La Vera Storia Di Poliblu (la Medusa-fatina O Fatina-medusa Dai Grandi Occhi Azzurri) 2u3l27

Guido Sperandio

LA VERA STORIA DI POLIBLU

la medusa-fatina (o fatina-medusa) dai grandi occhi azzurri

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Indice

PoliBlu

Le creature del mare

La nave

Il Cavaliere e la Sirena

L'uomo nello scafandro

Fritz Ekkembauer

Eva Roberts

L'ispido gigante

Gli uccelli

Mister Petrolio

Gualtiero in frac

Charlie Taormina

Tsunami!

Canzone di liberazione

Il giorno dopo

Ciao, sono Guido!

PoliBlu

Nemmeno lei sapeva dove, come, quando era venuta al mondo.

Nemmeno lei.

Unico dato certo: il primo a vederla fu un vecchio tricheco adagiato su uno scoglio ai bordi dell’oceano.

Il tricheco stava con gli occhi socchiusi, lo sguardo intorpidito da una piacevole sonnolenza… Le zanne al sole, se ne godeva il tepore… Quando lei gli era sbucata dalle onde.

Lui allora aveva spalancato gli occhi per la meraviglia e: «Tu chi sei? (le disse) Da dove vieni? A quale razza… A quale specie mai appartieni?».

Al vecchio tricheco non era ancora capitato di vedere una medusa-fata. O una fata-medusa, come dir si voglia.

Della medusa aveva testa e tentacoli, ma di una fata aveva gli occhi. Grandi. PoliBlu. Immensi. Dall’azzurro profondo. Con ciglia lunghe e arcuate. Perfette. Come se fosse appena uscita da un istituto di bellezza e vi avessero appena ato il mascara.

Lei le sbatteva (flap-flap!) vezzosa. E ogni flap-flap era l’equivalente di una freccia scoccata, dritta, al cuore. Un centro sicuro era, una conquista.

Aveva anche i lunghi capelli di una fata. Azzurri. Pure.

Le scendevano morbidi e lucenti e la avvolgevano. Tutta. Rendendola più simile a una irresistibile Miss piuttosto che a una medusa, quale in fin dei conti era.

«Sei davvero molto bella» le disse il vecchio tricheco.

«Avrai molto successo» disse soppesando le parole. L’aria solenne di un profeta.

Lei, flap-flap, sbatté le ciglia. E si tuffò. E scomparve.

Il vecchio tricheco non vedeva molto bene. Aveva i suoi anni. E lì per lì l’aveva giudicata un polipo più che una medusa. Così le gridò: «Ciao, PoliBlu».

La salutò col primo nome capitatogli in mente.

Le creature del mare

Il vecchio tricheco era stato buon profeta.

PoliBlu riscosse immediatamente un gran successo tra gli abitanti di ogni genere di acqua, salata o dolce.

Riscosse simpatia e consensi dovunque si trovasse.

Le creature del mare la ammirarono, e amarono.

Andavano a gara a esprimerle solidarietà. Tutti avevano una parola per lei, un complimento, un saluto.

Fu per tutti PoliBlu, la principessa delle acque, reginetta di ogni oceano.

E non tardarono a fiorire le leggende.

*

Si disse che PoliBlu era figlia di Venere, la dea della bellezza e dell’amore.

Si disse che la bellissima Venere, uscita dalla spuma del Mediterraneo, era stata vista da un vigoroso e rude polipo.

Il vigoroso e rude polipo se ne era furiosamente innamorato. Aveva proteso i suoi tentacoli e aveva stretto la bella Venere in un abbraccio.

Ne era nata PoliBlu.

Si disse.

*

Ma non c’è rosa senza spine. E presto, anche PoliBlu, splendida rosa d’acqua, ebbe le sue.

Iniziò a provare un inspiegabile senso di disagio. Poi fu presa dall’irrequietezza. Il certo non-so-che si trasformò in tristezza. Culminò in malinconia. Struggente e cupa.

PoliBlu prese l’abitudine di are lunghe ore abbarbicata a uno scoglio: a seguire con lo sguardo le navi all’orizzonte, che si delineavano e svanivano.

Rivide il tricheco, il vecchio tricheco.

Questi stava raccogliendo alghe secche per rifarsi il materasso, e la salutò. Contento di incontrarla.

«Ciao, bella PoliBlu. Stai bene?» le disse.

Lei parlò, stavolta. Pareva non aspettasse altro. «Non so se sto bene…C’è qualcosa che non va, che non capisco.»

«Oh (il vecchio tricheco assunse un’aria seria), cosa non va?»

«Non lo so, te l’ho detto. È proprio quello che vorrei sapere.»

Il vecchio tricheco la scrutò. E vide ombre riflesse nei meravigliosi due specchi azzurri che erano gli occhi di PoliBlu.

Erano le ombre delle navi che PoliBlu seguiva per ore, da giorni, con lo sguardo.

*

Il vecchio tricheco capì.

Capì che PoliBlu era bella e amata, e aveva tutto per essere felice sia come medusa che come fata. Eppure lei si rodeva perché in lei, purtroppo, c’era anche un lato umano che guastava.

Si trattava di un pizzico, soltanto. Un pizzico. Ma, ahimè, bastava.

E il vecchio tricheco disse: «Non c’è essere umano che si accontenti. Vuole sempre essere di più, e avere quello che non ha. Per questo gli esseri umani si agitano, e sono sempre infelici. Anche tu…»

«Non capisco» lei lo interruppe.

«Tu, PoliBlu, senti il richiamo delle navi e di quel mondo sulla terraferma che non hai ma a cui il tuo istinto ti dice di appartenere in parte… È la tua parte umana a renderti scontenta. »

«Come fai a dire che in me c’è qualcosa di umano? Da cosa lo capisci?»

«Quegli occhioni, per esempio… Quegli occhioni PoliBlu! Ne sono una riprova» disse il vecchio tricheco.

«Oh» disse PoliBlu, sconcertata per la verità emersa e da lei mai tenuta in conto.

«Cosa… Come devo fare?» chiese.

Il vecchio tricheco le sorrise: «Ascolta il tuo cuore. Lui sa. Ti conosce meglio di ogni altro, e lui conosce anche le cose. Ogni cosa».

Il vecchio tricheco si allontanò.

Fu l’ultima volta che PoliBlu lo vide.

La nave

Una mattina, arrivata sullo scoglio, lei scorse una nave stagliarsi imponente contro il sole.

Schiere di eggeri, eleganti e sorridenti, affollavano le balconate. E dalla nave arrivava una musica dolcissima di sogno. Da far pensare che a suonarla fosse un’orchestra di sirene.

Ispirata dalla visione: «Basta con le tristezze» PoliBlu disse a voce alta.

Lasciò lo scoglio, tornò nell’acqua.

Si tuffò.

Rapida ridiscese le profondità del mare. Un delfino la salutò: «Ciao, begli occhi!».

Un granchio, per quanto si desse da fare, non riusciva a smuovere le sue svariate zampe. Non volevano saperne: rigide, bloccate, anchilosate. E il granchio, che non ce la faceva a uscire dal suo buco, le gridò: «Tu sì, PoliBlu, sei fortunata. Corri che si vede che non soffri di dolori. Non hai i miei dannati reumatismi. Mi ci vorrebbe un po’ di caldo secco e invece guarda in che schifo di umido mi trovo».

PoliBlu procedeva spedita, e una tartaruga le diede la precedenza: «Vai pure, vai– le disse –.Io non ho fretta. Tanto, tutti sanno ormai chi sono. Se arrivo tardi a un appuntamento nessuno se la prende».

Un pescecane si vide PoliBlu sfrecciare davanti e si arrestò: estasiato dai tentacoli di PoliBlu si attardò ad ammirarli.

Erano lunghi e affusolati, e il pescecane pensò che erano davvero sexy. Veramente.

Una seppia, che andava di fretta, investì il pescecane: «Ehi, cosa fai lì impalato come un baccalà? E datti una mossa, vecchio sporcaccione! Non vedi che blocchi la circolazione?».

«Yugh, yugh» il pescecane, mogio, si spostò.

La seppia intorbidò le acque per il nervoso nero accumulato.

*

PoliBlu raggiunse gli abissi dove l’azzurro è più intenso. Al limite del buio. E, toccato il fondo, si fermò. Sulla soglia di una grotta.

Stava per varcarla, la accostò un merluzzo.

«Da un po’ di tempo hai un’aria seria e scontenta (il merluzzo le disse dolcemente).Cosa ti succede, PoliBlu?».

«Oh, niente… Niente» lei abbozzò.

Accennò un impercettibile sorriso e sbatté i tentacoli. Si impresse una spinta e sparì dentro la grotta.

Nella grotta, i riflessi dei pavimenti di corallo si univano agli effetti-arcobaleno della tappezzeria alle pareti di madreperle e di conchiglie. L’atmosfera era di incanto. E PoliBlu appunto chiamava la grotta «la mia Casa Maga».

Ma lei, in quel momento, aveva ben altro per la testa. Era come non avesse occhi. Troppo presa dalla decisione che aveva in animo di prendere.

Si inoltrò nella grotta e rannicchiò in un angolo.

Rifletté a lungo.

Uscì dalla grotta, poco dopo.

Con un programma.

Il Cavaliere e la Sirena

Chiamò a raccolta tutti gli amici del mare, grandi e piccoli.

L’assemblea era oceanica.

In ogni senso.

I partecipanti infatti appartenevano al fior fiore dell’oceano, e formavano una folla… oceanica. Appunto.

C’erano anche pinguini e tartarughe, dalla terraferma. E uccelli, pure. Gabbiani specialmente. Oltre che anatre.

Questi, non potendo immergersi, seguivano la riunione a filo d’acqua. Galleggiavano. E rimediavano cacciando la testa sotto, di quando in quando, per non farsi sfuggire i i più importanti.

«Bene (PoliBlu iniziò il suo discorso), sono qui per salutarvi e ringraziarvi per la simpatia e l’affetto che mi avete sempre dimostrato, compagni meravigliosi e generosi che mai scorderò… Io vi lascio… Me ne vado…»

«Glu-glu» generale: esplosione di bolle di emozione e di stupore.

*

Disse un cavalluccio marino dalla vocina esile: «Doove… Doove vuooi andareee… PoliBlu? Pe… perrché ci lasciii?».

Il cavalluccio aveva parlato timido esitando e PoliBlu gli rispose: «Vado dove non c’è solo acqua, oceano e mare. Vado dove la luce non è soltanto del sole e delle stelle ma è anche di sfavillanti costellazioni al neon… Vado dove le notti sono illuminate anche più del giorno… Vado nel mondo degli umani. Sapete che lì c’è perfino la luce elettrica? Ogni essere umano, appena cala il buio, accende i suoi piccoli soli personali… E, click!, la luce la creano a comando».

Disse un delfino: «Sono stelle e soli falsi che abbacinano e stordiscono. Non ti fare ingannare, PoliBlu. Io ho amici che sono lì in quel mondo e adesso ci vivono prigionieri negli acquari. Poveretti! Sono usati come pagliacci per divertire. E gli umani ci guadagnano sopra e li sfruttano. E so di altri compagni squarciati e trucidati. Con la scusa che noi delfini siamo intelligenti ci prendono e addestrano alla guerra…»

Disse il cavalluccio: «E cooc… ccome?».

Disse il delfino: «Ci legano l’esplosivo addosso e ci mandano a intercettare obiettivi da far saltare, così finiamo a brandelli».

Disse un pescecane: «Colpa vostra… È colpa di voi delfini. Potete star certi che a me certe cose non le fanno. Voi delfini, invece, fate amicizia con gli umani e vi fidate. E poi vi commuovete pure: se trovate qualcuno di quei miserabili in mare, magari in difficoltà, che sta annegando, vi fate in quattro per salvarlo… Puah!... Sarete intelligenti ma io dico che siete ingenui e pazzi.»

Disse una foca: «Gli umani hanno scuoiato i miei cuccioli appena nati, sotto i miei occhi… Per prendersi le pelli fresche che così valgono di più… Mi hanno uccisi i cuccioli a bastonate».

Disse un gabbiano: «Di certo, gli umani non sono tutti San sco… Lui sì rispettava la natura… Parlava anche agli uccelli e ammansiva le belve… Gli animali per lui erano fratelli… E anche il sole, vento e l’acqua».

Disse una cozza: «Gli umani l’acqua la insudiciano, sprecano, offendono, avviliscono…».

Disse una balena, che recava le cicatrici di mille arpionate cui era sopravvissuta miracolosamente… Le esibiva con la stessa fierezza con cui un eroe mostra le proprie medaglie allineate sul petto… E la balena tuonò, precedendo le parole con un furioso getto d’acqua: «Per gli umani non c’è che il petrolio… Il petrolio loro lo venerano… È la loro sola vera religione».

Disse un pinguino: «Pura verità».

Si era salvato per un caso da una immensa chiazza maleodorante densa e nera che aveva annerito un’intera porzione di oceano per giorni: fino a imbrattare chilometri di costa dove erano morti tutti, animali e piante, dopo una lunga agonia atroce.

Per anni, per decenni, lì non sarebbe cresciuto segno di vita.

*

Disse un’aragosta: «È la civiltà, bellezza! La stessa per cui mi buttano viva nell’acqua bollente di una pentola».

Disse un barracuda: «E poi, secondo gli umani, dovrei essere io l’assassino crudele… il serial killer!».

Disse uno squalo: «Io se uccido è per nutrirmi. E niente altro. Non è colpa mia se sono fatto in questo modo. Però almeno non faccio spreco della mia preda e non mi abbandono a crudeltà inutili. Come l’Uomo. Che uccide e distrugge giusto per farlo. Quando non ci trova pure gusto. Senza trarne alcuna utilità. Anzi a proprio danno. È l’Uomo, il vero predone, il più potente e micidiale».

*

Disse un tonno: «PoliBlu, la sai quella del Cavaliere e della bella Sirena?... No?... Ora te la racconto… Un giorno, un Cavaliere incontrò la bella Sirena e le disse: “Se tu dai una cosa a me io do una cosa a te”.

«La Sirena gli rispose: “Io so cosa tu vuoi da me. Ma non so quello che tu mi intendi dare”.

«”L’amore (le disse il Cavaliere). È l’amore che io intendo darti”.

«La bella Sirena si fidò, e fu così che finì in una scatola di tonno».

*

Per quanto terribile, nemmeno la storia della bella Sirena funzionò.

PoliBlu era troppo decisa a raggiungere gli umani.

Sciolse l’assemblea. Si avviò.

L'uomo nello scafandro

Non era come fare una eggiata. Le insidie erano molte, e PoliBlu fendeva l’oceano in profondità, dove le acque erano più sicure, almeno all’apparenza.

Tra i vari pericoli c’era l’inquinamento: masse di veleni chimici e di ogni genere aumentavano ogni giorno. L’acqua sembrava innocente, in realtà uccideva. Inesorabile. Alla pari di un cancro.

E c’era poi la pesca sconsiderata degli umani che saccheggiavano i mari: approfittavano di mezzi micidiali, tecnicamente sempre più avanzati, per colpire tutto quello che di vivo si muoveva.

Facevano strage, e PoliBlu avanzava accorta confidando nel proprio istinto e nella generosità della propria buona stella.

*

Doveva prima o poi risalire dagli abissi e si decise: si librò verso l’alto… Incrociò uno scafandro.

Dentro c’era un uomo.

Che sbarrò gli occhi.

Si era visto un paio di occhioni PoliBlu contrapposti ai propri, al di là della finestrella di cui lo scafandro era dotato.

«Odiug!» disse l’uomo sussultando.

Gli occhioni di PoliBlu risplendevano come due grosse stelle mentre le correnti dell’oceano scioglievano i suoi lunghi capelli in volute azzurre, che morbide fluivano e rifluivano, lucenti.

L’uomo allungò una mano verso i lunghi capelli ma PoliBlu si ritrasse.

Svanì.

Rapida da lasciare l’uomo allibito. Confuso. Convinto di avere avuto un’allucinazione.

«È stata senz’altro una visione (l’uomo disse forte ad alta voce). Sarà che sono stanco e mi devo riposare.»

Risalì in superficie. Guadagnò la riva. Uscì dallo scafandro.

Rivide PoliBlu.

Stavolta fuori dall’acqua. Sulla sabbia.

Era splendida.

Agghindata da fili d’alga. Profumata di mare. Rorida.

*

L’uomo era grande e grosso. Un gigante. Una specie di «mangiafuoco». Inquietante. Almeno, a giudicare dai modi e dall’aspetto.

Il suo vocione era spaventoso: rimbombava facendo tremare mare e onde. E, a renderlo simile a un orco, esibiva anche un barbone, nero come il carbone, che gli affogava il viso in una giungla di peli, ispidi e intricati.

Unica nota gentile, se così si può dire: un paio di vezzosi occhialini dalla montatura leggera-delicata che l’uomo calzava in bilico sull’estremità del naso, enorme.

L’uomo restò, silenzioso, a contemplare PoliBlu.

«Allora non era un’allucinazione» disse, emettendo un borbottio simile a quelli che rintronano in cielo durante un temporale.

Si grattò la testa, e spiccò un balzo. Si scatenò a fotografare PoliBlu.

Ma era grande e grosso, e lei gli arrivava sì e no alle ginocchia.

L’uomo si stese nella sabbia, piatto, per riprenderla alla giusta altezza.

*

Lei sbatteva le affascinanti ciglia. Flap-flap. Stupita.

Non capiva cosa stesse accadendo. Si limitava a sorridere: divertita dallo spettacolo del gigante che le zompava attorno. Instancabile. Invasato. Con quella scatoletta nera pronta a ronzare a ogni click che lui vi imprimeva.

Ma il sole era calato.

L’uomo ripose la foto-camera e disse: «Si sta facendo buio, la temperatura è scesa e tu sei fradicia, rischi un malanno. Abito qui a due i, ti darò da asciugarti. Seguimi».

Figurarsi, lei pensò, io patire il bagnato e il freddo e ammalarmi! Io che attraverso i Poli Nord e Sud nell’acqua gelida, sotto i banchi di ghiaccio. Che perfino gli orsi allibiscono a vedermi.

Flap-flap, scoppiò a sghignazzare.

La bocca spalancata alla massima larghezza.

L’uomo, piccato, la investì: «Dove hai imparato a ridere così sguaiatamente? Ho forse detto qualcosa di così comico?».

Il tono del gigante era duro. E a PoliBlu sembrò di cogliervi un’ombra di minaccia. Fu presa dalla paura. Dal desiderio di fuggire fin che era in tempo.

Ma come?

Lei era un fulmine in mare, non sulla terraferma: qui si muoveva incerta sui tentacoli, sospesa come sui trampoli. Ondeggiava. Lenta. Impacciata. Mentre un solo o del gigante ne valeva venti della minuta PoliBlu.

No, non posso fuggire (lei si disse), neanche immaginarlo. Almeno per ora. Devo solo pazientare e aspettare l’occasione. E, intanto, fingere di assecondare.

Fritz Ekkembauer

Era una bella casa, una villa. Grande e spaziosa. Aperta su ogni lato. Sorgeva splendidamente isolata con un bosco rigoglioso alle spalle e una superba vista panoramica sul mare.

Dentro, si allineavano sontuosi acquari. Di ogni dimensione. Stipati di pesci rari e preziosi, e animaletti acquatici.

«Mettiti comoda» l’uomo disse a PoliBlu. «Fa come se tu fossi a casa tua. Se ti va, puoi metterti in una vasca. Sono riscaldate. Dimenticavo… Se hai fame, di là c’è la cucina con un triplo frigorifero…»

L’uomo si allontanò. E un attimo dopo, la sua voce potente da trombone echeggiò dall’alto del piano soprastante: «Ti porto una coperta a meno che tu non sia già in qualche acquario…»

«Molto gentile, grazie. Ma sto bene come sono» lei gli rispose.

Perché lei era sì una creatura dell’oceano, selvatica e selvaggia. Ma sapeva anche essere educata.

*

Si era stesa-spalmata su un divano. E poteva udire tutto quello che, al piano sopra, l’uomo combinava.

Sentì che si era precipitato a telefonare.

Era seguito un mulinello di chiamate nelle due direzioni, in partenza e in arrivo.

Infine le era arrivato il tap-tap tipico delle dita martellate sulla tastiera di un computer. Segno che l’uomo smanettava con la posta elettronica o chattava comunicando con il pianeta.

PoliBlu concluse che il proprio arrivo tra gli umani rappresentava un grosso evento.

Rimandò l’idea di fuggire: vinta dalla curiosità di vedere come si concludeva la faccenda.

*

Lei conosceva tutto del mare e dei suoi abitanti, ma poco delle consuetudini umane. Però madre natura l’aveva dotata di notevole intuito e intelligenza. E questo rimediava.

Non le occorse molto per ricostruire chi era l’uomo.

Il terribile «mangiafuoco», l’orrendo orco, in realtà era il professor Fritz Ekkembauer, massimo esperto di vita marina.

Ne era l’indiscussa autorità, ed era più il tempo che trascorreva in acqua che fuori.

Ancora un po’ ci dormiva nell’oceano.

Ci fosse stata un’Accademia dei Molluschi lo avrebbero eletto membro onorario.

Il professor Fritz Ekkembauer amava, più dei propri stessi occhi, le bestie e bestiole che vivevano dentro e sopra il mare. E a PoliBlu coi suoi flap-flap era occorso poco a fulminarlo. A conquistarlo. A ridurlo tenero e dolce. Un babà.

Lui! che i colleghi consideravano difficile, inavvicinabile, scontroso.

*

ata la frenesia del primo istante, il professore sembrava essersi acquietato. E si era preso cura di PoliBlu. Neanche fosse una sua creatura.

Aveva dedicato i giorni seguenti ad accudirla. Attento che lei stesse bene nello spirito e nel corpo.

«Devi mangiare bene e nutrirti con discernimento (le diceva). Altrimenti ti viene una brutta cellulite sui tentacoli e la forfora appannerà i tuoi bei capelli azzurri.»

Il professor Fritz Ekkembauer preparava lui stesso, personalmente, i menu a PoliBlu: preoccupato che lei non ingrassasse e che la pelle le si mantenesse fresca, umida e viscida al punto giusto.

«Hai una linea favolosa (le ripeteva guardandola estasiato), e qui non fai il moto che facevi nell’oceano. È un attimo che tu metta su quegli antiestetici odiosi rotolini sui fiancotti…»

Così le coceva (o serviva freschi al naturale) piattoni di alghe. Opportunamente scelte per unire energie a basse calorie. E fra tutte le alghe il professore prediligeva la spirulina.

Il professor Fritz Ekkembauer aveva della spirulina un gran concetto.

Il professor Fritz Ekkembauer accudiva PoliBlu scientificamente con amore.

Eva Roberts

La notizia del ritrovamento della medusa-fata (o fata-medusa come dir si voglia) rimbalzò immediatamente da un continente all’altro e subito produsse i suoi effetti.

Occorre ricordare che si era negli anni 2000, terzo millennio dopo Cristo, ed era tutto un fervore di ricerche sul pianeta Terra. Non si facevano che esperimenti e c’era un numero infinito di laboratori.

Tutto questo, insieme all’inquinamento, provocava scherzi strani: si formavano creature inspiegabili mai viste. Incroci inimmaginabili. Ma la comparsa di PoliBlu batteva ogni novità bizzarra.

Ci fu chi ipotizzò che fosse il risultato abnorme di un qualche segreto esperimento.

Altri dissero ch’era un alieno inviato sulla Terra a esplorare.

E ci fu chi invece sentenziò che PoliBlu era il frutto di una banale combinazione.

Spiegò: probabilmente, un avanzo di embrione umano scaricato nelle fogne era finito in mare dove, a contatto con certi scarti chimici, aveva sviluppato il nuovo esemplare vivente.

Ma se il mondo degli scienziati e degli esperti si accapigliava, perso nei fumi delle discussioni e nei fiumi dei paroloni… L’altro mondo, del denaro e degli affari, non aveva perso tempo.

Aveva fiutato un nuovo grande business.

*

Prima a farsi viva, fu una certa Eva Roberts, tipino intraprendente, costantemente alla ricerca di volti da lanciare.

Aveva un’agenzia di modelle ed era piombata in Florida, dove Fritz Ekkembauer aveva appunto la sua villa.

Lui, tanto per cambiare, era in mare, sott’acqua, dentro il suo scafandro a esplorare gli abissi, ed Eva Roberts era entrata in casa senza alcuna ritegno a dispetto di ogni privatezza (o privacy, visto che le cose bisogna dirle ormai in inglese).

Eva Roberts aveva sorpreso PoliBlu intenta a guardare la televisione: «Oh, cara, il mio tesoro…(la donna l'aveva assalita), sei proprio uno splendore… Di una bellezza veramente originale e rara… Io ti valorizzerò: ti renderò ultrafamosa e ricca. Ti porterò sulle erelle più favolosamente trendy. A Milano, Parigi, New York… Girerai il mondo. Tutti ti vorranno, ti ammireranno… Andrai a ruba… Devi solo farmi una firmetta… Qui… Pura formalità» disse la donna ammiccando.

Si affrettò a frugare in una borsa porta-documenti, ne estrasse un foglio stampato fitto che allungò a PoliBlu.

Si trattava di un contratto e: «Ora ti trovo anche una penna» stava dicendo Eva Roberts quando un boato le mozzò la frase in bocca.

Vibrarono gli acquari e i vetri alle finestre, e un moscone che ronzava giulivo si trovò schizzato contro una parete.

Il boato… Era l’urlo del professor Fritz Ekkembauer rientrato all’improvviso: «Lei, gentile signora, chi è? Cosa fa dentro la mia casa? Come osa? Cos’è quel contratto?».

Il fisico imponente del professore, abbinato alla luce truce che gli balenava dentro le pupille, componeva il ritratto del peggiore degli assassini. Il più spietato.

Eva Roberts impallidì: misurò i i che le mancavano all’uscita più vicina, per fuggire. Erano troppi. E il professore le si era parato davanti, precludendole ogni via di scampo.

Alla donna non restò che tentare di rabbonirlo.

La voce le tremava.

Spiegò che avrebbe fatto di PoliBlu una diva.

«Fuori di qui» fu la risposta di Ekkembauer.

Acquari e vetri delle finestre tornarono a vibrare. E il povero moscone, che si era giusto ripreso dal precedente shock, stavolta non resse. Precipitò. Pancia all’in su.

Eva Roberts si dileguò rapida, ò sul suo cadavere.

*

Eva Roberts era solo un avamposto. Perché, ò poco, la villa diventò la meta di orde di persone.

Era un assalto.

Tutti aveva un buon motivo per vedere PoliBlu.

A distinguersi, la solita pattuglia di giornalisti e inviati di ogni razza e colore. Armati di microfoni e macchine da ripresa. Li sfoderavano, spietati.

La apparecchiature lampeggiavano nell’aria come scimitarre brandite da predoni. Ma il professor Fritz Ekkembauer poteva contare sulla propria stazza, e la folla di energumeni fu fronteggiata nel più puro stile wrestling: il professore afferrava gli intrusi, li sollevava e lanciava come fuscelli. Incurante che gli sventurati fracassassero, a rischio di rompersi le ossa.

Ma poi il prof si barricò.

Trasformò in fortino quella che, fino a quel momento, era stata una ridente villa. Aperta a tutti.

Oltre che alla vista dell’oceano.

*

L’assalto si trasferì al telefono. E le e-mail ingolfarono la posta con proposte di affari di ogni genere.

Una televisione voleva PoliBlu per un reality su un’isola ai Tropici… Un’altra invitava PoliBlu a condurre un rubrica… Fioccavano proposte di film… I pubblicitari chiedevano di utilizzarla negli spot... Giornali e riviste insistevano per intervistarla e pubblicare i suoi amori. PoliBlu non ne avesse avuti, nessun problema: le riviste li avrebbero inventati.

Insomma era una gara.

A colpi di milioni.

Per accaparrarsi POLIBLU, LA STAR. Delirio del momento.

*

Un oscuro dottore specializzato in chirurgia estetica colse l’occasione per uscire dal buio e diventare pure lui famoso. Si offrì di operare PoliBlu.

Propose di sostituirle i tentacoli e trapiantare al loro posto un paio di superbe gambe. Di donna, umana, vera.

Il dottore non specificava come si sarebbe procurato il paio di superbe gambe da applicare. Forse pensava di segarle a Miss Mondo?

Probabilmente.

Perché erano tempi folli quelli.

Si immaginava di tutto e si pretendeva poi di realizzarlo.

*

Intanto l’assedio attorno alla villa non accennava ad attenuarsi. Anzi. Non ava momento che non affluissero nuove fiumane di curiosi.

Arrivavano con ogni mezzo: auto, camper, caravan. Ed elicotteri.

Gli elicotteri andavano e venivano, assordanti: il baccano evocava il clima di un campo di battaglia. E barche pure, yacht compresi, si erano distribuiti nella baia, affollandola.

Tutti… Gli occhi puntati sulla villa.

Nell’attesa spasmodica di vedere PoliBlu. Fosse per un attimo. Soltanto.

L’ispido gigante

«Io sono il sale della vita per miliardi di persone» si vantava PoliBlu col professore.

Compiaciuta.

Si sentiva desiderata, e il pizzico di umano che c’era in lei lievitava. Si esaltava. Giorno dopo giorno. Ormai alle stelle. Mentre il professor Ekkembauer opponeva netti rifiuti a destra e a manca. A tutti. Indistintamente.

Badava a tenere PoliBlu al riparo. Da ogni contatto. E, addirittura, nemmeno rispondeva più al telefono e alle e-mail. Indifferente alle montagne di dollari in ballo.

Fino a che PoliBlu, stizzita, ebbe una crisi di nervi.

Lo assalì: «Se vogliono vedermi e avermi… Lei, professore, perché non lo permette? Perché mi impedisce di essere adorata?».

PoliBlu arrivò a dire: «Lei, professore, si comporta così perché è un musone, ingrugnito, solitario. Invece di godere delle gioie della vita, le disprezza. Ma io sono io e lei e lei…».

PoliBlu pensò seriamente di andarsene.

*

Fortunatamente il professore era un gentiluomo. Sensibile e intelligente. Amava la natura e quindi il mare e le sue creature, e PoliBlu di conseguenza.

Così, quando PoliBlu lo investiva, lui ne ignorava le invettive e anzi le sorrideva comprensivo. Con affetto.

La lasciava sfuriare e, appena lei si calmava, le diceva: «Io sono un essere umano e proprio per questo conosco bene i miei simili, e ne diffido».

«Ascoltami, PoliBlu (le diceva il professore), non devi lasciarti incantare. È abitudine degli esseri umani mentire, illudere, promettere. Ma è per sfruttarti. Nel loro solo e unico interesse. Quando poi ti hanno ben usata e spremuta, si sbarazzano di te. Ti buttano, come spazzatura. Lascia perdere televisioni e giornali e tutta quella roba. È un circo sfavillante di luci e di lustrini ma sono un falso sole. Oro fasullo.»

Il professor Fritz Ekkembauer, a dispetto del suo orrido aspetto d’orco, era pieno di attenzioni con PoliBlu, e premuroso. E il suo terribile vocione, quando lui parlava con lei, suonava dolce e tenero come un violino.

*

D’altronde, in PoliBlu, non c’era soltanto un lato umano. Ma coesisteva anche un sano istinto animale. Bene o male, lei era figlia più della natura che della

civiltà. E il professore tanto le parlò dell’oceano e del mare e dei suoi valori, quelli sì concreti e veri, che PoliBlu incominciò a placarsi. E a provare infine nostalgia per le profondità azzurre che aveva abbandonato.

Arrivò a rimpiangerle. Insieme alle sue vecchie libertà.

E vide chiaro: lei era in una trappola.

Lei, prima, era nessuno ma poteva essere se stessa. Fare quello che voleva.

Adesso era famosa. Ma non poteva più guizzare felice a cavallo delle onde.

«Voglio tornare nel mio oceano insieme alle mie balene, ai cavallucci, agli squali… Sì, anche agli squali…» PoliBlu un giorno disse al professore.

«Certo, ti capisco» lui le disse.

*

Sorgeva un problema: come poteva tornare nei suoi abissi, PoliBlu?

Doveva superare la barriera di fotografi, cameramen e giornalisti senza essere bloccata. E sfuggire la folla di curiosi appostati dietro ad ogni angolo.

Stavano pronti a balzare sulla preda. Aspettavano solo di vederla comparire.

«Occorre escogitare uno stratagemma» sentenziò Ekkembauer.

Si grattò la zucca.

Incominciò a pensare.

*

Ma intanto sentiva il cuore sanguinargli. Stava scoprendo di volere bene a quella sbadata pazzerella, e l’idea di perderla lo rattristava.

Probabilmente non l’avrebbe più rivista, e il solo immaginarlo riduceva l’ispido gigante sull’orlo delle lacrime.

D’altra parte, era adulto abbastanza per sapere che la vita è fatta di incontri e separazioni. E che non c’è niente da fare. Così va il mondo.

Nel caso di PoliBlu, non c’era altro modo per salvarla.

Lei doveva andarsene, per il proprio bene, e scomparire.

*

«Senti, figlia (il professore disse a PoliBlu dopo avere a lungo ponzato), io un’idea l’avrei.»

«Quale?» lei, flap-flap, battito di ciglia (seducenti ora più che mai… arcuate… ricurve e setose, ombreggiavano quegli splendidi occhi azzurri più azzurri del più azzurro degli oceani).

Il prof illustrò il piano escogitato.

Lei annuì.

Flap-flap.

*

«Operazione Sorella Acqua», il professore la chiamò. Perché sfruttava le doti della superdotata PoliBlu marina.

Il piano consisteva: nel giardino della villa si apriva una grata per la raccolta

dell’acqua piovana. Da lì si dipartiva una conduttura per convogliarla nell’oceano. Bastava raggiungere la grata e PoliBlu si sarebbe infilata. Una volta nella conduttura, le bastava seguirne il percorso fino allo sbocco nel cuore più profondo della baia. Dove PoliBlu si sarebbe ritrovata libera.

Gli uccelli

Esiste un’ora che gli antichi consideravano speciale: di buon auspicio. Ed è quella che, a cavallo tra la fine della notte e l’inizio di un nuovo giorno, coincide con la fine del buio e l’inizio della luce.

Fu in quell’istante che il professor Fritz Ekkembauer attuò il suo piano.

Contava che gli assedianti, a quell’ora, avrebbero dormito saporitamente e si diresse verso una porticina defilata sul retro della villa, a pochi metri dalla grata.

Rimosse i chiavistelli. Attento a non produrre il minimo rumore. Già era uscito con PoliBlu accanto… Un flash squarciò la penombra. Colse il professore in pieno viso, lo stordì e lasciò accecato.

«Odiug!» gemette il professore coprendosi gli occhi.

*

Era il flash di un reporter. Inizio di una raffica destinata a diventare bombardamento. Fine di ogni fuga.

Ma il professore si riprende. Si getta a terra.

Seguito da PoliBlu, rientra strisciando nella villa.

Richiude e sbarra la porta.

L’aria solenne di un generale sconfitto ma non vinto, si mette a eggiare, pensieroso.

«Occorre trovare un diversivo che distragga gli assedianti» borbotta.

*

Fu PoliBlu ad avere l’idea.

«So come fare (disse). E sarà anche divertente. Da ridere. Da matti.».

PoliBlu si diresse alla finestra protetta dalla coltre spessa di una tenda. La scostò. Quanto bastava per sbirciare.

Sul davanzale, di solito, si posavano i gabbiani. E anche in quel momento ce n’era uno, intento a spidocchiarsi. Il becco sotto l’ala, si frugava tra le piume.

«Pssst!» PoliBlu richiamò la sua attenzione.

Il gabbiano smise di spidocchiarsi, ritrasse il becco e la fissò.

PoliBlu gli parlò fitto. Il gabbiano spiccò il volo.

«Cosa gli hai detto?» chiese il professore.

«Oh (PoliBlu rispose con noncuranza), tra noi animali è un attimo capirsi. Non è come tra voi umani. Abbia fiducia, professore. Aspetti… Vedrà».

*

Il sole era arrivato al picco, alla sommità del cielo. Gli orologi della villa segnavano circa mezzogiorno quando si udì uno strillo. Seguito da un secondo, un terzo…

Le grida divennero coro. Assordante.

«Odiug! Che succede?» il professore si precipitò alla porta. Pallido. Uscì incurante di esporsi.

Il frastuono proveniva dal cielo, e il professore alzò gli occhi. Li ritrasse allibito.

Il cielo era nero di uccelli. Stormi, stormi e stormi. Occupavano ogni spazio.

Volteggiavano strillando minacciosi.

D’un tratto, quasi ubbidissero a un segnale, si abbatterono sulla folla sparsa sulla spiaggia.

«Ah (disse Ekkembauer), ora mi è chiaro. È il diversivo per tenere occupati gli assedianti.»

«Già (disse PoliBlu), quel gabbiano è stato di parola. Adesso posso andare. Nessuno più disturberà.»

Mister Petrolio

La stessa sera, PoliBlu nuotava felice negli abissi dell’oceano: accolta da un coro di «Ben tornata», «Era ora», «Te lo avevamo detto di non andare dagli umani».

Lei ricambiava: sorrideva e tracciava con i tentacoli cenni di saluto.

Ma, improvvisamente, un’ombra scura si proietta. Investe PoliBlu e l’intera acqua circostante. E non è un’ombra amica, questa volta. Non è la nuvola nera salvatrice degli uccelli.

Questa è maleodorante. Oleosa. Tossica.

I pesci, che ne vengono a contatto, muoiono. Tra spaventosi spasmi.

PoliBlu, colta dal terrore, si guarda attorno con l’estrema speranza di trovare una via pulita. Per fuggire. Ma si rende conto di essere nell’ultima oasi di acqua trasparente.

Questione di attimi, l’ombra nera la divorerà.

PoliBlu sviene.

*

«Cosa ne dici, PoliBlu? Sei contenta di ritrovarti sana e salva? Lo devi a me, sai?»

A parlare è un signore che fa di tutto per apparire per bene. A cominciare dall’aspetto.

Indossa abiti di firma: una giacca doppio petto di ottimo taglio e ottima stoffa. Dal costo astronomico: proibitivo.

Col prezzo della sola cravatta che esibisce, un’intera famiglia in Africa o in Perù camperebbe un anno. Per non parlare delle scarpe. Col cui valore camperebbero cento di quelle famiglie.

Peccato che, nonostante gli sforzi di apparire per bene, quel signore per bene non lo sia. Affatto.

Anche il suo smagliante sorriso, apparentemente sincero, è falso. Esattamente come i trentadue denti di plastica finti che, CHEESE!, gli arredano il sorriso.

Tra l’altro, il signore sorride sempre. Perché gli piace piacere, per meglio turlupinare.

Il signore sa che sorridere sempre è un modo efficace per apparire buoni anche se non lo si è.

È uno stratagemma valido per attirare simpatia, farsi benvolere e approfittarne. (E magari presentarsi alle elezioni e vincerle.)

*

Il signor per bene stava dietro a un’imponente scrivania con PoliBlu di fronte, rannicchiata in una poltroncina. Lei aveva ancora fili d’alga impigliati tra i capelli azzurri: quello che le restava dell’oceano.

Era ata dal più profondo mare al piano più alto del più alto dei grattacieli più alti del mondo, dove appunto lei adesso si trovava, nell’ufficio personale di quel signore.

Questi era universalmente noto come MISTER PETROLIO perché aveva costruito la propria fortuna con il cosiddetto oro nero di cui controllava il mercato insieme a pochi altri.

Che fosse «Mister Petrolio» lo sapevano anche i cani. Con o senza collare, anche i più randagi.

Ma lo ignorava PoliBlu.

Cresciuta negli abissi degli oceani.

Lei ignorava le vicende umane, le loro grandezze e miserie, e tutto quello che di

bene o di male si combinava sulla terraferma.

*

«Senza di me, saresti finita male, molto (continuò Mister Petrolio). Sono stato io a ordinare di tirarti fuori in tempo.»

«Ma voi… Come facevate a sapere ch’ero lì, in pericolo?»

«Io so tutto.»

«Allora siete un mago… Siete un dio!»

«Perché no? E poi io a te ci tengo… Molto» disse l’uomo sgranando il suo irresistibile sorriso.

Era il secondo molto che pronunciava nel giro di due frasi.

*

MP, Mister Petrolio, diceva la verità, in effetti. Ma ne diceva la metà. Taceva l’altra che contava, la più importante.

E MP non disse che seguiva PoliBlu per impossessarsi di lei e sfruttarne il successo.

Non disse che la seguiva da quando il professor Fritz Ekkembauer ne aveva comunicato al mondo la scoperta.

Non disse che Eva Roberts aveva infilato una «cimice» (una micro-spia trasmittente) nei capelli di PoliBlu senza che lei se ne accorgesse, così che ogni suo movimento era registrato.

Non disse che Eva Roberts apparteneva a un giornale di MP.

Non disse che lui, Mister Petrolio, possedeva la televisione che voleva PoliBlu per il reality e l’altra televisione che invitava PoliBlu a condurre una rubrica.

Non disse che lui era proprietario, anche, delle case di produzione da cui fioccavano le proposte di film.

Non lo disse.

Altrettanto i pubblicitari che chiedevano di utilizzarla negli spot, e i giornali e le riviste che insistevano per intervistare PoliBlu e pubblicare i suoi amori… Anche loro, tutto, apparteneva a MP, Mister Petrolio.

L’uomo non disse che l’ombra nera era il micidiale petrolio inquinatore sparso apposta da una delle sue navi-cisterna per intrappolare PoliBlu e facilmente catturarla.

MP non lo disse né PoliBlu poteva immaginarlo.

Né se lo immaginò, infatti.

Anzi.

Più ascoltava Mister Petrolio e più se ne sentiva attratta.

Gualtiero in frac

PoliBlu uscì dalla mega-piscina: una superficie d’acqua immensa da fare invidia a un lago.

Fece pochi i ai bordi e si lasciò mollemente cadere in una delle numerose sedie a sdraio. Scosse i lunghi capelli azzurri nel tentativo di sgocciolarli e si allungò, abbandonandosi al sole amico.

Alzò un tentacolo in direzione di Gualtiero e gli fece un cenno.

Gualtiero era il capo dei camerieri preposti da MP al servizio esclusivo di PoliBlu. Era un pinguino, alto e di bell’aspetto, elegante nel suo frac. Sempre impeccabile.

Gualtiero aveva un’aria riservata e modi dignitosi, e stava sempre a debita distanza, da PoliBlu, per non disturbarla con la sua presenza e risultare indiscreto. Ma era bastato il cenno di PoliBlu per farlo accorrere.

«La signorina desidera?» disse Gualtiero con un inchino.

«Non so proprio, tesoro (lei gli rispose). Vorrei qualcosa di sfizioso ma non so cosa. Tu cosa mi consigli?»

«Oh… La signorina mi coglie alla sprovvista» il pinguino sorrise e ripeté il leggero inchino.

«Come sei sempre cerrimmoniooso! Non mi sembra il caso, sai? Io sono in fin dei conti come te, noi siamo uguali. Siamo creature marine. I pinguini come te, quando io vivevo nell’oceano, erano tra i miei migliori amici.»

«Ringrazio la signorina per la confidenza che mi accorda, ma qui non siamo più nell’oceano. Siamo alle dipendenze di Mister Petrolio. È tutto un altro andazzo. Un’altra musica. La signorina mi perdona, vero, se la contraddico?»

«A proposito di Mister Petrolio…(e PoliBlu scoppiò a ridere), posso rivelarti un mio segreto?»

«Se la signorina mi onora di una tale simile fiducia, dica pure.»

«Beh, io ammiro Mister Petrolio. E gli sono pure immensamente grata. Mi ha tirato fuori da quella orribile chiazza nera. E poi, Gualtiero...» PoliBlu esitò.

Si guardò in giro come per controllare che nessuno li ascoltasse e accostò la bocca a un orecchio del pinguino.

Gli sussurrò: «Ebbene, Gualtiero… Temo proprio di essermi innamorata».

«Di chi? Di Mister P…?»

PoliBlu non lo lasciò finire: «Proprio di lui» disse.

A sentire parlare d’amore al giovane pinguino si arrossì il becco. E poi anche il pettorale fino a quel momento rigorosamente candido.

«YUM, Gualtiero! Sei così timido e pudico?» PoliBlu gli sorrise. Maliziosa.

*

«Su, non essere imbarazzato. Se parlare d’amore ti mette a disagio, lasciamo l’argomento (PoliBlu si ricompose). Piuttosto, dimmi: come mai ti trovi qui? Mister Petrolio è circondato esclusivamente da esseri della sua specie, da esseri umani…»

«Mister Petrolio lo ha fatto per lei, signorina. Per metterla a suo agio» disse Gualtiero.

In effetti, Mister Petrolio aveva ricoperto la medusa-fatina di mille attenzioni. Aveva costruito quella mega-piscina apposta per lei, e aveva collegato il complesso al mare tramite una rete di canali.

Altri canali e corsi d’acqua erano stati scavati in modo da permettere a PoliBlu di scorrazzare, libera, a proprio piacimento attraverso l’intera Florida.

Volendo, PoliBlu avrebbe potuto arrivare fino al famoso «Re dei fiumi», il Mississippi.

Mister Petrolio aveva realizzato un’opera idrica imponente.

*

Intanto Gualtiero era andato e tornato con una spremuta fresca di alghe. L’aveva servita a PoliBlu, che riprese: «Mister Petrolio è buono e generoso. Sento davvero di amarlo».

Mentre lo diceva, PoliBlu corse col pensiero al professore. E sorrise a ricordarlo.

Al confronto con MP, Fritz Ekkembauer spariva. Impacciato e rustico com’era.

Certo, anche il professore si era dimostrato buono con lei. Ma sicuramente non era certamente così brillante e principesco come Mister Petrolio.

«Sai, Gualtiero? (sospirò PoliBlu), sto proprio vivendo una stagione di sogno… A volte penso di avere realizzato il mio ideale.»

Il pinguino si limitò ad ascoltare.

Preferì non dire quello che pensava.

*

«Non mi hai ancora detto, Gualtiero, come mai ti trovi in questo posto?» riprese PoliBlu.

«Sono uno dei rari pinguini fortunati… Sfuggiti all’ “Olocausto”!» lui rispose.

E raccontò la sua vicenda.

La storia del pinguino Gualtiero

Era destinato a morte veloce. Per annegamento oppure fame. Vittima, anche se solo indirettamente, del veleno disperso in acqua da una petroliera pirata o magari dal carburante che tanti capitani lasciano in mare ripulendo abusivamente cisterne e serbatoi al largo.

Lui, Gualtiero, faceva parte di uno stuolo di oltre duecento pinguini: uno dei tanti stanziati tra le rocce dello stretto di Magellano, in Argentina. Erano ormai piaggiati e senza più niente da mangiare quando erano stati avvistati: neri come la pece, dopo essere stati intrappolati dentro una grande macchia di petrolio.

Avrebbero dovuto migrare fino al Brasile per are l’estate in un clima migliore, ma il petrolio li aveva paralizzati. Aveva annullato l’impermeabilità della pelle e impedito loro di muoversi sott’acqua.

Per questo non erano partiti verso il nord, e adesso si muovevano avviliti tra le rocce. Paralizzati. Storditi.

Erano stati avvistati però in tempo da una pattuglia di salvatori accorsa apposta per salvarne il maggior numero possibile. E Gualtiero era stato recuperato per potere essere curato. Era stato trasferito in aereo per oltre duemila chilometri. Fino ai laboratori di San Clemente del Tuyu, nelle adiacenze di Buenos Ayres.

Qui, più volte al giorno, ricercatori e volontari hanno lavato i pinguini con particolari composti chimici in grado di sciogliere un po’ alla volta il petrolio, in modo da permettere loro di recuperare la naturale patina impermeabile.

Già altri tentativi di salvataggio erano stati effettuati in ato per altri pinguini in difficoltà. Ma mai il successo era stato tale come stavolta. Nel caso di Gualtiero e i suoi compagni.

Stavolta, i pinguini che non ce l’avevano fatta a sopravvivere erano stati una trentina, ma gli altri erano sopravissuti. E, davanti al flash dei fotografi e a decine di telecamere, erano stati riportati nel loro oceano. Il petto di nuovo candido. Come se niente fosse loro accaduto.

Gualtiero e i suoi compagni erano stati davvero fortunati. Perché si stima che ogni anno il petrolio, soltanto al largo delle coste argentine, uccida oltre 40 mila pinguini della specie tipica di Magellano.

È un «Olocausto».

Charlie Taormina

Ogni mattina, all’inizio di ogni nuovo giorno, PoliBlu si tuffava nella sua megapiscina personale e si diceva: oh, se mi vedessero i miei amici dell’oceano. Come mi invidierebbero!

A rendere le sue giornate più eccitanti c’era l’amore. Contraccambiato. Peraltro. Felicemente. Perché non c’era dubbio che MP la contraccambiava.

Lui non si faceva vedere, ma copriva PoliBlu di messaggini.

Arrivavano a pioggia nel cellulare di Gualtiero e Gualtiero li riferiva puntualmente. Li leggeva a PoliBlu, e arrossiva per l’imbarazzo, ogni volta.

I messaggini arrivavano accompagnati da cuoricini. E dicevano più o meno: «Anch’io, baby, ti amo. Sei bellissima».

MP chiamava PoliBlu «la mia principessa».

«Sei la mia regina» le scriveva.

E lei ascoltava i messaggini come in sogno. Poi elettrizzata si tuffava. Leggera, volava nell’acqua della mega-piscina.

Emetteva le mille bolle PoliBlu.

Ne emetteva anche di rosa, e di ogni tenero colore.

*

Ma poi i messaggini diradarono. Fino a cessare.

In compenso, ricomparve Eva Roberts, per ultimare l’intervista iniziata a suo tempo e interrotta da Ekkembauer.

E ad Eva Roberts seguirono altri individui dall’aria equivoca e i modi bruschi.

Sembravano usciti freschi da un film di gangster di Chicago.

Rinfacciavano a PoliBlu ch’era arrivato il momento di lavorare. E che la aspettavano interviste, tournèe attraverso il mondo, film, spot, e il resto.

Un circo l’aveva prenotata per esibirla in un balletto coi delfini… Insomma, era un calendario di impegni… fitto… Un carosello… Un capogiro.

L’equivalente di un tornado.

PoliBlu, ingenua, pensò che tutti quei signori la perseguitassero all’insaputa di Mister Petrolio. E si disse che doveva assolutamente metterlo al corrente.

Lui l’avrebbe senz’altro protetta da quell’orda di gente che osava importunarla e, quel che è peggio, minacciarla.

Ma a frenare PoliBlu, e a complicare, c’era il suo orgoglio.

Perché Mister Petrolio aveva smesso di scriverle e lei non voleva dargli la soddisfazione di ricorrere a lui, dando prova di debolezza.

Era un braccio di ferro, silenzioso. Così almeno lei credeva.

Infine, però, cedette.

Mise da parte le ripicche.

Cercò MP.

*

Lo tempestò di chiamate.

Ma era come afferrare un fantasma.

Rispondeva sempre qualche segretario o segretaria, che si premurava di (gentilmente) riferire che «il Dottore» non c’era. O era occupato in qualche riunione. O era appena partito. O, appena arrivato, già era stato preso da qualcosa di molto molto importante.

All’ennesima chiamata, a vuoto, e solo allora, PoliBlu capì d’essere la vittima di una sporca trama.

Tardi si rese conto che Mister Petrolio, in realtà, l’aveva tenuta in caldo e rosolata per benino. E adesso che lui l’aveva in pugno, aveva sguinzagliato i suoi scagnozzi per sfruttarla.

*

Una mattina, PoliBlu si trovò con la mega-piscina prosciugata. E scoprì anche che Gualtiero era scomparso.

Provò a chiedere di lui. Lo chiese alla prima persona che le capitò di incontrare: un tecnico mai visto, inviato per chissà quale lavoro.

Quello alzò le spalle e neanche le rispose.

Si allontanò con una grossa chiave inglese con la quale si accanì sulle giunture di una tubazione.

D’altra parte, insieme a Gualtiero, erano scomparsi pure i pinguini.

*

Tradita nel cuore.

Fu presa dall’amarezza. E lo sconforto. E da un timore, oscuro e vago. Nemmeno lei sapeva bene di che cosa aver paura.

Non bastasse, non poteva nemmeno più contare sulla consolazione dell’acqua amica, e delle lunghe nuotate.

I suoi tentacoli incominciarono ad avvizzire. L’azzurro dei capelli a sbiadire. L’azzurro degli occhi si incupì, PoliBlu nero.

Al colmo della disperazione, PoliBlu invocò: «Sorella Acqua».

Comparve un tizio.

*

Era accompagnato da altri due con la faccia imibile di chi ha dimestichezza con le soluzioni spicce. Avevano la faccia di chi tiene magari una fondina sotto le ascelle, e dentro una pistola.

«Sono il procuratore Charlie Taormina» il tizio disse a PoliBlu.

Tacque un attimo. Deglutì. Continuò: «Tu avevi un patto con Mister Petrolio e non l’hai mantenuto: avevi dei contratti e non li esegui».

«Io non avevo nessun patto con nessuno» PoliBlu protestò.

«Cosa sono queste firme?» disse il procuratore Charlie Taormina.

Aveva estratto degli scartafacci da un borsone, e li sventolava sotto il naso a PoliBlu.

«Io non ho firmato niente. Figurarsi, nemmeno sono capace di scrivere e leggere, io. Io sono pulita e pura… Sono Natura…» strillò PoliBlu.

Era la verità.

Perché le firme erano clamorosamente false.

D’altra parte, Mister Petrolio aveva una lunga esperienza consolidata in materia di falsi e di imbrogli.

«Mi dispiace, ma i contratti sono contratti, e la legge è legge» barò il procuratore Charlie Taormina.

Fece un cenno col capo ai due duri che sollevarono PoliBlu, e la schiaffarono dentro una potente automobile nera.

Nera come la Morte.

*

L’automobile sgommò: partì a folle velocità.

«Sorella Acqua!» PoliBlu tornò a invocare. Ormai allo stremo.

E fu come se si compisse una magia.

Terribile.

Tsunami!

Il cielo si coprì all’istante di nubi nere. Gonfie e spesse. Fumanti di vapori violetti. Un vento violento soffiò improvviso. L’atmosfera fu squarciata da tuoni e lampi. Quasi che l’intero cosmo si stesse abbattendo sul pianeta Terra.

In pari tempo, le onde dell’oceano si inalberarono, alla maniera dei cavalli imbizzarriti. Schiumando, si protesero al cielo. Mentre i livelli di ogni acqua – lago, fiume, canale, mare – si sollevavano. Inarrestabili. Fino a che l’acqua traboccò. Ruppe ogni impedimento: argine o diga.

Irruppe sulla terraferma, dilagò.

Travolse tutto quello che incontrava: alberi possenti, case e grattacieli, costruzioni di ogni tipo, ponti, viadotti, strade, auto, treni.

Furia incontenibile.

*

Gli animali, guidati dall’istinto, avvertirono il pericolo e lo batterono sul tempo. Sull’imminenza.

Corsero a ripararsi nel cuore più oscuro, più sicuro, della foresta. Dove difficilmente gli umani mettevano piede, e l’acqua veniva contenuta e regolata dagli alberi, e trovava i suoi regimi naturali.

Uccelli, tigri ed elefanti, e serpenti… Mancava solo Noè.

Con la sua Arca.

*

Infine, le acque di fiumi, mari e oceani si unirono a quelle del cielo, che, incessanti, continuavano a diluviare. E fu un tutt’uno. Di ogni acqua.

Catastrofe fu.

L’Apocalisse.

La canzone di liberazione

Nel momento in cui il finimondo si scatena, la potente automobile nera sta percorrendo un lungo ponte.

Il ponte si proietta su un fiume imponente, largo e grigio, e lo scavalca con un’unica campata. Infinita. La sua intelaiatura metallica è tale che, quando il ponte fu realizzato, il ministro di turno, chiamato a inaugurarlo, aveva gridato a un miracolo dell’ingegneria e del progresso.

Ma adesso…

Al primo accenno di tornado, il «miracolo» vacilla. E al secondo botto di vento, si spezza.

In due tronconi.

Uno si inclina: si inabissa dentro il fiume.

L’altro… Resta mozzo a mezz’aria, sopra il vuoto…. Nell’esatto momento in cui la grossa automobile nera va incontro, a folle velocità, alla voragine.

I due duri occupano i due posti anteriori, Charlie Taormina siede dietro con PoliBlu al fianco.

Il guidatore si vede il ponte cedere davanti. Per una frazione di secondo pensa a

uno scherzo della vista. «O forse dovrei darci dentro meno con la bumba» si dice, alludendo alla fiaschetta di whisky che tiene in tasca, sempre pronta.

Ma non arriva a ripromettersi né di andare dall’oculista né di smettere col whisky.

La grossa automobile nera sta già precipitando.

*

«Sorella Acqua!» esplose felice PoliBlu: abbandonandosi ai fiotti che la sommergevano tra le urla angosciate degli altri occupanti.

«Sorella Acqua… Grazie!» disse PoliBlu, lanciandosi a fendere la spessa coltre di flutti che si incrociavano. Intrecciavano. Accavallavano.

Finalmente libera, nel suo elemento naturale, per PoliBlu era come se il mondo si stesse purificando. E, ripulito dall’acqua, ricominciasse daccapo. Dalle origini.

PoliBlu iniziò a cantare:

L’alba del mondo!

Goccia Azzurra si affacciò in cima all’Universo.

Sotto, astri e pianeti roteavano.

Compivano il loro giro.

Silenziosi. Infaticabili.

Goccia Azzurra dominava e riluceva.

Una cometa le ò accanto. Si allontanò.

La Voce delle Voci echeggiò.

L’Universo tremò.

Astri e pianeti si arrestarono, sospesi nel vuoto.

«Goccia Azzurra è il tuo momento… Vai!»

disse la Voce delle Voci.

L’eco, potente, aleggiò a lungo nell’atmosfera rarefatta,

e solo quando si spense l’ultima parola, astri e pianeti ripresero lentamente a roteare.

La cometa era un bagliore ormai remoto.

Goccia Azzurra vibrò. Si lasciò cadere. Dolce e solenne.

Scendeva.

Disegnava volute, ellissi e spirali.

Danzava leggera. Morbida. Bioccolo di purezza trasparente.

Si delineò un globo incandescente.

Goccia Azzurra si divise: moltiplicò.

In milioni di gocce… Miliardi.

Diventò pioggia.

Avvolse il globo di fuoco in un abbraccio.

Il globo sfrigolò. Il fuoco arretrò. Sprofondò.

Nelle viscere. Al centro. Suo ultimo rifugio.

Del suo rosso incandescente adesso non restavano

che bocche di vulcano dai pennacchi sulfurei fumiganti,

scosse da singhiozzi e conati di lapilli.

Ma il globo (era il pianeta «Terra») era ora rivestito

di fonti zampillanti, freschi ruscelli e torrenti,

e fiumi, laghi, mari, e oceani.

Azzurri.

Come la Goccia.

Apparvero fiori e foglie, e creature.

Infine gli esseri umani…

Il giorno dopo

PoliBlu riuscì dopo varie peripezie a raggiungere la sua grotta dai pavimenti di corallo e dagli effetti-arcobaleno della tappezzeria alle pareti di madreperle e di conchiglie.

L’atmosfera era sempre di incanto, e PoliBlu ne oltreò la soglia declamando le storiche parole: «Salve, mia adorata cara Casa Maga. Qui adesso nessuno mi potrà mai più raggiungere».

Presto si diffuse il a-parola che lei era tornata, e gli amici del mare accorsero a salutarla, e ad acclamarla.

Primo fra tutti il cavalluccio marino, timido e tartaglione, e dalla vocina esile. Che le disse: «B-b-b-b… bbentornnnnatta!».

PoliBlu allungò uno dei suoi parecchi tentacoli e accarezzò il cavalluccio, dolcemente, sulla testa.

*

Mister Petrolio si affacciò a una delle varie finestre del suo ufficio, al piano più alto del più alto dei grattacieli più alti del mondo.

Lo tsunami era ato: aveva finito di imperversare, e il livello dell’acqua, che aveva tutto spazzato e sommerso, si era fermato in tempo al bordo ultimo del davanzale.

Il livello si fosse alzato ancora di una spanna, i flutti avrebbero invaso l’ufficio e investito Mister Petrolio. E portato via lui con la sua scrivania, incuranti della potenza e ricchezza che MP rappresentava.

Appena affacciato alla finestra, l’uomo lanciò un’occhiata allarmata all’acqua. Tirando un sospiro di sollievo. Seguito da un brivido: a immaginare il pericolo scampato.

Poi subito, a rabbuiarlo , la carcassa di un televisore ricambiò il suo sguardo.

Galleggiava proprio lì davanti, dopo essere stata risucchiata chissà dove e da chissà quale abitazione.

Adesso sembrava essere lì a ricordare a Mister Petrolio, il disastro che si era scatenato sul suo Impero di televisioni e sul suo rimanente patrimonio.

La potenza di MP era finita peraltro disciolta nelle grandi chiazze nere di petrolio che con lo tsunami, divelti gli impianti, si erano sparse sull’intera faccia della Terra.

Disastro di una punizione: l’inquinamento del petrolio traboccato anneriva il poco azzurro e verde antecedente. E adesso Mister Petrolio, per quanto potente, che cosa ci può fare?

Bersi il suo petrolio... per non morir di sete?

*

Nota. Riguarda il professor Fritz Ekkembauer che non si sarebbe nemmeno accorto dell’immane cataclisma se non lo avesse urtato una balena.

Il colosso stava in superficie e, alle prime avvisaglie del ciclone, si era precipitato a inabissarsi andando a cozzare proprio contro il professore, immerso come d’abitudine, dentro il suo scafandro.

«Guarda dove vai, scioccona!» aveva inveito il professore alla balena, che nel frattempo, si era allontanata.

Beh, solo allora, riflettendo sullo strano comportamento del cetaceo, Fritz Ekkembauer dedusse che stava accadendo qualcosa di anormale.

D’altronde, nell’acqua lui ci viveva, ne era un grande esperto, per cui acqua più acqua meno… Per farla breve conta che, grazie al suo scafandro, sopravvisse.

E vi saluta.

FINE

CIAO, SONO GUIDO

Sono nato a Milano, cresciuto a Milano,

scrivo a Milano, e guai se di Milano non mi degusto

la mia dose di sano smog quotidiano.

A Milano l’aria è sostanziosa, nutriente,

non si respira ma si mastica, è al dente.

Ho scritto per la pubblicità con grande assiduità,

per anni, troppi, il Cielo mi perdoni i frottoloni

che mi è toccato snocciolare e inventare

per convincere la gente a comperare

e io potermi guadagnare la michetta.

Ma così va la vita, prendere o lasciare. Che ci volete fare?

In compenso, ha scritto pure sui giornali,

non ricorda quanti, e anche romanzi, tanti,

e ho scritto per la Tivù, e fumetti e storie gialle

con poliziotti intrepidi e perfetti.

Tra i quali un ispettore ch’era un cane.

Nel senso ch’era proprio un cane vero.

Coda, baffi, pelo scuro: un duro.

Per farla breve, scrivo, scrivo e scrivo.

Perché è così che vivo, vivo e vivo.

Vienimi a trovare: guidosperandio. A presto!

...1936 Odiug!

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