Loris Vercelli
IL POSTO DELLE PALLIDE NEBBIE
Non ho nulla contro la prosa «alta», che di solito descrive persone straordinarie in circostanze ordinarie, ma sia come lettore sia come scrittore, mi interessano molto di più le persone ordinarie in circostanze straordinarie. (Stephen King)
I Parigi, ottobre 2008
E’ arrivato presto quest’anno l’autunno – pensa Marcello osservando le foglie trascinate dal vento sul boulevard St. Michel mentre si gode, seduto al tavolino del caffè, l’ultima mezzora di luce di una giornata pigra in cui non ha praticamente combinato nulla. Il cameriere si avvicina portandogli l’ordinazione: un croque monsieur e una bottiglietta di Perrier. Nonostante i primi freddi, il dehors del caffè è gremito di turisti. Marcello si guarda intorno. Ama quella città che da molti anni ormai è diventata la sua. Poco più avanti, a una decina di metri dal dehors, le auto sono ferme al semaforo dell’incrocio con boulevard St. Germain. Bobo, l’enorme cane di Marcello, è accucciato ai suoi piedi, sotto il tavolino e pare del tutto disinteressato alla vita che scorre intorno a lui. Marcello si sporge sotto il tavolo e lo chiama: “Bobo, le nostre ordinazioni sono arrivate”. Il cane alza pigramente la testa e si sposta un poco per lasciare lo spazio al piattino che Marcello sta posando in terra davanti al suo muso. Lascia cadere il sasso che, come sempre, tiene in bocca, ed inizia lentamente, senza modificare la sua posizione semisdraiata, a mangiare il suo croque monsieur. Marcello sorseggia la sua Perrier e si guarda intorno. Davanti a lui una massa di
anti procede veloce. Un’accozzaglia di lingue che si rincorrono e si confondono, come sempre nelle vie di Parigi. Nel tavolino accanto a Marcello una coppia di giapponesi sta litigando animatamente, poco più in là una ragazza bellissima, forse una modella, sorseggia il suo tè. Alle sue spalle un gruppo di turisti italiani occupa un paio di tavolini chiacchierando ad alta voce. Marcello tenta sempre di ignorare i turisti italiani. Ormai da oltre vent’anni vive a Parigi e, pur sentendosi offeso dal senso di superiorità che ogni se esibisce quando si trova a contatto con uno straniero, non riesce a condannarlo del tutto quando si ritrova a subire il gesticolare, il parlare ad alta voce, la supponenza esibita da alcuni suoi connazionali. Ormai Marcello, dopo il trasferimento definitivo dei suoi genitori in oriente, non ha più alcun parente in Italia e si considera apolide: a differenza dei primi anni in cui si era trasferito in Francia, ora non sente più la voglia di scambiare qualche parola in italiano con un interlocutore occasionale. I primi tempi sì, provava ancora qualcosa che assomiglia alla nostalgia quando pensava alla sua città, agli amici e ai compagni di università. Quando sentiva parlare italiano, allora, cercava di instaurare un contatto, e il ritornare ad usare la sua lingua madre, gli dava un senso di sicurezza e di appartenenza a qualcosa. Ora invece il se è diventato la sua lingua madre, quella con cui lavora, pensa e scrive le sue storie ed anche se Josephine, la sua ragazza, gli parla solo in italiano per esercitarsi in quella lingua per lei straniera, Marcello, quasi sempre, preferisce risponderle in se. Gli italiani alle sue spalle, tre coppie di amici, parlano con accento piemontese e questo infastidisce ulteriormente Marcello. Sono italiani e per di più piemontesi come lui. Così, pur tentando di non farlo, Marcello si ritrova a seguire involontariamente i discorsi dei suoi vicini. Viene a sapere che sono appena stati a visitare il Louvre e domani saliranno sulla tour Eiffel. Uno del gruppo sta cercando di convincere gli altri ad una visita un po’ meno banale della città. “Dobbiamo assolutamente andare a visitare le Catacombes di Parigi… – sta dicendo agli altri – …pensate, oltre trecentomila scheletri ben disposti in un intrico di gallerie sotterranee. Un vero spettacolo che non voglio perdere”. “Ma tu sei matto, gli risponde una ragazza – non voglio poi sognarmeli di notte i
tuoi scheletri”. Un altro del gruppo aggiunge: “Ludovico, guarda che sei l’unico a sentire il fascino del macabro. Se ci tieni proprio a vedere un mucchio di ossa, ci puoi andare da solo”. Bobo, il cane di Marcello, nel sentire la parola “ossa”, una di quelle che conosce bene del linguaggio degli umani, alza il muso per osservare i vicini di tavolino. Poi, visto che nessuno pare aver intenzione di offrirgli un osso, riprende la sua posizione posando con un sospiro il muso sul pavimento. Marcello, invece, sorride tra sé e sé. Conosce bene le Catacombes di Parigi e, spesso, le ha utilizzate nelle sue storie. Il suo lavoro, infatti, è di creare storie per il più diffuso e famoso fumetto horror d’Europa. Ed ora, da qualche settimana, è in ritardo con la consegna dell’ultima sceneggiatura. Marcello sta vivendo quella che viene chiamata “crisi creativa”, quella che qualunque professionista della scrittura ha provato almeno una volta. Da almeno due mesi è bloccato sulla storia di una casa infestata da spiriti maligni a cui non riesce a dare uno sviluppo credibile, che possa coinvolgere e terrorizzare almeno la parte più impressionabile dei fanatici delle sue storie da incubo. Marcello ha sempre adorato il soprannaturale ma, in realtà, non ci ha mai creduto (beh, forse questo non è del tutto vero. Diciamo che non ci ha mai voluto credere). Forse è per questo che riesce ad inventare storie terrorizzanti e affascinanti. Usando il distacco di chi ormai ha acquisito una tecnica narrativa fatta di dettagli, situazioni, parole ma non viene distratto dalle emozioni personali. Solo chi non crede nei fantasmi (o per lo meno dice di non averci mai creduto) può spaventare gli altri con le storie di fantasmi: di questo è profondamente convinto Marcello. Anche se la sua ione per l’occulto è nata proprio per alcuni episodi poco spiegabili che l’hanno coinvolto nell’adolescenza, e che Marcello ha preferito relegare in un reparto poco accessibile nell’archivio dei suoi ricordi. Del resto tra i quattordici e i diciassette anni è facile essere vittima dell’autosuggestione per l’instabilità emotiva che caratterizza l’abbandono dell’infanzia e delle sue favole dolci e l’ingresso nella maturità coi suoi mostri purtroppo reali. Per di più quando aveva quattordici anni, i genitori di Marcello si trasferirono in oriente e scomparvero definitivamente dalla sua vita lasciandolo ospite di un prestigioso collegio torinese pagato naturalmente dalla nonna.
Sentirsi abbandonato è probabilmente la strada maestra per chiudersi in un mondo di fantasie, magari orride, e confonderle con la realtà. “Non ci riconosciamo più in questo sistema – aveva detto la mamma a Marcello prima di partire – ora ce ne andiamo a cercare una situazione migliore di questa. Ma tu devi finire la scuola in Italia. Poi ti verremo a prendere e vivremo di nuovo insieme”. Furono le ultime parole che Marcello udì da sua madre. Non una lettera, non una telefonata. La nonna, nei successivi due anni, ricevette di tanto in tanto la richiesta di somme di denaro da spedire sempre in luoghi diversi e lontanissimi. Poi più nulla. Marcello smise di soffrirne dopo qualche anno. Proprio quando successero quelle cose a cui non vuole mai pensare. Oggi Marcello è un uomo che ha ato da poco i quarantacinque anni, con una vita professionale che gli ha dato successo, fama e denaro (senza che lui avesse cercato nessuna di queste tre cose) ed ama are parte delle sue giornate nel dehors di quel caffè parigino dove sono nate le idee per la maggior parte dei suoi racconti. Il vento si è ancora alzato e gli porta il profumo delle prime foglie cadute nel vicino giardino del Luxembourg. Gli italiani seduti dietro a Marcello continuano a discutere se sia il caso di fare una eggiata fra gli scheletri delle catacombe oppure ripiegare su un più rassicurante giro di shopping sugli Champs-Elysées. La donna che prima aveva detto di temere gli incubi continua ad insistere: “Niente scheletri. Voglio dormire tranquilla. Sono già abbastanza frastornata da quello che abbiamo sentito giù al paese prima di venire qua a Parigi”. “Ma dai, ne abbiamo già parlato… sono stupidaggini” – le risponde qualcuno. “E la morte del bambino? La morte del bambino ti sembra una stupidaggine?”. “No la morte del bambino è una cosa seria. La stupidaggine sono le fantasie che ci hanno costruito intorno”. Marcello continua ad ascoltare distrattamente il dialogo alle sue spalle. Poco interessante ma è quasi impossibile non seguirlo. Sono italiani, piemontesi come lui e parlano ad alta voce: le orecchie in questo caso non ascoltano le direttive della volontà e recepiscono in automatico le informazioni.
Un po’ irritato Marcello tenta di concentrarsi sui suoi pensieri e sul traffico del boulevard. Parigi è meravigliosa nelle stagioni di mezzo. E quel quartiere in particolare, incastrato tra la Sorbona e la Senna, possiede la magia dei luoghi della sua memoria. Da bambino veniva a Parigi coi suoi genitori entrambi studenti universitari. Erano iscritti alla facoltà di lettere e filosofia di Torino ma gli avvenimenti del maggio del 1968 rappresentavano un richiamo irresistibile per i ragazzi di quella generazione. Così papà e mamma erano convinti che Marcello, nonostante avesse solo cinque anni, dovesse vivere con loro quell’esperienza che ritenevano fondamentale per chi avrebbe poi dovuto vivere nella società della post-rivoluzione. Inutilmente la nonna si offriva di tenere il bimbo con lei nella grande casa in campagna, come del resto faceva ogni estate per le vacanze. I genitori di Marcello erano irremovibili. A Parigi stava per nascere la rivoluzione e il loro bimbo doveva viverla con loro fin dall’inizio. Così Marcello ava lunghi periodi in Francia, ben felice di restare per un po’ lontano dall’asilo di quartiere, dove veniva lasciato da mattina a sera nei periodi in cui i suoi erano a Torino per sostenere qualche esame. Così i primi nitidi ricordi d’infanzia di Marcello lo vedono giocare con altri bimbi piccoli come lui in una bellissima cacofonia di parole si, inglesi e tedesche, ora parlate ora cantate, nella casa di qualche affollata comune studentesca, fra nuvole di fumo e profumo di patchouli. Marcello alza lo sguardo sul boulevard e guarda la vetrinetta del negozio di antiquariato sull’altro lato del viale. Quando papà e mamma andavano alle manifestazioni lo affidavano spesso ad un’amica proprietaria proprio di quel negozietto, lì di fronte, sul boulevard St.Michel. Così il piccolo Marcello ava le ore a poche decine di metri dal caffè dove è seduto ora, e restava in attesa che i genitori tornassero a prenderlo. In quei lunghi pomeriggi osservava dalla vetrina le cariche della polizia, i cellulari blu con le sirene, i ragazzi che incendiavano le auto sul viale poi scappavano inseguiti dalle cariche dei C.R.S. in assetto anti-rivolta. Per Marcello era come vedere un film e non provava alcuna paura, neppure quella volta in cui vide un ragazzo massacrato col manganello da tre poliziotti e abbandonato in una pozza di sangue proprio davanti alla vetrina da cui, col nasino appiccicato ai vetri, stava guardando. Il papà glielo aveva detto: “La rivoluzione si fa con la violenza. Non devi aver paura del sangue, servirà a lavare le ingiustizie per avere un mondo migliore”.
Il piccolo Marcello, dal vetro appannato della vetrina, era rimasto a fissare quel sangue sul marciapiede cercando di capire come fe quel liquido rosso vivo a lavare qualcosa: a lui sembrava solo che sporcasse il marciapiede. “Ecco, ci risiamo – pensa Marcello accarezzando la testa del suo cane che ha appoggiato pesantemente una zampa sul suo piede – ogni volta che sento parlare italiano è più forte di me pensare a quelle teste di cazzo dei miei genitori. Vivi o morti che siano. Sarà per questo che non parlo mai con i turisti italiani?” Decise che era ora di rincasare e fece un cenno al cameriere per pagare la consumazione. Uno dei piemontesi alle sue spalle, continuava a parlare agli altri: “Non c’è nulla di soprannaturale in quello che sta succedendo là! Sono le fantasie superstiziose che nascono in quel paese di contadini!”. “San Gremo non è più un paese di contadini – risponde la voce femminile – per lo meno non più del nostro, che è poco distante. Ora fanno tutti gli impiegati o gli operai nelle fabbriche in città”. A queste parole Marcello si bloccò. Il sentir nominare San Gremo in quella frase appena percepita alle sue spalle inchiodò Marcello allo schienale. Il paese dei suoi nonni, quello dove lui aveva ato la maggior parte delle vacanze estive da bimbo e poi da adolescente quando il collegio chiudeva e lui tornava dalla nonna. Il paese delle pallide nebbie. Così chiamavano San Gremo quelli che lo conoscevano. Perché San Gremo sorge esattamente nel luogo dove le fittissime impenetrabili nebbie del basso Canavese iniziano a dissolversi per l’aria sottile che arriva dalle montagne della Valle d’Aosta creando un particolare fenomeno che non è più nebbia fitta ma non è ancora debole foschia: la pallida nebbia, appunto, quella che avvolge le cose senza nasconderle mai del tutto. Ed ora uno sconosciuto in una città straniera a oltre settecento chilometri di distanza stava parlando proprio di quel piccolo paese. Marcello si scoprì ad ascoltare con attenzione le parole di quel dialogo che si stava svolgendo alle sue spalle.
Una donna stava rispondendo all’altro: “Comunque ogni paese ha una storia a sé. Quelli di San Gremo, me lo dicevano sempre i miei nonni, sono considerati nella zona un po’ matti: i vecchi lì credono ancora alle masche e ai fantasmi. Sarà per questo che lo chiamano il paese delle pallide nebbie”. “E oltretutto là i cellulari non funzionano. Dove non c’è campo non c’è civiltà – aggiunse ridendo l’altro interlocutore – comunque con tutti questi discorsi di bambini morti, fantasmi e misteri… mi avete fatto venir fame”. La frase ebbe successo e, con un tramestio di tavolini spostati, gli italiani, si alzarono tutti insieme. San Gremo, forse l’unico paese in Italia dove i cellulari non hanno campo. Forse l’unico luogo in Italia per cui Marcello prova qualcosa che assomiglia alla nostalgia. Ma lui sa benissimo che la nostalgia non si riferisce tanto al paese quanto alle estati della sua adolescenza vissute là. San Gremo è il paese dove c’è ancora, ormai abbandonata da molti anni, immersa nelle pallide nebbie, la grande e antica casa dei nonni. Il paese dove Marcello è costretto a ritornare almeno una volta ogni due o tre anni per controllare che i muri siano ancora in piedi e per pagare la famiglia di contadini che continua da sempre ad occuparsi dei lavori in giardino facendo sì che gli alberi ornamentali e i cespugli fioriti non si trasformino in una selva incolta. E poi tornare a San Gremo… vuol dire accorgersi di quanto il tempo abbia cambiato lui, i suoi vecchi amici e i luoghi che amava. I discorsi che ha appena sentito, comunque, confermano quello che Marcello ha sempre saputo: San Gremo è un luogo che stimola fantasie e superstizioni. Non c’è anziano del paese che non abbia avuto, a suo dire, almeno un incontro con le masche, gli esseri soprannaturali delle leggende locali. Le apparizioni di spiriti maligni o benigni a seconda dei casi hanno riempito coi loro resoconti da brivido le serate delle sue vacanze a San Gremo. Erano le sere estive in cui la nonna, con Marcello, usciva appena fuori dal cancello della casa, dove, nello spiazzo con le panchine, ci si trovava con i vicini e si ascoltavano i pettegolezzi e le storie del paese. E allora c’era sempre qualcuno che, dopo un po’, iniziava il racconto di quella cosa successa molti anni prima ad un suo conoscente, un fatto terribile ed
incredibile. Talmente spaventoso e incredibile che nessuno ci credeva ma che comunque catturava l’attenzione di tutti, creando quell’atmosfera di intimità e di paura che tanto piace agli anziani contadini e agli spiriti romantici. Così tutti continuavano ad ascoltare il narratore facendo domande e chiedendo maggiori dettagli nel timore che il racconto finisse troppo presto. Marcello adorava quelle storie, ma poi, tornato nella grande casa, udiva mille scricchiolii e rumori che lo terrorizzavano. Allora la nonna si sedeva accanto al suo letto rassicurandolo: “Sono solo fantasie dei contadini – diceva – lo sai che nessuno di loro ha mai visto davvero quello che racconta. Sono storie che si son sognati magari per un bicchiere di troppo oppure che qualcuno ha raccontato loro proprio per spaventarli”. “E tutti questi rumori che sentiamo nei muri?” chiedeva Marcello coprendosi fino al mento con la coperta. La nonna sorrideva e indicava il soffitto e i muri. “Questa casa ha più di trecento anni. Le case antiche sono cose vive. Respirano, si muovono, cercano la posizione più comoda, proprio come te quando stai dormendo. E poi c’è un sacco di vita in queste intercapedini e nei solai: i ghiri, i topolini, gli insetti. Non devi aver paura dei rumori della casa. Sono tuoi amici”. Il piccolo Marcello sorrideva per mostrare alla nonna quanto fosse coraggioso, ma continuava a pensare a quelle storie spaventose. “Quando sarò grande voglio fare lo scrittore e raccontare a tutti queste cose che ho sentito! Li voglio spaventare i miei lettori. Ma io non avrò paura. Perché so che queste cose brutte, le masche, i fantasmi, i mostri non esistono”. Almeno così pensava Marcello fino a che a diciassette anni… (no, no, quell’altra cosa non è mai successa – ripete sempre Marcello a se stesso). Ecco come nacque la sensibilità di Marcello per i temi della paura e del mistero. E, pur non facendo lo scrittore (questo sicuramente è stata la sua fortuna), ha scelto di usare la propria creatività per raccontare delle storie con i fumetti. In pochi anni di lavoro i suoi personaggi macabri come il Cacciatore di Spettri e la Belva Pallida gli hanno dato una notorietà internazionale, un sacco di ammiratori, oltre naturalmente un ottimo riscontro economico. Chissà quanto ha influito nel suo successo professionale l’avere nel suo ato un paese come San Gremo (…e aver vissuto, a diciassette anni, quella cosa…
quella cosa che, lo giura a se stesso, non è mai successa). Ed ora Marcello si sta chiedendo cosa sia di nuovo capitato nel suo vecchio paese. Resiste a fatica alla tentazione di bloccare gli sconosciuti, che stanno raccogliendo le loro borse per andarsene, e porre loro qualche domanda. I frammenti di discorso che gli sono giunti dal tavolino accanto al suo accennavano vagamente ad un mistero e ad un bambino morto in qualche circostanza drammatica. In un paese di appena settecento abitanti, dove non accade quasi mai nulla, ce n’è a sufficienza per parlarne per i prossimi anni. E, soprattutto, per dare agli anziani di San Gremo l’occasione per trasformare, come sempre è successo nelle chiacchiere serali, un comune incidente in qualche storia misteriosa. Del resto ancora oggi in paese, dopo quasi trent’anni, si parla ancora di quei quindici giorni, alla fine degli anni settanta, quando moltissimi a San Gremo pensarono di aver visto i fantasmi. L’unica cosa che Marcello ricorda di quel periodo fu che in uno di quei quindici giorni, morì la nonna. Tutto il resto è la nebbia che avvolge i ricordi che si tenta di cancellare. Ma che, purtroppo, a volte fanno capolino con un sorriso beffardo. Il gruppo dei rumorosi piemontesi gli ò accanto per uscire dal dehors e uno di loro si abbassò ad accarezzare Bobo sulla testa sorridendo a Marcello. “E’ un terranova vero? – chiese – l’uomo”. Ecco una buona occasione per porre qualche domanda agli sconosciuti. Ma l’uomo che gli stava davanti aveva la tipica espressione dell’attaccabottoni, una categoria di persone che Marcello detestava in modo epidermico e totale. E quando, per di più, una zaffata di fiato all’aglio lo raggiunse, la sua asocialità prese il sopravvento. Così, anziché rispondere (aveva già deciso che non avrebbe chiesto nulla di ciò che voleva sapere), guardò lo sconosciuto con un’occhiata ostile e con l’accenno di un sorriso smorzato. L’uomo non se ne avvide e continuò: “Certo che occorre avere un giardino per tenere un cane così grande”. Marcello assunse l’espressione di chi non capisce le parole dell’interlocutore: decisamente non avrebbe dato corda a quella persona. Lo sforzo per essere gentile sarebbe stato troppo superiore alla curiosità. L’uomo, invece, scambiò la
sua espressione perplessa per interesse e continuò: “Mia cugina ne aveva uno simile. Ma non era un terranova. Forse era un lupo”. Marcello scosse il capo grattandosi il sopracciglio e rispose annuendo con uno sguardo assente e disinteressato, di quelli che di solito fanno tacere i rompicoglioni. Ma l’altro non desistette: “Comunque i cani sono più buoni degli umani. Mi chiedo come facciano i cinesi a mangiarseli – colpo di tosse e nuova zaffata d’aglio dalla bocca dell’uomo – sul serio, se li mangiano ridotti a bistecche. I cinesi. O i giapponesi, non ricordo”. Bobo quasi avesse capito alzò il muso e fissò lo sconosciuto. Marcello scosse la testa e diede uno sguardo interessato alle proprie unghie. L’altro continuò, mentre gli amici già lontani lo chiamavano: “Mi sa indicare la stazione del metrò più vicina?” Questa volta Marcello decise di utilizzare l’ultima risorsa, quella che usava raramente e solo nei casi di persone molto moleste, e chiudere così finalmente quel dialogo surreale. Disse semplicemente: “Désolé. Je ne parle pas allemand”. Lo sconosciuto lo fissò interdetto a bocca aperta nello scoprire che fino a quel momento aveva parlato senza essere capito, poi salutò Marcello con un cenno e raggiunse i suoi amici dicendo: “Ma pensa che quel tizio mi ha scambiato per un tedesco. In effetti è comprensibile: sono alto e biondo”. A Marcello giunse ancora in lontananza la risposta di una ragazza del gruppo: “Tu sei castano chiaro e sei alto un metro e settanta. Non sei né alto né biondo”. Gli italiani se ne andarono chiacchierando rumorosamente in direzione del Pont Neuf ed anche Marcello si avviò verso casa, con i pensieri tutti rivolti a San Gremo, l’unico luogo che amava più di Parigi. Da quanto tempo non ci andava? Almeno due anni con un conto veloce e approssimato. Chissà cosa era successo di tanto terribile, pensava Marcello, mentre imboccava la stretta rue St.Severin, seguito lentamente da Bobo che, tanto per cambiare, stringeva fra i denti un grosso sasso. “Insomma, Bobo, la smetti con questo vizio di portarti i sassi in casa? La tua cuccia sembra una pietraia” disse Marcello togliendo di bocca il sasso e lanciandolo in un angolo della strada. Il cane non sembrò molto turbato dal gesto del padrone. Dopo meno di una decina di metri già teneva in bocca un altro
sasso, grande almeno il doppio di quello che Marcello aveva gettato. Bobo guardò scodinzolando il suo padrone quasi per ringraziarlo. I suoi occhi parevano dire: “Hai ragione, quel sasso di prima era troppo piccolo. Questo è perfetto per la mia collezione”. Marcello guardò il suo cane con uno sguardo rassegnato, poi gli disse: “In Giappone i cani li mangiano. E fanno bene”. Bobo pensò che la frase di Marcello fosse un complimento per il suo sasso e scodinzolò. “Ma forse è in Cina e non in Giappone”– concluse Marcello. Poi si richiuse nei suoi pensieri. E, dopo qualche o, sempre rivolto al cane, disse: “Anche a te piacerebbe sapere cosa è successo a San Gremo vero? Ed è inutile che con quello sguardo tu mi dica che bastava che lo chiedessi a quegli stupidi turisti piemontesi, al caffè. Anche la mia sopportazione ha un limite”. Il cane posò un attimo il sasso sul marciapiede, guardò Marcello ed abbaiò. Poi riprese il sasso fra i denti. “Non è colpa mia se non mi piace parlare con i turisti e in particolare con gli italiani. Quando scoprono che sono italiano diventano appiccicosi. Fanno un sacco di domande. E perché, e per come, e dove? Se poi ne trovi uno apionato di fumetti che ha già sentito parlare di me o dei miei lavori… allora è finita. Ecco che fioccano le domande: ma come mai si è trasferito in Francia? Li leggiamo anche in Italia i suoi fumetti. Oppure quell’altro genio che una volta mi ha chiesto se si guadagna molto con le storie dell’orrore. E insisteva per raccontarmi, in cambio di mille euro, la storia del fantasma di un benzinaio che vive, se così si può dire, nella sua casa di Biandrate e gli parla ogni notte. Quando poi gli ho risposto che non credo ai fantasmi mi ha guardato come se fossi matto. Sventolandomi sotto al naso una copia del mio ultimo lavoro”. Hai capito Bobo perché sono così asociale? E forse anche un po’ stronzo?” Il cane annusa un muro dall’odore particolarmente interessante poi alza la zampa e si libera guardando il suo padrone. “Giusto Bobo, meglio pisciare che parlare. Se io fossi gentile ed educato
spiegherei alla gente che sono in Francia perché qui coi fumetti ci vivi ed anche piuttosto bene, mentre in Italia se non sei Manara o Sclavi puoi appena sopravvivere. Poi gli dovrei spiegare che non è necessario credere ai vampiri per scrivere storie di vampiri. Naturalmente non sono né gentile né educato. E l’unico con cui parlo volentieri, sei tu”. Il cane osserva con comprensione il suo padrone, e gli si affianca dopo un ultimo sguardo alla pozzetta che ha lasciato in terra contro il muro”. Marcello parla ogni giorno con Bobo. Non che si aspetti una risposta, quello no. E’ il suo modo per ragionare ad alta voce anche per strada senza essere preso per matto. In fondo quasi tutti i padroni parlano anche col loro cane. La differenza è che Marcello parla quasi esclusivamente col proprio cane. Con Josephine, la sua ragazza, si limita a poche frasi di circostanza quasi tutte orientate ad un rapido scambio di opinioni o alla risoluzione il più veloce possibile di un improvviso impulso sessuale. Antipatico e misogino: questa è la definizione di se stesso che Marcello preferisce e che da anni coltiva con costanza, regolarità e soprattutto… successo. Del resto Josephine, la sua ragazza, non ha alcun problema a sopportare il suo carattere. Lei è un’impegnatissima top-manager e, pur frequentando a fasi alterne Marcello da oltre quattro anni, come quasi tutte le donne in carriera, vive in uno stato costante di egotismo. Probabilmente per questo non si è mai accorta o non ha mai dato particolarmente peso ai frequenti sgarbi a cui viene sottoposta dal suo compagno. Josephine lavora per la sede parigina di uno dei più importanti gestori mondiali di telefonia mobile e, tra meeting negli States e conventions, il tempo che trascorre a Parigi accanto a Marcello si limita quasi esclusivamente ai fine settimana. Marcello, preceduto dallo zampettante Bobo, ha appena abbandonato il traffico convulso di boulevard St. Germain e si è inoltrato nell’intrico di stradine del V arrondissement. Ancora pochi i nello stretto vicolo dopo la chiesetta di Saint Severin, evitando di calpestare i clochard che dormono sui gradini del sagrato, e Marcello e Bobo giungono davanti alla porta di casa. Anche se il quartiere latino ormai è meta continua di carovane di turisti affamati di scorci tipici della zona studentesca ed etnica, raramente i gruppi si spingono fino a quell’angolo. I profumi dei ristoranti orientali arrivano smorzati alla casa di Marcello. E la casa dove abita, pur essendo la tipica costruzione inizio-novecento del centro
parigino, ha l’aspetto delle case borghesi decadute e poco curate. Guardando il cielo si possono ancora vedere le ultime luci dell’imbrunire ma nella via stretta e compressa tra alti palazzi è già buio. Ma i lampioni sono ancora spenti e Marcello fa fatica nella semi oscurità a centrare con la chiave il buco della serratura del portone. Un paio di imprecazioni (quelle funzionano sempre) e finalmente ci riesce. Ma anche l’ingresso e il vano scale del palazzo sono ancora al buio. “Madame Sophie, merda, è ora di accendere la luce nelle scale! Vuole che mi rompa una gamba salendo le scale?” urla Marcello rivolto alla guardiola della portinaia. “E lei usi l’ascensore, invece di salire le scale, così il suo cane non mi riempirà di peli i gradini” – risponde la vecchia acida, che non ha mai potuto soffrire Marcello, uno dei pochi inquilini che non la tratta con la deferenza dovuta a chi detiene i segreti inconfessabili della maggior parte degli abitanti del palazzo. “Prenderò l’ascensore per salire al primo piano solo quando sarò un vecchio rammollito come lei, madame Sophie”. “Rammollita? A proposito di rammollite… prima di salire prenda la posta, ci sono tre buste per lei – grida la portinaia – ahi ahi, purtroppo… mi sono cadute nel secchio dell’acqua sporca. Si sono un po’ rammollite. Beh, pazienza, se le mette sul termosifone si asciugheranno in un attimo”. La portinaia porge a Marcello attraverso il vetro della guardiola tre buste gocciolanti ridacchiando tra sé e sé. Marcello afferra con un gesto quasi violento la posta poi, aprendo la porta dell’ascensore, dice al suo cane ad alta voce perché la portinaia possa sentire: “Va be’, stasera prendiamo l’ascensore. Ma tu cagnaccio evita di farci ancora la pipì. Non vorrai mica dare dell’altro lavoro alla nostra portinaia, così gentile e così impegnata. E poi non è elegante in un palazzo come questo”. E sotto lo sguardo incuriosito di Bobo, come l’ascensore iniziò a salire, Marcello estrasse il pene e pisciò. Giunto sul proprio pianerottolo, apre la porta in ferro battuto dell’ascensore nella
semi oscurità (madame Sophie, dispettosa come sempre, pur avendolo visto arrancare nel buio, si è ben guardata dall’accendere le scale in anticipo di circa tre minuti sul regolamento condominiale). Quando poi, con la chiusura della porta dell’ascensore, si spegne anche la fioca luce proveniente dal suo interno, il pianerottolo resta nell’oscurità quasi totale. Marcello, immerso nel buio, si sorprende a rabbrividire. Piccole ingiustificate paure che lui si porta addosso fin dall’adolescenza (quando successero a San Gremo quei fatti a cui Marcello non vuole pensare mai e che solo i frammenti dei discorsi uditi oggi nel caffè tentano di forzare la sua volontà di dimenticare). E mentre faticosamente nel buio tenta di trovare la serratura della porta, di colpo, ha la sensazione di essere osservato. Anche Bobo deve aver percepito qualcosa perché il suo rumoroso respiro da cane di grande mole di colpo si è accelerato. Marcello si guarda intorno tentando di scalfire il muro di oscurità che lo circonda e chiede: “C’è qualcuno? E’ lei madame Sophie?”. Il silenzio. Poi un terribile mugolio proveniente dalla rampa di scale verso il piano superiore risponde alla sua domanda. I gesti di Marcello diventano frenetici: con una mano tenta ancora di inserire la chiave nell’invisibile serratura, con l’altra stringe il collare di Bobo per tenerlo accanto a sé. Non è una persona paurosa Marcello, ma, forse per il ricordo di quei fatti di San Gremo (quelli a cui non bisogna mai pensare) appena risvegliato dai discorsi uditi al caffè, forse per un particolare momento di stress psicologico che ha bloccato anche la sua vena creativa, sta decisamente tremando. “Insomma chi c’è sulle scale?” balbetta ancora Marcello mentre finalmente ha trovato la toppa e sta aprendo la porta del suo appartamento. Ancora una volta, dall’oscurità, sente giungere il terribile verso: “Ahhgrrua!!”. E in quel momento preciso, proprio mentre Marcello sta entrando velocemente in casa, prima ancora di riuscire a premere l’interruttore dell’ingresso ecco che di colpo, dalla sua guardiola, madame Sophie attiva l’illuminazione condominiale inondando di luce le scale e il pianerottolo. Marcello si blocca e guarda nella direzione da cui proveniva il verso.
Davanti a sé, nella rampa di scale che scende dal piano superiore, immobile, la figura di una giovane donna pallida e magrissima al limite dell’anoressia. La ragazza piega la bocca in un inquietante sorriso e, fissando Marcello, emette ancora una volta quel terribile verso. Bobo ringhia arretrando di qualche o. Qualcuno dal pian terreno chiama l’ascensore che riparte rumorosamente. Marcello sussulta e guarda l’ascensore poi si sforza di volgere nuovamente lo sguardo verso la scala. Marcello e la donna sorridente (un sorriso terribile e agghiacciante) si fissano. Poi la donna scende qualche gradino avvicinandosi al piano di Marcello ed allungando una mano scheletrica verso di lui. Lui la fissa immobile e raggelato. Intanto l’ascensore con un rumore di ferraglia, si blocca sul pianerottolo. La porta viene aperta lentamente con uno sgradevole cigolio. Ne esce furiosa la portinaia, armata di scopa e mastello, che grida a Marcello: “Io la denuncio alla prossima assemblea condominiale, il suo cane ha di nuovo sporcato l’ascensore!”. Poi la vecchia si blocca sollevando lo sguardo sulle scale verso la giovane donna. La sua voce stridula si addolcisce. “Oh, mademoiselle Glincourt, mi scusi, non l’avevo vista. Vedo che ha già conosciuto il peggior inquilino di questo palazzo. Non si preoccupi, gli altri sono persone per bene. Lui è un’eccezione” – dice indicando Marcello che non si è ancora ripreso dallo stupore. La portinaia si avvicina a Marcello e gli dice gelida indicando la donna: “Lei è mademoiselle Glincourt, la nuova inquilina del secondo piano. Poi portando la mano davanti alla bocca perché la ragazza non possa vedere il movimento delle sue labbra dice a Marcello: “Avrà già notato che è sordo-muta, povera ragazza. A differenza di lei che invece parla troppo monsieur Grimaldi. Certe disgrazie capitano sempre a chi non se le merita. Invece quelli come lei… stanno fin troppo bene”. Marcello con un impercettibile sospiro di sollievo tende la mano alla ragazza e si presenta. Lei risponde con un verso (che ora non suona più così orribile come appariva
nell’oscurità) e sorride stringendogli la mano. Poi, con una variegata serie di mugolii e di gesti, fa capire a Marcello che lei abita al piano di sopra e che è molto contenta di averlo conosciuto. Aggiunge ancora qualcosa con un atteggiamento amichevole che Marcello finge di capire annuendo con un sorriso, sotto lo sguardo irritato della portinaia. Poi Marcello entra nel suo appartamento e, prima di chiudere la porta, si volta verso la portinaia dicendo: “Comunque non è stato il mio cane a sporcare l’ascensore!”. La tranquilla penombra dell’appartamento accoglie Marcello che, senza accendere la luce nell’ingresso, si dirige direttamente nello studio. Una pressione sull’interruttore del computer e un’altra sul telecomando del televisore rompono il silenzio dell’appartamento riempiendo la stanza con le voci del telegiornale e con la sequenza di note dell’avvio di Windows entrambi tenuti ad altissimo volume. Il cane ha seguito Marcello ed ora lo osserva con aria di attesa respirando rumorosamente. “Ok, ho capito” – dice l’uomo uscendo dallo studio per andare in cucina. Prende da un armadio una busta di cibo per cani e lo versa nella ciotola di Bobo. Il cane, scodinzolando, posa sul pavimento il sasso che teneva ancora fra i denti e immerge il muso nel cibo. Marcello approfitta della momentanea distrazione di Bobo per raccogliere il sasso da terra e posarlo in un vaso accanto ad una decina di altre pietre che il cane ha raccolto nelle sue eggiate quotidiane. “Un giorno o l’altro mi inciamperò in uno dei tuoi sassi e cadrò rompendomi una gamba, brutto stronzo di un cane – dice Marcello allungando affettuosamente una carezza alla schiena di Bobo che, troppo intento a leccare il fondo della ciotola, non solleva neppure il muso verso il padrone. Poi Marcello a una mano sulle tre buste bagnate della posta che la portinaia gli ha consegnato e, insultandola silenziosamente, le inserisce nel forno elettrico per tentare di asciugarle prima di aprirle. Allunga una mano verso l’interruttore e, nell’attimo stesso in cui il forno si accende, con un lampo, l’appartamento piomba nell’oscurità e la voce del televisore tace di colpo. “Cazzo!” Ancora una volta Marcello ha dimenticato che se accende il forno elettrico senza prima spegnere il boiler dell’acqua calda scatta l’interruttore automatico che
interrompe l’energia elettrica. Ora Marcello si muove a tentoni nell’appartamento totalmente buio. Cerca di raggiungere senza far danni il contatore dell’elettricità, che è in una posizione assolutamente insensata, inserito in un minuscolo vano del muro, all’interno dello sgabuzzino accanto alla porta di ingresso. Uscendo dalla cucina urta un tavolino facendo cadere rumorosamente un portacenere di vetro che si infrange sul pavimento. Ora Marcello è nel corridoio e, allungando una mano contro il muro, si accinge a procedere rasente ad esso per raggiungere l’ingresso dell’appartamento alla sua sinistra. Ma di colpo gli pare di sentire un fruscio provenire da destra, probabilmente dallo studio. Marcello si blocca e chiama: “Bobo!” Ma il cane è accanto a lui e, come si sente chiamare, agita ritmicamente la coda colpendolo violentemente con una serie di frustate contro la gamba. Marcello si blocca e non riesce a comprendere lo stato ansioso in cui si trova: già poco prima sulle scale di casa l’incontro con la sordo-muta lo aveva messo in agitazione ed ora un semplice fruscio proveniente dalla stanza accanto gli provoca questa terribile sensazione di batticuore. Non vuole ammetterlo a se stesso e si rifiuta di assecondare il pensiero ma… il ricordare San Gremo questa volta lo ha messo in agitazione. A differenza del solito, il vecchio paese non gli ha fatto pensare ai ricordi belli della sua adolescenza, alla Bettina, il suo primo amore, alle serate con gli amici immersi nel fumo e nella musica. No, questa volta, come una nebbia plumbea, da una zona remota del suo cervello continuano a spingere tentando di uscirne, le immagini più terribili, quelle a cui non vuole pensare mai (QUELLA COSA CHE NON E’ MAI SUCCESSA). E così, nel buio del suo appartamento parigino, ora si sente come se non avesse mai lasciato la vecchia immensa casa dei nonni coi suoi mobili polverosi, i tappeti persiani consumati, il pianoforte scordato e (NO, QUESTO NON E’ MAI SUCCESSO!)… la voce di sua nonna, quella voce che lo chiama nella notte. Quella volta che… quella volta che… Marcello entra nello studio e l’oscurità è rotta dalla fioca luce dei lampioni della strada che entra dalla finestra. E nella semioscurità gli pare di percepire una presenza. Ma lui conosce bene il potere dell’autosuggestione. Per questo esplode
in una risata un po’ forzata e, muovendosi velocemente nel buio, in pochi i raggiunge lo sgabuzzino e, finalmente, preme il pulsante del salvavita. La luce invade l’appartamento e, dallo studio, la voce rassicurante di uno speaker pubblicitario gli dice che le patatine Glommy, le gusti e poi le sogni! Marcello sorridendo alla luce e alla serenità ritrovata si siede alla scrivania davanti al computer che sta ricaricando il sistema operativo dopo l’interruzione di corrente. Deve decidere se rimettersi a lavorare tentando di procedere in qualche modo con la storia che sta scrivendo, quella ferma da almeno due settimane per assenza di idee, oppure estrarre dal surgelatore qualche piatto pronto. Uno di quelli che Josephine gli lascia periodicamente per evitare che, come dice lei: “per pigrizia tu muoia di fame”. Ma poi Marcello decide che non ha voglia di restare un quarto d’ora in cucina a sorvegliare che il fornetto faccia il suo dovere desurgelando lentamente la sua pietanza. Come spesso fa in questi casi, telefona al takeaway cinese più vicino per farsi portare un riso cantonese, un paio di involtini primavera e un piatto del giorno. Dopo la telefonata al ristorante, tenta di concentrarsi sul lavoro, ma una domanda continua a tormentarlo distraendolo a intervalli di pochi minuti: “Chissà cos’è successo a San Gremo?”. Rassegnato chiude il documento di Word su cui ha tentato di lavorare ed apre Internet Explorer. “Vabbè, ho capito, devo scoprire cosa è successo a San Gremo.”– dice Marcello colpendo con un piccolo calcio il suo cane che si è comodamente sdraiato sotto la sua scrivania. Sbuffando, inizia una ricerca su internet per vedere se, con qualche notizia in più su ciò che inconsciamente lo sta martellando, riuscirà a ritrovare la tranquillità per riprendere il suo lavoro. Parte, naturalmente, da Google, ma la ricerca di “San Gremo, Canavese” gli porta solo una serie di molte pagine che parlano della squadra di calcio locale, della compagnia filodrammatica amatoriale paesana e dell’antica Festa dell’Acqua, la più importante sagra dell’anno per San Gremo. Una festa che Marcello ricorda bene per i baracconi e il grande ballo a palchetto che ogni anno per una settimana veniva montato sulla piazza del paese. Una festa tradizionale la cui origine si perde nella notte dei tempi e che, in una
delle pagine di Google, si attribuisce addirittura ai primi anni del medioevo, prima ancora, insomma della nascita stessa del paese. Ma a Marcello, della Festa dell’Acqua, in questo momento non importa nulla: vuole sapere qualcosa della morte recente di un bambino e dei motivi per cui un fatto tutto sommato abbastanza comune, abbia fatto rinascere quelle solite voci paesane su misteri e soprannaturale. La sua ricerca a da Google all’archivio articoli del più importante quotidiano torinese. Qui la ricerca gli fornisce solo i dati di un paio di incidenti stradali avvenuti nei dintorni del paese. Allora si connette al sito di un piccolo giornale locale, quello che si occupa della cronaca di tutti i paesi della zona nord del Piemonte fra cui, appunto, San Gremo. Qui, finalmente, trova un trafiletto di poche righe che parla di un incidente in cui ha perso la vita un bambino, morto mentre giocava nelle scale interne del campanile della chiesa di San Gremo. L’articolo non scende nei dettagli dell’incidente e non cita neppure il nome del bambino comunicandone solo le iniziali. La data del giornale è di una settimana prima e la maggior parte dello spazio dedicato a San Gremo, riguarda le iniziative della pro loco per la Festa dell’Acqua che si svolgerà nella settimana successiva. Un bambino morto nelle scale del campanile della chiesa di San Gremo. Inutile tentare di non pensare a quella Festa dell’Acqua di tanti anni prima, fine anni ’70, con un Marcello appena diciassettenne che, come ogni weekend, torna dal collegio nella casa dove lo attende la nonna. Anche allora ci fu una morte legata al campanile della chiesa. Oltre alla morte della sua nonna. Marcello si appoggia allo schienale della sedia, socchiude gli occhi e il flashback, prepotente, avvolge, con il ricordo di quei giorni, i suoi pensieri.
II San Gremo, fine anni ’70 In quell’anno San Gremo, quello che oggi è diventato un popoloso paesone di provincia circondato da villette tutte uguali, era ancora composto da un piccolo gruppo di case rustiche che si stringevano quasi a proteggersi una con l’altra intorno ad una grande piazza al centro della quale si ergeva una maestosa ed esagerata chiesa parrocchiale. Tutto intorno a questo centro antico iniziavano a spuntare le prime ville, progettate dai geometri locali, che negli anni successivi avrebbero stretto il paese in una morsa di cattivo gusto. Sulla piazza si affacciavano una farmacia, un emporio, e una trattoria-bar con gioco bocce. Al centro della piazza proprio di fronte al sagrato della chiesa un grande lavatoio in pietra dove al mattino le donne che ancora non avevano acquistato la lavatrice, potevano sciacquare i panni scambiandosi chiacchiere e pettegolezzi. La Festa dell’Acqua arrivava puntuale ogni anno a fine ottobre a cavallo della festa di Ognissanti. E anche quella volta, eravamo alla fine degli anni ’70, in un ottobre particolarmente tepido e profumato di mosto, arrivarono dalla strada provinciale i carrozzoni del tiro a segno e delle attrazioni del luna-park. Mancavano ancora tre giorni alla festa ma i ragazzini già eccitati scappavano dall’oratorio e si muovevano a gruppi per le stradine del paese gridando e facendo esplodere piccoli petardi di carta. Marcello aveva preso la corriera delle diciotto per raggiungere San Gremo e vivere come ogni anno con gli amici la Festa dell’Acqua. Era un bel gruppo quello dei ragazzi che si formava ogni estate tra i figli dei villeggianti che avano le vacanze dai parenti in campagna e i figli dei residenti nel paese che, beati loro, vivevano tutto l’anno in paese e si spostavano ogni giorno per raggiungere la scuola nei borghi vicini. Pur vivendo, fin dalla partenza dei suoi genitori per l’oriente, nel collegio dei Padri Gesuiti a Torino dove frequentava la quarta ginnasio, non c’era domenica o festa scolastica da marzo a novembre che Marcello non asse a San Gremo, nella grande e austera casa della nonna.
Era troppo bello il senso di libertà che si provava nel paesino, affidati alla morbida e tollerante sorveglianza della nonna, rispetto al collegio dove tutto era condizionato dalla severità e dai divieti di sacerdoti e istitutori. Il viaggio in corriera durava circa un’ora da Torino lungo una strada provinciale troppo stretta anche se ormai quasi del tutto asfaltata. Ma fra i sobbalzi e l’odore di nafta, Marcello godeva ogni minuto di quel viaggio che si lasciava alle spalle la città e le ore di studio. Avrebbe ato le sue serate con la compagnia di amici a parlare del più e del meno su una panchina della piazza. E poi nell’osteria a cantare, in un inglese approssimato, i Cream e i Deep Purple intorno ad una chitarra mal suonata. Sedendosi, naturalmente, il più vicino possibile alla Bettina. Marcello, che aveva preso posto quasi in fondo, guardava dai finestrini della corriera senza vedere nulla dei campi intorno perché una fitta nebbia era calata nascondendo ogni cosa. La zona a ridosso del fiume Orco che bisognava attraversare prima di giungere a San Gremo era soggetta, in autunno e inverno, a delle fittissime e impenetrabili nebbie. Poi, man mano che si procedeva in direzione delle montagne, la nebbia tendeva a dissolversi leggermente, ma mai del tutto creando una condizione magica e suggestiva di “pallida nebbia”. Il pullman era completamente vuoto e l’autista borbottava maledizioni esasperato dalla difficoltà di restare sulla strada senza finire nel fosso laterale. Prima di arrivare a San Gremo la corriera ava attraverso quattro o cinque paesini in cui faceva fermata, ma stranamente quella sera nessuno era salito fino a quel momento. Ma ecco che, circondato dalla fitta oscurità della sera autunnale, a un’anonima fermata in mezzo ai campi, invisibile, qualcuno salì dalla porta posteriore e si sedette proprio dietro a Marcello. –Chissà perché doveva proprio sedersi qui vicino con tutti sedili liberi – pensò il ragazzo infastidito dall’odore forte che proveniva dal eggero alle sue spalle. Era un odore intenso come quello della nebbia sui campi concimati mischiato a quello di troppe grappe bevute da poco. Marcello non si voltò a guardarlo: aveva imparato da tempo che guardare uno sconosciuto serve solo ad incoraggiarlo ad una conversazione. Ma poi sentì l’uomo alle sue spalle tendersi verso di lui: sussurrò qualcosa di incomprensibile e il suo fiato mefitico coprì il buon odore di cuoio consumato e polveroso dei vecchi sedili della corriera. Marcello si tese in avanti per allontanarsi il più
possibile dallo sconosciuto, ma quello tornò a sussurrare e il sibilo del suo fiato pareva quasi penetrare direttamente nel suo orecchio. E questa volta il sussurro fu comprensibile. Una sola parola chiara e sibilata: “Masche”. In quegli anni le masche erano ancora un argomento di conversazione fra gli anziani contadini, soprattutto d’inverno quando si riunivano dopo cena nella stalla, coi vicini di casa, a riscaldarsi al fiato degli animali. Era allora che si raccontavano le storie paurose di queste creature demoniache che si nascondevano con un aspetto normale fra la gente comune e solo di notte manifestavano la loro vera natura trasformandosi in streghe alate o in gatti neri che portavano malattie ed uccidevano i neonati per divorarli. Marcello non credeva naturalmente a queste storie paurose che aveva più volte sentito da bambino dagli anziani del borgo. In quelle sere d’estate lui e la nonna raggiungevano i vicini già seduti nel gerbido fuori dal cancello di casa. Intorno ad un falò, per tenere lontane le zanzare, si facevano le ultime chiacchiere prima di ritirarsi per la notte. Erano sere in cui si parlava dei tempi andati, di persone che non c’erano più, dei raccolti buoni o avari ma poi, quasi sempre, qualcuno iniziava a parlare di una persona, di un fatto, di una notte di tanto tempo prima quando nel paese era successo qualcosa di terribile legato a quelle oscure presenze. Tutti allora, persino gli uomini, rabbrividivano anche se la maggior parte dei presenti conosceva già quelle storie per averle sentite raccontare almeno cento volte dai propri genitori o dai nonni. E le masche di quei racconti avevano sempre un nome e un cognome noti: erano la figlia del tale o la moglie del talaltro, tutte persone già morte o che avevano lasciato il paese molti anni prima. Anche se in quelle sere, lungo il viale di casa, il piccolo Marcello si teneva molto stretto alla nonna sussultando ai versi degli uccelli notturni, già allora era piuttosto dubbioso sulla veridicità di quei racconti. E crescendo aveva riso delle sue paure. Ma quella sera sulla corriera, forse per l'atmosfera gelida e nebbiosa che avvolgeva i campi fuori dal finestrino, forse per l'oscurità, o per la voce sgradevole dello sconosciuto, sentì un brivido corrergli lungo la schiena. Provò a voltarsi verso il sedile posteriore ma lo schienale nascondeva l'occupante. Si udiva solo il suo respirare rumoroso e ansimante. Dopo qualche minuto nell'oscurità più profonda la corriera si fermò. Era una fermata? Forse, ma fuori dai finestrini la nebbia nascondeva ogni cosa
non si vedevano né luci né case. Marcello sentì un movimento alle sue spalle: lo sconosciuto si era alzato e si stava dirigendo verso l’uscita in fondo al pullman. Le luci erano tenute basse nell’abitacolo per non disturbare la guida notturna per cui riuscì a malapena a vedere le spalle dell’uomo che stava scendendo. Ma sentì benissimo che continuava a mormorare fra sé e sé quella parola mentre usciva dalla portiera e scendeva nell’oscurità della notte. “Masche” continuava a mormorare “Sono tornate le masche. E anche i morti eggiano per le strade”. Poi la sua voce si perse all’esterno. Marcello si affrettò guardare dal finestrino. Ma la nebbia si era ancora alzata e nell'oscurità vide soltanto un'ombra che si allontanava. “Un vecchio pazzo e ubriaco” pensò Marcello forse per farsi coraggio e sconfiggere quella sensazione di disagio che l’aveva colto. Ma San Gremo si avvicinava e come sempre ogni sensazione negativa scompariva quando stava per arrivare nel paese che tanto amava, quel paese che quasi tutti conoscevano come “il paese delle pallide nebbie”. Il pullman continuò ancora per qualche decina di minuti il suo viaggio nel buio della sera autunnale finché apparvero le prime luci del paese. Ecco la grande casa della nonna davanti a cui il pullman ava velocemente per raggiungere la fermata sulla piazza dopo poche centinaia di metri. Ed ecco la nonna avvolta nel suo elegante scialle di moher, davanti al grande cancello in attesa del nipote mentre aguzza inutilmente lo sguardo per vederlo are veloce sul pullman. Poi, finalmente, la fermata sulla piazza del paese. Come sempre la prima sensazione di Marcello quando arrivava a San Gremo era olfattiva: quel profumo di prati e di muschio che si combinava in quel fine autunno ancora tiepido all’aroma dei tini e della vendemmia. Per questo, scendendo dalla corriera in quella sera nebbiosa sulla piazza del paese, per prima cosa si riempì i polmoni poi si guardò intorno. Fu allora che si accorse che la piazza, a differenza del solito, era piena di gente silenziosa e attonita. Un atmosfera molto strana considerando che si stava preparando la Festa dell’Acqua, la più importante sagra dell’anno per San Gremo. L’assembramento di persone era più fitto proprio davanti al sagrato della chiesa e spiccavano, tra i presenti, le divise nere di due carabinieri. Fu Cristiano, uno degli amici di Marcello, a correre incontro al ragazzo per raccontargli quella strana e drammatica giornata per San Gremo, un luogo dove non succedeva mai nulla e dove persino una caduta dalla bicicletta del messo
comunale faceva notizia. “Marcello, vieni, è successa una cosa pazzesca, c’è un morto qui in piazza”. Era tutto iniziato nel tardo pomeriggio, raccontò Cristiano a Marcello poco prima del suo arrivo. Mentre gli uomini, tornati dai campi e dalle vigne, erano in piazza per montare il ballo a palchetto e i girovaghi scaricavano dal camion i pezzi dell’autopista, si era udito un grido bestiale risuonare fino al fondo del paese subito seguito da un terribile tonfo. Quella sera all’imbrunire, stranamente, non c’era il solito gruppo di giovani seduti sui motorini fuori dal bar della piazza, e gli uomini erano tutti impegnati nella loro occupazione per cui nessuno aveva saputo raccontare come era successo “l’incidente”. Il primo che si era avvicinato al centro della piazza era stato Giacu Boggio che, guardando il povero corpo disteso sul lavatoio di granito aveva sollevato lo sguardo verso la cima del campanile sovrastante, limitandosi ad osservare: “Alè vulà me an merlu sensa le ali!”[1] Poi aveva estratto ed il toscano di tasca. Giacu Boggio era conosciuto per essere un tipo di poche parole. In un attimo la piazza si era riempita di gente. Non che i cadaveri in piazza fossero una novità per i paesani: i più anziani ricordavano le fucilazioni di partigiani avvenute proprio sulla porta della sagrestia, dove i fori dei proiettili di mitraglia si potevano ancora vedere. Ma una caduta, o meglio un suicidio, perché era impossibile pensare ad un volo accidentale dal campanile della chiesa, non si era veramente mai visto. “I carabinieri – continuò Cristiano – sono appena arrivati”. La stazione dell’Arma, infatti, non c’era a San Gremo e i militari dovevano arrivare in bicicletta dal vicino paese di San Gorgo. Erano giunti, in coppia come sempre, l’appuntato Capurzo e il carabiniere semplice Minniti ansimando per i tre chilometri percorsi sulle biciclette d’ordinanza. Cristiano e Marcello si avvicinarono all’assembramento cercando di vedere il corpo del suicida. “Circolare, circolare su forza, circolare non c’è nulla da vedere” disse cercando di allontanare i curiosi l’appuntato Capurzo dietro al quale, come un’ombra, pallido, stava il giovane Minniti. La gente si aprì per far largo ai due non tanto per rispetto alla divisa quanto per la diffidenza, in quegli anni ancora molto diffusa, verso chiunque arrivasse dalla parte bassa d’Italia. E, in quanto
calabresi, i due tutori dell’ordine non potevano certo essere considerati persone “normali”. L’appuntato Capurzo si chinò per l’ennesima volta sul povero corpo. Un volo di venticinque metri, tanto era alto il campanile, e un atterraggio sulla solida lastra di granito che circondava il lavatoio avevano praticamente distrutto il cranio e reso irriconoscibile il volto del morto. Mentre l’appuntato Capurso si chinava sul cadavere, con la coda dell’occhio, intravide uno strano ondeggiamento accanto a sé. Fece appena in tempo a voltarsi che il carabiniere semplice Minniti stramazzò svenuto al suolo. L’appuntato soffocò un’imprecazione (teneva molto al decoro della sua divisa) e, quasi a giustificarsi di fronte ai paesani, disse: “E’ così giovane il ragazzo ed è di leva…diamogli tempo di farsi lo stomaco, lui non ha ancora visto le brutte cose a cui noi carabinieri di carriera siamo abituati” – e appena finita la frase gettò ancora un’occhiata al cranio fracassato da cui usciva un rivolo di materia cerebrale poi, con espressione indifferente si portò velocemente accanto ad un albero e vomitò. Allora gli uomini si guardarono con aria di intesa: “Dai diamo una mano ai caramba, questi non sono spettacoli adatti agli stomaci fini”. E ridacchiando sollevarono di peso il carabiniere semplice Minniti e lo trasportarono a braccia fin nella farmacia comunale che si affacciava sulla piazza proprio accanto al bar. Qui la prorompente dottoressa Santini, vedova, cinquant’anni portati bene, quarta misura di reggiseno, sogno erotico di ogni maschio attivo del paese, si adoperò con panni umidi e sali per assistere il povero Minniti. Che del resto rinvenne quasi subito non si sa se per i sali o per l’ondeggiamento degli enormi seni della farmacista a pochi centimetri dal suo volto. Il suo capo, intanto, si stava ricomponendo e mormorando maledizioni sul cibo della caserma che doveva avergli causato un’indigestione tornò accanto al cadavere. Poi, guardandosi bene dal volgere gli occhi sui poveri resti chiese: “Sapete chi è? Qualcuno ha visto il fatto?”. “Con la faccia così rotta non potresti riconoscere nemmeno il tuo migliore amico” disse Giacu Boggio. “Non sono mica tutti come la dottoressa Santini che la riconosci anche senza testa”. E qui anche Giuanin Trus, detto “il simpatico”, volle dire la sua: “Io la farmacista la riconoscerei anche bendato ‘boia faus, am bastrìa tuchela
davanti’[2]…con rispetto parlando”. Tutti i presenti assentirono ridacchiando e inseguendo col pensiero una particolare irripetibile fantasia, cosicché nessuno prestò più attenzione al cadavere. Qualcuno più scettico si limitò ad osservare: “Bela vigna, poche uve” che tradotto in italiano corrente significa: “Sì, sì, è bella ma non ci sta!”. “Signori, insomma, un po’ di serietà. Siamo di fronte a un morto” disse l’appuntato Capurso già piuttosto innervosito per essersi fatto cogliere in un momento di debolezza (sia pure di stomaco) e soprattutto per non capire una parola di quello strano dialetto che parlavano i locali. “Eh già. Ci volevano i carabinieri per dirci che questo qui è morto” – disse qualcuno. “Infatti il campanile è alto venticinque metri, e questo qui se li è fatti tutti al volo, alè già an bel sautin…” – rispose qualcun altro. “Alè vulà me an merlu sensa le ali!” – ripeté per la seconda volta la sua battuta Giacu Boggio, a beneficio di quelli che non l’avessero sentita qualche minuto prima. “Fosse stato un po’ meno magari si salvava… ma venticinque metri!” disse Giuanin Trus. “No, non si salvava nemmeno se erano cinque metri, quando batti la testa sulla pietra non c’è scampo” Era stato il dott. Pirotti a parlare, il medico condotto che, chiamato da qualcuno, aveva chiuso velocemente l’ambulatorio ed era sceso in piazza. In quegli anni non c’erano tanti problemi di medicina legale ed autopsie e nella maggior parte dei casi bastava il medico condotto a stilare il certificato di morte anche nelle morti violente. I carabinieri fecero largo perché il dottore potesse avvicinarsi al cadavere. Pirotti, che quella sera aveva già superato la soglia dei sei abituali grappini pomeridiani, con la flemma che lo contraddistingueva, guardando il morto disse: “Sfondamento multiplo del cranio con fuoriuscita di materia cerebrale a causa di…”– poi si interruppe e voltando la testa verso la cima del campanile concluse, soffocando un piccolo ruttino alcolico – “…a causa di caduta violenta”.
Marcello ed Cristiano che erano rimasti fino a quel punto a fissare raggelati il corpo del morto vennero spinti violentemente di lato da qualcuno sopraggiunto alle loro spalle. Incespicando sul lungo abito talare e seguìto da un chierichetto che stringeva fra le mani il secchiello dell’acqua benedetta, si fece largo l’anziano parroco, don Samuele. Qualcuno lo aveva avvisato del drammatico fatto ed era venuto a porgere l’estrema unzione prima che il corpo venisse rimosso. Naturalmente ebbe qualche difficoltà perché il cadavere non aveva più la fronte da ungere con l’olio benedetto. Si limitò perciò a spruzzare un po’ di acqua benedetta sul corpo. Ma di colpo si bloccò con un’espressione sconvolta. “Mio dio, ma questo è Vigio, il mio sacrista!” Il parroco barcollò, come se stesse per cadere ma restò in piedi trattenuto dal carabiniere Capurzo. “Eh no, basta svenimenti per oggi!” – disse Capurzo, poi si rivolse al sacerdote, sempre tenendolo saldamente per un braccio – “… e lei, reverendo, è proprio sicuro che questo poveretto sia il suo sacrestano?”. Ansimando il prete rispose: “Sì, sono sicuro. Le scarpe gliele ho regalate io, vede? Sono proprio consumate qui… e poi, guardi, attaccate ai pantaloni con quella catenella ci sono le chiavi della chiesa. Sì, non c’è dubbio, purtroppo è proprio il povero Vigio”. Poi il prete, asciugandosi una lacrima, recitò ad alta voce un requiem aeternam e tutti i presenti si levarono il cappello ed abbassarono il capo. Marcello, invece, che per reazione al collegio gesuita in cui ava tutta la settimana non sopportava più preghiere né funzioni religiose, dopo aver preso Cristiano per un braccio, si allontanò dal crocchio. “La nonna mi aspetta, devo andare a casa”. “Aspetta” – gli disse l’amico – “hai iniziato la serata con un cadavere ma non hai ancora visto la novità più macabra e affascinante del nostro paesello”. “Qualcos’altro di macabro? Mi mancava questa sera! Sulla corriera c’era un pazzo che parlava delle masche, di morti che camminano, poi trovo in piazza un cadavere spiaccicato ed ora… vuoi mostrarmi qualcosa di macabro? Ma siamo a San Gremo o nel Maine di Stephen King?”. “Vieni, vieni” – disse ridacchiando Cristiano mentre trascinava Marcello verso il lato sinistro della chiesa, quello che ospitava il piccolo cimitero del paese. “Guarda” disse mostrandogli una lunga staccionata di alte lamiere che
nascondeva un cantiere largo circa una ventina di metri che correva parallelo al muro laterale, circondando tutta la superficie del piccolo camposanto. La nebbia del tardo pomeriggio autunnale si era quasi dissolta in foschia attraverso cui filtrava la luce tenue di una luna nascente che si rifletteva sulle lastre metalliche della staccionata. Al di là di questa emergeva dall’oscurità il braccio immobile di una scavatrice che a Marcello fece l’impressione di un grande mostro addormentato. “Stanno facendo dei lavori nel cimitero?” – chiese. “No, lo stanno smantellando. Ormai è diventato troppo piccolo e non c’è più spazio per i nuovi morti. Appena fuori dal paese ne stanno allestendo uno nuovissimo. E’ praticamente finito. Ci trasferiranno le ossa ancora recuperabili e tutte le lapidi e le croci in pietra del vecchio cimitero”. “Sì, ora ricordo che la nonna mi aveva accennato qualcosa un anno fa ma non vi avevo prestato molta attenzione” – disse Marcello, cercando di sollevarsi sulle punte dei piedi per guardare oltre la staccionata nel buio del cantiere. “Non affaticarti, così non si vede nulla: vieni con me. Sono tutti là davanti a vedere lo spettacolo del sacrestano morto, abbiamo via libera”. Prendendogli un braccio Cristiano trascinò con sé Marcello lungo la staccionata fino ad arrivare nel punto in cui due differenti lastre di lamiera, non combaciando perfettamente, lasciavano un aggio sufficiente per introdursi con un piccolo sforzo all’interno. “Mi sembra violazione di proprietà privata” – disse Marcello, giusto per mettersi in pace con la propria coscienza ma senza alcuna intenzione di rinunciare all’intrusione nel cantiere. “Non credo sia proprietà privata: un cimitero è pur sempre un luogo pubblico” – rispose Cristiano estraendo di tasca un accendino e tirando verso di sé la lastra della staccionata per permettere a Marcello di entrare comodamente. Di primo acchito Marcello non riuscì a distinguere nulla nell’oscurità spessa del cantiere ma, accanto a lui Cristiano accese l’accendino; nella fioca luce della fiammella apparve davanti a loro un grande scavo profondo più di tre metri e la cui lunghezza si perdeva nell’oscurità. Cristiano prese il braccio di Marcello e lo tirò verso sinistra: “Vieni, ora
preparati ad uno spettacolo veramente unico!” Non si preoccupò di riaccendere l’accendino che si era spento: in quei giorni aveva già compiuto molte altre volte lo stesso percorso al buio, e si mosse con sicurezza continuando a tirare per un braccio l’amico. Si mossero per una decina di metri costeggiando lo scavo appena visibile alla luce fioca della luna, poi Cristiano si fermò e con un gesto plateale accese l’accendino illuminando la zona in cui erano arrivati. Marcello strabuzzò gli occhi per la scena che gli si presentò davanti. Come in una visione da incubo, nella luce tremolante della fiammella, una serie di ossa umane scomposte e divise in mucchietti erano ben allineate al bordo della voragine in una fila che si perdeva nell’oscurità. Quasi tutti i mucchietti comprendevano anche un teschio più o meno integro. La maggior parte delle ossa era ridotta a frammenti incompleti e sporchi di terra. Davanti ad ognuno dei mucchietti un foglietto di quaderno a quadretti tenuto fermo da un sasso recava una scritta scarabocchiata, probabilmente il nome del defunto o della sua famiglia mentre un mucchio più grande degli altri non aveva alcun foglio. Erano queste ultime, probabilmente, le ossa provenienti da qualche ossario collettivo o da qualche tomba tanto antica da non avere neppure più la lapide col nome del defunto. Di colpo si alzò un vento umido e gelido e una folata all’improvviso spense l’accendino. Rabbrividendo Marcello si trovò immerso nel buio. “Cristiano!” chiamò. “Sono qui, Marcello. Mi è caduto a terra l’accendino e lo sto cercando” – rispose la voce dell’amico. “Lascia perdere, andiamocene, non mi piace restare qui al buio” – disse Marcello che aveva di colpo perso l’entusiasmo per la piccola avventura. Ma Cristiano, questa volta non rispose. “Cristiano!”. Ancora silenzio. Il vento si alzò ancora più violento scompigliando i capelli di Marcello e spazzando via gli ultimi residui di nebbia. Così la luna piena, finalmente libera da velature, iniziò ad illuminare totalmente la macabra scena. Ora sì che lo sguardo poteva spaziare attraverso tutto il cantiere. L’antico cimitero adiacente alla chiesa non esisteva più e, al suo posto, solo
quell’ampio scavo profondo circa tre metri che occupava tutta l’area che Marcello ricordava da sempre costellata di croci di pietra piantate nella nuda terra. Sul fondo dello scavo, sotto i raggi sempre più nitidi della luna, si potevano vedere frammenti di legno consunto, ultimi resti di antiche bare dissolte dal tempo. E, come tanti piccoli mucchietti di neve, le ossa allineate ai bordi dello scavo riflettevano la luce della luna. Di fronte a Marcello, invece, oltre la voragine, appoggiate al muro della chiesa, una lunga fila di lapidi e croci in pietra biancheggiavano nel buio. Su tutto dominava, la mole immobile ed inquietante della scavatrice col suo lungo braccio ripiegato su se stesso . Di Cristiano nessuna traccia. “Cristiano! – chiamò ancora Marcello – “dove sei, non ti metterai mica a fare degli scherzi qui, vero?”. “Marcello, sono qui, vieni!” – la voce di Cristiano proveniva da un luogo indefinito nel buio. Marcello fece qualche o incerto nella direzione da cui gli era parso provenisse la voce. “Qui, qui!” insistette Cristiano, facendo capolino dalla cabina della scavatrice ed accendendo la fiamma dell’accendino per farsi vedere. “Ma dai, devo tornare a casa, mia nonna mi sta aspettando per la cena” – obiettò debolmente Marcello troppo affascinato dalla situazione per opporre un netto rifiuto. Così, invece di tornare sui suoi i verso il varco della staccionata, raggiunse Cristiano issandosi nella cabina della scavatrice. Ora, chiusi nel buio del piccolo abitacolo, stretti sull’unico sedile della cabina odorosa di carburante e di lubrificanti, iniziarono a premere a caso i pulsanti del cruscotto finché individuarono quello che attivava i fanali della macchina. Un semplice “click” e un fascio nitido di luce illuminò tutto lo spazio del cantiere. E di colpo, a Marcello, parve di vedere qualcosa. “Guarda laggiù, accanto alle lapidi – disse respirando con affanno Marcello – guarda, c’è qualcosa che si muove!”. “Io non vedo proprio nulla!”.
Marcello, con gli occhi sbarrati, fissava un punto dove la luce dei fari non riusciva a penetrare, senza capire di cosa si trattasse. Poi finalmente vide che quello che gli era sembrato solo un cumulo di stracci chiari, si muoveva fino ad assumere l’aspetto di una piccola forma umana che gli volgeva la schiena. Dalla piccola statura e dai lunghi capelli sciolti sulle spalle non poteva che essere una bambina. Marcello si voltò verso Cristiano che lo fissava senza capire. “La vedi? Guarda laggiù nel lato in ombra, guarda!” Cristiano volse lo sguardo verso quel punto. Poi, rabbrividendo, Marcello tacque senza distogliere gli occhi da ciò che stava fissando. Perché lentamente, molto lentamente, la bambina si stava voltando verso di lui. La bambina, dal fondo dello scavo, sollevò lo sguardo verso Marcello come se, nonostante la distanza, potesse fissarlo negli occhi e gli sorrise scoprendo i dentini. Tremendamente gialli, per essere quelli di una bambina. Il grido di Cristiano che lo fissava e lo scuoteva, riportò Marcello alla realtà da uno stato di confusione molto vicino allo svenimento in cui si era ritrovato senza rendersene conto. “Marcello guardami! – gridò Cristiano, fissando l’amico con espressione terrorizzata come se lo vedesse per la prima volta. “Laggiù, proprio appena oltre la zona illuminata dai fari, dove inizia l’ombra – disse Marcello guardando negli occhi Cristiano – poi voltandosi di nuovo verso l’esterno disse con angoscia: “Laggiù. C’era una bambina, un attimo fa. L’hai vista anche tu, vero?”. Cristiano non rispose. Continuò a fissare il volto di Marcello con la bocca spalancata e gli occhi terrorizzati. Poi, senza dire una parola, saltò giù dalla scavatrice e, correndo come un pazzo, scomparve nel buio. “Cristiano, brutto stronzo, dove vai? Aspettami!”–gridò Marcello tentando freneticamente di seguire l’amico ma cadendo rovinosamente a terra nel tentativo di centrare nel buio il gradino della scavatrice. Si rialzò immediatamente e, forzandosi di non guardare nella direzione in cui aveva visto la bambina, corse velocemente verso il varco nella staccionata da cui erano entrati. Solo un attimo prima di uscire dal cantiere, quando già la sua gamba destra era all’esterno, trovò il coraggio di guardare alle proprie spalle. Il buio era
squarciato dal fascio di luce dei fanali della scavatrice all’interno del quale parevano danzare delle forme nebulose ed imprecise. “Sono i fantasmi dei morti dissotterrati” – pensò per un attimo Marcello, prima di ricordare che i fantasmi non esistono. Prima di ricordare che nel buio tutto sembra terribile, anche le cose più banali. Come l’aria e la nebbia, mosse dal vento nel fascio abbagliante di due fanali. Appena fuori dal cantiere Marcello guardò verso la piazza cercando Cristiano. Inevitabilmente, in quella direzione, si ritrovò a guardare il luogo in cui si era schiantato il sacrestano. La maggior parte dei curiosi se ne era già andata. Rimanevano solo i carabinieri e qualche sfaccendato in attesa dell’ora di cena. Il gruppetto di persone immobili osservava Sandrino, il becchino di San Gremo, che, aiutato dal suo garzone, caricava il cadavere sul furgone funebre comunale. Era un veicolo il cui utilizzo variava spesso a seconda della situazione, fungendo a volte, in caso di necessità, addirittura da ambulanza. Si avviò lentamente in quella direzione guardandosi intorno per cercare Cristiano. Non riusciva a capire la strana reazione del suo amico. Lo aveva fissato con gli occhi sbarrati e poi era fuggito. E poi, quella bambina. I suoi occhi scuri che lo fissavano. I suoi dentini. Quei terribili dentini gialli. Un’inquietudine indefinibile divorava Marcello, facendolo rabbrividire, mentre si avvicinava al crocchio di persone ancora ferme nel luogo dove il cadavere era appena stato rimosso. “Quest’anno la Festa dell’Acqua non sarà allegra” – diceva qualcuno. “Credo che il sindaco vieterà qualunque festeggiamento. Non si può ballare dove c’è appena stato un suicidio” – gli faceva eco un altro. “Sempre che si tratti di un suicidio”. “Eh cosa vuoi che sia? Qui a San Gremo non siamo mica in città. Qui le persone non si ammazzano tra di loro”. “Peccato però per la festa. Avevano appena finito di montare il ballo a palchetto”. “E i baracconi? Quei poveracci dovranno smontare l’autopista”. “Sempre che il sindaco vieti i festeggiamenti”. Quasi come fosse una beffarda risposta a quest’ultima frase, di colpo, al fondo
della piazza, si illuminò l’area dell’autoscontro e la musica di un disco fuori moda, ruppe fragorosamente il silenzio. Marcello, come tutti gli altri, guardò verso il piccolo luna-park dove una scalcagnata giostra a catene, iniziava a muoversi senza che nessuno fosse seduto sui seggiolini e dove nell’autoscontro un paio di vetture si muovevano guidate dai figli dei gestori, per attirare qualche ragazzino. Dall’altoparlante una voce con un forte accento slavo, era un piccolo luna-park gestito da nomadi, invitava i ragazzi per un giro omaggio sulla meravigliosa giostra dei sogni. “Questi zingari non hanno proprio rispetto per nulla” – disse qualcuno sbuffando. “Però una Festa dell’Acqua senza giostre e senza ballo a palchetto non c’è mai stata!”– rispose qualcun altro – “…e se il sacrista era stufo di vivere, dobbiamo mica pagarla tutti, no?”. Marcello si avviò verso la casa della nonna continuando a guardarsi intorno per vedere se riusciva a scorgere Cristiano. Poi lo vide fuori dal bar della piazza mentre stava cercando di avviare il suo scooter che, probabilmente per l’umidità della sera, si rifiutava di partire. “Che ti è preso?” – gli chiese Marcello avvicinandosi all’amico. Cristiano non lo guardò in faccia mentre rispondeva: “Nulla perché? – e continuando a scalciare col piede sulla leva di accensione – Questo cazzo di vespino non parte!”. “Se vuoi ti do una spinta, ma prima mi devi dire perché mi hai mollato da solo nel cantiere”. Cristiano continuò a non guardare Marcello. “Ma non ti ho mollato, avevamo già visto abbastanza ed ho pensato che fosse ora di andarcene a casa”. “Sì, scappando a gambe levate… dai, cosa ti è successo? Ti ha spaventato la bambina nello scavo? “Io non ho visto nessuna bambina” – disse Cristiano, sollevando finalmente gli
occhi verso Marcello – ma… ho visto qualcos’altro” – e qui il suo sguardo si fece nuovamente sfuggente. “Ma la bambina c’era, l’ho vista bene, stava giocando nello scavo del cimitero. Ci ha guardati e ci ha sorriso. E non dirmi che era un fantasma… visto che questa sera mi sembra la serata giusta per qualunque cazzata”. “Ma no, che fantasma? Io non l’ho vista perché ero distratto. Probabilmente la bambina è una zingarella dell’accampamento dei giostrai. Sono pieni di bambini quelli lì. E vedrai che domani mancheranno un sacco di galline dai pollai del paese”. Finalmente con un colpo di tacco più forte degli altri Cristiano riuscì a far partire lo scooter. “Allora io vado – disse inserendo la marcia – ci vediamo dopo cena?”. “Aspetta, cazzo, non mi hai ancora detto perché sei scappato” – gridò Marcello afferrando il braccio di Cristiano per trattenerlo. Cristiano sospirò e, disinserì la marcia per tornare in folle. Poi, guardando Marcello negli occhi, gli disse: “Ti farà ridere. Per un attimo mentre tu mi parlavi della bambina che stavi guardando, mi è sembrato che i tuoi occhi diventassero luminosi. Gialli e luminosi come quelli di un gatto illuminato dai fanali di un auto”. “Cosa? Gira roba buona in questo periodo a San Gremo! Mi sa che stavolta non ti sei limitato al fumo. Continui a farti gli acidi, Cristiano?”. “Lo sapevo che non mi avresti creduto. Del resto sentirai anche da altre persone che è un periodo strano questo. Un periodo in cui si vedono cose strane. A me non era ancora successo, almeno fino a stasera. E comunque non ci credo. Ma c’è gente, soprattutto anziana, che ha visto… le masche. Ma non quelle delle leggende che raccontano i nonni. Quelle vere, le donne che sono vissute realmente in paese e che venivano considerate delle masche. Tutte donne morte da molti anni. Qualcuno le ha viste camminare di notte intorno alla chiesa”. “Beh, io non sono una masca. E se i miei occhi erano luminosi… non hai pensato che potesse essere la luce dei fanali della scavatrice che rimbalzava su qualche superficie riflettente?”.
Cristiano esitò un attimo ripensando a ciò che aveva visto o che aveva creduto di vedere. Non aveva ancora preso in considerazione quella possibilità. E in effetti era una spiegazione logica. Anzi era l’unica spiegazione possibile. “Sì Marcello, hai ragione. Ma ho avuto paura. In fondo era proprio quello che cercavamo quando siamo entrati nel cantiere del cimitero, no?”. “Comunque per oggi basta emozioni. Mia nonna sarà già preoccupata di non vedermi arrivare a casa. Devo andare…”. Marcello non poté terminare la frase perché di colpo si sentì afferrare alle spalle da un abbraccio violento ed improvviso mentre una voce femminile gridava: “Marcellooooo!” – e due labbra morbide si appoggiavano sul suo collo in un umido bacio. “Nooo, solletico. Fermati, fermati!” gridò Marcello ridendo e voltandosi verso la ragazzina che continuava a stringerlo e a sbaciucchiarlo causandogli un irresistibile solletico lungo tutta la spina dorsale. “Ferma Bettina, lo sai che non lo sopporto!”. “Ok ragazzi, mi sento di troppo, vi saluto, ci vediamo dopo cena – disse Cristiano dando un colpo di acceleratore allo scooter ed inserendo la marcia – e tu Bettina non consumarmelo troppo, il mio amico”. “Stronzo! – rispose Bettina – Non è ancora arrivato il ragazzo che mi faccia venire voglia di consumarlo. E meno che mai Marcello. E’ solo il mio migliore amico – e dicendo questo la ragazza addentò il collo di Marcello in un morso affettuoso – è vero Marcello che siamo amici?”. “Sì, amici – pensò Marcello con un po’ di tristezza poi sorridendo alla ragazza disse: – certo che siamo amici, e cosa dovremmo essere?”. Marcello, in realtà, amava Bettina da almeno un paio d’anni ma lei fingeva di non rendersene conto (oppure proprio non voleva accorgersene). Certo baci e toccamenti vari tra loro due erano una consuetudine a cui il gruppo di amici di San Gremo era abituato ad assistere nelle festicciole estive quando ci si riuniva a casa dell’uno o dell’altro per ballare intorno ad un giradischi e, da quasi tutti, Marcello e Bettina erano considerati una coppia. Purtroppo però l’unica a non considerarsi “accoppiata” era proprio Bettina. Era convinta che a quindici anni non ci si deve impegnare in una storia fissa e che qualche bacio con la lingua e
qualche reciproco “smanacciamento” nelle parti intime non fosse che la naturale manifestazione di un’amicizia molto profonda. Del resto Bettina, abitando a San Gremo con la famiglia, frequentava il liceo nella vicina Ivrea spostandosi ogni giorno col pullman di linea, mentre Marcello lasciava il collegio a Torino solo al sabato pomeriggio e ci faceva rientro già la domenica sera. Alla Bettina era permesso uscire di sera solo al sabato e non oltre le dieci. I due ragazzi avevano così ben poco tempo per vedersi da soli. Al sabato sera, solitamente, si trovavano nel baretto della piazza con tutto il gruppo di amici poi, finalmente, la domenica, la avano insieme camminando a lungo sui sentieri delle alture circostanti, fermandosi in luoghi nascosti, parlando di mille cose o non parlando del tutto, baciandosi molto, accarezzandosi moltissimo, scoprendo l’uno dell’altro tutto ciò che a quell’età tutti i ragazzi cercano e hanno giustamente fretta di scoprire. Purtroppo quei pomeriggi domenicali erano sempre troppo brevi e le vacanze estive arrivano solo una volta all’anno. Troppo poco per una storia seria soprattutto considerando il carattere esuberante di Bettina che metteva l’amicizia e “il casino con gli amici” al primo posto nei suoi quotidiani interessi extra scolastici; e questo faceva impazzire di gelosia Marcello rinchiuso in collegio per tutta la settimana. Ma la gelosia era, naturalmente, fuori luogo per Bettina visto che quella con Marcello per lei era solo un’amicizia un po’ più speciale delle altre (i toccamenti e i baci facevano parte di quello che Bettina voleva considerare un indispensabile fase di apprendimento propedeutico senza implicazioni sentimentali). O almeno così diceva a sé stessa e agli altri. Senza crederci neppure un po’. Forse perché ogni fine settimana aspettava con troppa ansia il ritorno del suo “amico speciale”. “Fai il weekend lungo questa volta, Marcello, non sapevo che saresti venuto già di venerdì – disse Bettina – e ti sei guardato bene dal farmelo sapere. Temevi che ti avrei organizzato un comitato di festeggiamenti?”. “Sì, ho chiesto il permesso ai miei gesuiti per are la Festa dell’Acqua qui a San Gremo; comunque il comitato di festeggiamenti l’ho ottenuto lo stesso. Quando sono sceso dalla corriera, in piazza, c’era mezzo paese ed anche i carabinieri!”. “Ah sì, il morto in piazza, un bel volo” – disse Bettina senza particolare emozione nella voce. In effetti il sacrestano Vigio non era molto amato dalle
ragazze del paese che lo ritenevano un po’ maniaco per gli sguardi morbosi con cui le fissava al loro aggio. “Comunque c’è di meglio di un suicidio stasera da vedere a San Gremo… – disse Bettina stringendo il braccio di Marcello – e visto che per la Festa dell’Acqua i miei genitori mi lasceranno far tardi stasera, ti accompagnerò a vedere una cosa che sicuramente di sconvolgerà”. “Se stai parlando degli scavi del cimitero e della mostra di scheletri… ci ha già pensato Cristiano a mostrarmi l’attrazione della settimana”. “Nooo! – gridò Bettina delusa – volevo essere io a mostrarti quella scena! Cristiano è uno stronzo chiacchierone e non capisce nulla di fantasmi!”. “Fantasmi?”. “Certo, fantasmi… non li hai visti? Quasi tutti gli amici che sono andati lì di notte dicono di aver visto qualcosa. Finalmente stasera mi lasciano uscire e ci posso andare anch’io”. “Ma i fantasmi non esistono!”. “Anch’io non ci credo. Ma la storia mi intriga troppo. E poi questa settimana in paese non si fa altro che parlare di apparizioni e di masche e di spettri. Un sacco di gente dice di averli visti. D’accordo che per la maggior parte sono persone oltre i settant’anni e con qualche problema di demenza senile tipo la nonna di Emanuele (la conosci no?), oppure lo zio di Augusto, quello che fa colazione a grappa corretta con un goccio di caffè, oppure il gestore della cooperativa agraria l’unico testimone di Geova del paese. “Probabilmente il riportare alla luce tutte quelle ossa ha turbato i nostri compaesani, per lo meno quelli più fragili psicologicamente” – disse Marcello. Poi gli vennero in mente gli occhi terrorizzati di Cristiano che lo fissavano.– “Comunque anche Cristiano mi è sembrato strano stasera”. Ridendo Bettina avvicinò le labbra all’orecchio di Marcello e gli sussurrò: “Non sai che Cristiano coltiva la miglior canapa della zona? E, tra un acido e l’altro, se la fuma quasi tutta lui. Non è attendibile per niente, qualunque cosa ti abbia detto di aver visto”.
Detto questo Bettina avvicinò le labbra alla bocca di Marcello e vi introdusse profondamente la lingua con un bacio apionato. “I tuoi baci stanno migliorando – le disse Marcello – spero che tu non ti sia esercitata con qualcuno per tutta la settimana!”. “Stronzo. Anche la tua risposta ai miei baci è migliorata. Devo pensare che qualcuno dei tuoi preti gesuiti ti dia qualche lezione privata durante la settimana?” – ridendo, Bettina si allontanò da Marcello. “Ora devo andare. Ci sarai stasera? Se vieni con me nel cantiere del cimitero ti prometto che…” In quel momento si udirono alcune note musicali ad altissimo volume: erano i musicisti che provavano gli strumenti nel ballo a palchetto appena montato. Così ridendo Bettina non terminò la frase indicando alle sue spalle il padiglione del ballo: “A meno che tu non preferisca una bella serata di polke e mazurke? Meglio gli eventuali zombies, no?”. “Ok, ci vediamo più tardi – disse Marcello avvicinando le proprie labbra alla bocca di Bettina, nella speranza di un secondo bacio. Ma lei, ridendo si ritrasse dicendo: “A stasera, allora! E porta un po’ di acqua benedetta. Non si sa mai!”. Marcello si avviò lentamente verso casa pensando che non aveva nessuna voglia di tornare quella sera nel cimitero. Avrebbe trovato una scusa per convincere Bettina a cambiare programma. Per una volta in cui i genitori le concedevano di fare un po’ più tardi del solito, a Marcello venivano in mente un sacco di opzioni alternative a una serata in un cimitero tipo magari andarsi ad infrattare insieme in qualche vicolo buio del paese. Purtroppo, però, furono i programmi di Marcello, quella sera, a dover essere cambiati, e non per una serata con la ragazza che amava. Fu qualcosa che riguardava la salute della nonna a trattenerlo in casa. Quella fu la sera che precedette la terribile notte in cui morì sua nonna. La spaventosa notte che non avrebbe più scordato per tutta la vita. Ma quella sera, tornando verso casa, Marcello non ebbe nessun presentimento e i suoi unici pensieri erano rivolti alla bocca umida di Bettina, ai suoi piccoli seni. Dalla piazza del paese per arrivare nella grande casa di famiglia bisognava percorrere circa quattrocento metri sulla strada principale superando così le ultime case e percorrendo ancora cento metri in una zona di gerbido priva di case e non illuminata dai lampioni comunali.
Per questo, solitamente, la casa dei nonni, una delle più antiche del paese, era visibile con le sue finestre illuminate già da molto distante essendo l’unica fonte di luce in quella direzione. La grande proprietà circondata da un giardino ricco di alberi secolari di alto fusto era stata acquistata, nella seconda metà dell’ottocento, dal bisnonno di Marcello, un avvocato torinese fervente mazziniano, costretto ad abbandonare la città perché ricercato dalla polizia per la sua partecipazione ai moti risorgimentali. Di qui la sua decisione di far crescere i sei figli a contatto con la natura della campagna canavesana. Nel corso degli anni i figli si sposarono, le famiglie crebbero e ai primi del 900 abitavano nella casa una dozzina di famigliari. Poi dopo le grandi epidemie, alcuni espatri, addirittura un suicidio e due grandi guerre, la prima delle quali si era portato via nonno Pietro, la nonna era rimasta sola a vivere nella grande casa. Per oltre sessant’anni fino a quella sera. Avvicinandosi alla casa qualcosa distrasse Marcello dal pensiero di Bettina. Troppo buio. Trovò molto strano non vedere il solito bagliore dei lampioni del giardino che, solitamente, la nonna lasciava accesi quando lui era fuori e doveva rientrare di sera. Ed anche dalle finestre della casa che si intravedevano a distanza, non proveniva alcuna luce se non una flebile e tremolante luminescenza. Marcello aprì il cancello e percorse il viale verso la sagoma scura della casa con un’ansia che aumentava via via. Il giardino, completamente buio, senza la luce rassicurante dei lampioni, gli faceva tornare in mente le sere da bambino, quando lui e la nonna tornavano a casa dopo una serata ata coi contadini vicini di casa, seduti sulle panchine appena fuori dal cancello ad ascoltare, rabbrividendo senza crederci, i loro terrificanti racconti di masche e streghe. Marcello accelerò il o con il presentimento di qualcosa di terribile che avrebbe trovato nella casa. Si fermò davanti all’ingresso. Mentre le finestre della cucina erano completamente buie, cosa piuttosto strana considerando che la nonna ava gran parte del suo tempo proprio lì, dalle due finestre sul lato destro del piano terreno, giungeva la debole luminescenza che aveva già notato prima. Le due finestre corrispondevano al grande salone-biblioteca il cui arredamento era composto solo dal pianoforte a coda che ne occupava tutta la parte sinistra, da un immenso tavolo di legno massiccio e dalle antiche scaffalature interamente ricoperte dalla collezione di libri a cui il nonno aveva dedicato tutta la sua vita.
Esitando ad entrare in casa, Marcello si avvicinò ad una delle due finestre per osservarne l’interno. Seduta al tavolo, ingombro di alcuni libri aperti, illuminata dalla fioca luce di un candeliere appoggiato sul ripiano, la nonna era seduta di schiena e sfogliava lentamente le pagine di un libro. Strano. Era raro che la nonna se ne stesse seduta senza far nulla. Ma Marcello, se pur turbato dalla scena poco usuale alla luce tremolante delle candele, si sentì rassicurato nel vedere la nonna. Nell’avvicinarsi alla casa aveva, infatti, avuto la sensazione, quasi un presentimento che le fosse successo qualcosa. E invece la nonna, ora, era lì davanti a lui profondamente concentrata nella lettura. Con le nocche colpì il vetro per attrarre la sua attenzione. Lei si girò lentamente verso di lui. E la preoccupazione, che si era dissolta solo un attimo prima, come uno schiaffo colpì Marcello quando vide il viso della nonna che gli sorrideva. Certo gli stava sorridendo con dolcezza ma, Marcello se ne rese conto immediatamente, la sua espressione era malata, stanca, troppo pallida. La nonna, sollevando le sopracciglia, puntò il dito indice verso l’alto come per indicare qualcosa a Marcello. Che rabbrividì. Per un attimo gli era sembrato che nonna indicasse il cielo, come si fa quando si parla di una persona morta o che sta per morire. Come raggelato restò immobile con gli occhi sbarrati a fissare la nonna. Poi si riscosse e gridando “…nonna!” entrò nell’ingresso di casa completamente al buio urtando violentemente qualcosa, forse un portaombrelli, e raggiunse velocemente il salone. La nonna era ancora seduta davanti al tavolo e, come Marcello entrò nella camera, gli sorrise e ancora una volta indicò verso l’alto col dito indice. Ma questa volta Marcello seguì con gli occhi la direzione che gli veniva indicata e capì che la donna gli stava semplicemente mostrando il grande lampadario del soffitto. “E’ mancata la luce già da due ore – disse la nonna con un tono strano, esitante, quasi volesse nascondere qualcosa al nipote – non ho potuto prepararti la cena. Se vuoi posso farti un panino col salame buono, quello della Mariuccia. Hanno ucciso il maiale la scorsa settimana” – mentre diceva queste parole la nonna
tentò di alzarsi dalla sedia appoggiandosi allo schienale ma le mancarono le forze e tornò di schianto a sedersi. “Nonna! Cosa succede? Ti senti male?” – gridò Marcello correndo accanto all’anziana donna e prendendole una mano fra le sue. Le mani della nonna erano gelide. “Vieni a stenderti sul divano” – disse Marcello prendendola per un braccio per aiutarla ad alzarsi. “Lascia, Marcellino, non è necessario. E’ stato solo un capogiro. – disse andosi una mano tremante sugli occhi – prendi una sedia e vieni qui vicino a me. Sei stato in piazza? Raccontami che cosa hai visto. Stanno succedendo cose molto brutte a San Gremo. E proprio ora con la Festa dell’Acqua”. “Hai parlato con qualcuno, nonna? Lo sai cosa è successo in piazza?”. “No, non ho parlato con… (la nonna non era capace a dire le bugie e Marcello se ne accorse immediatamente ma non la interruppe)… no, non ho parlato con nessuno. Ma so che è successo qualcosa di molto brutto oggi. Proprio nello stesso momento in cui in casa mancava la luce”. “E se non hai parlato con nessuno, come fai a saperlo, nonna?”. La nonna fece una strana indefinibile espressione che Marcello non le aveva mai visto. Poi socchiuse gli occhi ed indicò il libro con la copertina azzurra posato sul tavolo. “Tesoro, vieni, guardiamo insieme questo libro. Parla del miracolo dell’Acqua. Quello per cui tutti gli anni qui da noi si festeggia la Festa dell’Acqua”. “Non mi interessa, nonna, tu stai male. Voglio sapere cosa ti senti”. “Tu vorresti che io ti dicessi come mi sento ma non mi vuoi dire che cosa hai visto in piazza. Vedi, sia io che te abbiamo un segreto. Non importa sai, Marcello. Tanto io lo so – e qui la nonna, portando una mano davanti alla bocca, tentò di soffocare un inquietante risolino. – certo che lo so. Qualcuno è morto oggi proprio mentre a San Gremo tutti si preparano per la Festa dell’Acqua.”. La nonna dicendo queste parole venne colta da un accesso di tosse e sbarrò gli occhi fissando Marcello poi continuò: “…e tu ora vorresti sapere chi me lo ha detto?”.
Poi, quasi volendo cambiare discorso la nonna prese il libro dal tavolo e lo porse a Marcello. “Qui c’è tutta la storia del miracolo dell’Acqua. Vuoi leggerla? E’ ato così tanto tempo da quando successe il miracolo. Il paese non c’era ancora. E neppure questa casa che è antica quanto il paese” – la voce della nonna si affievolì fino a trasformarsi in un bisbiglio ansimante. “Nonna, tu stai male, ti accompagno a letto e chiamo il dottore”. La donna sollevò gli occhi verso il nipote e disse: “Non serve il dottore. Quando è mancata la luce… c’era qualcuno con me. – e poi la nonna pronunciò, quasi fosse una normale informazione, quella frase terribile – il tuo nonno è venuto a trovarmi”. Marcello rabbrividì. Non pensava che la nonna stesse così male. Ora era veramente preoccupato mentre la nonna continuava: “Mi ha detto che era venuto il momento che tornassimo insieme. E sai chi c’era con lui? – la nonna si alzò per avvicinare il suo viso a quello di Marcello e la voce si affievolì trasformandosi in un sussurro – lo sai chi c’era con lui?” “Nonna, ti prego, non ti stancare. Ora chiamo il dottore.” Ma per la terza volta la nonna ripeté quella domanda: “Sai chi c’era con lui?…era difficile riconoscerlo perché la sua testa non c’era quasi… era un ammasso di ossa e di sangue e poi… l’unica luce che lo illuminava era quella di questo candeliere. Ma quando ho sentito la sua voce… non potevo sbagliarmi. Era Vigio, il sagrestano, con la testa fracassata, senza denti, senza lingua, eppure parlava con la sua voce solita. E mi ha detto che ti ha visto, Marcello. Ti ha visto in piazza”. “Nonna, ti prego, non parlare così! Chiamiamo subito il dottore!”. “Chi, il dottor Pirotti? – la voce assunse il tono di un sorriso triste – a quest’ora ha già superato il limite dei dodici bicchieri e non si regge più sulle gambe. E poi né lui né nessun altro, comunque, può far nulla per me”. Marcello scoppiò in lacrime abbracciando la nonna sotto la luce incerta del candeliere.
La donna gli sorrise. “Non aver paura Marcellino. I morti non sono cattivi. Li hanno visti in molti, in questi giorni qui in paese. Ma ogni cosa ha la sua spiegazione. E se vuoi trovarla, cercala nei libri, in libri come questo. Tutto ha un senso. Anche le cose senza senso”. E in quel momento, di colpo, ritornò la luce elettrica illuminando la casa e rendendo ancora più diafano di quanto apparisse alla luce delle candele, il viso pallido della nonna. Quella sera fu Marcello a preparare la cena ma la nonna non volle toccare cibo. Restò seduta sul divano della sala da pranzo continuando la lettura del libro. Marcello la guardò intensamente, con tutto l’amore che provava per lei, accarezzando con lo sguardo i suoi capelli bianchi riuniti in una crocchia, le sue rughe profonde, le sue mani esili: gli sembrò che la nonna stesse meglio. Ma le allucinazioni in una donna di oltre novant’anni non sono un buon segno. Marcello che aveva temuto che la nonna avesse subito un leggero ictus, nel vederla ora serena e concentrata nella lettura del libro si tranquillizzò in po’ e decise che avrebbe chiamato il dottore appena sveglio, il mattino successivo. Poi la nonna si alzò, questa volta senza difficoltà e disse: “Stasera mi sento così stanca. Andrò a dormire. – poi come colta da un pensiero improvviso disse a Marcello – “…tu esci vero? C’è la Festa dell’Acqua in piazza. Si balla. Hai già visto i tuoi amici? E Bettina? Li vedrai stasera?” E la voce della nonna assunse un tono quasi di speranza come se temesse che Marcello avrebbe rinunciato alla sua serata con gli amici per stare accanto a lei. Naturalmente era proprio ciò che Marcello aveva deciso per quella sera: la nonna non stava bene e lui non aveva nessuna intenzione di lasciarla sola. Ma, non volendo contraddirla, le rispose con una piccola bugia: “Sì, più tardi uscirò con gli amici. Ma tu ora vai a dormire. Domani chiameremo il dottore”. “Sì, lo chiameremo. Buonanotte Marcello” – e la nonna si avviò lentamente verso le scale che portavano alle camere da letto del piano superiore. Un attimo prima di lasciare la sala, si voltò ancora una volta verso il nipote e lo guardò intensamente. Poi gli sorrise come per salutarlo e gli disse ancora: “Cerca sui libri la spiegazione” – indicando il libro lasciato aperto sul tavolo. Marcello lo guardò: “Sì nonna, lo leggerò. Buonanotte”.
Poi sentì i i della donna che salivano le scale mischiandosi con i tanti rumori e scricchiolii che provenivano dagli antichi muri della casa. Restato solo, Marcello diede un’occhiata al libro vedendo che si trattava di un saggio storico sulla nascita dei paesi del Canavese e sulle leggende che ne avevano accompagnato la storia, ma in quel momento non aveva alcuna intenzione di mettersi a leggere. Si ricordò di non aver ancora mangiato il panino col salame che si era preparato, e, pur non sentendo fame, andò in cucina a recuperarlo. Mentre mangiava senza appetito, pensò a Bettina: sicuramente lo avrebbe atteso e, forse, ci sarebbe rimasta male nel non vederlo in piazza. Forse. Oppure, approfittando della serata speciale in cui poteva far più tardi del solito, si sarebbe messa a fare casino con gli altri amici senza degnarlo di un pensiero. Era tipico del suo carattere. Marcello non aveva ancora capito quanto Bettina tenesse a quella che lei chiamava una profonda amicizia. Ma che per lui era il primo grande amore, quello che lo teneva sveglio nelle notti in collegio e lo faceva tornare ogni fine settimana con l’ansia di rivederla. Quella sera però sentiva dentro di sé un malessere psicologico che non riusciva a definire. Non voleva ancora andare a letto, era troppo presto, ma si sentiva stanchissimo. Appoggiò la testa sul tavolo della cucina e si mise a pensare. Poi i pensieri divennero confusi e si trasformarono in sogni. Gli strani avvenimenti di quella sera, il pazzo sulla corriera, il corpo sfracellato del sacrestano, l’inquietante bimba che giocava nello scavo del cimitero, comparvero in uno strano girotondo di immagini sfumate. Di colpo si riscosse. C’erano dei rumori in casa. Marcello alzò gli occhi verso il vecchissimo orologio a sveglia appoggiato sulla credenza della cucina e si accorse di aver dormito profondamente. Era ata la mezzanotte. Qualcosa lo aveva svegliato, sicuramente un rumore, a meno che quello che aveva sentito non fe ancora parte del sogno confuso che aveva fatto. Ma ora l’unico rumore era il fortissimo ticchettio dell’orologio che rimbombava nel silenzio della casa. Come per molte altre cose che riteneva troppo moderne, la nonna si rifiutava di sostituire i vecchi orologi a molla sparsi nelle varie camere della casa, con quelli elettrici, più silenziosi e precisi. Marcello si accostò alla finestra che si affacciava sul giardino. Ora la notte era nitida senza nessun segno di nebbia o di foschia. I raggi della luna illuminavano
il pozzo nel giardino e filtravano attraverso i rami del secolare liquidambar creando strani giochi di luce sul terreno erboso. Un animaletto, forse una faina, ò veloce nella striscia illuminata per scomparire subito dopo nell’oscurità. Era ora di andare a letto. “Buonanotte mamma, ovunque tu sia.”– un pensiero veloce senza alcuna malinconia ai suoi genitori di cui non aveva alcuna notizia fin dalla loro partenza-fuga-scomparsa per l’oriente. A volte Marcello si stupiva di non sentire la loro mancanza. Ma anche prima della partenza dei genitori, per Marcello, la vera famiglia, quella che ti educa, ti consiglia, che ti è vicina nei momenti difficili, era sempre stata la nonna. Papà e mamma erano poco più che due bizzarri fratelli maggiori. Marcello salì le scale aguzzando le orecchie per sentire se dai muri o dai soffitti arrivava qualche scricchiolio. Ma anche i ghiri e i topini del sottotetto, in quel momento, tacevano. ando davanti alla camera chiusa della nonna, Marcello socchiuse la porta: non udì provenire alcun rumore e neppure l’ansimare rumoroso di quando nonna aveva le sue crisi di asma. Rassicurato dal silenzio richiuse piano la porta e raggiunse la sua camera in fondo al corridoio. Molti anni dopo, ormai adulto, entrando in quella cameretta, fra tante cose di cui tentava di cancellare il ricordo, avrebbe comunque pensato a quella notte come l’ultima della sua adolescenza e il momento di aggio ad un nuovo periodo della sua vita. Salì sul letto, ottocentesco in ferro battuto, troppo alto, cigolante e scomodo ma in linea con tutto il resto dell’arredamento della casa che non aveva subìto alcun cambiamento negli ultimi cinquant’anni. Si addormentò quasi subito di un sonno profondo e senza sogni. Poi qualcosa lo svegliò. Un cigolio? Un raspare? Sulle prime non riuscì a definirlo. Ma il rumore continuava e sembrava provenire dalle camere al piano terreno. Marcello si sedette sul letto aguzzando le orecchie. Ora però c’era qualcosa all’interno della camera, un soffio, quasi un sussurro, che proveniva da un angolo indefinito dell’oscurità e pareva spostarsi rasente alle pareti. Convulsamente allungò la mano verso il comodino per accendere l’abat-jour ma le sue dita non riuscivano a trovare l’interruttore. Il fruscio, intanto, era cessato. Marcello si chiese se aveva veramente sentito
qualcosa o semplicemente i rumori erano la parte finale di un sogno prima del risveglio improvviso. Finalmente riuscì a trovare l’interruttore lungo il filo dell’abat-jour e accese la luce. Nell’attimo stesso in cui la cameretta si illuminò, Marcello ebbe la sensazione che qualcosa di indefinito e velocissimo, avesse attraversato la camera per strisciare sotto il suo letto. Era solo una sensazione perché, in realtà non aveva proprio visto nulla, ma rabbrividì ed ebbe voglio di andare a trovare la nonna un po’ per vedere come stava e un po’ perché voleva avere qualcuno vicino. Poi guardò l’ora, le tre di notte. Se già la nonna stava poco bene, non era il caso di disturbarla nel cuore della notte. Pensò (senza esserne proprio convinto) che i rumori e le sensazioni di quella notte erano solo creazioni del suo cervello turbato dalla visione del cadavere sulla piazza e dalle parole farneticanti che aveva sentito dire dalla nonna la sera prima. Del resto lo sapeva che quella casa era piena di rumori dovuti ai piccoli animali che l’abitavano e agli antichi travi che da oltre trecento anni si riassestavano sostenendo muri e soffitti a volta. Decise di tentare di riprendere sonno, ma prima volle scendere dal letto per guardarci sotto e vedere se il rumore che aveva sentito fosse stato provocato da qualche animale. Era già successo in ato che qualche gatto randagio si fosse introdotto nella casa alla ricerca di cibo e poi ne fosse rimasto prigioniero. Quello che il Marcello diciassettenne vide sotto il letto fa parte di ciò a cui il Marcello adulto, quello che racconta storie dell’orrore coi suoi fumetti, quello che non crede ai fantasmi, ha dimenticato o per lo meno ha cercato di dimenticare relegandolo in una piccolissima zona del suo cervello a cui non si avvicina mai neppure per sbaglio o per associazione di idee. La bambina coi denti gialli, accovacciata sotto al letto, gli sorrideva senza parlare e col ditino sporco di terra indicava la direzione della porta. In quello stesso momento dal piano di sotto Marcello udì la voce della nonna che lo chiamava: “Marcello, vieni, dobbiamo preparare il piatto di castagne per i morti. Fra poco sarà la loro festa. Dobbiamo lasciare il piatto in cucina”. La terribile bambina sorrideva ed assentiva alle parole della nonna che giungevano dal piano terreno. Marcello, impietrito, non trovava la forza per alzarsi e distogliere lo sguardo da lei.
Ma la voce di nonna gridò ancora: “Allora Marcello, scendi ad aiutarmi? I morti arriveranno e non troveranno le loro castagne. Dobbiamo fare qualcosa!”. L’unica cosa che fece tornare in sé Marcello dall’immobilità stupefatta e sgomenta che lo bloccava accovacciato accanto al letto fu il pensiero che la nonna stesse male e che le parole che stava gridando fossero un altro segno, dopo quello della sera precedente, di un qualche danno cerebrale che l’aveva colpita, causandole delle allucinazioni. Ma il ragazzo era così sconvolto e confuso da non considerare che anche lui aveva appena visto qualcosa di impossibile e poi, soprattutto, che la voce della nonna continuava a risuonare chiara e perfettamente udibile nonostante la massiccia porta chiusa e lo spessore antico dei muri della casa. Marcello sapeva che nella casa dei nonni le voci e i rumori erano assolutamente isolate e inudibili perfino dalle camere adiacenti. Se la nonna era veramente al piano terreno, in cucina, non c’era alcuna possibilità che la sua voce arrivasse fino alla camera di Marcello. Ma questo il ragazzo non lo pensò mentre correva nel corridoio e si precipitava a rotta di collo lungo le scale per scendere dalla sua nonna che lo stava chiamando. Ed ecco il salonebiblioteca che confinava con la cucina, il pianoforte chiuso e il grande tavolo massiccio. Ora la nonna non chiamava più. Marcello si avvicinò alla porta della cucina e, con qualche esitazione, la aprì. La nonna era distesa a terra. Morta. Con un’espressione serena nonostante gli occhi sbarrati. Marcello scoppiò in lacrime. In quegli anni non esistevano i cellulari e la nonna non aveva mai voluto far installare il telefono nella casa, per cui Marcello senza neppure vestirsi ma indossando solo la tuta da ginnastica che usava come pigiama, corse fuori casa e raggiunse in pochi minuti la cascina più vicina, quella dei contadini amici di famiglia, da cui telefonò al dott. Pirotti. “Arrivo immediatamente – disse il dottore con la voce strascicata di chi è stato improvvisamente svegliato – preparatemi un caffè – poi aggiunse – corretto grappa per favore”. Marcello, accompagnato dai vicini di casa, rientrò con loro ad attendere l’arrivo del medico. Stiamo parlando di fatti successi molti anni fa, quando anche i certificati di morte improvvisa venivano stilati dai medici condotti senza troppe formalità.
E così fu anche per la nonna. L’esame del cadavere fu rapido e così anche il certificato che recitava “morte per cause naturali in donna anziana già sofferente di problemi cardiaci e respiratori”. Poi il medico chiese a Marcello se la nonna, due giorni prima, avesse avuto qualche malore o capogiro. “Non so come stesse nonna due giorni fa. Sono arrivato solo ieri dal collegio. E ieri sera nonna non stava molto bene”. Il dottor Pirotti fissò Marcello e poi scosse la testa. “Ieri sera? – guardò i vicini e disse: – prescriverò un calmante per il ragazzo. E’ totalmente sconvolto. – poi rivolgendosi ancora a Marcello, con molta dolcezza continuò – la tua nonna è morta da almeno ventiquattro ore, questo vuol dire non oltre le 16 dell’altro ieri”. Marcello guardò il grande tavolo su cui la nonna la sera prima aveva lasciato il libro aperto sulla storia di San Gremo. Sul tavolo non c’era assolutamente nulla. Allora il ragazzo si avvicinò allo scaffale della libreria in cui si trovavano i libri di storia locale ed identificò immediatamente il dorso del libro dalla copertina azzurra che nonna gli aveva mostrato. Ma andoci le dita sopra, uno strato di polvere gli fece capire che quel libro non veniva estratto dalla libreria da moltissimo tempo. Fu in quel momento che Marcello decise che quei due giorni a San Gremo andavano cancellati dalla sua testa, possibilmente per sempre. E quasi ci riuscì. Si limitò a rispondere: “Ha ragione dottore, mi sono confuso. Non vedevo nonna dalla scorsa settimana. E ieri sera non sono entrato in cucina, arrivando da Torino, ma sono andato direttamente a dormire”. Poi svenne.
III Parigi, ottobre 2008 Dopo quel lontano 1979 Marcello ritornò raramente a San Gremo e, soprattutto, senza mai trascorrere la notte nella vecchia casa di famiglia. Marcello, ora, si guarda intorno nel suo disordinato studio parigino dimenticando per un attimo i suoi quarantacinque anni appena compiuti ed utilizzando gli occhi del diciassettenne che era, per osservare il peso di tutto il tempo ato da quella Festa dell’Acqua di ventotto anni prima. I suoi occhi socchiusi, i brividi per un pensiero che aveva relegato da molto tempo nel settore meno accessibile dei suoi ricordi (ricordi o fantasie?) gli fanno ripensare a San Gremo, alla morte di nonna, al proposito iniziale (non mantenuto) di non tornare mai più in quella casa. Seduto alla scrivania, in attesa di un pasto cinese che gli verrà consegnato da un momento all’altro, Marcello ripensa ai giorni successivi alla morte di nonna (ai giorni successivi, non al giorno della morte…). Dopo i tentativi falliti di rintracciare i suoi genitori (il loro ultimo indirizzo conosciuto era in uno sperduto villaggio del Nepal) ci furono i funerali di nonna, in un’atmosfera grigia che preludeva il rigido inverno di quell’anno. La nonna fu sepolta nel nuovo cimitero, appena fuori dal paese, mentre i lavori per il trasferimento delle vecchie salme venne terminato un paio di settimane dopo. Forse fu un caso ma dopo che lo scavo accanto alla chiesa fu rinchiuso definitivamente e le antiche ossa risistemate nella loro nuova sede, nessuno in paese disse più di aver visto masche, fantasmi o strane creature. Questo rinforzò la tesi di coloro che affermavano che le apparizione erano semplici suggestioni di massa causate da un evento particolare come il riportare alla luce i corpi o le ossa dei parenti o dei conoscenti di tanti abitanti del paese. Poi, per Marcello, arrivò tutta la fase legale in cui, su indicazione testamentaria della nonna, con un generosissimo lascito, si nominava tutore, fino alla sua maggiore età, il preside del collegio gesuita in cui viveva e studiava. Per il resto, essendo erede universale di tutti i beni di nonna, Marcello si ritrovò a godere di una discreta rendita vitalizia che gli permise, dopo la maturità classica e il compimento dei diciott’anni, di trasferirsi a Parigi per frequentare l’Accademia
di Belle Arti. Nel corso degli anni ritornò a San Gremo ogni volta che la gestione delle sue proprietà lo richiedeva, senza però fermarsi a pernottare nella casa di famiglia. Si limitava ad entrarvi velocemente, a fare un rapido giro delle camere per vedere che non ci fossero danni per l’umidità ai muri o ai soffitti, poi, accompagnato dalla Mariuccia, l’anziana contadina che si occupava di tenere in ordine il giardino, dava un’occhiata agli alberi sempre più maestosi e ai cespugli fioriti a cui nonna teneva tanto. La scelta di dormire in un albergo in città e non in paese nella sua casa, veniva giustificata da Marcello con il fatto che a San Gremo i cellulari non funzionano e lui, per motivi di lavoro, doveva essere sempre rintracciabile dal suo agente e dall’editore. Naturalmente Marcello evitava accuratamente di analizzare le vere motivazioni per cui non voleva dormire nella casa di famiglia, e, se qualcuno gli avesse detto che era per il timore di dormire da solo in una casa deserta, piena di rumori e di strani improbabili ricordi, avrebbe risposto con una risata. Una risata un po’ forzata ma abbastanza sincera. Del resto, dopo trent’anni, le paure e le percezioni che aveva vissuto a San Gremo in quel ato così remoto erano state ormai relegate nel settore delle fantasie morbose e irrazionali di un’adolescenza turbata da avvenimenti traumatici come la morte di nonna e l’abbandono da parte dei genitori. Ora, ben inserito nella sua vita metropolitana ricca di eventi artistici e di stimoli tecnologici d’avanguardia, con una fidanzata pragmatica e manageriale, il rifiuto di dormire ancora nella casa di nonna gli sembrava ridicolo ed infantile; eppure, davanti al suo pc di ultima generazione, continuava a cercare avidamente notizie su San Gremo. Morti misteriose? No, semplicemente un bambino caduto dalle scale interne del campanile, quelle stesse scale in cui intere generazioni di bambini di San Gremo avevano giocato furtivamente, introducendosi nel vietatissimo vano campane attraverso la porticina dell’oratorio. Quindi nessuna morte misteriosa, solo un incidente. Ma ecco che dal sito del giornale locale un’altra notizia dal tono piuttosto sarcastico, colpisce Marcello:
“STRANE APPARIZIONI. DOPO GLI AVVISTAMENTI DI UFO DI UN ANNO FA NEI CIELI PIEMONTESI, NUOVO SCHERZO DEI BURLONI: ZOMBIES, FANTASMI E STREGHE A SO IN UN PAESE DEL CANAVESE!” In questo caso l’articolo non nomina San Gremo, e resta molto vago sul luogo di cui sta parlando, probabilmente per evitare di urtare la sensibilità degli amministratori comunali o per la paura di perdere qualche inserzione pubblicitaria dei negozi locali. Ma nonostante il tono ironico e divertito dell’articolo, Marcello non può fare a meno di associarlo ai discorsi uditi dal gruppo di turisti piemontesi al caffè di boulevard St.Michel. E una piccola contrazione alla gola gli annuncia la possibilità di uno dei suoi frequenti attacchi di ansia. “Ridicolo! – dice ad alta voce Marcello, svegliando con un calcetto Bobo che dormiva sotto alla scrivania – semplicemente ridicolo! Ti rendi conto Bobo? Devo avere proprio i nervi a pezzi. Ho sentito in un caffè i discorsi di alcuni coglioni che amano le storie misteriose e ho letto su Internet una di quelle notizie di cui abbondano i giornali locali quando non sanno come riempire uno spazio vuoto. Mi spieghi perchè tutto questo mi mette in agitazione?” Il cane non mostra alcuna reazione alle parole di Marcello e riabbassa la testa per riprendere il sonno interrotto. Allora Marcello, afferrando la grossa coda che spunta da sotto la scrivania, la tira estraendo il cane e con voce perfida gli dice: “La tua unica funzione, in questa casa, è ascoltare quello che ti dico. Per cui niente nanna. Guardami e fammi capire che ho ragione”. Il cane con un sospiro si alza e butta un occhio verso la cucina dove ha lasciato la ciotola vuota. Chissà se qualche persona gentile l’ha nuovamente riempita, pare pensare. In quel momento suona il camlo. Marcello va verso la porta per aprire ma viene superato a tutta velocità da Bobo che ormai riconosce perfettamente lo squillo del ragazzo del takeaway cinese e sa che, spesso, parte del cibo consegnato finisce nella sua ciotola. Il cane, arrivando velocissimo nell’ingresso, frena sul pavimento lucido ma scivola e colpisce violentemente con i suoi sessanta chili la porta. “Sei uno stupido cane ridicolo – dice Marcello mentre apre la porta e fissa il piccolo cinese dalla faccia antipatica con un grande pacco in mano.
“Perché mi dici cane ridicolo? Ce l’hai con me perché sono cinese? L’ho sempre detto che sei un razzista – dice il cinesino polemico come sempre, poi porgendo il pacco a Marcello: – ecco la cena che hai ordinato. Non preoccuparti per la mancia, tanto lo so che non hai moneta”. Per un attimo Marcello sta per spiegare che la frase non era rivolta a lui ma poi ci ripensa ed ammette: “Certo che sono razzista: mi piacciono i negri, gli zingari e gli ebrei ma non sopporto i musi gialli e gli occhi a mandorla. E’ vero che voi cinesi mangiate i cani?”. Il cinesino non fa una piega ed intascando i venti euro che Marcello gli ha porto dice: “E’ vero, ma non li mangiamo solamente. Li cuciniamo anche per i nostri clienti. Fammi poi sapere se ti è piaciuto il… maiale in agro dolce. Si chiamava Buck.”. Mentre il cinesino ridacchiando sta scendendo le scale, Marcello gli grida: “Sayonara!”. “Quello è giapponese, uomo ignorante – gli risponde l’orientale già al piano inferiore – tra un cinese e un giapponese c’è la stessa differenza che c’è tra un cane e un maiale in agro dolce”. Chiudendo la porta Marcello guarda con un po’ di disgusto il pacco del ristorante poi si reca in cucina e, cedendo allo sguardo supplichevole di Bobo, ne vuota tutto il contenuto nella ciotola dicendo: “Voi cani non vi fate problemi di cannibalismo, vero?”. Bobo risponde con un “bau!” festoso. Mentre Marcello sta valutando il fatto che una sera di digiuno, soprattutto non avendo fame, non può che fargli bene, squilla il telefono. Un po’ contrariato vede apparire sul display il nome del suo editore. Conoscendo benissimo il motivo della chiamata, schiaccia il pulsante per rifiutare la telefonata. Avrebbe già dovuto consegnare la sua storia sulla casa infestata da almeno due settimane. Ma la sua creatività pare essersi bloccata da oltre un mese. Zero idee. Zero voglia di scrivere. Zero ispirazione. Con un bip appare sul display un sms: “brutto strz, siamo tutti fermi per colpa tua. I disegnatori li devo pagare lo stesso. Sbrigati altrimenti salta l’uscita del prossimo albo… e forse tu dovrai cercarti un altro editore”.
“Hai capito Bobo? Salta l’uscita del prossimo albo se non riesco ad inventarmi una storia credibile sulla casa infestata”. Il cane alza per un attimo il muso dalla ciotola sbrodolando frammenti di maiale in agro dolce poi si reimmerge nella sua attività preferita, quella masticatoria. “Brutto cagnaccio. Sono sicuro che tu l’idea ce l’hai ma fingi di non saper parlare per non raccontarmela. Mi servirebbe solo un spunto, un piccolo aiutino. Qualcosa che possa intrigare, coinvolgere e affascinare i miei lettori. Qualcosa che li terrorizzi, insomma”. Sempre parlando al suo cane (o a se stesso) Marcello si dirige verso lo studio. Sedendosi alla scrivania il suo sguardo si posa sul monitor su cui ancora è presente il testo dell’articolo sulle apparizioni in Canavese. “Qualcosa come… un paese infestato da zombies e fantasmi? Bella cazzata! Stravisto e grondante di banalità. Queste cose non spaventano più neppure i bambini”. Ridacchiando, ma senza troppa convinzione, Marcello si rilegge tutto l’articolo che parla delle presunte apparizioni in un paese del Canavese non citato. “Scommettiamo che si tratta di San Gremo? Quel paese non si smentisce mai!” Ancora una volta il telefono squilla insistente. Questa volta appare il nome di Josephine sul display. “Ciao amore, stai lavorando?” – la voce della sua ragazza, come sempre, riporta Marcello in una realtà mentale pragmatica e professionale. Una fidanzata topmanager, più affascinata dal lavoro di Marcello che dallo stesso Marcello, ha fondamentalmente questa funzione. “Se per lavoro intendi aver ato circa due ore tavolino di un caffè ad osservare lo scorrere del tempo, aver litigato con la portinaia, aver conosciuto la mia nuova vicina sordo-muta… sì, posso dire di aver lavorato. Se invece intendi aver finito il lavoro che l’editore sta attendendo da me, sono in alto mare, senza uno straccio di idea. Ma ti sento distante, dove sei?”. “Ma come, non ricordi? Stamattina ti ho salutato… partivo per Bruxelles… mi hai anche risposto buon viaggio!”. “Hai dormito qui da me stanotte?”. “Marcello!!!” – Josephine simula una collera che non prova poi ridacchia e
continua – come ti dicevo stanotte, mentre tu fingevi di ascoltare, sono qui per quel convegno sui ripetitori di telefonia di nuovissima generazione che installeremo in Europa a partire dall’anno prossimo”. “Ah sì… ricordo” – mente spudoratamente Marcello. “Comunque ti racconterò bene domani… a proposito una splendida notizia: in Azienda mi obbligano ad usufruire di una settimana di ferie arretrate e pensavo di arle lì da te a casa tua”. “Cooome?… ehm, buona idea”. (Cazzo, cazzo, cazzo… trova una scusa, trova immediatamente una scusa). L’unica cosa che Marcello ama di Josephine è il fatto che sia sempre così impegnata col suo lavoro tanto da trascorrere con lui solo il tempo indispensabile per uno scambio minimalista di affetto e di cortesie e per una corretta attività sessuale. I suoi discorsi, sempre orientati alla produttività e all’efficienza, lo annoiano profondamente e lo mettono di cattivo umore. Si vede già costretto a lavorare “seriamente”, come dice lei, seduto alla scrivania di casa per nove ore al giorno mentre lei si occupa di rifocillarlo con bevande energetiche e tazzine di schifosissimo caffè alla se. “Qui da me per una settimana? Ehm… splendido”. Marcello si guarda intorno alla disperata ricerca di una scusa per evitarsi la tortura della settimana che lo attende. Velocemente scarta l’idea di una malattia infettiva (si sono visti il giorno prima, troppo poco per sintomi e diagnosi) o di un guasto irreparabile all’impianto idraulico con conseguente allagamento dell’appartamento (in questo caso sicuramente lei si offrirebbe di ospitarlo nel suo “petit studio” sugli Champs-Elysées). No, non ci siamo. Poi lo sguardo di Marcello si posa sullo schermo del computer: ecco l’idea. Ecco la bugia perfetta. “Ahi ahi ahi, cazzo! Avevo dimenticato una cosa importantissima, Josephine – esclama Marcello – la settimana prossima non è possibile. Devo andare in Italia”.
“Bellissima idea, amore! Vengo con te. Da tempo volevo tornare a Venezia e Firenze…”. E qui Marcello lo sa che c’è un’unica risposta in grado di dissuadere Josephine dall’accompagnarlo: “No, niente Venezia e Firenze. Devo andare per una settimana nella mia casa a San Gremo… mi hanno chiamato per problemi al tetto della casa. Pensavo di approfittare di questa vacanza obbligata anche per finire la sceneggiatura che sto scrivendo. Altrimenti mi sa che mi dovrò trovare un altro editore. Qui a Parigi in questo periodo non riesco a concentrarmi, sono stanco e ho troppe distrazioni! Comunque sarei molto felice se tu venissi con me” – dice Marcello, incrociando leggermente le dita delle mani e tentando di farlo anche con quelle dei piedi. “A SAN GREMOOOO? – grida Josephine tra l’incredulo e lo sconcerto – in quel paese sperduto dove persino i cellulari non prendono? Ma tu sei pazzo. Lì non posso proprio accompagnarti, devo restare in contatto col mio ufficio…”. “Oh no, davvero non puoi accompagnarmi? – risponde velocemente Marcello esibendo da grande attore una voce sinceramente dispiaciuta. – Ci tenevo proprio. D’accordo, recupereremo al mio ritorno. Ok?”. “Ma quando tornerai io avrò già usato tutte le ferie che mi spettano… ora avevamo la possibilità di stare un sacco di tempo insieme. E avevo anche qualche idea per dare una sistematina al tuo alloggio” – risponde piagnucolosa la ragazza. “Sì, ma quando tornerò sarai così riposata, dopo questa rilassante vacanza, che potremo goderci molto più intensamente, e tu sai bene cosa intendo per… intensamente – e qui la voce di Marcello scese di tono divenendo roca e sensuale – tutte quelle ore (eh sì purtroppo poche) in cui il tuo lavoro ci permetterà di stare insieme. Vedrai sarà bellissimo!”. Marcello era stato bravo ad inventare una scusa perfetta giocando sul fatto che San Gremo era l’unico luogo in cui certamente Josephine non si sarebbe offerta di accompagnarlo. Lei odiava la campagna, l’odore dei prati concimati col letame, l’assenza di fast-food e di Internet-point. Ora però Marcello si trovava a doversi in qualche modo giustificare con se stesso e con le eventuali conseguenze della sua bugia. Il tono deluso e triste con cui la sua ragazza aveva chiuso la telefonata gli aveva creato un profondo senso di colpa. Senza contare il
rischio che Josephine, pensando che l’appartamento di Marcello fosse vuoto, decidesse di… trasferirvisi per occuparsi, come aveva già fatto altre volte, con un paio di decoratori, un’agenzia di pulizie, e magari un consulente di arredamento, di fargli ritrovare l’alloggio totalmente ripulito, riarredato e ritinteggiato. Forse fu per mettere a tacere il senso di colpa o forse per il timore di essere sorpreso in casa dalla sua ragazza mentre avrebbe dovuto trovarsi a centinaia di chilometri di distanza, che decise di trasformare una bugia nella decisione estemporanea di un viaggio a San Gremo: tutto sommato poteva essere un’ottima idea, considerando la crisi creativa in cui si ritrovava, isolarsi e lavorare in un ambiente sufficientemente intrigante per una storia dell’orrore. Avrebbe lavorato e dormito nell’antica casa dei nonni in totale isolamento: nessuna distrazione né dalla televisione che non c’è né dal cellulare che non ha campo. Perfetto. Una voce dal suo inconscio gli mormora insistente: “Ma avevi giurato che non avresti mai più ato una notte in quella casa”. E lui, pronto risponde: “Ma è ato così tanto tempo: ero un ragazzino stupidino e influenzabile che pensava di aver visto cose che in realtà non aveva visto”. Poi rivolto a Bobo con un leggero di senso di colpa: “Domani ti porto alla pensione per cani. Starò via solo una settimana… vedrai che non te ne accorgerai neppure della mia assenza”. Il cane, forse il per tono dolce poco consueto di Marcello, scambiò la frase per una coccola e si precipitò scodinzolando addosso al suo padrone nel tentativo di dimostrargli a forza di morsini e leccate, tutto l’amore che provava per lui. Marcello, come al solito, non resistette al pensiero di Bobo relegato in una pensione per cani in cui, del resto, non lo aveva mai lasciato. “D’accordo, niente aereo, non sono graditi i cani puzzolenti. Prenderò il TGV così potrai venire anche tu con me a San Gremo”. Chissà perché la semplice idea di non essere completamente solo nella casa di nonna ma di avere l’inutile compagnia di un cane grosso, pigro e bavoso, mise di buon umore Marcello. Quella notte, però, si svegliò di soprassalto: in un incubo terribile gli era parso di vedere la nonna che lo fissava, seduta sulla sua sedia a dondolo in un angolo
della camera. Ma non c’era traccia del suo sorriso buono, anzi la donna, con un ghigno orrendo, pronunciava versi incomprensibili molto simili a quelli della vicina sordomuta. Marcello si svegliò urlando con tutta la sua voce. In un bagno di sudore accese la luce e guardò l’ora. Le due. Dall’appartamento adiacente, qualcuno battè un pugno sul muro gridando: “Vogliamo dormire! Andate a gridare da un’altra parte!” Marcello si guardò intorno cercando di recuperare la tranquillità per riprendere il sonno. Nello stesso momento qualcuno suonò alla porta. Le due di notte, strana ora per una visita. Forse Josephine era rientrata in anticipo da Bruxelles – pensò Marcello mentre si dirigeva ad aprire la porta, ma poi si ricordò che la sua ragazza aveva le chiavi e, sicuramente, non avrebbe suonato il camlo. Con un po’ di esitazione, in pigiama senza preoccuparsi di indossare una vestaglia, aprì la porta. Ancora scosso per l’incubo, Marcello ebbe un soprassalto vedendo la figura emaciata e pallida della sua vicina sordomuta. La ragazza con espressione preoccupatissima, gesticolando freneticamente, fece capire a Marcello che aveva sentito urlare e aveva temuto fosse successo qualcosa di terribile al piano di sotto, magari un omicidio (fu molto esplicita nei gesti che indicavano una morte violenta, facendo scorrere il pollice a mo’ di rasoio sulla gola). Marcello sorrise: “Come vede sono perfettamente vivo mademoiselle Glincourt. Le chiedo scusa se ho urlato. E’ stato un incubo”. Ma subito dopo un pensiero improvviso lo aveva sconcertato: come aveva potuto sentirlo urlare, quella ragazza, se era sordomuta? La ragazza intuì immediatamente il pensiero di Marcello. Sorridendo indicò le proprie orecchie scuotendo il capo come per dire: “No, non ti ho sentito con le orecchie” – poi simulò un brivido toccandosi la tempia, e agitando ritmicamente i palmi delle mani. Vibrazioni mentali, intuizioni. Almeno fu quello che credette di capire Marcello dai gesti della ragazza. “Andiamo bene. Anche la vicina sensitiva, mi ritrovo – pensò prima di scusarsi per averla spaventata con il suo grido anzi con… le sue vibrazioni psichiche negative. La ragazza sorrise e rispose con una serie di gesti che significavano “Non c’è problema, non stavo ancora dormendo” – e, avvicinando tra di loro le mani aperte come fossero un libro, fece capire che stava leggendo. Poi, con aria
preoccupata fissò Marcello negli occhi. Muovendo le mani come se tremassero la ragazza gli fece capire che lo vedeva teso e nervoso. “Sì, effettivamente, è un periodo un po’ particolare questo. Non mi sento molto rilassato”. La ragazza, sorridendo, si avvicinò a Marcello e pose le mani sulle sue tempie. Marcello la guardò sconcertato ma lei, con gli occhi, gli disse di lasciarla fare. In pochi secondi tutta l’ansia di Marcello parve dissolversi e una pace interiore lo invase lentamente da testa a piedi. La ragazza, sorridendo, mostrò le mani a Marcello come per mostrare il suo potere in grado di calmare le persone. Ancora un sorriso e un gesto per dare la buonanotte e la ragazza salì velocemente verso il suo appartamento. Marcello richiuse la porta con una serenità che da molto tempo non provava dicendo fra sé e sé: “Ci mancava solo la vicina pranoterapeuta e sensitiva!” – ma lo disse sorridendo, senza più alcun timore né pensiero. Dormì di un sonno profondo e senza sogni. Il giorno dopo lui e Bobo partirono col TGV per l’Italia. Nel paese delle pallide nebbie c’era una casa deserta e silenziosa che li aspettava.
IV Poco più di cinque ore di viaggio portarono Marcello dalla Gare de Lyon di Parigi a Torino Porta Susa, dove l’addetto della Hertz gli consegnò chiavi e libretto della monovolume prenotata telefonicamente. Dopo il primo irritante contatto col traffico torinese, sicuramente meno disciplinato e più caotico di quello parigino, Marcello decise di evitare la sosta di rito alla sua amata gelateria e di recarsi immediatamente a San Gremo. Certo gli mancava la coppa di crema gianduia, appuntamento quasi irrinunciabile ad ogni ritorno a Torino. Quanto gli mancava. Decise che avrebbe lasciato la scelta a Bobo. Alle sue spalle, accovacciato sul sedile posteriore, il cane guardava dal finestrino una barboncina nell’auto ferma al semaforo rosso accanto alla loro e ansimava nelle orecchie di Marcello. “Cosa ne dici Bobo? Andiamo diretti a San Gremo o ci concediamo una sosta da Fiorio per un gelatino? Lo so che ci tieni al gelato ma… con questo traffico da chiusura uffici, ci vorranno almeno tre quarti d’ora per arrivare in via Po. Non è meglio se ci veniamo uno dei prossimi giorni?”. Bobo continuò, senza alcuna reazione alle parole di Marcello, a seguire con lo sguardo l’auto con la barboncina. “Non insistere, non mi convinci. Dobbiamo ancora fare un sacco di chilometri e vorrei arrivare a San Gremo prima dell’ora di cena”. Bobo, quasi non avesse sentito, continuò a guardare fuori dal finestrino senza neppure voltarsi verso il padrone. “Vabbè, se la metti così… ok, hai vinto tu. Andremo in via Po per il gelato. Del resto non ci aspetta nessuno e non abbiamo fretta.” – disse Marcello girando bruscamente il volante e puntando su via Cernaia in direzione centro città. In gelateria, in religioso raccoglimento, Marcello si gustò la strepitosa coppa Gianduia mentre sotto al tavolino Bobo lavorava di lingua su un enorme gelato cioccolato e panna appositamente servito su un basso piattino da uno sconcertato cameriere. “Per colpa di questa sosta (quindi per colpa di Bobo) arriveremo a San Gremo
all’ora di cena – pensò Marcello – chissà che non ci convenga dormire in un albergo”. Perché questo improvviso pensiero? Marcello fece forza su se stesso per analizzarlo obiettivamente. Davvero era troppo tardi per andare a San Gremo in serata? Oppure, ancora una volta, negava a se stesso il fatto di non voler dormire nella casa della nonna? Erano solo le 19, per raggiungere San Gremo, da Torino, con l'autostrada per la Valle d'Aosta, occorrevano una cinquantina di minuti. Sarebbero arrivati in paese prima delle 20, giusto in tempo per una cena nella trattoria della piazza. “Ma certo che andiamo a San Gremo, cagnaccio pigro e psicolabile – disse Marcello assestando il solito calcetto al povero Bobo sotto al tavolino – non ho voglia di cercare un albergo dove accettino i cani puzzolenti! E non c'è nessun motivo perchè noi non si dorma nella casa dei nonni”. Se avesse saputo sorridere, sicuramente Bobo avrebbe sorriso. Ma visto che questo non faceva parte delle sue espressioni abituali, si limitò ad una leccata ai baffi sporchi di gelato e ad alzarsi rischiando di capovolgere il tavolino del bar. Presero l’autostrada della Valle d’Aosta che già le ultime luci del tramonto, scomparendo dietro le montagne sullo sfondo, lasciavano spazio all’oscurità incombente. E alla nebbia fitta. Pochi minuti e fu la notte. Marcello guidava silenzioso mentre Bobo dormiva sul sedile posteriore tenendo fra i denti un grosso sasso raccolto chissà dove (solo Bobo riusciva a trovare un sasso in una via del centro-città). ato il ponte sul fiume Orco, dove la nebbia raggiunge sempre il livello massimo di intensità, pian piano la visibilità iniziò a migliorare. Quello che prima era un muro grigio e impenetrabile divenne una foschia sempre più trasparente. Era il primo segnale che si stavano avvicinando al "paese delle pallide nebbie". Quando arrivarono a pochi chilometri dall’uscita che li avrebbe portati a San Gremo, Marcello chiamò Josephine. “Ciao, amore, sto per arrivare a San Gremo. Fra poco cesserà il segnale al cellulare per cui volevo salutarti”. “Amore mio! Come mi spiace non essere con te. Dannato paese dove non si può telefonare! Comunque mi sono trasferita a casa tua per questa settimana: voglio dare una riordinata e far tinteggiare il tuo studio. Cosa ne dici?”.
“Splendida idea. Se non ci pensi tu a queste cose…” – rispose Marcello sorridendo fra sé e sé perché la sua ragazza stava facendo esattamente ciò che lui aveva immaginato che avrebbe fatto durante la sua assenza. “Ma perché non ti sei comprato un telefono satellitare? Lo sai che tramite la mia azienda potevi averlo scontatissimo? Così avremmo potuto sentirci tutti i giorni!”. “Ma non scherzare amore, un telefono satellitare!!! Sto andando in un paese del Piemonte, mica sull’Himalaya! E poi, se devo parlarti, mi basta spostarmi con l’auto per meno di un chilometro fuori dal paese e il segnale ritorna”. “Ma possibile che nessuno protesti coi gestori? Non si può lasciare un paese senza telefoni cellulari!”. “Il problema è che nessuno voleva avere vicino a casa il ripetitore… sai, paura dell’elettrosmog, liti di paese, rimpallo delle responsabilità! Ma ora ti devo lasciare, sono al casello e devo pagare il pedaggio. Ciao amore, a presto!”. Fuori autostrada percorsero ancora alcuni chilometri di stretta e buia strada provinciale prima di intravedere, attraverso la foschia, le prime luci del paese. La piazza di San Gremo appare semideserta a Marcello. L’ora di cena ha fatto rincasare gli abituali frequentatori del bar-trattoria Il Cannoniere. Al suo interno si notano attraverso le vetrine alcuni tavoli preparati per la cena. Dalla piazza, per arrivare alla casa di nonna, bisogna percorrere ancora tutto il paese nella sua lunghezza fino oltre le ultime case. Ma Marcello, prima di andare a posare i bagagli, vuole concedersi un minuto di ricordi e posteggia l’auto sulla piazza scendendo a riempirsi i polmoni col profumo della nebbia. E’ sera e la luna sta sorgendo. Luna piena. La sua luce si fonde con quella delle luminarie che, appese in alto sulla strada, oscillano per la brezza autunnale. Oh sì, la Festa dell'Acqua, Marcello non ci aveva pensato quando aveva deciso di tornare a San Gremo che questo era proprio il periodo della Festa dell'Acqua, quello in cui il paese festeggia l’antico miracolo. Sul lato della piazza, quello opposto alla chiesa, alcuni carrozzoni, una sgangherata autopista e una giostra a catene. Il tutto fermo, silenzioso, triste. Che differenza dalle Feste dell'Acqua degli anni della sua giovinezza, quando il paese era pieno di musica e di famiglie contadine che riempivano il ballo a palchetto impegnate in serate di walzer e mazurke. E loro. I ragazzi, seduti sui motorini, ridevano guardando le giravolte
delle coppie anziane vestite con l’abito della festa. E i bambini riempivano di grida e di scoppi di mortaretti le strade del paese. Marcello continua a guardarsi intorno indugiando sui pensieri che lo riportano a tutti gli anni trascorsi nel paese, quasi senza rendersi conto che sta tentando con ogni mezzo di ritardare l’ingresso nella casa della nonna. Uno sguardo alla chiesa, una ventina di metri davanti a lui, appena illuminata dai lampioni della piazza: c’è qualcosa di diverso che subito non riesce a definire nella facciata seicentesca. Mentre cerca di capire qual è il particolare stonato che l’ha colpito, il portone si apre lentamente e ne escono due strani personaggi. Eleganti nel loro cappotto nero, due uomini magrissimi e molto più alti della media escono dalla chiesa guardandosi furtivamente intorno poi si allontanano nell’oscurità costeggiando il muro laterale della chiesa (quello in cui trent’anni prima veniva smantellato il vecchio cimitero). A Marcello ricordano come aspetto e come atteggiamento i funzionari delle pompe funebri, quelli che non sorridono mai e nei funerali si occupano che tutto si svolga secondo il programma. Chissà che ci facevano in chiesa a quest’ora, pensa Marcello, sicuramente nulla di allegro, a giudicare dal loro aspetto. Distratto per un momento dall’uscita dei due “uomini neri”, torna a concentrarsi sulla facciata della chiesa: che cosa è cambiato dal suo ultimo viaggio a San Gremo? Poi di colpo l’incredibile evidenza: cosa ci fa quell’orrido portone nuovo di legno chiaro e di fattura dozzinale che ha sostituito il portone originale di quercia massiccia? Marcello si avvicina incuriosito all’ingresso della chiesa. E mentre fissa sconcertato il nuovo portone che stride esageratamente con lo stile classico e austero della facciata seicentesca della chiesa, una mano si posa sulla sua spalla. “Carino vero? Un’opera di arte lignea acquistata presso la premiata ditta di serramenti e porte economiche “Gaspare Priocca e figli, preventivi gratuiti!”. Marcello si volta di scatto. Dietro di lui col suo sorriso aperto e i suoi occhi stralunati da consumatore abituale di droghe di ogni tipo, c’è Cristiano, uno dei suoi più cari amici degli anni a San Gremo. “Cris, mi hai spaventato – dice Marcello abbracciando l’amico – da quanto tempo?”. “Chissà, due anni? Dieci? Da queste parti perdi il senso del tempo. Qui non cambia mai nulla tranne, come vedi – Cristiano indica il portone della chiesa – il nostro caro parroco si è venduto anche il portone antico… oltre ai banchi, un
paio di statue lignee del santo e vari altri ammennicoli… tutto per pagarsi le “massaggiatrici cinesi”. “Dai non è possibile…! Sapevamo tutti che don Bernardo era un puttaniere ma da qui a vendersi mezza chiesa… a meno che non sia andato del tutto fuori di testa…”. “Appunto, proprio così – dice Cristiano – non solo è andato fuori di testa ma se n’è anche andato fuori dal paese. Esaurimento nervoso ha detto. Qui a San Gremo le beghine non hanno più un prete a cui raccontare le loro sudice fantasie”. “Come fai a dire che qui non accade mai nulla? Non sono venuto per un paio di anni e cosa ti trovo? Il parroco puttaniere che si è venduto gli arredi della chiesa, gli ufo, i morti che camminano…” Un impercettibile irrigidimento trasforma il sorriso di Cristiano in un’espressione indefinibile. “Eh sì, hai ragione. Qui la vita è varia. Mica come da voi a Parigi dove non succede mai nulla. – ma il tono di Cristiano non è più così scherzoso, di colpo si è fatto serio – morti che camminano? Non sarai mica tornato per quello che hanno scritto i giornali, vero?” “Ma figurati, non leggo i giornali italiani quando sono a casa. Sono venuto qui per lavorare con un po’ di tranquillità”. “Tranquillità? Siamo i maggiori produttori di questa sostanza. Possiamo esportarla anche ai cinesi, tanta ne abbiamo qui”. Ma la battuta di Cristiano appare a Marcello forzata, falsa, esitante. Con indifferenza Marcello butta lì una domanda, con un tono esageratamente casuale come gli fosse venuta improvvisamente in mente: “Però ho sentito un gruppo di italiani a Parigi che parlava di cose strane successe ultimamente a San Gremo. Parlavano di bambini morti e come al solito, tornavano le solite cazzate per cui questo paese è famoso: apparizioni, fantasmi e chi più ne sa inventare più ne racconti…”. Cristiano non risponde, e distoglie gli occhi da Marcello, fingendo di essere interessato a Bobo. “Guarda, il tuo cane sta masticando un sasso, si rovinerà i denti…”.
“Non c’è problema, è il suo vizio da sempre. Raccoglie i sassi per strada e se li porta a casa. Ma, dimmi, chi è il bambino che è morto nel campanile?”. Cristiano si volta verso Marcello e gli chiede: “Così hai saputo del figlio della Bettina”. “Il figlio della Bettina? – esclama Marcello sgranando gli occhi – è lui che è caduto dal campanile?”. “Non è caduto. Stava giocando con le corde delle campane, ricordi lo facevamo anche noi, il peso della campana ha tirato violentemente la corda verso l’alto e il bimbo è rimasto impiccato”. “Terribile, povera Bettina!”. “Stanno succedendo cose molto più terribili della morte di un bambino, qui, caro Marcello”. “Parli delle solite stupidaggini che ci facevano tanto ridere da ragazzi? Non dirmi che ti sei anche tu convertito alla credenza delle masche che vagano nelle strade di San Gremo nelle notti di nebbia… a proposito, continui a far concorrenza a Keith Richard nell’abuso di sostanze o ti sei calmato?” Ma l’espressione seria di Cristiano gela la frase scherzosa di Marcello. “Ceni al Cannoniere? Ti faccio compagnia stasera così parliamo un po’”. “Sì, ma prima devo are alla casa per dar da mangiare a Bobo e posare i bagagli. Ci ritroviamo qui fra mezzora” – dice Marcello aprendo il portellone posteriore perché Bobo possa salire in auto. “Avviso Rosina di tenerci un tavolo – con un sogghigno Cristiano indica la vetrina attraverso la quale si vedono i tavoli senza neppure un cliente – sai com’è, non vorrei che, con tutti questi coperti, la vecchia Rosina esaurisca gli agnolotti e la zuppa di cavoli”. Tornando verso casa Marcello pensa all’amico, uno dei pochi che non ha lasciato il paese per lavorare in città. Gli è sembrato così strano, così diverso dal solito. Che abbia esagerato con qualche acido? Da molti anni Cristiano è il postino di San Gremo, un lavoro che lo occupa per non più di un paio d’ore ogni giorno, talmente sono poche le lettere da consegnare in zona. E la sua scelta di restare in
paese nasce proprio dalla volontà di non essere soffocato dal lavoro e dal suo amore innato per l’ozio, la contemplazione e i viaggi psichedelici della mente. Ma i pensieri di Marcello continuano ad essere turbati dal dramma che ha colpito Bettina, il suo primo grande amore. Anche lei, dopo la laurea in veterinaria, ha scelto di restare in paese: ha aperto il suo studio specializzato in piccoli animali e in poco tempo, grazie alla sua competenza, ha conquistato una vastissima clientela. Marcello, pur avendola più volte incrociata nei suoi brevissimi ritorni a San Gremo, non è mai riuscito a vincere l’imbarazzo che nasce nel rivedere una persona di cui si è stati tanto innamorati. Per questo non se l’è mai sentita di fermarla e parlarci un po’. Un rapido sguardo, un cenno di saluto e via. Certo ha chiesto informazioni su di lei (fingendo indifferenza e semplice curiosità) ogni volta che ha parlato con degli amici comuni: ha saputo del suo matrimonio fallito, del successo professionale che ha fatto del suo studio veterinario uno dei più apprezzati dell’intera zona. Ed ora questa terribile notizia della morte del suo bambino. Ma è strano: pur sforzandosi, Marcello non riesce a pensare a Bettina come ad una mamma disperata. Per lui continua ad essere la ragazza trasgressiva, contraria ad ogni regola e nemica di ogni luogo comune, sempre pronta a sdrammatizzare con una smorfia infantile qualunque situazione, anche la più angosciosa. Immerso in questi pensieri, in un paio di minuti, Marcello giunge davanti alla grande casa dei nonni. Nell’oscurità, avvolta dalla solita pallida nebbia, la casa appare più imponente di quanto sia in realtà. Il grande cancello in ferro battuto, che dà l’accesso al viale segnato dalla siepe di ligustro, presenta vaste zone di ruggine dove la vernice si è scrostata. Dopo averlo aperto, con un cigolio inquietante, Marcello risale in auto e percorre lentamente il viale fino al grande platano che da almeno un secolo ombreggia la casa. Scendendo dall’auto, Marcello torna a sentire quell’inquietudine e quel timore indefinito che da anni gli ha impedito di tornare a dormire nella sua camera al primo piano (non era meglio anche questa volta scegliere per la notte un albergo a Torino?). Alzando lo sguardo nell’oscurità ne intravede a fatica la finestra su cui si riflette la luce pallida della luna che filtra debolmente attraverso la nebbia. Con un improvviso fruscio di ali uno stormo di uccelli, disturbato dall’arrivo di Marcello, vola via dal grande platano e si allontana nella notte. Ora non vi sono più scuse per ritardare l’ingresso nella casa: deve vincere ogni tipo di presentimento negativo ed entrare. La chiave scorre senza far resistenza nella serratura (un pensiero di ringraziamento alla Mariuccia, la contadina che si occupa della casa, che sicuramente l’ha fatta oliare perché non si bloccasse) e il pesante portoncino si apre senza alcun cigolio. Mentre entra, Marcello si rivolge al cane e gli dice: “In
un film dell’orrore o in uno dei miei fumetti, in questo momento dovrebbe alzarsi un grido lancinante, e la porta dovrebbe chiudersi violentemente alle nostre spalle”. Nulla di tutto questo succede. Marcello si avvicina al contatore generale della corrente elettrica e fa scattare l’interruttore. La luce illumina il grande ingresso su cui si affacciano le porte delle camere al pian terreno e le scale per salire nella zona notte. Dal portoncino rimasto aperto alle spalle di Marcello filtra la luce dei lampioni che, con la corrente elettrica riattivata, si sono improvvisamente accesi in giardino. L’odore di umidità e di chiuso prende quasi alla gola. Marcello apre la prima porta alla sua destra ed entra nel grande salone adibito a studio. Per prima cosa ne spalanca le finestre per cambiare aria poi si guarda intorno. Cos’è quel picchiettare flebile ma continuo che si percepisce da qualche parte della stanza? Nulla di strano, nulla di spaventoso: attirati dalla luce una nuvola di insetti notturni sono entrati dalla finestra aperta e ora urtano, nel tentativo suicida di abbracciarne la luce, contro il vetro del lampadario. Marcello si avvicina al vecchio pianoforte impolverato, ne solleva il coperchio e, mentre il suo sguardo si posa sui libri ben allineati negli scaffali, con due dita suona distrattamente una sequenza di note: il loro suono fastidioso e dissonante rivela la totale scordatura dello strumento. Le note risuonano nella casa deserta rimbombando con una specie di eco. Come non pensare alle lunghe dita di nonna che si muovono veloci sul pianoforte seguendo le note di Mozart o Chopin. Marcello si guarda alle spalle. E’ una terribile sensazione quella di essere osservato soprattutto quando non c’è nessuno vicino a te. Anche il cane appare guardingo e si muove circospetto nella grande camera senza allontanarsi dal suo padrone. “Non starmi così vicino che mi innervosisci… – dice Marcello tentando di giustificare con qualcosa di razionale la sua inquietudine – ah, ho capito, hai fame. D’accordo Bobo, ti preparo la cena”. La cucina è l’ultima camera a destra del salone e, con un po’ di esitazione per il ricordo a cui è collegata questa camera, Marcello ne apre la porta con il terrore inconscio di rivedere la stessa terribile scena di trent’anni prima. Ma questa volta no, non c’è la nonna morta sul pavimento.
C’è solo un uomo pallido seduto al tavolo che alza gli occhi verso Marcello e lo guarda fisso. Marcello accenna ad un grido, balbetta qualcosa ma poi, sopraffatto dall’assurdità della situazione, resta come paralizzato a fissare lo sconosciuto. L’uomo ha qualcosa di famigliare, una rassomiglianza con qualcuno che Marcello non riesce a identificare. Stranamente Bobo non abbaia né appare turbato dalla presenza dell’estraneo. L’uomo misterioso si alza lentamente e, senza distogliere lo sguardo fisso negli occhi di Marcello, cammina lentamente verso di lui poi devia verso la porta della camera. Prima di uscire allunga le mani verso il viso di Marcello e lo sfiora senza toccarlo compiendo uno strano volteggiare di braccia nell’aria, quasi il gesto rituale di un prestigiatore. Poi esce dalla camera in un silenzio surreale. Né rumore di i, né scricchiolio di porte. Marcello tenta di muoversi ma per qualche secondo il suo corpo non risponde, il terrore gli contrae lo stomaco e lo paralizza. Poi, finalmente riesce a scuotersi di dosso quella catena invisibile che lo bloccava e si precipita nella camera attigua per inseguire l’uomo. La stanza è deserta allora Marcello prosegue fin nell’ingresso dove il portoncino della casa è ancora spalancato. Uno sguardo nel giardino immerso nella leggera nebbia attraverso cui gli pare di intuire un movimento rapido di qualcuno che si allontana nel buio. Ma forse è solo una sensazione. “Chi sei? Cosa vuoi?” – urla Marcello rivolto al nulla. Gli risponde solo il silenzio e un fruscio di ali di uccelli. Chi poteva essere? (Cosa poteva essere?). Un vagabondo che, approfittando della casa deserta ne aveva approfittato? Uno zingaro venuto per rubare? Durante la Festa dell'Acqua, con i carrozzoni del luna-park aumentavano considerevolmente i furti nelle case. Ma se quell’uomo era un ladro, perché era seduto al tavolo della cucina? E vi restava al buio, nonostante la possibilità di accendere le luci? Oppure… no, non è possibile. Marcello si rifiuta di prendere in considerazione altre ipotesi anche se ora ricorda perché il viso gli pareva famigliare. Ma non ha nessun senso. Non ha nessun senso che quel viso gli ricordasse quello del primo morto che aveva visto in vita sua quando la nonna lo accompagnò da bambino alla veglia funebre di un vicino.
Ma no, non è possibile: l’uomo nella camera ardente assomigliava allo sconosciuto, ma solo vagamente. Molto molto vagamente. Anzi proprio per nulla, figuriamoci! Marcello rientra in casa e come in trance afferra il borsone che aveva posato sul divano, lo apre, e ne estrae una busta di crocchette per cani. Bobo scodinzola e con un saltino tenta di leccare la faccia del suo padrone. Ma lui è troppo sconcertato, immerso nei suoi pensieri, per ricambiare il suo cane con una carezza. Dopo aver posato la ciotola a terra, mentre Bobo che non ha perso il suo appetito si butta grufolando sulla sua cena, Marcello decide di fare il giro della casa per vedere se per caso ci sono segni del aggio di qualche ladro nelle camere del piano superiore. Ora Marcello sta ripetendo a se stesso di non essere più spaventato. Sicuramente non c’è nulla di oscuro nel sorprendere uno sconosciuto in casa propria. E’ successo a un sacco di persone. (Ma quelli sorpresi erano ladri, non pallidi simulacri di persone defunte tanti anni prima.) Marcello entra sistematicamente in ognuna delle cinque camere del piano superiore soffermandosi un po’ di più in quella dove dormivano i suoi genitori e poi nella penultima, la sua camera di sempre, rimasta uguale ed intoccata negli anni con i poster, ormai ingialliti, dei Rem e dei Pink Floyd . La camera dove dormirà questa notte. L’ultima camera del corridoio, in fondo a sinistra, è quella in cui dormiva la nonna. E’ proprio necessario entrare e controllare anche quella? Sì, è proprio necessario. E non ha nessun senso esitare nel corridoio. Si tratta solo di una camera chiusa. La si apre, ci si guarda dentro e la si richiude. Potrebbe farlo chiunque, anche un bambino di dieci anni senza alcun timore. E quel continuo senso di una presenza che lo segue? Nulla, solo l’emozione di aver deciso di are la notte in una casa che da troppo tempo Marcello associa a dei ricordi traumatici. Ma allora, se si tratta solo di sensazioni emotive, perché continua a girarsi di scatto, come per sorprendere qualcuno che lo stia seguendo? “Mi sto voltando solo per controllare che Bobo non mi abbia seguito. Non è igienico che un cane entri nella camera da letto”.
Certo, non è igienico ma Marcello non ha mai vietato a Bobo di dormire accanto al suo letto e, a volte, gli ha persino permesso di distendersi accanto a lui e di appoggiare il musone sul cuscino. “Sì, gliel’ho permesso. Ma solo obbligandolo a restare sopra alle coperte e non fra le lenzuola come avrebbe voluto lui”. Marcello continua a parlare tra sé e sé mentre appoggia la mano sulla maniglia della porta della camera di nonna. Un colpo deciso e la porta viene aperta. Il profumo dei petali di rosa impregna la camera in cui da anni non dorme più nessuno. Ecco, ci voleva tanto? Nessun ladro o vagabondo (o fantasma) è entrato in questa stanza negli ultimi trent’anni. I vestiti di nonna sono ancora tutti ben riposti in quel grande armadio. Marcello lo apre e lo richiude. Sul comodino accanto al grande letto in ferro battuto, c’è un rosario di legno (ma non lo avevano messo fra le dita di nonna durante il funerale? No, sicuramente ne possedeva un altro.) Marcello si avvicina alla finestra ne apre i due battenti e spalanca le persiane affacciandosi nel giardino immerso nella nebbia pallida appena rischiarata dalla luce lunare. Cerca di penetrarne l’oscurità: quell’uomo deve per forza essere fuggito attraverso il giardino. Era sicuramente un ladro. Dalle camere del pian terreno arriva un rumore ritmico che Marcello conosce bene: è lo sfregamento sul pavimento della ciotola metallica di Bobo che, dopo aver finito il pasto, tenta con la lingua di recuperare le ultime invisibili molecole di cibo che possono essere rimaste sul fondo. Ma di colpo un altro rumore giunge dal basso facendo sobbalzare Marcello. Una musica, una musichetta stridula, le note di Simpaty for the Devil dei Rolling Stones. Un motivo che Marcello riconosce immediatamente: è la suoneria del suo cellulare. Chi mai potrebbe chiamarti al cellulare in un luogo dove i cellulari non hanno campo? Marcello si precipita al pian terreno. Sul divano, nella borsa in cui lo aveva riposto pensando di non poterlo utilizzare, il cellulare continua a suonare. Un’occhiata al display: il nome di Cristiano brilla a caratteri luminosi. “Pronto, Marcello, che cazzo fai? Ti sto aspettando da mezzora. Non dovevi solo posare i bagagli e raggiungermi in trattoria?”. “Scusami ma… – Marcello esita, non sa perché ma non ha voglia di raccontare all’amico dell’uomo che ha visto nella cucina. Anche perché in questo momento
non gli sembra neppure credibile quello che ha visto: uno sconosciuto al buio nella cucina di una casa deserta. Le cui porte e finestre erano ermeticamente chiuse e non avevano alcun segno di effrazione. Senza contare che quello sconosciuto… assomigliava veramente troppo ad un cadavere rimasto per tanti anni impresso in una piccola piega della sua memoria. – “…scusami ma ho dovuto dare aria alle camere e ci ho messo più di quel che pensavo”. “Eh certo, non ti ricordavi più che casa tua sembra più un castello che un’abitazione di campagna. Beati noi poveri che viviamo in un monolocale poco più grande di un pollaio!”. “Mi pare che il tuo pollaio sia in condizioni molto migliori di questa casa cadente e antica. Ma, a proposito di antichità… – Marcello butta un occhio sul display del telefono osservando le quattro lineette che confermano il massimo del segnale – …anche San Gremo è entrato nel ventunesimo secolo? Hanno trovato finalmente qualcuno in paese che ha concesso l’installazione del ripetitore per i cellulari sul proprio tetto? Fino a qualche tempo fa non c’era verso: tutti volevano poter usare il portatile ma nessuno voleva il ripetitore sulla propria casa. L’elettrosmog, le radiazioni. Hanno capito che erano solo cazzate?”. “Anche qui la colpa o il merito va alle massaggiatrici del parroco. I gestori telefonici hanno offerto una bella cifra alla parrocchia perché permettesse di installare il ripetitore sul campanile. E il parroco non si è fatto sfuggire l’occasione per qualche… massaggio in più”. “Quattro lineette: vedo che è bello potente!”. “Mai quanto l’uccello del nostro prevosto, ti assicuro. Forse è per questo che si è beccato l’esaurimento nervoso ed è fuggito in qualche ricovero per preti anziani. Comunque sbrigati a venire al ristorante, altrimenti chiudono la cucina e restiamo senza cena”. Seduti al tavolo della trattoria Marcello e Cristiano mangiano in silenzio gli agnolotti casalinghi preparati come ogni giorno da Rosina, l’anziana proprietaria del Cannoniere. Marcello non ha nessuna fretta di conoscere le cose “terribili” che Cristiano gli racconterà e lui stesso non ha nessuna voglia di raccontare a Cristiano il fatto che gli è successo pochi minuti prima in casa. “Com’è quest’anno la Festa dell'Acqua? Mi sembra un po’ moscia – chiede
Marcello giusto per rompere il silenzio piuttosto inconsueto per due amici che non si vedono da tempo. – ho visto che i baracconi sono tutti fermi”. “Sono arrivati solo ieri, non hanno ancora finito il montaggio della giostra e dell’autopista. Domani gireranno a pieno ritmo. Del resto alla Festa dell'Acqua mancano ancora tre giorni, sarà domenica prossima. Sempre che la gente abbia voglia di festeggiare…” “Ma insomma, si può sapere cosa sta succedendo a San Gremo? Hai detto che i giornali ne hanno parlato ma io ho letto solo della morte del figlio di Bettina…” “Solo pochi trafiletti ironici, pare che vogliano tenere la cosa sotto silenzio. Ma qui a San Gremo la gente vede i morti”. “Come…” “Sì, come trent’anni fa, ricordi quando hanno spostato il cimitero? Ecco, ora di nuovo. Un sacco di gente dice di aver visto i morti”. “E anche allora era successo nel periodo della Festa dell'Acqua… – dice Marcello pensando a quei giorni, gli ultimi in cui aveva dormito nella casa dei nonni. I giorni in cui era morta la nonna. Non è che per caso la gente del paese, aumenti il consumo di vino e alcolici in occasione della festa?”. “La Festa dell'Acqua non c’entra nulla con le apparizioni. Si festeggia da più di mille anni ma da quella volta trent’anni fa non c’era più stata un’esplosione di fenomeni come ora. E anch’io…” “Cosa? Stai per dirmi che anche tu hai visto qualcosa?…pensavo che avessi smesso, o per lo meno ridotto con le sostanze!”. “Sei stato troppo tempo lontano dal paese, Marcello. Qui la gente ha sempre creduto alle masche e ai fantasmi”. “Sì, la gente di una certa età, come la Mariuccia o gli altri contadini del posto. Non i miei amici, quelli con cui si facevano gli scherzi macabri e le finte sedute spiritiche per spaventare i più creduloni”. “Ti assicuro Marcello che questa volta non c’entra né l’ignoranza né la superstizione. E non è neppure uno scherzo: sta succedendo qualcosa a San
Gremo. Il padre di Giovanni Mentori (lo ricordi vero?) è un professore non un contadino… la zia di Edo Santini, la farmacista con le grandi tette, non puoi averla dimenticata: ha più di ottant’anni ma è ancora lucidissima. E poi Gino il fornaio e persino Bettina, la nostra vecchia amica che ora fa la veterinaria, con tutta la sua scienza e il suo pragmatismo. Tutti loro hanno visto qualcosa di terribile”. “La Bettina non è una mia vecchia amica. Per lo meno non lo è più da molti anni”. “Hai detto una grossa cazzata: eravamo tutti e tre amici e inseparabili una volta. Prova a parlare con lei. Ascolta quel che ti dice. Inutile che ti racconti cosa ho visto io. Sicuramente diresti che è colpa di un brutto trip di acido. Ma la Bettina non si fa gli acidi. Magari a lei credi”. “Non parlo da anni con Bettina. E non ho voglia di parlarle proprio ora che ha perso un figlio… di un argomento come questo”. In quel momento i loro discorsi vennero interrotti da Rosina che appoggiò sul tavolo il vassoio del brasato al barolo. “Ciao Marcello, una rimpatriata al paese? Riparti stasera?”. “Ciao Rosina, no, mi fermo qualche giorno. Dormirò nella casa di nonna”. La vecchia sembrò leggermente turbata dalla risposta di Marcello. “Sei qui da solo?”. “Eh sì, la mia fidanzata non ama molto la campagna. Sono solo col mio cane”. La vecchia tacque e prendendo i piatti sporchi dal tavolo sembrò volesse dire qualcosa ma poi si trattenne. Marcello se ne accorse e le chiese: “Volevi dirmi qualcosa, Rosina?”. La vecchia si voltò con un sorriso un po’ tirato: “Prova a parlare alla tua ragazza dei miei agnolotti, magari la prossima volta viene con te per assaggiarli”. “Non credo. Lei ama solo McDonald’s”.
Con un “Ohh” scandalizzato Rosina si ritirò in cucina a ettini veloci e a gambe strette, come se qualcuno le avesse appoggiato la mano sul culo. In quel momento si aprì la porta della trattoria ed entrarono i due uomini vestiti di nero che Marcello aveva visto, prima di cena, uscire dalla chiesa. Magri e alti, pallidi in volto, sembravano veramente arrivare dall’oltretomba; si sedettero nel tavolino più lontano dai due amici ed iniziarono a parlare bisbigliando. “Chi sono quei due? – chiese Marcello a Cristiano – non mi sembra gente di qui”. “Non lo sa nessuno. Sono arrivati qualche giorno fa e sono alloggiati qui, nelle camere della trattoria. Scompaiono per un giorno o due poi ricompaiono per le vie del paese con un atteggiamento furtivo. Li hanno visti gironzolare vicino alle case di quelli che hanno avuto degli incontri coi morti. Io penso siano dei sensitivi attirati dai fenomeni successi a San Gremo”. “Oppure sono dei fantasmi: la faccia da morti ce l’hanno”. “Beh, se sono fantasmi sono fantasmi affamati. Guarda come ci danno dentro con gli agnolotti di Rosina!”. Uno dei due uomini sollevò lo sguardo dal piatto e vedendo che Marcello lo stava guardando, alzo il bicchiere di vino verso di lui, come per un brindisi, ma senza sorridere”. Marcello abbassò lo sguardo. A fine cena, dopo aver servito un orrido caffè che a Marcello ricordò quelli parigini, Rosina sparecchiò la tavola su cui avevano cenato e, mentre ava uno strofinaccio per eliminare le ultime briciole, si rivolse a Marcello parlando sottovoce: “Sei sicuro di voler dormire a casa tua? E’ disabitata da troppi anni, sarà umidissima. Se vuoi, qui, ho ancora una camera libera – poi indicando i due uomini neri col mento – quelli non ti disturberebbero di sicuro nella camera accanto. Non li ho mai sentiti parlare”. Cristiano intervenne immediatamente ridacchiando. “Insomma, puoi scegliere fra la tua casa umida e gli scarafaggi delle camere del Cannoniere. Ardua decisione!”.
“Oh mi mi, ma sentitelo il drugà!” – Rosina, usando lo strofinaccio con cui puliva il tavolo a mo’ di frusta, tentò di colpire Cristiano: “la prossima volta che vieni a mangiare qui, te le metto negli agnolotti, le boie panatere!”. Marcello per un attimo ebbe la tentazione di restare a dormire lì, ma poi, pensando che alla bella età di quarantacinque anni era ora di esorcizzare le paure che si era portato dentro fin dall’adolescenza, disse: “No Rosina, dormo a casa. Ma non per le “boie panatere”. Lo so che non ci sono scarafaggi nelle tue camere. Ma qui c’è troppo casino fino a tardi nel bar e sono stanco per il viaggio”. Infatti con la fine dell’ora in cui venivano serviti i pasti serali, il bar iniziava a riempirsi di clienti, in maggioranza gli abituè dei tavoli di scopa, mentre al banco si fermavano quelli della birretta prima di andare a dormire e quelli di “un dito di fernet che fa tanto digerire”. La trattoria di Rosina era divisa a metà fra la zona ristorante e la zona bar. Qui i tavoli non venivano apparecchiati e restavano a disposizione degli anziani che volevano giocare a scopa. Contro al muro alla destra del bancone del bar resistevano due reperti ormai quasi storici: un jukebox e un flipper, entrambi pezzi d’epoca originali. Il flipper aveva il cristallo superiore segnato da una crepa che lo percorreva in tutta la sua lunghezza mentre il jukebox conteneva ancora i 45 giri di canzoni che erano già vecchie quando Marcello era un ragazzino. Rosina si era sempre rifiutata di vendere i due oggetti ai collezionisti: “Quel flipper è ottimo per appoggiarci i giornali – diceva – e il jukebox contiene tutte le canzoni di Al Bano e Romina: quelle si che sono pezzi rari!” Marcello offrì la cena a Cristiano stupendosi per il conto estremamente modesto: da molto tempo non mangiava così bene. I due amici uscirono dalla trattoria ed immediatamente Cristiano estrasse di tasca le cartine. “Cannetta digestiva, come ai vecchi tempi?”. “Ma tu, Cristiano, non cambi proprio mai. Vabbè, ti faccio compagnia ancora cinque minuti, ma non fumo”. Come per una tacita intesa attraversarono silenziosamente la piazza dirigendosi
alla loro “panchina delle canne”, quella al centro del giardinetto a metà strada fra il ristorante e la chiesa. Nella nebbia, che ora pareva molto più fitta, potevano a malapena distinguere l’insegna del bar-trattoria a una ventina di metri da loro, mentre la luce dei lampioni si dissolveva nella fitta coltre di oscurità. “Altro che paese delle pallide nebbie! Qui non si vede un cazzo!” disse Cristiano finendo di rollare la miscela di tabacco e di erba. “Se non ti piace la nebbia, hai scelto il posto sbagliato, dove vivere, caro amico” – disse Marcello respirando a pieni polmoni l’umidità mista ai vaghi odori di mosto e di terra bagnata. Cristiano, indicando una direzione nell’oscurità, disse: “Non ti sembra strano che a meno di quaranta chilometri in quella direzione c’è la città con i locali pieni di musica, il traffico, le puttane, le discoteche e qui siamo come in un limbo fuori dal mondo. E ora ci sono anche i morti che camminano in giro per il paese… chissà che non ci troviamo in una zona di aggio tra la vita e l’aldilà”. Detto questo Cristiano ò la canna accesa a Marcello che, nonostante il proposito iniziale, non la rifiutò. “Hai detto che anche Bettina ha visto qualcosa? – chiese Marcello, con un lieve accenno di tosse, dopo aver aspirato profondamente il fumo. “Me lo ha raccontato la scorsa settimana. Ero andato da lei in studio a portare un gattino ferito da un’auto che avevo raccolto per strada. Ho capito subito che era sconvolta, ma ho pensato che col figlio morto da appena quindici giorni…”. “Cosa ti ha detto?” – disse Marcello tentando di soffocare un piccolissimo morso di gelosia verso l’amico. Bettina si era confidata con Cristiano. Era giusto così. Erano tutti e tre amici inseparabili loro, fra i quindici e i diciassette anni. Quello dei tre che se ne era andato era proprio lui. Invece l’amicizia tra Cristiano e Bettina era continuata. Giustamente. Cristiano, soffiò una boccata di fumo che si confuse nella nebbia e continuò: “Non voleva dirmi perché era così sconvolta… allora le ho chiesto se anche lei aveva avuto qualche incontro. Non ridere, per quello che sto per dirti, ma io la sera prima avevo visto… incontrato… – ma qui Cristiano si interruppe
osservando l’espressione di Marcello – no, non è possibile, a te non riesco proprio dirlo… ma alla Bettina l’ho raccontato. Con la stessa sicurezza che anche lei non mi avrebbe creduto. Perché tu lo sai com’è concreta e sensata la Bettina. Ma lei inaspettatamente non ha riso, come faresti tu se ora ti raccontassi quello che ho visto e ho raccontato a Bettina. Non ha riso perché anche lei, come molti in paese, aveva fatto un incontro. Suo figlio, mi ha detto, era tornato a trovarla dieci giorni dopo la sua morte. Ma ora il suo bambino non era più quello per cui aveva tanto pianto. Era una… cosa diversa, orribile, spaventosa. Ma a questo punto Bettina ha avuto una crisi di pianto ed ha smesso di parlarmi di quella terribile esperienza. Ha iniziato a medicare il gattino che le avevo portato e non ha più voluto dirmi nulla”. Marcello ascoltava l’amico, seguendo silenziosamente le volute di fumo. Per la prima volta pensò che veramente stava succedendo qualcosa di incomprensibile a San Gremo. Non volle interrompere Cristiano per timore che il tono della sua voce venisse scambiato per incredulità. Così lo lasciò continuare. “Valla a trovare domani, Marcello, sono sicuro che a te Bettina racconterebbe ogni cosa. Lo sai benissimo che non ha mai smesso di volerti bene. Me lo ha detto più volte, anche il giorno in cui stava per sposarsi con quel coglione che poi l’ha lasciata”. Marcello prese dalle mani di Cristiano il t e diede un tiro profondo per stordirsi e frenare le lacrime che volevano uscire al pensiero di tutto il tempo sprecato negli anni ad evitare Bettina. I mille piccoli ricordi della loro adolescenza comune, i discorsi, i sogni mai realizzati, le cazzate. Sì. Domani sarebbe andato dalla Bettina. Le avrebbe parlato, avrebbe tentato di consolarla per la tragedia che l’aveva colpita, come solo un vecchio amico sa fare. Forse avrebbero parlato del loro ato. O forse no, ne avrebbero taciuto, ma non era importante. L’importante era la sua presenza accanto ad una ragazza che per tanti anni era stata presente solo nei suoi ricordi. E forse Bettina gli avrebbe raccontato quello che aveva visto. O credeva di aver visto. E lui avrebbe tentato di capire, senza interromperla.
Cristiano aveva finito il suo racconto. Buttò lontano il mozzicone ormai spento. Marcello rabbrividì per il freddo. “E’ ora di andare a casa – disse – è ora”. “Quelli, invece, non vanno ancora a dormire – disse Cristiano indicando il portone della chiesa in cui stavano entrando i due uomini vestiti di nero”. “Bel posto per una eggiatina digestiva, la chiesa”. “Forse vorranno recitare un’ultima preghiera prima di andare a dormire”. “Sì, probabilmente, l’eterno riposo”. I due amici si salutarono. Con un senso di inquietudine che gli stringeva la gola, Marcello si portò verso casa.
V Eccolo Marcello davanti alla casa della nonna. E’ fermo ed osserva le finestre buie su cui si riflette la pallida luce di una luna filtrata e offuscata dalla nebbia. Perché non entra? Forse gli è parso di cogliere un rapido movimento ad una delle finestre, quella della camera di nonna. Ma anche se così fosse, sa benissimo che potrebbe essere il movimento delle foglie del grande platano riflesse sul vetro. Oppure potrebbe essere Bobo, che, dopo aver esplorato tutte le camere della casa, con le zampone appoggiate al davanzale e il musone schiacciato contro al vetro, osserva l’oscurità del giardino in attesa dell’arrivo del suo padrone. Oppure, infine, potrebbe essere… che qualcosa di vero c’è nei deliranti racconti di Cristiano, che i morti stanno tornando per terrorizzare i vivi e che la sua vecchia casa, non è solo piena di ricordi, di scricchiolii e di animaletti ma ospita qualcosa di molto più terribile e spaventoso. “La spiegazione di tutto è in questo libro” – trent’anni prima gli aveva detto la nonna, o almeno quella figura che sembrava essere la nonna ma che in realtà era solo un’allucinazione. Perché la nonna, quando gli aveva parlato, era già morta. Da molte ore. Marcello introduce la chiave e con una spinta decisa, apre la porta di casa. Il silenzio e l’odore di umidità lo avvolgono come un sudario. Accende la luce, un rumore al piano superiore gli fa alzare gli occhi. E’ Bobo che, dal pianerottolo della prima rampa di scale, accovacciato, lo osserva con l’aria assonnata di chi è stato bruscamente svegliato. Poi sbadigliando scende lentamente le scale per avvicinarsi al suo padrone. “Mi raccomando, Bobo, non esagerare con l’entusiasmo per il mio ritorno. Potrei scambiarti per un cane normale”. Quasi avesse compreso la frase, il cane si avvicina a Marcello accennando ad uno striminzito movimento di coda e tenta, come sempre, di introdurre il musone fra le sue gambe per respirare a pieni polmoni l’odore del suo inguine. Un brutto, imbarazzante vizio che Marcello non è mai riuscito a correggere nel suo cane. “Ti ho solo chiesto un po’ di entusiasmo per il mio ritorno, non un rapporto
sessuale” – gli dice Marcello alzando il ginocchio e colpendo senza troppa violenza il naso del cane, che immediatamente si accuccia ai suoi piedi ansimando, come per scusarsi. Marcello entra nel grande salone estraendo da una delle borse il computer portatile: la sua intenzione è di lavorare un po’ sulla sceneggiatura prima di andare a dormire. Il fatto che finalmente i telefoni cellulari funzionino anche a San Gremo gli offre la possibilità di spedire il suo lavoro direttamente all’editore se via email e vuole farlo il prima possibile. Le emozioni e i racconti inverosimili che lo hanno accolto con questo ritorno in paese gli hanno fatto ritrovare l’ispirazione e la voglia di scrivere, per cui è ben deciso a sfruttare il momento creativo prima che si esaurisca come spesso succede. Mentre, seduto al grande tavolo di quercia, attende che il computer carichi il sistema operativo e il programma di videoscrittura, Marcello si guarda intorno. Il grande pianoforte a coda, nell’angolo destro del salone, muto da tanti anni, si presenta coperto da un compatto strato di polvere che però, sul coperchio superiore, presenta alcune strisce di pulizia, come se qualcuno ci avesse ato una mano. Sulla parete sinistra interamente coperta da libri, colpisce, senza alcun motivo apparente, la copertina azzurra del libro sulla storia dei paesini di tutta la zona di cui fa parte San Gremo, proprio quel libro che la nonna gli aveva mostrato in quell’ultima terribile notte di trent’anni prima. Marcello si alza per andare a prenderlo ma viene distratto da uno strano ticchettio di cui, sulle prime, non riesce ad identificare la provenienza. E’ un ticchettio misterioso, appena percettibile, ma con una modulazione variabile che assomiglia quasi ad un effetto di eco. Aguzzando le orecchie Marcello si aggira per la grande stanza tentando di capire da quale punto nasce il ticchettio che in certi momenti è quasi convulso mentre in altri sembra pressoché scomparire. Poi, finalmente, avvicinandosi al pianoforte, gli pare di aver trovato l’origine del rumore. Alza il coperchio che copre i tasti di avorio. Uno scarafaggio fugge tentando di introdursi nella sottilissima scanalatura tra un tasto e l’altro, poi ci rinuncia e scompare in una fessura più ampia del lato frontale del pianoforte. Intanto, con l’apertura del coperchio anteriore, pare quasi che il ticchettio sia aumentato diventando concitato e svelando la sua origine proprio dall’interno del pianoforte. Con un colpo deciso Marcello solleva il grande coperchio superiore del pianoforte, quello che ne nasconde la parte meccanica, causando all’interno di esso un’improvvisa frenetica scena di fuga in ogni direzione di una ventina di piccoli topi. Ora sì che il ticchettio causato dalle zampine frenetiche sulle corde e
sui martelletti dello strumento è diventato perfettamente udibile trasformando la fuga dei topi in un motivo musicale reso solenne dal rimbombo e dall’eco. In pochi secondi il rumore si esaurisce con la scomparsa negli anfratti più nascosti del pianoforte della maggior parte dei piccoli topi ma uno di loro, il più grande, probabilmente la madre della cucciolata, rimane fermo e fissa Marcello con un’aria maligna di sfida. Poi lentamente, quasi per dimostrare di non aver alcuna paura dell’intruso, si volta e scompare anche lui in una cavità fra le corde tese. Marcello sorride nervosamente, piuttosto turbato dalla scena a cui ha assistito poi si rivolge a Bobo, accovacciato ai suoi piedi e gli dice: “Ma i cani non cacciano i topi? L’ho sempre detto che i gatti sono più intelligenti – e colpendo con un piccolo calcio il cane, prosegue – quando muori mi compro un gatto”. Il cane scodinzola guardando il suo padrone che si avvicina allo scaffale dei libri. Marcello accarezza con un rapido gesto il dorso di alcuni libri poi estrae quello con la copertina azzurra e, scuotendolo per toglierne la polvere, torna a sedersi al tavolo di fronte al computer. “Leggende E Miti Sull’Origine Dei Villaggi Del Canavese” è il titolo, molto sbiadito, stampato sulla copertina del libro. Nella prima pagina Marcello legge l’anno di pubblicazione in caratteri romani, il 1919, e nell’angolo in alto a destra un piccolo appunto scritto a matita con l’elegante calligrafia della nonna: “fotocopiare pag. 125 e parlarne con Ruggero e Maddalena, chiedere loro di procurarmi altri testi sull’argomento”. Ruggero e Maddalena. Nel leggere il nome dei suoi genitori Marcello per un attimo si ritrova a pensare a quella coppia scombinata, scomparsa chissà dove. Papà e mamma, dunque , non erano ancora partiti per il loro viaggio senza ritorno, quando nonna scrisse quell’appunto. Erano loro che, frequentando le grandi librerie della città, procuravano a nonna tutti i libri che lei chiedeva. E l’argomento che nonna voleva approfondire era probabilmente quello che, secondo le sue parole (reali o immaginate?), avrebbe potuto spiegare gli strani fenomeni accaduti trent’anni prima a San Gremo e che oggi, probabilmente, si stavano ripetendo. Marcello fece scorrere le pagine consumate fino alla pagina 125. Il capitolo era quello che trattava proprio dell’antichissima leggenda del “miracolo dell’acqua” da cui aveva avuto origine il paese di San Gremo. La Festa dell'Acqua che si celebrava ogni anno a San Gremo, anche se la maggior
parte dei paesani lo ignorava, celebrava proprio quel miracolo. La leggenda tramandata oralmente racconta che negli anni fra il 900 e il 1000, dove ora sorge il paese, vi era una distesa di gerbidi e campi coltivati. In quel periodo si manifestò una terribile siccità che, in qualche mese, ridusse alla fame i contadini seccando i campi e causando la morte della maggior parte del bestiame. I contadini, allora, si riunirono nel gerbido a pregare San Gremo, il santo protettore dalla siccità e dalle intemperie. Una notte in cui i contadini stavano disperatamente pregando, con un’esplosione e una luce abbagliante che accecò la vista dei presenti, apparve davanti a loro una voragine da cui zampillò un grande getto d’acqua che si allargò nel gerbido creando un reticolo di fossi e di ruscelli. Le bestie poterono dissetarsi e i campi tornarono fertili. Per ringraziare il santo i contadini edificarono e gli intitolarono la chiesa che ancora oggi è sulla piazza di San Gremo. Le case che sorsero tutto intorno, nel corso degli anni formarono poi il paese. “Una leggenda che non ha alcuna attinenza con la realtà – pensò Marcello chiudendo il libro – questa zona non è mai stata soggetta alla siccità, siamo troppo vicini alle montagne e circondati da fiumi di ogni portata. Chissà com’è nato questo mito. Probabilmente qualcuno voleva nobilitare l’origine di un paese nato banalmente come molti altri dalla costruzione di case vicine ai campi da coltivare. Le chiese, di solito, venivano costruite dopo, quando un sufficiente numero di case e di famiglie poteva garantire un buon numero di fedeli e di offerte alla parrocchia. Qualcuno, magari un prete, per far conoscere il paese e la sua chiesa, un giorno si è inventato la Festa dell'Acqua e ci ha costruito intorno la leggenda del relativo miracolo. La pubblicità è l’anima del commercio, così San Gremo è diventato il paese della Festa dell'Acqua. Marcello si stupì che la nonna, una donna coltissima e intelligente, volesse approfondire la conoscenza e lo studio di un avvenimento “miracoloso” che probabilmente non era mai avvenuto. Eppure la nonna glielo aveva detto (ma era proprio la nonna? Chissà?): “La spiegazione è tutta qui dentro”. Ora il silenzio nella casa è veramente profondo e non si sente neppure più il rumoroso respiro di Bobo che di solito fa da colonna sonora ad ogni momento
della giornata di Marcello. Infatti il cane è uscito dal salone, per accucciarsi nella zona buia dell’ingresso, deciso probabilmente a riprendere il sonno interrotto con l’arrivo del suo padrone. Accanto a lui, in bella mostra, una serie di sassi che il cane ha recuperato in giardino ed ha portato con sé in casa. Marcello sente la stanchezza di una giornata iniziata con un lungo viaggio in treno, che è proseguita con lo spavento per uno sconosciuto che si è introdotto nella sua casa, ed è finita con la scoperta che nel suo paese, la gente, e in particolare i suoi amici più cari, stanno tutti impazzendo. Giornata finita? Forse. Marcello deve ancora trascorrere la sua prima notte dopo trent’anni in una casa in cui ha provato la più forte paura della sua vita. “E allora affrontiamola, questa notte, non sarà poi così terribile… in fondo sono a casa mia, non credo ai fantasmi né alle streghe e sono molto stanco: tutti buoni motivi per dormire come un sasso fino a domattina” – pensa Marcello chiudendo il computer e rinunciando alla mezzora di lavoro che si era ripromesso di fare. “Lavorerò domani, sono troppo stanco”. Spenta la luce in salone Marcello sale le scale verso la zona notte. Sarà per la stanchezza accumulata o per un eccesso di emozioni provate quel giorno, ma in questo momento non ha più né alcun timore né alcun presentimento negativo. Respira con piacere l’odore di questa casa che fa parte di lui e della sua famiglia. a davanti alla camera degli ospiti, quella che un tempo veniva utilizzata dai suoi genitori, poi si sofferma davanti alla camera di nonna socchiudendone la porta. Nessun fruscio, nessun rumore. Nessun fantasma. In un attimo è nella sua cameretta, quella di sempre. Ed ora è nel letto, ben avvolto nelle coperte rese pesanti dalla trapunta imbottita. In pochi minuti dorme profondamente. Quanto a? Un’ora, due ore? Ora Marcello non è più così rilassato, si gira fra le lenzuola, abbraccia il cuscino, parla nel sonno. Se potessimo entrare nella testa di Marcello vedremmo cosa lo sta disturbando. Perché il silenzio della casa immersa nella notte non è più così profondo. E Marcello, pur profondamente addormentato, sente il brusio provenire dalle camere del pian terreno. Ci sono voci che sussurrano? “No, non ci sono voci – pensa, nel sogno, Marcello – io sto dormendo nella mia camera, in casa non c’è nessuno. Per questo sono sicuro che sto sognando”. Ma il brusio continua. Allora Marcello decide che deve fare il possibile per svegliarsi. Lo sa perfettamente che questo è un sogno. Infatti, apre gli occhi, guarda verso la finestra e vede una donna che, svolazzando all’esterno, lo guarda attraverso i vetri e, con le mani, picchietta per farsi aprire.
“Ora sono sicuro di stare sognando! – pensa Marcello che ha riconosciuto nella donna la masca Micillina, una strega di cui si parlava a San Gremo quando era bimbo – certo che sto sognando. Infatti la masca Micillina, lì fuori dalla finestra, è esattamente come me la immaginavo con la fantasia mentre mi raccontavano la sua storia. Quindi quell’essere fuori dalla finestra non può che giungere dal mio cervello. Mi vien quasi da ridere. Sognare le streghe a quarantacinque anni, mi sembra idiota. Ora mi sveglio. ORA MI SVEGLIO! Mi sforzerò di ridere, di solito funziona quando cerco di svegliarmi durante un incubo”. E ridendo a crepapelle, finalmente, Marcello riesce ad uscire dal sogno. Sveglio. Ora Marcello è seduto nel letto, l’abatjour accesa e, naturalmente non c’è nessuna strega che lo osserva dalla finestra. Ma… Ma il brusio, proveniente dal pian terreno… quello no, quello non è scomparso. Marcello rabbrividisce. Ora sente distintamente delle voci che parlano sommessamente, come ad un funerale, come in una camera ardente. Le voci hanno una cadenza variabile. ano dal sussurro appena percettibile al mugolio finchè alle orecchie terrorizzate di Marcello giunge una frase comprensibile: “Si è appena svegliato.” Stanno parlando di lui. Le “voci” hanno capito che lui è sveglio e le sta ascoltando. “Devo uscire da questa casa” – pensa Marcello. Ma per uscire deve scendere al pian terreno. Senza sapere cosa o chi è li sotto e lo sta attendendo. “Marcello!” – questa volta la voce che lo chiama risuona chiara fra le pareti della casa. La voce di sua madre? Sembra la sua, per come la ricorda, ma non è possibile, è troppo giovane. Oggi sua madre, in qualunque parte del mondo si trovi, è una donna anziana di sessantasei anni. Svenire? Lasciarsi cadere a terra, sperando che questo sia la continuazione del sogno della strega Micillina? No, purtroppo ora questa è la realtà. “Io sono perfettamente sveglio. E giù, al piano di sotto, c’è qualcuno (o qualcosa) che mi sta attendendo. Non posso far altro che scendere”. Marcello non si orienta più, si sente disossato, liquido, si sente colare via… verso le scale che portano al piano
inferiore. Non si riconosce più in quell’essere terrorizzato, in tuta da ginnastica usata come pigiama, che non riesce e forse non vuole più fuggire. Al fondo delle scale c’è il suo cane addormentato. Non fa cenno di svegliarsi mentre Marcello gli a accanto per entrare nel salone. Quel salone da cui provenivano le voci ma che ora, tutto a un tratto, sono azzittite. Ma Marcello lo sa di non essere solo. Sa che oltre quella porta c’è un’immagine reale che giustificherà il suo terrore. Così non può far altro che appoggiare la mano sulla maniglia ed aprire la porta. Non occorre accendere la luce del salone. Perché la scena è perfettamente illuminata da una serie di candelieri posti intorno a due bare chiuse al centro del salone. Intorno alle bare, in piedi, quattro persone (persone?) pallide, emaciate. Una di loro è la nonna. Accanto a lei lo stesso personaggio che Marcello aveva sorpreso nella cucina. Ora che lo guarda più attentamente, vede che i suoi occhi hanno dei riflessi rossastri, quasi fossero illuminati dal loro interno. Poi c’è un bambino con la pelle bianca come il latte. E dai suoi occhi, riflessi come se vi fossero delle fiamme dentro di lui. Marcello crede di riconoscerlo. Molti anni prima, incolonnato in coda, a o d’uomo sull’autostrada, era ato accanto ad un terribile incidente stradale, e pur distogliendo gli occhi, non aveva potuto fare a meno di scorgere il corpicino sanguinante del bimbo esanime sull’asfalto. La figura spaventosa accanto al bimbo riporta Marcello a trent’anni prima: è Vigio, il sacrestano con la faccia distrutta, esattamente come Marcello lo aveva visto quella lontana sera, disteso in piazza sotto al campanile. Tutti e quattro, emettendo un terribile gorgoglio all’unisono, si voltano verso Marcello e gli sorridono (tutti tranne Vigio che non ha più la bocca). “Finalmente sei arrivato, Marcello, ti stavamo chiamando da un sacco di tempo – gli dice la nonna con una smorfia che vorrebbe sembrare un sorriso – e tu perdevi tempo lassù a sognare le masche. Ti spaventavano ancora così tanto, come quando eri piccolo. Non devi aver paura dei sogni, Marcello! E poi le masche, te l’ho detto tante volte, non esistono. I morti invece sì. Noi esistiamo, come vedi”. La nonna si mosse in modo strano scivolando sul pavimento, senza muovere le gambe, quasi avesse delle ruote sotto le scarpe, e si avvicinò alle due bare. Marcello rise istericamente. “La nonna coi pattini a rotelle!” Rise, rise ancora mentre il riso si trasformava nel tentativo di un grido ma la bocca restava
spalancata senza essere in grado di emettere alcun suono. “Ci sono due persone che vorrebbero salutarti” – dice ancora la nonna mentre con la mano a cui sono cresciute delle unghie lunghe e adunche indica le due bare. Ora Marcello è impietrito, paralizzato mentre l’unica cosa che sembra muoversi del suo corpo è il cuore che martella frenetico quasi volesse uscire dal petto. Questa volta, purtroppo, non è un sogno: Marcello lo sa e sa che non basterà una risata per risvegliarsi. “Il loro corpo è lontano, molto lontano da qui. Lo Tsunami del 26 dicembre 2004 li ha catturati con altre 230.000 persone ed ora sono in fondo all’oceano Indiano. Ma loro, i tuoi genitori, sono venuti fin qui per salutarti”. E i coperchi delle due bare, lentamente, si aprono sollevati da una forza invisibile. Da una delle bare fa capolino una bimba bellissima di circa sette anni con l’aria sconcertata di chi non capisce dove si trova. Dall’altra bara, invece, non esce nulla. Il fantasma della nonna si avvicina a quest’ultima bara, vi guarda dentro, poi solleva lo sguardo verso Marcello e gli dice: “No, il tuo papà non è venuto. Forse non ha ritrovato la strada. Era così lontano. Ma la tua mamma, eccola qua – e la vecchia si volta verso la bambina che si sta guardando intorno con espressione confusa – vedi la tua mamma è venuta a salutarti. Vieni tesoro mio. Vieni piccola!” La nonna prende in braccio la bambina e la porge a Marcello. “Vuoi prendere in braccio la tua mamma: non sarebbe un’esperienza molto comune prendere in braccio la propria mamma, vero? Vuoi salutarla ancora una volta?” La bimba guarda Marcello poi si volta verso la vecchia e le dice: “Mamma perché sei così piena di rughe? E chi è questo uomo che mi guarda?” La vecchia dice alla bimba: “E’ Marcello, il tuo figlio, vai a dargli un bacio, ha sentito molto la tua mancanza”. La bimba, come se avesse le ali, inizia a fluttuare nell’aria alzandosi fin oltre un paio di metri da terra, poi scende fino ad avvicinare la bocca a pochi centimetri dal viso di Marcello. Una zaffata di odore di marcio e di putrefazione raggiunge le sue narici. La nonna ridacchiando per l’espressione sconvolta di Marcello dice: “Ti sembra così strano Marcellino che questa sia la tua mamma? Sai, nel luogo e nello stato in cui ci troviamo ora, il corpo in cui ci muoviamo non è altro che un
ricordo della nostra esistenza precedente. Insomma, utilizziamo un corpo qualunque della nostra vita… o della nostra morte soltanto per venirvi a trovare e per farci riconoscere. Avrei potuto venire così, per esempio. E con una terribile mutazione lenta ma implacabile, la nonna si trasformò in un corpo putrefatto avvolto in un sudario completamente stracciato e consumato che allunga le mani scheletrite verso il viso di Marcello. “Ti piace Marcellino? Ti piace la tua nonna?” Marcello, vincendo finalmente la paralisi che lo blocca, si volta verso la porta del salone per fuggire ma la sua fuga viene fermata da una figura ritta davanti a lui. La bambina si è trasformata in una donna pallidissima con gli occhi sbarrati che lo blocca puntandogli le mani sulle spalle e parlandogli senza muovere le labbra: “Eccolo il mio bambino che è diventato un uomo. Ora ti riconosco Marcello, avrei voluto tornare da te. Ma c’era tanta acqua su di me. Ora, però, vedi? Si è creata una falla, un foro da cui tutti noi possiamo are e finalmente potrò tornare da te ogni volta che mi chiamerai”. Il grido di Marcello esplose fra i muri della vecchia casa, un urlo disperato che gli lacerò la gola. Allora tutti gli spaventosi personaggi si riunirono al centro del salone, accanto alle bare, ed indicando Marcello, che continuava ad urlare, ridacchiarono come per deriderlo, poi, alzando le braccia in alto, presero ad urlare all’unisono con lui superandolo nel volume e nell’intensità del grido. La stanza si trasformò in una bolgia di suoni e grida stridule indistinte. Poi i fantasmi presero a volteggiare a mezz’aria coi loro poveri corpi e ognuno di loro, avvicinando il viso a una candela, la spense. Ora rimaneva solo una candela accesa e nella semioscurità solo il corpo putrefatto della nonna era ancora visibile. Con un sorriso terribile fece un gesto di saluto a Marcello poi estraendosi di bocca la dentiera la tirò verso di lui. La protesi urtò contro la parete e finì a terra in un angolo della stanza. Poi l’orrida figura spense con un soffio anche l’ultima candela lasciando Marcello nella totale oscurità. Marcello, annaspando, trovò la forza di avvicinarsi al muro ed accendere la luce. Ora non c’erano più le due bare al centro della stanza ma un vago odore di putrefazione continuava ad aleggiare mischiandosi al tipico odore della cera fusa, quando viene spenta una candela. Ma nel salone non c’era alcuna candela. A terra, in un angolo della stanza, una dentiera ingiallita.
Marcello, come in trance aprì la porta dietro cui Bobo, ansimando, lo stava attendendo. L’istinto di fuggire da quella casa non gli permise neppure di tornare nella sua camera a prendere le borse. Aprì la porta ed uscì, senza sentire il freddo nonostante la sua leggera tuta da ginnastica, nel giardino avvolto dalla pallida nebbia notturna. Guardò l’ora: le tre del mattino. Impensabile tornare dentro la casa. Decise di are la notte in giardino, chiuso nell’automobile. Aprì il portellone per fare entrare Bobo poi, abbassando i sedili reclinabili, si sdraiò lasciando che i suoi pensieri tentassero di dare una spiegazione a ciò che aveva visto. “La ragione – pensò Marcello – tutto ciò che succede deve essere spiegato dalla ragione. Se la ragione non riesce a far luce, rimane solo la tenebra. E questo è il buio più profondo in cui io mi sia mai trovato!” Poi una speranza di idea, di spiegazione. Sì, non poteva che essere quella la spiegazione! E più ci pensava, più una rabbia violenta lo prendeva. Afferrò il telefonino e compose freneticamente il numero di Cristiano. Dopo molti squilli a vuoto rispose la voce assonnata dell’amico. Marcello non gli diede neppure il tempo di capire chi lo stava chiamando nel cuore della notte. Urlò: “Brutto stronzo, bastardo, cosa mi hai dato da fumare ieri sera? Credi che io non sappia quali sono gli effetti del peyote? Volevi farmi uno scherzo? Cos’era un fungo o un acido? O qualche altra sostanza di quelle che usano le teste di cazzo come te? Mettitele nel culo le tue allucinazioni e non darle agli amici”. “Calmati Marcello, ho capito. Anche tu hai avuto una visita. Me lo aspettavo quando mi hai detto che avresti dormito nella tua vecchia casa. Mi spiace Marcello, avrei voluto metterti in guardia, ma non mi avresti creduto. No, Marcello, non era peyote e neppure acido lisergico, che del resto non uso da anni. Era il caro vecchio fumo di tante canne che ci siamo fatti insieme. Niente di più, Marcello. Ora ci crederai che a San Gremo sta succedendo qualcosa di inspiegabile. Che i morti stanno tornando fra noi”. Marcello, ascoltando le parole dell’amico, pensò alla frase che aveva sentito dal fantasma della madre: “…si è creata una falla, un foro da cui tutti noi possiamo uscire…”. Non rispose più all’amico ma, dopo aver gettato il telefonino sul sedile accanto senza neppure interrompere la comunicazione, scoppiò in un
pianto disperato e pianse a lungo singhiozzando sempre più debolmente finché, fra le lacrime, si addormentò profondamente. Venne svegliato molte ore dopo da un ticchettio al finestrino dell’auto. Soffocando un grido, con un balzo si mise a sedere. La luce del sole inondava l’abitacolo filtrando attraverso i finestrini appannati. Con una mano pulì una piccola zona del finestrino dal velo di umidità. Nell’area resa trasparente apparve il viso cosparso di rughe di una vecchia donna che lo fissava attraverso il vetro.
VI Basta un attimo di sconcerto a Marcello per tranquillizzarsi e riconoscere la Mariuccia, l’anziana vicina di casa, quella che si occupa del giardino durante l’anno. “Ma che fai, Marcello, hai dormito in macchina? – gli dice lei – ho visto le persiane aperte, non sapevo che saresti venuto”. Marcello guarda il viso amico della Mariuccia. La conosce fin da bambino. Ricorda i suoi racconti sulle masche, sui fantasmi. E crescendo ne ha riso con tenerezza: “I contadini credono a queste storie!”. E con la “gucciniana” benevolenza colta di chi guarda il mondo contadino con curiosità antropologica, si è fatto raccontare anche da adulto le sue storie, ponendo domande, avanzando ipotesi, senza mai contraddirla per non offenderla. Ed ora dovrebbe dirle che questa notte ha visto i fantasmi? No, non è possibile. Se c’è ancora un minimo dubbio di razionalizzare questa notte, sia pure accettando di dichiararsi pazzo, Marcello è pronto a farlo. E sotto questa tiepida giornata di sole autunnale, con gli alberi ancora quasi del tutto vestiti di foglie rosse e gialle, è ancora più difficile pensare di aver veramente visto… dei morti parlare. La Mariuccia sorride con la sua bocca da ottantenne sdentata attendendo una risposta da Marcello, che, dopo essere uscito dall’auto, in piedi davanti a lei, la guarda imbarazzato. Una scusa, urge trovare una scusa per essere stato sorpreso a dormire in auto nel giardino di casa. “Sono arrivato molto tardi, stanotte. Ero uscito con Cristiano, lasciando il cancello aperto. Ma quando sono arrivato qui mi sono accorto di aver perso le chiavi della porta di casa”. “Ma tesoro, potevi chiamarmi, sarei venuta ad aprirti io con le chiavi che mi hai lasciato. Lo sai che alla mia età abbiamo il sonno leggero!”. “No, era molto tardi e non volevo svegliarti”. “Ma tses propi an po’ fol![3] Vieni da noi che ti preparo la colazione. Abbiamo il latte appena munto e, se vuoi, puoi bere un uovo fresco delle mie galline”.
Marcello accettò volentieri l’invito, anche per ritardare il momento in cui sarebbe ritornato in casa. Doveva recuperare le borse, il computer, il lavoro. Ne avrebbe fatto volentieri a meno, ma sarebbe stato piuttosto impossibile tornare a Parigi senza un soldo in tasca, con portafogli, carte di credito e documenti lasciati nella sua cameretta. Naturalmente escludeva del tutto un’altra notte nella casa. “Non so cosa possa essere successo lì dentro, o più probabilmente all’interno della mia testa. Ma io in quella casa non ci dormirò mai più. Di questo sono sicuro” – pensava Marcello camminando piano accanto alla contadina, tentando di uniformare il suo o a quello lento e un po’ incerto della donna. Dietro di loro, sbadigliando ed annusando l’aria, li seguiva Bobo portando fra i denti un grande sasso appena raccolto. La casa dei contadini, una grande cascina, distava poche centinaia di metri. Mariuccia mise la sua mano sotto il braccio di Marcello stringendolo con tutta la tenerezza e la familiarità che si riserva ad un nipote o ad un parente. “Hai visto Marcello che a San Gremo siamo rimasti anche senza parroco? Quel falabrac se n’è scappato. Era così spaventato! Troppa paura di quello che sta capitando in questo paese. Beato te che stai lontano, in Francia!”. “Cosa succede in paese, Mariuccia? – chiese Marcello fingendo un eccessivo quanto falso stupore per mascherare l’inquietudine che stava crescendo dentro di lui – perché pensi che il parroco sia sparito per paura di qualcosa? Mi hanno detto che aveva il vizio delle massaggiatrici. Magari se n’è andato in Thailandia, lì i massaggi speciali costano poco”. “Cul crin! Quel maiale. Si è venduto anche i banchi della chiesa… per fase bel, cun le sue picie!”[4] – dice Mariuccia, usando il vocabolo più volgare che Marcello le avesse mai sentito pronunciare. “E anche il portone si è venduto! Ma non è scappato per questo” – continua Mariuccia con la sicurezza di un dato di fatto che ormai nessuno degli abitanti del paese contesta più. “E’ scappato perché aveva paura di qualcosa di molto spaventoso che aveva visto! Nella chiesa, di notte, succedono cose brutte. E nen mac en tla gesia, d’armagi, non solo nella chiesa, purtroppo. Nessuno seguiva più i vespri: in chiesa dopo il tramonto… ma, lasciamo perdere, che tu sei istruito e a queste cose non ci hai mai creduto. Ma noi siamo ignoranti. Forse è per questo che loro
hanno scelto questo paese per tornare”. “Loro chi?” chiese Marcello conoscendo bene la risposta. Che non arrivò. La Mariuccia accelerò il o entrando nell’aia della sua cascina, lasciando in sospeso la domanda di Marcello. Furono circondati da tre cani di piccola mole, arrivati di corsa dal fondo del cortile che, per la presenza di Bobo, li accolsero con la ringhiosa diffidenza di chi difende il proprio territorio da invasioni. Ma bastò un urlo con un comando secco della Mariuccia, perché i tre cani si allontanassero a testa bassa e coda fra le gambe. Bobo, socievole come sempre, li seguì e concesse senza problemi il suo posteriore alle narici indagatorie dei tre cagnetti che si convinsero così della sua sottomissione. Dopo pochi secondi, la pace era stipulata e Bobo seguì i nuovi amici nel divertente gioco di inseguire le galline starnazzanti nell’aia mentre Marcello e Mariuccia entravano nella casa. Mariuccia viveva col marito, quasi novantenne e con un figlio cinquantenne, ritardato, forte come un toro dal carattere dolcissimo, in una convivenza di tipo contadino e patriarcale ormai molto rara anche nei piccoli centri agricoli. Tutta la famiglia continuava, nonostante l’età ed i problemi di salute, ad occuparsi dei conigli, delle galline, dei campi di granoturco e di soia come avevano fatto per tutta la vita. Nei momenti liberi, poi, si occupavano da sempre anche del grande giardino della casa di Marcello, tagliandone l’erba e potando, di tanto in tanto, gli alberi di alto fusto. Mariuccia fece entrare Marcello nella grande cucina dove, davanti ad un antiquato televisore in bianco-nero sintonizzato su una televendita, stavano seduti Cecu e Gosto, rispettivamente marito e figlio. Cecu stava spiegando al figlio che quel bellissimo quadro con la mucca nel prato costava molto caro, e che non sarebbe bastato telefonare alla presentatrice per riceverlo ma bisognava anche pagarlo. “Ma lei ha detto che basta una telefonata. E in un giorno ce lo consegna a casa. Quella bella signora ce lo porta proprio lei, qui! – diceva sorridendo Gosto a suo padre – telefoniamo alla bella signora”. Cecu, con l’aria un po’ esasperata di chi è costretto da troppi anni ad inutili spiegazioni, alza gli occhi sulla moglie accorgendosi solo in quel momento della presenza di Marcello.
“Ciao Marcello, bentornato! Che piacere rivederti. Spiegalo tu a Gosto che se compriamo quel quadro con la mucca, non viene quella bella presentatrice a portarcelo a casa. Al massimo viene Cristiano, il tuo amico postino”. “Se viene Cristiano a portare il quadro, non lo voglio più. Allora non telefoniamo – poi con un sorriso larghissimo si alzò per abbracciare Marcello con le sue enormi e muscolose braccia – Ciao Marcello, sei venuto a trovarci? Io lo so che abiti lontano dove non capiscono nemmeno l’italiano. Sei tornato per questo vero? Così puoi parlare in italiano e in piemontese. Noi siamo capaci”. Marcello abbracciò Gosto senza riuscire neppure a circondarne il torace, tanto era alto e grosso. “Ciao Gosto, hai ragione, voi siete bravi a parlare italiano e piemontese. Per questo sono venuto a trovarvi”. In pochi minuti Mariuccia imbandì il tavolo per la colazione di Marcello con una grande tazza di caffé e latte posando poi sul ripiano un piatto di tomini elettrici, dall’intenso aroma di aglio e peperoncino. Poi, sedendosi accanto a lui, come per riprendere un discorso interrotto, iniziò a raccontare di alcuni episodi di cui “la gente” parlava nel paese. “Dicono che sono tornate le masche. Ci sono streghe in giro per il paese, streghe brutte, che sembrano dei morti disseppelliti”. “Li hai visti anche tu, Mariuccia?”. “No, io no. Ma Gosto una notte ha visto Capplasa, ti ricordi che ne parlavamo tanti anni fa, quella donna morta nel 1950, che tutti sapevano che era una masca e che di notte si trasformava in gatto per mordere i neonati nelle culle. Tu lo sai com’è fatto Gosto. Così tutti abbiamo pensato che se lo fosse sognato”. “No, io non l’ho sognato! Io ho visto la masca Capplasa, di notte, mentre loro dormivano, seduta qui in cucina. E sai cosa stava facendo?” “Lascia stare, Gosto, non spaventare Marcello” – disse Mariuccia, tentando di fermare il racconto del figlio. “No, lascia che mi racconti. Dimmi Gosto, cosa stava facendo Capplasa?”. “Aveva in braccio un bambino piccolo piccolo pieno di sangue e se lo stava mangiando”.
“E tu cosa hai fatto?”. “Volevo salvare il bambino, allora gli sono saltato addosso, vedi quella sedia rotta? Sono stato io. Ma Capplasa si è trasformata in un gatto enorme ed è scappata dentro il camino portando il bambino che sgocciolava sangue fra i denti”. Cecu che aveva taciuto fino a quel momento intervenne: “Noi non ci abbiamo mica creduto… sai com’è fatto Gosto… ma al mattino quando Mariuccia ha fatto le pulizie, ha trovato in quell’angolo una grossa macchia scura. Sembrava proprio sangue”. “Io non racconto bugie. I bugiardi vanno all’inferno”. – disse Gosto con espressione offesa. “Lo sai, Marcello – continuò la Mariuccia – che trent’anni fa, quando c’era ancora la tua povera nonna, era già successo che nel paese ci fossero delle apparizioni. Poi, di colpo, dopo circa un mese, tutto era tornato normale! Magari anche questa volta sarà così. Ci sveglieremo un mattino e tutto sarà tornato normale”. “Sì – aggiunse Gosto che era molto religioso – e ci sarà di nuovo un prete per dire la messa a San Gremo”. “Povero Gosto – disse sua madre sorridendo con tenerezza e accarezzandogli la testa – ogni mattina va in bicicletta fino al paese vicino per seguire la messa”. In quel momento udirono il rumore di un motorino e un grido dal cortile: “Marcello!” La Mariuccia guardò dalla finestra poi disse: “E’ Cristiano, il postino. Forse ti chiama perché c’è della posta per te”. Marcello intinse un ultimo pezzo di pane nel caffelatte e, alzandosi, disse: “No, credo che Cristiano debba parlarmi di una cosa. Grazie per la colazione. erò a salutarvi prima di partire”. Gosto, con le lacrime agli occhi, volle abbracciare Marcello prima di lasciarlo uscire e, mentre lo teneva stretto (facendogli quasi mancare il respiro) gli disse: “Diglielo a Cristiano di non portarmi il quadro con le mucche. Non lo voglio più”.
Sorridendo Marcello accarezzo la guancia di Gosto asciugandogli una lacrima e uscì dalla casa andando incontro a Cristiano che lo attendeva sull’aia. “Brutta notte vero?” – gli disse subito l’amico guardandolo negli occhi. “La più brutta della mia vita” – rispose Marcello mentre si guardava intorno per vedere dove si fosse ficcato Bobo. Cristiano, sventolando due buste, gridò verso la casa: “Mariuccia, ci sono le bollette della luce, ve le lascio nella buca. E lascio anche qui il motorino, o a ritirarlo dopo – poi voltandosi verso Marcello disse a bassa voce – immagino che tu abbia deciso di tornare subito a Parigi”. “Sarei già partito, se non avessi lasciato tutte le mie cose in camera mia, nella casa. E ti assicuro che non ho nessuna voglia di rientrarvi. Mi sto cagando addosso al solo pensiero”. “Che io sappia le “apparizioni” sono avvenute quasi tutte di notte – disse Cristiano – comunque se vuoi, ti accompagno io, tanto il mio giro per oggi l’ho già finito”. “Ah beh, se ci sei tu con me, avrò sicuramente meno paura. Non sapevo che tu fossi un apprendista esorcista. O forse sei così strafatto da scambiare uno zombie per Marylin Manson? Sappi che ho visto delle cose terribili”. “Tipo?” “No, mi spiace, non ho nessuna voglia di raccontare. Comunque, ti ringrazio… sono ben contento se mi accompagni in casa a prendere le mie cose”. “Bene, così se vedo Marylin Manson gli chiederò di suonarmi un pezzo”. I due amici si avviarono verso la casa seguiti da Bobo che teneva fra i denti un sasso enorme. Mentre si avvicinavano al cancello videro una grande ed elegante auto nera posteggiata proprio di fronte all’ingresso. Davanti ad essa i due individui vestiti di nero che avevano già incuriosito Marcello la sera prima, stavano sporgendosi attraverso la rete nella proprietà. Uno dei due, con una macchina fotografica munita di un potente teleobiettivo, stava scattando delle fotografie alla casa di Marcello.
“E quelli cosa vogliono? – gridò Marcello accelerando il o – ehi, voi, cercate qualcuno?” Ma quelli, sorpresi, alzarono lo sguardo verso Marcello e di corsa risalirono sull’auto. Con una manovra azzardata, facendo urlare il motore fuori giri, fecero una velocissima retromarcia, sfiorando Cristiano e Marcello e rischiando di investirli. Poi, sempre ad alta velocità, sgommando imboccarono la strada provinciale, in direzione della piazza del paese e scomparvero alla prima deviazione. “Ehi, facce da culo, che cazzo volete?” – urlò Marcello accennando un inutile inseguimento a piedi. “Tanto non ti avrebbero detto nulla. – disse Cristiano – in molti hanno cercato di sapere che cosa fanno quei due qui in paese. Ma, niente da fare. Quelli non parlano, Si limitano a fare domande. Tra l’altro temo sia colpa mia se sono venuti qui oggi. Stamattina, sono ato in studio da Bettina per portarle la posta. Di solito facciamo anche due chiacchiere. Loro erano in sala d’aspetto e quando io e lei abbiamo parlato di te, sai del fatto che mi avevi chiamato stanotte completamente sconvolto, loro devono aver sentito qualcosa”. “E cosa ci facevano nella sala d’aspetto di una veterinaria? Non mi pare che abbiano animali con loro”. “Probabilmente volevano farle delle domande. In paese le voci circolano. Avranno saputo che anche lei ha avuto delle… ehm… apparizioni. Te l’ho detto, stanno facendo domande a tutti in paese. Forse volevano farne anche a te”. “Scappando non mi sembra il modo migliore per ottenere delle risposte. Sono stufo di misteri, uomini neri e apparizioni. Io stasera sarò a casa mia a Parigi e tutto questo mi sembrerà un brutto sogno”. “Vuoi proprio tornare allora. Peccato. Sai stamattina Bettina mi ha detto…” Marcello si fermò di colpo e fissò negli occhi Cristiano. “Cosa… cosa ti ha detto Bettina?” disse tentando di mascherare il tremito della voce. “Bettina ci avrebbe tenuto molto a vederti. Me lo ha detto stamattina. Ieri sera ci
ha visti in piazza ma non se l’è sentita di avvicinarsi. Non vi parlate da un sacco di tempo… e poi, è ancora molto scossa per la morte del figlio, non se la sentiva ieri sera di parlarne. Però aveva molta voglia di confidarsi con te. Mi ha detto di dirti che oggi lei sarebbe stata tutto il giorno nel suo studio per le visite… se decidi di are, magari prima di partire, le faresti molto piacere. Sono sicuro”. Un groppo chiuse la gola a Marcello mentre entravano nel giardino di casa. Il pensiero di Bettina in quella tiepida mattina di un autunno mite, il colore rosso vivo degli alberi e il profumo ancora intenso del mosto e delle vendemmie finite da poco causarono a Marcello un senso di dejavu, che per un attimo lo riportò agli anni della sua adolescenza in quella casa. E Bettina, con la sua spensierata allegria di quindicenne, faceva parte di questa emozione ritrovata: quella degli anni in cui tutti i pensieri di Marcello erano rivolti a lei. In un attimo l’immagine di Bettina, del suo sorriso, dei suoi piccoli seni inesistenti, delle sue calze a strisce multicolori resero irreali le paure e le emozioni di quella notte, la voglia di ripartire subito per la Francia parve a Marcello irrazionale ed infantile. Pensare a Bettina fu come gustare una «madeleine» proustiana, come immergersi nel «vert paradis des amours enfantines», il verde paradiso degli amori infantili. Se i morti erano tornati, non sarebbe bastato fuggire a 600 chilometri di distanza per cancellare ciò che li aveva fatti tornare e per evitare di ritrovarli ancora davanti a sé. E il fatto che Bettina avesse avuto forse un’esperienza terribile simile alla sua, gli faceva desiderare di starle vicino, con quello stesso senso di intesa e di solidarietà che unisce chi ha condiviso un periodo bello e intenso della propria vita. “Devo vedere gli orari dei TGV – disse a Cristiano – magari ritardo la partenza, prendo quello notturno e oggi o a trovare Bettina”. Il sorriso dell’amico e una stretta al braccio fecero capire a Marcello che quello era proprio ciò che Cristiano aveva sperato di sentirgli dire. “Ci facciamo una cannetta mentre andiamo a recuperare le tue cose nella casa?” – disse sorridendo Cristiano mentre estraeva di tasca le cartine. “Mi sembri matto. Per quel che mi riguarda, sono già abbastanza sconvolto così. Ma tu piuttosto… non cresci mai? Abbiamo 45 anni. Stiamo per entrare in una casa in cui ho visto… ho visto… credo di aver visto dei fantasmi. E tu mi
proponi un cannone, giusto per tranquillizzarmi. Ma vaffanculo, va’!” “Era solo per rilassarci un pochino” – disse Cristiano riponendo in tasca le cartine. A denti stretti e con un certo tremore alle gambe, Marcello estrasse di tasca le chiavi di casa ed aprì la porta. Il primo ad entrare, come al solito, fu Bobo che, facendosi largo fra le gambe di Cristiano e Marcello, rischiando di farli cadere, entrò in casa lasciando rumorosamente cadere sul pavimento il sasso che teneva fra i denti. Marcello, nell’ingresso, restò paralizzato da una crisi di ansia davanti alla porta chiusa del salone. “E’ successo qui?” – chiese Cristiano indicando la stanza e appoggiando una mano rassicurante sulla spalla dell’amico. Marcello assentì col capo. “E allora, diamo un’occhiata” – disse risolutamente Cristiano abbassando la maniglia e spalancando la porta.
VII Dai vetri dell’ambulatorio veterinario filtrava un bellissimo sole autunnale grazie al vento che, dopo aver ripulito l’aria dalla pallida nebbia del mattino, staccava dai platani e dai tigli della via le poche foglie rimaste. Con un sospiro la veterinaria, spostandosi dalla scrivania al tavolo luminoso, pensò che era una delle ultime giornate di sole prima del lungo e nebbioso inverno di San Gremo. “Ecco qui: la radiografia ci dice… esattamente quello che speravamo” – disse la veterinaria all’anziana signora, osservando in trasparenza la lastra. “Allora la tosse della mia Fufi non nasce da problemi cardiaci…”. “No, per fortuna si tratta solo di tracheite. Del resto, come le avevo detto, la radiografia l’ho fatta solo per scrupolo: la tosse di Fufi è secca, stizzosa, tipica della tracheite mentre di solito la tosse cardiaca è più grassa, rumorosa. Ecco la ricetta per l’antibiotico. Glielo unisca alla pappa tre volte al giorno”. “Grazie dottoressa – disse la donna con un sospiro di sollievo prendendo in braccio il barboncino e accarezzandolo amorevolmente – ci vediamo la settimana prossima per il solito controllo”. Rimasta sola, la dottoressa Elisabetta Gavioli, per gli amici Bettina, si guardò al piccolo specchio sul muro dell’ambulatorio veterinario per concedersi una piccola pausa prima del cliente successivo. L’immagine rifletteva una donna di quarantadue anni a cui né la morte recente di un figlio, né le terribili emozioni provate nei giorni successivi a questo dramma, erano riusciti a scalfire la bellezza aristocratica del viso. Con le dita si stirò le leggerissime rughe ai lati degli occhi. Se Marcello fosse ato a trovarla (chissà se Cristiano glielo aveva chiesto) non voleva apparire troppo invecchiata. Da quanto tempo non si vedevano ma soprattutto da quanto tempo non si parlavano? Probabilmente l’ultima volta che si erano incrociati in paese era stato un paio di anni prima e, come le altre volte, lui aveva abbassato gli occhi e l’aveva salutata con un imbarazzatissimo “ciao” proseguendo velocemente senza fermarsi. Del resto le sue fuggevoli apparizioni in paese non superavano mai il paio d’ore e, da molti anni, Marcello non si era più fermato per are una serata in paese coi vecchi amici. Sembrava quasi che volesse evitare di dormire
nella casa dei suoi nonni, probabilmente, pensava Bettina, perché troppo umida e malandata. Insomma, non c’era più stato il tempo per tentare di ritrovare l’intesa e l’amicizia che li aveva uniti per tanti anni. Intesa e amicizia? Sicuramente era stato qualcosa di più, ma forse in quegli anni della loro adolescenza Marcello non aveva capito che sarebbe bastata da parte sua una richiesta un pochino più esplicita e un po’ meno scherzosa e cameratesca per iniziare una bellissima storia d’amore. Bettina, allora quindicenne, era innamorata di lui ma temeva che lo scoprirsi avrebbe rovinato la loro splendida amicizia fatta di piccole trasgressioni, confidenze e sogni. Così, quando da un giorno all’altro, dopo la morte della sua nonna, Marcello smise di frequentare il paese nelle vacanze e nei weekend, la loro storia non poté mai diventare quello che Bettina, pur nascondendolo gelosamente, avrebbe tanto desiderato. Gli anni e il tempo avevano relegato questo piccolo ma importante momento della sua vita nella zona dei ricordi struggenti, quelli di cui non si parla mai perché ci si vergogna nella maturità e si teme di essere considerati troppo romantici e legati al ato. Negli anni successivi la distanza tra Bettina e Marcello si era ancora più accentuata per le trame complesse delle rispettive vite che li aveva resi quasi due estranei: lei con un figlio, un matrimonio fallito, una laurea a pieni voti, un avviato studio professionale, lui con il trasferimento a Parigi e un lavoro creativo che gli aveva portato il successo e la fama di grande ed apprezzato autore di fumetti. La sera prima Bettina aveva visto in piazza Marcello e Cristiano ed era stata tentata di raggiungerli ricreando per una volta il vecchio trio di inseparabili. Ma poi non se l’era sentita: troppe cose da raccontare, la morte del suo bimbo e, soprattutto, quello che ne era seguito che ancora oggi la faceva dubitare della propria salute mentale. Ripensandoci poco dopo, però, mentre entrava nella sua casa ormai così vuota e silenziosa, si era pentita di non aver raggiunto i suoi vecchi amici e, soprattutto, di non aver tentato di ricreare il filo invisibile che l’aveva tanto legata a Marcello. Era lui la persona con cui, forse, avrebbe potuto confidarsi senza apparire come una povera pazza. Forse a lui avrebbe potuto raccontare di quel terribile pomeriggio. Il suo Michelino era morto da circa una settimana. E lei, per soffocare l’angoscia di quei tremendi giorni in cui di colpo la sua grande casa era piombata nel silenzio senza le grida e le risa del suo bambino, aveva trascorso le giornate a eggiare con la testa confusa e gli occhi umidi di lacrime sui sentieri della
collina che circonda il paese. Un pomeriggio, nel corso di una di queste eggiate camminando senza meta, era arrivata al Casotto della Bella Pierina, un luogo solitario che Bettina conosceva bene. Si trattava del rudere di una costruzione ormai quasi del tutto invasa da alberi e macerie, immerso in un boschetto di acacie, a non più di cinque minuti a piedi dalla sua casa. Le voci popolari raccontavano che nei due pozzi adiacenti al rudere e seminascosti dalle erbacce, nel 1945 i tedeschi in fuga avessero gettato armi e divise. Per questo rappresentava un luogo irresistibile per i bambini di San Gremo che, nonostante i divieti dei genitori dovuti alla pericolosità dei pozzi e all’instabilità del rudere, ne avevano fatto un luogo perfetto per i giochi di guerra. Anche Michelino, Bettina lo sapeva bene, aveva più volte disubbidito alle sue raccomandazioni ed aveva giocato fra gli anfratti diroccati del Casotto della Bella Pierina. Forse per questo Bettina era arrivata inconsapevolmente in quel luogo, attirata senza rendersene conto da cose e posti che avevano fatto parte della breve vita del suo bimbo. Ed era stato proprio quel giorno, in un tardo pomeriggio che stava sfumando verso il tramonto, che lo aveva visto. Prima un impercettibile raspare da un punto indefinito del rudere. Poi, una manina bianca che spuntava dal pozzo accanto al muro diroccato e infine… eccolo emergere del tutto e restare immobile con lo sguardo rivolto verso la madre. Il suo bambino. Bettina era rimasta a fissarlo con gli occhi sbarrati. “Questo non è possibile. – pensava – ora lo so per certo che sono impazzita. Si può impazzire per la morte di un figlio. E io ne sono la prova”. “Mamma ho tanto freddo” – aveva detto l’apparizione a Bettina prima di entrare e scomparire fra i ruderi del casotto. Bettina non lo aveva seguito. “Non si segue un’allucinazione” – aveva pensato, prima di voltarsi e tornare mestamente verso casa. Ma poi, nei giorni successivi, aveva sentito varie voci in paese. Molte persone, anche affidabili psichicamente e culturalmente, affermavano di aver visto cose spaventose, cadaveri decomposti che ritornavano dalle tenebre, donne morte con la fama di streghe, demoni dall’aspetto orribile. Bettina, comunque, non aveva parlato con nessuno di ciò che aveva visto, a parte un piccolo accenno vago a Cristiano a cui era legata da un’amicizia fraterna. Ed ora nel suo studio, in attesa di riprendere le visite, stava pensando che a Marcello
avrebbe potuto raccontare qualunque cosa. A costo di apparire completamente folle. Per questo quel mattino aveva detto a Cristiano di chiedere al loro amico comune di are da lei prima di ripartire per la Francia. Bettina buttò ancora un occhio fuori dalla finestra con la speranza di scorgerne l’arrivo di Marcello, ma vide solo, a qualche centinaio di metri verso la piazza, i due strani uomini vestiti di nero che, qualche ora prima, l’avevano subissata di domande sulla morte del figlio, e che lei aveva cacciato in malo modo. Ora se ne stavano là a parlottare appoggiati alla loro lussuosa berlina nera. Bettina si scostò dalla finestra e aprì la porta che collegava lo studio con la sala d’aspetto dicendo con un sospiro: “Avanti il prossimo”.
VIII Marcello restò immobile mentre Cristiano entrava nel salone della casa di nonna senza alcuna esitazione. Poi lo seguì circospetto, invidiando la sicurezza con cui l’amico si guardava intorno cercando di capire se nella grande stanza ci fosse qualcosa di anormale. Marcello non poteva sapere da cosa nascesse l’apparente coraggio di Cristiano. Perché non sapeva quello che il suo amico, solo pochi giorni prima, si era trovato davanti agli occhi. Cristiano, ora, pensava di non poter più provare alcuna paura: dopo le agghiaccianti entità con cui aveva avuto un indesiderato incontro nei giorni precedenti (di cui non aveva parlato a nessuno), era convinto che nulla potesse più spaventarlo. Cristiano aveva saputo tener testa alla grande al gruppo di bambini morti che, quella notte di una settimana prima, lo aveva atteso a mezzanotte di fronte alla porta di casa, per giocare con lui a mosca-cieca. “Senza utilizzare alcuna benda ma semplicemente cavandoti gli occhi” – gli aveva detto con un gelido sorriso il più grande dei bambini morti. “Vedi? Ora lo facciamo noi – aveva detto il bambino ficcandosi le dita nell’orbita ed estraendone il globo oculare – e cercheremo di prenderti. Poi toccherà a te, e per essere sicuri che tu non bari, gli occhi te li toglieremo noi”. Cristiano che in fatto di visioni spaventose aveva un buona esperienza considerando il numero di viaggi allucinogeni fatti con l’lsd, molti dei quali appartenevano sicuramente alla categoria dei “bad trip”, quelli che ti terrorizzano, quella notte non si era voltato per fuggire né si era messo ad urlare e neppure a pregare. Era rimasto a bocca aperta a fissare quei poveri corpi di bimbi semi-putrefatti con la stessa stupita curiosità con cui aveva danzato con gli uomini-lucertola in un'allucinazione causata dall'acido qualche anno prima. E, chissà perché, forse delusi dalla reazione di Cristiano, i bambini morti avevano deciso di cambiare gioco e… compagno di giochi. Canterellando una filastrocca infantile, si erano allontanati svolazzando a mezz’aria nella strada buia. Da quel momento Cristiano fu sicuro che nulla lo avrebbe più potuto spaventare nel futuro.
Per questo quel mattino entrò nella casa di Marcello con la tranquillità incosciente di chi non teme nulla. Marcello e Cristiano si guardarono intorno nella stanza senza scorgervi nulla di anormale: il grande pianoforte continuava a emettere i ticchettii delle zampine dei topi che lo abitavano. Cristiano li udì e rivolse uno sguardo interrogativo a Marcello. “Sono solo topi. Hanno fatto il nido nel piano”. Cristiano aprì il coperchio superiore dello strumento dicendo: “Odio tutti i topi tranne Topolino!” – e con un gesto fulmineo acchiappò uno dei topini per la coda sollevandolo verso Marcello. “Beccato! – poi voltandosi verso Bobo che lo osservava accovacciato, gli gridò – al volo! – gettandogli il topo come fosse una pallina. Bobo restò immobile senza fare neppure il tentativo di afferrare l’animaletto al volo. Si limitò ad osservarne la fuga con uno sguardo di superiorità e di totale disinteresse. I suoi occhi sembravano dire: "Mi avete scambiato per un gatto?”. “Ma possibile che il tuo cane adori giocare solo coi sassi? Fallo vedere da un cane-terapeuta, mi sembra matto!”. Poi i due amici iniziarono ad esplorare ad una ad una tutte le camere della casa. La cucina dove Marcello aveva avuto l’apparizione dell’uomo, poi quella della nonna dove, unico elemento inquietante, aleggiava un intenso profumo di rose. Infine entrarono nella camera di Marcello dove Cristiano si sedette sul letto attendendo che l’amico si cambiasse e preparasse le borse con cui era arrivato. “Sei sicuro di non voler restare qui? E’ una casa così bella!”. “Non ci erò mai più una notte, puoi starne sicuro, anzi penso che la affiderò ad un’agenzia per venderla. Mai più, mai più una notte qui dentro!”. “Così terribile? Potrei ospitarti a casa mia, se decidessi di are ancora qualche giorno qui a San Gremo. Da me il massimo che ti può succedere è di essere invitato a giocare a mosca-cieca da un gruppetto di bambini”. Marcello non capì quest’ultima frase di Cristiano ma, ritenendola una delle tante
battute ermetiche dell’amico, lasciò correre senza chiedere spiegazioni. “No, penso proprio che tornerò a Parigi”. “Ti manca la tua fidanzata?” Marcello lo guardò sorpreso. Non si ricordava di aver parlato a Cristiano di Josephine. E lui stesso pensando a Bettina aveva totalmente cancellato la presenza di una “fidanzata” nella sua vita. Questo la diceva lunga sull’intensità del suo rapporto con Josephine. “No, ho del lavoro urgente da terminare. Speravo di farlo qui ma, ora, non riuscirei più a lavorare in questa casa”. In pochissimi minuti Marcello, gettando le sue cose alla rinfusa, preparò le borse tradendo coi gesti affrettati e frenetici il desiderio di lasciare il più in fretta possibile quel luogo. Poi, dopo aver chiuso a doppia mandata il portoncino di ingresso (con il pensiero addolorato che probabilmente non avrebbe mai più varcato quella porta), attraversarono il giardino e Marcello apri il portellone dell’auto per far salire Bobo e per gettarvi la borsa del computer e il trolley. “Ci vedremo ancora oggi prima della tua partenza, o ci abbracciamo subito, vecchio stronzo?” chiese Cristiano appoggiando una mano sulla spalle di Marcello e guardandolo negli occhi con quello sguardo di sincera amicizia che li legava da sempre. “Abbracciamoci comunque, tossico di merda. Ma andrò via solo verso l’ora di cena. Magari ci incontriamo ancora in paese più tardi. Per ora vado in studio dalla Bettina. Poi non so”. "Meglio salutarci per bene allora. Mi sa che se vai dalla Bettina, lei ti monopolizzerà per tutto il giorno e chissà che riesca a convincerti a non partire. Sicuramente lei… ha argomenti migliori dei miei. In questo caso… avremo solo sprecato un abbraccio. Poca cosa, amico mio!”. Marcello guardò con tenerezza l’amico che si allontanava verso la cascina di Mariuccia per recuperare il suo motorino, poi salì in auto dirigendosi verso la piazza del paese. Fermò l’auto sulla piazza davanti alla chiesa deciso a percorrere a piedi le poche centinaia di metri per raggiungere lo studio di Bettina.
“Che bella giornata di sole, è raro in questa stagione – pensò Marcello respirando a pieni polmoni il profumo della campagna e delle prime foglie morte sul pavè della piazza – con una giornata come questa, la notte che ho trascorso sembra così irreale, uno di quegli incubi da cui ci si sveglia facendo fatica a riacquistare il senso della realtà”. Scese dall’auto, aprendo il portellone posteriore perché Bobo potesse scendere, ma il cane stava dormendo profondamente e non si mosse. E proprio mentre stava per chiamarlo, alzando gli occhi verso il portone della chiesa, vide una donna che stava per entrarvi. Una donna molto anziana, elegantemente vestita. Un attimo prima di entrare in chiesa, come se fosse stata chiamata, la donna si voltò verso Marcello e gli sorrise. Lui spalancò gli occhi rabbrividendo. La donna assomigliava in un modo impressionante alla sua nonna. Era la sua nonna, Marcello ne fu quasi certo. La donna entrò nella chiesa lasciando che il portone si chiudesse lentamente alle sue spalle. Allora Marcello, senza neppure chiudere il portellone dell’auto, seguì l'impulso improvviso di correre verso la chiesa. E mentre ne apriva il portone per entrare, non vide che in un angolo della piazza, immobili, i due uomini vestiti di nero osservavano con attenzione i suoi movimenti. Dalle alte vetrate a cattedrale penetravano i raggi del sole creando degli strani giochi di luce colorata nella semioscurità. La chiesa sarebbe stata completamente deserta se non ci fosse stata la figura di spalle inginocchiata nel primo banco davanti all’altare. Marcello esitò fermandosi all’ingresso accanto all’acquasantiera in marmo. Guardò verso il primo banco, incerto su cosa fare. Ancora un fantasma? In una giornata di sole come questa? Non era possibile. Tornò a contraddire se stesso ben sapendo che dopo la notte appena trascorsa nessuna delle sue certezze aveva più alcun valore: “Non esistono i fantasmi e meno che mai in una giornata di sole”. Marcello camminò lentamente lungo la navata centrale. Quando fu dietro alla donna si fermò fissandone la nuca coperta dal velo. Era la sua nonna, non aveva alcun dubbio. Marcello sussurrò: "nonna…" – muovendo appena le labbra. La donna, lentamente si voltò verso di lui. Molto lentamente.
Era una donna sconosciuta. Guardò Marcello incuriosita poi si voltò nuovamente e si immerse nella preghiera. Ma come aveva fatto a scambiarla per la nonna? Non c’era nessuna rassomiglianza nel viso della donna. Forse, vagamente, il taglio dei capelli o il portamento eretto nonostante l’età. “Sto cominciando a dare veramente i numeri – pensò Marcello guardandosi intorno e tentando di lasciarsi catturare dal senso di pace che le chiese sanno comunicare anche ai non credenti. Tentò di calmare la tachicardia che gli toglieva il fiato concentrandosi sulle architetture della chiesa tutte rivolte al raccoglimento e alla serenità, lasciando che il profumo di incenso si intrufolasse attraverso le sue narici per raggiungere direttamente il cervello. La chiesa di San Gremo, poi, era bellissima. A parte l’oltraggio al buon gusto, attuato da don Bernardo, con la sostituzione dei banchi antichi e del portone originale. A parte l’antiestetica installazione di un grosso ripetitore telefonico proprio sulla cima dell’alto campanile. Da molti anni Marcello non entrava in quella chiesa. Si fermò ad osservare i piccoli altari laterali con le reliquie di qualche santo: piccole scatolette colme di ossa, illuminate da lumini di vetro vermiglio. Poi camminò verso l’altare principale e lo aggirò entrando nell’abside posteriore. Quante volte da bambino, ando attraverso la porticina che comunicava direttamente con l’oratorio, con gli amici, si era introdotto per gioco nel coro. Quella zona buia della chiesa era rimasta esattamente come se la ricordava. Stranamente don Bernardo non aveva venduto (per lo meno non ancora) i bellissimi stalli di quercia massiccia intarsiati e scolpiti con bassorilievi che correvano ad anfiteatro occupando tutta la zona posteriore dell’altare principale. Nelle messe solenni il coro si riempiva dei vari gruppi di cantori e delle ragazze della confraternita delle Figlie di Maria. La bellezza solenne di quel luogo lo incantò. Si ritrovò ad accarezzare quel legno antico reso liscio come uno specchio da centinaia di anni di strofinii, e attriti con gli abiti dei coristi. In questa zona buia della chiesa il profumo di incenso pareva più forte, forse per l'oscurità che acuisce l'olfatto o forse perché i suoi vapori avevano impregnato, anno dopo anno, il legno degli stalli.
Poi Marcello alzò gli occhi verso le due porticine che si aprivano a lato del coro. Una era quella che comunicava direttamente con l’oratorio l’altra era quella che portava nel vano del campanile. Seguendo il filo dei ricordi Marcello camminò verso quest’ultima: era un luogo vietatissimo ai bambini dell’oratorio e naturalmente era il luogo più frequentato quando essi riuscivano ad eludere la sorveglianza del parroco. Il gioco preferito era quello di attaccarsi alle funi campanarie e lasciarsi trascinare verso l'alto dal peso delle campane. Entrando nel vano del campanile Marcello si ritrovò in un locale perfettamente quadrato di circa tre metri di lato con le pareti di mattoni nudi, al centro del quale pendevano quattro funi campanarie del diametro di una decina di centimetri, leggermente sfilacciate in più punti dall’usura di moltissimi anni di utilizzo quotidiano. Qualcosa come un'eco indistinta spezzava il silenzio del luogo. Un brusio che assumeva via via il timbro del frinire di molti uccelli ma che a momenti cambiava di tono trasformandosi in qualcosa di molto simile alle voci dei bambini quando stanno giocando. Poi le voci dei bimbi divennero predominanti rispetto a tutti gli altri rumori. Voci che provenivano dall'alto, forse addirittura dalla cima del campanile. Che si interruppero di colpo trasformandosi in bisbigli quando Marcello fu al centro della stanza. "Che ci faranno dei bambini nel campanile a quest’ora? – pensò Marcello – Non dovrebbero essere a scuola? E oltretutto, dopo l’incidente per cui, proprio in questo quel luogo, è morto il figlio di Bettina, non avrebbero dovuto le autorità rendere inaccessibile a chiunque il vano del campanile?”. Marcello, turbato dal silenzio improvviso, guardò verso l’alto. Le funi provenivano da quattro fori al centro di un soppalco di legno a qualche metro di altezza. Oltre il soppalco, che ne sbarrava la vista, Marcello ricordava la vertiginosa prospettiva dell’interno del campanile verso la cella campanaria situata a circa 25 metri di altezza. Colto da un improvviso impulso, Marcello non resistette alla tentazione di ripetere il gesto che tante volte aveva fatto da bambino: si aggrappò ad una delle funi tirandola verso il basso e, come il suono della campana rimbombò fra le pareti del campanile, Marcello venne trascinato verso l’alto per oltre due metri provando la sensazione di sfiorare col capo il soffitto intermedio. Poi la fune lo riportò dolcemente verso terra prima di riprendere il percorso inverso con la successiva oscillazione della campana. Il
figlio di Bettina doveva essere morto proprio per un gioco simile. Disturbati dal suono improvviso della campana, molti uccelli e pipistrelli presero a svolazzare freneticamente all’interno del campanile fuggendo all’esterno dalle feritoie delle pareti. Evidentemente don Bernardo aveva preferito non concedere spazi alle nuove tecnologie del suono con campane e trasmesse via altoparlanti computerizzati. Nella maggior parte delle altre chiese della zona, ormai, le campane erano solo un elemento decorativo e don Bernardo era molto fiero di sottolineare nelle sue prediche di aver contribuito alla conservazione di un’importante tradizione religiosa. I maligni, naturalmente, non mancarono di sottolineare il fatto che il parroco fosse tanto nemico della tecnologia se significava sborsare denaro per l’impianto campanario computerizzato mentre si era dimostrato estremamente aperto (e ben retribuito) verso la tecnologia dei telefoni cellulari, concedendo addirittura la sostituzione della croce antica posta al culmine del tetto del campanile con uno squallido ed imponente ripetitore. Il fatto che quello di San Gremo fosse uno degli ultimi campanili muniti di campane a corda, pur rappresentando un fatto estremamente positivo dal punto di vista della salvaguardia delle tradizioni, si rivelò comunque pessimo dal punto di vista anche dei più tradizionalisti abitanti del paese. Infatti, non essendoci nella parrocchia né un sagrestano né un campanaro, sarebbe toccato a don Bernardo l’azionamento delle campane e, da quando il prete se ne era fuggito da San Gremo, il campanile non annunciava più né funzioni religiose né eventi paesani come incendi, agonie, funerali. L’unica voce del campanile era rimasta quella dell’orologio, comandato da un vecchio meccanismo ad ingranaggi, che continuava automaticamente a battere come sempre i suoi rintocchi ad ogni ora del giorno e della notte. Se ne accorse Marcello con un sussulto, quando di colpo, amplificato dagli alti muri del campanile, giunse la sequenza dei dodici rintocchi di mezzogiorno. Talmente forte da costringerlo a tapparsi le orecchie. Talmente forte da non accorgersi che, di colpo, le voci e i bisbigli dei bambini provenienti dal vano del campanile erano nuovamente cessati. E a non sentire l’arrivo, alle sue spalle, di una muta presenza. Dopo il dodicesimo rintocco un silenzio quasi irreale ha invaso il vano del campanile.
Ora, fermo dietro di lui, un bambino guarda silenziosamente Marcello. Sentendosi osservato, Marcello si volta e sobbalza. Il bimbo che lo sta guardando ha qualcosa di famigliare. Lo sguardo serio, intenso e gli occhi fissi su di lui. “Ciao” – dice Marcello tentando di vincere il senso di inquietudine. Invece di rispondere il bimbo gli chiede: “Hai visto la mia mamma?”. "Ma io non conosco la tua mamma" gli risponde Marcello. "Invece sì. La conosci." – dice il bimbo, nascondendo con la mano una risatina maliziosa, prima di voltarsi ed andarsene. Marcello non ha la forza di seguirlo. Il pensiero che gli trapana il cervello è di aver appena incontrato… il figlio di Bettina. Ancora un fantasma. O forse no. Forse semplicemente un bimbo che cercava sua madre. (Nel campanile?) Sì, nel campanile. Marcello guarda verso l’alto per cogliere altre voci di bambini, magari i compagni di gioco di quello che aveva appena incontrato. Ma ora il campanile è muto e (forse) lo sarà fino al prossimo rintocco dell’orologio, alle 13. Marcello torna sui suoi i ando velocemente attraverso il coro dietro all’altare. Nessuna traccia del bambino né nell’abside né fra i banchi della chiesa. La donna che prima pregava davanti all’altare, quella che lui aveva scambiato per la nonna, non c’è più ed ora la chiesa è completamente deserta. Marcello esce dal brutto portone ritrovandosi sulla piazza assolata. Davanti a lui, a una decina di metri, c’è la sua macchina così come l’ha lasciata, col portellone posteriore aperto. Quando la raggiunge si accorge che il suo cane, che aveva lasciato addormentato nel vano posteriore, non c’è più. Con un moto di irritazione, percorre con lo sguardo tutta la piazza. “Deficiente di un cane!” – mormora. Poche persone chiacchierano fuori dal bar trattoria, mentre dall’altro lato della piazza la farmacista sta abbassando la saracinesca per la pausa pranzo, e in fondo sulla destra il luna-park è muto con le giostre immobili. Nessuna traccia di Bobo. Poi qualcosa attrae la sua attenzione. In un angolo seminascosto dai bidoni della spazzatura differenziata, Marcello coglie un movimento. “Ma guarda se è il caso
che il mio cane vada a rotolarsi nell’immondizia. Con un treno da prendere stasera!” – pensa, dirigendosi velocemente verso i bidoni. Ma il movimento che ha visto Marcello, non era causato da Bobo. Infatti, come arriva a pochi metri dai contenitori, si accorge che qualcuno, non un cane ma una persona, sta tentando di nascondersi rannicchiandosi dietro di essi. “Chi è là? Hai bisogno di aiuto?” – dice Marcello pensando ad un barbone ubriaco che ha ato la notte sotto i grandi bidoni della spazzatura. Marcello ha da sempre fatto sua l’abitudine dei parigini di dare, in caso di necessità, una mano ai clochard, che a Parigi sono considerati una vera e propria istituzione. Ma come si avvicina ulteriormente al bidone, con un balzo improvviso, ne sbucano, uno dopo l’altro i due uomini vestiti di nero, uno dei quali tiene fra le mani una macchina fotografica con un potente teleobiettivo. I due tentano di darsi precipitosamente alla fuga ma Marcello questa volta è pronto a non lasciarsi distanziare. “Adesso mi sono rotto i coglioni. Cosa stavate fotografando? Ce l’avete con me?” grida afferrando per un braccio il più vicino dei due, quello con la macchina fotografica, mentre l’altro riesce a fuggire velocemente verso la macchina posteggiata a poche decine di metri. Marcello, sempre più furioso, trattiene l’uomo con un braccio e con l’altro tenta di colpirlo sul volto. Nella colluttazione cadono entrambi per terra ed anche la macchina fotografica sfugge dalle mani dell’uomo rotolando violentemente a qualche metro di distanza con un fragore di vetri rotti. “Bene, almeno l’obiettivo è andato.– dice Marcello mentre sta per assestare un pugno sul viso dell’uomo – ora tocca alla tua faccia pezzo di merda!” Alle spalle di Marcello, però, arriva ad alta velocità l’auto guidata dall’altro uomo nero. Spaventato dalla frenata a pochi centimetri dalla sua testa, Marcello perde la presa sull’uomo che stava trattenendo. Quello con un balzo si divincola, si alza, raccatta a terra quel che resta della sua macchina fotografica, senza preoccuparsi di recuperare la batteria e i pezzi fuoriusciti dal corpo macchina aperto, e, con un balzo, salta a bordo dell’auto che fugge sgommando. Marcello resta per un attimo seduto in terra cercando di riprendere il fiato quando si sente leccare sul collo. Bobo è arrivato alle sue spalle, ha posato in terra il sasso che teneva fra i denti ed ha iniziato teneramente a baciare il suo padrone. Marcello si guarda intorno per vedere se c’è stato qualche testimone della colluttazione, vergognandosi un po’ di non essere riuscito a bloccare i due
strani personaggi, ma ora la piazza appare deserta, come sempre nell’ora di pranzo. “Visto cane stupido? Tutta colpa tua. Se non venivo a cercarti…” – Marcello si interrompe di colpo: guardando in terra vede tra i frammenti di vetro dell’obiettivo, seminascosto dalla piccola batteria nera, qualcosa che attrae la sua attenzione. “Se è quello che penso… forse riusciremo a capire qualcosa di più su quei due – dice rivolto al cane, allungando una mano verso un piccolissimo oggetto azzurro. – Bingo! La scheda memoria della macchina fotografica. Così scopriremo cosa fotografavano di nascosto”. Avviandosi verso la casa di Bettina, dopo essersi spolverato i pantaloni impolverati, Marcello fa un cenno a Bobo perché lo segua. "Abbiamo già perso fin troppo tempo, stasera dobbiamo partire assolutamente, ma prima voglio parlare con Bettina. Andiamo a vedere se è ancora in studio. Magari potremo mangiare qualcosa insieme”. Bobo che comprende perfettamente la parola “mangiare”, scodinzola festoso al suo padrone e lo segue senza indugio mordicchiandogli affettuosamente le caviglie.
IX Mentre cammina lentamente verso la casa del suo primo amore, forse per un senso di colpa nei confronti di Josephine o forse semplicemente per ristabilire un contatto con la sua realtà di vita quotidiana, dopo una parentesi tanto irreale quanto inquietante, Marcello decide di chiamare il numero della sua casa di Parigi. Sa che ci troverà Josephine intenta a dirigere una squadra di imbianchini e donne delle pulizie per uno di quelli che lei chiama i periodici rinnovamenti de la maison. Il telefono squilla una sola volta prima che la voce allegra di Josephine risponda: “Allò?”. “Josephine?”. “Amore! Sei riuscito a trovare una zona in cui puoi usare il cellulare! Tutto bene? Mi sembra quasi di sentire la puzza di mucca uscire dalla cornetta!”. Marcello sorrise mentendo spudoratamente. “Sì amore, va tutto benissimo. Mi sono spostato fuori paese così ho potuto chiamarti, sai, solito problema coi cellulari. Comunque sto lavorando alla grande. Torno presto!”. Sto lavorando alla grande. Cellulari che non funzionano. Tutto benissimo. Marcello era riuscito a riunire in una sola frase ben tre bugie per Josephine. E non riusciva a razionalizzarne il perché. Forse perché stava per rivedere Bettina? Forse perchè questo pensiero lo allontanava da ogni legame con la sua vita di tutti i giorni? Marcello rinunciò a darsi una risposta mentre Josephine, con la solita allegria inconsapevole di sempre gli rispondeva: “No, non devi tornare presto, amore! Ti sto preparando una sorpresa ma l’architetto-arredatore che ho coinvolto ha bisogno di qualche giorno. Non riconoscerai più la tua casa!”. “Un architetto-arredatore? Splendido, la mia casa ne aveva proprio bisogno!” – rispose Marcello sperando non si notasse l’ironia del suo tono.
“Aspetta Marcello, ti voglio far salutare da una persona che ti conosce”. “E chi è? – chiese Marcello incuriosito. Poi sentì un parlottio di Josephine e il rumore della cornetta ata di mano. “Pronto chi parla?”. “Mmmhhhhhan!” Un mugolio sgraziato e incomprensibile raggiunse l’orecchio di Marcello. “Come?”. “Mnmhnnnm!”. Dopo un attimo, nuovamente la voce di Josephine: “Amore, l’hai riconosciuta? E’ Lise Glincourt, la tua nuova vicina di casa. Siamo diventate amiche. Mi ha detto che ti ha conosciuto e voleva salutarti”. “Salutamela, allora, chiedile scusa da parte mia se non l’avevo riconosciuta”. Marcello, sempre più convinto dell’inconsistenza cerebrale della sua fidanzata, chiuse rapidamente coi soliti saluti la sua telefonata. “Solo una deficiente ti a la telefonata di una sordo-muta”. E si sentì subito meno in colpa per aver taciuto il fatto che ora anche a San Gremo era possibile fare e ricevere telefonate col cellulare. Pochi i e giunse davanti allo studio-abitazione di Bettina: una villetta anni ’60 in cui lei si era trasferita quando i clienti erano diventati troppo numerosi per il piccolissimo studio di inizio carriera. Tutto il piano terreno era adibito ad ambulatorio e sala d’aspetto mentre il piano superiore era utilizzato come abitazione per Bettina e il suo bambino, prima della tragedia che l’aveva colpita. Marcello si chiese se Bettina, rimasta sola, ora avrebbe lasciato quella casa troppo grande e troppo piena di ricordi. La porta che si affacciava su un giardinetto, disseminato di ciotole e giochi per animali, da cui i clienti potevano entrare per accedere alla sala d’aspetto era spalancata, segno che Bettina, nonostante fosse ora di pranzo, stava ancora visitando. Bobo appena riconobbe l’odore di studio veterinario si sedette per terra e si
rifiutò di entrare. “Guarda che stiamo andando a trovare un’amica, non a farti vaccinare, puoi entrare tranquillo – disse Marcello a Bobo tirandolo per il collare. Ma il cane fu irremovibile: “Lì dentro ci fanno le punture, puoi entrare da solo, io ti aspetto qui fuori” – pareva dire il cane col suo sguardo più determinato, quello che utilizzava ogni volta in cui decideva che il padrone stava sbagliando e che era indispensabile non cedere ai suoi errori. “Ok, allora aspettami qui in giardino, ma non sparire di nuovo altrimenti ti porto al canile”. Marcello entrò da solo in sala d’aspetto. Una donna, che teneva in braccio un piccolo cane bianco, alla sua vista, si alzò in piedi, appoggiò il cagnolino a terra e andò ad abbracciare Marcello. “Marcello, che bella sorpresa. Da quanto tempo non ti fai vedere da queste parti!”. Dopo un attimo di incertezza Marcello riconobbe Marta, una vecchia amica che non vedeva da moltissimi anni. “Marta! Mi avevano detto che non abiti più a San Gremo”. “Vero. Ma il mio cane lo faccio visitare solo da Bettina. E’ la più brava veterinaria della zona. Per questo sono qui. Ora abito a una dozzina di chilometri, a Rivarolo. Faccio la direttrice della biblioteca comunale”. “Già, ricordo il tuo amore per i libri. Eri l’intellettuale della compagnia. Così hai realizzato il tuo sogno: vivere in mezzo alla carta stampata”. “Eh sì, e non solo quel sogno. Ho anche abbandonato questo paese di pazzi. Ma lo sai che qui la gente, ultimamente, crede di nuovo ai fantasmi e alle masche? Come cinquant’anni fa. Hai parlato con qualcuno di qui?”. Poi Marta, abbassando la voce e indicando la porta chiusa dello studio bisbigliò: “Se pensi che persino Bettina, la nostra Bettina, dice di aver visto un fantasma… mi sa che l’atmosfera di questo paese non è salubre per l’equilibrio mentale. Marcello fu sul punto di dire qualcosa ma poi si trattenne perché la porta dell’ambulatorio si stava aprendo. Ne fece capolino Bettina dicendo: “Avanti il
prossimo… – poi, con uno scintillio di sorpresa e felicità, vide Marcello e gli si avvicinò per abbracciarlo – …vecchio, caro amico, speravo proprio che assi a trovarmi. Che piacere vederti! Aspettami, per favore. Appena finisco col cane di Marta chiudo lo studio e mangiamo un boccone insieme”. Anche Marta, prima di entrare, abbracciò il vecchio amico dicendogli: “Ciao Marcello, mi ha fatto piacere vederti. Ti saluto ora perché dopo la visita si esce dalla porta posteriore che si affaccia direttamente sul giardino. Se hai occasione di are a Rivarolo, vieni a trovarmi in biblioteca. Così parleremo un po’ dei vecchi tempi”. Marcello rispose all’abbraccio di Marta e la salutò baciandola sulle guance poi si sedette in attesa di essere chiamato, mettendo a fuoco mentalmente quella fugace apparizione di Bettina nel vano della porta. Pensò che il suo viso era ancora molto bello incorniciato da poche rughe che mettevano in evidenza il suo sorriso immutato nel corso degli anni. Bella. Era ancora bella come un tempo. E gli anni e le disgrazie non avevano cambiato il suo modo diretto e comunicativo di guardarti fisso negli occhi. Pochi minuti, forse una decina, e la porta si aprì. Senza una parola Bettina si lanciò su Marcello e lo abbracciò, nascondendo il viso sulla sua spalla. Resto così molto tempo, finchè Marcello si accorse che lei stava silenziosamente piangendo. “Ma che fai Bettina, anche se sei una veterinaria, non è il caso di piangere come un vitello…”. Bettina sollevò gli occhi pieni di lacrime sul viso di Marcello tentando di ridere, ma poi i singhiozzi presero il sopravvento e lei nascose nuovamente il viso sulla spalla di Marcello. “Se continui, finisce che piango anch’io. Bel modo di ritrovarsi no? Noi che ridevamo di tutto e di tutti”. Bettina, tirando su col naso, sollevò di nuovo il viso pieno di lacrime: “Ma io non sto piangendo, è solo una tua impressione… – e ributtò, singhiozzando, la faccia sulla spalla di Marcello. “Ah scusami, non avevo capito che stavi ridendo. La mia battuta sul piangere come un vitello non mi sembrava poi così irresistibile. Sono più simpatico di
quanto pensassi”. Bettina tirò ancora su il viso: “No Marcello, era una schifezza di battuta. Neppure quelli del Bagaglino arrivano tanto in basso. Scusami Marcello, scusami davvero. Volevo vederti ma non per… piangere sulla tua spalla. Però quando ti ho visto, un attimo fa, ho capito che tu eri l’unica persona con cui avrei potuto lasciarmi andare… tanto tu riparti e non ti si vedrà per altri due anni almeno. E non potrai dire a nessuno che la Bettina, quella forte che sa affrontare ogni casino a muso duro, ha pianto come un vitello sulla tua spalla”. “Hai pianto? Ma sai che non me ne ero accorto? Anzi mi stavo chiedendo come ho fatto a sudare così tanto e solo sulla spalla destra – disse Marcello abbracciando la vecchia amica e baciandola con tenerezza sulla fronte – comunque se non mi offri qualcosa da mangiare, sarò io che presto piangerò per la fame”. “Andiamo su a casa mia, allora – disse Bettina prendendo Marcello per mano e accompagnandolo alla scala che portava al piano superiore nell’appartamento – temo di non avere i nostri amati hamburger alla Mc Donald’s, ma ho dell’ottimo riso macrobiotico e un pasticcio di alghe e tamari”. “Perfetto! – rispose Marcello assecondando lo scherzo – e spero che tu abbia anche dello squisito miglio al tofu”. Lui e Bettina avevano vissuto la loro adolescenza abbuffandosi di ogni genere di schifezza fedeli alla filosofia “se lo mangi volentieri non può farti male!”. “No, mi spiace, il tofu l’ho terminato – rispose ridacchiando Bettina, che pareva aver riconquistato un po’ di serenità, mentre indicava a Marcello la cucina del suo appartamento – ma potremo ripiegare su una mega porzione di patatine fritte e ketchup ed un bel piatto di salsiccia cotta nello strutto. Che ne dici?”. “Ora ti riconosco. Ma non ci ero cascato. Pensavi che avrei disdetto il tuo invito a pranzo con la scusa di un impegno improvviso? Lo scherzo del riso macrobiotico non ti è riuscito”. “Eh sì, era proprio uno scherzo. Ma non quello del riso macrobiotico: quello della salsiccia e delle patatine… sono diventata una naturista – disse Bettina posando sul tavolo una zuppiera colma di riso in bianco – e non è vero che il tofu l’ho terminato, eccolo qua”.
“Ahi ahi, come cambiano le persone: le lasci epicuree e te le ritrovi dopo qualche anno penitenti autoflagellanti. D’accordo mi rifarò stasera sul vagone ristorante del TGV, però adesso, mentre mangiamo questa delizia, raccontami cosa sta succedendo a San Gremo. Mi sembra qualcosa di incredibile!” “Incredibile e difficile da raccontare. Il mio bambino è morto in quel dannato campanile, questo lo sai già, e io non ho voglia di parlarne. Ma la cosa difficile da raccontare è un’altra”. Marcello prese la mano di Bettina e la strinse. Bettina lo fissò negli occhi e per un momento faticò a trattenere nuovamente le lacrime. “Se ti racconto una cosa, se la racconto a te che mi conosci da sempre, quella cosa dovrebbe avere un senso. Un minimo di senso almeno. Ma quello che devo raccontarti, in questo caso, non ne ha. La morte del mio bambino mi ha causato dolore, non pazzia. Quindi, partendo dal dato di fatto che so di non essere pazza e di non soffrire di allucinazioni…” Marcello la bloccò perché aveva deciso di aprirsi con lei. “Anch’io so di non essere pazzo e di non soffrire di allucinazioni. Ma questa notte ho visto mia nonna in casa mia. Insieme ad un gruppetto di altri simpatici fantasmi. Ed anche una strega, una masca, che mi chiamava dalla finestra della mia camera. Ora ti senti più tranquilla nel raccontarmi cosa hai visto? Se sei pazza tu… siamo pazzi in due”. “Non ha nessun senso quello che sta succedendo qui a San Gremo. E non ha nessun senso che i giornali non ne parlino se non per trafiletti ironici di colore locale. Gran parte delle persone del paese con cui ho parlato hanno fatto degli incontri. Terribili. Spaventosi”. “Beh, forse i media non ne parlano per qualche motivo che non conosciamo, ma la gente ne parla e non solo quella di San Gremo. Io ho sentito un gruppo di italiani che ne parlava a Parigi. Spesso le notizie scomode se ne fregano dei mezzi di comunicazione e viaggiano a sbafo col aparola. Ora sarebbe bello capire perché non se ne parla a livello di autorità e di media”. “I carabinieri hanno chiuso l’inchiesta sulla morte di mio figlio motivandola come un incidente. Ti ricordi trent’anni fa? Il sacrestano era morto cadendo dallo stesso campanile. Un incidente o un suicidio stabilirono. Ma anche allora in
paese un sacco di gente aveva avuto delle apparizioni. Donne considerate masche in paese, già morte da molti anni, soprattutto, ma anche spettri di uomini, donne e bambini”. “Ricordo perfettamente – disse Marcello e, per la prima volta, decise di parlare di quel che gli era successo trent’anni prima – perché anch’io ho avuto un incontro con uno spettro, in quei giorni. Anche allora, come questa notte, la mia nonna… o qualcosa che aveva preso le sue sembianze”. “Trent’anni fa eri un ragazzino. Chissà che terrore. Ora capisco la tua scomparsa improvvisa” – disse Bettina Marcello continuò: “Abbiamo parlato a lungo quella sera come se fosse viva. Ma il dottore poi mi disse che era già morta da più di un giorno. Fu allora che decisi di andarmene da San Gremo e di non are mai più una notte in quella casa”. “Te ne sei andato senza neppure salutarmi. Sei scomparso così, da un giorno all’altro. Quanto ci sono stata male. Poi ti abbiamo rivisto pochissime volte, nel corso degli anni. Ma non eri più quello di un tempo. Non cercavi gli amici. Ti bastava ripartire il più velocemente possibile”. Marcello, non si giustificò per il tacito rimprovero di Bettina: era troppo occupato a seguire il filo dei suoi pensieri tentando di razionalizzare, di trovare un trait d’union con i due periodi separati da trent’anni in cui San Gremo si era trasformato in un paese fuori dalla realtà. C’era solo una cosa in comune fra il 1980 e oggi: “Anche allora in paese c’era la Festa dell'Acqua – disse Marcello coprendosi gli occhi per la concentrazione – quello che sta succedendo potrebbe avere qualcosa a che fare con questa ricorrenza…” “Sì, ma la Festa dell'Acqua si festeggia ogni anno… e in tutti questi anni non era più successo nulla”– disse Bettina. “Quindi il fatto che ci fosse la Festa dell'Acqua allora come oggi… è solo una coincidenza”. “La Festa dell’Acqua è solo una ricorrenza nata da una leggenda sulla nascita del nostro paese. Non ha nessun rapporto con fantasmi, streghe, apparizioni. E’ uno dei tanti miracoli che la Chiesa si è inventata per sottomettere la gente con la
superstizione”. Marcello assentì continuando il suo racconto: “Ma mia nonna… il fantasma di mia nonna… – e qui fu costretto ad interrompersi per riprendere il fiato perché la gola gli si era chiusa – …mi aveva indicato proprio un libro con la storia del paese e della Festa dell'Acqua come spiegazione di ogni cosa”. “E il fatto che trent’anni fa vennero fatti gli scavi del vecchio cimitero portando alla luce centinaia di scheletri e di cadaveri? – disse Bettina, esitando tra una parola e l’altra quasi si vergognasse di ciò che stava dicendo – non potrebbe in qualche modo aver scatenato qualche strana reazione fra… l’aldilà e l’aldiquà?”. “Sì, forse, se diamo per scontato che esiste un aldilà… che i morti possono ancora aggirarsi fra di noi, che le streghe non erano persone umane ma le fidanzate dei demoni… insomma una serie di se e di ma che non riesco ad accettare”. “Io devo accettarlo. – disse Bettina abbassando il capo – perché… – e qui fece una lunga e pensierosa pausa prima di riprendere il discorso – …perché qualche giorno dopo la sua morte, mentre facevo una eggiata nel bosco appena fuori dal paese, ho incontrato mio figlio. E mi ha parlato. E dopo la prima volta è ancora venuto a cercarmi. Proprio qui, in questa casa… – Marcello fissò Bettina rabbrividendo e lei, abbassando gli occhi, continuò – Avrei dato qualunque cosa per rivedere mio figlio, per parlare ancora con lui, fantasma o allucinazione che fosse. E invece sono terrorizzata. Perché anche se quel bambino si muove come mio figlio e ha l’aspetto di mio figlio, quell’essere non può ingannare una madre: sento che non è lui”. Detto questo Bettina scostò il piatto in cui stava mangiando e appoggiò i gomiti sul tavolo portando le mani alle tempie e tenendole strette fra le dita con gli occhi chiusi. Marcello scattò in piedi e, dopo aver girato intorno al tavolo, si portò alle spalle della donna abbracciandola stretta e baciandola sui capelli. Bettina si lasciò andare all’indietro per lasciarsi abbracciare da Marcello quasi cercando il conforto di un contatto amico. Poi sorridendo tristemente sollevò gli occhi verso l’amico dicendo: “Non mi riconosci più vero? Lo so che ti stai chiedendo che cosa è successo alla Bettina anarchica e trasgressiva. Quella con cui giocavi al gioco del chi non è uno di noi… ne abbiamo dette e fatte di cose
sceme io e te nei nostri diciassette anni…”. Marcello, ricordando l’antico gioco rispose: “Chi ‘musica trash’ non è uno di noi! Noi siam quelli dell’hard rock!”. E Bettina: “Chi ‘villaggio vacanze’ non è uno di noi. Noi siamo quelli di swinging London!”. E Marcello: “Chi ‘t-shirt coccodrilla’ non è uno di noi. Noi siamo i No-Logo!”. E Bettina: “Chi ‘ha la soluzione’ non è uno di noi. Noi siam quelli che voglion sbagliare!”. E Marcello: “Chi ‘puzza di chiesa’ non è uno di noi… noi siamo i miscredenti dannati!”. Bettina alzò gli occhi guardando Marcello con dolcezza e tenerezza: “C’è un’altra frase del nostro gioco che io non ho mai dimenticato. E adesso mi chiedo se oggi abbia ancora un senso: chi ‘crede all’aldilà’… non è uno di noi. Ma ora… – Bettina abbassò la voce quasi ad un bisbiglio –…ma ora vedo i fantasmi!” E se per un attimo, giocando con l’antico rito, Bettina sembrava essersi un po’ rasserenata, ora riprese a respirare rumorosamente come in preda ad una crisi di ansia. Marcello l’accarezzò ancora, trattenendosi dalla voglia di stringerla e di baciare quelle labbra di cui in tanti anni non aveva mai dimenticato il sapore. “Se te la sentirai ne parliamo dopo, ora calmati”. “Sì, scusami, ora mi calmo. Ci tenevo a raccontarti tutto ma non pensavo che parlarne sarebbe stato così difficile. Ho avuto la stessa reazione con quei due strani tizi vestiti di nero che sono venuti stamattina a farmi domande, come se sapessero delle apparizioni di mio figlio. Sono riuscita a cacciarli senza piangere, ma poi mi sono chiusa in studio e mi sono messa a gridare con tutto il fiato che avevo. Per fortuna non c’erano clienti in quel momento in sala d’aspetto. Mi avrebbero sicuramente giudicata una pazza pericolosa”. Fu allora che Marcello si ricordò della scheda fotografica sottratta ai due individui.
Mise una mano in tasca estraendola e appoggiandola con cura sul tavolo. “Ho avuto uno scontro con quei due prima di venire qui: ora forse scopriremo cosa cercano. “Hai una macchina fotografica digitale? – e, indicando la scheda a Bettina – avrei bisogno di guardare le fotografie su questa scheda”. “Ho una telecamera portatile che funziona anche da macchina fotografica. E le schede memoria sono proprio come quella. Ora te la prendo” – disse Bettina, uscendo dalla cucina e ritrovando in un attimo l’autocontrollo che la caratterizzava da sempre. Ne ritornò dopo un momento tenendo fra le mani una piccola telecamera digitale. “Perfetto, è identica alla mia. Così non dovrai spiegarmi come si usa” – disse Marcello inserendo la scheda memoria all’interno di una fessura laterale della camera. “Abbiamo ancora delle affinità elettive come un tempo – rispose Bettina – almeno quando scegliamo quale telecamera acquistare…”. Marcello iniziò a far scorrere le fotografie sul display della videocamera. Sul piccolo schermo apparvero le fotografie di alcune case di San Gremo che gli erano famigliari. Erano le case di persone che Marcello conosceva: la casa del professor Mentori, quella dell’anziana farmacista, quella di Gino, il fornaio. Tutte persone che, secondo ciò che gli aveva detto Cristiano la sera prima, avevano avuto gli “incontri”. E, in più, molte altre foto di case che Marcello fece scorrere velocemente senza riuscire ad identificare. In ogni fotografia, in basso a destra, la macchina digitale aveva inserito l’ora e la data dello scatto. Alcune si riferivano a molti giorni prima, altre erano recentissime. Infine, con la data di quello stesso giorno, apparve anche la sua casa. Fotografata prima dall’esterno poi dal giardino interno: questo voleva dire che, in qualche modo, i due sconosciuti si erano introdotti nella proprietà. Doveva essere successo proprio quella stessa mattina, mentre lui era dalla Mariuccia, visto che nel giardino c’era la sua auto posteggiata sotto il platano. Continuando a far scorrere le foto, tornò alle meno recenti e la sua espressione era sempre più sconcertata. Perché apparvero, con la data di qualche settimana prima, anche le fotografie della casa in cui si trovava in questo momento, il viso di Bettina fotografato da distante con un teleobiettivo. In un’altra serie di scatti c’erano varie riprese dell’interno della chiesa, con il parroco, che evidentemente
non era ancora fuggito da San Gremo. Il prete era ripreso con l’aria sconvolta mentre parlava con un altro sacerdote e con un dito indicava l’altare maggiore. In un’altra foto si riconosceva un dettaglio macro degli ossicini delle sacre reliquie, in un’altra ancora un quadro del seicento esposto in sagrestia con la rappresentazione del miracolo dell’acqua. “Ma cosa cercano, questi due? – esclamò sconcertato Marcello – hanno fotografato la tua casa, la mia, quella di molte persone del paese, il parroco del paese. Ed ecco qui, ci sono anch’io, mentre esco dalla chiesa un’ora fa”. Marcello accelerò la velocità con cui faceva scorrere le fotografie ma, ad un tratto, con un brivido, si bloccò. Riuscì a voltarsi di colpo nascondendo col proprio corpo a Bettina l’immagine atroce che era apparsa sul piccolo schermo”. Sul display c’era la fotografia del cadavere di un bambino impiccato alla fune campanaria nel campanile di San Gremo. Quel bambino era sicuramente il figlio di Bettina. Lo stile scarno e crudo era quello tipico delle fotografie di medicina legale scattate da polizia e carabinieri per documentare le morti violente. Quei due figuri dovevano avere parecchi agganci presso le istituzioni se gli era stato permesso di scattare quelle terribili fotografie. Ma a che scopo? “Perché non posso guardare? – disse Bettina allarmata – cosa c’è in quelle foto?”. “Poi ti dirò. Ma ora, ti prego, resta distante da questa videocamera”. Per fortuna Bettina non insistette, bloccata dall'espressione sconvolta di Marcello, e si allontanò affacciandosi alla finestra della camera. Inorridito Marcello si soffermò su una delle foto in cui si vedeva il bimbo pendere a mezza altezza con la fune avvolta con parecchi giri attorno al collo. Non poteva essere un incidente dovuto ad un gioco. Sembrava la scena di un suicido. Nelle foto successive si vedevano i carabinieri che stavano esaminando i segni lasciati sul collo dalla fune poi il corpo adagiato a terra, e infine la chiusura nel sacco da cadaveri. Il volto del bimbo era deformato in un’espressione di terrore come succede nelle morti per soffocamento per cui Marcello non riuscì a cogliere un’eventuale rassomiglianza col bimbo che aveva incontrato nel campanile quella mattina. “Guardali là – disse Bettina, chiamando Marcello alla finestra – sono qui, fuori
da casa quei due. Ci stanno sorvegliando”. Marcello spense la telecamera e si avvicinò alla finestra. All’angolo della strada, ad una decina di metri dall’ingresso dell’ambulatorio, i due uomini vestiti di nero erano fermi rivolti verso la casa. Uno dei due stava scrivendo su un block notes, l’altro, senza distogliere lo sguardo dalla casa, era impegnato in un dialogo al cellulare con qualcuno per cui provava timore e sottomissione: lo si capiva dall’espressione servile e imbarazzata e dai lunghi silenzi con cui ascoltava l’interlocutore. “Ora scendo giù e li costringerò a parlare” – disse Marcello esasperato. “Guarda com’è concentrato nella sua telefonata: darei non so che cosa per sapere con chi e di che cosa sta parlando” – disse Bettina. “Sì, bisognerebbe saper leggere le labb… – e qui Marcello si bloccò per un’idea improvvisa – ami la telecamera, in fretta…”. Bettina la prese dal tavolo e gliela porse. Marcello impostando il massimo dello zoom possibile, iniziò a girare un video riprendendo in dettaglio il viso dell’uomo che parlava al telefono. La telefonata durò ancora una decina di minuti, poi l’uomo, riponendo in tasca il telefono, alzò gli occhi verso la finestra e vide Marcello. Lo indicò all’altro ed entrambi lo fissarono a lungo. Poi se ne andarono velocemente lungo la via voltandosi furtivamente a guardare se Marcello li stesse ancora riprendendo. “Hai un computer connesso a Internet?” – chiese Marcello mentre estraeva di tasca il telefonino. “Sì, naturalmente, ce l’ho qui sotto in studio” – rispose Bettina. Marcello compose il numero della sua casa di Parigi. “Josephine, è ancora con te mademoiselle Glincourt?…bene, chiedile un favore: sto per spedirti con la posta elettronica il video di un uomo che parla al telefono. Avrei bisogno di sapere che cosa sta dicendo… per lei che legge le labbra non dovrebbe essere difficile… macché violazione della privacy… dobbiamo fare uno scherzo ad un amico… sì, anch’io… dille di farlo subito, è molto urgente… aspetto la tua mail il più in fretta possibile”.
“Hai un’amica che sa leggere le labbra? – chiese Bettina, mentre scendevano al piano inferiore per spedire il file video col computer dell’ambulatorio. “Non è proprio un’amica. E’ una vicina di casa, sordomuta”. “Il tuo tipo di donna ideale, immagino – disse Bettina come al solito molto rapida nello sdrammatizzare i momenti di tensione con una battuta scherzosa. – scommetto che ti dà sempre ragione”. Meno di una decina di minuti dopo la spedizione del video, il computer segnalò l’arrivo di una mail. Marcello e Bettina la lessero insieme sul monitor della scrivania dello studio veterinario. From:
[email protected] Ecco la trascrizione che mi hai richiesto. Utilizzo l’indirizzo mail del computer da cui mi hai spedito il video. Raccontami poi come è andato lo scherzo al tuo amico. Vedo che l’atmosfera della campagna stimola il tuo lato goliardico. Non fare scherzi a me, però, magari con quella Bettina a cui sto spedendo il file e che immagino sia con te in questo momento. Bacio con un pizzico di gelosia. TRASCRIZIONE FRASI: Mi spiace, le fotografie sono andate perse. Distrutte… …(pausa)… Ehm, la fotocamera mi è sfuggita di mano e si è guastata… …(pausa)… Ma certo, abbiamo fatto come lei ha chiesto, l'osservazione pura delle cose, la mera constatazione di quello che sono… le persone coinvolte sono psichicamente sane, abbiamo raccolto voci e giudizi in paese. …(pausa)…
Stregoneria? Non è necessariamente questo il senso. Ma non lo si può escludere… sarebbe sicuramente meglio la stregoneria di… di quell’altra ipotesi… …(pausa)…Certo, purtroppo non si può escludere. Ma sarebbe ancora più terribile, per tutta l’umanità… …(pausa)… …certo che nostro signore non lo permetterebbe. E poi perché proprio in questo paesino? …(pausa)… Va bene, saremo da lei stasera per la riunione alle 17 in punto in via Alfieri ando per l’ingresso secondario. Certo, come lei desidera, prima eremo in via Sabbioni 103 a prelevare quella persona. A proposito… se si rifiuta di venire? …(pausa più lunga)… D’accordo, d’accordo, non alzi la voce. Lo convinceremo…con ogni mezzo. Sia fatta la volontà del signore. “Non mi pare che ne sappiamo molto più di prima – disse Bettina leggendo la mail – se non che hai una fidanzata se gelosa di me. Scrivile che siamo solo amici. Siamo amici, vero? Io, in tutti questi anni, non ho mai smesso di considerarti un amico. Il migliore che ho avuto”. Marcello ingoiò la risposta che avrebbe voluto darle: “No Bettina, io non ti ho mai considerata un’amica. Per dirla alla De Andre’ tu sei stata la donna delle occasioni lasciate ad aspettare…” Naturalmente Marcello non disse nulla di tutto questo. Si limitò a confermare: “Certo che siamo amici, Bettina. Cosa altro potremmo essere?”. Poi osservò il foglio su cui aveva stampato le frasi rubate all’uomo vestito di nero. “Qui si parla di stregoneria e di un’altra ipotesi ancora più spaventosa. Sarebbe importante sapere con chi stava parlando quell’individuo. – disse Marcello leggendo e rileggendo il messaggio – e questa sera si incontreranno in una casa in via Alfieri, dopo aver prelevato qualcuno in via Sabbioni”.
“In via Alfieri ando dall’ingresso secondario… servizi segreti? – disse Bettina, poi scoppiò a ridere nervosamente – ci manca anche James Bond. Siamo nel pieno di una situazione letteraria. ando dal gotico fantastico allo spionaggio. Speriamo non si finisca nello splatter. A proposito, è il tuo campo, vero?”. “Horror, non splatter. Fumetti, non letteratura. Prego”– puntualizzò Marcello. In quel momento si interruppe sollevando la testa verso il piano superiore. “Hai sentito? – chiesa a Bettina – un rumore su, nel tuo appartamento”. “Non ho sentito nulla. – disse impallidendo – comunque, non preoccuparti. Se è Michelino, se ne va quasi subito”. “Michelino?”. “Ma sì… il mio bambino. Non si ferma mai per molto tempo” – il tono di Bettina fece inorridire Marcello: parlava di suo figlio morto, senza emozione, come fosse in trance. Con gli occhi socchiusi, le braccia lungo il corpo, il viso rivolto verso l’alto. Marcello si rifiutò di accettare un’asserzione che, ora dopo ora, in questa nuova atmosfera irreale in cui si trovava immerso dopo il suo arrivo in paese, sembrava sempre meno assurda e pazzesca. “Credo si tratti della finestra da cui ho fatto le riprese video – disse Marcello tentando di non pensare a ciò che gli aveva appena detto Bettina – Non ricordo di averla chiusa, probabilmente la corrente ha fatto sbattere le imposte”. Bettina disse: “Sì, probabilmente è così”. Ma il suo viso era serio e guardava verso l’alto. Salirono silenziosamente le scale e, appena entrati nell’appartamento, videro che le imposte sbattevano rumorosamente per il vento. Si guardarono e si sorrisero. Per un attimo i loro occhi si incontrarono e Marcello sentì dentro di sè quello stesso senso di incosciente onnipotenza che aveva caratterizzato la loro adolescenza e la loro amicizia.
“Tutto quello che sta succedendo ha una spiegazione e noi la scopriremo” – disse Marcello stringendo la mano di Bettina. Poi disse quello che solo pochi minuti prima non avrebbe mai pensato di dire: “…questa volta non me ne andrò”. “Non parti stasera? – disse Bettina senza riuscire a nascondere il tono di speranza con cui pronunciò quella semplice domanda. – resterai qui in questo luogo di pallide nebbie?”. “Sì, ma ad una sola condizione. Devo trovare un posto dove dormire, magari da Cristiano. Non me la sento di tornare a dormire nella casa di nonna”. “La mia casa è molto grande e io sono sola. La camera degli ospiti è a tua disposizione – disse Bettina con un guizzo di felicità nel profondo dello sguardo – sperando di non causare le ire della tua gelosa fidanzata se”. “Gelosa Josephine? Lei pensa solo al suo lavoro fatto di chip e centrali telefoniche. E’ quanto di più lontano dalla gelosia si possa immaginare in un essere umano”. In quel momento sentirono suonare il camlo dello studio al piano inferiore. “Ecco, stanno arrivando i miei clienti del pomeriggio – disse Bettina – ho almeno sei appuntamenti per oggi. Ne avrò fino all’ora di cena”. “Io ne approfitterò per fare un salto in città. Voglio vedere cosa c’è in via Sabbioni 103. E’ il posto dove andranno questo pomeriggio quei due tizi vestiti di nero. Chissà che non si riesca a capire qualche cosa della loro presenza in paese e di ciò che sta succedendo a San Gremo”. “Ti preparerò la camera. Mi raccomando, non cambiare idea… ci resterei troppo male!”. “Tranquilla, non scomparirò di nuovo. Ti lascio in pegno i miei bagagli e il mio cane. Lascialo pure in giardino. Tanto si rifiuterebbe di entrare nel tuo studio: ha qualche problema coi veterinari”. “Vedrai che lo convincerò ad entrare. Ho un grande ascendente sui cani. Mi considerano una di loro”. Si salutarono con un casto bacio sulle guance. Forse entrambi avrebbero voluto
lasciare che le labbra si incontrassero, magari per errore, per aver voltato troppo bruscamente il viso. Ma nessuno dei due ebbe il coraggio di compiere quell’errore.
X Marcello percorse velocemente i 30 chilometri di autostrada prima di immergersi nel lento traffico del centro di Torino. Impostò sul navigatore l’indirizzo “via Sabbioni 103” e si lasciò guidare dalla voce asettica del Tom Tom. Attraversò piazza Vittorio, superò il ponte sul Po ed iniziò ad inerpicarsi sui tornanti della collina torinese. Poi, dopo aver abbandonato la strada principale ed aver percorso alcune centinaia di metri su una stradina secondaria, si ritrovò davanti ad un elegante palazzotto ottocentesco, circondato da un giardino pieno di alberi ad alto fusto. Marcello posteggiò l’auto nel piccolo piazzale antistante il grande cancello di ingresso e scese dall’auto. Una targa in bronzo sul pilone laterale diceva “ORANTE QUIES casa di cura e di riposo”. Appena letta la targa, Marcello immaginò il motivo per cui i due misteriosi uomini vestiti di nero sarebbero arrivati lì nel pomeriggio e chi era la persona che avrebbero dovuto “convincere” con ogni mezzo a venire con loro. La Mariuccia glielo aveva detto che don Bernardo si era ricoverato in una casa di riposo molto costosa, e questa aveva tutta l’aria di esserlo. Attraverso il grande cancello si poteva vedere uno scorcio del giardino affollato da persone anziane che eggiavano chiacchierando nei vialetti. Altri ospiti della casa di cura, costretti sulla sedia a rotelle, erano assistiti da infermiere elegantissime nella loro divisa bianco-azzurra. Una strana agitazione, però, si intuiva fra il personale e in vari gruppi di inservienti riuniti in crocchio. Un’infermiera in lacrime era circondata da altre persone che le stavano concitatamente rivolgendo delle domande. Tutto questo però, in modo furtivo, guardandosi frequentemente alle spalle come se volessero evitare di essere uditi dagli ospiti della struttura. Mentre Marcello era fermo ad osservare attraverso il cancello i movimenti all’interno del giardino, giunse un’auto che venne posteggiata accanto alla sua da cui scese un’elegante coppia di mezza età. La donna teneva fra le mani un pacchetto su cui era stampato il logo di una delle migliori pasticcerie cittadine. Erano evidentemente parenti o amici di qualche ospite, venuti per una visita. I due si avvicinarono al cancello e suonarono al camlo. Il cancello, automaticamente, iniziò ad aprirsi. Marcello approfittò dell’ingresso della coppia
per accodarsi a loro ed introdursi nel giardino. Appena entrato si accorse di un dettaglio che dall’esterno non era visibile. Proprio a pochi metri dall’ingresso principale del palazzotto, posteggiate all’ombra di un grande platano, c’erano due volanti della polizia. Marcello seguì la coppia che entrava nella struttura e quando i due si fermarono alla reception dicendo di essere parenti dell’ingegner Favetti, lui restò discretamente alle loro spalle fingendo di essere arrivato insieme a loro per la visita al parente. La donna della reception con un sorriso stereotipato che sembrava nascondere un certo imbarazzo disse: “L’ingegner Favetti? Allora non dovete andare nella solita camera. Questa notte abbiamo avuto un… ehm… problema tecnico e tutti gli ospiti del terzo piano sono stati momentaneamente spostati in camere al piano inferiore. Lo trovate nella 25 del secondo piano”. Marcello si accodò ai due che si avviavano verso l’ascensore e, per confermare la sua appartenenza al gruppetto, si voltò educatamente verso la receptionist, ringraziandola per l’informazione con un cenno del capo. Al secondo piano, come uscì dall’ascensore, si ritrovò in un lungo corridoio affollato di infermiere, inservienti e visitatori. Davanti a lui, sulla parete, una grande bacheca con una serie di comunicazioni che si riferivano alle attività ricreative organizzate internamente. Ma l’attenzione di Marcello si soffermò su un grande cartello laterale su cui erano segnati i nomi di tutti gli ospiti della struttura con accanto il relativo numero di camera. La maggior parte degli ospiti aveva una camera singola mentre per alcuni, accanto al nome, c’era la scritta “camera a due letti per badante personale”. Bastò uno sguardo a Marcello per ritrovare nella lista dei nomi la conferma a ciò che aveva immaginato e cioè, il nome di don Bernardo Mazzacurati, ospite della camera 34, con l’annotazione “due letti per badante personale”. Mentre leggeva la bacheca Marcello colse distrattamente alcuni brani di conversazione fra le persone che eggiavano nel corridoio alle sue spalle. Tutti parlavano di qualcosa che era successo al terzo piano. Non un problema tecnico come aveva detto la receptionist, ma qualcosa di, sicuramente, molto grave per cui tutti gli ospiti di quelle camere erano stati svegliati all’alba e trasferiti velocemente al secondo piano senza che ne venisse spiegata la ragione. Ma un frammento di frase colpì l’attenzione di Marcello:
“E’ successo qualcosa nella camera del prete… stanotte ho sentito delle grida di donna provenire proprio da lì…”. Un prete? L’unico “don” della lista degli ospiti era proprio don Bernardo. Quindi gli era successo qualcosa nella notte. Marcello decise di dare un’occhiata al terzo piano. Salì sull’ascensore ma, appena la porta si aprì sul terzo piano, un poliziotto in divisa lo bloccò: “Non si può, non le hanno detto che il terzo piano è chiuso?”. “Sì, mi scusi – rispose Marcello – devo aver schiacciato il pulsante sbagliato. Ma cosa è successo?”. “Nulla, nulla. Per favore torni nella sua camera”. “Non sono un ospite, sono un visitatore. Ero venuto a trovare il mio amico don Bernardo…”. Il poliziotto lo squadrò interdetto: “don Bernardo Mazzacurati? E’ un suo amico? Allora attenda qui per favore”. Il poliziotto si avviò velocemente verso una camera, vi entrò e ne ricomparì dopo un attimo facendo un gesto di richiamo verso Marcello. “Venga per cortesia, l’ispettore deve farle qualche domanda”. Marcello venne introdotto in una camera a due letti uno dei quali era intatto mentre l’altro aveva le coperte completamente rivoltate. Da una porta socchiusa che si affacciava probabilmente sul bagno, provenivano le voci concitate di alcune persone. Ma con sgomento l’attenzione di Marcello venne attratta da un grosso rivolo di sangue che, fluendo attraverso la porta, creava una pozzanghera vermiglia sul pavimento della camera. In un angolo un poliziotto in borghese stava interrogando una ragazza cinese di una ventina di anni che indossava un accappatoio e rispondeva fra le lacrime alle domande. Il poliziotto alzò gli occhi verso Marcello e gli disse di attendere un momento che, appena finito con la cinese, avrebbe avuto qualche domanda da porgli. Poi tornando a rivolgersi alla ragazza continuò:
“Allora, riprendiamo: tu ti sei svegliata alle cinque di mattina e don Bernardo non era più nel suo letto. Giusto?”. “Già detto io (e giù singhiozzi). Don Benaldo non ela più in letto…”. “Ok, ti sei svegliata e don Bernardo non era più nel letto, in quel letto. – e il poliziotto indicò il letto sfatto – e tu dove eri? Nell’altro letto?” continuò indicando il letto intonso. “Nooo, io elo in quello stesso letto. Elo vicino don Benaldo… come semple!”. “Ah, eri nello stesso letto di don Bernardo…”. “Ma celto! Io badante!!!”. “Oh scusa, dimenticavo che tu sei la badante. Quindi eri nel letto di don Bernardo per badare a lui. Ti sei svegliata e lui non c’era più. Allora sei andata in bagno e lo hai trovato morto. Ok?”. “Siii, tanto sangue. Lui tagliato gola con lasoio. E tagliato anche diavoletto”. “Diavoletto?”. “Ma sì. Diavoletto no? Quello che uomini hanno qui”– e la cinese si portò le mani all’inguine. “Ah, ho capito. Il prete lo chiamava diavoletto. Carino” – disse il poliziotto guardando i colleghi con un’espressione sconcertata. “Lui blutti bluttissimi sogni ogni notte! Glidava semple! E piangeva anche! Diceva che diavoletto cattivo e poltava lui infelno”. “Allora quando sei entrata in bagno e hai visto il cadavere cosa hai fatto? Lo hai toccato? E’ così che ti sei sporcata le mani? Ma perché il tuo pigiama, invece, è pulito?”. “Mani sì, pigiama no. Io nuda. Già detto: io badante!”. “Ah, dimenticavo. Sei la badante. Per cui eri nuda”. Poi il poliziotto alzando gli occhi sul collega gli disse: “Con questa ho finito. Mi
sa che lei non c’entra nulla. Anche il medico legale ha detto che la posizione del rasoio e della mano del prete è del tutto compatibile con l’auto-evirazione e col suicidio. E comunque non me la vedo la cinesina che sgozza il prete dopo avergli tagliato il… diavoletto. Troppo piccola per un omone come lui”. Poi il poliziotto guardò Marcello. “Lei era un amico del prete?” Marcello pensò di bluffare. Se avesse detto che non conosceva del tutto don Bernardo, non avrebbe potuto giustificare la sua presenza in quel luogo, né cercare di avere qualche informazione su quello che stava succedendo. “Sì, lo conoscevo, perché era il parroco del paese in cui ho una seconda casa”– disse Marcello. Il poliziotto, dando un’occhiata ai suoi documenti disse: “Vedo che lei abita a Parigi. Si fermerà qualche giorno qui? Può darsi che il magistrato voglia fare qualche domanda alle persone che conoscevano il parroco. Per esempio, lei sa perché era ospite di questa casa di cura?”. “Credo di sì. In paese si sapeva che aveva problemi di esaurimento nervoso. E si sapeva anche… che era cliente assiduo di massaggiatrici cinesi”. “Allora tutto questo torna con la spiegazione del suicidio e dell’evirazione. Il parroco era schiavo del suo vizio e si era fatto ricoverare qui per tentare di vincerlo. Non ce l’ha fatta e i sensi di colpa lo hanno fatto impazzire fino a tagliare il… diavoletto tentatore”. A questo punto una delle persone che erano presenti nella camera e che si presentò come direttore della casa di cura intervenne: “Non è proprio così. Don Bernardo non aveva nessuna intenzione di rinunciare alle sue massaggiatrici cinesi. Ne cambiava due alla settimana, facendole are come badanti. Lo avevamo già richiamato per il decoro della nostra struttura. In realtà il prete si era ricoverato perché era terrorizzato da qualcosa che gli era successo al paese. Diceva che nella chiesa di San Gremo si era aperta una porta sull’inferno. E ciò che credeva di aver visto nella sua parrocchia, lo ossessionava ogni notte. Lo sentivamo urlare per i suoi incubi. Credo che fossero talmente terribili che alla fine lo hanno portato al suicidio, dopo essersi auto-punito come penitenza per i suoi eccessi sessuali”. Il poliziotto sgranò gli occhi. “Ha detto San Gremo? Questo prete arriva da San
Gremo? – poi si voltò verso il collega – non è San Gremo il paese di cui ci hanno detto di inviare qualunque notizia anormale direttamente al questore? E di are tutti gli incartamenti a quel particolare ufficio?”. Il collega tirò fuori dalla cartella un fax e dopo avergli dato una scorsa veloce, confermò: “Sì ispettore, è proprio San Gremo il nome del paese. Non ce ne possiamo occupare noi, dobbiamo are tutto all’ufficio affari riservati”. “Bene. Una rogna in meno – disse il poliziotto chiudendo il blocco degli interrogatori e sollevando lo sguardo verso i presenti nella stanza – ora, per favore, dovete uscire tutti perché bisogna procedere alla rimozione del cadavere. Prima di uscire lasciate il vostro recapito al sovrintendente per essere eventualmente ricontattati dal magistrato”. Poi l’ispettore uscì dalla camera chiudendosi la porta alle spalle mentre Marcello si fermava a lasciare il suoi dati al poliziotto in divisa. Esaurita la formalità uscì dalla stanza e, nel corridoio, guardò distrattamente l’ispettore di polizia che lo aveva appena interrogato, fermo a parlare con un gruppetto di persone. Stava per tirar dritto verso l’ascensore quando si immobilizzo stupito fissando il gruppo di persone. Tra di loro Marcello vide i due misteriosi uomini vestiti di nero che dovevano essere appena arrivati per eseguire l’ordine ricevuto dal loro interlocutore telefonico. I due, quando si accorsero di Marcello, sgranarono gli occhi per lo stupore e si guardarono sorpresi senza dire nulla. Marcello, tra gli sguardi incuriositi degli altri presenti, si avvicinò al crocchio e, fissando i due con un sorriso beffardo disse: “Siete arrivati tardi eh? Prima perdete le foto poi perdete addirittura il prete… il vostro capo non sarà contento di voi”. Poi, soddisfatto, si avviò verso l’uscita rinunciando al piacere di osservare la reazione dei due misteriosi personaggi. In cortile venne fermato da una anziana signora che gli chiese se sapeva a che ora sarebbe stata celebrata la messa pomeridiana. Marcello disse che non lo sapeva, poi le chiese se la messa la celebrava il prete del terzo piano. “Uh quello? Ma no, lui non celebra messa, è qui per curarsi dagli incubi. E’ un missionario che ha ato tutta la vita in oriente a convertire i cinesi. Me lo ha
detto proprio lui personalmente. E ne ha convertiti così tanti che ogni giorno c’è qualche ragazza cinese che viene a trovarlo per ringraziarlo e confessarsi. Veramente una brava persona, spero che guarisca dai suoi incubi. Così non ci sveglierà più urlando di notte”. “Credo proprio che sia guarito, signora – disse Marcello salutandola con un sorriso – anzi credo che non sia nemmeno più fra gli ospiti di questa casa di cura”. Poi uscì dal cancello e si diresse lentamente verso la macchina. Guardò l’ora: erano solo le 17.30. Per la prima volta, dopo tanti anni, aveva voglia di ritornare presto a San Gremo: il pensiero che avrebbe ato la notte nella casa di Bettina lo rasserenava. Insieme, era sicuro, si sarebbero rassicurati a vicenda e i mostri o fantasmi che fossero non sarebbero venuti a turbare la loro vicinanza. L’amore contro il terrore, gli venne da pensare. Ma poi pensò che di amore non si era proprio parlato tra lui e Bettina. Solo di una profonda, sincera amicizia. Aveva appena schiacciato il pulsante delle chiavi per attivare l’apertura automatica dell’auto che qualcosa lo colpì violentemente alla testa. Mentre perdeva conoscenza ebbe l’improvvisa visione della nonna che gli sorrideva e accanto a lei il parroco suicida sventolava come un trofeo il suo flaccido pene sanguinante.
XI I lunghi corridoi settecenteschi del palazzo juvarriano risuonano dell’eco dei ettini brevi ma affrettati di suor Clementina che porta un grande vassoio con alcune tazzine di caffè ed un piatto di dolcetti di pasticceria. E’ il tardo pomeriggio e la maggior parte degli uffici dell’Arcivescovado sono già deserti. La suora ansima tentando di accelerare il o: Sua Eminenza è particolarmente nervoso in questi giorni e potrebbe nuovamente alzare la voce con lei, come ha già fatto in mattinata per un suo piccolo ritardo nel portargli il programma delle visite pastorali della settimana. “Suor Clementina, sempre di corsa! – la saluta il giovane seminarista che sta uscendo dal suo ufficio con un enorme fascio di fogli che trattiene a fatica tra le braccia – scommetto che stiamo andando dalla stessa persona, vero?”. “A quest’ora non ci sono più molte persone qui nel palazzo. E soprattutto non ci sono molte persone che potrebbero chiedermi di servire loro il caffè con la massima urgenza”. “Ospiti illustri dal nostro amato Arcivescovo?”. “Non so quanto illustri. Sicuramente molto impegnati. L’Arcivescovo mi ha chiesto di restare a disposizione fino alla fine della riunione, a qualunque ora essa termini”. “Sia fatta la volontà del signore!”. “Sperando che la sua volontà non sia di farmi fare troppo tardi anche questa sera. In convento le mie sorelle cominciano a pensar male dei miei ritardi serali. ‘Suor Clementina si è fatta un fidanzato!’ E’ una battuta scherzosa della Madre Superiora… ma non vorrei che qualche novizia la prendesse sul serio…”. “Suvvia, suor Clementina, alla sua età… nessuno potrebbe pensare…”. “Ragazzino! Ho solo sessantaquattro anni. E li porto anche bene. Sapesse quanto ho dovuto faticare nella mia vita a non cedere alle proposte che attentavano al mio voto di castità – poi la suora abbassando la voce continuò – e di proposte, mi creda, ne ho ricevute anche in questo palazzo, da persone con l’abito talare,
come il suo”. Il seminarista, che come tutti i giovani aveva canoni estetici basati sulle veline televisive, rispose alla confidenza della suora osservandone l’aspetto e la camminata con uno sguardo perplesso. Poi resosi conto che la suora lo stava guardando, balbettò: “Le chiedo scusa, suor Clementina, non volevo offenderla…” “Ci vuole ben altro per offendermi.”– disse la religiosa mentre entrambi si fermavano davanti alla massiccia porta scolpita della sala riunioni dell’Arcivescovado. Si guardarono per decidere chi dei due avrebbe potuto più facilmente bussare alla porta: la donna con il suo grande vassoio pieno di golosità o il ragazzo con il grande fascio di fogli che tratteneva a fatica fra le braccia? Durante quell’attimo di esitazione, qualcuno dall’interno aprì con violenza la porta rischiando di travolgerli. Ne uscì don Molinari, uno dei sacerdoti più potenti della Curia, assistente dell’Arcivescovo per i casi più delicati, con l’aria arruffata e mormorando tra sé e sé parole incomprensibili ma che, sicuramente, avevano molto poco della preghiera. Dall’interno la voce dell’Arcivescovo tuonò: “Sono circondato da collaboratori incapaci! A Roma stanno scalpitando da giorni, e le voci incontrollate potrebbero arrivare addirittura al Santo Padre!”. Al sentir nominare il Pontefice sia la suora che il seminarista abbassarono il capo rispettosamente entrando nel salone dedicato alle riunioni più importanti. Al tavolo presieduto da Sua Eminenza stavano seduti cinque sacerdoti, e un uomo in abito borghese che il seminarista riconobbe come il prefetto della città. Sul tavolo, sparpagliati, vari documenti e libri dall’aspetto consunto ed ingiallito. L’Arcivescovo alzò gli occhi sui due nuovi arrivati poi disse con tono stizzito: “Ah, ecco finalmente i caffè… ce ne ha messo di tempo suor Clementina. – poi ando lo sguardo sul seminarista continuò – allora la ricerca che le ho chiesto… è riuscito a trovare in biblioteca qualcosa di più di questo nulla?”. Balbettando per l’emozione il giovane disse “Ehm… non molto, purtroppo. Ho trovato alcuni episodi tramandati come storici ma non suffragati da prove certe che si riferiscono al tardo medioevo, poi qualcosa più recente durante la seconda guerra mondiale. Ma tutti i presunti testimoni sono morti. E ancora, circa
trent’anni fa in concomitanza con lo spostamento del vecchio cimitero in una nuova sede. Anche allora, pare, ci furono degli “incontri”. Ma i pochi testimoni ancora vivi si rifiutano di parlarne. Ci vorrebbe molto più tempo… nella biblioteca ci sono oltre 200.000 volumi, e nessun archivio di catalogazione recente…” “Non abbiamo tempo – gridò l’Arcivescovo – non abbiamo assolutamente tempo. Lei ritorni in biblioteca e continui a cercare. Questo cavolo di San Gremo. Deve trovare qualunque notizia fuori dall’ordinario si riferisca a quella piccola, stupida parrocchia”. Il seminarista esitò. Come poteva fare una ricerca senza sapere neppure cosa doveva cercare (cosa vorrebbe dire “fuori dall’ordinario”?). Ma non ebbe il coraggio di replicare al suo superiore. Decise che sarebbe tornato ad immergersi in quell’atmosfera polverosa della storica biblioteca dell’Arcivescovado muovendosi alla cieca fra le memorie storiche delle più importanti istituzioni ecclesiastiche della Diocesi, la serie dei Protocolli Vescovili, 174 volumi a cominciare dal 1265, i registri delle Ordinazioni Sacerdotali, il Tribunale Ecclesiastico e la copia dei Registri Parrocchiali di tutta la Diocesi dal 1823. Mentre il seminarista usciva dalla sala con aria mesta, l’Arcivescovo gridò ancora, scagliando sul tavolo i fogli a cui aveva dato un rapido sguardo: “Non abbiamo tempo, non abbiamo tempo!”. Il prefetto assentì: “Effettivamente abbiamo faticato parecchio a tenere finora sotto controllo le notizie che arrivavano da quel paesino. Abbiamo lasciato filtrare solo la parte più folcloristica, e meno credibile, tipo presunte apparizioni di fantasmi, streghe, zombies. Il tutto condito con l’ironia delle notizie false, quelle inventate dai giornalisti per riempire i vuoti nelle pagine dei giornali. Ma ora è sempre più difficile. I carabinieri locali sono subissati da denunce di apparizioni e da richieste di indagini su fatti incredibili. E loro stessi, pur essendo (ehm) carabinieri, cominciano a capire che sta succedendo qualcosa di strano. Comunque per il momento continuano ad eseguire gli ordini e a minimizzare i racconti di quelli che si rivolgono a loro e alle altre autorità”. Uno dei sacerdoti che aveva taciuto fino a quel momento intervenne, evitando di guardare il volto dell’Arcivescovo: “Eminenza, temo proprio che lo sviluppo di questi fatti potrebbe…”.
“Eh no eh!? Potrebbe un… corno!!!!– urlò l’Arcivescovo – questa è una situazione che mi è piombata fra capo e collo. Proprio ora che attendevo dal Santo Padre una risposta. Chi come me diviene Arcivescovo a Torino dovrebbe raggiungere in tempi brevissimi la berretta rossa. E, anche se non sono riuscito ad entrare nel concistoro previsto per fine novembre, senz’altro avrei ricevuto la chiamata per quello successivo”. Con tono mellifluo il sacerdote rispose al prelato: “E ne ha sicuramente tutti i meriti, le doti e le possibilità”. Il terzo sacerdote seduto al tavolo, un uomo altissimo di mezza età dall’aria manageriale commentò: “Il Santo Padre sa bene quanto conti Torino nello scacchiere italiano. Torino è sede cardinalizia… ma occorre tener conto della natura dei fatti che stanno succedendo. Se si tratta di un fenomeno isterico di massa, bisogna comprenderne la causa. Se invece… mio Dio, l’alternativa è terribile, veramente terribile. Il demonio. Che ha scelto la chiesa di un parroco notoriamente peccatore per manifestarsi. In questo caso… il Vaticano non può rischiare un altro scandalo, dopo quello della pedofilia. E anche la sua nomina cardinalizia, Eminenza, potrebbe slittare ancora”. “Sarebbe il colmo! – gridò ancora l’Arcivescovo talmente forte da provocarsi un accesso di tosse – una carriera ecclesiastica come la mia, ad un o dal vertice della gerarchia, bloccata da un piccolo stupido parroco maniaco sessuale – poi rendendosi conto di quanto fosse inopportuno e poco consono alla sua posizione lo sfogo davanti a tante persone, tentò di ridarsi un contegno e continuò con un tono quasi discorsivo – sì, quel parroco appunto. Ho dato mandato ai nostri… ehm collaboratori esterni di prelevarlo nella casa di cura dove si è ricoverato e di accompagnarlo qui in riunione. Arriveranno da un momento all’altro. Così anche padre Fernandez potrà interrogarlo e capire se ci sono gli estremi per un caso di possessione diabolica di massa… – e qui l’Arcivescovo rivolse lo sguardo interrogativo verso il prete più anziano del gruppo, un uomo vecchissimo e curvo, che fino a quel momento si era tenuto silenziosamente in disparte con l’atteggiamento di chi non condivide né le parole del prelato né il servilismo dei suoi collaboratori – …per il più famoso sacerdote esorcista d’Europa, che abbiamo fatto venire apposta da Barcellona, non dovrebbe essere difficile comprenderlo. Vero padre Fernandez?”.
La risposta dell’anziano prete tardò a giungere, quasi avesse cercato di trovare le parole più misurate per non urtare l’irritabilità dell’Arcivescovo, già piuttosto alterato. “Quando ci si addentra in certi campi, nulla è facile – disse l’anziano sacerdote in un italiano fluido ma con un forte accento spagnolo – comunque non amo, Eminenza, essere presentato come esorcista: in sessant’anni di attività ho risolto molti più casi utilizzando i miei studi in psichiatria e in neurologia, piuttosto che col rito dell’esorcismo. Solo un caso su molte decine è riconducibile al demonio. Tutti gli altri sono squilibri della nostro povera mente”. L’Arcivescovo, col viso beffardo, inchinandosi ironicamente verso l’anziano prete sbottò: “Ah ci scusi, ci scusi veramente don Fernandez… conosciamo bene i suoi attestati accademici. Dottore in psichiatria, neurologo di fama… ci inchiniamo alla sua sapienza don Fernandez ma, se avessimo avuto bisogno di uno psichiatra o di un neurologo, ne avremmo trovati quanti ne vogliamo qui da noi, senza bisogno di venirla a prelevare fino in Spagna… con un volo privato, badi bene, ha idea di quanto costi? Lei è qui perché ci serve il parere di un esorcista. E quindi, qui davanti a me, voglio avere un esorcista, il migliore d’Europa, non uno psichiatra. Del resto sappiamo bene quanto la scienza e la fede siano spesso incompatibili”. L’anziano prete evitò lo sguardo dell’Arcivescovo, forse per timore di manifestare in modo troppo evidente la contrarietà per le parole del suo superiore, poi si schiarì la voce e rivolgendo il viso verso il soffitto disse: “Possessione diabolica di massa? E’ un evento molto, molto raro. Basti pensare che il più famoso caso conclamato e riconosciuto risale addirittura al 1634, quando a Loudun, in Francia un prete negromante, padre Urbain Grandier coinvolse in riti satanici le suore Orsoline di un intero convento”. “Ahh, anche allora, quindi, tutto nacque da un sacerdote peccatore… – interloquì uno dei sacerdoti presenti – … una prova in più che tutti questi fenomeni potrebbero aver avuto origine dal comportamento scandaloso del parroco di San Gremo”. “Non esageriamo – disse il sacerdote alla sua destra, un prete molto giovane dalle lunghe ciglia e dall’aspetto efebico considerato il pupillo dell’Arcivescovo
– non è assolutamente certo che i fenomeni nascano dal comportamento biasimevole del parroco. In fondo tutti noi sacerdoti abbiamo dei momenti di debolezza… – e qui, quasi impercettibilmente, alzò gli occhi complici verso il l’Arcivescovo che distolse rapidamente lo sguardo da lui – insomma… se per ogni prete che commette, ehm, atti impuri ci ritroviamo il demonio fra i piedi… nel mondo ci sarebbero più diavoli che cristiani”. In quel momento irruppe nella sala don Molinari, factotum plenipotenziario dell’Arcivescovo, che annunciò: “Sono arrivate quelle due persone che Sua Eminenza attendeva”. “Il parroco di San Gremo è con loro?”– chiese con tono ansioso l’Arcivescovo. Don Molinari, con un’espressione desolata, si avvicinò all’Arcivescovo e gli parlò a lungo all’orecchio. Il prelato impallidì poi si coprì il viso con le mani in un gesto di estremo sconforto. Intanto i due uomini vestiti di nero che avevano atteso in corridoio di essere chiamati, vennero introdotti nella sala. Salutarono il prefetto, come fosse una vecchia conoscenza, dandogli la mano con aria grave e chinarono il capo in segno di saluto verso il gruppo dei partecipanti alla riunione. L’Arcivescovo sollevò lo sguardo sconvolto sui presenti. Tutti capirono che ciò che gli era stato appena sussurrato nell’orecchio doveva essere molto grave. Dopo qualche attimo di silenzio, quasi riflettesse se fosse il caso di comunicare ciò che gli era stato detto, il prelato indicò i due nuovi arrivati e li presentò come collaboratori esterni della Curia utilizzati spesso nei casi più riservati: “Sono persone laiche ma degne della massima fiducia perché ci sono state assegnate proprio dal signor questore”. Il questore chinò lievemente il capo in un gesto di assenso. Poi l’Arcivescovo raggelò i presenti annunciando con poche rapide parole il suicidio di don Bernardo Mazzacurati. “Non vi farò inorridire descrivendovi la terribile modalità con cui questo sacerdote indegno ha attuato il suicidio, un peccato mortale per chiudere una vita di peccati mortali. Ciò che purtroppo ci colpisce e ci rattrista è l’impossibilità di avere una sua versione delle apparizioni di San Gremo e, soprattutto, di farlo interrogare dal sacerdote esorcista. Però – continuò il prelato indicando i due uomini in nero – i nostri collaboratori hanno accompagnato qui una persona che, quasi certamente, può essere considerato un
testimone oculare dei fenomeni. Si tratta di un famoso autore di fumetti che è appena rientrato da una lunga permanenza all’estero e quindi ben difficilmente potrebbe essere stato coinvolto in un fenomeno di suggestione di massa, come ipotizzato per gli altri abitanti di San Gremo”. Poi rivolgendosi ai due uomini in nero l’Arcivescovo chiese: “Dove si trova ora il testimone?”. I due si guardarono come per decidere chi avrebbe dovuto rispondere poi uno di loro, con un tono imbarazzato, rispose: “Lo abbiamo lasciato alle cure di suor Clementina. Abbiamo dovuto usare dei metodi un po’ rudi perché, sicuramente, si sarebbe rifiutato di venire con noi. Ora si sta riprendendo nella saletta qui adiacente. Naturalmente ignora di essere stato portato qui nell’Arcivescovado”. Allora l’Arcivescovo si rivolse, col suo solito tono autoritario e sbrigativo, all’anziano prete esorcista: “Don Fernandez, se vuole interrogarlo, il testimone è a sua disposizione. Ma usi un po’ di intelligenza, non gli faccia capire la gravità della situazione e, soprattutto, il coinvolgimento nostro e dell’autorità civile. Sia il più vago e discreto possibile”. “Vago e discreto? – esclamò l’anziano prete con un’espressione furibonda – vago e discreto con una persona che è stata prelevata contro la sua volontà e portata in un luogo sconosciuto? Mi spiace, ma se la Curia vuole la mia collaborazione, deve accettare le mie regole. E non sto parlando di regole religiose che in questa riunione ho sentito poco presenti, ma di regole etiche che ho sentito del tutto assenti”. L’Arcivescovo, poco abituato ad essere contraddetto, sgranò gli occhi sorpreso e sconcertato poi, senza più trattenersi, fulminandolo con uno sguardo carico di odio e sbattendo violentemente un pugno sul tavolo, si alzò tendendo un dito minaccioso verso l’anziano prete e gridò: “Lei, don Fernandez… lei… lei…!” – ma poi, probabilmente ricordando che stava parlando con il più esperto sacerdote esorcista d’Europa, del cui aiuto aveva un disperato bisogno, facendo un grande sforzo su se stesso , sbuffò e si lasciò cadere di schianto sulla sedia. Poi con voce più controllata riprese: – “d’accordo, si comporti come ritiene più opportuno, ma cerchi di darmi delle risposte certe nel più breve tempo possibile. Sempre che ubbidire ad un suo superiore faccia ancora parte delle sue regole etiche”.
L’anziano prete, per niente turbato dal tono sarcastico dell’Arcivescovo, si alzò dicendo: “Sua Eminenza potrà sempre contare sulla mia ubbidienza… – ma poi nascondendo le labbra col breviario, a voce talmente bassa da non farsi udire neppure dai suoi vicini, terminò la frase – …ma non sulla mia complicità”. “Come?” – chiese l’Arcivescovo che, pur non udendolo, forse aveva intuito il proseguimento della frase. “Stavo semplicemente chiedendo a Sua Eminenza – disse don Fernandez, con una deferenza troppo esagerata per non essere ironica, indicando la montagna di fogli sparsi sul tavolo – se posso trattenere tutta questa documentazione e in particolare la ricerca fatta in biblioteca sui casi precedenti di apparizioni diaboliche nel paese. Me li vorrei studiare con calma”. “Faccia pure, reverendo Fernandez – disse l’Arcivescovo porgendogli il fascio di documenti che era sul tavolo – ma non si aspetti granché. Ho dei collaboratori molto inefficienti. Il nostro bibliotecario ci ha detto di aver reperito solo poche e vaghe informazioni non suffragate da testimonianze credibili”. I due uomini in nero gli arono un altro blocco di fogli: “Qui, invece, c’è la relazione delle nostre indagini nel paese. Purtroppo manca la documentazione fotografica per un… ehm disguido tecnico”. Il prete uscì dalla sala, accompagnato dal segretario e tutti i presenti, a partire dall’Arcivescovo, si sentirono leggermente sollevati, come se la presenza di un esorcista avesse decretato la certezza di una causa satanica degli eventi ed ora, con la sua assenza, si poteva tentare di immaginare come causa qualcosa di più rassicurante. Qualcosa che però nessuno dei presenti riuscì ad immaginare. Marcello riprese coscienza in un luogo sconosciuto, una stanzetta arredata con poltroncine neoclassiche e alle cui pareti erano appesi quadri di argomento religioso. Davanti a lui un’anziana suora gli stava umettando la fronte con un panno umido. “Si sente meglio? – chiese la suora – deve aver fatto una bella caduta per prendere una testata come questa”.
“Dove mi trovo?” chiese Marcello guardandosi intorno con lo sguardo confuso. La suora stava per rispondere ma venne bloccata dall’ingresso nella stanza di un anziano prete che teneva fra le mani un fascio di documenti. “Lei può andare, suor Clementina. Ora mi occupo io di questo signore”. “Ma dove sono capitato? – chiese Marcello sempre più sconcertato – chi siete e cosa volete da me?” “Si calmi signore – disse il prete mentre la suora abbandonava la stanza con aria perplessa – vorrei solo porle alcune domande, poi se ne potrà tranquillamente tornare a casa”. “Non risponderò a nessuna domanda se prima non mi dice chi è lei, dove ci troviamo e perché mi avete rapito”. Il prete sorrise comprensivo: “Rapito? Che grossa parola. Diciamo che chi l’ha accompagnato qui ha usato un metodo che personalmente disapprovo. Ma, in questo caso, vista la particolarità della situazione in cui ci troviamo, potrebbe anche essere giustificato. Innanzitutto le rivelerò il luogo in cui si trova in questo momento solo se mi assicurerà di mantenere il segreto sia sulle domande che le porrò che sui discorsi che faremo nel corso di questa chiacchierata”. Marcello accettò, con l’unica condizione di essere lasciato libero di tornare in serata a San Gremo: “Sono atteso da una persona a cui tengo molto”. Il prete diede un’occhiata alla relazione che gli avevano fornito i due uomini in nero. “Sì vedo, immagino lei voglia tornare dalla sua amica veterinaria. Ma lei non è prigioniero. Le garantisco che per l’ora di cena sarà nuovamente in paese”. Con poche rapide frasi, in un misto di parole italiane e spagnole, don Fernandez rivelò a Marcello il motivo per cui era stato “prelevato” dai due uomini in nero. Gli accennò della serie di inspiegabili fenomeni che si erano manifestati negli ultimi due mesi a San Gremo. Fenomeni di cui, come risultava nelle relazioni degli investigatori, anche lui era stato un probabile testimone. Eventi su cui la chiesa stava indagando per scoprire se si trattassero di manifestazioni di autosuggestione o… qualcosa di molto più grave. Parlando pacatamente e rispondendo senza remore ad ogni domanda di
Marcello, il vecchio prete gli parlò delle paure dei vertici della chiesa e del motivo per cui, proprio lui in quanto esperto in fatti misteriosi attribuiti al Demonio, era stato chiamato con la massima urgenza dall’Arcivescovo che gli aveva addirittura messo a disposizione un aereo privato pagato dalla Curia, affinché giungesse più velocemente da Barcellona a Torino. “Lei è un esperto di diavoli?” – chiese Marcello che, un po’ per la botta in testa ricevuta quel pomeriggio e un po’ per la stranezza dei fatti in cui si ritrovava immerso, aveva l’impressione di stare vivendo in un sogno. Allora il sacerdote si presentò, senza nascondere la funzione particolare che aveva nell’ambito della chiesa. “Un esorcista!? – quasi gridò Marcello – guardi che io non credo né a Dio né a Satana. Ha presente l’aforisma di Arthur Schopenhauer: o si pensa o si crede? Bene. Io mi ritengo uno di quelli che pensano”. L’anziano sacerdote sorrise: “Le sembrerà strano, ma anch’io non credo all’origine satanica dei fenomeni. Conosco bene i veri casi di possessione diabolica. E sono molto diversi da quello che ho letto nei rapporti di chi sta indagando su San Gremo… – poi fissando con simpatia Marcello negli occhi continuò – …non condivido il pensiero di Schopenhauer, perché sono credente, ma nonostante questo mi ritengo anche pensante. E, prima che sacerdote esorcista, sono neurologo e psichiatra. La prego di considerarmi in questa veste, o meglio, se per lei fosse possibile, come un vecchio, vecchissimo consigliere, un amico insomma. Sempre che per lei sia possibile considerare amico un uomo di ottantacinque anni”. Marcello osservò il vecchio prete, studiandolo per qualche istante, decidendo poi, per impulso e per il senso di empatia istintiva, che era una persona sincera di cui avrebbe potuto fidarsi. Don Fernandez gli apparve come il nonno che non aveva mai conosciuto, come il padre con cui era stato troppo poco, come la persona, insomma con cui avrebbe potuto parlare liberamente dei suoi segreti più profondi. Allora, quasi come un fiume in piena che trova finalmente lo sfogo per la sua corrente travolgendo gli argini, raccontò nei minimi dettagli, senza tralasciare nulla, la terribile notte vissuta nella casa della nonna. Ed anche la notte di trent’anni prima, quella per cui aveva deciso che non sarebbe mai più tornato in
quella casa. Poi, quasi per premunirsi dall’essere considerato un visionario, parlò anche di ciò che gli era stato raccontato da Cristiano sulle esperienze vissute dalle loro conoscenze comuni. “E’ un amico di vecchissima data. Una persona che conosco bene e di cui mi fido ciecamente” – disse tacendo, naturalmente, sulla predisposizione del suo amico per le sostanze illegali. Il prete lo ascoltò con espressione grave, senza interromperlo né porgli alcuna domanda. “Non serve che lei ci racconti di ciò che hanno visto o vissuto i suoi amici e i suoi conoscenti: in queste relazioni – disse don Fernandez battendo la mano sul blocco di fogli – abbiamo il racconto di centinaia di persone del paese terrorizzate da apparizioni terribili. Siamo riusciti finora a non far trapelare nulla di tutto ciò, convincendo la maggior parte delle persone al silenzio almeno fino a che la Chiesa non potrà dare loro una spiegazione accettabile. Quelli che non hanno accettato di tacere… sono stati trattati dai media, su nostra indicazione, come psicolabili e mitomani in cerca di pubblicità mediatica. Purtroppo, col fatto che anche lei, appena tornato dall’estero senza alcun contatto con le voci di paese, abbia assistito ad uno di questi eventi… ci fa cadere la speranza di trovarci di fronte ad un caso di autosuggestione di massa”. Poi, scartabellando fra le carte che aveva portato con sé, estrasse un foglio su cui erano scritti a mano una serie di appunti. Guardando Marcello fisso negli occhi disse: “Alcuni danno la colpa al comportamento immorale del parroco e pensano che possa aver causato un terreno favorevole per il demonio, ma… – e qui il prete estrasse un altro blocco di fogli – …nel corso della storia di San Gremo abbiamo trovato, in periodi storici molto particolari e drammatici, alcuni episodi molto simili a ciò che si sta manifestando in questi giorni. Sono fenomeni che, nel ato, si sono esauriti al massimo in una trentina di giorni dopo i quali il paese è tornato alla totale normalità. E in quei casi, mi pare di capire da queste ricerche, non c’era un parroco peccatore a cui affibbiare la colpa. Una tesi alternativa possibile potrebbe essere che se esiste un "Male" contrapposto al "Bene" forse quel male può prendere forma, in un qualche modo, nell'uomo, secondo le nostre paure e i nostri fantasmi”.
Marcello, guardò dubbioso il prete: “Creazioni della mente, dunque? Allucinazioni?”. Il prete rispose quasi parlando fra sé e sé. “Non allucinazioni, ma protoplasmi veri e propri. Lei non conosce le possibilità della mente umana. Forse perché non ha mai visto uno pseudo-posseduto vomitare petali di rosa”. “Manifestazioni di isteria, dunque”. “Potrebbe essere, ma ci sono ancora troppe cose che non tornano in una spiegazione di questo tipo. Innanzitutto i tempi: sicuramente la chiesa di San Gremo ha qualcosa che polarizza queste manifestazioni e lo fa non da due mesi ma da almeno quattro o cinque secoli. Con delle lunghissime pause di tranquillità”. Detto questo il prete porse a Marcello il foglio di appunti che aveva tenuto in mano fino a quel momento. Su di esso venivano riportate una serie di date e di avvenimenti. Autunno del 1630. Streghe bruciate in piazza da anni riappaiono di notte, dopo un terribile terremoto, nelle vie del paese pronunciando maledizioni e trasformandosi in mostruosi animali sconosciuti. Le cronache locali affermano che grazie alle preghiere dei paesani, dopo una ventina di giorni, le apparizioni cessarono. Ottobre 1944. Una bomba caduta da un aereo americano colpisce un’ala della chiesa. Quella stessa notte il parroco sente dei rumori provenire dalle macerie nella zona colpita. Affacciandosi alla finestra della sua camera in canonica vede uscire dalla voragine causata dalla bomba una processione di soldati orrendamente mutilati fra i quali riconosce alcuni giovani del paese caduti in combattimento. Il parroco, sconvolto, esce dalla chiesa per seguire la macabra scena da vicino e i morti lo circondano tentando di divorarlo. Questo almeno scrisse quel povero parroco sul registro parrocchiale, prima di perdere del tutto il senno. Fine ottobre 1979. Il sagrestano dell’epoca, per motivi sconosciuti, si suicida gettandosi dal campanile della chiesa e nei successivi quindici giorni parecchie persone raccontano di averlo visto di notte aggirarsi sanguinante per le vie del paese accompagnato da altre terribili figure in decomposizione.
Marcello, indicando questa parte degli appunti, disse al prete: “Anche allora ero a San Gremo. Fu l’ultima volta che mi fermai nella casa perché mia nonna morì proprio allora – poi esitando e rabbrividendo al ricordo continuò – e io, come le ho raccontato, parlai a lungo col suo fantasma”. “Lei non parlò con un fantasma. I fantasmi non esistono – disse il prete – lei parlò con qualcuno che aveva preso le sembianze di sua nonna… oppure con un’emanazione della sua stessa mente. Mi creda, Nostro Signore non permette ai morti di apparire ai vivi”. “Nostro Signore no. Ma, dal suo punto di vista di credente e soprattutto di esorcista… Satana, forse sì” – disse Marcello pensieroso. “Perché lei, dal suo punto di vista di ateo, avrebbe una risposta accettabile?”. Marcello non rispose. Poi, scuotendosi, si rivolse al prete: “Ed ora cosa pensa di fare? Tenterà un esorcismo in paese? “Non lo so. Devo cercare prima di capire qual è la correlazione fra tutti questi episodi e quello che sta succedendo ora. Come vede tra un periodo di apparizioni e l’altro ano decine o addirittura centinaia di anni. Anni e anni in cui San Gremo è un paese come tutti gli altri. Comunque per rispondere alla sua domanda, no. Non penso di celebrare un esorcismo nei prossimi giorni, sempre che non succedano episodi la cui origine sia indubbiamente satanica… oppure che il nostro Arcivescovo, preso da crisi di impotenza, non mi ci obblighi. Sta vivendo molto male il dubbio di essere vicino al giudizio universale… proprio ora che sta per ricevere la nomina a cardinale, sempre che il Pontefice – e qui il sacerdote sorrise fra sé e sé – non decida di punire i piccoli peccati di superbia a cui spesso anche le alte gerarchie del clero si abbassano”. In quel momento bussarono alla porta. Suor Clementina si affacciò chiedendo timidamente: “La riunione sopra è finita, se non avete ancora bisogno di me… me ne andrei anch’io…” Il sacerdote rispose sorridendo: “Vada pure, per stasera abbiamo finito anche noi – poi rivolgendosi a Marcello continuò – come vede ho mantenuto la mia parola: sono solo le 19.30. Per l’ora di cena sarà dalla sua amica. Le chiedo solo di farmi sapere immediatamente se si accorge ancora di qualcosa di strano”. Poi porse a Marcello un biglietto da visita. “Ecco il mio numero di cellulare.
Non esiti a chiamarmi in qualunque momento del giorno o della notte”. “Sì, rispose Marcello. Per fortuna ora i cellulari funzionano anche a San Gremo. Altrimenti non avrei nessuna possibilità di chiamarla. Qualcosa di buono, forse, don Bernardo l’ha fatto”. Il prete restò per un attimo pensieroso come se stesse elaborando un pensiero. Poi, facendo scrocchiare le dita come se si fosse ricordato improvvisamente di qualcosa, diede la mano a Marcello e lo salutò allontanandosi velocemente nel lungo corridoio dell’Arcivescovado. Mentre si trovava già lontano, si voltò verso Marcello, per dirgli: “Mi scusi, me ne stavo dimenticando: troverà la sua auto qui sotto nel cortile del palazzo, con le chiavi nel cruscotto”. Quando Marcello uscì dal palazzo settecentesco dell’Arcivescovado in via Alfieri si ritrovò immerso nel traffico del centro cittadino ben illuminato dalle luci delle vetrine, dai lampioni e dai fari delle auto. Ma quando dopo una ventina di minuti, percorsa la triste periferia industriale, uscì dalla città e si inserì sull’autostrada per la Valle d’Aosta, l’oscurità e la nebbia autunnale lo avvolsero come un mantello buio. Il traffico sull’autostrada era scarso in quell’ora in cui la maggior parte dei pendolari era già rientrata a casa per la cena. Lasciando alle sue spalle le luci e l’animazione della città a Marcello parve quasi di cambiare dimensione, ando da un luogo sicuro e razionale a un mondo in cui incubi e visioni potevano manifestarsi da un momento all’altro improvvisamente. Per questo, con un timore finora sconosciuto, si sorprese a fissare l’oscurità ai lati della strada quasi volesse coglierne delle presenze incombenti e minacciose. E quasi in risposta ai suoi timori, di colpo alla luce degli abbaglianti, vide emergere dalla nebbia a non più di un centinaio di metri davanti alla sua auto, una imponente figura ferma al centro della strada. Dopo una rapidissima occhiata allo specchietto retrovisore per accertarsi di non avere auto alle spalle, schiacciò a fondo il pedale del freno slittando leggermente sul fondo umido ed arrestandosi a pochi metri dalla figura immobile che lo fissava. Un enorme cinghiale che, dopo aver tranquillamente osservato l’auto di Marcello si mosse senza fretta verso il bordo della strada e, introducendosi in una falla della rete di protezione, si allontanò nel buio dei campi. Con un sospiro di sollievo Marcello
ripartì. In quel momento squillò il cellulare. La voce preoccupata di Bettina gli chiese se aveva cambiato idea sul tornare a San Gremo per la notte. “Ho preparato una cena apposta per te, ho capito che non ami molto i miei prodotti biologici. Vino rosso per la cena e erbaluce per il dessert. Ti prego, non dirmi che dovrò mangiare io il cotechino di cinghiale con contorno di fritto misto che si sta raffreddando sul tavolo già da almeno mezzora”. “Scusami Bettina, ho avuto una serie di imprevisti che ti racconterò… sto per arrivare. Non mangiartelo tutto il mio cotechino. Ho un conto aperto con un cinghiale che ho appena conosciuto!”. “Tranquillo, nemmeno se stessi per morire di fame… è tutto tuo. Ti aspetto”.
XII La cena, anche se riscaldata, fu piacevole ed appagante per Marcello e lo riportò indietro agli antichi sapori della cucina della sua infanzia. Il cotechino di cinghiale e il fritto misto alla piemontese erano stati a lungo i suoi piatti preferiti. Anche i discorsi con la sua vecchia amica indugiarono sui ricordi comuni e sul ato, con un pizzico di nostalgia, evitando accuratamente quell’argomento latente, quello terribile, che premeva per uscire da entrambi ma che nessuno dei due voleva affrontare rovinando l’atmosfera che aveva assunto la serata. E se uno scricchiolio da una delle stanze chiuse interrompeva i loro discorsi bastava uno sguardo di intesa e l’ombra che era scesa per un attimo sui due visi si dissolveva in una tacita rassicurazione. Marcello e Bettina si guardavano e sorridevano, e nei loro occhi, l’immagine dell’altro era ancora quello dell’adolescente che si erano lasciati alle spalle. A Marcello venne in mente la canzone di Guccini “…dieci anni da narrare l’uno all’altro e le frasi rimanevan dentro in noi…”. Lo disse a Bettina che sorridendo rispose: “E’ giusto che le frasi che, forse, avremmo voglia di dirci, rimangano dentro di noi. Lo sai anche tu che non siamo più gli stessi. E che il gioco di ‘Cosa Saremo’ si è trasformato nel gioco del ‘Cosa Eravamo’”. Un pizzico di tristezza avvolse Marcello ma venne esorcizzata dal dessert di torcetti al burro che furono abbondantemente accompagnati da un’intera bottiglia di ito Erbaluce di Caluso. Un leggero stordimento iniziava a confondere i loro discorsi che sempre più frequentemente si perdevano in divagazioni e digressioni. Allora Bettina estrasse da un cassetto le cartine e un pezzetto di fumo: “La prima serata serena dopo due mesi di pianti e dolore. Ti va un bottarella finale prima di dormire?”. “Anche tu, come Cristiano? Ma continuate tutti a farvi le canne da queste parti? – disse Marcello senza rifiutare la cartina e la sigaretta da svuotare che Bettina gli porgeva – non so neppure se sono ancora capace di rollare”.
“Tranquillo – disse Bettina sorridendo – è come andare in bicicletta, una volta che lo sai fare, non lo dimentichi più”. Infatti il t che Marcello rollò in pochi secondi era perfetto e ben compresso. Così il fumo li avvolse entrambi prolungando quella serena confusione che il vino aveva portato nei loro pensieri. La mezzanotte venne superata inconsapevolmente da un fiume di pensieri e di parole. “Domani ho il primo appuntamento alle 8.30 – disse infine Bettina sbadigliando – mi sa che sia giunta l’ora…” “…che volge al desio? – concluse Marcello fissando negli occhi Bettina in attesa di un cenno di invito. Il muto messaggio giunse a Bettina ma non venne raccolto. “No, Marcello, dormirai nella camera degli ospiti. Non facciamo cose di cui domani potremmo pentirci… perché ora la nostra amicizia mi sembra qualcosa di speciale. E oltretutto…” La frase di Bettina venne interrotta dal beep del cellulare di Marcello che segnalava l’arrivo di un sms. “…appunto – concluse Bettina buttando un occhio sul telefono posato sul tavolo su cui si leggeva la frase BUONANOTTE AMORE! – devi ancora dare la buonanotte alla tua ragazza”. “Non pensare che sia così innamorata di me: semplicemente è una ragazza super tecnologica. Ha creato un programmino al computer che ogni notte a quest’ora mi invia automaticamente questo messaggio. La cosa buffa è che il programmino lo aveva creato per il fidanzato precedente, così quando si è messa con me ha solo dovuto modificare il settaggio del numero telefonico”. “Geniale! – disse Bettina sorridendo. “Sì – rispose Marcello – e ancora più geniale il fatto che mi sono accorto che il programmino ha in memoria almeno tre o quattro numeri telefonici a cui spedisce contemporaneamente quel messaggio. Sai, Josephine viaggia molto per lavoro… ed ha amici ovunque”. “Non mi pare che la cosa ti disturbi molto…” – disse Bettina affacciandosi alla finestra che dava sul giardino… – ho l’impressione che l’unico essere da cui ti importi essere amato sia il tuo cane… guardalo laggiù. Ha deciso di dormire in giardino, oggi non c’è stato verso di farlo entrare in casa. Anche perché per salire qui nell’alloggio bisogna per forza are dall’ambulatorio”. Anche Marcello si affacciò alla finestra e vide, nella pallida luce che filtrava
dalla casa, Bobo sdraiato davanti alla porta di casa immerso in un sonno profondo. “Meglio così. Dormire all’aperto non può che fargli bene, ultimamente si è un po’ rammollito”. Gli parve anche di vedere un’ombra scura che si muoveva quasi fluttuando tra le pallide spirali di nebbia nel giardino. Ma poi capì (o volle convincersi) che si trattava solamente di un’illusione ottica dovuta alla sua stessa ombra proiettata dalla luce della finestra contro lo strato di nebbia sottile. Bettina gli si avvicinò per chiudere la finestra poi, prendendolo per un braccio, lo accompagnò lungo il corridoio della zona notte per mostrargli la stanza in cui avrebbe dormito. “Quella è la mia camera – disse indicando la prima di una serie di tre porte – quella dopo… – non terminò la frase e Marcello comprese che si trattava della camera di suo figlio. Poi, aprendo la porta della terza camera, gli disse – “…ecco ti ho preparato qui il letto, la coperta imbottita è nell’armadio se nella notte sentirai freddo”. “Comunque non è vero che l’unico essere da cui mi interessi essere amato sia il mio cane…– disse Marcello baciandola castamente sulla fronte, poi aggiunse abbracciandola – c’è anche il mio commercialista”. L’abbraccio si protrasse un po’ più a lungo di quanto si fa normalmente con una semplice amica ma Bettina non vi si sottrasse. Poi con un sospiro diede la buonanotte a Marcello e si chiuse la porta alle spalle. Prima di mettersi a letto Marcello si affacciò ancora una volta alla finestra ma non scorse nessun movimento misterioso giù nel giardino. Sporgendosi leggermente, poteva vedere alla sua destra la finestra buia, inquietante nella sua oscurità, della camera di Michelino, il bimbo di Bettina. Si chiese come mai la sua amica restasse ancora in quella casa, grande e piena di ricordi. Chissà se nei suoi programmi futuri, sempre che una madre che ha appena perso un figlio possa fare dei programmi, ci fosse il cambiare vita e città. Molte persone, colpite da una tragedia lo fanno. Marcello si infilò sotto le coperte che profumavano di lavanda chiedendosi se potevano bastare poche ore ate accanto ad una persona del proprio ato per annullare anni e anni di distanza e inconsapevolezza. Mentre il sonno stava già avvolgendo i suoi pensieri, si sorprese ad immaginare Bettina che si
trasferiva a Parigi, la loro storia da adolescenti che si trasformava in un amore adulto e definitivo. Marcello si addormentò con un sorriso sulle labbra. Dormì profondamente solo per un paio d’ore. Poi, nel cuore della notte, alle soglie dell’alba, qualcosa lo svegliò. Qualcosa che non avrebbe mai più scordato per tutta la vita. Anche don Fernandez, in quello stesso momento era sveglio. Nella piccola camera che l’Arcivescovado metteva a disposizione degli ospiti di aggio, aveva ato la sera e parte della notte ad esaminare i pochi documenti storici riferiti ad avvenimenti misteriosi nel territorio di San Gremo. C’era qualcosa di indefinibile che non tornava, come una spiegazione latente nascosta nelle pieghe dei fatti, qualcosa di ricorrente ma che mancava di un aggio importante perché ne fosse chiaro il senso. La sua ricerca si era focalizzata sulla chiesa del paese che sembrava, fin dalla sua costruzione, l’elemento catalizzatore delle apparizioni. Il miracolo dell’acqua, quello che secondo la tradizione aveva dato origine alla costruzione della chiesa e successivamente al paese, non aveva alcun riscontro storico documentato, anzi pareva addirittura non fosse mai avvenuto. La leggenda della siccità e dei contadini in preghiera fino alla grande luce e allo sgorgare dell’acqua da una sorgente apparsa improvvisamente nel terreno, faceva acqua, era proprio il caso di dirlo, da tutte le parti. Anche perché l’inizio dei primi lavori per la costruzione della chiesa risaliva all’incirca nel 500 ed avvenne sulle rovine di una piccola costruzione preesistente quindi non sul luogo di un presunto miracolo. A meno che gli antichi ruderi senza storia su cui venne costruita la chiesa non fero parte di un tempietto votivo, magari di origine pagana. Don Fernandez scoprì che i lavori vennero interrotti improvvisamente dopo lo scavo iniziale delle fondamenta e per una settantina d’anni il cantiere restò abbandonato al centro di una campagna brulla e nebbiosa avvolta da leggende terrificanti di cui non è giunta alcuna memoria fino a noi. I racconti, ingigantiti e resi spaventosi dal aparola, nascevano per lo più dalla fantasia dei contastorie dell’epoca che, viaggiando di paese in paese nei giorni di mercato, sapevano abilmente sfruttare la superstizione dei contadini per crearsi un pubblico attento e affascinato. Nessun documento ufficiale, invece, riporta il vero motivo di questa sospensione dei lavori. Forse perché due soli fatti riempivano le cronache dell’epoca: il primo era la guerra tra i si e i Savoia con l’invasione del territorio da parte di oltre duemila soldati a cavallo che avevano ato le Alpi guidati da Renato d’Angiò; il secondo era il famosissimo miracolo del Corpus Domini, per cui da
un ostensorio rubato, un’ostia si era librata a mezz’aria di fronte a centinaia di testimoni e non ne era discesa fino all’arrivo del Vescovo. “Ubi maior minor cessat – disse don Fernandez parlando da solo nella stanza vuota – con un miracolo famoso e importante come quello del Corpus Domini, che è stato addirittura l’origine della costruzione del Duomo di Torino, se anche fosse veramente avvenuto il Miracolo dell’Acqua ad appena una trentina di chilometri dalla città, non ci sarebbe stato spazio nelle cronache né nei documenti ufficiali. Ma perché i lavori vennero interrotti per quasi un secolo? Ci hai messo lo zampino tu?” – disse ancora ad alta voce don Fernandez rivolgendosi questa volta niente meno che al demonio. Nella sua carriera di esorcista, gli succedeva spesso di porre domande direttamente al diavolo, quasi fosse un interlocutore privilegiato in quanto suo avversario quotidiano. Non che ottenesse risposte da queste domande, ma il fatto di rivolgersi direttamente al Nemico gli serviva per non perdere mai di vista la sua missione nella chiesa. “Comunque il miracolo dell’acqua non avvenne o per lo meno non avvenne in occasione della costruzione della chiesa di San Gremo… – continuò il prete parlando all’invisibile interlocutore – …ma questa storia della luce abbagliante e dello sgorgare di una fonte d’acqua potrebbe riferirsi a molti secoli prima. E magari, allora, qualcuno si occupò della costruzione di un tempietto votivo sulle rovine del quale poi venne costruita la chiesa… – poi il sacerdote alzando gli occhi su una litografia appesa alla parete che rappresentava Lucifero cacciato dal paradiso continuò – …no, non credo che Tu ti sia mai occupato di costruire tempietti votivi. Per le tue messe nere preferisci le cappelle sconsacrate o i cimiteri abbandonati”. Don Fernandez, con la continua sensazione di essere ad un o dalla soluzione delle sue domande, mise in fila sul tavolo i vari eventi documentati: anno 1630, chiesa terminata da poco, apparizione di streghe dopo un terribile terremoto; anno 1944, apparizioni di fantasmi dopo che una bomba caduta da un aereo americano esplode accanto alla chiesa provocando una voragine; anno 1979 apparizioni in concomitanza con lo scavo e lo smantellamento dell’antico cimitero posto accanto alla chiesa. Poi tornò indietro fino all’anno 1549 quando la costruzione della chiesa venne interrotta improvvisamente dopo lo scavo delle fondamenta. Anche allora, pur non essendo documentato, qualcosa doveva essere successo”. In pratica ad ogni evento del ato remoto o prossimo corrispondeva uno scavo accanto alla chiesa. Come se sotto le sue fondamenta riposasse un’entità che non voleva essere disturbata.
“Sei tu per caso? – disse ancora don Fernandez ad alta voce – stai dormendo lì sotto e gli scavi ti infastidiscono perché si avvicinano a te e al tuo regno? Ma in questi ultimi mesi, sicuramente, nessuno scavo è più stato eseguito nella chiesa di San Gremo. Eppure i morti pare si siano nuovamente risvegliati. Allora se non è uno scavo che ti disturba… che cosa può essere?” Anche questa volta il Diavolo non accennò alcuna risposta e il prete, osservando dalla finestra i primi vaghi indizi delle luci dell’alba, decise che avrebbe dormito per qualche ora. E lo fece con la sensazione di non aver centrato del tutto i riferimenti che risultavano dalle sue ricerche. “Possibile che tu ti manifesti sempre in modo vile, senza avere il coraggio di farci comprendere le tue azioni? Sei proprio un infame!”. Don Fernandez non aveva peli sulla lingua né ritegno quando insultava il suo nemico. In quel momento, quasi come una risposta del demonio all’offesa ricevuta, il suo cellulare squillò. Quel suono improvviso nel cuore della notte, fece improvvisamente scattare un’idea nella mente del sacerdote che restò per qualche secondo pensieroso fissando il cellulare che continuava a suonare. Poi il prete schioccò le dita e continuando a seguire la sua idea rispose distrattamente al telefono. La voce sconvolta di Marcello parlò al prete: “Don Fernandez… è successo di nuovo. Una cosa terribile…” Cos’è il rumore indefinito che lo ha svegliato nel cuore della notte? Marcello accende la luce sul comodino e tende le orecchie. Per un attimo spera si sia trattato di un sogno. Ma il rumore si ripresenta, più netto ed intenso: ricorda a tratti un gorgoglio che cambia via via di intensità fino a trasformarsi in uno strano squittio. Marcello, rabbrividendo, si alza dal letto e si dirige verso la finestra aprendola. Ma il rumore non proviene dall’esterno, dove la nebbia si è intensificata, ed ora quasi nasconde la sagoma di Bobo addormentato davanti alla porta di ingresso. No. Purtroppo il rumore proviene da un punto indefinito all’interno dell’appartamento. Marcello socchiude la porta affacciandosi sul corridoio: per un attimo ha il terrore e la certezza che il rumore provenga dalla camera del bambino morto. Ma, col fatalismo di chi ormai ha perso la fiducia nelle proprie convinzioni, si avvicina alla porta della camera accanto alla sua, la spalanca violentemente e allungando una mano all’interno ne accende la luce. La stanza è deserta.
Il lettino è in ordine, e sul pavimento giacciono alcuni giocattoli abbandonati che sicuramente Bettina, dopo la morte di Michelino, non se l’è sentita di rimettere nella loro scatola. I giocattoli sono sparsi sul tappeto come se il bimbo che li stava utilizzando avesse smesso solo un attimo prima il suo gioco. Nell’aria aleggia uno strano profumo, di fiori apiti. Ma nulla di più. Alle sue spalle da un punto indefinito della casa il gorgoglio continua intensificandosi a momenti e scemando in altri fino a trasformarsi in un fruscio simile a quello di un pesante sacco trascinato sul pavimento. Lasciando la porta della camera del bimbo spalancata, Marcello tenta ancora di capire la provenienza del rumore. Cammina lentamente nel corridoio ando davanti alla camera di Bettina. Socchiude la porta e nella semioscurità ne ascolta il respiro regolare di chi è profondamente addormentato. Decide di non svegliarla e richiude con delicatezza la porta della camera. Poi continua a percorrere il corridoio seguendo il rumore che ora si è attenuato trasformandosi quasi in un bisbiglio che pare provenire addirittura dalle strutture interne e dai muri della casa. Quando giunge alle scale che scendono al pian terreno dove c’è lo studio di Bettina, finalmente la provenienza del rumore è quasi certa: lo strano gorgoglio proviene dall’oscurità del piano inferiore. Ormai deciso ad arrivare fino in fondo, a costo di accettare una sorta di verdetto di pazzia, Marcello decide di proseguire nell’esplorazione della casa ed inizia lentamente a scendere le scale. Poi giunge davanti alla porta chiusa dell’ambulatorio. Ecco da dove proviene il rumore: dallo studio di Bettina la cui porta è chiusa, ma contro la quale si sentono dei fruscii e dei piccoli colpi come se qualcuno dall’interno la volesse spingere ma non avesse la forza di aprirla. Marcello, terrorizzato, esita davanti all’istinto di spalancarla. Proprio lì, dietro a quella porta si sta consumando qualcosa di orribile, di tremendo, qualcosa di mostruoso che si struscia oscenamente contro di essa. Il gorgoglio ha assunto nuovamente un’intensità quasi assordante ed è confuso con una serie di altri rumori indefiniti simili a squittii e tonfi che ritmicamente fanno vibrare la porta dello studio. Con mano tremante Marcello abbassa la maniglia, spalanca la porta ed abbassa l’interruttore per accendere le luci dell’ambulatorio. La scena che si presenta ai suoi occhi sotto la gelida illuminazione dei tubi al neon è terribile e sconvolgente.
Lo studio è pieno di piccoli animali in movimento frenetico. Sono animali morti. Animali morti che si muovono. Un cane completamente squartato da cui pendono gli intestini sanguinanti si accanisce contro la carogna di un gatto (un occhio spalancato e l’altro già decomposto) che, anziché fuggire dal suo nemico, gli sta masticando un frammento di intestino. I colpi e i fruscii che Marcello sentiva provenire dalla porta erano causati da un paio di terribili cocorite semidecomposte che svolazzano urtando continuamente contro il battente nel tentativo di uscire dalla stanza. Il gorgoglio che ha svegliato Marcello, invece, proviene dalla gola di un cagnolino, completamente aperta e dal suo tentativo di respirare nonostante i fiotti di pus e di sangue che spuntano dalla ferita. Ed ecco che di colpo, gattonando fra gli animali e i loro resti sanguinolenti, sbuca da sotto al tavolo metallico al centro dello studio, un bambino vestito coi resti stracciati di un abito della prima comunione. Il suo viso è bianco come il latte tranne sotto gli occhi segnati da profonde occhiaie scure. Marcello lo riconosce immediatamente: è il bimbo che ha visto impiccato nella fotografia, il figlio di Bettina. La sua espressione, però, non è quella innocente di un bambino ma quella di un vecchio perverso, la cui cattiveria non ha bisogno di gesti o parole ma trapela dallo sguardo. Sta giocando indifferente con le manine immerse nel ventre di un gattino di pochi mesi. Ne estrae il cuore ancora palpitante e, sorridendo, lo mostra a Marcello che, paralizzato dal terrore, osserva attonito la scena. Poi il bimbo si alza da terra, porta alla bocca il cuore del gattino, e, masticandolo lentamente, cammina verso Marcello. Giunto davanti a lui si ferma e gli porge la manina sporca di sangue. Marcello arretra fino a premere la schiena contro la parete. Poi il bambino gli parla. Con una terribile, profonda voce da vecchio: “Vieni con noi. Ti piacciono gli animali? Ce ne sono tanti qui con cui giocare”. Ora i mostruosi animali sono tutti riuniti attorno al bambino, e fissano immobili
Marcello come in attesa di un ordine per aggredirlo. Il silenzio piomba di colpo nello studio. Poi una delle due cocorite decomposte, torna ad alzarsi in uno stentato volo, e, dopo aver violentemente sbattuto prima contro il soffitto poi contro una parete della stanza, perdendo piume e pezzi di carne, scende in picchiata ad impigliarsi nei capelli di Marcello che, finalmente, trova la forza per urlare. Allora il bambino davanti a lui lo fissa severo, portando il ditino sanguinante al naso per invitarlo al silenzio prima di voltarsi e varcare la porta uscendo dallo studio. Tutti gli animali si accodano al bambino e si dirigono in processione salendo le scale verso l’appartamento e lasciando dietro di loro una scia di sangue e di frammenti decomposti. Marcello li segue con lo sguardo mentre riesce a formulare il primo pensiero compiuto dopo una lunga pausa di silenzio cerebrale: “Eccoli qui: sono tornati i pazienti morti di Bettina”. Poi anche lui, come in trance, sale le scale fin nell’appartamento. Osserva con gli occhi sbarrati la terribile fila di animali che, ondeggiando come in una danza macabra, entrano uno dopo l’altro nella camera del figlio di Bettina. Quando anche l’ultimo animale è entrato la porta si richiude di schianto come se qualcuno l’avesse spinta con forza. Svegliata dall’urlo di Marcello, Bettina si è alzata e, senza alcuna sorpresa con lo sguardo quasi assente, si avvicina a Marcello sconvolto e sotto shock, chiedendogli con un tono calmo che rasenta la follia: “Lo hai visto anche tu? Il mio bambino torna qui ogni tanto, di notte. Non sapevo se si sarebbe fatto vedere anche da te. Ma ora credo di sì”. Marcello senza rispondere si precipita verso la camera del bambino. Appoggia la mano sulla maniglia, esita. Poi lentamente, molto lentamente, apre la porta. Seduta su una sedia di spalle, una donna anziana si volta verso Marcello. E’ la sua nonna. E gli chiede con un terribile sorriso: “Marcello, perché non sei tornato a casa stasera? Ti stavamo aspettando”.
Marcello chiude di schianto la porta mentre viene raggiunto da Bettina che gli chiede ancora se ha visto il suo bimbo. Marcello, senza rispondere, corre a prendere il cellulare: “Devo chiamare don Fernandez. Lo devo chiamare subito. Deve venire ad esorcizzare questo paese”.
XIII Dopo aver parlato con Marcello, don Fernandez posa il cellulare sul tavolo e lo osserva silenziosamente. Perché ha promesso a questa persona sconvolta che si sarebbe recato nel paese per celebrare un rito di esorcismo quando… il primo a non credere ad un caso di possessione diabolica di massa è proprio lui, l’esorcista? Forse perché questo Marcello Grimaldi è un ateo convinto, che per la prima volta, prende in considerazione l’esistenza di una vita dopo la morte? Ridare la fede ad un non credente non fa forse parte della sua missione? Ma un esorcismo e, soprattutto, un esorcismo inutile non è in grado né di ridare la fede a un ateo né a risolvere un problema grave come quello che stanno vivendo gli abitanti di quel paese. Perché più ci pensa e più don Fernandez è convinto che l’inferno e Satana non hanno nulla a che fare con ciò che sta accadendo a San Gremo. E dopo il racconto che ha appena udito dalla voce sconvolta di Marcello, ne è praticamente sicuro: gli animali non hanno anima, e non esiste l’inferno degli animali. E allora da dove possono arrivare quei poveri resti di bestiole sofferenti? In uno studio veterinario si eseguono molte autopsie di animali… possibile che parte della loro energia vitale sia rimasta nell’ambulatorio e qualcosa l’abbia ridestata? La stessa cosa che ha ridestato i fantasmi incontrati dagli abitanti del paese? No non è possibile. Perché gli animali non risorgono. E neppure gli uomini… almeno fino al giorno del giudizio. E, soprattutto, non risorgono perché non sono mai morti i mostri e le masche delle fantasie popolari. Don Fernadez sfoglia e rilegge per l’ennesima volta le relazioni degli inviati dell’Arcivescovo che hanno indagato sulle apparizioni: risulta evidente che alcune persone nel paese non hanno visto, come la maggior parte degli altri, dei fantasmi di gente morta ma delle entità deformi e spaventose che non avevano nulla di umano tanto che hanno pensato si trattasse di demoni infernali. E allora? Possibile che qualcosa renda visibili e concretizzi le paure della gente? Qualcosa che giace sepolto sotto la chiesa e che ha trovato il modo di manifestarsi in ato quando veniva disturbato da scavi o voragini che si avvicinavano a lui? E che ora, forse, ha trovato un altro modo, senza bisogno di attendere uno scavo o un terremoto per uscire dal suo abisso sotterraneo e manifestarsi?
Il sacerdote che ha trascorso tutta la notte in bianco guarda l’ora, sono quasi le sei del mattino: fra poco le prime luci dell’alba rischiareranno la città. Don Fernandez sa che dovrebbe attendere ancora per un paio d’ore l’apertura degli uffici vescovili per manifestare all’Arcivescovo i suoi dubbi e le sue riflessioni: è quello che la Curia si attende da lui ed è la ragione per cui è stato chiamato con urgenza a Torino da Sua Eminenza. Potrebbe stendersi nel letto e riposare almeno per un’ora, ma la sensazione di perdere del tempo, mentre molte persone stanno vivendo momenti terribili ed hanno bisogno di aiuto, non gli permetterebbe di prendere sonno, nonostante la stanchezza. E poi, questo Arcivescovo che sembra più preoccupato per la propria carriera che per la ricerca di un significato spirituale o religioso degli avvenimenti, non gli piace per nulla: non andrà da lui questa mattina perchè ha appena deciso che si recherà immediatamente nella chiesa di San Gremo per incontrare di persona… il responsabile di tutto. “Se sei stato tu, preparati alla lotta perchè sto venendo a trovarti – disse don Fernandez rivolgendosi alla stampa raffigurante il demonio – ma io credo che tu non abbia la forza e la capacità di influenzare un intero paese. Sei sempre stato un debole ed un vigliacco. Sono sicuro che qualcun altro, ben più forte, si stia facendo are per te”. Poi, dopo aver indossato la giacca a vento sull’abito talare, don Fernandez chiamò la centrale radio-taxi anticipando all’operatrice di dover essere portato fuori città in un paese a circa trenta chilometri . “C’è nebbia fitta fuori città – disse l’operatrice – ora vedo se trovo qualcuno disposto a questa corsa. Dopo pochi secondi la sua voce priva di espressione annunciò: “Cinque minuti, in arrivo Diavolo 5”. Don Fernandez sorrise per la sigla del taxi: a volte il caso sa essere veramente ironico. Anche Marcello e Bettina arono il resto della notte in bianco. Dopo la lunga telefonata a don Fernandez in cui Marcello era riuscito ad estorcere al sacerdote la promessa che sarebbe venuto al più presto a celebrare un esorcismo in paese, i due amici si sedettero sul divano in salone, mano nella mano con la televisione accesa, in attesa dell’alba: nessuno dei due aveva voglia di ritornare a dormire. E nemmeno di parlare. Silenziosi si strinsero sempre più vicini di fronte ad un film comico degli anni ’50 interpretato da Dean Martin e Jerry Lewis. Che non riuscì a farli sorridere.
Poi si baciarono. Quando le prime luci dell’alba entrarono dalle finestre della stanza il film non era ancora terminato. E Bettina e Marcello stavano facendo l’amore. E un bambino col vestito della prima comunione, pallido, immobile sulla porta li osservava. Marcello lo vide ma non disse nulla. Abbassò gli occhi su Bettina e continuò a fare l’amore. Poi alle otto di mattina in punto successe qualcosa: la televisione si spense. Come l’orologio digitale e l’abatjour sul tavolino. Come tutte le luci nelle case di San Gremo. Come i lampioni della piazza e l’insegna al neon della farmacia notturna. Marcello guardò verso la porta: il bambino si stava dissolvendo e in pochi secondi scomparve. O forse, come volle pensare Marcello, quel bambino non c’era mai stato. Un’ora prima, all’incirca alle sette del mattino, sull’autostrada, un taxi bianco procedeva lentamente nella nebbia. L’autista del taxi si tratteneva a stento dal bestemmiare per l’assenza totale di visibilità sull’autostrada, e lo faceva solo per riguardo a quell’anziano sacerdote seduto sul sedile posteriore. Avrebbe dovuto rifiutare la corsa, visto che il bollettino meteo aveva annunciato che la visibilità sulle strade piemontesi non superava i 20 metri, ma una corsa extra urbana di oltre trenta chilometri gli avrebbe permesso di tornare a casa in anticipo con un guadagno corrispondente ad un’intera giornata di lavoro. Il prete alle sue spalle era silenzioso e concentrato sul suo breviario anche se di tanto in tanto sussurrava qualche frase in latino, come se fosse la parte di una preghiera che non bastava leggere ma andava pronunciata. C’erano voluti oltre settanta minuti per percorrere a velocità variabile fra i trenta e i quaranta chilometri all’ora un tragitto per cui, con una visibilità normale, non sarebbe occorsa più di mezzora. Poi a circa tre chilometri da San Gremo, la nebbia fitta parve dissolversi e impallidire lasciando intravedere nella foschia ai bordi della strada gli alberi e i campi fumanti di concimi. “Lo chiamano il paese delle pallide nebbie questo – disse l’autista guardando don Fernandez nello specchietto retrovisore – vede? Da queste parti le nebbie non sono mai fitte come intorno a Torino. E’ la vicinanza con le montagne”. Con la visibilità migliorata il taxi accelerò e in pochi minuti raggiunsero la piazza di
San Gremo. Don Fernandez pagò il tassista lasciandogli anche una discreta mancia ma pretese la ricevuta che avrebbe allegato alla nota spese che la Curia gli avrebbe rimborsato. “Non voglio regalare nulla a questo Arcivescovo.”– pensò mentre riponeva lo scontrino nel portafoglio. In quello stesso momento a una ventina di chilometri dal paese, in montagna, un enorme autocarro che trasportava gli elementi di una gru, stava faticosamente arrancando sugli stretti tornanti della valle dell’Orco per andare a compiere dei lavori alla diga della centrale idroelettrica di Ceresole Reale. L’autista si chiamava Saverio Bonetti ed aveva iniziato la sua giornata alle sei di quel mattino con una colazione di pane e tomini elettrici conclusa con un abbondante doppio grappino. Don Fernandez, invece, non aveva fatto colazione e un leggero capogiro lo colse mentre, fermo sulla piazza del paese, osservava la chiesa di San Gremo in cui stava per entrare. Avrebbe volentieri consumato un cappuccino o almeno un caffè ma il bar della piazza era ancora chiuso. Guardò l’orologio del campanile che segnava le otto meno un quarto. Il bar avrebbe probabilmente aperto alle otto. Ma don Fernandez aveva fretta di entrare a studiare l’interno della chiesa e decise che avrebbe rimandato la colazione a più tardi. Su in montagna, il camionista Saverio Bonetti, cantando ad alta voce una canzone di Gigi D’Alessio, riuscì a superare, con una sola manovra e senza rallentare, una curva a gomito nella strettissima strada sentendosi molto fiero della sua bravura nella guida. Intanto, a San Gremo, don Fernandez, superato il lieve capogiro, stava entrando nella chiesa. Erano le otto meno dodici minuti. L’interno della chiesa era freddo e deserto. Don Fernandez camminò lungo la navata centrale ed andò ad inginocchiarsi nel primo banco, proprio di fronte all’altare maggiore e si immerse nella preghiera. Quasi subito udì un fruscio nel banco alle sue spalle. Non si voltò. Continuò a pregare a voce leggermente più alta. Il fruscio si ripetè
più intenso e questa volta produsse anche un piccolo spostamento d’aria. Aria putrida che sapeva di fogna. Don Fernandez continuò a pregare senza voltarsi. Sapeva che qualunque cosa ci fosse alle sue spalle, finchè non si fosse voltato per vederla, non avrebbe avuto alcun potere su di lui. Intensificò la sua preghiera alzando ancora la voce. E allora qualcuno lo chiamò “Fernandez, ti ricordi di me?”– era una voce di donna anziana, stentata ma che, per il prete, aveva qualcosa di famigliare. Allora si voltò. Dietro di lui la chiesa ora appariva gremita. Solo donne, donne di ogni età. Completamente nude. E la donna che aveva parlato era nel banco alle sue spalle. Una vecchia donna nuda di un’ottantina di anni. La sua pelle screpolata pendeva semidecomposta. La donna sorrideva. “Mi riconosci, Fernandez? Ricordi quanto mi hai desiderata? Nei tuoi anni di seminario a Barcellona, pensavi solo a me, mi volevi nuda accanto a te. Ora sono morta, ma finalmente il tuo desiderio si è avverato. Ora sono nuda accanto a te”. Allora don Fernandez riconobbe la donna: era la giovane addetta alle pulizie del seminario in cui studiava, settant’anni prima. La fonte dei suoi desideri da adolescente, delle sue tentazioni a cui era sempre riuscito a resistere con la preghiera. Perché don Fernandez era un uomo normale con normali desideri, ma in tutti i suoi settant’anni di sacerdozio, a differenza della maggior parte dei suoi colleghi sarcerdoti, aveva sempre saputo resistere alle pulsioni carnali evitando incontri notturni con prostitute, relazioni sessuali con le perpetue e rifiutando, quando era ancora un uomo giovane e attraente, le proposte esplicite di alcune fedeli. E infatti allargando lo sguardo lungo la navata della chiesa le riconobbe quasi tutte: le donne che aveva desiderato nelle sue fantasie, le parrocchiane che in confessione gli avevano rivelato i particolari più scabrosi dei loro peccati eccitandolo fino al parossismo. Alcune di loro, nel corso degli anni, erano sicuramente morte e i loro corpi lasciavano intravedere le ossa attraverso la pelle resa trasparente dalla morte. Altre, invece, erano giovani e belle, bellissime nella loro nudità provocatoria. Anche quelle don Fernandez riconobbe: erano le donne della sua fantasia, quelle che lui si era inventato nei momenti di solitudine e di desiderio, donne mai esistite quindi mai invecchiate e mai morte ma responsabili dei suoi involontari orgasmi notturni. Erano le donne dei suoi sogni, i sogni di un uomo normale che aveva scelto la castità ma il cui corpo reclamava soddisfazione. La chiesa era veramente gremita e don Fernandez si stupì di quanti desideri inappagati si lasci alle spalle un uomo di quasi ottant’anni.
Gli venne l’impulso di uscire immediatamente da quella chiesa, di fuggire da queste donne lussuriose e ghignanti ed uscì dal banco per correre verso l’uscita. Ma le donne più giovani e belle danzando di fronte a lui, si trasformarono in orribili demoni, e gli sbarrarono la strada con le loro braccia squamose. Le altre, quelle già morte, iniziarono a svolazzare a mezz’aria lasciando cadere a terra pezzi della loro carne decomposta poi scesero su di lui e lo circondarono tentando con le loro mani adunche di accarezzarlo, di palpare il suo sesso, di estrarlo per succhiarlo con le loro bocche sdentate di cadaveri putrefatti. Poi all’improvviso, sull’altare maggiore, brillò una luce abbagliante che illuminò la chiesa come cento fulmini scoccati all’unisono ed una voce potente gridò: “Fermatevi figliole adorate! Lasciate stare il mio amico fedele, l’uomo con cui combatto da tanti anni”. Don Fernandez riconobbe la voce di Satana, quella che aveva ascoltato tante volte nelle sue sedute con gli indemoniati, e si voltò verso l’altare per guardare negli occhi il suo Nemico. Un bambino completamente nudo di circa due anni era beffardamente seduto sul tabernacolo e parlava con la voce profonda di un uomo adulto. “Allora caro prete, sei qui per delle risposte vero? E io te le voglio dare. Capirai tutto finalmente nonostante il tuo piccolo cervello mortale. Perché io ti rivelerò cosa c’è sotto questa chiesa… – e qui la voce del demonio esplose in una risata agghiacciante – …sotto quella che tu chiami la casa di Dio!” Don Fernandez continuò a pregare silenziosamente fissando il diabolico bambino mentre le donne nude intorno a lui si erano immobilizzate e chinavano il capo rivolto all’altare in segno di rispetto. “Ed ora la risposta che stai cercando… – parlò ancora il demonio –…devi sapere caro prete che…”. Ma la voce si interruppe di colpo e il bambino, con espressione stupita guardò verso l’alto da cui proveniva dal campanile il suono del primo dei rintocchi delle otto di mattina… Nello stesso momento fra le montagne della valle dell’Orco molti chilometri a nord del paese di San Gremo il camion di Saverio Bonetti era quasi giunto alla diga della centrale dove sarebbe stata montata la gru. Mancavano poche curve sulla strada che a destra rasentava la montagna e a sinistra un profondo burrone. Saverio Bonetti accelerò ancora l’andatura ma di colpo una volpe apparve al centro della strada e pareva quasi fissare l’uomo negli occhi. L’autista non era
particolarmente amante degli animali e, normalmente, non avrebbe cercato di evitarlo. Nella sua carriera di autista aveva investito senza alcun rimorso un numero considerevole di gatti, cani e una volta anche un cucciolo di cinghiale. Ma quel mattino quella volpe aveva qualcosa di speciale. Almeno così sembrò a Saverio Bonetti. Per questo diede quel colpo di sterzo per evitarla. Ma la velocità e il peso della gru sul cassone, sbilanciarono il camion trascinandolo fuori strada. Dal lato del burrone. L’automezzo divelse un alto traliccio e tranciò di netto i cavi dell’alta tensione che portavano la corrente elettrica a tutta la valle sottostante e rotolò verso il fondo della scarpata andandosi ad adagiare semidistrutto sul greto del sottostante fiume Orco. Saverio Bonetti, trafitto da un montante della gru che era penetrato nella cabina di guida, morì con l’espressione stupita di chi non crede ai propri occhi. In tutta la valle, e per molti chilometri verso la città, la corrente elettrica si interruppe di colpo a causa dei cavi tranciati. Erano le otto in punto del mattino. Don Fernandez, immobile, guardava verso l’altare maggiore. Le piccole lampadine che, inserite in finte candele, illuminavano il tabernacolo si spensero di colpo mentre il campanile batteva l’ottavo rintocco dell’ora. Alle otto in punto del mattino, davanti agli occhi stupiti di don Fernandez il diavolo si dissolse e scomparve dall’altare maggiore della chiesa. Il prete si guardò intorno in tempo per vedere la folla di donne nude che con espressione terrorizzata si stavano sciogliendo come fossero statue di cera lasciando un residuo putrido sul pavimento della chiesa che in pochi secondi scomparve del tutto. La chiesa era tornata deserta. Bettina, si accorse appena del blackout e solo perchè la televisione di colpo si era spenta, e continuò a stringersi forte a Marcello sul divano dove avevano appena fatto l’amore. Erano le otto e un minuto. Marcello aveva appena visto dissolversi il bambino che li stava guardando. Fecero ancora l’amore. Alle otto e trenta iniziarono ad arrivare nell’ambulatorio al piano inferiore, i primi clienti e Bettina dovette vestirsi per scendere al lavoro. Nello studio tentò inutilmente di accendere le luci e il computer: il blackout della corrente elettrica la obbligò a rimandare le visite meno urgenti e a prescrivere
pochi farmaci generici non avendo la possibilità di accedere al database delle case farmaceutiche sul pc. Bobo, vinto dalla fame del mattino, superò la paura per l’odore degli studi veterinari e, portando fra i denti il solito immancabile sasso raccolto in giardino, entrò nello studio di Bettina seguendola docilmente nell’appartamento al piano superiore dal suo padrone. “Bentornato, cane stupido” – disse Marcello mentre il cane gli posava tra i piedi, come fosse un prezioso gesto d’affetto, il sasso che portava in bocca. “Scommetto che hai fame – disse Marcello aprendo le due scatolette di cibo per cani che Bettina gli aveva lasciato insieme ad una ciotola, prima di tornare al lavoro giù nello studio. Bobo trovò abbastanza inutile e scontata la frase del suo padrone perché non accennò neppure ad abbaiare come spesso faceva quando capiva che stava parlando proprio con lui, ma si limitò a scodinzolare violentemente creando nella stanza un vortice d’aria che odorava di cacca di cane. Don Fernandez non uscì immediatamente dalla chiesa. Si soffermò ad osservare i banchi che fino ad un attimo prima erano gremiti di figure infernali. Persino l’odore di fogna e di decomposizione era totalmente scomparso e nella chiesa deserta aleggiava il classico profumo dell’incenso. Il sacerdote attraversò tutta la navata centrale per andare dietro all’altare e are poi attraverso la porticina nel vano del campanile. Il luogo della morte misteriosa del bambino. Si guardò intorno alzando gli occhi verso le funi delle campane. In alto vide appesi a testa in giù una fila di pipistrelli addormentati. Attraverso le feritoie del campanile i raggi di un pallido sole autunnale vennero ad illuminare gli antichi mattoni. Il prete pensò a quel povero bimbo morto impiccato, forse suicida, sicuramente terrorizzato da qualcuno o da qualcosa. Qualcuno o qualcosa che riposava silenzioso al di sotto di quella chiesa. Ma che in questo momento non faceva sentire il suo potere. Tutto taceva e l’atmosfera era serena e silenziosa. Il prete tornò sui suoi i ripercorrendo tutta la chiesa ed usci sul sagrato. La piazza cominciava ad essere più animata per quanto si potesse parlare di animazione in un piccolo paesino agricolo come quello. La farmacista stava sollevando la saracinesca e, nella vetrina del bar-trattoria subito accanto, qualcuno stava pulendo i vetri mentre i primi anziani clienti entravano per il
cicchetto mattutino. Don Fernandez decise di concedersi finalmente un cappuccino e, magari, una brioche. Nulla di ciò che aveva appena visto in chiesa lo aveva spaventato così tanto da fargli perdere l’appetito. E nemmeno la voglia di capire. Anzi, più che il pensiero dello spavento provato, un’idea continuava a frullargli nel capo, un’intuizione che, forse… sì, poteva fornire una spiegazione. Ma per verificare se questa intuizione era fondata, avrebbe avuto bisogno del o della Curia. Si trattava di far muovere persone e mezzi che solo un organismo prestigioso e potente sarebbe stato in grado di mobilitare in tempi brevissimi. Guardò l’ora per vedere se era troppo presto per telefonare all’Arcivescovo. Le otto e trenta. Sì, a quell’ora Sua Eminenza sicuramente era ancora impegnato nella prima colazione, sempre che avesse già terminato le funzioni corporali mattutine, che i perfidi pettegolezzi di suore e chierici, di servizio in Curia, sussurravano come lunghe e laboriose, a causa di una fastidiosa stitichezza. Don Fernandez entrò nel bar-trattoria e si avvicinò al banco tra la curiosità dei pochi anziani avventori, non abituati a vedere un sacerdote fra i clienti del bar. Ordinò un cappuccino e una brioche ma la barista, desolata, rispose: “Mi spiace reverendo, è mancata la luce. La macchina del caffè è ferma. Posso solo servirle la brioche”. Mentre il prete sfogliava il giornale consumando un pessimo croissant non del tutto desurgelato, venne colpito da qualche frase dal tavolino alle sue spalle, dove due anziani con la testa ciondolante stavano parlando davanti a due bicchieri colmi di vino rosso, che sicuramente non erano i primi del mattino. Il prete aguzzò le orecchie. Le frasi erano dette in stretto dialetto piemontese, un po’ strascicate per l’effetto alcol, ma don Fernandez, avendo un’ottima predisposizione per le lingue straniere (ne parlava correttamente quattro), non faticò a coglierne il senso. “Ti è successo di nuovo? Le hai viste anche stamattina?” diceva uno dei due. “Sì, si erano trasformate in gatti viola, grandi come un vitellino. E al posto della coda avevano una serpe. Però questa volta non sono rimaste molto. Quando è mancata la luce, sono scomparse”. “Brutte troie bastarde. Proprio il nostro paese dovevano scegliere le masche per tornare”.
Il prete assentì senza voltarsi. E i suoi pensieri si muovevano turbinosamente. Ecco un indizio importante: le visioni in chiesa, le donne nude, il bambino sull’altare, erano scomparsi improvvisamente nel momento del blackout elettrico. Ed era successo anche al vecchio alle sue spalle: come se n’era andata la luce, erano sparite quelle che lui pensava fossero masche. Insomma l’elettricità aveva un qualche rapporto con le apparizioni. Decise di chiamare immediatamente l’ufficio dell’Arcivescovo. Estrasse il cellulare di tasca ma, purtroppo, si accorse che all’interno del bar non c’era campo. Chiese di pagare la consumazione e la barista, sorridendo gli disse: “Se permette, reverendo, gliela offro io la brioche. Del resto siamo senza luce, non potrei neppure batterle lo scontrino”. Don Fernandez ringraziò con un sorriso, pensando tra sé e sé che la brioche che aveva mangiato era talmente cattiva che forse la barista temeva di commettere un peccato mortale nel farla pagare ad un sacerdote. E proprio mentre stava uscendo dal bar, l’apparecchio radio dietro al bancone iniziò a suonare una canzone ad alto volume, la macchina del caffè con uno sbuffo di vapore riprese a funzionare e sul muro esterno la scritta pubblicitaria al neon col logo di una birra si riaccese: la linea elettrica era stata riattivata. Don Fernandez si voltò verso la barista e disse: “Ora può battere lo scontrino, se vuole le pago la brioche”. “La prossima volta, reverendo, la prossima volta. Mi paghi con una preghiera. E’ un brutto periodo ed ho veramente molte cose da chiedere a Nostro Signore”. Il prete non si fermò a chiedere alla barista che cosa volesse sapere dal Signore. Non era difficile immaginare che anche lei, come la maggior parte degli abitanti del paese… Il cellulare squillò. Il numero della Curia apparve sul display e don Fernandez, prima di accettare la chiamata, si diresse verso il centro della piazza per poter parlare abbastanza lontano dall’ingresso del bar e da eventuali anti.
XIV Don Fernandez, col suo o un po’ malfermo, tenendo il cellulare all’orecchio, attraversò lentamente la piazza e si accomodò sulla stessa panchina su cui due sere prima Marcello e Cristiano avevano fumato e chiacchierato a lungo. Al telefono la voce ansiosa e concitata di don Molinari, il segretario dell’Arcivescovo ansimava: “Don Fernandez, dove si è cacciato? Sua Eminenza la vuole vedere immediatamente nel suo ufficio. Stamane ha già ricevuto parecchie telefonate da Roma…”. “Com’è il tempo là? Sono un mese avanti a noi. Niente nebbia!”. “Don Fernandez, la prego! La situazione è imbarazzante: deve venire subito in Curia e comunicare all’Arcivescovo come ha deciso di affrontare questa… ehm… spiacevole situazione?” “Don Molinari, dica a Sua Eminenza che non ho la possibilità di andare da lui in questo momento. Mi trovo a San Gremo ed ho urgentissimo bisogno che la Curia mi aiuti ad ottenere una lista di cose che ora le chiederò. Ha da scrivere?”. “Ma don Fernandez, l’Arcivescovo esige di vederla di persona. E subito”. “Allora gli dica di venire a San Gremo. Ha preso da scrivere?” La risposta di don Molinari tardò ad arrivare. In sottofondo udì un parlottare convulso e delle esclamazioni rabbiose. Poi la voce mogia del segretario della Curia: “Mi dica cosa le serve”. Senza trattenere un piccolo sorriso don Fernandez iniziò ad elencare. “Dovete contattare la direzione generale dell’Arpa e chiedere di intervenire immediatamente a San Gremo con tutti gli strumenti per la rilevazione di inquinamento da elettrosmog”.
La voce stupita di don Molinari chiese: “Elettrosmog? Che cos’è?”. Don Fernandez non rispose e continuò: “Poi chiamate il centro operativo dell’Enel e chiedete loro di inviare con la massima urgenza qualcuno in grado di interrompere, in qualunque momento gli venga richiesto nei prossimi due giorni, l’erogazione della corrente elettrica in tutto questo paese…”. “Ma don Fernandez, è un servizio pubblico. Dobbiamo motivare una richiesta come questa, giustificarla!” Ancora una volta l’anziano sacerdote non rispose all’obiezione di don Molinari e continuò: “Ed ora la cosa più complicata… qui dovrete utilizzare tutte le vostre risorse e il vostro potere”. La voce desolata di don Molinari rispose: “Come se fosse semplice far muovere l’Enel con la massima urgenza”. “Ciò che sto per chiedervi è ancora più complicato. Dovete contattare l’Istituto di Ricerca Sperimentale Neuropsichiatrica di Ginevra. Chiedete di parlare con il direttore dott. Bouchet, mio ex compagno di Università alla facoltà di neuropsichiatria a Parigi, sempre che sia ancora vivo, eravamo coetanei. Il loro istituto possiede un motorhome dotato di Tac e di varie apparecchiature per l’analisi cortico-cerebrale. Veniva utilizzato fino ad un paio di anni fa come o preventivo nelle le gare di Formula uno. Poi hanno smesso di richiederlo per i costi troppo alti di trasferimento dell’apparecchiatura e dell’equipe medica. Bene. Dovete richiedere l’invio immediato del motorhome e dell’equipe qui a San Gremo. Ginevra non è molto distante da Torino. Credo che se l’Arcivescovo si impone e muove le leve giuste, riusciremo ad avere il tutto in serata o, al massimo, domattina”. Don Fernandez udì all’altro capo del filo un trambusto come se la cornetta fosse stata violentemente strappata dalle mani del povero segretario, poi la voce infuriata dell’Arcivescovo irruppe urlando: “Elettrosmog, Enel, Tac… ma si può sapere che senso ha tutto questo con un paese infestato dal demonio? Don Fernandez, le ricordo che lei è stato chiamato come esorcista. E come esorcista deve…”. Per nulla intimidito l’anziano sacerdote interruppe l’Arcivescovo: “Le cose che le ho richiesto fanno parte del mio incarico di esorcista. – poi, chiedendo silenziosamente perdono a Dio per l’enorme bugia che stava per
propinare al suo superiore, continuò: – nei miei studi di neuropsichiatria rivolti allo studio del cervello degli indemoniati ho buoni motivi per credere che in una zona del cervello dei posseduti da Satana, una zona chiamata amigdala, si rintani il Nemico. Ed è perfettamente rilevabile da una Tac cerebrale”. “Lei mi sta dicendo che una Tac è in grado di rilevare la presenza del demonio in un cervello umano? Don Fernandez, mi sta prendendo in giro?”. “Non mi permetterei mai Vostra Eminenza – poi trattenendo a stento un sorriso l’anziano sacerdote continuò – naturalmente la mia ricerca in questo settore dell’analisi cerebrale è solo all’inizio… cosa vuole, personalmente come ricercatore non ho molti mezzi e le case farmaceutiche preferiscono finanziare la ricerca di una cura dei tumori piuttosto che una prova certa dell’esistenza fisica del demonio. Ma il dottor Bouchet ha sicuramente i mezzi e le attrezzature che mi servirebbero per capire se questo paese è dominato dal potere del demonio”. L’ira dell’Arcivescovo parve dissolversi in un improvviso mutismo e don Fernandez se lo immaginò seduto a fissare, con espressione perplessa, la cornetta del telefono, incerto se credere a ciò che aveva appena sentito. Poi, con tono sbrigativo l’alto prelato disse: “Vedrò cosa posso fare per le sue richieste. Ma lei, don Fernandez, sappia che se non mi risolve il problema entro una settimana, parlerò personalmente col vescovo di Barcellona perché la spedisca a dirigere la più sperduta parrocchia di alta montagna sui Pirenei”. Senza tradire né ironia né polemica, don Fernandez rispose con voce serena all’Arcivescovo: “Troppo buono, Sua Eminenza… da chi ha saputo che adoro la montagna e che il mio sogno è di trascorrervi questi miei ultimi anni di vita?”. Non giunse alcuna risposta se non lo sbattere violento della cornetta sul telefono e l’interruzione della telefonata. Soddisfatto don Fernandez compose il numero del cellulare di Marcello che rispose al primo squillo. “Novità, signor Marcello? Sono vicino a lei. Mi trovo a San Gremo”. “E’ venuto per l’esorcismo? Qui la situazione sta veramente rasentando la
follia”. “Ha visto altri fantasmi?”. “Un bambino che mi fissava circa mezzora fa mentre stavo… ehm, dove non avrebbe dovuto esserci nessun bambino. Tutto ciò in cui ho sempre creduto si sta ribaltando”. “Intende dire che la sua fede in Schopenhauer sta vacillando? Questo non può che essere un bene. Comunque vediamo: scommetto che il fantasma del bambino che ha visto… è scomparso mezzora fa, quando c’è stato il blackout elettrico, vero?”. Con voce sinceramente stupita Marcello balbettò: “Sì, è scomparso quando è mancata la luce. Ma… cosa significa? Che rapporto hanno i fantasmi con la corrente elettrica?”. “Non lo so ancora, ma spero di scoprirlo presto. Ho un sospetto che anche lei, proprio ora, mi ha confermato. Per questo non celebrerò un esorcismo… almeno per il momento. Stasera o al massimo domattina dovrebbero arrivare a San Gremo una serie di strumenti che ho richiesto. Sempre che il nostro Arcivescovo si dia da fare per ottenerli”. “Strumenti scientifici o… ehm… oggetti religiosi come reliquie di santi, acque benedette, frammenti della croce?” – chiese Marcello che per la prima volta considerava questi elementi, che tante volte aveva inserito nelle sue storie macabre, come qualcosa di effettivamente utilizzabile nella vita reale. Per lo meno nel tipo di vita reale che stava vivendo da un paio di giorni. “A volte scienza e fede religiosa non sono così antitetici. Lo vedrà questa sera o domattina al massimo. La chiamerò appena arriveranno i rinforzi. Chissà che proprio grazie ad un vecchio sacerdote lei non ritrovi la sua fede… atea! Ora prenderò una camera qui nell’albergo della piazza, e, se demoni e fantasmi non mi disturberanno, erò il pomeriggio a studiarmi la storia di questo paese. A proposito… lei può fornirmi qualche libro sulla storia di San Gremo?”. “Ho un’amica direttrice della biblioteca comunale di Rivarolo Canavese, una
cittadina qui vicino. Sicuramente ha una bibliografia completa della storia locale. Ci andrò subito e le procurerò ciò che le serve”. “A presto, allora. Se quando torna dalla biblioteca vede in piazza un grande motorhome con targa svizzera, sappia che forse siamo ad un o dalla soluzione”. “Anche gli svizzeri, ora – pensò Marcello posando il telefonino – questo prete mi sembra ancora più pazzo delle cose che sto vivendo qui”. Marcello chiamò Bobo e si affacciò nello studio di Bettina. La donna stava visitando una cagnetta incinta a cui doveva fare un cesareo. “Vado a Rivarolo in biblioteca – le disse – ci vediamo più tardi”. “Salutami Marta, e… chiedile scusa se l’ho liquidata velocemente ieri. Avevo fretta di restare sola con te, non ti vedevo da troppo tempo”. “Ti saluterò Marta. E le dirò che la prossima volta non la liquiderai più così in fretta. Perché ora io e te ci vedremo molto più spesso”. Con un sorriso Bettina si rivolse alla cagnetta incinta e le disse: “Vedi, questo è il mio amico Marcello. Ha una splendida fidanzata a Parigi, ma dice che ora erà molto più tempo qui da noi. Probabilmente ha intenzione di far conoscere questo paese alla sua splendida fidanzata”. “La mia splendida fidanzata odia questo posto. E non ci verrà mai… per fortuna. Ciao amore!” – disse Marcello chiudendo la porta e dirigendosi con Bobo verso l’uscita dello studio. Uscì sulla strada tenendo il cane al guinzaglio. Poi, mentre camminava verso la piazza del paese dove aveva posteggiato l’auto, alle sue spalle, sentì giungere un motorino a tutta velocità. Si ritrasse a bordo strada tirando verso di sé Bobo, prima di accorgersi che si trattava del suo amico Cristiano, che zigzagando per gioco da un lato all’altro della carreggiata, percorreva il suo tragitto di consegna della posta. “Lo sapevo, Bettina ti ha convinto a fermarti – disse Cristiano frenando rumorosamente accanto a Marcello – e dalle borse sotto ai tuoi occhi credo che
non abbiate dormito molto questa notte”. “In effetti non ho dormito molto. Ma non per quello che stai pensando tu con le tue allusioni oscene e il tuo stile di guida da quindicenne di quarant’anni”. “Se mi ci metto riesco anche a fare l’impennata – rispose Cristiano accelerando e sollevando il motorino sulla ruota posteriore – ora ho la borsa della posta che mi impaccia e non riesco a sollevarmi del tutto. Ma se me la tieni posso stupirti”. “Ho capito. Sei già fatto alle nove del mattino. Mi chiedo come tu possa consegnare la posta agli indirizzi giusti in questo stato”. “E chi ha detto che la consegno agli indirizzi giusti? Io la metto nelle buche un po’ a caso. Poi qui si conoscono tutti per cui alla fine, dopo qualche scambio, ogni destinatario riceve la sua posta. E’ un sistema che favorisce i rapporti interpersonali tra i vicini di casa”. “A Parigi ti avrebbero già licenziato”. “Infatti sono i vantaggi del vivere in questo buco del culo del mondo. Comunque, a proposito di posta, ho qualcosa anche per te”. Marcello sgranò gli occhi: “E chi vuoi che mi scriva qui a San Gremo?”. “Non è indirizzata a te. E’ una raccomandata per tua nonna. E’ arrivata dall’India parecchi mesi fa. Di solito se il destinatario è deceduto, le raccomandate vengono rispedite al mittente. Ma visto che sapevo che tu prima o poi saresti tornato in paese, l’ho illegalmente firmata io col nome di tua nonna e l’ho tenuta a casa mia per consegnartela quando ti avrei visto. Me ne ero completamente dimenticato. Ma stamattina, cercando le cartine in un cassetto, mi è ricapitata in mano. Vedi i vantaggi di avere un amico impiegato alle poste?”. Marcello, con uno strano presentimento, aprì la busta e ne estrasse un sottile foglio di carta intestata col logo di un ospedale psichiatrico di Port Blair, in India. Da molto tempo Marcello non utilizzava la lingua inglese e restò per qualche attimo a fissare perplesso le parole scritte sul foglio. Il senso della lettera, però, gli fu chiaro immediatamente, nonostante il tono burocratico e spersonalizzato delle comunicazioni ufficiali.
In pratica veniva comunicato alla nonna che un uomo di una sessantina di anni che affermava di chiamarsi Ruggero Grimaldi, era stato ricoverato in stato confusionale nell’ospedale psichiatrico, su richiesta di alcuni turisti connazionali, che lo avevano raccolto sulla spiaggia di una delle isole Andamane dove da parecchi anni viveva come un eremita. Dalle poche e frammentarie parole strappate all’uomo, avevano saputo che nel 2004 era stato sorpreso con la moglie Maddalena dal terribile Tsunami, quello in cui avevano perso la vita migliaia di persone. Lui si era salvato ma la moglie era scomparsa. Nonostante l’uomo si rifiutasse o non fosse in grado di fornire alcuna notizia su se stesso , il direttore dell’istituto aveva trovato nelle sue tasche un vecchissimo bollettino di bonifico internazionale effettuato da una signora italiana. Presumendo che si trattasse di una parente stretta (la persona che aveva effettuato il bonifico si chiamava Grimaldi come il destinatario) il direttore le aveva inviato quella lettera per comunicare la presenza dell’uomo fra i ricoverati. “Allora? – chiese Cristiano guardando l’amico che fissava incredulo la lettera – buone notizie dall’India? La tua nonna era stata sorteggiata per ricevere una fornitura gratuita di ganja?”. “Mio padre. E’ ricoverato in un istituto psichiatrico indiano, o almeno lo era otto mesi fa quando è stata spedita questa lettera. E mia madre è morta”. Cristiano di colpo si fece serio: “Oh, mi spiace. Scusami amico mio”. Marcello fissando negli occhi l’amico disse: “Non me ne frega un cazzo. I miei, per me, erano come morti da parecchi anni. Ma la cosa assurda sai qual è? Io lo sapevo già. Sapevo di mia madre. E sospettavo anche che mio padre non fosse morto”. “Pensavo non avessi loro notizie da molti anni”. “Infatti. Da molti anni. Finché ieri notte non ho visto uscire da una bara il fantasma di mia madre. E l’altra bara, quella che doveva essere di mio padre, era vuota. ” “Che brutto trip” – disse Cristiano appoggiando una mano sulla spalla di Marcello – vedo che il tuo ritorno a San Gremo non ti ha portato un karma di serenità… a parte, forse, l’aver ritrovato Bettina”. “Sì, hai ragione. E’ stato bellissimo rivederla. E scoprire che non siamo poi così
cambiati”. “Ma ora che farai? Andrai in India a cercare tuo padre?”. “Ora? L’unica cosa che mi interessa fare ora è prendere la mia macchina posteggiata in piazza e andare a Rivarolo. Vado in biblioteca a procurarmi dei libri per un prete con cui mi devo incontrare stasera”. Cristiano sgranò gli occhi come se la notizia che Marcello dovesse incontrarsi con un prete lo stupisse molto più del fatto che il suo amico avesse visto il fantasma di sua madre. “E’ un esorcista inviato dalla Curia. Sta studiando quello che sta succedendo qui a San Gremo”. “C’è poco da studiare sai? A meno di avere il libro di Harry Potter – disse Cristiano accendendo con un calcio il motorino – non c’è alcuna spiegazione per ciò che accade qui. Succede e basta. Durerà qualche settimana poi tutto tornerà normale. Come trent’anni fa, ti ricordi? Siamo un paese di matti” – e detto questo, con una sgommata, Cristiano partì facendo impennare il motorino. Quando era già a una decina di metri si voltò verso Marcello gridando: “Vuoi un aggio fino a Rivarolo? La consegna della posta può aspettare, i libri magici per gli esorcisti di solito no. Lo garantisce anche Harry Potter”. “No grazie, continua pure a fare il Valentino Rossi. Mi sento più sicuro con la mia auto. Non la garantisce Harry Potter ma la Hertz”. Marcello guardò con un sorriso l’amico che si allontanava zigzagando sulla strada, mentre il grosso borsone della posta sballonzolava sulla sua schiena a destra e sinistra. Poi riprese la strada verso la piazza dove aveva posteggiato la macchina la sera prima.
XV L’auto era posteggiata sulla piazza a poche decine di metri dall’ingresso della chiesa. Prima di salirvi Marcello buttò un occhio verso il portone della chiesa. Ripensò alla donna che aveva visto entrare il giorno prima, tanto simile alla sua nonna da farsi scambiare per lei. Ripensò al bambino che aveva visto nel campanile, poi a quell’altro bambino che lo osservava silenzioso in casa di Bettina. Ripensò alla terribile notte con lo stesso bambino e con la processione di animali morti. E ai fantasmi di sua madre, e di sua nonna che gli avevano parlato la notte del giorno prima. Com’era possibile che un sacerdote come don Fernandez non credesse ad un’origine satanica di quelle apparizioni? E qual era il sospetto di don Fernandez che avrebbe potuto verificare solo con gli strumenti che aveva richiesto? Nonostante il pallido sole del mattino i vetri dell’auto erano ancora coperti di rugiada per l’umidità della notte autunnale. Marcello si attardò a ripulirli con un panno. Bobo ne approfittò per avvicinarsi ad un albero e segnare il suo territorio alzando la zampa. Al richiamo di Marcello, il cane chinò il muso a raccattare da terra un piccolo sasso e, tenendolo fra i denti, saltò sul sedile posteriore dell’auto. Nonostante l’umidità e il freddo della notte appena ata, l’auto partì al primo colpo. Marcello ringraziò mentalmente la cura della Hertz per le proprie vetture e si avviò velocemente verso la strada provinciale che portava da San Gremo a Rivarolo. Aveva percorso poche centinaia di metri che, alle sue spalle, udì il respiro del suo cane che accelerava come quando provava il piacere di essere coccolato oppure di gustare una leccornia. “Hai trovato un sasso particolarmente appetitoso?” – disse Marcello buttando un occhio allo specchietto retrovisore. Vide il testone di Bobo che seduto sul sedile guardava davanti a sé. Ma vide anche qualcosa che di colpo, come un orribile lampo, gli bloccò il cuore e il respiro. Premette violentemente il piede sul freno facendo sbandare ed inchiodare l’auto al centro della strada, fortunatamente in quel momento deserta.
Sulla testa del suo cane qualcosa si stava muovendo lentamente. Era una mano diafana che lo stava accarezzando. Poi il cane si spostò uscendo dal campo visuale dello specchietto e il viso pallido e terribile di sua madre fece capolino nel riflesso. “Ciao Marcello ho visto che hai ricevuto notizie di papà – disse l’apparizione con un sorriso orrendo che lasciava scoprire le gengive vuote e grigie – sono andata a trovarlo ma non mi ha riconosciuta. Tutta quell’acqua sulla nostra testa doveva portarci via insieme. E invece ha portato via solo me… e la sua memoria di noi”. Marcello, paralizzato, tremava e non poteva voltarsi, continuando a guardare fisso nello specchietto retrovisore il viso di sua madre. “Ora quel bastardo di un prete vuole chiudere il aggio che usiamo per venirvi a trovare. Tu glielo devi impedire. Non faresti questo per la tua mamma? Eppure ti ho insegnato a diffidare dei preti. Ricordi? Con le budella dell’ultimo papa strozzeremo l’ultimo re!”. Poi la mamma, o quella cosa che sembrava lei, voltò gli occhi verso l’alto ed iniziò a cantare con una voce cavernosa che pareva veramente giungere dall’inferno: “Compagni dai campi e dalle officine, prendete la falce impugnate il martello…”. Quante volte, da bambino, Marcello aveva cantato quella canzone di Paolo Pietrangeli coi suoi genitori e i loro amici. Ma allora era un canto di gioia e di rivoluzione. Ora quelle note che rimbombavano nell’auto da una voce irreale, erano un canto di morte e di terrore ed esprimevano solo il rimpianto e l’invidia di una persona morta per chi la vita ce l’ha ancora. Marcello decise che non si sarebbe voltato. Avrebbe proseguito la sua strada verso Rivarolo, ignorando la terribile presenza alle sue spalle. Inserì la marcia e ripartì lasciandosi alle spalle in pochi minuti le ultime case del paese. Guidando come un automa, teneva l’acceleratore schiacciato a tavoletta, quasi che la velocità e il rischio di un incidente potessero distoglierlo da ciò che stava succedendo alle sue spalle. Ora la voce dietro di lui si era moltiplicata come se un intero coro si fosse aggregato al canto e la canzone politica subì una metamorfosi trasformandosi in un canto gregoriano simile ad una marcia
funebre. Poi qualcosa di gelido lo accarezzò sul collo e lui sapeva che era la mano della sua mamma. Si scostò violentemente in avanti. Ormai aveva percorso almeno tre chilometri fuori dal paese, e già le prime case del vicino paese di San Gorgo apparvero in lontananza. Marcello stringeva forsennatamente il volante e spiava di continuo nello specchietto il volto sempre più diafano di sua madre che lo fissava cantando accompagnata da quell’invisibile coro. Poi, improvvisamente, il canto tacque lasciando di colpo l’abitacolo immerso in un silenzio irreale. Marcello fece appena in tempo a vedere il viso di sua madre, nello specchietto, che si scioglieva come fosse fatto di cera e tutto finì. Accostò l’auto a bordo strada: sul sedile posteriore dietro di lui non c’era più nulla. Tranne, naturalmente, un grande cane pacificamente addormentato. Anche la strada, che per tutti i pochi minuti dell’apparizione era rimasta deserta, parve riprendere vita con il aggio di varie auto nelle due direzioni. Marcello respirò a lungo per ridare il giusto ritmo al fiato e al cuore che continuava a pulsare violentemente, poi si guardò intorno: alle sue spalle il paese di San Gremo appariva lontano, davanti a lui alcuni paesini che lo separavano dalla cittadina di Rivarolo. Marcello ebbe la piena consapevolezza che l’apparizione era scomparsa nel momento stesso in cui si era allontanato di qualche chilometro dal suo paese. Ma cos’era allora che si rintanava fra quelle poche case e non era in grado di raggiungerti appena uscivi ad una minima distanza? Possibile che il demonio, o chi per esso, non avesse il potere di allontanarsi più di tanto da San Gremo? Comunque ora Marcello, con l’esile speranza che la distanza che via via aumentava lo ponesse al sicuro da ogni brutta sorpresa, riprese velocemente la strada verso Rivarolo. La grande biblioteca comunale era stata da poco trasferita nelle sale del grande castello medioevale che dopo anni di abbandono era stato ristrutturato da una nuova amministrazione comunale particolarmente sensibile alla storia e alla cultura. In poco tempo la struttura aveva assunto il prestigio di una delle migliori e più fornite biblioteche specializzate nella storia locale. Marta, la bibliotecaria, era seduta alla sua scrivania nel piccolo ufficio davanti
alla sala di lettura. Attraverso la parete di vetro vide entrare nella biblioteca il suo vecchio amico Marcello. Lo aveva incontrato solo il giorno prima nello studio di Bettina, ma quasi non lo riconobbe, tanto il suo viso era pallido e tirato. Si affrettò a raggiungerlo al banco della consegna dei libri. “Ciao Marcello… ti senti bene? Hai una faccia orribile”. “Non è nulla, Marta. Hai voglia di dare una mano a un vecchio amico per una ricerca bibliografica?”. “Certo, e non solo perché sei un vecchio amico, ma anche perché… è il mio lavoro. Qual è l’argomento?”. “San Gremo. La sua storia e in particolare la cronaca di eventi strani, bizzarri, spaventosi che si sono manifestati nel corso dei secoli”. “Ho capito. Ti sono bastati due giorni a San Gremo per farti coinvolgere dalle voci assurde che circolano in paese. Sono contenta di essermene andata tre anni fa. E di tornarci solo una volta ogni cinque o sei mesi esclusivamente per far visitare la mia cagnetta a Bettina”. “Guarda Marta che qualcosa sta veramente succedendo in quel paese…” “Me l’hanno detto in molti, compresa Bettina – rispose sorridendo la donna mentre prendeva Marcello per mano e lo accompagnava nel proprio ufficio adiacente alla sala lettura – ma io non ho mai visto nulla e resto fedele alla mia formazione pragmatica e razionalista. E mi pare che anche tu… una volta la pensassi come me”. “E la penso ancora come te… o almeno sto tentando di pensarla ancora così. Per questo sto facendo questa ricerca”. Intanto Marta digitava velocemente sulla tastiera del computer le opzioni di ricerca nel database della biblioteca. “Ecco, hai solo l’imbarazzo della scelta. Ci sono un sacco di libri che riportano gli argomenti che mi hai chiesto. Ma per la maggior parte sono ricerche sul folclore e sulle credenze popolari. Di veramente storico mi pare ci sia proprio poco. Comunque ora vedremo. Vuoi venire con me nel magazzino dei libri? Se non l’hai mai visto, è un ambiente molto suggestivo perché è stato allestito nei
sotterranei del castello. E’ un immenso locale pieno di anfratti e di aggi. L’ideale per conservare quasi 200.000 volumi. L’ingresso è severamente vietato agli estranei… ma non agli amici della bibliotecaria. Potresti trarne lo spunto per qualcuna delle tue storie dell’orrore”. Marcello non rispose a Marta che erano bastati due giorni a San Gremo per avere più spunti che in tutta la sua vita, ma accettò volentieri di accompagnare l’amica nei sotterranei della biblioteca. I due scesero attraverso una stretta scala a chiocciola che si apriva in una nicchia della sala lettura. Dopo una discesa che a Marcello parve non finire mai, si ritrovarono nella piccola anticamera del magazzino vero e proprio. Qui, nel muro, erano inserite le piattaforme di vari montacarichi che venivano utilizzati per lo spostamento dei libri tra il magazzino e le sale lettura. Pur essendo una piccola stanza, quella in cui si trovavano, aveva mantenuto l’antica struttura medioevale con un soffitto a botte e pareti di mattoni nudi su cui si aprivano alcune porte a bifora di antico legno massiccio. Con un gesto plateale e con un pizzico di orgoglio, Marta spalancò la porta centrale. “Eccoci qua. Questo è il mio regno”. Marcello varcò la porta e volse lo sguardo ammirato ad abbracciare l’immenso spazio di un salone lungo centinaia di metri, interamente riempito di scaffalature colme di libri. Non vi era alcuna finestra da cui potesse provenire la luce naturale anche perché, pensò Marcello, dovevano trovarsi a parecchi metri nel sottosuolo e l’illuminazione era fornita esclusivamente da una lunga serie di lampade che pendevano dall’altissimo soffitto a volta. Contro le pareti, una serie di scrittoi e tavoli antichi evidentemente provenienti dall’arredamento originale del castello. Marta recuperò un carrello in un angolo e lo diede da spingere a Marcello, mentre lei tenendo in mano la lista dei libri da cercare, lo precedeva attraverso le varie corsie tra una scaffalatura e l’altra. Di tanto in tanto si fermava per estrarre un volume dallo scaffale e posarlo sul ripiano del carrello con cui Marcello la seguiva. I loro i risuonavano di echi suggestivi. “Questo posto è bellissimo. Sei fortunata a lavorare qui” – disse Marcello
affascinato dall’atmosfera del luogo. “Sì, mi piace molto. Per fortuna non credo ai fantasmi. Sapessi quante volte mi sono ritrovata in piena notte in questo luogo, bloccata da una lettura che non volevo interrompere. Sarebbe il posto giusto per un’apparizione spettrale. Ma evidentemente i fantasmi preferiscono San Gremo a questo castello. E dire che sarebbe molto più adatto a loro” – e qui Marta scoppiò in una risata divertita che rimbombò con un eco leggermente sinistro fra le antiche mura. Poi Marta s’interruppe sfogliando un libro appena estratto. “Ecco – disse voltandosi verso Marcello – qui si parla del miracolo dell’acqua. Forse è l’unico fatto storico o leggendario legato specificatamente a San Gremo”. Marcello prese in mano il libro e scoprì che si trattava di quello stesso libro con la copertina azzurra, che la nonna (o il suo fantasma) gli aveva indicato tanti anni prima come quello che riportava la spiegazione dei fatti strani che stavano accadendo. Mentre Marta proseguiva nella ricerca dei libri allontanandosi lungo le scaffalature, Marcello si fermò per sfogliare ancora una volta il libro azzurro. Era una copia sicuramente più nuova di quella che era nella libreria della nonna e le pagine meglio conservate non presentavano la fragilità e l’ingiallimento della carta conservata in luoghi troppo umidi. Marcello trovò la pagina in cui si parlava del miracolo dell’acqua. Lesse ancora una volta dei contadini disperati per la siccità. Delle loro preghiere in onore di San Gremo, protettore dalla siccità, prostrati in gruppo nel gerbido desolato immerso nella nebbia. E infine del miracolo. Quel miracolo che, con un lampo improvviso, aveva creato una voragine da cui zampillava acqua pura. La siccità vinta, le bestie dissetate, la carestia dimenticata. E così fu allora che, per ringraziare il santo, venne edificata la chiesa intitolata a San Gremo. Intorno a cui nacque poi il paese. Una voragine. Un lampo. Quelle due parole si rincorrevano nella testa di Marcello come se fossero loro la spiegazione di tutto. Una voragine e un lampo. La caduta di un angelo ribelle sulla terra? C’è forse un demone sepolto accanto alla chiesa di San Gremo? O forse…” Marcello si riscosse come se si svegliasse da un sogno. “Marta! – chiamò lasciando che la sua voce rimbombasse negli anfratti di quell’enorme biblioteca sotterranea. – “Marta, mi è venuta un’idea. Ho bisogno di una ricerca su un altro argomento!”.
Marcello non udì alcuna risposta. Allora si mosse attraverso il labirinto deserto delle scaffalature, con un pizzico d’ansia che man mano aumentava. Qualcosa si era mosso nella sua testa, qualcosa che forse gli stava suggerendo una risposta. E nello stesso tempo il timore che qualcos’altro volesse impedirgli di raggiungere questa risposta. Qualcosa rannicchiato in qualche anfratto del muro medioevale. Il silenzio era rotto solo dall’eco dei suoi i che rimbombavano in modo innaturale, forse amplificati dalla struttura dell’antica costruzione. E più camminava senza cambiare direzione per raggiungere la fine del salone, più lo coglieva la sensazione che quel luogo non avesse fine e si perdesse all’infinito tra milioni e milioni di libri. Gli venne in mente l’associazione con un romanzo che aveva letto in ato che parlava del cimitero dei libri mai letti in cui, per sempre, le storie inventate da uomini ormai morti sarebbero rimaste immobili nell’attesa che qualcuno le leggesse. Era solo una sensazione, naturalmente: il magazzino della biblioteca non era infinito, e Marcello giunse al muro che lo delimitava. “Marta!”– continuò a chiamare tornando indietro ma nella corsia parallela a quella che aveva appena percorso. E finalmente Marta riapparve. Sbuffando, con le braccia piene di libri, fece capolino da una porta laterale. “Che gridi? Ero andata a prendere questi altri libri, nella stanza laterale. Ci sono altri due saloni più in là…” “Scusami Marta, ma mi è venuta in mente un’idea… e forse tutti questi libri non servono più. Devo fare una ricerca su un altro argomento”. “Su come si uccide un vecchio amico senza finire in galera? Se lo trovo, prima lo leggo io!”. “Scusami Marta, hai ragione. Ma ho un sospetto su cosa sta succedendo a San Gremo. E ho bisogno di una conferma…” “Nessun libro ti confermerà mai quello che puoi vedere con i tuoi occhi in qualunque momento: che San Gremo è un paese di pazzi”. “Marta, prova a pensare a cosa ti verrebbe in mente se il miracolo dell’acqua succedesse oggi: se di colpo apparisse una luce accecante e si creasse una voragine da cui zampilla acqua. Come spiegheresti la cosa?”. “Che ne so… un corto circuito dei cavi dell’alta tensione… che ha fuso le tubature dell’acqua, facendone uscire il contenuto?”.
“Sì, peccato che l’alta tensione scorra in alto sui tralicci e non sottoterra… e comunque mille anni fa non esistevano i cavi dell’alta tensione. Pensaci bene, Marta: una luce accecante, una voragine e l’acqua che zampilla. I nostri antenati ci videro un miracolo. Ma tu, colta razionalista, apionata lettrice di Asimov e Bradbury che cosa ci avresti visto?”. “Mi sembri matto. Ora mi dirai che un’astronave aliena è caduta mille anni fa, liberando una falda d’acqua sotterranea… e magari che gli alieni siano ancora chiusi nell’astronave e si vendicano quando vengono disturbati, spaventando i terrestri e assumendo le sembianze di zombies”. “Non credo la spiegazione sia proprio in questi termini ma, secondo me, ci sei molto vicina. Puoi procurarmi tutto ciò che trovi sulla caduta di meteoriti in Piemonte?”. “Meteoriti. Abbiamo superato ogni limite”. “Hai ragione. Forse sono impazzito. Ma mi è venuto in mente che un meteorite potrebbe aver aperto un varco con una dimensione parallela. Un varco aperto da oltre mille anni attraverso cui, di tanto in tanto, ne emergono gli abitanti, se così li vogliamo chiamare”. L’espressione di Marta, con la bocca spalancata e gli occhi sgranati la diceva lunga su ciò che stava pensando del suo vecchio amico. “Voglio cercare notizie su altre cadute di meteoriti in qualunque parte del mondo a cui siano seguite apparizioni di gente defunta. Ti prego, Marta, fammi ancora questa ricerca”. “Agli ordini, capo. Desidera altro? Chessò un piatto di spaghetti aglio olio e peperoncino, una fonduta al tartufo… tanto non ho nulla da fare qui, a parte catalogare ed etichettare qualche migliaio di libri”. Marta scomparve fra le scaffalature mormorando fra sé e sé “La porta dell’aldilà sfondata da un meteorite. Cosa non si fa per gli amici…”
XVI
Marcello ò gran parte della giornata nella sala lettura della biblioteca di Rivarolo, immerso nei volumi che Marta gli aveva procurato. Scoprì così che la caduta di meteoriti in Piemonte era un fatto tuttaltro che raro. Il sospetto che il cosiddetto miracolo dell’acqua non fosse altro che la caduta di un meteorite che, dopo aver creato una profonda voragine, avesse liberato una falda sotterranea di acqua, prendeva corpo nella mente di Marcello. E la sua fantasia elaborava scenari e possibilità che arricchivano questa ipotesi di concomitanze surreali. La chiesa di San Gremo e il paese vennero costruiti sopra a quella voragine. Gli ritornò alla mente Poltergeist, il film scritto e sceneggiato da Steven Spielberg in cui un quartiere residenziale era stato costruito su di un antico cimitero indiano, causando il risveglio di forze oscure e terribili. E se il genio del cinema fantastico avesse preso lo spunto da un fatto reale? Se esistesse da qualche altra parte del mondo un caso simile a quello di San Gremo? Sotto lo sguardo perplesso di Marta, Marcello continuava a cercare nello schedario e a richiederle tutta una serie di libri su manifestazioni inspiegabili legate alla caduta di meteoriti. “Insomma, ti sono bastati due giorni a San Gremo per diventare anche tu un ghostbuster? – diceva Marta – io ci sono nata e ci ho vissuto per gran parte della mia vita eppure non ho mai visto nulla di più misterioso della trasformazione dell’uva in vino”. “Ma tu non abiti a San Gremo da parecchio tempo. E ci vai solo sporadicamente per far visitare il tuo cane da Bettina. Insomma, ti ci fermi al massimo una mezzora. Da quanto tempo non dormi una notte a San Gremo?”. “Sì, sono almeno tre anni, da quando ho venduto la mia casa per trasferirmi qui alla folle distanza di dieci chilometri. Ma in effetti, a parte la veterinaria, ci sono ben poche occasioni di ritornarci: in quel paese non c’è proprio nulla…”. “Sì, nulla a parte i nostri ricordi. Quelli che rendono interessante anche un luogo dove non c’è nulla”– la corresse Marcello mentre il suo pensiero ritornava per l’ennesima volta in quel giorno a Bettina e alla notte trascorsa con lei. La parte bella della notte, naturalmente. L’altra era quasi cancellata dal muro di autodifesa che il cervello crea prima di lasciarti cadere nella pazzia. “Ma senti senti! Il nostro rude autore di racconti horror nasconde anche un lato nostalgico – disse Marta – comunque non credo che tu abbia ragione: quello che pensi sia un legame con i luoghi della nostra adolescenza in realtà altro non è
che un legame… con la nostra adolescenza. Un legame che non cambia da qualunque distanza tu lo senta perché non è una distanza fisica di quelle misurabili col Tom Tom. Qui a Rivarolo siamo a dieci chilometri da San Gremo, tu a Parigi sei a settecento chilometri, eppure la nostra distanza da ciò che abbiamo perduto è esattamente la stessa, e non c’entra nulla con quello stupido paesino di matti. Mentre ascoltava Marta annuendo, Marcello continuava a sfogliare i molti volumi aperti sul tavolo davanti a lui. “Ecco qui – disse, facendo scorrere il dito sulla pagina di un libro specifico sui meteoriti caduti sulla terra – per esempio il 18 giugno 2007 nel villaggio di Puno in Perù è stata vista cadere una palla di fuoco che ha provocato una profonda voragine e la fuoriuscita di acqua bollente. Non ti ricorda nulla, Marta?”. “Il miracolo dell’acqua?” – disse Marta perplessa. “E pensa che tutti gli abitanti del villaggio, per parecchi giorni, hanno sofferto di nausea e svenimenti. E lo stesso è successo agli scienziati giunti sul posto per studiare il fenomeno”. “A San Gremo non si soffre né di nausee né di svenimenti. Ogni venti o trent’anni la gente crede di vedere i fantasmi. Non credo possa avere alcun rapporto con l’antico e presunto miracolo dell’acqua. E’ addirittura più probabile pensare che qualcuno getti bottigliate di Lsd nelle tubature dell’acqua potabile” – disse Marta aggrappata rigidamente alla propria visione pragmatica della vita, la stessa di Marcello fino ad un paio di giorni prima. Indicando un altro libro aperto lui le mostrò una fotografia con una lunga didascalia. “E pensa che addirittura l’estinzione dei mammut nel nord america di dodicimila anni fa è stata attribuita alla caduta di una meteora radioattiva di cui esiste ancora traccia del cratere”. “A proposito di animali estinti… che fine ha fatto il tuo cagnone?”. “Cazzo! – gridò Marcello – l’ho dimenticato in macchina qui fuori per tutto il giorno! Devo scappare, Bobo non me lo perdonerà mai, sempre che sia ancora vivo e non sia soffocato nell’auto fra i suoi escrementi! – E dopo aver raccolto freneticamente la pila di libri presi in prestito da portare a don Fernandez, corse fuori dalla biblioteca guardando l’ora. Erano le diciotto e si rese conto di aver trascorso quasi nove ore in biblioteca. Era entrato nel castello di Rivarolo con un pallido sole e ne usciva col cielo ormai quasi completamente oscurato dalle
premature tenebre delle sere autunnali. Cercò con lo sguardo la propria auto nel viale col timore di vederla circondata da un gruppo di amanti degli animali infuriati con un padrone che abbandona il proprio cane nell’auto per tante ore. Ma l’auto era tranquillamente posteggiata dove l’aveva lasciata e non c’era nessun ante fermo a guardare nell’interno. Marcello corse verso la vettura e, prima di aprirla, si bloccò a guardarne con angoscia l’interno dal finestrino. Bobo era steso completamente immobile sul sedile posteriore e non dava alcun segno di vita. La sua lingua pendeva quasi interamente da un lato della bocca semiaperta. “Bobo! – grido Marcello aprendo convulsamente lo sportello dell’auto. Bobo non si mosse. Marcello strinse il musone del cane fra le sue mani e, avvicinando il volto a pochi centimetri dal suo naso gridò ancora una volta: “Bobo!”. A questo punto il cane aprì gli occhi. Emise un rumorosissimo sbadiglio e, schioccando la sua immensa lingua, leccò in un colpo solo la faccia di Marcello dal mento alla fronte. Poi, con la tranquilla serenità di chi ha dormito piacevolmente per parecchie ore, si riscosse e, sotto lo sguardo sconcertato del suo padrone, uscì dallo sportello ancora aperto dell’auto e con ettini rapidi ma non troppo affrettati andò accanto al platano del viale dove liberò la vescica creando un’immensa pozzanghera. “Credevo che fossi morto” – disse Marcello avvicinandosi al suo cane e accarezzandolo sulla testa. Bobo lo guardò con uno sguardo indifferente, poi raccolse a terra un grosso sasso e, tenendolo fra i denti, ritornò verso l’auto. “Non vuoi neppure sgranchirti le zampe facendo due i?” – gli chiese, stupito, Marcello. Ma il cane approfittando dello sportello dell’auto rimasto aperto era già saltato dentro e si era accomodato sul sedile posteriore leccando con amore il sasso che aveva raccolto. Era da poco ato il tramonto e in pochi minuti la notte scese rapidissima come sempre in quella stagione. Marcello salì in auto e riprese la strada verso San Gremo: non vedeva l’ora di esporre a don Fernandez la sua teoria sulla presenza di un antico meteorite nel sottosuolo del paese e sull’eventuale rapporto con le apparizioni. Inoltre era curioso di sapere a quali conclusioni era giunto il sacerdote e quali fossero gli strumenti con cui pensava di verificarle. Ma nello stesso tempo era preoccupato nel ripercorrere la strada verso il paese: sapeva che, quella mattina mentre si recava a Rivarolo, era bastato allontanarsi per circa tre chilometri da San Gremo, perché il fantasma di sua madre scomparisse. Era
questo dunque il raggio d’azione del mostro o dell’entità che attendeva rannicchiata sotto il paese. E che permetteva alle anime dei morti di aggirarsi nel suo territorio. Ed ora, entro pochi minuti, la sua auto sarebbe transitata proprio nel punto in cui il fantasma di sua madre era scomparso. E di lì in avanti avvicinandosi al paese, avrebbe potuto ancora una volta incontrare l’ignoto. Invece, giunto in quel punto, rallentando e guardando ansiosamente nello specchietto non vide apparire nulla di anormale sul sedile posteriore. Sempre che si possa considerare normale un cane che dopo aver dormito per dieci ore di seguito, abbia ripreso a dormire russando rumorosamente. La cosa strana, invece, Marcello la vide guardando davanti a sé. La strada provinciale che, fino a quel momento era stata illuminata ogni venti metri da un lampione, da quel punto in avanti, verso San Gremo risultava del tutto buia. E il paese che ad un paio di chilometri lì davanti doveva apparire con le luci delle sue case, era invece totalmente nascosto dall’oscurità e dalla pallida e sottile nebbia che stava iniziando a calare. Un buio così totale nel paese, Marcello non lo aveva mai visto. Che ci fosse stato un altro blackout elettrico come quella mattina? Come quella mattina in cui… no, non volle pensare all’apparizione del bambino che lo osservava, ma semplicemente al corpo nudo di Bettina stretto a lui sul divano. Pur non essendo fitta, la nebbia creava dei suggestivi vortici che si muovevano veloci quando venivano colpiti dalla luce dei fari dell’auto. Marcello aguzzava lo sguardo, tentando di cogliere nella totale oscurità qualche segno di vita nelle prime case di San Gremo che ormai aveva quasi raggiunto. Nello stesso tempo si sorprendeva a scrutare la nebbia con la terribile sensazione che da un momento all’altro ne potesse sbucare qualche orribile apparizione. Non ci furono apparizioni ma quando, ormai dentro al paese, guardò in direzione della piazza verso cui stava procedendo lentamente, vide qualcosa di sorprendente. Laggiù nella piazza, a circa trecento metri da lui, decine e decine di piccole luci si muovevano come fuochi fatui creando scie luminose che si riflettevano nella foschia. Marcello fu talmente sconcertato che bloccò l’auto a lato della strada prima di ripartire per avvicinarsi alla piazza. Quale nuova bizzarra visione gli stava preparando il paese? Marcello pensò di non essere pronto ad affrontare qualche nuova terribile esperienza di terrore ma poi, pensando che in quello stesso momento forse Bettina aveva bisogno di lui, ingranò la marcia e proseguì quasi a o d’uomo verso quella stupefacente
danza di lucciole.
XVII In pochi istanti Marcello giunse sulla piazza. Spalancò gli occhi per lo stupore quando si accorse di che cosa era in realtà la misteriosa danza delle lucciole che tanto l’aveva turbato. Davanti ai suoi occhi sconcertati centinaia di torce elettriche illuminavano con punti luminosi in frenetico movimento tutta la vasta zona di fronte alla chiesa. Le torce erano tenute fra le mani da una folla di persone di ogni età che riempiva la piazza quasi completamente. Alla pallida luce delle torce, Marcello riconobbe alcuni abitanti di San Gremo che conosceva di vista. E mentre piccoli gruppi, parlando a bassa voce, si allontanavano dalla piazza alla luce delle torce, altri, senza alcun dispositivo di illuminazione giungevano dalle stradine laterali portandosi verso il centro della piazza dove era posizionato un grande furgone chiaro coi fari accesi che pareva essere il catalizzatore di tutto quel movimento. Marcello, sceso dall’auto, si fece largo fra i presenti, avvicinandosi al furgone fino a distinguerne sulle fiancate laterali il simbolo della protezione civile. Dal portellone aperto un addetto stava distribuendo ad ognuno dei presenti una torcia elettrica accesa. Da un altoparlante posto sulla cabina del furgone una voce registrata continuava a ripetere il messaggio per i sangremesi: “A causa di un guasto la corrente elettrica è stata sospesa in tutto il territorio di San Gremo e lo sarà per le prossime 24 ore. Stiamo distribuendo torce elettriche a chiunque ne faccia richiesta”. In qualunque altro luogo una situazione anomala come questa avrebbe sicuramente creato irritazione e proteste da parte degli abitanti. Solo il pensiero dei cibi surgelati nei congelatori o della forzata rinuncia al proprio programma televisivo preferito avrebbe potuto causare quasi un’insurrezione popolare. Gli abitanti di San Gremo, invece, si limitavano a poche domande a bassa voce sulla situazione, quasi intuissero che si stava lavorando per risolvere qualcosa di ben più grave che un guasto sulla linea elettrica, qualcosa di cui nessuno parlava ma che coinvolgeva direttamente la maggior parte di loro. Marcello si mosse a fatica fra le persone cercando di individuare fra di loro
l’eventuale presenza di Bettina, ma era quasi impossibile distinguere i visi dei presenti, a causa dei fasci di luce delle torce che lo abbagliavano intrecciandosi uno con l’altro. Se non fosse stato tanto imprevisto e misterioso il gioco di luci e di scie luminose avrebbe potuto essere profondamente suggestivo. Ma non in quel momento, non con le terribili immagini che ancora erano impresse nei suoi occhi, non con le paure di quegli incredibili ultimi due giorni, non con quell’impalpabile pallida nebbia che invadeva la piazza intrufolandosi attraverso gli abiti come un umido respiro malefico. Poi Marcello riuscì a porsi dietro l’ultima barriera umana che lo separava dal furgone e distinse, alla luce incerta di un faretto posizionato sulla fiancata dell’automezzo, un gruppo di uomini in divisa. Alcuni di loro erano carabinieri, altri indossavano il giubbotto della Protezione Civile ed erano tutti immobili ad ascoltare con attenzione la voce flebile ma decisa di un anziano sacerdote che pareva dirigere con autorevolezza le operazioni in corso. Il suo viso era in ombra ma, grazie alla postura curva e allo spiccato accento spagnolo, Marcello riconobbe immediatamente don Fernandez. Accanto al prete c’era il sindaco di San Gremo impegnato anche lui a rispondere (senza saper esattamente cosa rispondere) alle domande di alcuni paesani che chiedevano chiarimenti. I due carabinieri, al contrario, si guardavano intorno con l’atteggiamento un po’ smarrito che hanno spesso quelli abituati ad eseguire gli ordini, quando si trovano in una situazione senza alcun ordine da eseguire da parte dei superiori. “Bisogna andare in tutte le case del paese – stava dicendo il sacerdote – e vedere se qualcuno ha bisogno di aiuto o ha avuto problemi gravi a causa della sospensione dell’energia elettrica”. Poi il prete, alzando gli occhi vide Marcello e gli fece un gesto per invitarlo ad avvicinarsi. Tornando a rivolgersi agli uomini in divisa e al sindaco disse: “Per il momento possiamo chiudere qui. Stanotte sarà bene che i carabinieri e quelli della protezione civile pattuglino il paese per evitare che con l’assenza di corrente elettrica e con gli antifurti disattivati a qualche ladruncolo venga in mente di compiere furti nelle abitazioni”. Sorridendo perché finalmente qualcuno aveva impartito loro un ordine preciso, i due carabinieri portarono la mano al cappello nel saluto militare e si allontanarono fra la folla. Anche il sindaco disse qualche parola sottovoce a don Fernandez e si allontanò
parlando col messo comunale. Rimasto solo, il prete si rivolse a Marcello. “Arriva dalla biblioteca? Ha trovato i libri che le ho chiesto?”. “Sì, le ho portato qualche libro sulla storia locale ed anche… una mia teoria per cui, sono convinto, mi prenderà per matto…”. “Perfetto, solo chi non ha paura di sembrare matto riesce ad elaborare intuizioni geniali”. “Temo non sia il mio caso, don Fernandez, comunque prima di esporle quello che a mente fredda mi sembra già un’enorme stupidaggine e rinunciare così definitivamente alla mia autostima di uomo razionale e sensato, sarei curioso di sapere che cosa sta succedendo. Come mai è stata sospesa la corrente elettrica in paese?”. “E’ stata sospesa perché l’ho chiesto io – rispose il prete, poi strizzando un occhio in segno d’intesa, aggiunse – e con l’appoggio del nostro Arcivescovo sono riuscito ad ottenerlo con la massima urgenza. Se questa notte non ci saranno apparizioni avremo la prova che ciò che sta succedendo ha un legame diretto con l’elettricità”. “E che legame può avere la corrente elettrica con l’apparizione di streghe e fantasmi?” – chiese Marcello con l’espressione rassegnata di chi, ormai, ha rinunciato a capire gli avvenimenti che lo circondano. “Per il momento non lo so con certezza. Ma domani arriveranno gli esperti dell’Arpa con le loro apparecchiature per rilevare la presenza di elettrosmog”. “Elettrosmog? A San Gremo? Ma se la centrale elettrica più vicina è ad almeno settanta chilometri da qui…”. “…e l’inferno è molto più lontano – rispose il prete sorridendo – eppure pare che la maggior parte dei sangremesi, ne abbia incontrato gli abitanti o per lo meno le loro manifestazioni. Ed è successo anche a lei… e a me”. “Anche lei ha incontrato i fantasmi?” – chiese ormai senza stupirsi Marcello.
“C’è chi li chiama fantasmi chi demoni. Ma io preferisco attendere domani a dar loro un nome. Perché oltre all’Arpa sono riuscito a far venire a San Gremo, direttamente da Ginevra, un’equipe super attrezzata di specialisti. Arriveranno domani in mattinata”. “Specialisti in demoni?”. “No, in ricerca neurologica. Il demonio può annidarsi anche nelle anse del cervello, lo sa?”. Marcello fissò gli occhi scuri ed enigmatici del sacerdote mentre un brivido gli percorreva la spina dorsale. Per qualche momento, stupito dall’approccio scientifico con cui il prete stava affrontando gli avvenimenti, si sentì ancora più imbarazzato al pensiero di esporre l’idea pazzesca che aveva avuto quel pomeriggio. Come avrebbe reagito uno scienziato di fronte alla teoria di un’antica caduta di un meteorite che avesse aperto in un piccolo paese del Piemonte un varco con una dimensione parallela o con qualcosa di simile che non osava definire (un’apertura verso l’aldilà? Verso l’inferno?). Ora lo capiva a pieno che era una teoria pazzesca ma… non era altrettanto pazzesca l’apparizione sul sedile posteriore dell’auto del fantasma della propria madre intento a cantare canzoni rivoluzionarie? Sì, era altrettanto pazzesca. Marcello, perciò, decise di non parlare per il momento della propria idea. In una situazione come quella sembrava molto più razionale il prete, che pareva concentrato su una spiegazione scientifica o per lo meno legata a delle apparecchiature e a degli studi scientifici. E mentre inseguiva i suoi dubbi, una mano gli sfiorò la nuca provocandogli una sussulto. Si voltò di scatto trovandosi faccia a faccia con Bettina. “Eccoti, finalmente sono riuscita a trovarti. Mi hanno detto che ti avevano visto in piazza ma con questo buio e questa confusione ho faticato parecchio per trovarti. – poi alzando gli occhi verso l’anziano sacerdote aggiunse – oh scusate, forse vi ho interrotti”.
Don Fernandez sorrise alla nuova arrivata. “Ecco la bella veterinaria per cui il signor Marcello ha deciso di non rientrare a Parigi. Ora che la conosco capisco la scelta del nostro comune amico. Buonasera dottoressa, sono don Fernandez, forse Marcello le ha parlato di me e le ha spiegato il motivo della mia presenza in paese”. “Immagino che tutta questa confusione nasca proprio dalla sua presenza in paese… la chiesa ha deciso di scoprire cosa sta succedendo qui? Finora i giornali ci hanno trattati come burloni o visionari”. “Cosa ne dite ragazzi di una cena a lume di candela? Sperando che la trattoria della piazza serva la cena anche in mancanza della corrente elettrica. Mi piacerebbe scambiare qualche opinione con due persone che sono sicuramente affidabili e non superstiziose e che, comunque, sono state testimoni, come molti abitanti del paese, di qualcosa di inspiegabile… almeno fino a domani”. “Vedo che lei ha molta fiducia nelle persone e negli strumenti che arriveranno qui domani. O forse ha già una teoria di cui attende solo una conferma?” – disse Marcello fissando negli occhi il prete come se volesse leggergli nella mente. “Una teoria? Forse sì. Ma mi manca ancora un tassello per renderla giustificata e proponibile. Ve ne parlerò a cena, se accetterete il mio invito, sempre che la trattoria non abbia chiuso i battenti. Così, anche lei potrà parlarmi senza alcun imbarazzo di quella sua idea che le sembra così pazzesca”. Bettina si intromise nel dialogo: “La ringrazio don Fernandez, ma se permette vorrei essere io ad invitarla a cena a casa mia. Saremo più tranquilli che in trattoria e, inoltre… pensando all’appetito di Marcello e al fatto che vive all’estero da molti anni, oggi mi sono fatta consegnare a domicilio un sacco di cibarie e specialità della zona”. Al sacerdote brillarono gli occhi. “Specialità canavesane? Tomini, agnolotti e fritto misto?”. Bettina annuì sorridendo: “Ben innaffiati dall’Erbaluce di Caluso e dal rosso delle nostre vigne…”. “Non dica più nulla, dottoressa. L’invito è accettato”.
Occorse ancora un’ora perché la piazza si svuotasse e tutti gli abitanti del paese rientrassero nelle proprie abitazioni. Solo i due carabinieri e i molti volontari della protezione civile, raggruppati in gruppi di tre, iniziarono a pattugliare il paese, dividendosi tra stradine e vicoli oscuri. Dopo circa due ore nell’appartamento di Bettina, un sacerdote e una coppia legata da sentimenti troppo recenti o troppo remoti per essere definiti, alla luce tremula delle candele poste al centro della tavola, stavano terminando silenziosamente una deliziosa cena che avrebbe meritato una ben più allegra atmosfera. Ma gli occhi di Marcello si erano puntati troppo frequentemente ora verso il vano della porta dove quel mattino aveva visto apparire il bimbo ed ora verso la porta chiusa della camera del figlio di Bettina. Ogni volta che un qualunque movimento dei presenti causava un leggero spostamento d’aria, la luce delle candele guizzava creando degli inquietanti giochi d’ombre nel buio dell’appartamento. Il sacerdote, allora, intuendo dai suoi sguardi preoccupati, l’inquietudine di Marcello, allungava una mano sul suo braccio stringendolo. “Stia tranquillo. Sono quasi sicuro che questa notte non accadrà nulla. I nostri demoni ci concederanno un sonno sereno. Senza la corrente elettrica, saranno loro questa volta ad avere paura del buio”. Per tutta la durata della cena il sacerdote si era fatto raccontare da Bettina e da Marcello, nei minimi dettagli, tutti i fatti misteriosi di cui erano stati protagonisti. Aveva anche voluto sapere delle apparizioni di cui erano venuti a conoscenza dai racconti degli amici o dalle voci di paese. Tra un boccone e l’altro, il prete annotava su un quaderno già zeppo di annotazioni e di appunti provenienti dalle indagini degli investigatori della Curia, l’ora, le date e i contenuti delle misteriose apparizioni. Rileggendo attentamente il quaderno, don Fernandez espose ai due commensali un riassunto delle informazioni disponibili. Le apparizioni erano iniziate da poco più di tre mesi ed avevano “visitato” circa quattrocento abitanti di San Gremo. “Be’, non c’è male come percentuale: considerando che gli abitanti di San Gremo sono circa settecento – disse Marcello – oltre la metà dei sangremesi ha incontrato i morti viventi…”
“Non li chiami morti viventi. – rispose il prete – non stiamo parlando né di zombies né di fantasmi. Anche se la maggior parte delle apparizioni era composta da masche e da persone decedute che si presentavano col terribile aspetto della decomposizione, un buon numero di sangremesi, soprattutto nella fascia più giovane di età, afferma di aver visto dei mostri poliformi, degli alieni, dei diavoli completi di corna e di tridente, vampiri stile Dracula e addirittura una ragazza afferma di essersi trovata al cospetto dell’ex fidanzato, assolutamente vivo, anche se detenuto in carcere per episodi di violenza e sadismo nei confronti suoi e di parecchie altre donne”. “Ma allora non potrebbe essere che l’entità o la cosa che ha occupato San Gremo sia in grado di leggere nella mente delle persone e di prendere le sembianze di ciò che più li può spaventare? – esclamò Bettina pensando, con un’inspiegabile sollievo, all’espressione terribile e accusatoria con cui la fissava il suo bambino nelle frequenti “visite” – quindi in questo caso non sarebbero i morti ad apparire ma qualcuno o qualcosa che ha preso le loro sembianze, nella forma peggiore e più spaventosa”. Il prete annuì e poi precisò: “Lei, dottoressa, l’ha chiamata entità o cosa, ma, se i miei sospetti sono fondati, possiamo darle dei nomi molto più precisi. Almeno un paio di nomi ben conosciuti da chi studia e si occupa di certe manifestazioni”. Nella semioscurità tremula della sala da pranzo un brivido percorse la schiena di Marcello che sbottò nervosamente: “Satana? Lucifero? Ecco che finalmente parla da prete esorcista – disse Marcello – un sacerdote può essere razionalista solo fino ad un certo punto oltre il quale…”. “Si sbaglia – lo interruppe il prete – i nomi che vorrei poter dare al colpevole di tutto questo non nascono dalla mia esperienza di esorcista ma da quella di neurologo. Avete mai sentito parlare dell’amigdala e della corteccia cingolata?”. “Qualcosa che ha a che fare con la botanica? – disse Marcello perplesso – sembra il nome di una pianta da fiori”. “Ma no! – esclamò Bettina – ho un vago ricordo del mio esame di anatomia… se non mi sbaglio l’amigdala è quella zona del cervello sensibile alle emozioni, ma la corteccia cingolata…”. “Ricorda bene, dottoressa. L’amigdala provoca nel corpo umano tutti gli effetti collaterali delle emozioni e in particolare quella della paura. Mentre la corteccia
cingolata ha una funzione che è rimasta misteriosa per secoli ma che è stata svelata recentemente dagli scienziati della Washington University a St. Louis: in quella zona del cervello si generano nientemeno che il sesto senso e le sensazioni di preveggenza. Tutti impulsi finora inspiegabili che la corteccia cingolata trasmette direttamente all’amigdala”. “Il sesto senso, come nel film di Bruce Willis? – disse con tono scettico Marcello – Hanno dimostrato scientificamente il sesto senso? In quel film ricordo che un bambino era in grado di parlare coi morti. Un po’ come in questi giorni gli abitanti di San Gremo”. “No, i morti non c’entrano nulla in questo caso. La corteccia cingolata si limita a fornire al cervello delle informazioni in grado di dominare e dare un senso in positivo o in negativo, ma pur sempre in senso preveggente, alle paure elaborate dall’amigdala – disse il sacerdote sorridendo a Marcello – ora, considerando che tutta l’attività cerebrale è formata da impulsi elettrici… la mia idea è che per qualche motivo, forse per una forma di inquinamento da elettrosmog causato dalla corrente elettrica, siano state stimolate in modo abnorme le funzioni dell’amigdala e della corteccia cingolata…”. “Quindi, secondo lei, a San Gremo la corrente elettrica potrebbe far riapparire le paure presenti nel nostro inconscio… – disse Bettina – le apparizioni insomma non sarebbero fantasmi reali ma fantasmi della nostra mente…” “E’ mia la penultima opzione: se si dimostrerà sbagliata non resterà che accettare una causa demoniaca. E allora eremo all’ultima opzione: in quel caso potrete assistere, immagino per la prima volta, ad un vero rito di esorcismo… – rispose il prete – …comunque domani, con l’arrivo del laboratorio mobile fornito di Tac potremo avere una risposta sicura ed agire di conseguenza”. “La corrente elettrica. Non posso crederci. Mi sembra quasi più credibile ciò che non ho osato dirvi tanto mi pareva folle: provate a pensare a… un meteorite” – disse Marcello fissando pensieroso la fiammella della candela che si stava esaurendo. “Meteorite?” – esclamarono quasi all’unisono Bettina e don Fernandez. “Sì, vi prego non ridete. Ho pensato ad un meteorite che, cadendo sulla terra, potrebbe aver creato un varco di aggio con… una zona ignota, forse con l’inferno o con una dimensione parallela. D’accordo, lo so. Sembra pazzesco:
per questo ho esitato finora a parlarvene. Eppure questa mattina, quando in biblioteca ho consultato alcuni libri sulle cadute di meteoriti, mi è sembrata una possibilità da non scartare a priori. In fondo anche la sua teoria sull’elettricità, don Fernandez, mi sembra parecchio assurda. Ci pensi: se a San Gremo qualcosa fa impazzire la gente e, badi bene, da molti secoli provoca loro delle allucinazioni… come può pensare possa essere la corrente elettrica? L’elettricità è arrivata in paese da non più di novant’anni, eppure su questi libri troviamo due o tre episodi, tramandati come leggende superstiziose, che assomigliano in modo impressionante a ciò che stiamo vivendo ora – disse Marcello porgendo al prete uno dei libri presi nel pomeriggio in biblioteca – e alcune di queste pseudocronache sono riferite ad anni in cui l’energia elettrica doveva ancora essere scoperta. Nel 1630, per esempio, quando le masche invasero San Gremo dopo un terremoto, e terrorizzarono gli abitanti per una ventina di giorni prima di essere scacciate dalle loro preghiere e di scomparire definitivamente? Allora non c’era corrente elettrica. Oppure le processioni di soldati morti dopo il bombardamento del paese nell’ottobre 1944? Sicuramente con l’esplosione di una bomba che aveva semidistrutto un’ala della chiesa, la linea elettrica era stata interrotta eppure… i fantasmi dei soldati furono visti da molte persone in paese. Oltre che dal povero parroco che ne impazzì”. “Ora capisco perché lei è diventato famoso creando storie di fanta-horror: lei ha un’intelligenza bizzarra, pari almeno alla sua fantasia – disse don Fernandez con un sorriso – e, mi creda, glielo dico non per dubitare delle sue affermazioni. Ammiro chi non esclude mai per principio alcuna ipotesi, per strana e poco probabile possa essere. Spesso sono queste intuizioni che aprono la strada alla comprensione della verità”. “Lo so che pensare ad un meteorite sembra fantascienza… – continuò Marcello rassicurato dalle parole del prete. Poi, estraendo dalla borsa due libri, li posò aperti sul tavolo dicendo: – …ma visto che la sua teoria sull’elettricità fa acqua da tutte le parti provi a pensare a qualcosa di alternativo. Guardi, questi altri volumetti non parlano di storia di questo paese ma degli effetti della caduta di alcune meteoriti su luoghi molto distanti fra di loro. In almeno un paio di casi, dopo la caduta dei meteoriti, si manifestarono eventi inspiegabili anche agli scienziati. “Meteoriti? – scandì fra sè e sè il prete aprendo e facendo scorrere le pagine di uno dei libri. – lei pensa che un meteorite sia caduto in paese e che nessuno se ne sia accorto? Proprio in un paese come questo, dove non succede mai nulla?”.
“Se non succedesse mai nulla lei, don Fernandez, non sarebbe qui in questo momento. Comunque io intendevo un meteorite caduto in epoche lontanissime… magari in concomitanza col presunto miracolo dell’acqua di cui sicuramente ha letto la storia: una grande luce, un boato e l’acqua che sgorga da una voragine. E il paese che viene costruito sul luogo del miracolo…”. “Un meteorite… – ripetè don Fernandez pensieroso – …non mi sembra un’idea tanto pazzesca. Anzi potrebbe integrarsi in qualche modo con la mia teoria. Per esempio un meteorite composto da una grossa massa metallica sepolto sotto il paese potrebbe interagire in qualche modo coi cavi elettrici che corrono sui tralicci della zona creando magari un campo magnetico dagli effetti imponderabili… come vede, signor Marcello, ogni idea, per pazzesca che sembri, può portare un contributo all’analisi di un problema. Per quel che riguarda i suoi dubbi riguardo all’influsso della corrente elettrica sui fenomeni… sono pienamente giustificati. Per il momento dobbiamo considerare come inspiegabile il fatto che i periodi in cui succedono gli eventi sono distanti molte decine di anni uno dall’altro. Volendo aver ragione ad ogni costo attribuendo la responsabilità delle apparizioni alla corrente elettrica, allora… potrei arrampicarmi sui vetri e suggerire che quelle del 1630 siano semplici invenzioni tramandate dalla superstizione popolare, molto distante perciò dalla sicura realtà dei fatti attuali. Ma mi rendo conto della scorrettezza di una simile analisi. Se invece, accogliendo la sua intuizione, vogliamo considerare la possibilità che tutto sia causato da un meteorite sepolto nel sottosuolo da secoli, sarebbe naturale domandarsi perchè il suo potere sia del tutto inattivo per molti lustri per poi manifestarsi per un periodo limitato a poche settimane prima di scomparire del tutto per altre decine di anni”. I tre commensali tacquero ognuno seguendo il proprio filo di pensiero. Poi don Fernandez, avvicinando un fiammifero ad una delle candele che si era spenta, iniziò a parlare rivolto più a se stesso che a Marcello e Bettina che lo ascoltavano con attenzione: “Domani, grazie alla Tac, sapremo se la nostra corteccia cingolata e l’amigdala, sono state in qualche modo danneggiate o modificate a causa della corrente elettrica o di qualcos’altro che non conosciamo. Fatta questa verifica… il resto sarà tutto da scoprire. Se invece ho
semplicemente seguito il mio desiderio di razionalizzare ad ogni costo un evento ignoto e gli esami daranno esito negativo… allora inizierò immediatamente le procedure di esorcismo”. Detto questo don Fernandez accennò ad alzarsi dal tavolo ancora ingombro dagli avanzi della cena a lume di candela. Rivolgendosi a Bettina sorrise. “E’ stata una cena squisita, dottoressa, la ringrazio per l’invito. Ora, grazie a questa piccola torcia elettrica, porterò le mie stanche ossa in albergo. Domani per me sarà una giornata molto impegnativa. Soprattutto nel caso dovessi spiegare all’Arcivescovo… di aver fatto muovere mari e monti senza alcun risultato tangibile”. “Possiedo anche una camera degli ospiti – disse Bettina indicando con un gesto la zona buia su cui si affacciavano le porte delle camere – se volesse fermarsi a pernottare qui eviterebbe una eggiata nella nebbia”. “Pensavo che la camera degli ospiti fosse già occupata – disse don Fernandez con un sorrisetto ammiccante rivolto a Marcello – ma probabilmente era un pensiero da sacerdote di vecchio stampo. La ringrazio per l’invito, ma la mia valigia con le pillole per l’artrosi e il libretto per le preghiere notturne sono rimasti in albergo. Due cose senza le quali non potrei mai mettermi a letto. Comunque si tratta di una eggiata di un centinaio di metri. Posso ancora farcela sa? Sono un prete di montagna”. Bettina allora prese il sacerdote sottobraccio per aiutarlo, all’incerta luce della pila, a scendere le scale e raggiungere l’ingresso della casa. Rimasti soli in casa Bettina e Marcello si affacciarono alla finestra per osservare il vecchio prete che, camminando lentamente, scomparve a poco a poco, in direzione della piazza, avvolto dalla pallida nebbia. “Cosa ne dici? – disse Marcello appoggiando teneramente una mano sulla spalla di Bettina – potrebbe aver ragione e spiegare tutto con la sua teoria parascientifica?”. “Pensando alla nostra formazione e alla nostro visione del mondo prima di tutti questi avvenimenti, avremmo dovuto essere noi a tentare una spiegazione razionale. Invece sembra quasi che avremmo preferito si risolvesse tutto con un esorcismo…”.
“Hai ragione Bettina. Quello che solo tre giorni fa mi sarebbe sembrato una follia… visioni, meteoriti, fantasmi bloccati con un blackout elettrico…”. Di colpo Bettina portò la mano alla fronte come colpita da un’idea improvvisa. “Sai Marcello, la teoria di don Fernandez? Forse possiamo verificarla ora, in questo momento qui in casa”. “E come?”. “Giù in studio ho un generatore di corrente a benzina collegato all’impianto elettrico. Non l’ho mai usato in tanti anni: era semplicemente una misura di sicurezza che avevo fatto installare nel caso fosse mancata la corrente durante un intervento chirurgico su qualche animale”. “Ho capito la tua idea. Ma non mi piace. Tu vorresti riattivare la corrente elettrica qui in casa col generatore e vedere se di colpo ci appare qualcosa?” – disse Marcello con un brivido pensando all’eventualità che don Fernandez ci avesse visto giusto. “Sarebbe un ottimo sistema per vincere la paura. Avremmo la prova che le nostre visioni nascono da qualcosa di naturale come l’elettricità e non di soprannaturale… come l’inferno”. “Non mi piace, non mi piace…” – continuava a dire fra sé e sé Marcello mentre seguiva Bettina che, indifferente alla sua opinione, stava scendendo velocemente alla luce di una torcia al piano inferiore. Quando lei aprì la porta dello studio, quello da cui Marcello aveva visto partire la terribile processione di animali morti, lui ebbe un attimo di esitazione e si bloccò in preda ad uno stato di ansia. “Coraggio fifone, vieni qui. Ricordi? Siamo persone realistiche e non crediamo ai fantasmi”. “Tranne quando li vediamo…” – aggiunse con una smorfia rassegnata Marcello. Bettina aprì la porta che si affacciava su un piccolo balconcino esterno. Il generatore era posizionato sul balcone contro una delle pareti della casa e da esso partivano una serie di fili che entravano direttamente nel muro. Dopo aver
preso da un armadietto metallico una piccola tanica di benzina, ed averne versato il contenuto all’interno del serbatoio del generatore, Bettina diede uno strappo alla cordicella di avviamento e il motore partì al primo colpo senza alcuna esitazione. “Pensa che era fermo da un sacco di tempo. Partisse così al primo colpo anche la mia Panda sarei una persona felice” – disse Bettina sorridendo mentre dall’interno dell’appartamento iniziò a filtrare la luce di qualche lampadario rimasto prima del blackout. Marcello guardò Bettina ritrovando in quella donna decisa ed attiva tutta la carica di energia della ragazzina che aveva amato un tempo e che ora rivedeva con gli stessi occhi di un adolescente innamorato. Non riuscì a trattenersi e, indifferente a quanto avrebbe potuto trovare al di là della porta del balconcino, nell’appartamento illuminato da una fredda luce, abbracciò la ragazza e la bloccò con un intenso lunghissimo bacio. Bettina rispose al bacio con trasporto stringendosi a lui con tutte le sue forze. Nessuno dei due aveva voglia ora di rientrare nell’appartamento e si lasciarono scendere lentamente fino a sdraiarsi sul pavimento del balcone senza smettere di stringersi. “Dalla strada possono vederci – sussurrò Bettina – non sarebbe meglio raggiungere la camera da letto?”. “Vuoi già mandarmi nella camera degli ospiti?” – rispose sorridendo Marcello. “Persino il prete aveva capito che stanotte la stanza degli ospiti sarebbe stata libera – disse Bettina rialzandosi da terra e tirando a sé la mano di Marcello – andiamo in casa ora. E vediamo cosa ci riserva questo appartamento illuminato”. Entrarono in casa lasciandosi alle spalle il rombo regolare del generatore. Chiunque fosse ato nella strada buia, sollevando gli occhi, avrebbe visto, nella totale oscurità del paese, solo le finestre della veterinaria risplendere di luce, quasi quello fosse l’unico luogo felice assediato dalla tristezza delle tenebre. Bettina e Marcello arono dal balconcino allo studio illuminato e si fermarono guardandosi intorno.
Tutto sembrava normale. Quasi tutto. Perché di colpo, dal piano superiore dove avevano ato la serata, un fragore violento ed inspiegabile riempì la casa. Marcello guardò Bettina. Lei si strinse a lui. “Dobbiamo salire, dobbiamo vedere chi o cosa ha provocato quel rumore.”– disse Bettina con una leggera esitazione ma svincolandosi dall’abbraccio di Marcello, pronta a superare ogni paura, pur di mettere un punto fermo nella sua ansia di comprensione della verità. Marcello, invece, la trattenne. “Non ho nessuna intenzione di salire. Almeno finchè quel generatore sul balcone è in funzione. Temo che la teoria di don Fernandez abbia qualche fondamento. Chi ha provocato quel rumore è sopra e ci sta aspettando”. “Se non vuoi venire, salirò da sola” – disse Bettina guardando fisso in alto il filo di luce che filtrava dalla porta socchiusa al culmine delle scale. Anche Marcello guardò in alto e notò che la luce che filtrava dalla fessura a momenti più era più intensa e a momenti più fievole come se qualcuno o qualcosa si muovesse nella stanza ando davanti alla porta. “No, non salirai lassù” – disse Marcello stringendo forte il braccio di Bettina. “Non posso farne a meno, voglio sapere la verità – rispose la donna – del resto se la teoria di don Fernandez è corretta, basterà spegnere il generatore di corrente perché qualunque cosa ci sia lassù, scompaia subito. Tu resterai sul balcone accanto al generatore e, se mi sentirai urlare, lo spegnerai immediatamente”. L’orgoglio maschile di Marcello prese il sopravvento sulla paura: “Allora sarò io a salire e tu resterai accanto al generatore” – disse Marcello guardandosi alle spalle per un immaginario fruscio creato dalla sua stessa tensione. Ma bastò quella distrazione perché Bettina, salendo a due a due i gradini della scala, raggiungesse la porta semiaperta. Appoggiò risoluta la mano sulla maniglia, poi voltandosi verso il basso disse: “Allora vai sul balcone e tienti pronto a spegnere il generatore. – poi, vedendo l’espressione perplessa di Marcello incerto se
raggiungere l’amica o eseguire il suo ordine, Bettina aggiunse: – vacci subito o entrerò comunque nella camera”. Marcello si rassegnò ed uscì sul balconcino lasciandone la porta spalancata. Risoluta, senza alcuna esitazione, Bettina spalancò la porta facendola sbattere con una spinta più violenta del necessario, ed entrò nella camera. Giù, al basso, Marcello appoggiò le mani tremanti sull’interruttore del generatore di corrente. Poi udì Bettina. Non la udì urlare. No, il suo non era un urlo. Era una fragorosa incontrollabile risata isterica.
XVIII La risata isterica di Bettina echeggiò in tutta la casa come qualcosa di inarrestabile e travolgente. Marcello colto alla sprovvista dalla reazione dell’amica, senza spegnere il generatore, si proiettò sulle scale e, rischiando una rovinosa caduta nel salire i gradini a balzi, in pochi istanti fu nella camera del piano superiore accanto a Bettina. Sgranò gli occhi osservando la scena che gli si presentò. Poi, anche lui, esplose in una risata liberatoria, abbracciando Bettina e tenendola stretta al suo fianco. Davanti a loro, con aria innocente e la bocca grondante di saliva e residui di fritto misto, c’era Bobo accucciato davanti al tavolo del pranzo che aveva fragorosamente rovesciato a terra nel tentativo di afferrare con le zampe gli squisiti avanzi della cena. Tutto intorno, sul pavimento, frammenti di piatti e bicchieri. “Nel caso non avessimo saputo come are il resto della serata, e ti giuro che io un’idea ce l’avevo, Bobo ci ha risolto il problema” – disse Marcello rivolgendosi con tono di scusa a Bettina. Il cane, nel sentir pronunciare il proprio nome, alzò il muso ed accennò ad un rapido movimento della coda per poi velocemente ritornare a leccare gli ultimi residui di condimenti sparsi sul pavimento. “No – disse Bettina – puliremo solo gli avanzi di cibo. Ci vorranno pochi minuti. Per quel che riguarda i cocci ce ne occuperemo domani alla luce del sole. Il generatore va spento al più presto. E’ troppo rumoroso e rischiamo di tener sveglio tutto il quartiere”. “Prima di spegnerlo, però, facciamo un giro per la casa – rispose Marcello guardandosi intorno – voglio la prova che don Fernandez si è sbagliato. In questo momento abbiamo la corrente elettrica ma non c’è stata alcuna apparizione. La nostra arminchiala non ci sta inviando messaggi inquietanti”. “Amigdala, amore, amigdala”. Il rapido giro attraverso le camere dell’appartamento non riservò alcuna brutta sorpresa. Il leggero batticuore con cui Marcello aprì la camera che era stata del figlio di Bettina, quello stesso luogo in cui la notte prima gli era apparsa la nonna, si placò alla vista di una normale silenziosa cameretta da bimbo. Anche
l’atmosfera minacciosa che solo la notte prima Marcello aveva percepito nell’aria della casa, ora era stata sostituita da un senso di pace e di serenità. “Lo senti anche tu? – disse Bettina stringendo la mano di Marcello – sto provando un inspiegabile senso di calma che da molto molto tempo non provavo. Forse ha ragione don Fernandez: è solo la corrente elettrica dei tralicci che in qualche modo stimola le nostre ansie e le nostre paure ed ora con il blackout i nostri neuroni si stanno rilassando. “O forse, è perché ci siamo ritrovati – rispose Marcello attirandola verso di sé – ora sono certo che in tanti anni non ho mai smesso di volerti bene” “Anch’io credo che col tuo ritorno si sia risvegliato qualcosa che era sempre rimasto a dormire dentro di me, accucciato in quella stanzetta nascosta del mio cervello. Un posto pieno di suoni, di quella musica che abbiamo amato, di quei sogni che non abbiamo realizzato oppure che abbiamo lasciato soffocare dal tempo”. “E ci sono anch’io in quella stanzetta?” – chiese Marcello. “Te l’ho detto, è una stanza piena di musica, musica rock, quella vera, giusta, di quegli anni: Deep Purple, Pink Floyd, Black Sabbath. E tu sei il disk jokey, che sceglie i brani migliori”. Marcello le accarezzò la guancia e con le dita non riuscì a percepire le piccole rughe che ormai da tempo ornavano il viso bello di Bettina: il tempo era ato ma certe sensazioni non tengono conto del tempo. Lo ignorano semplicemente. “Voglio restare in quella stanza, non ne voglio più uscire” – disse Marcello. “Allora rimani lì e lasciati avvolgere dal suo profumo. Sempre che tu riesca a sentirlo”. “Sì, sento un vago profumo di erba, credo sia quella che fumavamo”. “Ma no, quello è il profumo dei tigli della piazza. Sono gli stessi di oggi, ma non ti sei accorto che il profumo non è più lo stesso?”. I due scesero silenziosamente tenendosi per mano e, dopo una rapida pulizia del pavimento, andarono sul balcone a spegnere il generatore di corrente elettrica.
Poi, illuminando il percorso con la torcia portatile, raggiunsero senza una parola, come per una tacita intesa, la camera da letto di Bettina. Marcello vi trovò, ben sistemata accanto al letto, la valigia che aveva lasciato quel mattino nella camera degli ospiti. Fu una notte di amore intenso in cui il sesso lasciò molto spazio alle parole. Un amore adolescente che si ritrova nella maturità ha bisogno di un accurato update di aggiornamento. Quel mattino, alle otto, quando Marcello e Bettina dormivano ancora profondamente, e la luce del giorno filtrava dalle tapparelle, tornò per un momento la luce elettrica accendendo i led luminosi della radiosveglia elettrica sul comodino. Poi cessò nuovamente per riprendere dopo qualche istante. Poi i led si spensero ancora e si riaccesero dopo cinque minuti. Ogni volta che la corrente veniva riattivata, la radiosveglia emetteva un leggero crepitio che alla fine svegliò Marcello. Vide accanto a sé Bettina addormentata, guardò la radiosveglia accesa sul comodino poi sollevò gli occhi verso la porta della camera. Lì, sulla soglia, c’era un bambino seminudo, pallido e con profonde occhiaie nere, vestito solo di un sudario stracciato e sporco di terra. Il suo corpo era magrissimo e, attraverso gli squarci del sudario, si intravedevano le ossa far capolino dalla pelle sottile. Il bambino si mosse lentamente verso di lui con una mano tesa ed un orribile sorriso. Ancora semiaddormentato, Marcello non ebbe neppure il tempo di rendersi conto di ciò che stava vedendo: con un crepitio, la radiosveglia si spense nuovamente ed il bimbo scomparve. In quel momento anche Bettina si svegliò e, stiracchiandosi, posò una mano sul petto di Marcello. “Buongiorno amore. Grazie per la splendida notte”. Marcello non volle turbare la donna raccontandole della visione appena avuta anche perché ora aveva la prova che don Fernandez aveva ragione: c’era un sicuro rapporto tra le apparizioni e la corrente elettrica, ma non con quella del generatore autonomo, solo con quella che veniva portata in ogni casa dai cavi. Quella che in questo momento era nuovamente assente. Poi con un crepitio ritornò ancora una volta la luce; Marcello, rabbrividendo, tenne lo sguardo vigile puntato verso la porta, temendo di veder riapparire qualcosa o qualcuno. Bettina lo guardò incuriosita. “Perché fissi la porta? Sei già
pentito per questa notte e hai voglia di andartene?”. Marcello non ebbe tempo di rispondere perché in quel momento, dalla tasca dei jeans abbandonati a terra al centro della camera (la sera prima lui e Bettina si erano spogliati in modo un po’ frenetico gettando gli abiti ovunque nella stanza) squillò improvvisamente il cellulare. Rotolò fuori dal letto, completamente nudo, e, sotto lo sguardo divertito di Bettina arrancò verso i pantaloni estraendone il telefono. Era talmente sicuro che il prete lo avrebbe chiamato che, senza neppure guardare il display, schiacciò il pulsante di accettazione e disse: “Don Fernandez? Come mai è tornata la corrente elettrica?”. All’altro capo, dopo un silenzio imbarazzato, la voce inattesa di Josephine chiese: “Amore… ma cosa stai dicendo. Stavi sognando e ti ho svegliato? Hai parlato di corrente elettrica, cosa volevi dire?”. “Ah Josephine, scusa… no, non volevo dir nulla. C’è stato un equivoco… – rispose Marcello sollevando lo sguardo imbarazzato verso Bettina che, nuda nel letto, sorrideva sorniona. – dimmi Josephine, perché mi hai chiamato a quest’ora?”. “Amore, è da ieri che tento di chiamarti ma ho sempre ottenuto il messaggio di telefono irraggiungibile. Finalmente riesco a parlarti, quindi non sei più a San gremo”. “Ehm, in realtà sono ancora…” “Immagino che tu abbia dormito a Torino questa notte, come le altre volte. Avevo urgenza di darti due notizie. Una bella e una brutta. Quale vuoi sapere per prima?”. Sempre più imbarazzato Marcello guardò Bettina che, con un sorriso di comprensione, si alzò dal letto ed uscì dalla stanza lasciandolo solo. Sul comodino la radiosveglia continuava ad essere accesa. Marcello avrebbe voluto interrompere in qualche modo la telefonata per avvisare Bettina che con l’elettricità attiva da un momento all’altro, avrebbe potuto apparirle… qualcosa di terribile, quindi tentò di accelerare la telefonata con Josephine. “Dimmi prima la cosa bella, Josephine, ma sbrigati perché mi hai preso in un
momento, ehm… un po’ particolare…”. “Capito. Eri in bagno. Scusami. Allora tesoro, la cosa bella è questa: grazie al mio amico architetto-arredatore a cui ho chiesto qualche consiglio, quando tornerai a Parigi, ti troverai un alloggio meraviglioso, completamente rinnovato. “Bene, ne sono felice… – disse Marcello senza entusiasmo – …e la brutta notizia?”. “Ehm… amore, spero che tu capisca e non ci soffra troppo. Io e il mio amico architetto… ora siamo, ehm… ancora più amici. Mi ha invitata a are con lui il resto delle mie vacanze a Saint Tropez. – dopo un attimo di silenzio Josephine continuò – sei molto triste amore? Sono stata così cattiva con te. Ma se soffri troppo potrei…”. Tentando di nascondere il sollievo e la gioia per quel che aveva appena sentito, con voce esageratamente cupa Marcello rispose guardando Bobo che, felice, stava leccando il suo immancabile sasso: “Sì sto soffrendo come un cane, sei stata molto cattiva con me – poi, molto velocemente aggiunse – comunque me ne farò una ragione. Io voglio solo la tua felicità. E, se questa è la tua scelta, è anche la mia scelta. Siate felici e ogni tanto pensate a me che soffrirò silenziosamente…”. “Amore mio, ho le lacrime agli occhi. Mi sento così stronza…” “Eh lo credo, dopo quello che mi hai fatto. Ma stai tranquilla, questi sensi di colpa ano in fretta se si tratta di vero amore. E fra poco sarai del tutto felice col tuo architetto”. Non ci fu alcuna risposta all’altro capo del telefono. La linea era improvvisamente caduta. Come la radiosveglia che si era nuovamente spenta. Dalla porta socchiusa fece capolino Bettina: “Posso entrare? Hai finito la tua telefonata riservata? – poi con un sorriso aggiunse – sì, vedo che hai finito. Allora entro a vestirmi”. “Devo andare subito da don Fernandez… credo che stia succedendo qualcosa in paese. La corrente elettrica si sta attivando e disattivando in continuazione”. “Sì, ma prima ti consiglio di vestirti. Non hai idea di come sia buffo un uomo
completamente nudo col cellulare in mano”. Mentre si vestiva Marcello tentò per la seconda volta di telefonare a don Fernandez ma il cellulare era costantemente senza campo. Dopo la telefonata di Josephine, le lineette che indicano la potenza del segnale telefonico sul display erano del tutto scomparse. “La tua amica se sta bene? Hai voglia di tornare da lei a Parigi?”– disse Bettina con tono indifferente. “La mia amica se, ora è amica di un architetto arredatore. E io ho voglia di tornare a Parigi. Ma insieme a te. Sono pronto a restare a San Gremo finchè non mi dirai che hai deciso di chiudere questa casa e questo studio pieno di ricordi tristi e di trasferirti nella mia casa in rue St.Severin, l’ha arredata un architetto arredatore creativo e affascinante che mi ha anche risolto un problema. E poi, i veterinari sono molto ricercati in Francia, avrai sicuramente più clienti che qui”. “Non ti sembra di correre un po’ troppo? Mi stai proponendo una convivenza dopo appena due giorni di… come si chiama dalle tue parti, amour fou?”. “A proposito di correre – farfugliò Marcello imbarazzato – devo correre all’albergo di don Fernandez. Ci vediamo più tardi. E se dovesse tornare la corrente elettrica, per favore, non restare in casa. Raggiungimi all’albergo in piazza, sarò con don Fernandez”. “Se torna la corrente elettrica, aprirò lo studio. Ci sono creature che hanno bisogno di me…” “Appunto, io sono una di quelle creature…” Quel mattino la piazza di San Gremo, solitamente sonnacchiosa e semideserta apparve a Marcello in una veste assolutamente inusuale. Davanti alla chiesa era parcheggiato un immenso motorhome con targa svizzera simile a quelli che si vedono di solito ai bordi delle piste di formula uno, sul cui tetto erano installate varie antenne paraboliche. Vasti spazi della piazza erano stati isolati con del nastro bianco-rosso e al loro interno si muovevano avanti e indietro lentamente alcuni uomini che tenevano fra le mani delle apparecchiature che emettevano dei segnali sonori. Un paio di furgoni col logo dell’Arpa, l’agenzia regionale per la Tutela dell’Ambiente erano posteggiati accanto al motorhome. Uomini col giubbotto della protezione civile tenevano in mano le radioline portatili da cui
uscivano brani di voce gracchiante. Molti curiosi se ne stavano con le mani in tasca ad osservare quell’insolita attività. Marcello si avvicinò al motorhome e, guardando attraverso la porta lasciata aperta ne vide l’interno, colmo di apparecchiature medico-scientifiche e schermi digitali. Un forte ronzio denunciava la presenza di un generatore di corrente che alimentava le apparecchiature. All’interno dell’immenso laboratorio mobile, un paio di uomini in camice bianco parlavano in se con don Fernandez mostrandogli dei fogli con diagrammi colorati. Don Fernandez, vedendo Marcello sulla soglia, lo invitò con un gesto ad entrare nel motorhome. “Come vede, signor Marcello, sono stati velocissimi quelli dell’Istituto di Ricerca Sperimentale Neuropsichiatrica di Ginevra. Alle sei di questa mattina erano già qui. Alle 8 in punto abbiamo cominciato a fare esperimenti ed esami sui paesani che hanno accettato di essere sottoposti a Tac cerebrale. “Quando la corrente elettrica è stata più volte attivata e disattivata” – disse Marcello mentre il suo pensiero andava al bambino apparso e scomparso in pochi secondi. “Certo, faceva parte del nostro esperimento per verificare le reazioni neurocerebrali alla presenza di elettricità. E le risposte ci sono state! Ora le farò vedere”. Prendendo per un braccio Marcello e muovendosi rapidamente fra le apparecchiature, con tutto l’entusiasmo di chi ha avuto la conferma di essere sul punto di risolvere un problema complesso ed è felice di comunicarne i risultati, il sacerdote lo accompagnò davanti ad una piccola scrivania su cui erano appoggiati una serie di documenti. “Ha visto i tecnici dell’Arpa qui fuori sulla piazza? Gli strumenti che stanno utilizzando si chiamano sonde isotropiche triassali e sono degli speciali apparecchi che misurano i livelli di emissione di onde elettromagnetiche… – disse don Fernandez mostrando un foglio pieno di dati a Marcello – …in tutta l’area di San Gremo fino ad oltre un chilometro intorno ad esso, durante il nostro blackout elettrico, c’è un’emissione di elettrosmog del tutto normale. In pratica
gli stessi valori che possono risultare stando vicino ad un qualunque forno a microonde o accanto ad un televisore di vecchia generazione. Poi il prete prese un altro foglio dal tavolo e mostrandolo a Marcello con aria trionfante disse: “E qui abbiamo la prova che la mia intuizione era giustificata: appena abbiano fatto riattivare ad intervalli di qualche minuto la corrente elettrica in paese, i valori di un particolare, stranissimo inquinamento da elettrosmog, balzavano in un attimo ad un livello altissimo, mai rilevato neppure nei pressi delle più grandi centrali elettriche o nucleari del mondo. Poi abbiamo avuto un episodio che ci ha dato una prova definitiva. Circa mezzora fa, nel momento stesso in cui la corrente elettrica era stata riattivata, uno dei tecnici impegnati nelle rilevazioni, ha avuto una crisi di nervi: lo abbiamo visto fuggire dalla piazza urlando in preda al panico. Ci sono voluti ben tre uomini per bloccarlo a fatica. Appena è stato immobilizzato, lo abbiamo sottoposto immediatamente a Tac cerebrale. E, subito dopo i primi risultati dell’esame, abbiamo fatto disattivare la linea elettrica. In quello stesso momento, il tecnico, si è del tutto calmato. Ora è ancora sotto shock e si rifiuta di raccontare che cosa lo ha terrorizzato. Ma la vera incontrovertibile prova, eccola qua…” – e il prete estrasse da una cartella due stampe fotografiche e le posò sul tavolo. Marcello le fissò perplesso senza capire che cosa rappresentassero. Allora il prete, indicando una delle due immagini, spiegò: “Questa fotografia è la Tac del cervello del tecnico dopo l’interruzione dell’erogazione della linea elettrica, quando finalmente il poveretto si è calmato. Questa immagine rappresenta un cervello del tutto normale. E guardi bene questa zona a forma di mandorla posta tra i due emisferi cerebrali a contatto con la corteccia cingolata. Ne memorizzi la forma e le dimensioni. E’ l’amigdala, l’interruttore della paura umana.”. Poi il prete prese la seconda stampa e la spianò sul ripiano con la stessa delicata cura con cui si maneggia un documento prezioso – “E questa invece è la prima Tac che abbiamo eseguito quando siamo riusciti ad immobilizzare il tecnico, proprio nel corso della crisi mentre stava ancora tremando di terrore e, naturalmente, la linea elettrica era ancora attiva. Guardi la misura dell’amigdala: come può vedere, rispetto all’altra immagine, è più che raddoppiata ed appare deformata come fosse in preda ad una vibrazione violenta. Ecco che cosa provoca al cervello umano l’altissimo livello di campo elettromagnetico radioattivo che si manifesta quando sui tralicci del paese scorre l’energia
elettrica: il rapporto di causa-effetto con l’anomalo comportamento di corteccia cingolata e amigdala non può più essere negato”. Sorridendo e puntando il dito deformato dall’artrosi, sull’immagine della Tac, don Fernandez disse: “Eccolo qui il nostro Demone: pensi che questo sintomo si può ritrovare in una buona parte dei presunti indemoniati che mi chiedono di esorcizzare. Naturalmente, in questi casi, è una patologia cerebrale a modificare in modo permanente o temporaneo le funzioni della corteccia cingolata. Qui in paese, invece, quando viene sospesa la corrente elettrica, questa zona del cervello torna in pochi istanti del tutto normale. Come le dicevo, fin dall’arrivo di questo laboratorio mobile stamattina, abbiamo iniziato a sottoporre alcuni volontari tra gli abitanti di San Gremo a questo esame attivando e disattivando la linea elettrica. I risultati sono quasi identici per tutti: in presenza di linea elettrica, amigdala deformata e reazioni variabili che vanno da un forte senso di ansia in alcuni soggetti fino al terrore incontrollabile in altri; in fase di blackout elettrico immediata scomparsa dei sintomi con amigdala tornata a forma e dimensioni normali. Naturalmente ora, potendo escludere interventi satanici o soprannaturali, sarà molto più semplice per noi scoprire la causa di tutto questo. E, a questo proposito, signor Marcello, non posso far altro che lodarla per la sua intuizione che avrà buone probabilità di essere confermata oggi pomeriggio… – il prete si alzò sorridendo ed appoggiando una mano sulla spalla di Marcello continuò: – gli strumenti di rilevazione statica utilizzati dai tecnici dell’Arpa, nei test eseguiti questa mattina, hanno confermato la presenza, accanto al muro laterale della chiesa, di una grande massa sotterranea a composizione metallica, che non si può escludere sia un meteorite. Ma la cosa più stupefacente è che tutti i valori di elettrosmog rilevati dalle sonde isotropiche triassali, in presenza di linea elettrica sui tralicci della piazza, raggiungono il massimo livello accanto alla chiesa per poi diminuire man mano che ci si allontana verso i confini del paese. Sotto alla chiesa c’è sepolto qualcosa che, in sinergia con un campo elettrico, sprigiona una forza sconosciuta. Ho già richiesto l’intervento di una ditta di scavi. Inizieranno il lavoro nel pomeriggio”. Marcello si sentì rassicurato dalle parole di don Fernandez e dai risultati dei test medici e ambientali; ma giusto il tempo di assimilare tutte queste informazioni che già una serie di domande e di dubbi iniziarono ad affiorare insistenti. Estraendo di tasca la lettera spiegazzata che gli aveva dato Cristiano chiese al
prete: “Ok, lei ora mi dice che le apparizioni sono allucinazioni create dalla nostra mente alterata da una forza sconosciuta… ma allora, com’è possibile che il fantasma di mia nonna… anzi l’allucinazione in cui mia nonna mi annunciava che mia madre era morta nello Tsunami del 2004 mi dicesse qualcosa che non sapevo ancora? Questa lettera non mi era ancora stata consegnata dal mio amico postino”. Il prete sorridendo gli rispose: “Le ho parlato della corteccia cingolata e della sua funzione del cosiddetto sesto senso. Sicuramente lei nel 2004, nel leggere sui giornali le drammatiche notizie dello Tsunami, avrà pensato, magari inconsciamente, che i suoi genitori, in quel momento in oriente, potevano essere fra le migliaia di vittime. Questo pensiero è rimasto latente nel suo cervello finchè la sua corteccia cingolata ha deciso di riproporglielo sotto forma di allucinazione. E’ una cosa assolutamente spiegabile neurologicamente”. Marcello assentì pensieroso poi, tornandogli alla mente l’episodio di trent’anni prima, tornò a chiedere al prete: “Le ho raccontato l’episodio che mi è successo quando avevo diciassette anni. Ho parlato a lungo con mia nonna… che in realtà era morta il giorno prima. In quel caso la sua teoria del sesto senso non funziona. Mia nonna stava bene quando le ho parlato e non potevo immaginare che fosse morta il giorno prima. Per tutta la vita ho pensato di aver parlato con un vero fantasma”. “Anche questo ha una spiegazione psico-neurologica – rispose il prete – a meno che un razionalista ateo e pragmatico come lei non voglia ad ogni costo credere ai fantasmi. Molto probabilmente quella sera lei, entrando nella casa di sua nonna dopo la settimana trascorsa in collegio, si era trovato di fronte non a sua nonna ma al suo cadavere disteso a terra in cucina. Per un ragazzino di nemmeno diciassette anni quella vista fu talmente traumatica che il cervello decise di censurarla sostituendo il cadavere con la rappresentazione di sua nonna viva che parla con lei. Tenga conto che dalle informazioni che abbiamo acquisito, anche in quel periodo trent’anni fa, si manifestarono come ora, una serie di apparizioni e di visioni in tutto il paese, probabilmente anche allora dovute alla stessa causa misteriosa che ora stiamo per scoprire. Così lei prima credette di parlare con sua nonna, poi parecchie ore dopo, ne scoprì il cadavere come se fosse appena morta. E giustamente lei rimase profondamente sconvolto quando il medico condotto le disse che sua nonna era già morta da almeno ventiquattro ore”.
In quel momento entrarono nel motorhome, pallidi e con aria molto impacciata, due tecnici che tenevano in mano i rivelatori di radiazioni. “Abbiamo circoscritto una zona adiacente alla chiesa, in cui lo spettro dell’emanazione radioattiva raggiunge i livelli massimi. Si tratta di un’area di circa otto metri di lunghezza per sei di larghezza. Non abbiamo potuto essere molto precisi perché durante la rilevazione… ehm… io, noi…”– e qui il tecnico impallidì iniziando a balbettare per l’imbarazzo. Il prete sorridente lo rassicurò: “…avete avuto qualche terribile visione. Non preoccupatevi, ora è tutto chiaro. D’ora in avanti non riattiveremo più la linea elettrica fino alla fine delle operazioni e dello scavo che inizierà oggi pomeriggio. In questo modo, ne siamo ormai certi, nessuno avrà più delle allucinazioni. Né qui né in tutto il paese. Scoperto l’effetto, stasera ne scopriremo la causa” – poi rivolgendosi a Marcello, don Fernandez disse: “Sentito? Abbiamo le misure del suo meteorite. Otto metri per sei. L’antico miracolo dell’acqua ha una giustificazione scientifica. L’Arcivescovo e la Curia non me lo perdoneranno. E forse neppure gli abitanti di San Gremo a cui toglieremo una tradizione millenaria”. In quel momento il sindaco di San Gremo entrò nel motorhome e si rivolse con tono ansioso a don Fernandez: “I miei compaesani continuano a chiedermi informazioni a cui non so rispondere. Quando finirà questa situazione? Le devo chiedere di farci riattivare la corrente elettrica. Nessuno è più abituato a farne a meno anche se solo per un giorno e una notte”. Don Fernandez fu molto categorico nel rispondere all’uomo: “Ho buoni motivi per pensare che stasera, dopo che avremo terminato lo scavo accanto alla chiesa probabilmente avremo una serie di risposte. Allora forse il paese tornerà alla vita normale. Ma finchè non avremo scoperto e neutralizzato quello che c’è sotto la chiesa di San Gremo… è assolutamente impossibile riattivare la linea elettrica”. “Temevo questa risposta. Eppure me l’aspettavo. Questa mattina, quando avete attivato per qualche minuto la linea elettrica, per un attimo, mi sono trovato in bilico sul bordo di un cratere vulcanico da cui spuntavano fiamme e lapilli di lava che mi sfioravano. E’ stata la terribile sensazione di un momento brevissimo, ma se la causa nasce in qualche modo dalla corrente elettrica… sono ben felice di farne a meno. In questo caso, don Fernandez, la ringrazio per quello che sta facendo per il mio paese. Anche se non so che cosa stia esattamente
facendo”. Detto questo il sindaco di San Gremo strinse la mano al sacerdote e se ne andò. “Ora non ci resta che attendere le scavatrici – disse don Fernandez a Marcello – se vuole possiamo dare un’occhiata alla zona in cui verrà effettuato lo scavo”. Don Fernandez e Marcello uscirono dal motorhome e si avviarono, senza parlare, verso la chiesa a poche decine di metri. Quando Marcello vide l’area segnata con una striscia bianca di polvere di gesso, non poté fare a meno di notare che la zona corrispondeva quasi perfettamente allo scavo che trent’anni prima aveva smantellato l’antico cimitero. Quello scavo in cui sia lui che l’amico Cristiano, per qualche breve momento, avevano visto qualcosa che li aveva terrorizzati. La sensazione di Marcello, rivivendo per una attimo quel ricordo, fu il presentimento, che lo scavo di quel pomeriggio avrebbe potuto riservare qualcosa di spaventoso. Lo disse al prete accanto a lui ma don Fernandez, seguendo un suo pensiero, appoggiò una mano sul muro della chiesa senza rispondergli. Poi, accarezzando gli antichi mattoni testimoni di una storia millenaria si voltò verso Marcello e gli disse: “Finché non ci sarà corrente elettrica in paese, può stare tranquillo. Nulla di spaventoso potrà più succedere… – ma, come colto da un improvviso dubbio, alzo gli occhi verso il campanile e sussurrò tra sé e sé – …almeno pregherò perché sia così”.
XIX Quel pomeriggio, erano da poco ate le quattordici, giunse sulla piazza un enorme autocarro dal cui pianale vennero scaricate due grandi escavatori cingolati. Da un secondo camion venne scaricata una pala meccanica Caterpillar che, successivamente, sarebbe servita a spostare la terra dello scavo. I tecnici e gli uomini della protezione civile avevano finito il loro lavoro e, chi seduto sulle panchine sotto i tigli, chi sull’erba dell’aiuola, stavano consumando il pranzo nei cestini forniti dal ristorante “Il Cannoniere”. L’area da scavare, segnata con il tracciato di polvere di gesso, si sviluppava per una lunghezza di una decina di metri di lunghezza per sette metri di larghezza, a ridosso del muro laterale della chiesa. Proprio per questo, per iniziare lo scavo, si era dovuto chiedere l’autorizzazione alle autorità ecclesiastiche, che, all’arrivo dei mezzi di scavo, non era ancora pervenuta. Proprio per valutare la concessione dell’autorizzazione, erano giunti a San Gremo fin dalla tarda mattinata alcuni inviati della Curia tra cui il segretario particolare dell’Arcivescovo e i due agenti investigativi vestiti di nero, quelli che avevano svolto le indagini prima dell’arrivo di don Fernandez. Quando i due uomini vestiti di nero videro sulla piazza Marcello, gli si avvicinarono con aria ostile e uno dei due gli domando con tono ironico: “Come va la testa? L’ultima volta che ci siamo visti si lamentava per una forte emicrania…” “Tutto bene, grazie… e la sua macchina fotografica? Ha fatto riparare l’obiettivo? L’ultima volta che ho visto la sua Nikon… non mi sembrava tanto integra”. Poi Marcello, sorridendo, estrasse dalla tasca la scheda memoria su cui erano le fotografie scattate dai due uomini e facendola sventolare accanto al naso di uno dei due disse: “A proposito. Pensi che ho trovato in terra, accanto ai frammenti del suo obiettivo, una schedina memoria piena di fotografie interessantissime. Foto che violano la privacy di un sacco di persone e che solo le autorità potevano possedere. Chissà come ci sono finite sopra? – l’uomo in nero impallidì e allungò di scatto la mano per sottrarre la scheda a Marcello, che però fu più rapido nel riportarla in tasca. Poi continuò, sorridendo – dovrò proprio rivolgermi alla polizia per capire se sia legale che qualcuno detenga delle fotografie scattate dai carabinieri. Naturalmente immagino che la scheda memoria non appartenga alla vostra macchina fotografica, vero? Non sarebbe
elegante che un inviato della Curia finisse in un’inchiesta per trafugamento di materiale giudiziario”. L’uomo in nero fece per slanciarsi minaccioso su Marcello ma l’altro lo trattenne parlandogli a bassa voce e accennando col mento al segretario dell’Arcivescovo e ai dirigenti ecclesiastici che poco distante stavano animatamente parlando con don Fernandez. Allora i due individui, dopo un’ultima occhiata per niente amichevole verso Marcello, si allontanarono discutendo a bassa voce tra di loro. Finalmente, dopo un serrato dialogo ed una serie di raccomandazioni, gli inviati della Curia decisero che lo scavo poteva essere effettuato. Dovettero però entrare nel bar per poter telefonare e mettere al corrente l’Arcivescovo delle loro decisioni, visto che i cellulari continuavano ad essere del tutto senza campo. Don Fernandez era irritato per la perdita di tempo: “Non possiamo attendere ancora, le giornate iniziano ad essere corte: lo scavo va eseguito alla luce del giorno e deve essere terminato prima del tramonto. Finché non sapremo cosa c’è lì sotto, non potremo riattivare la linea elettrica”. Giovanni Traverso, uno dei due operatori delle scavatrici e titolare della ditta di Movimento Terra lo rassicurò: “Abbiamo due macchine potentissime, e il terreno di questa zona è morbido e argilloso. In un paio d’ore, potremo scendere in un’area di una decina di metri quadri per circa sei metri. Ma, mi scusi reverendo, perché non possiamo accendere dei fari e continuare dopo il tramonto? C’è qualche problema alla linea elettrica?”. Don Fernandez esitò un attimo prima di rispondere: “In un certo senso, sì. Ma sono sicuro che entro domani sarà riparata”. Alle quindici e trenta in punto, finalmente, si iniziò a scavare. Giovanni Traverso prese a scavare rasente al muro della chiesa mentre il suo collega, sull’altra scavatrice, diede inizio allo scavo a circa sei metri di distanza. Le due grandi macchine estraevano, ad ogni affondo, palate colme di un terreno reso rossastro dalla forte componente argillosa. Dopo circa un’ora di lavoro i due scavi si erano riuniti in un unica grande fossa profonda circa tre metri per una larghezza di circa dieci metri. I due mezzi forniti di cingoli erano scesi senza difficoltà all’interno dello scavo ed ora continuavano a scavare in posizione parallela ad un ritmo di lavoro sostenuto. Ai bordi dello
scavo si stava via via creando una vera e propria montagna di terra rossa e detriti alta parecchi metri. Tutto intorno una folla di curiosi si era radunata nella piazza del paese ed osservava silenziosamente il lavoro. Anche se la maggior parte dei presenti non ne conosceva la ragione, nessuno di loro faceva domande sui motivi dello scavo. Molti di loro avevano avuto delle visioni negli ultimi tre mesi ed avevano dubitato della propria salute mentale. I più anziani, invece, avevano pensato che il paese fosse stato infestato da fantasmi e da quelle masche di cui avevano tanto sentito parlare nell’infanzia dai loro vecchi. Ora, fermi di fronte allo scavo, gli uni e gli altri si sentivano un po’ rassicurati dal fatto che, anche se i giornali e i media continuavano ad ignorarli, qualcosa era effettivamente successo in paese. E, soprattutto, qualcuno si dava da fare per comprendere e risolvere ciò che era successo. Ad un tratto Giovanni Traverso vide qualcosa di strano nel cestello della sua scavatrice. Qualcosa che emergeva tra la terra e i sassi e che a prima vista aveva scambiato per un pallone di calcio bucato… ma ora aguzzando la vista, e facendo avvicinare il cestello al finestrino della scavatrice, gli appariva in tutta la sua terribile realtà: una testa di donna mozzata dal cui collo scendeva un rivolo di sangue. Immediatamente l’uomo fermò il mezzo e scese velocemente nello scavo portandosi accanto al cestello per osservare da vicino quell’orrido reperto. Era effettivamente una testa di donna, i cui occhi sbarrati fissavano immobili il cielo. Giovanni Traverso si guardò intorno smarrito. Si accorse che anche il suo collega sull’altra scavatrice aveva fermato il motore. Poi, riabbassando gli occhi sulla testa della donna vide che i suoi occhi non guardavano più verso il cielo ma ora lo fissavano con espressione maligna. Ed infine la testa gli parlò: “Cosa vuoi da noi stupido uomo, perché vieni a disturbare il nostro sonno eterno?” E detto questo dalla bocca spalancata della testa uscì una lingua lunghissima simile ad un serpente che avvolse il collo dell’uomo stringendolo in una morsa soffocante. L’uomo urlò e si divincolò riuscendo a liberarsi dalla stretta, poi fuggì dalla voragine, scivolando più volte nella salita franosa che lo avrebbe portato fuori dalla scavo. Pochi attimi prima, nel momento stesso in cui Giovanni Traverso aveva fermato la sua scavatrice per guardare che cos’era quello strano oggetto nel cestello, il suo collega nell’altra scavatrice impegnata a pochi metri dalla sua, sentiva improvvisamente l’impulso incontrollabile di fuggire subito da quel luogo, da quel paese e da quella gente che tutto intorno lo guardava in modo sinistro. Si sentiva come se un pericolo terribile ed incombente minacciasse la sua vita. Il fiato gli si fece corto e la gola gli si chiuse mentre convulsamente usciva dalla
cabina della scavatrice. Si inciampò sulla scaletta precipitando al suolo, poi si rialzò fissando la terra smossa con la sensazione che qualcosa di orrendo ne stesse per uscire. Alzò gli occhi e vide davanti a sé il suo collega Giovanni Traverso che, urlando, correva verso la salita per uscire dallo scavo. Senza pensare a nulla, ma con la consapevolezza che fosse l’unica cosa da fare, seguì il collega fuori dalla buca mentre il cuore batteva così forte che sembrava volesse squarciargli il petto. Quasi si scontrò fuori dallo scavo con il prete che, urlando con espressione sconvolta, allargava le braccia tentando di bloccare, senza riuscirci la loro fuga disperata. Don Fernandez fino a qualche minuto prima aveva seguito con attenzione le operazioni di scavo con lo strano presentimento di aver sbagliato qualcosa o, per lo meno, di non aver tenuto conto di tutti gli elementi che gli avevano fatto elaborare la sua teoria. La certezza gli venne quando, con le scavatrici ancora in funzione e lo scavo ormai giunto ad una profondità di circa tre metri, uno dei tecnici dell’Arpa arrivò correndo accanto a lui tenendo un foglio tra le mani. “Don Fernandez – gridò l’uomo – sta succedendo qualcosa. I valori dell’irradiazione del campo elettromagnetico, stanno salendo a livelli altissimi, simili a quelli riscontrati con la corrente elettrica attivata. Anzi, forse, addirittura superiori.» Don Fernandez strappò di mano il foglio al tecnico e, dopo averlo letto velocemente, alzò gli occhi verso lo scavo in tempo per vedere i due addetti alle scavatrici scendere velocemente dai loro automezzi e urlare di terrore mentre fuggivano da qualcosa di spaventoso che solo loro potevano vedere. Quasi in contemporanea udì alle sue spalle delle urla. Alcuni dei presenti stavano fuggendo dalla piazza gridando di terrore mentre altre persone si erano inginocchiate per terra piangendo. Marcello era immobile come pietrificato e, fissando un punto davanti a sé, parlava con la sua mamma chiedendole perché lo avesse abbandonato e fosse morta senza prima tornare a salutarlo per l’ultima volta. Il segretario dell’Arcivescovo, dopo essersi strappato di dosso l’abito talare ed aver abbassato i pantaloni, accovacciato in terra subiva piangendo le immaginarie frustate di un diavolo che lo puniva per i suoi eccessi sessuali. Tutta la piazza si era trasformata in una bolgia urlante. Solo pochissimi tra i presenti si guardavano attorno smarriti senza comprendere che cosa stava succedendo. L’inferno, evidentemente, non riusciva ad esercitare il suo potere su tutti. O per lo meno, come in ogni epidemia, ci sono alcuni fortunati che sono immuni o sentono in modo meno violento l’influsso del potere misterioso che ha invaso la
piazza di San Gremo. Don Fernandez capì immediatamente che cosa doveva fare e, senza preoccuparsi per i due demoni che gli si erano avvinghiati alle gambe, e lo mordicchiavano fastidiosamente sui polpacci, corse faticosamente verso i manovratori delle scavatrici tentando di fermare la loro fuga. “Bisogna immediatamente chiudere lo scavo col Caterpillar, vi prego, vi prego, non fuggite. Quello che state vedendo non è reale”. Ma i due uomini si divincolarono dalla stretta dell’anziano sacerdote facendolo quasi cadere in terra e in pochi attimi erano già lontani in fondo alla piazza. “Qualcuno sa manovrare una pala meccanica Caterpillar?” – gridò allora il prete verso i pochi presenti ancora fermi, impietriti dallo spettacolo che si stava presentando ai loro occhi. Don Fernandez con uno scossone tentò di liberarsi di uno dei demoni che, sotto forma di donna nuda, si teneva aggrappato a lui stringendolo fra le cosce e continuò a gridare: “Allora? Possibile che nessuno sia in grado di guidare un Caterpillar? Bisogna rimettere tutta la terra nella scavo. Non c’è tempo da perdere”. Allora, balbettando con espressione terrorizzata, gli si avvicinò uno degli uomini della protezione civile. “Non lo faccio da molti anni, ma credo di essere in grado di manovrare una pala meccanica”. “Allora salga su quel Caterpillar e spinga immediatamente tutta quella montagna di terra nello scavo. Deve chiudere il più velocemente possibile il buco”. Mentre l’uomo saliva sulla macchina, don Fernandez buttò un occhio nella buca e finalmente lo vide. Restò per un attimo ad osservarlo silenzioso mentre la donna nuda, senza staccarsi da lui, coi suoi denti appuntiti lo mordicchiava sensualmente sul collo. Senza badare a lei il prete continuò a fissare la base dello scavo: “Eccoti svelato, ora ti vedo. Allora sei tu il responsabile di tutto questo” – e lo diceva guardando una roccia liscia, verdastra, che in vari punti dello scavo faceva capolino alla profondità di circa tre metri, dove la terra smossa l’aveva lasciata venire alla luce. La donna avvinghiata al prete avvicinò la bocca al suo orecchio e, lasciandone uscire un alito mefitico come un pozzo di fogna, sussurrò: “Allora sei contento di aver trovato la porta dell’inferno? Noi siamo tutti lì sotto e ti attendiamo.
Ormai, manca poco perché anche tu ci possa raggiungere. E non pensare di salvarti con quelle quattro preghiere che conosci. Siamo molto più potenti noi di ogni Pater Ave e Gloria! Lo aveva capito don Bernardo, il vecchio parroco di questa chiesa. Lui è già con noi da ieri notte. Si è tagliato la gola e ora è laggiù che ti aspetta, in dolce compagnia. Vuoi parlargli? – e la donna mostruosa porse a don Fernandez un telefonino – parlagli pure, vuole farti qualche raccomandazione”. Don Fernandez, pur sapendo di ascoltare la voce di una creazione della sua stessa mente non riuscì a trattenersi dal rispondere ironicamente: “Anche se volessi parlargli, qui a San Gremo non c’è campo…”. Con una terribile risata la mostruosa donna continuò a porgere il telefonino al prete dicendo: “Per forza non c’è campo, hai fatto interrompere la linea elettrica. Il ripetitore che don Bernardo ha fatto installare tre mesi fa sul campanile ha bisogno della corrente elettrica per funzionare. Ma puoi stare tranquillo, prete, i nostri telefonini funzionano sempre!”. Fu in quel momento che tutto fu chiaro a don Fernandez. Il prete non si degnò neppure di rispondere alla visione, tanto era sicuro non fosse altro che un’allucinazione ma parlò solo con se stesso : “No, non è la porta dell’inferno quella. Ed ora so bene dove ho sbagliato. Tre mesi fa veniva installato il ripetitore telefonico sul campanile. Tre mesi fa iniziarono le apparizioni a San Gremo. Non è la linea elettrica ma sono le onde elettromagnetiche della telefonia cellulare ad amplificare le radiazioni della roccia sepolta”. Intanto il Caterpillar stava spingendo velocemente tutta la terra ammonticchiata ai lati dello scavo dentro la voragine e in pochi minuti la roccia verdastra tornò ad essere totalmente nascosta alla vista. Man mano che la terra veniva spinta nella buca dalla potente macchina, e si creava uno strato sempre più spesso di argilla e terra sulla roccia verdastra, la gente andava progressivamente calmandosi. La mostruosa creatura che fino ad un attimo era rimasta avvinghiata a don Fernandez scomparve di colpo con un’espressione addolorata. Il prete, iniziò ad aggirarsi fra la gente ancora sconvolta tentando di rassicurare uno per uno quelli che sembravano più turbati. Il segretario dell’Arcivescovo si era rivestito e, sconvolto dalla vergogna, era corso a rinchiudersi nella berlina blu con cui era arrivato in paese.
Quando giunse accanto a Marcello che, ancora tremante, lo fissava interrogativo, don Fernandez gli fece una lunga carezza sulla guancia: “E’ stato terribile, vero? Ma ora può stare tranquillo. Il mistero è risolto. E quasi sicuramente lei aveva ragione. C’è un masso radioattivo là sotto. Ed è possibile si tratti proprio di un meteorite caduto molti secoli or sono. Oppure un masso preistorico da sempre esistente nel sottosuolo del paese. Dipende se vogliamo salvare la tradizione del miracolo dell’acqua così caro a tante persone o sfatarlo cercando ad ogni costo delle inutili verità alternative”. “Ora sì che torna ad essere un prete, don Fernandez: seguace della scienza, sostenitore della tecnologia… ma pronto ad abbozzare quando la superstizione diventa un valido aiuto per la chiesa. Come vede, nonostante ciò che ho appena visto, sono tornato agnostico e positivista a tutti gli effetti”. “Caro signor Marcello, forse lei lo ha dimenticato… ma io sono un sacerdote. E per me seguire delle regole che non sempre condivido fa parte di un voto di obbedienza”. Poi, prendendolo per un braccio, si avviò con lui verso il luogo dello scavo. Vennero raggiunti dal sindaco di San Gremo che, ansimando per la corsa, si aggrappò al braccio del prete: “Mi può dire cosa diavolo è successo ai miei compaesani? E anche… a me. Non oso ripensarci. Cosa c’è sotto quella chiesa? Forse il vecchio parroco lo sapeva e per questo è fuggito dal paese qualche settimana fa. Sul giornale di stamane ho letto che si è suicidato… ha qualcosa a che fare con tutto questo?”. “Le spiegherò tutto. Ma prima deve mandare qualcuno a tagliare i cavi che alimentano il ripetitore telefonico sul campanile. – poi rivolgendosi a Marcello, mentre il sindaco si allontanava cercando qualcuno in grado di eseguire la richiesta del prete, don Fernandez continuò – aveva ragione il parroco don Bernardo a ritenersi responsabile di quello che stava avvenendo in paese. Ma non per i suoi peccati sessuali. No, la colpa è tutta di quel ripetitore telefonico che lui ha permesso di installare. – don Fernandez alzò gli occhi verso il campanile su cui svettava, esteticamente orrenda, l’antenna del ripetitore poi continuò: – è sicuramente un apparecchio molto potente: il paese è circondato da alture e fin dall’inizio della telefonia mobile San Gremo è stato in una zona di ombra totale. Tutto questo per la diffidenza dei suoi abitanti verso i ripetitori telefonici. Nessuno, insomma, per paura delle radiazioni denunciate dagli
ambientalisti, concedeva lo spazio per l’installazione dei ripetitori. Finché tre mesi fa il parroco ha concesso il campanile per l’installazione di un potentissimo ripetitore di ultima generazione…”. “E il ripetitore, oltre ad amplificare i segnali telefonici…”. “Esatto, il ripetitore iniziò ad amplificare in modo abnorme anche le impercettibili radiazioni che provenivano da quella roccia nel sottosuolo. Impercettibili perché erano talmente deboli che per secoli è bastato uno strato di pochi metri di terra argillosa per schermarle del tutto e renderle inoffensive”. Marcello sgranò gli occhi perché di colpo tutti i tasselli si stavano riunendo. Pensando ad alta voce disse: “Così uno strato di tre o quattro metri di terra bastava a trattenere le radiazioni. Ecco perché trent’anni fa, quando venne trasferito il vecchio cimitero, è stato fatto uno scavo che…”. Don Fernandez terminò la frase di Marcello con un sorriso: “…ha permesso l’uscita delle radiazioni che penetrando nel cervello hanno interferito con l’amigdala e la corteccia cingolata di chi si trovava nei dintorni. E lo stesso avvenne durante la seconda guerra mondiale. Con la caduta di una bomba accanto alla chiesa, si creò una voragine. E il paese tornò ad impazzire finchè la buca non venne chiusa. Ma nessuno collegò il fatto con la fine delle apparizioni spaventose. E il parroco di allora, non guarì mai più dalla follia a cui lo aveva portato una terribile, infernale visione. E tornando ancora più indietro, nel 1630, tutti i libri di storia parlano di un violentissimo terremoto nel nord del Piemonte: un terremoto che, come spesso succede, probabilmente, aprì nel suolo dei crepacci profondi. Quella volta le radiazioni non ebbero bisogno di una voragine o di uno scavo per uscire dal sottosuolo e causare quell’improvvisa apparizione di masche e streghe nelle vie del paese, tramandata come una leggenda popolare. “Una leggenda su cui la chiesa ha marciato parecchio. – disse Marcello – Ora sappiamo che non furono le preghiere superstiziose di quei poveri contadini ignoranti a scacciare le streghe dal paese ma, semplicemente, il fatto che ato un terremoto, dopo qualche tempo, la vita torna normale e i crepacci e le buche vengono nuovamente chiuse”. “Vedo che il suo spirito antireligioso si è nuovamente rafforzato dopo questi pochi giorni di dubbio. Ma non dimentichi che le preghiere servono sempre… –
disse il prete sorridendo – …io ho pregato molto in questi giorni… e non posso escludere che lassù qualcuno ci abbia dato una mano… nel comprendere questo mistero”. “Eh sì… – disse Marcello puntando un dito verso l’alto – …forse lassù qualcuno ci aiutava, ma sicuramente…– e il dito di Marcello si spostò a puntare verso la cima del campanile su cui svettava l’antenna del ripetitore – …lassù qualcun altro ci terrorizzava con messaggi di orrore e di morte. Chiamarlo demonio o tecnologia… fa molta differenza? Negli ultimi trent’anni nessuno scavo è più stato effettuato accanto alla chiesa… così ci ha pensato proprio l’insospettabile tecnologia a riportare masche e fantasmi fra di noi”. Camminando piano il sacerdote e Marcello giunsero allo scavo ormai quasi colmo di terra argillosa e ne osservarono l’interno. Poi qualcuno arrivò alle spalle di Marcello e gli prese la mano. Era Bettina, giunta silenziosamente accanto a loro. Lui la guardò senza parlare. Lei appoggiò la testa sulla sua spalla mentre, accanto a lei, si accovacciava Bobo, che dopo una giornata trascorsa nella sua casa, l’aveva ormai adottata come vice-padrona. Fra i denti il cane stringeva l’immancabile sasso. Lo lasciò cadere solo per un attimo, per leccare la mano di Marcello, che non aveva più visto fin dal mattino. Molti altri uomini e donne che avevano vissuto i terribili momenti sulla piazza, si avvicinarono lentamente allo scavo e si fermarono silenziosi accanto a Marcello e a don Fernandez ad osservare la terra smossa che la pala continuava a gettare dove c’era stata la voragine. Il sole stava tramontando e i lampioni sulla piazza, finalmente, si accesero dopo due giorni di buio, esaltando con la loro luce incerta le prime pallide nebbie della sera autunnale. Solo il ripetitore telefonico restava spento e non sarebbe mai più stato riattivato. Qualcuno dei presenti, pur senza conoscere le cause dell’accaduto, (don Fernandez avrebbe detto per un sesto senso causato dalla corteccia cingolata), estrasse di tasca il cellulare e lo gettò lontano nella terra smossa dello scavo. Qualcun altro lo imitò. Poi qualcun altro ancora. Infine tutti i presenti, con un senso di liberazione, buttarono nello scavo ormai quasi chiuso i loro cellulari che in pochi attimi vennero sepolti dalle ultime palate di terra argillosa.
San Gremo era tornato per la telefonia mobile un paese in ombra. Ma non sarebbe mai più stato il paese delle ombre. Perché San Gremo, chi lo conosce lo sa, è solo… il paese delle pallide nebbie.
QUASI UN EPILOGO (MA NON DEL TUTTO) Marcello non tornò a Parigi nei giorni che seguirono le vicende che sconvolsero la vita del paese. In attesa del visto per l’India, dove avrebbe incontrato suo padre per riportarlo in Italia, si trasferì nella casa di Bettina. Lei continuò a rimandare la decisione se accettare o meno la proposta di Marcello di trasferirsi a Parigi con lui. Alle sue insistenze rispondeva :“Prima voglio capire se noi due stiamo vivendo il secondo tempo del nostro vecchio amore oppure se stiamo solo cercando una proustiana madeleine della nostra adolescenza così lontana. In questo caso la nostra storia non avrebbe molto futuro. Dobbiamo rassegnarci al tempo: noi non siamo più quelle persone di allora”. “Perché? – insisteva ancora Marcello – Io non mi sento mica tanto diverso. Vedevo i fantasmi allora come li ho visti adesso. Qualche cannetta me la faccio ancora e in più… sto per partire per l’India. E’ un viaggio molto anni ’70!” “Mi piacciono gli anni ’70. Infatti ho deciso che verrò con te – disse sorridendo Bettina – ho bisogno di una vacanza in un posto lontano da qui. E ne approfitteremo, prima di prendere qualunque decisione, per conoscerci meglio nella nostra veste di adulti”. “Allora sarà un viaggio importantissimo e, da buon adulto responsabile, ti farò conoscere mio padre. Vale lo stesso, vero, anche se lo troveremo del tutto fuori di testa?”. “Vuol dire che avremo qualcosa in comune con tuo padre…” Anche don Fernandez si fermò ancora a San Gremo nei tre giorni che servirono per organizzare la rimozione definitiva del masso radioattivo. Nonostante fosse stato totalmente ignorato da giornali e televisioni (probabilmente per l’intervento di qualche potere forte della telefonia mobile o della stessa Curia) il caso del masso di San Gremo creò parecchi timori nelle autorità, e la sua rimozione fu organizzata a tempo di record. Vennero coinvolti nell’operazione la Protezione Civile, l’Arpa, alcuni ricercatori dell’Enea interessati a studiare la caratteristiche del masso e una ditta specializzata nello spostamento di grandi scorie radioattive. Il giorno in cui si procedette allo scavo, tutta la popolazione di San Gremo venne momentaneamente evacuata nel paese vicino, e ai media venne comunicato che
l’operazione era dovuta al ritrovamento e alla rimozione di un residuato bellico, una bomba inesplosa scoperta nel sottosuolo adiacente alla chiesa. L’operazione durò parecchie ore più del previsto anche a causa di un contrattempo che fece ritardare il lavoro: lo speciale autocarro con pareti schermate antiradiazioni risultò troppo piccolo per contenere il masso intero. Gli uomini avvolti nelle speciali tute a protezione totale, furono costretti a lavorare coi martelli pneumatici per spezzettare il masso verdastro in varie porzioni più piccole. La pietra venne frantumata senza difficoltà ma vari frammenti di essa si sparsero nel raggio di parecchi metri. Gli uomini dovettero faticare molto nel tentativo di recuperarli tutti. Quando finalmente il lavoro parve finito, e il cassone schermato dell’autocarro, sigillato definitivamente, gli uomini tirarono un sospiro di sollievo togliendosi finalmente le pesanti e scomode tute bianche. Poi, nel giro di poche ore, tutti partirono e il paese tornò ad essere il sonnacchioso luogo di sempre. Alcuni giorni dopo Marcello, essendo in procinto di partire con Bettina per l’India, decise di trascorrere l’ultimo giorno a San Gremo in una eggiata solitaria col suo cane attraverso le vie del paese fino alla vecchia casa dei nonni. Non vi era più entrato fin dal mattino in cui, in compagnia di Cristiano, aveva preso le sue borse deciso a rientrare a Parigi. Quante cose erano cambiate nel giro di pochissimi giorni. Ora che le paure che per tanti anni lo avevano tenuto lontano da quelle mura secolari erano superate, si era ripromesso di tornare spesso in Italia nella vecchia casa di famiglia. Magari in compagnia di Bettina, se lei avesse accettato di vivere con lui a Parigi. Fu una eggiata lenta e serena per Marcello immerso nei suoi pensieri e nei tanti ricordi che ogni angolo del paese, ogni vicolo, ogni persona anziana che incrociava gli risvegliava. Talmente assorto da non prestare alcuna attenzione a Bobo che, molto orgoglioso, trotterellava accanto a lui stringendo come al solito fra i denti un nuovo sasso. E, cosa ben più grave, da non accorgersi che il sasso che Bobo aveva trovato sulla piazza, seminascosto fra l’erba, sotto una panchina, non era un sasso normale. Aveva un inconsueto colore verdastro.
Marcello, preceduto dal suo cane, entrò nel giardino della sua vecchia casa, percorse il lungo viale, soffermandosi ad ammirare, come faceva fin da bambino, l’incredibile tinta rosso sangue, che l’autunno regalava al maestoso liquidambar. Aprì la porta di casa e Bobo entrò di corsa senza posare il sasso che teneva fra i denti. Marcello, dopo aver varcato l’ingresso, si fermò per qualche secondo, colpito dal tenue odore di muffa che arrivava dalle pareti. “Dovrò far fare qualche lavoro alla casa, se voglio tornare ad usarla di tanto in tanto. Questi muri grondano umidità” – pensò guardandosi intorno. Poi Marcello entrò nella sala del pianoforte. Seduta sullo sgabello, di fronte allo strumento, c’era sua nonna. Che si voltò verso di lui con un sorriso maligno: “Bentornato Marcello, ti stavo aspettando”. Poi, con le dita rinsecchite e scheletriche iniziò a suonare un notturno di Chopin. FINE
[1] Trad. dal canavesano: “E’ volato come un merlo senza le ali"
[2] Trad. dal canavesano: “Accipicchia, mi basterebbe toccarla davanti”
[3] Trad. dal canavesano: “Ma sei proprio un po’ sciocchino”
[4] Trad. dal canavesano: “per farsi bello con le sue prostitute”