Carmelo La Torre
IL GRANDE NULLA DEL VATICANO
Quattromila anni di mitologie da Abramo alla madonna di Medjugorje
Abel Books
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La creazzione der monno L’anno che Gesùcristo impastò er monno, ché per impastallo già c’era la pasta, verde lo vorze fà, grosso e ritonno, all’uso d’un cocomero de tasta (*). Fece un zole, una luna, e un mappamondo, ma de le stelle poi di’ una catasta: su ucelli, bestie ammezzo, e pesci in fonno: piantò le piante, e doppo disse: “Abbasta”. Me scordavo de di’ che creò l’omo, e coll’omo la donna, Adamo e Eva; e je proibì de nun toccaje un pomo. Ma appena che a magnà l’ebbe veduti, strillò per dio con quanta voce aveva: “Ommini da vienì, séte futtuti.”
Giuseppe Gioachino Belli (*) La tasta è il tassello che s’incide nei cocomeri per saggiarli quando sono maturi
INDICE Premessa Cap. I L’ANTICO TESTAMENTO I-1 Una lettura da vietare ai minorenni I-2 La nascita della Bibbia I-3 Cenni storici I-4 L’Antico Testamento da bere I-5 La Bibbia vista da “sinistra” e con gli alieni I-6 I miracoli biblici I-7 Adamo, Eva e le foglie di fico I-8 Noè e il diluvio I-9 Abramo e signora I-10 Mosè el conquistador Cap. II GESÙ’ O CHI PER LUI II-1 La nascita di Gesù II-2Gli anni prima della predicazione II-3 Gesù è esistito? II-4 Da Giovanni il Nazoreo a Gesù il Nazareno II-5 Quando sarebbe nato Gesù? II-6 Quando sarebbe morto Gesù?
Cap. III LE RADICI DEL CRISTIANESIMO III-1 Il Nuovo Testamento III-2 I vangeli III-3 La resurrezione di Gesù III-4 Le bibliche ascensioni III-5 L’apparizione e l’ascensione di Gesù III-6 Gesù storico e Gesù escatologico III-7 Da Gesù uomo a Gesù fantasyland III-8 Gesù profetizzato III-9 La verginità della madonna III-10 L’iconografia della madonna e l’idolatria dei fedeli III-11 Pietro e Paolo Cap. IV I PRIMI I DEL CRISTIANESIMO IV-1 Il preludio IV-2 Contro gli ebrei, contro i pagani IV-3 L’origine della teocrazia cristiana IV-4 Concili e dogmi IV-5 Quali martiri? IV-6 Da Costantino ai secoli bui Cap. V LA CREAZIONE DEL DIO CRISTIANO V-1 L’invenzione della consustanzialità
V-2 L’invenzione della transustanziazione, un cannibalismo rituale V-3 L’invenzione della trinità V-4 Le invenzioni dell’inferno, del purgatorio e del limbo V-5 I nove comandamenti V-6 L’invenzione della croce V-7 Il Credo V-8 Il battesimo, esorcismo puro V9 La penitenza V-10 Angeli e demoni Cap. VI IL POTERE TEMPORALE VI-1 Chiesa e Bibbia VI-2 Celibato e misoginia della Chiesa VI-3 Papi, donne e indulgenze VI-4 Un papa: Clemente VIII VI-5 Le (poco spirituali) ricchezze della Chiesa VI-6 La possente organizzazione vaticanea per rastrellare denaro VI-7 Il duplice volto della Chiesa VI-8 Il terribile condizionamento dei bambini VI-9 La madre di tutte le ignoranze Cap. VII L’UOMO IMMORTALE VII-1 Credenti e creduli
VII-2 Il bene e il male, il buono e il cattivo, il bello e il brutto VII-3 La nascita e lo sviluppo delle religioni VII-4 I misteri e i riti VII-5 Credenti e non credenti VII-6 L’evoluzionismo VII-7 Il divenire Cap. VIII IL NUOVO MESSIA Riferimenti bibliografici Appendice Inserti fuori testo (box) Cap. I Indice della Bibbia Abbreviazioni bibliche Tavola cronologica Cenni di fanta-religione Il mycoplasma Prima di Adamo ed Eva Cap. II Il presepe Erode il Grande Nazareth
La banda dei Boanerghes e i dodici apostoli Gli esseni Chi uccise Gesù? Cap. III La regola aurea Gesù il Cristo Cap. IV Dal culto di Mitra al culto del Signore Marcione Il Concilio ecumenico di Nicea Elena, la santa Cap. V La ragnatela del cristianesimo Lo sbattezzo Altri mondi Cap. VI I mormoni Pensieri pagani I figli delle stelle L’equazione di Drake Io ...c’ero una volta
Tavola dei Contenuti
Premessa Cap. I ANTICO TESTAMENTO Cap. II GESÙ’ O CHI PER LUI Cap. III LE RADICI DEL CRISTIANESIMO Cap. IV I PRIMI I DEL CRISTIANESIMO Cap. V LA CREAZIONE DEL DIO CRISTIANO Cap. VI IL POTERE TEMPORALE Cap. VII L’UOMO IMMORTALE Cap. VIII IL NUOVO MESSIA Riferimenti bibliografici Appendice
Premessa
Quattromila anni di mitologie: dal mitico Abramo alla madonna di Medjugorje. Il testo che segue si può suddividere in quattro parti: a) considerazioni sull’Antico Testamento (AT); b) considerazioni sul Nuovo Testamento (NT) e sulla vita di Gesù; c) nascita, sviluppo e magagne del cristianesimo; d) idee del libero pensiero. Non rientra negli obiettivi di questo lavoro scoprire se Dio esiste o non esiste, ma che non esiste il dio cristiano e che si può vivere bene senza questo maresciallo partorito dall’umana paura. La Chiesa, un plumbeo placebo ontologico, sin dai primi secoli, non rappresenta una religione ma un Potere, fondato sulla credenza di fatti mitologici che, oggi, la polvere del tempo e la bimillenaria dialettica clericale hanno trasformato in realtà. Secondo questi miti, tutto ebbe maledettamente inizio quando una costola maschile divenuta donna, grazie alla magia di uno zombie che “aleggiava sulle acque”, ascoltò un serpente parlante e mangiò un frutto malefico. Avevo acquistato lo scritto di Joseph Alois Ratzinger “Gesù di Nazareth”, completo di copertina di solido cartone bianco-anima e caratteri oro-luce, con l’intenzione di leggerlo, ma mi sono fermato al termine della prima pagina, alla frase: “Anche le religioni non mirano solo a rispondere alla domanda circa la provenienza; tutte cercano in qualche modo di sollevare il velo che copre il futuro”. Poiché non credo negli oroscopi, ho subito riposto il libro nella mia biblioteca, accanto ad alcune Bibbie, che, a guardarle, mi ricordano i papaveri in un campo di grano: sembrano tutto e sono niente. Queste mie note vogliono essere un contributo ad atei, miscredenti, agnostici, senzadio, umanisti, liberi pensatori, areligiosi, anticlericali, non credenti, scettici, razionalisti, brights. Milioni di preti, vescovi, cardinali, papi, “affiliati” alla Chiesa, in duemila anni hanno scritto milioni di testi (milioni…) dove non c’è un rigo che dimostri che questo metafisico mondo fantastico tirato in ballo da loro, con un dio a capo e diverse migliaia di “santi” e “beati” subalterni, abbia parvenza d’esistenza. Solo chiacchiere, chiacchiere e crocefisso. Dai teologi non ho ricevuto risposta alla mia domanda: insomma, questo Dio
esiste o non esiste? Sono convinto che a Dio non necessiti alcuna teologia e che non siamo in grado, noi uomini d’oggi, a rispondere a un quesito del genere, che è un quesito scientifico e non religioso. Non sapendo ancora rispondere scientificamente, la mente umana ha inventato le fantasie religiose. Da parte mia, sono convinto che se esistesse un’Entità Superiore, semplicemente esisterebbe …e basta, niente salamelecchi: Lei baderebbe ai fatti suoi e noi baderemmo ai fatti nostri. Se prendiamo atto che ancora oggi sono diffusi giornali, riviste e trasmissioni televisive – i cui direttori si ritiene siano persone di una certa caratura intellettuale – che sfornano oroscopi su oroscopi, diffondendo frasi del tipo “Oggi la Luna consiglia prudenza”, dobbiamo purtroppo constatare che, per l’uomo, la strada verso la coraggiosa razionalità è ancora lunga da percorrere. Il bersaglio di chi vuol difendere e, possibilmente, sviluppare tale razionalità dell’uomo, nella sua realtà, non deve essere la Chiesa o, più precisamente, il Vaticano, ma creduli e credenti, perché questo non fa altro che rispondere a una richiesta di mercato: il desiderio della vita eterna e il ricongiungimento con le persone care che sono defunte. Sino a quando ci sarà tale richiesta, gli ecclesiastici faranno marketing e, come avviene in questi casi, cercheranno di trarre degli utili; come vedremo, il patrimonio del Vaticano è sterminato. Quest’ameba pulsante, appiccicata sulla pelle dell’uomo, continuerà ancora a succhiarne energia e vitalità, come incredibilmente opera da oltre due millenni sino a quando ci sarà qualcuno che penserà che congiungendo le mani e ripetendo a pappagallo delle frasi si può colloquiare con Entità Superiori che lo stanno ad ascoltare. È ammissibile che l’ignoranza possa consentire di credere nelle mitologie, ma non è ammissibile che tale credo acquisisca potere e tracci i sentieri dell’uomo. Nel testo sono riportati diversi brani della Bibbia secondo l’ultima editio princeps 2008 e, tra parentesi quadra, sono riportate le versioni della precedente editio princeps 1971, a dimostrazione di come sia stata continuamente modificata e manipolata da parte della Chiesa la poco divina parola di Dio. Inoltre, nel testo appariranno brevi ripetizioni e richiami ad argomenti trattati in precedenza o trattati nel seguito, a mio avviso necessari per correlare il vasto ventaglio dei soggetti che il tema richiede e per filtrare la marea di testimonianze neotestamentarie, che sono eteree, non decisive, manomesse. Ciò cozza contro la certezza delle affermazioni ecclesiastiche, che invece assicurano bellamente per certo ciò che assolutamente certo non è, a conferma che solo religiosi e astrologi hanno certezze.
Carmelo La Torre
Cap. I ANTICO TESTAMENTO
I-1 Una lettura da vietare ai minorenni Lo storia dell’uomo è, per buona parte, una storia di crimini, una sequela di guerre e l’AT (Antico Testamento) rispecchia tale realtà. Tutte le religioni sono nate in periodi in cui l’uomo viveva sotto l’insegna della paura e immerso in un’abissale ignoranza; un adolescente di oggi ha molte più nozioni e coscienza civile dei vari padri fondatori di credi religiosi. È noto che la Bibbia (dal greco Biblìa, libri) è il libro più stampato al mondo, ma probabilmente è, in percentuale sugli acquisti, anche il meno letto. All’AT i cristiani hanno aggiunto il NT (Nuovo Testamento), che è più curato dalle tecniche di diffusione clericali. Più avanti sarà riportata una sintesi del contenuto dell’AT, questa sorta di leviatano ereditato dal ato, perché, a parte alcuni episodi hollywoodiani, da Mosè sul monte Sinai a Davide e Golia, la gente comune, credente e non, poco sa del contenuto dell’AT. Le moderne tecniche interpretative di questo logorroico testo – che ricorrono alla filologia, alla linguistica comparata e all’archeologia – hanno sciolto molti dubbi, ma certamente molti altri sono da sciogliere, non per “misteriosi disegni divini” ma più realisticamente perché è una sorta di patchwork messo insieme e rimestato nell’arco di vari secoli da una miriade di persone – oltre alla quarantina d’autori primitivi – che hanno riportato per iscritto le storie che si andavano raccontando per tradizione orale. Non basta: sino ai giorni nostri il testo biblico è continuamente modificato. Un’edizione ottocentesca della Bibbia italiana ha un testo diverso da una Bibbia dei giorni d’oggi. La stessa edizione CEI 1971 del testo biblico ufficiale è diverso dal più recente testo dell’edizione CEI 2008, altrettanto ufficiale; nel seguito, riportando i i biblici, saranno evidenziate tra parentesi quadre le modifiche apportate tra le due edizioni, a dimostrazione che la parola di Dio, più che parola divina, è umanissima. Ciò premesso, è da riconoscere che l’AT si presenta come un blocco unitario che si rifà a un comune patrimonio del mondo semitico (Asia sud occidentale e
Africa settentrionale) e mediterraneo e a una tesi fondamentale: l’alleanza tra dio e l’uomo ebreo. Proprio quando scrivevo queste note, ho avuto occasione di ascoltare su RAI 3, mentre una domenica mattina mi radevo, una trasmissione su Abramo. La conduttrice, a un certo punto, evidenziava al teologo, un belga che insegna in un “pontificio istituto” romano, le perplessità della gente comune dinnanzi a una figura, seppure importante, come Abramo, ma pur sempre leggendaria e che non è esistita. Risposta del teologo (ricordo a memoria mentre m’insaponavo il viso): “Purtroppo siamo ancora eredi di un periodo, sino a poco più di un secolo fa, in cui la Chiesa affermava che tutto ciò che era scritto nella Bibbia era vero. In realtà, se prendiamo la Storia, non è composta di fatti ma di testimonianze e ciò che importa è la testimonianza. La figura di Abramo, anche se mitica, incarna le caratteristiche, i desideri e gli obiettivi del popolo ebraico; quindi ha la sua funzione reale”. Col mitico Abramo dio ha stipulato il patto con gli ebrei, considerandoli popolo eletto: chi è quel ebreo che avrebbe il coraggio di affermare che è tutta una favola da non prestar fede? Giunge a tal punto la sottile e bimillenaria capacità di arzigogolare da parte degli ecclesiastici: il mitico diviene reale. È questo il principio cardine su cui si fonda la Chiesa, come cercherò d’illustrare. Per un ateo o un agnostico, la lettura dell’AT riesce ad essere anche divertente, ma per un credente questa lettura, che racconta di un dio assassino di innocenti, può risultare tra le più affliggenti e deprimenti. In nome del dio biblico, questa sorta di Moloc, noi abbiamo ucciso e siamo stati uccisi. È un continuo rincorrersi di stragi, assassinii, stupri, incesti, violenze. C’è il piacere per lo sterminio, unico mezzo di comunicazione del popolo eletto verso altre genti. Non c’è una frase che spieghi perché questo popolo sia stato scelto dal suo dio. Si ammazzano uomini, donne, bambini incolpevoli; quando va bene, donne e bambini sono portati via per farne concubine e schiavetti. Non c’è un rigo dove traspari un briciolo di comione o di misericordia. Questo testo primitivo, tradotto in una disastrosa lingua italiana, presenta grossolane lacune, doppioni, contraddizioni che la Chiesa afferma di derivare dalla tradizione orale con cui erano tramandate le storie, ma che, oltre a questa, ne sono responsabili principali il pressappochismo, l’incommensurabile ignoranza, gli interventi incontrollati degli amanuensi, il continuo rimestamento dei testi nell’arco di due millenni. I pii esegeti tentano di propinare sia nell’AT sia nel NT per oscuri episodi – dando all’aggettivo oscuro un senso di mistero
superiore della parola di Dio che noi poveri umani non possiamo comprendere – dei grossolani svarioni che gli incauti e sprovveduti redattori del testo biblico vi hanno inserito. Il dio dell’AT non è un dio rispettabile, è un dio inventato di sana pianta dalla penna di alcune decine di sacerdoti e oscuri scrivani che hanno avuto l’astuta idea di porre un dio a pretesto del loro carisma e, talvolta, del loro potere. Quella che poteva essere un’interessante e preziosa testimonianza di vita di genti antiche, seppure circoscritte in un fazzoletto di terra, è stata testardamente imposta come parola di Dio, un contraddittorio e rozzo “verbo divino”, che impedisce ai lettori di entrare nel merito della varietà dell’opera, apprezzando, in migliaia di pagine, qualche messaggio che può essere ritenuto interessante. L’immensa immoralità di tale parola di Dio ci vuole essere propinata come moralità, mentre è un dio violento, collerico, geloso, di una gigantesca povertà culturale, con tutti i difetti e le mancanze di chi lo ha inventato, poi ratificato e perfezionato dai concili della Chiesa lungo un millennio e mezzo, sin quando questa ha ricreato la sua creatura: il dio cristiano. L’AT spazia dal razzismo di Esdra e Neemia all’universalismo religioso della parte finale di Isaia e di Giona. È un manuale per il crimine, perché accondiscende e diffonde: l’assassinio, la tirannia, l’intolleranza, la stregoneria, la schiavitù, la persecuzione, la poligamia, l’adulterio, la prostituzione, la menzogna, la rapina, il furto, il sacrificio degli animali. È la storia di persone barbare e ignoranti, che avevano la presunzione di essere elette, nientedimeno, da un loro dio irrispettoso, che ritenevano di essere in diritto di ammazzare, rubare e schiavizzare chi non faceva parte della loro tribù. È inconcepibile come un tale testo possa essere stato preso come indirizzo di vita da alcune classi sacerdotali (ebrei, cattolici, ortodossi, protestanti e simili), che lo hanno imposto per millenni (millenni, non secoli…) a miliardi di persone (miliardi, non milioni…) e in nome delle banalità che vi sono riportate sono scaturite guerre, devastazioni, stragi per secoli, sino ai giorni nostri. Il dio dell’AT è uno dei personaggi più disgustosi della letteratura: iniquo, meschino, genocida, megalomane. Degli stermini, vendette, assassini e altre magnificenze comandati da dio ne è pieno l’AT e non è il caso di soffermarsi. Nell’AT sono descritti oltre 130 episodi che riguardano atrocità e massacri. Ecco l’episodio dove dio ammazza a pietrate la gente (Gs 10,11): “Mentre essi fuggivano dinanzi a Israele ed erano alla discesa di Bet-Oron [Bet-Coron] [N.B.
I brani riportati nel testo sono quelli della Bibbia editio princeps 2008; come anticipato in Premessa e all’inizio di questo capitolo, tra parentesi quadre sono riportate le versioni della precedente editio princeps 1971], il Signore lanciò dal cielo su di loro [essi] come grosse pietre fino ad Azeka e molti morirono. Morirono per le pietre della grandine più di quanti ne avessero uccisi [Coloro che morirono per le pietre della grandine furono più di quanti ne uccidessero] gli Israeliti con la spada”. Dio è per la pena di morte e ordina al fido Mosè (Nm 25,4): “Prendi tutti i capi del popolo e fa’ appendere al palo costoro [i colpevoli]”; degli adoratori di Baal-Peor ne furono ammazzati 24.000. Il numero, come altri della Bibbia, è spropositato, e questa esagerazione indica il gusto dell’autore verso la strage e l’odio verso il nemico. Un dio nevrastenico per il censimento (1 Cr 21,14) fa morire di peste 70.000 israeliti e quando l’arca della cosiddetta “alleanza” giunge a Gat (1 Sam 5,9) colpisce tutti gli abitanti provocando loro dei bubboni. D’accordo che si tratta di invenzioni, ma è grave che siano lette e divulgate con la presunzione di tirar fuori qualche morale comportamentale. Perché l’Onnipotente si riposa il settimo giorno della creazione? Mistero. Con chi ebbe figli Caino? O con sua madre o con una sorella o con una nipote, figlia del padre Adamo con una sorella di Caino: un incesto gigantesco. La lettura dell’AT, un insulto alla dignità dell’uomo, è una sconvolgente esperienza che va lasciata solo agli studiosi e ai preti; una persona normale, che si avventura a leggere “tutte” le migliaia di pagine, alla fine è possibile che abbia difficoltà a riappropriarsi del senso della realtà. Molto più edulcorato è, invece, il dio cristiano del NT, ma qualche assassinio lo snocciola anche lui. Oltre all’uccisione dei coniugi Anania e Saffica (At 5, 5-10), finisce con una mattanza la parabola delle monete d’oro (Lc 19,27) e al tempo del Giudizio universale dio darà mandato alla Morte (Ap 6,8) di “sterminare con la spada, con la fame, con la peste e con le fiere della terra” un quarto della popolazione del pianeta. Insomma, un solo sterminio, rispetto all’AT, ma bello e abbondante. Se il NT, con le parole del buon Gesù, fosse seguito pedissequamente dalle persone, avremmo una comunità di pazzi vagabondi, incapaci di accudire al loro sostentamento. I fedeli cristiani hanno due dii, ma pare che non se ne rendano conto: c’è un dio dell’AT vendicativo e assetato di sangue e un dio del NT tutto amore e solo con qualche irritazione. La Chiesa ha dovuto barcamenarsi sui due dii e ha declassato il dio dell’AT con la crocifissione di Gesù (il figlio che
s’immola per il padre), considerando la lettura dell’AT come una raccolta di storie ebraiche su antichi interventi divini. Le storie mitiche, leggendarie, soprannaturali che infarciscono l’AT potevano meravigliare il popolo dei credenti dei secoli ati, ma oggi, a parte qualche anima candida, c’è sufficiente scetticismo nel considerare tali episodi come “ispirati divinamente”. È comprensibile come attraverso gli enunciati mitici si possano mandare, talvolta, messaggi dal significato più profondo di quanto la storia non esprima, ma proprio per tale scopo, nei tempi moderni, la Chiesa avrebbe dovuto demitologizzare (e non demitizzare) i testi biblici. C’era l’occasione del concilio Vaticano II in cui il papa poteva affermare all’incirca “Le parti delle Sacre Scritture che enunciano verità di fede sono state rivelate da Dio. Il resto è opera dell’uomo”. Invece, caparbiamente, il concilio ha lasciato tutto inalterato, confermando, con vero sense of humour, che AT e NT è materiale “rivelato”, dalla A alla Z. Questi moderni padri della Chiesa, chiusi nella mentalità dogmatica formatasi lungo il corso della loro lunga e monotona vita, non hanno compreso che molte persone credenti di oggi non possono accettare le mitologie bibliche; ciò non significa che rifiutano, da credenti, la Bibbia, ma hanno bisogno che la parola di dio sia liberata da un’arcaica visione del mondo.
INDICE DELLA BIBBIA
L’ANTICO TESTAMENTO
PENTATEUCO Genesi Esodo Levitico Numeri Deuteronomio LIBRI STORICI Giosuè Giudici Rut 1 Samuele 2 Samuele 1 Re 2 Re 1 Cronache 2 Cronache Esdra Neemia Tobia Giuditta Ester 1 Maccabei 2 Maccabei
LIBRI POETICI E SAPIENZIALI Giobbe Salmi Proverbi Qoèlet Cantico dei cantici Sapienza Siracide
LIBRI PROFETICI Isaia Geremia Lamentazioni Baruc Ezechiele Daniele Profeti minori (da Osea a Malachia)
IL NUOVO TESTAMENTO
Vangelo di Matteo Vangelo di Marco Vangelo di Luca Vangelo di Giovanni Atti degli apostoli Lettere di San Paolo Lettere canoniche Apocalisse
ABBREVIAZIONI BIBLICHE Ab Abacuc Gv Giovanni Abd Abdia 1,2,3 Gv Lettere di Giovanni Ag Aggeo Is Isaia Am Amos Lam Lamentazioni Ap Apocalisse Lc Luca At Atti degli apostoli Lv Levitico Bar Baruc 1,2 Mac Maccabei Col Lettera ai Colossei Mc Marco 1,2 Cor Lettere ai Corinti Mi Michea 1,2 Cr Cronache Ml Malachia Ct Cantico dei cantici Mt Matteo Dn Daniele Na Naum Dt Deuteronomio Ne Neemia Eb Lettera agli Ebrei Nm Numeri Ef Lettera agli Efesini Os Osea Es Esodo Pr Proverbi Esd Esdra 1,2 Pt Lettere di Pietro Est Ester Qo Qoèlet (Ecclesiaste) Ez Ezechiele 1,2 Re Libri dei Re
Fil Lettera ai Filippesi Rm Lettera ai Romani Fm Lettera ai Filemone Rt Rut Gal Lettera ai Galati Sal Salmi Gb Giobbe 1,2 Sam Libri di Samuele Gc Lettera di Giacomo Sap Sapienza Gd Lettera di Giuda Sir Siracide Gdc Giudici Sof Sofonia Gdt Giuditta Tb Tobia Gen Genesi 1,2 Tm Lettere a Timoteo Ger Geremia 1,2 Ts Lettere ai Tessalonicesi Gl Gioele Tt Lettera a Tito Gn Giona Zc Zaccaria Gs Giosuè
I-2 La nascita della Bibbia È paradossale come l’AT, un testo scritto durante l’età del ferro da uomini ignoranti per genti barbare, sia stato preso a base di tre religioni patriarcali e misogine – ebraismo, cristianesimo, islamismo – e, dopo millenni d’evoluzione umana, sia ancora preso in considerazione causando infelicità, violenze, lutti senza un motivo razionale. L’AT è un manuale che offre anche metodi per attuare il genocidio, ma è letto come codice morale. Che l’AT sia una raccolta di assurdità e falsificazioni si dimostra anche col fatto che nulla si è trovato, a parte la descrizione dei luoghi, delle “grandiosità”, come i templi con l’arca santa o il tempio di Salomone e dei personaggi descritti così pomposamente. Nato verso il VI secolo a. C., l’AT riporta molte leggende e miti del Medio Oriente e del mondo mediterraneo, come la fecondazione delle donne sterili con divinità e la leggenda sumera che descrive l’episodio di Eva e del serpente. Se la Bibbia fosse un’opera ispirata da un dio, dovrebbe essere giusta, coerente, sincera, intelligente, onesta e bella, invece trabocca di assurdità scientifiche, incoerenze logiche, errori storici, sciocchezze umane, degenerazioni etiche e goffaggini letterarie. Le favole orali si trasformano in scrittura e, con la polvere del tempo, divengono realtà. La stragrande maggioranza dei fedeli di tutte le religioni che crede nelle sacre scritture loro propinate non è interessata alle origini storiche di questi documenti e alla loro veridicità. La Bibbia, AT e NT, è stata scritta, revisionata, manomessa, tradotta, controllata, modificata, censurata da centinaia, migliaia, di autori, redattori, estensori, copisti, dignitari ecclesiastici. La nostra morale non deriva dalle sacre scritture: se così fosse, saremmo criminali o pazzi o entrambi e in molti i la Bibbia si rivela non immorale, bensì amorale, come alcuni comportamenti di Abramo (vedi al paragrafo 1-9 “Abramo e signora”). Premesso che esistono diverse Bibbie, quella cattolica (che a sua volta sopporta via via con l’andare dei tempi, grossolani errori di traduzione e modifiche del testo apportate prima dai padri della Chiesa e poi dalla nomenclatura vaticana sino all’ultima edizione dell’anno Domini 2008) è composta di 73 Libri: 46 costituiscono l’AT e 27 il NT. Si tratta di una raccolta di testi scritti da almeno una quarantina d’autori diversi nel corso di una quindicina di secoli. L’AT abbraccia un periodo storico di circa 1.500 anni, compreso tra il XX e il V secolo a. C., dal medio regno egizio sino a Dario II. Il NT abbraccia un periodo storico
di circa 140 anni, compreso all’incirca tra il 40 a. C. e il 95 d. C., da Erode a Giovanni (ci chiederemo più avanti: quale Giovanni?). La diversità tra la Bibbia ebraica e quella cattolica ha radici antiche, ovviamente solo per quanto riguarda l’AT, giacché il NT è un testo cristiano. La versione ebraica si rifà al “canone palestinese” scritto in ebraico e con qualche vocabolo in aramaico (dal greco canone: regola, norma). Questo “canone” fu accettato dal giudaismo in due assemblee avvenute in Palestina, la prima verso il 65 e la seconda nel 90. La versione cattolica si rifà al “canone alessandrino”, che è una traduzione greca degli scritti biblici, eseguita tra il III e il II secolo a. C., detta Versione dei Settanta, accettata dalla Chiesa primitiva, ma piena di errori di traduzione e di libere interpretazioni, come si è scoperto in tempi recenti, per il motivo che il traduttore antico aveva un concetto diverso da quello attuale su cosa s’intendeva per “traduzione”: per lui era un’azione in cui era lecito mettere anche del proprio. Pare che Tolomeo II Filadelfo, re ellenistico d’Egitto, abbia commissionato a 72 traduttori di redigere in greco il Pentateuco. La traduzione della restante parte dell’AT deve avere impegnato per diversi decenni altri traduttori. Questa versione incorpora alcuni Libri (Tobia, Giuditta, Maccabei, Baruc, Sapienza, Siracide) e alcuni brani (d’altri Libri) non riconosciuti dal giudaismo ufficiale palestinese. Nel secolo scorso anche gli evangelici eliminarono tali Libri dalla loro Bibbia, considerandoli apocrifi. Altra diversità riguarda l’ordine con cui i Libri sono inseriti nel testo; la Bibbia ebraica li pone secondo il grado d’autorevolezza (i primi sono i più autorevoli). Solo nel 383 il vescovo di Roma Damaso incaricò Gerolamo, poi fatto santo, a compilare un testo unitario tra le varie Bibbie latine che circolavano, partorite dalla Versione dei Settanta. Gerolamo vi lavorò dal 390 al 405 e fu così che ebbe luce la Vulgata, con i limiti e le libertà di traduzione prima accennati. La Vulgata fu respinta dalla stessa Chiesa per oltre un millennio (oltre un millennio…) e accettata come testo valido solo col concilio di Trento (iniziato nel 1545 e durato 18 anni). In quell’occasione furono depennati dal testo cattolico il terzo Libro di Esdra e il terzo e quarto Libro dei Maccabei. A seguito di tutti i rimaneggiamenti subiti in oltre duemila anni, la Bibbia presenta imprecisioni e contraddizioni; qualcuno di questi, limitatamente all’AT, è riportato in tabella 1. C’è anche un o dell’AT ripetuto tal quale due volte: 2 Re 19 e Is 37. La Bibbia, come detto, riporta leggende, miti, favole, racconti che erano diffusi
per tradizione orale, la quale si sviluppa per punti d’interesse e non per logica lineare, e il testo risente di tale origine; i difetti più comuni sono: a) paratassi, cioè le proposizioni non sono subordinate ma autonome, non gerarchizzate: tutto è allo stesso livello; b) ridondanza, cioè ripetizione degli stessi vocaboli; c) estremismo, cioè personaggi ed episodi privi di sfumature. La Bibbia, nella sua interezza, è letta solo da interessati, come sacerdoti e studiosi, mentre i fedeli, semmai, leggono in genere pochi i. Una persona, anche se credente, non può mettersi a leggere circa tremila pagine pesantissime di storie e considerazioni lontane dal tempo e dalla mentalità di oggi, che parlano di popolicchi barbari che vivevano in un fazzoletto di terra e di cui non gliene importa nulla. Come mai dio ha concentrato la sua attenzione solo su quel fazzoletto di terra che è la Palestina, fregandosene, ad esempio, di cinesi e giapponesi? Come mai dio si è interessato dell’homo sapiens sapiens, che esiste solo da poche decine di migliaia di anni, quando gli esseri viventi sul nostro piccolo pianeta sperduto nell’Universo esistono da quasi quattro miliardi di anni? Perché abbiamo la coscienza, risponde il credente; andiamoci piano: l’uomo è uno dei pochi animali che ammazza i suoi simili, sin dai tempi di Caino.
I-3 Cenni storici
Il nome Palestina non è riportato dalla Bibbia; grande quanto la Sicilia, prima che giungessero gli israeliti, era chiamata Canaan, abitata dai cananei. Poi sarà chiamata, con un crescendo, terra di Giuda, terra d’Israele, terra promessa, terra santa, terra di dio. Canaan, in un periodo compreso tra il 3000 e il 1500 a. C. (Prima e Media Età del bronzo), doveva essere ricca di città-stato che avevano contatti commerciali con l’Egitto e le aree limitrofe. Secondo una prima versione, verso il 2500 a. C., secolo più secolo meno, molti cananei emigrarono verso il delta del Nilo, fondarono la dinastia degli hyksos e acquisirono potere. Intorno al 1550-1500 a. C. i faraoni cacciarono gli hyksos e sottomisero Canaan. Parte dei cananei si ritirò nelle aree montuose, creando degli agglomerati agricoli e, secondo alcuni, potrebbe costituire il nucleo originario del popolo israelita, chiamato habiru (rifugiati) dagli egizi. Già in alcune incisioni cuneiformi (le più antiche risalgono al 2600 a. C.) si parla di un popolo habiru. Il termine ebraico ibrim (italiano ebreo) deriverebbe dalla fusione del mesopotamico habiru con l’egizio ’br. Verso il 1150 a. C. gli egizi si ritirarono da Canaan e furono sostituiti dagli israeliti (zone montagnose) e dai filistei (zone costiere). Secondo un’altra versione, intorno al 1900-1800 a. C. gli ebrei pervennero in Palestina e in Siria e quindi, pressappoco intorno al 1700-1600 a. C., forse spinti dall’invasione delle loro terre da parte degli hittiti, giunsero in Egitto, all’incirca, quando il delta del Nilo fu invaso dagli hyksos, che poteva essere una popolazione asiatica d’origine ariana. Verso il 1600-1500 a. C. gli ebrei furono scacciati una prima volta dagli egizi, poiché probabilmente avevano trescato con gli hyksos a scapito dei padroni di casa e forse anche perché il credo ebraico, inizialmente politeista, era abbastanza lontano dalla religione egizia. Una seconda emigrazione risale intorno al 1250 a. C., descritta dall’esodo biblico. È anche probabile che gli israeliti fossero dei pastori nomadi che si fo con gli ebrei giunti anch’essi a Canaan. Tutto quanto detto rientra nella sfera delle supposizioni non comprovate. Una volta preso possesso di Canaan, tra israeliti e filistei nacquero delle tensioni e, a fronte di una politica espansionistica dei filistei, le tribù israelite si unirono
in una nazione sotto Saul e poi, intorno al 1000 a. C., sotto David. Sconfitti i filistei, il massimo splendore degli israeliti si ebbe con Salomone, figlio di David. Facendo un o indietro, verso il XIII secolo, è possibile che nell’arco di due, tre secoli, le tribù israelite trovarono un punto di contatto con il credo in Jahvé, pur continuando a venerare altri dèi, come El Eljôn, Baal, Astante (I pii esegeti contemporanei si preoccupano di spiegarci che Jahvé ed El Eljôn sono due nomi dello stesso dio). Tali tribù distrussero le piccole città-stato cananee e poi combatterono i filistei; di questo periodo l’AT descrive una ripetuta e inutile carneficina nel nome di un dio ancor più crudele, che non proclama l’uguaglianza delle persone e la difesa della vita umana, ma l’opposto: il dominio. In realtà, le prime tribù israelite che si stabilirono a Canaan adoravano Jahvé con la sua sposa Asherah, anzi i maggiori favori del popolo erano rivolti proprio verso la sposa, una sorta di “dea madre”, caratteristica delle credenze primordiali del bacino mediterraneo, quando il parto e la nascita di una creatura apparivano come fatti soprannaturali. Il culto di Asherah durò ben 600 anni, poi il monoteismo ebbe il sopravvento tra le tribù israelite, comparvero i panegiristi biblici e Jahvé rimase vedovo. L’accoppiata del nazionalismo estremo e del monoteismo, peculiarità questa del mondo ebraico, nel quale è possibile sia avvenuta l’introduzione di elementi indigeni, porta a una serie di guerreggiamenti sino al 1000 a. C. L’A.T. narra di eserciti composti di migliaia di guerrieri armati di spade scintillanti, quando ancora si tagliavano i prepuzi con le selci; in realtà questi mitici scontri altro non erano che contese tra povera gente, da una parte vi erano i contadini autoctoni che si difendevano a colpi di bastone e dall’altra i pastori invasori che, sorpresi a rubare, tiravano pietre con le fionde. Questi poveretti non conoscevano nemmeno l’uso del cavallo in guerra e quando si scontreranno con i popoli meglio organizzati le buscheranno di santa ragione e incolperanno loro stessi per non avere rispettato gli ordini del loro dio. Dopo il regno di David (1000-961), segue quello del figlio Salomone, il saggio (ma aveva 700 mogli e 300 concubine), il quale “apre”, per motivi politici e di buon vicinato, anche ad altri dèi. Una volta che lo jahvismo (culto di YHWH) avrà il sopravvento sugli altri dèi, dopo la solita sequenza di stragi e lotte interne, a posteriori i cronisti biblici cercheranno di unificare i diversi dèi insistendo su un unico dio, grande amico del loro popolo.
Morto Salomone, nel 931 a. C. gli ebrei si dividono: a nord è costituito da dieci tribù il regno d’Israele (capitale Samaria), con apertura al culto di Baal, repressione dello jahvismo e avvio del sincretismo religioso, mentre a sud le tribù di Giuda e Beniamino costituiscono il regno di Giuda (capitale Gerusalemme), moderatamente jahveista. Si ha uno scisma religioso e i due regni alterneranno periodi di pace e guerra. Nel 721 a. C. gli Assiri pongono fine al regno d’Israele, danno una sonora lezione agli ebrei e li deportano in Babilonia, da dove non ritorneranno più. In Samaria s’installano altre popolazioni, mentre dei profughi della Samaria sono ospitati dai “cugini” giudei. In Giuda avviene lo sviluppo dello jahvismo e ne sono artefici principali, secondo l’AT, Ezechia e Giosia, ricorrendo a una sostanziosa serie di massacri degli “infedeli”. A un secolo dalla caduta del regno d’Israele, anche il regno di Giuda è messo a tacere da parte dei Babilonesi comandati da Nabucodonosor, che avevano avuto il sopravvento sugli Assiri, e anche i giudei sono deportati. In questo periodo e in quello successivo persiano si cominciano a scrivere, da parte di sacerdoti giudei, i primi brani dell’AT; avranno (sacerdoti e AT) il pregio di mantenere viva l’unità etnica del popolo ebreo durante la cattività. La deportazione dura una cinquantina d’anni, sino a quando Ciro il Vecchio, re persiano che aveva sconfitto i Babilonesi, concede nel 587 a. C. ai giudei di tornarsene nella loro terra. Secondo l’AT, solo in 42.370 maschi ritorneranno (donne e bambini non si contavano). Molti di loro, forse la gran parte, ormai stabilitisi nella nuova terra, non faranno ritorno. Seguono quindi due secoli di sottomissione persiana della Palestina, che però gode di una certa autonomia religiosa. Nel 333 a. C. Alessandro Magno con i suoi Macedoni sconfigge i Persiani e ha inizio il periodo ellenistico della Palestina, con le dinastie dei Lagidi e dei Seleucidi. Nel 167 a. C. avviene una prima rivolta giudea contro i Seleucidi, guidata dai Maccabei, e venticinque anni dopo gli ebrei sconfiggono definitivamente i Seleucidi, conquistando tutta la Palestina. L’indipendenza palestinese dura circa ottanta anni, sino al 63 a. C., quando compaiono sulla scena i Romani: Pompeo sottomette Siria e Palestina. Molti ebrei sono uccisi e molti altri sono inviati a Roma come schiavi. Francamente, a chi non è palestinese o israeliano o ebreo o uno studioso, dei fatti di questa gente non interessa più di tanto. Comunque, tra battaglie, assassini
(metà dei re d’Israele è assassinato) e amenità varie, fantasiosamente raccontate dall’AT, notifichiamo, dopo circa mezzo secolo dalla sottomissione a Roma, la possibile nascita di tale Gesù tra il 7 e il 5 a. C. È da rimarcare che nel primo secolo d. C. la Palestina era attraversata da una massa di predicatori, santoni, asceti, veggenti e quant’altro, molti spinti da uno spirito patriottico antiromano, che profetizzavano anche il crollo dei Romani con l’aiuto del loro dio, di cui si dichiaravano interpreti.
TAVOLA CRONOLOGICA
3200-2000 a. C. PRIMA ETA’ DEL BRONZO -----------------------------------------------------------------------------------2000-1550 a. C. MEDIA ETA’ DEL BRONZO 2030-1720 a. C. Medio impero egiziano 1850 a. C. Il mitico Abramo arriverebbe in Palestina 1750 a. C. Codice di Hammurabi -----------------------------------------------------------------------------------1550-1150 a. C. TARDA ETA’ DEL BRONZO 1374-1347 a. C. Egitto: Aknaton promuove il culto del dio Aton 1347-1338 a. C. Egitto: governa Tutankhamon 1304-1238 a. C. Egitto: governa Ramsete II 1250 a. C. Probabile esodo dall’Egitto degli ebrei -----------------------------------------------------------------------------------1200-586 a. C. ETA’ DEL FERRO 1200 a. C. Gli ebrei arriverebbero in Palestina 1200-1030 a. C. Gli ebrei sono governati dai “giudici” 1030-1010 a. C. Regno di Saul 1010-970 a. C. Regno di Davide
970-931 a. C. Regno di Salomone 922 a. C. Divisione degli ebrei: regno d’Israele a nord e regno di Giuda a sud 721 a. C. Gli Assiri pongono fine al regno d’Israele e deportano gli israeliti 612-605 a. C. I Babilonesi distruggono Ninive, capitale assira, e dominano sul Medio Oriente 605-562 a. C. Nabucodonosor regna in Babilonia 597 a. C. I Babilonesi assediano Gerusalemme e prima deportazione dei giudei 587 a. C. I Babilonesi pongono fine al regno di Giuda e seconda deportazione dei giudei 586-538 a. C. PERIODO BABILONESE 538 a. C. Ciro il Vecchio conquista Babilonia e consente agli ebrei il ritorno in Giudea -----------------------------------------------------------------------------------538-333 a. C. PERIODO PERSIANO -----------------------------------------------------------------------------------332-37 a. C. PERIODO ELLENISTICO 333 a. C. Alessandro Magno il macedone sconfigge i Persiani e domina sul Medio Oriente 333-63 a. C. Periodo ellenistico della Giudea 333-200 a. C. La Giudea è sottomessa ai Lagidi, dinastia macedone che regna in Egitto 200-142 a. C. La Giudea è sottomessa ai Seleucidi, dinastia macedone stabilitasi in Siria dal 300 a. C. 167-164 a. C. Gli ebrei sono perseguitati dal re seleucida Antioco Epifanio
166 a. C. Rivolta vittoriosa dei Maccabei, soprannome della famiglia ebraica degli Asmonei 142-63 a. C. Indipendenza degli ebrei sotto la dinastia degli Asmonei -----------------------------------------------------------------------------------63 a. C.-324 d. C. PERIODO ROMANO 63 a. C. Pompeo sottomette la Palestina 29 a. C.-4 a. C. In Palestina regna Erode il Grande sotto Augusto 7-5 a. C. Nasce Gesù e la Palestina diventa provincia romana 5/10-64/67 d. C. Nascita e morte di Paolo di Tarso 26-36 d. C. Pilato diventa prefetto della Palestina sotto Tiberio (14-37 d. C.) 30 d. C. (7 aprile) Una delle possibili date in cui muore Gesù 66-70 d. C. Rivolta degli ebrei, Tito distrugge Gerusalemme; è scritto il vangelo di Marco 80 d. C. Intorno all’80 d. C. sono scritti i vangeli di Matteo e Luca e gli Atti degli apostoli 100 d. C. Intorno al 100 d. C. sono scritti il vangelo di Giovanni e l’Apocalisse.
I-4 L’Antico Testamento da bere Per chi ha letto solo qualche rigo dell’AT o non l’ha mai avuto tra le mani, di seguito è riportata una sintesi, per consentire di rendersi conto cosa trattino, quando siano stati scritti e chi siano gli autori dei brani che compongono questo ultrasupervalutato prodotto della mente umana, “una lampada su un sentiero buio”, come riporta la presentazione della Bibbia di Gerusalemme. L’AT cattolico si suddivide in quattro parti: Pentateuco, Libri storici, Libri poetici e sapienziali, Libri profetici. Nell’AT ebraico “Dio” è indicato con il tetragramma “YHWH”, nell’AT cattolico (italiano) con “Signore”. La presentazione dei vari libri costituenti l’AT segue il canone alessandrino, cioè la Bibbia cattolica. Per ogni libro è riportato il numero di pagine occupate, con riferimento alla “Bibbia di Gerusalemme”, ristampa 2010 (2.784 pagine+184 pagine di commenti), testo biblico in accordo con la editio princeps 2008; in tal modo il lettore potrà farsi un’idea non solo della sintesi attuata ma anche della plumbea prolissità degli scritti.
Pentateuco I primi cinque Libri della Bibbia – Genesi, Esodo, Levitico, Numeri, Deuteronomio – formano il Pentateuco (in greco significa “cinque astucci” o “teche”), corrispondente all’ebraico Toràh, “legge”. Il Pentateuco è dedicato in massima parte alla figura di Mosè e sarebbe stato scritto in quattro fasi temporali diverse, in periodi abbastanza posteriori all’era in cui è stato collocato Mosè dai suoi redattori. È stata scartata dagli studiosi la tesi che il Pentateuco sia stato scritto da Mosè, ipotesi alla quale credette anche il buon Gesù, o meglio chi scrisse di Gesù (Gv 5,46). Nel Pentateuco confluiscono tradizioni orali e documenti del tempo (come ad esempio Enuma elish, scritti mesopotamici con una descrizione della creazione, e Gilgamesh, poema mitologico assirobabilonese con una descrizione del diluvio), che vanno dall’epoca del presunto Mosè (XIII secolo a. C.) all’epoca della restaurazione del popolo d’Israele dopo l’esilio in Babilonia (V secolo a. C.). In sostanza, è opinione corrente che il Pentateuco sia stato scritto da diversi cronisti in un intervallo abbastanza lungo. Le incongruenze e le ripetizioni che s’incontrano sono dovute in parte alla tradizione orale, in parte ai 2.500 anni che
ci dividono dagli autori, ma indubbiamente questi scritti, depurati dagli eventi mitici descritti, forniscono un panorama della struttura sociale e della quotidianità delle genti, per chi ne fosse interessato. Genesi (104 pagine), in greco significa “origini”. La Genesi parla della creazione del mondo e poi via via si ferma a Giuseppe in Egitto. A parte la creazione, i fatti, in modo alquanto indicativo, dovrebbero riguardare un periodo antecedente a Mosè, che va da Abramo (mitica figura collocata intorno al 19001800 a. C.) a Giuseppe l’egizio (che si colloca verso il 1700 a. C.). Esodo (88 pagine), in greco significa “uscita” (dall’Egitto). Si racconta dell’esodo degli ebrei dall’Egitto guidati da Mosè e del suo trekking sul Sinai. Se è vero ciò che scrive il cronista biblico, cioè che gli ebrei collaborarono a costruire la città di Pitom (in effetti Pi-Ramses), il mitico esodo di Mosè deve essere avvenuto intorno al 1250 a. C. Levitico (58 pagine), significa “tipico dei levìti”, cioè della tribù di Levi, alla quale appartenevano i sacerdoti d’Israele; in senso più ampio per levìti s’intendono i sacerdoti. Il libro, autentico “mattone”, è una raccolta di riti e cerimoniali. È alquanto probabile che sia stato prima scritto e in seguito rimaneggiato da diversi sacerdoti in un lungo intervallo, forse secoli. Numeri (76 pagine), deriva dal greco ed equivale a “censimenti”. Il testo riprende la storia del cammino degli ebrei, guidati da Mosè, dal Sinai verso Canaan, la terra promessa. Nella stesura definitiva, il libro deve essere stato scritto da un unico sacerdote, o da personaggio ammanigliato con la classe sacerdotale. Deuteronomio (70 pagine), in greco significa “seconda legge”, dopo quella dell’Esodo (da Es 20,22 a Es 23,33). Il libro è composto di tre discorsi di Mosè prima della sua morte e probabilmente è stato scritto durante l’esilio degli ebrei. Dall’esame del testo del Pentateuco, analizzando i termini stilistici e i contenuti, s’identificano quattro fonti primitive. La fonte Jahveista (J), sostanzialmente narrativa, che indica dio col tetragramma ebraico YHWH. Nell’antico ebraico (come nella moderna lingua araba) si trascrivevano solo le consonanti e, pertanto, la vocalizzazione in Jahweh, Jahvé o Jehovah è solo presunta; l’attuale neoebraico, lingua ufficiale di Israele, ha in linea di massima gli stessi caratteri dell’antico ebraico ma in taluni casi la pronuncia è diversa. Soffermiamoci un
attimo sul nome di “Dio”, facile per i cristiani, ma più difficile per gli ebrei; per questi, infatti, il sacro tetragramma YHWH è impronunciabile e deriva dalla traslitterazione di quattro lettere ebraiche (yod, he, waw, he). Il giudaismo ortodosso considera blasfemo il nome Jahvé e nella liturgia delle sinagoghe “Dio” è chiamato con l’appellativo onorifico Adonay, che significa “Signore”; anche Yehowa ha lo stesso significato di Adonay. La fonte Elohista (E), che indica con Elohim (è un nome plurale) gli “esseri divini”. Ad esempio, ai nomi jahveisti “Sinai” e “cananei” corrispondono i nomi elohisti “Horeb” e “amorrei”. La fonte J, ad esempio, descrive il ritorno dall’Egitto e la conquista di Canaan e mescola la storia con l’intervento divino (es. paradiso terrestre, diluvio), lasciando tracce della trascorsa idolatria. La fonte E ha scarsi documenti, databili tra il IX e il VI secolo a. C., dai quali si evince che il rapporto tra dio e i patriarchi avviene tramite sogni e tratta preferibilmente il tema morale più di quello storico. La fonte Deuteronomista (Dtn.) tratta quasi interamente il Deuteronomio; si evidenzia per il tono di retorica religiosa e per il principio della remunerazione: il buono è florido, il cattivo va a rotoli. La fonte Sacerdotale (P) si sofferma sulle forme del culto, assegna a dio sentimenti e forme umane, e descrive la seconda parte dell’Esodo (dal capitolo 19), il Levitico e i primi dieci capitoli dei Numeri. L’alleanza con dio è sancita dall’incontro sul Sinai, ma va affermato che nel Medio Oriente tutte le leggi erano considerate ricevute dalle divinità, per dare loro un carattere sacrale; persino nei contratti privati, nei giuramenti e nei codici erano invocati gli dèi come testimoni. Lo spettacolare incontro di Mosè con dio sul Sinai non era per nulla una storia eccezionale.
I Libri storici Dopo il Pentateuco, seguono i Libri storici; a parte Rut, i primi libri (Giosuè, Giudici, Samuele, Re) sono ricollegabili al Deuteronomio e coprono gli avvenimenti dalla leggendaria morte di Mosè sino al 587 a. C., con la seconda caduta di Gerusalemme e seconda deportazione degli ebrei da parte dei Babilonesi. Nei testi si registra la mancata realizzazione della promessa divina di uno stato unitario ebraico e la triste realtà della deportazione in Babilonia e si
fornisce la causa: la violazione, da parte dei regnanti e del popolo, dell’alleanza con dio. Non è certo dove siano stati compilati i testi, se durante l’esilio o se in Palestina dai superstiti. Il libro di Giosuè (48 pagine) parla della conquista della Palestina e della ripartizione dei territori tra le varie tribù. Il libro dei Giudici (52 pagine) fornisce una diversa conquista della Palestina (piccoli gruppi insediati in tempi successivi, cananei più preparati tecnicamente); il cantico di Debora, al capitolo 5, è ritenuto uno dei testi più antichi dell’AT, forse del X secolo; c’è una serie di personaggi, come gli hollywoodiani Sansone e Dalila, che sono limitati ad aree locali e non nazionali; si avverte un tono polemico contro la parte settentrionale di Canaan, considerata responsabile della suddivisione nel 922 a. C. del regno unitario di Salomone nei due regni, di Giuda a sud e d’Israele a nord. Nel libro di Rut (8 pagine), bisnonno di Davide, si ribadisce che il legame familiare porta anche al legame con dio. I due libri Samuele 1 e 2 (110 pagine) parlano, tra l’altro, di Saul e David, spesso ripetendo lo stesso evento in modo diverso e con diverse incongruenze; in sostanza, più che storia, si tratta di un romanzo con aspetti tragici. I due libri Re 1 e 2 (110 pagine) parlano del regno di Salomone, dei due regni di Giuda e Israele nei quali si sono scissi gli ebrei, sino alla deportazione in Babilonia; più che dell’interesse a raccontare i fatti storici, i testi, che si rifanno a fonti che dovevano essere conosciute al tempo dei redattori, hanno lo scopo principale di evidenziare che la sconfitta degli ebrei non è un’assenza di dio e una sua sconfitta da parte degli dèi stranieri ma una colpa dei re e del popolo. Le Cronache 1 e 2 (108 pagine) sono scritte verso il 300 a. C. da un sacerdote (levìta) di Gerusalemme. In un’imponente storiografia, tratta del tempio, del culto e del sacerdozio e afferma il principio divino della remunerazione: chi fa bene, ok!, chi fa male, ko! Si nota la polemica contro i samaritani, ritenuti eredi del regno d’Israele nel nord. Caso unico dell’AT, fa riferimento al demone satana (1 Cr 21,1). I due libri di Esdra e Neemia (48 pagine) inizialmente erano uniti. Esdra è un sacerdote e scriba attivo a Gerusalemme tra il 445 e il 433 a. C., Neemia è una sorta di sovrintendente ai lavori di ricostruzione. Il racconto dei due si avvia
quando rientrano a Gerusalemme dall’esilio persiano. Il tema è simile a quello delle Cronache: ricostruzione del tempio, attenzione al culto e al sacerdozio; la comunità giudea si riorganizza e segue la legge di Mosè. Nasce il giudaismo dalle macerie dell’esilio. Raccontino edificante è il libro di Tobia (22 pagine), scritto verso il 200 a. C., con tanto d’intervento dell’angelo Raffaele. Il libro di Giuditta (26 pagine), nota per avere mozzato il capo a Oloferne, luogotenente dell’esercito di Nabucodonosor, è un insieme di assurdità storiche e geografiche. Scritto in Palestina verso la fine del II secolo a. C., evidenzia l’importanza della preghiera, necessaria per la salvezza di Gerusalemme. In Ester (34 pagine) si racconta della regina Ester e di Mardocheo alla corte persiana; ci sono dei riferimenti storici (la città di Susa, il re Serse), ma sono fuori tempo e servono a dare credibilità al racconto. Il tono è nazionalistico, con tanto di rivincita degli ebrei (75.000 persiani ammazzati!) e festa carnevalesca finale di Purim. I due libri Maccabei 1 e 2 (100 pagine) descrivono la rivolta giudea contro i Seleucidi, guidata dai fratelli Maccabeo e conclusa con la vittoria del 166 a. C. È un testo patriottico e nazionalistico, con un maggiore interesse teologico nel secondo libro. Il primo libro è scritto in ebraico da un giudeo palestinese dopo il 134 a. C. Il secondo libro, scritto in greco, è un compendio di un precedente lavoro di un tale Giasone di Cirene, databile tra il 160 e il 124 a. C.
I Libri poetici e sapienziali Nel libro di Giobbe (76 pagine), uno dei più macchinosi da comprendere, si narra della storia di questo Giobbe, re in un imprecisato Oriente, che dio mette alla prova, facendogli perdere affetti e fortune per poi farglieli riacquistare. La morale è data dal colloquio con gli amici, che affermano la legge di dio: chi fa il bene ha la buona sorte, chi fa il male lo subisce a sua volta e il riscatto lo decide dio nei tempi e nei modi. Il parere di Giobbe, con un’espressiva nota poetica, è che, se il programma divino è incomprensibile, l’uomo è incolpevole perché non può crearsi una morale. Teofania finale e lieta conclusione con Giobbe proprietario di 14.000 pecore, 6.000 cammelli, mille paia di buoi, mille asine. Nel libro si parla per la prima volta del leviatano, un mostro marino (ma nel testo
è solo un coccodrillo). I Salmi (186 pagine), oggi utilizzati dalle liturgie ebraiche e cristiane, risalgono a prima del II secolo a. C. ed erano eseguiti da cori, ai quali il popolo rispondeva con amen e alleluia (dall’ebraico ‘allelū Jāh, lodate dio). Sono inni e lamenti, di tono generalmente trionfale, che trattano la storia delle imprese di dio, la creazione e la conservazione del creato. I Proverbi (56 pagine), presentati impropriamente come opera di Salomone, sono una raccolta che si distende nel tempo e nello spazio (erano comuni alle popolazioni dell’Oriente antico e dell’Egitto). La lettura del libro Qoèlet (20 pagine) (“colui che parla in assemblea”, Ecclesiaste, nella traduzione greca), impropriamente attribuito a Salomone, è, in pratica, un invito al suicidio. Ogni cosa si dissolve nel nulla, secondo i voleri di dio. La transitorietà annulla il piacere dei sensi e la gioia dello spirito, mentre la morte è inevitabile e dei morti sparisce anche il ricordo. La politica è un’accozzaglia di soprusi. È meglio non essere nati, ma chi si accontenta, si goda pure la vita e le sue amabilità. Tra le chicche (Qo 7,26): “Trovo che amara più della morte è la donna, essa [la quale] è tutta lacci: una rete il suo cuore, catene le sue braccia”. Scritto verso il III secolo a. C., l’autore di Qoèlet doveva avere problemi esistenziali o gastrici e a quei tempi, quando non c’era ancora il bicarbonato, anche un bruciore di stomaco complicava la vita. Il vero titolo del Cantico dei cantici (18 pagine) sarebbe “il canto più bello”, ancora una volta attribuito impropriamente a Salomone, e risale al V o IV secolo a. C. Parla dell’amore tra un uomo e una donna, i loro incontri, il loro perdersi e ricercarsi, nei vari momenti, dettati dalla cultura arcaica, dell’innamoramento, corteggiamento e amplesso. Non c’è altro da interpretare in senso letterario e i pii esegeti si sono chiesti cosa ci stesse a fare questo libro nell’AT. Conclusione: nel cantico, gli ebrei vedono nei due amanti il rapporto tra dio e il suo popolo alleato, i cristiani vedono il legame tra dio e la Chiesa! Apriamo una parentesi. Alcuni i del Cantico dei cantici sono richiamati da Gianfranco Ravasi, noto biblista, che sul Corriere della Sera del 6 ottobre 2010, un mese prima di essere nominato cardinale, ci comunica che uomini e donne … possono avere rapporti amorosi col fine del semplice godimento: una scoperta vecchia milioni d’anni. Anzitutto, afferma Ravasi, lo ha detto Pio XII il 29 ottobre 1951: “Il Creatore stesso ha stabilito che nella reciproca donazione fisica
totale gli sposi [ma, ovvio, non le coppie non sposate, n.d.a.] provino un piacere e una soddisfazione sia del corpo sia dello spirito. Quindi, gli sposi non commettono nessun male cercando tale piacere e godendone. Accettano quello che il Creatore ha voluto per loro”. È già una bella liberazione: quando marito e moglie – e solo loro – fornicano a letto godendo, non commettono peccato e debbono ringraziare dio per questo. Anche Ravasi, richiamando i due amanti del Cantico dei cantici, afferma che sessualità ed eros sono cose buone. Attenzione, sta per arrivare la mazzata, perché quando i preti concedono qualcosa con una mano, con l’altra vogliono gli interessi. Continua Ravasi: “Il desiderio dovrebbe saper mantenere continuamente questo clima di dolcezza …ma anche il suo non essere un possesso acquisito” perché l’amore umano mostra l’«insoddisfacibilità», cioè tensione verso l’assoluto e l’infinito, insomma il desiderio “al tempo stesso si protende verso l’Altro, l’Oltre, lo Spirito, l’Eterno”. Francamente, quando bacio le tette o qualcos’altro della mia signora non avrei mai pensato che di mezzo c’è tutta questa tiritera. Detto quanto sopra, Ravasi spara il siluro: “Ai figli della luce si accostano e si oppongono i figli delle tenebre, alla tavola luminosa del desiderio dell’amore si allinea in un dittico anche la tavola notturna del desiderio degenerato che tende verso il negativo, l’abisso infernale”. Insomma, copuliamo pure, ma attenzione: se si esagera, l’inferno è a due i. Trovo un fastidio insopportabile in tutto questo borbottare, dove i preti – che dovrebbero essere i meno esperti negli umani coiti – pretendono di spiegare a me e alla mia signora cosa dobbiamo provare quando facciamo l’amore in pace e senza dar fastidio a nessuno, un’azione così scontata e naturale che solo i miasmi religiosi hanno voluto rendere carica di snaturati simbolismi, di inesistenti peccati, di limiti assurdi, di morbosa curiosità. Un ebreo ellenizzato ha scritto ad Alessandria in lingua greca, verso la prima metà del I secolo a. C., il libro Sapienza (48 pagine), con il solito espediente letterario dell’autore di attribuire l’opera a Salomone. L’autore si rivolge agli ebrei, il cui credo religioso è scosso dalla modernità: le scuole filosofiche, lo sviluppo delle scienze, l’astrologia e simili. Solo la sapienza, che ha natura divina, ha la funzione salvifica, mentre l’idolatria è stolta (questo messaggio sarà inascoltato dalla Chiesa, vedi al cap. 5, paragrafo 1-5 “I nove comandamenti”). Siracide (114 pagine), escluso dal canone ebraico, è il libro scritto a Gerusalemme da Gesù, figlio di Sirach, verso il 180-190 a. C. L’autore prende atto della condizione umiliante del suo popolo, esorta ad accontentarsi di ciò che si ha purché sia rispettata la legge divina.
I Libri profetici I profeti dell’AT sono diversi dai profeti del NT; quelli dell’AT, ispirati da dio con tanto di investitura, dettano i suoi voleri interpretando ato e presente; quelli del NT sono servi di dio che annunciano il messia. I redattori di queste storie dell’AT eccellono nella creazione letteraria con prodigi e fantasiose avventure, anche se simboliche. I profeti, che nei tempi più antichi pare avessero anche un impegno politico, spesso sostengono la religiosità da opporre al meccanicismo sacerdotale e attivano la concezione di un dio unico nazionale in contrapposizione alle ombre della trascorsa idolatria degli ebrei; dopo l’esilio s’interessano soprattutto del rispetto della tradizione più che del culto. In concreto, però, nessuna informazione sull’esistenza dei profeti può essere considerata vicina alla realtà. Isaia (148 pagine) è divisibile in tre parti, scritte tra l’VIII e il VI secolo; è possibile che si trovino sotto lo stesso nome per attribuire prestigio o addirittura un carattere leggendario. La prima parte è stata scritta probabilmente dal profeta, con qualche oracolo e alcuni richiami apocalittici, la seconda tratta dell’esilio con un tono lamentoso e la terza si rivolge con fiducia a chi dovrà provvedere alla restaurazione. Geremia (130 pagine) nasce verso la metà del VII secolo da famiglia sacerdotale e dio lo manda in missione salvifica, ma è ostacolato, sfugge a due attentati, è processato per bestemmia e assolto. Predica la sottomissione ai Babilonesi, secondo un piano divino, e la conversione a dio, ma non sarà ascoltato dal popolo e sarà punito. Si tratta di una biografia a carattere emotivo, irreale. Le Lamentazioni (16 pagine), attribuite erroneamente a Geremia, sono lamenti funebri, individuali e collettivi. Baruc (14 pagine), segretario e scriba di Geremia, deportato anch’esso in Babilonia, fornisce consigli di tipo domestico (niente eccessi, il limite del sapere umano, l’impossibilità della vera conoscenza) e termina indicando nella disobbedienza a dio la causa dell’esilio, annunciando la prossima liberazione. Il libro non c’è nel canone ebraico. Ezechiele (96 pagine) fa parte dell’ambiente sacerdotale; deportato in Babilonia nel 597 a. C., è il primo profeta a trovarsi in esilio. Come Geremia, è convinto
che non c’è speranza in un rapido ritorno in patria, suggerendo di mettere radici nella terra dell’esilio. I suoi oracoli, segnati da una visionaria grandiosità, sono contro il regno di Giuda e Gerusalemme, contro le nazioni e per la salvezza. Con il libro di Daniele (40 pagine) ci si immerge nell’ambiente apocalittico. Scritto verso il II secolo, nella prima parte parla di Daniele, che non è un profeta, alla corte di Nabucodonosor e nella seconda parte descrive delle oscure visioni. In sintesi, i momenti della storia umana rientrano nei disegni di dio e alla fine si avrà l’avvento del suo regno. Osea (28 pagine) è tra i libri più difficili da interpretare per i giri di parole, detti popolari, metafore e riferimenti probabilmente noti a chi li ascoltava. Il rapporto tra dio e il popolo è raffrontato coi legami di parentela, in episodi non legati tra loro. Il libro di Gioele (12 pagine) è di incerta datazione; per alcuni è il più antico, per altri è post-esilio per il suo stile apocalittico. La morale è che, nel giorno del giudizio, dio condannerà gli stranieri occupanti la terra del popolo d’Israele. Amos (22 pagine) afferma di essere stato mandriano e raccoglitore dei frutti di sicomoro prima di essere chiamato da dio; il testo risale al VII secolo ma i suoi oracoli richiamano i testi di Ugarith di sette secoli prima. Abdia (4 pagine) scrive poco: lancia due oracoli, contro gli edomiti (abitavano l’attuale Giordania e la penisola araba) e contro le nazioni. Giona (6 pagine) racconta la favola della sua vita, il cui culmine è raggiunto quando, avendo disatteso un ordine divino, si trova, come Pinocchio e papà, dentro un pesce, ma è salvato da dio. Morale: dio vuole che nessuno muoia prima di avere avuto la possibilità di convertirsi e chiedere perdono. Michea (18 pagine) è contemporaneo di Isaia, si sofferma sui legami familiari delle tribù, le disuguaglianze sociali, il carattere vessatorio di chi governa. Naum (8 pagine), databile intorno al 650-620 a. C., si scaglia contro gli Assiri. Il libro di Abacuc (10 pagine) è diviso in due parti; la prima si sofferma sul successo dell’ingiustizia e il soccombere della giustizia e la seconda parla di un mito.
Scritto intorno al 600 a. C., il libro di Sofonia (10 pagine) se la prende col regno di Giuda, come altri libri profetici, e accenna al tramonto degli dèi a favore del dio unico. Aggeo (4 pagine) esorta i rientrati dall’esilio a ricostruire il tempio di Gerusalemme; dopo due secoli dalla prima deportazione e mezzo secolo dalla seconda, gli ebrei rientrati in patria sono pochi. Tensioni nascono tra i rientrati e i residenti perché gli occupanti persiani avevano distribuito a questi le terre dei deportati; altre tensioni nascono con i popoli confinanti quando si avvia la costruzione del tempio, considerato come una fortificazione ostile. Nella prima parte del libro di Zaccaria (20 pagine), contemporaneo di Aggeo, si tratta della ricostruzione del tempio ed è annunciata la prossima fine dei tempi, il tutto infiorettato da visioni. La seconda parte è posteriore al profeta, forse di un secolo, e cura soprattutto gli aspetti del culto. Malachia (8 pagine) risale al periodo della sottomissione persiana, quando il tempio è terminato (nel 515 a. C.). I sei oracoli si soffermano sulla precarietà politica e religiosa del periodo e sul culto (es. negligenza dei sacerdoti, divieto di matrimonio con donne straniere, pagamento della decima), non manca l’avvento del giorno di dio. In conclusione, la lettura dell’AT può interessare gli ebrei e i palestinesi, gli studiosi di lingue e costumi antichi, gli storiografi, forse gli archeologi; a un italiano e a un europeo le gesta mitiche di genti primitive che dei visionari ipotizzarono siano accadute in Palestina alcune migliaia di anni fa interessano tanto quanto quelle dei sasanidi nel Turkmenistan del III secolo d. C.
I-5 La Bibbia vista da “sinistra” e con gli alieni C’è anche chi fornisce una curiosa lettura dell’AT da posizioni di “sinistra”, in chiave antiebraica e pro palestinese. Secondo questa versione, gli ebrei sono un popolo nomade che si stanzia in Palestina verso il XIII secolo a. C. intendendo porre fine al nomadismo. È scelta la Palestina per il duplice motivo che la terra è fertile e gli abitanti autoctoni (i veri palestinesi) sono sparsi in tribù, che spesso entrano in conflitto tra loro, vivendo di agricoltura e allevamento di bestiame. I pastori ebrei sono reduci da un lunghissimo periodo d’emarginazione (vedi esodo dall’Egitto e deportazioni da parte di Assiri e Babilonesi). Rientrati, in parte, a Gerusalemme intorno al 538 a. C., grazie alla concessione di Ciro il Vecchio, gli ebrei si rendono conto dell’importanza di riunirsi in un unico popolo e sotto un unico dio e decidono di darsene uno, eliminando le altre divinità pagane. È data stesura all’AT inventando un dio che promette loro una terra e avviando, come risposta all’emarginazione sofferta, principi basati sull’orgoglio della razza. L’AT è, per certi versi, un trattato di insegnamento della guerriglia e di incitamento alla rivolta armata, finalizzato a scopi nazionalistici, attraverso obiettivi religiosi. Secondo tale versione, i redattori biblici intendono attestare la legittimità della proprietà della terre palestinesi sulla base del contratto stipulato con dio nell’alleanza, pertanto l’obiettivo non è descrivere un dio virtuoso e magnanimo, nobile e generoso, bensì un essere vendicativo e impietoso, collerico e geloso, come doveva essere un conduttore di eserciti. Obiettivo dell’Esodo è la rivendicazione di un nazionalismo guerriero nell’attesa di un messia condottiero, prescelto tra gli uomini da dio, che avvierà la definitiva conquista della terra promessa. Nell’attesa di questa battaglia finale, l’AT fomenterà guerre, stragi e vendette e descriverà eroi invincibili, come Giosuè, in una tragicommedia ove nulla cambia a questi poveri ebrei, nonostante le epiche vittorie. Dopo alcuni secoli, durante i quali gli ebrei nazionalisti le prendono di santa ragione dai Macedoni, dai Seleucidi, dai Romani (con la breve parentesi degli Asmonei), si creano nella comunità ebraica due correnti: i “nazionalisti” col loro dio guerriero e l’attesa del messia e i “democratici” pacifisti che costruiscono un dio asceta e spirituale, con una metafisica derivata dai miti pagani (Mitra, Dionisio, Cibele, persino Iside e Marduk) che promettono vita eterna. Dai pacifisti c’è la necessità di fissare l’idea del messia ebraico non più guerriero
e così nasce la figura di Gesù, già sceso sulla terra, già morto, risuscitato e asceso di nuovo in cielo, senza che i più se ne siano accorti. Taluni pacifisti pensano che fosse dio in persona, altri sostengono che fosse un uomo, insomma nasce il cristianesimo con le sue eresie e le varie ecclesie (comunità cristiane) che sforneranno un mare di opuscoli, libretti, vademecum con i nomi di vangeli, atti, lettere, codici; si giunge alla creazione del NT, dove alcuni episodi sono ricostruiti sulla base di detti “profetici” dell’AT, per dare carisma al nuovo dio, talmente buono che Costantino se lo fa subito amico. iamo agli alieni. Lo spunto principale è dato principalmente dall’ennesimo equivoco o biblico sul quale ognuno dice la sua (Gen 6,4): “C’erano sulla terra i giganti a quei tempi - e anche dopo -, quando i figli di Dio si univano alle figlie degli uomini e queste partorivano loro dei figli: sono questi gli eroi dell’antichità, uomini famosi”. Il commento ufficiale ammette che “non è tutto chiaro”, pur considerando che per giganti o per figli di Dio si potrebbe pensare ad angeli o a superuomini insolenti o a nephilim, angeli caduti (dal Libro di Enoch). Due pseudoscienziati, Zaccaria Sitchin, un azero statunitense, scomparso nel 2010, ed Erich von Dänken, uno svizzero classe 1935, giurano che si tratta di alieni giunti da un ipotetico pianeta del sistema solare, ma di questo pianeta non v’è traccia. Altra teoria propende per un incontro preistorico, più o meno diecimila anni prima della nascita di Gesù, addirittura con uomini del Neanderthal che eggiavano per il Medio Oriente. C’è chi ritiene che il vocabolo nephilim, riportato dall’AT e da altri testi ebraici e cristiani, si riferisca a un popolo nato dall’incrocio dei figli di Dio con le figlie degli uomini. Non ci dilunghiamo sulle varie disquisizioni, ma da parte di qualche studioso e di qualche pseudostudioso i richiami dell’AT a dei, profeti, esseri mitologici, uomini dalla vita plurisecolare, può darsi che derivino da lontanissime reminiscenze, addirittura anche plurimillenarie, di incontri con altri esseri, che il tempo ha trasformato in miti.
Cenni di fanta-religione
Secondo la Bibbia, versione giudaica, il mondo è stato creato il 7 ottobre 3761 a.C., ma nell'interpretazione cristiana dio iniziò la creazione venerdì 24 marzo 4004 a.C. (manca l'ora, pazienza!), quindi creò la Terra il secondo giorno (Gen 1,10) e solo al quarto giorno il Sole e la Luna e le “fonti di luce nel firmamento del cielo” (Gen 1,14). Secondo la fonte elhoista al sesto giorno creò Adamo ed Eva (Gen 1,26), mentre secondo la fonte jahveista “plasmò l'uomo” (Gen 2,7) lo stesso giorno che “fece la terra e il cielo” (Gen 2,4). I commentatori ecclesiastici, davanti a questa concentrazione di ridicola ignoranza, si limitano a precisare che per “giorno” è da intendere un'era geologica.
In realtà, pare che le cose siano andate un po' diversamente. Secondo la NASA, il nostro Universo ha circa 13 miliardi e 800 milioni di anno (con un errore stimabile in poche decine di milioni di anni) e il nostro Sole ha circa 5 miliardi di anni; il nostro pianeta ha 4,54 miliardi di anni e i primi ominidi sono comparsi 4 milioni di anni fa.
Dalla Bibbia traspare che dio ha creato solo l'uomo, lo ha piazzato sul suo pianeta e poi ha messo tutto intorno il Sole, la Luna e il firmamento; non ha creato altre razze aliene. Interpretando la creazione biblica secondo gli ultimi dati, poiché l’Universo è stato creato 13 miliardi e 800 milioni di anni fa e l’uomo è apparso circa 4 milioni di anni fa, ci si chiede come mai dio abbia atteso ben 13 miliardi e 796 milioni di anni per crearlo. Che ha fatto il buon dio in tutto questo tempo, anche se è una bazzecola rispetto all'eternità divina? E’ lecito pensare che, anche se non lo ha confessato nella Bibbia, abbia creato una marea di Adami ed Eve su altri pianeti? In tal caso, solo gli ebrei sono amici suoi o ci sono anche altre razze aliene che godono dei suoi servigi, per esempio le rane rosse nel pianeta Miranda?
I-6 I miracoli biblici
I cristiani sono scettici quando apprendono dei miracoli del mondo musulmano o le storie della Bhagavad Gita induista o la vicenda mormone dell’angelo Moroni, ma non lo sono altrettanto per le storie dell’AT e del NT. Alla tv ho visto un gruppo di pie donne di mezza età, messe in cerchio all’aperto, a Medjugorje. Un prete toccava il viso con le mani e le donne, una ad una, cadevano per terra come pere secche (ma trattenute dalle spalle da un aiutante del prete). “Che cosa ha provato?” chiede il telecronista a una donna. E la donna, con sguardo tra l’angelico e il drogato, risponde che ha sentito un alito di vento in viso (qualche gas anestetico, tipo protossido d’azoto?) e subito una pace interiore che gliela portava lo “spirito santo”. La donna, nella sua ingenuità e, probabilmente, nella sua ignoranza, abbinava all’idea del vento quella dello “spirito santo”; probabilmente se avesse ricevuto uno schiaffo avrebbe detto che la pace gliela aveva portata il “santo padre”. Venti miliardi di quaglie! Tante ne offrì dio al suo popolo ingordo. Si legge in Nm 11,31 che le quaglie caddero su una superficie all’incirca quadrata avente il lato lungo una giornata di cammino e l’altezza dello strato delle quaglie fu circa due cubiti, in pratica un metro. A quei tempi che distanza percorreva in un giorno un viandante? Tenendo conto che le strade erano quelle che erano, che le calzature non erano per maratoneti, che magari c’era da portarsi dietro armi e bagagli, pecore e galline, ipotizziamo cautelativamente che si potessero percorrere in un giorno non più di 5 km, cioè 5.000 metri. Il volume geometrico riempito da tutte le quaglie cadute sarebbe quindi 5.000 x 5.000 x 1 =25.000.000 di metri cubi, pari a 25.000.000.000 di litri. Considerando un vuoto per pieno pari a ⁷⁵/25, il volume netto occupato dalle quaglie ammonterebbe a 25.000.000.000 x 0,25 = 6.250.000.000 di litri. Una quaglia ben pasciuta (come dovevano essere quelle che s’immagina il buon dio abbia elargito) occupa un volume che può assumersi pari ad ¹/3 di litro, cioè 0,33 litri. Le quaglie cadute dovettero essere all’incirca 6.250.000.000: 0,33 pari, arrotondando, a venti miliardi. Gli israeliti maschi erano circa 625.000 (come si legge in Nm 1,46) e, ammesso che donne e bambini non abbiano preso parte alla doviziosa raccolta perché contavano meno del due di coppe con briscola di bastoni, le quaglie raccolte in media da ogni israelita sono state 20.000.000.000: 625.000 =32.000. L’AT ci consente una verifica di tale numero. In Nm 11,32 si legge, infatti, che i
più sfortunati ne raccolsero solo 10 homer, pari a 4.500 litri; in pratica ne raccolsero 4.500: 0,33 pari, arrotondando, a 14.000, che è sempre una bella cifra. È possibile calcolare anche il tempo di raccolta di una quaglia. Sempre l’AT ci assicura che tutte le quaglie furono raccolte in due giorni e una notte, quindi (volendo abbondare) in circa 40 ore; si deduce che ogni israelita, senza mangiare e dormire, raccolse una quaglia ogni (625.000 x 40 x 3600): 20.000.000.000 =4,5 secondi! Venti miliardi di quaglie: potenza divina! Ci sono altri miracoli, anche se non della portata di quello descritto. In Es 4,3 dio fa prendere una bella strizza a Mosè trasformandogli in serpente un bastone che tiene in mano. Non contento, subito dopo (Es 4,6) gli fa diventare lebbrosa una mano, ma in entrambi i casi, tutto si ristabilisce subito dopo. Un miracolo abbastanza pubblicizzato è l’attraversamento del mar Rosso da parte degli israeliti inseguiti dagli egiziani (Es 14,21). Ci sono due versioni del miracolo. Secondo quella elohista, Mosè apre un sentiero nel mare brandendo il solito bastone; secondo quella jahveista è dio che soffia sul mare creando un vento che lo fa seccare. In entrambi i casi, chi ci rimette sono gli incolpevoli egiziani: il mare si rinchiude sopra di loro e non se ne salva nemmeno uno (Es 14,27). In realtà, come sospettano alcuni esegeti, deve essersi trattato di un più modesto fenomeno d’alta e bassa marea. Un miracolo sanguinario lo combinano Mosè e Aronne (Es 7,20), dando inizio ad una serie di guai: le piaghe d’Egitto. Il faraone non vuol concedere il permesso agli israeliti di andarsene dall’Egitto e allora Aronne alza il bastone e trasforma in sangue le acque del Nilo. Le conseguenze, come vuole il dio dell’Amore, sono tremende: muoiono tutti i pesci, il Nilo entra in putrefazione e sempre gli incolpevoli egiziani, senza acqua, crepano di sete. Abbiamo due miracoli idropotabili durante l’esodo dall’Egitto. Gli israeliti giungono a Mara (Es 15,23), nel deserto, e trovano solo acqua amara; Mosè, per suggerimento di dio, getta un legno nell’acqua e questa diventa dolce. Il popolo israelita giunge nel Sinai (Es 17,5) e non trova acqua; è sempre il buon dio che suggerisce a Mosè di battere col famoso bastone la roccia. Uscirà subito dell’acqua e Mosè segnerà l’inizio di una nuova disciplina: la rabdomanzia. Un altro miracolo idropotabile è riportato in Nm 20,8, ma in questo caso i beneficiati lo pagheranno a caro prezzo. Il popolo si lamenta e si ribella con
Mosè perché non c’è acqua per seminare, per darla al bestiame e per bere. Mosè, come il solito, col suo bastone percuote – in questo caso per due volte – la roccia e subito sgorga acqua in abbondanza. Dio s’innervosisce e catechizza Mosè e Aronne (Nm 20,12): “Poiché non avete creduto [non avete avuto fiducia] in me… voi non introdurrete quest’assemblea [questa comunità] nella terra [nel paese] che io le do”. Avremo qualche problema, dovette pensare Mosè. Esaminiamo i miracoli del NT. D’accordo che tali miracoli sono estremismi apologetici di chi scriveva per rendere più esaltante il messaggio, d’accordo che gli studi comparativi dei biblisti hanno dimostrato che si tratta di frottole, ma il punto è che in ambito ecclesiastico, specie tra i parroci delle parrocchie, questi episodi si spacciano per veri. Di miracoli, Gesù ne ha condotti a termine diversi e anche Paolo si è cimentato in questa disciplina; migliaia di miracoli li hanno espletati i santi (per fare un santo è necessario che gli addetti alla santificazione dimostrino che il pretendente abbia operato almeno un miracolo), ma il miracolo dei miracoli, sempre visibile, probabilmente sta al santuario di Loreto, a due i da Ancona, dove si venera la madonna di Loreto. La casa della madonna a Nazareth, non si sa secondo quali reperti e studi archeologici, era composta da una grotta, che oggi è venerata in una basilica a Nazareth, e da una casetta in muratura, antistante la grotta. Nel 1294, dopo la sconfitta dei crociati, la casetta in muratura fu sollevata dagli angeli e portata sulla costa dalmata, poi in un bosco d’alloro presso Recanati, il “natio borgo selvaggio” del Leopardi, dove gli alberi s’inchinarono appena la casetta comparve, e, infine, volò dove oggi si trova, intorno alla quale fu costruito il santuario: voi entrate nel santuario e, lì, c’è la casetta della madonna. La madonna di Loreto, naturalmente, è la patrona degli aviatori. Siccome la storia doveva apparire abbastanza balzana anche agli occhi del clero, a seguito degli scavi archeologici eseguiti negli anni ’60 sotto la casetta, un comunicato del santuario – oggi anch’esso scomparso – informava che “si va sempre più confermando l’ipotesi secondo cui le pietre della Santa Casa sono state trasportate a Loreto su una nave, per iniziativa umana”. Ai giorni nostri si è ufficializzato: la casetta è stata smontata, mattone per mattone, dai crociati e ricomposta a Loreto. Se così fosse, la madonna di Loreto dovrebbe essere la patrona dei muratori e non degli aviatori… Insomma, si è cercato di coprire una balla, grossa quanto un pallone, con un’altra balla, più credibile per i fedeli più raziocinanti. Attualmente, nel sito ufficiale internet del santuario, le balle sono state ripulite ed è stata inserita, com’è uso dei
preti, una frase equivoca, tale da non stimolare al credente pensieri strani: “Gli studi recenti delle pietre e dei graffiti e di altri documenti, purificando la tradizione da elementi leggendari, confermano e attestano l’autenticità della Santa Casa”. I vangeli sono in disaccordo sui miracoli di Gesù. Marco e Matteo parlano di una resurrezione (la figlia di Giairo), ma Luca fa resuscitare anche il bambino di Naim. Matteo parla di due guarigioni, di due ciechi curati e di due ossessi guariti, mentre Marco parla di una sola guarigione, di un solo cieco curato e di un solo ossesso guarito. Nel secondo miracolo dei pani, Matteo parla di 4.000 uomini “senza contare le donne e i bambini”, Marco parla solo di 4.000 persone. C’è poi l’evento sensazionale, in esclusiva, che descrive Matteo, di cui non parlano né gli altri evangelisti né il mondo intero (Mt 27,52): alla morte di Gesù “i sepolcri si aprirono e molti corpi di santi, che erano morti [molti corpi di santi morti], risuscitarono. Uscendo [E uscendo] dai sepolcri, dopo la sua risurrezione, entrarono nella città santa e apparvero a molti [in molti]”. La eggiata di questi zombi sarà sviluppata dalla cinematografia horror del XX secolo, a partire dal capostipite da cult “La notte dei morti viventi”. I miracoli, si sa, sono un forte richiamo per chi vuole attrarre credenti e creduli, folle e folli. Il buon Gesù si dà da fare per accontentare un po’ tutti. Trasforma acqua in vino, per due volte moltiplica pani e pesci sfamando migliaia di persone. Uno dei massimi livelli della comica evangelica si raggiunge quando si legge (Mt 8,30; Mc 5,11; Lc 8,32) che i demoni escono, su richiesta e con l’intermediazione di Gesù, dal corpo di uno o due indemoniati ed entrano nei corpi di un branco di porci che, poverini, pascolavano nei dintorni (faranno una brutta fine). Un’altra comica si ha col miracolo dello spirito muto e sordo che è dentro un ragazzo (Mc 9,25); Gesù ordina allo spirito di uscire e lo spirito, nonostante sia sordo, lo sente e se ne esce e nonostante sia muto, uscendo, si mette a urlare. Gesù ha anche altri strumenti per la sordità; a un sordomuto (Mc 8,33) gli infila le dita nelle orecchie e gli sputa sulla lingua e quello si mette a declamare. Non è finita: Gesù sputa negli occhi di un cieco (Mc 8,23), il cieco lo informa che vede così e così, allora Gesù gli infila le dita negli occhi e il cieco “fu sanato”. C’è anche una variante (Gv 9,6): Gesù sputa (abbondantemente) per terra, poi prende la terra impastata e la mette sugli occhi del cieco, il risultato già lo conosciamo (Per altri approfondimenti sullo sputo e sulla saliva, vedi al cap. 5, paragrafo 1-8
“Il battesimo, esorcismo puro”). Noi pensiamo che la pubblicità dei detersivi, al grido del “lavare più bianco non si può”, sia sorta nel dopoguerra, ma è sbagliato, perché risale ai tempi apostolici (Mc 9,2): “(Gesù) Fu trasfigurato [Si trasfigurò] davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche”. Sorvoliamo sulle varie guarigioni di lebbrosi, epilettici, paralitici e via di seguito, ma non possiamo non ricordare il top: le tre resurrezioni (oltre a quella post crocifissione). Il figlio unico di madre vedova (Lc 7,12) è nella bara, Gesù comanda “alzati!” e il ragazzo si alza (ma rimane seduto). Altro miracolo: Lazzaro era nella bara da quattro giorni e già puzzava (Gv 11,43), ma Gesù urla “vieni fuori!” e il “morto usci”, nonostante avesse i piedi legati con le bende; il NT non precisa se i presenti si tapparono il naso. La figlia dodicenne di Giairo è morta in casa (Mc 5,41), ma Gesù le prende la mano e le comanda “alzati!” e sappiamo già come va a finire, anzi Gesù raccomanda ai presenti “di darle da mangiare”. Gesù allarga i suoi poteri magici agli apostoli (Mt 10,8) e a “quelli che credono” (Mc 16,17); forse per tal motivo la Chiesa, ancora oggi, crede in quella reminiscenza medioevale denominata “esorcismo” come mezzo per eliminare l’influsso del “maligno” e fa appello agli esorcisti, purché siano autorizzati dai vescovi (vedi al cap. 5, paragrafo 1-10 “Angeli e demoni”). È da evidenziare che molti biblisti non ecclesiastici ritengono, dallo studio dei vangeli, che Gesù, se realmente esistito, col suo carisma e con qualche attività di sensitivo che forse possedeva, effettivamente deve avere aiutato a guarire delle persone da lievi malanni della quotidianità e deve aver calmato delle persone soggette a epilessia; atti poi ripresi dagli evangelisti, moltiplicati e gonfiati sino all’inverosimile.
I-7 Adamo, Eva e le foglie di fico Benché sia abbastanza noto, l’episodio d’Adamo, Eva e il serpente nell’eden presenta aspetti a volte esilaranti. La storiella, come quella della “seconda” creazione dell’uomo (nell’AT l’uomo è creato due volte, in Gen 1,27 e in Gen 2,7, in due modi diversi, secondo le versioni elohista e jahveista), è abbastanza sbrindellata. Durante la creazione, dio aveva detto e ridetto che quello che aveva creato era cosa buona, ma ora l’atmosfera cambia. Il serpente è un figlio di buona donna e su Eva si continua a buttare fango: è lei la tentatrice che mangia il frutto e lo offre a Adamo. Dio parlò del divieto solo con Adamo, quando Eva ancora non era venuta al mondo. Forse, ma non è certo, fu Adamo che confidò a Eva del divieto, la quale, in fondo, non era nemmeno tenuta a rispettarlo, a meno che non glielo avesse ribadito dio. È Eva, ad ogni buon conto, che risponde al maligno serpente (Gen 3,2): “Dei frutti degli alberi del giardino noi possiamo mangiare, ma del frutto dell’albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: Non dovete mangiarne [Non ne dovete mangiare] e non lo dovete toccare, altrimenti morirete”. Come sappiamo, non moriranno, anzi camperanno diversi secoli: è un’altra divina cantonata. Da Eva apprendiamo finalmente dove sta quest’albero della conoscenza: come quello della vita, è piantato in mezzo all’eden. Dall’episodio, Adamo non ne esce bene; se ne sta zitto zitto accanto a Eva e si mangia il frutto che gli è offerto e del terzetto è indubbiamente il più scarso: pinocchietto era e pinocchietto resta. C’è un’altra considerazione da fare; è il serpente che, in modo disinteressato, apre gli occhi alla coppia e stimola i due: “Mangiate il frutto della conoscenza e diverrete come Dio; vedrete che non morirete”. Sembra quasi che dica: è un vostro diritto. Con l’occasione e per la precisione della cronaca, vale la pena evidenziare che nel testo biblico non si fa alcun accenno alla mela, ma a un imprecisato “frutto”: chi ha tirato in ballo la mela? L’amara conclusione è che per riscattare qualche boccone proibito di una mela o albicocca che sia, dio “il buono” farà crocifiggere suo figlio Gesù: questo dio, che assassina dio per far la pace con dio, altro non può essere che uno psicopatico. Leggiamo (Gen 3,1). “Il serpente era il più astuto di tutti gli animali selvatici che Dio aveva fatto e disse alla donna [Il serpente era la più astuta di tutte le bestie selvatiche fatte dal Signore Dio. Egli disse alla donna]: «È vero che Dio ha
detto: non dovete mangiare di nessun albero del giardino?»”. Eva rispose com’è stato richiamato qualche rigo sopra e il serpente prosegue: “Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che il giorno in cui voi ne mangiaste [Anzi Dio sa che, quando voi ne mangiaste], si aprirebbero i vostri occhi e diventereste [sareste] come Dio, conoscendo il bene e il male”. L’AT prosegue: “Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradevole [gradito] agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza; prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito che era con lei, e anch’egli ne mangiò”. Premesso che l’AT parla del “marito” e non si comprende chi abbia sposato i due, una nota “ufficiale” della Bibbia precisa che “il serpente raffigura il diavolo”, ma al tempo del paradiso terrestre non risulta che ci fossero diavoli del cristianesimo: essi arriveranno molto dopo. Lo stesso AT, del resto, precisa che “il serpente era la più astuta di tutte le bestie selvatiche”. Bestia era, e non diavolo. L’episodio dell’eden, in effetti, è letteralmente scopiazzato dal mazdeismo (vedi il box “Dal culto di Mitra al culto del Signore”, cap. 4), religione sviluppatasi nella Persia e fondata da Zarathustra. Secondo l’Avesta, il testo sacro di questa religione, la prima coppia umana nacque da un albero, come fossero due frutti; i due, Meschia e Meschiana, erano felici, innocenti e immortali e abitavano in un paradiso terrestre chiamato Eren, ricco di fiumi. Un giorno il dio cattivo Ahriman si presentò a loro sotto forma di serpente offrendo dei frutti e affermando che era lui il creatore dell’universo. I due gli crederono e divennero suoi schiavi. La religione persiana è stata letteralmente saccheggiata dai redattori biblici, in conseguenza della deportazione ebraica in terra persiana. Lo stesso vocabolo paradiso deriva dal persiano pairi-daeza “luogo recintato”; era il parco del palazzo del re, considerato luogo di piacere. Al paradiso persiano si accedeva attraverso uno stretto ponte; i cattivi, nell’attraversarlo, cadevano e andavano a finire nell’inferno. Il paradiso cristiano sta “lassù”, in un non meglio precisato angolo del cielo, ma Wojtila ha specificato che il paradiso non è un luogo ma una condizione di benessere spirituale. Provare per credere. Il concilio di Firenze (anno 1439) stabilì, dopo secolari diatribe tra vari santi cattolici, che le anime entravano immediatamente nel paradiso e ingiunse a dio (sic) di aprire la porta ai buoni che bussavano. È probabile che dio, con tutto il suo daffare, abbia poi ato a
Pietro i gradi di portinaio, ma l’investitura pare non sia stata ancora ufficializzata. Per i cristiani ortodossi, invece, le anime gironzolano non si sa bene dove, durante l’attesa della resurrezione generale che fornirà ai buoni il ticket per il paradiso. Che fanno Adamo ed Eva una volta mangiato il frutto? Leggiamo (Gen 3,7): “Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e conobbero [si accorsero] di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture”. Sono assaliti dalla vergogna; eppure, appena creati non ne provavano (Gen 2,25): “Ora tutti e due erano nudi, l’uomo e sua moglie, e non [ma non ne] provavano vergogna”. Nello scoprire che l’uomo è ammogliato ma dello sposalizio non v’è traccia biblica, ci chiediamo come mai questo cambio d’atteggiamento? Mangiato il frutto, è acquisita la conoscenza del bene e del male. In cosa consiste questa conoscenza? Nel prendere coscienza che si è nudi e quindi nel vergognarsi di questa situazione! Se la conoscenza è tutta qui, l’umanità non ha fatto un grande affare a mangiare il frutto. Resta un forte dubbio: perché l’uomo si vergogna di vedere le sue “vergogne”? Quando dio aveva creato uomini e cose aveva sempre assicurato che aveva creato cose buone, dunque pisello e tette compresi. I pii esegeti hanno dovuto mettere una marea d’arzigogoli e almanaccamenti per cercare di dare un nesso logico e una parvenza d’attendibilità a molte strampalate storie bibliche; nel caso in questione, dopo approfondite riflessioni, hanno sentenziato che la vergogna nasce dalla circostanza che con la conoscenza compare anche la concupiscenza. Insomma, secondo le anime pie, nell’eden si consuma la seguente scenetta, che più esilarante non si può. Appena Adamo mangia il frutto, guarda Eva, strabuzza gli occhi e, convenendo con dio che aveva creato cose buone esclama: “Ammazzate che gnocca!”, ma subito s’accorge che ha il pisello di fuori e se ne vergogna. Contemporaneamente Eva dice: “Che bel macho che ho davanti!”. Quindi, entrambi scappano, rossi di vergogna e sotto lo sguardo sornione del serpente, uno a destra e l’altra a sinistra, in cerca di due alberi di fico (chissà mai perché i fichi: altro mistero biblico). Quindi raccolgono delle foglie, le intrecciano e si fanno una cintura; l’operazione non deve essere stata semplice, anche perché, sprovveduti, i due scopriranno che le foglie di fico pungono e arrossano pelle e pudende. Con le scomode foglie di fico davanti ai genitali, Adamo ed Eva se ne vanno a so per l’eden. Il nostro Creatore di migliaia di miliardi di stelle non sa
proprio che fare e, antropomorfizzato dall’estensore del raccontino, si mette a eggiare anch’esso nel giardinetto dell’eden. L’atmosfera è mesopotamica: il re nei suoi giardini pensili di Ninive. Ne nasce uno dei più insensati dialoghi biblici, da dove emerge ancora una volta la scarsa personalità del pinocchietto Adamo che addossa subito a Eva la colpa dello sgarbo fatto ed Eva a sua volta incolpa il serpente. Leggiamo (Gen 3,8): “Ma il Signore Dio chiamò l’uomo e gli disse: «Dove sei?». Rispose: «Ho udito la tua voce [il tuo o] nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto». Riprese: «Chi ti ha fatto sapere che sei [eri] nudo? Hai forse mangiato dell’albero di cui ti avevo comandato di non mangiare?». Rispose l’uomo: «La donna che tu mi hai posto [posta] accanto mi ha dato dell’albero e io ne ho mangiato». Il Signore Dio disse alla donna: «Che hai fatto?». Rispose la donna: «Il serpente mi ha ingannata e io ho mangiato»”. Un dogma del concilio di Trento (1545-1563) così recita: “Se qualcuno ricusa di credere che Adamo, il primo uomo, dopo avere trasgredito nel paradiso terrestre al precetto divino, abbia perduto immediatamente la virtù e la giustizia che gli erano state concesse e sia incorso per questa colpevole prevaricazione nella collera e nell’indignazione di Dio, che egli sia maledetto!”. La Chiesa, pur ancor oggi testardamente retrograda, ne ha percorso di strada da quel concilio, ma a quel tempo quelle parole erano un dogma, al quale i credenti, a partire dal papa, dovevano inchinarsi. Credere in un dogma è un’abdicazione alle proprie facoltà e alla propria dignità intellettiva.
I-8 Noè e il diluvio Stando all’AT, il diluvio è avvenuto intorno al 2350 a. C.; quindi in soli 1650 anni, da una coppia, Adamo ed Eva, è stato popolato tutto il pianeta! A quest’assurdità ne segue un’altra: ai tempi di Abramo, intorno al 1850 a. C., cioè dopo soli 500 anni dal diluvio, il mondo è già ripopolato con Sumeri, Ittiti, nonché indiani e cinesi! Arriva il momento del diluvio (Gen 6,14) e dio, da bravo progettista, fornisce a Noè le direttive per costruire l’arca: sarà lunga 150 metri, larga 25 metri ed alta 15 metri, con tre ponti. Ancora oggi non è facile costruire una nave lunga 150 metri solo con del legname in quanto i problemi strutturali d’ingegneria navale sono notevoli: ad esempio, al centro dello scafo vi sviluppano tensioni elevate dovute alla flessione; un natante di legno lungo 100 metri deve essere rinforzato con barre di acciaio e chissà dove le avrà prese Noè. Le divine direttive tecniche sono del tutto insufficienti per far stare a galla lo scafo, ma Noè risolve tutto con perizia, grazie probabilmente ai suoi studi di strutturistica completati in qualche università del Medio Oriente. Il transatlantico doveva apparire enorme a quei tempi, ma, in effetti, era ridicolarmente sotto dimensionato per mettere tutte le specie degli animali. Chissà come li avrà stipati Noè, il quale ha avuto l’incarico supremo di caricare per ogni specie vivente una coppia (Gen 6,19): maschio e femmina (finalmente scopriamo nell’AT che anche gli animali hanno due sessi). Subito dopo la Superiorità ci ripensa e dice a Noè (Gen 7,2) di portarsi una coppia per ogni specie di animale immondo e ben sette coppie delle specie monde e lo spazio nell’arca diventa sempre più stretto, anche perché bisogna caricare il cibo per tutti. Noè aveva conoscenze sufficienti per distinguere un animale mondo da uno immondo? Approfittando del diluvio, perché non si eliminavano gli animali immondi? Misteri biblici. Ad ogni buon conto, il comandante Noè carica sull’arca (Gen 7,13) “in quello stesso giorno”, in pratica in 24 ore, la moglie, i tre figli e le rispettive mogli e tutti gli esseri viventi, compreso pulci e pidocchi. Appare problematico l’alloggiamento in 24 ore di tutte le specie viventi: “gli otto dell’arca” dovevano caricare, senza tenere conto dei milioni di specie di insetti, all’incirca 500 specie al secondo! Noè e i suoi sette parenti avrebbero poi dovuto provvedere a nutrire (tonnellate
di paglia e fieno per i vegetariani, ma cosa avrebbero dato da mangiare ai carnivori?), abbeverare e rimuovere gli escrementi, ogni giorno, di diversi milioni, di animali. Per portarsi dietro cibo e acqua per alimentare per un anno questo immenso zoo galleggiante, Noè avrà avuto bisogno di diverse archecargo, non nominate nell’AT. Che sia stato inventato da Noè in quell’occasione il cibo liofilizzato e superconcentrato? Inoltre le antiche barche imbarcavano l’acqua di sentina, che la ciurma eliminava con pompe manuali o a mano; come facevano Noè & C. a eliminare tutta quell’acqua? La maggioranza degli animali è abituata a vivere nel loro habitat: sull’arca sarebbero morti. E le coppie prescelte di animali dell’Australia e delle Americhe come avrebbero raggiunto l’arca? Infine, è noto agli zoologi che se una specie si riduce a meno di 40 esemplari, difficilmente sopravvive e si avvia a un’inevitabile estinzione. A seguito del diluvio, le acque del mare si sarebbero diluite, si sarebbe ridotta la salinità e gran parte dei pesci si sarebbe estinta; una volta prosciugate le acque, la salinità sarebbe ritornata normale e a tal punto si sarebbero estinte le specie abituate all’acqua dolce. Infine, come richiamato, se tutta l’umanità fosse stata ridotta a otto individui, per ripopolare solo la Cina e l’India sarebbero stati necessari millenni. Il diluvio dura quaranta giorni e quaranta notti (Gen 7,4; 7,12; 7,17; 8,6). Quando inizia a piovere Noè ha 600 anni, due mesi e 17 giorni di vita (Gen 7,11). Dopo che smette di piovere, le acque restano per 150 giorni al livello raggiunto (Gen 7,24; 8,3), poi iniziano a scendere e dopo una decina di giorni l’arca si posa sull’Ararat (Gen 8,4). ano altri due mesi abbondanti ed emergono le cime dei monti (Gen 8,5). Noè aspetta 40 giorni (Gen 8,6) e poi manda un corvo e una colomba in perlustrazione. Dopo due settimane, alla bella età di 601 anni, un mese e un giorno il vecchio toglie la copertura dell’arca e vede che le acque si erano prosciugate sulla terra (Gen 8,13). Trascorreranno ancora un mese e 26 giorni prima che tutta la terra sia asciutta (Gen 8,14). Per la cronaca, è trascorso, giorno più giorno meno, un anno da quando era iniziato a piovere. Prosciugate le acque, Noè e famiglia aprono le stive e fanno uscire gli animali che, in fila per due, si dirigono per le loro terre: orsi bianchi al polo Nord, elefanti indiani verso l’Asia e quelli africani verso l’Africa, coyote in America e canguri in Australia. Anche il diluvio di Noè è scopiazzato dalle tante favole mesopotamiche che parlavano di un diluvio, come ad esempio la storia sumera di Ziusudra del XVI
secolo a. C. Secondo i greci, Zeus aveva organizzato un bel diluvio dal quale si era salvata solo una coppia, Pirra e Deucalione, e la loro arca si era arrestata sulla vetta del monte Parnaso. Secondo gli indù, il saggio Vaïvasvata, consigliato da un pesce mandato da Visnù, si salvò dal diluvio insieme alla sua famiglia e a diverse coppie d’animali costruendo un’imbarcazione che si posò sull’Himalaya. Messo piede a terra, Noè organizza il barbecue sacrificale e fa un bell’arrosto di animali mondi. Non si sa che fine facciano gli animali immondi mentre i poveri animali mondi, appena salvati, sono subito ammazzati! Infatti, il nostro dio lungimirante aveva detto a Noè di caricare solo una coppia per ogni specie d’animali immondi e ben sette coppie per ogni specie d’animali mondi: si presume che sei coppie saranno sacrificate affinché il dio creatore dell’universo ne odori (Gen 8,21) il gradito profumo [la soave fragranza] (per sentire l’odore, evidentemente non doveva stare poi così in alto nei cieli). Il diluvio è però un’altra occasione del dio biblico per tuonare peste e fiamme (Gen 6,17): “Ecco, io sto per mandare [manderò] il diluvio, cioè le acque, sulla terra, per distruggere sotto il cielo ogni carne in cui c’è soffio di vita [in cui è alito di vita]; quanto è sulla terra perirà”. E ancora (Gen 7,4): “…cancellerò [sterminerò] dalla terra ogni essere che ho fatto”. Da notare l’edulcorazione della nuova edizione biblica: cancellare al posto di sterminare. Dopo il diluvio, con gran soddisfazione del cronista biblico (che scrive sotto dettatura di dio), apprendiamo (Gen 7,23) che “così fu cancellato [sterminato] ogni essere che era sulla terra [ogni essere sulla terra]: dagli uomini agli animali domestici, i rettili e gli uccelli del cielo; essi furono cancellati [sterminati] dalla terra e rimase solo Noè e chi stava con lui nell’arca”. Siccome non sopravvisse niente e nessuno, appare scontato che tutta la cronistoria biblica da Adamo al diluvio sia stata raccontata ai posteri da Noè e dai testimoni che erano sull’arca, senza possibilità di verifica del loro racconto. A quei tempi non c’erano penne e calamai e non si conosceva la scrittura: le storie si tramandavano per via orale, con un rigore e un’esattezza che è facile comprendere. C’è però una garanzia: è parola di Dio. Dopo avere combinato tutto quel macello, il padreterno pare si penta e confessa (Gen 8,21): “Non maledirò più il suolo a causa dell’uomo, perché ogni intento [l’istinto] del cuore umano è incline al male fin dall’adolescenza [dalla adolescenza]; né colpirò più ogni essere vivente come ho fatto”. È un dio irrazionale: prima aveva deciso di maledire l’uomo in quanto peccatore, ora
decide di non maledirlo in quanto peccatore recidivo fin dall’adolescenza e quindi ammette la sua incapacità a imporsi. La speculazione vaticanea spiega che dio creò l’uomo libero: quindi se pecca la responsabilità è tutta sua, dell’uomo. Ma l’uomo “peccatore” non è stato messo al mondo a immagine e somiglianza di dio, come si conferma ancora in Gen 9,6? È un dio sadico: nel prosieguo post diluvium continuerà a colpire gli uomini e saranno mazzate dure, tsunami compresi. Leggiamo qualche o poco tranquillizzante. Dio parla a Noè e dalle sue parole escono flussi di terrore, timore, dominio, sangue e vendetta (Gen 9,2): “Il timore e il terrore di voi sia in tutti gli animali della terra [siano in tutte le bestie selvatiche e in tutto il bestiame] e in tutti gli uccelli del cielo. Quanto striscia sul suolo e tutti i pesci del mare sono dati [messi] in vostro potere. Ogni essere che striscia [Quanto si muove] e ha vita vi servirà di cibo: vi do tutto questo, come già le verdi erbe”. E ancora (Gen 9,4 e 9,6): “Soltanto non mangerete la carne con la sua vita, cioè con il suo sangue [cioè il suo sangue]. Chi sparge il sangue dell’uomo dall’uomo il suo sangue sarà sparso, perché a immagine di Dio è stato fatto l’uomo [perché ad immagine di Dio Egli ha fatto l’uomo]”. Il sangue abbonda. Com’è costume dei macellai del Medio Oriente, è sancito che si può mangiare solo la carne d’animali dissanguati. Viene anche sancito che l’uomo, essendo immagine di dio, può vendicarsi. Insomma: è appena diluviato e si è terminata la disinfestazione, ma già siamo immersi in un mondo di sangue, di vendetta e di terrore. Nonostante l’ambiente non sia sereno, dio raccomanda a Noè e alla sua allegra brigata (Gen 9,7): “… siate fecondi e moltiplicatevi, siate numerosi sulla terra e dominatela”. Un’espressione d’amore divino: dominatela. Per sancire l’alleanza, dio inventa l’arcobaleno (Gen 9,13): “…Pongo il mio arco sulle nubi perché sia il segno dell’alleanza [Il mio arco pongo sulle nubi ed esso sarà il segno dell’alleanza] tra me e la terra. Quando ammasserò [radunerò] le nubi sulla terra e apparirà l’arco sulle nubi, ricorderò la mia alleanza…”. Oggi sappiamo dalla fisica che i raggi del Sole si rifrangono e si riflettono attraverso le gocce dell’acqua; la luce solare bianca si scompone nei sette colori dello spettro formando l’arcobaleno. Ebbene, nel momento in cui si forma l’arcobaleno, c’è dio che ci ricorda la sua alleanza. Come devono comportarsi un musulmano o un buddista o un ateo quando vedono l’arcobaleno-segno-divino? devono ricoprirsi gli occhi e fingere di non vederlo? devono meditare sulla bontà di questo dio che offre l’alleanza anche a chi non gliel’ha chiesto? Più avanti è ribadito (Gen 9,17): “Questo è il segno dell’alleanza che io ho stabilito tra me e ogni carne che
è sulla terra”. Dell’alleanza con tutte le “carni” non ne sono convinti gli animali squartati per i sacrifici e arrostiti e, francamente, a qualche umano – compreso il sottoscritto – può disturbare che sia definito “carne”, escludendone cervello, pensiero e cultura.
Il mycoplasma Il mycoplasma è un batterio che si presenta in diverse forme come una cellula immobile, priva di parete cellulare rigida e quindi può avere una forma variabile (sferica, filamentosa) ed è il più piccolo organismo vivente conosciuto. Il mycoplasma pneumoniae si trova nelle nostre vie respiratorie e nei polmoni, creando qualche problema. È grande, si fa per dire, 200 nanometri (1 nanometro è un milionesimo di metro) e quindi bisogna metterne 5.000 uno dietro l’altro per comporre una catena lunga un metro. Altra variante è il mycoplasma hominis che si trova nelle nostre vie urogenitali. Il biologo Craig Venter ha svuotato una cellula di mycoplasma mycoides e gli ha trapiantato un DNA artificiale, creando la prima cellula sintetica in grado di riprodursi, provocando la mobilitazione del Vaticano e degli scienziati devoti. Quanti mycoplasma si sarà portato sull’arca il nostro Noè e, soprattutto, come avrà fatto a vederli e a prenderli?
I-9 Abramo e signora Abramo è una figura mitica della quale non si ha lo straccio di una prova della sua esistenza, come del resto per tutti i patriarchi biblici. Storicamente si situa intorno al 1800-1900 a. C. L’incipit della storia d’Abramo nell’AT è rapido, immediato; dio gli dice (Gen 12,1): “Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela [dal tuo paese, dalla tua patria] e dalla casa di tuo padre, verso la terra [verso il paese] che io ti indicherò”. Da notare l’edulcorazione politica della nuova edizione biblica: terra al posto di paese, e niente più patria. Abramo al momento della chiamata divina abita in Carran; infatti, l’AT narra (Gen 11,31): “Poi Terach prese Abram, suo figlio… e uscì con loro da Ur dei Caldei per andare nella terra [nel paese] di Canaan. Arrivarono fino a Carran e vi si stabilirono”. Terach, padre d’Abramo, parte da Ur, che si trova sull’Eufrate, a circa 250 km dalla foce sul Golfo Persico, per andare a Canaan, ma invece di andare verso sud punta verso nord. Dopo un viaggio di circa 900 km, risalendo l’Eufrate, giunge a Carran, dalle parti dell’attuale confine turco-siriano (circa 200 km a nord-est di Aleppo) e lì mette su casa. Abramo, nato a Ur, cresce a Carran: quando dio chiama Abramo (che ha 75 anni ed è ancora un giovincello), qual è il paese e la patria d’Abramo: Ur o Carran? Più avanti dio ricorda ad Abramo (Gen 15,7) che lo ha fatto uscire da Ur dei Caldei; è l’ennesimo errore divino in quanto si è visto che Abramo parte da Carran e non da Ur. Proseguiamo nella storia. Abramo ubbidisce e il buon dio inizia con dei favoritismi (Gen 12,2): “Farò di te una grande nazione [un grande popolo] e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e possa tu essere [diventerai] una benedizione. Benedirò coloro che ti benediranno e coloro che ti malediranno maledirò…”. Favoritismi, certo, e per di più gratuiti in quanto il popolo d’Abramo aveva referenze al pari di tanti altri popoli. Attenzione! Al posto di Abramo non starei tranquillo: ogni volta che questo dio benedice, poco dopo arrivano maledizioni, bacchettate e calci nel sedere. Il seme dello schiavismo si legge più avanti (Gen 12,5): “Abram prese la moglie Sarai, e Lot, figlio di suo fratello… e tutte le persone che lì si erano procurate e si incamminarono verso la terra [il paese] di Canaan”. Impariamo che Abramo si avvia verso la terra promessa con le persone “che si procura”. C’è di peggio: una frase pesantissima è la promessa del padreterno che appare ad Abramo (non è detto sotto quale forma) (Gen 12,7): “Alla tua discendenza io
darò questa terra [questo paese]”. Si trattava di Canaan, vale a dire della Palestina: una frase che provocherà, ancora oggi, stragi, guerre, lutti, dolore e sofferenze all’umanità; inoltre, la Superiorità non spiega il motivo, come sopra accennato, per cui fa la promessa agli ebrei e non ai Sumeri o agli Egizi. Non basta. Al fido Abramo dio incalza (Gen 15,18): “Alla tua discendenza io do questa terra [questo paese] dal fiume d’Egitto al grande fiume, il fiume Eufrate”. Qui qualcuno ha esagerato: o la Superiorità o Abramo o il cronista biblico. Ai suoi alleati, dio promette, oltre alla Palestina, parte dell’Egitto, la Giordania, il Libano, la Siria, quasi tutto l’Irak e parte dell’Arabia Saudita. È probabile che, leggendo questo o, gli arabi si siano innervositi e si siano rivolti ad Allah. Risultato: n’è sortito quello scatafascio che dura purtroppo ancora oggi. La speranza è che i nipoti d’Abramo si siano dimenticati della promessa divina e non rivendichino, oltre alla Palestina, anche le altre aree oggi arabe. L’arcivescovo greco-melkita Cyrille Salim Bustros ha precisato (Corriere della Sera del 24.10.2010) che per i cristiani “la promessa di Dio nell’AT sulla terra promessa è stata abolita dalla presenza di Cristo: la terra promessa è il Regno di Dio, tutta la terra” e quindi “non ci sono popoli eletti”. Al che, gli ebrei hanno risposto che tale interpretazione teologica è “bizzarra” e che “la sostituzione dell’Alleanza [con dio, n.d.a.] per negare agli ebrei il diritto alla terra d’Israele” è una vecchia “teologia preconciliare” delle Chiese cristiane dell’area medioorientale e non del Vaticano. Ad un ateo, queste affermazioni, che presumono, nientedimeno, l’interpretazione del pensiero non di Gianburrasca ma dell’Essere Supremo, creatore “del cielo e della terra” e di qualcos’altro, stimolano tenerezza e comione. Altro o da meditare si trova in Gen 12,11. Ci troviamo in Egitto e Abramo fa una certa proposta alla moglie, che doveva essere una sorta di Marilyn Monroe del tempo: “Vedi, io so che tu sei donna di aspetto avvenente. Quando gli Egiziani ti vedranno, penseranno: Costei è sua moglie, e mi uccideranno, mentre lasceranno te in vita. Di’ dunque che tu sei mia sorella, perché io sia trattato bene per causa tua e io viva grazie a te [per riguardo a te]… gli Egiziani videro che la donna era molto avvenente. La osservarono gli ufficiali del faraone e ne fecero le lodi al faraone; così la donna fu presa e condotta nella [a] casa del faraone. A causa di lei [Per riguardo a lei], egli trattò bene Abram, che ricevette greggi e armenti e asini, schiavi e schiave, asini e cammelli”. Oggi i tipi come Abramo li chiamiamo magnaccia, lenoni. È un nuovo esempio di come l’AT sia proprio un modello di vita da far leggere agli adolescenti! Impareranno che a questo mondo, per realizzare i disegni divini, è conveniente far prostituire la moglie in modo da
avere, tra l’altro, “greggi e armenti e asini, schiavi e schiave, asini e cammelli”. Abramo, sentita la “vocazione”, diventa magnaccia e schiavista. Non basta: il nostro bravo patriarca è anche responsabile del rapporto incestuoso con sua moglie poiché scopriremo che essa è effettivamente sorella d’Abramo per parte di padre (Gen 20,12). E giungiamo subito, semmai ve n’era necessità, alla conferma che questa divinità biblica è illogica e iniqua. Infatti, venuto a sapere che il faraone andava a letto con Sarai, moglie d’Abramo, colpisce (Gen 12,17) “la sua casa con grandi calamità”. Da non crederci! Del terzetto (Abramo, Sarai e faraone), l’unica persona che abbia operato con onestà e trasparenza è il faraone. Che ti fa il Nostro? Colpisce il faraone, una persona retta, come è confermato dal suo correttissimo comportamento, una volta saputo che Abramo e Sarai erano marito e moglie. Infatti, si legge (Gen 12,18): “Allora il faraone convocò Abram e gli disse: «Che mi hai fatto? perché non mi hai dichiarato che era tua moglie?… E ora eccoti tua moglie: prendila e vattene!». Poi il faraone diede disposizioni su di lui [lo affidò] ad alcuni uomini che lo accompagnarono fuori della frontiera insieme con la moglie e tutti i suoi averi”. Abramo tenta ancora di far prostituire la moglie, quando si trova davanti ad Abimelech, re di Gerar (Gen 20,2) e dice al re che Sara (ex-Sarai) è sua sorella. Abimelech la manda a prendere ma, come precisa l’AT più avanti, non la tocca. D’altra parte questa Sara era ormai abbastanza vecchiotta e non si comprende proprio quali gusti sessuali doveva avere Abimelech, con tante belle figliole del suo regno. Fatto sta che questa volta dio, che non ha altro cui pensare, appare in sogno al re informandolo che la donna è ammogliata. Il bravo re chiama Abramo e gli dice: “Che mi volevi combinare, brutto fetentone?”. Abramo risponde “bla bla”, ma confessa che Sara “è veramente mia sorella, figlia di mio padre, ma non figlia di mia madre, ed è divenuta mia moglie”. Il risultato però è simile a quello ottenuto presso il faraone: per motivi incomprensibili, Abimelech dà ad Abramo greggi e armenti, schiavi e schiave, terreno per abitarci e mille pezzi d’argento. Siccome dio aveva sterilizzato tutte le donne dell’incolpevole Abimelech, per il fatto che in buona fede s’era portato a casa Sara pur senza toccarla, Abramo ricambia il favore intercedendo presso il suo divino compare, il quale farà partorire le donne del re. Far are la moglie per sorella pare sia il grande business di questi patriarchi. In Gen 26,6 abbiamo un altro esempio di squallore patriarcale: “Così Isacco
dimorò a [in] Gerar. Gli uomini del luogo gli fecero domande sulla moglie ma egli disse [lo interrogarono intorno alla moglie ed egli disse]: «È mia sorella»… Era là da molto tempo, quando Abimelech, re dei Filistei, si affacciò alla finestra e vide Isacco scherzare con la propria moglie Rebecca”. Questa volta a Isacco non va tanto bene perché il re, che già c’era caduto con Abramo, lo vede mentre scherza con la donna e gli rinfaccia: “Ma che sorella e sorella se tu scherzi con questa donna!”. In compenso il re rilascia al patriarca un bonus: avverte il popolo che nessuno dovrà far del male a Isacco e consorte. Leggiamo e commentiamo il macabro rito che segue. La Superiorità al figlio prediletto Abramo (Gen 15,9): “Prendimi una giovenca di tre anni, una capra di tre anni, un ariete di tre anni, una tortora e un colombo [piccione]. (Abramo) Andò a prendere tutti questi animali, li divise in due e collocò ogni metà di fronte all’altra; non divise però gli uccelli… Quando, tramontato il sole, si era fatto buio fitto, ecco un braciere [forno] fumante e una fiaccola ardente are [arono] in mezzo agli animali divisi”. Una scena poco edificante: l’alleanza col dio avviene in mezzo a bracieri fumanti, torce accese, animali squartati (ma non gli uccelli) attraverso i quali ano i due alleati. Esilarante è la nota esplicativa dell’AT: “Sotto il simbolo del fuoco è YHWH che a e a solo poiché la sua alleanza è un patto unilaterale”; nella precedente edizione la nota riportava “Dio solo, sotto il simbolo del fuoco a attraverso le vittime, perché l’alleanza è una sua iniziativa di grazia”. Sara muore a Hebron (Gen 23,1) alla bella età di 127 anni e suo marito, lo scaltro Abramo, trova il modo di sfruttarla anche da morta. Con la scusa di fare un sepolcro alla donna, compra per sei chili d’argento (le monete ancora non era state messe in circolazione) dall’hittita Efron un apprezzamento di terreno con una caverna. Questo ipotetico pezzo di terreno a Hebron sarà la prima mitica proprietà israelita, che i coloni ebrei ortodossi (difesi dall’esercito israelita) ancora oggi non intendono abbandonare pur essendo l’attuale Hebron sotto la giurisdizione dell’Autorità Nazionale Palestinese. C’è una grotta sulla quale fu eretta nel I secolo a. C. una costruzione, che è l’edificio ebraico più antico ancora conservato nella sua interezza, detta La tomba dei Patriarchi, dove sono sepolti, secondo le fantasie dell’AT, Abramo, Sara, Isacco e altri. La terrificante complicazione è che un hadith di Ibn Battuta testimonia le parole di Maometto: “Quando l’angelo Gabriele mi comandò di fare il viaggio notturno a Gerusalemme, ando sopra la tomba di Abramo, mi disse: scendi e prega (…) perché qui si trova il sepolcro di tuo padre Abramo…”. I musulmani, in un angolo della suddetta tomba, hanno costruito una piccola moschea. La
conclusione è che a Hebron (130.000 abitanti, 80% sotto il controllo dell’Autorità Nazionale Palestinese, 20% sotto il controllo d’Israele) ebrei, cristiani e musulmani venerano la tomba, col risultato che ancora oggi israeliani e palestinesi continuano a massacrarsi, tra una preghiera e l’altra.
I-10 Mosè el conquistador Con una storiella poco originale ha inizio l’epopea di Mosè (Es 2,1): “Un uomo della famiglia di Levi andò a prendere in moglie una discendente [figlia] di Levi. La donna concepì e partorì un figlio: vide che era bello e lo tenne nascosto per tre mesi”. Annotiamo l’amore materno: se il figlio era brutto forse lo avrebbe sbattuto via. Il faraone cattivo aveva comandato di gettare nel Nilo tutti i figli maschi ebrei, ma la madre in questione ha un’idea (che sarà praticata anche da Rea Silvia con i suoi Romolo e Remo): mette il bimbo in un canestro di papiro bitumato e lo poggia sulle acque del Nilo, nella speranza che il bimbo sia raccolto da un’anima buona. Il bimbo in questione va a finire, nientedimeno, nelle mani della figlia del faraone e sarà chiamato Mosè, che appunto è un nome egizio. Mentre di tutti gli altri personaggi biblici “da prima pagina” conosciamo, in parte, padri, madri, figli, cognati e nipoti, questa volta dalla fantasia del cronista non viene fuori nulla: non sappiamo chi siano i genitori di Mosè, popstar del Pentateuco. Sappiamo solo che era imparentato con quel Levi, prima maledetto e poi salito al rango di sacerdote supremo, che massacrò i sichemiti col fratello Simeone (Gen 34,1). Sorprende che Mosè, figura carismatica dell’AT, sia presentato come un assassino e un codardo (Es 2,11): “Vide un Egiziano che colpiva un Ebreo, uno dei suoi fratelli. Voltatosi attorno e visto che non c’era nessuno, colpì a morte l’Egiziano e lo seppellì nella sabbia”. E dire che quest’assassino (Nm 12,3) “era un uomo assai umile, più di qualunque altro sulla faccia della terra [era molto più mansueto di ogni uomo che è sulla terra]” e inoltre è ben referenziato anche nel NT; si legge, infatti (At 7,22): “Così Mosè venne educato [istruito] in tutta la sapienza degli Egiziani ed era potente nelle parole e nelle opere” benché subito dopo sia confermato che ammazza l’egizio (At 7,24). Che poi sia potente nelle parole è un’altra imprecisione; Mosè confessa a dio che non sa parlare (Es 4,10): “Perdona, Signore, io non sono un buon parlatore [Mio Signore io non sono un buon parlatore]…” e dio stesso nomina il fratello Aronne portavoce di Mosè (Es 4,14): “Non vi è forse il tuo fratello Aronne, il levìta? Io so che lui sa parlar bene… Tu gli parlerai e porrai le parole sulla sua bocca [e metterai sulla sua bocca le parole da dire]…”. Mosè certamente parlava l’egizio, ma conosceva anche l’ebraico? Come arrivò Mosè al matrimonio? Stava presso un pozzo dove arrivano “sette-
sorelle-sette” che devono prendere dell’acqua per far bere il bestiame. Giungono dei pastori cattivi che scacciano le “sette-sorelle-sette”, ma Mosè, il duro, si levò a difenderle e fa bere il bestiame. Le donne vanno dal loro padre e raccontano che le ha difese un Egiziano e ciò fa prendere in seria considerazione il fatto che questi ebrei dovevano essere egiziani o in ogni caso abbondantemente “naturalizzati”. Al che il padre delle sette donne ne rifila una, Zippora, per moglie a Mosè, la quale gli spiattella subito un figlio, Gherson, del quale l’AT non ne parlerà più (Es 2,22). Desaparecido. Mosè era un ebreo? Pare proprio di no. Il padreterno gli comanda di fare uscire gli israeliti dall’Egitto (Es 3,13): “Mosè disse a Dio: «Ecco, io vado [arrivo] dagli Israeliti e dico loro: Il Dio dei vostri padri mi ha mandato a [da] voi. Mi diranno: “Qual è il suo nome? [Ma mi diranno: Come si chiama?]» …Dio disse a Mosè: «Io sono colui che sono!». E aggiunse [Poi disse]: «Così dirai [Dirai] agli Israeliti: Io-Sono mi ha mandato a voi». Dio disse ancora [aggiunse] a Mosè: «Dirai agli Israeliti: Il Signore, Dio [il Dio] dei vostri padri, Dio [il Dio] di Abramo, Dio [il Dio] di Isacco, Dio [il Dio] di Giacobbe mi ha mandato a voi»”. Dal dialogo pare ancora più evidente che Mosè – che non conosce nemmeno il nome del suo dio – non sembra essere un israelita bensì, evidentemente, un egizio. Un favoloso esempio di anoressia è fornito da Mosè che più di una volta digiunerà per quaranta giorni e, naturalmente, quaranta notti. Mosè ricorda (Dt 9,9): “Quando io salii sul monte a prendere le tavole di pietra… rimasi sul monte quaranta giorni e quaranta notti, senza mangiare pane né bere acqua. Il Signore mi diede le due tavole di pietra, scritte dal dito di Dio, sulle quali stavano tutte le parole che il Signore vi aveva detto [dette] sul monte, in mezzo al fuoco…”. Mosè ricorda che scese dal Sinai e vide il popolo traviato adorare il vitello, afferrò e gettò le due tavole, che si spezzarono. Quindi risale sul Sinai (Dt 9,18): “…e mi prostrai davanti al Signore. Come avevo fatto la prima volta, per quaranta giorni e per quaranta notti; non mangiai pane né bevvi acqua…”. Mosè non specifica che non mangiò niente, ma precisa sempre che non toccò l’ombra di pane e acqua, e siccome è un furbacchione, sovviene il dubbio che si sia mangiato un intero ariete arrosto e abbia tracannato vino. La modestia non era una qualità di Mosè. Il suocero gli chiede come mai il popolo sta accanto a lui dalla mattina alla sera e lui risponde (Es 18,15): “perché il popolo viene da me per consultare Dio. Quando hanno qualche questione, vengono da me e io giudico le vertenze tra l’uno e l’altro e faccio conoscere i
decreti di Dio e le sue leggi”. Così si rivolge al popolo, convinto di quel che dice (Dt 4,6): “Questa grande nazione è il solo popolo saggio e intelligente. Infatti quale grande nazione ha gli dei così vicini a sé [la divinità così vicina a sé], come il Signore, nostro Dio, è vicino a noi ogni volta [ogni qual volta] che lo invochiamo? E quale grande nazione ha leggi e norme giuste come è tutta questa legislazione che io oggi vi do [espongo]?”. Parla Mosè (Dt 7,1): “Quando il Signore, tuo Dio, ti avrà introdotto nella terra in cui stai per entrare per prenderne possesso e avrà scacciato [nel paese che vai a prendere possesso e ne avrà scacciate] davanti a te molte nazioni… quando il Signore, tuo Dio, le avrà messe in tuo potere e tu le avrai sconfitte, le voterai allo sterminio. Con esse non stringerai alcuna alleanza e nei loro confronti non avrai pietà [Non farai con esse alleanza né farai loro grazia]. Non costituirai legami di parentela con loro [Non ti imparenterai con loro]… demolirete i loro altari, spezzerete le loro stele, taglierete i loro pali sacri, brucerete i loro idoli nel fuoco …”. Tutto questo sfracello deriva sempre dal fatto che Israele è popolo “eletto”. Come appare evidente, non c’è nel Pentateuco alcuna motivazione perché dio scelga gli ebrei e non i calmucchi o i watussi. I frequenti richiami di tale scelta (ad esempio Nm 23,9, Dt 4,34, 4,37, 8,18, 9,5) non offrono alcuna spiegazione. In Dt 7,6 la Bibbia di Gerusalemme precisa che “i profeti annunciano il riconoscimento di YHWH da parte di tutte le nazioni e l’universalismo della salvezza”; insomma, per tutto il mondo e i quattro orizzonti, “è l’era messianica aperta dalla venuta di Gesù”. Per affermare ciò, gli ecclesiastici, scartabellando per duemila anni le pagine dell’AT, hanno trovato questa frasetta: (Is 49,6) “(Parla dio) Io ti renderò luce delle nazioni, perché porti la mia salvezza fino all’estremità della terra”.
Prima di Adamo ed Eva Secondo la teoria del Big Bang, che è il vertice più alto della ricerca nel settore cosmologico (Già si fa avanti la teoria del multi-Universo, secondo la quale la “bolla” del nostro Universo è una delle tante “bolle” esistenti), compatibilmente con le attuali capacità del nostro cervello, al tempo “zero” l’Universo aveva le dimensioni di un atomo. Dopo un tempo pari a 10-43 secondi, l’Universo era grande circa 1 cm³ e aveva una temperatura di 10³²°C, ma già dopo 10-35 secondi era grande quanto un’arancia e aveva una temperatura di 10²⁷°C.
Dopo 10-25 secondi appaiono quark e gluoni e l’Universo si raffredda – si fa per dire – a 10¹⁷°C (migliaia di miliardi di gradi centigradi); questa condizione è stata creata sperimentalmente presso il Large Hadron Collider del CERN di Ginevra. Dopo 0,00001 secondi dal Big Bang, l’Universo è grande quanto il nostro sistema solare, appaiono neutroni e protoni e la temperatura si riduce a 10¹²°C (centinaia di miliardi di gradi centigradi). Dopo tre minuti, a seguito della fusione nucleare, nascono i primi nuclei di elio e la temperatura si riduce a 10⁸ °C (centinaia di milioni di gradi centigradi). Dopo 300.000 anni dal Big Bang e con una temperatura inferiore a 3.000°C, i primi atomi emettono quella che oggi si ritiene sia la “radiazione fossile”. Dopo un miliardo di anni, la temperatura è abbassata a -200°C e i gas cosmici formano le prime stelle, che poi si raggruppano in galassie. Ai giorni nostri, dopo 13 miliardi e 800 milioni di anni dal Big Bang, l’Universo continua a espandersi, la sua temperatura media è -270°C e in un remoto angolino, che alcuni nativi chiamano Terra, la vita si è sviluppata da almeno tre miliardi di anni.
Cap. II GESÙ’ O CHI PER LUI
II-1 La nascita di Gesù Due premesse scontate: a) la storia della scienza, della filosofia e dello sviluppo umano sono ricche di persone ben più sagge e virtuose di Gesù; b) per i risvolti storici e sociali del cristianesimo, non è importante Gesù ma la Chiesa. Secondo le informazioni che la Chiesa ha sempre fornito ai fedeli, Maria e Giuseppe risiedevano a Nazareth, si recarono a Betlemme per il censimento dove nacque Gesù (secondo la profezia) e, compiuto il giro turistico in Egitto (secondo la profezia), tornarono a Nazareth, dove Gesù crebbe (secondo la profezia). Vedremo, dalle poche considerazioni logiche che si ricavano analizzando più testi, che la storia si basa solo su ipotesi, non si riesce a trarre una conclusione; inoltre, secondo un buon numero di biblisti, Gesù è nato a Nazareth e non a Betlemme. La natività della madonna e l’infanzia di Gesù sono trattate da due apocrifi, il “protovangelo di Giacomo” (PG), che si ritiene sia del II secolo, e il tardivo “Pseudo Matteo” (PM) del VI secolo; ne parla anche un “vangelo arabo dell’infanzia”, ma è una sequela di cervellotici miracoli di Gesù. Resta inteso che sia PG sia PM, derivati dalla devozione popolare, sono delle operette fantasiose che tracciano una descrizione con toni poetici e utopistici, lontani dalla realtà, finalizzati a ribadire la verginità della madonna, la vecchiaia di Giuseppe e la teofania della nascita del bambino Gesù. Di seguito è riportata una sintesi dei due racconti che, pur nella loro stravaganza, lanciano almeno un fascio di luce, seppur tremula, su quegli ambienti sociali e su quei momenti arcaici, reali o no, sui quali si basa un credo religioso che ha condizionato la vita di miliardi di persone. Al centro della storia c’è Maria (forse dall’aramaico mar, signora), un personaggio che nei vangeli compare raramente e che solo il culto mariano della Chiesa l’ha elevato a figura di primo piano. Va subito detto che l’angelo di dio interviene per ben tre volte, perché fa figliare, oltre a Maria, anche due sacre coppie sterili, come vedremo; così è garantita dalla Chiesa la totale a-sessualità ambientale dei personaggi.
I genitori di Maria – Gioacchino, un pecoraio, e Anna – risiedevano, forse, a Gerusalemme (PG non precisa il luogo, che descrive a circa 9 km da Betlemme e potrebbe anche essere Gerusalemme). La coppia non aveva figli e Gioacchino aveva subìto un affronto al tempio perché in Israele ciò era ritenuto un castigo di dio. Intervenne un angelo e Anna divenne incinta, partorendo Maria al settimo mese, che pertanto nacque a Gerusalemme. Per la cronaca, a sei mesi, Maria fa sette i, ma poi torna in braccio alla madre. Crescendo, Maria è avviata ai lavori della lana, nei quali mostra grande abilità. A quattordici anni (a dodici secondo PG), la comunità decide di sceglierle il marito, con un giochetto: tutti gli uomini senza moglie (per PG solo i vedovi) portano una verga, il gran sacerdote le custodisce e dalla verga dalla quale apparirà un segno divino, si sceglierà il marito. Dalla verga di Giuseppe appare una colomba. “Ma che scherzo è questo” fa Giuseppe “sono vecchio e ho figli. La gente mi prenderà in giro. Custodirò questa fanciulla e la darò in moglie a uno dei miei figli”. Ci si può chiedere, a questo punto, perché abbia partecipato alla gara, ma siamo in piena fantasia religiosa. Quando si scrivevano queste storie, non c’era tv, non c’era internet, non c’erano auto né biciclette né cellulari, non c’erano hobby né eggiate fuori porta e le persone dovevano pur trascorrere il tempo. Se qualcuno aveva un po’ di fantasia, magari gli veniva il vezzo di scrivere, se n’era capace (a quel tempo erano in pochissimi a sapere leggere e scrivere): i romanzi ancora non erano stati concepiti e gli argomenti più gettonati, una volta distrutti dal cristianesimo i filoni della commedia romana e della tragedia greca, erano i racconti di fantascienza religiosa. “Non fare scherzi!” gli intima il sacerdote Zaccaria, “ricordati che Dio ti guarda e ti può bacchettare!”. L’onesto Giuseppe obbedisce e dopo un po’ dice a Maria “Me ne vado a lavorare per nove mesi a Cafarnao. Stammi bene”. Saluta e chiude la porta (Su Cafarnao torneremo più avanti). Giuseppe pare non fosse un semplice falegname (Mt 13,55; Mc 6,3), ma qualcosa di più (dall’aramaico naggàr, greco tèkton): un mastro costruttore di case e lavoratore della pietra, legno e metallo, piuttosto noto. Maria trova impiego alla tessitura della cortina che pendeva dinnanzi all’ingresso del tempio, in particolare lavorando la porpora; un bel giorno, l’angelo le comunica la bella notizia: partorirà il figlio di dio, restando vergine. Da Luca (Lc 1,5) si apprende che il sacerdote Zaccaria era sposato con Elisabetta, che secondo alcuni era una parente di Anna, la madre di Maria, forse la sorella maggiore; secondo PM, Elisabetta era cugina di Maria. Siccome anche
la coppia Zaccaria – Elisabetta non aveva figli e la gente mormorava, l’indaffaratissimo angelo disse a Elisabetta “Ci penso io”. Elisabetta partorirà Giovanni Battista, sei mesi prima della nascita di Gesù; quindi, Maria e Giovanni Battista potrebbero essere cugini, mentre secondo PM, Gesù era cugino in seconda di Giovanni Battista. Zaccaria sarà santificato dalla Chiesa e diverrà il santo patrono dei muti perché quando venne a sapere che sua moglie era incinta …ammutolì. Durante la gestazione di Elisabetta, Maria va tre mesi a casa sua, che stava in un villaggio identificato con Ain Karim, a metà strada tra Gerusalemme e Betlemme, oggi in pratica un sobborgo di Gerusalemme. Dopo il parto di Elisabetta, Maria, già col pancione, se ne torna a casa. Quando Maria è al sesto mese di gravidanza, torna da Cafarnao anche Giuseppe, il quale, appena la vede, si mette le mani ai capelli: “Che mi hai fatto!”. “Vergine sono” le ribatte Maria. L’angelo si rifà puntualmente vivo e conferma a Giuseppe che Maria non l’aveva cornificato e che era giunta la grazia di Dio. Ma, scrivono PG e PM, la gente mormora, eccome se mormora. Giuseppe si affretta a raccontare la storia e il gran sacerdote gli fa: “Facciamo la prova dell’acqua amara. Se tu e Maria sopravvivete, significa che non avete raccontato frottole”. I due bevono l’acqua amara, sopravvivono e tra la gente torna la tranquillità. A questo punto giunge l’obbligo del censimento e Maria e Giuseppe devono raggiungere Betlemme, loro luogo di nascita (ma Maria non era nata a Gerusalemme?). Vedremo che il censimento non c’entra nulla con la nascita di Gesù ed è un vistoso errore di Luca (vedi al paragrafo 2-5 “Quando sarebbe nato Gesù?”). I pii esegeti sostengono che il censimento avveniva secondo il modo giudaico: tutti dovevano iscriversi presso il loro luogo d’origine e non quello di residenza, per contare i membri delle varie tribù. Secondo molti storici e biblisti non ecclesiastici, il censimento era voluto dai Romani e quindi si sarebbe svolto secondo il loro modo: obbligo di presentarsi nel luogo di residenza e non di nascita. Il governatore della Siria, Publio Sulpicio Quirino, lo aveva indetto nel 6-7 d. C. (d. C. e non a. C.), dopo che la Giudea, con capitale Gerusalemme (da non confondere con l’antico regno di Giuda), era divenuta provincia romana. Pertanto, al tempo del censimento, Gesù era già un ragazzino. I Romani indicevano il censimento per definire l’imposizione dei tributi agli abitanti del posto: ai Romani non importava dove questi indigeni fossero nati. Con questa realistica versione, il viaggio della coppia a Betlemme è una balla. Luca fissa la residenza della coppia a Nazareth (Lc 1,26), Matteo parla di
Nazareth solo al ritorno dall’Egitto, a Marco e Giovanni non interessa niente dei particolari sulla nascita di Gesù, i due apocrifi PG e PM non fanno alcun accenno alla presenza di Giuseppe e Maria a Nazareth. Come detto in precedenza, PM colloca la coppia a Gerusalemme e leggendo in PG la descrizione del viaggio verso Betlemme, di circa 9 km, si deduce che potrebbero avviarsi proprio da Gerusalemme, perché questa è la distanza che c’era tra le due città. Ma perché far nascere Gesù a Betlemme? Solo Matteo e Luca parlano di Betlemme, negli altri due vangeli non se ne parla; però per Matteo Gesù nasce in casa dei suoi che si trova a Betlemme e non a Nazareth, mentre Luca scrive che Giuseppe e Maria si trasferiscono da Betlemme a Nazareth, per poi far avvenire il parto a Betlemme, in una stalla. Vediamo di trarre qualche conclusione. Tra l’area della Giudea (Gerusalemme, Betlemme) e l’area della Galilea dove Gesù conduce le sue predicazioni (dintorni del lago di Tiberiade, con Cafarnao, Betsaida) c’è una distanza in linea d’aria da un minimo di 100 a un massimo di 140 km. I pii esegeti insistono che il censimento indetto da Publio Sulpicio Quirino si sarebbe svolto secondo i criteri giudei, ma è una tesi inattendibile: come abbiamo puntualizzato, ai Romani interessava contare quanti erano i residenti in ogni località, in modo da impartire le tasse. Quindi è improbabile che Giuseppe con Maria incinta, se risiedevano a Nazareth, andassero da Nazareth a Betlemme, affrontando a dorso di mulo un viaggio così lungo. È più ragionevole che il censimento si sia svolto secondo le direttive dei Romani e che Giuseppe e Maria l’abbiano adempiuto a Nazareth (con Gesù già ragazzino), dove erano probabilmente nati e cresciuti, zona dove Gesù predicherà. Ipotesi avvalorata dall’affermazione di Giuseppe in PM, che avverte Maria che se ne va alcuni mesi a lavorare a Cafarnao, sul lago di Tiberiade, a 30 km circa da Nazareth. Se stavano a Gerusalemme, appare improbabile che Giuseppe andasse a lavorare così lontano, sempre che l’affermazione in PM abbia qualche validità. Anche Giovanni tira in ballo la Galilea, cioè Nazareth (Gv 7,41; 7,52): “Il Cristo viene forse dalla Galilea?”, “Sei forse anche tu [Nicodemo, n.d.a.] della Galilea?”. PG fa avvenire il parto dopo che Maria a dorso di mulo percorre circa tre miglia, quindi non a Betlemme, ma a metà strada tra la possibile Gerusalemme e Betlemme, in una grotta. Giuseppe va a cercare una levatrice e lascia con Maria i suoi figli (non si sa quanti siano, uno si chiama Samuele). Anche PM fa avvenire il parto in una grotta, lungo il cammino, mentre Giuseppe va in cerca di una
levatrice. Il parto avviene con la teofania di Gesù bambino: durante le doglie, appare una nuvola nella grotta e compare il bambino, che non segue il normale percorso utero-vaginale; appena venuto alla luce, Gesù si attacca dritto al seno della madre. Un breve appunto: come si vede, il trio Maria – Giovanni Battista – Gesù viene alla luce su intervento dell’angelo e senza fornicazione, per partenogenesi: il sesso, questo sconosciuto! Secondo PG e PM, quando Giuseppe ritorna con due levatrici, Zelomi e Salomè, queste non credono ai loro occhi: vergine era Maria prima del parto e vergine è rimasta! Salomè va a controllare; infila un dito nella “natura” di Maria, la quale “cominciò per il dolore a piangere dirottamente”. A questo punto, dio, il creatore dell’universo che vigilava sulla madre di suo figlio, brucia la mano di Salomè, l’incredula. Compare l’angelo che le dice di prendere il bambino in braccio: lei lo prende e guarisce istantaneamente. Siamo dinnanzi all’enfatizzazione e alla ricerca del meraviglioso, per venire incontro alla curiosità popolare, caratteristica presente in tutti i vangeli. Secondo PM, Maria partorisce a sedici anni, mentre secondo PG a dodici, tredici anni. Sempre secondo PM, dopo tre giorni Maria esce dalla grotta, depone il bambino in una stalla ed è adorato dal bue e dall’asino, come dice la profezia (vedi più avanti il box “Il presepe”); al sesto giorno Maria e Giuseppe vanno a Betlemme, all’ottavo giorno avviene la circoncisione del bambino e a quaranta giorni, secondo Matteo e Luca, la coppia si reca al tempio di Gerusalemme. Giuseppe offre cinque sicli d’argento per il riscatto del primogenito, secondo la legge di Mosè, pari all’incirca a un mese di lavoro di un artigiano (1 siclo =12,5 grammi). Maria fa il bagno rituale della purificazione post-partum. La coppia, col bambino in braccio, e con due colombe acquistate sempre nel tempio (i cui sacerdoti detenevano il monopolio delle vendite), si presentano al levìta di turno, che sacrifica le colombe e ne lancia una sull’altare facendo spruzzare il sangue. PM afferma che i re magi arrivano dopo due anni dalla nascita di Gesù e non alcuni giorni dopo. Matteo racconta che Erode, quando viene a sapere, tramite i re magi, della nascita di Superman, emana l’ordine di ammazzare tutti i bambini sotto i due anni (Mt 2,16). Alcuni vangeli apocrifi parlano di strage da 3.000 a 144.000 bambini ed è la solita balla. A Betlemme vivevano un migliaio di persone, pastori e contadini, e in due anni potevano nascere più e meno 60 bambini, di cui una trentina di maschi; tenendo conto della mortalità infantile, le vittime della strage non potevano essere più di 20-25 bambini, che è sempre un bel numero, volendo credere a queste favole.
In effetti, il racconto di Matteo su Erode è inaccettabile nella sua ingenuità. Il re, saputo che tre sconosciuti re magi erano arrivati a Gerusalemme chiedendo del re dei giudei, li avrebbe convocati e avrebbe chiesto loro di andare a Betlemme e riferirgli dove si trovava il neonato re. I tre, dopo avere deposto i regali, si sarebbero addormentati e in sogno qualcuno avrebbe suggerito loro di ritornarsene a casa senza are da Erode. Erode avrebbe atteso inutilmente i re magi e poi avrebbe ordinato di ammazzare tutti i bambini da due anni in giù. È chiaro che Erode, con la sua rete d’informatori e con i soldati a disposizione, poteva sapere senza problemi dove si trovava Superman, visto che Betlemme non era grande come New York, e, d’altra parte, i suoi soldati non erano degli imbecilli che dovevano ammazzare tutti i bambini, senza essere in grado di risalire a Gesù. In realtà Erode non era quel sanguinario descritto da Matteo, l’unico evangelista che ne parla, anzi aveva denunciato i massacri fatti dai Romani. Matteo inventa tutto il panegirico su Erode per collegarlo alla profezia (Mt 2,18 con riferimento a Ger 31,15): “Un grido è stato udito in [a] Rama, un pianto e un lamento grande: Rachele piange i suoi figli e non vuole essere consolata, perché non sono più”. Rama si trovava a nord di Gerusalemme, mentre Rachele, moglie di Giacobbe, era seppellita a Betlemme (Gen 35,19), che si trovava a sud, e non poteva piangere i figli perché era morta prima di loro! Inoltre, Rama in ebraico significa collina, mentre nella Bibbia dei Settanta il vocabolo “Rama” era stato scambiato per la località a nord di Gerusalemme. Insomma, un altro abbaglio di Matteo. Com’è noto, il solito angelo avverte Giuseppe di scappare in Egitto per evitare l’ira del cattivo Erode. Perché Giuseppe scappa in Egitto, invece di prendere la strada per Nazareth, dove secondo Luca aveva casa? I pii esegeti spiegano che Giuseppe era della stirpe di David (con una genealogia tutta inventata) e per lui era più “naturale” andare dalla Giudea verso il sud che verso nord, a Nazareth, che era in Galilea. Gli interrogativi che sto elencando e che non portano ad alcuna conclusione certa della storia, inducono invece alla conclusione molto probabile che abbiamo a che fare con personaggi nati dalla fantasia di scrittori che non procedevano per logica e che non intendevano fare cronaca ma favola. Perché Nazareth è la residenza “ufficiale” di Maria e Giuseppe, secondo Matteo e Luca? Ai tempi di Gesù il nucleo di Nazareth è probabile sorgesse su una collinetta, oggi forse individuata nel tessuto urbano della Nazareth moderna, e forse contava non più di 150 abitanti, pastori e contadini. Il nome della località, in ebraico Nazràth o Nazràh, deriva da nezèr, virgulto o piccolo germoglio. Si
legge in Isaia (Is 11,1): “Un germoglio spunterà dal tronco di Iesse [padre di David, n.d.a.], un virgulto [nezèr, n.d.a.] germoglierà dalle sue radici”. Quindi Matteo colloca Giuseppe, di ritorno dall’Egitto, a Nazareth (Mt 2,23): “…e [appena giunto] andò ad abitare in una città chiamata Nazareth, perché si compisse [adempisse] ciò che era stato detto per mezzo dei [ciò che era stato detto dai] profeti: «Sarà chiamato Nazareno»”. Di questa frase non c’è traccia nell’AT; con una piroetta interpretativa, i pii esegeti rispondono: Non è stato scritto, ma è stato detto dai profeti! Nazareno deriva dal greco nazòraios, italianizzato in nazoreo, “virgulto di David”, da non confondere con nazireo, una sorta d’asceta invasato, che non si tagliava i capelli, votava per la castità e non beveva vino (lo era Giovanni Battista). Pur essendo nato a Betlemme (ma l’affermazione appare poco credibile), Gesù crebbe a Nazareth, dove l’angelo aveva avvertito Maria del prossimo parto (solo secondo Luca). Del viaggio in Egitto i cristiani copti (dall’arabo qubt, egiziano) sanno tutto e n’è venuta fuori una storia da realtà romanzesca. Il giro della sacra famiglia durò circa un anno e tralasciamo i sortilegi che fece il bambino Gesù (tipo sorgenti che scaturiscono nel deserto). I tre si fermarono in alcune zone dell’attuale Cairo (Bubasti, Zagazig, Heliopolis), quindi fecero un’escursione di 200 km sul Nilo sino all’odierna Beni Mazar, poi all’attuale El Ashmunain. Il punto più meridionale toccato fu Asyut, a oltre 300 km dal Cairo, dove i tre si fermarono per sei mesi. Un bel giorno, avvertito in sogno che era tempo di tornare, Giuseppe fece marcia indietro e rientrò in patria, dopo un migliaio di chilometri a dorso di mulo e, forse, su una barchetta lungo il Nilo. Tutto questo panegirico per validare la profezia di Osea (Os 11,1): “…e dall’Egitto ho chiamato mio figlio” ricordata da Matteo (Mt 2,15): “perché si compisse [adempisse] ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta”. Matteo (un pagano che conosce poco l’AT) continua a prendere fischi per fiaschi, perché la profezia non si riferisce al messia, ma al popolo ebreo che dio, chiamandolo dall’Egitto, aveva liberato dalla schiavitù dei faraoni. Luca è meno fantasioso di Matteo: Giuseppe e Maria risiedono a Nazareth ma sono nativi di Betlemme e colà devono andare per il censimento; giunti a Betlemme, Maria partorisce in una stalla (che si trova, secondo PG e PM, a 3-4 km da Betlemme, a metà strada con Gerusalemme) e poi tutti e tre se ne tornano a Nazareth. Una breve parentesi, prima di proseguire nelle supposizioni che riguardano
l’adolescenza e la gioventù di Gesù. Secondo Matteo (Mt 1,15) il trisnonno, il bisnonno e il nonno di Gesù si chiamavano Eleazar, Mattan e Giacobbe, secondo Luca (Lc 3,23) si chiamavano Levi, Mattat ed Eli, ma tutta la genealogia per dimostrare che Gesù discendeva da Davide è diversa per i due evangelici. Il fatto è che Gesù non era figlio di Giuseppe ma dello spirito santo (Mt 1,20). Eh, no! rispondono i pii commentatori della Bibbia: per la legge del levirato (Dt 25,5 e segg.) la discendenza legale e quella naturale sono equivalenti. Salti mortali su lastre di vetro. Fatto sta che, ancor prima dei vangeli, Paolo scrive (Rm 1,3) che il figlio di dio è “nato dal seme [dalla stirpe] di Davide secondo la carne”, carne e non spirito santo.
Il presepe La stella e i re magi che vediamo nei presepi se li è inventati Matteo (Mt 2,1), l’unico evangelista che ne parla, rifacendosi all’abituale usanza dei primi cristiani di tirare in ballo segnali celesti per avvalorare puerilmente i loro scritti. L’AT parla di Balaam, un oracolo che profetizza (Nm 24,17): “Una stella spunta da Giacobbe” intendendo per stella un re divinizzato e Matteo se n’approfitta, aggiungendovi i magi, che non erano dei re bensì dei sacerdoti del mazdeismo, religione d’origine persiana, che si dedicavano alla magia e all’oniromanzia (interpretazione dei sogni). I pii esegeti affermano che al singolare 'mago' significa “stregone” (e così interpreta Luca in At 13,8), mentre al plurale 'magi' significa “uomini saggi”. Questi tre fantasiosi personaggi non sono presi in considerazione da Luca nel suo vangelo, il quale invece parla (Lc 2,8) di pastori avvolti di luce dalla “gloria del Signore”. Anche in tal caso, è difficile che alla nascita di Gesù ci fossero dei pastori, perché in dicembre a Betlemme fa freddo, spesso anche nevica (pare, però, che Gesù sia nato in autunno). Anche il bue e l’asinello non c’entrano niente col presepe e si trovano nella grotta per un doppio errore. Nella ricerca puntigliosa di scovare nell’AT segni profetici della nascita di Gesù, i primi cristiani trovarono nella traduzione greca della Versione dei Settanta la profezia di Abacuc: “In mezzo ai due animali tu ti manifesterai”. In realtà la frase, secondo il testo ebraico e la Vulgata, andava tradotto, come in effetti lo è, (Ab 3,2): “Nel corso degli anni falla rivivere [manifestala] [l’opera tua, n.d.a.]”. Venne però presa in considerazione la traduzione errata e si leggeva pure (Is 1,3): “Il bue conosce il suo proprietario [il proprietario] e l’asino la greppia del suo padrone [del padrone]”. Per di più, il richiamato vangelo apocrifo dello Pseudo Matteo (anche gli apocrifi servono quando fan comodo) raccontava che tre giorni dopo il parto, avvenuto in una grotta, Maria aveva deposto il bambino Gesù in una stalla dove (cap. XIV) “il bue e l’asino l’adorarono”. Chapeau! La tradizione cristiana natalizia infilò bue e asino nella grotta. In realtà la frase intera d’Isaia è (Is 1,3): “Il bue conosce il suo proprietario e l’asino la greppia del suo padrone, ma Israele non conosce, [e] il mio popolo non comprende”, di tutt’altro significato. Così, secondo una traduzione errata a un altrettanto errata interpretazione e grazie a un vangelo apocrifo, ci ritroviamo nel puerile e immaginario quadretto del presepe un bue e un asino che non c’entrano niente.
II-2 Gli anni prima della predicazione Il nome “Gesù” è una contrazione di Jehoshuà (ebraico: Jahveh è salvezza). Vi sono una ventina di Gesù nella storia ebraica. Nel NT vi sono almeno due Gesù, diversi dal “figlio di Dio”: un Gesù padre del “mago e falso profeta giudeo, di nome Bar-Jesus”, dove Bar-Jesus significa “figlio di Gesù” (At 13,6), e un “Gesù, chiamato Giusto”, collaboratore di Paolo (Col 4,11). Della gioventù di Gesù non si sa nulla, ma si può risalire attraverso il Pirqe Aboth, un antico testo ebraico, che riporta la vita rigidamente organizzata degli ebrei maschi a quei tempi: “A cinque anni si studia la Bibbia, a dieci il Mishnah, a tredici si osservano i precetti, a quindici si studia il Talmud, a diciotto si celebra il matrimonio, a venti si trova il lavoro, a trenta si è in pieno vigore, a quaranta in piena saggezza”. Gesù molto probabilmente si allineò a questo standard di vita, aiutando e imparando il mestiere del padre. Si può pensare che abbia lavorato per diversi anni a Sefforis, a sette km da Nazareth. Sefforis era stata conquistata da Erode il Grande dopo avere sconfitto l’opposizione asmonea, ma, morto Erode, l’opposizione aveva ripreso vigore e i Romani ne fecero tabula rasa: repressione e città alle fiamme. Erode Antipa, figlio di Erode il Grande, l’ebbe in eredità e volle ricostruire la città, per farne la sua capitale, come riferisce Giuseppe Flavio, lo storico ebreo che ha lasciato le più ricche testimonianze di questo periodo (ma non parlò mai di Gesù). Tale progetto avrebbe comportato molti anni di lavoro e forse per tal motivo Giuseppe si sarebbe trasferito a Nazareth, ammesso che fosse originario di Gerusalemme. È intuibile che Gesù abbia trascorso diversi anni a Sefforis, così com’è molto probabile che, secondo la legge ebraica, a diciotto anni sia convolato a giuste nozze, a meno che avesse problemi sessuali o esistenziali. Gesù non poteva non essere sposato; nel suo ambiente, chi non lo era a una certa età non era ben visto e certamente, in seguito come predicatore, non avrebbe avuto né dei discepoli né dei seguaci se si spargeva la voce del suo celibato (a meno che non fosse un asceta nazireo, come Giovanni Battista). D’altra parte i suoi fratelli erano sposati (1 Cor 9,5). Gesù pare non nutrisse complessi nei confronti dell’altro sesso: aveva delle donne tra i discepoli (Mt 27,55; Mc 15,40; Lc 23,49), s’intrattiene amichevolmente con la samaritana (Gv 4,7 e segg.) tanto da meravigliare i suoi discepoli (Gv 4,27), apprezza la cananea (Mt 15,22), perdona la peccatrice (Lc 7,37 e segg.) e l’adultera (Gv 8,4 e segg.), rispetta la
donna (Mt 5,28; 19,4; Mc 10,6), al Golgota sotto la sua croce vi sono quattro donne (Gv 19,25). Una delle più alte vette della stupidità della credulità religiosa è toccata dal vangelo di Filippo, scritto nel II secolo, che parla di un matrimonio tra Gesù e Maria di Màgdala (detta anche Maria Maddalena, santa), dalla cui unione sarebbero nati gli angeli! L’autore non era al corrente che, già quando era nel deserto a subire le tentazioni di satana, Gesù era servito dagli angeli (Mc 1,13); a meno che non avesse “conosciuto” prima Maria di Màgdala. Riprendendo l’ipotetica biografia, Gesù, quindi, lavorerebbe col padre e da lui apprenderebbe alcune tradizioni locali che sono riprese nelle parabole. Gesù faceva parte di una borghesia che poteva considerarsi media e forse era a contatto con i farisei. Giuseppe certamente muore prima della crocifissione, poiché Gesù affida la madre a Giovanni il Sacerdote, che la prenderà in casa. A quel tempo erano tre le principali sette (o partiti) giudee: farisei, sadducei, esseni. I farisei, partito di maggioranza, erano inizialmente dei rigidi interpreti della legge biblica e successivamente un gruppo estremista, gli zeloti, applicò tale principio anche nell’ambito militare, non rifiutando l’uso della violenza anche in nome di dio e contro i Romani. I farisei furono anche dediti alle speculazioni e condannati da Gesù. I sadducei (dal loro sommo sacerdote Sadoc) erano formati dalle classi aristocratiche e sacerdotali, si ispiravano solo alle sacre scritture e non ai riti antichi, negavano la resurrezione dei corpi e l’esistenza degli angeli. Si associarono ai farisei per combattere i primi cristiani, di cui furono i nemici più accaniti. Gli esseni rigettavano il culto del tempio di Gerusalemme e la sua classe sacerdotale, forse si segregarono in una comunità per restaurare la santità del popolo e rinunciarono a mantenere relazioni economiche sia per un ideale di povertà sia per evitare contaminazioni col mondo esterno. Il loro credo è descritto nei documenti trovati a Qumràn, nel deserto di Giuda vicino il mar Morto. In quest’ambiente, tutt’altro che tranquillo e soporifero come quello descritto dai vangeli, giunto sui 32-36 anni (come vedremo più avanti), Gesù lasciò la famiglia e raggiunse Giovanni Battista, asceta nazireo, suo parente coetaneo. È probabile che Gesù conoscesse il pensiero degli esseni, poiché molti loro princìpi si ritrovano nei suoi discorsi. Il Battista era un predicatore legato
all’essenismo ed era uno delle dozzine di predicatori e millantati messia che attraversavano la Palestina. Proponeva agli ebrei di pentirsi e di bagnarsi nel Giordano per purificarsi nell’attesa dell’imminente giudizio universale. Gesù dovette seguire per un po’ il Battista, dovette assimilare il fascino del messaggio che predicava e poi proseguì per la sua strada. Il Battista fu messo in carcere in un periodo compreso tra il 28 e il 35 d. C. e quindi giustiziato. Per meglio comprendere quel poco che si conosce della vita di Gesù, occorre avere un’idea precisa dell’area geografica che frequentò. Ai tempi di Gesù la Palestina era suddivisa in: a) un’area meridionale, la Giudea con capitale Gerusalemme; b) un’area settentrionale, la Galilea, dove sorgeva Nazareth, con il lago di Tiberiade e la capitale ellenistico-pagana di Tiberiade; c) tra Giudea e Galilea c’era la Samaria che confinava sul mar Mediteranno, dove sorgeva Cesarea, luogo d’incontro di Gesù con i primi discepoli pescatori; d) la SiroFenicia era un’altra area costiera; e) la Decapoli, area delle dieci città, occupava l’area a ovest del Giordano, nell’attuale area giordano-siriana; f) la Perea, sempre a ovest del Giordano, con Betania. Il centro d’azione di Gesù era Cafarnao, sul lago di Tiberiade, ma non sembra che sia mai stato a Tiberiade. Gesù non ebbe la vita facile: difficoltà e noie gli giunsero da chi lo conosceva personalmente. In un’occasione, mentre s’intratteneva con la gente, sua madre e i suoi fratelli cercarono di riportarlo a casa, tra la massa delle persone, dicendo che era impazzito, magari per paura del pericolo che poteva derivare con una tale agitazione. Gesù rispose che solo quelli che compiono il volere del “Padre che è nei cieli” erano sua madre e i suoi fratelli. A Nazareth non ebbe fortuna e gli abitanti del minuscolo borgo non lo prendevano sul serio (Mt 13,58; Mc 6,4 e segg.) e Gesù se n’andò da Nazareth, peregrinò in Samaria sino a Cesarea. In mancanza di reperti che dimostrino l’esistenza reale di Gesù, il cristianesimo punta molto sulle realtà dei luoghi da lui frequentati, come se la loro realtà fosse una conseguente dimostrazione della reale esistenza di Gesù, ma non lo è affatto. Basta ricordare l’esempio dell’Iliade e dell’Odissea: vi si parla di luoghi reali, ma le loro storie e i loro personaggi sono frutto della fantasia, così come la pucciniana Tosca che si butta dagli spalti di Castel Sant’Angelo.
Erode il Grande Erode il Grande gode di una pessima fama a causa della fittizia strage degli innocenti riportata dai primi scritti cristiani, ma in realtà fu un buon sovrano, a parte l’uccisione di moglie e figli, quando segnalò e, più tardi, lamentò segni di pazzia. L’occupazione romana della Palestina avvenne nel 63 a. C., quando Pompeo prese possesso di Gerusalemme e della Giudea. Suo padre Antipatro non era giudeo ma idumeo di nascita (L’Idumea era la regione a Sud-Ovest del mar Morto) e i Romani lo designarono come controllore del re Ircano II, etnarca della Giudea, poiché governava già l’Idumea. Antipatro attuò una politica di equilibrio nella lotta per il potere tra Giulio Cesare e Pompeo e ò dalla parte di Giulio Cesare quando questo l’ebbe vinta; morì nel 33 a. C. e lasciò orfani cinque figli, tra cui Erode, che governò dal 37 a. C., sposò scaltramente la figlia del Sommo Sacerdote e s’introdusse nell’antica casata dei Maccabei. Erode si schierò dalla parte di Marco Antonio ma poi ò col vincitore Augusto. Rese molti servigi ai Romani e ne fu ricompensato col trono; fu un buon statista, oltre a un fine architetto. A Gerusalemme fece costruire moderni palazzi, circondò la città di una cinta muraria e costruì il tempio. Fu il più grande monarca della Palestina, avendo compreso il ruolo politico della sua terra in un mondo dominato dai Romani e dal pensiero greco, e conservò l’unità della nazione giudaica. Ebbe nove o dieci mogli, sei figli e tre figlie; nel 29 a. C. fece uccidere la moglie Marianne nel timore che congiurasse contro e nel 7 a. C. fece uccidere i due figli avuti da lei. Alla sua morte, nel 4 a. C., l’imperatore Augusto divise la Palestina in quattro regioni e le affidò ai quattro figli. La tetrarchia della Galilea andò a Erode Antipa sino al 39 d. C. e irriterà i giudei perché avrà una relazione con la vedova del fratello Erode Filippo, che era anche sua nipote e madre della bella Salomè, figlia di primo letto. La Giudea e la Samaria, con capitale Gerusalemme, andarono ad Archelao; le regioni del Nord-Est e la Decapoli a Erode Filippo, mentre Abilene e Iturea a uno sconosciuto Lisanja. A seguito d’incidenti e tensioni, la Palestina nel 6 d. C. fu divisa in due province, la Giudea e la Galilea; quest’ultima (la zona Nord con il lago di Tiberiade) rimase sotto Erode Antipa, mentre la Giudea (la zona Sud con Gerusalemme) fu annessa alla Siria come provincia procuratoria e gestita direttamente da un prefetto romano.
II-3 Gesù è esistito? Oggi gli stessi professionisti della fede sia ebraica sia cristiana, salvo i creduli fanatici, considerano fantasiosa l’esistenza di Abramo, Mosè e tutta l’allegra brigata via via sino a Salomone, ma guai a porre il dubbio ai cristiani sulla reale esistenza di Gesù. In realtà, la maggioranza dei biblisti ritiene che Gesù sia effettivamente esistito; tra le varie considerazioni ipotetiche a vantaggio di tale convinzione ci sono l’insuccesso del suo messaggio a Nazareth, l’episodio dei suoi parenti che lo ritenevano impazzito e volevano riportarlo a casa, il vagabondaggio lungo la costa della Siro-Fenicia e la Decapoli (a ovest del fiume Giordano) dopo che la sua predicazione insospettì Erode Antipa, tetrarca della Galilea: episodi “negativi” che non possono essere collegati a un mito fantastico. D’altra parte è pur vero che vi sono diverse dozzine di scrittori contemporanei di Gesù o vissuti entro un secolo dai fatti evangelici che non parlano assolutamente di lui. Inoltre, non c’è alcuna prova archeologica dell’esistenza di Gesù. Chi parla per primo di Gesù, ma solo raramente, è Paolo nelle sue lettere, verso la metà del I secolo, cioè una persona che non lo ha mai visto, salvo nella visione, solo da lui descritta, durante il probabile attacco epilettico lungo la via di Damasco. Inoltre, non è certo che siano attestazioni originali di Paolo, perché è dimostrato che vi sono diverse false epistole paoline. Mentre i più tardivi vangeli sovrabbondano di parole di Gesù, in Paolo sono quasi rare. Al di fuori dei vangeli, nessun documento riporta il nome di Gesù. Gli storici del tempo non vennero a conoscenza dei portentosi miracoli di Gesù: morti resuscitati, ciechi che acquistavano la vista, paralitici che camminavano. Non ne parla Origene di Alessandria (185-254), forse il più grande filosofo cristiano dei primi tre secoli. Plinio il Giovane (61-113) accenna di gente che innalza “un inno a Cristo” in una lettera del 112. Svetonio (65-135) parla di un certo Chrestus che istiga gli ebrei a Roma, che potrebbe essere chiunque, e ne tratta come se fosse una bega tra ebrei. Tacito scrive negli Annali, databili intorno al 117, che “Cristo, da cui prendevano il loro nome, fu mandato a morte da Ponzio Pilato, procuratore della Giudea”, ma l’affermazione di Tacito pare derivi da voci sentite e non da atti ufficiali. Di Gesù non ne parla Giusto di Tiberiade (28-100), suo conterraneo e profondo conoscitore della Galilea, residente a Tiberiade, poco lontano da Cafarnao, dove Gesù andava spesso, e autore di un’imponente Storia dei re giudaici, da Mosè a
Erode Agrippa II; il testo è andato perduto, ma Fozio, un cristiano del IX secolo, lo lesse e affermò che non parlava di Gesù. Nessun accenno ne fa Giuseppe Flavio (37-100), il più documentato storico ebreo filo-romano del tempo, nelle sue Antichità Giudaiche, uscite nel 93, ricchissime di dettagli contemporanei dei fatti evangelici. Giuseppe Flavio era nato nel 37-38 da famiglia ebrea e fu esso stesso sacerdote. Nel 67 aveva preso parte alla prima guerra giudaica come comandante militare in Galilea; una volta sconfitto, ò dalla parte dei Romani e si soprannominò Flavio per accattivarsi i favori di Vespasiano. Scrisse in greco le Antichità Giudaiche, in venti libri, per far conoscere meglio le tradizioni del popolo ebraico che aveva tradito. L’opera ci è giunta solo in tre versioni greche e la più antica risale al IX-X secolo. Si può comprendere come può essere falso il o che parla di Gesù; Giuseppe Flavio lo definisce un uomo saggio, dotato di poteri eccezionali, punito da Pilato, risorto il terzo giorno, venerato dai “cristiani” e detto “il Messia”. Quando fu inserito questo o dal pio amanuense cristiano? Tra la prima metà del III secolo, perché è ignorato da Origene nel suo Contro Celso (vedi al cap. 4, paragrafo 4-2 “Contro gli ebrei, contro i cristiani”) che anzi afferma che Giuseppe Flavio non pensava che Gesù fosse il Messia (per Giuseppe Flavio il Messia era Vespasiano), e gli inizi del IV secolo, perché Eusebio di Cesarea riporta più volte il o nella sua Storia ecclesiastica. Per di più, nessun padre della Chiesa menziona tale citazione, che sarebbe stata di notevole sostegno nella lotta contro gli ebrei. Filone di Alessandria, contemporaneo di Gesù (20 a. C.-45), doveva essere stato testimone dell’arrivo trionfale di Gesù a Gerusalemme, del suo processo e crocifissione, ma non c’è traccia nei suoi scritti. D’altro canto, l’assenza di testimonianze scritte da contemporanei non dimostra la sicura inesistenza di Gesù. In una Palestina percorsa dai molti santoni – dei ciarlatani che turlupinavano e istigavano i poveri – la predicazione di Gesù avvenne in un brevissimo lasso di tempo, da uno a tre anni secondo i vangeli canonici, insufficiente perché si diffondesse sino a raggiungere i cronisti del tempo. Inoltre, nonostante la speculazione post-mortem degli scritti evangelici ricchi di miracoli, il messaggio di Gesù non si differenziava molto da ciò che andavano profetizzando gli altri santoni, per cui la sua figura è ata inosservata ai cronisti. Ancora oggi il messaggio di Gesù appare ricco di prepotente spacconeria e vuoto di spessore; solo grazie alle secolari manomissioni speculative e ai bimillenari panegirici chiesastici, la cieca fede dei
semplici ha trasformato l’irrealtà del Gesù storico nella realtà del Gesù mitico. In definitiva, ciò che si conosce di Gesù è solo attraverso il NT, ma, dopo due secoli di studi, i teologi cristiani hanno affermato che l’affidabilità del NT è disastrosa: un terzo degli scritti si fonda su falsificazioni, cioè su testi spacciati dalla Chiesa per apostolici, ma che apostolici non sono. Gli studi della biblistica critica hanno stabilito che i vangeli non costituiscono fondamenti storici attendibili ma sono solo dei prodotti letterari mitologici. Nei vangeli manca una successione temporale degli aneddoti e non si conosce con certezza né il dove né il quando, perché gli evangelisti non volevano scrivere la biografia di Gesù, ma rimarcare un messaggio religioso, mitizzando un personaggio. Ancora nel 1870 in occasione del concilio Vaticano I (quello dell’infallibilità papale), la Chiesa aveva il coraggio di sentenziare che il NT “fu scritto su ispirazione dello Spirito Santo e ha Dio stesso per autore”! Nella Palestina di Gesù la scrittura era nota da millenni; anche se la sua predicazione è durata un tempo breve, come mai Gesù non ha scritto niente e dagli apostoli è uscito solo qualche rigo? L’evento eccezionale non sarebbe dovuto essere documentato dai contemporanei, così come è avvenuto in seguito quando compariranno valanghe di scritti? Gesù era analfabeta, come la maggior parte dei suoi conterranei? Al riguardo nei vangeli c’è un solo richiamo di Gesù che legge (Lc 4,16): “(Gesù entrò) nella sinagoga e si alzò a leggere”. Paolo fu il primo ad accennare a Gesù, ma il primo a raccogliere aneddoti sulla sua vita fu l’evangelista Giovanni Marco (più noto come Marco), un discepolo dell’apostolo Pietro che non conobbe Gesù. Tutti i vangeli, in origine, erano anonimi, senza il nome degli autori e solo più tardi la Chiesa, quando li propinò come opere degli apostoli e dei loro discepoli, appiccicò dei nomi. San Giustino, palestinese vissuto tra il 100 e il 160 d. C., non conosceva i vangeli, pur essendo documentato sull’AT e su taluni vangeli apocrifi. In realtà non si sa se Marco è un seguace di Pietro e Luca un seguace di Paolo. Dalla presunta morte di Gesù alla scrittura del primo vangelo trascorre quasi mezzo secolo e il suo ricordo è facile sia caduto nella leggenda, perché i primi cristiani erano gente semplice, popolani di ceto medio-basso, culturalmente non dotati, facili ad accettare i messaggi che li raggiungevano, senza porre spirito critico. Per di più erano tempi in cui il soprannaturale e la superstizione
ammantavano buona parte delle azioni umane. Anche l’eccezionalità delle ipotetiche guarigioni apparivano azioni normali nel clima pregno di ignoranza e di misteriosità di quel tempo. “Alzati, ritto [diritto] in piedi!” urla Paolo (anche lui faceva miracoli) a uno “storpio sin dalla nascita, che non aveva mai camminato” (At 14,8) ed “egli balzò in piedi [fece un balzo] e si mise a camminare”. La facilità della divinizzazione e sublimazione dell’immagine. La Palestina dei tempi di Gesù non era tutto quel latte e miele descritto dai vangeli, ma era una terra attraversata da dozzine e dozzine di predicatori, come Gesù, che si dichiaravano “amici di dio”. Più volte alcuni di loro convinsero dei poveretti popolani a lottare contro i Romani invasori, certi che li avrebbero vinti con l’aiuto di Dio e, regolarmente, erano massacrati e crocefissi. Narra Giuseppe Flavio che, tra il 44 e il 46, un tale Teuda, che si autonominava profeta, venne dall’Egitto con quattromila seguaci (ma secondo At 5,36 solo in quattrocento) per combattere i Romani, convinto di separare le acque di un fiume col solo proferire di una formula magica e divina; i Romani li massacrarono e a Teuda tagliarono la testa. L’imperatore Giuliano (331-363), di cultura pagana e nobile avversario dei cristiani, scrisse di Gesù che “durante la sua vita egli non ha fatto nulla di cui valga davvero la pena di parlare, salvo che non si voglia giudicare una grande impresa la guarigione di ciechi e paralitici a Betsaida e a Betania”. Marco presenta Gesù come un uomo, Matteo e Luca, evangelisti più recenti, lo paragonano a una specie di semidio, mentre Giovanni e i più tardi vangeli apocrifi ne parlano come di un dio con le sembianze di uomo. La crescente divinizzazione si nota dalla crescente descrizione dei miracoli: dove Marco descrive un miracolo, Matteo ne descrive due e dove Marco dice che ne guarisce “molti”, Matteo millanta “tutti”. Coi pani e coi pesci moltiplicati, Marco fa saziare “quattromila persone” e Matteo “quattromila uomini, senza contare le donne e i bambini”. Alla morte di Gesù, Marco riporta (Mc 15,38) che “il velo del tempio si squarciò in due, da cima a fondo [dall’alto in basso]”, mentre Matteo, come richiamato in precedenza, la spara grossa (Mt 27,51): “Ed ecco il velo del tempio si squarciò in due, da cima a fondo, la terra tremò [si scosse], le rocce si spezzarono, i sepolcri si aprirono e molti corpi di santi, che erano morti [di santi morti], risuscitarono. Uscendo dai sepolcri, dopo la sua risurrezione, entrarono nella città santa e apparvero a molti”. Seri studiosi, cultori di studi neotestamentari o semplici dilettanti compaiono periodicamente affermando che Gesù non è mai esistito. Come richiamato, gli scritti neotestamentari non possono essere considerati come fonte storica; i tre
vangeli sinottici non concordano in modo completo quasi su niente. Ciò non dimostra che Gesù non sia esistito, d’altro canto gli ebrei polemizzarono a lungo con i cristiani sulla figura di Gesù: se non fosse esistito, avrebbero potuto gridarlo a squarciagola. Tra l’ipotesi dell’esistenza e quella della non-esistenza, ci sono altre due ipotesi: a) che i vangeli – data la diversità tra i vari Gesù evangelici dei sinottici, di Giovanni e degli apocrifi – siano ispirati non a una sola persona ma a diversi cliché del tempo; b) che la figura di Gesù sia stata ritagliata mitizzando quella di una persona realmente esistita e politicamente impegnata. Le lettere di Paolo (Rm, 1 e 2 Cor, Gal, Fil, 1 e 2 Ts, Fm), scritte tra il 50 e il 60 d. C., sono i documenti cristiani più antichi; in essi non si parla della dottrina della madonna, né dei miracoli di Gesù, né del processo di Pilato. Da questi documenti si deduce che la storicità di un tale Gesù, pur accettandola con riserva, è fortemente messa in dubbio. Come detto in precedenza, al tempo di Gesù, nella Palestina occupata dai Romani, c’era un forte fermento culturale e nazionalista; la classe sacerdotale era corrotta e il capo dei sacerdoti era nominato dai Romani. È possibile che sia nato il “mito” di Gesù come forma di recupero dei valori giudaici, specie se si tiene presente il movimento, rigorosamente ascetico, degli esseni, risalente al II secolo a. C. e che fanno un continuo riferimento al maestro di virtù senza dargli un nome. Come riportava il Talmud, intorno al 100 a. C. tra gli esseni c’era stato un uomo che aveva praticato magie e che si chiamava Jeishu ha Notzri (si noti l’assonanza con Gesù di Nazareth), un sobillatore eretico lapidato e appeso a un albero alla vigilia della pasqua ebraica dell’88 a. C. In definitiva, è probabile che sia esistito un “Gesù”, mitizzato sia dai discepoli sia dai discepoli dei discepoli, e la circostanza che i contemporanei non ne parlano si può spiegare con la rapida scomparsa di Gesù dalla scena pubblica e con l’anonimità del personaggio, uno dei tanti predicatori nella Palestina di quegli anni. Secondo qualche biblista, è possibile che Gesù o chi per lui si considerasse un guaritore, sul tipo degli odierni pranoterapeuti, e avesse operato qualche guarigione, ma certamente non fece i pomposi miracoli e i sortilegi che si leggono nei vangeli.
Nazareth Gran parte degli studiosi oggi ritiene che Gesù sia nato a Nazareth e non a Betlemme. In una cripta sottostante la basilica dell’Annunciazione a Nazareth c’è una grotta che la leggenda vuole sia stata la casa di Maria, dove l’angelo le avrebbe comunicato la “lieta novella” (secondo Luca, ma non secondo Matteo). La casa era per metà scavata nella grotta e per metà in muratura; questa costruzione in muratura esisteva ancora nel 1294, quando gli angeli o, meno fantasiosamente, i crociati l’hanno trasportata a Loreto, dove oggi è collocata dentro la locale basilica! La basilica di Nazareth era stata fondata da sant’Elena, l’indaffarata e scaltra madre di Costantino, che aveva individuato, chissà con quale criterio, il luogo; gli scavi del 1960 per costruire l’ultima versione della basilica hanno messo in luce una costruzione bizantina e una crociata. Ai pellegrini che vanno a Nazareth e, più in generale in Palestina, sono mostrate diverse strutture per commemorare la vita di Gesù, ma che non hanno alcuna base storica. La città di Nazareth costituisce un piccolo “giallo” biblico. Secondo i vangeli, Gesù “Nazareno” visse a Nazareth, ma l’affermazione è molto dubbia. Nazareth è situata nel nord della Palestina, in Galilea. Oggi è una gradevole cittadina di circa 50.000 abitanti quasi tutti arabi, molto frequentata dai “pellegrini” cristiani perché vi sorgono, oltre alla basilica dell’Annunciazione, la fontana della “vergine” e, sempre per il godimento e la credulità dei fedeli, persino la casa di Giuseppe. Nazareth non è mai nominata nell’AT, né è menzionata dallo storico Giuseppe Flavio, che pure nei suoi scritti riporta decine di nomi di villaggi e città della Galilea. Scavi archeologici sull’area di Nazareth hanno riportato reperti che risalgono solo ad alcuni secoli dell’era cristiana, anche se delle grotte del luogo erano state abitate nei secoli a. C. Sono state trovate delle tombe nei pressi della basilica dell’Annunciazione e in due di queste sono stati trovati lampade e recipienti che possono risalire approssimativamente dal I al IV secolo d. C.; quattro di queste tombe hanno una chiusura con pietra tipica del periodo ebraico sino al 70 d. C. È tutto ciò che si riesce ad avere sull’esistenza di Nazareth ai tempi di Gesù e su ciò si appiglia la storiografia cattolica. In realtà è probabile che a quei tempi Nazareth fosse uno sperduto agglomerato di poche decine di modeste abitazioni, con circa 150 abitanti. Cosa avrà potuto spingere Giuseppe a trasferirsi da Gerusalemme in quel posto solitario e non in una
località dove c’era anche maggiore prospettiva di lavoro? Forse la vicinanza a Sefforis, la ricostruenda capitale della Galilea? In tal caso, perché non risiedere direttamente a Sefforis? È probabile che Nazareth sia stata fondata sull’esistente agglomerato di abitazioni alla fine del II secolo d. C. e i primi documenti ove appare il suo nome risalgono al III secolo d. C., dove ex-abrupto si presenta Nazareth come la città di Gesù. La prima documentazione ebraica, dove si parla di una Natzereth, risale solo al X secolo. Ciò premesso, vediamo cosa riportano di Nazareth i vangeli, scritti da persone che certamente avevano idee approssimative della Palestina e della Galilea. È una città con una sinagoga (Lc 4,16), è collocata su un monte dove c’è un precipizio (Lc 4,29) e si trova presso il lago di Tiberiade. In realtà Nazareth di oggi ha delle zone con modeste colline, molto dolci e senza precipizi, ha i resti di una sinagoga che però risalgono al II o III secolo d. C., e dista in linea d’aria dal lago di Tiberiade circa 25 km, località molto frequentata da Gesù, anche se pare che, dopo l’arresto di Giovanni Battista, Gesù si sia trasferito a Cafarnao, sul lago (Mt 4,13). Ma, leggendo Luca, dopo che rischiò a Nazareth di essere gettato in un precipizio, Gesù (Lc 4,31) “scese [discese] a Cafarnao”, che si trova sul lago e dista oltre 30 km da Nazareth. Nella Guerra Giudaica Flavio Giuseppe descrive la città di Gamala, che stava sulle alture del Golan, a circa 400 metri di altezza, con case costruite su ripidi pendii di un monte e con la sommità che si affacciava su un burrone, e che distava circa 8 km da Cafarnao, collocata sul lago. Questa città, più che una quasi inesistente Nazareth, è un’altra possibile residenza di Gesù o di quella persona che si vuole fare intendere sia stato Gesù.
II-4 Da Giovanni il Nazoreo a Gesù il Nazareno Nazireo, nazareno, nazoreo: tre termini simili ma dal diverso significato. Nazireo era una persona che si votava, per un periodo che di solito non superava il mese, al servizio di dio e spesso diventava un asceta; i nazirei non si tagliavano i capelli e non bevevano alcolici e lo sono stati Sansone per tutta la vita (Gdc 13,5), Giovanni Battista (confermato in Lc 1,15) e Paolo (At 21,23). Per “nazareno” s’intendeva un abitante di Nazareth. Più difficile l’interpretazione di “nazoreo” perché, come moltissime altre questioni neotestamentarie, non si hanno fonti decisive. Il termine “nazoreo” è riportato 13 volte, 12 volte è applicato a Gesù e una volta (At 24,5), al plurale, designa i seguaci di Gesù. Nei vangeli solo una volta è riportato l’abbinamento “Gesù di Nazareth” (Gv 1,45: Gesù, il figlio di Giuseppe, di Nazareth) [nella precedente edizione della Bibbia, con una semplice virgola in meno, la nascita a Nazareth era attribuita a Giuseppe: Gesù, il figlio di Giuseppe di Nazareth]. Sei volte è riportato “Gesù il nazareno” e una volta Nazareth è indicata come “patria” (Mc 6,1: Partì di là e venne nella sua patria). La difficoltà dell’interpretazione sta nella lingua ebraica che non riporta le vocali, quindi la scritta originale “nzr” può essere interpretata come “virgulto” (da nezèr), oppure anche nazoreo o nazireo. La Chiesa ha sempre contrabbandato “nazireo” come cittadino di Nazareth, e studi recenti hanno individuato nei “nazorei”, altro vocabolo, una setta estremista all’interno degli zeloti, una comunità messianica spiccatamente antiromana. Al tempo di Gesù, esseni, zeloti e nazorei raggiungevano circa le quattromila unità. Dai vangeli, non sembra che Gesù sia stato un attivo nazoreo, contestatore dei Romani. Dei nazorei, come prima detto, ne parla Paolo (At 24,5) in occasione del suo arresto e l’avvocato Tertullo lo incolpa di essere “un capo della setta dei nazorei”. Commento della Bibbia di Gerusalemme: “gli avversari del cristianesimo vi vedono solo una setta o un partito dall’interno del giudaismo”. Come spiegare l’abbinamento? Facciamo un o indietro, di circa un secolo. Nel 76 a. C. Aristobulo I, un asmoneo, re di Gerusalemme, muore e lascia il trono ai due figli Ircano II e Aristobulo II; quest’ultimo spodesta il fratello e si accaparra il trono. Nel 63 a. C. giunge Pompeo, che rimette sul trono Ircano II, ma i discendenti di Aristobulo II rivendicheranno con sommosse il trono. Per
mettere pace, Aulo Gabinio, governatore della Siria, che ha sotto la sua giurisdizione la Giudea, toglie il titolo di re a Ircano II. Nel 47 a. C. Giulio Cesare, succeduto a Pompeo, riconferma Ircano II etnarca della Giudea, ma gli mette accanto un uomo di fiducia, Antipatro, padre di Erode il Grande. Antipatro, per aprire la strada del regno a suo figlio, si accattiva la fiducia di Giulio Cesare e dei Romani perseguendo i discendenti di Aristobulo II, sempre in sommossa; cattura il loro capo, Ezechia, e lo giustizia. I Romani allargano il regno di Gerusalemme a tutta la Palestina e, rimasto Ircano II prigioniero dei Parti durante una battaglia, nominano re Erode il Grande, che muore nel 4 a. C. All’ennesima rivolta antiromana e dei pretendenti al trono, il governatore della Siria Quintilio Varo crocifigge duemila giudei. L’imperatore Augusto divide la Palestina in quattro parti che affida ai quattro figli di Erode il Grande e sostituisce il titolo di “re” con quello di “tetrarca”, re di un quarto. La tetrarchia di Galilea va a Erode Antipa sino al 39 d. C., quando l’imperatore Caligola l’affida a Erode Agrippa, suo “amico”. La tetrarchia della Giudea, con Gerusalemme, va al primogenito Archelao, ma questa nomina è contestata e nell’anno 6 d. C. l’imperatore decide di annettere la Giudea come provincia romana, sostituendo Archelao con un procuratore finanziario romano. L’anno dopo avviene il censimento voluto dal governatore della Siria Publio Sulpicio Quirino e ha inizio la sommossa guidata da Giuda il Galileo, figlio di quel Ezechia giustiziato dal padre di Erode il Grande, alla guida di una formazione esseno-zelota-nazorea, sommossa che dura un anno con alterne vicende sino alla morte di Giuda il Galileo. È l’anno della nascita del movimento degli zeloti, che formano una sorta di partito nazionalista ebraico. Giuda il Galileo lascia sette figli maschi: il primogenito Giovanni, Simone, Giacomo, Giuda, Giacobbe, Giuseppe, Menahem. Il comando rivoluzionario lo assume il primogenito Giovanni il Nazoreo, detto anche Giovanni di Gamala, essendo nato in quella città, presso il lago di Tiberiade. Giovanni il Nazoreo, figlio di Giuda e nipote d’Ezechia, è il pretendente al trono degli asmonei e a lui la comunità essena-zelota-nazorea affida il compito di organizzare una campagna preparatoria rivoluzionaria che dura tre anni, al termine della quale raccoglie, sembra, alcune migliaia di guerriglieri, pronti a marciare su Gerusalemme. Sia Filone di Alessandria sia Giuseppe Flavio tratteggiano, in ogni modo, il carattere banditesco dei guerriglieri, che, durante la preparazione dell’insurrezione, saccheggiano le abitazioni e uccidono chi vi è dentro. Secondo un rotolo di Qumràn, all’inizio della sommossa andava attaccato il presidio romano presso la Torre Antonio, quindi occorreva sollevare il popolo e, conquistata Gerusalemme, eleggere Giovanni re dei giudei, poi si sarebbe proceduto contro le legioni
romane dislocate in Palestina, quando il grosso della truppa romana era in Egitto. La rivolta andava innescata all’alba della vigilia della pasqua. I Romani hanno sentore della sommossa, sorprendono i rivoltosi e Giovanni il Nazoreo è catturato, processato e crocifisso. A Giovanni succedono Simone e Giacomo, a loro volta processati e crocifissi nel 46 d. C. dal procuratore Tiberio Alessandro. Questi fatti sono raccontati da Giuseppe Flavio e la condanna di Giacomo è confermata dagli Atti degli apostoli, mentre Simone è liberato da un …angelo che gli apre la prigione (su Simone barjona vedi più avanti il box “Dalla banda dei Boanerghes ai dodici apostoli”). Un anno prima era stato ucciso anche Giacobbe. I fratelli di Giovanni che restano in vita continuano a promuovere sommosse e nel 66 rimane solo Menahem, alla guida di un esercito bene organizzato. Nel 68 muore Nerone e diviene imperatore Vespasiano, che manda il figlio Tito in Palestina a ristabilire l’ordine. L’assedio di Gerusalemme dura sei mesi, al termine del quale la città è rasa al suolo e, secondo Giuseppe Flavio, le crocifissioni ammontano a 12.000. Tito sarà portato in trionfo a Roma e in suo onore sarà innalzato l’arco di Tito, ancora visibile non lontano dal Colosseo. Morto Menahem, una piccola formazione militare è ricostruita da Eleazar ben Simon, cognato di Giovanni il Nazoreo; sconfitto al primo scontro, Eleazar si rifugia nella città essena di Masada e si uccide con tutti i suoi seguaci, prima di cadere nelle mani dei Romani che l’assediavano. Nonostante queste terribili sconfitte, ancora nel 132 un tale Simon Bar Koseba, autonominatosi “messia”, al comando di un esercito entra a Gerusalemme e per tre anni tiene testa ai Romani; la ribellione è domata e Simon Bar Koseba ucciso. A seguito di tale episodio, l’imperatore Adriano ordina di distruggere ancora una volta Gerusalemme, di are a fil di spada gli uomini e di sgozzare donne e bambini. Gli zeloti sono annientati e solo nel IV secolo sarà consentito agli ebrei di recarsi a Gerusalemme una sola volta l’anno; lo Stato ebraico rinascerà nel 1948. Un’ipotesi, riguardo alla ricostruzione della figura di Gesù, punta sulla persona di Giovanni il Nazoreo, predicatore per tre anni, dopo avere scartato Giovanni Battista. Sulla sua persona sarebbe caduta l’attenzione delle comunità primitive cristiane, ove era estesa la presenza degli esseni. Nascono atti, lettere, vangeli, ricchi di vari “Gesù”, con la figura del messia svestita del carattere bellico rivoluzionario, per evitare le ire dei Romani. Naturalmente si tratta di un’ipotesi, che però ha qualche riscontro; del resto la stessa figura di Gesù non ha alcun
riscontro certo.
La banda dei Boanerghes e i dodici apostoli La banda di Giovanni il Nazoreo e fratelli è chiamata, in diversi documenti ebrei e aramaici “banda dei Boanerghes”, che significa “figli del tuono”; la stessa definizione è confermata in Mc 3,17, quando l’evangelista presenta gli apostoli Giacomo di Zebedeo e il fratello Giovanni proprio come “figli del tuono”. È possibile che alcuni fratelli di Giovanni il Nazoreo siano stati presi come modelli per disegnare le figure degli apostoli? Quando si tenta di fare chiarezza nelle sacre scritture, si cade spesso in un magma di ipotesi dalle quali non si conclude con delle soluzioni definitive, semmai con altre ipotesi più probabili o con l’esclusione di altre ipotesi, dichiaratamente false (ed è già un successo). Ciò accade perché si lavora su testi scritti in ebraico antico o in aramaico, a volte in copto, molto liberamente tradotti in greco e poi altrettanto liberamente tradotti in latino, per di più manomessi con tagli, aggiunte e modifiche, sino ai giorni nostri. I testi del NT, scritti in greco, sono stati trascritti in latino, dopo vari aggiustamenti da più mani e lungo archi di tempo secolari. Tutto ciò rende difficoltoso, in gran parte dei casi giungere a delle conclusioni certe. Il secondogenito, fratello di Giovanni il Nazoreo, è Simone, che ha il soprannome Barjona, come molti zeloti, che significa “colui che è ricercato”. Nell’elenco degli apostoli (vedi tabella 3 al cap. III) compaiono Simon bar Jona, noto come Pietro, e un altro Simone definito “il cananeo” (da Matteo e Marco) e “lo zelota” (da Luca). La traduzione ufficiale ecclesiastica di “Simon bar Jona” è “Simone figlio di Giona”, cioè un patronimico, ma in aramaico non esiste il nome Giona, quindi l’esatta dizione dovrebbe essere “Simon barjona”. Andiamo dall’altro “Simone, il cananeo”, la cui dizione originale è “canaanites”, che in aramaico non significa “cananeo” bensì “ribelle, combattente partigiano”; inoltre, qunanà, in aramaico, significa “zelota”. Tale interpretazione è pure confermata dalla dizione di Luca (Lc 6,15 e in At 1,13) “Simone lo zelota” perché “zelota” è il movimento irredentista. La conclusione è che appare probabile che Simone figlio di Giona, Simone il cananeo e Simone lo zelota possano essere la stessa persona, con riferimento al secondogenito Simone Barjona dei Boanerghes. Il terzogenito Giovanni è crocifisso nel 46 d. C. come guerrigliero esseno. Il quartogenito Giuda è detto Ecariot (o Ekeriots), vocabolo ebraico che significa “sicario” (il termine italiano deriva dal latino sicarius, che a sua volta deriva da sica, un pugnale usato dai soldati romani); i sicari formavano l’ala più
oltranzista dei zeloti. Tra gli apostoli, abbiamo l’arcinoto Giuda Iscariota, il traditore, e i pii esegeti fanno derivare l’appellativo dalla città di Keriot, che non è mai esistita, o, vista la lacuna, da una tale famiglia Qerijjoth della Giudea; quindi appare possibile che il Giuda Iscariota apostolo sia il Giuda Iscariota dei Boanerghes. Mistificazioni del genere, nel NT abbondano. Il termine “bar” significa “figlio di” e in Marco si legge (Mc 10,46): “Mentre partiva da Gerico insieme ai suoi discepoli e a molta folla, il figlio di Timeo, Bartimeo, che era cieco, …”. Non bisogna essere esperti in aramaico per rendersi conto dell’errore di traduzione, perché “Bartimeo”, cioè “bar Timeo” significa “figlio di Timeo” e questo benedetto cieco certamente non si chiama Bartimeo. Lo stesso dicasi per Bartolomeo “figlio di Tolomeo” e, più eclatante, per “Barabba”, cioè “bar Abba” che significa “figlio del padre” ma letteralmente “figlio di Dio”, uno dei tanti sinonimi con i quali gli ebrei si riferivano al loro “Dio”, essendo impronunciabile il tetragramma YHWH. Lascia molti dubbia la frase di Pilato (Mt 27,17): “Chi volete che io rimetta in libertà per voi [che vi rilasci]: Barabba o Gesù, chiamato [chiamato il] Cristo?” e in qualche testo si parla di “Gesù Barabba”, cioè Gesù figlio di Dio, senza coinvolgere dei ladroni. Nel vangelo di Giovanni si legge tre volte (Gv 11,16; 20,24; 21,2) che uno degli apostoli è “Tommaso detto Didimo”. Tommaso deriva dall’aramaico Toma che significa “gemello”, ma anche Didimo significa “gemello”, quindi Tommaso Didimo è una tautologia; secondo la Didaché, testo cristiano del I secolo (scoperto nel 1873) e altri, Tommaso detto Didimo …si chiama Giuda!
II-5 Quando sarebbe nato Gesù? Tanto fantasiosa e mitica è la datazione dell’origine dei tempi quanto appare incredula la circostanza che sia applicata ancora oggi e seguita da miliardi di persone (d’altra parte, qualsiasi numerazione per individuare gli anni va bene). L’incarico fu dato dal papa Giovanni II nel 525 a un monaco, un certo Dionigi il Piccolo, il quale con ipotesi immaginarie calcolò che la nascita di Gesù era avvenuta 753 anni dopo la fondazione di Roma. Per i cristiani quello che contava non era tanto la nascita di Gesù quanto “l’incarnazione”, che era avvenuta con l’annunciazione dell’angelo Gabriele; tale astratto avvenimento fu celebrato dalla Chiesa il 25 marzo, mentre la nascita dal grembo materno fu celebrata il 25 dicembre, che nel mondo agricolo indicava l’inizio della risalita del Sole nel cielo, dopo aver toccato lo zenit più basso (solstizio d’inverno). Essendo dimostrato, secondo il buon Dionigi, che incarnazione e nascita di Gesù erano avvenute lo stesso anno, egli fissò l’anno 1 d. C. “ab incarnatione Domini nostri Jesu Christi”, cioè il primo anno dopo la nascita di Gesù. Pertanto, sempre il buon Dionigi, fissò l’anno precedente come quello della nascita di Gesù, e per lui quello precedente a 1 d. C. era l’anno 1 a. C., giacché lui e i suoi contemporanei non conoscevano lo zero; quindi, ancora oggi, non esiste, nel nostro calendario gregoriano, l’anno zero. Il numero zero, proveniente dall’India, sarà introdotto in Europa nel 1202 dal pisano Fibonacci. Dall’anno 180 sino al 570, in vari calendari (romano, egizio, siriaco, giuliano) i padri delle diverse Chiese cristiane si sono cimentati a determinare la data della nascita di Gesù, fissata da Dionigi l’anno 1 a. C., con un intervallo di tempo che va, nella sua massima estensione, dal 9 a. C. all’1 d. C. In pratica, le uniche fonti storiche sono i vangeli di Matteo e Luca, che non sono affatto delle fonti storiche. Secondo Luca, è da fissarsi durante il primo censimento romano del 6-7 d. C.; secondo Matteo, Gesù nasce al termine del regno di Erode il Grande, morto nel 4 a. C., e, premesso che né la fuga in Egitto né la strage di Erode sono realmente accadute, Giuseppe e Maria si stabiliscono a Nazareth, nel nord della Palestina (Betlemme e Nazareth distano in linea d’aria 140 km). Quindi c’è un arco di dieci anni d’incertezza nel fissare la nascita di Gesù; secondo molti biblisti, forse tra il 9 e il 5 a. C., in un mese autunnale, e certamente prima della morte di Erode il Grande, nel 4 a. C.. Lo storico Giuseppe Flavio afferma che il re scomparve tra un’eclisse totale di luna e una
pasqua e nel marzo del 4 a. C. vi fu un’eclisse; è certo che Erode morì nel 4 a. C. Gesù o chi per lui deve essere nato tra il 7 e il 5 a. C., più probabile verso il 6-5 a. C., e al primo censimento romano, Gesù non era nel grembo di sua madre Maria, ma doveva avere dagli 11 ai 13 anni di età. Si è visto che nessuno parla della nascita di quest’uomo prodigioso e della sua vita e non c’è traccia nei documenti dell’epoca, a dimostrazione che Gesù non ha fatto nulla di eccezionale durante la sua esistenza. Di Gesù se ne parla solo dopo la sua morte e, più precisamente, dopo che è mitizzata la sua vita. Pasqua e natale sono due ricorrenze prive di significato, già falsificato sin dall’inizio e ormai obsoleto; è rimasta solo una vuota liturgia ripetuta meccanicamente da sacerdoti e fedeli, tutti presi dai riti della commercializzazione e della festosità più che da quelli religiosi. Né Gesù né i suoi discepoli erano particolarmente interessati al luogo di nascita, cioè la presunta “grotta della natività”, “scoperta” nel 326 da Elena, la santa, madre dell’imperatore Costantino (e non è chiaro secondo quali approfonditi studi biblici, storici, archeologici) (vedi il box “Elena, la santa”, cap. IV).
Gli esseni Nel 1896 fu rinvenuto il Libro di Damasco, che fece luce sugli esseni, di cui avevano parlato i due storici Giuseppe Flavio e Filone di Alessandria, stimandoli in quattromila; non è dimostrato con certezza, ma si ritiene molto probabile, che anche i manoscritti di Qumràn, in ebraico e aramaico, ritrovati nel 1947, siano opera degli esseni. La Chiesa, che per decenni ha calato una cortina di silenzio sui manoscritti ritrovati, ha sempre cercato di sminuire – a tratti di non riconoscere – l’importanza di questo movimento, giacché diversi studiosi ritengono ci sia stato uno stretto legame tra esseni, Giovanni Battista e Gesù, al punto di considerare la comunità di Gesù come una ramificazione dell’essenismo. Va precisato che la comunità di Qumràn non può considerarsi cristiana perché applicava la legge di Mosè in modo più rigoroso degli ebrei; Gesù invece non rispettava il sabbath e ignorava i riti della purificazione. Gli esseni si svilupparono durante le guerre maccabee ed ebbero vita sino al III secolo d. C.; si raccolsero in gruppi, dove tutto era comune e ognuno sosteneva la comunità col lavoro quotidiano. I primi cristiani avevano molti punti in comune con gli esseni, come la prossima venuta del regno di dio, il battesimo per la remissione dei peccati, il rimprovero agli ebrei di non avere rispettato l’alleanza con dio. Credevano nella predestinazione (dio ha preordinato tutto ciò che deve accadere), praticavano il battesimo, avevano un maestro di virtù che predicava umiltà e amore del prossimo. La differenza sostanziale degli esseni nei confronti dei primi cristiani è l’odio verso i nemici; in seguito, però, essi apprezzarono l’amore per la pace, atteggiamento che si allineava col pacifismo del personaggio “Gesù”.
II-6 Quando sarebbe morto Gesù? In merito alla data della morte di Gesù sono tante le contraddizioni dei vangeli e le illazioni che si possono fare, compreso la cena che avrebbe potuto seguire Gesù secondo il calendario esseno o secondo quello ebraico. È troppo rapido il succedersi degli eventi descritto nei vangeli: dall’arresto, che avviene la sera, sino alla crocifissione, che avviene nel pomeriggio del giorno dopo. In realtà i fatti dovettero andare in modo diverso da come sono descritti: i suppliziati erano lasciati appesi, i pali (o croci) romani in genere non superavano i due metri e i corpi erano abbandonati agli animali, poi quel che restava era gettato in una fossa comune. Di certo si sa solo che morì “sotto Ponzio Pilato”, cioè tra il 26 e il 36 e a quel tempo non c’è stata alcuna eclisse solare (Mt 27,45) (che avviene quando la Terra si trova esattamente tra il Sole e la Luna) perché c'era il plenilunio (Luna piena) (che avviene quando la Luna è opposta al Sole rispetto alla Terra). Matteo scrive, in un momento di raptus apologetico, come già riportato, (Mt 27,52) che “i sepolcri si aprirono e molti corpi di santi, che erano morti, risuscitarono”. Secondo Luca (Lc 3,23) Gesù aveva “circa trent’anni” quando iniziò la predicazione. Gesù fu arrestato e giustiziato in un periodo compreso tra il 30 e il 36 d. C., colpevole di essersi autoproclamato “re degli ebrei”; proprio nel 36 d. C. Pilato e Caifa, il sommo sacerdote, terminarono i loro incarichi. Gesù poteva difendersi ed evitare la crocifissione, ma forse rinunciò, certo come era che a breve sarebbe arrivata la fine del mondo. Per la sua morte, gli studiosi, per farla breve, fissano tre date, in ordine di probabilità, tutte di venerdì: 7 aprile 30, 27 aprile 31, 3 aprile 33. Se è nato nel 65 a. C., Gesù deve essere deceduto quando aveva dai 35 ai 39 anni e non 33 anni, come vuole la tradizione, che come il solito certifica delle inconsistenze. Dai vangeli si desume che la predicazione di Gesù durò da uno a tre anni, quindi la iniziò quando aveva dai 32 ai 36 anni. L’indicazione di Luca non è precisa, come del resto non lo sono i vangeli, a meno che la sua predicazione, contrariamente alla tempistica dei vangeli, non sia durata più a lungo di tre anni. Un padre della Chiesa, Ireneo, scrive che Gesù raggiunge “tra i quaranta e i cinquant’anni” quando “ancora ricopriva l’ufficio di Maestro, come il Vangelo e
tutti gli altri anziani testimoniano”. Inoltre in Giovanni (Gv 8,57) i giudei rivolti a Gesù gli dissero: “Non hai ancora cinquant’anni e hai visto Abramo?”. Ci sono elementi che fanno intuire che Gesù sia vissuto più a lungo; considerazione che è rafforzata dal fatto che i protovangeli e i documenti arcaici, dai quali gli studiosi ritengono siano stati tratti i quattro vangeli, non parlano né di morte né di resurrezione di Gesù. La pasqua cade la prima domenica successiva al primo plenilunio di primavera e 39 giorni dopo c’è la festa dell’ascensione. A pasqua si regala ai bambini l’uovo di pasqua, che oggi è di cioccolata, ma in tempi ati era un vero uovo sodo fissato in una ciambella di grano. L’uovo, nell’antica cultura contadina, era simbolo di vita e si regalava in primavera, quando rifiorivano le piante dal letargo invernale. La Chiesa non poteva trascurare questo antico rito pagano e ne ha fatto la pasqua, da coincidere con la presunta morte di Gesù, senza una data prestabilita ma legata al ciclo astrale, dimostrando di avere scopiazzato sia la pasqua ebraica sia le antiche cerimonie solari. I primi cristiani abbinavano alla pasqua il culto di Gesù rappresentato da un agnello (Gv 1,29): “Ecco l’Agnello di Dio!” esclama Giovanni Battista quando vede Gesù. Il culto della figura dell’agnello terminerà nel 680, quando sarà sostituito dall’invenzione della figura della croce con Gesù (vedi il paragrafo V-6 “L’invenzione della croce”, cap. V).
Chi uccise Gesù? Sotto i Romani, la Giudea era una provincia procuratoria, cioè di terza classe, così classificata in quanto territorio piccolo e di recente conquista. Era sottoposta alla supervisione della Siria, la più illustre delle province orientali, con capitale Antiochia, sede di tre o quattro legioni. Pertanto il legato – o governatore – della Siria vigilava sul procuratore – o prefetto – della Giudea pur avendo questa una sufficiente autonomia. Il titolo di procurator equivaleva anche a quello di praefectus; inizialmente i procuratori si occupavano dell’aspetto finanziario delle province e i prefetti di quello militare, poi, verso il 50 d. C., fu la stessa persona a esercitare i poteri finanziari e militari. Per tal motivo Pilato (dal 26 al 36 d. C.) è chiamato prefetto e non procuratore della Giudea. Publio Sulpicio Quirino era stato nominato governatore della Siria tra il 3 e il 6 a. C., alla nascita di Gesù, e, dopo alcuni anni, commissionò il censimento per potere valutare i tributi che il popolo doveva pagare. Dopo la probabile morte di Gesù fu governatore Lucio Vitellio, dal 35 al 39 d. C. Gesù fu condannato da Ponzio Pilato, prefetto romano, perché colpevole di sobillazione, che era un delitto romano, alla crocifissione, che era un supplizio romano, però nei vangeli si legge che furono gli ebrei a consegnare Gesù ai Romani e che furono gli ebrei a insistere su Pilato perché fosse condannato, anche se Pilato voleva assolverlo. Gli ebrei che pressarono Pilato furono Hanna, Caifa, la polizia del tempio, il sinedrio e la folla davanti al pretorio, cioè pochi rappresentanti di se stessi e non l’intero popolo ebreo. I testi evangelici partono dal presupposto di rendere innocente Pilato e scaricare la colpa sugli ebrei “deicidi”. Sulla descrizione del processo intentato a Gesù, così come descritto dai vangeli, sorgono alcuni interrogativi: 1) Pilato è presentato come un indeciso, invece secondo lo storico Filone di Alessandria è un uomo feroce e impietoso; 2) È improbabile che un ufficiale romano conduca Gesù prigioniero al sinedrio giudeo invece che al tribunale romano; 3) È impensabile, secondo le usanze dei giudei, che si celebri il processo durante la festività della pasqua ebraica, di notte!; 4) Il Sommo Sacerdote Caifa sentenzia subito la condanna a morte, mentre per la giustizia ebraica occorreva che trascorressero almeno ventiquattro ore dal processo.
Tutta la sequenza è di una velocità paradossale, dal mattino sino alle tre del pomeriggio: arresto, trasferimento dall’orto degli ulivi a Gerusalemme (oltre un chilometro), processo al sinedrio, processo romano, trasferimento al Calvario, crocifissione. È probabile che la rapidità degli evangelisti nel far morire Gesù derivi dal loro rispetto della legge ebraica che vietava di togliere dal palo i cadaveri dopo il tramonto e il giorno della pasqua (Gesù muore di venerdì e la pasqua ebraica cade di sabato) e che considerava dannata l’anima del condannato che moriva di notte. Nella fretta, Giovanni fa morire Gesù addirittura di giovedì!
Cap. III LE RADICI DEL CRISTIANESIMO
III-1 Il Nuovo Testamento Il NT è costituito: a) dai quattro vangeli canonici; b) dai cosiddetti Atti degli apostoli, attribuibili a Luca, discepolo di Paolo; c) da quattordici lettere attribuibili a Paolo (ma alcune non sono sue); d) da sette lettere attribuibili con molti dubbi e moltissimi interrogativi a san Giacomo, san Pietro, san Giuda e Giovanni l’Anziano, probabile autore del quarto vangelo; e) dall’Apocalisse, presumibilmente scritto da Giovanni l’Anziano. Ad eccezione delle lettere di Paolo, tutti gli scritti del NT sono di autori sconosciuti, sui quali vi sono solo ipotesi, non certezze; riguardo alle lettere di Paolo, non sono sue le due lettere a Timoteo e la lettera a Tito, composte in Asia Minore dopo la morte di Paolo, né una terza lettera ai Corinzi, che circolava nel II e III secolo, e molto probabilmente sono false tre lettere: agli Efesini, ai Colossesi e la seconda ai Tessalonicesi. Gli Atti degli apostoli sono un documento chiaramente di parte dove Luca, o chi per esso, si schiera a favore di Paolo contro il gruppo dei giudeo-cristiani di Gerusalemme capitanato da Pietro e Giacomo, il fratello di Gesù. L’Apocalisse è scritto alla fine del I secolo in Asia Minore. Si tratta di documenti, incluso gli altri neotestamentari, posteriori alla guerra romana del 70 con la distruzione di Gerusalemme e che hanno un confuso e frammentario ricordo dei fatti precedenti. Constatato che il 79% del NT è scritto da persone che non hanno mai visto Gesù (in particolare circa il 30% firmato da Paolo, anche se scritto da altri sotto dettatura, perché Paolo, tra i vari suoi acciacchi che lamentava, vedeva anche male), la Chiesa ha coperto tale sproposito dichiarando che i testi erano “ispirati” dallo spirito santo, che probabilmente deve avere avuto frequenti vuoti esistenziali, visto le inesattezze del NT. Tale materiale è stato scelto dai padri della Chiesa, con una prima scrematura, intorno al 170-180 e, con una seconda scrematura, alla fine del IV secolo, tra i vari vangeli, atti, lettere e apocalissi che circolavano. Tra le storie scritte e saggiamente scartate, alcuni prodigi celestiali di Gesù: strangola uccellini e li resuscita, ridà la vita a un gallo già cotto, mentre il suo patrigno Giuseppe diventa ultracentenario.
Trovare errori e contraddizioni sul NT è come sparare sulla Croce Rossa, talmente facile è il tema, ampiamente sviluppato da vari autori. I credenti italiani leggono poco il NT: quanti di loro sono al corrente che fa parte del NT anche la lettera di un certo “san Giuda”? Il vero miracolo biblico è che la Bibbia, con tutte le sue contraddizioni e assurdità, abbia ispirato la fede a tanti individui. Gli evangelisti, più che autori, sono redattori di un materiale elaborato oralmente dalla morte di Gesù sino al 70 circa e che è finalizzato non a raccontare la vita di Gesù ma ad annunciare il kerygma (dal greco kerisso, proclamare), in altre parole la loro fede e il messaggio cristiano. Ciò a conferma che poco o nulla si sa sulla vita di Gesù. È anche vero che sono state messe in bocca a Gesù detti pronunciati da giudei o comparsi nella prima comunità cristiana e che hanno dei paralleli nella letteratura sapienziale giudaica. In realtà, premesso che alcuni detti di Gesù non sono autentici, non si ha la certezza, come del resto su tutto l’armamentario neotestamentario, che gli altri detti siano da attribuire a Gesù. L’attuale testo del NT è stato rattoppato senza ritegno da diverse fonti: manoscritti greci, antiche traduzioni e citazioni dei padri della Chiesa, a loro volta di poco cristallina attendibilità. Oggi disponiamo di 430 codici manoscritti greci del NT, ma solo i più antichi risalgono al IV secolo, mentre gli altri sono più recenti, quindi tutti molti lontani nel tempo dalla prima redazione. Risalgono al II secolo delle rozze trascrizioni su papiro in latino, siriaco e copto ma si tratta di testimonianze di scarso valore. Nel NT il mito e l’ambiente descritto s’incastrano indissolubilmente rendendo vana un’approfondita ricerca storica. Il concilio di Trento riconobbe che AT e NT sono opera di dio e il concilio Vaticano I del 1870 lanciò scomuniche a chi non credeva nell’ispirazione divina della Bibbia. Oggi, il testo della Bibbia, AT+NT, diffuso in oltre 1.100 lingue e dialetti, ha circa 250.000 varianti e non è più ripristinabile nel testo originario; ancora si continua a falsarlo con la scusa, annotano i pii esegeti, che la parola di dio va interpretata nel tempo e il suo significato si modifica di volta in volta! Nessuno degli autori neotestamentari ritiene che i suoi scritti siano di ispirazione divina (salvo l’autore dell’Apocalisse) e la circostanza che sono andati persi gli originali dei vangeli, canonici e apocrifi, testimonia la loro scarsa rilevanza nella primitiva comunità cristiana; infatti, le lettere dei cristiani del I secolo non fanno alcun riferimento ad alcun vangelo. Il NT divenne testo canonico solo attraverso i secoli: non è la Chiesa una creazione del NT, ma è questo una creazione della
Chiesa, mentre ancora oggi la “Pontificia Commissione sugli studi biblici” stabilisce testardamente la totale assenza di errori nella Bibbia, NT incluso. L’assetto, diciamo, definitivo della Bibbia è stato apportato col concilio di Trento, a metà del XVI secolo, dopo oltre duemila anni dalla stesura del primo embrione dell’AT, avvenuta intorno al VI secolo a. C. Un intervallo enormemente dilatato, durante il quale sono state addotte traduzioni, libere interpretazioni, aggiunte, tagli, manipolazioni varie, al punto che nella Bibbia si trova di tutto e il contrario di tutto. Chi vuole la pace o la guerra oppure il genocidio o la fratellanza troverà il verso giusto, il ladro troverà la frase che lo giustifica, l’uomo onesto troverà il versetto che lo gratifica. Coloro che cercano il disprezzo, l’amore, l’inganno, la fedeltà, l’odio, la sincerità, la cattiveria, la bontà, il perdono, la vendetta, anche la droga (Gen 30,14): nella Bibbia c’è sempre il versetto appropriato. Anche per chi deve andare di corpo c’è un consiglio (Dt 23,14): “Nel tuo equipaggiamento avrai un piolo, con il quale, quando ti accovaccerai [nel ritirarti fuori], scaverai una buca e poi ricoprirai i tuoi escrementi”. Oltre alle considerazioni espresse nel capitolo precedente (vedi il box “Dalla banda dei Boanerghes ai dodici apostoli”, cap. II), la definizione dei dodici apostoli dovrebbe essere unica, inequivocabile, perfetta, data l’importanza, mentre dai vangeli si traggono quindici apostoli e solo Matteo e Marco coincidono con l’elenco, come si può vedere dalla tabella 3. Secondo gli studi ecclesiastici, otto erano fratelli: Pietro e Andrea, Giacomo e Giovanni, Giacomo il minore e Taddeo, forse Filippo e Bartolomeo. Tommaso è gemello (dal greco Didimo) ma non si sa di chi. Quattro erano “cugini” di Gesù: Giacomo, Giovanni, Giacomo il minore e Taddeo; i primi due erano figli di Maria di Salomè e gli altri due di Maria di Cleofa. Le due Marie erano, sempre secondo le fonti ecclesiastiche, sorellastre di Maria, la madonna. In realtà buona parte delle varie Marie di cui sono stati disseminati i vangeli, altro non sono che l’unica Maria “vergine”, per nascondere – da parte dei padri della Chiesa – la parentela effettiva; quindi, tra gli apostoli è possibile che ci fossero i quattro fratelli di Gesù. Questa considerazione avvalora l’ipotesi che le figure degli apostoli fossero ritagliate sui fratelli di Giovanni il Nazoreo. Le contraddizioni dei Vangeli si trovano anche nel messaggio morale, che dovrebbero enunciare in modo univoco. Qualche esempio. Dice Gesù (Mc 10,21): “Va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo.” ma col ricco Zaccheo si accontenta della metà (Lc 19,8): “Ma Zaccheo, alzatosi,
disse al Signore: «Ecco, Signore, io do la metà di ciò che possiedo ai poveri e, se ho rubato a qualcuno, restituisco quattro volte tanto». Gesù gli rispose: «Oggi per questa casa è venuta la salvezza»”. Dal discorso della montagna (e della pianura) (Lc 6,20): “Beati voi, poveri”, ma anche (Mt 5,3): “Beati i poveri in spirito”; come è comprensibile, una cosa è avere fame di pane e un’altra avere fame di onestà. Il matrimonio è indissolubile (Mc 10,9, ma anche Mt 19,6): “Dunque l’uomo non divida quello [L’uomo dunque non separi ciò] che Dio ha congiunto”, ma è ammesso il divorzio in caso di adulterio (Mt 5,32 e 19,9); naturalmente, la regola vale in caso di adulterio della moglie, ma non se adultero è l’uomo. Ambiguo appare il rapporto con la famiglia; da una lato si legge (Lc 14,26): “Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami [e non odia] suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo” e dall’altro si inneggia alla sterilità (Lc 23,29): “Beate le sterili”, cioè meglio non avere famiglia. Lo stesso Gesù è duro con la madre (Gv 2,4): “Donna, che vuoi da me? [Che ho da fare con te, o donna?]”. Si invita a non giudicare (Mt 7,1): “Non giudicate, per non essere giudicati”, un principio ribadito (Lc 6,37): “Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati”, ma si afferma anche il contrario (Mt 5,22): “Chiunque si adira con il proprio fratello dovrà essere sottoposto al giudizio” e più avanti “Chi poi dice al fratello: «Stupido», dovrà essere sottoposto al sinedrio”.
III-2 I vangeli
Le tre religioni monoteiste – cristianesimo, ebraismo, islamismo – fondano il loro credo su testi sacri (Bibbia, Torah, Corano), di cui non si conoscono né gli autori né quando sono stati scritti e nonostante ciò i libri sono stati tutti “ispirati” dal relativo dio. Come richiamato in precedenza, i più antichi testi cristiani sono le lettere di Paolo e non i vangeli, dei quali non esiste alcun testo originale, ma solo trascrizioni di trascrizioni di trascrizioni eccetera. Le discordanze dei quattro vangeli sono sbalorditive, ma più sbalorditivi sono gli atteggiamenti della Chiesa, che nei millenni ha sempre cercato di fornire delle spiegazioni che sovente cozzano con la ragionevolezza dei credenti e dei creduli, che però prestano fede acriticamente (e non potrebbe essere diversamente) in tutto ciò che dice loro la Chiesa, in linea diretta con dio. Occorrerebbe leggere i vangeli come si legge l’Odissea o l’Orlando furioso o I tre moschettieri: mettere da parte l’analisi critica e lasciarsi prendere dall’aspetto letterario. È sconcertante come le editrici divulgative cattoliche sfornino testi su testi in cui trattano temi derivanti dai vangeli, analizzando i “messaggi” della parole di Gesù, le sue azioni, i suoi miracoli, senza avere un rigo di dubbio sulla veridicità di ciò che si va a commentare e a enfatizzare. E alla fine si è reso realistico il Gesù mitico, mentre ci si è dimenticati – ammesso che sia esistito – del Gesù storico. Nonostante l’evidenza degli studi, la Chiesa continua ad affermare (ma già formula dei timidi dubbi) che il primo vangelo è quello di Matteo, scritto dall’apostolo Matteo verso il 40-50, segue Marco scritto da Marco, discepolo di Pietro, verso il 65, quindi segue Luca, compagno di Paolo, verso il 65-70, infine Giovanni, scritto dall’apostolo Giovanni dopo il 100. È tutto sbagliato, la Chiesa ne è ovviamente al corrente, ma non bisogna pubblicizzarlo. Il concilio Vaticano II, a proposito dei quattro vangeli, afferma che sono stati scritti da “cose” tramandate a voce o per iscritto o facendo un riassunto di altre, ma sempre tali “da riferire su Gesù cose vere e sincere” e chissà come si fa ad affermare ciò, se, ad esempio, la Bibbia di Gerusalemme dedica ben 28 pagine introduttive ai quattro vangeli per dare una parvenza di credulità storica ai loro
contenuti. In realtà il Gesù evangelico è una costruzione letteraria, come una persona razionale, anche credente, considera. L’obiettivo degli evangelisti era quello di convincere il lettore sull’opera e sulla figura del personaggio Gesù, costasse quel che costasse, scrivendo anche e soprattutto fatti eccezionali e mirabili. Probabilmente, a un certo punto, dovettero anche credere in quello che scrivevano, autoingannandosi, forse in buona fede: la fantasia che diviene realtà. Dei quattro vangeli, tre – quelli di Marco, Matteo, Luca – sono denominati sinottici (dal greco synoptikós, comprensivo), perché presentano diversi elementi comuni e paralleli. Come detto in precedenza, rifacendosi alla comoda tradizione, la Chiesa ha cercato d’individuare negli apostoli gli autori dei quattro vangeli, ma in realtà i vangeli risalgono a mezzo secolo dal presunto decesso di Gesù; si ritiene, però, quasi certo che i testi siano apparsi almeno oltre un secolo dopo le storie raccontate. I cristiani della Palestina non scrissero nemmeno un rigo su Gesù e tutto ciò che sappiamo di lui è solo per sentito dire e tradizione orale. Il mosaico di frammenti di racconti, parabole e detti è stato in qualche modo ricomposto e messo insieme, opportunamente infiorettato; lo stesso noto “discorso della montagna” (Mt 5,37,27) più che cronaca di un evento rimane in Matteo un componimento letterario, mentre in Luca è ridotto al 20% e Marco e Giovanni non ne parlano. Gesù parlava in aramaico, ma i vangeli furono scritti in greco: quindi i vangeli non furono delle traduzioni dall’aramaico al greco ma delle trascrizioni in greco di tradizioni orali, in seguito esposte a interventi arbitrari dei copisti. In realtà godevano autorità solo le parole di un “tale” Gesù tramandate per tradizione orale e solo quando questa divenne meno attendibile, verso l’anno 150, acquisirono significato gli scritti. Non avendo il carattere di sacro e inviolabile, per due secoli i vangeli subirono migliorie per mezzo di cancellazioni e aggiunte, aumentando il testo e i miracoli. Un motivo delle modifiche apportate con disinvoltura sta nel non avere considerato, nel I secolo, come sacri tali testi, ma solo verso la metà del II secolo, quando si preferirono i quattro vangeli canonici rispetto alla marea di vangeli “apocrifi”. Nel 1835 dagli studi filologici si trasse un’importante conclusione: il vangelo di Marco precedeva gli altri, mentre gli autori dei vangeli di Luca e Matteo avevano assimilato da questo. Nel vangelo di Luca sono riportati 350 versetti di Marco e nel vangelo di Matteo ne sono riportati 620; quindi le conformità dei tre vangeli sinottici derivano dalla dipendenza di due di essi dal primo, circostanza
evidenziata dal fatto che spesso sono riportati dettagli banali. Il vangelo più antico potrebbe essere stato scritto a Roma da Giovanni Marco, un compagno di Pietro, basandosi sui ricordi di questo, ricordi che trasformarono la memoria di Gesù in leggenda, il che è un’evoluzione naturale, anche perché gli autori dei vangeli non potevano non descrivere Gesù secondo ciò che i fedeli desideravano che fosse. Oltre a tali affinità, restano le gravi contraddizioni: l’infanzia di Gesù, il domicilio (Betlemme e Nazareth), la fuga in Egitto e la venuta dei leggendari re magi, la genealogia di Gesù, e via dicendo. A titolo d’esempio, di seguito in tabella 4 sono riportate alcune discordanze tra i tre vangeli sinottici e quello di Giovanni. Da parte degli studiosi dell’ultimo secolo, in prevalenza tedeschi, si pensa che Matteo e Luca abbiano tratto parte da due fonti comuni e parte da fonti varie. Le due fonti ipotizzate sarebbero: una denominata “Q” (dal tedesco Quelle, fonte), che si pensa possa essere stata solo orale, e una raccolta di storie su Gesù rielaborata in greco. Anche Giovanni si ritiene abbia assorbito una fonte denominata “SQ”. Tutte queste fonti primitive, andate perse, dalle quali si suppone siano derivati i vangeli, non sembra parlino né di morte né tanto meno di resurrezione di Gesù. Insomma, più che di sacre scritture è il caso di parlare di sacre ri-scritture. I vangeli inizialmente erano anonimi e solo in un secondo tempo sono stati indicati i nomi degli autori da parte di ignoti appartenenti alla Chiesa primitiva; che gli autori dei vangeli siano tali Marco, Matteo, Luca e Giovanni non c’è certezza, come scriveva Lorenzo dè Medici. Il vangelo di Marco è attribuito, come prima riportato, a un certo Giovanni Marco di Gerusalemme, dapprima aiutante di Paolo (At 12,12; 12,25; 15,37; Fm 24; 2 Tm 4,11) e del cugino Barnaba (Col 4,10), poi di Pietro (1 Pt 5,13). Marco è scritto tra il 66 e il 74 per i Romani. Forse il testo è stato scritto a Roma (per taluni in Siria), dove Marco era giunto al seguito di Pietro (che, secondo la tradizione ecclesiastica, pare sia stato martirizzato verso il 64-67, ma da più parti si ritiene quasi certo che Pietro non sia mai giunto a Roma). Il vangelo pervenuto a noi è mancante della parte finale (dopo Mc 16,8) e l’attuale completamento (a partire da Mc 16,9) è stato eseguito da un copista. Il vangelo di Matteo è attribuito a un certo Levi, figlio di Alfeo; era un esattore delle tasse (Mt 9,9; Mc 2,14; Lc 5,27) e forse anche fratello dell’apostolo
Giacomo di Alfeo. Scritto verso il 75-85, la versione attuale del vangelo di Matteo è stata scritta in Egitto intorno al 90, dove c’era un consistente numero di ebrei. Verso il 67-70 vi era stata la rivolta degli ebrei zeloti contro i Romani, azione malvista dai cristiani di lingua greca e dai giudeo-cristiani; da ciò si arguisce il risentimento antiebraico che pervade questo vangelo, scritto da qualcuno che non era ebreo e che si è basato su quel poco che aveva scritto un tale Matteo, su testi ebraici e su fonti pagane (Si ritiene che possa esserci stato un antecedente vangelo di Matteo in ebraico). Lo scritto era inizialmente destinato alla diffusione del cristianesimo nell’ambiente ellenizzato egiziano, come Alessandria. Il vangelo di Luca e gli Atti degli apostoli (in pratica due volumi della stessa opera) sono attribuiti a Luca, medico, amico e discepolo di Paolo (Col 4,14; Fm 24; 2 Tm 4,11), nato ad Alessandria; data però la diversità di stili tra vangelo e Atti, è molto dubbia l’attribuzione a Luca di questi ultimi. Il vangelo è stato scritto tra il 70 e il 100, probabilmente verso l’80. Sotto Diocleziano (81-96) erano avvenuti dei tumulti con diverse vittime anche cristiane e Luca tende a smussare gli angoli addomesticando gli scontri del tempo tra ebrei e cristiani, tra seguaci di Paolo e quelli di Pietro, ma facendo il “tifo” per il gruppo paolino d’Antiochia. Per ricreare l’ambiente storico dell’origine del cristianesimo, mancando di informazioni, Luca si rifà agli scritti dello storico ebreo Flavio Giuseppe e a brani dell’AT. Ad esempio, poiché si prevedeva nell’AT che il messia doveva nascere a Betlemme, Luca, leggendo del primo censimento romano, riportato da Flavio Giuseppe, fa viaggiare Giuseppe e Maria incinta da Nazareth, dove colloca il loro domicilio, a Betlemme, dimenticando di annotarsi che il censimento era avvenuto nel 6-7 d. C. e non sotto Erode, morto nel 4 a. C.
Tra le varie inesattezze di Luca, i viaggi avventati di Gesù lungo percorsi impossibili. Mentre va da Betania, a pochi i da Gerusalemme, scrive che Gesù attraversa inesistenti (Lc 13,22) “città e villaggi”, ma non lo fa giungere a Gerusalemme bensì lo troviamo nella terra di Erode (Lc 13,31), molto distante da Gerusalemme. E quando lo fa tornare a Gerusalemme da un’altra zona (Lc 17,11) “attraversava la Samaria e la Galilea”, cioè lo fa allontanare invece di avvicinarlo. Errata è la figura di Ponzio Pilato definito “procuratore della Giudea”, mentre è prefetto; solo verso il 50, dopo la morte del presunto Gesù, la carica di procuratore è unificata con quella di prefetto. Pilato non trova (Lc 23, 4) “nessun motivo di condanna [nessuna colpa]” in Gesù, mentre non poteva non sapere – da rappresentante dell’imperatore romano – che essere “re degli ebrei” era una condizione punita dai Romani con la morte. Irreale è il dialogo con Gesù, perché un’autorità come Pilato non avrebbe mai perso tempo a colloquiare con un poveraccio pazzoide come appariva Gesù; oltretutto Pilato parlava latino e Gesù aramaico. Anche in tal caso, lo spirito santo, che doveva ispirare Luca, era in vacanza, a meno che, volutamente, abbia influito nel colpevolizzare gli ebrei come “deicidi”, ingiuria durata sino a pochi anni or sono. Il vangelo di Giovanni è di difficile attribuzione e non poteva essere scritto, come ancora pensa la Chiesa, dall’apostolo Giovanni, figlio di Zebedeo, un pescatore violento e senza istruzione, ucciso col fratello Giacomo nel 44, o forse con l’altro Giacomo, fratello di Gesù, nel 62. Lo stile di questo vangelo è diverso dai tre sinottici, che erano di stile “ebraico” per impostazione. L’autore può essere un greco cristiano, forse Giovanni l’Anziano, al quale è attribuibile anche la Prima Lettera di Giovanni e l’Apocalisse, scritto nell’isola di Patmos, ancora vivo nel 140, come riporta Papia di Gerapoli. Giovanni l’Anziano si rifece a testi ebraici ed esseni e sui ricordi di un sacerdote ebraico, Giovanni il Sacerdote, identificato da diversi studiosi come il “discepolo caro”, amico di Gesù, seguace degli esseni e di Giovanni Battista e morto a Efeso. Giovanni il Sacerdote aveva un’abitazione a Gerusalemme, che probabilmente accolse Gesù per l’ultima cena (Gv 21,20) e ospitò Maria dopo la crocifissione del figlio. Il quarto vangelo, scritto intorno all’anno 100 in Asia Minore o in Siria, è il più antiebraico dei vangeli e il suo autore, come per i sinottici, si preoccupa più del messaggio dogmatico che degli eventi storici; nei sinottici, ad esempio, l’attività mediatica di Gesù dura circa un anno, in Giovanni almeno due anni. Per tale motivo è quello più rimaneggiato e a posteriori fu aggiunto l’intero capitolo 20. Il linguaggio non è quello di Gesù storico, ma è un linguaggio colto perché
rivolto a persone colte e la figura di Gesù è divinizzata, eliminandone il carattere umano. Nel più vecchio dei vangeli, quello di Marco, scritto mezzo secolo dopo la presunta morte di Gesù, questo non appare né onnipotente né onnisciente né buono, come afferma un successivo dogma della Chiesa. Nei più recenti vangeli di Matteo e Luca, la figura di Gesù è più idealizzata, unitamente a quelle dei suoi discepoli, e aumentano i miracoli. Nell’ultimo vangelo di Giovanni, prima dichiarato eretico dalla Chiesa e poi rielaborato con opportuni aggiustaggi, l’evangelista elimina esorcismi e guarigioni di serie B, punta sui fenomeni più significativi, arabescandoli: la guarigione del figlio di un funzionario del re (Gv 4,46), la moltiplicazione dei pani (Gv 6,1), la eggiata sul mare (Gv 6,16). Ne aggiunge altri quattro: la trasformazione del vino alle nozze di Cana (Gv 2,1), la guarigione del paralitico di Betseda (Gv 5,1), la guarigione del cieco (Gv 9,1) e, botto finale, la resurrezione di Lazzaro (Gv 11,1). Col vangelo di Giovanni, in conclusione, Gesù è ancora di più divinizzato e nulla rimane del suo carattere umano. Alcune affermazioni riportate dai vangeli e messe in bocca a Gesù assumono una certa validità nella cultura occidentale, ma alla massa dei credenti pare che interessi di più la fiction di Gesù. Qualche considerazione sul vangelo di Giovanni. Nel 180 Ireneo scrive: “In seguito anche Giovanni, il discepolo del Signore, lo stesso che riposò nel suo petto, ha pubblicato il vangelo durante il suo soggiorno a Efeso”. Di questo discepolo prediletto da Gesù ne parla il vangelo di Giovanni: 1) (Gv 13,23): “Ora uno dei discepoli, quello che Gesù amava, si trovava a tavola al fianco di Gesù”[la traduzione “a tavola” è inesatta perché al tempo di Gesù si mangiava a terra, sui tappeti o sui panni; il famoso Cenacolo di Leonardo e la Cena d’Emmaus del Caravaggio sono irrealistici, n.d.a.]; 2) (Gv 19,26): “Gesù [crocifisso, n.d.a.] allora, vedendo la madre e [lì] accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: «Donna, ecco [il] tuo figlio!». Poi disse al discepolo: «Ecco [la] tua madre!». E da quell’ora [quel momento] il discepolo l’accolse nella sua casa [la prese con sé]”; 3) (Gv 20,2-10): [Maria Maddalena vede il sepolcro vuoto, n.d.a.] “Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava…”; 4) (Gv 21,7): “Allora quel discepolo che Gesù amava…”; 5) (Gv 21,20): “Pietro si voltò e vide [allora, voltatosi, vide] che li seguiva quel discepolo che Gesù amava…”. Se l’autore del vangelo di Giovanni era lo stesso discepolo prediletto da Gesù, parlava di lui in terza persona, oppure il vangelo fu manomesso da terzi che scrissero dell’autore in
terza persona. Come sopra richiamato, secondo i più recenti studi biblici, il “discepolo del Signore” dovrebbe essere Giovanni il Sacerdote, che si ritirò a Efeso, mentre l’autore del vangelo sarebbe Giovanni l’Anziano, che con Giovanni il Sacerdote ebbe contatti e in età avanzata scrisse l’Apocalisse, sull’isola di Patmos. Secondo la Chiesa, invece, è molto probabile che l’autore sia san Giovanni, considerato il discepolo prediletto a cui Gesù aveva affidato la madre. Tale ipotesi è suffragata dalla Chiesa in quanto nei verbali del concilio di Efeso del 431 (quindi dopo oltre tre secoli dalla scrittura del vangelo) è riportato che Giovanni prese con sé Maria, giunse ad Efeso (nell’attuale Turchia), vi si stabilì e, nonostante l’età avanzata, viaggiò in tutta l’Anatolia per diffondere il cristianesimo. San Giovanni fu arrestato ed esiliato sull’isola di Patmos, dove, secondo la leggenda, scrisse l’Apocalisse. Tornato a Efeso, scrisse il vangelo (ma la stesura del quarto vangelo deve essere durata diversi anni), morì e fu sepolto. Oggi a Efeso c’è una chiesa dove la leggenda vuole abbia abitato la madre di Gesù! Tutto potrebbe essere credibile, anche se non c’è alcuna testimonianza, salvo il fatto che il vangelo di Giovanni fu scritto verso l’80-100, quando l’apostolo doveva essere morto già da un bel pezzo. La Chiesa avanza l’ennesima congettura: può darsi che il vangelo scritto da Giovanni sia stato redatto definitivamente da alcuni discepoli diversi anni dopo la morte del “discepolo prediletto”. Un accenno ai vangeli apocrifi. Tra questi, il più importante, secondo gli studiosi, è il vangelo di Tommaso, scoperto nel 1945 in Egitto, a Nag Hammadi. È scritto in copto e si pensa che sia una traduzione dall’originale greco oppure dal siriaco, un dialetto aramaico. La parte narrativa è quasi assente e sostanzialmente si tratta di 114 «detti» di Gesù, che appaiono anche poco collegati tra loro. L’impostazione ricorda le sure del Corano. Il testo trovato risale al 350 circa, ma l’originale risale o al II secolo o addirittura verso il 50, quasi contemporaneo dei sinottici; alcuni studiosi ritengono che possa essere la famosa fonte “Q”, altri lo considerano come quinto vangelo. Le parole messe in bocca a Gesù mostrano una forma di ascetismo che ricorda lo gnosticismo. Poiché quanto è fatto dire a Gesù è ben lontano da come svolge oggi la Chiesa il suo “servizio pastorale”, cioè verso il gregge dei fedeli, si può comprendere, quindi, come la Chiesa, che ha calato una cortina di silenzio sull’argomento, non riconosce il vangelo, non prende in considerazione alcuna tesi e se ne sta molto abbottonata.
Riferendoci agli altri vangeli, non erano considerati apocrifi dai padri della Chiesa e solo in seguito la Chiesa, arbitrariamente, li mise da parte. Dei sessanta vangeli esistenti ne furono selezionati solo quattro e anche in tal caso dovette esserci la mano dello spirito santo, che aiutò i padri della Chiesa a individuare proprio quei quattro da lui “ispirati”. Come mai i quattro testi canonici hanno molti richiami con i testi apocrifi? Mistero. Di contro, nel concilio di Trento furono inseriti nell’AT degli scritti apocrifi (Terzo Esra, Judith, Jesus Sirach, Sapienza, Salomone, Maccabei,…), mai citati da Gesù, non riconosciuti dal canone ebraico e, parzialmente, dalla Chiesa evangelica. Va rimarcato che buona parte dei vangeli apocrifi ha pari dignità dei vangeli canonici, vale a dire lo stesso carattere leggendario e gli stessi dubbi.
La regola aurea Nel discorso della montagna, che invece secondo Luca è fatto in pianura (Lc 6,17), Gesù declama quella che è considerata la regola aurea (Mt 7,12 Lc 6,31): “Tutto quanto volete che [Ciò che volete] gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro”, in altre parole: Non fare agli altri quello che non vuoi che gli altri facciano a te. È una regola che dovrebbe valere per tutti gli uomini; non è un’esclusiva di Gesù ed è espressa da molte tradizioni religiose. Dice Confucio (Dialoghi 15,23): “Quello che tu stesso non desideri, non farlo neppure agli altri uomini”. Per gli ebrei (Shabbat 31a): “Non fare agli altri quello che non vuoi che essi facciano a te”. Secondo i buddisti (Samyutta Nikaya 353.35): “Uno stato che non è gradevole o piacevole per me, non deve esserlo neppure per lui, e uno stato che non è gradevole o piacevole per me, come posso io pretenderlo per un altro?”. E scrive l’imam Al-Nawawi: “Nessuno di voi è un credente fino a quando non desidera per il suo fratello quello che desidera per se stesso”. Anche per gli induisti (Mahabharata XIII.114.8): “Non ci si dovrebbe comportare con gli altri in un modo che sarebbe sgradevole a noi stessi; questa è l’essenza della morale”. Insomma, tante belle parole che lasciano il tempo che trovano nella vita reale, dove un delinquente può fare a chiunque ciò che un onesto non farebbe mai a lui. L’ineffabile Vittorio Messori, autore di un libro dove descrive come nel XVII secolo la vergine del Pilar fece “ricrescere” una gamba a un contadino spagnolo [nel senso squisitamente letterale: la gamba non c’era e la madonna l’ha reincarnata, con tanto di tibia e perone, probabilmente ricorrendo alle cellule staminali…], sul Corriere della Sera del 28 dicembre 2009 parla della sezione aurea e, tra il dire e non dire, l’affermare e il non affermare, classico stile della Chiesa in molti atteggiamenti, butta l’idea che il rapporto 1,618 – che rappresenta la sezione aurea – potrebbe essere il numero divino dietro il quale potrebbe celarsi “Dio” quando vuole lasciare “tracce, indizi, segnali nella Sua creazione”. C’informa Messori che uno studio austriaco ha testato che hanno miglior salute e speranza di vita coloro il cui rapporto tra pressione arteriosa massima e minima è 1,618. Insomma, il messaggio di dio ci scorre nel sangue. Chapeau!
III-3 La resurrezione di Gesù
Indubbiamente, secondo il credo cristiano, ma anche secondo la Chiesa cattolica, il perno fondamentale di tutta la fede in Gesù è basato sulla sua resurrezione. Come mai non c’è alcun documento che parla di testimoni oculari della resurrezione? Come mai la comparsa di Gesù risorto, invece di essere descritta in modo cristallino, come un fatto del genere meriterebbe, è riportata in maniera disorganica, come vedremo? Il fatto che la tomba fosse vuota non dimostra la resurrezione: se dei fanatici hanno rubato le spoglie di Mussolini, è comprensibile che altri fanatici possano avere rubato quelle del figlio di dio. In realtà, la sopravvivenza di Gesù dopo la sua morte deve essere garantita ai suoi seguaci dalla fede nella resurrezione, come prevede ogni culto dei misteri, e ha inizio il processo di alienazione religiosa: ancor più di Osiride che è risuscitato da Iside, Gesù si autorisuscita. Su questa resurrezione c’è tutta una serie di incongruenze, del resto tipiche dei testi neotestamentari; può essere d’aiuto al lettore la tabella 5. Iniziamo dall’inumazione: secondo i vangeli fu opera di Giuseppe di Arimatea, un pubblico funzionario seguace di Gesù, ma secondo gli Atti (At 13,27) furono “gli abitanti di Gerusalemme”, cioè gli ebrei. Della resurrezione non ne fa cenno Paolo nella prima lettera ai Corinzi, il più antico documento dei reporter cristiani. Secondo Matteo, due donne (Maria di Màgdala e Maria di Giacomo) vanno al sepolcro, c’è un terremoto, un angelo scende dal cielo, sposta la pietra all’ingresso della tomba e si siede sopra, le guardie restano tramortite. Secondo Marco, tre donne (Maria di Màgdala, Maria di Giacomo e Salomè) vanno al sepolcro, la pietra all’ingresso è già rimossa, un giovane è seduto all’interno, non ci sono né terremoto né guardie né angeli. Secondo Luca, tre donne (Maria di Màgdala, Maria di Giacomo e Giovanna) e “altre” vanno al sepolcro, trovano la tomba vuota, arrivano due uomini, non ci sono né terremoto né guardie né angeli. Secondo Giovanni, una donna (Maria di Màgdala) si reca al sepolcro, la pietra è ribaltata, la tomba è vuota, chiama due discepoli che verificano che la tomba è vuota, a Maria di Màgdala compaiono due angeli, non ci sono né terremoti né guardie. Marco parla di donne che dopo tre giorni dal decesso si recano con unguenti al sepolcro per l’unzione, quando inizia già la putrefazione. Secondo Marco (Mc 16,1) le donne acquistano gli unguenti il giorno dopo il sabato, secondo Luca
(Lc 23,56) il giorno prima del sabato. Matteo aggiusta il tiro: le donne vanno solo a “visitare il sepolcro”, senza pensare all’unzione. Giovanni afferma (Gv 19,39) che è Giuseppe di Arimatea con Nicodemo a imbalsamare il corpo con mirra e aloe. Le tre donne di Marco si avviano bellamente al sepolcro senza pensare come alzare la pesante pietra che chiudeva il sepolcro, come avevano potuto osservare in precedenza (Mc 15,47) e solo lungo il cammino si chiedono come fare (Mc 16,3). Visto che il sepolcro era vuoto, secondo Marco (Mc 16,8) le donne se ne stanno zitte, conclusione del tutto inverosimile, anche perché al versetto prima l’angelo raccomanda loro di divulgare la notizia. L’errore di Marco è aggiustato dagli altri tre evangelisti che si premurano ad affermare che le donne divulgano la buona novella. In conclusione, il lettore (credente e miscredente) si trova davanti a dei racconti fantastici e dozzinali.
III-4 Le bibliche ascensioni Prima di soffermarci sull’ascensione di Gesù, facciamo una panoramica ascensionale. Annotiamo la prima ascensione ufficiale nell’AT (Gen 5,24): “[Poi] Enoch camminò con Dio, poi scomparve [e non fu più] perché Dio l’aveva preso”. La seconda ascensione, più chiassosa, sarà quella d’Elia su un carro di fuoco. La terza sarà quella di Gesù redento, la quarta quella di Maria. Tutte le religioni vantano dèi, profeti e superuomini che a un certo momento se ne salgono in cielo, molto prima dei satelliti artificiali. I mezzi di locomozione sono quelli in vigore al tempo dell’ascensione: aquile, cavalli o semplicemente piedi, come fa saggiamente Buddha. Gli dèi d’oggi ebbero probabilmente comodi razzi a ossigeno liquido, in futuro potrebbero ricorrere alla propulsione fotonica, magari prendendo delle scorciatoie spazio-temporali, come prevede la teoria einsteiniana. Una considerazione che scaturisce spontanea apprendendo dalle diverse letterature “sacre” queste “ascensioni” è che questi dèi “salgono” in cielo in pompa magna mentre quando “scendono” tra noi mortali lo fanno in gran segreto e il Nostro addirittura segue il normale protocollo dei nove mesi d’attesa nel grembo materno. L’umanità attende che un bel giorno qualcosa scenda da una nuvola in pieno centro, mettiamo a New York o a Tokyo, preceduta da squilli di tromba e luce folgorante e dica o trasmetta col pensiero un semplice messaggio: “Sono Dio, facciamoci quattro chiacchiere”. Nell’anno 1950 – quindi in un periodo che potremmo definire “civile” – è stato proclamato da Pio XII il “dogma mariano” dell’assunzione in cielo del corpo della madonna. Ripeto: il corpo della madonna, completo di testa, braccia e gambe, è stato assunto in cielo. Commenta Piergiorgio Odifreddi che, poiché nessun “corpo” può viaggiare più velocemente della luce, si potrebbe pensare che la madonna sia, tutto al più, distante da noi circa duemila anni-luce e quindi, con un buon telescopio, si potrebbe provare a localizzarlo. Nessuna meraviglia su queste affermazioni della Chiesa: all’inizio del secolo scorso, quando erano commercializzate le prime radio, il Vaticano affermò che si trattava di “apparecchi del diavolo”. Questo atteggiamento chiesastico ha portato a un terribile blocco del progresso civile dell’uomo “cristiano”, dalla caduta dell’impero romano sino all’Illuminismo; sino al 1700 avanzato, la Chiesa riconosceva ancora, dal punto di vista scientifico, la cristallizzata visione aristotelica dei quattro elementi fondamentali del “Creato”: acqua, aria, terra e
fuoco. Era tutta qui, dopo oltre un millennio e mezzo, la “scienza” della Chiesa. Un’altra ascensione dell’AT l’annotiamo al termine di questo sublime colloquio (Gen 18,1). Abramo se ne sta nella sua tenda, forse è in fase di “siesta”, ma la Bibbia non approfondisce. Fa caldo e a un certo momento il patriarca vede tre uomini ritti dinanzi a lui. Restando sotto un albero, i tre si lavano i piedi e mangiano; poi tutti e tre, in coro e all’unisono, chiedono “Dov’è Sara, tua moglie?” (Il nome Sarai è mutato in Sara – principessa – per volere divino, Gen 17,15). Abramo, invece di rispondere “Ma a voi che ve ne frega?”, indica la moglie nella tenda. Il Signore (è lui, per chi non se ne fosse ancora accorto) gli predice che sua moglie avrà un figlio. Sara, che aveva orecchiato dall’ingresso della tenda, “rise dentro di sé” perché era già vecchiotta. Il Signore, grazie ai suoi poteri soprannaturali, capta il riso di Sara (è la prima risata della Bibbia) e ne chiede ragione ad Abramo (chissà perché non si rivolge a Sara), ma Sara subito nega: “non ho riso!”, ma “Lui” insiste: “Si, hai proprio riso”. A questo punto si ricostituisce il terzetto, giacché pare che il colloquio precedente sia avvenuto solo con una persona, il padreterno. I tre “si alzarono e andarono a contemplare Sodoma dall’alto, mentre Abramo li accompagnava per congedarli”. La nota biblica esplicativa precisa che il terzetto è composto da dio con due angeli, ma c’è chi, un po’ arditamente, ritiene possa trattarsi della “Santissima Trinità”.
III-5 L’apparizione e l’ascensione di Gesù Dopo la resurrezione c’è la ricomparsa di Gesù e l’ascensione. Secondo Matteo (Mt 28,1), Gesù ricompare subito alle due Marie nei pressi del sepolcro e poi in Galilea (oltre un centinaio di km da Gerusalemme) agli undici apostoli, mentre dell’ascensione non ne parla. Secondo Marco (Mc 16,9), ricompare la domenica a Maria di Màgdala, poi a due suoi “seguaci”, quindi agli undici apostoli mentre sono a mensa, forse in Galilea e subito sale in cielo “alla destra di Dio” (Mc 16,19); ma gli ultimi versetti di Marco, da 16,9 a 16,20, sono considerati falsi anche dai pii esegeti. Secondo Giovanni (Gv 20,14), Gesù ricompare subito nei pressi del sepolcro a Maria di Màgdala, poi appare la domenica sera ai discepoli a Gerusalemme e, agli stessi, otto giorni dopo, quindi appare a sette discepoli presso il lago di Tiberiade e pranza con loro dopo avere pescato, e non si parla d’ascensione. Abbastanza infelice il tentativo di alcuni esperti di inventarsi una località vicino Gerusalemme chiamata Galilea, per conciliare le divergenze. Paolo (1 Cor 15,5) parla di cinque apparizioni agli apostoli e una “a più di cinquecento fratelli”, ma di questo straordinario evento non ne parlano le cronache. La descrizione contrasta con quanto afferma Luca, che riporta (At 10,41) che Gesù aveva detto che sarebbe apparso solo agli apostoli. Veniamo proprio a Luca; riporta (Lc 24,15) che lo stesso sabato Gesù compare a due seguaci lungo la strada che da Gerusalemme porta a Emmaus (una decina di km da Gerusalemme), poi appare agli undici apostoli a Gerusalemme e pranza con loro, quindi li conduce a Betania (circa 5 km da Gerusalemme) dove sale in cielo (Lc 24,51). Lo stesso Luca si contraddirà negli Atti degli apostoli, a lui attribuiti, dove riporta (At 1,3) che Gesù appare agli apostoli “per quaranta giorni”. Questo dato è l’unico preso in considerazione dalla Chiesa, che celebra l’ascensione 39 giorni dopo la Pasqua. Luca precisa (At 1,9) che Gesù “fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi [fu elevato in alto sotto i loro occhi e una nube lo sottrasse al loro sguardo]”. Ricordiamoci che Luca, possibile autore di un vangelo e degli Atti degli apostoli (At 1,1), discepolo di Paolo, non è testimone oculare, quindi scrive “per sentito dire” da Paolo che a sua volta parla e scrive “per sentito dire”. Ci si chiede come mai Gesù, che tanto aveva faticato in vita sua per convincere il popolo della bontà e veridicità delle sue parole, una volta risorto si sia mostrato
solo alla ristretta cerchia dei suoi discepoli e non sia apparso alle masse, inferendo un colpo forse mortale ai Romani e dando una lezione (e che lezione!) a Pilato. È lecito ritenere che resurrezione e ascensione non sono che invenzioni apologetiche per creare un falso mito? Gesù verrà una seconda volta: questa è l’affermazione del buon cristiano, quando si osserva che egli non ha realizzato il suo programma. Cosa è venuto a fare la prima volta? Aspettiamoci che un tizio qualsiasi possa annunciare che sta per iniziare una seconda epoca messianica. In effetti, la seconda venuta non doveva avvenire migliaia di anni dopo, ma nel giro di pochi anni dalla prima venuta, come Gesù stesso aveva affermato (Mt 24,34): “In verità io vi dico [In verità vi dico]: non erà questa generazione prima che tutto questo avvenga [accada]”, e dovrà accadere che, tra squilli di trombe suonate da angeli in cielo, comparirà il “figlio di dio”. Per coprire la magagna della mancata seconda venuta di Gesù ci penserà lo scaltro Agostino, il santo (vedi il paragrafo IV-1 “Il preludio”, cap. IV).
III-6 Gesù storico e Gesù escatologico È difficile risalire alla dottrina che predicò Gesù, ma si può intuire che i tratti essenziali del suo insegnamento siano stati la predicazione dell’amore verso dio e verso il prossimo e l’avvento del regno di dio. Sostanzialmente si tratta di concetti già espressi da altri, non originali, e che si trovano sparpagliati nell’AT, ad esempio nei salmi e nei profeti, e negli scritti degli esseni, ai quali forse Gesù apparteneva. Non è escluso che il suo insegnamento abbia avvertito l’influsso della cultura greca; infatti, nella Galilea viveva una popolazione varia, non solo giudea, aperta all’ellenismo, e lo stesso Erode il Grande (37-4 a. C.) faceva parte di una casata ellenistica. Molti ebrei parlavano greco e anche l’aramaico era ricco di termini derivati dal greco. Il messaggio che traspare dai scrivani dei vangeli, quindi, appare duplice: etico ed escatologico, cioè riguarda la morale e il destino dell’uomo. L’etica di Gesù richiede di fare il bene, di amare il prossimo, di perdonare chi offende, di obbedire a dio, oltre ad alcuni estremismi banali, come porgere l’altra guancia a chi ti schiaffeggia. Al tempo di Gesù il giudaismo, governato dal formalismo dei farisei e dall’esaltazione degli apocalittici, era lontano dalla spiritualità di alcuni aggi dell’AT e prese vigore il messaggio neo-cristiano che puntava sull’amore e il rispetto per il prossimo e sulla giustizia umana. Nelle sue predicazioni, Gesù non prese le parti dei farisei o dei sadducei o degli esseni e per tal motivo fu apprezzato dalle masse, ma si attirò l’inimicizia delle oligarchie ebraiche. Non si definì un “messia” e il suo obiettivo non era quello di creare una setta o tantomeno una nuova religione; ha sempre rispettato i princìpi della religione ebraica. Gesù non fu mai un cristiano! Quando il popolo al quale si rivolgeva s’accorse che i suoi discorsi non si realizzavano in una rivoluzione socio-politica, non ebbe più il suo consenso e dovette soccombere davanti alle autorità religiose, in particolar modo al partito dei sadducei. L’uomo d’oggi, salvo che non sia un depravato, ha già innati i princìpi etici di Gesù in modo più o meno marcato, in una varietà che deriva dalla differenza dei caratteri e della cultura, propri da individuo a individuo. Non c’è bisogno di ascoltare un milione di preti e un brontosauro come la Chiesa per riconoscere gli aspetti più realistici della “parola del Signore”. E non è vero che siamo “civili” perché siamo figli della “cristianità”: i giapponesi sono civili almeno quanto noi “cristiani” e non hanno mai letto un rigo delle sacre scritture nostrane. E che dire
delle troppe pecore smarrite che vi sono tra noi cristianissimi da duemila anni, come ladri, assassini, evasori fiscali, reprobi, disonesti? L’escatologia – cioè lo scopo dell’uomo – di Gesù è semplice: lui proclama il regno di dio; questa è la parte dove avviene la mitologizzazione di Gesù e la richiesta della Chiesa di sacrificare l’intelletto e lasciarsi andare nel limbo della fede perché con la fede non c’è niente da pensare (e da dire). Chi, oggi, vuole raccogliere il messaggio di Gesù storico, ammesso che abbia bisogno che un Gesù vecchio bimillenario glielo comunichi, deve alzare il velo del mito escatologico, buttarlo via e leggere solo il messaggio. L’accettazione dei dogmi più venerati dalla Chiesa – incarnazione, redenzione, resurrezione – sono dei miti che l’uomo d’oggi può accettarli solo tramite la fede, che, come una droga, significa sacrificare l’intelletto e perdere la coscienza; se accetta solo il Gesù storico, sarà un pessimo credente, ma non un cattolico. Cosa fece Gesù nei presunti quaranta giorni compresi tra la sua resurrezione e l’ascensione, a parte l’apparizione ai discepoli? Era a Gerusalemme? Era in giro per la Palestina? Non si sa, né si può sapere in quanto Gesù come figura storica termina nel sepolcro, poi subentra la fede perché la resurrezione non può spiegarsi con argomenti storici. E lo stesso Paolo scrive (1 Cor 15,13): “Se non vi è [non esiste] risurrezione dai morti, neanche Cristo è risorto [risuscitato]! Ma se Cristo non è risorto [risuscitato], vuota è allora [allora è vana] la nostra predicazione, vuota anche [ed è vana anche] la vostra fede”, concludendo “se Cristo non è risorto, vana è la vostra fede e voi siete ancora nei vostri peccati”. Si tenta di dimostrare un fatto storico ricorrendo alla fede e, avendo fede, si può credere in qualunque favola: la favola dei primi cristiani che vedono Gesù risorto, in realtà attestano la loro fede. I discepoli inventarono l’annuncio della resurrezione e, quindi, inventarono la figura di Gesù risorto; da qui la duplicità del Gesù della storia, salvo poi la sua effettiva esistenza, e del Gesù della rivelazione. Il Gesù storico è un perdente: muore in solitudine, tradito da Giuda, rinnegato da Pietro, abbandonato dai discepoli; rinnega la sua famiglia (Mc 3,34): “Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?”, che lo considerava un invasato (Mc 3,21): “Allora i suoi, sentito questo, uscirono per andare a prenderlo; dicevano infatti [poiché dicevano]«È fuori di sé»”. Il fallimento della missione di Gesù, finita sul Golgota, ha costretto i suoi discepoli ad abbandonare il contenuto messianico a sfondo “politico” per abbracciare quello a sfondo “spirituale”. Il carisma di Gesù, unito a qualche episodio “miracolistico”, probabilmente aveva fatto sperare a un certo numero di
suoi conterranei in una sorta di “rinascimento” del popolo giudaico in chiave nazionalista. È probabile che, proprio per non creare equivoci, Gesù avrebbe invitato i suoi discepoli a non chiamarlo “messia”. I farisei, che avevano formato un partito religioso che applicava la legge moseica anche nei dettagli più insignificanti, mossero a Gesù pesanti critiche e, probabilmente, allontanarono da lui buona parte dei seguaci. Rimasto con pochi discepoli, Gesù avrebbe deciso di andare a Gerusalemme per affermare le proprie idee, cercare di risollevare la nazione giudaica e affrontare gli avversari, ma fu sconfitto. Questo soccombente Gesù storico probabilmente non è stato inventato, ma può avere qualche riferimento a una figura effettivamente esistita. L’immagine del messia, invece, è un prodotto autarchico della Chiesa.
Gesù il Cristo Che differenza c’è tra Gesù e Cristo? Gesù deriva da Jeshu, un comune nome aramaico, che a sua volta derivava da Joshua, un eroe biblico, il cui nome completo ebraico era Jehoshuà (Jahveh è salvezza) contratto in Jeshua, salvatore. Cristo è il Gesù resuscitato e assurto in cielo e il vocabolo Cristo deriva dal greco khristos, unto (traduzione dell’ebraico mashiach e aramaico m’sheeha, unto, messia); nel Medio Oriente profeti, sacerdoti e persone che rivestivano un incarico sociale si consacravano ungendoli con olio. “Cristo”, che indica per gli ebrei il “messia”, non è un nome bensì un titolo regale e, pertanto, manca, salvo rare eccezioni, nei vangeli; solo dopo la morte, Gesù sarà chiamato il “Cristo”. Nella Versione dei Settanta, che è una traduzione greca, dio è tradotto con kyrios, signore; i primi cristiani, che erano prevalentemente “gentili” (così si chiamavano i cristiani di cultura ellenica e non ebraica) utilizzarono kyrios anche per denominare Gesù, definizione usata da Paolo – e valida ancora oggi – e che accomunò l’idea di dio con Gesù. Dopo la sua morte, Gesù di Nazareth è diventato Gesù Cristo, ma correttamente dovrebbe essere “Gesù il Cristo”, cioè Gesù l’Unto. L’accoppiata “Gesù Cristo”, quindi, è errata, non indica un nome, ma rappresenta la tradizione, che ancora una volta prende fischi per fiaschi. Nei vangeli è riportata 28 volte l’espressione “figlio dell’uomo” (aramaico barnasha), che può sembrarci strana, ma che nei linguaggi semitici (aramaico, ebraico, arabo) significava “uomo, essere umano”. Bar-nasha deriva da bar, figlio, e nasha, uomo, ma è sbagliato tradurlo in “figlio dell’uomo” perché in aramaico il vocabolo bar aggiunto a un altro vocabolo ne può cambiare il significato; es. bar-hila, letteralmente “figlio del potere”, in realtà significa “soldato”. Bar-dalaha, letteralmente “figlio di Dio”, in realtà può significare orfano, uomo buono. Il linguaggio semitico è più intimo, figurato, colorito dei linguaggi occidentali. Da questa breve nota etimologica può comprendersi la gran difficoltà di tradurre esattamente – a parte i rimestamenti – gli scritti dell’AT, che risalgono anche a 2500 anni addietro e a riportare in scritti greci le storie orali aramaiche del NT.
III-7 Da Gesù uomo a Gesù fantasyland Parla Gesù. (Mt 10,23): “In verità io vi dico: non avrete finito di percorrere la città di Israele, prima che venga il Figlio dell’uomo”. (Mt 16,28): “In verità io vi dico: vi sono alcuni tra i presenti che non moriranno, prima di aver visto venire il Figlio dell’uomo con il suo regno [finché non vedranno il Figlio dell’uomo venire nel suo regno]”. (Mt 24,34): “In verità io vi dico: non erà questa generazione prima che tutto questo avvenga [accada]”. (Mc 9,1): “In verità io vi dico: vi sono alcuni, qui presenti, che non morranno prima di aver visto giungere il regno di Dio nella sua potenza [senza aver visto il regno di Dio venire con potenza]”. (Lc 9,27): “In verità io vi dico: vi sono alcuni, qui presenti, che non morranno prima di aver visto il regno di Dio”. (Lc 21, 31): “…sappiate che il regno di Dio è vicino. In verità io vi dico: non erà questa generazione prima che tutto avvenga [finché tutto ciò sia avvenuto]”. Insomma, Gesù giura e spergiura che risusciterà, ma la Chiesa, con il solito salto mortale, precisa: ma no, Lui intendeva dire che Gerusalemme sarebbe stata distrutta. Il flop di Gesù dimostra che se lui era convinto di ritornare su questo mondo, certamente non avrebbe detto a Pietro (e in realtà non lo ha mai detto) di prendere una pietra e fondare la Chiesa. Quali titoli storico-evangelici hanno questi ecclesiastici radicati al Vaticano? In verità …non sapremo mai con certezza in cosa effettivamente hanno creduto Gesù, i suoi discepoli e i primi seguaci e cosa ha pensato Gesù di sé stesso. Ci sono dei aggi di ciò che gli evangelisti fanno dire a Gesù che, se si volessero seguire alla lettera, si verrebbe scambiati per matti. Ad esempio, Gesù dice (Mt 6,26): “Guardate gli uccelli del cielo: non seminano e non mietono [né mietono], né raccolgono nei granai [né ammassano granai]; eppure il Padre vostro celeste li nutre”. E dice ancora (Mt 6,28): “E per il vestito, perché vi preoccupate [E perché vi affannate per il vestito]? Osservate come crescono i gigli del campo: non faticano [lavorano] e non filano”. E più avanti (Mt 6,34): “Non preoccupatevi [affannatevi] dunque del [per il] domani, perché il domani si preoccuperà di se stesso [avrà già le sue inquietudini]”. Resta inteso che questa impostazione sociale nichilista non è per i nostri tempi, ma nemmeno per i tempi di Gesù. L’errore che si fa è di non tenere presente che Gesù prevedeva l’imminente fine del mondo e, giustamente, diceva di non fare niente. Ma questi suoi detti non possono essere interpretati come un nuovo ordine sociale perché la società che lui sognava era e resta impossibile, paradossale e stravagante.
Ma avrà parlato così, Gesù? Non esiste alcuna fonte attendibile sulla sua vita che può essere esaminata da uno storico e certamente i vangeli mancano di quei particolari familiari e sociali tipici di una biografia e che consentono anche di tracciare un profilo psicologico del personaggio. Ad esempio non ci dicono in che modo Gesù abbia interpretato la propria fine; gli evangelisti erano consci di scrivere una storia sacra e non una biografia. Inoltre, ad aggravare il panorama, la lettura dei vangeli ci mostra un Gesù ben differente da quello propagandato dalla Chiesa. Come detto, dagli studi plurisecolari della teologia critica, autonoma nei confronti della Chiesa, nonché dagli scritti, emerge che Gesù annunciava l’imminente venuta del regno di dio. Dai suoi apostoli, che erano analfabeti e sempliciotti (secondo le solite fonti cristo-fantasiose, solo Matteo e Filippo avevano studiato), non ci si può aspettare messaggi di una certa validità, a parte il richiamato arrivo del regno di dio; certamente non era prevista alcuna Chiesa. Nessun documento del NT può fregiarsi della loro firma, nemmeno – è il caso di dirlo – di una croce; i discepoli non sapevano della sua nascita verginale, della sua parentela divina, della sua preesistenza né presero coscienza di una fede. Del resto la stessa messianità giudaica, dalla quale scaturisce la figura del Cristo, non prevede l’arrivo di un essere divino ma di un uomo mortale del tutto normale. Gli Atti degli apostoli parlano di Gesù come uomo mandato da dio come profeta, come servo di dio, come santo e giusto e, una volta risorto, posto da dio alla sua destra, secondo il salmo 110, seconda strofa: tutto qui e niente di più. Né su Gesù né sugli apostoli e tanto meno su Paolo abbiamo testimonianze storiche certe e ciò che si può dedurre si ricava, con fatica, dagli Atti e dalle epistole evangeliche, che hanno ampi squarci di falsità. Il vangelo di Marco, il più antico, mostra frequentemente un Gesù-uomo, lontano dal dio in cui crede, ma negli altri documenti neotestamentari, come già richiamato, è avviato il processo della sua divinizzazione. Gesù non pretese alcuna forma di fede nei suoi riguardi: per lui il centro del suo interesse era l’avvento del regno di dio. In fondo, Gesù raffigurava anche l’opposizione all’invasore romano: con dio si vince attraverso la bontà, non armi ma parole, non spade ma preghiere. Il concetto di fede nacque nella comunità cristiana dopo il suo decesso e già ne parla l’ultimo dei vangeli, quello di Giovanni. Come detto, nemmeno gli apostoli ritennero che Gesù fosse dio ma un uomo, seppur privilegiato.
Gesù, o lo stereotipo di quel personaggio creato dagli evangelisti, non si poneva gli astratti problemi religiosi che si sono posti i teologi degli ultimi secoli. Egli si considerava semplicemente un pio ebreo. Quando gli fu chiesto quale fosse il primo comandamento, rispose (Mc 12,29): “Ascolta, Israele! Il Signore Dio nostro è l’unico Signore; amerai [dunque] il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima [con tutto il tuo cuore], con tutta la tua mente e con tutta la tua forza”. È ciò che fa oggi ogni ebreo credente. E ancora (Mt 5,17): “Non crediate [pensate] che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto ad abolire, ma a dare pieno compimento [per dare compimento]”. Ma un Gesù storicamente ebreo non è conciliabile per un cristiano, perché ciò porterebbe al disfacimento del suo credo; per tal modo il cristiano ha bisogno di Gesù in croce e della resurrezione, del Gesù fantasyland. È estranea al personaggio “Gesù”, così come descritto nei vangeli, la sacralizzazione del suo comportamento, ma con la Chiesa l’Uomo che doveva rivelare è capovolto: diventa il Figlio di Dio annunciato.
III-8 Gesù profetizzato Personaggi come Gesù, cioè esseri divini in stretti rapporti con l’Essere Supremo, ve ne sono parecchi sparsi per il mondo; tra i più noti si segnalano Osiride l’egizio, Odino lo scandinavo, Buddha il nepalese, Krishna l’indiano, Maometto l’arabo, Indra il tibetano, Zoroastro il persiano, Quetzalcoatl l’azteco. Tutta gente che ha praticato miracoli: non è solo Gesù ad avere il copyright. Nel NT vi sono 250 citazioni e circa 900 riferimenti relativi all’AT, che gli evangelisti appiccicano alla vita di Gesù come compimenti delle profezie. Tali richiami alle profezie fanno rendere a volte persino ridicola la figura del buon Gesù, come nel caso del suo arrivo a Gerusalemme. Gesù entra in Gerusalemme montando contemporaneamente un’asina e un puledro (Mt 21,7): “…condussero l’asina e il puledro, misero su di essi i mantelli ed egli vi si pose a sedere”, perché è scritto nell’AT (Zc 9,9): “[Il Messia] cavalca un asino, un puledro figlio d’asina”. In Marco, invece (Mc 11,7), meno comicamente, Gesù cavalca “un puledro [asinello]”. Marco – oltre mezzo secolo dopo il decesso di Gesù – fa descrivere a Gesù la sua morte (Mc 8,34): “Se qualcuno vuol venire dietro di me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua.”, ma chi lo ascoltava non poteva comprendere cosa c’entrasse la croce, simbolo cristiano comparso alcuni secoli dopo la morte di Gesù (vedi il paragrafo V-6 “L’invenzione della croce”, cap. V. Matteo fa andare la sacra famiglia in Egitto perché nell’AT è scritto (Os 11,1): “… dall’Egitto ho chiamato mio figlio”. Ho già ricordato che se Erode organizza la strage dei bambini è perché l’AT riporta (Ger 31,15): “Una voce si ode a [da] Rama, un lamento e un pianto amaro: Rachele piange i suoi figli e non vuole essere consolata [rifiuta d’essere consolata], perché non sono più”. E Gesù predica presso il lago di Tiberiade perché è scritto nell’AT (Is 9,1): “In ato umiliò la terra di Zabulon e la terra di Neftali, ma in futuro renderà gloriosa la via del mare, oltre il Giordano, Galilea delle genti [la curva di Goim, la curva di Goim è la Galilea]. Giuda restituisce le trenta monete d’argento e i sacerdoti comprano il campo del vasaio perché nell’AT è scritto (Zc 11,12): “Essi allora pesarono trenta sicli d’argento come mia paga” e (Ger 32,7) “Compra il mio campo che si trova ad [in] Anatot” e (Ger 18.2) “Alzati [Prendi] e scendi nella bottega del vasaio”. Quindi Geremia non ha mai scritto ciò che intende Matteo; i pii esegeti
correggono Matteo: Non in Geremia ma in Zaccaria (Zc 11,12) si legge: “Essi allora pesarono trenta sicli d’argento come mia paga”. Giusto, però è un contesto diverso da quello che intende Matteo. Gesù nasce a Betlemme perché è scritto nell’AT (Mi 5,1): “E tu, Betlemme di Efrata, così piccola per essere fra i villaggi [capoluoghi] di Giuda, da te uscirà per me [mi uscirà] colui che deve essere il dominatore in Israele”, anche se Gesù non dominò affatto Israele. Molti altri sono i riferimenti all’AT, a dimostrazione che i vangeli sono ricostruzioni artificiose per quel che concerne l’aspetto storico della vita di Gesù, volte a mostrare la messianità di Gesù. Come richiamato, solo Matteo e Luca parlano della nascita a Betlemme, mentre Giovanni (Gv 7,41) riporta la contestazione che i giudei fanno al Cristo che viene dalla Galilea e non da Betlemme. Vi sono anche profezie annunciate nel NT ma inesistenti nell’AT. Giovanni mette in bocca a Gesù la frase (Gv 7,38): “Se qualcuno ha sete, venga a me [Chi ha sete venga con me] e beva chi crede in me. Come dice la Scrittura: Dal suo grembo sgorgheranno fiumi di acqua viva [Fiumi di acqua viva sgorgheranno dal suo seno]”. Nell’AT non c’è traccia di questa profezia; si parla solo di acqua che sgorga da sotto Gerusalemme (Zc 14,8; Ez 47,3) o dalla roccia (Es 17,6). Commento dei pii esegeti: si tratta della sorgente dell’acqua della vita, che è Gesù, e il “seno” è quello del credente in Gesù. Infine, nell’AT non c’è traccia di resurrezione del messia, di un evento così strabiliante; in realtà, molte profezie dell’AT non si riferiscono a un futuro “messia” e, per di più, per i profeti ogni sovrano e ogni sacerdote è considerato un messia, cioè “l’unto”.
III-9 La verginità della madonna La Bibbia è uno dei libri che più ha fatto male alle donne. Isaia profetizzò che il figlio di re Ahaz, e non il “messia”, sarebbe nato da una “giovane donna”, parola che in ebraico non specifica se la donna sia vergine. Tradotta in modo errato, l’evangelista Matteo, come vedremo di seguito, per far avverare la presunta profezia, scrive che Gesù nasce da una vergine; gli altri tre evangelisti non si preoccupano della verginità di Maria. Su questa sciocchezza, perché di sciocchezza si tratta, la teologia misogina cristiana ha consentito ai fedeli ad avviare verso l’unica “dea” disponibile, la “Madre di Dio”, quella forma di idolatria che è il culto mariano. La verginità della madonna è stato e resta un dilemma della Chiesa. In realtà i più antichi scritti del NT non parlano della verginità della madonna, né ne parla Paolo né il vangelo di Marco né quello di Giovanni né gli Atti degli apostoli. Da Luca apprendiamo che il bambino Gesù disamina in mezzo ai dottori e la madre, stupita, si rivolge al figlio (ma che hai combinato!), il quale risponde stizzito (Lc 2,49) che deve badare alle “cose del Padre mio”, ma essi (Maria e Giuseppe) “non compresero ciò che aveva detto loro [le sue parole]”. Come faceva, Maria, a non sapere, dopo lo scoop dell’angelo Gabriele (Lc 1,26 e segg.) che le aveva annunziato di partorire, nientedimeno, il figlio di dio? La possibile chiave di lettura dell’episodio è un’altra (già anticipata al paragrafo II-2 “Gli anni della predicazione”, cap. II): Gesù non più bambino ma adulto preoccupava i suoi per le sue idee che andava distribuendo in giro e che non erano allineate con ciò che pensavano le persone “normali”. Prima del III secolo nessun padre della Chiesa era al corrente della verginità di Maria, sulla quale ci sarà un primo battibecco solo al concilio mariano di Capua del 391. La verginità mariana è proclamata come dogma nel concilio di Efeso del 431, dopo oltre quattro secoli dal parto miracoloso, e da allora il culto mariano si svilupperà trionfalmente. Le apparizioni della madonna tra i mortali inizieranno nel V secolo e andranno avanti sino ai giorni nostri; tra le più pirotecniche quelle di La Salette (1846), Lourdes (1858), Fatima (1917), sino alle apparizioni – addirittura giornaliere! – di Medjugorje, perché la madre di dio predilige paesi del cattolicesimo romano e preferisce pastorelle, pastorelli e buontemponi, più o meno scaltri: mai che la madonna sia apparsa a qualche biologa o a qualche fisico nucleare.
Nel 1854 Pio IX proclamò un altro dogma (ma quaranta vescovi non ne furono convinti): la verginità della madonna è rivelata da Dio! Quindi nel 1950 si confermò l’assunzione in cielo, evento festeggiato il 15 agosto e grazie al quale ci si può godere un giorno al mare, data già fissata da Cirillo di Alessandria (370-444), che sostituiva la pagana ascensione in cielo di Astrea, dea della giustizia: un ulteriore saccheggio cristiano da altri culti. Della prodigiosa nascita di Gesù da una vergine non c’è traccia nei vangeli di Marco e Giovanni, ma di un’altra prodigiosa nascita c’è traccia nell’AT. Dice al marito la madre di Sansone, che era sterile come un buon numero di donne bibliche (mai che fosse sterile il loro uomo) (Gdc 13,6): “Un uomo di Dio è venuto da me; aveva l’aspetto di un angelo di Dio, un aspetto maestoso [terribile] …mi ha detto: Ecco tu concepirai e partorirai un figlio; ora non bere vino né bevanda inebriante e non mangiare nulla d’impuro [d’immondo], perché il fanciullo sarà un nazireo di Dio dal seno materno fino al giorno della sua morte [sino alla sua morte]”. I nazirei biblici si consacravano temporaneamente a dio e non si tagliavano i capelli; come già detto, oltre a Sansone, “famosi” nazirei sono Giovanni Battista e Paolo. Quindi, nei vangeli, l’incommensurabile verginità di Maria è riportata solo da Matteo e da Luca. Luca apprende l’episodio leggendo Matteo e ne fa una descrizione riprodotta dalla più nota iconografica ecclesiastica (Lc 1,26: l’angelo che annuncia a Maria), mentre per Matteo (Mt 1,18) l’angelo appare in sogno a Giuseppe e gli dice di onorare il matrimonio con la promessa sposa Maria, che è già incinta “per opera dello Spirito Santo”. Giuseppe sposa Maria e questa, senza che lo sposo “la conoscesse”, gli spiattella un figlio e non si chiede nemmeno come sia avvenuto: del resto, era una minorenne analfabeta (vedi il paragrafo II1 “La nascita di Gesù, cap. II). Inoltre, a quel tempo, sposare una donna incinta avrebbe causato un rumore assordante nell’ambiente e il fatto certamente non sarebbe ato inosservato; non dimentichiamo che in quell'ambiente le fedifraghe erano lapidate (Dt 22,21). Gli apostoli sono al corrente del parto straordinario? Come apprende Matteo l’evento eccezionale? Quella della verginità, che rimane un particolare inutile anche se ancora oggi la Chiesa continua a sbatterci in faccia la “vergine Maria”, è una storia che fa acqua da tutte le parti. Da dove viene l’idea della verginità a Matteo, idea che tanto ha tartassato l’umanità cristiana? Come lui stesso riporta (Mt 1,23), è scritto nell’AT (Is 7,14): “Ecco: la vergine concepirà e darà alla luce [partorirà] un figlio: a lui sarà dato il nome Emmanuele [che chiamerà Emmanuele]”, dall’ebraico
Immanuel, Dio è con noi. In ebraico almah significa fanciulla e nella Versione dei Settanta è stato tradotto parthénos, che significa sia fanciulla sia vergine. Insomma: Maria, vergine era e, dopo approfondita analisi della vagina da parte dei biblisti conformisti, vergine rimane. Per la traduzione in latino è stato usato il vocabolo virgo, che per i Romani significava “nubile”, mentre la verginità era definita con l’accoppiata virgo intacta. Che la traduzione di almah in “vergine” sia un errore è dimostrato dal fatto che in altre due occasioni almah è tradotto in modo esatto: (Pr 30,19) “la via dell’uomo di una giovane donna [il sentiero dell’uomo di una giovane]”; (Ct 6,8) “innumerevoli le ragazze [le fanciulle senza numero]”). Infine, la verginità è indicata con bethulah. L’assurdo è che l’Emmanuele richiamato nell’AT nascerà dopo un normalissimo rapporto carnale tra Isaia e una profetessa e l’onnipresente dio suggerirà di chiamarlo Mahèr-salàl-cash-baz. La Chiesa, pervicacemente, ribadisce che nel caso di Emmanuele almah vuol significare “vergine” e che il secondo nome (Mahèr-salàl-cash-baz) non riguarda la nascita di una creatura ma il saccheggio di Damasco e di Samaria da parte degli Assiri (i fatti si riferiscono a un periodo intorno al 735-721 a. C.). Dopo l’invenzione della Trinità, alla Chiesa compare un altro cavillo: la “vergine” Maria è madre di un uomo o di un dio? Risposta: è madre di dio, la natura umana è in grado di partorire un dio. Per chi insiste a non comprendere, la risposta è consequenziale: è un mistero. Al concilio di Calcedonia (l’attuale Kadikoy, posta sul Bosforo davanti a Istanbul) del 451 si ribadisce che Gesù, partorito da Maria, è uomo e dio, due nature unite ma misteriosamente distinte. Tra un concilio e l’altro, non tutti i cristiani sono d’accordo sulle decisioni promulgate e nascono varie correnti e Chiese definite eretiche (assiri, copti, armeni, maroniti e simili). Di Maria i vangeli ne parlano poco e quindi i padri della Chiesa si sbizzarriscono sulla sua verginità: c’è chi dice che la perde col parto di Gesù (eresia!), c’è chi ammette che fratelli e sorelle di Gesù sono partoriti come fanno tutte le altre donne, dopo che Giuseppe “conosce” Maria. I soliti padri della Chiesa, appositamente riuniti, stabiliscono che Maria è fecondata senza provare piacere e partorisce dio senza provare dolore, e ancora oggi le editrici cattoliche continuano a stampare libri sulla verginità di Maria. Google è invaso da un numero spaventoso di voci – verginità inclusa – scritte da anonimi esponenti ecclesiastici che si dilungano in logorroici testi che rifanno duemila anni di storia del cristianesimo, naturalmente sempre sotto la luce del Signore (e lo sguardo
vigile della Cei). I vangeli richiamano più volte che Gesù, primogenito (Lc 2,7), aveva quattro fratelli (Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda) e almeno due innominate sorelle (Mt 12,46; 13,56; Mc 3,32; 6,3; Lc 8,19; Gv 2,12; 7,3 e inoltre At 1,14; 1 Cor 9,5); tutti saranno mascherati dalla Chiesa come fratellastri, figli di primo letto di nonno Giuseppe, o come cugini. Girolamo, il traduttore della Vulgata, con uno scaltro espediente filologico, afferma che il vocabolo “fratello” in aramaico è acha e in ebraico ach, mentre non esiste un vocabolo “cugino”, quindi, secondo lui, tutti i “fratelli” altro non sono da intendersi che “cugini”. In realtà il nostro NT è stato scritto in greco e non in aramaico e il vocabolo adelphos, “nato dallo stesso grembo” non può che avere il significato di “fratello”; infine, la Chiesa dimentica che “cugino” si dice anepsioi (Col 4,10): “Marco, il cugino di Barnaba”.
III-10 L’iconografia della madonna e l’idolatria dei fedeli La madonna ha avuto almeno sette figli, come riportano i vangeli, uno extra tramite lo spirito santo e gli altri, a quanto sembra, per via normale. Se Giuseppe, secondo l’iconografia cattolica, ci è presentato come un vecchietto, anche un po’ brutterello, sorge spontaneo qualche dubbio sulla paternità dei fratelli di Gesù. La sembianza del “buon vecchietto” Giuseppe deriva dall’evitare che il fedele possa pensare che la madonna abbia commesso “atti impuri” con lo sposo. In realtà, sempre che sia esistita questa “sacra famiglia”, è probabile che, come riporta il vangelo apocrifo di Giacomo, un aitante mastro costruttore, di nome Giuseppe, abbia impalmato una minorenne analfabeta, come era costume a quel tempo, e i due abbiano avuto una vita sessuale normale. L’iconografia ufficiale ha del comico perché ci mostra una madonna, con Gesù neonato, dall’apparente età di 25-35 anni, e una madonna piangente, davanti a Gesù ultratrentenne crocifisso, dall’apparente età di 35-40 anni: una madonna che anticipava i tempi e che già si sottostava ai ritocchi e al beauty shop! Wojtyla era grande adoratore della madonna, la quale, diceva, gli aveva salvato la vita deviando il proiettile di Alì Agca, ma non si è mai chiesto il motivo per cui la madonna, visto che si era già impegnata, non abbia dato un’altra deviatina in modo che il proiettile non lo colpisse. Il drammatico episodio ha un finale comico: il “sacro” proiettile deviato è stato incastrato nella corona della statua della madonna di Fatima e portato anch’esso in processione. L’idolatria di un proiettile! Sino a pochi anni fa al 1° gennaio si festeggiava la Sacratissima circoncisione di Nostro Signore; me lo ricordo bene, perché da piccolo mi ero sempre chiesto, senza però farmene un problema, cosa fosse la “circoncisione”. In tempi recenti, il Vaticano deve essersi reso conto della sconvenienza di festeggiare un atto così insignificante e, zitto, ha dedicato il 1° gennaio alla Madre di Dio (c’è sempre una madonna disponibile). Il sacro episodio ha una coda di non poco conto: presso il convento delle Orsoline di Charroux, in Francia, probabilmente in una boccia con della formalina, è conservato e, naturalmente, venerato il prepuzio di Gesù bambino. Il fatto potrebbe anche essere considerato serio ma si scade nel ridicolo quando almeno altri cinque o sei santuari e chiese varie rivendicano di possedere il “sacro prepuzio”. Gesù con tanti piselli: un altro segno della potenza divina.
Questa forma d’ancestrale feticismo, che fa retrogradare l’uomo di millenni, è abbastanza sviluppata, perché di “sacre” reliquie sparse per il mondo ve ne sono parecchie. Nella cattedrale di Treviri, in Germania, si venera la tunica che indossava Gesù lungo la via crucis. In un museo di Vienna c’è la “lancia del destino”, con la quale il soldataccio romano infilzò Cristo crocifisso (ma risale all’VIII secolo). Sulla “sacra sindone” (sindone era il lenzuolo di lino in cui gli antichi ebrei avvolgevano i morti), pochi sanno che verso il XV secolo c’erano in giro diverse sindoni e di ognuna si rivendicava l’autenticità dell’avvolgimento del corpo di Gesù. Oltretutto l’uomo della “sacra sindone”, quella sabaudotorinese, è alto sui 175 cm, misura abnorme per i tempi e i luoghi evangelici. In fatto di tanatofilia, cioè feticismo cadaverico, in molte occasioni i fedeli superano la Chiesa. Uno di questi casi vede protagonista il re se Luigi IX e ne accenno la storia. Nel XII secolo il vescovo di Parigi decide di costruire la cattedrale, Notre Dame, sopra una basilica del VI secolo, costruita a sua volta sopra una chiesa del IV secolo, costruita a sua volta – come accadeva spesso – sopra un tempio pagano dedicato a Giove. Notre Dame fu costruita con i soldi chiesti dal vescovo al re, ai nobili e persino ai poveri. Dopo circa un secolo, vicino Notre Dame, Luigi IX fa costruire tra il 1242 e il 1248 la Sainte Chapelle, che non è una chiesa ma un reliquiario in stile gotico, ancora oggi tra gli edifici più visitati dai turisti, con delle vetrate da lasciare senza fiato. La Sainte Chapelle doveva contenere la Corona di Spine che aveva cinto il capo di Gesù e che Luigi IX aveva acquistato per una cifra pari a tre volte la costruzione della stessa Sainte Chapelle da quel navigato furbacchione che doveva essere l’imperatore di Costantinopoli Baldovino II. Per questa operazione e per la sua religiosità Luigi IX è fatto santo. Alla Corona di Spine sono aggiunti un Sacro Chiodo e un frammento della Sacra Croce. Morto Luigi IX, ai tre reperti sono aggregati anche una tunica, un frammento di mandibola e una costola di Luigi IX. Tutto questo funereo armamentario oggi è religiosamente conservato in Notre Dame ed esposto al pubblico solo una volta l’anno, durante la processione del venerdì santo, nonostante la Chiesa non abbia mai riconosciuto ufficialmente la Corona di Spine. Tra le più gettonate reliquie sacre, che trasformano il credo cristiano in pura tanatofilia, vi sono i capelli della madonna, sparsi per il mondo. Ricordo che da giovanetto, nel giorno del Corpus Domini, a Messina andavo alla processione del vascelluzzo, un modello di vascello lungo più o meno un metro, contenente alcuni capelli della madonna, capelli con i quali la madonna aveva legato la lettera data ai messinesi. Chi giunge a Messina col ferry-boat, vedrà all’ingresso
del porto una gigantesca colonna con sopra la statua della madonna e un’enorme scritta alla base che riporta la frase che la madonna avrebbe rivolto ai messinesi: “Vos et ipsam civitatem benedicimus” (Benediciamo voi e la vostra città), traduzione latina dall’ebraico, lingua con la quale la madonna scrisse la lettera. Ecco i retroscena. Quando san Paolo fu portato dal Medio Oriente a Roma per scontare la sua pena, si fermò a Messina nel 41 (Paolo giunse a Reggio Calabria, come da At 28,13, e probabilmente anche a Messina, ma l’anno, riportato dalla tradizione messinese è sbagliato, perché si trattava del viaggio della prigionia che l’avrebbe condotto a Roma tra il 60 e il 61) e parlò ai messinesi del sacro evento accaduto in Palestina. I messinesi restarono affascinati e decisero di mandare una loro legazione dalla madonna, a Gerusalemme, con una lettera con la quale chiedevano protezione. Maria, che – se era viva verso il 42-43 (ma il periodo, come detto, è errato) – aveva oltre 60 anni, li accolse e scrisse una lettera indirizzata ai messinesi con la quale assicurava eterna protezione, lettera che chiuse con dei capelli, perché a quel tempo non c’era ancora lo scotch, e che terminava con la frase sopra richiamata. La favola della lettera continua: alla fine la madonna scrive, sempre in ebraico, anche la data: “Da Gerusalemme l’anno 42 di Nostro Figlio”, anticipando di diversi secoli il calendario attuale! La scena è raffigurata, con statue dorate, nel campanile del duomo di Messina, dove si può ammirare che la madonna non è una vecchietta ultrasessantenne ma una gradevole giovane signora. Si narra che la nave con la legazione messinese abbia fatto ritorno in città l’8 settembre del 42. È il caso di non infierire oltre, ad esempio chiedendoci se Maria, analfabeta, avesse imparato a leggere e scrivere, se conoscesse l’ebraico, oltre all’aramaico, e se, poco modestamente, già adottasse il pluralis maiestatis. C’è poi l’interrogativo: la madonna abitava ancora a Gerusalemme, dopo la morte di Gesù? Pare di no, si era sistemata a Efeso (in Turchia, l’attuale Selçuk, presso Smirne) al seguito di Giovanni il Sacerdote – come aveva comandato Gesù in punto di morte (Gv 19,27) – e, per gli allegri pellegrini, sulla collina di Bülbül Dag c’è ancora la sua casa. Il 28 dicembre 1908, giorno del terribile terremoto di Messina, con 90.000 morti, evidentemente la madonna protettrice era distratta… Fatto sta che la Madonna della Lettera è la patrona della città, si festeggia il 3 giugno e molti messinesi si chiamano Letteria e Letterio (diminutivo: Lilla e Lillo).
III-11 Pietro e Paolo
I comandamenti presi da Mosè sul Sinai saranno acquisiti dalla nomenclatura cristiana e, conseguentemente, la morale cristiana non è che la morale della tribù di Mosè. È l’ennesimo esempio di scopiazzatura, diciamo di “interdisciplinarietà religiosa”: gli ebrei copiarono dalle religioni mediorientali, i cristiani copiarono dagli ebrei e da quanto stava loro intorno. Ciò è comprensibile in quanto Gesù non intendeva per niente fondare una religione: lui predicava la prossima fine del mondo, non aveva istituito sacramenti e si era adeguato al culto ebraico, come gli apostoli.
Fu Paolo, gran businessman ed esperto in marketing, che predicò e organizzò una nuova religione – pur non avendo conosciuto personalmente Gesù – che consisteva nel credere nel ritorno di Gesù e nel prepararsi a una buona morte. Poi il business religioso si ampliò e dalla povertà della capanna di Betlemme si è giunti alla tracotante imponenza della basilica di san Pietro. Cristo c’entra poco col cristianesimo, il quale avrebbe dovuto chiamarsi paolianesimo. Prive di una liturgia e di orpelli speculativi per attrarre le anime pie, orfane del fondatore che pensava ad altro, le prime nomenclature cristiane si misero a saccheggiare le altre religioni. I cristiani finiranno, come gli ebrei, a litigare tra loro e a dividersi, come faranno i musulmani, i buddisti e i seguaci delle varie religioni: perché alla base di un credo religioso – per mezzo del quale il credente pretende di instaurare una linea diretta col proprio dio – non può non esserci l’intolleranza e la convinzione di agire con giustizia, anche ammazzando il prossimo, se necessario, avendo un dio alle spalle.
Saul Paulus, noto come Paolo, nacque a Tarso (oggi Tarsus, in Turchia presso il confine siriano) e aveva cittadinanza romana per via del ricco padre. Fu mandato a studiare a Gerusalemme; era di carattere complesso, isterico, soggetto a depressione con tratti paranoici e salute malferma, attratto dall’occultismo e dal misticismo. Da adulto si mise a fabbricare e vendere tende per i nomadi. Presentato come ebreo fanatico, persecutore dei cristiani, per rendere più spumeggiante la sua conversione, partecipò alla lapidazione di Stefano, fatto poi
santo (30-31). Quasi certamente l’anno dopo la crocifissione di Gesù, lungo la via di Damasco, nel deserto e sotto il sole di mezzogiorno, ebbe un attacco epilettico o insolazione che gli creò una crisi psichica. Oggi i casi di Saulo sono curati con psicofarmaci, ma a quel tempo erano tirate in ballo le divine visioni… e di questa, ne abbiamo tre versioni: nella prima (At 9,7), le persone che sono con lui sentono la voce di Gesù ma non lo vedono; nella seconda (At 22,9), le persone vedono la luce ma non sentono nulla; nella terza (At 26,14) Gesù gli fa il famoso discorsetto (“Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?… Ma ora alzati e sta’ in piedi [Su, alzati e rimettiti in piedi]”).
ato dalla parte dei cristiani, raggiunse Antiochia con l’amico e cugino Barnaba e vi si stabilì per 14 anni. Ad Antiochia (l’attuale Antakya, 500 km da Gerusalemme, in territorio turco blandamente contestato dalla Siria), una delle più grandi metropoli del tempo, capitale della Siria e sede di legioni romane, i cristiani assoldavano nelle loro file anche pagani non circoncisi, quando i cristiani di Gerusalemme pretendevano la circoncisione. Questa semplificazione procedurale fu intesa da Paolo come una “chiamata” di dio, che lo renderà ancora più egocentrico e arrogante e lo avvierà all’apostolato tra i “gentili”, i cristiani di origine ellenica e non ebraica. Inizialmente vi fu una secca controversia tra ellenisti di Antiochia e conservatori di Gerusalemme, questi capitanati da Pietro e Giacomo, come s’intuisce dal NT (Atti, 1 e 2 Corinti, Galati), con tanto d’incontro ad Antiochia tra Paolo e Pietro, su mandato di Giacomo. Ad esempio, per il gruppo di Gerusalemme la dispensa della circoncisione dei nuovi adepti cristiani, praticata dal gruppo di Antiochia, era un’inquietante novità. Gli strascichi di questa lotta per il potere emergono nel vangelo di Matteo, che è un giudeo neo cristiano conservatore e che definisce i paolini cani e porci (Mt 7,6) (il vangelo di Matteo è scritto oltre dieci anni dopo la morte di Paolo). Lo scontro tra Paolo e Pietro sui divieti alimentari è riportato da Paolo in Gal 2,11. Paolo derise la comunità di Gerusalemme, ingiuriando Pietro “cane”, “storpio”, ma anche lui era zoppo, malaticcio e aveva un brutto carattere; durante un viaggio, litigò con Barnaba e si separarono, lui andò a Sila e il cugino a Cipro (At 15,39). Il gruppo di Gerusalemme accusava, a sua volta, Paolo di avidità e di brogli finanziari. Un teologo tedesco scrisse: “Tutti gli aspetti più belli del cristianesimo sono riconducibili a Gesù, quelli più negativi a Paolo”. Le lotte tra le due comunità primitive, di Gerusalemme e di Antiochia, saranno
alquanto edulcorate da parte della Chiesa, che accomunerà Paolo e Pietro a colpi di miracoli e visioni celestiali, battezzandoli principi degli apostoli e cercando di banalizzare un conflitto rovinoso tra le due fazioni. Il richiamato compromesso avvenuto, secondo gli Atti degli apostoli, verso la metà del I secolo tra il gruppo di Paolo e gli “anziani” di Gerusalemme è un’invenzione e la stessa storia ecclesiastica dei primi secoli fa scarsi riferimenti. Ai “gentili” convertiti non si fa obbligo della circoncisione, ma si vieta di mangiare carni di animali non dissanguati e la “fornicazione”, che consisteva nell’usanza giudaica delle unioni miste (At 15,20). In pratica, nelle comunità giudeo-cristiane, la circoncisione andrà ancora avanti per secoli. Sino a metà del XVII secolo, la Chiesa considerava su piani diversi Paolo e Pietro, anzi Innocenzo X considerava eresia metterli sullo stesso piano, poi, con la solita nonchalance, la Chiesa accomunò i due, addirittura festeggiandoli insieme il 29 giugno. Paolo non considerava Gesù né divino né componente della trinità ma, rifacendosi all’occultismo rabbinico che gli avevano insegnato da giovane, lo considerava un secondo Adamo. Per Paolo il Gesù di carne diviene Cristo spirituale solo dopo avere lasciato il corpo e considera l’opera di Gesù, più che una premonizione, una sorta di sacrificio redentorio. Forse Paolo, morto probabilmente a Roma tra il 64 e il 67, più che fondare una nuova religione, voleva allargare ai “gentili” il messaggio d’Israele. Fu il primo ebreo che decise di operare oltre i limiti nazionali: la promessa del “nuovo mondo” non doveva essere limitata a Israele ma doveva abbracciare l’umanità tutta. Iniziò la sua opera divulgativa verso il 33-35 e durò circa 25 anni, suddivisa in due grandi peripli durati 14 anni, il primo, e 11 anni, il secondo. Paolo non conobbe Gesù, né fu suo discepolo e lo menziona raramente; qualche studioso ha individuato nel NT due religioni, quella di Gesù e quella di Paolo. Con Paolo iniziò la trasformazione del primitivo cristianesimo escatologico (l’attesa dell’imminente fine del mondo) a quello sacramentale (i riti per raggiungere la grazia). Paolo legò l’ebraismo all’ellenismo e avviò la creazione del dio uno e trino. È stato l’elemento fondante del cristianesimo, ma, leggendo i vangeli, la legge dell’amore l’ha enunciata Gesù e non Paolo. Infatti, Paolo predicò l’odio per il corpo, per le donne, in generale per la vita; dal suo credo la Chiesa ha tratto, ahinoi, quella negazione all’edonismo che ancora oggi martirizza i credenti e, di riflesso, i non credenti che vivono in un ambiente “cristianizzato”. La denigrazione del corpo, la glorificazione della castità e la repulsione della sessualità, l’adorazione del celibato, l’elogio dell’astinenza, il compiacimento per la sofferenza e il piacere per l’umiliazione: tutte forme
masochistiche acquisite dalla Chiesa e ribaltate sul popolo dei poveri fedeli. Paolo fornisce alla Chiesa la chiave per svilupparsi e raggiungere il potere: odia la cultura (non si rivolge a intellettuali e letterati ma alla gente comune, esaltando l’ignoranza), predica l’obbedienza all’imperatore e ai potenti funzionari perché ogni potere è fornito da dio e disobbedire al potere significa disobbedire a dio. L’elogio della schiavitù e l’asservimento all’autorità, pagando regolarmente le tasse, fanno della Chiesa il partner ideale con lo Stato, specie se autoritario. Contrariamente ai precetti ecclesiastici, il regno dei cristiani …è di questo mondo e per l’aldilà c’è sempre tempo. La Chiesa prese come riferimento Paolo che proclamò la fede in Gesù (ma non lesse i vangeli perché morì prima che fossero scritti) e mise in secondo ordine la predicazione dell’amore di Gesù, il quale non si sognò mai di far dipendere la remissione dei peccati dalla sua morte né questo concetto assume importanza nei vangeli sinottici. I discepoli degli apostoli addirittura negavano la divinità di Gesù. Non è chiaro da dove Paolo trasse la dottrina della salvazione, anche perché rimane l’interrogativo: come mai non furono salvate le persone nate nei millenni prima e i cinesi, ai quali la “buona novella” fu comunicata un millennio dopo, nel XIII secolo? In realtà, mentre Gesù mostrava ottimismo nell’uomo e nella sua moralità, dopo Paolo la Chiesa instillerà il concetto dell’uomo negativo, peccatore, necessario di redenzione. Agostino, il santo, dipingerà la dottrina del peccato originale e la Chiesa, che doveva dare una spiegazione sul fatto che Gesù non n’avesse mai parlato, tirò fuori dal cappello il coniglio: non n’aveva mai parlato perché i suoi discepoli non potevano capire il significato del mistero. Come mai dopo qualche anno ne parlò Paolo? Mistero anche questo. Nell’ambiente dei Romani, sino al III-IV secolo d. C., è stato il mazdeismo la religione che contrastò il cristianesimo e l’area dove oggi c’è il Vaticano era stata consacrata a Mitra. Introdotto a Roma verso il 70 d. C. da pescatori della Cilicia, la cui capitale era Tarso, città natale di Paolo, il mazdeismo fu soppresso dai cristiani e Gesù prese il posto di Mitra. Dall’analisi degli scritti di Paolo e di Luca, si evince che ciò che predicava Paolo era diverso da ciò che Gesù aveva insegnato. Paolo sostiene di avere studiato il giudaismo (At 22,3; 26,5), ma cosa lo ha fatto diventare eretico del giudaismo? Non certo la semplicistica “folgorazione” sulla via di Damasco. In realtà, al di là della speculazione della Chiesa, Paolo tenne scarso conto degli insegnamenti di Gesù, lo presentò come spirito divino, andato via da questo
mondo per prepararne uno nell’aldilà, trasformando le prediche di Gesù in una religione misterica. Insomma, tra tutta una giungla di varianti e di contraddizioni, pare certo che nella fede protocristiana fossero presenti il credo dell’imminente fine del mondo e l’inizio del potere divino sulla terra; col tempo, digerito l’errore revisionale di Gesù, la Chiesa ha rimandato all’aldilà quello che i protocristiani attendevano aldiquà. Paolo, che per un certo periodo pare sia stato anche un nazireo, come il Battista, spesso non aveva le idee chiare; nella lettera ai Galati predica (Gal 6,2): “Portate i pesi gli uni degli altri”, ma subito dopo sentenzia (Gal 6,5): “Ciascuno infatti porterà il proprio fardello”. La solita tradizione cattolica, pur non avendo alcuna prova, afferma testardamente che Pietro e Paolo furono martirizzati durante la persecuzione di Nerone dopo l’incendio di Roma del 64. Tutte le cosiddette “testimonianze” della morte di Paolo e Pietro a Roma stanno in un’unica gratuita frase scritta da Clemente Romano tra il 92 e il 101 (cioè dopo vari decenni) nella “Epistola ai Corinzi, 5,4 “: “Pietro e Paolo hanno finito la vita col martirio”. Tutto qui! Della presenza di Pietro a Roma non v’è alcuna traccia né Paolo fa alcun riferimento, pur trovandosi a Roma; non si hanno testimonianze, né che sia mai stato a Roma né che sia stato il primo vescovo di Roma. Paolo nella sua “Lettera ai Romani”, scritta a Corinto, conclude salutando tutti i conoscenti; riporta i nomi di 34 di loro (Rom 16, 1 e segg.) e non nomina nessun Pietro; si pensa che la lista comprenda dei cristiani ritornati a Roma dopo essere stati espulsi dall’imperatore Claudio. Come appena richiamato, le “prove” che Pietro sia stato martirizzato tra il 64 e il 67 sotto Nerone è l’affermazione di Clemente Romano, poi ripresa e riportata a pappagallo da personaggi che appaiono dalla nebbia del tempo come Origene, Eusebio di Cesarea, Dionigi di Corinto, che non portano alcuna prova storica e che raccolgono solo leggende, come quella dell’incarcerazione di Pietro nel 42 da Erode Agrippa e liberato da un angelo! A parte lo sfondo apologetico, è probabile che Pietro sia scappato dal carcere, senza mettere di mezzo qualche angelo. La prova che Pietro, pescatore analfabeta, si sia messo a scrivere lettere addirittura in greco è dovuta allo spirito santo che durante la festa giudaica di Pentecoste scese sugli apostoli e diede loro il dono di parlare in diverse lingue (glossolalia). Pietro, il cui vero nome è Simone Barjona, come riportato in precedenza, è probabile fosse un ribelle zelota di Gerusalemme condannato a morte dai Romani verso gli anni 40.
La Chiesa romana, in realtà, fu fondata da persone sconosciute e nessuno dei suoi membri attesta la presenza di Pietro, benché nel II secolo raggiungeranno la bella cifra di circa 30.000 adepti. Il vescovo di Roma, inoltre, non aveva nulla di “superiore” ed era equiparato a quelli di Antiochia, Alessandria, Gerusalemme e Costantinopoli. Il presunto ritrovamento a Roma, addirittura sotto la basilica di san Pietro, della tomba di Pietro rasenta il grottesco. Vicino ai giardini di Nerone del Vaticano, dove Nerone aveva iniziato a giustiziare (ma non a martirizzare, vedi il paragrafo IV-5 “Quali martiri?”, cap. IV) i cristiani, c’era una necropoli pagana del I secolo ma alcuni scavi, del III e IV secolo, hanno dimostrato che occasionalmente vi furono sepolti anche dei cristiani. Le parti materiali della tomba di Pietro non sono state trovate – si legge da documenti vaticani – ma da alcuni indizi è stata dedotta la sua esistenza. Cioè la logica dell’archeologia del Vaticano è questa: sono stati trovati dei reperti che non c’entrano niente con la tomba di Pietro e ciò dimostra che lì doveva esserci tale tomba.
Cap. IV I PRIMI I DEL CRISTIANESIMO
IV-1 Il preludio Il presunto atto costitutivo della Chiesa è il o detto da Gesù a Pietro, quando si trovano dalle parti di Cesarea di Filippo (Mt 16,18): “Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa”. Appare strano che una frase così importante sia riportata solo dal vangelo di Matteo, soprattutto se si tiene presente che l’episodio di Cesarea di Filippo è riportato anche da Marco (Mc 8,29) e Luca (Lc 9,18). In realtà Gesù non pronunciò mai questa frase per almeno quattro motivi: 1) Gesù proclamava l’imminente fine del mondo e non poteva pensare a una futura organizzazione e non preannunciò mai l’avvento della Chiesa; 2) Matteo scopiazzò Marco (Mc 9,27-31), arricchendo il contenuto e inserendo la suddetta frase (Mt 16,13-21); 3) L’allitterazione Pietro-pietra – in aramaico Pietro si dice Kepha e significa anche roccia – non rientra nello stile verbale di Gesù; 4) Il termine “chiesa”, nonostante la funzione essenziale assunta dall’apparato ecclesiastico in seguito, è assente nei vangeli di Marco, Luca e Giovanni e in molti testi neotestamentari. Infine, Gesù non avrebbe mai potuto parlare di un apparato politicizzato e gerarchizzato, controllato giuridicamente e culturalmente, basato sul Potere, qual è la Chiesa d’oggi. Per quanto possa sembrare paradossale, Gesù non solo non ha mai pensato di fondare il cristianesimo ma lui stesso non è stato cristiano. Nelle sole due volte in cui Gesù parla di “chiesa”, intende riferirsi alla “comunità dei credenti”, che è il significato arcaico del termine ecclesia, e non a un’istituzione mostruosamente burocratizzata come quella vaticanea. Già le prime comunità cristiane del II secolo avevano sviluppato una teologia tesa a celare i veri discorsi di Gesù e a deificare il suo personaggio, togliendo il più possibile la sua natura umana: Gesù non ha mai dichiarato di essere figlio di dio. Dagli Atti degli apostoli si apprende che Gesù risorto stette quaranta giorni, per poi ascendere in cielo definitivamente. Cosa fecero poi i discepoli? Era povera gente e doveva tirare a campare o erano ribelli zeloti oppure l’uno e l’altro? Se ne stettero a Gerusalemme. Quanti erano? Secondo gli Atti (At 1,15) erano 120; vivevano dell’attesa della parusia, il ritorno di Cristo in terra e la prossima venuta del regno di dio. I primi cristiani non avevano alcuna idea in merito a una
futura “Chiesa” e si limitavano ad attendere la fine del mondo, unico dogma dei vangeli unitamente alla messianità di Gesù. Il battesimo era il solenne atto rituale dell’aggregazione alla pattuglia. La scomparsa di Gesù aveva lasciato uno strascico di rancore e diffidenza tra i suoi seguaci e i suoi carnefici, tra chi lo aveva acclamato e chi lo aveva colpito. I seguaci non potevano astenersi dal rimproverare i poteri religiosi giudaici e questi, d’altra parte, non potevano non guardare con sospetto e fastidio un movimento scaturito da un oscuro esaltato che voleva usurpare la corona d’Israele. Intanto un certo numero di ebrei d’origine greca, o meglio provenienti da paesi di civiltà greca, e che pare avessero sinagoghe separate (At 6,9), frequentavano la comunità cristiana e accettavano la “buona novella”, i già richiamati “gentili”. I primi credenti mettevano tutto in comune e (At 2,45) “vendevano le loro proprietà e sostanze e dividevano con tutti [chi aveva proprietà e sostanze le vendeva e ne faceva parte a tutti], secondo il bisogno di ciascuno”. Siamo in vero e proprio clima proto-comunista (At 4,32): “fra loro tutto era comune [ogni cosa era fra loro comune]”. Il levìta cipriota Barnaba vende il campo e consegna l’importo alla comunità (At 4,36). Della Chiesa se ne parla la prima volta negli Atti (At 5,1 e segg.) a proposito dell’edificante episodio dei coniugi Anania e Saffica. I due vendono un podere ma, contrariamente agli accordi, non danno tutto il ricavato agli apostoli e se ne tengono una parte. Siccome in mezzo agli apostoli c’è anche lo spirito santo – così commenta la Bibbia – Pietro viene a sapere della mancanza, ne parla ai due che, a distanza di tre ore, cadono per terra morti stecchiti, per cui (At 5,11) “…un grande timore si diffuse in tutta la Chiesa…”. Non si sa se l’autore del presunto duplice delitto sia stato Pietro o lo spirito santo, ma è certo una prima lezione per coloro che, sotto l’influsso di (At 5,3) “satana”, tenteranno di ostacolare l’arricchimento dei primi padri della Chiesa. Alla scomparsa di Gesù, quindi, i suoi seguaci rappresentavano una setta giudaica più che una nuova collettività religiosa ed erano divisi in due fazioni: i giudei neo cristiani, conservatori e pilotati dai dodici apostoli, e i nuovi adepti di cultura greca, capitanati da sette esponenti, tra cui Stefano (At 6,5), lapidato (At 7,55 e segg.) con l’approvazione di Paolo (At 8,1) non ancora convertito. In realtà, occorre sempre dare un’interpretazione di ciò che si legge scevra dagli orpelli apologetici: Stefano, poi santificato, fu linciato dalla furia popolare e il martirio appare come la solita esagerazione. È significativo come la Chiesa tenti di mascherare i contrasti tra le due fazioni. Nell’edizione 1988 della Bibbia si leggeva (At 6,1) “sorse malcontento tra gli ellenisti verso gli Ebrei”, mentre
nell’edizione 2008 è riportato “quelli di lingua greca mormorarono contro quelli di lingua ebraica”. Dopo la morte di Gesù, Pietro e Giacomo, i due caporioni dei cristiani di Gerusalemme, furono portati due volte davanti al sinedrio, e la seconda volta assieme agli altri apostoli, e furono diffidati perché la pattuglia cristiana insisteva sulle responsabilità della morte di Gesù; la terza volta ci fu il linciaggio. Anche Paolo, di aggio a Gerusalemme attorno al 58, dopo la conversione, si sottrasse a stento al furore popolare. Giacomo, il fratello di Gesù, fu lapidato e ucciso verso il 62 probabilmente a seguito di tumulti e non per condanna, così come anni prima Giovanni di Zebedeo era stato ucciso di spada. Queste informazioni si ricavano da una lettura degli Atti degli apostoli, depurata dai laccioli celebrativi ed encomiastici. A quel tempo Erode Agrippa, chiamato dall’imperatore Claudio a governare la Giudea, aveva adottato una politica strettamente osservante della legge giudaica, per conciliare la sua dinastia idumea al favore dei giudei. Il disegno di Erode Agrippa salterà a causa degli estremisti zeloti e della loro azione anti-romana, che creerà una condizione instabile e preluderà l’intervento dei Romani del 70 con la distruzione di Gerusalemme. Tre anni prima dell’evento, i pochi cristiani, assieme a dei giudei non cristiani, lasceranno Gerusalemme per stabilirsi a Pella, città ellenista della Decapoli. Con l’arrivo dei Romani a Gerusalemme, fu vietato l’ingresso in città a tutti gli ebrei e il gruppo dei giudei neo cristiani conservatori si trasferì in Siria e a est del Giordano. Un gruppuscolo rimase a Gerusalemme sino al 135, tra varie difficoltà, suddividendosi in sette, ebioniti e nazareni. Questo cristianesimo giudaico sopravvisse sino al IV secolo e fu addirittura dichiarato eretico dagli ellenisti e fu deriso da san Gerolamo. Gli ellenisti, invece, acquisirono potenza nel mondo greco-romano e Paolo ne assumerà la guida. I giudei neo cristiani attendevano il regno di dio mentre Paolo annunciava (At 3,20) che quel regno era già sorto con la morte e resurrezione di Gesù. A Paolo, in sostanza, quello che interessava di Gesù era la sua morte (Fil 3,13): “…dimenticando ciò che mi sta alle spalle e proteso verso ciò che mi sta di fronte [dimentico del ato e proteso verso il futuro], corro verso la mèta…”. Paolo parlava della beatitudine con espressioni tipicamente ellenistiche e nei suoi scritti si ritrovano formule pagane e della filosofia greca. A Tarso, città natale di Paolo, da tempo c’era il culto di Mitra, che ha incredibili punti comuni col rituale cristiano.
Gli ellenisti paolini del gruppo d’Antiochia si diffonderanno in Fenicia, Antiochia, Cipro e saranno coloro che daranno vita alla prima fase di sviluppo del cristianesimo, mentre gli apostoli se ne staranno a Gerusalemme. L’enfatica e pomposa storiografia ufficiale riporta che gli apostoli, a parte Giuda Iscariota, andarono per i quattro orizzonti del mondo a portare la buona novella e furono tutti martirizzati, ad eccezione di Matteo e Simone il cananeo. Dei documenti scritti dai padri della Chiesa descrivono Giacomo come primo “vescovo” di Gerusalemme, ma si tratta di un falso; Giacomo guidò la comunità per una ventina d’anni e poi scomparve verso il 62, come richiamato. Quindi, appena alla luce, la comunità dei primi cristiani si suddivise: la comunità di Gerusalemme, guidata da Pietro, che considerava il cristianesimo un movimento all’interno della sfera ebraica, e la comunità di Antiochia, guidata da Paolo, che era di apertura a chiunque, compreso i non circoncisi. I componenti di questa comunità – si stima fossero circa tremila – erano, infatti, chiamati “gentili”, dall’ebraico goym, non ebreo. Vincerà Paolo. La svolta epocale che coinvolge la comunità che faceva capo a Gesù, o a chi per lui, avvenne intorno l’anno 50, quando il movimento politico che aveva come obiettivo una riforma dell’apparato ebraico si trasformò in religione via via più autonoma; ciò accadde ad Antiochia e vede come protagonista proprio Paolo di Tarso. Come si svilupparono i fatti non lo sapremo mai; è probabile che Paolo sia stato influenzato dallo gnosticismo, seguito da taluni cristiani primitivi, che ritenevano Gesù un essere spirituale, sceso in terra solo in apparenza con forma umana per farsi impalare. Lo gnosticismo fu considerato eretico dalla Chiesa, che considerava Gesù persona in carne e ossa anche se di natura divina, ma sopravvisse sino al VI secolo. È da rimarcare che gli scritti cristiani successivi a Paolo si sono rifatti alla credibilità di Paolo, senza eseguire alcuna ricerca e verifica, attività del resto fuori del comune a quei tempi di piena credulità. Anche Paolo, col are degli anni e con la morte di diversi cristiani, si rese conto che il regno di dio non sarebbe arrivato come l’aveva inteso Gesù e che, semmai, sarebbero stati i cristiani, dopo la morte, a ricongiungersi con Gesù. Da qui la deriva paolina che smette di parlare dell’avvento e inizia a introdurre l’aldilà e l’immortalità della persona, concetti certamente derivati dall’ambiente pagano in cui viveva. La comunità primitiva dei conservatori intravide in Gesù il messia atteso, mentre gli ellenisti trasformarono il messia in figlio di dio. Siamo agli albori del cristianesimo e inizierà la contaminazione dalle religioni misteriche e dalla religione mitraica che, ricordiamo, proprio a Tarso, la città di
Paolo, aveva un importante santuario. A trent’anni dalla morte di Gesù, il movimento cristiano si stava sviluppando reclutando i rinnegati del giudaismo e i fuggiaschi dell’ellenismo. Non è possibile ipotizzare come crebbe il movimento, giacché a Paolo bastava costruire una comunità con una decina di persone per considerare evangelizzato un paese. Nel IV secolo, anche i padri della Chiesa, che nell’attesa già avevano avviato un buon business, cominciarono ad avere dei dubbi, anzi, visto come si erano messe le cose, non ci pensavano per niente al regno di Dio al punto che Cirillo scrisse “Possa ciò non adempiersi mai ai nostri giorni! Spaventosa è infatti la discesa del Signore!”. Parallelamente all’avvento del regno di Dio, sorse tra le masse cristiane più povere il chiliasmo, in pratica l’idea di una sorta di reame millenario e paradisiaco di tipo comunistico (Apocalisse, cap. 20), idea che era scomoda per la Chiesa, che si avviava a coprire grosse fette di potere “temporale”. Le castagne dal fuoco le tolse il genio di Agostino, il quale disse più o meno: “Amici, anzi compagni, non avete capito niente! Restate poveri e lavorate perché il regno di Dio e dei cieli non è altro che la Chiesa, che è già giunta a noi!”. D’allora la Chiesa abbandonò l’atteggiamento negativo nei confronti del mondo e divenne un potere a sostegno dello Stato, qualunque esso fosse, e finirà per farsene uno lei da sola: Stato Città del Vaticano (in precedenza si era già creata lo Stato Pontificio dell’Italia centrale), con l’appoggio della Santa Sede (vedi il paragrafo VI-6 “La possente organizzazione vaticanea per rastrellare denaro”, cap. VI). Perché il cristianesimo si sviluppò? Anzitutto per l’aggancio della figura mitica di Gesù con la consolidata tradizione storica biblica, quando le altre deità pagane erano a dir poco stravaganti; in secondo luogo, il messaggio evangelico che, per quanto manomesso nel tempo, auspicava una coesistenza più umana, più conviviale (almeno, nei primi tempi). Inoltre, la sopranazionalità dei fedeli, uniti nel regno di Dio e non nel regno dell’Impero; importante anche il momento storico, che è la fase terminale dell’impero romano, quando sono consumate immense risorse per fronteggiare gli invasori barbari.
Dal culto di Mitra al culto del Signore Zarathustra (dall’antico persiano, “possessore di cammelli”), noto ai Greci come Zoroastro, è il mitico riformatore del mazdeismo, o zoroastrismo, le cui origini si fanno risalire, molto probabilmente, tra il 570 e il 500 a. C. Questa religione, nata in Persia e sviluppatasi nel Medio Oriente, ebbe notevole diffusione in vaste aree dell’Impero Romano (compreso Spagna, Gallia, Britannia) sino al V secolo d. C.; a partire dal IV secolo i suoi fedeli furono perseguitati dai cristiani col saccheggio dei templi e l’assassinio dei sacerdoti. In Persia il mazdeismo fu sostituito dall’islamismo e scomparve verso il 1000 d. C. Ancora oggi la religione è osservata dalla comunità indiana dei Parsi. Secondo il mazdeismo, religione che rientra nella grande sfera dello gnosticismo, al principio del bene Ahura Mazda si oppone la divinità del male Angra Mainyu e ogni individuo è libero di scegliere o il bene, e sarà premiato, o il male, e sarà castigato. Essendo spirito puro, Ahura Mazda non poteva creare il mondo materiale e quindi generò un figlio, Mitra, che combatté, sconfisse gli angeli del male e creò il cosmo. Quindi, su ordine del padre, Mitra scese sulla terra per insegnare agli uomini il bene con la funzione d’intermediazione tra dio e gli uomini. Il culto di Mitra è descritto nell’Avesta, opera composta da una serie di libri della rivelazione divina, giunta a noi solo in frammenti e ricomposta verso il III-IV secolo d. C. dai sacerdoti mazdeisti. Da questa religione, il cristianesimo ha assorbito a piene mani, al punto che Gesù può sembrare un alter ego di Mitra, nella sua funzione di salvatore dell’umanità. Il culto di Mitra, ma anche altri culti, consacrava il primo giorno della settimana al dio Sole (dies solis) e Costantino trasformò questo giorno nella domenica festiva come “giorno del Signore” (dies dominica). A partire dal IV secolo, i cristiani saccheggiarono il giorno della nascita di Mitra (dies natalis Solis), il 24 dicembre, fissando il 25 dicembre come giorno della nascita di Gesù, che in precedenza era stato fissato il 19 aprile, poi il 20 maggio, poi il 17 novembre. In realtà la nascita di Gesù non era stata considerata una solennità ecclesiastica dai primi cristiani e gli stessi vangeli non ne parlano, tranne quello di Luca, che rielabora una tradizione pagana. Il culto di Mitra riconosceva sette sacramenti – tra cui battesimo, cresima e comunione – e il giudizio universale, l’anima immortale e la resurrezione della carne; tutti princìpi che si sono evoluti parallelamente nel credo cristiano. Il
sacramento della comunione con dio avveniva col pane e il vino. I riti mitraici prevedevano la preghiera con la congiunzione delle mani, la genuflessione, l’aspersorio con l’incenso, la messa quotidiana, la presentazione dell’ostia come simbolo solare, la tosatura a chierica sul capo dei sacerdoti e un particolare copricapo, già utilizzato dai faraoni egizi (infatti, quello dei vescovi cristiani si chiama “mitra”). La liturgia cristiana aveva assimilato molti riti pagani di Mitra o, almeno, c’erano evidenti similitudini, tra cui l’eucaristia. Giustino, vissuto nel II secolo, ebbe l’ardire d’invertire i fatti affermando che il diavolo era stato talmente astuto che aveva copiato l’eucaristia cristiana e l’aveva anticipata nel culto di Mitra con secoli d’anticipo. Ripeto: Giustino afferma che è stata la Chiesa a inventare l’eucaristia; il diavolo l’ha copiata, è volato all’indietro nel tempo (with the time machine) e l’ha portata nel mazdeismo secoli prima della nascita di Gesù! Forse per questa temeraria affermazione si è guadagnato la medaglia di “santo”.
IV-2 Contro gli ebrei, contro i pagani Prima di rivolgersi alla religione mitraica, i cristiani si appropriarono dell’AT, dandone una interpretatio christiana e avviarono, nei riguardi della religione dalla quale avevano tratto i princìpi fondamentali, duemila anni di ruberie, denigrazioni, calunnie e persecuzioni. Come se non bastasse, rileviamo anche un’azione assurda: fecero santi dei patrioti ebrei, i fratelli Maccabeo, che nel 167 a. C. avevano guidato la rivolta contro Antioco Epifanio, dopo che questo li aveva condannati a morte. Dopo secoli, le spoglie dei sette fratelli furono prelevate dalla sinagoga di Antiochia e portate a Roma, per essere venerate nella basilica di san Pietro in Vincoli. Il martirologio cristiano celebra i “santi Maccabei” il 1° agosto. Per qualche lettore che teme di non avere compreso: il cristianesimo ha nominato santi dei patrioti ebrei nati oltre un secolo e mezzo prima di Cristo. Paolo lancia improperi dai suoi scritti contro gli ebrei e sarebbe lunghissimo l’elenco, alcune frasi: “Il sangue da voi versato vi sommergerà”, “assassini e traditori”, “immondezza”. Già nella prima “Lettera ai Tessalonicesi” c’è un o aggiunto verso il 150 – nella versione riportata in precedenza da Marcione non c’era – che riporta l’annientamento degli ebrei perché “hanno ucciso Gesù e i profeti, si sono rivelati nemici del genere umano, ci hanno cacciato e hanno ostacolato la nostra predicazione: per questo la collera di Dio si è abbattuta su di loro”. Quasi tutti i padri della Chiesa lanciano strali contro gli ebrei, come Ignazio, Giustino, Tertulliano, Ippolito, tutti del II secolo, e poi Ippolito del III secolo, Efrem e Giovanni Crisostomo del IV secolo. Quest’ultimo definisce gli ebrei “peggiori dei maiali e dei caproni” e “più pericolosi dei lupi”, paragonando le sinagoghe a bordelli per via delle “donne lascive”. Girolamo, sempre del IV secolo, parla di “sinagoghe di satana” e di ebrei “ignoranti”, “malvagi”, “schiavi del diavolo”. Per Agostino, il santo, “Gli ebrei non sono il popolo di Dio ma discendono dagli egiziani lebbrosi”, “Gli ebrei non hanno intelletto, né cultura… insidiano le donne, simulano, mentono, odiano,…”, “Solo gli ebrei hanno crocefisso Gesù”. Col tempo, tra le file dei cristiani, inizialmente formate dalle masse sfruttate e da popolani incolti, si installano i benestanti dei ceti più colti e agiati e diviene sempre più profondo il distacco dei cristiani dalla religione madre, l’ebraismo. Dopo secoli d’improperi, a partire dal IV secolo il popolo ebraico diventa “perseguibile per i suoi crimini”, la religione ebraica non è più tollerata e se ne
scoraggia la diffusione. Con l’arrivo di Costantino e degli imperatori cristiani, iniziano le persecuzioni, il divieto agli ebrei a ricoprire incarichi pubblici e di sposarsi con cristiani. Doveva essere lo Stato a convertirsi al cristianesimo, invece sarà il cristianesimo a convertirsi allo Stato. Avviata la campagna antiebraica, e sempre con le orecchie ad ascoltare voci eretiche, i cristiani rivolgono l’attenzione contro i pagani, i cui culti erano paragonati a un assassinio o, peggio, alla fornicazione. I due maggiori critici pagani nei confronti dei cristiani furono i filosofi Celso e Porfirio. Celso, vissuto verso la fine del II secolo, forse di origine romana, conosceva bene l’ebraismo, molte scritture ebraiche e la commistione del cristianesimo col credo giudaico. Evidenziava che i cristiani provenivano da ceti bassi, erano ignoranti, credevano nei miracoli e la loro dottrina non aveva alcun fondamento scientifico. Gesù non aveva operato nulla di straordinario nella sua vita, che non fosse già stato svolto da personaggi della mitologia greca e ribadiva che a chi desiderava essere ingannato “si potrebbero fargli conoscere altri personaggi simili a Gesù”. Considerava il cristianesimo una religione barbara e superstiziosa e, da filosofo platonico, riteneva difficile che l’uomo trovasse il creatore dell’universo, perché la filosofia poteva solo dargli qualche nozione, ed era impossibile che tale creatore venisse reso noto a tutti, come affermavano i cristiani. Celso si chiedeva come mai questo dio fosse sceso sulla terra, lui che sapeva tutto? A porvi rimedio e non vi era riuscito? E perché con tale ritardo? Come poteva un corpo decomposto risuscitare e riacquistare l’aspetto primitivo? Ecco come, secondo la Chiesa, Celso lanciava calunnie abilmente contrabbandate come cronaca [brano di “Contro i Cristiani” riportato da Origene nel suo “Contro Celso”]: “La nascita di Gesù da una vergine è inventata. Lui è venuto fuori da un villaggio della Giudea ed è figlio di una povera contadina che filava per guadagnarsi da vivere. Fu ripudiata dal marito, un falegname, per essere stata riconosciuta rea di adulterio, errò poi alla ventura e, infine, mise al mondo segretamente Gesù che è figlio di un soldato di nome Pantera”. Porfirio, filosofo fenicio, nato a Tiro e trasferitosi a Roma (233-305), fu discepolo di Plotino. Meglio preparato di Celso, svolse un’analisi critica più sistematica, avendo studiato anche l’AT e il NT, di cui descrisse le contraddizioni. Criticò la redenzione, il battesimo e la comunione, considerate procedure illogiche e irrazionali, e gli scritti di Paolo, definito mistificatore, volgare e avido. Erudito, ricco di un raffinato intellettualismo e di un profondo sentimento religioso, Porfirio ha anticipato gli studiosi moderni e alcuni temi
dell’Illuminismo. A proposito della natura divina di Gesù, commentava: “Ammesso che tra i greci vi fosse un uomo talmente ottuso da credere che gli dei dimorino nelle statue, quest’uomo avrebbe un’idea della divinità meno fuorviante di quanti credono che Dio si sia incarnato nel corpo di una vergine e, dopo la nascita, avvolto nelle fasce come un normale neonato”. Delle opere di Celso e Porfirio ci rimane ben poco, perché furono distrutte dagli imperatori cristiani Costantino, Teodosio II, Valentiniano III. Il lavoro di Celso “Contro i Cristiani” lo conosciamo perché ampi stralci sono riportati da Origene di Alessandria nel suo testo “Contro Celso” in cui controbatte punto su punto le tesi di Celso, seppur sorvolando sugli aspetti principali. Dei quindici libri “Contro i Cristiani” di Porfirio, forse l’opera principale del filosofo, ci restano solo delle citazioni e degli stralci. Dopo gli ebrei, la propaganda cristiana si rivolse contro i pagani, attribuendo loro crudeltà e persecuzioni mai avvenute o esagerandone la portata.
IV-3 L’origine della teocrazia cristiana Durante il I secolo si erano sviluppate varie comunità cristiane e ognuna era autonoma e indipendente dalle altre. A Roma i luoghi dove si riunivano i cristiani, che per il loro vivere non si diversificavano dagli ebrei, erano adiacenti alle sinagoghe. I rapporti tra ebrei e cristiani entrarono in crisi dopo che i Romani abbatterono il tempio di Gerusalemme, sconfissero gli ebrei e Nerone condannò i cristiani dopo l’incendio di Roma. Fu Pietro, sposato con figli, il primo papa? Dell’evento non se ne parla né da parte di Paolo né sui documenti ed è molto probabile, come richiamato, che Pietro non sia mai giunto a Roma. Quella di Pietro primo papa – indipendentemente se sia stato o no a Roma, di cui la Chiesa afferma temerariamente che si siano ritrovate addirittura le ossa sotto la basilica di san Pietro – è una delle più grosse menzogne. La lista dei primi vescovi, compilata da Ireneo verso il 200, inserisce in testa Lino, nominato direttamente da Paolo, e non Pietro. La notizia di Pietro papa apparve verso il IV secolo quando qualcuno affermò che l’apostolo era stato vescovo di Roma; in realtà non fu mai né papa né vescovo e la carica episcopale prese forma a Roma solo verso la metà del II secolo. Il primo elenco dei vescovi romani nonché annuario ufficiale dei papi, il Liber pontificalis, elencava primo vescovo romano, come detto in precedenza, un certo Lino, poi al suo posto, ex abrupto, fu collocato Pietro; tale elenco, iniziato verso il 160, è ritenuto inattendibile anche da diversi studiosi cattolici. Un secondo elenco dei primi vescovi di Roma apparve in un Catalogus Liberianus del 354, del quale non c’è alcuna garanzia di autenticità: Pietro (6768), Lino (67-76), Cleto (76-88), Clemente (88-97) eccetera eccetera, oltretutto nel 67 Pietro doveva essere già morto di vecchiaia. Le traballanti referenze della presenza di Pietro a Roma sono semplici dichiarazioni di padri della Chiesa, riprese da un’evanescente affermazione di Clemente Romano. Del resto, il vizietto di discendere da qualche apostolo ce l’hanno anche i cristiani non cattolici. Il patriarcato di Bisanzio sarebbe stato fondato dall’apostolo Andrea, la Chiesa di Alessandria da Marco, la Chiesa armena da Taddeo e Bartolomeo, la Chiesa di Antiochia da Pietro. Non c’è da meravigliarsi delle falsità dei padri della Chiesa, cattolica e non, che Paolo giustifica chiaramente (Rm 3,7): “Ma se la verità di Dio abbondò nella mia menzogna,
risplende di più per la sua gloria, perché anch’io sono giudicato ancora come peccatore? E non è come alcuni ci fanno dire: ‹Facciamo il male perché ne venga il bene›; essi ci calunniano ed è giusto che siano condannati” [Edizione 1988: Ma se per la mia menzogna la verità di Dio risplende per sua gloria, perché dunque sono ancora giudicato come peccatore? perché non dovremmo fare il male affinché venga il bene, come alcuni – la cui condanna è ben giusta – ci calunniano, dicendo che noi lo affermiamo?”]. Conclusione: chi racconta balle a fin di bene se ne va in paradiso e chi si permette di criticare ciò se ne va all’inferno. Per almeno due secoli i vescovi romani non tennero presente del presunto primato istituito da Gesù alla Chiesa romana, poi, verso il V secolo, ci fu la lotta per il primato tra i vescovi di Roma e quelli di Costantinopoli, lotta che durerà sino al medioevo e che, alla fine, vedrà il prevalere dei romani. Il titolo di papa ai vescovi fu adottato dal III secolo, e per distinguere il papa romano dagli altri papi si usò per due secoli l’espressione papa della città di Roma; fu Gregorio VII a ufficializzare che papa era solo quello di Roma, ribadendo il presunto primato annunciato da Gesù, il quale aveva predicato di servire e non di dominare. In realtà, la Chiesa sfornò dozzine e dozzine di documenti fasulli per suggellare il primato erga omnes, basato sul falso o evangelico della “pietra”. Il cristianesimo primitivo fu un movimento carismatico, mentre la Chiesa divenne un fenomeno aristocratico. Nelle prime comunità cristiane c’erano apostoli, profeti e maestri, poi comparvero delle persone che avevano incarichi del tipo economico-amministrativo, chiamate vescovi e presbiteri. Verso la fine del II secolo il presbitero divenne una sorta di sostituto del vescovo col nome di sacerdote, che corrispondeva al sacerdote giudaico ma con influssi pagani. Il termine vescovo derivava dal pagano episkopos, il cui plurale episkopoi si riferiva agli dèi pagani. Inizialmente i vescovi erano eletti, spesso in un clima tumultuoso, dalle varie comunità, e dal IV secolo iniziò il conflitto tra vescovi di città e di villaggi. Sovente le dispute teologiche e le accuse d’eresia erano lotte di potere per controllare le risorse, per ricevere e spartire incarichi imperiali, per accaparrarsi le diocesi più popolose e ricche: né più né meno come la lotta politica al giorno d’oggi. Era ambitissimo il trono episcopale di Roma e nel 366 i partigiani delle due fazioni opposte si massacrarono anche nelle chiese (137 morti in un solo
giorno). Già al concilio di Nicea si era stabilito che i vescovi sarebbero stati eletti dagli altri vescovi e non più dalla comunità; inoltre i vescovi di Roma, Alessandria e Antiochia sarebbero stati nominati metropoliti. In definitiva, già nel IV secolo era legittimata l’autorità della Chiesa dall’alto in basso, esattamente l’opposto dell’umiltà che aveva predicato Gesù o chi per lui. Con lo sviluppo della dottrina cristiana, nascevano varie correnti poiché la dottrina non aveva una ben definita base ecumenica, essendo stato accantonato buona parte del pensiero di Gesù che, del resto, traspariva dai vangeli in una forma traballante. Ancora nel II secolo il culto cristiano, in piena espansione, era lontano da una stabilizzazione, al punto che i cristiani si combattevano tra loro. Mancando un unico principio catecumenale, un’ortodossia, una “Chiesa cattolica”, chiunque diceva la sua, ma coloro che avevano la maggioranza nella struttura organizzativa dichiaravano “eretici” gli altri, incolpandoli del più grave tra i peccati. Appare scontata, quindi, la nascita di eresie all’interno del cristianesimo dei primi secoli, che ha portato a un irrigidimento della dottrina maggioritaria su alcune posizioni dogmatiche che hanno tracciato un profilo di Gesù storpiato ed estraneo a ciò che veramente era stato ed aveva detto, secondo ciò che avevano riportato i primitivi testi cristiani, pur nella loro manomissione. E dire che gli eretici spesso facevano delle giuste riflessioni. L’attuale cristianesimo non è quello che meglio d’ogni altra corrente ha saputo interpretare i testi primigeni del NT, ma è quello che è scaturito via via dai gruppi di potere che avevano, di volta in volta, la maggioranza e dichiaravano eretici quelli di minoranza. Poiché i gruppi più forti erano coloro che si adeguavano ai regimi politici, ne è venuto fuori un cristianesimo, e poi un cattolicesimo, ruffiano del potere politico. La fotografia di tale realtà è quella africana: in un continente dove la Bibbia è giunta da almeno due secoli e, a quanto pare, non è servita a niente, la maggioranza della popolazione langue nella miseria mentre i cardinali e i vescovi africani salgono e scendono dagli aerei, volando da un dittatore all’altro, sopra le teste dei dannati di quella terra. Quando Wojtyla andò nel 1990 a Yamoussoukro, la nuova capitale della Costa d’Avorio, a consacrare la basilica di “Nostra Signora della Pace”, una pacchiana imitazione della basilica di san Pietro, costata la bella somma di 250 milioni di euro, una donna coraggiosa tra la folla alzò un braccio tenendo la Bibbia e urlò a Wojtyla all’incirca: “Il secolo scorso ci avete portato questo libro, riprendetelo e portatevelo via!”.
È possibile un’altra verifica, di ordine storico: volete avere notizie su come si odia, si mente e si calunnia? Basta leggere ciò che hanno scritto i santi dei primi secoli del cristianesimo, non quelli di serie B, ma proprio quelli più illustri. L’eretico Marcione (95-160) disse che il dio giusto dell’AT era diverso dal dio buono del NT, una verità sacrosanta che la Chiesa primitiva bocciò. Origene, considerato ufficialmente padre della Chiesa per avere scritto migliaia di documenti, a proposito della trinità mette in fila per uno i tre componenti: al primo posto il padre creatore, segue il figlio redentore, ultimo lo spirito santo santificatore. Ma qui la Chiesa non ci sta e afferma che occorre interpretare “con estrema attenzione” ciò che scrisse perché a quel tempo “la lingua della teologia ancora non era perfettamente sviluppata e Origene fu il primo ad affrontare temi difficili”. In altre parole, le migliaia di documenti che collimano con i dettati della Chiesa non hanno problemi di “lingua della teologia”, ma quando qualcosa non collima occorre porre “estrema attenzione”. Paolo di Samosata (200-275) rigettò la trinità. Sacrilegio! Ario (256-336) precisò che il figlio era stato generato dal padre e non era della stessa sostanza (homoioùsion, di sostanza simile, per gli ariani; homooùsion, della stessa sostanza, per i canonici). Anatema! Il concilio di Nicea lo spedì dritto all’inferno. Apollinare di Laodicea (310-390) partì dalla tricotomia platonica dell’uomo, composto da corpo-anima-intelletto, e affermò che Cristo prendeva il corpo ma, avendo natura divina, non aveva né l’anima né l’intelletto. Bocciato! Nestorio (V secolo) affermò che Gesù aveva due nature, divina e umana, e la madonna non era madre di dio ma solo di Gesù umano. Scisma! Eutiche (378454) fondò il monofisismo (ancora oggi accettato dalla Chiesa copta e siromalabita): Gesù incarnato ha solo una natura divina, che assorbe anche quella umana. Eresia! Sergio (565-638), patriarca di Costantinopoli, fondò il monotelismo: Gesù ha due nature, divina e umana, ma una sola volontà divina perché se avesse avuto anche quella umana avrebbe potuto peccare. Sacrilegio! Nonostante la bocciatura, il culto ariano ebbe un ulteriore sviluppo e proprio a Costantinopoli nel IV secolo si ebbero furiose contese con morti tra ariani e niceni; l’arianesimo, suddiviso a sua volta in correnti, ebbe fine nell’VIII secolo. Tra i numerosi movimenti eretici, da segnalare che un certo seguito lo ebbero i pauliciani del VII secolo (seguaci di san Paolo e con due dii, il creatore della materia e il creatore dello spirito) e i bogomili del X secolo (dio creatore dello spirito e il demonio creatore della materia), movimenti che rientrano nel
pentolone dello gnosticismo, come i càtari, richiamati più avanti. L’imparentamento tra potere e Chiesa portò anche a episodi poco edificanti. A metà del VI secolo, l’imperatore Giustiniano emanò, con l’approvazione del clero orientale, un editto contro il nestorianesimo, ma il papa Vigilio non lo approvò e fu convocato dall’imperatore a Costantinopoli, dove giunse dopo un viaggio durato un anno in una specie di regime carcerario di semilibertà. Il papa non ritornò più a Roma e morì a Siracusa. I cristiani, di fatto, erano divisi in innumerevoli correnti dottrinali e, tra una repressione e l’altra, la corrente maggioritaria dei padri della Chiesa stabilì che Cristo aveva due nature e due volontà, divina e umana, e da uomo non aveva mai peccato, garantito (concili di Efeso e Costantinopoli III). E così, a colpi di dogmi, si scolpì un Gesù ex-novo, su misura per la Chiesa, un Gesù che nemmeno sua madre Maria avrebbe riconosciuto. Riepilogando, inizialmente il primo ambiente cristiano fu quello derivato dai “gentili” e dagli ebrei ellenizzati di Antiochia, che ebbero il sopravvento sul ceppo giudaico-cristiano di Gerusalemme. La prima fase di sviluppo del cristianesimo va dai tempi di Gesù ai primi anni del II secolo e vede, accanto a uno sviluppo, la diversificazione dall’ebraismo. Una seconda fase giunge sino alla metà del III secolo in cui, dalla moltitudine di fedeli poveri e incolti, si instaura una Chiesa, che si barrica su posizioni ortodosse per potere combattere le eresie nascenti. La terza fase, sino al concilio di Nicea, vede una Chiesa sviluppata in Oriente, allineata col potere, contro un cristianesimo occidentale ancora politicamente debole, anche se c’era un’apertura da parte della burocrazia imperiale. Con l’abdicazione di Diocleziano, che aveva eseguito qualche persecuzione nei confronti dei cristiani, e di Massimiano a favore di Costanzo Cloro e Galerio si ha un periodo di tranquillità delle masse cristiane, quindi c’è l’arrivo sul palcoscenico di Costantino. Egli legifera in accordo con la cristianità, avvia una serie di donazioni alla Chiesa e autorizza questa a ricevere donazioni, imposta la festività della domenica; come contropartita comanda a bacchetta i vescovi e ordina il concilio di Nicea. Il concilio fu promosso prendendo spunto dall’eresia di Ario, che fu bocciata dai vescovi, e così, con un documento scritto da Costantino, ebbe inizio il cristianesimo dottrinale, con Gesù che già stava scomparendo all’orizzonte. Lui aveva predicato il regno di Dio, ma stava per giungere il regno della Chiesa, imparentato col regno dell’Impero.
All’inizio del II secolo era già stabilizzato l’episcopato. Nelle epistole di Ignazio si leggono frasi del tipo “Il vescovo è il Signore stesso”, “Iddio è il vescovo invisibile e il vescovo è il suo rappresentate visibile”. Il seme del potere era già innato nella Chiesa primitiva. Tra il 130 e il 150 è imposto il monarcato episcopale, che è contrabbandato come istituzione voluta dal Signore con la famosa frase posticcia di Matteo “Tu es Petrus”, inventata ad hoc. Ci fu un fitto scambio epistolare tra i padri della Chiesa più per organizzarsi che per interpretare il messaggio di Gesù o chi per lui. Iniziò a formarsi la struttura gerarchica della Chiesa: al vescovo era sottoposto un collegio di presbiteri, cui seguivano dei diaconi; allo stesso tempo nasceva la contrapposizione tra chierici e laici. Divenuto il cristianesimo religione di Stato, ad esso affluì la nobiltà e i vescovi salirono lungo la scala sociale. La Chiesa assorbì dai Romani, copiandole, le istituzioni di Stato, i principi giuridici, l’organizzazione e battezzò Pontifex Maximus il suo capo. Essa stessa divenne Stato modificando l’altro titolo del suo capo, Vicarius Petri, rappresentante di Pietro, nel più estensivo Vicarius Christi, rappresentante di Cristo in terra. Dal punto di vista storico e dottrinale, sul nulla sono basate le affermazioni che il papa è successore di Pietro, titolo inventato nel 481, oppure vicario di Cristo, titolo brevettato nel 495, né tanto meno è Santo Padre, perché non si comprende da dove deriverebbe, su questo mondo peccaminoso, la santità. Per definizione, santità è la condizione di colui che nella vita terrena si ispira a principi religiosi, cercando di metterli in pratica conformemente alla volontà del suo dio: chi può giudicare che un vivente opera secondo questo principio? Se poi apprendiamo, tanto per fare un esempio, che Pio XII alla sua morte nel 1958 lasciò un capitale oggi valorizzato in 130 milioni di euro, per la goduria degli eredi e della Chiesa, può venire il dubbio in merito alla gratuità e inopportunità di questo titolo. La realtà è che il potere del papa è stato sempre ato da editti e dogmi, tra i quali la sua infallibilità e l’ereditarietà dell’inesistente primato apostolico di Pietro, lanciando anatemi su chi non era d’accordo.
Marcione Marcione (Sinope, 85 – Roma, 160), figlio di un ricco armatore, che era anche vescovo di Sinope, città greca sul mar Nero, giunto a Roma verso il 140 con una sua nave, allontanato dalla città dalla comunità e scomunicato nel 144, è ritenuto ancora oggi dalla Chiesa uno dei suoi nemici mortali. Marcione separava nettamente il dio dell’AT, considerato una sorta di assassino, dal messaggio cristiano e bollava apostoli e loro discepoli perché avevano mescolato l’insegnamento di Gesù con la legge dell’AT. Marcione è il primo che ebbe l’idea di creare un vangelo e il suo NT, nato a Roma proprio verso il 140, è il primo canone di scritture cristiane noto, composto dal vangelo di Luca – l’unico riconosciuto da Marcione – e dalle prime dieci lettere paoline, un protovangelo. Marcione, quindi, ideatore del primo NT, fu anche il primo fondatore di una Chiesa, verso la metà del II secolo, estesa dalla Mesopotamia all’Europa, e i marcioniti, per un certo tempo, furono considerati i veri cristiani, mentre i cattolici erano gli “adoratori del messia”. Attaccato furiosamente da Tertulliano e dai cattolici, condannato come blasfemo, furono attribuite a Marcione concezioni dottrinali che non aveva mai sostenuto. La chiesa marcionita scomparve nel IV secolo, mentre in Oriente resistette sino al V secolo. Il suo unico testo, Antitesi, anche se indirettamente se ne conosce il contenuto, non è giunto a noi, certamente distrutto dai cattolici.
IV-4 Concili e dogmi
Per creare il loro dio, i padri della Chiesa e la susseguente nomenklatura vaticana hanno organizzato 21 concili ecumenici, altri non ecumenici (vedi tabella 6) e un vasto numero di sinodi e bolle papali; tra quelli non ecumenici, il concilio Costantinopoli V (754), dove si condannò l’iconolatria (culto delle immagini sacre) e l’iconodulia (adorazione delle immagini sacre) e il successivo controconcilio Nicea II del 787, dove si condannò l’iconoclastia (dottrina avversa al culto delle immagini sacre), ripristinando il culto e l’adorazione delle immagini. La prima fase dei concili, gli otto avvenuti prima dell’anno 1000, hanno il fine principale di individuare, condannare e combattere le eresie, ricorrendo a interminabili sottigliezze teologiche per creare un dio cristiano, sottigliezze che gran parte dei convenuti certamente non capiva, contando chi erano fedeli e chi erano avversari, per mettere questi in minoranza dal punto di vista religioso e politico. I padri della Chiesa hanno impiegato tre secoli per inventare la consustanzialità tra padre e figlio imponendola come dogma. Gli apostoli non se n’erano accorti che Gesù era una persona divina, della stessa “sostanza” di dio padre, semmai lo avevano considerato un profeta (Mt 21,11). Persino Giovanni Battista, uomo ispirato e mistico, non s’era accorto della divinità di Gesù e, dal carcere, gli aveva chiesto (Mt 11,3): “Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare [attenderne] un altro?”. In precedenza, però, Giovanni Battista si era sbilanciato di più; quando battezza Gesù aveva affermato di vedere (Mt 3,16, e poi Mc 1,10; Lc 3,21; Gv 1,32) “lo Spirito di Dio discendere [scendere] come una colomba e venire sopra [su] di lui” e il giorno dopo aveva ribadito (Gv 1,29): “Ecco l’agnello di Dio”. Evidentemente, questi ultimi i sono dei falsi, aggiunti in un secondo tempo da qualche copista “ispirato”. C’è di più: Paolo non ha mai considerato né Gesù né Cristo con una natura divina, anzi precisando (1 Cor 11,3) che “capo di Cristo è Dio”, non senza aver prima precisato che “capo della donna è l’uomo”. La Controriforma è stato un movimento all’interno della Chiesa cattolica nella seconda metà del XVI secolo con lo scopo di riformare se stessa in seguito alla nascita del protestantesimo. Col concilio di Trento si fece piazza pulita dei vari
dogmi e pronunciamenti, filtrando solo i più rilevanti, tra i quali la transustanziazione, la verginità dell’imene mariano, il celibato dei preti, il purgatorio vivo e vegeto. In quel concilio fu creata, con una bolla papale, la “Suprema Sacra Congregazione dell’Inquisizione Romana e Universale” – più brevemente Sant’Uffizio – che si macchiò per secoli di delitti e sofferenze nella lotta contro gli eretici o presunti tali, con migliaia di vittime arse nei roghi e che esiste ancora oggi nella struttura vaticana col nome di “Congregazione per la Dottrina della Fede”. La seconda fase dei concili, sino all’ultimo Vaticano II, non porta novità essenziali ai fondamenti del cattolicesimo romano, perché – come fa dire Giovanni a Gesù in punto di morte (Gv 19,30): “È compiuto! [Tutto è compiuto!]” – la creazione del dio cristiano, da parte dei padri della Chiesa, nei primi mille anni di vita del cristianesimo aveva quasi raggiunto la perfezione. I più antichi concili di questa seconda fase si preoccupano della dicotomia “potere spirituale e potere temporale”: chi deve avere il sopravvento? e nell’ambito del potere spirituale conta più il concilio o il papa? Infine, i più recenti affrontano i pericoli della modernità e del protestantesimo. C’è qualche novità, come il catechismo e i nuovi ordini monastici, qualche lotta di bottega, aspetti che non cambiano granché, anzi rafforzano lo status quo della gerarchia cattolica (come il dogma dell’infallibilità papale). Una volta creato dio, occorreva dare delle garanzie anche al suo vicario in questa valle di lacrime. Come? Se dio è perfetto e, quindi, anche infallibile, infallibile dovrà essere anche il papa. Nel 1870 Pio IX emana una costituzione dogmatica nell’ambito del concilio Vaticano I, Pastor aeternus, che stabilisce l’infallibilità del papa, secondo questo ragionamento: Cristo fornisce a Pietro il primato; Pietro deve avere, per volere di Cristo (chissà chi lo ha ascoltato!), dei successori; il papa è il successore di Pietro; il papa esercita il potere relativo alla fede e ai costumi senza alcun intermediario ed è infallibile grazie alla “divina assistenza” del “beato Pietro”. Siamo entrati nel regno del fantasyland. Il decreto è votato col “si” di 533 vescovi e col “no” di due “coraggiosi”, mentre circa duecento vescovi erano andati via prima del voto perché contrari a una bufala del genere. Solo una volta è stato applicato il dogma dell’infallibilità papale, da Pio XII nel 1950 in occasione di un altro dogma sull’assunzione della vergine Maria; si legge che “l’immacolata Madre di Dio sempre vergine Maria, terminato il corso della vita terrena, fu assunta alla gloria celeste in anima e corpo”. Come già ho
annotato, non solo l’anima, quindi, ma pure il corpo è salito in cielo; da questa prima applicazione, si può avere un’idea del grado di infallibilità del papa. Il comodo concetto d’infallibilità si espande. Solo dio è infallibile, però con l’aiuto dello spirito santo, dicono gli ecclesiastici, oltre al papa, infallibili sono le sacre scritture, infallibili sono i concili (almeno quelli ecumenici), infallibili i vescovi (in comunione con lo spirito santo…). C’è da chiedersi come mai, con tutto questo mare d’infallibilità, la Chiesa sia piena di errori e di orrori lungo la sua storia (Galileo e Giordano Bruno, due dei tanti). L’assolutismo dell’infallibilità della Chiesa contrasta con l’umiltà degli insegnamenti di Gesù; chi veramente comprende e accetta i suoi insegnamenti, non può accettare la Chiesa. Semmai, se di “fallo” si vuol parlare, non dimentichiamo i diecimila giovanetti (dato confermato dagli organi giudicanti) che solo in Olanda sono stati sodomizzati dai preti.
Il Concilio ecumenico di Nicea Il concilio di Nicea del 325 fu l’atto di nascita ufficiale del cristianesimo, organizzato e gestito dall’imperatore Costantino, con vescovi cristiani che parlavano greco e qualcosa di latino, distanti mille miglia dal mondo ebraico di lingua semitica descritto dall’AT. Lo scopo del concilio era quello di unificare i diversi culti sotto un’unica Chiesa universale, comandata da Costantino. Nicea è l’attuale Iznik, città turca nei pressi del mar di Marmara, a 130 km a sud di Istanbul. Il concilio (il primo che era “ecumenico”, cioè per tutti i vescovi del mondo, dal greco oicumene, terra abitata) durò circa un mese e si tenne in un palazzo imperiale. Le informazioni non sono precise; pare che furono invitati circa 1.800 vescovi ma ne giunsero solo circa 300 a causa delle difficoltà del viaggio. Lo stesso Silvestro, a capo della chiesa di Roma, si fece rappresentare da due presbiteri. I presenti erano tutti vescovi orientali, tranne quattro europei e un “cartaginese”, in gran parte delle “mezze cartucce”. Le decisioni prese furono: a) la consustanzialità tra padre e figlio; b) la verginità di Maria in occasione della nascita di Gesù; c) la condanna dell’arianesimo. Vi furono litigi e pare che Ario sia anche stato preso a schiaffi. Costantino aveva fatto presente che coloro che avessero votato contro sarebbero stati esiliati. Il voto non fu unanime e, per la cronaca, solo Ario e i suoi seguaci egiziani, circa ottanta vescovi, non accettarono il ricatto. Furono prese anche altre decisioni di carattere organizzativo, ma non si riuscì a stabilire la procedura per determinare la data della Pasqua. Sono andati perduti gli Atti del concilio, rimanendo solo il testo del Credo. Concluso il concilio, Costantino scrisse una lettera alle chiese, che è un monumento all’impostura e che così inizia: “Costantino, vittorioso, massimo, augusto alle chiese! Avendo compreso dalla felice situazione dello Stato quanto sia stata grande la benevolenza di Dio onnipotente verso di me, io ritengo opportuno di adoperarmi soprattutto a che sia conservata una sola fede, una sincera carità e la pietà verso Dio onnipotente in tutti i credenti della chiesa.”
IV-5 Quali martiri? L’impressione che si ha dai messaggi, diretti o indiretti, del cattolicesimo è che ci sia stato un numero enorme di fedeli e santi martirizzati. Non è esatto. I Romani erano molto tolleranti con le religioni dei popoli che andavano a sottomettere e gli stessi ebrei erano stimati (quando non si mettevano contro a fare la guerra e a non pagare le tasse). I cristiani erano malvisti dal popolo romano perché non svolgevano servizio militare, si racchiudevano in gruppi isolati, si estraniavano dalla vita culturale e sociale, degradavano le divinità romane ribadendo che solo il loro era il vero e unico dio. I pagani, invece, non negavano l’esistenza di altri dèi e non facevano opera di conversione, come era uso dei cristiani, che creavano discordia tra le famiglie. Come di Erode il Grande, anche di Nerone (54-68) si ha un’immagine negativa a opera soprattutto della Chiesa, che sfruttò la descrizione dell’incendio di Roma, avvenuto nel 64, riportata da Tacito nei suoi Annales, scritti nel 116, ricca di contraddizioni e incertezze; tra l’altro, Tacito descrive i cristiani come una “ingente moltitudine”, quando ai tempi di Nerone era impensabile tale numerosità. La scena, portata avanti dalla Chiesa, di Nerone che suonava davanti le fiamme, è uno stereotipo grottesco e ancor più fantasiosa, mancando di alcuna prova, né certa né incerta, la morte durante l’incendio di Paolo e Pietro “martiri”. Quando avvenne l’incendio, l’imperatore era ad Anzio; accusato di esserne responsabile, puntò il dito sui cristiani condannandoli a morte secondo il codice penale romano per gli incendiari e non per la loro religione. Nerone, in seguito, investì notevoli somme per ricostruire la città e, allo stesso tempo, riducendo le tasse. Perché condannò i cristiani? Perché durante l’incendio tutti i quartieri di Roma erano stati quasi distrutti tranne due, Porta Capuana e Trastevere, proprio quelli dove abitavano i giudei; da qui, la convinzione della colpa dei cristiani (i Romani faticavano a distinguere giudei da cristiani). Che non si sia trattato di una persecuzione è anche dimostrato dalla circostanza che le condanne furono circoscritte a Roma e non in tutto l’impero. Flavia Domitilla, moglie dell’imperatore Domiziano, deportata su un’isola verso l’anno 95, divenne santa senza alcuna certezza che fosse cristiana, salvo quella di essere l’ennesima leggenda. Anche Domiziano è contrabbandato dalla Chiesa come feroce persecutore, ma come andarono effettivamente le cose? L’imperatore era assillato da problemi finanziari e aveva disposto che fosse percepita con rigore l’imposta della didracma alla quale Tito aveva sottoposto i
giudei dopo la presa di Gerusalemme. Buona parte dei giudei e cristiani non la pagavano adducendo scuse varie e Domiziano serrò il torchio. In realtà, per due secoli non si sono avute persecuzioni nei confronti dei cristiani; gli imperatori non s’interessavano di una trascurabile setta di gente di bassa classe. La civiltà romana era fondamentalmente laica: interessavano di più le conquiste e le opere pubbliche, mentre la religione aveva un ruolo di secondo livello. Non è vero, come rimarcarono i padri della Chiesa, compreso Agostino, che tutti gli imperatori romani perseguitarono i cristiani; dei cinquanta imperatori tra Nerone e Costantino, solo cinque comandarono delle persecuzioni ai cristiani, di breve durata e con pochi martiri, e non sono mai avvenute le “dieci” persecuzioni ribadite dalla Chiesa, con riferimento alle dieci bibliche piaghe egiziane. Anzi, da Traiano (98-117) a Commodo (180-192) il movimento cristiano ebbe una vasta diffusione geografica. Sotto Traiano l’unico martire, proprio secondo il martirologio cattolico, fu Ignazio, vescovo di Antiochia, morto verso il 110, ma è un’informazione inverificabile. Sarebbe stato imprigionato, portato a Roma e sbranato dai leoni; durante il viaggio a Roma avrebbe scritto sette lettere, importanti per la storia della Chiesa nel II secolo. Non finisce qui: le ossa del corpo sbranato sono state raccolte e riportate ad Antiochia; durante l’invasione musulmana, le ossa sono state riportate a Roma nella chiesa di San Clemente, dove sono venerate… Gli imperatori Nerva, Traiano, Adriano, Antonino Pio e Marco Aurelio attivarono un certo risveglio della “romanità”; solo Adriano (117-138) e Antonino Pio (138-161) organizzarono qualche repressione, derivante più da motivi politici e non finalizzata alla persecuzione dei cristiani, i quali in buona parte morirono a seguito di tumulti conseguenti a ostilità popolari, anche perché i cristiani non è che eccellessero in public relations. Nessun imperatore durante il II secolo prese posizione contro i cristiani, anzi Commodo concesse alla Chiesa di avere a Roma un proprio cimitero. Il “massacro di Lione” del 177, durante il quale morì Ireneo, non fu voluto da Marco Aurelio come riportano i testi cattolici, ma fu una rivolta delle truppe locali, e non riguardò migliaia di persone ma, come lo stesso martirologio riporta, 48 morti. Invece, il palestinese Eusebio di Cesarea (265 – 340) eccellerà nelle esagerazioni: scriverà di diecimila ammazzati da Marco Aurelio in Gallia, e dirà anche degli abitanti di un’intera “città della Frigia” abitata da cristiani data alle fiamme con gli abitanti “compresi donne e bambini” (ma Eusebio non precisa di quale città si tratti) e avanti così.
Nel III secolo ci fu un’anarchia militare e gli imperatori si susseguirono uno dietro l’altro, da Settimio Severo (193-211) sino a Diocleziano (284-305). Aureliano (270-275) era figlio di un sacerdote di Mitra e tentò l’unificazione religiosa, ma i cristiani si opposero. Il primo papa martire fu Vittorio alla fine del II secolo e il primo vescovo romano vittima di una persecuzione fu Fabiano, che tra l’altro morì in carcere nel 250. La prima persecuzione, durata 15 mesi, si segnala, appunto, verso il 250 dall’imperatore Decio, che voleva restaurare il culto ufficiale, limitandosi a richiedere una semplice formalità civile: sacrificare alla dea Roma e gettare un granello d’incenso al “genio” dell’imperatore, ma i cristiani testardamente non accettarono. Le sentenze di morte furono esigue, e Decio morì in battaglia dopo due anni di regno. Trascorsi sei anni, Valeriano perseguitò le gerarchie cristiane, soprattutto in Africa, con diverse decine di sentenze capitali, tra le quali quella di Cipriano. Anche Valeriano morì dopo due anni di regno, impalato e scorticato dal re di Persia Sapore. In seguito, i cristiani vissero in tranquillità per tutto il III secolo e a Roma sorsero oltre quaranta basiliche. All’inizio del IV secolo l’impero contava 50 milioni di persone, di cui si stima che da 7 a 15 milioni fossero cristiani. Sotto Diocleziano vi furono condanne di cristiani a lavori forzati, mentre molte donne finirono nei bordelli; era un periodo di tumulti, il palazzo imperiale di Nicomedia fu dato alle fiamme e molti decessi tra i cristiani avvenivano a causa degli incidenti e non in conseguenza a persecuzioni. Il papa Marcellino morì nel 304 e il Liber pontificalis fantastica che Diocleziano lo fece decapitare, ma le stesse fonti ecclesiastiche ammettono l’inconsistenza della notizia (e dello stesso intero Liber pontificalis). La persecuzione di Diocleziano durò dal 303 al 311 e tale periodo è noto nella storia ecclesiastica come “l’era dei martiri”, nel solito stile di sommaria celebrazione svolto dagli agiografi non solo medievali ma anche moderni. Dopo Diocleziano i cristiani furono esposti all’arbitrio dei vari Augusti e Cesari, in cui era stato diviso l’impero dallo stesso Diocleziano, prima che abdicasse e si ritirasse nella sua lussuosa villa di Spalato. V’è da dire che molti funzionari gonfiavano il numero di apostati per compiacere il governo; Eusebio di Cesarea racconta che spesso si metteva in mano a un cristiano, per un momento, lo strumento del sacrificio e poi si rilasciava segnandolo come se avesse sacrificato. Si crearono dei martiri con semplici testimonianze, senza la certezza né della sofferenza né della morte e il loro numero fu talmente ridotto che se ne inventarono altri, con un pedigree di sofferenza e di morte più significativo di quelli veri. Ambrogio fu fertile in questo compito: ne inventò due, Gervasio e
Protasio, di altri due scoprì i loro sepolcri (su segnalazione miracolosa degli stessi martiri) e ne trovò ancora altri due. Un padre della Chiesa inventò il martirio della moglie di Pietro: una balla alla quale non crede nemmeno la Chiesa. Vi furono anche i martiri all’ingrosso: 10.000 crocifissi sul monte Ararat, sotto Diocleziano; 24.000 ammazzati, assieme a un certo san Pappo, ad Antiochia, sotto Licinio. I martiri, secondo la Chiesa, sono considerati testimonianze della verità del messaggio cristiano, ma è un’affermazione gratuita: il martirio non è una prova di verità. Hitler è il primo responsabile della shoah, che ha visto la morte di milioni di ebrei, ma in tempi ati i cattolici si sono macchiati di diverse carneficine. Nel 1298 in Baviera furono distrutti 140 insediamenti ebrei, nel 1349 furono uccisi – e molti bruciati vivi – gli ebrei di 350 città e villaggi tedeschi, nel 1389 a Praga furono scannati in un giorno tremila ebrei, nel 1391 a Siviglia furono massacrati quattromila ebrei, altri ebrei furono uccisi in Slesia nel 1453, mentre nella cattolicissima Polonia nel 1648 furono ammazzati circa 200.000 ebrei. Le stragi da parte di cattolici non risalgono solo nei secoli ati; la più grande (dopo quella del Ruanda, di cui più avanti) è avvenuta ai giorni nostri, tra il 1941 e il 1943 da parte dello Stato indipendente di Croazia, di Ante Pavelic. L’obiettivo degli ustascia cattolici era fare piazza pulita dei due milioni di serbi greco-ortodossi croati. Furono depredate e distrutte 299 chiese ortodosse, in parte trasformate in magazzini e stalle. Il numero di serbi uccisi è stimato tra 600.000 e un milione; i serbi cattolicizzati, con o senza la forza, furono 250.000. Agli ortodossi furono cavati occhi, tagliate orecchie e naso, massacrati a colpi d’ascia, fucilati in massa, crocifissi e squartati, spinti nelle chiese e bruciati vivi e altre atrocità (impalati, sepolti vivi, gettati nei fiumi). Nel 1945 Pavelic si rifugiò in un collegio di Roma e il Vaticano gli organizzò la fuga in Argentina vestito da prete. L’ultima e più grande strage a sfondo religioso risale al 1994, il genocidio in Ruanda dei tutsi da parte degli hutu: 937.000 morti in soli cento giorni. A distanza di anni, furono processati i vescovi cattolici Misago e Musabyimana e alcuni sacerdoti, incolpati di aver partecipato all’organizzazione del genocidio. I due vescovi, nonostante dati ed episodi ben precisi a loro carico, furono assolti. Un sacerdote cattolico, Attanasio Seromba, condannato a 15 anni di carcere nel 2008, ha dichiarato di non essersi pentito per aver partecipato ai massacri. Di stragi religiose, purtroppo l’umanità ne è piena, sino ai giorni d’oggi, come ci
informano le cronache. Continuiamo la erella con altri due stermini di cui si è macchiato il cattolicesimo. Il primo riguarda i càtari (dal greco katharos, puri), che per la verità l’avevano sparata grossa. Il catarismo ebbe la massima espansione tra il 1150 e il 1250 nella Linguadoca, in Provenza, in Lombardia. I càtari (o albigesi, dalla cittadina di Albi) rifiutavano i beni materiali e tutte le espressioni della carne, sesso incluso, e credevano in un dualismo, secondo il quale nel mondo avevano pari dignità il dio dell’amore e il re del male, che bisognava combattere, perché tutto il creato era un suo grande tranello. Il dio creatore dell’AT altri non era che satana. La logica conclusione della dottrina càtara era lasciarsi morire per fame (cliccando su Google “chiesa càtara” si può verificare che ancora oggi, forse più modernizzati, esistono ancora i càtari). I papi Alessandro III e Innocenzo III (siamo intorno al 1200) avviarono un sacro “repulisti” durato oltre trent’anni (trent’anni…) con la crociata albigese nella Linguadoca. Nella sola cattedrale di san Nazzaro furono ammazzati in 12.000; altri 10.000 ne fece ammazzare il vescovo di Tolosa. A Béziers altri 20.000 morti, secondo i documenti papali, ma secondo altre fonti da 60.000 a 100.000; in quella terribile occasione, i crociati papalini chiesero al legato papale come facevano a distinguere i cattolici dai càtari e quello rispose: “Uccideteli tutti, perché Dio riconoscerà i suoi”. Si stima che in tutta la Francia meridionale le vittime siano state circa un milione. Il secondo sterminio riguarda la lotta alla stregoneria satanica e maligna e agli eretici con la Santa Inquisizione e i relativi processi durarono dal 1450 al 1750 (ma l’ultimo processo è avvenuto nel 1820) in Italia, Francia, Germania, Inghilterra, Spagna, Irlanda, persino in Scandinavia e nel Massachusetts. Prevalentemente si trattava di streghe donne e le vittime, secondo uno studio eseguito dal Vaticano nel 1998, sarebbero state circa 42.000; ciò conferma la stima laica di oltre 100.000 morti, ma qualcuno ha calcolato sino a mezzo milione, in parte bruciati vivi.
IV-6 Da Costantino ai secoli bui Per meglio comprendere lo spirito cristiano di Costantino, primo imperatore cristiano, occorre soffermarsi sugli eventi storici del tempo. Siamo all’inizio del IV secolo e Diocleziano, resosi conto della eccessiva vastità dell’impero romano, crea una tetrarchia: nomina Massimiano, un suo generale, a reggere l’area occidentale dell’impero. I due poi nominano due vicari, detti Cesari, Galerio per l’Oriente e Costanzo Cloro per l’Occidente. Scomparsi di scena, per abdicazione, Diocleziano e Massimiano, subentrano come Augusti Galerio e Costanzo Cloro; questo nomina come suo vicario Severo. Il tribuno militare Costanzo Cloro aveva due figli, Costantino dalla concubina Elena, e Giulio Costanzo, da Teodora, figlia dell’imperatore Massimiano, sposata su ordine di questo. Quindi Costantino e Giulio Costanzo erano fratellastri e quest’ultimo sarà il padre del futuro imperatore Giuliano. Costantino, pertanto, era ziastro di Giuliano. Morto Costanzo Cloro in Inghilterra, il figlio Costantino è immediatamente nominato Augustus dalle truppe del padre, ma Galerio, giustamente rispettando il criterio dinastico di Diocleziano, lo retrocede a Cesare per l’Occidente, nominando Severo Augustus per l’Occidente. Costantino sposa Fausta, la figlia più giovane di Massimiano. Intanto, dopo l’abdicazione di Massimiano, anche il figlio Massenzio è eletto Cesare dai suoi pretoriani. Massimiano cercherà poi di riprendere possesso del titolo e trescherà contro Costantino, che lo obbligherà a suicidarsi nel 310. Sconfitto Severo, in Occidente regnano i due usurpatori, Costantino (Gallia e Britannia) e Massenzio (Italia, Spagna, Africa). Costantino corre a Roma e sconfigge sul ponte Milvio (in realtà a Saxa Rubra) Massenzio, che annega nel Tevere, poi ammazza il figlio di Massenzio e si fa nominare Augustus Maximus dal Senato. La battaglia del ponte Milvio è raccontata dalla Chiesa come la vittoria del dio cristiano sui pagani; in realtà Costantino a quel tempo non ne sapeva niente dei cristiani, mentre Massenzio aveva fatto cessare le condanne ai cristiani avviate da Diocleziano, aveva restituito i beni della Chiesa, aveva consentito l’apertura di cimiteri cristiani e la nomina di sacerdoti, aveva contribuito a costruire una basilica cristiana. Tra le falsità della Chiesa c’è anche quella di avere attribuito a Costantino molte di queste attività svolte da Massenzio.
Padrone dell’Occidente, Costantino si volge verso l’Oriente dove regnano Massimino Daia e Licinio, e tresca con Licinio, facendogli sposare la sorella Costanza. Licinio sconfigge Massimino Daia nel 313 ma resta con un esercito indebolito. Costantino più o meno gli dice: “Non ti distruggo ma mi accontento di requisirti tutti i territori europei, ad eccezione della Tracia; così te ne stai tranquillo in Oriente e rimaniamo amici”. Nello stesso anno 313 Costantino e Licinio emanano l’editto di Milano che dava libertà di culto ai cristiani, prima azione della costantinizzazione del culto cristiano e della sua Chiesa. In realtà, nel 311 l’imperatore Galerio, qualche giorno prima di morire, aveva emesso l’editto di Nicomedia, dove si riconosceva la libertà di culto ai cristiani, purché rispettassero le leggi. La Chiesa cattolica apostolica romana non è la prima a vedere la luce, perché già nel 301 era stata fondata la Chiesa apostolica armena, che non è una chiesa ortodossa. Nel 314 l’imperatore Costantino convoca il concilio di Arles per la condanna del movimento eretico donatista, che si sviluppa soprattutto in Africa, e qualche tempo dopo perseguita gli agonisti, altri eretici. Costantino pone diversi cristiani nella gerarchia imperiale, ma mantiene il titolo pagano di Pontifex Maximus. Conia monete d’oro con un simbolo cristiano e le fa girare in Oriente, dove i cristiani sono in maggior numero, mentre a Roma e nella Gallia le monete hanno il simbolo di Juppiter Conservator. Preceduto da una campagna propagandistica politico-religiosa che nasconde il fine ultimo di essere unico dominatore, Costantino nel 324 rompe l’accordo con Licinio e lo sconfigge due volte. In occasione della prima vittoria, l’imperatore dichiarerà che “Dio, nei suoi disegni divini, gli aveva affidato il governo di tutte le cose terrene”; le fonti cristiane parleranno di “luminoso esempio …della Cristianità”, dimenticando che erano morti 20.000 nemici. Nella seconda battaglia, Costantino si presenta con 130.000 uomini e 200 navi, mentre Licinio presenta 165.000 uomini e 350 navi. Ne muoiono 40.000, oltre a 5.000 marinai. La sorella Costanza intercede per avere salva la vita dello sposo Licinio, Costantino lo spedisce a Tessalonica (oggi Salonicco) come privato cittadino e lo fa strangolare l’anno dopo. Il padre della Chiesa Eusebio di Cesarea, vescovo che tenne un atteggiamento equivoco nei confronti dell’eresia ariana e che nella sua Historia ecclesiastica aveva lodato Licinio, corregge il testo e lo diffama come un “inviso a Dio” e altri attributi poco onorevoli. Nel 330 Costantino si trasferisce nella nuova capitale Bisanzio, il paganesimo è via via represso, la Chiesa entra nell’apparato amministrativo romano-bizantino,
l’impero si rafforza. Il cristianissimo imperatore fa ammazzare il suo primogenito Crispo, la moglie Fausta e il nipote Liciniano, ma, bontà sua, fa delle donazioni alla Chiesa, tra cui il Palazzo Laterano, che sarà residenza papale per un millennio. Se Paolo è stata la mente per il successo della Chiesa, Costantino ne è stato il braccio. Eppure, dalla lettura dei vangeli, si sarebbe compreso, e può comprendersi ancora oggi, che un imperatore poteva non essere cristiano, ma mai un cristiano sarebbe potuto essere un imperatore. Già nel 321 Costantino aveva autorizzato a fare donazioni alla Chiesa e in tale clima molti entrano a farvi parte, ma la Chiesa pagherà un duro prezzo: la perdita della sua libertà. Costantino frequenta i sinodi e supervisiona la Chiesa che diviene “chiesa imperiale”: ne è ato di tempo dal discorso della montagna. Il successo militare aveva legittimato la cosiddetta “religione dell’Amore”, anche con lo sterminio, e non v’è stato papa o vescovo o padre della Chiesa che si sia ribellato. Costantino, primo imperatore cristiano, vivrà nel lusso e nella sua corte regneranno corruzione e ricatti; pur avendo trattato con i guanti i cristiani, non si convertì, ma fu supervisore del primo concilio, quello di Nicea del 325, promulgò il diritto di ereditarietà alla Chiesa dei beni dei fedeli e offrì ai padri della Chiesa autorità e privilegi. Per tutto ciò, Costantino dovrebbe essere considerarlo il vero fondatore del cristianesimo: seppe associare, per convenienza, religione e politica. Morirà nel 337 e in punto di morte si farà battezzare da Eusebio di Cesarea; a quel tempo si rimandava al termine della vita quel sacramento in modo da presentarsi candidi davanti al padreterno poiché si riteneva di poter vivere da assassini e criminali e morire da santi. Lasciando il potere vacante, i funzionari imperiali continueranno per qualche mese a testimoniare le loro decisioni al cadavere di Costantino. Probabilmente da quel episodio ebbe inizio la tanatofilia cattolica, cioè il culto e l’ostensione dei cadaveri e delle reliquie dei morti. Elenco dei parenti assassinati dal cristianissimo Costantino: il suocero e imperatore Massimiano, il genero Licinio, il genero Bassiano, il principe Liciniano (figlio di Licinio), il figlio Crispo (nato dalla concubina Minervina), la moglie Fausta, oltre a “numerosi amici”, secondo Eutropio. I primi cristiani non prevedevano la costruzione di templi dove pregare. Gesù dice (Mt 6,6): “Quando tu preghi [Quando preghi], entra nella tua camera, chiudi
la porta e prega il Padre tuo che è nel segreto [e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto]; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà”. Pensiero ribadito da Paolo (1 Cor 3,16): “Non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi?”. A partire da Costantino, invece, furono costruite sempre più chiese, sempre più grandi sino alla tronfia basilica di san Pietro del XVI secolo, dove officiare riti mai segnalati nel NT, come la messa. Cristo si è sacrificato, sulla croce, una sola volta per tutte e ciò è confermato da Paolo (Eb 7,27): “Egli non ha bisogno, come i sommi sacerdoti, di offrire sacrifici ogni giorno [(Cristo) non ha bisogno ogni giorno, come gli altri sommi sacerdoti, di offrire sacrifici], prima per i propri peccati e poi per quelli del popolo: lo ha fatto una volta per tutte [poiché egli ha fatto questo una volta per tutte], offrendo se stesso”. Il principio è ribadito più avanti (Eb 10, 11 e segg.): “Ogni sacerdote [inteso come componente della comunità cristiana, n.d.a.] si presenta giorno per giorno a celebrare il culto e a offrire molte volte gli stessi sacrifici, che non possono mai eliminare i peccati. Cristo, invece [Egli al contrario], avendo offerto un solo sacrificio per i peccati, si è assiso per sempre [una volta per sempre si è assiso] alla destra di Dio …Ora, dove c’è il perdono di queste cose, non c’è più [bisogno di] offerta per il peccato”. La Chiesa, però, imponendo la frequentazione dei suoi templi, proclama il sacrificio quotidiano attraverso la messa, con l’ennesimo dogma del concilio di Trento, dove si sentenzia che “Se qualcuno dice che nella messa non viene offerto un sacrificio reale e verace …anatema sia”. Con la transustanziazione di dio nell’ostia, i sacerdoti acquisiscono dinnanzi alle masse ignoranti dei credenti fascino, carisma e reddito. Altra vittoria della gerarchia romana è il ritorno periodico dei “clienti” nella catena dei suoi “negozi”, cioè le chiese, anticipando e migliorando di quasi due millenni uno dei cardini del marketing applicato dagli odierni supermarket. Infatti, una volta fatto l’acquisto di un bene a lunga durata, di norma il cliente non torna più al negozio a breve scadenza, mentre la Chiesa è riuscita a legare a vita il fedele alla chiesa (il ritorno almeno per tutte le domeniche e le festività religiose). La messa appare un meccanismo perfetto; infatti la Cei scrive nella “Premessa all’Institutio Generalis Missalis Romani” che “La partecipazione attiva esige una pluralità d’interventi che vanno dal ministrante, al lettore, al salmista, al coro, all’animatore musicale… In questa coralità armonizzata di servizi, la liturgia offre un’immagine della Chiesa che, in tutte le sue esperienze, si costruisce con l’apporto di tutti”. Fatte le chiese, si trovarono stimoli e scuse per farle frequentare dai fedeli e una
delle invenzioni della Chiesa al riguardo è, appunto, l’obbligo della messa alla domenica. Per gli ebrei la giornata festiva era ed è il sabato, giorno del riposo di dio dopo i giorni della poco faticosa creazione. Però Costantino introdusse la domenica festiva e quindi la Chiesa, con la solita geniale girata a 360°, dice che “la nuova creazione è la resurrezione di Cristo” e siccome lui è resuscitato di domenica, è domenica il giorno del riposo. Nel “Catechismo della Chiesa Cattolica”, all’articolo 2180 [gli articoli sono in tutto ben 2865: una volta creato dio, è davvero macchinoso mantenerlo in vita] si legge, in accordo col “Codice di Diritto Canonico”, canone 1248: “Il precetto della Chiesa definisce e precisa la Legge del Signore: «La domenica e le altre feste di precetto i fedeli sono tenuti all’obbligo di partecipare alla Messa»”. È un’altra invenzione della Chiesa: Gesù non conosceva né la domenica né la messa. E se andate a leggere il richiamato Catechismo (basta anche scorrere l’indice) vedrete che c’è pochissimo Gesù e moltissima Chiesa. Alla morte di Costantino, i suoi tre figli – Costantino II, Costanzo II, Costante I – ammazzano fratellastri, cugini, zii e personalità della corte, per non avere concorrenti al comando dell’impero; risparmiano Giuliano, il figlio di un ziastro (Giulio Costanzo) perché aveva solo cinque anni ma che, come anticipato, diverrà imperatore alla loro morte. In sintesi, Costantino aveva assegnato a Costantino II la Britannia, la Gallia e la Spagna; a Costanzo II l’Asia e l’Oriente; a Costante I l’Italia, i Balcani e l’Africa. Costantino II, cresciuto come un cristiano, muore in battaglia contro l’esercito del fratello Costante I nel 340. Costanzo II promuove l’arianesimo e muore nel 361 mentre si avvia a uno scontro con l’esercito dell’imperatore Giuliano. Costante I, malvisto dal popolo perché ha un debole per i maschietti, rigido seguace delle dottrine del concilio di Nicea, è ucciso nel 350 dagli uomini di Magnenzio, che lo aveva spodestato dal trono. Alla morte di Costanzo II, diviene imperatore Giuliano, nipotastro di Costantino, detto l’Apostata dai cristiani. Giuliano aveva studiato a Nicomedia, Pergamo, Efeso e Atene e seguiva i princìpi del paganesimo. Intellettuale, con buona cultura filosofica e letteraria, scrisse molte opere di carattere filosofico, religioso, polemico e celebrativo, in molte delle quali criticò il cristianesimo. Scacciò dalla corte tutti i parassiti e gli eunuchi e avviò la paideia, che è il concetto di formazione umana come ideale cui l’uomo greco deve tendere nell’intero arco della sua vita. Introdusse la tradizione politeista, invitò gli insegnanti cristiani a
insegnare “Matteo e Luca” in chiesa e non a scuola, fece ricostruire i templi rasi al suolo dai cristiani e restituì le proprietà confiscate dalla Chiesa. Giuliano non vietò il cristianesimo, ma promulgò la libertà di culto, che era una prassi consueta nelle aree pagane. Per tutto ciò, il cristianesimo ha biasimato Giuliano, presentandolo come un persecutore, ma non ha mai biasimato i cristianissimi e assassini Costantino e i suoi tre figli; alla sua morte, avvenuta in Persia durante una battaglia, i cristiani festeggiarono con balli nelle chiese e iniziarono a diffamarlo. Alla fine del IV secolo diviene imperatore Teodosio, che fa del cristianesimo la religione di Stato ed emana il “Codice teodosiano” e, a leggerlo, c’è da restare basiti, preludendo ai secoli bui: pena di morte per chi reca danno a chiese e sacerdoti, abolizione dei culti pagani, confisca dei beni ai non cristiani, divieto di matrimonio di cristiani con non cristiani, persecuzione agli ebrei. Sono distrutti templi, libri e biblioteche pagane e ammazzati sacerdoti e filosofi pagani. Nel 392 è distrutta la Biblioteca di Alessandria, un’immane perdita per la cultura umana di tutti i tempi ed è assassinata dal vescovo Cirillo di Alessandria la matematica Ipazia, una laica inventrice dell’astrolabio. Giustiniano (482 – 565) completerà l’opera di Teodosio: tra l’altro, divieto ai non cristiani di ereditare e trasmettere beni ai non cristiani, divieto di utilizzare schiavi cristiani, obbligo di istruzione cristiana, obbligo del battesimo, persecuzione dei manichei, divieto dell’uso della lingua ebraica, chiusura – dopo dieci secoli – della storica Scuola neoplatonica di Atene e via così verso un regime teocratico, col crollo della cultura. Ancora oggi abbiamo, proprio in casa nostra, una testimonianza visiva della distruzione dei templi pagani. Basta andare a Siracusa, all’isola di Ortigia, e fermarsi davanti al duomo. Lì sorgeva un tempio ad Athena, eretto da Gelone nel V secolo a. C., con le colonne che circondavano tutto il perimetro della cella centrale. Nel VII secolo d. C. il vescovo della città trasformò il tempio in una chiesa bizantina, dedicata alla madonna, inglobando i colonnati e invertendo l’orientamento. Oggi, all’esterno, lungo il fianco sinistro del duomo, e all’interno, sul lato destro, si possono ancora ammirare le eleganti colonne doriche del tempio di Athena. La sapienza e l’eleganza della civiltà pagana saranno sacrificate sull’altare del “dio fatto uomo e rifattosi dio” e inizierà il periodo buio, lungo oltre un millennio, del mondo occidentale. Il sentimento della bellezza e della completezza dell’esistenza pagana sarà dissolto; a un mondo dominato dalla
Natura seguirà un mondo controllato dalla Chiesa. Una dottrina, quella cristiana, che predicava la vacuità di questo mondo e il raggiungimento di non ben chiare “beatitudini” paradisiache con la semplice preghiera ed elementari liturgie, tutte azioni che non richiedevano (e non richiedono) né cultura né intelligenza, per di più con un dio creatore che provvede a tutto: il risultato non poteva non portare a un arresto del progresso civile e all’inizio del buio sul mondo occidentale. Un colpo mortale allo sviluppo della civiltà è stato inferto da Agostino, nato in Algeria nel 354, che predicò il celibato pur avendo convissuto a lungo con una concubina, sposando una ragazzina dodicenne e mantenendo un’amante. Scrisse penose incongruenze e idee prive di fondamento. Ecco uno dei tanti suoi i: “Chi sta, o meglio crede di stare bene in questo mondo fa il verso del corvo: gracchia e non sospira. Chi, invece, è consapevole di vivere tra le angustie dell’esistenza mortale e di vagare lontano dal Signore, sospira. Fintanto che sospira, sospira bene; dallo Spirito Santo abbiamo appreso a sospirare e questo, a sua volta, lo ha appreso dalle colombe”. Chi scriveva sciocchezze del genere è stato nominato dottore della Chiesa. Secondo questa mente malata, le torture inflitte all’uomo sulla terra servono a miglioralo e si poteva abbondare in queste torture, perché le eterne pene dell’inferno erano di ben altra sostanza. Altra chicca è che “Dio, sulla base di suoi disegni imperscrutabili, ma giusti ha predestinato alcuni uomini alle pene eterne…”. Questo squilibrato può essere considerato il primo teorizzatore dell’Inquisizione; varò l’oscura dottrina del peccato originale, della predestinazione e della “Grazia” divina e bollò Eva come “essere inferiore della coppia umana”. L’umanità peccatrice doveva essere condannata tutta all’inferno, ma grazie alla misericordia divina, alcune persone (probabilmente maschi…) si potevano salvare. Secondo il suo pensiero, il peccato originale si è trasmesso da generazione a generazione e la prassi di battezzare i bambini dimostra che anche i neonati hanno la capacità di peccare; la salvezza e la condanna dipendono da dio (e quindi dalla Chiesa). Così Agostino creò il perfetto burattino: l’uomo-credente. Agostino si adoperò per la repressione dei pagani, fu il primo dei teologi a incolpare gli ebrei della morte di Gesù. Questo “gigante dello spirito” autorizzava l’assassinio a coloro che combattevano per “volere divino” perché dio era “fonte di giustizia”, ed era dio che decideva la durata delle guerre. Molte stupidaggini di Agostino divennero dogmi per la Chiesa e così ebbe inizio l’oscurantismo dell’uomo. Ancora oggi gran parte degli occidentali non conosce l’incredibile salto tecnico
scientifico che aveva avuto l’uomo durante il periodo ellenistico, compreso tra il IV e il I secolo a. C., cui seguì una retrogradazione della civiltà umana per oltre un millennio. La matematica aveva avuto, oltre a Pitagora, il noto Euclide che aveva avviato la geometria piana e solida e la teoria dei numeri. Teofrasto aveva avviato la botanica, separando il mondo animale da quello vegetale. Ctesibio aveva inventato congegni ad aria compressa, organi idraulici e il primo orologio ad acqua. Oltre al genio matematico e ingegneristico di Archimede, abbiamo Eratostene che aveva determinato con incredibile precisione la circonferenza del pianeta studiando i raggi solari. La città di Pergamo, sull’Egeo, aveva un’alimentazione idrica tramite pompe a stantuffo con cilindri di piombo. Aristarco aveva intuito che la Terra girava intorno al Sole ed aveva avviato la teoria eliocentrica. Ippocrate aveva dato inizio alla scienza medica, Erofilo aveva iniziato gli studi di anatomia ed Erasistrato quelli di fisiologia. Poi, con l’avvento del cristianesimo, nel mondo occidentale tutto si fermò. Per la Chiesa, la conoscenza e il sapere non sono peccaminosi bensì pericolosi, perché determinano l’orgoglio dell’intelletto e la libertà di critica dei dogmi. Mentre le nazioni anglo-sassone e scandinave, soggette al cristianesimo protestante e anglicano, si sono riprese nello sviluppo tecnologico e civile, quelle latine – sudeuropee e sud-americane – soggette al più retrivo cristianesimo cattolico, ancora oggi lamentano un ritardo nello sviluppo non solo tecnico ma anche sociale. Nel medioevo la Chiesa vietava la dissezione del corpo umano, ritardando le conoscenze mediche, che avrebbero potuto salvare, nei secoli, milioni di ammalati; in ambiente cristiano, solo l’università di Padova primeggiò nella medicina, a partire dal XV secolo, per il semplice motivo che la sede aveva una porticina che dava su un canale, dove di notte erano scaricati da una barca, di nascosto dai preti, i cadaveri da studiare.
Elena, la santa Per la chiesa ortodossa, il pluriassassino Costantino è venerato come un santo. In compenso per la Chiesa cattolica è santa sua madre Flavia Elena, che era un’inserviente presso le stalle delle stazioni di posta in una località dell’attuale Turchia. Elena era la concubina del tribuno Costanzo Cloro, che diverrà imperatore durante la tetrarchia. Su ordine dell’imperatore Massimiano, Costanzo Cloro ripudia Elena e sposa la figlia Teodora, dalla quale avrà il figlio Giulio Costanzo. Elena proseguirà il rapporto in bigamia con Costanzo Cloro e perseguiterà con odio Giulio Costanzo. Quando il figlio Costantino salì al trono, fu nominata “Augusta”, fece la turista in Palestina alla veneranda età di 78 anni, dove trovò, sul Golgota e con un fiuto incredibile, tre chiodi e pezzi della croce affermando che appartenevano alla croce dove era stato crocifisso Gesù. Non contenta, trovò pure le croci dei due ladroni, la tomba di Gesù e a Nazareth la casa di Maria! Non avendo problemi di soldi, si mise a costruire tre basiliche, distruggendo i preesistenti templi giudaici: sul monte degli ulivi, al cosiddetto “Santo Sepolcro” e a Betlemme, dove aveva trovato anche la grotta della “natività”. Un fiuto straordinario, visto che di tutte queste “scoperte” non c’è alcuna seria giustificazione né topografica né archeologica, al punto che Elena è protettrice degli archeologi. La lettura della biografia “ufficiale” vaticanea di Elena, la santa, madre amorevole del buon Costantino, raggiunge uno dei massimi vertici dell’informazione menzognera e umoristica, tra cui il matrimonio morganatico con Costanzo Cloro.
Cap. V LA CREAZIONE DEL DIO CRISTIANO
V-1 L’invenzione della consustanzialità Sul momento in cui avviene l’elevazione di Gesù alla natura divina ci sono discordanze; Marco fissa nel battesimo l’avvio della carriera divina, Matteo se la cava scrivendo che nasce dalla vergine già come bambino divino, mentre Luca anticipa tutti a quando Gesù è già nel seno della madre (Lc 1,41). Giovanni, elegantemente, sorvola sul battesimo. Ma perché battezzare Gesù se questo sacramento serve per espiare i peccati? Gesù era consapevole di essere nato col peccato? In realtà, Gesù non pensava a una sua origine divina, né i vangeli approfondiscono il tema, ma è l’ordinamento sacerdotale dei primi cristiani che l’inventò. Gesù non pensava di avere qualche parentela con dio, anzi credeva di non essere neanche un buono. A chi, chiamandolo “maestro buono” gli chiedeva cosa dovesse fare per la vita eterna, gli rispondeva (Mc 10,18): “perché mi chiami buono? Nessun è buono, se non Dio solo”. E in punto di morte gridò (Mc 15,34 Mt 27,46): “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” e secondo Luca (Lc 23,46): “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito”, frase, per la verità, che poco si addice a un moribondo. Gesù, gli apostoli, la Chiesa primitiva e forse lo stesso dio non avevano idea di cosa fosse la Sacratissima Trinità. Per tutto il II secolo Gesù non fu ritenuto di origine divina, come confermano Ireneo, il santo, e Origene, due pezzi da 90 del cristianesimo primordiale, al quale era ignoto, come lo era a Gesù, anche il mistero trinitario col terzo arrivato, lo spirito santo. Fino al III secolo Gesù non era mai stato identificato come dio, ma dopo ha inizio la diatriba sulla trinità tra i padri della Chiesa: se padre e figlio sono una persona, Maria è madre del padre o del figlio? e lo spirito santo che ingravidò Maria è padre o è figlio? e Gesù è dio? e prima ancora della discesa in terra, Gesù era dio? Alcuni padri non pensano a Gesù-dio; Giustino lo pone al secondo posto, medaglia d’argento, Ireneo dice che davanti è il padre e dietro sta il figlio
(insomma, sempre medaglia d’argento), Tertulliano dice che una volta dio non aveva un figlio, pure Origene conferma la medaglia d’argento: Gesù è un dio secondo, minore. A questo punto (anno 311) appare sulla scena Ario, teologo e parroco ad Alessandria, che si limita a precisare ciò che avevano detto i padri: riconosceva la trinità, ma subordinava il figlio al padre, quindi Gesù era una sorta di semidio, era divino in quanto “creato” dal padre. Non l’avesse mai detto. È scomunicato col concilio di Nicea del 325 che decreta che Gesù è stato “generato” dal padre e quindi ha la stessa sostanza. È affermata la consustanzialità: i tre esponenti della Trinità hanno la stessa sostanza, ma sono distinte (chissà quale sostanza avevano in mente questi scienziati). L’arianesimo avrà un seguito con Costanzo, l’imperatore figlio di Costantino, ma dopo la sua morte l’imperatore Teodosio chiude le chiese ariane e caccia i loro vescovi. Ario pare fosse un’asceta, persona colta e devota, amabile nella conversazione e per nulla fanatico, ma la Chiesa gli scaraventò addosso quintali di ingiurie e calunnie, dalla superbia all’ambizione, facendolo diventare la personificazione dell’eresia. Ario considerava Gesù una sorta di semidio, non identificabile con dio stesso, e negava la consustanzialità accettata nel concilio di Nicea, concilio che uno storico contemporaneo definirà un sinodo di sciocchi, per la bassa qualità dei padri che vi presero parte. Come già ricordato, fu l’imperatore Costantino, grande regista – e nemmeno tanto occulto – del concilio di Nicea, persona non battezzata e quindi intrisa di peccato secondo le linee cristiane, che impose l’uguaglianza sostanziale del figlio col padre. La consustanzialità non deriva, pertanto, dalla teologia della Chiesa, come è stato affibbiato sino all’inizio del ’900. Mentre il cristianesimo primordiale avversava l’autorità e lo Stato, il nuovo cristianesimo, soggetto alla classe dominante, ribaltò l’idea dell’uomo che diviene dio in quella di dio che si fa uomo. Infatti, le masse sofferenti erano inizialmente gratificate dal fatto che un loro rappresentante, crocifisso, fosse innalzato alla divinità come simbolo dell’ostilità al dio padre. Il dogma trinitario, invece, porta a un padre che diviene figlio-uomo come simbolo del legame affettuoso col padre; non più l’idea dell’ostilità verso il padre per godere del suo amore e non più religione di ribelli, bensì della classe dominante.
V-2 L’invenzione della transustanziazione, un cannibalismo rituale Della comunione ne parla Luca (Lc 22,19): “Poi prese il pane [preso un pane], rese grazie, lo spezzò e lo diede loro dicendo: «Questo è il mio corpo che è dato per voi; fate questo in memoria di me». E, dopo aver cenato, fece lo stesso con il calice [Allo stesso modo dopo aver cenato, prese il calice] dicendo: «Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue, che è [viene] versato per voi»”. Negli altri tre vangeli non è riportata la frase fate questo in memoria di me, l’unica che giustifica l’eucaristia, frase che non si trova nemmeno negli antichi testi di Luca, ma solo nella versione ampliata e opportunamente manipolata giunta a noi. Gesù non amava riti e cerimonie e credeva nell’imminente fine del mondo, di conseguenza appare del tutto inverosimile che inviti i discepoli ad avviare un rito a sua memoria. Inoltre, un comandamento che secondo la Chiesa è così ricco di significato, l’eucaristia, non è credibile che sia stato riportato solo da Luca e sia assente negli altri tre vangeli. Infine, dopo la morte di Gesù non risulta che i suoi discepoli fero agapi sacramentali, ma si limitavano a desinare in compagnia, come quando erano con Gesù. Il o di Luca è ripreso e rimarcato da Paolo (1 Cor 11,24), da colui che, dimenticandosi di Gesù, introdurrà l’eucaristica, la redenzione e la predestinazione, il vilipendio della donna e accennerà già al peccato originale. Introdotta l’eucaristia, eranno oltre mille anni prima d’inventare, come vedremo, il dogma della transustanziazione (trans-substantiatione) nel concilio Lateranense IV (1215). I primi apostoli non attuavano l’eucaristia e spezzavano il pane con gioia, nell’attesa del regno di dio, né bevevano vino (At 2,42; 2,46). Altra considerazione riguarda il sangue, cui si richiama Gesù; probabilmente pensava di essere lapidato dagli ebrei e non crocifisso dai Romani, giacché la morte per crocifissione non causa fuoriuscita di sangue, avvenendo per blocco respiratorio e circolatorio. Come richiamato, l’immarcescibile Paolo scrive (1 Cor 11,23) che ha “ricevuto dal Signore”, in altre parole si è tutto inventato, che nell’ultima cena Gesù avrebbe detto, spezzando del pane: “Questo è il mio corpo che è per voi; fate questo in memoria di me”. Poi Gesù prende il calice e dice: “Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria
di me”. Come sopra richiamato, dell’episodio non ne parlano gli evangelisti, tranne Luca, discepolo di Paolo e probabile estensore degli Atti degli apostoli (sotto dettatura di Paolo), che ripete pari pari ciò che enuncia il suo maestro (Lc 22,19). Quindi non c’è alcuna testimonianza verace, ma questa è quasi una normalità nella “sacra” documentazione del primo cristianesimo. Dal dire al fare c’è di mezzo il mare: come dare, durante l’eucaristia, pane e vino ai fedeli? e, domanda pertinente per la nomenklatura cristiana, quanto costerebbe alla Chiesa? Innocenzo III, in occasione del concilio Lateranense IV del 1215, dopo secoli (secoli…) di contrastanti decisioni, sancì il dogma della transustanziazione: appena il celebrante la messa pronuncia le ultime parole di una preghiera detta “eucaristica”, et voilà!, il pane (oggi l’ostia, che non va assolutamente masticata, per non far male a dio) e il vino diventano corpo e sangue di Gesù, cioè l’istantanea trasformazione delle “sostanze” del pane e del vino nel corpo e nel sangue (ma il sangue non fa parte del corpo?) di Gesù. Lo conferma il concilio di Trento, canoni I e VIII. Nel canone I si legge “Il corpo, il sangue, l’anima e l’essenza divina, in una parola Cristo tutto intero, entra nell’ostia e nel calice” e nel canone VIII si ribadisce “Se qualcuno dice che Gesù, nell’eucaristia, non è mangiato che spiritualmente, e non sacramentalmente e realmente, colui sia anatemizzato”. A parte il lato grottesco dell’azione, è questa una delle tante forme di simbolismo che rendono il cristianesimo un prodotto del tutto artificiale. Ci si può chiedere che il pane poco ha a che fare col DNA di Gesù, che pensare che il suo sangue derivi dal vino è qualcosa che sa di bettole e osterie, che il tutto cozza non solo con i più elementari principi della chimica e della fisica ma anche con la comune ragionevolezza di una comunissima persona. Niente da fare: per la Chiesa è un altro mistero che l’uomo non può comprendere. E con ciò la Chiesa raggiunge una delle sue più alte cime dell’ignoranza surrettizia che può ammantare l’homo detto sapiens sapiens. I cristiani, regredendo, ripercorreranno la strada degli antichi riti pagani della teofagia, unendosi al loro dio mangiandoselo e bevendoselo. Sono gli echi del cannibalismo, nato non all’inizio della storia umana, ma quando l’uomo aveva già un’evoluzione e mangiava i suoi simili non per fame ma per assorbirne la forza fisica. Il culto del pasto della carne divina segue quello della carne umana, credendo di acquistare la forza degli esseri celesti. L’eucaristia è presentata come la rievocazione del “sacrificio” di Gesù. Già
nell’AT abbiamo molti riti barbari richiesti da dio agli ebrei e chi è interessato può dilettarsi a leggere integralmente i dettagli, cruenti e non, riportati, ad esempio, nell’Esodo e nel Levitico. La Chiesa, con un invidiabile colpo di genio, abolirà i sacrifici dell’AT, ammettendone uno solo, universale e di “livello superiore”: il sacrificio di Gesù, l’eucaristia. I fantasmi di questi riti barbari, assimilati dal cristianesimo, sono presenti ancor oggi. Nei sacrifici il sacerdote mangiava pani azzimi, focacce azzime impastate con olio e schiacciate azzime cosparse di olio (Es 29,2), squartava animali (Es 29,11 e primi capitoli del Levitico) e offriva parte della carne ai fedeli. Per poter mangiare la carne del sacrificio di comunione il fedele doveva essere puro [mondo] (Lv 7,19) e per essere puro doveva confessare i peccati (Lv 5,5). I riti della confessione e della comunione sono rimasti in forma meno cruenta: solo ostia – al posto degli sfarinati azzimi – e, per il sacerdote, anche il vino. Gli sfarinati dovevano essere abbastanza indigesti: farina non lievitata impastata con olio, fritta in padella, fatta a pezzi e mangiata con olio crudo (Lv 2,5). Forse anche per la difficile digeribilità di queste gallette si pensò di are all’ostia. Il vocabolo “ostia” proviene dal latino hostia derivata da hostis, nemico; l’ostia ha preso il posto dei nemici sacrificati agli dèi e, in epoca più civile, dei sacrifici di animali. Oggi non si squartano più gli animali, ma si mangia, nientedimeno, dio, rimpicciolitosi proprio dentro l’ostia, considerata “corpo di Cristo”, nel senso più letterale della frase. Dopo quest’atto da antropofagia, il fedele diventa anche teofago in quanto ingurgita anche la sua anima e la sua divinità: questa forma di teofagia è ancora chiamata, come ai tempi di Mosè, un sacrificio (di Gesù, mangiato e digerito dal fedele). Grazie alla transustanziazione, se nel mondo si celebrano allo stesso tempo delle messe e migliaia di fedeli fanno la comunione, il corpo e il sangue di Gesù, sempre lo stesso, s’infila per migliaia di volte nelle ostie, come era successo nel ato e come succederà nel futuro, giorno per giorno, mese per mese, anno per anno, e nei secoli a venire, sempre lo stesso corpo e lo stesso sangue. Ma un vegetariano non potrebbe rifiutarsi di ingoiare la carne di Gesù? e in tal caso farebbe peccato? e un timorato di dio che si comunica tutti i giorni ingoiando litri di sangue non rischierebbe di assumere caratteri vampireschi? Siamo in pieno clima di stravaganza religiosa che si sprigiona dai disastrosi
concili ecumenici: la riabilitazione dei sacrifici umani e dell’antropofagia, la retrogradazione dell’uomo. L’eucaristia è il processo di trasformazione del pane in carne e del vino in sangue e, come detto, è un processo semplicissimo, non sono necessari reattori chimici o impianti nucleari, siamo davanti a un miracolo. Basta dire “Questo è il mio corpo” e “Questo è il mio sangue” e nel preciso momento in cui l’ultima sillaba è pronunciata, dio si precipita a infilarsi nell’ostia e nel vino. Se per caso viene un colpo di tosse al prete che pronuncia la frase e non la completa, dio fa lo gnorri, se ne resta a casa sua e il miracolo non avviene. Se al prete cade malauguratamente il calice per terra, abbiamo tutto un battaglione di dii nella polvere. Se un’ostia se la mangia un cane abbiamo un cane divinizzato che andrà, si presume, in paradiso.
V-3 L’invenzione della trinità La divinizzazione di Gesù attraverso la consustanzialità è il primo o verso la creazione del dio cristiano. Le diatribe sulla divinità trattavano solo di due persone, ma spunta all’orizzonte una terza persona, anzi entità: lo spirito santo. Gesù non era al corrente della trinità e la dottrina dello spirito santo iniziò a svilupparsi nel II secolo; in realtà il vocabolo “spirito” (pneuma) ha diversi significati, dal vento ai morti. È il vangelo di Giovanni, il più mistico, che instilla l’idea trinitaria definendo Gesù figlio di dio unigenito (Gv 3,16) e consustanziale (Gv 10,30): “Io e il Padre siamo una cosa sola” e che opererà tramite lo spirito santo (Gv 14,26). Luca e Marco non parlano di trinità e la frase messa in bocca a Gesù da Matteo (Mt 28,19): “Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli [ammaestrate tutte le nazioni], battezzandoli [battezzandole] nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo” è dichiaratamente falsa e tale ritenuta, pur con qualche falso dubbio, anche dai commenti ufficiali. Gesù non aveva in programma l’evangelizzazione del mondo e aveva affermato d’interessarsi solo (Mt 15,24) “alle pecore perdute della casa d’Israele”, aveva raccomandato agli apostoli (Mt 10,5): “non andate fra i pagani e non entrate nelle città dei Samaritani”, insistendo (Mt 10,23) “non avrete finito di percorrere le città di Israele, prima che venga il Figlio dell’uomo”. Giovanni, nel suo vangelo, riporta che Gesù si reca coi discepoli in Giudea (Gv 3,22) “e là si tratteneva con loro e battezzava”, ma subito dopo ci ripensa affermando (Gv 4,2) “sebbene non fosse Gesù in persona a battezzare, ma i suoi discepoli”. In realtà Gesù non amava i rituali e i ripetitivi cerimoniali del clero; per lui ciò che contava era l’amore del prossimo, come ripetutamente ribadito dai vangeli (Mt 9,13; 12,7; Mc 2,19; Lc 6,4; 11,41 e altri). Per giustificare l’espansione del cristianesimo (che non interessava a Gesù), la Chiesa introdusse la frase posticcia in Matteo, contrabbandando l’evangelizzazione con la necessità di esportare il battesimo. Una volta che lo spirito santo entra in ballo, le dispute trinitarie prendono una svolta tripla: come si rapportano il padre e il figlio con lo spirito santo? La realtà è che nel cristianesimo primitivo tali questioni, che andarono avanti per secoli, erano assenti perché era assente la trinità. Intanto arriva un’altra eresia: lo spirito santo non è divino. Altro concilio ecumenico, il secondo, questa volta a Costantinopoli nel 381, che divinizza pure lo spirito santo.
Ne viene fuori un minestrone. Il figlio, generato dal padre prima di tutti i secoli, s’incarna per opera dello spirito santo nella vergine Maria, mentre lo spirito santo procede dal padre ma non è un altro figlio, e in ogni modo tutti e tre fanno uno. Il problema è risolto dalla Chiesa pontificando che è tutto un mistero che noi mentecatti umani non possiamo comprendere. Quesito: come fa l’uomo a credere in ciò che non può comprendere? Cristianissima risposta: per fede. Dopo il concilio di Costantinopoli I del 381 si giunge, quindi, a uno spartiacque: il cristianesimo si lascia indietro il messaggio di Gesù, riportato dai vangeli, e s’incammina verso arzigogoli filo-teologici ex novo. Compare un altro dilemma: quante volontà ha Gesù, una (solo umana) o due (divina e umana)? Grandi discussioni. Se Gesù avesse avuto una libera volontà umana, distinta da quella divina, egli avrebbe potuto anche ribellarsi a quest’ultima e dunque anche peccare, ma lui non peccò mai ed era immune da ioni e inclinazioni cattive. Pertanto in Gesù non vi furono mai contrasti di volontà (anche perché due volontà le hanno i paranoici). Si resta di sasso a leggere queste storie che raccontano di uomini, per di più ignoranti, che litigano per avere la presunzione d’interpretare l’essenza di un’entità così superiore – almeno da come ne parlano e ne scrivono – come fosse un amico col quale si gioca a briscola. Tanto più si è ignoranti, tanto più si ha la presunzione di sapere tutto. L’ateo ha una concezione di Dio talmente elevata, ma proprio talmente elevata, che ritiene non possa esistere e se esistesse non sarebbe in grado di comunicare con un omuncolo. Comunica con me la formica che inavvertitamente schiaccio con la scarpa, quando cammino?
V-4 Le invenzioni dell’inferno, del purgatorio e del limbo Altra invenzione della Chiesa è l’inferno, sconosciuto nell’AT. Si accenna a un aldilà nel Secondo Libro dei Maccabei, che non fa parte della Bibbia ebraica (2 Mac 6,26): “…non potrei sfuggire, né da vivo né da morto, alle mani dell’Onnipotente”, (2 Mac 7,9): “…ma il re dell’Universo [del mondo], dopo che saremo morti per le sue leggi, ci risusciterà a vita nuova ed eterna”. Non si parla di un inferno che ha atterrito generazioni di credenti e creduli e che ha dato ottimo reddito alla Chiesa con i ricchi lasciti dei peccatori speranzosi nel perdono. Per i pagani, l’inferno era un luogo simbolico, dove il fuoco era assente; è stato il cristianesimo a trasformare l’inferno in un posto terrificante, talché i fedeli ubbidissero ai dettami della Chiesa, sino ai giorni nostri: un vero e proprio scoop. Gesù, più realisticamente, per parlare dell’inferno usava la parola greca Geènna, che indicava un luogo reale: una piccola valle col fiume Hinnon, poco a sud di Gerusalemme, dove in ato s’immolavano bambini a Moloc. Il cristianesimo, che considera la punizione come concetto predominante, ha creato tutto un firmamento di diavoli: Satana il capo, Lucifero il suo vice, un non meglio identificato Belzebù e via dicendo (vedi in Appendice). Inizialmente l’inferno era una pena temporanea, ma il concilio di Costantinopoli II del 553 sentenziò che la pena infernale doveva essere eterna. Poiché si supponeva che l’inferno (da inferus, inferiore) fosse nel sottosuolo, da dove i vulcani eruttavano lava incandescente, si è idealizzato l’inferno come un luogo infuocato e fiammeggiante. Monsignore Scicluna, un maltese, col titolo di “promotore di giustizia” presso la “Congregazione per la Dottrina della Fede” [dal vaticanese, è il pubblico ministero del Sant’Uffizio], ha il compito di trattare i “delicta graviora”, come quelli dei sacerdoti pedofili, che ammontano, sempre secondo Scicluna, a novemila casi (in realtà saranno molti di più). Il monsignore, ricorda il vangelo (Mt 18,6): “Chi invece scandalizzerà uno solo [scandalizza anche uno solo] di questi piccoli che credono in me, gli conviene che gli venga [sarebbe meglio per lui che gli fosse] appesa al collo una macina da mulino [girata da asino], e sia gettato nel profondo del mare [e fosse gettato negli abissi del mare]. Guai al mondo per gli scandali! È inevitabile che vengano [avvengano] scandali, ma guai all’uomo a causa del quale [per colpa del quale] avviene lo scandalo!” e sentenzia che per i preti pedofili le pene dell’inferno saranno più dure. Come ha fatto a saperlo, visto che, per la stessa colpa,
nemmeno Gesù parla dell’inferno? Lo ha detto Gregorio Magno, ha affermato il monsignore. Referenze di Gregorio Magno (siamo all’inizio del VII secolo): un trattato sui demoni e un altro trattato sui miracoli. Data l’inconsistenza della referenza, i preti pedofili possono stare tranquilli che nell’altro mondo staranno più comodi che in questo. Politici e religiosi hanno l’abitudine di avanzare delle affermazioni non dimostrate e, nel prosieguo del discorso, ricollegarsi a quanto non dimostrato per ribadire “per quanto affermato in precedenza” e giungere a una conclusione, ovviamente non dimostrata ma dialetticamente vincente. Proseguiamo nelle invenzioni. Probabilmente qualcuno dell’apparato chiesastico dovette far presente che il concetto del misericordioso dio neotestamentario, come presupponeva il cristianesimo, non si associava con un disumano luogo di eterno tormento senza speranza e la Chiesa, resasi conto che era stata sparata grossa, nel XIII secolo inventò il purgatorio (da purgatorium, posto di pulizia), luogo di detenzione temporanea. Leggi e rileggi, l’idea fu estratta da un trafiletto, sempre del Secondo Libro dei Maccabei (2 Mac 12,42): “…si misero a pregare [ricorsero alla preghiera], supplicando che il peccato commesso fosse pienamente perdonato”, seguito da (2 Mac 12,44): “perché se non avesse avuto ferma fiducia che i caduti sarebbero risuscitati, sarebbe stato superfluo e vano pregare per i morti”, e anche in tal caso i redditi vaticanei – e più in genere, ecclesiastici – aumentarono esponenzialmente con l’elargizione delle indulgenze, come vedremo più avanti. Il “limbo” è la condizione temporanea delle anime delle persone buone morte prima di Gesù (limbo dei padri) e la condizione permanente dei bambini morti ancora non battezzati (limbo dei bambini) e quindi detentori del “peccato originale”. Pertanto si hanno due “limbi”. Dopo qualche millennio, ripensandoci su, nel 2007 la Commissione teologica internazionale, organismo della sopra richiamata “Congregazione per la Dottrina della Fede” (ex Sant’Uffizio), naturalmente con l’approvazione di Benedetto XVI, ha avuto il coraggio di affermare che il limbo dei bambini non fa parte della dottrina della Chiesa. Certamente, si legge nel documento, c’è differenza tra bambino appena nato, battezzato e morto e bambino appena nato e morto non battezzato e se il primo va dritto in paradiso, non possiamo mandare anche il secondo, che detiene ancora il peccato originale (!). Quella del limbo, prosegue il documento, era solo una “ipotesi teologica possibile”, cioè si era scherzato. Insomma, si ipotizzava un posto astratto dove i bambini non battezzati non erano puniti e avano le giornate giocando a palla. Nel 2007 si scopre che occorre affidarsi a dio
misericordioso che certamente “vuole salvi tutti gli uomini” e che assumerà posizione in merito, di volta in volta, alle creaturine non battezzate, bambino per bambino (Chissà come il buon dio farà a individuare i figli dei buddisti, dei musulmani, degli induisti, che sono sotto altra divina giurisdizione). In conclusione, da parte della Chiesa tutto un panegirico per evitare di cadere nell’ircocervo di fare e disfare il limbo. Tolto, in qualche modo il “limbo dei bambini”, rimane il “limbo dei padri”, dove staziona ancora gente come Socrate e Platone, in attesa di eventuali contrordini da lassù.
V-5 I nove comandamenti Quello dei cosiddetti dieci comandamenti è uno degli argomenti chiave del cristianesimo. “Il mondo non ha futuro senza i dieci comandamenti” disse Wojtyla, forse il papa più retrivo degli ultimi anni, quando era in visita “pastorale” dalle parti del Sinai: come se delle arcaiche e banalissime leggi utilizzate dalla tribù dell’inesistente Mosè fossero una sorta di contratto per bloccare il cervello del credente, pena l’inferno. La consegna sul monte Sinai delle tavole, da parte di dio, è un best-seller biblico, uno dei i più noti, uno degli episodi più osannati dalla cinematografia fumettistica e sempliciotta, uno dei momenti più “pitturati” dagli artisti del medioevo, uno dei i biblici più spumeggianti. Il buon dio, tramite lo scaltro Mosè, avverte il popolo che non può salire sul Sinai sino a quando non suonerà un corno (in effetti, anche quando il corno suonerà, il popolo non salirà). Un bel mattino (Es 19,16) “vi furono tuoni e lampi, una nube densa sul monte e un suono fortissimo di corno [tromba]”. Il monte si mette a fumare e a tremare mentre il corno diventa assordante (reminiscenze di probabili fenomeni vulcanici della zona) e Mosè, chiamato da dio, arriva alla vetta. A questo punto dio dice a Mosè all’incirca: “Scendi e risali con tuo fratello Aronne”. E Mosè, forse tirando qualche moccolo, se ne scende chiedendosi perché questo benedetto iddio non lo aveva avvertito prima della salita che doveva portarsi il fratello. Mistero dei disegni divini, come misteriosa è la lingua con la quale dio scrisse i comandamenti: certamente Mosè parlava l’egizio ma conosceva anche l’ebraico? Dio scrisse i comandamenti in ebraico o in geroglifici egizi? Più avanti dio scrive le Leggi a Mosè (Es 20,1) con la nota, anzi notissima verità: “Io sono il Signore, tuo Dio, …non avrai altri dèi di fronte a me” e continua mostrandosi geloso e nepotista (Es 20,5): “perché io, il Signore, il tuo Dio, sono un Dio geloso [sono il tuo Dio, un Dio geloso], che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione, per coloro che mi odiano, ma che dimostra la sua bontà [il suo favore] fino a mille generazioni, per quelli che mi amano e osservano i miei comandamenti [comandi]…”. Ho già riportato che le stigmate della sacralità con cui sono marcati i dieci comandamenti sono una caratteristica comune alle legislazioni del Medio Oriente e non sono per nulla una particolarità dell’ebraismo e del cristianesimo.
I dieci comandamenti sono ripetuti due volte dalla Bibbia: in Es 20,2 per bocca divina a Mosè e in Dt 5,6 per bocca di Mosè al popolo, dove il patriarca già si permette di apportare alcune modifiche al sacratissimo testo. Non basta: come di norma, variazioni delle due versioni si hanno tra le due edizioni della Bibbia, del 2008 e del 1971. Conclusione: solo ai giorni nostri, abbiamo quattro versioni bibliche del decalogo originario scritto dal Signore. Decalogo che si presenta come una sequela di obblighi, poi condensati sia dagli ebrei sia dai cristiani, naturalmente con versioni diverse, anche tra cattolici, protestanti, ortodossi. I moderni padri della Chiesa hanno creato delle versioni tascabili, per la catechesi (cioè per l’indottrinamento dei fedeli); una di queste versioni del decalogo, che scelgo a caso, così recita:
(Premesso che) Io sono il Signore Dio tuo, 1-Non avrai altro Dio fuori di me; 2Non nominare il nome di Dio invano; 3-Ricordati di santificare le feste; 4-Onora il padre e la madre; 5-Non uccidere; 6-Non commettere adulterio (atti impuri); 7-Non rubare; 8-Non dire falsa testimonianza; 9-Non desiderare la donna d’altri; 10-Non desiderare la roba d’altri.
Come si vede, è una serie di negazioni: non fare questo, non fare quello, non fare quell’altro; per la Chiesa, la vita dei fedeli deve essere una forma di carcere a vita, che solo la preghiera può liberare. I “comandamenti” potevano indicare una serie d’azioni “attive” invece di proibizioni “ive”, proibizioni che l’uomo civile – cristiano e non cristiano, giapponesi compresi – conosce già, non perché cristiano che recita il rosario, ma per educazione civile, senza che gli si siano stati imposti come dogmi che calano dall’alto.
Il lettore, che legge i dieci comandamenti pirotecnicamente ceduti a Mosè sul Sinai e poi apprende dall’AT tutta una sequela di stragi, delitti, ladrocini, stupri, menzogne e chi più ne ha più ne metta, può pensare che la divina parola sia stata disattesa dall’uomo timorato di dio. Non è così. Il divino creatore dà i dieci comandamenti a Mosè perché siano applicati nell’ambito della sua tribù e questa gente, invece, fa della propria vita un inferno. Come mai? L’equivoco enorme è che i comandamenti non hanno valore universale, come la Chiesa ha voluto
propinare. Il buon dio impone a Mosè: Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, eccetera eccetera, “a persone della tua tribù” ma uccidi, violenta, ruba, eccetera eccetera, a chi non è della tua tribù e ai tuoi nemici. E sarà il buon dio stesso, come si legge più volte nell’AT, ad aizzare gli ebrei a fare stermini, tanto che, a forza d’atrocità e barbarie, finiranno per ammazzarsi e rubarsi anche tra loro.
Sesto comandamento: “non commettere adulterio”; in altre versioni non sono da commettere non meglio identificati “atti impuri”. Nono comandamento: “non desiderare la donna d’altri”, e sarebbe tempo che la Chiesa misogina sostituisse al vocabolo “donna” almeno il vocabolo “coniuge”, giacché, come è enunciato, sembra non sia vietato alla donna di desiderare “l’uomo d’altre”. Con i comandamenti, la religione entra nel cuore dei sentimenti del credente imponendogli obblighi meccanicamente istituiti e che possono creargli una vita infelice. Oggi siamo coscienti che una coppia di persone, al momento della decisione di convivere e concepire dei figli, può non rendersi conto che il vivere insieme potrebbe generare incomprensioni future. Non sta scritto da nessuna parte del codice morale umano che occorre convivere sino alla morte, anche se ci si rende conto che non si va d’accordo, e se non si va d’accordo non è detto che si è dei debosciati e degli immorali. I due comandamenti richiamati sono imposti ai credenti sotto la solita minaccia di sofferenze e supplizi.
Poiché il settimo comandamento dispone di “non rubare”, evidentemente il “non desiderare la roba d’altri” dell’ultimo comandamento non è da intendersi nel senso di rubare, ma nel senso di anelare ad avere ciò che altri non hanno già raggiunto, cioè ad anelare a degli obiettivi, che è il motore dell’attività di una persona. Fare carriera (ad esempio da prete a vescovo e a cardinale) o acquistare un appartamento più grande di quello che si ha sono conseguenze della positività della vita umana, come l’anelito impresso alla ricerca scientifica sviluppata da uno scienziato con l’obiettivo di meglio conoscere la Natura che ci circonda. La gratuita visione cattolica del vogliamoci tutti bene, accompagnata dalla tranquillità di non avere desideri né puri né impuri, è indice di un appiattimento disumano della vita. Se vado al mercato e compro dall’ortolano della verdura, non è che questo me la dà per benevolenza e carità, ma perché ha interesse a vendermela, dopo averla coltivata e raccolta; in questo semplice scambio, c’è
l’attività sia dell’ortolano con i suoi obiettivi (lui lavora e vende per incassare dei soldi, necessari per la sua vita) sia quella mia con i miei obiettivi (io lavoro per avere la disponibilità a fare degli acquisti, necessari per la mia vita).
Ritornando ai dieci-comandamenti-dieci, tralasciati i primi tre che sono dedicati ai creduli, i rimanenti sette sono dei princìpi anticrimine che andavano bene per i rozzi mammiferi umani della Bibbia, ma dai quali, ripeto, la società umana odierna è protetta; non c’è bisogno di creare un dio e di pregarlo per avere la civile coscienza di non fare delle azioni antisociali. E se qualcuno oggi continua a farlo, evidentemente la parola divina è stata alquanto debole; in ogni caso oggi chi trasgredisce il contesto umano ne paga legalmente le conseguenze.
Una volta pronunciati i comandamenti, cosa si mette a dire l’Onnipotente? Spiega a Mosè come gestire gli schiavi e ufficializza la pena di morte! Già, annota la Bibbia di Gerusalemme in Es 24,3, questi riti non li ha scritti Mosè, ma sono stati inseriti dopo (sic!). È scontato chiedersi: ma la Bibbia non è parola di Dio? Resta il fatto che, leggendo il Sacro Testo, i massacri che ordina con veemenza Mosè non si contano. I commenti delle varie Bibbie, in calce alle pagine, stimolano spesso l’ironia; in Dt 5,32 il buon dio bacchetta ancora una volta gli israeliti, per bocca del sempre più fido Mosè: “Abbiate cura perciò [Badate dunque] di fare come il Signore, vostro Dio, vi ha comandato. Non deviate [non ve ne discostate] né a destra né a sinistra; camminate in tutto e per tutto per la via che il Signore, vostro Dio, vi ha prescritto…”. Il limpido commento a questo o riportato dalla Bibbia di Gerusalemme al popolo dei credenti e dei creduli è: “Dopo la retrospettiva storica, viene la parte catechetica: si tratta di una serie di piccoli sviluppi omiletici che riassumono lo spirito della religione deuteronomica”. Chiaro, no?
Confrontando il decalogo scritto da dio sulla pietra con quello attuale ci si accorge che manca il secondo comandamento (Es 20,4): “Non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto [ciò che] è lassù nel cielo, né di quanto [ciò che] è quaggiù sulla terra, né di quanto [ciò che] è nelle acque sotto terra. Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai.”. In parole ancora più povere di quelle
divine, il comandamento affermava che era vietatissimo disegnare quadri, comporre statue e prostrarsi davanti a loro; concetto divino ribadito anche in Dt 4,5. Il motivo appare giusto: l’adorazione di immagini e feticci distrae il credente dalla reale essenza di ciò che si adora e lo porta all’idolatria, alla superstizione, alle false credenze. È ciò che appare quando si vede un credulo prostrato dinnanzi a un pezzo di legno chiamato crocifisso o al disegno fantasioso di un tizio chiamato santo o a una statua chiamata Gesù o madonna o qualcos’altro. Il pagano Porfirio aveva ridicolizzato quest’usanza (vedi il paragrafo IV-2 “Contro gli ebrei, contro i pagani”, cap. IV). Ebrei, protestanti e musulmani rispettano oggi tale principio: nei loro luoghi di culto non vi sono immagini fiabesche e statue fantasiose. Eppure, nonostante l’eliminazione del secondo dei comandamenti, questi sono rimasti dieci: miracolo! In realtà, come si può verificare, l’originario decimo comandamento divino (Es 20,17): Non desidererai [desiderare] la casa del tuo prossimo. Non desidererai [desiderare] la moglie del tuo prossimo” è stato sdoppiato in due: nel nono non si deve desiderare la donna d’altri e nel decimo non si deve desiderare la roba d’altri. Nonostante dio avesse decretato (Dt 4,2): “Non aggiungerete nulla a ciò che io vi comando e non ne toglierete nulla”, i padri della Chiesa hanno disatteso il loro Verbo. Da non crederci! Non fu un’azione semplice. Tra i cristiani, la lotta tra gli iconoclasti – contrari a idoli e immagini sacre – e gli iconolatri e gli iconoduli – cultori e adoratori di idoli e immagini sacre – è durata oltre un secolo. L’inizia l’imperatore bizantino Leone III nel 726 distruggendo un’icona del Cristo e sostituendola con una croce; quindi formalizza l’iconoclastia con un decreto nel 730 e sostituisce il patriarca Germano I contrario all’iconoclastia. L’anno dopo il papa Gregorio III scomunica gli iconoclasti e, in risposta, Leone III confisca le terre della Chiesa di Roma in Calabria e Sicilia. Costantino V, iconoclasta come il padre Leone III, gli succede nel 741 e dopo alcuni anni si scaglia contro gli iconoduli. Secondo l’imperatore bizantino, l’immagine di Cristo rappresenta solo la sua natura umana, escludendo quella divina, e chi adora tale immagine è un eretico. Nel 754 Costantino V convoca il concilio di Hiera, in occasione del quale i vescovi della Chiesa bizantina accettano l’iconoclastia. I monaci, che avevano un proficuo commercio con le icone, si oppongono a questa decisione e, negli anni a seguire, l’imperatore confisca diversi monasteri, anche per ridurre la crescente potenza monastica e incamerare i loro beni. Nel 784 Irene, madre tutora del giovane imperatore bizantino Costantino VI e
iconolatra, fa eleggere patriarca l’iconodulo Tarasio. Tre anni dopo, su proposta del papa Adriano I, a Nicea si tiene un secondo concilio ecumenico, che ripristina il culto delle immagini sacre. Carlo Magno (742–814) si oppone vivamente, invita papa Adriano I a convocare un sinodo nel 794 a Francoforte, dove è riaffermata l’iconoclastia. In queste azioni, la parola di Dio c’entra ben poco; infatti, siamo in un periodo di conflittualità tra impero bizantino e occidente. Con l’accettazione dell’iconoclastia, papa Adriano I riafferma il primato di Roma sul patriarca bizantino, disconosce l’imperatore d’Oriente e nomina nell’anno 800 Carlo Magno imperatore dei Romani. Nel 814 anche l’imperatore bizantino Leone V vorrebbe reintrodurre l’iconoclastia perché una cospicua parte del popolo contadino, di fede iconoclasta e ridotta in miseria, abbandona l’impero per are nei territori arabi. Nomina un patriarca suo amico, che organizza un sinodo che riconosce nuovamente l’iconoclastia. Dopo alcuni decenni, Teodora, madre tutora dell’imperatore Michele III, nomina patriarca l’iconodulo Metodio I, che nel 843 condanna per la seconda volta l’iconoclastia. Nello stesso anno papa Gregorio IV condanna anch’esso in modo definitivo l’iconoclastia. I dottori della Chiesa hanno bellamente modificato i voleri del loro dio spiegando sottilmente che il figlio di dio si è fatto uomo e si è reso visibile, e quindi champagne! Oggi, per giustificare l’invasione di immagini – da dio all’ultimo beato – i pii esegeti hanno scovato due i dell’AT dove pare che il divieto sia limitato alla rappresentazione di idoli (Es 20,23, “Non farete [fate] dèi d’argento e [o] dèi d’oro accanto a me”; Dt 27,15, “Maledetto l’uomo che fa un’immagine scolpita o di metallo fuso”). Inoltre, lo stesso AT – proseguono i pii esegeti – riporta il ricorso a immagini, ad esempio: Es 25,18: “Farai due cherubini d’oro”; Nm 21,8: “(Dio a Mosè) Fatti un serpente e mettilo sopra un’asta [l’asta]”; 1 Re 6,23: “Nel sacrario [Nella cella] fece due cherubini di legno d’ulivo”; Ez 40,16: “Sui pilastri erano disegnate delle palme (altre palme in 40,26; 40,31; 40,34; 40,37, mentre 41,18 “cherubini e palme”)”. Ciò a dimostrazione che nella Bibbia si trova tutto ciò che fa più comodo. Infine, i pii esegeti mandano un siluro agli ebrei: nella sinagoga di Beit Alpha del VI secolo sono stati trovati nel 1928 molti mosaici con figure. Insomma, grazie a questa trasgressione dell’AT, si è sviluppata in duemila anni una ricca iconografia che, da una parte ha dato dei capolavori d’arte, dall’altra ha creato tutto un mondo fantastico, scadendo nell’idolatria, nella venerazione di un lenzuolo chiamato “sindone” e nel macabro feticismo con l’esposizione dei
cadaveri di santi, papi e beati. C’è da chiedersi: se esiste l’aldilà, dove questi santi realmente si trovano a sonnecchiare nei dintorni della luce divina, perché star lì ancora a martirizzare i resti di quei poveri corpi, in questo trascendente aldiquà? L’ostensione, per esprimersi in termini vaticanei, dei cadaveri non è l’unica espressione feticista del cattolicesimo: abbiamo reliquie varie in ogni parte del mondo, dai capelli della madonna, a pezzi di braccia e di gambe di vari santi, ma il pezzo più prestigioso – come già ricordato – è il prepuzio di Gesù: ne abbiamo diversi sparsi qua e là per il mondo. A proposito di prepuzi, chissà quale arcano messaggio divino si cela dietro quest’esemplare o dell’AT, da far leggere ai bambini perché “parola di dio”, che illustra la dote che deve portare Davide a Saul per sposarne la figlia (1 Sm 18,25): “Allora Saul disse: «Riferite a Davide: il re non vuole [pretende] il prezzo nuziale, ma solo cento prepuzi di Filistei, perché sia fatta vendetta dei nemici del re»”… Davide si alzò, partì con i suoi uomini e abbatté [uccise] tra i Filistei duecento uomini. Davide riportò tutti quanti i loro prepuzi al re [eliminata la frase: e li contò davanti al re] per diventare genero del re”. Ecco l’importante precisazione della Bibbia di Gerusalemme allo squallido episodio: “I prepuzi certificheranno che le vittime sono Filistei non circoncisi” (!). Se la Chiesa ha modificato, in modo chiaro e inequivocabile, la Bibbia, ciò che lei stessa dice essere parola di Dio, quale devozione possono avere la Chiesa e i suoi fedeli nei riguardi del dio che venerano? Eppure Gesù era stato chiaro (Mt 5,17 e segg.): “Non crediate che io sia venuto [Non pensate che io sia venuto] ad abolire la Legge o i Profeti …non erà neppure un solo iota o un solo trattino [un iota o un segno] della legge, senza che tutto sia avvenuto [compiuto]. Chi dunque trasgredirà uno solo di questi minimi precetti [questi precetti, anche minimi], e insegnerà agli altri [agli uomini] di fare altrettanto, sarà considerato minimo nel regno dei cieli”, mentre sarà considerato grande nel regno dei cieli chi i precetti li osserverà. La Chiesa ha alterato quei comandamenti che essa stessa assegna al suo dio per il semplice motivo che è la Chiesa che si è fatta dio.
V-6 L’invenzione della croce È abbastanza lugubre che i seguaci del cristianesimo hanno come simbolo sacro la croce, uno strumento di morte, che emana tristezza, dolore e angoscia. Se Gesù fosse stato ucciso durante la rivoluzione se, i cristiani come simbolo avrebbero avuto la ghigliottina e tante ghigliottine sarebbe state appese al collo dei preti, nelle chiese e nelle aule scolastiche. L’assurdo è che la croce è l’ennesima invenzione dei padri della Chiesa. La pena di morte era eseguita con lapidazione da parte degli ebrei e con crocifissione da parte dei Romani. La forma più semplice di crocifissione era il fissaggio del condannato a un palo verticale, denominato stauros in greco; tale definizione è riportata da Diodoro Siculo e da altri scrittori del I e II secolo d. C. I vangeli non forniscono chiarimenti e Pietro nella sua Prima Lettera scrive (1 Pt 2,24) “Egli portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce” ma il termine greco originale è ξύλου, xulon, che significa “legno” e non “legno della croce”, arbitrariamente tradotto. Negli Atti (At 5,30; 10,39; 13,29) scompare il “legno” e appare solo la “croce”, ma in Gal 3,13 resta correttamente “legno”. Nel testo greco del NT il vocabolo stauros indica palo, inteso come quello utilizzato per la crocifissione, e il vocabolo xulon indica tronco di legno morto (mentre dendron è l’albero vivo); tutte e due i vocaboli, stauros e xulon, sostanzialmente hanno lo stesso significato. A volte il palo era appuntito in modo da impalare la vittima, a volte questa era legata con le mani congiunte in alto, talvolta a testa in giù. Nel NT greco non c’è una frase dalla quale sia evidenziato che stauros, invece di indicare un palo, indichi due pezzi di legno a forma di croce, ma nel NT tradotto (almeno in quello italiano) la gratuita traduzione di stauros è stata di “croce”. All’epoca erano utilizzate dai Romani per le crocifissioni la croce di sant’Andrea a “X”, la croce greca a “+” e la croce a “T”; non era nota la croce latina, che era una croce greca “+” con l’asse verticale allungato. La bimillenaria iconografia cristiana ci mostra Gesù in una croce latina con le mani e i piedi inchiodati e il capo chino sofferente; la tipica via crucis ci fa vedere Gesù che porta la croce sulle spalle. Le cose non andarono così. I Romani attuavano la crocifissione secondo varie modalità, per motivi, diciamo, organizzativi. Ricorrendo al palo semplice, le braccia si legavano al di sopra del
capo; con i piedi bloccati, la morte giungeva dopo una, due ore per asfissia perché il condannato non poteva muoversi per respirare. Oltre al palo semplice, c’era la crocifissione attuata con due paletti verticali sui quali poggiava un palo orizzontale, una sorta di portale; il condannato era legato per le braccia al palo orizzontale con dei legacci e il corpo pendeva verticale; era una morte atroce, e giungeva, anche in tal caso, quasi sempre per asfissia. Spesso si preparavano croci di sant’Andrea, cioè a “X”, [il nome deriva dall’apostolo Andrea che pare sia stato crocifisso a Patrasso dai Romani su una croce a “X”] poggiate per terra, sulle quali erano legate o inchiodate le braccia; la croce era poi innalzata e fissata a un palo perpendicolare già piantato nel terreno e i piedi erano legati al palo verticale. I seimila seguaci di Spartacus furono crocifissi lungo la via Appia su dei pali con l’estremità forcuta, come una fionda (costruire seimila croci avrebbe richiesto molto tempo), e i condannati erano legati, anche in tal caso, per le braccia, alle due estremità divergenti. I Romani curavano anche il luogo delle esecuzioni, che doveva essere ben visibile al popolo in modo da essere esemplare. In Palestina, in occasione delle guerre giudaiche, quando i Romani arrivavano ad eseguire anche a 500 esecuzioni al giorno, come riporta Giuseppe Flavio, la procedura fu semplificata a un semplice palo senza l’estremità forcuta. Per accelerare il decesso, a volte erano spezzate le ossa delle braccia o delle gambe (riportato anche da Gv 19,32); invece, per allungare l’agonia si metteva un poggia piedi. Poiché nel 1968 è stato scoperto a Gerusalemme (caso unico, giacché i corpi dei deceduti erano lasciati a decomporsi, eventualmente a essere mangiati dalle bestie e poi gettati come spazzatura) lo scheletro di un giovane crocifisso in posizione fetale, è probabile che fosse questa la posizione assunta dai condannati e non quella facciale, come vuole l’iconografia cattolica. La crocifissione ipotizzata dalla tradizione cattolica prevede due pali, uno verticale (stipes), già fissato sul terreno, e uno orizzontale (patibulum), che il condannato doveva portarsi sulle spalle sino al luogo della esecuzione, dove era completato il montaggio a croce a forma di “T” (crux commissa). Nel 1878 il tedesco Hermann Fulda scrisse il trattato Das Kreuz und die Kreuzigung (La Croce e la Crocifissione) concludendo, dopo lunghissima disquisizione, che Gesù morì su un semplice palo, che era il normale mezzo di esecuzione a quei tempi in Oriente e come si deduce dal tipo di sofferenze cui era stato sottoposto Gesù e dalle espressioni tratte dai primi padri della Chiesa.
Gli stessi testimoni di Geova, che credono maniacalmente nella loro Bibbia più di quanto lo facciano i cristiani, sono convinti che lo strumento di tortura di Gesù sia stato un palo e non una croce; c’è però da considerare, in tal caso, che il mancato riconoscimento della croce serve anche a distinguersi dalle sette cristiane. L’AT vietava la rappresentazione di immagini (Es 20,4) ma questo comandamento, dopo alcuni secoli, come abbiamo visto, è stato disatteso dai cattolici e cancellato. Ad esempio, il concilio di Elvira (oggi Granata) del 303, che gettò le basi per il cristianesimo in Spagna, prescriveva che nelle chiese “non ci devono essere pitture, in modo che non sia dipinto sui muri ciò che è onorato e adorato”. I cristiani dei primi secoli, quindi, obbedivano all’AT e non eseguivano alcuna rappresentazione di Gesù. Un loro simbolo era il pesce, perché la traduzione greca ichthys era l’acronimo di Iesous Christos Theou Hyios Soter, Gesù Cristo di Dio Figlio (e) Salvatore. La visione della croce che avrebbe avuto Costantino è una delle solite favole e, in ogni caso, non riguardava lo strumento di tortura; era il cristogramma chi-rho utilizzato dai primi cristiani, rappresentato dalla lettera X (chi) posta sulla lettera P (rho), iniziali della parola Χριστόζ (Khristos). Con Costantino, i cristiani utilizzarono tale simbolo per ricordare la vittoria sul paganesimo. Altro simbolo cristiano era un’àncora, con riferimento a Eb 6,19: “In essa [nella speranza, n.d.a.] infatti abbiamo come un’àncora sicura e salda per la nostra vita [In essa infatti noi abbiamo come un’àncora della nostra vita, sicura e salda]”. I soliti esperti ecclesiastici trovano una scusante nell’assenza del simbolo della croce nei primi reperti cristiani e nelle catacombe: affermano che tale assenza era dovuta anche alla paura da parte dei fedeli di essere scoperti e perseguitati dai Romani. Si è già evidenziato che i Romani avevano interessi più importanti cui pensare, che accettavano anche altre dottrine, che trascuravano la comunità cristiana composta da individui che vivevano isolati nel loro mondo, che solo cinque imperatori su cinquanta fecero delle persecuzioni, per motivi più politici che religiosi. La realtà è che il simbolo della croce comparve nel mondo dei cristiani solo nel IV secolo e la forma latina con l’asse verticale allungato era dovuta alla comodità di portarla in processione, stabilita da Innocenzo I all’inizio del V secolo. Il presunto ritrovamento di pezzi di legno da parte di sant’Elena, madre
di Costantino, nel 326, fu successivamente trasformato dai padri della Chiesa come ritrovamento di pezzi della croce, ma è tutto da dimostrare che si sia trattato di una croce o più semplicemente di un palo e, per di più, che i reperti riguardavano la tragedia del Golgota. Potrà sembrare inverosimile, ma i primi cristiani non avevano abbinato il simbolo della croce con il decesso di Gesù, ma semplicemente come simbolo della loro religione: ciò a ulteriore dimostrazione che Gesù, o chi per lui, non morì su una croce. Solo alla fine del V secolo appaiono le prime immagini di Gesù crocifisso su una croce a “T” e non su una croce latina; non c’era motivo di realizzare una croce allungando il tratto verticale oltre la barra orizzontale. L’iconografia cattolica assume, invece, la forma a croce latina, cioè a “+” allungato (crux immessa), anche perché sopra il capo di Gesù qualcuno ha escogitato di porre il cartello (Gv 19,19) con la scritta Jnri, Jesus Nazarenus Rex Iudaeorum. È l’ennesima invenzione giacché alla scritta suddetta, che sarebbe stata voluta da Ponzio Pilato, corrispondono per gli altri tre evangelisti tre scritte diverse (Mt 27,37: “Costui [Questi] è Gesù, il re dei Giudei”; Mc 15,26: “Il re dei Giudei”; Lc 23,38: “Costui [Questi] è il re dei Giudei”). Infine, poiché i Romani facevano portare sulle spalle del condannato solo il patibulum e non l’intera croce, la rappresentazione durante la via crucis di Gesù che porta sulle spalle la croce intera è un falso; semmai, portava solo il patibulum. Le prime croci riportavano Gesù crocefisso col volto rivolto verso l’alto con espressione gioiosa, convinto di andare in cielo, a raggiungere il Padre, e in accordo col pensiero esseno di affrontare la morte serenamente davanti ai carnefici. Ma i padri della Chiesa, a seguito dello scoop dell’espiazione del peccato originale e della salvazione dell’intera umanità tramite il sacrificio, hanno girato il volto di Gesù verso il basso, aggiungendo l’espressione dolorosa e sofferente, che perdura ancora oggi. Inoltre, le crocifissioni avvenivano legando mani e piedi con legacci e solo in qualche caso inchiodavano gli arti (anche perché a quel tempo non era facile avere a portata di mano dei chiodi metallici); solo il cinismo della Chiesa ha imposto l’inchiodatura degli arti di Gesù. Nel 451 il papa Leone I, dottore della Chiesa, papa ortodosso e zelante, aveva pontificato – senza alcuna pezza di documentazione – che Gesù crocifisso era stato “appeso alla croce e traato dai chiodi”. Amen. Quindi s’iniziò l’adorazione della croce, nonostante il divieto di adorare idoli riportato nell’AT e nel NT (Eppure aveva scritto Luca, per conto di Paolo, in 1 Cor 10,14: “Perciò,
miei cari, state lontani dall’idolatria [fuggite l’idolatria]”). Col concilio di Costantinopoli IV del 691 fu ordinata la venerazione delle immagini imponendo la croce come emblema di culto: in particolare il canone 73 ufficializzava l’invenzione e la venerazione “della santa croce” con Gesù sofferente e il canone 82 prescriveva di rappresentare Gesù in forma umana e non simbolica e non come un agnello, come era avvenuto sino allora. Cristo era stato rappresentato con l’agnello sacrificale (Gv 1,29: “Ecco l’agnello di Dio”), che con crocifissione e morte si assumeva le colpe del mondo e lo liberava; spesso l’agnello era rappresentato con una croce tra le zampe e col libro dei “sette sigilli” dell’Apocalisse (Un gustoso agnello di marzapane con la croce di cioccolato tra le zampe si vende a Pasqua nelle pasticcerie siciliane). Dopo il concilio di Costantinopoli IV, col benestare delle alte gerarchie cristiane, a partire dall’VIII secolo, la croce sarà assunta come simbolo di adorazione e sarà diffusissima (Nel precedente paragrafo abbiamo visto le lotte tra iconoclasti e iconolatri). Avrà così inizio questa triste iconografia che ha diffuso nei secoli a venire un messaggio di angoscia a miliardi di persone. La crocifissione sarà un tema diffuso tra gli artisti del medio evo; i vari Masaccio, Cimabue, Tintoretto, Antonello da Messina, Caravaggio, e tanti altri, dipingeranno dei capolavori, ma, pur essendo valorosi artisti, non avevano una maturità critica nei confronti del tristissimo messaggio di Santa Madre Chiesa, e se l’avevano se la tenevano dentro perché dai prelati erano pagati per i loro lavori. Risultato è che ci ritroviamo con una serie impressionante di capolavori artistici il cui argomento religioso altro non è che fantasia: hanno disegnato e scolpito per secoli l’irrealtà, il Grande Nulla, quando avrebbero potuto lasciarci stupende immagini del mondo che li circondava.
V-7 Il Credo “O pensi o credi” scriveva Schopenhauer. Sull’essenza del misterioso Spirito Santo e dei suoi rapporti col Padre e col Figlio, come in precedenza riportato, ci sono state diatribe millenarie tra i vari seguaci del cristianesimo e ne è rimasta traccia nella preghiera del Credo. Non dimentichiamo che, oltre ai cattolici romani, abbiamo un’altra sfilza di cattolici: copti, maroniti, armeni, caldei e via dicendo, oltre ai non cattolici: protestanti, ortodossi greci e ortodossi russi. Gli studi storico-filologici hanno dimostrato che il Credo è stato messo a punto in una prima versione a Roma tra il 150 e il 175, non in Asia Minore. Il concilio di Nicea lo modifica nel Credo niceno-costantinopolitano, cioè la base della preghiera del Credo; è una formula che afferma l’unicità di dio e la natura divina di Gesù. Col concilio di Costantinopoli I si fanno degli aggiustaggi intromettendo anche lo spirito santo. Il Credo, largamente utilizzato nella liturgia odierna, ha avuto e ha ancora oggi delle dispute tra le varie confessioni cristiane. Per i cattolici romani e i protestanti il Credo recita che lo spirito santo “procede dal Padre e dal Figlio e con il Padre ed il Figlio è adorato e glorificato”. Per gli altri cristiani lo spirito santo “procede dal Padre e con il Padre e il Figlio è adorato e glorificato”, come stabilito nel concilio Costantinopoli I del 381. Per questo cavillo, una differenza minimale (ma enorme per i cervelli ancorati dei rappresentanti delle varie fedi), che equipara o no il padre e il figlio, papi occidentali e patriarchi orientali si sono scomunicati a vicenda sino a qualche anno fa, poi ipocritamente è calato il silenzio. La preghiera del Credo prosegue recitando “Credo la Chiesa una, santa, cattolica e apostolica”; analizziamo il significato di questi quattro aggettivi. La Chiesa si definisce “cattolica”, cioè “universale” (dal greco katholikos, universale) perché disse Gesù (Mt 28,19): “Andate dunque e fate discepoli [ammaestrate] tutti i popoli [tutte le nazioni], battezzandoli [battezzandole] nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo”, frase che le stesse fonti ecclesiastiche ammettono che “risenta dell’uso liturgico”, che tradotta dal vaticanese significa che è una postilla inserita successivamente al testo originale. Ed è falso (i pii esegeti affermano che è una “scrittura ispirata”) il finale del vangelo di Marco, che riporta in particolare che Gesù avrebbe detto (Mc 16,15): “Andate in tutto il mondo e proclamate [predicate] il vangelo a ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvato [salvo], ma chi non crederà sarà condannato”. Parole,
oltretutto, che invitano ma non obbligano all’evangelizzazione di una persona, che rimane libera di non “salvarsi”. Tolti questi falsi, rimane quanto disse Gesù (Gv 16,10): “…vado al [dal] Padre e non mi vedrete più”, pertanto l’affermazione che la Chiesa è universale perché presente dove c’è Gesù è del tutto gratuita giacché Gesù …è dal Padre. Conclusione: la Chiesa che fa capo al Vaticano non è universale, cioè cattolica. È falso che sia “una” (ne abbiamo diverse che litigano tra loro, come sopra accennato), che sia “santa” (vedi l’Inquisizione, le depravazioni sessuali di diversi papi medioevali, i ragazzini sodomizzati oggi dai preti), né tantomeno che sia “apostolica” perché dai dodici apostoli non c’è alcuna documentazione scritta dalla quale risulta che la Chiesa fosse erede del loro messaggio, ma solo leggende. Inoltre, per gli apostoli che vivevano la giornata con Gesù, questo appariva certamente un uomo super, ma sempre uomo era; non sapevano che era, per la miseria, figlio di dio e che era nato da una vergine. Di conseguenza, l’aggettivo “apostolico” di cui si fregia la Chiesa romana è gratuito, insignificante. E ancora, non è “apostolica” perché gli apostoli, assieme a Gesù, sono rimasti a Gerusalemme, mentre è Paolo da Antiochia che ha diffuso il verbo. Non apostolica ma certamente “patristica” perché fondata sui dogmi stabiliti dai padri della Chiesa, quindi abbiamo una Chiesa patristica, né una, né santa, né cattolica, né apostolica. Il Credo, anche se rimane una tappa essenziale per la Chiesa, è una delle preghiere più stravaganti perché, dopo tutta una serie di prove e dimostrazioni espletate nei secoli dei secoli, il buon iddio pretende che il fedele ripeta per l’ennesima volta che crede in “lui” raccontandogli tutta la storia. L’arianesimo, quando apparve nel IV secolo, si limitava a dire: Signori miei, noi crediamo sempre nella trinità, ma non ci pare che Gesù sia un dio, semmai è un semidio. I padri della Chiesa – che a quei tempi era forte in Oriente – con l’aiuto di Costantino, in occasione del concilio di Nicea perfezionarono il Credo e misero fuori gioco il povero Ario; non contenti, nel concilio di Costantinopoli I, misero alcuni puntini sugli “i” del Credo. Di seguito è riportata la preghiera e in caratteri corsivi sono annotate le modifiche attuate a Costantinopoli, per meglio dare vita alla presunzione della trinità e per ribadire e sottolineare la perfetta equipollenza del terzetto padrefiglio-spirito santo, insomma per creare il dio cristiano, con la partecipazione della madonna. È la conferma che “credere” altro non è che sognare che esista ciò che non esiste. Da notare la superficialità con la quale bellamente si afferma
la creazione “di tutte le cose visibili” e, visto che ci siamo, pure di quelle misteriosamente “invisibili”. Come recita la preghiera, Gesù è collocato in cielo perché non dia più fastidio in terra. Alla fine, il richiamo al fedele per rinfrescargli che comanda la Chiesa una, santa, cattolica e apostolica. Ecco questo immane monumento alla credulità umana, che rappresenta una sintetica raccolta di tutte le invenzioni e le falsità dei padri della Chiesa per creare il loro dio e che i fedeli recitano a memoria. Preghiamo. Credo in un solo Dio, Padre Onnipotente, creatore del cielo e della terra, di tutte le cose visibili e invisibili. Credo in un solo Signore Gesù Cristo unigenito figlio di Dio nato dal Padre prima di tutti i secoli. Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero, generato, non creato, dalla stessa sostanza del Padre. Per mezzo di Lui tutte le cose sono state create. Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo e per opera dello Spirito Santo si è incarnato nel seno della Vergine Maria e si è fatto uomo. Fu crocifisso per noi sotto Ponzio Pilato, morì e fu sepolto e il terzo giorno è resuscitato secondo le Scritture ed è salito al Cielo e siede alle destra del Padre e di nuovo verrà nella gloria per giudicare i vivi e i morti ed il suo Regno non avrà fine. Credo nello Spirito Santo che è Signore e dà la vita e procede dal Padre e dal Figlio [e dal Figlio è un’aggiunta posteriore, n.d.a.] e con il Padre ed il Figlio è adorato e glorificato e ha parlato per mezzo dei profeti. Credo la Chiesa una, santa, cattolica e apostolica. Professo un solo battesimo per il perdono dei peccati e aspetto la resurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà. Amen.
La ragnatela del cristianesimo Elencare tutte le confessioni che vi sono sotto l’etichetta del cristianesimo è un lavoro improbo. Quasi tutto ha origine dai sacri testi sui quali si fonda il cristianesimo, che sono vacui, inaffidabili, privi di documentazione accertabile e di un chiaro principio catecumenale. Tale equivoco panorama ha avuto un ruolo importante nel far nascere varie interpretazioni e i conseguenti credi religiosi, la cui ragnatela è così fitta che potrebbe essere interpretata anche secondo altri criteri di suddivisione. I Cristiani si ripartiscono in: Cattolici, Ortodossi, Protestanti-Evangelici, Anglicani, Armeni, Copti, Restaurazionisti. La Chiesa Cattolica si suddivide in: Chiesa latina (che a sua volta si suddivide in rito romano, ambrosiano e altri), cattolica armena, cattolica caldea, cattolica copta-etiope, cattolica maronita, cattolica greco-melkita, cattolica siromalankarese, greco-cattolica (albanese, bielorussa, bizantina, bulgara, croata, macedone, rumena, russa, rutena, serbo-montenegrina, slovacca, ucraina, ungherese). La Chiesa Ortodossa si suddivide nei patriarcati di Alessandria, Antiochia, Costantinopoli, Gerusalemme, Mosca, nelle chiese nazionali (albanese, americana, bulgara, ceca e slovacca, cipriota, georgiana, greca, polacca, rumena, serba), nelle chiese autonome (cinese, estone, Europa occidentale, finlandese, giapponese, monte Sinai, Ocrida, ucraina). Vi sono altri rami ortodossi non ufficiali e non riconosciuti. La Chiesa Protestante-Evangelica si suddivide in vari rami, tra cui: luterani, metodisti, pentecostali, valdesi, battisti, calvinisti, evangelicali, quaccheri. Per Restaurazionisti si definiscono: avventisti, mormoni, testimoni di Geova, unitarianisti, manalisti.
V-8 Il battesimo, esorcismo puro La mente e l’azione umana dei fedeli sono perseguitate da una serie di ingenui riti cattolici, in modo da costringere sempre a rispettare un facile formalismo dietro il quale sorge, minacciosa, una croce. L’ossessiva ripetizione dei riti, come la messa o il battesimo, li hanno svuotati dei contenuti, rimanendone solo la forma. Non bastava il padre, il figlio, lo spirito santo, la crocifissione e la redenzione, migliaia di santi e altre migliaia di beati, ci vogliono pure i sette sacramenti: la fonte battesimale, la cresima (o confermazione), l’eucaristia (o comunione), la confessione (o riconciliazione), la sacra unzione, l’ordine sacro. Ultimo sacramento, per chi non ne può fare a meno, è il matrimonio, inteso come “edificazione della piccola Chiesa domestica” e con la benedizione di dio: insomma, la Chiesa si è posizionata anche in mezzo alle lenzuola. Puoi essere stato un perfetto e convinto credente e una sorta di santo vivente, ma se al punto di morte non acchiappi l’estrema unzione per la “guarigione spirituale”, qualche settimana di purgatorio non te la toglie nessuno. Perché dalla nascita (battesimo) alla morte (estrema unzione), il sentiero della vita del credente scorre in equilibrio lungo il burrone del peccato. Poi abbiamo le virtù cardinali (che si raggiungono con la sola forza dell’uomo): prudenza, giustizia, fortezza e temperanza; non è finita, ci sono anche le virtù teologali (che si raggiungono solo con la grazia di dio): fede, speranza, carità, richiamate da Paolo (1 Cor 13,13), che proprio qualche rigo prima sentenzia (1 Cor 13,8) che “la scienza svanirà” e, immagino, che si vivrà felicemente nel dono divino dell’ignoranza. Annotata la grossa sciocchezza di Paolo, i revisori dell’ultima edizione della Bibbia, obtorto collo, hanno modificato la frase “la scienza svanirà” edulcorandola con la nuova versione “la conoscenza svanirà”. Wojtyla sentenziò che le virtù teologali (dal greco teos, dio, e logos, parola) “sono come tre stelle che s’accendono in cielo per guidarci verso Dio”, e cioè la “fede” nel dio che la Chiesa propone, la “speranza” nella vita eterna che l’immancabile Chiesa garantisce e la “carità” con la quale si ama dio e il prossimo, naturalmente sempre con l’intercessione dell’onnipresente Chiesa. Insomma, Chiesa in primis. La Chiesa, abile nell’ipostatizzare, non richiede al fedele alcuna forma di pensiero autoctono, né è interessata alla dignità della sua persona nel migliorarsi nella scala dei valori terreni (come lo studio e il lavoro), né al miglioramento del progresso civile, ma vuole principalmente che il fedele si trasformi in uno zombi
anelante dio nell’aldiquà, ma sempre con un piede sull’orlo del burrone del peccato, in fondo al quale vi sono le fiamme eterne dell’inferno nell’aldilà. Un edificio di assurdità astruse, inconciliabili col pensiero di Gesù, non irrazionali bensì sovra-razionali, qualcosa di superiore alla ragione, comprensibile solo per fede, in duplice razione. Un esempio di tale edificio si ha in occasione del sacramento del battesimo. La Chiesa – che tanto difende la vita dei malati terminali e altrettanto ostacola i contraccettivi per il controllo delle nascite – appena viene alla luce una creatura, cerca di bloccarne subito il cervello, negandogli il diritto di pensare e condizionandolo ai suoi riti. Magia ed esorcismo sono i componenti alla base del battesimo d’oggi, più complicato dell’inutile battesimo di Gesù con le acque del Giordano (inutile in quanto Gesù era figlio di dio e immacolato). S’inizia col rito dell’accoglienza: il sacerdote chiede ai genitori il nome del peccatore che sta per essere redento dai peccati e il motivo per cui loro sono venuti, quindi controlla che il battezzando abbia la veste bianca, come vuole l’Apocalisse (Ap 7,13). Primo segno della croce di tutti i presenti. Si richiama la parola di Dio ripetendo la frase posticcia già richiamata, non divina ma del tutto umana (Mt 28,19: “Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli [ammaestrate tutte le nazioni], battezzandoli [battezzandole] nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo”, che celebra “il profondo legame che unisce la duplice missione affidata da Gesù alla sua Chiesa”. Quindi s’invocano Maria e tutti i santi. Poi si recita la “preghiera di esorcismo” e il sacerdote, dopo avere soffiato per mandare via il demonio, traccia una croce sulla fronte e sul petto, quindi stende la mano sul capo della creaturina. Poi dovrebbe essere messo in bocca un chicco di sale “benedetto”, segue la preghiera sull’acqua (ricordando lo spirito di dio che aleggiava sulle acque, il diluvio, il mar Rosso che si apre a Mosè, le acque del Giordano), un’altra cacciata del demonio (triplice rinuncia a Satana e altrettante professioni di fede). Poi, triplice immersione nell’acqua, sostituita oggi da un’abluzione: si versa tre volte in forma di croce l’acqua “lustrale” (cioè attinente alla lustrazione, sacrificio della purificazione) sul capo del poverino. Sul capo, perché è la parte più degna del corpo e tre volte in onore della santissima trinità e in forma di croce perché la rinascita avviene per il sacrificio sulla croce. Quindi si richiede se si vuole il battesimo (ma il bambino piange e ha altro cui pensare e al posto suo rispondono i genitori e non si comprende a quale titolo). Segue l’unzione, che ricorda Gesù l’Unto, e un’altra croce sulla fronte con l’olio
“benedetto dal vescovo”. Il rito prosegue con un altro esorcismo: il sacerdote tocca col pollice bagnato di saliva le orecchie e il naso del battezzando, come fece Gesù col sordomuto (Mc 7,33) affinché i sensi siano aperti, d’ora in poi, alla parola di dio; questa procedura, che fa un po’ disgusto, pare sia stata abolita. Quindi ci sono altri riti di contorno: la candela accesa (simbolo di Gesù risorto), lo spostamento verso l’altare (i prossimi sacramenti della cresima e dell’eucaristia), la recita del pater noster e l’immancabile benedizione finale. Problemi sorgono per neonati abortiti, per feti più o meno sviluppati e per i prematuri, ma la liturgia sacramentale copre la casistica in modo che tutte le anime siano salve.
Lo sbattezzo L’UAAR, Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti, ha approntato un modello di lettera da inviare come raccomandata A/R alla parrocchia dove si è stati battezzati per chiedere lo sbattezzo, in accordo col Decreto Legislativo n. 196/2003. Al Parroco della parrocchia di … OGGETTO: Istanza ai sensi dell’art. 7 del Decreto Legislativo n. 196/2003. Io, sottoscritto XX, nato a X il … da XX e da XX, residente in via/piazza X, comune di X, con la presente istanza, presentata ai sensi dell’art. 7, comma 3, del Dlgs. 196/2003, mi rivolgo a Lei in quanto responsabile dei registri parrocchiali. Essendo stato sottoposto a battesimo nella Sua parrocchia, in una data a me non nota ma di poco successiva alla mia nascita, desidero che sia rettificato il dato in Suo possesso, tramite annotazione sul registro dei battezzati, riconoscendo la mia inequivocabile volontà di non essere più considerato aderente alla confessione religiosa denominata “Chiesa cattolica apostolica romana”. Chiedo inoltre che dell’avvenuta annotazione mi sia data conferma per lettera, debitamente sottoscritta. Si segnala che, in caso di mancato o inidoneo riscontro alla presente richiesta entro 15 giorni, mi riservo, ai sensi dell’art. 145 del richiamato Dlgs. 193/2003 di rivolgermi all’autorità giudiziaria o di presentare ricorso al Garante per la protezione dei dati personali. Dichiaro di rinunciare da subito a qualsivoglia pausa di riflessione o di ripensamento in ordine alla soprascritta istanza; avverto che considererò ogni dilazione come rifiuto di provvedere nel termine di legge (15 giorni, ai sensi dell’art. 146, comma 2, del richiamato Dlgs. 196/2003) e che quindi intendo immediatamente ricorrere all’autorità giudiziaria o al Garante per la tutela dei dati personali, qualora Lei illegittimamente differisse l’annotazione richiesta a un momento successivo al quindicesimo giorno dal ricevimento della presente. Ciò, in ottemperanza del richiamato Dlgs. 196/2003 (che ha sostituito, a decorrere dall’1/1/2004, la previgente Legge 675/1996), in ossequio al pronunciamento del Garante per la protezione dei dati personali del 13/9/1999 ed alla sentenza del Tribunale di Padova depositata il 29/5/2000. Si diffida dal comunicare il contenuto della presente richiesta a soggetti terzi che siano estranei al trattamento e si avverte che la diffusione o la
comunicazione a terzi di dati sensibili può configurare un illecito penale ai sensi dell’art. 167 del richiamato Dlgs. 196/2003. Si allega fotocopia del documento d’identità. Distintamente.
V-9 La penitenza Il concetto del “peccato originale” è ricco di sadismo: dio, che conosce tutto, crea l’uomo responsabile di gravi colpe (a suo dire) e, comunque, lo crea e sta a guardare. Dice il prete: l’uomo è stato creato col “libero arbitrio”, se sbaglia è colpa sua e non di dio. Il trionfo non solo del sadismo ma anche dell’irrazionalità. E non finisce qui, prosegue il prete, perché il peccato chi lo fa lo paga, forse qua ma certamente là, nella vita eterna. Se questa nostra vita terrena è solo una fuggevole parentesi, essendo la vera vita di là, perché dio ci fa vivere di qua? Cerchiamo di dare un senso a questa invenzione più satanica che divina. La brutale forza romana fa crollare il sogno di Gesù che aveva annunciato l’avvento del regno di dio. I suoi discepoli, sgomenti, in un primo momento si disperdono, poi serrano le fila mossi dalla fede nel loro maestro o in un loro maestro. Bisognava motivare la sua morte e pensarono che forse rientrava nel disegno divino. Gesù, o chi per lui, era il “messia”, dunque non più profeta ma “salvatore” del genere umano. Un salto di qualità che richiedeva una spiegazione “superiore” della morte sulla collina del Calvario. Probabilmente ad Antiochia, presso la comunità greca dei neo-cristiani, nacque la favola del quasi suicidio di Gesù, morto per redimere l’umanità. La fede dei discepoli ha fondato la religione di Gesù il Cristo sulla morte di Gesù e sulla speranza spezzata. La storia la conosciamo da Paolo, ma probabilmente non l’ha inventata lui, ha fatto solo da portavoce e cassa di risonanza. A noi uomini civili resta il dubbio: il “padre” aveva proprio bisogno del martirio e della vita del “figlio” per essere soddisfatto? Si, risponde il catechismo. Francamente, se si martirizza un incolpevole e povero Gesù in croce, questa non è né giustizia né misericordia. Dal concetto del peccato originale a quello, conseguente, della penitenza. Come l’eucaristia, anche il sacramento della penitenza (detto anche della confessione o della conciliazione) è un rito imposto dalla Chiesa e non v’è traccia nel NT. È stata inserita nell’incerto vangelo di Giovanni una frase posticcia che sarebbe stata pronunciata da Gesù (Gv 20,22): “Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete [a chi rimetterete] i peccati, saranno perdonati [rimessi]; a coloro a cui non perdonerete [a chi non li rimetterete], non saranno perdonati [resteranno non rimessi]”. Gesù parla di perdono, ma non di confessione, né parla di peccati mortali e veniali, inventati dalla Chiesa; parla solo di premi e di castighi, che era
una prassi della religione giudaica. L’unica penitenza dei primi cristiani era il battesimo nell’acqua purificatrice e per usufruire della conciliazione molti di facevano battezzare prima della morte, come ho ricordato trattando di Costantino. Nel medioevo la confessione non era ritenuta obbligatoria; lo divenne col concilio Lateranense IV (1215). La realtà è che la Chiesa non può fare a meno del peccato: senza peccatori non avrebbe motivo di esistere. Di conseguenza, avanti tutta con la sindrome peccaminosa, non per rendere immuni i poveri fedeli, bensì perché essi siano frustati dal peccato e chiedano alla Chiesa i bonus per la salvazione e l’ascesa all’agognato paradiso.
V-10 Angeli e demoni San Tommaso d’Aquino, primaria star cristiana, credeva che gli angeli fero muovere le stelle e rotare la volta celeste. L’uomo primitivo non sapeva concepire l’idea della trascendenza – che era un’idea immateriale, non percepibile dai sensi – e così antropoformizzò dio e i suoi attributi: ad esempio, la forza divina era l’angelo Gabriele e la medicina divina era l’angelo Michele; lo stesso fece per i caratteri negativi e per il male fu tirato in ballo satana e i suoi demoni. Angeli e demoni fanno parte dell’infanzia del cristianesimo, ma vedremo che fanno parte anche della sua maturità. Nell’AT ci sono diversi richiami ai cherubini (dal babilonese karibu). Sono richiamati a guardia del giardino dell’eden (Gen 3,24) o da scolpire sull’arca dell’alleanza (Es 25,18). Si hanno altri riferimenti. (Sal 18,11): “(Dio) Cavalcava un cherubino e volava, si librava sulle ali del vento”; (Sal 80,2): “Seduto sui cherubini, risplendi [Assiso sui cherubini rifulgi]; (Sal 99,1): “Il Signore regna, tremino i popoli; siede in trono sui cherubini, si scuota la terra”; (1 Sam 4,4; 2 Sam 6,2): “…del Signore [del Dio] degli eserciti, che siede sui cherubini…” e (Ez 10,2): “Io guardavo ed ecco sul firmamento che stava sopra il capo dei cherubini, vidi come una pietra di zaffiro…”. Ma questi cherubini erano degli angeli? Nemmeno per sogno: erano delle creazioni liriche e lo stesso AT riporta (Ez 1,5 e segg.) che hanno sembianze umane ma con quattro facce e quattro ali, mani di uomo e zoccoli di vitello al posto dei piedi, fattezze di uomo, leone, toro e aquila. I primi estensori dell’AT, durante l’esilio in Assiria e Babilonia, videro i cherubini: erano le statue e i bassorilievi rappresentanti buoi alati dal viso umano, collocati come guardiani agli ingressi dei palazzi e dei templi assiro-babilonesi, e li inserirono nelle loro storie divine. I padri della Chiesa hanno preso una sonora cantonata ritenendo che i cherubini fossero degli angeli e non degli animali mitologici. Mentre i primitivi, come detto, antropomorfizzavano gli attributi di dio, chi crede in una religione è portato ad antropizzare la Natura affibbiandole comportamenti malvagi o benevoli, secondo l’umore del suo “creatore”. Molti credenti sono portarti ad antropomorfizzare anche gli aspetti del proprio stato d’animo con l’angelo custode, col quale anche dialogano. Secondo il “Catechismo della Chiesa cattolica”, l’angelo custode compare istantaneamente nel momento in cui il bambino è battezzato e prende lo stesso nome del
bambino. Non si comprende quale Autorità Superiore provvede allo smistamento degli angeli custodi tra i vari battezzandi e non si sa che fine fanno quando i loro protetti, nonostante la loro protezione, se ne volano in cielo. Il cardinale Martini sul Corriere della Sera del 28 febbraio 2010 risponde a un lettore che gli chiede “perché” (e non “se”) esistono gli angeli. Il cardinale premette che nell’attuale momento storico gli angeli sono “nel limbo della dimenticanza”, ma conferma che esistono perché appare conveniente all’uomo, essere corporeo, che ci siano altri esseri intermediari tra l’uomo e dio, come riporta l’AT dove l’autore del salmo (Sal 8,6) si rivolge a dio affermando che l’uomo “Eppure l’hai fatto poco meno degli angeli, di gloria e di onore l’hai coronato”. Come sempre, nella Bibbia si trova di tutto: un emerito sconosciuto di 2.200 anni fa, anno più anno meno, si è sognato nel delirio di scrivere a dio che noi uomini siamo un tantino più sotto degli angeli, e tanto basta per dimostrare che gli angeli esistono. C’è una sorpresa: la frase riportata in Sal 8,6 e richiamata da Martini è stata modificata nell’ultima versione della Bibbia: “Davvero l’hai fatto poco meno di un dio [minuscolo, n.d.a.], di gloria e di onore lo hai coronato”. Quindi noi umani, tra un’edizione e l’altra della Bibbia, abbiamo fatto carriera: non più sotto una spanna degli angeli, bensì sotto una spanna di dio. Comunque, Papa Ratzinger ha temerariamente pontificato che gli angeli custodi esistono, ma è da scommetterci che non ha mai visto nemmeno il suo. Sorge il grosso quesito: un papa, che è vicario di Cristo, ha un angelo custode o può licenziarlo quando sale sul trono di Pietro? Il credente è talmente certo delle figure antropomorfe che la sua religione gli somministra, che considera stravaganti e strambe le altre religioni. È così che leggende e superstizioni attecchiscono nel bagaglio di nozioni delle varie tribù umane, si sviluppano e sono elaborate col procedere dei tempi. Ancora oggi c’è chi crede nel diavolo e padre Gabriele Amorth (il cognome è tutto un programma), esorcista professionista, riceve per appuntamento coloro che se lo vogliono togliere d’addosso; inoltre, telefonando al centralino del Vaticano, 066892, si può richiedere l’indirizzo dell’esorcista più vicino. Secondo mons. G. B. Proja, autore del libro “Uomini Diavoli Esorcismi” del 1992, quindi in era che si ritiene moderna e civile, i demoni sono angeli creati da dio, ma che si sono allontanati per cercare la propria gloria, con una scelta volontaria e totale. Bruciano di un misterioso fuoco reale, punizione per la loro superbia e subiscono questa pena giusta con rabbia e con bestemmie (forse mons. Proja, tra una bestemmia e l’altra, li ha intervistati). Malgrado ciò, essi
non possono intaccare né il creato né l’uomo, anche se – prosegue mons. Proja – i demoni, rispetto all’uomo, sono più intelligenti, più astuti, più vigili, più tenaci, per trascinare alla rovina le anime. Comunque, il demonio non è onnipotente, non è onnisciente, non è onnipresente. Si dice (mons. Proja non indica la fonte) che durante alcuni esorcismi fu chiesto al diavolo (dal plurale “demoni”, mons. Proja a al singolo “diavolo”, forse il caporione) di indicare come si svolgeva la sua esistenza. Rispose con una frase latina palindroma, cioè leggibile da destra e da sinistra: In girum imus nocte et consumimur igni (andiamo in giro di notte e siamo consumati dal fuoco). E bravo il diavolo, provetto enigmista! Il monsignore dimentica che il demonio è stato, a suo tempo, incatenato dall’angelo Raffaele e da allora se ne sta nell’alto Egitto, perché lo disgusta la puzza del pesce, come documenta la Bibbia, Tb 8,3: “L’odore del pesce respinse il demonio, che fuggì verso le regioni [nelle regioni] dell’alto Egitto. Raffaele vi si recò all’istante e in quel luogo lo incatenò e lo mise in ceppi”. In appendice è riportato l’Elenco dei demoni che non sopportano le preghiere; si tratta di un elenco “ufficiale” riportato da mons. Proja. Non è il caso di leggerlo, ma solo di scorrerlo, gustando un ipotetico viaggio a ritroso nel tempo del più profondo e buio medioevo, meditando sulle alte vette che può raggiungere la credulità umana. Nella successiva edizione del 2002 del suo libro, mons. Proja ha tolto l’elenco, forse considerandone l’aspetto comico, ma è sul sito www.verginedegliultimitempi.com/il_demonio.htm. La frase palindroma demoniaca In girum imus nocte et consumimur igni è, invece, confermata anche nell’ultima edizione.
Altri mondi Lo scambio dell’energia nell’Universo avviene tramite quattro forze: la forza elettromagnetica, la forza gravitazionale, la forza nucleare forte e la forza nucleare debole. Cos’è la forza nucleare forte? Sappiamo che un atomo è formato da un nucleo e da elettroni che girano intorno a esso; il nucleo è formato a sua volta da protoni e neutroni. I protoni hanno tutti carica positiva. Sappiamo che le particelle con la stessa carica si respingono una dall’altra, mentre quelle di segno opposto si attraggono. Quindi ci chiediamo: come mai diversi protoni, tutti di carica positiva, formano (con i neutroni, senza carica) il nucleo di un atomo e non si respingono? La risposta data dalla teoria è: deve esserci una forza che li tiene insieme, la “forza nucleare forte”. Senza la forza nucleare forte, che lega i quark nei protoni e nei neutroni e questi ultimi nei nuclei atomici, la materia che conosciamo non esisterebbe. Senza la forza elettromagnetica non ci sarebbe luce e non potrebbero esistere neppure atomi e legami chimici. Senza la gravità non ci sarebbe alcuna forza in grado di aggregare la materia in galassie, stelle, pianeti. La forza nucleare debole consente, tra l’altro, le reazioni che trasformano i neutroni in protoni e viceversa. Se la forza nucleare forte, che lega tra loro le particelle formanti i nuclei atomici, fosse leggermente più forte o più debole, le stelle avrebbero sintetizzato una quantità molto ridotta di carbonio e degli altri elementi necessari alla formazione dei pianeti e degli esseri viventi. Se il protone fosse pesato solo lo 0,2% in più rispetto al valore misurato, l’idrogeno primordiale avrebbe sperimentato un decadimento radioattivo quasi immediato e gli atomi non si sarebbero formati. Potrebbe apparire che quest’Universo sia stato fatto a misura per rendere possibile la nostra esistenza; in realtà siamo noi viventi che ci siamo sviluppati adeguandoci all’ambiente disponibile. Ma non è escluso che possano esistere altri Universi diversi dal nostro con altre leggi fisiche; il multi-Universo, cioè l’esistenza di vari universi, di cui uno è quello da noi conosciuto, è un’ipotesi che si sta sempre più sviluppando tra i ricercatori. Nei primi istanti del Big Bang, dopo pochi secondi, e dopo che i quark si erano riuniti in gruppi di tre formando protoni e neutroni, degli insiemi di quattro
protoni si sono fusi producendo nuclei di elio-4, composti da due protoni e due neutroni. Nei primi istanti di vita, l’Universo si era già raffreddato, ma era ancora sufficientemente caldo da avviare la fusione dei nuclei e produrre idrogeno ed elio, che poi hanno generato le stelle; nell’interno delle stelle si è sviluppata la fusione nucleare, che unitamente agli altri processi, ha sintetizzato quasi tutti gli altri elementi presenti in natura. Quindi senza la forza nucleare debole, è difficile pensare che possano esserci Universi dove si possano sviluppare processi, che poi hanno portato alle forme di vita che noi conosciamo. Eppure, qualche ricercatore ha ipotizzato l’esistenza d’Universi con la vita anche senza forza nucleare debole; si produrrebbero nuclei di deuterio, cioè idrogeno con un nucleo formato da un protone e un neutrone; un protone libero si fonderebbe con un nucleo di deuterio formando un nucleo di elio-3, contenente due protoni e un neutrone. Avremmo stelle più piccole e più fredde, ma in grado di bruciare e irradiare energia per miliardi di anni.
Cap. VI IL POTERE TEMPORALE
VI-1 Chiesa e Bibbia Come mai persistono ancora, nonostante l’evidenza, le assurdità che si leggono nell’AT e nel NT? Uno dei motivi principali, come afferma il teologo e storico tedesco Karlheinz Deschner (autore della monumentale “Storia criminale del Cristianesimo” in dieci volumi) è che gli studiosi vaticani della teologia cattolica sono vincolati sotto giuramento (vincolo recente, giacché risale al 1910) ai dogmi della “Pontificia Commissione sugli studi biblici”, la cui essenza principale è l’ammissione d’assurdità logiche come soprannaturali, sovrumane, divine. Tali studiosi, ad esempio, hanno dovuto accettare tout court l’assunzione in cielo di Maria, stabilita da Pio XI nel 1950, non solo in anima ma anche in corpo. La Chiesa cattolica è una struttura burocratica misogina di potere, frutto di congiunture storiche e non del messaggio di Gesù e privilegia la supremazia della tradizione a quella delle scritture sacre. I sofismi dialettici del cattolicesimo derivano da duemila anni d’esperienza leggendo i miti riportati da una miriade di testi sacri; solo nella Biblioteca Vaticana e nella Biblioteca biblica dell’Università Gregoriana di Roma vi sono un milione di testi “divini”, opere di umanissimi autori. La “Pontificia Commissione sugli studi biblici” è composta di decine d’eminenze ecclesiastiche che hanno il compito, anno dopo anno, mese dopo mese, giorno dopo giorno, di leggere la Bibbia e trovare tutti i cavilli che possano rendere “commestibile” ai fedeli quest’ammasso di notizie mitiche. Per tentare di dimostrare l’esistenza di dio si sono svolte e si continuano a svolgere fini disquisizioni filosofiche, teologiche, storiche, archeologiche, biologiche e via di seguito, sottili interpretazioni dottrinarie, dotte analisi, eleganti controversie dialettiche, tutto materiale sconosciuto ai fedeli, ai quali è solo e semplicemente fornito, come minestra in un piatto, “il mistero”. A completamento della severa burocratizzazione vaticana, va fatto presente che il testo della Bibbia è revisionato dalla “Conferenza Episcopale Italiana” e approvato dalla “Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti”, su mandato del papa e coerentemente con i testi per uso liturgico approvati dalla “Assemblea generale dei vescovi”. In definitiva, occorre credere
a quanto scritto nella Bibbia in virtù dell’autorità della Chiesa, la quale si basa sulla tradizione evangelica, vale a dire sul nulla: così si chiude un cerchio perfetto. Le sottili modifiche apportate tra l’ultima edizione del 2008 della Bibbia e la precedente del 1988 non sono relative solo al miglioramento della traduzione in un più accettabile linguaggio italiano, ma riguardano anche concetti di fondo che via via si conformano alla modernità, con l’equivoca finalità di dare a intendere che il messaggio biblico sia eterno e incorruttibile. Basta l’esempio prima riportato del o in 1 Cor 13,8 dove Paolo prevede “La carità non avrà mai fine. Le profezie scompariranno, il dono delle lingue cesserà e la scienza svanirà”. Nell’edizione 2008 il vocabolo scienza è stato sostituito con coscienza e così alla parola di Dio è stata vietato l’auspicio di avere un mondo di ignoranti. Da quanto detto si comprende come gli studiosi vaticani possono occuparsi solo di questioni secondarie, mentre i problemi fondamentali, fortunatamente, sono sviluppati da autonomi studiosi esterni alla Chiesa. La conclusione più importante di tali studiosi negli ultimi due secoli è, come ripetuto in precedenza, la non storicità dei vangeli, che risultano solo dei prodotti letterari, i cui autori non erano interessati alla realtà storica ma alla creazione fantastica di un’immagine di un tale Gesù: il Gesù dei vangeli e della Chiesa non è il Gesù storico, ammesso che sia esistito. Introducendo i vangeli sinottici, la Bibbia di Gerusalemme afferma che essi “si distinguono dai modelli pagani” (per la loro esigenza etica e la loro finalità religiosa) e “dai modelli veterotestamentari” (per la loro convinzione della superiorità messianica di Gesù), ma ammette che “Ciò non significa tuttavia che ogni fatto o detto da essi riferito possa essere preso come un resoconto rigorosamente esatto di ciò che è accaduto in realtà” e subito ribadisce “Se lo Spirito Santo non ha concesso ai suoi interpreti di raggiungere una perfetta uniformità nel dettaglio, è perché non dava alla precisione materiale un’importanza per la fede” e, di conseguenza, anche se i vangeli raccontano immaginazioni “non pregiudicano l’autorità dei libri ispirati [edizione 1988: la fede dei cristiani nell’autorità dei libri ispirati]”. Nel chiederci in quale occasione e con quale modalità ci sia stato il filo diretto con lo Spirito Santo, ecco un’altra precisazione, riportata più avanti: “Lo Spirito Santo, che doveva ispirare gli autori del Vangelo, presiedeva già a tutto questo lavoro di elaborazione preliminare e lo guidava nel dispiegarsi [nel crescere] della fede, garantendo i risultati di questa vera inerranza…”. Insomma, lo Spirito Santo è stato il presidente di Matteo, Marco e Luca, i presunti autori dei vangeli sinottici, e
garantisce l’inerranza (infallibilità)! Non si hanno notizie sui rapporti dello Spirito Santo col vangelo di Giovanni. Le Scritture sono Sacre, ma ciò che conta alla nomenklatura vaticana non è la sacralità delle Scritture, che essa stessa ha imposto, bensì la “viva coscienza della fede della Chiesa-di-Cristo vigente oggi”, ha affermato un teologo. Un altro cattolico conferma che la dottrina cristiana non è qualcosa d’immodificabile, ma è una struttura in itinere “in continuo progresso nella costruzione e nel compimento dell’opera”. Insomma, ciò che sta scritto nella Bibbia è una verità sacra e immutabile, salvo le modifiche che la Chiesa apporta quando le appare opportuno, probabilmente sempre sotto la presidenza dello Spirito Santo. Dopo due millenni d’esperienza, siamo alla perfetta trasformazione del princisbecco in oro e al reale avvento dell’ircocervo. Intorno al 1080 papa Gregorio VII dichiarava: “All’Onnipotente Dio è piaciuto stabilire, per qualche ragione, che le Sacre Scritture siano un segreto in certi punti, temendo che, se fossero comprese da tutti gli uomini, forse esse potrebbero essere sottostimate e soggette a irriverenza, o potrebbero essere fraintese da coloro di istruzione mediocre e si potrebbe incorrere in errore”. Nel 1199 papa Innocenzo III dichiarava: “I misteriosi segreti della fede non sono fatti per essere spiegati a tutti gli uomini del mondo, perché non possono essere capiti ovunque da tutti”. Dio enigmista, come il diavolo richiamato in precedenza (vedi il paragrafo V-10 “Angeli e demoni”, cap. V). La Chiesa ha sempre voluto avvolgere la Bibbia di un’aureola di mistero: il sinodo di Tolosa del 1229 stabilì che era vietato ai laici di possedere e leggere la Bibbia. Da circa un millennio almeno, la nomenklatura vaticana si è resa conto quanto non sia opportuno che i “fedeli” si addentrino nella inconsistenza del messaggio biblico. Le copie che giravano erano in latino e la massa dei fedeli non era in grado di capirlo, se non tramite la spiegazione dei preti. Un notevole o in avanti per la diffusione della Bibbia, nonostante l’opposizione della Chiesa, si è avuto a partire dalla metà del 1400 con la scoperta della stampa di Gutenberg, che mise un po’ fuori gioco i religiosi amanuensi, che avevano monopolizzato la copiatura, stampando la Bibbia. Poi apparve all’orizzonte Lutero che tradusse la Bibbia in tedesco. A quel punto, la gerarchia romana creò scaltramente un apparato produttivo, che si svilupperà sino a oggi, militarizzando la parola scritta e nel 1559 prese le misure: vietò di stampare, leggere e possedere la Bibbia in qualsiasi lingua volgare, salvo approvazione dell’Inquisizione Romana. Il divieto durerà due secoli e solo nel 1758 sarà
consentita la traduzione in volgare della Bibbia. Sino a due secoli addietro, la Chiesa condannava all’ergastolo chiunque avesse voluto tradurre la Bibbia in una lingua volgare. Il divieto della Chiesa cattolica porterà, come conseguenza sino ai nostri giorni, allo scarso amore per la lettura da parte degli italiani, degli iberici e dei popoli del “cattolicissimo” continente sud americano. Le chiese protestanti, invece, sosterranno la lettura della Bibbia. Oggi i cattolici non leggono e non conoscono la Bibbia se non in misura limitata e la stessa Chiesa non solo non incoraggia la lettura diretta (preferendone la spiegazione condizionata tramite il catechismo), ma la rende più difficile. È privilegiato solo l’accesso ai 2865 articoli del “Catechismo della Chiesa cattolica” che, con la scusa di riassumere i fatti, li falsa, nascondendone tutte le irrazionalità. I testi biblici – cioè la parola ispirata da dio – e la loro interpretazione sono stati modificati via via nel tempo adeguandoli alle necessità politico-sociali e religiose del momento storico.
VI-2 Celibato e misoginia della Chiesa Né Gesù né la Chiesa primitiva hanno mai parlato di sacerdozio, nel senso inteso oggi e cioè come condizione umana, mestamente diversa dagli altri. Nel NT (Prima lettera di Pietro, Apocalisse) per “sacerdote” s’intende un qualsiasi membro della comunità cristiana e non una persona con particolari compiti di culto; per di più, nella “Lettera agli Ebrei” si parla di Gesù venuto ad abolire il sacerdozio levìtico, che era di casta. I vescovi delle prime comunità erano una sorta di coordinatori privi di compiti specifici. La nascita delle gerarchie ecclesiastiche si avvia nel II secolo e si sviluppa nel III secolo; la sacralizzazione dei sacerdoti avviene dopo il concilio di Nicea. I primi sacerdoti erano eletti dai componenti della comunità cristiana, ma a partire dal XI secolo i fedeli furono messi da parte: i papi nomineranno i vescovi e i vescovi nomineranno i sacerdoti. Nacque così il professionismo del divino, infatti il concilio di Trento del XVI secolo sancisce sfrontatamente che il sacerdozio è una “disposizione divina”. Al centro della Chiesa, al posto di Gesù, si assesta il clero, che dopo avere inventato dio, inventa il divin mestiere, che, almeno a quel tempo, era il più redditizio e meno faticoso. Nei vangeli Gesù si rivolge con continuità alle donne e solo da esse è accompagnato al patibolo. Vi sono almeno sei donne che seguono Gesù in modo autonomo nelle sue predicazioni: Maria di Màgdala, Maria di Betania e la sorella Maria, Salomè, Giovanna, Susanna. La comunità cristiana primitiva era formata da uomini e donne e non solo da uomini, come era stata quella ebraica, alla cui appartenenza ci si avviava con la circoncisione, operazione ovviamente maschile; alla comunità cristiana ci si avviava col battesimo bisex. Al termine della “Lettera ai Romani”, Paolo saluta una sfilza di conoscenti della comunità cristiana, incluso diverse donne, e in particolare è scritto (Rm 16,7): “Salutate Andronico e Giunia, miei parenti e compagni di prigionia; sono insigni tra gli apostoli [sono degli apostoli insigni] ed [che] erano in Cristo già prima di me”. Un apostolo donna? Non sia mai detto! sentenziò nei secoli bui la nomenklatura della Chiesa: Giunia è un uomo. Con l’arrivo della modernità, qualcuno che aveva studiato il latino fece presente che l’accusativo Ionian del testo paolino può derivare dal femminile Iounia o dal maschile Iounias, ma non esistono maschi romani che si chiamano Ionias, mentre ci sono donne che si chiamano Ionia. Ah, sì? Rispondono ancora oggi i preti, ma non è detto che non
ci sia stato qualche Ionias, e, comunque, i dodici discepoli di Gesù erano maschi, punto e basta. La Bibbia di Gerusalemme si precipita ad annotare: “Andronico e Giunia sono apostoli in senso lato”. Probabilmente nulla esiste al mondo più maschilista e misogino della burocrazia vaticana (forse può far concorrenza la struttura islamica, che però non ha una disposizione così verticistica e organica come la nomenklatura vaticana). Wojtyla, il retrivo, ha detto che Gesù ha chiamato a se dodici apostoli tutti maschi e nessuna femmina e ciò significa che le donne sono escluse dai vertici di comando della Chiesa e dal sacerdozio. Papale, è il caso di dire. Però papa Bergoglio, più intelligentemente, ha affermato che il celibato non è un dogma e quindi ...si può chiudere un occhio. All’affermazione di Wojtyla contrasta proprio la chiamata da parte di Gesù dei dodici apostoli, alcuni sposati con prole, perché è un’azione simbolica e profetica (forse c’è il richiamo alle dodici tribù degli ebrei), anche casuale, che non può essere assunta come prova documentaria per sotterrare in ombrosi conventi le monache, condannate a non fare niente. E non si comprende perché, se v’erano apostoli regolarmente sposati (probabilmente quasi tutti, per quanto riportato al cap. II paragrafo II-2 “Gli anni prima della predicazione”), la Chiesa ha condannato al celibato milioni e milioni di sacerdoti. Una testimonianza della misoginia della Chiesa è palpabile con la nota frase biblica, che da due millenni i preti scaraventano addosso alla donna. In Gen 3,16 si legge il pistolotto di dio a Eva: “con dolore partorirai figli”; ebbene, in realtà l’originale vocabolo biblico significa “fatica, sforzo”, mentre il testo cristiano lo ha crudelmente tradotto “dolore”, una condanna che è stata appiccicata alla donna come simbolo di peccato e di lascivia e che denota il gusto per una gratuita malvagità. La delirante “Apocalisse” (da apokalypsis, rivelazione) è uno dei tanti scritti ebrei apocalittici che erano diffusi nel II secolo e su cui hanno speculato mistici ed esoterici. Secondo l’Apocalisse (come ho già ricordato, probabile opera di Giovanni l’Anziano e non dell’apostolo Giovanni, come afferma la Chiesa), solo 144.000 saranno le persone segnate dal sigillo divino e saranno preservate alla fine dei tempi (Ap 7,4), ed esattamente saranno 12.000 per ognuna delle 12 tribù. E saranno tutti uomini, nessuna donna, come è precisato più avanti (Ap 14,4), perché “non si sono contaminati con donne”. Il riconoscimento dei diritti delle donne e la loro liberazione da una società
patriarcale, ancora non completamente attuata, non è certo opera delle religioni monoteistiche misogine, soprattutto dal dio cristiano, che a quanto pare diventa nervoso su tutto ciò che una persona fa quando è nuda. Questo divino bigottismo moralizzatore è stato copiato dalla Santa Madre Chiesa Cattolica Apostolica Romana e loro seguaci affezionati che, presi da una debordante santimonia, si sono dedicati a scrutare cosa fanno le persone nella loro sfera privata. Nella “Lettera agli Efesini”, Paolo dopo avere cristianamente rampognato gli schiavi (Ef 6,5): “Schiavi, obbedite ai vostri padroni terreni con rispetto e timore [ai vostri padroni secondo la carne con timore e tremore] nella semplicità del vostro cuore [con semplicità di spirito], come a Cristo”, lancia un pensiero anche alle donne (Ef 5,22): “il marito infatti è capo della donna [le mogli sono sottomesse ai mariti]”. Il concetto è ribadito in 1 Cor 11,8: “E infatti non è l’uomo che deriva dalla donna, ma la donna dall’uomo; né l’uomo fu creato per la donna, ma la donna per l’uomo”. Subito dopo questa nobile frase, afferma che la donna deve avere il capo coperto da un velo (1 Cor 11,10) “a motivo degli angeli”; in altre parole, devono coprirsi il capo per evitare che agli angeli, che guardano dall’alto, non sorgano desideri impuri (ma gli angeli non sono asessuati?). A seguito di questa farneticazione, ancora oggi le donne sono ammesse nelle chiese solo col velo, mentre le monache sono condannate a portarlo sempre. Profondo medioevo. Non si comprende perché, in occasione di una pubblica disputa sul sesso o una questione sulla riproduzione, è chiamato a partecipare qualche prelato, che certamente non ha la competenza di un medico, di un legale civilista, di un esperto di etica sociale e ha il cervello ancorato sulle assurdità della guarentigia biblica. Più si è studiato e meno si abbraccia un qualsiasi arcaico credo religioso ed è fastidioso notare che studiosi, scienziati e intellettuali – che nella maggioranza non crede nelle superiori divinità – spesso si sottomettono, per timore e forse anche per viltà, all’autorità di ecclesiastici nel dare risposte a problemi nei quali gli ecclesiastici non sono in grado di fornire una risposta più accreditata della loro. Ciò è confermato dal fatto che, a parte nei regimi comunisti, credo di non sbagliarmi affermando che nessun capo di Stato del mondo civile ha mai ammesso pubblicamente di essere ateo o miscredente delle credenze dei suoi cittadini, siano essi cristiani, buddisti, musulmani, animisti. Secondo la logica degli ecclesiastici, è meglio che uomini e donne non facciano l’amore, ma se proprio lo fanno, naturalmente con parsimonia, e la donna è incinta, bisogna portare a termine la gravidanza. Non sono ammessi sistemi di
controllo delle nascite, nemmeno il ricorso all’onanismo, visto che dio ammazzò Onan perché eiaculava fuori dalla vagina (Gen 38,8 e segg.); è ammessa solo l’astinenza, che è una crudele soluzione. Se prevalesse il tabù del cattolicesimo sul controllo delle nascite, si avrebbe un incremento della povertà e, quindi, delle guerre. I tabù indù, come le vacche sacre e quindi non commestibili oppure come le vedove che non possono più risposarsi se vogliono essere considerate moralmente integre dalla comunità, danno origine a inutili sofferenze né più né meno come i tabù cattolici o islamici o di qualsiasi altro credo. Il colmo è che il credente di una religione ritiene ridicoli i tabù delle altre religioni, ma estremamente seri e motivati quelli che gli sono imposti in una forma di sadomasochismo. Conclusione: oltre a chiedersi se le religioni sono vere, occorre verificare se siano utili o funeste. Anche la Chiesa assegna il premio Nobel: lo chiama dottore della Chiesa. Abbiamo 33 dottori (compreso il tenebroso cardinale Bellarmino, fatto anche santo); siccome i primi 30 erano tutti maschi, nel 1970 e nel 1997 la Chiesa, per motivi di public relations, ha nominato le prime tre dottoresse: Teresa d’Avila, Caterina da Siena e Teresa di Lisieux. E dire che sulla donna alcuni di tali dottori ne hanno dette di tutti i colori: che non è fatta a somiglianza di dio, che è fisicamente inferiore e intellettualmente “un piccolo uomo riuscito male”, che è destinata principalmente a soddisfare il desiderio virile, che l’uomo ordina e la donna obbedisce. Tra le definizioni dei non addottorati, la donna è “una sorta di inferno” (XV secolo), che c’è una “stretta relazione della donna con l’animale” e che “la sessualità porta alla bestialità” (1980). E dire che Gesù aveva perdonato un’adultera (Gv 8,11) “va’ e d’ora in poi non peccare più”, o del NT che la Chiesa, non potendolo eliminare, si affretta ad annotare che è un brano “omesso dai più antichi testimoni, spostato da altri, dallo stile di colore sinottico, non può essere dello stesso Giovanni”. Vale la pena ricordare Agostino, dottore della Chiesa, che non credeva che la terra fosse sferica, nonostante lo sapessero da secoli anche gli ellenisti, ma credeva nella congiunzione carnale col diavolo, nella proporzionalità tra i peccati fatti in terra e il calore infernale cui il peccatore era sottoposto e, da scienziato quale era, che il vento poteva ingravidare le giumente. Come già riportato, questo sopravvalutato Agostino convisse dieci anni con una donna dalla quale ebbe un figlio, poi impalmò una dodicenne, ma continuò ad avere un’amante. Eppure ebbe il coraggio di affermare che la sessualità è un male che proviene dal peccato originale e che bisogna accoppiarsi solo per avere figli e non per il peccaminoso piacere.
L’AT consente anche ai sommi sacerdoti una moglie purché vergine, i sacerdoti della prima Chiesa sono regolarmente sposati, gli apostoli si portano dietro le mogli e Gesù cura la suocera di Pietro con la tachipirina® (Mt 8,14). C’è il richiamo a una frase di Gesù come risposta a un quesito dei sadducei che gli chiedono: se una donna è sposata a più fratelli, morti come pere secche uno dopo l’altro, quando muore anche lei, nell’aldilà con chi va sposa? E Gesù risponde (Mt 22,30): ”Alla risurrezione infatti non si prende né moglie né marito, ma si è come angeli nel cielo”. Quindi è nell’aldilà che non si fornica, ma non nell’aldiquà. Oltre a non parlare di una casta sacerdotale, Gesù non parla, ovviamente, di celibato dei sacerdoti, ma accetta la Legge dei profeti (Mt 5,17), che afferma che la moglie del sacerdote ebraico deve essere una vergine (Lv 21,13). Paolo nella “Lettera a Tito” scrive, a proposito dell’organizzazione dei vescovi (Tt 1,6): “Ognuno di loro sia irreprensibile, marito di una sola donna e abbia figli credenti [Il candidato deve essere irreprensibile, sposato una sola volta, con figli credenti]”. Concetto ribadito anche in 1 Tm 3,2: “il vescovo sia irreprensibile, marito di una sola donna”. Se il buon dio ha creato l’uomo col pisello e la donna con la nicchia per compiere degli atti del tutto naturali – come lo sono il mangiare, il camminare, il pensare – è incomprensibile vietare l’accoppiamento tra due persone, a meno che non si voglia trasformare la vita terrena in un luogo di divieti e di coercizione per cadere nel “peccato” ed espiare ricorrendo ai ministri della Chiesa. L’aspetto sessuofobico dei padri della Chiesa è stato impostato dal nervosissimo e cagionevole Paolo che discrimina la donna e consente il matrimonio, anche ai vescovi, solo per evitare la prostituzione e scrive che (1 Cor 7,1) “è cosa buona per l’uomo non toccare donna” e che coloro che si sposano (Cor 7,28) “avranno tribolazioni nella loro vita [carne]”. In 1 Tm 2,11 precisa che “La donna impari in silenzio, in piena [con tutta] sottomissione. Non permetto alla donna [Non concedo a nessuna donna] di insegnare, né di dominare sull’uomo [dettare legge all’uomo]; rimanga piuttosto [piuttosto se ne stia] in atteggiamento tranquillo. Perché prima è stato formato Adamo e poi Eva; e non Adamo fu ingannato [e non fu Adamo ad essere ingannato], ma chi si rese colpevole di trasgressione fu la donna, che si lasciò sedurre [ma fu la donna che, ingannata, si rese colpevole di trasgressione]. Ora lei sarà salvata [Essa potrà essere salvata] partorendo figli, a condizione di perseverare nella fede, nella carità e nella santificazione, con saggezza [modestia]”. Pensieri beceri che non meritano commenti ma che sono stati e sono drammaticamente un asse portante della Chiesa, il cui capo – detto
papa – è omaggiato da milioni di creduli e credenti ogniqualvolta si muove nel mondo per le programmate visite pastorali. Lo stesso nono comandamento “Non desiderare la donna d’altri” considera la donna come stimolatrice di bassi istinti, al punto che non si parla – come già ricordato al paragrafo V-5 “I nove comandamenti”, cap. V – di desiderare l’uomo d’altre. In realtà, quanto andava a scrivere Paolo sul ventilato celibato e sull’auspicabile verginità femminile, era strettamente collegato all’attesa della prossima “fine del mondo” (1 Cor 7,31): “a infatti la figura di questo mondo! [Perché a la scena di questo mondo!]”. Ritardando la parusìa, cioè la seconda venuta di Cristo, queste direttive paoline di carattere provvisorio sono state trasformate dalla Chiesa in forma definitiva celebrando la superiorità del celibato, che ancora oggi pesa su sacerdoti e suore e, in misura minore, sui credenti, ai quali viene inculcata l’infamia del sesso. La Chiesa sa bene che gli ecclesiastici sposati avrebbero un maggior costo di mantenimento, sarebbero meno disponibili ai trasferimenti e non sarebbero soggetti all’assoluta gerarchia che vige oggi. Senza famiglia e con la frustrazione per l’assenza di una vita affettiva, sentimentale e sessuale, al prete rimane, oltre al maggiore impegno per il lavoro parrocchiale, l’accumulo di beni che, con una famiglia, sarebbero spesi per essa. Nei secoli ati, la coercizione sessuale dei preti poteva essere sopita dai costumi del tempo, ad esempio copiando e copiando pagine e pagine della Bibbia prima che nascesse la stampa; la loro solitudine è servita a studiare la Bibbia, analizzarla miliardi di volte, parola per parola, per darle credulità e i risultati si possono vedere con l’alta preparazione dialettica che ha il clero, in grado di dare risposte anche alle maggiori assurdità bibliche, e con una innumerabile produzione di testi e documenti. Oggi con tv e computer che hanno invaso anche le canoniche, gli stimoli sessuali sono enormemente incrementati e non basta più la scopofilia. Il risultato è quello che le cronache riportano: migliaia di bambini e adolescenti sodomizzati e, naturalmente, silenzio assoluto su ciò che può accadere tra gli adolescenti dei seminari. In un sinodo del 386 a Roma, i padri della Chiesa (di madri della Chiesa nemmeno l’ombra) decisero che i preti dovevano restare celibi, ma gli ecclesiastici continuarono a prendere regolarmente moglie. Ancora nell’VIII secolo san Bonifacio parlava di religiosi che di notte avevano “quattro, cinque, anche più concubine nel letto”. La dimostrazione della violenza alla Natura
causata dal celibato sta proprio in questo continuo andare a donne perpetrato dal clero per oltre mille anni (mille anni…) e fermato solo dal concilio di Basilea (1431), dove si stabilì che agli ecclesiastici che andavano a donne sarebbero state abolite le entrate. Paolo VI con l’enciclica del 1967 elimina tutti i dubbi, confermando il celibato sulla base di considerazioni che non hanno alcun fondamento evangelico e avanzando vuote affermazioni tipo “Il celibato è anche una manifestazione d’amore verso la Chiesa”, “Troverà la gloria di una vita in Cristo”. Ufficialmente la Chiesa ha sempre predicato la verginità, ma per coloro che la trovano insopportabile (e fortunatamente è la maggioranza) ha inventato il sacramento del matrimonio nel nome del Signore, ma con tante di quelle restrizioni che da esso, a seguirle pedissequamente, si avrebbero più sofferenze che piaceri. Rendendo indissolubile il matrimonio, pure tra coniugi che non hanno più nulla di dirsi, la Chiesa ha fatto tutto il possibile per creare sofferenze anche in tale aspetto. Una per tutte: sino agli anni’60 (non saprei se ancora esiste tale clausola nel diritto canonico) era consentito, al coniuge che lo richiedeva, il rapporto sessuale cum lino interposto, insomma con il lenzuolo in mezzo (ed evidentemente con un buco da qualche parte).
VI-3 Papi, donne e indulgenze Come richiamato al cap. IV paragrafo IV-3 “L’origine della teocrazia cristiana”, dal punto di vista storico e dottrinale, sul nulla sono basate le affermazioni che il papa è successore di Pietro, titolo inventato nel 481, oppure vicario di Cristo, titolo brevettato nel 495, né tanto meno è Santo Padre. Non c’è alcuna prova che Pietro sia stato a Roma; la comunità cristiana romana fu fondata da anonimi cristiani ebrei. Paolo stette a Roma due anni agli arresti domiciliari e poi di lui si sono perse le tracce e non c’è alcun documento o testimonianza di contemporanei che ne attesta il martirio; negli Atti degli apostoli si legge che aveva anche l’idea di andarsene in Spagna. A metà del II secolo si contavano nell’Urbe 30.000 cristiani, ma nessuno ha lasciato traccia dell’esistenza di un certo Pietro. Nel IV secolo, miracolosamente, circolava la voce che Pietro era stato vescovo per ben 25 anni e nel Liber pontificalis tale Lino ava al secondo posto e al primo posto si trovava Pietro. Di fatto, i primi vescovi di Roma sono figure marginali e solo nel III secolo acquistano una certa autorità nel panorama italico, ma è la Chiesa d’Oriente che ha il primato, come dimostra il concilio di Nicea, sulle rive del Bosforo. Nei primi secoli ogni vescovo ama autodefinirsi papa (da pappas, padre), ma solo dopo l’anno mille il vocabolo “papa” diventa privilegio del vescovo di Roma. Nessuno dei padri della Chiesa riconobbe per secoli l’egemonia della Chiesa di Roma, del suo vescovo e della sua infallibilità. Prima di trattare la “dolce vita” di taluni papi, faccio un breve richiamo alla problematica sesso-cattolica. È un falso affermare che Gesù parli di rinunciare alla sensualità e alla natura umana, perché nei vangeli sinottici le indicazioni opposte a tale pensiero sono più incisive di quelle che parlano alla rinuncia. Gesù non vive da asceta, ma Paolo introduce la mortificazione e l’astinenza. Gesù non giudicò inferiore la donna (c’è chi afferma che Maria di Màgdala fosse la sua sposa) e diversi suoi discepoli erano sposati e padri, incluso Pietro. Ho già fatto presente al cap. II, paragrafo II-2 “Gli anni prima della predicazione”, che Gesù non poteva non essere sposato: la rigida impostazione maschilista della vita delle comunità ebraica prevedeva che ogni maschietto prendesse moglie a 18 anni (le bambine andavano spose anche a dieci anni) e, inoltre, com’era uso a quel tempo, il popolo avrebbe malvisto – in quanto “diverso” – un predicatore, come Gesù, non sposato (Giovanni Battista era un asceta nazireo e il suo celibato poteva essere comprensibile). Per Paolo, invece, la donna viveva in funzione dell’uomo, ne era la sua gloria, perché la donna era derivata dall’uomo ed era
stata creata per l’uomo; il matrimonio era una sorta di lasciaare per la carne peccaminosa. Tertulliano dirà che la donna è una breccia attraverso la quale s’insinua il diavolo. Il celibato dei preti è una caratteristica cattolica; già dal concilio di Elvira del 300 si parlava di continenza dei chierici, ma solo nel 1074 fu decretato il celibato da Gregorio VII, mentre le “multe” ai preti fornicatori arriveranno solo nel 1431. Accenniamo ora alla Storia dei papi, in particolare al tema “papi e sesso”, parlando di qualche santità. Giovanni X era l’amante della marchesa di Tuscia, moglie di un margravio, dalla quale ebbe una figlia, Marozia, che era l’amante di Sergio III e il figlio di tale unione divenne Giovanni XI. Batte tutti i record Giovanni XII (955-963), salito al “soglio di Pietro” a diciotto anni, che aveva rapporti con le sorelle, con l’amante del padre e con tutta una serie di pellegrine che giungevano a Roma; fu ammazzato, probabilmente per “eccesso di sesso”. Giovanni XXIII (1410-1415), poi tolto dall’elenco dei papi, andava a letto con la cognata. Innocenzo VIII (1484-1492) portò con sé in Vaticano due figli. Il suo successore, Alessandro VI, fece meglio: si portò in Vaticano quattro figli, ebbe varie amanti (tra le quali Giulia Farnese), ebbe anche una relazione con la propria figlia, che a sua volta se l’intendeva con i fratelli. La sorella di Callisto III (1455) ebbe un figlio che divenne Alessandro VI Borgia (1492), che ebbe nove figli concepiti con varie amanti e aveva rapporti anche con una sua figlia; il fratellastro di una sua figlia divenne Paolo III Farnese (1534), che a sua volta ebbe dei figli. Sisto IV (1471-1484) fornicò con la sorella, sodomizzò dei bambini e intascava 20.000 ducati l’anno dalle puttane: il colmo è che fu lui a introdurre la festa dell’Immacolata Concezione! Padri di famiglia furono pure Giulio II (1503), Pio IV (1559), Gregorio XIII (1572), ma non lo fu Giulio III (1550) che elesse a cardinale un giovane di 17 anni, che faceva, come dicono a Napoli, o’ femminiello. Insomma, se Gesù fosse tornato, sarebbe stato messo di nuovo in croce, non a Gerusalemme ma a Roma. La simonia è il commercio dei beni spirituali, come le indulgenze, bollate da Luca (At 8,18 e segg.) nell’episodio di Simone il mago, il quale, vedendo che gli apostoli facevano miracoli con le mani, offrì loro del denaro affinché gli rivelassero il trucco e Pietro gli rispose con una pernacchia. Evidentemente gli uomini di Chiesa se ne dimenticarono perché si misero a concedere indulgenze a pagamento nei secoli dei secoli. E veniamo, quindi, alla ricchissima dottrina dell’indulgenza, altra invenzione della Chiesa. Si è illustrato che la penitenza estingue le colpe conseguenti ai
peccati e le relative pene eterne; la cervellotica ma scaltra fantasia chiesastica dice che, in questo mondo di peccatori, ci sono anche le pene temporali, per peccati già perdonati da dio con la confessione sacramentale, ma che devono essere espiati in terra o nel purgatorio. Come? Facilissimo: con le indulgenze, che possono essere parziali o plenarie, cioè possono liberare in parte o in tutto dalla pena temporale conseguente ai peccati. Quindi per indulgenza s’intende la remissione parziale o totale delle pene, perché ogni peccato commesso è perdonato con la confessione ma presuppone l’espiazione di una pena. Qualcuno può chiedersi: ma tutto questo marchingegno l’aveva pensato il buon Gesù? Le indulgenze hanno fruttato ai papi montagne di denaro. Si diceva alla gente di fare dei lavori gratis in cambio di indulgenze, ad esempio per costruire chiese e conventi. La basilica di san Pietro, che nella sua volgare imponenza è un tipico esempio di kitsch, è stata costruita con lavoro gratuito di migliaia di poveretti che per decenni si sono sacrificati portando a casa non soldi ma indulgenze, come promesso dai furbi esponenti vaticanei, che anche su questo episodio hanno calato l’ipocrita silenzio. Del resto, la schiavitù era una normalità per la Chiesa sin dai tempi di Paolo e Pietro; ancora nel 1866 Pio XI scriveva che “possono esserci molti giusti titoli alla schiavitù” e che “non è contrario alla legge divina che uno schiavo possa essere venduto, acquistato, scambiato o regalato”. A proposito della basilica di san Pietro, va denunciato che una cospicua parte è stata costruita spogliando il magnifico Colosseo dei suoi bianchi marmi di travertino: esempio di belluina strafottenza ecclesiastica. Oltre ai papi, anche i vescovi si misero a concedere indulgenze. Le entrate per indulgenze salirono esponenzialmente quando fu inventato il purgatorio, area di sosta provvisoria delle anime dei defunti. Venne l’idea fantastica: impartire indulgenze in favore dei defunti, così il defunto in purgatorio, avvertito telegraficamente, poteva uscire prima e andarsene in paradiso; più si pagava per l’indulgenza e meno rimaneva l’anima del defunto in purgatorio. Protestanti e ortodossi non credono nel purgatorio. Il furto delle indulgenze si attiva verso il XIII secolo e va avanti per secoli: c’erano indulgenze di qualche giorno sino a migliaia di anni; il record è stabilito in Inghilterra con un’indulgenza di un milione di anni. C’erano i manuali delle indulgenze con l’elenco delle indulgenze e il premio corrispondente; ad esempio salendo i gradini della basilica di san Pietro, per ogni gradino si avevano mille anni di indulgenza.
Il top di questa mercificazione forse si raggiunge con Leone X (1513-1521), che fa pubblicare un tariffario con 35 voci; è significativo che le prime 5 voci riguardano indulgenze da dare a ecclesiastici per peccati sessuali (…e che peccati!): Tariffa 1: L’ecclesiastico che incorre in peccato carnale, con suore, cugine, nipoti o figliocce o con un’altra qualsiasi donna sarà assolto col pagamento di 67 libbre e 12 soldi. Tariffa 2: Se l’ecclesiastico, oltre al peccato di fornicazione, chiede di essere assolto dal peccato contro natura o di bestialità, dovrà pagare 219 libbre e 15 soldi. Se avesse commesso peccato contro natura con bambini o bestie e non con una donna, pagherà solo 131 libbre e 15 soldi. Tariffa 3: Il sacerdote che deflora una vergine pagherà 2 libbre e 8 soldi. Tariffa 4: La religiosa che ambisce la dignità di abbadessa dopo essersi data a uno o più uomini simultaneamente o successivamente, all’interno o fuori del convento, pagherà 131 libbre e 15 soldi. Tariffa 5: I sacerdoti che vogliono vivere in concubinato con i loro parenti pagheranno 76 libbre e 1 soldo. Ogni indulgenza resta valida per il futuro? Niente affatto. Quando ai papi servivano soldi, dichiaravano che le indulgenze elargite non erano più valide o erano sospese, e si ricominciava daccapo. Sisto IV, ad esempio, dichiarò nulle tutte le indulgenze un anno e mezzo prima dell’anno santo 1475, tranne quelle delle chiese di Roma; in tal modo i pellegrini potevano correre a Roma per tempo e are dalla tesoreria papale. Ancora oggi c’è il “Manuale delle indulgenze, norme e concessioni” edito dalla Libreria Editrice Vaticana; prescrive che per ottenere un’indulgenza plenaria o parziale il fedele deve confessarsi, comunicarsi, pregare e “compiere un’opera buona” (ad esempio, fare un’offerta a qualche organizzazione confessionale…). La realtà è che sarebbero bollati di simonia anche gli altri introiti della Chiesa ricevuti dai credenti nella speranza di ottenere qualche grazia – come elemosine, questue, lasciti – nonché le entrate per i pellegrinaggi e per i giubilei, che l’AT prescrive ogni 50 anni, ma che la Chiesa, per fare cassetta, ha dimezzato ogni 25 anni, oltre ai giubilei fuori serie, come quelli del 1933 e del 1983. Nella mercificazione dell’anno cosiddetto santo del 2000 era in vendita il “kit del
pellegrino”, una scatola contenente: una tessera telefonica da 5.000 lire, un libretto con gli insegnamenti di Wojtyla, un santino, un cappellino, una maglietta col marchio del Giubileo, una candela. Il kit era prodotto da qualche cooperativa di poveri del terzo mondo? Neanche per sogno: lo produceva la moglie di un dignitario accreditato presso la Santa Sede (più Sede che Santa).
VI-4 Un papa: Clemente VIII Sono nato in Sicilia, a poche centinaia di metri dalla casa dei genitori di Salvatore Quasimodo – dove il Poeta corse ad abbracciarli dopo avere ricevuto il Nobel – e dalla sua “torre saracena”; da decenni vivo nelle Marche, a Fano, città che vanta la nascita di un papa, Clemente VIII. Scelto tale papa, un po’ a caso, vediamo cosa ha combinato. Il giurista Silvestro Aldobrandini, padre di Clemente VIII, era nato a Firenze nel 1499 dal nobile Pietro. Gli Aldobrandini pare avessero favorito l’instaurazione della repubblica fiorentina a seguito del rovesciamento dei Medici; quando nel 1530 i Medici ritornarono al potere, gli Aldobrandini dovettero andar via da Firenze, riparando a Roma. Fano era sotto la giurisdizione dello Stato Pontificio e rientrava nel governatorato del cardinale di Ravenna Benedetto Accolti, il quale nominò Silvestro Aldobrandini luogotenente di Fano, cioè suo sostituto. Tale carica usualmente durava un anno; quando era già scaduto il termine, il 24 febbraio 1536, nacque il figlio Ippolito, futuro Clemente VIII, dalla madre Elisabetta Deti. Ippolito Aldobrandini studiò giurisprudenza a Padova, a Perugia e si laureò a Bologna. Operò all’ombra della Chiesa come avvocato concistoriale sotto Pio V dal 1566 al 1572, fu uditore della Sacra Rota nel 1569 e aiutante del cardinale Bonelli in Spagna nel 1571-72. Solo nel 1580, a 44 anni, fu ordinato sacerdote e la circostanza che non si sposò fa intuire dei possibili problemi sessuofobici, come si vedrà più avanti. Aveva un fratello cardinale e fu grande amico di san Filippo Neri. Nel 1585 fu nominato cardinale, quindi inviato come legato pontificio in Polonia e nel gennaio del 1592 fu eletto papa. Fisicamente era “di comune statura, di complessione tra sanguigna e flemmatica, di grave e nobile aspetto, di corpo eccedente un poco il ripieno”. Era cauto e sospettoso, buon diplomatico e negoziatore, pronto alla commozione, assai devoto. Il papato di Clemente VIII ebbe qualche luce e molte ombre, anzi macchie nere. Convinse alla conversione Enrico IV di Francia e ricevette in regalo il ducato di Ferrara. Fece da mediatore tra Francia e Spagna, in modo da averle dalla sua parte nella lotta agli ugonotti (protestanti si) e ai turchi. Avviò la revisione della Vulgata e completò la cupola della basilica di San Pietro. A Frascati si fece costruire Villa Aldobrandini, sua residenza estiva, che donò nel 1598 a un suo nipote cardinale, Pietro Aldobrandini; oggi la magnifica villa è affittabile per
eventi e può dare ospitalità sino a 200 persone. Fu un papa ossessionato dalla sessualità, scacciò le prostitute dalle strade e combatté il nudo artistico. Organizzò un giro nelle chiese per verificare che fossero rimosse le immagini licenziose, incarnando lo spirito della Controriforma, che seguì al Concilio di Trento. Nella chiesa romana di san Giacomo c’era un altare papale dedicato a Paolo III con le statue della Giustizia e della Prudenza raffigurate da due donne. Clemente VIII ordinò che le statue fossero tolte o “coperte in modo più decente” a causa di “zinne, petto et altre parti… troppo lussuriose”, incluso “una coscia scoperta fino all’orlo del vaso naturale”. Annunciò l’anno santo del 1600 e si affrettò a vietare a Roma i festeggiamenti carnascialeschi. L’anno dopo che fu eletto papa fece tornare in vigore la legge che colpiva gli ebrei con pesanti vessazioni, legge che perdurò per due secoli. Non evitò il nepotismo: oltre al richiamato Pietro, ordinò cardinale un altro nipote. E veniamo, dopo queste ombre, alle macchie nere: le condanne a morte dei Cenci e di Giordano Bruno. Il conte sco Cenci, oltre a essere ricco, era un violento; mortagli la moglie al tredicesimo parto, si risposò con Lucrezia Petroni, ma continuò a violentare le sue due figlie, Beatrice e la sorella più grande, oltre a violentare anche ragazzi e serve. I due fratelli di Beatrice denunciarono il padre e Clemente VIII, per tutta risposta e su pressioni di amici del padre, li fece esiliare. La sorella più grande, grazie all’intercessione del papa stesso, si sposò con un conte di Gubbio, ma Beatrice e la matrigna rimasero alla mercé del conte Cenci, che decise di trasferirsi – per allontanare l’attenzione sul suo comportamento – in una fortezza in territorio del Regno di Napoli, appena fuori dello Stato Pontificio, oggi Petrella Salto. Le due donne, stanche delle vessazioni cui erano sottoposte dal conte, decisero di ucciderlo. Giacomo, fratello di Beatrice, fornì alla sorella dell’oppio, col quale fu addormentato il conte, e un servo l’uccise con delle randellate in testa. Fu simulato un incidente come causa della morte e il conte fu seppellito. In seguito a dubbi diffusi tra la gente, le autorità napoletane svolsero un’inchiesta, sorsero sospetti e le due donne con i complici furono imprigionate a Castel Sant’Angelo. Il servo, portato nella sala delle torture, confessò il delitto, mentre Beatrice e la matrigna continuarono a negare. Un monsignore, innamorato di Beatrice, fece uccidere il servo, per evitare altre confessioni. Clemente VIII autorizzò a torturare i Cenci e Giacomo, il fratello di Beatrice, attribuì la colpa al servo. Confessarono, però, il fratello minore di Beatrice, Bernardo, e anche la matrigna Lucrezia, dopo essere torturata. Infine confessò, dopo tortura, anche Beatrice. Le violenze e gli stupri subiti non furono sufficienti
a salvare le donne e Clemente VIII sentenziò la condanna a morte. Al mattino dell’11 settembre 1599 furono decapitate Lucrezia e Beatrice, mentre Giacomo fu scannato e squartato. Bernardo, ancora minorenne, fu condannato ai remi delle galere pontificie. Pare che Clemente VIII, regista occulto del processo, fosse interessato alle proprietà dei Cenci; qualche mese dopo le esecuzioni, un suo nipote acquistò all’asta gran parte delle loro proprietà. Giordano Bruno fu arrestato a Venezia dall’Inquisizione locale il 24 maggio 1592 e trasferito a Roma per richiesta del Sant’Uffizio nel febbraio 1593. Il filosofo, con un intuito che anticipava i secoli, concepiva la molteplicità dei mondi, che secondo lui proprio esaltavano la grandezza di dio, ammetteva la presenza di alieni intelligenti, accettava la teoria eliocentrica copernicana. Sottoposto a ventidue interrogatori e a torture nell’arco di sei anni, non si piegò mai. Le redini del processo le prese il cardinale Bellarmino, al quale Clemente VIII era molto legato e da lui eletto cardinale nel marzo 1599. Nella seduta conclusiva del 9 settembre 1599 – due giorni prima della decapitazione di Beatrice Cenci – era presente il papa che si oppose a un’ulteriore tortura e Bellarmino mandò al filosofo l’ultimatum: o abiura o morte. Giordano Bruno rispose che non sapeva su cosa dovesse ritrattare. La sentenza di morte con condanna al rogo come eretico, impenitente e recidivo, fu emessa l’8 febbraio 1600, al termine della quale il filosofo pronuncerà la celebre frase divenuta simbolo del martirio: “Forse con più timore pronunciate voi la sentenza contro di me, di quanto ne provi io nell’accoglierla”. Giordano Bruno fu condotto al rogo con la bocca imbavagliata il 17 febbraio 1600; della ventina di eretici bruciati sotto il papato di Clemente VIII, il filosofo fu l’unico ad essere arso vivo, gli altri furono preventivamente impiccati o decapitati. Clemente VIII morì il 3 marzo 1605. Più tardi il Muratori, storico, intellettuale ed ecclesiastico, scrisse di lui: “Morì Papa Clemente, sono morti i cinque nipoti che avevano altri due cardinali fra loro; mancarono tutti i maschi di quella casa e mancò finalmente con loro ogni successione ed insieme ogni grandezza del sangue lor proprio”. Clemente VIII non è da considerarsi fanese né acquisì qualche forma di “fanesitudine”. Probabilmente portato via dai suoi genitori dopo qualche mese dalla nascita, non fece più ritorno a Fano, salvo un pernottamento il 2 maggio 1598, quando da Roma si recò a Ferrara per verificare il aggio di quel ducato allo Stato Pontificio; pernotterà anche nel dicembre dello stesso anno, di ritorno da Ferrara. La piazza del duomo a Fano è intitolata a Clemente VIII e sarebbe tempo di
modificarne l’intestazione.
VI-5 Le (poco spirituali) ricchezze della Chiesa Tanto vacue ed evanescenti sono le basi storico-evangeliche della catechesi sull’altro mondo sulle quali si basa la Chiesa, quanto consistente e concreto è il suo patrimonio su questo mondo. Paganesimo e cattolicesimo hanno un fondamentale punto in comune: i pagani avevano un enorme numero di divinità che affollavano i loro templi e i cattolici hanno migliaia di santi che affollano le loro chiese. Rispetto ai pagani, però, i cattolici hanno reso più efficaci i sistemi per ottenere potere e denaro. Già nel V secolo il vescovo di Roma era il primo proprietario terriero dell’Impero Romano, circondato da un proletariato cristiano ridotto in miseria, ma richiamato sempre alla servile obbedienza. Gregorio Magno (590-604) era riuscito a sollevare il prestigio papale in un periodo in cui era a terra, ma ciononostante era di una stucchevole credulità: aveva scritto due opere, Magna moralia e I dialoghi, parlando di demoni e di miracoli. Convinto che era prossima la fine del mondo, indusse diversi nobili a lasciare le proprietà alla Chiesa perché i loro figli non le avrebbero potute godere. Credulone sì, ma anche furbo perché divenne la persona più ricca d’Europa. Dopo di lui il papato sprofondò ancora nel buio medioevale. In concreto, però, nel VII secolo il papato si confermò, sempre, il primo proprietario terriero italiano; con tali ricchezze, nel XII secolo la Chiesa proibì agli ecclesiastici di sposarsi, in modo da impedire che le sue proprietà assero alle loro famiglie. La Chiesa ha prodotto uno dei più falsi documenti della storia umana, noto come La donazione di Costantino, ingannevolmente datato 315 e falsamente firmato da Costantino, ma pensato e organizzato dal papa Stefano II nella metà del VIII secolo. Nel documento si ribadiva la discendenza da Pietro della sede romana papale e, soprattutto, che Costantino lasciava al papato, oltre al suo palazzo, “tutte le province, palazzi e distretti della città di Roma e d’Italia e delle regioni di Occidente”. Il documento affermava che Costantino, avendo donato tutto alla Chiesa, si era dovuto trasferire a Costantinopoli! Ecco come andarono i fatti. All’inizio dell’VIII secolo c’era attrito tra la Chiesa romana e Costantinopoli per via dell’iconoclastia (vedi il paragrafo V-5 “I nove comandamenti”, cap. V) e nel 728 i longobardi, con la scusa di difendere la Chiesa, occuparono i territori bizantini di Ravenna e della Pentapoli (Rimini, Pesaro, Fano, Senigallia, Ancona) e regalarono alla Chiesa dei territori dell’Italia
centrale (tra i quali Orte e Amelia), di scarso valore strategico. La Chiesa non si fidò dei longobardi e chiese aiuto a Pipino il Breve, che in precedenza aveva chiesto alla Chiesa l’autorizzazione a destituire dal trono l’inetto re dei Franchi Childerico III. Fatto l’accordo, Pipino il Breve venne in Italia, sconfisse i longobardi e regalò alla Chiesa Ravenna e la Pentapoli, aree che unitamente a quelle precedenti avute dai longobardi, costituiranno il nucleo del futuro Stato Pontificio. La Chiesa incoronò re di Francia l’illegittimo Pipino. I bizantini, ai quali erano stati tolti i loro terreni, s’incavolarono e papa Stefano II tirò fuori della manica La donazione di Costantino: tutto regolare, è proprietà nostra! E non è finita qui. Quel filibustiere di papa Stefano II verso il 752 fece pervenire a Pipino una lettera scritta da san Pietro (!) e Pipino cedette al papa ventitré città italiane. Nel 1440 il filosofo e canonico Lorenzo Valla si rese conto, analizzando il testo, che La donazione di Costantino era un falso, ma solo con l’entrata in scena di Martin Lutero, nel 1519, se ne diede notizia. Malgrado possa apparire incredibile, la Chiesa continuò a difendere l’autenticità del documento e eranno ancora tre secoli prima che ne ufficializzasse la falsità (ma la botte era già piena). Nel pieno delirio del potere, Gregorio VII (1073) e Innocenzo III (1198) avevano sentenziato persino la supremazia della Chiesa su quella dei re, cioè la pura teocrazia, già ipotizzata da san Tommaso, come richiamato in precedenza. Con la truffaldina falsificazione orchestrata da Stefano II, vari papi si appropriarono di una vastità di beni immobili e la Chiesa accumulò un patrimonio così ingente di cui, come detto, ne gode ancora ai giorni nostri. Nel secolo dei papi, questi facevano la bella vita nel lusso e nello sperpero, sempre con schiere di cattolici bisognosi e schiavi degli ecclesiastici. La schiavitù ebbe un rifiorire nella cattolicissima Europa meridionale; del resto, lo stesso Paolo, confermando la sua abissale lontananza dal pensiero di Gesù, aveva ribadito (Ef 6,5): “Schiavi, obbedite ai vostri padroni terreni con rispetto e timore, nella semplicità del vostro cuore, come a Cristo, non servendo per farvi vedere… [Schiavi, obbedite ai vostri padroni secondo la carne con timore e tremore, con semplicità di spirito, come a Cristo, e non servendo per essere visti…]”. Roma era un esempio tipico della schiavitù diffusa e a quel tempo una donna romana su sette si prostituiva per campare. In questo quadro, la Chiesa promulgò l’inalienabilità dei suoi beni. Appaiono lontane le parole di Gesù (Mt 19,24): “È più facile che un cammello i per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio [dei cieli]”.
Chissà che fila interminabile di migliaia di papi, cardinali, vescovi e simili dietro il cancello d’ingresso di quel regno (Attualmente il numero di ecclesiastici nel mondo, dal papa all’ultimo prete, è intorno a 1.400.000 unità, ma c’è una spaventosa crisi di vocazioni nel mondo civile; infatti, migliaia di chiese sono prive del parroco. Per far fronte a questa carenza, si stanno arruolando giovani africani e asiatici, gran parte dei quali indossa la tonaca pur di avere un tozzo di pane). Pio XII, morto nel 1958, lasciò un patrimonio di 12 miliardi di lire di allora, corrispondenti oggi a 130 milioni di euro. I gesuiti, che hanno fatto voto di povertà, all’inizio del 2000 possedevano il 51% del Bank of America, fondata nel 1928 come Bank of Italy da un italiano, oggi forse la più grande banca privata al mondo. Dal punto di vista legale, la Santa Sede è un’entità distinta dallo Stato Città del Vaticano, che è il territorio dove essa è sovrana ed è esteso 44 ettari. La Santa Sede, che rappresenta l’autorità della Chiesa, gode della sovranità ed è un soggetto internazionale; le ambasciate sono accreditate presso la Santa Sede e non presso lo Stato Città del Vaticano. La Santa Sede, quindi, è la sede episcopale di Roma e rappresenta il governo del papa; a sua volta, il papa rappresenta la Chiesa (apostolica cattolica romana) e ha personalità giuridica in diritto internazionale. La Santa Sede, che non ha alcun territorio ma è rappresentata simbolicamente dalla basilica di san Giovanni in Laterano, è una monarchia assoluta con a capo il papa e non ha mai firmato la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Sino al 1969 era in vigore la pena di morte, prevista in caso di tentato omicidio del papa, abolita solo nel 2001 da Wojtyla. La Chiesa però ammette la pena di morte; l’articolo 2267 del Catechismo riporta: “L’insegnamento tradizionale della Chiesa non esclude, supposto il pieno accertamento dell’identità e della responsabilità del colpevole, il ricorso alla pena di morte, quando questa fosse l’unica via praticabile per difendere efficacemente dall’aggressore ingiusto la vita di esseri umani”. La Santa Sede e lo Stato Città del Vaticano hanno diverse migliaia di dipendenti (vedi al paragrafo successivo). La lingua ufficiale è il latino, quella di lavoro è l’italiano, ma c’è una terza lingua il “vaticanese”; in questo ridondante linguaggio, ad esempio, “ostensione” significa esposizione, “sindone” significa lenzuolo, “nunzio apostolico” significa ambasciatore della Santa Sede, “camerlengo” significa rappresentante della Santa Sede tra un papa e l’altro e anche ministro degli esteri, “Ior” (Istituto per le Opere di Religione) significa
Banca del Vaticano, “obolo di san Pietro” significa elargizioni dei fedeli alla Santa Sede (variabili all’incirca da 50 a 90 milioni di euro l’anno) e via dicendo. Vi sono anche frasi manicomiali come “Economo del preziosissimo sangue”, “Pia unione degli oblati figli della madonna” e assurdità simili. Altri titoli fantasiosi, in vaticanese, sono dati alle varie organizzazioni che raccolgono denaro (vedi al paragrafo successivo). Lo Stato Città del Vaticano ha poste, stazione radio (la più estesa d’Italia e tra le più potenti al mondo), stazione meteorologica, ufficio immatricolazione auto, ferrovia, gendarmeria, vigili del fuoco, sito internet ufficiale www.vatican.va, persino un addestratissimo corpo di teste di cuoio antisabotaggio. Un’apposita squadra di sicurezza controlla tutto ciò che avviene nel Vaticano con una nutrita rete di telecamere. Nella sola basilica di san Pietro sono installate 34 telecamere e anche in tal caso l’ipocrisia non è assente: a chi chiede, il servizio della sicurezza vaticana risponde che servono per intervenire subito nel caso qualche “pellegrino” si senta male. Premesso ciò, è da ricordare che Santa Sede, Stato Città del Vaticano e Chiesa non sono altro che la stessa pasta, che chiameremo Vaticano: ancora oggi il Vaticano (definiamo con tale termine tutte le strutture clericali gestite dalla Chiesa romana), dopo lo Stato Italiano, mantiene il primato di primo proprietario terriero italiano. Dispone in Italia di 115.000 immobili (scuole, università, ospedali, collegi, orfanotrofi, alberghi, ospizi eccetera eccetera) e terreni per una superficie pari a quella della Liguria. Nella sola Roma e provincia il Vaticano è proprietario di 1.139 immobili, nella maggior parte collocati nel centro di Roma, in palazzi prestigiosi, affittati solo a vip per migliaia di euro al mese, a dimostrazione, ancora una volta, che Chiesa e Potere vanno sottobraccio. Tutto questo patrimonio in Roma e provincia, valutato in 8 – 9 miliardi di euro, è proprietà della “Sacra Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli di Propaganda Fide”, che in vaticanese significa “Immobiliare Vaticana”, proprietaria di vari immobili del Vaticano sparsi nel mondo, con sede in uno dei più monumentali palazzi romani in piazza di Spagna. Scopo ufficiale della Congregazione è il finanziamento delle attività missionarie. Per non apparire proprietaria di questo ben di dio – è il caso di dire – i 1.139 immobili di Roma e provincia sono accatastati sotto nomi leggermente diversi da quello storico della “Sacra Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli di Propaganda Fide”: a volte c’è “Sagra” invece di Sacra, oppure “Fida” invece di Fide, oppure “Congrazione” invece di Congregazione, oppure modifiche come “Congreg. Per l’evangelizzazione dei popoli Roma”. La Congregazione, il cui cardinale che ne
è a capo è chiamato “il papa rosso” per il suo potere economico e finanziario, fu istituita nel 1622 da Gregorio XV con la bolla Inscrutabili divinae (dio è sempre in mezzo) e ricodificata nel 1988 da Giovanni Paolo II con l’atto papale Pastor bonus, a conferma della commistione tra sacro e profano, nel senso più letterale dei termini. Nel solo anno 2006 a Roma si sono 8.000 donazioni di carattere immobiliare e altre 3.200 in provincia. I religiosi gestiscono in Italia 200.000 posti letto con 3.300 indirizzi. Da un reportage de La Stampa del 8 novembre 2007, in Italia il Vaticano dispone di 4.712 strutture sanitarie e di assistenza (nidi d’infanzia, consultori familiari, centri di difesa della famiglia, ospedali e case di cura, ambulatori), 11.084 strutture di istruzione e cultura (università e parauniversità, scuole materne – primarie – secondarie, musei e biblioteche), 49.982 strutture ecclesiastiche (sedi vescovili, parrocchie, oratori, case generalizie di ordini religiosi, seminari, conventi); per un totale di 65.778 immobili. Il valore del patrimonio immobiliare del Vaticano in Italia non è semplice valutarlo, ma chi ha tentato parla di una cifra dell’ordine dei mille miliardi di euro (miliardi, non milioni); la cifra non è lontana dalla realtà perché tutto il patrimonio immobiliare italiano è stimato sui 5.400 miliardi di euro. La ricchezza del Vaticano non è solo di tipo immobiliare. Nelle basiliche papali, nei santuari, nei palazzi apostolici, nei musei vaticani vi sono tesori artistici d’inestimabile valore. Nel Sacrario Apostolico Vaticano, chiuso al pubblico e che risale al IV secolo, sono conservati ori, gioielli, oggetti d’arte orafa lasciati lì da secoli dai papi o donati dalle diocesi; migliaia di calici, tiare, mitre, paramenti dorati, suppellettili arricchiti da gemme. Un tesoro immenso, il cui valore rappresenta una parte di ciò che il Vaticano ha assorbito dall’umanità, come una sanguisuga, lungo i secoli e che poteva essere utilizzato per opere utili allo sviluppo del progresso e del benessere della gente, invece di finire in un ammasso di ricchezza inutilizzata. L’otto per mille, la tassa che gli italiani sono costretti a pagare per le religioni, è una goccia nel mare delle entrate al Vaticano e rende ogni anno non meno di un miliardo di euro, di cui solo il 20% è dedicato a interventi assistenziali (ma questa precisazione è esente dalla stucchevole pubblicità tv col sottofondo di canti angelici e volti di bambini africani ammalati e affamati), mentre il 35% serve per stipendiare il clero e il 45% serve per gli affaracci suoi (Il sito della Cei www. sovvenire.it dovrebbe rendicontare tutto, ma dice ben poco). In realtà il 60% degli italiani non compie alcuna scelta per l’8 per mille e solo il 10% lo
evolve allo Stato, ma per una clausola capestro (la ripartizione di ciò che non è precisato dagli italiani in proporzione alla percentuale di ciò che è invece definito), buona parte del 60% va a finire nelle casse del Vaticano. La Cei, Conferenza episcopale italiana, spende ogni anno 9 milioni di euro in pubblicità, alla faccia dei bambini africani (dato 2011). Oltre all’8 per mille, ben più alto è l’ammontare annuo di spese del nostro Stato sia per servizi sia per mancati introiti; il tutto somma a circa 5 miliardi di euro l’anno (vedi il paragrafo successivo), ma secondo altre fonti (cfr. Odifreddi, Perché non possiamo essere cristiani, Longanesi) si è vicini a 9 miliardi. Nove miliardi di euro: un obolo di 150 euro l’anno a testa per ogni italiano da 0 a 110 anni, credente e non, battezzato e non. Il 14 febbraio 2010, visitando un ostello della Caritas a Roma, Ratzinger ha invitato “quanti hanno responsabilità nella pubblica amministrazione e nelle diverse istituzioni” a riscoprire la carità; in altre parole, invita lo Stato italiano a dare ancora. Che male abbiamo fatto noi italiani per meritarci il Vaticano?
VI-6 La possente organizzazione vaticanea per rastrellare denaro I dati che seguono sono stati tratti, in gran parte, dai libri di Claudio Rendina, “L’oro del Vaticano” e “101 misteri e segreti del Vaticano” (Newton Compton). Si noterà che molti dei nomi con i quali sono stati “battezzati” i vari organismi e fondazioni vaticanei sono “aulici” e chiesastici e, ricordando che riguardano più l’aldiquà che l’aldilà, nella loro scelta non si può fare a meno di avvertire un tocco umoristico.
Uffici amministrativi Lo “Stato Città del Vaticano” ha per sovrano il papa e i rapporti internazionali sono curati dal Segretario di Stato, che è assistito da una Commissione Pontificia coadiuvata da una Consulta di Stato. Il “Governatorato dello Stato Città del Vaticano” si occupa dell’amministrazione, degli aspetti tecnologici e artistici dello Stato; ha diverse Direzioni: Ragioneria dello Stato, Servizi Economici e di Sicurezza, della Protezione Civile, della Sanità e Igiene, dei Servizi Tecnici e delle Telecomunicazioni. Dispone di un Comitato per la Sicurezza, una Commissione per il personale e una Commissione Disciplinare. Al Vaticano lavorano 2.748 dipendenti (di cui 1.637 laici) presso la Santa Sede e 1.649 presso la Città del Vaticano (dati 2010); c’è un Fondo Pensioni, un Fondo Assistenza Sanitaria, un Ufficio del Lavoro della Sede Apostolica, un Collegio di Conciliazione e Arbitrato. Il Governatorato amministra i Musei e i Giardini vaticani e un Ufficio Vendita Pubblicazioni e Riproduzioni. IOR, Istituto per le Opere di Religione, è una vera e propria banca vaticana: patrimonio di 5 miliardi di euro, caveau con due tonnellate di oro. APSA, Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica, è l’ufficio bancario che amministra i beni della Santa Sede destinati alla Curia romana. “Camera Apostolica” ha poco a che fare con gli apostoli: è un ufficio amministrativo della Santa Sede quando la sede è vacante. La “Prefettura degli Affari Economici della Santa Sede” vigila sulle
amministrazioni della Santa Sede; è collegata con l’Istituto Centrale per il Sostentamento del Clero, che provvede agli stipendi del clero e che dipende dalla CEI.
Fondazioni Le fondazioni gestiscono fondi monetari, ricevuti da fedeli e da vari organismi d’estrazione cattolica, con scopi apostolici e culturali, in prima battuta, e per accumulare capitali, in seconda battuta. Fondazione Pio XII per l’Apostolato dei Laici: provvede all’amministrazione dei beni immobili allo scopo di “sostenere e promuovere le opere cattoliche dell’apostolato dei laici”. Fondazione Latinitas: promuove lo studio della lingua latina. Fondazione Fundaja Jana Pawla II: studia il pontificato di Giovanni Paolo II, aiuta i pellegrini a Roma ospiti della fondazione e si occupa della formazione del clero nei paesi dell’est europeo. Fondazione Giovanni Paolo II per la Gioventù: si occupa “dell’insegnamento del Magistero della Chiesa Cattolica in ordine alla priorità della pastorale giovanile”. Fondazione Giovanni Paolo II per il Sahel: forma persone per la lotta contro la siccità e soccorre le vittime della siccità nel Sahel. Fondazione Populorum Progressio: aiuta le comunità contadine dell’America Latina. Fondazione Pro Musica e Arte Sacra (senza scopo di lucro): promuove la musica sacra e provvede a restaurare opere sacre. Fondazione per i beni e le attività artistiche della Chiesa: promuove eventi artistici e culturali. Fondazione Il Buon Samaritano: sostiene gli infermi e i malati d’Aids bisognosi.
Fondazione Centesimus Annus – Pro Pontifice: informa sull’attività della Santa Sede e promuove la “raccolta di fondi per la Sede Apostolica”. Fondazione San Matteo: promuove “la formazione dei giovani ai valori della giustizia e della pace” e la “realizzazione di opere umanitarie nei paesi in via di sviluppo”. Fondazione Joseph Ratzinger: tutela le opere letterarie di Benedetto XVI (132 titoli, “Gesù di Nazareth” ha venduto 2,5 milioni di copie). Pontificio Consiglio Cor Unum: “promuove la catechesi della Carità” attraverso diverse istituzioni, tra cui la Caritas Internationalis, forse la più concreta e utile organizzazione vaticana in opere assistenziali, per le quali riceve aiuti anche da non cattolici.
Amministrazione delle missioni È a cura della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli (già De Propaganda Fide), autonoma amministrativamente dalla Santa Sede. È l’organismo vaticaneo più ricco ed ha sei sezioni: Pontificia Colletta Pro Afris, Pontificia Opera Missionaria della Propagazione della Fede, Pontificia Opera Missionaria di san Pietro Apostolo, Pontificia Opera Missionaria della Santa Infanzia, Pontificia Unione Missionaria del Clero, Consiglio Superiore delle Pontificie Opere Missionarie della Propagazione della Fede. Raccolgono collette dalle Giornate missionarie (6 gennaio, 11 febbraio, 1 ottobre, 3 dicembre, quarta domenica di Pasqua, penultima domenica di ottobre). La Congregazione è proprietaria di oltre un migliaio di immobili solo in Roma e dintorni, dati in gran parte in affitto. Tutto il denaro confluisce nello IOR e si tratta di cifre di centinaia di milioni di euro l’anno. La Congregazione dispone di diverse Missio “sui iuris”, che dovrebbero identificare territori dove sviluppare il cattolicesimo; guarda caso, una di queste “missio” è nel paradiso fiscale delle isole Cayman, con una sede amministrativa, che in realtà è una succursale dello IOR. Altre entrate Obolo di San Pietro: raccoglie offerte da tutto il mondo fatte al papa per interventi caritativi (ma non si conoscono i beneficiari).
Elemosineria Apostolica, istituzione risalente al 1271: “esercita la carità verso i poveri in nome del papa”. Da essa dipende la Benedizione pontificia a pagamento: pagando 25 euro si ottiene una pergamena con la foto del papa e la benedizione papale concessa, su delega, dall’Elemosiniere. Ogni anno sono emesse circa 300.000 pergamene. Sacra Rota: l’annullamento di un matrimonio costa da 15.000 a 45.000 euro. Santuari e pellegrinaggi: lo sfruttamento di questi luoghi di culto, che godono della extraterritorialità e sono gestiti da delegazioni pontificie, porta a incassi non indifferenti. I santuari italiani sono: Santuario Sancta Santorum, Basilica papale di San sco d’Assisi, Santa Casa di Loreto, Basilica di Sant’Antonio di Padova, Santuario del Divino Amore, Santuario della Beata Maria Vergine del Santo Rosario di Pompei, Santuario di San Giovanni Rotondo. All’estero vi sono le tre basiliche in Terra Santa: Basilica del Santo Sepolcro di Gerusalemme, Basilica dell’Annunciazione di Nazareth, Basilica della Natività di Betlemme. In Europa vi sono il Santuario di Jasna Gora (Polonia), il Santuario di Fatima (Portogallo) e il Santuario della Madonna di Lourdes (Francia). Il santuario più frequentato è quello di Nostra Signora di Guadalupe (Messico) con 20 milioni di pellegrini l’anno. I pellegrinaggi sono gestiti dall’Opera Romana Pellegrinaggi, legata all’APSA, richiamata in precedenza; assiste circa 130.000 pellegrini l’anno tramite 900 sacerdoti e 400 animatori. L’Unitalsi (Unione Italiana Trasporto Ammalati a Lourdes e Santuari Internazionali) provvede al trasporto, a pagamento, di oltre 100.000 persone l’anno. Si stima che la Santa Sede controlla annualmente un traffico di 40 milioni di presenze in 4.000 strutture ricettive con un volume di affari superiore a 5 miliardi di euro. Altra organizzazione è il CITS, Centro Italiano Turismo Sociale, nato per “la valorizzazione del turismo sociale, religioso e del tempo libero”; dispone in Italia di 150 strutture para-alberghiere esentasse (almeno a tutto il 2011). Farmacia Vaticana: vende medicinali col ribasso del 12% e prodotti di banco col ribasso del 20% (2.000 clienti al giorno). Magazzini Annonari: “supermarket” col ribasso del 20%. Ufficio Filatelico e Numismatico: Emissione di oltre un milione di euro l’anno di monete, oltre a medaglie commemorative. Oltre 26.000 clienti ufficiali per l’acquisto automatico delle emissioni di francobolli e 1.600.000 acquirenti,
costituiti da ordini religiosi ed enti ecclesiastici, che a loro volta rivendono i francobolli. Mass media. La Tipografia Vaticana ha circa 5.000 ordini l’anno per la stampa del materiale liturgico e de L’Osservatore Romano; utile annuo non inferiore a un milione di euro. La Videoteca, con oltre 10.000 cassette da mettere a disposizione d’emittenti tv, ha un utile superiore a 500.000 euro l’anno. La Libreria Editrice Vaticana è l’editore ufficiale della Santa Sede; i soli diritti maturati sugli scritti di Ratzinger ammontano a due milioni di euro. I Gesuiti producono filmati con la Loyola Productions, i Salesiani possiedono la casa editrice SEI, la Società San Paolo cura Famiglia Cristiana (sino a 6 milioni di lettori, primo settimanale italiano e terzo in Europa), le Edizioni Frate Indovino stampano Frate Indovino, 6 milioni di copie. CEI, Conferenza Episcopale Italiana. Cura la stampa de L’Avvenire e dispone del centro tv Sat 2000. A essa fa capo la Federazione Italiana Settimanali Cattolici (155 settimanali diocesani con un milione di copie diffuse ogni settimana), gestita dal Consorzio Nazionale Servizi Informazioni Settimanali. La federazione dispone anche dell’agenzia stampa Servizio Informazione Religiosa. La CEI controlla i sacerdoti insegnanti di religione nelle scuole, gli Assistenti Religiosi ospedalieri e l’Istituto Centrale per il Sostentamento del Clero (833 euro mensili oltre agli scatti d’anzianità per i parroci e sui 3.000 euro mensili per i vescovi, dati del 2011), l’Ufficio Nazionale per l’Educazione (scuole paritarie della Santa Sede) e l’Ufficio Pastorale Assistenza Sociale dell’Ispettorato dei Cappellani delle Carceri. La CEI dispone di un notevole patrimonio immobiliare utilizzato come hotel e istituti sanitari, esenti dall’Ici (almeno sino al 2012) perché ufficialmente “senza fini di lucro” (per l’esenzione, basta che abbiano una cappella, ma recentemente l’Ue ha vietato l’esenzione dell’Ici. Introiti della parrocchie. Le offerte raccolte sono regolate da un’ordinanza della CEI e ogni parrocchia ha istituito un Fondo Mensile, integrativo agli introiti dell’8 per mille. Un matrimonio costa da 250 a 1.000 euro, oltre eventuali accessori (musica, fiori e simili), più le spese di cancelleria. Un funerale ha un costo minimo di 100 euro e una messa in suffragio costa almeno 10 euro. Vicarius Christi Fund: finanziamento curato dai cattolici americani attraverso la confraternita Cavalieri di Colombo con 1.750.000 associati (circa 20 milioni di dollari l’anno, oltre a finanziamenti straordinari).
Catholic Near East Welfare Association (latino: Consociatio Cattolica pro Medio Oriente): raccoglie fondi per promuovere iniziative (costruzione di cliniche, case per anziani, nuove chiese, e assistenza a bambini e simili) oltre che in Medio Oriente, anche in India, Nord Africa, Europa dell’Est. Finanziamenti e agevolazioni dello Stato Italiano. L’8 per mille rende al Vaticano anche oltre un miliardo di euro l’anno. Altre spese a carico del nostro Stato sono, tra l’altro, gli stipendi agli insegnanti di religione e ai cappellani militari, finanziamenti alle scuole e università cattoliche e agli edifici di culto, l’erogazione di acqua e gas alla Città del Vaticano; inoltre vi sono i mancati introiti dello Stato italiano per lo sconto su Ires e Irap, per l’esenzione ex-Ici, per le agevolazioni al turismo cattolico, oltre ai contributi straordinari (es. 250 milioni di euro per l’ultimo Giubileo). Tutto ciò è stimato, con sufficiente precisione, tra 3,5 e 3,8 miliardi di euro l’anno. Patrimonio immobiliare. In Italia il patrimonio immobiliare del Vaticano, come riportato nel precedente paragrafo, è stimato in un migliaio di miliardi di euro. Oltre l’Italia, nel mondo, il Vaticano è proprietario di 200.000 scuole di ogni ordine e grado, di 80.000 istituti di vario tipo, dagli ospedali ai giardini d’infanzia, di 100.000 chiese e 26.000 parrocchie, ma l’elenco è incompleto. La ricchezza immobiliare negli Usa è stimata in un miliardo di dollari. La sola Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli ha avuto una rendita di 56 milioni di euro per le locazioni e un milione per le attività agricole (dati 2007). Opus Dei (significa Operatio Dei, lavoro di Dio). Ne fanno parte circa 90.000 persone, di cui poco più di 2.000 sono sacerdoti e seminaristi. Per il resto sono laici che hanno fatto voto di celibato (i numerari, che cedono tutti i loro beni all’Opus Dei) o che vivono in famiglia (i soprannumerari, che danno consistenti elemosine mensili). Già nel lontano 1979, Opus Dei aveva 479 tra università, istituti, collegi, accademie, in Italia e nel mondo, 604 giornali e periodici, 52 emittenti radio-tv, 38 agenzie d’informazione, 12 case produttrici cinematografiche. Opus Dei, che eccelle nella struttura finanziaria, ha gestione amministrativa autonoma, ma nulla si sa sul flusso di denaro, probabilmente collegato con l’IOR; tra l’altro, ha finanziato Solidarnosc nel 1991. Organismi Apostolici. Ve ne sono almeno tre che, oltre alla vita apostolica, hanno anche sostanziosi fini politici, economici e di potere: Legionari di Cristo, Opus Mariae, Comunione e Liberazione. I Legionari di Cristo, coinvolti in diversi scandali, sono gestiti dalla holding Grupo Integer, gestiscono università
e collegi e sono proprietari di 128 case. L’Opus Mariae (ex Società dei Focolari), con 6.000 iscritti e due milioni di simpatizzanti nel mondo, ha una casa editrice, una cooperativa agricola con 4.000 soci e gestisce le Giornate Mondiali della Gioventù. Comunione e Liberazione è una comunità cristiana laica; in realtà è una vasta rete affaristico-imprenditoriale di cui fanno parte diverse società (dalla termotecnica al catering, dalle imprese edili alle imprese di pulizia); l’esponente di spicco è Roberto Formigoni e i “ciellini” sono annidati nei più importanti organismi del parastato. Organizza ogni anno a Rimini il Meeting dell’amicizia fra i popoli, dove si parla di tutto tranne che dell’amicizia tra i popoli. Ultimi arrivati, i papaboys, adolescenti ancora non in età della ragione ma col cervello già devastato dai dogmi, il cui obiettivo è “la riscoperta di Cristo e della Sua Chiesa, individuando nella figura del Papa un punto di riferimento imprescindibile, perché Egli stesso è sintesi del mistero dell’essere uomo che Dio ha creato a Sua immagine e somiglianza”. I papaboys aderiscono a “quell’unico Dio (uno e trino), unica vera fonte di pace e bene, Gesù Cristo che, è rappresentato in Terra dal Suo Vicario, il Papa, insostituibile e immutabile così come Egli è”. Appena nati, i papaboys si sono messi a chiedere “donazioni”, in denaro e in natura: dal loro sito web si precisa che sono accettati bonifici, assegni e carte di credito.
VI-7 Il duplice volto della Chiesa Un astuto atteggiamento della Chiesa è l’interfaccia col popolo dei credenti: non sono i visi spenti dei cardinali, cioè della nomenklatura vaticana che lancia strali di fuoco contro coloro o contro quelle azioni che non sono ossequienti alla dottrina chiesastica, bensì i visi bonari, veri e artificiosi, dei parroci delle parrocchie. Il bimillenario marketing della Chiesa è basato su un principio semplice: per vendere occorre abbassare il tono della comunicazione. Questa bassa manovalanza ecclesiale, privata di una normale vita umana con moglie e figli, è costretta a trascorrere il tempo poggiandosi sui parrocchiani, organizzando riti, cerimonie, processioni, pellegrinaggi, ma anche aiutando chi ne ha bisogno con una buona parola o con qualche soldo. Altro aspetto positivo del tempo libero che hanno i preti è che i più attivi tra essi, coloro che in una vita “normale” sarebbero stati ottimi organizzatori, utilizzano il loro estro con iniziative socialmente utili; si pensi, ad esempio, a don Ciotti, fondatore del Gruppo Abele per l’assistenza ai tossicodipendenti e alle famiglie in difficoltà. Il punto è che queste iniziative, che sono propagandate come frutto della “cristianità”, in realtà sono frutto della “umanità” perché altre iniziative simili si trovano ovunque: è l’uomo, e non il cristiano, che aiuta l’uomo stesso. Molte parrocchie dispongono di oratori dove i ragazzi e le ragazze, debitamente sessualmente separati, possono trascorrere delle ore ricreative, ricche di ingenue e banali convivialità, sempre che ascoltino la messa e frequentino il catechismo. Da rimarcare, però, che le associazioni scout cattoliche (N.B. Migliaia di scout sodomizzati in USA), che fanno capo alle parrocchie, indubbiamente svolgono delle attività positive e insegnano una forma di attivo cameratismo. Qualche parrocchia, tra le più ricche, hanno anche delle mense per i poveri e la Caritas raccoglie soldi, abiti e suppellettili da dare ai bisognosi. Vi sono parrocchie che aiutano le famiglie meno abbienti praticando dei minicrediti a tassi bassissimi. Viaggi turistici, che in vaticanese sono definiti “pellegrinaggi”, sono organizzati per visitare santuari e luoghi di culto, in un’atmosfera del “vogliamoci bene e ringraziamo il Signore”. Sono queste le esche edulcorate che colpiscono soprattutto le “anime semplici”, la cui maggiore preoccupazione è guadagnarsi un posticino nell’aldilà, senza molto preoccuparsi della storia e dell’essenza della Natura che li circonda nell’aldiquà. Nel giugno 2010 le cronache parlano di 90.000 “pellegrini” che a piedi hanno percorso i 28 km che separano Macerata dal santuario di Loreto, dove c’è la casa
di Nazareth “originale”, dove visse la madonna (!). Con l’occasione il cardinale Caffarra ha cardinalizzato: “Due sono le grandi metafore del vivere umano (lui lo dice e lui lo conferma, senza dimostrarlo, n.d.a): il pellegrinaggio e la girovaganza. L’uomo è un pellegrino o un girovago? Il primo ha una meta sperata e desiderata; il secondo non ha nessuna meta, e vaga senza senso. Il pellegrinaggio a Loreto è la testimonianza che la vita è un cammino verso una meta: la casa dove il Verbo, facendosi carne, ci ha mostrato il volto di Dio. E questa è la nostra beatitudine”. In questo episodio, da una parte emerge l’inimmaginabile vacuità di taluni discorsi cardinalizi e dall’altra la potenza della Chiesa: 90.000 persone convinte di andare a visitare la casa dove viveva la madonna, quindi convinta di toccare la beatitudine come conferma un cardinale che, davanti a un microfono, afferma che questo è il vero vivere umano, cioè andare a vedere il posto dove, per la miseria, è stato concepito un dio, mentre chi va girovagare a Pantelleria a farsi un bagno è un perditempo. “Davanti all’ignoranza s’inchinano anche gli dèi”, disse Leonardo. I preti di frontiera delle parrocchie sono il volto umano della Chiesa ed è quello che è impresso nella mente dei fedeli, lontani mille miglia dagli affari vaticanei. Via via che si sale lungo la scala burocratica della Chiesa, scompare la carità e al suo posto si instaura l’arroganza del potere occulto che si cela dietro gli strali della “sacra” dottrina inventata, lungo i due millenni, in 2865 articoli del catechismo. Quest’attività, dove si mescolano carità e un formale senso di pulizia sociale, scaltramente pubblicizzata al popolo dei credenti perché con essa a diretto contatto, crea in questi l’idea che la solidarietà, l’altruismo, l’aiuto verso il prossimo (con i soldi degli altri) sia prerogativa unica del cattolicesimo. Naturalmente non è così: si pensi alla laicissima raccolta di telethon, per la ricerca (e non per la preghiera) sulla distrofia muscolare e le malattie genetiche, alla quale ogni anno gli italiani donano milioni di euro, senza alcuna promessa di ipotetici paradisi. Non ci si rende conto, da parte di chi è a contatto con le organizzazioni assistenziali clericali, che non c’è bisogno di tirare in ballo un dio per aiutare il prossimo e per far parte della comunità umana in modo civile. In questo furbo messaggio di carità (carità fatta con i soldi e i mezzi degli altri, come illustrato nei precedenti paragrafi) recepito dal popolo dei credenti, unito al ticket per il paradiso, che si può staccare andando a messa alla domenica e alle feste comandate, sta uno dei cardini dell’acquiescenza dei credenti e dei creduli alla
religione vaticana. I volti cadaverici dei cardinali, che lanciano strali a destra e a manca quando la società civile si ribella all’oscurantismo (aborto, cellule staminali, eutanasia e simili), sono ben tenuti lontano dalle parrocchie e non sono recepiti dal popolo dei parrocchiani, che ricevono e digeriscono tali messaggi cardinalizi tramite le bonarie, ma secche, giaculatorie dei parroci durante le messe. L’abilità degli alti prelati è quella di esprimere una posizione sempre con chiaroscuri, in modo che al momento opportuno si possa evitare di confermarla, evitando di dispiacere a qualche potentato: la metafora come arte espressiva. Le conversioni al cattolicesimo di Claudia Koll e Magdi “Cristiano” Allam, due fulminati lungo la via di Damasco, e di Paolo Brosio, fulminato lungo la via di Medjugorje, sono state pubblicizzate sui mass media: interviste alla tv, servizi su riviste, addirittura libri. Non basta: Magdi “Cristiano” Allam, dopo la conversione, si è dato “cristianamente” alla politica ed è stato eletto al Parlamento Europeo, a ulteriore dimostrazione come religione e politica vadano a braccetto da circa duemila anni. Però non si parla mai delle conversioni alla miscredenza e all’ateismo di persone battezzate: silenzio totale nell’Italia benpensante, nonostante gli oltre dieci milioni di atei, agnostici e scettici e delle migliaia di sbattezzati. Di conseguenza, la percezione che ha l’opinione pubblica nostrana è che il cattolicesimo è vivo, vivissimo, al punto che ben tre persone, su 65 milioni, si sono convertite! Anche i missionari offrono l’idea della dedizione e del sacrificio verso persone bisognose, povere e analfabete, come se aiutarle sia una prerogativa cristiana. Questo è lo stereotipo che abbiamo, perché si parla di loro quando qualcuno di questi poveretti, uomo o donna, è ucciso da credenti di altri divinità o quando organizzano qualche raccolta di aiuti. Ciò che però non è divulgato, è che spesso nei villaggi di capanne di paglia e di frasche delle zone dove risiedono, l’unica costruzione di mattoni è la chiesa con la canonica, dove vive il missionario con le sue comodità e che ha a suo servizio cuoco, giardiniere, domestico, portatore d’acqua e altra gente, e che, tutto sommato, non se la a male, anche perché è possibile che disponga di un fuoristrada, unica persona del villaggio, col quale muoversi ad ampio raggio. Riportata sul n° 6/2011 de L’Ateo, il periodico dell’Uaar, è significativa la testimonianza di un italiano, che vive da anni in Tanzania, paese ato dall’animismo all’islamismo e al cristianesimo.
“I leader religiosi, specie i vescovi, sono le persone più potenti di questo paese. Non vengono in genere associati alla politica o con i politici, e non appaiono molto spesso nemmeno nelle pagine dei giornali, ma si sa, loro hanno il “potere” e sono rispettati da milioni di fedeli (si è mai notato ad esempio l’immensa massa di gente presente quando arriva il papa in visita in questi luoghi?)… Nei piccoli villaggi, la domenica mattina è sacra… le radio trasmettono canzoni lodando Gesù e compagnia bella e le tv ano video di gruppi religiosi cantando in coro… Tutta la famiglia va in chiesa in paradossale eleganza, uomini in giacca e cravatta, bambini con i mocassini e donne con kanga bellissimi e capelli spesso modellati a parrucche… Andare a messa è come un obbligo nelle comunità, chi non ci va è un outcast e non è benvisto dai suoi paesani. Ma la cosa più terribile è che, in un obbligatorio rituale, ogni famiglia mette dei soldi in una busta, ci scrive il nome sopra e la consegna al prete. Ciò lo trovo doppiamente assurdo. Primo perché ancora oggi la chiesa chiede soldi ai poveri (quando invece dovrebbe proprio darli ai poveri) e secondo perché i preti sono consapevoli di quanti soldi una famiglia dà [una sorta di oblazione forzosa e controllata, n.d.a.]…” Altro elemento che impressiona le anime semplici dei creduli sono i paludamenti, costosissimi e pacchiani, con i quali papa, cardinali e vescovi si fanno vedere in pubblico e che, per una mente razionale, sono ammissibili come le maschere del carnevale. Preti, monsignori, e su su sino al papa, amano il camouflage, la mise en scène, il travestimento, con vestimenti e ornamenti, che non hanno alcuna motivazione se non quella di acquisire un falso carisma agli occhi dei credenti sempliciotti. Una carnevalata continua, uno stacco dalla realtà, uno schiaffo alla povertà, a parte i scani. Alcuni prezzi (2011): una mitra 30.000 euro, una pianeta (paramento) 18.000 euro, una casula (altro paramento) 10.900 euro, un paio di scarpe 1.500 euro, un paio di guanti (con ricami dorati) 1.200 euro. Perché queste eminenze non indossano camicia, cravatta e pantaloni? La caratteristica di apparire diversi agli occhi del popolo, cercando con questo misero sotterfugio di dimostrare di avere il filo diretto con qualche Superiorità che ci sovrasta, è una caratteristica dei santoni, dal papa agli sciamani (questi però con più modestia e senza orpelli, ori ed ermellini). “Il primo compito della Chiesa, anche locale, è mantenere viva la parola di Dio perché il Cristianesimo non è soltanto la religione dei testi. È la religione della parola, quella parola capace di restare viva. Quella parola dobbiamo custodire e ce ne dobbiamo dissetare, poco per volta, per non esaurirne mai la fonte, ma perché diventi vita vera” (Resto del Carlino, 24 febbraio 2010). Queste parole,
prive di significato, le ha pronunciate monsignore Fisichella, rettore della Pontificia Università Lateranense, che per le sue sparate che dice periodicamente sarebbe adatto a capo del Sant’Uffizio Inquisitore. Parole rivolte non a dei parrocchiani, ma a delle autorità laiche e nelle quali c’è una verità: “mantenere la parola di Dio”; i preti, in fondo, da duemila anni non fanno altro che vendere parole e “la parola” è l’unico prodotto della Chiesa (vedi il paragrafo VII-1 “Credenti e creduli”, cap. VII). Il colloquio diretto col popolo dei credenti è invece morbido, scivoloso, paternalistico. Tutti i papi ci affliggono con i continui e gratuiti richiami alla pace nel mondo, pace di qua e pace di là, ma nessuno più ricorda che un cappellano militare, George Zabelka, si preoccupò il mattino del 6 agosto 1945 di benedire l’Enola gay prima che partisse per Hiroshima a sganciare la “santa” bomba atomica, proprio quella santità che si sprigiona dalla Chiesa. In occasione della Pasqua è consuetudine dei preti di andare a benedire le abitazioni dei parrocchiani (oggi mandano anche i diaconi). In una di queste pasque, non eravamo in casa e dietro la porta qualcuno lasciò un pieghevole: era il messaggio alle famiglie da parte del vescovo. Titolo: la temperanza cristiana. Già il titolo è errato: la temperanza, anche come virtù cardinale, è universale e non cristiana. Il concetto che ha un ateo della temperanza non è diverso da quello di un credente, e infatti il vescovo affermava che, secondo l’articolo 1.809 (milleottocentonove!) del “Catechismo della Chiesa cattolica”, è “la capacità di soddisfare con equilibrio e moderazione i propri istinti e desideri”. Il vescovo entra nel dettaglio: moderare il mangiare e il bere, controllare gli istinti sessuali (e non poteva mancare), ricercare un uso equilibrato dei beni materiali e del denaro, dominare l’irascibilità, e via di seguito con tante banalità. La Chiesa Cattolica Apostolica Romana ha creato questa gigantesca costruzione, a partire da un dio, sino alle migliaia di chiese sparse nel mondo, con milioni di libri, milioni di riti, con un “Catechismo della Chiesa cattolica” di 2.865 regole, per dire semplicemente delle banalità alle persone dotate di un normale senso civico. Tutto questo ambaradan per niente. È probabile che molti, moltissimi ecclesiastici, soprattutto quelli che più in alto occupano la burocrazia della Chiesa, una volta finite le ore del loro lavoro giornaliero e riacquisiscono la capacità di “pensare” in piena libertà, nel loro profondo sanno che è umanamente anomalo non avere una famiglia, che l’aborto è necessario in taluni casi, che nell’universo è molto probabile che esistano altri mondi abitati e, probabilmente, anche altri universi paralleli, che inferno e
paradiso sono delle balle, che è dura e triste ogni giorno ammantare di realtà un mondo fantastico messo su da oltre duemila anni da persone ignoranti e barbare. Perché una cosa è il “pensare” e un’altra cosa è il “credere”.
VI-8 Il terribile condizionamento dei bambini A casa mia c’è un terrazzino. In estate metto sul davanzale alcuni vasi con dei gerani. Qualche anno fa, mentre innaffiavo un vaso rettangolare con due vigorosissimi gerani, mi accorsi che nella terra tra le due piante c’era un nido con tre uova. Non m’ero mai accorto chi poteva averlo fatto, ma non tardai molto a scoprirlo: era stata una merla, che se ne andava in giro a cacciare lombrichi e, quando gli girava, si posava sulle uova; ma, al tramonto, puntuale, si metteva a covare e se ne stava tutta la notte. Quando non c’era, ne approfittavo per controllare il nido: mi sorprendeva la sua perfezione geometrica. All’interno era una semisfera perfetta, con i bordi lisci composti con frasche, una struttura quasi vellutata. Timidamente, cercai di farle sentire la mia presenza, quando covava. Mi avvicinano pian piano, sino a qualche metro. Lei mi adocchiava, mi controllava, ma continuava imperterrita a covare le uova. Tentai di fare amicizia porgendole del cibo. I pezzetti di lattuga li rifiutava. Le molliche di pane le gradiva ma una volta gliene diedi una troppo grande, che le rimase in gola; per qualche minuto strabuzzò gli occhi e aprì il becco, sino a quando, immagino, non la inghiottì. D’allora, non accettò più molliche di pane. Andava pazza per gli spaghetti cotti, che forse scambiava per lombrichi.
Il cibo non lo prendeva direttamente da me. Non accettava l’offerta. Gli spaghetti glieli poggiavo vicino al nido, su un ramo di geranio, e arretravo di un o. Lei, in un batter d’occhio, beccava immediatamente e inghiottiva, come se stesse rubando. Non ricordo dopo quanto tempo vennero fuori i piccoli, forse due o tre settimane. Scoprii che non nascono dei pulcini, come sappiamo dalle galline o dalle oche. Viene fuori una sorta di magma pulsante, informe, dove si individua – con una certa difficoltà – una forma di testa con una specie di propaggine che è il becco. Questa massa pulsante, vegeta per una settimana circa, alla fine della quale prende una vaga forma di uccello. C’è una testa con due occhi, c’è un becco, ci sono delle zampette, un tentativo di ali. Non c’è ombra di piume o di peluria.
A quel punto la merla iniziò a dare da mangiare ai piccoli. Al mattino, quando andavo a controllare, non c’era mai; penso che andasse a fare colazione. Quando arrivava al nido, a mattino inoltrato, portava sempre qualcosa per i piccoli. Malgrado mi conoscesse, ogni volta che mi avvicinavo, si metteva sulla difensiva e puntava il becco verso di me, ma senza accennare a un attacco. Man mano che i piccoli crescevano, i suoi voli in cerca di cibo da portare al nido si facevano sempre più frequenti. E un giorno scoprii che c’era anche un padre. I merli sono neri mentre le merle sono grigio scure. Anche lui, di rado, portava del cibo ai piccoli, ma lo faceva con rapidità e non si fermava mai al nido: poggiava il cibo e volava via. Notai che lo portava quando non c’era la merla e che, durante il giorno, volava con frequenza nei pressi del terrazzo. Poi i piccoli cominciarono a emettere un suono quando arrivava la madre: era un suono sordo, come il fruscio dell’aria quando esce da un palloncino; crescevano a vista d’occhio, giorno dopo giorno, e i voli della merla in cerca di cibo si facevano sempre più frequenti, era quasi un va e vieni dal nido. Incrementai la porzione di spaghetti. Un giorno, approfittando che non c’era la merla, controllai i piccoli da vicino: non mi davano confidenza, aspettavano la madre. E lei arrivò improvvisa, sorprendendomi vicino al nido. Si posò sopra i piccoli, con del cibo nel becco, e mi lanciò uno sguardo di fuoco. Che non mi permettessi mai più di disturbarli! Quando pioveva, lei si metteva sopra i piccoli, e allargava le ali per ripararli. Gli acquazzoni estivi sono violenti, eppure lei se ne stava ferma, rigida, e attendeva stoicamente che la pioggia smettesse. Poi rinchiudeva le ali e volava via in cerca di cibo. Dopo due settimane, i piccoli avevano una grandezza quasi uguale a quella della madre. Esattamente al mattino del ventesimo giorno dalla schiusa delle uova ebbi la fortuna di vedere il battesimo del volo dei piccoli. La merla per tre o quattro volte volò via dal nido, faceva un rapido giro davanti e vi ritornava e i piccoli, che in effetti erano grandi quanto la madre, la guardavano. Poi la merla fece un giro più lungo e si posò sul prato, dodici metri più sotto; uno ad uno, i piccoli presero il volo e la raggiunsero. Da allora non li ho più visti. Invidiai quella merla che, da sola, e senza conoscere nemmeno il teorema di Pitagora, s’era costruita un nido, aveva fatto tre figli, li aveva cresciuti e difesi. Dopo avere imbeccato i piccoli per farli crescere, lei creatura ignorante e incolta, una nullità nei miei confronti, certamente avrebbe spiegato loro, come richiede l’evoluzionismo darwiniano, come scovare sotto terra i lombrichi, in modo da preservare i loro geni, quegli stessi che le hanno inculcato le regole del vivere.
È la legge della selezione naturale: i piccoli di tutte le razze, uomo compreso, imparano dai genitori, con fiducia, perché così si sopravvive. E se un piccolo di razza umana è mandato dai genitori al catechismo, a imparare che un uomo, nato da madre vergine, è morto, è risuscitato e si è fatto dio, la fiducia del bambino, che deriva dal principio dell’evoluzione darwiniana, lo porta a obbedire e a credere a ciò che i suoi genitori gli impongono di imparare e non potrà accorgersi che sta cadendo nel pozzo della credulità. La forza plurimillenaria della Chiesa sta nel condizionare bambini e adolescenti. Confesso che una delle scene per me più odiose da vedere è quella di un prete con dei bambini, perché in quel momento un adulto sta abusando psicologicamente delle menti candide, ancora in formazione, per piegarle al suo credo propinando loro il timore dell’inferno e il concetto del peccato e probabilmente condizionandole per il resto della vita. Il clero trasgredisce il “sacro” principio che la prima libertà di un individuo deve essere quella di potere liberamente conoscere, esprimersi, pensare e colloquiare. Sin dai primi secoli di vita, le più alte espressioni delle gerarchie ecclesiastiche hanno fomentato il disprezzo, la disobbedienza, la crudeltà, nei riguardi dei genitori e dei parenti. Ambrogio si rivolgeva alle ragazze: “Soffoca, o vergine, in primo luogo, la gratitudine infantile. Se sconfiggi la tua famiglia, allora, avrai anche il mondo in pugno”. Crisostomo invitava i figli a disconoscere i genitori che si opponevano alla vita ascetica. Cirillo, il massacratore d’Ipazia, invitava a non avere timore reverenziale nei confronti dei genitori e affermava che l’amore verso figli e fratelli era secondario rispetto alla fede religiosa. Gregorio Magno invitava a dimenticare “il padre, la madre, la sposa e i figli” e preferire le gioie ultraterrene. Bernardo, un altro santo, invitava a ignorare i genitori per raggiungere “il vessillo della croce”. L’elenco di questi invasati, attraverso i secoli bui, sarebbe lunghissimo. Non l’amore portò il cristianesimo, ma il malanimo, l’ignoranza, l’irrazionale. A proposito di tutti questi “santi”, migliaia solo per la Chiesa cattolica, è da ricordare, come affermava Bertrand Russell, che per nessuno di questi personaggi la santità è dovuta a opere di concreta utilità pubblica. Quando i miei mi mandarono a un corso propedeutico prima di prendere la prima comunione, il prete mi chiese: Che peccati hai fatto? E io non sapevo cosa rispondere. Hai commesso atti impuri? E io non sapevo cosa intendesse dire. Continuava più o meno: dobbiamo liberarci dal peccato in modo da presentarci davanti al Signore, all’atto della comunione, con l’anima immacolata. Alla fine, non sapendo cosa dire, gli confessai che avevo preso dei cioccolatini dal cassetto
della cucina senza dirlo a mia madre. Ecco, esclamò il prete, hai commesso un atto di gola, e mi fece recitare delle preghiere come penitenza, e così mi presentai al Signore con l’anima candida. Una mia carissima parente è rimasta, in un certo senso, complessata da un episodio vissuto alle elementari, che frequentava presso un collegio di suore. Un giorno, durante la ricreazione, lei giocava e si mise a rincorrere un amichetto. Una suora la vide e la redarguì bruscamente: “Non si corre mai dietro i maschietti!”. Quella parente mi ha confessato che la frase ancora oggi in qualche modo la blocca nell’aprirsi con le persone dell’altro sesso, risentendo un istinto di difesa. E pensare che si può vivere la propria vita senza il timore continuo di aver offeso questa o quella divinità, di avere infranto qualcuno dei tremila articoli del catechismo o di essere alla mercé dei demoni. Il pensiero dei giovani è soffocato e convogliato in un ostile fanatismo contro coloro che sono preda di altri fanatismi. La rettitudine che inculca la Chiesa sta nell’indirizzare ostilità verso chi rappresenta il male e il male altro non è che quello che la Chiesa non accetta. La conoscenza illumina la nostra oscurità intellettuale e impariamo a godere la bellezza della vita su questo mondo, anche con i suoi sacrifici e momenti di tristezza. La staticità dei concetti religiosi porta alla mummificazione del pensiero e della vita del credente; tutta la sua religione si riassume in una serie di riti facili, di nessun impegno intellettuale e quindi aperti a tutti, che non richiedono svolte eccessive al loro tran-tran quotidiano; l’inconscio allontanamento dalla pratica religiosa è prova che le religioni non sono naturalmente sentite dall’uomo, ma sono habitus mentali acquisiti dalla tradizione. Il cattolicesimo, inoltre, s’insinua nella famiglia, imponendo ai credenti di mandare i figli a indottrinarli al catechismo, un’azione immorale perché una giovane mente deve essere lasciata libera e non deve essere già imbalsamata in riti e credenze, di cui non sa rendersi conto e sui quali è ancora immatura a giudicare. Il cattolicesimo intende mostrarsi una famiglia che tiene in grembo le anime, tutte, e così dio è padre, la madonna è madre, Gesù è figlio, i preti sono fratelli e le monache sorelle. Siamo tutti una famiglia… Addirittura la Chiesa cade nel tragicomico, quando impone il battesimo a un neonato, pretendendo di ipotecare la personalità di una creatura sul nascere; c’è l’abuso di bambini e ragazzini giacché impone il battesimo ai neonati, quando ancora sono incapaci di intendere e di volere. La Chiesa pretende di difendere la vita con le restrizioni sull’aborto anche a quei microrganismi che iniziano a
evolversi dopo qualche giorno dalla fecondazione dell’ovulo da parte di uno spermatozoo considerandoli esseri umani, ma, stranamente, appena nati intende bloccare lo sviluppo del loro pensiero col battesimo. Eppure quest’azione, che sa di viltà nei confronti di una creatura impotente, è alla base dell’inquadramento dei creduli e dei credenti e dello sviluppo automatico e ivo del cattolicesimo. L’accaparramento dei cervelli dei minori è una prerogativa dei credi religiosi, spesso con pratiche innaturali, come l’infibulazione o la circoncisione. Ci sono ebrei ortodossi che, dopo la circoncisione del neonato, succhiano e sputano il sangue del pisellino, perché così vuole questa incivile pratica religiosa. La meccanicità dei riti ripetuti automaticamente per secoli, riti di cui spesso se ne dimentica gli scopi originari, è l’asse trainante delle religioni. La Chiesa, oltre ai limiti imposti ai rapporti sessuali, rende la vita difficile anche ai giovani maschi lanciando fulmini sulla masturbazione. Ricordo da giovane, quando ancora ero timido con le mie coetanee e non avevo sempre disponibilità di soldi per andare con una prostituta, che la Chiesa pubblicizzava orribili conseguenze sulla masturbazione, che, confesso, mi misero addosso delle paure e, in parte, anche riuscirono a limitarmi a masturbarmi. Si sosteneva che, a seguito della masturbazione, si poteva diventare ciechi, si poteva perdere la memoria, si poteva diventare pazzi, si poteva perdere la capacità di riproduzione. La Chiesa abbina l’impraticabile con l’incredibile. Il credente è investito da tutta una serie di riti, cerimonie, preghiere e da una lettura addomesticata dei sacri testi. Con la mente condizionata, il credente rischia di essere trasformato in credulo, privato dalla possibilità di analisi critica di ciò che è scritto nei sacri testi. Le regole della Chiesa creano una morale che è ben lontana dal rendere felice l’uomo e che contribuisce a incrementare le sofferenze umane: viviamo in una valle di lacrime.
VI-9 La madre di tutte le ignoranze Duemila anni addietro un certo signore è torturato e ucciso per una colpa che io, i miei genitori, parenti e amici tutti avremmo commesso e della quale nessuno ne ha idea. Il padre di questo signore è denominato “dio” e, grazie all’assassinio del figlio, io posso sognare una non ben chiara ma eterna beatitudine, assieme al soprannominato dio, il quale ha pensato bene a fare resuscitare il figlio, che, infatti, sta accanto a lui, in un non ben definito posto (spirituale o reale?) chiamato paradiso. A pensarci, se il padre ha fatto resuscitare il figlio, l’espiazione non vale: prima lo fa ammazzare e poi lo resuscita. Pare che la colpa mia, dei miei parenti e amici, sia quella di essere discendenti da un certo Adamo e di avere ereditato le stigmate. Che colpa ha commesso questo tizio? Pare gli sia calato storto il boccone di un frutto, che assolutamente non doveva toccare. Ebbene, a questa scombinata storia vi hanno creduto, e continuano a crederci, o fanno finta di crederci, miliardi di individui.
Riepiloghiamo per coloro che si meravigliano dell’assurdità della storia. Secondo una logica sadomasochistica, dio (il padre) s’incarna in un uomo chiamato Gesù (il figlio), nato con l’aiuto di un protettore (lo spirito santo), con lo scopo di fare uccidere, mediante tortura, quest’uomo, affinché sia espiato una volta per tutte e per tutti i miliardi di credenti ati e futuri il peccato originale fatto da un povero cristo di nome Adamo. È un discorso, a dir poco, folle se non fosse già ridicolo, che disturba l’intelligenza umana, anche perché Adamo… non è mai esistito. A tutte le ignoranze umane, quei placebo ontologici chiamati “religioni” forniscono una risposta fantastica, ma per ciò che non riescono nemmeno a spiegare con la fantasia c’è il vertice della fantasia: la fede. Il mistero, covo di tutte le ignoranze umane, è elevato al rango di dignità intellettuale e il divieto di ragionare diviene il segno della presenza del dio. Il tutto è impacchettato dalle istituzioni ereditate dalle consuetudini e dalle tradizioni, che rafforzano il sentimento del soprannaturale. Noi ereditiamo oggi le paure, istillate dalla realtà e codificate dalle religioni, che ebbero i nostri antenati migliaia d’anni addietro, quando nell’umanità era in vigore la barbarie e l’inciviltà. Non c’è religione che non esiga sacrifici, almeno intellettuali, dai credenti.
La fede, quindi, è un complesso di credenze che vanta di non essere e di non poter essere soggetto a critica alcuna, mentre la bestemmia e la blasfemia nei confronti di un’opera o di una figura religiosa sono considerate una scelleratezza, anche se non c’è alcuna vittima. Ciò che riguarda l’archetipo di una religione è considerato sacro, dimenticandoci che tale sacralità è solo un dono della tradizione e ha origini oscure, disperse nei miti di un antico mondo ignorante. Se a un credente (e non a un credulo, incapace di un esame interpretativo) s’illustra con serenità un’analisi critica nei confronti della sua religione ricorrendo a considerazioni che, in altre circostanze, sarebbero considerate del tutto franche e corrette, chi ascolta dà segni d’insofferenza, talvolta d’irritazione. Se al credente si chiede insistentemente di motivare e argomentare la sua fede, si rischia di essere accusati di violenza alla “libertà religiosa”, accusa che non è riconosciuta quando è il non credente a essere sottoposto a interrogatorio, anzi la “libertà alla non credenza” è considerata quasi una menomazione intellettiva, come in più di un’occasione ha pontificato Benedetto decimosesto. Per me, e credo per gli atei e per i miscredenti, è impossibile credere “per fede”, rinunciando alla ragione. Tale considerazione, per un ecclesiastico, è una “caduta” nel razionalismo, mentre per me è una “elevazione” al razionalismo. La stessa definizione di “dogma” è inconciliabile con la ragione e con la critica, pertanto è inaccettabile per un ateo tutto ciò che è “dogmatico”. Estrapolando, quando si abbassa lo spirito critico dell’uomo, sgorga l’emotività e vengono fuori le religioni con i guru, le dittature con i militari, le forme autoritarie (nelle famiglie, nelle aziende, nei popoli) con l’autorità dei potenti. Quando si abbassa lo spirito critico. Le religioni fondano la loro esistenza sulla tradizione, come più volte richiamato. Un credente cattolico crede nel cattolicesimo perché i suoi genitori, i suoi nonni, i suoi compaesani, i suoi insegnanti ci hanno creduto: è la tradizione e non la convinzione a lasciare in vita un credo religioso (qualunque esso sia) e, a volte, a svilupparlo, perché la comunità umana è sempre in aumento. La tradizione è linfa vitale per una religione e il fedele cattolico trova la massima soddisfazione nel ripetere durante la messa domenicale, assieme al gruppo, delle frasi anonime e meccaniche con la consapevolezza di colloquiare con le sfere celesti davanti al sacro betilo: lo squallido psittacismo dei turiferari.
Cap. VII L’UOMO IMMORTALE
VII-1 Credenti e creduli Uno studio eseguito su 17 nazioni “evolute” ha concluso che tanto più alto è il livello di religiosità, tanto più alto in proporzione è il livello di malessere sociale come omicidi, aborti, mortalità infantile. Se scegliamo due persone “normali”, un ateo e un credente, ed esaminiamo il loro comportamento dal punto di vista etico, notiamo che i loro princìpi sono identici ed esulano da qualsiasi fede religiosa; l’aiutare chi ha bisogno o rispettare le persone (e anche gli animali, anche se nell’AT si immolavano a dio), ad esempio, non sono una prerogativa religiosa, ma rientrano in un principio etico universale. Al credente cristiano è inculcato, dagli “interpreti” e portavoce divini, che se non opera del bene rischia di andarsene all’inferno, perché così è scritto nella Sacre Scritture e perché così è stato detto dal tale santo. Il non credente non ha bisogno di ascoltare tutta questa manfrina per rendersi conto, motu proprio, che nella società umana è saggio e giusto aiutare chi ne ha bisogno, aver riguardo di ciò che ci circonda così come essere onesto sul lavoro; non ha bisogno della carota del paradiso, agisce “gratis”. Non esiste la carità cristiana, esiste la carità, universale e a-religiosa, così come non esiste l’amore cristiano ma l’amore. Il credo religioso, proprio nell’imporre come agire, paventando inferni e penose condanne, opera un’azione discriminante dal “resto del mondo”, dividendo popoli e catalizzando conflitti e ostilità. È indubbio che il carattere umano porta al senso d’appartenenza al proprio parentado, alla propria città o regione o nazione, in generale al proprio gruppo, ma certamente ogni religione scava ancor di più il solco. Prima di entrare più in dettaglio nel mondo dei credenti e dei creduli, occorre precisare che in quei paesi considerati “cristiani” c’è una maggioranza “cristiana” composta di persone che partecipano ivamente alla civiltà che si definisce “cristiana”, dove dio è un’ipotesi di lavoro per creare una morale, una politica, un costume sociale. Questi cristiani, che vanno automaticamente a messa di domenica così come si sposano rigorosamente in chiesa e celebrano il battesimo dei loro figli senza chiedersi il perché, senza aver letto un rigo della Bibbia, vivranno di questa “cristianità” e morranno in essa, ma, anche se
dichiarano di essere credenti, in realtà sono degli atei immanenti, di seconda serie, oppure sono (falsi) atei che si nascondono dietro la maschera della fede per apparire (falsi) credenti. Il Salvatore da cosa ci ha salvato? e tutto l’amore di Gesù dov’è andato a finire? Certamente non nella burocrazia del Vaticano, che ha preteso d’inserire nella Costituzione europea le farlocche fondamenta cristiane, dimenticando che noi europei ci ammazziamo e siamo in guerra da duemila anni, grazie anche alla nostra “natura cristiana”. Duemila anni di stragi, dittature, rivoluzioni, massacri, persecuzioni: questa è la storia della cristianissima Europa, né più né meno di come si comportavano i pagani Romani. Agli atei non occorre riunirsi in qualche luogo per umiliarsi per le loro pochezze o autocelebrarsi per le loro virtù, nella vanità di colloquiare, nientedimeno, con qualche dio. Se cadono in qualche errore, c’è un giudice incorruttibile, la loro coscienza, che non li perdona nemmeno se recitano mille ave maria e pater noster con due rosari in mano lunghi un metro. I credenti, oltre ad avere la pretesa di sapere che dio esiste, pretendono di sapere anche cosa lui pensa; in essi non esiste la responsabile cultura del dubbio. Un credente sa tutto – anzi: sa tutto ciò che gli consente dio – perché dio gli ha fornito le necessarie informazioni. A tali interpretazioni presuntuose del pensiero e dell’agire del Creatore appare valida la domanda retorica di Paolo (Rom 9,20): “O uomo, chi sei tu, per contestare Dio [tu chi sei per disputare con Dio]? Oserà forse dire il vaso plasmato a colui che lo plasmò: «perché mi hai fatto così?»”. Certamente nel ato i credenti nobili sapevano tante cose su dio che ai loro successori vaticanei dei giorni nostri non sembra vero. È certo, pure, che oggi non possono spararle tanto grosse, anzi furbescamente lasciano parlare i credenti immacolati, i cui scritti sono editi dalle innumerevoli editrici cattoliche e le cui prediche si ascoltano dalle varie radiomarie. E quando proprio non si sa che pesci prendere, et voilà! compare il mistero. Nel suo saggio “Gesù lava più bianco” (Minimum Fax), Bruno Ballardini presenta la Chiesa come una Multinazionale che ha creato la prima e più perfetta macchina da marketing, capace di metabolizzare credenti e creduli. Il nucleo del «business» è la “Parola” e i suoi derivati, come “Salvezza”. La «caratteristica della marca»: è un prodotto unico perché espressione unica dell’unico dio. Per quanto riguarda «l’efficacia delle prestazioni» della Multinazionale, è un’efficacia che si basa sulle parole e sul valore che si attribuiscono. La
«conformità agli standard di qualità» è di difficile valutazione perché è la “marca” che stabilisce in anticipo tali standard. La «durata» del prodotto, cioè la “Parola”, è eterna e quindi non esiste il problema del “ciclo di vita del prodotto”. Punto vincente è la «riparabilità»: ad esempio, anche se compromessa dal peccato, la salvezza è sempre recuperabile. Dopo avere esaminato il “Prodotto”, iamo alle caratteristiche del “Servizio” pre-vendita e post-vendita, con tanto di assaggio del prodotto: l’eucaristia. La «competenza»: garantita dall’autorevolezza della Multinazionale e dall’infallibilità del papa, caratteristiche basate sempre sulla parola (scritta). La «cortesia»: i dipendenti della Multinazionale hanno un codice comportamentale idealmente aderente al lato bonario delle Sacre Scritture. La «credibilità: come afferma la Dei Verbum del concilio Vaticano II, non si può non credere alla Multinazionale perché “L’ufficio di interpretare autenticamente la parola di Dio scritta o trasmessa è stato affidato al solo Magistero vivente della Chiesa, la cui autorità è esercitata nel nome di Gesù Cristo”; insomma, aggiungerei, la credibilità è “qualità DOD”: Denominazione di Origine Divina. L’«affidabilità»: garantita dall’efficacia del prodotto. La «prontezza»: immediata (es. remissione dei peccati, purificazione). La «comunicazione»: invincibile perché tutte le attività della Multinazionale sono comunicazione della Parola divina. Immaginate che un creatore vi metta al mondo, in un mondo fatto a misura per voi che dovrete soggiogarlo e dominarlo (parola di Bibbia, Gen 1,28) e che vi sorvegli anche quando fate l’amore. Immaginate che obbedite alle regole di questo Supervisore che sta sopra di voi e che acquisirete il diritto dell’eterna beatitudine (non so cosa significhi, ma deve essere un premio notevole, visto quel che costa). Ebbene, perché credenti e creduli non sono felici? perché hanno alti e bassi? perché alternano giorni felici con giorni difficili? visto che hanno la chiave per l’eterna beatitudine, e Gesù ha già pagato per loro, non dovrebbero essere giulivi 24 ore al giorno? La risposta della Chiesa è scontata: non si è felici quando si pecca. Di conseguenza, poiché il “peccato cattolico” è dovunque, anche se un credente lancia uno sguardo smanioso verso le gambe di una donna, i credenti sono condannati a una possibile continua infelicità, tra un’eucaristia e l’altra. È luogo comune che il credo religioso, qualunque esso sia, rende migliore un individuo, rispettoso nei confronti degli altri, addirittura più civile, anche se crede nella partenogenesi della vergine o al volo della grotta di Betlemme, con l’aiuto degli angeli, sino al santuario di Loreto, dove si può toccare con le mani. L’atteggiamento onesto di un credente non prova che ciò in cui crede sia vero,
anche perché l’onestà non è prerogativa solo del credente. D’altra parte, se diversi preti hanno sodomizzato dei ragazzini delle loro parrocchie, ciò non esclude che la maggioranza dei preti sia irreprensibile con i giovani che ronzano attorno a loro. Di contro, siamo testimoni che capi mafiosi nelle loro tane avevano immagini sacre e Bibbie, che il rito d’accesso alla mafia avviene con un taglietto sulla mano in modo che sgorga del sangue alla presenza di un’immagine sacra; in Puglia abbiamo anche la sacra corona unita. Peggiore è il criminale, più devoto si scopre. In fondo, anche la Chiesa in ato ha avuto in diverse occasioni un atteggiamento criminale, come già ricordato: la persecuzione degli ebrei, le crociate contro i musulmani, la caccia agli ortodossi, i delitti dell’Inquisizione, più recentemente il massacro in Ruanda. Nomi illustri, vittime del tempo, hanno dato una mano alla devozione divina, non disdegnando di arzigogolare sull’argomento, come ad esempio fa Leibniz (1646-1716), che si è cimentato a dimostrare che viviamo nel migliore mondo possibile. Si domanda Leibniz: per quale ragione dio non avrebbe creato il migliore mondo possibile? Per tre ragioni: 1) non ha idea come possa essere il mondo migliore; 2) non è in grado di crearlo; 3) non vuole crearlo. Ma dio è: 1) saggio; 2) onnipotente; 3) buono. Leibniz conclude: non sono veri né il mondo del caso 1), né quello del caso 2), né quello del caso 3), quindi il mondo reale è quello migliore. Commento, modestissimo: poiché non sembra che questo mondo sia il migliore, evidentemente – accettando la logica di Leibniz – non c’è un dio saggio, onnipotente e buono. È sbalorditivo come i credenti tralasciano ogni verifica nelle questioni di fede, per il fatto che sono indottrinati e inquadrati mentalmente sin dalla culla, e recepiscono il credo dai genitori così come gli animali recepiscono le abitudini da chi li ha procreati. Solo una trascurabile minoranza di persone probabilmente avrebbe un dio, ma c’è stato qualcuno che ha provveduto a offrirne uno, già impacchettato e pronto all’uso. In termini squisitamente pratici, che ci sia uno dei tanti dii ipotizzati dalle religioni è una circostanza insignificante; invece, in termini metafisici, questi dii, con i quali parlano con facilità miliardi di persone, hanno avuto e hanno ancora notevole influenza e suggestione. La speranza di essere immortali persiste tra le varie generazioni dell’uomo perché è una solida illusione. È un premio quasi gratuito per molti cristiani, quelli “meno impegnati”: basta andare a messa la domenica e i giorni festivi, battersi il petto dicendo “mi pento dei miei peccati”, deglutire periodicamente un’ostia. Et voilà! Si diventa immortali e si prende l’ascensore per il paradiso.
Il punto è che i credenti non desiderano la comprensione, ma il narcotico per il sogno, l’inganno self-made. “Dove entra il dolore, il Padre Celeste è sulla porta” sentenzia un apologeta e, infatti, dio è più presente dove c’è il bisogno, la crisi, la sconfitta, il malanno; non è che è lui vicino a noi, ma siamo noi che ne supplichiamo l’aiuto, indipendentemente dalla sua presenza. Chi sarebbe più felice di un credente moribondo, se credesse nell’immortalità garantita dal cristianesimo? Il dispiacere di lasciare su questa fittizia valle di lacrime i propri cari dovrebbe essere incommensurabilmente minore della gioia di entrare nella vita, nientedimeno, eterna, e per di più, se si è andati a messa tutte le domeniche e i festivi, con la certezza di avere acquisito il ticket per il paradiso. Lo stesso dicasi per i parenti: tutti a piangere per il moribondo, che invece (sempre che sia stato un buon cristiano) sta per andare laddove la luce è eterna. Non c’è ossequio a dio che lo sta chiamando a sé, che è il dono più grande che possa ricevere il credente. Persino Gesù brontolò qualcosa prima di emanare l’ultimo respiro: il dio che pregava dio a non farlo morire. Da ciò si può comprendere l’azione orribile che ha escogitato questo dio a tutti noi umani: ti offro la vita ma poi te la prendo, tanto quella terrena è tutto uno scherzo. Se dio fosse un buono, e non un demone, avrebbe eliminato la vita terrena e saremmo tutti entrati direttamente nella vita eterna paradisiaca. Pensate, che bello: tutti insieme nel paradiso, niente inferno né purgatorio, con Gesù, Giuseppe e Maria a ballare la samba. Invece, ci tocca lavorare per pagarci la pensione, dobbiamo lottare contro i malanni, dobbiamo superare i contrasti con gli estranei, e dobbiamo scansare epidemie e malanni, virus e batteri, terremoti e maremoti, alluvioni e governanti.
I mormoni Nel 1826, quando aveva 21 anni, Joseph Smith fu condannato dal tribunale di Bainbridge, N. Y., come impostore e persona senza regole perché organizzava false spedizioni alla ricerca di oro e praticava la magia nera. Dopo quattro anni Joseph raccontò una storia. Il 21 settembre 1827 aveva scoperto, su indicazione di un angelo di nome Moroni, col quale si era incontrato tre volte, un libro scritto su tavole d’oro e due pietre magiche che gli consentivano di tradurre ciò che stava scritto. Il libro raccontava storie di genti nord-americane e verità sui vangeli e narrava di un certo Nephi, che nel 600 a. C. era partito da Gerusalemme per giungere in America, il tutto infiorettato da battaglie e calamità. Il buon Joseph proclamò che solo lui poteva vedere il libro magico e chiunque l’avesse sbirciato sarebbe morto fulminato. Siccome era semianalfabeta, man mano che traduceva il libro con le pietre magiche, era sua moglie Emma a scrivere sotto dettatura. Joseph chiamò un poveruomo, tale Martin Harris, a continuare a scrivere sotto dettatura, il quale vendette la sua abitazione e si trasferì presso Joseph. Tra i due c’era appesa una tela in modo che lo scrivano non potesse vedere il libro. A un certo momento la moglie si scocciò di quella vita e del marito fannullone, rubò un centinaio di pagine e sfidò il marito a riscriverle tal quali. Il furbo Joseph disse di avere avuto una seconda rivelazione e riavviò la traduzione, sempre con le pietre magiche, anzi aggiunse altri scrivani. Finito il lavoro, dichiarò che le tavole d’oro erano state trasportate in cielo, dove pare vi siano rimaste. Questa è l’origine del Libro di Mormon, sottotitolato “Un altro testamento di Gesù Cristo”, pubblicato nel 1830, base della “Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Giorni” (chissà cosa vorrà significare). Sebbene sia difficile da digerire, pare che oltre tredici milioni di persone del mondo civile credano a questa storia e si chiamano “mormoni”.
VII-2 Il bene e il male, il buono e il cattivo, il bello e il brutto “Ringrazio Dio per avermi salvata” diceva un’anziana appena estratta dalle macerie del terremoto di Haiti del gennaio 2010, senza domandarsi perché il suo dio non avesse salvato gli altri 200.000 e a morti, bambini inclusi. Uno dei dieci milioni di musulmani alluvionati del Pakistan, sul finire dell’agosto 2010, circondato dai familiari, diceva “Allah ci ha salvato. Col suo aiuto riprenderemo la nostra vita normale”, e il commento è all’incirca simile al precedente: nonostante centinaia di milioni di musulmani sbattono la fronte sul pavimento cinque volte al giorno per pregare Allah, evidentemente ancora tutto ciò non è sufficiente a placare la sua ira e dieci milioni di persone restano senza casa e senza terra, e malgrado ciò, c’è chi ringrazia. Il 29 agosto 2010 sono avvenuti due episodi memorabili: due campioni dello sport e della velocità hanno avuto le traveggole. Valentino Rossi ha dichiarato (Gazzetta dello Sport, 30 agosto 2010): “… non sono ancora pronto fisicamente per una gara: quando tra la seconda e la terza curva ho visto San Pietro, ho deciso che era meglio rallentare”. C’è da chiedersi: come ha fatto a riconoscere San Pietro? Lewis Hamilton, già campione del mondo di formula 1, lo stesso giorno, parlando di una sua uscita in una curva commenta (G. d. S., ibidem): “Il Signore mi ha tenuto una mano sulla testa per come sono riuscito a cavarmela alla curva numero otto a dieci giri dalla fine”. Due campioni dello sport, che molto probabilmente non hanno avuto abbastanza tempo da riflettere e documentarsi su alcuni temi religiosi ed esistenziali, e che non si rendono conto che è andata bene, con riferimento a Rossi, per la sua saggezza nella guida e, con riferimento ad Hamilton, per l’uscita di strada sulla ghiaia, per i buoni freni della sua auto e per una sua buona reattività a sfiorare l’ostacolo del muretto. Il trionfo del sogno dei creduli, che regala felicità: l’ubriaco, infatti, è più felice del frugale. Incidente stradale, un’autovettura va fuori strada, tre morti e un ferito, il ferito ringrazia dio per averlo salvato. Una donna religiosa partorisce un figlio e ringrazia dio per il dono, invece di ringraziare il marito. Un giovane di belle speranze si laurea e ringrazia dio per averlo aiutato a raggiungere l’agognato traguardo. Si potrebbe continuare negli esempi: è un continuo ringraziamento a dio. Non ringraziano dio i morti negli incidenti stradali e i parenti annunceranno che dio li ha chiamati, i genitori dei bimbi nati morti e i mariti delle donne morte nei parti e si annuncerà che questa è stata la volontà di dio, i giovani che smettono gli studi e che annunceranno che i disegni di dio
sono altri (se fanno parte dell’Azione Cattolica). Insomma, tutto quello che è di buono a questo mondo è un dono di dio e rientra nei programmi divini; anche ciò che è “non buono” rientra nei disegni divini come “lezione” ai peccati commessi conseguenti al “libero arbitrio” dell’uomo presuntuoso e, se proprio non si trova una giustificazione, si dice che è una nequizia del demonio. Gran parte dei bambini che nascono nell’Africa dei missionari sono votati a una brevissima vita di stenti, a malattie, fame, col viso pieno di mosche e lo stomaco pieno di vermi: sono un dono di dio? Insomma, le cose buone di questo mondo sono un regalo di dio, quelle non buone servono da insegnamento o sono opere diaboliche, e forse dio si stava riposando, era distratto, guardava da un’altra parte. I 300.000 morti dello tsunami in Asia? In quella circostanza, il dio dei cristiani era in vacanza, e poi molti di quei poveretti erano sotto la giurisdizione di Allah, Buddha, la sacra Trimurti, lui non c’entrava niente; e i morti cristiani? e mica possiamo sapere quali sono i disegni di dio! C’è chi afferma (un tale Klemens Tilmann), probabilmente pervaso da delirio divino, che dio non esaudisce certe azioni o preghiere o sogni perché ha in mente cose più grandi e migliori: lui sa cosa è meglio… Un’altra spiegazione sconsiderata dell’esistenza del male (e dei 200.000 morti di Haiti) la dà Agostino, il santo, che afferma che l’esistenza del male deve essere cosa buona, diversamente l’Onnipotente, che è buono, non lo tollererebbe! Gli fa eco Tommaso nella Summa teologica che ha il coraggio di scrivere che se il male fosse impedito, vivaddio, al mondo verrebbe a mancare il bene! Sempre nella Summa, il panegirista Tommaso pretende di sapere tutto o quasi sul grande Onnipotente; sa che è puro atto, assolutamente non materia, è assolutamente compiuto, vive senza corpo né accidenti vari, si trova in ogni cosa ma non come parte o essenza bensì come determinante nel determinato, è dotato di sapere, conosce totalmente se stesso, però non conosce sé e il mondo allo stesso modo ma ogni cosa nella sua specificità, tutto ciò che è non gli è nascosto, non solo ma anche tutto ciò che è possibile, e via di questo o. I miscredenti e gli atei rivendicano l’orgoglio di far parte di quelle persone che non rubano, non fanno male, non ammazzano (magari commettono qualche atto impuro), non perché lo impone loro un comandamento ma lo comanda la loro coscienza e la loro dignità di persona umana. Anche per questa considerazione, il clero e i credenti hanno una risposta: gli atei credono di avere delle virtù per merito loro, invece quel che hanno di buono è tutto merito del Signore, che da lassù guida anche loro nei suoi disegni imperscrutabili: il trionfo dell’ircocervo.
Milioni di anni di evoluzione umana, dalle selci per tagliare sino ai computer e alle sonde inviate nel sistema solare: tutto ciò non conta niente e tutto crolla dinnanzi al volere di questo maresciallo saggio, buono, misericordioso, che ci sovrasta e ci guida. E allora le guerre, i massacri, i genocidi, i cataclismi, di chi è la colpa? In questo caso è dell’uomo, rispondono clero e credenti, perché il buon dio gli ha dato il “libero arbitrio” e lui, invece di pregare, si è dato alla bella vita; il “peccatore” è in grado di vanificare l’opera divina e solo grazie a dio il male e i morti di tutto ciò sono stati inferiori a quelli possibili. Lo ha detto Tommaso, il santo: il bene esiste perché c’è il male. Quindi siamo di fronte a un dio (cristiano) che mette al mondo dei figli (perché, a quanto pare, siamo tutti figli di dio) e lui, che sa tutto, già è al corrente che molti, nonostante il fulminante sacramento del battesimo completo di esorcismo antisatanico, faranno una brutta fine, saranno assassini, ruberanno, mentiranno, e andranno tra le fiamme eterne. Lui se ne lava le mani perché ha dato loro il “libero arbitrio” e li ammonisce, ma già sa – lui che sa tutto – che imboccheranno la mala strada. Insomma, dopo quel lampo di vita che è quella terrena e che dura un istante rispetto all’eternità, i reprobi peccatori vanno nell’inferno eterno: clericali camarille. La bellezza del mondo e del firmamento. È un quadro descritto da poeti e da romantici romanzieri e realmente constatato da noi tutti quando vediamo un panorama costiero o alpino, un angolo pittoresco, lo sbocciare di un fiore, la corsa di un impala, lo scintillio delle stelle. La bellezza del Creato, esclama il credente. Ma c’è anche l’altra faccia: il mare in burrasca, una valanga assassina, il rinsecchirsi del fiore e l’impala sbranato da una leonessa. Perché la leonessa deve dare il cibo ai figli e il fiore ha completato il suo fine riproduttivo. Eppure, ogni essere vivente si scava la sua nicchia, possibilmente dorata: gli animali si accoppiano, costruiscono le tane per crescere i figli. Noi umani aggiungiamo l’amore e l’intelligenza per raggiungere anche altri traguardi come il successo nella propria attività, ma viviamo in un mondo di lotta e noi stessi cerchiamo di sopraffare chi ci sta a fianco, se è un pericolo per la nostra esistenza. Nel cosmo c’è un’evoluzione e, parallelamente, una continua lotta per sopravvivere, giacché ogni essere, appena nato, inizia il suo cammino verso la morte, è un lampo di vita nel fluire cosmico, una nullità. Vivere è un rischio continuo di morire, ma gli uomini ancora non si sono abituati a questa verità: quando muore qualcuno, sembra che accada qualcosa di straordinario, invece è la norma. Si vive come se non si dovesse mai morire e in questa fessura mentale
s’inseriscono le religioni con le loro favole: arriva dio, l’intangibile, l’indefinito. Si avvia il commercio di dio, gestito dalle religioni: si vende a pezzi, a bocconi, impanato e fritto, bollito con salsa verde, fresco o surgelato, dio per tutte le tasche, dagli assegni dei ricchi a un semplice mazzetto di margherite dei poveri. Occhio per occhio, dente per dente (Es 21,24). In una foresta, le piante più alte crescono per captare i raggi solari a scapito di quelle più basse, che non riusciranno a sopravvivere. Nei mari, i pesci si mangiano l’un l’altro. Durante la nostra vita quanti polli, quante mucche, quanti tacchini, quanti pesci sono stati uccisi per dare da mangiare a ognuno di noi? Pure nel cosmo vi sono scontri titanici: stelle che esplodono, buchi neri che ingoiano energia, galassie che fagocitano altre galassie (ad esempio, la galassia di Andromeda ha strappato alcune stelle alla galassia Triangulum), raggi di varia natura che attraversano lo spazio interstellare, il nostro Sole che tra cinque miliardi di anni diverrà una stella gigante rossa moribonda, si gonfierà e raggiungerà la Terra, che brucerà. Tutto ciò sarebbe un divertissement di un certo Mister X detto anche Dio. Che bisogno c’è di trovare uno scopo trascendente? Forse è necessaria la presenza di un tale scopo per rendere nobile o motivata la nostra vita? Essa non è già nobile e motivata senza la necessità di trovare uno scopo che non sia la vita stessa? Se dio è un essere perfetto, anzi perfettissimo (come affermava il catechismo), questo mondo altalenante è un’incrinatura della sua perfezione. C’è un motivo perché nel giardino di casa è nata una margherita? perché esistono le balenottere azzurre da 130 tonnellate? perché un mio cugino ha avuto tre figli e non due o quattro? perché il nostro pianeta non ha un diametro più piccolo o più grande? perché io ho incontrato e amo la mia partner e non un’altra? La casualità di un evento non richiama la trascurabilità dello stesso: si pensi alla nascita casuale di un figlio o di noi stessi. Lo scopo, il significato e la bellezza di questa vita vanno ricercati dentro di noi e non fuori, con l’aiuto di amuleti, idoli e riti. E il Creato non è bello, semplicemente e casualmente “è”. Dalla profondità del credo cristiano giunge un effluvio: l’uomo ha l’anima. Ebbene, se è l’anima soffiata da dio alla nascita e che alla morte dell’involucro corporeo se ne esce e va dritta al paradiso o all’inferno (a proposito: come fanno le anime cattive a bruciare?), sia concesso al non credente di non credere a questa favola. Sarebbe da chiedersi: visto che deriviamo dalle scimmie e le scimmie, a quanto pare, non hanno anima, quando è avvenuto il momento in cui dio ha detto: “Okay, da questo momento in poi questo scimmione somiglia più
all’uomo che alla scimmia e gli influsso l’anima”? Esiste, in realtà, una componente ultracorporea dell’uomo: quando ascolto Bach sono convinto che esiste il suo spirito, così quando leggo Quasimodo, così quando studio Einstein, così quando vedo in tv le nefandezze di Hitler. Lo spirito non è il ricordo, ma ciò che rimane di una persona quando il suo corpo non c’è più. Dopo la morte rimane quello che sappiamo lasciare agli altri: non preghiere ma azioni e opere.
VII-3 La nascita e lo sviluppo delle religioni L’ipotesi di dio, all’origine nata dalla paura, contrasta con quello che può considerarsi il più grande gesto del rispetto umano: rendere libero il pensiero. L’uomo primitivo delle caverne e delle foreste temeva il buio della notte, i rumori della foresta, le belve che lo attaccavano; per spiegarsi questa ostilità del mondo che lo circondava inventò gli “spiriti maligni” e poiché spesso se la cavava inventò anche gli “spiriti benigni”. La paura ha fatto nascere gli dei e ogni credente si crea il suo dio perché è l’uomo stesso la chiave del suo dio. Se le capre avessero un dio, sarebbe una Grande Capra. La storia di dio è quella dell’uomo: dopo gli “spiriti”, si ebbero divinità femmine perché le donne incredibilmente partorivano bambini, poi il maschilismo ebbe il sopravvento perché le donne portavano in braccio i neonati ed era solo l’uomo che poteva cacciare e raccogliere i frutti dalle piante: dio divenne uomo. Poi, con le prime civiltà, dio divenne padre. Non c’è una peculiarità di dio che non sia presente nell’uomo e il credente ne dà un’immodesta spiegazione: noi siamo figli di dio. È dio a immagine dell’uomo e non viceversa e tale ipotesi vivrà sino a quando l’uomo non avrà vinto la paura. La religione, quindi, ebbe origine come tentativo dell’uomo di colloquiare col mondo che lo circondava e che gli infondeva tutta una serie di paure: del buio, dei lampi e dei tuoni, del caldo e del freddo, del dolore fisico, del mistero della nascita, della morte inspiegabile. Questi poteri trionfavano e l’uomo pensò di antropomorfizzarli con degli idoli, ai quali mostrava obbedienza con dei rituali eseguiti dai più scaltri della comunità: stregoni e sciamani. Con tale procedura, l’uomo credette di trasformare in benigne delle forze che si mostravano ostili; se il rituale andava a buon fine, si ringraziavano le forze ostili e lo stregone s’ingrassava, mentre se continuavano a trionfare le forze ostili, la colpa era del rituale condotto male (ad esempio, con sacrifici insufficienti) oppure, a detta dello stregone, la forza ostile era davvero incavolata e bisognava raddoppiare il sacrificio. Se le cose continuavano ad andare male, lo stregone ci rimetteva la pelle. La paura, quindi, è il messaggio costante che si trova in tutte le religioni; la paura dei misteri che lo circondavano è stata per l’uomo primordiale l’innesco a inventare un essere superiore, soprannaturale, che lo difendesse dai pericoli. Ancora oggi, l’homo sapiens sapiens credente adora il suo dio per paura della
morte e dell’aldilà. Nell’uomo c’è il bisogno di credere in Dio per sentirsi sicuro e protetto. Se il mondo è controllato da dio e il credente può interloquire con dio attraverso la preghiera, il credente acquisisce una porziuncola di onnipotenza, allontana il terrore della morte e guadagna la speranza di vivere più a lungo. Più modernamente, alla paura dell’uomo di oggi, la Chiesa offre un dio che è Amore, Grazia, Bene, Bontà, dimenticando il dio dell’AT, che è una vera palla al piede per gli ecclesiastici. A questo dio celestiale, il cattolico offre il sacrificio, non umano né animale, della messa: una sceneggiata dove il fedele ringrazia, si dichiara colpevole (di cosa?), chiede la grazia, s’inginocchia, implora perdono, ringrazia per essere ascoltato, si umilia e alla fine, comunque, si rassegna con un “sia fatta la tua volontà” intonando canti di gioia celestiale. Una sequela di invocazioni ripetitive, cadenzate, incomprensibili come fanno le tribù primitive dinnanzi al feticcio. Nei millenni, nulla è cambiato. Ricordate gli anziani alla messa che ripetevano frasi latine comicamente storpiate, di cui non conoscevano il significato? Et cum spiritu tuo diventava eccum spitutuu: tanto, dio capiva lo stesso. Tutto ciò che la mente inventa quando si oltrea il confine della nostra capacità di capire si chiama “dio” e in esso l’uomo riversa tutto ciò che non ha e che desidera. La divina Superiorità ha un carattere umano ed è tanto più immensa la sua distanza dall’uomo quanto più l’uomo è colto. Il dio dell’uomo colto è illimitato, mentre il dio di un selvaggio è un dietto d’infima serie, che si accontenta di briciole e il dio della pioggia non esiste laddove ci sono dei buoni sistemi irrigui. Se l’uomo è quel verme che lo stesso cristianesimo afferma, è sorprendente che tale verme susciti interesse al Supremo Creatore ed è lusinghiero supporre che il Creato sia regolato da una Superiorità che, in fondo, ha gli stessi nostri gusti, pregiudizi e fisime. Tanto più forte è una religione, tanto meno collegabile all’umano raziocinio sono le sue dottrine. Il prete, o lo sciamano, acquisisce potere agli occhi dei fedeli, perché si ritiene possa conferire in via privilegiata col suo dio, o con la divinità. Le religioni hanno la grave colpa d’instillare nella comunità umana il concetto del tribalismo: chi segue determinate procedure, riti e preghiere fa parte della tribù, gli altri, nella gran parte dei casi, sono individui ostili o da cercare di portare nella tribù, con le buone o con le cattive. Esempi: la Chiesa cattolica bollò gli ebrei di deicidio; gli ebrei, di contro, hanno un patto speciale con dio; l’Islam divide il mondo in fedeli e infedeli e questi abitano nel dar al-Harb, il territorio di guerra, e la definizione è tutto un programma; gli stessi musulmani sono divisi in sciiti e sunniti, gli uni contro gli altri, sempre in nome di Allah.
Sotto Stalin le religioni ebbero vita grama, perché lo stesso comunismo altro non era che una religione, se per questa s’intende un insieme di norme e atti che coinvolgono la vita di una persona tutte le ore di tutti i giorni. A un funerale di una persona cara non ho mai visto parenti e amici consolati perché il de cuius si spera sopravviva nell’aldilà né ho visto i momenti delle preghiere più emozionanti dei ricordi laici della sua vita. In Italia, mi sembra, non è nemmeno codificato un funerale laico. I credenti che si sentono intrappolati di riti religiosi o che seguono una religione, convinti di trarre da essa consolazione e forza, in realtà sono vittime del contesto in cui sono cresciuti e dall’indottrinamento subìto ivamente da bambini, che non ha loro offerto un’alternativa laica di vita, quantomeno da confrontare col credo religioso. Chi nasce in Italia in una famiglia che va a messa la domenica, cresce con la convinzione che il suo dio (Padre, Figlio e Spirito Santo) è quello vero mentre Buddha, Allah o la sacra Trimurti sono falsi; se nasceva in Thailandia o in Arabia o in India avrebbe avuto una diversa convinzione. Il cristiano non accetta nulla che non sia cristiano, l’islamita non accetta nulla che non sia islamico, il buddista non accetta nulla che non sia buddista, l’ateo consente tutto perché tutto fa parte dell’umanità e, soprattutto, l’ateo non si dà alcun merito di essere diventato ateo. Ogni religioso odia tre volte l’ateo: perché non accetta la sua religione, perché tollera le altre religioni, perché non accetta l’ipotesi di dio. La peculiarità di ogni religione, antica o moderna, è che non consente al credente la libertà di pensare; è vero che la scelta di credere in qualche amenità religiosa è un episodio personale, ma le religioni si cautelano imponendo ai credenti a educare i loro figli secondo i loro princìpi religiosi, pena l’inferno o qualche altra fantasiosa diavoleria. Pare che, nella sua più elevata idealizzazione, dio debba essere uno spirito perfetto, infinito ed eterno: in questa eternità, come è possibile concepire una creazione da un certo istante? e se è qualcosa di perfetto, perché infettarsi di cose imperfette come l’Universo e chi vi abita? La presunzione di concepire un dio (una formica non sa che esiste l’uomo) è proprio una caratteristica dei credenti; il massimo rispetto di dio lo si ha solo nell’ateismo, ma è indubbio che è più facile essere credenti che atei. Il credere o meno in una qualche religione rientra nel doppio sistema di giudizio che c’è nel pensiero umano nel prendere delle decisioni. Il primo sistema è intuitivo, semplice, veloce, ma impreciso e in questa categoria rientra la scelta di
seguire una via religiosa e darsi una spiegazione religiosa. Il secondo è analitico, ponderato, lento ma più certo nelle risposte e in questa categoria rientra chi affida alla cognitio dell’uomo i quesiti esistenziali. Secondo Freud, l’uomo non sopporta di essere solo e debole davanti alle esigenze poste davanti a lui dalla società e dalla natura; quindi, subisce una regressione infantile e proietta su dio il suo bisogno di protezione e sicurezza. L’intensità del desiderio è fonte d’illusioni e in tale intensità sedimenta la forza della religione. L’angoscia umana causata dai pericoli della vita si placa entrando nel dolce regno della provvidenza divina e poiché questo stato miserevole dura tutta la vita, l’uomo si aggrappa a un padre protettivo e amorevole. L’istituzione di un ordine morale nell’universo prelude all’attuazione della giustizia, irrealizzata in vita ma presente nel post-mortem, col prolungamento della vita terrena in una vita futura dove si realizzeranno tutti i desideri. Le religioni sono state sempre dalla parte di dittatori e monarchi, cioè di coloro che comandano i popoli. Nell’antichità avevamo faraoni egizi figli di divinità, imperatori romani divinizzati da Zeus e compagni, persino gli imperatori del moderno Giappone erano considerati di natura divina e solo nel 1946 l’imperatore Hirohito annunciò al popolo che era di natura umana (dopo aver perso la guerra…). In Russia, ai tempi degli zar, la Chiesa ortodossa aveva lo zar a capo della fede. In casa nostra, Mussolini, appena al governo e definito da Pio XI l’uomo della Provvidenza, stipulò nel 1929 col Vaticano i Patti Lateranensi, che effettivamente sono stati una provvidenza per la Chiesa. Nei confronti di Hitler, il Vaticano ha assunto una posizione quasi iva o neutra (Il Vaticano stipulò con Hitler un accordo nel 1933, che vietava l’attività politica delle organizzazioni cattoliche), tentando dopo la fine della guerra di giustificarla, e ancora oggi il Mein Kampf non risulta nella lista dei libri messi al bando. In Arabia Saudita e Iran abbiamo degli Stati teocratici, mentre la regina Elisabetta II è a capo della Chiesa anglicana. Autentica potenza, almeno sulla carta, è il papa cattolico apostolico romano: è il Vicario di Cristo, cioè il delegato, il facente funzione, il rappresentante di Dio sulla Terra; supera persino i faraoni egizi che erano semplicemente “figli” di divinità.
PENSIERI PAGANI
A. Accatino Dio ha creato il mondo. Prima o poi ci riproverà. W. Allen Avevo una ragazza e dovevamo sposarci, lei era atea e io agnostico. Non sapevamo senza quale religione educare i figli. Anonimo Giuseppe: “E pensare che vivrà solo 33 anni…”. Maria: “Beh, per essere un palestinese è già tanto!”. Anonimo I cattolici sono tanti perché li tesserano a vita appena nati. J. Anouilh Ogni uomo pensa che Dio è dalla sua parte. Il ricco e il potente lo sanno. Aristotele Dio è troppo perfetto per poter pensare ad altro che a sé stesso. D. Arlenghi La castità è quella virtù che i preti si tramandano di padre in figlio. F. Bacone È meglio non avere alcuna opinione di Dio, che averne una indegna di lui. H. de Balzac
Credo nell’incomprensibilità di Dio. Una società di atei inventerebbe subito una religione. C. Baudelaire Dio è uno scandalo che rende bene. Dio è il solo essere che, per esistere, non ha neppure bisogno di esistere. R. Benigni Io sono ateo, grazie a Dio. E. Boosler Il Vaticano si è pronunciato contro le cosiddette madri in affitto. È una gran cosa che non l’abbiano fatto prima della nascita di Gesù. P. Bouvard Dio non esiste, ma bisogna far finta di crederci. Ciò gli fa talmente piacere. A. Brilliant Penso che ci siano due Dii, ognuno dei quali è convinto che a prendersi cura di me sia l’altro. C. W. Brown Come possiamo fidarci di un Dio che ha creato, in qualche maniera, tutto il mondo in una settimana e poi non ha più fatto un cazzo per millenni?
G. Bufalino Dio è morto creandoci, noi siamo un’opera postuma. C. Bukowski
Come immagino Dio? Capelli bianchi, barba lunga e niente uccello. A. Bunker Gesù era ebreo, ma solo per parte di madre. L. Buñuel Grazie a Dio, sono ateo. A. Campanile Il credente: “Sono un credente afflitto dal dubbio che Dio non esista”. L’ateo: “Sono un ateo afflitto dal dubbio che Dio esista. È terribile”. E. Carletti Dopo Adamo non si riesce più a fare un peccato originale. P. Claudel Il rispetto dei cattolici per la Bibbia è enorme e si manifesta soprattutto nel tenersene a rispettosa distanza. A. H. Clough Avrai un solo Dio; chi vorrebbe sobbarcarsi la spesa di due? G. Covatta E il Signore disse: “Donna, tu partorirai con gran dolore. Uomo, tu lavorerai con gran sudore, ammesso che troverai lavoro”. Dalla seconda lettera ai Corinzi “Cari Corinzi, potevate almeno rispondere alla prima…”. Caro Gesù Bambino, ti ringrazio per avere esaudito i miei desideri dell’anno scorso. Ti avevo chiesto di eliminare la fame nel mondo, e infatti quelli che avevano fame sono quasi tutti morti.
Questo libro è dedicato a don Ginepro, il prete di quand’ero bambino, che per evitare che ci toccassimo, ci toccava lui. S. Ertz Sono milioni quelli che desiderano l’immortalità, e poi non sanno che fare la domenica pomeriggio se piove. J. Feiffer Cristo è morto per i nostri peccati. Non rendiamo inutile il suo martirio non commettendone altri. I Fichi d’India Ho messo la Bibbia sul balcone ma la parabola non prende. W. Fontana Era un bambino saccente e presuntuoso; un giorno gli chiesero: “Ma tu credi in Dio?”. “Beh, credere è una parola grossa, diciamo che lo stimo”. A. Facendone un peccato, il cristianesimo ha fatto molto per il sesso. R. Franchini Il problema non è Dio che è morto, è questo papa che è vivo. S. Freud La religione è un’illusione, e deriva la sua forza dal fatto che corrisponde ai nostri desideri istintuali. F. D. Guerrazzi Gli uomini hanno fatto Dio a similitudine di loro, e lo hanno conciato pel dì delle feste. C. Guzzanti
Puoi chiamare Dio in mille modi: Dio, Allah, Buddha, Geova, Jahvè, Ernesto… tanto non ti risponde. V. Hugo La religione non è altro che l’ombra gettata dall’universo sull’intelligenza umana. S. Kierkegaard La fede comincia là dove la ragione finisce. G. Laub I santi sono persone che hanno fatto carriera dopo la loro morte. D. H. Lawrence L’uomo si crea un Dio a propria immagine, e ogni Dio invecchia insieme con gli uomini che l’hanno creato. G. Lebon Se l’ateismo si propagasse, diverrebbe una religione non meno intollerante delle antiche. L. Longanesi Era così cretino che cercava nella Bibbia l’indirizzo di un buon albergo in Palestina. K. Marx Quante più cose l’uomo trasferisce in Dio, tante di meno ne ritiene in sé stesso. M. Marchesi L’ateo è uno che crede nell’al di qua. H. L. Mencken
Occorre molto tempo a una persona naturalmente fiduciosa per accettare l’idea che, dopo tutto, Dio non l’aiuterà. La fede si può definire un’illogica fiducia nel verificarsi dell’improbabile. H. Michaux Sì, credo in Dio! Certo, lui non ne sa niente. D. Miller Il 66% dei cattolici fa sesso una volta la settimana. Il numero sarebbe più basso, ma hanno contato anche i preti. M. de Montaigne Gli uomini sono portati a credere soprattutto ciò che meno capiscono. L’uomo è certamente pazzo: non sa fare un verme, e fa dei a dozzine. C. L. de Montesquieu Se i triangoli fero un dio, gli darebbero tre lati. G. Papini Dio è ateo. È religione anche non credere in niente. I. Paisley Non accetto la parola di uno scapolo impostore che abita sulle rive del Tevere. E. Philips Quando ero piccolo pregavo ogni notte per avere una bicicletta nuova. Poi ho capito che il Signore non fa questo genere di cose, allora ne ho rubata una e gli ho chiesto di perdonarmi. J. Rostand
Più si crede in Dio, più si capisce che altri ci credono. A. Schopenhauer Le religioni sono come le lucciole: per splendere hanno bisogno delle tenebre. Senofane Se buoi o cavalli sapessero disegnare raffigurerebbero gli dei in forma di buoi o cavalli. C. Snow So che Dio è uomo. Se fosse donna avrebbe creato lo sperma al gusto di cioccolato. G. Soriano Dio avrà pure i suoi difetti, ma gli rimane comunque l’incomparabile pregio di non esistere. I. B. Singer L’Onnipotente è vecchio. Non è cosa da nulla vivere in eterno. Stazio Fu il timore quello che per primo nel mondo creò gli dei. M. Stefanon Errare è umano, pentirsi è divino, perseverare nel pentirsi è cattolico. Anche un ateo può essere in buona fede. J. Swift Abbiamo religioni a sufficienza per farci odiare, ma non a sufficienza per farci amare l’un l’altro. T. Szasz
Se parli con Dio stai pregando. Se Dio parla con te, sei uno schizofrenico. M. Twain Il fatto di credere senza difficoltà che le religioni degli altri siano pura follia, mi induce a credere che lo sia anche la mia. P. Villaggio Lo penso davvero: il papa è una persona troppo intelligente per credere in Dio. A. Vincent Dio ha creato la luce, ma noi paghiamo la bolletta. Voltaire Se Dio ci ha fatti a sua immagine, gli abbiamo reso pan per focaccia. H. Wiesner Dio è morto e ci ha lasciato due Testamenti. O. Wilde Il Libro dei Libri inizia con un uomo e una donna in un paradiso e finisce con un’apocalisse. Dio è nella mia mente e il diavolo nei miei pantaloni.
VII-4 I misteri e i riti A parte il lato cruento, oggi i rituali religiosi non sono molto discosti da quelli dell’uomo primitivo: tradizioni e comportamenti delle credenze attuali derivano dalle origini della civiltà umana, per poi modernizzarsi quando i primi popoli nomadi, dal quarto millennio a. C., si accasarono (come Sumeri, Egizi, Babilonesi, Ittiti, a parte indiani e cinesi). Una svolta si ha verso l’VIII secolo a. C. con le religioni misteriche dei Greci e l’apporto dei loro filosofi. Con l’avvento dei Romani, le religioni greche e romane finiscono per fondersi. Le religioni si svilupparono per fattori socioeconomici; ancora oggi nessun bambino nasce con l’idea di dio sino a quando qualcuno non lo persuade di questa ipotesi. La fede in dio è legata all’immortalità, che probabilmente è ancora più antica dell’idea di dio; già gli uomini del Neanderthal curavano la sepoltura dei loro morti. Tra i primi a svilupparsi è stato il culto del Sole, perché i nostri avi avevano ben compreso che dalla sua energia veniva la vita sulla nostra terra. Anche i Romani ne furono conquistati; l’imperatore Eliogabalo, originario di Emesa (l’attuale Homs, in Siria, dove c’era il culto solare) lo aveva introdotto temporaneamente a Roma come Sol Invictus. Dopo circa mezzo secolo, nel 274 d. C., Aureliano sconfisse Zenobia, la regina del regno di Palmyra, con l’aiuto di Emesa, poco distante da Palmyra, e riattivò a Roma il culto del Sol Invictus. Il 21 dicembre il nostro astro si trova al punto più basso del cielo (solstizio d’inverno), mentre il 25 dicembre inizia a risalire, a “rinascere” e in quel giorno i Romani festeggiavano la nascita del Deus Sol Invictus. Già nel 336 da un documento del papa Liberio risulta la gratuita sostituzione della festa romana con la nascita di Gesù. Il culto del Sole rientra anche nei sette giorni della settimana, originariamente chiamati in base ai sette corpi celesti allora conosciuti e che rappresentavano altrettante divinità: Lunae dies, Martis dies, Mercurĭi dies, Iovis dies, Venĕris dies, Saturni dies, Solis dies. Il Saturni dies diventò Sabbatum, derivando dallo shabbath ebraico e il Solis dies mutò in Dies dominica, il giorno del Signore e del riposo; per diversi europei del nord sono rimaste le dizioni originali, es. per gli inglesi Satur-day e Sun-day. Come più volte ho evidenziato, la carta vincente delle religioni è la tradizione, il tramandare dai genitori ai figli piccoli (e non adulti), immediatamente plasmabili
e con un automatismo esemplare, dei messaggi semplici e persuasivi, che rispondono a dei bisogni interiori istintivi. Il tutto infiorettato con riti semplici, da encefalogramma piatto, scenografici, ricchi di atmosfere accattivanti, vestitini nuovi, profumi, gesti e frasi magiche che mettono in relazione, istantaneamente, con esseri superiori. Nonostante il colloquio con queste Superiorità, credenti e non credenti hanno una vita simile (quella terrena), con i loro travagli e il rivolgersi a invisibili esseri superiori non fornisce grande aiuto, salvo qualche autosuggestione. E i miracoli della “vergine” di Lourdes? Ebbene, da quando è stata mercificata la supposta apparizione del 1858, sono transitati da Lourdes, perfettamente inquadrati in una capillare organizzazione di pellegrinaggi terapeutici e riti pagani (ci sono anche treni appositi carichi di dolore e d’illusione), decine di milioni di persone, paganti. È stato calcolato che, a Lourdes, i cosiddetti “miracoli” di gente autosuggestionata ammontano, in un secolo e mezzo, a poche decine, in una percentuale esattamente simile a quella delle rare guarigioni, oggi ancora incomprensibili alla scienza medica, avvenute nel resto del mondo civile a persone ammalate che non sono mai state a Lourdes. Statisticamente si calcola che avvenga una guarigione spontanea ogni 10.000 casi, pertanto a Lourdes non è mai avvenuto niente d’eccezionale. In ato, quando la medicina non sapeva spiegarsi alcune guarigioni che oggi avvengono con cure, si parlava di miracoli. Noi umani sappiamo molto ma non tutto: in futuro si scopriranno medicine e tecniche curative che consentiranno di attuare quei processi terapeutici che oggi scattano con l’autosuggestione. Giacché non conosciamo “tutto”, ci sono dei fedeli che, come nell’antichità, declamano semplicisticamente per miracoli ciò che non sanno spiegarsi. Maggiore è l’ignoranza del fedele e tanto più vasta è la sfera dell’incredibile e del “divino”. L’uomo che prega è un perdente dichiarato perché non è in grado di realizzare ciò che spera gli fornisca dio (o, in via alternativa, qualche madonna o qualche santo, se è un cattolico, perché ha alcune migliaia di scelte). La stessa posizione assunta da chi prega imita quella di un servo che si genuflette davanti al suo irascibile padrone; infatti, la concezione di dio deriva anche dagli antichi dispotismi orientali. È irrispettoso verso se stesso chi si disprezza e si definisce un miserabile peccatore. In realtà, la preghiera è anche un opporsi a dio, perché evidentemente ci si mette contro ai disegni divini: si prega dio per non fare avvenire qualcosa che si teme possa avvenire o per fare avvenire qualcosa che si
teme non possa avvenire. Ma non sta scritto in cielo tutto ciò che deve avvenire? e se sta scritto, perché si pretende di modificarlo? Insomma, con la preghiera si spera di modificare la volontà di dio, qualora tale volontà non sia a noi favorevole. Iddio, nella sua illimitata saggezza, conosce già quali sono i suoi disegni e il credente pretende, con una semplice preghiera, di modificarli, se non sono a suo vantaggio: la Chiesa non dovrebbe mandargli un anatema? “Sia fatta la Tua volontà” recita il pater noster e non la volontà del fedele. Esaminiamo due comportamenti. Caso 1) Una persona s’inginocchia, congiunge le mani e dice di parlare con dio: questa procedura è considerata un’azione normale, perché si è convinti che il Creatore di miliardi di galassie ci ascolta in qualsiasi momento, uno ad uno e in qualsiasi lingua, perché è il Supremo Onnipotente Onnisciente. Caso 2) Una persona compila al cellulare un numero, ad esempio 888888888, e afferma di parlare con dio: è considerata una follia. Eppure entrambe le persone compiono lo stesso atto, ma quando la maggioranza di persone normali compie un’azione folle, quest’azione è considerata normale. Se esprimo del sarcasmo sul dio cristiano sono tacciato di blasfemia, mentre se un fedele fa del sarcasmo sull’ateismo non è blasfemo: pertanto, sarebbe opportuno che sia creato un vocabolo per indicare l’offesa alla “non-divinità”. Anche perché, mentre l’ateo lascia liberamente germogliare qualsiasi credo, pur prendendosi la libertà di criticarlo, il fedele non ammette altra verità diversa dalla sua. Un misto d’ignoranza e di presunzione (chi è ignorante non può non essere anche presuntuoso) accomuna i credenti delle varie religioni che pensano di modificare le sorti del mondo con la preghiera, con i riti miseramente magici e con le litanie, senza rendersi conto che la sorprendente macchina dell’Universo continua imperterrita la sua opera sia quando loro sono svegli sia quando dormono. Siamo tutti testimoni delle stragi causate da quei poveri musulmani che si fanno saltare in aria convinti di raggiungere il paradiso islamico. I commenti della stampa occidentale si limitano a notificare che si tratta di terroristi, e segue l’elenco delle vittime; non sono mai apparsi commenti che si soffermano sul fatto che questi musulmani muoiono sperando di andare in un paradiso, la cui esistenza è tutta da dimostrare. Un’affermazione del genere automaticamente comporterebbe l’affermazione che anche il paradiso cristiano è da dimostrare: sopra di noi… forse è il niente e ciò non si può scrivere sulla stampa benpensante e para-vaticanea. Il vocabolo religione è vietato associarlo con i kamikaze islamici, mentre la stampa era ed è ricca di commenti ironici quando si
riferisce ai kamikaze giapponesi: loro non s’immolavano per un dio ma per l’imperatore, che era un “dio vivente”, ma la balla era talmente grossa che ci si poteva coraggiosamente fare dei commenti caricaturali, non privi di rispetto per quei patrioti che morivano sperando di far soccombere il nemico. Bertrand Russell nel suo Is there a God? riporta il noto paradosso della teiera. Qualcuno può ben sostenere che tra la Terra e Marte c’è una teiera che gira anch’essa intorno al Sole e nessuno può confutare tale affermazione perché la teiera è troppo piccola per essere osservata da un telescopio. Mentre è ammissibile e non confutabile l’esistenza della teiera, è intollerabile che quel qualcuno presuma che ci siano degli scettici che dubitino della sua esistenza. Se però il disegno della teiera appare in antichi testi con la copertina dorata, ogni domenica una “sacra” teiera è esposta al pubblico da vari pulpiti, e una riproduzione della teiera è appesa in ogni classe delle scuole, allora chi è scettico dell’esistenza della teiera rischia di essere mandato dallo psichiatra. La morale del paradosso è che spetta ai credenti dimostrare la verità di ciò in cui credono e non agli scettici contestare i loro dogmi.
VII-5 Credenti e non credenti L’esistenza o meno di dio è una questione scientifica, non religiosa. Quando chiesero a Bertrand Russell cosa avrebbe commentato se avesse incontrato Dio nell’aldilà e lo avesse interrogato sui suoi dubbi, lui rispose che avrebbe affermato: “Prove insufficienti, Dio, prove insufficienti”. A pensarci bene, c’è molta differenza tra un ateo e, mettiamo, un cristiano? L’ateo lo è nei confronti della Santissima Trinità, di Allah, di Buddha, della Sacra Trimurti, di Mitra, di Giove, di Manitù, di Odino, di Baal, di Marduk, di Pingu (il creatore taoista), di Mbombo (il creatore bantù) e di Kaggen (il creatore dei boscimani), e il cristiano è anch’esso ateo nei confronti di tutte queste entità, con la sola eccezione della Santissima Trinità: è solo questione di una divinità di meno. Semmai, la differenza tra ateo e credente è nella concezione della divinità: per il credente Dio è il suo padrone, che dispone di lui come fosse uno schiavo, mentre per l’ateo la concezione di un possibile Dio è di un essere talmente distaccato e diverso, che non avrebbe alcuna influenza sulla sua vita puntiforme. Se esistesse il dio cristiano, è molto probabile che apprezzerebbe la genuina e convinta irreligiosità dei non credenti, mentre condannerebbe l’ipocrita venerazione dei molti fedeli della domenica. A me, francamente, dà fastidio che sopra la mia testa ci debba essere questo metafisico maresciallo che mi controlla e mi guarda in ogni momento, persino quando vado al cesso e tiro un moccolo se sono particolarmente stitico: lui ascolta e mi sanziona una settimana di purgatorio. No, non ci sto. La paura del peccato perseguita un cristiano per tutta la sua vita, dalla sua nascita col peccato originale sino alla sua morte, con l’estrema unzione; questo è il prezzo della polizza sull’immortalità che si stipula accettando una religione, cattolica o altra. Una similitudine tra credente e non credente si ha anche col concetto, davvero misterioso, di peccato; per i cristiani siamo tutti peccatori, credenti e non, sette giorni la settimana, ma i credenti non lo sono la domenica (se vanno a messa). La beatitudine e il giubilo che si trarrebbe nel seguire i riti religiosi, che preti e credenti magnificano e che, a parere loro, l’ateo o l’agnostico non possono goderne, è come la felicità di un ubriaco da contrapporre alla normalità di una persona sobria. Per avere un mondo di giusti non c’è bisogno di dio e la dimostrazione è il
mondo attuale, che, nonostante tutti i dii che imperversano nei cinque continenti, certamente non è il migliore, così come non lo è stato in ato. La consapevolezza dell’ignoranza che abbiamo della realtà, che deriva dallo studio e dalla ricerca, è di gran lunga molto più saggia della presunzione di conoscere tutta la verità grazie all’amicizia con un’astrazione denominata Dio. È da questa presunzione che deriva il desiderio della sopraffazione mentale e, specie in ato, corporale. Le religioni non sono create per avvicinare le persone, perché derivano dalla paura e ogni credente si rifugia sotto il cappello delle proprie divinità per superare tale paura. A proposito di morte, tra le assurdità del cattolicesimo è la lotta all’eutanasia; se una persona giusta e sofferente vuole chiudere questa parentesi terrena e raggiungere il “paradiso”, perché porgli il divieto invece di farle i complimenti per la dipartita verso la vera vita? La realtà è che l’ateismo, nella convinzione che questa sia l’unica vita, ne potenzia il valore e la considera preziosa. Proprio perché preziosa, se si giunge a una condizione estrema di sofferenza, se viene meno lo stimolo della vita perché non c’è più alcuna speranza di realizzare qualcosa, se il sentimento del bello e dell’amore è sovrastato dalla percezione del dolore e dell’inazione, resta di prezioso solo la volontà di finire i propri giorni, come Natura vuole. Una peculiarità del credente è quella di evitare il rischio di decidere, abbandonandosi a ciò che dice il sacerdote o che sta scritto nei sacri testi. Decidere significa essere responsabili ed essere liberi: decidere rispettando gli altri è, forse, la caratteristica unica e grandiosa della vita umana. Il non credente non pretende di imporre il suo credo e la sua morale anche a chi non le accetta perché ne rispetta la libertà. Molti credenti sono certi che siano gli atei ad avere istinti di suicidio perché non vedono luce, mentre ciò è facile accada proprio quando un credente non vede il proprio dio; è da convenire, peraltro, che le finte convinzioni hanno la stessa capacità di quelle vere di alleviare i dolori e di aiutare a superare le difficoltà. La realtà è che cristiani, buddisti, musulmani, induisti, atei e agnostici e quant’altro hanno i loro momenti felici e infelici, sereni e angoscianti, indipendentemente dalle loro convinzioni religiose, salvo casi particolari di persone fanatiche. C’è un certo numero di credenti, probabilmente non indifferente, che “ha bisogno” di un dio, è una necessità emotiva, magari conseguita a seguito dell’abitudine di avere avuto inculcata l’idea di dio sin da bambino, come
sapientemente sanno fare i preti. Per tali persone, il bisogno di dio è uno squarcio quasi insanabile e resta un grave dilemma togliere l’amico dio: cosa porre al suo posto? Forse è lecito lasciarle in compagnia con la loro divinitàdroga, se tale condizione le rende serene e le aiuta a superare le difficoltà. Ho avuto la dolorosa esperienza di una mia cara conoscente, fervida credente, che partecipava ai pellegrinaggi dell’Unitalsi a Lourdes, accompagnando gli ammalati con la sua bianca divisa di pseudo-crocerossina. Colpita, purtroppo, da tumore, in punto di morte volle che fosse vestita con la sua divisa: spirò serenamente, benedicendo i suoi tre figli e convinta di volare in paradiso, dove li avrebbe attesi. I figli delle stelle Apriamo una parentesi a proposito degli Egizi. In genere, consideriamo meritevoli di rispetto le loro opere e riteniamo abbastanza ingenua la loro religione, piena d’idoli per metà uomini e per metà animali. In realtà, dicono gli egittologi, se adoravano una divinità rappresentata da un uomo con la testa di coccodrillo, gli Egizi non pensavano per niente che esistesse un essere con quelle fattezze. Ritenevano però di rappresentarlo in quel modo in quanto non riuscivano a individuare com’era effettivamente: l’idolo rappresentava l’idea della divinità e non la sua realtà. La principale divinità egizia era Ra, il Sole. Soffermiamoci un momento su ciò, con le conoscenze che abbiamo oggi. Se bruciamo un pezzo di legno nel caminetto, da esso si sprigiona una fiamma e del calore. Da dove viene quell’energia? Oggi sappiamo che deriva dalla fonte della vita terrestre: il Sole. Il legno, e in genere la biomassa, attraverso il processo della fotosintesi clorofilliana, cattura la frazione fotosinteticamente attiva della radiazione solare e la trasforma in energia chimica. La fotosintesi clorofilliana è un processo biochimico mediante il quale le piante – ma anche alcuni batteri e protozoi – producono glucosio assorbendo biossido di carbonio (chiamato anche anidride carbonica) dall’atmosfera e facendolo reagire con l’acqua presente nel terreno. La reazione avviene solo alla presenza d’energia solare che, come detto, è trasformata in energia chimica. Durante il processo si sviluppa anche ossigeno, che è liberato all’atmosfera. Una pianta assorbe biossido di carbonio dall’atmosfera e lo restituisce in eguale quantità quando brucia: la combustione del legno non contribuisce all’effetto serra. La fotosintesi clorofilliana è
importante in quanto porta, si è visto, alla produzione di glucosio. Perché è importante questa produzione? Il glucosio ottenuto è il “combustibile” per la sintesi delle molecole ad alto contenuto energetico, come l’acido adenosin-trifosforico, necessario per tutti gli organismi ed esseri viventi. Gli animali, uomo compreso, non hanno la capacità di sviluppare la fotosintesi e si procurano il glucosio cibandosi degli organismi fotosintetici; non solo, ma respirano l’ossigeno da questi prodotto. Questo ci fa comprendere l’alto grado di depravazione e di retriva ignoranza che compie un piromane dando fuoco a una foresta. La fotosintesi clorofilliana è, pertanto, il processo base della catena alimentare del nostro pianeta e veniamo a scoprire che l’energia di cui ognuno di noi dispone ha origine nel Sole. Se teniamo anche presente che è possibile che qualche atomo del nostro corpo abbia fatto parte, all’origine dei tempi, di qualche stella, possiamo dire che, più che figli di dio, siamo figli delle stelle. Non si erano sbagliati di molto gli Egizi nell’innalzare il nostro astro splendente a rango di divinità superiore da adorare: noi riceviamo la vita dal Sole, ma anche ce la toglierà. Il Sole vivrà, infatti, altri cinque miliardi d’anni, sino a quando ci sarà idrogeno disponibile per proseguire le reazioni nucleari, poi si raffredderà diventando una “gigante rossa”, si espanderà mostruosamente, inglobando Mercurio e Venere, sino a raggiungere il nostro pianeta, distruggendo ogni forma di vita (il tempo del giudizio universale…) e terminerà la sua vita come “nana bianca”, una stella calda e densa ma poco luminosa, che lentamente si spegnerà. Insomma, è stato tutto uno scherzo.
VII-6 L’evoluzionismo L’ambiente non è stato preparato da dio per l’uomo e per gli esseri viventi, ma sono questi che si sono evoluti adeguandosi all’ambiente: chi non l’ha fatto è scomparso. Questa è la lezione di Darwin, mentre i cattolici hanno stuprato la filosofia e la ragione e messo su una sorta di bric-à-brac per dimostrare l’esistenza di dio creatore. Non si può dimostrare l’esistenza di dio, come non si può dimostrare la sua nonesistenza, semplicemente perché noi umani non ne siamo in grado, è un tema più grande di noi e, ancora oggi, la nostra conoscenza è un nulla nei confronti di ciò che ci circonda. “Ciò che sappiamo è una goccia; ciò che non sappiamo è un oceano” (Newton). I testi scientifici sono sempre sottoposti a critica analitica e, se presentano degli errori, sono integrati, modificati o accantonati. Ciò che la scienza scopre, quindi, è valutato liberamente da chiunque e, una volta accreditato, è un tassello dello sviluppo umano. Così è avvenuto anche per L’origine della specie; se Darwin avesse scritto fandonie, sarebbe stato bocciato e non se ne sarebbe più parlato. Tale critica analitica non avviene per i testi religiosi, come la Bibbia, che sono accompagnati da una galassia di pubblicazioni accessorie, scritte da persone che cercano di motivare ciò che hanno scritto altre persone mentre erano invasate dalle divinità, dal delirio religioso e dal placebo ontologico. Il concetto di rendimento, che si applica ai processi industriali e agli investimenti, è sconosciuto alle religioni, perché i loro creatori non ne avevano nemmeno l’idea primordiale. Abbiamo, così, che l’evoluzione darwiniana è mirata a uno sviluppo ottimale, controllando l’evoluzione istante per istante, riducendo lo sperpero e scartando l’inutile e il cattivo. Anche noi stessi, quando non siamo più in grado di prolificare, invecchiamo e veniamo messi da parte dalla Natura, perché non serviamo più e le molecole del nostro corpo sono impiegate per altri usi. Abbiamo il dovere di morire (il più tardi possibile!). Le religioni, invece, assorbono interessi dal concreto e sperperano energie per il vacuo rituale, annullano o riducono le volontà creatrici, sbranano mezzi e strumenti. Si pensi solo alle migliaia e migliaia di templi, chiese, basiliche, cattedrali costruite nei secoli per il mondo, quando si potevano costruire scuole, ospedali, musei. E ancora: si pensi ai milioni e milioni di quadri, idoli, statue e
musiche sacre, che potevano essere indirizzati a un’arte più “fantasiosa”, più investigatrice della natura umana, più libera, invece di lasciarci tra i piedi una montagna di angeli, madonne, crocifissioni e oscuri personaggi definiti “santi”. I creazionisti, cioè coloro che contrastano l’evoluzionismo darwiniano con la creazione divina ipso facto, commentano che un mondo evoluzionista sarebbe egoista perché ogni individuo vivente penserebbe solo a sé stesso, provocando il soccombere del più debole. Naturalmente, non è così. Cosa spinge le persone, quando c’è una catastrofe, come un’alluvione o un terremoto o qualche altro dolore di pancia divino, ad aiutare coloro che ne sono vittime? perché un giovane accompagna un anziano ad attraversare la strada? Nel mondo civile, a parte gli assassini, che sono una trascurabile minoranza, il resto delle persone, fatti salvi i soliti egoisti ed egocentrici, ha innato il senso della trasmissione e della continuazione della razza umana. In fondo, ma proprio in fondo in fondo, lo scopo per cui nasciamo è quello di creare la prole per il proseguimento della razza; è qualcosa di innato in ognuno di noi, che nemmeno ce ne accorgiamo di averlo (Tra parentesi, questo è uno dei motivi della disumanità del celibato degli ecclesiastici). Fin quando siamo prolifici e obbediamo alle finalità della Natura, da questa siamo assistiti; quando ci avviamo verso la vecchiaia e non siamo più in grado di produrre figli, la Natura lentamente ci abbandona per avviarci alla morte, perché ormai inutili. L’intelligenza, l’amore e il sentimento dell’uomo servono a superare tale trauma. L’ipotizzato egoismo scompare davanti agli affetti familiari, come il sacrificio dei genitori nei confronti dei figli o verso la persona amata; così come scompare davanti al rapporto cameratesco che ci avvicina a molti nostri simili, come gli amici. L’uomo è più buono e saggio di come il cristianesimo voglia farci credere, anche se bontà e altruismo sono lacune darwiniane.
L’equazione di Drake È una delle maggiori curiosità dell’uomo: c’è vita nell’Universo, oltre la nostra? L’astronomo Frank Drake ha proposto nel 1961 un’equazione che è un’ipotesi di stima del numero di civiltà evolute che possono esserci nella Via Lattea, la galassia di cui fa parte il sistema solare. Nella Via Lattea si stimano che vi siano circa 300 miliardi di stelle (da 200 a 400 miliardi) e si stima che nell’Universo osservabile dall’uomo ci siano circa 100 miliardi di galassie. Limitiamoci a stimare il numero di civiltà evolute “attualmente” solo nella nostra galassia. L’equazione proposta da Drake è N =R x fp x ne x fl x fi x fc x L essendo N il numero di civiltà evolute presenti attualmente nella nostra galassia, R il tasso medio annuo di formazione delle stelle nella Via Lattea, fp la frazione di stelle che ha un sistema planetario, ne il numero di pianeti, per sistema solare, con condizioni simili alla Terra, fl la frazione dei pianeti ne dove si è sviluppata la vita, fi la frazione dei pianeti fl dove si è sviluppata l’intelligenza, fc la frazione delle civiltà in grado di comunicare, L la durata di vita delle civiltà (in anni terrestri). Come riportato sotto, Drake inserì i numeri che più riteneva ragionevoli e trovò N=10, ma più recentemente, a seguito delle nuove scoperte, si sono inseriti dei parametri ritenuti più probabili, anche se si tratta sempre delle ipotesi, e il risultato è N =23. A (Secondo Drake) C (Secondo dati recenti) R 10 7 fp 0,5 0,5 ne 2 2 fl 1 0,33 fi 0,01 0,01
fc 0,01 0,1 L 10.000 10.000 N 10 23 Naturalmente la sostituzione, pur cautelativa, dei valori numerici nell’equazione è del tutto ipotetica, pur tenendo conto delle nostre conoscenze; il numero più preciso è R, ricavato da dati dell’Agenzia Spaziale Europea e dalla NASA. La domanda naturale è: come mai non si è visto alcun alieno, a parte le fantasiose visioni degli Ufo, dato che è possibile che esista qualche civiltà evoluta? La risposta è semplice ed è conseguente alle dimensioni della Via Lattea: la sua estensione è di 100.000 anni luce, cioè la luce, alla velocità di 300.000 km al secondo, impiega 100.000 anni per attraversarla, più di quanto dura una civiltà. La stella più vicina a noi, Proxima Centauri dista 4,2 anniluce, segue la stella di Barnard a 6 anni-luce, poi abbiamo circa 60 stelle che distano entro i 20 anni-luce, e via via altre stelle distanti anche migliaia di anniluce. Si tratta di distanze che non consentono a una civiltà – con le nostre conoscenze tecnologiche – di organizzare viaggi interstellari, né a comunicare trasmettendo segnali radio, che sono “lenti” come la luce. Non è escluso, però, che qualche miliardo di anni fa, quando la nostra Terra era ancora in formazione, si siano sviluppate e scomparse delle civiltà, che hanno colonizzato pianeti, anche in altre galassie più antiche della nostra Via Lattea.
VII-7 Il divenire L’immortalità fa seguito all’impulso della conservazione che noi abbiamo: d’accordo nel morire, ma almeno che ci sia il divenire. “Nulla è, tutto diviene, panta rei” (Eraclito). Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma. La consapevolezza di appartenere alla società, alla Natura, al cosmo: non è questa una religiosità, senza bisogno di credere in un dio? Può darsi che una risposta atea, seppure lacunosa, a uno dei tanti interrogativi dell’uomo, ai quali non è in grado di dare risposte certe nel momento storicoevolutivo che vive, stia nel concetto del divenire. Il divenire è insieme origine e fine e, pertanto, esclude una creazione: nel divenire c’è una continua comparsa e scomparsa. L’uomo è la definizione che si dà alla materia in una certa fase del suo divenire e, grazie al suo pensiero e ai suoi sentimenti che scaturiscono dalla sua materia, lascia la sua infinitesimale impronta. La sua intelligenza lo porta a rimpiangere la sua morte, ma questo è il prezzo del suo elevato (almeno, così pensiamo noi umani) sviluppo intellettuale; gli animali non piangono la morte perché non sono coscienti della vita. Per gli esseri viventi, dai fiori ai vermi, dalle sardine agli umani, è solo una morte apparente. Noi umani non siamo creati nel ventre di nostra madre, ma siamo il divenire di un processo di fecondazione, che a sua volta deriva da altri processi. E non moriamo perché, esalato l’ultimo respiro, il nostro corpo prosegue nel suo divenire. La materia con la quale ognuno di noi è composto ha quasi quattordici miliardi di anni, nata col Big Bang (ma è proprio avvenuto questo Big Bang?). Naturalmente la scomparsa della propria capacità pensante e dei propri sentimenti, anche se resta la propria impronta nella storia umana, rattrista l’ateo, che proprio per tal motivo ama la vita e si consola considerando l’immortalità come un’uggiosa monotonia. Se nella supposta vita dell’aldilà, nella paradisiaca beatitudine, non posso bermi il bicchiere di vino a tavola con gli amici né scambiare esperienze e pensieri con la persona amata, se non posso mantenere la mia identità e autocoscienza, non saprei che farmene di questa immortalità. In realtà, basterebbe morire al momento giusto. Poiché l’uomo-ateo vive una sola volta e, esalato l’ultimo respiro, cambia per sempre denominazione e parvenza a seguito del divenire, il prezzo che egli attribuisce alla vita sua e degli altri è di gran lunga superiore a quello attribuito dall’uomo-credente.
Io sono la dimensione e l’unità di misura della mia vita, e non il mondo infinito ed eterno. La probabilità che, partendo da molecole di idrogeno, siano venuti fuori, dopo quattro miliardi e a di anni di vita del nostro pianeta, l’uomo e il resto del regno animale e vegetale è vicina allo zero, talmente casuale è stato lo sviluppo e la nascita della vita. Tale casualità esclude che questo mondo possa essere nato a seguito di un progetto divino. Forse, domandarsi se c’è stato un inizio è una domanda illegittima, aggettivo inaccettabile per il credente, che tira in ballo il mistero o il messaggio divino, che tutto spiegano in quattro e quattr’otto. La nostra intelligenza ancora non è strutturata a dare risposte a quesiti come: Quando è iniziato questo Universo, o è sempre esistito? Perché esiste l’Universo? Che fine farà l’Universo, ma avrà una fine? E se non esistesse l’Universo, cosa potrebbe esistere? La Scienza pone domande, le religioni pongono risposte. Forse non c’è motivo di pensare che l’Universo debba avere necessariamente una causa o un’origine; forse è la limitazione della nostra sfera intellettiva a volere cercare un’origine a qualsiasi cosa. Se si tira in ballo un indefinibile “dio” si può rispondere a tutte queste domande e ci si può attaccare una medaglia di cartone sul petto. Il fatto è che non si riesce a dimostrare scientificamente, per limiti dell’uomo, non solo l’esistenza di dio ma anche la non-esistenza di dio. Si tratta di quesiti che attendono solo una risposta scientifica e oggi l’uomo non è in grado di rispondere. Ogni forma di conoscenza, cioè di Scienza, possiede un infinitesimo di verità, che sarà conservato e trasmesso nel futuro, alle tappe successive, e via via che si accumulerà, infinitesimo su infinitesimo, la conoscenza tenderà “asintoticamente” alla Verità assoluta, che però certamente non si raggiungerà mai. Lo conferma il principio di indeterminazione di Heisenberg. È questo un aspetto positivo e vincente: guai ad essere convinti di avere raggiunto la Verità assoluta; sarebbe la fine della ricerca, della conquista del sapere, in una parola: della vita come elemento motore. La sviluppo della Scienza, con i conseguenti riflessi sulla civiltà dell’uomo, si è avuto perché degli uomini non hanno creduto nella magia e nel soprannaturale. Fanno eccezione i fedeli, che raggiungono la loro verità pregando, cantando giaculatorie o urlando giocondi alleluia, come fanno i cristiani, o Um Om, come fanno i tibetani, e via dicendo. Il mondo è molto più vasto, più solenne e più fine di quanto i profeti di tutte le religioni l’abbiano rozzamente descritto; ciò è conseguenza del fatto che, in virtù dell’Evoluzione e della Scienza che avanza, l’intelligenza umana di oggi,
essendo arrivata più tardi, è costretta ad avere a che fare con idee di mondi progettati da primitivi. Ma la conoscenza sempre più vasta, che l’uomo acquisisce col progresso, smantella sempre più questi mondi primitivi e a dio restano sempre meno “misteri” e meno spazi per nascondersi; non si ha alcuno sviluppo né materiale né etico se al “mistero” si dà il nome di “dio”. Prova ne è che la teologia cristiana in duemila anni non è andata avanti nemmeno di un millimetro e per nascondere questo misero stato i pii esegeti snocciolano migliaia di circostanze secondarie, di episodi risibili, di sofismi nebulosi. Stare fermi significa diventare analfabeti, mentre l’imperativo morale dell’uomo è il progresso. Non è da temere la morte. La vita di un essere vivente, uomo compreso, altro non è che l’evento che intercorre tra il non-essere prima della nascita e il nonessere dopo la morte. Tutto qui; le religioni riempiono i periodi del non-essere con fiabe e leggende. Miliardi di anni fa ero delle molecole di idrogeno. Non sono esistito per miliardi di anni e non me n’ero accorto. Non esisterò per altri miliardi di anni e ancora non me ne accorgerò. Ma questo briciolo di vita di cui dispongo – durante il quale ho contribuito col mio microscopico lavoro alla crescita e alla trasmissione della razza umana di cui faccio parte – non è meno intenso perché è breve, e la luce che c’è nello sguardo della mia compagna e in coloro che amo è eterno quando lo raffronto alla durata della mia vita, e non è meno intenso se penso che è un niente se raffrontato alla vita dell’Universo.
Io ...c’ero una volta Il record della longevità di un organismo vivente lo deteneva un abete rosso svedese: le sue radici risalivano a 9.500 anni e il tronco “solo” a 600 anni fa, ma è stato superato. Due ricercatori dell’università di Lecce e del CNR di Taranto hanno scoperto e studiato un organismo che è immortale (la notizia ha suscitato scalpore nel mondo scientifico): la ‘’turritopsis nutricula”, una piccola medusa che vive anche nei nostri mari. Le meduse nascono da un uovo fecondato, attraversano una fase embrionale e poi larvale fino a trasformarsi in “polipetti” che vivono nel fondo dei mari e dai quali, per un processo simile alla ‘gemmazione”, originano gli individui adulti, che dopo un certo periodo, degenerano e muoiono. La ‘’turritopsis nutricula”, invece, quando si accorge di avviarsi verso la senescenza o considera ostile l’ambiente, avvia un incredibile e inspiegabile processo di ristrutturazione cellulare ritornando allo stato postlarvale di “polipetto” e riavviando il processo di ‘gemmazione”. In definitiva, la piccola medusa ha raggiunto l’immortalità senza bisogno di andare a messa alla domenica. iamo all’organismo umano. Esalato l’ultimo respiro, durante la trasformazione in scheletro e polvere, il nostro corpo rilascerà circa quattrocento composti chimici, prevalentemente gassosi, come biossido di carbonio, metano, benzene, ammoniaca, tetracloruro di carbonio, freon. Le cellule non si accorgono subito del cessare della respirazione e quindi continuano a prelevare ossigeno e nutrimento dall’ambiente circostante; entro qualche minuto o qualche giorno, però, viene a mancare l’ossigeno e muoiono anch’esse. Il biossido di carbonio non è più smaltito, si accumula nella cellula e, essendo acido, causa la spaccatura della membrana cellulare. Si liberano alcuni enzimi che digeriscono le cellule; quelle della pelle si sfaldano e la pelle inizia a staccarsi: è l’avvio della decomposizione, un processo a entropia positiva. Essendo terminata la movimentazione degli ioni calcio, i muscoli s’irrigidiscono e inizia il rigor mortis; parallelamente il corpo si raffredda sino a raggiungere la temperatura ambiente in cui si trova. Venendo meno il pompaggio del sangue da parte del cuore, dopo una decina di ore i globuli rossi e bianchi si depositano e imprimono alla pelle un colore porpora o azzurrastro; quindi il sangue inizia a disgregarsi e si liberano dei composti solforati provenienti dalle proteine, come l’acido solfidrico e i dimetilsolfuri, che sono all’origine dello sgradevole odore
dei corpi in decomposizione. Entro un mese dal decesso, dei microrganismi – in gran parte contenuti nell’intestino – si alimentano con i fluidi rilasciati dal corpo e contenenti delle sostanze nutritive; ha inizio la liquefazione dei tessuti molli e la produzione di gas derivanti dal metabolismo dei microbi, col risultato che si ha un rigonfiamento dell’intestino. Nel mese successivo, larve e coleotteri si cibano dei tessuti rimasti; muscoli e grassi sono ridotti a una specie di colla maleodorante. La tempistica delle trasformazioni descritte dipende da dove si trova il corpo: all’aperto, in bara o sepolto. Se si trova all’aperto, il suo pH sarà basico e la decomposizione sarà tanto più rapida quanto più elevato è il pH; il principio è noto ai mafiosi quando immergono un corpo nella calce, a elevato pH basico, per una rapida dissoluzione. Anche un corpo sepolto nella terra si decompone in tempi abbastanza celeri se, in assenza d’ossigeno, l’ambiente avrà, in tal caso, un basso pH acido. Verso il terzo mese, un corpo all’aperto non ha più tessuti; i gas maleodoranti sono stati emessi e non c’è più cattivo odore. Rimane lo scheletro osseo, che ha due componenti: collagene, una proteina, e idrossiapatite, un minerale raro (dentifrici con idrossiapatite servono per ridurre le microfratture dello smalto dentale). Il collagene si degrada e causa delle fratture nello scheletro; rimasta solo la componente minerale, lo scheletro si trasforma lentamente in polvere, a causa di fenomeni fisici (alternarsi del caldo-freddo, secco-umido). A contatto col terreno e alla presenza di determinati minerali, lo scheletro può fossilizzarsi e resistere milioni d’anni, avvicinandosi all’eternità, sin quando esisterà il nostro pianeta. Indubbiamente, è da preferire una rapida cremazione e magari, come chiese Bernard Shaw, far spargere le ceneri al vento su una collina. Meglio ancora: trasformare la cenere in un diamante; una ditta inglese utilizza parte della cenere proveniente dalla cremazione, sottoponendola a elevate temperature e pressioni e, come avviene in natura, il carbonio del nostro corpo si trasforma in un bel diamante. Prezzi: da circa 3.000 euro per un diamante da 0,10 carati a oltre 12.000 euro per uno da 1 carato. Per informazioni: http://www.lifegem.com. Un diamante …è per sempre! C’è ancora qualcosa che sfugge alla morte fisica, sopravvive e garantisce l’immortalità fisica di una persona: una cellula, una sola, per ogni figlio avuto,
uno spermatozoo o un ovocita, che garantiranno la continuazione del ciclo.
Cap. VIII IL NUOVO MESSIA
Sognai che una mattina un signore che abita a Roma ma non è Roma, appena svegliato chiamò due persone che l’accudiscono e disse loro: “Oggi niente sottana. Portatemi un abito normale, giacca e pantaloni grigi, camicia bianca e una cravatta color granata. Niente calzini bianchi ma grigi o neri e scarpe marrone scuro, perché nel galateo d’oggi è una cafonata portare di giorno scarpe rosse o nere”. Poi chiamò il suo segretario personale e gli disse: “Convoca una rassegna stampa urgente per le ore 12, avverti anche le ambasciate e chiedi loro scusa dei tempi brevi, convoca anche radio e televisioni”. Alle 12, nella grande sala delle conferenze, il signore iniziò a parlare, dopo i convenevoli alla sua comparsa e ato l’attimo di stupore dei presenti: “Signore e signori, la linea con Colui che dovrebbe stare più in alto di noi si è interrotta. Confesso che, per quanto mi riguarda, pur essendone un Vicario, non c’è mai stata. Chi mi ha preceduto nel mio incarico si è comportato come un uomo tra uomini, chi si è votato verso la sapienza e l’onesta, qualcuno verso l’insincerità. Uomini tra uomini e nulla più. Alcun messaggio c’è giunto da altri mondi metafisici, non si è captata la presenza di un Essere Superiore. Non chiedo scusa per la comunità che rappresento e che per duemila anni è stata accanto all’uomo perché credo che i miei confratelli abbiano portato sia del bene sia del male, si sono comportati come uomini tra uomini. Sono convinto che la conoscenza non deve essere determinata dall’autorità né dalla tradizione né da dogmi ma deve essere una libera ricerca. Nel rispetto della solidarietà umana, ognuno potrà affrontare i propri dubbi del nostro vivere, in piena libertà di coscienza e di pensiero. Da domani ci avvieremo a un nuovo compito: con la nostra collaudata esperienza nello stare accanto alla gente, la nostra organizzazione si trasformerà in una grandiosa struttura prevalentemente operativa, diffusa nel mondo, per assistere e aiutare chi ne ha bisogno, una sorta di nuova e più coinvolgente Croce Rossa, e chiederemo il riconoscimento all’Onu. Tutti i nostri fratelli e sorelle, che vorranno rimanere nel nuovo organismo, faranno dei corsi di formazione e specializzazione, anche nel settore economico-finanziario, per imparare ad assistere concretamente i poveri, gli ammalati, coloro che necessitano di un aiuto
fisico, spirituale, economico, le vittime di calamità naturali, e sosterremo finanziariamente nei paesi poveri chi vorrà avviare una piccola attività, il tutto senza bisogno di ricorrere a riti e formule magiche. In Africa, terra che più di altre necessita di aiuto, molte nostre missioni si trasformeranno in centri per la rilevazione, raccolta e distribuzione delle riserve idriche, perché l’acqua è fonte di vita, e per l’addestramento all’agricoltura. Nei paesi in ritardo nello sviluppo, insegneremo sia i princìpi dell’onestà sia i rudimenti di economia perché i locali imparino a guadagnare, a risparmiare e, se possibile, a investire, il tutto nel rispetto delle persone, perché il rispetto della persona e della dignità del suo pensare saranno il sentiero principale che percorreremo e che molti confratelli hanno già percorso in ato. I nostri luoghi di riunione più artistici e ricchi d’opere d’arte saranno trasformati in musei e centri di studio; quelli meno nobili diverranno scuole, centri d’assistenza sanitaria e organizzativa. Chi rimarrà nella nostra organizzazione potrà sposarsi e mettere su famiglia, perché siamo uomini tra uomini. Le nostre risorse finanziarie si baseranno sugli affitti del nostro vasto patrimonio immobiliare, sui contributi delle nazioni al nostro lavoro di sostegno, sugli introiti che avremo dai privati che usufruiranno dei nostri servizi d’assistenza. Questa trasformazione avverrà in modo graduale, perché mi rendo conto che ai fedeli verrà a mancare quel mondo che i miei confratelli avevano costruito nei secoli ati, ma nascerà, anche se lentamente, un nuovo mondo, quello della vera solidarietà, dove coloro che possono aiuteranno coloro che hanno bisogno del loro aiuto. Non preghiere ma opere attive. Ai fedeli, a queste care persone che hanno sperato in un’altra vita, daremo più fiducia nel mondo in cui viviamo proclamando la bellezza proprio di questa vita, il compiacimento della fratellanza, il rispetto sia della memoria di coloro che non ci sono più sia del messaggio che ci hanno lasciato. Diffonderemo che ci sono aspetti della nostra vita e del nostro mondo che l’uomo ancora non è in grado di comprendere e che è inutile che menta a sé stesso con storie e fantasmi che non esistono. Saremo e staremo tutti insieme, uomini tra uomini, uomini con uomini”. Il signore con la cravatta granata proseguì ancora e prima che terminasse già si stava spargendo nel mondo quel messaggio di libertà. Furono tre giorni di stupore dell’opinione mondiale e di sgomento di tanti fedeli privati dei loro miti; infatti, si segnalarono alcuni casi di suicidi da parte di persone sconvolte dal messaggio e incapaci di essere private dei loro idoli e dell’altra vita.
Al quinto giorno giunse la notizia: l’uomo dalla cravatta granata era stato rinvenuto esanime nei suoi appartamenti e non si seppe mai la causa del suo decesso, anche se qualcuno sussurrò che c’era lo zampino dell’Action Dei, una corporazione collaterale. In poche settimane, l’organizzazione programmò la nuova elezione per sostituire l’uomo dalla cravatta granata. Dopo l’elezione, il suo sostituto parlò agli adepti accorsi in massa in una piazza di Roma ma che non è Roma e ricordò il suo predecessore: “Il mio pensiero va a Lui, che era stato un santo lungo la sua vita terrena e che, per un momento e per gli imperscrutabili disegni divini, ha voluto percorrere come un eroico missionario la strada ingannevolmente tracciata dal demonio. Ora si trova nella misericordia di Dio e da lassù ci benedice”. L’ameba ricominciò a pulsare e a svilupparsi tra le membra dell’umanità e fu allora che mi svegliai. ***
Riferimenti bibliografici
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Weidinger E. (a cura di), L’altra Bibbia che non fu scritta da Dio, 1992, Piemme
Appendice
Elenco dei demoni che non sopportano le preghiere (Vedi il paragrafo “Angeli e demoni”, cap. 5. Elenco tratto da libro di mons. G. B. Proja “Uomini Diavoli Esorcismi”, edizione 1992, e da www.verginedegliultimitempi.com@il_demonio.htm Non sopportano la preghiera a San Michele: Asmod (demonio dell’odio), Albatros (gola e del torace), Arok (fa diventare scemo), Alzus (delle articolazioni), Ajrol (nuca), Elvaroth (muscoli), Elmador (arti), Emaus (caviglie), Ilbaros (nervo sciatico), Lucifero (capo di tutti i demoni), Tuberoch (spalle). Non sopportano la preghiera a San Giuseppe: Asmodeo (demonio del sesso, dell’impurità dell’Aids e della sifilide); Afragol (discordia tra marito e moglie), Aldress (tiroide), Alfaroth (viscere), Astrarom (successo e che fa diventare ricchi), Aroth (schiena), Almingo (fondo schiena), Alfat (fegato), Almar (tendini), Anatros (nervi del piede), Emol (gola), Emador (rotula), Elchemer (pelle), Imador (nervi del corpo), Mivar (tubercolosi), Ulvar (pancia e utero con fibroma), Uterh (fianchi), Zais (malattie), Zelcol (osso cervicale). Non sopportano la Consacrazione a San Michele Arcangelo: Almarok (demonio della luna piena), Iron (fa diventare pazzi), Uran (svenimento). Non sopportano la S. Messa: Albamammam (demonio che non fa entrare in chiesa), Alvar (alcool e ubriachezza), Ulbador (coscia). Non sopportano il Credo: Almarengo (demonio della divinazione), Amatron (bronchite), Astaroth (occhi), Belzebul (discordia), Udagar (premonizioni). Non sopportano la Sequenza dello Spirito Santo: Emadus (demonio della rovina economica), Legione e Levaier (fatture; non sopporta anche il canto “Vieni Spirito di Dio”)
Non sopportano il Rosario: Alfagor (demonio del rene), Alkar (piegature del ginocchio), Amicol (insonnia), Aravat (allergie), Auan (fallimento, specie economico), Bentlan (cervelletto), Bulgar (epatite), Demonio del Suicidio, Elvar (non fa studiare), Elvados (cisti alle ovaie), Elvaros (polpaccio), Evaus (ossessioni), Ildrok (febbre che non si conosce la causa), Ilvastor (carne), Lulus (tic, disturbo accompagnato da volgarità e bestemmie), Magiar (creutzfeld jacob), Matrus (filamenti del cervello), Nubilar (morbo di Alzheimer), Olmar (cassa toracica), ionass (esaurimento nervoso), Tenebros (testa), Ubadas (morbo di Parkinson), Ulderic (legature dei nervi; non sopporta anche la preghiera “Liberami dal male”), Ulderig (rancore), Uner (cappelli), Ungiador (gastrite), Vantus (malaria), Zeur (dita), Zeus (mente). Non sopportano la preghiera per spezzare ogni maleficio e indebolire le forze sataniche: Amaccrak (demonio della telepatia), Amammar (incesto), Alttar (scrittura automatica), Antichos (ipertensione di cui non si conosce la causa), Antropolinus (anelli della colonna vertebrale), Arabat (condizionamento), Baudas (prolasso del palato), Elbaroth (ossa delle dita), Ilmon (bronchi e polmoni), Indrus (oligospermia), Infastal (morbo celiaco), Marobal (medianità e medium), Nipplan (schizofrenia), Nobisan (lupus eritematoso), Ulvavvar (pranoterapia). Non sopportano la Salve Regina: Aratos (demonio dello sconforto), Elvarist (corde vocali), Nulun (letargia). Non sopportano “A Maria contro le invadenze diaboliche”: Alabadras (demonio dell’ernia iatale), Allab (droga), Avadros (ipofrenia), Imadul (malformazioni del feto). Non sopportano “Liberami del male”: Affrador (demonio della talassemia), Ermados (steatosi epatica), Elios (ictus), Hurielh (parte dell’intestino), Indoor (artrite reumatoide), Ingagas (ulcera gastrica), Ildadon (sinusite), Maustafat (grasso), Miaston (colite ulcerosa), Odar (menisco), U’ddadas (verruche), Ugladas (glaucoma), Usach (diabete). Non sopportano “Al Signore Gesù”: Agragar (demonio della malattia di Cushing), Almaroth (interruzione della gravidanza), Avlan (utero), Ilbabas (appendicite), Ilgradan (congiuntivite), Ringoi (tumore e leucemia), Usafar (minacce d’aborto).
Non sopportano la Coroncina della Divina Misericordia: Almagas (demonio dell’ulcera varicosa), Andrapos (intestino), Endior (eczema), Tartanass (omeopatia), Uval (tunnel carpale). Non sopportano la Consacrazione alla Madonna: Adram (demonio dell’ernia cervicale), Ittrot (acufeni), Ugradan (piliposi nasale). Non sopportano la Coroncina a Dio Padre: Auras (demonio della paralisi), Utralil (liti giudiziarie). Non sopportano i Vespri: Cumar (demonio della tachicardia e dell’infarto), Elchior (tonsillite), Ilcor (utero retroverso), Olmar (tube), Ratafaglans (enzimi del cuore), Rugatth (natiche). Non sopportano la Preghiera di liberazione a Gesù: Elcur (demonio della psoriasi), Renus (reumatismi), Ulcar (melanoma), Ulfas ovaie legate). Non sopportano “Augusta regina”: Ouar (demonio della bulimia nervosa), Ripatal (calcoli alla vescica), Virtul (sordità). Non sopportano la Coroncina a S. Antonio: Ruath (demonio dei muscoli al collo e delle spalle), Tinos (fuoco di S. Antonio). Non sopportano preghiere varie [per ogni demonio si riporta tra parentesi la sua specializzazione e le preghiere che non sopporta, n.d.a.]: Ababaas (demonio dell’iposoia; non sopporta il Rosario e Liberami dal male), Abradol (ferite e piaghe che non riescono a guarire; preghiera a S. Lazzaro), Abragal (incertezza; preghiera a S. Stefano), Adratn (fa dimenticare le cose; preghiera a S. Agnese), Agadar (rinite; preghiera a S. Mauro abate), Agrattalan (embolia; Coroncina al Prez.mo Sangue), Agril (spinge le ragazze su cattive strade; preghiera a S. Reparata), Aladin (mutismo; preghiera a S. Biagio), Albaroth (stomaco; preghiera a S. Giuseppe, preghiera a S. Michele, Rosario), Alfabros (stanchezza; preghiere allo Spirito Santo), Alfagattan (disturba le persone che sono state consacrate da altri a Santana e che vogliono liberarsi; preghiera a S. Lino, preghiera a S. Goffredo), Alfalanghon (spinge alla pedofilia; tredicina a S. Antonio, preghiera al Gesù Bambino), Allos (deformazione ossea; Consacrazione a Gesù Sacramentato), Almador (sterno; Coroncina alla divina Provvidenza), Almadoss (incomprensione; preghiera a S. Clelia Barbieri), Alpador (naso; preghiera di liberazione alla SS. Trinità),
Altradar (ernia al disco; invocazione al Divin Sangue), Alstragan (mancanza di calcio nelle unghie; preghiera a S. Emidio), Altrall (svogliatezza; preghiera a S. Rocco), Altrof (demonio che non fa lavare le persone; preghiera a S. Maria Goretti), Altrull (gioco d’azzardo; Rosario Eucaristico), Alvador (lebbra; Rosario e S. Comunione), Alvignan (fa cadere i denti; preghiera a Santa Apollonia, preghiera a S. Corrado), Amalgradan (anemia emolitica; preghiera a S. Efrem), Amatros (fa ridere; Ave Maria), Andrai (cistite; “O Dio, Creatore e difensore”), Anfratuus (encefalite; Via Crucis), Angaldonh (vitiligine; preghiera al Beato Bartolo Longo, Rosario, Liberami del male), Angradar (non fa trovare il lavoro; Consacrazione a Maria SS. e a S. Giuseppe), Anime Dannate non sopportano l’Eterno Riposo recitato per cento volte; Araffattanh (impedisce agli uomini e alle donne la possibilità di avere rapporti sessuali, impedendone così il matrimonio; Grande promessa di S. Giuseppe), Aspettol (genera diffidenza da parte degli altri verso la persona colpita; Augusta regina, Consacrazione a Gesù misericordioso), Asquarot (mancanza di calcio; Consacrazione al S. Cuore), Astrafalgon (impazienza; preghiera a S. Leopoldo Mandic), Aultadan (depressione; Magnificat, preghiera alla Madonna della Ruota dei Monti), Aurafat (non fa mangiare; preghiera contro ogni male), Aviol (genera diffidenza nella persona colpita agli altri; Rosario, S. Messa, Ave, Giuseppe), Banglolanh (asfissia cerebrale; Rosario e la Corona della Divina Tenerezza), Caudar (trombocitosi; preghiera alla Madonna liberatrice dai flagelli), Cimarastal (spinge al lesbismo; Corona delle 12 stelle e Coroncina alla Medaglia Miracolosa), Drindillon (emorroidi; Sette offerte del Prez.mo Sangue), Ebreb (palato; preghiera alla lingua di S. Antonio), Edigastar (impedisce ai bambini di parlare; preghiera a S. Nicola di Bari), Elfadar (infiammazione del nervo olfattivo; preghiera ai santi Cirillo e Metodio), Elpalvastal (piastrine alte o basse; Novena alla Madonna di Pompei), Eltraval (insoddisfazione; preghiera a S. Teresa del bambino Gesù), Elvigar (gengivite; preghiera a S. Maurizio), Endroven (neurite ottica; preghiera alla SS. Trinità), Erak (emorragia nasale; preghiera alla Madonna di Fatima, questa preghiera è valida anche per tutte le malattie), Falagan (raffreddore da fieno; preghiera a S. Domenico Savio), Gabrissan (diabete dei bambini; preghiera a S. Gabriele dell’Addolorata), Ghiball (dislessia; Rosario, S. Messa, preghiera a S. Veronica Giuliani), Giancar (fa venire una terribile paura della morte; preghiera a S. Martino, preghiera a S. Giorgio Martire e preghiera a S. Carlo Borromeo), Giralldon (coliciste; preghiera a S. Gaspare Bufalo), Giuda (non pentimento; Atto di Dolore), Giugiul (miopia; preghiera
all’Angelo Custode), Golstanh (tic in genere; preghiera per spezzare il maleficio e preghiera a S. Costantino), Gradalan (sterilità maschile e femminile; Consacrazione a S. Giuseppe e Consacrazione a Maria), Hilgorh (fa pensare che la persona colpita porti sfortuna e quindi tutti la evitano al solo vederla; Rosario, preghiera alla Madonna del Piano, preghiera a S. Melania), Hiltonh (odio delle madri contro i figli; Rosario, preghiera di pentimento), Iaran (spinge le donne a commettere atti impuri da sole; preghiera a S. Claudio, preghiera a S. Patrizio Martire, preghiera a S. Giulio Martire), Ibarattan (affanno fisico; preghiera a S. Romualdo), Ibib (vene varicose; Consacrazione al Sangue di Gesù), Idis (paresi al viso; Novena a Papa Giovanni XXIII), Idradan (flebite; Coroncina al Cuore di Maria), Idragan (bruciature che stentano a guarire; preghiera a S. Barbara), Idratan (incidenti stradali; preghiera a S. Cristoforo), Iggiar (parla nella mente; Rosario all’Addolorata), Ighor (odio dei figli contro le madri; Consacrazione ai Cuori di Gesù e di Maria, preghiera a Don Giustino Russolillo), Igor (fa essere sempre lasciati o dal fidanzato o dalla fidanzata; Salve regina, Coroncina delle 12 stelle, Supplica a Maria), Igradol (impedisce il fidanzamento agli uomini; preghiera a S. Andrea Avellino, preghiera a S. Eligio, preghiera a S. Evaristo, preghiera a S. Roberto Bellarmino), Ildrodan (ozio; Coroncina di riparazione al Santo Nome di Gesù), Ilfagan (provoca continue trasfusioni di sangue; preghiera a Santina Campana), Ilgon (voce rauca; preghiera a S. Antonio abate), Ilson (fa traviare i figli e disperare le madri; preghiera a S. Agostino e preghiera a S. Monica), Ilvar (tubercolosi; preghiera alla Regina del Prez.mo Sangue, Coroncina al Prez.mo Sangue e Litanie al Prez.mo Sangue), Imadass (spinge il marito o la moglie improvvisamente e senza motivo a lasciare la famiglia; preghiera a S. Caterina d’Alessandria, preghiera al Servo di Dio don sco Mendez), Imar (tallone; preghiera a S. Giuseppe, preghiera per spezzare ogni maleficio, Rosario), Imastarott (disperazione; preghiera a S. sco Saverio), Imastolangorlsh (turba il ciclo mestruale; Consacrazione alla Divina Volontà), Incar (linfoma; Consacrazione a Gesù Sacramentato), Indon (epilessia; preghiera al Prez.mo Sangue, preghiera a S. Gemma Galgani), Indrogan (ematoma; preghiera alla Madonna dell’Arco, preghiera alla Madonna di Montevergine, preghiera alla Madonna di Pompei), Infus (asma bronchiale; preghiera al Volto Santo), Ipadarotan (fa accavallare i nervi; Novena alla Madonna della Medaglia Miracolosa), Istaball (malattie sconosciute; preghiera ai Santi Cosma e Damiano), Istratt (padiglione auricolare e sue infezioni; Novena delle Anime del Purgatorio, preghiera a tutti i santi, preghiera alla Madonna dei
Miracoli), Istringong (coagulazione del sangue; preghiera a S. Gennaro), Istrol (enfisema polmonare; preghiera alla Madonna di Lourdes), Janadar (occhi delle persone malefiche; preghiera a S. Elpidio), Lamafagar (fa avere paura dell’acqua: mare, fiume, lago; Novena dello Spirito Santo), Liagranfan (persone che hanno subìto traumi perché non si sono sentiti amati da piccoli; preghiera a S. Cecilia e preghiera a S. Rosalia), Madagascal (cornea; preghiera a S. Lucia, Rosario a S. Rita), Madras (impedisce ai coniugi di unirsi; Rinnovazione delle promesse matrimoniali), Magadalh (dissenteria; preghiera alla Madonna Bruna), Magradan (anemia mediterranea o talassemia minor; preghiera a S. Cirillo d’Alessandria), Maldrindon (balbuzie; preghiera alla Lingua di S. Antonio), Malgar (cefalea; preghiera “Liberami del male” e preghiera a S. Giovanni Battista), Malgradass (incubi; preghiera a S. Adele e preghiera a S. Silvestro), Mallagavan (sclerodermia; Rosario, Coroncina alla Madonna di Fatima, preghiera a S. Bernardetta); Malson (alluce valgus e dita a martello; Rosario, Santa Messa, preghiera a papa Giovanni XXIII), Mannadan (divorzio; Consacrazione alla Sacra Famiglia, Coroncina alla Sacra Famiglia), Maravanghul (periartrite; Novena al Sacro Cuore di Gesù), Maroth (cattivo alito; Supplica a Maria Mediatrice, preghiera a Maria Ausiliatrice, Novena a Maria Ausiliatrice, preghiera a S. Alfredo, preghiera a S. Alberto Magno), Marrob (fa subire furti alla vittima; preghiera alla Madonna delle Rose, preghiera a S. Antonio per trovare le cose perdute), Marrotth (prostata; preghiera a S. Domenico, preghiera a S. Caterina, preghiera alla Madonna del Rosario), Massalandanh (menopausa precoce; preghiera alla Madonna della Salute, Novena a S. Anna, preghiera a S. Amalia), Massiragran (muscoli; Coroncina al Cuore di Gesù, preghiera a S. Antonio di Padova, Novena all’Addolorata), Mastavagalh (non fa allontanare da casa e dal proprio ambiente; Rosario di Gesù, preghiera alle Piaghe di Gesù), Mastigafans (secrezione continua dagli occhi; preghiera all’Incoronata di Foggia, preghiera a S. Amalia, preghiera a S. Patrizio martire), Mastobb (pancreas; Novena a S. Agostino, Novena a S. Alessandro Martire, preghiera per la guarigione fisica), Mastrollhtt (fa uscire un cattivo odore sia dalla persona sia dalla propria stanza; Rosario, preghiera e Novena a S. Giuda Taddeo), Mattadattar (invocato con messe nere per impedire la liberazione delle persone malediciate; Pie Suppliche a S. Giuseppe), Mauradrattan (ghiandola dell’ipofisi; preghiera a S. Vincenzo Ferreri, preghiera alla Madonna del Buon Consiglio, preghiera alla Madonna del Carmelo, Sacro Manto di San Giuseppe), Mauron (autismo; Rosario, mani consacrate dei sacerdoti), Maurstangold (invecchiamento
precoce; Rosario, Novena e preghiera a Maria Bambina), Mautran (lesioni al cervello; preghiera per la guarigione interiore), Miastagal (apparato genitale femminile, invocato per sedurre le donne; preghiera a S. Macario), Miavallgastanh (fa perdere le difese immunitarie; preghiera a S. Marco Evangelista), Micaravabol (occhio pernice; preghiera alla Madonna di Medjgorie, Consacrazione alla Madonna dello Scoglio), Michelabbasan (iperattività; preghiera “Mamma Celeste”), Mierovalldon (discordia per motivi di eredità; preghiere alle anime del Purgatorio e delle sante Messe in loro suffragio; Migaldarh (dolori al cuore quando esso non ha alcuna malattia; preghiera a S. Ignazio di Lodola), Migall (protusione discale; Rosario dell’Immacolata, preghiera a S. Elena, preghiera ai sette Arcangeli), Milanstanh (trombosi; preghiera a S. Gennaro, preghiera al Prez.mo Sangue di Gesù), Milaban (non fa amare i figli dalle madri; preghiera al Bambin Gesù di Praga), Mildoren (impedisce il fidanzamento alle donne; preghiera a S. Anna, preghiera a S. Patrizia), Mildotohn (scoliosi; Visita a Maria, preghiera a Suor Faustina, Rosario), Milgadon (spinge all’aborto; preghiera a S. Erasmo, preghiera a S. Filomena, preghiera a S. Paride), Millas (freddo; Rosario, Rosarietto a Gesù Bambino, preghiera di Liberazione), Milldronh (diabete alimentare che viene con l’età; Cinque minuti davanti a S. Antonio, preghiera a S. Antonio, Atto d’amore a Gesù e Maria, Liberami dal male), Milgorh (tutte le malattie del fegato; preghiera a S. Domenico di Guzman), Milsar (non fa trovare i clienti; Corona alla SS. Trinità), Miltonh (andropausa precoce; Consacrazione di Gesù per mezzo di Maria, preghiera alla Madonna di Caravaggio), Miogran (miastenia; preghiere al Prez.mo Sangue), Miravagastalh (lichen planus; Rosario, preghiera alla Madonna di Czestochowa), Misstolatth (costringe all’isolamento facendo allontanare gli altri dalla vittima; preghiere al Volto di Gesù della Sindone, Coroncina e Supplica alla Madonna del Divino Amore), Mistador (cuoio capelluto; Coroncina e preghiera alla Madonna delle Lacrime), Mistavvassal (adenoidi; preghiera ai sette dolori di Maria), Nadaran (atti impuri commessi da solo; preghiera a S. Valentino, preghiera a S. Giuseppe, preghiera a S. Irene), Nadradal (continui litigi; preghiera a S. Clemente), Nafissan (labbro leporino; Novena a S. Patrizia, preghiera ai Beati sco e Giacinta Marto), Nanos (blocca la crescita e impedisce lo sviluppo; Corona angelica, preghiera degli Angeli a Maria, Consacrazione all’Angelo Custode), Natralan (spinge i giovani su cattive strade; preghiera a S. Giovanni Bosco), Nastrarollh (desquamazione della pelle; preghiera contro ogni male, Rosario, Visita a Gesù Sacramentato), Niagarh (otite;
preghiera a S. Alfonso dÈ Liguori), Nialvagorh (ottura la gola ostacolando la respirazione; preghiera a S. Giuseppe, Rosario, preghiera alla Madonna della Sciara), Niamas (mancanza di ferro; preghiera a S. Donato, preghiera a S. Espedito), Niavagal (apparato genitale maschile, invocato per sedurre gli uomini; preghiera a S. Renato, preghiera a S. Albina, preghiera a S. Girolamo, preghiera a S. Rodolfo), Nibbol (disfunzione ormonale; preghiera alla Madonna di Briano, preghiera a S. Genoveffa), Nidaral (impedisce la confessione; preghiera a S. Ciro, preghiera a S. Sebastiano), Nistalok (spinge ad atti impuri nel sonno o nel dormiveglia; preghiera all’Assunta, preghiera alla Madonna della Salette, preghiera a S. Maria Maddalena, preghiera a S. Giuliano, Messa), Nitalsall (ostacola il matrimonio; Rosario della S. Famiglia), Nivattrasanh (impedisce ai coniugi separati di riunirsi; Rosario di S. Giuseppe), Nostradamus (sta nei maghi e li illumina, disturba chi ha fatto pratiche magiche; preghiera a S. Ciriaco, preghiera a S. Rosa da Viterbo, preghiera a S. Rosa da Lima), Ottodos (cisti sugli occhi; preghiera a S. Lucia), Palgon (solitudine; preghiera a S. Benedetto, preghiera a S. Scolastica), Pialgravan (non fa amare i genitori dai figli; preghiera a Maria “Rosa Mistica”, preghiera a S. Maria sca delle Piaghe di Gesù), Piastragalh (reumatismi del sangue; Supplica al Padre), Pietravassallh (non fa affittare gli appartamenti; Coroncina alle Sante Piaghe di Gesù), Pinastanh (lesione dell’aorta; Vespri al Sangue di Gesù, Novena alla Divina Misericordia, preghiera a Suor Bertilla), Ratatandan (cecità; preghiera a Dozulè), Ravagollh (deficit di citocromo; preghiera contro il maleficio, Consacrazione alla Regina dell’Amore, preghiera a S. Fausto Martire), Rivalghenh (fa diventare spastici; Rosario, Messa e Comunione, Corona delle Sante Piaghe di Gesù, preghiera a S. Elisabetta d’Ungheria), Ruval (avambraccio; “O Dio Creatore e Difensore”), Samarccal (impedisce la gravidanza quando non ci sono cause mediche; Supplica a S. Anna, preghiera alla Madonna di Crosìa), Spiriti Muti e Sordi non sopportano le mani consacrate dei Sacerdoti (in genere allo stomaco ed alla schiena) e la Comunione, Spiritus Dominus (sclèrosi a placche; Sequenza allo Spirito Santo), Stalgon (colesterolo; preghiere al Sangue di Gesù), Sudaberenosh (sudorazione, specie alle mani; inno alla SS. Trinità), Talpion (febbri virali; preghiera a S. Ester), Tariabolh (aritmia cardiaca; Vespri alla Madonna, preghiera alla Madonna di Guadalupe), Ucatral (pupilla; preghiera S. Luigi Gonzaga), Ugastafal (non fa perdonare; preghiera a S. Agata, preghiera a S. Cecilia), Ugradan (persone instabili; preghiera contro il maleficio, preghiera a S. Tommaso d’Aquino), Uldaran (ansia; preghiera a S. Chiara d’Assisi), Umar (aorta; Croce santa),
Undraglan (calcoli ai reni; “O Dio Creatore e Difensore), Uradass (blocca la laurea; preghiera a S. Giuseppe da Copertino, preghiera a S. Massimiliano Kolbe), Ural (mandibola; preghiera a S. Antonio Giglio Giocondo), Urath (centri nervosi; preghiera riparatrice), Urudud (gonfiore delle parti del corpo; preghiera al Beato Giacomo Varingez, preghiera a Luisa Piccarreta, Rosario), Usafat (fa nascere i bambini malati; preghiera a S. Gerardo), Ulstalvaraggin (porta tutte le irregolarità all’utero; preghiera alla Madonna dei Lattani), Utradil (meningite; Invocazione all’Angelo Custode, preghiera a S. Gabriele Arcangelo, preghiera a S. Raffaele Arcangelo), Utratattas (incontinenza urinaria; Responsorio a S. Antonio, Responsorio a S. Nicola di Bari), Utreg (sangue; pregare in ginocchio, mani consacrate dei sacerdoti), Vabbrados (colera; Liberami dal male), Valgaran (mascella; preghiera a S. Curato d’Ars), Valiggionh (non fa trovare acquirenti a chi vuole vendere appartamenti per attività commerciali; Novena all’Amore Misericordioso, preghiera a Signore Nostro e Dio Nostro, preghiera a S. Pasquale Baylon), Valssor (disturba le persone colpite dal malocchio; preghiera a S. Emilia), Valstrogandalh (diabete giovanile; Novena a Don Bosco, preghiera alla Vergine della Rivelazione), Valur (prurito nelle parti intime; Rosario, Messa), Velttrosh (vescica; preghiera a Cristo Re, Novena a S. Lucia, Novena alla Madonna di Lourdes), Viacastrol (spinge alla omosessualità; orazione alla Piaga della spalla di Gesù, Novena all’Immacolata), Villstton (non fa trovare acquirenti a chi vuole cedere un’attività commerciale; Novena a S. Rita, Rosario, Consacrazione a S. Giuseppe), Wastagal (stitichezza di cui non si conosce la causa; preghiera efficace, preghiera alla Madonna del Suffragio, preghiera a S. Bruno), Zadaron (disturba le persone che si sono consacrate a Satana e che poi vogliono liberarsi; preghiera ai Santi Gervasio e Profasio), Zapidon (infezioni cutanee; preghiera al Beato Reginaldo), Zapiron (cisti sul corpo; preghiera alla Madonna Madre Eucarestia, preghiera a Gesù, Re del Cielo, preghiera a S. Giacinta Marescotti), Ziagar (persone che sono perseguitate da voci che sentono dietro di sé; preghiera alla Regina del Castello, preghiera a S. Elisabetta d’Ungheria, preghiera alla Madonna Annunziata), Zugadar (allergia ereditaria; preghiera a S. Giustino).***