INDICE DEI RACCONTI
La ballata delle rane ingorde
Autobus
E poi il silenzio
Il parcheggiatore
La caccia
Ma l’amore te lo insegna qualcuno?
Se necessario
Annie (Qualcosa rimane)
Amore di mamma
Angelica
Brava bambina
Un matrimonio
Una buona azione
Usati
Avete mai guardato attentamente gli occhi dei bambini?
L’amica
Artemisia
Mi stringi ancora una volta?
Natale
Il bambino Alex
La stanza chiusa
La casa
Aster
La ballata delle rane ingorde
Rannicchia il tuo dolore
come casa levigata di lumaca
su cui scivolare le attese
Così recita il coro delle rane
al tramonto
Maledetti i vostri corpi viscidi e verdi
Sibilò
mi state tutti appesi
grumi
pipistrelli
ad impedirmi il o
Sibilò
Sibilò
la coccinella maculata rossastra
avete divelto le mie zampe
cercato di trafiggere cuore e intelletto
provando a farne polpette
da servire con riso
mi avere percosso e poi legato imbavagliato
lasciato sola
nella cavità di un tronco
sempre pronti ad agitare le zampe nel richiamo
per farvi servire piatti di pietanze affettuose
baci carezze parolinedessert
consolatorie
anche se il vento straziava la mia pelle
non avete smesso
nemmeno per un attimo
di abbeverarvi al mio cuore
Maledette rane gracidanti
vesciche gonfie di richieste
tremolanti di comione
solo
per le vostre inutili ferite
convinte di possedere
uniche
La sapienza del dolore
Autobus
Oh si!
Non ne posso più.
di essere accondiscendente, assennata, alzare e abbassare la testa.
Soldatino di stagno, avanti march!!! Sull’attenti
Non ci si deve sporcare non si schiamazza non si urla non si sorride non si piange, anzi no quello alle volte è giusto.
Ecco molto bene le pattine ai piedi, spolvera quell’angolo, la signora scende dal tram e mi urta. Uh sbadata era troppo pieno, no l’ha fatto apposta così semplicemente per maleducazione grossolana maleducazione.
Una borsettata nel fianco, tiè.
E la rabbia mi cola in gola, perché cari miei se non fuoriesce come da una pustola la rabbia, che è ugualmente verde come l’infezione, ti rimane dentro e rode, rode, erode, come un uccellaccio a sbiancare le ossa di una carogna.
Carogna oh quanto mi sarebbe piaciuto, urtare senza sentirmi un verme, mandare la gente a quel paese senza sensi di colpa, arrabbiarmi perché era giusto che fosse, con il cassiere che ti frega, la massaia che ti sora in coda come un tir, con l’amico che gratuitamente ti ferisce, con il pasticciere che ti rifila la pasta giallastra del giorno prima.
E giù a sciorinare mi dispiace, sa scusi ho contato male io il resto, che sbadata, no la pasta era buonissima, forse il colore virava un po’ sull’arancio, ma sa ci vedo poco, poi il neon fa brutti scherzi…
Non era una questione di fisico, girava gente più brutta o più bassa, o più qualcosa, no io sono semplicemente trasparente, un’ameba, una larva, una giovanissima donna-velina, che tutti strappano come un Kleenex che tanto ce ne sono altri sotto.
Sotto lei c’aveva un cuore che era diventato il muscolo di un bue, grosso, rosso palpitante, indolenzito, che a toccare il torace pareva di sentirlo sotto pelle.
Spesso mi pare che palpita tanto forte da infastidite i anti che mi lanciano sguardi di sottecchi.
Tutti i santi giorni prendo l’autobus a Largo Argentina, due o tre fermate, fino a Corso Vittorio dove lavoro in nero come commessa (perché c’hai meno di diciotto anni e non te posso mette in regola..).
Appena intravedo il bus caracollante inspiro l’aria putrida di smog e prendo le
misure come un saltatore con l’asta per capire dove posso atterrare, possibilmente su un posto a sedere. Anche se scendo quasi subito, un posto a sedere mi da un’aria distinta, isola dalla massa.
Bè c’è sempre qualche maledetto extracomunitario che me lo frega, che poi dico io questi bighelloni perché non stanno in piedi, o una signora, con i tacchi che sicuramente non va a lavorare, o uno giovane come me, che in realtà pare vecchio ma si truccano per fare pena.
Da una settimana poi c’è una che si para sempre davanti, con un sedere sicuro che è rifatto e magari pure le labbra, come fa non si sa. Precisa io vado a destra e lei pare vada a sinistra, il tempo di ascendere i gradini e mi guizza davanti scivolosa e si siede trionfante sul sedile vuoto e mi guarda.
Mi guarda e quello mi manda ai matti.
Stasera alla televisione c’è il gioco a quiz. Sto spaparanzata in poltrona con i quattro salti in padella e faccio il tifo per il bietolone di Frascati. Mentre lecco il sughetto, un po’ va sul mento, ecco che mi appare la rifatta, quella roscia che mi spintona e mi rapina quotidianamente il mio posto a sedere.
Sta li impettita come un bengalino e starnazza le sue risposte nel microfono con una voce simile allo stridere del gesso sulla lavagna.
Non resisto oltre va a finire che vince ed io questo proprio non potrei sopportarlo.
Chissà come c’è arrivata, quella è sicuramente raccomandata, a me invece nessuno mi ha mai dato un aiuto, anzi se non mi scanso in tempo certe tranvate! Pare che la mia esistenza dia fastidio come quella delle mosche, delle zanzare.
Oggi sull’autobus era ancora più rossa e più tronfia, certo per apparire in televisione si tingono con colori accesi. Un uccellaccio senza grazia. La sua borsa rinforzata sugli angoli fa da scudo mentre sgomita.
Scusi l’ho urtata, mi fa aggressiva.
Oh no ammiravo il suo soprabito delizioooso
L’ho gelata, tutto si aspettava da me, ma un complimento mai.
Non sa se schiaffeggiarmi o baciarmi.
Mi sorride dall’alto dei suoi dentoni in simil smalto.
Grazie una cosuccia da niente, l’ho preso in liquidazione!
Tutte così le donne spendono i miliardi ma appena gli fai un complimento pare che siano tutte le miss Marple dell’usato, le Holmes del liquido tutto, le Poirot del discount.
Oh si ma addosso a lei è un incanto.
Si sta sciogliendo, ancora un po’ e mi va in deliquio.
Salto la fermata, ho un’ispirazione.
Le va un caffè, qui dietro c’è un baretto con i tavolini.
Ma si, va bene e mi guarda titubante
Si rassetta l’orribile gonna a fiori da gitana che sembra il parasole di un ristorante al mare, e sospira.
Io me la studio senza riserve
Scendiamo.
Ci guardiamo. Muovo qualche o. Mi segue.
Il bar ha i tavolini ancorati, le sedie legate che pare il dopo lavoro della Cayenna.
Bisogna sedersi di sbieco e un po’ mi viene da ridere.
Ordiniamo cappuccino e cornetto. Lei lo ficca nel latte e si sbrodola diventando tutta rossa.
Io mangio in punta di forchetta, nascondendo al volo i miei baffi di schiuma sotto la mano.
Ride timida, la mia gentilezza l’ha piegata, ha fatto breccia nella sua protervia come un fendighiaccio nel gelo artico.
Immagino come sarebbe bello conficcarle uno spillo nelle gote lucide di fard o inciderle un taglio sulle cosce senz’altro pelose velate da calze dozzinali.
Mentre si protende con le labbra a cuore scorgo gli incisivi d’oro e vorrei strapparle anche quelli in un crescendo di violenza.
Abbasso gli occhi, nel timore che possa leggere nel fondo la mia ferocia.
Per essere un capro espiatorio è un po’ grandicella, più simile ad una mucca assassina.
Mi accarezza con la mano deturpata da un velo di peluria, le unghie grassocce e smozzicate. Mentre stringe, accidenti che forza bestiale, mi guarda nel profondo, talmente nel profondo che sento grattare, ogni grattata fa male, come togliere la
crosta a una ferita che si rimette a sanguinare.
Parla, parla, la voce sembra gracchiare meno, man mano si addolcisce prende toni flautati.
Ora mi tocca piano il volto.
Dunque
Sono sedici anni che qualcuno non mi accarezza, l’ultimo fu un compagno di lavoro, nel cesso dove teniamo gli scatoloni.
Mentre mi sfiorava il viso mi alzava il grembiule e solo quello mi era rimasto in mente.
Vieni cara, e si solleva.
Una specie rara di uccello esotico gigantesco, mi poggia l’ala sulla spalla ed io reclino il capo.
L’abbandono diventa desiderio intenso
Una marea che lascia scoperte spiagge non segnalate dagli atlanti
L’afrore delle sue ascelle ricorda minestroni raffermi dove la cipolla, troppo abbondante, galleggia.
Tuttavia rassicurante
Mi avvolge, fa barriera, potrebbe divenire il mio scudo
Dondolo vicina al suo fianco, nella curva mi insinuo.
Sarai la mia riscossa madre padre terra e cielo domenica e lunedì
Penso
Cerco di non guardare il suo viso
Ma sento che mi sta sfogliando come un calendario
strappa pure un foglio dopo l’altro fino ad annullare il tempo
se vuoi
se lo reputi opportuno
Ora mi strattona staccandosi
quasi improvviso un granello di polvere le avesse offuscato lo sguardo
Sono arrivata
dice
bene dico io
in attesa
ed immagino stanze mai viste
pavimenti forse non troppo puliti
potrei aiutarla sono sicura che fa le pulizie della perpetua che sposti un mobile e trovi resti fossili di cibo potrei anzi cucinare pure un po’ non sono niente male ai fornelli se devo farlo per gli altri per me no non importa anzi salendo glielo dico
se ha le uova faccio una carbonara o se non ce l’ha faccio un salto al supermercato e magari già che sono là prendo l’insalata e due pomodori
Chissà se preferisce la carbonara o l’amatriciana
Bisogna proprio che glielo chieda
Che glielo chieda
Glielo chieda
Lo chieda
chieda
……ieda
……………
?
La vedo impettita scivolare nell’ombra del portone
Non si volta
Nemmeno un saluto
E poi il silenzio
Giocano.
Le gonnelle alzate, un po’ sghembe.
I volti tirati lisci sui lineamenti. Sudate, gocce umide confuse fra la peluria delle ascelle.
Le anche piccole strette fra morbide pieghe, i seni accennati, compressi o già maturi.
Le cosce tiepidissime appena ombreggiate all’attaccatura dell’inguine.
Nello spogliatoio gli armadi di lamiera srotolano foto appese per un angolo, sulle panche vestiti piegati ordinatamente o strapazzati e sparsi. Boccette, cosmetici comprati per corrispondenza o vicino casa.
Entrano a frotte, il vapore delle docce rende rarefatti volti e corpi, l’acqua scivola formando rivoli sul pavimento.
Lara guarda seduta.
Fissa ipnotizzata il percorso di quell’insieme di gocce, che come marea si sommano, una dopo l’altra incitandosi, allagando. Il sudore le si è asciugato addosso freddandola.
Le docce le appaiono desiderabili, ma lontane. Avrebbe voluto lavarsi, purificarsi, strappare dall’anima, dai pensieri, dal cuore quella sensazione che si è annidata facendo steccato intorno a lei.
Per anni ha diviso spogliatoi, lotte, giochi, chewing gum con le sue amiche.
Per anni si è strofinata addosso i loro odori.
Per anni.
Ora è diverso, è diverso perché si era unito a tutto questo il desiderio, la voglia pazza di buttarsi nel mucchio e toccare, accarezzare. Accarezzare e lasciarsi accarezzare all’infinito.
Che vergogna questo turgore in mezzo alle gambe, quasi un pene a premere e i capezzoli dritti tanto da dolere sprimacciati dalla maglietta.
Lo sguardo chino a non lasciar trasparire nemmeno un’ombra.
Dove sono finiti i sogni di poc’anzi e quel rimescolio forte quando qualche ragazzo le incrociava lo sguardo? Le scommesse ad imitare gli apache nel fare tacche per conteggiare i rimorchi, le mani imbranate su sessi duri come pietre, i minuti goduti davanti allo specchio per tracciare le labbra, il reggipettone imbottito, le frasi cocciute scritte a chi è troppo distratto, il cinema multiplo dove ti succhi le labbra seminando noccioline che scricchiolano quando ti alzi precipitosamente se lui ti infila la mano dovevorrestimanonsifa.
Puf svanito.
Rotea il polso, è tardi. Farà una doccia a casa, stasera i suoi non ci saranno.
Il pensiero dell’improvvisa solitudine l’atterrisce.
Un tempo
avrebbe chiesto ad una delle sue amiche di dividere il contenuto del frigo incrociando le gambe sul divano e dandosi pacche sulle spalle.
Avrebbe dovuto lasciare la scuola, la squadra, la casa, la famiglia?
Sono fiume pensò datemi argini, sono strada erigete perfavore palazzi, palazzoni, a destra e a sinistra.
Voglio essere normale e desiderare cose normali. Normale, normale, normale.
La sacca buttata per traverso ondeggia sui glutei.
Qualcuno accosta la moto al marciapiede. La serata è incantevole. Spersa di odori.
Lara volta la testa. Piano, leggera.
Un uomo giovane la abborda.
Si toglie il casco.
Ha occhi fragorosi, denti appena aguzzi a percorrere le labbra. Se ne accorge perché le sta parlando.
Veramente non riesce a capire.
Non riesce a capire perché dall’orizzonte sono volate via le facce delle sue compagne e il turgore riguarda un uomo in carne ed ossa.
Si,
va bene accetta un aggio
(foss’anche durato tutta la notte).
Avrebbe cancellato finalmente giorni e giorni di angoscia.
Un’iniziazione.
Sale con lui. Arrivano nella casa vuota. I genitori già fuori, di nuovo bella la sua casa, la sua grande stanza.
E’ lì che vuole farlo.
Per la prima volta
Accartocciano i vestiti come cumuli di vecchie foglie cadute.
Ordinano pizze. Mangiano, parlano, senza mai rivestirsi, più facile così scambiarsi l’anima, specchio contro specchio.
Prona sul letto lascia scivolare i capelli fino a sfiorare il pavimento, guardando attraverso.
L’uomo la prende appena lei si volta.
La penetra dopo aver piantato gli occhi nei suoi.
Vuole essere visto, vuole vedere.
Lara si inarca senza gridare.
Sorpresa dal dolore
Un dolore tanto forte da cancellare la paura
Un’ellissi fulminante un neon che ti accende come torcia
Il sudore mescola i loro corpi
Divisi in realtà dal silenzio
L’assenza di un suono qualunque lo blocca
maledizione almeno un rantolo o un singhiozzo
Avvicina il naso alla sua bocca
Respira
Le vene pulsano piano sul collo
Rassicurato si riveste
Sul viale dalle siepi ordinate uno scalpiccìo.
Il parcheggiatore
La notte salì arroccandosi per poi scivolare.
L’uomo non riuscì a stendere le gambe nel ristretto della roulotte, fumosa dei molti aggi, immersa nel vapore sudato delle luride imbottiture, intessuta di attese navigate fra uno sputo e una sorsata di caffè.
L’uomo grosso, reso massiccio da un incedere quasi bestiale, le spalle incassate, le braccia pencolanti, era in realtà innamorato.
La vedeva si e no due volte alla settimana quando leggera come una farfalla gli affidava il motorino.
L’uomo dall’incedere gravoso era un parcheggiatore.
Con qualunque tempo ed in qualunque giorno dell’anno incatenato al suo turno come un buon maremmano al suo gregge.
L’aveva amata fin dal primo momento intravedendone il corpo gentile, trafitto dalle sue buone maniere, dagli occhi dolci e svagati.
Vado nella palestra di fronte e afferrò la borsa, aggraziata facendogli scivolare le chiavi nel palmo della mano
Il gesto di una principessa quelle delle favole di certi racconti orecchiati da lontano come l’eco su per le montagne, perché lui non leggeva e nessuno gliele aveva lette mai.
Perciò sorrise,
la bocca gli si tese agli angoli stirò fece male
non era abituato.
La sfiorò la sua bocca ruvida ne tastò le spaccature dovute al freddo, ai repentini cambiamenti che il tempo stampa sui ogni lembo del corpo.
Attese.
Sbirciò i vetri anneriti dai quali tremolavano cyclette, tapis-roulant, dai vetri appannati si distinguevano appena corpi braccia gambe in un confuso groviglio..
Non aveva mai pensato troppo alla palestra. Dalla sua roulotte era abituato a veder are giovani spalle, petti imbottiti, natiche rotonde o flosce, aveva sbirciato, apertamente ammirato, aveva desiderato affondare le mani, per poi ritornare, ritornare a ciò che era concesso.
Ad uno come lui.
Uno come lui.
Brutto. Con pochi denti, i capelli già grigi. Le mani talmente unte di grasso da coprire le vene.
Aveva capito, dopo averla conosciuta, che può esistere qualcosa.
Qualcosa d’altro.
Provò il freddo ed il caldo immediatamente susseguente all’abbraccio dei suoi occhi, lo sentì duro in mezzo alle gambe, quando lei prese l’abitudine di stringergli la mano.
Quella mano nelle sue, una conchiglia sul fondo, scompariva e lui aveva paura di farle male, quasi potesse staccarsi rimanendo moncone.
Il solo pensiero di vederla soffrire lo atterriva.
Provò cose delicate nel suo cuore sassi che lo rendevano pesante, un’imbottitura che faceva male, ti affaticava il petto.
Capì che un albero poteva essere fiore oltre che tronco.
Provò piacere nell’articolare parole gentili, ebbe voglia di carezzare il mondo.
Comprò uno specchio con cui parlare impegnato in frasi da porgere come fiori nel cartoccio.
Ma era così maledettamente difficile, anche dopo due birre ti sentivi ridicolo, le parole che avresti voluto sussurrare diventavano proiettili lanciati in aria spigolosi e cattivi.
Prese a masturbarsi silenzioso guaendo per la vergogna.
E quanto più lei si manifestava splendida nella sua svagata elegante fragilità tanto più l’uomo deturpò i suoi pensieri, schizzò fango come un camion in panne.
La sua innocenza lo feriva allontanandolo.
Non c’era speranza per gente come lui. Condannata a vivere di televisori dallo schermo piccolo, inebetiti dalle televendite e dalle rade tette delle trasmissioni notturne.
Gli fece trovare cioccolatini, ormai sciolti, sul sedile del motorino. Macchiarono marroni il bel completo azzurro che indossava quel giorno.
Una macchia simile a merda sui pantaloni chiari come una fetta di cielo.
Eppure la ragazza sorrise porgendogli quell’impercettibile movimento come un frammento prezioso da conservare.
Eppure quel sorriso fu per lui lancia sparata forte nello stomaco a farti crepare di dolore più di un maledetto cazzotto lanciato fra compari.
I cazzotti uniscono questi dolori aspri non si sa cosa sono. Malattia nemici incontrollabili.
Cambiò turno.
Forse lei cambiò palestra.
ò un anno.
Veloce come un ratto, che manco ti accorgi che è già inverno, il giorno dopo ti dicono di tarare l’orologio sull’ora legale.
Walter lo vuoi un caffè.
Tutto come prima l’andirivieni degli hot- pants, dei fuseaux, delle tute firmate, di quelle più a buon mercato, certe volte pure un po’ di puzza di piedi che ti assale entrando nelle macchine per spostarle.
E poi lei.
Di nuovo lei.
Come va non sono più venuta tutto a posto ecco le chiavi della moto arrivederci
Come niente fosse.
Si sedette goffo sul sedile, chino annusò l’aria satura del suo profumo ed il desiderio lo fece piangere.
Le giornate si erano allungate in pomeriggi rosaturchesi l’aria tempestata di pollini, volti felici, carezzevoli.
Poggiò la bocca sul sellino leccando la similpelle che aveva accolto il suo sedere.
Immaginò le proprie mani su di lei
Si stava facendo la doccia, ora?
Vide l’acqua solleticare i seni scendere in rivoli fra le gambe dopo aver bagnato il pelo del pube,
doveva essere serico e soffice, fitto potevi attorcigliarlo sulle dita.
Bagnò i pantaloni
Scese veloce il volto arrossato, cercò un albero dietro cui nascondersi.
Il duro della corteccia accolse il suo pianto rabbioso
Faceva male, tutto questo doleva al corpo e all’anima
Gli fiottò in bocca un amaro come fiele lento a dissiparsi.
Walter la sera siete aperti? sai la palestra organizza una pizza
Si, disse e cambiò il turno per vederla
Venne la sera, con il rumore di ghiaietta smossa apparve la sua moto.
Svolazzò dal predellino, mettendo il cavalletto quasi in un o di danza o almeno a lui parve così.
Attorno a lei si accesero i lampioni cosicché (come se ce ne fosse stato bisogno!) poté vedere la sua pelle nuda e tersa sotto l’abitino a stampa floreale
Quella pelle lui la conosceva benissimo, nessuno poteva conoscerla meglio di lui, l’aveva percorsa avanti e indietro nei suoi pensieri come l’autostrada un pendolare.
Si ti aspetto vai tranquilla, no che non dormo.
E invece stranamente si addormentò e sognò
Volava basso veloce, bello come il sole, nemmeno un grammo di ciccia, roteava, un po’ siluro, poi uccello variopinto, giocava con l’aria, nuotando caracollando, le nuvole ora leggere a permettergli un varco, ora assiepate pesanti a fargli da materasso.
Il sonno lo ritemprò sentì la compattezza del suo corpo ma non gli dispiacque.
La attese cosciente
Com’è andata ti sei divertita
Era ubriaca, come può esserlo una bambina, con la stessa innocenza
Non sapeva il suo nome
Glielo chiese
Lo ripeté in fondo era un nome banale
La accompagnò al motorino perché era buio.
Molto buio
Cosa fai, e rise, perché sei così vicino?
Volevo vedere il colore dei tuoi occhi
Eccoli e li sgranò ridendo
Rideva rideva
Allora anche lui si mise a ridere sembrava che lo apprezzasse
Vuoi bere qualcosa?
Si
Aveva sempre qualche bottiglia per sopportare la veglia
Bevvero e risero senza che nemmeno una parola si sospendesse fra loro
Poi lei chiuse gli occhi, sdraiandosi, poggiando la testa sul manubrio.
Lui le sfiorò le palpebre
Fa che non si svegli pensò
Scese sulla bocca poi sul collo, l’incavo dei seni era lì, con la sua curva rotonda,
doveva profumare ne era sicuro
Avvicinò il naso e lo premette in un’apnea senza fine o così gli parve
Cosa fai
Non era arrabbiata la sua voce sembrava venire da lontano appannata stanca triste
Lasciami andare
Lui si scostò
Come un cane bastardo pensò gli dai un tozzo di pane poi lo rimandi ad elemosinare in qualche altro mercato
Poi ripensò al sogno a quell’inebriante sensazione di potenza di gioia consapevole
Aveva già inserito le chiavi e avviava il motore
I loro sguardi si incrociarono.
Si incrociarono e cucirono un’intelaiatura fitta di paura e desiderio.
Avrebbe voluto essere dolce.
Ma non ci riuscì.
Qualcosa si ruppe in lui, spaccò il cuore con il desiderio urgente
Urgente.
Si paralizzò per poi brancicare goffamente
La donna lo guardò dibattersi
Come avrebbe osservato un insetto prima di schiacciarlo
Si ritrasse
Il parcheggiatore inerte vide la moto sgommare.
La ghiaia lo investì fastidiosa.
Tra poco sarebbe spuntata l’alba.
La caccia
Vorrei vedere la neve
Pensò
Vorrei vedere la neve pensò testardamente
La palla rotolò ai suoi piedi li sfiorò
Tirò un calcio uno solo sconsolato amaro
Corse calciò calciò e corse nel prato spelacchiato
Accanto gli alberi della pineta
Non andare Gabriel è pericoloso
Cosa c’era di più pericoloso del vivere fra quei palazzi non finiti feriti da buchi e vertigini intercalati da ammassi di rottami dove le urla e lo strazio si perdevano
senza fine
Gli adulti sempre troppo impegnati nell’affilare un giorno dopo l’altro l’ostinata arte della sopravvivenza
Aveva fame talvolta anche freddo
Era partito dal Marocco troppo presto per ricordare ma troppo tardi per dimenticare i colori ben delineati da un aspro odore di terra che imbrigliava anche il cibo
Cibo fatto di terra facce di terra grandi orci di terra cani di terra a leccarti le mani
Guardò in alto. Dietro quel balcone dai ferri ritorti c’era sua madre. E il cuore si colmò di nostalgia
Gli sarebbe bastato un abbraccio soltanto
Lei avrebbe voluto vederlo crescere. Tutti i bambini diceva avevano il diritto di diventare adulti
Ma a che prezzo?
Devi studiare se vuoi andare via da qui
Per lui non esisteva né qui né lì estraneo a tutto
Non bastavano le cartoline appese fitte sulle pareti umide della cucina a garantire un ricordo
Guarda Gabriel il Marocco è in questo punto preciso
E la maestra aveva preso la sua mano poggiandogli lieve l’indice scuro sulla cartina geografica
L’indice scuro
Non sarebbe mai stato uguale ad Andrea o ad Alessandro alle loro vite scandite da orari e sguardi
Lo avevano messo al banco da solo. La sua aggressività fastidiosa ma necessaria
La sua rabbia tanto pesante da non potersi trattenere. Doveva vomitarla
Quando picchiava si sentiva leggero
Non aveva rimorso né pietà. La sua unica forza quella fisica
Stringere un collo o le mani grassottelle gli dava una sensazione di inebriante potere
Piangeva è vero davanti alla direttrice. Piangeva perché non sapeva rispondere.
Durante la notte nel suo letto nella stanza invasa dall’odore immoto dei fratelli cercava di riportare a galla i fotogrammi della giornata. Li analizzava annotando sulla sua lingua propositi e ribellioni.
Osservava di sottecchi la gente parlare i suoi compagni di scuola le maestre. Com’erano veloci le loro lingue saettavano sibilando. Quanto pesante la sua quasi un ingombro in mezzo ai denti.
Ogni tanto avano le assistenti sociali ed era costretto ad andare dallo psicologo. Non gli dispiaceva. Si vedeva il mare dalla sua stanza. Poteva seguendone la linea ipnotizzarsi cancellando il fastidioso ronzio delle domande.
Uscendo andava a correre assaporando la sabbia sotto i piedi.
Avrebbe voluto perché anche Gabriel aveva i suoi sogni farlo come professione magari partecipare alle Olimpiadi.
Quando correva era finalmente libero ritrovava l’armonia si sentiva colmo di amore per ogni cosa la rabbia si assottigliava fino a scomparire.
Bastava tuttavia un attimo di pausa accovacciato su un muro o sull’asfalto di una strada a farlo ritornare sgomento al suo presente dove il dolore diveniva odio.
Aveva ucciso solo una volta per gioco. Aveva ucciso un gatto. I lamenti dell’animale gli avevano traato le orecchie per ore e giorni. Avrebbe voluto riprovarci per tacitare quei gemiti di dolore quasi sovrapponendoli poter arrivare ad un silenzio assoluto. Era convinto che la vita non fosse un diritto. Te la dovevi conquistare.
Amore fratellanza scambiatevi un segno di pace
Non c’era pace nel cuore degli uomini né desiderio d’amore
Solo forza o sottomissione
Così anche per sua madre dagli occhi vuoti percossa o montata dal padre nella stanza vicina mentre i fratelli dormivano bocconi
Bisogna perdonare e avere comione diceva il prete
Ora doveva solo scegliere.
Attrezzarsi con strumenti a punta aspettando una vittima odorosa di solitudine Bambino o animale? Poterlo ferire, leggere il dolore, avvertirlo, farne cibo, rannicchiato in un angolo con il coraggio delle ombre. Tanto nessuno si sarebbe voltato o accorto di lui. Anche un rimprovero sarebbe stato comunque un segno di attenzione. Si può desiderare così tanto una mano che si abbatte e fa male?
Sotto un sole cocente avanzò un o dopo l’altro
I i si sommarono
Si ritrovò a correre
Come nei sogni in cui voli e la mattina ti svegli che ancora sbatti le ali come un uccello caduto dal nido
Accanto a lui sfilavano bordi animati fino a congiungersi diventando la punta di una freccia
Si fermò solo quando il fiato non accompagnava più i pensieri rendendoli asfittici
Il mare ormai a un o lo studio dello psicologo appena di fronte
Si immerse così com’era senza spogliarsi
E si sentì felice
Ma l’amore te lo insegna qualcuno?
Strappava con foga, sminuzzava persistente, insistente un pezzo di carta.
Sulla panchina un bimbo leccava un gelato. La prese una furia cieca. Lo colpì quasi distrattamente.
Il bambino pianse.
Aveva voglia di tirare calci.
E pensare che si era fatta le trecce. Trecce annodate alla russa sulle orecchie. Non si capiva dove finivano le orecchie e dove cominciavano le rotelle dei capelli tanto erano seriche entrambi.
Si lisciò il vestito.
Lui se ne era andato. Le mani in tasca a premere biglie colorate.
Le sue tasche invece erano vuote. Non aveva voglia di tornare a casa. Indugiò nel parco.
Le nubi correvano sfilacciandosi.
Ma l’amore te lo insegna qualcuno?
Max era ormai lontano, come suo padre, come sua madre, come suo fratello.
Tutti persi in qualche guerra. Perché questa è una guerra, non ci sono santi.
Ma l’amore te lo insegna qualcuno?
Il grembiule che indossa le lascia scoperto il seno. Lo osserva con attenzione scientifica.
Si solleva e poi si abbassa. Si dondola lenta e ricorda o forse immagina il seno di sua madre, lontano come un fondale di teatro all’orizzonte.
Il paesaggio intorno sembra animarsi. Alberi con sonaglini, fiori di borotalco, come in un vecchio cartone animato.
E poi il paese dei pericoli. Forbici, spille da balia.
Sangue. Il vuoto. Dopo.
Era giunta la mattina in ospedale. Nella sala d’aspetto accanto a lei un piccione morto. Stecchito.
Chissà perché lei era lì, non ricordava.
Attese molte ore. Il lettino era scomodo. Divaricò le gambe, le imprigionarono caviglie e polsi.
Qualcuno stava lavorando dentro di lei.
Aspirava.
Ruotava.
Tirava via.
Un fabbro.
Il dolore era intenso venato di vergogna.
Vomitò subito dopo.
Sapeva che in un momento imprecisato della sua vita, avrebbe pianto.
Per un bambino.
Rispedito al mittente.
Ma l’amore te lo insegna qualcuno?
Se necessario
Sotto, sotto era contenta. Si, contenta di averglielo detto.
Che la odiava. E se c’era un sentimento tanto potente e devastante era quest’odio che gli fuoriusciva singhiozzante come una lava, un muco.
Vischioso terribile.
Finché non se lo fosse lavato via, l’avrebbe invischiata tutta la vita.
Come le bave dei bachi.
Lei doveva diventare farfalla.
Aveva sedici anni.
Troppi per nascere, troppo pochi per andarsene.
Avrebbe pensato anche a questa di soluzione se necessario.
Se necessario.
Chiuse la porta di casa alle sue spalle.
Alberi, asfalto, gente, scarpe, braccia, mani.
Solitudine.
Ancora quell’affanno in gola di lacrime stratificate, fossili.
Entrò in farmacia.
Aprì il suo borsellino con gli orsetti per pagare.
Ora che aveva preso la decisione si sentiva meglio.
Si chiuse nella sua stanza, con pazienza e minuzia macinò, polverizzò, filtrò.
Ordinatamente dispose e creò.
Dormi mammina. Ti ho portato la camomilla, è dolce sai. Si lo so solo io ti penso, papà non ci fa caso. Oh è molto egoista e tu soffri tanto. I tuoi poveri nervi. Povera mammina. Fai la ninna fai la nanna. Ecco così ti sistemo i cuscini. Chiudi gli occhi, domani devi andare a lavorare con il tuo bel completo pastello, le scarpe di cocco stampato e la borsa coordinata.
Bevi, mammina.
Mi raccomando, fino all’ultima goccia.
Buona notte mamma.
Ora poteva andare.
Lasciò la porta socchiusa da cui fuoriusciva una lama di luce albicocca.
Annie (Qualcosa rimane)
Si, si, si. Perfetta.
Studiosa, simpatica, aggraziata, educata
Quel sorriso in bilico da un labbro all’altro. La stanza austera, non quella di un’adolescente. Niente poster, adesivi, gonnine stropicciate. Aveva già a sedici anni l’allure della piccola donna tutta reggisenirinforzatil’arrostoèprontonelfornotipreparoundrink.
La casa si palesava appena dietro l’angolo con i toni giusti fra il giallo carico e il rosa intenso.
Anche quel sabato fu allestito un barbecue.
In casa sua.
Tutto era così tremendamente perfetto. Le tartine impilate secondo accordi di colore, ogni bottiglia lucidata a dovere, qualche etichetta appena un po’ a sghimbescio. Le tovaglie iridescenti nel tardo pomeriggio riverberavano. Tutto era così immoto.
Annie si lisciò il vestito. Corto. Scollato. Lieve a lasciar trapelare mutandine di pizzo. Niente reggiseno.
Arrivarono a grappoli simili a vespe, i pungiglioni cotti dal sole preso ai bordi delle piscine ovali.
Le donne si disposero presso la cucina, le gambe accavallate, gli uomini sempre un po’ lontani per poter parlare liberamente di sesso. Non che le donne non lo sapessero. L’importante era rispettare le regole. Anche nell’adulterio.
Soprattutto nell’adulterio.
Annie ò lentamente. La madre la chiamò. Le amiche la guardarono.
Troppo scollata.
Pensarono.
Si scostò con educazione ancheggiando altrettanto educatamente verso il tavolo degli alcolici.
Bella. Pensarono gli uomini. E’ già pronta la figlia del vecchio Bill.
Pensarono.
E la serata prese una piega diversa.
Si sentì il bisogno di ballare. Annie fece un giro con tutti. Distaccata.
Non fu facile arginare quegli aliti caldi, le grosse mani sudate a premere.
Ritornò in casa con la stessa grazia con cui ne era uscita.
Qualcuno cambiò il vinile ormai gracchiante.
Donne ed uomini si guardarono. Perplessi. Nulla sembrava più come prima.
Qualcosa è cambiato, pensarono.
Alle due di notte si salutarono, impegnati nella vana ricerca di occhiali, borsette, chiavi, ansiosi di chiudere la porta di casa. Sdraiati nel rosato pulviscolo della camera da letto avrebbero sospirato di sollievo, ormai al sicuro, il mondo incerto sprangato dietro il catenaccio.
Ci fu anche una moglie più insistente delle altre che non trovava il marito.
Era forse quel collega di Billie brizzolato, grasso…..pardon un bell’uomo robusto, veramente prima era lì in quell’angolo, rideva, era forse con Tom. Tom hai visto il sig…..ah si il sig. Gentle? No. Ma no signora Gentle quale disturbo, si sarà allontanato per comprare il latte o le sigarette, ah non fuma, bè il latte può servire per fare una torta..? La battuta fu detta dalla madre di Annie con un tono veramente troppo acuto.
La signora Gentle fu riaccompagnata in auto.
Una ad una si spensero le luci nel giardino. Il buio avanzò nel patio per poi arrestarsi dietro la casa.
Con cautela Annie e la madre stavano sistemando un grosso sacco nella macchina. Un vicino con il cane si affacciò. Quanta spazzatura dopo un party. E rise. Annie rise con lui.
Non vide quella strisciolina rossa, esile, esile. Nemmeno il vecchio Bill la vide andoci sopra con le scarpe nuove scamosciate. Era intorpidito e seccato. Seccato.
Ogni volta era a lui che toccava ripulire tutto quel sangue. Che poi gratti e gratti, ma qualcosa rimane.
Amore di mamma
ava tinte pigiando come su un asse da stiro, strisciava mèches inventandosi improbabili arcobaleni.
Le gambe sempre troppo gonfie, tese dolenti sotto le opache calze spesse come quelle di una mondina.
Gli occhi segnati e stantii già di prima mattina appesi ad un piattino su cui croccavano cornetti confezionati scaldati bisunti al microonde. Qualche piatto spocchioso a ricordare che il giorno avanti, oh miracolo, una cena c’era pur stata.
Fa freddo accidenti alla fermata dell’autobus.
Giada salendo osserva le mani posate in grembo.
Le mani sono la sua ione sulle mani puoi leggere la vita, disvelano riservate, professione e motti di spirito, gioie e dolori, mestieri ed arti
I più sciocchi le capovolgono per avere risposte in realtà l’universo è percorribile su ogni loro frammento, sulle dita come sui fianchi
Possono accarezzare o abbattersi impietose come frustate.
Sua madre la picchiava con le mani messe di taglio a paletta ad imprimere sul volto una scia rossastra.
Era arrivata in anticipo stringendosi addosso il cappotto aspettava la padrona perché aprisse il salone di bellezza.
Lei lavora qui in un mondo nutrito dai vapori dell’acqua ossigenata, degli acidi aggressivi, delle nubi di acetone. Una bolla, sospesa e fragile in cui si inseguono figure come nelle palle-souvenir che le capovolgi e scende la neve.
Avrebbe desiderato rivederla
la neve
sentire sul viso il suo soffice frantumarsi. Era stato un tonico per il cuore quel biancore a calmare disperazione e rabbia.
Le avevano detto sei cattiva farai morire tua madre di crepacuore.
Quella litania la offendeva e la traava, mentre si dondolava nella sua stanzasgabuzzino.
Cosa si può pretendere da una bambina che vive relegata in uno sgabuzzino.
Dicevano
È vero ma non ho denari per cambiare casa
Rispondevano
Ora la mamma era morta e c’erano solo i sogni a ricordarle che un tempo l’aveva amata i capelli sparsi e spersi sul cuscino in quelle domeniche in cui aveva il permesso di entrare nel letto matrimoniale.
Prima che arrivasse lui.
Giada giadacarina
Giadapiccina lo sai che presto arriverà la cicogna?
E Giada pensò che le cicogne fossero sorelle delle rondini.
Ma non è ancora primavera
Le venne spontaneo di dire
La cicogna porta i bambini
E la mamma sorrise incrociando le mani sul ventre.
Non deve ora pensare a sua madre proprio mentre sta ando la tinta rossotiziano alla signora Pierboni.
Le lacrime no
chi ha pietà delle lacrime di una sciampista dalle caviglie troppo grosse.
Qui si viene per scambiare le proprie vite si entra rosse ramate tristemente aggressive e si esce bionde malinconiche. Un arco dalle sopracciglia gravose se ridotto trasmuta uno sguardo bovino. Chi intreccia i capelli e li raccoglie acquista un incedere virginale mentre la permanentata adotterà le movenze di una soubrette.
Le sue mani lavorano bene ha un tocco delicato sta imparando da qualche giorno a fare anche la manicure e questo le permetterà di leggere al di là delle parole, conservando frasi come frammenti indiscreti.
Nella sua mente compone ikebana e panoplie intessute con i fiori secchi delle emozioni rubate.
Dietro quel volto scialbo si cela un’artigiana dedita allo scavo e all’affannosa appropriazione di anime.
Gli occhi spenti, in realtà di un bellissimo color lavanda, inducono alla confessione, al bonario travisamento, alle profferte ipocrite di un’amicizia subito dimenticata.
Lei nella sua mente scheda e archivia, ogni circonvoluzione cerebrale è un cassetto stipato di nozioni.
La signora Armari operata di cistifellea il figlio studente fuori corso la figlia sposata con un impiegato di banca
pelosa ha baffetti ispidi resistenti alla ceretta al miele
La signorina Ottoboni bionda naturale
ha i piedi grandi con unghie spesse come corno cerca l’amore ma non rinuncia alla sua tenace anoressia
E via dicendo.
Giada vampirizza con stile, vivisezionando graziosa sogni e speranze, distilla le
emozioni altrui in un unico magma.
E’ sera i piedi sono dolenti, Anita e Laura hanno fidanzati smaniosi con saccocce rigonfie ad attenderle, la titolare si infila svelta nell’auto di un barbuto corteggiatore, tirandosi su la gonna di similpelle.
La strada del rientro è lunga, instancabile nella sua monotonia.
C’è tempo per pensare e ricordare
ricordare e pensare
bianco Natal presepi imbiancati odore miscelato di pesce fritto surgelato e dolci caramellosi
i capelli irti sotto la fascia di velluto rosso bordò, quei pacchetti fragranti dai nastri scivolosi a rendere il misero il contenuto comunque sorpresa
Erano natali di poche persone lei mamma, papà, i nonni.
Tutto così perfetto
Fino ad un certo punto.
Poi d’improvviso la casa si era riempita di schiamazzi.
Auguri, come va, che bel bambino, come si chiama, complimenti
Il piccolo appartamento ingolfato da minutaglie di stoffa, laniccia celeste, scarpette inutili, giuste per i piedi delle bambole.
E poi la mamma se n’era andata.
Pouf! Così
Crepacuore
Dopo di lui.
Era bastata una leggera pressione sul collo di quell’involto lacrimoso, che cedeva soffice come gelatina.
Si era a lungo esercitata sui suoi cicciobello, così simili, seppur più belli.
Nemmeno il tempo di affezionarsi.
E Giada richiuse piano lo stipo dei suoi pensieri mentre scendeva dall’autobus ormai semivuoto.
Angelica
La bambina guardò la madre. Il ventre prominente teso sotto una vestaglia sbiadita le causò un dolore remoto che piano montava costringendola a trovare rifugio in giardino.
Il cielo l’avvolse con incrollabile fiducia e le palme nane la fecero sorridere con quella goffaggine striminzita e un po’ presuntuosa.
Era una magnifica bambina con un’anima coltivata ed un talento straordinario nell’adattarsi a tanti e svariati precoci dolori.
Il coraggio le aveva modellato il corpo ed il volto rendendola aliena dall’infanzia come dalla maturità.
Quel lembo di terreno era il suo paradiso fitto di memorie, le aiuole personalmente curate grondavano fiori. Ogni petalo era a lei noto, conosceva recessi di piante e fioriture quasi li avesse portati in grembo per nove mesi.
Angelicaaaaaaaaaa
Annodò svelta il grembiule sui fianchi come una sacerdotessa di Apollo e raggiunse l’oscurità odorosa della casa, sforzandosi entrando di non perdere l’equilibrio tanto repentino il contrasto tra il chiarore esterno ed il buio delle
stanze.
Tuo fratello deve essere cambiato, prepara il pranzo, vai a prendere le uova per impastare.
Percorse il corridoio con i piccini, uno dopo l’altro, in un gioco ritagliato che allontanava la prospettiva del dolore e delle incombenze.
Non desiderava il gioco e i giocattoli, non avendo mai provato ne l’uno né gli altri, ma il riposo operoso.
Vieni, vieni qui hai bagnato il lettino, ora la tua sorellina ti cambia.
E adagiò il corpicino tremante e arrossato sul letto disfatto dei genitori.
Le fasce stese ad asciugare imitavano festoni obliqui nella luce. Angelica si sorprese a guardarle annotando la trasparenza controluce della garza.
Amava i tessuti e sapeva con precisione riconoscerli. Li palpava e li annusava, identificandone con il tatto anche il colore. Il marrone vibra caldo sotto le mani evocando le braci autunnali, il verde sa di spezie e pistacchio ( volendo un lembo si può anche delicatamente succhiare ), il blu fa venire freddo anche a sfiorarlo, il carminio ravviva il ricordo della mezza pagnotta rubata ( ah che fame ) dalla dispensa e via elencando.
Le mani si mossero abili disfacendo il panno intriso di cacca. Ormai aveva cresciuto cinque fratelli e l’odore degli escrementi, del rigurgito seccato sui guanciali, del vomito rappreso del semolino, aveva smesso di turbarla.
Le piaceva tutto sommato stringerlo a se, tastarne il calore, l’arrendevolezza delle membra morbide, carpire la riconoscenza degli occhi colmi di bontà stupita.
Sarebbe poi anche lui cresciuto approdando in una vita dove non ci sarebbe stato più posto né per la sorella, né per qualunque tipo di amore.
Agitò davanti al neonato un pupazzo di stracci da lei fabbricato. Il piccolo sorrise e cercò di afferrarlo. Angelica lo pose delicatamente al suo fianco, dischiuse le persiane e si avviò, così com’era, a prendere le uova.
La stradina polverosa era in realtà parte della città. Poco discosta la cattedrale e la piazza con i bar dove era proibito andare. Solo la domenica per assistere alle funzioni, il capo velato e piegato, poteva di sbieco osservare i tavolini con le bibite colorate e gli uomini chiassosi con le gambe allargate.
In chiesa faceva sempre freddo, blu quindi, ma nel piccolo convento annesso era riposta la sua gioia. Lì ricamava con le sue dita simili alle spine delle rose con una maestria nota ormai nel vicinato. Era il suo modo di pregare, ogni ghirigoro intessuto con il filo d’oro zecchino era una purissima e devota litania. I paramenti creati dalla bambina quasi in odor di miracolo.
Ci si sentiva più buoni al solo guardarli.
Nel tessuto riusciva a trasporre la summa delle emozioni umane già pienamente rivelate al suo spirito.
Le venne commissionato da un cardinale un monumentale arazzo per coprire una parete della sua dimora.
Chiese di poter accedere all’archivio del monastero dove sapeva erano custoditi antichi manoscritti.
Vi entrò dopo due giorni di digiuno, volendo purificare anche il contatto con le immagini che avrebbe scelto per l’opera.
Gioì perché in fondo quelle due stanze stipate altro non erano se non un giardino dove cogliere frutta e verdura, intrecciare canestri per riporre immagini rotolanti come uva, staccare parole come ciliegie, capare l’indivia dei pensieri. Fece un buon raccolto che annotò rudimentale su un foglio sbiadito raccattato a terra, sotto la base di un leggio.
Avrebbe ricamato l’albero della vita.
Le monache le procurarono un’immensa pezza di broccato, aghi affilati e resistenti come spade, matasse di filo dalle infinite gamme di colore ed infine quelle lucenti d’oro e d’argento.
Si pose ad osservare questo straordinario tesoro covando nel cuore la gioia come
uovo di struzzo, tanto le premeva grosso sullo stomaco.
Era tutto un rilucere e uno sfarfallare di prodigiosa bellezza inanimata che di lì a poco avrebbe cominciato ad acquistare vita propria. Chi mai direbbe vedendo cumuli di mattoni che uno sull’altro posti saranno case e palazzi dagli aristocratici ornamenti?
Il ricamo è pittura, poesia, ponte verso il cielo, scansione di giorni, puoi trasporre con arte non solo la tua vita, ma quella dell’universo intero.
Non si fermò, instancabile punteggiò decorò inscrisse, accolse nelle sue mani per poi farle rifluire nel drappo, parole inespresse, gioie e dolori.
Era come se per magia e improvvisa vocazione avesse cominciato a capire il linguaggio degli uomini prima a lei sconosciuto come certi santi che sapevano decifrare quello degli animali.
Non diede tregua alle sue mani, anchilosate nonostante la giovanissima età. Dimenticò di mangiare e di bere, tanto il nutrimento era lì ad un o.
Prima di dispiegarlo si chiudeva a chiave, serrava gli scuri, accendeva il lume a petrolio, inalava con forza e trattenendo il fiato svolgeva il rotolo.
Già nel fruscio che la stoffa faceva dispiegandosi avvertiva uno struggimento intenso, l’odore, un misto di nuovo e già antichissimo, la rendeva familiare creatura. Espirando la sprimacciava sul tavolo foderato sorpresa dall’incedere
dei colori, che pervasi di vita propria balzavano irriverenti sui mobili, spiccando balzi sul pavimento di maiolica.
Dopo l’iniziale stordimento, messo sotto chiave orgoglio e presunzione, si predisponeva rigorosa all’esame. Imbracciava la lente d’ingrandimento come un fucile non perdonandosi neppure la minima imperfezione. L’arazzo doveva essere una porta per il paradiso. Non poteva in alcun modo fallire.
Vide l’albero della vita crescere sotto i suoi occhi percepì le spiagge primordiali lambite dalle acque gelide di ghiacci appena disciolti, volò indenne sui campi di battaglia straziata dal desiderio di scendere e raccogliere il dolore di un’ultima confessione.
Ma non solo.
Nelle fronde di smeraldo, nei fiori miniati, nelle scaglie del tronco possente era il segreto della terra con la sua giocosa fertilità, il tepore delle brezze che allevia il risalire faticoso della linfa su per i rami.
Mancava poco, ma quell’ultimo tratto le sembrò improvvisamente invalicabile come doveva essere apparso a Mosè il Mar Rosso.
Angelica impasta i fratelli hanno fame. A proposito dopo pranzo ti devo parlare
La bambina prese lo sgabello per arrivare alla spianatoia. Dispose in aggraziate fontane la farina, per poi tuffare le dita nell’impasto modellando veloce biscotti e
pizze come fossero anfore, il respiro costipato dal timore. Cosa doveva dirle la mamma che non fosse un comando di cucina o un’incombenza da svolgere.?
Entra Angelica avete mangiato? E si alzò sofferente poggiandosi a stento sui gomiti. La sua forma si stagliava disegnata sotto le lenzuola poco pulite, i capelli intrisi di nodi, il volto gonfio e giallastro, le occhiaie livide sotto gli occhi tristi.
Vieni qui e dammi la mano
La bambina di fronte ad una tale inaspettata richiesta non seppe se gioire o dolere.
Vide che il pitale posto accanto alle ciabatte era ormai pieno, notò che le ragnatele filamentose formavano una cortina sul letto, ondeggiando ad ogni sospiro. Dovrei aprire la finestra far entrare un po’ di luce pensò mentre abbandonava inanimata la mano in quella della madre.
Come sei magra dovresti riguardarti
Ma io sono felice avrebbe voluto gridare lasciami in pace
Lo sai che sta per nascere un altro fratellino ed io non posso occuparmene, tu fai molto per noi……gli altri sono ancora troppo piccoli ed io li sento spesso piangere, hanno fame…ecco Angelica non potrai più uscire se non per andare a fare la spesa. Dovrai abbandonare il ricamo. Se ne riparlerà quando sarai in età da marito.
E ricadde esausta sui cuscini negli occhi chiusi il suo congedo.
Angelica non lasciò subito la stanza nel vago conforto di aver male ascoltato, si confuse osservando il volo di una mosca che lambiva il copriletto messo di traverso sui piedi. Rimase imbambolata per un tempo infinito. Molte stagioni si avvitarono in quel quarto d’ora, trascorsero secoli in una manciata di minuti. Ci vuole così poco a spezzare una vita. Basterebbe afferrare la mosca e stritolarle quelle ali di velina o deponendola piano sotto la suola di una scarpa schiacciarla per farne caccola nera da rimuovere con una scopa.
Chiuse piano la porta alle spalle, si sentiva gemere nella stanza dei bambini quasi l’uggiolare di un cane. Si affacciò con circospezione. L’ultimo nato giaceva , il pannolino gonfio. A terra alla rinfusa cenci smessi, un bimbetto mal messo cercava di arrampicarsi su una sedia rugosa, la luce intensa lucidava gli spigoli rendendo vivissima la miseria sdrucita delle cose.
Si diresse verso il convento oltreando assente il giardino. Non si avvide di calpestare i primi fiori spuntati dopo il gelo invernale.
Nel riposto della stanza dispose con aggraziata cautela la preziosa stoffa. Inspirò più e più volte, ma il liberatorio fiotto d’aria pareva non voler uscire, incastrato fra i polmoni. Spremette gli occhi nell’avida ricerca di lacrime, cercò nel suo corpo i morsi della sete e della fame.
Si sentì raggelata e stanca.
Freddo freddo blu intenso
Desiderò il calore lingue rosso fuoco a scongelare addomesticando il dolore.
Provò ad immaginarlo.
Il fuoco.
Continuò poi a sentirne l’eco e l’odore, mentre china nell’orto raccoglieva le erbette per la minestra.
Il fuoco, soluzione necessaria, ogni fiamma avrebbe custodito un frammento di tessuto, nessun ricordo, se non un mucchio di polvere destinata a finire, impigliata, nei rami di una vecchia scopa di saggina.
Brava bambina
La stanza è oblunga. Si affaccia diretta sul terrazzo. In un angolo, spaesata si vede la cupola di S. Pietro. Sotto come in un baratro un cortile e tanti terrazzini affastellati uno sull’altro, come mattoncini di Lego.
La bimba è lì. I capelli a caschetto, il volto smunto su un corpo grassoccio. Strana dissonanza.
Guarda sotto con sguardo rapace guarda quei bimbi assiepati nel cortile. Le tasche piene di caramelle. E con precisione una dopo l’altra, rannicchiata dietro il vaso di coccio a ghirlande, tira.
Tira giù rossana rosso fiamma col ripieno di crema, spicchi di limone, d’arancio, bonbon di cioccolato fondente con la nocciola dentro.
Con dolce violenza crivella quei volti piccoli ridenti.
I bimbi sorpresi catturati levano lo sguardo, attonito e un po’ vitreo. Cosa fare? Arrabbiarsi o ridere forte per averne ancora?
Avere. Avere. Avere
Due geleès un sorriso
Tre rossana uno sguardo
Un bonbon una risata
Rientra distratta nella stanza. Si racchiude nella sua scrivania guscio. Fa i compiti. Guarda intorno a sé le pareti scozzesi, la moquette alta marroncina così non si sporca, l’armadio massiccio dietro le cui ante si nasconde a sentire la radio.
La cartella è pronta, il grembiule vira sul turchino, ha scarpe bianche ai piedi, i sandali con gli occhi, eureka si chiamano.
Nello stanzino c’è una piccola boccetta di lucido per pulirli.
Lo sai mamma che la signora delle pulizie oggi per sbaglio me lo voleva far bere al posto della purga?
Mamma
Lei ha capelli neri o viola o forse biondi
Mamma iridescente che non ti accorgi di me come una farfalla distratta
Vispa teresa che vai fra l’erbetta
o che fai fra l’erbetta?
Si mamma va bene ti accompagno
Vai dal parrucchiere, bè si è un posto come un altro c’è una grande piazza, mi piace stare con te, e le ultime parole si perdono in uno spasimo
Prendono l’autobus. La mamma le tiene di sghembo la mano, nell’altra stretta una piccola borsa di vernice.
La donna poggia carezzevole lo sguardo su quella testa liscia, curva, intenta e compunta quasi l’universomondo fosse racchiuso nella mano di sua madre.
Sente il cuore struggersi d’amore, ma non capisce se è per sé stessa o per sua figlia.
Ha bisogno di risarcimenti
Lei
Quando avrà avuto ciò che gli spetta, come un debito saldato, allora potrà occuparsene
Non è per cattiveria, anzi
E poi in fondo quella bimbetta striminzita è assai strana
Certo se fosse stata un po’ più alta un po’ più bella magari bionda che so io come la figlietta della signora Carlucci
Bè dopo sarebbero andate a mangiare il gelato
Anche se poi non gli cena un contentino ci vuole oggi deve fare i colpi di sole una cosa un po’ lunga.
Buon giorno suora
Lo so non ho capito l’aritmetica io con i numeri ci litigo
E poi si mette a sognare come sempre
Immagina di essere in Paradiso con quell’attore quello dei film d’avventura perché in fondo lei di coraggio ne ha da vendere
Disegna minuta il suo palcoscenico fra supermercati celesti popolati di angeligarzoni con la parannanza
Bancarelle di bastoni di zucchero fra cui volteggiare con il suo amore
No suora non me lo strappi starò più attenta lo prometto
Oggi è stata in castigo. Nella classe dei maschi. Due ore in piedi.
La mamma è andata a prenderla, pensierosa non l’ha sgridata.
Stasera torna papà. Che gioia.
Oh! Papà caro. Oh papà! caro Oh papà caro!
No non sono stata cattiva
Mi sentivo sola
Eppure questa parola non le esce cacciata in gola attorcigliata alle corde vocali come serpe insidiosa
Non spegnete la luce tenetemi ancora un po’ la mano anzi tenetemi la mano
E’ morbida senti non fa male potrei aprire un po’ l’incavo per non dare fastidio
La casa tace come un bozzolo, lieve si articola nel buio il sospiro dei genitori
Sul comodino il padre ha lasciato il lume dalle frange dorate percosso dal sonno non sente
Non sente, l’altra mano sulla testa della moglie a sfiorare i capelli rigidi di lacca.
Buongiorno cara, vuoi un caffè?
Hai dormito bene?
Sorride mentre scivola teneramente lo sguardo su quel corpo rannicchiato e poi proteso in uno sbadiglio.
Sono le dodici
Accidenti la bambina ha ormai perso un giorno di scuola, si stizzisce la donna ravviandosi una ciocca
Dormigliona pensa il padre
Ma non sorride
Una pena improvvisa lo strugge
Nell’arco di pochi secondi si concretizza e svanisce.
L’uomo si alza.
Stira le gambe nel pigiama a strisce.
Infila le ciabatte di pelle.
Accende la luce elettrica.
Mentre il caffè esce dalla moka fischietta
urta con il piede una boccetta vuota di lucido da scarpe.
La raccoglie
Tac scatta il secchio a molla richiudendosi
Un matrimonio
Aspetta. Il tempo sarà clemente.
I capelli cresceranno come virgulti, la pelle si assottiglierà. Tersa a rispecchiare la luce dell’animo.
I tuoi seni solleveranno lembi di tessuto, i glutei si curveranno.
Tempo ne era ato.
Molto.
I vestiti si adagiavano molli sul suo corpo seguendo una loro logica astratta. La pelle era si traslucida, ma non rispecchiava null’altro che non fosse un’irrimediabile pelle grassa.
Viveva circondata dalla bellezza. Suo padre e sua madre splendidi esemplari umani.
Non solo belli, ma dolci, teneri affettuosi, intenti bonari nella sua contemplazione.
Non solo non l’avevano mai fatta sentire brutta, ma in modo ossessivo vollero reputarla perfetta.
Cosa che indubbiamente non era.
Aspetta, vociavano le amiche. Guarda l’altro ieri portavo zero di reggiseno, oggi la terza. Tiè lievitato.
Ma lei di lievitato aveva visto solo un signore sotto il potere ipnotico di un mago che poi si dovrebbe dire levitare o qualcosa del genere.
Banale parlare di turbamento giovanile, di incomprensione. Rabbia, ribellione.
Lei era semplicemente ottusa. Soffriva, percepiva qualcosa di diverso, che in fondo sfiorava.
Meglio così pensarono i genitori. Certo un tempo c’era il convento a are come un cancellino sulle miserie umane, lo sgabuzzino santo dove buttare gli ospiti indesiderati. Non erano abbastanza potenti per un matrimonio combinato, dunque presero tempo.
Un‘estate al mare. La madre sola sul bagnasciuga. Le onde piccole si accavallavano, lucidandola lentamente. Voltò leggermente la testa. Sapeva di essere osservata, ormai da molti anni giocava così. Non poteva vivere senza essere desiderata. Magari anche senza consumare.
Il gioco degli sguardi, le parole come nel gioco della mela divorate veloci per poter essere prima eliminate. Quei baci che contengono, in estratto, mille e più scopate.
L’uomo si avvicinò. Si piantò tutto nel suo campo visivo, quasi a volerlo allargare.
La donna non si fece incantare, già nel gioco predominante. Lo sezionò. Ne ammirò prima i piedi bruni e forti, di modo che quando salì già sapeva cosa aspettarsi.
La figlia era in camera a leggere una rivista. Le diede i soldi per comprarsi un costume nuovo e si lasciò sbattere per due ore senza sosta.
Osservando il giovanotto riverso decise che era giunto il momento. Gli offrì molti soldi, che sulle prime lui rifiutò. Tuttavia l’occasione era allettante. Si trattava di gente benestante, in vista, la figlia brutta, di una bruttezza svagata, ma la madre era uno schianto.
arono la serata bevendo vino. Il padre le raggiunse il sabato seguente, anche lui svagato non capì nulla.
Il matrimonio civile fu celebrato in solitudine. Il viaggio di nozze fu in realtà un week-end.
I mesi rotolarono via veloci. Gli anni pure. La donna più giovane segnata anzi tempo, quasi con accanimento, la matura a fiorire in una seconda giovinezza.
Decisero di tornare al mare nella stessa località in cui si erano incontrati.
La memoria rinnovò l’accanimento erotico della madre.
Come facciamo si chiese il giovanotto per la prima volta riguardoso nei confronti della moglie.
La mandiamo a fare spese, tanto non capisce. E si chio dentro.
La giovane donna raccolse le sue lacrime e se andò raminga. Sul lungomare comprò un gelato.
Si squagliò subito rendendo appiccicosa la sua scollatura. Poco discosto un uomo si fermò per allacciarsi le stringhe. Sollevò la testa appoggiandosi alla balaustra. Non più giovane, ma bello. Quello che si dice un uomo distinto. Vide una donna goffa che cercava disperatamente di bagnare con un po’ di saliva un fazzolettino per pulirsi il vestito. Il petto ansimava, sollevandosi. Le gambe divaricate erano belle ed infantili, cosparse di efelidi. Ebbe voglia di stringerla. Le offrì un altro gelato.
Cenarono insieme. Nel riso la donna divenne bella e miracolosamente conservò la sua bellezza anche dopo quando seduta sul letto dell’uomo raccontò.
Raccontò tutta la notte, come una triste Sherazade. L’uomo raccolse il suo dolore e lo tuffò dentro se.
Come un coccodrillo che ingoia senza digerire. Stremati dalla notte insonne si riversarono uno nell’altro. Nonostante tutto. Riuscendo a fare l’amore.
Infinite volte.
La madre che pur le voleva bene, l’attendeva nella hall, le calze retate, l’amante sonnacchioso nella poltrona accanto. Dovremmo avvertire la polizia. E se si trattasse di un rapimento? Lo specchio la rassicurò mentre si alzava.
Lenta.
Lenta stava disponendosi presso la reception, quando la ragazza entrò accompagnata da un uomo.
Raggiava. In molti si volsero. Anche lei la vide. Per la seconda volta. La prima era stata quando gliel’avevano posta sul ventre, grumo rosso, palpitante.
Fu disturbata da qualcosa. L’uomo la guardava. Lei capì che era uno sguardo privo di compiacenza.
Entrò simultaneo nel suo campo visivo.
Questo non potè sezionarlo.
Non fece in tempo.
Le spappolò la testa con quattro revolverate.
O almeno così sembrò.
Un uomo tanto distinto.
Peccato pensò la figlia raccogliendo con lo sguardo immaginari frammenti materni mentre l’uomo ignaro scompariva nella porta rotante della hall.
Una buona azione
Queste gallerie sono veramente e subdolamente tristi.
Subway.
In Francia o in Inghilterra possono evocare mondi alternativi, trasgressioni, cultura, mescolanza.
Musica ritmata come un tamburo tribale che aumenta i suoi battiti man mano che il treno entra in stazione.
Qui no è tutto direi ridicolmente sottotono.
I ritardi, gli scioperi, le pozze d’acqua, sembra una farsesca imitazione di quello che avviene all’estero. E poi i tempi di percorrenza e quelli per attuare le nuove linee!
Eh si io ne so qualcosa. Ogni giorno sono qui per andare al liceo.
Conosco ogni tratto, come fosse cosa mia.
Posso dire quanti sedili contano i convogli e i loro numeri di matricola, come si chiamano conducenti e controllori.
Scandisco le fermate come il ritornello di una canzone ben nota e mi beo dell’odore di gomma bruciata e dello stridio dei freni.
Quando cozzano i vagoni in curva tremo dall’emozione e trovo sublime la dissolvenza dai finestrini di banchine e facce.
Facce.
Molti pendolari sono ormai di casa nella mia vita. Conosco i loro guardaroba, sono certa dei lavori che svolgono e dei loro sentimenti.
Pur non avendoci mai parlato.
Basta osservare.
Un calzino che occhieggia dai pantaloni può dire molto di più di tre ore di conversazione.
E lo stesso può dirsi di un’unghia smaltata e poi sbreccata, di un orlo scucito, di uno sguardo perso o assonnato, di un giornale ripiegato, di una scarpa
dondolante che rivela il tallone smagliato.
Dietro ogni volto c’è una casa calda o scura o vuota. Visi ridenti o solitudine, carezze oppure percosse. C’è chi curva gli angoli delle labbra ricordando gli amplessi da poco trascorsi, la prostituta stanca che dorme, la ragazza che sbircia negli occhiali di fronte per vedere se il suo trucco è a posto.
C’è chi legge, chi legge il giornale di chi è seduto al suo fianco, chi è immerso in un libro, chi ria gli appunti prima di un esame.
I convogli sono pieni, brulicanti o vuoti. Piccole città vibranti o deserti.
Spesso si intrecciano conoscenze o amori. Alcuni non riescono a viaggiare soli ed attendono impazienti gli amici spesso saltando una corsa con facce alterate da bonaria contrarietà.
Ci si scambia consigli, piccole invidie, sottili malumori, prove di recitazione prima del vero spettacolo.
Per me tutto ciò è beatitudine.
Ogni sguardo è impresso nella mia memoria e per alcuni c’è un posto speciale.
Una nicchia, con tanto di fiori e preghiere.
Li scelgo.
Alcuni hanno facce da far paura.
Che vita potrebbero mai condurre?
Li seguo, per giorni, se necessario per mesi.
Conosco segreti ed umori, speranze e dolori.
Quando tutto è pronto mi apposto.
Un lieve colpetto, nella calca a inosservato.
La morte è istantanea.
Dopo mi sento triste, è vero, ma anche soddisfatta.
Perché in fondo non è forse una buona azione?
Usati
Siamo accatastati in pile ordinate, legati imballati, senza pietà, né spazio anche esiguo fra gli uni e gli altri.
In attesa.
La città dorme, qualche sparuto autobus arranca, la luce dell’alba si riflette sui vetri tagliati trasversalmente da tergicristalli ancora sulla difensiva.
L’ombrellone scatta aprendosi, tende le nervature metalliche, la polvere appiccicosa della notte cola mescolandosi a qualche stilla di pioggia.
L’uomo avanza. Ha mani grandi, ispessite dal lavoro manuale, abili nel fare e disfare.
Ora siamo liberi. Le pile si frantumano, cadiamo disordinati. Veniamo rimescolati, sparpagliati.
Tutto è pronto. Inizia l’attesa.
La pioggia ha smesso di tamburellare sulla tela, ancora qualche rivolo scuro la
percorre, per poi arrestarsi sul bordo.
Veniamo storditi dagli odori. Tanti e tutti insieme. Brioches calde, caffè, cappuccini, lasciano tracce appiccicose. Più tardi si trasformeranno in sentori di tramezzino, pizzette, panini raffermi creando strie d’unto.
Che ci invischiano.
Il profumo delle prime colazioni si accompagna ad un odore di pulito, alle volte anche di essenze profumate, mitiga il nostro risveglio.
L’odore del mezzodì ci invade grossolano, già i corpi emanano miasmi sudati, afrori inconfessabili, di sudore rappreso peloso.
Le mani del mezzogiorno sono però meno avide, stanche ci percorrono, non farneticano come al mattino nella ricerca vigorosa.
Sono mani rassegnate di chi rimescola in attesa dell’autobus che non a mai, del treno che ancora non è ora.
In attesa di un risarcimento.
Ti porti via uno straccio e sei felice.
Ci rimugini su per tutto il viaggio. Ho fatto un buon affare? Chissà quanto costava da nuovo? Si attende il rientro per poggiare sul letto tutta la mercanzia. Con ansia si vuota il sacchetto.
Stracci. Siamo stracci. Qui buttati.
Ognuno di noi ha una storia da raccontare.
Ecco si avvicina una mano ha unghie mangiucchiate.
Scommettiamo fra noi. E’ un’adolescente? No dai guarda meglio, rosicchia con cura, ha pochi anelli preziosi. Si risale dalle estremità al volto. Quasi sempre indoviniamo.
Ci mettiamo in superficie quando vogliamo essere acquistati, oppure sprofondiamo. Alle volte presi dalla collottola con aria trionfante, quasi trofei in un torneo di caccia.
Carpiti velocemente, mai nessuno che voglia ascoltare le nostre storie.
Siamo stati indumenti nuovi, a prezzo pieno, già indossati, abbiamo coperto, riscaldato, assistito ad incontri d’amore, stropicciati da natiche, sollevati da seni, appesi ad impalcature di ossa stentate, o stirati insufficienti su eccessive protuberanze.
Metti quel vestito, quello là, in disparte.
Accidenti se è bello.. Un vero vestito da sera. Di gran sartoria. La stoffa ancora nuova, satin nero. Addirittura l’etichetta recita un nome famoso. In negozio costerebbe una fortuna.
Ad ogni colpo di mano si nasconde. Non vuole venire alla luce.
Ora sta sotto una sottoveste di nylon che a sfregarla prenderesti fuoco, a destra un finto kilt scozzese, a sinistra un paio di calzoni talmente consumati al ginocchio che paiono quelli di un lavapavimenti.
Volano via anche loro, pagati, incartati.
Lui nella sua bellezza è rimasto. Immobile, cerca di fare pendant con la copertura di un asse da stiro, che non si capisce come sia capitato qui.
Io sono abituato a rimanere ultimo. E’ già una settimana che mi sciorinano sul banco e nessuno mi compra. Del resto è giusto così.
Dimmi chi si comprerebbe una vestaglia usata. Gli indumenti casalinghi o quelli notturni sono belli nuovi odorosi di appretto.
La vestaglia è poi un indumento triste, tristissimo. Evoca macchinette del caffè bevute in solitudine, odore di minestra di cavolo.
Poi di flanella.…… di seta sarebbe stata tutta un’altra cosa.
Ci guardiamo. Di chi eri?
Bè rispondo io, la mia padrona era un’impiegata freddolosa, mi teneva pure d’estate, stava spesso a dieta e le tiravo sui fianchi, era più larga sotto che sopra e tu…la tua di padrona deve essere stata bellissima, esile….una taglia quaranta direi…e profumata. Ancora si sente il profumo. Cos’è se?...fammi indovinare…Guerlain. Una volta se ne scolò un campioncino la mia ex proprietaria, se lo mise tutto in petto, mi inumidì ma ne fui felice. Potevo far finta di essere un’altra cosa, magari un vestito come te…
Cosa? Vieni più vicino, che non sento bene. Non avere paura, sotto di me non ti vede nessuno, e ti tengo al calduccio.
Ecco….come sei freddo! Lasciati guardare bene, strano che nessuno ti abbia ancora preso…è strano anche che il nostro padrone non ti abbia appeso come fa di solito con le cose più belle.
Cosa dici?….Il dolore tiene lontani. Ma sai quanti di noi sono intrisi di dolore, già il fatto di essere stati scartati…Spesso non ci si arriva a coprire altri corpi, un lancio nella pattumiera o sotto uno spazzolone come stracci. Che vuoi….è la vita.
Non è così per te?….Sono qui per ascoltare. Dimmi pure, fino a stasera abbiamo tutto il tempo.
Vuoi che ti guardi meglio. Bene mi metto così di tre quarti….dov’è che devo osservare? Bene sul fianco, hai detto…e poi ….dove?… non ricordo… sul costato, si, poi?.. sulla schiena….un pò più giù…
Accidenti, non me n’ero accorta, sul nero le macchie non risaltano! Sei chiazzato, e le macchie sono come croste. Cosa?…. porca miseria c’è un fracasso qui….ripeti perfavore.
Sangue? Hai detto sangue. Oh Dio mio. Si è fatta tanto male?
Cosa? Era della madre? Non aveva 18 anni? Quindici? Sei sicuro..proprio sicuro??
Vuoi dire che…..vuoi dire che è morta?….L’hanno pugnalata. …..Oh mamma mia così tante volte…! Eh si, sei pieno di slabbrature. Il colore mi ha ingannata.
Ti ha sfilato piano, sembrava non volesse più farle male. Ti ha lavato e piegato dici?
Ma le macchie sono rimaste indelebili intrise nel tessuto insieme alle lacrime e alla paura.
Ragnatele prive di insetti.
Dai vieni qui che ti sfrego un po’.
Sai sono sicura che con un po’ di accortezza ritorni come nuovo.
Un lavaggio senza centrifuga e tutto torna come prima.
Avete mai guardato attentamente gli occhi dei bambini?
Il bambino uscì velocemente da scuola. Non era nemmeno troppo caldo, ma il desiderio lo prese ugualmente. Accelerò il o, la cartella di cuoio pigiava gli angoli sulle spalle minute, i rinforzi metallici graffiavano leggeri la pelle scurita dal sole.
Ancor prima di arrivare sfilò le scarpe legandole ai manici della borsa.
La spiaggia ritagliata fra il porto e la città vecchia era ingombra di barche. Spezzoni di grida ed echi ancora non spenti di pesche notturne, di livide notti trascorse all’agghiaccio sul mare.
Sul mare
Padre padrone, lo chiamavano i pescatori.
E la barca tornò sola recitava la canzone.
Tutto questo gettava un’ombra sul suo cuore. Ogni volta al cospetto del mare il desiderio quasi fisico provocava una tachicardia impercettibile che svaniva subito simile a un’alzata di polvere.
Si dissipava con le voci degli amici.
Sasà spogliati lo tirava uno
Sasà hai fatto tardi lo rimproverava l’altro
Rotolava fra gli spintoni, impastato, beandosi degli sguardi, dei sorrisi bianchi bianchi su quelle facce scure catramose.
Gli piaceva indugiare, condurre il gioco lentamente, il più a lungo possibile, ingannando il tempo che trascorreva veloce.
Deposero i vestiti dietro le barche e si immersero nudi.
Muovevano gambe e braccia come mulinelli, tirando fendenti immaginari, spazzando il pelo dell’acqua con il taglio della mano per cavarne scintille. Scostavano le alghe dal fondo cercando tesori, si osservavano, le gote gonfie, i capelli fluttuanti, un riso accennato visibile anche là sotto.
Al bambino sembrava di scendere a profondità oceaniche, l’avventura lo torceva di emozione.
Grondanti senza mai sentire il fastidio del sale che si asciuga stirando la pelle, si
scorticavano i piedi sugli scogli, calandosi per cercare frutti di mare.
Lui rimaneva spesso seduto ad osservare. Il suo corpo esile accovacciato ricordava un cespo di ginestra, profumata, inaspettata.
Gli amici lo esortavano
Dai buttati
Non avere paura fifone cocco di mamma
E’ vero lui lo era. Un cocco di mamma
E’ vero io lo ero
un cocco di mamma.
un bambino ricco
Abitavo sul lungomare in una grande casa con tavole spesso imbandite per decine di invitati e una stanza scura dove riposavano i dolci.
Non lo sapete che anche i dolci hanno bisogno di quiete?
Cannoli siciliani metà scuri metà chiari, bignè, guantiere di paste assortite.
Spesso il riposo operoso dei dolci era interrotto dai noi bambini che smozzicavamo.
Che delizia in quell’oscurità carica di profumi di vaniglia, cioccolato, zucchero a velo, ingozzarsi, confondere golosamente i sapori fino a non riuscire a distinguere la composta di lamponi dalla ricotta con la scorza d’arancio.
Mascalzoni gridava mia madre mentre io e mio cugino fendevamo i corridoi
Se vi acchiappo
Durante le mie scorribande marine spiavo seduto su uno scoglio le teste arruffate ammucchiate come ricci di mare.
Sapevo per certo che quei bambini non mangiavano dolci che raramente, anzi forse mai.
Proprio prima dell’ultimo ricevimento, gli ospiti quasi sulle scale, era caduta una tortiera.
Il piatto si era inclinato. Il dolce scivolando giaceva inanimato e contorto come un cadavere.
Mia madre aveva chiamato la cameriera
Spazza le disse
La donna sgranò gli occhi quasi la padrona le avesse ordinato un omicidio
No, e si inchinò rimettendo insieme con amore i pezzi del dolce mischiati a quelli della porcellana.
Maternamente
Lo prendo io, posso?
E se ne andò caracollante con il suo trofeo avvolto nel grembiule.
Povera gente disse mia madre scuotendo la testa
E ne era convinta
L’avevo accompagnata un giorno nella città vecchia
Le case mi avevano intimorito. Antri scuri senza luce.
La donna piangeva stringendo a se un groppo di bambini.
Piangeva in silenzio. Non parlava e le lacrime correvano sulle guance, sulle mani, come gocce di rugiada.
Ero rimasto affascinato da quelle lacrime, mi sembrarono belle, così simili a pietre preziose.
Avevano formato una pozza sul legno del vecchio tavolo ed io vi immersi un dito.
Mia madre mi aveva strattonato.
Tenga ed aveva poggiato una busta accanto alle lacrime
La donna senza smettere il suo silenzio e le sue lacrime aveva sollevato gli occhi
Occhi densi di dolore.
In quel dolore compresi, non c’era gratitudine.
Nemmeno un po’.
Fuori qualche vicolo più addietro ci attendeva la macchina con l’autista.
Ancora un attimo mamma
Dove vivevano i miei amici?
Sasà vieni qui
Sasà guarda
I miei amici agitavano filamenti carichi di cozze.
Mi tuffai toccando il fondo per poi riemergere con i polmoni carichi di affanno.
Io vado
Raccolsi i vestiti. Tornando a casa mi fermai ad una fontana per lavare viso e mani, così mia madre baciando non avrebbe sentito il sapore del sale.
I vestiti ancora umidi urtarono contro il vento facendomi rabbrividire.
Feci le scale tutte d’un fiato, mi fermai davanti alla porta e suonai il camlo d’ottone.
Sasà sasà
E mia madre mi afferrò per il bavero della corta giacchetta.
Sei stato al porto con gli scugnizzi non è vero?
Non era molto convinta, non aveva sempre voglia di prendermi a schiaffoni
Come la ricordo bene
Io ero mingherlino ma in qualche modo
abbracciandola
avevo paura di incrinarla. Una mamma di vetro. Questo pareva.
Vieni qui
La cucina spaziosa aveva il tavolo apparecchiato. Un bicchiere di latte, ciambellone, crostata.
Non ti lavi le mani?
Mi portò in bagno e denudandomi, mi baciò su una guancia. Aveva occhi grigi, d’acciaio.
Bene disse e mi leccò in mezzo al petto e al centro della schiena.
Sai di sale.
Non aveva alzato le mani o preso il battipanni
Sai di sale da solo era già una condanna.
L’avrebbe eseguita lei o mio padre?
Avevo una gran fame e freddo.
Lavati e poi vieni in cucina.
Mi lavai accuratamente. Cambiai l’abito.
La raggiunsi. Era seduta la testa sul braccio, così delicata, come potevo averne avuto timore.
Sasà io ho paura per te, non devi andare con quei ragazzi, sono scugnizzi della città vecchia, potrebbero offenderti.
Cosa vuol dire offenderti pensai, l’offesa è una roba da grandi. Fra bambini si risolve tutto e subito, non c’è differenza fra signorini e poveri, brutti e belli. Le parole volano grosse ma nel momento stesso in cui devono atterrare sono già la metà e non fanno più male.
Quella è gente miserabile, continuò la mamma, senza arte né parte, molti non hanno un padre, il mare ne inghiotte uno alla settimana.
E senza padre si cresce male assai.
Pensai al mio. Non mi sarebbe dispiaciuto saperlo lontano, non dico affogato, ma non avere sempre i suoi occhi attaccati alla nuca, astiosi, mai una lode, né una carezza.
Mamà stai tranquilla saranno guappi ma mi vogliono bene, giochiamo, corriamo….e io ne ho un disperato bisogno, avrei voluto aggiungere. Ma non lo feci.
Si raddrizzò per un attimo
Domani, a scuola, ti vengo a prendere io e chiuse il discorso risoluta.
Andai nella mia stanza. Accarezzai il nuovo aquilone, aprii la finestra, la luce del tramonto allietava Bari vecchia sullo sfondo. Copriva i lutti, prestava una ragione per tirare a campare a chi non aveva più nulla.
Feci andare il piccolo grammofono, la manovella caricò senza sforzo, avvitai la puntina e lasciai cadere il braccio delicatamente sul disco.
I giorni da allora si affiancarono quieti gli uni agli altri.
Mamma non mi perse di vista un attimo, con il suo cappellino nero sghembo sui capelli biondi e le sue gambe arcuate mi portava e mi riprendeva con la precisione di un treno. Nascondeva a mio padre la preoccupazione come una superstizione di cui si ha vergogna.
Forse papà non avrebbe nemmeno disapprovato le lunghe nuotate.
Ormai sapevo nuotare bene.
Mia madre me l’aveva insegnato.
Vieni Sasà e mi aveva preso sotto le ascelle.
Portava un camicione che sollevato, gonfio d’acqua sembrava una medusa, una boa di cotone.
Teneva con fermezza il mio corpo, non provai paura, né apprensione.
Dopo una settimana venne anche mio padre.
Buttati fammi vedere
Nuotai coscienzioso calando le bracciate in acqua come non avevo mai fatto con la penna sui compiti.
Tornato a riva non c’era già più. Era il suo modo per dirmi bravo, posso stare tranquillo.
Poi un giorno mamma non si alzò dal letto.
Vai e se non mi vedi all’uscita ritorna da solo, mi raccomando.
Non disse non andare al porto, ma era lo stesso. Io lo avevo sentito.
Per i primi giorni fui ubbidiente, ero preoccupato per lei, non vedevo l’ora di tornare. Facevo i compiti accanto al suo letto, sistemato alla bell’e meglio sul comò, fra spazzole d’argento e boccette di cristallo. Mi beavo dell’odore persistente della sua cipria. Ogni tanto la guardavo di sottecchi leggere e poi appisolarsi. Mai nemmeno per una volta ho colto il suo sguardo su di me eppure ne sentivo l’acutezza accarezzarmi le spalle.
Una sera, ero già a letto e quasi dormivo, vidi mio padre rifilato nel cono di luce proveniente dal salone. Era immobile sul ciglio della mia stanza. Sembrava paralizzato incapace di entrare o uscire, i piedi incollati al pavimento.
Papà. E si fece coraggio
Mammà non sta bene
Mi sedetti sul letto completamente sveglio. Avevo freddo e sete.
Cos’ha?
Aspetta un bambino
Mi stropicciai gli occhi. Per due motivi. La sorpresa all’idea di avere un fratello e l’odio già formato per quell’essere che faceva del male a mia madre.
Ah. Dissi soltanto.
Domani la porto in ospedale non mi piace come sta, per cui tu rimarrai con zì Rosina. Fai il bravo.
Tese il braccio. Voleva farmi una carezza, niente di più. Rimase a metà lasciando poi cadere per forza di inerzia la mano sulla coperta.
Buona notte, però disse, e si voltò dicendolo sperando che i suoi occhi potessero forare il buio.
Il giorno dopo ricoverarono mia madre ed io andai al porto.
Sasà che fine hai fatto
E chi mi spingeva di qua chi di là in un’ansia crescente di fare male. Volevano farmi capire che gli ero mancato.
Nudo mi tuffai dallo scoglio. Volevo provare il mio record di immersione. In realtà dovevo sciogliere la tristezza e se possibile in un solo pomeriggio diventare adulto.
Sasà guarda, e Pietrino si buttò come un razzo toccando il fondo in breve tempo.
Ma come ha fatto? Chiesi incredulo
S’è legato un sasso alla vita
Mi affacciai. L’acqua trasparente mi mostrò il ragazzo che si dibatteva per sciogliere il cordone.
Feci per buttarmi.
Statti fermo non ha bisogno di te
E me lo dissero con disprezzo
Ah e perché lo devo far affogare?
Aspetta, e Giosuè mi spinse all’indietro con decisione.
Dopo un secolo Pietrino riemerse inalò scatarrò alzò la bocca sdentata e rise.
Sotto a chi tocca
Giosuè a sua volta si imbracò con la pietra e si gettò a bomba nell’acqua sfiorando lo scoglio che certo lo aveva ferito.
Stessa storia, l’ansia e poi la risata liberatoria.
Eravamo in cinque. Fui l’ultimo.
Accidenti se avevo paura ero letteralmente terrorizzato. Sentii con tale chiarezza la voce di mammà che mi voltai per cercarla. Non c’era nessuno.
Purtroppo.
Fra qualche tempo i pescatori sarebbero usciti ora dormivano nei loro tuguri.
Dai Sasà che hai paura?
No certo. La corda era spessa, grossa, una fune resistente di quelle per trainare le
barche.
Me la feci arrotolare da Pietrino sui fianchi perché mi tremavano le mani e non volevo che si notasse.
Guarda fifò tiri il nodo e quello si scioglie subito.
Ammiccò e mi parve sinceramente brutto e ributtante con quei denti già avariati, la bocca di un grande pensai.
Ma non è che poi ci fu troppo tempo per pensare. Pietrino mi spinse o forse fu Giosuè o Nicola che era rimasto per tutto il tempo in disparte.
Fu probabilmente la spinta maldestra a farmi cadere male.
Da solo avrei fatto un bel balzo, un tuffo ginocchioni come sapevo fare io.
Così mi feci male sugli scogli. Il dolore fu perforante, mi sentii ardere come S. Lorenzo sulla graticola.
Mia madre aveva un breviario scritto di suo pugno ripieno di santini. Me li illustrava spesso sperando, non so perché, con le sue storie truculente di farmi venire la voglia di servire messa.
Approdai sul fondo, la testa mi scoppiava, cercai di slegare la corda, attorno a me l’acqua era rossastra. O fu l’impressione. Sentivo il petto esplodere, il cuore improvvisamente si era fatto grosso e batteva i pugni sul torace. Devo calmarlo, pensai, se lo calmo ci riesco.
Spezzai le unghie su quel cordame che non voleva cedere, testardo, rozzo, nemico.
L’acqua era abbastanza trasparente, sperai che almeno uno di loro si buttasse. Non potevano non avermi visto.
Io li vedevo. Già io li vedevo.
Nonostante la liquida distanza, io li vedevo.
Riuscii a cogliere i loro sguardi, attenti, non volevano perdere un minuto secondo di quello spettacolo.
Avete mai guardato attentamente gli occhi dei bambini?
C’è l’anima para para dentro e se non è bella non è un proprio un bel vedere.
L’amica
Si muoveva come fosse in una bolla d’aria, i piedi piccini, calze verdognole, minigonna, lunghi capelli biondi.
Era felice, ma in fondo da qualche parte un’ombra come un sasso le scivolava.
Non ci fece caso.
Arrivò all’appuntamento, un o dietro l’altro.
L’amica l’attendeva. Raggomitolata fosca, quasi barbuta.
Giovanissime, l’una ancora inerme, nemmeno svezzata, l’altra dura, lambiva l’amica quasi a volerne succhiare con la bellezza l’innocenza un po’stolta.
Si abbracciarono, una macchina poco lontana spalancò gli sportelli.
Salirono stringendosi. Un’altra li seguiva dappresso.
Giunsero in una pineta suburbana.
Lecci spelacchiati
il suolo cosparso di cespuglietti radi stitici impolverati sofferenti.
Le ragazze al centro sospinte. Due ragazzi su ogni lato quasi a voler impedire la fuga.
Nulla era minaccioso se non quel polverone lontano quasi estivo sospeso fra giorni e mesi in quell’adolescenza dove ti trascini senza capire le stagioni.
I giovanotti giovanissimi brancicavano eccitandosi ed incitandosi.
La più giovane la più bella delle due sentì un malessere salirle dalle viscere, un disgusto come di cibo rimasto attaccato fra i denti.
La stessa sensazione l’aveva provata qualche anno prima.
Era giugno.
La scuola appena finita. Seconda media. Si erano spinte fino a piazza Navona.
Lei e le sue amiche predilette. La gonna troppo corta sulle gambe grassocce.
Nessuno sapeva tantomeno i suoi genitori di questa sortita al di là delle colonne d’Ercole.
Lungo la strada si era vergognata un po’ perché un camionista le aveva gridato qualcosa.
Non era ciò che le aveva detto, incomprensibile, che l’aveva rattristata, era lo sguardo che non le era piaciuto. Lo sguardo degli uomini.
Ti fruga non volendo.
Durante il ritorno a casa, nell’autobus, avvolta dal rimorso si era sentita palpeggiare, come se un mollusco le risalisse le gambe premendo insistente. Era scesa veloce, ma quella sensazione di bava rappresa l’aveva sconvolta quasi avesse perso la verginità, irrimediabilmente lontana dall’adolescenza, catapultata in una manciata di secondi su un’altra riva.
Deserta.
Guardò Adriana.
Preoccupata.
L’amica le ritornò uno sguardo spavaldo di sfida come a volerle dire cagasotto.
Giovanna si dibatteva ora su una panchina. Voleva andarsene, cercava di tirare giù quella gonna sotto cui qualcuno cercava di afferrarle le mutande. Poteva diventare scuro da un momento all’altro, meglio il silenzio spettrale di casa sua, meglio di queste mani, di questi piedi vagolanti, di queste gambe divaricate come comi.
Silenziosi tornarono alle auto.
Giovanna è dietro con il roscio. Il più violento, il più difficile. Le piaceva essere sua amica, l’amica del duro. Guarda la sua barbetta accennata. Lui gli si strofina addosso vorrebbe cavarle di bocca un bacio. Giovanna ha mani paffute. Il roscio gliele afferra e le stringe, l’anellino d’argento con due palline, regalo di Roberta, le preme la carne. Cerca di strapparle le calze, quelle calze da buffo ramarro. Si divincola.
Questa lotta pare eccitare il ragazzo, mentre Adriana ride.
D’improvviso si fanno silenziosi ritraendo le mani, fermano l’auto, mentre Giovanna riconosce d’un tratto la sua casa.
Improvvisi sterzano dirigendosi verso il prato, il grande pratone dove vanno a defecare i cani, dove la gente pomicia all’ombra di una smisurata antenna
militare.
Giovanna cerca di scendere.
Contro i finestrini premono i visi spettrali degli amici.
Ne entrano altri. La macchina, celeste, è colma.
Una melassa di mani, di umidori, sussulti. Qualcuno ride per darsi coraggio. Il roscio al centro è quello più spietato, non è il dolore che lo fa godere, non le gote rotonde sotto le mani, non è quello che gli da onnipotenza, ma le parole frammentate di lei, brandelli, grassettate come nei fumetti.
Parole come treni
come cazzi a percuotere l’anima.
Adriana è fuori, qualche risata pare ancora gorgogliare
lontana.
Ora è sotto casa di Giovanna, una bella casa.
Luminosa.
La sua stanza, una libreria con la scrivania ribaltabile, un armadio a muro, l’enciclopedia dal dorso nero e lucido.
Adriana alza lo sguardo.
La luce è accesa sul bel terrazzo da cui si vede la cupola di S. Pietro.
Le sembra di scorgere la testa del padre dell’amica come dentro un’ acquario.
Potrebbe.
Potrebbe, basterebbe un gesto. Fa quasi una prova. Teatrale, alza la mano poggia il dito lieve sul citofono.
driin!!
Si crogiola in quel pensiero.
Si aggiusta gli occhiali, li pulisce con il lembo della camicia.
E riprende a scendere per quella rispettabile strada residenziale mentre qualcuno si attarda sui balconi a prendere il fresco.
Artemisia
Non so con certezza quando sono nata.
A Napoli tutti sono millenari e perdono il conto degli anni.
Ho occupato un grande appartamento del centro storico.
Dormo fra mobili rococò, mi specchio in ovali dalle dorature di autentico oro zecchino.
Le stanze, le une nelle altre in una teoria infinita,
potresti aspettarti alla fine del percorso un altro paese o solo il vuoto.
Tanta bellezza, come nella vita reale, è corrotta con grazia.
I soffitti, dipinti qua e là, squarciati lasciano vedere il controsoffitto,
quando pensosa mi siedo devo ricordare le poltrone ancora non cedevoli.
Allo stesso tempo quando vago timida negli angoli devo accertarmi che davanti a me non ci siano lacune o solo maioliche mancanti.
Non c’è nulla di più facile al giorno d’oggi che catturare una residenza nel cuore di Napoli. Meglio abitarle, e non lasciarle allo scempio dei mercanti, che svellono pavimenti, strappano tappezzerie, trascinano mobili per poi esporli,
quasi barbari prigionieri piangenti, nella moltitudine indifferente dei mercati.
Non sanno gli acquirenti che in quel cassetto segreto del comodino ci sono lettere d’amore e così nella madia la cuoca padronale aveva occultato qualche moneta d’oro insieme a ricette segrete.
Il pavimento maiolicato abituato a mille e poi mille i di minuetti e poi valzer sospirerà nella notte la sua immensa malinconia. Lontani dalle loro dimore i mobili scricchioleranno, sperando nella veloce azione dei tarli perchè li rendano polvere prima del tempo.
Io non ho toccato nulla, nulla ho spostato, anzi mi perdo nel cercare le memorie di chi qui ha vissuto.
La notte è il momento più duro, anzi lo era. Rumori di ogni sorta, lievi carezze o botti fragorosi ed improvvisi. All’inizio mettevo la testa sotto il cuscino, munita di croci e santi benedetti.
Una cistite mi vinse, non potevo trattenermi dall’urinare, e dovetti accantonare barricate e amuleti. La prima cosa che sentii fu una risata simile ad un frullare d’ali, poi corse e battere di timpani. Rimasi immobile come una statua di culto, sperando di essere scambiata per un nuovo arredo. Nell’oscurità vedevo solo bagliori e lampi, alcuni solo punti luminosi, altri veri temporali. Una delle luci più fievoli mi prese la mano quasi per invitarmi a danzare.
Mi fece conoscere la casa come era veramente stata. Gli arredi al loro posto, i soffitti colmi di pittura e stucco, i tappeti splendidi nei colori e tanto e tanto ancora che non saprei dire.
Ma soprattutto vita.
Mai sentita tanta vita sprigionare dalle cose.
Talvolta ballo con loro, se c’è un ricevimento, ho scovato anche dei vestiti, che ho fatto pulire e restaurare ed ora posso indossare senza sfigurare. In altre notti le donne di casa vengono relegate nei salotti, perchè gli uomini parlano di politica.
Io sola vengo ammessa, sono infatti rimasti sorpresi dalla mia cultura.
Ho taciuto pietosamente lo so, non ho detto come finiranno le loro idee, come Napoli diventerà abisso,
lontana eco di ciò che fu.
Certo le mie giornate scandite dalle ore notturne si svolgono all’incontrario come certe capriole nell’acqua.
Vivere qui mi ha anche aiutato a crearmi un lavoro. Dipingo, anzi falsifico con onestà. Dipingo alla maniera di un Giordano o di un fiammingo coevo e vendo le mie tele dichiarandole per quello che sono.
Ho avuto un immenso successo, il problema è presenziare le mostre, partecipare ai salotti, dove scelgo il divano più riposto per dormire. E già perchè la notte lavoro.
Addirittura fanno gare fra loro per chi quella notte guiderà la mia mano.
Certo sono stata tentata di spacciare qualche falso per nuova scoperta, ma non ne ho avuto il coraggio, né ho voluto tradire la loro fiducia. Alcuni sono morti malamente di coltello o veleno, altri sono stati essi stessi artefici di morti altrui, ma la morte li ha purificati e sono intorno a me, per quello che riesco a intravedere nelle nebbie, come bambini curiosi.
Questa nebbia per fortuna tiene ben lontano l’amore. Alcuni parlano con voce suadente e nel fervore di molte discussioni, nonostante il loro corpo sia dissolto da molto tempo, si avverte una virilità e un fascino tangibili come la vecchia poltrona che occupano.
Molti amici mi chiedono perchè io non cambi casa e gli amanti si meravigliano perchè non li ospito per la notte e anzi mi rifiuto categoricamente di fare l’amore
anche di giorno.
Come spiegare che l’unica volta che presa da ardente ed incontrollabile ione, nel momento dell’orgasmo, mi sono vista circondata da esili figure, chi curva sul letto, chi accoccolata ai piedi, chi più discreta seduta lontano con le diafane mani sul volto.
Non c’è stato verso di fargli capire che così proprio non andava, che ero arrabbiatissima.
Con il candore che sempre li contraddistingue mi hanno confessato che dove stavano stavano benone, ma l’amore gli mancava tanto, in tutte le sue forme.
Infatti mi avevano spiato durante la cena e i primi approcci, facendo scommesse e confrontando i diversi costumi.
A queste parole mi indignai moltissimo e da quel momento la mia casa divenne un sacrario di castità.
Mandarono il più giovane a chiedere scusa promettendomi una copia dettata nientedimeno che da Madama Artemisia. Tutto ciò diffuse e alimentò la mia nomea di essere un po' matta. Come si poteva continuare a dormire in una camera da letto con mezzo soffitto pencolante sulla testa e i marmi divelti dal pavimento, che camminare equivaleva ad una corsa ad ostacoli.
Gli uomini della mia vita, ed erano moltissimi, testimoniarono sulle mie strane
reticenze.
Qualcuno cominciò a togliermi il saluto, il telefono cominciò ad essere solo un oggetto d’arredamento.
Nessuno comprò più i miei quadri, molti disdissero le ordinazioni ( e dire che erano in lista d’attesa).
Tornai ad essere povera e sola.
Unica via d’uscita partire, con dolore, ma partire.
Le cose da portare erano pochissime, in una notte feci i bagagli.
Mi guardavano e notavo che il loro bagliore era sempre più opaco, come fiammelle che man mano vadano spegnendosi.
Chiesi spiegazioni, mi dissero che quando qualche umano li accettava, aumentava la loro aura, addirittura con la possibilità di tornare per qualche breve attimo alle loro fattezze.
Piansi e cercai di abbracciarli. In quel momento li vidi distintamente ed erano proprio come li avevo immaginati. Mi accoccolai e li ritrassi, ricacciando le lacrime nello sforzo di volerli tutti proprio tutti riprodotti per me.
Senza accorgermene mi addormentai.
Mi trovai sul letto, nello scendere notai qualcosa poggiato sulla toeletta.
Un ritratto, piccolo, piccolo, mio, pensoso, dipinto da madama Artemisia. Lo avvolsi con cura nelle mie maglie di lana e seta, chiamai un taxi e chiusi la porta alle spalle senza voler guardare indietro.
Solo in aereo, trattandosi di un lungo viaggio, svolsi piano gli incarti, i loro ritratti scomparsi. Poggiai la testa sulle mani, avevo dunque sognato tutto? Ero impazzita o cosa?
Mi ricordai poi del ritratto fattomi da Artemisia. Mi chiusi nel bagno, aspettai un po' per guardarlo, prima lo toccai, la pellicola pittorica c’era e poi? E poi c’era lei, un magnifico autoritratto inedito, autentico, di inestimabile valore.
Bellissimo
con un’ombra beffarda sul viso solo a me percettibile.
Mi stringi ancora una volta?
“ Mi stringi ancora una volta? Ho freddo”
Non era vero.
Lo ricordo come fosse adesso.
Impossibile avere freddo in quella terra riarsa, accecante.
Volevo semplicemente le sue braccia intorno al mio corpo. Esili, candide braccia di bambina.
Ogni estate la trascorrevamo lì in quel paese brutto, povero, senza arie da presepe.
Poche case a far da pareti ad un’unica strada che serviva a tutto.
Soprattutto a fuggire.
Dalla miseria, gli stenti, il dolore della fame.
Un dolore che ti condiziona ora per ora con le sue insistenti richieste.
Abitavo nel palazzo padronale, un’infilata di stanze, una dietro l’altra, avvolte in una penombra costante.
Dovevo rispettare, durante i primi giorni, il calendario imposto da mia madre.
Il primo giorno era dedicato alla terra. Con il calessino si partiva per il controllo di prodotti e braccianti.
“Scendi Sandrì vieni a salutare”
Mia madre mi tendeva le mani, ossute, seppur giovani, il cappello di paglia le nascondeva completamente il volto.
Immaginavo alle volte che dietro quell’ombra non ci fosse più lei, ma un demone. Sfilato il nastro dal sottogola sarebbe apparso in tutto il suo orrore.
“Chetati Sandrì” mi diceva abbracciandomi nel grande lettone, quando ricorreva questo sogno.
Non solo mi apparivano cose strane durante il sonno, ma anche da sveglio.
“E’ un guaglione sensibile” sentivo sussurrare dietro di me.
Sensibile.
Questa parola non salvava dalla paura, dai lupi mannari che sentivo rantolare di notte, dalle bianche streghe che accorrevano al mio aggio quando pedalavo dietro la canonica di zio prete.
“O prevete”. L’arciprete mio zio.
Durante il pomeriggio lo spiavo dormire, le mosche ronzavano sul suo naso.
Chissà perché a una certa età i nasi si deformano, le persone cambiano.
Io pregavo, ogni sera, che mammà non cambiasse mai, che rimanesse bella com’era, così come la vedevo dormire nella sua camicia da notte, i lunghi capelli, meduse sul suo cuscino.
Quell’odore! Il profumo del bucato, il bianco intenso ha un odore inconfondibile. In ogni cassetto fra la biancheria riposavano sacchetti di lavanda, cuciti a mano.
Ti immergevi nelle lenzuola scrocchianti provando lo stesso delizioso piacere che dà un bagno nella vasca dopo ore di carrozza.
Il giorno del saluto o delle cerimonie tutti mi offrivano un dono. Grappoli d’uva, fichi, fichi d’India, arance, pizzelle, pane appena cotto spezzato con le mani, crostate ancora calde.
Nulla al confronto del pane inzuppato nel vino, gustato con zì prete nel fresco della sacrestia, ascoltando il silenzio interrotto dallo starnazzare delle galline.
“Vieni, corri Sandrì. O mamma mia, c’aggia fa?”
Mi aveva chiamato, riposavo nel frattempo sul suo letto un po' sudicio.
Fuori dalla porta la luce accecante del primo pomeriggio mi aveva trafitto. Misi a fuoco lentamente. L’aia senza recinto (chi vuoi che rubi ad un povero prete), quel cielo persecutore con quella luminosità abbagliante e le galline incerte sulle zampe, ubriache.
Il vino non era una bevanda alcolica.
“Bevi è spremuta d’uva!” Così la pensavano tutti. Quindi adatta anche a rinforzare magre galline stremate dal calore estivo.
Lo raccontai a scuola. La mia scuola di bambino borghese. Scuola di gesuiti.
Lunghe tonache maleodoranti a trattenere sofferenza e astio.
“Ma dici ò vero? Il prevete ubbriacò le galline. E morirono?”
Non morirono, ma quella fu l’estate delle galline ubriache.
Il secondo giorno c’era l’accoglienza. Nel mattino mammà dava udienza alla povera gente che si avvicendava in cerca di favori, nel pomeriggio alle comari che dispiegavano le ultime novità su corredi e modelli di abiti, alla “franciosa”.
Io spiavo dietro la porta. Riuscivo a rimanere silenzioso e in apnea per ore, assaporando l’andirivieni di femmine ossute, pettorute, culute, bellocce o racchie da far spavento.
Avevamo una serva, Luigina. Dormiva in una stalla annessa alla casa.
Dormivano in un camerone insieme agli animali.
Io c’ero stato.
“Vieni bello, nun avere paura, trasi”
La donna magra aveva occhi di rapace. Piccoli, intensi, intelligentissimi.
Avevo avuto timore entrando. Quella povertà era rivoltante, ti rombava nelle orecchie, ti assaliva con il suo fetore disperato.
Nessun tentativo di rendere meno misera l’abitazione. Il letto, stranamente un mobile di pregio, altissimo, dove dormivano, ancora in pieno giorno, due bambini piccolissimi era un insieme casuale di stracci rimediati.
“Potrebbero cadere” ricordo che pensai.
La donna intuì chissà il mio pensiero.
“Quando dormono sono piombi. Allo stesso modo del padre e dei fratelli”
Li avevo visti tornare dai campi.
Spesso avevo già cenato e mi mettevo ad aspettarli sulla porta di casa.
avano sul carro. Muti, sfatti. I bambini, alcuni della mia età, altri più piccoli, dondolavano inebetiti al ritmo delle ruote.
Nove anni. Quella la mia età.
Allora.
Mi guardavano alcuni dal carro. Troppo stanchi per parlare si interrogavano con gli occhi.
“E’ Sandrì il parente del conte. Beato a lui che mangia quando vuole”.
Li seguivo dietro l’angolo, ma rispettavo l’intimità delle loro case. Rimanevo sul ciglio. Sapevo cosa avrebbero mangiato dopo interminabili ore ate a piegare la terra.
Minestra e un pezzo di pagnotta, forse un bicchiere di vino.
A pranzo, appoggiati con le spalle ad un unico tronco non avevano avuto che pane e cipolle, o forse solo pane.
Il sole avrebbe continuato ad erodere la loro pelle, giorno dopo giorno, l’avrebbe scalfita, facendole del male non incontrando resistenza. I poveri tessuti mal nutriti avrebbero ceduto con facilità, così come le ossa piegate dai carichi, gli occhi annebbiati, ancor giovani dalla luminosità estrema e dall’assenza di vitamine.
La cucina dei poveri è essenziale, ma ricca di principi naturali.
Non è vero, la cucina dei poveri è povera, sdrucita, insufficiente.
Tornando a piedi, molti di loro si sono persi, la fame simile a droga, era stata generosa, dipanando davanti al loro sguardo visioni e allucinazioni assai suggestive.
Spesso dolenti, ma oltre la realtà.
E questo era già un dono.
Durante il primo giorno, quello dei saluti, molte mani brune mi avevano guidato nella scoperta.
“Sali su quell’albero tiene e’ fiche bbone. Vieni accà assaggia un po' di miele, l’aggio fatto io cò le mie mani” e mostravano arti che erano pale, vanghe brunite, mani di bronzo.
Fu proprio il suo pallore a sorprendermi.
Una bambina bianca in quel posto, pallida come una morta.
Chi era.
“E’ una cugina orfana degli Assummetta, quelli che un tempo tenevano l’uliveto sopra la valle.”
L’uliveto sopra la valle era una distesa di alberi a perdita d’occhio. Talmente compatto che manco riuscivi a raccogliere le olive con quello scuro.
Ricchi erano stati gli Assummetta. La signora vestiva con larghi vestiti di seta, sgargianti, abbondanti si muovevano al vento serale come bandiere di navi corsare. Emanava impettita superiorità, ma l’avevano vista spesso pisciare insieme alle contadine appena oltre la strada, dove inizia il boschetto nostro.
Forse pisciava contro di noi, chissà, come fanno i gatti per marcare il territorio. Immaginavo la veste sollevata sulle gambe grosse e provavo vergogna.
Poi il signor Assumetta si sparò.
All’improvviso caricò un fucile da caccia e si fece esplodere il cranio.
Si spappolò il cervello per le scommesse non pagate, andando a nutrire la folta schiera dei suicidi per debiti che avevano popolato quella terra senza cuore e distrazioni.
Il tempo adulto scorreva troppo lento, per me era diverso.
Poi ora che era giunta la bambina pallida, niente sarebbe stato più come prima.
Dovevo conoscerla.
“Mammà mi presenti alla bambina pallida?”
“Uh! Non se ne parla, quella è una morta di fame, domani arrivano le sorelle La Viola, quelle sò belle assai, tutte boccoli, la famiglia è meritevole, tengono parecchia terra e vigneti a non finire, poi lo sai…esse studiano a Napoli in collegio!”
E completò la frase come se stesse gustando un babà, un cannolo siciliano. Mancava si leccasse i baffi.
A me invece quelle lì non andavano proprio a genio, smorfiose, femmine vere, mi impaurivano con le loro grazie, quelle mosse che non sapevo se definire ridicole o attraenti.
Ridicole.
Si, meglio ridicole. In fondo non erano capaci nemmeno di salire su un albero.
“Oh! Sandrì mi si vedono le mutande”
Ma chi gliele guardava le mutande, mutande di donna con i nastrini. Nastrini dove fai pipì…figurarsi!
Uscii innervosito dalla notizia, scalciai con forza un sasso.
“Ahi! Mi hai fatto male”
La bambina pallida, l’avevo colpita alla testa. Mi avvicinai preoccupato. Dalla ferita sulla fronte, usciva molto sangue. Sfilai il fazzoletto dal taschino dei pantaloni e lo premetti con tutte le mie forze. Mi sedetti tenendo il suo capo in grembo. Aveva chiuso gli occhi. La sua pelle era così candida da poter contare il reticolo delle sue vene. Le palpebre vibravano lasciando intravedere una fessura. Da quella fessura, azzurra, lei mi spiava.
“Scusami” dissi soltanto.
“Mammà, corri, vieni subito” gridai impazzito, stravolto da quel mezzo sguardo che avevo intravisto.
“UUh! E che è successo. Svenne?” mi domandò sospettosa, comprendendo.
“Portiamola in casa” aggiunse poi perentoria.
Chiamò Luigina ed insieme la adagiarono sul letto.
“Vai a chiamare il dottor Montesano, che è il meglio cerusico di qua”
“Ma signora quello sta lontano all’altro paisi”
“Embè attacca l’asino al carretto e parti”
“Ma la bambina nel frattempo muore!” esalò commossa la contadina.
“No finché ci sto io”
Mia madre era così.
Si sentiva invincibile.
Sedette ai piedi del letto, per poi alzarsi, versare acqua profumata di rose nel catino. Imbevendo un panno di lino cominciò a spugnarle la fronte, delicatamente, concentrandosi perché la sua mano non pesasse troppo su quella che pareva una lastrina di marmo.
“Sta meglio” mi disse volgendosi di tre quarti.
Il sole ancora forte, stanco di non poter entrare, aveva facilmente aggirato la pesante tenda di velluto blu, disegnando i contorni delle due donne, evidenziando le loro differenze.
“Vattinn lasciami sola” e lo disse con durezza.
Chiusi piano la porta alle mie spalle. Perché prima mi aveva tenuto lontano da lei ed ora l’accudiva come mai aveva fatto con me?
La odiai, era un’intrusa nel mio tranquillo panorama domestico fatto di cose conosciute e rassicuranti.
Lei con quel suo aspetto da morticina aveva incrinato tutto come solo sanno fare le streghe cattive.
Era una di loro, una di quelle che vedevo are nei campi ed ora avrebbe fatto un sortilegio rubandosi la mia mamma o trasformandola in un essere orrendo, come avevo sempre immaginato.
Tornai indietro. Aprii la porta.
Rimasi paralizzato.
Ora mia madre l’aveva presa fra le braccia ninnandola.
“Mammà ho paura. Quella è uno spettro!”
“Non dire fesserie, non l’hai mica uccisa…per fortuna”
Mi dispiace, avrei volentieri aggiunto, ma mugugnai e mi accovacciai a terra piagnucolando.
“Eh! Che tieni, perché fai la lagna. Avrei dovuto sgridarti e punirti, non sei contento?”
No, no, che non lo ero. C’era lei fra le sue braccia. Quelle erano mie, le braccia della mia mamma.
Rimanemmo in silenzio per almeno un’ora. La fanciulla dormiva, con il suo bel fiato rosa e sereno mentre io mi rodevo.
Arrivò il medico, scompigliato, la giacchetta per storto, la polvere del viaggio a sbiancare la mantella gettata sul letto.
Prese la ragazza la distese sfilandole il cuscino da sotto la testa.
“Esci” mi intimò, quasi avesse capito che era colpa mia.
Provai ad origliare, ma parlavano sottovoce, non capivo una parola.
Dopo poco uscì e sulla soglia si voltò verso mammà.
“Mi raccomando dica alla madre che è assolutamente (e scandì le lettere ad alta voce) necessario il riposo e il cibo abbondante, altrimenti…” e lasciò in sospeso la frase perché fosse più appuntita.
“Ma non ha praticamente nessuno, è povera…” mia madre aggiunse, ma con un tono così basso che il dottore non la sentì nemmeno.
Io però sentii e capii.
Subito.
“Luigina corri dagli Assumetta e riferisci che la nipote erà un po' di tempo a casa nostra. Poi incarica il fattore che mi porti al più presto un paniere con formaggio fresco, bottiglie di latte appena munto, fichi e che domani macelli un vitellino…ah Luigina, prendi in dispensa le salsicce e un pezzo di salame e apparecchia in salone”
Poi si sporse verso la bambina e le ò una mano amorevole sul volto. Questa aprì gli occhi.
Occhi malinconici, spersi di agnello.
“Come va?” chiese mia madre
“Meglio molto meglio, grazie” Rispose la ladra di mamme.
Si toccò la fronte scostandosi la pezza umida, un ricciolo scappò dalla fascia, umido.
“Ciao” mi avvicinai e le presi una mano.
Aveva la consistenza di un uccello, indifesa, morbida, ma anche dura.
La tenni quanto bastava per fare un po' di scena.
“Hai fame? Dovresti provare a mangiare qualcosa” e mamma sostenendola provò a farla alzare.
La ragazza mise giù un piede dopo l’altro. Era scalza ed i piedi serici nell’oscurità parevano di cera.
Ricadde sul materasso.
La scena faceva, teatro, voleva prendere il mio posto con le sue moine. Peggio delle La Viola.
Ora le do una spinta avevo pensato.
Ma mia madre si intromise.
“Su coraggio. Se mangi poi ti sentirai meglio, molto meglio”
Sostenendola la condusse in salone.
Noi non ci mangiavamo mai in salone, solo quando veniva mio padre dalla città, oppure quando c’erano i ricevimenti importanti. Le amiche mammà le riceveva nel salottino privato.
Luigina aveva disteso sul lungo tavolo nero, dalla superficie di cristallo, una tovaglia del corredo, orlata da un lungo merletto di pizzo.
Appena mi fui seduto, spostando la sedia all’indietro cercando di fare più rumore possibile, infilai il coltello nel triangolo di merletto e tirai.
Il pizzo cedette come burro. Nessuno se ne accorse, ma io ne fui felice.
Silvia, la morticina come l’avevo soprannominata, mangiava appena, piluccando qua e là come farebbe un uccellino.
Era talmente graziosa, misurata ed elegante che cercai all’opposto di essere chiassoso e invadente.
Mangiai in modo esagerato, mi pulii con la manica della giacca e poi con il lembo della tovaglia, accavallai le gambe, dondolandomi sulla sedia che era appartenuta a non so quale avo, facendola scricchiolare penosamente.
Stranamente mia madre non disse nulla. In un altro momento mi avrebbe colpito con durezza .
Tutto ciò mi impensieriva.
Silvia fu messa a letto come si conviene ad una principessa e la povera serva Luigina fu obbligata a dormire in poltrona accanto a lei, cosa che peraltro fece con sommo piacere, abituata com’era a dormire nella stalla fra gli escrementi delle bestie e dei bambini.
Io mi coricai accanto a mia madre. Come sempre.
Più volte durante la notte mi svegliai per controllare. Avevo paura di non trovarla più, rapita da Silvia e dalle sue malefiche compagne.
Ma non dormiva. Anche lei era preoccupata.
Sospirava ed osservava il soffitto.
Il giorno dopo rimasi a dormire fino a tardi. Mi svegliai e cercai la mano di mamma a tastoni.
Il letto era vuoto. Il sole inondava la stanza, le tende sollevate facevano are la luce rendendo il camerone nudo nella sua sporcizia e vecchia trascuratezza. Mi sembrò di essermi svegliato in una casa che non mi apparteneva, sconosciuta.
La luce gioca brutti scherzi.
“MAMMA!” avevo urlato con forza
“La mamma è in cucina a preparare il pranzo” Era accorsa Luigina con il suo grembiule stinto e macchiato, i capelli scomposti e sporchi. Io volevo mia madre e il suo buongiorno profumato.
“C’è forse un ricevimento?” Tanto già intuivo la risposta.
“No. La signorina Silvia ha bisogno di rimettersi. E’ per lei che lo fa”
E’ per lei che lo fa.
Questa frase mi martellò il cuore.
E’ per lei che lo fa
L’ho perduta.
Entrai in cucina.
“Sandrì vieni amore, vieni a fare colazione. Sei talmente pallido, non hai dormito. Amore di mamma ” mi aveva abbracciato costringendomi a poggiare la testa sul petto. Sentivo il suo cuore sotto la vestaglia sottile. Anche quello era mio.
Non suo.
Sentivo che era lì, seduta accanto al grande camino.
La ladra fa l’indifferente.
Alzai la testa.
“Buongiorno Silvia. Dormito bene?” le chiesi educatamente.
Lei mi guardò con due occhi luminosi, chiari, di vetro.
“Si, molto” lo disse con semplicità, ma si vedeva chiaramente che era felice.
Una povera orfana ladra e felice.
“Ora ce ne scendiamo in giardino e andiamo a cogliere i limoni. Che ne dite bambini? Poi li ricopriamo di glassa e ce li mangiamo oppure ci facciamo un bel limoncello o la marmellata che tanto piace a zia Rosalina”.
“Andatevi a vestire, chi si sbriga per primo avrà un bel premio!”
Mia madre sembrava ringiovanita. Ridicola, pure lei stava diventando una femmina ridicola. Bastava che le femmine si mettessero in coppia e diventavano micidiali.
I miei vestiti erano già pronti sul letto. Mi preparai con estrema lentezza, evitando di pulire i denti e di pettinarmi.
Erano già fuori. Il nostro giardino era una meraviglia, esigente d’acqua, costava un patrimonio alla mia famiglia che ne andava fiera come di un parente professore. Mia madre l’aveva progettato insieme ad un celebre botanico olandese, di aggio per motivi di studio nelle nostre terre. Lo vegliava insieme ad un vecchio giardiniere dalle mani adunche.
Nel fondo erano le piante di limone, in questo periodo cariche di frutti. Di solito li lasciavamo cogliere al fattore o al giardiniere. Spesso Luigina vi si avventurava senza permesso per raccogliere qualcosa per i suoi numerosi anemici figli.
Oggi era giorno di festa. Mia madre tornata bambina aveva voglia di giocare ed io l’avrei accontentata.
“Chi è che si arrampica per primo?” aveva poi chiesto a me e a Silvia.
“Facciamo a sorte” avevo suggerito.
“Bene” fece mammà e si inchinò a prendere tre ramoscelli. Uno lo spezzò e lo mischiò con gli altri senza guardare. Poi mise la mano dietro la schiena.
“Chi prende il corto sale per ultimo”
“Silvia quale scegli? destra, sinistra o centro?”
La bambina sfiorandosi il mento scelse la sinistra.
“Ultima!” gridò mia madre non so perché, brandendo il ramoscello spezzato.
“Bene andiamo” e prese il paniere invitandoci a seguirla.
Il posto dei limoni era un paradiso nel paradiso. Fresco, riposto, un nascondiglio ideale per fantasticare.
Ricordo ancora il vestito che mia madre indossava quel giorno, azzurro cielo con righe più scure. Lo legò sulle gambe con il lungo nastro del cappello con l’esilarante effetto di assomigliare ad un salame.
Salì per prima con l’agilità di un gatto.
Cominciò a lanciare limoni ridendo.
Anche noi ridevamo schivando i frutti per poi riporli nel canestro.
Scese arrossata e felice
“Non mi sono mai divertita tanto nemmeno da bambina. Ora tocca a te Sandro. Vai”
Mi aveva chiamato Sandro non Sandrì o Sandrino. Per la prima volta.
“Non mi va” dissi indolente “è un gioco stupido.
“Va bene” e mia madre non si scompose “fammi però un piacere. Rientrando fatti dare la scala da Luigina, preferirei che Silvia salisse con quella. E’ ancora troppo debole per arrampicarsi con le sue sole forze”
“Ubbidisco!” scherzai mettendomi sull’attenti “te la porto subito”
Non era necessario chiedere alla serva, sapevo bene dove si trovava. Nel casotto degli attrezzi, di fianco all’ingresso della stalla. Mi ci nascondevo durante i temporali o quando papà e mammà litigavano.
Entrai. Mi chiusi la porta dietro le spalle.
La luce entrava da una finestrella con una grata.
Ma era più che sufficiente. La scala era di legno pesante, ogni asse trasversale imbullonato ai verticali.
Sapevo dove Toto il fattore teneva la cassetta degli arnesi da lavoro. Avevo usato più volte i suoi attrezzi per costruire o smontare oggetti. Ero abile soprattutto nel fare gli aquiloni.
Allentai i bulloni degli ultimi gradini. Doveva arrivare il più in alto possibile perché la caduta avesse un senso.
Per me un senso ce l’aveva. Avrebbe risolto ogni cosa. Meglio toglierseli subito certi dubbi.
Mentre uscivo, la luce mi accecò.
Per trattenere la scala non mi accorsi dell’aquilone.
Lo calpestai. Senza abbassare lo sguardo l’avevo capito dal rumore che fece.
Crac.
Natale
Il bambino guardò fuori. Il camioncino su cui si trovava traballava sul vecchio acciottolato di Roma e ad ogni curva i vasi incellophanati con le stelle di natale gli franavano addosso.
“Papà fermate ce sta na’ piramide, uguale identica a quelle delli antichi egizi…”
Il padre non si voltò nemmeno, era in ritardo con le consegne, già gli davano due soldi quegli spilorci dei grossisti, figurate fermasse pe faje vedè la piramide. Ma che je ne fregava poi, poteva giocà la de dietro, e invece, papà che è questo, che è quest’altro. Come se lui c’avesse tempo da perde appresso a lui. Mannaggia alla madre, quella sfaticata, se lo poteva tenè lei! Doveva stirà la biancheria dell’altri, era vero, ma poteva puro chiede a qualcuna delle comari del palazzo o della parrocchia, de tenesselo.
Almeno se stesse zitto!
Transitarono su via Marmorata imboccando il lungotevere. Il traffico prenatalizio ingorgava la strada costringendo il camion ad un’andatura a singhiozzo. Il bambino aveva legato disordinatamente un capo del tendone cerato che copriva la parte posteriore e osservava attentamente.
L’isola Tiberina, Regina Coeli (lo vedi lì ce so stato, fu l’unica notazione del padre), Castel S. Angelo (perché ce stanno l’angeli sopra ar castello, che me rappresenteno?), il Palazzaccio, le Belle Arti, il Foro italico, Tor di Quinto.
Una frenata e l’attesa.
“Daje piccolè, damme na mano a scaricà”. Finalmente poteva sgranchire le gambe. Saltando giù si accucciò come un gatto, quasi per attutire l’urto sull’asfalto.
Aveva le mani gelate, gli dolevano, stentava a stringerle intorno ai vasi. Non doveva lasciarli cadere, il padre non lo avrebbe perdonato. Che natale sarebbe stato? Già così non era un gran che. A ogni festa i genitori se menavano, certe volte puro con gli zii e le zie. L’anno scorso la nonna aveva chiamato il 113. Che bellezza tutte quelle luci rotanti che tagliavano la strada e i poliziotti con le divise e la pistola su un fianco.
A lui i poliziotti, je parevano tutti forti. Gliel’aveva detto al padre, da grande vojo fa er poliziotto. Ma il padre i’aveva dato un fracco de legnate senza fiatà, senza daje nà spiegazzione.
“Aò te movi!” lo riscosse il padre. Il fioraio stava contando le piante.
Un tipo secco con i baffi li squadrava. “Ma j’hai dato da magnà a quer regazzino, pare scavato dai topi!”
“Bò, me pare che la madre stamatina j’ha dato na’ tazza de latte co’ li biscotti”
“Viè, viè qua, che te do na’ cosa”. L’uomo si frugò in tasca allungandogli un
biglietto da dieci euro e una stecca di cioccolato.
Nel darglieli gli strinse le mani.
“C’hai freddo, è vero? Puro io all’età tua c’avevo freddo, freddo e na’ fame che non ava mai. Mò c’ho freddo n’antra vorta. Lassalo perde a tu padre, quanno che potrai scappa, senti a me che ce so ato. E tu madre?”
Il ragazzino mise in tasca i soldi e scartò la cioccolata. Appallottolò la carta lanciandola in aria per poi calciarla.
“Mì madre? Bò?” disse.
Guardò il padre. Si era allontanato con una puttana, ormai lontani nel campo si intravedevano a intermittenza fra i cespugli.
“Lo sai chi è quella?” gli chiese l’uomo con i baffi.
“E’ na’ mignotta. So regazzino, ma le riconosco, ndove abito ce ne sò tante!”
“Vuoi entrà?” disse indicando il gabbiotto
“Magara” rispose il bambino. Non si sentiva più i piedi. Je sarebbe piaciuto na’
cifra comprasse un paro de scarpe da ginnastica, di quelle gajarde, americane, che soffiano dalli buchi e so puro calde.
“Te posso fà un po' de caffè, non è roba da ragazzini, ma non c’ho altro. Aspetta guardo se m’è rimasto un po' de latte in polvere da scioje dentro all’acqua calda” e l’uomo cominciò a rovistare nei cassetti.
Erano pieni di sporcizia, vecchi scontrini, caramelle senza carta, cioccolatini, pezzi di spago, mozziconi di candela. E una pistola.
“E’ vera?” chiese
“Certo. Colla gentaccia che gira de notte….La voi vede?”
“No”. Il bambino si alzò ed uscì nell’oscurità. Fuori aveva visto in vendita gli alberi di natale.
Li annusò, doveva essere quello l’odore delle case dei ricchi durante le feste. Chissà com’erano co’ la neve sopra e i regali sotto co’ tutte le carte colorate e li nastrini che pendevano arricciolati.
“Lo voi? Uno piccoletto te lo posso regalà. E tu che me dai?”. L’uomo si era accostato, l’alito gli puzzava.
Il ragazzino saltò sul camioncino sbilenco. Mica era la prima volta. Quanno
c’aveva fame lo faceva. Però pe’ niente mai. Era peccato.
“Però lo vojo grosso, no piccoletto. E puro co’ le radici, così lo posso ripiantà”.
Questo pensiero gli piacque molto.
Anche lui avrebbe avuto qualcosa di suo.
Il bambino Alex
Il bambino Alex (in realtà il suo nome stava per : aggraziato, lieve, extravagante. Ogni nome racchiude sempre una storia) viveva in una città di mare, dove spesso i pesci si rincorrevano sui marciapiedi e i delfini stridevano sotto le finestre per darti il buongiorno.
In questo ridente e salino agglomerato di case, colorate e lucide come caramelle ciucciate, i soli animali con cui i bambini potevano giocare erano dunque animali marini.
Ce n'era una gran varietà. Non solo, ma trovavi pesci d'acqua salata mischiati a quelli d'acqua dolce perché il delta di un bel fiume, grasso di affluenti, si trovava poco lontano. Potevi perciò imbatterti in salmoni che risalendo lungo la parte finale si scontravano con sogliole distratte (lo credo con quegli occhietti appiccicati tutt'e due dalla stessa parte!), mentre sirene disorientate discutevano animatamente con rane vanitose spinte dalla curiosità ad uscire dal canneto.
Alex amava quel variopinto mescolarsi di lingue ed odori. Certo non era sempre piacevole durante la prima colazione essere investiti da zaffate di pesce, soprattutto mentre si gusta un bel cornetto ripieno di crema all'amarena!
E poi i colori! Sempre sfavillanti. La luce dell'infuocato mezzogiorno come la dolce, già assonnata, del tramonto faceva brillare scaglie e corazze, ventri lucenti e pinne frastagliate.
Nella sua città, sarà stato per tutto quel frastuono giocoso (sapete, i pesci hanno un ottimo carattere…soprattutto in assenza di pescatori), non c'era tristezza, i bambini non piangevano mai e gli adulti giocavano con loro, rinunciando spesso ad andare a lavorare.
Tanto erano tutti molto ricchi Accanto al paese sorgeva infatti una corona di monti, forati da miniere d'oro e diamanti, dove gnomi ingordi lavoravano volentieri, purché venissero sfamati con pasti giganteschi e frequenti.
Gli gnomi, nonostante la statura ridotta, riuscivano ad ingoiare uno struzzo tutto intero, in un solo boccone e fra una discesa e l'altra nelle viscere della terra sgranocchiavano polli arrosto come noi faremmo con i bruscolini.
Accanto alle miniere, grosse cucine scavate nella roccia erano attive giorno e notte e vi lavoravano gli elfi rapaci così chiamati non perché fossero temibili predatori, ma perché avevano ali potentissime che permettevano loro una straordinaria velocità dei movimenti.
Individuavi un rap (così venivano definiti per comodità) in un angolo impegnato a scodellare una zuppiera titanica piena di fusilli al pomodoro? Bene, dopo nemmeno un attimo lo avevi già perso di vista, sparito, avvolto dalle nebbie dei megaforni dove rosolavano centinaia di polli.
Non dovete comunque farvi l'idea che i bambini nel paese di Alex non studiassero.
Accidenti era tutto il contrario. Poiché le scuole durano meno (tre classi di elementari, due di medie e due di liceo) e l'orario era più corto (dalle 9 alle 12 e
30) i ragazzi si concentravano moltissimo, riuscendo a memorizzare per lunghi anni tutto ciò che maestri e professori gli insegnavano.
Veramente un trucco c'era. Ogni mattina gli uscieri della scuola con indosso divise eleganti con i galloni d'oro sulle spalle, accoglievano gli studenti con calici traboccanti di mirtisukk, una bevanda a base di mirtilli montani, energetica e stimolante, mentre a merenda le signore fornaie avano offrendo loro panini fragranti alla soia campestre (dal lungo stelo giallo intenso) utile per dissetare le cellule cerebrali.
Tutto filava perfetto nella vita di Alex…almeno fino a che…
Tutto accadde per un maledetto caso.
Quel giorno Alex aveva avuto il permesso di andare a fare una eggiata. Il cielo era striato da nuvole fucsia e tutto il popolo del mare pareva stranamente eccitato.
Le sirene parlottavano fra loro agli angoli delle strade scuotendo i lunghi capelli variopinti. I tritoni giocavano con le nereidi tirandosi palle di alghe e oloturie (che non gradivano affatto di essere lanciate in quel modo!), serpenti marini si esibivano in acrobatici balletti formando anelli in cui si tuffavano piccoli delfini argentati. Era uno spettacolo rasserenante e gioioso, ma Alex sentiva in fondo al cuore un' inquietudine strana, mai provata prima, che quasi gli impediva di respirare.
Decise di fare una cosa avventata che gli era stata sempre vietata, non solo dai genitori, ma anche dagli insegnanti: arrivare al fiume.
Sapeva che il fiume conduceva in paesi dove i pesci venivano catturati con ganci che gli squartavano la gola e dove i polpi e i polipi, così simpatici e intelligenti, venivano sbattuti sul pavimento finché non gli si spappolava il cervello.
Decise comunque di andare, non si sarebbe spinto lontano, voleva solo sbirciare un po', magari scambiare quattro chiacchiere con i rospi che hanno fama sì di essere scontrosi, ma anche di conoscere storie antichissime.
Giunse al delta, vasto e immobile come un lago di montagna. Lì tutto era silenzio. Troppo. Abituato all'interminabile chiacchiericcio delle creature acquatiche questa assenza di canti e di suoni quasi lo soffocò. Il sangue martellava nelle sue orecchie e i colori intorno a lui si spensero.
Non più accesi arancioni e gialli e rosa carico, no, soltanto infinite varietà di grigio e marrone, a rendere sporco e infangato quel mondo sconosciuto.
Ormai era una scommessa con se stesso e decise comunque di avanzare. I canneti bordavano il corso d'acqua simili a sentinelle minacciose e si avvertivano sotto la melma mista alle canne spezzate e alle alghe putride i tonfi di animali forse mostruosi.
Non aveva incontrato né rane né rospi forse invitati alla festa che si era appena lasciato dietro le spalle. Si sentì un cretino ad aver abbandonato la serenità giocosa del suo paese per questa landa desolata dove pareva non ci fossero esseri viventi.
Ad un tratto avvertì un sibilo e poi un verso strano, gutturale. Mai aveva sentito nulla di simile, nemmeno i granchi giganti dalle lunghe chele di ballerini facevano versi così.
Si accovacciò dietro un cespuglio spelacchiato. Nulla. Il rumore era cessato. Avanzò ancora prudentemente, le mani nelle sacche piene di sassi.
Ora la vegetazione era cambiata, non più canne, ma cespugli sofferenti. Fra un cespuglio e l'altro carte e strani fogli con impresse lettere e visi di persone.
Nel paese di Alex non esistevano i giornali, araldi velocissimi divulgavano quello che era importante sapere.
Ne afferrò uno. Si vedeva una mamma. Aveva fra le braccia un bimbo morto, con la testa ciondoloni. Doveva essere la mamma, perché mai prima di allora aveva visto un volto tanto triste. Dietro di loro si intravedevano strani fuochi come quelli che sparavano sul mare al suo paese.
Quel macigno che gli aveva serrato la gola fino a quel momento si sciolse, si sciolse in un pianto disperato. Non aveva mai pianto e quelle gocce d'acqua sul suo viso lo atterrirono. Per prima cosa alzò gli occhi al cielo, sicuro stesse piovendo, poi quando capì che erano i suoi occhi a produrre i goccioloni, il suo piantò aumentò e fu vinto dalla paura.
Si sdraiò a pancia sotto e le lacrime si mescolarono alla terra Alex pareva assorbire tutto il dolore che da tempo immemorabile la Terra aveva incamerato, quasi ormai stanca se ne volesse disfare nel petto e nel cuore di quel bambino innocente.
Sarebbe forse morto.
Ormai il viso era ridotto ad una maschera di fango e fango stava ricoprendo il suo cuore. Si sarebbe seccato formando una crosta e impedendogli di tornare a vivere.
Stette così per un tempo infinito e quando ormai il pomeriggio stava dileguandosi nella notte, un calore delizioso lo pervase.
Cominciò dalle mani per risalire lungo le braccia, sulle spalle e la schiena, poi lo sentì pervadere le gambe indolenzite e i piedi ormai ghiacciati.
Era come se un liquido benefico venisse versato sul suo corpo. Potevano essere elfi coppieri.
Ora avrebbe aperto gli occhi.
No. Avrebbe contato fino a dieci.
Anzi fino a venti.
Arrivato a nove, spalancò gli occhi.
Spalancò gli occhi per poi serrarli con la stessa forza.
Un mostro ecco cos'era. Un mostro dal pelo raso, marrone scuro come tutto ciò che lo circondava.
Si paralizzò in attesa di essere fatto a pezzi.
Di nuovo quel calore. Sbirciò da sotto le palpebre. L'essere lo stava leccando e un po' di bava era ancora rappresa, come lumaca, sulla sua mano.
Che schifo, pensò ritraendola.
Vide che il mostriciattolo si era acquattato e lo guardava di sotto in su, quasi fosse dispiaciuto.
Superato il ribrezzo lo osservò con attenzione.
Brutto era brutto, non assomigliava a nessuno degli animali che popolavano il suo mondo. Forse era uno di quegli esseri mitologici, i topi o ratti, che sapeva abitavano la palude fra i canneti.
Si, forse era uno di quelli.
Il mostro depose una zampa nel grembo di Alex.
Il bambino non si mosse, ne osservò il polpastrello ruvido risalendo alla zampa ossuta.
L'essere non contento appoggiò il muso proprio sulla mano di Alex spingendola lievemente.
Il ragazzo comprese la sua preghiera e cominciò ad accarezzarlo, prima con esitazione, poi con sempre maggiore convinzione. Il contatto con il suo corpo caldo lo rimise al mondo.
Aveva occhi neri e dolci, diversi dagli occhi spiritati dei pesci o da quelli suadenti delle sirene. Occhi in cui respirare e trovare riparo.
D'improvviso non gli fece più tanto schifo e trovò che era un essere simpatico.
Decise pertanto di portarlo con sé.
La notte era ormai scesa sul fiume. Faceva freddo e l'umidità raggelava le ossa fin nel midollo.
Un piede dopo l'altro si ritrovò immerso nella melma.
Ed ancora pianse. Le lacrime questa volta bagnarono il pelo dell'animale che Alex stringeva al petto in cerca di conforto. Che durò ben poco.
Infatti rotolò nel buio di nuovo quel rumore inquietante udito qualche ora prima.
Si fermò cercando di non respirare. Forse se rimaneva immobile la creatura del fiume non lo avrebbe scovato.
Il grido soffocato e profondo riecheggiò nuovamente.
Si rese conto di non avere più fra le braccia il mostriciattolo.
E' finita, pensò. Lo hanno già divorato ora tocca a me.
Ed una grande tristezza lo pervase pensando al piccolo amico appena incontrato e già perso.
Poi qualcosa lo urtò e si strofinò contro le sue gambe nude.
Era vivo, per fortuna. Si inginocchiò e gli raccolse il muso fra le mani, come era solito fare con i polpi prima di iniziare le gare di discesa subacquea. Questo però era infinitamente più tenero e, anche se puzzavano allo stesso modo, sentiva che dopo questo incontro la sua vita non sarebbe stata più la stessa.
Mente lo sfiorava dietro le orecchie comprese che lo strano rumore proveniva dalla gola del suo amico, era il suo linguaggio.
Lo esortava.
Decise di seguirlo nell'oscurità.
Ben presto videro le prime luci della città e sentirono il frastuono della banda.
Prese nuovamente fra le braccia l'essere e lo nascose sotto la giacca.
A pochi metri dalla sua casa incontrò i genitori. Erano seduti su una panchina e si abbracciavano. Al loro fianco sua sorella, dalle trecce impettite come soldatini, dormiva beata con il visino rivolto alla luna.
" Dove sei stato?" gli chiese semplicemente la madre.
Al suo paese nessuno faceva mai scenate e i genitori potevano, in caso di estrema necessità, estrarre dalla tasca fiammiferi magici nella cui luce leggere i pensieri dei figli.
La mamma di Alex fu investita da un'onda di tristezza indicibile. Rimase senza respiro per qualche attimo.
"Vai a casa e porta con te la bambina" disse al marito.
Prese Alex sulle ginocchia e lo abbracciò stretto. Poi soffiò sui suoi occhi e la malinconia scivolò lontana da loro, come un ladro messo in fuga dalle sirene.
Alex si sentì subito più leggero, nuovamente felice e la mamma riprese il suo colorito naturale, un meraviglioso fior di pesca.
"Mamma devo farti vedere una cosa" ed estrasse dalla giacca l'essere suo amico.
"Mi ha salvato la vita"
"Lo so, ho visto tutto" disse la mamma.
"Ti prometto che non andrò mai più in riva al fiume…ma tu permettimi di tenerlo!"
La madre, che aveva già deciso in cuor suo di custodire l'animale, lo prese delicatamente e gli sorrise.
"Sai cos'è?"
"No" rispose il bambino
"E' un kane" aggiunse la mamma
"Un che?"
"Un kane. Sono esseri che vivono al di là del fiume. Non lo far vedere a nessuno, potrebbero scacciarlo, è talmente diverso dai nostri animali!"
" E tu come fai a conoscere il suo nome?" chiese Alex
"L'ho visto sul libro dei mostri. Me l'aveva regalato mia nonna a Natale. Era una bellissima storia ed io per molto tempo desiderai averne uno"
" Come si chiamava mamma quel kane, te lo ricordi?"
" Me lo ricordo perfettamente. K'arma era il suo nome."
"Ma è il nome del re degli Elfi!"
"Si, Alex, è proprio il nome del re degli Elfi. K' arma, Colui che non mente. Entriamo in casa, ora."
Il padre aveva preparato i biscotti rilucenti e la casa era colma del loro scottante profumo.
Il bambino poggiò delicatamente a terra il kane e ne prese uno. Brillava nel palmo della sua mano.
Simile ad una lacrima.
Avvertì alle sue spalle la presenza della madre.
Si voltò.
"Sei diventato grande" gli disse semplicemente.
Ed Alex si inchinò per porgere a K'arma un rilucente.
La stanza chiusa
La stanza era chiusa.
Quella degli aquiloni. Dove avevo ballato per l'ultima volta in punta di piedi.
Da quella, sola, finestra si poteva vedere il sole spuntare dietro le colline, lontane, tanto simili ai denti di uno squalo perso nel profondo.
A destra è il lungo corridoio, arriva nel salone, dai toni rossomaliconico, dai tendaggi pesanti a riparare dalla paura dell'inverno.
Qui ho volato, combattuto, sognato, leggendo ogni libro della biblioteca di famiglia.
Libri, schierati in ordine militare, annotati, analizzati, custoditi dal bibliotecario.
Il calvo signor Klein, dalle molteplici parrucche.
Quelle setole morbide e inanellate che scovavo ogni tanto sedendomi.
"Herr Klein il suo toupet!" e gli sorridevo.
Ero fatta così, beata, ignara di ciò che avveniva dietro le colline.
La mia grande, immensa casa nascondeva mille tesori ed ogni giorno era un'avventura magnifica, aprire porte dipinte o intagliate e scoprire salottini, ànditi, boudoir con utensili, suppellettili, piccole collezioni di oggetti, alcuni esotici, sfiniti dagli strati di polvere, esausti dalla lunga, lunghissima dimenticanza.
Ci pensavo io a risvegliarli dal torpore, ero la loro apparizione benefica, la maga che fa rinascere la natura addormentata dal lungo e rigido sonno invernale.
Il mio letto sorgeva al centro di una stanza poligonale dove non esisteva vuoto o spazio che non fosse riempito di ornamenti, stoffe, mobili intarsiati dai Von Kleist.
Si narrava fossero morti mentre tornivano l'ultima gamba del mio armadio.
Mi piaceva are le mani sui preziosi decori di legno, le statue in rilievo, i festoni di frutta e fiori, i ritratti spaventosi di demoni ossuti, le facce lievi degli angeli, sempre sorpresi un attimo prima di scoppiare a ridere.
Gli armadi erano tanto vasti da permettere il mio ingresso, mi aggiravo fra i pesanti broccati, frusciavo fra sete opalescenti o lucide, annusavo il nuovo, starnutivo al vecchio degli abiti già consunti di bambine che prima di me
avevano abitato questa stanza.
Prima di me.
Dopo di me.
Per chiamare Delphine avevo un camlino d'argento.
"E' molto, mooolto prezioso" mi avevano detto
Ed io lo rigiravo chiedendomi cosa mai ci fosse di tanto prezioso in un oggetto così piccolo, che non respirava, né piangeva, né faceva sussultare la pancia in una risata.
Il regno delle risate era la cucina. Le sentivi avvitarsi dal basso per poi scrosciare giù a perdifiato lungo gli scaloni di pietra insieme ai profumi che invece salivano a spirale ed io provavo a catturarli con le mani, immaginando di vederli trasformarsi nei cibi a cui corrispondevano.
Ed oplà ecco il grande tacchino ripieno, il pollo alla frutta esotica, l'arrosto di montone con fagioli ucraini, il petto di salmone levigato con petali di asfodelo, le pizze composte da dieci strati diversi, torri di pane fragrante, da cui scivolavano dense lacrime di formaggio, rivoli di salame, ibiscus di zucchero filato irrigidito sulle punte dallo sciroppo cristallizzato, torchon mille gusti in cui erano mischiate cento e più varietà di biscotto, mattoni istoriati con stemmi di cioccolato speziato delle Americhe.
Seguivo gli odori perdendomi sulle coste di paesi lontani, fluttuando dietro i velieri come un delfino festoso.
Ogni volta che entravo in cucina venivo sollevata e accarezzata, ero sfoglia croccante e mi impastavano di baci.
"Vieni qui cocca mia…"e mi porgevano un pasticcino
"Vieni qui agnellino del mio cuore.." ed un cuoco tagliava per me uno spesso strato di arrosto
"Benvenuta colomba!" e una salsiccia rotolava nella mia mano.
Il sole tramortiva i pesci ancora vivi nelle grandi vasche poste al centro, rimbalzava sui rami appesi ai muri anneriti dai vapori, sui pentoloni riarsi del camino monumentale, sulle mensole stipate di barattoli.
Ed io mi sentivo felice, un fagiano ricolmo di castagne e bacche della Linguadoca.
La giornata non era mai lunga. Delphine acconciava i miei capelli cantando nenie provenzali dall'accento marino, mentre Eloise attendeva sulla porta per impartirmi le lezioni della mattina.
Unica alunna nel grande studio osservavo le sue lunghe mani pallide tentare di fermare la mia attenzione, attratta dalle carte geografiche dipinte sulle pareti dal mio avo Chartre, dalle superfici levigate e ingiallite dei mappamondi di Slovenia, dagli ultimi scaffali dove erano i libri proibiti.
"Raccontami, Eloise di quei libri, perché non posso leggerli?"
Lo chiedevo continuamente per il gusto di vederla arrossire. Non mi dispiaceva crearle quel lieve imbarazzo, quel rossore pareva risalire dal cuore e con il cuore mi rispondeva.
"Si parla d'amore"
" Cosa c'è di proibito nell'amore?" chiedevo
L'amore non era forse quello dei cavalieri, delle dame sospiranti, delle martiri?
C'era dunque un altro amore tanto cattivo da doversi nascondere?
In alto in quell'ultimo ripiano dove non arrivava nemmeno la lunga scala scorrevole.
Se era così avrei fatto di tutto perché quell'amore non si avvicinasse mai, l'avrei tenuto a bada come nelle campagne le mandrie di cani selvatici.
Nel pomeriggio studiavo pianoforte e le mie mani piccole percorrevano a stento la lunga tastiera nella speranza di cavarne suoni melodiosi, che parevano non arrivare mai.
"Abbi pazienza" mi raccomandava Herr Hoffmann
Certamente ne avevo, soprattutto perché dopo ogni sonata mi permetteva di ballare.
Allora scendevo dal seggiolino e indossavo le mie scarpette con la punta di gesso, curva allacciavo i nastri alle caviglie ed anche solo quel gesto mi rallegrava. Le gambe si alleggerivano sotto le striature del raso.
Saltellavo sulle punte rammentando gli insegnamenti dell'amata maestra Coppelia, partita un anno prima per una lunga tournée.
Il mio corpo si trasformava in una serie di armoniche curve, vene, arterie, la pelle stessa smettevano di appartenermi per divenire musica.
Herr Hoffmann suonava il pianoforte senza guardarmi mai ed io, nemmeno per un istante, volgevo i miei occhi socchiusi su di lui.
Alla fine del ballo, Delphine mi sollevava infilandomi una leggera vestaglia di tulle.
Il bagno era ormai pronto, la stanza invasa dai fumi odorosi di lavanda e gelsomino. Mi deponeva come un automa nell'acqua, dopo avermi slegato i capelli, che scendevano oltre il bordo di rame, sfiorando il pavimento.
Ogni volta fingevo una stanchezza eccessiva per poi risvegliarmi e sollevare l'acqua in schizzi sempre più portentosi come fuochi d'artificio. Delphine adorava quel gioco, si rialzava bagnata e ridente ed io la assecondavo volentieri.
Asciugava con minuzia e accuratezza il mio bellissimo corpo di bambina, indugiando sulle parti umide, cospargendomi poi di polveri impalpabili e aromatiche.
Questi bagni mi spossavano e spesso la mia testa adorna di coroncine intrecciate di fiori freschi, cadeva accanto al piatto della cena.
Allora Delphine e Stanislao mi sollevavano portandomi a letto, vestendomi delle mie camiciole di batista lasciavano scivolare il mio corpo, ancora caldo e madido del bagno, fra le lenzuola gelide rese calde dagli scaldini di brace.
Talvolta mi risvegliavo e vedevo chino su di me il volto bruno di Stanislao. Accanto intuivo la presenza di Delphine.
Qualcuno un giorno in cucina aveva parlato del loro amore ed io avevo chiesto ad Eloise se fosse simile a quello delle mensole alte.
Lei aveva atteso prima di rispondere.
"E' ancora peggiore mi aveva detto" ed il rossore le era scomparso lasciandola livida.
Ora capisco.
E comprendo.
Non c'è stata alcuna preparazione, nessuna lezione, nessun libro sfogliato, nessuna parola sussurrata.
Solo la paura.
E il dolore. Acuto penetrante. Mani che ti fanno ribrezzo. La tua pelle cerca di vomitarle, ma loro afferrano i lembi, sei una coperta troppo corta strattonata nel tentativo di essere allungata.
L'innocenza si disfa e vola simile allo zucchero a velo soffiato dalle superfici delle torte.
Non era giusto rinunciare a tutto questo.
Eppure qualcuno lo aveva deciso per me.
Che terribile ingiustizia dover percorrere ancora queste stanze cercandovi gli odori di allora e trovarvi solo il silenzio.
Chi mi libererà ora dalla paura dell'eternità?
La casa
Si rotolò nel letto. Non riusciva a dormire. L'onda l'aveva afferrata di nuovo.
Lei era immobile sulla spiaggia, presentiva il suo arrivo, come gli Aborigeni.
Era ridicolo cercare di mettersi in salvo, la colonna d'acqua si elevava improvvisa come un drago, scuoteva le sue scaglie e ti inghiottiva.
Si era vista innumerevoli volte fluttuare scagliata nel profondo degli abissi, prossima a morire con il consapevole denso dolore di lasciare, così su due piedi, le persone care, a cui non aveva saputo dare un addio.
Sola, senza poter tornare indietro.
Si vestì con poca attenzione, non aveva il coraggio di specchiarsi. Il tempo stava ando troppo in fretta.
Della bambina prodigio non era rimasto più nulla.
Avrebbe preferito mille volte avere il cervello di un lupino (uno di quei semi che si masticano durante le fiere) e la sensibilità di una selce preistorica, piuttosto
che questi pesi che si trascinava appresso come un carrettiere.
"E' arrivato Zampanò, accorrete!"
Almeno quello spezzava le catene.
Che te ne fai del talento.
Sempre un diverso sei. Parli, parli, parli e parli. Tu sei lì e loro dall'altra parte. Incomprensione, varco profondo, un crepaccio primordiale, una ferita mitologica che non si rimargina mai, che non può rimarginarsi.
Morirà con tutto questo dolore dentro? Dolore o rabbia?
O paura.
Meglio non pensare, doveva guidare, cercare di arrivare a casa di sua nonna.
Ce l'aveva fatta, era riuscita a ricomprarla.
Erano ati anni a rotta di collo, ma lei non lo aveva accettato mai.
La casa della sua infanzia venduta per un pugno di fagioli come Giuseppe.
Le sembra di ricordare la prima volta che ci aveva messo piede. Impossibile, forse era un pensiero mutuato da suo padre.
Parcheggia in doppia fila lancia quasi le chiavi al posteggiatore.
C'è ancora. C'è ancora la fabbrica dei biscotti. Scende lentamente le scale, l'afferra quel sentore, l'imitazione di un odore buono.
"Desidera?"
Compra un chilo di tutto, comprese tre crostate dai colori di dentifricio, appena fuori lancia i dolci, con mira perfetta, nel cassonetto.
Dopo proseguirà la perlustrazione.
Doveva prendere le chiavi dal portiere.
Le ha prese, le tiene salde in tasca. Ora
Ora.
Esce di nuovo fuori dal portone scruta il palazzone borghese, grigio, impenetrabile, noncurante dell'assedio dei motorini e delle prue invadenti delle macchine.
Inspira, prova a varcare di nuovo quel portone trionfale più adatto a un barocco napoletano.
Il portiere la scruta dentro la guardiola, è una tartaruga, emerge solo la capoccetta.
"Non deve vedermi esitante" pensa "questa è casa mia."
Il giusto riscatto, quasi una casa potesse riscattare tutta un'infanzia persa nella caccia all'uomo nero.
A destra, la scala di marmo da cui aveva spinto sua nonna (bambina cattiva, lo vedi che sei una bambina cattiva).
Non voleva farle del male, voleva semplicemente vedere se si rompeva.
Per fortuna non si era fatta nulla. Forse il suo desiderio era stato solo quello di poter leggere l'orrore negli occhi di suo padre che l'aveva afferrata giusto in tempo.
Aveva avuto paura di perderla. E lei? Qualcuno aveva paura di perderla, di non trovare più il suo viso sul cuscino?
La porta di casa è identica, intagliata pesantemente. Le pare quasi di sentire posati sulla schiena gli occhi curiosi della signora Bersan, l'amica di sua nonna e madre di un attore famoso in quegli anni.
"Vieni, cara" e la in invitava in quella casa museo, oscura, con un profumo che ancora sente in gola.
Morta, anche il figlio, anche i nonni. E le viene da piangere. Anche se è successo tanto tempo fa. Per il dolore non c'è requie. Il tempo non fa dimenticare, diventa solo più familiare e per questo indimenticabile.
La porta cede, come un ingresso rimasto da sempre spalancato.
Ti aspettavo sembra dire.
Quanto tempo ci hai messo, guarda ho lasciato tutto com'era, odori, mobili, polvere, guarda ci sei anche tu che cammini con le tue scarpette e i calzettoni di filo nel corridoio.
Siedi sulla cassapanca e dondoli i piedini, liberi nel vuoto. Hai una coroncina fra i capelli corti con i fiori di stoffa.
Tua nonna è in cucina, nonno dietro la porta smerigliata dello studio, legge.
Sei felice, fra poco partirai per le vacanze. Con loro. Hai segnato i giorni con un pallino sul calendario della cucina.
Si alza e va nella camera da pranzo. Si inchina, rovista nel mobile. Profumo di dolci rimasto incastrato nel legno, misto ad un insieme di rottami del mondo inanimato conservato dal nonno incessante economo.
Prende la scatoletta grigia delle zollette di zucchero e garbatamente ne sfila due dall'incastro simile ad un domino e le lascia sciogliere in bocca.
Questo ho conservato per te sembra dire la casa.
Io ho avuto cura della tua infanzia come nessuno mai.
La donna fa scattare il vecchio interruttore. La luce abbrutisce ogni cosa. La spegne subito. Socchiude le vecchie persiane.
La casa è completamente vuota. I mobili venduti. Gli stipi magici, le cassettiere ricolme di cartoline, nastri, foto, vecchie scatole di medicine con i gioielli dentro (così i ladri non li trovano), le ricette segrete della pastiera napoletana, dei cannoli siciliani, del sartù di riso.
Non c'è più il baule con il corredo di merletto con le iniziali allungate in un
monogramma quasi regale, la violetta persa fra gli asciugamani, la toletta con lo specchio oscurato come quello di Biancaneve.
E quel letto immenso, una nave ammiraglia, in cui per ore e giorni aveva costruito sogni.
Da lì sentiva are la circolare sulle rotaie che graffiavano e stridevano e la notte vedeva le sue luci rincorrersi sul soffitto e si sentiva inutilmente felice.
Sua nonna era una creatura dei boschi, la stessa fragilità, la stessa corporatura di cristallo, i capelli fini, spersi intorno al capo, come un’aureola. Minuscola si affacciava alla finestra salendo su una pedana di legno che il marito le aveva fabbricato.
Quella finestra era in fondo parte di un presepe. Bastava spalancare le persiane ed il mondo era lì. Si sporgeva per calare il cestino di vimini in cui il nonno metteva la spesa, guardando nel frattempo sua nipote con quella bella faccia tracciata a carboncino.
Il nonno. Le loro teste chine nel fare i compiti, la sua aria severa ridotta all'osso dalla tenerezza.
Crescendo sapeva di averlo deluso. Ribelle, fuggita di casa poco più che bambina, amica di sovversivi.
La bimba spaurita si era trasformata in un'adolescente aggressiva, la gonna
scozzese giudiziosamente lunga al ginocchio, sostituita da pantaloni di velluto a coste, quelli dei contadini.
La testolina, dai pochi capelli dritti come spaghi, mutata in una cascata di capelli aggressivi, rossi.
Non sapeva suo nonno che dietro tanto accanimento c'era solo paura.
Un vuoto mai colmato da carezze, frasi tenere dette rimboccando le coperte della notte.
Doveva. Lei doveva scuotere spalle voltate, urlare in orecchie sorde.
Esistooooooooooo
Solo questo.
Ecco il salotto verde. Il salotto del riposo dei dolci. Divani e poltrone di velluto ormai raminghi per il mondo, sfondati in qualche casa marginale o sdraiate carcasse ad abbellire il bugigattolo di uno sfasciacarrozze.
Si immaginò di volteggiare fra le pastiere con l'arancio candito, i cannoli metà ricotta al cioccolato, metà no, i babà, le sfogliatelle ricce che tiri su con la bocca e la pasta si avvita precisa, gli struffoli lucidi di miele, il casatiello pasquale…
Pasqua, mano nella mano con i nonni. Le vie del quartiere Prati costeggiate dagli alberi fioriti. Peschi, prugni selvatici, ciliegi? Carichi di fiori rosa rassicuranti. E poi fiori ovunque nelle chiese dove si andava per fare i Sepolcri.
Un mondo di morte, dolciastro, eppure così familiare, accogliente nella meraviglia dei suoi colori e profumi.
Non poteva nascondersi nulla di spregevole fra quei petali.
In fondo era un aggio, di lì a poco il buio rancido si sarebbe dipanato in una luce sferragliante, sonora come treno.
E' vero la casa è intatta. Dopo la morte del nonno nessuno era riuscito più ad abitarla.
Spesso in sogno lei era tornata e che bellezza ritrovarlo vivo.
Poter richiamare le persone care anche giusto il tempo per chiedere un consiglio, consolarle se necessario, farsi spiegare.
Deve esserci una spiegazione, un senso, un filo rosso che tiene tutto. Se tira da una parte, lo allenti o lo riprendi. Ma lei non sa cucire, farebbe meglio ad usare le forbici.
In camera da letto c'è ancora la pedana di legno. Apre le persiane e sale sopra. Non ne avrebbe bisogno, è più alta di sua nonna.
"Buongiorno!" e sorride ai anti
"La vulite nà sfugliata?" E spezzetta una sfogliatella frolla lanciandola in strada
"Grazie, grazie assaj" e un giovinotto si toglie il cappello
"Gentilissima…dai Assuntina ringrazia la signora" e una mamma tira nervosa la giacchetta della figlia
Allora scende veloce e va nella stanza dei dolci. Le guantiere sono colme. Anche di gelatine di ribes e lamponi.
Sparge tutto sui anti.
Sotto le sue finestre si forma un capannello.
"Uhm, che delizia chisto babà"
"Giacomì e l'hai sentuto a chisto cannolo, la ricotta si scioglie inta a la bocca, com'a uno zuccherino"
"Guagliò, ehi guagliò ma chi sei ò Scaturchio? Ma non potemm saglì? Magari tieni nù poco e rosolio o centerba fatto dint'a casa?"
Basta
Sprangò le persiane e si recò al bagno per lavare le mani appiccicose.
Evitò di specchiarsi. Non sapeva che viso avesse ormai, né chi era al suo fianco.
"Dammi almeno la mano" disse
Certo. Era lì per loro.
Si sentì stringere da entrambe le parti. Lievemente. Con garbo, come si conviene a gente perfettamente educata.
Finalmente avrebbe saputo.
Il ricordo vago e doloroso, travolgente gigantesca onda, l'aveva inseguita implacabile per molto tempo.
"Cosa è successo nella stanza?" chiede
Udì un soffio
"Accomodarmi?" Urlò
"E perché? io voglio sapere, vi ho ricomprati, liberati dal peso opprimente di estranei barbari acquirenti, ora voglio la verità."
La stanza da letto è di nuovo ricomparsa. La toletta dal ripiano di marmo su cui sono allineati la scatola di cipria in polvere finissima, con le rose intarsiate, lo spruzza profumo di Murano e la spazzola d'argento per abiti da cui il nonno pazientemente sfilava i peli invischiati.
Nel cassetto i soliti santini, le preghiere riunite rilegate con il filo colorato, i vecchi pani di San Nicola, che una volta aveva provato a sbocconcellare.
E la nonna finalmente parlò
"Era un giorno di pioggia. Ti portarono da noi intirizzita, tremavi, i grandi occhi muti. Ancora non parlavi. Lasciala, dicemmo a tuo padre. Ti avevano portato a vedere la Galleria Borghese. Come se a una bimba di due anni potessero interessare marmi e quadri di Caravaggio. Tua madre, ancora mora, portava un foulard a scacchi sui capelli, il bel profilo irrigidito da un livido. Una spaccatura a rovinare la perfetta linea del rossetto.
Tuo padre, volgeva la testa altrove, ma aveva un occhio nero, le mani a sfondare le tasche probabilmente cosparse di graffi.
Andarono via lasciando una fastidiosa scia di malinconia.
Lo sapevo che non erano fatti l'uno per l'altra, così almeno si diceva ai miei tempi.
Tu eri sul letto, indosso ancora il cappottino blu, elegante con la martingala alta, che ti cuciva la cara nonna Nilde.
Tua madre ti voleva così, vestita all'inglese. Più raffinato, per lei, bella, decaduta giovane ebrea scampata ai lager.
Il cappotto era salito incassando le spalle. E mi guardavi, uno sguardo dolcissimo, dietro cui parevano acquattate ombre, troppe.
Non avrei potuto proteggerti a lungo e non ne ero capace. Fisicamente mi stavo già spegnendo.
Ti avevo spogliato, infilato una camicina e letto i miei rosari come ninne nanne. Tu mi hai stretto la mano. Non mi sono mai mossa tutta la notte e ad ogni luce del tram ne approfittavo per guardare le nostre due mani così vicine e così differenti.
Io sapevo e sentivo che eri diversa, la violenza e l'indifferenza ti avrebbero piagata, minutamente decoesa, materia impalpabile alla ricerca del suo corpo.
Avrei voluto con un incantesimo renderti sorda come me, illudendomi che anche gli sguardi non potessero raggiungerti.
Rimanere orfani in tenerissima età, con i genitori accanto, è accecante, vorresti voltarti indietro e tornare da dove sei venuto.
E' impensabile praticare una vita senza amore.
Se lasci entrare l'oscurità sarai perduta. Per sempre.
Tieni."
La donna chiuse la mano, cercando in sé tutta la forza possibile.
Per poterla trasmettere.
Sentiva che se ne erano andati e questo la squassava.
Era seduta sulla cassapanca, fra poco anche quella non ci sarebbe stata più. Doveva fare in fretta.
C'era abbastanza luce. Aprì la mano. Disegni ecco cos'erano. I suoi disegni da bambina.
Tulipani incredibili e storti, margherite simili a soli spelacchiati, papaveri pasticciati con il rosso che era ovunque tranne che nei giusti contorni.
"Cari noni questa note ho soniato un prato cosi belo belisimo che lo voluto disiegniare per voi così tuti chesti colori vi teranno compagna e non potrite esere tristi da mai più. Vostra Giò Giò".
E finalmente pianse.
Per terra
Perché la cassapanca se n'era andata.
Aster
C’era una volta
Un giovane gnomo triste.
Aster si chiamava. Era nato nel villaggio fatto di tronchi sulla riva storta del fiume di cielo.
La sua casa, però, era bellissima.
Tutti gli abitanti di Selenite abitavano in grosse ceste appese ai rami, ma quella di Aster era fatta con gioia.
L’aveva dipinta con la sabbia ocra brillante che cospargeva i bordi del fiume e nella notte brillava come una stella, guidando nel bosco gli gnomi che tornavano dai lunghi viaggi.
La copertura di gambi intrecciati lasciava scorgere la luce della luna e riparava, rendendolo gentile, dal sole.
Al suo interno pezzi di stoffa regalati dai maghi erbosi delle foreste di Giulan,
attutivano i rumori facendo della casa un nido soffice e colorato (i maghi erbosi tessevano, inglobando nei fili il mondo circostante ed anche i suoi profumi).
Dondolando nella sua abitazione Aster pensava alla sua grande, pesante malinconia.
Chissà perché solo lui in quell’angolo sperduto del mondo di Capisott non riusciva a far volare le farfalle nel cuore.
Batteva le mani nelle danze, raccoglieva i preziosi funghi stupefacenti, carezzava le chiome stondate delle volpi rossicce maculate e ingoiava le deliziose bacche fiammeggianti.
Come tutti.
Si bagnava nel fiume di cielo capovolgendo il suo corpo nodoso fino a raggiungere il fondo. Osservava la brulicante vita degli insetti acquatici dai grandi occhi azzurri e faceva alle volte il giudice nelle loro gare canore.
Come tutti
eggiava a notte fonda nel bosco conversando per ore con i daini argentati che tutto sanno, osservava con le fate astronome la volta celeste ascoltando il loro respiro tiepido e profumato.
Ma il suo cuore non riusciva a pompare che lacrime, senza averne motivo.
Non esisteva odio nel suo mondo.
Né rancore. I venti trovavano riparo fra le sue strade stufi di percorrere gli altri mondi dove sfioravano terrori e disperazioni dagli odori nauseabondi.
Poi un giorno la sua casa-cesta si staccò.
Rotolò come una pietra stanca fino al fiume e si arrestò in bilico sulla sabbia dorata.
Aster stava dormendo.
La luna dai tre vertici si era appena arrampicata nel cielo.
Bianca, cristallina, le punte gentili e smussate si muovevano come quelle di una stella marina degli oceani di KalKutt.
Scese la luna triplice e accarezzò Aster.
Raccolse le sue lacrime e le solidificò adornandone il suo collo.
Trafisse il suo cuore triste con il suo sguardo antico sciogliendone il gelo, minuscolo, che si era poggiato simile ad una tormenta di neve, chissà quando, chissà perché.
Depose leggera, Aster nella culla e la spinse sul fiume.
Il nido traballò, si piegò su un lato, si scosse, si inclinò, ma poi tornò dritto per proseguire il suo viaggio verso l’aurora.
Lo gnomo dormiva, dormì, mentre la tristezza, appollaiata su un ramo di acer, lo guardò sfilare via.
Senza poterlo raggiungere.
Giovanna Arciprete