Filomena Cecere
“La Tredicesima Costellazione”
Editrice GDS- Via G.Matteotti 23
20069 Vaprio d'Adda-Mi
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Presentazione
La storia nasce dall’ispirazione di due soggetti: l’Ofiuco e il gesuita Athanasius Kircher.
L’Ofiuco (Ophiuchus, colui che porta il serpente) è una delle tredici costellazioni dello zodiaco moderno, situata fra lo scorpione e il sagittario, l'unica però che non ha dato il nome a un segno astrologico. Ofiuco rappresenta un uomo che tiene la testa di un serpente nella mano sinistra e la coda nella mano destra.
Athanasius Kircher, gesuita, filosofo, storico tedesco nato a Geisa nel 1602 e morto a Roma nel 1680, fu un uomo erudito e la sua cultura affondava radici in varie discipline e materie scientifiche. Venne accusato di essere un negromante e un alchimista, di operare magia e pratiche cabalistiche. Nel 1651 fondò, nella sede del Collegio Romano, il Museo Kircheriano, considerato come un crogiolo di diavolerie legate alla magia e oggetti provenienti da diverse parti del mondo. In particolare si racconta che nel Museo fosse custodito, in in un’ampolla dal lungo collo, un fuscello di erba fenice dalla provenienza oscura, che nasceva, come il mitico uccello, dalle proprie ceneri.
La regina Cristina di Svezia visitò il Museo e pare che, più di ogni altra cosa, fu attratta da questa particolare erba.
Approfondendo lo studio biografico su Athanasius Kircher mi sono imbattuta quindi in altri due elementi, l’erba fenice e gli studi di Kircher sul magnetismo, che mi offrirono un ulteriore spunto per questo racconto.
La narrazione fantastica segue il filone dell’high fantasy di cui traccia tutte le caratteristiche principali, ma anche dello steampunk con i suoi marchingegni alimentati a vapore.
Filomena Cecere
Vecchi attrezzi da lavoro, mobili segnati dagli anni, cataste di libri dalle pagine ingiallite dal tempo. I mercanti attendevano generosi acquirenti per qualche buon affare, ma la mercanzia d’epoca non aveva più valore.
L’interesse dei clienti era scemato e l’affluenza di un tempo svanita.
Del mercatino che prima affollava le vie del centro storico ora non rimanevano che pochi banchi. Gli ultimi temerari che si ostinavano a vendere oggetti d’antiquariato dal profumo di epoche lontane.
Ad Alessandro piaceva percorrere quelle vie e portare a casa, di tanto in tanto, qualche interessante manufatto.
Si fermò a osservare alcuni libri dalla copertina di tela logora con le pagine punterellate da miriadi di macchioline scure dall’aspetto affascinante.
Toccava quei libri uno a uno, con premura, fino a quando il suo sguardo venne catturato da un manoscritto. Lo afferrò avidamente temendo che altri lo avessero notato. Ammirò i disegni inchiostrati, talvolta dipinti. Lo sfogliò con cura, accarezzandone le pagine sottili. Lo annusò riempiendosi le narici con l’inconfondibile odore di muffa, che lui associava al sapere scritto nei grandi e antichi volumi.
Contrattò il prezzo e, senza insistere per gli spiccioli diede al mercante ciò che chiedeva.
Portò a casa il libro, impaziente di scoprire se l’acquisto fatto si trattava di un affare o se si era imbattuto nell’ennesimo inganno.
Le pagine del manoscritto erano colme di una scrittura sconosciuta e incomprensibile a prima vista, ma regolare, ordinata, armoniosa.
Alessandro studiò lettera per lettera. Per giorni analizzò il più minuzioso cavillo.
Le vocali larghe e le consonanti in maiuscolo che si fregiavano di delicati arabeschi ornamentali.
Decifrata la grafia si lasciò avvolgere dalla lettura affascinato dall’idea che secoli prima qualcuno avesse stretto tra le mani quel quaderno e con ione riempito quei fogli.
Leggendo le prime pagine, Alessandro si domandò se quelle fossero parole di un folle che descrivevano luoghi sconosciuti e avventure straordinarie o la mente fantasiosa di uno scrittore abile che produceva la sua storia con immaginifica ione.
Quale delle due sarebbe stata la verità in quel momento non gli interessava, preso com’era da quel racconto avvincente.
Mi chiamo Giulio, seminarista e giovane di cultura, dedito allo studio di diverse attività intellettuali.
Intraprendo la scrittura di questo manoscritto poiché ritengo necessario tramandare ai posteri gli avvenimenti che qui mi accingo a descrivere. Fatti alquanto strani per la verità, ma che accaddero realmente alla mia persona nell’anno del Signore 1640.
Eventi che vidi con i miei stessi occhi, vissuti nelle mie piene facoltà mentali.
Una mattina come tante mi accingevo a svolgere i consueti esercizi spirituali.
Mi sdraiai all’ombra di una palma, approfittando di un’arietta frizzantina.
Un sonno anomalo mi avvolse come un affettuoso abbraccio e mi cullò fino al risveglio.
Il ritorno alla realtà non fu però dei più lieti perché il paesaggio intorno a me era mutato.
Elementi nuovi mi inducevano a pensare che quella non fosse la mia amata campagna. Non sapevo spiegarmi come ero arrivato in quelle terre, ma la ragione m’imponeva di scoprirlo.
Mi alzai e feci qualche o, ma quanto stupore provai quando notai alcune piantine, che nascevano spontaneamente tra l’erba, apire rapidamente se calpestate, tramutarsi in cenere per poi, dotate di una forza misteriosa, rinascere nuovamente più rigogliose.
Ne strappai una dal terreno, divenne finissima cenere che scivolò via tra le mie dita, ma cadendo a terra altre piantine nacquero, più verdi e fresche.
“Che creatura curiosa sei!” esclamò una giovane donna alle mie spalle, burlandosi di me.
Mi voltai e rimasi in silenzio innanzi a tanta bellezza.
Meravigliosa, candida, eterea, delicata come la brezza dell’aurora.
Emanava una luce tale che tutto intorno a lei appariva più brillante. Persino l’acqua, contenuta nell’orcio che stringeva fra le braccia, zampillava e splendeva.
“Chi sei?” chiesi, tra l’estasi e l’emozione.
“Elinùa, del popolo della Luce. E tu, bel giovane, da dove vieni?”.
Esitai qualche istante temendo che la mia voce tremula potesse rivelare la trepidazione.
“Questo non è il mio mondo. Dormivo sulle fitte radici di quella palma quando al mio risveglio mi ritrovai in questo posto bizzarro” mi accinsi a spiegare.
“Oh no! È dunque giunta l’ora della Danza delle Sfere Celesti? Dobbiamo andare, questo luogo per noi non è più sicuro” disse spaventata.
La donna gettò a terra l’orcio da cui fuoriuscì l’acqua che, scivolando sull’erba, smise di brillare appena la giovane si allontanò.
“Seguimi!” mi ordinò correndo.
La raggiunsi e chiesi spiegazioni, ma lei non mi ascoltava e non parlò più fino a quando giugemmo alle porte di una città radiosa, costruita interamente con lastre di vetro e pilastri di cristallo.
Tutto in quel luogo emanava luminosità. I raggi del sole si riflettevano sulle superfici e la luce, rifrangendosi, donava arcobaleni di colore.
Elinùa continuò a correre e io, perso in quell’incanto, mi voltai giusto in tempo per vederla entrare all’interno di un sontuoso palazzo.
La seguii fino all’ultimo piano, dove finalmente rallentò i suoi i per accedere in una ampia sala.
Un uomo vestito di bianco era totalmente assorto nello studio di alcuni testi.
“Governatore Vleder! Le Sfere Celesti hanno cominciato a danzare. Il portale si è aperta e lui lo ha oltreato” disse con vigore, indicandomi.
L’anziano sollevò lo sguardo e chiaramente allarmato corse via.
“Venite con me!” ci ordinò.
Non capivo quello strano comportamento, non comprendevo la natura di tanta inquietudine, ma eseguii il comando.
Non ci volle molto per attraversare la città e giungere innanzi a un edificio dalle ampie vetrate, dove la giunta dei governatori si era già riunita e stava discutendo.
Vleder prese posto accanto agli altri. I dodici governatori sedevano intorno a una tavola rotonda sulla cui superficie era dipinta una pianta, la stessa che avevo visto rinascere dalle proprie ceneri, con piccole foglie su tre teneri rametti attaccati a una sola e unica radice.
Intorno alla piantina erano dipinti i dodici simboli dello zodiaco, uno per ogni governatore, più un tredicesimo simbolo a me sconosciuto, posto davanti a un trono vacante. Unica seduta differente dalle altre.
I ricami sulle tuniche bianche dei governatori raffiguravano gli stessi simboli
dello zodiaco a cui corrispondevano i posti.
“Dobbiamo agire in fretta. Fermare Ghoimon e rimandare il ragazzo nel suo mondo per richiudere il aggio” disse Vleder.
Sentendomi chiamato in causa avanzai, attirando l’attenzione dei dodici.
“Il tuo sguardo adombrato e attonito chiede risposte” mi disse Vleder. “È giusto che tu conosca la situazione. Non sei giunto qui per caso, ma chiamato da un destino a te ignoto. Tu sei l’unico uomo che può sconfiggere Ghoimon, sovrano del Regno delle Ombre. Un’antica profezia rivelò infatti che il giorno in cui le Sfere Celesti avrebbero danzato si sarebbe sprigionato un magnetismo la cui forza d’attrazione avrebbe allineato due mondi e che un giovane uomo sarebbe giunto dal luogo parallelo al nostro, una terra in cui la vita cessa dopo una breve esistenza. Una condizione a noi estranea poiché le dodici costellazioni unendosi alla tredicesima, l’Ofiuco, situato tra lo Scorpione e il Sagittario, emanano un flusso fecondo che ci dona la vita eterna. Il sovrano dell’Ombra conosce la profezia e vuole attraversare il portale e, forte della sua immortalità, intende dichiararsi sovrano assoluto. Ciò caebbe uno stato di schiavitù degli uomini del tuo mondo e la morte degli uomini del nostro regno” spiegò.
La rivelazione sul magnetismo mi ricordò gli studi del mio amato mentore e amico Athanasius Kircher, ma fu l’affermazione sulla tredicesima costellazione che mi lasciò allibito.
Nel mio mondo era conosciuta, ma certo ne ignoravamo i poteri.
“Come posso io, che sono solo la più semplice tra le creature, sconfiggere
quest’uomo?” chiesi.
“Un sacrificio va fatto. Dovrai decidere: immolarti per salvare noi e il popolo del tuo mondo, oppure ritirarti e lasciare che tutto segua il suo corso, pur conoscendo le catastrofiche conseguenze” continuò il governatore.
“Non posso permettere una tale apocalisse. Farò ciò che mi chiedi” risposi, senza indugiare oltre.
“La decisione è presa, preparati dunque a partire!” mi ordinò.
“È tardi! L’armata di Ghoimon sta giungendo. Vedo già l’oscurità avvicinarsi” disse Elinùa costernata, guardando l’orizzonte dall’ampia finestra.
“Mia regina, cosa dobbiamo fare?” domandò il governatore sgomento.
“Preparariamoci a combattere per impedire a Ghoimon e al suo esercito di raggiungere l’ingresso per l’altro mondo” rispose Elinùa sedendosi sul trono.
Il viso della ragazza non era più quello dolce e spensierato che avevo visto appena giunto in quelle terre, ma sul volto dominava l’espressione di una donna coraggiosa e fiera. Decisa a proteggere il suo popolo. Solo in quel momento però notai sul suo vestito un ricamato realizzato con fili d’oro: un uomo che teneva tra le mani un serpente. Era l’Ofiuco, tredicesimo simbolo dello zodiaco.
“Cosa posso fare?” chiesi.
“Il nostro mondo si regge sull’armonia tra bene e male, tra luce e ombra. Quest’armonia non può essere spezzata. Ghoimon ha già oltreato il confine del Regno della Luce e l’equilibrio è già minato. Aiutaci a ristabilirlo”.
L’allarme fu dato e l’intero popolo, uomini e donne, si armarono per difendere il loro territorio.
Intanto l’oscurità avanzava.
Gli uomini dell’Ombra erano creature avvolte dal-le tenebre, le cui anime nere erano facili prede del disinganno.
Il vuoto colmava le loro vite e la tristezza governava il loro tempo. Ma anche quella realtà oscura era necessaria a quel mondo che sopravviveva grazie alla giusta proporzione degli elementi. Questi qualificavano le due razze così distinte, ma compensavano l’una le carenze dell’altra.
Le armate nere invasero la città. Con efferato accanimento gli uomini dell’Ombra si scagliarono contro quelli della Luce e non fu difficile per loro prendere il sopravvento su un regno non avvezzo alla ferocia.
La regina combatteva con valore per difendere il suo popolo e io, che non sapevo e non volevo combattere, rimasi in disparte a osservare inorridito lo scempio che si stava consumando davanti ai miei occhi increduli, domandandomi cosa avrei potuto fare per fermare quella battaglia.
Elinùa venne a cercarmi.
“Non resisteremo a lungo. Dobbiamo allontanarci subito”.
“Ma come? Vuoi abbandonare la tua gente?” chiesi confuso.
“Dobbiamo cercare colui che può rivelarci il solo modo per impedire a Ghoimon di attraversare il portale. I governatori copriranno la nostra fuga. Svelto non abbiamo molto tempo”.
Fuggii con lei, seguendola tra vicoli solitari, lasciandoci alle spalle le fiamme, le grida e i rumori metallici delle spade dei soldati che si fronteggiavano gli avversari.
La città era avvolta da una coltre di oscurità, ma fuori le mura la luce e il silenzio dominavano ancora.
Ci dirigemmo verso il confine cittadino, dove credevo avremmo trovato il misterioso uomo. Forse lui poteva farmi ritornare nel mio mondo.
Ci fermammo davanti a una strana abitazione costruita nella cavità di una collina.
La regina bussò più volte a quella porta fino a quando qualcuno aprì.
Una donna ci accolse. Esile ma vigorosa nell’aspetto. I suoi lineamenti erano delicati, ma il suo aspetto austero.
“Mia regina! Cosa vi porta fin qui?”.
“Mia cara Vasfet, la città è stata invasa dalle armate di Ghoimon. Il giovane è l’umano di cui parla la profezia”.
“Presto mia signora, entrate. Bisogna agire in fretta”.
L’interno dell’edificio era costruito con legno e metallo e dello stesso materiale era la scala che ci condusse in una sala immensa, situata sotto il livello del suolo.
Sembrava una grande officina dove vi erano prodotti strani attrezzi, prototipi di marchingegni mai visti prima.
La donna era l’unica creatura umana che abitava quel luogo, quindi doveva essere lei l’ingegnere che aveva progettato e costruito quelle macchine.
Ci guidò tra quei mostri di metallo rifiniti con ottoni pregiati. Alcune invenzioni somigliavano vagamente a giganteschi insetti meccanici. Altre erano carrozze e calessi privi di traino per cavalli, ma alimentati da strani e fumanti alambicchi. Ali di tela con bizzarre imbragature, canoe a rotelle che correvano su rotaie di prova e mille altri strambi veicoli dalle forme più curiose.
Vasfet salì a bordo di una imbarcazione posta su una pedana seguita da Elinùa che iniziò ad armeggiare con alcune cime. Impugnò un coltello che custodiva nella cintura e tagliò le zavorre legate su entrambi i lati della barca.
“Perché rimani lì imbambolato? Svelto! Sali a bordo e aiutaci a salpare” mi ordinò.
“Salpare?! Dovremmo prima portare fuori questa lancia, metterla in mare e poi potremmo salpare” commentai con ironia.
Vasfet mi lanciò uno sguardo fulmineo.
“Non fare lo spiritoso!” mi ammonì Elinùa. “Af-ferra quella cima, tira più forte che puoi e legala in quel punto” aggiunse, indicandomi un gancio metallico.
Obbedii senza replicare.
Vasfet ed Elinùa presero altre due cime e le legarono una a ogni lato dell’imbarcazione. Anche la quarta fu presto annodata mentre le altre estremità delle corde rimasero ancorate a una grande tela bianca che le due donne sistemarono con estrema cura.
Al centro dell’imbarcazione faceva bella mostra di sé un contenitore metallico che Vàsfet riempì con legna da ardere a cui diede presto fuoco. Sopra di esso un cilindro di vetro colmo d’acqua. Quando la fiamma scaldò il liquido e il vapore cominciò a salire, la regina fece volare la tela su tutta la superficie della barca. Questa si sollevò come un enorme fazzoletto sospinto dall’esalazione calda.
Vasfet si sporse fuori dall’imbarcazione e tirò a sé una leva infilata nella pedana su cui ci trovavamo.
Il soffitto del sotterraneo si aprì come una botola, la barca si sollevò lentamente e, uscendo dalla sommità della collina, si librò in aria.
A quale meraviglia stavo assistendo: il volo, sogno di ogni uomo.
Quello strano velivolo ci portò in alto fino a quando il vento ci spinse lontano, portandoci nella direzione che desideravamo. La regina guardò la sua città che da quell’altezza sembrava tanto piccola. La vide avvolta nelle tenebre e una lacrima le solcò il viso.
“Elinùa, ce la faremo! La pace e la luce torneranno nel tuo regno” dissi, cercando di consolarla.
“Dobbiamo agire in fretta. Il portale deve…”.
“Essere richiuso” conclusi, anticipando il suo vole-re. “Parlami dell’uomo che stiamo cercando” le chiesi.
“Lui non è luce né ombra, ma in sé sono custoditi
entrambi i poteri. È l’uomo che conosce i misteri del nostro mondo. È il padre di tutte le creature appartenenti sia alle Terre di Luce che alle Terre di Tenebre e anche di quegli esseri che vivono all’ombra dell’uno e dell’altro regno. È colui che ci ha rivelato la profezia. Senza di lui tutto sarebbe puro caos”.
“Dove vive?”.
“A est, dove la luce lo abbraccia di giorno e le tenebre avvolgono le notti”.
“Mi indicherà la via per tornare a casa?”.
“Solo se preserverai l’equilibrio cosmico. È fondamentale che tu difenda prima il nostro regno altrimenti i popoli del tuo mondo non potranno aggrapparsi neppure al più flebile barlume di speranza”.
Pensai a lungo a quelle parole, mentre la brezza ci spingeva verso est.
La notte era ormai giunta e con l’oscurità quel viaggio mi parve interminabile.
Quando il vento cambiò direzione, Vasfet salì su uno strambo aggeggio simile a un carro, tirò a sé una leva aprendo così quattro botole sulla carena dello scafo da cui uscirono delle eliche.
Spingendo due pedali in senso rotatorio le eliche si attivarono girando vorticosamente. Grazie poi a un timone, la donna fu in grado di scegliere la direzione da seguire.
“Ecco, ci siamo! Laggiù vive Equilibrio” disse la regina alle prime luci dell’alba, indicando un punto preciso al centro di una rigogliosa foresta.
Vasfet si sporse. “Bisogna scendere di quota immediatamente” ci informò.
Era abile e, minuta com’era, riusciva comunque a governare da sola quella nave volante.
Smise di alimentare il fuoco che pian piano si affievolì, costringendo l’imbarcazione a scendere e ad atterrare come una foglia leggera caduta da un ramo.
Dopo aver assicurato le cime agli alberi ci inoltrammo nella foresta.
Sentivamo su di noi sguardi curiosi e infastiditi. Strane creature abitavano tra quegli alberi. Ombre nere attraversavano il nostro cammino. Piccoli uomini armati di lance vigilavano. Animali feroci ci accerchiavano e ringhiavano pur senza aggredirci.
Il terrore si era impossessato del mio corpo e a fatica le gambe obbedivano alla volontà.
Giungemmo innanzi a un castello le cui fondamenta sprofondavano in un gigantesco diamante, che si librava in aria a pochi metri da terra.
La regina afferrò il corno legato alla cinta e soffiò al suo interno.
Un suono melodioso riecheggiò a lungo nella foresta.
Il diamante si abbassò toccando il suolo e il grande portone del castello si aprì.
Le due donne entrarono senza esitazione. Io rimasi a guardare stupito.
“Cosa fai sciocco, non entri?” mi chiese con voce roca un omino buffo con un lungo naso bitorzoluto, al di là del portone.
Mi affrettai e raggiunsi Vasfet e Elinùa.
“Ancora questa strana pianta!” commentai, vedendo il giardino del castello coperto da quelle piantine che nascevano dalle proprie ceneri.
“Erba Fenice. È la pianta che più di tutte le altre rappresenta il mio popolo” mi spiegò la regina.
“Ma che cosa sta blaterando? Da dove viene questo qui? Dal mondo degli stolti?” chiese l’omino sogghignando.
Lo guardai in tralice, ma lui non si degnò neppure di preoccuparsi se con le sue parole mi avesse offeso.
Le due donne proseguirono sicure e fiere entrando nel palazzo.
Un sistema di ingranaggi ci aprì il varco per la sala del trono.
Un uomo alto e possente sedeva su un faldistorio rivestito in seta rossa.
“Padre!” esclamò la regina.
L’uomo lasciò il trono e camminò verso le donne con o incerto, mostrando la veneranda età nonostante l’aspetto fulgido.
Elinùa e Vasfet risparmiarono all’uomo l’affanno correndo verso di lui. Lo raggiunsero abbracciandolo con affetto, per poi baciargli le mani tre-muli come segno di devozione e rispetto.
“Figlie mie! Giungete a me piene di rabbia e dolore”.
“Le Sfere Celesti hanno danzato. Quest’uomo” disse Elinùa indicandomi “ha attraversato il tempo e lo spazio ed è arrivato proprio come la profezia rivelava. Purtroppo l’armata nera ha già attaccato il mio regno e presto raggiungerà il portale per ottemperare ai suoi piani”.
“Conosco già ciò che affligge il vostro cuore” disse l’uomo affranto.
“L’umano può ancora fermare Ghoimon!” esclamò Vasfet con un tono che chiedeva una conferma rassicurante.
“Sì,” la rincuorò il padre “ma prima deve essere ristabilita la giusta proporzione. Ogni creatura deve tornare al suo regno” pensò l’uomo ad alta voce.
“Tu sei Equilibrio. Tu sai come fare! Indicami la via da seguire, così che quando tutto tornerà al suo posto in questo mondo io potrò rivedere il mio” dissi al saggio che mi guardava con insistente curiosità.
“Ecco perché ha accettato il vile, solo per poter tornare da dove è venuto” brontolò l’omino avvicinandosi a Equilibrio.
“Non badare alle brutte maniere del mio amico Batlim. Non è abituato ad avere ospiti stranieri” disse l’uomo, giustificando l’atteggiamento sgarbato del suo amico.
“Ma quale brutte maniere!” gridò l’omino “Io so riconoscere un rammollito pappamolle quando ne vedo uno e vi assicuro che un bell’esemplare è proprio davanti ai miei occhi”.
Quell’affermazione offensiva mi lasciò senza parole causandomi anche un pizzico di imbarazzo .
Lo ignorai per evitare uno scontro verbale e poi in fondo aveva ragione. Perché doveva fidarsi di me? Quali prove avevo dato per meritarmi il rispetto di quell’uomo?
Potevo però porvi rimedio.
“Non posso garantire l’esito positivo della missione. Gli uomini dell’Ombra
sono forti, crudeli e privi di scrupoli” dissi.
“Cosa vi dicevo? Un vero pappamolle” commentò ancora Batlim con voce aspra.
Equilibrio non intervenne questa volta, ma mi fissò con un’espressione seria.
“Ma prometto” continuai “di fare tutto ciò che mi è possibile per riuscire a impedire che il caos sovrasti questo mondo” aggiunsi infine con ferma convinzione.
Per la prima volta, da quando ero in quelle terre, capii che volevo realmente aiutare gli abitanti di quel mondo e garantire loro una vita serena.
“Quale è il tuo nome giovane uomo?”.
“Giulio” risposi.
“Caro Giulio, le Sfere Celesti danzeranno ancora, anche quando di te non rimarrà che un ricordo. Altri arriveranno a salvarci dal caos, ma ora ci sei tu e voglio che conosca tutti i rischi. Non potrai superare il varco indenne. Il destino busserà alla porta per chiederti un tributo in cambio del tuo ritorno a casa”.
“Quale tributo dovrò pagare?”.
“Un braccio, una gamba, la vita stessa. Questo non so dirtelo. Ma un sacrificio di sicuro dovrai subirlo”.
Scossi la testa affranto e rimasi in silenzio per qualche istante prima di comprendere cosa fosse veramente importante per me.
“Non temo la morte se l’affronto per il bene altrui. Sono pronto a qualsiasi sacrificio” risposi sicuro.
“Ma…” commentò Batlim perplesso.
“Taci, mio piccolo amico. Grande è la responsabilità di questo giovane e a lui dovremo molto più delle nostre vite. Anche se dovesse fallire gli saremo eternamente grati solo per il fatto che abbia deciso di sacrificarsi per noi”.
Batlim non disse più nulla, ma il suo broncio mi spiegò chiaramente la poca fiducia che ancora aveva nei miei confronti.
“Il nostro universo si regge su quattro elementi strettamente connessi allo zodiaco: Fuoco, Acqua, Aria e Terra. Dovrai trovare questi elementi e, quando la tredicesima costellazione brillerà di una luce intensa, li allineerai innanzi al portale. Non hai molto tempo. Un giorno, uno soltanto, poi l’Ofiuco rilascerà il suo potere e se gli elementi non si troveranno al loro posto tutto sarà stato vano. Il portale resterà aperto e nulla potrà fermare Ghoimon e la sua terribile armata. Non sarai solo in quest’impresa, Elinùa e Vasfet ti aiuteranno nella ricerca” mi spiegò Equilibrio.
“Partiremo immediatamente” disse Elinùa.
Io e le due temerarie lasciammo il castello e ci inoltrammo nella foresta alla ricerca dei quattro preziosi elementi che ci erano stati indicati.
“Nelle viscere della terra troveremo il Fuoco Sacro” m’informò la regina.
Non capivo bene cosa dovessimo realmente cercare né cosa avremmo trovato, ma seguii le donne senza indugio, fidandomi ciecamente della loro conoscenza e del loro istinto.
Dopo alcune ore di cammino entrammo in un antro scuro, una caverna abitata solo da laidi e ripugnanti insetti di specie a me sconosciute.
Il gelo e l’umidità congelavano i miei arti.
“Dobbiamo entrare il quel pertugio” disse Vasfet indicando un aggio piccolo e angusto.
“Ma solo un topo potrebbe attraversarlo!” esclamai costernato.
“E allora saremo come topi” mi rispose la regina con un sorriso dolce, invitandomi a seguirla.
Il aggio era stretto a tal punto che dovemmo procedere proni, aiutandoci con braccia e mani. Era illuminato solo dalla luce emanata dai corpi delle due donne.
Luce che si affievoliva sempre più col are del tempo.
Viscidi rettili strisciavano accanto a me, ma sem-brava fossi il solo a esserne preoccupato.
Elinùa e Vasfet erano intenzionate a procedere e nulla le avrebbe fermate. Io non potevo tirarmi indietro.
Saltammo dentro una voragine situata alla fine della galleria, trovandoci in una stanza dal calore insopportabile.
Una fiamma blu ardeva al centro della caverna.
La regina, con sguardo eccitato, corse a prenderla, ma una voce tonante la fermò.
“Non puoi toccare il Fuoco Sacro senza il mio permesso!”.
Elinùa e Vasfet caddero sulle ginocchia in un atto solenne di riverenza.
“Chi sei?” chiesi con veemenza, rimanendo in piedi.
“Uomo spudorato e incosciente! Come osi rivolgerti a me? Sono il guardiano del Fuoco. Fonte di calore eterno. Prostrati innanzi a me!” mi ordinò un anziano dai
capelli bianchi ed estremamente lunghi, con fitte rughe che solcavano il volto arrossato dalla continua vicinanza al calore.
L’uomo era avvolto da una nuvola di fumo che vorticava intorno a lui e che rispondeva ai cenni della sua mano.
D’improvviso udii un fragore e la terra sussultò. Il guardiano si stava ribellando alla mia impudenza. Mi inginocchiai per lenire la sua ira.
“Saggio guardiano, il Fuoco Sacro ci aiuterà a salvare il nostro mondo, che presto sarà vittima del caos se non fermeremo le armate nere” spiegò Elinùa.
“Regina del Regno di Luce, sai bene che non ti è concesso toccare il Fuoco Sacro”.
“Sarà l’uomo a custodirlo” propose.
“Lo proteggerò a costo della vita” aggiunsi.
“E sia! Ma tornerà a me quando tutto sarà finito”.
Senza esitare mi avvicinai alla fiamma e a mani nude presi il Fuoco.
Le mia epidermide non avvertì il suo calore, ma solo un lieve tepore.
Tornammo in superficie e percorremmo una grande distanza alla ricerca della Fonte Eterna.
Le creature della foresta si erano ormai abituate a noi e non ci guardavano più con sospetto.
In un luogo protetto e riparato dalla fitta vegetazione si nascondeva una splendida cascata.
Incorniciata da rocce levigate e lucide, rilasciava le sue acque in un laghetto sottostante.
Feci un o avanti per raccogliere ciò che stavamo cercando, ma Vasfet mi afferrò per un braccio.
“Prudenza! Non avere fretta di morire” sussurrò.
Mi meravigliai di quel consiglio inappropriato vista la quiete che regnava in quel luogo.
Le donne si guardavano intorno con prudenza e circospezione, mentre io mi domandavo cosa mai stavamo aspettando.
“Quale soave tentazione è la compagnia di un uomo” disse una giovane donna dai lineamenti delicati, apparsa improvvisamente sulla sommità della cascata.
Con o delicato discese da una scala scolpita nella roccia.
Il corpo longilineo mostrava forme sinuose. La veste trasparente lasciava intravedere ogni singola curva di una creatura perfetta.
“Allontanati, meretrice, siamo qui solo per dis-setarci a questa fonte” gridò Vasfet con tono minaccioso.
La donna mi osservava conquistandomi con moine ammaliatrici.
“Non farti affascinare da lei! L’attrazione che provi è frutto di un incanto” mi ammonì Elinùa.
Ma io non ero capace di abbassare lo sguardo. Stavo perdendo il controllo della mia volontà. Ero soggiogato.
Sentivo le forze mancare e percepivo appena gli arti che, come gambe di un burattino, muovevano i verso la giovane che manovrava fili invisibili.
“Ti fermerò io!” disse Vasfet con tono di sfida.
L’ingegnere, mostrando doti che non immaginavo, sfoderò la spada e affondò la lama nel ventre di colei che mi teneva in pugno.
L’incantesimo si spezzò con l’interruzione del contatto visivo.
La donna, tra rantoli e lamenti, tramutò la sua forma in un orrendo mostro.
Con la mano gelida e squamosa, la creatura si avvicinò rapidamente, mi afferrò con violenza e mi tirò a sé.
Anche la regina si armò e insieme alla sua compagna attaccarono colpendo ancora la creatura dell’acqua.
Il mostro emise un gemito soffocato e ferito si allontanò da me, inerpicandosi sulla parete rocciosa.
Consapevole che presto sarebbe tornato, mi gettai nell’acqua e bagnai la mia veste, poi fuggimmo via senza voltarci indietro.
Correndo fino a perdere le forze, raggiungemmo il velivolo dove torsi il mio abito per far uscire il prezioso liquido che lasciai scivolare in una ciotola.
L’acqua della Fonte Eterna era chiara e nitida.
Emanava un odore fruttato di bacche ed erba falciata.
Aiutammo Vasfet a far decollare la nave volante che lei guidò fino ad alta quota.
La lancia si sollevò dal suolo e riprese il suo viaggio continuando a salire.
Guardai l’immensità del cielo e il paesaggio sottostante e mi sorpresi a pensare che mi stavo ormai adattando a quel mondo e alle sue stranezze.
Mi soffermai poi sul bel viso della regina Elinùa per la quale provavo dolci sensazioni.
Era una donna così perfetta, tenace e tenera allo stesso tempo, caparbia e arrendevole all’occor-renza.
La sua superlativa bellezza mi procurava fitte al cuore ogni qual volta i suoi sguardi incrociavano i miei. Mi sentivo confuso a ogni suo sorriso. Ansimavo a ogni sua parola.
Mai tali sentimenti avevano sfiorato i miei sensi.
Vasfet mi osservò donandomi uno sguardo di comprensione e complicità.
Il mio volto s’imporporò.
L’aria era pesante, respiravamo a fatica. Il malessere si stava impossessando dei nostri corpi, mentre la nave veniva sbattuta a dritta e a manca da venti capricciosi.
“Andate via!” ripetevano all’unisono alcune voci.
“Non andremo da nessuna parte fino a quando voi, maestosi venti, non ci lascerete prendere l’Aria Intensa” gridò la regina.
I venti soffiarono con violenza scatenando una pioggia battente.
Lampi e tuoni ci costrinsero a legarci alle cime per evitare di essere scaraventati fuori bordo.
“Mai!” echeggiavano i quattro venti in musicale consonanza.
Le loro immagini eteree si presentavano alla nostra vista improvvisamente, per poi sparire di nuovo tra le nubi.
“Ne abbiamo bisogno per sconfiggere le armate delle tenebre. Anche voi perderete forza e vigore quando il caos conquisterà questo mondo. Dateci ciò che chiediamo e preserverete i cieli dalla catastrofe” gridai con convinzione.
Risero divertiti, prendendosi gioco di noi.
“Dovete credere in quest’uomo. Dargli fiducia. Mettere il vostro destino nelle sue mani come ho fatto io, regina del Regno di Luce” urlò Elinùa.
La quiete tornò lentamente, i venti smisero di soffiare, tuoni e lampi si placarono e la pioggia cessò.
“Se la Regina di Luce è giunta fin qui un grave motivo deve averla spinta” disse il vento di ponente.
“Ma non possiamo darle ciò che chiede!” esclamò il vento di levante.
“Possiamo e dobbiamo!” risposero in coro il vento di settentrione e quello di meridione.
“Allora è deciso!” esclamarono in un’unica melodiosa assonanza.
I quattro venti si avvicinarono alla nave e soffiarono su di essa. La regina afferrò un’ampolla custodita in un baule e raccolse il soffio di vento. Con un tappo imprigionò l’Aria Intensa che poi mi affidò.
“Tornerà a voi quando la minaccia del caos sarà debellata” li rassicurò Elinùa.
I venti ci sospinsero lontano e la nave si lasciò cullare dolcemente riportandoci
entro i confini delle Terre di Luce.
Dopo un lungo viaggio Vasfet fece atterrare la nave volante nei pressi di un recinto murario.
Quelle pietre custodivano un giardino di rara bellezza con piante dalle specie ignote e fiori dalle sfumature più bizzarre.
Al centro del giardino una piantina di Erba Fenice cresceva rigogliosa, sospesa nell’aria.
“È la pianta d’origine! Madre di tutte le piante che nascono nelle nostre terre” mi confidò la regina, accingendosi a raccogliere il vegetale per affidarlo alle mie mani.
“L’Erba Fenice per noi rappresenta la fertilità della terra e degli uomini. Prendila!”.
Presi con me anche l’ultimo elemento, mentre il sole si perdeva dietro l’orizzonte.
Giunse presto la notte e con il cielo nitido le costellazioni erano ben visibili.
La palma, che aveva generato il magnetismo capace di condurmi in quel luogo, era poco distante dal giardino e io mi affrettai a raggiungerla.
Fui il primo ad arrivare.
Vidi un bagliore provenire dal suo tronco e l’ingresso aperto attraversato da una moltitudine di colori. Di notte il portale era visibile.
Guardai il cielo e ammirai l’intensa luminosità delle tredici costellazioni, ma sotto di esse la città di Luce era avvolta dalle fiamme e preda del male, figlio dell’oscurità.
“Non ti lascerò scappare via!” disse a denti stretti Ghoimon, correndo verso di me con la sua armata di mercenari.
L’uomo mi fissava con ferocia, minacciandomi con la sua spada.
Io ero atterrito. Disarmato. Inerte. Ma trovai il coraggio di gridare “Non ho paura! La paura esiste solo se temi la morte. Io non la temo e non temo te!”.
Ghoimon con un sorriso beffardo sollevò la lama arroventata dai fuochi appiccati nella città.
Si avvicinò e sollevò l’arma per colpirmi con tutta la violenza di cui quell’animo crudele disponeva, ma Elinùa e Vasfet, raggiungendomi, mi protessero con i loro corpi frapponendosi tra me e il tiranno per concedermi altro tempo di finire il rito.
Il volto di Ghoimon si contrasse.
“Cosa possono fare due femmine contro la mia forza? Vi fermerò, poi ucciderò l’uomo” concluse con un sorrisetto malevolo.
L’armata esultò per il suo re.
Ghoimon era impegnato con le due donne in un duello serrato e io approfittai per sistemare innanzi al portale i quattro elementi naturali: il Fuoco Sacro, la ciotola con l’acqua della Fonte Eterna, l’ampolla che conteneva l’Aria Intensa e la pianta madre dell’Erba Fenice.
Ghoimon digrignò i denti con ferocia e ordinò “Fermatelo!”.
Alcuni dei suoi uomini avanzarono con lo sguardo carico d’odio e il sarcasmo dipinto sulle labbra.
Rimasi immobile, gli occhi spalancati.
Elinùa e Vasfet continuarono a combattere affrontando anche altri uomini che correvano verso di me.
La luce, che ore prima le avvolgeva, si era quasi spenta del tutto.
Non potevano resistere a lungo. Troppe armi contro due sole spade, troppo vigore per due sole donne.
Aspettavo con impazienza l’apertura del varco, così, assolvendo alla mia promessa, avrei salvato Elinùa e tutto il suo popolo.
Quegli attimi parevano interminabile, quando finalmente dalla costellazione dell’Ofiuco si sprigionò un raggio luminoso che colpì il portale.
“Attraversa la porta, solo così potrà chiudersi!” mi gridò Vasfet.
“Prendi l’Erba Fenice. È un mio dono per te” mi disse Elinùa con tono mellifluo, mentre l’armata sopraffaceva lei e la sua fedele compagna.
Afferrai velocemente la pianta madre e mi gettai tra i colori del portale, ma Ghoimon lanciò la sua spada che mi colpì a una gamba. La estrassi e la gettai via, mentre una forza mi attirava a sé.
Mi voltai giusto il tempo necessario per vedere, anche se per pochi attimi, le armate di Ghoimon e il re stesso svanire nel buio.
Il Sacro Fuoco divampare per poi dissolversi e tornare dal suo custode. L’Aria Intensa portata via dai venti. La ciotola che conteneva l’acqua della Fonte Eterna ribaltarsi restituendo la preziosa linfa alla natura.
Con un ultimo sguardo mesto fissai la mia bella regina che mi sorrise dolcemente, mentre la luce l’avvolgeva con nuovo e rinnovato vigore. Poi venni attratto all’interno del portale e non vidi più nulla.
Mi risvegliai nel mio mondo. Il sole stava sorgendo.
Io ero chino a terra, ansimavo esausto per lo sforzo e il dolore.
Un’ondata di pensieri mi sommerse.
Un sogno, un incubo, pensai.
Ma non era così.
La ferita alla gamba era aperta e la carne viva mi ricordava la paura degli ultimi attimi trascorsi in quel mondo lontano, ma parallelo.
E poi nella mano stringevo ancora l’Erba Fenice ridotta ormai in cenere, ma che presto rinacque rigogliosa.
Claudicante tornai a casa, curai la lesione sanguinolenta, però nulla potevo contro quella del cuore che non mi dava pace. Una lacerazione invisibile, ma pur sempre dolente.
Nei giorni seguenti mi recai a Roma per incontrare il mio mentore Athanasius Kircher. Gli raccontai la mia storia nei dettagli, confessando anche i miei sentimenti per Elinùa.
Il maestro corrugò la fronte, incredulo.
Gli mostrai allora un fazzoletto, lo aprii. Al suo interno custodivo un mucchietto di cenere. Afferrai un alambicco dal collo stretto e lungo, uno dei tanti che c’erano nel suo laboratorio. Versai il contenuto del fazzoletto all’interno e attesi la rinascita di una nuova e rigogliosa piantina d’Erba Fenice.
“Germoglia perpetuamente dalle sue ceneri” gli spiegai, mentre lui trepidante e concitato guardava la meraviglia che cresceva sotto i suoi occhi esterrefatti.
“È tutto vero, dunque. Il magnetismo esiste e tu, mio giovane amico, sei stato
intrappolato da que-sto grazie alla palma, l’albero più ricco di forza attrattiva. E il mondo di Luce e quello dell’Om-bra. E poi l’Erba Fenice che germoglia dalle sue ceneri. È tutto vero!” ripeteva euforico.
Per molti anni Kircher studiò ogni dettaglio del mio racconto, approfondì lo studio del magnetismo e lo divulgò in alcuni trattati. Pur non rivelando mai la sua provenienza per mia esplicita richiesta, anche la piantina d’Erba Fenice, che con-tinuò a germogliare nell’alambicco, venne esposta con orgoglio nel suo museo al Collegio Romano, sorto nel 1652.
Memore di quel viaggio e dei miei sentimenti per la regina, non conseguii più i voti religiosi.
Trascorsi i miei anni nel tentativo di riaprire il portale per tornare da Elinùa.
La ferita alla gamba guarì, ma il mio cuore no. Equilibrio mi aveva ammonito, dovevo pagare un tributo.
Questo era il mio sacrificio, il dolore che dovevo sopportare: la lontananza dalla donna amata.
Un’altra frase pronunciata da Equilibrio ossessionò i miei giorni, le Sfere Celesti avrebbero ancora danzato, anche quando di me non sarebbe rimasto che un frammento di memoria.
Per questo ho trascritto tutta la mia avventura, affinché non vada perso il ricordo,
affinché capiti
nelle giuste mani, affinché tu possa affrontare il viaggio consapevole dei pericoli che incontrerai.
Solo una cosa ti chiedo, mio lettore, porta un bacio a Elinùa e dille che lei vive ancora in me.
Quando Alessandro concluse il manoscritto era eccitato e soddisfatto. Da tempo ormai una lettura non lo coinvolgeva così emotivamente, anche se era consapevole che quelle erano teorie di un visionario o fantasie di un commediografo.
Conosceva però Athanasius Kircher, si era documentato sulla sua biografia e le sue opere, ma di Giulio non trovò mai nulla, neppure tra gli scritti pubblicati dal suo mentore.
Dell’Erba Fenice, poi, aveva letto qualche riga sul testo ‘Mundus Subterraneus’, elaborato dallo stesso Kircher, ma di quella piantina non era rimasto che un disegno, ammesso che fosse realmente esistita.
Ad Alessandro piaceva però pensare alla veridicità di quella ione mai consumata tra Giulio ed Elinùa, di quell’amore vissuto, ma mai professato.
Il ragazzo eggiava con questi pensieri quando, osservando una palma, ricordò il portale.
Per puro diletto si sdraiò sulle fitte radici e socchiuse gli occhi per un breve istante. Quando li riaprì il mondo intorno a lui era mutato.
Strappò una piantina dal terreno che divenne finissima cenere, scivolò via tra le sue dita e cadde sulla terra dove nacquero altre piantine.
Confuso e spaventato cercò di dare a quel momento una spiegazione razionale,
ma ogni interpretazione precipitava in un baratro di domande.
Una donna si avvicinò, il suo corpo emanava una luce brillante.
Alessandro riconobbe in quei lineamenti la descrizione della regina.
“Elinùa!” esclamò.
Lei annuì.
Il ragazzo le diede un bacio sulla guancia e le porse il manoscritto che ancora stringeva avidamente in una mano.
La regina lesse avidamente con commozione mentre le lacrime le solcavano il viso.
“Le Sfere Celesti stanno nuovamente danzando. Presto! Non c’è tempo da perdere” disse la don-na correndo verso la città di Luce.
Alessandro la seguì consapevole ormai del suo destino.
L'autrice
Filomena Cecere , ha da sempre una ione per i tutti i generi legati al fantastico.
Ha pubblicato I cavalieri di Elidar, 2008, Il sacro diaspro, 2009, Il pugnale di ghiaccio 2010, Ego Edizioni, Le streghe della palude, 2011, Gds Edizioni.
Oltre a numerosi racconti per diverse antologie, ha pubblicato anche due Istantanei La tredicesima costellazione e Ritratti di sangue, 2009, Gds Edizioni, e alcuni e-books come Lellerith. I tratti dell’ingiuria.
Consulente editoriale, curatrice di collane e presidente di giuria per alcuni concorsi letterari. Nel 2011 fonda l’associazione culturale Chimera. Collabora con noti magazine di genere e ha ideato e curato diverse antologie di autori vari e romanzi.
Nel 2012 collabora con Casini Editore al progetto Little Dreamers di Mooney Witcher con i racconti de Il diario di Lisa.
Nel 2009 il racconto Alanis vince il primo premio nel concorso letterario Idee letterarie indetto dalla casa editrice GDS. Nel 2012 la sua storia fotografica Attraverso lo specchio conquista il secondo posto nel premio nazionale fotografico Visioni in giallo e la sua poesia Ninna nanna macabra si guadagna il terzo posto al concorso Nero&Giallolatino. Nell 2013 al racconto Signòm ni rom, pubblicato nell’antologia Sapori, viene assegnato il premio come miglior racconto.
Nel 2013 scrive, per il progetto teatrale Horror Dinner Story, la sceneggiatura Creatures. Presenze dal ato, messa in scena dalla compagnia Teatro di Sacco di Perugia.
Il suo sito è www.filomenacecere.it
Foto della biografia ©Cinzia Volpe