Joseph Conrad
L'Agente segreto
ISBN: 9788874174591
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Indice dei contenuti
Informazioni I II III IV V VI VII VIII IX X XI XII XIII
Informazioni
I n copertina: Alberto Pisa, il ponte di Charing Cross a Londra, 1901
© 2017 REA Edizioni Via S. Agostino 15 67100 L’Aquila www.reamultimedia.it
[email protected] www.facebook.com/reamultimedia Questo e-book è un’edizione rivista, rielaborata e corretta, basata su una traduzione del 1934 di Mario Benzi. La casa editrice rimane comunque a disposizione di chiunque avesse a vantare ragioni in proposito.
I
Quel mattino, uscendo, Verloc affidò la bottega alle cure del cognato. Lo poteva ben fare, giacché gli affari, sempre scarsi, erano di giorno addirittura nulli. Verloc, poi, poco o punto si preoccupava dei suoi affari ostensibili, e, d’altra parte, c’era sempre sua moglie che pensava ad aver cura del fratello. La bottega era piccola, e così pure la casa, una di quelle catapecchie di mattoni tanto numerose a Londra, prima dell’era della ricostruzione. La bottega era precisamente uno sgabuzzino quadro, con una vetrina a piccoli vetri. Di giorno, la porta restava chiusa; di sera, era socchiusa in modo discreto e anche sospetto. Nella vetrina erano in mostra fotografie di ballerine più o meno svestite, certi involtini misteriosi molto simili a quelli che, una volta, spacciavano i ciarlatani, buste gialle, chiuse e piuttosto piatte, che portavano in grosse cifre nere il prezzo di due scellini e sei denari, alcune copie di vecchi settimanali umoristici si appesi a una cordicella come per asciugare, un sudicio vasetto di porcellana azzurra, un cofanetto di legno nero, bottigliette d’inchiostro, timbri di gomma, qualche libro dal titolo alludente a cose sconvenevoli, qualche numero apparentemente vecchio di giornaletti oscuri e mal stampati, con nomi pretenziosi come La Torcia, Il Tam-Tam. Dentro, le due fiammelle di gas erano sempre tenute molto basse, sia per ragioni d'economia, sia per riguardo ai clienti. Ouesti clienti erano ora dei giovanotti, che prima tentennavano davanti alla vetrina, poi bruscamente sgattaiolavan dentro, ora uomini d'età matura, che in generale, però, avevano un’aria di finanze poco floride. Alcuni di questi ultimi si tiravano il bavero del pastrano fin sopra i balli, e mostravano tracce di fango in fondo ai calzoni, poco fini e molto sdruciti, entro cui le gambe avevano, in generale, un aspetto altrettanto misero. Con le mani sprofondate nelle tasche del pastrano, entravano di sbieco, come temessero di far squillare il camlo. Il camlo, appeso sopra la porta per mezzo d'un nastro d’acciaio ricurvo, era diffìcile a scansare. Era fesso, ma alla sera, alla minima provocazione, strepitava dietro il cliente con impudente violenza.
Strepitava, e a quel segnale Verloc accorreva prontamente dalla retrostante saletta, per un polveroso uscio a vetri che si apriva dietro il banco verniciato. Aveva sempre le palpebre grevi e l’aria di essersi alzato bell’e vestito, e per tutto il giorno, in un letto disfatto. Un altro avrebbe considerato un tale aspetto pregiudizievole ai propri affari. Si sa che il buon andamento degli spacci al minuto dipende in gran parte dall’aspetto attraente e cortese del venditore. Ma Verloc conosceva bene i propri affari, e nessun dubbio estetico, per quanto riguardava il suo aspetto, lo turbava mai. Risoluto, con occhi fissi e una sfrontatezza che sembrava tener sempre a bada una bassa minaccia, metteva sul banco oggetti d’un valore ovviamente, scandalosamente inferiore al prezzo richiesto: una scatoletta di cartone che apparentemente non conteneva nulla, o una di quelle piatte buste gialle accuratamente chiuse, o un sudicio libretto legato alla rustica e ostentante un titolo promettente. Di quando in quando, capitava che una delle sgualcite, ingiallite ballerine veniva venduta a un amatore come fosse stata viva e rigogliosa. A volte, era la signora Verloc che accorreva alla chiamata del camlo fesso. Winnie Verloc era una giovane dagli ampi fianchi e dal petto abbondante, contenuto da uno stretto busto. I suoi capelli erano molto curati. Sfrontata come il marito, aveva sempre un’aria d’incommensurabile indifferenza dietro il bastione del banco. I clienti d’età relativamente tenera, restavano, al solito, sconcertati di dover trattare con una donna, e, con la rabbia in cuore, chiedevano una qualunque bottiglietta d’inchiostro del valore di sei denari (uno scellino e sei denari, nella bottega di Verloc), che, una volta fuori, buttavano di soppiatto nel rigagnolo. I visitatori della sera — quelli dai baveri tirati fin sui baffi, e dai cappelli a cencio calcati sul naso — salutavano la signora Verloc con una mossa familiare del capo, e, mormorando qualche parola di cortesia, alzavano il ponticello a cerniera, praticato in fondo al banco per are nel retro, il quale dava accesso a un corridoio e a una ripida scaletta. Solo per la porta della bottega si poteva entrare nella casa in cui Verloc svolgeva la sua attività di venditore d’ambigue merci, esercitava la sua vocazione di protettore della società e coltivava le sue virtù domestiche. Le quali ultime erano molto pronunciate. Egli era, infatti, compiutamente addomesticato. Nessun bisogno, nè spirituale, nè mentale, nè fisico, poteva indurlo ad allontanarsi di molto dai lari domestici. La casa gli dava conforti al corpo e pace alla coscienza, insieme con le cure muliebri della signora Verloc e i riguardi deferenti della madre di questa.
La madre di Winnie era un donnone asmatico con una gran faccia bruna. Portava una parrucca nera sotto una cuffietta bianca. Le gambe tumefatte la costringevano all’inerzia. Diceva di discendere da famiglia se, il che poteva essere perfettamente vero; e, dopo un buon numero d'anni di vita coniugale con un piccolo fornitore di viveri, aveva provveduto al proprio sostentamento, affittando alcune camere mobiliate presso Yauxhall Bridge Road, in una piazzetta che una volta ebbe qualche splendore ed ancora è compresa nel quartiere di Belgravia. Tale fatto topografico l’aveva aiutata a tener sempre le camere occupate; però i suoi dozzinanti non erano d'un genere molto distinto. Ma sua figlia Winnie li aveva serviti ugualmente. Tracce della discendenza se che la vedova vantava, erano visibili anche in Winnie. Specie nell'accurata e artistica acconciatura dei lustri capelli neri. Ma aveva anche altro: la giovinezza, fattezze piene e tonde, una bianca carnagione, la provocazione d'una immensa riservatezza, che però non impediva mai la conversazione, condotta con animazione dai dozzinanti e con equa amabilità da lei. Bisogna credere che Verloc sia stato sensibile a questi fascini. Era un dozzinante intermittente. Andava e veniva senza alcuna palese ragione. Al solito, veniva (come l’influenza) dal Continente; senza però essere preannunciato dalla stampa. Faceva colazione a letto, dove poi, ogni giorno, restava a rivoltarsi con aria di placido godimento fino a mezzodì, e spesso anche più a lungo. Ma quando poi usciva, sembrava che gli riuscisse molto difficile ritrovar la via che riconduceva alla sua temporanea dimora di piazza Belgravia. Usciva tardi e tornava presto, alle tre o alle quattro del mattino. E al suo risveglio, verso le dieci, si rivolgeva a Winnie, che gli portava la colazione, con faceta, esausta urbanità, e la voce roca e sfinita d’uno che ha parlato concitatamente per molte ore di seguito. I suoi occhi prominenti, dalle palpebre grevi, si volgevano languidamente, amorosamente verso di lei, mentre le coltri erano tirate fin sotto al mento, e i neri, morbidi baffi ricoprivano le carnose labbra capaci di canzonare con molta dolcezza. Nel giudizio della madre di Winnie, Verloc era un signore molto distinto. Dalle esperienze raccolte in diverse « case d’affari », la buona donna s’era fatto un ideale di quel genere di signorilità che si compiacciono di esibire i frequentatori delle locande private. E quell’ideale fu impersonato da Verloc. — Naturalmente, ci prenderemo la tua mobilia, mamma, — le aveva osservato Winnie. Così ella aveva dovuto rinunciare alla sua attività di affittacamere. Parve che non
valesse la pena di essere proseguita. Sarebbe stata fastidiosa per Verloc, anzi incompatibile co’ suoi affari. Quali poi fossero questi affari, egli non lo aveva detto; però, dopo il suo fidanzamento con Winnie, aveva preso l’abitudine d’alzarsi prima di mezzogiorno e di scendere in sala da pranzo, per cattivarsi la simpatia della futura suocera, che vi trascorreva gran parte della sua immota esistenza. Accarezzava il gatto, riattizzava il fuoco, e vi prendeva i pasti. Abbandonava gli agi di quella saletta, alquanto ingombra, con evidente riluttanza, ma poi, nullameno, restava fuori fino a notte molto inoltrata. Non s’era mai offerto di condurre Winnie a teatro, come avrebbe dovuto fare un signore così distinto. Le sue serate erano sempre impegnate. Aveva spiegato a Winnie che il suo lavoro era di un genere in certo qual modo politico, avvertendola che avrebbe dovuto essere molto gentile con i suoi amici politici. Ed ella, con il suo sguardo dritto ed impenetrabile, gli aveva risposto che così sarebbe stato, naturalmente. Quanto altro poi le avesse detto circa le proprie occupazioni, la madre di Winnie non lo seppe mai. Gli sposi la presero con loro, insieme con la mobilia. Però, l’aspetto meschino della bottega la colpì. E l’acciottolato della viuzza di Soho fu nefasto per le sue gambe abituate al lastrico uguale di piazza Belgravia: presero proporzioni addirittura enormi. Ma, d’altra parte, fu sollevata d’ogni cura materiale. La pesante bonarietà del genero le diede un senso di assoluta sicurezza. L’avvenire della figlia era evidentemente assicurato e non ebbe neanche più da darsi pensiero per la sorte del figlio Stevie. Ma dato l’affetto di Winnie per il delicato fratellino, e la gentile e generosa disposizione di Verloc, ella sentiva che il povero ragazzo era abbastanza al sicuro in questo mondo violento. E in cuor suo, forse, ella non fu affatto dispiaciuta, quando, ato qualche anno, si convinse che i Verloc sarebbero rimasti senza figli. Siccome quella circostanza sembrava lasciar Verloc assolutamente indifferente, e visto che Winnie riversava sul fratello un affetto quasi materno, per il povero Stevie, forse, non sarebbe potuto accadere nulla di meglio. Era molto difficile, infatti, metterlo a posto, quel ragazzo. Era gracile, e sarebbe stato anche bello, se il labbro inferiore, cascante in modo particolare, non avesse dato qualcosa di vacuo al suo viso. Ma, grazie al nostro ottimo sistema d’insegnamento coercitivo, aveva imparato a leggere e a scrivere, nonostante quel suo aspetto sfavorevole. Però, come fattorino d’ufficio, non ebbe successo. Dimenticava i messaggi verbali, abbandonava la retta via del dovere per seguire cani e gatti randagi, per anguste viuzze, in certi cortili maleodoranti: per contemplare a bocca aperta, e con evidente danno agli interessi del padrone, le
commedie della strada o i drammi dei cavalli caduti, che, quand’erano eccessivamente patetici o violenti, gli facevano cacciar urla strazianti in mezzo alla folla, alla quale, si sa, non piace essere turbata da suoni simili, nel suo cheto godimento d’uno spettacolo nazionale. E quando poi un grave e paterno poliziotto lo conduceva via, veniva quasi sempre constatato che il povero Stevie aveva dimenticato il proprio indirizzo, almeno per qualche tempo. Una brusca domanda provocava in lui un balbettio quasi soffocante. E quando vedeva qualcosa d’insolito, sgranava gli occhi in modo orrendo. Però non aveva mai avuto crisi, il che era molto confortante; e di fronte ai naturali scatti del suo genitore spazientito, aveva sempre trovato, nei giorni della sua infanzia, un sicuro riparo dietro le gonne succinte della sorellina Winnie. Ma a volte, sembrava proprio che, sotto sotto, nascondesse un fondo d’incredibile malvagità. Quand’ebbe quattordici anni, un amico del suo defunto genitore, rappresentante d’una fabbrica estera di latte condensato, se lo prese come fattorino. E un brumoso pomeriggio, assente il padrone, fu sorpreso sulla scala ad accendere fuochi artificiali. Aveva già fatto partire, uno dopo l’altro, tutta una serie di razzi, girandole e assordanti petardi; poco mancò che le conseguenze non fossero gravissime. Un terribile panico s’era propagato in tutto l’edifìcio. Impiegati stralunati e soffocanti si precipitarono tumultuosamente negli anditi ripieni di fumo; tube di seta, appartenenti ad affaristi anziani, ruzzolarono indipendenti giù per le scale. Nessuno, naturalmente, fu grato a Stevie di quel suo estro originale, i cui moventi furono molto difficili da determinare. Solo più tardi, Winnie ottenne una confusa, nebulosa confessione. Altri due fattorini, impiegati nello stesso stabile, avevano sconvolto la sua sensibilità con storie d'ingiustizia e d'oppressione, al punto da spingerlo a tale colmo di frenesia. Ma l’amico del suo defunto genitore lo licenziò, naturalmente, sui due piedi. Dopo quella prodezza altruistica, Stevie fu incaricato di lavare i piatti e di lustrar le scarpe dei signori che soggiornavano alla pensione di piazza Belgravia. Occupazioni, queste, evidentemente senza avvenire. I signori, di quando in quando, gli davano uno scellino di mancia. Verloc si era mostrato anche più generoso. Ma tutte sommate, queste mance non bastavano a costituire un reale guadagno atto ad assicurare il suo domani; cosicché, quando Winnie annunciò alla madre il proprio fidanzamento con Yerloc, venne fatto a questa di domandarsi, con un sospiro e un’occhiata verso la cucina, che cosa ne sarebbe stato del povero Stevie. Ma, per fortuna, Verloc fu disposto a tenerselo in casa insieme con la suocera e la mobilia, la (piale era l’unica fortuna palese della famiglia. Verloc abbracciò
tutti quelli che si strinsero al suo ampio e bonario petto. La mobilia fu ripartita in tutta la casetta nel modo più conveniente, ma la suocera fu confinata in due stanzette, in fondo al piano superiore. Lo sfortunato Stevie dormì in una di queste. Allora, una tenue peluria gli luccicava, come una nebbiolina d’oro, sulla piccola mascella inferiore. Aiutò con cieco amore e docilità la sorella nelle faccende di casa. Verloc pensava che un’occupazione seria gli avrebbe fatto bene. Il ragazzo occupava le ore a tracciare, col como e a mano libera, un gran numero di circoli su pezzettini di carta. S’applicava a questo atempo con gran diligenza, tutto curvo sulla tavola di cucina. E Winnie, dalla bottega, gli lanciava, di tratto in tratto, per l’uscio aperto del retro, occhiate di materna vigilanza.
[1] Case per solo uffici, con un ultimo piano, il quinto o su di li, affittato per abitazione a qualche famiglia, per lo più di modeste condizioni.
II
Queste erano la casa e le faccende che Verloc si lasciò dietro, avviandosi a ponente, alle dieci e mezzo del mattino. Era un’ora insolitamente mattiniera per lui. Tutta la sua persona spirava un’aria di rugiadosa freschezza. Portava il soprabito turchino tutto abbottonato. Le sue scarpe erano ben lucidate, e le sue gote, rasate di fresco, avevano un loro proprio lustro. Perfino gli occhi dalle palpebre grevi, rinfrescati da una notte di placido sonno, gettavano sguardi relativamente vivaci. Attraverso la cancellata del parco, questi sguardi colsero signori e signore cavalcanti nel galoppatoio, coppie che procedevano a un trotto armonioso, altre che incedevano compostamente al o, gruppetti fermi, cavalieri soli, dall’aspetto insocievole, e amazzoni solitarie, seguite a distanza da un servo con la coccarda al cappello e l’attillata livrea stretta da un cinturone. Carrozze signorili si susseguivano di continuo, per lo più broughams a pariglie, e ogni tanto una vittoria con dentro una pelle di belva e una testa femminile dal cappello emergente sopra il mantice ripiegato. Un sole tipicamente londinese, di cui non si poteva dir altro, se non ch'era iniettato di sangue, glorificava ogni cosa con gli scialbi suoi raggi. Stava sospeso sopra Hyde Park Corner con un'aria di scrupolosa e bonaria vigilanza. Perfino il lastrico, sotto i piedi di Verloc, aveva una tinta d’oro antico in quella luce diffusa, in cui nè case, nè alberi, nè bestie, nè uomini gettavano ombra. Verloc andava a ponente attraverso la città, in un’atmosfera d’antico oro polverizzato. Bagliori rossicci guizzavano sui tetti delle case, sugli angoli dei muri, sugli spigoli delle carrozze e perfino sul manto dei cavalli e sulle ampie spalle del soprabito di Verloc, dove facevano un singolare effetto di ruggine. Ma egli non aveva la benché minima idea di essere arrugginito. Guardava, attraverso le sbarre della cancellata, le testimonianze dell'opulenza e del lusso della città, con occhio approvatore. Tutta quella gente doveva essere protetta. La protezione è la prima necessità dell'opulenza e del lusso. Dovevano essere protetti: tutti i loro beni, i cavalli, le carrozze, le case, i servi, dovevano essere protetti: le stesse fonti delle loro ricchezze, nel cuor della città e nel cuor del contado, dovevano essere protette; tutto l’ordine sociale, favorevole al loro ozio igienico, doveva essere protetto dal livore del lavoro antigienico. Doveva — e Verloc si sarebbe certo fregato le mani con soddisfazione, non fosse stato costituzionalmente contrario ad ogni movimento superfluo. TI suo proprio ozio non era punto igienico, ma gli si adattava a
meraviglia. Gli era devoto con una specie d’inerte fanatismo, o meglio con una fanatica inerzia. Generato da gente laboriosa per una vita di fatiche, aveva abbracciato l’indolenza, seguendo un impulso profondo, inspiegabile e imperioso come quello che spinge l’uomo a preferire una donna tra mille. Era troppo pigro anche per essere un demagogo, o concionare nei comizi, o fare il leader dei lavoratori. Erano occupazioni che richiedevano troppa fatica. Egli aveva bisogno d’una vita più facile, o forse era una vittima di quella filosofia che nega l’efficacia d’ogni sforzo umano. Ma un’indolenza di tal genere, richiede ed implica una certa dose d’intelligenza. Verloc non era privo d’intelligenza, e al pensiero d’una reale minaccia incombente sull’ordine sociale, avrebbe forse fatto una strizzatina a se stesso, se non avesse avuto da compiere uno sforzo per fare quel segno di scetticismo. Infatti, i suoi grossi occhi prominenti non erano fatti per le strizzatine. Erano piuttosto di quelli che sogliono chiudersi solennemente, sotto il peso del sonno, con un effetto maestoso. Antidimostrativo e massiccio alla maniera dei maiali molto grassi, proseguì per la sua via, senza nè fregarsi le mani nè strizzar gli occhi a certi suoi pensieri. Camminava pesantemente con le sue lucide scarpe, come avviato a una qualunque faccenda consuetudinaria. Sembrava uno qualunque dei tanti individui che si classificano tra il corniciaio e il fabbro; insomma, un datore di lavoro in scala molto ridotta. Però, c’era anche in lui qualcosa d’indicibile, che non poteva derivare da nessuna attività macchinale, per quanto disonestamente svolta; quel non so che comune a coloro che sfruttano i vizi, le follie e i più bassi timori dell’umanità: l’aria di annientamento morale che hanno i tenitori di bische d’infimo ordine o di case equivoche, i detectivs privati, gli agenti informativi, i venditori di bevande alcooliche, e credo anche i venditori di cinture elettriche rinvigorenti e gli inventori di medicine miracolose. Circa questi ultimi non sono sicuro, non avendo portato le mie indagini fino a tali profondità. Per quel che ne so io, però, l’espressione di costoro potrebbe essere perfettamente diabolica. Non mi sorprenderebbe. A me, quel che importa soprattutto affermare, è che l’espressione di Verloc non era affatto diabolica. Giunto nei pressi di Knightsbridge, svoltò a sinistra, ando dalla grande arteria percorsa da moltitudini di veicoli assordanti, in un quartiere quasi silente. Sotto il cappello, un po’ di sghembo sulla nuca, i capelli erano stati accuratamente spazzolati e pettinati, poiché doveva recarsi in un'Ambasciata. Ora, tozzo come una roccia — specie di roccia molto molle — camminava per una via che a giusto titolo avrebbe potuto chiamarsi privata. Ampia, vuota, lunga, essa aveva tutta la maestà della natura inorganica, delle cose che non
muoiono mai. L’unico residuo di mortalità era rappresentato dal brougham d’un dottore, fermo in augusta solitudine contro l’orlo del marciapiede. I battenti dei portoni luccicavano a perdita d’occhio, e i nitidi vetri delle finestre rilucevano d’un lustro cupo, opaco. E tutto era silente. D’un tratto, un carretto di lattaio infilò fragorosamente la lunga prospettiva; poi un garzone macellaio, sferzando il suo cavallo con l’eroico fervore d’un corridore di biga, scantonò seduto in alto, sopra due grandi ruote rosse. Un gatto dall’aria colpevole, sbucato da sotto il selciato, corse per un po’ davanti a Verloc, poi s’immerse in un altro sotterraneo; e un grasso poliziotto, certo refrattario a qualsiasi emozione, come fe parte esso pure della natura inorganica, e apparentemente uscito dalla colonna d’un lampione, ò accanto a Verloc senza badargli per nulla. Svoltando ancora a sinistra, Verloc proseguì per un’angusta traversale, fiancheggiata da un muro giallo, che, per ima ragione imperscrutabile, portava il numero uno di piazza Chesham, scritto in grandi lettere nere. La piazza Chesham era lontana almeno una sessantina di yarde, e Verloc, abbastanza cosmopolita per non lasciarsi ingannare dai misteri topografici di Londra, continuò diritto, senza manifestar nè sorpresa nè sdegno. Infine, con la persistenza di chi va a sbrigare un affare improrogabile, giunse alla piazza, che attraversò diagonalmente, puntando cioè diritto verso il numero dieci. Questo apparteneva a un gran cancello imponente, fiancheggiato da un alto muro sbiancato di fresco e da due case, di cui una, abbastanza irrazionalmente, era contrassegnata dal numero nove, e l’altra dal numero trentasette; e il fatto che quest’ultima apparteneva alla via Porthill, una via molto nota del vicinato, era proclamato da un cartello posto sopra una finestra d’ammezzato dalle autorità incaricate di tener d’occhio tutte le case sbandate di Londra. Perchè poi nessuno, in Parlamento, si sogni di far tornare quelle case là dove dovrebbero stare (basterebbe un piccolo decreto), è uno dei tanti misteri dell’amministrazione municipale. Ma Verloc non vi badò, poiché la sua missione in questo mondo era di proteggere il meccanismo sociale, non di perfezionarlo e ancor meno di criticarlo. Era ancora tanto presto, che. il portiere dell’Ambasciata uscì precipitosamente dalla portineria infilandosi la giacca della livrea. Aveva tutta l’aria di voler avventarsi su Verloc; ma questi lo trattenne, mostrandogli semplicemente una busta portante lo stemma dell’Ambasciata. E ò oltre. Si servì dello stesso talismano di fronte a un lacchè, il quale gli aprì l’uscio e si scansò per lasciarlo entrar nell’ampia sala. Un gran fuoco scoppiettava allegramente in un alto caminetto, e davanti, con le spalle alle fiamme, un uomo piuttosto anziano, in abito da sera e con una catena
al collo, alzò il capo da un giornale che teneva spiegato con ambo le mani davanti al viso calmo e severo. Non si mosse: ma un altro lacchè, in livrea bruna orlata di giallo, avvicinò Verloc, ascoltò il nome pronunciato sottovoce, girò sui tacchi in silenzio e s’incamminò senza mai voltarsi. Verloc, così guidato lungo un corridoio del pianterreno, fino alla sinistra di uno scalone monumentale, fu bruscamente invitato ad entrare in una stanzetta contenente una pesante scrivania e alcune sedie. Il servo richiuse l'uscio, e Verloc rimase solo. Non si sedette. Con cappello e bastone in una mano, si guardò attorno, andosi l'altra tozza mano sui capelli lisciati. Un altro uscio s'aprì silenziosamente, ed egli, immobilizzando lo sguardo in quella direzione, vide dapprima soltanto delle vesti nere, un cocuzzolo calvo e due scarne mani tra due grige fedine cascanti. La persona ch'era entrata si teneva davanti agli occhi certe sue carte che sfogliava mentre s'avvicinava alla scrivania a lenti ettini. Il Consigliere segreto Wurmt, Cancelliere d'Ambasciata, era piuttosto miope. Deponendo le carte sulla tavola, l'apprezzato funzionario scoprì una faccia pastosa di una melanconica bruttezza, incorniciata da una moltitudine di sottili e lunghi peli grigiastri, pesantemente sbarrati da grosse e folte sopracciglia. Si mise un paio di occhiali cerchiati d'argento ossidato sul grosso naso informe, e parve colpito dalla presenza di Verloc. Sotto le enormi sopracciglia, i deboli occhietti ammiccarono pateticamente attraverso gli occhiali. Non fece alcun segno di saluto; e Verloc, che pure conosceva il suo dovere, non si mosse neppur lui. Solo un’alterazione quasi impercettibile nel profilo delle spalle di quest'ultimo potè far supporre una lieve inclinazione della schiena sotto la vasta superficie del soprabito. Ne conseguì un effetto di fredda deferenza. — Ho qui alcuni vostri rapporti, — disse il funzionario con voce singolarmente dolce e stanca, puntando forte l’indice sulle carte. Fece una pausa e Verloc, che aveva subito riconosciuto la propria scrittura, attese in silenzio, quasi senza respirare. — Il contegno della polizia di qui non ci soddisfa, — riprese l’altro, con evidenti segni di stanchezza cerebrale. Le spalle di Verloc, senza realmente muoversi, accennarono una scrollatina. E per la prima volta, in quel mattino, da quando era uscito di casa, le sua labbra si dischio. — Ogni paese ha la sua polizia, — sentenziò filosoficamente. Ma poi, come il
funzionario d’Ambasciata continuava ad ammiccare, si sentì costretto a soggiungere: — Permettetemi di farvi osservare che non è in mio potere d’influire sulla polizia di qui. — Quello che si desidera, è l’attuazione di qualcosa di definitivo, che stimoli la loro vigilanza. Ciò sarebbe di vostra competenza, vero? Verloc rispose solo con un sospiro, che certo dovette essergli sfuggito involontariamente, poiché subito cercò di dare al proprio viso un’espressione gioviale. Il funzionario ammiccò come abbagliato dalla penombra di quella stanzetta, e soggiunse: — La vigilanza della polizia... e la severità dei magistrati. La larghezza di manica di queste procedure e la totale mancanza d’ogni misura repressiva sono uno scandalo per tutta l’Europa. Quello che si desidera in questo momento, è un’accentuazione del senso d’irrequietezza... di fermento che indubbiamente esiste... — Indubbiamente, indubbiamente, — si affrettò a dire Verloc, con una deferente voce di basso profondo, denotante spiccate qualità oratorie, ma così totalmente diversa da quella di prima, che il suo interlocutore rimase profondamente sorpreso. — Esiste infatti a un grado veramente pericoloso. I miei rapporti di quest’ultimo anno vi hanno accennato ripetutamente. - I vostri rapporti di quest’ultimo anno, — disse il Consigliere Wurmt, nel suo gentile tono sionato, — li ho letti io stesso. Però, sapete, sinceramente, avreste potuto fare a meno di mandarceli. Per qualche istante regnò un triste silenzio. Verloc sembrava aver ingoiato la propria lingua, e l’altro guardava fìsso le carte sulla scrivania. Infine diede a queste una piccola spinta. - Lo stato di cose che voi ci avete esposto, ci era già noto da tempo. Anzi, senza di esso, il vostro impiego non avrebbe ragione di essere. Quello che ora ci vuole, non sono i rapporti, ma l'attuazione d'un fatto concreto, significativo... direi quasi allarmante. - Inutile dirvi che tutti i miei sforzi tenderanno a questo scopo, — disse Verloc, dando modulazioni convincenti al suo vocione. Però, il senso di essere attentamente scrutato dagli occhietti ammiccanti dietro il cieco lustro degli
occhiali, lo sconcertò. Si arrestò con un gesto di assoluta devozione. L’utile e zelante, se pur oscuro membro dell’Ambasciata, ebbe l’aria di essere colpito da una nuova idea. - Siete molto corpulento, voi. Questa osservazione, realmente di un ordine prettamente psicologico, fatta con la modesta esitazione di un burocratico più familiare con la carta e l’inchiostro che non con le esigenze della vita attiva, fece a Verloc l’effetto di un apprezzamento oltraggioso. Indietreggiò d’un o. - Eh? Che avete detto? — esclamò con cupo risentimento. Il Cancelliere d’Ambasciata, incaricato di quel colloquio, parve ritenere tale incarico troppo gravoso. — Credo che sarebbe meglio che voi parlaste col signor Vladimiro. Sì, veramente, sarebbe meglio. Abbiate dunque la compiacenza di attendere un momento, — e uscì con gli stessi ettini lenti di prima. Subito Verloc si ò la mano sui capelli. Una lieve traspirazione gli aveva imperlato la fronte. Sporse le labbra e soffiò, come per raffreddare un cucchiaio di minestra troppo calda. Ma quando il servo in livrea bruna riapparve silenziosamente sull’uscio, egli non s’era mosso d’un pollice dal punto occupato durante il colloquio. Era rimasto rigido, impalato, come si fosse visto circondato da abissi. Andò lungo un corridoio illuminato da una solitaria fiammella di gas, poi su per una scaletta a chiocciola e lungo un altro corridoio, ma chiaro, rilucente, gaio. Il servo spalancò un uscio e si scansò. Verloc sentì sotto i piedi un molle tappeto. La stanza era grande e illuminata da tre finestre. Un giovane, seduto in una spaziosa poltrona, davanti a una vasta scrivania di mogano, disse in se al Cancelliere d’Ambasciata, che stava uscendo col suo fascio di carte: — Avete perfettamente ragione, mio caro. È troppo grasso... l’animale. Il signor Vladimiro, primo Segretario, s’era fatto, nei salotti, una reputazione di persona piacevole, interessante. Anzi, era un vero favorito della buona società. Il suo spirito consisteva nel trovare strani rapporti tra idee per se stesse incongrue; e quando meditava a quel modo, soleva sedere tutto proteso, con la sinistra
alzata come ad esibire le sue spiritose dimostrazioni tra indice e pollice, mentre il suo tondo faccione assumeva un’espressione di faceta perplessità. Ma ora, nel modo in cui guardò Verloc, non c’era traccia alcuna nè di celia nè di perplessità. Rovesciato contro lo schienale della profonda poltrona, i gomiti saldamente puntati sui braccioli della medesima, una gamba incrociata sul grosso ginocchio dell’altra, sembrava, col liscio e roseo viso, un bambino straordinariamente sviluppato, clic non tollera scherzi da nessuno. - Capite il se, vero? Verloc ammise, cupo cupo, che infatti capiva quella lingua. Tutta la sua enorme struttura ebbe una lieve inclinazione in avanti. Stava in mezzo alla stanza, con una mano occupata dal cappello e dal bastone, c l’altra penzolante inerte lungo il fianco. Con un brontolio, articolato chissà dove in fondo alla gola, disse di aver fatto il servizio militare nell’artiglieria se. E il signor Vladimiro. di punto in bianco, e con sprezzante perversità, si mise a parlar in un inglese familiare, senza la più lieve traccia d'accento straniero. — Ah già, naturalmente. Vediamo un po’. Quanto vi siete buscato per il disegno della culatta perfezionata di quel nuovo cannone? — Cinque anni di rigore in fortezza, — rispose prontamente Verloc, senza però alcun segno d'emozione. — Ve la siete cavata con poco. Meritavate almeno il doppio per esservi lasciato pigliare. Come avete fatto a cacciarvi in questo genere d'imprese... eh? Il solito vocione cavernoso di Verloc parlò di giovinezza, di un fatale infatuamento per un'indegna creatura... — Ah! ah! Cherchez la femme — si degnò d'interpolare il signor Vladimiro, ma senza affabilità. Anzi, c'era una punta di sdegno in quella sua condiscendenza. — Da quanto tempo siete alle dipendenze di questa Ambasciata? — Fin dai tempi del compianto Barone Stott-Wartheinem — rispose Verloc con voce attutita e sporgendo tristemente le labbra. Il primo Segretario seguì attentamente quel gioco di fisionomia.
— Ah! fin d'allora... Bene. Sentiamo allora che cosa avete da dirmi. Verloc rispose con qualche sorpresa che non aveva nulla di particolare da dire. Era stato chiamato da una lettera — e immerse la mano nella tasca del soprabito, ma, dinanzi allo sguardo attento, beffardo, cinico del signor Vladimiro, la ritrasse vuota. — Bah! — fece questi, — Credete di aver ancora il physique da róle? Voi, membro del proletariato affamato! Voi, disperato socialista o anarchico... A proposito, quale dei due? — Anarchico, — dichiarò Verloc, quasi sottovoce. — Storie! — continuò Vladimiro, senza però alzar la voce. — Avete stupito perfino il vecchio Wurmt. Non la dareste da intendere neanche a un idiota. So bene che tutti, su per giù, sono così, ma voi mi avete l’aria semplicemente impossibile. Sicché, avete cominciato i vostri rapporti con noi rubando i disegni del cannone se. E poi vi siete fatto prendere. Deve essere stato molto seccante per il nostro Governo. Non è stato gentile da parte vostra. Cupo cupo, Verloc cercò di scolparsi. — Come già vi ho detto, una fatale infatuazione per un’indegna... Il signor Vladimiro alzò una larga mano bianca e grassoccia. — Già, già, l’infelice ione giovanile. Lei s’è intascato i soldi, e per giunta vi ha venduto alla polizia... eh? Il doloroso mutamento nella fisionomia di Verloc e il momentaneo afflosciarsi di tutta la sua persona, confermarono che infatti le cose erano andate così. La mano del signor Vladimiro afferrò la caviglia riposante sul ginocchio. La calza era di seta turchino scuro. — Ammetterete anche voi di non essere stato molto furbo in quella circostanza. Forse siete troppo sensibile. Verloc assicurò con un roco, velato mormorio, di non essere più giovine.
— Oh, quella è una debolezza che gli anni non curano. Ma no, via, siete troppo grasso per quello. Non sareste mai potuto diventar così, se realmente foste stato sensibile. Ve lo dico io dove sta il guaio: siete troppo pigro. Da (pianti anni intascate la paga di questa Ambasciata? — Ludici, — suonò la risposta, dopo un momento di cupa esitanza. — Prima, quando Sua Eccellenza il Barone Stott-Wartenheim era ancora ambasciatore a Parigi, venivo qua in missione. Poi, secondo le istruzioni di Sua Eccellenza, mi ci sono stabilito definitivamente. Sono inglese. — Ah sì? Proprio? — Suddito britannico, perchè nato in Inghilterra. Ma mio padre era se, sicché... — Inutile spiegare. Ammetto senz'altro che, se foste Maresciallo di Francia e, al tempo stesso, membro del Parlamento d'Inghilterra, potreste essere di qualche utilità alla nostra Ambasciata. Quello scatto di fantasia provocò qualcosa come l’accenno d’un sorriso sul viso di Verloc. Ma il signor Vladimiro conservò un'imperturbabile gravità. — Senonchè, come ho detto, voi siete pigro, non sapete sfruttare le occasioni. Ai tempi del Barone Stott-Wartenheim, quest’Ambasciata era piena di teste di rapa, le quali portavano individui della vostra specie a farsi un falso concetto del servizio segreto. Ed ora, il mio dovere m’impone di rettificare questo vostro concetto sbagliato; di dirvi quello che il servizio segreto non è. Sappiate dunque, anzitutto, che non è un’istituzione filantropica. Vi ho fatto chiamare apposta per dirvelo. Il signor Vladimiro osservò la forzata espressione di stupore del viso di Verloc, e sorrise sarcasticamente. — Vedo che mi capite. Credo che siate abbastanza intelligente per il vostro mestiere. Quello che ora ci occorre, è attività, attività. Ripetendo quest’ultima parola, egli pose un lungo e bianco indice sull’orlo della scrivania. Ogni traccia di raucedine scomparve dalla voce di Verloc. La parte del suo collo visibile sopra il bavero di velluto divenne paonazza. Le labbra gli tremarono, poi, subito, si spalancarono.
— Se soltanto vi degnaste di dare un’occhiata al mio stato di servizio, — tuonò col suo chiaro vocione di basso profondo — vedreste che ho dato un avvertimento ancora tre mesi fa, nell’occasione del viaggio a Parigi del Granduca Romuald, avvertimento che poi è stato telegrafato da qui alla polizia se... — Calma, calma, — interruppe il signor Vladimiro con una smorfia accigliata. — La polizia se non aveva nessun bisogno del vostro avvertimento. Non gridate così. Che diavolo vi piglia? Con una nota di fiera umiltà, Verloc si scusò di essersi lasciato andare. Disse che la sua voce, famosa per anni nei meetings all’aperto e nei comizi di operai, aveva contribuito alla sua reputazione di buono e fidato compagno. Gli aveva servito ad ispirar fiducia. Era quindi una parte della sua propria utilità. — Nei momenti critici, i leaders incaricano sempre me di parlare, — dichiarò con manifesta soddisfazione. E soggiunse che non c'era tumulto ch’egli non potesse dominare con la propria voce. - Permettete. — e, senza alzar il capo, rapidamente, poderosamente, attraversò lo studio verso una delle alte finestre si, che aperse come ubbidendo a un incontenibile impulso. Il signor Vladimiro saltò su stupito dal fondo della poltrona, e guardò per disopra la sua spalla. Sotto, di là dal cortile dell’Ambasciata, e a una certa distanza dal cancello spalancato, si vedeva l'ampia schiena di un poliziotto che osservava oziosamente il cerimoniale con cui un bambino di famiglia nobile veniva scarrozzato attraverso la piazza. — Constable! — disse Verloc. senza maggior sforzo che se avesse bisbigliato. E il signor Vladimiro scoppiò a ridere vedendo il poliziotto fare una giravolta, come offeso nelle parti molli da un oggetto pungente. Verloc richiuse tranquillamente la finestra e tornò a piantarsi nel mezzo della stanza. — Capirete che, con una voce simile, — disse tornando in sordina - non m’è stato diffìcile farmi credere. E inoltre, sapevo che cosa dire. Il signor Vladimiro, rassettandosi la cravatta, l'osservò nello specchio della caminiera.
— Voglio ammettere che sappiate abbastanza bene a memoria il gergo socialistico-rivoluzionario, — disse sprezzante. — Vor et... voi non avete studiato il latino, vero? — No, — grugnì Verloc. — Non pretenderete che sappia anche quello, alle volte! Io appartengo al milione. Chi sa il latino oggigiorno? Solo qualche centinaio d’imbecilli, incapaci d’aver cura di se stessi. Per una trentina di secondi, il signor Vladimiro studiò nello specchio la sagoma carnosa, la rozza massa dell’uomo che gli stava alle spalle. Nel tempo stesso, ebbe la soddisfazione di veder il proprio viso accuratamente rasato, tondo, roseo e con le sottili, sensibili labbra che sembravano fatte apposta per pronunciar le delicate spiritosaggini che avevano fatto di lui il beniamino della più alta società. Poi si volse e avanzò con tale decisione, che perfino le estremità della sua cravatta a farfalla parvero rabbuffarsi indicibilmente minacciose. I movimenti erano così rapidi e fieri, che Verloc, guardandolo di sottecchi, ebbe, in cuor suo, un attimo di sgomento. — Ah! ah! Osate alzar la cresta, voi, — cominciò il signor Vladimiro, con un sorprendente accento gutturale, che non solo non era inglese, ma nemmeno europeo, e che Verloc, non ostante la sua vasta esperienza in fatto di accenti cosmopolitici, non riuscì a individuare. — Voi osate! Bene, ora vi parlerò in buon inglese. La voce non serve. Non sappiamo che farne della vostra voce. Vogliamo fatti... fatti allarmanti, — e, con una specie di feroce ritenutezza, soggiunse, lanciando le parole in pieno viso a Verloc: — maledetto voi! — I vostri modi iperborei non servono con me, — brontolò Verloc, con voce roca, tenendo gli occhi fissi sul tappeto. Allora il suo interlocutore, sorridendo beffardo sopra la cravatta scomposta, saltò al se. — Voi vi spacciate per agente provocatore. Ora dovete sapere che l’ufficio dell’agente provocatore è di provocare. E da quanto ho potuto desumere dal vostro stato di servizio, non avete mai fatto nulla per meritar la vostra paga, in questi ultimi tre anni. — Nulla! -— esclamò Verloc, senza muovere arto nè alzar gli occhi, ma con una nota di sincera emozione. — Nulla, io che ho prevenuto diverse volte quello che avrebbe potuto...
— Già, già, c'è un proverbio in questo paese che dice: « Meglio prevenire che curare », — lo interruppe il signor Vladimiro, sprofondandosi nella poltrona. — È un’idea stupidissima. Con le prevenzioni, non si vien mai a capo di nulla. Però è tipico. Hanno paura del decisivo, in questo paese. Ma voi, sarà bene che facciate in modo di non essere troppo inglese. E in questo caso specifico, poi, che cerchiate di non essere assurdo. Il male esiste già. Inutile prevenire; bisogna curare. Sostò, si volse alla scrivania e, rimuovendo alcune carte, prese a parlare in tono d'affari, senza guardare Verloc. — Avrete certo sentito parlare della prossima Conferenza Internazionale di Milano, vero? Verloc osservò torvo che aveva l’abitudine di leggere i giornali. E a un’altra domanda, rispose che, naturalmente, comprendeva quello che leggeva. A ciò, il signor Vladimiro, sorridendo appena appena ai documenti che rimuoveva ad uno ad uno, mormorò: — Finché non è scritto in latino, suppongo. — O in cinese, — rimbeccò Verloc. — Uhm! certe effusioni dei vostri amici rivoluzionari sono scritte in un charabia anche più incomprensibile del cinese, — e sprezzante, lasciò cadere sulla scrivania un grigio foglio stampato. — Che sono tutti questi foglietti con in testa F. P. e martello, penna e torcia in croce? Che significa questo F. P.? Verloc si accostò all’imponente scrivania. — Il Futuro del Proletariato. È un'associazione — spiegò, poderosamente piantato presso la scrivania. — Non precisamente anarchici, ma aperti a ogni si limatura d’opinione rivoluzionaria. — Ne fate parte anche voi? — Ne sono uno dei vicepresidenti, — sospirò pesantemente Verloc, e il primo Segretario dell’Ambasciata alzò il capo per guardarlo. — Allora, vi dovreste vergognare di voi stesso, — gli disse in tono incisivo. —
Non sa dunque far altro che stampar frottole profetiche su questa cartaccia, la vostra associazione? Perché non fate qualcosa di serio? Sentite, dal momento che ci siamo, devo dirvi che d'ora innanzi la vostra paga ve la dovrete guadagnare. I buoni tempi del vecchio Stott-Wartenheim sono ati. Chi non lavora non mangia. Verloc avvertì uno strano senso di debolezza nelle gambe massicce. Indietreggiò d’un o e si soffiò il naso rumorosamente. Era infatti sorpreso e allarmato. Il rugginoso sole di Londra, cercando di divincolarsi dalla sempiterna nebbia, gettò una tepida raggiera nell'ufficio privato del primo Segretario; e, nel silenzio che vi regnava, Verloc udì ronzar contro i vetri d’una finestra una mosca, la prima dell’anno, annunciante meglio di qualunque stormo di rondini l’imminente primavera. La vana agitazione di quel piccolo, energico organismo, irritò l’omone minacciato nella propria indolenza. Durante quella pausa, il signor Vladimiro formulò nella sua mente tutta una serie di sfavorevoli osservazioni nei riguardi del viso e della persona di Verloc. Quell' individuo era incredibilmente volgare, tozzo, e impudentemente inintelligente. Somigliava stranamente a un mastro piombaio, venuto a portar la fattura. In seguito a certe sue occasionali escursioni nel campo dell’umorismo americano, il primo Segretario d’Ambasciata era venuto a considerare quella particolare corporazione come la viva incarnazione della pigrizia e dell’incompetenza più fraudolente. Era quello, dunque, il famoso e fidato agente segreto, tanto segreto da non essere mai nominato altrimenti se non nella lettera delta nella corrispondenza ufficiale, semiufficiale e confidenziale del defunto Barone Stott-Wartenheim. il celebre agente le cui informazioni avevano il potere di cambiar date e programmi di viaggi reali, imperiali e granducali, e perfino di far sì clic non avessero luogo! Quell’individuo! E mentalmente, il signor Vladimiro s'indugiò in un enorme accesso d'ilarità, un po' per il proprio stupore, che giudicò ingenuo, ma soprattutto a spese dell’universalmente compianto Barone Stott- Wartenheim. Codesta defunta Eccellenza, che il favore del suo imperiale padrone aveva imposto come ambasciatore, nonostante la riluttanza di diversi ministri degli Affari Esteri, s'era fatto una fama di uccello di malaugurio. Sua Eccellenza aveva sconfitto immediatamente la rivoluzione sociale. Si riteneva scelto da una speciale dispensa per assistere alla fine della stessa diplomazia, — come dire la
fine del mondo — destinata ad essere travolta da un'orrenda sopraffazione democratica. I suoi dispacci profetici e pessimistici avevano divertito per anni ed anni i Ministeri degli Esteri. Pare che sul suo letto di morte (visitato dall'imperiale amico e padrone), abbia esclamato: « Infelice Europa! tu perirai per la morale stolta dei tuoi figli! » Doveva quindi essere fatalmente vittima del primo vagabondo capitatogli tra i piedi, pensò il signor Vladimiro, sorridendo vagamente a Verloc. E bruscamente esclamò: — Voi dovreste venerare la memoria del Barone Stott-Wartenheim. Il viso chino di Verloc palesò una fosca esasperazione. — Permettetemi di farvi osservare che sono venuto qui perché chiamato da una lettera perentoria. Durante i miei undici anni di servizio, ci sono venuto solo un paio di volte; certo, però, non mai alle uindici del mattino. Non è per nulla prudente farmi venire a quest’ora. Potrei essere visto, e allora starei fresco. Il signor Vladimiro scrollò le spalle. — Renderebbe impossibile ogni ulteriore utilità da parte mia, — continuò Verloc con calore. — Questo è affar vostro, — mormorò il signor Vladimiro con dolce brutalità. — Quando voi cessaste d’essere utile, cessereste anche di essere alle nostre dipendenze. Verreste liquidato, eliminato... — Sostò accigliato, in cerca d’una parola, e subito si schiarì con un bagliore di bellissimi denti. — Soffocato! Ancora una volta Verloc dovette reagire con ogni energia contro quel senso di debolezza che una volta fece dire a un povero diavolo, con felice efficacia d’espressione: « Il cuore m’è cascato nelle scarpe ». Quindi, cosciente di quel senso, rialzò il capo coraggiosamente. Il signor Vladimiro sostenne quello sguardo cupamente interrogante con perfetta serenità. Poi, spigliato, disse: — Noi vorremmo ora somministrare un buon tonico alla Conferenza di Milano. Il suo progetto di promuovere un'azione internazionale per la soppressione del delitto politico, rischia di naufragare miseramente come tanti altri. L’Inghilterra fa la sorda. Questo paese è semplicemente assurdo co’ suoi riguardi sentimentali per la libertà individuale. Pare incredibile che a tutti i vostri amici basti venir qua
per... — Però, se non fosse così, non potrei tenerli d’occhio. — Sarebbe molto meglio tenerli sotto chiave. Bisogna indurre l’Inghilterra a entrare nei ranghi. L’imbecille borghesia (in questo paese tiene il sacco alla plebaglia, che non cerca altro che di scacciarla dalle sue stesse case e farla crepar di fame sul lastrico. E dire che hanno ancora in mano il potere. Se almeno se ne sapessero servire per la loro sicurezza! Suppongo che anche voi ammettiate l'idiozia delle classi medie. Verloc lo ammise cupamente. — Sono privi d’immaginazione. Sono accecati dalla loro stupidissima vanità. Ed ora ci vorrebbe una buona scrollatina. È il momento psicologico per mettere al lavoro i vostri amici. Ho un'idea, e vi ho fatto chiamare appunto per comunicarvela. Gliela comunicò dall'alto delia sua superiorità, con palese condiscendenza, mostrando al tempo stesso d’ignorare le reali finalità, i pensieri e i metodi del mondo rivoluzionario, tanto da empire di costernazione il silenzioso Verloc. Confondeva cause con effetti più di quanto è scusabile, i più distinti propagandisti coi ciechi lanciatori di bombe; supponeva organizzazioni là dove, per la stessa natura delle cose, non vi poteva essere organizzazione alcuna; parlava ora del partito socialista-rivoluzionario come di un esercito perfettamente disciplinato, ora come della più sfrenata accozzaglia di banditi. A un certo punto, Verloc aprì la bocca per protestare, ma subito una larga, bianca e ben fatta mano si alzò per trattenerlo. E presto il suo attonimento crebbe al punto da non permettergli più neanche un tentativo di protesta. Stette quindi ad ascoltare, irrigidito in un’immobilità molto simile a quella della più profonda attenzione. — Una serie di attentati terroristici, — continuò tranquillamente il signor Vladimiro — anche se compiuti, non solo preparati, in questo paese, non basterebbe: non ci baderebbero. I vostri amici potrebbero appiccare il fuoco a mezzo Continente, senza che perciò l’opinione pubblica inglese abbia a lasciarsi influenzare a favore d’una legislazione repressiva universale. Qui non c’è nessuno che guardi di là del proprio cortile. Verloc si raschiò la gola, ma il cuore gli mancò e non disse nulla.
— Non è poi necessario che questi attentati siano particolarmente cruenti, — riprese il signor Vladimiro, come stesse tenendo una conferenza scientifica. — Basta che siano abbastanza allarmanti... efficaci. Per esempio, attentati contro edifici. Qual è l’attuale feticcio di tutta la borghesia? eh, signor Verloc? Verloc scostò le mani dai fianchi e alzò lievemente le spalle. — Ho capito: siete troppo pigro per pensare. Bene, statemi dunque a sentire. L’attuale feticcio della borghesia non è nè la monarchia nè la religione. Perciò i palazzi reali e le chiese sono senz’altro da scartare. Comprendete quello che voglio dire, signor Verloc? La costernazione e il disprezzo di Verloc trovarono sfogo in una battuta spiritosa : — Perfettamente. Ma che ne direbbe delle Ambasciate? Una buona filza d’attentati contro le diverse Ambasciate... — ma non potè continuare davanti al freddo, trafiggente sguardo del primo Segretario. — Molto spiritoso. Bravo! Ammetto che potrete colorire la vostra eloquenza nei congressi socialisti. Ma sappiate che questo ufficio non è un luogo adatto. Fareste molto meglio a tacere e ad ascoltare. Dal momento che d’ora innanzi sarete tenuto a fornirci fatti anziché frottole, fareste meglio a cercar di cavar profitto da quanto ora mi prendo la pena di spiegarvi. Non potreste aizzare alcuni vostri amici contro quell’idolo? Non fa parte di quelle istituzioni che devono essere spazzate per far posto all’avvento dell’F.P.? Verloc non disse nulla. Temeva che, se avesse aperto bocca, poi gli sarebbe sfuggito un ruggito. — Ecco quello che dovreste cercar di fare. Un attentato contro una testa coronata o un presidente farebbe ancora una certa sensazione, ma non più come una volta. Ormai questi attentati appartengono al concetto generale che il pubblico si fa dell’esistenza di tutti i capi di Stato. Se ne sono assassinati tanti, che ormai è quasi una faccenda convenzionale. Supponiamo ora un attentato contro una chiesa. Abbastanza orrendo a prima vista, indubbiamente, eppure non allarmante quanto potrebbe credere una persona di mentalità comune. Pur trattandosi d'un atto fondamentalmente rivoluzionario e anarchico, ci sarebbero sempre abbastanza idioti per dargli un carattere di manifestazione religiosa. Il che sciuperebbe l’effetto allarmante che occorre a noi. E così pure, allo stesso modo,
un eccidio in un ristorante o in un teatro, potrebbe sembrar prodotto da ioni apolitiche, dall'esasperazione d'un affamato o da un cieco odio sociale. Ormai, son cose già troppo sfruttate, non potrebbero più essere istruttive dimostrazioni pratiche di anarchia rivoluzionaria. Tutti i giornali hanno già pronto un frasario fatto apposta per spiegare manifestazioni di questo pensiero. L’arte di buttar bombe ha una sua propria filosofia, ed ora cercherò di spiegarvela secondo il mio punto di vista, che poi è quello che voi pretendete di aver servito per undici anni. E perchè mi possiate capire, cercherò anche d’esprimermi nel modo più semplice possibile. La sensibilità della classe che voi dovete attaccare, si lascia presto smussare. Considera il suo diritto di proprietà come cosa indistruttibile. Non si può contare nè sulla sua pietà nè sul suo terrore: sono emozioni che durano troppo poco. Ora, un attacco terroristico, per realmente influenzare l’opinione pubblica, dovrebbe andar oltre le solite intenzioni di vendetta e di terrorismo. Dovrebbe essere puramente distruttivo. Distruttivo, soltanto distruttivo, senza il più lieve sospetto d’altro obiettivo. Voi anarchici dovreste mostrare chiaramente che siete decisi di far un repulisti di tutto il creato sociale. Ma come far entrar nelle zucche delle classi medie questa idea evidentemente assurda, e in modo che non vi possa essere errore? Semplicemente col dirigere i vostri colpi su qualcosa che sia al di fuori delle comuni ioni dell’umanità. Non però su una qualunque di queste cose. Una bomba nella National Gallery farebbe un certo baccano. Ma non abbastanza. L’arte non è mai stata il loro feticcio. Sarebbe come rompere a qualcuno qualche vetro della facciata posteriore della sua casa. Per farlo saltare, bisogna almeno cercar di scoperchiargli il tetto. Certo che ci sarebbero strilli. Ma da parte di chi? Artisti, critici d’arte e simili: tutta gente di nessun conto. Nessuno bada a quello che dicono. Per contro, c’è la cultura, la scienza. Ogni imbecille con quattro soldi di rendita ci crede. Perché poi, non lo saprebbe dire, ma ci crede lo stesso. È il suo idolo sacrosanto. Tutti quei maledetti professori sono, in fondo, dei radicali. Fate loro sapere che quell’idolo deve pure far fagotto per lasciar libero il campo al Futuro del Proletariato. Un coro di strilli da parte di tutti quegli idioti intellettuali farebbe avanzar d’un buon o la Conferenza di Milano. Riempirebbero i giornali d’articoloni. Il loro sdegno sarebbe al di sopra d’ogni sospetto, non essendo in gioco nessun interesse materiale; e l’egoismo della classe in proposito finirebbe così per allarmarsi. Crede che la scienza sia in un certo qual modo la fonte stessa della sua materiale prosperità. Proprio! E l’assurda ferocia di tale dimostrazione l’impressionerebbe molto più che se si fe saltar tutta una strada o tutto un teatro pieni zeppi dei suoi stessi membri. In questi ultimi casi, direbbe: « Oh ! si tratta soltanto d'odio di classe. » Ma che dire di fronte a un atto di ferocia distruttiva tanto assurda da riuscire incomprensibile. inspiegabile,
quasi inconcepibile e realmente pazzesco? Solo la cieca pazzia è realmente terrificante, in «pianto non può essere placata nè con minacce, nè con persuasioni, nè con promesse. Io che vi parlo, sono una persona civile. Perciò non mi erà mai per la mente d’istigarvi a organizzare un semplice eccidio, neanche se per esso potessi giungere ai migliori risultati. Ma non c’è pericolo che un macello possa condurmi a buoni risultati. L’assassinio è sempre stato una prerogativa della nostra classe. Anzi, è diventato quasi un'istituzione. La dimostrazione deve essere rivolta contro la cultura, la scienza. Dato che la bomba è il vostro miglior mezzo d’espressione, sareste eloquenti per davvero gettandone una nel campo astratto delle pure matematiche. Ma purtroppo, questo non è possibile. Ora ho cercato d’istruirvi, di esporvi la superiore filosofia della vostra propria utilità, di additarvi l'obiettivo realmente utile. L’applicazione pratica di queste teorie interessa voi più di qualunque altro. Spetterebbe dunque a voi trovarne la migliore attuazione. Ma, dal momento che me ne sono dovuto occupar io, ho pensato anche all’aspetto pratico di tale questione. Che ne direste se si cominciasse, per esempio, con l’astronomia? Già da qualche tempo l’immobilità di Verloc, ritto accanto alla poltrona, somigliava a uno stato di coma — una specie di iva insensibilità, interrotta da lievi sussulti convulsi, simili a quelli dei cani visitati da un incubo. E fu infatti con un ringhio molto cagnesco ch’egli ripetè: — Astronomia? Era ancora sotto l’impressione dello sbalordimento prodotto dallo sforzo di seguire la rapida e incisiva parlantina di Vladimiro. Questa aveva sopraffatto il suo potere d’assimilazione. Lo aveva infuriato. Poi quel furore fu complicato da un senso d’incredulità. E d’un tratto gli albeggiò nel cervello che tutta quella faccenda doveva essere una burla. Il signor Vladimiro esibì i suoi denti bianchissimi in un largo sorriso che gli scavò due fossette nel viso pieno e tondo, inclinato, in una posa soddisfatta, sopra la cravatta rabbuffata. Il favorito della più intelligente società femminile aveva assunto la sua positura da salotto. Elegantemente seduto, sembrava tenere, tra l’indice e il pollice della bianca mano alzata, la stessa sottigliezza del proprio suggerimento. — Non ci può essere nulla di meglio. Un tale attentato congiungerebbe il massimo riguardo per la vita umana al più allarmante sfoggio di feroce imbecillità. Sfido qualunque giornalista a far credere al pubblico che un qualunque membro del proletariato possa aver un suo personale risentimento
verso l’astronomia. Neanche la fame potrebbe spiegare un atto simile, eh? E poi ci sarebbero altri vantaggi. Tutto il mondo civile ha sentito parlare di Greenwich. Perfino i lustrascarpe della stazione di Charing Cross ne sanno qualcosa. Capite? Le fattezze del signor Vladimiro, tanto note nel gran mondo per la loro perfetta urbanità, raggiarono d’una cinica soddisfazione, che avrebbe sorpreso moltissimo le intelligenti signore tanto squisitamente divertite dal suo spirito. — Sicuro! — continuò con uno sprezzante sorriso. — La distruzione del primo meridiano susciterebbe un urlo d’esecrazione universale. — Difficile a fare, — mormorò Verloc, sentendo ch’era l’unica cosa inoffensiva che potesse dire. — Che importa? Avete a vostra disposizione tutta la banda. Il fior fiore del paniere. Tra cui anche il vecchio terrorista Yundt. Lo vedo quasi tutti i giorni eggiare in Piccadilly nella sua cappa verde. E Mi- chaelis, l’apostolo... non vorrete dirmi che non sapete dove stia di casa. Se non lo sapete, posso dirvelo io, — e qui la sua voce divenne minacciosa. — Se v’immaginate d’essere voi solo sulla lista dei fondi segreti, vi sbagliate di grosso. A questa supposizione del tutto gratuita, Verloc rimosse lievemente i piedi. — E tutta la banda di Losanna?... eli? O che forse non si sono abbattuti qua come tante cavallette, appena s‘è cominciato a parlare della Conferenza di Milano? E’ un paese veramente assurdo. — Ci vorrà molto denaro. — disse Verloc, quasi come d’istinto. — Quello è un galletto che non si batte. — ritorse il signor Vladimiro con un accento inglese sorprendentemente genuino. — Riceverete la solita paga ogni mese, e non un soldo di più, finché non sarà successo qualcosa di serio. E se quella tal cosa non succede presto, non riceverete più nulla. Qual è la vostra occupazione ostensibile? Di clic cosa si suppone che vivete? — Ho una bottega. — Una bottega? Che genere di bottega?
— Giornali e oggetti di cartoleria. Mia moglie... — Eh? che avete detto? — interruppe il signor Vladimiro col suo asiatico accento gutturale. — Mia moglie, — rispose Verloc in tono alquanto più forte. — Sono ammogliato. — Questo poi non me lo sarei mai immaginato! — esclamò l’altro con una sorpresa per nulla finta. — Ammogliato! E con ciò un anarchico militante! Ma che razza di pazzia è questa? Suppongo che sia solo un modo di dire. Gli anarchici non si sposano. Chi non lo sa? Non possono. Sarebbe all’apostasia. — Mia moglie non è anarchica, — brontolò Ver- loc, più capo che mai. — E, d’altra parte, questo non vi riguarda. — Mi riguarda sì, invece, e come! Comincio a credere che voi non siate affatto l’uomo che ci occorre. Quel matrimonio deve avervi completamente screditato nel vostro mondo. Non avreste potuto farne a meno? È così che ci dimostrate il vostro attaccamento?... eh? Visto che ate in codesto modo da un affetto all’altro, la vostra utilità diventa piuttosto problematica. Verloc gonfiò le gote e sprigionò forte l’aria compressa: null’altro. Si era armato di pazienza. Ma era evidente che questa non poteva più resistere ad ulteriori prove. Il primo Segretario divenne bruscamente molto conciso, distratto, reciso. — Ora potete andare. Voglio un. attentato terroristico. Vi lascio un mese di tempo. Le sedute della Conferenza sono sospese, per ora. Prima che si riapra, qualcosa deve essere successo, qui. Altrimenti i nostri rapporti con voi cesseranno senz’altro. Mutò tono ancora una volta, con spigliata versatilità : — Vi consiglio di riflettere bene sulla mia teoria, signor... signor... Verloc, — disse con una specie di canzonante condiscendenza, agitando la mano verso l’uscio. — Puntare diritto sul primo meridiano. Voi non conoscete le classi medie come le conosco io. La loro sensibilità è esausta. Il primo meridiano.
Nulla di meglio, nulla di più facile. Si era alzato e, torcendo ironicamente le sottili e sensibili labbra, seguì nello specchio della caminiera il riflesso di Verloc, che, indietreggiando pesantemente, tenendo sempre in mano cappello e bastone, usciva dallo studio. L’uscio si richiuse. Il lacchè dai calzoni corti, bruscamente ricomparso nel corridoio, fece uscire Verloc per una porticina seminascosta in un angolo del cortile. Il portiere ignorò assolutamente l’uscita di Verloc, che ricalcò in senso opposto la via del mattino come in un sogno — un brutto sogno. Quel suo distacco dal mondo materiale fu tanto completo, che, sebbene l'involucro mortale non avesse punto accelerato la consueta andatura, quell’altra parte di lui, cui sarebbe ingiusto rifiutare l’immortalità, si trovò d'un tratto davanti all’uscio della bottega, come portata da ponente a oriente dall’ala d’un gran vento. Andò a sedersi dietro il banco. Nessuno comparve a turbare la sua solitudine. Stevie, ravvolto in un grembiulone verde, stava scopando e spolverando disopra, attento e coscienzioso, quasi ciò fosse per lui un gioco difficile e apionante; e la signora Aerine, avvertita in cucina dallo strepito del camlo fesso, si limitò ad andare all’uscio vetrato del retro, a scostarne la tendina e a guardar nella buia bottega. Vista la confusa e massiccia sagoma del marito, col cappello tutto di sghembo sulla nuca, tornò subito alle sue pentole. Un’ora dopo liberò il fratello Stevie dal grembiulone verde e gli ordinò di lavarsi mani e viso, nel tono perentorio che già da una quindicina d'anni usava a tal uopo — cioè da quando aveva cessato di attendere personalmente al viso e alle mani del ragazzo. Interruppe poi le proprie faccende per dare un’occhiata a quel viso e a quelle mani, che Stevie, accostandosi alla tavola di cucina, sottopose alla sua approvazione con un’aria di sicurezza che, però, nascondeva un perpetuo residuo d’ansietà. Una volta era la collera del padre che, con suprema efficacia, sanzionava questo rito; ma la placidità che Verloc dimostrava nella vita domestica, escludeva ogni possibilità di collera perfino nei riguardi del delicato sistema nervoso del povero Stevie. Teoricamente, però, era inteso che Verloc sarebbe stato colpito in modo indicibilmente penoso da qualsiasi mancanza di pulizia alla mensa familiare. Dopo la morte del padre, la coscienza di non dover più tremare per il suo povero Stevie, era stata per Winnie una gran consolazione. Non poteva veder maltrattare quel ragazzo. Tale vista la faceva impazzire. Da bambina, aveva spesso affrontato il padre con occhi fiammeggianti, per difendere il fratellino. Ma ora, più nulla nell’aspetto della signora Verloc poteva far supporre la medesima capace di manifestazioni ionali.
Terminò di apparecchiare. La famiglia prendeva i pasti nel retro. Ella si portò a piè della scala e chiamò il marito senza alzar la voce. Verloc non aveva cambiato posizione; sembrava che non avesse mosso arto per circa un’ora e mezzo. Si alzò pesantemente e si recò a tavola con indosso soprabito e cappello, e senza pronunciar parola. Il suo silenzio, di per se stesso, non aveva però nulla di sorprendentemente insolito in quel focolare nascosto nell’ombra d’una sordida strada, che il sole non visitava quasi mai, dietro la buia bottega stipata di abietta cianfrusaglia. Ma ora quel suo silenzio era così evidentemente assorto, che le due donne ne rimasero impressionate. Tacquero anch’esse e tennero d’occhio il povero Stevie, temendo che desse sfogo a un accesso di loquacità. Sedeva di fronte a Verloc, e rimase molto composto e cheto, guardando vacuamente dinanzi a se. La necessità d’impedire che si rendesse in qualche modo importuno al capo della famiglia, non era motivo di poca preoccupazione nell’esistenza delle due donne. « Quel ragazzo », come dolcemente se lo designavano tra loro, aveva cagionato molta ansietà quasi fin dal giorno della sua nascita. L’umiliazione che al defunto fornitore di viveri derivava dal fatto di aver per figlio un ragazzo talmente singolare, si manifestava con una propensione a trattamenti brutali, giacche era persona di fine sensibilità, e il suo dolore d’uomo e di padre era perfettamente genuino. Poi fu necessario impedire a Stevie di recar disturbo ai dozzinanti, che di regola sono persone piuttosto strambe e facili ad adirarsi, senza contare l’angoscioso problema del suo avvenire. Cupe visioni d’ospizio per incurabili ossessionarono la madre per anni e anni, nella saletta a pianterreno della decrepita casa di Piazza Belgravia. — Se tu non avessi trovato un marito così buono, — soleva dir ora alla figlia — non so davvero che cosa ne sarebbe stato di quel povero ragazzo. Verloc dava a Stevie quel tanto di attenzione che un uomo, non particolarmente tenero per gli animali, darebbe all’amato gatto della moglie. Entrambe le donne, però, ammettevano tra di loro che veramente non si poteva esigere di più. Quel tanto bastò per meritare a Verloc la riverente gratitudine della vecchia. Nei primi giorni, resa scettica dalle esperienze della sua squallida vita, soleva chiedere ansiosamente alla figlia: — Non temi, cara, che il signor Verloc possa un giorno essere stanco di vedersi d’attorno il nostro povero Stevie? Ma Winnie, invariabilmente, le rispondeva con una piccola mossa del capo. Solo una volta rispose con una vivacità alquanto minacciosa.
— Dovrà stancarsi di me, prima. Seguì un lungo silenzio. La madre, con le gambe su una sedia, parve cercar di raggiungere il fondo di quella domanda, la cui femminile profondità l'aveva molto intrigata. In realtà, non era mai riuscita a capire perchè Winnie avesse sposato Verloc. Era stato molto sensato da parte sua, e tutto era andato per il meglio; però, sua figlia avrebbe benissimo potuto trovar un marito di età più adatta. C’era stato un giovanotto, figlio d’un vicino macellaio, dal quale Winnie s’era lasciata accompagnare più volte e con manifesto piacere. Dipendeva da suo padre, è vero; ma la bottega faceva affari e le sue prospettive erano ottime. Aveva anche condotto la fanciulla a teatro. E giusto quand’ella cominciava a temere di dover apprendere, un giorno o l’altro, il loro fidanzamento (come avrebbe potuto provvedere da sola all’andamento di quella gran casa e al mantenimento di Stevie?), quell’idillio bruscamente cessò, e Winnie rimase per qualche tempo molto pensierosa. Ma poi, sopraggiunto Verloc a occupare provvidenzialmente la più bella camera del primo piano, non s’era più fatto parola del giovine macellaio. Era davvero stata una manifesta intromissione della Divina Provvidenza.
[1] Titolo dei poliziotti inglesi e americani.
III
— ...Ogni idealizzazione rende la vita più misera. Estetizzandola, le si toglie il suo carattere di complessità, si distrugge. Lascia questo compito ai moralisti, ragazzo mio. La storia è fatta dagli uomini, ma non dalle loro teste. Le idee generate dalle loro teste rappresentano una parte quasi insignificante nel corso degli avvenimenti. La storia è dominata e determinata dagli arnesi e dalla produzione: dalla forza delle condizioni economiche. Il capitalismo ha creato il socialismo, e le leggi fatte dal capitalismo per proteggere la proprietà hanno generato l’anarchia. Nessuno può dire quale aspetto potrebbe avere in avvenire l’organizzazione sociale. Dunque, perchè indugiare in fantasie profetiche? Tutt’al più, potrebbero riflettere l’opinione del profeta, senza che ne derivi alcun valore obiettivo. Lascia quel atempo ai moralisti, ragazzo mio. Michaelis, l'apostolo, parlava con voce uguale, una voce che ronzava attutita, soffocata dal volume di grasso che gli ricopriva il petto. Era uscito da una molto igienica prigione tondo come una botte, con un ventre enorme e gote gonfie, sbiancate, quasi trasparenti, come se, nei quindici anni della sua reclusione, i servi della società oltraggiata lo avessero rimpinzato di cibi ingrassanti, in un'umida e buia cella sotterranea. E, dalla sua liberazione in poi, non era riuscito a ridurre il suo peso neppure di un'oncia. Si diceva che una vecchia signora molto ricca lo avesse mandato in cura a Marienbad per tre stagioni consecutive, dove una volta avrebbe diviso la pubblica curiosità con una testa coronata, se la locale polizia non gli avesse ingiunto d'andarsene entro dodici ore. Ed ora la società continuava a martirizzarlo, vietandogli l'accesso a quelle acque salutari. Ma egli s'era rassegnato anche a questo. Col braccio, che non presentava nessun segno di articolazione, riposante sulla spalliera della sedia, egli si curvò lievemente sopra le brevi ed enormi cosce per sputare nel caminetto. — Sì. il tempo di pensare a certe cose non m'è mancato — soggiunse senza enfasi. —- La società ha concesso alle mie meditazioni tutto il tempo necessario.
Dall’altro lato del caminetto, nella poltrona imbottita di crine, solitamente riservata alla madre della signora Verloc, Karl Wundt ridacchiò torvo, con una nera smorfia della bocca sdentata. Questo sedicente terrorista era vecchio e calvo, con al mento un piccolo e niveo ciuffo di barbetta. Nei suoi occhi spenti sopravviveva una straordinaria espressione di subdola malevolenza. Quando, penosamente, si alzava, allungando una flaccida mano sformata dalla gotta, pareva un assassino moribondo che raccogliesse le sfuggenti sue forze per vibrare un’ultima pugnalata. Nell’altra mano gli tremolava un grosso bastone, sul quale si appoggiava camminando. — Ci vorrebbero, — disse fieramente — uomini risoluti a scartare ogni scrupolo nella scelta dei mezzi, forti abbastanza per portar degnamente il nome di distruttori, e mondi d’ogni traccia di quel rassegnato pessimismo che fa marcire il mondo. Nessuna pietà per nessuno, neppure per se stessi, e la Morte assunta una volta per sempre al servizio dell’umanità. Ecco quello che avrei voluto vedere. Squassò la piccola testa calva, dando una buffa vibrazione alla bianca barbetta. Ad estranei, le sue parole sarebbero riuscite quasi totalmente incomprensibili. La sua logora ione che, nella sua impotente fierezza, somigliava al vano eccitamento d’un vecchio sensuale, era pessimamente assecondata da una gola rinsecchita e da mascelle sdentate che sembravano voler acchiappar la lingua. Verloc, insediato nell’angolo del divano, all’altra estremità della saletta, emise due cordiali grugniti di assenso. Il vecchio terrorista volse lentamente il capo sul flaccido collo, da una parte all’altra. — E di uomini simili, non sono mai riuscito a metterne insieme neppur tre. Tanto ti basti pel tuo marcio pessimismo, — e ghignò all’indirizzo di Michaelis, il quale sciolse le grosse gambe accavallate, e bruscamente, in segno di esasperazione, cacciò i piedi sotto la sua sedia. Lui un pessimista! Assurdo! Anzi, oltraggioso! Era tanto lontano dal pessimismo, che già vedeva profilarsi all’orizzonte la fine d’ogni proprietà privata, logicamente, inevitabilmente, pel mero sviluppo dei suoi vizi inerenti. Sicuro, dato che la proprietà privata non poteva sussistere senza lotta, senza guerra. Era letale! Egli non aveva bisogno di eccitamenti emotivi per alimentar la propria fede, nè di declamazioni, collere, visioni di svolazzanti bandiere
sanguigne, metaforici soli di vendetta sorgenti sull’orizzonte d’una società ammansita. No, egli non aveva bisogno di ciò. Il suo ottimismo era basato sulla fredda ragione. Sicuro, ottimismo!... Il suo diligente ronzìo cessò. Poi, dopo aver alquanto annaspato, egli soggiunse: — Non vi sembra clic, se non fossi stato l'ottimista che realmente sono, avrei dovuto trovare, nei miei quindici anni di reclusione, un qualunque mezzo per tagliarmi la gola? E che anche in mancanza di tale mezzo, avrei sempre potuto rompermi la testa contro una delle quattro pareti della mia cella? Il suo breve respiro toglieva alla voce ogni calore, ogni animazione. Le pallide gote gli penzolavano come otri rigonfi: immobili, senza una vibrazione. Ma gli azzurri occhietti, quasi sepolti indie turgide orbite, avevano lo stesso sguardo di confidente arguzia, un po’ folle nella sua fissità, che dovevano aver avuto nella cella, quando l’indomito ottimista vi ava le notti a pensare. Karl Wundt gli si fermò davanti, con un lembo della sbiadita cappa verdognola buttato eroicamente sopra una spalla. Seduto dinanzi al fuoco, il compagno Ossipon, exstudente in medicina e principale redattore dei foglietti F. P., stiracchiò le gambe robuste, tenendo le suole delle scarpe ben esposte al calore delle fiamme, il fitto groviglio di capelli giallognoli gli dominava la faccia rossa, lentigginosa, che, per via del naso appiattito e della prominenza della bocca, sembrava uscita dal rozzo stampo della razza negra. I suoi occhi a mandorla sonnecchiavano languidamente sopra grossi zigomi. Portava una camicia di flanella grigia; e le estremità svolazzanti della cravatta di seta nera, gli pendevano sul petto abbottonato d’una giacca di lana pettinata. Teneva il capo sulla spalliera della sedia, esponendo largamente la gola; e, di quando in quando, si portava alle labbra una sigaretta in un lungo bocchino di legno, soffiando poi il fumo diritto verso il soffitto. Michaelis continuò a svolgere la propria idea, l’idea della sua solitaria reclusione, il pensiero nato nella cattività e cresciuto come» una fede rivelata da una visione. Parlava come tra sè, indifferente alla simpatia o all’ostilità dell’uditorio, indifferente anche alla loro presenza, tanto forte era rimasta in lui l’abitudine di pensare ad alta voce, contratta nella solitudine delle quattro pareti sbiancate della sua cella, nel silenzio sepolcrale del cieco pietrame ammucchiato presso un fiume, sinistro e laido come un colossale ossario per i disgraziati socialmente affogati.
Non sapeva però tener testa a discussioni, non perchè vi fossero argomenti capaci di scuotere la sua fede, ma perchè il solo fatto di udire un’altra voce lo sconcertava penosamente, confondendogli di colpo le idee — quelle idee che per tanti anni, in una solitudine mentale più arida del più torrido deserto, nessuna viva voce aveva mai combattute o commentate o approvate. Nessuno lo interruppe ora, e così potè ripetere il credo della propria fede, assoluta come un atto di grazia: il segreto del Destino scoperto nel campo materiale della vita, le condizioni economiche del mondo responsabili del ato e preconizzanti l’avvenire, la fonte prima d’ogni storia, d’ogni idea, che guida lo sviluppo mentale degli uomini e gli stessi impulsi delle loro ioni... Una brutale risata del compagno Ossipon mozzò di colpo la lunga tirata, paralizzando la lingua dell’apostolo e facendo vacillare la mite fiamma dei suoi occhietti, i quali si chio lentamente, come per richiamare i pensieri sbandati. Nella saletta retrostante alla bottega di Verloc. dove l’aria, col calore dei due becchi di gas e quello delle vampe del caminetto, era diventata addirittura irrespirabile, successe un profondo silenzio. Verloc, alzatosi dal divano con uno sforzo poderoso, aperse l’uscio che metteva in cucina, e così scoprì l’innocente Stevie, seduto, molto bravo e cheto, alla tavola, e tutto intento a tracciar circoli su circoli, innumerevoli circoli concentrici ed eccentrici: una vertiginosa ridda di circoli, che, con la loro intricata moltitudine di curve sovrapposte, l’invariabilità di forma e la confusione di linee incrociate, sembravano raffigurare il cosmico caos, simbolismo di un’arte pazza, tutta rivolta verso l’inconcepibile. L’artista non volse mai il capo; e, nel fervore dell’anima tutta assorta dall’opera, la schiena gli fremeva, e il suo esile collo, profondamente incavato alla base del cranio, sembrava in procinto di spezzarsi. Verloc, dopo un grugnito di sorpresa e di disapprovazione, tornò a sedersi sul divano. Alessandro Ossipon, molto alto nel suo sdrucito vestito di lana pettinata turchina, specie in quella saletta dal soffitto piuttosto basso, si sgranchì le membra anchilosate dalla lunga immobilità; poi, lentamente, bighellonò giù in cucina (c’erano due gradini), dove si fermò a guardare per disopra le spalle di Stevie. Tornò nella saletta, sentenziando in tono d’oracolo: — Molto caratteristico, molto tipico. — Che cosa? — brontolò interrogante Verloc.
L’altro, indifferente, spiegò quello che intendeva. con una punta di condiscendenza e accennando col capo la cucina. — Sintomi molto tipici di quella forma di degenerazione... Voglio dire quei disegni. — Allora, secondo te, quel ragazzo sarebbe un degenerato? — bofonchiò Verloc. Il compagno Alessandro Ossipon, detto Dottore, ex-studente in medicina, conferenziere scientifico di circoli socialisti, autore d’un trattato quasi medico (pubblicato in forma di libricino da pochi soldi e prontamente sequestrato dalla polizia) intitolato I Vizi Corrosivi delle Classi Medie, delegato speciale di più o meno misteriosi comitati rossi, e dirigente, insieme con Karl Yundt e Michaelis, la propaganda letteraria, volse sull’oscuro familiare di almeno due Ambasciate uno sguardo di sufficienza insopportabilmente denso, che solo l’abitudine di frequentare la scienza può dare alla banalità dei comuni mortali. — Scientificamente sì. È anzi un bellissimo tipo di quella particolare forma di degenerazione. Basta guardargli i lobi delle orecchie. Se hai letto Lombroso... Verloc, accigliato e quasi sdraiato sul divano, continuò a guardar giù sulla fine dei bottoni del suo panciotto; ma le gote gli si tinsero d’un lieve rossore. Anche la benché minima allusione alla scienza (un termine di per se stesso inoffensivo o di significato indefinito) aveva per lui lo strano potere d’evocare una visione definitivamente offensiva del signor Vladimiro, tal quale era, con una chiarezza quasi sovrannaturale. E questo fenomeno, che giustamente avrebbe potuto essere classificato tra le meraviglie della scienza, provocava in Verloc uno stato emotivo di terrore e di esasperazione, tendente ad esprimersi in filze di sonore bestemmie. Ma non disse nulla. Fu Karl Yundt che, implacabile fino all’ultimo rantolo, sentenziò : — Lombroso, è un somaro. Il compagno Ossipon sostenne il colpo di quella blasfema con un orrendo sguardo vuoto. E l’altro, con gli occhi spenti, senza più lustro, che rendevano più nera l'ombra addensata sotto l’ampia fronte bernoccoluta, e trattenendo la lingua tra le mascelle sdentate dopo ogni seconda parola, quasi la masticasse rabbiosamente, brontolò:
— Avete mai visto un idiota simile? Per lui, basta che uno sia carcerato per essere delinquente. Bella eh? E tutti quelli, allora, che l’hanno cacciato lì, forzato a star lì? Sicuro: forzato a star lì. E d’altra parte, che cosa è precisamente il delitto? Che ne sa lui, quell’imbecille che ha fatto strada, in questo mondo d'imbecilli, guardando gli orecchi e i denti di poveri diavoli disgraziati? Gli orecchi e i denti rivelano il delinquente. Ma davvero? E tutte le leggi, allora? Quei marchi roventi fabbricati da quelli che mangiano a crepapancia per difendersi da quelli che crepano di fame? Marchi roventi per bollare indelebilmente le loro vilissime pelli... eli? Non sentite, non udite sfrigolare la grossa pelle del popolo? Ecco il delinquente di cui il vostro Lombroso ha scritto tutte le sue cretinerie! Le gambe e il pomo del bastone gli sbatterono insieme con ione, mentre il busto, sempre eroicamente ravvolto dalla cappa, conservava la sua classica positura di sfida. Sembrava fiutar l’aria corrotta dalla crudeltà sociale, tender l’orecchio per coglierne il suono atroce. C’era nella sua espressione qualcosa di straordinariamente suggestivo. Quel decrepito veterano delle guerre a base di dinamite era stato, ai suoi tempi, un grande attore — attore di comizi, di riunioni segrete, di colloqui privati. Personalmente, quel famoso terrorista non aveva mai alzato un mignolo contro l’edificio sociale. Non era mai stato un uomo d’azione, e nemmeno uno di quegli oratori la cui torrenziale eloquenza travolge le masse nel tumulto schiumeggiante dei grandi entusiasmi. D’intenzioni più sottili, aveva preferito la parte dell’insolente e velenoso evocatore dei sinistri impulsi latenti nella cieca invidia, nell’esasperata vanità dell’ignoranza, nelle sofferenze della miseria, in tutte le nobili e forti illusioni delle giuste collere, della pietà e della rivolta. L’ombra di quel suo malefico dono permaneva in lui come l’odore di certi veleni nelle fiale che li hanno contenuti, e che, vuote ed inutili, aspettano di essere buttate sul mucchio delle cose che hanno terminato la loro parte. Michaelis, l’apostolo, sorrise vagamente con le labbra invischiate: e il suo faccione di luna piena s’abbassò sotto il peso d’un melanconico assenso. Egli pure era stato incarcerato. Anche la sua pelle aveva sfrigolato sotto il marchio rovente. Ma ormai il compagno Ossipon, detto Dottore, s’era riavuto. — Non capisci, — cominciò sprezzante, ma subito si fermò, intimorito dall’ombra tetra degli occhi cavernosi puntatisi contro di lui in uno sguardo cieco, come se solo il suono li avesse guidati. Rinunciò alla discussione con una lieve spallucciata.
Stevie, abituato a circolare inosservato, s’era alzato dalla tavola di cucina, raccogliendo i suoi disegni per portarseli a letto. Ed era giunto sulla soglia della saletta, giusto a tempo per ricevere in pieno petto la metafora di Karl Yundt. I fogli ricoperti di circoli gli sfuggirono dalle dita, ed egli rimase a guardare il vecchio terrorista, subitamente radicato al suolo dal morboso orrore e dal terrore che provava per ogni dolore fisico. Ben sapeva che l’applicazione d’un ferro rovente sulla pelle cagiona una sensazione molto dolorosa. Sgranò gli occhi avvampando di sdegno: doveva far terribilmente male. E la sua bocca si spalancò. Michaelis intanto, guardando fisso nel fuoco, aveva recuperato il senso d’isolamento necessario alla continuazione dei suoi pensieri. Il suo ottimismo tornò quindi a sgorgargli dalle labbra. Vide il capitalismo condannato fin dalla culla, nato con insito nel proprio sistema il veleno della competizione. I grandi capitalisti dovevano divorare i piccoli, concentrando in grandi masse la potenza e gli strumenti della produzione, perfezionando i processi industriali, e preparando, organizzando, arricchendo, approntando, nella loro folle ingordigia, il dolorante proletariato. Infine Michaelis pronunciò la gran parola: « Pazienza! » — e i suoi limpidi occhi azzurri, alzati al basso soffitto della saletta di Verloc, ebbero un'espressione di serafica veridicità. Stevie, sempre sull’uscio, parve immobilizzato in uno stato di perfetta ebetudine. Il viso del compagno Ossipon ebbe una smorfia di esasperazione. — Allora, tanto varrebbe lasciar fare, non far nulla. — Non voglio dir questo, — protestò dolcemente Michaelis. La sua visione di verità s’era fatta tanto intensa, che neanche il suono d'una voce altrui potè, questa volta, rompere il filo dei suoi pensieri. Continuò a guardar giri sulla rossa brace. La preparazione per l’avvenire era necessaria, c poteva darsi benissimo che il gran mutamento si effettuasse nello sconvolgimento d’una grande rivoluzione. Però, secondo lui, la propaganda rivoluzionaria era un lavoro molto delicato e di grande responsabilità. Con essa si educavano i futuri signori del mondo. Doveva quindi essere un’educazione non meno accurata di quella impartita ai principi ereditari. E bisognava procedere cautamente, timidamente, anzi, non potendosi conoscere gli effetti che da un dato mutamento economico avrebbero potuto derivare alla felicità, alla morale, all’intelletto e alla storia dell’umanità. Poiché la storia è fatta con strumenti, non con idee, e tutto si muta
quando mutano le condizioni economiche — arte, filosofia, amore, virtù, perfino la stessa verità! Un tizzone si sgretolò con un lieve scroscio di brace; e Michaelis, l’eremita visionario del deserto d’un penitenziario, s’alzò di scatto. Tondo e rigonfio come un areostato, aprì le sue brevi, tozze braccia come in un patetico e disperato tentativo di abbracciare e stringere al petto un rigenerato universo. Annaspò con fervore. — L’avvenire è certo come il ato: schiavitù, feudalismo, individualismo, collettivismo. Questo è l’enunciamento d’una legge, non una vuota profezia. Il compagno Ossipon accentuò i tratti africani del proprio viso, sporgendo le labbra in atto di disprezzo. — Frottole! — disse in tono abbastanza calmo. — Non c’è nè legge nè certezza, Sulla forca la propaganda istruttiva. Non è quello che il popolo sa o non sa che importa. L’unica cosa che importa, è lo stato emotivo delle masse. Senza emozione, non ci può essere azione. Sostò, poi soggiunse con modesta fermezza: — Ora vi lio parlato scientificamente... scientificamente... Eh? Che ne dici, Verloc? — Nulla, — ringhiò dal divano Verloc, che, provocato dall’aborrita parola, aveva semplicemente brontolato « Maledizione! » Vibrò allora la voce velenosa del vecchio terrorista sdentato. — Sapete come la chiamo io la natura delle presenti condizioni economiche? La chiamo cannibalesca. Sicuro, proprio così! Saziano la loro ingordigia con la carne palpitante e col caldo sangue del popolo... niente altro. Stevie ingoiò questa tremenda dichiarazione con un singulto udibile, e d’un subito, come per l’azione d’un rapido veleno, cadde seduto sui gradini dell’uscio. 54 —
Michaelis ebbe l’aria di non aver udito nulla. Le sue labbra sembravano questa volta incollate per davvero. Non un fremito gli ò sulle grevi gote. Cercò con occhi turbati il cappello tondo, e, trovatolo, se lo mise sul tondo testone. Il suo tondo corpo obeso parve galleggiar ballonzolando tra le sedie, sotto l’aguzzo gomito di Karl Yundt. Il vecchio terrorista, alzando un'incerta mano grifagna, diede un'aria spavalda al cappello a cencio die gli ombreggiava le cavità e i solchi del logoro viso. Si mise in moto lentamente, battendo col bastone ad ogni o. La sua uscita fu una lunga faccenda, poiché, tratto tratto, ristava come a pensare, e non si rimetteva in moto che quando veniva sospinto da Michaelis. Infine il dolce apostolo se lo prese a braccetto con fraterna cura; e dietro, con le mani sprofondate nelle tasche dei calzoni, il robusto Ossipon tirò un grande sbadiglio. Ln berretto turchino a visiera di cuoio verniciato, ben calcato dietro la gialla zazzera, gli dava l’aria di marinaio norvegese disgustato del mondo, dopo uno sfogo di clamorosi bagordi. Verloc accompagnò i suoi ospiti fuor del negozio, a capo scoperto, col soprabito sbottonato e gli occhi fissi al suolo. Chiuse la porta dietro le loro spalle con frenata violenza; girò la chiave e tirò il catenaccio. Non era contento dei suoi amici. Visti nella luce della filosofìa dinamitarda del signor Vladimiro, apparivano infatti irrimediabilmente futili. E Verloc, che fino allora, nella politica rivoluzionaria, s’era limitato alla parte di osservatore, non poteva, di punto in bianco, prendere l’iniziativa dell’azione, sia nei convegni di casa sua, sia in assemblee maggiori. Doveva andar cauto. Mosso dal giusto sdegno dell’uomo di oltre quarant’anni minacciato in quanto gli è più caro, — il proprio riposo e la propria sicurezza — si chiese con triste sarcasmo che cosa potesse sperare da uomini dello stampo di quel Karl Yundt, di quel Michaelis, di quell’Ossipon. Sostando nell’atto di spegnere il gas, egli discese in un abisso di riflessioni morali. E, influenzato dall’affinità del proprio temperamento, pronunciò il proprio verdetto: banda di fannulloni! A Karl Wundt pensava una vecchia dagli occhi cisposi, una donna strappata anni addietro a un amico, e poi più volte respinta nel rigagnolo. Ma per-fortuna gli era persistentemente ritornata, che altrimenti più nessuno l’avrebbe aiutato a scendere dall’omnibus alla cancellata di Green Park, dove quello spettro soleva crogiolarsi ogni mattina di bel tempo. E il giorno che la vecchia, ringhiante strega fosse venuta a morte, anche allo spavaldo spettro ambulante sarebbe toccato svanire. Poi, il senso morale di Verloc fu offeso anche dall’ottimismo di Michaelis, adottato da una vecchia e ricchissima signora, che ora gli aveva messo a disposizione un suo cottage in campagna. L’ex-galeotto poteva gironzolare su prati ombreggiati per giorni e
giorni, nell’ozio più delizioso e umanitario. Quanto a Ossipon, quel vagabondo non poteva certo patir privazioni, finché al mondo ci fossero state stolte donnine munite di libretti di risparmio. E Verloc, fondamentalmente identico ai suoi soci, trasse nella sua mente sottili distinzioni da differenze realmente insignificanti. Le trasse con vera compiacenza, poiché il senso della rispettabilità convenzionale era molto forte in lui, e superato soltanto dalla propria avversione per ogni sorta di lavoro riconosciuto — difetto di temperamento ch’egli aveva in comune con gran parte dei riformatori rivoluzionari d’un dato ordine sociale. Tali riformatori, infatti, non si rivoltano contro i vantaggi e le opportunità che offre quell’ordine sociale, ma bensì contro il prezzo di moralità corrente, di soggezione personale e di lavoro che per essi bisogna pagare. La gran maggioranza dei rivoluzionari sono nemici soprattutto della disciplina e del lavoro. Ci sono tra loro anche individui, al cui senso di giustizia questo prezzo appare mostruosamente enorme, odioso, opprimente, schiacciante, umiliante, vessatorio, insopportabile. Questi sono i fanatici. Ma la parte restante dei ribelli all’ordine sociale sono tali soltanto per opera della vanità, madre di tutte le illusioni nobili e vili, compagna dei poeti, dei riformatori, dei ciarlatani, dei profeti e degli incendiari. Ma, pur sprofondandosi per tutto un minuto nell’abisso della meditazione, Verloc non toccò il fondo di tali astratte considerazioni. Forse non ne era capace. Ad ogni modo, non ne ebbe il tempo. Fu dolorosamente respinto alla superficie dall’improvviso ricordo del signor Vladimiro, altro socio che, pure per una particolare, sottile affinità morale, era in grado di giudicare correttamente. E lo giudicò molto pericoloso. Un’ombra d'invidia s'insinuò nei suoi pensieri. Quelli potevano poltrire a loro bell’agio; essi non avevano un signor Vladimiro alle calcagna e potevano aggrapparsi a donne; mentre la sua donna, doveva mantenerla lui... A questo punto, per una semplice associazione d’idee, egli si trovò a faccia a faccia con la necessità di dover, tosto o tardi, quella sera, decidersi ad andare a letto. Perchè non andarvi ora, subito? Sospirò. Quella necessità non gli giunse gradevole come normalmente avrebbe dovuto giungere a un uomo della sua età e del suo temperamento. Temeva il demone dell’insonnia, si sentiva come segnato per esserne la preda. Alzò un braccio e girò la chiavetta del gas. Una chiara striscia di luce s’allungava dall’uscio socchiuso del retro, fin sopra il banco, e gli permise di calcolare con un’occhiata l'ammontare delle monete raccolte nella cassetta. Ce n’erano pochine davvero; e per la prima volta da quando aveva aperto bottega, Verloc fece, a occhio e croce, un inventario della
medesima. I risultati furono tutt’altro che confortanti. Era entrato in commercio senza alcuna ragione commerciale. Aveva scelto quel ramo speciale, unicamente per una sua istintiva propensione a transazioni equivoche, che non richiedono fatica. D’altra parte, esso aveva il vantaggio di non toglierlo dalla sua propria sfera, quella vigilata dalla polizia. Anzi, gli dava in quella sfera un carattere ufficialmente riconosciuto; e siccome aveva relazioni inconfessabili che lo rendevano tranquillo nei confronti della polizia, gli derivava da quella situazione un reale vantaggio. Però, come mezzo di sussistenza, era di per se stesso assolutamente insufficiente. Tolse la cassetta dal banco e, ando nel retro, vide che Stevie era ancora da basso. « Che diavolo ci sta mai a fare? » si chiese Verloc. cc Che significa codesta bizzarria? » Guardò interrogativamente il cognato, ma non gli chiese nulla. I suoi rapporti con Stevie si limitavano a un casuale « Le scarpe », mormorato la mattina, dopo colazione; e anche ciò, più che un ordine diretto o una richiesta, era una lontana comunicazione d’un semplice bisogno. Constatò con qualche sorpresa che realmente non sapeva che cosa dirgli. Rimase fermo in mezzo alla saletta e guardò nella cucina in silenzio. Non sapeva nemmeno che cosa sarebbe successo se avesse detto qualche cosa. E ciò gli parve molto singolare, dato il fatto, subitamente balenatogli alla mente, che gli toccava mantenere anche quell’individuo. Fino allora, non aveva mai concesso un attimo di riflessione a quel particolare aspetto dell’esistenza di Stevie. Realmente non sapeva come parlare a quel ragazzo. Stette a guardarlo gesticolare e parlare in cucina. S’aggirava intorno alla tavola come una belva in gabbia. Verloc si provò a dirgli: — Se te ne andassi a letto, non sarebbe meglio? Ma non ebbe alcun effetto. Abbandonando quindi la contemplazione del cognato, attraversò la saletta con o stanco, portandosi dietro la cassetta. La causa della stanchezza che sentiva nel salire le scale essendo puramente mentale, egli s’allarmò dell’inspiegabile suo carattere. Temette di essere malato. Ristette sul buio ripiano a esaminare le proprie sensazioni. La chiarezza di queste, però, fu turbata da un lieve e continuo russare pervadente l’oscurità. Quel suono proveniva dalla camera occupata dalla
suocera. Un’altra esistenza che gli toccava mantenere, pensò, e con questo pensiero entrò nella sua camera da letto. La signora Verloc s’era addormentata, lasciando la lampada (non e’era gas al primo piano) accesa sul comodino. La luce rabbuiata dal paralume rendeva abbagliante il bianco guanciale, schiacciato dal peso del capo che riposava ad occhi chiusi e con la bruna chioma ritorta per la notte in tante trecce. Ella si svegliò col suono del proprio nome nell’orecchio, e si vide sovrastata dal marito. — Winnie! Winnie! Dapprima ella non si mosse; rimase a guardare molto cheta la cassetta in mano di Verloc. Ma quando comprese che suo fratello stava « facendo il matto da basso », balzò a sedere sulla sponda del letto. 1 suoi piedi nudi, come sbucanti dal fondo d’un sacco a maniche di tela grezza, strettamente chiuso al collo e alle caviglie, tastarono sullo scendiletto in cerca delle pianelle, mentre il suo sguardo s’alzava a interrogare il viso del marito. — Non so come trattarlo, — spiegò burbero Verloc — ma non mi fido a lasciarlo da basso tutto solo, con le luci. Ella non disse nulla. Attraversò rapidamente la stanza, e l’uscio si richiuse sulla sua bianca figura. Verloc depose la cassetta sul comodino, e cominciò a spogliarsi, lanciando il soprabito su una sedia lon- lana. La giacca e il panciotto seguirono la stessa traiettoria. Egli s’aggirò per la stanza con le sole calze, e la sua massiccia figura ò e riò, con le mani nervosamente affaccendate alla gola, nello specchio dell’armadio della moglie. Poi, liberatosi le spalle dalle bretelle, alzò violentemente la persiana a saracinesca, e premette la fronte contro il vetro diaccio della finestra — un fragile diaframma di vetro teso tra lui e tutto l’enorme cumulo di pietre, tegole e mattoni, freddi, neri, bagnati, infangati, inospitali, cose di per se stesse brutte e ostili all’uomo. Egli sentì la latente ostilità di tutto l’ambiente esterno con un’intensità che rasentava una reale angoscia fisica. Non c’è occupazione che, quando venga interrotta, lasci tanto smarrito come quella dell’agente segreto. È come sentirsi il proprio cavallo cader morto sotto di sè, in mezzo a un’arida e deserta -pianura. Tale paragone si presentò anche a Verloc, poiché, ai suoi tempi, aveva fatto imbizzarrire più d’un cavallo reggimentale, e quindi conosciuto la sensazione di
vedersi lì lì per cadere. L’avvenire gli si prospettava non meno nero del vetro contro il quale premeva la fronte. E d’un subito il viso del signor Vladimiro, accuratamente rasato e spiritoso, comparve tutto raggiante di roseo benessere, come un rosso sigillo impresso su quella fatale caligine. L’effetto di questa luminosa e mutilata visione fu così orrendamente fisico, che Verloc indietreggiò di colpo, lasciando ricadere la persiana con gran fracasso. Sconvolto, imito e con l’apprensione d’altre visioni simili. \ idc la moglie rientrare e rimettersi a letto con nn calmo fare abitudinario, die lo fece sentire inesorabilmente solo in questo mondo. Ella si manifestò sorpresa di vederlo ancora al/.ato. Verloc si ò la mano sulla fronte madida e brontolò : — Non mi sento molto bene. — Mal di testa? — No, nn po' dappertutto. La signora Verloc, con tutta la placidità di un’esperta massaia, espresse la sua opinione circa la causa di quel malessere, e consigliò i soliti rimedi; ma suo marito, come radicato nel mezzo della stanza, scosse tristemente il capo chino. — Prenderai freddo, stando lì. Egli si riscosse con uno sforzo, terminò di spogliarsi e si coricò. Fuori, nella cheta e angusta via, un o avanzò cadenzato e dileguò senza fretta, come se quel ante si fosse proposto di camminare per tutta l’eternità, di lampione in lampione, lungo una notte senza fine. Poi, subito, il monotono tic tac del vecchio pendolo di sotto divenne distintamente percettibile. La signora Verloc, distesa supina e con gli occhi volti al soffitto, osservò: — Incassi magri quest’oggi. Verloc, nella stessa posizione, si raschiò la gola come per dir qualcosa d’importante; ma chiese semplicemente: — Hai spento il gas, da basso?
— Sì, l’ho spento, — e dopo una pausa che durò per tre battiti del pendolo, soggiunse: — Quel povero ragazzo è molto agitato stasera. Verloc non si diede alcun pensiero dell’agitazione di Stevie, ma sentiva di essere orrendamente sveglio, e temeva di affrontare il buio e il silenzio che avrebbero seguito l’estinzione della lampada. Quel timore lo portò a osservare che Stevie non aveva badato al suo consiglio di andare a letto. Ella, dando nella trappola, si affrettò a dimostrargli diffusamente che in questo caso non si trattava di sfrontatezza, ma semplicemente di agitazione. Non c’era in tutta Londra ragazzo più volonteroso, più docile di Stephen, non uno più affezionato, più ansioso di piacere, nessuno più utile di lui, finché nessuno veniva a sconvolgere la sua povera testa. Volgendosi dalla parte del marito immobile, ella si sollevò su un gomito e lo supplicò di credere che Stevie era realmente un utile membro della famiglia. Quell’ardore di proteggente comione, morbosamente esaltata nella sua infanzia dalle sofferenze d’un altro fanciullo, tinse le gialle gote della donna d’un lieve rossore, e ne fece sfavillare gli occhioni sotto le palpebre scure. Così ella parve molto ringiovanita, giovine come era la Winnie d’una volta, ma molto più animata di quanto la Winnie di piazza Belgravia si permetteva di apparire nei suoi rapporti coi signori pensionanti. Le preoccupazioni di Verloc, però, gl’impedirono di comprendere checchessia di quanto la moglie gli stava dicendo. Era come se la voce di lei avesse vibrato dall’altra parte d’un grosso muro. E fu solo il suo aspetto che lo richiamò a sé. Egli stimava la moglie, e quel sentimento, stimolato da qualcosa di molto simile all’emozione, diede un altro pungolo all’angoscia della sua mente. Quand’ella tacque, egli si agitò con disagio, e disse ancora: — Son già due o tre giorni che non mi sento molto bene. Può darsi benissimo ch’egli avesse pronunciato queste ultime parole per giungere a una completa confessione; ma ella lasciò ricadere il capo sul guan ciale e, tornando a guardare in alto, verso il soffitto, riprese a dire: — Quel povero ragazzo deve aver sentito ancora qualcosa dei discorsi dei tuoi amici. Avessi saputo che sarebbero venuti, lo avrei mandato a letto prima. Pare che qualcuno abbia parlato di gente che mangia la carne e beve il sangue d'altra gente. Che gusto c’è a parlar di cose simili? Vi fu un misto di sdegno e disprezzo nella sua voce, ma questa volta il marito
pareva ascoltarla. — Dillo a Karl Wundt, — brontolò cupo. Ed ella, di rimando, e molto recisamente, definì Karl Yundt un « ripugnante vecchiaccio ». Dichiarò apertamente la sua simpatia per il mite Michaelis. Ma del robusto Ossipon, alla cui presenza si sentiva sempre a disagio, dietro un atteggiamento di pietrosa riservatezza, non disse nulla. Continuò, invece, a parlare del fratello, clic per tanti anni era stato oggetto di cure e di timori da parte sua: — Non è fatto per sentire simili discorsi. Crede clic tutto quel che si dice sia vero. Non sa distinguere. E poi ci fa delle malattie. Verloc non fece alcun commento. — Poco fa, quando sono scesa, m’ha guardata come se non mi riconoscesse più. Il cuore gli batteva come un martello. Non è colpa sua s’è tanto sensibile. Ho svegliato la mamma e l’ho mandata a fargli compagnia. Non è colpa sua. Basta che lo lascino stare, perché sia un bravissimo ragazzo. Verloc non fece alcun commento. — Vorrei che non fosse mai stato a scuola. Continua a leggere quei giornalacci che sono in vetrina. E ogni volta che li legge, diventa tutto rosso. Per quello che ci rendono, poi! Non se ne vende una dozzina in tutto il mese. Servono soltanto a ingombrare la vetrina. E tutti quelli F. P. che il signor Ossipon ci porta ogni settimana da vendere per mezzo denaro l'uno? Io, per conto mio, non darei mezzo denaro neanche per tutto il pacco. Sono cretini... ecco quello che sono. Non c’è mercato per roba simile. L’altro giorno, Stevie ne ha letto uno che parlava d’un ufficiale tedesco, il quale avrebbe strappato a una recluta l’orecchio coi denti, senza poi buscarsi nulla. Che bruto! Non c’è stato verso di calmare quel povero ragazzo. Era una storia da far ribollire il sangue. Ma che gusto c’è a stampar roba simile? Non siamo schiavi tedeschi, noi, grazie a Dio. Non è affar nostro... vero? Verloc non rispose nulla. — Ho dovuto nascondere il coltello di cucina, — riprese a dire la signora Verloc, ma ormai con voce alquanto assonnata. — Gridava, pestava i piedi e
singhiozzava. Se si fosse trovato davanti a quell’ufficiale, lo avrebbe scannato come un porco. Certa gente, non merita proprio alcuna pietà. La sua voce cessò, e l'espressione dei suoi occhi fissi divenne vieppiù contemplativa e velata durante la lunga pausa. — Stai meglio, caro? — chiese con voce fievole, lontana. — Posso spegnere, ora? Verloc, convinto che non poteva esservi sonno per lui, rimase muto ed inerte nell’orrore del buio. Infine, fece un grande sforzo, e con voce atona disse: — Sì, spegni pure.
IV
La maggior parte della trentina di tavolini ricoperti da rosse tovaglie a fiorami bianchi stava schierata ad angolo retto contro lo scuro intavolato della sala sotterranea. Bracci di bronzo con molti globi elettrici si alzavano sotto il soffitto leggermente incurvato a vòlta, e attorno attorno, lungo le pareti, correvano affreschi piatti e grigi, raffiguranti cacce e scene campestri in costumi medievali. Valletti in giustacuori verdi brandivano coltelli da caccia ed alti boccali traboccanti di schiumeggiante birra. — Credo che tu sia l’unica persona che sappia qualcosa di questa faccenda, — disse il robusto Ossipon, protendendosi tutto con le braccia sul tavolino e i piedi sotto la sedia. I suoi occhi fissi brillavano di avida curiosità. Vicino all’uscio, un pianoforte verticale, fiancheggiato da un paio di palme, esegui bruscamente, da solo e con aggressivo virtuosismo, un'aria di valzer. Il baccano fu assordante. Quando cessò, bruscamente come aveva cominciato, l’occhialuto e smilzo ometto che sedeva di fronte ad Ossipon, dietro un massiccio boccale pieno di birra, pronunciò pacato ciò clic dal suono parve una frase qualunque. — Per principio, quello clic uno di noi sa o non sa d’una qualunque faccenda, non deve essere oggetto di curiosità per altri. — Già, per principio, — ammise il compagno Ossipon sottovoce. Col suo florido faccione, tra le palme, continuò a guardar fisso, mentre lo smilzo ometto occhialuto tranquillamente trangugiava un sorso di birra e quindi riponeva il boccale sul tavolino. T suoi immensi orecchi, piatti piatti, si scostavano parecchio dal cranio, clic a Ossipon sembrava tanto fragile da poter essere schiacciato tra indice e pollice; le sue smunte gote, d’un color grasso, malato, erano solo insudiciate da un paio di scure fedine miseramente rade; e la sua fronte sembrava come sorretta dai cerchietti di ferro degli occhiali. La pietosa inferiorità di tutto quel fisico era resa grottesca da un atteggiamento di suprema sicumera. Al solito, le sue frasi erano brevi, e il suo silenzio
particolarmente impressionante. Ossipon emise di nuovo un brontolìo appena intelligibile d’infra le palme. — Hai girato molto, oggi? — No, son rimasto a letto fino a mezzogiorno. Perchè? — Oh, nulla, — fece Ossipon, guardando fisso e fremendo dal desiderio di scoprir qualcosa, ma evidentemente intimidito dalla sopraffacente aria d’indifferenza dell’ometto. Quando parlava con quel suo compagno (cosa che non gli capitava spesso) il grande Ossipon soffriva d’uno strano senso di nullità morale e anche fisica. — Sei venuto qui a piedi? — No, in omnibus, — rispose l’ometto abbastanza prontamente. Abitava lontano, a Islington, in una casetta in fondo a una squallida strada, lorda di paglia e di carta straccia, dove, all’uscita della scuola, una banda assortita di ragazzetti correvano con un chiasso senza gioia. La sua stanzetta, che dava sul cortile, ed era caratterizzata da un armadio eccezionalmente grande, gli era affittata mobiliata da due zitellone, sarte in modo molto modesto, con una clientela altrettanto modesta di servette. Egli aveva applicato un grosso lucchetto all’armadio, ma, a parte ciò, era un pensionante modello, che non dava nessun disturbo e non richiedeva quasi alcun servizio. La sua particolare bizzarria consisteva nel voler essere presente durante il rigoverno della stanza, e nel chiudere a chiave l’uscio ogni volta che usciva. Ossipon immaginò quei tondi occhialoni cerchiati di ferro brunito, progredenti per le strade in cima a un omnibus, il loro freddo luccichio dardeggiante qua e là sulle facciate delle case, o sull’inconscia folla fluente lungo i marciapiedi. L’ombra d’un sorriso sghembo alterò la linea delle sue grosse labbra, al pensiero di come si sarebbero comportate «pialle case e quella gente dinanzi a quegli occhiali, se avessero saputo. Che panico! Poi mormorò, con aria interrogativa: — Oui da un pezzo? — Un’ora o poco più, — rispose l'altro indifferente, trangugiando un altro sorso di nera birra.
Tutti i suoi movimenti, il modo di afferrare il boccale, di portarselo alla bocca, di riporlo sul tavolino e d'incrociare poi le braccia, avevano qualcosa di risoluto, di preciso, clic, per effetto di contrasto, faceva apparire il grande e muscoloso Ossipon l’incarnazione stessa dell'indecisione. — Un’ora? Allora, forse non avrai sentito la notizia che ho sentita io. poco fa, sulla strada. L’ometto scosse il capo appena percettibilmente, in segno di diniego. F> siccome non palesava alcuna curiosità. Ossipon soggiunse che aveva sentito quella notizia giusto quando stava per entrar in «piel locale. Un giornalaio gliel’aveva gridata sotto il naso, e, non essendovi punto preparato, era rimasto molto sorpreso. Quindi era sceso lì con la gola molto secca. — Non m’aspettavo di trovarti «pia. Peni, mi par strano che proprio tu non ne sappia nulla. I suoi occhi, molto lustri, erano nervosamente contratti. — Proprio tu, — ripetè provocante. Quell’evidente ritegno dimostrava un'incredibile, inspiegabile timidezza, da parte dell’omone, di fronte all’ometto, che di nuovo si portò il boccale alla bocca, bevve e lo ripose coi soliti movimenti risoluti e precisi. Niente altro. Ossipon, dopo aver invano atteso una parola o un segno, fece uno sforzo per assumere un’aria indifferente, e, abbassando anche più la voce, chiese: — La tua roba la dai a chiunque te la chieda? — La mia regola m’impone di non rifiutarla mai a nessuno... finché me ne rimane un pizzico. — Un principio? — Un principio. — E tu credi che sia buono? I grandi occhiali rotondi, che davano un’aria di fissa sicurezza alla faccia
giallognola, guardarono Ossipon come insonni occhi senza palpebre, fiammeggianti d’un fuoco diaccio. — Perfettamente. Sempre. In ogni circostanza. Perchè no? Che cosa mi dovrebbe trattenere? Perchè dovrei pensarci due volte? Ossipon annaspò, ma in modo discreto. — Allora ne daresti anche a un teck, se mai uno venisse a chiedertene? L’altro sorrise a fior di labbro. — Lascia che ci si provino. Mi conoscono, è vero, ma anch’io li conosco. Non c’è pericolo che mi vengano vicino. No, non loro. Le sue sottili, livide labbra si strinsero fortemente. — Ma potrebbero mandarti qualcuno, ottener la tua roba così, capisci? E poi, con la prova in mano, arrestarti. — Prova di che? Di vendere esplosivi senza licenza? Queste parole furono accompagnate da un ghigno sarcastico, che però non alterò l’espressione del viso affilato, malato. — Non credo che qualcuno possa aver voglia di venire ad arrestarmi. Non credo che possano trovar qualcuno da mandare ad arrestarmi. Neanche il migliore. Non uno. — Perchè? — Perché sanno benissimo che ho sempre addosso un campioncino della mia merce. L’ho sempre qui — e si toccò leggermente un lato della giacca. — In una bottiglietta di vetro molto grosso. — Già, ho sentito dire, — fece Ossipon, con una punta di stupore. — Ma non sapevo clic... — Anche loro lo sanno, — interruppe secco secco l'ometto, raddrizzandosi contro la spalliera verticale della sedia, che sorava di parecchio la sua franile
festa. - Mai nessuno mi arresterà. Non ne varrebbe la pena. Per trattare con un uomo come me, ci vorrebbe uno schietto, nudo, inglorioso eroismo. Di nuovo le sue labbra si serrarono con uno scatto risoluto. Ossipon trattenne una mossa d’impazienza, e ritorse: - O un po' di fegato, ... semplice ignoranza. Basterebbe mandar uno che non sappia che in tasca ne hai abbastanza da far saltar te e tutto quel che ti sta attorno per un raggio di sessanta yarde. — Non ho mai sostenuto che non potrei essere eliminato. Ma non sarebbe in arresto. E neppure sarebbe così semplice come sembra. — Dai! non esserne tanto sicuro. Che potresti fare se una mezza dozzina di loro ti saltasse alle spalle in mezzo a una strada? Potresti far qualcosa anche se ti tenessero ferme le braccia? — Sì, potrei. D’altra parte, non giro mai per le strade a notte fatta. Inoltre, tengo sempre nella sinistra la pera di gomma che ho nella tasca dei calzoni. Basta una piccola pressione su quella pera per far scoppiar la bottiglietta, è lo stesso principio che scopre e ricopre istantaneamente l’obiettivo degli apparecchi fotografici. C’è un tubetto che va su... Socchiuse la giacca con una piccola mossa, così da lasciar intravedere a Ossipon un tubetto di gomma, simile a un sottile serpentello, che, sbucando da sotto l’ascella, tuffava nella tasca interna della giacca. I suoi panni, d’un indicibile color bruno, erano sdruciti, macchiati, pieni di polvere nelle pieghe, e con occhielli tutti laceri. — Il detonatore è in parte meccanico in parte chimico, — spiegò con casuale condiscendenza. — Naturalmente, sarà istantaneo, — opinò Ossipon, con un lieve brivido. — Non ancora, — confessò l’altro, con una riluttanza che parve torcergli la bocca dolorosamente. — Ci vuole una buona ventina di secondi perchè la pressione sulla pera determini l’esplosione. — Fiuu! — fece Ossipon, completamente sbalordito. — Venti secondi! Orrendo! E tu credi di poterci resistere? Io impazzirei...
— Quello che faresti tu, non importa. Naturalmente, è un punto debole di questo particolare sistema, che però deve servire soltanto a me. Il guaio sta sempre nel modo di far esplodere. Ora sto cercando d’inventare un detonatore che si adatti a ogni genere d’azione, anche alle più improvvise, imprevedibili. Un meccanismo variabile e insieme perfettamente preciso. Un detonatore veramente intelligente. — Venti secondi! — mormorò ancora Ossipon. — Perdio! E poi... Con una lieve mossa del capo, il luccichio degli occhiali parve misurare le proporzioni della birreria sottostante al famoso Ristorante Sileno. — Nessuno in questa sala ne scamperebbe. Nemmeno quella coppia laggiù, sulla scala. Il piano, a piè della scala, strepitò una mazurca con bronzea impetuosità, come azionato da un volgare e impudente fantasma. I tasti s’abbassavano e si rialzavano misteriosamente. Poi, d’un tratto, tutto tornò cheto. Per un momento, Ossipon immaginò quel locale sfavillante di luci tramutato in un orrendo cratere eruttante fumo. macerie e brandelli di corpi umani. E quella sua visione di rovina e di morte fu così distinta, eli egli rabbrividì ancora. L’altro osservò, con aria di calma sufficienza. — Nei momenti estremi, solo il carattere può salvare. E pochi in questo mondo hanno un carattere come il mio. — Come mai ci sei arrivato? — Forza di personalità, — rispose Tallio, senza alzar la voce; e queste parole, dette da quell'essere così manifestamente miserabile, forzarono il robusto Ossipon a mordersi il labbro inferiore. — Sicuro, forza di personalità, — ripetè con ostentata calma. — Ilo il mezzo di rendermi micidiale, ma questo, di per se stesso, non servirebbe a proteggermi. Quel che più conta, è la fede che quella gente nutre nella mia volontà di servirmi di questo mezzo. Una fede assoluta. Perciò sono realmente micidiale. — Ma ci sono individui di carattere anche tra loro. — Possibile, ma sempre a un grado inferiore, lo, per esempio, non mi lascio impressionare da essi. Perciò devono essere inferiori. E infatti non potrebbero essere diversamente. Il loro carattere è basato sulla morale convenzionale. Si
regge sull’ordine sociale. Il mio, invece, è libero d’ogni artificio. Essi sono legati da ogni sorta di convenzioni. Stanno dalla parte della vita, che in questo caso è un fatto storico circondato da ogni sorta di ritegni e di considerazioni, un fatto complesso, vulnerabile, che può essere attaccato da ogni parte; mentre io sto dalla parte della morte, che non conosce ritegni e non può essere attaccata. Quindi la mia superiorità è evidente. — Un punto di vista alquanto trascendentale, — opinò Ossipon, osservando il freddo luccichio dei rotondi occhiali. — Ho sentito Karl Wundt dir qualcosa di molto simile pochi giorni fa. — Karl Wundt, — mormorò l’altro sprezzante — il delegato del Comitato Rosso Internazionale, è stato per tutta la vita un’ombra smargiassante. Sono tre i vostri delegati, vero? Non voglio definire gli altri due, dal momento che tu sei uno di essi. Ma non è quello che dite che importa. Siete fatti apposta per rappresentare la propaganda rivoluzionaria. Ma il peggio si è che, oltre a non saper pensar meglio d’un droghiere o d’un giornalista qualunque, siete anche totalmente sprovvisti di carattere. Ossipon non potè trattenere uno scatto di sdegno. — Che altro pretendi da noi? E tu, che cosa vuoi avere? — Un detonatore perfetto, — rispose l’altro perentoriamente. — Perchè fai quella faccia? Vedi bene che non puoi neanche sentir alludere a qualcosa di conclusivo. — Non faccio nessuna faccia, — ribattè seccato Ossipon, con un brontolìo d’orso. — Voi rivoluzionari, — continuò l’altro con calma noncuranza — siete schiavi della convenzione sociale che ha paura di voi; suoi schiavi non meno dei poliziotti che la difendono. E per forza lo siete, dal momento che volete rivoluzionarla. Essa guida i vostri pensieri, e quindi anche le vostre azioni. E perciò i vostri pensieri e le vostre azioni non possono mai essere conclusivi. Tacque tranquillo, con aria di ermetico, sterminato silenzio; ma subito riprese a dire: — Non valete meglio delle forze che vi si schierano contro; della polizia, per
esempio. L’altro giorno, mi sono imbattuto nel Capo Ispettore Heat, all’angolo di Tottenham Court Road. M’ha guardato fisso. Ma io non l’ho guardato. Infatti, perchè mai avrei dovuto guardarlo? Stava pensando a molte cose, ai suoi superiori, alla sua reputazione, alla Corte d‘Assise, ai giornali, e a cento altre cose. Io. invece, pensavo soltanto al mio detonatore perfetto. Egli non significava nulla per me. Era insignificante come... non trovo nulla di abbastanza insignificante per far da paragone... salvo, forse, Karl Yundt. Sì, quello calza. Il terrorista e il poliziotto, entrambi dello stesso paniere. Rivoluzione e legalità, forme oziose, in fondo identiche. Il poliziotto gioca il suo giochetto, e così anche voi propagandisti. Ma io non gioco. Io lavoro quattordici ore al giorno, e spesso anche senza mangiare. Di quando in quando, i miei esperimenti hanno bisogno di denaro, e allora devo fare a meno di mangiare per un giorno o due. Guardi la mia birra? Sì, ne ho già bevute due, ed ora ne ordinerò un'altra. Oggi faccio festa, e me la godo da solo. Perché no? Non lavoro forse solo, tutto solo, assolutamente solo? Sono anni e anni che lavoro così. Il viso di Ossipon s'era fatto molto rosso. — Al detonatore, eh? — ghignò molto piano. — Sì, è una buona definizione. Voi non potreste trovar nulla di così preciso per definire la natura della vostra attività con tutti i vostri comitati e le vostre delegazioni. Io sì, sono un vero propagandista. — Non voglio discutere, — disse Ossipon, con aria superiore. — Ma temo di dover guastarti la festa. Sai? stamane, a Greenwich Park, un uomo s’è fatto a pezzi con la dinamite. — Come fai a saperlo? — L’ho sentito gridare sulla strada alle due. Ho comprato il giornale, poi sono sceso quaggiù. L’ho qui in tasca. Trasse il giornale di tasca. Era un foglio roseo, come avvampato dal calore delle proprie convinzioni, le quali erano molto ottimistiche. Ne scorse rapidamente le colonne. — Ah, eccolo! Una bomba a Greenwich Park. Poche righe. Undici e mezzo. Mattina nebbiosa. Gli effetti dell’esplosione si sono risentiti fino a Romney Road e a Park Place. Un’enorme buca a piè d’un albero, piena di radici
sbriciolate e di rami spezzati. E tutto attorno brandelli d’un corpo umano. Nient’altro. Soltanto dissertazioni giornalistiche. Credono che si tratti d’un « feroce attentato contro l’Osservatorio ». Uhm! Poco verosimile. Guardò per qualche tempo il giornale in silenzio, poi lo ò all’altro, che, dopo un’occhiata astratta all’articolo, lo ripose senza commento. Fu Ossipon che parlò per primo, ancora risentito. — Brandelli d’un solo uomo, hai visto? Ergo: s’è fatto saltare da sè. Ti guasta la festa, vero? Scommetto che non te l’aspettavi. Io, per conto mio, non ne avevo la minima idea, non l’ombra d’un sospetto che qualcosa di simile dovesse succedere qui, in questo paese. Nelle circostanze attuali, è un atto semplicemente criminale. L’ometto inarcò le nere e sottili sopracciglia con sionato sarcasmo. — Criminale! Che significa? Che vuoi dire con ciò? — Come devo esprimermi, allora? Per forza devo servirmi dei termini correnti, — disse Ossipon spazientito. — Voglio dire che questa faccenda può essere di gran pregiudizio per la nostra posizione in questo paese. Non ti sembra abbastanza criminale? Scommetto che in questi ultimi giorni devi aver fatto una buona vendita. Ossipon guardò fisso. L’altro, senza batter ciglio, abbassò e rialzò lentamente il capo. — Davvero! — sibilò l’editore degli F. P. in un intenso bisbiglio. — Lo dai così a palate al primo pazzoide che ti capita? — Sicuro. L'ordine sociale non è fatto di carta e d'inchiostro, e quindi non posso credere che basti carta e inchiostro per distruggerlo. Perciò lo do a palate a chiunque, uomo, donna o anche pazzoide. So benissimo che cosa ne pensi tu. Ma io non ricevo alcuna imbeccata dal Comitato Rosso. Per conto mio, vi possono scacciare o arrestare tutti quanti. (Quello che capita a noi come individui, è di nessunissima importanza. Parlava incurante, senza calore, quasi senza alcun sentimento; e Ossipon, in fondo molto impressionato, cercò d'imitarlo.
— Se la polizia di qui sapesse fare il suo mestiere, vi ammazzerebbe a rivoltellate o vi accopperebbe in pieno giorno. Ma l’ometto parve aver già considerato anche questa possibilità nell’imperturbabile modo che gli era solito. — Sì, — ammise con la massima prontezza — ma per far ciò, dovrebbero affrontare le loro proprie istituzioni. Capisci? Per quello ci vorrebbe un fegato eccezionale, un fegato d’un genere speciale. Ossipon battè gli occhi. — Però, sarebbe appunto quello che ti capiterebbe se trasportassi il tuo laboratorio negli Stati Uniti. Là non fanno tante storie con le loro istituzioni. — ISon c’è pericolo che ci vada. A parte ciò, la tua osservazione è perfettamente giusta. Hanno più carattere, laggiù, e un carattere essenzialmente anarchico. Buon terreno per noi, gli Stati Uniti; ottimo terreno. La Gran Repubblica ha in sé le radici della forza distruttrice. 11 temperamento collettivo è senza leggi. Eccellente! Può darsi benissimo che ci ammazzerebbero a rivoltellate, ma... — Sei troppo trascendentale per me, — brontolò imbronciato Ossipon. — Logico, — protestò l’altro. — Ci sono diverse specie di logiche, e la mia è particolarmente illuminata. L’America va benone. È questo paese ch’è pericoloso, col suo idealistico concetto della legalità. Lo spirito sociale di questa gente è tutto ravvolto di pregiudizi meticolosi, e questo è fatale alla nostra opera. Tu dici che l’Inghilterra è l’unico nostro rifugio. Per l’appunto: Capua! A che ci servono i profughi? Parlate, stampate, complottate, e non fate mai nulla. Basterà tutt’al più per individui dello stampo di Karl Yundt. Scrollò leggermente le spalle, poi soggiunse nello stesso tono indifferente: — Noi dovremmo mirar soltanto a distruggere la superstizione e il culto della legalità. Non domando di meglio che di vedere un giorno l’Ispettore Heat e i suoi pari ammazzarci in pieno giorno con l’approvazione del pubblico. Allora la nostra battaglia sarebbe quasi vinta. La disintegrazione della vecchia morale si sarebbe realizzata nel suo stesso tempio. A questo dovreste cercar di giungere. Ma questo, voi rivoluzionari non riuscirete mai a capirlo. Vi occupate dell’avvenire, vi perdete in sogni di sistemi economici, tratti da quello che è,
mentre invece dovreste spazzar via tutto e cominciar da capo con un nuovo concetto di vita. L’avvenire andrebbe avanti da sè, se soltanto gli si aprisse la via. E per far ciò, se avessi abbastanza della mia roba, ne farei grandi mucchi ad ogni cantonata. Ma siccome questo non m’è possibile, faccio del mio meglio per fabbricare un detonatore veramente perfetto. Ossipon, che mentalmente s’era avventurato in ac que profonde, colse queste ultime parole come una tavola di salvezza. — - Già, il tuo detonatore. Probabilmente è stato uno dei tuoi detonatori a spazzare via l’uomo del parco. Un'ombra di stizza offuscò il giallo viso dell'altro. — Capirai ch'è necessario provare i diversi tipi. K la mia maggior difficoltà. D'altra parte... Ma Ossipon lo interruppe: — Chi può essere quell'individuo? T'assicuro che qui a Londra non ne avevamo nessunissima idea... Non me lo potresti descrivere, l'individuo col quale hai fatto quell’affare? L’altro volse gli occhiali su Ossipon come un paio di riflettori. — Descriverlo? — ripetè lentamente. — Ormai non c’è più ragione che vi s'opponga. Te lo descriverò con una sola parola : Verloc. Ossipon, che la curiosità aveva sollevato di qualche pollice sopra il suo sedile, ricadde come colpito in pieno viso. — Verloc! Impossibile! L’imperturbabile ometto annuì quasi impercettibilmente. — Sì, proprio lui. Non vorrai dire che in questo caso abbia dato la mia roba a un qualunque pazzoide. Per quanto mi è dato di sapere, era un eminente membro del tuo gruppo.
— Sì, eminente. No, non precisamente. Era più che altro un centro di comunicazioni, e solitamente riceveva i compagni sbarcati di fresco. Più utile che importante. Uomo di nessun’idea. Anni fa, parlava nei comizi... in Francia, mi pare. Non molto bene, però. Aveva la fiducia di Latorre, di Moser e d’altri dello stesso stampo. Aveva una vera bravura solo per eludere l’attenzione della polizia, la polizia non gli badava quasi per nulla. Era regolarmente sposato, sai bene. Certo avrà aperto bottega col denaro di lei. E sembrava pure che gli affari gli andassero bene. Bruscamente s’interruppe per mormorare tra sè: — Che potrà fare adesso quella donna? E s’immerse in una profonda meditazione. L’altro attese con manifesta indifferenza. La sua parentela era oscura, e generalmente egli era noto col nomignolo di Professore. I titoli a tale designazione gli erano derivati dall’essere stato, una volta, alle dipendenze di un istituto tecnico, quale assistente dimostratore in chimica. Litigò con le autorità scolastiche per una questione di trattamento. Quindi ò a una fabbrica di prodotti chimici. Ma anche là si ritenne trattato con rivoltante ingiustizia. Le sue lotte, le sue privazioni, i suoi sforzi per innalzarsi di gradino in gradino sulla scala sociale, lo avevano riempito d’una convinzione tanto esaltata dei propri meriti, ch’era, in realtà, difficile, al mondo, trattarlo equamente. Il Professore non mancava d’una certa genialità, ma difettava di quella grande virtù sociale ch’è la rassegnazione. — Intellettualmente, una nullità, — sentenziò forte Ossipon, abbandonando bruscamente l’interiore contemplazione della signora Verloc. — Una personalità comunissima. Fai male a non frequentare i compagni, Professore, — soggiunse in tono di rimprovero. — Non t’ha detto nulla? Non t’ha lasciato capir nulla? Io non l’ho più visto da un mese. Proprio lui! Mi pare impossibile. — M’ha detto soltanto che si trattava d’una dimostrazione contro un edificio. Tanto perchè mi sapessi regolare nel preparar la miscela. Gli ho detto che non avevo abbastanza materiale per garantire una distruzione totale, e allora m’ha raccomandato di far il meglio possibile. Siccome, poi, voleva un qualcosa che si potesse tenere apertamente in mano, gli ho offerto una vecchia latta di vernice da un pallone, che appunto avevo in casa. Quell’idea gli è piaciuta. Ma è stata una
gran seccatura per me. Ho dovuto tagliare il fondo e poi ribaltarlo: tutta una faccenda. Dentro ho messo una boccia di vetro molto grosso e di bocca molto larga, ben tappata, ben ravvolta di argilla bagnata, e piena di polvere verde: sei once. Il detonatore comunicava col becco della latta. Un sistema abbastanza ingegnoso a orologeria e a percussione. lTn tubetto di zinco contenente un... — Che cosa credi che sia successo? — Mali!... Forse avrà stretto il becco a vite, dando così il contatto, e poi si sarà dimenticalo del tempo. Era regolato per venti minuti. D’altra parte, dopo messo in moto l’orologeria, l’esplosione poteva anche essere provocata da un urto. Sicché, può aver dimenticato il tempo, oppure lasciato cader la latta. A ogni modo, deve aver dato il contatto. Onesto è chiaro. Il sistema funzionava perfettamente. Fra molto piti probabile che si dimenticasse di dare il contatto. Temevo appunto questo. Ma che ci vuoi fare? L’idiozia umana non conosce limiti. Non vorrai pretendere clic un detonatore debba essere a prova d’ogni idiozia. Chiamò il cameriere. Ossipon s'irrigidì con uno sguardo astratto d’intenso travaglio cerebrale. Quando il cameriere se ne fu andato col denaro, egli si riscosse con aria di profonda scontentezza. -— È molto seccante per me. Karl Yundt è a letto con una bronchite, e molto probabilmente non s’alzerà più. Michaelis se la gode in campagna. Un editore gli ha offerto cinquecento sterline per un libro. Chissà che roba! Sai bene che da quando è uscito di prigione, non sa più pensare consecutivamente. II Professore, dritto in piedi, si abbottonava la giacca, guardandosi attorno con la massima indifferenza. — Che cosa ti proponi di fare? — gli chiese seccato Ossipon. Temeva il biasimo del Comitato Rosso Centrale, un organo senza sede stabile, i cui membri non gli erano tutti noti. Purché quella faccenda non gli fe perdere il piccolo sussidio concessogli per la pubblicazione dei foglietti F. P! — Ammetto la solidarietà quando si tratta di atti estremi in casi estremi, ma non in caso di atti semplicemente pazzeschi, — disse con cupa violenza. — Ma che cosa può essere saltato in mente a quel Ver- loc? Ci dev’essere un mistero. A ogni modo, se n’è andato. E adesso, la miglior cosa che possa fare il gruppo
rivoluzionario militante, sarebbe di rinnegare ogni ato rapporto con quel tuo maledetto cliente. Soltanto, mi domando come si potrebbe fare per convincere il Comitato Centrale. L’ometto, in piedi, abbottonato fino al collo e pronto ad andarsene, non era più alto di Ossipon seduto. Spianò bruscamente gli occhiali sul viso di quest’ultimo. — Potresti chiedere alla polizia un certificato di buona condotta. La polizia sa dove ciascuno di voi ha dormito l’altra notte. Forse sarà anche disposta a pubblicare una specie di dichiarazione ufficiale. — Ad ogni modo, saprà che noi non c’entriamo per nulla in questa faccenda, — mormorò amaramente Ossipon. — Ma quello che poi dirà, è un altro paio di maniche. — Rimase assorto e completamente dimentico dell’omuncolo sbiadito, striminzito, dalla faccia di gufo. — Bisognerebbe che Michaelis parlasse per noi alla prossima riunione. Il pubblico ha un debole per quell’individuo. Il suo nome è conosciuto. Poi conosco pure alcuni reporters di grandi quotidiani. Certo, non diranno altro che fesserie, ma hanno un loro modo di dirle, che le fa andare più lo stesso. — Come la melassa, — sentenziò il Professore, quasi sottovoce, conservando la sua espressione imibile. TI perplesso Ossipon continuò a comunicare con se stesso, come si fosse trovato in perfetta solitudine. — Maledetto somaro! Appiopparmi tra capo e collo una faccenda simile! E non so nemmeno se... Sempre seduto, strinse forte le labbra. L’idea d’andare diritto alla bottega non lo seduceva. Ormai la polizia poteva già averne fatto una trappola. Per forza dovevano procedere a qualche arresto, pensò con qualcosa come un giusto sdegno, vedendo il cheto andazzo della sua vita rivoluzionaria minacciato per colpa altrui. E d’altra parte, se non vi andava, rischiava di restare al buio di cose che potevano essere della massima importanza per lui. Ma poi rifletté che, se quell’individuo era veramente stato fatto a pezzi come dicevano i giornali, non poteva essere stato identificato. E se così era, la polizia non poteva aver ragione alcuna per sorvegliare la bottega di Verloc più d’ogni altro luogo frequentato da anarchici, pili del Sileno, per esempio. Tutti quei luoghi dovevano essere a quell’ora ugualmente sorvegliati. Però...
— Non so che cosa fare, — brontolò come tra sè. Al suo gomito, una voce raschiante disse con pacato sarcasmo: — Aggrappati alla donna e cerca di cavarne più che puoi. Detto ciò, il Professore s’allontanò. Ossipon. che quel saggio di penetrazione aveva colto alla sprovvista, trasalì, restando però seduto con uno sguardo disperato, come inchiodato sulla sedia. Il solitario pianoforte, senza neanche uno sgabello davanti, attaccò gagliardamente alcuni accordi, dando la stura a una sfilza di ariette nazionali, che infine terminò con Le azzurre campane di Scozia. Le note penosamente staccate affievolirono dietro le sue spalle, mentre lentamente saliva la scala, attraversava l’atrio e usciva sulla strada. Di fronte al gran portone, una squallida fila di strilloni smaltivano la loro merce in mezzo al marciapiede. Era una rigida, brumosa giornata di primavera; e il cielo arcigno, il fango della strada, i cenci di quegli uomini, armonizzavano ottimamente con l’eruzione degli umidi fogli luridi d’inchiostro, che andavano a ruba. Eppure, guardando l’ininterrotto flusso della folla lungo i marciapiedi, sembrava che nessuno si sognasse di comprarli. Ossipon gettò una rapida occhiata a dritta e a manca, prima d’immergersi in quel flusso; ma il Professore era già fuori di vista.
[1] Termine del gergo della malavita londinese, designante i poliziotti.
V
Il Professore aveva svoltato a sinistra, proseguendo a testa alta in una folla di cui ogni individuo superava di parecchio la sua misera statura. Non poteva nascondersi che era deluso. Ma ciò, in lui, non era » che una mera sensazione. Lo stoicismo dei suoi pensieri non poteva essere turbato nè da quella nè da qualunque altra disgrazia. Un giorno o l’altro, un gran colpo sensazionale, un colpo veramente sbalorditivo, sarebbe stato assestato in piena facciata del grande edificio di concetti legali che ripara l’atroce ingiustizia della società. Di umili origini, e di aspetto tanto misero da essere realmente d’impaccio alle sue notevoli doti naturali, la sua immaginazione era stata presto accesa dalle storie d’uomini giunti dal nulla a posizioni d’autorità e d’influenza. La sua estrema, quasi ascetica purezza di mente, congiunta a una sorprendente ignoranza delle reali condizioni di questo inondo, gli aveva posto dinanzi una mèta di potere e di prestigio, da conseguire senza nè arte, nè grazia, nè tatto, nè sostanze, semplicemente con la sola forza dei suoi meriti. Così si riteneva destinato a un indisputato successo. Suo padre, un delicato, Inumo entusiasta, con fronte sfuggente, era stato predicatore errante ed eminente di un’oscura ma rigida setta cristiana — un uomo supremamente fiducioso nei privilegi della propria rettitudine. Nel piglio, individualista per temperamento, appena la scienza del collegio ebbe del tutto sostituito la fede dei conventicoli, tale attitudine morale si tradusse in un frenetico puritanesimo d'ambizione, ch'egli si tenne in cuore come qualcosa di secolarmente sacro. E furono gli oltraggi a questo suo sentimento che gli aprirono gli occhi sulla reale natura di questo mondo, la cui morale era artificiale, corrotta, blasfema. Sono gli impulsi personali camuffati in atti di fede, che aprono la via alle rivoluzioni, anche alle più giustificabili. Così lo sdegno dei Professore trovò in se stesso una finalità che lo assolveva dal peccato di are alla distruzione come agente della , propria ambizione. E l’imperfetta formula del suo fanatismo pedantesco fu di distruggere la pubblica fede nella legalità; ma la sua subcosciente convinzione che la struttura d’un ordine stabile non può essere efficacemente scossa se non per mezzo d’una violenza, sia collettiva, sia individuale, era per contro molto precisa e corretta. Egli era un agente morale, non ne aveva alcun dubbio. Esercitando tale funzione con spregiudicata audacia, si procurava un'illusione di potere e di prestigio personali. E tale illusione era indispensabile alla sua vendicativa amarezza. Lo tranquillizzava, poiché, in
fondo, anche i più ardenti rivoluzionari non cercano probabilmente altro che di star in pace col resto dell’umanità, la pace della vanità soddisfatta, dell’avidità saziata, o forse soltanto della coscienza tranquilla. Perduto nella folla, piccolo, striminzito, miserabile, egli meditava fiducioso sul proprio potere, tenendo delicatamente, nella sinistra sprofondata nella tasca dei calzoni, la pera di gomma, suprema garanzia della sua bieca libertà. Ma dopo un po’, rimase sgradevolmente impressionato dalla strada gremita di veicoli, e dai marciapiedi affollati d’uomini e di donne. Si trovava su un lungo corso diritto, popolato soltanto da una frazione infinitesimale dell’immensa moltitudine: ma attorno attorno, e innanzi innanzi, fino all’orizzonte nascosto da enormi cumuli di mattoni, l’umanità s’ergeva poderosa, invincibile nel suo numero. E se nulla potesse commuoverla? Dubbio questo che provano tutti coloro che per ambizione mirano a una presa diretta sull’umanità: artisti, politicanti, pensatori, riformatori o santi. Pericoloso stato d’animo, che può essere dissipato soltanto dalla rinvigorente solitudine; e con severa esultanza, il Professore pensò al rifugio della sua stanzetta, munita d’un grande armadio chiuso da un grosso lucchetto, e perduta in una selva di case povere, romitaggio ideale del perfetto anarchico. Per raggiungere più rapidamente la stazione del suo omnibus, scantonò fuor del fragoroso corso affollato, in un angusto e buio vicolo acciottolato. Da una parte le basse catapecchie avevano, con le loro polverose finestre, il cieco, agonizzante aspetto dell’inguaribile decrepitudine — gusci vuoti che aspettavano il piccone demolitore. Dall’altra parte, la vita non s’era ancora del tutto dipartita. Di fronte all’unico lampione a gas, sbadigliava la caverna d’un rigattiere, con, in fondo a un groviglio di gambe di tavole, un alto specchio che vi luccicava come l’acqua d’uno stagno in fondo a una foresta. L'unico essere umano che oltre il Professore percorreva quel vicolo, procedendo spedito e impettito, in direzione opposta, arrestò di colpo il suo rapido o. — Hello! — fece scansandosi, alquanto guardingo. Il Professore si fermò pure, con un pronto semigiro, che portò le sue spalle contro il muro opposto. La sua sinistra rimase ostentatamente sprofondata nella tasca dei calzoni, e la rotondità dei suoi occhiali, pesantemente cerchiati, diede una marcata goffaggine aH'imperturhato e bieco suo viso. Era come se quei due si fossero incontrati nel deserto corridoio d’una gran casa piena di vita. L'uomo impettito era tutto abbottonato in uno scuro soprabito, e portava un ombrello. Il suo cappello lasciava scoperta buona parte della fronte,
che appariva molto bianca nella penombra del vicolo. Dentro le scure macchie delle orbite, i suoi occhi balenavano trafiggenti. Lunghi baffi cascanti, color grano maturo, incorniciavano con le loro punte il blocco quadro del mento glabro. — Non cerco te, — disse secco secco. Il Professore non si mosse d’un pollice. Il clamore assordante dell’enorme città era sceso al livello d'un sommesso mormorio. Il Capo Ispettore del Dipartimento Delitti Speciali mutò tono. — Come, non hai fretta di rincasare? — chiese con irridente semplicità. Il brutto, piccolo agente morale della distruzione, esultò silenziosamente per quel suo prestigio che teneva a bada quell'uomo armato del mandato difensivo d’una società minacciata. Più fortunato di Caligola, che invano voleva vedere il Senato romano con una sola testa per la miglior soddisfazione della sua manìa crudele, egli vide riunite in quell’uomo tutte le forze che s’era imposto di sfidare: le forze della legge, della proprietà, dell’oppressione e dell’ingiustizia. Vide in lui tutti i suoi nemici, e impavidamente li affrontò tutti per una suprema soddisfazione della propria vanità. Gli stavano di fronte perplessi, come davanti a un terribile portento. Ed egli gongolò internamente di quell’incontro casuale che affermava la sua superiorità su tutta la moltitudine umana. Era infatti un incontro casuale. Il Capo Ispettore Heat aveva avuto una giornata sgradevolmente movimentata, da quando era giunto al suo dipartimento il primo telegramma da Greenwich, cioè poco prima delle undici. Il solo fatto che quell’attentato era avvenuto appena una settimana dopo l’assicurazione da lui fatta a una grande personalità che nessuna attività terroristica era da temere da parte degli anarchici, era di per se stesso abbastanza seccante. Aveva creduto di poter fare quell’assicurazione con tutta certezza. e r aveva fatta con sua propria vivissima soddisfazione, essendogli apparso evidente che la grande personalità desiderava sentirsi fare appunto tale assicurazione. Gli aveva assicurato che un atto simile non poteva nemmeno essere progettato senza che il suo dipartimento ne avesse notizia entro le ventiquattr’ore. Era giunto perfino a pronunciar parole che una pura saggezza avrebbe certo trattenute. Ma il Capo Ispettore Heat non era molto saggio, almeno non lo era nel senso genuino. La pura saggezza, non potendo nulla accertare in questo mondo di contraddizioni, gli avrebbe impedito di giungere all’attuale sua posizione. Avrebbe allarmato i suoi superiori, e quindi
fugato le sue possibilità di promozione. Così, invece, era stato promosso molto rapidamente. « Non ce n’è uno che non possiamo acciuffare in qualunque ora del giorno o della notte. Sappiamo quello che ognuno di loro fa ora per ora, » aveva dichiarato, e la grande personalità s’era degnata di sorridere. Era ovvio che, per far piacere, un ufficiale della reputazione del Capo Ispettore Heat, dovesse parlare precisamente a quel modo. La grande personalità gli credette senz’altro, poiché tale dichiarazione combaciava perfettamente col suo proprio concetto del buon andamento delle cose. Sì, la sua saggezza era d’un genere prettamente ufficiale, che altrimenti avrebbe pensato al fatto, non teorico, ma pratico, che, per (pianto le relazioni esistenti tra polizia e cospiratori siano fittamente intessute, avvengono spesso imprevedibili soluzioni di continuità, improvvisi buchi nello spazio e nel tempo. Un dato anarchico può essere vigilato pollice per pollice, minuto per minuto, ma poi capita sempre che sfugga di vista, che ogni contatto con lui cessi per alcune ore, durante le quali succede qualcosa (generalmente un’esplosione) pili o meno deplorevole. Ma la grande personalità, trascinata dal suo proprio concetto del buon andamento delle cose, aveva sorriso; ed ora il ricordo di quel sorriso fu molto vessante per il Capo Ispettore Heat, principale esperto in procedura anarchica. E non solo il ricordo di questa circostanza turbava la solita serenità di quell'eminente specialista. Un altro fatto increscioso era occorso, e non più tardi di quella stessa mattina. Chiamato d'urgenza nell'ufficio del Tenente Commissario, non aveva saputo nascondere il suo profondo stupore. E anche ciò era molto vessante. Il suo istinto d'ufficiale fortunato gli aveva da tempo insegnato che, in generale, le reputazioni sono fatte tanto dai modi (pianto dai fatti. Ed ora sentiva che, di fronte a quel tale telegramma, il suo contegno non era stato felice. Aveva sgranato gli occhi ed esclamato « Impossibile! » esponendosi così a non poter nulla rispondere all'obiezione d’un indice eloquentemente puntato sul telegramma, che il Tenente Commissario, dopo aver letto ad alta voce, aveva buttato sulla scrivania. Essere così schiacciato dalla punta d’un indice, non era cosa precisamente gradevole. E nemmeno favorevole all’avanzamento. Inoltre, il Capo Ispettore Heat aveva l’impressione di non aver poi riparato nulla coll’esprimere una sua propria convinzione. — Posso assicurarvi soltanto che nessuno della nostra banda ha avuto mano in questa faccenda.
Era molto forte nella sua integrità di buon detective, ma ora aveva l’impressione che una certa riservatezza nei riguardi di quell’incidente avrebbe giovato assai meglio alla sua reputazione. Ma, d’altra parte, dovette riconoscere ch’era difficile conservare la propria reputazione quando entravano in gioco degli outsiders. Questi sono la rovina della polizia, come, d’altronde, anche di altre professioni. E il tono delle osservazioni del Tenente Commissario era stato tanto aspro da far legare i denti. Dopo la prima colazione, il Capo Ispettore Heat non aveva più mangiato nulla. Recatosi immediatamente a indagar sul luogo, aveva ingoiato molta nebbia nel parco. Poi s’era recato all’ospedale; e quando infine le indagini di Greenwich erano giunte a termine, aveva perduto ogni inclinazione per i cibi. Non abituato, come i medici, a veder da vicino spoglie umane spezzettate, era rimasto assai penosamente colpito quando, in un certo locale dell’ospedale, era stata bruscamente sollevata una tela impermeabile ricoprente una tavola. Un’altra tela impermeabile era distesa sulla stessa tavola a mo’ di tovaglia, con gli angoli rivolti in su, sopra una specie di mucchio, stracci sbrindellati e sanguinolenti, che nascondevano solo a mezzo quello che avrebbe potuto essere una provvista di materia prima per un festino di cannibali. Occorreva una non comune fermezza d'animo per non arretrare inorridito a quella vista. Il Capo Ispettore Heat, ufficiale molto efficiente del suo dipartimento, non arretrò, ma nemmeno avanzò per tutto un minuto. Un poliziotto locale in uniforme lo guardò di sottecchi e disse con stolida semplicità: — È tutto lì. Fino all'ultimo pezzettino. Che lavoro! Era accorso per primo sul luogo dell'esplosione. Menzionò quel fatto parecchie volte. Aveva visto come una grande vampata in mezzo alla nebbia. In quel momento era presso la porta della Loggia di King William Street, e stava parlando col custode. La detonazione lo aveva agghiacciato dalla testa ai piedi. Poi era subito corso tra gli alberi verso l'Osservatorio. — Con tutta la velocità delle mie gambe, — assicurò ripetutamente. Il Capo Ispettore Heat, chinatosi sulla tavola in modo alquanto buffamente riluttante e inorridito, lo lasciò parlare. 11 portiere dell’ospedale e un inserviente
avevano sollevato per gli angoli la tela superiore, e quindi s’erano scostati. Gli occhi del Capo Ispettore frugarono nei particolari raccapriccianti di quel mucchio che sembrava provenire in parte dal macello e in parte dalla bottega d’un cenciaiolo. — Vi siete servito d’una pala, — osservò, notando briciole di ghiaia e di corteccia, e schegge di legno sottili come aghi. — Per forza, — rispose lo stolido poliziotto. — Me la son fatta dare dal custode. E quello, quando m’ha sentito grattar per terra, s’è messo così con la fronte contro un albero: malato come un cane. Il Capo Ispettore, sempre chino sopra la tavola, lottò eroicamente contro una sgradevole sensazione nella gola. La spaventosa violenza distruttrice che aveva ridotto un corpo umano in un mucchio d’informi brandelli, diede ai suoi sensi un’impressione d’inaudita ferocia, benché la ragione gli dicesse che l’effetto doveva essere stato istantaneo come un lampo. L’uomo, chiunque fosse, doveva essere morto istantaneamente^ eppure sembrava impossibile che un corpo umano potesse giungere a un tale stato di disintegrazione, senza prima are attraverso spasimi d’indicibile agonia. Il Capo Ispettore Heat, che non era un fisiologo e anche meno un metafisico, si eresse per forza di simpatia, la quale poi è una forma di paura, al disopra del volgare concetto di tempo. Istantaneo! Ricordò tutto quello che aveva letto in pubblicazioni popolari riguardo a lunghi, terrificanti sogni sognati nell’istante del risveglio; a intere vite rivissute con incredibile intensità da uomini in punto di annegare, nell’istante in cui risalivano a galla per l’ultima volta. L’incompenetrabile mistero dell’esistenza cosciente ossessionò tanto il Capo Ispettore Heat, che finì per dirsi che secoli di atroci sofferenze e torture mentali potevano benissimo essere contenuti tra due successivi battiti di ciglia. Intanto guardava sulla tavola con viso calmo calmo e l’interesse alquanto ansiosó del consumatore indigente che osserva i sottoprodotti d’una macelleria con la segreta intenzione di procurarsi una cena domenicale a buon mercato. E per tutto quel tempo, le sue allenate facoltà di ottimo investigatore, che non disprezza alcuna possibilità d’informazione, seguirono attentamente la stolida e sconnessa loquacità del poliziotto. — Un biondo, — osservò costui in tono placido, e sostò. — La vecchia che ha parlato col sergente ha visto un biondo venire dalla stazione di Maze Hill. — Sostò aurora. — Era proprio un biondo. Ha visto due uomini venire dalla stazione, dopo ripartito il treno di Londra. Non ha saputo dire se fossero insieme.
Al grande non ha badato, ma l'altro era un biondo, piuttosto magro, con una latta di vernice in mano. — Conoscete quella donna? — chiese il Capo Ispettore, con gli occhi sempre fissi sulla tavola, e in mente un vago progetto d’inchiesta sul conto d’un individuo che molto probabilmente sarebbe rimasto per sempre sconosciuto. — Sì, è la governante d’un oste in ritiro, e di quando in quando, fa anche certi servizi alla cappella di Park Place, — rispose con importanza il poliziotto, e sostò, con un’altra occhiata obliqua alla tavola. Poi, bruscamente: — Beh, eccolo lì... tutto quello che ho potuto trovar di lui. Biondo. Magro, piuttosto magro. Guardi quel piede lì. Ho raccolto prima le gambe, una dopo l’altra. Era stato scaraventato ai quattro venti, tanto che non si sapeva da che parte cominciare. Sostò, e un sorriso di soddisfazione, benché appena abbozzato, diede alla sua tonda faccia un’espressione infantile. — Inciampato, — dichiarò con sicurezza. — Sono inciampato anch’io una volta, e mi ci sono anche ammaccato la zucca, correndo su verso l’Osservatorio. È un brutto posto, pieno di radici. Sarà inciampato in una di quelle radici, e quella roba che si portava dietro gli sarà scoppiata giusto sotto il petto. L’eco di oc un ignoto », ripetuto insistentemente dentro di lui, importunò molto il Capo Ispettore. Avrebbe voluto risalire alle misteriose origini di quel fatto, unicamente per soddisfare la propria curiosità. La curiosità professionale. D’altra parte, avrebbe anche voluto salvaguardare dall’opinione pubblica il prestigio del proprio dipartimento, rivelando l’identità di quell’individuo. Poiché era un leale servitore. Questo, però, gli parve impossibile. Il primo termine del problema era illeggibile, mancava ogni indizio, fuorché quello di un’atroce crudeltà. Vincendo la sua ripugnanza fisica, allungò la mano nel mucchio, senza convinzione, soltanto per mettere in pace la propria coscienza; e ne tolse un pezzo di stoffa un po’ meno imbrattato degli altri. Era una stretta striscia di velluto, cui era attaccato un pezzetto triangolare di stoffa turchino scuro. Se lo portò agli occhi. E il poliziotto disse: — Un colletto di velluto. Strano che quella vecchia abbia potuto notare il colletto di velluto. Un soprabito turchino scuro con un colletto di velluto, m’ha detto. È proprio l’individuo che ha visto la vecchia, non c’è dubbio. È lì, tutto lì, col colletto di velluto e il resto. Non credo d’aver dimenticato neanche un
pezzettino grosso come un francobollo. A questo punto, le esercitate facoltà del Capo Ispettore cessarono di udire la voce del poliziotto. Andò a una finestra per veder meglio. Il suo viso, volto alla luce, espresse, mentre esaminava da presso il pezzo di stoffa triangolare, uno stupito e intenso interesse. Lo staccò dal velluto con un brusco strappo, e, soltanto dopo esserselo cacciato in tasca, si rivolse all’interno e buttò sulla tavola la striscia di velluto. — Potete ricoprire, — disse secco secco agli inservienti, e, salutato dal poliziotto, uscì frettolosamente con la sua spoglia. Un treno lo riportò in città, tutto solo e profondamente assorto, in uno scompartimento di terza classe. Quel pezzetto di stoffa era realmente d’un valore incredibile, ed egli non poco si meravigliò del modo casuale in cui era giunto in suo possesso. Fra come se lo stesso Fato gli avesse messo in mano la chiave del mistero. E, come d’altronde tutti coloro che pretendono di comandare agli avvenimenti, cominciò a diffidare di quel gratuito e accidentale successo, appunto perchè sembrava essergli stato messo in mano per forza. Infatti, il valore pratico «Fini qualunque successo, dipende, e non «li poco, dal modo in cui viene considerato. Ma il Fato non bada a nulla. Non conosce discrezione. Ed egli non ritenne più eminentemente opportuno, rivelare pubblicamente l’identità dell'individuo che s’era fatto a pezzi quel mattino con quell’orrenda compiutezza. Però, era tutt’altro che sicuro quanto al punto di vista dal quale si sarebbe posto il suo dipartimento. Un dipartimento è, per quelli che impiega, una complessa personalità, con idee e anche sfumature proprie. Dipende dalla leale devozione dei suoi servitori, la quale è sempre mista d’una dose di affettuoso disprezzo, che in certo qual modo la raddolcisce. In grazia d’una benevola previdenza della Natura, nessun eroe è tale per il suo servo, che altrimenti gli toccherebbe spazzolarsi gli abiti da sè. Così pure nessun dipartimento è perfetto nell’intimità dei suoi lavoratori. Di regola, un dipartimento non ne sa molto dei propri lavoratori. Essendo un organismo sionato, non può mai essere perfettamente informato. Nè il saperne di più gioverebbe alla sua efficienza. Il Capo Ispettore Heat scese dal treno in uno stato di grande preoccupazione, totalmente libera d’ogni macchia di slealtà, ma non del tutto priva di quella gelosa diffidenza che così spesso nasce dal suolo della più perfetta devozione, sia questa rivolta a donne o a istituzioni. Fu in questo stato d’animo — fisicamente molto vuoto, ma ancora nauseato da
quello che aveva visto — ch’egli s’imbattè nel Professore. In tali condizioni, che rendono irascibile anche l’uomo più sano e normale, quell’incontro fu particolarmente sgradevole al Capo Ispettore Heat. Non aveva pensato al Professore; non aveva pensato ad alcun anarchico. La complessità del caso gli aveva dato una confusa impressione dell’assurdità delle cose umane, cosa che in astratto è già abbastanza importuna per un temperamento non filosofico, e che poi, in concreto, diventa insopportabilmente esasperante. Il Capo Ispettore Heat aveva cominciato la sua carriera con l’occuparsi delle forme più energiche del furto. Gli speroni se li era guadagnati appunto in quella sfera, per la quale, poi, dopo la promozione, aveva conservato un sentimento molto simile all’affetto. Il furto, almeno, non ha nulla di assurdo. È una specie d’industria, perversa sì, ma pur sempre un’industria esercitata in mondo industrioso; un’attività intrapresa come la ceramica, la mineraria, l’agricola, la meccanica, cioè per scopi identici. Un lavoro che praticamente differisce dagli altri solo per la natura dei suoi rischi, i quali, invece di consistere in anchilosi, intossicamenti, febbri, ecc., sono, nella sua propria fraseologia, concisamente definiti dal termine di « sette anni di galera ». Però, il Capo Ispettore Heat non era insensibile alla gravità delle diversità morali. Ma, a vero dire, non lo erano nemmeno i ladri di cui aveva dovuto occuparsi. Si sottomettevano alle sanzioni della morale familiare al Capo Ispettore Heat con una rassegnazione che meritava di essere debitamente apprezzata. Erano, insomma, suoi compagni-cittadini « andati a male » per difetto di educazione. Così almeno credeva il Capo Ispettore Heat, ammettendo per altro, come attenuante di tale differenza, di poter comprendere la mentalità dèi ladro, poiché, difatti, la mentalità e gl’istinti del ladro sono della stessa identica natura di quelli d'un ufficiale di polizia. Entrambi riconoscono le stesse convenzioni ed hanno la stessa nozione tecnica dei metodi e dell’andazzo delle reciproche attività. Si comprendono a vicenda, il che, poi, torna utile ad entrambi, e genera una specie di amenità nelle loro relazioni. Prodotti d'ima stessa macchina, e chiamati l'uno utile e l'altro nocivo, si comportano, nei riguardi della macchina, in modi diversi, ma con una serietà essenzialmente identica. La mentalità del Capo Ispettore Heat era inaccessibile a idee di rivolta. Ma anche i suoi ladri non erano ribelli. Il suo vigore fisico, i suoi freddi modi inflessibili, il suo coraggio e la sua equità, gli avevano ottenuto molto rispetto e non poche adulazioni nella sfera dei suoi primi successi. Si era sentito in essa riverito cd ammirato. Ed ora, fermo a sei i dall’anarchico detto il Professore, volse internamente uno sguardo nostalgico al mondo dei ladri, sano, senza morbosi ideali, fedeli ad un loro andazzo secolare, rispettosi verso le autorità costituite e mondi d’ogni macchia d’odio e di disperazione.
Dopo tale tributo a quanto è normale nella costituzione della società (poiché l’idea del furto appariva ai suoi istinti non meno normale di quella della proprietà), egli provò una viva contrarietà per il fatto d’essersi fermato, di aver parlato, di aver preso quella scorciatoia per arrivar più presto al suo ufficio. E col suo vocione autoritario, che aveva un carattere minaccioso, ripetè: — Ti dico che non cerco te. L’anarchico non si mosse. Un’interna sghignazzata gli scoprì i denti, non solo, ma anche le gengive, e lo riscosse tutto dalla testa ai piedi, senza però provocare il benché minimo suono. Perciò il Capo Ispettore Heat fu indotto a soggiungere: — Non ancora. Quando vorrò prenderti, saprò benissimo dove venirti a cercare. Queste parole erano perfettamente appropriate, conformi alla tradizione e adatte al suo carattere d’ufficiale di polizia rivolto a uno del suo gregge particolare. Ma furono ricevute in un modo nè appropriato nè conforme alle tradizioni. Era oltraggioso! Infine, la smilza, gracile figura ritta dinanzi a lui, parlò: — Non dubito affatto della pubblicità che i giornali darebbero in tal caso al vostro nome. Voi, meglio d’ogni altro, sapete che cosa vi capiterebbe. Ma poi rischiereste di essere sepolto insieme con me, nonostante gli sforzi che certo farebbero i vostri amici per separare i nostri rispettivi pezzi. Per quanto robusto fosse il disprezzo del Capo Ispettore Heat per lo spirito che dettava tali parole, l’atroce allusione di esse non mancò d’impressionare il suo animo. Troppo forte era il suo potere introspettivo, e troppo recente e precisa era la sua nozione delle cose cui si riferiva tale allusione. La penombra dell’angusto vicolo prese un aspetto sinistro dalla piccola, nera, fragile figura che, con le spalle al muro, parlava con un fioco vocino pacato e sicuro. Alla forte, tenace vitalità del Capo Ispettore, la miseria fisica di quell’essere, così ovviamente inetto a vivere, apparve enorme. Certo che, se avesse avuto la disgrazia di essere una sì misera creatura, non si sarebbe punto curato di prolungare la propria esistenza. Tanto forte era la presa della vita su di lui, che una nuova ondata di nausea gli provocò una lieve traspirazione alla fronte. Il brusìo della vita cittadina, l’attutito fragor di ruote delle due invisibili arterie a destra e a sinistra, giungevano al suo orecchio, attraverso la curva del sordido vicolo, con una preziosa familiarità, un’affascinante dolcezza. Era umano. Ma il Capo Ispettore Heat era anche uomo, e perciò non pii era possibile lasciar are quelle parole.
— Con questo, tutt’al più, potrai far paura ai bambini. Sta pur certo che quando ti vorrò prendere, ti prenderò. Lo disse molto bene, senza sarcasmo, con una calma quasi austera. — Non ne dubito, — rispose l’altro. - Ma certo non troverete occasione migliore della presente. Infatti, che splendida occasione di sacrificio, per un uomo di convinzioni reali! Certo, non potrete trovarne un’altra tanto favorevole, tanto umana. Guardate, non c’è neanche un gatto qui attorno, e queste vecchie catapecchie condannate farebbero lì, dove siete voi, un bellissimo mucchio di macerie. Certo non potrete mai più avermi con così poco danno alla vita e alla proprietà, clic siete tenuto a proteggere. — Parli senza saper quel che dici, — rispose con fermezza l’Ispettore Heat. — Se ti mettessi le mani addosso ora, non vorrei meglio di te. — Ab già! il gioco. Le regole del gioco. — Sta pur certo che alla fine vinceremo noi. Può darsi benissimo che un giorno sia necessario ammazzarvi come tanti cani idrofobi. E allora sarà buon gioco. Ma a proposito di gioco, Dio mi maledica se ci capisco qualcosa nel vostro. Ma probabilmente non ci capite nulla neanche voi. Ad ogni modo, è certo che non ei guadagnate nulla. — Già, ci guadagnate voi, almeno per il momento. E anche senza fatica. Infatti, a parte la paga, non vi siete fatto il vostro nome semplicemente col non capire i nostri obiettivi? — Quali obiettivi? — chiese il Capo Ispettore con l’ironica prontezza di chi ha fretta e sente di perdere inutilmente il proprio tempo. Il perfetto anarchico rispose con un sorriso che non separò le sue sottili, esangui labbra; e il celebre Capo Ispettore provò un senso di superiorità che lo indusse ad alzare un dito in atto di ammonimento. — Ti consiglio di rinunciarvi, — disse in tono adeguato, ma non gentile, però, come se avesse accondisceso a dare un buon consiglio a un noto malandrino. — Rinunciavi, o ti accorgerai che siamo in troppi. Il fisso sorriso del Professore vacillò, come se il suo spirito beffardo avesse
perduto la propria sicurezza. Il Capo Ispettore Heat riprese a dire: — Non lo credi?... eh? Eppure non hai che da guardarti intorno. È così. E, a ogni modo, non sapete fare. Finite sempre per far fiasco. Se i ladri non conoscessero meglio il loro mestiere, creperebbero tutti di fame. Il senso di un’invincibile moltitudine spalleggiante quell’uomo scatenò un cupo sdegno nel petto del Professore. Non fece più il suo enigmatico, beffardo sorriso. L’invitta potenza del numero, l’inoppugnabile stolidità della gran moltitudine, erano l’assillante terrore della sua sinistra solitudine. Le labbra gli tremarono alquanto, prima che potesse dire, con voce strozzata: — Cercate soltanto di fare il vostro mestiere come io faccio il mio. — Basta così, — lo interruppe il Capo Ispettore. Questa volta il Professore scoppiò a ridere forte, e così ridendo, proseguì per la sua strada. Ma non rise a lungo. Fu un miserabile omuncolo dal viso lungo, triste triste, che sbucò dall’angusto vicolo nella fragorosa baraonda della grande arteria. Camminava col o macchinale del vagabondo che va avanti, sempre avanti, noncurante della pioggia o del sole, in un sinistro distacco da ogni aspetto del cielo e della terra. Il Capo Ispettore Heat, dal canto suo, dopo averlo seguito per un po’ con gli occhi, uscì da quel vicolo col o risoluto d’un uomo anch’esso noncurante delle inclemenze del tempo, ma conscio di avere su questa terra una missione autorizzata, nonché l’appoggio morale dei suoi simili. Tutti gli abitanti dell’immensa città, tutta la popolazione dell’intero paese, e perfino tutti gli altri milioni d’uomini formicolanti su tutto il pianeta, compresi i ladri e i mendicanti, erano con lui. Sì, anche i ladri erano con lui, in questo caso particolare. F, la coscienza di quel o universale nella sua generale attività, lo incitò ad azzuffarsi col suo problema attuale. Questo problema consisteva nell’atteggiamento da assumere di fronte al Tenente Commissario, suo immediato superiore. Perenne problema d’ogni fido e leale servitore! Nel caso presente, l’anarchia gli dava una particolare complessità, ma niente altro. A vero dire, il Capo Ispettore Heat si preoccupava ben poco dell’anarchia in quel momento. D’altronde, non vi aveva mai dato eccessiva importanza; anzi, non era mai riuscito a prenderla sul serio. Più che altro, gli
sembrava una condotta disordinata, disordinata senza nemmeno l’umana scusa dell’ubriachezza, la quale, se non altro, implica la presenza di buoni sentimenti e di un’amabile propensione alla festosità. Come delinquenti, gli anarchici erano realmente inclassificabili. E ricordando il Professore, il Capo Ispettore Heat, senza minimamente rallentare il o, mormorò tra i denti: — Pazzoide! Il mestiere di pigliar ladri era tutt’altra cosa. Aveva la particolare serietà dei classici sport, in cui il miglior giocatore vince o fa vincere la sua squadra secondo regole perfettamente comprensibili. Con gli anarchici, invece, non c’era regola alcuna. Cosa che non piaceva affatto al Capo Ispettore. Era una pazzia, sì, ma d’un genere che eccitava l’opinione pubblica, impressionava le persone altolocate e influiva sui rapporti internazionali. Una grinta dura, spietata, s’irrigidì sul viso del Capo Ispettore. La sua mente corse dall’uno all’altro degli anarchici del suo gregge. Non uno aveva metà dell’astuzia di questo o di quell’altro malandrino di sua conoscenza. Non la metà, neanche la decima parte. Al quartiere generale, il Capo Ispettore fu subito ammesso nell’ufficio del Tenente Commissario. Lo trovò con la penna in mano e chino sopra una grande scrivania ingombra di carte, come in adorazione dinanzi a un enorme calamaio doppio di bronzo e di cristallo. Tubi acustici, simili a un groviglio di serpi, erano legati per l’estremità dietro lo schienale della sua poltrona di legno. Si limitò ad alzare gli occhi, dalle palpebre molto più scure del viso, e anche molto grinzute. I rapporti erano arrivati: esatta contezza era stata data d’ogni singolo anarchico. Detto ciò, egli riabbassò gli occhi, firmò rapidamente due fogli, e solo allora depose la penna, si rovesciò contro lo schienale e fissò uno sguardo interrogante sul viso del suo celebre subordinato, il quale lo sostenne molto bene, deferente e imperscrutabile. — Credo che abbiate ragione, — gli disse. — Gli anarchici di Londra non devono aver nulla a che fare con questa faccenda. Sono contento del modo in cui i vostri uomini li hanno tenuti d’occhio. Ma, d’altra parte, capirete che, per il pubblico, questo equivale a una confessione d’ignoranza. Parlava lentamente, quasi cautamente. Sembrava che il suo pensiero s’indugiasse su ogni singola parola, coinè i piedi sui gradini d’una scala.
— A meno che non abbiate riportato qualcosa di utile da Greenwich. Subito il Capo Ispettore cominciò a dar conto delle proprie indagini con la chiarezza clic gli era abituale. Il suo superiore, voltando d’un tantino la poltrona e accavallando le gambe sottili, si curvò da una parte, appoggiato su un gomito, e si portò l'altra mano alla fronte per farsi solecchio, bagliori d'argento molto lustro guizzarono sui lati del suo capo color ebano, quando, alla fine, curvò lentamente la testa. Il Capo Ispettore Heat attese con l'aria di riare nella mente tutto ciò che aveva detto, mentre realmente pensava all'opportunità di soggiungere qualche altra cosa. Il Tenente Commissario troncò bruscamente quell’esitazione. — Credete ch’erano in due? — chiese senza scoprire gli occhi. Il Capo Ispettore lo riteneva più clic probabile. Secondo lui, quei due s’erano separati a un centinaio di yarde dalle mura dell’Osservatorio. Spiegò pure come l’altro poteva essersi allontanato rapidamente e inosservato. La nebbia, benché non molto fitta, lo aveva certo favorito. Sembrava che avesse accompagnato l’altro sul luogo, lasciando poi clic se la cavasse da solo. Confrontando l'ora in cui la vecchia li aveva visti venir dalla stazione di Maze Hill con quella dell’esplosione, si poteva presumere che l’altro, nel momento in cui il suo compagno si distruggeva così completamente, già si trovasse alla stazione di Greemvich Park, pronto a prendere il treno successivo. — Molto completamente, eh? — mormorò il Tenente Commissario da sotto l’ombra della mano. Con alcune frasi vigorose, il Capo Ispettore descrisse l’aspetto delle spoglie. Poi, sorridendo, soggiunse : — La giuria del magistrato avrà di che divertirsi. Il Tenente Commissario scoprì gli occhi. — Non avremo nulla da riferirgli, — osservò languidamente. Guardò su, e, per un momento, osservò l’attitudine ostentatamente indifferente del Capo Ispettore. La sua natura era di quelle poco accessibili alle illusioni. Ben sapeva che i dipartimenti sono alla mercè degli ufficiali subordinati, i quali
hanno un loro proprio concetto della lealtà. La sua carriera s’era iniziata in una colonia dei tropici. Il lavoro di laggiù gli era molto piaciuto. Quella sì era vera polizia. Ed anche era riuscito a smascherare e a sciogliere un certo numero di nefaste società segrete. Poi era tornato in patria a godersi una lunga licenza, e vi si era ammogliato piuttosto impulsivamente. Un buon partito, dal punto di vista sociale, sennonchè sua moglie, per certe cose che ne aveva sentito dire, s’era fatta un’opinione decisamente sfavorevole del clima coloniale. Ma d’altra parte ella aveva relazioni molto influenti. Insomma, un ottimo partito. Il lavoro che gli toccava fare adesso, però, non gli piaceva. Sentiva di dipendere da troppi subordinati, da troppi padroni. La vicina presenza di quello strano fenomeno emotivo chiamato opinione pubblica, gravitava sul suo spirito e lo allarmava per la sua natura irrazionale. Certo doveva averle attribuito, per ignoranza, un esagerato potere tanto nel bene quanto nel male — specie nel male; mentre i rudi venti dell’est della primavera inglese aumentavano la sua solita diffidenza nei moventi degli uomini e nell’efficienza delle loro organizzazioni. Cosicché in quegli ultimi giorni, la futilità del lavoro d’ufficio gli era parsa più che mai penosa per il suo fegato delicato. Si alzò, alzandosi in tutta la propria altezza, e, con o singolarmente pesante per un uomo così snello, attraversò l’ufficio per fermarsi presso una finestra. Era stata una bruttissima giornata, soffocata dalla nebbia in principio, ed ora affogata da una fitta e diaccia pioggerella. Le vacillanti, offuscate fiammelle di gas sembravano dissolversi in un’atmosfera acquosa. E le pretese dell’umanità oltraggiata dall'infamia di quel tempo, sembravano generate da una mastodontica, disperata vanità, che altro non meritava se non disprezzo, meraviglia e compatimento. — Orrendo! orrendo! — pensò, col viso quasi contro il vetro. — E dire che questo tempaccio dura da una decina di giorni, anzi, da una quindicina... sì, da una quindicina. — Per un momento cessò completamente di pensare. Quel totale silenzio nel suo cervello durò circa tre secondi. Dopo di che, tanto per dire qualcosa: — Ha preso le sue misure per rintracciare l’altro su e giù lungo la linea? Era pienamente convinto che nulla di utile era stato trascurato. Il Capo Ispettore Heat conosceva, naturalmente, a fondo il mestiere della caccia all'uo- mo. Inoltre, si trattava, nel caso presente, di quelle solite misure che avrebbe prese anche un principiante. Alcune domande ai raccoglitori di biglietti e ai portieri
delle due piccole stazioni, potevano fornire ulteriori particolari circa l’aspetto di quei due; e un’occhiata ai biglietti raccolti poteva rivelare subito donde fossero venuti quel mattino. Era elementare, e non poteva essere stato nascosto, Infatti, il Capo Ispettore rispose che si era debitamente provveduto a tutto, subito dopo la deposizione della vecchia. E fece il nome della stazione d’origine. — Sì, son venuti di là. L’impiegato che ha ritirato i biglietti a Maze Hill ricorda di aver visto uscire dalla stazione due individui rispondenti alla mia descrizione. Li aveva presi per due rispettabili operai d’un genere un po’ superiore, pittori d’insegne o decoratori. Quello grande era sceso da uno scompartimento di terza classe, con in mano una latta chiara. Sulla banchina, aveva dato quella latta al giovane biondo che lo seguiva. Tutto concordava perfettamente con quanto la vecchia aveva detto a Greenwich al sergente di polizia. Il Tenente Commissario, col viso sempre volto alla finestra, espresse il suo dubbio circa il fatto che quei due avessero un qualunque rapporto con l’esplosione. Tutta quella teoria riposava unicamente sulle parole d’una vecchia fantesca, ch’era stata quasi rovesciata da un ante frettoloso. Autorità, questa, poco sostanziale, a meno che non le si attribuisse una subita ispirazione. — E voi, francamente, credete che sia stata ispirata? — chiese con grave ironia, volgendo sempre le spalle all’interno, come rapito in contemplazione dinanzi alle colossali sagome della città immersa nella notte. Nè si volse quando udì mormorare la parola « provvidenziale » dal primo subordinato del suo dipartimento, il cui nome, spesso menzionato dai giornali, era noto al gran pubblico come quello d’un suo zelante e attivo protettore. — Ho visto coi miei propri occhi schegge e particelle d’una latta chiara, — affermò il Capo Ispettore Heat, alzando leggermente la voce. — E questo mi sembra un fatto che confermi abbastanza la deposizione della vecchia. — E quei due sarebbero venuti da quella stazioncina di campagna? — disse il Tenente Commissario in tono incredulo. Gli fu risposto che due dei biglietti ritirati a Maze Hill all’arrivo di quel treno portavano infatti il nome di quella stazioncina. La terza persona discesa da quel treno era un merdaiolo di Gravesend, molto noto al personale della stazione. Il Capo Ispettore comunicò queste ultime informazioni in un tono reciso, non esente d’una punta di malumore, come d'altronde sogliono fare, in circostanze
analoghe, i servitori fedeli e coscienti della loro propria fedeltà, nonché del valore dei loro leali servigi. Ma il Tenente Commissario non si staccò dalle tenebre esterne, vaste come un mare. — Due anarchici stranieri velluti da quel luogo, — disse apparentemente ai vetri della finestra. — Piuttosto inverosimile. — Infatti, signore. Ma lo sarebbe anche più se quel tal Michaelis non soggiornasse attualmente là vicino, in un cottage. Al suono di quel nome improvvisamente coinvolto in quella brutta faccenda, il Tenente Commissario scartò senz’altro l’imprecisa prospettiva della sua quotidiana partita di Whist al club. Quello era uno dei migliori momenti della sua vita d’ogni giorno, poiché allora poteva far mostra della propria abilità senza l’assistenza di alcun subordinato. Andava regolarmente al club per giocare, dalle cinque alle sette, cioè fino all'ora di pranzo, dimenticando in quelle due ore quanto v’era di sgradevole nella sua nuova esistenza, quasi come se quel gioco fosse per lui una droga benefica, capace di placare gli spasimi della sua scontentezza morale. I suoi compagni erano il tetramente faceto editore d’una rivista molto popolare, un vecchio e taciturno avvocato dagli occhietti maliziosi, e un vecchio colonnello semplicione, dalle mani brune e nervose. Erano soltanto suoi conoscenti di club. Non li aveva mai incontrati altrove. Ma tutti sembravano recarsi al gioco con lo stesso spirito di compagni di sofferenza, come se quello fosse infatti un rimedio per i segreti malanni dell’esistenza. Così, ogni giorno, quando il sole declinava sugli innumerevoli tetti della città, una dolce, gradevole impazienza, simile all’attrazione d’una profonda amicizia, illuminava la sua fatica professionale. Ed ora quella gradevole sensazione cessò dentro di lui con qualcosa di molto simile a un urto; subito sostituito da. un particolare interesse alla sua opera di protettore della società, — un interesse del tutto improprio, che si potrebbe definire una subita e viva diffidenza per l’arme che aveva in mano.
VI
La signora protettrice di Michaelis, l’apostolo di speranze umanitarie, era una delle più influenti e distinte conoscenti della moglie del Tenente Commissario, ch’ella chiamava Annie e trattava ancora come una fanciulla poco saggia e del tutto inesperta. Però aveva accolto suo marito — cosa che non avevano fatto tutte le altre influenti relazioni di lei — nella cerchia degli amici. Splendidamente maritata in una remota epoca del ato, aveva seguito per qualche tempo grandi affari da vicino e anche conosciuto alcuni grandi uomini. Ella stessa era una gran signora. E adesso, benché di età assai avanzata, faceva mostra di quel temperamento d’eccezione che sfida il tempo, come una convenzione piuttosto volgare, fatta per la gran massa dell’umanità inferiore. Pure per ragioni di temperamento, aveva rifiutato il proprio riconoscimento e molte altre convenzioni assai più facili a scartare — alcune semplicemente perchè importune, altre perchè d’impaccio a certe fobie e a certe simpatie che aveva. L’ammirazione era un sentimento a lei ignoto (una delle tante cose che segretamente le aveva rimproverato il suo defunto marito) — anzitutto, perché più o meno intriso di mediocrità, e poi perchè, in certo qual modo, implica un riconoscimento d’inferiorità. Cose entrambe realmente inconcepibili alla sua natura. Giudicava tutto dall’alto della propria posizione sociale, il che le rendeva tanto più facile parlare senza peli sulla lingua. Così pure si comportava nei propri atti; e siccome il suo tatto derivava da un fondo profondamente umano, il suo vigore fìsico si conservava in modo sorprendente e la sua superiorità restava serena e cordiale. Tre generazioni l’avevano ammirata, e l’ultima l’aveva dichiarata una donna stupenda. Intelligente, con una speeie di altezzosa semplicità, e in fondo curiosa, ma non come tante altre donne di solo pettegolezzo, dilettava la sua tarda età attraendo nella propria cerchia, col fascino del suo grande, quasi storico prestigio sociale, tutto quanto, sia legalmente, sia illegalmente, per rango, spirito, audacia, fortuna o sfortuna, emergeva dall’uguale pianura dell‘umanità. Altezze reali, artisti, scienziati, giovani uomini di Stato e ciarlatani di tutte le età e di tutte le condizioni, i quali ultimi, essendo leggeri e inconsistenti, galleggiavano come sughero, e meglio di chiunque altro rivelavano i corsi delle correnti superficiali, erano stati benvenuti in quella casa, ascoltati, compenetrati, compresi e apprezzati per la di lei personale edificazione. Ella, secondo le sue proprie parole, era curiosa di vedere che cosa stesse per
diventare il mondo. E siccome il suo spirito era essenzialmente pratico, i suoi giudizi sugli uomini e sulle cose, beri' che basati su particolari pregiudizi, non erano quasi mai errati, nè mai volutamente ingiusti. Il suo salotto era forse l’unico luogo in tutto il mondo dove un Tenente Commissario di polizia potesse incontrare senza alcuna ragione professionale un vigilato speciale. Chi poi vi avesse introdotto quel Michaelis, egli non lo sapeva. Sospettava un certo membro del Parlamento, persona d’illustre parentela e di simpatie marcatamente anticonvenzionali, che fornivano inesauribili motivi ai giornaletti satirici. I notabili, e anche quelli solo noti per un giorno, affluivano liberamente a quel tempio della curiosità non ignobile d’una vecchia. Impossibile prevedere chi si poteva incontrare nella semi-intimità di quella gran sala dorata e tappezzata di sbiadite sete azzurrognole, nel sommesso brusìo dei gruppetti seduti o ritti nei vani delle sei alte finestre. Michaelis era stato oggetto d'una repulsione del sentimento popolare, quello stesso sentimento che anni prima aveva applaudito la feroce pena cui era stato condannato per complicità in un tentativo piuttosto folle di strappare alcuni prigionieri da un furgone di polizia. I cospiratori s’erano proposti di sparare sui cavalli e quindi sopraffare la scorta. Disgraziatamente, anche un poliziotto rimase mortalmente colpito. Costui aveva moglie e tre bambini in tenera età; e la sua morte suscitò in tutto quel Regno, per il benessere, la difesa e la gloria del quale tanti uomini muoiono oscuramente ogni giorno, un clamore di furibonda indignazione, di rabbiosa, implacabile pietà. I tre principali responsabili furono impiccati. Michaelis, giovane e snello, fabbro di mestiere e assiduo frequentatore di scuole serali, nulla sapeva dell’uccisione di quel poliziotto, essendogli stato assegnato il compito di aprire, con alcuni altri, la porta posteriore dello speciale veicolo. Al momento dell’arresto, aveva un mazzo di grimaldelli in una tasca, una pesante cesoia nell’altra, e una piccola leva in mano; insomma, un completo equipaggiamento di scassinatore. Però, nessuno scassinatore si sarebbe buscato una simile condanna. La morte del poliziotto Lo aveva molto addolorato, ma lo aveva anche addolorato l'esito disastroso del complotto. Non nascose ai suoi giudici alcuno di questi sentimenti, e tale specie di compunzione apparve scandalosamente imperfetta alla stipata Corte. I giudici, pronunciando la sentenza a vita, commentarono con orgasmo la depravazione morale del giovane carcerato. Ciò generò l’ingiustificata celebrità della sua condanna; e quella della sua liberazione fu similmente generata da persone die vollero sfruttare l’aspetto
sentimentale della condanna stessa, sia per propri fini, sia per una ragione allatto intelligibile. Nell’innocenza del cuore e nella semplicità della mente, lui li lasciò fare. Nulla di quanto gli capitava poteva avere per lui importanza alcuna. Era simile a quei santi la cui personalità si perdeva nella contemplazione della propria fede. Le sue idee non avevano nulla della natura delle convinzioni. Erano inaccessibili al ragionamento. Formavano, con le contraddizioni e le oscurità loro, un’irresistibile fede umanitaria, ch’egli, più che diffondere, confessava, e ciò con un imperturbabile dolcezza d’animo, un sorriso di placida sicurezza, e co’ suoi ingenui occhi azzurri castamente abbassati, perchè la vista dei visi turbava le ispirazioni sviluppate nella solitudine. In quella sua caratteristica attitudine, tanto più patetica pel grottesco dell’inguaribile obesità che doveva trascinare fino alla tomba come una palla di galeotto, il Tenente Commissario l’aveva un giorno trovato sprofondato in una poltrona privilegiata di quel salotto. Stava là, presso il divano della vecchia signora, a parlar col suo vocino dolce, cheto cheto, senza maggior consapevolezza di quanta potrebbe averne un bambino, e con in più qualcosa della grazia d’un bambino — l’irresistibile grazia della più schietta veracità. Fiducioso nel futuro, le cui segrete vie gli erano state rivelate entro i quattro muri d’un noto penitenziario, non aveva nessunissima ragione per diffidare di chicchessia. Pur senza poter dare alla grande e curiosa signora un’idea ben definita rispetto al divenire del mondo, l’aveva tuttavia profondamente impressionata con la sua fede che nulla poteva amareggiare, e col suo purissimo ottimismo. Una certa semplicità di pensiero è comune alle anime serene di ambo le estremità della scala sociale. E così, a modo suo, era semplice anche la gran signora. Le idee di lui non avevano nulla, che la potesse scandolezzare o comunque stupire, giacché ella le giudicava dall’alto della sua eccelsa posizione. Infatti, la sua simpatia era facilmente accessibile a un individuo di quella specie. Ella non era una capitalista speculatrice; era, per modo di dire, al disopra del gioco delle condizioni economiche. E la sua inesauribile pietà per le più ovvie forme delle comuni miserie umane, era dovuta appunto al fatto che queste le riuscivano del tutto estranee, così che doveva tradurre i propri concetti in termini di sofferenza mentale per poter afferrare il senso della loro crudeltà. Il Tenente Commissario ben ricordava la conversazione di quei due. L’aveva ascoltata in silenzio. Lo aveva, in certo qual modo, eccitato e insieme commosso per la sua immensa semplicità, pressapoco come se individui appartenenti a remoti pianeti, si fossero sforzati d’intrattenere tra loro rapporti spirituali. Eppure, quella grottesca incarnazione della ione umanitaria, affascinava l’immaginazione.
Infine, Michaelis s'era alzato, e, presa la mano della gran signora, l’aveva stretta e trattenuta per un momento nel suo gran palmo rimbottito. con un fare amichevole assolutamente sgombro da qualsiasi imbarazzo; poi aveva volto all'angolo semiprivato della sala le sue spalle vaste, quadre e come distese sotto la corta giacca di lana. Guardandosi attorno con serena benevolenza, s’era incamminato verso un uscio lontano, tra gruppi di visitatori. Lungo il suo aggio. le conversazioni s’erano interrotte. Innocentemente, aveva sorriso a un’alta, brillante signorina, i cui occhi avevano accidentalmente incontrato i suoi; ed era uscito, inconsapevole di tutti gli sguardi appuntati su di lui. La prima comparsa di Michaelis nell’alta società era stata un successo — un successo non turbato neppure da un mormorio di derisione. Le conversazioni interrotte avevano ripreso il loro corso nel tono grave o leggero che loro era proprio. Solo un alto, dinoccolato signore sulla quarantina, dall'aria molto attiva, che s’intratteneva con due signore presso una finestra, aveva osservato forte e con sorprendente profondità: — Duecentocinquanta libbre e non più di cinque piedi e sei pollici. Poveraccio! È terribile... terribile. Al Tenente Commissario, rimasto solo con la padrona di casa nella parte privata di là dal paravento, era parso che questa, che lo guardava con sguardo assente, ricomponesse le proprie impressioni mentali dietro la pensosa immobilità del bel viso senile. Uomini dai baffi grigi e d’aspetto robusto, sano e vagamente sorridente, s’erano avvicinati girando attorno al paravento; poi, due signore mature, con aria matronale di graziosa risoluzione, e un individuo dalle gote smunte accuratamente rasate, che ostentava un monocolo cerchiato d’oro e munito d’un largo nastro nero, con un effetto di vecchio, superato snobismo. Un silenzio deferente, ma pieno di riserve, aveva regnato per un momento, cioè fin quando la gran signora aveva esclamato, non con risentimento, ma con una certa aria d’indignata protesta: — E questo, ufficialmente, sarebbe un rivoluzionario! Che controsenso! E il Tenente Commissario, sentendosi fissamente guardato, aveva mormorato come per scusarsi: — Probabilmente non pericoloso. — Non pericoloso? Vorrei un po’ vedere, adesso, che lo ritenessero anche
pericoloso. Ma se ha un’anima da santo! E lo hanno tenuto sotto chiave per vetit’anni! Tanta stupidità fa raccapricciare. Ora che l’hanno lasciato andare, non ha più trovato nessuno dei suoi: tutti via, chissà dove, o morti. I suoi genitori sono morti, la ragazza che doveva sposare è morta mentr’egli era in prigione. E naturalmente, ha anche perduto l’abilità necessaria per esercitare il suo mestiere. Me l’ha raccontato egli stesso, e con la più dolce rassegnazione. Lo consola il fatto di aver avuto abbastanza tempo per pensare a fondo. Bella consolazione! Se tutti i rivoluzionari fossero fatti di quella pasta, molti dei nostri dovrebbero buttarsi loro ai ginocchi. E, mentre i banali sorrisi di società s’erano induriti sui visi esperti, rivolti a lei con convenzionale deferenza, aveva soggiunto, lievemente commossa: — È evidente che quella povera creatura non è più in grado di curarsi da sè. Qualcuno dovrà badargli. Dopo di che, s’era udito la voce militare dell’uomo molto attivo consigliare seriamente da una certa distanza : — Bisognerebbe raccomandargli di seguire qualche cura. Costui era, per la sua età, in condizioni floridissime e perfino il suo lungo abito nero aveva qualcosa di elasticamente sano, quasi come un tessuto vivo.
Quell’uomo è virtualmente un mutilato - aveva soggiunto in tono d’infallibilità.
Altri allora, come improvvisamente riacquistando la parola, s’erano affrettati a mormorare parole di comione: “Stupefacente”, “Mostruoso”, “Incredibilmente penoso a vedere”. Quello smilzo, dal largo nastro appeso al monocolo, aveva causticamente pronunciato la parola “Grottesco”, la cui precisione era stata apprezzata dalle persone che gli stavano intorno. Si erano sorrisi a vicenda. Il Tenente Commissario, però, non aveva espresso la propria opinione né allora né poi, non essendogli possibile, per la sua posizione, aver opinioni indipendenti nei riguardi d’un vigilato speciale. Però, in cuor suo, era pienamente d’accordo
con l’amica di sua moglie, circa il fatto che Michaelis era un umanitario sentimentale, un po’ matto si, ma assolutamente incapace di far male ad una mosca. Cosicché, quando quel nome saltò fuori da quella seccante faccenda di bomba, eglì intuì subito tutte le gravi conseguenze che potevano derivarne all’apostolo vigilato e subito pensò alla tenace infatuazione della vecchia signora. L’arbitraria gentilezza di costei non avrebbe certo tollerato alcuna menomazione della libertà di Michaelis. Era una profonda, calma, convinta infatuazione. Non solo lo aveva sentito inoffensivo, ma lo aveva anche dichiarato tale, il che, per chi conosceva la sua mentalità assoluta, equivaleva a una dimostrazione inoppugnabile. Era come se la mostruosità di quell’uomo, con i suoi ingenui occhi di bambino e il suo grasso sorriso angelico, l’avesse realmente affascinata. Era giunta quasi a credere nella sua teoria del futuro, giacché questa non era ripugnante ai suoi pregiudizi. Il nuovo elemento plutocratico dell’organismo sociale non le piaceva e l’industrialismo come metodo di sviluppo umano le appariva singolarmente repulsivo, per la sua natura meccanica e insensibile. Le speranze umanitarie del mite Michaelis non tendevano alla distruzione, ma soltanto alla completa rovina economica di tale sistema. Ed ella, sinceramente, non vedeva qual male morale potesse esservi in ciò. Se non altro, avrebbe spazzato tutta la moltitudine di parvenus che le riuscivano odiosi e sospetti, non perché giunti a qualcosa (lo negava energicamente), ma per la loro profonda incomprensione delle cose di questo mondo, causa prima della rozzezza delle loro percezioni e dell’aridità dei loro cuori. Con l’annichilimento d’ogni capitale, sarebbero scomparsi anche costoro; mentre i valori sociali sarebbero sopravvissuti intatti alla rovina universale (ammettendo che possa essere realmente universale come preconizzava Michaelis). La scomparsa dell’ultima moneta non poteva essere minimamente risentita dalle persone d’alto bordo. Ella non poteva concepire come mai tale fatto avrebbe, per esempio, potuto influire sul suo ceto. E tutte queste scoperte le aveva comunicate al Tenente Commissario, con tutta l’impavida serenità d’una vecchia sfuggita al flagello dell’indifferenza. Egli, dal canto suo, s’era prescritto di accogliere tutto con un silenzio che, per cortesia e simpatia, aveva cura di non rendere offensivo. Nutriva infatti un vero affetto per l’annosa discepola di Michaelis, un complesso sentimento generato un po’ dal suo prestigio, dalla sua personalità, ma soprattutto dall’istinto della gratitudine lusingata. Si sentiva realmente benvoluto in casa sua. Lei era per lui la viva incarnazione della gentilezza e, praticamente, anche saggia, alla maniera delle donne di molta esperienza. Gli rendeva la vita coniugale assai più facile di quanto sarebbe stata senza il di lei pieno e generoso riconoscimento dei suoi diritti come marito di Annie. L'influenza ch’ella esercitava su sua moglie — donna divorata da ogni
specie di piccoli egoismi, di piccole invidie, di piccole gelosie — era sommamente benefico. Ma, disgraziatamente, tanto la sua gentilezza quanto la sua saggezza erano d’una natura irragionevole, prettamente femminile, e quindi molto difficile da trattare. Ella era rimasta compiutamente donna per tutta la lunga successione dei suoi anni, cioè senza diventare, come tante altre, un vecchio, ciabattante e pestilenziale maschio in gonnella. Ed egli anche pensava di lei come d’una donna — incarnazione di quanto v’è di più femminile, compresi quei sentimenti teneri, ingenui e fieri, che sono la guardia di corpo degli uomini che parlano sotto l’influenza d’una qualunque emozione vera o falsa, dei predicatori, dei veggenti, dei profeti e dei riformatori. Apprezzando in tal modo quell'ottima e distinta amica, il Tenente Commissario si allarmò della possibile sorte dell’ex-prigioniero Michaelis. Se fosse stato sospettato di aver avuto, sia pur lontanamente, parte in quell’attentato, certo sarebbe stato rimandato alla sua prigione, per trascorrervi almeno gli anni condonati. I quali lo avrebbero indubbiamente ucciso; non ne sarebbe mai uscito vivo. Il Tenente Commissario fece una riflessione estremamente sconveniente per la sua posizione ufficiale, riflessione che nemmeno poteva essere, a ino’ di compensazione, accreditata al suo senso umanitario. « Se lo arrestano, — pensò — quella signora non me la perdonerà ». La franchezza di quel pensiero provocò in lui una certa irridente autocritica. Chi si rassegna a un lavoro sgradevole, non può preservare, riguardo a sé stesso, molte illusioni redentrici. Il disgusto o la mancanza di entusiasmo, finiscono fatalmente per estendersi dall’occupazione alla personalità. Solo quando, per un fortunato accidente, l’attività viene a coincidere con una particolare serietà di temperamento, può essere assaporato il conforto d’una piena soddisfazione. Ora, come si è già detto, il suo attuale lavoro non gli piaceva. Quello che prima aveva disimpegnato in una parte remota del globo, aveva avuto il carattere nobilitante d’una specie di guerra irregolare, o almeno i rischi e l’eccitamento d’uno sport violento. Le sue reali abilità, d’un ordine eminentemente amministrativo, vi si erano potute associare a uno spirito avventuroso. Incatenato a una scrivania, nel folto d’una moltitudine di quattro milioni d’uomini, si riteneva vittima di un ironico Destino — lo stesso, certo, che gli aveva fatto sposare una donna eccezionalmente sensibile in materia di climi coloniali, oltre ad altre limitazioni attestanti della delicatezza della sua natura... e dei suoi gusti. Cosicché, pur giudicando sarcasticamente i propri timori, conservò nella mente lo sconveniente pensiero. L’istinto di preservazione era molto vivo in lui. Cosicché finì per
ripeterlo mentalmente con profana enfasi e assai maggiore precisione: cc All’Inferno! Se lascio fare a questo maledetto Heat, me lo farà crepare in prigione, soffocato dal suo grasso. E quella signora non me la perdonerà mai. » Il suo bruno viso affilato, con la bianca striscia del colletto sotto il luccichio argenteo dei capelli cortissimi dell’occipite, rimase imibile. Il silenzio era durato tanto, che il Capo Ispettore Heat si peritò di raschiarsi la gola. Questo rumore fece effetto. Lo zelante e intelligente ufficiale s’udì domandare dal suo superiore, senza che le spalle di questi si muovessero: — Credete davvero che Michaelis abbia un qualunque rapporto con questa faccenda? Il Capo Ispettore fu molto positivo, ma anche cauto: — Beli, ad ogni modo, ne abbiamo abbastanza per agire. Non c'è ragione perchè un simile individuo rimanga uccel di bosco. — Occorreranno prove convincenti. Il Capo Ispettore inarcò le sopracciglia, guardando le nere, strette spalle ostinatamente volte alla sua intelligenza e al suo zelo. — Non ci sarà difficile raccoglierne abbastanza contro costui, — disse con virtuosa compiacenza. — Potete fidarvi di me, signore, — soggiunse senza alcuna necessità, per mera pienezza di cuore; poiché era felice di aver un uomo da buttare in preda al pubblico, qualora il caso presente lo fe ruggire. Per il momento, non era possibile prevedere se avrebbe ruggito o no. Tutto dipendeva, naturalmente, dall’atteggiamento dei giornali. Comunque, il Capo Ispettore Heat, di professione fornitore delle patrie prigioni, e moralmente uomo d’istinti prettamente legali, riteneva logicamente che i nemici giurati della legge dovessero essere tutti incarcerati. In forza di tale convinzione, commise un altro errore di tatto. Si permise un presuntuoso risolino, e ripetè: — Quanto a questo, potete fidarvi di me, signore. Questo fu troppo per la calma forzata con la quale il Tenente Commissario aveva occultato, per circa diciotto mesi, l’irritazione che
gli davano il sistema e i subordinati del suo ufficio. Zaffo quadro cacciato in un buco rotondo, quella liscia rotondità da lungo tempo stabilita, e in cui un altro di forme meno angolose si sarebbe adattato con voluttuosa acquiescenza dopo una scossa o due, faceva a lui l’effetto d’un oltraggio quotidiano. E quello che più risentiva, era appunto il fatto di dover troppo fidarsi. Cosicché, al risolino del Capo Ispettore, prontamente girò sui tacchi e si scostò, come respinto dalla finestra da una scossa elettrica. Colse nel viso del suo interlocutore, occhieggiante di sotto i baffi, non solo la compiacenza propria alla circostanza, ma anche certe tracce di sperimentale vigilanza negli occhi tondi, che prima, certo, erano fissi sulle sue spalle, e che ora scontrarono i suoi per un secondo, prima che il carattere intenso del loro sguardo assumesse un’aria semplicemente sorpresa. Il Tenente Commissario di polizia aveva realmente qualche titolo a ricoprire quel posto. Subito i suoi sospetti si destarono. A vero dire, i suoi sospetti circa i metodi polizieschi (quando la polizia non era un corpo semimilitare organizzato da lui stesso) avevano il sonno leggero. S’appisolavano talvolta per mera noia, ma non s’addormentavano mai profondamente; e la stima ch’egli aveva del Capo Ispettore Heat, oltre ad essere moderata, escludeva ogni specie di confidenza morale. « Vuol spuntare qualcosa per proprio conto, » esclamò mentalmente, e fremè d’ira. Tornò alla scrivania con i smisurati, e tornò a sedersi violentemente. « E a me tocca star qui a marcire su questo letamaio di carte! » rifletté con irragionevole risentimento. « Son supposto di tener in pugno tutte le fila, mentre realmente posso tenere solo quelle che mi danno. Nient’altro. Delle altre, possono fare quel che vogliono. » Alzò il capo e volse al suo subordinato un lungo, emaciato viso, dalle accentuate fattezze d’un energico Don Chisciotte. — Ditemi un po’, che cosa avete in mente di fare? L’altro guardò stralunato. Guardò senza batter ciglio, con occhietti tondi perfettamente immobili, come soleva guardare gli svariati membri della classe criminale quando rispondevano alle sue domande in tono d’oltraggiata innocenza, o di falsa semplicità, o di cupa rassegnazione. Ma dietro quella fissità professionale e pietrosa, c’era anche una certa sorpresa, poiché il Capo Ispettore Heat, la destra del suo dipartimento, non era avvezzo a sentirsi interloquire in tono simile, in cui la nota del disprezzo era abilmente fusa con quella dell’impazienza. Cominciò quindi in un modo temporeggiante, come sorpreso da
un’esperienza totalmente nuova e imprevista: — Volete dire ohe cosa vorrei fare con Michaelis? Il Tenente Commissario osservò la testa tonda tonda, i baffi da nostromo scandinavo spioventi sotto la linea della pesante mascella, l’insieme di quella piena e livida fisionomia, i cui tratti caratteristici erano come stemperati dalla troppa carne, le argute grinzette che s’irradiavano agli angoli degli occhi — e da quella voluta contemplazione del suo fido e capace ufficiale trasse una convinzione così improvvisa, che gli fece l’effetto di un’ispirazione. E in tono misurato gli disse: — Ho le mie brave ragioni per credere che, quando voi siete entrato in questo ufficio, non avevate in mente soltanto Michaelis... Probabilmente, non lo avevate in mente affatto. — Avete delle ragioni? — mormorò il Capo Ispettore, con tutti i segni del più vivo stupore, il quale, fino a un certo punto, era abbastanza genuino. Aveva scoperto in quella faccenda un lato delicato e imbarazzante, che gl’imponeva una certa dose d’insincerità — quella particolare insincerità che, sotto i termini di fiuto, prudenza, discrezione, s’impone, tosto o tardi, nella gran maggioranza delle faccende umane. Ed ora si sentiva press’a poco come si sentirebbe un funambolo se, nel bel mezzo del suo « numero », il direttore del teatro di varietà saltasse fuori dal suo sgabuzzino direttoriale e si mettesse a scuotergli la fune. L’indignazione, il senso del pericolo morale generato da un procedimento così proditorio, congiunti all’immediata apprensione d’una frattura dell’osso del collo, lo farebbero, come si suol dire familiarmente, uscir dai gangheri. E a tale suo sentimento s’aggiungerebbe anche lo sdegno dell’arte oltraggiata, giacche l’uomo deve identificarsi con qualcosa di più tangibile della sua propria personalità, e riporre il proprio orgoglio sia nella sua posizione sociale, sia nel genere di lavoro ch’è costretto a fare, sia nella superiorità del proprio ozio, quando ha la fortuna di poter vivere senza far niente. — Sì, — disse il Tenente Commissario — ne ho. Non voglio dire che voi non abbiate affatto pensato a Michaelis. Soltanto, mi sembra che al fatto menzionato voi diate un’importanza di dubbia lega, ispettore Heat. Se fosse realmente stata una traccia sicura, perchè non l’avreste seguita subito, sia personalmente, sia mandando uno dei vostri a quel villaggio?
— Credete forse, signore, ch’io abbia mancato al mio dovere? — chiese il Capo Ispettore, in un tono che cercò di rendere semplicemente riflessivo. Costretto, quando meno se l’aspettava, a concentrare tutte le proprie facoltà nello sforzo di conservare l’equilibrio, s’era aggrappato a quel punto, esponendosi volontariamente a una grave ritorsione. Infatti, il Tenente Commissario, accigliandosi alquanto, gli osservò che quella era una domanda molto sconveniente. — Ma ora, dal momento che me l’avete fatta, vi dirò che la mia opinione non era affatto questa. Fece una pausa, con un’occhiata diritta diritta degli occhi infossati, equivalente appieno al non detto: « E voi lo sapete benissimo ». Il capo del cosiddetto Dipartimento Delitti Speciali, non potendo, per via della sua posizione, andar personalmente in cerca di segreti racchiusi da petti colpevoli, esercitava volentieri le proprie non comuni facoltà ricercando l’in- criminante verità nei suoi propri subordinati. Quel peculiare istinto poteva difficilmente essere considerato una debolezza. Era troppo naturale. Egli era nato detective. Era stato guidato inconsapevolmente da tale istinto nella scelta della sua carriera, e se mai gli aveva fatto difetto in vita sua, doveva essere stato nell’eccezionale circostanza del suo matrimonio — cosa, d’altronde, naturale anch'essa. E ora, costretto in quell’ufficio, si nutriva del materiale umano che gli arrivava a portata. Chi può, infatti, cessare di essere se stesso? Con un gomito sulla scrivania, le secche gambe accavallate, e una guancia sul palmo d’una scarna mano, il Tenente Commissario dirigente il ramo Delitti Speciali, stava prendendo possesso del caso con crescente interesse. Il suo Capo Ispettore, sebben fosse un avversario non molto degno della sua penetrazione, ne era tuttavia assai più degno degli altri a portata di essa. All’abilità di detective del Tenente Commissario, si associava una generale diffidenza per tutte le solide reputazioni. La sua memoria rievocò un certo vecchio, grasso e prospero capo indigeno della sua remota colonia, nel quale i successivi Governatori s’erano fatti una tradizione di riporre tutta la loro fiducia come in un provato amico e sostenitore dell’ordine e della legalità imposti dai bianchi; mentre poi, all’esame scettico, era risultato amico di se stesso e di nessun altro. Non precisamente un traditore, ma sempre un uomo di molte pericolose riserve nella sua fedeltà, generate da un debito riguardo alla sicurezza, al vantaggio e al conforto suoi
propri. Un individuo d’una certa innocenza nella sua candida doppiezza, ma nondimeno pericoloso. Non era stato facile smascherarlo. Era pure alto e (a parte naturalmente la diversità di colore) assai somigliante al Capo Ispettore Heat. Non per gli occhi e nemmeno per le labbra. Una strana somiglianza imprecisabile, forse simile a quella che un vecchio, nudo selvaggio dell’Isola Aru presentò agli occhi di Alfredo Wallace con un caro amico di questi, rimasto in patria. Per la prima volta, da quando aveva messo piede in quell’ufficio, il Tenente Commissario ebbe l’impressione di far veramente qualcosa per guadagnarsi lo stipendio. E fu per lui una sensazione molto gradevole. « Ora me lo rivolto come un vecchio guanto, » si disse, tenendo gli occhi pensosamente fissi sul Capo Ispettore Heat. — No, non pensavo questo, — disse forte. — Non dubito che voi conosciate il vostro mestiere. Anzi, è precisamente perciò che io... — S’arrestò di botto e, mutando tono: — Che cosa, di concreto, potreste imputare a Michaelis? Voglio dire a parte il fatto che quei due individui sospetti... (è proprio certo ch’e- rano in due?)... sono venuti per ultimo da una stazioncina di campagna a tre miglia di distanza dal villaggio dove ora si trova Michaelis. — Ma questo fatto è più che sufficiente per procedere contro un individuo di quella specie, — disse il Capo Ispettore con ritrovata compostezza. Il lieve cenno d’approvazione del suo superiore non dissipò, a ogni modo, il suo risentito stupore. Egli era, infatti, un uomo gentile, un ottimo marito, un padre devoto; e la fiducia pubblica e dipartimentale di cui godeva, operando beneficamente su un’amabile natura, lo aveva favorevolmente disposto verso i successivi Tenenti Commissari avvicendatisi dinanzi ai suoi occhi in quello stesso ufficio. Tre, fino allora. Il primo, persona di maniere soldatesche, brusche, molto rosso, con sopracciglia bianche e un carattere esplosivo, poteva essere mosso con un filo di seta. Raggiunto il limite d’età, se n’era andato. Il secondo, un perfetto gentiluomo che conosceva con mirabile esattezza il proprio posto e quello degli altri, s’era dimesso per assumere una carica superiore fuori d’Inghilterra, con una decorazione procuratagli da servigi prestati, in realtà, dall’Ispettore Heat. Lavorare con lui era stato un orgoglio e un piacere. Il terzo, che dapprima era parso una specie d'ombroso morello, era poi,
al termine del diciottesimo mese, ancora qualcosa d’un ombroso morello per il suo dipartimento. Per conto suo, il Capo Ispettore Heat lo riteneva innocuo — brutto si, ma innocuo. Ora quest’ultimo gli stava appunto parlando, ed egli lo ascoltava con fuori un'aria di deferenza la quale nulla significa, essendo imposta dal dovere), e dentro una benevola tolleranza. — È venuto ad avvisarci, prima di partire per la campagna? — Sissignore, s'è presentato. — Che fa laggiù? — continuò il Tenente Commissario, il quale era perfettamente edotto riguardo all’attuale attività di Michaelis. Incastrato in una vecchia poltrona di legno dolorosamente stretta, davanti a una tavola di «piercia corrosa dai tarli, in una stanzetta superiore d’un cottage «li quattro locali, dal tetto di tegole verdi di borraccina, scriveva giorno e notte con mano tarda e malferma L’Autobiografia d’un Prigioniero, che doveva essere una vera rivelazione nella storia dell’umanità. Le condizioni di spazio confinato, di ritiro e «li solitudine di «pici piccolo cottage, erano favorevoli alla sua ispirazione. Era come essere in prigione, con la sola differenza che là nessuno andava a disturbarlo con l’odioso pretesto dell’esercizio fisico, imposto dalle tiranniche disposizioni del regolamento. Ignorava se fuori ci fosse sole o pioggia, se fosse giorno o notte. Il sudore della fatica letteraria gli stillava dalla fronte. Un delizioso entusiasmo lo incalzava. Ivi si spalancavano le porte racchiudenti la sua vita interiore. La sua anima raminga poteva liberamente vagare per l’immenso mondo. E lo zelo della sua candida vanità (destata dall’offerta di cinquecento sterline fattagli da un editore), sembrava qualcosa di predestinato, di sacro. — Sarebbe opportuno essere esattamente informati, — insistè il Tenente Commissario, senza però alcuna sincerità. Il Capo Ispettore Heat, cosciente d’una nuova irritazione a quello sfoggio di scrupoli, disse che la polizia della contea era stata subito avvisata dell’arrivo di Michaelis, e che un rapporto particolareggiato poteva essere ottenuto in poche ore. Un telegramma al sovraintendente... Parlava lentamente, e già in cuor suo ponderava le conseguenze. Un lieve aggrottamento delle sopracciglia fu il segno esterno di quel calcolo. Ma fu subito interrotto da una domanda:
— L’avete già mandato, quel telegramma? — No, signore, — rispose, come sorpreso. Il Tenente Commissario sciolse le gambe bruscamente. E, in contrasto con la vivacità di quel movimento, chiese nel modo più casuale: — Sicché, credete proprio che Michaelis abbia avuto parte nella preparazione della bomba? Il Capo Ispettore ebbe un’aria perplessa. — Questo non l’ho detto. Anzi, non c’è bisogno di dire checchessia, adesso. Si associa a individui definiti pericolosi. È stato nominato delegato del Comitato Rosso ancor prima che fosse trascorso un anno dalla sua liberazione. Una specie d’onorificenza, suppongo. E diede in una risatina mezzo irosa, mezzo sprezzante. Con un individuo di quella specie, ogni scrupolo era fuori luogo, anzi sarebbe stato un sentimento addirittura illegale. Non aveva ancora digerito la celebrità prodigata a Michaelis, due anni prima, alla sua liberazione, da alcuni giornalisti sentimentali, bisognosi di tirature speciali. Era perfettamente legale arrestare quell’individuo in base al più lieve sospetto. I suoi due precedenti superiori lo avrebbero capito subito; questo, invece, senza dire nè « sì » nè « no », stava lì seduto come smarrito in un sogno. Inoltre, a parte il fatto di essere legale e opportuno, l’arresto di Michaelis avrebbe anche risolto una piccola difficoltà personale che angustiava alquanto il Capo Ispettore Heat. Questa difficoltà era d’ostacolo alla sua reputazione, al suo conforto e perfino all’efficente adempimento del suo dovere. Poiché, se Michaelis sapeva qualcosa dell’attentato, il Capo Ispettore era sicuro che non poteva saperne molto. Il che era un bene. Assai più di lui — e anche di ciò il Capo Ispettore era pienamente sicuro — doveva saperne un certo individuo ch’egli ben conosceva, ma il cui arresto sarebbe stato inopportuno, oltre ad essere una faccenda più complicata, per via delle regole del gioco. Le quali regole non s’opponevano allatto all’arresto di Michaelis, essendo questi un exgaleotto. Sarebbe stato semplicemente stupido non profittare delle facilitazioni legali, tanto più che gli stessi giornali che lo avevano portato sugli scudi con contagioso entusiasmo, lo avrebbero schiacciato sotto gli stessi scudi e con un"indignazione non meno contagiosa. Tale prospettiva, riguardata con fiducia, aveva per il Capo Ispettore Heat tutta
l’attrazione d’un trionfo personale. E sotto sotto, nell’illibato petto del padre di famiglia, quasi inconsapevole, ma nullameno potente, il pensiero di poter essere costretto dai fatti ad affrontare la disperata ferocia del Professore aveva pure voce in capitolo. Specie, poi, dopo il casuale incontro nel vicolo. Quell’incontro non gli aveva lasciato quel soddisfacente senso di superiorità che al solito deriva ai membri della polizia dai loro rapporti non ufficiali e piuttosto intimi con la classe criminale, e che ha la virtù di appagare in loro la vanità del potere e di lusingare, secondo i propri meriti, la tanto comune ione di dominare sul prossimo. Il Capo Ispettore Heat non comprendeva tra i suoi prossimi il perfetto anarchico. Era per lui una creatura impossibile — un cane idrofobo. Non che ne avesse paura; tutt’altro: voleva « pigliarlo ». Ma non ora, più tardi, al momento opportuno, e nel modo più appropriato, secondo le regole del gioco. Il presente non era propizio per tentare quell’impresa, e ciò per diverse ragioni tanto personali quanto di servizio pubblico. Tale essendo la convinzione del Capo Ispettore Heat, gli sembrava giusto ed utile che questa faccenda venisse senza indugio deviata dalla sua oscura e sconveniente linea, conducente Dio sa dove, 6U un cheto (e legale) binario morto chiamato Mi- chaelis. E ripetè, come ponderando coscienziosamente la domanda del superiore: — La bomba? No, questo non lo credo. Questo, molto probabilmente, non lo sapremo mai. Ma è chiaro ch’è stato in qualche modo immischiato in questa faccenda; e ci sarà facile accertare in qual modo precisamente v’è stato immischiato. Ora ostentava quell’aria di grave, sopraffacente indifferenza, una volta ben nota e anche molto temuta dai più famigerati ladri. Per quanto uomo, non era un animale sorridente. Però, internamente, era soddisfatto dell’attitudine ivamente ricettiva del Tenente Commissario, il quale gentilmente mormorò: — E credete davvero che le indagini dovrebbero essere fatte in quella direzione? — Sissignore. — Ne siete proprio convinto? — Sissignore. È la via migliore. Il Tenente Commissario tolse di sotto il capo reclinato il puntello della mano, ma
così bruscamente, che, data la sua languida positura, parvo clic tutto il corpo dovesse accasciarsi. Invece si raddrizzò molto vivacemente, dietro la grande scrivania, sulla quale la sua mano era caduta col tonfo d’un forte colpo. — Ora vorrei sapere perchè mai non ci avete pensato prima. — Perchè non ci ho pensato prima? — ripeté il Capo Ispettore molto lentamente. — Sì, prima d’essere entrato in questo ufficio. Il Capo Ispettore ebbe la sensazione che l’aria tra i suoi panni e la pelle fosse diventata sgradevolmente calda. Era la sensazione di un’incredibile esperienza senza precedenti. — Naturalmente, — disse, esagerando fino ai limiti del possibile lo sprigionamento di quella parola — se ei fosse una qualunque ragione a me ignota che si opponesse all’arresto del vigilato Michaelis, sarebbe meglio non dir nulla alla polizia della contea. Ciò richiese tanto tempo a essere detto, che l’imperturbabile attenzione del Tenente Commissario parve un miracolo di resistenza. La sua risposta, però, non si fece attendere. — Nessuna ragione, per quanto io sappia. Via, Ispettore, codeste finezze sono assolutamente fuori luogo con me... assolutamente fuori luogo. E sapete, non è bello da parte vostra. Non dovreste lasciarmi congetturare, indovinare a questo modo. Veramente, mi sorprendete. Sostò, poi soggiunse come a placarlo: — Inutile dirvi che questo colloquio non ha nulla d’ufficiale. Il Capo Ispettore, però, non si lasciò placare. L'indignazione del funambolo tradito era più che mai viva in lui. Il suo orgoglio di servo fidato era offeso dalla convinzione che quella sua corda veniva scossa, non tanto allo scopo di fargli rompere l’osso del collo, quanto per il solo gusto di far mostra d’impudenza. Come se quell’uomo potesse davvero fargli paura! I Tenenti Commissari vanno e vengono, mentre un capace Capo Ispettore è tutt’altro che un effimero fenomeno d’ufficio. No, non aveva paura di rompersi l’osso del collo. Il solo fatto del suo oc numero » rovinato era più che sufficiente a spiegare le vampe del suo giusto
sdegno. E siccome i pensieri non rispettano nessuno, quello del Capo Ispettore Heat prese un atteggiamento minaccioso e profetico, oc Tu, ragazzo mio, — disse tra sè, tenendo i tondi occhietti, abitualmente erranti, fissi sul viso del Tenente Commissario — tu, ragazzo mio, non conosci il tuo posto, e scommetto che fra poco anche il tuo posto non conoscerà più te. » Come una provocante risposta a quel pensiero, qualcosa come l’ombra d’un sorriso amabile sfiorò le labbra del Tenente Commissario. E, con modi semplici, quasi consuetudinari, diede un’altra scrollatina alla fune tesa. — Vediamo ora che cosa avete scoperto sul posto, Ispettore. « Il matto e il suo posto fan presto a separarsi, » continuò a profetizzare il pensiero del Capo Ispettore Heat. Ma poi, nella sua niente, seguì subito la riflessione che un funzionario superiore, anche quando è « mandato a so », può sempre trovar modo d'allungare, prima d’infilar l’uscio, un brutto calcio sugli stinchi d’un suo subordinato. Cosicché, senza addolcir di molto il proprio sguardo di basilisco, disse, imibile: — Stavo appunto per venirvi. — Benissimo. Che ne avete riportato? Il Capo Ispettore, che ormai s’era deciso a saltar dalla sua corda, toccò terra con cupa sincerità. — Ne ho riportato un indirizzo, — disse, cavando di tasca, senza fretta, lo sfilacciato pezzetto di stoffa turchino scuro. — Apparteneva al soprabito di quello che s'è fatto a pezzi. Naturalmente, quel soprabito potrebbe non essere stato suo, potrebbe anche essere stato rubato. Ma se guardate questo, converrete con me che non è probabile. Il Capo Ispettore, accostatosi d’un o, spiaccicò accuratamente sulla scrivania il pezzetto di stoffa. Lo aveva preso dal raccapricciante mucchio della camera mortuaria perchè spesso si trova dietro i colletti un nome di sarto. Spesso anche ciò non serve molto, tuttavia... Solo vagamente sperava di trovar qualcosa d’utile, non si sarebbe mai aspettato, però, di trovare, — non dietro il colletto, ma sotto il velluto, sulla stoffa — un pezzetto rettangolare di tela bianca con un
indirizzo scritto in inchiostro oleoso. Il Capo Ispettore tolse la mano spiaccicante dalla stoffa. — Me lo son messo in tasca senza che nessuno se ne accorgesse. M’è parso preferibile. Se sarà necessario, potremo sempre valercene. Il Tenente Commissario, sollevandosi un tantino dalla poltrona, trasse a sè il pezzetto di stoffa. Poi rimase a guardarlo in silenzio. Solo il numero 32 e il nome di Brett Street erano scritti in inchiostro indelebile sulla striscetta di tela, non più grande d’una comune cartina per sigaretta. Egli era genuinamente sorpreso. — Non capisco perchè si sia fatto etichettare così, — disse, alzando il capo a guardare il Capo Ispettore. — È una cosa veramente straordinaria. — Ho incontrato una volta, in un albergo, un vecchio signore che viaggiava con nome e indirizzo cuciti nella parte interna di tutte le sue giacche, in previsione d’un accidente o d’un improvviso malore. Diceva di aver ottantaquattro anni, ma non li dimostrava. M’ha detto che aveva anche timore di perdere improvvisamente la memoria, come quei tali di cui parlano i giornali... Una domanda del Tenente Commissario, che voleva sapere che cosa fosse quel N. 32 di Brett Street, interruppe bruscamente quella reminiscenza. Il Capo Ispettore, costretto a tornar sulla terra per mezzo di sleali artifìci, decise di seguire il sentiero della sincerità senza riserve. Credeva fermamente non essere bene lasciar saper troppo al suo dipartimento, e a fin di bene, tratteneva per sè certe cose fino ai limiti concessigli dalla propria lealtà. Ma se ora il Tenente Commissario voleva guastar quella faccenda, nulla, naturalmente, poteva impedirlo. Però, non vedeva per qual ragione avrebbe dovuto far mostra di alacrità. Cosicché rispose concisamente: — Una bottega. Il Tenente Commissario, con gli occhi abbassati sul pezzetto di stoffa turchina, attese ulteriori informazioni. Poi, siccome queste non venivano, procedette a sollecitarle mediante una serie di domande formulate con gentile pazienza. Così giunse a farsi un’idea della speciale attività e dell’aspetto commerciale del signor Verloc, e infine apprese anche il suo nome. In una pausa, alzò gli occhi e scoprì una certa animazione nel viso del Capo
Ispettore. Si guardarono per un momento in silenzio. — Naturalmente, il dipartimento non lo conosce. — E nessuno dei miei predecessori ha mai saputo milla di quello che voi mi avete detto ora? — chiese il Tenente Commissario, puntando i gomiti sulla scrivania e congiungendo le mani davanti al viso come in atto di preghiera, senonché l’espressione dei suoi occhi era tutt’altro che pia. — No, signore, no. A che prò? Non è un individuo da mettere in vista. Bastava che lo sapessi io chi era, e potessi servirmene in un modo che ufficialmente non sarebbe stato possibile. — E ritenete un tal genere di rapporti privati compatibili con la vostra posizione ufficiale? — Perfettamente. Li ritengo perfettamente adatti. Anzi, permettetemi di dirvi che sono quello che sono grazie appunto a questi rapporti. Il mio mestiere lo conosco. È un mio affare privato. Ho saputo da un mio amico della polizia se che è una spia d'Ambasciata. Amicizia privata, informazioni private, uso privato... ecco come lo considero. Il Tenente Commissario, dopo aver osservato a se stesso che lo stato mentale del celebre Capo Ispettore sembrava alterargli il profilo della mascella inferiore, come se il vitale senso della sua alta distinzione professionale fosse allocato in quella parte della sua anatomia, abbandonò per il momento la questione con un calmo « Ho capito ». Poi, appoggiando una guancia sulle mani congiunte: — Bene, allora... privatamente parlando, da quanto tempo siete in contatti privati con quella spia d’Ambasciata? A tale domanda, il Capo Ispettore rispose privatamente, e tanto che le sue parole non ebbero neppure forma udibile: « Da quando qui non si sapeva neanche che tu fossi al mondo ». Ma la risposta, per modo di dire, pubblica, fu assai più precisa. — L’ho visto per la prima volta un po’ più di sette anni fa, cioè quando due Altezze Imperiali con un Cancelliere imperiale sono venute qua in visita. Ero
stato incaricato delle solite misure di sicurezza. Allora era ambasciatore il Barone Stott-Wartenheim. Era un vecchio signore molto impressionabile. M’ha fatto chiamare una sera, tre giorni prima del banchetto di Guildhall. Io ero da basso, e le carrozze erano già pronte a portare le Altezze Imperiali» e il Cancelliere all’opera. Corro su. Il Barone stava camminando su e giù nella sua camera da letto, in uno stato da far pietà: si torceva le mani, sembrava disperato. Prima m’assicura che ha la massima fiducia nella nostra polizia, poi mi dice che ha lì un individuo appena arrivato da Parigi e al quale si può credere in modo assoluto. Voleva che sentissi le parole di quell’uomo. Mi tira in uno spogliatoio attiguo, e là vedo un uomo alto, in un pesante pastrano, seduto solo soletto con cappello e bastone in una mano. Il Barone gli dice: « Parlez, mon ami ». La luce di quello stanzino non era molto buona. Gli ho parlato per circa cinque minuti. Certo, m’ha dato un pezzo di notizia veramente sorprendente. Poi il Barone m’ha preso in disparte per cantarmi le sue lodi, e quando mi son rigirato, ho visto ch’era scomparso come un fantasma. Se la sarà svignata per una scala di servizio. Non potevo rincorrerlo, dovendo seguire l’ambasciatore, giù per lo scalone, e poi far partir la coppia sana e salva. Ad ogni modo, ho agito quella stessa notte in base alla notizia di quell’uomo. Non ho potuto sincerarmi se fosse esatta; però, sembrava abbastanza seria. Probabilmente, ci deve aver risparmiato un brutto guaio il giorno della visita alla City. « Qualche tempo dopo, un mese o poco più dopo la mia promozione a Capo Ispettore, ho visto uscire in fretta e furia dalla bottega d’un gioielliere dello Strand un uomo grande e grosso che m’è parso di aver già visto. L’ho seguito per un po’, dato che andava come me verso Charing Cross; e là l’ho mostrato a uno dei nostri agenti ch'era sull'altro marciapiede, con l’ordine di pedinarlo per un paio di giorni, e d’informarmi poi. Ma quello è tornato subito l'indomani a dirmi che l’uomo s'era sposato quel mattino alle undici e mezzo con la figlia della sua affittacamere, e che subito poi era partito per are una settimana a Margate. Aveva visto caricare i bagagli su una vettura di piazza. C’era qualche vecchia etichetta parigina su quei bagagli. Chissà perchè, quell’individuo m’era rimasto impresso, e la prossima volta che m’è toccato andar a Parigi per servizio, ne ho parlato a un mio amico della polizia parigina. E quello m’ha detto: « Credo che debba trattarsi d’un abbastanza noto membro ed emissario del Comitato Rosso Rivoluzionario. Si dice inglese di nascita. E noi abbiamo ragioni per credere che già da parecchi anni faccia l’agente segreto per conto d’una Ambasciata di Londra. » Questo m'ha rinfrescato la memoria. Era l’individuo evanescente che avevo visto nello spogliatoio del Barone Stott-War- tenheim. Ho detto al mio amico clic aveva perfettamente ragione. Quell’individuo era infatti un agente
segreto. Più tardi, il mio amico s’è preso la briga di farmi avere una relazione particolareggiata della sua ata attività. Era meglio che sapessi lutto quanto c’era da sapere; ma non credo che voi vogliate ora conoscere anche la sua storia. Il Tenente Commissario scosse lievemente il capo. — Per ora m’interessa soltanto la storia dei vostri rapporti con quell’utile personaggio, — e lentamente chiuse gli occhi stanchi, profondamente infossati, per riaprirli subito con uno sguardo notevolmente rinfrescato. — Non c’è stato niente d’ufficiale, — disse amaramente il Capo Ispettore. — Una sera sono entrato nella sua bottega, gli ho detto chi ero e gli ho ricordato il nostro primo incontro. È rimasto a sentirmi senza batter ciglio. Poi m’ha detto che s’era sposato, sistemato, e che desiderava soltanto di non essere disturbato nelle sue piccole faccende. Gli ho promesso, a mio rischio e pericolo, che, fin quando non ne avesse fatta una grossa, la polizia non gli avrebbe dato fastidio. Promessa molto vantaggiosa per lui, poiché bastava una nostra parolina a quelli della Dogana per far aprire a Dover qualche pacchetto di quelli che gli mandano da Parigi e da Bruxelles, i quali, poi, gli sarebbero stati certo confiscati, e probabilmente gli avrebbero anche procurato altri guai. — Dev’essere un commercio piuttosto precario, — mormorò il Tenente Commissario. — Perchè ha scelto proprio quello? Il Capo Ispettore rise in cuor suo di così poca perspicacia, e sionatamente inarcò le sopracciglia. — Per via di certe relazioni, probabilmente. Amici del Continente, gente che tratta quella roba, pari suoi, ad ogni modo. È un fannullone... nè più nè meno degli altri. — E voi, che cosa avete guadagnato in cambio di quella protezione? Il Capo Ispettore non era punto disposto a diffondersi in particolari rispetto ai servigi del signor Verloc. — È un uomo che può servire soltanto a me. Capirete che per cavar qualcosa da un individuo di quella razza, ci vuole anzitutto una certa pratica. Io posso capire i suoi cenni e accenni. E di solito, quando voglio saper qualcosa, non ho che da andare da lui.
Si rabbuiò bruscamente in un broncio assorto, e il Tenente Commissario trattenne un sorriso al fugace pensiero che la reputazione del Capo Ispettore potesse in gran parte essere dovuta all'agente segreto Verloc. — D’altra parte, tutti i nostri uomini della sezione Delitti Speciali, di servizio tra Charing Cross e Victoria, hanno ordine di osservare attentamente tutti quelli che vedono in sua compagnia. Spesso riceve stranieri sbarcati di fresco, che poi non perde di vista. Pare che ne sia incaricato. Oliando mi occorre d’urgenza un indirizzo, so di poterlo trovar da lui. Naturalmente, so anche come bisogna trattarlo. Negli ultimi due anni, non gli ho parlato neppure una volta. Gli lascio sempre un bigliettino non firmato, ed egli mi risponde per la stessa via al mio indirizzo privato. Di quando in quando il Tenente Commissario faceva col capo un piccolo cenno di assenso (piasi impercettibile. Il Capo Ispettore soggiunse di non credere che il signor Verloc avesse molta confidenza coi membri più eminenti del Consiglio Rivoluzionario Internazionale; però, era certo che doveva averne tutta la fiducia. Concluse asserendo: — Ogni volta che c’era qualcosa per aria, Elio sempre trovato in grado di dirmi cose che realmente valeva la pena di sapere. Allora il Tenente Commissario fece un’osservazione molto significativa: — Ma non questa volta. — Già, ma questa volta non c’era nulla per aria. Non m’ha detto nulla perchè non gli ho chiesto nulla. Capirete, non è dei nostri, non è pagato da noi. — Infatti, — mormorò il Tenente Commissario. — È una spia pagata da un Governo straniero. Non possiamo confessare un individuo simile. — Io, il mio lavoro devo farlo a modo mio. Se fosse necessario, tratterrei anche col diavolo, caricandomi, naturalmente, delle relative conseguenze. Certe cose, capirete, non son fatte per tutti. — Però, il vostro concetto della segretezza vi porta a tenere al buio anche i capi del vostro dipartimento. Non vi sembra eccessivo? Vive coi proventi della sua
bottega? — Chi?... Verloc?... Ah sì. Non ha altro che la bottega. Si tiene in casa anche la suocera, mi pare. — È vigilata, quella casa? — Ah no! mai più! Solo la gente che vi bazzica. Credo che non sappia nulla di questa faccenda. — Come spiegate allora questo? — e il Commissario accennò col capo il pezzetto di stoffa rimasto sulla scrivania. — Non lo spiego affatto. È semplicemente incomprensibile. Ad ogni modo, quello che io so non basta a spiegarlo, — e ammise ciò con la franchezza d’uno che sa d’aver una reputazione solida come una roccia. — Non in questo momento almeno. Credo che la persona maggiormente implicata sia Michaelis. — Davvero? — Sissignore, perchè posso rispondere di tutti gli altri. — E quell’uomo che si suppone fuggito dal parco? — Credo che sia molto lontano, a quest’ora. Il Tenente Commissario lo guardò fisso, e d’un tratto s’alzò come subitamente risoluto a una determinata linea d’azione. In realtà, s’era soltanto lasciato vincere da un’affascinante tentazione. Il Capo Ispettore si vide congedare con l'ordine di tornare la mattina dopo di buon'ora, per ulteriori consultazioni su quel caso, Heat ascoltò con un viso impenetrabile, poi uscì a i misurati. Quali che fossero i progetti del Tenente Commissario, non avevano certo nulla a che fare col suo lavoro d’ufficio, il quale gli avvelenava l'esistenza per la sua natura confinata e l'apparente mancanza di realtà. Diversamente, come spiegare l’aria di alacrità che subito irrigidì il suo volto? Appena solo, cercò d'impulso il cappello e se lo mise in testa. Fatto ciò, tornò a sedersi per riconsiderare l’intera faccenda. Non fu che l’affare d'un momento, essendo egli già fermamente deciso, ed uscì sulla strada che ancora il Capo Ispettore Heat non si era allontanato di molto verso casa sua.
VII
Il Tenente Commissario s'incamminò per un breve e stretto vicolo, simile a un'umida e fangosa trincea, poi, attraversando un’ampia arteria, entrò in un edificio pubblico e chiese di parlare col giovine segretario privato (non stipendiato) d’un gran personaggio. Quel biondo giovanotto dalle gote lisce lisce, i cui capelli simmetricamente pettinati lo facevano sembrare un grande e lindo scolaro, rispose alla domanda del Tenente Commissario con uno sguardo dubbioso, e poi parlò con fiato ridottissimo: — Se potrebbe ricevervi? Veramente, non so perchè. È venuto dalla Casa Dei Comuni un’ora fa, per parlare col Sottosegretario permanente, ed ora è pronto a ritornare. Può darsi che sia stato chiamato, ma tante volte ci viene soltanto per fare un po’ d’esercizio. Capirete, è l’unico esercizio che possa concedersi durante le sedute. Io, per conto mio, non me ne lamento. Anzi, mi piacciono queste eggiate. S’appoggia sul mio braccio e non apre più bocca. Certo, deve essere molto stanco, e d’un umore... Uhm!... poco rassicurante. — Ho da parlargli per quella faccenda di Greenwich. — Ah, sapete? Ce l’ha con voi. Però, se proprio ci tenete, andrò a vedere. — Andate. Il giovine segretario, non stipendiato, ammirò debitamente quell’atto d’indubbio coraggio, ed entrò col fare sicuro d’un bel bambino privilegiato. Subito ricomparve con un cenno affermativo al Tenente Commissario, che, varcata la stessa soglia, si trovò solo nella gran sala col cospicuo personaggio. Alto e tarchiato, con un lungo viso bianchissimo, che, arrotondato alla base da un grosso doppio mento, aveva, tra le grigie fedine, la forma d’un uovo, il cospicuo personaggio era davvero un bell’uomo. Certe pieghe traverse del suo abito nero tutto abbottonato, infelici dal punto di vista del taglio, accentuavano il suo aspetto di vigore, come se quell’abito fosse estremamente tesato dal suo
petto capace. Dall’alto del capo fieramente eretto sul collo taurino, gli occhi abbondantemente cigliuti guardavano fisso, fiancheggiando un aggressivo naso adunco, nobilmente saliente nel vasto, pallido ovale del viso. Una lucida tuba di seta e un paio di guanti molto logori stavano, pronti per essere usati, all’estremità di una lunga tavola, che pure sembrava massiccia e potente. Egli si teneva solidamente piantato davanti al caminetto, in grandi, spaziose scarpe, e non pronunciò alcuna parola di saluto. — Vorrei sapere se questo è il principio d'una nuova campagna dinamitaria, — chiese subito, con voce molto profonda, ma senza alcuna traccia di raucedine. — Inutile entrare in particolari. Non ho tempo d’ascoltarli. Davanti a quella grande e rude presenza, la figura del Tenente Commissario aveva l'esile gracilità d'un giunco accanto a una quercia. E infatti l’albero genealogico di quell’uomo superava, nel computo dei secoli, l’età della più vetusta quercia del paese. — No, posso assicurarvi che non lo è, almeno nei limiti in cui è possibile essere sicuri di alcunché. — Bene, ma laggiù, — e agitò sprezzantemente la mano verso la finestra che dava sulla grande arteria, — questi limiti sembrano ridotti apposta in modo da far sembrar cretino il Segretario di Stato. Ancora un mese fa, m’hanno assicurato, in questa stessa stanza, che un fatto simile era assolutamente impossibile. — Permettetemi di osservarvi, Sir Ethelred, che non ho mai avuto occasione di farvi assicurazioni di alcun genere. Il fiero cipiglio si abbattè sul Tenente Commissario. — È vero, — ammise la profonda e chiara voce. — Ho fatto chiamare Heat. Voi siete ancora quasi un novizio in quel vostro nuovo ancoraggio. A proposito, andate avanti bene? — Mi sembra d’imparar qualcosa ogni giorno.
— Naturalmente, naturalmente. Vedrete che vi riuscirete. — Grazie, Sir Ethelred. Vi ho imparato qualcosa anche oggi, appena un’ora fa. Ci sono, in questa faccenda, certe cose che non si rilevano nei soliti attentati terroristici, qualunque sia la profondità delle indagini. Per questo appunto sono venuto. Il grand’uomo si piantò le mani sulle anche, con le palme in fuori. — Benissimo. Dite pure. Soltanto, niente particolari, vi prego. Risparmiatemi i particolari. — Vedrete che la mia storia non vi importunerà, Sir Ethelred, — cominciò il Tenente Commissario con pacata, imperturbabile sicurezza. Mentre parlava, le lancette dell’orologio dietro le spalle del grande uomo — un grosso, massiccio, pesante oggetto dello stesso marmo del caminetto, con un tic tac spettrale, quasi impercettibile — corsero attraverso lo spazio di sette minuti. Parlava in modo conciso, interrotto da parentesi, nelle quali anche il più piccolo fatto — cioè ogni particolare — si trovava a suo bell’agio. Non un mormorio, non una mossa accennò a volerlo interrompere. Si sarebbe potuto scambiare il cospicuo personaggio per la statua d’uno dei suoi grandi antenati, spogliata dell’armatura di crociato e rivestita d’un inadatto abito nero. E sembrava che il Tenente Commissario si sentisse libero di parlare per tutta un’ora difilato. Invece, al termine del tempo suddetto, terminò bruscamente con una conclusione che, ripetendo la dichiarazione iniziale, sorprese gradevolmente Sir Ethelred per la sua apparente rapidità e l’efficacia ottenuta. — Quello che rileviamo sotto la superficie di questa faccenda, peraltro senza gravità, è insolito (almeno in questa forma particolare), e richiede quindi un trattamento speciale. La voce di Sir Ethelred fu più profonda che mai e piena di convinzione. — Pare anche a me, se c’è dentro lo zampino d’un ambasciatore. — Oh! — protestò l’altro, ritto, snello e con appena un sorriso a fior di labbro. — Sarebbe stupido da parte mia insinuare una cosa simile. E inoltre, del tutto inutile, poiché, se non erro, il fatto che si tratti dell’ambasciatore o del suo portiere, non sarebbe altro che un particolare.
Sir Ethelred spalancò una bocca immensa come una caverna, nella quale l'adunco naso parve voler dare una sbirciata. — No! Quella gente diventa insopportabile. Ora c'importano anche i loro metodi di delinquenza tartara. In Turco sarebbe più decente. — Voi dimenticate, Sir Ethelred, che, propriamente parlando, noi non sappiamo nulla di positivo... finora. — No! Ma voi come la chiamereste? Brevemente? — Audace sfrontatezza, equivalente a un genere peculiare di puerilità. — Ma noi non possiamo tener conto dell'innocenza dei bambini cattivi, — disse il grande e imponente personaggio, in un’attitudine anche più imponente. L’altezzoso cipiglio dardeggiò micidiale sul tappeto, presso i piedi del Tenente Commissario. — Questa faccenda scorticherà loro le nocche. Noi dobbiamo essere in grado di... In breve, qual’è la vostra idea generale? Inutile entrare in particolari. — Per principio, Sir Ethelred, direi che gli agenti segreti non dovrebbero essere tollerati, dal momento che tendono soltanto ad aumentare i pericoli positivi del male contro cui sono usati. Il fatto che quelle spie si fabbricano di sana pianta le loro informazioni, è ormai un luogo comune. Ma, nelle sfere dell’azione politica e rivoluzionaria, riposanti in gran parte sulla violenza, le spie di professione possono, senza alcuna difficoltà, fabbricarsi anche gli stessi fatti, provocando così emulazioni, da una parte, e panico, legislazione affrettata ed odio irragionevole dall’altra. Però, si sa che il nostro è un mondo imperfetto... La Presenza dal vocione profondo, immobile dinanzi al caminetto e coi grossi gomiti sempre puntati a dritta e a manca, intervenì bruscamente: — Prego, siate chiaro. — Sì, Sir Ethelred... Un mondo imperfetto. Perciò, appena ho intravisto il carattere eccezionale di questa faccenda, ho pensato che andava trattata con speciale segretezza, e quindi mi sono permesso di venir qui. — Avete fatto bene, — approvò il cospicuo personaggio, guardando giù con compiacenza sul suo doppio mento. — Mi fa piacere che nella vostra bottega
qualcuno pensi ogni tanto di potersi fidare del Segretario di Stato. Il Tenente Commissario abbozzò un sorrisetto. — Stavo appunto pensando che, in questa faccenda, sarebbe meglio che Heat venisse sostituito da... — Chi? Heat? Un somaro, eh? — esclamò il grand’uomo con palese animosità. — No, no! Per carità, Sir Ethelred, non date alle mie osservazioni interpretazioni così errate. — Allora com’è? Troppo furbo, forse? — Neanche... almeno non di regola. Tutti gli elementi che m’hanno portato a questa scoperta, li devo a lui. L’unica cosa che abbia scoperto da me, è che egli stesso s’è servito di quell’uomo privatamente. Ma chi può biasimarlo? È un vecchio poliziotto. M’ha detto che per lavorare ha bisogno di ferri speciali. Vero è che quei ferri potrebbero appartenere alla sezione Delitti Speciali, anziché essere proprietà privata del Capo Ispettore Heat. Per conto mio, il nostro lavoro dipartimentale potrebbe procedere benissimo anche senza il concorso di agenti segreti. Ma il Capo Ispettore Heat è un veterano del dipartimento. Mi accebbe di volerne pervertire la morale e menomar l’efficienza. Direbbe che voglio proteggere i rivoluzionari. E infatti, per lui, non significherebbe altro che questo. — Bene, e allora? — Allora vorrei dire ch’è un misero conforto quello di poter affermare che ogni atto di violenza a danno della proprietà o della vita non è opera dell’anarcbia, ma di qualche altra cosa molto diversa... d’una specie di fanatismo autorizzato. Questo, credo, deve essere molto più diffuso di quanto noi crediamo. D'altra parte, è evidente che l'esistenza di quella gente pagata da Governi stranieri distrugge, in certo qual modo, l'efficienza della nostra propria sovraintendenza. Una spia di quella specie, può permettersi atti molto più audaci di quelli del più audace cospiratore. Nulla lo trattiene. Ha tutta la mancanza di fede necessaria per la negazione assoluta, e tutta la mancanza di scrupoli per essere senza scrupoli al massimo grado. Infine, resistenza di quelle spie in seno ai gruppi rivoluzionari che ci si rimprovera d'ospitare, ci toglie ogni possibile certezza. Qualche tempo fa, il Capo Ispettore Heat vi ha fatto una dichiarazione
rassicurante. Non era affatto infondata... eppure è successo quello ch'è successo. Cioè un episodio, poiché questa faccenda, posso dirlo francamente, è episodica, non fa parte di nessun programma. Le stesse peculiarità che hanno sorpreso e imbarazzato il Capo Ispettore Heat, hanno aperto gli occhi a me. Vedete, Sir Ethelred, che non mi diffondo in particolari. Il personaggio del caminetto lo aveva ascoltato con profonda attenzione. — Bene, siate più conciso che potete. II Tenente Commissario assicurò con un gesto molto serio e deferente che faceva del suo meglio per essere conciso. — C’è in questa faccenda una stupidità, una debolezza tutta particolare, che mi fa sperare di poter trovare sotto sotto qualcos’altro del folle gesto individuale d’un fanatico. L’esecutore materiale sembra essere stato condotto per mano sul luogo, ed ivi abbandonato in balia di se stesso. Probabilmente, si tratta di un individuo fatto venire apposta dall’estero: certo qualcuno che non sapeva l’inglese, a meno che non si voglia accettare la fantastica teoria del sordomuto. Ora mi domando... Ma questo è ozioso. Evidentemente, è stato vittima d’un accidente. Non un accidente straordinario. Però rimane un piccolo fatto veramente straordinario: l’indirizzo cucito nei suoi panni e scoperto per un caso assolutamente fortuito. Un fatterello incredibile, tanto che la sua spiegazione deve necessariamente toccare il fondo di questa faccenda. Invece d’incaricare Heat di proseguire nelle sue indagini, mi sono proposto di cercare quella spiegazione personalmente, da solo, nell’unico luogo dove ritengo possibile trovarla. Cioè in una certa bottega di Brett Street, e precisamente dalle labbra d’un certo agente segreto, un tempo spia di tutta fiducia del defunto Barone Stott-Wertenheim, ambasciatore d’una grande Potenza alla Corte di San Giacomo. Il Tenente Commissario fece una pausa, poi soggiunse : — Questi individui sono una vera peste. Per portare lo sguardo spiovente sul viso del suo interlocutore, il personaggio del caminetto aveva gradatamente rovesciato il capo, così da assumere un’attitudine straordinariamente fiera. — Perchè non lasciate codesta briga a Heat?
— Perchè quello è un veterano del dipartimento, con una sua propria morale. Il mio modo di procedere gli sembrerebbe un’atroce perversione del dovere. Secondo lui, bisognerebbe, in questo caso, incolpare quanti più anarchici è possibile, in base agli indizi raccolti sul luogo nel corso delle prime indagini; mentre il mio procedimento servirebbe soltanto a dimostrarne l’innocenza. Cerco di esser chiaro il più possibile nel presentarvi questa oscura faccenda senza entrare in particolari. — Davvero? davvero? — mormorò il fiero capo di Sir Ethelred. — Sì, direbbe proprio così... con un'indignazione e un disgusto di cui nè voi nè io possiamo aver idea. È un ottimo servitore. Ma non dobbiamo chieder troppo alla sua lealtà. È sempre un errore. D’altra parte, in questo caso, dovrei poter agire liberamente... più liberamente di (pianto sarebbe prudente lasciar agire il Capo Ispettore Heat. Non ho nessunissima voglia di risparmiare quel tale Verloc. Certo, non s’aspetterà di essere così presto ricercato in relazione a questa faccenda. Non sarà dunque difficile spaventarlo. Ma il nostro vero obiettivo sta dietro di lui. Perciò vorrei che voi mi autorizzaste a dargli tutte quelle assicurazioni circa la propria sicurezza personale che potrei ritener opportuno di dargli. — Ma certo, — disse il personaggio del caminetto. — Andate a fondo di questa faccenda, più a fondo che potrete, e nel modo clic vi sembrerà migliore. — Allora devo mettermi al lavoro senza perder tempo, questa sera stessa. Sir Ethelred cacciò una mano sotto la coda dell’abito e, rovesciando il capo, guardò fisso il Tenente Commissario. — Avremo una lunga seduta, stasera. Portatemi le vostre scoperte alla Casa, se ancora non ce ne fossimo andati. Avvertirò Trottola. Vi condurrà in camera mia. La numerosa famiglia e i conoscenti anche più numerosi del giovine Segretario privato accarezzavano per lui la speranza d’una carriera austera e sublime. Intanto la sfera sociale ch’egli adornava nelle sue ore d’ozio, soleva vezzeggiarlo col suddetto nomignolo. E Sir Ethelred, udendolo dalle labbra della moglie e delle figlie, (specie all’ora di colazione), vi aveva conferito la dignità di un’adozione perfettamente seria. Il Tenente Commissario fu sorpreso e anche molto lusingato.
— Non mancherò di portare le mie scoperte alla Casa, e solo mi auguro che possiate avere il tempo... — Non lo avrò, ma potremo parlare lo stesso. Anche adesso non ho tempo... Ci volete andar solo? — Sì, Sir Ethelred. Credo che sia meglio. Per tenere la figura del Tenente Commissario nel suo angolo visuale, il gran personaggio aveva tanto rovesciato il capo, che sembrava aver gli occhi quasi chiusi. — Uhm! Ah! E come farete...? Vi travestirete? — No, un vero travestimento no. Mi limiterò a cambiar abito. — Naturalmente, — fece il grand’uomo, con una specie di disinteressata alterigia. Volse lentamente il testone e, per di sopra la spalla, gettò un superbo sguardo obliquo all’orologio dal fioco e pavido tic tac. Le lancette dorate, dietro le sue spalle, avevano trovato modo di correre alla chetichella nientemeno che per venticinque minuti. Il Tenente Commissario, che non le poteva vedere, fu preso da un lieve nervosismo. Ma subito il grand’uomo gli presentò la calma d’un viso imperturbabile. — Benissimo, — gli disse, e ristette come assorto. — Ma prima di tutto, che cosa vi ha fatto muovere in quella direzione? — Sono sempre stato d’opinione... — Ah! Già, opinione. Questo sta bene, ma il motivo immediato? — Che devo dirvi, Sir Ethelred? L’avversione d’un uomo nuovo per i metodi vecchi. TI desiderio di conoscere qualcosa senza l’aiuto di altri. Forse anche un po’ d’impazienza. È il mio vecchio mestiere, ma gli arnesi sono diversi. Sicché, sono stato colpito in certi punti particolarmente sensibili.
— Spero che vi farete onore, — disse gentilmente il grand'uomo, tendendo la mano, dolce al contatto, ma larga e poderosa come quella d’un vecchio agricoltore. Il Tenente Commissario la strinse e si ritirò. Nella sala attigua, Trottola, che lo aveva atteso appollaiato sull’angolo d'una tavola, gli saltò incontro con la sua naturale giovialità. — Sicché? È andata bene? — Perfettamente. Vi siete guadagnata la mia eterna gratitudine, — rispose il Tenente Commissario, il cui lungo viso sembrava di legno, accanto al peculiare carattere della gravità dell’altro, sempre pronto a rompersi in increspature e gorgheggi. — Sta bene, sta bene. Ma sapete, voi non potete proprio figurarvi fino a che punto lo irritino gli attacchi al suo progetto per la nazionalizzazione delle pescherie. Lo dicono il principio d’una rivoluzione. È vero ch’è infatti una misura prettamente rivoluzionaria. Ma quella gente è semplicemente indecente. Gli attacchi personali... — Ho letto i giornali. — Rivoltanti? eli? Ma non potete figurarvi la mole di lavoro che deve sbrigare ogni giorno. Fa tutto da solo. E riguardo a quelle pescherie, non vuol fidarsi di nessuno. — Eppure mi ha concesso tutt’una mezz’ora per un pesciolino da nulla. — Un pesciolino. Davvero? Mi fa tanto piacere, Ma se si trattava d’un pesciolino, non avreste potuto lasciarlo stare? Queste lotte lo assorbono terribilmente. Finirà per esaurirsi. Lo sento dal modo che mi pesa sul braccio quando veniamo dalla Casa. E a proposito, credete che sia sicuro per le strade? Mullins ci ha mandato i suoi uomini, oggi, nel pomeriggio. Ora c’è un poliziotto impalato a ogni lampione, e quelli che s’incontrano tra qui e Palace Yard sono evidentemente tutti tee. Finirà per dargli sui nervi. E ditemi, non c’è pericolo che uno di quei farabutti stranieri venga a buttargli qualcosa tra le gambe, eh? Sarebbe una calamità nazionale. Il paese non può far senza di lui.
— Siete voi che gli date il braccio? — osservò sobriamente il Tenente Commissario. — Ve ne andreste insieme. — Sarebbe un modo molto spiccio per are alla storia. Troppi pochi ministri britannici sono stati assassinati, perchè l’incidente possa are inosservato. Ma ora, parlando sul serio... — Temo che, se ci tenete alla storia, dovrete far qualcosa per arrivarci. Seriamente, a parte un eccesso di lavoro, non vedo quale altro pericolo possa minacciarvi. Il simpatico Trottola accolse quell’assicurazione con un sonoro gorgheggio. — Ma non m’ammazzeranno, le pescherie. Ormai ci ho fatto l’osso alle ore piccole, — e assumendo di punto in bianco la gravità dell’uomo di Stato, con la stessa disinvoltura con la quale ci s’infila un guanto: — Il suo massiccio intelletto resisterà a qualunque lavoro. Solo i suoi nervi mi preoccupano. Quella banda reazionaria, con alla testa quel villano di « Cheeseman », lo oltraggia tutte le sere, — Dovrebbe rinunciare alla campagna rivoluzionaria, — mormorò il Tenente Commissario. — L’ora è suonata, ed egli è l’unico uomo all’altezza d’un simile compito, — protestò il rivoluzionario Trottola, avvampando sotto il calmo sguardo del Tenente Commissario. In quella, squillò una lontana scamlata perentoria, e il giovanotto tese l’orecchio a quel suono con devota solerzia. — È pronto ad andare, — esclamò in un sussurro, c, afferrato il cappello, scomparve. Il Tenente Commissario uscì per un altro uscio e in modo molto meno vivace. Attraversò di nuovo la grande arteria, s’infilò nell’angusto vicolo e rientrò nell’edificio dipartimentale. Conservò il suo o spedito fino all’uscio del proprio ufficio. Poi, prima ancora di richiudere questo, i suoi occhi cercarono la scrivania. Ristette immobile per un momento, guardando attorno, poi si sedette in poltrona, tirò il cordone d’un camlo ed attese.
— Il Capo Ispettore Heat se n’è già andato? — Sissignore. È uscito mezz’ora fa. Egli annuì. — Sta bene. E, restando immobile col cappello respinto indietro, pensò che non c’era punto da stupirsi del fatto che quel maledetto Heat se ne fosse andato chiotto chiotto, con runica prova evidente del fatto. Lo pensò senza alcuna animosità. Tutti i vecchi e utili servitori finiscono per prendersi certe libertà. D’altra parte, quel pezzo di soprabito con indirizzo non era certo roba da lasciare in giro. Distogliendo quindi la mente da quell’atto di diffidenza del Capo Ispettore Heat, scrisse un biglietto alla moglie, incaricandola di far le proprie scuse alla gran signora protet» trice di Michaelis, dalla quale s’erano impegnati di pranzare quella sera. In uno stanzino attiguo, contenente un lavabo, una fila di attaccapanni e uno scaffale, si mise una corta giacca e un basso e tondo cappello, che diedero un ottimo risalto alla lunghezza del suo viso grave e bruno. Tornò nella piena luce dell’ufficio molto simile a un freddo e assorto Don Chisciotte, con gli occhi infossati, accesi da un cupo entusiasmo, e movenze molto deliberate. Abbandonò rapidamente la scena della sua quotidiana fatica, come un’ombra frettolosa. Discese sulla strada come in un fangoso acquario, di cui tutta l’acqua fosse stata scaricata da poco. Una spessa, fuligginosa umidità lo ravvolse. I muri delle case erano bagnati, il fango della strada riluceva come fosse fosforescente, e quando egli giunse allo Strand, sbucando da una viuzza trasversale di Charing Cross, il genio del luogo lo assimilò. Parve uno qualunque di quegli strambi ed esotici pesci, che la sera vi si aggirano, attorno agli angoli bui. Si fermò sull’orlo del marciapiede e attese. I suoi occhi esercitati avevano già scorto nella moltitudine di mobili luci ed ombre il rampante progresso d’un hansom. Non fe’ alcun cenno, ma, quando il basso predellino, scivolando rasente il marciapiede, giunse sotto i suoi piedi, balzò lestamente davanti alla ruota, e si voltò in su a parlare, ancor prima che il cocchiere, il quale, dall’alto del seggio posteriore, guardava supinamente innanzi, si fosse accorto di aver a bordo un eggero.
Non fu una lunga scarrozzata. Terminò per un brusco cenno, in nessun luogo determinato, tra due lampioni, davanti a un grandissimo negozio di stoffe — una lunga fila di botteghe, già chiuse per la notte con saracinesche di ferro ondulato. Dopo aver teso una moneta per lo spiraglio del cielo della carrozza, il eggero guizzò fuori e via, lasciando al cocchiere una raccapricciante impressione di eccentricità spettrale. Ma le proporzioni della moneta risultando soddisfacenti al suo tatto, e la sua educazione essendo tutt’altro che letteraria, egli non fu turbato dal timore di vedersi quella moneta tramutar in foglia secca dentro la tasca. Posto dalla sua professione al di sopra della moltitudine dei eggeri, gli atti di questi lo interessavano molto limitatamente. E il vigoroso strattone che il ronzino diede al legno, per proseguire, espresse eloquentemente tale filosofia. Intanto il Tenente Commissario stava già ordinando il pranzo al cameriere d’un ristorante italiano, dietro la prima cantonata, una di quelle trappole per affamati, lunghe e strette, adescanti con una prospettiva di specchi e di tovaglie bianche: senz’aria, ma con un’atmosfera sua propria, cioè quella d’una fraudolenta cucina, beffante un’abbietta umanità nel suo più urgente e più misero bisogno. In quell’immorale atmosfera, il Tenente Commissario, riflettendo sul da farsi, parve perdere altri tratti della sua identità. Provava un senso di solitudine, di malefica libertà. Senso che gli riusciva assai gradevole. E quando, dopo aver pagato il conto del suo pasto frugale, s’alzò, aspettando che gli venisse riportato il resto, rimase colpito dall’aspetto estraneo dell’immagine riflessagli dallo specchio del fondo. La osservò con sguardo melanconico e scrutatore; poi, bruscamente, come per una subita ispirazione, alzò il bavero della giacca. Questa modificazione lo soddisfece; e la completò drizzando ben bene i baffi neri. « Così va bene, — pensò. — Ora ci vuole una spruzzatina e un po’ di fango... » Si rese conto di aver il cameriere al gomito e una piccola pila d’argento dinanzi a sè, sull’angolo del tavolino. Il cameriere teneva un occhio su questa pila, e l’altro sulla lunga schiena di un’alta donna, non più molto giovine, che avanzava verso un lontano tavolino come se nulla vedesse e fosse assolutamente inavvicinabile. Sembrava una cliente abituale. Uscendo, il Tenente Commissario osservò a se stesso che i frequentatori di quel luogo avevano perduto, nel continuo uso di cucine fraudolente, tutte le loro caratteristiche nazionali e personali. Cosa sorprendente, essendo i ristoranti italiani un’istituzione così tipicamente britannica. Eppure quella gente non era meno denazionalizzata dei cibi che venivano loro ammanniti. Non conservavano più alcun tratto nè professionale nè sociale nè di razza. Sembravano fatti apposta
per frequentare ristoranti italiani, a meno che questi non fossero fatti apposta per essere frequentati da essi. Ma quest’ultima ipotesi era inconcepibile, dal momento che non si potevano immaginare in nessun altro luogo se non in codesti speciali stabilimenti. Infatti, era impossibile incontrare altrove quelle enigmatiche persone. Impossibile immaginare quale occupazione avessero di giorno, e dove andassero a dormire la notte. E così anche lui era diventato incollocabile. Nessuno avrebbe potuto immaginare qual fosse la sua attuale occupazione. E quanto al suo riposo notturno, ne era incerto egli pure. Non tanto per il luogo adatto ad esso, quanto per l’ora in cui avrebbe potuto concederselo. Fu preso da una gradevole sensazione d’indipendenza quando udì la porta vetrata richiudersi dietro le sue spalle con un colpo imperfettamente attutito. E avanzò nell’immensità di grassa fanghiglia e di lastrici bagnati, cosparsa di lampioni e ravvolta, oppressa, penetrata e soffocata dalla caligine di un'umida notte londinese, fatta di fuliggine e di gocce d'acqua. Brett Street non era lontana. S’allungava stretta stretta da un lato d'un aperto spazio triangolare, circondato da nere, misteriose casette, templi d’oscuri commerci, che di notte restavano chiusi e vuoti. Solo una bottega d’ortolano, alla cantonata, faceva una gran macchia di luce e di colori. Di là, tutto era nero, e i pochi anti avviati in quella direzione scomparivano di colpo a un o dai mucchi di arance e di limoni. Non s'udiva echeggiare alcun o. Cessavano come per non essere riuditi mai più. Il capo del Dipartimento Delitti Speciali osservò quelle scomparse da una certa distanza e con occhio interessato. Aveva il cuore leggero, quasi fosse imboscato solo solo in mezzo a una giungla lontana mille miglia da ogni scrivania dipartimentale e da ogni calamaio ufficiale. E tale gioconda dispersione dei pensieri davanti a un compito di una certa importanza, sembra quasi dimostrare "che, dopo tutto, questo nostro mondo non è poi una faccenda molto seria, giacche il Tenente Commissario non era, per temperamento, incline alla frivolezza. A un certo punto, il poliziotto di servizio in quella contrada proiettò la sua fosca e mobile forma contro la luminosa gloria delle arance e dei limoni; poi, senza fretta, s’immerse nella Brett Street. Il Tenente Commissario, come fosse un membro della classe criminale, indugiò fuor di vista, aspettando il suo ritorno. Ma quel poliziotto sembrava scomparso per sempre. Non tornò più: probabilmente, era uscito dall’altro capo della Brett Street. Giunto a quella conclusione, il Tenente Commissario s’immerse a sua volta, e uscì presso un gran furgone, fermo davanti ai vetri foscamente illuminati d’una
bettola da carrettieri. Più in là, dall’altra parte della strada, un’altra luce non meno dubbia trapelava dalla vetrina di Verloc, nella quale, tra il solito sciorinamento di giornali, si profilavano confuse pile di scatole e di libri. Il Tenente Commissario ristette a osservarla dal marciapiede opposto. Non vi poteva esser dubbio alcuno. Di fianco a quella vetrina piena d’ombre di cose indescrivibili, la porta socchiusa lasciava sfuggire sulla strada una stretta e chiara striscia dell’interna luce a gas. Dietro il Tenente Commissario, il furgone e i cavalli, confusi in una massa, sembravano qualcosa di vivo, un mostro dalle enormi spalle quadre che bloccasse mezza strada, con brusco scalpitare di zoccoli ferrati, fiero squassar di cose tintinnanti, e sbuffi pesanti e sonori come colpi. In fondo, di contro all’imbocco della Brett Street, brillavano, dure e bieche, le luci d’un grande e prosperoso caffè. Quella barriera di luce sbarrante l’umile contrada, in cui s’annidava la felicità domestica di Verloc, sembrava respingere le tenebre della strada, comprimerle, renderle più cupe, più truci, più sinistre.
[1] Specie di vettura di piazza.
VIII
Avendo infuso, mediante persistenti insistenze, un po’ di calore nel freddo interesse di alcuni provveditori autorizzati (colleghi del suo defunto marito), la madre della signora Verloc aveva infine ottenuto di essere internata in un ricovero per vedove povere, fondato da un ricco bettoliere. Tale fine, concepito dall’astuzia del suo cuore angustiato, era stato raggiunto con la massima segretezza e non minor tenacia. Fu a quel tempo che sua figlia Winnie non potè far a meno di osservare a Verloc: « Sai elle la mamma ha speso in scarrozzate fino a mezza corona e cinque scellini quasi ogni giorno della scorsa settimana? » Ma questa osservazione la fece senza acredine. Winnie rispettava le infermità di sua madre. Era soltanto un po’ sorpresa da quella subita manìa di locomozione. Verloc, che, a modo suo, era abbastanza munifico, aveva respinto l’osservazione con un brontolìo spazientito, come se ciò turbasse il corso delle sue meditazioni, le quali erano frequenti, profonde e prolungate; e certo non s’aggiravano su spesucce di cinque scellini. Le sue erano questioni molto più importanti, e senza confronto più difficili da considerare in qualunque loro aspetto con filosofica serenità. Raggiunto il suo scopo con astuta segretezza, l’eroica vecchia s'era sgravata l’anima in seno alla figlia. La sua anima trionfava, ma le tremava il cuore. E il cuore le tremava perchè temeva, non meno di quanto lo ammirasse, il carattere calmo e contenuto di Winnie, i cui dispiaceri solevano manifestarsi con terribili silenzi. Però, non permise alle sue interne apprensioni di privarla del vantaggio della veneranda placidità conferita al suo aspetto da un triplice mento, dalla vacillante ampiezza della sua annosa struttura e dalle condizioni d'impotenza delle sue gambe. Ma quella confidenza fu tanto inaspettata, che la signora Verloc, contrariamente alle sue abitudini, interruppe le faccende domestiche cui stava accudendo. Stava precisamente spolverando i mobili del retro. Volse il capo alla madre. — Perchè l’hai fatto? — le chiese con scandalizzato stupore.
Quel colpo doveva essere stato davvero eccezionale per far sì ch’ella si staccasse dalla indifferente, incuriosa accettazione d’ogni fatto, ch’era la sua forza, la salvaguardia sua. — Non stavi bene, qui? S’era lasciata indurre a fare quelle domande, ma l’istante appresso s’affrettò a salvare la consistenza della propria condotta, rimettendosi a spolverare diligentemente, mentre la vecchia restava seduta, sbigottita e muta, sotto la bizzarra cuffietta bianca e la nera parrucca senza lustro. Winnie ultimò la spolveratura d’una sedia, poi fece scorrere lo spolverino sullo schienale del divano imbottito di crine, sul quale a suo marito piaceva riposarsi in soprabito e cappello. Ma poco dopo, pur proseguendo quel lavoro, non potè trattenere un’altra domanda. — Come mai ci sei riuscita, mamma? Curiosità scusabile, dal momento che non si peritava di frugare tra cose interiori. Si fermava discretamente sull’esteriorità dei mezzi. E la vecchia l’accolse con gioia tanto più viva, in quanto le permetteva di parlare diffusamente, senza reticenze di sorta. Diede quindi alla figlia una risposta molto esauriente, piena di nomi e ricca di commenti sull’opera devastatrice del tempo nel campo dei sentimenti umani. I nomi appartenevano quasi tutti a provveditori autorizzati, « sai, cara, amici del povero papà ». Indugiò poi con apprezzamenti speciali sulla gentilezza e la condiscendenza d’un ricco fabbricante di birra, baronetto, Deputato al Parlamento e presidente dei « Governatori della Carità ». Ne parlò così calorosamente, perchè le era stato concesso d’intrattenersi, dietro appuntamento, col suo segretario personale — « un signore molto educato, tutto in nero, con un vocino dolce e triste, ina tanto tanto sottile e cheto. Sai, cara, proprio come un'ombra. » Winnie, dopo aver protratta la spolveratura sino alla fine della storia, scese dal retro in cucina (due gradini) al suo solito modo, cioè senza alcun commento. Spargendo alcune lacrime in segno di gioia per la mansuetudine dimostrata dalla figlia in quella terribile faccenda, la vecchia rivolse la propria astuzia sulla sorte della mobilia, che apparteneva a lei, benché spesso avesse desiderato che fosse
appartenuta ad altri. È hello essere eroici, ma certe volte il modo in cui si dispone di poche tavole, sedie, brande,, ece., può essere greve di remote e disastrose conseguenze. Ma aveva bisogno di qualche mobile per sè, poiché l’opera pia che, dopo molte avversità, l’aveva accolta nel suo seno caritatevole, non dava che un nudo impiantito e quattro pareti mal tappezzate agli oggetti delle sue sollecitudini. Ma la delicatezza che la spinse a riservarsi gli oggetti più modesti, più decrepiti, ò inavvertita, poiché Winnie, per principio, non si avventurava mai oltre l’aspetto esteriore delle cose. E in questo caso, pensò semplicemente che la mamma prendesse quello che meglio le conveniva. In quanto al signor Verloc, le sue profonde meditazioni Pisolavano come una muraglia cinese da ogni fenomeno di questo mondo di vani sforzi e di parvenze illusorie. Fatta la sua cernita, dovette pensare a disporre del resto, cosa molto imbarazzante. Doveva lasciar quei mobili nella Brett Street, naturalmente. Ma aveva due figli. Winnie era al sicuro, grazie alla saggia unione con quell’ottimo marito ch’era il signor Verloc. Stevie non aveva un soldo, e anche era alquanto... diverso dagli altri. Il possesso della mobilia non sarebbe bastato ad assicurargli l’avvenire. Gli spettava, poverino. Ma dandola a lui, avrebbe pregiudicato la sua posizione di completa dipendenza. E quella era una posizione ch’ella non voleva minorare in alcun modo. Poteva darsi benissimo che la suscettibilità del genero si adombrasse pel fatto di doversi sedere sulle sedie del cognato. Avendo trattato a lungo con dozzinanti d’ogni sorta, ella s’era fatto un triste, ma rassegnato concetto del lato fantastico della natura umana. Se, per esempio, un bel giorno il signor Verloc avesse voluto dire al povero Stevie di far fagotto e d’andarsene? D’altra parte, una spartizione, per quanto saggia, poteva dar motivo d’offesa a Winnie. No, Stevie doveva restar nullatenente e dipendente. Cosicché, al momento d’abbandonare la Brett Street, ella disse alla figlia: — Inutile aspettare che sia morta, vero? Tutto quello che lascio qui è tuo, cara. Winnie, col cappello in testa, continuò ad aggiustare in silenzio il colletto del mantello di sua madre, dietro le spalle di questa. Poi, imibile, prese la valigia e l’ombrello. Era giunta l’ora di spendere la somma di tre scellini e sei denari in ciò che molto probabilmente doveva essere l’ultima scarrozzata della madre della signora Verloc. Uscirono per la porta della bottega.
Il veicolo che li aspettava avrebbe potuto efficacemente illustrare il proverbio chè dice: « Il vero è spesso più crudele della caricatura ». Trascinandosi penosamente dietro un cavallo infermo, un hackney metropolitano s’avanzò con ruote gibbose e con a cassetta un cocchiere monco. Quest’ultima peculiarità cagionò un certo imbarazzo. Scorgendo l’uncino di ferro occhieggiante dalla manica sinistra di quell’uomo, la madre della signora Verloc perse d’un subito l’eroico coraggio di quegli ultimi giorni. Non potè risolversi a salire. Che ne dici, Winnie? Arretrò. Le veementi rimostranze del cocchiere sembravano uscire da ima gola strozzata. Sporgendosi dall’elevato seggiolino, egli sembrava sussurrare con misteriosa indignazione. Clic diavolo avevano? Era mai possibile trattar così un uomo? Il suo enorme e sudicio viso fiammeggiò scarlatto in mezzo alla strada fangosa. O che forse si figuravano che gli avrebbero dato la licenza, se... Il poliziotto del rione lo calmò con un’occhiata amichevole. Poi, rivolto alle due donne, affermò, senza alcun riferimento personale: — Guida da vent’anni. Mai sentito dire che abbia avuto un incidente. — Incidente! — gridò il cocchiere, in un sussurro saturo di sarcasmo. La testimonianza del poliziotto fu d’effetto decisivo. Il piccolo assembramento di sette curiosi, (piasi tutti di minor età, si sciolse. innie seguì sua madre nella vettura. Stevie s'inerpicò a cassetta. La sua vacua bocca e il suo sguardo smarrito rivelarono eloquentemente lo stato d'animo in cui era venuto a trovarsi in seguito all’incidente di poco prima. Nell’angusta stradetta, il progresso del legno fu reso percettibile ai eggeri dalle vicine facciate delle case, che presero a muoversi ballonzanti, con un tremendo fracasso di vetri, quasi stessero per crollare tutte quante dietro la vettura; e l’infermo cavallo, con i finimenti molto sciolti sulla scarna ossatura, parve ballar sugli zoccoli con infinita pazienza. Ma più tardi, nello spazio più aperto di Whitehall, ogni evidenza di progresso divenne impercettibile. 11 fracasso di vetri continuò davanti al lungo Treasury Building, e lo stesso Tempo parve fermarsi. Infine Winnie osservò: — Questo cavallo non è molto buono.
I suoi occhi brillavano nell’ombra della vettura diritti davanti a sé, immoti. A cassetta, Stevie chiuse la vacua bocca per dire, serio serio: — No! Il cocchiere, tenendo alte le guide attorcigliate sul- l’uncino della sinistra, non gli badò. Forse non lo aveva udito. Il petto di Stevie si gonfiò. — Non frustatelo. L’uomo volse lentamente il faccione multicolore e tutto irto di peli bianchi. I rossi occhietti gli brillavano umidi. Le grosse labbra avevano una tinta violacea. Rimasero chiuse. Col sudicio dorso della mano armata di frusta, si fregò gl’ispidi peli del mento enorme. — Non dovete, — balbettò violentemente Stevie. — Fa male. — Non devo frustare? — chiese l’altro in un pensoso sussurro, e subito diede una frustata. La diede non per crudeltà d’animo o malvagità di cuore, ma semplicemente perchè voleva guadagnarsi la corsa. E per qualche tempo le mura di Santo Stefano, le torri e le guglie, contemplarono immobili e silenti la vettura sobbalzante con gran fragore di vetri, la quale, chissà come, finì per andar oltre. Ma sul ponte vi fu una commozione generale. Stevie, d’un subito, si decise a saltar giù di cassetta. Da ambo i marciapiedi si alzarono alte grida, i anti si precipitarono, e il cocchiere fermò il ronzino, brontolando imprecazioni di sdegno e di stupore. Winnie abbassò un finestrino e affacciò un viso livido come quello d’uno spettro. Nelle profondità della vettura, la madre esclamò in tono d’angoscia: — S’è fatto male, quel ragazzo? S’è fatto male? Stevie non s’era fatto male, non era nemmeno caduto; ma l’agitazione, come al solito, lo aveva privato della facoltà di parlare bene, Potè solo balbettare al finestrino: — Troppo pesante. Troppo pesante. Winnie allungò la mano e gliela pose sulla spalla. — Stevie! torna subito a cassetta, e bada di non scendere più.
— No. No. Camminare. Devo camminare. Cercando di spiegare la ragione di tale necessità, balbettò cose del tutto incoerenti. Nessuna impossibilità materiale si opponeva a quel suo capriccio. Poteva benissimo camminare di conserva con l’infermo e balzellante cavallo, senza punto sfiatarsi. Ma la sorella non volle acconsentire. — Che idea! Chi ha mai sentito una cosa simile? Correre dietro a una vettura di piazza! La madre, spaventata e impotente nelle profondità del veicolo, supplicò: — Oh, non lasciarlo, Winnie! Si perderebbe. Non lasciarlo! — Ma certo! Ci mancherebbe altro! T’assicuro, Stevie, che quando il signor Verloc lo saprà, sarà molto scontento. Vedrai che gli farà molto dispiacere. Il pensiero di poter arrecare un dolore al signor Verloc agì come al solito poderosamente sull’indole fondamentalmente docile di Stevie, che tornò subito a cassetta con viso disperato. Il cocchiere gli volse trucemente l’enorme volto . — Bada, giovanotto, di non ripetere quello scherzo. Detto ciò in un serio sussurro, soffocato quasi fino al punto d’estinzione, rimise in moto la vettura, ruminando solennemente. Ouell’incidente gli riusciva alquanto oscuro. Ma il suo intelletto, nonostante i molti anni di sedentaria esposizione alle intemperie diurne e notturne, non difettava nè d’indipendenza nè di sanità. Respinse gravemente l’ipotesi che Stevie potesse essere una giovane vittima dell’alcool. Nell’interno della vettura, l’incanto di silenzio nel quale le due donne avevano sopportato a fianco a fianco i sobbalzi e il fracasso, era stato rotto dallo scatto di Stevie. Winnie alzò la voce. — Hai fatto quello che hai voluto, mamma. Potrai ringraziare te stessa, se poi non sarai felice. E davvero, non credo che tu possa esserlo. No, non lo credo. Non stavi bene a casa nostra? Che dirà la gente... a vederti cadere così in braccio
della Carità? — Cara! — strillò la vecchia, dominando il fracasso. — Tu sei stata per me la migliore delle figlie. In quanto poi al signor Verloc... Non trovando parole per esprimere l’eccellenza del signor Verloc, ella rivolse i vecchi occhi pieni di lacrime al cielo della vettura. Poi nascose il viso, fingendo di guardar fuori, come per osservare la corsa. Questa era insignificante, e si svolgeva rasente al marciapiede. La notte, la precoce, lurida, sinistra, chiassosa, disperata notte di South London l’aveva raggiunta nella sua ultima scarrozzata. Nella scialba luce delle basse vetrine, i suoi grossi zigomi rilucevano d’un riflesso arancione, sotto una nera cuffietta. Il colorito della madre della signora Verloc s’era fatto giallo per effetto degli anni e per una sua naturale predisposizione alla biliosità, favorita dalle vicende d’una penosa e tormentata esistenza, prima come moglie, poi come vedova. Era un colorito che, sotto un afflusso di sangue, prendeva una tinta arancione. E quella donna, umile sì, ma anche temperata al fuoco delle avversità, e di un’età che solitamente esclude simili afflussi di sangue, aveva realmente arrossito dinanzi alla figlia. Nell’intimità- di quel veicolo, avviata verso un cottage di carità (uno d una lunga fila) che, per l’esiguità delle sue proporzioni e per la scarsità dei suoi agi, avrebbe ben potuto esser stato , ideato unicamente per preparare il corpo alle condizioni anche più ristrette della tomba, ella era costretta a nascondere alla propria figlia un rossore di rimorso e di vergogna. Che dirà la gente? Sapeva benissimo quel che avrebbe detto la gente cui Winnie alludeva — i vecchi amici del suo defunto marito, e anche quegli altri, di cui aveva saputo così ben sollecitare l’interessamento. Non avrebbe mai creduto di poter mendicare così bene. Ma ora ben poteva immaginare in che modo sarebbe stata giudicata la sua condotta. Grazie a quell’esitante delicatezza che nei maschi va a braccetto con la più aggressiva brutalità, le domande non erano andate molto lontano. Ella le aveva trattenute con nna visibile contrazione delle labbra, e col palesare un’emozione determinata a restar silenziosa. E gli uomini avevano perduto d’un subito ogni curiosità. Più d’una volta ella s’era rallegrata di non aver avuto a che fare con donne, le quali, essendo di natura molto più dura e avida di particolari, avrebbero insistito per essere esattamente informate circa la particolare condotta con la quale la figlia e il genero l’avevano spinta a tale estremo. Solo davanti al segretario personale del ricco fabbricante di birra, M. P. e Presidente dei « Governatori della Carità », che, facendo le veci del suo
padrone, s’era ritenuto costretto a indagare coscienziosamente sulle reali condizioni della postulante, ella era scoppiata in un pianto dirotto, come fanno le donne quando non vedono altra via di scampo. Il sottile ed educato signore, dopo averla contemplata sbalordito, aveva abbandonato la sua posizione con parole di conforto. Il regolamento dell'Opera non specificava precisa- mente « vedove senza figli ». L’averne, non era quindi una ragione perché ella fosse esclusa. Tuttavia, la discrezione del Comitato doveva essere illuminata. Comprendeva benissimo il suo desiderio di non essere a carico, eccetera, eccetera. A queste parole, e di fronte al profondo sconcerto del segretario, la madre della signora Verloc aveva pianto con maggior veemenza. Le lacrime di quel donnone con parrucca nera, polverosa, e un antico vestito di seta bizzarramente ornato con nastri di cotone bianco, erano lacrime d’un dolore genuino. Aveva pianto perché era eroica, senza scrupoli e traboccante d’amore per i suoi figli. Le femmine sono spesso sacrificate per il bene dei maschi. E in questo caso ella aveva sacrificato Winnie. Tacendo la verità, ella l’aveva immolata. Naturalmente, Winnie era indipendente, e nulla doveva importarle di gente che non avrebbe mai vista; mentre il povero Stevie non aveva nulla al mondo se non l’eroismo e la mancanza di scrupoli di sua madre. Il primo senso di sicurezza derivato dal matrimonio di Winnie s’era come consumato con l’andar del tempo (poiché nulla dura in questo mondo), e la madre della signora Verloc, nella solitudine della sua remota stanzetta, aveva rammentato l’insegnamento di quelle esperienze che il mondo infligge alle vedove povere. Ma senza vana amarezza; la sua provvista di rassegnazione ammontava quasi alla dignità. Pensò stoicamente che ogni cosa decade e muore in questo nostro tristo mondo, che bisogna appianare la via della bontà ai benintenzionati, che sua figlia Winnie era una sorella affezionatissima e anche una moglie molto sicura di sè. Dinanzi all’amore fraterno di Winnie, il suo stoicismo s’arrestava. Eccettuava tale sentimento dalla decadenza incombente su ogni cosa umana e anche su alcune sovrumane. Per forza aveva dovuto eliminarlo; non lo avesse fatto, ne sarebbe morta di terrore. Ma, considerando lo stato coniugale della figlia, ella respinse fermamente ogni illusione. E si convinse che, per assicurare una lunga durata alla bontà del signor Verloc, bisognava renderla quanto mai facile. Queirottimo uomo amava sua moglie, naturalmente; ma certo non poteva estendere quel sentimento a tutti i parenti di lei. Meglio dunque far sì che quella parentela si riducesse al solo Stevie. Cosicché, l’eroica vecchia si convinse che il separarsi dai suoi figli sarebbe stato un atto di devozione e insieme una mossa eminentemente strategica.
La « virtù » di quella strategia (la madre della signora Verloc aveva, a modo suo, un accorgimento molto fine) stava soprattutto nel rafforzamento che per essa sarebbe derivato ai diritti morali di Stevie. Quel povero ragazzo — un buono e servizievole ragazzo, se pure alquanto strano — non poteva far da sè. Era stato traslocato insieme con sua madre, pressappoco come la mobilia della casa di piazza Belgravia, quasi fosse parte integrante di questa. « Che diverrà quando sarò morta? » s’era chiesto la madre della signora Verloc, che, in certo (piai modo, era realmente immaginosa. E quella domanda suscitò in lei un senso d’orrore. Era infatti terribile pensare che allora non avrebbe più potuto sapeTe che cosa capitava a quel povero ragazzo. Ma ora, lasciandolo alla sorella, andandosene via così, gli dava tutti i vantaggi d’una posizione direttamente dipendente. Fu questo l’atto più profondamente astuto del suo eroismo di madre. Con un apparente abbandono, ella assicurava per sempre l’avvenire del figlio. Altre madri fanno sacrifici materiali per conseguire tale scopo; ella era ricorsa all’abnegazione, all’unico modo, cioè che le fosse possibile seguire. Inoltre, avrebbe visto in seguito i frutti di quel suo atto. Buoni o grami, le avrebbero a ogni modo risparmiato l’orrenda incertezza sul letto di morte. Però era duro, duro, atrocemente duro. La carrozza diede una serie di sobbalzi, scricchiolando, schiantando e squassando fragorosamente i vetri; e l’ultimo fu un sobbalzo davvero straordinario. Soffocò con la sua sproporzionata violenza ogni senso di movimento progressivo; cosicché parve alle donne di essere scosse in un apparecchio stazionario, un qualche strumento di tortura medievale o un nuovo sistema per ridestar fegati intorpiditi. Era estremamente terribile, e l’acuta voce della madre della signora Verloc suonò straziantemente dolorosa. — Promettimi, cara, di venirmi a trovare ogni volta che potrai. — Ma certo, — rispose Winnie secco secco, guardando fisso dinanzi a sé. La vettura vacillò davanti a una lurida e fumosa bottega, ravvolta in un nembo di luce a gas e in un pungente odore di pesce fritto. La vecchia alzò di nuovo la voce straziante. — E sai, cara, devo vedere quel povero ragazzo tutte le domeniche. Vedrai che non gli dispiacerà arle con la sua vecchia mamma. E Winnie, a sua volta, strillò sventatamente:
— Questo te lo credo, purtroppo! Quel povero ragazzo ne soffrirà terribilmente. Avresti ben potuto pensarci, mamma. Se vi aveva pensato! L’eroica vecchia deglutì qualcosa come una palla da biliardo che le fosse saltata in gola. Winnie rimase muta per un momento a guardar fisso dinanzi a sé, poi sibilò, nel tono che le era consueto : — Mi darà un bel da fare. Avrà in corpo tutti i diavoli dell’Inferno... — Purché non dia fastidio a tuo marito. Ti raccomando, cara, tienilo d’occhio. Così parlarono della nuova situazione, considerandola nei suoi aspetti più intimamente familiari. E la vettura, intanto, continuava a vacillare sobbalzando. La madre della signora Verloc espresse alcune sue apprensioni. Era poi prudente lasciarlo andare solo così lontano, quel povero ragazzo? Winnie sostenne che adesso era assai meno « smemorato » di prima. La madre lo riconobbe. Infatti, non si poteva negarlo. Molto meno... quasi pili affatto. Strillarono a vicenda nel pandemonio della vettura con relativa allegrezza. Ma d’un tratto l’ansietà materna proruppe di nuovo. C’erano due omnibus da prendere, e, frammezzo, un piccolo tratto da fare a piedi. Era troppo difficile! E la vecchia diede sfogo al suo dolore e alla sua costernazione. innie continuò a guardar fisso dinanzi a sè. — Non t’agitare così, mamma. Verrà a trovarti lo stesso; naturalmente. — No, cara, non è possibile, non è possibile! S’asciugò gli occhi. — Non avrai tempo di accompagnarlo, e se perdesse la strada e qualcuno gli parlasse rudemente, dimenticherebbe nome e indirizzo, e resterebbe perduto per giorni e giorni... La visione del povero Stevie rinchiuso — sia pure per i pochi giorni delle indagini — nell’infermeria d’un laboratorio, le torse il cuore. Poiché era una donna orgogliosa. Lo sguardo fisso di Winnie si lece duro, intenso, inventivo. — Già, non mi sarà possibile portartelo tutte le domeniche, — strillò. — Ma non ti crucciare per questo, mamma. Farò in modo che non possa restar perduto a
lungo. Sentirono una scossa diversa dalle altre. Dinanzi al fragoroso finestrino della vettura sorsero improvvisamente delle colonne di mattoni. L’improvvisa cessazione dell’atroce sballottamento e del non meno atroce fracasso, lasciò come stordite le due donne. Che succede? Rimasero sedute immobili, inorridite, nel più profondo silenzio, finché lo sportello s’aperse e un aspro, sforzato sussurro annunciò: — Siamo arrivati! Una fila di minuscole casette, ciascuna con un finestrino scialbamente illuminato, circondava lo spazio aperto e nero d’un prato cosparso d’alberelli e diviso, per mezzo d’una cancellata, dalla scacchiera di luci e d’ombre della strada maestra, risonante d’un cupo rombo di traffico. La vettura s’era fermata davanti a una di quelle casette, diversa dalle altre solo per il fatto che nessuna luce ne rivelava il solito finestrino. La madre della signora Verloc era scesa per la prima, a ritroso, e con una chiave in mano. Winnie s’indugiò presso la vettura per pagare il cocchiere. Stevie, dopo aver aiutato a trasportare una moltitudine di pacchetti, andò a fermarsi sotto un lampione a gas appartenente all’Opera. Il cocchiere guardò le . monete che, sul suo enorme palmo calloso, parvero singolarmente piccole, quasi a simboleggiare l’inane frutto del coraggio e della fatica parimente ambiziosi degli uomini, le cui giornate sono molto brevi su questa grama terra. Era stato pagato quasi lautamente, — quattro monete d’argento di uno scellino ciascuna — ed egli le contemplò in perfetto silenzio come i termini astrusi d’un melanconico problema. Il lento trasferimento di quel tesoro in una tasca interna richiese laboriose ricerche nelle profondità dei panni sdruciti. Stevie, snello, le spalle alquanto alzate e le mani sprofondate nelle tasche del caldo soprabito, lo stava guardando attentamente dall’orlo del marciapiede. Il cocchiere, rimanendo nelle sue deliberate movenze, parve colpito da un subito e nebuloso ricordo. — Oh! sei ancora qui, giovanotto? Se ti capita davanti, lo riconoscerai, vero? Stevie guardava il cavallo, la cui groppa, per effetto dell’eccessiva magrezza, sembrava singolarmente ' sopraelevata. La piccola, rigida coda sembrava esservi stata appiccicata per una burla crudele. E all'altra estremità, il sottile, piatto
collo, simile a un asse ricoperta da una vecchia pelle di cavallo, era trattenuto giù dal peso d'un enorme cranio tutto d’osso. Gli orecchi penzolavano ad angoli diversi, negligentemente. E la macabra figura di quella muta creatura fumigava tutta nella brumosa inerzia dell'aria. Il cocchiere colpì lievemente il petto di Stevie con l’uncino di ferro sbucante dalla manica sfilacciata e bisunta. — Dimmi, giovanotto, ti piacerebbe star seduto lassù, dietro quel cavallo, fino alle due del mattino? Stevie volse lo sguardo vacuo sui fieri occhietti dalle palpebre orlate di sangue. — Non è poi sciancato, — continuò l'altro, sussurrando energicamente. — Non ha neanche una piaga. Guardalo. Ti piacerebbe, di’?... L’atona sua voce sforzata diede a quelle parole un carattere di segreta veemenza. Lo sguardo vacuo di Stevie si colmò gradatamente d’orrore. — Guardalo, guardalo pure. Fino alle tre e anche alle quattro del mattino. Gelato e affamato. In cerea di corse. Ubriachi. La porpora gioviale delle sue gote era irta di peli bianchi, e, come il Sileno di Virgilio, che, col viso lordato dal sugo dei mirtilli, parlava degli dèi dell’Olimpo agl’innocenti pastorelli della Sicilia, egli parlò a Stevie delle cose domestiche e pubbliche degli uomini, le cui sofferenze sono -grandi, mentre la loro immortalità non è affatto assicurata. — Io faccio il servizio notturno, — sussurrò con una specie di spavalda esasperazione. — E mi devo pigliare quel tanto per yarda che mi vogliono dare. Ho a casa la mia signorina con quattro piccini. La mostruosità di quella dichiarazione di paternità parve ammutolire il mondo. Regnò allora un immane silenzio, durante il quale gli scarni fianchi del vecchio cavallo, corsiero della miseria apocalittica, fumigò su, nel chiarore del caritatevole lampione. Il cocchiere grugnì, poi soggiunse in un sussurro misterioso: — È un brutto mondo, il nostro.
Già da qualche tempo il viso di Stevie era percorso da guizzi nervosi, e d’un tratto i suoi sentimenti proruppero nella loro solita forma concisa. — Cattivo! cattivo! Il suo sguardo rimase per qualche tempo fisso sulle costole del cavallo, assorto e cupo, quasi avesse paura di guardare, attorno attorno, la malvagità del mondo. E la sua snellezza, le rosee labbra e il pallido, chiaro colorito, gli davano L’aspetto d’un delicato ragazzetto, nonostante la fitta lanuggine d’oro delle gote. Guardava fisso, a bocca aperta, come un bambino spaventato. Il cocchiere, grosso e tozzo, lo fissò con gli occhietti fieri, che sembravano galleggiare in un liquido chiaro e corrosivo. — Brutto per i cavalli, ma maledettamente più brutto per i poveri diavoli come me, — bisbigliò appena percettibilmente. — Poverino! poverino! — balbettò Stevie, sprofondando ancor più le mani nelle tasche, con una specie di convulsa simpatia. Non poteva dir altro, poiché la sua tenerezza per tutte le sofferenze, per tutte le miserie, il suo desiderio di render felice quel cavallo, di render felice quel cocchiere, s’erano acuiti a tal punto, che provava la strana voglia di portarseli entrambi a letto con sè. Cosa ch’egli sapeva impossibile, poiché non era pazzo. Era, per modo di dire, una voglia simbolica; ma al tempo stesso, era anche molto precisa, poiché generata dall’esperienza, madre della saggezza. Infatti, quando da bambino si raccoccolava in un buio cantuccio, spaventato, affranto, dolorante, miserabile per la nera, nerissima miseria della sua piccola anima, sua sorella Winnie sopraggiungeva sempre a portarselo a letto con sè, come in un paradiso di pace perfetta. Benché soggetto a dimenticare i semplici fatti, come ad esempio il proprio nome e il proprio indirizzo, la sua memoria riteneva fedelmente ogni sensazione. Così, il portare i sofferenti in un letto di comione gli era sempre parso un supremo rimedio, col solo svantaggio di non poter essere facilmente applicabile su larga scala. Ed ora, guardando il cocchiere, lo comprese chiaramente, poiché era realmente sensato. Il cocchiere continuò nei suoi lenti preparativi come se Stevie non fosse esistito. Fece poi l’atto di salire a cassetta, ma, all’ultimo momento, trattenuto da qualche oscuro scrupolo o forse soltanto dal disgusto di star seduto lassù, desistette. Avvicinò invece l'immobile compagno delle sue fatiche, e, curvatosi per
afferrarne la briglia, sollevò la gran testa stanca fino all’altezza delle proprie spalle, con un visibile sforzo della destra, come a sfoggiare una prodezza di forza. — Andiamo, — gli sussurrò misteriosamente. Zoppicando, condusse innanzi la vettura. C’era qualcosa di austero in quella partenza, nella minuta ghiaia che scricchiolava sotto le lente ruote, nella scarna ossatura del cavallo che si muoveva con ascetica deliberazione, ando dalla luce nell’oscurità dell’aperto spazio vagamente punteggiato dai tettucci aguzzi e dai finestrini scialbamente illuminati delle casette di carità. Il lamento della ghiaia progredì lentamente attorno allo spiazzo. Tra i lampioni del caritatevole cancello, il lento corteo ricomparve, illuminato per un momento, con l’uomo grosso e tozzo che arrancava diligentemente, tenendo sollevata la testa del cavallo, il quale procedeva con rigida, insensibile dignità, seguito dalla nera, bassa cassa su ruote, buffamente barcollante. Svoltarono a sinistra. A una cinquantina di yarde dal cancello c’era un « bar ». Stevie, rimasto solo accanto al lampione privato della Carità, con le mani sempre sprofondate nelle tasche, continuò a guardare, vacuamente imbronciato. In fondo alle tasche, le sue deboli, incapaci mani erano annodate in un paio di pugni furiosi. Di fronte a qualunque cosa che provocasse il suo morboso orrore d’ogni sofferenza, Stevie finiva sempre per diventar cattivo. Un magnanimo sdegno gli gonfiò il fragile petto fin quasi a farlo scoppiare, e lo fece guardar di traverso. Supremamente saggio nella coscienza della propria impotenza, non era abbastanza saggio per frenar le sue ioni. La tenerezza della sua pietà universale aveva due fasi indissolubilmente giunte e connesse come il dritto e il rovescio d’una medaglia. All’angoscia dell’eccessiva comione, succedeva il tormento di un’innocente, ma spietata rabbia. Questi due stati, esprimendosi esternamente con uguali segni di futile agitazione corporea, Winnie li calmava insieme, senza mai indagarne il duplice carattere. La signora Verloc non dedicava mai alcuna parte della sua effìmera esistenza a ricerche di cose fondamentali. Il che è poi una specie di economia che presenta tutti gli aspetti e alcuni dei vantaggi della prudenza. Quante volte, infatti, è preferibile non saper troppo! E, d’altra parte, tale opinione s’accordava ottimamente con la sua innata indolenza. Quella sera, in cui ben si potrebbe dire che la madre della signora Verloc, oltre ad essersi separata dai suoi figli, s’era anche staccata dalla vita, Winnie non
indagò nella psicologia del fratello. Quel povero ragazzo era agitato, evidentemente. Dopo aver ancora una volta assicurato alla vecchia, sulla soglia, che avrebbe fatto in modo da scongiurare il pericolo che Stevie potesse perdersi per molto tempo durante i pellegrinaggi della sua pietà filiale, ella prese il fratello pel braccio e s'incamminò. Stevie non disse nulla, non brontolava neppure; ma ella, per lo speciale senso di fraterna devozione, sviluppatosi in lei fin dalla prima infanzia, sentì che il ragazzo era realmente molto agitato. Fingendo di reggersi a lui, lo tenne forte per il braccio, e cercò qualche parola adatta alla circostanza. — Ora, Stevie, è dover tuo vigilare su me, quando attraverseremo la stradale salir per primo sull'omnibus, da buon fratello. Quell’appello alla sua protezione d’uomo, fu accolto da Stevie con la solita docilità. Lo lusingava. Eresse il capo e s'impettì. — Non aver paura, Winnie. Non devi aver paura. Gli Omnibus non fanno male a nessuno, — rispose con un brusco, cupo balbettio fatto di timor puerile e di virile risolutezza. Camminava spavaldo a braccetto della donna, ma il suo labbro inferiore penzolava. Nullameno, sul lastrico dell’ampio e squallido viale, la cui miseria era stupidamente palesata, in tutte le amenità della vita, da una pazza profusione di luce a gas, la loro somiglianza era tanto sorprendente, da colpire i anti casuali. Davanti al « bar » dell’angolo, dove la profusione di luce era addirittura malvagia, una vettura di piazza, senza nessuno a cassetta, sembrava buttata là nel rigagnolo come un rottame. La signora Verloc riconobbe il veicolo. Il suo aspetto era così profondamente pietoso, con tale perfezione di grottesca miseria e atrocità di macabri particolari, — sembrava la carrozza della stessa Morte — che la signora Verloc, con quella pronta comione che hanno le donne per i cavalli (quando non vi siedono dietro), esclamò: — Povera bestia! Arretrando d’un subito, Stevie diede un forte strattone al braccio della sorella. — Poverino! poverino! Anche il cocchiere, poverino. Me l’ha detto egli stesso. La vista di quell’infermo e abbandonato ronzino lo sopraffece. E, per quanto riscosso, volle restar lì a sforzarsi di esprimere il suo nuovo concetto di miserie
umane ed equine strettamente associate. Ma era una cosa troppo difficile. Potè ripetere soltanto: — Povera bestia! povero cocchiere! E queste parole non sembrandogli abbastanza espressive, finì per buttar fuori rabbiosamente: — Vergogna! Stevie non era un maestro della parola, e forse perciò i suoi pensieri difettavano di chiarezza e di precisione. Sentiva però appieno e profondamente. Quella breve parola conteneva per lui tutto lo sdegno e l’orrore suscitato da quei due miserabili esseri, di cui l’uno doveva nutrirsi della sofferenza dell’altro — il povero cocchiere che doveva picchiare il povero ronzino per amor dei poveri piccini rimasti a casa. E Stevie ben sapeva che cosa volesse dire esser picchiati. Lo sapeva per esperienza. Che mondo cattivo! cattivo! cattivo! La signora Verloc, l’unica sua sorella, guardiana e protettrice, non poteva aspirare a tali profondità d’introspezione. Inoltre, non aveva subito la magica influenza dell’eloquenza del cocchiere. Quindi, all’oscuro circa la profonda portata della parola « vergogna », disse placidamente: — Andiamo, Stevie. Non ci puoi far nulla. Il docile Stevie ubbidì; ma ora camminava senza più orgoglio, goffamente, borbottando mezze parole e perfino parole che sarebbero state intere, se non fossero state composte di metà disparate. Era come se avesse cercato di adattare al proprio sentimento tutte le parole presenti alla memoria, per farsi un'idea più o meno corrispondente. E di fatti, dopo ripetuti sforzi, riuscì a farsela. Si fermò per esprimerla immediatamente. — Cattivo mondo per povera gente. Non appena ebbe espresso questo pensiero, sentì che gli era già familiare in tutte le sue conseguenze. Tale circostanza rafforzò immensamente la sua convinzione, ma aumentò pure la sua indignazione. Sentiva che qualcuno doveva essere punito — punito con grande severità. Non essendo uno scettico, ma una creatura prettamente morale, era in certo (piai modo alla mercè della sua giusta ione.
— Bestiale! — soggiunse concisamente. Era chiaro alla signora Verloc ch’egli doveva essere molto agitato. — Nessuno ci può rimediare — gli disse allora. — Andiamo. È così che li curi di me? Stevie allungò subito il o. Si vantava di essere un buon fratello. La sua morale, ch’era molto compiuta, lo esigeva. Però, fu dolorosamente colpito dall’opinione della sorella, la quale era buona. Nessuno vi poteva rimediare! Rimase cupo per un po’, ma non tardò a rasserenarsi. Come tutti gli uomini assillati dal mistero dell’universo, aveva egli pure i suoi momenti di rincuorante fiducia nelle potenze organizzate di questo mondo. — Polizia, — disse fiducioso. — La polizia non è fatta per questo, — gli osservò la sorella, proseguendo frettolosa. Il viso di Stevie s’allungò notevolmente. Stava pensando. Ma quanto più pensava, tanto più sciolta, inerte, gli penzolava la mascella inferiore. E fu con un’aria di vacuo scoramento che rinunciò a quell’impresa intellettuale. — Non per questo? — mormorò, rassegnato, ma anche sorpreso. — Non per questo? S’era fatto un concetto ideale della polizia metropolitana, considerandola pressappoco quale un’istituzione avente per iscopo la distruzione del male. Perciò aveva sempre nutrito per i poliziotti un tenero sentimento, riposante sulla più candida fiducia. Ed ora, apprendendo che nulla potevano fare « per questo », si sentì molto accorato. Si sentì anche irritato da un sospetto di perfida doppiezza, chè egli era franco e aperto come lo stesso giorno. Per che cosa, allora, era fatta, la polizia? A differenza di sua sorella, che si accontentava della superficie delle cose, egli voleva andare a fondo di tutto. Continuò quindi la propria inchiesta in tono di cupa sfida: — A che servono allora, Winnie? A che servono? Dimmi. A Winnie non piacevano le controversie. Ma, temendo soprattutto, per Stevie, una crisi di nera depressione, logica conseguenza della sua brusca separazione
dalla madre, non volle rifiutarsi a discutere. E, per quanto incapace d’ironia, rispose in modo assai confacente alla sua qualità di moglie del signor Verloc, delegato del Comitato Rosso Centrale, amico personale di eminenti anarchici e promotore della rivoluzione sociale. — Come, non sai a che serve la polizia? Son uomini pagati per impedire a quelli che non hanno nulla di prendere alcunché a quelli che hanno tutto. Evitò il verbo a rubare » per non urtare la sensibilità del fratello, essendo questi delicatamente onesto. Certi principi gli erano stati così profondamente inculcati (per via della sua « stranezza »), che il solo accenno alle relative trasgressioni lo riempiva d’orrore. Era sempre stato facilmente impressionabile dalle parole. E adesso, era impressionato e stupito, mentre la sua intelligenza era molto sveglia. — Come? — chiese subito, ansioso. — Neanche quando hanno fame? Non devono? Entrambi si erano fermati. — Sicuro, neanche quando hanno fame possono prendere, — rispose la signora Verloc, con l’equanimità d’una persona per nulla turbata dal problema della giustizia distributiva, ed esplorando la prospettiva della via per scoprire l’omnibus del colore che aspettava. — Certo. Ma perchè parlare di queste cose? Hai forse fame, tu? Guardò di sottecchi il ragazzo, che le stava a lato come un vero giovanotto. Lo vide amabile, attraente, affezionato, e solo un poco, pochissimo strano. Nè poteva vederlo diversamente, poiché egli costituiva per lei tutto il sale della sua sciatta vita — il sale dell’indignazione, del coraggio, della pietà e anche del sacrificio. Non soggiunse che, molto probabilmente, non avrebbe mai avuto da patir la fame in vita sua, ma ben lo avrebbe potuto soggiungere, poiché a tal riguardo aveva preso misure molto efficaci. Il signor Verloc era un ottimo marito, ed ella era convinta che tutti dovevano finire per voler bene a quel ragazzo. D’un tratto, gridò: — Presto, Stevie. Ferma quel bus verde. E Stevie, tremante e pieno d’importanza, con al braccio la sorella Winnie, alzò l’altro braccio diritto diritto dinanzi all’omnibus che si avvicinava, e ciò con pieno successo.
Un’ora dopo, Verloc alzò gli occhi da un giornale che stava leggendo, o ad ogni modo guardando, dietro il banco, e, nello spirante strepito del camlo fesso, vide Winnie entrare e attraversare la bottega, seguita da Stevie. La vista della moglie gli era sempre gradevole. Era questa la sua idiosincrasia. La figura del cognato, invece, gli rimase impercettibile, a cagione delle cupe preoccupazioni che, da qualche tempo, erano calate come un sipario tra lui e gli aspetti del mondo esteriore. Guardò fisso la moglie, senza dir parola, come s’ella fosse un fantasma. Al solito, la sua voce per uso domestico era rauca e placida, ma ora non si udiva più affatto. Neanche fu udita all’ora della cena, annunciatagli dalla moglie al solito modo laconico: « Adolfo ». Si sedette a tavola senza convinzione, conservando in testa il cappello, respinto quasi sulla nuca. Non la dedizione a una vita all’aperto, ma solo l’aver frequentato caffè esotici era responsabile di quell’abitudine che dava un carattere d’incerimoniosa transitorietà alla stabile fedeltà del signor Verloc per il suo focolare. Due volte il camlo fesso della bottega strepitò, e due volte egli s’alzò senza aprir bocca, scomparve nella bottega e ritornò silenziosamente. Durante quelle assenze, la signora Verloc sentì intensamente il vuoto del posto prima occupato da sua madre, e guardò dinanzi a sè con una fissità pietrosa; mentre Stevie, per ragioni identiche, continuava a stropicciare i piedi, come se il pavimento fosse sgradevolmente caldo. Quando il signor Verloc tornò a sedersi per la seconda volta, come una viva incarnazione del silenzio, lo sguardo fisso della signora subì un lieve mutamento, e Stevie cessò di stropicciare i piedi, perché nutriva per il marito della sorella un gran rispetto misto di venerazione. Di tanto in tanto gli gettava sguardi di deferente comione. Il signor Verloc aveva dei dispiaceri. Sua sorella gli aveva ripetutamente detto (sull’omnibus) che avrebbe trovato il signor Verloc in uno stato di profonda tristezza, e che quindi bisognava aver cura di non importunarlo. La collera di suo padre, l'irascibilità dei pensionanti e "fà predisposizione del signor Verloc a immoderati dolori, avevano assuefatto Stevie a una grande ritenutezza. Di tutti questi sentimenti, tutti facilmente provocabili, l’ultimo aveva, per Stevie, la massima efficienza morale — perchè il signor Verloc era buono. Sua madre e sua sorella avevano stabilito tale fatto etico su fondamenta solidissime. Lo avevano stabilito, eretto e consacrato dietro le spalle del signor Verloc, per ragioni che non avevano nulla a che fare con l’astratta morale. E il signor Verloc, naturalmente, non ne sapeva nulla. Infatti, per debito di giustizia, bisogna riconoscere ch'egli non sospettava neppur lontanamente di apparir buono agli occhi di Stevie. Eppure era così. Anzi, egli solo appariva così agli occhi di Stevie, poiché i dozzinanti s’erano avvicendati in troppo gran numero, con troppa frequenza, e senza nulla in essi che lo concernesse personalmente, a parte, forse, le scarpe. Quanto poi al padre, questi usava tali
misure disciplinari, da rendere impossibile alla madre r alla sorella di svolgere sul di lui conto una teoria di bontà per uso della vittima. Sarebbe stato un colmo di crudeltà. D'altronde, sarebbe stato perfino possibile che Stevie non vi credesse. Ma, per quanto riguardava il signor Verloc, nulla poteva sbarrar la via alla credulità di Stevie. Il signor Verloc era ovviamente, se pur anche misteriosamente, buono. E il dolore d’un uomo buono è augusto. Perciò Stevie continuò a gettare occhiate di riverente comione al cognato. Il signor Verloc era molto addolorato. Mai come allora il fratello di Winnie s’era sentito in così intima comunione con la bontà di quell'uomo. Era, il suo, un dolore molto comprensibile. Anche Stevie soffriva. Era addolorato, molto addolorato. E il suo dolore era certo della stessa natura di quello di lui. Così, pensando a quello stato sgradevole, tornò a stropicciare i piedi. Poiché* i suoi sentimenti si manifestavano solitamente attraverso l’agitazione delle membra. — Sta cheto coi piedi, caro, — gli disse la signora Verloc con autorità mista di tenerezza. Poi, rivolta al marito con una voce indifferente, ch’era un capolavoro di tatto istintivo: — Esci, stasera? Il solo accenno a una possibile uscita fece un effetto ripugnante al signor Verloc. Scosse il capo di malumore, poi rimase immobile, con gli occhi bassi, a guardar per un intero minuto il pezzo di formaggio che aveva sul piatto. In capo a quel tempo, s’alzò e se n’andò dritto dritto, attraverso lo strepito del camlo fesso. Agiva in tal modo inconsistente, non per rendersi sgradevole, ma soltanto per effetto di un’irrequietudine invincibile. A nulla gli serviva andar fuori. In nessun luogo di Londra poteva trovare quello che cercava. Nullameno, uscì. Condusse il corteo dei suoi squallidi pensieri lungo vicoli bui, traverso corsi illuminati, dentro e fuori gli sprazzi di luce di due « bar » sfolgoranti, come in un irresoluto tentativo di trascorrere la notte così, e finalmente indietro, verso la sua casa minacciata, dove s’accasciò sfinito dietro il banco, e dov’essi gli si strinsero attorno come una muta di cani affamati. E dopo aver chiuso la porta e spento il gas, se li portò su, — terribile scorta per uno che va a letto. Sua moglie, che lo aveva preceduto, offrì alla sua distrazione, con le ampie forme vagamente
delineate dalle coltri, il capo sul guanciale e una mano sotto una guancia, lo spettacolo d’un corpo già mezzo assonnato, attestante una perfetta serenità. Gli occhioni guardavano su, spalancati, inerti e nerissimi accanto al niveo candore delle coltri. Non si mosse. Fra, infatti, serena. Sentiva profondamente che le cose non reggono a sguardi penetranti. Tale istinto era la sua forza e la sua saggezza. Tuttavia, la taciturnità del signor Verloc gravitava ormai sulla sua anima da parecchi giorni. I suoi nervi cominciavano a risentirne. Supina e immobile, gli disse placidamente : — Ti prenderai un raffreddore, se continui a camminare con le sole calze a codesto modo. Queste parole, esprimenti la sollecitudine della moglie e la prudenza della donna, colsero Verloc alla sprovvista. Aveva lasciato le scarpe a piè della scala, poi s’era dimenticato d’infilare le pantofole; ed ora s’aggirava silenziosamente con le sole calze, come un orso in gahbia. Al suono della voce della moglie, si fermò a guardarla con occhi di sonnambulo, senza espressione, e tanto a lungo, ch’ella finì per rimuovere lievemente le membra sotto le coltri. Ma non mosse il nero capo immerso nel bianco guanciale, nè la mano sotto la guancia, nè i fissi occhioni neri. Pensando, sotto quello sguardo inespressivo, alla stanzetta rimasta vuota in fondo al corridoio, ella provò un acuto senso di solitudine. Non s’era mai separata da sua madre. Erano sempre vissute insieme. Se ne rese conto, e si disse che ora la mamma se n’era andata — andata per sempre. In quanto a ciò, non si faceva illusioni. Però le restava Stevie. Quindi disse: :— La mamma ha fatto quello che voleva fare. Perché poi lo abbia voluto, non lo so. Certo, non avrà potuto pensare che tu fossi stanco di lei. È stata veramente crudele a lasciarci così. Verloc non era precisamente letterato; il suo frasario metaforico era molto ristretto, ma nelle presenti circostanze un complesso di cose lo indusse a pensare ai ratti che abbandonano le navi condannate. Fu quasi sul punto di dirlo. Era diventato sospettoso e amaro. Aveva proprio un fiuto così fine, quella vecchia? Ma no, l’infondatezza di quel sospetto era evidente, ed egli trattenne la lingua. Non del tutto, però, poiché mormorò penosamente: — Forse è meglio così.
Cominciò a spogliarsi. Sua moglie rimase molto cheta, perfettamente immobile, con gli occhi fissi in uno sguardo sperduto, tranquillo. E a quell’immobilità deve aver partecipato, almeno per una frazione di secondo, anche il suo cuore. Quella notte « non era più lei », come si dice, e il fatto che una semplice frase può a volte contenere diversi significati — per lo più sgradevoli — le apparve subitamente in una luce di singolare evidenza. Perchè era meglio così? Come? Ma ella non si permise di vagare sull’arido campo delle supposizioni oziose. D’altra parte, non era forse convinta che le cose non reggono a sguardi penetranti? Pratica e accorta a modo suo, spinse innanzi Stevie, senza por tempo in mezzo, poiché quella sua unica finalità aveva tutta l’infallibilità e la forza d’un istinto. — Dio sa come potrò consolare quel ragazzo nei primi giorni. Prima d’abituarsi, ci soffrirà da mattina a sera. È tanto buono. Non potrei proprio stare senza di lui. Verloc continuò a spogliarsi con tutta la sorda concentrazione interiore d’uno che si spogliasse nella solitudine d’un immenso deserto. La nostra bella terra, infatti, nostro comune retaggio, appariva alla sua mente altrettanto inospitale. Tutto era così tranquillo dentro e fuori, che il solitario tic tac del pendolo del corridoio s'insinuò chiotto chiotto nella stanza, come per stare un poco in compagnia. Verloc, cacciatosi sotto le coltri, dalla sua parte, rimase prono e muto dietro le spalle della moglie. Le sue grosse braccia rimasero inerti sopra le coltri, come armi abbandonate, come arnesi irrimediabilmente guasti. In quell’istante, mancò un pelo ch'egli non si sgravasse l’anima. Il momento era molto propizio. Guardando con la coda dell’occhio, vide le ampie spalle di lei ravvolte di bianco, i capelli intrecciati per la notte in tre liste, legate alle estremità da nastrini neri. E si trattenne. Amava la moglie, come una moglie deve essere amata — cioè maritalmente, con tutti i riguardi dovuti a quanto di più prezioso si possiede, quel capo acconciato per la notte, quelle ampie spalle, avevano per lui qualcosa di familiarmente sacro — sacro come la pace domestica. Ella restava immobile, massiccia e informe come una statua riversa e appena sgrossata; ed egli ricordò gli occhioni spalancati sulla stanza vuota. Era misteriosa, di quel mistero proprio alle cose vive. Il famoso agente segreto dei dispacci allarmistici del defunto barone Stott-Wartenheim, non era uomo da immischiarsi in tali misteri. Si lasciava facilmente intimidire. Era anche indolente, di quell'indolenza che tanto spesso è il segreto delle persone di natura fondamentalmente buona. L’amore, la timidezza e l’indolenza gli proibivano di toccar quel mistero. D’altronde, c’era sempre tempo domani, un altro giorno. Per diversi minuti sopportò le proprie
sofferenze in silenzio — nel greve, tetro silenzio di quelli camera. Poi lo ruppe con un’improvvisa e risoluti dichiarazione: — Domani parto per il Continente. Forse sua moglie s’era già addormentata. Egli non se lo seppe dire. Realmente, però, ella lo aveva udito. Con gli occhi sempre spalancati, rimase perfettamente immobile, più che mai convinta che non bisogna voler penetrare le cose. Eppure quel viaggio non aveva nulla d’eccezionale. Egli rinnovava regolarmente il suo stock a Parigi e a Bruxelles, e andava spesso sul Continente per provvedere personalmente a tali acquisti. Attorno alla bottega di Bett Street, s’era formata una piccola eletta clientela di amateurs, gente discreta, eminentemente adatta agli affari che soleva intraprendere il signor Verloc, il quale, per un mistico accordo tra temperamento e necessità, era destinato a far l’agente segreto per tutta la vita. Attese un po’, quindi soggiunse: — Starò via per una settimana o quindici giorni. Fatti aiutare dalla signora Neale. La signora Neale era la donna di fatica di Brett Street. Vittima d’un infelice matrimonio con un intemperante falegname, era oppressa dai bisogni d’una numerosa prole in tenera età. Con le rosse braccia nude e tutta ravvolta in tela di sacco, esalava l’angoscia della miseria in un alito che sapeva di lisciva e di rhum, tra un baccano di energiche fregagioni e di clamoroso acciottolìo. La signora Verloc, traboccante di eroici proponimenti, rispose nel tono della massima indifferenza: — Non c’è bisogno di tenerla tutto il giorno. Posso cavarmela benissimo con Stevie. Lasciò il solitario pendolo del corridoio sgranellare una cinquantina di tic tac nell’abisso dell’eternità, poi chiese: — Posso spegnere? E il marito, cupo ed asciutto:
— Sì, spegni pure.
[1] Reclusori più o meno provvisori per vagabondi e altre persone d’ambo i sessi, che la polizia ritiene opportuno togliere dalla circolazione.
IX
Verloc, ritornando dal Continente dopo dieci giorni d’assenza, riportò una mente per nulla rinfrescata dalle meraviglie d’un lungo viaggio, e un viso per nulla rasserenato dalla gioia del ritorno. Entrò destando il solito strepito del camlo fesso, con aria di tetro, esasperato esaurimento. Con la valigia in mano e il capo chino, andò diritto dietro il banco e s’accasciò sulla sedia, come se fosse giunto da Dover a piedi. Il giorno era appena incominciato, e Stevie, che stava spolverando gli oggetti della vetrina, s’era volto a contemplarlo con sgomenta ammirazione. — Toh! — fece Verloc, con un lieve calcio alla valigia, rimasta per terra e Stevie vi si precipitò, l’afferrò e la portò via con trionfante devozione. Lo fece con tanta prontezza, che Verloc rimase assolutamente sorpreso. Allo strepito del camlo, la signora Neale, che, in ginocchio, stava ripulendo il caminetto del retro, si sollevò a guardare per la porta vetrata, poi corse subito in cucina ad avvertire la signora Verloc che « il padrone » era tornato. Winnie non avanzò oltre il limitare del retro. — Vuoi mangiare? — gli chiese di là. Verloc fece un» piccolo cenno con la mano, come sopraffatto da una proposta impossibile. Ma poi, sedutosi a tavola, non rifiutò i cibi postigli innanzi. Mangiò come alla trattoria, col cappello sulla nuca, e le falde del pesante soprabito pendenti a triangolo dai due lati della sedia. E all’altro capo della tavola, ricoperta da una tela cerata bruno scuro, ella gli parlò pacatamente, in un tono non meno adatto alla circostanza del suo ritorno, di quello che avrà usato Penelope al ritorno del vagabondo Ulisse. Però, a differenza di questa, ella non aveva filato durante l’assenza del marito. Aveva, invece, ripulito a fondo tutte le stanze del piano superiore, venduto qualche articolo e visto diverse volte il signor Michaelis. L’ultima volta, costui le aveva detto che andava a stabilirsi in un cottage dei dintorni di Londra, sulla linea Chatham-Dover. Anche Karl Yundt era venuto una volta, condotto a braccetto da « quella vecchia strega » che lo
ospitava. Questi era un « vecchiaccio ripugnante ». Ma del compagno Ossipon, ch’ella aveva ricevuto molto freddamente, trincerata dietro il banco con viso pietroso e sguardo distanziante, non disse parola alcuna. Fece soltanto una piccola pausa quando giunse a ricordare il robusto anarchico, e arrossì appena appena percettibilmente. ando poi al fratello Stevie, appena glielo permise l’ordinata narrazione degli avvenimenti domestici, disse che quel povero ragazzo aveva molto sofferto. — Colpa della mamma che ci ha lasciati così. Verloc non disse nè vai All’Inferno! » nè « Sulla forca, Stevie! » E la signora Verloc, non ammessa nel segreto dei suoi pensieri, non potè apprezzare la generosità di quel ritegno. — Però ha sbrigato le sue faccende come al solito. Anzi s’è reso più utile che mai. A guardarlo, certe volte, sembra quasi che non sappia più che cosa inventare per rendersi utile. Verloc volse uno sguardo casuale e assonnato a Stevie, che sedeva alla sua destra, delicato, pallido e con le rosse labbra come al solito vacuamente socchiuse. Non fu uno sguardo critico. Non aveva nessuna intenzione. E se anche ebbe l’impressione che il fratello della moglie apparisse singolarmente inutile, fu solo un opaco, fugace pensiero, totalmente privo di quella forza e di quella durevolezza per eui, a volte, certi pensieri riescono a riscuotere il mondo intero. Rovesciandosi contro lo schienale, egli si tolse il cappello. E mentre il suo braccio teso lo teneva ancora a mezz’aria, Stevie vi si precipitò e riverentemente lo portò in cucina. Verloc rimase nuovamente sorpreso. — Puoi ottenere qualunque cosa da questo ragazzo, — assicurò la signora Verloc, con la sua migliore aria d'inflessibile calma. — Per te si butterebbe nel fuoco. Sarebbe... Rimase in ascolto, con l’orecchio teso verso l’uscio di cucina. Ivi la signora Neale stava fregando l'impiantito. Alla vista di Stevie, emise un grugnito lamentoso, avendo già notato la facilità con la quale si poteva indurlo a separarsi, a beneficio della prole in tenera età, dello scellino die, di quando in quando, Winnie gli regalava. Carponi in mezzo a una gran pozzanghera, bagnata e lurida come una bestia anfibia e domestica vivente tra secchi di cenere e pozze d’acqua sporca, ella pronunciò il suo solito esordio:
— Beato voi che potete vivere senza far niente come un gran signore! Al quale fece seguire il sempiterno lamento del povero, pateticamente menzognero e miserabilmente autenticato dall’atroce lezzo di rhum ordinario ch’esalava il suo alito. Intanto continuava a strofinare forte. Ed era sincera. D’ambo i lati dell’affilato naso rubicondo, i suoi cisposi occhietti velati guazzavano in lacrime; poiché quel mattino sentiva più clic mai il bisogno d’un energico stimolante. Nel retro, la signora Yerloc osservò: — Ecco la signora Neale che torna a contar orrori. Sempre i suoi piccini. A quest’ora, saranno tutt’altro che piccini. Alcuni devono essere grandi abbastanza per lavorare. Servono soltanto a scombussolare Stevie. Queste parole furono confermate dal tonfo d’un pugno abbattuto sulla tavola di cucina. Seguendo il corso normale della sua emotività, Stevie aveva scoperto di non avere in tasca il solito scellino, e quindi s’era infuriato. Nell’impossibilità in cui si trovava di soccorrere immediatamente i piccini della signora Neale, sentiva che qualcuno doveva assolutamente espiarne i patimenti. La signora Verloc s’alzò e andò in cucina per « farlo smettere ». E così fece, con fermezza, ma anche gentilmente. Ben sapeva che appena la signora Neale intascava quel denaro, andava a consumar bevande spiritose al « bar » dell’angolo — l’inevitabile stazione della via dolorosa. I commenti della signora Verloc, riguardo a tale abitudine, erano però d’ima singolare profondità, se si consideri la loro provenienza da persona avversa a guardar sotto la superficie delle cose. — Per forza deve bere. Che altro la reggerebbe? Fossi come lei, farei altrettanto, se non peggio. Nel pomeriggio di quello stesso giorno, quando Verloc, destatosi di soprassalto dall’ultimo pisolino d’una lunga serie schiacciata davanti al fuoco del retro, annunciò di voler uscire a far quattro i, Winnie gli disse dalla bottega: — Non potresti prendere con te il ragazzo? Per la terza volta in quel giorno, Verloc rimase sorpreso. Guardò stupidamente la moglie. Questa insistette al suo solito modo pacato. Il ragazzo, quando non aveva nulla da fare, si struggeva di tedio. Ed ella, a saperlo così, si sentiva a disagio, fino all’esasperazione. Detto dalla calma Winnie, questo sembrava una
vera esagerazione. Eppure, in verità, Stevie si struggeva nel modo impressionante di un’infelice bestiola domestica. Andava su, nel corridoio del piano superiore, a sedersi a piè della grande pendola, con le ginocchia sotto il mento e il viso tra le palme. A veder quel pallido viso con gli occhioni sfavillanti nella penombra del corridoio, faceva pena; e a saperlo così, lassù, era davvero sgradevole. Verloc si riebbe presto dalla sorprendente novità di quell’idea. Amava la moglie da buon marito, cioè generosamente. Ma una grave obiezione gli si presentò alla mente, e subito la formulò: — Potrebbe perdermi di vista, e poi non saper più tornar a casa. Ma la signora Verloc scosse il capo. — No, no, non c’è pericolo. Tu non lo conosci. Quel ragazzo ti adora. E se anche ti capitasse di perderlo... Qui la signora Verloc si fermò un momentino, solo un momentino. — Non avresti che da continuare, terminare la tua eggiata come se nulla fosse successo. Non rischierebbe nulla. Poco dopo, ci ritornerebbe sano e salvo. Questo ottimismo procurò a Verloc la quarta sorpresa di quel giorno. —- Davvero? — brontolò dubitoso. Poteva darsi, però, che, dopo tutto, il cognato non fosse così idiota come sembrava. A ogni modo, sua moglie doveva saperlo meglio di lui. Distolse quindi i suoi occhi grevi, dicendo con fare burbero: — Beh, s’è così, venga pure. E ricadde negli artigli delle nere preoccupazioni, che probabilmente preferiscono seder dietro i cavalieri, ma anche sanno star alle calcagna delle persone non abbastanza agiate per andare a cavallo, come, per esempio, il signor Verloc. Winnie, di sull’uscio della bottega, non vide quegli implacabili compagni del marito. Vide solo due figure allontanarsi nella strada squallida, l’una alta e voluminosa e l’altra esile, piccola, con un collo sottile e le aguzze spalle
lievemente rialzate sotto gli ampi orecchi semitrasparenti. Entrambi portavano soprabiti della stessa stoffa, e cappelli parimenti neri e di forma tonda. Ispirata da quella somiglianza di abbigliamento, ella lasciò le briglie alla propria fantasia. — Sembrano padre e figlio, — disse a se stessa. Pensò poi che, infatti, quel povero ragazzo non aveva mai avuto un padre più paterno di Verloc. E si rese pure conto che ciò era opera propria. Si congratulò quindi con placido orgoglio d’una certa risoluzione che aveva presa alcuni anni addietro. Le era costata uno sforzo non indifferente e perfino non poche lacrime. Se ne congratulò anche più nei giorni successivi, osservando come il marito gentilmente s’abituava alla compagnia di Stevie. Ora, quando era pronto per uscire, chiamava il ragazzo ad alta voce — certo nello spirito in cui l’uomo suol ricercare la compagnia d’un cane, benché, naturalmente, con modi diversi. Inoltre, a casa, si poteva spesso sorprenderlo a guardar Stevie con curiosità. E anche il suo contegno cambiò. Sebbene ancor sempre taciturno, sembrava meno assorto, meno inerte. Anzi, a volte, parve alla moglie che fosse perfino arzillo. Poteva essere un segno di notevole miglioramento. Stevie, dal canto suo, non andò più ad accoccolarsi a piè del pendolo; borbottava invece negli angoli cose incomprensibili, e in tono minaccioso. Quando veniva interpellato da un « Che dici, Stevie? » si limitava a spalancare la bocca e a gettare una bieca occhiata alla sorella. Altre volte annodava i pugni senza causa apparente, oppure si poteva sorprenderlo, nella solitudine della cucina, redarguire aspramente le pareti, lasciando oziosi sulla tavola il foglio di carta e la matita. Non tracciava più circoli. Era un cambiamento sorprendente, ma non un miglioramento. La signora Verloc, comprendendo tutti quei sintomi sotto la definizione generale di stranezze, cominciò a temere ch'egli udisse più di quanto gli conveniva della conversazione di suo marito e dei di lui amici. Durante le sue « eggiate », Verloc, naturalmente, s'imbatteva e chiacchierava con diverse persone. Infatti, non poteva essere diversamente. Quelle « eggiate » erano parte integrante della sua attività esterna, che la moglie non aveva mai cercato di conoscere con precisione. Ella sentiva che doveva trattarsi di cose piuttosto delicate, e le accettava con quella calma impenetrabile che impressionava e anche sorprendeva i clienti della bottega, e induceva gli altri visitatori a conservare, non senza una certa meraviglia, la propria distanza. Ma ora temeva che parlassero di cose che per Stevie sarebbe stato meglio non udire; e così disse
al marito. Quel povero ragazzo, non potendo far nulla per rimediarvi, si eccitava inutilmente. Tanto più che a quelle cose nessuno poteva rimediare. Questo glielo disse nella bottega. Egli non fece commenti. Nulla rispose, benché la risposta fosse ovvia. Era stata lei a far sì ch’egli si prendesse Stevie per compagno delle sue eggiate. In quel momento, Verloc sarebbe apparso, a un osservatore imparziale, più che umano nella sua magnanimità. Tolse da uno scaffale una scatoletta di cartone, l’aprì come a controllarne il contenuto, poi la ripose gentilmente Sul banco. Dopo di che ruppe il silenzio per opinare che Stevie avrebbe avuto bisogno d’un breve soggiorno in campagna; ma certo ella non avrebbe potuto separarsi da lui. — Non potrei stare senza di lui? — ripetè lentamente la signora Verloc. — Non potrei stare senza di lui, se si trattasse del suo bene? Che idea! Ma naturalmente che potrei stare senza di lui. Ma dove lo vorresti mandare? Verloc tolse dal cassetto un po’ di carta bruna e un gomitolo di spago; e intanto brontolò che Michaelis stava appunto in un piccolo cottage, in campagna. Michaelis, certo, non si sarebbe rifiutato di cedere una stanzetta a Stevie. Là non c’erano visitatori, e quindi nemmeno conversazioni pericolose. Michaelis stava scrivendo un libro. La signora Verloc confessò che Michaelis le era molto simpatico, menzionò l’orrore che le ispirava Karl Wundt, « quel cattivo vecchiaccio », e nulla disse di Ossipon. Stevie, indubbiamente, ne sarebbe stato molto contento. Michaelis era sempre così buono con lui! Sembrava che volesse bene al ragazzo. E questi era davvero un bravo figliolo. — Pare che anche tu ti sia affezionato a lui, in questi ultimi tempi, — soggiunse dopo una pausa, con la sua inflessibile sicurezza. Verloc, che stava legando la scatola incartata per farne un pacco postale, ruppe lo spago per uno sforzo intempestivo, e mormorò a se stesso, in tono confidenziale, diverse parole blasfeme. Poi, alzando la voce al solito tono di burbero brontolìo, si disse disposto a condurre personalmente Stevie da Michaelis. E lo fece subito l’indomani. Stevie non oppose alcuna obiezione. Parve anzi gradevolmente eccitato e sbigottito. Volse con molta frequenza il suo sguardo candidamente interrogativo sulla massiccia persona di Verloc, specie quando non era osservato dalla sorella. La sua espressione era orgogliosa, apprensiva e
concentrata, pressappoco come quella d’un bambino per la prima volta autorizzato a tenere in mano una scatola di fiammiferi e ad accenderne uno. Ma la signora Verloc, compiaciuta della docilità del fratello, gli raccomandò soltanto di non sporcare troppo i suoi panni in campagna. Al che Stevie diede alla sorella, guardiana e protettrice, uno sguardo che, per la prima volta in vita sua, parve mancare di quel- l’assoluta fiducia che solo gli occhi dei bambini sanno palesare. Fu infatti uno sguardo superbamente truce. Ella sorrise. — Dio buono! Non devi offenderti per questo. Sai bene che ti sporchi terribilmente appena ne hai l’occasione. Sulla strada, Verloc s’era già allontanato di qualche o. Così, in conseguenza dell’eroico procedimento di sua madre e dell’assenza del fratello andato a villeggiare, la signora Verloc venne a trovarsi più che mai sola, non soltanto in bottega, ma anche in tutta la casa. Verloc, naturalmente, non potè rinunciare alle proprie eggiate. E il giorno dell'attentato dinamitardo di Greenwich, ella rimase sola più del solito, poiché Verloc, uscito di buon’ora, rimase fuori fin quasi all’imbrunire. Ma non gliene importava di restar sola. Non aveva nessuna voglia d’uscire. Il tempo era pessimo e si stava molto meglio in bottega. Seduta dietro il banco con un qualunque lavoro di cucito, non alzò gli occhi quando suo marito entrò, annunciato dall’aggressivo strepito del camlo fesso. Lo aveva riconosciuta dal o ancor prima che entrasse. Non alzò gli occhi, ma, come Verloc, senza aprir bocca e col cappello profondamente calcato sulla fronte, s’avviava diritto all’uscio del retro, gli disse serenamente : — Che brutta giornata. Sei forse andato a trovar Stevie? — No, — rispose piano Verloc, e sbatacchiò dietro di sè la porta vetrata con imprevedibile energia. Per qualche tempo, la signora Verloc rimase tranquillamente seduta col suo lavoro sulle ginocchia, poi lo ripose sotto il banco e s’alzò per accendere il gas. Fatto ciò, entrò nel retro per andare in cucina. Verloc, certamente, voleva bere il solito tè. Confidando nella potenza delle proprie risorse femminili, ella non esigeva da lui, nei diuturni rapporti della loro vita coniugale, cerimoniose amenità di linguaggio o particolari raffinatezze di modi, cose ormai antiquate e vane, forse mai rigorosamente osservate e oggi- giorno scartate anche nelle più
eccelse sfere sociali, mentre alla sua propria classe erano sempre state estranee. Non pretendeva atti di cortesia da lui. Le bastava che fosse un buon marito, e in compenso ostentava un leale rispetto verso i suoi diritti. Pertanto, avrebbe attraversato il retro per accudire alle sue faccende domestiche in cucina con tutta la perfetta serenità d’una donna sicura dei propri mezzi, ma un lieve, anzi lievissimo crepitio colpì il suo udito. Strano, incomprensibile, attirò la sua attenzione. Poi, come la natura di quello strepito diveniva sempre più evidente al suo udito, ella si fermò di bòtto, stupita e impressionata. Fregò un fiammifero sulla scatola che aveva in mano, e si volse ad accendere uno dei due becchi di gas, sovrastanti la tavola del retro, il qual becco, essendo alquanto guasto, prima zufolò come stupito, poi emise un sommesso borbottio soddisfatto, come un gatto che fa le fusa. Verloc, contrariamente alle sue abitudini, s’era tolto il soprabito, che ora giaceva sul divano. Il cappello, ch’egli doveva aver buttato lassù, giaceva capovolto sotto la sponda del divano. Seduto davanti al caminetto, coi piedi allungati dall’altra parte del parafuoco e il capo tra le palme, stava ricurvo e come proteso sopra il fuoco. I suoi denti battevano con sorprendente violenza, forzando tutta l’enorme schiena a tremare all’unisono. La signora Verloc rimase attonita. — Hai preso freddo. — Non molto, — riuscì a balbettare Verloc, tra un brivido e l’altro. Poi, con uno sforzo sovrumano, riuscì anche a sopprimere il battito dei denti. — Ora mi toccherà curarti da sola, — diss’ella con genuino disagio. — Non credo, — disse Verloc, annasando forte. Certo clic, durante quella sua assenza, prolungatasi dalle sette del mattino alle cinque del pomeriggio, doveva essersi buscato un formidabile raffreddore. Ella gli guardò la schiena arcuata. — Dove sei stato tutto il giorno? — Ho girato, — rispose il marito, in un basso tono nasale mezzo soffocato. La sua attitudine faceva supporre una recrudescenza di preoccupazioni, oppure una forte emicrania. L’insufficienza e la reticenza della sua risposta divennero penosamente evidenti nel successivo silenzio. Egli annasò ripetutamente, poi
soggiunse: — Sono stato alla banca. Ella si fece attenta. — Ah sì? — fece sionatamente. — Perchè? Col naso sopra il fuoco e con evidenti segni di riluttanza, egli brontolò: — Per ritirare i soldi. — Come? Tutto? — Sì, tutto. Ella distese con cura la logora tovaglia, trasse due coltelli e due forchette dal cassetto della tavola, e bruscamente ristette in quegli atti metodici. — Perchè l’hai ritirato? — Potrei averne bisogno, — bofonchiò, stando sulle generali, il marito, che stava toccando il fondo delle sue calcolate indiscrezioni. — Non capisco, — obiettò la moglie, in un tono perfettamente placido, ma restando come impietrita tra tavola e credenza. — Sai bene che ti puoi fidare, — osservò Verloc al fuoco, con burbero sentimento. Ella si volse lentamente alla dispensa e con risolutezza disse: — Sì, lo so. Posso fidarmi. E proseguì nei suoi atti metodici. Pose sulla tavola due piatti, poi pane e burro, andando e venendo tra tavola e credenza cheta cheta, senza minimamente turbare la pace e il silenzio della casa. Quando fu in punto di mettere in tavola il prosciutto, riflette praticamente: « Avrà fame, s’è stato fuori tutto il giorno, » e tornò alla credenza per prendere un po’ di carne. Lo pose sotto il borbottante becco a gas e scese (due gradini) in cucina, gettando, nel are, un’occhiata al marito, che immobile sovrastava il fuoco. Solo più tardi, quando ne tornò con in mano il forchettone e il coltello da cucina, riprese a dire:
— Se non avessi fiducia in te, non t’avrei sposato. Verloc, sempre curvo sopra il fuoco e sempre col capo tra le palme, parve essersi addormentato. Winnie preparò il tè, poi, sottovoce, lo chiamò: — Adolfo. Verloc s’alzò subito, e traballò alquanto prima di sedersi a tavola. Sua moglie, dopo aver esaminato il filo tagliente del coltello da cucina, lo ripose sul piatto e richiamò l’attenzione del marito sulla carne. Ma egli, col mento sul petto, rimase insensibile all’offerta. — Dovresti rimpinzare il tuo raffreddore, — gli consigliò dogmaticamente. Egli guardò su, e scosse il capo. Aveva gli occhi iniettati di sangue e il viso molto rosso. Le sue dita avevano arruffato i capelli con effetto tutt’altro che dignitoso. E non solo i suoi capelli, ma tutta la sua persona presentava quell’aspetto disdicevole, quell’espressione di sconforto, d’irritazione e di tetraggine ohe hanno le persone intemperanti dopo una sbornia solenne. Verloc, però, non era una persona intemperante. La sua condotta era sempre stata rispettabile. Probabilmente, quel suo aspetto era dovuto a un raffreddore di eccezionale violenza. Vuotò tre tazzine di tè, ma non toccò i cibi. Ne arretrava con cupa avversione alle insistenze della moglie. che infine disse: — Avrai i piedi bagnati. Mettiti le pantofole. Tanto, stasera non uscirai. Ma egli le obiettò con burberi grugniti che i suoi piedi non erano bagnati e che ad ogni modo, non gliene importava. Sulla proposta riguardante le pantofole, sorvolò come non meritevole di risposta. Ma la questione dell’eventuale uscita serale ebbe uno sviluppo imprevisto. Egli non pensava all’opportunità di uscire o di non uscire quella sera. I suoi pensieri s’estendevano su un campo molto più vasto. E da certe sue frasi smozzicate e burbere, divenne chiaro che stava considerando l’opportunità di emigrare. Non era altrettanto chiaro, però, se intendesse andare in Francia o in California. L’imprevedibilità, la stravaganza e l’inconcepibilità d’un tale evento, però, tolsero a quell’imprecisa dichiarazione tutta la sua efficacia. La moglie, non
meno placidamente che se il marito l’avesse minacciata del finimondo, disse: — Che idea! Egli si dichiarò stanco e disgustato di ogni cosa, e inoltre... Qui ella lo interruppe per osservargli: — Ti sei buscato un bel raffreddore. Era infatti evidente ch’egli non era nel suo solito stato, sia fisico, sia mentale. Una tetra irresolutezza lo tenne in silenzio per un momento. Poi mormorò alcune pessimistiche generalità sul tema della necessità. — Costretto! — ripetè Winnie, di fronte al marito, rovesciandosi tranquillamente, con le braccia incrociate, contro lo schienale della sedia. — Vorrei vedere chi ti ci potrebbe costringere. Sei forse uno schiavo? Nessuno è schiavo in questo paese... basta che tu non ti faccia schiavo. — Sostò un attimo, poi, col massimo candore: — Gli affari non vanno poi male. E hai anche una bella casa. Guardò attorno attorno, dall’angolo della credenza al gaio fuoco del caminetto. Annidata dietro quella bottega di merci equivoche, dalla vetrina misteriosamente semibuia e dalla porta inaspettatamente socchiusa sulla buia e stretta viuzza, era, in ogni suo aspetto di proprietà domestica e di domestico conforto, una casa veramente rispettabile. Però, il suo devoto affetto vi senti il vuoto lasciato dal fratello Stevie per godersi un'umida villeggiatura sui prati dei dintorni di Kent, sotto la vigilanza del signor Michaelis. Lo sentì intensamente, con tutta la forza della sua ione protettrice. Quella, era anche la casa di quel povero ragazzo — il soffitto, la credenza, lo scoppiettante caminetto. A tale pensiero, ella s’alzò e, andando all’altro capo della tavola, disse nella piena del suo cuore: — Ma di me non sei stanco, vero? Egli non produsse alcun suono. Allora Winnie, da dietro, gli si curvò sopra le spalle e gli premette le labbra sulla fronte. Rimase così alcun tempo. Non un bisbiglio giunse loro dal mondo esterno. Il suono d’un o sul lastrico si spense nella discreta penombra della bottega. Solo il becco di gas, sopra la tavola, continuava a far le fusa placidamente, nel greve silenzio della saletta. Durante il contatto di quel bacio imprevisto e prolungato, Verloc, abbrancando la
sedia con ambo le mani, conservò una ieratica immobilità. E appena cessò, egli abbandonò la sedia, s'alzò e andò a piantarsi davanti al caminetto. Ma non più con le spalle alla stanza. Coi tratti tumefatti e un’aria d'ubriachezza, seguì attentamente le mosse della moglie. Winnie procedeva serenamente a sparecchiar la tavola. La sua tranquilla voce commentò l'idea partecipatale in un tono ragionevole e domestico. Non reggeva all’esame. La condannò da ogni punto di vista. Ma l’unica ragione che la faceva parlare era il benessere di Stevie. In quella circostanza, il fratello le apparve abbastanza « strano » per non essere, così d’un tratto, espatriato. Niente altro. Ma girando attorno attorno a quel punto vitale, le sue parole divennero veramente veementi, intanto, con gesti bruschi, ella si mise il grembiule per andare a lavare i piatti. E, come eccitata dal suono della propria voce che nulla contraddiceva, giunse fino a dire, in tono quasi offensivo : — Se vuoi andare all’estero, dovrai andarci senza di me. — Sai bene che senza di te non ci andrei, — disse cupo Verloc e la voce senza risonanza della sua vita privata tremò per un’enigmatica emozione. Ella già si pentiva delle proprie parole. Le erano riuscite troppo brutali. Avevano anche quella mancanza di saggezza ch’è propria delle cose non necessarie. Realmente, ella non le aveva pronunciate con intenzione. Le erano state suggerite dal dèmone d’una perversa ispirazione. Ma ella sapeva come fare perchè fossero come non dette. Volse il capo e, per disopra la spalla, scoccò a quell’uomo, massicciamente piantato davanti al fuoco, un’occhiata mezzo furbesca, mezzo crudele, un’occhiata di cui la Winnie dei tempi di piazza Belgravia sarebbe stata incapace, per via della sua rispettabilità e della sua innocenza. Ma ora quell’uomo era suo marito, ed ella non era più ignara. Tenne quello sguardo su di lui per tutto un secondo, col grave viso immobile come una maschera, mentre, faceta, diceva: — Non potresti. Non potresti stare senza di me. Verloc si riscosse dalla sua immobilità. — Precisamente, — disse con voce più forte, tendendo le braccia e facendo un o innanzi. Qualcosa di selvaggio, di strano nella sua espressione, rese incerto
se volesse abbracciare oppure strangolare la moglie. Ma l’attenzione di questa fu distratta dallo strepito del camlo fesso. — Bottega, Adolfo. Vacci tu. Egli si fermò e le sue braccia s’abbassarono lentamente. — Vacci tu, — ripetè la moglie. — Sono in grembiule. Verloc ubbidì rigido rigido, con occhi pietrosi, come un rubicondo automa. E come tale, sembrava aver anche quell’assurda aria di essere cosciente del proprio meccanismo. Richiuse l’uscio del retro, e la signora Verloc, muovendosi vivacemente, portò il vassoio in cucina. Lavò le tazzine e alcuni altri bricchi, prima di fermarsi ad ascoltare. Non un suono le giunse. Il cliente si trattenne a lungo in bottega. Doveva essere un cliente, che altrimenti Verloc lo avrebbe fatto entrare nel retro. Ella sciolse con uno strappo i lacci del grembiule, e, buttato questo su una sedia, tornò lentamente in saletta. In quel preciso momento, Verloc vi entrò dalla bottega. Vi era andato rubicondo e ne tornava straordinariamente sbiancato. Il suo viso, perdendo l’ebetudine d’ubriaco e di febbricitante, aveva acquisito in quel breve tempo un'espressione stravolta e insieme sfinita. — Che c è? — gli chiese Vi ionie, sottovoce. Per l'uscio socchiuso aveva visto che il cliente non se n’era ancora andato. — Devo uscire, — le rispose Verloc, senza però raccogliere il soprabito. Winnie andò diritto in bottega e, richiuso l’uscio, si mise dietro il banco. Guardò il cliente solo dopo essersi comodamente installata sulla sedia. Era un individuo alto e magro, con balli volti in sii. Giusto in quella ne raddrizzava le aguzze punte. Il suo lungo viso ossuto usciva da un bavero rialzato. Era alquanto bagnato e inzaccherato. Un bruno, col contorno degli zigomi ben definito sotto le tempie lievemente incavate. Un individuo mai visto. E nemmeno un cliente. Ella lo guardò placidamente.
— Venite dal Continente? — gli chiese dopo un momento. Il lungo e sottile straniero, senza precisamente guardare la signora Verloc, rispose soltanto con un lieve e peculiare sorriso. Lo sguardo persistente, incuriosito, di lei, non si staccò da lui. — Capite l’inglese, vero? — Oh yes, lo capisco. Non v’era nulla di esotico nella sua pronuncia, se non una certa lentezza, che faceva supporre uno sforzo speciale. E la signora Yerloc, grazie alla sua svariata esperienza, era già da tempo giunta alla conclusione che alcuni stranieri parlano l’inglese meglio di molti Inglesi. Quindi disse, guardando fìsso l’uscio del retro: — Avete intenzione di stabilirvi qui? Lo straniero le fece un altro sorrisetto silenzioso. Aveva la bocca espressiva e lo sguardo penetrante. Scosse il capo tristemente, o almeno così parve a lei. — Vedrete che mio marito vi metterà a posto. Intanto, per i primi giorni, vi converrebbe fermarvi da Giuliani, cioè all’Hótel Continentale, un albergo privato. Molto cheto. Vi ci condurrà mio marito. — Una buon’idea, — disse l’uomo sottile e bruno, il cui sguardo s’era fatto subitamente duro. — Conoscevate già mio marito? Forse in Francia? — Ho sentito parlare di lui, — ammise il visitatore nel suo tono lento, stentato, che però era anche asciutto e freddo. Seguì un silenzio; poi egli riprese a dire, ma con maggiore naturalezza : — Forse vostro marito è già uscito e m’aspetta sulla strada? — Sulla strada? — ripetè sorpresa la signora Ver- loc. — Impossibile. Avrebbe dovuto uscire di qui. Non c’è altra porta. Rimase seduta, imibile per un momento, poi s’alzò e andò a sbirciare per
l’uscio vetrato. Bruscamente l’aprì e scomparve nel retro. Verloc non aveva fatto altro che indossare il soprabito, ma perchè ora stesse con le due braccia puntate sulla tavola, come colto da malore, ella non potè capirlo. — Adolfo, — chiamò sottovoce; e quando egli si fu raddrizzato, gli chiese precipitosamente: — Lo conosci quell’uomo? — Ho sentito parlare di lui, — mormorò imbarazzato Verloc, gettando un’occhiataccia all’uscio. I begli occhioni incuriositi della signora Verloc s’accesero d’un lampo d’orrore. — Un amico dì Karl Yundt?... di quel brutto vecchiaccio? — No, no, — protestò Verloc, intento a cercare il cappello. Ma poi, quando l’ebbe trovato sotto il divano, lo tenne in mano come se ne ignorasse l’uso. — Beh... ti aspetta, — disse infine la moglie. — Ma dimmi, Adolfo, è forse uno di quell'Ambasciata che t’ha dato tante noie ultimamente? — Noie da un’Ambasciata? — ripetè Verloc con un pesante sussulto di sorpresa e di sgomento. — Chi t’ha parlato dell’Ambasciata? — Tu. — lo! lo t’ho parlato dell’Ambasciata? Egli parve attonito e sconvolto oltre ogni dire. Sua moglie gli spiegò: — Hai parlato nel sonno, qualche volta, ultimamente. — Che... che ho detto? Che sai? — Non molto. Straparlavi. Ho capito soltanto che ti davano delle seccature. Verloc si mise il cappello in testa. Una sanguigna vampata di collera gli si diffuse sul viso. — Straparlavo... eh? L’Ambasciata! Gli strapperei il cuore coi denti. Ma che stiano in guardia. Ci ho una lingua, in bocca.
Buttava fuoco, eggiando su e giù tra tavola e divano, mentre il soprabito sbottonato gli s'agganciava tratto tratto a qualche spigolo. Poi il rosso flusso di collera rifluì, lasciando il viso sbiancato, livido, con le narici frementi. Ma la moglie attribuì quei mutamenti al raffreddore. — Beh, chiunque sia, sbarazzati di lui più presto che puoi e torna subito. Hai bisogno di stare a ietto almeno un giorno o due. Verloc, calmatosi e con una gran risolutezza stampata sul viso esangue, aveva già aperto l’uscio, quando la moglie lo richiamò con un bisbiglio: — Adolfo! Adolfo! Stupito, egli ritornò di qualche o. — E il denaro che hai ritirato? L’hai ancora in tasca? Non sarebbe meglio... Verloc guardò stupidamente il palmo della mano tesa della moglie, e solo dopo un buon momento abbassò le sopracciglia inarcate. — Il denaro? Già, già, non avevo capito. Trasse dalla tasca interna della giacca un portafogli di pelle suina nuovo fiammante. Ella lo ricevette senza dir parola, nè si mosse finché il camlo, strepitante dietro le spalle di Verloc e del suo visitatore, non si fu fermato. Solo allora aprì il portafogli, e ne trasse i biglietti per contarli. Fatto questo, si guardò attorno con aria di diffidenza, nel silenzio e nella solitudine di quella casa, che d’un subito le parve sperduta e mal sicura, come se fosse tutta sola in mezzo a una foresta. Nessun ricettacolo della solida e massiccia mobilia potè sembrarle altro se non particolarmente attraente all’occhio d’un ladro. Ella, infatti, aveva del ladro un concetto ideale, lo immaginava dotato di facoltà sublimi e d’un occhio addirittura miracoloso. Il cassettone era senz’altro da escludere. Sarebbe stato il primo mobile adocchiato da un ladro. Staccando rapidamente alcuni gancetti della camicetta, ella si nascose il portafogli sotto il busto. Dopo aver così disposto del capitale del marito, fu quasi lieta di udire il camlo fesso annunciare un nuovo arrivo. Con lo sguardo fisso, imibile, e l’espressione pietrosa riservata ai clienti casuali, andò a porsi dietro il banco. Un uomo, ritto nel mezzo della bottega, stava inventariandone il contenuto con una rapida e fredda occhiata. I suoi occhi corsero per le pareti, guardarono il
soffitto, notarono il pavimento e tutto ciò in un attimo. Le estremità d’un lungo paio di baffi biondi cadevano quasi a strapiombo e oltre la linea della mascella inferiore. Fece un sorriso di vecchio se pur lontano conoscente, ed ella ricordò di averlo già visto. Non era un cliente. Addolcì quindi il suo « sguardo per clienti », lino a renderlo semplicemente indifferente, e cosi gli fece fronte da dietro il banco. Egli s’avvicinò con aria di confidenza, ma non troppo spiccata. — In casa, il marito, signora Verloc? — chiese in tono pieno e spigliato. — No, è uscito. — Mi spiace. Soli venuto per chiedergli una piccola informazione confidenziale. Era perfettamente vero. Il Capo Ispettore Heat era andato a casa ed era perfino giunto a pensare di mettersi le pantofole, dal momento che, praticamente, era « scartato da quel caso ». S’era indugiato su alcuni pensieri sarcastici e irosi; poi, quell’occupazione, riuscendogli molesta, s’era deciso a cercar sollievo fuori di casa. Nulla gl’impediva di fare una capatina apparentemente casuale alla bottega di Verloc. Era nel carattere d’un cittadino privato, che, facendo una eggiata per proprio conto, fe uso del suo abituale mezzo di locomozione. La direzione generale della eggiata era verso la casa di Verloc. li Capo Ispettore Heat, però, rispettava il proprio carattere privato con tanta consistenza, che prese ogni possibile precauzione per evitare tutti i poliziotti di fazione nei pressi della Brett Street. Tali precauzioni s’imponevano assai più a un uomo della sua posizione, che non a un oscuro Tenente Commissario. Entrò nella via manovrando in modo tale, che, se invece di Heat, cittadino privato, si fosse trattato d’un membro della classe criminale, si sarebbe potuto definire losco. Il brandello raccolto a Greenwich era in una tasca della sua veste privata. Non che avesse intenzione, anche un’intenzione piccolissima, di valersene nella sua attuale qualità, tutt’altro, voleva soltanto sapere che cosa Verloc sarebbe stato disposto a dire da sè, volontariamente. Sperava che la natura di quelle confidenze sarebbe stata tale da aggravare notevolmente la posizione di Michaelis. E questa, nel suo insieme, era una speranza coscienziosamente professionale, non priva, però, d’un suo proprio valore morale. Il Capo Ispettore Heat era infatti, innanzi tutto, un servitore della Giustizia. Ed ora, apprendendo che Verloc era uscito, provò un vivo dispiacere.
— Lo aspetterei volentieri, ma chissà quando tornerà. La signora Verloc non si lasciò indurre a dargli alcuna assicurazione. — Il guaio è che l’informazione che m’occorre è d’un genere proprio privato. Capite quello che voglio dire? Sapreste forse dirmi dov’è andato? Ella scosse il capo. — No, non saprei. Poi si volse a riporre alcune scatole sullo scaffale dietro il banco. Il Capo Ispettore Heat la guardò per qualche tempo con aria molto assorta. — Suppongo che sappiate chi sono. La signora Verloc si volse a guardarlo per disopra la spalla, ed egli rimase stupito dalla freddezza di quello sguardo. — Suvvia, saprete bene che sono uno della polizia, — le disse con un fare brusco. — No, nè ci tengo a saperlo, — e si rivolse alle scatole. — Mi chiamo Heat. Capo Ispettore Heat, della Sezione Delitti Speciali. Dopo aver accuratamente rimesso a posto l’ultima scatoletta di cartone, ella si rigirò e tornò a guardarlo con occhi duri duri, lasciando penzolare oziose le mani. Ci fu un lungo silenzio. — Sicché vostro marito è uscito un quarto d’ora fa? E non vi ha detto quando sarebbe tornato? Negligentemente, la signora Verloc obiettò: — Non è uscito solo. — Con un amico? Ella si toccò la crocchia. Era in perfetto ordine.
— No, con uno straniero. — Ho capito. Che tipo era quello straniero? Vi dispiacerebbe descrivermelo? Ciò non dispiacque alla signora Verloc. E quando il Capo Ispettore Heat sentì parlare d'un uomo bruno, sottile sottile, con la faccia lunga e i baffi volti all’insù, diede manifesti segni di turbamento ed esclamò: — Perdio! me l’immaginavo! Non ha perso tempo. In cuor suo, era profondamente disgustato di quella condotta così poco ufficiale da parte del suo immediato superiore. Ma non era chisciottesco. Perse quindi ogni desiderio di attendere oltre il ritorno di Verloc. Perchè poi fossero usciti, non se lo seppe dire, ma pensò che molto probabilmente sarebbero tornati insieme. « Non è così che bisogna fare, — pensò amaramente. — Il caso è già bell’e rovinato ». E disse forte: — Temo di non aver tempo di aspettarlo, vostro marito. La signora Verloc ricevette quella dichiarazione con la massima indifferenza. Quel suo distacco dalla situazione presente aveva impressionato il Capo Ispettore Heat fin dal principio. Ma in quel momento, egli non seppe pili contenere la propria curiosità. Poiché era in balia delle sue ioni come un qualunque altro cittadino privato. — Credo, — le disse, guardandola intensamente, — che, se voleste, potreste darmi un’idea molto precisa di quello che sta accadendo. Forzando i begli occhi inerti a restituirgli lo sguardo, ella mormorò: — Accadendo? Che cosa è accaduto? — Ma sapete bene, quella faccenda della quale avrei voluto parlare con vostro marito. Quel giorno ella aveva dato la solita occhiata a un giornale del mattino. Ma non
s’era mossa di casa. Gli strilloni, dal canto loro, non invadevano mai la Brett Street. Non era una strada propizia al loro commercio. E l’eco delle loro grida dominanti il clamore delle arterie affollate, spirava tra i sudici muri, senza raggiungere la soglia della bottega. D’altra parte, suo marito non aveva riportato alcun foglio della sera. Ad ogni modo, ella non gliene aveva visto. Cosicché, nulla sapeva delle faccende d’attualità. E così disse, con una genuina nota di meraviglia nella voce calma. Ma il Capo Ispettore Heat non volle credere neppure un istante a tanta ignoranza. Brevemente, e senza amabilità, le comunicò il nudo fatto. Ella distolse il proprio sguardo. — Mi sembra semplicemente stupido, — sentenziò lentamente la signora Verloc. Poi lasciò correre una pausa. — Non siamo poi schiavi, per lasciarci calpestare. Il Capo Ispettore aspettò ansiosamente. Ma nul- l’altro le uscì di bocca. — E vostro marito non vi ha detto nulla, tornando a casa? Ella volse soltanto il capo da destra a sinistra in segno di diniego. Un languido, beffardo silenzio regnò nella bottega. Il Capo Ispettore Heat si sentì provocato oltre ogni limite. — C’era anche un’altra cosuccia, — cominciò in tono spigliato, — della quale avrei pure voluto parlare a vostro marito. M’è capitato di trovare un... un... (scommetto che non l’indovinereste mai!) ...un soprabito rubato. La signora Verloc, che giusto quella sera aveva la mente assillata da visioni ladresche, si toccò lievemente il busto. — Noi non abbiamo perduto nessun soprabito — disse con calma. — Strano, — continuò Heat, cittadino privato. — Vedo che vendete pure inchiostro da timbri. Prese una bottiglietta e la guardò contro la luce del gas nel mezzo della bottega. — Rosso, vero? — osservò, riponendola sul banco. — Dicevo, dunque, ch’è strano. Perchè quel soprabito aveva, cucita internamente, una striscetta di tela col
vostro indirizzo scritto con inchiostro indelebile. La signora Verloc si curvò sul banco con una sommessa esclamazione: — Allora è quello di mio fratello! — Dov’è vostro fratello? Posso vederlo? — chiese vivamente il Capo Ispettore. Ella si curvò un altro tantino sopra il banco. — No, non è qui. Quell’indirizzo l’ho scritto io stessa. — Dov’è vostro fratello? — È via, da un... amico... in campagna. — Quel soprabito veniva appunto dalla campagna. Come si chiama quell’amico? — Michaelis, — confessò la signora Verloc, in un bisbiglio sgomento. Il Capo Ispettore emise un fischio. Gli occhi gli batterono. — Ab sì? Benone! Ed ora, sentiamo un po’: com'è codesto vostro fratello? Grande, grosso, bruno, eh? — Oh, no! — esclamò la signora Verloc con fervore. — Quello sarà stato il ladro. Stevie è piccolo, magro e biondo. — Bene, — disse il Capo Ispettore, in tono di approvazione. E mentre la signora Verloc oscillava tra l’angoscia e lo stupore, egli provvide a procurarsi ulteriori informazioni. Perchè mai cucire l’indirizzo nell’interno d’un soprabito? E apprese che le dilaniate spoglie esaminate quel mattino con tanta ripugnanza erano quelle d’un giovane nervoso, smemorato, alquanto strano, come pure che la donna, che ora gli stava parlando, aveva avuto cura di quel giovane fin dalla sua più tenera età. — Facilmente eccitabile, eh? — Ah sì! Questo sì. Ma come avrà fatto a perdere il soprabito?...
Il Capo Ispettore Heat trasse bruscamente di tasca un rosso giornaletto, comprato poco prima, strada facendo. S’interessava di cavalli. Costretto dalla sua professione a un’attitudine di dubbio e di sospetto verso i suoi concittadini, dava libero sfogo all’istinto di credulità radicato in ogni petto umano, credendo ciecamente ai profeti sportivi di quel particolare giornaletto. Deposto questo sul banco, immerse nuovamente la mano nella tasca, e, trattone il pezzetto di stoffa che il Destino gli aveva lasciato prendere frammezzo a un mucchio di cose apparentemente raccolte in una macelleria e in un magazzino di cenciaiolo, lo offrì in visione alla signora Verloc. — Credo che lo riconoscerete. Ella lo prese macchinalmente e se lo portò agli occhi con ambo le mani. E i suoi occhi, mentre lo guardavano, parvero diventar vieppiù grandi. — Sì, — bisbigliò; poi rialzò il capo e arretrò alquanto. — Ma perchè è stato strappato così? La mano del Capo Ispettore guizzò sopra il banco e ghermì il prezioso brandello. Ella ricadde pesantemente sulla sedia. L’identificazione era perfettamente riuscita. E in quel momento egli intravide tutta la stupefacente verità. Verloc era « l’altro ». — Signora Verloc, io credo che di questa faccenda della bomba dobbiate saperne più di quanto crediate voi stessa. Ella rimase seduta attonita, sperduta in uno sconfinato stupore, che nesso c’era? E s’irrigidì tanto da non poter voltare il capo allo strepito del camlo che fece girar sui tacchi l’investigatore privato Heat. Verloc aveva richiuso la porta e per un buon momento i due uomini si guardarono negli occhi. Verloc, senza guardare la moglie, s'avvicinò al Capo Ispettore, il quale, vedendolo tornar solo, provò un grande sollievo. — Voi qui? Chi cercate? — Nessuno, — rispose il Capo Ispettore in tono sommesso. — Soltanto, avrei da dirvi una parolina o due.
Verloc, sempre pallido, aveva riportato a casa un’aria di risolutezza. Ma ancora non guardò la moglie. — Venite qui, allora, — e andò diritto nel retro. L’uscio non s’era ancora richiuso, che la signora Verloc balzò dalla sedia e vi si avventò come per spalancarlo. Ma invece di far ciò, si lasciò cadere sulle ginocchia e applicò l’orecchio contro il buco della serratura. I due uomini dovevano essersi fermati appena varcata la soglia, poiché ella udiva chiaramente la voce del Capo Ispettore, sebbene non ne vedesse il dito enfaticamente puntato contro il petto di suo marito. — Voi siete l’altro uomo, Verloc. Sono stati visti entrare nel parco due uomini. E la voce di Verloc: — Bene, arrestatemi. Che cosa ve lo impedisce? Ne avete il diritto. — Ah, no! So benissimo da chi vi siete confessato. Quello vorrà sbrigarsela da solo questa faccenda. Ma sappiate che sono stato io a mettere il dito su di voi. Poi ella non udì più che un confuso mormorio. Ma a un certo punto, l’Ispettore Heat, evidentemente, mostrò a Verloc il brandello del soprabito di Stevie, poiché la sorella, guardiana e protettrice di questi, udì il marito dire un po' più forte: — Non sapevo che gli avesse attaccato questa roba. E di nuovo, per qualche tempo, ella non udì più se non un confuso mormorio, che, nella sua misteriosa incomprensibilità, non era tanto d’incubo al suo cervello come l’orrendo significato delle parole pienamente articolate. Poi il Capo Ispettore, dall’altra parte dell’uscio, alzò la voce. — Dovete aver perduto la testa. E la voce di Verloc, con una specie di cupa furia:
— Sono stato pazzo per oltre un mese, ma adesso non lo sono più. Tutto è ato. Non voglio più tenermi in testa nulla. All’Inferno le conseguenze! Seguì un silenzio; poi il cittadino privato Heat mormorò : — Che volete dire? — Tutto! — esclamò la voce di Verloc, e subito si fece molto sommessa. Dopo un po’ si rialzò. — Son già parecchi anni che mi conoscete, e avrete potuto constatare che so rendermi utile. Sapete che sono un uomo leale. Sì, leale. Questo richiamo alla loro vecchia conoscenza evidentemente riuscì molto sgradevole al Capo Ispettore Heat. La sua voce prese un tono ammonitore. — Non fidatevi troppo di quello che vi è stato promesso. Fossi in voi, me la svignerei. Non credo che vi si abbia a rincorrere. Verloc fu udito sbottare in una breve risata. — Ah sì, voi sperate che gli altri si sbarazzeranno di me per far piacere a voi? No, no, voi non mi potrete scrollar di dosso così. Io sono stato leale; con quella gente anche troppo a lungo ed ora tutto deve saltar fuori. — Lasciate che salti fuori, allora. — disse l'indifferente voce del Capo Ispettore Heat. — Ma ditemi ora: come avete fatto a scappare? — Stavo per portarmi sulla strada di Chesterfield, quando ho sentito l'esplosione. Allora mi sono messo a correre. C’era nebbia. Sono arrivato in fondo a George Street senza incontrar nessuno. Non credo che alcuno m'abbia visto prima. — Così facile! — si meravigliò la voce dell'Ispettore Heat. — Non ve l'aspettavate quell'esplosione, eh? — No, era troppo presto, — confessò la cupa e burbera voce di Verloc. La signora Verloc premette convulsamente l’orecchio contro la serratura. Aveva
le labbra violacee, le mani diacce, e il pallido viso, nel quale pii occhioni erano come due buchi neri, parve a lei come ravvolto di fiamme. Dall'altra parte dell’uscio, le due voci calarono a un tono molto basso. Ogni tanto ella coglieva qualche parola, ora pronunciata dalla voce del marito, ora da quella pacata del Capo Ispettore. Udì quest’ultimo dire: — Crediamo che sia inciampato in una radice. Seguì un cupo, concitato mormorio che durò qualche secondo. Poi il Capo Ispettore, come rispondendo a una domanda, disse con enfasi: — Si capisce. È stato fatto a brandelli: carne, ghiaia, stracci, schegge... tutto mischiato insieme. Vi dico che hanno dovuto prendere un badile per raccoglierlo tutto. La signora Verloc saltò su e, tappandosi gli orecchi, traballò davanti e indietro, tra il banco e gli scaffali, verso la sedia. I suoi occhi stralunati scorsero il foglio sportivo, lasciato sul banco dal Capo Ispettore, e, cozzando contro il banco stesso, l’afferrò, si lasciò cadere sulla sedia, lacerò l’ottimistico foglio roseo, cercando di spiegarlo, poi lo buttò per terra. Dall’altra parte dell’uscio, il Capo Ispettore Heat stava dicendo all’agente segreto Verloc: — Sicché, la vostra difesa sarà praticamente una piena confessione ! — Sì. Voglio raccontare tutta la storia. — Badate che potrebbe anche non essere creduta» Il Capo Ispettore rimase assorto. Con la piega che stava per prendere quell’affare, c’era da prevedere molte sorprese — spreco di campi di nozioni che, coltivati da persona capace, potevano esser preziose tanto per l’individuo quanto per la società. Increscioso, molto increscioso. Michaelis sarebbe rimasto intangibile, l’industria casalinga del Professore si sarebbe trovata in piena luce, e tutto il sistema di sorveglianza sarebbe rimasto disorganizzato. Chissà poi che baccano sui giornali, che, dal suo punto di vista, gli parvero, come per una subita illuminazione, scritti da pazzi e letti da imbecilli. Mentalmente convenne con le parole che, infine, Verloc lasciò cadere in risposta all’ultima sua osservazione.
— Può darsi, ma certo sconvolgerà molte cose. Io finora son stato un uomo leale, e voglio restar leale anche in questo... — Se vi lasceranno fare, — obiettò cinicamente il Capo Ispettore. — Potreste avere delle sorprese anche voi. Io non mi fiderei troppo di quel signore col quale avete parlato poco fa. Verloc lo ascoltò accigliato. — Vi consiglio di prendere il largo finché siete in tempo. Di istruzioni non ne ho. Alcuni di loro — quest'ultima parola con un’intonazione particolare, — vi credono già all’altro mondo. — Davvero? Benché, dal suo ritorno da Greenwich, avesse trascorso gran parte del giorno nascosto in un oscuro caffè della periferia, non poteva aver previsto nuove tanto favorevoli. — Sì, questa è l’impressione generale. Scomparite, dunque. Prendete il largo. — Per andar dove? — ghignò Verloc. Alzò il capo e, guardando l’uscio chiuso del retro, mormorò con sentimento: — Perchè non mi arrestate? Ci verrei così tranquillamente! — Non ne dubito, — assicurò sardonicamente il Capo Ispettore, seguendo la direzione del suo sguardo. Le ciglia di Verloc s’inumidirono lievemente. E dinanzi all’imibile Capo Ispettore, abbassò il burbero vocione a un tono confidenziale. — Quel ragazzo era mezzo scemo, irresponsabile. Non c’è tribunale che non se ne sarebbe accorto subito. Buono tutt’al più per il manicomio. E quello era il peggio clic gli sarebbe potuto capitare, se... Il Capo Ispettore, con la mano sul saliscendi dell’uscio, mormorò in faccia a Verloc: — Può darsi benissimo che sia stato mezzo scemo, ma voi eravate certo matto da legare. Chi ha potuto farvi perdere la testa così?
Verloc, pensando al signor Vladimiro, non stette a cercar parole. — Un porco iperboreo, — sibilò con veemenza. — Quello che voi chiamereste un... un gentleman. Il Capo Ispettore mosse bruscamente il capo, in segno di comprensione, e aprì l’uscio. La signora Verloc potè udirlo, ma non vederlo partire, inseguito dall’aggressivo strepito del camlo fesso. Ella sedeva al suo solito posto, dietro il banco. Sedeva rigidamente eretta, con ai piedi due pezzi di carta rosea e sudicia. Le palme serravano convulsamente il viso, mentre le dita le s’aduncavano sulla fronte, come se la sua pelle fosse una maschera ch’ella volesse strappare. La perfetta immobilità della sua posa rifletteva, esprimeva l’interiore tumulto di rabbia e di disperazione, tutta la potenziale violenza delle più tragiche ioni, e ciò assai meglio d’un futile sfogo di grida, anche se accompagnato dal percuotere d’un capo distratto contro un muro. Il Capo Ispettore Heat, attraversando la bottega col solito o frettoloso, le aveva gettato soltanto uno sguardo fugace. E quando il camlo fesso cessò di strepitare sul suo nastro d’acciaio ricurvo, più nulla si mosse attorno alla signora Verloc, come se la sua attitudine avesse un potere magico. Perfino le due farfalle di fuoco rimasero ferme sulle estremità del tubo a forma di « T » capovolto, senza più un fremito.. E in quella bottega di merci ombrose, dai muri coperti da foschi scaffali che sembravano divorare tutta la luce, l’oro della vera della signora Verloc le sfavillò sulla mano sinistra con l’inoffuscabile gloria d’una particella di favoloso diadema caduto in un immondezzaio.
X
Il Tenente Commissario, procedendo rapidamente in un hansom dai pressi di Soho, verso Westminster, si fermò giusto nel centro dell’Impero, sul quale il sole non tramonta mai. Alcuni tarchiati poliziotti, non precisamente impressionati dall’onore di vigilare quel luogo angusto, lo salutarono. Penetrando, per una porta tutt’altro che sublime, nei recessi della Casa, ciré la casa per eccellenza nella mentalità di molti milioni d’uomini, egli incontrò infine il volatile e rivoluzionario Trottola. Quell’azzimato e aggraziato giovanotto cercò di nascondere il proprio stupore all’imprevista ricomparsa del Tenente Commissario, che gli era stato detto di aspettare attorno alla mezzanotte. Si spiegò quel pronto ritorno supponendo che le cose fossero andate male. E con quella vivissima simpatia che nei giovani a modo s'accompagna spesso con un temperamento giocondo, se ne dolse per la gran Presenza, ch’egli chiamava « il Capo », e anche per il Tenente Commissario, il cui viso gli parve più impenetrabile che mai e lungo in modo addirittura straordinario. « Che tipo esotico » pensò, sorridendogli da lungi col suo piacevole fare di buon ragazzone. E appena si furono accostati, prese a parlare con la particolare loquacità di coloro che vogliono occultare uno smacco sotto un cumulo di parole. Sembrava che l’attacco minacciato per quella notte stesse allora per finire in un fiasco. Un prezzolato di « quel bruto di Cheeseman » stava annoiando spietatamente la Camera (una Camera molto scarsa) con certe statistiche svergognatamente truccate. Egli, Trottola, sperava che quella noia sarebbe aumentata ili minuto in minuto. Ma forse costui agiva così unicamente per lasciar il vorace « Cheeseman » cenare a suo bell’agio. Ad ogni modo, non c’era verso di persuadere il Capo a rincasare. — Vi riceverà senz’altro, credo, — concluse briosamente Trottola. — È tutto solo nella sua camera, e certo penserà a tutti i pesci del mare. Venite. Nonostante la sua gentile disposizione, il giovine segretario privato (non stipendiato) era anche accessibile alle comuni debolezze umane. Non voleva
urtare la suscettibilità del Tenente Commissario, che sembrava, in modo indubbio, essere tornato con le pive nel sacco. La sua curiosità, però, era troppo viva per poter essere trattenuta dalla sola comione. Non potè quindi fare a meno di chiedere amenamente, strada facendo: —- E il vostro pesciolino? • — Preso, — rispose il Tenente Commissario, con una concisione che non voleva affatto essere scortese. — Bene. Non potete farvi un’idea dell’irritazione che questi grandi uomini provano per i piccoli disappunti. Dopo questa profonda osservazione, l’esperto Trottola parve riflettere. A ogni modo non disse più nulla per ben due secondi. Dopo di che: — Mi fa piacere. Ma... dite, era poi proprio una cosuccia da nulla? — Sapete che cosa si fa coi pesciolini? — Qualche volta si mettono in iscatola, — celiò Trottola, la cui erudizione in materia di pesci era di recente acquisto, e, in confronto alla sua ignoranza di tutte le altre industrie, addirittura immensa. — Sulla costa spagnola ci sono fabbriche di scatole di sardine che... Il Tenente Commissario interruppe l’uomo di Stato in erba: — Già, già, ma certi pesciolini vengono anche buttati per pigliar le balene. — Una balena! Fiuu! — esclamò Trottola, trattenendo il respiro. — Allora eravate a caccia d’una balena? — Sarebbe più preciso dire che sono a caccia d’un pescecane. Sapete come sono i pescecani? — Per Bacco! Siamo immersi fino al collo in libri che parlano soltanto di pesci... scaffali pieni zeppi...con tavole a colori... È una brutta bestiaccia che nuota con la pancia in su.
— Già, ma il mio è sbarbato e cammina su due piedi. L'avete visto anche voi. È un pesce spiritoso. — Io l'ho visto? Non so davvero dove potrei averlo visto. — Agli Esploratori, — disse pacato il Tenente Commissario. Al nome di quel club estremamente esclusivo nella scelta dei propri soci, Trottola si fermò di botto con aria sbalordita. — Impossibile, — protestò in tono d’orrore. — die volete dire? Un socio? — Onorario, — mormorò il Tenente Commissario tra i denti. — Cielo! Trottola apparve tanto sbalordito, che il Tenente Commissario dovette sorridere. — Questo deve restare tra noi. — Questa è la cosa più stupefacente che abbia sentita in vita mia, — dichiarò Frottola con un fil di voce, come se lo stupore lo avesse a un tratto privato di tutto il suo ardore giovanile. Il Tenente Commissario gli gettò un'occhiata fredda fredda. Finché giunsero all’uscio della stanza del grand'uomo, Trottola conservò uno scandalizzato e solenne silenzio, come se il Tenente Commissario lo avesse profondamente offeso. Stava di fatto che gli aveva sconvolto il concetto di massima selezione e di assoluta purezza sociale ch’egli s’era fatto del Club degli Esploratori. Per quanto rivoluzionario in politica, desiderava conservare le sue convinzioni sociali e i suoi sentimenti personali immodificati durante il suo soggiorno su questa terra, che, tutto sommato, gli sembrava molto piacevole. Si scansò. — Entrate pure senza bussare. Paralumi di seta verde profondamente calcati su tutte le luci diffondevano nella stanza un fosco lucore di foresta. Gli occhi boriosi erano fisicamente il punto debole del grande uomo. Ma al solito questo punto era accuratamente velato.
Entrando, il Tenente Commissario vide dapprima soltanto una gran mano pallida che reggeva una gran testa e ricopriva la parte superiore d’un gran viso pallido. Sulla scrivania erano sparsi alcuni fogli oblunghi e una manciata di penne d’oca. Null’altro sull’ampia superficie piana, a parte una statuetta di bronzo ammantata in una toga e misteriosamente attenta nella sua indecisa immobilità. Il Tenente Commissario, invitato a sedersi, sedette. In quella discreta penombra, i tratti più salienti della sua personalità, il lungo viso, i neri capelli e l’uniforme magrezza, apparivano più esotici che mai. Il grand’uomo non manifestò nè sorpresa, nè curiosità, nè alcun altro sentimento. L’attitudine in cui fermò gli occhi minacciati era profondamente cogitabonda. Nè la mutò poi menomamente. Ma il suo tono era per contro molto sveglio. — Ebbene? Avete già trovato qualche cosa? Scommetto che al primo o siete inciampato in qualche imprevisto. — Non precisamente imprevisto, Sir Ethelred. Tutt’al più, posso dire d’essere inciampato in uno stato psicologico. La gran Presenza fece un lieve movimento. — Vi prego di essere chiaro. — Lo sarò, Sir Ethelred. Indubbiamente voi sapete come quasi tutti i delinquenti siano presi, tosto o tardi, da un irresistibile bisogno di confessarsi, di riversare la piena dell’animo su qualcuno, sul primo venuto, che spesso, poi, è uno della polizia. In quel Verloc, che Heat tanto desiderava occultare, ho trovato appunto un uomo in quel particolare stato psicologico. Costui, figuratamente parlando, mi si è buttato tra le braccia. M’è bastato dirgli chi sono e soggiungere: « So che voi siete mischiato in questa faccenda ». Deve essergli parso miracoloso che noi sapessimo già, ma non ci ha fatto caso. Ha continuato a parlare senza lasciarsi distrarre. Non m'è rimasto altro che da fargli due domande: chi era l’istigatore e chi l’esecutore materiale. Alla prima m’ha risposto con foga sorprendente. In quanto alla seconda, ho capito che si trattava di un suo cognato, un ragazzo un po’ debole di cervello... Una storia piuttosto curiosa... troppo lunga, credo, da raccontare in questo momento. — Che cosa avete appreso, allora? — gli chiese il grand’uomo. — Anzitutto, ho saputo che il vigilato speciale Michaelis non ha avuto nulla a
che fare in questa faccenda, benché il ragazzo sia stato temporaneamente con lui in campagna fino alle otto di stamane. È più che probabile che, ancora adesso, Michaelis non sappia nulla di nulla. — Siete proprio sicuro su questo punto? — Sicurissimo, Sir Ethelred. Quel Verloc v’è andato stamane per prendere il ragazzo col pretesto di voler fare una eggiata pei prati. Siccome non era la prima volta che faceva così, Michaelis non poteva minimamente sospettare nulla d’insolito. Quanto al resto, Sir Ethelred, l’indignazione di quel Verloc non ha lasciato nulla in dubbio, proprio nulla. È stato messo fuori di senno da una curiosa scenetta, veramente straordinaria, che noi due, però, non avremmo potuto prendere sul serio. Allora il Tenente Commissario riferì brevemente al grand’uomo, che rimase seduto tranquillo, riposando gli occhi sotto lo schermo d’una mano, gli apprezzamenti di Verloc sui procedimenti e il carattere del signor Vladimiro. Parve che il Tenente Commissario gli riconoscesse una certa dose di competenza. Ma il cospicuo personaggio osservò: — Tutto ciò mi sembra molto fantastico. — Nevvero? Sembra una burla di pessimo gusto. Ma il nostro uomo l’ha presa sul serio, a quanto pare. S’è sentito minacciato. Tempo fa, sapete bene, ha avuto rapporti diretti col vecchio barone Stott-Wartenheim, tanto che aveva finito per considerare indispensabili i propri servigi. È stato per lui un brutto risveglio. Immagino che avrà perso la testa. Si sarà infuriato e spaventato. Parola mia, ho l’impressione che debba aver creduto quella gente dell’Ambasciata capacissima di buttarlo sul lastrico, non solo, ma anche di tradirlo in un modo o nell’altro... — Quanto tempo siete rimasto con lui? — lo interruppe la Presenza, da dietro la sua grande mano. — Una quarantina di minuti, Sir Ethelred, in una casa malfamata che si chiama Hotel Continentale, chiusi in una camera che all’uopo m’ero presa per tutta la notte. Lo avevo trovato in preda a quella reazione che segue lo sforzo del delitto. Quell’uomo non può essere definito un delinquente indurito. È ovvio che non ha voluto la morte di quel disgraziato ragazzo, quel suo cognato. È stato un colpo per lui... Gli si leggeva in faccia. Potrebbe anche darsi che sia veramente sensibile. Forse voleva anche bene a quel ragazzo... Chi sa? Sperava forse che
sarebbe riuscito a fuggire sano e salvo; nel qual caso, sarebbe stato pressoché impossibile trovare una qualunque traccia in questa faccenda. Ad ogni modo, gli ha fatto arrischiare consciamente soltanto la prigione. Il Tenente Commissario tacque per riflettere un momento. — Come poi potesse sperare di nascondere, in quest’ultimo caso, la propria parte avuta in questa faccenda, mi riesce incomprensibile, — continuò nella sua ignoranza della devozione del povero Stevie per il signor Verloc (ch’era buono), e del suo particolare mutismo, che per la vecchia faccenda dei fuochi artificiali aveva resistito per molti anni a esortazioni, coercizioni, collere ed altri mezzi d’investigazione usati dalla sua amata sorella. Poiché Stevie era essenzialmente leale... — No, non riesco a capire. Potrebbe anche darsi che non vi abbia pensato affatto, mai. Forse vi sembrerà un'idea stramba, la mia, Sir Ethelred, ma il suo stato di smarrimento m’ha davvero fatto pensare a uno che, dopo essersi tolto la vita per farla finita con gli affanni, si ritrovasse all’altro mondo con tutti i propri affanni intatti. Il lenente Commissario diede quella definizione in un tono che sembrava chieder venia. Ma i linguaggi stravaganti hanno una loro propria efficacia, e il grande uomo non si ritenne offeso. Una lieve mossa, come di sussulto, del gran corpo mezzo perduto nel fosco lucore dei paralumi di seta verde, della gran testa sorretta dalla gran mano, accompagnò un intermittente, attutito, ma pur poderoso suono. Il grande uomo aveva riso. — Che ne avete fatto di lui? Il Tenente Commissario rispose con grande prontezza : — Aveva una gran voglia di tornare da sua moglie, in bottega, sicché l’ho lasciato andare. — Davvero? Ma ora quell’individuo scomparirà. — Permettetemi di non essere di questo avviso. Dove potrebbe andare? Inoltre, deve guardarsi dai suoi compagni. Il posto che occupa gli è stato assegnato da loro. Come potrebbe spiegare un'improvvisa diserzione? Ma anche se nulla si opponesse alla sua libertà d’azione, non farebbe niente. In questo momento non ha abbastanza energia morale per prendere una qualsiasi risoluzione. D’altra parte, permettetemi anche di osservarvi che, se lo avessimo arrestato, ci
saremmo trovati costretti a un corso d’azione per il quale desideravo prima conoscere la vostra precisa intenzione. Il cospicuo personaggio s’alzò pesantemente, imponente massa opaca nel fosco lucore verdognolo della stanza. — Parlerò stasera col Procuratore Generale, e domattina vi farò chiamare. Avete altro da dirmi? Il Tenente Commissario s’era pure alzato, esile e flessuoso. — Non credo, Sir Ethelred, a meno di entrare in particolari, che... — No, no, per carità. Niente particolari. La gran massa opaca parve arretrare come per un terror fisico dei particolari. Poi avanzò, espanso, enorme e massiccio, tendendo una larga mano. — E dite che quell’uomo ha moglie? — Si, Sir Ethelred, — disse il Tenente Commissario, premendo deferentemente la mano tesa. — Una moglie genuina, e rapporti coniugali pure genuini e perfettamente rispettabili. M’ha detto che, dopo il suo colloquio all’Ambasciata, avrebbe voluto buttar tutto, vendere la bottega e andare all’estero, sennonché era sicuro che sua moglie non avrebbe neanche voluto sentirne parlare d’andare all’estero. Nulla potrebbe meglio caratterizzare la rispettabilità dei suoi rapporti. — E questo lo disse con una punta di amarezza, poiché anche sua moglie s’era rifiutata di andare all’estero. — Sì, una moglie proprio genuina. E la vittima era un cognato non meno genuino. Considerandolo da un certo punto di vista, ci troviamo di fronte a un vero dramma domestico. Il Tenente Commissario emise una breve risata, ma i pensieri del grande uomo parvero vagar lontano, forse attorno alle questioni di politica domestica del suo paese, campo di battaglia della sua crociata contro l’oltraggioso « Checseman ». Il Tenente Commissario si ritirò tranquillamente, inosservato e forse già dimenticato. Egli pure aveva una sua crociata da portar a buon fine, un suo proprio istinto battagliero da appagare. Questo affare che, per diverse ragioni, aveva disgustato il Capo Ispettore Heat, sembrava a lui un provvidenziale punto di partenza per
una vera crociata. E non vedeva l'ora d’iniziarla. Tornò lentamente a casa, meditando su quell'impresa strada facendo, e ripensando alla psicologia di Verloc con un misto di ripugnanza e di soddisfazione. Fece a piedi tutto il tratto che lo separava da casa sua. Trovando vuota e buia la sala terrena, andò su, e trascorse qualche tempo tra la camera da letto e lo spogliatoio, a cambiar vestito, camminando su e giù con l'aria d’un grave sonnambulo. Aria, però, cbe si scrollò di dosso prima d’andare a raggiungere la moglie in casa della gran signora, patronessa di Michaelis. Sapeva che là sarebbe stato ben accolto. Entrando nella più piccola delle due sale di ricevimento, vide la moglie in mezzo a un piccolo gruppo, presso un pianoforte. ETn giovane compositore, già avviato alla celebrità, stava parlando, dal suo sgabello, a due signori adiposi, le cui schiene sembravano molto vecchie, e con due signore, le cui schiene sembravano molto giovani. Dietro il paravento, la gran signora s’era riservate solo due persone: un signore e una signora, che sedevano a fianco a fianco, presso il suo divano. Ella tese la mano al Tenente Commissario. — Non speravo proprio di rivedervi stasera. Annie mi aveva detto... — Già, neppur io speravo di potermela cavare così presto. E in tono più sommesso, soggiunse: — Sono lieto di potervi dire che Michaelis non verrà importunato per questa... La patronessa del vigilato speciale ricevette quell’assicurazione con aria sdegnata. — Come? La vostra gente sarebbe stata stupida al punto di sospettarlo... — Non stupida, — interruppe il Tenente Commissario, contraddicendola con deferenza — ma furba, abbastanza furba per ciò. Ci fu un silenzio. Il signore a pie’ del divano aveva cessato di parlare con la signora, e stava a guardare con un sorrisetto a fior di labbro. — Suppongo che codesti due signori non si siano ancora incontrati, — disse la
gran signora. Il signor Vladimiro e il Tenente Commissario, debitamente presentati, riconobbero ciascuno l’esistenza dell’altro con cerimoniosa e sostenuta cortesia. — Mi stava facendo paura, — dichiarò subitamente la signora che sedeva accanto al signor Vladimiro, indicando quel signore con un’inclinazione del capo. Il Tenente Commissario la conosceva. — Non avete però l’aria impaurita, — le disse, dopo averla coscienziosamente osservata col suo stanco e tranquillo sguardo. Stava pensando che in quella casa, tosto o tardi, s’incontravano tutti. Il roseo viso del signor Vladimiro rifulgeva di sorrisi, perchè era un uomo spiritoso; ma i suoi occhi restavano seri, come quelli d’un uomo profondamente convinto. — Beh, ad ogni modo, vi s’è provato, — corresse la signora. — Per forza d’abitudine, forse, — disse il Tenente Commissario, mosso da un’irresistibile ispirazione. — Ha minacciato la società d’ogni sorta d’orrori, — continuò la signora, il cui eloquio era carezzante e lento — a proposito di quell’esplosione nel parco di Greenwich. Pare che noi tutti dovremmo tremare fin nelle scarpe, se quella gente non venisse sterminata in tutto il mondo. Non avrei mai creduto che quel fatto potesse avere conseguenze così gravi. Il Signor Vladimiro, mostrando di non ascoltare, si curvò verso il divano, parlando amabilmente in tono sommesso. Ma udì il Tenente Commissario dire: — Non dubito che il signor Vladimiro abbia una nozione molto precisa della reale importanza di questo fatto. Il signor Vladimiro si chiese dove mai volesse giungere quell’intruso d’un poliziotto. Discendente da gente tormentata per generazioni e generazioni dagli strumenti d’un potere arbitrario, egli aveva, per razza, per nazionalità e per ragioni
personali, un sacro terrore della polizia. Era in lui come una debolezza ereditaria, del tutto indipendente dal suo giudizio, dalla sua ragione, dalle sue esperienze. Ma quel sentimento, simile all’orrore irragionevole di certa gente per i gatti, non era d’alcun impedimento al suo immenso disprezzo per la polizia inglese. Terminò la frase rivolta alla gran signora, e si volse lievemente sulla sedia. — Volete dire che noi abbiamo una grande esperienza di quella gente, vero? Ebbene, sì, la loro attività ci fa molto soffrire, mentre voi... — esitò, sorridendo perplesso — mentre voi soffrite volentieri la loro presenza — e ostentò una fossetta su ogni guancia accuratamente rasata. Poi, con maggiore gravità, soggiunse: — Potrei anzi dire perchè. Quando il signor Vladimiro cessò di parlare, il Tenente Commissario abbassò lo sguardo, e la conversazione si raffreddò. Quasi immediatamente dopo, il signor Vladimiro si accomiatò. Appena le sue spalle si volsero al divano, si alzò anche il Tenente Commissario. — Speravo che vi sareste fermato per ricondurre Annie, — disse la signora, patronessa di Michaelis. — Mi sono accorto di aver ancora qualcosa da fare, stasera. — In relazione...? — Sì, in certo qual modo. — Ditemi, che cos’è realmente... questo orrore? — È diffìcile a dire quello che è, però potrebbe diventare una cause cèlebre. Uscì dalla sala frettolosamente, e nell’atrio trovò il signor Vladimiro intento a ravvolgersi accuratamente il collo in una sciarpa di seta. Dietro di lui, un servo aspettava, reggendo il soprabito. Un altro si teneva pronto ad aprir la porta. Il Tenente Commissario, coadiuvato allo stesso modo, uscì subito. Ma fuori, sul marciapiede, ristette come indeciso sulla via da prendere. Visto ciò per la porta tenuta aperta, il signor Vladimiro s’indugiò nell’atrio, traendo di tasca un sigaro e chiedendo del fuoco, che gli fu subito fornito da un uomo attempato, in livrea, con un’aria di calma sollecitudine. Ma il fiammifero si spense. Il servo, allora, richiuse la porta, e il signor Vladimiro potè accendere accuratamente il suo avana, senza fretta. Quando infine uscì, vide con sommo dispetto che il «
maledetto poliziotto » non s’era mosso. « Che stia aspettando me? » si chiese, guardando in su e in giù della strada per scoprirvi qualche hansom. Non uno era in vista. Alcune carrozze padronali aspettavano accanto al marciapiede con lanterne lucenti, senza un fremito, cavalli immobili come impietriti, e cocchieri seduti rigidi sotto le voluminose pellicce, senza dare il minimo brivido alle bianche cordicelle delle lunghe fruste. Il signor Vladimiro s’incamminò, e subito il « maledetto poliziotto » prese lo stesso o al suo fianco. Non disse nulla. In capo al quarto o, il signor Vladimiro si sentì molto a disagio. La cosa non poteva durare. — Che tempaccio! — brontolò furioso. — Piuttosto mite, — disse sionatamente il Tenente Commissario. Poi, dopo un altro silenzio: — Abbiamo preso un individuo che si chiama Verloc, — annunciò nel modo più casuale. Il signor Vladimiro nè incespicò, nè arretrò, nè cambiò o. Ma non potè trattenersi dall’esclamare : — Che avete detto? Il Tenente Commissario, anziché ripetere le proprie parole, disse nello stesso tono: — Voi lo conoscete. Il signor Vladimiro si fermò e la sua voce si fece gutturale. — Che cosa vi autorizza ad affermarlo? — Io non affermo nulla. È Verloc che lo dice. — Certo una razza di cane bugiardo, — disse il signor Vladimiro, usando una fraseologia prettamente orientale. Ma in cuor suo era quasi sbigottito dall’abilità miracolosa della polizia inglese. La sua opinione al riguardo cambiò così violentemente, che, per un momento, egli si sentì alquanto male. Buttò il sigaro e si rimise a camminare. — Quello che più mi piace in questa faccenda, — continuò il Tenente
Commissario, — è l’ottima occasione ch’essa m’offre d’iniziare una campagna più che mai necessaria... il ripulimento, cioè, di questo paese da tutte le spie politiche straniere, poliziotti e simili... cani. Sono insopportabili, e costituiscono anche un elemento di pericolo. Non possiamo però andarli a pescare ad uno ad uno. Non rimane che da rendere il loro impiego sgradevole ai loro padroni. Capirete, questo stato di cose diventa addirittura indecente. E anche pericoloso, per noi, qui. Il signor Vladimiro si fermò di nuovo. — Che intendete dire? — Semplicemente che il processo di Verloc dimostrerà al pubblico tanto il lato indecente, quanto quello pericoloso. — Nessuno crederà alle parole d’un individuo di quello stampo, — disse sprezzantemente il signor Vladimiro. — La dovizia e la precisione dei particolari non mancheranno di convincere la gran massa del pubblico, — ribattè gentilmente il Tenente Commissario. — Sicché, volete davvero agire così? — Ormai abbiamo preso l’uomo e non possiamo più scegliere. — Riuscirete soltanto ad alimentare lo spirito menzognero di quei farabutti rivoluzionari. Perchè mai inscenare uno scandalo? Per ragioni di morale... o che altro? L’ansietà del signor Vladimiro era evidente. Il Tenente Commissario, avendo così accertato che doveva esservi del vero nelle sommarie dichiarazioni di Verloc, disse, indifferente: — C’è anche un lato pratico. Capirete che abbiamo già abbastanza da fare a badare all’articolo genuino. Non potete certo mettere in dubbio la nostra efficienza. Non possiamo tollerar simulazioni per nessuna ragione. Il signor Vladimiro prese un tono cattedratico: — Mi spiace di non poter condividere la vostra opinione. I sentimenti che nutro
per il mio paese non possono essere messi in dubbio. Però, ho sempre pensato che, oltre ad essere buoni patrioti, dovremmo anche essere buoni Europei, e intendo tanto i Governi quanto i sudditi. — Già, voi vedete l’Europa dall’altro capo. Però i Governi stranieri non possono lamentarsi dell’efficienza della nostra polizia. Prendete per esempio questo fatto, un caso tanto più arruffato in quanto che si trattava d’una simulazione. Eppure, in meno d’una dozzina d’ore, abbiamo stabilito l’identità d’un individuo letteralmente sbriciolato, rintracciato l’organizzatore dell’attentato e intravisto l’istigatore. E avremmo potuto far di più, se non ci fossimo fermati sui limiti del nostro territorio. — Sicché, questo delitto istruttivo sarebbe stato concepito all’estero? — disse precipitosamente il signor Vladimiro. — Credete che sia stato concepito all’estero? — Teoricamente. Su territorio straniero, teoricamente; all’estero soltanto metaforicamente, — disse il Tenente Commissario, alludendo al carattere delle Ambasciate, che si suppongono parte del paese cui appartengono. — Ma questo non è che un particolare. Ho parlato a voi di questa faccenda perchè è il vostro Governo che più si lamenta della nostra polizia. Vedete dunque che non è poi tanto deficiente. Questo appunto volevo farvi rilevare. — Ve ne sono molto grato, — mormorò il signor Vladimiro tra i denti. — Qui, possiamo mettere la mano su ogni anarchico, — continuò il Tenente Commissario, (piasi stesse citando le parole del Capo Ispettore Heat. — Quello che ci occorre ora, è di sbarazzarci degli agenti provocatori. Il signor Vladimiro alzò la mano per fermare un hansom che ava. — Non entrate qui? — gli chiese il Tenente Commissario, guardando un edificio di nobili proporzioni e d’aspetto ospitale, con un grande atrio che, attraverso i vetri delle porte, diffondeva le sue luci su un’ampia fuga di gradini. Ma il signor Vladimiro, seduto rigido rigido nell’hansom, s’allontanò senza dir parola. Il Tenente Commissario volse egli pure le spalle al nobile edificio. Era il Club
degli Esploratori. Gli venne fatto di pensare che il signor Vladimiro, socio onorario, non vi si sarebbe fatto vedere molto spesso, in avvenire. Consultò l’orologio. Erano appena le dieci e mezzo. Aveva ato una serata molto movimentata.
XI
Quando il Capo Ispettore Heat se ne fu andato, Verloc si mise a camminare su e giù nella saletta. Di quando in quando sbirciava la moglie per l’uscio aperto. « Sa tutto », pensò, con una commiserazione non priva d’una certa soddisfazione. L’anima di Verloc, pur mancando, forse, di grandezza, era capace di sentimenti teneri. La prospettiva di dover mettere la moglie al corrente di tutto gli aveva dato la febbre. Il Capo Ispettore Heat gli aveva risparmiato quell’arduo compito. Era un gran sollievo. Ma ora gli toccava affrontare il dolore di lei. Non s’era mai aspettato di doverlo affrontare per opera della Morte, la cui natura catastrofica non può essere confutata da argomentazioni sofisticate o da suasiva eloquenza. Non aveva minimamente desiderato che Stevie morisse con sì repentina violenza. Morto, era assai più fastidioso che vivo. Aveva realmente sperato che la sua impresa sarebbe riuscita felicemente, basandosi, non sull’intelligenza di Stevie, che andava soggetta a frequenti stranezze, ma sulla cieca docilità e sulla cieca devozione di quel ragazzo. Senza essere un grande psicologo, aveva accuratamente scandagliato le profondità di quel fanatismo. Poteva quindi sperare che Stevie, allontanandosi dalle mura dell’Osservatorio, conformemente alle istruzioni ricevute, e infilando la strada già ripetutamente mostratagli, avrebbe raggiunto il cognato, il saggio e buon Verloc, fuori del recinto del parco. Quindici minuti sarebbero bastati anche al più scemo degli scemi, per deporre la macchina infernale e allontanarsi. E il Professore gli aveva garantito un tempo molto maggiore. Ma Stevie, cinque minuti dopo la separazione, era inciampato. E Verloc era stato fatto a pezzi moralmente. Aveva previsto tutto, fuorché questo. Aveva previsto uno Stevie smemorato, sperduto, ricercato e infine ritrovato in qualche stazione di polizia o laboratorio provinciale. Aveva previsto, senza paura, il suo arresto, poiché aveva una grande opinione della sua lealtà, e sapeva di averlo sufficientemente addottrinato nel corso delle molte eggiate, circa la necessità del silenzio. Infatti, come un filosofo peripatetico, vagando per le strade di Londra, aveva indotto Stevie, mediante conversazioni ricche di arguti ragionamenti, a considerare la polizia sotto una luce molto diversa. Mai saggio ebbe più attento e ammirato discepolo. La sottomissione e la venerazione erano
così palesi, che Verloc era giunto perfino a provare qualcosa come un vero affetto per quel ragazzo. A ogni modo, non aveva previsto di poter essere smascherato così rapidamente. E che sua moglie avesse potuto avere la precauzione di cucir l’indirizzo nel soprabito del ragazzo, era ben l’ultima cosa ch’egli avrebbe immaginato. Non si può pensare a tutto. Era dunque per questo ch’ella gli aveva detto di non darsi pensiero, qualora, durante una eggiata, avesse perduto di vista il' ragazzo. Per questo gli aveva assicurato ch’egli sarebbe tornato lo stesso. E infatti v’era tornato, e come! — Perchè, perchè? — mormorò Verloc nella sua costernazione. Che cosa poteva aver voluto ottenere con ciò? Risparmiargli la noia di tener d’occhio Stevie? Certo doveva averlo fatto a fin di bene. Però, avrebbe anche potuto informarlo di quella sua precauzione. Varcò la soglia e andò dietro il banco. Si era promesso di non sopraffare la moglie con amari rimproveri. In fondo, non sentiva alcuna amarezza. L’imprevisto corso degli avvenimenti lo aveva convertito alla dottrina del fatalismo. Ormai non poteva più rimediare a nulla. Quindi disse: — Non volevo fargli del male a quel ragazzo. Ella rabbrividì al suono di quella voce. Ma non scoprì il viso. Il fidato agente segreto del defunto barone Stott-Wartenheim stette a guardarla con uno sguardo greve, persistente, senza però scorgere nulla. Il lacero giornaletto era sempre ai piedi di lei. Egli sentì il bisogno di parlarle. — È stato quel maledetto Heat, eh? T’ha scombussolata. Che bestia, buttar roba simile in faccia a una donna. Io, soltanto a pensare che dovevo dirtele, mi sentivo ammalare. Son rimasto a pensarci per ore ed ore nel piccolo retro dei Formaggi del Cheshire. Mai più immaginavo che potesse capitargli qualcosa. Verloc, l’agente segreto, diceva il vero. Era il suo affetto maritale che aveva maggiormente risentito gli effetti di quell’esplosione prematura. Soggiunse: — Puoi credermi che, pensando a te, seduto laggiù, non ero molto allegro. La sua sensibilità fu impressionata da un altro brivido della moglie. Com’ella persisteva a nascondere il viso tra le paline, egli ritenne meglio lasciarla un poco sola. Seguendo quel delicato impulso, tornò nel retro, dove il becco di gas
continuava a brontolare come un gatto che fa le fusa. La previdenza femminile di lei aveva lasciato in tavola il rosbif freddo, col coltello da cucina, il forchettone e un mezzo bastone di pane. Queste cose egli le vide allora per la prima volta, e tagliatasi una fetta di carne, si mise a mangiare. L’appetito non gli derivava da durezza d’animo. Non aveva fatto colazione, quel giorno. Era uscito di casa a digiuno. Non essendo energico, trovava le sue risoluzioni in istati di sovraeccitazione nervosa, che gli colpivano particolarmente la gola. In tali stati, gli era impossibile deglutire alcunché di solido. D’altra parte, il cottage di Michaelis era sprovvisto di viveri come una cella di prigione. L’apostolo vigilato speciale viveva con un po’ di latte e qualche crosta di pan raffermo. Inoltre, questi, all’arrivo di Ver- loc, aveva già consumato la sua frugale colazione. Tutto assorto nella fatica e nella delizia della composizione letteraria, non aveva nemmeno risposto a Verloc, che, a piè della scaletta, gli aveva gridato: — Riporto a casa il giovanotto per un giorno o due. Vero è che Verloc non aveva atteso alcuna risposta, ma era uscito subito, seguito dall’ubbidiente Stevie. Ora che ogni azione era compiuta e che il suo destino gli era sfuggito di mano, egli si sentì terribilmente vuoto, fisicamente. Tagliò la carne, ruppe il pane e divorò la cena, gettando di quando in quando un’occhiata verso la moglie. Quella prolungata immobilità turbava il conforto della sua refezione. Tornò in bottega e le si fece molto vicino. Quel dolore dal viso velato lo metteva a disagio. S’era aspettato, naturalmente, di veder la moglie molto sconvolta, ma ora voleva ch’ella si ricomponesse. Aveva bisogno di tutta la sua assistenza e di tutta la sua lealtà, in quelle nuove contingenze che il suo fatalismo aveva già accettate. — Non ci possiamo far nulla, — le disse in tono di cupa condoglianza. — Vieni, Winnie, dobbiamo pensare al domani. Quando m’avranno condotto via, avrai bisogno di tutto il tuo cervello. Tacque. Il petto della donna si gonfiava convulsamente. Segno tutt’altro che rassicurante per Verloc, nel cui giudizio la situazione recentemente creatasi richiedeva dalle due persone maggiormente interessate calma, risolutezza e altre qualità parimenti incompatibili coi disordini mentali dei dolori ionali. Egli
era un uomo eminentemente umano. Era tornato a casa con le migliori disposizioni per l’amor fraterno della moglie. Soltanto, non comprendeva nè la natura nè l’estensione di quel sentimento. Cosa, d’altronde, assai perdonabile, se si pensa che non gli sarebbe stato possibile comprenderlo senza cessar di essere quello che era. Rimase quindi sorpreso e contrariato, cosa che le sue parole palesarono con una certa rudezza di tono. — Potresti almeno guardarmi, — le osservò poi, dopo aver invano atteso una risposta. — Non voglio più vederti, mai più. — Eh? Come? Ma era rimasto soltanto sorpreso dal significato superficiale e letterale di quella dichiarazione. Dichiarazione ovviamente irragionevole, grido inconsulto d’un dolore eccessivo. Vi buttò sopra il manto della sua maritale indulgenza. La sua mentalità, infatti, mancava di profondità. Sotto la fallace impressione che il valore degli individui consistesse in ciò ch’essi realmente sono, egli non poteva comprendere il valore che Stevie aveva per sua sorella. Pensò ch’ella esagerasse. Tutta colpa di quel maledetto Heat. Che cosa ci guadagnava a scombussolare così una donna? Ma non poteva, per il bene di lei, lasciarla andar avanti di questo o, finché avesse perso del tutto la testa. — Senti, non puoi stare così in bottega, — le disse con simulata severità, nella quale, però, c’era una punta di reale stizza, giacché dovevano parlare di cose pratiche e urgenti, anche a costo di star svegli tutta notte. — Qualcuno potrebbe entrare da un momento all’altro, — soggiunse, e di nuovo attese. Ma le sue parole non produssero alcun effetto, e durante quella pausa ebbe un’idea dell’irrimediabilità della morte. — Vieni, tanto, anche a far così, non lo farai ritornare, — le disse gentilmente, pronto a prenderla tra le braccia e a serrarla al petto, dove l'impazienza e la comione stavano a fianco a fianco. Ma ella, a parte un breve brivido, rimase apparentemente indifferente alla forza di quel terribile assioma. Quindi egli, nella sua semplicità, fu mosso a richiamarla alla moderazione con l’asserire i diritti della propria personalità. — Sii ragionevole, Winnie. Pensa che avresti potuto perdere me pure. S’era inconsapevolmente aspettato un grido d’orrore. Invece ella non diede alcun segno. Rimase lievemente inclinata indietro, accasciata in una quiete
assolutamente illeggibile. Il cuore di lui cominciò a batter forte per l’esasperazione, e qualcosa di molto simile a uno sgomento. Le pose una mano sulla spalla, dicendo: — Non far la pazza, Winnie. Ella non diede alcun segno. Impossibile parlare di checchessia con una donna di cui non si vede il viso. Verloc l’afferrò per i polsi. Ma le palme sembravano incollate al viso. Tutto il suo corpo vacillò al movimento di lui, e quasi cadde dalla sedia. Sorpreso di vederla così inerte, stava cercando di riporla sulla sedia, quando ella, bruscamente, s’irrigidì tutta, si divincolò dalle sue mani, corse fuor della bottega, attraverso il retro, fino in cucina. Ciò avvenne in un attimo. Egli ne aveva visto giusto quel tantino del viso e degli occhi bastante per sapere ch’ella non lo aveva guardato. Chi, poi, fosse stato presente, avrebbe potuto credere che si trattasse soltanto d’una lotta per il possesso d’una sedia, poiché Verloc vi occupò immediatamente il posto lasciato vacante dalla moglie. Non si coperse il viso con le mani, ma una fosca preoccupazione gli velò i lineamenti. Impossibile evitare un soggiorno in prigione. Nè desiderava evitarlo. La prigione era un luogo altrettanto irraggiungibile di una tomba a certi atti di giustizia illegale, e con la differenza che in questa v’è ancora posto per la speranza. Quello ch’egli si vedeva dinanzi era dunque un soggiorno in prigione, una pronta liberazione, e poi una qualunque esistenza all’estero, che d’altronde aveva già prevista nel caso d’un insuccesso. Ebbene sì, tutto si riduceva a un insuccesso, sebbene d’un genere diverso da quello previsto. Era mancato così poco perchè fosse un successo, una terribile prova della sua occulta efficienza, che avrebbe agghiacciato di terrore le feroci facezie del signor Vladimiro. Almeno così sembrava ora a Verloc. Il suo prestigio presso l’Ambasciata sarebbe stato immenso se... se sua moglie non avesse avuto l’infelice idea di cucir quell’indirizzo nel soprabito di Stevie. Verloc, che non era stupido, aveva subito avvertito la natura straordinaria della propria influenza su quel ragazzo, pur senza intuirne la causa — la dottrina della sua suprema saggezza e bontà inculcata dalle due donne ansiose. Per tutte le eventualità previste, Verloc aveva calcolato con chiaro accoramento sull’istintiva lealtà e sulla cieca discrezione di Stevie. E l’unica eventualità non prevista aveva colpito in lui l’uomo umano e il marito affezionato. Considerata da ogni altro punto di vista, gli era piuttosto vantaggiosa. Nulla può uguagliare l’eterna discrezione della morte. Seduto perplesso e spaventato nel piccolo retro dei Formaggi del Cheshire, aveva dovuto convenirne, poiché la sua sensibilità non
sbarrava il o al suo giudizio. La violenta disintegrazione di Stevie, per quanto perturbante all’immaginazione, assicurava soltanto il suo successo; poiché, naturalmente, le minacce del signor Vladimiro miravano non alla demolizione d’un muro, ma all’effetto morale. E tale scopo, sebbene a costo di molte noie ed affanni per Verloc, si poteva dire pienamente raggiunto. E quando poi, nel modo più imprevedibile, la polizia era calata in Brett Street, egli, che aveva lottato come in un incubo per conservar la sua posizione, accettò il colpo con lo spirito del più convinto fatalista. La sua posizione era irrimediabilmente rovinata, senza che, in realtà, nessuno ne avesse colpa. Gliel'aveva rovinata un comunissimo, stupidissimo accidente. Era stato come uno sdrucciolone su una buccia d’arancia, al buio, con conseguente frattura di una gamba. Verloc tirò un gran sospiro. Non aveva nessun risentimento verso la moglie. Pensò: « Dovrà badare al negozio, mentre mi terranno sotto chiave. » E pensando anche al crudele vuoto lasciato da Stevie, fu preso da timori per la salute e il senno di lei. Come avrebbe potuto resistere a quella solitudine? Tutta sola in quella casa? Se si fosse ammalata durante la sua prigionia? Che ne sarebbe stato, allora, della bottega? Quella bottega rappresentava un capitale. Sebbene il suo fatalismo accettasse la sua rovina come agente segreto, egli non intendeva per questo di lasciarsi rovinare del tutto, e ciò, bisogna riconoscerlo, soprattutto per riguardo alla moglie. Così silenziosa e fuor della sua vista, ella lo spaventava. Se almeno le fosse rimasta vicino sua madre! Ma quella stupida vecchia... Verloc fu preso da uno sgomento iroso. Doveva parlar con la moglie. Certo poteva dirle che, in certe circostanze, anche l’uomo più assennato finisce per perdere la testa. Ma non andò subito a dirglielo. Pensò prima che quella sera, evidentemente, non avrebbe più avuto tempo per affari. S’alzò quindi per chiudere la porta d’ingresso; poi spense il gas. Assicurata così una perfetta solitudine attorno al suo focolare, ò nel retro e guardò giù, verso la cucina. La signora Verloc era seduta al posto solitamente occupato dal povero Stevie, per trascorrervi le serate a tracciar quegl’innumerevoli circoli che davano un’idea di caos e d’eternità. Teneva le braccia incrociate sulla tavola, e il capo sulle braccia. Egli ne contemplò per un certo tempo la schiena e l’acconciatura dei capelli, poi s’allontanò dall’uscio della cucina. La filosofica, quasi sprezzante incuriosità di lei, che aveva fatto da fondamenta alla loro armonia, rendeva molto difficile ogni ulteriore rapporto, ora ch’era sorta quella tragica necessità. Egli sentì forte tale difficoltà. E girò
attorno alla tavola della saletta con la sua solita aria di bestione in gabbia. La curiosità essendo una forma di auto-rivelazione, una persona sistematicamente incuriosa rimane sempre parzialmente misteriosa. Ogni volta che ava davanti all’uscio, Verloc gettava alla moglie un’occhiata inquieta. Non che ne avesse paura. Si credeva amato da quella donna. Ma ella non lo aveva abituato a confidarsi. E la confidenza che ora le doveva fare era d’un ordine profondamente psicologico. Come dirle, con tale difetto di pratica, cose ch’egli stesso sentiva solo confusamente? Coinè dirle che le beffe del Destino sono talvolta tragiche, che talvolta una data idea si sviluppa nella mente fino ad acquistare un’esistenza esteriore, una sua propria potenza indipendente e perfino una voce suggestiva? Come spiegarle che si può essere ossessionati da una grassa, glabra e sorridente faccia, al punto da considerare un'ispirazione del Cielo il più pazzesco espediente? A quel riferimento mentale al primo Segretario d’una grande Ambasciata, egli si fermò sulla soglia e, guardando giù in cucina con viso infuriato e pugni annodati, gridò alla moglie: — Tu non sai con che razza di bruto ho avuto a che fare. Si staccò dalla soglia per fare un altro giro attorno alla tavola; poi, tornato sull’uscio, si fermò di nuovo, guardando giù dall’alto dei due gradini. — Uno stupido bruto sghignazzante, pericoloso e senza più sale in zucca che... Dopo tanti anni! Un uomo come me! E dire che io ci rischiavo la testa, a quel gioco. Tu non sapevi nulla. Per forza! Che gusto ci sarebbe stato a dirti che ogni giorno rischiavo di pigliarmi una coltellata tra le costole? Io non son capace di far tribolare una donna che mi vuol bene. Tu non avevi bisogno di sapere. Fremente d’orgasmo, fece un altro giro attorno alla tavola. — Una bestia velenosa, — tornò a gridare sulla soglia. — Buttarmi sul lastrico, voleva, farmi crepar di fame, così per divertirsi. Sicuro, gliel’ho letto in faccia, che per lui non si trattava che d’una burla. Un uomo come me! Diverse delle più grandi personalità del mondo devono a me se oggi sono ancora al mondo. Ecco l’uomo che hai sposato, ragazza mia! Notò che la moglie s’era raddrizzata. Le braccia di lei rimasero allungate sulla tavola. Ne osservò la schiena, come se vi potesse leggere l’effetto delle prò- ,
prie parole. — Non c’è stata congiura, in questi ultimi anni, sulla quale non abbia posto il dito, a rischio di rimetterci la pelle. Ne ho mandati a centinaia, di questi rivoluzionari, a farsi pigliare sulla frontiera con le bombe in tasca. Il vecchio Barone, quello sì sapeva ciò che valevo per il suo paese. Poi, un giorno, arriva un porco... un ignorante, insolente porco... Discendendo lentamente i due gradini, entrò in cucina, prese un bicchiere dalla credenza e, tenendolo in mano, s’avvicinò al lavandino, senza guardare la moglie. — Al Barone non sarebbe certo venuta l’idea di farmi andar da lui alle undici di mattina. Ci son due o tre in questa città che, se mi avessero visto entrar là dentro, non si sarebbero fatto scrupolo di rompermi la testa, tosto o tardi. È stato uno scherzo stupido, feroce, esporre così per nulla un uomo... come me. Aperta la chiavetta dell’acqua, si versò tre bicchieri pieni, uno dopo l’altro, giù per la gola, per sedar le fiamme del suo sdegno. La condotta del signor Vladimiro gli aveva fatto l’effetto d’un beveraggio ardente. La sua slealtà gli sembrava mostruosa. Quell’uomo, che non aveva voluto accettare le rudi fatiche che la società impone ai suoi più umili membri, aveva esercitato la sua segreta industria con instancabile devozione. C’era in lui un fondo di autentica lealtà. Era stato leale co’ suoi padroni, con la causa della stabilità sociale, — e anche co’ suoi affetti, come divenne evidente quando, dopo aver deposto il bicchiere nel lavandino, si volse a dire: — Se non avessi pensato a te, avrei preso quel bruto per la gola e gli avrei schiacciato la testa sulla pietra del caminetto. Se gli avessi messo le mani addosso, non avrebbe più fatto il gradasso, quel rosso, paffuto, sbarbato... Lasciò la frase incompleta, come se non potesse esserci dubbio alcuno circa l’ultima parola. Per la prima volta in vita sua, prendeva per confidente quella donna incuriosa. La singolarità di quell’avvenimento, la forza e l'importanza dei sentimenti personali sorti durante il corso di quella confessione, gli scacciarono dalla mente la sorte di Stevie. Quella titubante esistenza di timori e d'indignazioni e la tragica violenza di quella fine, uscirono momentaneamente dal campo visivo interno di Verloc. Perciò questi, quando rialzò il capo, rimase
sorpreso dalla natura inappropriata dello sguardo della moglie. Non era uno sguardo cattivo e nemmeno distratto, ma la sua attenzione era strana, non soddisfacente, in quanto sembrava concentrata su qualcosa di là dalla persona di lui. Quell’impressione era così precisa, ch’egli si guardò dietro le spalle. Non c’era nulla; soltanto una parete sbiancata. L’ottimo marito di Winnie non vi vide alcuna fiammeggiante parola. Si rivolse quindi alla moglie, ripetendo con qualche enfasi: — Sicuro, l'avrei preso per la gola, se non avessi pensato a te. Lo avrei strozzato. E non credere che avrebbe chiamato la polizia. Non avrebbe osato. Sai bene perchè... vero? Ammiccò alla moglie con un far d’intesa. — No, — diss’ella con una voce senza risonanza, e senza punto guardarlo. — Di chi parli? Verloc provò un grande scoramento, prodotto di un’immensa fatica. Aveva avuto una giornata molto movimentata, e i suoi nervi erano stati stremati al massimo grado. Dopo un mese di allucinanti angosce, finito in un’imprevedibile catastrofe, il suo spirito esausto anelava al riposo. La sua carriera di agente segreto era finita in un modo che nessuno avrebbe potuto prevedere. Forse ora gli sarebbe finalmente stato possibile godere una notte di riposo. Ma guardando la moglie, ne dubitò. Esagerava, — non lo avrebbe mai creduto. Fece uno sforzo per parlare. — Dovrai cercar di rimetterti, ragazza mia, — le disse con simpatia. — Quello ch’è fatto, è fatto. Ella trasalì leggermente, sebbene non un sol tratto del suo viso sbiancato si muovesse. Ma egli, che non la guardava più, continuò ponderatamente: — Va a letto. Hai bisogno di piangere. Quell’opinione non aveva altra giustificazione se non il consenso generale dell’umanità. Infatti, è universalmente ammesso, come si trattasse di cosa non più sostanziosa dei vapori fluttuanti nel cielo, che ogni emozione femminile deve finire in uno scroscio di lacrime. Inoltre, è molto probabile che, se Stevie fosse morto nel suo letto, sotto lo sguardo disperato di lei, tra le sue impotenti braccia protettrici, il suo dolore avrebbe trovato sollievo in un flusso di amare e pure
lacrime. Poiché aveva in comune con gli altri umani di essere provvista d’un inconsapevole fondo di rassegnazione, pienamente sufficiente per sormontare le manifestazioni normali del destino umano. Ma le raccapriccianti circostanze di quella morte, che per Verloc avevano soltanto un carattere episodico, come parte d’un disastro maggiore, le avevano inaridito le lacrime alla loro stessa sorgente. Era come se le avessero fatto are una lama di ferro rovente sugli occhi; mentre il suo cuore, reso gelido e duro come un pezzo di ghiaccio, le diffondeva nel corpo continui brividi, ed ella conservava le sue fattezze in una gelida immobilità contemplativa, rivolta a una bianca parete, che non portava nulla di scritto. Le esigenze del suo temperamento, che, quando era privato della sua riserva filosofica, era materno e violento, la forzavano a svolgere una serie di pensieri nel suo immobile capo. Onesti pensieri erano più immaginati che espressi. Ella era una donna di pochissime parole, tanto per cose private come per cose pubbliche. Con la rabbia e l'angoscia della donna tradita, riguardava il suo tenore di vita in visioni che le ricordavano soprattutto la stentata esistenza di Stevie. Era stata una vita tutta rivolta ad un unico scopo, d’una nobile unità d’ispirazione, simile a quelle rare esistenze che hanno lasciato un’impronta indelebile nel pensiero e nei sentimenti dell'umanità. Ma ora le sue visioni mancavano di nobiltà e di magnificenza. Si vide intenta a mettere a letto il ragazzo, alla gialla luce d'una candela, nella solitudine d’un ultimo piano di « casa d’affari », buia buia sotto il tetto, e sfavillante di luci e di cristalli abbasso, come un palazzo incantato. Quello splendore ingannevole era l’unico che sfavillasse nelle visioni di lei. Si vide intenta a spazzolare i capelli al ragazzo e a legargli il grembiuletto, quando anche lei portava ancora grembiuletti; ricordò le consolazioni profuse a una piccola e molto spaventata creatura da un’altra quasi altrettanto piccola, ma non tanto spaventata; rivide le bòtte intercettate (spesso con la propria testa), una porta tenuta disperatamente chiusa contro una collera d'uomo (non a lungo), le molle del caminetto lanciate una volta (non molto lontano), facendo ammutolire quella particolare tempesta nel silenzio tremendo che precede il colpo di folgore. E tutte queste visioni comparvero e scomparvero accompagnate dal suono sgradevole delle profonde vo- ciferaziorti d’un uomo ferito nel suo orgoglio paterno, convinto di essere maledetto, dappoiché uno dei suoi figlioli era un « idiota bavoso, e l’altra una diavolessa ». Ed era lei che veniva definita con quest’ultimo termine, molti anni innanzi. Udì ancora le parole di quella voce d’oltre tomba, poi la squallida ombra della casa di piazza Belgravia calò sulle sue spalle. Era questa una memoria opprimente, schiacciante, una stremante visione d’infiniti vassoi carichi di colazioni, portati su e giù per infinite scale; d’incessanti calcoli infinitesimali, di
sterminate ripuliture da cima a fondo, mentre l’impotente madre, traballando sulle gambe tumefatte, cucinava in una truce cucina, e il povero Stevie, l’inconsapevole genio che presiedeva a tutte le sue fatiche, lucidava le scarpe dei signori pensionanti in uno sgabuzzino, dietro la cucina. Ma questa visione era percorsa dall’alito d’una calda estate londinese, e aveva per figura centrale un giovanotto in vesti domenicali, con un cappello di paglia sulla nera chioma, e una pipetta di legno in bocca. Affettuoso e brioso, sarebbe stato un compagno ideale per un lungo viaggio sulle luccicanti acque della vita; sennonché la sua barca era molto piccola. C’era sì, posto per una rematrice, ma non per eggeri. Dovette quindi « scostare » dalla soglia della casa di piazza Belgravia, mentre Winnie volgeva altrove i suoi occhi pieni di lacrime. Questi non era un pensionante. Il pensionante era Verloc, indolente e sempre tardo ad alzarsi, assonnatamente faceto sotto le coltri al mattino, ma con bagliori d’infatuazione sotto le grevi pelpebre e sempre con denaro in tasca. Non v’era luccichio alcuno sul flusso della sua vita. Scorreva per luoghi segreti. Ma la sua barca sembrava capace, ed egli accettava, con la sua taciturna magnanimità, come cosa naturalissima, la presenza di eggeri. Ella riandò per i sette anni di sicurezza acquisita a Stevie; la sicurezza lealmente pagata da lei, che si tramutava in confidenza, in un sentimento domestico, stagnante e profondo come un placido specchio d’acqua, la cui protetta superficie era tutt’al più percorsa da un brivido afili occasionali aggi del compagno Ossipon, il robusto anarchico dagli occhi svergognatamente invitanti, i cui sguardi avevano una corrotta chiarezza, sufficiente a illuminare qualunque donna non del tutto imbecille. Solo pochi secondi erano trascorsi dall’ultima parola pronunciata in cucina, ed ella già fissava la visione d’un episodio vecchio di non più d’una quindicina di giorni. Con occhi dalle pupille estremamente dilatate, fissava la visione del marito e del povero Stevie che si allontanavano fianco a fianco sulla Brett Street. Era l’ultima scena dell’esistenza creata dal genio di lei; un’esistenza estranea ad ogni grazia e ad ogni seduzione, priva d’ogni bellezza e quasi d'ogni decenza, ma ammirevole per la continuità del suo sentimento e la tenacia del suo proposito. E quest’ultima visione aveva un rilievo così plastico, tanta esattezza di forme e tanta fedeltà di particolari suggestivi, da strapparle un fioco, angosciato mormorio, ripetente la suprema illusione della sua vita, uno sgomento mormorio che le morì sulle labbra illividite.
— Sembravano padre e figlio! Verloc si fermò e alzò un viso logorato dagli affanni. — Eh? che hai detto? Non ricevendo risposta, riprese il suo sinistro deambulare. Poi, agitando minaccioso un grosso pugno carnoso, scoppiò a dire: — Sicuro! La gente dell’Ambasciata. Una bella banda davvero! T’assicuro che prima della fine di questa settimana, parecchi di loro vorranno trovarsi a venti piedi sotto terra. Eh? come? La guardò di sbieco, a capo chino. Ella guardava sempre la bianca parete. Una nuda parete, perfettamente nuda. Una parete fatta apposta per corrervi contro a spaccarvisi la testa. Ma ella rimase irremovibilmente seduta. Stette cheta come starebbe metà della popolazione del globo se d’un tratto il sole venisse spento, nel bel mezzo d’un cielo canicolare, dalla perfidia d’una provvidenza cui si era accordato ogni fiducia. — L’Ambasciata! — riprese a dire Verloc, dopo una smorfia che gli scoprì lupescamente i denti. — Vorrei arci soltanto mia mezz’oretta con un buon bastone. Non ci lascerei un osso intatto. Ma non importa, vedranno lo stesso che cosa vuol dire buttar un uomo par mio a crepar di fame sul lastrico. Ci ho ancora una lingua in bocca. Tutto il mondo saprà quello che ho fatto per loro. Io non ho paura. Me ne infischio. Tutto deve saltar fuori. Tutto! In tali termini egli espresse la sua sete di vendetta. Una vendetta molto appropriata, perfettamente in armonia con gl’impulsi del suo genio particolare. Inoltre, aveva anche il vantaggio d’essere facilmente attuabile, e tale da non esorbitare dall’andazzo della sua vita, il quale consisteva precisamente nel tradire i segreti e i procedimenti illegali dei suoi compagni. Anarchici e diplomatici erano tutt’uno per lui. Il suo temperamento lo rendeva incapace di qualsiasi rispetto. Diffondeva equamente il proprio disprezzo su tutto il suo campo d’azione. Ma, come membro del proletariato rivoluzionario — cui indubbiamente apparteneva — nutriva un sentimento piuttosto ostile per le distinzioni sociali.
— Nulla al mondo può fermarmi, ora, — e guardò fisso la moglie, che fissamente guardava la nuda parete. Il silenzio si prolungò, ed egli provò un disappunto. S’aspettava che la moglie gli dicesse qualcosa. Ma le labbra di lei, composte nella solita espressione, conservavano, come gli altri tratti del viso, un’immobilità statuaria, cosicché egli si sentì contrariato. Dovette però riconoscere che il momento attuale non richiedeva alcuna parola da lei. Inoltre, la sapeva donna di pochissime parole. Per ragioni risiedenti nelle stesse fondamenta della sua psicologia, egli era propenso a riporre la propria fiducia in qualunque donna che gli si fosse data. Quindi si fidava di sua moglie. Il loro accordo era perfetto, ma non però preciso. Era un tacito accordo, consono all’incuriosità di lei e alle consuetudini mentali di lui, le quali erano indolenti e segrete. Entrambi si astenevano dall’andare a fondo dei fatti e dei motivi. Questa riserva, pur esprimendo la loro profonda e reciproca fiducia, introduceva al tempo stesso un elemento d'indeterminatezza nella loro intimità. D’altra parte, però, è pur vero che nessun sistema di rapporti coniugali è perfetto. Così ora Verloc presumeva che la moglie lo avesse compreso, però gli sarebbe anche piaciuto sentirla dire quello che pensava in quel momento. Sarebbe stato per lui un vero conforto. Diverse ragioni spiegano perchè quel conforto gli fu rifiutato. Innanzi tutto, c’era un ostacolo fisico: ella non aveva una sufficiente padronanza sulla propria voce. Non aveva altra alternativa se non quella di strillare o tacere; e istintivamente preferiva tacere, essendo, per temperamento, una persona silenziosa. Poi c’era la paralizzante atrocità del pensiero che l’occupava tutta. Aveva le gote esangui, le lahbra cenerognole, un’immobilità stupefacente. E senza guardar lui, pensava: « Quest’uomo s’è portato via il ragazzo per asslo. L’ha allontanato da casa sua per asslo. L’ha allontanato da me per asslo! » Tutto l’essere della donna era pervaso da questo pensiero inconcludente e allucinante. L’aveva nelle vene, nelle ossa, nelle radici dei capelli. Mentalmente aveva preso la biblica attitudine del pianto — il volto coperto, le vesti lacere e la testa piena di grida e di lamenti. Aveva però i denti fortemente stretti, gli aridi occhi roventi di rabbia, poiché ella non era mia creatura remissiva. La protezione estesa sul fratello aveva avuto in origine una complessa natura fiera e indignata. Ella lo aveva amato d’un amor bellicoso. Aveva combattuto per lui — anche contro se stessa. La sua perdita aveva per lei l’amarezza d’una sconfitta e
l’angoscia d’una ione ingannata. Quello non era stato un caso di morte comune. Inoltre, non la Morte s’era portato via Stevie. Se l’era portato via Verloc. Ella lo aveva visto. Era rimasta a guardarlo senza alzar un dito, senza far nulla per riprendersi il ragazzo. Sì, lo aveva lasciato andare così, pazzamente, ciecamente. Ed egli, dopo averlo assassinato, era tornato da lei. Semplicemente, come un qualunque marito che ritorna dalla propria moglie... Attraverso i denti stretti ella sibilò alla parete: — E credevo che si fosse raffreddato! Verloc intese quelle parole e se le appropriò. — Non era nulla, — assicurò, burbero. — Ero sconvolto. M’ero sconvolto pensando a te. Ella, volgendo lentamente il capo, staccò lo sguardo dalla parete e lo pose sulla persona del marito. Stava guardando giù, con le punte delle dita tra le labbra. — Non ci possiamo far nulla, — borbottò, lasciando ricadere la mano. — Cerca di darti pace. Avrai bisogno di tutto il tuo cervello. Sei tu che m’hai appioppato la polizia tra capo e collo. — E magnanimamente soggiunse: — Non importa. Non te lo rimprovero. Non potevi sapere. — Non potevo, — sussurrò sua moglie. Fu come se un cadavere avesse parlato. Ma egli riprese imperterrito il filo del suo discorso. — Non ti rimprovero. Vedrai come li farò saltare. L na volta sotto chiave, potrò parlare senza pericolo... capisci? Puoi far conto di star sola per almeno un paio d'anni. Starai sempre meglio di me. in, almeno, avrai qualcosa da fare, mentre io... Dovrai cercare di far andar avanti questa bottega per un paio d'anni. Ne sai abbastanza per esserne capace. Hai una buona testa sulle spalle. Quando sarà il momento di vendere tutto, t’informerò. Dovrai stare molto attenta. 1 compagni ti terranno d’occhio. Dovrai essere furba come sai esserlo tu, e chiusa come una tomba. Nessuno deve sapere quello che vogliamo fare. Non voglio pigliarmi una coltellata nella schiena appena fuori. Così parlò Verloc, affrontando con ingenua previdenza i problemi dell'avvenire.
La sua voce era cupa, perchè egli aveva una corretta nozione dell’attuale situazione. Gli era capitato quanto non avrebbe voluto vedersi capitare. L’avvenire era quindi diventato precario. Forse il suo giudizio era stato momentaneamente ottenebrato dal terrore della truculenta follia del signor Vladimiro. È comprensibile che un uomo di oltre quarant’anni cada in un certo disordine mentale alla prospettiva di perdere il proprie* impiego, specie poi se quell’uomo è un agente segreto di polizia politica, che vive sicuro nella coscienza del proprio alto valore e della stima di cospicui personaggi. Verloc era dunque scusabile. Ora tutto era crollato. Egli era calmo, ma non tranquillo. Un agente segreto che, per vendicarsi, butta la propria segretezza ai quattro venti e sciorina tutta la sua ata attività agli occhi del pubblico, vien fatto segno alle più disperate e sanguinarie indignazioni. Senza esagerarsi il pericolo, cercò di spiegarlo chiaramente alla moglie. Ripetè quindi che non aveva nessuna intenzione di lasciarsi sopprimere dai rivoluzionari. Guardò dritto negli occhi della moglie. Le pupille dilatate della donna accolsero il suo sguardo nelle loro incommensurabili profondità. -— Ti voglio troppo bene, per questo, — soggiunse con una risatina nervosa. Un lieve rossore colorì l’immobile viso spettrale della signora Verloc. Terminato con le visioni del ato, ella aveva udito le parole del marito, non solo, ma le aveva anche comprese. E dato il loro estremo contrasto con le sue attuali condizioni mentali, le avevan fatto un effetto lievemente soffocante. Quelle sue condizioni avevano il merito d’essere semplici, ma per contro non erano sane. Erano troppo dominate da un’idea fìssa. Ogni andito, ogni recesso del suo cervello era pieno del pensiero che quell’uomo, col quale aveva vissuto senza ribrezzo per sette anni, s’era portato via il « povero ragazzo » per ucciderlo — l’uomo al quale ella s’era assuefatta con corpo ed anima, l’uomo al quale ella s’era affidata, s’era portato via il ragazzo per ucciderlo! Per la sua forma, per la sua sostanza, per il suo effetto, ch’era universale, dacché alterava perfino l’aspetto delle cose inanimate, questo era un pensiero da far star seduti e strabiliati in eterno. Ed ella stava seduta, cheta cheta. E di là da quel pensiero (non di là dalla cucina), la figura di Verloc andava su e giù, con cappello e soprabito, pestando col suo o pesante il cervello di lei. Probabilmente le stava anche parlando, ma il pensiero della signora Verloc copriva quasi interamente quella voce.
Solo di quando in quando ella l’udiva. A volte, affioravano alcune parole connesse. Il loro senso era generalmente ottimistico. Ed ogni volta, le dilatate pupille di lei, perdendo la smarrita fissità, seguivano i movimenti del marito con un’aria di tetra preoccupazione e d’impenetrabile attenzione. Ben informato d’ogni cosa riguardante la sua segreta professione, egli confidava nell’efficacia dei suoi piani e delle sue combinazioni. Credeva realmente che non gli sarebbe riuscito difficile sfuggire al coltello dei rivoluzionari infuriati. Troppe volte s’era esagerato (per ragioni professionali) la possa del loro furore e la lunghezza delle loro braccia, per poter serbare molte illusioni a tal riguardo. Poiché, per esagerare accortamente certe cose, bisogna anzitutto farsene un’idea molto precisa. Sapeva pure quanta virtù e quanta infamia possono essere dimenticate in due anni — due lunghi anni. Così, dunque, il primo discorso realmente confidenziale ch’egli rivolse alla moglie fu ottimistico per convinzione. Ritenne pure opportuno darle ogni possibile assicurazione. Avrebbero aiutato la povera donna a farsi cuore. Il giorno della sua scarcerazione, la quale, in armonia col tenore di tutta la sua vita, doveva pur essere segreta, naturalmente, sarebbero svaniti insieme, senza por tempo in mezzo. E quanto a questo, sapeva far in modo che neanche il diavolo... Agitò la mano. Sembrava millantare. Invece voleva soltanto darle animo. Era una buona intenzione, ma sfortunatamente ella non era in grado di comprenderla. Quel tono fiducioso s’impresse nei timpani di lei, che si lasciavano sfuggire quasi tutte le parole — che potevano mai essere ora le parole per lei? Che bene o che male poteva derivarle dalle parole, ora, di fronte alla sua idea fissa? Il suo tetro sguardo seguì l’uomo che stava asserendo la propria impunità — l’uomo che s’era portato via Stevie per ucciderlo chissà dove. Non ricordava il luogo esatto, ma il cuore le cominciò a battere molto percettibilmente. Ora Verloc stava esprimendo, in dolce tono maritale, la sua convinzione che v’era ancora dinanzi a loro un buon numero d’anni di vita tranquilla. Non s’addentrò nella questione dei mezzi. Doveva essere una vita cheta, annidata all’ombra, nascosta tra uomini fitti fitti attorno come l’erba d’un prato; insomma, una vita modesta come quella delle violette. Testualmente disse: « Ci appiatteremo per un po’ ». Lungi dall’Inghilterra, naturalmente. Non era chiaro se intendesse riparare in Ispagna o nell’America del Sud. Probabilmente gl’importava soltanto che il luogo fosse all’estero. Le sue ultime parole percossero i timpani di lei, producendo un’impressione
definitiva. Quell’uomo parlava di fuggire all’estero. L’impressione era del tutto sconnessa; e tanta era la forza della sua abitudine mentale, ch’ella subito, automaticamente, si chiese: « E Stevie? » Fu una specie di amnesia; ma immediatamente ella si rese conto che per quello non v’era più ragione d’ansietà. Non poteva essercene mai più. Il « povero ragazzo » era stato portato via e ucciso. Il « povero ragazzo » era morto. Quel singolare caso d’amnesia stimolò la sua intelligenza. Cominciò a percepire certe conseguenze che avrebbero molto sorpreso suo marito. Per lei, non c’era più bisogno di star lì*in quella cucina, in quella casa, con quell’uomo, ora che il ragazzo se n’era andato per sempre. Nessun bisogno. E con ciò ella s’alzò come sollevata da una molla. Ma nemmeno potè vedere che cosa potesse ancora trattenerla in questo mondo. E ciò la fermò. Verloc l’osservò con maritale sollecitudine. — Hai l’aria di star meglio, — le disse con un certo imbarazzo. Qualcosa di strano nei neri occhi di lei turbava il suo ottimismo. E in questo preciso momento, ella cominciò a {guardarsi attorno, come liberata da ogni vincolo terrestre. Era libera. Il termine del suo contratto con l’esistenza, come rappresentata dall’uomo che la sovrastava, era spirato. Adesso era una donna libera. Se egli avesse potuto intuire quel concetto, sarebbe certo rimasto molto scandalizzato. Nelle faccende del suo cuore, egli era sempre stato d’una noncurante generosità, e sempre senz'altro obiettivo se non quello d’essere amato per se stesso. In questa materia, trovandosi le sue nozioni etiche in pieno accordo con la sua vanità, egli era assolutamente incorreggibile. Che ciò dovesse Verificarsi pure nella sua attuale relazione virtuosa e legale, non ne dubitava minimamente. S’era fatto vecchio, grasso e pesante nella convinzione di essere abbastanza affascinante per essere amato per se stesso. Cosicché, quando vide la moglie alzarsi per uscire dalla cucina senza una parola, provò un vivo disappunto. — Dove vai? — le chiese in tono piuttosto rude. — Su? Ella si rigirò sulla soglia. I n istinto di prudenza generato dalla paura, l’irragionevole paura d'essere avvicinata, toccata da quell'uomo, l’indusse a fargli un piccolo segno di assenso (dall’alto dei due gradini) con una mossa delle labbra che l’ottimismo coniugale di lui prese per l’abbozzo d'un incerto sorriso.
— Bene, — l’incoraggiò, burbero. — Hai bisogno di riposo e di tranquillità. Va. Fra poco ci verrò anch’io. Ella, la donna libera, che realmente non sapeva dóve andare, ubbidì con rigida ività. Verloc la seguì con gli occhi. Ella scomparve su per le scale. Egli provò una vera delusione. C’era quella tal cosa in lui che sarebbe rimasta molto più soddisfatta s’ella fosse corsa a rifugiarsi sul suo petto. Ma egli era generoso e indulgente. Winnie era sempre stata riservata e silenziosa. E neanche lui, di regola, era molto prodigo di gesti e di parole. Ma quella non era una sera come tutte le altre sere. Era una di quelle circostanze in cui l’uomo ha bisogno d’essere rincuorato e rinvigorito da manifeste prove di simpatia e d’affetto. Sospirò, e spense il gas della cucina. Il suo affetto maritale era genuino e intenso. Gli mise quasi delle lacrime negli occhi, mentre, nella saletta, rifletteva alla solitudine sospesa sopra il capo di lei. In quello stato d’animo, sentì intensamente la mancanza di Stevie. Pensò tristemente alla sua fine. Se soltanto non si fosse così stupidamente distrutto! La sensazione d’insaziabile fame, nota anche ai più rudi avventurieri, lo sopraffece nuovamente. Il rosbif, rimasto in evidenza come un’offerta funeraria, affascinò il suo sguardo. Ne mangiò ancora, ne mangiò ingordamente, senza ritegno nè decenza, tagliandosi grosse fette con l’affilato coltello da cucina, e ingoiandole tutte senza un boccone di pane. Durante quel pasto, gli venne fatto di rilevare che non udiva la moglie muoversi disopra, nella camera da letto, come logicamente avrebbe dovuto udirla. II pensiero di trovarla seduta sul letto, al buio, gli mozzò di colpo l’appetito, non solo, ma gli tolse anche la voglia di andarla a raggiungere. Deposto il coltello, tese l’orecchio con cupa attenzione. Infine ebbe il conforto di sentirla muovere. Ella attraversò bruscamente la stanza e spalancò la finestra. Dopo un silenzio, durante il quale egli l’immaginò affacciata, udì abbassare lentamente il telaio. Poi ella fece qualche o, e si sedette. Ogni rumore di quella casa era familiare a Verloc, ch’era un uomo perfettamente domestico. Cosicché, quando poi riudì il o della moglie, seppe come se l’avesse vista coi propri occhi, ch’ella s’era messe le scarpe da eggio. A quello strano indizio, egli si strinse lievemente nelle spalle, s’alzò e andò a piantarsi davanti al caminetto, con le spalle al fuoco e il capo piegato da una parte, rodendosi perplesso le punte delle dita. E continuò a seguire con
l’orecchio i movimenti di lei. Andava di qua, di là, concitatamente, con brusche soste, ora davanti al cassettone, ora davanti all’armadio. Un immenso fondo di stanchezza, prodotto ultimo d'una lunga giornata d’emozioni violente, gravitò schiacciante sulle sue energie. Rialzò il capo solo quando udì la moglie discendere. Non s’era sbagliato: s’era vestita per uscire. Era una donna libera. Aveva aperto la finestra della camera da letto forse per gridare « Assassino! Aiuto! », forse per buttarsi giù. Poiché ancora non sapeva che farne della propria libertà. Sembrava che la sua personalità fosse stata scissa in due, e che quelle parti non s'accordassero bene per una certa diversità delle loro rispettive operazioni mentali. La strada, silente e deserta da un capo all’altro, l’aveva respinta, rendendosi complice di quell’uomo così sicuro della propria impunità. Non aveva gridato, perchè temeva che nessuno l’avrebbe udita. Infatti, era evidente che nessuno sarebbe accorso. D’altra parte, il suo istinto di conservazione non le aveva permesso di precipitarsi in quella specie di profondo e fangoso trincerone. Aveva quindi riabbassato la finestra e s’era vestita per giungere all’aperto da un’altra via. Era una donna libera. S’era vestita completamente, fino a coprirsi il viso con un velo. Ed egli, quand’ella gli comparve dinanzi nella luce della saletta, notò che aveva preso perfino la borsetta... Scappava da sua madre, naturalmente. Il pensiero che, dopo tutto, le donne sono creature moleste, si presentò molto lucidamente alla stanca mente di Verloc. Ma egli era troppo generoso per ospitare quel pensiero più d’un istante. Quell’uomo, crudelmente colpito nella sua vanità, non si concesse neanche la soddisfazione d’un amaro sorriso o d’un gesto sprezzante. Con vera grandezza d’animo, si limitò a guardare la pendola di legno appesa alla parete, e a dire in tono calmo e fermo: — Son le otto e venticinque, Winnie. Non c’è senso a uscire a quest’ora. Non potresti più tornare, stanotte. Dinanzi alla sua mano tesa, ella s’era fermata di botto. Egli soggiunse pesantemente: — Troveresti tua madre già addormentata da un pezzo. E queste son notizie che possono aspettare. Ella non pensava affatto di andare da sua madre; anzi, nulla era più lontano dalla
sua mente. Al solo pensiero di ciò, ella arretrò, brancicando in cerca d’una sedia. La sua intenzione era semplicemente d’uscire per sempre. Ma quell’impulso, in se stesso corretto, prese nella sua mente una forma volgare, corrispondente alle origini e allo stato di lei. Infatti pensò: cc Piuttosto vado a battere i marciapiedi per tutta la vita ». Però quella creatura, il cui morale aveva subito un colpo che, sul campo dei fenomeni fisici, neanche il più violento terremoto potrebbe rendere con esattezza, era alla mercè di piccole cose futili, di semplici contatti casuali. Così, al contatto d’una sedia, si sedette. Col cappello in testa e la veletta abbassata sul viso, aveva l’aria d’una visitatrice venuta a intrattenersi con Verloc solo per un momentino. Quel suo atto di manifesta docilità incoraggiò il marito, mentre il suo aspetto di acquiescenza puramente temporanea gli fece un effetto alquanto provocante. — Stammi a sentire, Winnie, — le disse con autorità. — Tu, stasera, devi restar qui. All’Inferno! Sei stata tu a buttarmi addosso la polizia fin sopra gli orecchi. Non te lo rinfaccio, no... ma la colpa è tua lo stesso. Puoi toglierti il cappello, — e in tono più dolce soggiunse: — Non ti posso lasciar uscire, ragazza. La mente di lei s’abbrancò a quest’ultima dichiarazione con morbosa tenacia. L’uomo che s’era preso Stevie sotto gli occhi di lei per asslo in un luogo di cui, in quel momento, non ricordava il nome, non voleva permetterle d'andar via. Per forza! Ora che aveva assassinato Stevie, non l’avrebbe lasciata andare mai più. Senza nessuna ragione, avrebbe voluto tenersela con sè. E sulla trama di questo caratteristico ragionamento, che aveva tutta la forza d’una logica insensata, la sconnessa mente di lei prese a lavorare praticamente. Poteva sfuggirgli, aprir la porta e correre fuori. Ma egli, certo, l’avrebbe rincorsa, l’avrebbe ghermita a mezzo il corpo e trascinata di nuovo in bottega. Ella, dal canto suo, poteva graffiare, scalciare, mordere — e anche menar coltellate; ma per quest’ultimo atto le occorreva anzitutto un coltello. Rimase seduta silenziosa sotto la nera veletta, nella sua casa silente, come una misteriosa visitatrice, d’intenzioni impenetrabili. La magnanimità di Verloc era soltanto umana. Ella aveva finito per esasperarlo. — Non sai dir nulla? Hai un modo straordinario per far perdere la pazienza. Ah sì! Lo conosco quel tuo trucco di sordomuta. Non è la prima volta oggi che lo adotti. Ma oggi, proprio oggi, non mi va. E tanto per cominciare, togliti subito codesto maledetto cappello. Son qui che non so se parlo a una statua o a una donna viva.
Avanzò, allungò la mano e le strappò la veletta, scoprendo un viso immobile, imperscrutabile, contro cui la sua esasperazione si sfracellò come un’ampolla di vetro lanciata contro una roccia. — Così va bene, — disse per coprire il suo momentaneo disagio, e tornò al posto di prima, davanti al caminetto. Non gli ò mai per la mente che la moglie potesse abbandonarlo. Provò una certa vergogna del suo scatto, poiché le voleva bene ed era generoso. Che fare? Tutto era già stato detto. Protestò quindi veementemente: — Perdio! Sai bene che ho cercato, giorno e notte, qualcuno per quella maledetta faccenda, e anche col rischio di tradirmi. E ti ripeto che non ne ho potuto trovar uno abbastanza pazzo o abbastanza affamato. Per chi mi prendi?... Per un assassino? Il ragazzo se n’è andato, e buona notte. Credi forse che gli abbia chiesto di farsi saltare? Colpa sua, s’è morto. Beato lui che di seccature non ne ha più. Mentre le nostre stanno giusto per cominciare, e appunto perchè lui s’è fatto saltare. Non ti rinfaccio nulla. Soltanto, vorrei farti capire ch’è stato un puro accidente, proprio come se fosse stato schiacciato da un bus, nell’attraversare una strada. La sua generosità non era infinita, poiché egli era semplicemente uomo — non un mostro, come credeva sua moglie. Fece una pausa, e un ghigno, sollevandogli i baffi sopra un baglior di denti candidi, gli diede un’espressione di bestia assorta, ma non pericolosa — una bestia lenta, con un testone lucido, più lucido di quello d’una foca e con un vocione roco. — In questo caso, poi, la colpa è tanto tua che mia. Sicuro. Hai un bel guardarmi. So ben io la parte che ci hai avuto. Ch’io possa cadere fulminato se ho pensato una sola volta al ragazzo per quella faccenda. Sei stata tu a cacciarmelo tra i piedi, quand’io pensavo soltanto a tenervi tutti quanti lontani dai pasticci. E perchè? dimmi, perchè? Si direbbe che l’hai fatto apposta. E Dio ti maledica se son certo che tu non l'hai fatto apposta. Chissà quante cose avrai capito con quel tuo modo infernale di non badarci, di non veder nulla, di non dir nulla... La roca voce domestica cessò. Ella non rispose. In quel silenzio, egli si pentì delle proprie parole. Ma, come spesso accade agli uomini pacifici nelle crisi domestiche, pur pentendosene, rincarò la dose.
— Sicuro, certe volte hai un modo di star zitta addirittura diabolico. Anche un santo ci perderebbe la pazienza. Un altro, a vederti far la sordomuta così, non ci vedrebbe più. Io ti voglio bene. Ma bada di non esagerare. Il momento non è adatto. Ora dovremmo pensare sul da farsi. E non ti posso lasciar correre da tua madre a contar frottole sul mio conto. No, non te lo posso permettere. E bada di non far confusioni: se io ho ammazzato il ragazzo, tu l’hai ammazzato non meno di me. Queste parole superarono di molto, per sincerità e precisione, quanto finora era stato detto in quella casa, mantenuta coi proventi di un’industria segreta e ricavati dalla vendita di merci più o meno segrete: misero espediente escogitato da ima mediocre umanità per preservare un’imperfetta società dai pericoli d’una corruzione morale e materiale, pure segreta nel suo genere. E vi furono proferite perchè Verloc s’era sentito veramente oltraggiato. Ma le reticenti decenze di quella vita familiare, nascosta in una buia stradetta, dietro una bottega dove il sole non entrava mai, rimasero apparentemente imperturbate. La signora Verloc lo lasciò dire, poi s’alzò, col cappello sempre in testa e la giacchetta indosso come una visitatrice alla fine della sua visita. Avanzò verso il marito con la mano tesa come per una silenziosa stretta. La sua veletta, penzolante per un’estremità dal lato sinistro del viso, dava un’aria di scomposta formalità ai suoi modi contenuti. Ma quando giunse al caminetto, egli non v’era più. S’era allontanato in direzione del divano, senza alzar gli occhi a guardar l’effetto della sua tirata. Era stanco e anche rassegnato in uno spirito prettamente maritale. Però si sentiva ferito nel punto debole della sua segreta debolezza. Se proprio voleva continuare a tenergli il broncio con quel terribile silenzio sovraccarico... beh, pazienza: non poteva far altro che lasciarla fare. Si buttò pesantemente sul divano, incurante, come al solito, della sorte del suo cappello, che, come abituato a badar a se stesso, rotolò al sicuro, sotto la tavola. Era stanco. L’ultima sua particella di forza nervosa era stata assorbita dagli stupori e dagli spasimi di quella giornata di sorprendenti scacchi, sopraggiunta al termine d'uno stremante mese di cogitazioni e d’insonnia. Era stanco. L’uomo non è fatto di pietra. All’Inferno tutto! Giaceva, al suo solito, tutto vestito come per uscire. Un lembo del suo soprabito aperto era in parte disteso per terra. Egli riposava supino. Bramava un riposo migliore, un buon sonno, alcune ore di deliziosa dimenticanza. Ma questo sarebbe venuto più tardi. Pel momento, quel riposo provvisorio gli bastava. E pensò : cc Se soltanto la smettesse! È esasperante. »
Certo, nel senso di riacquistata libertà della signora Verloc doveva esserci qualche cosa di imperfetto. Invece di prendere la via dell’uscio, ella s’appoggiò con le spalle al ripiano del caminetto, come un viandante a. una cancellata. V’era nel suo aspetto qualcosa di selvaggio, che le proveniva dalla nera veletta penzolante come un cencio contro la guancia, e dalla fissità dei neri occhioni, nei quali la luce ambiente si perdeva come assorbita, senza il minimo luccichio. Quella donna, capace d’un mercato, il cui solo sospetto avrebbe indicibilmente urtato il concetto d’amore di Verloc, rimase irresoluta, come scrupolosamente conscia di qualcosa che ancora le fosse richiesto per il formale scioglimento del contratto stesso. Sul divano, Verloc dimenò le spalle per trovare una posizione più comoda, e, dalla piena del suo cuore, attinse un desiderio pio quanto possono esserlo i desideri provenienti da tal fonte. — Vorrei non aver mai visto in vita mia il parco di Greenwich e quanto v’appartiene. L’attutito suono di quel roco brontolìo riempì la saletta col suo modesto volume, ben adatto alla modesta natura dello stesso desiderio. Le onde sonore d’una giusta lunghezza, propagate in base a una corretta formula matematica, si diffo attorno attorno a tutti gli oggetti inanimati di quella stanza, e infine si ruppero sul capo della signora Verloc come su una dura roccia. E, per quanto possa sembrar inverosimile, gli occhioni di lei parvero farsi ancor più grandi. Il desiderio traboccato dal cuore di Verloc, andò a colmare una lacuna della memoria di sua moglie. 11 parco di Greenwich. Un parco! Ecco dove era stato assassinato il ragazzo. Un parco — pezzi di rami, di foglie, di ghiaia, di carne e d’ossa fraterne; il tutto proiettato insieme come le faville d’un razzo. Le parole udite le tornarono alla mente. Avevano dovuto raccoglierlo con un badile. Tutta pervasa da un violento brivido, ella si vide dinanzi quell’arnese col suo macabro carico. Chiuse gli occhi disperatamente, buttando su quella visione la notte delle proprie palpebre, dove, dopo una pioggia di membra sbrandellate, il mozzo capo di Stevie rimase sospeso tutto solo, dileguando lentamente, come l’ultima stellina d’uno spettacolo pirotecnico. Ella riaprì gli occhi. Il suo viso non era più pietroso. Chiunque avrebbe rilevato quel lieve mutamento avvenuto nelle sue fattezze, nello sguardo dei suoi occhioni, che le dava una nuova e sorprendente espressione, un’espressione raramente osservata dai
competenti nelle condizioni di tranquillità e di sicurezza indispensabili a una profonda analisi, ma del cui significato, anche a prima vista, non era possibile dubitare. Gli scrupoli di lei circa lo scioglimento del contratto scomparvero; e la sua mente, non più sconnessa, si mise a lavorare sotto il controllo della sua volontà. Ma Verloc non s’avvide di nulla. Stava riposando in quel patetico stato ottimistico che deriva da fatiche eccessive. Non voleva più essere importunato da nessuno, nemmeno dalla moglie. Questa, per altro, non aveva trovato nulla da rispondere alle sue giustificazioni. Era dunque ancor sempre amato per se stesso. La presente fase del suo silenzio gli appariva favorevole. Era il momento buono per cercar di rabbonirla. Il silenzio era durato abbastanza. Lo ruppe quindi chiamandola in tono sommesso: — Winnie. — Sì, — rispose ubbidiente la signora Verloc, donna libera. Ora era di nuovo padrona della sua mente e dei suoi organi vocali; sentiva di avere un controllo quasi soprannaturale su ogni fibra del proprio corpo, tornate tutte di sua esclusiva proprietà, ora che il contratto era scaduto. Vedeva lucidamente. S’era fatta astuta. Di proposito gli aveva risposto così prontamente. Non voleva che quell’uomo mutasse quella posizione, che le sembrava particolarmente favorevole al suo scopo. E vi riuscì. L’uomo non si mosse. Ma dopo avergli risposto, ella rimase ancora appoggiata al caminetto come un viandante a una cancellata. Non aveva fretta. La sua fronte era tersa, serena. Le spalle di lui le erano nascoste dall’alta testata del divano. Tenne quindi lo sguardo fisso sui suoi piedi. Rimase così, misteriosamente tranquilla e subitamente raccolta, finché egli, con un accento di maritale autorità, e spostandosi un poco per farle posto sull'orlo del divano, le disse: — Vieni qua. Lo disse in un tono che avrebbe potuto sembrare brutale, ma ch'ella sapeva, per sua intima esperienza, essere quello del suo desiderio. S’avanzò subito, come se ancora fosse la donna leale, legata a quell’uomo da un contratto intatto. ando, la sua mano sfiorò lievemente la tavola, e quando fu andata oltre, il coltello da cucina non era più accanto al piatto: era scomparso senza il più piccolo strepito. Verloc sentì scricchiolare l’impiantito, e fu
contento. Attese. Ella veniva. Come se la raminga anima di Stevie fosse venuta a rifugiarsi nel seno della sorella, guardiana e protettrice, la loro somiglianza divenne vieppiù evidente a ogni o di lei, fino alla forma particolare del labbro inferiore, fino alla lieve divergenza degli occhi. Ma Ver- loc non vide nulla. Giaceva supino e guardava in su. Vide, in parte sul soffitto e in parte sulla parete, l’ombra veloce d’un braccio che, nella mano annodata, teneva un coltello da cucina. Quell’ombra guizzò su e giù, ma abbastanza lentamente perchè egli potesse riconoscere l’arto e l’arme. Abbastanza lentamente perchè potesse afferrare l’intero significato del portento, sentire il sapore della morte salirgli alla gola. Sua moglie era stata colta da improvvisa pazzia — da una pazzia omicida. Il primo effetto paralizzante di quella scoperta potè anche svanire dinanzi alla risoluta determinazione d’uscir vittorioso dalla terribile lotta con quella pazza armata. Egli ebbe anche il tempo di concepire un piano di difesa: saltar dietro la tavola e quindi abbattere la donna con una pesante sedia. Ma non ebbe il tempo di muovere mano o piede. Il coltello era già immerso nel suo petto. Non aveva incontrato alcuna resistenza sulla via. Tale è talvolta la compiacenza del caso. In quel colpo a perpendicolo, inferto dall’orlo del divano, ella aveva concentrato tutti i retaggi della sua immemorabile e oscura discendenza, la semplice ferocia dell’età delle caverne, e la squilibrata furia nervosa dell’età dei « bar ». Verloc, l’agente segreto, volgendosi un tantino sul fianco con la forza del colpo, spirò senza muovere arto, col suono appena articolato d’un « no », detto a mo’ di protesta. Ella aveva abbandonato il coltello, e, svanita la sua straordinaria somiglianza col fratello, era tornata molto normale. Respirò a fondo, il suo primo respiro facile da quando il Capo Ispettore Heat le aveva mostrato il lembo etichettato del soprabito di Stevie. Incrociò le braccia e si chinò lievemente sopra il divano. Prese tale attitudine non per osservare o schernire il corpo di Verloc, ma semplicemente per reagire contro certi movimenti ondulatori e sussultori, che per qualche tempo si comportò come una tolda di nave durante una tempesta. Era intontita, ma calma. Era divenuta una donna libera, tanto compiutamente libera, che non le restava più nulla da desiderare, e neanche da fare, ora che l’assoluto bisogno di Stevie della devozione di lei non esisteva più. Ella, che pensava per immagini, non era più turbata da alcuna immagine, perchè non pensava più affatto. Nè si mosse. Era una donna che godeva della propria completa irresponsabilità e del proprio sterminato agio, pressappoco alla maniera d’un cadavere. Non si mosse, non pensò. Precisamente come le spoglie mortali del fu Verloc, riposanti sul divano. Se ella non avesse respirato, raccordo sarebbe
stato perfetto: qneU’aceordo di prudente riserva, priva di parole superflue, di gesti oziosi, ch’era stato la pietra basilare della loro rispettabile vita coniugale. Poiché era stata veramente rispettabile, per la costante cura ch’egli aveva avuto nel ricoprire con una decente reticenza i problemi che potevano sorgere nell’esercizio d’una professione segreta e d’un commercio di generi equivoci. Fino all’ultimo il suo decoro era rimasto illeso da strilli disdicevoli e da altre sconvenienti sincerità di condotta. Non solo, ma ora, dopo inferto il colpo, quella rispettabilità si continuava nell’immobilità e nel silenzio. Nulla si mosse nella saletta, finché ella non alzò il capo per guardare con interrogante diffidenza la pendola. La sua attenzione era stata attratta da un battito regolare: tic tic. Il suono le aveva colpito l’udito, poiché ricordava lucidamente che quella pendola era silenziosa, non aveva un battito percettibile. Come mai l’udiva adesso, così d'un subito e così distintamente? Il quadrante segnava le nove meno dieci. L’ora non la interessava, per il momento, e il tic... tic... continuò. Ella concluse che non poteva essere la pendola, e il suo truce sguardo vagò per le pareti, ristette, si fece indeterminato, mentre l’udito si sforzava di stabilire la provenienza di quel suono. Tic... tic... tic. Dopo aver ascoltato per qualche tempo, ella abbassò deliberatamente lo sguardo sul corpo del marito. L’attitudine di quel corpo le era tanto familiare, ch’ella potè guardarlo senza alcun turbamento. Sembrava ch’egli stesse schiacciando il solito pisolino. Era però vólto in modo, che il suo viso non era visibile a lei, sua vedova. I begli occhi assonnati di lei corsero giù per quel corpo, dietro il misterioso suono e s’arrestarono contemplativi su un piatto oggetto d’osso che sporgeva dall’orlo del divano. Era il manico del familiare coltello da cucina, senza nulla d’insolito in se stesso, se non la sua posizione ad angolo retto col panciotto di Verloc, e il fatto che qualcosa sgocciava da esso. Nere gocce cadevano sul pavimento, con un suono secco, pressoché metallico, e vieppiù rapido, frenetico, come il battito d’un pendolo impazzito. Giunto al parossismo di velocità, quel tic... tic divenne un suono continuo. Ombre d’ansietà arono sul viso di lei. Era un rivoletto nero, rapido, sottile sottile... Sangue! Davanti a tali impreviste circostanze, ella abbandonò la sua posa d’ozio e d’irresponsabilità. Con una subita presa alla gonna e un piccolo grido, corse all’uscio, come se quel
rivoletto precedesse un flusso travolgente. Trovando la tavola sulla propria via, la respinse con ambo le mani, come cosa viva, e con tanta violenza, che questa scivolò sulle quattro gambe con un forte stridore, mentre il gran piatto col pezzo di carne andava a sfracellarsi sul pavimento. Poi tutto tornò silente. Giunta sulla soglia, ella si fermò. Un cappello tondo, scoperto nel mezzo del pavimento dallo spostamento della tavola, dondolava lievemente sul cocuzzolo, sotto l’azione dell’aria agitata dalla fuga di lei.
XII
Winnie, la vedova di Verloc, la sorella del defunto e fedele Stevie (dilaniato in uno stato di perfetta innocenza, e nell’assoluta convinzione di compiere un’impresa altamente umanitaria), non corse oltre la soglia della saletta. Era corsa fin là per fuggire un semplice rivoletto di sangue, ma quello era stato un atto d’istintiva ripugnanza. Là s’era fermata con occhi sgranati e a capo chino. E là, su quella soglia, come se avesse corso per anni ed anni nella sua fuga attraverso la saletta, ella era adesso una donna totalmente diversa da quella che s'era chinata sopra il divano, un po’ intontita, ma ben altrimenti libera di godere la più profonda calma dell'ozio e dell’irresponsabilità. Ora ella non si sentiva più traballare. L’impiantito, sotto i suoi piedi, era perfettamente fermo. Ma per contro ella non era più calma. Aveva paura. Se ora evitava di guardare in direzione del suo riposante marito, non era perchè le fe spavento. La vista di Verloc non aveva nulla di spaventoso. Tutto, in lui, emanava un perfetto benessere. Inoltre, era morto. Ella non si faceva illusione alcuna riguardo ai morti. Aulla può farli tornare, nè l’amore, nè l'odio. non possono più far nulla. Aon sono più nulla. Inoltre, lo stato mentale di lei era dominato da una specie di austero disprezzo per quell’uomo che s’era lasciato uccidere così facilmente. Era stato il padrone d’una casa, il signore d’una donna e l'assassino di Stevie. Ed ora, sotto ogni aspetto, non contava più nulla. Praticamente, contava meno dei panni che aveva indosso, meno del suo soprabito, meno delle sue scarpe — meno di quel cappello, là, in mezzo al pavimento. Era nullo. Non valeva nemmeno la pena di essere guardato. Aon era neanche più l’assassino del povero Stevie. L’unico assassino che avrebbero potuto trovare in quella stanza quelli che fossero venuti a prendere Verloc, sarebbe stata... lei! Le mani le tremavano convulsamente, così che fallì ripetutamente il tentativo di rimettersi la veletta. Aon era più una persona irresponsabile che non ha nulla da fare. Aveva paura. La coltellata inferta a Verloc era stato soltanto un colpo. L’aveva liberata dal soffocante volume d’aria che aveva compresse nella gola, di tutte le lacrime riarse nei suoi occhi roventi, di tutto l’accecante furore per l’atrocità commessa da quell’uomo, che ora era meno di nulla. Era stato un colpo
oscuramente inferto. Il sangue che scorreva sul pavimento, giù dal manico del coltello, lo aveva mutato in un atto manifestamente omicida. Ella, che s’era sempre astenuta dal guardare sotto la superficie delle cose, dovette ora guardare fino in fondo a questa. Non vi scorse nè un volto ossessionante, nè un’ombra accusatrice, nè una visione di rimorso, nè sorta alcuna di concezione ideale. Vi vide soltanto un oggetto. Quell’oggetto era la forca. Ella aveva paura della forca. Ne aveva paura idealmente. Non avendo mai fermato lo sguardo su quest’ultimo argomento della giustizia degli uomini, se non sulle xilografie illustrative d’un particolare genere di romanzi, la vide ergersi su uno sfondo nero e tempestoso, tutta festonata di catene e d’ossa umane, e circondata da uccellacci che beccano gli occhi dei morti. Tale visione era alquanto paurosa; ella, però, pur non essendo bene informata, aveva tuttavia una nozione sufficiente delle istituzioni del suo paese per sapere che le forche non erano più romanticamente erette su rive di squallidi fiumi o su cocuzzoli sferzati dai venti, ma unicamente nei cortili delle prigioni. Là, tra quattro alti muri, ai primi albori del giorno, venivano condotti gli assassini per essere giustiziati con orrenda tranquillità, e, come ogni volta assicuravano i cronisti, « alla presenza delle Autorità ». Con gli occhi fissi sul pavimento, le narici frementi d’angoscia e di vergogna, ella s’immaginò tutta sola in mezzo a un gruppo di sconosciuti signori in tuba di seta, procedenti in tutta calma ad assolvere il loro compito d’appenderla per il collo. No! Questo mai! mai! Ma come facevano ad impiccare? L’impossibilità d’immaginare i particolari di quelle tranquille esecuzioni, aggiunse qualcosa d’allucinante al suo astratto terrore. I giornali non davano mai particolari, se non uno, che però non mancava mai al termine dei magri resoconti. Ella lo ricordò testualmente. Le tornò alla mente con un intenso dolor d'arsura, come se le parole: « La caduta era di quattordici piedi » (1), le fossero state incise sul cervello con un ago rovente. « La caduta era di quattordici piedi ». Queste parole la turbarono anche fisicamente. La gola le si agitò in onde convulse per resistere allo strangolamento; e l’apprensione dello strattone micidiale era così viva, ch’ella si prese il capo tra le mani, come per trattenerselo sulle spalle. « La caduta era di quattordici piedi ». No! Questo mai! Non avrebbe potuto reggere a questo. Le era insopportabile anche il solo pensarne. Non poteva reggere a quel pensiero. Decise d'andar subito a buttarsi nel fiume dall’alto d’un ponte. Questa volta riuscì a rimettersi la veletta. Col viso come mascherato, e tutta nera
dalla testa ai piedi, eccettuati soltanto alcuni fiori del cappello, guardò su macchinalmente la pendola. Pensò che doveva essersi fermata. Non poteva credere che fossero trascorsi solo due minuti dall’ultima volta che l’aveva guardata. Impossibile. Doveva essere ferma da chissà quando. Realmente, invece, solo tre minuti erano trascorsi dal momento del suo primo respiro profondo e facile, a quello della sua risoluzione di buttarsi nel Tamigi. Ma ella non vi potè credere. Le parve di aver letto o udito dire che gli orologi si fer(1) L’altezza della botola che s'apre sotto i piedi del condannato. mano sempre quando avviene un omicidio, facilitando così la cattura degli assassini. Non gliene importava. « Presto al ponte... e poi giù ».... Ma i suoi movimenti erano lenti. Si trascinò penosamente attraverso la bottega, e dovette reggersi alla maniglia della porta, prima di trovar la forza necessaria per aprirla. La strada la spaventò, poiché conduceva soltanto alla forca o al fiume. Scese dal gradino della soglia, protesa e con le mani avanti, giusto come uno che si butta dal parapetto d’un ponte. E in quell’entrata nell’aria aperta, ella parve pregustare l’annegamento: una viscida umidità la ravvolse, le penetrò nelle narici, le si appiccicò ai capelli. Non si poteva dire che piovesse veramente, ma ogni lampione aveva un piccolo, rugginoso alone di bruma. Il furgone se n’era andato coi suoi cavalli, e nella strada buia, i vetri mascherati della bettola da carrettieri mettevano una lurida pozza sanguigna, appena appena rilucente, quasi a livello del marciapiede. Trascinandosi verso questa pozza, la signora Verloc ebbe l’impressione di essere molto sola in questo mondo. Era vere. Tanto vero che, presa da un subito desiderio di vedere un viso amico, potè pensare soltanto alla signora Neale, la donna di fatica. Non aveva altri conoscenti. Dal punto di vista sociale, nessuno avrebbe risentito la sua mancanza. Ciò non significa, però, ch’ella avesse dimenticato sua madre. Tutt’altro. Winnie era sempre stata una buona figlia, essendo sempre stata una buona sorella. Sua madre s’era sempre rivolta a lei per trovare appoggio. Ma ora non poteva darle nè consiglio nè consolazione. Ora che Stevie era morto, il .vincolo sembrava spezzato. Non poteva presentarsi alla vecchia con quell’atroce storia. Inoltre, sua madre era troppo lontana. La sua presente destinazione era il fiume. Cercò quindi di dimenticare la madre. Ogni o le costava uno sforzo di volontà che sembrava ogni volta l’ultimo possibile. Riuscì in tal modo a trascinarsi oltre il rosso lucore della bettola.
« Al ponte... e poi giù », si ripetè con fiera ostinazione. Allungò la mano giusto a tempo per reggersi a un lampione. « Non ci arriverò mai prima di domattina », pensò. La paura della morte paralizzava il suo sforzo di sfuggire alla forca. Le sembrava di trascinarsi su quella strada da ore ed ore. « Non ci arriverò mai, — pensò. — Mi troveranno per le strade. È troppo lontano ». Si abbrancò forte, ansimando sotto la nera veletta. « La caduta era di quattordici piedi. » Respinse con violenza il lampione, e si ritrovò a camminare. Ma un altro accesso di debolezza la colse come una grande ondata, strappandole di colpo il cuore dal petto. — Non ci arriverò mai, — mormorò, e fermatasi, traballò lievemente sul posto. — Mai! Comprendendo l’assoluta impossibilità di camminare fino al ponte più vicino, pensò a una fuga all’estero. Quel pensiero le si presentò alla mente come un lampo. Altri assassini erano già fuggiti così. Erano fuggiti all’estero. Spagna, California. Nomi, soltanto nomi. L’immenso mondo creato per la gloria dell’uomo era soltanto un’immensa pagina bianca per lei. Non sapeva da die parte voltarsi. Al solito, gli assassini hanno amici, parenti, complici... esperienza. Ella non aveva nulla. Tra tutti coloro che hanno inferto colpi mortali, ella era la più solitaria. Era sola a Londra: e l’intera città di meraviglie e di fango, col suo groviglio di strade e la sua moltitudine di luci, era sommersa in una sterminata notte, precipitata in fondo a un nero abisso, dal quale nessuna donna poteva uscir da sola. Traballò avanti e ciecamente si rimise in cammino, con gran timore di stramazzare da un momento all’altro. Ma, dopo alcuni i, provò improvvisamente un senso di sollievo, di sicurezza. Alzando il capo, vide un viso d’uomo che la guardava da molto vicino al velo del cappello. Il compagno Ossipon non aveva paura delle donne strane, e nessun senso di falsa delicatezza poteva impedirgli di far conoscenza con una donna apparentemente molto alcolizzata. Le donne lo interessavano. La sostenne con le sue larghe palme, guardandola con la massima naturalezza, finche l’udì dire con un fil di voce:
— Signor Ossipon! Allora mancò un pelo che non la lasciasse cadere. — Signora Verloc! Voi qui! Gli parve impossibile ch’ella potesse aver bevuto. Ma non si sa mai... Non volle approfondire la questione. Assai più gli premeva non scoraggiare la buona fortuna che gli aveva fatto incontrare la vedova del compagno Verloc; quindi cercò di stringersela al petto. Con suo grande stupore, ella non oppose resistenza, non solo, ma s’appoggiò perfino per un momento al suo braccio, prima di accennare a voler divincolarsi. Il compagno Ossipon non volle essere rude con la sua buona fortuna e sciolse la stretta nel modo più naturale. — Mi avete riconosciuta? — fece ella infine, standogli dinanzi abbastanza franca sulle gambe. — Naturalmente, — rispose Ossipon con perfetta prontezza. — Temevo che stavate per cadere. Troppe volte ho pensato a voi, in questi ultimi tempi, per non riconoscervi dovunque, in qualunque ora. Ho sempre pensato a voi... sempre, dalla prima volta che i miei occhi vi hanno veduta. Ella parve non aver inteso. — Dove andavate? Alla nostra bottega? — gli chiese nervosamente. — Sì, subito. Appena letto il giornale. In realtà, il compagno Ossipon s’era aggirato per ben due ore nelle vicinanze di Rrett Street, incapace di decidersi a una mossa audace. TI robusto anarchico non era precisamente un audace conquistatore. Ricordava che la signora Verloc non aveva mai risposto alle sue occhiate col più piccolo segno d’incoraggiamento. D’altra parte, pensava che a quell’ora la bottega poteva già essere vigilata dalla polizia, e non desiderava punto che la polizia si formasse un concetto esagerato della sua attività rivoluzionaria. Ancora adesso non sapeva con precisione che cosa fare. Accanto alle sue solite speculazioni amatorie, questa era una grande e seria impresa. Ma non poteva calcolarne l’importanza, nè sapere fin dove avrebbe dovuto andare per prendere quello che c'era da prendere — supposto che ci fosse qualcosa da prendere. Tali perplessità frenarono la sua gioia, dando al suo tono una sobrietà ben in carattere con le circostanze.
— Posso domandarvi a mia volta dove andavate? — le chiese quasi sottovoce. — Non domandatemelo! — esclamò Winnie rabbrividendo. Tutta la sua forte vitalità inorridiva al pensiero della morte. — Non pensateci, non pensateci. Ossipon pensò ch’ella doveva essere molto agitata, ma punto ubriaca. Ella gli rimase accanto per un po’ in silenzio, poi, d’un tratto, fece una cosa ch’egli proprio non s’aspettava: lo prese a braccetto. Fu sorpreso dall’atto stesso, e anche dal suo carattere palesemente risoluto. Ma, trattandosi d’una faccenda delicata, egli si comportò con particolare. delicatezza. Si contentò di premere la mano di lei contro le proprie robuste costole. Al tempo stesso, si sentì spinto innanzi e costretto a seguire l’impulso di lei. In fondo a Brett Street, si avvide di essere diretto a sinistra. Cedette. Il fruttivendolo dell’angolo aveva spento la sfolgorante gloria delle sue arance e dei suoi limoni, e piazza Brett era tutta una compatta caligine punteggiata dai foschi aloni dei pochi lampioni che ne definivano la forma triangolare. Le nere sagome dell’uomo e della donna scivolarono a braccetto, rasente i muri, con un’aria d’amanti senza tetto in quella notte miserabile. — Che cosa direste se vi dicessi che venivo appunto in cerca di voi? — chiese la signora Verloc, serrando forte il braccio di lui. — Direi che non avreste potuto trovar nessuno più pronto ad aiutarvi nella presente circostanza, — rispose Ossipon, con l’impressione di far un o immenso. Infatti, il progresso di quella delicata faccenda era tanto rapido, da mozzargli quasi il respiro. — Nella presente circostanza, — ripetè ella lentamente. — Sì. — Sapete qual’è la mia presente circostanza? — gli sussurrò con strana intensità. — L’ho saputo dieci minuti dopo aver comprato il giornale della sera, — spiegò Ossipon con ardore.
— Ho incontrato un individuo che voi, forse, avrete visto qualche volta nella vostra bottega; e dopo quello che m’ha detto, non ho più avuto dubbi. Allora sono venuto qua, domandandomi se voi... voi dovete sapere che io v’amo oltre ogni dire, da quando i miei occhi si posero per la prima volta sul vostro viso! — esclamò, come incapace di contenere oltre il proprio sentimento. A ragione egli riteneva che nessuna donna può essere del tutto incredula di fronte a una dichiarazione simile. Ma non sapeva, però, ch’ella vi si sarebbe abbrancata con tutta la disperata tenacia che l'istinto di conservazione mette nella presa delle persone in procinto d'affogare. Per la vedova di Verloc, il robusto anarchico fu come un raggiante messaggero di vita. Camminavano lentamente e a o. — L’ho pensato, — mormorò ella, appena percettibilmente. — Allora me l’avete letto negli occhi, — dichiarò Ossipon con grande sicurezza. — Sì, — gli bisbigliò la donna all’orecchio. — Un amore come il mio non poteva restare ignorato da una donna come voi. — continuò lui, cercando di staccare la mente da considerazioni materiali, quali. ad esempio, il valore della bottega e l’ammontare della somma depositata in banca dal signor Verloc. Cercò di applicarsi al lato sentimentale di quella faccenda. Nel cuore del suo cuore era un po’ urtato dal proprio successo. Verloc era stato un buon compagno per lui, e certo anche, per quanto gli era stato dato di vedere, un buon marito per lei. Ma ora non voleva guastarsi con la propria fortuna per riguardo a un morto. F risolutamente soppresse la propria simpatia per l’ombra del compagno Verloc. — Non potevo nasconderlo. Ero troppo traboccante di voi. E capisco che voi me l’abbiate letto negli occhi. Ma non potevo immaginarlo. Eravate sempre così fredda, lontana... — Ma si capisce. Ero una donna rispettabile... E, dopo una breve pausa, soggiunse, come tra sè, con un sinistro risentimento: — Finché lui ha fatto di me quella che ora sono.
Ossipon lasciò are, poi, buttando la lealtà alle ortiche, azzardò; —- Ho sempre avuto la convinzione che non fosse degno di voi. Voi meritavate una sorte migliore. Ella lo interruppe amaramente: — Sorte migliore! M’ha truffato sette anni di vita! Egli cercò di giustificare la discrezione della propria condotta. — Sembravate così felice con lui! È stato quello che m’ha reso tanto timido. Sembrava che lo amaste. Ero sorpreso... e geloso. — Amarlo! — esclamò lei in un bisbiglio pieno di ribrezzo e di rabbia. — Amarlo! Sono stata una buona moglie per lui. Sono una donna rispettabile. Credevate che lo amassi? davvero? Sentite, Tom... Il suono di quel nome riempì d’orgoglio il compagno Ossipon. Il suo vero nome era Alessandro, ma i suoi più intimi amici lo chiamavano Tom. Era un nome per amici, per momenti d’espansione. Non sapeva da chi ella avesse potuto sentirlo. Ed evidentemente, non solo l’aveva sentito, ma anche gelosamente custodito nella memoria... e forse anche nel cuore. — Sentite, Tom, io allora ero una ragazza. Ero stanca. Due persone dipendevano da quello che io potevo fare, e allora sembrava che non potessi più far nulla. Due persone... la mamma e il ragazzo. Il quale, poi, era molto più mio che della mamma. Sapeste quante notti ho ate con quel ragazzo sulle ginocchia, tutta sola, su in camera, quando io stessa non avevo ancora otto anni. E poi... Insomma era mio, vi dico... Ma voi non potete capirlo. Un uomo non può capirlo. Che dovevo fare, allora? C’è stato un giovanotto... Il ricordo dell’idillio col giovine macellaio era sopravvissuto tenace in lei, immagine d’un ideale appena intravisto in un cuore agghiacciato dal terrore della forca e dal ribrezzo della morte. — Quello sì, l’amavo, allora. Credo che anche lui me l’abbia letto negli occhi. Venticinque scellini alla settimana! Ma suo padre ha minacciato di scacciarlo 6e faceva la pazzia di sposare una ragazza carica d’una madre sciancata e d’un fratello cretino. Ha continuato a ronzarmi attorno, finché una sera ho trovato il
coraggio di sbattergli la porta in faccia. Venticinque scellini alla settimana! C’era poi quell’altro... un buon pensionante. Che poteva fare una ragazza? Dovevo forse andare a battere il marciapiede? Sembrava buono. ^Vd ogni modo, mi voleva. Che potevo fare con sulle spalle la mamma e quel povero ragazzo? Eh? Ho detto « sì ». Sembrava un brav’uomo, per nulla tirchio. Aveva soldi, non ha mai detto nulla. Sette anni... sì, per sette anni sono stata una buona moglie, proprio una di quelle buone, fedeli, generose... E lui m’amava. E come! Tanto che certe volte desideravo quasi di poter... Sette anni! Per sette anni sua moglie! E sapete che cosa era quel vostro caro amico? Sapete che cosa era?... Era un diavolo! La sovrumana veemenza di quella dichiarazione sbalordì il compagno Ossipon. Ella, fermatasi di botto, gli si piantò davanti, tenendolo per ambo le braccia, sotto la cascante nebbia della buia e solitaria piazza Brett, in cui ogni suono di vita sembrava morire come in un triangolare pozzo di asfalto e di mattoni, di cieche case e d’insensibili pietre. — No, non sapevo, — dichiarò lui, con una specie di sbigottita stupidità, la cui comicità fu del tutto sprecata nei riguardi di quella donna ossessionata dal terror della forca. — Ma ora capisco. Sì... sì, capisco, — continuò, domandandosi intanto di qual genere di atrocità quel Verloc poteva essersi reso colpevole sotto il sonnolento, placido aspetto della sua vita coniugale. Era una situazione veramente terribile. — Capisco, — ripetè; poi, come per una subita ispirazione, mormorò: — Infelice donna! — in tono di sublime commiserazione, invece del solito « poverina! ». Questo non era un caso comune. Sentiva che gli stava capitando qualcosa d’anormale, senza però perdere di vista la grandezza dell’obiettivo. — Infelice e buona! Fu felice di aver trovato quella variante; ma non potè trovar altro. — Ah, ma ora è morto! — fu il meglio che potè soggiungere, mettendo in queste parole una notevole dose di animosità. Ella gli afferrò un braccio con una specie di frenesia. — Ah, lo sapete che è morto? Ve lo siete immaginato? — mormorò come fuor di sè. — Avete immaginato quello che m’è toccato fare? C’era un misto di trionfo, di sollievo e di gratitudine nel tono indefinibile di queste parole. Esso acuì l’attenzione di Ossipon a detrimento del mero senso
letterale. Si domandò che cosa poteva esserle successo, che cosa poteva averla ridotta in quello stato di sovraeccitazione. Giunse perfino a domandarsi se le cause segrete di quella faccenda del parco di Greenwich non stessero nelle infelici circostanze della vita coniugale di Verloc. Giunse perfino a sospettare Verloc di aver scelto quel mezzo straordinario per liberarsi della vita. Perdio! ciò avrebbe spiegato l’assoluta inanità e assurdità di quell’atto. Nessuna manifestazione anarchica era richiesta dalle circostanze del momento. Era anzi vero il contrario. E Verloc lo sapeva non meno di qualunque altro rivoluzionario della sua levatura. E se Verloc avesse voluto semplicemente beffarsi di tutta l’Europa, del mondo rivoluzionario, della polizia, della stampa e del tanto sicuro Professore? cc Infatti, pensò Ossipon, nel suo stupore, deve quasi certamente essere così! Povero diavolo! » E gli parve molto probabile che in quella famigliola il diavolo non fosse stato precisamente lui. Alessandro Ossipon, detto il Dottore, era propenso per natura a giudicare con indulgenza i suoi amici. Le sue amiche le giudicava in un modo eminentemente pratico. La manifesta sorpresa di lei per il fatto ch’egli fosse informato della morte di Verloc, come se non potesse essere immaginata, non lo sorprese affatto. Le donne parlano spesso come i dementi. Ma era curioso di sapere come ella ne fosse stata informata. Dai giornali poteva aver appreso soltanto il fatto: l’uomo fatto a pezzi nel parco di Greenwich, e in modo tale da non poter essere identificato. Teoricamente, era inammissibile che Verloc le avesse lasciato intravedere qualcosa delle proprie intenzioni — quali che esse fossero. Questo problema interessò immensamente il compagno Ossipon, che si fermò di botto. Avevano percorso i tre lati di piazza Brett ed erano giunti nuovamente davanti all’imbocco della via omonima. — Come avete fatto a saperlo? — le chiese in un tono che cercò di rendere appropriato al carattere delle rivelazioni fattegli da lei. Ella tremò violentemente per un po’, prima di rispondere con voce atona: — Dalla polizia. È venuto un Capo Ispettore. Diceva di chiamarsi Heat. M’ha mostrato... A questo punto fu presa da un accesso di soffocazione. — Ah, Tom! l’hanno dovuto raccogliere con un badile! Il seno le si gonfiò di aridi singhiozzi. Ossipon ritrovò subito la propria lingua.
— La polizia? Volete dire che la polizia è già venuta? Ve l’ha detto proprio il Capo Ispettore Heat? — Sì, — confermò lei, con la stessa voce atona. — È venuto. Proprio così. È venuto. Non sapevo nulla. M’ha mostrato un pezzo di soprabito, e... Proprio così. « Conoscete questo? » m’ha detto. — Heat! Heat! E che ha fatto, poi? Ella chinò il capo. — Nulla. Non ha fatto nulla. Se n’è andato. La polizia era dalla sua parte. Anche un altro è venuto. — Un altro? Un altro ispettore? — chiese Ossi- pon, molto agitato e in tono molto simile a quello d’un fanciullo spaventato. — Non lo so. È venuto. Sembrava uno straniero. Forse sarà stato uno di quelli dell’Ambasciata. Il compagno Ossipon venne quasi meno sotto la violenza di questo nuovo colpo. — Ambasciata? Ma sapete quello che dite? Quale Ambasciata? Che volete dire con codesta Ambasciata? — Quella casa di piazza Chesham. La gente contro la quale imprecava tanto. Io non li conosco. Ma che importa! — E quell’individuo che cosa vi ha detto o fatto? — Non ricordo... Nulla... Non m’importa. Non domandatemi, — supplicò con voce stanca. — Bene, bene, non vi domanderò nulla, — assentì teneramente Ossipon. E infatti vi rinunciò, non perchè commosso dal patos di quella voce supplichevole, ma perchè si sentiva mancare il suolo sotto i piedi, e precipitare nella voragine di quella tenebrosa faccenda. Polizia! Ambasciata! Fiuu! Non volendo lanciare il proprio intelletto su vie in cui le proprie luci naturali potevano essere incapaci di guidarlo, scacciò risolutamente dalla mente ogni supposizione, ogni congettura,
ogni teoria. Aveva accanto una donna che non poteva meglio di così buttarglisi tra le braccia, e per il momento doveva considerare anzitutto quel fatto. Ora, dopo quello che aveva udito, più nulla poteva stupirlo. Cosicché, quand ella, come d’un tratto richiamata da un sogno di salvezza, gli parlò con febbrile veemenza della necessità d’un immediata fuga sul Continente, egli non si lasciò sfuggire alcuna esclamazione. Semplicemente disse, con un simulato rincrescimento, che non c’erano più treni, quella notte, e rimase a guardare assorto il viso di lei, velato dalla nera veletta, nella luce d'un lampione velato da un alone di nebbia. Davanti a lui, la nera forma di lei risaltava nel buio come una figura mezzo sgrossata da un blocco di pietra nera. Impossibile dire che cosa sapesse, fino a che punto fosse implicata con poliziotti ed Ambasciate. Ma se ora voleva andarsene, egli certo non poteva obiettare nulla. Anzi, non vedeva l’ora d’andarsene a sua volta. Sentiva che quella faccenda, quella bottega così stranamente familiare a Capi Ispettori e a membri d’Ambasciate straniere, non erano fatte per lui. Ma il resto? I risparmi? Il denaro? — Mi dovete nascondere fino a domattina, — disse con voce sgomenta. — Mi spiace, cara, ma non posso portarvi dove abito. Divido la camera con un amico. Era alquanto sgomento egli stesso. Al mattino, indubbiamente, quei benedetti tecs sarebbero stati appostati in tutte le stazioni. E una volta in mano di costoro, ella sarebbe certo stata perduta per lui. — Ma voi dovete. Non vi importa proprio nulla di me? Proprio nulla? A che pensate? Pronunciò le parole con violenza, ma lasciò cader scoraggiata la mani congiunte. Seguì un silenzio, durante il quale la nebbia continuò a cadere, e le tenebre a regnare indisturbate su piazza Brett. Non un’anima, nemmeno la vagabonda, spregiudicata e innamorata anima d’un gatto ò nei pressi di quell’uomo e di quella donna, fermi uno di fronte all’altra. — Forse potremmo trovare un alloggio sicuro per stanotte, — disse infine Ossipon. — Ma dovete sapere, cara, che non ho abbastanza denaro... solo pochi pence. Noi rivoluzionari non siamo ricchi.
Egli aveva, in realtà, quindici scellini in tasca. Soggiunse : — Poi bisognerebbe anche partire... e per giunta subito domattina, di buon’ora. Ella non fece nè mossa nè suono e il cuore di Ossipon calò. Apparentemente, ella non aveva nulla da proporre. A un tratto, ella si portò una mano al seno, come per una dolorosa fitta. — Ma io ne ho. Ho il denaro. Ne ho abbastanza. O Tom, andiamo subito! — Quanto avete? — chiese lui, senza muovere piede, poiché era un uomo cauto. — Ho il denaro, vi dico. Tutto il denaro. — Che volete dire con questo? Tutto il denaro depositato alla banca, o come? — chiese incredulo, ma pronto a non stupirsi più di nulla in materia di fortuna. — Sì, tutto quello che c’era. L’ho tutto. — Come mai avete potuto ritirarlo così presto? — Me l’ha dato lui, — mormorò lei, subitamente affranta e tremante. Il compagno Ossipon respinse energicamente l’invadente stupore. — Beh, allora... siamo salvi, — mormorò lentamente. Ella si curvò in avanti e s’accasciò sul petto di lui, dove fu la benvenuta. Aveva tutto il denaro. Il suo cappello sbarrava la via a grandi effusioni, e la veletta non meno. Egli era adeguato nelle proprie manifestazioni, ma niente altro. Ella le ricevette senza opporre resistenza, ma anche senza abbandono: ivamente, come mezzo incosciente. Si divincolò dal molle abbraccio senza difficoltà. — Voi mi salverete, lom — prese a dire, arretrando, senza però abbandonare i due lembi dell’umido soprabito di lui. — Salvatemi. Nascondetemi. Non lasciatemi arrestare. Piuttosto uccidetemi. Da me non ne avrei il coraggio... non potrei, non potrei... nemmeno per fuggire quello che tanto mi spaventa. — Ma di che avete paura? — Come? Non avete ancora capito?
Distratta dalla vividezza delle sue paurose apprensioni, e col capo traboccante d'incontenibili parole che alimentavano nella sua mente l’orrore della situazione, credeva che la sua incoerenza fosse la chiarezza stessa. Non sapeva di non aver ancora detto nulla con le sue frasi sconnesse, completate soltanto in cuor suo. Aveva provato il sollievo d’una piena confessione, e dato un particolare significato ad ogni frase pronunciata dal compagno Ossipon, le cui cognizioni non somigliavano minimamente alle sue. — Non avete ancora capito? — e la voce le cadde. — Eppure non ci vuol tanto a capire che cosa può farmi paura, — continuò in un amaro e cupo mormorio. — Tutto, ma non questo... non questo... non questo. Dovete promettermi d’uccidermi prima, — e diede ripetuti strattoni ai lembi del soprabito. Egli l’assicurò brevemente che, da parte sua, non occorrevano promesse, curando, però, di non contraddirla, poiché aveva avuto molto da fare con donne eccitate, e in generale preferiva lasciarsi guidare dalla propria esperienza piuttosto che ricorrere ogni volta alla propria sagacia. In quel caso speciale, poi, la sua sagacia era occupata da altre cose. Le parole volano, soprattutto quelle delle donne, mentre rimane il problema dei pasti quotidiani. La natura insulare della Gran Brettagna gli apparve sotto una forma odiosa. « Tanto varrebbe farmi metter dentro ogni notte, » pensò irritato e non meno depresso che se avesse dovuto scalare un muro con quella donna sulle spalle. A un tratto, si battè la fronte. Gli era balenato nella mente il ricordo del servizio di Southampton-St. Malò. La nave salpava verso mezzanotte. C’era un treno alle dieci e mezzo. Subito tornò di buon animo e fu pronto ad agire. — Da Waterloo station. Il tempo non manca. Andiamo bene... Ma che c’è, adesso? Non è questa la strada. Ella, che aveva fortemente agganciato il braccio al suo, stava tirandolo nella Brett Street. — Ho dimenticato di chiudere la porta, — gli bisbigliò terribilmente agitata. La bottega e quanto c’era in essa avevano cessato d’interessare il compagno Ossipon. Questi sapeva limitare i propri desideri. Fu sul punto di dire: « Che importa? Lasciate che rimanga, » ma si trattenne. Non gli piaceva discutere per inezie. Anzi, allungò notevolmente il o, al pensiero ch’ella poteva aver lasciato il denaro nel cassetto. Ma quella sua buona disposizione non fu nulla
accanto alla febbrile impazienza di lei. La bottega apparve buia come prima. La porta era socchiusa. Ella, reggendosi allo stipite, annaspò: — Nessuno è venuto. Guardate. La luco*., la luce del retro. Ossipon, allungando il collo, vide un fievole barlume in fondo alle tenebre della bottega. — Vedo. La voce di lei giunse molto fioca da dietro la veletta: — L’ho lasciata accesa. E come egli aspettava ch’ella entrasse per la prima, soggiunse: — Entrate e spegnetela... altrimenti impazzisco. Per quanto questa proposta fosse stranamente motivata, egli non fece obiezione immediata. Chiese semplicemente: — Dov’è il denaro? — Su di me! Andate, Tom. Presto! Spegnetela... Andate, — gridò, spingendolo da tergo per ambo le spalle. Non aspettandosi uno sfoggio di forza fisica, il compagno Ossipon precipitò fin quasi in fondo alla bottega, sotto la violenta spinta. Rimase stupito dalla forza di quella donna, e scandalizzato da quel modo di procedere. Ma non tornò sulla strada per redarguirla severamente. Cominciava ad essere sgradevolmente impressionato dalla fantastica condotta della donna, e quella sarebbe stata un’ottima occasione per rimetterla a posto. Nullameno, avanzò calmo calmo e, scansando senza incidenti l’estremità del banco, raggiunse la porta vetrata del retro. La tendina essendo alquanto scostata, egli, per un impulso naturalissimo, sbirciò dentro, giusto mentre stava per girar la maniglia. Sbirciò dentro così, senza intenzione nè curiosità di sorta. Sbirciò dentro semplicemente perchè non potè non sbirciarvi. E così vide Verloc placidamente sdraiato sul divano.
Un urlo sfuggitogli dal fondo dei visceri gli morì in gola, mettendogli un sapore grasso, malato, sulle labbra. Al tempo stesso, la sua personalità spirituale spiccò un gran salto indietro. Ma il corpo, rimasto così senza guida intellettuale, s’aggrappò alla maniglia dell’uscio con tutta l’impensabile forza dell’istinto. Il robusto anarchico non vacillò neppure. Rimase a guardare col viso contro il vetro e gli occhi fuori dell’orbita». Avrebbe dato qualunque cosa per andarsene, ma la ragione che gli ritornava lo assicurò ch’era meglio non abbandonare quella maniglia. Che cos’era? Pazzia? Incubo? O semplicemente una trappola in cui era stato adescato con diabolica astuzia? Ma perchè? Perchè? Non poteva capire. Senza alcun senso di colpa in cuore, con la coscienza perfettamente tranquilla, almeno per quanto riguardava quella gente, l’idea di poter essere assassinato per misteriose ragioni dai coniugi Verloc gli ò non tanto per la mente quanto per la cavità dello stomaco, lasciandovi una scia di dolorosa debolezza, un vero malessere. Per un momento — un lungo momento — si sentì male in modo tutto speciale. E intanto continuava a guardare. Verloc stava sempre coricato, immobile, simulando il sonno per ragioni sue proprie, mentre quella sua donna brutale stava di guardia all’uscio — invisibile e silenziosa sulla buia strada deserta. 0 che forse tutto ciò era stato preparato dalla polizia? Ma la modestia di Ossipon respinse tale supposizione. Il senso reale di quella scena penetrò in lui solo attraverso la contemplazione del cappello. Gli parve una cosa straordinaria, una rivelazione, un segno. Nero e con le tese in su, giaceva per terra davanti il divano, come per ricevere il contributo d’un soldo dalla gente venuta a contemplare Verloc, riposante sul divano nella pienezza dei suoi agi domestici. Da quel cappello, gli occhi del robusto anarchico arono alla tavola fuori di posto, s’indugiarono sui cocci del piatto, e infine ricevettero una specie d’urto ottico dalla vista di qualcosa di bianco luccicante sotto le palpebre imperfettamente abbassate dell’uomo sdraiato sul divano. Ora costui gli parve non tanto addormentato quanto disteso col capo inclinato, come se si guardasse insistentemente il seno ministro, E quando Ossipon ebbe notato il manico del coltello, si staccò dall'uscio vetrato e barcollò violentemente. Lo sbattere della porta di strada gli fece tremare il cuore di terror panico. Quella casa, col suo padrone impotente, poteva ancora essere una trappola — una terribile trappola. Ora egli non aveva più nessun’idea precisa di quello che gli stava capitando. Cozzando l’anca contro lo spigolo del banco, fece una giravolta, traballò con un grido di dolore, e, nello strepito assordante del camlo fesso, si sentì le braccia strette ai fianchi da un convulso abbraccio, mentre le fredde
labbra d'una donna gli strisciavano su un’orecchio per dirgli: — Un poliziotto! M’ha vista! Egli cessò di lottare. Gli sembrava ch'ella non dovesse più lasciarlo. Le sue braccia s'erano allacciate con un inestricabile groviglio di dita sulla robusta schiena di lui. Mentre il o avvicinava, i loro respiri si fecero rapidi, affannosi, petto contro petto, come per lo sforzo d'una lotta mortale. E l’attesa fu lunga. Il poliziotto, sul marciapiede, aveva realmente intravisto qualcosa della signora Verloc; ma, venendo dal corso, sfavillante di luci, aveva scorto di lei soltanto un’ombra fugace. Era anzi tutt’altro che sicuro di aver visto quell’ombra. Non aveva quindi nessuna ragione per affrettare il o. Giunto all’altezza della bottega, osservò ch’era stata chiusa presto. Ma questo non aveva nulla di veramente insolito. I poliziotti di servizio in quei paraggi avevano istruzioni speciali riguardo a quella bottega: (pianto in essa avveniva, non doveva interessarli, finché non si trattasse di disordini molto gravi; ogni loro osservazione, però, doveva essere debitamente riferita. Non vi era nessuna osservazione da fare; ma, per un senso di dovere, e anche per mettersi in pace la coscienza, turbata da quell’impressione d’ombra fugace, il poliziotto attraversò la strada e si provò ad aprire la porta. La serratura automatica, la cui chiavetta riposava per sempre nel taschino del panciotto del fu Verloc, resistette come al solito. E mentre quel coscienzioso poliziotto agitava la maniglia, Ossipon sentì di nuovo strisciar sull’orecchio le fredde labbra della donna : — Se entra, uccidimi!... uccidimi, Tom! Il poliziotto s’allontanò, facendo balenare, più per formalità che per altro, la sua lanterna cieca sulla vetrina. Per un altro momento la coppia di dentro rimase immobile, ansimando petto contro petto. Poi le dita di lei si sciolsero, e le braccia ricaddero lentamente lungo i fianchi. Ossipon s’appoggiò sul banco. Il robusto anarchico aveva molto bisogno d’un appoggio. Tutto ciò era tremendo^ Egli era quasi incapace di parlare. Tuttavia riuscì ad articolare un pensiero lamentoso, mostrando almeno di comprendere la gravità della sua posizione. — Un paio di minuti più tardi, e m’avresti cacciato contro quell’individuo, in giro con la sua maledetta lanterna cieca. La vedova di Verloc, immobile nel mezzo della bottega, disse insistentemente:
— Va dentro e spegni quel lume, Tom. Mi farà impazzire. Ella vide confusamente i suoi veementi gesti di rifiuto. Nulla al mondo poteva indurlo ad entrare nel retro. Non era superstizioso, ma c’era troppo sangue per terra, una gran pozza tutto attorno al cappello. Riteneva di essere stato già troppo vicino a quel cadavere per la propria tranquillità d’animo, e forse anche per la sicurezza del suo collo! — Chiudi il contatore, allora. Là. Guarda. In quell’angolo. La robusta sagoma (lei compagno Ossipon, dopo aver bruscamente attraversato la bottega, s’accovacciò ubbidiente in un angolo; ma la sua era un’ubbidienza priva di grazia. S’agitò nervosamente, e d'un tratto, col suono di un’imprecazione mormorata, la luce, dietro la porta vetrata, si spense, accompagnata da (in affannoso, isterico sospiro della donna. La notte che, su questa terra, ricompensa inevitabilmente le fatiche degli uomini, era caduta su Verloc, il provato rivoluzionario, « uno della vecchia banda », rumile guardiano della società, rinestimabile agente segreto dei dispacci del barone StottWartenheim, un servitore della legge e dell’ordine, fedele, fidato, coscienzioso, ammirevole, che forse aveva solo un'amabile debolezza: l’ideale convinzione di essere amato per se stesso. Ossipon brancicò, retrocedendo verso il banco, in quella fitta atmosfera, nera come l‘inchiostro. La voce della signora Verloc, ritta in mezzo alla bottega, gli vibrò alle spalle, con una disperata protesta. — Non voglio finire sulla forca, Tom! Non voglio!... Ossipon, dal banco, l’ammonì: — Non gridare tanto. Poi parve riflettere profondamente. — L’hai fatto da sola? — le chiese con voce vuota, ma anche con un'apparente calma, che riempì il cuore di lei di grata fiducia nella sua forza protettrice. — Sì, — bisbigliò, invisibile. — Sembra impossibile, — mormorò l'uomo. — Nessuno lo crederebbe.
Ella udì il o di lui, poi subito lo strepito d’un giro di chiave all’uscio del retro. Il compagno Ossipon aveva girato la chiave sul riposo di Verloc, e ciò non per riverenza alla natura eterna di quel riposo o per altra considerazione oscuramente sentimentale, ma semplicemente perchè non era affatto sicuro che non vi fosse qualcuno nascosto in quella casa. Non poteva credere a quella donna, o piuttosto era incapace, in quel momento, di giudicare quello che poteva essere vero, possibile o soltanto probabile in questo stupefacente universo. Era tanto inorridito, da non poter più credere o non credere checchessia nei riguardi di quella straordinaria faccenda, che era cominciata con ispettori di polizia e Ambasciate, e doveva finire chissà come e dove: certo sul patibolo, per qualcuno. Era inorridito dal pensiero di non poter render conto del suo tempo dalle sette in poi, essendosi da allora aggirato nei pressi di Brett Street. Era inorridito dalla presenza di quella terribile donna che lo aveva condotto lì e che certo, s’egli non stava più che attento, lo avrebbe reso sospetto di complicità. Era inorridito dalla rapidità con la quale era stato cacciato in tutti codesti pericoli — anzi, adescato. S’era imbattuto in lei appena una ventina di minuti prima, non più. La voce di lei s’alzò sommessa, implorando pietosamente: — Salvami, Tom! M’impiccheranno. Portami via da questo paese. Lavorerò per te. Sarò la tua schiava. T’amerò. Non ho più nessuno al mondo... Se non mi vuoi tu, chi altro potrebbe volermi? Tacque per un momento; poi, nei fondi della solitudine che le aveva fatto attorno attorno un insignificante rivoletto di sangue, stillante dal manico d’un coltello, trovò una terribile ispirazione — terribile per lei ch’era stata la rispettabile signorina della pensione di piazza Belgravia, e quindi la non meno rispettabile moglie del signor Verloc. — Non ti domanderò di sposarmi. Fece un o avanti, nelle tenebre. Egli aveva orrore di lei. Non si sarebbe punto sorpreso di vederla brandire un coltello destinato al petto di lui. E certo non avrebbe opposto nessuna resistenza. Realmente, in quel momento, non aveva neanche abbastanza energia per gettare un grido. Potè solo domandarle con una strana voce cavernosa : — Dormiva?
— No! — esclamò la donna, e precipitosamente continuò: — Non era addormentato. Ab no! M’aveva giusto detto che nulla poteva toccarlo. E ciò dopo avermi portato via il ragazzo per ammazzarlo... quel povero ragazzo, tanto buono, innocente, innocuo. S'era comodamente sdraiato sul divano, dopo aver ammazzato il ragazzo, il mio ragazzo, lo volevo andar via, sulla strada, per non vederlo pili. E lui allora mi dice: « Vieni qua », dopo avermi detto che io l’avevo aiutato ad ammazzare il ragazzo. Hai capito, Tom? M’ha detto così: « Vieni qua », dopo avermi strappato dal petto il cuore insieme col ragazzo, per buttarlo via, nel fango. Tacque, poi, con voce sognante, ripetè due volte: — Sangue e fango! Sangue e fango! bina gran luce si fece nella mente del compagno Ossipon. Era dunque quel ragazzo mezzo demente ch’era morto nel parco! E la burla gli parve più compiuta che mai — colossale. Al parossismo dello stupore, esclamò scientificamente: — Il degenerato... perdio! — « Vieni qua! » — tornò a dire la voce di lei. — Di che cosa credeva che fossi fatta? Dimmelo tu. Tom. « Vieni qua! » A me! Così! Avevo visto il coltello sulla tavola; sicché fio pensato di andar da lui, dal momento che tanto mi voleva. Sicuro! Sono andata... per l’ultima volta... col coltello. L’orrore ch’ella gl’ispirava giunse al colmo. La sorella del degenerato!... Pure degenerata, e in una forma omicida! Così, a tutti i suoi terrori, se ne aggiunse un altro di natura prettamente scientifica. E quell’insieme di terrori complessi gli diede, lì nel buio, per virtù della sua stessa eccessività, un falso aspetto di calma e di ponderata deliberatezza. Poiché si muoveva e parlava con difficoltà, come se la mente e la volontà gli si fossero intirizzite — e nessuno poteva vedere il suo viso spettrale. Era più morto che vivo. A un tratto balzò a un piede d’altezza. Inaspettatamente, ella aveva profanato l’ininterrottamente preservata decenza della sua casa, con un urlo stridulo, terribile. — Aiutami, Tom! Salvami! Non voglio finire sulla forca !
Egli s’avventò, cercando la sua bocca con la larga mano, e subito l’urlo cessò. Ma in quell’impeto, l’aveva fatta cadere. La sentì avvinghiarglisi alle gambe, e il suo terrore, giunto alla fase culminante, divenne una specie di delusione stupefacente, prese le caratteristiche del delirium tremens. Ora vedeva realmente dei serpenti. Si vide la donna attorcigliata alle membra come un serpente, indistricabilmente. Non era mortale. Era la stessa Morte, la compagna della Vita. Ma ella, come sollevata da quello sfogo, non aveva più nessuna intenzione di comportarsi rumorosamente. — Tom, non mi puoi più respingere, adesso, — gli mormorò da terra. — Mi devi prima schiacciare la testa col tallone. Non ti lascio andare. — Alzati, — le ordinò Ossipon. Il viso di lui s’era fatto tanto livido da essere perfettamente visibile nell’oscurità profondamente nera della bottega; mentre ella, velata, era senza viso, quasi senza forma discernibile. Solo il tremore di qualcosa di piccolo e di chiaro, forse un fiore del cappellino, rivelava la sua persona e i suoi movimenti. A un certo punto, quella macchiolina bianchiccia sorse nelle tenebre. Ella s’era alzata, e Ossipon si pentì di non essere corso subito fuori, sulla strada. Ma presto comprese che non sarebbe valso a nulla. A nuli a! Ella lo avrebbe rincorso. Eo avrebbe inseguito strillando, così da sguinzagliargli dietro tutti i poliziotti della contrada. E chissà che cosa avrebbe poi detto di lui! Fu tanto spaventato, che, per un momento, ebbe la folle voglia di strangolarla lì, al buio. E divenne più spaventato che mai. Ella lo teneva! Si vide vivere atterrito in uno scuro casolare spagnolo o italiano, finché un bel giorno l’avrebbero trovato morto egli pure, con un coltello nel petto, come Verloc. Respirò a fondo. Non osava muoversi. Ed ella aspettava in silenzio il beneplacito del suo salvatore, attingendo conforto dal suo assorto silenzio. A un tratto, egli parlò, con voce quasi naturale. Le sue riflessioni dovevano essere giunte a una conclusione. — Andiamo via, se no perdiamo il treno. — Dove andiamo, Tom? — gli chiese timidamente. Ella non era più una donna libera.
— Prima a Parigi. È la via migliore che... Esci prima tu, e vedi se la strada è sgombra. Ella ubbidì. La sua voce giunse sommessa dalla porta cautamente aperta. — Non c’è nessuno. Ossipon uscì. Nonostante la sua intenzione di far piano, il camlo fesso strepitò dietro la porta richiusa, nella vuota bottega, come se invano cercasse di avvertire il riposante Verloc della definitiva partenza di sua moglie... accompagnata dal suo amico. Nell’hansom, che subito trovarono, il robusto anarchico si fece loquace. Era sempre straordinariamente pallido, con occhi che sembravano essersi incavati di ben mezzo pollice nel suo viso stirato. Ma parve aver pensato a tutto molto metodicamente. — Quando saremo arrivati, — le disse in tono stranamente monotono — entrerai in stazione, come se non ci conoscessimo. Io prenderò i biglietti, e ti darò il tuo sottomano, andoti accanto. Poi andrai nella sala d’aspetto di prima classe per signore sole, e resterai là finché non mancheranno più di dieci minuti alla partenza del treno. Uscirai solo allora. Io sarò fuori, sulla banchina. Ma tu fa sempre finta di non conoscermi. Potremmo avere molti occhi addosso. Stando sola, sarai soltanto una donna che piglia un treno. Io sono conosciuto. Se stessi con te, potrebbero sospettare un rapimento. Hai capito, cara? — soggiunse infine con uno sforzo. — Sì, — rispose lei, stringendoglisi contro tutta irrigidita dalla paura della forca e da quella della morte. — Sì, Tom, — e in cuor suo ripetè, come un atroce ritornello: « La caduta era di quattordici piedi. » — A proposito, dovresti darmi il denaro, ora, se vuoi che prenda i biglietti, — le disse Ossipon senza guardarla. Ella frugò nel busto, continuando a guardar fisso dinanzi a sé, e gli porse il portafogli di pelle suina nuovo fiammante. Egli lo prese senza una parola, e parve cacciarselo dentro il petto. Poi battè, con la mano aperta, sul petto esterno della giacca. Tutto ciò fu fatto senza lo scambio d’una sola occhiata. Erano come due che
cercassero di scorgere una mèta agognata. Solo quando Yhansom svoltò un angolo e si diresse verso il ponte, Ossipon riaprì bocca. — Sai quanto denaro c’è qua dentro? — le chiese lentamente, come rivolto a un folletto appollaiato tra gli orecchi del cavallo. — No, me l’ha dato così. Non ho contato. Non sospettavo nulla allora. Solo dopo... Mosse lievemente la destra. E fu così espressiva la mossa di quella piccola mano, che Ossipon non potè contenere un piccolo brivido. Lo esagerò di proposito mormorando: — Ho freddo. Mi sarò buscato un raffreddore. Ella continuò a guardar fisso dinanzi a sè, la prospettiva della sua fuga. Di tanto in tanto, come un lugubre pennoncello spiegalo attraverso una strada, le parole « La caduta era di quattordici piedi », le balenavano davanti agli occhi che guardavano fisso. Attraverso la nera veletta, il bianco dei suoi occhioni brillava lustro lustro come quello degli occhi d’una donna mascherata. La rigidezza di Ossipon aveva qualcosa di affaristico, di stranamente ufficiale. D'un tratto disse, come se, per parlare, avesse mollato una presa: — Dimmi un po’: sai se tuo... se aveva depositato quel denaro sotto il suo nome o sotto un altro? Ella volse su di lui il viso mascherato e i grandi bagliori bianchi dei suoi occhi. — In altro nome? — gli chiese sopra pensiero. — Cerca di stare attenta. È una cosa della massima importanza. Ora ti spiegherò. La banca ha una lista dei numeri di quei biglietti. Se fossero stati depositati sotto il suo nome, potrebbero servire a rintracciarci, dal momento che non abbiamo altro denaro. Tu non hai altro denaro su di te, vero? Ella scosse il capo in segno negativo. — Proprio niente? — insistè lui.
— Solo pochi spiccioli. — Capirai che, in tal caso, potrebbero essere pericolosi. Bisognerebbe farli cambiare in modo speciale. Molto speciale. Ci toccherebbe forse rinunciare alla metà per farli cambiare in un posto sicuro che conosco a Parigi. In caso diverso, cioè se fossero stati depositati sotto un altro nome, mettiamo Smith, tanto per dare un esempio, potremmo servircene senza rischiar nulla. Capisci? La banca non potrebbe sapere che il signor Verloc e il signor Smith sono una stessa persona. Vedi dunque ch’è una questione della massima importanza. Ci puoi rispondere? No, eh? Ma ella compostamente rispose : — Ora ricordo. Non aveva dato alla banca il suo nome. M’ha detto una volta che teneva i soldi sotto il nome di Prozor. — Ne sei sicura? — Sicurissima. — Non credi che la banca conosca il suo vero nome? 0 qualcuno della banca o... Ella scrollò le spalle. — Come posso sapere? Ti par possibile, Tom? — No, non mi sembra probabile. Però, sarebbe stato meglio sapere... Eccoci arrivati. Esci prima tu, e va dentro diritto. Cammina disinvolta. Egli s’indugiò a pagare il cocchiere coi propri spiccioli. Poi il piano tracciato dalla sua meticolosa previdenza si attuò. Quand’ella, con in mano il proprio biglietto per St. Malò, entrò nella sala d’aspetto per signore, egli si recò al « bar » e in sette minuti vuotò tre bicchieri di brandy caldo. — Cerco di scacciare un raffreddore, — spiegò alla cassiera, con una mossa familiare del capo e una sorridente smorfia. Uscì da quell’intermezzo festoso col viso d’uno che si fosse abbeverato alla stessa fonte del Dolore. Guardò l’orologio della stazione. Era l’ora. Aspettò.
Puntuale, ella uscì, con la veletta calata e tutta nera — nera come la stereotipa Morte, coronata di miseri fiori pallidi. ò accanto ad alcuni uomini che ridevano, e il cui riso sarebbe cessato di colpo a una sola parola ch’ella avesse pronunciata. Il suo incesso era indolente, ma teneva il busto eretto, e il compagno Ossipon stette a guardarla con terrore, prima di muoversi a sua volta. Il treno era formato, ma pochi erano gli scompartimenti spalancati. Data l’epoca dell’anno e il pessimo tempo, pochissimi viaggiatori si servivano di quella corsa. La signora Verloc s’avvicinò lentamente alla fila di scompartimenti vuoti, finché Ossipon le toccò un gomito da tergo. — Entra qui. Ella salì, e rimase sulla piattaforma a guardarsi attorno. Poi si sporse, e in un bisbiglio: — Che c’è, Tom? C’è qualche pericolo? — Aspetta un momento. Ecco un ferroviere. Ella lo vide avvicinare l’uomo in uniforme, e udì questi rispondere: — Benissimo, signore. Si toccò la visiera, e Ossipon ritornò per dirle: — Gli ho detto di non lasciar entrare nessuno nel nostro scompartimento. Ella, seduta nello scompartimento, si sporse. — Pensi a tutto... Mi porterai in salvo, vero, Tom? — soggiunse sotto una raffica d’angoscia, alzando bruscamente la veletta per meglio vedere il suo salvatore. Aveva scoperto un viso che sembrava adamantino. E in quel viso, gli occhi grandi, asciutti, dilatati, erano come due buchi neri in due bianchi e lustri globi. — Non c’è nessun pericolo, — egli rispose, guardando in essi con una serietà che a lei, fuggente la forca, parve piena di forza e di tenerezza. Quella devozione dell’uomo la commosse profondamente, e il viso adamantino perse un po’ della sua spasmodica rigidità del terrore. Il compagno Ossipon la guardò come nessun
amante guardò mai il viso dell’amata. Alessandro Ossipon, detto il Dottore dai suoi compagni anarchici, autore d’un libercolo scientifico (e oltraggioso alla morale), ex-conferenziere di questioni d’igiene in circoli d’operai, era libero dalle pastoie della morale convenzionale, ma assoggettato alle regole della scienza. Era scientifico, e scientificamente guardava ora quella donna, sorella d’un degenerato, pure degenerata e in un modo particolarmente pericoloso. La guardò, e invocò Lombroso, come un contadino si raccomanderebbe al suo santo favorito. La guardò scientificamente. Ne guardò le gote, il naso, gli orecchi... Brutti!... Fatali! E come le labbra di lei si dischio, lievemente rilassate sotto il suo sguardo apionatamente intenso, guardò anche i denti... Non un dubbio gli rimase: era proprio un tipo omicida. E se allora non raccomandò la propria anima inorridita al gran Lombroso, fu unicamente perchè la sua mentalità eminentemente scientifica non poteva ammettere l’esistenza dell’anima. Aveva però in §è uno spirito scientifico, che lo mosse ad attestare, in frasi nervose, sulla banchina di quella stazione: — Era proprio un ragazzo straordinario, quel tuo fratello. Molto interessante da studiarsi. Un tipo perfetto. Perfetto! Parlava scientificamente nel suo segreto terróre. Ed ella, sentendo rievocare il suo caro fratello con tali parole d’ammirazione, ebbe uno scatto in avanti, con un bagliore negli occhi foschi, simile a una raggiera annunciante un acquazzone. — Era proprio così, — bisbigliò dolcemente, con labbra tremanti. — So bene che tu gli badavi sempre. Per questo ti ho amato. — Vi somigliavate in modo quasi incredibile, — continuò Ossipon, dando una voce al proprio terrore, e cercando di nascondere la sua nervosa, spasmodica impazienza. — Sì, ti somigliava molto. Queste parole non avevano in se stesse nulla di simpatico o di particolarmente commovente, ma il solo fatto di quella somiglianza»insistentemente rilevata, bastò per agire poderosamente sull’emotività di lei. Con un piccolo grido e lanciando le mani avanti, ella proruppe finalmente in lacrime. Ossipon salì nello scompartimento, richiuse in fretta lo sportello e si sporse dal finestrino a guardare l’ora della stazione. Ancora otto minuti. Durante i primi tre, ella pianse violentemente, disperatamente e ininterrottamente. Poi si riebbe alquanto, e singhiozzò piano, in un copioso sfogo di lacrime. Cercò di parlare col
suo salvatore, con l’uomo ch’era per lei un messaggero di vita. — O Tom! Come mai ho potuto temere la morte, dopo averlo perduto così crudelmente! Perchè? perchè? Come mai ho potuto essere tanto vile? E forte si lamentò del proprio .attaccamento alla vita, a quella vita senza gioia nè bellezza, e quasi anche senza decenza, riempita soltanto da un’esaltata perseveranza di proposito, capace perfino di uccidere. E, come spesso avviene coi lamenti della povera umanità, ricca di sofferenze, ma povera di parole, la verità, il grido del cuore, si palesò in una logora, artificiosa figura, racimolata nel frasario del sentimento falso. — Come mai ho potuto aver tanta paura di morire! O Tom, ho provato, ma ho avuto paura. Ho provato a farla finita con la vita, ma non ho potuto. Sono vile, vero? Ma forse la coppa del dolore non era ancora colma per me. Fatto sta che quando sei venuto tu... S’interruppe. Poi, in un impeto di fiducia e di gratitudine, ruppe a dire, tra singhiozzi: — Vivrò tutta la vita per te, Tom! — Va in fondo, nell’altro canto, che non ti si veda dalla banchina — le disse Ossipon con sollecitudine. Ella si lasciò accomodare dal suo salvatore, che poi assistette a un’altra crisi di lacrime, anche più violenta della prima. Infine, udì il fischio della partenza. E quando sentì muoversi il treno, un’involontaria contrazione del labbro superiore gli scoprì i denti, dandogli un’espressione di selvaggia risoluzione. Ella non udì nè sentì nulla, e Ossipon, il suo salvatore, rimase fermo. Sentì il treno progredire più veloce, rombando pesantemente al ritmo dei singhiozzi di lei; e, attraversato lo scompartimento con due grandi i, saltò fuori. Saltò giusto all’estremità della banchina, e tale era la sua determinatezza nell’attuare il disperato suo piano, che riuscì, per un vero miracolo, a richiudere quasi in aria lo sportello dello scompartimento. Dopo di che si trovò a ruzzolare col capo tra i piedi, come una lepre mortalmente colpita. Si rialzò dolorante, intontito, livido come un morto, e senza più fiato in gola. Ma era calmo e perfettamente in grado di tener testa all’eccitato gruppo di ferrovieri che subito gli si era raccolto attorno. Spiegò quindi in tono gentile e convincente che sua
moglie era dovuta partire precipitosamente per la Brettagna, per recarsi al capezzale della madre morente; ch’ella era molto agitata e ch’egli, cercando di confortarla, non aveva sentito partire il treno. E alla domanda generale: « Perchè allora non siete rimasto fino a Southampton? » egli oppose l’inesperienza d’una giovine cognata rimasta a casa con tre fanciulli in tenera età, e la conseguente inquietudine di costei per l’assenza di lui, che non avrebbe potuto avvertirla, essendo chiusi gli uffici telegrafici. Aveva quindi seguito un impulso. — Ma spero di non dover più ripeterlo, quel salto, — disse per concludere. Poi sorrise attorno attorno, distribuì alcuni spiccioli e uscì dalla stazione, zoppicando marcatamente. Fuori, benché ricco come non era mai stato in vita sua, rifiutò l’offerta d’una carrozza. — Posso camminare, — assicurò con una risatina amichevole. Poteva infatti camminare. F camminò. Attraversò il ponte. Più tardi, le torri dell’Abbazia videro, nella loro massiccia immobilità, la sua gialla zazzera are sotto i lampioni. Le luci di Victoria la videro pure, e così quelle di Sloane Square e la cancellata del Parco. Infine, egli si ritrovò sul ponte. Il fiume, una sinistra meraviglia d’ombre ferine e di fluenti luccichii, frammisti, sotto, in un nero silenzio, fermò la sua attenzione. Rimase a guardare dal parapetto a lungo. L’orologio della torre rombò un rintocco di bronzo sopra il suo capo chino. Egli guardò il quadrante... La mezza dopo la mezzanotte d’una brutta notte sulla Manica. E il compagno Ossipon s’incamminò di nuovo. La sua tarchiata sagoma fu vista, quella notte, nei luoghi più remoti dell’enorme città mostruosamente addormentata su un tappeto di fanghiglia e sotto un velo di nebbia pungente. Fu vista percorrere strade senza vita nè suono, dileguare negli sterminati rettilinei fiancheggiati da case indistinte e da radi lampioni. Attraversò piazze quadre, ovali, rotonde, percorse monotone strade dai nomi oscuri, dove la polvere dell’umanità s’adagia inerte, lungi dal flusso della vita. Camminava, camminava. E d’un tratto, svoltato in un viale di giardinetti dalle aiuole lebbrose, entrò in una bieca casetta, con un grimaldello che trasse di tasca. Si buttò sul letto tutto vestito, e rimase perfettamente immobile per un quarto d’ora. Poi, bruscamente, si drizzò a sedere, congiungendo le ginocchia e
allacciando le gambe con ambo le mani. I primi albori del giorno lo trovarono con gli occhi aperti e in quella stessa posizione. Quell’uomo che camminava così a lungo, così lontano e così senza mèta, senza mostrare alcun segno di stanchezza, sapeva anche restar seduto così per ore ed ore, senza muovere arto nè muover ciglio. Ma quando il tardo sole brillò nella camera, egli sciolse le mani e cadde rovescio sul guanciale. I suoi occhi fissarono il soffitto. E d’un tratto vi si chio. Il compagno Ossipon dormiva nella luce del sole.
XIII
L’enorme lucchetto di ferro che chiudeva l’armadio era, in quella camera, l’unico oggetto sul quale lo sguardo poteva fermarsi, senza essere sgradevolmente afflitto da bruttezze di forme o da miseria di materiale. Invendibile nel corso ordinario degli affari, per via delle sue nobili proporzioni, era stato ceduto al Professore per pochi denari da un fornitore navale dell’est di Londra. La camera era grande, pulita, rispettabile e povera, di quella povertà che fa pensare alla fame d’ogni bisogno umano, eccettuato soltanto quello del pane. Alle pareti non c’era altro che carta — espansioni di verde arsenicale con certe macchie indelebili qua e là, e tracce d’umidità simili a sbiadite carte geografiche di continenti inabitabili. 304 A una tavola, presso la finestra, sedeva il compagno Ossipon, col capo tra i pugni. Il Professore, rivestito del suo unico vestito di lana logora, ma ciabattante attorno sul nudo pavimento in un paio di pantofole incredibilmente dilapidate, aveva sprofondato le mani nelle tasche stremate della giacca. Parlava al suo robusto ospite d’una visita fatta giorni prima all’apostolo Michaelis. — Quell’individuo non sapeva nulla della morte di Verloc. Naturalmente! Non guarda mai i giornali. Dice clic lo rattristano troppo. Ma non importa. Sono entrato nel suo cottage. Non un’anima attorno. Ho dovuto gridare una mezza dozzina di volte, prima che mi rispondesse. Credevo clic fosse ancora a letto, addormentato. Invece era già al lavoro da quattro ore. Stava in quel suo gabiotto in mezzo a una vera lettiera di manoscritti. Sulla tavola c’era ancora una mezza carota. La sua colazione. Ora fa una dieta di carote crude e d’un po’ di latte. — Chissà che quadro, — fece il compagno Ossipon. — Angelico... Ho raccolto da terra una manciata di cartelle. La miseria dei suoi ragionamenti è semplicemente stupefacente. Neanche l’ombra d’una logica. Non sa pensare consecutivamente. Ma questo è ancor nulla. Ha diviso la sua biografia in tre parti: Fede, Speranza e Carità. Sta elaborando un ideale di mondo ordinato
come un bell’ospedale, con molti giardini e molti fiori, nel quale i forti dovrebbero dedicarsi ai deboli. Il professore lasciò trascorrere una pausa. — Pensa che pazzia! I deboli! La fonte di tutti i mali di questa terra. Gli ho detto che, secondo me, ci vorrebbe, invece, un grande ammazzatoio, per condurci tutti i deboli. Pensa, Ossipon! La fonte di tutti mali. I nostri sinistri signori, i deboli, i titubanti, gli scemi, i vili, i deboli di cuore, gli schiavi dello spirito. Son loro che detengono tutto il potere. Sono la moltitudine. Ad essi appartiene il regno della terra. Sterminateli, sterminateli! Questa è l’unica via di progresso. Sì, credimi, Ossipon. Prima deve andarsene la gran moltitudine dei deboli, poi quella dei solo relativamente forti. Capisci? Prima i ciechi, poi i sordi, poi i muti, poi gli zoppi, poi gli sciancati e così via. Ogni macchia, ogni vizio, ogni pregiudizio, ogni convenzione deve essere eliminato. — Chi rimarrà, allora? — chiese Ossipon. — Io rimarrò... se sarò forte abbastanza, — assicurò il piccolo, striminzito Professore, i cui larghi orecchi, sottili come membrane e largamente discosti dai lati del fragile cranio, presero subitamente una tinta intensamente rossa. — Non ho forse sofferto abbastanza di quell’oppressione dei deboli? — e battendo sulla tasca interna della giacca: — Sono io la forza! Ma ci vuol tempo, tempo! Lasciami tempo! Ah, quella moltitudine tanto stupida da non poter nemmeno sentire pietà o paura! Certe volte, mi vien fatto di pensare che hanno tutto dalla loro parteo Tutto... perfino la morte. — Vieni a bere un po’ di birra con me al Sileno, — propose il robusto Ossipon, dopo un silenzio pervaso dal rapido flap, flap, delle pantofole del perfetto anarchico. Questi accettò. Era di buon umore, quel giorno. Battè sulla spalla di Ossipon. — Birra! Così sia! Andiamo a bere e stiamo allegri, che noi siamo forti, e domani creperemo. Si dispose a calzarsi, e intanto continuò a parlare al suo solito modo conciso e risoluto.
— Che hai, Ossipon? Sembri giù di cera, e ricerchi perfino la mia compagnia. Pare che ti si veda continuamente in luoghi dove gli uomini dicono cretinerie sopra bicchieri di liquori. Perchè? La tua collezione di donne non t’interessa più? Eppure sono esse i deboli che nutrono i forti, eh? Battè sul pavimento un piede calzato, e prese ad allacciare l'altra scarpa, pesante, priva d’ogni traccia di lucido e ricca di molte toppe. Egli sorrise a se stesso. — Dimmi. Ossipon, uomo terribile, quante donne si sono ammazzate per te? O che forse i tuoi trionfi sarebbero stati incompleti a tal punto?... Poiché solo il sangue può sigillar la grandezza. Il sangue. La morte. Guarda la storia. — Va all’inferno! — gli disse Ossipon, senza voltare il capo. — Perchè mai? Lascia questa speranza ai deboli, la cui teologia ha inventato l’Inferno per i forti. Ossipon, io provo per te un amichevole disprezzo. Tu sei incapace d’ammazzare una mosca. Ma avviato al festino in cima a un omnibus, il Professore perdette il suo buon umore. La contemplazione della folla brulicante sui marciapiedi soffocava la sua sicurezza sotto un ponte di dubbi, di disagio, che poi riusciva a scrollarsi di dosso solo dopo un periodo di segregazione nella sua camera, presso il grande armadio chiuso dall’enorme lucchetto. — Sicché, — gli disse por di sopra la spalla il compagno Ossipon, seduto dietro di lui, — Michaelis sogna un mondo fatto come un bell’ospedale? — Sicuro, e un’immensa carità per l'assistenza dei deboli. — Che scemo! I deboli non si possono assistere. Però, potrebbe darsi che non abbia poi tanto torto. Fra un paio di secoli, i dottori governeranno il mondo. Anzi, il regno della scienza è già cominciato. Per ora, regna all’ombra, sì... ma intanto regna. E tutte le scienze devono culminare alla fine in quella della guarigione... non dei deboli, ma dei forti. L’umanità vuol vivere, vivere. — L’umanità non sa che cosa vuole, — assicurò il Professore con un fiducioso balenìo degli occhialoni cerchiati di ferro. — Ma tu lo sai. Poco fa volevi aver tempo, tempo. Bene, aspetta e vedrai che i dottori serviranno anche te... se lo meriterai. Tu credi di essere forte perchè porti
in tasca di che far saltar te e, mettiamo, una ventina d’altri nell’eternità. Ma l’eternità è un brutto buco. È il tempo che ti occorre. Se tu trovassi qualcuno che ti assicurasse dieci anni di vita, ti dichiareresti servitor suo, — Il mio motto è: « Nè Dio nè padrone! » — sentenziò il Professore, alzandosi per scendere dall'omnibus. Ossipon lo seguì. — Vedrai quando sarai coricato colla pancia in aria, — ritorse, saltando dal predellino, dopo l’altro. — Vedrai quando sarà finito il tuo tempo, quella tua misera briciola di tempo, — continuò, traversando la strada e saltando sul marciapiede. — Ossipon, io credo che tu non sia altro che un cialtrone, -— disse il Professore, aprendo da padrone la porta del famoso Sileno. E quando si furono ben seduti a un tavolino, egli diede ulteriore sviluppo a quel suo grazioso concetto. — Tu non sei nemmeno un dottore. Però sei divertente. Il tuo concetto di un’umanità che tira fuori la lingua e si piglia le pillole somministrate da qualche solenne buffone, è degno d’un profeta. Profezia! A che prò pensare a quello che sarà? — e alzò il bicchiere. — Alla distruzione di quello che è, — disse calmo calmo. Bevve, poi s’immerse nel suo solito silenzio. Il pensiero di un'umanità innumerevole come i granelli della sabbia d’un deserto e altrettanto indistruttibile e difficile d a maneggiare, lo opprimeva. Il frastuono delle .bombe si perdeva senza un'eco nella immensità di quei ivi granellini. Giusto come in quella faccenda di Verloc. Chi se ne ricordava ancora? Ossipon, come subitamente costretto da una forza misteriosa, trasse di tasca un giornale molto spiegazzato. Il Professore rialzò il capo a quel fruscio. — Che giornale è? C’è qualche cosa di nuovo? Ossipon trasalì come un sonnambulo spaventato. — Niente, niente. È di dieci giorni fa. Devo averlo dimenticato in tasca, credo.
Ma non buttò via quel rudero. Prima di rimetterlo in tasca, gettò un’occhiata alle ultime righe d’un paragrafo. Le quali dicevano: « Quell'atto folle, disperato, sembra per sempre velato da un mistero impenetrabile ». Così terminava un articoletto di cronaca nera intitolato: «Il suicidio d’una eggera a bordo d’un piroscafo della Manica ». I colori dello stile giornalistico erano familiari al compagno Ossipon. « ...sembra per sempre velato da un mistero impenetrabile ». Sapeva queste parole a memoria. « ...un mistero impenetrabile ». E lasciando penzolare il capo sul petto, il robusto anarchico s’immerse in una profonda meditazione. Era minacciato da questa cosa nella stessa sorgente della propria esistenza. Non poteva più andare incontro alle sue varie conquiste, quelle che corteggiava sulle panchette di Kensington Gardens e quelle che lo aspettavano presso i terreni da vendere, senza temer di sbottare a parlare d’una cosa che sembrava velata per sempre... Cominciava a temere scientificamente la pazzia, in agguato tra quelle parole. « ...per sempre velato... ». Era un’ossessione, una tortura. Ultimamente aveva mancato a diversi appuntamenti. La confidente disposizione di donne di varie classi soddisfaceva le esigenze della sua vanità, e gli riforniva le tasche di mezzi materiali. Doveva vivere. E se non si riforniva di quei mezzi, rischiava di morire di fame insieme co" suoi ideali. « Quell’atto folle, disperato... ». Infatti, per quanto riguardava tutta l’umanità, era molto probabile che un mistero impenetrabile velasse per sempre quell’atto. Ma perchè non anche per lui? Perchè egli solo doveva sapere e non poter liberarsi da quella maledetta nozione? La quale era precisa, quanto può esserla una nozione derivata dalla penna d’un giornalista, precisa fino al limitare di quel « mistero impenetrabile ». Il compagno Ossipon era bene informato. Sapeva che un controllore del piroscafo aveva visto: « Una signora vestita di nero e velata di nero, aggirarsi a mezzanotte nei pressi del piroscafo, sulla banchina. « Volete imbarcarvi, signora? » le aveva chiesto, in modo incoraggiante. « Da questa parte, signora ». Sembrava ch’ella non sapesse che cosa fare. Egli la aiutò a salire a bordo. Ella sembrava molto debole. » Sapeva pure che la stewardess aveva visto una signora tutta in nero, con un viso molto bianco, ritta nel mezzo della vuota cabina per signore. Le aveva
consigliato di coricarsi. Sembrava che quella signora non volesse aprir bocca e avesse grandi dispiaceri. La stewardess del turno seguente non la trovò nella cabina* per signore. Salita sopra coperta, la buona donna trovò l’infelice signora lunga distesa in una sedia a sdraio, sotto la tenda. Aveva gli occhi aperti, ma non rispondeva a nessuna domanda. Sembrava molto ammalata. La stewardess andò a chiamare il capo steward, e di fianco alla sedia a sdraio, entrambi si consultarono sul caso di quella straordinaria e tragica eggera. Parlarono abbastanza forte (poiché ella sembrava non udir nulla) di St. Maio, del console di quei porto e delle comunicazioni da farsi alla famiglia di costei. Poi s'allontanarono per disporre al suo trasporto sotto coperta, poiché aveva davvero un viso da moribonda. Ma il compagno Ossipon sape\u che dietro quella livida maschera di disperazione, c'era una gran lotta contro il terrore e la disperazione stessa, un gian vigore di vitalità, un amore della vita, capace di resistere alle tremende angosce che gettano l'assassino in preda alla paura, la cieca e pazza paura della forca. Sì, egli lo sapeva. La stewardess e il capo steward, però, non sapevano nulla, senonchè, quando tornarono sopra coperta, la sedia a sdraio, occupata cinque minuti prima dalla signora in nero, era vuota. Ella non c'era più. Se n’era andata. Erano le cinque del mattino, e non poteva esservi stato accidente. Un’ora dopo, un marinaio trovò, abbandonata sulla sedia a sdraio, una vera. S’era inserita tra tela e legno, e solo un suo luccichio aveva attirato l'attenzione dell'uomo. Essa portava, incisa internamente, una data: 24 giugno 1879. « Quell'atto folle, disperato, sembra per sempre... ». E il compagno Ossipon rialzò il penduto capo, amato da tante donne dell'Isola, apollineo per l’aureo alone della zazzera folta. Il Professore, intanto, s’era fatto irrequieto. S’alzò. — Fermati, — gli disse imperiosamente Ossipon. — Dimmi un po’ : che ne sai tu della follia e della disperazione? Il Professore si ò la punta della lingua sulle labbra, aride e sottili, e disse in tono dottorale: — Son cose che non esistono. Tutte le ioni
sono morte. 11 mondo è mediocre, sciancato, senza più forze. E la follia e la disperazione sono forze. E ogni forza è un delitto agli occhi degli scemi, dei deboli e di tutti gl’imbecilli che governano il pollaio. Tu sei un mediocre. Verloc, la cui faccenda è stata così destramente soffocata dalla polizia, era un mediocre. E la polizia lo ha assassinato. Era un mediocre. Tutti sono mediocri. Follia e disperazione! Magari esistessero! Me ne servirei di leva per rimuovere il mondo. Ossipon, io ti disprezzo cordialmente. Tu non sai concepire nemmeno quello che i grassi borghesi chiamano delitto. Tu non hai forza. Tacque, sorridendo sardonicamente sotto il freddo balenìo dei pesanti occhiali. — E quella piccola eredità che pare ti sia capitata tra le mani, non ha migliorato la tua intelligenza. Contempla pure la tua birra. Io me ne vado. — La vuoi avere? — gli chiese Ossipon, rialzando il capo a guardarlo con un sorriso idiota. — Che cosa? — Quell’eredità. Tutta. L’incorruttibile Professore si limitò a sorridere. I panni minacciavano di cascargli di dosso per soverchia età, e le scarpe, sformate dalle molte riparazioni e pesanti come piombo, lasciavano are l’acqua ad ogni o. — Mi basta che tu mi saldi una piccola fattura di prodotti chimici che ordinerò domani. Mi occorrono maledettamente. Siamo intesi, eh? Ossipon riabbassò lentamente il capo. Era solo. « Un mistero impenetrabile... » Gli parve vedere,, sospeso in aria dinanzi a lui, il proprio cervello pulsante al ritmo d’un mistero impenetrabile. Era evidentemente tocco... « Quell’atto folle, disperato... » Il piano automatico, presso la porta, suonò fieramente un valzer; e subito dopo, il silenzio ricadde di colpo, come stizzito. Il compagno Ossipon uscì dalla birreria del Sileno. Sulla soglia ristette perplesso, battendo gli occhi come abbacinato per un soie non precisamente
risplendente. E il giornale menzionante il suicidio della signora in nero era sempre nella sua tasca, il suo cuore vi batteva giusto contro. Il suicidio d'una signora... quell'atto folle, disperato.... Camminò per le strade, senza guardare dove i piedi lo portassero; e così avanzò in direzione diametralmente opposta al luogo che aveva fissato per convegno a una signora (una governante piuttosto stagionata, che aveva riposto tutta la sua fiducia in un capo apollineo). Se ne allontanava risolutamente. Non poteva più sopportare la presenza di donne. Era la rovina. Non poteva neanche più pensare, lavorare, dormire, mangiare. Poteva solo bere, e solo il bere poteva dargli piacere e speranze. Era la rovina. La sua carriera rivoluzionaria, sostenuta dalla sentimentalità e dalla credulità di molte donne, era minacciata ila un mistero impenetrabile, il mistero d'un cervello umano erroneamente pulsante al ritmo di frasi giornalistiche... « ... sembra per sempre velato... ». Stava sdrucciolando inevitabilmente verso il rigagnolo... della follia e della disperazione. « Devo essere malato, » mormorò tra sè con scientifica introspezione. Già la sua tarchiata sagoma, munita d’un gruzzolo raggranellato al servizio segreto di un’Ambasciata (ereditato dal signor Verloc), camminava nel mezzo d’un rigagnolo, come ad allenarsi per. un inevitabile domani. Già curvava le ampie spalle e il ricciuto capo apollineo, come a ricevere il giogo di cuoio dell’asse della ghigliottina. E, come in quella notte già lontana di più d’una settimana, camminò senza mèta, senza sentir stanchezza, senza sentir nulla, nulla vedere, nulla udire, « Un mistero impenetrabile... » Continuò a camminare ciecamente. « Quell’atto folle, disperato... » Anche l’incorruttibile Professore camminava, distogliendo lo sguardo dall’odiosa moltitudine umana. Egli non aveva domani. Non voleva averne. Aveva la forza. I suoi pensieri accarezzavano immagini di rovina e di distruzione. Camminava fragile, insignificante, logoro, miserabile — e terribile nella semplicità della sua idea di rigenerare il mondo per mezzo della follia e della disperazione. Nessuno lo guardava. E così ò, insospettato e mortifero come una peste, per le strade piene di uomini.