Angela Giulietti
La voce delle cose
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Indice dei contenuti
Prefazione Capitolo 1 Capitolo 2 Capitolo 3 Capitolo 4 Capitolo 5 Capitolo 6 Capitolo 7 Capitolo 8 Capitolo 9 Capitolo 10 Capitolo 11 Capitolo 12 Capitolo 13 Capitolo 14
Prefazione
Amo gli oggetti. A volte, ho la sensazione che mi guardino, che interagiscano con me. A ogni oggetto è legato un periodo della mia vita. E, impegnata a viverla, spesso di corsa, non mi sono mai fermata a pensare a come stava cambiando. Non solo per me, per tutti. Cose che io utilizzavo, all'improvviso sono diventate "modernariato". Altre non si trovano più. Tutto il panorama intorno è diverso. Diverse le fermate degli autobus, diversi gli attrezzi per pulire la casa, sono cambiati i carrelli dei supermercati...vorrei aver scattato più foto, per poter ritrovare, adesso, un' Italia che non c'è più dentro alle scatole di fotografie divise per decennio. C'è, però, la memoria. Quella che ti trasporta indietro, restituendo alla tua mente le sensazioni che provavi. Allora, ti sembra di poter toccare quegli oggetti che hai perso, o che si sono rotti, o che, semplicemente, sono stati fagocitati dal caos dei tanti traslochi. Ti rivedi in un limbo che è sospeso tra la consapevolezza dell'illusorio e il desiderio di rivivere, anche solo per un attimo, quei momenti. Questo libro è una piccola autobiografia di me attraverso le cose. Ma è anche un racconto di come è cambiato il paese, nelle abitudini e nello stile di vita. E' il racconto di un'Italia che si stava affacciando all'era moderna, alla comunicazione di massa, e dei tanti progressi che ha compiuto. Adesso ho alcune cose attorno a me che probabilmente tra 20 anni non esisteranno più. Chi ha vissuto il periodo tra gli anni '70 e l'epoca attuale, avverte dentro di sé questa consapevolezza. Il mondo cambia. E ti porta a provare nostalgia.Mi commuovo sempre quando vedo, ad esempio, una vecchia auto, che arranca perché non vuole mollare, circondata da vetture più moderne e scattanti, super accessoriate. E non riesco a restare indifferente quando mi trovo davanti un disco di vinile, che mi fa tornare in mente il suo suono un po' frusciante, che ogni tanto si "incantava". La memoria ti fa associare ogni cosa a una situazione, a una persona o a uno stato d'animo. Per questo, mi piace ascoltare la voce delle cose. Le lascio parlare,
e tutto è come allora. E' una dolce nostalgia, un insieme di emozioni, è un tuffo nei ricordi che sono rimasti, perché tanti si sono persi. Una voce discreta e leggera, che racconta un'infinità di storie.
Capitolo 1
Aggrappata a un filo rosso
Avevo una gran fantasia, anche con le cose. A malapena parlavo, però decisi che il seggiolone non si doveva chiamare seggiolone ma "pitello". E pitello fu. Il disegno, invece, secondo me era il "nitrio". L'oggetto più antico che mi sia mai appartenuto è un quadernetto, con una copertina in plastica rossa, dove mia madre scriveva giorno per giorno i miei progressi, fin dal momento della mia nascita. Lo conservo gelosamente, è parte di me. E' da lì che ho scoperto di essere sempre stata molto precoce in tutto, e dotata di una fantasia assai fervida. Altro discorso era imporre la fantasia e minacciare i coetanei con la frase: "Se non credi in Peter Pan lui viene e ti spacca le ossa" Sì, non ne vado fiera ma io e mia sorella Roberta abbiamo fatto anche questo! E poi c'erano i due album fotografici. In uno erano conservate le foto del matrimonio dei miei genitori, nell'altro inserivamo le fotografie autografate dei cantanti lirici, che mi trovavano tanto deliziosa: una bimbetta che ancora non andava a scuola, ma che conosceva tutte le arie più famose a memoria... I televisori erano ancora in bianco e nero, per noi lo restarono a lungo. Anche dopo l'avvento del colore, quando tutte le famiglie avevano un tv color, mio padre rimase fedele al vecchio apparecchio situato in sala da pranzo. Che bisogno c'era di cambiarlo? I programmi si vedevano lo stesso! Non era una questione di soldi, eravamo benestanti, era proprio un principio! Il salotto era proibito a noi bambine, e ci potevamo entrare solo in compagnia dei genitori. Con le mani ben lavate, prendevamo posto sul divano, stando attente a non spiegazzare i centrini che proteggevano i braccioli. Il divano era in
velluto verde, abbinato a due poltrone dello stesso colore. A lato della stanza c'era un mobile pregiato, con cassetti e scomparti a cielo aperto, che babbo aveva fatto fare su misura. Lì conservava i suoi piccoli tesori. libri, dischi, oggetti fragili...e ovviamente per noi era territorio invalicabile! Ma il mio vero "paradiso" era la stanza degli ospiti, dove babbo teneva gli oggetti di cancelleria portati a casa dalla banca. Aprivo, e subito davanti agli occhi mi apparivano gomme bicolori, penne, matite, appuntalapis, risme di fogli e graffette di ogni misura...ero come un goloso in pasticceria, li avrei presi tutti! I giochi con cui ci dilettavamo noi bambini degli anni '70 erano piuttosto semplici. Io e Roberta andavamo a giocare in mansarda, per evitare di mettere in disordine la nostra camera. E qui avevamo una vecchia scatola di legno,che conservo ancora, nella quale stipavamo gli animaletti di plastica della fattoria. Poi li tiravamo fuori e creavamo storie dal nulla. Il più delle volte scoppiava un incendio nel granaio o arrivava un terremoto, quelle povere bestie non stavano mai tranquille! Avevamo anche un mangiadischi portatile, nel quale ascoltavamo le canzoni dello Zecchino d'oro. E poi c'era un bambin Gesù in una scatola, che se la aprivi si muoveva seguendo le note di una canzoncina. Un bellissimo oggetto lavorato a mano, uno dei tanti che vorrei aver portato via. Certe cose mi mancano davvero tanto! Possedevo anche tanti pelouche, ma il primo fu Romeo, un cockerino nero, che è ancora in camera mia. Però il mio vero amore era il pupazzo di Baloo de "Il libro della giungla", non lo mollavo un secondo, era così consumato che perdeva i pezzi ma per me era insostituibile. Niente celllulare, niente computer, e fino alle medie fu vietato anche il telefono di casa. Come comunicavamo con gli amici? Semplice, andavamo a chiamarli a casa! Vivevo in un quartiere residenziale tranquillo di Siena, dove tutti ci conoscevamo, così ci si trovava per fare annegare le Barbie, anche se io non disdegnavo una partita a calcio con i maschietti... I miei genitori non erano particolarmente bravi a scattare foto, ma io adoravo mettermi in posa. Spesso venivo inquadrata di lato, con uno spazio enorme in mezzo. Era il piccolo dramma delle fotografie senza "preview": tu scattavi, e ti affidavi alla sorte per avere un ricordo decente invece che l'immagine di una
bambina con mezza faccia e il cielo e gli alberi che occupavano quasi tutta la carta! Le penne con cui scrivevo erano le classiche "bic", ce n'era una a quattro colori, se premevi una levetta potevi scrivere in verde, o rosso, per me era uno so. Con la stilografica, invece, avevo seri problemi, essendo mancina, perchè sporcavo tutto il foglio e avevi voglia a metterci la carta assorbente! A quei tempi era d'obbligo indossare il grembiule a scuola. Io ogni anno partivo tutta entusiasta per il grembiulino nuovo, ma poi mi stancavo quasi subito. Già alle elementari detestavo tutto ciò che mi faceva sembrare uguale alle altre! La festa, quella vera, era per il nuovo diario, per l'astuccio e per i quaderni. C'era anche l'usanza del "diario dei ricordi", quello che ora potrebbe essere facebook o un blog. Lo portavi a scuola e ognuno dei tuoi compagni ci scriveva un pensiero e ci faceva un disegnino. Il primo della classe che lo completava era considerato un gran figo! Io naturalmente avevo anche il mio diario personale, chiuso con un lucchetto affinché i miei genitori non potessero sapere i miei tanti segreti, come: "Mi sa che mi piace un bambino" "Oggi a scuola sono stata cattiva" "Non mi va di andare a catechismo" Aveva le pagine di vari colori, senza righe, perciò le mie scritte tendevano ad andare verso il basso, per poi risollevarsi all'improvviso come un aereo che sta precipitando e alza il muso. Non so se fossi una bambina asociale, ma di fatto se andavo a casa di un'amichetta a malapena guardavo in faccia i suoi genitori, ma facevo caso a com'era arredata la sua stanza e a quali oggetti possedeva. A dire il vero, la tendenza mi è rimasta, a volte non riconosco persone con cui ho parlato da poco, ma so esattamente dove si trovava un letto e quale copriletto aveva su! Però, interagivo con la Cina, o almeno questo credevo. Una listella del parquet si era sollevata, così io e Roberta ci infilammo sotto un filo rosso ed eravamo sicurissime che quel filo creasse un collegamento con Pechino. Ci avamo le ore, chiedendo ai bambini cinesi con che cosa stessero giocando o cosa avessero
mangiato per merenda! Quel filo rosso rimase lì per anni. Quando mia madre ava l'aspirapolvere, noi le urlavamo di stare attenta, o ci avrebbe separate per sempre dai nostri amici immaginari. E lei ci assecondava. Ma né mamma né babbo assecondarono mai il nostro desiderio di avere un cane. Avevamo il micio Leporello, che era stupendo, io però avrei voluto anche un cane. Così, iniziammo a raccontare a tutte le compagne che ce lo avevamo. Quando venivano a casa mostravamo loro da lontano un pelouche che secondo noi poteva sembrare vero, e se si azzardavano a dire che non era un cane in carne e ossa, la nostra risposta era: "Non capisci nulla" Tra gli oggetti cui tenevo di più c'erano i libri. La mia prima cultura me la feci sui "Quindici", un'enciclopedia per ragazzi che trattava vari argomenti, con le coste tutte colorate e un design molto accattivante. E poi c'era la serie "Guarda e scopri gli animali", che suddivideva le specie per continenti. Credo che alla fine le pagine di quei libri fossero consunte, da quante volte li sfogliavo, per vedere i fennec, i puma, i koala e i tucani. I "puristi" mi odieranno, ma li scarabocchiavo, aggiungendo appunti quando leggevo qualcosa su altri libri o lo sentivo dire alla tv. Ogni cosa, nella mia cameretta o nella mansarda, parlava di un pezzo di me. Parlava di me anche il pesante posacenere di marmo in salotto, in una casa dove non si fumava. Quando ero molto piccola lo avevo fatto cadere dallo scaffale in negozio, e mia madre lo aveva dovuto comprare... Ogni volta che mi sedevo al tavolo rotondo, lui era lì, che mi fissava e mi ricordava che nei negozi si deve essere un po' più attenti e delicati. A causa di quel posacenere, ancora oggi quando vado a fare acquisti tento di rimpicciolirmi, e stringo la borsa a me per non urtare gli scaffali... Mi manca quel mio mondo magico fatto di oggetti che ora non ci sono più. Il bambin Gesù, chissà dov'è. Baloo sarà stato buttato via. E qualche ragazzino, leggerà ancora i "Qundici"? Le Barbie, lo so, le ho rotte tentando di sottoporle a un trapianto di organi, ma gli animaletti della sfigatissima fattoria che fine avranno fatto? E il mio diario dalle pagine colorate? E ci sarà ancora, in qualche casa, un angolo cartoleria pieno di interessanti tesori?
Oggi, se volessi parlare con qualcuno in Cina non avrei grossi problemi. Ma il filo rosso aveva una magia tutta sua, impossibile da ritrovare. Nelle case dei fumatori, per lo più i posaceneri sono di plastica, e forse sono meno minacciosi. Li rompi e li butti tanto costano pochi euro. E nessuno di loro avrà mai un influsso sulla crescita del loro proprietario.
Capitolo 2
Anche il cibo parla
Mia mamma ci teneva che io diventassi una brava donna di casa. Così mi insegnò a fare la pasta.Io mi divertivo a creare la montagnetta di farina, a buttarci dentro l'uovo, e infine a immergere le mani in quel composto morbido. Ma al momento di dare la forma ai tortellini, lasciavo la retta via e finivo per dare loro parvenze strane. I pasti erano sempre equilibrati, di solito pastasciutta a pranzo e carne e verdure a cena. Poi c'era l'angolo della cuccagna. Anzi, ce n'erano due. Uno era la cantina, dove spiccavano in bella mostra cartoni pieni di pandorini della "Sapori" e altre dolcezze. Forse esistevano negozi meno riforniti della nostra cantina! L'altro era il mobiletto su cui poggiava il telefono. Il terzo cassetto dall'alto conteneva le "Fiesta", le "Girella" Motta e tante altre squisite merendine. Mio padre le contava prima di riempire il cassetto e guai se scopriva che ne mancava una! La nostra alimentazione doveva essere il più possibile sana, perciò bramavo quelle merendine ogni giorno. Il pasto più importante per noi bambini degli anni '70 era la prima colazione. Ogni tanto, mamma preparava lo zabaione, che dava ancora più dolcezza a quel momento. Poi caffelatte o the, biscotti, fette biscottate, marmellata... insomma,la tavola era piena e assai varia! Le caramelle "Sanagola" per me rappresentarono una vera e propria scoperta. Mi piaceva il loro gusto, la consistenza gommosa e la copertura di zucchero. Dei chewingum di quel periodo, i "Brooklin", amavo quelli alla liquirizia. Quando ero già più grandicella uscirono i "Big Babol" che erano una manna dal cielo per dietologi e dentisti, ma poi quali era possibile fare palloncini enormi, che spesso ci scoppiavano sulla faccia, e noi con la lingua a pulirci ridendo come matti!
In molte case c'era un tavolino da fumo, sul quale campeggiavano vassoi pieni di cioccolatini e caramelle. Non so per quale motivo, ma se c'erano cioccolatini c'erano anche le "Sperlari", ripiene di crema. Era quasi un abbinamento obbligatorio. Il trucco era chiedere ai genitori di andarci a prendere i quaderni o le penne, e non appena si allontanavano tuffarci sul vassoio, mangiare più dolcetti possibili e poi con le mani scompigliare i rimanenti, affinché sembrassero più numerosi. Trucco che a casa mia non sarebbe riuscito, perché di sicuro mio padre li avrebbe contati prima! Le bibite ci erano concesse in situazioni eccezionali, per esempio dopo due ore di nuoto intenso. C'erano pochi gelati tra i quali scegliere, ma io optavo sempre per il ghiacciolo alla menta. Quando andavamo a Bologna dalla nonna per le vacanze di Natale, erano d'obbligo i tortellini in brodo. E fin qui tutto bene. il problema era che poi, col brodo avanzato, nonna cucinava la carne lessa, che io detestavo. Ci metteva pure sopra la salsa verde per cammuffare il sapore, senza riuscirci. Così mandavo giù, con l'acqua, perché non si potevano fare storie. quello c'era, quello si mangiava. In casa non doveva rimanere mai nulla, in nessun caso. Come ho scritto, eravamo benestanti, ma i miei venivano dalla generazione del dopoguerra ed erano cresciuti con il senso del risparmio. Perciò, meglio una porzione scarsa che una abbondante che rischia di avanzare. Così, noi bambini crescevamo sani, non obesi, pieni di energia e senza alcun tipo di disturbo gastrointestinale. Ma quanti sguardi languidi al mobiletto delle merendine! E altrettanto accorti i nostri genitori lo erano nel non lasciarci avvicinare ai fornelli. Quando avevo due o tre anni, mamma mi aveva piazzato sulla cucina a gas l'immagine di un leone con le zampe incrociate sul petto, spiegandomi che se avessi fatto anche solo un o verso di lui avrei scatenato la sua ira. Io lo avevo chiamato "Gedeone", e lo guardavo timorosa, stando ben attenta a non farlo incazzare, mantenendomi a distanza da lui e dai fornelli. Metodo un po' "forte", ma che si rivelò efficace. Quando andavamo al cinema con tutta la famiglia, cosa che accadeva spesso in estate, al mare, potevamo deliziarci con qualche stringa di liquirizia e con i "brustolini", i semi di zucca tostati e salati. Questi andavano sgusciati, ma noi bambini tendevamo a buttarli giù interi, perciò ci minacciavano che se lo avessimo fatto avrebbero dovuto operarci d'urgenza di appendicite. Ecco, avrei
voluto poter accedere a un pc a quei tempi, per sbugiardare mia madre. Invece ci "bevevamo" tutto, e pazientemente toglievamo il seme e buttavamo via la buccia. Per l'acqua e per il vino, sulla tavola avevamo bottiglie di vetro decorate. Mio padre aveva anche aggiunto, alla base del collo di entrambe, una spugnetta a forma di elastico, che tratteneva il liquido che fosse eventualmente scivolato lungo la bottiglia e gli impedisse di giungere alla tovaglia e di bagnarla o sporcarla. L'acqua di Siena era buona, nessuno comprava la minerale, per renderla frizzante si aggiungeva l'idrolitina in busta. Il vino arrivava in fiasco, ma poi veniva subito versato nella bottiglia di vetro, pronto per finire in tavola. Quando avevamo ospiti, si aprivano le porte del salotto e veniva imbandito il tavolo tondo. Io e Roberta aprivamo i cassetti, tiravamo fuori i piatti e le posate "buoni" e davamo una mano ad apparecchiare. Ci era proibito alzarci fino alla fine del pasto; anche se i discorsi degli adulti a volte ci annoiavano ce ne stavamo lì buone, in attesa che l'azione si spostasse dal tavolo al divano, dandoci il "via" per tornare in camera nostra. Ricordo ancora i portatovaglioli di metallo intarsiati, che andavano ad abbellire i posti degli ospiti. Non erano necessari: il tovagliolo sarebbe stato lavato una volta usato, ma devo ammettere che facevano parecchia scena. E se ci penso ho ancora in mente la sensazione che dava lo stare seduti su quelle sedie rivestite di velluto. Il pasto con l'ospite doveva risultare comodo e piacevole. Io non vedevo l'ora di alzarmi da tavola, e spingevo la sedia indietro, causando l'ira funesta di mio padre. Avevamo in casa arredi costosi, che sarebbero dovuti durare per anni, e che andavano rispettati e trattati con cura. Il mio punto debole della golosità era la liquirizia, in particolare le "terracattù", caramelline minuscole che se tenute in mano lasciavano un alone color argento. Ne mangiavo a chili, non ho idea se vengano ancora vendute... quando poi iniziarono a uscire i lucidalabbra aromatizzati, scoprii che potevo avere il sapore di liquirizia fisso sulle labbra, e ne divenni una consumatrice compulsiva. Davanti alla tv non si poteva mangiare. Si rischiava di sporcare i centrini e magari anche i braccioli, e magari anche il divano. Le regole erano regole, nell'alimentazione come in tutto il resto. Noi bambini degli anni '70 obbedivamo in silenzio, rispettosi di quei centrini che a distanza di anni si mantenevano sempre bianchissimi, morbidi e luminosi. Ma come diavolo facevano le nostre
mamme?
Capitolo 3
Immagini e suoni
Il televisore era un enorme scatolone, solitamente di colore grigio chiaro oppure nero. Il nostro faceva bella mostra di sé su un mobile di legno. Negli anni '70 c'erano due canali: Rai Uno e Rai Due. Se si stava guardando un canale, a un certo punto una freccetta indicava che sull'altro stava per iniziare un programma. Eh già, perché mica c'era il telecomando! Mamma puliva lo schermo dell'anziano televisore con un panno apposito, e noi bambine dovevamo stare attente a non sporcarlo. Lui ringraziò con una fedeltà assoluta, per moltissimi anni, consentendomi di vedere i miei programmi preferiti come lo sceneggiato "La baronessa di Carini" e tutti film e i telefilm gialli dell'epoca. Anche la radio era anziana. Era incastonata in un mobile pregiato, si cercavano le stazioni con la rotellina. Ai lati della radio il mobile aveva due sportelli per le bevande alcoliche. Noi apionati di calcio ascoltavamo alla radio "Tutto il calcio minuto per minuto", poi verso le 18 in tv guardavamo "90esimo minuto", che ci mostrava i gol, e subito dopo un tempo della partita più importante. Che le maglie delle squadre fossero a colori lo capii solo nel 1978, quando per la prima volta mi fu concesso di restare sveglia fino a tardi, perché i vicini avevano organizzato una grande serata per vedere Argentina-Italia. Noi insistevamo col bianco e nero, e l'enorme, fedelissimo televisore che pesava quanto un ragazzino delle medie! Alla fine degli anni '70 si aggiunse anche Rai 3, e tre canali ci sembravano davvero tanti!
Una mattina ci tirarono fuori da scuola, ci fecero andare a casa e quando, al pomeriggio, mi misi davanti alla tv per vedere "L'ape Maia", con mia grande delusione scoprii che la programmazione era cambiata. Tentai di capire cosa stava succedendo, tutti gli adulti parlavano di guerra civile, era stato rapito Aldo Moro. Nel frattempo, i miei avevano messo un piccolo televisore in camera mia, così cercai di seguire la vicenda. Questo televisore era rosso-arancio, piccolino, ovviamente in bianco e nero. Percepivo l'angoscia di chi parlava anche da semplici frasi. Forse, in quel giorno nacque la mia ione per la storia contemporanea. E se ne vissero, di avvenimenti, in quel 1978! D'estate eravamo all'Arena di Verona, alla fine di un atto ci recammo in bagno e alcune signore stavano sussurrando: "E' morto il Papa" Avevano le radioline all'orecchio, come adesso avrebbero i cellulari in mano. Così seppi che Paolo VI era morto. Assistetti all'elezione di papa Luciani (fumata bianca fumata nera, per quella almeno non serviva il tv color) poi, alla fine dell'estate, proprio nei giorni in cui mio padre stava rischiando di morire per una semplice operazione di ernia del disco, vidi il telegiornale che dava la notizia della sua scomparsa improvvisa. E giù con un'altra elezione... Non c'erano tutti i mass media che ci sono adesso, perciò, ogni volta che compariva il logo di "Edizione straordinaria", eravamo tutti percorsi da un brivido. Terremoto, attentato o un'altra catastrofe? Dentro al famoso quadernino con la copertina rossa, mia madre ha raccolto alcuni foglietti con i miei pensierini di bambina. Uno dice: "Domani nonna viene col treno, spero che lì non scoppi una bomba" Ecco, come il terrorismo influiva sulla nostra infanzia. Non capivamo cosa fosse ma avevamo un po' paura. Papa Wojtila venne eletto nel mio piccolo televisore rosso. Ancora non immaginavo per quanti anni non avrei più visto l'elezione del Pontefice. Io ero poco più che una bambina, sarebbe morto dopo altre tre generazioni. E nemmeno immaginavo che un giorno dal televisore sarei uscita io, con gente che stava seduta a guardarmi.
La tv a colori arrivò per i miei 18 anni, quando oramai ero rimasta l'unica della mia classe a non possederla. Era un bell'oggetto dal design essenziale, colore bianco, con una maniglia sul lato superiore per poterlo spostare senza problemi. Attraverso di lui avrei assistito a tanti film, alle serie tv, ai programmi musicali che facevano vedere i primi videoclip. La radio era diventata "da eggio". Una piccola radiolina a pile, con la quale ascoltavo le partite la domenica, mentre eggiavo per Siena, preferibilmente alla Fortezza. Divenne anche il mio hobby, la radio. Quella intesa come stazione. Io avevo appena 15 anni e Roberta 13, quando ci scelsero per condurre un programma. Roba tosta: un mix di calcio, cinema e teatro. Ogni domenica mattina ci recavamo agli studi di "Antenna Radio Esse" con i nostri fogli su cui avevamo scritto gli appunti, ci sedevamo in sala di registrazione, e la voce dello speaker partiva: "Fuorigioco. un programma di sport, musica e spettacolo curato e condotto da Angela e Roberta Giulietti". Due bimbe prodigio. Con il nostro registratore a audiocassette un po' ingombrante andavamo a intervistare gli attori che erano in scena al teatro dei Rinnovati. Ci informavamo sui film in uscita (non c'era ancora Internet eh?) e infine presentavamo la giornata del campionato di serie A, a volte arricchita con altre interviste ai calciatori, per effettuare le quali dovevamo andare a Firenze. Tutto a spese nostre, anzi, della nostra famiglia, ma quanto era divertente! Ecco perché, a chi mi chiede, storcendo il naso, se ho frequentato l'università di giornalismo, rispondo un po' seccata: "Sì, quella della vita" Perché mentre le mie compagne andavano a ballare, o in giro per il centro, io mi presentavo davanti a persone famose, che avevano minimo 10 anni più di me, e senza alcun timore partivo con una serie di domande a raffica. La mia esperienza ha inizio da quando ancora andavo a scuola! Il televisore bianco con la maniglia durò ancora a lungo. Mi seguì a Firenze e venne sconfitto solo dall'umidità della casa nel centro storico. A lui seguirono un grande televisore comprato da un annuncio, e infine George, nuovo di zecca,
schermo grande, che visse dal 1990 al 2002. La radiolina ebbe una vita altrettanto lunga, e fu affiancata da un walkman. Il walkman era un piccolo registratore portatile, sul quale si poteva incidere oppure ascoltare le musicassette. Nel film "Flashdance" la protagonista lo utilizzava con le cuffiette, e da allora conobbe un vero e proprio boom.io camminavo per strada con le mie cuffie, con la voce di Brucce Springsteen che mi accompagnava, ed era una sensazione meravigliosa. Il primo videoregistratore VHS lo vidi a casa di un'amica, a Siena. Restai a bocca aperta: ma davvero si poteva rivedere un programma all'infinito? Da brava comunicatrice e maniaca dei mass media mi innamorai a prima vista! I primi VHs costavano parecchio. Ma quando mi trasferii a Firenze finalmente comprai il mio: Walter. Mi ricordo ancora la primissima cosa che registrai: il video di "Spirit in the Sky". Ero ammaliata! Iniziai a mettere sulle videocassette tutti i film che venivano trasmessi alla tv. E quando non mi bastava più andavo in un videoclub e ne noleggiavo altri. Decisamente, il mio mondo era radicalmente cambiato. Walter non aveva il telecomando, era pesante, ingombrante, ma per me era bellissimo. Non dovevo più rinunciare ad uscire quando alla tv andava in onda qualcosa che mi interessava: c'era Walter che si occupava di tutto. Venne con me anche nelle due case seguenti. E all'inizio degli anni '90 gli comprai un amico: "Klaus". Adesso avevo toccato la perfezione: con uno registravo il programma, con l'altro tagliavo le pubblicità ed ecco che il film era pronto per essere conservato! Grazie alla combinazione dei due, potevo anche creare vhs a tema, inserendo scene dei film, per fare bei regali agli amici. Realizzai cassette sull'amore, sui viaggi, sui bambini, sulle case, insomma ero scatenata nella mia estrosità. Fino al 2002 andò tutto bene. Poi si ruppe Klaus, e pochi mesi dopo si ruppe anche Walter. Lasciarlo non fu facile. A lui erano legati tantissimi ricordi: la mia prima casa a Firenze, i film visti con gli amici, i due traslochi, i tantissimi video musicali, non trovavo il coraggio. Poichè come lettore ancora funzionava (era duro a morire, non voleva abbandonarmi), lo tenni ancora un po'. Per circa un anno lo utilizzai per vedere le cose dal nuovo VHS. Infine, esalò l'ultimo respiro. Con un fruscio mi salutò per sempre.
Adesso, tutto dura meno. Ma lui aveva avuto una lunga vita: 1986-2003. Aveva resistito più di ogni mia relazione, più di molte amicizie, aveva avuto la durata della carriera media di un calciatore. Dopo Walter, ci sono stati altri videoregistratori, ma lui resterà sempre unico nei miei ricordi. Ogni volta che sento "Spirit in the sky" ripenso a lui, bello e affidabile, sistemato comodamente su un ripiano, pronto a farmi vivere una nuova emozione. Walter mi ha seguito in tanti cambiamenti, non lo potrò mai dimenticare.
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Capitolo 4
Con le banane ai piedi
Gli abiti erano sempre gli stessi. Per andare a scuola indossavamo maglione o tshirt e pantaloni, mentre quando uscivamo fuori a giocare (sì, giocavamo all'aperto, con ogni tipo di clima!), era il festival dell' "usato e sciupato", con vestiti vecchi, che potevamo tranquillamente macchiare o scucire. E poi c'erano le occasioni. La comunione di un amico, il teatro, la messa. E allora lì venivano tirate fuori dall'armadio le camicette eleganti, le gonne, le calze, le scarpe carine. Ricordo ancora che per la prima volta all'Arena di Verona mia madre mi fece confezionare un abito lungo, e con quello mi pavoneggiavo, atteggiandomi a donna, camminando come se avessi tutto il mondo ai miei piedi. Ma per il 90 per cento del tempo, ero un maschiaccio con tuta e scarpe da tennis. In campagna, mi rotolavo in una cava di argilla. A casa giocavo col cane dei vicini oppure scavalcavo la recinzione e andavo a correre nel prato dietro casa, salendo perfino sugli alberi. Fino a che non iniziava a fare buio non rientravo. Una volta l'anno, quando si andava a Bologna per Natale, i nostri genitori regalavano a me e Roberta un capo firmato. Entravamo nel negozio e dovevamo scegliere qualcosa. Un solo pezzo. Io finivo sempre sui maglioni lunghi, da indossare con i "fuseaux", quelli che adesso si chiamano "leggings". In estate, il nostro guardaroba era per lo più nella casa del mare. Era lì che trascorrevamo quasi quattro mesi. Perciò, se capitava un maggio particolarmente caldo, ci vestivamo sempre con le stesse cose, arrivando a consumarle. infine si partiva per le vacanze: Zadina di Cesenatico fino al 1978, dal 1979 in poi Marina di Bibbona. E finalmente ritrovavo le mie canottierine, gli shorts, i vestitini di cotone e i costumi da bagno. C'era una tuta nera, con le spalline strette che si allacciavano sulla clavicola in
alto, e i pantaloni che terminavano con l'elastico alla caviglia, che indossavo continuamente. Mi sentivo tanto "femme fatale" con quella tuta addosso, penso di averla portata fino a che non è stata lisa per l'uso smodato! Da ragazzina la mia ione furono gli stivali "banana". Non mi ricordo perché si chiamassero così, o forse era un nome che avevo dato io. Erano stivaletti alti fino a metà polpaccio, di color crema, che si afflosciavano un po', calando verso il piede. Mi piaceva indossarli con un paio di pantaloni bianchi di velluto, infilati dentro. Erano comodissimi, e per me bellissimi. Ho sempre avuto una fissa costante nel tempo per gli stivali. Verso i 14 anni, arrivò il periodo di rifiuto della gonna. Mia madre si sforzava di comprarmene di carine, ma io le lasciavo nell'armadio. Volevo mettere solo i pantaloni, con le gonne mi sentivo scomoda e troppo "seria". C'è anche da dire che fu il momento in cui rifiutavo tutto. Andavo a scuola ogni mattina e non aprivo un libro. Durante le lezioni mi facevo i cazzi miei. Alla fine venni bocciata con una pagella da "record" in cui spiccavano i 4 in religione e ginnastica! Beh, tutto sommato fu una ribellione "soft". Persi solo un anno di scuola, che fu seguito da quattro anni alle magistrali in cui ottenni sempre voti alti (c'è una regola per la quale se un libro lo apri e lo leggi è più facile arrivare a dei risultati...). Tuttavia, la gonna continuò a starmi piuttosto antipatica anche in seguito. Fino a che, verso la fine degli anni '80, non tornò di moda la minigonna. Ecco, quella andava bene:simpatica, sexy, comoda e non dava un'aria seriosa! Nel mio armadio c'è ancora un maglione che risale più o meno all'83-'84. E' a coste, rosso, con una toppa che io avevo applicato, dove la Pantera Rosa dice "Rock music? Yes thanks". Un tempo tendeva a stringersi verso il fondo, ora è slabbrato e allargato, ma non riesco a separarmene. Così come non riesco ad abbandonare la maglietta con cui ho sostenuto l'esame orale della maturità: color rosso aranciato, che scende su una spalla, con scritte giapponesi e una piccola tasca. Io per natura tendo a non buttare nulla. Poi, a volte, gli abiti si consumano, e non parliamo delle scarpe! Negli anni' 90 ho avuto due grandi amori: un paio di scarpe da ginnastica blu con la para sotto, che si allacciavano fino alla caviglia, e un paio di scarponi neri con la suola "carrarmato", che facevano storcere il naso a parecchie amiche eleganti, ma che io adoravo. Le scarpe col tacco le ho portate
davvero poco: quando recitavo in teatro e quando lavoravo in tv. Per il resto, calzature comode e basse, o al più con la zeppa ( o con il carrarmato, che ho letto tornerà di moda!). Ho anche un pigiama che ha sfidato il tempo. E' una tunica rossa e nera di cotone, con delle stampe. Me lo regalò una persona che lo aveva di campionario nel 1988!! Sì, esatto...c'era ancora il muro di Berlino e le targhe delle auto avevano la sigla della città! Mi piacque subito da morire. Lo indossai l'anno dopo quando fui ricoverata in ospedale, e ancora per un altro intervento nel 1996. Ho sempre cercato di utilizzarlo con parsimonia, perché non lo volevo sciupare, e di metterlo in lavatrice solo una volta l'anno. Ma cavolo, quanto resiste, e i colori sono ancora vividi come 27 anni fa! Quando volevo sentirmi proprio tanto sexy, mettevo un body nero scollato, con le maniche trasparenti, abbinato a una minigonna stretch, che mi sottolineava i fianchi e lasciava scoperte le gambe. All'inizio degli anni '90 per i body fu un boom incontrollabile: da quelli eleganti a quelli simpatici, con stampe e di ogni colore. Non erano proprio il massimo della comodità, ma stavano bene più o meno a tutte. Un ricordo molto buffo che ho è quello di un paio di pantaloni rosa di ciniglia della nonna, che quando ero piccola portavo con nonchalance, tirandoli su fino alle spalle e creando una specie di tutina. E poi c'era la pelliccia della mamma. Adesso né io né lei le indosseremmo più, ma suo zio era un conciaio e conosceva molti pellicceri, così le regalarono questa pelliccia bianca, non so davvero di che animale fosse. La indossavo, truccandomi occhi e labbra, e posavo come se fossi un'adulta. Il risultato era esilarante: più che una diva sexy sembravo un clown! Nel cassetto dei berretti e dei cappellini c'è un berretto con le "orecchie" di tanti colori che una zia mi portò tantissimi anni fa dal Perù. Anche quello, lavorato a quanto pare con una buona lana, mi ha seguita in tutte le case. Forse è l'accessorio più vecchio che ho. I miei capi di abbigliamento mi ricordano le varie mode che sono ate e tornate: quella del look "grunge", quella dell'aerobica, la biancheria in vista secondo Madonna anno 1985, il ritorno degli anni '50 con la vita alta, le giacche con le spalline, i pantaloni a zampa di elefante, i fuseaux che anche se si chiamano leggings sono sempre quelli, le tutine, i body, le minigonne, i jeans con il risvolto... potrei scrivere la storia della moda solo guardando cosa mi è
rimasto e ricordando quello che ho buttato via.
Capitolo 5
Da Gigia a Miranda
Le automobili per molta gente sono solo mezzi di trasporto, ma io provo per loro dei forti sentimenti. Quando ero piccola avevamo due macchine: una Citroën Dyane azzurra e una Fiat 128 color verde oliva, che mio padre aveva preso dal suo di seconda mano. Lui la teneva come un oggetto sacro, sempre pulita, funzionante alla perfezione e con la carrozzeria che pareva nuova. Nel garage c'era posto per due auto. Mamma teneva la sua Dyane dietro, poiché il babbo usava la 128 solo nel wekeend e andava a lavorare con l'autobus. La Dyane fu la prima ad avere un nome: Gigia. Nome che ò alla sua erede: una Ami 8, sempre della Citroën, color senape. Negli anni '70, in epoca di "austerity", la domenica potevano girare solo le auto con le targhe pari, la domenica successiva quelle dispari, alternativamente. Noi avevamo entrambe, così ogni domenica si cambiava macchina per fare le nostre "giratine". La prima auto per me e Roberta, diventate ormai grandi, fu una 205 Junior bianca della Peugeot, un modello dal design moderno, con i sedili rivestiti in jeans. La chiamammo Melania, come una delle protagoniste di "Via col vento". Melania ci scarrozzò su e giù per l'Italia. L'anno in cui lavoravamo come radiocroniste, ogni due wekeend ci accompagnava in una città diversa, in una regione diversa. Se a ciò si aggiunge che uscivamo praticamente tutte le sere, e che spesso andavamo a trovare amici ovunque, oltre che in vacanza ogni estate, va da sé che la bianca Melania ne macinò di chilometri! E si comportò sempre benissimo: ci lasciò a piedi una sola volta, scegliendo una sera in cui eravamo in compagnia di amici con altre macchine. In trasferta per Ascoli-Fiorentina, in località Alba Adriatica un omino ci venne addosso bucando uno stop. Melania si accartocciò nel lato sinistro, ma riuscì a
riportarci a Firenze senza nessun problema. A volte, fungeva da sfogatoio per i drammi sentimentali. A volte diventava un camerino in cui ci si cambiava d'abito. Spesso era il luogo di chiacchiere con gli amici, fino a tarda notte. Melania sapeva tutto, ma proprio tutto di noi. Tre incidenti, due furti di oggetti, durante uno dei quali subì la rottura del finestrino, ma era sempre lì, fedelissima, pronta a trasportarci ovunque volessimo andare. Nel 2002, dopo 14 anni di onorato servizio, fu chiaro che era arrivato il momento di cambiare macchina. La scelta cadde su una Mercedes Classe A usata ma quasi nuova, di colore bordeaux. Ma dire addio a Melania non fu per niente facile. Tanti, tantissimi ricordi mi legavano a lei. Ripensavo al nostro primo viaggio a Milano Marittima, a quando l'avevamo costretta ad arrampicarsi sulle montagne della Svizzera, alle serate con l'autoradio accesa a ballare attorno a lei, quando ci prendeva la voglia e c'era lo spazio giusto, alla mattina in cui, a Milano, l'avevamo trovata bloccata con le ganasce, ai momenti di divertimento, di tristezza e di serenità che avevamo condiviso con lei... se ne andava in silenzio dallo sfasciacarrozze, e di lei restava solo una foto, per ricordarla. Per ringraziarla di tutto ciò che aveva fatto per noi. La nuova macchina perse il nome di "Scarlett", per continuare il filone "Via col vento". Appena arrivata, ci condusse in Francia, in un fantastico viaggio notturno senza alcuna prenotazione, fermandoci a dormire quando e dove si decideva all'ultimo momento (in Francia lo si può fare. ci sono decine di motel a prezzi abbordabili senza dover uscire dall'autostrada). Scarlett non restò con noi a lungo, perché pochi anni dopo mia sorella trovò un'occasione: un'altra Classe A, colore blu, con pocni chilometri. Il nome per lei fu "Tara", la terra di "Via col vento". Il viaggio più lungo fatto con Tara fu quello fino a Palinuro. Per poter sfruttare tutto lo spazio interno della macchina togliemmo due dei tre sedili posteriori. Non li abbiamo mai rimessi: è troppo comoda così! Alla fine del 2009 a Tara si aggiunse Charlotte (era iniziato il filone "Sex and the city"!), la Fiat Punto blu del babbo, che aveva acquistato un'auto nuova e perciò aveva deciso di regalarcela. Con Charlotte fu amore a prima vista: aveva il cambio automatico, una manna per girare in città, ed era alimentata a metano, cosa che ci faceva risparmiare molto. Era una macchina di 10 anni, ma perfetta sotto tutti i punti di vista.
Per le strade di Firenze usavamo prevalentemente Charlotte, e con Tara facevamo i viaggi più lunghi. Andò tutto bene fino a dicembre 2010, quando un omino (noi con gli omini abbiamo qualche problema), arrivando in contromano ci distrusse Charlotte. Avevamo ragione piena, ma l'assicurazione pagava solo parte della riparazione a causa dell'età della macchina. Così, a malincuore, andammo a vedere un po' di usati. Ci imbattemmo in "Carrie", una grande Punto. Il rivenditore ci avrebbe applicato delle ottime condizioni, ci riflettemmo un po', soppesando i pro e i contro, ma alla fine decidemmo di far riparare Charlotte, anche perché l'altra non era molto pratica da parcheggiare. Così, dopo mesi di convalescenza, la nostra bimba tornò a casa. Per tre anni andò tutto bene, fino al marzo 2014, quando il cambio automatico disse "addio". Cercammo un pezzo usato, ma l'unico che trovammo non si rivelò adatto. Comprare un cambio nuovo sarebbe costato quanto comprare un'auto. Così, con un groppo alla gola, salutammo la piccola Charlotte. Era stata una macchina tanto brava, comoda, pratica... e adesso se ne andava con Melania nel paradiso delle auto. Arrivò "Miranda", una Panda color senape,sempre col cambio automatico e a GPL. Le macchine si guastano, è normale così, non hanno vita illimitata. Ma lasciano tanti ricordi legati a loro. Dalla Citroën Dyane con cui mamma mi portava a nuoto, fino alla simpatica Charlotte dalla vita difficile, hanno scritto la mia storia, di brevi tragitti, viaggi studiati o improvvisati, sono state tutte parte di me. E hanno scritto anche un pezzo di storia dell'Italia, cambiando design e meccanica per adeguarsi al mutare dei tempi. Le auto raccontano, basta saperle ascoltare.
Capitolo 6
Corse, salti e indovinelli
Il primo gioco da tavolo presente nei miei ricordi è "Sapientino". Era una scatola con delle schede in cui venivano poste domande su vari argomenti. Con uno spinotto si doveva premere sul tondino in cui era scritta la risposta che secondo noi era giusta, e se avevamo indovinato si sentiva un rumore. Più facile da giocare che da descrivere... Molti dei miei compagni adoravano il "Monopoli", a me restava abbastanza indifferente. La notte di Capodanno a casa della nonna a Bologna si giocava a "Mercante in fiera", una sorta di asta con carte che raffigurano soggetti vari come animali, mestieri e oggetti di uso comune. Era tutta una trattativa per acquistare le carte vincenti, nascoste fino all'ultimo. I premi andavano dai cioccolatini a dei begli oggetti, magari regali di Natale riciclati. All'aperto, i giochi erano tanti. Molto divertente per i bambini "Strega comanda color". Uno di noi diceva un colore, e l'ultimo che toccava un oggetto di quel colore diventava la "strega". Poi c'era "Regina reginella". Un bambino dava le spalle al muro, gli altri si posizionavano su una linea e a turno chiedevano: "Regina reginella, quanti i devo fare per arrivare al tuo castello?" A seconda della risposta (due i da leone, tre i da gambero), i partecipanti avanzavano o retrocedevano. Ovviamente, il bambino al muro riconosceva le voci, perciò faceva sempre vincere gli amici più cari! Io comunque, a tanti anni di distanza, ancora mi chiedo: cosa significava "Due i da insalata"? Insalate che camminano non ne ho mai viste... Poi c'erano i classici "Mosca cieca" e "Nascondino", oltre al "Rubabandiera" che si faceva in spiaggia, dove due squadre si fronteggiavano per strappare un foulard dalle mani del "giudice". I concorrenti avevano un numero, il giudice
chiamava "Numero, numero...(due volte per creare suspence) quattro!" E i membri delle squadre con quel numero partivano per afferrare il foulard e tornare a posto cercando di non farsi toccare dall'avversario, altrimenti la manche era persa. Un giochino tranquillo che mi rilassava molto era il "Quindici", una sorta di rompicato. In un quadratino erano disposte 15 tessere con i numeri in 16 spazi, e si dovevano rimettere in ordine muovendole attraverso quell'unico spazio, dall'uno al quindici, appunto. Mi portavo quel giochino dappertutto, dovunque ci fosse da aspettare. In seguito, uscì una variante: un'immagine al posto dei numeri, da ricomporre spostando le tessere. Nel 1994 un'amica me ne regalò uno con il Peter Rabbit di Beatrix Potter, e lo conservo ancora, ma non so perché c'è sempre una tesserina "sballata" che impedisce all'immagine di essere ricostruita correttamente... Non ero una grande fan della bambola Barbie, ma ne possedevo una, le cui gambe e braccia rimanevano dritte. La mia amica Michela invece aveva quella con gli arti che si potevano piegare, e aveva pure quella hawaiiana, che era decisamente più carina! Così non ebbi pace fino a che mia mamma non le comprò anche a me. In saldo, ovviamente, perchè con me le bambole avevano vita breve. dopo aver tagliato loro i capelli, le sottoponevo a interventi di chirurgia che le lasciavano sventrate e menomate! E per quanto riguarda gli "uomini", non mi piacevano fisicamente né Ken né Big Jim: uno troppo "fighetto" e l'altro troppo muscoloso. Quindi, le mie Barbie rimasero sempre singles. Negli anni '80 era di gran moda il gioco "Cluedo", nel quale si doveva smascherare un assassino. Penso di avere consumato le carte del Cluedo, così come quelle del "Visual game" (che consisteva nell'indovinare un disegno fatto dal compagno di squadra) e quelle del "Twenty questions" (20 indizi per indovinare un personaggio, una città, un oggetto ecc..., vinceva che ne utilizzava meno). Un gioco che non mi è mai piacuto era "Risiko". A parte che detesto l'idea, anche teorica, di bombardare un popolo, l'unica volta che vi ho preso parte ho litigato con un mio amico e non ci siamo parlati per giorni! I giochi di carte non mi hanno mai impressionata più di tanto. Ma andavano per
la maggiore negli anni '70. Ogni bar, ogni stabilimento balneare, ogni albergo o pensione aveva almeno un mazzo di carte a disposizione dei clienti. Non ho idea se sia ancora così... Amavo pazzamente le altalene e gli scivoli. Da bambina i miei mi portavano a Bologna ai giardini "Margherita", e lì ero solita scatenarmi, arrampicandomi e dondolandomi. Quando o vicino a un asilo o a una scuola e vedo i bimbi nel cortile che si divertono con scivoli e altalene, mi viene spontaneo sorridere. Non ci si dovrebbe mai dimenticare la sensazione che si prova mentre ci si lascia andare da piccoli, giocando. E forse non si dovrebbe mai smettere di giocare! In spiaggia, noi eravamo la generazione della fantasia. Costruivamo castelli di sabbia o facevamo le piste per le gare, impegnandoci per ore. Tempo fa, ho visto in un negozio le palline di plastica dura che da un lato avevano la foto di un ciclista, e, pur non amando particolarmente il ciclismo, mi sono emozionata. Con quelle, o con le biglie di vetro, organizzavamo vere e proprie corse, con ostacoli formati da dunette di sabbia, che potevano durare ore. Molto divertente era anche andare in bicicletta o sui pattini. I pattini di una volta erano leggeri, si indossavano sopra le scarpe da ginnastica con delle cinghie, e avevano rotelle grandi. Erano molto diversi da quelli che ci sono adesso. Pattinando o andando in bici, le ginocchia e i gomiti sbucciati erano all'ordine del giorno. Era quasi un'onta non avere quelle piccole cicatrici, specialmente in estate. Senza andare in palestra, e senza seguire programmi di fitness, noi eravamo sempre in forma; acciaccati, pieni di polvere e di macchie, coi capelli arruffati e le guance rosse, ma felici e pieni di energia. Il gioco era la nostra psicoterapia, a costo zero e privo di medicine. Se non giusto un batuffolo di acqua ossigenata per disinfettare le abrasioni e i piccoli taglietti. Non esisteva l'ansia o la depressione infantile, e chi ne aveva il tempo e la forza? Consumavamo tutto fino a non avere più fiato: ogni caloria, ogni respiro. Le nostre giornate erano piene, anche se uscivamo tutti da scuola a mezzogiorno e mezza. Un'oretta di compiti e poi via a giocare, a sporcarsi, a scatenarsi, senza alcun tipo di freni. Ho avuto un'infanzia bellissima, sempre di corsa, sempre in attività, soltanto le malattie infettive potevano tenermi in casa più di qualche ora. Scalando un albero o spingendomi sull'altalena mi sentivo la padrona del mondo.
Capitolo 7
Pronto? Chi parla?
Nelle case degli anni '70 i telefoni erano grigi, pesanti e con un disco che ruotava per formare i numeri. Noi bambine non avevamo accesso all'apparecchio, se non sotto stretto controllo. Per evitare che potessimo telefonare in un momento di distrazione, mio babbo aveva messo un lucchetto che bloccava il disco, e lo toglieva soltanto quando si doveva chiamare qualcuno. Poca fiducia? E faceva bene! Perché a metà anni '80, quando arrivai a Firenze, nella casa in cui io e Roberta avevamo una stanza in affitto, la proprietaria aveva fatto la stessa cosa. Già che ci chiedeva una cifra spropositata per una piccola camera, non voleva nemmeno che usassimo il telefono! Indovinate cosa feci io la prima volta che lei si dimenticò lucchetto e chiave sul mobile? Corsi alla ferramenta sotto casa e feci una copia della chiave! Per telefonare senza che mamma e babbo sentissero, io e Roberta andavamo a una cabina poco lontana da casa. tenevamo sempre una scorta di gettoni, perché si utilizzavano quelli, e solo quelli, fino a quando non fu inserita anche la fessura per le monete. La cabine telefoniche erano piuttosto sporche, non credo ci fosse nessuno che le puliva. C'era sempre odore di tabacco, quando andava bene, se non di peggio! In estate non lasciavano are un filo d'aria, e non si stava affatto comodi. Tuttavia, là dentro si è svolta gran parte della mia vita, tra litigate, riappacificazioni, conversazioni "basilari" con le amiche e anche, diciamolo, parecchi scherzi! Con il tempo, il telefono di casa si alleggerì e comparvero i tastini al posto del disco. Per le cabine fu inventata la scheda, più pratica dei gettoni e delle monete. Ma la vera rivoluzione avvenne all'inizio degli anni '90, con l'avvento dei
cellulari. Il primo, me lo ricordo ancora, lo vidi durante una cena a Forte dei Marmi. Ero ospite di un amico del babbo, uno con tanti soldi e con amici ancora più ricchi di lui. A un certo punto un tipo della tavolata tirò fuori questo aggeggio, tra la meraviglia e lo stupore generale, e lo presentò: "E' come un telefono da macchina, ma puoi portartelo dietro. Così sei sempre rintracciabile" Ce lo rigirammo tutti tra le mani, allibiti e increduli. Ma davvero avevano inventato un telefono che si poteva portare ovunque? All'epoca il prezzo era proibitivo, perciò per qualche mese quella rimase un'esperienza a sé. Quando, nel settembre 1991, io e Roberta fummo assunte in radio per raccontare le partite della Fiorentina, ci venne fornito un telefono attraverso cui condurre la radiocronaca. Era una "mattonella" di circa 3-4 chili, con la tastiera nella parte superiore, dotata di due batterie, perché la durata media di esse era di un'oretta, perciò ce ne sarebbero servite due. Elettrizzate dalla novità, ce lo portavamo in giro come una terza borsa, e lo chiamammo "Sergej". Ci sembrava incredibile l'idea di poter telefonare e rispondere mentre eravamo a cena fuori, o allo stadio, o a casa di altri...quella era davvero una rivoluzione! Un paio di anni più tardi la mamma, che abitava piuttosto lontana, ci regalò un cellulare tutto per noi. L'idea le era venuta durante l'estate, una sera che ci trovavamo da lei, eravamo uscite, ci era finita la benzina e fino a tarda notte non ci aveva viste ricomparire. Con il telefono, potevamo sempre tenerla aggiornata. Quando eravamo in un locale, quasi ci si vergognava di avere il telefonino. Se squillava mettevamo la testa sotto il tavolo e parlavamo a voce bassissima. Esibirlo mi pareva brutto, poiché più o meno in quegli anni lo possedeva una persona ogni sei o sette, e l'idea di fare la figura della "fighetta" non mi piaceva proprio! Oltre che costosissimi, i primi modelli erano pesanti, e non esistevano le schede prepagate, si firmava un contratto, e ogni telefonata era carissima. Poi, iniziarono a diventare più diffusi, nel giro di pochi anni tutte le famiglie ne possedevano uno, e poi ogni membro della famiglia ebbe il proprio cellulare, dal quale adesso poteva inviare anche messaggi di testo. Tornai al ato, alle cabine e alle schede telefoniche durante il mio viaggio in Brasile. Il nostro cellulare non era equipaggiato per ricevere all'estero, così per
dieci giorni riassaporai la sensazione dell'attesa fuori dalla cabina e dell'ansia nella ricerca di un telefono da cui chiamare. Era davvero strano, ormai mi ero abituata al telefonino e a dirla tutta soffrii molto nel vederlo appoggiato in valigia, nella camera dell'albergo, completamente inutile e spento! Alla fine degli anni '90 tutti avevano un telefonino, spesso due. La tecnologia ha migliorato la funzionalità dell'oggetto fino a farlo diventare una specie di "segretario tascabile". Oggi lo si usa per navigare in Internet, mandare email, segnarsi gli appuntamenti, scattare foto, ascoltare musica, giocare, scaricare mappe, insomma ci sono poche cose che non si possono fare dal cellulare. In un quarto di secolo si è trasformato da oggetto per ricchi in aiuto necessario nella vita quotidiana. Ma non si dimenticano i vecchi amori, e soprattutto non si dimenticano le sensazioni provate. Quando alzavo la pesante cornetta di Sergej per raccontare la partita, quando conoscevo un ragazzo e gli nascondevo di possedere un cellulare perchè non mi prendesse per fanatica, quando comprai il primo telefonino a cover intercambiabili, fino ad arrivare al primo smartphone, molto recente, molto dopo tutte le mie amiche, proprio io che sono sempre stata precoce in tutto! Ovviamente, accanto allo Smartphone resiste un semplice Nokia, anno 2007, senza fotocamera e senza applicazioni... E legati ai vecchi telefoni restano ricordi di voci e frasi, come la voce e le frasi del mio grande amore, che mi chiamava dagli Stati Uniti nei pochi orari che andavano bene ad entrambi. Mi fossi innamorata oggi, staremmo di continuo a mandarci messagi su Whatsapp!
Capitolo 8
Gli occhi fissi e dolci dei pelouches
Stavamo tornando dalla lezione di nuoto, quando le nostre grida di allarme costrinsero la mamma a inchiodare. "Cosa succede?" Chiese, perplessa. Io e Roberta le spiegammo: "C'era un pelouche in mezzo alla strada, qualcuno deve averlo abbandonato!" "E quindi?" "Mamma ti prego torna indietro, portiamolo a casa!" Non ci fu modo di farci desistere. Mia madre fece inversione e accostò a pochi metri dal pelouche. Scesi e lo caricai in macchina: era un canguro giallo, un po' logoro, ma tutto intero. Non potevamo sopportare l'idea che qualche auto ando lo schiacciasse, e così andò ad aggiungersi ai numerosi pupazzi di casa Giulietti. Verso la metà degli anni '70 scoppiò la moda degli orsetti piccolini da portare attaccati ai jeans o al portachiavi. Mia sorella ne aveva uno cui era legatissima. Un'estate lo perse a ChiancianoTerme, e tornati a Siena non faceva che piangere. Una mattina babbo disse: "Ci hanno chiamati dagli oggetti smarriti di Chianciano, hanno trovato il tuo orsetto" Partimmo tutti il sabato seguente e andammo a riprenderlo. Solo dopo alcuni anni, mamma ci confessò che avevano comprato un orsetto nuovo identico al precedente, mai ritrovato. Solo che per rendere la storia credibile ci avevano portate fino a Chianciano, mettendo su tutto questo teatrino!
Sono sempre stata legatissima ai miei pelouche. A parte Romeo, di cui ho già parlato, c'è stato Stefano la volpe, che nel periodo in cui si lavorava in tv (sì, eravamo già tra i 25 e i 30 anni!), veniva con noi in trasmissione e sovente le telecamere lo inquadravano. Non ci separavamo mai da lui. Una volta, mentre tornavamo da Milano, già verso l'autostrada, tornammo in albergo perché lo avevamo lasciato lì. E addirittura, mandammo qualcuno a riprendercelo quando lo lasciammo a San Vincenzo! Il posto di Stefano è stato preso dal pinguino Vinfrago nel 2001. E poi ci sono tutti i pelouches che negli anni ci hanno regalato gli amici, e anche gli ex (sia mai che restituisca un regalo...sarò venale ma già che la storia finisce devo pure rinunciare a qualcosa che mi piace?). I pelouches attuali sono molto più curati nei dettagli rispetto a quelli con cui si giocava noi da piccole. I "trudy" e i trudini sono creati affinché non si possa resistere alla loro dolcezza, per non parlare dei "Ty", con quegli occhioni grandi e quell'espressione languida! E non ho mai smesso di adottare i pupazzi che altri buttavano o perdevano. Qualche anno fa, vicino al cassonetto, trovai due scimmie abbracciate che reggevano un cuore. Forse, un regalo di San Valentino gettato via per rabbia dopo la fine di una storia... erano ancora in ottime condizioni. Le raccolsi e le misi su "Tara", dove rimangono tuttora, sballottate tra trolley e borse varie ogni volta che si va in ferie. Alcuni mesi dopo, vicino allo stesso cassonetto, notai un pupazzetto davvero brutto: doveva essere un orso ma non si capiva troppo bene! Non aveva gli arti superiori, era ridotto male e mi guardava come a dire: "Ehi, non mi vuole nessuno..." Superfluo dire che fu subito mio, e che lo infilai nel portachiavi. Non ho mai capito come fe la gente ad abbandonare un pelouche. E' vero, invecchiano e si sciupano, esattamente come noi, ma sono una parte della vita, ti ricordano le persone e le cose che ti sono accadute, Io non potrei mai buttarne uno, nemmeno se cadesse a pezzi. Già, ma io sono un'oggettofila, e in fondo in fondo sono ancora molto bambina! Un ricordo particolarmente tenero che ho, legato ai pelouches, risale a parecchi anni fa. Potevo avere 5 o 6 anni. Mamma ci portava in un negozio, comprava
qualche pelouche per noi e qualcuno per le orfanelle di un'istituto che conosceva. Poi, la domenica andavamo a portarglieli, e ho ancora negli occhi i loro sorrisi e il loro entusiasmo. Dovevamo sapere che non tutti i bambini stavano bene, non tutti erano felici, e che era giusto fare qualcosa per quelli meno fortunati. L'appuntamento si è ripetuto ogni anno, fino alla mia adolescenza, contribuendo a rendermi particolarmente sensibile verso i bambini. Non è che non mi importi se un adulto soffre, ma se soffre un bambino sto male dieci volte di più. Tra i tanti pelouches che ho in casa ce n'è uno che viene dalla Germania, ricordo degli Europei di calcio del 1988, uno che mi ha portato un amico dall'Australia, solo dal Brasile non sono tornata con un pupazzo... costavano talmente cari che la scelta era tra il pelouche e la cena!
Capitolo 9
Come si fa a finire un uovo?
Non siamo mai stata una famiglia particolarmente religiosa. Credente, ma nella media. Io ho fatto la prima comunione e la cresima, come tutti i miei compagni, ma già da adolescente le mia visite in chiesa si potevano contare. Celebravamo, però, tutte le feste. intendo quelle legate al Natale e alla Pasqua, non quelle commerciali che ci sono adesso: giorno del papà, giorno della mamma, giorno dei fratelli, giorno dei nonni, anniversario della prima volta che ho visto il mare, festa del primo esame all'università, giornata dell'amico del cuore ecc... ecc... Per noi le feste erano due e solo due. Per Natale si andava a Bologna dalla nonna. Più o meno dalla fine degli anni '70, morta la sua mamma, nonna aveva unito la casa con quella dei fratelli, così era diventata enorme. Io e Roberta dormivamo nella camera che era stata della bisnonna, e la notte della vigilia, approfittando della grandezza della casa, andavamo a sbiricare sotto l'albero per cercare di capire quali regali ci fossero. Diventate più grandi, la tradizione cambiò e aprivamo i regali la sera prima. Il Natale era l'occasione per esprimere richieste che in altri momenti dell'anno sarebbero cadute nel vuoto. Tra i regali non mancavano mai vestiti e libri; mi ricordo ancora le calze di lana chiare, che adoravo, e un bellissimo libro illustrato sull'Italia ai mondiali di calcio del 1982. Per l'Epifania arrivavano calze con una serie di dolcetti dentro, sempre graditi. Ma ho un ricordo di un' Epifania molto lontana, forse avevo 5 o 6 anni. Io e Roberta stavamo giocando in camera, abitavamo ancora a Bologna, e all'improvviso entrò una zia vestita da Befana, che fece rotolare dentro la stanza un cesto tondo enorme, senza chiusura, adatto per tutti i nostri giocattoli. Quel cesto ci ha seguite a Siena e poi a Firenze, fino al trasloco del 1990.
A Pasqua, facevo scorpacciate di uova al fondente. E devo aver desiderato un po' troppo fondente, perché anni dopo, quando stavo già a Firenze, partecipai alla lotteria di un bar e vinsi un uovo gigantesco. Al fondente, appunto. La gioia, lì per lì, fu grande. Ma finirlo era dura. In quel periodo invitavamo gente ogni sera, offrendo pezzetti dell'uovo. Ma non bastava. Alla fine organizzammo un "uovo party", per essere carine preparammo anche tartine e dolcetti e... tutti si fiondarono sugli altri piatti, lasciando quello con i pezzetti dell'uovo praticamente pieno! Da aprile, riuscimmo a finire i resti dell'uovo in estate, dopo averli fusi per fare cioccolate in tazza, dopo averli spezzettati su yogurt e budini, erano notevoli come spessore, avevi voglia a inventarti soluzioni, non finivano mai! E finalmente, mangiammo l'ultimo pezzo dell'uovo! Non so se ritenermi fortunata per questo, ma non ho mai partecipato a quelle cene e a quei pranzi in cui ci si ritrova a tavola con decine di parenti. Eravamo sempre otto-dieci persone al massimo. Ma sì, sono fortunata, perché io avrei trovato di sicuro qualcuno con cui litigare, e poi detesto stare troppo tempo a tavola! La sera dell'ultimo dell'anno la avamo con lo zio Renato e la zia Maria e il loro figlio Andrea. Non erano affatto parenti "veri ", ma amici di famiglia. Quando io e Roberta fummo più grandicelle, uscivamo coi nostri amici, per lo più per andare a feste in casa. Le occasioni per uscire non erano tante, a quei tempi. Siena è una piccola città, inoltre eravamo ragazze e non potevamo stare fuori da sole. Perciò, alle feste di Capodanno indossavamo i nostri abiti migliori e trascorrevamo ore a truccarci. Col are degli anni, anche il Natale perse un po' di importanza. Considerando che per un periodo recitavo a livello amatoriale, poi ho lavorato in radio e tv, spesso i giorni di festa concessi erano pure pochi. E da adulta, iniziai ad avvertire una forte idiosincrasia per la stagione fredda, perciò non ero mai di buonumore a Natale. Una festa che invece mi è sempre interessata tantissimo, forse perché è solo mia, è il compleanno. Da bambina lo festeggiavo insieme agli amichetti nel grande garage. Poi nell'età dell'adolescenza a metà giugno mi trovavo già al mare, perciò radunavo quei pochissimi vacanzieri precoci e li invitavo a cena. La casa che avevamo a Marina di Bibbona era più grande di quella dove vivo adesso a Firenze, nonché di tutte le altre in cui ho vissuto dopo i 19 anni!
Il regalo più ambito dalle ragazzine degli anni '80 era la trousse per il trucco. Più roba c'era meglio era. In quelle scatole enormi trovavano posto circa 10 ombretti, 6 o 7 rossetti, 4 fard, più mascara, pennelli e matite varie. regolarmente, succedeva che usavamo due rossetti, due ombretti e gli altri col tempo si solidificavano,rimanendo belli intonsi come appena usciti dal negozio! Quando iniziavano a puzzare, svuotavamo la trousse, che restava come contenitore per altri trucchi. Stavolta, magari, acquistati pezzo per pezzo solo tra quelli che davvero ci piacevano... Proprio perché amo gli oggetti, soffro ancora oggi quando mi viene regalato qualcosa che non fa per me. Chi mi conosce sa perfettamente cosa mi piace e cosa no, perciò un regalo non azzeccato è un sintomo che non si tiene davvero a me, non ci si è impegnati abbastanza nella conoscenza. Fin da piccola, sono stata sempre molto chiara: questo no e questo sì. Ecco perché ogni pacchetto di Natale scartato mi dava sempre grande gioia. I miei genitori mi conoscevano bene. E agli altri, pochi parenti, dai 10 anni in poi feci capire che preferivo ricevere i soldi per poi comprarmi ciò che mi andava a genio!
Capitolo 10
Il mondo in una scatola
Io per natura sono stata sempre attratta dal cambiamento. Ho sempre visssuto in uno stato d'animo confuso, a metà tra il desiderio di andare avanti e la nostalgia per il ato. Ma se arrivava una qualunque novità tecnologica, ero pronta ogni volta a conoscerla e sperimentarla. Verso l'inizio degli anni '90 feci amicizia con il fax. Ero meravigliata e colpita da quell'apparecchio, tramite il quale si poteva scrivere qualcosa che immediatamente arrivava a destinazione, anche dall'altra parte del mondo. Lo utilizzai molto quando avevo il mio amore che viveva a Los Angeles, e durante il mio soggiorno in Brasile, non potendo usare il cellulare, chiedevo agli amici giornalisti di inviare fax dai loro uffici alla mia famiglia, giusto per dare qualche notizia! Fino all'avvento del fax, l'unico modo per mandare pensieri e frasi lunghe a qualcuno erano le lettere. Ora tutto veniva semplificato, va da sé che divenni una "faxomane". Il primo computer nel quale mi imbattei, nell'anno 1993, era un modello compatto e ingombrante, che utilizzavo solo per scrivere articoli. Me lo portò il direttore del giornale con cui collaboravo. Aveva un corpo e un monitor, più un rudimentale mouse per muoversi sullo schermo. Circa un anno dopo, nell'ufficio di famiglia fu installato un computer più "moderno", che mi diede modo di fare pratica coi primi programmi di Windows: dal "Paint" a "Office", e anche di dilettarmi con i giochi. Alcuni amici mi portarono dei floppy disc con i giochi più in voga del momento. Mi innamorai perdutamente di "The day of the tentacles", un vero e proprio rompicapo, in cui si dovevano sciogliere enigmi per proseguire nell'avventura. Mi stavo già misurando con la versione inglese quando mi fu procurato il gioco in italiano, e con il compito facilitato divenni bravissima. Poi c'erano "Hocus pocus" e
"Supaplex". In quest'ultimo,una pallina arancione doveva superare degli ostacoli, con i livelli che diventavano sempre più difficili. La cosa davvero carina era che, se ti fermavi per un po', la pallina si metteva a dormire! Sentii parlare di internet per la prima volta nel 1995, quando partecipavo ai match di improvvisazione teatrale, e qualcuno si stava adoperando per "Mettere il programma su Internet". "Eh?" Chiesi io, totalmente persa "Che diavolo è Internet?" Mi spiegarono con parole semplici: un contenitore virtuale di tutto. Wow, pensai! Allora questo fa per me! Ma nel pc dell'ufficio Internet non c'era. Così trascorse circa un anno e mezzo prima che potessi scoprire empiricamente di cosa si trattava. Mi trovavo alla mostra dell'artigianato, con Roberta. Vedemmo che in uno dei padiglioni c'era una serie di computer, con tanta gente seduta davanti. Incuriosite, entrammo, e un ragazzo ci disse che erano lì per far provare Internet. Mi precipitai al pc più vicino, desiderosa di imparare. Con un'emozione indescrivibile, seguii le indicazioni del tizio e digitai una parola sullo schermo. Mi si aprirono una serie di indirizzi, tutti relativi al tema che mi interessava. Era troppo, troppo bello! L'idea di poter trovare informazioni su qualunque cosa mi sembrava pazzesca! Volevo Internet, lo volevo in tutti i modi! Quando chiuse l'ufficio, ci portammo a casa il computer. Dopo esserci informate un po', alla fine del 1998 installammo la linea Internet, con "Dada". Per aprire una pagina occorrevano, quando andava bene, 5 minuti, durante i quali ci si poteva lavare i capelli, oppure si poteva leggere parte del giornale. Quando era attivo Internet, la linea telefonica risultava occupata. Nel momento in cui premevi "connetti", partiva un suono che indicava che la connessione, con molta calma, stava avendo luogo. Era tutto assai lento e pesante, ma mi piaceva lo stesso. Volevo sapere chi era stato candidato agli Oscar? Internet. Mi interessava conoscere il risultato di una partita di calcio all'estero? Internet. Cercavo notizie su un attore visto in un film? Internet. Era la risposta a tutto, e per una curiosa come me un vero amico! Purtroppo, pochi mesi dopo, il pc iniziò a mostrare i primi segni di cedimento, e dovetti regalarlo a un mio ex che cercava pezzi di ricambio per il suo studio. Ecco, ero di nuovo senza Internet, e comprare un computer nuovo era
impossibile, visti i prezzi! Poi, una sera, stavo guardando "aparola" in tv e Gerry Scotti pubblicizza un sistema innovativo per accedere a Internet non possedendo un computer... mi blocco, come paralizzata, e in quel momento potrebbe andare a fuoco la casa che non me ne accorgerei. Si tratta di un decoder da collegare al televisore, e lo schermo della tv fa le veci di quello del pc. "Dobbiamo averlo!" Grido. Un mesetto dopo l'apparecchietto è nella nostra cucina, e riprendo la mia attività compulsiva di curiosa del web. Più usavo internet e più mi accorgevo dei progressi che faceva, giorno dopo giorno. Nel 2003 c'erano già centinaia di migliaia di pagine, siti di aziende, di locali, di agenzie di viaggi... era un mondo in piena evoluzione. Quando traslocai, disdissi il contratto, ma mi ripromisi di riallacciare il tutto nella casa nuova. Restai per più di un anno senza Internet, dando la precednza al contratto con "Sky". Mandavo le email da in Internet point nei paraggi, pagavo un'oretta tutta per me e ne approfittavo anche per scorrere le pagine, leggendo notizie e curiosità. Infine, arrivò il pc e poi il notebook, e poi un altro notebook, che si chiamarono tutti "Joey", arrivò Facebook, Twitter, tutto con una velocità incredibile. Nel giro di 15 anni Internet aveva rivoluzionato completamente la vita delle persone. Ecco, sto scrivendo un ebook... chi lo avrebbe mai detto nel 1995? Noi bambini degli anni '70 siamo abbastanza giovani da poter interagire al meglio con le novità della tecnologia, e abbastanza vecchi da ricordarci com'era il mondo prima .Non dimenticherò mai la mia felicità quando scoprii il "Paint", con il quale creavo disegni che poi stampavo su un foglio, realizzando una carta da lettere personalizzata. E non potrò mai scordare il viaggio nel tempo di "The day of the tentacles", quando dovevo parlare con i presidenti americani defunti o piazzare sulla testa di un manichino degli spaghetti per dare l'idea che avesse i capelli!
Capitolo 11
Sparse le trecce morbide....
Praticavo nuoto, mi sporcavo di continuo giocando ed ero soggetta a bronchiti. Per tutti questi motivi, da bambina non portai quasi mai i capelli lunghi. Oh sì, solo una volta, verso i 6 anni, e nei discorsi di mamma ricorreva spesso la frase: "Ti ricordi quando avevi i capelli lunghi?" E io, che ero una maniaca della capigliatura, soffrivo in silenzio. Quando la cassiera di un negozio si rivolse a me dicendo: "Quanti anni hai, bel bambino?" Supplicai mamma di lasciare che i capelli crescessero. Negli anni '70, dopo il periodo "impegnato", scoppiò il riflusso,che esigeva chiome vaporose, in tono con le t shirt coi brillantini e la generosa bigiotteria. Io avevo bellissimi riccioli biondo scuri, che adornavo con pettinini, clip con i fiocchi e ogni tanto con una "fascetta" sulla fronte, molto "trendy". A 20 anni mi feci biondissima, ed ero assai fiera dei miei capelli. Era arrivata Madonna, e con lei un'infinità di soluzioni per essere sempre alla moda: nastri, fascette di pizzo, foulards... da quel momento in poi sulla testa si poteva mettere di tutto. E io, spinta dai miei successi sentimentali, pensai che fosse il caso di schiarire ancora di più: volevo il biondo platino. Per mia sfortuna, anzi, per incompetenza, sbagliai i tempi di posa dello schiarente e quando andai a sciacquarmi i capelli scoprii con mio immenso orrore che erano bruciati! Pareva che in testa avessi del vello di pecora non ancora filato! Erano biondi, certo, ma davvero brutti, tanto che nella commedia in cui stavo recitando fu aggiunta una battuta per deriderli... Disperata, corsi dal parrucchiere per tagliarli cortissimi. Fortunatamente mi sono sempre ricresciuti
in fretta, ma soffrii non poco mentre attendevo che arrivassero almeno alle spalle! Negli anni '80, con il boom dell'opulenza, era d'obbligo scalare i capelli perché rimanessero belli "gonfi". Uscirono prodotti nuovi per cotonarli, per proteggere le punte, per renderli più sani, e io ovviamente li provai tutti. Metà del mio bagno, che già era piccolo, era occupato da roba per i capelli: spazzole, pettini, lacche, gel, clip, elastici, mollette... sembrava il negozio di un parrucchiere. Una mattina del 1988 mi svegliai e decisi che volevo essere bruna. Il nuovo look mi piaceva, metteva in risalto i miei occhi, e mi permetteva di indossare abiti di colori che da bionda mi avrebbero "svilita". Ma la ricrescita era, impietosamente, chiara, e si vedevano sempre quei centimetri di colore diverso. Mi scocciai dopo un paio d'anni e piano piano, lasciando fare alla natura, recuperai il mio biondo naturale. Che divenne platino (ma stavolta realizzato dalla parrucchiera) nel 1994. In quegli anni, c'era un ritorno alla semplicità, in contrasto con la moda vistosa del decennio precedente. Nastri, clip e pettinini erano ati di moda. Resistevano solo le bandane, da portare aderenti alla testa, come un cappellino. Ma non fu quello il motivo per cui il mio look da diva durò pochi mesi: ero io che mi ero stancata di tingere la ricrescita ogni 3-4 settimane. Tornai bionda scura, e così restai a lungo. Alternai i capelli lunghi ai caschetti, che erano carini, ma che poi crescevano e perdevano la forma. Intanto, erano arrivati nuovi oggetti: le perline da attaccare alle lunghezze, gli elastici sottilissimi con cui fare piccole treccine, gel con i glitters e spray colorati con cui mascherare la ricrescita. Ma la vera novità del 2000 erano le extension. Mi feci mettere le prime nel 2004: pochi ciuffetti di colore blu, che intensificavano il biondo. E qualche anno dopo, quando scoprii che erano uscite nella versione "clip", da mettere e togliere a piacimento, me ne comprai qualcuna per poter cambiare look senza fare troppa fatica. Ho sempre amato sperimentare, e con le extension mi diverto a dare alla mia chioma più lunghezza e più spessore. Oggi, se si entra in un negozio di accessori per capelli, si rischia di perdere la testa per la moltitudine di oggetti che ci sono. Un tempo si andava avanti con elastici ruvidi, spazzole che davano la piega a fatica e lacche che rendevano i
capelli duri e sfibrati. Oggi tra cere, gel, balsami, creme, lucidanti ecc... avere una chioma in grande forma è molto più facile. E anche nel settore delle tinture sono usciti prodotti più sani e meno invasivi. Chissà, forse oggi non esistono più fans di Madonna che si bruciano i capelli nel vano tentativo di somigliare a una vamp!
Capitolo 12
Hungry eyes
Si resta per sempre legati a un film e a una canzone. Inevitabilmente ti ricordano momenti, esperienze e persone della tua vita. Ecco perché quando è morto Patrick Swayze, che peraltro non era un grandissimo attore, mi sono sentita più sola. Almeno tre dei suoi film hanno segnato i miei anni giovanili. "Dirty dancing" aveva una colonna sonora bellissima, che mi riporta alla mente il periodo in cui andavo a ballare in un piccolo locale adiacente a un circolo Arci. Gli oggetti di quel film sono il mio body con le maniche di pizzo, gli stivaletti con un pochino ma poco poco tacco e Melania, che la notte mi riportava a casa. Suonatemi "Hungry eyes" e posso diventare un'altra persona nel giro di 10 secondi! "Ghost" lo vidi al cinema durante un weekend a Bologna con la mia migliore amica dell'epoca. Ho ancora in bocca il sapore della cena che seguì, e di una fantastica mousse di prosciutto. E dopo quel film ho cominciato a desiderare di vivere in un loft. Andai a vedere "Point Break" all'arena estiva di Campo di Marte. Non amo particolarmente i film d'azione, ma quello era diverso: un cattivo non troppo cattivo e, finalmente, una partner carina ma non tipo modella per il protagonista: Io ero in giro con il mio "telefonone", appagata dal successo che stavo ottenendo in radio. Era l'estate in cui vennero di moda i ciucciotti di plastica, non averne significava essere "out". Li usavamo infilati nel portachiavi, legati alle stringhe delle scarpe, modificati in orecchini, attaccati a collane e braccialetti, penzolanti da borse e zaini. Ecco, se ripenso a "Point Break" mi raffiguro intenta a scavare nella mia scatola dei ciucciotti, alla ricerca di quelli dei colori giusti da abbinare al vestito e alle scarpe... Quando vidi "Mephisto" ero un'adolescente, e mi presi la prima cotta platonica
della mia vita. Se Klaus Maria Brandauer si fosse avvicinato nel raggio di 50 chilometri da casa mia, gli sarei saltata addosso! Non era bello ma cavolo, era sesso allo stato puro! Negli anni '90 ero arrivata a possedere più di 500 vhs. Walter, gentilmente, mi mostrava i film ogni volta che desideravo rivederli, e alcuni nastri sono stati letteralmente consumati. Quelli di "Misterioso omicidio a Manhattan", "Americani", "JFK", "Hair", "Stregata dalla luna", "Belli e dannati", solo per citarne qualcuno. E, come tutti, sono legata a molte canzoni. Il juke box del mare doveva mandarmi almeno una volta al giorno "Più su" di Renato Zero. L'autoradio suonava "Losing my religion" quando Melania fu coinvolta nell'incidente ad Alba Adriatica. Capii davvero che cos'era l'amore ascoltanto "Non finirà", scritta da Enrico Ruggeri. E tutto l'album "Born in the Usa" di Bruce Springsteen fece da colonna sonora ai cambiamenti radicali nella mia vita, quando i miei genitori si separarono e venni a stare a Firenze. Ho riversato tutto il possibile in digitale: i film, i programmi tv che conducevo, le canzoni, i filmati girati tra amiche. Ma qualcosa si è perso per forza di cose. Per fortuna, la memoria conserva tutto. Non si possono digitalizzare le emozioni, le sensazioni che sembrano vivide come allora. E' un patrimonio che non ha prezzo. I miei amori sono durati tutta la vita. MassimoTroisi, Nanni Moretti, Oliver Stone, Bruce Springsteen e Renato Zero. Un fotogramma, un solo fotogramma di "Dirty dancing", e via che si scatenano i ricordi. Casa dell'amica, litigate, risate di gruppo, quattro gattine trovate in una cesta, la caduta del muro di Berlino, la prima guerra del Golfo, il pubblico a teatro che ride alle mie battute, pannocchie arrostite alle 11 di sera, gol di Batistuta, si compra casa a Firenze, una brutta notte con un uomo che credevo di amare, voglio vedere una nuova città, Walter, Melania... si accavallano, a volte in ordine cronologico o, come li ho scritti qui, in un disordine casuale. La vera arte di chi gira un film o scrive una canzone credo sia proprio questa: far sì che la sua opera rimanga non come pura e semplice espressione di talento, ma per ciò che significa nella vita di chi la incontra. Per ognuno di noi è un'esperienza unica, che richiama altre esperienze, e che non finisce mai.
Capitolo 13
La voce delle case
Nonostante siano trascorsi tanti anni, mi ricordo ancora piuttosto bene la casa in cui ho vissuto fino ai sette anni. Non ho foto, solo immagini nella mente. A Bologna vivevamo in un palazzo in zona centrale. C'era un ingresso, la camera della nonna e il salotto e poi a destra le altre due camere, a sinistra la cucina e il bagno. La casa del mare a Zadina di Cesenatico era più piccola, ma sempre con due camere da letto e una bella zona giorno. Quando, per scelta di mio padre, ci trasferimmo tutti a Siena, abitammo per un anno in un appartamento, in attesa che finissero di costruire la casa che babbo aveva comprato. Andavamo a vedere i lavori, e lui dava indicazioni ai muratori: "Questa camera (la nostra) va allargata un po', qui ci va la scala a chiocciola per la mansarda, lì mettiamo i doppi vetri..." Nacque giorno dopo giorno. E quando ne prendemmo possesso, ero felicissima. Una sala grande, cucina abitabile, tre stanze da letto, mansarda, tripli servizi, due terrazze e giardino in condivisione con la famiglia a piano terra. Più cantina, garage e dietro campi sconfinati. Col tempo, in camera arrivarono anche i letti abbinati, con tanto di mobile intorno pieno di cassetti e ribalte, di cui conservo ancora alcuni pezzi. Era l'inizio della filosofia del "trova posto dove posto non c'è", che in seguito partorì i letti coi cassettoni, quelli a soppalco con lo spazio sottostante utilizzabile e le camerette per i bambini con scale che nascondono contenitori e letti che spariscono durante il giorno. La casa di Marina di Bibbona era spaziosa e moderna, con due stanze da letto, una terrazza e un grande solarium dove prendevo il sole e dormicchiavo dopo pranzo. In bagno c'era un flacone di balsamo per capelli che durava meno di un
mese, perchè la nostra generazione aveva scoperto che andolo sulla chioma già asciutta regalava un effetto "permanente". Uscivo la sera che facevo odore di cocco lontano 100 metri! Al mare, ogni tanto, mamma portava in casa i "fotoromanzi". Erano storie raccontate tramite fotografie, nelle quali di solito due si piacevano, ma poi c'era un lui o una lei di troppo, oppure colleghi o parenti cattivi che ostacolavano l'amore puro dei protagonisti. Nulla di neanche lontanamente interessante dal punto di vista culturale, tuttavia i fotoromanzi hanno segnato un'epoca. Anche se gli attori maschi mi parevano tutti uguali... Dopo il primo anno a Firenze in una stanza in affitto presso una famiglia, nel quale la canzone che cantavo più spesso era "Via" di Claudio Baglioni (soprattutto il ritornello: voglio andar via), io e Roberta ci trasferimmo nella nostra prima vera casa, in centro, sempre in affitto, molto piccola ma deliziosa. Ricordo come fosse oggi la trapunta che faceva bella mostra di sé sul divano letto, e che avevo vinto partecipando a un gioco televisivo. Era variopinta e metteva allegria. Poi mi torna in mente un "puffo" (in realtà non si chiamava così, era il nome che gli avevo dato io a 4 anni), un cuscino aperto con una cerniera, di colore rosso e a forma di gatto, dove riponevamo i pigiami. Rimanemmo lì tre anni, poi ci spostammo in zona Castello, perché nel frattempo avevamo la macchina e parcheggiare in centro era diventato impossibile. E finalmente, nel 1990, il grande acquisto della casa, a Novoli, vicino all'uscita dell'autostrada. Era un appartamento piccolino, ma per noi andava più che bene. Ci seguì anche la testa di sfinge, che stando ai racconti di mia madre aveva più anni di noi. Il giorno in cui cadde e si ruppe, raccolsi tutti i pezzettini, anche quelli di 2 millimetri, e pazientemente la rimisi insieme. E' ancora con me, al riparo da possibili ulteriori cadute. I 13 anni trascorsi in quella casa sono stati i più belli della mia vita, quelli vissuti più intensamente, quelli dell'età adulta, delle storie d'amore, degli hobby, delle soddisfazioni professionali e dei tanti viaggi. Infine, nel 2003, dopo 6 mesi in affitto in una grande casa a Ponte a Greve, traslocai in una zona più verde, quella dove abito tuttora, in una costruzione che ha davanti un enorme giardino pubblico e sul retro l'ex paesino, con case basse, che tali resteranno poichè è coperta dai vincoli aeroportuali. E tante, tantissime cose mi hanno seguita. Ho il letto che acquistai 25 anni fa, sistemato sotto un soppalco, e con accanto un pezzo del mobile che circondava il
mio letto di bambina. Appeso in un angolo c'è il fiocco rosa che annunciava la mia nascita, e poco distante il mio piccolo Romeo. In soggiorno, un quadro dell'anno 1978, che ho "rubato" al mio babbo, ricorda che ci sono tanti modi per uccidere una persona. In camera è sistemata una panca che faceva parte di una panca più grande di due pezzi, nella casa di Novoli. Il vecchio frigorifero, che risaliva al 1992, esattamente al giorno in cui fu assassinato Borsellino, è stato cambiato pochi anni fa. In primavera, mettiamo sui letti le trapuntine che coprivano i letti nella casa di Marina di Bibbona. E nella libreria si intravvede la costa di un quadernino con la copertina rossa. Quello che contiene tutta la mia storia di bambina. Le cose raccontano, appoggiate su un mobile o dentro una borsetta. Ogni cosa è un pezzo di vita, che porta in sé ricordi di gente che non c'è più, o che semplicemente non ti ha più voluto. Ogni oggetto è un legame con il ato, che non si spezza mai. Le case hanno assorbito ogni tuo pianto, ogni tuo momento di gioia, e tutte le volte che ne lasci una è come se una parte di te iniziasse a morire. Ricorderai per sempre i muri pieni di poster e di fotografie, i risvegli in quella camera e in quel letto, e poi tanti piccoli particolari che a volte ti tornano alla mente dopo anni in cui non ci pensavi. Un rumore, un odore, un'immagine, che ti riporta indietro se solo chiudi gli occhi. Come in un sogno, ripercorri i corridoi, entri nelle stanze, ti affacci dalle terrazze, poi ti svegli, e chiudi a chiave quella scatola di ricordi che si accavallano, a volte chiari a volte confusi. E per non perderli del tutto, sai già da tempo che ci sono oggetti che non potrai mai buttare via.
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Capitolo 14
Tutti hanno ricordi da conservare. Anche chi ha 20 anni ha già ato delle esperienze, superato dei problemi e conosciuto persone che hanno cambiato la sua vita. Se ne avete voglia, provate, in un momento di relax, a porvi queste semplici domande, per riscoprire un lato di voi stessi, e per tenere allenata la memoria, che è come un muscolo e va coltivata perché si atrofizzi. - Vi ricordate la casa dove avete vissuto da bambini? Com'erano arredate le stanze? Quanto era grande? - C'è un oggetto che vi accompagna da tanti anni? Che cosa vi ricorda? - Nell'armadio conservate dei capi a cui siete particolarmente legati? - C'è un film o una canzone che vi fa tornare in mente momenti particolari della vostra vita? - Quale gioco amavate da piccoli? - Ricordate eventi del ato che vi hanno colpiti in modo particolare?
Pensateci; ritrovate odori, colori, sapori e sensazioni che credevate dimenticati. E' un patrimonio di enorme valore, che vi ha resi ciò che siete. E' un tesoro che nessuno potrà mai portarvi via.