Ornella Aprile Matasconi
Il nulla
Autore: Ornella Aprile
Titolo: Il nulla
Copyright 2014 by Ornella Aprile
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Questo racconto è un'opera di fantasia, ogni riferimento a fatti, luoghi o persone è casuale.
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Ringraziamenti
Un sincero ringraziamento alla mia amica, Elisabetta Serafini, sempre al mio fianco.
Grazie anche alla mia amica/grafica, Stefania Mantegazza, per le magnifiche copertine che realizza.
Alla Dottoressa Rossella Marino, (Ospedale Sant'Andrea di Roma), un grazie speciale per il o scientifico.
Table of contents
Ringraziamenti Cap. 1 Cap. 2 Cap. 3 Cap. 4 Cap. 5
Notes
Cap. 1
È lunga! Non a! L'attesa è snervante. L'appuntamento è alle 14,30. Continuo a toccare il mio orologio al polso. Quanto l'ho desiderato. Amo gli orologi. Ne faccio collezione. Mi guardo intorno, oltre me anche gli altri sono tesi. Mi aggrappo al polso, in cerca del mio orologio. Lo rigiro più volte su se stesso, come se girandolo il tempo scorresse più velocemente. Poi torno a guardare le lancette: è ato solo un minuto dall'ultima volta che ho visto l’ora. Sono in attesa in questo corridoio, un budello bianco che sembra non avere fine; in fondo intravedo una finestra, aperta su quelle che sembrano scale d'emergenza, in ferro. C'è qualcuno fuori a fumare. Sento il tramestio degli zoccoli sulla lamiera della pedana, l’acciottolio di sillabe acute al telefono. Il rumore mi dà fastidio. In questo posto il silenzio è d'obbligo, i rumori straziano come Nefilim con la clava. Sono seduta su una sedia celeste, una della ventina disposte su entrambi i lati per tutta la lunghezza del corridoio su cui affacciano una decina di porte con sopra una targhetta bianca; giù, giù, in fondo sull’altro lato, una scritta rossa in cima alla vetrata bianca: reparto oncologico.
Sono sola, non ho detto a nessuno quello che sto vivendo. Da soli tre giorni so di essere malata, che lo sono da un po’ di tempo. Non lo sapevo nella vita di ogni giorno quando la mattina facevo colazione. Una tosse secca mi perseguita da tempo, forse una freddata; il mio dottore mi aveva prescritto una radiografia toracica, per escludere o accertare un’eventuale bronchite, da cui si intravedeva una strana macchia alle coste, da lì la decisione di effettuare una tac. Ero andata a ritirare il referto: non dava spazio a errore diagnostico. Il cancro c‘era e le lesioni irregolari tra la quarta e quinta vertebra destra erano la conferma che la radiografia aveva visto giusto.
Avevo parlato con il tecnico che aveva chiamato la dottoressa in una stanza vicina. Avevamo parlato a lungo, la dottoressa mi indicava ulteriori esami da
prenotare con la massima urgenza, una mammografia e un’ecografia mammaria, una visita ginecologica, forse un ago aspirato, tanto per iniziare. Me ne ero andata via da lì con il referto e le lastre in una cartellina, di nuovo in visita dal mio medico. Oggi sono qui, per ulteriori esami. Ho scelto la struttura sanitaria dove lavora il mio socio.
Cap. 2
Davanti a me una bambina con un delizioso cappellino colorato mi guarda mentre cammina avanti e indietro nello stretto budello. I suoi occhi si perdono nei miei e in quel momento mi sento impotente e lontana, lontana da quello che fino a pochi giorni fa era il mio mondo. Svanito nell'attimo esatto in cui il mio medico, seduto di fronte a me, aveva preso a farmi uno strano discorso, lo stesso che aveva fatto la dottoressa al ritiro degli esami, e non riuscivo a capire, eppure sono intelligente. Di me hanno sempre detto che sono particolarmente intelligente e intuitiva. Percepisco i movimenti del volto. Leggo negli occhi altrui. Da sempre decifro i messaggi che manda un corpo umano. Tutti emettiamo segnali che, per quanto impercettibili, io vedo. Forse perché fin da piccola il lavoro dei miei genitori mi ha continuamente messo a contatto con il corpo della gente: mio padre gestisce una palestra, mia madre è istruttrice - si sono conosciuti proprio grazie al loro lavoro. Io sono quasi nata dentro la palestra, con il pallino del corpo sano - mente sana, alimentazione giusta, movimento, forma tonica ed elastica.
Adoro giocare a tennis la domenica mattina; cascasse il mondo, la domenica tennis. Durante la settimana il mio lavoro mi permette di vivere la vita che voglio, quella che ho scelto io, nell'ambito dell’estetica. Di fianco alla palestra si era liberato un locale molto carino e mio padre lo aveva preso in affitto. Avrei voluto laurearmi in medicina. Ora collaboro con un medico, caro amico di mio padre, che mi ha vista nascere e crescere. Quel locale preso in affitto è diventato ben presto una miniera d'oro. Il mio compagno, Diego, si occupa di assicurazioni. Lavora in un’agenzia di pratiche auto e assicurative.
Stiamo insieme da quattro anni. Lui vorrebbe un figlio, anch'io, ma tremo all'idea di veder il mio corpo cambiare secondo forme e disegni tutti suoi, fuori dal mio controllo. Ne ho il terrore. Gli anni ano, so che non potrò rinviare più a lungo. Ho trentasei anni; Diego, trentatré.
Guardo la bambina di fronte a me, con lei ci sono i suoi genitori: la rassicurano e le danno un succo di frutta da bere. Stringe una bambola, prende il succo e si siede; la vedo con le gambe ciondolanti iniziare a sgambettare festosa. La cannuccia in bocca per bere. I miei occhi indugiano negli occhi della madre. Non ha un bell'aspetto.
Un medico si affaccia, accarezza affettuosamente il volto alla bambina e la chiama. Marta, si chiama Marta. Lei sorride con la cannuccia in bocca, senza smettere di ciondolare le gambe e bere il succo di frutta alla pesca. La mamma si alza ed entra nello studio del medico. Il papà rimane fuori, accanto a sua figlia; la testa appoggiata al muro, non guarda sua moglie entrare, sembra non abbia voglia di guardare nulla.
Sopraggiungono due anziani, credo si tratti di marito e moglie, li sento parlare. No, sono fratello e sorella, lui ammalato, lei lo accompagna, parlottano e capisco che sono entrambi vedovi. Li guardo e aspetto. Come tutti qui. Sto aspettando che un medico proclami la sentenza, mi dica cosa succederà, cosa succederà al mio corpo, alla mia mente, al mio cuore. L'attesa è una condanna di suo.
Ho trentasei anni, o ore in palestra; voglio invecchiare bene, in salute. Ora quell’ invecchiare in salute mi appare beffardo. Tutti gli slogan sulla giusta alimentazione, sul fitness, mi appaiono così patetici. Tutto mi appare patetico: il mio lavoro che va alla grande, il fine settimana nei locali più trendy fino a notte tarda, la fissa per il tennis la domenica mattina, l’ossessione di esibire un fisico scultoreo, le mie gambe snelle - ho speso una fortuna per rifarmi il seno; era troppo piccolo, lo avevo voluto più grande, come le mie labbra.
Diego dice che sono bellissima. Non gli ho detto che sono ammalata, che hanno
trovato un cancro dentro di me. Sono tre giorni che covo questo segreto. Con Diego conviviamo e le cose vanno bene, anche se alcune sue abitudini mi fanno disperare, come il togliersi le scarpe nell'ingresso e lasciarle lì, come le bucce di mela sul lavandino a marcire. Cosa ti costa gettarle nel contenitore dell'umido? - gli dico sempre. I pantaloni sul letto, poi, non li sopporto; appoggiarli sul letto, dopo averli indossati tutto il giorno ed essersi seduto ovunque, non è igienico. Ci sono i germi –gli urlo addosso ogni volta. Eppure lui non smette di farlo.
Ieri sera prima di entrare nella doccia si è spogliato e ha lasciato di nuovo i pantaloni sul letto, insieme a mutande, calzini, maglia. Girava nudo per la stanza in cerca del cambio pulito; ha aperto la cassettiera. Generalmente quando gira nudo per la stanza, vuol dire che mi vuole in doccia con lui. Abbiamo un'ottima intesa sessuale. Ama sentirmi entrare nell'immensa doccia installata appositamente. I vetri opachi e i faretti creano le giuste ombre. Quando entro in doccia lo trovo sempre girato verso il muro, aspetta le mie mani e la mia bocca. Ieri sera ha aspettato invano. - Abbiamo dei problemi? - mi ha chiesto uscendo dal bagno. - No, perché? - ho risposto, celando il disagio. - Non vuoi più fare l'amore con me? Non ho risposto. Ho provato a lasciarmi andare, ma quando lui mi ha toccato il seno, avrei voluto urlare; quando mi ha toccato il seno, mi sono irrigidita e sono fuggita via dal letto. Lui è rimasto lì, spettinato, tra le lenzuola, ammutolito e incredulo. In bagno, seminuda, ho chiuso la porta a doppia mandata. Diego non mi ha seguita, ha intuito un motivo grave e fortunatamente non mi ha seguita. Davanti allo specchio ho guardato a lungo il mio seno riflesso; mi guardavo, non sono riuscita a toccarmi. Non lo riconoscevo. Come mi avesse tradita, come se una parte di me, la più intima, mi avesse riservato un tradimento. Un seno esalta la femminilità di una donna, è un punto di forza, ora è solo un punto di debolezza e vulnerabilità; io sono vulnerabile. Diego non può toccarlo, non posso lasciarlo avvolgere da un atto d'amore.
Il mio medico mi ha fatto delle domande, mi ha chiesto informazioni, voleva sapere se in famiglia ci fosse “familiarità” con il cancro al seno, se nella mia, altre donne fossero state colpite da cancro al seno. Ed io ho annaspato nella mia mente, perché trovavo illogica la domanda: come si può essere “familiari” di una cosa così orribile? - Sì, ho due zie morte di cancro e mia madre è stata mastectomizzata – ho detto contro la mia volontà - Oggi, grazie alla prevenzione e alle possibilità di cura, la mortalità è notevolmente ridotta – ha spiegato il medico.
Ricordo. Anni prima. Mia madre era in ospedale per accertamenti, aveva avuto delle ischemie ed era stata ricoverata; di routine le avevano fatto l'ecografia mammaria, da lì un nodulo. Subito la mammografia e l'ago aspirato. Esito: operazione urgente, senza perdere tempo. E mia madre era fuggita, aveva firmato per uscire dall'ospedale senza dire niente a nessuno. Una sua libera scelta, ci aveva risposto in seguito, quando noi, saputa la cosa, le chiedemmo spiegazioni. Noi familiari lo scoprimmo qualche giorno dopo la sua fuga dall'ospedale, una gentile e scrupolosa dottoressa, telefonò a casa, risposi io, voleva sapere se la mamma aveva deciso di operarsi. Caddi dalle nuvole, non sapevo niente. Lei si zittì, ma ormai io avevo capito. Immediatamente mi attivai per convincerla a operarsi. Lei continuava a ripetere che non voleva, la vergogna, la mutilazione. Dopo oltre due mesi si decise. La portammo in un'altra struttura ospedaliera, più vicina a casa, così da poterla seguire meglio, sperando che i chilometri di distanza non fossero più un problema per lei, lei non era convinta. Nemmeno la mattina dell'operazione. Piangeva, non voleva operarsi. - Lasciatemi il mio seno – supplicava il chirurgo – la prego, non mi asporti il seno, non lo asporti – io tacevo, la capivo. Ero uscita dalla stanza piangendo e, poco distante, avevo assistito a un altro dramma, un'altra donna, un altro pianto. Era al telefono, ho capito che parlava con suo marito - no, ho detto di no, non mi
opero, mi toglieranno la mammella, anche il capezzolo, non lo sopporto, mi metteranno una protesi e mi disegneranno il capezzolo, no, preferisco morire, non riesco ad immaginarmi con una protesi e il capezzolo disegnato, finto, non sarei più io – questo urlava, sopra altre grida. Tutte le donne gridavano in quel momento; o per lo meno a me così era parso. E ora tocca a me.
Avrebbero disegnato anche sul mio seno dei punti neri indelebili; mia madre a distanza di anni cerca ancora di nasconderli. Glieli fecero quando scelsero la radioterapia al posto della chemioterapia, il suo fisico provato da altre gravi patologie non consentiva la chemio. I medici optarono per la radio, sperando andasse bene. La misero in un enorme macchinario e le disegnarono dei punti neri, una sorta di segnaletica, di mappa, per consentire a un altro macchinario di centrare la parte da trattare. Ogni volta che mamma si recava al centro per la radioterapia, ne usciva cotta. La sua pelle diventava di un vivido colore violaceo e sembrava assottigliarsi sempre più; non le caddero i capelli, come altre donne operate con lei, sottoposte alla chemioterapia, nello stesso centro - alcune per coprire quella calvizie indossavano parrucche somiglianti più o meno ai loro capelli originari, altre invece sceglievano foulard; una sola donna non se ne curò e lasciò che la sua testa nuda urlasse per lei il suo dolore. Il professore non era riuscito a salvare la mammella di mia madre, l'aveva dovuta asportare, come tutti i linfonodi sotto l'ascella. La ricordo, appena sveglia, allungare la mano a tastarsi. Iniziò a singhiozzare. Io le tenevo l'altra mano e piangevo con lei.
Cap. 3
Quando ho ritirato i referti e li ho fatti leggere al mio socio medico, l'ho visto sconvolto. Speravo provasse a minimizzare. Il mio socio mi parlava, lo guardavo e mi sembrava di non conoscerlo, di non capire cosa mi stava dicendo. A voce bassa, con tono delicato, mi spiegava; io lo guardavo e credevo stesse parlando di qualcun'altra, non di me: non era a me che diceva di andare da uno specialista, non era a me che spiegava come e cosa fare in questi casi, che si sarebbe occupato lui di me, nella struttura sanitaria dove collabora, mi avrebbe indicato un bravo oncologo. Lui era a disagio, io non sentivo nulla; o meglio, sentivo il nulla.
La prima cosa che ho fatto, appena uscita, è stata entrare in una gelateria per un cono: tre gusti, cioccolato, crema, nocciola e tanta panna. Io che conto le calorie a ogni pasto, che conto le calorie che brucio in palestra, mi sono ritrovata seduta al tavolinetto di una gelateria a mangiare un cono gelato, davanti al traffico delle automobili che vanno e vengono, alle sirene che suonano, alla gente che parla, gesticola, si muove. E io mi muovevo con loro. Ero viva, ero lì. Mangiavo il mio gelato lentamente, pensando a una condizione che non sentivo mia, a cosa si dovrebbe provare quando ti diagnosticano un cancro. Forse si dovrebbe piangere, urlare, disperarsi, telefonare a chi si ama; forse avrei dovuto telefonare a Diego, a mia madre, a mio padre, a un'amica. Perché non faccio nulla? Perché c’è il nulla. Mangiavo un gelato tranquillamente e guardavo intorno a me il mondo camminare. Avevo chiesto al medico, all'amico di papà, di non dire nulla.
Da diverse sere Diego mi chiede di partire per un week end, vuole andare in Toscana. Ha scovato un agriturismo con le terme e vuole andare. Gli ho detto di sì. Il medico mi ha detto che devo iniziare a pensare a un eventuale intervento chirurgico - prima si opera, meglio è. Ho fatto ricerche, ho letto di chemioterapia, radioterapia. Ora voglio capirne di più, saperne di più. Voglio che le parole menzionate da altri, abbiano un senso per me.
- Dobbiamo intervenire con urgenza - si era affrettato a dire il mio socio. - Allora? Che faccio? Prenoto? - mi aveva chiesto per l'ennesima volta Diego ieri sera. - Sì, prenota, un paio di giorni in una beauty termale ci faranno bene - avevo risposto senza pensarci due volte.
Cap. 4
Guardo di nuovo la bambina seduta di fianco al suo papà, di fronte a me. Ha finito il succo di frutta e ha ripreso a giocare con la sua bambola. Marta, si chiama Marta la bambina. Chissà cosa vorrebbe fare da grande, se riuscirà a realizzare i suoi sogni di bambina.
Io da piccola a chi mi chiedeva cosa volessi fare da grande, rispondevo la ballerina. E la mia mamma mi aveva iscritta ad una scuola di danza. Il mio primo tutù, un mare di tulle rosa, i capelli raccolti in uno chignon, un leggero trucco, il palcoscenico della scuola, la mia mamma e il mio papà in prima fila, i miei nonni, i miei zii, i miei cuginetti - c'erano tutti. Ieri sera ho cercato quelle foto, le ho riviste. Ho sfogliato l'album di famiglia: le foto che mi ritraggono sul dondolo e sullo scivolo - in una piango dopo essere scivolata e, caduta dall'altalena, non c'ero voluta più salire - la prima comunione, le mani congiunte, io che guardo il prete, i guanti bianchi come una piccola sposa, Il pranzo, Il mio primo giorno di scuola, il giorno del diploma, la festa, l'addio al nubilato della mia migliore amica, Cristina... le nostre lunghe telefonate, la sua gioia nello scoprirsi incinta.
- Ho un ritardo – mi ha confidato cinque mesi fa. Io senza dirle niente ero andata in farmacia a comprarle il test di gravidanza. - No, non ci riesco - aveva detto, rigirando la confezione del test tra le mani. - Dai coraggio, andiamo in bagno – l'avevo incoraggiata. - Diventerai zia - aveva quasi urlato dopo aver visto il risultato del test. Abbiamo così iniziato a comprare il corredo per quello che sarà mio nipote, un maschio. Con Cristina ci siamo confrontate non poco sul nome da dargli; io
vorrei Gabriele, lei Luca, sono due nomi così distanti l'uno dall'altro. La vita avanza, la vita corre, la vita regala, la vita toglie.
Cap. 5
Non riesco a stare seduta. La mamma di Marta è ancora dentro, dal professore. Poi toccherà a me; una esce, una entra. Chissà se chi si occupa di malattie così violente, così devastanti, riesce a respirare. A me darebbe il soffocamento; pensare di avere davanti una persona, condannata a volte, una persona che dovrà percorrere un tratto di vita sola, in cui nessuno può raggiungerla, non mi farebbe respirare. È comune pensare che, per chi fa un mestiere del genere, si possa abituare a certi dolori. Forse è vero, forse no. Sono scelte di vita.
La porta si apre, la donna esce, si sta sistemando con la mano i capelli, il marito la guarda, il professore si affaccia sulla porta, chiama Marta; entra anche lei nello studio medico, altri lunghi interminabili minuti. Dopo poco li vedo andar via tutti e tre, senza parlare.
Tocca a me. Mi alzo, entro. Il Professore mi sorride. Mi accomodo e gli porgo la tac. Mi accorgo che il mio socio gli ha già portato in visione la fotocopia del referto, la vedo di fianco al telefono. Il professore osserva attentamente le immagini, è pensieroso, non mi può sfuggire. Mi guarda, non dice niente, mi fa cenno di seguirlo. Ci incamminiamo, faremo la mammografia e un’altra tac se serve. Ho sempre saputo che la mammografia è consigliata dopo i quaranta anni, una volta l'anno; io di anni ne ho trentasei, sono sotto la soglia di pericolo. Chi poteva immaginare.
Entro nel laboratorio, le luci sono soffuse, l'ambiente è sobrio e funzionale. Non fa né caldo, né freddo. Una signorina gentile mi aiuta a spogliarmi. Poi mi indica il macchinario cui avvicinarmi. Il professore è nella cabina con il tecnico, immagino sia il tecnico. Sono talmente tesa che non riesco a respirare. La gentile signorina mi aiuta a mettermi in posizione; deve sapere che sono messa male, è
troppo gentile e accondiscendente. Ha quasi paura di farmi male. Sono posizionata. Sento pressare la mammella destra, emetto un gemito. Pochi secondi, silenzio. Il macchinario lascia la presa e la mia mammella riprende forma. Vedo il professore e il tecnico parlare, fissare le immagini. Il tecnico esce e viene verso me. Mi posiziona di nuovo, ripete la mammografia. La mia mammella è di nuovo pressata. Pochi secondi e torna a liberarsi. Si a all'altra mammella. Stessa trafila, stessi sguardi.
- Sono più grave di quel che si pensava - mi trovo a urlare con le lacrime agli occhi. - Giuliana– mi chiama il medico –ma chi le ha fatto la tac? - chiede. Balbetto il nome della struttura dove ho eseguito l'esame. - Abbia pazienza, rifacciamo l'esame – risponde il professore. - Cosa c'è? - chiedo con voce bassa – Sono molto grave? - Giuliana, - mi risponde lui – qui non c'è niente, è assolutamente sana, non c'è nessuna massa, nessun nodulo. - Come? Cosa? - sussurro con un filo di voce.
⁃ Unica spiegazione, un errore! C'è stato un errore! Devono aver scambiato gli esami. Il professore ripete l'esame e continua a scrollare la testa. È sollevato, ma visibilmente contrariato da quello che è stato per me un cataclisma, per lui un evento fuori dall’ordinarietà. E io penso, penso che da qualche parte c'è una donna alla quale hanno dato un risultato mendace, il mio! L'hanno illusa. Quando sarà andata a ritirare gli esami avrà letto che tutto era in ordine. Avrà continuato a fare le stesse cose, a progettare la sua vita, com'è giusto che sia. E invece è malata, dovrà subire quello che pensavo dover subire io. Mi gira la testa. Mi avvicino alla finestra. Siamo al terzo piano, eppure di colpo mi sento al piano terra, come se un ascensore mi avesse precipitato giù. Senza schiacciare
alcun bottone, sono precipitata al piano terra. Il professore mi guarda, sembra dispiaciuto, non so se per me o l’altra.
Cerco di immaginare la donna che dovranno provvedere a informare. Il professore mi chiede di seguirlo in un altro laboratorio, vuole fare una tac. Il macchinario sembra una strana astronave: un letto all’in piedi, che, al tocco di alcuni pulsanti, si stende in orizzontale. Il tecnico sistema il lenzuolo di carta, mi aiuta a salire, sto tremando come se fossi stata investita da un vento gelido. Mi sdraio, metto le mani come mi viene chiesto. Il tecnico si allontana, il professore è nel gabbiotto con lui.
Il radiologo ritorna, mi posiziona meglio. Torna nel gabbiotto. Accanto al professore e al tecnico ora c’è un altro medico; guardano attentamente le immagini, scrollano ancora la testa… - Lipoma costale– mi dicono - Ha un lipoma costale, - mi spiega il professore con molto garbo - non ha un cancro, tanto meno metastasi; il lipoma è un tumore benigno attaccato alle coste; nella tac che ha portato in visione non c'è: questo ci fa capire che la tac non è la sua... - È sicuro? - chiedo con voce tremante. - Sicurissimo Giuliana, gli esami che abbiamo eseguito non evidenziano nessun cancro al seno né lesioni alla quarta e quinta vertebra... evidentemente le hanno consegnato la tac di un'altra paziente... le ombre che vedevano nella prima radiografia, altro non sono che un lipoma. C’è stato un evidente, incredibile, scambio di referto.
Dovrei essere arrabbiata, dovrei inveire contro la sanità, urlare, denunciare; invece mi avvicino alla scrivania e cado di peso sulla sedia; mi offrono un bicchiere d'acqua, bevo, fa male il liquido che scende, fa male, come stessi ingoiando chiodi: il dolore lacera, tutto il dolore, che non sapevo aver provato
così intenso in questi giorni, mi investe, ed è un dolore terribile. Poi finalmente respiro, respiro profondamente, i miei polmoni stanno respirando liberi. Mi alzo e me ne vado. Esco fuori come una condannata graziata. I giorni vissuti sdoppiati, ciò che ero e quel che ero destinata a diventare – chi?, cosa? - mi stanno travolgendo, sento la piena arrivare. Un'onda gigantesca che non so se potrò fermare chiudendo la porta dello studio medico dietro di me. I miei occhi devono essere spalancati, se le persone fuori continuano a guardarmi. Non riesco a sentire esattamente cosa provo. Attraverso il lungo corridoio, mi dirigo alle scale di emergenza. Il silenzio dentro me di questi giorni deve essere rotto. Apro la porta finestra, poggio i piedi sul pianerottolo di lamiera, lo sento scricchiolare; quel rumore, che fino a poco prima mi aveva infastidito, mi appare bellissimo. Il rumore mi dà sollievo. Inizio a scendere le scale di corsa, i miei tacchi battono sulla lamiera con un terribile frastuono, mi ritrovo a correre, correre, giù da quelle scale, felice di provocare quel rumore assordante. Sento qualcuno gridarmi dietro, deve essere un medico, un infermiere, non lo so, non mi volto, fuggo via; salto l'ultimo gradino dell'ultima rampa e raggiungo la strada. Dalla parte opposta, il parcheggio. Le auto parcheggiate sono tantissime, il sole è forte, un'aiuola al centro del piazzale richiama la mia attenzione. Ho la sensazione di vedere i colori per la prima volta. Un’auto lascia il parcheggio, a bordo un ragazzo accende la radio, che bella grido forte, il ragazzo mi sente, si volta facendomi un cenno con la mano, è una canzone che ascolto spesso eppure mi appare diversa, voglio sentirla meglio, mi ritrovo a correre dietro l’auto di quel ragazzo che ridendo suona il clacson, salutandomi di nuovo prima di voltare l'angolo e sparire sulla strada.
Cerco la mia macchina, non ricordo dove l'abbia parcheggiata, poi rammento di essere arrivata in taxi, non me la sono sentita di guidare. Di fronte all'uscita dell'ospedale una fermata dell'autobus. Da quanto non prendo un mezzo pubblico. Ne arriva uno, salgo veloce, senza sapere dove andrà, poco importa, salgo lo stesso. Non ci sono posti a sedere liberi, mi aggrappo a una maniglia, rimango dietro a guardare fuori, a vedere la via che a, le auto sfilare. A ogni fermata la porta si apre, la gente sale; rumori, suoni, parole. Gli alberi costeggiano la strada, alcuni negozi hanno aperto, altri stanno tirando su le saracinesche ora. In una frutteria sistemano le cassette di frutta sul bancone esterno. Una signora riempie la sua busta di carta con delle mele verdi; di fianco una cassetta con i pompelmi gialli e le arance rosse; in alto le banane gialle; dall'altra parte del bancone zucchine verdi, pomodori rossi, il cavolo bianco. Un
tripudio di colori e di odori che non sento ma che immagino: li voglio sentire.
Suono il camlo per prenotare la discesa. Scendo alla prima fermata e mi dirigo di corsa verso la frutteria. Mi ritrovo di fianco alla donna che ho visto dall'autobus, una donna che sarebbe rimasta un'anonima persona tra altre persone; mi sorprendo a guardarla. Prendo anch'io un sacchetto di carta. La signora ha finito di riempire il sacchetto di mele, ne sta riempiendo un altro con delle patate. Mi avvicino a lei e sorridendo le chiedo se ha una ricetta da consigliarmi per i cavolfiori; ha sui sessanta anni, generalmente alle donne di quell'età piace dare ricette e consigli, infatti mi raccomanda una ricetta gratinata. La ringrazio, mi presento: - Sono Giuliana. - Piacere, mi chiamo Mimma– mi risponde lei che non è più una sconosciuta. - Se ha un recapito telefonico, le saprò dire come sarà venuto il cavolfiore - mi ritrovo a dirle. La signora mi guarda perplessa, ma il mio sguardo evidentemente le ispira fiducia, mi lascia il suo numero di telefono, lo appunto sulla mia agenda, pago, saluto, ringrazio e vado via con il cavolfiore tra le braccia.
Dall'altra parte della strada un altro punto di colore cattura la mia attenzione. È un negozio di profumi e bigiotteria. Senza pensarci, attraverso; mi soffermo per qualche istante davanti alla vetrina: collane, profumi, fermacapelli, qualche articolo di biancheria intima. Entro, mi dirigo al reparto cosmetici; appoggio il cavolfiore su un ripiano, prendo dallo scaffale i campioni prova dei rossetti, o sulla mia mano il primo stick di colore arancio, poi il rosso, il fucsia, prugna. Lunghe righe di rossetto colorano d’arcobaleno la mia mano sinistra. Di lato lo scaffale dei rossetti, davanti all'espositore degli ombretti, con i polpastrelli della mano sinistra attingo ai colori, li o uno a uno sulla mano destra: celeste brillante il primo, verde il secondo, poi l'oro, l'argento. Guardo le mie mani, tutte colorate. Fisso quei colori e vedo fiori, fiumi, il cielo. Poi li vedo sfumare, c'è dell'acqua a bagnarli, no, sono le mie lacrime. La commessa del negozio mi osserva, si avvicina, mi prende la mano, quella dove ho ato i
rossetti, con un fazzoletto umido inizia a pulirla. I colori scompaiono dal dorso della mia mano, ma li ho dentro. Sono dentro di me. Mentre piango le dico - Prendo l'ombretto azzurro e la matita verde, anche il rossetto fucsia... Per tutta risposta la commessa sorride. Ridiamo. La ringrazio, abbraccio di nuovo il cavolfiore ed esco.
Il cellulare squilla, è Cristina, la mia amica. D’improvviso ricordo il controllo ecografico d’oggi. - L'ecografia è andata bene, il piccolo cresce sano - mi dice entusiasta. - Bella notizia– rispondo felice. - Dove sei? - mi chiede. - Sto facendo la spesa. Ho comprato un cavolfiore... tra poco prendo l'autobus e vado a casa. - Autobus? - ride sorpresa Cristina –Come l'autobus? Hai la macchina rotta? E da quando ti piace il cavolfiore? - Non lo so, ma mi hanno dato una ricetta gratinata che voglio provare, e ho voluto fare un giro in autobus, avevo voglia di stare tra la gente – rispondo. - Giuliana, ti senti bene? Ultimamente sei un po' strana... c'è qualche problema? - No, nessun problema, ho riflettuto questi giorni e ho preso una decisione. - Che decisione hai preso? Mi devo preoccupare? - chiede la mia amica. - Voglio anch'io un figlio – dico sinceramente. - Tu? Quella terrorizzata dalle smagliature? Dalla cellulite? Dagli etti presi a natale? Quella che a ore in palestra? - Sì, io.
- Giuliana! Non ci posso credere! Ecco cosa avevi questi giorni, non ti ho mai visto così strana, ieri al telefono mi sono preoccupata, che bella decisione. Non mi dispiace l'idea di crescere i nostri figli insieme, datti da fare allora– esclama divertita la mia amica. Vedo arrivare l'autobus. - Vorrei una bambina– le dico seria. - Sarebbe bello, io avrò un maschietto, tu gli daresti una cuginetta – mi risponde felice - e se invece fosse maschietto? - domanda Cristina. - lo chiamerei Gabriele - rido allegra - se invece riuscissi ad avere una bambina, la chiamerei Marta. - Marta? - Sì – rispondo. - Bello, mi piace, – concorda Cristina - davvero un bel nome. -Sì, Marta è davvero un bel nome - sussurro.
note
[1]
Ornella Aprile Matasconi
Bibliografia
"Gli artigli dell'innocenza" - 2012 / romanzo
"Treno alta velocità Roma - Venezia / Venezia - Roma" - 2013 / romanzo
"Carlotta" - 2013 / racconto
"Via da casa" - 2013 / racconto
"Il nulla" - 2014 / racconto
"Il fratello unico" - 2014 / romanzo
www.ornellaaprilematasconi.it