò: «Fermati! Non colpire
il padrone, non vedi che non può combattere?!» «Levati di mezzo, pupazzo!» gridò il pirata «Finché riesce a respirare, che si alzi e mi affronti, come un uomo! Voglio vendetta per i tre anni ati nelle schifose prigioni dell'Impero!» «Non mi muoverò di qui!» esclamò Zeta. Ma ecco che l'artefice si sollevò verso di loro e spinse la testa fuori dell'acqua e gli occhi mandarono scintille di fuoco. «Anche questo mostro è contro di me?!» urlò Barluga «Sendomir Nibiru, vergogna su di te! Tutti sapranno che donne (androidi!) e animali ti hanno fatto da scudo, cane senza coraggio!» «Barluga!» esclamò Sendo «Questo non è il momento! Riterresti soddisfacente un duello, dove io non riesco nemmeno a sollevare il coltello?! Il mondo è grande, e siamo ancora vivi! Vai a recuperare la tua nave e troviamo un luogo migliore e un tempo più propizio, se proprio vuoi piantarmi quel coltello nello stomaco!» Barluga rimase proteso, con il coltello che vibrava nel pugno dalle nocche illividite. «Figlio di un cane!» abbaiò il pirata «Non pensare che possa finire così! Giuro sul nome di satana che non ci sarà giorno o notte che il pirata Barluga non penserà a come strapparti il cuore, Sendomir Nibiru!» «E io non erà notte che non cercherò di evitare quel tuo pugnale!» esclamò Sendo, da sotto Zeta. Barluga gettò a terra il pugnale, e con sprezzo disse: «Hai intenzione di rimanere ancora a lungo abbracciato a quella bagascia?!» Sendo si rivolse a Zeta: «Toglieresti quel tuo seno dalla mia faccia? Non guarirò tanto presto, con tutto questo afflusso di sangue che mi sta salendo alle parti poco nobili!» Zeta si ritrasse, e parve confusa; strano fatto, per un'automaton doll, il cui scopo nell'esistenza era soltanto quello di dare piacere ai suoi “padroni”. Ma questo era ciò che pensavano nelle grandi città decadenti, dentro alle case di piacere fumose o negli harem di palazzo, dove nobili e ricchi spendevano invano le ricchezze e la luce del mondo, il mondo che la profezia della veggente degli
uomini blu sarebbe presto finito. Sendo disse: «E cosa vorresti ancora, Barluga?» «Che ti muovi... o vuoi che l'esercito ci trovi qui?!» «E a te che cosa importa?!» «Mi assicurerò personalmente!» rispose Barluga, cupo come la tempesta che sta per scatenare la sua grandine «Che tu ti rimetta in piedi: ti starò addosso più che non la tua adorata protetta meccanica e appena potrai tenere in mano una pistola saprai che cosa significa la vendetta di Barluga!» Zeta li fissò entrambi, si sarebbe detto "preoccupata", ma Sendo scoppiò a ridere e disse: «Adesso dormirò davvero sicuro, sapendo che il mio nemico veglia su di me!» Barluga grugnì proprio come le feroci scimmie giganti da cui prendeva il soprannome, ma non rispose alla sua provocazione. Intanto il giorno si faceva alto e caldo e gli scoppi di esplosioni e di spari riempivano l'aria lontana e uomini combattevano e morivano ancora una volta. Ma gli artefici non se ne curavano: percorrevano tutte le rovine tastando e cercando... chi avrebbe potuto dire che cosa volessero fare con i loro cervelli positronici, ora che si erano risvegliati? Sendo non lo sapeva, ma c'era ancora un pò di tempo prima di riprendere a correre per la propria vita, e aveva voglia di rimanere a guardare le curve di Zeta ancora un pò, nonostante quello scimmione di pirata che scalpitava là vicino. «Zeta!» disse «Canta qualcosa per me!» E Zeta, fissatolo con "stupore" per qualche istante, prese il suo Tar che si era salvato dalla distruzione e cantò.
Waterloo – tragedia Alfieriana in cinque atti
ATTO I
(In una grande stanza dai confini mal definiti, a causa dell'oscurità, c'è un letto gigantesco, poggiato proprio sotto a una imponente finestra, aperta. Al di fuori è notte e scure sagome che sono torri innevate, puntute, fosche, fanno pensare a castelli siberiani, non all'isola d'Elba.)
(Tutta la scenografia sembra disegnata, o fatta di cartone.)
(Napoleone è seduto sul letto, che lo fa sembrare molto piccolo, i capelli romanticamente scarmigliati, una blusa nera a sbuffo.)
Voce misteriosa dall'esterno: «Sono questi dunque gli ultimi giorni dell'uomo che ha incendiato l'Europa?»
(Napoleone non si volge al suo interlocutore misterioso, che pare aleggiare come nebbia all'esterno, ma parla fissando il vuoto di fronte a sé.)
Napoleone: «Improvvisamente sono stanco... perché gli spiriti vengono a tormentarmi con la loro voce invisibile?»
Voce misteriosa dall'esterno: «I soldati marciavano e morivano al tuo comando!»
Napoleone: «Quando nel cuore di un uomo si consuma tutto, il rimbombo della marcia degli stivali diventa un tuono che non lascia dormire, il sangue versato una maledizione che sporca per sempre le mani, la grida dei morti sono un lamento che rende sordi... l'uomo è come un morto vivente: si secca tutto nel suo cuore, non desidera altri massacri, altra guerra!»
Voce misteriosa dall'esterno: «Le bandiere garrivano al vento, le corone di Europa rotolavano ai tuoi piedi!»
Napoleone: «Le Corone di Europa non faranno tornare in vita i morti!»
Voce misteriosa dall'esterno: «Da quando la mano di ferro, il fulmine di guerra, sono diventati lenti e molli?»
Napoleone: «Da quando Wellington ha vinto sulla Neva; ho visto rompersi il velo, distruggersi l'illusione. Vivevo come in un sogno: credevo che tutto il mondo mi appartenesse. Perché ho mosso guerra al mondo? Per la Francia, mi dicevo. Ma la Francia era diventato da tempo un guscio vuoto, un pretesto, un'ombra a cui non sapevo dare forma, che mi tormentava nelle notti insonni. La spada di Wellington ha rotto la bolla costruita di tenebrose illusioni: ho visto i soldati morti e la mia personale ambizione giacere morta tra di loro!»
(Una rapida visione a attraverso gli occhi di Napoleone; una donna in trono... la regina di Francia? C'è il segno del tradimento nei suoi occhi decisi, ma colmi di tristezza. Napoleone si a una mano sul viso.)
Voce misteriosa dall'esterno: «Illusione? Desiderio? Il cuore dell'uomo è come un abisso: come si può dividere il falso dal vero, ciò che si desidera da ciò che si possiede già? Nelle tenebre profonde non si distinguono i singoli confini di ogni idea. Ma quando questi abissi sono così profondi da non avere fine allora l'uomo diventa parte del Sogno e il Sogno diventa parte dell'uomo. Non sono forse questi coloro che furono chiamati ''eroi''? Il loro destino non gli appartiene: ma essendo uomini, confondono i propri desideri con un destino più grande. Quando potranno capire cosa muove le loro mani? La loro libertà non è fermarsi, o scappare, o forgiare imperi... è accettare l'abisso che hanno dentro al cuore!»
Napoleone solleva la testa, come colpito da una folgorazione: «Eroi? Destino? Libertà? Come farò a nascondere questa mani che grondano sangue agli abissi del mio cuore?»
Voce misteriosa dall'esterno: «Chiudile; oppure: mostrale al mondo, e raggiungi fino in fondo l'abisso di te stesso!»
(Un lontano suono di tromba, assolutamente fuori luogo, sembra il presagio dell'alba, o di qualche tenebra ancora più oscura).
ATTO II
(Un grande palazzo, una stanza ricoperta di oro, ambra, stucchi e pitture di dee e uomini intenti in banchetti eterni, dentro a paradisi di fiori e fontane. Cupi uomini tuttavia stanno intorno a un tavolo.)
(Improvvisamente si aprono delle porte ed entra un messo, trafelato. Egli si avvicina a un uomo alto, che tiene i lunghi capelli biondi legati sulla nuca, la casacca bianca piena di medaglie, il mento volitivo, il conte di Metternich. Gli sussurra parole rapide all'orecchio e gli occhi del conte si infiammano.)
Conte di Metternich: «Una notizia funesta ho da portarvi... Napoleone è fuggito dall'Elba... egli ha messo piede di nuovo in Europa!»
Vecchio, decrepito, sotto le palpebre pesanti gli occhi ormai ciechi dello zar Alessandro hanno un fremito: «Dio ci ha dunque abbandonato? Perché egli permette di nuovo a quel demonio di funestare il nostro sonno?»
Rigirando il monocolo il Granduca di Prussia si leva, tra il risuonare della sua spada contro il fodero e lo sferragliare del suo braccio meccanico: «E dove andrà quel cane? A rifugiarsi in Svizzera?»
Talleyrand la volpe scuote il naso affilato: «No, vi dico che andrà diritto a Parigi!»
Granduca di Prussia: «E cosa farà la regina?»
Talleyrand, con ghigno diabolico: «Farà quello che si è deciso in questo Consiglio: la sua bionda testa è nelle nostre mani!»
Conte di Metternich: «Mi stupisco di voi, cara la mia volpe: non ricordate il potere demoniaco di quell'uomo?»
Talleyrand, rigirando il suo grande anello di rubino nella mano avvizzita: «Il tempo di quell'uomo è finito, finito! Non esistono più eroi solitari, non esiste più lo spazio per battaglie che decidono le sorti del mondo: questo è il tempo della diplomazia, dell'astuzia, il nostro tempo!»
Zar Alessandro, stringendo l'antico bastone: «L'Europa e la pace che abbiamo costruito sono in grande pericolo; duca di Wellington, a voi spetta ancora l'ingrato compito di salvarci dalle tenebre!»
Il duca di Wellington si alza dalla sua sedia; nonostante abbia solo poco più che trent'anni il suo volto pare come scavato e risucchiato da qualche sovrannaturale forza nervosa consumante. Zoppicando sulla gamba destra si pone una mano sul cuore: «Se dovrà esservi ancora la guerra, la mia spada fermerà ancora una volta l'ambizione sfrenata di quell'uomo!»
A parte, senza essere udito: «Sarò ancora lo strumento dell'invidia di questo branco di cani rabbiosi?»
ATTO III
(Una costa brulla battuta dalle onde. Un piccolo drappello di uomini a cavallo avanza sulla strada di pietre bianche. Ma ecco che dall'orizzonte si avvicinano molti uomini armati, a cavallo. Indossano le divise si, ma non portano le insegne imperiali, bensì quelle regali dei borboni.)
Il maresciallo Ney fa fermare la sua colonna a un tiro di schioppo dal drappello di Napoleone; e dice a gran voce: «Per ordine della Regina di Francia, vi ordino di deporre le armi e seguirci come nostri prigionieri!»
(Napoleone fa un cenno ai suoi e scende lentamente da cavallo. Poi va verso i soldati, guardando fisso negli occhi il maresciallo Ney. C'è una tensione violentissima. Improvvisamente il maresciallo balza di cavallo e punta la spada contro la gola di Napoleone.)
Maresciallo Ney: «Perché siete tornato? Ora l'Europa è in pace! Se avete a cuore la Francia e la nostra regina dovete tornare in esilio! Non vi è più posto per voi in questo mondo!»
Napoleone: «Pace? Questa sarebbe la pace che agognava la nostra regina? La Francia dominava il mondo, decideva su quali teste e su quali no si sarebbero poggiate corone regali, e ora deve mercanteggiare per la sua stessa salvezza! E gli ordini non vengono decisi da guerrieri, ma da vecchi politicanti, con le mani luride affondate nell'oro!»
Maresciallo Ney: «Anche se questa pace non vi piace, purtuttavia è una pace! I soldati non marciano più al freddo verso la morte, la campagna non è spopolata di uomini, le chiese non suonano a lutto ogni giorno, piangendo per ogni singolo colpo di cannone! Perché siete tornato?»
Napoleone: «Perché? Ma per portare guerra, e massacro, e lutto, che altro?»
Maresciallo Ney: «Cosa dite?»
Napoleone: «Ascoltami, Ney: che cosa siamo noi? Soldati. E cosa fanno i soldati? Io sono stato Imperatore, oltre che soldato. Ho governato sul mondo. Ma a un certo punto sono stato scacciato dal quello stesso mondo che mi aveva elevato sopra a tutti. Quel mondo era invidioso di me, perché comandavo come volevo su tutto. Ma non mi ha lasciato finire quello che avevo cominciato: io stesso, dominato dal mondo, non ho capito più quale fosse il mio obbiettivo. Ma ora comprendo tutto, tutto!»
Maresciallo Ney: «Siete pazzo? Cosa vi sarebbe rimasto da fare? Cosa dovete fare ancora, che non avete fatto, dopo aver calpestato tutti i troni d'Europa?»
Napoleone: «Cosa, Ney? L'ultima battaglia: un ultima pallottola aspetta me e te... che trafiggerà questo nostro petto e ci manderà nelle profondità dell'Ade, con tutti i nostri peccati. Un ultima battaglia, quella che non abbiamo combattuto perché quelli che non sono guerrieri, come Talleyrand, e sì, come la nostra regina, ce lo hanno impedito! Un altro scontro mortale con Wellington e le armate inglese, prussiane, austriache e russe! Tutto il mondo contro di noi, come una volta, maresciallo Ney!»
(La spada del maresciallo Ney cade al suolo con un tintinnio rumoroso).
ATTO IV
(La solenne sala del trono di Versailles. Dignitari incappucciati stanno in due ali tra le colonne massicce e nere. Il trono è vuoto. La giovane regina, in ombra, fissa fuori della finestra l'esterno, da dove provengono acclamazioni di gioia e di festa.)
Dignitario: «Mia regina, non è ancora troppo tardi per fuggire!»
Regina: «Cosa deve temere il mio collo? La ghigliottina? Non fuggirò!»
(Grande trambusto alla porta. Entra Napoleone vestito da soldato, con il mantello, ma non vi è alcuna medaglia né lustrino sulla divisa. Non ha neppure la spada.)
Dignitario: «Come osate entrare in questa maniera, al cospetto della regina di Francia?»
Napoleone: «Fatevi da parte, inutili lacchè! E' con lei che voglio parlare!»
La regina, sempre in ombra: «Siete venuto per la mia testa? O per il mio trono? Vedete: è vuoto adesso! Volete sedere come Imperatore?»
Napoleone, tra il mormorare dei dignitari incappucciati, si inginocchia: «Non ci sarà più alcun Imperatore. Esiste la Francia, e la sua Regina, che siete voi!»
Regina: «Che discorso è questo?»
Napoleone: «Sono solo un soldato che è accorso a difesa del proprio paese, minacciato dall'oltraggio degli stranieri!»
Regina: «La Francia è in pace!»
Napoleone: «Questa pace io la considero peggiore della guerra!»
Regina: «Vorreste dunque dichiarare nuovamente guerra al mondo? Non siete stanco di sangue? Cos'altro volete conquistare?»
Napoleone: «C'era una sola cosa che avrei voluto conquistare, che avrei dovuto conquistare, tanto tempo fa... ma ora non ne ho più il tempo né la possibilità. Ora voglio solo difendere la Francia. Marcerò contro la coalizione di Europa e contro Wellington e restituirò alla Francia la sua dignità!»
Regina, turbata: «Come pensate di vincere contro l'intero mondo?»
Napoleone: «Non credo di vincere...»
Mormorio tra i dignitari; Regina, sempre più turbata: «L'esilio vi ha forse reso folle?»
Napoleone: «Ascoltate! Il mondo odia e teme la Francia. Voi stessa siete un giocattolo nelle mani di quel vecchio disgustoso Talleyrand. L'Europa si è sollevata, con il mio ritorno, come un serpente velenoso pronto a colpire senza pietà, ma è la paura sopra a tutto a muoverla. Paura che un'altra volta un uomo venuto dal niente rovesci i potenti dai loro troni. Io marcerò contro costoro e vincerò, vincerò finché non sarò circondato da lupi famelici da ogni parte... e poi, nella suprema battaglia che non ho ancora potuto combattere, perderò... la mia testa verrà issata in cima a un pennone, tutto il mondo denigrerà il mio corpo straziato. E tutto l'odio del mondo non sarà più diretto alla Francia, ma a me. E voi potrete risollevare la testa: voi siete di sangue reale, a differenza di me. E le armate si avranno ancora il lustro di vittoriose battaglie sui loro mantelli: saranno stati eroi che hanno combattuto fino alla fine, pur perdendo. Ma la sconfitta sarà causa mia, non loro. La Francia sarà ancora rispettata e io avrò incontrato il mio destino!»
Un Dignitario: «Che follia è questa?»
Regina: «Aprite le porte della reggia, dategli la bandiera con l'Aquila...»
Dignitario: «Cosa dite, mia regina?»
Regina: «E portategli la spada nera di Francia, annerita sul rogo di Giovanna d'Arco! Su presto, l'eroe deve marciare in guerra!»
(Napoleone si alza e si volta per andarsene; ma la Regina solleva una mano, per
richiamarlo.)
Regina: «Prima di andare, ditemi... qual'è la cosa che non siete mai riuscito a conquistare, e che era l'unica importante?»
Napoleone: «Il vostro cuore, mia regina...!»
ATTO V. Waterloo, triste pianura
(La triste pianura di Waterloo si estende coperta di una densa nera caligine. Le colonne dei soldati marciano giù verso l'oscurità e scompaiono tra le tenebre. Esplosioni rosse di mine, come funghi giganteschi, sbocciano nelle tenebre; lamenti, grida, schioppettate, soffiano come lampi distanti nel buio.)
Napoleone, a cavallo, osserva la scena. Si volta verso il maresciallo Ney, che non ha voluto il grado di generale: «Maresciallo, la battaglia è perduta... è venuto il momento di andare incontro a quella pallottola...»
Maresciallo Ney: «Cosa dite, mio generale? Ancora le sorti sono incerte... la Vecchia Guardia deve ancora scendere nello scontro e non sappiamo se i nostri ingegneri sono riusciti nel supremo intento che avete architettato!»
Napoleone: «Ney, il mio ''supremo intento'' è stato soltanto l'ultima tentazione del demonio, che mi ha spinto a cercare la vittoria nonostante tutto... ma non senti, questo suono rombante?»
Maresciallo Ney: «Non sento nulla, mio generale!»
Napoleone: «Io lo sento... è la cavalleria prussiana che sta arrivando! Vieni, non indugiamo oltre! Suona i corni e i tamburi, chiama la mia Vecchia Guardia e sfodera la tua spada! Oggi la nera lama di Francia e la tua spada argentata brilleranno insieme, dentro a questo buio di Waterloo!»
Maresciallo Ney, commosso: «Sì, mio generale!»
(Nel campo Alleato, il duca di Wellington abbaia ordini. Improvvisamente un attendente da campo gli si fa dappresso.)
Attendente: «Napoleone si è scagliato nella battaglia in persona, alla guida della sua Vecchia Guardia!»
Vecchio Generale asburgico: «Napoleone è finito! E' troppo presto per impiegare la Vecchia Guardia! E morirà sul campo, trafitto da una pallottola! E' la nostra vittoria!»
Wellington: «No... lo sa che stanno giungendo i prussiani. Questa è la sua battaglia!»
Vecchio Generale asburgico: «Ma è la sua fine...!»
Wellington: «Il mio cavallo! La spada!»
Vecchio Generale asburgico: «Cosa fate? La vittoria è certa! Non esponetevi a inutili rischi!»
Wellington, adirato: «Il mio cavallo! La spada!»
Attendente: «Agli ordini, generale!»
(Il campo di Waterloo, coperto di cadaveri e zuppo di sangue. La Vecchia Guardia si schianta in una marea umana contro le casacche grige degli inglesi. Napoleone mena fendenti a desta e a manca, quando improvvisamente vede in mezzo al vortice umano la spada splendente degli Asburgo.)
Napoleone: «E' venuto, Wellington è venuto! Porta la spada sacra dell'Impero Austriaco... ma non è un cane al loro guinzaglio, come tutti gli altri! Fatemi strada!»
Wellington: «Siete qui, mio vecchio nemico!»
(Si scambiano colpi violenti, nel campo improvvisamente silenzioso. Ma un colpo di Wellington ferisce alla spalla Napoleone, facendolo cadere da cavallo.)
Wellington: «Arrendetevi... avrete salva la vita! Andrete in esilio lontano, dove nessuno ha mai sentito parlare di voi! Forse laggiù potrete lavare via il sangue che vi soffoca!»
Napoleone: «L'unico posto dove può essere lavato è questo campo sommerso di tenebre! E uccidendomi anche tu potrai espiare i tuoi, di peccati! Ma nello stesso momento distruggerai te stesso... non esisti senza di me!»
(Il rumore sordo di cavalli in corsa irrompe sulla scena. Sono la cavalleria
prussiana. Corrono sul campo come una nube nera, i cavalli sono fumo di tenebra e i cavalieri, tutti neri, hanno pennacchi mostruosi che brillano come fuoco.)
Napoleone, terreo: «Eccoli, arrivano! E' finita!»
(Ma d'un tratto il rimbombo come di tuono si sfalda, gli zoccoli rimbalzano fessi. I cavalli spettrali rallentano, affondando le zampe nel fango. Una marea d'acqua travolge le truppe Alleate, l'esercito di prussiani, inglesi, austriaci, russi e ogni razza venuta fin dai confini del mondo per distruggere Napoleone sono impaludate, bloccate, non possono muoversi.)
Maresciallo Ney: «Il fiume! Il fiume che è stato deviato dentro al campo degli Alleati ha travolto l'esercito nemico! Salvate il generale! Alle armi! Travolgiamo il nemico! è la nostra vittoria!»
Napoleone, sconvolto: «Non è così che doveva andare... perché non sono morto?»
Maresciallo Ney, vicino a lui: «Questa è la vostra vittoria, generale! Le aquile si garriranno ancora sul Campidoglio!»
Napoleone, a sé stesso: «Vittoria? Essa è la mia maledizione... ma, vivere... vivere ancora? Senza più il peso di tutto quel sangue? Può l'acqua torbida di uomini e cavalli di questo fiume... lavare anche le mie mani?»
Maresciallo Ney, senza capire: «Le vostre mani, generale... che dite? Non sono affatto sporche di sangue... forse avete una visione!»
Napoleone, illuminato: «Non vedi il sangue, Ney? Allora forse è vero che...! Ho vissuto in un sogno, fino ad ora? La sconfitta... il peso dei peccati... erano soltanto un'illusione? No, sono realtà... ma ora non me ne importa più nulla! Ney, manda subito un messo... mandalo alla Regina! Dille che ho vinto, e torno vivo in Francia!»
Maresciallo Ney, esultante: «Sì, mio generale!»
(Un suono di tromba squillante sovrasta le loro voci, mentre le tenebre vengono disperse dai raggi del sole che brillano su spade fracassate e cannoni divelti.)
Il paladino meccanico
“Come un Re il cui cuore è di dura roccia e la mente pietra, la sua anima è la roccia dei Franchi le vene sono i fiumi e sopra il suo capo poggia il cielo, così il suo cavaliere non ha più fattezze di uomo. Chiamato "spada di gloria", nel petto di ferro nasconde un cuore di lava magmatica e brucia dentro alle costellazioni il suo spirito di acciaio incandescente. Egli è la spada di Francia. Egli è il Paladino Meccanico.”
«Mia signora!» disse la Giovane Dama «Entrate nella tenda, vi prego!» «No!» rispose l'Alta Principessa della Fara del Corvo «Aspetterò qui, finché l'esito non sarà deciso!» La principessa era una silhouette nera immobile, la sua fragile figura pareva dovesse spezzarsi da un momento all'altro dentro al fracasso della battaglia che spaccava l'aria. I guerrieri battevano le lance sugli scudi, il metallo franco cozzava contro quello longobardo, ma quando il grido dei guerrieri si levò alto, persino la rigida figura della principessa ebbe un tremito; i frammenti della lancia spaccata del Duca brillarono in aria come scintille sprizzate dal maglio del fabbro.
«Paladino meccanico!» ruggì il Corvo; la sua criniera di piume nere si piegò nel vento e chinò la sua riverita testa, ma gli occhi tuttavia mandavano scintille, forgiati da due rubini di lava. «Mi hai battuto! Se ne vada al diavolo il tuo Re, e tutti i traditori della mia gente! La mia vita è tua: uccidimi, e leva dagli occhi di questo vecchio guerriero l'onta di vedere la mia gente schiava del Re del popolo dai lunghi capelli!» Ma il nero Paladino Meccanico, tutto coperto nell'acciaio, disse invece queste parole: «Ho combattuto fino ad ora, senza sosta, contro la tua gente, dai i delle Alpi, fino al fiume, ma ora basta: non voglio ucciderti, Duca della Fara del Corvo!» Il Duca batté la grande mano artigliata al suolo facendolo tremare e, con voce da liquefare le rocce, esplose: «Non mi serve la tua pietà, cavaliere nero! Le mie armi sono spezzate: prenditi la mia vita, e concludi la tua opera!» «Hai così tanta voglia di morire!?» esclamò il Paladino, la fedele Durendal stretta nella mano di ferro. Gli occhi del Duca del Corvo lampeggiarono: «E vivere, allora?! Il Re dei franchi ha mandato uno solo dei suoi paladini nel cuore dell'Austria e tutti i campioni dei Longobardi dell'est sono caduti; un solo Paladino è arrivato fino alle mura del mio ducato e quel Paladino ha spezzato la mia lancia. Che onore posso ancora vantare, di fronte ai miei guerrieri?» Allora il Paladino conficcò con forza la sua spada nel terreno e levatosi l'elmo scuro, alzò gli azzurri occhi verso il Duca e mormorò: «E che onore c'è per i franchi, nel vincere un fiero popolo tramite il tradimento?» e fattosi vicino al Duca, che giganteggiava su di lui, pur ancora inchinato sulle ginocchia, disse: «Desideri davvero morire? Senza nemmeno aver vendicato il disonore del tuo popolo?» «Di che disonore parli, Paladino?» ruggì sospettoso il Duca «Se parli del disonore di Desiderio, ti dico francamente che non me ne importa nulla: era diventato molle il suo braccio... non meritava altra sorte!» «Non parlo di lui, ma del tradimento della Fara del Lupo!» rispose il Paladino. «Ah!» ruggì il Duca, come lo scroscio di una tempesta di tuoni «Perché mi rinfacci il sangue maledetto dei Lupi? Desiderio era un debole, ma non avrebbe
mai tradito la sua gente: e invece il figlio stesso infisse la sua spada nella schiena del Re, non contento di aver mostrato la strada alle schiere dei franchi! E ora si vanta sulle mura di Papia, di essere il Re dei Longobardi!» «E non vuoi vendetta, per questo?» Gli occhi del duca erano come carboni ora, ardenti di un sotterraneo fuoco, a stento tenuto a freno; «E perché il Paladino del Re dei franchi mi parla di queste cose?» disse. «Perché sei troppo testardo, e vuoi la morte ad ogni costo, nonostante la tua sconfitta sia frutto di un tradimento!» mormorò il Paladino e poi forte, perché tutti potessero sentire: «Perché non posso sopportare di vedere un così onorevole avversario morire, prima che la mano traditrice non precipiti nella fossa! Dove sarebbe allora la Giustizia, e la Volontà benefica di Dio? Perché combatterebbero allora i Paladini dei franchi?!» «Eppure sono un tuo nemico!» «Il nemico onorevole e coraggioso è caro quanto l'amico!» «E cosa proponi, Paladino?» chiese infine il Duca del Corvo. «Che tu viva!» rispose «Almeno più a lungo del traditore!» «E cosa ne guadagna il Re dei franchi, da questo?» Disse il Paladino: «Il Re dei franchi, ahimè, è come roccia: il suo cuore si è fuso con la sua terra e con il suo trono; non pulsa più sangue nelle sue vene e per i suoi occhi spenti esiste soltanto il “regno dei franchi”, non le persone, non i suoi stessi paladini. Ma io, sebbene abbia nel petto un cuore di metallo che non batte, non possono sopportare che la nostra corte dia asilo a traditori e malfidenti alleati, che prima o poi rivolgeranno i loro pugnali avvelenati contro la nostra corona! Per questo ti propongo, Duca del Corvo, di redimere il tuo onore e il nostro, con la morte del traditore della tua gente!» Il Duca del Corvo soppesò a lungo le parole del Paladino, grattando la lunga bianca barba e il becco d'acciaio e alla fine si alzò e rivolto ai suoi gridò: «Ecco un uomo dei franchi che non parla con una lingua biforcuta! Anche se hai un cuore di metallo i tuoi occhi sono sinceri, Paladino Meccanico! Accetto la tua
offerta: infatti la mia anima sprofonderebbe all'inferno non sazia, se dovessi morire prima di quella feccia!» e rivolto al suo seguito, che attendeva armi alle mani, nel primo giro del cerchio di armati, disse: «Fate venire mia figlia, l'Alta Principessa!» «Sono qui, padre!» esclamò questa, facendosi avanti tra due ali di soldati-corvo. Il Paladino spalancò gli occhi per la sorpresa; era nobile il suo portamento e il suo viso bianco come la luna. Le vesti aderivano al morbido e leggiadro corpo come soffio di nebbia e solo il nobile piumaggio nero intorno alla testa ricordavano che non era parte delle molte tribù degli uomini, bensì di quella dei demoni che abitano le steppe dell'est. E con occhi lunghi e obliqui che avrebbero spezzato in due una pietra lo fissò, coprendosi con modesto contegno la bocca e il naso con la larga manica del vestito. Il padre disse: «Questo è il gioiello della mia casa! Non mi assomiglia?!» disse, dimenticandosi per un breve istante di essere il feroce Duca della Fara del Corvo «Prendila come tua moglie, a suggello del nostro patto, Paladino dei franchi!» Allora gli occhi dell'Alta Principessa lo fissarono, incandescenti come due comete ardenti che bruciano nel cielo della notte.
I guerrieri sollevarono ancora una volta i calici e gridarono forte; il massacro e la battaglia si erano tramutati in festa. L'accampamento era stato montato nel Campo Marzio come un città, appena fuori le mura della città-fortezza; sopra a un tumulo che svettava sulla piana garrivano i colori del Duca di Forum Iulii. Il Duca aveva giurato che non avrebbe più riposato sotto un tetto di pietra finché non avesse ricacciato i franchi a casa loro. Ma nell'arco di un solo giorno il nemico era cambiato; non erano più i franchi, ma altri longobardi, i traditori. Non faceva alcuna differenza per quella gente barbara: l'importante era che vi fosse un nemico da combattere, idromele da scolare nelle gole e occhi di donna che brillassero nel buio. Il Paladino Meccanico sedeva solo nell'angolo del padiglione ducale, fissando gli uomini giù nello spiazzo antistante fare festa. Sentì improvvisamente un forte profumo di osmanto e con un fruscio l'Alta Principessa si accostò a lui. Si sedette rispettosamente a qualche braccio di distanza e recando un otre di corno d'avorio disse: «ate la vostra coppa, Paladino, perché io possa riempirla!»
«Riempire la coppa di un guerriero franco non è un lavoro per l'Alta Principessa!» rispose allora egli. «Non siate sciocco!» rispose quella «E' compito della sposa, servire da bere al proprio marito! Oppure tra i franchi si usa in maniera diverso ed è il marito che riverisce la propria moglie?» C'era una punta di ironia nelle sue parole, ma il Paladino fece finta di non coglierla. «Voi non siete mia moglie!» rispose, forse in modo troppo brusco. Lei non si scompose e prese a versare nella sua coppa un vino rosso come il sangue. Il Paladino osservò il liquido ondeggiare nella ricca coppa dorata; la Principessa non parlava, ma lo fissava da dietro le lunghe ciglia. E infine il Paladino disse: «La decisione di vostro padre è stata molto affrettata! Sicuramente non vorrete diventare moglie di un odiato franco!» Ma la Principessa non rispose, limitandosi a reggere il corno. Allora il Paladino disse: «Sposate un uomo che non ha un cuore nel petto, che non può nemmeno gustare questo vino, Alta Principessa!» La Principessa si spostò un po' più vicino a lui e con voce gentile rispose: «Ci sono davvero solo metallo e ingranaggi sotto questa corazza nera, Paladino?» Gli occhi azzurri del Paladino divennero remoti, come stagni della lontana Skåneland. E disse: «La volontà e il corpo dei Paladini del Re dei franchi sono tutt'uno: il Re, è la terra, e tutt'uno con essa regna, con cuore rosso come la pietra su cui poggia il palazzo di Aquisgrana; così sono i suoi Paladini, non più uomini, ma macchine che incarnano i valori della virtù e della cavalleria!» «E che virtù c'è in un meccanismo?» chiese la Principessa. Ed ecco che improvvisamente una grande agitazione era esplosa nel campo. E un messo del Duca si fece avanti, chiamando a gran voce il nome del Paladino. «Sono qui, che cosa succede?» disse forte quello, alzandosi. Il messo gridò: «Un messaggero del Re dei franchi è venuto! Ha portato un messaggio per il Paladino Meccanico: che ritorni, subito, al campo di Papia, dove il Re suo padrone ha bisogno dei suoi servigi!»
Subito si scatenò un mormorio tra i guerrieri e il Paladino tra sé e sé mormorò: «Le notizie di quando è successo qui non possono essere già arrivate all'orecchio del Re! E dunque, cosa può essere successo di tanto grave, da richiamarmi ancora prima di conoscere l'esito della battaglia?» La Principessa si alzò e disse: «Dunque, partirete subito?» «Sapete già che non posso oppormi al volere del mio Re!» Rispose la Principessa, chinando il capo «Mi permettete di ritirarmi, mio Signore? Non voglio vedervi andare via, sapendo che potrei non vedervi mai più!» «Perché parlate in questo modo?» chiese il Paladino. «Fosche visioni riempiono i miei occhi!» rispose «Vedo un'ombra nera salire sull'Occidente!» «L'Occidente appartiene al Re!» esclamò il Paladino «E non vi sono ombre: aspettatemi, tornerò, per rendere fede al patto con vostro padre!» «Lo sterminio dei nostri nemici o il nostro matrimonio?» chiese l'Alta Principessa, coprendo la bocca con la manica dell'abito. Il Paladino non risposte. Fece venire il suo focoso destriero, che aveva pistoni nelle gambe e occhi come il metallo fuso; Brigliadoro aveva nome, perché era veloce come una scheggia di sole che scappa tra i rami. Montò allora il Paladino a cavallo e uscì come un fulmine fuori dal campo, senza che la Principessa dicesse un'altra parola. Ma lo guardò sparire come il lampeggiante guizzo di un pesce tra le acque verso la notte, oltre i fuochi dell'accampamento. E andò dal nobile padre, che beveva da un gigantesco corno vino focoso coltivato sui colli del Friuli, e gettatasi sulle sue ginocchia, lo pregò in questo modo: «Padre! Il mio spirito è angosciato! Il Paladino Meccanico a cui avete deciso di darmi come sposa è partito per il campo dei franchi... ma io ho visto un'ombra agitarsi sulle sue spalle e sul suo capo!» «Sulla tetra testa del Paladino si agita più di un'ombra!» rispose egli «E cosa
vorresti fare tu, figlia mia?» «Datemi una scorta, affinché io possa seguirlo, nobile padre!» Il Duca abbatté il corno con forza sul tavolo di noce, schiantandolo in due pezzi, e disse: «Ti accontenterò figlia! Prendi con te i miei migliori guerrieri, i sette più forti! Ma non avvicinarti all'accampamento dei franchi: aspetta fuori, nel bosco e manda un'ambasciata al Paladino. Nemmeno i più forti guerrieri dei longobardi potrebbero fare molto contro tutto l'esercito del Re!» La Principessa chinò in segno di rispetto il suo bel capo e così fece, e partì dietro al Paladino Meccanico. Il palazzo di Papia assomiglia a una profonda grotta, costruita sotto abissi di cristallo. Nell'alta sala curva è stato portato il trono di pietra rossa di Aquisgrana e su di esso siede il Re, simile a un gigante. Il maggiordomo dei franchi disse con voce forte: «Il Paladino Meccanico è arrivato!» La folla dei nobili si ritirò indietro, tra le colonne e l'ombra, da dove presero a parlare con voce sottile, in un brusio di insetti. Non vi era nemmeno uno dei Paladini compagni; vi era soltanto, presso il trono, la figura curva del Monaco, che si fece avanti ed esclamò: «Siete arrivato veloce come il vento, Paladino Meccanico!» «Come il mio Re ha comandato!» rispose inchinandosi di fronte al trono «Ma cosa ci fate voi, in questa sala?» «Che parole sfrontate sono queste?» rispose irato il Monaco «E' così che parla un cavaliere di fronte alla Religione, che io impersono?» Il Paladino non rispose, i suoi occhi erano fissi sul Re, i cui occhi fissavano lontano, tetri e fermi come pietra. Forse guardavano ai suoi Paladini, che combattevano in terre sempre più remote, lontano persino dal pensiero? Ma il Monaco disse: «Vi siete macchiato di un grande crimine, Paladino Meccanico!» Egli alzò lo sguardo irato sul Monaco, e disse: «Di che crimine parlate?!»
«Siete stato mandato a distruggere la Fara del Corvo e assoggettare l'Austria longobarda!» disse con voce sordida il Monaco «Eppure non solo non avete ucciso il Duca, ma si parla di una vostra indegna tresca con la figlia di quel demone dalle fattezze di corvo!» Il Paladino non lasciò trasparire nessun sentimento, ma ribolliva nel sentire nella voce volgare del Monaco la bassa insinuazione sull'Alta Principessa. «Chi vi disse queste cose?» rispose «Il Duca sfuggì al mio inseguimento e avevo di fronte tutto il campo longobardo: e io ero da solo... il vostro messaggio, mio Re...» e si volse al Re, che tuttavia rimase immobile «... giunse quando ancora ero ai piedi delle rosse tende! Tornai subito, come è mio dovere!» Il Monaco ribolliva, ma di piacere represso: «Menzogne!» esclamò. «E come potete definirle tali?» rispose il Paladino. «Non crediate che il vostro Re sia cieco!» rispose compiaciuto il Monaco «Il suo sguardo è lungo!» e indicò la sfera di opale che giaceva tra le mani rigide come marmo del Re «La Pietra del Mattino! Con essa il suo sguardo arriva lontano e le vostre piccole menzogne sono come una tremebonda servetta, scoperta a rubare le mele dalla madia della padrona!» Il Paladino disse: «La Pietra del Mattino! Mio Re, che cosa avete fatto? Lo sapete che le sue visioni sono distorte e che essa fu la rovina dei Merovingi: Clodoveo fissò troppo lo sguardo in quella pietra e perse sé stesso!» «Osi porre in dubbio la saggezza del tuo Re?» esclamò il Monaco. «Pongo in dubbio la saggezza di quella pietra!» rispose il Paladino. «E allora non avrete difficoltà a provare il candore della vostra anima, non è vero?» gridò il Monaco «Se davvero siete senza macchia, Dio sarà con voi! Conoscete la leggenda della Bestia Tarasca, che abita nelle atroci paludi del mare Gerondo, non è vero? Molti cavalieri, molti barbari longobardi sono entrati nel suo dominio per stanare la bestia, che pretende ogni anno giovani fanciulle alle città vicine, ma nessuno è mai tornato: se non c'è menzogna nel vostro cuore, andate, e uccidete la Bestia!» Il Paladino sentì fremere il suo spirito dentro all'armatura. Il veleno di Tarasca era così potente da corrodere persino l'acciaio e anche il suo corpo meccanico
non avrebbe avuto scampo. E altre leggende si raccontavano, di come il mare Gerundo conducesse all'inferno. Ma fissò il volto in quello del suo Re, che fissava grave il Mondo, e presa la sua risoluzione, disse: «Porterò la testa della Bestia Tarasca, per provare la mia innocenza!» Il mormorio di insetto si fece più forte tra le colonne nere come caverne, ma il Paladino non vi badò. Si alzò e uscì dalla sala, lasciando il Re dei franchi che ormai non provava più battiti di cuore umano, non provava più nulla per la cavalleria e i suoi Paladini, ma vi era posto nel suo petto soltanto per la Francia, che era terra, pietra e fiumi, foreste e creature, animali e montagne, ma non più “uomini”.
L'Alta Principessa della Fara del Corvo attendeva in un bosco di larici fuori delle mura di Papia, che tornasse il messo mandato nella città dalle torri severe. Ecco che un fruscio nella selva la fece voltare e i guerrieri estrassero più rapidi del luccio che salta fuori dell'acqua le spade. Ma dalle fronde sorse il messo, che disse: «Mia signora, ho portato il vostro messaggio al Paladino ed egli chiede che entriate nel palazzo, dove ha riservato degli appartamenti per voi e per il vostro seguito...!» «Il Paladino?» chiese la Principessa «Questo mi pare molto strano! Sei sicuro di quello che dici, messaggero?» Egli rispose: «Servo la casa di vostro padre, da molto tempo, e mio padre prima di me! Come potete dubitare della mia parola?» «E come faremo a entrare non visti dai soldati dei franchi?» «Vi mostrerò un aggio segreto...» disse il messaggero, e la Principessa non si avvide del suono d'oro sonante che diede il suo borsello... Attraversarono grotte di ghiaccio e antri di marmo, finché giunsero alle stanze interne e quando le vide per la prima volta la Principessa scambiò le ricchezze del palazzo per un incendio, tanto erano la loro luce e il loro splendore. Venne condotta a un ricco appartamento, tanto grande da poter contenere una delle tende del padre, ma non trovò il Paladino ad attenderla. Allora si volse al messaggero, ma questi, svelto, sfuggì attraverso la porta, che si chiuse alle sue
spalle. «Che tradimento è questo?» esclamò la Principessa. «Nessun tradimento!» disse la voce untuosa del Monaco, che entrò dalla seconda porta, in fondo alla stanza ricoperta di ambra «Siete ospite del Re dei franchi!» L'Alta Principessa fece segno alla Giovane Dama di stare indietro e con sguardo altezzoso, disse: «E voi chi siete, vestito di sacco come siete?» «Sono il Monaco, il consigliere del Re!» rispose, avvicinandosi troppo. E fissandola con occhi incandescenti, disse ancora: «Dal vero siete ancora più bella, mia signora!» «”Dal vero”? Che intendete dire? Quando mai mi avete vista?» disse. «Da dietro la pietra di opale!» rispose misteriosamente il Monaco «Vi ho vista nel campo di vostro padre e un fuoco si è dentro di me! Ma non credevo che sareste venuta proprio qui a palazzo! Quale fortuna per me!» «Un fuoco? Di che fuoco parlate?» «Il fuoco della ione mia signora!» rispose il Monaco, facendo un balzo avanti, ma la Principessa si ritrasse istintivamente «Suvvia!» disse il Monaco «Non scappate così! Siete come una giovane cerva che scatta di fronte al cacciatore, ma io non voglio immergere un crudo ferro nel vostro fianco, ma farmi servo di quegli occhi brucianti! Sì, mi avete rapito lo spirito, demone delle piane dell'est!» «Siete folle!» rispose la Principessa, inorridita. «Folle!» disse il Monaco «Non sapete quanto! Non sapete cosa sarei disposto a fare per voi! Avete visto le ricchezze di questo palazzo! Vi ricoprirò d'oro e pesanti collane d'oro porrò intorno al vostro bianco collo!» «Collane... catene volete dire!» rispose. «E diamanti sulla vostra fronte!» «La mia fronte non ha bisogno di pietre luminose, deviato Monaco!»
«Se sarete la mia donna, non sapete quali ricchezze potrete possedere! Fuggirete il destino della vostra gente, il destino segnato di vostro padre!» esclamò il Monaco «Non dovrete vestirvi di sacco, non sarete una schiava, ma una regina!» L'Alta Principessa rispose sdegnatamente: «Preferisco vestire di sacco e andare mendicante alle mense dei potenti, che essere vostra! Sudicio ometto, meglio la morte che l'onta, e la gloria oscurata da una resa vile, in compagnia vostra! E pensate di potermi rivolgere queste impudenti parole, mentre mio padre vive ancora, e così il Paladino Meccanico?» «Impudente lingua!» gridò il Monaco «Ma la saprò domare: e vostro padre presto non sarà più in questo mondo! E così il vostro Paladino: egli è andato a morire nella palude di Gerondo! Lo aspetterete invano, riottosa donna!» e così detto si voltò irato e uscì sbattendo la porta, che venne chiusa dietro di lui da catenacci di ferro, che risuonarono nel cuore della Principessa come rintocchi di morte.
Nella distesa interminabile di ghiaia e alberi divelti dalla furia delle acque, che ogni primavera scendevano dalle montagne con tutta la furia delle piogge e dei ghiacciai liquefatti, si levavano vapori e cortine di nebbia, che coprivano di fredda brina l'armatura del Paladino. Tra le pietre spaccate, ricoperte di antico muschio, scorrevano infiniti rivoletti d'acqua, ma nessun animale osava abbeverarsi: questi rivoli nascevano dal centro del lago, dove aveva la sua dimora la Bestia Tarasca ed erano velenosi come il mostro. Quell'immensa distesa di detriti e fango era il “ragnarök” che circondava la palude, un lago di acque immote e lutulente dove si aggiravano da tempo immemore bestie gigantesche. Il Paladino Meccanico avanzava a piedi, Durendal stretta in pugno. Dense spirali di spettrale nebbia si avvolgevano intorno alle sue gambe, come serpenti, e una fitta nevicata di cenere cominciò a cadere su di lui. E un rombo, come di una cataratta immane che cade da altezze celesti, prese a mugghiare davanti a lui. E allora da dietro una roccia comparve un grande terribile lupo nero, gli occhi come carboni ardenti, le ossa dei fianchi visibili e il ventre ritirato contro la schiena. Il lupo disse, con voce secca come lo schioccare di legna nel fuoco: «Fermati,
Paladino! Non proseguire più oltre, perché più avanti è il mondo dove ai vivi non è concesso di camminare!» Rispose il Paladino: «Nemmeno io sono vivo: io sono il Paladino Meccanico. Vado dove mi porta il mio coraggio e ho fede nella mia spada e nella mano di Dio!» Riprese il lupo: «Fai come credi, uomo di metallo! Ma non si dica che Skarg il lupo non abbia parlato!» e così dicendo scomparve dietro le rocce rapido come la fame. Il Paladino si rimise in marcia e il rumore della cataratta diveniva sempre più forte, che sembrava essere proprio dietro quelle grandi pietre... ma non appena le ebbe superate, di non vi era nessun segno di cascate e anzi lo stesso rumore scomparve di colpo, come se non fosse mai esistito. Ora la nebbia e la pioggia di cenere impedivano quasi completamente la vista e sagome bianche si muovevano ai confini del suo campo visivo; erano molte creature, ma non avrebbe saputo dire che cosa fossero, e se fossero reali, o piuttosto un sogno, una visione, mandata dagli spiriti dell'aria. E tra le pietre spaccate serpeggiava una grande, rossa vipera, e la vipera, saettando la lingua velenosa, disse: «Ti conoscono, Paladino del Re dei franchi! Non osare andare più oltre, perché anche il tuo cuore di metallo non può sopportare il luogo dove abitano grandi Dei... la loro sola vista ti brucerà!» Ma rispose il Paladino: «Non mi fermerò, e non esiste che un solo Dio: la tua lingua biforcuta non instillerà il dubbio in me, serpe!» «Fai come credi, ma Sse ti ha avvertito!» rispose la vipera, prima di strisciare indolente tra le rocce e scomparire alla vista. Il Paladino avanzò ancora e ora la luce calava, come una candela sotto il moggio, e le ombre erano lunghe e oscure e il cielo si tingeva di una tinta che era come caligine nera. I suoni erano scomparsi intorno a lui e non si scorgeva nulla più in là di due i: era come camminare dentro alla nube di un incendio, come dentro alle distese dell'Ade. Ma ecco che come sollevando un velo la cortina oscura si alzò e fu sulle rive di un vasto mare di acque sporche e immote. Non era possibile scorgere l'altra riva;
grandi banchi di nebbia rotolavano sulla superficie oleosa, troncando la vista in più parti, e una cappa di oscurità, solida come una tenda, schiantava la vista più lontano. Ma, meraviglia a vedersi, verso il centro del lago si stagliava una severa rupe, sommersa di alberi contorti, che nonostante l'oscurità era ben visibile. Si scorgeva la sagoma di un castello, che si levava di mezzo agli alberi. Il Paladino si chiese chi avesse potuto costruire quel castello, in un luogo simile, e se fosse abitato o meno, ma le sue domande sarebbero state soddisfatte troppo presto. Improvvisamente dal centro del lago venne un'onda e con orrido sciacquare e risucchiare arrivò la grande Bestia, che nuotava e rotolava, annaspava e volava con ali tronche. Il Paladino seppe subito che quell'orrore informe circondata da vapori velenosi era la Bestia Tarasca, e raccomandando l'anima al Signore sollevò la lucente Durendal sopra il capo. E la grande Bestia Tarasca parlò con voce di terrore: «Chi viene alle porte della Morte, per assaggiare il morso che uccide anche l'anima?!» «Il Paladino Meccanico, mandato dal Re dei franchi!» rispose coraggiosamente. Uno scroscio come di schiudersi di larve immonde o come il rompersi del legno marcio risuonò e ci volle qualche attimo perché il Paladino comprendesse che quello era il riso della Bestia. «Folle il tuo Re!» gridò da bocche non umane «Egli ha mandato a morire il suo cavaliere migliore!» e molte voci ripeterono dal lago e dall'aria: «A morire, a morire!» ma non era visibile alcuno che parlasse, forse il buio stesso aveva voce! E la Bestia disse ancora: «Dentro a quel castello abita il Re Morto: il suo volto nutre larve imputridite, il suo naso è come un verme bianco, e i suoi occhi sono fosse scoperchiate... questo è il suo regno, il regno dei morti! E tu, vivo, sei venuto fin qui, con i tuoi stessi piedi! Scoprirai che non è possibile fuggire di qui, Paladino dall'armatura nera!» E una torma di spiriti neri sciamarono tutt'intorno al Paladino e per quanto egli menasse la spada, essa non poteva trafiggere l'aria. Ma ogni tocco di mano invisibile, era come il tocco gelido della fossa e persino il suo corpo meccanico divenne gelido, i meccanismi rigidi, ogni giuntura di ghiaccio. Cadde sul ginocchio, sotto la risata orribile della Bestia. Ma ecco che come una visione sorse davanti ai suoi occhi l'ovale perfetto del volto dell'Alta Principessa, che trafisse il ghiaccio come rapidi raggi di sole.
“Che visione è questa?” si disse il Paladino “La sto sognando nella mia mente offuscata nell'attimo prima della morte, oppure viene a me come una visione celeste?” ma la visione parlò, con voce leggiadra: «Cosa fai Paladino? Dov'è il tuo coraggio, la forza della tua spada?» «La mia spada non può trafiggere il vento!» esclamò alla visione; e quella alzò le mani splendenti e prese il suo volto e subito sentì il calore che non credeva di poter provare con quel suo corpo meccanico. E la visione disse: «La tua spada è la tua fede! La tua spada non è di metallo, ma è il tuo spirito!» Allora il Paladino rispose: «Dama dall'aspetto gentile, guarda allora di cosa è capace l'anima del Paladino Meccanico!» E tornò ad alzarsi e sollevando Durendal essa brillò come una stella nel suo pugno. Con grida di orrore le ombre vennero lacerate e la Bestia Tarasca gridò, perché una delle sue grosse braccia cadde in acqua, disciolta dalla luce. Fuggì, ragliando e saltando e volando, verso il castello. Ma il Paladino si lanciò al suo inseguimento. Vi era un ponte di pietra, vecchio e dirupato, che collegava la riva al castello. Il Paladino vi corse, quando vide la Bestia lanciarsi con un goffo volo oltre le mura, dentro al castello. Arrivò al portone fracassato da anni immemori, ma viticci rossi, pieni di spine rosse, calarono dall'alto per avvolgerlo e stritolarlo. Durendal brillava ancora come una ferrea stella e bruciò al contatto i viticci assassini. Entrò sotto la volta nera del castello e una fantasmagoria di visioni si affollò intorno a lui; occhi vuoti, becchi nei volti scavati, larve e fantasmi. Ma nessuna delle visioni osò avvicinarsi, per paura della spada. Salì interminabili scale e vuote stanze, finché udì il risucchio e il verso della Bestia. Allora entrò in una grande sala, dove bruciavano candele di sego nero e una grande bara di cristallo era posta al centro della sala. E dietro un trono di basalto nero; due cavalieri dal sembiante terrificante stavano ai due lati, gli elmi abbassati, sotto ai quali aleggiava una verde luce innaturale. E sul trono un essere di pura decadenza; il suo volto nutriva larve imputridite, il suo naso era come un verme bianco, e i suoi occhi erano fosse scoperchiate. E il Re dei Morti disse: «Paladino Meccanico cosa ti ha portato fin nella mia corte?! Non lo sai che i vivi non si mischiano ai morti e i morti non cercano i vivi? Sei entrato nelle stanze della morte, ora non potrai mai più lasciarle! Sei sceso sotto il velo, sei sceso sotto la terra... non c'è ritorno per la tua anima, il tuo coraggio ti ha perduto!»
Il Paladino si fece avanti e con orrore indicibile vide che cosa giaceva dentro alla bara di cristallo. Era l'Alta Principessa, vestita di un sudario bianco, i capelli sparsi sul petto come alghe trascinate dalle onde e il volto bianco più del marmo. E il Paladino gridò: «Cosa significa questo? Che visione, che inganno è questo?!» Rispose il Re: «Nessun inganno, cavaliere! Ella scese prima di te i gradini della morte... mentre tu viaggiavi cercando la strada per il mio regno l'Alta Principessa venne rinchiusa nel palazzo di Papia dal perverso Monaco: egli tentò la sua virtù con l'oro e con l'illusione della gloria. Ma lei non cedette mai ed egli, folle di rabbia, fece arrivare alle sua labbra il veleno dello scorpione rosso. Scese l'infelice oltre le soglie dell'Ade e ora diventerà la mia sposa, qui nel mondo vuoto e buio dove io regno! E tu diventerai uno spettro, Paladino, un'ombra di rimorso che brucerà nel vedere la Principessa tra le mie braccia putrefatte!» Il Paladino si inginocchiò sul catafalco e disse queste amare parole: «Quindi non era una visione, quella che vidi! La vostra anima venne a rischiarare il mio cammino, prima di lasciare il corpo! Ma dov'è finita la giustizia, dove sono finiti i giuramenti dei cavalieri? Sotto gli occhi del Re dei franchi si compie ogni sorta di malvagità ed egli non vede...!» E mentre il Paladino ancora parlava e fissava lo sguardo sul volto immobile dell'Altra Principessa, da dietro scivolò, strisciando come un serpente, la Bestia Tarasca, pronta a decapitare il cavaliere con i suoi speroni taglienti. Ma mentre incombeva su di lui il Paladino si sollevò e con un largo colpo della spada ricavò una profonda ferita nel collo della Bestia e sangue bilioso e veleno mortale esplosero in ogni direzione. Il veleno fondeva l'armatura del Paladino, ma il Paladino affondò Durendal ancora di più nell'immondo corpo finché essa non brillò ancora più forte e l'intero essere esplose di luce da dentro, disintegrandosi in pulviscolo nero. Il Paladino si rivolse al Re dei Morti e disse: «Ora io prenderò la Principessa e la porterò via con me! La porterò sui campi di asfodeli, sotto la luce del sole, perché i suoi gentili raggi tocchino ancora una volta la sua pelle... non l'avrai, malvagio genio della putrefazione!» «Come osi? Credi di poter sfuggire la morte?» gridò il Re e i suoi cavalieri della morte estrassero le spade nere come la notte «Milioni di morti guardano le mie porte, torrenti di cadaveri inondano le mie sale, e i mie Paladini Morti non
conoscono la sconfitta!» Il Paladino prese con un braccio la Principessa inerte; dalle tenebre emersero facce emaciate e con strido di catene vennero i morti dalle cripte profonde. L'esercito dei morti si sollevò contro il Paladino, ma lui si rivolse così alla cara spada: «Ora vedremo, Durendal, se è vero quello che dicono, che il Paladino Meccanico è il più forte dei cavalieri del mondo!» e si lanciò nello scontro, come un mietitore attraverso il campo di grano. A centinaia caddero sotto i suoi colpi, ma i Paladini Morti erano rapidi come serpenti, sfuggenti come fumo, micidiali come cinghiali lanciati in carica e il Paladino venne ricacciato indietro, con la schiena contro una colonna. Molte ferite ammaccavano la sua armatura e si stava preparando all'assalto finale, quando in mezzo all'esercito dei morti vide delle sagome torreggianti bruciare come il fuoco e subito le riconobbe, nonostante le loro sembianze fossero così mutate da sembrare giganti dalle teste di fiamma. «Paladino Rosso! Paladino d'Acciaio! Siete voi!» gridò e quelli si lanciarono nella mischia e falciarono i morti come se fossero la mano irosa del Signore. Il Paladino si unì a loro e respinse l'orda della morte. Combatterono per le sale, nei corridoi e sulle scale e finalmente il portone era spalancato di fronte a loro. Il Paladino si lanciò in avanti, ma i Paladini suoi pari non si mossero dietro a lui. E lui gridò: «Paladini! Amici! Che fate?». Ma quelli scossero i gran capi cinti di fiamme e lui comprese. «Ahimè! Dunque è così!» gridò «Anche voi siete morti, lontani dalla patria! Eppure siete venuti nell'ora suprema a prestarmi il vostro aiuto! Nemmeno la tomba ha potuto fermare il vostro valore: con voi se ne va tutto il meglio della cavalleria, tutto il tempo antico che non tornerà mai più!» ed essi sollevarono le spade, salutandolo. Il Paladino si volse, incapace di sostenere quella vista. I morti e i Paladini rimasero indietro e sentì il sonoro chiudersi delle porte del castello. Tornò indietro correndo, reggendo in un braccio Durendal, nell'altro la Principessa, attraverso la caligine, attraverso la nebbia, attraverso la cataratta invisibile. E finalmente fu sotto i raggi del sole; la sua armatura era piena di tagli, corrosa e il liquido nero dei suoi meccanismi colava fuori simile a sangue. Ma non se ne curò: trovò una collina soleggiata, circondata di alberi e sopra un letto di fiori bianchi depose il corpo dell'Alta Principessa. E sopra di lei si chinò e rimase a
lungo così, come morto.
Così lo trovò la Giovane Dama, che andava in cerca del Paladino da giorni; era fuggita dal palazzo grazie al sacrificio dei sette forti guerrieri, e lo cercava nella piana, per portargli la notizia funesta della morte dell'Alta Principessa. Lo trovò immobile, divenuto simile a pietra, gli occhi fissi e ricoperto di piume nere su tutto il corpo. Brigliadoro lo vegliava da vicino, vigile sentinella sopra il suo corpo e su quello della Principessa. La Giovane Dama sgranò gli occhi: come era possibile che il corpo della Principessa fosse là, quando lo aveva lasciato a Papia? Si fece vicino e vide che la sacra Durendal era posata sul grembo della Principessa. E che i capelli erano lucenti, le piume sul capo erano vivide e mosse dalla sottile brezza e le gote erano sparse di un vago rosa. Si chinò meravigliata su di lei e toccandole la fronte si accorse che era calda; e il petto respirava sommessamente. Eppure era sicura che la vita l'avesse abbandonata! Stava forse al cospetto di una visione o di un inganno mandato dagli dei? Ma ecco che l'Alta Principessa aprì improvvisamente gli occhi e vide su di sé il Paladino, che era come pietra, vide la Giovane Dama e la spada sul suo grembo e comprese tutto e gridò: «Ahimè, a quale sacrificio ha portato la mia scelta? Volevo aiutare il Paladino e stornare dal suo capo l'ombra di morte e invece sono stata proprio la causa della sua fine!» La Giovane Dama esclamò: «Mia signora! Siete viva? Non è un'illusione o un sogno?» L'Alta Principessa rispose: «Non è un sogno, anche se vorrei che lo fosse! Potermi svegliare nel palazzo di mio padre, e vedere ancora le bandiere garrire sui pennoni, e perdermi di nuovo nei miei giochi di bambina...! Ma no, non cambierei il presente con il ato: non avrei mai incontrato il Paladino, ma povera me, sono stata proprio io a ucciderlo!» Disse ancora la Giovane Dama: «Il Paladino è morto? Ma sento il ronzio degli ingranaggi...!»
«E' come morto!» rispose l'Alta Principessa «Vedi queste piume nere? Sono le ombre del regno dei Morti, da dove mi ha strappata! E la bianca Durendal: vedi come è opaca la sua lama? Una leggenda dice che questa sacra lama possa dare la morte, ma anche dare la vita. Il Paladino mi ha ridato la vita, ma a costo della sua!» «E cosa possiamo fare, per lui?» chiese sollecita la Giovane Dama. «Come possiamo sfidare di nuovo la morte?» rispose la Principessa. Ridisse la Giovane Dama: «Mia signora, contro la morte non si può fare nulla, ma voi eravate morta e ora siete viva: questo mi da fiducia che si possa fare qualcosa anche per il coraggioso Paladino!» L'Alta Principessa, subito animata, si sollevò verso di lei e prendendola per le spalle, disse: «Parla! Esiste sul serio un modo? Non vedo altra salvezza se non in un miracolo, o nell'intervento della stregoneria!» «Non ne sono sicura, ma...» rispose «... ma dovete sapere che la mia Fara, che serve la vostra da dieci generazioni, ha sempre cercato la conoscenza, quella perduta che Snotra insegnò ai nostri padri. La magia e il potere di piegare gli spiriti del vento al volere dell'uomo; ora la maggior parte degli incantesimi sono perduti, ma esistono esseri così antichi da poter dire di aver visto la prima ghianda nascere dal suolo e di aver visto il mare ritirarsi dalla terra. E alcuni di questi esseri antichi ricordano tutte le poesie e tutte le magie del mondo, perché le ascoltarono direttamente dalla voce degli dei; uno di questi vegliardi fu un tempo proprio un antenato della nostra Fara. Strega Viola viene chiamata e si dice che, prima di partire per mondi lontani, non vi fosse nessun segreto della vita e della morte che le fosse sconosciuto!» «Ma questa strega, esiste ancora?» chiese la Principessa. «Io credo di sì, ma non abita in questo mondo!» rispose la Giovane Dama. «E come faremo a trovarla, allora?» «Conosco una magia che può far venire una grande bestia alata dalle montagne di Skåneland, la nostra terra natia!» disse «Essa è antica e saggia e può portare un solo eggero al di là del ponte di cristallo che crollò, nei mondi al di là del Midgar: se sussurrerete il nome del luogo dove vive la Strega Viola al suo
orecchio, essa vi porterà da lei!» «E come si chiama questa terra?» «Esso si chiama Svartálfaheimr, mia signora!» «Un nome che incute paura!» rispose ella alzandosi; ma si chinò poi sul Paladino e prendendo tra le mani il suo viso martoriato, dove crescevano piccole piume, fissò lo sguardo nei suoi occhi immoti e disse: «Ma devo essere coraggiosa, come lo siete stato voi! Aspettatemi, Paladino Meccanico, tornerò da voi e vi ridarò la vita!» E così detto si alzò e disse alla Giovane Dama: «Amica mia, usa dunque la tua magia: chiama questa bestia alata, che mi conduca al di là dei mondi! Ma mi chiedo come farò a convincere la Strega Viola, se ancora vive, ad aiutarmi!» Una grande angoscia prese la Giovane Dama, ma non c'era altro da fare, perché era lei che aveva suggerito questo viaggio. Temeva di poter perdere ancora la sua amata signora, ma vedendo la risoluzione nei suoi occhi, che era quella di una vera longobarda, non pensò più a pensieri disonorevoli e codardi, e disse: «I vostri occhi sono all'altezza del nome che portate: tutti i re dei longobardi del ato ora hanno posato il loro sguardo su di voi, mia signora!» e soggiunse: «La Strega Viola faceva parte della nostra Fara; prendete questo anello, che reca il nostro segno, vedete, l'Occhio dei Maghi! Mostratelo alla feroce strega e chiedetele aiuto in nome dell'umanità che un giorno anche lei conobbe!» e così dicendo andò nel centro della radura e con le sua arti magiche chiamò la bestia dal lontano Skåneland. Ed essa venne, rapida come un sogno, e si posò sulle sue fiere zampe di rapace nella radura. L'Alta Principessa pose una mano sulla sua crudele testa e questa, pur dardeggiandola con occhiate di fuoco, si lasciò toccare, conquistata dalla sua bellezza. Si chinò verso terra così che potesse montare sul suo dorso e la Principessa salì, recando con sé Durendal. Sussurrò il nome nell'orecchio della creatura e quella prese il volo in un balzo, come una freccia scoccata dall'arco. Il mondo volteggiò sotto-sopra, la luce si inabissò in un vortice di colori e nebbia e improvvisamente non era più nel Midgar, ma dentro a un cielo di aurore rosse e verdi e le stelle ondeggiavano sopra e sotto, nel grande vuoto. Si strinse al collo della creatura e questa volò come la notte che viene dalle montagne.
E infine scesero nell'occhio di un vortice multicolore e furono nell'oscuro e sotterraneo Svartálfaheimr. “Sotterraneo” perché al di sopra del capo dell'Alta Principessa non ruotava il cielo con i suoi pianeti e stelle, ma una solida volta chiudeva tutto lo spazio; eppure non era la volta di una grotta, ma era un liquido acquore blu cupo, dentro cui saettavano code purpuree e colori saettanti. L'aria era satura di pollini di diverso colore, fluttuanti come neve, provenienti senz'altro dalle mille piante notturne che riempivano le profondità. Un dolce profumo si spandeva nell'aria, assieme a bande di colore, che avano tra gli alberi e i monoliti come stracci di nebbia. Vi erano infatti alberi, ma come non ve ne sono sulla terra. Erano alberi dalla scorza nera, simili a metallo vivente e dai loro rami non pendeva foglia o frutto, ma globi luminosi, che erano come lanterne. L'Alta Principessa si volse un attimo, rapita da quella strana visione e già la bestia alata era scomparsa. Rimasta sola non poteva far altro che incamminarsi nel mezzo degli alberi e dei tetri monoliti. Trovò un sentiero di pietre antiche che conducevano giù lungo il colle. E fatta poca strada incominciò a vedere i tetti di case e palazzi, una città dove il sentiero si andava a infilare come il filo nella capocchia dell'ago. Pensò di andare in quella direzione, ma una voce la chiamò, facendola sussultare: «Fermati, ragazza!» disse la voce sottile e lei si volse e vide su di un ramo uno scoiattolo nero, che la fissava con occhi come due diamanti; ed ella disse: «Perché mi fermi? Perché non devo proseguire verso il villaggio?» E lo scoiattolo rispose: «Se ti preme la tua vita, non andare al villaggio di Snorri! Vedi che non vi sono luci dentro alle case e non ci sono lampioni per le strade? Una oscura genia abita quel luogo, che di sicuro non vorresti incontrare!» «E come farò? Io cerco la casa della Strega Viola!» rispose la Principessa. «Ah!» esclamò lo scoiattolo «Cerchi solo luoghi tetri e senza speranza!» «Non so se siano senza speranza, perché io tengo in me invece una tenue speranza... dove tu dici che c'è solo buio, io vado cercando un piccolo fuoco!» rispose. «Sembri una Principessa coraggiosa!» disse lo scoiattolo «Ebbene, prendi quella curva in mezzo alle erbacce e cammina finché non incontri i resti del gigante Mrin... allora troverai la casa della Strega Viola: spero per te che il tuo piccolo
fuoco basti a illuminarti la via!» e poi balzando su di un ramo, aggiunse: «Se ti chiederanno “chi ti ha mostrato la strada”, ricorda, dì che è stato lo Scoiattolo Nero!» «Lo ricorderò!» rispose l'Alta Principessa e si incamminò per la via che gli aveva indicato lo scoiattolo. Il tempo non pareva esistere in quel mondo umbrattile e la Principessa non seppe quanto camminò, anche perché non sentiva stanchezza né fame. Ma ecco che di fronte a lei comparve una grande sagoma e si accorse ben presto che doveva essere il corpo del gigante Mrin di cui aveva parlato lo Scoiattolo Nero. Era un gigantesco scheletro, incurvato sotto la volta di acque che stavano in alto, ed era così gigantesco che il cranio toccava il soffitto. E dentro alla sua smisurata cassa toracica nuotavano grandi pesci rossi e blu, come se l'aria fosse acqua. La Principessa rimase per qualche attimo a fissare la misteriosa scena, poi si riscosse e cercò dove potesse essere la casa della Strega Viola. E girando intorno alle ossa della mano, che poggiavano in terra per diverse leghe, vide a un certo punto, nell'osso del dito medio del gigante, una porticina di legno. «Che mi si stacchi la testa se quella non è la porta di una casa!» esclamò e subito la raggiunse e provò ad aprirla. Era aperta e senza esitazioni, pensando al povero Paladino Meccanico, la spalancò ed entrò nel grande vano buio dall'altra parte. Non appena gli occhi si furono abituati all'oscurità vide che si trovava in un basso ambiente stipato di libri dall'aspetto minaccioso, riposti ora in scansie, ora in cumuli che dal pavimento salivano fino al soffitto. La Principessa non aveva mai visto tanti volumi tutti insieme, nemmeno nel monastero di Santa Giulia. In quei libri dovevano trovarsi segreti indicibili e poteri spaventosi e saggiamente se ne tenne lontana; una scala a chiocciola saliva vero l'alto, tortuosa e in ferro battuta. Salì rapida e altre sale bizzarre si aprivano alla sua vista. Sale grandi come cattedrali e sale a forma di sacco o di conchiglia, sale piccole come un'alcova nel muro e sale ripiene di oggetti strani e puntuti e sale coperte di drappi neri e di specchi. E infine giunse a una stanza con un grande arazzo e l'arazzo rappresentava una battaglia tra eserciti di scheletri ed eserciti celesti che camminavano sulle nuvole e nelle case e nei palazzi rappresentati ai margini del campo di battaglia non vi
abitavano uomini, ma scimmie. Si avvicinò all'arazzo e non vi era nessuno nella lunga sala; le lampade accese ondeggiavano per una corrente d'aria invisibile, ma non vi era traccia di viventi. Sollevò un lembo dell'arazzo e dietro ad esso era la Strega Viola. Era alta e severa, il volto come una cascata di ghiaccio, gli occhi come stelle ormai spente. E con voce come di vento sottile disse: «Chi sei che entri nella mia casa, senza essere invitata, senza essere attesa?» La Principessa si fece un enorme coraggio e disse: «Sono l'Alta Principessa della Fara del Corvo, mia signora!» «E chi ti ha mostrato la strada per la mia casa, mortale?» «Lo Scoiattolo Nero!» rispose prontamente. La Strega Viola rimuginò qualche attimo e poi disse: «Non ti ucciderò allora, per essere entrata, perché la colpa ricade sullo Scoiattolo: ma sarai mia serva per sempre, per ogni giorno a venire, dal momento che sei venuta non invitata e non attesa!» «Aspettate!» esclamò la Principessa «Guardate questo anello! Appartiene alla vostra Fara, quando camminavate nel mondo dei mortali! Non potete fare un eccezione, in memoria di questo?» La Strega Viola fissò l'anello e parve ricordare qualcosa di remoto negli occhi spenti e infine disse: «Allora per questo anello potrai uscire e andare dove vorrai: non ti terrò prigioniera nel mio palazzo!» «Aspettate!» osò parlare ancora la Principessa «Io sono venuta per chiedervi se nel vostro potere potete ridare la vita al Paladino Meccanico!» «E chi è questo Paladino?» «Un prode che ha sfidato per me il regno del Re dei Morti, ma che ne è ritornato contaminato dalla Morte!» rispose. Allora la Strega Viola si sollevò e la Principessa si accorse allora che era seduta; in piedi la Strega Viola era alta quasi fino al soffitto e i capelli ondeggiavano in
aria come anemoni di mare sciolti nelle correnti marine, e non toccava terra con i piedi né con il suo vestito. E disse: «Un prode che è stato nel mondo dei morti!» e soggiunse: «Uno sciocco, piuttosto! Ancora nel mondo esistono uomini come questo? Li credevo estinti da lungo tempo: e cosa disse quel brutto e indisponente Re dei Morti, quando il prode sottrasse il premio?» «Il premio?» chiese la Principessa, senza capire. «Tu, bambina!» rispose. La Principessa allora disse: «Non lo udii, perché ero morta, ma di sicuro si adirò, perché maledisse il Paladino; e la sua armatura era tutta piena di colpi: forse scatenò il suo esercito contro di lui!» La Strega Viola allora rise, di una risata argentina e forte, che suonò come lo scroscio di pioggia nel bosco. Disse: «La furia deve avergli fatto cadere quel suo orribile naso bianco! Questa storia che mi dici mi ha portato dell'allegria, dopo così lunghi anni, o secondi, di noia!» e così dicendo andò, senza mai toccare il pavimento, fino a un voluminoso baule che stava nell'angolo in fondo alla sala e fissatolo, questo si aprì da solo e pergamene e ampolle ne volarono fuori, come colombe spaventate. E in fondo al baule brillava una pietra rosa, che pulsava come il battito di un cuore. E la Strega disse: «Sei fortunata, bambina! Questa volta l'ho trovato subito!» «Che cosa, mia signora?» rispose ossequiosa la Principessa, cercando di districarsi dal volo di ampolle e pergamene. «Il mio cuore!» rispose, prendendo in mano la pietra «Senza di esso non posso fare magie complesse come quelle che mi richiedi... ma non ricordo mai dove lo nascondo; avresti potuto are anni in questo palazzo a pulire, rassettare, scopare e sgobbare prima di trovarlo!» Una vetusta pergamena, che aveva pure la barba, si posò sulla testa dell'Alta Principessa, come una sorta di grosso gufo; ma la Principessa era troppo contenta per badarvi. «Volete dire che salverete il Paladino?» «C'è vecchia ruggine tra me e il Re dei Morti!» rispose la Strega Viola «E
chiunque gli faccia un danno è mio amico; e se posso procurargliene uno io in persona, non mi tiro indietro!» e così dicendo allungò il lungo affusolato dito e toccò Durendal, che la Principessa portava con sé. E la spada tornò lentamente a brillare, lucida come appena uscita dal lavoro del fabbro. «Così il Paladino sarà guarito?» chiese allora la Principessa. «Dalla maledizione della morte sì...» rispose la Strega «... ma per quanto riguarda i suoi freddi ingranaggi, a questo dovrai pensare tu, bambina!» La Principessa si chiese che cosa volesse dire, ma già la Strega Viola la spingeva verso il fondo della sala «Vai via, adesso!» disse «Prima che mi dimentichi chi sei e per un capriccio ti trasformi in un candelabro, o in una graziosa cagnetta!» «Ma come farò a tornare nel Midgar?» chiese preoccupata la Principessa. «Vai vai!» esclamò invece la Strega spingendola verso una porta. E le diede un ultimo spintone dentro la soglia che improvvisamente si aprì su di un baratro nero, dove spirava un violento vento cosmico. La Principessa gridò, ma era già nel vuoto. E cadde verso il nero più nero e senz'altro pensava già di essere morta, quando la pergamena-gufo che stava ancora appollaiata sulla sua testa si gonfiò come un pallone, estrasse due zampe di rapace enorme e tenendola per le spalle come uno sparviero rapisce un pulcino divenne un colossale uccello di pergamena che la sollevò in alto in alto. Comparve un puntino luminoso. E divenne una stella ardente e l'uccello vi si precipitò dentro, in un abbacinante bruciare. La Principessa aprì gli occhi; file di pini coperti di rugiada in ogni direzione e sotto i piedi il solido terreno del mondo che conosceva. Il cielo era chiaro nel primo albeggiare e i colori erano forti, vividi, del tutto diversi dallo Svartálfaheimr. In braccio teneva ancora la splendente Durendal e sulla sua spalla un grosso gufo di pergamena ripiegata, con due occhi veri che spuntavano fuori come globi dalle pieghe. «Sei venuto con me?» chiese, ma quello strano essere non rispose. «E dove siamo, ora?» disse ancora la Principessa, parlando questa volta a sé
stessa. Ma ecco che nel silenzio dell'alba venne dalla valle un intenso rumore di zoccoli e di armi che rimbalzano sulle armature, e nitriti e l'odore acre dell'acciaio. La Principessa si affrettò allora tra gli alberi e arrivò là dove un sentiero usciva dal bosco di pini e scendeva tra molli prati verso l'uscita della valle. E vide un grande armamento di uomini a cavallo procedere in marcia, che recavano le bandiere e i colori dei franchi. Non sapeva se farsi avanti, ma quando vide un grande catafalco nero nel centro dei cavalieri, trainato da quattro focosi cavalli neri, drappeggiati di viola, le mancò un battito del cuore. Il catafalco recava l'emblema del Paladino Meccanico. Si lanciò allora incurante di tutto sul sentiero e chiamò a gran voce la testa della colonna. Il primo cavaliere vedendola apparire come una visione tirò le redini, fermò la colonna e disse: «Chi siete voi signora, che uscite all'alba dalla foresta dove gli uomini non osano entrare? Siete uno spirito o un essere umano? Il vostro aspetto è però quello di una Dea, e i miei occhi mi confondono!» Rispose velocemente l'Alta Principessa: «Non sono una Dea, e sono mortale quanto voi, nobile cavaliere! Ma ditemi, cos'è questo catafalco che portate?» «Anche se mi assicurate di essere un essere umano, stento a crederlo!» rispose il cavaliere «Questo catafalco che vedete porta la bara del prode Paladino Meccanico: egli giace in una foresta non lontano da qui, simile a uno scoglio. Egli è morto uccidendo la terribile Bestia Tarasca e il Re dei franchi ha ordinato che si recuperi il corpo e sia seppellito sotto le montagne dell'occidente, dove i primi raggi del sole toccano la terra, quando esso sale dal mare!» «Vorreste essere allora così gentile da portarmi con voi, e farmi da scorta?» rispose con grazia la Principessa «Voglio anch'io rendere omaggio a questo grande cavaliere di cui mi parlate!» «Sono servo vostro!» rispose il cavaliere «Ma devo avvertirvi che non per un vezzo nostro siamo così in arme: i soldati dei longobardi sono stati visti su questa strada e non sarà sicuro per voi!» «Non sarà sicuro nemmeno rimanere qui in questo luogo desolato da sola, per me!» rispose la Principessa, chiedendosi come mai il cavaliere franco non
notasse le piume sul suo capo, che la qualificavano senza dubbio come longobarda. Ma quello rispose: «Mi ripugna più della morte stessa lasciarvi qui! Date alla signora uno dei cavalli di riserva, ma uno di quelli domestici, che non venga disarcionata!» «Datemi anche un focoso cavallo da guerra!» rispose la Principessa «Non ho alcun problema a cavalcarlo!» ma quando un sollecito scudiero venne e portò un palafreno bianco la Principessa si accorse di non indossare dei vestiti acconci alla cavalcata. Ma montò ugualmente, mostrando una parte delle sue bianche gambe, che non arono inosservate al drappello di armati. Ma erano tutti cavalieri onorati: nessuno si lasciò sfuggire nemmeno un solo commento sconveniente. Solo il cavaliere che li guidava, con occhi martoriati da quella visione, distolse a fatica lo sguardo e con voce malferma disse: «Procediamo, uomini!» La colonna procedette tra i prati, come un funereo corteo. Ecco che sorse là davanti la collinetta circondata da alberi dove riposava pietrificato il Paladino. Ma uno degli armigeri spronò avanti il suo cavallo verso quello del comandante ed esclamò: «Signore, soldati nemici!» ed era vero. Là dove la sua mano indicava, dal lato opposto della collina, spuntarono bandiere longobarde e scintillò il ferro di pennoni e lance. Alla Principessa il cuore diede un tuffo: erano le insegne della Fara del Lupo quelle! «Soldati! Preparatevi allo scontro!» gridò il comandante, e poi rivolto agli uomini armati più alla leggera che circondavano il carro funebre, disse: «Proteggete il carro!» e alla Principessa: «Mia signora, rimanete qui con il carro!» «Aspettate!» rispose quella «Volete caricare i longobardi, pochi come siete? Quella è la Fara del Lupo, che si suppone alleata dei franchi... sono spietati e violenti, guerrieri senza pari!» Rispose il cavaliere: «L'onore del Re me lo impone, mia signora! Rimanete qui e guardate come onoriamo il campo di battaglia con le nostre armi!» La Principessa mormorò: «Ecco un altro uomo valoroso! Eppure si diceva che
tra i franchi vi fossero soltanto guerrieri meschini: se tu potessi vederlo, Paladino Meccanico, il tempo della cavalleria non è ancora morto!» Il comandante fece disporre i suoi uomini in due file, approfittando che il prato era più largo dalla loro parte. Sollevò la lancia e diede di sprone al suo cavallo, mentre veniva suonato il corno. Anche i longobardi suonavano i loro corni. Ma non venivano all'assalto montati su di un cavallo: erano nell'aspetto come lupi coperti di corazza ed erano alti come un uomo montato su di un destriero. Ruggendo e brandendo le loro picche si lanciarono come una muta selvaggia contro i franchi. I due schieramenti chio lo spazio tra gli uni e gli altri in un istante e poi vi fu il cozzare sonoro di acciaio e di corpi. I franchi lottavano con foga, ma la Fara del Lupo era feroce come bestie libere nella foresta. Il più terribile dei lupi, un gigante alto tre metri, rovesciò cavallo e cavaliere e facendosi strada in mezzo alla pugna, balzò inarrestabile come una tempesta verso il carro. L'Alta Principessa lo riconobbe: era il giovane Duca della Fare del Lupo in persona, il traditore. Si avventò sugli uomini posti a difesa della donna e del carro e ne schiantò due con possenti artigliate. E poi, riconosciuta a sua volta la donna, ringhiò di trionfo così: «La Principessa del Corvo! Che fortunato incontro! Cosa fate qui, siete parte del corteo funebre di quello sciocco Paladino vostro, come un dono per il banchetto nuziale andato a male anzi tempo, che va a seguire il suo padrone nella tomba?!» «Badate alle vostre parole!» rispose la Principessa, trattenendo a stento il palafreno, che aveva roteato gli occhi all'indietro dal terrore «Non siete degno nemmeno di rivolgermi la parola, traditore!» «Io sarò un traditore, ma cosa dire di voi, che avete ceduto al Monaco?» Gli occhi della Principessa si dilatarono per la sorpresa e il Duca continuò dicendo: «Siete la storia di tutta l'Italia! Ecco, la puttana, la principessa decaduta, che ha venduto il suo corpo al vile Monaco, per le ricchezze e per avere salva la sua misera vita!» «Menzogne!» gridò paonazza la Principessa.
«Menzogne?» rispose «E allora come spiegate di essere ancora viva, qui nella terra dei franchi? Il Monaco sarà contento che la sua adorata schiava torni all'ovile, vi porterò con me... e...!» aggiunse con un lampo negli occhi ferini «... e visto che siete la donna di tutti, mi prenderò nel frattempo anch'io le mie soddisfazioni con voi!» Sollevò un braccio artigliato, ma il gufo di pergamena scattò improvvisamente dalla sua spalla, colpendo in un lampo di accecante furia, penne di pergamena e becco d'inchiostro la faccia del lupo, strappandogli un occhio in un diluvio di sangue. E poi suonò un altro corno, alto, sopra tutta la battaglia. La Principessa riconobbe quel suono. Dal lato destro venne un suono sordo di zoccoli e cavalli in corsa come spiriti della terra emerso sulla strada, come una valanga vendicativa. La Fara del Corvo, con i pennacchi di piume e i soldati dalla ali atrofiche e i becchi luccicanti stretti nel cimiero argenteo, i soldati di suo padre! E in mezzo a loro, menando fendenti come una mietitrice di morte il Duca Corvo. «Padre!» gridò la Principessa. Il padre la vide, diede di sprone al suo cavallo, che non era un cavallo normale, ma uno di quelli giganteschi che abitano le distese dell'est, che poteva portare a stento il suo corpo enorme, e il cavallo sembrò una frana che crolli rovinosa travolgendo case, alberi e ogni cosa. Vide il Duca il Lupo e sollevò la lancia, appena riforgiata. Il Lupo sollevò la sua spada e benché orbo da un occhio e con la faccia tutta insanguinata, gridò: «Duca del Corvo! Vieni!» e le armi rimbalzarono le une sulle altre scuotendo l'aria come un tuono. Il Lupo cercava di colpire il cavallo, ma il Corvo si teneva lontano, colpendo con la più lunga lancia. Gli altri guerrieri stavano facendo strage degli altri lupi, ma presto tutti si fermarono, fissando lo scontro tra i due campioni. Il Corvo roteò come una cometa intorno al Lupo e il Lupo ruggiva come una
bestia in gabbia. E infine il Corvo abbatté la lancia sul collo del nemico, staccandogli la testa di netto. La testa rotolò via e il corpo rimase in piedi, ancora menando la spada. Il Corvo inseguì la testa e la infilzò sulla sua lancia e portandola in alto come un trofeo, gridò: «Giustizia! Giustizia per il tradimento, e vendetta!» A quella vista i guerrieri del lupo cercarono la fuga, ma franchi e longobardi non diedero loro tregua. E la Principessa si lanciò verso suo padre, e ancora prima che potesse parlare, esclamò: «Padre! Non dovete credere alle maldicenze che si dicono di me!» Il padre rispose: «Figlia mia, sono così contento di vederti che non so se è più grande la gioia di poter rivedere i tuoi occhi o quella di aver preso la vendetta su questo lupo maledetto! Ma di che cosa mi parli, dopo tanto tempo di lontananza? Nemmeno un solo attimo ho creduto a queste storie: so che una longobarda preferirebbe morire piuttosto che gettare questa vergogna sulla sua famiglia e io ti ho allevato come una vera longobarda!» «Ma...!» Il padre la prevenne e prendendola per le spalle con il suo grande braccio, l'abbracciò e disse: «La Dama mi ha raccontato tutto; il Monaco ha sparso in giro queste dicerie dopo che ti credeva morta, per sfogare la sua rabbia e il suo cuore vile! Ma a me non importa nulla: solo il rivederti qui mi conforta, e mi fa sentire il cuore leggero!» L'Alta Principessa si abbandonò per un attimo come una bambina all'abbraccio del padre, mentre il suo gufo magico si appollaiava sbuffando di compiacimento sul retro della sua sella. Il comandante dei franchi si fece avanti; ferito a un braccio, si era tolto l'elmo, che si era ammaccato tanto da impedirgli di vedere. E sebbene non avesse alcuna intenzione di intromettersi nel delicato incontro di padre e figlia, la situazione gli imponeva di parlare; e infatti disse: «Perdonatemi, nobili signori... ma credo che dovreste guardare da quella parte!» E il Duca e sua figlia si volsero e videro una scena che aveva dell'incredibile. Tra il fumo che si andava depositando e i morti riversi a terra avanzava una singola sagoma, nera come la notte, che barcollava sostenendosi al possente destriero.
«Il Paladino Meccanico!» gridò la Principessa. Diede di sprone al suo cavallo e lo raggiunse e si lanciò giù dal palafreno in volo; il Paladino l'afferrò per un pelo, ma ancora malfermo cadde all'indietro. E si rovesciarono tutti e due, ma la Principessa rideva tra le lacrime. Il Paladino disse: «Mi hai riportato alla vita, Principessa! Eppure ero, sono, nemico di tuo padre! La spada che hai fatto rivivere ha abbattuto decine di campioni longobardi!» Rispose la Principessa: «Sciocco cavaliere! Abbracciami con queste tue braccia meccaniche, piuttosto!» «Esse sono appunto soltanto braccia meccaniche...» rispose cupo il Paladino. Li raggiunse il Duca, e disse: «La vendetta è stata compiuta Paladino, ma mi hai reso un servigio migliore che non redimere l'onore dei longobardi! Hai strappato mia figlia alle soglie di Hell: grande è il tuo coraggio e prode il tuo braccio! Ma ancora più grande il tuo cuore!» Il Paladino sentiva sciogliersi l'ombra della morte che fino a poco prima aveva pesato sui suoi occhi, ma non se ne andò un'altra ombra, che gravava questa sul suo cuore. Disse: «Ma non tutti i traditori sono stati puniti!»
Il Paladino Meccanico gettò la testa del Duca del Lupo sul grande tavolo di legno di quercia, sollevando grida di orrore da parte della corte, annidata negli anfratti della sala reale di Papia come ragni spaventati. E disse con voce tonante: «Ecco la testa del traditore!» Il Monaco balzò dal bracciale del trono del Re, livido, stringendo con nocche sbiancate un sottile frustino e abbattendolo sul pavimento, gridò: «Paladino! Il tuo tradimento è compiuto! Ora, come farai a difenderti? Non hai preso la testa della Bestia Tarasca, e invece porti questo macabro trofeo, i resti del nostro alleato?!» «Il tradimento è solo nel tuo cuore, depravato monaco!» ruggì il Paladino «Nel palazzo del Re dei Morti ho visto i Paladini miei compagni: anche soltanto una loro unghia ha più valore di tutto quello che sei tu, eppure loro sono morti, mandati lontano dal loro Re, e tutto a causa della tua arroganza e sete di potere!
Hai tramato con questo indegno traditore, il Duca del Lupo, per distruggere con un tranello i franchi venuti a prendere il mio corpo, in modo da dare la colpa alla Fara del Corvo!» «Menzogne!» strillò il Monaco. «Menzogne sono quelle che hai gettato sulla Principessa del Corvo!» esclamò colmo di rabbia il Paladino «Non solo hai tramato, tu, uomo di chiesa degenerato, contro la sua virtù, ma le hai tolto la vita e infangato il suo nome con i più vili vituperi!» «E come puoi provare questo, sciocco Paladino? Da dove vengono le tue accuse?» gridò il Monaco. «Da me!» disse alta e squillante l'Alta Principessa, entrando nella sala. Era luminosa nel suo abito splendido e gettava in ombra tutta la scura corte del Re. Il Monaco la vide e impallidì e dovette abbrancarsi al tavolo di quercia per non cadere. Ed essa disse: «Pensi di vedere uno spettro? Non lo sono: ma gli spettri di coloro che hai tradito e ucciso presto verranno da te, proprio come mi vedi qui ora!» «Donna, tu!» riuscì soltanto a dire il Monaco, e il Paladino disse: «Non aspetterò che i morti vengano a prenderti, Monaco! Farò qui io stesso giustizia, con le mie mani!» «Hai perduto il senno, Paladino?» gridò fuori di sé dalla rabbia il Monaco «Puoi gettarmi addosso tutte le accuse che vuoi, ma io sono un rappresentante della chiesa, di Dio! Il Dio che dici di servire! Non puoi, no, tu non puoi alzare la tua spada contro di me, perché sarebbe come sollevarla contro il Re, contro il tuo Dio!» Il Paladino Meccanico si arrestò e le guardie scelte del Re si mossero tra lui e il Monaco, ancora indecise su che cosa stesse per accadere. E allora il Paladino si rivolse alla Principessa e disse: «Ditemi, mia signora, cosa ne pensate della vita? Ora qui davanti c'è il nostro nemico, ma le regole della cavalleria e il mio voto di onore di impediscono di toccarlo! A cosa serve dunque essere il Paladino del Re?» «Mio signore!» rispose la Principessa «Ecco che cos'è la vita: fare del bene agli
amici, distruggere i nemici. Questa è la giustizia di un cavaliere!» Strillò il Monaco: «Non asseconderete le parole di questa barbara, di questa selvaggia! Uomini, difendetemi, io sono il messaggero di Dio!» Il Paladino brandì Durendal ed esclamò: «Di quale Dio, maledetto?! Ora non ho più dubbi: vai a incontrarlo e che lui abbia pietà, perché qui sulla terra, non ne troverai mai più!» E si scagliò in avanti. Il Monaco cercò la fuga tra i soldati, ma questi si scansarono, sconvolti dalla furia che leggevano sul volto del Paladino. Il Monaco cercò scampo lanciandosi tra la corte, ma i nobili scapparono via come ombre spinte dal sole e si trovò solo, abbarbicato a una colonna. E il Paladino lo prese per la collottola e con un solo colpo secco lo uccise sul posto, schizzando del suo indegno sangue il pavimento del palazzo reale. In tutto questo il Re non si mosse, non disse una sola parola; ma quando il Paladino tornò di fronte a lui, pulendo la spada dal sangue e dalle viscere, egli lo guardò e nei suoi occhi c'era posto soltanto per pensieri indefiniti e mondi lontani. Il Paladino disse: «Addio, mio Re! Il vostro Paladino non può più servirvi: ormai siete troppo lontano dal mondo che io servo. Vorrei potervi seguire, ma il vostro ideale è troppo in alto. E sebbene io abbia visto anche il mondo dell'Ade, e il mio corpo sia meccanico, sono ancora troppo umano, e attaccato alle cose di quaggiù, alla giustizia e all'onore di questo mondo. Addio, mio Re!» E così detto prese la fida spada e brandendola con forza la scagliò contro il basamento del trono, conficcandola a fondo nella roccia. «Addio, Durendal! Che un paladino migliore di me un giorno sappia brandirti ancora!» e lasciò la corte e condusse la Principessa di nuovo sotto il sole. Prese per le briglie il focoso Brigliadoro e fece salire davanti a sé l'Alta Principessa. Ella disse: «Dove andiamo?» «Dove volete, mia signora!» La Principessa non rispose, mentre Brigliadoro trottava via. Appoggiata al petto di ferro del Paladino la Principessa pensava, e improvvisamente disse: «Mio signore!»
«Che cosa succede?» «Nel vostro petto...!» rispose «... ho sentito il battito di un cuore!» «Vi dovete essere sbagliata...» rispose dolcemente il Paladino «... nel mio petto c'è soltanto il ferro!»
“La spada conficcata nel trono chiama a un lontano nuovo eroe; egli sarà chiamato dagli squilli dei corni, dal clangore della battaglia: ancora una volta il Paladino sorgerà dalla tomba profonda sotto il Monte, quando l'ora sarà nera e la giustizia calpestata. Per sempre vivo mai più domo, Paladino Meccanico!”
Tiger, tiger burning bright, in the forest of the night!
Si svegliò di soprassalto, spalancando gli occhi sul buio profondo. Si levò a sedere sulla panchina del parco; sopra di lei era già sorta la notte. Le stelle baluginavano come led cristallizzati dietro uno schermo e vi era un silenzio terribile, rotto soltanto dall'agitarsi degli alberi intorno, masse buie, incomprensibili. «Che stupida!» esclamò ad alta voce «Come ho fatto ad addormentarmi qui?» «E' stato invero sciocco!» disse improvvisamente un'altra voce, bassa, roca, maschile, da un punto imprecisato del buio davanti a lei «Ti osservavo da un bel pezzo, mentre dormivi! Stavo giusto pensando “che bello spuntino serale mi è capitato”!» La ragazza ebbe un sussulto quando vide emergere dal buio prima due occhi giganteschi, verdi come malachite incandescente, e poi una grande e nobile tigre dal o silenzioso. Serrò le mani sulla gonna ed esclamò impaurita: «V-vuoi davvero mangiarmi?!» La tigre si fermò a qualche o di distanza, ed era veramente grande; le grosse zampe potevano schiacciarla al suolo con facilità, la bocca era piena di denti grandi come scalpelli e con un morso poteva strapparle la testa in un colpo solo! Ma invece di balzarle addosso con le zanne spianate si sedette sulle zampe posteriori e soffocando un largo sbadiglio, disse: «Via, stavo scherzando! Non ho intenzione di mangiarti!» «Non è un bello scherzo da fare!» protestò la ragazza. «E tu che cosa ci fai, addormentata su questa panchina? Non lo sai che di notte gli animali dello zoo escono dalle loro gabbie liberamente... e che nessun umano entra qui dentro fino all'alba?» rispose la tigre. «Io... uhm...» si inalberò la ragazza, andosi nervosamente una mano nella
lunga coda di cavallo «... c'è un posto che devo visitare assolutamente!» «Questa non è proprio l'ora per farlo!» esclamò la tigre. «Non potresti accompagnarmi tu, che sei grande e forte?» lo pregò allora la ragazza, con sguardo veramente miserevole, arrivando persino a congiungere le mani in una sorta di preghiera davanti a lui. La tigre mosse la coda a disagio e alla fine disse: «Non capisco che cosa tu debba vedere di così tanto importante, ma se mi preghi in questa maniera non posso che accondiscendere! E poi non posso certo lasciare una donna sola in un posto come questo!» La ragazza balzò in piedi, con gli occhi illuminati ed esclamò: «Grazie! Sei davvero un gentiluomo tra le tigri!» «Ti prego di farla finita con l'adulazione!» rispose la tigre «Presto, andiamo...! Mi sto già pentendo di non averti lasciato là a dormire!» «Su, non dire così!» rispose la ragazza «A proposito, io mi chiamo Nadia! E tu?» «Puoi chiamarmi Tigre...» rispose laconicamente la tigre, con le orecchie basse, avviandosi. Gli corse al fianco «Lo sai che hai veramente una pelliccia lucida e folta?» disse. «Per Sarasvati!» sbottò Tigre «Parli di più di una bertuccia! Fai più confusione dell'uccello del paradiso!» «Sono così confusionari?» «Al punto che vorrei saltare sul loto albero e buttarli di sotto tutti a pedate!» esclamò con un guizzo negli occhi luminosi. «E Perché non lo fai?» «Perché...» Tigre si incupì «... perché dovrei fare uno sforzo incredibile per alzarmi, correre sul loro albero, spuntandomi le unghie e per cosa? Scapperebbero, e dopo un attimo sarebbero già tornati a fare confusione!»
«Ah ah!» rise Nadia «Allora sei un pigrone!» Tigre si volse brevemente a guardarla; «Dovrei mangiarti sul serio!» disse sospirando. Nadia si strinse nel maglione di una buona misura più largo e con uno sguardo triste, rispose: «Sarebbe una conclusione, certo!» Tigre perse il momento per rispondere, che ecco tutti i cespugli e i piccoli alberi lungo il viale esplosero di foglie e di rami spezzati. Nadia si impietrì sul posto. Un mucchio di grosse sagome comparve sul limitare del viale, illuminate solo parzialmente da una mezza luna stentata. E la più grossa, che svettava di molto sopra la testa della ragazza, disse con voce profonda e brutale: «Che cosa abbiamo qui? Un'umana?!» «Questa umana non è affar tuo, Bagogo!» rispose Tigre «Che cosa volete tu e i tuoi scimmioni?» Bagogo si erse in tutta la sua curva statura e i piccoli occhietti luminosi sprizzarono scintille. «Cosa vuoi farne tu, Tigre?» disse con voce cavernosa «Vuoi portarla nella tua tana e divorarla? Ma tu hai già le tue prede: lasciala a noi, piuttosto!» Nadia fissava terrorizzata l'immenso gorilla e gli altri che si agitavano come macchie di buio dietro a lui, aprendo e chiudendo le grosse bocche senza un suono. «E cosa se ne farebbero, i tuoi scimmioni?» sbottò Tigre. «La mangeremo noi!» latrò Bagogo. «Sei impazzito?!» esclamò Tigre «Le scimmie non hanno mai mangiato carne di uomo!» «Gli uomini ci hanno rinchiuso nelle loro gabbie...!» disse Bagogo e un mormorio di odio si scatenò tra i suoi, che presero ad agitare bastoni e a battere rami nodosi contro gli alberi «Ci hanno torturato con i loro pungoli! Ora tocca a noi, mangiare le loro carni! Torturarli e ucciderli!»
Tigre ruggì: «Bestie insensate!» e si lanciò in avanti, schiumando di rabbia; ruggì in maniera così spaventosa che tutta la notte ne risuonò. Bagogo era l'unico ad avere il coraggio, tra i suoi, perché tutti indietreggiarono piagnucolando, mentre lui sollevò il suo bastone, che era in verità quasi un albero intero sradicato, e si avventò sulla tigre tentando di schiacciarla con quella mazza. Nadia non riuscì a sostenere la vista di quella lotta e il terrore la dominò completamente; abbandonò Tigre e scappò in mezzo ai cespugli, inciampò, cadde e si rialzò e sferzanti rami le scudisciarono le gambe e la faccia, ma il suo piede finì in una buca più grande delle altre e andò di nuovo a terra, lunga distesa. Qualcosa di grosso, di molto grosso, si agitò là vicino e una voce profonda, che pareva quella di una montagna, disse: «Chi è che fa questa confusione? Chi c'è laggiù?» Nadia alzò la testa e vide due tronchi giganti stagliarsi di fronte a lei e le mancò il respiro per rispondere. Allora qualcosa di grande le si avvolse intorno alla vita e con sommo orrore venne sollevata in aria, a fissare un grosso occhio umido. «Una ragazzina umana?» sbottò l'elefante «Se ne vedono di cose bizzarre, di questi giorni!» Nadia disse piagnucolando: «Aiuto! Tigre è stato assalito dai gorilla! Ho paura che lo uccideranno!» L'elefante sbuffò (mentre altre sagome gigantesche si agitavano tra gli alberi) e disse: «Quel satanasso non si farà ammazzare da quegli scimmioni, stai tranquilla, mia cara! Piuttosto, hai una faccia orribile: non ne so molto di estetica umana, ma anche un elefante se perde sangue dalla faccia non è uno spettacolo molto bello!» Nadia si accorse del liquido caldo che le scivolava giù per una guancia, una ferita che cominciava a bruciare come vetriolo. «Facciamo qualcosa per questa ferita!» disse l'elefante. E la posò delicatamente per terra; subito la ragazza si trovò circondata da diversi altri elefanti, che stavano tutti mugugnando tra di loro.
«Umani! Inciampano nei loro stessi due piedi!» «Certo che sono mingherlini...!» «Un cucciolo è più grande di uno di loro!» «Ma che cos'è, è un maschio o una femmina?» «Non lo so! Non ho mai capito quale sia la differenza!» L'elefante che l'aveva raccolta, che doveva essere la femmina dominante, la spinse con la proboscide a sedersi su di una pietra e disse in malo modo agli altri: «Fate silenzio! E' ovvio che è una femmina! E adesso lasciate che la rimetta in sesto...!» Gli altri elefanti (che erano tutte elefantesse, come usano essere i branchi di quegli animali) si ritrassero, borbottando acidamente che sarebbero tornate a dormire; l'elefantessa invece prese con la proboscide erba e terra, impastati con la sua saliva, e fattone una specie di impacco, si mise a spalmarla sulla faccia di una Nadia stupefatta, con una sorprendente delicatezza. A ogni ata alla ragazza pareva che le si stesse tuttavia staccando una guancia e se fosse stata in grado di parlare, avrebbe espresso i suoi dubbi che un impacco del genere potesse fermare il sangue! Anzi, avrebbe fatto sicuramente infezione! Ma dopo qualche minuto, che sentiva tutta la faccia gonfia e ruvida come la pelle di un elefante, si rese conto che non sentiva più il bruciore della ferita. «Va meglio?» disse l'elefante. «Uh, ah... sì!» rispose. «Bene! Allora laviamo via questo impiastro!» disse energicamente l'elefante e Nadia, se avesse saputo che cosa intendeva, si sarebbe subito preoccupata. E invece rimase là, ferma come una statua: sentì l'elefante allontanarsi con i suoi i giganteschi di un tratto, udì il forte scrosciare di acqua e d'improvviso fu sommersa da un'ondata di maremoto che per poco non l'affogò! «Puah!» sputò e tossì la povera Nadia, fradicia da capo a piedi!
«Adesso dovresti essere a posto!» sentenziò l'elefante. «Altro che a posto!» esclamò Tigre, balzando in mezzo allo spiazzo tra gli alberi di quercia, dove gli elefanti andavano a dormire «Stai cercando di farla annegare?» Nadia si dimenticò quasi di tossire, vedendo Tigre sano e salvo, ma la famiglia di elefanti balzò su e si generò in un attimo una grande confusione. Le madri scacciarono i “piccoli”, curiosi, indietro, dietro una palizzata di gambe nodose e una grossa elefantessa, giovane e impetuosa, si fece avanti contro la tigre, con un aspetto che non era per niente amichevole. Ma l'elefantessa-capo si parò in mezzo ed esclamò: «Tigre! Neanche stavolta sei morto! Ma se balzi in questa maniera in mezzo a un branco di elefanti, una di queste volte ti capiterà di rimanere schiacciato come una foglia!» «Sto solo cercando la ragazza!» disse lui, standosene là in mezzo, con grande, apparente calma, come se non fosse circondato da zanne e da una foresta di giganti. «Direi che l'hai trovata!» rispose l'elefantessa. «Tigre! Tigre!» esclamò Nadia, correndogli incontro e abbracciandogli il grosso muso, con suo enorme imbarazzo «Sei vivo! Temevo che il gorilla ti avesse spappolato la testa!» «Non starmi addosso, donna!» esclamò Tigre, che subito divenne burbero come un vecchio gibbone, sentendosi addosso gli occhi degli elefanti «Quel scimmione non poteva farmi un bel niente: è lento come una tartaruga... gli ho morso via un orecchio ed è corso a rintanarsi dentro il suo boschetto, sradicando alberi per il dolore! E prima che si fosse voltato di nuovo, ero già scappato...!» «Bagogo questa volta cercherà di ucciderti a ogni costo!» disse l'elefantessa «Sei uno sciocco! Tipico di voi tigri ragionare come se foste i più forti! Ma un branco di gorilla che ti rincorre per il bosco è troppo anche per il possente Tigre: e le scimmie sono astute, più che coraggiose, e feroci come un umano!» «Dovranno prendermi, prima!» esclamò Tigre «E tu vuoi smetterla di starmi addosso?»
Nadia esclamò: «Ma io sono preoccupata per te!» «Sei tutta bagnata... io odio l'acqua!» Gli elefanti cominciarono a ridacchiare e Tigre divenne furente; si sarebbe messo a rincorre anche gli elefanti, se l'elefantessa non avesse detto: «Via! Basta con questa confusione! Non so che cosa tu stia combinando con questa ragazzina umana, ma vai a farlo lontano da qui! Gli elefanti devono dormire, non abbiamo tempo da perdere con stupide tigri dal sangue bollente!» Aveva appena finito di dire questo, che si sentirono suoni cupi provenire dal bosco. Erano ritmici colpi di tamburo e cozzare di legno contro gli alberi che si levavano forti contro la volta notturna del cielo. «Il popolo dei gorilla non ha preso bene il tuo show!» disse l'elefantessa. «Stupidi scimmioni!» esclamò Tigre «Ne hanno ben poco di cervello in quelle teste!» «E tu ne hai di meno, se pensi di essere loro superiore!» si volse ai suoi «I gorilla faranno un gran baccano... ma gli elefanti non sopportano questi giovanotti che sanno solo fare confusione: che ne dite, visto che siamo tutte sveglie, di far loro capire che devono starsene tranquilli a nanna?» Ci furono diversi mugugnii di approvazione tra le fila degli elefanti, anche qualcuno che propose di lasciare la tigre ai gorilla, che avrebbero smesso subito di suonare il tamburo a quel punto, ma si zittirono subito, non appena l'elefantessa li incenerì con un'occhiata. «Che fate ancora qui?» disse a Tigre e a Nadia «Andate via! Ci pensiamo noi ai gorilla!» E rivolta alla ragazza, aggiunse dolcemente: «Non farti prendere in giro da questo damerino in pelliccia tigrata...! Stai attenta, figliola!» «S-sì, signora!» scattò Nadia, riconoscente. «L'hai sentita?» disse allora Tigre, nervoso come solo un felino può essere «Andiamo!»
E spingendola con il muso la fece trottare via, fuori dalla radura degli elefanti. La condusse attraverso le serre, dove file e file di costruzioni rovinate dal tempo, di vetro, protendevano le loro intelaiature nere contro il cielo; c'era un forte odore di tamarindo e di eliantemo selvatico, che accese una forte nostalgia nel cuore di Nadia, perché erano piante che sua madre curava sul terrazzo di casa, in un tempo lontano, molto lontano. «iamo di qui!» disse, secco, Tigre. Entrarono all'ombra del grande edificio che era stato l'erbario, che aveva i portoni divelti e spalancati su sale vuote e buie. I i affrettati di Tigre non facevano rumore sulle piastrelle antiche delle sale mentre le attraversavano come spettri. «Sst! Ehi!» disse una voce sibilante e Nadia alzò lo sguardo spaventata e vide pendere sopra di lei, attorcigliato a una colonna, un grosso e spaventoso serpente. «Aaa!» gridò, saltando indietro. «Non spaventare l'umana!» gridò Tigre al serpente, un grande boa costrictor verde e oro. «Ss! Davvero?» rispose il serpente, con gli occhi freddi puntati sulla ragazza e la lingua che saettava in aria, come se stesse annusando Nadia con la lingua «Ho sentito che i gorilla e gli elefanti stanno facendo una grande confusione, stanotte... e mi dicono che sia colpa tua! E di questa femmina umana...!» «Le notizie corrono veloci!» rispose, asciutto, Tigre. «E' stato il gufo a dirmelo! Sssh!» rispose il serpente «Volevo vedere anch'io questa donna...!» «Bhè, l'hai vista, no?» sbottò Tigre «E adesso con il tuo permesso...!» «Aspetta!» fece il serpente «Senti questo fracasso?» Era una domanda ben strana, fatta da uno che non aveva nemmeno le orecchie, ma Nadia e Tigre tesero le loro e sebbene Nadia non sentisse nulla se non il
verso di un cuculo distante e i i affrettati dei ratti sul soppalco (che scappavano veloci, prima che la tigre e il boa li notassero!) non udì molto. Ma le orecchie di Tigre erano molto migliori delle sue. «Sento il bosco vicino alla cascate che viene sconquassato dagli elefanti e i gorilla che gridano come ossessi...!» disse Tigre «... devo un altro favore a Moria, accidenti a lei!» «Chi è Moria?» chiese Nadia. «L'elefante che ti ha annegato come un pulcino!» rispose. «Ma lei ti ha aiutato senza nemmeno pensarci su...!» replicò Nadia «... perché sei così scontento?» «Moria odia i gorilla, ecco tutto!» rispose la tigre «E gli elefanti hanno la memoria lunga: si ricorderà che le devo un “favore” (perché ha solo colto l'occasione di andare a calpestare qualche scimmione!) per cento anni! Povero me!» «Ssh! Non ascoltarlo!» disse il serpente «Moria tiene in grande considerazione Tigre, da quanto ha salvato un cucciolo dalle iene...!» Nadia allora batté le mani (e nel contempo starnutì, bagnata e infreddolita com'era!), e disse: «Oh! Sei davvero un generoso gentiluomo! E io che credevo che le tigri mangiassero gli erbivori, non che salvassero i loro cuccioli!» «Perché non vuoi stare zitta?» grugnì Tigre «I cuccioli di elefante sono come le loro madri: grossi e stoppacciosi! E a nessuno, nemmeno agli orsi, piace vedere le iene al lavoro... sono animali disgustosi, senza dignità!» «Ciò non toglie che... eeetciù!... che tu abbia generosamente...! e..etciù!» Nadia non riusciva più a parlare, e anzi prese a battere i denti! «Ssh! La signorina morirà di starnuti, vecchio mio!» osservò il serpente «E' un vero peccato che io sia ricoperto di fredde scaglie, sennò la scalderei io!» e l'osservò con un guizzo degli occhi da rettile che, in un boa costrictor lungo almeno otto metri, non avrebbe fatto piacere a nessuno e men che meno alla ragazza, che si strinse nelle braccia, impaurita. «Vai al diavolo, Sshat!» ruggì Tigre «Non voglio sentire i tuoi discorsi da
vecchio maniaco!» «Quanto ti scaldi!» replicò Sshat «Perché non la scaldi tu, con tutto quel pelo che ti ritrovi?» «Rarrgh!» ruggì spaventevolmente Tigre e Sshat si ritrasse verso l'altro con una velocità sorprendente e da lassù disse: «Se tu avessi ancora un po' di pazienza, ti avrei detto del perché dovevi ascoltarmi...! Non uscire dal retro dell'erbario, come avevi pensato di fare, io credo... un gruppo di gorilla è andato proprio in quella direzione, sperando di intercettare te e la donna umana... esci piuttosto da lucernario del secondo piano! E poi segui il canale! Ho detto ai caimani che erai di là e che non hai nessun affare con loro... ti lasceranno are!» «E chi ti ha chiesto niente, vecchio serpente maniaco?!» sbottò Tigre, ma Nadia dovette ricredersi sul serpente Sshat e per fare ammenda di quello che aveva pensato su di lui, disse: «Grazie, signor serpente!» Il serpente, ridacchiò, e disse: «Se vuoi ringraziarmi, torna da me domani, e vedremo se troveremo qualcosa “in comune” su cui discu...!» «Basta così!» ruggì Tigre «E tu non dargli corda! Adesso andiamo!» Nadia lo seguì obbediente, continuando però a tenersi stretta le braccia addosso, perché tremava come una foglia. Tigre la spinse su per le scale e le indicò con una zampa il fondo del corridoio scuro; «Laggiù c'è il lucernario... ma in quella stanza a destra ci sono molti cappotti e altri affari di tessuto puzzolente che i tuoi simili amano indossare... vai a prenderne uno, prima di diventare un pinguino!» Nadia obbedì e nella stanza che gli aveva indicato trovò molte giacche di plastica e di materiale sintetico (che dovevano avere un cattivo odore sul serio, per il sensibile naso di Tigre) e se ne mise due addosso. Si strofinò forte le mani le une contro le altre e le sembrò di raggiungere una parvenza di calore. Allora Tigre la guidò verso il lucernario, che era fracassato. Fugaci pipistrelli scapparono via non appena li sentirono arrivare, pigolando una vivace protesta contro la tigre “che avrebbe fatto scappare tutti i moscerini”. A Nadia parvero delle accuse ben poco fondate, ma con grandissima calma la tigre ignorò quei piccoletti.
Dal lucernario si poteva saltare su di un basso tetto; per la ragazza non fu facile saltare giù e le ci volle molto coraggio per seguire nella luce incerta della luna la tigre lungo il tetto mezzo crollato e scivoloso. Finalmente raggiunsero l'altra estremità e scesero in un largo spiazzo, di cemento, dover c'erano numerosi cartelli sbiaditi. Senza parlare Tigre la condusse fino al bordo di un lungo canale, che divideva a metà il parco; di lontano, oltre le cime degli alberi sull'altra riva, svettavano i palazzi del centro, che da quel punto parevano in un altro mondo, sebbene non fossero così distanti. Nadia però guardava con una certa apprensione alle acque scure sotto di lei, ricordandosi dei caimani. Ma non ne vide neppure uno, mentre percorrevano l'argine. Infine raggiunsero il ponte e Tigre disse: «Non mi hai ancora detto dove volevi andare!» Nadia ci mise un po' a rispondere... i suoi occhi erano divenuti improvvisamente lontani. «Sto cercando le caverne delle iene!» disse alla fine. Tigre non si scompose, ma disse: «E che cosa vuoi vedere, laggiù?!» Nadia mise una mano sulla sua testa e la affondò nel morbido pelo, e accarezzandolo, rispose: «Ti prego, accompagnami laggiù, senza chiedermi perché!» Tigre la guardò intensamente, infine disse: «Come vuoi tu!» E le fece strada. Percorse il lungo viale dove si tenevano le parate, invaso di foglie morte e di cartacce; sulla destra comparvero i bassi edifici delle biglietterie e un odore dolciastro, pungente, si sparsa nell'aria. Era l'odore di morte che spirava dalla caverne (artificiali anch'esse, costruite per assomigliare al vero habitat degli animali) dove si erano insediate le iene. Sui tetti degli edifici saltellavano le scimmiette, bertucce e antropoidi, che schiamazzavano e gridavano: «La tigre si farà mangiare dalle iene! Le iene sono feroci, noi non andiamo nella loro tana! Ma la tigre è coraggiosa: eppure le sue
ossa spolpate si ammonticchieranno ugualmente sulla soglia delle caverne!» «Fate silenzio!» ruggì Tigre e le scimmiette scapparono in tutte le direzioni come piume soffiate via dal vento. E infine comparvero, di fronte a loro, le sagome grige degli speroni di cemento che imitavano rocce e scogli. Tigre si fermò; sapeva che le iene non attaccavano a caso e non avrebbero attaccato lui, perché erano codarde. Attaccandolo in gran numero lo avrebbero senz'altro ucciso, ma ognuna di loro temeva la morte e prima di ucciderlo molte di loro sarebbero morte. Nessuna voleva correre questo rischio. Ma se fosse entrato davvero nel loro territorio, allora l'istinto di sopravvivenza le avrebbe spinte a combattere per la loro casa. Nadia allora lo guardò tristemente e intuendo che più in avanti di così non sarebbe andato, fece un o avanti, e disse: «Grazie, Tigre, gentiluomo più che non un essere umano vero! Da qui in poi andrò da sola!» E si voltò, ma Tigre l'afferrò per la giacca con la bocca. «Che fai? Lasciami andare!» gridò Nadia, ma la tigre la tirò con una forza tale da farla cadere all'indietro. La schiacciò per terra con una zampa e disse: «Che diamine ti salta in mente? Le iene ti sbraneranno viva!» Grandi lacrime cadevano dagli occhi della ragazza; «Stupido Tigre! Proprio adesso che avevo finalmente raccolto di nuovo tutto il mio coraggio...! Perché mi fermi!?» «Se vuoi tanto morire, perché non ti sei consegnata ai gorilla?» sbottò Tigre «Cos'è questa insana follia che ti ha preso?» «Che senso ha ancora vivere, Tigre?!» pianse Nadia, piccola e miserevole «Sono rimasta solo io... solo io! Sono scappata dal rifugio perché... perché quegli uomini avevano detto che le donne erano troppo poche e dovevano essere divise tra i maschi! Ma io non potevo, preferivo morire all'esterno che vivere come una bestia! Allora sono scappata, ma all'esterno era tutto così spaventoso che mi è mancato il coraggio e sono ritornata...» i suoi singhiozzi erano sempre più forti, e riempivano il deserto viale «... ma gli esterni erano arrivati al rifugio e li
vedevo trascinare fuori la gente che urlava! Li hanno uccisi tutti, solo io sono rimasta! E in questo mondo dove sono rimasta l'ultimo essere umano, perché vivere ancora Tigre? Ho pensato che piuttosto che venire mangiata dagli esterni preferivo darmi in pasto a delle vere belve, per questo sono venuta qui dove sorgeva lo zoo. Ma mi è mancato il coraggio quando il sole ha cominciato a tramontare dietro i palazzi...! E mi sono addormentata sfinita dove tu mi hai trovato! Ti prego, lasciami andare... non posso sopportare di vivere da sola per... per sempre!» e si aggrappò al collo di Tigre, piangendo a dirotto. «Farti mangiare dalle iene non è migliore che farti divorare dagli esterni!» esclamò e con voce più dolce, come se una tigre potesse essere dolce, disse ancora: «Vieni con me, adesso!» «D-dove?» «Alla mia tana!» Nadia si asciugò le copiose lacrime con il dorso della giacca e sforzandosi di sorridere nel pianto, disse: «Mi mangerai tu, allora?» «Smettila di dire idiozie e seguimi!» e si alzò e lo seguì. C'era un grande monolite in cima alla collinetta artificiale, nel punto più fitto del bosco che ogni giorno di più si faceva sempre più selvaggio e incolto. Dentro un ampio anfratto Tigre aveva trascinato un bel po' delle coperte tessute dagli uomini e chiamava quel posto “casa”. Là porto la ragazza; la trascinò fin sullo sperone che si protendeva in avanti come una mensola sospesa sopra il bosco. Su di esso saliva, quando scendeva la sacra notte e fissava le stelle pigramente distese sopra le cime dei palazzi bui, prima di scendere a caccia. E disse: «Se vuoi morire, non ti fermerò di certo! Ma dal momento che sei viva, pensa a come è dolorosa e fredda la morte! La solitudine non è così terribile: anch'io fisso da quassù quello che per me è tutto il mondo, e sono solo, ma questo non mi pesa, perché sono una tigre! Ma forse non è lo stesso per gli umani, perché vedo che i gorilla non possono vivere se non sono in un branco!» Nadia si sedette vicino a lui e disse: «E' molto bello questo posto, Tigre!» e rimase in silenzio molto lungo, finché alla fine disse: «Dimmi Tigre!» «Cosa?»
«Vuoi essere il mio fidanzato?» «Cosa ti salta in mente, sciocca umana?» gridò la tigre. «Nemmeno la possente tigre...!» disse Nadia «... può vivere sempre da sola!» «E tu che cosa ne potresti sapere?» «Hai ancora intenzione di mangiarmi?» «Non ho mai avuto intenzione di mangiarti!» «E allora fammi spazio tra queste zampe! Scaldami, ho freddo!» La pallida luna stava per tramontare e Tigre si rese conto di non aver neppure cacciato quella notte; non sarebbe stato facile procurare abbastanza cibo d'ora in poi, perché doveva farsi carico di un'altra bocca da sfamare! E gli umani non mangiano carne cruda, ricordò. Si accoccolò intorno alla ragazza, perché non prendesse freddo, contro il crudo vento che si era levato dai palazzi della città in rovina.
The Superior Day
«Dub! Dub!» gridò a gran voce Giric il capomastro, menando le mani come un mulino. Nella miniera il caos era totale; uomini che correvano in ogni direzioni, la polvere spessa come pane nero polverizzato che vorticava tempestosa e il frastuono, il fracasso! La Dunediana sbatteva le ali trasparenti in preda alla furia, e le venature alari vennero percorse da una corrente fosforescente viola. Sollevò lo spirotromba e lo distese in un ruggito poderoso che fece tremare la volta. Molti ragazzi rimanevano terrorizzati quando la Dunediana impazziva e dava sfogo alla sua rabbia, specie la prima volta che venivano portati a lavorare nelle grotte di allevamento, ma non Dub. Spronato dalla voce del capomastro si lanciò attraverso l'intrico di cavi sul suolo della grotta e, premendo la maschera respiratoria contro il naso, venne sommerso dal vapore delle macchine e dalla polvere sollevata dalla Dunediana. Il suo istinto e la sua perfetta conoscenza della grotta lo diressero in mezzo al fumo come se fosse un piccione. Raggiunse il grande macchinario che strideva, cigolava e sputava vapore come un vecchio marinaio con la tubercolosi e subito si industriò con precisione sui meccanismi, sulle leve e sui pomelli, per diminuire la pressione del macchinario prima che la caldaia esplodesse. Il vapore che serviva a stordire la Dunediana cominciò a soffiare in maniera più regolare e i grandi aspiratori di crysaoron ripresero regolarmente a risucchiare la polvere di cristallo viola. La Dunediana parve calmarsi: la luce viola si affievolì nelle ali e Dub sentì rilassarsi i muscoli delle spalle. Dalla densa caligine che stava ancora vorticando emerse Giric, massiccio e poderoso, tutto nero di polvere, che con una grande manata quasi buttò a gambe all'aria il mingherlino Dub, che era appena un ragazzo. «Bravo, bravo ragazzo!» berciò Giric «Sei il migliore assistente che abbia avuto in anni! Di qui a qualche anno forse potrai chiedere una promozione, e potrai lavorare da solo ai macchinari del Livello Alto!»
«S-sì signore!» esclamò Dub, massaggiandosi la spalla tutta ossa e risistemandosi gli occhialoni sulla faccia tutta nera. «La bestia sembra essersi calmata!» sentenziò il capomastro, osservando che la gigantesca Dunediana si stava accucciando al centro della caverna; era un animale poderoso e profondamente alieno, gli occhi molteplici dentro la testa pelosa vibranti di un rosso che si andava spegnendo. Avrebbe potuto radere al suolo la grotta, con i macchinari e le persone, ma non poteva fuggire: le erano state tagliate le antenne, quindi anche se fosse riuscita a guadagnare l'uscita, si sarebbe schianta su di un fianco della montagna, prima di raggiungere la sua foresta. E dei grossi ceppi di metallo erano inchiodati nelle sue zampe posteriori. Dub provava pietà per la bestia, ma non lo avrebbe mai detto al capomastro. In fondo poi che cosa ne poteva capire un ragazzo della foresta di sogni di Duana e dei suoi abitanti? Sapeva solo che il crysaoron era richiestissimo in tutto Balmung, e anche oltre, nei regni desertici di Babilonia. Il crysaoron era “sogno cristallizzato”, ma per lui questo voleva dire poco o niente; gli era stato detto che stare vicino a quel materiale viola pulsante, che brillava al buio, poteva essere molto pericoloso, quasi peggio che avvicinarsi al nido di un Pirodioto in calore. Aveva visto alcuni uomini della miniera, che vivevano da anni in quelle caverne oscure (alcuni, si diceva, non vedevano il sole da anni!), che sembravano come consumati, o orribilmente “cambiati”, dalla permanenza estesa in contatto con quel materiale e il pensiero lo fece rabbrividire, nonostante il calore soffocante della grotta. Lui non sarebbe finito così! Avrebbe messo da parte abbastanza soldi, e un giorno...! «Dub! Ehi, ragazzo!» vociava il capomastro. «Sì, signore!?» scattò subito il ragazzo. «Non fissare come un babbeo la Dunediana!» rise il colosso «O ti risucchierà l'anima! Conosci la storia, vero?» Dub la conosceva, ma non era sicuro che potesse darvi molto credito. «Non perdiamo tempo, è quasi notte...!»
A quelle parole il viso stanco di Dub si illuminò; poteva tornare alla “casa” e ci sarebbe stato finalmente da mangiare! Ma Giric invece disse: «Ragazzo, ricordi quello che ti ho detto questa mattina?» Maledizione, si era del tutto dimenticato! Con aria sconvolta Dub si affrettò a saltare giù dall'impalcatura pericolante dove era stata allestita la macchina, e che correva su in alto, fino ad altezze vertiginose, per tutta la grotta, e volgendosi appena disse: «Vado, vado subito mastro Giric!» «Veloce, ragazzo!» gli urlò dietro quello «O non troverai più niente alla mensa!» Spronato da questa evenienza spaventosa Dub mise le ali ai piedi e corse fuori della grotta, strizzando appena gli occhi nel sole smorto che scendeva dietro gli alti e frastagliati crinali. Le miniere pendevano sopra un vertiginoso baratro, dove la notte era già calata ed era profonda; le infinite aperture, buchi e gallerie abbandonate da lungo tempo punteggiavano tutto il costone roccioso, fino in fondo, ed erano tanti occhi neri, vuoti e spettrali. I minatori raccontavano degli spettri che abitavano quelle vuote cavità, minatori morti dalla barba di fuoco e gli occhi come candele, ma Dub era pronto a giurare che nessuno di loro ne avesse mai visto uno. Raggiunse con tutta la velocità delle sue gambe secche il punto in alto, sulla collinetta formata di detriti scavati, che stava sopra e alle spalle dell'entrata della miniera, dove erano state innalzate alcune catapecchie nelle quali gli operai lasciavano il pastrano, l'elmetto e le scarpe chiodate (che erano tutte cose di proprietà della miniera). Superò un gruppo di minatori dalla faccia scura, che andavano in senso contrario: erano quelli che facevano il turno di notte. In realtà Dub era fortunato, a poter occuparsi dei macchinari e delle Dunediane. Mastro Giric lo aveva adocchiato subito, i primi giorni, dallo sguardo serio e concentrato. «Il ragazzo è tutto ossa, ma si farà!» aveva detto, e lo aveva portato a lavorare sui macchinari. Molti altri invece, soprattutto ragazzi, che potevano infilarsi nei cunicoli più stretti, erano finiti a lavorare molto in profondità. In quei giorni si scavava nel “pozzo 15”, una nuova galleria che era stata aperta circa ottocento metri sotto i piedi di Dub, che, a detta degli operai, proseguiva diritta fino nel cuore della montagna. C'era una leggenda che girava tra gli operai, che la più grande concentrazione di cristallo dovesse essere ancora scoperta e che si trovasse proprio nel cuore della montagna. I nuovi grossi filoni
che erano stati scoperti nel pozzo 15 parevano confermare questa storia, ma se gli ingegneri e i padroni della miniera erano felici di questo, i lavoratori erano comprensibilmente preoccupati. Il cristallo cambiava la gente, si diceva che non solo il corpo, ma anche la mente venisse corrotta. Dub aveva visto una volta uno dei grandi cristalli che veniva estratto e portato fuori, durante la notte (i cristalli di sogno non sopportavano la luce del sole e si squagliavano come neve nella sua luce), una sera che avevano dovuto lavorare fino a molto tardi per un guasto nella pompa vibroscopica. Era una massa nera, dentro cui pullulavano come lucciole aghi luminosi e una massa scura, come un corpo, o come nebbia che si agita, pareva contorcersi al suo interno. Aveva rapidamente volto lo sguardo da un'altra parte, incontrando gli occhi di quegli uomini che stavano operando sui carrelli, e gli parve di fissare gli occhi di uomini morti. Come era grato di potersi occupare delle Dunediane! Le sale più alte della miniera erano state infatti adibite ad “allevamento” di quelle creature, che provenivano dall'oscura, selvaggia foresta. Anche le bestie della foresta erano intrise dell'energia dei sogni, o quel che fosse, e creature come la Dunediana erano dei giacimenti viventi del prezioso materiale, che per gli oscuri maghi di Balmung erano come l'aria che si respira. Con un balzo Dub saltò un cumulo di picconi spezzati ed entrò nella prima catapecchia che pendeva di sghimbescio, proprio come un vecchio minatore dalla schiena rotta, proprio sull'orlo di uno dei dirupi. «Ehi! Dub! Quanta fretta!» gridò Kam, vedendolo entrare, che era seduto su di una panca, intendo a togliersi i pesanti scarponi chiodati «Hai paura che ti portino via il tuo pane nero e quella brodaglia che chiamano minestra?» Kam era più alto di lui, con i capelli color della stoppa bruciata e gli occhi scuri, ma era un bravo ragazzo¹², un po' birbone, sempre pronto a scherzare nonostante il lavoro massacrante, e Dub poteva considerarlo un buon amico. Ma non aveva tempo per lui; schizzò al suo “armadietto” (uno scatolone di legno posato in terra) e ne tirò fuori un voluminoso cesto, coperto di un panno; e nel frattempo disse: «Se ti prendi il mio pane, come l'ultima volta, ti darò un pugno sul naso, Kam!» «Lo faccio per te, amico!» rise l'altro, riuscendo finalmente a strappare lo stivale
che era quasi fuso con il suo dolorante piede «Quel pane è impastato con la roccia, ti fa soltanto male allo stomaco!» Dub grugnì e prese diretto la porta. «Ehi, dove vai così di corsa?!» Si fermò per un secondo sulla soglia per dire: «Al monastero... mastro Giric mi ha consegnato questa mattina questo cesto da consegnare... me ne ero dimenticato!» e corse fuori, con le grida di Kam che lo inseguivano «Ma tra poco farà buio... ehi, ehi Dub!» Dub corse giù per la strada di ghiaia e sassi, segnata dalle ruote dei motocarri, fino alla curva: da una parte si saliva verso la casa dormitorio, dall'altra si scendeva fino al ponte. Andò verso il ponte, che era una severa costruzione di metallo e di bulloni che balzava oltre la nera spaccatura del burrone che, come una cicatrice, tagliava da est a ovest le aspre montagne, nel punto in cui esso era più stretto. I suoi i rimbombarono sullo scheletro di ferro e superò anche una colonna di alcune camionette ferme in fila, con alcuni personaggi con certe trine sul colletto e occhiali dalla montatura spessa, che fissavano da dietro i vetri scuri il sole cadere dietro i picchi più alti. «Ehi, ragazzo, dove corri!» lo chiamò uno dei guidatori, dall'alto del suo sedile, un uomo dal naso rosso e dalle mani gigantesche. Dub non gli badò e andò diritto fino all'altra estremità del ponte, presso la guardiola dei soldati, che erano appunto la causa del blocco dei furgoni. «Dub, ragazzo, ancora consegne per i monaci?» fece il soldato più giovane, con in mano delle carte scritte fitte fitte, che controllava assieme agli altri suoi colleghi gli scatoloni di legno deposti nel retro del primo camion della fila. «Sì! Devo correre, tenente Astolf!» disse subito precipitosamente Dub. Ma Astolf disse: «E vorresti correre tutta la strada con i tuoi piedi? Sarà buio quando sarai ancora a metà!» Qualcuno degli uomini ben vestiti si sporse con curiosità da uno dei camion e uno anche gridò: «Se avete tempo per fare discussione, fateci are più in
fretta! Qui si fa notte!» «Ci mettiamo il tempo che serve, signore!» esclamò allora Astolf, dando occhiatacce furbe ai suoi colleghi e il signore occhialuto si ritrasse, con un'espressione imbronciata sul viso. «Questi qui pensano di essere sopra la legge!» disse Astolf, rivolto a Dub «Sono degli “osservatori” che vengono da Fleon, per “controllare l'andamento dell'estrazione, per conto di sua maestà il reggente del trono del Toro...” niente poco di meno! “E altresì verificare le condizioni dei lavoratori, dopo le recenti rivolte nelle fabbriche di Ginevre!» «Le condizioni dei lavoratori?» disse Dub «Non ho visto questi signori nella miniera!» «Lasciali perdere... sono solo chiacchiere...!» esclamò Astolf «... e si portano dietro un po' troppi souvenir! Cos'è questo?» sbottò, indicando uno degli scatoloni aperti, dove, in mezzo alla paglia, brillava qualcosa di violaceo e pulsante. «Sua maestà deve avere dei campioni del materiale, per Dio!» esplose allora l'osservatore, quello che stava sul camion che stavano esaminando i soldati «Non vorrete mettervi contro la sua autorità!» «Noi qui siamo sotto l'autorità del margravio di Fresia, vostra signoria!» rispose fermo, ma educato, Astolf «E non è lecito per nessuno, nemmeno per gli emissari del reggente...» e caricò particolarmente la voce sul termine “reggente” «... portare via materiale dalla miniera, soprattutto se si tratta di cristallo!» «Ma io ho una lettera...!» protestò l'uomo. «Vediamo questa lettera!» sbottò Astolf. L'uomo mugugnò, e Dub disse: «Io devo proprio andare, tenente...!» «No! Aspetta un attimo!» fece però quello; fece un cenno a uno dei suoi e disse: «Occupatevene un attimo voi, di questa lettera!» e preso per un braccio Dub gli disse: «Ti accompagno io, al monastero!» «Ma il tuo lavoro...!» protestò il ragazzo.
Astolf era un pezzo di soldato, con gli stivali sempre lucidi e due baffoni a manubrio da far invidia al Maresciallo di Balmung stesso; era giovane e Dub non riusciva a indovinare perché un buon soldato come lui potesse essere dislocato in un luogo tanto sperduto. «Ti porto con la mia moto!» disse allegramente «Sono stufo di are tutta la giornata con le noiose lamentele di questi parassiti... un po' di aria notturna in faccia mi farà bene!» e senza che Dub potesse dire qualcos'altro lo condusse fino sul retro dell'edificio di mattoni (il primo piano era di mattoni, il secondo di legno rosso) che era il posto di guardia, dove stava parcheggiato un grande e lucido sidecar. Dub si sentì subito animato; davvero avrebbe potuto montare su quella meraviglia? «Prendi qui, il casco, ragazzo!» disse con piglio da camerata il tenente, prendendo il casco dal sedile e lanciandoglielo «Allacciatelo bene sotto il mento!» Dub obbedì e montò lesto, senza farselo dire due volte, sul carrozzino laterale. Astolf montò come un vero centauro sulla moto, fece leva con gli stivali neri sull'accensione come se stesse dando di sprone a un cavallo da guerra e disse: «Tienti forte, ragazzo!» La moto rombò con un suono sordo e prese a rollare sul selciato di ghiaia, schizzando sassi in ogni direzione; il fanale anteriore tagliò in due le ombre che si facevano viola nella sera e con il vento in faccia Astolf guidò giù per la strada con un estasiato Dub. I picchi scorrevano veloci e severi sopra di loro e giù in basso serpeggiava come un lucido serpente scaglioso il fiume, che costeggiava l'antica strada, compressa contro il corpo nero e fremente della foresta. La nuova strada correva invece in alto, seguendo i tornanti della montagna e saliva fino a un grande contrafforte di roccia, tozzo e spruzzato di erba verdastra, che la gente chiamava “testa del rospo”. Di là scendeva dietro la montagna, lasciandosi alle spalle, verso sud, le miniere e le spaccature e il burrone, e oltre la foresta che dalla base delle montagne correva, si diceva, come un unico manto verde fino ai confini del tetro paese di Babilonia. Sulla cima della testa del rospo Astolf si fermò per qualche attimo, a guardare giù le forre e le cime delle montagne che si digradavano verso il meridione, fino
a diventare come isole emergenti dagli alberi, e quel grande mistero che era la foresta. Poi volse il manubrio alla strada dall'altro lato e si tuffò nella via incassata tra alte rocce rosse. La strada scendeva fino al monastero dei Monaci di Lut, uno degli ordini più potenti di Balmung, che possedevano molte terre nei dintorni. Di là poi sarebbe scesa a incontrare la Via del Re, che saliva in mezzo alle montagne, su fino alle regioni coperte di immensi ghiacciai: a Balmung erano poche le terre risparmiate dal freddo, e se si lasciava da parte la grande piana che si estendeva ai piedi Fleon, i verdi campi della Neustria, erano poche le terre che non fossero montagnose. Tutta la vita avveniva nelle valli, dove le case si addossavano in villaggi o città dalle oscure strade, all'ombra delle montagne. Dub conosceva solo per averle sentite nominare quelle regioni lontane; non si era mai spinto oltre il monastero di Lut. Nel suo cuore però ardeva il desiderio di, un giorno, poter raggiungere il bivio per la Via del Re e rimirare sotto i suoi piedi la strada che conduceva a ogni dove. Anche forse solo dietro la collina successiva, oppure fino in cima alla cresta di montagne... e poter guardare giù e vedere la via snodarsi come un serpente dentro a valli, paesi e boschi. Così con il vento in faccia che portava in alto i suoi pensieri sognava Dub, il minatore, mentre la notte si faceva dappresso intorno a lui e con il suo manto nero rendeva più profondi e vividi i suoi sogni. Ben presto raggiunsero il guado della Fanciulla e in alto, sopra un largo terrazzo naturale, comparve la sagoma tozza e severa del monastero. Astolf cominciò a fischiettare una canzonetta, a stento udibile nel rombo del motore. Giunsero finalmente nell'ampio spiazzo di fronte ai neri cancelli; le grosse porte stavano per essere chiuse e il mercato che di solito si tiene nello spiazzo era ormai deserto. I pali dove venivano legati gli animali lasciavano pendere le catene e le corde inanimate, resti di ortaggi stavano dispersi qua e là sul selciato e dei cani fuggitivi, con gli occhi acquosi, si aggiravano ai margini del recinto (anche lo spiazzo era recintato, da una palizzata), cercando qualcosa da mangiare tra i rifiuti. Quando Dub smontò dalla moto le due grandi luci si accesero come se aspettassero solo lui, cioè i lampioni posti ai due lati della piazza, che stavano in cima a grossi frati di pietra, come delle lune sospese sopra le loro teste. Dub corse veloce con il suo cesto fino al portone, dove trovò un grosso e tarchiato monaco che stava guardando fuori, prima di chiudere, attirato dal rumore e dai
fari della moto. «Ah, sei tu, Dub!» disse il monaco «Mastro Giric aveva detto che oggi avresti portato la solita “consegna”... ma ormai pensavamo che ti avesse mangiato un archeolupo!» «Per favore, signore!» esclamò Dub «Non ditelo nemmeno per scherzo!» «Dai qua, ragazzo!» disse invece ruvidamente il monaco, prendendogli dalle mani il cesto «Come dice il detto “chi non ha testa, ha gambe” e almeno hai quelle... chissà che uno di questi giorni non ti servano sul serio, e altro che lupi!» Dub non aveva molta voglia di rispondere; non aveva neppure voglia di chiedersi che cosa fosse quella “consegna” che mastro Giric gli dava da portare (perché ragazzo fidato, uno che non parla mai) ai monaci di tanto in tanto. O meglio, lo sospettava, ma non era affar suo, di un povero ragazzetto, immischiarsi in questi affari loschi! Piuttosto era stupefacente come lo stesso tenente Astolf, che lo aveva accompagnato fin là, non dicesse nulla in merito. «Hai fatto?» disse semplicemente, quando tornò indietro. Perché gli osservatori del reggente al trono non potevano portare fuori il maledetto cristallo, ma invece Astolf chiudeva un occhio sul traffico di Giric? I portoni si chio con un tonfo sordo e per qualche strano motivo Dub si sentiva molto meno euforico di prima; forse era solo la stanchezza che cominciava a farsi sentire. Montò sul carrozzino e si mise il casco, senza rispondere. «Cosa ti è successo? Il monaco ti ha rubato la lingua?» esclamò Astolf. «No, niente... sono solo stanco!» rispose. «Il lavoro della miniera deve essere molto duro...» commentò il soldato, ma poi, nemmeno lui, ebbe più voglia di parlare e girata la moto, riprese la strada verso la caserma. Ma mentre avevano già superato la testa di rospo ecco che qualcosa cominciò a vibrare tra i piedi di Dub, che si prese un grosso spavento.
«Cosa succede?» fece Astolf, fermandosi nel bel mezzo della strada. «Qui un aggeggio... sta vibrando!» esclamò Dub. «Dannato telefono! amelo!» rispose il soldato. Dub frugò ai suoi piedi e le sue mani, alla cieca, raggiunsero uno strano “coso”, che sembrava dalla forma una affare ricurvo, come un corno di toro, ma era gommoso al tatto. Lo sollevò fuori e Astolf lo prese subito dalle sua mani, e poggiando l'estremità appuntita verso la bocca (era proprio a forma di corno, l'oggetto) e quella larga sull'orecchio, cominciò a urlare: «Cosa diamine succede...? Eh? DOVE?!» C'era veramente bisogno di urlare tanto?!, si chiese Dub, che non aveva mai visto un “telefono”. «Diavolo!» esclamò Astolf, riando il “telefono” in mano a Dub, che lo prese con due dita. Era come una conchiglia, come quelle cose fossili che aveva visto a volte nella roccia della miniera, tutta tortigliata e gommosa e molle al tatto. Non c'erano né fili né altre appendici che potessero indiziare la sorgente dell'energia o da dove provenisse e venisse mandato il suono. Poi, con un certo disgusto, si accorse che la “cosa” si andava raffreddando e perdendo la sua gommosità, come un muscolo che si irrigidisse, e lo lasciò cadere senza tanti complimenti di nuovo dentro al carrozzino. «Dub, ragazzo mio, c'è un problema!» esclamò Astolf «Quegli stupidi di osservatori si sono persi... noi non li abbiamo incrociati tornando indietro... lo sa la Dea dove sono andati a cacciarsi! Devono aver preso la strada laterale che...! Maledetti imbecilli! Ora dobbiamo anche andare a cercarli e rimetterli sulla strada giusta!» «Devi andare a cercarli?» fece Dub, preoccupato. Non per gli osservatori, ovviamente. «Ti lascio qui... devo tornare indietro e risalire lungo la strada!» rispose, proprio come temeva, il soldato. Astolf lo guardò e disse: «Non fare quella faccia! Da qui al ponte sarà solo una mezz'oretta... non ci metterai molto!»
Dub non voleva proprio scendere, ma d'altronde, se non avesse neppure avuto quel aggio, ora sarebbe nel nel mezzo del vuoto delle montagne, a piedi, quindi qualcosa di positivo ne aveva avuto, a dirla tutta. Ma questo pensiero non bastava affatto a fargli dimenticare la notte cupa e il verso del gufo che sentiva volteggiare giù verso la foresta. Smontò, lasciò il casco sul sedile, come se fosse la sua anima quella che lasciava sulla moto e Astolf, incurante, lo salutò agitando la mano: «Torna sicuro! Addio!» e il ragazzo fissò la luce del fanale finché scomparve dietro la prima curva; il motore risuonò ancora, sempre più distate, e alla fine si spense. E Dub rimase solo. Non c'era una tenebra assoluta, perché una tenue luce “atmosferica” e una pallida luna rischiaravano l'ambiente. Ma le montagne erano così alte, masse nere immote, i rumori che venivano su dalla valle così forti - schiocchi, versi, rotolare di pietre - che Dub si sentì sciogliere il sangue. E nella paura pensò a una cosa che sul momento gli parve una buona idea, ma che in realtà doveva essere, a mente lucida, la peggiore che potesse pensare. C'era un sentierino che dalla strada scendeva fino a quell'altra, quella vecchia, che correva parallela al burrone e in un punto lo saltava con un antico ponte di legno, per poi affiancare la tetra massa della foresta. Era la strada più breve, perché eliminava tutte le curve e i tornanti della nuova strada. ando di là ci avrebbe messo molto meno di mezz'ora, per raggiungere il dormitorio comune! In quel momento non pensava a quanto avrebbe dovuto camminare vicino alla foresta di Duana. Trovò subito il sentiero, che scendeva tra pietre spaccate; fu facile per lui, agile com'era, anche se la luce era scarsa. Con il cuore che gli batteva forte raggiunse finalmente la vecchia strada, che in effetti non era che qualche decina di metri sotto quella nuova, in quel punto. Il suo tracciato non era chiaro, perché non veniva usata da molto, ed era invasa di erbacce. Camminò speditamente e con gli occhi e le orecchie tesi come se potesse sentire le rocce parlare e vedere attraverso i sassi; nelle cavità giù lungo i fianchi della montagna, e al di là del burrone, la sua immaginazione sovraeccitata vedeva a
volte accendersi vaghe luci, globi luminosi che si illuminavano in uno svaporio e vagavano dentro le orbite vuote dei tunnel, per poi scomparire, e riemergere più avanti, o più indietro. Si stropicciò gli occhi, furiosamente. Cercò di scacciare ogni tipo di strana immaginazione dalla mente e fissò lo sguardo sulle luci, quelle vere, che illuminavano la miniera attiva, lassù. I vertiginosi ponti che si levavano nel vuoto, la ragnatela di binari che salivano gli uni sopra gli altri in assurde costruzioni che parevano di filo, fragili, come se da un momento all'altro dovessero crollare, si intrecciavano in maniera ubriacante, sotto la luce delle moltissimi lampade luminose che provenivano, aveva detto Giric, direttamente da Baran, il paese nell'est lontano. Ma ecco che una sottile macchia scura comparve sulla destra; il vecchio ponte! Era una struttura cadente, a una sola arcata, che era troppo pericolante per poter sostenere il aggio di un carro, altro che di un camion. Ma il peso di Dub, per quanto scricchiolasse in maniera preoccupante quando vi mise il piede sopra, era una piuma per le antiche travi. Arrivò dall'altra parte, risalì lesto la china e dopo una curva fu sotto l'ombra della “grande siepe”. La “grande siepe” era stata piantata molto tempo fa, quando quella strada era ancora attiva, e serviva per dividerla dalla foresta. Giric raccontava certe storie terribili, di come la siepe non servisse a delimitare la strada, ma a tenere fuori la foresta stessa. Secondo lui, e secondo anche alcuni altri minatori, che parlavano di queste cose verso sera, con le pipe tra i denti, certo per spaventare i ragazzi come lui, la foresta non era come ogni altro bosco; era viva. Gli stessi alberi erano un'entità maligna e sostare sotto la loro ombra voleva dire attirarsi le ire della foresta tutta. Essa odiava gli esseri umani. Era quel che rimaneva delle foreste primordiali del mondo, che avevano ricoperto la terra per secoli, dopo la caduta della Civiltà Tecnologica dell'Oriente. Gli uomini erano tornati un giorno dai loro nascondigli sotto terra e avevano tagliato gli alberi e bruciato intere leghe di foresta. Ma nella foresta il nero diluvio di sogni che era straripato dalle macchine magiche nei giorni della Catastrofe aveva intriso così fortemente quel luogo che gli alberi stessi erano vivi e creature incredibili vivevano sotto quelle fronde. E molti uomini erano stati uccisi, finché non era stata costruita la siepe. O almeno così dicevano i vecchi.
Quel che era certo, era che nella foresta c'erano giacimenti di cristalli ancora più grandi che nelle montagne, ma nessuno osava addentrarsi al suo interno per sfruttarli; era più semplice catturare le gigantesche creature del bosco, che anch'esse trasudavano i sogni cristallizzati. Dub si mosse lungo la sagoma nera della siepe, rendendosi sempre più conto che forse non era stata una così gran idea quella di tagliare per la strada vecchia. E mentre si sentiva il cuore sempre più pesante, gli pareva di camminare per ore, e che invece di accorciare la strada, la stesse allungando sempre di più. E poi, ecco, la siepe faceva una curva, e come l'angolo di un muro si piegò verso l'interno, scomparendo del tutto. Dub non sapeva che la siepe fosse “crollata”, infatti credeva che proseguisse diritta seguendo la strada fino in fondo, ma evidentemente questo non corrispondeva al vero. Ma non poteva certo tornare indietro adesso... e che poteva accadergli, insomma? Proseguì quindi coraggiosamente, accorgendosi però sempre di più che la traccia della strada era labile e cosparsa di erbe sempre di più alte e spinose. E infine, alla sua destra, la vide; nella luce incerta grandi sagome, simili a teste di dragoni, braccia di giganti e mani rachitiche di streghe si agitavano piano, la foresta di Duana. Dub si accorse che non era il vento ad agitare i rami e le foglie fitte, perché non spirava alcuna brezza; nella foresta non vi era vento eppure la foresta era là, e si muoveva. Il legno scricchiolava e Dub sentì una forza malevola, una malignità palpabile, che spirava da sotto le ombre. Improvvisamente un basso strido scoppiò proprio di fronte a lui, che era già teso come la bitta di sicurezza di una teleferica, e il cuore gli si fermò sul serio per 3 o 4 secondi. Che cosa aveva lanciato quel grido? Un animale... o?! Proprio di fronte a lui, a nemmeno cinque metri, una cosa pallida si agitava penosamente, emettendo a intervalli quel verso stridulo. Dub vinse la paura e si avvicinò e quello che vide lo riempì di sorpresa. Quella cosa era una creatura della foresta, le ali da farfalla grandi come un paravento da signora, ma un corpo lungo e slanciato, con solo due arti di dietro, che parevano gambe, e due davanti, che potevano essere braccia. La testa con le antenne era quella di un insetto, ma stranamente diversa: si sarebbe potuta dire quasi umanoide, con gli occhi che erano due grandi pozze nere (Forse poteva essere una Dunediana in “miniatura”, un cucciolo, anche se era più probabile che le Dunediane fossero degli enormi bruchi prima di diventare una “farfalla”).
Aveva una “gamba” intrappolata in una trappola, una gabbia a molla riempita di vischio, che la creatura doveva essersi trascinata dietro fino in quella radura vicino alla strada, vedendo lo stato della trappola stessa, tutta sbeccata, e lo stato anche della sua gamba. L'essere pigolò in maniera pietosa e Dub vinse la repulsione che il suo aspetto alieno gli trasmetteva. Dub aveva un grande cuore generoso, dopotutto, nonostante fosse soltanto un umile operaio. «Aspetta! Ferma! Non avere paura, voglio aiutarti!» disse Dub, con il tono più calmo e conciliante che riuscì a trovare. La creatura, appena lui si avvicinò cominciò ad agitarsi a stridere in maniera convulsa, facendosi ancora più male, ma lui, che era abituato a curare i piccoli uccelli che si rompevano le ali nei dintorni delle miniere, a causa dei forti getti di vapore che venivano sparati all'esterno dalle macchine, sapeva cosa doveva fare. Nell'afferrarla con decisione si accorse che l'animale era grande quanto lui; il buio ne aveva falsato le dimensioni! Ma non si lasciò intimorire. Una cosa del genere poteva anche traargli il cranio con la spirotromba, o strappargli occhi con quelle “braccia” artigliate, ma questi pensieri non si presentarono neppure sulla soglia del suo cervello. Tenendole la gamba e volgendole la schiena, mentre l'essere lo colpiva con ali, antenne e artigli sulla schiena come un forsennato (per fortuna il suo giubbotto da minatore era ben imbottito e spesso!), fece una certa pressione sul meccanismo a molla della trappola e con uno sforzo finale riuscì finalmente a staccarla, vischio e tutto il resto. Certo, la “zampa” era ancora inzaccherata di vischio e di certo malridotta, ma cosa poteva fare ancora? Magari se fosse riuscita a volare via avrebbe potuto tornare dalla sua “famiglia”, che si sarebbe presa cura di lei. Mollò la presa sulla creatura e quella balzò indietro, stupendosi di trovarsi libera. Si toccò con le zampe anteriori la gamba massacrata e poi fissò con intensità non certo animale, ma quasi umana, il ragazzo. Ed egli disse: «Adesso sei libera! Vai via e non farti più prendere in trappola in questo modo!» La creatura lo fissò ancora, ma lui non aveva certo tempo di rimanere là a fissarla e perdere tempo, in piena notte, e vicino alla maledetta foresta. Si incamminò allora, lasciandola là che ancora lo scrutava. “Non farti più prendere in trappola!” si disse Dub “Come se potesse aver capito
quello che dico! Ma adesso corri a casa, Dub, prima che un archeolupo venga sul serio a mangiarti!” e in fretta risalì la strada, come se davvero avesse già le grosse belve alle calcagna. Non si avvide affatto che la creatura che aveva salvato si alzò saltellando su di un solo piede e aprendo le grandi ali, un po' volando, un po' saltando, gli corse dietro nel buio.
«Dub, sciocco mulo!» esclamò padron Ligelmo «Questa notte, se fosse stato per me, avresti dormito fuori!» «Mi perdoni, padron Ligelmo!» disse Dub, in piedi nella mensa comune, davanti a tutti, cercando di stare diritto, e di non massaggiarsi le natiche, che sotto i pantaloni dovevano essere del tutto viola, dopo i colpi d'asse di Ligelmo, l'attendente della casa dormitorio. «Credi di poter andare dove vuoi, di fare quello che vuoi, stupido di un mulo!?» ripeté invece l'uomo, con il naso appuntito che fremeva, non di rabbia, ma di compiacimento, perché poteva dimostrare a tutti la sua autorità. Girò lo sguardo su tutti i ragazzi e Kam, che cercava di guardarsi le scarpe il più possibile, sentì quegli occhi odiosi are anche sopra di lui «Tornare in piena notte...! Questa notte non ci sarà cena per te: tutti i ragazzi l'hanno già consumata! Ora vattene a letto, non voglio più vederti!» «Sì padrone!» disse Dub, con le lacrime secche sugli occhi. Kam sapeva che non avrebbe fatto cadere nemmeno una goccia di acqua, di fronte a quello schifoso, come non aveva emesso neppure un suono mentre veniva battuto. Tutti i ragazzi si alzarono dalle panche con un basso tramestio e Ligelmo per primo uscì dalla stanza. Ma Dub rimase dov'era, nella luce incerta e ondeggiante delle due lanterne a gas che riempivano si macchie la sala della mensa. «Dub!» disse in un sussurro Kam, andogli vicino «Muoviti!» Dub fece un grandissimo sforzo per muoversi, con il dolore che lo sconquassava a ogni o. Seguì stringendo gli occhi gli altri ragazzi nel corridoio scuro, che sapeva sempre odore di muffa, e salì dietro di loro le scale, ma al secondo gradino dovette fermarsi a metà del o. Allora Kam tornò indietro, nonostante
non gli fosse permesso aiutarlo e se Ligelmo lo avesse visto, cinque colpi di asse non se li sarebbe risparmiati neppure lui. «Forza!» disse, prendendolo per le spalle e aiutandolo, o meglio, spingendolo quasi di peso su per le scale. Subito a destra, in cima, la porta per il dormitorio; i ragazzi si distribuirono tra bassi sussurri tra i letti come rivoli di un torrente, ficcandosi subito sotto le coperte. Anche se era primavera in quello stanzone faceva freddo, un gelo da penetrare nelle ossa, che le coperte di lana spelacchiata bastavano a stento a tenere fuori. E in estate faceva un caldo insopportabile, da non riuscire a dormire. Kam guidò Dub fino al suo letto e il ragazzo non si spogliò neppure; cadde a faccia in giù sul letto, come morto. «Ehi, amico! Non addormentarti subito!» disse Kam. Sollevò la frangia di capelli biondicci dell'amico e vide che stava stringendo gli occhi come uno spasmo. «Ti ho salvato qualcosa, della cena...!» disse in un sussurro e da sotto la camicia tirò fuori del pane raffermo e del formaggio pallido, da cui aveva tagliato con cura tutta la muffa. E con grande pazienza si mise a imbeccare Dub, che masticava a piccoli morsi come un pulcino. «Kam, sei pazzo? Se ti vede Ligelmo...!» borbottò dal letto vicino Gulfo, dalla faccia tonda che sembrava sempre spaventata. «Al diavolo quello schiavista!» sbottò Kam «Uno di questi giorni qualcuno gli farà un brutto scherzo, ve lo dico io, spingendolo giù per le scale...!» «Kam!» si strozzò in gola la voce di Gulfo. Ma Kam non lo ascoltava affatto e continuò a imbeccare Dub fino all'ultimo boccone. Sulle scale si sentirono i i pesanti del padron Ligelmo che saliva per vedere che tutti i ragazzi stessero dormendo e con uno scatto tutti infilarono le teste sotto le coperte. Kam afferrò la coperta di Dub e la tirò su di lui, come una specie di sudario, e fece appena in tempo a lanciarsi nel suo letto, prima che la lampada di Ligelmo comparisse sulla soglia. L'occhio di luce elettrica (il padrone non usava quelle lanterne a gas che c'erano nelle stanze del dormitorio, che facevano più ombra che luce) penetrò nello
stanzone, scrutando su tutte le teste addormentate. Un colpo di tosse proruppe dal fondo. «Signor Mewdin, laggiù! Veda di dormire!» sbottò con la sua voce crudele padron Ligelmo, ma Kam si strinse i pugni nelle coperte, per la voglia di balzare fuori e spaccare il suo naso affilato. Mewdin era cagionevole di salute e quella tosse non era un raffreddore, per chi scende 10 ore al giorno dentro una miniera piena di polvere. Ligelmo parve essere finalmente soddisfatto e la luce si ritrasse. Allora Kam si arrischiò a mettere un occhio fuori, al letto di Dub. L'amico era nella stessa posizione di prima, che sembrava un cadavere, ma un sottile filo di respiro usciva dalle sue labbra. Sospirando, si avvolse anche lui nelle sue coperte.
Una strana creatura emerse dal buio, proprio oltre il cerchio di luce del lampione che stava all'entrata del cortile della casa dormitorio. Si fermò là, zampettando su di una “gamba” sola, agitando nell'aria le antenne. Improvvisamente vi fu un gran abbaiare e un cane grosso, nero, con gli occhi come tizzoni ardenti, sbucò fuori dal lato sinistro del cupo caseggiato, lanciato in trotto come un pony da corsa, verso la creatura. Quella lo guardò schizzare verso di lei e fece una cosa stranissima: invece che fuggire fece un salto avanti e la gamba su cui atterrò non era più una zampa, ma una vera gamba umana. E poi un altro balzo, e anche l'altra zampa era rosa e di carne, con un piede a cinque dita. E un balzo di nuovo e al posto della strana creatura c'era una ragazzina umana, con le ali da farfalla e la testa con le antenne. Il cane si fermò di botto, quasi rotolando via sull'aia ghiaiosa, stupefatto. E la creatura non aveva più neppure le ali e nemmeno le antenne e con una testa fulva e due occhi che sprizzavano scintille scattò avanti, verso il cane, battendo le mani. Il cane diede un uggiolio terrorizzato e fece dietro front di gran carriera, ma la “ragazzina” fece un largo sorriso a 36 denti e si mise a inseguirlo con una velocità soprannaturale. Il povero cane ora aveva gli occhi fuori dalle orbite e correva miseramente in tondo, lanciando uggiolati di disperazione. «Insomma, Diavolo!» gridò padron Ligelmo dalla finestra della sua stanza «Che
succede? Cos'hai da fare tanto baccano?!» ma il cane si lanciò dietro la casa, di filato dentro alla sua cuccia, come se avesse tutte le Shibartz del mondo alle calcagna. Ligelmo guardò giù, cercando di sistemarsi in faccia gli occhialetti, ma non vide nulla che potesse fargli capire la paura del cane. «Cane inutile!» abbaiò, richiudendo le finestre «Domani lo lascerò alla catena per tutto il giorno...!» si sentì ancora la sua voce venire stridula da dietro i vetri. La “ragazzina” si era nascosta proprio sotto lo spiovente di copertura della porta di ingresso, accoccolata con le mani sotto le gambe e si mise a ridere da sola, come se avesse appena fatto uno scherzo davvero divertente. Può sembrare strano, ma nella trasformazione da bizzarra creatura a umana si era munita anche di un vestito in un solo pezzo, rosso fuoco. Si ò le mani grassocce sulla gonna e poi se le guardò, e la vista delle dieci dita tutte insieme la fece ridere ancora più forte. Ma non aveva tempo per queste cose! Corse fuori nel cortile e poi, annusando l'aria, decise dove doveva andare. Fece il giro attorno alla casa e si fermò ai piedi di un grande albero, i cui rami arrivavano fino al secondo piano del caseggiato. Fissò una finestra del primo piano, e rimase per qualche attimo a scervellarsi su che cosa fare. Poi lo sguardo le scese sui sassetti sparsi in giro e ne afferrò un mucchio con la mano. TOC! Dub pensò di essere appena risorto dal mondo dei sogni... o forse era semplicemente svenuto, senza addormentarsi. Era stato un sogno, quel rumore? TOC! Sollevò la testa, solo quella, fuori delle coperte. Il dolore al suo posteriore tornò violento, ma meno vivido di quanto ricordasse. E il vetro proprio sopra la sua testa vibrò ancora una volta e TOC!, un sasso aveva colpito la finestra! «Hai sentito?» fece Kam, sussurrando dal buio. «Ho sentito... ma chi...?» rispose Dub. Ma c'era un solo modo per scoprirlo. Si alzò a fatica sul letto, carponi, mise mano alla serratura traballante delle finestra e la aprì. E guardò fuori. E giù di sotto vide una ragazzina con i capelli rossi e un vestito rosso che agitava le mani in aria, con un largo sorriso stampato in faccia.
Dub rimase perlomeno perplesso, ma la ragazzina non gli diede tempo di pensare. Subito si arrampicò su per l'albero, come una scimmia, strappando un mezzo grido di sorpresa a Dub. In un attimo era là che penzolava un piede sulla sua finestra, tenendosi ancora con un braccio a un ramo e con una voce cristallina, come una sorgente di acqua ghiacciata che prorompe da una roccia, esclamò: «Ciao!» CIAO?! «Che diavolo...!» esclamò Dub, ma quella lo ignorò del tutto e protendendosi in avanti, in equilibrio su di un solo piede sulla stretta intelaiatura della finestra, gli afferrò la faccia con entrambe le mani, avvicinandola alla sua. «Che accidenti fai?!» sbottò Dub e Kam fece un basso fischio «Non mi dire che ti sei trovato... una ragazza! Sei stato fuori di notte, per questo?!» «Non dire assurdità!» starnazzò Dub. «E allora chi accidenti è questa?!» «Lin!» sbottò allegramente la ragazzina. «Ah, si chiama Lin...!» osservò Kam. «E io che cosa ne dovrei sapere?» esclamò Dub. «Cosa, cosa succede?!» fece una voce spaventata vicino a loro; gli occhi grandi di Gulfo fissavano la scena con vero terrore e anche Albriecht, con gli occhi ciechi come una talpa si era alzato, e cercava i suoi occhiali. Medwin, tossendo, mezzo avvolto nella coperta era sveglio e in poche parole tutta la camerata fissava con occhi sbarrati la ragazzina che era entrata dalla finestra. Lin regalò un sorriso ampio come le cascate di Knut a tutti quanti e, intenta ancora a stiracchiare come pasta di pane la faccia di Dub, disse: «Come ti chiami, tu?» «Mi chiamo Dub, e la smetti di tirarmi la faccia...!?» sbottò quello «Si può sapere chi sei? E che diavolo ti è saltato in mente di entrare per la finestra?!» «Dub! Dub!» prese a gridare Lin.
«Non gridare!» scattò Dub «Padron Ligelmo ti sentirà!» «E chi è questo Ligelmo, ha gli occhiali?» chiese quella, scarsamente interessata alla preoccupazione di Dub. «E'...!» prese a dire lui, ma ecco che una porta sbatté al piano superiore e i spaventosi risuonarono contro il soffitto. «Padron Ligelmo!» singhiozzò Gulfo e Albriecht sibilò: «Stavolta l'hai fatta grossa Dub!» e Dub guardò disperato ora Lin ora Kam, e poi ancora Lin, mentre i i sul soffitto raggiungevano le scale, rapidi come una punizione celeste. «Sotto le coperte!» esclamò Kam, spingendo Lin nel letto di Dub «E voi starete zitti!» sibilò agli altri. «E Perché dovremmo farlo?!» sbottò Albriecht, con gli occhiali che li cadevano dal naso. «Perché altrimenti racconterò a Ligelmo come hai tentato di avvelenare Diavolo con pezzi di pianta-sputo!» scattò Kam. Albriecht sbiancò come un fazzoletto immerso nell'ammoniaca; «E... e va bene, non dirò una parola...! Ma se speri che padron Ligelmo non scopra...!» «Fate silenzio, tutti! E ora... sotto le coperte!» gridò Kam, cercando, con esiti buffissimi, contemporaneamente di non gridare, per non farsi sentire da quei i precipitosi che stavano rimbalzando giù per le scale. Dub afferrò Lin che si guardava intorno con un dito in bocca e un mezzo sorriso ignorante in faccia e le sibilò: «Stai zitta, per l'amor della Dea!» e la buttò sotto le sue coperte. «Perché?» fece quella (mentre Kam chiudeva precipitosamente la finestra e gli altri ragazzi si fiondavano nei loro letti). «Perché... perché...!» annaspò Dub «... perché è una specie... di gioco!» «Un gioco!» «Sì, e se ti fai scoprire... perderemo!» disse disperato il ragazzo, sperando
ardentemente di poterla convincere. Lin fece una faccia birichina e mettendosi un dito sulla bocca fece: «Ssst!» E si lasciò sommergere dalla coperta. Fu un attimo: in quell'istante comparve sulla soglia Ligelmo, diritto e scuro come uno spaventaeri, e la luce della torcia riempì il buio. «Cosa succede, qui, pezzi di scatenati tizzoni sputati dall'inferno?!» berciò «Chi ha osato fare tutto questo baccano?!» Nessuno rispose, non volava una mosca, anzi, non volava un solo respiro. «Nessuno risponde?!» imprecò Ligelmo, agitando in aria la torcia, ed entrando nella stanza, fino alla testa del letto di Kam. Dub era nei guai; Lin era stretta contro di lui, e sicuramente da fuori si sarebbe notato che il suo letto era gonfio il doppio. E Lin profumava di alberi di Karo e erba selvatica, ed era calda e anche sudaticcia, ma chissà perché quest'ultima notazione non gli dava particolarmente fastidio. «E dunque, cerchiamo di fare i furbi, scalmanati pezzenti?!» esclamò Ligelmo. Messo a faccia in giù, con le coperte tirate in testa, la faccia di Dub era sopra a quella di Lin e lei lo fissava con due occhi illuminati come fornaci baluginanti in fondo a una miniera e senza far un singolo rumore, si posò un dito sulla bocca, ridacchiando. «Albriecht, figliolo!» berciò padron Ligelmo, con una voce che tentava, senza risultato, di risultare comprensiva «Rispondi tu, che sei un bravo ragazzo obbediente... cosa si combina, qui? Non sarà ancora Dub, a provocare confusione?!» Ma Albriecht rimase silenzioso come una tomba, stretto contro il suo cuscino. «Ah, è così?!» si infuriò allora Ligelmo «Razza di pezzenti! Ma la vedrete, la vedrete domani se non vi verrà voglia di parlare!» e sconfitto si ritirò come una nube di temporale, abbandonando il campo. E appena i suoi i si furono spenti su per le scale e giù lungo il corridoio e la
porta ebbe sbattuto come se dovesse cadere dai cardini, Albriecht sibilò dal suo letto: «Dub, siamo tutti fottuti!» «Via, semplicemente Ligelmo...» sussurrò Kam «... ci farà a tutti un culo viola come a Dub! Perché preoccuparsi tanto?! O il tuo culo, caro Albriecht è fatto d'oro?!» Medwin ridacchiò, nella tosse, ma Dub ci vedeva ben poco da ridere, quasi quanto Albriecht. «Abbiamo vinto? Abbiamo vinto?!» saltò su Lin dal suo letto. «Ma te ne vuoi stare zitta?!» imprecò Dub. «Dub, devi fare qualcosa con questa qui...» osservò Kam. Dub aprì la bocca per parlare, ma Lin improvvisamente si zittì sul serio, divenne seria e con la faccia di marmo e balzò sulla finestra, spalancandola. E rimase con un ginocchio sull'intelaiatura a fissare la notte, come un cane segugio che punta la preda. Dub e Kam si fissarono perplessi, ma proprio in quel momento Diavolo prese a ululare in maniera straziante dalla sua cuccia.
La guardia di notte che divideva il suo solitario posto di guardia con uno spelacchiato gufo, posato in cima a un ramo scheletrico, sporse la testa fuori dalla casupola che era la sua guardiola, e disse: «Stupido uccello, cos'hai da guardare?» Il gufo, ovviamente, lo ignorò. Il soldato sospirò; sicuramente il tenente Astolf era tornato in caserma, e, “trovato”, come al solito, due bottiglie di quello buono, stava facendo baldoria con gli altri soldati su alla “casa rossa” (come chiamavano il posto di guardia i sette soldati che vi stavano di posta). Perché lo pensava? Perché quei funzionari reali, pur di are il blocco, dovevano di certo aver “sganciato” qualche “mancia”. Non lo sapeva lui, che era
stato mandato a fare il turno dalle sette, che invece i funzionari erano dispersi tra le montagne e che per quella sera Astolf non gozzovigliava con donnine di dubbia moralità raccattate nella vicina cittadina, ma bestemmiava su e giù per i tornanti della Via del Re. «Perché proprio a me toccava il turno stasera?!» si lamentò, intabarrandosi nel pastrano ancora di più. Quel punto di guardia era soltanto una casupola dispersa in mezzo a una piccola piana cosparsa di massi erratici, piantata in faccia al burrone che divideva in due le montagne. Non vi era nulla da cui guardarsi, non vi erano uomini dall'altro lato che potessero scalare le forre dirupate della voragine, soltanto la foresta, tetra, che i racconti delle nonne avevano riempito di lupi cattivi. Ma improvvisamente il gufo spalancò ancora di più i suoi occhi come fanali e spiccò di precipizio il volo, in un nuvola di piume grige. Eppure non c'era stato un suono, non c'era stata una luce, che potesse spaventarlo. Preso d'un tratto dalla paura, il soldato afferrò il fucile che di solito teneva appeso nel fondo della cabina e tenendolo con mani non troppo sicure, scrutò il buio che lo circondava. Poi sentì un rumore, là davanti, come lo spezzarsi secco di legno. «Chi... chi è là?» gridò. Non ci fu alcuna risposta, ma un rombo sordo prese a rullare sotto la terra, o nel cielo, era impossibile dirlo, come un vento che trascina pietre e tuoni, come il soffio del terra che la gente superstiziosa delle valli crede preceda il terremoto. E giù nel buio imperfetto il soldato vide agitarsi qualcosa... dapprima i suoi occhi febbrili scorsero solo ombre guizzanti. Ma il rombo crebbe e forme nere, con pennacchi luccicanti, si agitavano in una massa che pareva onde di un mare furibondo. Il soldato tremava, incapace anche di deglutire, perché non riusciva assolutamente a capire che cosa stesse accadendo. Allungò una mano sulla torcia elettrica nell'angolo e la puntò giù. Il fascio di luce illuminò alberi. Alberi! A quasi cinquecento metri di distanza, dove fino a poco fa c'era soltanto il declivio coperto di erba spelacchiata e di macigni. Come se la foresta avesse risalito il burrone e ora avesse piantato le radici proprio sul ciglio della piana. I rami si agitavano nel vento che non c'era, e oggetti neri si contorcevano, saltavano e di dimenavano tra i tronchi... il soldato ebbe soltanto la prontezza residua di dare una manata sul vetusto pulsante in
fondo alla cabina, che doveva suonare l'allarme nella caserma, e si augurò che funzionasse ancora. Prima che un'ondata di maremoto di alberi travolgesse il posto di guardia, come un'ondata del mare in tempesta spazza uno scoglio.
Dub e gli altri ragazzi si stavano ancora chiedendo che cosa stesse accadendo, che improvvisamente scoppiò uno strido terribile, giù alla miniera, e subito non compresero che cosa fosse. Ed era del tutto naturale, perché nessuno di loro aveva mai sentito suonare l'allarme generale! Era suonato soltanto due volte, diciotto anni fa, quando era inverno e gli archeolupi erano usciti in massa dalla foresta e prima ancora, al tempo della guerra con Babilonia, quando le navi Magillu avevano oscurato il cielo. «Cosa diavolo è?!» gridò Kam. «L'allarme... l'allarme!» farfugliò Albriecht,. Invece Lin fissava ancora il buio, seria, e poi si girò verso Dub, d'un tratto animata, ed esclamò: «Dub, Dub! Dobbiamo andare via da qui!» «Cosa? Che dici?» fece quello. «La foresta è molto arrabbiata...!» rispose quella «Vuole vendicarsi di tutte le cose a due gambe! Se rimanete qui, morirete tutti!» I ragazzi la fissarono costernati, non riuscendo assolutamente a capire cosa diamine volesse dire. Allora Lin afferrò per una mano Dub, ed esclamò: «Andiamo via! Dub ha il cuore buono, non è come gli altri con due gambe! Ma lui non sa distinguere tra uomini buoni e uomini cattivi!» «Lui... chi?» fece Dub. «Il Dio che abita la foresta!» rispose Lin, prendendo a tirarlo, ma con scarsi risultati, visto la sua forza da ragazzina. «Cosa? Il “Dio cornuto”? Che dici, bambinetta?!» sbottò Albriecht, recuperando parte della sua prontezza «Sono solo storielle per i mocciosi!»
«E allora sarai tu un moccioso!» esclamò Lin «Vedrai quando gli alberi verranno, se non dico la verità!» «Verrà prima Ligelmo, con tutta questa confusione!» disse Kam, ma non aveva finito di parlare che Diavolo emise un ululato terribile e si udì un fracasso spaventoso provenire dalla miniera. Tutti i ragazzi si sporsero a guardare dalle finestre e videro gli alti piloni su cui erano montati i fari, che spuntavano da dietro il colle, ondeggiare come percossi da un uragano. E poi sagome nere che lambivano le costole dei piloni, come spruzzare di acque turbinose. I piloni si inclinarono paurosamente e crollarono al suolo, facendo cadere un buio fittissimo, nel quale si protrasse ancora per qualche istante il suono dell'allarme, prima di risuonare distorto e lamentoso e spegnersi di colpo. E nuovi schianti, boati e grida umane, che venivano come le trombe del giudizio nell'aria nera. I ragazzi rimasero ammutoliti, e solo dopo alcuni istanti un grido soffocato venne dal fondo del gruppetto: «Do-dobbiamo scappare!» Era stato Gulfo a singhiozzare e come se fosse stata suonata una tromba, i ragazzi esplosero. Cominciarono a gridare, a correre, in pigiama e senza scarpe com'erano, fuori dallo stanzone e giù per le scale. Dub sentì padron Ligelmo gridare in mezzo alla confusione, ma non capì che cosa avesse detto. Lui stesso non sapeva che cosa faceva, ma si trovò la piccola grassoccia mano di Lin nella sua e si fermò proprio dov'era. «Se scappiamo adesso... andremo incontro alla foresta!» esclamò Lin «E' troppo tardi! Corriamo sul tetto, forse saremo abbastanza in alto!» Quando una Dunediana impazzisce si corre il serio rischio di rimanere schiantati, o che la miniera venga abbattuta, e chi non ha sangue freddo non può lavorare a contatto con un mostro simile. Dub riprese il controllo di sé e disse: «Il tetto! Kam, dobbiamo correre sul...!» «Ti ho sentito!» gridò Kam, che era a pochi i da lui «Ma quegli altri scemi stanno scappando già giù per le scale!» C'era poco che Dub potesse fare per fermarli e già i suoi piedi si stavano dirigendo fuori della stanza, quando si accorse che non tutti erano scappati fuori. Medwin era ancora in piedi vicino al suo letto, con una strana espressione sul visto, e c'era un fagotto vicino alla porta. Era Gulfo, che era quasi stato calpestato dagli altri, resi folli dalla paura.
«Kam! Medwin!» disse Dub, accosciandosi vicino a Gulfo, che non sembrava nelle migliori condizioni. Aveva tutta la faccia pesta e gli occhi gonfi, come due pagnotte. «Medwin!» gridò Kam, scuotendolo per le spalle «Muoviti!» Ma quello continuò a fissare il vuoto e ripetere: «La strega! La strega è arrivata! Moriremo tutti!» «Moriremo di certo, se rimaniamo ancora qui!» gridò Kam, trascinandolo via a forza. Il rombo di tuono divenne insopportabile e come l'onda che sta per abbattersi faceva rombare l'aria sopra la casa dormitorio. «Dub!» gridò Kam, e Dub era già in moto, con una mano teneva Lin, con l'altra trascinava il peso morto di Gulfo. Lin non aveva bisogno di essere guidata: mollò la sua mano e come uno spirito di fuoco corse su per le scale, scontrandosi con padron Ligelmo, in vestaglia e mutandoni, gli occhiali che gli cadevano dal naso e gli occhi come quelli di un pazzo. «Tu!» gridò «Cosa... cosa diavolo sei?!» «Viaaa!!» gridò Lin, balzando in aria con un'agilità inumana e usando la testa del padrone del dormitorio come un trampolino saltò in maniera prodigiosa dall'altra parte. Tramortito, padron Ligelmo cadde in avanti come un sacco, giù per le scale. «Lo dicevo che un giorno qualcuno lo avrebbe fatto volare!» esclamò Kam. «Non è il momento questo!» gridò Dub, con il respiro affannoso, perché in pratica portava Gulfo sulla schiena «Presto! Presto!» gridò Lin dalla cima delle scale. Le scale al secondo piano facevano un'altra rampa, per fermarsi contro il soffitto, o meglio, contro la botola di cui solo Ligelmo possedeva le chiavi. «Ci servono le chiavi!» gridò Dub. «Chiavi! E cosa sono?» rispose Lin.
«Le chiavi sono...! Accidenti, servono per aprire quel lucchetto!» esclamò Dub, mentre si aspettava di vedere squarci esplodere tutt'intorno e di crollare nel vuoto lui, Gulfo e tutto il resto. «Lucchetto!» esclamò allegramente Lin e corse fino al corpo lucido sulla serratura della botola e lo toccò e quasi a Dub cadde la mascella per lo stupore: il lucchetto un attimo prima era nuovo, un secondo dopo era rugginoso e invecchiava a vista d'occhio; di colpo si spaccò nel mezzo, come se fosse vecchio di secoli! «Così va bene, Dub?» chiese Lin e Dub non perse tempo a risponderle. Diede mano alla serratura della botola e la spalancò. Il consueto odore di chiuso e di cose morte della soffitta lo travolse, e lui lo conosceva troppo bene. Perché quello era il luogo dove i “ragazzi cattivi” venivano chiusi senza mangiare, anche per giorni, in punizione, da padron Ligelmo. Dub balzò dentro con Gulfo, seguito da Lin e Kam che trascinava ancora Medwin. C'era una scaletta a pioli che saliva sul tetto e Dub la intercettò subito. «Lin!» disse «Spingi da sotto questo mezzo manzo di Gulfo! Altrimenti non riesco a tirarlo su da solo!» Lin si mise obbediente da sotto a spingere per quanto poteva il semi-incosciente Gulfo. «Forza forza forza!» gridò Kam e in qualche modo riuscirono tutti a raggiungere l'abbaino sul tetto. E furono in piedi sulle vecchie e sconnesse tegole del tetto, a fissare la scena di assoluta apocalisse che si parò loro dinnanzi. Proprio sull'orlo della collinetta su cui era stata costruita la casa dormitorio ondeggiava la cresta irregolare del mare; per un attimo, nel buio che rendeva tutto uguale, si chiesero se non stessero sognando, se non fossero stati sul serio trasportati lungo le coste lontane, dove rumoreggia l'oceano. Ma poi quell'“onda” superò in un balzo con un mugghiare sonoro la cresta e videro che non erano onde, non era acqua. Era un maëlstrom di una sostanza nera, come la pece, un'alluvione di una multiforme massa di pulsante materia che non aveva nome. E la foresta, la foresta stessa era trascinata insieme ad essa, come turbinanti rami, radici, tronchi e fronde, un nido di serpenti di legno, una corrente dilavante di alberi viventi!
Il maremoto sollevò la sua mano gigantesca incontro ai piccoli uomini che le correvano incontro come mosche impazzite e in un ruggito disumano si precipitò sulla casa dormitorio, che era la cosa più alta in tutta la miniera. Dub si gettò d'istinto sopra a Lin chiudendo gli occhi e l'urto spaventoso investì la casa. Per un attimo sembrò che dovesse abbatterla e trascinarla via come un relitto sconquassato e legno e foglia gli sferzarono il volto come una tempesta. Ma quando riaprì gli occhi vide che l' “ondata” si era arrestata proprio venti centimetri sotto il tetto, in una frustrata contorsione di “flutti”. Alcuni rametti si arrampicarono come dita adunche fin sull'orlo, ma la “foresta” non aveva più la forza di andare oltre e la marea si arrestò il quel punto. Dub ricadde indietro, con le gambe di gelatina e sentì dire a Kam, come se parlasse da un altro universo: «E'... è incredibile! Io non... non ho mai visto niente di...!» «E'... è finita?» udì la propria voce Dub, ma anche quella sembrava appartenere a qualcun altro. «No!» esclamò Lin, fissando con una certa preoccupazione i rametti che ancora si contorcevano «La foresta non può procedere più di così, ma il Dio è ancora pieno di furia! Non lo sentite?!» Dub non sentiva proprio nulla, a parte il fragore di marosi, ma forse non era con le orecchie che doveva sentire. Fissò lo sguardo giù, alla massa contorta di alberi che si agitavano sul limite del tetto, e si accorse di che cosa volesse dire Lin. La foresta emanava ella stessa un odio profondo, verso tutto ciò che ha due gambe e taglia e spezza, contro gli uomini che vengono a rubare le bestie per incatenarle nelle grotte, che scavano nella terra per depredarne i tesori. Dub si sentì schiacciato e si sentiva come se gli alberi fossero in procinto di afferrarlo con i loro rami, e di spezzargli le ossa. «E come... dove possiamo scappare?!» esclamò Dub «Siamo circondati da ogni lato da... dalla “foresta”!» Lin fece una faccia molto seria; e infine disse: «Un modo ci sarebbe...!» «E quale sarebbe?!» «Attraverso la foresta stessa!»
Dub la fissò costernato; «Ma è proprio quello che vogliamo evitare...!» disse. «No!» rispose Lin, rapida «Ascoltami: la marea si è fermata, ora gli alberi sono stanchi, tramortiti, non hanno la forza di colpirci! Quello che dobbiamo temere è il Dio...» e così dicendo fece un ampio gesto con la mano, indicando la massa nera di alberi e Dub non riuscì subito a capire. Ma guardando meglio dentro al fitto di rami subito il sangue gli si raggelò nelle vene. Una scura massa si agitava contro i tronchi, simile a pozze nere che in onde si rovesciano tra le rocce della spiaggia. Ma quelle pozze non erano acqua, né pece, né liquido: erano centinaia di piccoli esseri che saltavano, roteavano strisciavano e correvano... non avevano forma. Erano ali, zampe, lombrichi e nasi, gobbe e ragni con due sole gambe, scorpioni striscianti e vibrisse e antenne. Ribollivano intorno ai tronchi come spuma. «Cosa... cosa è quella... cosa?!» deglutì Dub. «E' il Dio!» esclamò Lin «O meglio, una parte...!» «Una parte?!» disse Kam. Lin annuì; «Il Dio è immenso... ricopre tutta la foresta... un essere umano... e anche un essere della foresta... non può vederlo tutto insieme!» disse, fissando con una certa apprensione la massa di parti di insetto che si agitava in basso «E questa è una delle sue manifestazioni: ma la parte “principale” del suo corpo è pesante e lenta... così lenta che ancora deve raggiungerci! Ma se lo fe... non ci sarebbe scampo per noi!» «Per “noi”?» disse Dub; ma chi era quella Lin?! Come faceva a conoscere tutte quelle... cose? L'occhio gli cadde sulla sua gamba destra, che mostrava un'evidente ecchimosi sul polpaccio, ma il suo cervello non riuscì a elaborare quell'informazione in modo sensato, preso com'era dall'incredibile scena che lo circondava. «Dobbiamo scappare!» replicò la ragazzina, appendendosi al suo braccio «Fuggiamo nella foresta, verso la montagna più alta! Il Dio ci inseguirà, ma se non riesce a raggiungerci... saremo salvi!» «Dub?» chiese Kam, fissando ora l'amico, ora la faccia pallida di Medwin. Dub rispose: «Con Gulfo e Medwin ridotti in questo stato, non andremo
lontani!» «Perché, cosa hanno?» chiese Lin. «Gulfo deve avere qualche osso rotto...» rispose Dub «... e Medwin non è mai stato a posto di salute, ma adesso...» e fissò il ragazzo, che stava accoccolato stringendosi le ginocchia contro il petto, che continuava a ripetere, con un filo di voce «... la strega, la strega, la strega!» «Siamo nella cacca!» concluse Dub. «Ma il problema è che non si possono muovere, vero?» chiese la ragazzina. Dub rispose: «Sostanzialmente, sì!» «Allora c'è una soluzione anche per questo!» balzò animata «Certo, il Dio ci sentirà a miglia di distanza, ma...» e così dicendo si gettò giù per l'abbaino. «Ma che vuole fare?!» esclamò Kam. Dub allargò le braccia; ormai tutto quello che succedeva era ampiamente fuori dalla sua capacità di controllo. E improvvisamente, sotto i suoi piedi, dalla soffitta, esplose un fracasso infernale. Come se il demonio avesse portato una giga infernale di caproni saltanti attraverso il camino, o come se una mandria di genobufali stesse devastando a cornate il dormitorio. Subito pensò che gli alberi avessero ripreso vita e stessero sfondando il dormitorio, ma si sbagliava di grosso: gli alberi fremevano, questo era certo, e la marea di “cose” di sotto, pullulavano sempre più frenetiche. Ma non erano loro la causa del fracasso. La soffitta tremò; e con un boato il tetto, proprio vicino a loro, si gonfiò, come una volta Dub aveva visto gonfiarsi un tubo delle condutture, e diventare rosso ed enorme come un melone. «A terra!» gridò, rovesciando in malo modo Kam. Il tetto esplose e in mezzo a una pioggia di schegge, coppi e detriti e volò in aria diretto come un missile una grossa e larga sagoma, che si stagliò contro la debole luna, ondeggiando come una barca trascinata dalla corrente. Solo che era sospesa in aria. E non era una barca. Era un letto, anzi no, era il letto di Ligelmo! Con i pomi in ottone, il materasso gonfio, i cuscini di raso.
E da sopra Lin agitò la mano, gridando: «Presto salite!» Dub si sporse fino alla spaccatura nel tetto e vide che proprio sotto ve n'era un'altra, che conduceva direttamente dentro la stanza di padron Ligelmo. E incrociò lo sguardo dell'uomo: padron Ligelmo si era rifugiato dentro alla sua stanza, dove i rami erano entrati come rostri di navi, ma era ancora vivo. Terrorizzato, furente, se l'era anche fatta addosso. E fissava con occhi completamente impazziti il foro nel soffitto e la sagoma del suo letto che ondeggiava per aria. «Dub!» gridò, appena vide la faccia di Dub sporgersi dall'alto. Ma non gli riuscì di dire altro. «Salite!» esclamò ancora Lin e Dub comprese che non c'era tempo da perdere; la foresta si stava agitando sempre di più e le cose-insetto stavano risalendo i rami, protendendosi verso di loro. Intendeva dire questo, Lin, quando aveva detto “il Dio ci sentirà?” Quella era magia! Lin era... una strega?! «Al diavolo!» esclamò, prendendo Gulfo per le spalle e ficcandolo a forza sul letto di Ligelmo. Kam prese Medwin come se fosse un sacco di patate vuoto e lo rovesciò a sua volta. Balzarono sul mezzo improvvisato e Lin disse: «Bene, tenetevi forte!» Dub non aveva alcun dubbio che avrebbe detto una cosa del genere: e d'altro canto, che tipo di “navigazione” avrebbe dovuto aspettarsi, da un mezzo volante del genere?! Lin afferrò con entrambe le grassocce mani la testiera del letto e con un grido degno del più incallito dei pirati dell'aria, gridò: «Avanti!» Il letto volante volò su, come una scheggia. O meglio, si fiondò in avanti con le migliori intenzioni, ma probabilmente il peso era eccessivo e la magia (qualsiasi fosse!) che lo sosteneva non fu sufficiente per portarlo in alto nel cielo. Si impennò in alto e poi puntò il “muso” verso la foresta e andò giù come un proiettile. «Aaa! Liinnn!» gridò Dub, afferrandosi con entrambe le mani alla testiera e
afferrando con le gambe l'inerte Gulfo. «Resisti!» gridò la ragazzina, non era chiaro se a Dub, o al letto o a qualche altra diavoleria (come lo spirito del vento, o il demone dell'aria che accidenti solo la Dea lo sapeva). Il letto arrivò addosso ai primi alberi, che protesero i rami come mani artigliate, ma con uno scatto supremo si risollevò e scheggiò via i rami facendo cascare trucioli negli occhi di Dub. Il letto sobbalzò in maniera terribile e prese a saettare sopra il pelo della foresta, ondeggiando paurosamente a destra e a sinistra, come un pezzo di legno sopra a una slavina. Dub non sapeva in che direzione stessero andando, era tutto sottosopra. Ma improvvisamente vide davanti a sé un rigonfiarsi della massa di alberi... forse era un dosso, o una cresta sulla quale gli alberi si erano arrampicati. Fatto sta che era come un muro di rami e loro ci stavano precipitando in mezzo! Con il vento che le sferzava i capelli rossi, che parevano una fiamma strattonata dal vento, Lin non cercò nemmeno di deviare; afferrò ancora più saldamente la testiera e affrontò il aggio terribile. Saettarono sotto un arco di rami affilati come rasoi, che fecero a pezzi i cuscini e il materasso di Ligelmo, fecero uno spin rovesciato e si ribaltarono sotto sopra con i piedi in aria e il suolo irto di spuntoni di legno che roteava sotto di loro. Ma con una manovra degna di un aviatore, di un comandante di Zeppelin, evitarono lo schianto, perdendo soltanto una gamba del letto e i cuscini di Ligelmo, che volarono sempre più piccoli, due puntini bianchi, giù nel vuoto dietro di loro. «Ce... ce l'abbiamo fatta!» uggiolò Lin e Dub, completamente confuso e stordito, non riuscì a capire per almeno qualche minuto cosa avesse da ululare tanto di gioia. Quando finalmente il suo cervello smise di agitarsi nella scatola cranica riuscì a rendersi conto di che cosa fosse successo; e sotto di lui, in planata libera e morbida, scorrevano i rami della foresta dannata nella luce falsa della luna e gli sembrò come di navigare sopra ai rottami di un mondo finito. Perché gli edifici e le case e le torri costruite dall'uomo erano tutte sommerse e rivolte come antichi misteri, come rovine coperte di foreste da millenni. Un tronco argenteo trafiggeva la casa dei “Custodi” in cima al pozzo 21; il pozzo era sommerso di alberi e la casa era stata sollevata letteralmente in aria e ora sembrava un'antica rovina elfica, un palazzo severo e dirupato costruito in cima
a un colossale albero. Le torri di trivellazione sul Dosso dei Pagani erano tutte annodate e contorte e il pozzo artesiano che stava sotto era esploso, irrorando come una cascata i pali metallici... e l'acqua scendeva giù tra le radici sollevate in aria degli alberi ed entrava attraverso le macchine rovesciate e dentro i primi piani degli edifici industriali, trasformandoli in sassi, rupi e grotte. E tutto questo non gli parve una cosa malvagia. Poi dal sotto, dal folto degli alberi, sentì un abbaiare forte. E riscuotendosi gridò: «Diavolo!» «Cosa?» fece Lin allarmata «Cosa succede?» «Non era un'imprecazione!» rispose Dub «Diavolo, il cane! Abbassati, abbassati!» «Dobbiamo stare attenti agli alberi!» esclamò Lin facendo scendere il bizzarro mezzo volante. Scesero presso un alto macigno e gli alberi si dimenarono, ma sembravano aver perso molta della loro energia. Erano lenti come morti e non fu un problema rimanere a levitare a qualche metro dal suolo. Dub saltò giù e prese a gridare: «Diavolo! Diavolo!» Kam esclamò: «Ma cosa ti importa di quella bestia?!» «Insomma, Kam! E' un bravo animale!» rispose Dub «Non vorrai lasciarlo mangiare da quella... “cosa” strisciante!» «Ma se è un tizzone sputato dall'inferno...!» fece Kam, ma ecco che dagli alberi sbucò saltando il grosso cane nero e Dub disse: «Diavolo, qui!» e Diavolo gli saltò addosso, come un carrello della miniera senza freni. Kam gridò ma Diavolo non stava divorando la faccia di Dub; lo stava leccando come si farebbe con un osso nuovo bello coperto di grasso. Con affetto, si intende! «Basta! Cane!» disse Dub e Lin esclamò: «Conosco questo cane!» Diavolo la notò e ò subito sulla difensiva, abbassando le orecchie. Ma la ragazzina saltò giù dal letto volante e atterrando leggiadra come se levitasse lo prese senza timore per la testa enorme e prese a strizzarlo.
«Ma che bel cagnolone!» Il “povero” Diavolo uggiolò, ma non aveva modo di liberarsi di quella creatura spaventosa; tanto più che scappare di nuovo nella foresta era fuori questione... Un sonoro rombo fece tremare la notte e Kam, che stava cercando di mettere Medwin e Gulfo, senza successo, in una posizione migliore sul letto di quanto fossero (ovvero un groviglio contorto), esclamò: «Finitela con quel cane! Avete sentito?!» «E' il Dio!» si riscosse Lin, ma c'era perplessità nel suo faccino. «Forza, su!» fece allora Dub, rivolto al cane, il quale fissò con vero panico il letto volante sopra di lui. «Non vorrai mica farlo salire qua, vero?!» sbottò Kam. «Non vorrai lasciarlo qui!» «Io non ci sto insieme a quel cane!» «Kam, per l'amor della Dea!» Kam si strinse nelle spalle: «Quel cane mi ha terrorizzato fin da quando sono venuto alla casa dormitorio: Ligelmo me lo aiazzava contro dicendogli che ero una bella bistecca e non so quanto ho corso inseguito da quella dannata bestia! Se Albreicht, che la sua anima l'abbia in gloria la Dea, fosse riuscito ad avvelenarlo con quei dannati bocconi...!» «Non dire così!» rispose Dub, tirando Diavolo, per portarlo su; non era chiaro se “così” si riferisse al pensiero di Albreicht, che non sapevano se fosse morto o meno (d'altronde Diavolo era sopravvissuto... è vero che si trattava di un cane, quindi più intelligente di un uomo, ma...) o alla possibile morte per avvelenamento di Diavolo «Quei bocconi non gli avrebbero fatto nulla... visto che li facevo sempre sparire!» «Tu!» ululò Kam «Sei stato tu?! Si può sapere Perché... perché riesci a fare amicizia con bestie, creature e... al diavolo! Anche con questa bambina!» «Sì?» fece Lin, chiamata in causa «Cosa vuoi dirmi?»
«Si può sapere cosa sei tu?» sbottò Kam, finalmente «Una strega?!» Lin si puntò il dito sulle labbra e pensierosa, disse: «Non so bene che cosa tu voglia dire con “strega”, però siamo sicuri di avere il tempo di stare qui a discutere di questo?» Kam si ammutolì e Dub disse: «Il Dio?! Sta arrivando?» Lin fece un'espressione seria e concentrata: «Non... non lo so! Pensavo che usare un po' di “magia” della foresta... lo avrebbe indirizzato su di noi come accendere una di quelle “lucciole fredde” nella notte...!» «Lucciole fredde?» disse Dub. «Penso si riferisca ai “fari”!» rispose scontroso Kam. «... ma invece si sta dirigendo da un'altra parte!» continuò quella imperterrita «Non capisco!» «Da un'altra parte?»; Dub si chiese che cosa potesse voler dire, ma poi ci ripensò: cosa poteva saperne lui?! Una foresta non si muove, non attacca le case e per dirla tutta i letti non volano e... e invece stava cercando di far salire quello stupido e pauroso cane su di un letto che fluttuava a un metro dal suolo! «Ho paura... che stia per succedere qualcosa di grave!» disse Lin, preoccupata. «Peggio... di tutto questo?!» sbottò Kam, allargando la mano intorno. Dub disse: «Non lo scopriremo restando qui... e questo “qui” è pericoloso...» aggiunse, notando che i rami per quanto lenti si stavano stringendo intorno «... afferra questo animale, Kam, e andiamo via!» Kam divenne livido; afferrò da sopra per la testa il cane che lo guardò con occhi idrofobi e lo tirò su. «Al diavolo!» imprecò, tremando come una foglia. «Hai proprio paura di questo cane!» osservò Lin, saltando di nuovo al suo posto di comando.
«Al diavolo anche tu!» imprecò di nuovo Kam. Quel letto cominciava ad essere veramente affollato; Medwin, semi-incosciente e Gulfo, incosciente del tutto, stavano sul fondo, pallidi come morti, ma ancora più pallido di loro era Kam, sopra il quale si era abbarbicato Diavolo, terrorizzato come può essere un grosso cane feroce nero piazzato sopra uno sconclusionato aggeggio volante. Dub li guardò tutti e commentò: «Non andremo molto lontano in questo modo!» «Ci basta che arrivi l'alba...» disse Lin «... anche se...!» «Anche se?» «Nulla!» scosse vigorosamente la testa la ragazzina «Andiamo, su!» Il letto di Ligelmo prese quota, ma quando furono sopra agli alberi sentirono come un tuono e Dub si voltò verso ovest, verso il cuore nello della foresta che era risalita fin sotto alle montagne tetre. E vide levarsi in volo stormi di uccelli e tutta la massa (indistinta per il buio) degli alberi agitarsi come sconvolta dal aggio di qualcosa di immenso. Tre gigantesche sagome si sollevarono di sopra e Dub avrebbe giurato che fossero...! «Dunediane!» esclamò. «E' il Dio!» esclamò Lin «Ma...!» Non riuscì a dire altro perché vi fu un lampo e un fiore di fuoco esplose nel centro nero dove volteggiavano uccelli e mostri. La detonazione sollevò il fuoco in alto in un fragore micidiale e intere sezioni di alberi e roccia vennero schizzate in aria. Una dunediana venne colpita in pieno dalla fiammata e crollò verso la foresta come una corazzata incendiata, tra urla e ruggiti di dolore e di morte. «Ma che...!» fece Dub e guardò a est. Sul crinale che diveniva pallido, perché l'alba stava arrampicandosi sulle alte cime, scorse una fila di sagome nere. Un tuono, un altro cannone aveva sparato! Una mitraglia di esplosioni fece detonare la foresta e Lin gridò: «Sono gli umani! Con le loro macchine di fuoco! No, faranno arrabbiare il Dio! Distruggerà tutto... e la foresta, la foresta verrà bruciata!»
La ragazzina aveva gli occhi del colore della morte e copiose lacrime le riempirono gli occhi, allo spettacolo orrendo della foresta che bruciava. E Dub avrebbe potuto pensare lo stesso, quando gli umani erano stati spazzati via dalla furia della foresta. Erano esseri viventi tanto quanto gli alberi, eppure gli uni e gli altri si stavano facendo a pezzi con invincibile trasporto, come se non vi fosse altra legge nell'universo, se non lo sterminio reciproco. E allora disse: «Lin! Portaci alla colonna dei militari!» «Cosa!?» esclamò Kam «Cosa vuoi fare?!» «Lin!» Lin lo fissò intensamente e poi girò a tutta dritta verso il crinale invaso di soldati. Traarono la notte come un frammento di nebbia o di sogno, lanciandosi sugli scintillanti carri armati e cannoni. I soldati li videro arrivare e gridarono, ma non capirono le loro urla. Certo dovevano essere stupefatti quanto loro! «Ci spareranno addosso!» gridò Kam, ma Dub esclamò: «Laggiù...! Ehi, Astolf!» gridò e un uomo che stava in piedi sulla torretta del primo carro armato alzò un braccio e cominciò a berciare contro i suoi soldati, che avevano già imbracciato il fucile ed erano indecisi se abbattere il letto di Ligelmo oppure no. «Dub! Dub!» gridò Astolf, quando il letto si abbassò alla sua altezza e poterono quasi vedersi in faccia «Che diavolo ci fai su questo... accidenti di letto?! Ti pensavo morto, come tutti gli altri! Ma che stregoneria è questa!» «Tutti morti? Sono morti tutti alla miniera?» esclamò Dub, con un tuffo al cuore. Astolf disse: «In realtà... la guardia suonò l'allarme ed erano quasi tutti svegli quando arrivò l'ondata... più di metà della gente è riuscita a trarsi in salvo, ma... io ero ancora lontano quando...!» Ma non finì la frase che Lin gli balzò addosso e mitragliandolo di pugni sulla faccia gridò: «Maledetto, smettila di dare fuoco alla foresta!» Astolf era naturalmente molto più grosso di lei e l'afferro con entrambe le braccia, tenendola sollevata in aria. «E chi è questo demonio?!» esclamò il soldato, ma quella gridò con quanto fiato aveva in corpo e dalla canna del cannone del carro-armato vicino che stava per sparare venne un rumore sordo. E
invece del missile scoppiò fuori un cespo di fiori e di rami. I soldati lo fissarono sbalorditi e di colpo si aprì il portellone e i piloti al suo interno scapparono fuori, inseguiti da rami e pruni dagli aculei velenosi che crescevano come serpenti furenti. «Una strega!» gridò Astolf. «A-aspetta!» gridò Dub. Ma il soldato tenne bene stretta la ragazzina e gridò ai suoi: «Portatemi una corda...! atemi la pistola! Muovetevi!» Dub balzò giù e si attaccò alle gambe di Astolf come una furia. «Che diavolo fai ragazzo?!» gridò il capitano. «Non è lei il nostro nemico!» urlò Dub. Ma in risposta al grido e al pianto di Lin venne un ruggito, giù dalla foresta. La notte percorsa di fuoco di incendio si squarciò di una vermiglia luce fluorescente. E il ruggito si ripeté: qualcosa di enorme prese a sconvolgere la foresta. «Ma che...!» fece Astolf. E il Dio della foresta, colui che sulla blasfema “pietra dei marinai” viene appellato con il nome di Cernonos, eruppe dalla foresta. Era più grande di una torre di trivellazione ed era come un orso, se si può parlare ancora di “orso” per una creatura grossa come una montagna. Ed era continuamente mutevole, come se fosse fatto di sogno e nebbia, non di carne. Tripudiavano ai suoi piedi ondate infinite di cose-insetto, tanto che sembrava trasportato come un legno sulle onde del mare nero dell'inferno. E non vi era testa in mezzo alle spalle massicce, nel mezzo del corpo percorso da serpenti trasparenti di fumo, rossi come il fuoco, ma una massa sconvolgente di nodosi tentacoli, o meglio di braccia snodate lunghissime, che percorrevano tutto il cielo e la foresta con mani mostruose, tastando ciecamente l'aria. I soldati urlarono, Kam svenne, Dub divenne del colore dell'erba appena tagliata e Lin gridò: «Padre, no! Non venire qui!»
Dub si bloccò, mollò Astolf e farfugliò: «Padre?!» Ma Astolf si riprese appena in tempo; prese un respiro profondo come il Pozzo del Serpente del Vuoto e gridò alla massa di soldati che già scappavano in tutte le direzioni. «Dove diamine state scappando, codardi?! Fuco! Fuoco! Abbattete quella cosa!» I soldati tornarono ai loro posti, come sferzati da un nerbo schioccante, ma Dub gridò: «Aspetta! Non puoi, sparare a quella cosa! Ci verrà addosso!» Astolf gridò: «Sciocco! Non possiamo muoverci di qui!» e così dicendo gli indicò dietro la fila di carri e l'orlo della cresta, dietro cui Dub vide cose colorate muoversi... la faccia di mastro Giric, gli scialli delle donne del paese sotto la miniera... tutta la gente della miniera che si fissava con sguardi terrorizzati in quelle grida e ruggiti, per fortuna, incapace di poter vedere al di là della cresta la mostruosità che si stava avvicinando «Non siamo riusciti ad andare più lontano!» esclamò Astolf «E tutta la gente non ha voluto allontanarsi dalla nostra colonna di soldati, anche se abbiamo provato a spingerli persino con i camion!» Un soldato afferrò da dietro Dub e lo strappò dalle ginocchia di Astolf. «Ragazzo, indietro!» gridò. «Lasciatemi!» gridò Dub, ma contro tre uomini adulti, non c'era nulla che potesse fare. «E tu, piccola strega!» ruggì Astolf, mentre un soldato impugnava una pistola. Lin si mise a piangere ancora più forte e la pistola del soldato si sbriciolò in ruggine e nocciole, facendo gridare l'uomo di paura. «Maledetta!» gridò Astolf, che pareva pensare di lanciare la bambina giù dal carroarmato, contro le pietre, ma a quel punto Dub gridò: «Diavolo! Attacca!» Diavolo non se lo fece ripetere, perché quando era ancora un cucciolo era stato preso sonoramente a calci dai soldati e per lui tutti quelli che odoravano di polvere da sparo erano uguali. Ed era sempre Dub che gli portava bocconi buoni dietro la casa-dormitorio, togliendoseli dalla propria bocca. Balzò contro Astolf che gridò e fu rovesciato. Lin cadde, ma nella confusione Dub riuscì a liberarsi della stretta dei soldati e l'afferrò al volo.
Cinque lampi saettarono nella notte, riempiendo di fumo la cresta e assordandoli; cinque proiettili volarono rapidi contro il Dio e uno trafisse a metà una delle braccia, troncandola! Il braccio staccato cadde con un fragore orrendo sulla foresta e dove era caduto gli alberi si imputridirono e disfecero in un istante. Gli altri quattro traarono il suo corpo titanico, ma quando furono dentro alla massa scura sembrarono rallentare, come se fossero precipitati nella gelatina. Le spire di colore rosso si attorcigliarono intorno ai proiettili, ma questi esplosero d'improvviso. Il corpo del Dio venne squarciato dall'interno in più punti, e la creatura quasi cadde sulle “zampe” anteriori. Ma subito si riscosse e divenendo tutto rosso lanciò un ruggito (da quale bocca?) spaventoso. «Dub! Dub!» gridò Lin, attaccandosi al suo collo «Uccideranno mio padre!» «Tuo padre ucciderà prima noi!» esclamò Dub «Non credo che le cannonate riescano a fermarlo... a meno che...!» un subitaneo pensiero gli percorse la mente «Aspetta! Forse possiamo allontanarlo da qui!» «Allontanarlo?!» «Non so come tu possa essere sua figlia...!» esclamò «Ma se gli voliamo vicino... forse riuscirà a sentirti! O almeno possiamo distrarlo e farlo allontanare dai cannoni!» «Ma è furente! Non ci ascolterà!» pianse Lin. «Dobbiamo provarci, oppure o noi lo facciamo esplodere a cannonate... o lui ci spazzerà via tutti!» Lin allora disse: «Che umano sciocco! Ma va bene, Dub! Proviamoci!» «Dub!» gridò Astolf, con Diavolo saldamente ammorsato al suo braccio «Che diavolo stai combinando!?» «Cerco di salvarci la pelle!» gridò Dub e disse a Lin: «Andiamo!» Balzarono sul letto, e Dub, vista la situazione disperata, prese a sberle Kam e svegliatolo, disse: «Trascina giù Medwin e Gulfo!» Kam non capiva nulla, ma eseguì meccanicamente, trascinando giù i due.
«Fermi!» gridò Astolf, cercando di raggiungere la pistola. «Lin, viaaaa!!!» gridò Dub e il letto di Ligelmo, finalmente leggero, volò in alto come una freccia. Le grida degli uomini si allontanarono là sotto, ma Dub si rese conto subito della sciocchezza madornale che aveva compiuto. Davanti a lui giganteggiava l'incubo più grosso e spaventoso che avesse mai potuto immaginare, anzi, peggiore di qualsiasi suo incubo. Ma mettendo una mano sulla spalla di Lin, disse: «Vai, vagli vicino!» Lin disse: «Dub! Potrebbe stritolarci!» «Non ci sentirà altrimenti!» «Sei uno sciocco! Perché sei venuto anche tu, con me!? E' la mia voce che deve sentire!» Dub pensò “che imbecille, ha ragione lei!”. Ma poi disse: «E dovevo lasciare una ragazzina andare sola?! E se non ti sente... vedrà me, se ha gli occhi! Vedere un umano così vicino lo farà infuriare, ci inseguirà di sicuro!» Lin gli sorrise: «Sei coraggioso, Dub!» «No, solo un'idiota!» Ed era incredibilmente vero, quando la più vicina mega-mano calò su di loro, con la furia di un titano delle tempeste. Lin deviò il letto che fendette l'aria come un coltello (un coltello ben strano!) ed evitò per un soffio le dita spaventose. Ma non il risucchio d'aria che li fece scuotere e ricadere in un vorticante mulinello. Lin tenne duro e virò verso sinistra. Le braccia roteavano come turbine intorno a loro, ma la sua prodezza di “pilota” la fece saettare attraverso la mulinante morte che li avvolgeva da ogni lato. E improvvisamente furono sopra la “testa” del Dio. «Padre! Ascoltami!» gridò Lin, con quanto fiato aveva in gola «Torna indietro, i cannoni degli uomini ti uccideranno!» Ma il Dio o non aveva orecchi, o era totalmente assorbito dalla sua furia, e continuò ad avanzare, distruggendo egli stesso la foresta mentre avanzava.
«Non mi ascolta!» gridò Lin. «Ehi, Dio della foresta!» gridò allora Dub, sporgendosi pericolosamente dal letto «Mi vedi?! Sono un umano! Vieni a mangiarmi, se ci riesci!!» E di colpo il colosso si fermò e parve riconoscere l'umano. E sollevò le braccia spaventose e come serpenti saettati piombarono su di loro. «Lin, via di qui!» gridò Dub. Lin fece volare via il letto a velocità supersonica, che quasi strappò la carne dalla faccia di Dub. Ma le braccia erano animate da una violenta volontà di morte e con primordiale, tempestosa furia si scatenarono su di loro. Era impossibile evitarle, ma Lin volò come il fulmine che serpeggia dentro al cielo. Un colpo di striscio fece saltare le gambe, un altro distrusse l'intelaiatura inferiore, ma Lin cercava ancora di trascinare lontano il Dio. E quello si girò e si mise a seguirli, indietro, verso il versante delle montagne. Astolf aveva finalmente sconfitto Diavolo e fissando la scena con il suo binocolo, esclamò: «Dub, ci stai riuscendo!» «Signore!» gridò un soldato «Dobbiamo fare fuoco?!» «Idiota!» gridò Astolf «Potremmo colpire Dub!» «Ma il ragazzo... vola con gli stregoni!» disse il soldato, come dire “è un pagano, un mostro” anche lui! Astolf lo rovesciò con un pugno. «Il ragazzo ha più coraggio di tutti voi messi insieme!» gridò «Non avremmo potuto fermare quel mostro a cannonate!» E intanto il mostro inseguiva Dub e Lin e il letto era ormai ridotto a un moncone attaccato alla testiera. E l'ultimo spostamento d'aria delle mulinanti braccia fece piroettare su sé stesso il mezzo volante improvvisato e Lin perse il controllo. «Lin!» gridò Dub e sotto di loro vorticarono le rocce. Con uno schianto secco il letto finì di sbriciolarsi in pezzi e Dub venne sbalzato via. Rotolò sul versante erboso e prese un sacco di legnate e botte. Ma fu subito
in piedi; dov'era finita Lin?! La vide poco più avanti, che rotolava incosciente verso il ciglio del corto prato dove erano caduti, pendente sopra a un burrone. Con uno sforzo sovraumano si lanciò in avanti e l'afferrò un attimo prima che volasse di sotto. La tirò su e si accorse che, svenuta, aveva perso parte del suo controllo sulla sua “forma”. Gli occhi erano innaturalmente “grossi” e due antenne le spuntavano in testa. Allora finalmente collegò la sua gamba ferita con la zampa della creatura che aveva aiutato ai margini della foresta. Ma non c'era molto tempo per le realizzazioni. Il Dio si stava avvicinando e le immense braccia riempivano il cielo. “Bisogna resistere fino all'alba!” aveva detto Lin. Tutto l'oriente era rosa, ma il sole non era ancora sorto dietro le montagne. E non aveva la forza di risalire il costone roccioso, non c'era tempo! Ma un'idea gli afferrò la mente come un laccio. Infatti una misteriosa “polvere” cospargeva la schiena di Lin (dove c'erano le ali, nella sua forma “normale”). Si strofinò la polvere su di un braccio e pensò: “Se questa è polvere “magica”, polvere di sogno, allora...!” E mentre il braccio si abbassava su di loro comprimendo l'aria come in un sifone gigantesco, Dub agito violentemente la propria mano e... e la sua mano prese il volo, si sollevò magicamente in aria, trascinandolo dietro con sé, quasi dislocandogli la spalla! Si portò via tutto Dub e Lin svenuta e volarono in maniera del tutto non convenzionale su oltre il braccio del Dio, che si schiantò sul prato dove erano fino a qualche istante prima. Sbattendo la mano come un goffo cormorano con un'ala sola Dub prese a “volare” a balzelloni. Balzò oltre le rocce, ma un umano non può decidere di mettersi a volare, così, dal nulla, e sperare che funzioni. Si schiantò contro un grosso masso e rimbalzò giù. Stordito, si accorse che non riusciva a muoversi. Aveva preso una botta alla schiena?! Lin si mosse (dentro il suo abbraccio) e svegliatasi di colpo lo fissò diritto negli occhi: «Dub!»
Sopra di loro si sollevarono le braccia. Il Dio stava risalendo la montagna! “E' finita!” pensò Dub, stringendo Lin a sé. Ma quella si divincolò e saltando in piedi si mise a braccia allargate e gridò: «Fermati padre! Sono io!» Ma la “mano” si abbassava sempre di più. E poi esplose l'alba. Il sudario della notte venne strappato di colpo e tutte le montagne divennero di fuoco. Dub, respirando a fatica, rimase a metà in piedi, a metà in ginocchio, completamente stupefatto: le braccia si fermarono di colpo e il Dio si arrestò, immobile. E vi fu un'incredibile mutazione nel Dio. Le braccia ondeggiarono in alto come rami sospinti dal vento e poi egli sedette, indietro, cascando con fragore sul poderoso quarto posteriore. Le braccia si alzarono al cielo e da trasparenti e gommose divennero scure come legno, e tutto il suo corpo si irrigidiva e perdeva i connotati animaleschi. Non erano più “braccia” le sue, ma rami, il suo corpo tronco, le sue zampe radici; era un albero colossale, che copriva tutto il fianco della montagna e le miniere con la sua ombra. Fiori dalle corolle purpuree e bianche e rami e foglie cominciarono a ricoprire i tronchi spogli e in un attimo verdeggiavano alla lenta brezza dell'alba. Dub guardava stupefatto, ma Lin, ferma accanto a lui, disse: «Dub, mi dispiace...!» Dub si alzò a fatica, e disse: «Di... di cosa?» «Purtroppo avrei voluto rimanere a giocare con te...» disse, con uno sguardo tristissimo «... ma all'alba tutti gli esseri della foresta devono ritornare alle loro tane...!» e le sue antenne divennero lunghe e flessuose, le ali crebbero sulla sua schiena e il volto perse la sua consistenza, divenendo simile a quello di un muso di insetto. «No! Aspetta!» esclamò Dub, abbracciandola. Non guardava se la ragazza che stringeva fosse diventata un insetto, o chissà che cosa, ma la voce di lei gli giunse lontana lontana. «Dub, io non posso!» disse. Ma un denso polline giallo e brillante cadeva su di loro, dai fiori del grande albero. Dub esclamò: «Lin! Ma che “essere della foresta”! Non vedi? Sei una ragazza umana!» e lei si scosse da Dub si accorse di non avere zampe, ma grassocce mani di bambina.
«Dub!» gridò «Guarda!» E Dub esclamò: «Lo vedo!» Lin gli saltò al collo. E da lontano Astolf e i superstiti, fissando il gigantesco albero, non sapevano capacitarsi. E mastro Giric disse: «E ora come faremo a riprenderci la miniera? La foresta è ancora tutta là!» «Ba!» esclamò Astolf «Non ci riprendiamo proprio nulla!» «Come?!» «Cosa potremmo fare?! Soltanto l'esercito può venire e bombardare tutti quegli alberi...!» esclamò «... ma che facciano pure! Faranno saltare in aria anche le miniere! E io personalmente ne ho abbastanza di alberi, mostri e cristalli di sogno!» e voltandosi ai suoi gridò: «Forza fannulloni, che avete da guardare come babbei?! Qui è pieno di gente che non può are la notte sotto i sassi! Forza, forza!» Medwin si riscosse, finalmente, e tenuto per la spalla da Kam, disse, trasognato: «La strega...! Dov'è la strega?!» Kam rispose: «Nei tuoi sogni, vecchio mio!» E Diavolo abbaiava al grande albero e all'alba che illuminava la foresta, che, sotto la luce rosa e bionda, fioriva come un antico arazzo, ridisegnato da mani primordiali.
IL GIUSTO ORDINE DELLE COSE
Scritto da Damiano Lotto Sito web: http://tomotomopoppin.blogspot.com/ Impaginazione a cura di Damiano Lotto e Giovanni Magno (Socio EBook Club Italia- www.ebci.it)
1) Il suo nome vuol dire “Piccolo”, in antico persiano.
2) “Strega”; le terribili streghe che abitano nella terra chiamata “Regni Erranti”. Esse sono più Sogni che esseri umani ed entrano in ogni mitologia degli uomini come mostri spaventosi.
3) Nella mitologia drago a tre teste della mitologia babilonese; nave leggera di classe assaltatore.
4) Simbolo del suo grado: soltanto il Sommo Reva Ksathra indossa la maschera di un giovinetto, mentre tutti gli altri sacerdoti, dai Tredici Sommi in giù, portano maschere che rappresentano le età più mature dell'uomo.
5) Non ci sono finestre nei sovraffollati formicai-dormitorio babilonesi; qualche fortunato può vantare dei piccoli oblò sporchi che danno su notti perenni o sui profondi baratri che si aprono tra un palazzo e l'altro, come per la caserma di Sendo e Hairy.
6) Antica forma poetica persiana.
8)
Babilonia è costruita su 5 livelli; i più profondi, che ne sono le fondamenta, sono chiamati ''Pozzi''.
9) Una diversa etnia di uomini che soggiace agli uomini dalla pelle più chiara che domina Babilonia, discriminati per il loro credo religioso.
10) Sendo si riferisce ovviamente a una nave volante, visto che non vi sono fiumi navigabili a Ur e il mare è molto lontano. D'altronde i Pirati dei Cieli sono uno dei flagelli più pestiferi dei cieli babilonesi, come del resto del mondo. Assaltano le navi mercantili e a volte neppure i cannoni di una Magillu riescono a scacciarli.
11) Una precisazione: i Saimat non sono in realtà molto più scuri degli altri abitanti di Babilonia; sono anch'essi della stessa razza semitica, ma la gente più civile ne denigra la pelle più scura, fino a chiamarla “nera”.
12) A Balmung avere gli occhi e i capelli scuri è considerato un brutto segno distintivo, rivelatore di un carattere cupo e malvagio.