Mauro Slavich
La leggenda di Milan Jansvich
In copertina:
Un giovane valacco seduto in un’ansa del fiume Lubina.
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Indice dei contenuti
Addio, miei cari. State attenti, austriaci. La bandiera valacca. Der Hauptmann Forst La trappola. La rivolta. Il traditore. La vendetta. Note
“ Sii te stesso e sarai un uomo libero ” Samos, 6 giugno 2012
Addio, miei cari.
Der Führer Gregorius Doppelmalz[1] stava rientrando in caserma, con lui c’erano altri quattro soldati ed avevano terminato il loro giro d’ispezione. Il sole stava per tramontare ed illuminava di traverso le cime dei monti Beskydy, facendo sì che si ombreggiassero a vicenda come nel gioco del domino. Gli restava da fare solo l’ultimo sentiero e sarebbe giunto in paese. La prima casa che incontrò era quella della famiglia Jansvich. Piotr, il capo-famiglia, stava sul tetto con un martello e dei chiodi per ripararlo. Sua moglie, probabilmente era in cucina a preparare la cena, dal camino usciva del fumo. Nel cortile, i figli più grandi badavano alle bestie e rastrellavano l’erba; i più piccoli correvano intorno alla casa, ridendo. Quando ò la ronda, le attività della famiglia Jansvich si fermarono per salutare i militari. Il Sergente rispose per tutti, portando la mano alla fronte. Gregorius amava il momento del rientro. Quando attraversava il paese si credeva importante. Il fucile a tracolla, lo zainetto sulle spalle, il berretto con la visiera lucida, la giacca di lana rossa ed i pantaloni verdi. Si sentiva bello. Camminava con la testa alta e sbirciava le ragazze per vedere se lo osservavano. A volte capitava. Sapeva che non n’avrebbe, mai, conquistata una. Lui era austriaco e loro valacche. Non si poteva. All’inizio del XVIII secolo gli Jansvich costruirono la loro casa ad ottocento metri dal villaggio di Frenštát, ai piedi del monte Pivǒt. La realizzarono con assi di legno, ricavate dagli alberi che si trovavano nei boschi delle loro montagne e terra argillosa. In fianco eressero la stalla per l’unico cavallo che avevano, un rifugio per le poche pecore, le galline e i due conigli, uno bianco e uno nero. Tutt’intorno misero uno steccato per delimitare la loro proprietà. La moglie di Piotr si adoperò per abbellire il cortile, seminando fiori e piantando quattro abeti. Una zona la destinò ad orto, coltivando insalata, patate e fagioli.
Il 17 dicembre del 1712, nel tardo pomeriggio, quando il giorno cede il posto alla notte, nacque l’ultimo dei loro figli. Pesava 4,2 chilogrammi e aveva la testa lucida come una palla di cannone. Era inverno e un metro di neve copriva villaggio e dintorni. Lo chiamarono: Milan. A quel tempo, in paese, non c’era la scuola e Milan, come tutti gli altri bambini, aiutava i genitori nelle loro faccende. All’età di sei anni, suo padre lo mandò in montagna con le pecore. Usciva da casa all’alba e rientrava al tramonto. Il suo compito era di non perderne, se si avvicinavano a dirupi o a situazioni pericolose doveva fare in modo di allontanarle; nell'eventualità che arrivassero i lupi, aveva il compito di spaventarli e cacciarli usando la fionda. Quando compì otto anni, suo padre lo portò con sé in montagna. Quello fu il suo primo giorno di caccia e per quattro anni suo padre lo portò a caccia, tutte le volte che ci andava. Ad undici anni suo padre gli svelò un segreto. Erano usciti da casa all’alba, come sempre. Si erano avviati sul sentiero nel versante Est del monte Pivǒt ed avevano camminato per almeno tre ore, attraversando tre montagne. Ad un certo punto, suo padre si fermò e si avviò per uno dei tanti piccoli sentieri che si addentravano nel bosco. Camminarono circa mezz’ora e arrivarono ad un costone di roccia. Suo padre si chinò spostando una lastra che chiudeva un buco, ma il buco non era un buco nella montagna, bensì l’ingresso di una grotta. Per entrare si dovettero coricare e strisciare per un metro e poi…si meravigliò. Alla fine del piccolo cunicolo c’era una larga grotta, più grande della loro casa e nel centro scorreva un fiume sotterraneo. «Non farne parola con nessuno. Nemmeno con i tuoi fratelli e tua madre. Mi raccomando. Questo sarà il nostro segreto.» Così gli parlò suo padre, tenendogli la mano e guardandolo negli occhi. «Te lo giuro.» Rispose semplicemente Milan, mentre si guardava intorno sbalordito. Vide un piccolo arsenale. Barilotti di polvere da sparo, fucili, archi e frecce, corde, spade e pugnali, coperte e vestiario. Capì il perché del dover tener segreto
il posto. Sapeva che suo padre era un rivoltoso, che non aveva mai accettato il giogo degli Asburgo.
Marzo 1724. Una volta la settimana, sempre il venerdì sera, a casa degli Jansvich si organizzavano delle cene. Piotr e sua moglie invitavano uomini del paese, amici di vecchia data. Milan, alla fine, era mandato a letto insieme a suo fratello Goran. Andavano sotto le coperte e sentivano il loro padre battere i pugni sul tavolo ed urlare, mentre diceva: «Che m’importa se mio nonno ha giurato fedeltà all’Impero asburgico. Non è stata una sua libera scelta e tuo nonno Joshin ? ed il tuo Hochin ? ed il tuo Karlov ? Se non avessero giurato li avrebbero ammazzati. Questi cani ci sfruttano, calpestano la nostra terra, arruoleranno i nostri figli nel loro esercito. Se non facciamo qualcosa per ribellarci, alla fine, la nostra gente perderà la propria identità e diventerà austriaca.» I due bambini si guardavano con le facce stupite. Non avevano mai sentito il loro padre alzare la voce. In famiglia era sempre dolce ed affettuoso, se qualcuno gli chiedeva qualcosa, rispondeva con gentilezza. Intanto, al piano terra, la discussione continuava e loro ascoltavano incuriositi. Sentivano gli amici del padre chiamarlo “comandante” e questo significava che lo ritenevano il loro capo. «Siamo quasi pronti, ho nascosto un piccolo arsenale e quando verrà il momento glielo faremo vedere noi di che pasta siamo fatti.» La voce del loro padre, seria, decisa, lasciava intuire che era una persona sicura di se. Un uomo che non aveva dubbi. Karlov si mise in mezzo nel discorso di Piotr: «Potremmo morire, noi e le nostre famiglie. Non ci hai pensato?»
«Certo che ci ho pensato. È un grosso rischio, dovremo fare molta attenzione. In ogni modo, è la nostra guerra e prima o poi, vinceremo. Rimanderemo i sauerkraut-fresser[2] a casa loro. Dovremo attaccarli, quando sono in pochi ed isolati. Ad esempio, quando mandano le loro pattuglie in montagna. Li colpiremo e nasconderemo i loro cadaveri in modo che non li possano trovare. Dobbiamo combatterli come facevano i nostri antenati.» «Si! Ha ragione.» S’intromise Joshin. «Anch’io sono d’accordo.» Disse Hochin. I due bambini si guardavano ed erano orgogliosi del loro padre. Conoscevano la storia del loro popolo. «Nostro padre è il comandante dei ribelli?» Domandò Milan, rivolto al fratello. «Si. Non hai capito?» Rispose Goran. «Ho capito. Non lo sapevo, però sono contento. È una persona importante». Annuì Milan, guardando le travi del soffitto. «Già.» Replicò suo fratello. La conversazione in cucina non era terminata. «Morire? Può darsi. Io sono disposto a morire se è per una giusta causa e questa lo è.» Piotr Jansvich espose con serietà ai suoi amici il suo pensiero e continuò dicendo:
«Dobbiamo cercare altra gente che si unisca a noi. Siamo pochi. Ci vuole qualcun altro.» «Va bene. Vediamo se riusciamo a coinvolgerne qualcuno. Hai qualche idea? Chi possiamo avvicinare senza correre pericoli?» Domandò Karlov. «Non so. Guardatevi intorno e cercate di capire chi potrebbe far parte del nostro gruppo.» A quel punto s’era fatto tardi e si salutarono rimandando al prossimo venerdì la discussione, con la speranza di avere nuovi compaesani nel loro piccolo gruppo. Milan e Goran sentirono i i dei loro genitori salire le scale. Li sentirono aprire la porta della loro camera per vedere se stavano dormendo e rimasero immobili, come chi dorme da un pezzo. Capirono che stavano bisbigliando e sorridendo e dopo chio la porta lentamente per non far rumore ed andarono nella loro camera. Milan e Goran si guardarono e sorrisero con complicità. Ora, erano a conoscenza di un segreto. «Buonanotte Goran.» «Buonanotte anche a te.»
Luglio 1724. Era una bella mattina, il cielo si presentava azzurro e limpido come di rado, solo una piccola nuvola bianca stava sopra la cima del monte Pivǒt sembrando lo sbuffo di una locomotiva. Milan si trovava in montagna con le pecore, quando i gendarmi entrarono a casa sua ed arrestarono i suoi genitori e i suoi fratelli. Alla fine di quel giorno stava tornando a casa e incontrò un amico di suo padre, questo lo avvertì di scappare e nascondersi perché gli austriaci lo stavano cercando. Gli raccontò che avevano arrestato la sua famiglia e di mettersi in salvo dato che i tempi erano brutti. Milan abbandonò le pecore e corse a rifugiarsi nella grotta segreta.
I boschi dei suoi monti li conosceva e gli piaceva attraversarli. L’aveva fatto tutte le volte che aveva portato le pecore e le capre al pascolo. Osservava le piante, gli insetti, gli uccelli e tutti gli altri, piccoli e grandi, esseri che lo abitavano. Quando era nel bosco si sentiva libero e felice. Si sentiva vicino a Dio. Tutto questo succedeva di giorno perché lui non aveva mai avuto un motivo per are una notte nel bosco. Adesso, la sua nuova casa era nel mezzo del bosco e durante la notte sentiva rumori nuovi. Gli stridii degli uccelli notturni e gli ululati dei lupi. Aveva paura. Questi nuovi rumori lo spaventavano e faceva fatica ad addormentarsi. Di notte sognava di essere attaccato da uccelli mostruosi e da lupi con la bava alla bocca. Ci mise più di un mese per riuscire ad accettare la vita notturna del bosco. Alla fine capì che anche lui faceva parte di quella nuova comunità e la paura ò.
La sua famiglia fu processata e condannata al capestro in quattro e quattr’otto. Ogni giorno, dall’arresto dei suoi familiari, usciva dal proprio nascondiglio. Aggirava il monte Pivǒt sino ad arrivare alla parete Ovest, quella che si affacciava su Frenštát e coperto dalla vegetazione osservava il paese, ma in paese la vita era normale. A volte incontrava alcuni amici di suo padre e scambiava qualche parola con loro. Loro continuavano a raccomandargli di rimanere nascosto perché i soldati seguitavano a chiedere di lui. Fin ché un giorno incontrò Joshin, il miglior amico di suo padre che gli disse: «Milan, domani la tua famiglia sarà giustiziata nella piazza centrale. Fatti coraggio. Quando avrai bisogno di qualsiasi cosa, rivolgiti pure a me.» Milan non disse una parola e una lacrima gli scese sulla guancia. Si girò e sparì. La mattina dopo, la via principale era piena di gente, tutti volevano salutare gli Jansvich per l’ultima volta. Milan scese dal monte Pivǒt, si mise accanto ai figli della famiglia di Joshin e nessuno lo notò.
Sopra il paese di Frenštát il cielo era scuro, pieno di nuvole nere e minacciose come un pugno di Dio, mentre alla fine della vallata si vedeva sereno e azzurro. Sembrava sapere cosa stava succedendo. Un sordo brontolio tra la gente in strada annunciò l’arrivo dei condannati. Dalla palazzina del comando asburgico uscì un piccolo corteo. Quattro soldati e un caporale precedevano, camminando marzialmente, un carro trainato da due cavalli e quattro soldati chiudevano la fila. Una leggera brezza stava sollevando la polvere della strada. Il carro era chiuso con assi di legno alte un metro e venti. Dentro c’era la famiglia di Milan in piedi, con le mani legate dietro alla schiena. Sua madre vestiva il suo abito migliore, quello celeste con i fiori bianchi ricamati da lei. Suo padre e i suoi fratelli avevano la camicia bianca con le maniche a sbuffo e il colletto tagliato per facilitare l’operazione del boia. Il corteo procedeva lentamente ed era accompagnato dal suono di un piccolo tamburo che scandiva, ripetutamente, la stessa nota. La gente, man mano che il carro sfilava davanti a loro, si levava il cappello e congiungeva le mani pregando. Quando arono davanti a Milan, solo sua madre lo riconobbe e accennò un sorriso per rincuorarlo. Non so se fu il vento o invece Dio, fatto sta che nel cielo si aprì un varco tra le nuvole ed uscì un chiarore abbagliante, così forte che la gente dovette stringere gli occhi e mettersi una mano sulla fronte. Forse Dio voleva vedere cosa stava accadendo in quel piccolo villaggio tra i Carpazi oppure, apriva le porte del Paradiso attendendo i martiri di Frenštát. Arrivati davanti al patibolo i soldati aprirono il cancelletto del carro e fecero scendere i condannati. Nessuno di loro mostrò paura di morire e con grande fierezza salirono la scala portandosi sul palco. Il caporale si mise con le spalle alle forche, guardò i paesani ed aprì una busta. Estrasse un foglio e lesse la motivazione di quell’esecuzione. La lesse ad alta voce, in modo che tutti potessero udirlo.
«Io, Oberleutnant Arnold Arschbackchen[3], comandante della guarnigione di
Frenštát pod Radhoštěm e capo supremo della zona hacca-otto, che comprende i monti Berendisch ed i monti Beskydy. In seguito ad aver interrogato i reazionari e non avendo avuto da parte loro alcuna collaborazione e nessun pentimento sono stato obbligato a condannarli alla pena capitale. L’accusa che promuovo è: Alto Tradimento. Che quest’esecuzione sia da esempio a chi, tra voi, volesse tradire il giuramento fatto dai vostri antenati. Onore e Gloria all’Impero Asburgico.»
Dopo aver letto il proclama, il caporale si spostò sul lato sinistro del patibolo per assistere all’impiccagione. Lube, la madre di Milan, iniziò ad intonare il canto tradizionale dei valacchi e appena cantò le prime rime, suo marito ed i suoi figli le andarono dietro. Gli abitanti di Frenštát si unirono a loro e in tutta la piazzetta si levò il dolce canto. Si notò, in alcuni soldati, un accenno di commozione e, che Dio abbia pietà di loro, contrariamente al loro regolamento, lasciarono terminare la canzone. Le forche erano quattro, perciò dovettero giustiziarli in due tempi. Gli austriaci impiccarono per primi i figli più giovani e dai due genitori scesero delle lacrime sul viso, quando videro i loro bambini, incappucciati, scalciare negli ultimi attimi della loro vita. Milan, in quel momento, stava vivendo gli attimi più tristi della sua vita. La gola si era serrata al punto che faceva fatica a respirare. La tristezza era calata su di lui. Aveva gli occhi inumiditi, quando vide suo padre, sua madre ed i suoi fratelli salire sul patibolo. Dopo l’impiccagione, un sentimento rabbioso, di vendetta, s’impossessò del suo cuore. Quando il boia terminò il suo lavoro, salirono sul patibolo due becchini e misero i corpi privi di vita in sacchi di tela. Li caricarono sul carro che li aveva portati sino a lì e si diressero al cimitero. La gente li seguì in silenzio. Quando arrivarono, si fermarono accanto alla fossa che avevano preparato il pomeriggio del giorno prima. Il corteo congiunse le mani e pregò in silenzio. Solo Margot, la moglie di Joshin, pregò ad alta voce. Scandendo le parole del “Padre Nostro” in modo chiaro. Joshin che era dietro a Milan, gli mise le mani sulle spalle e quando sua moglie
terminò la preghiera, sussurrò: «Vedi piccolo, quelle tre nuvole bianche sopra di noi. Ecco, la tua famiglia ora è lì e si è unita ai suoi antenati. Sai, le nuvole sono isole nel cielo e quando lasciamo la vita terrena andiamo ad abitare là.» Milan, che aveva assistito a tutto ed aveva pregato per la sua famiglia, giurò di vendicarli. Quando la gente terminò la preghiera, i becchini presero uno ad uno i corpi degli Jansvich e li gettarono nella fossa. I paesani lanciarono fiori sopra ai loro corpi, mentre gli addetti alla sepoltura iniziarono a dare badilate di calce prima di ricoprire la fossa con la terra. Al termine, infilarono nel terreno una croce di legno con inciso: JANSVICH. A mezzogiorno tutto finì e la gente tornò nelle loro case. Milan al suo rifugio. Nel pomeriggio un forte temporale rinfrescò il bosco. Quella stessa notte, alle tre e quarantacinque, Milan uscì dal suo nascondiglio e s’incamminò verso Frenštát. Il cimitero confinava col bosco a Nord del paese e vi arrivò col buio. In cielo, grosse nubi correvano, oscurando a tratti la luna piena. Prima di varcare il cancello, un brivido di paura gli scosse la schiena. Il posto era piccolo e trovò subito la fossa dove era stata sepolta la sua famiglia. Arrivò davanti alla tomba, mentre i suoi pensieri si accavallavano tra paura e ricordi felici della vita vissuta con la sua famiglia. S’inginocchiò. Li ricordò vivi: Le giornate ate in montagna con suo padre. Sua madre mentre urlava ai suoi fratelli. Goran, il più piccolo dei suoi fratelli e suo compagno di giochi. Suo padre che lo lodava perché era stato bravo in montagna e le pecore stavano
bene. Sua madre mentre lo sgridava perché non si lavava le mani prima di sedersi a tavola per la cena. I suoi fratelli che lo prendevano in giro perché portava i capelli lunghi ed aveva la frangia sugli occhi. Gli mancavano tutti. Ora, doveva continuare a vivere senza di loro e questo lo preoccupava. Sapeva che non poteva fare affidamento su qualcuno. D’ora in poi, doveva cavarsela da solo ! Iniziò a piangere, prima una lacrima, poi due, tre. Alla fine stava singhiozzando. S’asciugò le lacrime col dorso dell’avambraccio e dopo congiunse le mani e pregò:
Il vento corre libero sulla terra che vi copre. Le nuvole ano nel cielo sopra voi. Camminerete sulle polveri delle stelle rischiarate dalla luna. Nel vostro riposo sentirete il rumore degli zoccoli dei cavalli, delle ruote dei carri; ascolterete la gente urlare e sussurrare e ridere
e piangere. Le lacrime di Dio caleranno sulla vostra tomba come gocce di pioggia, come fiocchi di neve, come perle di brina, come gemme di rugiada, come raggi di sole; dandovi la pace eterna.
Si alzò. Si fece il segno della croce e corse via.
Iniziò una dura vita per lui. L’inverno era rigido e per procurarsi il cibo metteva trappole e usava l’arco. Aveva imparato dagli animali del bosco a muoversi senza far rumore e col are del tempo, era diventato un vero esperto.
Il comandante della guarnigione asburgica, il Tenente Arnold Arschbackchen, non si dava pace. Voleva catturare anche il piccolo Milan Jansvich e ogni tanto inviava sui monti un gruppetto di otto soldati per cercarlo. Milan li avvistava prima che loro vedessero lui, riusciva a nascondersi e rimaneva fermo fin quando era certo di poter tornare allo scoperto. Una mattina vide Joshin salire per il sentiero, stava camminando nella sua direzione e gli andò incontro. Voleva notizie del paese, ma in paese non succedeva niente, l’unica informazione che Joshin gli diede, fu:
«Ti stanno cercando. I soldati, ogni tanto, perquisiscono le case nella speranza di scovarti.» Joshin non gli raccontò che gli austriaci avevano messo una taglia di trecento talleri a chi comunicava notizie utili alla sua cattura, ma non era lì per caso, gli aveva portato pane e cibo. Insieme concordarono un punto d’incontro e si misero d’accordo di trovarsi una volta alla settimana. Il posto che Milan aveva scelto era una bella radura, ampia, dove il fiume Kurotic faceva un’ansa. Joshin e Milan diventarono amici. Milan gli confessò che voleva vendicare i suoi famigliari e Joshin lo avvisò: «Stai sempre in guardia, piccolo Milan. I soldati ti stanno dando la caccia. Quello che vorresti fare è molto pericoloso e tu non sai niente di come si fa.» «Potresti insegnarmelo tu? Joshin». Gli chiese Milan. Joshin annuì. Era l’uomo più adatto a quel compito. Vinceva la gara di tiro con l’arco tutti gli anni durante la fiera d’estate. Era il miglior spadaccino e tiratore d’arco dei valacchi della Moravia-Slesia e lo allenò. Joshin alternava la caccia e la pesca, una domenica andava a caccia, la domenica successiva andava a pesca. Usciva da casa all’alba con il suo cesto in vimini a tracolla e s’incamminava verso il Pivǒt. Lo traversava, poi saliva sul monte successivo ed arrivava all’ansa del fiume Kurǒtic. Si fermava, metteva l’esca ed iniziava la sua giornata di pesca. Quando andava a caccia camminava su e giù per i boschi sino a che scorgeva la sua preda. Si bloccava per non spaventarla, avanzava lentamente stando attento a non far rumore e quando arrivava a tiro, armava l’arco e colpiva. Era bravo. Ogni domenica, Joshin portava con sé il giovane Milan. Durante la giornata gli spiegava le tecniche d’avvicinamento agli animali: guardare sempre dove si mettono i piedi, evitare di calpestare rametti secchi, foglie, sassi o frammenti di roccia, spostare con la mano e non col corpo i rami sporgenti, strisciare muovendo un arto alla volta, avvicinarsi stando sottovento e così via.
Milan imparava velocemente. Era un ragazzo intelligente e amava la natura. Una domenica Joshin chiese a Milan se voleva rivelargli il suo nascondiglio, poteva ritornare utile sapere dove trovarlo, ma Milan rispose che era meglio non lo sapesse. Preferiva incontrarsi nel luogo stabilito. Una cosa che gli aveva insegnato suo padre era: non fidarsi di nessuno. Joshin annuì e accettò che Milan mantenesse il suo segreto. Non glielo richiese più. Al termine della giornata tirava fuori dal paniere: carne secca, formaggio, pane e li dava a Milan. Era un piccolo sacrificio per lui e la sua famiglia ma, avrebbero aiutato Milan a sopravvivere meglio. Ne valeva la pena. Era stato il miglior amico del padre di Milan e voleva bene a quel ragazzo come se fosse figlio suo. arono mesi, anni e Milan si affezionò a Joshin come un bambino al padre. Durante la settimana, Milan doveva arrangiarsi. Andava a caccia e a pesca. Provava a nascondersi fino a quando imparò tutti i modi per farlo. I suoi errori erano il suo maestro. Alla fine riusciva a confondersi con l'ambiente così bene che nessuno lo poteva vedere. Imparò ad avvicinarsi agli animali silenziosamente e fu soddisfatto, solamente, quando riuscì ad arrivare ad un metro da un grosso cervo e l’animale non l’aveva né visto, né sentito. In quel periodo il bosco accettò Milan. Il bosco era diventato la sua casa. Ogni giorno correva in salita ed in discesa evitando gli alberi con l’agilità di un daino. Gli animali, gli uccelli, gli insetti e persino le farfalle non avevano più paura di lui. Una famiglia di scoiattoli lo aspettava tutte le mattine per mangiare le briciole di pane vecchio che gli portava. Trascorsero quattro anni e divenne uomo. Conosceva l’arte del sabotaggio e la tecnica della guerriglia. Riusciva ad avvicinarsi ai soldati senza farsi notare. Era pronto per mettere in atto la sua vendetta. Portava capelli lunghi e biondi come il grano. Li teneva raccolti con una treccia lunga e sottile. Si era allenato per tutto il tempo. Joshin, che da giovane era stato un istruttore militare, lo aveva preparato come non aveva mai preparato nessuno. Oltre all’insegnamento di Joshin, aveva osservato ed imparato dagli animali del
bosco tanti piccoli trucchi. Era giunto il momento di affrontare gli austriaci. Prima di iniziare la sua guerra personale, sentiva il bisogno di andare sulla tomba della sua famiglia. Quella notte, alle tre e quarantacinque, s’incamminò verso Frenštát. Arrivò davanti al cancelletto di legno del cimitero in una notte senza nuvole ed in cielo vedeva le stelle e la luna piena. Varcò il cancello e si diresse sulla tomba dei suoi. Nel momento in cui arrivò, si tolse il cappello, s’inginocchiò ed iniziò a pregare ed a parlare con loro. Ogni tanto sentiva un soffio di vento e gli sembrava che lo stesse attraversando. Gli spiriti del posto gli stavano dando il benvenuto. Non ebbe paura come la prima volta che li incontrò. Ora, aveva capito che tutto ciò che lo circondava, faceva parte della vita e dell’amore. Quando terminò le sue preghiere, s’asciugò le lacrime e tornò al suo rifugio.
State attenti, austriaci.
Il 29 Ottobre del 1728 aveva piovuto tutto il giorno e faceva freddo. Quella notte, alle tre e quarantacinque, Milan entrò in paese. Un cappello con larghe falde, un mantello di lana marrone e un paio di stivali neri lo proteggevano. Camminava prudentemente stando a ridosso delle case. La strada infangata e piena di pozzanghere lo rallentava. Si avvicinò al portone della caserma asburgica stando accostato al muro e quando vi fu in fianco si arrampicò, aiutandosi con le pietre sporgenti e le inferriate della finestra. Il suo obiettivo era la bandiera giallo-nera degli Asburgo. Quando le fu accanto, la slegò lasciandola cadere a terra. Dallo zainetto estrasse la bandiera dei Valacchi e la legò all’asta obliqua. Ora sventolava la sua bandiera, azzurra come il cielo con tre strisce verdi come i boschi dei Carpazi. Scese senza far rumore e tornò sul monte Pivǒt. Al mattino le sentinelle aprirono il portone e si sistemarono una da un lato, l’altra dall’altro. Man mano che il tempo ava notarono qualcosa di strano. Le persone che avano davanti a loro, sorridevano. Incuriositi si controllarono la divisa; forse era sporca…o rotta. Niente, la divisa era a posto. Si rimisero nella loro posizione, ma continuarono a vedere che la gente, quando ava davanti a loro, sorrideva e…stranamente, li salutava cordialmente. «C’è qualcosa che non va!» Disse la sentinella di sinistra a quella di destra. «Eh si.»
Approvò la sentinella di destra. Questa volta ispezionarono la parete della guarnigione; forse qualche burlone aveva scritto delle cretinate. Niente, tutto in ordine. Ad un tratto la videro e rimasero scioccati. Mancava la bandiera asburgica e al suo posto ce n’era una che non conoscevano. «Chi può aver fatto questo?» Chiese la sentinella di destra all’altra. «Non lo so. Non ne ho la minima idea.» Rispose la sentinella di sinistra. «Dobbiamo avvisare il Sergente.» Dissero tutte e due, contemporaneamente. Il Sergente Gregorius Doppelmalz, quando apprese la notizia uscì a controllare. «È proprio vero!» Esclamò, strabuzzando gli occhi. Ora, la cosa migliore da fare era avvisare il comandante della guarnigione. Der Oberleutnant Arnold Arschbackchen. Questi, appena il Sergente terminò il suo rapporto, andò su tutte le furie. «Chi può essere stato?» Chiese urlando in faccia al Sergente. «Nessuno lo sa.» Rispose timidamente Gregorius.
«La mia caserma profanata. Tirate immediatamente giù quello straccio e mettete al suo posto la nostra bandiera.» Urlò il comandante, sempre più infuriato. Il Sergente saettò, attraversò il cortile in un baleno e urlò, a sua volta, alle due sentinelle l’ordine di tirar giù la bandiera valacca e rimettere quell’asburgica. Nel frattempo, davanti alla guarnigione, si era formato un gruppo di persone curiose di vedere cosa sarebbe successo. Stavano con le braccia conserte ed avevano un sorriso malizioso, mentre ammiravano la loro bandiera che sventolava sopra la porta della caserma asburgica.
Due soldati uscirono in strada con una scala e scambiarono le bandiere. La bandiera valacca aveva una scritta sul fondo: Milan Jansvich. La lessero tutti. Gli abitanti ed i soldati. Lo spettacolo era terminato e la gente tornò ai propri lavori. Milan, nascosto a mezzo monte, assistette a tutta la scena e divertitosi come desiderava, tornò nel bosco. I soldati portarono la bandiera al Sergente. Il Sergente la portò al Tenente. Herr Arnold Arschbackchen quando vide la firma di Milan, diventò rosso in viso. «Sergenteee.» Urlò a squarciagola, nonostante fosse a solo un metro da lui. «Jawohl, herr Oberleutnant.» Gridò d’istinto, a sua volta il Sergente, mettendosi sull’attenti. «Sergente.» Riprese il Tenente con il tono della voce normale, ma un po’ roca dalla rabbia:
«Adesso, lei prende una pattuglia, andate in montagna e mi portate quel maledetto Milan». E sbraitò. «Capitooo!» «Jawohl, herr Oberleutnant.» Diede risposta il Sergente battendo i tacchi e salutando militarmente il Tenente. Si girò ed uscì. Ma la porta era chiusa e ci sbatté contro. La aprì e questa volta uscì. Quando arrivò in cortile trovò una ventina di commilitoni, curiosi di sapere cosa era successo e il Sergente ordinò: « Tu! Tu! Tu!» Indicando col dito i vari soldati e quando arrivò a sette, dispose: «Preparatevi, andiamo sul Pivǒt a cercare il ragazzino. Tra un quarto d’ora, qui!» Dopo, esattamente, tredici minuti la truppa uscì dalla guarnigione e s’inerpicò sui sentieri del monte Pivǒt alla ricerca di Milan. Camminavano uno dietro l’altro e davanti a tutti c’era der Führer Gregorius Doppelmalz. Dopo un’ora fecero la prima pausa. Essere in sovrappeso, soprattutto il Sergente, non aiutava a camminare in salita. In quei momenti rimpiangeva di aver bevuto tante birre la sera prima. Al tramonto scesero, ma di Milan nessuna traccia. Il Sergente andò dal Tenente a fare il suo rapporto. Bussò ed entrò nell’ufficio dopo che gli fu detto “Avanti.” La prima cosa che fece, quando andò dentro, fu di mettersi sull’attenti. «Riposo, Sergente.»
Gli disse il Tenente, guardandolo benevolmente. Sicuro che avesse riportato Milan. «Herr Oberleutnant, abbiamo camminato tutto il giorno, ma del piccolo Jansvich nessuna traccia. Mi dispiace.» Proferì il Sergente, tenendo lo sguardo verso il pavimento di legno. «Comeee?» Urlò il Tenente e continuò: «Razza d’incapaci, fannulloni, ubriaconi. Non posso affidarvi una semplice missione che fallite. Vi mando, vi mando…non lo so. Devo pensarci. Va beh, torniamo a noi. Domani tornate in montagna e me lo portate, altrimenti…lei… Sergente…sentirà la punta dei miei stivali nel suo grasso sedere. Ha capito?!?» «Jawohl, herr Oberleutnant. Ci conti.» Impaurito, il Sergente affermò. «Ora vada, mi da fastidio vederla.» Lo rimproverò di nuovo il Tenente. «Jawohl, herr Oberleutnant.» Rispose il Sergente con un tono di voce rammaricato, lasciando capire che si sentiva in colpa per l’insuccesso ed uscì. Ora, finalmente, poteva andare in camerata, cambiarsi e rinfrescarsi. Già gustava la cotoletta con patate e le birre che avrebbe bevuto quella sera. Era affamato. La camminata in montagna gli aveva messo indosso un certo appetito. La mattina seguente pioveva. I soldati erano equipaggiati, ma ciò non toglieva il fastidio di camminare per ore in montagna con l’acqua che li avrebbe inzuppati in ogni parte. Camminarono tutto il giorno, qualche volta abbandonarono il sentiero per addentrarsi nel bosco sperando in un colpo di fortuna. Magari avrebbero scovato
il rifugio del ragazzino. Alla sera tornarono in caserma e di Milan, nessuna traccia. Avevano preso acqua tutto il giorno, erano infreddoliti e stanchi. Il Sergente sudava, mentre entrava nell’ufficio del Tenente per fare il suo rapporto.
Quella notte, Milan scese in paese. Aveva smesso di piovere e quando uscì dalla grotta un cielo stellato lo sorprese. Erano le tre e quarantacinque. Riconobbe la costellazione della Cassiopea e quella dell’Orsa Maggiore. Guardò in mezzo e riuscì a vedere la Stella Polare. Fu suo padre ad insegnargliele ed ogni volta che le guardava lo ricordava. Lo rivedeva al suo fianco, mentre gli diceva: «La Stella Polare ti dirà dove c’è il Nord, non puoi sbagliare. La troverai sempre al centro delle costellazioni dell’Orsa Maggiore e della Cassiopea.» “Questo cielo meraviglioso mi porterà fortuna.” Pensò. Camminò due ore, il fresco del bosco sul suo volto gli dava serenità. I fischi degli uccelli notturni gli tenevan compagnia, sembravan seguirlo. Arrivato a mezzo monte del Pivǒt si fermò ad osservare il suo villaggio. Proseguì ed arrivò a ridosso della prima casa al termine della notte. Le luci delle case erano spente e solo la mezza luna in cielo faceva un po’ di chiarore. Prese dallo zainetto il plico di fogli che aveva preparato quel pomeriggio e li appiccicò sui muri delle case. Quando terminò, tornò in montagna. Si fermò nello stesso punto dove si era fermato prima di scendere in paese per vedere l’effetto che avrebbero prodotto i suoi volantini sulla gente del paese, ma soprattutto sui soldati asburgici. Questa volta l’aveva fatta grossa e non ò nemmeno un’ora che gli abitanti cominciarono ad uscire dalle loro case. La vita quotidiana riprendeva. Le sentinelle aprirono il portone della caserma e si misero nella loro solita
posizione, una a destra e una a sinistra. Anche quel giorno notarono che c’era qualcosa che non andava per il verso giusto. Le persone, quando avano davanti a loro erano sorridenti e cordiali e sventolavano un foglietto di carta. La prima cosa che fecero le due sentinelle fu di controllare se c’era la bandiera. C’era. “Cos’hanno da ridere, questi montanari?” Si chiese la sentinella di sinistra. Controllò il muro della caserma e vide che c’era incollato un foglio di carta. Lo rimirò, incredulo, e lo lesse. Si sbalordì. “Chi aveva potuto osare tanto?” Si domandò. Ma la risposta stava alla fine della lettera. Strappò il foglio di carta con violenza e lo portò al Sergente. Il Sergente quando lo lesse arrossì. “E adesso, chi lo porta al Tenente? Purtroppo sarò io.” Rimuginò amareggiato e s’incamminò. Bussò alla porta dell’ufficio e sentì la voce del Tenente dire: «Avanti.» “È già di malumore.”
Arguì tra sé. “Dio aiutami.” Si disse sottovoce, sperando nelle forze superiori del cielo. Appena entrò si mise sugli attenti ed il Tenente gli domandò: «Cosa c’è, Sergente? Per quale motivo viene da me a quest’ora?» «Il paese è pieno di questi volantini.» E mentre rispondeva al Tenente allungava la mano col volantino, porgendoglielo. «Me lo dia.» Gli comandò il Tenente e glielo strappò dalle dita. Il Tenente fissò il foglio. Lo rimirò. Si mise il monocolo. Lo lesse d’un fiato. Chiuse gli occhi e li riaprì. Non credeva di aver letto quel che aveva letto. Riguardò il foglio e lo rilesse per esserne sicuro. A quel punto lo lesse ad alta voce, in modo che il Sergente ascoltasse. Sapeva che l’aveva già letto, ma non importava. Voleva che lo sentisse dalla sua voce: «Ascolti bene.» Disse. Si alzò in piedi e snocciolò:
«L’austriaco cerca Milan ma non lo trova perché l’austriaco fa fatica su in salita.
L’austriaco cerca Milan ma non lo trova perché Milan è protetto dal monte che lo nasconde.
L’austriaco cerca Milan ma non lo trova. La prossima volta che lo cercherà qualcosa di tremendo succederà.
Milan Jansvich.»
Detto questo, il Tenente, piegò in quattro il foglio e lo ripose nel cassetto della
scrivania e aggiunse: «Sergente. Sembra diretto a lei, non crede?» «Sissignore, anche secondo me.» Rispose il Sergente, consapevole della sua responsabilità. Sapeva che per causa sua, tutta la compagnia era stata derisa. «Sergente, lei ha appena presentato domanda di licenza per il periodo natalizio. Vero?» «Jawohl, mein Oberleutnant.» Rispose il Sergente battendo i tacchi e mettendosi sull’attenti. «Bene. Bene. Lei andrà in licenza dopo avermi consegnato quel manigoldo». Gli spiegò il Tenente con un tono di voce troppo calmo che insospettì il Sergente. «Chiaroooo?» Questa volta, il Tenente, urlò a squarciagola facendo spaventare il Sergente. «Jawohl, mein Oberleutnant. Chiarissimo. Non si preoccupi. Avrà quel moccioso questa stessa sera.» Rispose tutto agitato il Sergente. «Cosa fa? È ancora qui? Vada a prenderlo.» Urlò di nuovo il Tenente. «Jawohl, mein Oberleutnant. Subito. Corro.» Biascicò il Sergente e dopo aver salutato appoggiando la mano alla fronte, si voltò, aprì la porta, inciampò sui suoi piedi e uscì. Giunto in cortile, radunò sette uomini e partirono per il monte Pivǒt alla ricerca
di Milan. La giornata era bella, il sole riscaldava l’aria nonostante fosse arrivato il mese di Novembre. La pioggia del giorno ato aveva sciolto la prima neve, ma la salita era dura e si faceva fatica. Il Sergente respirava affannosamente, faticava e sudava come se fosse Estate, camminare in salita era per lui la peggior tortura. Di solito, per attutire il dolore fisico pensava, ma quel giorno i suoi pensieri non lo aiutavano, anzi, lo facevano stare peggio. Vedeva la faccia del Tenente ed i pensieri correvano nella sua testa come cavalli al galoppo. “La licenza di Natale mi vuole togliere. È un anno che non vado a casa. Non mi merito di essere trattato così. Quel Tenente! Chi si crede di essere? Non è nemmeno nobile. Piccolo arrogante. Se solo potessi, glielo farei vedere io.” Oramai erano tre ore che salivano e scendevano dai monti intorno al Pivǒt e di Milan nessuna traccia, neanche l’ombra. Ad un tratto udirono un fischio. Lo sentirono tutti. Si voltarono insieme per vedere cos’era. A venti metri, nella macchia del bosco, videro un ragazzo biondo con un arco in mano ed una freccia tesa, pronta per essere scoccata. Non capirono di aver davanti a loro Milan e lo guardarono inebetiti. La stanchezza toglie i riflessi e la capacità di reagire immediatamente. Milan scagliò la freccia e colpì al petto l’ultimo soldato della fila. Quando i soldati si resero conto di cosa era successo, Milan era sparito. Andarono immediatamente accanto al loro commilitone con la speranza che fosse ancora vivo. Arrivò il Sergente ed il mucchio di soldati, che stavano sopra al loro compagno, si aprì. «È morto.» Disse uno di loro. Il Sergente si mise la mano destra davanti agli occhi. «Nein! Um Gottes willen! Nein![4]»
Urlò sbigottito. Guardò nel bosco per vedere se c’era ancora quel ragazzo con l’arco. Non c’era. Il bosco era vuoto. «Mein Gott. Mein Gott.[5]» Proferì, senza sapere cosa stava dicendo. «Portiamolo con noi. Fate una lettiga e portiamolo con noi.» Ordinò. Erano tutti quanti sconvolti per quello che era accaduto. Quattro di loro portavano la barella, il Sergente li precedeva e gli ultimi due chiudevano la fila. Reggere la portantina giù dai ripidi sentieri, stretti, pieni di buche e di sassi complicò il ritorno a Frenštát. Venne buio ed il Sergente accese la torcia per illuminare la strada. Ogni tanto inciampavano, rischiando di cadere. Arrivarono in caserma dopo il tramonto. Portarono il loro compagno all’infermeria ed il Sergente andò dal Tenente a fare rapporto. Dal Tenente si ripeté la solita scena. Solo che, stavolta, quando il Tenente venne a sapere che era morto un soldato rimase muto. «Non posso crederci.» Disse semplicemente, quasi senza voce. Guardò il Sergente e gli chiese: «Mi porti da lui.» Arrivarono all’infermeria ed il Tenente si avvicinò al letto dove era stato coricato il soldato morto. Lo guardò in faccia.
«Poco più che un ragazzo.» Pronunciò, mentre una lacrima gli scivolò sulla guancia. «Pregate per lui.» Continuò, scandendo lentamente le parole e se n’andò. La mattina dopo chiese al suo attendente di chiamare il Sergente. ati dieci minuti, sentì bussare alla porta: «Avanti, Sergente.» Disse, con la voce di chi aveva bevuto anziché dormire. «Signor Tenente.» Proferì il Sergente. «Si accomodi.» Gli disse e con la mano indicò una delle due poltrone che si trovavano di fronte alla sua scrivania. Il Sergente si sedette e la pelle della poltrona scricchiolò sotto la pressione del suo peso. Le gambe le tenne unite e mise i piedi uno accanto all’altro. Appoggiò le mani sulle cosce. Si sentiva a disagio. Una situazione come quella non era mai capitata prima. «Mi dica com’è accaduto.» Gli chiese. «Quello è il Diavolo. Un Demonio. Prima non c’era, poi è sbucato dalle foglie. Ha tirato la freccia ed è sparito. Un attimo prima era lì, un attimo dopo non c’era più.» Cercò di spiegarsi come meglio poteva, il Sergente, essendo ancora frastornato dall’accaduto.
Il Tenente lo ascoltava con attenzione, mentre si massaggiava il mento con la mano. Dopo un attimo di pausa, guardò negli occhi il Sergente e gli disse: «Prenda quei volantini e li appenda nella via principale, uno per ogni casa.» Questa volta la sua mano indicava un pacchetto di fogli sul lato della scrivania. «Jawohl, mein Oberleutnant.» Rispose il Sergente alzandosi e prendendo tra le mani il plico. Con l’occhio scorse cosa c’era scritto sopra:
“3.000 talleri. A chi da informazioni utili alla cattura di Milan Jansvich. Der Oberleutnant Arnold Arschbackchen.”
«Saranno appesi immediatamente, signor Tenente». Disse il Sergente con ottimismo. Sperava che qualcuno, vista la notevole somma di denaro, potesse tradire Milan.
Il soldato morto, Günther Bosch era il suo nome, fu fatto distendere su un letto e quattro ceri ornavano il suo capezzale. Rimase così tutto il giorno e la notte seguente. Tre soldati gli fecero la veglia. Il mattino dopo arrivò il cappellano militare della guarnigione e gli diede l’estrema unzione. Fu seppellito nel cimitero della caserma.
La bandiera valacca.
aron due giorni, nei quali il Tenente rifletté intensamente per trovare una soluzione alla cattura dell’ultimo Jansvich. Sperava che la taglia potesse ingolosire qualcuno. Era sicuro che in paese ci fosse almeno una persona che aiutava quel ragazzino, non poteva sopravvivere in montagna da solo, giovane com’era. L’aumento del valore della taglia era una buona idea, ma ci voleva anche un accanimento nel dargli la caccia. Non doveva dargli tregua. Fece chiamare il Sergente. Quando sentì bussare alla porta pronunciò: «Avanti, Sergente.» Il Sergente entrò mettendosi sull’attenti e salutò militarmente. «Riposo, Sergente.» Ordinò il Tenente. Il Sergente allargò le gambe e mise le mani dietro la schiena, com’era d’uso tra i militari. Il Tenente, guardandolo negli occhi, proferì: «Sergente, raduni sette uomini e vada a cercare il giovane Milan. Questa volta, me lo porti!» «Jawohl, herr Oberleutnant. Partiamo subito.» Rispose in tutta fretta il Sergente.
Si girò e uscì sbattendo la porta senza volerlo. Per reazione si mise la mano davanti alla bocca, sperando di non aver infastidito il Tenente. Scese la scala e, arrivato in cortile, radunò sette uomini. Si prepararono e partirono. La giornata era fredda, ma il cielo si mostrava sereno. Il sole li avrebbe riscaldati. Camminarono sino a mezzogiorno, facendo una sosta ad ogni ora. Era arrivato il momento di mangiare qualcosa. Si fermarono in una radura, aprirono gli zainetti e azzannarono la loro razione come lupi affamati. Milan era a due i da loro e li osservava. Ascoltava i loro discorsi. Erano tutti rivolti a lui. Usavano parole di rabbia e qualche volta di derisione, facendo ridere l’intera compagnia. Lo soprannominavano: Montanaro. Pecoraio. Bifolco. Sostenevano che quando gli sarebbero stati a pochi i, avrebbero sentito il suo odore perché in caserma girava la voce che per compagnia, il ragazzino, dormiva con le puzzole. Ridevano senz’accorgersi che Milan era lì. Ora i soldati erano rifocillati e si sentivano meglio. Ripresero a camminare tra i monti alla ricerca di Milan. ata un’ora udirono un fischio. Questa volta erano pronti. Si girarono imbracciando il fucile e puntandolo nella direzione giusta, ma non c’era nessuno. «Avete sentito anche voi il fischio?» Chiese il Sergente ai suoi uomini. «Ja. Ja. Ja.[6]» Risposero in coro. «Dov’è quel maledetto?»
Domandò il Sergente ad alta voce. «Dove sei? Dove ti nascondi?» Urlò. Sperando che Milan uscisse, che lo affrontasse da uomo. Non gli fu data risposta. Tutti guardarono attentamente tra le piante spoglie, ma non riuscirono a vedere nient’altro che il bosco. «Riprendiamo a camminare.» Comandò il Sergente. Appena si avviarono sentirono un altro fischio. Si bloccarono e osservarono nella direzione da dove l’avevano udito. Niente. «Maledetto! Esci fuori.» Urlò, di nuovo, il Sergente. Tutti i soldati erano pronti a sparare. Erano in fila, uno dietro l’altro sul sentiero. «Sparpagliatevi e salite nel bosco. Baionette in canna. Se vedete qualcosa, non esitate. Adesso lo prendiamo.» Esclamò il Sergente, tutto eccitato. Così agirono. Si misero a ventaglio e salirono nella direzione da dove avevano sentito il fischio. Arrivarono in cima, ma di Milan nessuna traccia. «Eppure è qui!» Esclamò, sconfortato, il Sergente.
«Chissà dove riesce a nascondersi.» Continuò a parlare, ma questa volta lo fece con un filo di voce e nessuno lo sentì. «Qua non c’è nessuno. È un fantasma.» Mormorò un soldato. «Quelli non esistono.» Replicò il Sergente con tono seccato e continuò dicendo: «Forse è quello che vuole farci credere. Riprendiamo la ricerca, non può essere sparito nel nulla.» E così fecero. Ridiscesero verso il sentiero stando attenti ai più piccoli segni. arono più volte accanto a Milan, ma non lo notarono. Sentirono un altro fischio, questa volta molto vicino a loro. Chi si girò a sinistra, chi si girò a destra. Niente, ma ad un tratto l’ultimo soldato si trovò davanti Milan. Era sbucato dal nulla. Aveva l’arco puntato contro di lui e un attimo dopo una freccia gli traforò il cuore. I soldati cominciarono a sparare nella direzione di Milan, ma inutilmente. Milan si girò e corse nel bosco, zigzagando per evitare le pallottole che gli fischiavano vicino, scomparendo. Quando tornò la calma andarono a soccorrere il loro compagno. Non c’era più niente da fare. La freccia aveva centrato in pieno petto il soldato, uccidendolo sul colpo. Tornarono alla caserma col loro commilitone privo di vita. Oramai, erano due le vittime.
Il Tenente, quando apprese la notizia, maledisse Milan. “Giuro su Dio che ti prenderò.” Pensò tra sé. Purtroppo le cose non andarono come avrebbe voluto il Tenente Arnold Arschbackchen. Dopo i giorni di lutto ed il funerale del soldato arrivò l’Inverno ed una coltre bianca, alta venti centimetri, ricopriva tutto. Le ricerche in montagna furono sospese e la vita quotidiana riprese la sua normalità. Milan aveva stabilito che la montagna era il suo territorio.
Dopo quattro settimane arrivò Dicembre. Il mercoledì era giorno di mercato e il Tenente Arschbackchen accompagnò la sua signora a fare un giro per il paese. Non mancarono diversi acquisti da parte della signora Ingrid Furunkel[7]. Quella stessa notte, Milan, uscì dal suo nascondiglio alle tre e quarantacinque, come sempre. Gli servivano degli attrezzi per riparare dei buchi nella grotta che lasciavano entrare spifferi d’aria fredda. Per scendere in paese pensò di travestirsi, qualcuno avrebbe potuto riconoscerlo, anche se non era probabile, meglio essere cauti. Mise le vesti che lo avrebbero mascherato in uno zainetto e s’incamminò sul sentiero che lo portò a valle. Arrivato alla periferia di Frenštát si cambiò. Si sciolse i capelli. S’infilò una gonna scura con sopra un grembiule in fantasia, un cappotto di lana sopra la camicia e per finire un fazzoletto sulla testa. Nella mano destra reggeva una sporta, come usavano le massaie del posto e si avviò tra la gente del mercato. Mentre camminava, diritto verso l’emporio, si guardava intorno per vedere se qualcuno notava la sua presenza. Tutto bene, nessuno badava a lui. Il travestimento funzionava. Tirò un sospiro di sollievo, anzi…si stava divertendo. Entrò all’emporio alle dieci del mattino ed il negozio era pieno di gente che faceva acquisti. Si mise in disparte e mentre aspettava il suo turno osservava la
merce, per curiosità. arono quindici minuti e la camla della porta d’ingresso suonò. Entrarono il Tenente e la sua signora. Quando li vide gli prese un colpo, ma si calmò subito. Era sicuro che il Tenente non l’avrebbe riconosciuto, non si erano mai incontrati a faccia a faccia. Mentre li osservava gli venne un’idea. Scrivere su un pezzetto di stoffa una frase e accollarla alla schiena della signora che era col Tenente. Detto, fatto. Prese un fazzoletto di colore marrone chiaro e vi scrisse sopra con un carboncino nero “…ein Zäpfchen hätte ich lieber als mein Mann[8]! Milan. ” Dopo aver scritto, piegò il fazzoletto e lo ripose in tasca. Ora toccava a lui, essere servito dal garzone dell’emporio. Acquistò una pala, un barattolo di colla, cinque metri di spago ed altre piccole cose che gli servivano. Mise tutto nella sporta. Intanto che il garzone gli preparava il conto, mise della colla sul fazzoletto con la frase scritta e lo tenne in mano. Pagò e uscì. Mentre usciva, ò accanto al Tenente ed alla sua signora e le chiese scusa, per poter are, con un tono di voce che non aveva niente di maschile. La signora si scostò un po’ e Milan le ò accanto appoggiando la mano scherzosa sulla schiena. Appena fuori, attraversò la strada e aspettò che uscissero le sue vittime dal negozio. Il Tenente e la sua signora uscirono dopo poco tempo e s’incamminarono, tenendosi a braccetto, tra i banchi del mercato. Le persone quando leggevano il foglietto appiccicato alla schiena della signora, sorridevano e sì avan parola. Milan era soddisfatto, il suo scherzo era riuscito e gli sarebbe piaciuto vedere la faccia del Tenente, quando se ne sarebbe accorto, ma non poté. Infatti, il Tenente e la sua signora, seppero del biglietto incollato alla sua schiena, quando arrivarono in caserma.
Un soldato li avvertì dicendo: «Signor Tenente, la sua signora ha qualcosa appiccicato alla schiena.» Il Tenente si spostò di lato per vedere…e lo vide. Lo lesse. Lo strappò dal vestito di sua moglie. Lo strinse nel pugno e se lo mise in tasca. «Cosa c’è? Caro.» Chiese la signora Furunkel a suo marito. «Niente, cara. Solo uno scherzo di qualche idiota del paese.» La rassicurò suo marito. «Ah.» Rispose lei. Quando arrivarono davanti al loro alloggio, il Tenente la congedò baciandole il dorso della mano e le sussurrò: «Scusami, cara. Ho delle cose da sbrigare in ufficio. Ci vediamo a pranzo.» «Non tardare. Oggi ti preparo il tuo piatto preferito.» Gli disse lei, con voce amorevole. Il Tenente, mentre saliva la scala, stringeva il pezzetto di stoffa nel suo pugno con tutta la forza che aveva. Avrebbe voluto farlo scomparire. “Chissà quanta gente, al mercato, l’ha letto…e ha riso! Che figura…che figura. Per Dio, quel maledetto ragazzino. Non mi darò pace fino a che non lo vedrò penzolare dalla forca.”
Erano questi i pensieri che gli avano nella testa, mentre saliva le scale per arrivare al suo ufficio. In paese c’era molta neve, figuriamoci in montagna. Non poteva mandare nessuno a cercarlo. Doveva aspettare la primavera. Ma qualcosa poteva fare. Alzò la taglia a cinquemila talleri. Riscrisse venti volte il volantino che aveva usato l’altra volta. Tirò una riga sopra alla cifra “tremila” e sotto scrisse “cinquemila”. Poteva funzionare. Cinquemila talleri erano una cifra da capogiro per un montanaro. “Si. Si. Funzionerà.” Pensò, convinto del successo. Fece chiamare il Sergente e gli consegnò i nuovi volantini da appendere in paese. Il Sergente eseguì immediatamente l’ordine ricevuto. Milan vedeva e sorrideva.
L’Inverno freddo e nevoso finì, lasciando posto alla Primavera. Il disgelo riempiva il fiume, mentre gli alberi iniziavano a sbocciare. L’erba si stava risollevando. Era arrivato il momento per i soldati asburgici di rimettersi in cerca del giovane Jansvich. All’alba, dal portone della guarnigione, uscirono in otto. Il Sergente, un Caporale e sei soldati. Armati e impazienti di catturare Milan. Quando imboccarono il sentiero del Pivǒt, erano in fila, uno dietro l’altro e sembravano otto atleti. Il loro o era sicuro e veloce. Camminavano cinquanta minuti, ne riposavano dieci, poi riprendevano la marcia.
Milan li vide uscire dalla caserma e li seguì senza farsi notare. Aveva già predisposto la sua trappola. Il suo stile di vita era diverso. Viveva nel bosco e correva in salita e discesa senza far fatica. Al contrario, i soldati erano abituati a fare la guardia alla guarnigione, la ronda in paese, bere birra e mangiare come maiali. Tra Milan e loro, in montagna, non c’era paragone. Dopo sei ore di marcia, tra salite e discese, il Caporale avvistò qualcosa d’insolito nel bosco. Un lembo di tessuto ai piedi di un pino. Urlò: «Lì c’è qualcosa.» S’incamminò verso l’oggetto per capire cos’era e quando vi arrivò si voltò verso i suoi commilitoni e disse: «Una bandiera valacca, deve essere del piccolo Milan. Può darsi che il suo nascondiglio sia da queste parti.» Il Sergente gli gridò: « Fermo! La prendo io. Questa la portiamo al Tenente come trofeo.» Dette queste parole s’incamminò sino a raggiungere il Caporale. Si chinò per raccoglierla. La prese in mano e la tirò a sé, ma non ci riuscì. Sembrava incastrata nel legno. Tirò con più forza. Era la trappola di Milan. Un angolo della bandiera era annodato ad una striscia di tessuto che a sua volta si legava ad una corda. Quest’ultima era annodata alla base della pianta. Il Sergente tirando con forza permise al nodo di slegarsi e liberò la corda che saliva dietro il pino sostenendo un grosso tronco. Esattamente sopra alla bandiera. Il tronco, liberato dalla corda che lo tratteneva precipitò dall’altezza di cinque metri e piombò sulla testa del Sergente.
Fracassandola. «Nooo.» Urlò il Caporale, sbigottito. Corse insieme agli altri uomini per soccorrerlo, ma non c’era più niente da fare. Sollevarono il tronco e sotto c’era la testa del Sergente. Sangue e materia gialla sporcavano la faccia del Sott-Ufficiale. Il Caporale ordinò di sollevare il corpo del Sergente e adagiarlo sulle loro mantelle che improvvisarono come barella e avviliti, tornarono in caserma. Milan non aspettò per colpire di nuovo. Il suo nemico in quel momento era debole, perciò decise di attaccarlo nuovamente quella sera stessa. Era sicuro che l’avrebbe beccato con le brache calate.
Era vero. In caserma aleggiava un’aria di tristezza, rabbia e avvilimento. Il Sergente Gregorius Doppelmalz era il terzo uomo che moriva per mano di un ragazzo di soli quattordici anni. Com’era possibile? Loro, i soldati dell’Impero Asburgico, messi in sacco da un piccolo montanaro.
Quella sera in molti si ubriacarono e i due soldati che montarono la guardia al povero Sergente si addormentarono nella penombra dei ceri funebri. Quella notte, Milan, scese in paese portando con sé quattro barilotti di polvere da sparo. Per farlo dovette andare avanti ed indietro due volte dal suo rifugio all’inizio del paese. Dopo il primo giro nascose il suo materiale accanto ad una legnaia, sul fianco della stalla che si trovava a due case dalla guarnigione asburgica. Alle ore tre e quarantacinque minuti aveva terminato. Prese un barilotto e lo nascose contro il portone della caserma. Tornò a prendere il secondo e lo appese, usando una corda, all’inferriata di una finestra della camerata dei soldati e così fece anche col terzo ed il quarto. Uno per ogni finestra, poi versò un po’ di polvere da sparo sulla parete e per terra in modo che tutti e quattro i barilotti fossero collegati.
Fatta la miccia, l’accese. Fece appena in tempo ad allontanarsi che dietro a lui successe l’Inferno. Un boato, un bagliore che illuminò l’intero paese. La fiancata della guarnigione esplose come se fosse stata colpita da più palle di cannone. La porta si sollevò e cadde all’interno della caserma, bruciando. L’onda d’urto dell’esplosione frantumò i vetri della camera da letto del Tenente facendoli volare al suo interno. Una scheggia, grossa come una baionetta si conficcò nella coscia della signora Furunkel ed un’altra, più piccola, le sfiorò la gola lasciandole solamente un piccolo taglio. Il Tenente Arschbackchen si svegliò di soprassalto. Si sedette sul letto cercando di capire cosa stava succedendo e vide la coperta del letto sporca di sangue. Si spaventò ed il suo fiato divenne corto e veloce. Controllò immediatamente la gamba della sua signora. Sfilò la scheggia di vetro acuminata e tamponò la ferita con la sua camicia da notte. Si alzò, si mise i pantaloni ma non le scarpe ed uscì. All’interno della guarnigione c’era una gran confusione. Gente che urlava, che gemeva. Un soldato si era messo a sparare verso il portone. Un fitto fumo aleggiava nel cortile e il forte odore di polvere da sparo penetrava nelle narici facendo lacrimare i presenti. Milan corse subito in montagna e si fermò al solito posto per osservare i danni che aveva causato. Soddisfatto, ritornò al suo rifugio. Nel dormitorio ci furono sei feriti e due soldati morirono. Il Tenente sapeva che era opera di Milan.
Al mattino un temporale si abbatté su Frenštát e nel pomeriggio un arcobaleno attraversò il cielo. Le forze della natura sembravano stare dalla parte di Milan o perlomeno era quello che gli abitanti del paese pensavano.
Der Hauptmann Forst
[23][9].
Nella settimana seguente gli asburgici sistemarono la loro caserma, curarono i feriti e seppellirono i morti. Il Tenente Arschbackchen meditò. Cominciava a pensare che non sarebbe stato in grado di catturare il giovane Jansvich, quel ragazzo si nascondeva nel suo territorio. Sapeva muoversi ed era veramente pericoloso. No! Non sarebbe mai stato capace di acciuffarlo. N’era convinto. Non con i mezzi che aveva, ci voleva qualcosa di più. Decise di scrivere un dispaccio al suo superiore a Wien.
“Herr Oberstleutnant[10], nel distretto di Frenštát pod Radhoštěm stanno succedendo attentati. Stiamo subendo uccisioni, ferimenti ed è opera di un ragazzo di quattordici anni. Ma non lo sottovaluti, è un demonio. Dio solo sa dove si nasconde. Sino ad ora ho inviato svariate spedizioni alla ricerca di questo giovane, ma invano. Anzi, è costato sangue. Ho avuto l’idea di mettere una taglia di cinquemila talleri sulla sua testa a chi mi portava notizie utili alla sua cattura, ma non è servito a niente. Nessuno del paese si è fatto avanti. Questi bovari sono tutti valacchi e non si tradiscono tra loro. Si chiederà: come mai un ragazzino ci ha preso di mira ed in questo modo? Per quale motivo nutre tutta questa rabbia?
Se permette, le spiego: Ci odia perché sei anni fa abbiamo giustiziato la sua famiglia. Una famiglia di rivoltosi che stavano escogitando di sollevare la popolazione contro di noi. Herr Oberstleutnant: chiedo, a lei, consiglio. Io non ho più risorse. Con osservanza, il suo fedele Oberleutnant Arnold Arschbackchen.”
Terminata la lettera, la rilesse per vedere se era stato capace di esporre i fatti nel modo più chiaro e nello stesso tempo se era riuscito a coinvolgere il suo superiore nella speranza di un aiuto. Soddisfatto, la piegò e la inserì in una busta. Nella zona anteriore, in basso a destra, scrisse l’indirizzo del destinatario:
“ Alla caserma Weihenstephan, Comando Superiore della sezione Nord-Est. Regione Ceka-Slesia. 68, Albertstrasse. Wien – zentrum. Alla cortese attenzione dell’Oberstleutnant, Conrad Furunkel. ”
Leccò entrambi i lati della busta e la chiuse andovi sopra la mano facendo pressione sulle parti incollate. Mise il suo timbro personale nel centro della busta e vi sovrascrisse la sua firma.
Alzò lo sguardo, fissò la porta e dopo un attimo d’esitazione chiamò il suo segretario: «Agüst.» Il Caporale Agüst si trovava, come il solito, nella stanza accanto e udì il signor Tenente chiamarlo. Si alzò, aprì la porta dell’ufficio ed entrò mettendosi sull’attenti, dicendo: «Comandi, signor Tenente.» «Agüst, spedisca questa lettera oggi stesso.» Il Tenente Arschbackchen gli porse la busta guardandolo negli occhi per fargli capire che era molto importante. «Jawohl, herr Oberleutnant. Partirà subito.» Agüst prese la lettera, batté i tacchi in segno di saluto perché aveva la mano occupata, si girò ed uscì.
La lettera c’impiegò tre giorni ad arrivare nella cassetta della corrispondenza del Tenente-Colonnello Furunkel. Questi, quando la vide, riconobbe la sigla di suo genero. Prese il tagliacarte d’argento e l’aprì. Iniziò a leggere e dopo poche righe si alzò in piedi imprecando: «Gottverdammt[11]» Erano state sufficienti poche parole per mettere in stato d’eccitazione il TenenteColonnello, al punto che aveva barcollato e per poco non gli cadeva il monocolo. Continuò la lettura ed alla fine parlò a se stesso ad alta voce “Com’è possibile? Un ragazzino? Non posso crederci. Mio genero, il Tenente Arschbackchen è un buon ufficiale e sono sicuro che abbia fatto tutto quello che poteva. Razza d’incapaci! Ecco, con chi ho a che fare.”
Camminò su e giù per la stanza, pensando. Dopo mezz’ora circa gli venne in mente la persona che avrebbe, sicuramente, risolto la situazione. Ci voleva un montanaro! Un uomo esperto e forte. Si sedette alla scrivania, chiamò Gustav e gli disse di mandargli il Capitano Forst. Dopo un’ora sentì bussare alla porta: «Avanti.» Disse, semplicemente. Il barone Forst entrò nella stanza del Tenente-Colonnello Furunkel e si mise sull’attenti. «Riposo, Capitano.» Ordinò il Tenente-Colonnello e continuò dicendogli: «Si accomodi.» Il Capitano appoggiò il suo cappello sulla scrivania e si accomodò su una delle due poltroncine di pelle marrone che si trovavano di fronte. Accavallò le gambe e incrociò le dita delle due mani aspettando che il suo superiore gli spiegasse per quale motivo l’aveva fatto chiamare. «Che cosa crede? Pensa di essere ad una festa?» Gli chiese, guardandolo incredulo, il Tenente-Colonnello. «No. Perché?» Rispose timidamente il Capitano. «Si componga. Com’è buona educazione.» Lo sgridò il Tenente-Colonnello.
«Chiedo scusa.» Ribatté il Capitano mettendo le gambe una accanto all’altra e sciogliendo le dita delle mani. «Così va bene. Ma non è per farle delle lezioni di buon comportamento che l’ho fatta chiamare.» Fece una pausa guardando il suo subalterno da capo a piedi. Si lisciò i baveri della giacca in lana grigia, si ò l’indice sui baffi, ormai bianchi, ma che in ogni modo erano ancora il suo orgoglio e continuò dicendo: «Signor Capitano, ho una missione per lei.» Mentre parlava, il suo indice ed il suo pollice accarezzavano i quattro lati della busta. Forst capì che in quel pezzo di carta c’era la causa della sua chiamata. «Legga questa lettera.» Gli disse il Tenente-Colonnello, porgendogliela. Il Capitano dopo essersi ato le dita della mano destra tra i capelli, aprì la busta. Tirò fuori la lettera e per prima cosa vide che era scritta con inchiostro blu, con una bella calligrafia. Notò che le parole avevano troppi ghirigori, evidente segno di una persona altezzosa. Girò la busta per vedere il nome del mittente ed un lampo negli occhi gli apparve, quando scorse il nome del cognato del TenenteColonnello. Lesse la lettera in un batter d’occhio, guardò il Tenente-Colonnello e chiese: «Che cosa posso fare?» «Lei, con altri venti uomini, trenta se lo ritiene necessario, si recherà a Frenštát e cercherà di catturare quel piccolo bastardo. Prenda gli uomini migliori, gente di montagna. Faccia quello che vuole, ma metta la parola fine a quest’assurda storia. Inoltre le darò una sacca con trentamila talleri. Alzando la taglia sono sicuro che qualcuno si farà avanti. Non possiamo permettere che un moccioso si
prenda gioco di noi. Questo è tutto. Quando sarà pronto per partire, i da me e le affiderò i soldi.» Così, il Tenente-Colonnello Furunkel illustrò al Capitano Forst le sue volontà. Il Capitano si alzò in piedi, mise il suo cappello sotto il braccio, batté i tacchi e proclamò: «Non la deluderò.»
Quando Forst scese in strada, la giornata stava terminando. S’incamminò lungo il viale che costeggiava il Danubio. Il fiume scorreva portando con sé l’ultimo disgelo, mentre il sole tramontava rispecchiandosi nelle sue acque. In lontananza intravedeva il campanile della Stephansdom[12], rendendo il paesaggio stupendo e gotico. Incrociò donne col cappellino all’ultima moda, mentre eggiavano accompagnate da amici o cagnolini. Oltre a la fila d’alberi, che dividevano il vialetto delle eggiate cittadine dalla Klosterneuburger Strasse, sentiva il rumore degli zoccoli e lo stridere delle ruote sui ciottoli dove carrozze chiuse e aperte transitavano. Camminava lentamente, ascoltando i rumori prodotti dal mondo che lo circondava e lo scricchiolio dei sassolini calpestati dai suoi stivali, un po’ per godersi la bellezza di quel momento, un po’ per riflettere su cosa poteva fare, come organizzare la cattura del giovane montanaro. Un malizioso sorriso gli segnò le guance, mentre pensava al genero del TenenteColonnello. “S’è arreso ed ha chiesto aiuto per colpa di un ragazzino. Per Dio, è pur sempre un adolescente. Come poteva essersi fatto mettere nel sacco quell’incompetente del Tenente Arschbackchen? Il suo cognome la dice lunga.” Ed un nuovo sorriso beffardo segnò le guance del Capitano Forst. Bene, era una buona occasione per mettersi in mostra e la cattura di quella piccola canaglia avrebbe giovato al suo stato di servizio. Dopo trenta minuti arrivò nella sua abitazione, in Untere Donaustrasse. Ora aveva le idee chiare. Nella sua testa aveva già organizzato tutto. Aprì la porta e chiamò il suo attendente:
«Ditrich. Ditrich.» «Comandi, signor Capitano.» Rispose rapidamente Ditrich appena sentì il Capitano chiamarlo. «Prepara la carrozza, domattina partiamo per il Tirol. Metti in valigia qualcosa di pesante, là ci sarà ancora freddo.» Ordinò Forst. «Subito, signor Capitano.» Esclamò il domestico. Ditrich era abituato ai modi bruschi del suo signorino, comunque si chiese “cosa diavolo succederà questa volta?” Attraversò il cortile ed entrò nella stalla per controllare i cavalli e la carrozza. Per fortuna era tutto in ordine…grazie a lui. Si preoccupava sempre di tenere tutto pronto per un’eventuale emergenza ed ogni tanto capitava. Ditrich era un tipo previdente. Quando finì di esaminare, cavalli e carrozza, mise le mantelle di lana sui dorsi dei cavalli. Uscì dalla stalla e chiuse la porta col solito catenaccio di legno. Attraversò il cortile e si diresse nelle stanze del piano superiore per preparare le valigie.
Forst, sapeva che per un lungo periodo sarebbe stato lontano dalla civiltà, perciò quella sera uscì ed andò al circolo ufficiali. Una buona serata con gli amici era quello che ci voleva per distrarsi. Una partita a carte e poi, per finire nel modo giusto, una visita alla Wagnerfreudenhaus [13] dove la “zia” Lisbeth gli avrebbe consigliato una donna energica ed amorevole.
L’indomani, alle prime luci del giorno Ditrich entrò nella camera da letto del Capitano, aprì le tende lasciando entrare la prima luce del giorno e sottovoce, disse: «Signor Capitano, è ora di alzarsi. Le ho lasciato la colazione sul tavolino.» Uscì senza far baccano, sapeva che al suo padrone i rumori davano fastidio. Forst sollevò la coperta di cotone bianco, mise i piedi a terra e si recò nella stanza da toilette per lavarsi e radersi. Quando terminò si pettinò ammirando il suo bel viso. Finite le prime cure alla sua persona, rientrò nella camera da letto. Si sedette al tavolino, travasò il caffé nero dalla brocca alla tazza in porcellana cinese, prese due fette di pane tostato, vi spalmò sopra due riccioli di burro fresco e, infine, prese dal barattolino della marmellata di mele due cucchiaini di quella squisita bontà e la spalmò sopra al burro. Mangiò con gusto, Ditrich era un ottimo attendente, la marmellata la faceva lui. Sorseggiò un po’ di caffé. Mangiò un panino ripieno di salsiccia affumicata bevendo un bicchiere di spremuta d’arancia e, per finire, versò in una nuova tazza due mestoli di yogurt alla fragola. Accese un sigaro e riempì un bicchiere da liquore con dell’ottimo cognac Martell, arrivato dalla Francia per conto di un suo carissimo amico d’infanzia. Quando terminò, si alzò, aprì l’armadio ed iniziò a vestirsi. Pantaloni neri della divisa, camicia bianca, stivali di color marrone al ginocchio, lucidi… grazie a Ditrich e per finire indossò la giacca di lana verde scuro con i baffi da Capitano sulle spallette. Scese la scala, Ditrich lo stava aspettando col suo berretto in mano, uscirono in cortile e Forst montò in carrozza. Ditrich a cassetta. Partirono. Direzione: Meran – Tirol. Ditrich si abbottonò il mantello e s’infilò i guanti di lana. L’aria era ancora fredda. Diede un colpo di frusta con le lunghe redini sulla schiena dei cavalli e schioccò le labbra al solito modo dei guidatori di carrozze. I cavalli si mossero.
La carrozza filava in vallate circondate da montagne con vette alte e rocciose. Torrenti impetuosi correvano a valle. Piccoli paesi dalle case di legno con i balconi traboccanti di fiori. Fili di fumo si alzavano dai camini incontrando il cielo. Mucche al pascolo nei prati. Contadini al lavoro nei campi. Era questo lo spettacolo che Forst e Ditrich ammiravano dalla loro carrozza. La prima sera arrivarono ad Innsbruck e alloggiarono nella caserma “Schützen”, che si trovava alla periferia della città. Il Capitano Forst cenò nella mensa ufficiali in compagnia del comandante, il Colonnello Spaten. Ditrich ebbe l’onore di cenare nella mensa dei Sotto-Ufficiali, annaffiò la cena con l’ottima birra di produzione locale e terminò mangiando lo strudel di mele più buono della sua vita. Forst, volle informare il Colonnello sul motivo del suo viaggio e parlarono sino a tardi sorseggiando schnaps[14] ai frutti di bosco. Il Colonnello Spaten era un uomo piccolo e magro e di piacevole compagnia. Purtroppo non riuscì a dargli nessun buon consiglio. Il mattino del giorno dopo, Forst e Ditrich, partirono verso il Brenner [15] ed i cavalli sbuffarono parecchio in salita, mentre percorrevano la strada bianca e tortuosa che arrivava in cima. Forst abbassò il finestrino per farsi accarezzare dall’aria fresca e profumata di resina che i boschi di pini emanavano. A sera arrivarono a Sterzing, una ridente località tirolese e alloggiarono nell’unica locanda. L’albergo era gestito dalla famiglia Schloss ed il mangiare era genuino. Ottimi i würstel. Si scaldarono accanto al camino aspettando l’ora di andare a dormire. La figlia degli Schloss, Marwine, era una giovane teutonica, con guance rosse e trecce bionde. Guardava con molta insistenza il Capitano Forst, ma andò a dormire con Ditrich. Fu lei a servire ai due viaggiatori un’abbondante colazione la mattina dopo.
Ditrich la salutò agitando la mano prima di muovere la carrozza per lo Jaufenn [16].
Quella stessa sera sarebbero arrivati a destinazione. Poco prima del tramonto imboccarono la via principale di Meran, la Schafferstrasse e si diressero alla caserma dell’Alpen-truppen. Forst ascoltava il rumore prodotto dalle ruote della carrozza, dagli zoccoli dei cavalli e vedeva are, una dopo l’altra, le case della sua vecchia città. Gli tornavano alla mente tanti ricordi di gioventù. Si rivedeva, mentre correva insieme ai suoi amici nei cortili, nelle vie che incrociava e…chiuse gli occhi e tornò alla realtà. Quando giunsero davanti al portone della caserma, Ditrich smontò da cassetta e parlottò con la guardia. Tornò alla carrozza, si mise alla guida ed entrò in cortile. Si fermò davanti alla palazzina degli ufficiali, scese ed aprì la portiera al Capitano. Forst, quando mise i piedi a terra, osservò il cielo azzurro e senza nuvole e si stiracchiò le ossa.
«Si accomodi, signor Capitano.» La voce rauca da fumatore del Major[17] Schneider, comandante di quella caserma e vecchio amico del Capitano, colpì piacevolmente le orecchie di Forst. «La trovo in gran forma, signor Maggiore.» Disse con rispetto il Capitano, guardandolo. «Eh si, puoi ben dirlo. L’aria delle tue vecchie montagne fa bene alla salute, al fisico, ma soprattutto alla mente.» Rispose Schneider appoggiando le mani sulla sua pancia prominente e continuò
dicendo: «E tu, come te la cavi laggiù in città?» «Discretamente. Mi faccio onore.» Forst, mentre rispondeva, toccava la sua pancia piatta dandole dei colpetti col palmo della mano e aggiunse: «Mi mancano da morire le nostre montagne, ma devo servire l’Imperatore e i miei superiori mi vogliono a Wien.» «Vieni qua, ragazzo. Fatti abbracciare e…per mille caprioli…che si fottano i convenevoli.» Il Maggiore allargò le braccia, mentre parlava aspettando che il suo vecchio allievo gli si avvicinasse. Si abbracciarono come padre e figlio. Il Maggiore lo strinse forte e gli diede dei colpetti sulla schiena, poi, tese le braccia allontanandolo per guardarlo meglio e pronunciò: «Per Dio, ti trovo veramente in gran forma. Vieni, andiamo a berci due birre.» «Volentieri e, se ci fossero anche un paio di würst cotti a vapore...» «Quelli non mancano mai.» Lo interruppe il maggiore. Uno in fianco all’altro si diressero verso la mensa ufficiali. Forst notò che la sua vecchia caserma era rimasta come la ricordava. Palazzine di legno una accanto all’altra, giardini con fiori negli spazi antistanti, vialetti ricoperti di sassolini bianchi s’incrociavano attraversando prati verdi, il maneggio alla fine della piazza d’armi e la piccola chiesetta impeccabile nel suo abito bianco con i tetti ramati, ormai verdognoli perché ossidati. Il Maggiore era un maniaco della perfezione e pulizia e quella caserma lo rivelava. Un colpo di malinconia colpì il Capitano alla gola, ma per fortuna
Schneider era una persona brillante ed un inesauribile chiacchierone. Infatti, gli raccontò di come andavano le cose nella piccola cittadina di Meran. La figlia dei Kolbachen aveva sposato il figlio degli Holzbauer. Liesbeth, la sua prima fidanzata, si era sposata con Hans Hottenberg che era stato il suo miglior amico. Le sue battute di caccia al gallo cedrone. I problemi che aveva con l’amministrazione al quartier generale, lui chiedeva mille e loro gli davano cento, quindi era costretto a scegliere dove spenderli. Prima di tutto venivano i suoi soldati: cibo, vestiario, imbiancare le camerate in primavera. La seconda cosa importante, alla quale non poteva rinunciare era l’armamento e lo stallaggio; per finire, se rimaneva qualche tallero sarebbe servito per sistemare ed abbellire la caserma. Con quel fiume di parole Forst si distrasse e tornò con i piedi a terra. Consapevole che la vita che faceva a Wien era…si, la sua vita, ma un giorno sarebbe tornato a casa. Dopo lo spuntino, il Capitano si congedò dal Maggiore e si ritirò nella sua camera. Un buon bagno profumato, in quel momento era quello che desiderava. Lui ed il Maggiore rimasero d’accordo di ritrovarsi alla mensa alle venti in punto.
A cena, Forst, tra una portata di speck, una cotoletta con patate lesse e cipolle, un tagliere di formaggi di malga, il tutto annaffiato da un ottimo Pinot nero che il maggiore conservava per le occasioni speciali e…quella lo era, spiegò al maggiore il motivo del suo viaggio in Tirol. Il Maggiore ascoltò con molto interesse il racconto e non interruppe mai il suo migliore allievo, poi si toccò il mento con la mano sinistra e con un pizzico d’apprensione iniziò a dire: «Sono molto preoccupato per te.»
S’interruppe per versarsi un bicchiere di vino, lo bevve e riprese a parlare: «Mi ricordo di, quando avevo l’età del ragazzino a cui darai la caccia e devo dirti che non mi avresti catturato. Non, nelle mie montagne, dove conoscevo ogni cespuglio, pianta e anfratto in cui nascondermi. Eh si, sarebbe stato molto difficile per chiunque prendermi. Sicuramente ha un nascondiglio sicuro, dovrebbe essere una grotta con l’ingresso piccolo e nascosto da frasche, oppure una cavità in un dirupo. Chissà Dio dove ha trovato rifugio. Hai detto che si nasconde in montagna da sei anni, vero?» «Si, esattamente.» Rispose Forst, prestando molta attenzione a quello che gli stava dicendo il suo vecchio maestro. Aveva sempre avuto per lui una grande ammirazione. «Bene.» Riprese a dire il Maggiore e dopo una piccola pausa, continuò dicendo: «Non può essere sopravvissuto da solo dall’età di otto anni in montagna. Qualcuno del villaggio lo ha sempre aiutato. Ne sono sicuro.» A questo punto il Maggiore versò per se e per il barone Forst due bicchierini di grappa al mirtillo. Alzò il suo bicchiere verso il Capitano per fare un brindisi e Forst, a sua volta, prese il suo bicchiere e toccò quello del Maggiore dicendo: «Prosit![18]» Bevvero un sorso di liquore ed il Maggiore, dopo aver posato il bicchiere sul tavolo, proseguì il suo ragionamento: «30.000 talleri di taglia fanno sciogliere molte lingue. È probabile che qualcuno lo tradisca, forse, addirittura chi lo sta aiutando da sempre. Costui dovrebbe essere un parente o un vecchio amico di famiglia. Chiedi al Tenente Arschbackchen se conosce le persone che frequentavano la casa degli Jansvich. Tra loro si cela l’uomo che ha sempre aiutato il piccolo Milan a sopravvivere e sicuramente gli ha insegnato le tecniche della guerriglia che sta mettendo in atto.» A questo punto il Maggiore riempì di nuovo i bicchieri di grappa al mirtillo e
sollevò il suo aspettando che Forst lo imitasse per brindare di nuovo. Il Capitano non si fece pregare e toccò il bicchiere del maggiore ripetendo: «Prosit!» Bevvero d’un sol fiato e appoggiarono i bicchieri vuoti sul tavolo. Forst si ò la mano destra tra i capelli e guardando il Maggiore negli occhi, esclamò: «Molto interessante, sapevo che venendo qua avrei trovato l’aiuto che cercavo.» «Ma non è tutto.» Ribatté il Maggiore. «Se quell’incompetente del Tenente Arschbackchen non sa dirti chi erano i vecchi amici degli Jansvich e…questo è probabile, dovrai fare in un altro modo.» Detto questo, il Maggiore si girò e chiamò il cameriere della mensa: «Albert.» «Comandi, signor Maggiore.» Rispose immediatamente Albert. «Portaci due boccali di birra, per favore.» Ordinò Schneider. «Subito.» Esclamò in tutta fretta Albert. Fatta l’ordinazione, il Maggiore proseguì a dare nuovi consigli. Voleva che acciuffasse quel ragazzino per fargli fare bella figura con i suoi superiori a Wien. Nello stesso tempo nutriva simpatia e ammirazione per il piccolo montanaro che stava giocando a guardie e ladri. Si capiva che la sapeva lunga e che sarebbe
stato un ottimo avversario per il barone Forst e per tutta la guarnigione asburgica. Come aveva già dimostrato. Arrivò Albert con due boccali da un litro di birra ed un vassoio con fette di strudel. Appoggiò tutto nel centro del tavolo e disse: «Ecco signor Maggiore, ho aggiunto uno spuntino.» «Bravissimo Albert. Era proprio quello che ci voleva.» Rispose il Maggiore, strizzando l’occhio in segno di gratitudine. «Prosit! Prosit!» Dissero entrambi sollevando i boccali di ceramica facendoli toccare e bevvero un lungo sorso, poi, dopo averli posati sul tavolo, assaggiarono l’ottimo dolce fatto in casa e con soddisfazione ripeterono un brindisi. Forst proferì: «Alle nostre montagne, alla nostra gente e, che Dio ci aiuti e ci protegga sempre. Mi auguro che, qui…rimanga tutto così com’è.» «Al Tirol.» Urlò il Maggiore, sollevando il boccale di birra per berla fino all’ultima goccia ed esclamò: «Ahhh.» «Al Tirol.» Ripeté Forst, imitandolo. Si stava facendo tardi ed il Maggiore suggerì: «Forse è meglio se ne ordiniamo altre due, prima che chiudano.» «Certo.» Rispose Forst.
«Albert. Albert.» Urlò Schneider. «Comandi, signor Maggiore.» Domandò il cameriere, anche se, conoscendo il suo superiore, sapeva già cosa voleva. «Sii gentile, portaci altre due birre.» Chiese il Maggiore. «Arrivano subito.» Rispose, immediatamente, Albert.
Forst non si meravigliò del modo di fare del Maggiore, era sempre stato così. Schneider non trattava i suoi subordinati con ostentazione di superiorità, ma da uomo a uomo. Con considerazione per il lavoro che svolgevano e i suoi modi gli facevano ottenere rispetto ed ubbidienza da parte di tutti. Non era un ufficiale come gli altri. Lui, mangiava e dormiva insieme ai suoi soldati. Certo che, quando se lo meritavano, alzava la voce e li puniva.
«Questo è il modo migliore per are una serata. Buona birra, buon pane e formaggio e quando vuoi alzi gli occhi e guardi le stelle in cielo.» Il Maggiore pronunciò questa frase con un po’ di romanticismo, guardando il loro tavolo ed il cielo notturno. «È vero. Ha ragione Maggiore.» Rispose Forst, acconsentendo e condividendo il pensiero del suo gran maestro di vita. «Ma per mille caprioli, torniamo a noi.» Proclamò il Maggiore con enfasi.
«Stavo dicendo, se quel Tenente Arschbackchen non riesce ad aiutarti, ed è quel che prevedo, non arrenderti. La persona che aiuta il piccolo Milan deve abitare in paese e, almeno una volta la settimana dovrebbe incamminarsi in montagna per raggiungerlo. Sei d’accordo?» «Certamente. Ha ragione Maggiore. Ora che mi ci fa pensare, qualcuno deve portargli da mangiare. Per forza. Basterà controllare tutte le persone che escono e che s’inoltrano in montagna per acciuffarlo.» Rispose, tutto eccitato il barone Forst. Ormai era convinto che in quel modo lo avrebbe catturato e una volta preso e portato in caserma l’avrebbe interrogato e fatto parlare. «Non correre con la fantasia, Forst. Non sarà così facile.» Lo redarguì il Maggiore. «No. No. Sono sicuro che perquisendo tutte le persone che escono dal paese e s’incamminano in montagna lo catturerò. Basterà mettere delle guardie all’inizio dei sentieri ed il gioco è fatto.» Ribatté tutto eccitato il Capitano. Ma il Maggiore, che aveva molta esperienza e s’immedesimava nel suo avversario, lo disarmò esprimendo il suo modo di vedere le cose: «Sii pessimista e non ottimista. Quei montanari sono valacchi ed è come se fossero una grande famiglia. Si aiutano tra loro come non ho mai visto. Io li conosco bene. La voce si spargerà e dopo le prime perquisizioni, tutti, in paese, sapranno del tuo modo di operare. Per cui, la persona che stai cercando diventerà molto prudente e presumo che escogiterà qualche trucco per evitare le tue guardie. Lo prenderai solo se avrai la fortuna di beccarlo alla prima perquisizione, altrimenti non lo prenderai più. Hai capito?» «Forse ha ragione.» Assentì Forst e lo disse come un cagnolino bastonato, che abbassa le orecchie, si gira e se ne va. «Non devi demoralizzarti, lo puoi catturare, ma in un altro modo. Metti degli
Spürhünde[19] alle costole dei paesani che salgono in montagna e alla fine, li porteranno da Milan. Le persone di cui hai bisogno le ho qui. Noi siamo i migliori nel pedinare le persone senza farci notare. I miei ragazzi si muovono in montagna come fantasmi. Nessuno riesce a vederli o a sentirli. Anni e anni d’allenamenti danno questi frutti. Ascolta il tuo vecchio maestro. Questa! È la cosa giusta da fare.» Il Maggiore gli parlò col cuore in mano, mettendogli a disposizione i suoi migliori uomini. «Domani ti darò una dimostrazione. Ti farò vedere di cosa sono in grado di fare i miei ragazzi. Adesso dobbiamo andare a dormire. S’è fatto tardi e siamo ubriachi.» Concluse il Maggiore Schneider. «Buonanotte, signor Maggiore.» «Buonanotte, figliolo.» S’incamminarono affiancati verso i loro alloggi rimanendo in silenzio. Osservando il cielo stellato, ammirandolo. Arrivato nella sua camera il barone Forst si spogliò, fece una doccia con acqua fredda, s’infilò la camicia da notte e si coricò per dormire. Ma non gli fu facile prender sonno. Tanti pensieri lo fecero girare e rigirare nel letto. Ripensava a quello che aveva detto il Maggiore e percepiva, con la fantasia, le scene che gli aveva lasciato intravedere. Immaginava di essere in montagna e di fermare le persone che s’inoltravano sui sentieri per perquisirli. Poi, vedeva i montanari nella birreria del paese a raccontare quello che gli era capitato e l’uomo che stavano cercando li ascoltava con molta attenzione. “Eh si. Ha ragione il maggiore, così non può funzionare.” Chiudeva gli occhi per cercare di dormire, ma, ancora, vedeva se stesso che interrogava un montanaro e non riusciva a farlo parlare. Il montanaro gli diceva che non sapeva niente di tutta questa storia. Che non immaginava dove poteva
essersi nascosto il figlio degli Jansvich. L’eccitazione continuava e Forst, coricato nel letto apriva gli occhi e guardava il soffitto e si diceva “Così non va. Il Maggiore la sa lunga. Meglio mettere in atto i suoi suggerimenti. Domani mattina vedrò cosa sanno fare i suoi soldati, ma credo che non ci sarà altra scelta.” Chiuse gli occhi e, questa volta, si addormentò.
Appena spuntò il sole, Ditrich, entrò nella camera del barone, aprì le tende e la prima luce del giorno svegliò piacevolmente Forst. «Buongiorno Ditrich.» Sussurrò il Capitano, guardandolo e aggiunse: «Che ore sono?» «Sono le sei e s’intravede una bellissima giornata.» Rispose gentilmente Ditrich. Forst sollevò il piumino e si alzò. Quand’ebbe finito le prime operazioni del giorno, scese. Attraversò il cortile ed entrò nella mensa per fare colazione. Appena aprì la porta sentì la voce del Maggiore Schneider che gli diceva: « Buongiorno Capitano. Hai dormito bene?» «Come un ghiro, ma ho fatto fatica a prender sonno. I suoi consigli di ieri sera mi entravano nella mente come immagini reali. Comunque, dopo un po’ di tempo, la stanchezza ha avuto il sopravvento.» Rispose Forst, mentre si avvicinava al tavolo del Maggiore per sedersi e aggiunse con una punta di tristezza nella voce:
«A Wien non è come qui. Non c’è questo cielo. Ho molta nostalgia della mia terra, quando sono là.» «Ti capisco, figliolo. Ma devi resistere, verrà un giorno che tornerai per sempre. Gottverdammt! A chi vuoi che lasci la mia caserma se non a te.» Cercò di consolarlo il Maggiore. «Grazie, Maggiore. Lei è…e sarà sempre…il mio grande maestro.» Ringraziò Forst. Arrivò Albert con un carrello pieno di: uova strapazzate, wurstel, salsicce affumicate, patate al forno, yogurt, mele e pere, caffé nero, latte, the con un piattino di fettine di limone, spremute di frutta fresca. Terminata la colazione uscirono ed in cortile c’erano trenta soldati che li stavano aspettando. «Ecco, questi sono i miei spürhünde. Fra breve andiamo in montagna e ti faranno vedere di cosa sono capaci.» Disse il Maggiore a Forst. « Maggiore, sono veramente curioso di vederli all’opera. Non ho mai sentito parlare di queste tattiche.» Rispose Forst. Marciarono per un’ora e si diressero sui monti intorno a Hafling. Forst ed il Maggiore davanti, i trenta soldati dietro. Ad un certo punto, Forst, si girò per vedere la piccola truppa, ma non c’era nessuno. «Maggiore. Maggiore. Non c’è più nessuno.» Urlò Forst. «Dove sono spariti ?» Chiese, sempre ad alta voce, al Maggiore.
«Ah. Ah.» Rise il Maggiore. «Non preoccuparti, è già da venti minuti che ci stanno seguendo. Sono intorno a noi, anche se non li vedi.» Ribatté il Maggiore e proseguì dicendo: «Comprendi? È per questo che siamo qui. Volevo che tu vedessi questo. Ora li chiamo e ti stupirai di come ti sono vicini.» «Alpha-Beta! Fuori!» Ordinò il Maggiore. Uno dopo l’altro rientrarono nel sentiero. Due, addirittura, erano ad un metro davanti a loro. «Unglaublich![20]» Esclamò Forst e continuò dicendo: «Come hanno fatto. Non mi sono accorto di niente. E, quei due, un metro davanti a noi e non li abbiamo né sentiti, né visti. Stento a credere a quello che ho visto. Ed io, che ho sempre creduto che nessuno mi poteva avvicinare senza che me ne accorgessi. Wirklich unglaublich![21] Gottverdammt!» «Visto? Come ti avevo detto. Sono i segugi delle montagne. Riescono a muoversi come fantasmi. Con loro ti sarà facile seguire i paesani e vedrai che, prima o poi, uno di loro li porterà dritto…dritto dal giovane Milan.» Esclamò il Maggiore tutto soddisfatto. «Credo proprio che sarà una caccia facile.» Rispose Forst e sul suo volto s’impresse il classico sorriso di chi sapeva di aver vinto la partita prima della fine. A quel punto esclamò: «Possiamo tornare in caserma. Non ho bisogno di veder altro.»
«Mi auguro che con il loro aiuto tu riesca a concludere la tua missione favorevolmente, ma…ricorda di non abbassare mai la guardia. Potrebbe non essere una caccia facile. Stai attento.» Lo avvertì il Maggiore. «Alpha-Beta! Si torna in caserma.» Ordinò il Maggiore alla sua squadra.
I ragazzi dell’Alpha-Beta rientrarono a Meran giocando a nascondino. Entravano e uscivano dal sentiero e si nascondevano nel bosco per poi correre su e giù, abbracciando le piante.
La mattina dopo, Forst ed il Maggiore, erano uno in fianco all’altro ed osservavano i quattro carri adibiti al trasporto delle truppe con sopra il gruppo Alpha-Beta al completo. «Spero di rimandarle i suoi soldati al più presto.» Disse Forst al Maggiore e la sua voce tradiva una leggera commozione. «Non preoccuparti, prendi tutto il tempo che ti serve. Loro sono bravi ragazzi, te ne accorgerai.» Lo rassicurò, il Maggiore. «Ne sono sicuro.» Rispose Forst e allungò una mano per stringere quella del Maggiore. Il Maggiore allungò la sua, stringendogliela e con forza la fece oscillare su e giù per due o tre volte, in segno d’affetto ed amicizia, poi lo salutò militarmente. «Fa buon viaggio, figliolo.» «Non si preoccupi, Maggiore. Starò attento.»
Rispose Forst, mentre portava la mano destra alla fronte per rispondere al saluto militare del Maggiore. Si girò e montò in carrozza.
Arrivarono a Wien la sera del terzo giorno ed entrarono nella caserma GrossStein.[22] Forst andò dall’ufficiale di guardia e gli ordinò di trovare una camerata per il gruppo Alpha-Beta. Il Leutnant [23] Heineken, conosceva il Capitano di fama e salutandolo militarmente gli disse: «Nessun problema, signor Capitano. Qui abbiamo molto posto libero. Provvedo immediatamente.» Forst rispose al saluto, ringraziò l’ufficiale ed uscì. «Sergente Gösser, faccia accomodare i suoi uomini. Il Sotto-Tenente Heineken vi mostrerà dove potrete sistemarvi.» Il Sergente Gösser era il più alto in grado del gruppo Alpha-Beta e ne era il comandante. Per questo motivo Forst si rivolse a lui. Poi rientrò nella camera dell’ufficiale di guardia e mentre Heineken dava disposizioni ad un Corporal[24] di rimediare una sistemazione per gli uomini, Forst si sedette alla scrivania e scrisse l’ordine che aveva impartito all’ufficiale di guardia. “Maledetta burocrazia.” Pensò. Quando terminò, consegnò la lettera al Sotto-Tenente Heineken, lo ringraziò ed uscì in strada, dove lo stava aspettando Ditrich per portarlo a casa. L’indomani, di prima mattina, si presentò dal Tenente-Colonnello Furunkel per aggiornarlo e ritirare la borsa con i trentamila talleri. Furunkel, quando lo vide, esclamò: «Eccola qua, finalmente. È sparito da una settimana e non ho avuto sue notizie. Cominciavo a preoccuparmi.»
«Nessun problema, signor Tenente-Colonnello. Sono andato in Tirol perché sapevo che là avrei trovato la gente adatta per portare a termine la missione che mi ha dato.» Ribatté Forst. «Bene. Bene. Bravo ragazzo. Così…ci siamo. Tutto a posto. Non vedo l’ora che questa storia finisca.» Pronunciò Furunkel e si avvicinò ad un armadietto, aprì l’anta e prese una borsa di cuoio. L’appoggiò sulla scrivania e sganciò le due linguette che aveva sul fianco, per aprirla. Guardò il contenuto e disse: «Ecco! Trentamila talleri appena usciti dalla stamperia.» Richiuse la borsa e la consegnò al Capitano, dicendogli: «Ora può partire. Non perda tempo.» «Agli ordini, signor Tenente-Colonnello. Partiremo oggi stesso.» Forst avrebbe voluto contare i soldi, ma non poteva chiederlo. Il TenenteColonnello si sarebbe offeso. Però, vivendo a Wien da diversi anni aveva conosciuto la corruzione e persone che, appena ne avevano la possibilità si appropriavano dei beni altrui. Per cui non si sarebbe stupito se al posto dei “ famosi ” trentamila talleri ce ne fossero stati meno. Non poteva nemmeno chiedere al Tenente-Colonnello di sigillare la borsa, sarebbe stato un segno di sfiducia. Non gli rimaneva che fidarsi. Prese la borsa ed uscì.
La trappola.
Dopo due giorni, verso la metà del pomeriggio, il Capitano Forst con i suoi uomini e la borsa dei soldi, arrivarono a Frenštát. Si presentò alla guardia della guarnigione e chiese di essere annunciato al Tenente Arschbackchen. Il Caporale, che sapeva del loro arrivo, diede disposizione ai soldati della guardia di aiutare a sistemare i nuovi arrivati e condusse personalmente il Capitano Forst all’alloggio che gli era stato destinato: «Spero che la stanza sia di suo gradimento. Ora, se mi vuole scusare, vado ad avvisare il signor Tenente del suo arrivo.» «Grazie, Caporale.» Lo congedò Forst. La guarnigione di Frenštát era una caserma di periferia e non aveva tutte le comodità a cui era abituato il Capitano Forst, per cui, si dovette adattare ad alloggiare in una cameretta sobria ma pulita. Stava disfacendo la sua borsa da viaggio, quando sentì bussare alla porta. «Avanti.» Sussurrò, stanco dal viaggio. «È permesso?» Domandò il Tenente Arschbackchen entrando. «Si accomodi.» Rispose educatamente il Capitano. «Sono il Tenente Arschbackchen, comandante di questa guarnigione.»
Disse il Tenente presentandosi. Era emozionato. Suo suocero gli aveva risposto con una lettera, promettendogli che avrebbe mandato il miglior ufficiale dell’Impero. Un eroe. «Ora non più, assumo io il comando.» Disse seriamente il Capitano. «Giusto.» Proferì il Tenente. «Se mi permette l’aggiorno e le racconto per bene quanto è accaduto.» «Si accomodi, signor Tenente.» Con gentilezza il Capitano gli mostrò una sedia. ò un’ora ed il Tenente Arschbackchen uscì dall’alloggio del Capitano. Adesso doveva andare in ufficio e riscrivere il volantino che offriva una taglia da trentamila talleri e farli appendere in paese, quella stessa sera. L’abitazione dove alloggiava Forst era piacevole a vedersi. Aveva un sottoportico spazioso e delle fioriere ad ogni lato che poggiavano su un parapetto fatto di traversine di legno. Forst uscì dalla sua stanza e si sedette sull’unica panca che c’era in fianco alla porta. Ripensava a quanto gli aveva raccontato il Tenente Arschbackchen. “Quel ragazzino è un vero demonio. Però avrei fatto come lui se mi fossi trovato al suo posto. Adesso, devo mettere da parte i sentimentalismi e studiare bene la zona dove dobbiamo muoverci. Domattina, per prima cosa, farò un giro esplorativo tra queste montagne e dopo deciderò il da farsi.” Forst, dopo aver fatto tra sé questo ragionamento si alzò ed andò alla mensa per cenare. Nella caserma di Frenštát c’era un’unica mensa e quando entrò, un rumore allegro, fatto di canti e boccali di ceramica che si toccavano tra loro lo mise di
buonumore. Il locale era pieno dei soldati della guarnigione ed i ragazzi del gruppo Alpha-Beta si erano mischiati con loro. In un angolo vide che il Tenente Arschbackchen stava già cenando con sua moglie, lo salutò e si sedette ad un tavolino in disparte. Ogni tanto alzava gli occhi e guardava dalla parte del Tenente. Non aveva per lui né ammirazione, né stima. Sapeva che aveva fatto carriera sposando la figlia del Tenente-Colonnello Furunkel e che questi, a sua volta, l’aveva inviato il più lontano possibile. Guardava Arschbackchen e vedeva una mezza-calzetta non un uomo-soldatoufficiale dell’Impero Asburgico. A cena, gradì in modo particolare la birra locale. Non ne aveva mai bevuta di così buona. Terminò di mangiare bevendo un bicchierino di grappa. Si alzò, salutò il Tenente Arschbackchen e la sua signora, salutò con la mano alla fronte il resto della compagnia ed uscì. Attraversò il cortile e si ritirò nella sua camera. Tanti pensieri si accavallarono nella sua mente, cercando di impedirgli di prender sonno subito, ma la stanchezza accumulata nei due giorni di viaggio per arrivare a Frenštát da Wien ebbe il sopravvento. All’alba, Ditrich, entrò nella sua camera e lo svegliò. Il profumo del caffé nero gli mise appetito e mangiò con piacere tutto quello che gli era stato portato. Completò di vestirsi con pantaloni di velluto verde che arrivavano sotto il ginocchio, calzettoni rossi e pedule da montagna. Una sacca a tracolla con acqua e cibo e come aveva programmato s’incamminò da solo tra i Carpazi. Voleva vedere il territorio dove avrebbe condotto la sua battaglia. Tenne un’andatura lenta ma costante. ò dove Milan e Joshin si trovavano per pescare, ma non lo sapeva. Attraversò una decina di montagne e incontrò in tutto il giorno, solamente tre persone. La giornata stava finendo, aveva ancora due ore di luce e, ormai, stanco di camminare, intraprese la strada del ritorno. Discendendo, osservava il panorama. In alcuni punti lo lasciava a bocca aperta per la bellezza degli scorci che ammirava. Metro dopo metro, o dopo o si stava avvicinando alla vallata dove c’era Frenštát e senza volerlo si mise a parlare da solo. “È come cercare un ago in un pagliaio. Ho visto molti posti dove ci si può
nascondere e sono sicuro che sarò ato davanti ad altrettanti possibili nascondigli senza accorgermene. Aveva ragione quella vecchia volpe del Maggiore. Ho solo due possibilità per catturare il giovane Milan. La taglia ed i segugi dell’Alpha-Beta. Speriamo che una delle due funzioni.” Le due sentinelle che stazionavano davanti al portone della caserma, quando Forst entrò, lo salutarono mettendosi sull’attenti. Forst rispose portando la mano destra alla fronte. Andò dritto nell’ufficio del Tenente Arschbackchen. Quando Forst entrò senza bussare, il Tenente si alzò di scatto, impacciato come sempre. Con la gamba prese contro alla scrivania, facendola traballare e dei fogli di carta che stavano impilati uno sull’altro, si rovesciarono sparpagliandosi sul pavimento. «Buonasera, signor Capitano. Ha fatto una bella eggiata tra i nostri boschi?» Chiese Arschbackchen a Forst, balbettando e diventando rosso in viso per l’imbarazzo dovuto allo scompiglio dei fogli a terra. “Questo è tutto scemo.” Si disse Forst tra sé e lo redarguì dicendo: «Non ho fatto una eggiata. Sono andato a farmi un’idea del posto dove dovrò cercare Milan Jansvich e questi boschi, non sono nostri.» E nello stesso tempo pensò. “Visto che tu…non ne sei stato capace.” «Ah, chiedo scusa. Non sapevo. Ho notato che si è vestito per camminare in montagna ed ho pensato che era andato a farsi una bella sgambettata.» Riprese a dire Arschbackchen, imbarazzato sempre di più. Continuava a fare figuracce con quel Capitano, mandatogli da suo suocero e rimuginò.
“Speriamo che non parli male di me col Tenente-Colonnello.” «Chiudiamo qua questo discorso. Ha appeso i volantini con la nuova taglia in paese?» Domandò Forst. «Si, certo. Ho impartito l’ordine ieri sera.» Precisò il Tenente, per far capire al Capitano che non vi era andato lui personalmente, ma che aveva incaricato i suoi uomini. “Sei proprio un ometto.” Rifletté Forst e gli ordinò: «Mi faccia chiamare il sergente Gösser.» «Subito, signor Capitano.» Rispose Arschbackchen ed urlò: «Agüst. Agüst.» Agüst entrò subito e chiese: «Comandi, signor Tenente.» «Faccia venire qua il sergente Gösser.» Ordinò Arschbackchen. «No! Lo mandi nella mia camera.» Intervenne Forst, parlando direttamente ad Agüst. «Va bene. Come desiderate, signor Capitano.» Rispose Agüst ed uscì. «Buonasera, Tenente.»
Si congedò Forst. «Anche a lei, Capitano.» Rispose semplicemente il Tenente mettendosi sugli attenti e lo salutò militarmente, come si doveva fare con un superiore.
Arschbackchen si sentiva inferiore nei confronti del Capitano Forst e questo lo metteva a disagio. Lui…che nella sua caserma si era sempre comportato con spavalderia. Ora, con l’arrivo dell’eroe non si riconosceva più. Questa cosa non gli piaceva, s’interrogava sulla sua mascolinità, ma non trovava le risposte che lo soddisfacevano. Al momento si sottometteva al Capitano, ma alla prima occasione gli avrebbe fatto vedere di che pasta era fatto. Era un problema di personalità, di carattere che sarebbe dovuto uscire, ma non usciva e la situazione lo metteva a disagio.
Quando Gösser arrivò nell’alloggio di Forst, lo trovò seduto sulla panca e portando la mano destra alla fronte, si presentò dicendo: «Buonasera, signor Capitano.» «Buonasera anche a lei, Gösser. Si accomodi.» Forst, rispondendogli, con la mano indicò il posto sulla panca al suo fianco. Gösser si accomodò, senza dire una parola e guardò il portico ed il cortile. «Oggi sono stato tra questi monti. Sono come i nostri, la montagna è sempre montagna. Sono sicuro che sarà impossibile trovare e stanare il ragazzino. Le affido il compito di far seguire tutti i paesani che s’inoltrano tra i sentieri. Vediamo se qualcuno di loro ci conduce da Milan.» Gli disse Forst, guardando a sua volta il cortile ed il portico mentre parlava.
«Agl’ordini, signor Capitano. Questa notte cominceremo il nostro servizio.» Rispose Gösser, tutto eccitato. Finalmente s’iniziava. Si alzò, salutò ed andò nella sua camerata per preparare i suoi ragazzi.
Il gruppo Alpha-Beta uscì dalla guarnigione di Frenštát alle quattro del mattino. Marciarono in fila per due e man mano che trovavano un sentiero, due soldati del gruppo si staccavano e si nascondevano. Nessuno sarebbe ato da lì senza che loro lo vedessero e seguissero di nascosto.
Il fato volle che Milan, quella stessa notte, si trovasse in paese. Joshin, una delle tre persone che Forst incontrò in montagna quel pomeriggio, era andato ad avvertire Milan dei nuovi volantini con l’astronomica taglia di trentamila talleri, portandogliene uno. Milan lo lesse:
“Trentamila/30.000 Talleri a chi dà informazioni utili alla cattura del figlio degli Jansvich. Di anni 17, capelli lunghi e biondi, alto un metro e settanta. Armato e pericoloso.
Der Oberleutnant Arnold Arschbackchen.”
“Gliel’hanno proprio con me.” Pensò Milan ed un sorriso malizioso gli apparve sulle guance. «Quanti ce ne sono?» Chiese Milan a Joshin. «Il paese è pieno. Ogni porta, ogni albero, ne ha uno.» «Grazie Joshin. Sei sempre un caro amico.» «Stai attento. Trentamila talleri faranno gola a molte persone, anche a chi ti vuol bene. Non fidarti di nessuno.» «Non preoccuparti, Joshin. Io non mi fido di nessun’altro all’infuori di te. Tuttavia, sta attento anche te, corri sempre dei rischi ad incontrarmi per portarmi cibo e latte.» Joshin abbracciò Milan e tornò in paese. Incontrò, strada facendo, un tipo strano. Milan rilesse il volantino e pensò che una piccola correzione non ci stesse male. Per cui preparò una ventina di foglietti, prese la misura giusta per incollarli sulla parte del manifesto che gli interessava e scrisse: dell’amante della signora Furunkel. Lo incollò subito sotto la riga dove c’era scritto: alla cattura Dopo, avrebbe incollato sotto il resto del volantino un disegno rappresentante due corni di bue. Alle tre e quarantacinque arrivò in paese e proprio mentre stava incollando la sua burla sopra ai volantini originali, vide uscire dalla caserma un gruppo numeroso
di soldati. Si nascose e li guardò. Notò che si stavano dirigendo verso il monte Pivǒt. “E questi chi sono?” Si domandò Milan. “Molto strano, vediamo cosa fanno.” Si disse e li seguì senza farsi scoprire. Si meravigliò nel vedere che, prima due, poi altri due soldati sparivano nel nulla appena imboccavano un sentiero. Notò che erano molto abili nel nascondersi e, se non li avesse visti sarebbe stato catturato di sicuro. Perché, senza dubbio, erano lì per lui. Ma per fortuna li aveva visti. Tornò in paese per terminare il suo lavoro e quando lo concluse, aggirò il Pivot dalla parte opposta per tornare al suo rifugio. Evitando di incontrare quei soldati.
La notte terminò e come tutte le mattine, alle ore sette, uscirono dalla caserma le due sentinelle ed iniziarono a fare la guardia davanti al portone della guarnigione asburgica. Notarono che quella mattina c’era qualcosa di strano. La gente ava davanti a loro, li salutava e sorrideva. «C’è qualcosa che non va.» Disse la sentinella di sinistra a quella di destra. «Già.» Rispose l’altra. «Sarà meglio avvisare il Caporale. Un sopralluogo alla caserma ci vuole.» Disse di nuovo la sentinella di sinistra.
«Vado.» Rispose l’altra e corse ad avvisare il Caporale. Il Caporale uscì e controllò la caserma, ma non notò niente d’anormale. In ogni modo, capì che c’era qualcosa d’insolito. Le persone erano sorridenti e cordiali e non era normale. S’incamminò per la strada centrale del paese e ad un certo punto adocchiò il volantino che lui e due dei suoi uomini avevano appeso due giorni prima. Guardò subito il disegno e quando si avvicinò lesse il volantino. “Cavolo! E chi glielo fa avere al Tenente.” Pensò intimidito, ma toccava a lui. Staccò da un albero il volantino corretto, lo piegò e tornò in caserma. Andò subito dal Tenente senza dir niente a nessuno. Bussò. «Avanti.» Disse il Tenente Arschbackchen con la voce del mattino, un po’ rauca. Il Caporale aprì la porta e domandò: «Permesso?» «Avanti. Avanti. È sordo Caporale?» Lo interrogò il Tenente e continuò chiedendogli: «Cosa c’è? Come mai è qui a quest’ora?» «Ecco, signor Tenente. È un po’ imbarazzante, ma in paese i volantini della taglia che abbiamo appeso l’altro giorno hanno subito una modifica.»
Rispose il Caporale con un filo di voce. «Cioèè? Cosa sta farneticando. Si può sapere cosa diavolo succede in questo dannato posto? Di quale modifica sta parlando?» Urlò il Tenente. Il Caporale non rispose, ma estrasse dalla tasca dei pantaloni un volantino piegato, lo aprì e lo consegnò ad Arschbackchen. Il Tenente quando lo vide, la prima cosa che notò fu il disegno dei corni di bue e fu come prendere un pugno allo stomaco, subito dopo lesse la correzione di Milan e il sangue gli affluì al viso facendoglielo diventare paonazzo. Non c’era bisogno di chiedere chi era stato a far ciò. Lo sapeva e urlò: «Maledetto!» Si alzò, mise le mani dietro la schiena e strinse il pezzetto di carta come per strozzarlo, come se fosse Milan in carne e ossa. “Piccola peste. Hai i giorni contati.” Pensò. “Adesso è arrivato da Wien uno specialista e guarderai i tuoi monti ancora per poco tempo. Poi, penzolerai dalla forca come ha fatto la tua famiglia.” «Caporale, mi dica. I volantini sono tutti così?» «Sissignore. Tutti così.» «E…cosa fa ancora qua? Corra subito a levarli.» «Subito, signor Tenente. Corro.» Rispose il Caporale, trattenendo un sorriso sotto i baffi e uscì dall’ufficio del Tenente.
Per Milan era giunto il momento di capire chi erano e cosa facevano quel gruppo
d’uomini che aveva visto durante la notte. Aveva compreso che erano montanari da come camminavano. È tipico di chi è abituato a camminare in salita ed in discesa, ondeggiare col corpo. Aveva visto i primi due nascondersi nel primo sentiero che avevano incontrato, poi, altri due sparire al sentiero successivo. Sicuramente anche il resto della compagnia avrà agito nello stesso modo man mano che incontrava nuovi sentieri. Erano abili, quasi quanto lui. Doveva stare molto attento. Prese la balestra e cinque frecce e aggirò il Pivot per prendere alle spalle il primo gruppetto che aveva visto nascondersi. Quei soldati erano veramente eccezionali nel mimetizzarsi e se non fosse stato per un piccolissimo errore da parte di uno di loro, una scarpa fuori da un cespuglio, non li avrebbe scovati. Si sdraiò e strisciò silenziosamente sino ad arrivare a tiro. Armò la balestra e scagliò la sua freccia in mezzo al cespuglio dove stava nascosto il primo uomo del gruppo Alpha-Beta. Lo colpì nel fianco, traandogli le costole. Peter Wasser lanciò un urlo e morì. Il suo compagno si alzò per vedere cos’era successo, ma fu un errore perché si espose ed una nuova freccia gli traò il collo. Franz Dose[25] emise un urlo strozzato, come quando si uccide un pollo. Milan rimase coricato nel suo nascondiglio, immobile, per mezz’ora. Voleva essere sicuro di non essere stato scoperto. Quando fu certo che nessuno dei loro compagni aveva sentito le grida ed era venuto a controllare, si allontanò strisciando pian piano e tornò al suo rifugio.
Al mattino, verso mezzogiorno, in caserma c’era stato del trambusto. Forst aveva sentito il Tenente Arschbackchen urlare contro la sua truppa, poi aveva visto i soldati andare avanti e indietro per il cortile in tutta fretta. Li aveva visti uscire e ritornare dopo mezz’ora con dei fogli in mano. Non aveva capito cos’era
successo, era stanco e non aveva voglia di vedere il Tenente Arschbackchen, per cui era rimasto nella sua camera.
Durante quella giornata due montanari erano ati dai sentieri e furono seguiti dai segugi, ma non fecero nulla di strano. Avevano raccolto funghi e more ed erano tornati a Frenštát. Arrivò la sera ed il sergente Gösser tornò sui suoi i controllando le postazioni del gruppo Alpha-Beta per sentire se c’erano novità. Quando arrivò all’ultima, Peter Wasser e Franz Dose non risposero al richiamo della civetta, come avevano convenuto. “Strano.” Rifletté il sergente. “Quei due sono tra i migliori del gruppo. Chissà dove si sono cacciati.” Mentre stava pensando a questo vide un braccio che fuori-usciva da un cespuglio. Si avvicinò e notò che non c’era alcuna reazione. Neppure un movimento. Si chinò, prese la mano che sporgeva e la tirò a sé, scuotendola. Niente. Non succedeva niente. “Com’è possibile?” Si chiese. Tirò con più forza e rimase sbalordito, quando vide la testa di sco con una freccia nel collo. «Um Gottes willen[26]!» Esclamò. Gli venne l’affanno e si mise a cercare Peter, ormai era sicuro di trovarlo nella stessa condizione. Radunò i suoi uomini e portarono i corpi privi di vita nella guarnigione di
Frenštát, dove avrebbero ricevuto una sepoltura cristiana. Quando arrivarono in caserma era notte fonda e Gösser andò a svegliare il Capitano Forst per comunicargli la notizia. Bussò alla porta del Capitano. Nessuna risposta. Bussò di nuovo con due colpi di pugno sulla porta di legno. «Chi è?» Chiese Forst, svegliandosi. «Sono il sergente Gösser, Capitano.» «Che cosa vuole a quest’ora?» «Porto cattive notizie.» Rispose il sergente stando dietro la porta. «Cos’è successo?» «Posso entrare?» Domandò Gösser. «Entri pure.» Acconsentì Forst. Il sergente aprì la porta ed entrò: «Ho portato con me, due ragazzi morti.» «Cosaa? Vuol dire due dei suoi?» «Si. Due dei miei.»
Forst era sbalordito da quello che aveva sentito e, con apprensione, chiese al sergente: «Cos’è accaduto? C’è stato un agguato?» Gösser gli spiegò come li aveva trovati e gli fece il rapporto della giornata. «Chi può essere stato?» Domandò Forst. «Di sicuro non il ragazzino che stiamo cercando. Peter e sco non si sarebbero fatti sorprendere da un bambino. Penso, che qua, ci sia un gruppo di uomini che lo usano come capro espiatorio, ma agiscono loro. Mi sembra la cosa più sensata.» Gösser era sicuro che le cose stavano come le aveva esposte. Forst lo ascoltò con attenzione e poi disse: «Può darsi che lei abbia ragione. Farò fare delle indagini. Ora, torni in montagna con i suoi uomini e continuate il lavoro per cui siamo venuti qua. Fate attenzione, mi raccomando. Ai Due ragazzi morti penserò io.» «Jawohl, mein Hauptmann.» Rispose Gösser, deciso. Si mise sull’attenti e salutò.
Gösser era ripartito, l’alba di un nuovo giorno stava arrivando colorando il cielo di rosso e Forst, ormai, aveva perso il sonno. Si levò la camicia da notte, si vestì ed andò all’infermeria per vedere i due ragazzi del gruppo Alpha-Beta. Quando entrò, li trovò coricati su due brande con le mani incrociate sul petto. Biondi, alti, robusti. A vederli così si poteva pensare che stessero dormendo. Si sedette su una sedia appoggiata al muro e li osservò. Pregò per loro.
arono due ore, forse tre ed entrò come una furia il Tenente Arschbackchen. «Eccola qua. M’avevan assicurato che l’avrei trovata qui.» Disse tutto eccitato ed esclamò: «Non sa cos’è successo.» Arschbackchen non era al corrente degli ultimi avvenimenti ed era arrabbiato per i volantini della taglia corretti da Milan. Non si rese conto che si trovava innanzi a due cadaveri e non si stupì nel trovare il Capitano Forst seduto in una stanza dell’infermeria. Forst d’altro canto, non sapeva niente dei volantini e credette che Arschbackchen stesse parlando dei due soldati trovati morti in montagna, per cui ci rimase male quando capì che il Tenente stava parlando d’un’altra cosa. «Guardi qua.» Disse il Tenente allungandogli un volantino. Forst lo prese, lo lesse e per la prima volta in quel giorno abbozzò un sorriso. «Ha visto con chi abbiamo a che fare?» Domandò il Tenente a Forst.
Arschbackchen sapeva che il barone Forst si era guadagnato i baffi da Capitano sui campi di battaglia e quando giunse a quarant’anni aveva conosciuto le persone giuste e si era introdotto nel quartier generale di Wien. Il Capitano Forst era un eroe dell’Impero. Arschbackchen provava per quest’uomo una grande ammirazione ed era orgoglioso di averlo conosciuto personalmente. Quando gli rivolgeva la parola si emozionava come quando, da ragazzo, veniva interrogato dai suoi professori a scuola. Si comportava con modi impacciati e faceva sempre delle brutte figure in sua presenza.
Mentre Arschbackchen si sentiva inferiore nei confronti del pluridecorato Capitano, il Capitano Forst, al contrario, pensava: “Questo deficiente, imboscato, è riuscito a fare carriera sposando una delle più brutte donne di Wien, ma è la figlia di quel politicante del Tenente-Colonnello Furunkel, ragion per cui, chiunque sarebbe in grado di diventare un ufficiale di carriera. È per colpa di questo cretino se sono morti due figli della mia terra ed i suoi soldati, che sicuramente erano buoni militari. Questo inetto, per farsi vedere da suo suocero ha impiccato un’intera famiglia ed il più piccolo dei fratelli di Milan aveva solo dodici anni. Che pericolo poteva essere per l’Impero? Mah! Se non fossi fedele come sono all’Imperatore ed alla mia terra, lascerei stare. Che se lo catturi lui il ragazzino. Catturatelo da solo, signor Tenente! Mezzo scemo che non sei altro. Però, sono qui e devo catturare Milan Jansvich, anche se sto facendo il tifo per lui. Questo deficiente è entrato qui col suo foglietto di carta, tutto arrabbiato e non si è nemmeno accorto che ci sono due giovani morti, coricati nei letti. Vede solamente le sue cose. Mi fa piacere vedere che Milan ti prende in giro. Non capisci che ti provoca per farti inviare la tua truppa nelle sue montagne e pian piano te li ucciderà tutti. Va beh! Basta con questi pensieri. Ora cerchiamo di portare a nostro vantaggio la situazione.” «Signor Tenente, invece di starnazzare come un’anatra, abbia il dovuto rispetto per i due soldati morti.» «Cosaa? Quali soldati morti?» «Questi due.» Rispose Forst, indicando con la mano i letti che si trovavano davanti a lui. «Per Dio. Vuol dire che questi due giovani sono morti?» «È quello che le ho appena detto.» Disse Forst e pensò. “Ma questo fa finta di essere scemo o lo è?”
«Mi scusi. Mi scusi, signor Capitano, non me n’ero accorto. Pensavo fossero ammalati e che stessero riposando.» «Sono morti, mentre facevano il loro dovere. Avranno un funerale cristiano.» «Certamente, signor Capitano. Adesso faccio chiamare il cappellano militare e penserò personalmente alla loro sepoltura nel nostro cimitero.» Arschbackchen, rendendosi conto della gaffe che aveva fatto cercò di rimediare prendendo la situazione in mano e assolvendo da quel compito il Capitano Forst. «Dopo pranzo verrò a trovarla nel suo ufficio. Dobbiamo riordinare le idee e vedere se c’è qualcosa che abbiamo trascurato.» Detto questo, Forst, si alzò ed uscì dall’infermeria e dalla caserma. Andò a fare una eggiata per le strade di Frenštát. Aveva bisogno di rimanere da solo per riflettere. Pranzò nell’unica locanda del paese bevendo la birra prodotta dal birrificio locale. Buona. Purtroppo la carne che mangiò non gli piacque, comunque apprezzò il pane. Alle due del pomeriggio rientrò in caserma ed andò direttamente nell’ufficio del Tenente Arschbackchen.
Arschbackchen, quella mattina aveva ordinato una messa per i soldati morti e li aveva fatti seppellire. Alla fine del funerale, scrisse una lettera di condoglianze da far pervenire alle loro famiglie. Dopo pranzo, andò in ufficio aspettando il Capitano Forst. Era curioso di sentire come avrebbe agito. Accese un sigaro ed in quel momento, sentì bussare alla porta. «Entri pure, signor Capitano.» Forst aprì la porta e mentre si avvicinava alla poltroncina che si trovava di fronte alla scrivania del Tenente, salutò il Tenente e chiese:
«I miei ragazzi hanno avuto una sepoltura cristiana?» «Sissignore. Ho fatto celebrare una messa e quand’è finita li abbiamo accompagnati al cimitero.» «Bene. Bene.» Rispose Forst, soddisfatto e continuò dicendo: «Ora, veniamo a noi e a Milan. Quella piccola peste dovrà pagare per i crimini che ha commesso.» Il Tenente Arschbackchen ascoltava con attenzione e, al momento, condivideva quello che aveva detto il Capitano, per cui disse: «Giusto, sono d’accordo con lei.» Forst, riprese a parlare: «Gösser mi ha suggerito di fare delle indagini perché, secondo lui, non può essere un ragazzino ad aver fatto tutto ciò. Ad agire dovrebbe essere un gruppo di uomini.» Arschbackchen, alzandosi, disse: «Lo escludo nel modo più assoluto. Qua non c’è nessun gruppo di rivoltosi. C’è solo quel ragazzino. Purtroppo ci attacca all’improvviso, riesce ad attuare le sue scorribande e sparire e noi non riusciamo ad acciuffarlo.» «Ne è certo, signor Tenente?» Domandò Forst. «Certisssimo, signor Capitano. Dopo tutti gli anni che ho ato qui, lo saprei. Non crede?» Confermò Arschbackchen, sicuro di sé. «D’accordo. Ammettiamo che lei abbia ragione. Non ci resta che catturare Milan e tutto si risolverà.»
Affermò Forst. Il Tenente Arschbackchen, ribadì: «Non sarà facile. Come avrà già notato, quel demonio è pericoloso.» «Si. È vero. Ma, prima o poi, tutti commettono un errore e noi, quando succederà, saremo lì.» Rispose Forst, cercando di dare coraggio al Tenente. «Speriamo che sia come dice lei.» Affermò Arschbackchen. A questo punto, Forst espose il piano che il suo istinto gli aveva suggerito quella mattina. «Questa sera rientrerà Gösser con i suoi uomini. Domattina, lei, invierà un gruppo di dieci soldati in montagna alla ricerca di Milan. Se non sono diventato stupido, il ragazzo cercherà di colpirli. I segugi dell’Alpen-truppen seguiranno i suoi uomini stando nascosti nel bosco e saranno pronti ad intervenire, quando Milan cercherà di attaccare.» «Lei, ci sta usando come esca.» Disse il Tenente Arschbackchen, non contento del modo di agire del Capitano. «Non vedo un’altra possibilità. Se tutto andrà bene, cattureremo il ragazzo prima che uccida qualcuno dei suoi soldati. Lei, ha qualche idea migliore?» Replicò Forst, giustificandosi. «Si, ha ragione. Anch’io non vedo un’altra soluzione. D’altronde, bisogna provare qualsiasi tattica.» Acconsenti Arschbackchen, accettando il piano. «Bene. Se è d’accordo col mio piano, mi fa piacere. Prepari i suoi uomini per domani mattina all’alba. Ci troveremo nel cortile antistante il portone. Immagino che lei non venga con noi.»
«Esatto, io resterò qui. Questo non è lavoro adatto a me.» Replicò il Tenente. Forst assentì e pronunciò: «Io, mi metterò alla testa dei suoi soldati.» «Come vuole, signor Capitano. Il piano è suo.» Forst si congedò dicendo: «Ora, vado in camera, ho bisogno di riposare. A domattina, signor Tenente.» «A domani mattina, signor Capitano.» Ripète Arschbackchen, alzandosi e, mettendosi sull’attenti lo salutò militarmente. Quando Forst uscì, il Tenente si sedette e pensò. “Il piano è buono, potrebbe funzionare. Speriamo di chiudere questa storia alla svelta. Milan mi sta mettendo in imbarazzo con i miei superiori.”
Quella sera, dopo il tramonto, Gösser si presentò al Capitano per fare il rapporto della giornata. Forst lo informò sulla conversazione che aveva avuto col Tenente Arschbackchen e Gösser annuì, affermando: «Ottimo piano, funzionerà.» Forst era soddisfatto. La sua mente aveva elaborato un piano eccellente e questo era stato accettato con entusiasmo dai suoi subordinati. Ora, era il momento di entrare nei dettagli e proseguì, dicendo: «Metà dei suoi uomini continuerà il solito lavoro di pedinamento, l’altra metà seguirà i soldati della guarnigione. Comunque, ne tenga fuori quattro, che dovranno vigilare la strada del paese durante la notte. Due li posizionerà all’ingresso e due alla fine. Nessuno, dico…nessuno. Deve
lasciare Frenštát senza essere seguito. Chiaro?» «Chiarissimo.» Rispose Gösser. Forst continuò quello che stava dicendo: «Se non lo catturiamo domani, lo cattureremo dopo-domani o il giorno dopo. Alla fine il ragazzino si scoprirà.» «Senz’altro. Non ci sono dubbi.» Affermò Gösser e salutò il Capitano per tornare in camerata ed informare i suoi ragazzi. La mattina seguente, una leggera pioggerella sorprese i soldati asburgici che si erano trovati, puntuali, all’alba nel cortile della caserma. Pronti per intraprendere la loro missione. Forst notò che il Tenente Arschbackchen si era vestito per camminare in montagna e gli chiese: «Signor Tenente, ha cambiato idea?» «Si, signor Capitano. Credo che sia giusto venire con lei ed i miei uomini.» Forst non aggiunse altro, ma rimase piacevolmente sorpreso. Camminarono tutto il giorno alla ricerca di Milan sotto l’acqua. I segugi c’erano, ma non si vedevano. Al termine di quel giorno tornarono in caserma, bagnati ed infreddoliti. Milan non si era fatto vedere. Continuarono ad uscire per cercare il nascondiglio di Milan tutti i giorni. La trappola era pronta, Milan doveva solo abboccare. Se, avesse osato ad uscire allo scoperto, anche uccidendo un soldato, i segugi lo avrebbero inseguito sino a prenderlo. Con loro non aveva la minima possibilità di farla franca.
Milan si trovava in uno dei suoi punti d’osservazione, a pochi i dalla cima del monte Pivǒt e vedeva la dozzina di uomini che, in fila per due, procedevano sul sentiero. Era sicuro che ci fossero anche quelli nuovi, anche se non li vedeva. Dovevano essere vicini e, sicuramente, avanzavano insieme con gli altri stando nascosti nel bosco. Aguzzò la vista e notò qualche piccolo movimento: un rametto che oscillava, un sasso che rotolava, un lampo di luce causato da una fibbia di metallo che rifletteva la luce del sole. “ Eccoli.” Si disse. Attaccarli in quel momento era molto pericoloso, aveva intuito che lo stavano aspettando. Li osservò e li lasciò are per diversi giorni, non era ancora arrivato il momento per colpire. Doveva escogitare qualcosa, non voleva arrendersi. Dopo un’altra settimana decise di sfidare la sorte. I più vulnerabili erano i nuovi arrivati, li aveva studiati per diversi giorni ed aveva capito come si muovevano, però…decise che avrebbe colpito uno o due dei soldati che marciavano sul sentiero. Era evidente che fossero un’esca per lui e accettò la sfida. Il giorno dopo si sarebbe nascosto dove non se lo sarebbero aspettato. Trovò il posto giusto. Sulla cresta del monte dove la mulattiera saliva per valicare e dall’altra parte il sentiero scendeva ripidamente. In quel modo i soldati sarebbero stati affaticati dalla lunga salita e lasciandoli scendere avrebbero dovuto risalire faticosamente. Quella stessa notte uscì dal suo rifugio alle tre e quarantacinque. Portò con sé il fucile e gli attrezzi che gli sarebbero serviti per preparare la via di fuga. Sapeva che i nuovi arrivati l’avrebbero inseguito e raggiunto. Mise sul sentiero che avrebbe usato per scappare delle trappole per orsi, le coprì con foglie e ciuffi d’erba e quando terminò, legò a dei rametti delle striscioline di tessuto verde per segnare il posto. Non voleva cadere nelle sue trappole e, soddisfatto, andò al punto che aveva scelto per l’agguato.
Vi arrivò alla prima luce dell’alba e si vestì come un cespuglio. Si nascose in modo da non essere visto. Era accanto al sentiero ed era invisibile. Aspettò l’arrivo dei soldati asburgici e verso metà mattina, li sentì arrivare. Rimase immobile. Gli arono accanto, erano in fila per due. Il Capitano Forst ed il Tenente Arschbackchen precedevano la piccola truppa, parlavano tra loro sottovoce e Milan non riuscì a capire cosa si stavano dicendo, contemporaneamente scorse i segugi del Tirol avanzare come ombre nel bosco. Tutti gli arono vicino, ma nessuno si accorse di lui. Gli asburgici valicarono la cima del monte ed iniziarono a scendere. La discesa era scoscesa e dovettero scendere con prudenza. Li lasciò allontanare per circa trenta metri, cosicché avrebbe avuto un buon vantaggio per mettersi in salvo. A quel punto si trovavano abbastanza distanti da permettergli di colpire e scappare. Sparò all’ultimo soldato della fila prendendolo nel centro della schiena. Il suo compagno sentì il botto dello sparo, si girò da quella parte e vide il suo amico Harthie allargare le braccia e cadere in avanti. Si girò ed una pallottola lo colpì in faccia. Milan si alzò e scappò. Forst urlò: «Là! Là! Sparate!» I soldati della truppa iniziarono a sparare nella direzione di Milan. Gli AlphaBeta uscirono dal bosco e si misero a rincorrerlo. Due pallottole gli fischiarono vicino all’orecchio. Milan si aspettava quella reazione e si buttò giù, a rompicollo, per il sentiero evitando le trappole. Saltava i massi che si trovava davanti, si abbassava evitando i rami sporgenti e pericolosi. Il bosco era la sua casa.
Il gruppo Alpha-Beta lo stava raggiungendo, oramai mancavano solo venti metri e l’avrebbero raggiunto. Urlavano: «Hop, Hop. Eccolo, eccolo. È nostro. Gli siamo addosso. È nostro.» Correvano senza curarsi degli ostacoli, li evitavano con disinvoltura. Sembravano caprioli. Hans König non si accorse che stava per mettere il piede dentro una tagliola per orsi. Quando lo fece, la molla scattò ed i due semicerchi si chio sopra il collo del piede e la catena della tagliola, legata ad un albero, gli bloccò la corsa. Urlò e cadde. Le punte acuminate dei triangoli gli serravano il polpaccio. Il dolore era insopportabile. Urlò di nuovo e svenne. Subito dopo, anche Faust Eichbaum cadde nella seconda trappola e seguì la stessa sorte di Hans. Gli altri ragazzi del gruppo si bloccarono per soccorrere i loro compagni e per paura. Milan sparì. Gösser, con l’aiuto di altri due segugi riuscì a sbloccare le trappole. Fasciò le gambe dei due soldati ed ordinò di ritornare in caserma. Bisognava portare al più presto i feriti nell’infermeria. Forse si poteva evitare l’amputazione. Ma non andò così. Rientrati in caserma, Forst era afflitto e furioso. Due soldati morti e due feriti in modo grave. Doveva prendere dei provvedimenti seri. Ordinò di instaurare in paese il copri-fuoco ed ogni notte quattro soldati facevano la ronda in paese. Oltre a ciò decise di punire i paesani con una tassa,
pari al dieci per cento della loro paga. Era sicuro che quest’idea avrebbe prodotto qualche risultato, doveva cercare di metterli gli uni contro gli altri. Si sa che quando tocchi il portafoglio alle persone, qualche cosa viene fuori.
La rivolta.
ò un mese ed arrivò l’estate. In quel periodo, la ricerca di Milan non fu mai interrotta. Metà gruppo Alpha-Beta seguiva la truppa della guarnigione, l’altra metà pedinava i paesani, quando uscivano da Frenštát. Non ci fu nessun altro agguato. Milan non si era fatto vivo. Era la sua tattica, colpire e sparire per poi colpire di nuovo. Era solo contro tanti uomini e doveva agire d’astuzia e la sorpresa era la sua arma migliore. Ogni giorno vedeva i soldati salire in montagna. Sembravano spaventati e nervosi, continuavano a guardarsi intorno con la speranza di trovare qualche traccia. Ma…Milan, come tutti gli animali del bosco, non ne lasciava.
ò qualche altro giorno ed arrivò la domenica e come tutte le domeniche, Joshin evitò i segugi ed arrivò all’appuntamento con Milan. Quando s’incontrarono, lasciò cadere a terra la sporta e lo abbracciò, dicendogli: «Ti voglio bene, ragazzo. Devi stare molto attento. I soldati sono arrabbiati con te. Sii prudente. Mi raccomando.» «Lo so, non preoccuparti. Li osservo tutti i giorni e non ho paura di loro.» Gli rispose Milan, emozionato. Sapeva che Joshin gli voleva bene come ad un figlio. Si staccarono dall’abbraccio e Joshin gli disse: «Mio Dio, quando parli così non sembri un ragazzino, ma un uomo che ha già vissuto la vita.» «Joshin, io ormai mi sento uomo. Sono uomo. Mi riconosco. Adesso so come la penso, so cosa voglio. Ho capito chi sono e non cambierò mai. Perché è così che mi piaccio. Sono un uomo giusto e anche se ho commesso dei crimini, l’ho fatto
per avere giustizia. Così, stanno le cose.» «Ragazzo mio, non sai quanto ti sbagli, quando dici di conoscerti. Quando credi che non cambierai mai. Sarebbe davvero un grave errore da parte tua cercare di rimanere per sempre quello che sei oggi. Devi migliorarti e imparare da ciò che ti circonda, amici e nemici. Sempre. Presta attenzione e te ne accorgerai. Come ogni mattina nasce un nuovo sole, anche noi dobbiamo nascere di nuovo. Essere sempre diversi da quel che eravamo il giorno prima, c’insegna ad amare la vita. Non buttarti via. Quando ti svegli la mattina, pensa che inizierà un nuovo giorno e per te un nuovo momento di vivere. Ascolta sempre quello che ti suggerisce il tuo istinto, la tua anima, il tuo cuore. Solo quando avrai afferrato il significato di queste parole, sarai un vero uomo. Adesso cambiamo discorso. Oggi, oltre alle solite cose, ti ho portato una torta fatta da mia moglie.» «Grazie, siete sempre stati molto gentili. Non so come ricambiarvi.» «Non preoccuparti. Ci ripaghi con quello che fai hai soldati asburgici. Sei il nostro eroe e non solo nostro. Tutti, in paese, ti vogliono bene e si augurano che non ti prendano mai.» «Grazie ancora, Joshin. Non ho parole.» Detto questo, Milan, prese la borsa dei viveri e si addentrò nel bosco. Joshin s’incamminò sul sentiero e raccolse funghi e more. A questo punto, poteva farsi vedere e seguire dai segugi senza insospettirli. Il sole stava tramontando ed illuminava la vallata che aveva di fronte, d’una luce intensa. Pini ed abeti allungavano le loro ombre, stendendole sopra il torrente. Il
monte Pivǒt ombreggiava per metà la pineta che si trovava sulla parete Est del monte che aveva di fronte. Quando, Joshin, arrivò in paese andò alla taverna dove incontrò gli amici di sempre. Stavano in piedi, di fronte al bancone, bevendo birra ed i discorsi che facevano ultimamente erano rivolti alla diminuzione della paga. Tutti facevano fatica ad arrivare alla fine del mese. I soldi non bastavano. Si unì a loro partecipando alla discussione. Pure per lui la situazione era grave. Quando arrivò l’ora di cena, si salutarono e tornarono alle loro case. In famiglia l’argomento di conversazione non cambiava, le loro mogli si lamentavano della mancanza di denaro per poter comprare le cose che occorrevano per la casa, per la spesa quotidiana. Tutti, stavano vivendo un momento difficile. Qualcuno iniziava ad incolpare Milan ed a chi lo stava aiutando, ma la maggioranza lo difendeva. Milan era un eroe per loro.
Il Capitano Forst era sfiduciato. Un mese di ricerche e nessun risultato. Doveva fare di più, ma non aveva nuove idee, però… Uscì dalla sua camera e mentre attraversava il cortile per dirigersi dal Tenente Arschbackchen, alzò gli occhi verso il cielo azzurro e vide sette rondini che lo traversavano, nel frattempo, un lieve venticello lo rinfrescava in quel pomeriggio torrido. Arrivò davanti alla porta dell’ufficio e bussò. «Chi è?» Domandò Arschbackchen. «Sono Forst.»
«Entri pure, signor Capitano.» Forst aprì la porta ed andò a sedersi sulla poltroncina che si trovava di fronte alla scrivania. Sembrava aver fretta, tant’è vero che non salutò il Tenente. Arschbackchen, che si era alzato e messo sugli attenti ci rimase male. Conseguentemente non salutò nemmeno lui il Capitano, si sedette e gli chiese: «Come mai è qui. Ci sono delle novità?» «Purtroppo no e se andiamo avanti così, arriverà l’inverno ed avremo sprecato il nostro tempo inutilmente. Quel ragazzo viene inghiottito dalle sue montagne ed è impossibile trovarlo. Dobbiamo farlo uscire allo scoperto, ma non so come fare. L’ultima speranza che ci rimane è che qualcuno lo tradisca ed è per questo motivo che sono qui.» «Si spieghi meglio. Non riesco a capirla.» Domandò Arschbackchen, incuriosito dal discorso del Capitano. «Come le ho detto; dobbiamo puntare sul tradimento. Bisogna dare un altro giro di corda attorno alla vita di questi montanari. Alzeremo la tassa sulla loro paga dal dieci per cento al trenta per cento.» «Mio Dio. In questo modo non riusciranno a comprarsi da mangiare. Li mettiamo alla fame. Mi sembra una soluzione esagerata. In fondo, questa povera gente non ha fatto niente di male.» Arschbackchen mostrò la sua discordanza sulla proposta del Capitano Forst. Dopo tutti gli anni che aveva vissuto a Frenštát, si era affezionato alla gente del paese. Li considerava: pacifici, laboriosi, fedeli all’Impero ed anche se non erano cattolici ma protestanti, prendevano la religione con serietà. Per il Tenente Arschbackchen, gli abitanti di Frenštát erano “brava gente”. «Forse ha ragione.» Riprese a parlare il Capitano Forst, dopo che il Tenente Arschbackchen l’aveva interrotto, maleducatamente: «In ogni modo, qualcosa dobbiamo tentare. Per adesso portiamo la tassa al venti
per cento e tra un mese, se non ha prodotto il risultato che spero l’aumenteremo al trenta per cento. Va bene per lei?» «Se non c’è un’altra soluzione, proviamo così. È certo che toccare di nuovo la paga dei lavoratori li metterà in difficoltà.» Acconsentì il Tenente Arschbackchen, a malincuore. D’altronde, il Capitano Forst era un suo superiore e lui doveva ubbidire. Aveva già ottenuto uno sconto, anche se momentaneo e si doveva accontentare. «Bene, ora che siamo d’accordo faccia eseguire l’ordine, ma li avverta che se tra un mese non avremo “beccato” Milan Jansvich, alzeremo la tassa al trenta per cento. Speriamo di spaventarli e che qualcuno parli.» Forst terminò così il suo discorso. «Mi auguro che le cose vadano come lei desidera, anche se questi montanari sono valacchi e non si tradiranno mai, nemmeno se li mettiamo alla fame. Io, la penso così.» Concluse Arschbackchen. «Vedremo.» Replicò Forst alzandosi. Si sentiva scocciato dall’atteggiamento di quello sciocco Tenente di provincia. Salutò ed uscì.
Quando in paese arrivò la notizia della nuova detrazione dalla loro paga e che trascorso un mese ce ne sarebbe stata un’altra, la gente iniziò a brontolare. Era chiaro che non sarebbero riusciti a sfamare le loro famiglie. La birreria era il cuore del paese e tutti gli uomini si ritrovavano lì, dopo il lavoro.
Mauric, il capo degli operai del birrificio di Frenštát salì su un tavolo e parlò a tutti. «Attenzione! Un attimo di silenzio, per favore.» Disse ad alta voce. Tutti, nel locale, guardarono dalla sua parte e, ad eccezione di qualcuno che continuava ad aprir bocca sottovoce, smisero di parlare per ascoltare quello che aveva da dire il loro capo. Mauric si guardò intorno, mise le mani a pugno chiuso sui fianchi e disse: «Siamo tutti nella stessa barca. Oggi non abbiamo abbastanza denaro da sfamare le nostre famiglie. Ora vogliono toglierci ancora il dieci per cento della nostra paga e tra un mese un altro dieci per cento. Lasceremo morire di fame i nostri figli? Le nostre mogli?» Fece una pausa, si guardò intorno e continuò il suo discorso, dicendo: «Io…non ci sto!» «Ha ragione. Così non ce la possiamo fare.» Qualcuno del pubblico, che si trovava d’accordo con lui, alzò la voce sostenendolo. «Andiamo, tutti insieme, davanti alla caserma a protestare. Adesso!» Esclamò Mauric. «Si! Si! Andiamo a dichiarargli che così non ce la facciamo. In questo modo non riusciamo a dar da mangiare alle nostre famiglie.» Più di un uomo disse così. Joshin era lì ed era d’accordo con Mauric. Non disse niente, ma applaudì con gli altri.
Uscirono in strada, disordinatamente. Erano quaranta uomini, quaranta operai, quaranta padri di famiglia, quaranta disperati. Arrivarono davanti al portone della caserma dove sventolava la bandiera gialla e nera degli Asburgo. Iniziarono a dire a gran voce le loro rimostranze e continuarono per quindici minuti. Si aprì il portone della caserma ed uscì il Tenente Arschbackchen, accompagnato da due soldati armati di fucile. Si mise le mani attorno alla bocca, per farsi sentire meglio e sbraitò: «È inutile che protestiate. Queste sono le nuove disposizioni che abbiamo ricevuto da Wien. Se è successo questo, dovete prendervela con Milan Jansvich. Perché, è sua la colpa di tutto. Noi, non possiamo accettare, ivamente e senza fare delle ritorsioni, la morte dei nostri soldati. Diteci dove possiamo catturarlo e, tutto, tornerà come prima. Ora, tornate alle vostre case, altrimenti sarò costretto ad ordinare ai miei soldati di disperdervi.» «Noi non ci muoviamo da qui finché lei non ci darà la sua parola d’onore che ristabilirà le nostre paghe come prima. Così non riusciamo a sfamare le nostre famiglie.» Mauric, rispose per tutti al Tenente Arschbackchen. «Allora non volete capire. Non ci sarà nessuna retromarcia da parte nostra. La tassa sulla vostra paga rimarrà. Anzi, tra un mese ci sarà un nuovo ritocco del dieci per cento. Aiutateci a trovare Milan Jansvich e tutto tornerà come una volta. Non ve lo ripeterò più. Sciogliete l’assembramento e tornate alle vostre case. Quello che state facendo è contro la legge. È un atto di rivolta e non lo possiamo accettare. Andate via o emo la forza.» Affermò il Tenente Arschbackchen con voce tremolante e rientrò in caserma. La gente di Frenštát non si mosse di un metro. Mauric e tutti gli altri continuarono ad urlare contro gli asburgici:
«Ladri. Assassini. Non siete nemmeno valacchi. Tornate in Austria.» arono dieci minuti ed il portone si aprì. Venti soldati, in fila per due, col fucile in mano, pronti a far fuoco, marciavano stando fermi. Il rumore, causato dagli stivali che battevano i mattoni dell’androne: Bum, Bum, Bum, era minaccioso. Mauric e gli altri uomini non si mossero di un metro. Stoicamente stavano davanti alla caserma e continuavano ad urlare: «Ladri. Assassini. Tornate in Austria.» Il Tenente Arschbackchen ordinò: «Avanti.» Il plotone si mosse, allargandosi sui due fianchi del portone. Il Tenente Arschbackchen urlò: «Se non rientrate, immediatamente, nelle vostre case, ordinerò di sparare.» La sua voce rauca tradiva le sue emozioni. Gli succedeva, quando era arrabbiato o impaurito e questa volta era più impaurito che arrabbiato. Mauric e gli altri uomini non si mossero di un metro. «Fuoco!» Ordinò il Tenente Arschbackchen. Una scarica di fucilate colpì a caso nel gruppo dei dimostranti. Tre morti e sette feriti furono il risultato della rivolta. Mauric fu il primo a morire. Una pallottola gli centrò il cuore. Joshin si salvò. Gli operai presero i feriti e tornarono alle loro case. I tre uomini morti furono caricati su un carro dai soldati e furono portati alla fossa comune.
Milan dalla sua postazione sul monte Pivǒt assisté a tutta la vicenda e con le lacrime agli occhi tornò al suo rifugio.
Trascorse un mese e durante quel periodo il popolo valacco si sentì impotente. Doveva subire la prepotenza asburgica. Per sopravvivere, perché di questo si trattava, erano costretti a togliersi tutte quelle cose superflue che rendevano la loro vita più piacevole. La prima cosa alla quale rinunciarono fu: non trovarsi in birreria dopo il lavoro. Per loro era una cosa importante. Un momento di relax. Bevevano qualche birra e parlavano dei loro problemi. Si scambiavano pareri sulla caccia e sulla pesca. Era da sempre stato un piacere per gli uomini trovarsi in birreria dopo il turno di lavoro e prima di andare a casa. Qualche volta ridevano, qualche volta si arrabbiavano. Adesso non potevano permetterselo, i soldi erano così pochi che a casa erano obbligati a razionare il cibo. Non potevano comprarsi abiti e scarpe, perciò erano costretti a rammendare quelli vecchi e rotti. Le loro case avevano sempre bisogno di manutenzione, spesso dai tetti gocciolava acqua, dovevano aspettare. arono i giorni, le settimane e l’Estate lasciò il posto all’Autunno ed arrivarono i primi fiocchi di neve. Milan non si era più fatto vedere ed ormai, con L’Inverno alle porte, tutti, aspettavano le abbondanti nevicate. L’appuntamento con Milan era rimandato alla prossima Primavera, dopo il disgelo. A Frenštát d’Inverno faceva molto freddo. Durante la notte la temperatura poteva arrivare a meno trenta gradi centigradi. I militari smisero le loro ricerche e si dedicarono alla normale routine di guardia di frontiera.
Forst era afflitto. Sperava di riuscire a catturare il giovane Jansvich prima dell’Inverno per poter tornare a Wien e continuare la sua solita vita. Purtroppo non era andata come
voleva. Per cui, doveva rimanere in quello sperduto paese tra i Carpazi. Avrebbe ingannato il tempo con esercizi culturali.
Nella famiglia di Joshin si presentò un problema. Uno dei suoi quattro figli si ammalò e non avevano il denaro per acquistare i medicinali che servivano a curarlo. Colin, era l’ultimo nato ed aveva solamente sette anni. Il fisico non reagiva e la malattia si aggravava di giorno in giorno. La febbre aumentava e delle piccole piaghe gli coprivano il corpo, causandogli un dolore sempre più acuto. Una mattina, Margot prese Joshin per le spalle e guardandolo negli occhi gli parlò. Singhiozzava e delle lacrime le rigavano le guance. «Tuo figlio sta morendo. Fa’ qualcosa, ti prego. Tu sai dove possono trovare Milan…va alla caserma e diglielo. Ne va della vita di nostro figlio.» «Donna, non capisci che è quello che vogliono. Ci hanno messo in questa situazione sperando che qualcuno tradisca il giovane Jansvich.» Le rispose Joshin e la sua voce tradiva l’irritazione che provava in quel momento. «Va bene! Va bene! Lascia morire tuo figlio se è questo quel che vuoi.» Margot, nella sua disperazione non riusciva a capire i sentimenti di suo marito e lo faceva sentire colpevole. «Non parlarmi così. Lo sai che gli voglio bene e che amo tutti voi. Ragiona! Che colpa ha Milan se Colin si è ammalato. Per quale motivo dovrei tradirlo e farlo uccidere dagli austriaci? Pensa a quello che mi hai chiesto di fare. Adesso vado dal dottore a domandargli se c’è qualche rimedio.» Si mise il pesante mantello di lana, il cappello di pelo e si avviò verso l’uscio. Mentre usciva da casa, sua moglie Margot gli urlò: «Vai! Vai! Stupido uomo. Non sai che senza talleri non potrai comprare le
medicine che ti ordinerà?» Detto questo, si mise le mani davanti al viso e pianse. I suoi pensieri, le sue parole erano dettate dall’amore per il suo piccolo Colin. Non sopportava l’idea di vederlo peggiorare ogni giorno. Era sicura che, alla fine, sarebbe morto. Joshin aveva sentito le parole di sua moglie. Erano piene di rabbia, urlate da chi sapeva d’essere impotente di fronte alla situazione che lo circonda. Non la compatì. La capì e pensò. “Una madre può essere capace di qualsiasi cosa pur di salvare il suo cucciolo.” Andò dal dottore di corsa. Entrò nell’ambulatorio senza bussare. Aprì la posta e si trovò nell’anticamera dell’ambulatorio, lo traversò ed aprì la porta del gabinetto. Il dottore stava seduto alla sua scrivania ed aveva alcuni fogli tra le mani che stava leggendo. Quando Joshin entrò come una furia, si alzò, più per lo spavento che per la sorpresa. Sentì il montanaro dirgli: «Signor dottore, mi scusi se la disturbo, ma mio figlio sta male. Potrebbe venire a fargli una visita? Sappia, però, che non ho denaro per pagarla.» Il dottor Alfred Meinel era austriaco ed aveva ricevuto ordini precisi dal Tenente Arschbackchen di non prestare il suo servizio senza retribuzione, perciò rispose: «Mi dispiace, ma non posso assentarmi dal mio ambulatorio e visitare senza essere pagato. Ordine del comando austriaco. Mi spieghi che sintomi ha suo figlio e vedrò cosa posso fare.» Joshin, col fiato corto, spiegò al dottore quello che aveva capito dello stato di salute di suo figlio Colin: «Ha febbre alta ed ogni giorno che a la febbre aumenta. Suda e sente freddo, inoltre è pieno di piccole piaghe che gli causano prurito.»
«Ah! Ho capito. Una classica malattia dell’infanzia. È sufficiente dargli da bere tanta acqua e mi raccomando che non si gratti dove ha prurito. Potrebbe fare infezione. Bagnate le piaghe con acqua fredda e vedrà che tra due settimane starà meglio, se non sarà, addirittura, guarito.» Il dottor Alfred, parlò con calma cercando di tranquillizzare il montanaro. La sua preoccupazione era quella di far uscire dall’ambulatorio quell’uomo pericoloso. Temeva che potesse fargli del male. Joshin aveva capito il rifiuto del dottore, sapeva che stava dalla parte dei soldati. In ogni modo, apprezzò il senso civico che aveva dimostrato dandogli consigli utili a curare suo figlio. Avrebbe potuto tacere, ma che razza d’uomo sarebbe stato? «Grazie dottore per il suo aiuto. Se un giorno avesse bisogno di qualcosa, me lo chieda. Farò l’impossibile per aiutarla.» Salutò e si apprestò ad uscire, in quell’istante, il dottor Meinel gli diede una scatoletta con dentro delle pillole bianche e gli disse, sottovoce: «Gliene dia una la mattina ed una la sera.» Il dottore, dopo che Joshin uscì dalla sua casa, tolse dalla tasca dei pantaloni un fazzoletto e si asciugò la fronte. Quando Joshin arrivò a casa, spiegò a sua moglie come stavano le cose e Margot si tranquillizzò. Per due settimane, seguirono scrupolosamente i consigli del dottore, ma il piccolo Colin morì. Margot, tra lacrime e singhiozzi, accusò suo marito per non essere stato capace di recuperare il denaro che sarebbe stato servito a curare il loro piccolo Colin. Seduto e con le mani tra i capelli, Joshin, cercò di scusarsi con sua moglie: «Donna, hai ragione. È vero. Non sono stato in grado di aiutare nostro figlio. Mi dispiace, credimi. Non ho risorse e con la diminuzione della paga non riesco a mantenere la mia famiglia.»
Era difficile per un uomo, un padre, un marito, vivere in quelle circostanze. Si sentiva impotente. Abbracciò sua moglie e le diede dei baci sulle guance.
Due settimane dopo la morte di Colin, la famiglia di Joshin era irriconoscibile. Margot, la moglie, aveva esaurito le lacrime e non parlava più. Si rifiutava di mangiare per lasciare il poco cibo agli altri figli. «Non puoi andare avanti così. Ti ammalerai e non riuscirai ad aiutarci. Abbiamo bisogno di te. Ti prego Margot, riscuotiti. Nessuno può ridarci Colin. Fattene una ragione.» Joshin le ripeteva, continuamente, queste suppliche. Margot, ascoltava, ma sembrava non capire. Il suo sguardo spento lasciava intendere che non fosse presente. Joshin la osservava, si metteva le mani tra i capelli ed usciva da casa, arrabbiato. Vedeva sua moglie spegnersi giorno dopo giorno. Sapeva che non sarebbe stata, mai più, la donna di una volta. La morte del piccolo Colin l’aveva sconvolta.
Il traditore.
Arrivò la Primavera, il risveglio della natura era evidente ed il sole cominciava a riscaldare l’aria. Joshin riprese la sua abitudine di trovarsi con Milan, però doveva razionare il cibo anche a lui. Non poteva sacrificare la sua famiglia per il piccolo figlio degli Jansvich. Anche se gli voleva bene come se fosse stato figlio suo. Milan capì. In Primavera, i soldati ricominciarono le loro perlustrazioni in montagna alla ricerca del piccolo demonio. Le tasse imposte dal Capitano Forst non avevano dato risultati. Nessuno aveva tradito Milan Jansvich. La gente di Frenštát era valacca. Trascorsero due mesi e Milan non si fece vedere. Non era ancora pronto per un nuovo attacco. Voleva prenderli di sorpresa, attendeva che lo scoraggiamento avesse il sopravvento. La sua teoria era: aspettare, far sì che le marce fossero inutili, in modo che i soldati abbassassero la guardia e, quando capiva che le cose stavano così, colpiva. Gli incontri domenicali con Joshin erano sicuri.
Un sabato mattina, Joshin, uscì da casa come il solito, ma non si diresse in piazza a parlare con i suoi vecchi amici. Andò, invece, alla caserma asburgica. Quando arrivò davanti al portone, guardò la bandiera giallo-nera degli Asburgo. Abbassò lo sguardo e domandò alla sentinella di sinistra: «È possibile avere un colloquio col signor Tenente?»
«Lei chi è e cosa vuole dal signor Tenente?» Lo interrogò la guardia. «Mi chiamo Joshin e ho delle cose importanti da riferirgli.» «Entri e aspetti in quella stanza. Vado ad avvisarlo.» Il soldato, con la mano, gli indicò l’unica porta che c’era nell’androne. Joshin, aprì la porta della camera, si sedette ed attese. La sentinella andò nell’ufficio del Tenente Arschbackchen e gli annunciò che c’era un paesano che voleva parlare con lui. «Lo accompagni qui, ma prima avvisi il Capitano Forst di questa novità e lo preghi di venire da me.» Arschbackchen avvertiva, come un camlino nell’orecchio, che si trattava di Milan. Era sicuro che il paesano fosse venuto lì per tradirlo. Non poteva esserci un altro motivo. Una cosa come quella non era mai successa. La sentinella andò subito ad avvisare il Capitano Forst e tornò nell’androne della caserma. Ordinò a Joshin di seguirlo e lo accompagnò nell’ufficio del Tenente Arschbackchen. Bussò, aprì la porta ed annunciò il signor Joshin di Frenštát, poi si ritirò e tornò a fare la guardia davanti al portone. «Buongiorno, signor Joshin.» Lo salutò con gentilezza il Tenente Arschbackchen. Joshin si tolse il cappello, lo strinse tra le mani e rispose: «Buongiorno, signori ufficiali.»
«Ci spieghi per quale motivo è venuto da noi. Ha, per caso, delle informazioni sul giovane Milan Jansvich?» Arschbackchen gli pose questa domanda a bruciapelo, così da captare una qualsiasi reazione da parte del paesano. Nel suo modo di vedere le cose, Arschbackchen, pensava che Joshin, nel momento decisivo avrebbe potuto tirarsi indietro. Mostrandosi aggressivo, lo avrebbe indotto a spiegare per quale motivo si trovava lì, in quel momento. Quel suo modo di fare aveva sempre funzionato. Forst indossava la divisa scura con gli stivali lucidi ed osservava in silenzio stando in piedi e con le mani dietro la schiena. Joshin avrebbe voluto tornare a casa, ma ormai era in ballo e doveva ballare. Diede un colpetto di tosse per alleggerire la coscienza e disse: «Si, ho delle notizie importanti da darvi. Io so, dove potete trovare Milan.» «Come mai sa questa cosa?» Intervenne Forst. «Perché, c’incontriamo nello stesso posto tutte le domeniche. Gli porto qualcosa da mangiare e gli racconto cosa succede in paese.» «Ah! Finalmente si è deciso a parlare. La taglia di trentamila talleri sarà sua, solamente, dopo che avremo catturato Milan Jansvich.» Esclamò Arschbackchen. “Potevi startene zitto.” Pensò Forst e domandò: «In quale punto v’incontrate?» «Il posto è a due ore di cammino da Frenštát, dove il fiume Kurǒtic fa un’ansa spettacolare. Incamminatevi per il sentiero che gira ad Ovest del monte Pivǒt e superate altre due montagne. Ad un certo punto incontrerete un albero abbattuto
da un fulmine che si trova a fianco del sentiero. Lì, vedrete un bivio e dovrete prendere il sentiero di sinistra scendendo a valle. Una volta giunti al fiume lo seguirete verso Nord e quando avrete aggirato il monte che vi troverete di fronte, sarete arrivati. Non potete sbagliarvi.» Joshin si spiegò nel migliore dei modi. Era stato chiaro. Ora, che aveva detto tutto quello che sapeva si sentiva vuoto dentro. Si vergognava di se stesso. «Lei verrà con noi. Così non sbaglieremo strada.» Annunciò il Capitano Forst. Joshin, quando sentì quello che gli disse il Capitano Forst, rimase interdetto. Non si aspettava uno sviluppo di quel tipo. Per cui, con voce piagnucolosa cercò di comionare gli ufficiali: «Non fatemi questo. Vi scongiuro. Non posso farmi vedere con voi. Altrimenti, in paese, tutti sapranno che ho venduto Milan Jansvich per tredici denari.» Arschbackchen, con la classica freddezza austriaca, gli rispose: «Non importa. Lei, domani mattina si troverà alle ore cinque, davanti al portone della caserma. Si travesta, se vuole. Ormai i giochi sono fatti e se non la vedo, manderò una pattuglia ad arrestare lei e tutta la sua famiglia. Si ricorda che fine fanno le persone che complottano contro di noi?» Con intransigenza, mise Joshin alle strette. Forst, ò il Tenente, dicendo: «Non sia sciocco. Abbiamo bisogno del suo aiuto. Ci accompagnerà, cosicché non sbaglieremo strada. Quando arriviamo, noi ci appostiamo intorno al vostro punto d’incontro. Dopo, lei tornerà indietro per un chilometro e ritornerà da solo, come tutte le domeniche. Normalmente. Milan Jansvich non deve sospettare la
trappola. Signor Joshin, tenga presente che con trentamila talleri potrà abbandonare questo paese e trasferirsi a Wien. Sarà in grado di comprarsi una casa in centro ed una carrozza e tanti bei vestiti per tutti i suoi familiari. I suoi figli avranno una buona istruzione, frequentando una delle migliori scuole. Acquisterà medicinali, quando n’avrà bisogno e tant’altre belle cose. Potrà permettersi qualche lusso. Non dovrà più lavorare per mantenere la sua famiglia. Mi ripeto, non sia sciocco.» «D’accordo.» Rispose, amaramente, Joshin. “È fatta.” Pensò Forst. «Bene. Siamo d’accordo. A domani mattina. Mi raccomando, sia puntuale.» Esclamò Arschbackchen, soddisfatto. “Forse, domani, sarà il giorno tanto atteso.” Meditò, tra sé, Forst. Appena Joshin uscì dall’ufficio del Tenente Arschbackchen, il Capitano Forst espose il suo piano per il giorno dopo: «Io ed il gruppo Alpha-Beta andremo con il signor Joshin. Noi siamo più addestrati per questo tipo di spedizione. Lei, Tenente Arschbackchen, manderà i suoi soldati alla ricerca di Milan. Dobbiamo comportarci normalmente, in modo da non insospettirlo, nel caso ci osservi. Se il signor Joshin c’indica il posto del loro incontro, prima che questo avvenga, avremo tutto il tempo di nasconderci e tendere un agguato al giovane Jansvich. Non ci scapperà, questa volta.» Arschbackchen, soffocando la sua virilità, accettò il piano del Capitano Forst e disse:
«Mi dispiace non essere presente il giorno della cattura di quella piccola carogna, ma lei ha ragione. È meglio agire così.» Joshin tornò a casa prestando attenzione, mentre usciva dalla caserma. Non voleva essere visto in quel posto dai suoi amici. Quella notte non chiuse occhio, il rimorso gli chiudeva lo stomaco. La mattina dopo, come tutte le altre domeniche, mise un pezzo di formaggio, una brocca di latte e del pane nella bisaccia. Uscì da casa prima dell’alba. Sua moglie non sospettò nulla.
Domenica, ore cinque. Il sole era appena sorto e la fievole luce dell’alba illuminava a malapena la strada sterrata, piena di buche e sassi, permettendo a Joshin di arrivare davanti alla caserma asburgica senza inciampare. Mettersi un cappello a larghe tese fu l’unica precauzione che prese per non farsi riconoscere se, per caso, incontrava qualcuno del paese. Non ci teneva a fare la figura del traditore. Arrivò con qualche minuto d’anticipo. Si appoggiò al muro ed aspettò. Con la precisione di un gallo, alle cinque in punto, il portone della caserma si aprì ed il Capitano Forst con il gruppo Alpha-Beta uscì. «Bene. Bene. Ho piacere nel vedere che lei è una persona puntale. Detesto aspettare.» Pronunciò il Capitano, guardando Joshin. «Ho fatto come mi avete ordinato.» Rispose, semplicemente, Joshin. «Mettiamoci in marcia. Lei, signor Joshin, camminerà al mio fianco e ci farà da guida.» Partirono in fila per due e come aveva detto Joshin, il giorno prima, arrivarono al
punto di ritrovo dopo due ore. Un’ora prima dell’incontro con Milan. «Bene. Ora, lei, signor Joshin, torni indietro e ritorni qui come tutte le altre domeniche. Il giovane Jansvich non deve sospettare la trappola.» «Va bene.» Disse Joshin e s’incamminò per il sentiero tornando indietro per trenta minuti. Forst ed il gruppo Alpha-Beta si appostarono tutt’intorno. Si nascosero in modo da non essere visti. Armarono i fucili, pronti a far fuoco. Aspettando con pazienza l’arrivo di Milan. L’ordine del Capitano Forst era chiaro: far fuoco su entrambi. Joshin, alle sette e trenta minuti si fermò e ritornò al punto d’incontro con Milan. Camminando si accorse che gli tremavano le gambe. Non si sentiva orgoglioso per quello che aveva fatto. Anzi, provava una profonda vergogna. Arrivò puntuale all’ansa del fiume Kurǒtic.
Milan stava arrivando all’appuntamento con Joshin. Ancora qualche centinaio di metri e sarebbe arrivato. Si fermò. “C’è qualcosa che non va. Il bosco tace e non è normale.” Pensò. Proseguì con cautela. Voleva accertarsi se c’era qualche pericolo e, eventualmente, quale minaccia poteva esserci. Si coricò ed avanzò strisciando. Un metro. Un altro metro e si bloccò. Controllò il posto dell’appuntamento. Vide Joshin che camminava avanti e indietro, sembrava nervoso. “Sta’ attento, Milan.”
Si disse. “Cos’ha Joshin? Per quale motivo cammina? Le altre volte che sono arrivato in ritardo, si sedeva ed aspettava?” Osservò con attenzione il bosco intorno e vide un movimento e un altro ancora. “Ecco cosa c’è! Una trappola! Tutta per me. E…hanno coinvolto anche il vecchio Joshin. Questa volta non funzionerà. Tornerete indietro a mani vuote.” Indietreggiò e quando si sentì al sicuro si alzò e camminò sino al suo rifugio. Era deluso. Il tradimento di Joshin era inaspettato. Sapeva in che condizioni stava vivendo e lo perdonò. Non gliene fece una colpa.
Forst quando vide Joshin, estrasse dal taschino il suo orologio a cipolla per controllare l’ora. Erano le otto. “Sei puntuale, gran figlio di cane.” Guardò il fiume per vedere se scorgeva Milan. Niente, non era ancora arrivato. Aspettò ancora cinque minuti e ricontrollò l’orologio. “Strano, il signor Joshin ci aveva assicurato che Milan era sempre stato preciso e che non aveva mai ritardato.” arono altri venticinque minuti e capì che erano stati scoperti. Non riuscì a comprendere come, ma era sicuro che Milan non si sarebbe fatto vivo quel giorno. Joshin era bruciato. Lui e Milan non si sarebbero più incontrati. Tutto il piano era fallito. Si alzò ed ordinò al gruppo Alpha-Beta di uscire. Si riunirono nel posto dove si trovava Joshin. Il Capitano Forst, rivolto a Joshin, disse: «Siamo stati scoperti. Non verrà più. Possiamo tornare in paese.»
«Non capisco.» Esclamò Joshin. «Neppure io, fatto sta che non è venuto e non arriverà più. Forse lei ha trovato il modo di avvertirlo.» Esclamò Forst. «No! Glielo giuro sui miei figli e su mia moglie. Non l’ho incontrato da domenica scorsa. Non so come abbia fatto, ma di sicuro vi ha visti. È sempre venuto al nostro appuntamento.» Rispose Joshin. «D’accordo. D’accordo. Adesso torniamo in caserma.» Ordinò Forst. Si misero in marcia in fila per due, Joshin al fianco del Capitano Forst e tornarono a Frenštát. A mezz’ora dall’arrivo in paese incontrarono un vecchio amico di Joshin. Hasen.
Hasen stava raccogliendo legna e quando vide Joshin con i soldati, comprese che era stato con loro per catturare il giovane Jansvich. Lo fissò negli occhi, ma non lo salutò. Joshin, quando vide Hasen abbassò lo sguardo e divenne rosso in viso.
Arrivati a Frenštát, i soldati entrarono in caserma, Joshin li seguì. I ragazzi del gruppo Alpha-Beta si ritirarono nella loro camerata. Il Capitano Forst andò nella sua camera. Gli eventi di quel giorno: l’inutile attesa e la consapevolezza del fallimento del piano, l’avevano depresso. Aveva bisogno di un buon bagno caldo.
Joshin rimase solo nel cortile. Si aspettava che gli austriaci mantenessero la parola e che gli consegnassero i trentamila talleri della taglia. Trovò da sedersi su una panca ed aspettò. Trascorse un’ora e Forst, che non si aspettava di trovare Joshin, si meravigliò, quando lo vide nel cortile: «Che cosa fa, ancora qua, signor Joshin?» Gli domandò. Joshin provava vergogna a chiedere quello che gli spettava di diritto, ma doveva farlo. Aveva tradito Milan, almeno che ci fosse la gratifica del denaro. «Veramente, starei aspettando che mi sia consegnata la taglia. Voi avete affermato che avreste pagato chi vi ava informazioni utili alla cattura di Milan Jansvich.» «Questo è vero.» Rispose Forst ed aggiunse: «Lei crede di averci fornito delle informazioni utili?» «Senz’altro. Vi ho portato dove l’incontro tutte le domeniche. Sono certo che v’ha visto, avete sbagliato voi. Non siete così bravi come credete. È sempre venuto all’appuntamento. Vi siete fatti scoprire. Se non fosse come dico, a quest’ora, Milan sarebbe qui. Nelle vostre galere.» «Chi mi garantisce che ci ha portato nel posto giusto? Posso pensare che ci abbia preso per il naso con la speranza di incassare i soldi della taglia, non crede? A me non pare che abbiamo catturato Milan Jansvich. Per cui, le sue informazioni non sono state utili alla sua cattura. Il volantino parlava chiaro. Non le sarà dato un solo tallero. Ora, se ne vada.» Forst si stava arrabbiando. Quell’insolente di montanaro voleva anche i trentamila talleri per un piano fallito. “Quasi sicuramente ci ha ingannato. Questi montanari son furbi come gli Schützen.” Pensò tra se.
Joshin, prima di andarsene, provò ad insistere: «Voi non state mantenendo la parola data. Che razza d’onore è il vostro?» «Onore? Non mi parli d’onore. Voi valacchi non sapete cosa sia. Vuole i soldi della taglia, signor Joshin? Ci porti Milan Jansvich e li avrà.» Concluse Forst. A Joshin non rimase che tornarsene a casa a mani vuote.
Hasen, appena rientrò a Frenštát, raccontò a tutti che aveva visto Joshin con i soldati in montagna. Quel figlio di vipera era un traditore. Aveva venduto il figlio degli Jansvich per i soldi della taglia. Nel giro di pochi giorni la famiglia di Joshin fu messa al bando. Non facevano più parte della comunità valacca. Le donne del paese, quando incontravano i figli di Joshin e la moglie, gli sputavano addosso e li maledicevano. Per Joshin e la sua famiglia, la vita a Frenštát era diventata un inferno. Il padrone del birrificio, quando venne a sapere la notizia del tradimento di Joshin, lo licenziò. Era valacco ed i valacchi non si comportano come quel verme.
Arrivò la domenica successiva e Joshin, come sempre, uscì da casa per andare in montagna. Camminò due ore. Si fermò nel posto dove s’incontrava, di solito, con Milan. Aprì la bisaccia ed estrasse una corda lunga quattro metri. Si arrampicò su un albero e si sedette di traverso sul primo ramo robusto che trovò. Annodò la corda. Si alzò in piedi e tirò con forza la corda per vedere se era annodata bene. Si fece are la corda intorno al collo e si buttò giù.
Penzolò, scalciò, urinò e morì. Margot, quando il sole tramontò e suo marito non era rientrato a casa, iniziò a preoccuparsi. Non era mai accaduto, in tutti gli anni di matrimonio, che Joshin non rientrasse a casa la sera. Andò a dormire, ma non riuscì a prender sonno. avano le ore e la preoccupazione aumentava. Immaginava brutte cose. Nella sua testa arrivavano pensieri tristi, negativi. “Deve essergli capitato qualcosa. Forse è caduto e si è fatto male e non riesce a camminare per tornare in paese. Forse ha incontrato un orso e lottando è stato ferito, o l’orso l’ha ucciso.” I suoi pensieri, però, terminavano in un’unica direzione. “I compaesani l’avevano punito o forse ucciso.” Al mattino decise di chiedere informazioni alle persone che avrebbe incontrato per strada. Nessuno le diede risposta. Anzi, la offesero perchè era la moglie del traditore. Non avendo altre risorse, decise di rivolgersi ai soldati asburgici. Andò alla caserma e quando arrivò, notò la bandiera giallo-nera degli Asburgo che sventolava sopra al portone. «Buongiorno, posso parlare con qualcuno?» Domandò alla sentinella di sinistra. «Per quale motivo, signora?» Le chiese questa.
«Per mio marito. So che ha collaborato con voi e questa notte non è rientrato a casa. Sono molto preoccupata. Ho il presentimento che gli sia capitato qualcosa di grave.» «Vado a vedere se c’è qualcuno che può riceverla.» Dopo averle dato risposta, la sentinella di sinistra entrò in caserma ed incontrò il Capitano Forst. Gli spiegò quello che la moglie di Joshin gli aveva raccontato e gli domandò se poteva ascoltarla. Forst rispose: «Ora vengo. La faccia accomodare nella stanza dell’androne.» La sentinella tornò alla porta ed invitò Margot a seguirlo. L’accompagnò nella camera che era destinata ai visitatori e le disse: «Aspetti qui. Adesso viene il Capitano Forst.» Dopo dieci minuti la porta si aprì ed entrò Forst. «Buongiorno signora. Mi hanno spiegato la sua situazione, ma l’unica cosa che posso fare per lei è: rassicurarla. Suo marito non si trova nelle nostre galere.» Margot non aveva pensato ad un possibile arresto di suo marito, perciò chiese: «Mi scusi se sono sfacciata, ma non sono venuta qua perché pensavo che l’aveste arrestato. Sono qui perché ho bisogno del vostro aiuto. Mio marito, per aiutarvi, si è messo contro l’intero paese e adesso i nostri amici non ci rivolgono più la parola. Ci hanno emarginati. Io, sono venuta da voi per chiedervi se potete andare in montagna a cercarlo. Temo che i nostri compaesani l’abbiano punito o ucciso. Ecco, è questo che vi sto chiedendo.» La sua disperazione stava diventando angoscia, ormai era sicura che suo marito fosse stato ucciso e con le lacrime agl’occhi, singhiozzando urlò:
«Per favore. Vi supplico. Datemi una mano.» «Va bene, signora. I nostri soldati vanno tutti i giorni su per i monti, se lo trovano la informeremo.» Forst finì il colloquio ed uscì senza salutarla. Provò pena per quella donna, ma il piano con Joshin era fallito ed era ancora arrabbiato. Margot tornò a casa.
arono tre giorni prima che si ebbero notizie di Joshin. Grave e Laika erano due donne del paese ed il giovedì andavano in montagna a raccogliere erbe e frutti di bosco. Quel giorno si spinsero più lontano del solito e tutt’un’tratto videro un uomo penzolare da un ramo. Urlarono per lo spavento, mettendosi le mani davanti alla bocca ed agl’occhi. Poi, s’info coraggio e si avvicinarono per vedere chi era. Quando furono abbastanza vicine da poterlo riconoscere, capirono che si trattava di Joshin. Aveva le orbite degli occhi vuote e dalle guance penzolavano filamenti di carne. Gli uccelli avevano iniziato il loro banchetto. Inorridite per lo spettacolo, abbandonarono le loro sporte e corsero in paese ad avvertire i loro mariti. Gli uomini andarono nel posto che le loro mogli avevano indicato e trovarono Joshin. Era come lo avevano descritto. Per loro, era la giusta fine di un traditore. Non si commossero. Salirono sull’albero e tagliarono la corda che lo teneva legato al ramo e lo distesero a terra. Non lo seppellirono, ma lo lasciarono lì, così. I lupi e gli altri animali del bosco avrebbero terminato quello che gli uccelli avevano iniziato.
Lasciarono la corda legata al ramo e vi attaccarono un cartello con scritto: Joshin, il traditore. Un valacco traditore si meritava questo. Margot fu informata di tutto. Pianse, disperata.
Milan ò da quel posto una settimana dopo e notò il cartello che il vento faceva danzare. Lo lesse e notò le ossa accanto alle radici della pianta. Vi mise un fiore, un Edelweiss[27].
La vendetta.
Nel mese di Gennaio il Tenente Arschbackchen diventò padre. La signora Furunkel aveva dato alla luce un maschietto. Era tanto eccitato che non riusciva a contenere la sua felicità. Chi lo incontrava, capiva immediatamente che quello era un giorno speciale per lui. Gli vedeva le guance rosse come quelle di un ubriacone, un sorriso che mostrava i denti, le mani che continuavano a sfregarsi. Arschbackchen aveva deciso che suo figlio sarebbe stato battezzato col nome di suo padre. Sebastian.
Forst andò a fargli visita per congratularsi e nel momento in cui vide il neonato non riuscì a trattenere il suo pensiero. “Questo è il più brutto bambino che ho visto in vita mia.” Il tenente aveva voglia di sfogarsi con qualcuno e quando vide il Capitano non riuscì a trattenersi. Si dimenticò, addirittura, di salutarlo. «Signor Capitano, ha visto la mia creatura? Non è meraviglioso? Io…sono pazzo di gioia. Questo è il più bel regalo che ho avuto dalla vita.» Forst, per educazione, gli rispose: «È veramente un angelo. Lei, signor Tenente, è un uomo fortunato.»
Sebastian piangeva giorno e notte, era magro ed in testa aveva solamente un ciuffo di capelli rossi sulla fronte. I suoi genitori lo adoravano ed il Tenente Arschbackchen, appena poteva, lo prendeva in braccio per coccolarlo e baciarlo. La signora Furunkel non aveva latte mammario e per questo motivo dovette chiamare una balia del paese. Il dottor Alfred Meinel conosceva Marika, una donna avanti con gli anni, generosa di corporatura e con due grosse mammelle. Marika era l’unica balia di Frenštát. Arrivò in caserma e si mise subito al servizio della signora Furunkel. Sebastian le succhiava il latte con avidità, come un vampiro succhia il sangue alle sue vittime. Al termine delle poppate, gli asciugava le labbra, lo baciava sulla fronte e lo coricava nel suo lettino. Lo copriva con la coperta di lana che aveva fatto la signora Furunkel, quand’era in gravidanza, poi si metteva da una parte, dondolava la culla e lo accarezzava finché si addormentava. In Marzo, il piccolo Sebastian compì due mesi e pianse, giorno e notte, per sessanta dì. I soldati, anche se alloggiavano nelle loro camerate, lo sentivano e facevano fatica a dormire. Di notte, a causa degli strilli, si svegliavano frequentemente. Provarono a mettere la testa sotto il cuscino, ma inutilmente. Oramai era arrivata la Primavera ed il Tenente Arschbackchen aveva ordinato a Wien una carrozzina, in modo che, con la bella stagione, lui e la sua signora avrebbero fatto delle belle eggiate in compagnia di Sebastian per le strade del paese. Era impaziente come un bambino.
Forst era arrivato a Frenštát da un anno. Milan aveva fatto solo due attacchi, uccidendo quattro soldati e ferendone due. Da allora non era più successo niente. I segugi continuavano a pedinare i paesani senza risultati. I soldati della guarnigione pattugliavano le montagne senza risultati.
Aver messo gli abitanti di Frenštát in ristrettezze economiche non aveva dato risultati. L’unica speranza che ebbero, fu l’imboscata con Joshin. Ammesso che fosse stata vera e non una sua invenzione per cercare di impossessarsi della taglia perché, anche quella, non diede risultati. In paese la vita procedeva normalmente e Forst si chiedeva se Milan fosse ancora vivo e, se si, quando avrebbe colpito di nuovo e dove.
Luglio 1731. Giorno di mercato. La signora Furunkel e suo marito amavano farsi vedere dalla gente del paese. Lei, per l’occasione, indossava abiti che le arrivavano da Wien. Lui, vestiva la divisa da parata con tutte le medaglie che aveva meritato nella sua carriera da ufficiale. Sembrava un Feldmarschalleutnant[28] Per il loro modo di camminare, l’atteggiamento altezzoso e l’accento viennese che si sentiva, quando parlavano tra loro; erano giudicati dai paesani: tronfi. Si compiacevano, quando le donne si fermavano per complimentarsi del loro bambino. Arschbackchen, spingeva la carrozzina tra i carri dei contadini ed aveva aperto l’ombrellino per riparare, dalla luce accecante e dal calore del sole il suo cucciolo. Dai contadini acquistavano qualcosa da mangiare, tanto per cambiare il menù della mensa di caserma. I paesani avevano timore del Tenente, perciò quando lo incontravano: gli uomini si levavano il cappello dalla testa e le donne tendevano a fare un lieve inchino.
Dieci rintocchi dalla campana della chiesa protestante davano l’ora, mentre la signora Furunkel con suo marito a braccetto stavano attraversando la strada. Arschbackchen guardava il carro di stoffe colorate che si trovava di fronte a lui ed in fianco vide un giovanotto biondo con i capelli lunghi che gli coprivano la faccia a causa del vento che scendeva dal Pivǒt.
Notò il suo sguardo. Erano gli occhi di un falco. “Milan.” Pensò. In quel preciso istante, Milan estrasse dal fodero la sua spada e la lanciò verso il Tenente. La spada roteò su stessa per quattro volte ed alla fine si conficcò nella pancia del Tenente. Fuoriuscì dalla schiena e l’urto spinse il Tenente a terra. La carrozzina si rovesciò e Sebastian iniziò a piangere. La signora Furunkel, quando vide suo marito trafitto da una spada e la carrozzina, con Sebastian, rovesciata sulla strada ed udì gli strilli del piccolo, svenne. Milan, dopo aver colpito il Tenente, prese dalla cintura due coltelli. Li strinse nelle mani con le lame rivolte indietro e scappò. Corse con le mani armate in avanti, in modo che se qualcuno avesse voluto fermarlo, l’avrebbe sgozzato.
Quel giorno era il settimo anniversario della morte dei genitori e dei fratelli di Milan. Erano stati impiccati proprio in quel punto. Arschbackchen lo aveva dimenticato. Milan no.
Il funerale del Tenente Arschbackchen si celebrò nella cappella della caserma. Unica chiesa cattolica del paese e fu suonato un requiem in onore del defunto. Al termine della funzione la bara fu caricata su un carro e coperta da un drappo nero. Due bandiere asburgiche sventolavano all’inizio del carro. Due piccole bandiere nere furono messe sulla schiena dei cavalli. Il corteo uscì dalla caserma
con dieci soldati davanti e dieci dietro. Attraversò il villaggio di Frenštát e rientrò per celebrare il rito della sepoltura nel loro piccolo cimitero, assieme ai suoi soldati. La signora Furunkel, dopo una settimana era straziata. Il dolore per la perdita di suo marito, il padre di suo figlio era diventato insostenibile. Una nube opprimente aleggiava sul suo spirito. Non poteva; non voleva rimanere in quel posto. Perciò, decise di ritornare a casa. Fece i bagagli e si trasferì a Wien, in casa di suo padre. arono tre settimane dalla sua partenza e Forst ricevette una lettera da parte del Tenente-Colonnello Furunkel, nella quale gli ordinava di catturare Milan Jansvich a tutti i costi. Alla fine della lettera il Tenente-Colonnello gli chiedeva se avesse bisogno d’altri uomini. Forst rispose che non gli servivano altri uomini, quelli che c’erano di stanza in caserma erano sufficienti. Aveva, invece, bisogno dell’aiuto di Dio per catturare Milan Jansvich. La missione era impossibile ed in ogni modo, lo rassicurò promettendogli che avrebbe speso tutte le energie per assicurarlo alla giustizia. Le ricerche continuarono come sempre ma non diedero risultati. Arrivò l’Autunno e poi l’Inverno e le perlustrazioni furono sospese. Sarebbero ricominciate alla prossima Primavera.
Come le ruote della carrozza girano, anche le stagioni ano ed arrivò la Primavera. Forst era entrato nel terzo anno di soggiorno a Frenštát. Durante una delle solite marce con la truppa asburgica in montagna, Milan si fece vedere. Era in cima al sentiero e scagliò una freccia che andò a conficcarsi nell’albero vicino al Capitano. Forst la sentì conficcarsi nel legno e quando la vide, alzò gli occhi e avvistò Milan. Era là. Fermo. Le mani, alzate verso il cielo, sorreggevano l’arco sopra la sua testa. In segno di
sfida. Forst, riguardò la freccia e vide che alla fine c’era una bandierina valacca. Guardò di nuovo nella direzione di Milan e lo vide. Era ancora lì. I capelli biondi, lunghi, sciolti, si alzavano col vento come in una danza. I pantaloni attillati, tagliati sotto il ginocchio, mostravano gambe robuste. Era il nemico. Un onore per il Capitano Forst. Ordinò: «Prendetelo. Prendetelo.» I soldati lo rincorsero, sparandogli. Forst pensò. “È un avvertimento. Se avesse voluto, avrebbe potuto colpirmi. Non siamo noi il suo bersaglio. Vuole che ce n’andiamo, altrimenti… Devo trovarlo, ma come?” Tutti questi pensieri si susseguivano nella sua mente, uno dietro l’altro, come onde nel mare. I soldati tornarono indietro dopo trenta minuti, camminando e tenendo il fucile a tracolla. L’inseguimento si era rivelato inutile. Milan era più veloce di loro, correva tra gli alberi come un daino e li seminò. Era sparito senza lasciare tracce. Quando raggiunsero il punto in cui si trovava il Capitano Forst si sedettero per riposarsi.
Forst li lasciò stare per cinque minuti e dopo, ordinò di rientrare in caserma. Anche questa volta fecero ritorno a Frenštát avviliti, com’era già successo. Quella stessa sera, il Capitano Forst, si sedette sulla panca davanti alla sua camera. Aprì una bottiglia di grappa al mirtillo e meditò. Trascorse l’intera notte seduto, senza accorgersi del tempo che ava. Guardava le stelle e pensava. Il sole spuntò ed illuminò un nuovo giorno. Chiamò Gösser. «Sinora, quello che abbiamo fatto, non ha dato risultati. Questa notte m’è venuto in mente che, forse, potremmo catturarlo solamente se riusciamo a vederlo per primi. Se ce la facciamo, dobbiamo seguirlo e scoprire dove si nasconde. Oggi, lei con i suoi segugi, andrete in montagna. Vi dividerete in gruppi di due. Vi nasconderete in punti diversi sino a coprire la più vasta area di queste montagne. Dovrete portarvi delle scorte di viveri perché rimarrete in montagna per diversi giorni. Fate quello per cui vi siete allenati in tutti questi anni sotto la guida del maggiore Schneider. So che ne siete capaci. Quando i suoi uomini troveranno una traccia o vedranno Milan, dovranno seguirlo sino a scoprire dove si rifugia. Stia attento, Gösser. Dica ai suoi uomini di non prendere iniziative ma di tornare immediatamente in caserma ed avvisarmi. Questa è la nostra ultima carta da giocare. Speriamo che la fortuna ma, soprattutto Dio, sia dalla nostra parte.» «Jawohl, mein Hauptmann.» Rispose deciso, Gösser. Il piano di Forst l’aveva rincuorato. Ci credeva.
Al secondo giorno d’appostamento, Maximilian Schlösser ed Arthur Wührer ebbero un colpo di fortuna. Non lo sapevano, ma si erano nascosti a dieci metri dall’ingresso del nascondiglio di Milan. Il sole era allo zenit ed i suoi raggi
avano attraverso le foglie degli alberi ed illuminavano la piccola radura che avevano di fronte. Ad un certo punto, scorsero un piccolo movimento…una roccia si stava spostando. Sbalorditi. Increduli. I loro sguardi erano attirati da quel che vedevano. Rimasero immobili, forse per paura. Milan uscì. Non dovevano seguirlo. Questo era l’ordine. Avevano trovato il nascondiglio. Lasciarono uscire Milan ed aspettarono con pazienza il suo ritorno. La giornata stava terminando ed il sole si apprestava a tramontare, quando Milan tornò con un capriolo intorno al collo. Rientrò nel suo nascondiglio non accorgendosi dei due segugi. Maximilian ed Arthur lo scrutarono, non si mossero e quando Milan sparì all’interno, scivolarono silenziosamente indietreggiando. Nel momento in cui sapevano che non poteva sentirli, si alzarono e tornarono in caserma di corsa, per avvertire il Capitano Forst. Arrivarono col buio ed andarono, immediatamente, nell’alloggio del Capitano Forst. «Signor Capitano, abbiamo scoperto il nascondiglio di Milan.» Parlarono entrambi, sovrapponendosi per l’eccitazione. «Bene. Era ora.» Disse, soddisfatto, Forst: «Il mio piano, questa volta, ha funzionato. Tornate nella vostra camerata e dite a Gösser che lo voglio qua. Subito!» «Jawohl, mein Hauptmann.» Risposero insieme.
Gösser arrivò dopo pochi minuti. Forst, quando lo vide gli disse: «Caro Gösser, sembra che questa volta ci siamo. Maximilian ed Arthur hanno scoperto dove si nasconde quel diavolo di ragazzo. La ricerca è terminata. Vada subito in montagna e riporti qui il suo gruppo. Non possiamo permetterci di perdere tempo.» «Jawohl, mein Hauptmann. Corro.» Quella notte, Forst, era eccitato e fece fatica ad addormentarsi. I suoi pensieri andavano dalle mille ricerche fatte tra quei monti, ai ragazzi morti e feriti, al Tenente Arschbackchen. Per tutti questi motivi doveva, per forza, catturare Milan Jansvich. Pensava ad un piano per catturarlo. Non doveva commettere errori, sapeva che quella era un’occasione unica. Gösser tornò in caserma la sera del giorno successivo insieme ai suoi segugi. La mattina dopo, tutto il gruppo Alpha-Beta si trovava nel cortile della caserma, davanti alla palazzina del Capitano Forst. «Bene, ragazzi. Sembra che sia arrivato il nostro momento. Conosciamo l’esatto punto del rifugio di Milan Jansvich. Adesso, andremo là! Non dobbiamo farci scoprire, perciò, Maximilian ed Arthur andranno in avan-scoperta e ci guideranno. Non possiamo permetterci di commettere errori. Pensate ai vostri amici morti e feriti. Appena arriveremo nei pressi dell’accesso al nascondiglio, ci nasconderemo ed aspetteremo che esca. Non m’interessa di catturarlo vivo, quindi, appena esce, sparategli. Questo è tutto. Possiamo metterci in marcia.» Il discorso del Capitano Forst aveva trovato il consenso del gruppo Alpha-Beta e, questi, lanciarono in aria i loro berretti ed urlarono: «Bene. Bravo. Evviva. È fatta. Andiamo.» Arrivarono davanti al nascondiglio di Milan alle quattro del pomeriggio nel
silenzio più assoluto. Milan non si accorse di niente. Si nascosero tutt’intorno, circondandolo. Milan, quel giorno non uscì. Durante la notte si accorse che c’era qualcuno al di fuori della grotta. Le civette, i gufi e gli altri animali notturni, tacevano. Era insolito. Le sue notti erano accompagnate dai cori dei loro fischi. Quella sera, invece, c’era un silenzio opprimente. Il rumore di uno starnuto, gli confermò la presenza d’esseri umani al di fuori della grotta. Cominciò ad andare avanti ed indietro, stando sulla sponda del fiume sotterraneo. Si mise le mani tra i capelli e parlò ad alta voce: «È finita. Questa volta è finita. Sono sicuro che mi hanno scoperto. Stanno aspettandomi e qui non ci sono altre vie di fuga.» Questo suo modo di fare lo aiutava a pensare ed a ragionare. Con il tono della voce un po’ più alto, farfugliò: «Vi costerà caro.» Prese un barilotto di polvere da sparo e lo pose davanti all’ingresso, ne prese un altro e lo mise di fianco, un altro ancora e lo mise contro la parete di roccia a sinistra dell’ingresso e ancora un altro e un altro. In totale ne collocò cento, in altre parole, tutti. Li accatastò uno sull’altro a sinistra ed a destra dell’ingresso. Il piccolo cunicolo che portava all’uscita, avrebbe funzionato da camera di scoppio, aumentando di mille volte la potenza dell’esplosione. Col pugnale fece un buco sul coperchio di un barilotto e versò la polvere da sparo per terra zigzagando per avere più lunghezza e, per lui, più tempo per nascondersi. Accese la miccia e scalò il camino, così chiamava un piccolo budello che entrava in un anfratto della grotta. Non era sicuro di riuscire a mettersi in salvo prima dell’esplosione, ma doveva provarci. Era la sua unica chance. Lo scoppio avrebbe provocato una grossa frana all’interno della grotta. Sperava
che il camino lo proteggesse e dopo, se era rimasto vivo, avrebbe dovuto approfittare del fumo per scappare. Doveva agire immediatamente. Il botto, il fumo, i massi che sarebbero volati all’esterno avrebbero messo nel panico i soldati ma solo per pochi attimi.
Il gruppo Alpha-Beta era la fuori. Stavano coricati e nascosti e pian piano si erano avvicinati all’ingresso della grotta sino ad arrivare a cinque/sei metri. Si erano schierati a semicerchio. Milan non sarebbe scappato, questa volta. La parete della montagna esplose con un boato che ricordava cento cannonate sparate insieme. Massi di roccia grossi come un cervo, furono scagliati, verso l’esterno. I soldati del gruppo Alpha-Beta non si aspettavano questo ed in ogni modo, anche se l’avessero preveduto, non avrebbero potuto farci niente. Furono investiti dalla forza dell’esplosione. Sette di loro morirono schiacciati dalle rocce. Cinque riportarono gravi ferite dovute all’onda d’urto e da frammenti di roccia. Forst fu ferito di striscio alla fronte e più seriamente ad una gamba. Con l’esplosione, la parete di roccia si era disintegrata ed il resto della montagna era franato dove, una volta, si trovava il rifugio di Milan. Una piccola nuvola di pulviscolo, dall’acre odore di polvere da sparo bruciata, aleggiava sopra le teste del gruppo Alpha-Beta e quando si diradò il Capitano Forst dovette fare i conti col destino. I suoi uomini, schiacciati, sanguinanti, giacevano intorno a lui. Si mise le mani davanti al viso e pianse. Il suo cuore batteva forte ed un senso di colpevolezza gli stringeva lo stomaco come una morsa. S’incamminò zoppicando tra le macerie, ancora fumanti, nella speranza di vedere il corpo di Milan Jansvich. Sarebbe stato un colpo di fortuna e si sarebbe sentito più tranquillo, ma non lo trovò. Ritornò di nuovo sui suoi i per
controllare un’eventuale svista, ma non vide nessuna traccia di un possibile corpo sepolto. Pensò. “Forse è stato seppellito dalle sue stesse rocce.” Ma non ne era convinto. La vocina del suo angelo custode gli diceva che non era così. Sconfortato, ordinò ai superstiti di recuperare i loro compagni morti ed aiutare i feriti. Sarebbero rientrati a Frenštát. La missione era finita. Come ultimo atto ordinò di chiudere la caserma asburgica e trasferì i soldati nella vicina Harkenbach. In questo modo, mise la parola fine alla storia di Milan Jansvich.
I montanari di Frenštát furono contenti e soddisfatti del trasloco della caserma. Le loro paghe erano tornate normali. La supertassa di Forst non aveva più motivo di esistere. ò un anno e altri ancor e di Milan non si senti più parlar. In ogni caso, le sue gesta rimarranno per sempre nella storia dei valacchi.
[1] Il Sergente Gregorio Doppiomalto
[2] mangia-crauti
[3] Tenente Arnoldo Chiappetta
[4] No! Per Dio! No!
[5] Mio Dio. Mio Dio.
[6] Si. Si. Si.
[7] Foruncolo
[8] …a mio marito, preferisco la supposta!
[9] Il Capitano Forst
[10] Tenente-Colonnello
[11] Per Dio
[12] Cattedrale di Santo Stefano
[13] Wagnerfreudenhaus casa chiusa
[14] grappa
[15] o del Brennero
[16] o del Giovo
[17] Maggiore
[18] Salute!
[19] Segugi
[20] Incredibile!
[21] Veramente incredibile!
[22] Grosso Sasso
[23] a b Sotto-Tenente
[24] Caporal-maggiore
[25] sco Lattina
[26] Per Dio!
[27] Stella alpina
[28] Tenente generale