Maria Amalia Orsini Il posto del padre Lettere Animate ISBN: 978-88-6882-701-4 copyright Lettere Animate 2015 www.lettereanimate.com
Il posto del padre
I
Dopo tutto quel tempo che era stato impossibile addomesticare in certe sue ore troppo lunghe e negli anni che erano diventati subito fumo, dopo otto anni per l’esattezza, Sergio si ritrovava di nuovo seduto, sorpreso, sbilanciato, nel salotto di Anna. Il sole, gonfiandosi d’improvviso, rischiarò con più intensità la stanza già luminosa. Proprio quel salotto con i mobili bianco avorio, animato dai quadri di marine e di viali alberati autunnali e primaverili appesi alle pareti. Solo gli schienali essenziali e perfettamente scuri di due sedie poste ai lati della porta prosciugavano un po’ quel tanto di algido che a prima vista il visitatore poteva ricevere. Sul tavolo rotondo di fattura moderna spiccava una scatola indiana dai numerosi scomparti che parevano moltiplicarsi con splendore orientale nella ricchezza delle loro decorazioni. Un acquisto recente, dell’ultima ora, che si sovrapponeva a tutto l’arredamento senza realmente integrarsi. Ma bello di per sé. Quel salotto dove Sergio era stato decine e decine di volte sempre occupando la stessa poltrona, tanto che aveva potuto credere che sarebbe potuto diventare tranquillamente suo. E così sarebbe stato se la sua storia con Anna fosse continuata e non avesse subito la brusca interruzione che i fatti, così come si erano svolti, avevano imposto. Per tutto quel tempo, che era trascorso lungo e pieno, lui e Anna avevano continuato ad abitare nello stesso paese della Lomellina, come sempre, come da ragazzi. Eppure erano riusciti a perdersi di vista perfettamente, come se fossero andati a vivere fisicamente molto lontani, una lontananza per cui la fatica del cercare il contatto fosse impari alla possibilità reale di ritrovarsi, una di quelle fatiche che si sentono senza speranza, senza motivo soprattutto, alla fine inutili. Ma di nuovo il movimento della vita aveva colpito con la sua sferzata il quotidiano, la consuetudine abituale dei giorni che scorrono e che, chissà perché, fissano il loro schema nella mente degli esseri umani convincendoli che sarà così per sempre.
Si avrà per sempre trent’anni. Si provvederà per sempre a questi bambini. Si erà il tempo a cercare l’amore, a braccare un successo. Si odieranno per sempre le persone che hanno ferito chi amiamo. Si lotterà. Impossibile credere che un giorno davvero il nostro corpo sarà di carta friabile, il corpo di un vecchio incontinente, smemorato di avvenimenti troppo lontani. Moriremo? Com’è morire? Si chiudono gli occhi, si trattiene il respiro e non si immagina niente. Sono parole. In realtà sotto i sensi scorre questa vita di cui non si può credere la fine. Si tornerà ancora e ancora in un salotto, immutabile se non per qualche particolare, dove per anni siamo stati familiarmente. Anna entrò con le tazze del caffè appena fatto, fumante, e la stanza si riempì di aroma. Lui la guardò con sentimenti contraddittori che gli si agitavano in petto. Non sapeva se era bene che fosse lì, a bere quel caffè preparato da lei.
II
Anna appoggiò con eccessiva attenzione le tazze. I suoi capelli castani, il suo profilo deciso, la sua alta figura lievemente robusta, erano accarezzati dal sole che attraverso i vetri irrorava la stanza, donando una sensazione di tepore, anche se l’aria di quei primi giorni di marzo faceva rabbrividire nelle zone d’ombra. Lei gli parlò quietamente. “Hai fatto bene a salire da me”. “Non l’avrei mai fatto, se tu non mi avessi sorpreso per strada mentre prendevo a calci la mia automobile. Avevo perso il controllo, non sapevo più cosa facevo. Mi ero appena reso conto che il mondo mi era franato addosso. Ho perso la testa. Mi dispiace”. “Avresti potuto scegliere di far del male a qualcuno. Seriamente. Invece ti sei limitato a prendere a calci la tua automobile. Sei stato in gamba”. “I anti che si sono fermati a guardare la mia scena di pazzia non avevano l’aria di trovarmi così in gamba”. “Già. Ma hai risparmiato le persone. E anche te stesso. I pettegoli in strada non potevano sapere che stavi già cominciando a vincere qualunque cosa ti stessi giocando”. Sergio appariva smarrito, incredulo. Ora guardava Anna più apertamente, cercando di leggere tra le sue parole. Dove lo stava spingendo? Dove voleva andare a parare? Lui era così concentrato ancora sul suo dolore, così sorpreso dagli avvenimenti, che proseguì con crudeltà. “Otto anni della mia vita, otto anni in cui ho creduto di gettare delle fondamenta, di costruirmi una felicità personale. Ho lavorato come uno schiavo, ho affrontato il doppio lavoro, i turni di notte, senza quasi sentire la stanchezza, la fatica massacrante, perché le avevo vicino. Ho amato con tutta l’anima lei e la sua bambina. Come fosse stata mia. Poveri eri spaventati. Perché così erano, quando quella sera le ho incontrate gelate, mute, bagnate di pioggia. Così
traumatizzata, lei, che non sapeva nemmeno dove stava andando. Otto anni di ione e di fedeltà assoluta”. Anna aveva ombre scure sotto gli occhi che teneva socchiusi. “Ti lamenti? Sei stato ricambiato, mi sembra. Anche lei ti ha dato amore e dedizione. La piccola poi, ti adora”. “La piccola? Ah, non so. Tutto è cambiato, ogni cosa si è capovolta. Ioana è sconcertata, divisa, piena di pietà e di affetto per quell’uomo che è riuscito a tornare da lei. Il marito. Il marito! Che magia c’è in questa parola? Non è solo la storia triste di lui, la sua assenza di colpa. E’ come dice (dovresti vederla, dovresti sentirla), come pronuncia la parola: mio marito. E’ mio marito. E’ tornato mio marito. E io? Io! Non sono stato forse più che un marito? E la bambina! Folgorata dall’apparizione di quest’uomo che neanche conosce, solo perché può dire: è mio padre. Eppure è a me che vuole bene, e non potrebbe essere che così!” “Sergio, Sergio. Calmati ora. So che cosa provi, che tempesta. Lo so perfettamente”. E allora lui parve rinsavire, trattenersi. La guardò titubante, imbarazzato. “Oh mio Dio, Anna. Credi che non mi vergogni? Sì, mi vergogno del mio egoismo, mi sto muovendo come un elefante in un negozio di porcellane. Come posso riversare su di te queste cose? Non dovevo venire qui”. Fece per alzarsi, voleva andarsene. Una ruga profonda gli segnò la fronte, gli occhi di nuovo smarriti. Dove pensava di andare? Anna sapeva bene che non c’era nessuno, proprio nessuno che poteva accoglierlo. Niente fratelli né sorelle. I genitori morti da tempo. Gli amici attuali andavano bene per una bevuta o per discussioni e verifiche sul fronte salariale. Otto anni dedicati esclusivamente a quella donna e alla sua bambina, guardando con sospetto ogni maschio giovane che si avvicinava. Otto anni di lavoro senza tregua mangiandosi ogni tempo libero. Non c’era forse il deserto intorno? Era rimasta lei. E lei capiva, lei sapeva in ogni fibra, in ogni cellula del suo corpo, che ne avevano conservato memoria, cosa significava quella sofferenza soffocante perché anche lei l’aveva vissuta, e sapeva, fin troppo bene sapeva, che quella corrente di dolore poteva trasportare alla deriva, bruciare i sentimenti e la volontà, far sprofondare nel pozzo dell’apatia e del rancore per non risalirvi più. Sapeva che la tentazione di distruggere e distruggersi cresceva a dismisura nel cuore di un uomo così provato. Lei conosceva quella densa, specifica sofferenza perché un giorno di
otto anni prima Sergio gliela aveva inflitta.
III
Con la pressione di una mano sul braccio Anna lo fermò, lo costrinse a sedersi di nuovo. Gli servì un’altra tazza di caffè in silenzio, mentre lui mandava in giro uno sguardo torvo e infelice. Fuori, la luce del sole si era condensata in una lunga striscia rossa che rapidamente si consumava. Ma si poteva aspettare ancora un po’ prima di accendere la luce. “Potevi venire solo qui, in fondo. Di acqua sotto i ponti per noi ne è ata. Abbiamo avuto una storia noi due, è vero. Interrotta un po’ troppo bruscamente. Siamo andati all’asilo insieme, credi me ne sia dimenticata? Le nostre famiglie sono amiche da sempre. Ho voluto un gran bene a tua madre. Pensi davvero che voglia vederti affondare? Pensi che vedere degli esseri umani a pezzi, tu, lei, la bambina, quel suo sfortunato marito, possa essere per me un indennizzo perché tu mi hai preferito un’altra?”. “In confronto a te, in questo momento, mi sento avventato, irresponsabile. Sono così confuso. Mi sono procurato una storia difficile, rischiosa. Ho fatto soffrire te. Non ho capito, allora, quello che ti stavo facendo. Solo ora so. E così aggiungo altra sofferenza a quella che ho già. Che fallimento, che fallimento!” Lei lo guardò con una luce ironica negli occhi, seduta ritta sul busto, le ginocchia unite. “Non so di cosa tu stia parlando. Chi ha fallito? Tu? Un uomo forte. Hai sempre difeso il tuo mondo, con i piedi ben poggiati a terra. Ma al momento buono hai saputo vivere una gran storia. Romantica persino, quasi drammatica. Hai lasciato me, la fidanzatina sicura, affidabile, senza esitazioni, nel momento stesso in cui i fari della tua automobile hanno fatto balzare sulla scena quella ragazza stordita che piangeva per strada. L’hai soccorsa, sei stato il suo eroe.” “Questa storia, Anna, non è mai somigliata a una favola. E’ stata carica di un’ipoteca sin dall’inizio, di nodi poco comprensibili che stentano a sciogliersi anche adesso. Avrei dovuto averne paura, subito.” “Hai amato, sei stato amato. Hai avuto la forza di accettare il ritorno del marito, di rispettare la scelta di lei, di non fare male a nessuno. Hai vinto il rancore.
Adesso provi il dolore acuto di un ferito che è rimasto vivo. Perché sei vivo, e il sollievo di essere vivi e con le mani pulite alla fine è quello che conta. Non ci sono falliti in questa stanza.” Lui alzò la testa, gli occhi socchiusi. Un soffio di felicità raggiungeva una parte di lui. Anna aveva detto: non ci sono falliti in questa stanza. Allora lo liberava anche dal rimorso che avrebbe potuto nutrire nei confronti di lei? La ferita che lui le aveva inferto non era così profonda, non l’aveva infettata? Lei capì. “Sono rimasta tanto tempo senza più reazioni dopo che ci siamo lasciati. Non avevo la forza di lavarmi, il desiderio di mangiare. Sempre il bisogno di piangere. Lavoravo male, senza pensare, senza capire le finalità di quello che facevo. La sola cosa che riusciva a distrarmi per qualche istante era leggere. Cercavo altre storie di donne, di uomini, non importa se immaginari, bastava che fossero travolti da un destino che non avevano voluto. Leggevo sempre di più, senza neanche accorgermi, e nelle storie che leggevo a poco a poco ho finito col trovare il senso delle cose, che in qualche modo sono tornate a posto, perché cominciavo a comprenderle. E poi, senza neanche rendermene conto bene all’inizio, ho cominciato a voltarmi altrove, verso altri ambienti, altre persone, come una pianta che gira cercando il sole. Ho imparato a vederti per strada, a incontrarti con lei e con la bambina senza sentirmi una vittima e senza percepire te come colpevole perché l’amavi. Anzi.” “Io l’amerò sempre.” “Anche lei ti amerà sempre.” “La bambina mi dimenticherà” “La bambina forse sul momento ti dimenticherà. Ma crescerà, diventerà una giovane donna, poi una donna matura e forse vivrà sino a essere molto anziana. E più gli anni eranno e più guarderà indietro, al ricordo della sua infanzia, più il suo affetto per te tornerà e salirà sempre più alto, per quell’uomo gentile che ha protetto lei e la sua mamma per otto lunghi anni che avrebbero potuto essere pieni di buio. Un uomo che poi ha consentito il rientro del padre nella sua vita, e la riunione dei suoi genitori.” “Mi amerà dici, tornerà ad amarmi quando sarà una vecchia donna piena di ricordi? Un premio di consolazione così piccolo. Io sarò morto e non ne saprò niente.”
“Noi non ne sappiamo mai niente. Non sappiamo chi siamo nella testa degli altri. Eppure anche lì abbiamo una vita e forse qualche potere.” Il buio serpeggiava ormai nel salotto, li avvolgeva. Anna accese la luce. Lesse negli occhi di lui un’espressione riconoscente, capì che era qualcosa per cui era impossibilitato a trovare le parole, un’emozione che lo colmava tutto intero, un’emozione forte e positiva che si rivolgeva verso di lei. “Sono così pieno di gratitudine per te, sei stata un balsamo su ferite aperte. Quello che provo, quello che mi hai appena detto…. Non so dire, non so se lo merito, non so se merito la tua amicizia, non sono neppure capace di ringraziarti davvero.....”. Poi Sergio uscì dal salotto, percorse il breve corridoio, si congedò. Rimasta sola, Anna si permise un’altra tazza di caffè. L’aveva fronteggiato. Si era mostrata aperta e generosa. Ma il suo cuore procedeva a battiti accelerati come in seguito a uno sforzo imprevisto. Aiutarlo a non ferirsi e a non ferire altri le era costato parecchio dal punto di vista emotivo. Forse si sarebbe limitata a ignorarlo se non se lo fosse trovato davanti poco prima in strada mentre gridava e prendeva a calci l’automobile. La gente intorno guardava e sorrideva sprezzante prima di allontanarsi. Lei allora gli aveva chiesto di smetterla, di calmarsi e di salire a casa sua.
IV
Già poche ore dopo l’incontro con Anna, tornato a casa, Sergio avvertiva diminuire il beneficio delle parole di lei. Come un’anestesia che lentamente indebolisce il suo effetto, e lascia salire alla coscienza un dolore sempre più vivo. La giornata si spalancava su una domenica scialba e solitaria che peggiorava la situazione. L’aria si era fatta più fredda, il cielo si presentava grigio, inespressivo. Era un fatto che in quegli otto anni lui e Ioana avevano conservato ciascuno il proprio appartamento, lui continuava a vivere nella casa che era stata di suo padre e sua madre, lei nel monolocale che aveva affittato non lontano, con la bambina. A pensarci adesso, quella decisione di stare ciascuno per conto suo, presa da subito e mai messa in discussione, gli parve ora molto significativa, una porta aperta per eventi futuri legati a un disimpegno, un
sottrarsi, una possibile fuga. Solo da parte di lei? Oggi gli pareva di sì (impossibile averne una certezza assoluta ). L’amore in quegli otto anni gli aveva riempito l’esistenza, aveva dato un senso a ogni suo gesto, era stato un motore che l’aveva spinto a una pienezza e a un benessere a cui non poteva rinunciare senza che tutto gli si sgretolasse in mano. Il sangue gli era circolato felice nelle vene, dormiva sodo e brevemente, per alzarsi sempre pieno di energie. Era un amore da cui non aveva preso, così, semplicemente. Era un amore in cui soprattutto aveva dato. E non gli era costato affatto. Dare amore a quella ragazza lo nutriva di per sé, lo rinvigoriva. E si che non era poi un tipo tanto generoso e disponibile con la maggior parte delle persone. Onesto, si sentiva di definirsi. Gli piacevano i rapporti in cui il dare e l’avere si pareggiavano, pronto a troncare senza ripensamenti ogni situazione in cui le regole del gioco erano eccessivamente aggirate. In ato aveva avuto alcune ragazze che gli erano crudamente piaciute, di cui aveva ammirato magari certi aspetti del carattere o dell’intelligenza, ma con cui aveva giocato alla pari e al momento buono nulla lo aveva indotto a risparmiarle più di tanto. Solo con Anna era stato diverso. Per lei, la sua compagna d’infanzia, aveva sempre provato un affetto autentico e costante. a un certo punto si erano messi insieme, spinti anche da tutto un coro esterno alla prospettiva di un vero e proprio fidanzamento. Anna si era innamorata di lui, se lo prendeva tutto intero senza esitazioni, conoscendone qualità e difetti. A lei piacevano la solidità fisica e caratteriale di Sergio. Si affiancava a lui come una compagna fidata, forte, sempre pronta al sorriso, a sbrogliare la matassa, di qualunque cosa si trattasse. Si volevano bene, forse si completavano. E poi, in un attimo, Sergio aveva conosciuto di sé qualcosa che era sempre rimasto a dormire nell’ombra e che si era risvegliato con una potenza esplosiva, per una visione. Per l’apparizione di una ragazza fradicia lungo una strada battuta dalla pioggia, verso sera. Una ragazza che camminava senza sapere dove andare stringendo fra le braccia un neonato riparato alla meno peggio. Anna aveva meditato a lungo su questo fatto e per molto tempo ne era stata offesa. Si era sentita lasciata indietro solo perché non era entrata nell’immaginario di Sergio con il fascino della debolezza. No, lei era indipendente, organizzata, capace di affrontare la vita con lealtà e senza speculazioni di sorta. Per queste doti era stata amata di meno, invece di essere amata di più. Il cuore maschile di Sergio si era addolcito e commosso per un’altra, perché quest’altra tremava. E lui non sapeva che quel tremito, quei pianti, l’avrebbero irretito e portato lontano. Quando era accaduto ne aveva
subito parlato ad Anna, con inconsapevole trasporto. E come avrebbe potuto non parlarne? Quella sera aveva un appuntamento con lei. Alle otto, certo, alle otto. Era arrivato più di quattro ore dopo, sconvolto, pallido, affamato, scosso da quanto gli era successo, dopo aver accompagnato la ragazza e la bambina a un pronto soccorso e poi a un posto di polizia e poi a una Casa protetta comunale perché potessero arvi la notte e i primi giorni. Anna gli aveva visto quello sguardo. E quello non era lo sguardo di Sergio. Era lo sguardo di uno che ha dietro di sé, sullo sfondo, una vita accettabile e abbastanza soddisfacente, ma che ora sa con più precisione perché vive, uno che ha trovato il suo scopo, la sua finalità, quella più adatta a lui. Uno che stava per mettere a fuoco finalmente la sua crescita personale, che stava per saldare i suoi sogni con la realtà. Uno che cominciava a capire che senso poteva dare alla fatica di dover sgobbare tutti i giorni, uno che stava per superare la noia, la monotonia, il fastidio dei giorni che avano tutti uguali, chiusi, meschini, senza rivelazioni. Ecco, era uno che aveva avuto una rivelazione, che era stato colpito da un fulmine. La prima a capirlo era stata proprio Anna.
V Sergio era sovreccitato, scombussolato, ma non ancora pienamente cosciente che una parte nuova di lui stava prendendo il sopravvento su altre più note. Fu proprio Anna, tormentata dal rischio che iniziasse un processo doloroso di ambivalenza, che lo mise volutamente sulla strada, sfidandolo. “Ne parli come se te ne fossi innamorato” “No, no. Cosa dici. Non la conosco neppure. E lei parla con fatica la nostra lingua. Quando mi sono fermato l’ho spaventata. Tremava e non voleva guardarmi. Ho dovuto parlarle, come si dice? con dolcezza. Non che in realtà io lo sappia davvero fare. Ho dovuto sollevarle il mento con la mano per incontrare quegli occhi imploranti. Le ho messo in mano il mio cellulare perché chiamasse chi voleva. Allora si è fidata”. “E’ bella?” “Sembrava un piccolo animale spaventato” “Ma è bella?” “Non saprei. E’ giovane, delicata. Prima non voleva guardarmi. E poi non mi lasciava più con lo sguardo. All’ospedale, al posto di polizia, per strada, mi cercava in continuazione, con l’espressione di un gattino che è stato salvato”. Anna non aveva più chiesto se era bella. Assisteva al fatto che Sergio stava tirando fuori dal suo essere uomo una dimensione nuova, il bisogno di proteggere una creatura graziosa, fragile, in pericolo, che potrebbe essere crudelmente annientata e che ti si affida. E poiché quella creatura era una donna e Sergio era un uomo, Anna comprese che quella dimensione di generosità, di umanità che Sergio ora mostrava, stava assumendo senza dubbio alcuno la forma di un nuovo modo di essere virile e che per Sergio si apriva la prospettiva di un completamento di sé, infinitamente più robusto e stranamente romantico insieme, una forma di erotismo più convinta e appagante di quello che aveva mai potuto conoscere. Così Anna, senza deliberata volontà né cattiva fede da parte di alcuno, solo per ciechi e avventati accadimenti, era stata messa fuori gioco. Ma Anna non
credette mai alla deliziosa fragilità della ragazza straniera che con questa carta riusciva a tenere in scacco un uomo. Se mai, essa ne vedeva il risvolto, il negativo. Sospettava in quella creatura disordine e debolezza morale. Le sembrava che non avrebbe perdonato mai a Sergio il rifiuto della sua femminilità per specchiarsi in quella di un’altra. Si costrinse a non amare più Sergio. Ma per lunghi mesi avvertì i morsi dello sconcerto, della rabbia, della gelosia.
VI
Non che Ioana Auer fosse poi una donna così inconsapevole. Pur nella disperazione di quella sera, disperazione che era montata dentro di lei come una tempesta per l’apprensione, di più, l’angoscia di non sapere come tutelare la piccola che teneva in braccio, pur tra le lacrime e lo spavento, aveva subito compreso l’effetto che aveva prodotto nello sconosciuto che la stava soccorrendo. A colpo d’occhio, immediatamente, si era accorta di ricevere un’attenzione di particolare calore, pregna di rispetto e di buone intenzioni, per il momento. Negli occhi di quell’uomo aveva letto coinvolgimento e tenerezza, una tenerezza di cui forse lui neanche era consapevole. Ma Ioana sì, se la sentiva addosso, sulla pelle. Lui anzi, per qualche breve tempo, aveva creduto semplicemente di star facendo ciò che qualunque persona civile avrebbe fatto in quella circostanza. Soprattutto perché c’era di mezzo una bambina piccolissima. Come tante altre volte, quella sera stava raggiungendo la propria casa dopo la giornata di lavoro nel capoluogo. La strada che collegava un paese all’altro si prolungava per chilometri attraverso un’area pianeggiante come ovunque domini un coltura risicola. A intervalli si presentava il profilo di una fabbrica isolata, di una carrozzeria, di un magazzino o di una serra, di un edificio dell’Ente Nazionale Risi di epoca fascista. Sergio sapeva che solo procedendo ancora si interrompeva quella monotonia orizzontale con la presenza di qualche dosso, modellato da antiche fiumane, come a Remondò, a Parona o a Scaldasole, e si riprometteva che il primo sabato libero si sarebbe spinto alla Garzaia del comune di Mede o comunque dove resistevano altre paludi nella speranza di poter godersi la vista degli aironi e dei germani reali. Sfilavano sotto gli occhi, ai lati della strada, i campanili di piccole chiese lontane, le torri degli antichi castelli e intanto si faceva buio e Sergio guardava indifferente le nuvole scure, le gocce d’acqua pesanti che cominciavano a battere sul vetro, l’illuminazione scarsa che ingrandiva le ombre inghiottendo le cose reali finché non le si percepiva d’improvviso, essendogli già quasi a ridosso, e forse solo perché si aveva familiarità con il territorio. E se di colpo si materializza una figura di donna che a piedi arranca sotto l’acqua che la colpisce, una figura di donna con un bambino fradicio stretto al petto, come fai a non fermare l’automobile per dare l’aiuto che puoi?
Molto presto Sergio seppe che quella sera non si era trattato solo di un atto di buona volontà, di un impulso umanitario.
VII
Dovette allora ammettere, senza più resistenze interiori, che qualcosa che aveva pensato di governare in realtà l’aveva travolto. Qualcosa dentro di lui, qualcosa di sconosciuto e indecifrabile, lo aveva costretto, semplicemente costretto, a mettere il piede sul freno, e mentre aveva il piede sul freno si sentiva agitato e sapeva che non era prudente ciò che faceva, sapeva che stava per affrontare ciò per cui forse non era attrezzato, che ci sarebbe stato un rimescolamento di carte e contemporaneamente si era detto, pur senza usare le parole, succeda quel che succeda, questa è una cosa che devo fare. E avuto il consenso di tutto se stesso, convergendo le ragioni della mente con quelle delle emozioni, aveva finito di frenare ed era sceso dalla macchina. Ioana Auer provò un profondo sentimento di paura sentendo la frenata decisa e scorgendo la sagoma scura e robusta dell’uomo. Ma non appena aveva avuto la forza di guardarlo, aveva saputo di essere in salvo. E con lei Floriga, la sua bambina. Lui l’aveva portata alla Casa della donna, dove vivevano ragazze madri e donne maltrattate e lì era rimasta per qualche tempo, grata, senza farsi troppi problemi, concentrata solo sulla sua bambina. Si stava ancora ufficializzando l’ingresso della Romania nell’Unione Europea ma Ioana non temeva controlli di polizia: poteva esibire permessi e autorizzazioni in perfetta regola, poteva vantare il suo lavoro di pasticcera. Non aveva forse lavorato sino al giorno prima nella piccola, lindissima, efficiente pasticceria di Torino? Ora, al centro della bufera, si affidava alle opinioni che più volte, in precedenza, Călin Drăgan aveva espresso a voce alta e con convinzione, e cioè che la polizia italiana li avrebbe protetti, date certe condizioni, dalle prepotenze più sfacciate. E Ioana desiderava certamente credere alla bontà di questa affermazione per vari motivi: il primo perché aveva assolutamente bisogno che così fosse, il secondo perché Călin Drăgan era suo marito. VIII
Al Commissariato di polizia dove Sergio l’aveva condotta, dopo che lei glielo aveva praticamente chiesto, aveva raccontato la sua storia, piena di buchi come un groviera, e la giovane poliziotta che verbalizzava e registrava, alzava spesso
gli occhi a fissarla con espressioni d’incertezza, mordendosi le labbra. “Ci hanno preso poche ore fa a forza, lontano da qui, a Torino dove abitiamo. Stavamo attraversando via Berthollet, eravamo a piedi e mio marito mi stava accompagnando in farmacia perché la bambina piangeva da ore. Ha pianto tutta la notte, tutta la mattina, forse per il mal di pancia.” “Va bene, signora. Aspetti. Inquadriamo. Lei e suo marito siete regolari, incensurati. Tutti e due regolarmente assunti, residenza a Torino. Lei 24, suo marito 27 anni. Rumeni. La bambina è nata in Italia? Sì, bene. Allora : chi vi ha preso? E perché?” Ioana incespicava nelle parole e ora sembrava che lo spavento lasciasse posto a una meraviglia senza fine. “Perché? Io sto diventando matta. Non so capire, non posso.” “Ci parli di questi uomini che vi hanno avvicinato.” “Sì. Erano quattro, ma non rumeni. Albanesi, credo. Ci hanno circondato. Da come si è comportato Călin ho pensato che ci tenessero sotto il tiro di una pistola, ma non so bene. Sono scesi da due macchine diverse. Ci hanno costretti a salire su una macchina e due sono saliti con noi. Călin ha dovuto sedersi davanti, di fianco all’autista. L’altro gli si è messo dietro e teneva me vicino. Io avevo la piccola in braccio.” “E gli altri due?” “Sono saliti sull’altra vettura. Poi siamo partiti, una macchina seguiva l’altra.” “E’ in grado di dirci la direzione?” “All’inizio hanno preso la strada verso la Val di Susa, ma hanno cominciato subito a litigare sui cellulari con qualcuno, così hanno cambiato la direzione. Hanno preso l’autostrada per Milano e al casello d’uscita di Novara c’è stato un cambio: dalla macchina che ci seguiva uno è sceso, mentre sono saliti altri due che erano già lì ad aspettare. a un certo punto mi hanno costretta a scendere con la bambina lungo una strada con a fianco solo campi. E sono ripartiti veloci, portandosi via mio marito. Ho sentito dire: Pavia. Forse è lì che poi sono andati.”
“Vi minacciavano?” “Io non lo so. Parlavano a mio marito, nella loro lingua, e ho capito che lui aveva paura. Mio marito capiva cosa dicevano. Parla un po’ l’albanese.” Poi Sergio avrebbe saputo che Călin Drăgan parlava quasi discretamente l’italiano, il russo, il tedesco e l’inglese. Oltre a quanto pareva l’albanese e ovviamente il rumeno. Uno strano immigrato. Uno strano, stranissimo immigrato.
IX
Sergio aveva subito cercato di raccogliere meglio le informazioni, di mettere un po’ d’ordine. Bisognava intendersi: non che Călin Drăgan fosse un poliglotta acculturato. Veniva dal villaggio di Braze , dove aveva trascorso l’infanzia. Più tardi aveva frequentato il ginnasio sino a quindici anni ma aveva abbandonato la scuola appena ottenuto il certificato di idoneità. A sedici anni aveva seguito a Bucarest uno zio che era dentro fino al collo in piccoli strani traffici, diurni e notturni, con turisti europei e mediorientali di aggio e da cui lui aveva imparato un vocabolario di base, buono solo per il parlato, di varie lingue. E questo, un paio d’anni dopo, gli aveva consentito di avere un colpo di fortuna, dal momento che era stato accettato come fattorino e qualche volta anche come corriere all’Hotel Central. Il giovane Călin fiutava l’aria, spiava con il fiato sospeso i clienti stranieri. Il giovane Călin era apprezzato dai clienti tedeschi, inglesi, italiani e non solo, perché imparava presto espressioni della loro lingua, più o meno capiva, e si ingegnava a rispondere. A diciannove anni il giovane Călin maturava sempre più l’impressione che la Romania tutta fosse un pantano, che lo zio si trovasse molto bene in quel pantano e che si fosse perfettamente adattato. Il giovane Călin nutriva il sospetto ogni giorno più forte che lui non potesse adattarsi. Periodicamente tornava al suo villaggio. A Braze l’aria era più respirabile, si vedevano i giochi dei bambini all’aperto, gli uomini e le donne si accapigliavano per discussioni fra contadini ma tutto appariva più comprensibile, più trasparente. Călin era invitato in ogni casa per scrostata e malandata che fosse, a bere il caffè alla turca o l’acquavite di prugne. La loro ospitalità era puntuale, costante, commovente, a ogni ritorno di Călin e di chiunque. Ma Călin si rivoltava. Vedeva senza potersi ingannare i bambini malnutriti, il sorriso sdentato degli adulti ancora giovani, l’ubriachezza degli uomini per vincere la fame, la fatica, la demolizione di troppi sogni, il fallimento di ogni promessa di felicità sociale. Călin se ne voleva andare. Ma non da solo. Aveva conosciuto Ioana a Bucarest. Lei veniva da Craiova ed erano sorprendenti le sue affinità con Călin. Se Călin era magro, così che se pur di statura media sembrava più alto, se Călin aveva capelli castano rossicci e occhi celesti, se nell’insieme appariva un giovane pallido e controllato, Ioana era sottile con lineamenti molto fini, così delicati da dar l’idea di avvizzire in fretta, con capelli castani appena più scuri di
quelli di lui e occhi celesti di un celeste appena più intenso. Călin era un tipo tenace che guardava lontano, che poteva distogliere gli occhi da ciò che guardava senza perderlo di vista. E Ioana, a dispetto della sua apparente fragilità, aveva una sufficiente riserva di immaginazione e coraggio. Lavorava in una pasticceria e viveva con due amiche in una stanza alla periferia di Bucarest nord. Călin se ne voleva andare da quando suo zio Gheorghe aveva conosciuto Marco Dilani, e precisamente voleva andare in Italia. Ma aveva conosciuto Ioana, se ne era innamorato perdutamente, e questo lo tratteneva. Teneva d’occhio però i movimenti dello zio con l’italiano.
X
Marco Dilani compariva a Bucarest, lui o un suo uomo, una volta la settimana, con un Tir vuoto che riempiva di sacchetti di plastica stipati in scatoloni e poi riprendeva la strada del ritorno. La sua ditta, la Dilplast, aveva organizzato a Bucarest un capannone con una quarantina di operai rumeni che lavoravano a cottimo per confezionare sacchetti in plastica che venivano distribuiti in Italia presso supermercati, ospedali, grandi centri. Gli operai rumeni a Dilani costavano ben poco, la convenienza era straordinaria. D’altro canto il poco che lui dava era molto per la vita in Romania e ogni singolo operaio era soddisfatto. In ogni caso quell’attività era pulita dal punto di vista legale e Călin, che non si era mai fidato di altri commerci e contatti dello zio, si era invece fatto avanti per lavorare nel capannone di Dilani. Dopo nemmeno un anno e mezzo aveva ottenuto l’incarico di guidare il camion portando lui in Italia, con scadenza quindicinale, i sacchetti di plastica. Dopo sei mesi di quella vita era sbarcato in Italia per restarci. La Dilplast l’aveva assunto trattenendolo a Torino perché Marco Dilani aveva capito che avrebbe potuto disporre di quel ragazzo in modo molto proficuo. Il fatto che, bene o male, riuscisse a comprendere e a parlottare più lingue gli tornava assai comodo. Il fatto che si mostrasse pieno di entusiasmo, di buona volontà, e nel contempo docile e privo di grilli e rivendicazioni salariali a ogni piè sospinto, gli tornava pure assai comodo. Călin Drăgan lavorava ininterrottamente e viveva di nulla: meravigliato di avere una stanza calda tutta per sé in un vecchio appartamento abitato da altri connazionali, contento del servizio igienico in casa, dell’acqua calda centralizzata, della televisione e di due pasti caldi al giorno. Si era affidato a una agenzia di turismo torinese che aveva uno sportello specialistico, a cui ricorrevano gli immigrati per rimandare le loro rimesse in patria: parte del salario Călin lo mandava alla madre e alla sorella down rimaste a Braze. Ma un’altra parte di salario, consistente, la mandava a Bucarest, a Ioana Auer. Lei doveva organizzarsi per raggiungerlo, e Călin era disposto a rischiare quel denaro, anche di più, perché lei potesse farlo. E ogni sera pregava perché lei volesse farlo, perché lo fe davvero, perché non gli voltasse le spalle.
XI
Ioana aveva acciaio nel carattere, a dispetto del suo apparire tanto esile. Nutriva feroci aspettative nei confronti di un uomo. Che ci fossero cose che non era disposta a perdonare Călin l’aveva appreso quasi subito. Non aveva mai potuto avvicinarla se non si era lavato e strofinato alla perfezione e sapeva che lei non tollerava il linguaggio greve, volgare. Più di tutto Ioana disprezzava sino a trovarla ripugnante la puzza dell’alcool. Suo padre beveva ancora prima di metterla al mondo, beveva in maniera smodata, irriflessiva, automatica, crudele. Sua madre veniva battuta quasi tutti i giorni, lui le procurava gravidanze e aborti, qualche volta singhiozzava abbandonato su una sedia o se ne stava nascosto in un angolo per ore. Finché era accaduto che il padre con la sua faccia sempre gonfia se n’era andato, era sparito, chissà dove, nessuno l’aveva cercato né denunciata la scomparsa, e la madre rimasta con una bambina e una gran confusione e quasi senza pane, aveva cominciato a bere anche lei e ad addormentarsi attaccata alla bottiglia a tutte le ore nel letto sempre sfatto, fissando la figlia al risveglio con espressione inebetita e dimentica. Era stata la nonna paterna a occuparsi della bambina. Ioana l’aveva scolpita nel cuore e nella mente: una donna magra ma più alta della mamma, sempre vestita di nero, con la pelle bruciata dal vento, con uno sguardo fermo, scuro, quasi cupo. Era una donna agile come uno scoiattolo, silenziosa e veloce nei campi e nella casa, dove si affaccendava ostinatamente. Cucinava per Ioana molti tipi di dolci, badava che andasse a scuola, le raccontava storie di draghi, di lupi, vampiri e regine che sfociavano sempre con maestosità e convinzione in un lieto fine. La nonna possedeva un dono meraviglioso: nei momenti di tristezza e di nostalgia interrompeva qualsiasi lavoro stesse facendo e si rivolgeva tranquillamente a Dio, lo chiamava in causa, gli parlava e Dio le rispondeva. Erano le preghiere della nonna. A volte riprendeva le sue attività continuando a essere in comunicazione con Lui. Ioana allora la vedeva diventare più bella, più dolce e serena. La sera anche lei pregava con la nonna e le riusciva difficile capire da dove poi venisse tutta quella consolazione, quel balsamo, quell’abbandono fiducioso, dal momento che le cose quotidiane non cambiavano per niente. Ma era un fatto che lassù nei cieli avevano un amico. La morte della madre non interruppe la litania di fiabe e zuppe che cullò Ioana sino al suo quattordicesimo anno. Solo, la nonna e Ioana
pregarono ancora di più. Fu quando la nonna morì che per Ioana si spalancò veramente l’inferno, le entrate e le uscite che si mordevano la coda nel giro degli orfanotrofi, caserme minorili infestate da plotoni promiscui di bambini e adolescenti attraversati da una insostenibile infelicità che si diffondeva senza ritegno, contagiosa e cieca, irriducibile come una peste medioevale. Ma Ioana era approdata in quel precipizio più tardi di tanti altri, ben oltre la prima infanzia, che pure era stata di solitudine, con le sue ombre e i suoi smarrimenti. All’orfanotrofio lei era giunta comunque vaccinata. La nonna aveva fatto in tempo a trasmetterle calore umano, le aveva mostrato la forza. Da lei Ioana aveva succhiato come una linfa la capacità di usare la volontà e i desideri per imporsi sul tradimento, le delusioni e la fame. La nonna l’aveva nutrita e le aveva insegnato a sognare; a scoprire la luce della speranza staccando gli occhi da terra. Per tutti gli anni che era stata in orfanotrofio Ioana aveva pregato e aveva creduto nelle preghiera. La preghiera l’aveva placata quando aveva avuto ancora fame, le aveva restituito dignità quando era stata umiliata. A diciotto anni aveva sentito chiudersi per sempre le porte degli istituti alle sue spalle e non aveva avuto paura del nulla che le si dispiegava davanti. Stringeva i denti, Ioana. Voleva liberarsi da tutto quel cumulo di dipendenza e di abbattimento, ben decisa a non essere più vittima. Il suo ruolo non sarebbe stato quello di una preda. Mai. Avrebbe lavorato sino a morirne e sarebbe stata eccellente nel suo lavoro: nessuno avrebbe cucito perfettamente come lei, nessuno avrebbe cucinato con più cura, oppure nessuno sarebbe stato migliore come dattilografa o nell’allevare galline. Ioana era testarda, presuntuosa, giovane e piena d’orgoglio. Aveva istinti di fuga e di rivalsa. Voleva andarsene dalla Romania. Anche se non sapeva come fare. Ma se mai fosse riuscita ad andarsene, di una cosa era assolutamente certa: non sarebbe mai più ritornata, neppure per una volta. Non si sarebbe mai più voltata indietro. Aveva bisogno di spazi luminosi, di un sole caldo, di vestiti nuovi sulla pelle. E aveva bisogno di ridere.
XII
Ogni volta che Sergio pensava a Călin lo stomaco gli si bloccava. Era la presenza invisibile della sua vita, la più scomoda, la più fastidiosa e inopportuna. Călin era il padre di Floriga, la bambina che lui stava crescendo. Scacciava il pensiero. Dov’era Călin? Sparito, sparito quella stessa sera che lui aveva raccolto Ioana. Mese dopo mese, anno dopo anno, il tempo era trascorso pesante, inesorabile. Eppure, tracce lievi, indizi, sussurri intorno a loro lasciavano intendere che Călin era vivo, che se pur sequestrato, sarebbe potuto tornare inaspettatamente, dentro quella vita che ormai aveva preso il suo corso e che era tutta occupata da Ioana, da Floriga e da Sergio. Sì, era così. Quando si riunivano, a tavola, c’erano tre posti. E il terzo posto era di Sergio. Anche Ioana ora, licenziata da Torino, lavorava a Mortara, commessa in una merceria. E parlava ormai bene l’italiano, ma non come Floriga, perché aveva conservato uno strascico nell’accento, nel modo di formare le parole. Erano felici, loro tre. Quando erano insieme ridevano spesso e la bambina aveva lo stesso spazio di ascolto e di intervento dei due più grandi. Ma Ioana non aveva mai accettato di coabitare con Sergio. Da prima perché era ancora viva la madre con cui Sergio divideva la casa. Poi perché si era abituata al monolocale che aveva affittato. Infine per l’orgoglio e la gioia di essere riuscita a stipulare un mutuo bancario per l’acquisto della piccola abitazione. Il monolocale era diventato per lei il segno visibile del suo riscatto, dell’integrazione e della stabilità. Oltre Sergio, oltre gli stessi sogni che aveva osato fare a occhi aperti. Ora lei e Floriga avevano un posto nel mondo, avevano un ruolo e un nome. Qualunque cosa fosse accaduta. Il monolocale era la felicità, l’euforia, la riserva d’oro, la garanzia della giovinezza e della salute, l’eredità, la piccola patria. Il monolocale era spazio politico e morale, la geografia fisica e culturale, l’esclusiva di Ioana e di Floriga. Fuori era l’esilio. Fuori era lo spazio denso di pericoli, la strada su cui Ioana doveva camminare sotto la pioggia senza sapere dove andare, stringendosi la sua neonata. La sera Sergio si trasferiva nel monolocale e spesso dopo aver cenato si fermava anche la notte. Ma non sempre. Però aveva le chiavi. Perché era l’uomo di Ioana
e faceva da padre a Floriga. E Ioana e Floriga gli erano assolutamente devote.
XIII
A volte Sergio, con circospezione, tastava il terreno con Ioana. Qualcosa nel contegno di lei, qualcosa di irriducibile, come un’improvvisa serrata delle emozione e dei sentimenti, gli impediva di essere franco ed esplicito come avrebbe voluto, come avrebbe avuto bisogno di essere. Un bisogno che lo prendeva alla gola e che lui cercava di dominare oltre che per lei, anche per sé, per non esserne sopraffatto. Ma davvero Ioana, davvero non riesci a immaginare tutto il retroscena, i motivi, anche i più superficiali, per cui Călin ha subito l’aggressione? Pensi sia ancora vivo? Pensi sia in pericolo di vita? Cosa pensi Ioana, cosa pensi? Aveva dei nemici, dei debiti? Era uno che parlava troppo rispetto a quanto aveva visto o conosciuto? Forse frequentava persone particolari, di nazionalità disparate, con un tipo di vita un po’ sopra le righe. Tutte quelle lingue conosciute, un mediatore che camminava forse sul filo dell’illecito, mai colto sul fatto, un interprete troppo ricercato e controllato da gruppi di stranieri ambigui, ladri, truffatori? Ioana scuoteva la testa, si torturava le mani. Sergio aveva sempre cura di non abbandonarsi a quelle domande tormentose in presenza della bambina. Poteva arrivare sino a una certa soglia, finché Ioana desiderava corrispondergli, poi doveva arrestarsi. Ma no Sergio, no. Călin è la persona più mentalmente e moralmente pulita che conosco. E’ come te. Non l’avrei mai seguito altrimenti. Posso innamorarmi solo di questo tipo di uomo. E Ioana riava tutto il suo film.
XIV
Rimasta da sola a Bucarest, dopo la partenza di Călin, Ioana aveva utilizzato il denaro che il suo uomo le inviava per organizzarsi al meglio la partenza definitiva e desiderata. In patria non aveva più alcun legame e nessuno da risarcire. Il suo futuro stava altrove, su un altro territorio e in un’altra storia. Così un giorno aveva raggiunto Călin a Torino. Piazze e strade di quella città l’avevano turbata, quasi commossa. Vivevano in una casa di ringhiera ripulita e arredata con tutto il necessario. A distanza di pochi metri erano visibili altre case di ringhiera, degradate, che si alternavano a palazzi ottocenteschi affrescati con un bell’ingresso e bei giardini. Nel quartiere i marciapiedi non riuscivano a nascondere la presenza delle siringhe usate dai tossici buttate tra le cartacce e le lattine, eppure gli stessi marciapiedi venivano puliti tutti i giorni accuratamente. Ma subito risporcati con compulsione, come uno sfregio. Nella loro via si aprivano dei locali che liberavano gli stessi odori di fritto e di spezie e che servivano indifferentemente pizza e kebab. Ma era verso sera che l’atmosfera si incupiva, tutto assumeva uno spessore sgradevole: gli sguardi, la velocità dei i, l’immobilità strategica di singoli e gruppi, la comparsa di maghrebini e nigeriani che sparivano durante il giorno. Quando si faceva decisamente più buio, i clienti dei pusher cominciavano a pulsare fra certe strade e certe palazzine che diventavano una sorta di zona franca, d’interdizione, dove la promiscuità e la droga potevano scatenare reazioni incontrollabili fra i clandestini e gli spacciatori. La polizia ava con regolarità troppo prevedibile davanti ai portoni, rallentando e regolando le Maree d’ordinanza a o d’uomo. Allora al traffico convulso di pochi attimi prima che sarebbe ripreso pochi minuti dopo, si sostituiva una sorta di pausa artificiale, una sospensione di cui comunque si avvertiva l’affanno e si era costretti a guardare con sospetto la posa indifferente e la lentezza di gesti degli immigrati che, ben visibili, si affacciavano a fumare sui ballatoi. Ioana a volte si guardava intorno un po’ allarmata, in preda a dubbi e apprensioni. In modo particolare quando seppe di aspettare un bambino.
XV
Una volta i carabinieri erano entrati nel quartiere nel pieno del giorno, a sorpresa. Una soffiata. Pattugliavano le strade a decine e i baby pusher avevano tentato di nascondersi nei condotti delle fogne che dal Valentino portavano a via Ormea. I capi banda avevano inventato il diversivo delle telefonate con falsi messaggi per distrarre la polizia. “C’è un uomo a terra ferito con una coltellata in via Marconi”. “C’è una sparatoria nei pressi del Politecnico” , ma la polizia non si era dispersa a sufficienza e più di cinquanta persone erano finite con le manette ai polsi. I residenti si erano chiusi e asserragliati nei condomini seguendo lo spettacolo spaventati. Călin no. Călin era sceso in strada, assistendo a quanto avveniva senza arretrare di un o, sovraesposto e a suo modo soddisfatto. Non aveva pronunciato una sola parola ma era impossibile equivocare l’espressione intera del suo volto, del portamento, del più profondo dei suoi occhi. E qualcuno forse lo aveva notato. Poi Călin aveva alzato gli occhi scrutando con insistenza, quasi provocatoriamente, le finestre dietro cui gli italiani residenti avevano seguito l’intera operazione. Certo stavano rintanati, approvando da lontano, senza essere intervenuti, senza aver denunciato lasciando nome e cognome alla polizia, perché quella non era la loro operazione. No, quella era stata l’operazione di un uomo che stava imparando ad amare in maniera disperata la sua patria nuova, un uomo che era fuggito da una terra altrettanto amata ma disordinata, provata e corrotta; un uomo che voleva rifarsi una vita ricca di dignità per cui la sua bambina non avesse mai occasione di vergognarsi e di avere paura, un uomo che si batteva per i suoi valori e per i suoi sogni. Un uomo che sapeva lavorare duramente, resistendo alla fatica, un uomo che sapeva ascoltare, interpretare e capire anche poche battute sentite per caso in lingue diverse che davano appuntamenti di morte e tramavano danno a innocenti. Un uomo che non era più disposto alla tolleranza di porcherie e di violenze. Un uomo che non aveva paura di testimoniare. Quella era stata l’operazione di Călin. Quando, molto tempo dopo, ad Anna era stata riferita questa storia nei suoi particolari, essa aveva ripensato con un piccolo brivido a quanto aveva letto
nelle pagine di un libro di Elias Canetti. Nei tempi ati i mercanti viaggiavano con tutto il loro denaro in piccole borse legate intorno alla cintola, e non se ne separavano mai. Così viaggiava anche il nonno di Elias Canetti sui battelli del Danubio. Una volta, il nonno Canetti, che parlava se pur male e in modo raffazzonato varie lingue, aveva udito due uomini parlottare mentre era a dormire in coperta. E aveva riconosciuto, lui bulgaro, la lingua greca. I due uomini stavano progettando a mezza bocca un omicidio, avevano in mente di assalire un mercante nella sua cabina, ucciderlo, rubargli la sua grossa borsa piena di soldi, gettare il cadavere nel fiume attraverso l’oblò, e poi, quando il battello avesse attraccato, scendere rapidamente a terra e scappare. Ma il nonno Canetti era andato dal capitano e gli aveva raccontato quel che aveva udito in greco, così che il mercante fu messo in guardia e ai due delinquenti fu appostata una trappola. L’aver accostato Călin al suo mondo letterario ideale, era stato per Anna l’inizio di un moto di stima alto per quell’immigrato di cui lui non poté neanche mai avere sentore.
XVI
Nei giorni delle olimpiadi invernali la bellezza di Torino era sbocciata come un fiore delicato e resistente. Torino la classica, la raffinata, la misteriosa. Erano sbucati i torinesi, quelli autentici, quelli radicati, colmi di memorie, dal tratto pudico, qualche volta elegante. Ed erano tanti, incredibilmente tanti. Avevano tutta l’aria di voler conservare la città e di volerla difendere come un vaso fragile e prezioso, di volerne proteggere l’integrità, l’identità più profonda e nascosta. Si intuiva che soffrivano se il volto della città amata veniva ferito o il suo cuore offeso. Călin osservava con intensità e stupore questi figli naturali di Torino mentre sciamavano con compostezza ma lietamente, allegramente, nelle belle vie ampie e regolari frammisti agli stranieri che per l’occasione assolutamente imperdibile erano sbarcati da tutto il mondo. Călin avvertiva i guizzi di gioia, l’orgoglio, la ione civile, i fremiti per tutta quella gioventù meravigliosa che si spendeva nelle gare. Tutto appariva splendido, fulgido. Questa volta ciò che luccicava era oro. E Călin si innamorava. Sceglieva Torino con una conversione convinta di sentimenti. La sceglieva per sé e per Ioana e per Floriga. Era in quella Torino che voleva radicarsi. Un figlio adottivo era figlio in modo diverso, ma non meno figlio. Anzi. Se lui sceglieva Torino, se la città sceglieva lui, la cosa sarebbe stata piena, perfetta, senza smacchi, andava oltre il fatto inamovibile che i genitori non scelgono i figli e i figli non scelgono i genitori e gli tocca legarsi a vicenda così come si trovano. Sull’onda di quell’amore così visibile che i torinesi mostravano, anche lui si era messo ad amare, a desiderare. Forse un giorno Floriga sarebbe tornata nella loro patria d’origine per qualche possibile richiamo, si sarebbe forse commossa alle esecuzioni dell’orchestra filarmonica all’ateneo romano di Bucarest, si sarebbe forse stupita per la suggestione dei castelli e dei monasteri, l’estensione dei boschi; avrebbe forse apprezzato e gustato le minestre acide e la carne tritata avvolta in foglie di cavolo con la panna e la mostarda dolce di frutta. Forse Floriga. Ma Călin avrebbe chiesto a Ioana il battesimo di una patria di elezione, la grazia di ricominciare e poi continuare una nuova vita, il riscatto di un’adolescenza che era stata priva di tante cose, ma soprattutto di speranza. Ecco, Torino era questo per Călin: l’affacciarsi di una speranza nuova. Una promessa vera e propria.
XVII
Ma poi le Olimpiadi erano finite. Torino era rimasta anche dopo come più ricca e illuminata, pur nella privazione di quelle centinaia e centinaia di giovani dai volti estasiati e dal fisico perfetto che si erano sfidati per un primato, pur nello smantellamento generale di strutture e di bandiere. I gruppi artistici e musicali che avevano animato ogni via della città nei giorni delle gare divenivano via via più esigui; i torinesi, pur accompagnati da una residua felicità sottile tornavano alle loro abituali occupazioni, a lamentele e segnalazioni sul funzionamento non sempre puntuale degli ospedali, delle poste, della viabilità, dei teatri. Si tornava a discutere di conti, di bilanci, di fondi che non erano mai sufficienti a coprire tutto: la famosa coperta che ognuno tirava dalla sua parte lasciando un altro scoperto. Călin e Ioana lavoravano di buona lena perché tutto sommato lo stipendio arrivava regolare, qualche straordinario lo facevano ed era pagato, in più Floriga aveva il suo posto all’asilo nido. E poi l’avrebbe avuto in una bella scuola italiana. L’Italia manteneva le prime promesse. Călin aveva fiducia nelle istituzioni.
XVIII
E poi, naturalmente, i Murazzi e Porta Palazzo erano tornati fuori controllo. Verso sera erano più facili i commerci clandestini e le scorribande criminali. Ma fu in un pomeriggio di luce che un gruppo malavitoso, nutrito, circa quindici individui che si erano messi insieme in modo scellerato, (per sfregio, per provocazione?) avevano sequestrato un bambino, l’avevano picchiato e gli avevano strappato dai piedi le scarpe griffate a due i da Piazza Vittorio. Călin l’aveva saputo quasi subito. Si diceva di una banda di giovanissimi, forse albanesi, forse italiani. E la notte stessa in Corso Cairoli accadde qualcos’altro a turbare e a esasperare gli animi: ancora una banda giovanile numerosa che qualche ora dopo la mezzanotte si era appostata nella via, a gruppi di due o tre dentro gli androni, negli spazi bui dei garages sotterranei. Gli abitanti che per qualche motivo erano usciti dalle loro case, dovevano pur rientrare. In quale luogo migliore attenderli, se non davanti alla loro porta? E così tra l’una e le tre del mattino due coppie, una mentre saliva le scale con le chiavi in mano, l’altra appena uscita dalla macchina nel cortile sul retro del condominio, vennero picchiate e rapinate. Più tardi si compì l’ultima bravata: alle cinque del mattino, quando ancora cinque o sei membri della banda, troppo giovani, troppo eccitati di droghe e alcol e di una loro specifica follia, non potevano ritirarsi, non potevano prendere sonno, scendere a patti per un’ora di pace. Aggredirono una donna. Una donna sventata, una donna sola per strada a quell’ora. Una donna senza il senso della realtà. La fecero cadere sul marciapiede, il viso inondato di sangue, le strapparono la collanina d’oro che portava al collo. E gli anelli delle dita, dopo averle dato un morso in faccia.
XIX
E poi filtrò luce, schiarì. Albeggiò su una Torino livida e sfregiata, frenetica di spaccio per tutta la notte sulle vie intorno a Piazza Vittorio, una Torino ancora commovente e perdutamente bella nonostante tutto, nonostante si vendesse l’anima insieme alla cocaina al Monte dei Cappuccini. Sembrava tutto finito, almeno per il momento. Ma ci fu ancora qualcos’altro, come un ultimo atto, una verifica pesante che doveva attuarsi sul campo, nel quartiere sfinito, nella mattina già avanzata. Una pattuglia di tre militari aveva fatto incursione, aveva ispezionato con furore meticoloso la zona e poi infine aveva stanato due maghrebini in Via Cottolengo e li aveva arrestati. Come per magia, come da un teatro dietro le quinte, erano sbucati però una dozzina di extracomunitari decisi a liberare i loro connazionali. Non si capiva se avevano armi da fuoco, ma sembravano molto sicuri di sé, intraprendenti sino all’estremo. Călin, come altri che si avviavano al lavoro, era per strada, e tutti si erano fermati con il cuore in gola a osservare la scena che ondeggiava davanti a loro, con i militari in difficoltà e i maghrebini minaccianti. Altra gente si fermava, si accalcava. Qualcuno tornava indietro, di corsa. Călin fissava quanto vedeva con dolore, con rabbia. Dopo tutto, forse, non esisteva sul pianeta un posto dove la sua bambina non avrebbe mai dovuto provare vergogna o paura. Perché divorare la terra con i suoi spostamenti, correre più a sud, più a nord, più a est o a ovest, caricando di illusioni un qualsiasi luogo che di per sé era neutro, indifferente, quando non ostile? La terra promessa è solo un sogno dei popoli, un desiderio pericoloso dell’uomo, pronto a lottare per un fantasma. Bisogna continuare a camminare, camminare, camminare senza fermarsi mai, altrimenti si impazzisce. Se ti fermi, pensava Călin, il sogno evapora, svanisce e vedi la realtà che resta: la confusione umana, la sua ferocia. Ma proprio quando l’umiliazione lo stava invadendo senza più ritegno, Călin, sobbalzando, notò qualcosa che stava accadendo, qualcosa che andava a mutare lo scenario.
XX
Numerosi uomini si avvicinavano al gruppo in lotta con espressioni tese. Erano italiani che abitavano nella zona, decisi ad assicurare i due arrestati alla giustizia. Erano stanchi di stare a guardare alle finestre. Esplose un gran tafferuglio, il rumore delle botte e degli insulti atterriva. I maghrebini forse davvero non avevano armi da fuoco e sembravano rimpiccioliti, sorpresi da una furia, da una rivolta che non si erano aspettati, sembrava quasi si sentissero traditi. E finalmente si dispersero, mollando la presa, lasciando i due arrestati in arresto e tutto il luogo senza fiato ma tranquillizzato, era finita. Solo allora Călin si era accorto di essere stato in mezzo alla mischia, di aver dato botte e di averle prese, per Torino, per sé, per Floriga. “Vigliacchi, fascisti!” Altri italiani erano sopraggiunti e urlavano al bordo della strada, giovani, si sbracciavano, quasi melodrammatici. Uno si trovò faccia a faccia con Călin: “Razzista, vigliacco! – gli urlò- Perché te la prendi con gli immigrati che devono arrangiarsi per vivere? Tu, bello mio, hai solo garanzie e i piedi al caldo e aiuti la polizia contro i poveracci che non hanno scelta!” Călin ascoltava tutto sudato, con le pupille dilatate, fissate negli occhi dell’altro, con il cervello in fiamme. Era terribilmente teso. Forse pensavano fosse un italiano? Si sforzava in tutti i modi di capire. Non si sentiva offeso. Avrebbe anche voluto spiegare, rispondergli, presentare i suoi argomenti e la storia della sua vita. Eppure d’improvviso percepì l’assoluta inutilità di un simile intervento. Perché, veramente, Călin non capiva il senso di quel discorso. Se avesse tentato di rispondere, avrebbero finito col fare due discorsi talmente diversi che sarebbero scorsi paralleli, non si sarebbero incontrati mai. E come poteva essere altrimenti? Bastava pensare che, primo, partivano da premesse profondamente diverse che influenzavano tutto il contenuto e la forma dei loro ragionamenti; secondo, la loro storia esistenziale era altrettanto diversa. Călin era proprio un immigrato, un genere di immigrato che aveva già sperimentato ogni tipo di retorica e ipocrisia sociale della politica europea, si dibatteva in acque profonde, prima doveva uscirne e poi forse avrebbe potuto parlare e ribattere. L’altro parlava da un megafono con una gran voce, parlava in generale stando in superficie ma sicuro e soddisfatto di sé poiché si sentiva generoso; terzo, la verità era che i discorsi erano così diversi perché tutti avevano fatto,
rifatto, giustificato e fondato le loro scelte ed erano quasi ormai impossibilitati a cambiarle : i maghrebini arrestati, quelli che li volevano liberare, gli italiani dietro le finestre, gli italiani che si erano schierati, il giovanotto pacifista e terzomondista e naturalmente anche lui, Călin.
XXI
Călin raccontava sempre tutto a Ioana, la sera. Lei ascoltava con vera avidità. Quel marito le rendeva più interessante la vita. Nella panetteria-pasticceria torinese dove aveva trovato lavoro, Ioana vendeva al banco ma faceva anche i pasticcini, i clienti più o meno erano sempre gli stessi e le donne quando entravano si fermavano a chiacchierare con la titolare. Ioana faticava un po’ a parlare la lingua, anche se capiva molto bene. Così parlava poco ma ascoltava le chiacchiere che la distraevano. Altrimenti pensava sempre alla bambina, al suo asilo nido, alla direttrice e alle assistenti che nell’asilo ruotavano, alle pappe, ai sonni, alle febbri. Pensava anche ai fantasmi dei suoi genitori lasciati in Romania. A qualche amica dell’adolescenza. Alla freddezza della vita che costringe ciascuno a lottare per sé. E se una madre doveva lavorare, una bambina doveva imparare a stare al nido.
XXII
Ioana condivideva i suoi ricordi e le sue paure con Sergio, gli parlava di sé e di Călin senza chiusure e senza riserve, almeno sino al giorno del sequestro. Ma quando Sergio chiedeva in modo diretto: “Hai notizie di Călin, ora? Le tue ricerche hanno fatto trapelare qualcosa?” finiva che Ioana rispondeva con incertezza, a monosillabi. E poi quasi si ammutoliva, alzava uno steccato. “Ioana, hai detto alla polizia tutto quello che potevi dire?” Lei si rianimava. “Sì, certo che sì. Tutto quello che potevo dire, cioè tutto quello che sapevo. Anche degli albanesi che vivevano sotto di noi, gente che saltuariamente lavorava, poi spariva per un po’, poi tornava. Avevano cercato di ingolosire Călin parlandogli di denaro facile. Credo che rubassero auto inviandole oltre confine, soprattutto per i pezzi di ricambio. Ma dopo i tafferugli per i maghrebini arrestati hanno cominciato a guardare Călin con ostilità, a non salutarlo più. Lo consideravano una spia. Una volta, sul ballatoio davanti alla nostra camera da letto abbiamo trovato un uccello morto. E un’altra volta un gatto forse strangolato. Abbiamo cominciato a pensare che fossero dei segnali. Io ero molto spaventata, e anche Călin mi sembrava depresso.” “Temi per la sua vita? Potrebbe essere stato ucciso?” “Io non credo. No. Credo sia vivo:” “Ancora sequestrato?” “Io non so, Sergio:” “Potrebbe tornare?” “Io non so, Sergio.” “E se tornasse, Ioana?” Ioana si rifugiava tra le sue braccia lasciandosi stringere sino a che le mancava il fiato. “Oh, Sergio. Se non ti avessi incontrato, io avrei perso la ragione. Adesso per favore andiamo a prendere Floriga.”
XXIII
Ioana navigava a vista. Conoscenti rumeni che erano venuti a vivere in Italia e mantenevano i contatti con lei, avevano mosso mari e monti tra le piccole comunità di immigrati dell’est, avevano cercato confidenze e indizi. E in tutto questo travaglio e questo cercare, a dire la verità, dopo un paio di mesi dalla scomparsa di Călin, a Ioana era stata fatta recapitare una busta che conteneva un biglietto di lui. Di lui! Un biglietto fortunoso inviato al vecchio indirizzo messo in dubbio da un punto di domanda.(Dove scrivere a Ioana? Era tornata nella casa di Torino? Si era allontanata?). In quel momento lei si appoggiava a Sergio quasi completamente, stava maturando in lui fiducia e confidenza, si sentiva protetta dalla sua presenza. Ma non vi era altra intimità tra loro due, allora, anche se lei gli percepiva uno sguardo a volte troppo caldo. Pensò di non dovergli dire di quella missiva. Călin era vivo. Non propriamente sequestrato. Più che altro sottoposto a un ricatto ignobile. Perché il mondo è piccolo e lui non aveva proprio individuato, a Torino, i suoi compaesani complici del gruppuscolo albanese che trafficava in auto rubate e quando capitava, in armi. Gruppuscoli che erano ramificazioni di un grande albero con rami lunghi, ciascuno con la sua specializzazione: droga, prostituzione, contraffazione di documenti, piccole squadre di picchiatori per ammorbidire le vittime con il terrore e per attuare vendette secche su spie e impiccioni. I rumeni intercettati da Ioana avevano trovato conferma alle loro informazioni. A Braze vivevano ancora la madre di Călin con la sorella maggiore, la “bambina” che mostrava sul corpo e sulla faccia imibile gli inequivocabili segni del mongolismo, la “bambina” che poteva restare immobile come una statua per ore per poi risvegliarsi d’improvviso ed esprimere i suoi bisogni canterellando. Canterellava per la minestra, per il sonno, per salutare. Non aveva mai comunicato con il parlare liscio e diretto degli altri, lei usava le sue cantilene mostruosamente dolci come un certo miagolare lamentoso dei gatti randagi. Solo quando aveva paura abbandonava il suo cantare stentato e gridava senza potersi più fermare. E a Braze Călin era stato riportato di peso e di persona dagli uomini che l’avevano in pugno.
XXIV
Quello che i capi volevano era che Călin vedesse con i propri occhi quegli uomini vicino alla madre e alla sorella, dopo avergli promesso che cosa alcuni fra loro avrebbero potuto fare a quelle due donne. Se lui si muoveva di lì. Se fosse tornato a Torino. Se non si fosse reso utile ai loro piani. Rubavano e maneggiavano documenti di ogni tipo, da quelli di identità a quelli commerciali o burocratici da modificare, alterare e rimettere in circolazione in vari Paesi e in varie lingue. Călin serviva loro. La spia andava riconvertita, il servo della polizia sarebbe diventato il loro servo. Călin ora era il loro uomo, non gli chiedevano altro se non una certa manovalanza e un certo utilizzo del suo essere poliglotta. Lui ignorava il contesto e aveva contatti solo con pochi elementi. Călin capì che solo per questo la sua vita era salva. Doveva imparare a stare in equilibrio, un o avanti e due indietro. Doveva imparare a stare zitto, a non vedere, a modificare le carte e i documenti come gli veniva richiesto. D’altronde quelli che ce l’avevano portato tornavano periodicamente in Romania, con tempi brevi, avendo sistemato lì una certa rete, una specie di quartier generale completo, sospettava Călin, anche di qualche sicario. “Noi siamo tanti, più di quanto immagini. Organizzati in orizzontale e verticale, tanti di noi sono incensurati e invisibili. Tu fai una mossa falsa. Prova a denunciarci. Puoi anche mandare qualcuno di noi in galera, puoi disturbare un po’ i nostri traffici. Potresti anche riuscirci. Ma subito dopo, potrebbe capitare qualcosa di molto spiacevole a queste due donne in Romania. E a quelle due in Italia. Sei un uomo solo, Călin”. Così Călin era arretrato, si era ripiegato a riflettere. Non che avesse rinunciato a cercare una via di liberazione. Era teso, con gli occhi aperti. Ma aveva capito che doveva star fermo un momento per studiare le mosse degli avversari, per capire quale tegola infame gli era capitata sulla testa. Călin non lo sapeva, ma quel momento doveva durare otto anni. Una consapevolezza lo aiutava: il sapere della natura precaria di ogni cosa umana e che anche le trame più perfide non potevano durare per sempre. Una lotta tra forze opposte si estendeva a ogni generazione sulla terra. Lui sapeva da che parte stare e ancora non era disposto ad arrendersi. Già quando era a Torino sulla stampa italiana aveva letto delle migliaia di desaparecidos in Messico nel giro di soli due anni, contadini,
imbianchini, ingegneri,architetti, chimici, sequestrati dai narcotrafficanti e usati come schiavi nelle piantagioni di marijuana gestite dai cartelli. Svaniti nel nulla, nessuna richiesta di riscatto per loro, accompagnati dal silenzio dei familiari che spesso non ne denunciavano la scomparsa per timore di rappresaglie. Ma qualcuno era riuscito a fuggire, ad aprirsi un varco tra i “falchi” che controllavano i campi della morte e prima di essere assassinato era riuscito a far pervenire un'indicazione, un'informazione preziosa al settimanale Proceso e al vescovo Saltillo.
XXV
Călin era riuscito, nel corso del primo anno, a mandare un altro biglietto. Devo proteggerti, Ioana. Devo proteggere mia madre. Per ora te la devi cavare da sola, lì in Italia. E’ meglio che non tenti di tornare, voglio che Floriga cresca a Torino, non togliete le poche radici che abbiamo messo e questo mi permetterà di tornare da voi. Non abbiate paura, non voltatevi indietro, non guardate in basso, camminate in avanti con prudenza ma decise. Siete nel mio cuore. Ma poi i connazionali fidati che facevano anch’essi la spola fra il Piemonte e la Romania, pur non volendolo, (o forse volendolo?) avevano finito con il lasciar intendere a Călin quanto Ioana non riusciva quasi ad ammettere con se stessa: c’era un uomo vicino a lei. Un italiano. Uno che aveva i mezzi, la salute, la casa, il tempo. Uno libero da pastoie e ricatti. Călin aveva bevuto per giorni, sino a che la grappa gli aveva bruciato i visceri e annegato tutti i pensieri tranne quello. Finché un giorno, dopo aver vomitato a sufficienza e bevuto abbastanza caffè alla turca, non era più a Ioana che aveva pensato con lucidità. Ciò a cui si ribellava con tutte le forze che gli restavano, con tutte le ultime risorse del suo essere, era il pensiero che un uomo estraneo, uno sconosciuto, uno straniero, osasse sorridere alla sua bambina. Se mai Floriga si fosse affezionata a quell’intrigante, come solo i bambini e gli animali sanno fare con chi si prende cura di loro, lui, semplicemente, l’avrebbe ucciso. Ma non odiava Ioana, non la condannava. Una parte di lui si identificava con lei, leggeva senza sforzo la sua disperazione, il suo spavento di donna sola con il peso di una bambina. Fare in modo che tornasse in Romania, al villaggio con lui, era troppo pericoloso. Lì agli assassini sarebbe bastato allungare la mano. E poi c’erano le privazioni, la miseria dura e consistente. Ioana e Floriga sarebbero state più al sicuro in Italia. E Floriga avrebbe avuto più avvenire. Inoltre ora Călin sentiva con certezza che comunque in Ioana non poteva esservi volontà di riportare la bussola all’indietro, tastando un terreno tormentoso e problematico, ripercorrendo aggi già bruciati. Ora erano separati, divisi, soli. Călin si barcamenava con lavori saltuari nelle stalle o di manodopera. Lo sorvegliavano. Avesse avuto libertà di manovra, avrebbe cercato a Bucarest di rendersi utile
negli alberghi o di accompagnare qualche turista, ma gli era stata fatta esplicita proibizione di allontanarsi dal villaggio e di allargare i contatti. Vista la spada di Damocle che gli facevano pendere sul capo, contavano tranquillamente sul suo conformarsi. A volte Călin aveva rapidi incontri con donne che non riuscivano a placarlo e di cui in ogni caso non poteva né voleva fare a meno. Un giorno, Călin ne era certo, lui si sarebbe liberato di quella morsa che lo stringeva, (le cose si modificano e cambiano incessantemente per i galantuomini come per i delinquenti) e lui e Ioana si sarebbero di nuovo incontrati. E allora Ioana avrebbe scelto ancora lui. Ancora. Forse.
XXVI
Cosa poteva dire di più a Sergio? C’erano connazionali rumeni che facevano misteriose spole tra la Romania e l’Italia. Ioana li conosceva superficialmente ma erano utili staffette, c’erano stati dei contatti e delle informazioni. Ioana si aggrappava alla vita che aveva. La bambina parlava l’italiano meglio di lei e capiva abbastanza bene anche il rumeno. Era attaccatissima alla sua scuola, agli insegnanti, frequentava l’Oratorio cattolico come luogo amico di socializzazione e poiché mostrava buone doti musicali la sua maestra aveva procurato di inserirla in un corso annuale di violino finanziato dal Comune, così che ora Floriga partecipava a manifestazioni e piccoli concerti manifestando una gioia che pareva inesauribile. Era stato Sergio a regalarle il violino. Sergio era sempre presente ogni volta che lei suonava. Floriga amava le strade note, brevi e sonnolente dei paesi della Lomellina; amava il paesaggio di risaie, adorava il pane, la pasta, la pizza e il risotto. Odiava le zanzare e la mostarda. Vederla crescere così bene era per Ioana una grande forza. Soprattutto Ioana era felice della presenza forte e protettiva di Sergio, del fatto che lui l’autorizzasse in modo così energico e generoso ad appoggiarsi a lui. Qualche volta Ioana aveva dei dubbi. Specialmente quando, eggiando la domenica pomeriggio con Sergio e la bambina, tutti e tre con un cono gelato in mano, vedeva da lontano (praticamente sempre da lontano, quella figura era inavvicinabile) una figura di donna che le era nota perché Sergio gliene aveva parlato: Anna, la fidanzata che l’aveva preceduta. Ma Anna era stata per Sergio anche l’amica d’infanzia, la compagna di scuola, eppure Sergio aveva troncato con quella ragazza crudelmente, in modo così netto e risoluto che lasciava sorpresa Ioana, tanto che qualche volta ci almanaccava sopra: o Sergio conservava alla fine una profonda affezione per questa Anna, tanto da temere che anche la vicinanza meno impegnativa avrebbe potuto causare pur sempre una piccola sofferenza a entrambi, un comprensibile disagio, oppure non si trattava di delicatezza, al contrario, Sergio avrebbe potuto rivelarsi anche capace di chiusure e durezze che Ioana non conosceva. Ma rifiutava di soffermarsi troppo a lungo su pensieri che le procuravano piccoli e veloci brividi. Lei, Ioana, si sentiva diversa.
XXVII
Ioana aveva forza e gioventù e motivazioni sufficienti per vivere nel presente, per legarsi a Sergio, ma tutto il suo ato l’accompagnava in modo costante, lei non se ne separava, non desiderava separarsene, pensava spesso a Craiova, alla nonna che aveva salvato la sua vita, a Bucarest. Pensava a Călin con nostalgia e speranza. Nello stesso modo avrebbe pensato in seguito a Sergio se vicende incontrollabili li avessero allontanati bruscamente. Sergio e Călin. Quanto li amava entrambi. Due splendide persone, capaci di suscitare una risposta, un amore. Tutti e due sapevano offrire umanità e ione. Ma c’era una complicazione, grossa, che prima o poi avrebbe costretto a scegliere e a escludere. Quelle due persone erano due uomini. Due maschi sani e vitali, dotati di un senso strutturato della territorialità e di aspettative chiare circa le relazioni sessuali e le donne. E lei era una donna consapevole che vedeva lucidamente. A volte, piuttosto spesso, ripensava alle sue nozze, all’incanto e alla magia della danza che aveva illuminato quel giorno. Per tre volte lei e Călin erano stati benedetti, mentre si avvicinavano con i ceri accesi all’altare dove luccicavano l’anello d’argento per lei e l’anello d’oro per lui. Con l’anello il sacerdote aveva disegnato tre croci sul capo di ciascuno, e poi aveva prelevato dal tetrapodion due coppe di vino e due corone di erbe odorose. Lei e Călin erano stati avvolti da un unico nastro. E poi Călin si era sciolto e i bambini facevano ondeggiare le spighe di grano. Quel giorno non era stato inconsistente, un sogno pallido e transitorio, un fantasma. Quelle nozze erano state l’origine e il fondamento di una vita, la vita di Floriga, una bambina con i capelli quasi rossi e gli occhi celesti. Una bambina saltellante, sempre piena di appetito e di curiosità. Una bambina che cresceva facendo riferimento a Sergio, che stava al posto di Călin, il padre.
XXVIII
Floriga aveva chiesto insistentemente di avere un cane e Ioana aveva risposto di no, l’appartamento era troppo piccolo, il cortile era in comune, gli orari di lavoro e di scuola non erano favorevoli. A Natale e per il compleanno aveva regalato a
Floriga gli schettini, un coniglietto di peluche, due libri illustrati e un diario con i fiorellini rosa. Ma Floriga aveva fatto il broncio e aveva insistito anche con Sergio per avere un cane. Lo sguardo che Ioana aveva riservato a Sergio sull’argomento era stato abbastanza eloquente perché Sergio evitasse di prendere apertamente posizione. Tuttavia Sergio non voleva che a Floriga fosse inflitta una delusione definitiva. “Ehi, - le aveva detto – non ti abbattere. Se la mamma non vuole prenderti il cagnolino non possiamo obbligarla, ti pare? Però un sistema forse c’è. L’unica è scrivere una lettera a Babbo Natale, se vuoi ti aiuto io”. Floriga aveva sbarrato gli occhi. “Ma sì, dai. Ci vorrà un po’ di tempo prima che la riceva e si sa che con tutti i bambini che lo chiamano non può riuscire a risponderti subito. Però….chissà!” “Ma ce l’hai l’indirizzo?” “E come no. Ecco qua: Babbo Natale, Casella Postale 2052H-Torino della Cometa” E Floriga aveva scritto e consegnato fiduciosamente a Sergio la lettera da imbucare fra le occhiate di disapprovazione di Ioana. Fatto sta che anche se completamente fuori tempo, Babbo Natale aveva risposto, lasciando così sbocciare in Floriga la convinzione che Torino era una città delle meraviglie, colma di magia. Purtroppo Babbo Natale non poteva inviare un cagnolino ma inviava un racconto che consigliava di sistemare sul comodino della mamma, assicurando che la favola le avrebbe toccato il cuore, convincendola a esaudire il desiderio della figlia. Si trattava di due paginette visibilmente ritagliate da qualche libro di fiabe che Sergio aveva recuperato e con il quale si stava divertendo a stuzzicare Ioana, essendosi schierato dalla parte di Floriga. Ioana aveva quindi letto del cucciolo e della luna sotto lo sguardo attento di sua figlia. Ovviamente la storia riguardava due dolci vecchini che abitavano in una casetta assai graziosa in una verde campagna. Essi avevano notato che in una notte di pioggia un cagnolino sperduto dal pelo marrone chiaro con un ciuffo più scuro, quasi nero, proprio in mezzo alla testa, era venuto a cercare rifugio sotto la tettoia. Il giorno seguente a questo fatto ancora una pioggia lieve e fine velava tutto il paese. E nel pomeriggio, scrutando dalla finestra la donna sorprese un bimbo di forse quattro o cinque anni, fermo vicino al suo cancello, con le scarpe rotte e vestito miseramente. Lei, che non aveva scacciato il cagnolino ma certo
non l’avrebbe fatto entrare in casa, volle invece chiamare quel fanciulletto per dargli una tazza di latte e degli indumenti asciutti. Accorse anche il marito e tutti e due rimasero a osservare per qualche istante con tenerezza il piccolo che era sprofondato in una poltrona più grande di lui, da cui emergeva solo il visetto e solo allora notarono con stupore i capelli del bambino color castano chiaro con un incredibile ciuffo quasi nero proprio in mezzo alla testa. Fuori, intanto, aveva smesso di piovere, il giorno volgeva alla fine e spuntava la luna. Ovviamente da allora, ogni notte, la luna colmò di favori la donna per la sua generosità, donandole dei sogni appaganti e felici, che in piccola parte si traducevano in realtà durante il giorno.
XXIX
Ioana da una parte sembrava abbastanza divertita dall’assedio cui era sottoposta e dalla complicità di quei due. Ma era turbata dalla sensibilità della figlia e qualcosa nel racconto le aveva toccato una corda profonda. Aveva deciso di provare a resistere, di ignorare la punta di disagio che avvertiva. Ebbe lo spirito di rispondere a Floriga che per quanto la riguardava, lei personalmente era stata rallegrata dall’arrivo di una figlia e che già le era capitato, la notte, di fare qualche bel sogno che poi si era tramutato in realtà proprio come era accaduto alla donnina della fiaba e nel dire ciò guardava maliziosamente Sergio. Floriga allora la fissava con odio infantile. Ioana aveva tentato di sdrammatizzare, aumentando in modo affettuoso il livello dello scherzo. “Lo so –aveva detto a Floriga- che tu sei magica come tutti i bambini e che di notte ti trasformi in un cagnolino con il pelo rossiccio e gli occhi celesti”. A Floriga erano venute le lacrime agli occhi, sia per la felicità dell’immagine che tanto le piaceva(avrebbe voluto fosse davvero così), sia per l’incomprensione della madre. Avrebbe voluto manifestare il proprio risentimento non rivolgendole mai più la parola, ma dopo una manciata di minuti riprendeva a ossessionarla, a supplicare. Già in altre occasioni Sergio aveva notato che Ioana non si abbandonava troppo facilmente a forme di sentimentalismo che aveva visto affiorare in altre donne. Lei era caratterizzata, tutto sommato, da un minimo di rigidità. Amava sorvegliare le situazioni, tendeva a controllarle. Durante le riunioni scolastiche appariva infastidita dalla visceralità con cui troppe mamme giustificavano i modi di insopportabile maleducazione e ignoranza dei figli. “E dimmi, chi se non una madre può difendere oltre ogni ragionevolezza questi mostriciattoli? – le aveva chiesto ridendo Sergio- Anzi chi, se non una madre italiana?” Ioana aveva fatto una smorfia. “Già –aveva ribadito- devo dire che queste donne hanno proprio un forte sentimentalaccio materno”. E Sergio aveva capito che il termine era stato usato in modo assolutamente intenzionale e perfetto. Ioana faceva progressi incredibili nell’uso e possesso della lingua. Progressi biforcuti.
XXX
Intanto Floriga si rifiutava di deporre le armi. A scuola si manifestava distratta, svogliata, come mai era stata. A casa era lagnosa e insistente. La maestra l’aveva un po’ rimproverata, aveva chiesto cosa c’era che non andava. E Floriga le aveva raccontato del suo desiderio di un cane, delle orecchie da mercante della madre alle sue parole e al bel racconto arrivato da Torino che doveva offrire i contenuti per convincerla. La maestra si era subito fatta l’idea che non si trattava di un capriccio. L’allieva, per quanto bambina, era molto giudiziosa e responsabile, per certi versi consapevole di star cercando un affetto e una alleanza esclusivi, proprio del tipo che si può contrarre con un cane che ci appartiene e che ci si impegna a proteggere. La madre sembrava un tipetto capace di severità. Ma era una donna acuta, intelligente, attenta alla figlia. Prima o poi avrebbe ceduto, anche perché i bambini riescono a prendere per sfinimento e a quanto pareva Floriga non faceva eccezione alla regola. Più probabilmente la signora Auer avrebbe finito con l’acconsentire per convinzione. La maestra lesse il racconto, poi cercò nel caos delle schede che raccoglievano le poesie, scartabellò nei libri della biblioteca scolastica. E trovò ciò che faceva al caso. “Guarda, Floriga, mi hai ricordato l’esistenza di questa piccola poesia. Sembra scritta apposta, come se qualcuno avesse previsto tempo fa il momento che stai vivendo. Portala alla mamma e dille che mi hai parlato. Dille anche che come adulta capisco le sue ragioni, ma che faccio il tifo per te.” Floriga aveva letto i versi con avidità. Difficilmente potevano scuotere la mamma, in fondo riprendevano, sorprendentemente, le stesse immagini del racconto in una breve nenia che lei lesse e rilesse e poi si musicò da sola e infine si mise a canterellare e poi a cantare con voce sicura.
“Si alza un rumore profondo/ non so se di vento o di tuono/. Un cucciolo trema confuso/nel giardino denso di ombre/già spoglio e deserto di voci/. Soltanto una luna di latte/ conforta il guaito bambino/”
Cantava Floriga, fra le compagne e a casa, mentre la mamma lavava i piatti e
faceva le pulizie. Cantava come aveva cantato per tutti i suoi bisogni, tutta la vita, la “bambina” di Braze, la sorella di suo padre, la piccola zia con un cromosoma di troppo. Cantava spesso quei versi magari mentre faceva altro, come sopra pensiero, senza nemmeno più rivolgersi alla madre. E allora Ioana aveva capito che non era un capriccio. Sua figlia aveva davvero bisogno di un cane.
XXXI
Un pomeriggio Sergio aveva accompagnato la bambina e Ioana al canile di un Comune vicino che ospitava decine e decine di cani, forse più di un centinaio. Ce n’erano proprio tanti e guaivano e piangevano tutti, molti tremavano per l’emozione di essere guardati e quelli adulti più dei cuccioli. Sembrava di essere precipitati su un pianeta fatto solo di gabbie e latrati. Floriga correva da uno all’altro. Ma Ioana si era ammutolita, il suo sguardo era sperduto, come fosse stata presa da una forma di panico che la invadeva, come se lei stessa avesse potuto essere proditoriamente spinta in una gabbia. Respirava male e Sergio si affrettò ad allontanarla. Avevano poi fatto ritorno con un bastardino largo come un armadietto a cui era stato imposto il nome di Tenente Colombo. L’affetto di Floriga per Sergio era cresciuto come una marea. La bambina era pazza di felicità per il piccolo cane ma aveva pianto parecchio sulla spalla di Sergio, infastidendo la mamma, perché non aveva potuto adottare gli altri cuccioli orfani che avevano conosciuto: Lilli, Re Artù, Camilla, Tombolino e persino Caina, un cucciolo femmina che mordeva tutti quelli che si facevano avanti prima di lei per rubare carezze. A dispetto del suo nome e delle sue brevi ma cubiche dimensioni, si dovette scoprire in seguito che Tenente Colombo era un cane che cresceva privo di qualsiasi disposizione al sospetto e all’indagine o al mostrare i denti; al contrario egli guardava con simpatia la gente più stravagante, dagli zingari che capitavano in paese ai tipi sconosciuti che cercavano di infilarsi nel condominio a sorpresa. Egli adorava Floriga senza alcuna riserva, tuttavia la sua indole serafica lo induceva a fraternizzare con il nemico. La verità era che Tenente Colombo manifestava una gratitudine infinita al mondo intero per aver alfine trovato il posto che gli competeva, il suo posto.
XXXII
A Floriga era stato detto da sempre e spesso ribadito, ma con leggerezza, come per caso, come se la cosa non avesse importanza, che Sergio non era il suo vero
papà, che il suo vero padre aveva avuto un incidente quando lei era appena nata e che non si sapeva bene se fosse ancora vivo e dove fosse, e che quando sarebbe stata più grande, sarebbe andata a cercarlo con l’aiuto di Ioana. La bambina ascoltava incantata, quasi felice, e faceva di sì, di sì con la testa, ma si trattava solo di una favola in più, di qualcosa che si arrestava e si esauriva in una fantasia lontana, qualcosa che non riusciva a toccarla realmente. Con lei c’erano Ioana e Sergio che lei chiamava Sergio perché così le aveva insegnato e imposto la madre, ma alle compagne a scuola diceva: il mio papà. Solo qualche volta, qualche rara volta, quando Sergio la sgridava assumendo un tono seccato e severo lei si rifugiava nella sua fantasia sospesa che veniva a soccorrerla: il mio vero padre, lui mi darebbe ragione!
XXXIII
Quando era stata più piccola, Sergio le aveva regalato il triciclo e una Floriga di tre anni ci aveva marciato sopra gonfia di trionfo, guardando il mondo da un’altra dimensione con i suoi occhietti celesti e i fini capelli rossicci mossi dal vento. Al compimento dei sei anni Sergio aveva sostituito il triciclo con una piccola bicicletta vera, a due ruote, rossa fiammante, e le aveva insegnato a pedalare restando in equilibrio, correndole dietro a piedi per brevi tratti con in tasca una scatola di cerotti e fazzolettini disinfettanti già pronti all’uso. Quando Floriga aveva chiesto cos’era questo pasticcio di maschi e femmine e di come nascevano i bambini era stata Ioana a risponderle e a fornirle le spiegazioni di base e Floriga ne era stata soddisfatta. Così aveva capito un po’ di più cosa voleva dire che Sergio non era il suo vero papà, ma questo era un punto inquietante, che l’aveva ferita. “Mamma, ma allora potrebbero nascere dei bambini che sono i veri figli di Sergio?” “Naturalmente sì, Floriga” “Ma non è giusto. Ci sono io qui con lui, mentre questi bambini neanche lo conoscono, non gli vogliono bene; perché io non sono la sua bambina e loro sì?” “Tu sei la sua bambina perché Sergio ti vuole molto bene, ma non sei sua figlia, te l’ho spiegato” “Mamma, aspetta. Lui a questi bambini potrebbe volere più bene che a me?” Gli occhi di Floriga erano pieni di buio, grandi da fare paura. “Ma Sergio ti vuole bene, lo sai e poi ora questi bambini non ci sono” Ma per Floriga quei bambini erano ormai una minacciosa realtà che aveva fatto irruzione nella sua vita. “E questi bambini di Sergio avrebbero la loro mamma, che non sei tu, vero?” Ioana era sbiancata, vacillava, sentiva una punta di nausea suscitata dalla fantasia improvvisa e sorprendente di Sergio che desiderava con ione
un’altra donna. “Potrebbe anche capitare, potrebbe succedere che la mamma…. possa essere io”. In fondo Ioana aveva appena sussurrato, ma Floriga aveva sentito benissimo. E allora Ioana vide nelle pupille della sua bambina l’orrore del vuoto, dell’abbandono. In quel preciso istante Floriga era un naufrago in mare aperto, un naufrago troppo piccolo e terrorizzato, pronto ad abbattersi e a disintegrarsi contro il primo scoglio pur di non subire il flagello, la frusta della onde in tempesta. Disfarsi in mille pezzi può servire a esorcizzare il dolore?
XXXIV
Se il suo vero padre era molto lontano, se Sergio e Ioana avessero stretto un patto di felicità fra di loro mettendo al mondo bambini che erano veri figli di entrambi, cosa mai sarebbe stato di Floriga, non appartenente interamente a nessun nido? Ma Sergio l’aveva rassicurata: “Lo sai Floriga, appena ti ho visto, piccolissima, piccolissima, ho pensato: vorrei proprio che questa bambina fosse mia figlia! Il fatto è che io volevo proprio una bambina con i capelli rossi e gli occhi celesti, ma come facevo io ad avere una figlia così se ho gli occhi e i capelli neri? Meno male che ti ho trovata!” “Ma Sergio, se poi avrai dei bambini con gli occhi e i capelli neri?” Sergio ci aveva pensato su un po’. “Pazienza, Floriga. Se capitasse così cercheremo di voler bene anche a loro. Dopotutto……io ho gli occhi e i capelli scuri ma tu mi vuoi bene lo stesso, è così?” “Io te ne voglio tantissimo!” “OK. Allora ci vorremo bene tutti. E poi non credere, sai. Tu non resterai sempre una bambina. Diventerai grande, ti farai un bel fidanzato e pianterai in asso me e la mamma” “Io non vi lascerò mai. Però se diventate vecchi vecchi……vecchissimi……” “Te ne andrai, quando sarai grande, te ne andrai con il tuo fidanzato e avrai un bel bambino, vedrai” “Quando sarò grande, andrò a cercare il mio papà vero, anche lui sarà molto vecchio, lo porterò qui così potremo stare tutti assieme.” Sergio aveva fatto silenzio e corrugato la fronte. Come erano stretti i suoi occhi. “Ora non ci pensiamo, Floriga. Ora occupiamoci di noi tre e di Tenente Colombo.” “Ma come si fa a trovare il fidanzato?”
Sergio si era messo a ridere, aveva spiegato a Floriga cos’era il corteggiamento e poi le aveva recitato una vecchia poesia che aveva imparato a scuola finché Floriga non la seppe praticamente a memoria e Ioana li sentiva declamare con enfasi mentre cucinava, alternando le voci.
XXXV
Cominciava sempre Sergio rammentando a Floriga che ava un cavaliere a cavallo: egli vedeva una ragazza bellissima alla finestra mentre sistemava una rosa in un vaso. Il cavaliere ne rimane così vivamente colpito che si ferma a parlarle, già con il cuore in tumulto: “Perché quella rosa, mia spumeggiante fanciulla?” Sergio si portava la mano sul cuore, roteava gli occhi e sbirciava Ioana. Floriga partiva con toni acuti: “Mio principe gentile e velato/ è la rosa che assorta coltivo/ in quest’ora di luce/ per ammirare la perfezione……per ammirare la perfezione……” Sergio veniva in aiuto. “Per ammirare la perfezione della sua natura” “…….della sua natura” faceva eco Floriga. Riprendeva Sergio fissando Ioana. “Ah! Così io vorrei contemplarti/ senza coglierti mai/ per non turbare le tue radici/ ma così siamo fatti/ che tutto dobbiamo manipolare e sgualcire” La vocetta di Floriga: “Principe, mio Principe/ così siamo fatti./ Soffriamo./ Facciamo soffrire./ Anche quando/ il nostro cuore non vuole.” E ancora Sergio “Ma ho appena iniziato a parlarti/ ancora non mi sono spiegato/ e già si è abbattuta su noi/ l’onda immensa del tempo/ e ha cambiato le nostre fattezze./” Cosa si incrinava nello sguardo di Ioana? “Mio principe, ora che è tardi/ vi dico che vi ho amato.” Floriga eseguiva un bell’inchino. “E’ tardi? Non so. Sono disorientato/ Mi sento stanco./ Lascia che lasci/ il mio destriero e sieda con te/ sotto il mandorlo ombroso/ a riposare/ e a posare lo sguardo/ sul ricamo della tua vita.” Una notte d’inverno Floriga si era svegliata urlando in preda agli incubi, poco dopo la mezzanotte, e Sergio che si era fermato a dormire da loro, si era alzato e le aveva preparato, senza badare alle proteste di Ioana, una bella tazza di cioccolata bollente. Ogni tanto, ridevano e si chiedevano: ti ricordi la cioccolata
di mezzanotte?
XXXVI
Sergio aveva tratto un’impressione di fastidio e di forte contrarietà dall’ultima discussione avuta con Ioana. Capitava commentassero servizi di cronaca riportati dai giornali oppure fatti e comportamenti dei vicini. A volte i loro punti di vista collimavano rendendoli tranquilli e soddisfatti reciprocamente, altre volte la cosa assumeva l’aspetto di un conflitto, di un contrasto rischioso, come se al di sotto di ciò che dicevano in chiaro, ci fosse un discorso rivolto oscuramente a qualcos’altro. Come quella volta. “Mi ha sorpreso, Ioana. Mi ha sorpreso sgradevolmente, non corrisponde all’idea che me n’ero fatto. Santo cielo, in questo paese. Questo è un posto tranquillo, di persone ragionevoli, gente che cura l’orto dopo il lavoro e vive le relazioni familiari il meglio possibile. Questa donna, la Silvana Boschi, la conosco da quando era bambina, allegra, simpatica, a scuola scambiava sempre la sua merenda con qualcun altro o la divideva con chi se l’era dimenticata. Il tipo che quando la incontri ti chiede sempre come stai, se stai davvero bene, se ti dà fastidio il suo cane che abbaia troppo la sera o se il volume della televisione è troppo alto. Il tipo che sa che esisti e che cerca di venirti incontro, il nostro tipo umano. Quattro anni, capisci, quattro anni che è sposata e aspettavano di avere un bambino. C’era tutto: il matrimonio, una casa con un piccolo giardino, un accordo. E poi quando rimane incinta, d’improvviso dice di rendersi conto che non è pronta, che vuole avere ancora qualche anno per sé, stare solo in coppia, fare delle vacanze, vivere ancora da ragazza come altrimenti non potrà più fare, perché questo tempo non tornerà più. Vivere ancora da ragazza. Ma lui voleva il bambino, gli voleva già bene. E lei ha abortito ugualmente, chiedendogli scusa, come se gli avesse inavvertitamente pestato un piede. Niente di più, perché dal punto di vista legale lei è protetta, può decidere ciò che vuole senza consultare il padre del bambino” Ioana l’aveva considerato dubbiosa. “ Non credo l’abbia fatto contro di lui” “Allora solo come se lui non ci fosse”. In Sergio saliva una punta di rabbia ma Ioana era rimasta fredda. “Scusa Sergio, ma come si fa a entrare nella mente di un’altra persona? Impossibile dare un giudizio”
“Su avvenimenti di questa portata? Ah no, Ioana, impossibile è non dare un giudizio. Come spieghi che questo fatto ha toccato tutto il paese, che la gente ne discute, che è imbarazzata o perplessa? E stai bene attenta: non è tanto di lei che si discute, ma della lettera e dello spirito di una legge che nega il posto del padre” “Il posto del padre?- per un attimo era sembrato a Sergio che Ioana fosse attraversata da un piccolo brivido, come smarrita- Il posto del padre? Le leggi sono delle piccole cose, sono fatte per l’ordine pubblico, sono solo una strada burocratica. Cosa vuoi che ne sappiano del posto del padre, dei sentimenti tragici. Eppure se questa cosa è accaduta, è perché ha le sue giustificazioni, è perché quella donna l’ha vista come necessaria”. “Non tutte le giustificazioni stanno in piedi, non tutte si possono accettare. Pensare necessario quello che serve al nostro egoismo è una logica da lupi.” “Ci arrendiamo alla realtà del momento. E’ l’unica cosa che conosciamo. Tutti quanti, in tutte le società. Siamo ciechi guidati da altri ciechi. Per il momento non abbiamo trovato di meglio.” “No, noi esseri umani vogliamo qualcosa di più. Siamo capaci di immaginare una vita diversa. Siamo capaci di metterci a scalare le montagne solo per il gusto di salire più in alto e di guardare le cose da un altro punto di vista. Non possiamo sempre vivere da innocenti, senza nessun fardello. Voglio dire, il riconoscimento della responsabilità. La responsabilità umana, Ioana. Non possiamo essere troppo sbadati, non si può continuare a giocare tutta la vita” Le vibrazioni nella voce di Sergio. Ioana le avvertiva. Punte di paura? Inquietudine? Stava cercando di dirle qualcosa che non prendeva forma come lui avrebbe voluto. Sergio vedeva che Ioana era distante, lievemente diffidente. Di nuovo gli sfuggiva. Anna avrebbe saputo di cosa lui stava parlando. Non poté evitare di pensarlo. “Ioana, Ioana. Che rapporto può nascere fra uomini e donne se ci è consentito di accoltellarci così?” “Ci prendiamo a coltellate da secoli, Sergio. E gli uomini hanno sempre usato il loro potere sulle donne trattandole come bambole di pezza”
“Vendetta, Ioana?” Sergio l’aveva presa tra le braccia di colpo, con tenerezza disperata. “Non ci serve invece più amore, più ione per la vita? Dobbiamo diffidare l’uno dell’altro, avere paura di noi, avere paura dei bambini? Non siamo noi i loro custodi?” Ancora Anna, per un attimo, nella mente di Sergio. Così avrebbe sentito Anna, così avrebbe comunicato con lui. E’ fatto così, Sergio, pensava intanto Ioana, mentre si stringeva a lui, finalmente arresa. Così italiano, così generoso; cresciuto in una famiglia unita e amorevole, la sua cultura e la sua natura si rivelavano in più occasioni così limpidamente da sorprendere Ioana. Lo si poteva dire un cristiano non praticante da molto tempo ormai. Ma era così profondamente cristiano, così naturalmente cristiano nei pensieri, nelle intenzioni, nella sensibilità. Uno che credeva nella possibilità del perdono ma anche nel libero arbitrio di ciascuno senza troppe scuse. Uno con cui non era facilissimo stare.
XXXVII
L'inverno era rigido a Braze; la grappa, il tè nero e le zuppe bollenti alla cipolla non bastavano, distoglievano dal sentire il freddo solo per un po’, poi i brividi riprendevano e l’influenza che irritava gli occhi, il naso e i bronchi si faceva sentire e si diffondeva. Călin cercava di cavarsela, la sua fibra era forte, nonostante l’apparente magrezza. Faceva un po’ di tutto. Il boscaiolo, il mungitore, il muratore improvvisato. Ogni tipo di attività che poteva tramutarsi in un pranzo, in una cena, e offrirgli copertura per quanto era costretto a fare realmente: falsificare carte e documenti con gli strumenti che gli venivano approntati senza chiedere nulla e senza cercare di capire. La piccola sorella mongoloide non aveva smesso di canterellare le sue comunicazioni, ma spesso si interrompeva per scoppiare in pianto perché non sopportava il gelo che la faceva tremare. La madre l’assisteva con caparbietà e la trascinava con sé quando, per realizzare piccoli guadagni, andava a curare le altre donne del paese cadute in malattia. Călin spiava con apprensione e con speranza movimenti e segnali che gli prospettavano un indebolimento, un allentarsi delle maglie del racket che l’aveva colpito: in primo luogo le faide interne che andavano a eliminare alcuni capi o a ridurne il potere. Anche le semplici malattie avevano già modificato degli assetti: l’ictus che aveva colpito uno dei più odiosi persecutori di Călin obbligandolo a una sedia a rotelle, completamente ripiegato, gli consentiva ora più respiro. Intorno a lui la rete era ancora abbastanza stretta, nutriva sempre un profondo timore per la madre e la sorella, tuttavia si stava consolidando un terzo fattore che alimentava la fiducia di Călin, la speranza che presto non sarebbe stato più stritolato dalla sua insostenibile situazione; il fattore più significativo, più importante di tutti, quello risanatore lì in Romania e conseguentemente anche nell’area italiana: con diversi capi d’accusa, si stavano verificando degli arresti seguiti da regolari processi. Bisognava pazientare ancora, tenere i nervi saldi perché l’omertà era feroce. Ma il quadro mutava. Già si era saputo del declino di un boss italiano che aveva raggiunto in precedenza una postazione di comando anche presso le gang di albanesi e rumeni che occasionalmente collaboravano ai suoi traffici. Il suo clan aveva iniziato con una serie spettacolare di azioni di sangue e di rapine, mescolando imbecillità e terrore in uguale misura. Aveva fatto affari d'oro con la cocaina finché non aveva cominciato a tirarla senza remissione. Aveva corrotto e speculato nell'edilizia, finché non era stato al centro di sparatorie e vendette che l'avevano fatto finire a
vivere sotto una tenda, ai margini di un prato di periferia. Viveva lì solo, drogato, malato, invecchiato, inaffidabile, e in attesa che qualche lontano nemico appena uscito di galera gli chiudesse la bocca per sempre, andava ogni giorno all'ora di pranzo alla Caritas a reclamare il suo piatto di minestra. Călin aspettava e soppesava ogni informazione, ogni mutamento. Era vigile, attento, pronto. Guardava in tutte le direzioni. Ma tutta l’immaginazione di cui era capace mai sarebbe stata sufficiente a prevedere come, in che modo stupefacente e doloroso, avrebbe riconquistato la libertà di sé e dei suoi movimenti.
XXXVIII
Quel sabato sera aveva accettato l’ospitalità del meccanico, suo coetaneo e compagno di scuola. Lo attiravano una cena calda più ricca di quanto potesse fare a casa sua e la possibilità di una conversazione più libera. Anche se in modo incompleto, parziale, l’amico era una delle pochissime persone che Călin si era sentito di mettere a parte dei suoi segreti e delle sue disgrazie. L’amico era accorto, fidato, capace di piccoli favori fondamentali. E poi aveva una sorella di due anni maggiore, dotata di una certa avvenenza, anche lei parzialmente informata e attratta da Călin. E Călin aveva ormai deciso di fermarsi anche la notte. Aveva baciato la sorellina che canterellava e la madre che cucinava la sua zuppa di cavoli, lasciando loro della birra e prelevandone altra per sé. Durante il giorno aveva provveduto a riparare gli spifferi e le fessure delle porte e delle finestre da cui entravano aghi di vento e piccole onde di gelo e pochi minuti prima di allontanarsi aveva alimentato la stufetta che riscaldava l’ambiente in cui le due donne cucinavano e dormivano, lasciando al freddo la sua stanza, dal momento che avrebbe dormito fuori. Le aveva baciate ancora e loro avevano tracciato su di lui il segno della croce, già ansiose di vederlo tornare. Călin aveva mangiato di buon appetito con i suoi amici, mangiato e bevuto, più bevuto che mangiato. Era quasi ubriaco, quasi sazio, quasi felice quando aveva raggiunto la donna. Era riuscito a trascorrere la notte al caldo, immerso in una sorta di conforto, di stupore, di presagio. E poi la mattina Călin aveva aiutato l’amico a riporre degli attrezzi ma in fretta, preso dall’impazienza di tornare a casa con le due grosse fette di torta saporite di farina e zucchero, avvolte in un tovagliolo, che gli erano state donate per le sue donne. Se si fosse sbrigato, avrebbero potuto farci la colazione. Dormivano ancora, infatti, al suo arrivo. Dormivano nel buio, dormivano nel silenzio, dormivano nel fumo, nelle esalazioni e nel veleno del monossido di carbonio con cui la stufetta traditrice aveva invaso la casa. Non si sarebbero mai più svegliate, non avrebbero mangiato quella torta così buona che Călin si era affrettato a portare in casa. E mai più, mai più qualcuno avrebbe disegnato una croce protettiva sulla fronte pallidissima di Călin. Ora non doveva più difenderle. Ora nessuno poteva più servirsi di loro per ricattarlo.
XXXIX
Călin prese a portarsi addosso come una febbre che gli faceva divorare i giorni e lo devastava con una forma insopportabile di spossatezza mista ad angoscia. In realtà, perché erano morte? Cosa aveva trascurato? Cosa non aveva visto? La madre, la sorella, non c’erano più, non erano più con lui né con nessuno. Lo avevano liberato, sciolto da loro, crudelmente, senza accorgersi e senza saperlo. A lungo Călin si chiese se vi fossero state imprudenze, una sua responsabilità che tardava a chiarirsi, a essere riconosciuta. Così, con un atto di immediatezza sorprendente e paurosa, erano stati tagliati i nodi degli affetti e del ricatto insieme, nodi che si erano aggrovigliati e confusi sino a ingigantirsi nella sua mente, sino a paralizzarlo, ad anestetizzarlo nella memoria e nel desiderio di Ioana e Floriga. Sin dall’inizio del suo ritorno forzato in Romania, egli aveva creduto di essere ancora capace di lottare e di muovere le sue strategie personali per rovesciare l’esito della storia, dal momento che la ragione gli diceva che ciò non era impossibile; non si era accorto di essere scivolato lentamente, ando il tempo, in una sorta di apatia dove il coraggio e la volontà si erano profondamente indeboliti e solo un inganno della mente lo convinceva che lui stava ancora lavorando per portare alla luce la sua vita, preparando di nuovo la partenza, la speciale partenza per tornare dalla moglie e dalla figlia. Credeva di essere sveglio, come accade sovente in certi colpi di sonno, e invece si era addormentato d’improvviso e nello scorrere degli anni sognava, sognava; sognava di compiere azioni, di realizzare fatti che cadevano fuori della sua coscienza, come fantasmi. In realtà da tempo le pressioni più realmente criminali avevano allentato la presa nei suoi confronti, il contesto si era modificato negli anni a causa di nuove opportunità malavitose e per il cambio della guardia nelle bande locali; restava di irrisolto qualche rapporto individuale rancoroso e ancora potenzialmente pericoloso che tuttavia era possibile controllare, se solo si fosse riusciti a soffocare l’invincibile desiderio di vendetta che bruciava subito sotto la pelle.
XL
La morte della madre e della sorella lo avevano spogliato quasi drammaticamente della sua stessa identità, poiché non aveva più parenti, a questo punto, della famiglia d’origine. Era attraversato da oscuri rimpianti e sempre da quella tremenda spossatezza eppure sentiva che già cominciava a distaccarsi, i pensieri gli volavano via, diventava impaziente. Gradualmente saliva la consapevolezza sempre più pressante della donna e della bambina lasciate in Italia. Cosa ci restava a fare ora a Braze? E d’altra parte, come poteva presentarsi dopo otto anni alla moglie? Con una zavorra di spiegazioni dolorose, di giustificazioni e di sensi di colpa comunque ineliminabili, consistenti, precisi, elencabili, spaventosi. L’immagine di Ioana, il suo pensiero, gli provocava ondate di speranza, alternate a crisi di pessimismo e di disperazione. Ma fu per Floriga, alla fine, che riuscì a fare le valigie. L’esistenza della bambina gli restituiva le forze, l’equilibrio; sentiva la necessità di parlarle, di farsi vivo, di raccontarle la sua storia, la sua esperienza. Voleva portale la fotografia della nonna; voleva rintracciare negli occhi e nei lineamenti della sua bambina anche solo una fuggevole espressione che fosse stata di sua madre.
XLI
Cogliere di sorpresa Ioana gli pareva inaccettabile e rischioso. Fece in modo di avvertirla. La mossa successiva toccava quindi a lei: se aveva un uomo (quanto importante?), se voleva preparare il terreno alla bambina per un verso o per un altro, se poteva ospitarlo o indirizzarlo da qualcuno. Se, se, se. Ioana era stata intelligente e accorta con Floriga, la figlia sapeva da sempre del padre rumeno, di questo fantasma che accompagnava e turbava le loro vite, in particolare la vita della mamma. Questo padre di certo era vivo, era lontano e in difficoltà. Questo padre imbarazzava Floriga. Lei aveva un attaccamento da cucciolo per Sergio e non era interessata ad altro. Quella faccenda della nonna però era intrigante, pensare di avere una nonna e una zia in un paese misterioso da raccontare alle compagne, allargava i suoi orizzonti, e il fatto che fossero pur morte non diminuiva l’importanza di queste relazioni da poco scoperte con chiarezza, attraverso le confidenze e le rivelazioni della mamma. Una nonna che aveva spasimato per lei perché non aveva mai potuto conoscerla. Il padre aveva prolungato all’infinito la sua presenza in Romania per curarla perché la nonna era vecchia; il padre si era occupato di sua mamma e della sorella malata, ma ora che non avevano più bisogno di lui era pronto a tornare per occuparsi della sua bambina. La mamma da quando aveva avuto queste notizie mostrava una faccia curiosamente tirata con gli occhi sempre rossi. Gli altri padri, certo, non si occupavano di un familiare alla volta, sembrava. Ma questo suo padre era rumeno, forse in Romania bisognava agire così. La Romania era così lontana. La mamma sembrava ora in grande apprensione, sussultava a ogni nonnulla, faticava a mangiare, faticava a dormire. E Sergio non giocava più con lei. Il suo sguardo era brutto, cupo. Quando però Floriga gli aveva domandato spaventata: non mi vuoi più bene? Sergio l’aveva guardata con affetto e dolore e aveva balbettato qualcosa che aveva spaventato Floriga ancora di più. Allora Floriga aveva capito: Sergio non era contento di quella novità. Sergio aveva paura dell’arrivo di suo padre. Sergio mostrava rabbia. Sergio era un nemico dichiarato di Călin.
XLII
E poi Călin era tornato, in carne e ossa. Aveva bisogno di calmare il tumulto del cuore e del cervello prima di rivedere Ioana e Floriga e di riprendere le fila della sua vita, ancora non sapeva a quali condizioni. Aveva bisogno di concentrarsi a fondo, per capire una volta di più, una volta ancora, tutto quanto gli era accaduto e che non aveva dominato. Per prima cosa era andato a Torino, perché quella città era per lui l’Italia. E poi lì, in via Baretti, aveva un recapito di conoscenti che gli avevano fornito un letto con un materassino da mare (ma con lenzuola e cuscino) in una stanza da solo, e questo era già un vantaggio, ma la stanza era lunga e stretta come un corridoio, di giorno era buia mentre la notte era fornita di una luce simile a quella di una sala operatoria. Qualche soldo in tasca del resto l’aveva ed era pronto a riorganizzarsi, anche se il suo animo era ora più cauto e dubbioso. La prima notte fu svegliato da fischi e da urla, il cuore in gola, come precipitato in un inferno. Dietro le persiane si trovò a spiare in strada l’accerchiamento di tre spacciatori nigeriani da parte dei gruppuscoli marocchini che si contendevano il mercato con lanci di pietre e bottiglie mentre i nigeriani rovesciavano i cassonetti della spazzatura e mostravano i coltelli. Călin venne assalito da un’angoscia crescente, da una nausea che lo immobilizzava. Assisteva invisibile, nel buio e nel silenzio della stanza, colmo di un senso di impotenza che lo portava quasi alle lacrime. Ma poi percepì un altro movimento, un cambio del fronte: si spalancavano i portoni, quelli che poteva vedere dalla sua visuale, e uscivano i residenti non più rintanati, i cittadini cui toccava subire ogni notte. Non aveva già vissuto quella scena? Tutto ripartiva orribilmente da capo? Gli parve che potessero essere una decina di uomini, più o meno.. Senza armi da fuoco, ma giravano dei bastoni. Sembravano terribilmente in collera, in cerca di un ristabilimento dell’equilibrio, in cerca di legalità, in cerca di giustizia, e forse tanto meglio se di una giustizia sommaria. Erano davvero disarmati, poi? Gli spacciatori occupati nella faida rimasero un attimo come sospesi alla vista degli italiani che camminavano minacciosi verso di loro, tuttavia si ripresero subito vedendo sbucare dalla parte opposta quattro o cinque neri di statura altissima, giganteschi, dal o ondeggiante, muniti di sbarre di ferro: insieme, alcuni maghrebini e nigeriani mescolati, intendendo sfuggire alla piccola folla degli italiani che premeva, si diressero di corsa verso i nuovi personaggi, nella subitanea convinzione che ne sarebbe derivata una qualche forma d’aiuto. Ma i nuovi neri, alti quanto solenni, quanto arrabbiati, li
respinsero a manate, indietro, verso gli italiani dalle facce sconvolte, avanzando a loro volta e chiudendoli tra due fuochi. Le volanti della polizia arrivarono appena in tempo per evitare un pestaggio a sangue. Appena in tempo. I carabinieri costrinsero ad alzarsi gli spacciatori che urlavano squarciando la notte (a calci? Călin non vedeva bene in mezzo a tutto quel popolo furioso) e li spintonavano per farli salire sulle camionette con volti tirati, impietriti. Qualcuno di loro resisteva eroicamente alla tentazione di massacrarli di botte e di buttarli nel Po? Li caricavano e li consegnavano diligentemente a un’indagine e a un giusto processo. Quella notte italiani e stranieri insieme avevano alzato una bandiera. Eppure troppi sapevano che si trattava di una grande rappresentazione teatrale, una drammatizzazione priva di vera consistenza : esattamente gli stessi attori avrebbero replicato più e più volte la stessa scena sulla piazza. Fare una retata di quel tipo era come raccogliere acqua con un secchiello bucato, Non vi sarebbe stata alcuna vera risoluzione del problema. Quante volte era già accaduto che nel Parco dei tossici sulla Stura gli agenti si erano mischiati fra i drogati e i barboni vivendo per settimane la stessa vita, guardandosi alle spalle, dentro una diffidenza densa, torva, poiché poliziotti e pusher si fiutavano da lontano, i primi con i nervi tesi allo spasimo mentre i secondi guardinghi esercitavano gli scambi eggiando estremamente vicino agli argini del fiume, in modo da spaventare gli agenti e sventare ogni loro tentativo di intervento buttandosi in acqua, rischiando la morte per annegamento come già era avvenuto, così da poter rinfacciare i loro morti alla polizia. E quando pure gli agenti riuscivano ad aggirare gli spacciatori e a prenderli alle spalle nelle ore più difficili dell’imbrunire, sequestrando centinaia di dosi tra eroina, cocaina e white, ecco che tutto se ne andava in fumo mentre gli spacciatori clandestini esibivano i polpastrelli abrasi dall’acido. D’altra parte non si poteva evitare certi atti formali, almeno il tentativo di ripristino della legalità. Tutti lo sapevano, e meglio degli altri gli spacciatori di sempre. Ma ora Călin aveva spalancato le imposte e guardava sotto di sé la piazza fitta del suo popolo esultante ed eccitato, mai stato così sveglio e produttivo anche se erano le tre del mattino. E guardava sopra di sé il cielo pieno di stelle. Călin nutriva una sconfinata fiducia nelle istituzioni e nella salute morale dell’Italia. Altrimenti perché ci sarebbe venuto, lottando per uscire dalla fogna?
XLIII
Arrivò il giorno che Sergio si fermò al lavoro protraendo l’orario oltre l’impossibile e poi, quando finalmente ne uscì, se ne andò in una trattoria dispendiosa portandosi dietro un collega, rientrando a casa ormai a notte, stanco morto e alticcio di vino rosso. Così poteva autodispensarsi dal raggiungere l’appartamento di Ioana. Non voleva sapere come era andata per lei e la bambina, non voleva sapere se era rientrata. Ioana non aveva sopportato di avere il primo incontro con Călin in paese, in quel paese dove viveva anche Sergio, nella casa dove lei aveva vissuto otto anni di un’altra vita. Aveva stabilito di incontrarlo a Torino, in una cornice più neutra, dentro la casa di chi lo ospitava. Le pareva che lì l’incontro sarebbe stato meno drammatico, le avrebbe consentito più respiro. Anche per la bambina, distratta dal viaggio e dalla bella città, sarebbe stato preferibile, Floriga avrebbe assorbito meglio l’impatto. Una lunga, sconvolgente giornata, certo. Era previsto che la sera stessa Floriga e Ioana, solo loro due, sarebbero rientrate anche per parlare con Sergio, per mitigarne l’ansia, e per dormire nei loro letti, leccandosi le ferite. Ciascuno a casa sua. Più tempo per pensare, anche per Călin. Ioana avrebbe trovato la forza per raccontare a Sergio, lealmente, disperatamente, le impressioni, le richieste, i presagi e i rimpianti così come non avrebbe nascosto nulla a Călin. Ma era rientrata molto tardi, Ioana, e Sergio non si era fatto vivo. Già Floriga dormiva, stremata, mostrando sulle guance un rossore persistente e diffuso che si teneva da ore. Ioana, con i capelli bagnati, a piedi scalzi, un asciugamano arrotolato attorno al collo, guardava fissamente la bambina immobile come una pietra nel suo lettino, con il piccolo volto congestionato e rosso. Una lacrima pesante, poi un’altra e un’altra ancora le piovvero sulle mani, sentì ogni muscolo indolenzito, la mente che si svuotava, ed ebbe paura. Si chiese dove avrebbe trovato non tanto il coraggio, perché quello ce l’aveva, ma l’energia, proprio la resistenza fisica e il dominio del tempo per affrontare ciò che doveva affrontare e risolvere. Ripensò alla giornata appena trascorsa. La mattina, già intorno alle dieci, quando aveva suonato il camlo dei rumeni di Torino tenendo Floriga per mano (che aveva occhi quasi fosforescenti), si era trovata davanti Călin immediatamente, lui stesso aveva aperto e lentamente richiuso la porta. Per qualche secondo c’era stato solo silenzio, un silenzio profondo e totale e un guardarsi, un fissarsi, uno scrutarsi divorante. Solo dopo si erano presi la mano e l’abbraccio era stato difficile, scosso dal pianto. Dopo un po’ anche Floriga era scoppiata in pianto,
spaventata da come Călin la guardava con una sorta di ossessione e dalle lacrime sorprendenti, inaspettate, dei due adulti. Subito, quella stessa mattina, a Torino, Ioana aveva capito come sarebbe finita tutta la sua vicenda.
XLIV
Floriga aveva guardato bene Călin con occhi aperti, spalancati. Stupefatta, perché era sicura di aver già visto quell’uomo. Non in qualche vecchia fotografia che girava per casa e che neanche gli somigliava, ma nella sua concretezza. Quel volto che tendeva a essere un po’ allungato, la fossetta del mento, gli occhi chiari e un po’ stretti. Li aveva già visti, a un certo punto comprese dove. In uno specchio. C’era un’altra persona che si rifletteva nello specchio con la sagoma di quel viso: con gli occhi dello stesso taglio, dello stesso colore, la stessa fossetta al centro del mento. Quella persona era lei, quasi impossibile non accorgersene. Floriga non aveva potuto parlare per tutto il giorno, non finché Călin era stato presente. E quando Călin la guardava, quando l’aveva abbracciata, la bambina aveva percepito la presenza di una ione e di una disperazione che il tranquillo affetto di Sergio non le aveva mai trasmesso. Un’emozione troppo forte da sopportare alla quale aveva tentato di sottrarsi. La mamma e Călin avevano pianto tenendosi per mano come se fosse morta loro la persona più cara, come se intorno loro tutti i fiori fossero stati recisi, tutti gli amici perduti, come se il Paradiso terrestre li avesse banditi, come se fossero stati bambini per sempre smarriti nel mondo. Con Sergio queste cose non erano mai accadute. Floriga era profondamente combattuta, come ferita. Provava pena e comione per Călin, non sapeva se il modo di essere di lui le piaceva veramente o no. Pure un filo di euforia, una specie di esultanza nuova la attraversava a ondate, al pensiero che le si affermava sempre di più in testa : questo è il mio vero papà. E’ il mio papà. Mentre, lentamente, un altro pensiero si insinuava : il mio papà mi vuole bene. E allora aveva deciso che anche lei gliene avrebbe voluto, così, per un impulso che le si era imposto e rivelato in quella stessa giornata. Anche se, naturalmente, alla mamma e a Sergio gliene voleva ancora di più. In quanto a Ioana, dal giorno dopo, parlando con Sergio concitatamente ripeteva : è mio marito, è mio marito. Sembrava tornata indietro a otto anni prima, come se qualcuno avesse avuto accesso a premere d’improvviso il tasto del re-play di un film che si stava svolgendo con Sergio, nel cuore della Lomellina, e che sarebbe dovuto proseguire con naturalezza. Invece si era riavvolto e tornato curiosamente all’inizio. Il risultato era stato che il giorno dopo l’incontro con Călin, Floriga aveva
perduto un altro giorno di scuola e girava confusa per casa, Ioana si era tagliata accidentalmente con un coltello mentre affettava il pane e Sergio era stato sorpreso da Anna mentre prendeva a calci l’automobile.
XLV
Anna si era dimostrata tanto forte, con idee tanto chiare e nette da aver lasciato Sergio sbalordito. Non la ricordava così positiva, dotata di un’energia matura, equilibrata nei giudizi. Si era dimostrata un’amica, gli aveva manifestato stima, eppure Sergio aveva percepito chiaramente che Anna gli aveva chiuso delle porte per sempre, in modo deliberato. Ne provava sollievo e dispiacere allo stesso tempo. Avevano battuto strade diverse. A differenza di lui, Anna era andata avanti con gli studi e si era laureata in giurisprudenza a Milano, anche se poi non aveva svolto alcun tirocinio per l’avvocatura, avendo subito trovato un lavoro per la selezione del personale presso una agenzia di lavoro interinale. Indubbiamente aveva amicizie e riferimenti a Milano, sempre meno in paese. Anna aveva una reputazione praticamente irreprensibile: corretta, gentile, piena di tatto con tutti quanti. Non la si vedeva mai con uomini del posto. Ma si sapeva che a Milano aveva avuto più di una relazione, qualcuna disinvolta, un paio più serie e coinvolgenti. Sergio riusciva a provare un senso profondo di gratitudine per lei, nonostante il marasma di sentimenti e di emozioni che in quel periodo lo avviluppavano. Ioana gli aveva chiesto di sospendere per qualche tempo i loro rapporti, finché non avesse fatto chiarezza in modo definitivo. Non aveva avuto però il coraggio di proibirgli di vedere Floriga, lasciava che la bambina gli corresse incontro quando lui andava a prenderla a scuola, che gli saltasse in braccio, che insieme rincorressero il cane nei prati. Ma le cose non erano più quelle di prima. Senza sbagliarsi, Sergio avvertiva che le risate di Floriga echeggiavano di un nuovo vanto, di una sicurezza nuova che lo oltreava. I giorni presero a bruciare lentamente nel loro fumo sottile; Ioana era inquieta, le notti di Sergio erano insonni e turbate. Non si sentiva venire avanti nulla di buono. Un uomo s’era messo da tempo in cammino per tornare a riprendersi ciò che non era più suo, tutto il mondo che ora apparteneva a Sergio.
XLVI
Ascoltare Ioana costava a Sergio una tremenda fatica. La stava lentamente perdendo, gli scivolava via. Quell’altro riprendeva quota, determinazione, una pesante concretezza. Riportava alla donna voci e immagini dell’infanzia, le parlava di luoghi, di storie e di speranze, di riscatti e paure sconosciuti a Sergio. Lei ogni giorno di più era presa, sempre più orientata. Quello si apriva un varco, deciso a uscire dalla clandestinità, a trovarsi un lavoro e un ruolo da far pesare. Sergio si sentiva mancare la terra sotto i piedi, era sempre più insicuro e nervoso. “Mamma dice che devo scegliere fra te e papà- gli aveva detto Floriga- Perché? Io voglio bene a tutti e due, anche lei. Perché bisogna scegliere?” Sergio l’aveva guardata fissamente. “Perché bisogna scegliere? Perché è così. Nella vita capita spesso. Si sceglie per non restare fermi, bloccati su una linea rigida. Bloccati da qualche parte, capisci? Si sceglie per salvarsi. Ma anche solo per continuare a muoversi, bisogna scegliere una direzione, a volte è una direzione qualunque, un azzardo; altre volte una direzione precisa, la sola direzione che sembra possibile in quel momento. E poi magari la vita si incarica di farti sapere che era quella sbagliata.” “Ma per me sarebbe bello vedervi sempre tutti e due, te e papà.” “Può sembrarti così, Floriga. Ma per me e per tuo padre non sarebbe affatto così. Se c’è lui è bene che non ci sia io e viceversa. Nessuno di noi due cerca te e la mamma solo per are il tempo piacevolmente insieme, mangiando gelati e facendo i giri in bicicletta per la campagna. Ciascuno di noi due vuole stare con te e la mamma per dare un senso alla sua vita, per realizzare tutto il progetto della sua vita, per lottare e lavorare insieme e trasformare il mondo e trasmetterti tutte le cose che conosce e in cui crede. Io mi batto per quello che sono io, e tuo padre si batte per quello che è lui, e non possiamo occupare lo stesso posto, capisci?” Floriga e Tenente Colombo, il cane arrivato dal canile, stavano entrambi seduti, fianco a fianco, entrambi con la teste inclinata di lato e lo sguardo intenso, teso nello sforzo di capire le parole di Sergio che parlava da solo, per sé.
“Come spiegarti, Floriga? Se hai più di un vestito, più di un giocattolo, più di un amico, hai una ricchezza; sì, più amici che ti si affiancano, ti accompagnano per la strada senza poter imbrogliarti nelle tue radici e si possono anche staccare, capisci, e questo può farti dispiacere, può deluderti, ma tu continui a sapere chi sei, a essere quello che sei, la tua identità resta intera, sincera, conosciuta e tu puoi continuare ad andare avanti e ad affrontare tutti i torti, tutti gli affronti della vita. Ma se nella vita ti capita di avere più di un padre, più di una madre che rivendicano questo ruolo, allora è come se in realtà fossi più povera, perché vuol dire che è accaduto qualcosa nella tua esistenza che non doveva accadere, una specie di brusca interruzione, un fallimento……, forse un lutto. E allora devi essere capace di incassare questa situazione, di lavorarci sopra con la testa e con i fatti per farle superare i suoi limiti e trasformarla in un’altra forma di ricchezza, con dei caratteri un po’ diversi dalla prima, più difficili da riconoscere, più precari. Ci sono cose, nella vita, che sono nostre per eredità, per diritto di nascita, altre è come se ci venissero prestate.” “Che peccato che tu e papà non potete trovare un accordo” “Dimmi, Floriga, siccome non è da tanto tempo che conosci tuo padre, cos’è che ti ha fatto affezionare subito a lui?” “Ma, non so. Lui si commuove sempre quando mi vede. Mi vuole molto bene, sai? Pensa che sono molto intelligente e dice che devo avere una vita migliore di quella che hanno lui e la mamma. Dice che quando sarò grande andrò in giro per il mondo a testa alta perché i miei nonni mi proteggeranno sempre dall’aldilà. Ma lo sai, Sergio? Io, mio papà e la nonna, abbiamo la stessa faccia, gli stessi occhi, e una fossetta uguale sul mento!” Floriga sorrideva radiosa. Sergio si arrese a quelle parole e a quella luce.
XLVII
“Sergio mi ha detto queste cose quando gliene ho parlato. Ma tu cosa pensi, papà? E’ vero che mamma deve scegliere? E anch’io?” Călin era sopraffatto dalla spontaneità perfetta e cruda della bambina, nessuna
ombra, nessun velo di ipocrisia, nessun riguardo, massima durezza infantile. Una tortura. Solo l’incalzare di quella odiosa domanda gli provocava rivolta, dolore. Accidenti, Floriga, ma cosa ti posso dire? Possono essere utili le parole? Sino a che punto? Tuttavia quell’altro ci aveva provato, era stato onesto e intelligente, era stato sorprendente. Călin avvertì mescolarsi sentimenti che lo aprivano e lo ferivano: una sorta di inconfessato rispetto, una fitta forte di invidia, un’onda di gelosia temperata dalla certezza che Ioana tornava da lui e con lui voleva ricominciare con tutta la sua sincerità. Gli sembrava. Era uno sforzo enorme andare oltre quegli otto anni. La bambina lo disorientava, temeva per lei. “Sì, bisogna scegliere, Floriga. Mamma ha già scelto. Ha scelto di tornare con me perché noi siamo una famiglia. Lo siamo da quando sei nata tu, che sei nostra figlia. Volevamo esserlo già da prima”. “Ma anche Sergio vuole bene a me e a mamma “ “Sì, Floriga. E posso capire che anche tu gli sia affezionata” “Anche mamma, sai, gli è affezionata” “Anche mamma, posso capire. Ma io, solo io, sono tuo padre. Per dare la vita a un bambino, per farlo nascere, un miracolo, una cosa meravigliosa, Floriga, la natura si è sempre affidata a un solo uomo e a una sola donna, un padre e una madre e i loro piccoli. Gli altri sono esclusi, Floriga. Un solo padre, una sola madre.” “Certi papà però sono cattivi. Anche certe madri.” Călin si era preso il viso fra le mani. “Floriga. Se io ti chiedessi di scegliere me solo perché ti sono padre naturale, credo che farei una prepotenza. Ti farei torto, dopo tutta la storia che hai vissuto” “Anche a Sergio?” “E chissà. Forse anche a questo Sergio con cui sei cresciuta così felice mentre io ero lontano. No, Floriga. Io ti chiedo di riconoscermi come padre perché fare da padre alla mia bambina è il mio più grande desiderio, voglio che sia l’impegno della mia vita, desidero la tua felicità, desidero proteggerti. Un figlio, il padre lo insegue, lo cerca per tutto il mondo, fra tutti gli altri esseri umani, finché non
l’ha ritrovato, comunque sia. Io ti ho generato e adesso con tutta l’anima voglio adottarti. Ti chiedo di voler essere mia figlia. Perché hai il mio segno, la mia fossetta nel mento, e perché hai tutto il mio amore. Per questi due motivi te lo chiedo.” La bambina appariva un po’ scombussolata, ma abbastanza felice e la sua risposta fu sorprendentemente rapida, come fosse maturata in un battibaleno nel campo di grano di un meraviglioso egoismo infantile o comunque di un’energia istintiva che poteva farle da bussola. Floriga era spinta dalla vita verso la vita, era nel pieno del suo viaggio e in qualche oscuro e inspiegabile modo conservava in sé l’immagine e la memoria del suo futuro, come se il suo cammino verso l’età adulta, per poter svolgersi appieno, senza equivoci, dovesse chiudersi simile a un anello, doppiando uno stesso punto: il ritorno ideale alla casa paterna, dove tutto era cominciato e da cui ci si era dispersi. “Va bene. Tu mi chiedi di scegliere te per due motivi, mentre Sergio può chiedermelo per un motivo solo. Credo che sceglierò te perché tu sei il mio papà naturale e il mio papà adottivo”. Ma c’era un’ultima prova, insindacabile, cui Călin doveva essere sottoposto. Una prova ultima, come quella delle fiabe, la prova che può trasformare la bestia nel principe e la radura di rovi in una splendida dimora. La prova che consiste in una domanda apparentemente facile ma che richiede un’unica risposta data senza tentennamenti, un’unica risposta senza alternative che deve procedere nel senso di una condivisa, indiscussa felicità. Oppure prevarranno i rovi e nessun bacio potrà risvegliare una principessa dal suo sonno stregato. “Con noi viene anche Tenente Colombo, vero?” Tenente Colombo. Il segno vivente e scodinzolante dell’amore di un altro uomo per la sua donna e la sua bambina. Una testimonianza quotidiana di ricordi cari dove Călin non poteva in alcun modo entrare. Un cane da sistemare in un appartamento che stava affannosamente cercando e che faticava a trovare per dei cristiani. Un cane che un istinto sicuro gli suggeriva di non poter assolutamente separare da sua figlia. “Tenente Colombo viene con noi, è adottato anche lui” Floriga gli buttò le braccia al collo.
XLVIII
“Mamma, allora papà verrà a vivere con noi?” Ioana aveva sussultato. Călin su un territorio grande come un fazzoletto dove gli incontri con Sergio sarebbero stati anche troppo frequenti? No, non andava. “Andremo noi a vivere con papà. Torneremo a Torino, la città dove sei nata.” “E la nostra casa?” “Metteremo la casa in vendita, così avremo un po’ di soldi e potremo aspettare senza troppe ansie che papà abbia un lavoro regolare.” Già. Ma quando Călin avrebbe regolarizzato la sua posizione? I tempi erano sempre lunghi e i cavilli burocratici onnipresenti. Ioana si stava attrezzando per un’attesa lunga e pesante, infarcita di complicazioni. Ma come la prima volta di Călin in Italia era stata attraversata da non volute interferenze negative e violente che avevano stroncato il suo percorso, così ora si stavano verificando strane e non previste congiunture in senso opposto, che sembravano voler facilitargli ogni aggio, essendone per altro Călin del tutto ignaro. Come se qualcuno volesse fargli pervenire informazioni, portarlo a conoscenza di offerte di lavoro a lui accessibili, suggerimenti precisi, trovava sovente nella cassetta delle lettere dell’amico che lo ospitava volantini, opuscoli, giornali con aggiornamenti legislativi e pratiche d’ufficio da espletare per chiarire la sua posizione in Italia. E le offerte di lavoro sembravano già selezionate, riordinate, la maggior parte diligentemente provenienti da Torino o negli immediati dintorni. Finché davvero, invischiato nell’ordine di quella trama che lo spingeva avanti, riuscì in tempi soddisfacenti a inserirsi in una fabbrica di prodotti chimici con assunzione regolare se pur inizialmente a tempo determinato. Con gli straordinari Călin guadagnava bene. Tutto era andato in modo straordinariamente liscio, e Călin e Ioana sembravano persino lievemente perplessi, timorosi. Ma si lasciavano andare nell’onda della vita, accettavano gli eventi. Il monolocale fu messo in vendita. Floriga si congedò dalle maestre, dalle compagne, da Sergio. Sergio la baciò e le raccomandò di non dimenticarlo. Poi baciò Ioana sulle guance e sui capelli e rimase fermo, con gli occhi asciutti, a guardarle mentre si allontanavano, sapendo che il giorno dopo un treno le avrebbe portate via, da
quel Călin che le aspettava a Torino. Floriga e la mamma trascorsero così l’ultima notte nel minuscolo appartamento tanto amato. Floriga a dormire, felice, eccitata, con accanto la valigia già pronta per il treno che avrebbero preso alle prime luci del mattino. Ioana a piangere, seduta sul pavimento, a piangere tutta la notte per i suoi giorni rumeni, per la nonna paterna che non era più accanto a lei, a pregare con lei un Dio cui chiedere misericordia, per i suoi genitori smarriti, per l’Italia delle sue speranze, per Sergio che l’aveva amata e che lei aveva amato. Per Călin che aveva sofferto e bruciato troppi giorni, per la sua bambina, per se stessa. Pianse tanto, Ioana, che la mattina dovette attraversare le strade placide e deserte del paese, con un paio di grandi occhiali scuri sul volto, anche se il sole era dolce, appena levato.
XLIX
Anna le seguiva con lo sguardo, le vedeva partire nell’alba chiara e fresca. Aveva scostato appena la tenda e rabbrividiva con indosso solo la biancheria intima e sospirava. Se era onesta con se stessa, doveva ammetterlo. Non sapeva neanche lei per quale ragione, ma si sentiva sollevata. L’intero paese le sembrava tornare a un equilibrio precedente che le pareva più naturale. “Strano, -pensò silenziosamente- questo mio modo di cercare di liberarmi da ricordi ingarbugliati, legati a uno smacco e a un dolore che hanno fatto parte della mia vita e che per un po’ mi hanno intossicato. Strano, perché ero convinta che non potevano più minimamente toccarmi. E invece mi hanno rimescolata e agitata, mi hanno costretta a fare qualcosa per accelerare la partenza di questa donna e ritrovare la mia pace. Un po’ mi sono vendicata, usando buone azioni come una clava, solo io posso sapere che le mie intenzioni non erano per niente edificanti. Questo è il modo di vendicarmi che posso accettare e mettere in atto senza scompensarmi : piccoli atti di sostanza buona di cui solo io conosco perfettamente il rovescio. Che siano felici, ma lontano. Un po’ più in là, per favore.” Già, perché era stata lei a far pervenire nella cassetta della posta di Călin tutte le informazioni possibili e immaginabili in modo che potesse di nuovo rifarsi una vita portandosi via Ioana. Era stata lei che aveva telefonato in giro proponendolo e segnalandolo, praticamente all’insaputa di lui che nemmeno la conosceva. Indubbiamente si era data un gran daffare. La cosa curiosa era che non aveva alcuna intenzione su Sergio. Il loro momento speciale era ato. Era stato spazzato via. Che Sergio le avesse con tanto impeto preferito Ioana era stato sufficiente per lei che d’improvviso si era sentita invisibile agli occhi di lui e da sola si era confinata in una zona di silenzio risentito. Ecco, l’umiliazione le aveva impedito di mettere in scena anche le rimostranze più legittime e scontate di un innamorato respinto. Sembrava, allora, in preda a paralisi. Anche si sarebbe troppo vergognata se non avesse congelato sul nascere lo straripare limaccioso di vittimismi e sentimenti cupi e negativi che la tentavano. Ma poi si era ripresa in pieno, la sua giovinezza aveva saputo andare avanti spedita. Ora non voleva più Sergio, ma le stava bene la partenza di Ioana.
L
Eppure, oltre la ragionevolezza di entrambi, sapendo che era un gesto superfluo e non necessario, senza giustificazione e senza scopo, si erano ritrovati, in quel particolare modo, una volta ancora. Era accaduto dopo che Sergio aveva condotto a Torino un esagitato Tenente Colombo che aveva soggiornato presso di lui ancora quasi quindici giorni dopo la partenza di Ioana. La restituzione del cane rappresentava l’ultimo atto, l’ultimo e definitivo addio. Nella piazza torinese a Sergio il cuore batteva da far male. Ioana, che un attimo prima non c’era nella piazza immobile e vuota, si era staccata all’improvviso, sorprendentemente, dal bordo di un marciapiede e gli era andata incontro da sola, lasciando Călin pochi i dietro di sé, oltre la strada che improvvisamente manifestava un traffico assordante. Il guinzaglio del cane era ato dall’uno all’altra e loro due si erano stretti la mano come due colleghi, due discreti conoscenti. Sergio non aveva osato guardare apertamente nella direzione di Călin pur avendone una voglia incontenibile. Ma aveva sentito che al di là della strada e dello stordimento del traffico, lo sguardo di quell’altro lo traava, lo penetrava fin nel cervello, nel midollo. Nel contempo sentiva confusamente le poche parole rotte di Ioana. Lei era commossa ma Sergio avvertiva la sua fretta di riattraversare la strada. Due ore di automobile e non più di due minuti per l’incontro. Ioana, Floriga, Tenente Colombo non gli appartenevano più e lui non aveva più nulla da spartire con loro. Sapeva che non le avrebbe mai più riviste, mai più cercate. Se ne andavano con un uomo che aveva sofferto e di cui lui non conosceva il volto. Călin e Sergio non avevano certo sentito il bisogno di presentarsi e di mescolare parole. Sergio si era precipitato come una furia sulla strada del ritorno. A casa si era fatto una doccia, si era cambiato ed era andato a suonare il camlo di Anna: che fare? Lei, ammutolita, l’aveva lasciato sfogare, parlare e parlare. La sola povera cosa che era venuta in mente ad Anna era stato di proporgli di andare a mangiare insieme, per non lasciarlo troppo solo con quel bisogno di parlare a voce alta per spiegarsi le cose, per ricomporle. Pensava che se avesse mangiato un po’ si sarebbe calmato o almeno momentaneamente distratto. Allora lui, approvando, era di nuovo risalito in macchina, aveva scartato tutti i posti vicini e aveva guidato sino a Pavia, testardamente. Avevano
trovato una trattoria dove avevano mangiato troppo. Ed erano tornati troppo tardi, stanchi in maniera bestiale. Ma era sembrato così naturale, quasi dovuto, il are la notte insieme, mandando tutto al diavolo. Due adulti liberi, consapevoli, con tutte le loro storie che al momento stavano alle spalle. Due adulti che in fondo un po’ di bene se lo volevano. Non era stato bello. Erano mancati l’appetito, la gioia, la ricerca. Perché non si erano astenuti? Se l’avessero fatto, fra loro avrebbero salvato di più, una complicità adamantina e disinteressata che poteva anche arrivare ad avere un profumo di libera felicità. Così invece erano approdati a una sola certezza: fra loro non c’era più una vera attrazione, quella sessuale, quella speciale attrazione che è fisica e mentale e immaginativa insieme e accende i fuochi vitali dell’esistenza. Tutti e due avevano compiuto troppi i in direzioni diverse così che il loro modo di guardarsi era ora misurato e tiepido, avevano anche perso i contatti con la loro sostanza di adolescenti e la spontanea intimità del ato. L’imbarazzo era palpabile mentre bevevano il caffè del mattino. Venne a liberarli, a riportare le cose al loro posto, una giornata di lavoro con i suoi problemi riconoscibili e quotidiani.
LI
Anna prese a tornare al paese più raramente anche nei fine settimana. Diventava sempre più milanese, si staccava dallo sfondo di sempre con più decisione. Le sue interruzioni del lavoro nell’arco dell’anno per le vacanze erano brevissime : cinque, sette giorni al massimo e sempre all’estero con l’ausilio di un qualunque Tour Operator e la compagnia improvvisata e anonima di sconosciuti che il caso aveva condotto allo stesso viaggio, agli stessi svaghi. Sergio, nonostante l’amicizia, la lasciava andare senza richiamarla; il paese la lasciava andare, immobile e tranquillo, sempre uguale a se stesso. Sergio al contrario nel paese cercò rifugio come in un bozzolo, come se tutto il suo breve territorio fosse stato un gomitolo di lana da dipanare e da avvolgersi intorno. Riprese a frequentare vecchi amici, a recuperare compagni di scuola, a intensificare i contatti con le famiglie del vicinato. La sera dopo cena, regolarmente, scendeva al bar dove si discuteva sempre delle stesse cose : la politica, lo sport, la coltivazione degli orti e di chi era nato, di chi era morto o si sposava o si trasferiva. Più che mai a Sergio andavano gli ambienti circoscritti, fitti di relazioni capaci di continuità, le conoscenze di vecchia data che garantivano solidità ai rapporti. Gli andava la familiarità dei cieli e dei dialetti, il darsi una mano tra vicini; voleva vivere una vita di ape, di formica, di sensazioni semplici e concrete. Già il primo settembre che rimase solo riprese a frequentare le feste patronali dei paesi vicini, a essere presente alle sagre gastronomiche mentre negli Oratori si svolgevano i campionati rionali di calcio giovanile e le gare di briscola e di scala quaranta e sotto le tende bianche, dove si mangiava, si era attraversati da ondate festose e fibrillanti di suoni e brani delle bande musicali che trasformavano i volti, li rendevano più belli, facevano brillare gli occhi e il vino rosso. La notte gli immancabili fuochi d’artificio che esplodevano sulle campagne splendendo nel buio, contribuivano a modificare gli stati d’animo malinconici e chiusi, lasciando salire verso l’alto il brusio della piccola folla assiepata, le chiacchiere, i canti, e i latrati dei cani. L’autunno festeggiava tutti i Santi che era possibile, all’ombra delle vivaci parrocchie che brulicavano di un volontariato instancabile nel produrre cuochi, fornitori, assistenti, allenatori, sorveglianti delle antiche chiese spalancate con i loro tesori, animatori di bambini e di anziani, contabili e organizzatori di mostre e di cori. Solo con l’arrivo
dell’inverno i paesi entravano in apparente letargo, la vita ferveva sul piano del lavoro, si addolciva dopo il tramonto con i rientri serali di chi era stato fuori tutto il giorno. Sergio seguiva il ritmo con un certo sonnambulismo. Ritornarono nuove primavere e nuove estati sotto le stelle senza Ioana. A settembre riprendevano le feste locali, e Sergio riprendeva le sue peregrinazioni non prive di dolcezza e di piacere.
LII
Quell’anno Sergio inaugurò le feste paesane il 16 agosto con San Rocco, patrono di Vicolungo. La processione l’aveva guardata sfilare ai bordi della strada, ma dal momento che conosceva il parroco, aveva aiutato a sistemare i fiori freschissimi, appena colti e intrecciati dalle donne, nella cappella del Santo. Così si era guadagnato il tradizionale bicchierino di rosolio offerto nella casa parrocchiale dove stavano a chiacchierare le perpetue, gli uomini che avevano allestito i tendoni in piazza per il pranzo, qualche componente della banda musicale. La casa parrocchiale arredata con scuri mobili di noce aveva mura solide, profonde, e interni molto freschi. L’ambiente discreto, quasi ovattato, il rosolio e la frescura alimentavano in Sergio una sensazione di serenità e benessere che lo faceva sentire ben disposto verso il mondo. Gli pareva addirittura di essere attraversato da una lieve euforia e sorrideva a tutti con sincerità, attaccando discorso con uno o con l’altro. Scambiò anche due battute con una giovane donna del gruppo musicale, all’interno di una conversazione con altri. Ma ancor prima di uscire si accorse di aver fissato la sua attenzione su di lei, la suonatrice di clarinetto dalle mani piccole ma abili. Lei si era imposta in pochi attimi, relegando gli altri presenti sullo sfondo. Maria aveva una bella voce e rideva in modo contagioso. Maria che amava la musica era figlia e nipote di ciabattini pugliesi che erano venuti a stabilirsi al nord. L’eredità meridionale era nei suoi capelli di un castano scuro intenso, con riflessi cangianti sotto il sole, e nei suoi occhi color caffè. Vicolungo, pensava Sergio guardandola, è un bel nome per un paese, un nome che ha un senso, un nome descrittivo. Poteva essere il nome di un paese su cui costruire una storia, una favola, forse. Esisteva davvero Vicolungo, era reale, così tutto sospeso nel suo rosolio e nelle sua processione bianca in quel ferragosto sonnolento? Maria era in procinto di andarsene, salutava. D’improvviso gli si era rivolta. “Di dove è lei? Mi hanno detto di Nibbiola. Che nome carino, viene in mente un paese di piccole nebbie, il paese che appare e scompare, un miraggio insomma. Ma è vero che non avete una banda musicale? No, questo non va. Guardi, va a finire che se mi capita di sposare uno di Nibbiola e di venirci a vivere, la banda la fondo io e la faccio suonare tutte le domeniche!”. Rideva apertamente, Maria. Ma Sergio non rideva affatto. La fissava affascinato come un serpente. Lei aveva espresso a voce alta lo stesso pensiero, lo stesso sentimento che aveva avuto lui: i nomi dei paesi, i nomi fatati. Lei sentiva come lui, in lei prendeva forma lo stesso immaginario
che prendeva lui. Ma allora le loro emozioni potevano incontrarsi, comprendersi e moltiplicarsi. Così era. Sergio si era innamorato di Maria totalmente, in un solo momento. E gli pareva quasi di amare per la prima volta.
LIII
Floriga cresceva a Torino in una situazione di stabilità e di piccolo benessere. Suo padre aveva cambiato più di un lavoro ma non era mai stato disoccupato. Si era iscritta al liceo psicopedagogico e, arrivata a quindici anni, aveva sempre qualche soldino per sé, per poter frequentare le librerie e andare al caffè o al cinema con le amiche, anche se non era mai stata a teatro. Floriga era curiosa e interrogativa. A scuola era brava in modo speciale, studiava con una specie di furore ma aveva legato solo con pochi compagni. Partecipava agli atti di culto della sua religione raggiungendo con i genitori una delle chiese ortodosse dove incontravano anche ucraini e bielorussi, e parallelamente frequentava senza problemi un oratorio cattolico con qualche compagna di scuola. Le due Chiese le parevano comunque non così dissimili : le liturgie, le immagini sacre e le icone, i canti, gli stessi sacramenti, i Santi comuni dei primi secoli le parevano un patrimonio misto che lei non sapeva districare. Parlava un italiano molto ricco, con minor sicurezza il rumeno che pure i suoi genitori usavano spesso fra di loro. Amava suo padre ma spesso pensava a Sergio, specialmente aveva pensato a lui con il cuore stretto il giorno di strazio in cui era morto Tenente Colombo e lei il giorno dopo compiva tredici anni e la sua infanzia si staccava da lei per sempre. Per consolarla Ioana aveva portato in casa un micino adorabile ma Floriga non poteva dimenticare il suo cane. Un po’ in tutte le cose Floriga si sentiva doppia e divisa a metà e tutto questo le alimentava un’ansia, un allarme interno a volte difficile da tenere a bada. Era sempre molto attenta, molto vigile riguardo alle persone e a tutto ciò che le accadeva intorno, capace di trasformare l’attenzione in prudenza, in desiderio di controllo. A Ioana la figlia appariva a volte turbata, lievemente nevrotica, anche se era una ragazza piena di progetti e di voglia di vivere. Tuttavia Ioana sapeva che per strada la ragazza aveva il vezzo fastidioso di voltarsi continuamente, come se temesse di essere seguita, chissà poi da chi. Inoltre Floriga non si lasciava avvicinare con facilità, persino con gli altri studenti non si lasciava trascinare a feste o incontri, sempre un po’ sulle sue; dai suoi discorsi traspariva l’idea di dover stare in guardia, come per prevenire atti o intenzioni di prevaricazione sulla sua persona (furti, scippi, stupri?) da parte di malintenzionati. Călin approvava. Torino era una città difficile. Ogni mattina all’angolo tra via Sacchi e corso Vittorio Emanuele facevano affari indisturbati i piccoli truffatori delle “tre carte” intercettando i più anziani e i ragazzini, mentre al capolinea della linea Sadem per l’aeroporto
venivano sistematicamente ripuliti i eggeri in attesa del bus e a ogni ora era facile veder vagare a Porta Nuova, come fantasmi, figure allucinate di drogati inebetiti; oppure aggressivi e tormentosi mendicanti o rapaci zingari bambini. A Ioana dispiaceva che l’adolescenza di sua figlia non fosse spensierata.
LIV
Però era vero, non poteva dare torto a Călin. Torino era una città ancora elegante e illuminata, dal tratto architettonico squisito; vantava la sua cultura, il Festival del Cinema, la classe del Regio Teatro, le tradizioni letterarie, il Politecnico, l’atmosfera vagamente mitteleuropea dei suoi interni, i Caffè sofisticati della cioccolata calda in tazza, ma v’erano zone in mano a criminali sempre più agguerriti e più sfacciati e una polizia logorata e perplessa, malpagata e sbeffeggiata. Tuttavia poliziotti e carabinieri erano sostenuti da un consenso popolare sempre più alto e compatto, sempre più visibile. Erano diventati i nuovi eroi, apionavano. E per questo, solo per questo, continuavano a battersi e ad ascoltare la gente, a prenderla sul serio senza mai voltare le spalle a nessuno. Là dove lo Stato non c’era, là dove il sostegno veniva centellinato, dato e sottratto sulla via di vergognose ipocrisie politiche, subentravano i cittadini, le famiglie, la gente della strada e delle piazze a dire “bravi” agli uomini in divisa, a incoraggiarli, a schierarsi al loro fianco. Călin osservava, registrava questa realtà emergente con sentimenti di speranza, si sentiva partecipe e costruttore, si sentiva vendicato del disprezzo e della punizione che gli erano stati inflitti quando era stato solo ad alzare la testa per denunciare e testimoniare. Ora non era più solo. Ora ogni retata contro gli spacciatori cui aveva assistito ultimamente era stata preceduta, favorita, preparata da un concerto di messaggi telefonici, da una robusta ragnatela di segnalazioni e informazioni che attraversavano l’aria in buon italiano segnato da tutti gli accenti d’origine possibili : torinese, campano, pugliese, veneto, albanese, rumeno, egiziano, senegalese. Accadde così un giorno a Floriga, in attesa del 16 lungo Corso Cairoli, mentre si guardava fissamente la punta delle scarpe per evitare di alzare gli occhi sui sei spacciatori che presidiavano tutti i giorni la fermata, di percepire con la coda dell’occhio un movimento curioso, un evento che la rallegrò e la spaventò insieme. Da sotto alcune delle macchine in sosta vide strisciar fuori come gnomi uomini che quando dalla posizione in ginocchio si alzarono totalmente in piedi apparvero di robusta costituzione, cittadini torinesi soddisfatti, e uno di loro mostrò di aver vinto la lotteria, agitando il sacchettino pieno di droga rinvenuto sotto una Opel, mentre i sei corrieri, colti di sorpresa e circondati da una trentina di altri cittadini sbucati improvvisamente, mostravano una maschera di stupidità e di inutile odio ma anche uno stupore di ragazzi lungo, senza fine, mentre i cellulari chiamavano le forze dell’ordine. Angeli
metropolitani vagavano dunque anche a Torino e pattugliavano silenziosi la città pur senza pettorine colorate né alcun segno di riconoscimento, mentre i City Angels consolavano nei telefilm del tardo pomeriggio fantasie televisive. In questo clima camminava, mangiava, studiava, cresceva Floriga. Forse per questo aveva imparato a osservare i anti, i compagni occasionali, il loro modo di vestire, gli sguardi, i gesti, quasi studiandoli, come per interpretarli. Anche dopo, terminato il liceo, conquistata una libertà da adulta, Floriga esercitò antenne segrete. Schivava un certo tipo di persone, anche apparentemente innocue, seguendo un istinto sicuro. Niente pasticche, niente alcool. Aveva l’ossessione di conservarsi lucida e reattiva. Era arrivata al punto che se rientrava tardi la sera, alla guida della sua utilitaria, controllava senza infingimenti nello specchietto retrovisore di non essere seguita, puntava se mai su tragitti che la tranquillizzavano e non esitava a svegliare Ioana con il cellulare a notte fonda perché dal pianerottolo accendesse le luci sulle scale e nel sotterraneo dove si trovavano i garages e controllasse se entro pochi minuti lei non era salita. Se qualcuno si appostava che venisse smascherato. Ioana era rassegnata. Sovente era Călin ad alzarsi per compiere tutti i rituali che garantivano la tranquillità a sua figlia. Era orgoglioso di Floriga. Quella ragazza aveva sviluppato un sesto senso per la sua sopravvivenza e la sua difesa. Chissà chi glielo aveva insegnato. LV
A suo tempo il corteggiamento di Sergio fu breve e apionato. Maria capitolò subito, lo ricambiò con allegria ed entusiasmo. Volle un matrimonio con il prete, la musica, i fiori, l’abito bianco e tavole imbandite che scoppiavano di cibi saporiti e di amici. Da quel giorno Maria cantò e suonò per lui. Andò a vivere impetuosamente nella sua casa, dove Ioana non aveva mai voluto entrare, ma gli buttò tutto all’aria, rinnovò completamente l’arredamento, spostò i punti luce, e tutto fu più confortevole, più accogliente, più caldo. Maria cucinava per lui con un certo puntiglio e Sergio, senza che all’inizio se ne accorgesse, cominciò a ingrassare. Poi accadde una cosa meravigliosa che entrò nella vita di Sergio quasi accecandolo di gioia: la nascita di una figlia. Gli sembrava quasi di non poter riprendersi da una sorta di stupore, come se non potesse attendersi davvero un simile avvenimento, come se non potesse credere che fosse toccato proprio a lui. La bambina aveva il visetto rotondo e pieno di una piccola mela con gli
occhi scuri. Le venne dato il nome di Lucia. In quell’occasione Anna si fece viva, gli mandò gli auguri e Sergio percepì la simpatia autentica che lei provava per Maria e la bambina. Le fu grato sino a sentirsi commosso. Anche Ioana e Floriga a Torino avevano saputo per puro caso del matrimonio di Sergio. Ioana fu felice per lui con tutto il suo cuore, pregò a lungo per la sua felicità. Ma Floriga, già quasi donna, aveva provato una fitta dolorosa di gelosia per la neonata, per la vita nuova, intatta, perfetta, che dormiva sicura tra le braccia del padre. Solo una fitta veloce subito allontanata, negata. In fondo Sergio era stato anche suo padre per otto anni; aveva occupato il posto del padre che doveva tornare.
LVI
Cos’era successo? Come era stato possibile? La vita da tempo procedeva lenta, tornita, ben costruita e limata, con la sue certezze familiari anche se fuori era tempesta. Le carte non potevano essere rivoltate con tanta furia, tanta violenza, all’improvviso. Era così crudele. Gli occhi bruciavano, si paralizzavano i pensieri. Ioana non riusciva quasi a respirare, non poteva camminare perché i piedi non la reggevano, non se li sentiva, anzi non c’erano più anche se all’esterno appariva intatta e integra. Perché lei soffriva e impazziva in sintonia con Călin. Era Călin a non essere integro. Era andato a lavorare come sempre, dopo averla salutata. Lei si era messa a lavare le scodelle della colazione e un raggio dorato di sole batteva sulle piastrelle in cucina. L’aria era ferma, serena. Nessun presentimento. La vita fluiva come sempre. Lui era sull’impalcatura, le avevano detto, si muoveva bene. Come sempre. Poi qualcosa aveva ceduto, forse era intervenuto il diavolo in persona, un’intenzione maligna e arbitraria aveva mosso i venti, scardinato e sconnesso, qualcosa si era staccato, era precipitato travolgendo Călin, sotto sguardi impotenti e volti impietriti in smorfie di orrore. Călin era rimasto ferito a terra con i piedi imprigionati sotto una trave per tre ore, in attesa di soccorsi meccanici attrezzati. Poi, all’ospedale, i piedi glieli avevano amputati. All’ospedale Floriga era svenuta, si era ripresa, era svenuta nuovamente. Ioana si limitava a non sentire i propri piedi. Rifiutava di averli, poiché Călin non li aveva più. Poi, dopo giorni di agonia per complicazioni polmonari, Călin era morto. Per molto tempo Ioana pensò che “morto” era una parola che non aveva senso. Călin doveva pur essere da qualche parte. Călin non le avrebbe mai abbandonate così, non le avrebbe mai lasciate sole senza ragione. I giornali, anche quelli a tiratura nazionale, riportarono il fatto. Negli spazi possibili ai commenti pubblicavano articoli raccapricciati delle morti sul lavoro, chiamavano in causa i politici, le istituzioni, le imprese. Sergio lo lesse sul giornale. Ne fu colpito come da uno schiaffo violento in piena faccia. Raggiunse Anna per telefono, si affidò a lei perché fosse lei a mediare, la supplicò di sostituirlo in un intervento di conforto che lui non osava mettere in atto in prima persona. Egli non si sentiva di esporsi, di riannodare delle fila poi difficili da sciogliere e da allontanare,
ormai era responsabile di Maria e della sua piccola bambina e completamente preso da loro. Lasciava spazio alla pietà e alla commozione ma nella chiarezza estrema del suo nuovo ruolo di padre e di marito. Era terribilmente addolorato, perché non sopportava che Ioana e Floriga, che mai più aveva visto né sentito, dovessero soffrire così crudamente. Com’era ingiusto tutto ciò! Ed era profondamente addolorato per Călin, perché aveva imparato da lontano a stimare quell’uomo, ad averne rispetto. Di più, per quanto potesse sembrare assurdo, ora gli pareva di amarlo come avrebbe potuto amare un fratello.
LVII
Ioana si era chiusa in un dolore senza nome, un dolore feroce che non si risolveva. In quanto a Floriga, lei precipitava in caduta libera, nessuno poteva frenarla né raccoglierla: lei che aveva avuto due padri meravigliosi, che aveva dovuto escluderne uno per non perdere l’altro, ora non aveva più nessun padre. Due lutti. Sergio perduto, sposato con una sconosciuta e papà di una bambina tutta sua. Călin morto. I due padri che lei aveva amato, di entrambi i quali avrebbe desiderato essere figlia, per vivere dentro il loro universo di felicità e protezione. Allora nulla avrebbe potuto scalfirla. Quando Anna ebbe l’ardire di raggiungerle a Torino (sapevano molto l’una dell’altra ma mai si erano direttamente frequentate) per portare le sue condoglianze e quelle di Sergio e quelle della maestra elementare di Floriga, le due donne subirono come una scossa, un risveglio che rinvigorì il dolore. Anna portava anche consigli e informazioni per ottenere rimborsi e assistenza sociale e una somma di denaro che era stata raccolta in paese. Ioana e Floriga comprendevano senza bisogno di parole perché Sergio non si era fatto vivo, il discorso scivolò appena su di lui. Ma Anna raggiunse davvero il suo scopo perché vide che madre e figlia si sentivano meno abbandonate ed erano piene di gratitudine per la solidarietà e più ancora per il ricordo che avevano lasciato dietro di sé in quel paese di risaie. Quella sera, partita Anna, Ioana pianse a lungo. Ripensò alla sua vita che si era così complicata, che le aveva creato tante difficoltà sin dalla fanciullezza, ripensò a Sergio, a Călin. Ai due uomini che aveva amato, che avrebbe voluto avere entrambi in due vite parallele: c’era stata, nella sua vita, una gioia più grande dell’essere stata amata da tutti e due? In certi giorni era stata una regina. Ma aveva dovuto scegliere. E a cosa era servito? Tutto si era dissolto, finito.
LVIII
Tutti i giorni, dalle 15 alle 18, Ioana era libera di andare a casa per preparare la cena a Floriga o per organizzarsi le sue commissioni. Dopo le 18 tornava dalla dottoressa novantenne Molteni a cui di mattina faceva la spesa e le pulizie e a cui procurava le medicine. La dottoressa, fragile e bianca come un’ostia, si aggirava lenta, con circospezione, dentro le stanze avvolte in un silenzio simile a una pesante coperta, un silenzio denso, compatto. La dottoressa aspettava ancora Ioana dopo le 18 affinché le scodellasse la minestrina e una mela cotta, e la congedava alle 20, ora in cui invariabilmente si coricava dopo aver preso la pastiglia per dormire. Allora Ioana riprendeva la via di casa sua dove Floriga quasi sempre l’aspettava per trascorrervi la notte insieme. I giorni avano nonostante l’assenza, avano nonostante il dolore; pieni, veloci, inesorabili. Sorprendentemente, Floriga si faceva più bella. La sua giovinezza si imponeva tranquillamente. Preparava una ricerca di psicologia per gli esami del diploma. Si era calata come in un salvagente negli studi e nelle lezioni di psicologia trascurando le altre materie. Ioana, da lontano, rifletteva su di lei. Era in quei libri, in quelle pagine, che cercava suo padre?
LIX
Era capitato, alcune notti, che Floriga si svegliasse all’improvviso e non potendo più sopportare di stare a letto si alzasse girando piano per casa, sorprendendo la madre seduta in cucina sotto la luce elettrica con una tazza di acqua calda tra le mani. “Cosa fai, mamma, non puoi dormire?” “Non posso dormire. Penso a tuo padre. Ai suoi piedi. Ho tante cose da dirgli. Ma non gli possiamo più parlare” “Mamma! Dammi la mano, mamma” “Il dolore che provo è insopportabile, è come una pietra che mi schiaccia. Se fosse qualcosa che potessi raschiare via con un coltello….” “Mamma, non farti schiacciare. Non devi farti schiacciare. Ci pensi a me? Lo sai, se avessimo abbastanza denaro per farlo…, no, non un coltello che raschia via, il coltello non può separarti dal dolore. Ma se io avessi abbastanza denaro, insomma, ti pagherei una terapia, tutte le sedute che potrebbero servirti da uno psicoterapeuta che ti potrebbe aiutare, potrebbe sollevarti un po’….” Allora Ioana si alzava, si riscuoteva. “Uno psicoterapeuta? Un estraneo, una faccia sconosciuta. Dovrei dargli un assegno perché ascolti le mie cose più intime, cose che prendono forma e mi restituiscono un qualche senso soltanto quando io ascolto me stessa, in solitudine, dentro questa cucina che porta ancora tutte le impronte di tuo padre? Come posso spiegare a uno che non ho mai visto chi era Călin e chi sono io? Su appuntamento, con l’occhio all’orologio? Ma va’. Come fare l’amore a pagamento.” “Mamma, non ti opporre così. Tu pensi troppo in solitudine. Uno psicoterapeuta è una sponda particolare, anche se non fa l’ amico.” “Può darsi. Ma io sento più consolazione quando piango abbracciata alle mie
amiche rumene e ci raccontiamo delle cose e anche loro piangono e mettiamo insieme le lacrime e le storie nella nostra lingua e poi quasi sempre mangiamo i nostri dolci fatti in casa da qualcuna di noi, e quelli sono i giorni che ci troviamo in chiesa a cantare insieme e preghiamo per non perdere la speranza. Dopo che le ho lasciate, in quei giorni, mi ritrovo davvero stanchissima, esausta, ma è come se avessi preso una medicina che mi calma e a volte mi porta il sonno la notte, un sonno davvero profondo e una specie di riconciliazione con il mondo intero. Come sappiamo parlare e piangere insieme, noi donne! Quanta immaginazione abbiamo per spiegarci la vita! Che bisogno abbiamo di un psicologo? Parlare con il pope, parlare con lui in confidenza, in rumeno, ascoltare il pope, ascoltare le sue parole, ricordarmi di Dio, questo mi fa bene, si stende sul mio dolore. La visita di quella donna, di Anna, essere state ricordate quasi da un paese intero, noi straniere……. Questo mi risolleva, quando ci penso, dalla disperazione. Averti qui vicino, Floriga, guardare i tuoi occhi che mi fanno impressione ogni volta che li guardo perché sono gli stessi occhi di tuo padre….pensare al tuo avvenire, alla tua vita…., questo mi spinge avanti. No, non disprezzo l’aiuto di nessuno. Nemmeno, in fondo, del tuo psicologo. Ma ci sono cose che stanno ai primi posti, e altre che vengono dopo, molto dopo.” Più volte Floriga aveva baciato la madre e le aveva detto che andava bene così, quello che contava era che lei, alla fine, si lasciasse aiutare, si lasciasse voler bene rifiutando la tentazione di respingere il mondo e soprattutto non si dimenticasse mai, nemmeno per un istante, di Floriga, la bambina che aveva perso due padri e che non poteva tollerare in alcun modo di smarrire per strada la madre.
LX
Tuttavia Floriga era condotta da un istinto di salvezza personale a guardare oltre. In qualche modo, in fondo, era la madre stessa a esserle di esempio. Così Floriga si aggrappò alla scuola, allo studio, fece inconsapevolmente ricorso alla protezione di alcuni insegnanti, lasciando sparsi segnali di richiesta di una maggiore attenzione e stima da parte loro. Voleva essere la preferita. La sua accresciuta diligenza e applicazione dopo la clamorosa disgrazia che l’aveva investita, l’attenzione vistosa con cui seguiva le lezioni, pur imbarazzando lievemente gli insegnanti, ottennero facilmente l’effetto sperato. Ugualmente si mise a coltivare con più forza l’ amicizia con le compagne di classe, specie con tre o quattro fra loro. Divenne assidua all’oratorio cattolico dove accompagnava le sue amiche a fare opera di volontariato con i bambini ai quali facevano fare i compiti, in una sorta di doposcuola confuso e multietnico. Floriga aveva adocchiato subito la piccola biblioteca della Casa parrocchiale e l’odore dei libri l’aveva attratta. Non c’era un granché: varie edizioni della Bibbia, dei Vangeli, narrazioni di vita dei santi, testi di storia e antropologia. Se doveva leggiucchiare qualcosa nei momenti vuoti, aveva deciso di non aver voglia di concetti astratti e grandi quadri generali in quella sede. Se non fosse risultato troppo noioso o stupidamente edificante, poteva intrattenersi con la vita di uomini e donne che avendo fatto, chissà su quali spinte interiori od esterne, certe scelte, erano divenuti per tutti i “santi”. Floriga sapeva che, dopo tutto, esistevano gli eroi divenuti tali per puro caso o magari per fraintendimento. Risultò, molto curiosamente, che la lettura della vita dei santi si mise a trascinare Floriga su un terreno per niente noioso, per niente tranquillo, per niente tranquillizzante. Anzi.
LXI
“Padre Pier Carlo?” “Buongiorno ragazze. Lascia pure i libri sul tavolinetto, Floriga. Mi stupisce quanto leggi. E adesso? Hai trovato qualcosa di interessante?” “Ma sì. Ancora la vita di una santa. E’ la vita delle religiose che mi affascina, la loro strada verso la perfezione. Le donne, intendo: sono audaci, padre Pier Carlo, vanno oltre ogni aspettativa” “Ah. Usi il termine perfezione come sinonimo di santità, credo. Di che sante hai letto?” “Insomma, prenda questa Brigida, questa Brigit anzi, questa cristiana irlandese che si chiamava come un’antica divinità pagana. Dice qui che è morta nel 524. Ma che donna è stata! Hanno scritto un poema per lei i suoi contemporanei, un poema da far girare la testa. Senta, leggo: “Splendida la bambina, splendida la dignità che ricadrà da lei. Sarà chiamata, grazie alle sue virtù, Potenza del Fervore. Un fervore invero divino”. Forse non è tutto chiarissimo, ma che importanza ha? Quello che si capisce è la forza e la dignità stupenda di questa figura femminile. Al confronto qualunque servizio televisivo o di cronaca mondana sulle nostre star è così patetico, presenta delle tali donnicciole!” Padre Pier Carlo considerava la giovane con una punta di perplessità. Poteva essere il caso di farla scendere di un’ottava. “Brigida di Irlanda, Floriga, è considerata la patrona delle lattaie e delle lavoranti dei caseifici” “Ma Padre! Era figlia di una schiava ed è diventata una badessa, un’eroina irlandese, una donna venerata da tutte le nazioni cristiane!” “L’ha salvata la Carità che ha esercitato senza riserve, influenzata da San Patrizio. La carità e la fede. Hai una visione un pochino distorta della santità, cara. Un punto di vista particolare.”
“C’è anche una Brigida di Svezia, vissuta nel 1300, anche lei badessa. Una mente eccezionale, una volontà d’acciaio. Una protagonista, Padre Pier Carlo, con altissime qualità femminili e virili insieme, una badessa che governava 60 monache e controllava tredici presbiteri, i quattro diaconi e gli otto fratelli laici del monastero, una badessa che aveva ottenuto dal re di Norvegia e Svezia un castello con tutti i possedimenti annessi per il suo ordine monastico e che era andata a Roma personalmente per presentarlo al Papa!” “Floriga! Tu mi parli di una scalata al successo, di emancipazioni travolgenti, non di un cammino di santità! Leggi le vite delle sante e le interpreti in un modo che sembra far saltar fuori la superbia invece dell’umiltà e del servizio!” “Le sembra un punto di vista poco cattolico, Padre? Ma forse ha ragione. E’ vero, io vedo nella vita delle sante una capacità di affermazione straordinaria, una lucidità, una forza trascinante che non saprei come chiamare. O forse sì. Potrei chiamarla ribellione. Ribellione al male. Ribellione a ogni forma di meschinità” “Floriga, Floriga! Sono sante per motivazioni ben diverse. Tu guardi in modo esteriore, fai brillare le loro doti umane. In realtà, forse in modo diverso l’una dall’altra, sono donne che hanno accettato di are tutte per la porta stretta, hanno accettato i riconoscimenti e le persecuzioni con lo stesso spirito, perché non hanno mai distolto gli occhi dal Signore e per questo hanno potuto amare il loro prossimo in modo eroico e comionevole anche nel quotidiano.” “Oh lo so che non basta una grande intelligenza e una forma di coraggio morale a fare una santa, però non conosco una sola santa che sia un’oca, insomma una donnetta con un profilo basso. Tutte queste donne possono essere solo un vanto assoluto per la Chiesa!” “E infatti lo sono, Floriga. Ma pensa a quelle giovani che ancora oggi lasciano ogni lusinga della modernità per entrare in clausura. Pensa alla loro umiltà, alla capacità di rinuncia!” “Intelligenza superiore, Padre, queste hanno colto e capito al volo qualcosa che ci sfugge. Non stanno propriamente rinunciando. Vedono solo un po’ più in là. E anche l’umiltà alla fine è solo una forma estremamente raffinata di intelligenza. Guardi, Padre, queste sante sono così infinitamente affascinanti, mi provocano una commozione così forte che a volte mi viene da piangere, veramente, mi
scorrono lacrime dagli occhi mentre leggo” “Così figliola chissà cosa leggi. Devi vedere le cose del mondo con più calma. Credimi, un giorno, quando sarai più avanti negli anni, capirai che tutto è molto più semplice di quanto tu abbia mai pensato e ti accorgerai che il punto non è solo di saper guardare lontano ma al contrario è di saper guardare vicino, quello che abbiamo sotto gli occhi.” Per il tempo che Floriga frequentò l’oratorio e la sua biblioteca, Padre Carlo sentì che quella ragazza aveva bisogno di trovare un punto fermo e rassicurante sulla sua strada. Bisognava aiutarla a mettere in relazione le cose fra di loro, a riflettere in modo rilassato, a operare dei distinguo.
LXII
Alla fine Floriga si era iscritta all’università attratta dagli studi di giurisprudenza, da quel processo tecnico e ideale che aspirava a regolamentare la giustizia, a darle un volto riconoscibile, a rintracciare una verità angusta ma puntuale alla quale fosse possibile riferirsi. Ioana non si stupì minimamente quando Floriga, ottenuta la laurea, fece domanda per andare a lavorare in polizia. La sottoposero a un tirocinio sistematico, facendola girare in tutti gli uffici, la istruirono sulle pratiche e le funzioni, cominciarono a farle raccogliere registrazioni, verbali, ad ascoltare testimonianze da sottoporre a valutazione. Floriga si rivelava per quel che era, una perfezionista. Lavorava con un ritmo sicuro, veloce, senza distrazioni. Lavorava provando nel farlo un piacere visibile, una soddisfazione spiata da altri con stupore. Era brava, era leale, a sua volta stupita dalle intuizioni, dalle previsioni, dall’esperienza dei colleghi che lavoravano sul campo da più tempo. “Ma come hai fatto, come hai fatto- chiedeva -a pensare a un particolare come questo, come hai fatto ad accorgerti?” e raccontava a voce alta nell’ufficio, dava testimonianza di ogni persona della squadra. Non speculava sulle bestialità che a volte le toccava vedere, non si capiva se per generosità o per disprezzo assoluto. Ioana si accorse con sollievo che la bravura di Floriga si nutriva di anticorpi che arginavano le invidie, sua figlia si era imposta di essere brava per soddisfare un’idea di dignità più che un’idea di orgoglio. Nelle pause del pranzo Floriga frequentava una trattoria vicina alla Questura con un giardinetto sul retro, tende spesse alle finestre, con tovaglie e tovaglioli color turchese e un tavolo sempre pronto di buffet gustoso, casalingo, con formaggi, frittatine, verdure crude e grigliate e olive e cipolline al quale lei amava servirsi. Ci andava, in quella trattoria, anche Giacomo De Grandi. Floriga non sapeva, in realtà, che si chiamasse così. Chiaramente si trattava di uno che doveva lavorare nei dintorni. Banca, ditta, negozio, ufficio? Mah. Non fu subito chiaro a Floriga che la sua predilezione per la trattoria era legata alla presenza di lui. Era come camminava. Era come guardava. Era il timbro di voce. Erano i movimenti delle mani. Erano le sue spalle virili. Era la sua calma. Era la sua riservatezza. Era il suo sorriso rapido. Era il suo allontanarsi da lei ogni giorno, riservandole appena un cenno del capo, mentre lei, al suo tavolo, finiva la frutta e aspettava il caffè.
LXIII
Giacomo De Grandi aveva naturalmente notato che la ragazza era una cliente abituale. Sapeva cosa faceva perché l’aveva vista anche in divisa. Una rossa naturale, un po’ troppo magra. Un tipino. Non gli sfuggiva l’intensità appena controllata nello sguardo di lei ma non era intenzionato a interrogarsi in proposito. Che la ragazza fe la sua comparsa o meno gli era vagamente indifferente e del resto non era uomo da forzare le cose né di approfittare di qualunque situazione gli si presentasse. Gli piaceva fare le sue scelte, anche le più minute, con convinzione e con calma. E poi le sue quotazioni fra le donne erano sempre state più che discrete. Così quando accadde, perché un giorno accadde in tutta naturalezza, di scivolare in una vera e propria conversazione con Floriga, naturalmente a pranzo, tra vicini di tavolo, Giacomo si mise senza nemmeno accorgersi in una posizione, per così dire, di difesa, di incuriosita aspettativa, lasciando che Floriga si aprisse con un altro interlocutore. Giacomo De Grandi allora ebbe modo di scoprire che quella ragazza che doveva avere un debole per lui, su questo non si ingannava, beh, quella ragazza non gli avrebbe concesso mai neanche un punto di vantaggio, nessuna condiscendenza gratuita, non gli avrebbe dato ragione a caso. Insomma Giacomo De Grandi si rese conto in un unico colpo che Floriga era un osso duro.
LXIV
Quel giorno Giacomo pranzava con un collega a un tavolo posto di fianco a quello dove Floriga era seduta sola. C’era stato uno scambio di saluti molto formale. Il collega fissava Floriga con spiacevole insistenza, dava l’idea di volerla stuzzicare, di fare un po’ la ruota. “Mi può are il sale, signorina? Ecco, grazie mille. Lei non ha assaggiato l’arrosto, vedo. Guardi, glielo consiglio, è veramente morbido”. Giacomo De Grandi osservava l’amico che si stava esponendo, Floriga si guardava intorno sorridendo distrattamente. “Non avrà paura di ingrassare, vero? Non può essere soddisfatta da due cipolline e un’insalatina, non ci credo!” “Ci creda invece. Sono molto soddisfatta” “Eh no, lei mi prende in giro, lo vedo. Bisogna diffidare di chi non ama una bella grigliata di carne rossa. Finisce che gli tocca affrontare la vita con poca energia e tanta tristezza” Floriga avvertiva fastidio, irritazione, un’invasione non autorizzata nei suoi pensieri, nei suoi orientamenti verso il mondo. Perché doveva spiegare qualcosa a quello lì? Di che doveva giustificarsi? Perché gli doveva rispondere? Ma si accorse che stava rispondendo. “Non mi va di mangiare animali. Forse immagino troppo. Sono gli stessi animali che vengono allevati con brutalità su scala industriale, trattati in modo agghiacciante anche da cuccioli, riproduzione senza sessualità da adulti, ingozzamento forzato, immobilità fisica in spazi vergognosi, trasportati con violenza massacrante al macello, stipati su camion senza acqua e senza soste. Lei può credere ancora che gli animali siano macchine incapaci di provare sofferenza? Beh, io sono convinta che hanno un’esperienza del dolore fisico e del dolore psicologico molto simile al nostro e perciò, quando vedo una bistecca nel piatto, penso al dolore.”
Giacomo De Grandi piluccava silenzioso pescando nel suo piatto con parsimonia, osservando alternativamente Floriga e l’amico, ma più Floriga con deliberata attenzione. “Signorina, lei vuol farmi are l’appetito, che è poi un sintomo di salute fisica e mentale. Mi sembra stia esagerando, sa. Non l’ho inventata io la catena alimentare, né nessuno di noi. E poi la nostra specie credo sia arrivata sino a oggi con le sue qualità grazie anche al consumo di carne.” “Credo sia vero, è così. Ma non le sembra che qualche gradino dell’evoluzione l’abbiamo ormai salito, tanto da essere in grado di mutare certi comportamenti? Mica abbiamo più necessità di andare in giro con la clava a sbranare sul posto carne cruda.” “Infatti, infatti, siamo ati alla cottura dei cibi….” “Oh, lei è spiritoso. Ma è un fatto che abbiamo conosciuto il pane. Da questo non si torna indietro.” Perché mai Giacomo De Grandi non interveniva, limitandosi ad ascoltarli come se in qualche modo sapesse già tutto quanto? Floriga bramava conoscere i suoi pensieri, voleva sapere se i suoi sensi la stavano ingannando nel provocarle l’attrazione che la possedeva. Ma Giacomo De Grandi taceva, manifestando solo un’attenzione totale. “Comunque, signorina, io mangio carne molto volentieri e con convinzione, ma non sono un mostro, mentre a sentire lei quasi somiglio a un nazista” “Le è venuto in mente un simile termine di paragone? Del resto è scritto da qualche parte che Auschwitz inizia ogni volta che qualcuno guarda a un mattatoio e pensa: sono soltanto animali.” “Esagerata, esagerata!” Un mulo, pensava Giacomo De Grandi, la testardaggine di un mulo. Una lottatrice. Con mani così pallide e delicate da aver paura a stringerle. “Allora mi dica una cosa, perché io temo che come molti animalisti fanatici lei difenda a spada tratta gli animali ma disprezzi gli esseri umani. Lei considera chi mangia carne un sadico, o almeno un imbecille connivente di una strage
quotidiana? E’ così che mi vede?” Floriga era indubbiamente lievemente impallidita mentre l’amico di Giacomo De Grandi la incalzava, irritato nel profondo anche se cercava di non darlo a vedere, dimentico di quanto aveva nel piatto. Gli altri tre ospiti che si erano attardati, più un ultimo arrivato, orecchiavano la conversazione con una certa voglia di saltarvi dentro ma quei due non lasciavano spazio. Il gestore della trattoria sollecitava la moglie a estrarre dal forno la torta di mele e quella al cioccolato e non vedeva l’ora di servirne un fetta sottile, offerta da lui, a quegli ultimi avventori, per calmare gli animi di quei due che in ogni caso, per quanto con toni controllati, andavano a disturbare la digestione di tutti. La torta avrebbe concluso il pranzo e avrebbe interrotto quel faccia a faccia, costringendoli a rivolgersi al Mario di “Da Mario”con grazie, grazie, squisita, brava la cuoca, gentilissimo, davvero gentilissimo. Ma la pallida Floriga stava risalendo la china per spiazzare un’altra volta l’amico di Giacomo De Grandi e Giacomo stesso e gli altri quattro che stavano nel locale, sufficientemente concordi nel ritenerla dura e chiusa nelle sue tesi.
LXV
“Mi spiace averla portata a pensare questo. A volte io sono eccessiva nel difendere le mie tesi. Non voglio che lei si senta offeso da me, e poi neanch’io sono sono così virtuosa. Sono cresciuta mangiando carne e pesce e ogni tanto nel mio piatto c’è una fetta di salame. L’abitudine e la fretta si prendono sempre qualche rivincita e allora io mi giustifico vergognosamente pensando che in fondo fa lo stesso: che io mi astenga o no dal mangiare il mio panino al prosciutto i macelli continuano a funzionare a pieno ritmo. Anch’io faccio fatica a fare i conti con queste realtà, a cambiare davvero la mia percezione delle cose. Vorrei solo riuscire a guardare oltre, vorrei riuscire a neutralizzare un po’ di sofferenza, ce n’è troppa nel mondo, non le pare?” L’amico di Giacomo De Grandi si dimenava sulla sedia; come una piccola bassa marea dallo sguardo andava ritraendosi la luce aggressiva che si era accesa poco prima e che era sembrata voler dilagare e salire. Quando parlò fu con un mutato tono di voce. “Già, capisco, signorina. Lei è una donna, una persona gentile ed è vero, sì, è proprio vero che le donne usano di più l’immaginazione. Sono d’accordo anch’io, naturalmente, che non bisogna infliggere sofferenze inutili a un essere vivente, chiunque sia.” “A nessuno” ripeté Floriga. “Però -continuava l’amico di Giacomo De grandi- lei deve cercare di vedere la realtà così com’è, se si mette dalla parte del vitello, deve farlo in modo integrale, non continuando a sentire come una donna. Mi creda, quando il vitello cammina sulla rampa che porta al portellone del mattatoio, non sa che sta andando a morire, non ha coscienza del fatto che fra poco non esisterà più, non vive assolutamente l’angoscia che sta vivendo lei nel guardarlo o immaginarlo mentre si avvia alla sua fine per mano dell’uomo.” Giacomo De Grandi si era servito al buffet, soltanto al buffet, ma Floriga non era riuscita a capire se aveva preso tranquillamente anche i bocconcini di carne cruda marinata pur avendo tentato, prima, qualche sbirciatina al suo piatto. Sembrava che lui non le consentisse intrusioni. Ma ora la guardava apertamente
con continuità, senza distogliere lo sguardo. “In Virginia -disse Floriga come ricordando improvvisamente-esiste un allevamento di animali per uso alimentare dove vivono specie diverse: bovini, maiali, polli, conigli. L’allevatore li lascia liberi di muoversi, nelle loro zone; di regolarsi nel mangiare e fornisce loro del cibo che gradiscono, lascia che si riproducano naturalmente e che le madri allattino o crescano i piccoli secondo la loro natura. Li protegge dalle intemperie, dalla fatica, dalle malattie ma anche dalla solitudine o dall’abbandono. Dà loro un nome. Poi, un giorno, li macella. Lo fa in un mattatoio che ha costruito dietro la fattoria. Ma finché vivono sono animali felici, una vita libera, razzolante, piena secondo la loro natura. Almeno, dico almeno, dovremmo imporre solo allevamenti di questo tipo e punire senza mezze misure i luoghi di tortura.” “Mi sembra ragionevole. Certo non so se gli interessi economici in gioco lo renderanno possibile.” Floriga sorrideva un po' malinconicamente. “Lo sapete che nell'antico Egitto il tribunale dell'Aldilà pesava il comportamento del traato anche nei confronti della natura e degli animali? Il morto, se poteva, doveva pronunciare la frase: non ho tolto di bocca al bestiame né foraggio né pastura. E poi anche: non ho maltrattato nessun animale. Insomma si riconosceva agli animali il diritto di denunciare gli esseri umani”. Giacomo De Grandi lo sapeva. Rimase come prima in silenzio ma ebbe l'occasione di ricordarsi qualche battuta di una vecchia lettura neanche svolta per intero, forse solo la citazione di uno dei Testi delle Piramidi in cui il defunto re veniva assolto con la formula: Contro di lui non c'è accusa di un vivente, contro di lui non c'è accusa di un morto, contro di lui non c'è accusa di un'oca, contro di lui non c'è accusa di una mucca. Nella sala ristorante si respirava un’aria mite, nessuno era più preso dalla voglia di aggiungere qualcosa. Il tono registrava punte di depressione, qua e là. Le torte di mele e al cioccolato giunsero a proposito e appena in tempo, prima che tutti corressero di nuovo agli appuntamenti di lavoro.
LXVI
Ha del cervello, pensava Giacomo De Grandi, ha una bella testa, e del coraggio. Con quelle mani piccole così sottili, con quegli occhi chiari azzurrini che lui aveva agganciato e in cui aveva guardato tutto il tempo della conversazione vedendovi scorrere immagini e turbamenti. Giacomo De Grandi non riusciva a spiegarsi quella sorta di formicolio, di tensione che si stava appropriando di lui dalle unghie dei piedi ai capelli. Doveva portarsi in giro quell’euforia di cui ormai era preda, nel tragitto per raggiungere lo studio di architettura in cui lavorava, e per la strada, mentre camminava, fingere che tutto fosse come gli altri giorni, buongiorno se incontrava qualcuno che conosceva, un buongiorno detto con calma invece di stringergli un braccio e di offrirgli da bere, e che importanza aveva se era uno che conosceva appena. Dare qualche occhiata distratta al titolo del giornale, e invece aveva voglia di intonare, lì per strada, una romanza d’opera. Dio sa perché gli veniva in mente “Toreador” della Carmen. E poi, entrato nello studio, esaminare i progetti che aveva preparato e che non poteva firmare perché era solo geometra, e accorgersi che gli venivano in mente d’improvviso nuove soluzioni brillanti, particolari funzionali che gli erano sfuggiti perché ora la sua mente era chiara e vulcanica come non mai, come avesse assunto una droga speciale per risvegliare i sensi e l’intelligenza. Ma non era drogato. Quel giorno, semplicemente, “da Mario”, si era innamorato di Floriga Drăgan.
LXVII
Floriga si sposò tre volte. La prima volta davanti al sindaco con il solo rito civile, la seconda volta davanti a un prete cattolico, la terza volta davanti al pope. Continuava a sposarsi, Floriga, fastosamente, sempre con lo stesso uomo di nome Giacomo De Grandi. Lei aveva colpito lui profondamente per il suo scegliere dentro l’anima di stare dalla parte dei più deboli, degli agnelli; per la fede nella divisa che aveva voluto indossare; perché essendo così determinata e fiera aveva mani piccole dalle dita delicate e fianchi snelli; perché aveva lo sguardo espressivo, penetrante; perché lui era stato la ione di lei sin dal primo momento che si erano visti “da Mario” , e in un tempo abbastanza breve lui aveva finito col capire di esserne lusingato, sopraffatto, felice. Lei aveva involontariamente verificato e poi verificato volontariamente che la sua ione aveva ragion d’essere. Lui era concreto, protettivo, presente. Lui dava sempre una risposta, non lasciava cadere nel vuoto nessun gesto, nessuna parola. Lui aveva forza e aveva allegria. Non si ritraeva di fronte a una prova scomoda ma sapeva accettare la felicità spontaneamente, con naturalezza, era pronto a essere felice come Floriga non sapeva fare. Lui amava disegnare e rappresentare il mondo attraverso il disegno. Insegnò a Floriga che il disegno è una presa di posizione, un impegno, una lettura del mondo riespressa, un riferire di sapienza tecnica e di bellezza che studia e sviluppa la macchia, lo schizzo, l’abbozzo. Significava essere sensibili alla linea, al contorno, al chiaroscuro, al colore. Floriga lo seguiva e lo inseguiva affascinata. Ancora Giacomo confidò a Floriga che il disegno è soprattutto immaginazione, una visione precisa e sincera, non un inganno, non si può millantare: perché se non sai farlo non ottieni alcun disegno, solo qualcosa di brutto e poco chiaro. A Floriga parve così limpida quest’ultima posizione, così convincente e riassuntiva, che non poté fare altro che sposare tre volte Giacomo De Grandi. LXVIII
Lontano, lontanissimo, all’altro capo del mondo, Sergio continuava a vivere fra le risaie. Ora che la bambina cresceva si ritrovava in casa due donne che suonavano in una banda musicale e si davano da fare in cucina. Sua figlia era
una ragazzina esplosiva e disordinata, entusiasta, estroversa e preoccupantemente golosa. Sergio diramava direttive alla famigliola, alla moglie dal sorriso contagioso sempre piena di iniziative dispendiose, alla figlia che una ne faceva e già ne pensava altre cento. Le due, complici, schivavano. E Sergio alla fine cedeva, indulgente, sazio, felice di tutto quel ronzare, di quell’affetto palpabile che lo avvolgeva. Quanto le amava quelle due! Un solo rimpianto riusciva a turbarlo a tratti, un’ombra di malinconia nel constatare quanto sua figlia crescesse in fretta, troppo in fretta, come il tempo gli scivolasse tra le dita. Si guardava allo specchio capelli ormai grigi. Se ne stupiva, se ne rammaricava. Dov’era la sua gioventù? Dove l’aveva smarrita? Qualche volta pensava a Floriga e a Ioana perché facevano parte della sua vita precedente. Ma ora solo il presente contava per lui, la ricca dote che il destino gli aveva fornito perché potesse assaporare ogni felicità: una donna che non aspettava ogni giorno altri che lui e che con lui voleva invecchiare, una figlia sua che cresceva nel suo paese, sana, forte e musicale, ricca di progetti che un giorno avrebbe portato in giro per il mondo rifondandolo a sua misura.
LXIX
Era nella natura di Floriga e di Giacomo portare frutti di felicità e spanderli in giro senza mezze misure. Era nel più profondo del loro immaginario, del desiderio. La prima volta che si erano sposati, dopo un tempo brevissimo che si erano conosciuti, l’avevano fatto per se stessi soltanto, spinti dalla furia di appartenersi in maniera integrale. E dopo che l’ebbero fatto, il contratto civile sembrò loro giusto ma povero, non ancora adeguato alla parola che il loro unirsi voleva dichiarare con ione agli altri. Si trattava di una parola urgente che riempiva ogni loro intenzione, ogni moto, ma difficile da conoscere nella sua esattezza e da comunicare all’esterno. Quando sembrava di averla afferrata, la parola espressa a voce alta pareva retorica o eccessiva o insulsa o presuntuosa. Quasi se ne vergognavano. Così nacque in loro un pudore forte per molte parole che si limitarono a tenere per sé (fedeltà, gioia, carità, ione, sino alla morte, è mia cura, mio dovere, cuor mio….) e trovarono più facile testimonianza attraverso le cerimonie, questa volta religiose, di celebrazione. Non che fossero poi così capaci né così sicuri di rivolgersi a Dio. Ma, come bambini, si fidavano della mediazione di chi li amava e aveva più fede di loro, cioè più speranza. La seconda volta perciò si sposarono per rispondere alla radice religiosa e culturale di Giacomo e della sua grande famiglia che anelava a un matrimonio cattolico, la terza per la gioia di Floriga e più ancora di Ioana e delle sue amiche più care, le sorelle rumene. Non esitavano a vivere la loro vita Floriga e Giacomo, così come la volevano, ma non potevano fare a meno di medicare ogni ferita, ogni graffio, ogni ombra che sembrava loro di aver impresso a qualcuno. Quasi subito dopo le nozze la casa si riempì di bambini non loro che essi accettavano dal tribunale dei minori per un tempo determinato, assumendosi l’onere di sostenerli e aiutarli finché le famiglie (alcoolismo, debiti, confusione mentale?) non erano in grado di riprenderseli seguite dall’occhio incerto di un’assistente sociale. Bambini andavano, bambini venivano. Compatibilmente con l’ampiezza della casa, arrivarono ad averne quattro contemporaneamente. Ioana aiutava senza sosta: sorvegliava, lavava, stirava, cucinava. Consigliava. Floriga e Giacomo dormivano il minimo indispensabile e ogni attimo della loro giornata possedeva uno spessore tale che solo la loro giovinezza piena di salute e volontà poteva reggere. Si amavano con entusiasmo, senza riserve, senza precauzioni. Nel vortice dei loro giorni che si inseguivano con gagliardia uno dietro l’altro, sempre pieni di cose da fare concretamente, neppure si accorsero, Floriga e
Giacomo, che due anni erano trascorsi così, vitali, caldi, sulla cresta dell’onda, senza che Floriga fosse rimasta incinta. Quasi non ci pensavano, finché Floriga, un giorno, ebbe un aborto spontaneo assolutamente inaspettato. Ne rimasero sorpresi, spaventati. I loro entusiasmi si ridussero, lentamente presero a bilanciare con una prudenza nuova le forze e le iniziative. Anche Ioana rallentò il carico di aiuti prima senza limiti perché una forma iniziale di osteoporosi sembrava voler precocemente minare le sue ossa. Aveva ancora una certa grazia, Ioana, indubbiamente, tuttavia era ormai costretta a tingersi i capelli con regolarità e questa cosa da sola, questa sciocchezza, finiva di divertirla e di indispettirla insieme. Dov’erano i giorni splendenti e amari della sua giovinezza? Erano ormai molto lontani, fuggiti, visibili solo in un suo speciale film. Eppure c’erano dei giorni in cui si levava dal letto, la mattina, appena sveglia, con le energie e le speranze di una ragazza.
LXX
Altri cinque anni arono e il matrimonio di Floriga era una barchetta coraggiosa e impavida che sfidava le onde del mare, ora calme e fruscianti, ora turbolente. E sempre senza figli, senza gravidanze annunciate. Floriga e Giacomo si erano a lungo interrogati e anche erano stati interrogati da altri: medici, psicologi, assistenti sociali, avvocati. E si erano decisi da tempo ad avviare le pratiche per l’adozione. Amavano i bambini che per qualche tempo si agitavano intorno a loro come farfalle. Amavano i bambini precari che andavano e venivano. Ma volevano un bambino che restasse. Da non dover dividere. Da far crescere. Finché un giorno fu loro notificato che era possibile averlo subito: un maschio di un mese, dotato di un nome provvisorio, partorito in ospedale da un’italiana che non intendeva riconoscerlo. Il bambino era bello, urlante, pieno di energia. Floriga se lo portò avidamente a casa. E l’anno dopo rimase incinta. Nacque un altro maschio. In casa riprese un fervore di attività e di scambi umani senza risparmio, di andirivieni, di problemi da risolvere, di cose da discutere e da fare. Negli anni successivi capitò ancora che qualche bambino portato dal vento transitasse, piccolo Peter Pan che poi volava via. Ma i due figli di Floriga restavano, i due alberelli avevano radici protette. Impararono i linguaggi e i sogni di Floriga e di Giacomo, ereditarono storie lontane che quasi oltreavano all’indietro l’infanzia di Ioana. Ioana, la nonna.
LXXI
Anna viveva con una certa agiatezza per la bontà della pensione di cui poteva godere. Non si era mai sposata. Era tornata definitivamente al paese, ora, spiaciuta di vederlo in parte spopolato, nonostante la sua comoda vicinanza a città industriali, ricche e popolose. Dalla morte di Călin non aveva mai mancato di scrivere a Ioana in più occasioni durante l’anno e non per conto di Sergio ma per sé, perché era nata un’amicizia reale tra le due donne e Anna sentiva di voler bene anche a Floriga, avrebbe voluto essere accettata da lei come una parente o una zia e cercava di aiutarla in ogni modo: l’aveva sostenuta anche finanziariamente ai tempi dell’università ed era prodiga di regali e attenzioni anche verso i suoi due figli. Certo, con Ioana si vedevano non più di due, tre volte l’anno. Qualche volta, in queste occasioni, parlavano di Sergio, brevemente, senza insistenze né sottolineature, per rispetto delle nuove vite e delle scelte definitive che a suo tempo erano state da ciascuno compiute. E per rispetto dell’età che tutti e tre avevano raggiunto. Un’età che richiedeva con forza la ricerca di nuovi equilibri e la capacità di affrontare nuove vertigini. Essi erano seguiti da persone nuove, alcune ormai adulte, alle prese con i loro nodi da sciogliere: Lucia, la figlia di Sergio; Floriga, Giacomo, i loro due figli. E anche i due figli di Floriga diventavano ormai grandi. Occorreva che la nostalgia e le idealizzazioni che loro tre vecchi conservavano con cura si misurassero sulla necessità di lasciare spazio e libertà mentale ai più giovani che dietro di loro arrancavano, tentando i loro aggiustamenti, cercando nei ricordi familiari la sicurezza morale e affettiva di un’integrità compiuta. Non sarebbero stati loro tre a corrompere o a turbare la tela che i più giovani andavano intessendo. E poi, di colpo, uno di loro cedette silenziosamente. Fu Sergio, colpito da infarto una sera di primavera. Morì con gli occhi fissi in quelli della moglie, mentre la figlia gli stringeva le mani, pervaso da una sorta di stupore. Nella penombra finale, ci fu il riflesso per un attimo di un volto infantile, di una bambina appena conosciuta e lontana eppure familiare? Nel tempo di un battito di ciglia capitò che pensasse a Floriga?
LXXII
I due figli di Floriga, cresciuti fra i aggi dei bambini temporaneamente affidati, avevano sviluppato tra loro una straordinaria intesa. Da piccoli non badavano a complimenti. “Taci tu, che sei stato adottato” seguito da “Muori pure di invidia perché io sono stato adottato e scelto in quanto più bello e più intelligente di te”erano tra le battute più gettonate, a volte irose a volte allegrissime. Il che era la pura verità. Floriga lo ammetteva senza farsi crucci: il maggiore dei suoi figli era fisicamente più bello e di mente più pronta del figlio biologico. Ma era anche una testa matta e più irascibile, mentre il figlio naturale appariva alla fine più accomodante. “Basta!-gridava Floriga- avrei dovuto lasciarvi tutti e due dove eravate, mi state stressando con le vostre furbizie! Mi state depistando per non aiutare il nostro ospite più piccolo che ha bisogno di aiuto per i compiti, vergogna!” E intanto preparava la merenda per tutti e distribuiva scappellotti. Accadde che al liceo il maggiore si dimostrò uno studente brillante anche se eccessivamente verboso e polemico ma il secondo entrò in competizione in modo netto così che la sua applicazione puntigliosa e i suoi toni più concilianti gli permisero di raggiungere e a volte superare il fratello. Floriga li osservava con qualche apprensione. Temeva quelle punte visibili di contrasto, di opposizione. Ma una cosa non le era sfuggita: la dolcezza burbera di entrambi quando in casa approdava un piccolino spaventato aggrappato al suo affido. E l’autorevolezza che quei due adolescenti sapevano manifestare quando il piccolo in questione era un osso duro pronto a mostrare i denti. Floriga non si sbagliava: lì i due ragazzi entravano in una zona di alleanza, di complicità.
LXXIII
Uno dopo l’altro, a distanza di due anni, entrambi i ragazzi conseguirono la laurea in giurisprudenza dedicandosi poi al praticantato per diventare avvocati. “Ma dai, smettetela di corrervi dietro, finitela di giocare a fare i gemelli per dimostrare che uno è più bravo dell’altro. Siete due teste quadre, due nevrotici”. Floriga ammoniva e loro sghignazzavano. Lei capiva che sotto quelle esibizioni la loro complicità era più forte che mai. I due lavoravano insieme e in collegamento con altri avvocati sia italiani che stranieri su tutti i casi che potevano arrivar loro a tiro riguardanti la tutela e l’affido condiviso dei figli ai genitori separati. “Oltre la madre, il padre”, era il loro motto. Si sapeva che non sempre erano soliti muoversi con metodi ortodossi. Fu un piccolo divertente scandalo quando la stampa diede notizia anche del loro incoraggiamento al gruppo britannico “Padri per la giustizia”, padri disperati che riuscivano sistematicamente a organizzare qualche atto unico clamoroso da mettere in scena. Quella volta toccò a un tale Jason Hatch il quale, eludendo tutti i sistemi di sicurezza, si arrampicò bellamente sulla balaustra di un balcone di Buckingham Palace e apparve meravigliosamente vestito da Batman esponendo uno striscione con scritto: “I padri lottano per il diritto di vedere i loro figli”. In Italia i due fratelli fiancheggiavano l’associazione “Papà separati”e offrivano consulenze gratuite. Giacomo e Floriga, in cuor loro, non facevano altro che benedire il loro triplice matrimonio. Ma Giacomo fece qualcosa di più. Andò in banca a ritirare senza esitazioni la sua liquidazione e la consegnò ai figli: un contributo fondamentale per l’avvio di uno studio legale che portasse i loro nomi e garantisse i loro obiettivi e i loro metodi.
LXXIV
Il cimitero del paese era veramente minimo, con tombe bianche opache e gli angeli di pietra con ricci e volti di bambino, i mazzi di fiori colorati che perdevano profumo, tutto pieno di verde con la fontanella all’ingresso e nugoli di zanzare. Anna camminava sul vialetto di ghiaia grigiastra e calda, sotto il sole. Già aveva visitato le tombe dei genitori e le tombe degli amici che da tempo se ne stavano lì raccolti e tranquilli. Ora se ne andava da Sergio, l’ultimo arrivato. Chissà se si era accomodato anche lui, nella terra che gli era stata amica, fra tutti gli amici che l’avevano preceduto, senza rimpiangere con disperazione la sua vita di prima, i profumi della cucina di sua moglie e gli accordi degli strumenti musicali che riempivano i suoi pomeriggi e le sue serate. “Ciao Sergio – gli disse nella mente appena davanti alla tomba, ai morti si parla così- non preoccuparti, c’è tutto il paese, quello che è rimasto, intorno a tua moglie e a tua figlia. Non le lasceremo sole, mai. Almeno finché potremo”. Una pausa. Poi. “Lo sai, Sergio, sono appena rientrata da Torino. Hanno aperto il loro studio legale i figli di Floriga che si battono perché in caso di separazione dei genitori non siano i piccoli a portarne il peso maggiore. Ti ricordi, Sergio? A casa mia, tanti anni fa”. Sergio ricordava. Perfettamente. Era giovane, allora; provava rabbia e dolore in quei giorni. “La bambina mi dimenticherà” Era Anna a rispondergli, Anna che provava a calmarlo. “La bambina forse sul momento ti dimenticherà. Ma crescerà, diventerà una giovane donna, poi una donna matura e forse vivrà sino a essere molto anziana. E più gli anni eranno e più guarderà indietro, al ricordo della sua infanzia, più il suo affetto per te tornerà e salirà sempre più in alto, per quell’uomo gentile che ha protetto lei e la sua mamma lungo otto lunghi anni che avrebbero potuto essere pieni di buio. Un uomo che poi ha consentito il rientro del padre nella sua vita e la riunione dei suoi genitori.” “Mi amerà dunque, tornerà ad amarmi quando sarà una vecchia donna piena di
ricordi? Un premio di consolazione così piccolo. Io sarò morto e non ne saprò niente” “Noi non ne sappiamo mai niente. Non sappiamo chi siamo nella testa degli altri. Eppure anche lì abbiamo una vita e forse qualche potere.” Sergio ricordava. Anna ne era certa.
LXXV
Era così che era andata. C’era la prova, una prova pubblica, esposta nella targa nera, crocevia prefissato di destini diversi, che era stata affissa sulla porta del nuovo studio legale a Torino. La prova inconfutabile che Sergio aveva messo in moto degli avvenimenti che poi avevano assunto vita propria e straordinaria attraversando indenni una miriade di cose che gravitavano in giro inutili e morte. La prova, sì, la prova era nei nomi incisi sulla targa : Avvocati Călin e Sergio De Grandi – Studio per la tutela condivisa dei minori. Proprio così era andata. Sergio aveva conservato un posto nel cuore di Floriga e molte cose ancora correvano avanti anche nel suo nome.