Graziella Maffei
Le nevi di un tempo
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Indice dei contenuti
Le nevi di un tempo Cap. 1 Cap. 2 Cap. 3 Cap. 4 Cap. 5 Cap. 6 Cap. 7 Cap. 8 Cap. 9 Cap. 10 Cap. 11
Le nevi di un tempo
Graziella Maffei
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Cap. 1
Io mi sto disfacendo. Fino a uno o due anni fa ero sinceramente convinto di essere un privilegiato. Guardavo i miei coetanei, amici o semplici conoscenti, e ne traevo un inconfessabile senso di superiorità, perché non perdevo i capelli, avevo quasi tutti i denti e non sentivo il minimo dolore alla schiena o alle gambe. Loro talvolta, di rado devo aggiungere, si lasciavano scappare una lamentela sui mali che li affliggevano, ma ho scoperto che sono le donne a lamentarsi in modo indecente. Ad una certa età sembra che il loro unico argomento di conversazione siano i loro disturbi fisici e fanno a gara a chi è la più malandata. “La mattina non riesco neppure ad alzarmi, devo prendere subito una pillola, solo per scendere dal letto” oppure “Stanotte la schiena non mi ha dato tregua, non ho chiuso occhio dai dolori.” Però se sono invitate ad una cena o ad un torneo di bridge, corrono come lepri. Noi siamo decisamente più rigorosi. Ad ogni modo, personalmente stavo benissimo. Il pensionamento non mi aveva provocato depressioni, avevo tutto il tempo per dedicarmi ai miei hobby preferiti che un T.F.R. generoso e una pensione abbastanza cospicua mi permettevano di seguire. Stranamente in famiglia non c’erano problemi impellenti e credevo di aver pure raggiunto la pace dei sensi. E’ vero, c’è stata un’ombra nel mio ato per qualcosa che ho fatto e di cui mi sono sempre vergognato, ma è ato tanto tempo e a poco a poco la cosa è scivolata tra quelle da dimenticare: giorno dopo giorno i fatti non sembrano più così importanti, vieni a conoscenza di episodi accaduti ad altri e che ti sembrano ben peggiori: insomma, siamo sempre indotti a perdonarci, ed è esattamente quello che avevo fatto io. Non ne parlerei volentieri e può darsi che lo confesserò in punto di morte se ci sarà il tempo di chiamare un prete, ma, tutte le volte che sono stato assalito da questo pensiero, ho cercato di ricacciarlo perché avevo a disposizione molto tempo ancora e non era il caso di lasciarsi abbattere da idee così funeree. Forse, come quasi tutti gli uomini in buona salute, nel mio inconscio pensavo che per me si sarebbero rovesciate le regole della natura ed io non sarei morto mai. Tuttavia ci ha pensato la vita a rimettere le cose a posto. Un giorno, scendendo a
o veloce una scala munita di quelle maledettissime bande antisdrucciolo, una delle mie arcimaledette scarpe da tennis, debitamente firmate, si è bruscamente inceppata, trattenuta il tempo necessario per farmi sbilanciare, perdere l’equilibrio, saltare diversi gradini e atterrare malamente in fondo alla scala. Ho capito subito che qualcosa non andava, un dolore fortissimo al braccio destro mi causava persino un senso di nausea, i soccorritori, animati dalle migliori intenzioni, mi provocavano ulteriori sofferenze. Ho accettato di essere accompagnato al pronto soccorso sempre nella speranza che, come era accaduto per tutta la vita, la piccola avventura si risolvesse in niente di grave. Invece no. C’era una frattura, composta, mi rassicurarono i due medici che come aspetto potevano sembrare i miei figli. Che strano! Fino ad un certo punto i medici sono sempre più vecchi di te e poi, all’improvviso, diventano infinitamente più giovani e il primo pensiero che ti assale è quello della loro credibilità. Basta. La frattura alla spalla è stato il giro di boa della mia fino ad allora felicissima esistenza. Dal punto di vista della salute, tengo a precisare, e, siccome la buona salute non permette di solito pensieri malinconici, anche dal punto di vista del morale. . Hanno cominciato a farmi esami, si sono messi le mani tra i capelli quando sono stati informati che non avevo mai fatto un elettrocardiogramma e che le analisi del sangue non erano state molto frequenti. Mi hanno fatto tutto e che cosa è venuto fuori? Che il cuore andava bene, ma avevo la pressione alta, il colesterolo cattivo molto al di sopra della norma e quello buono un po’ troppo normale. In più, come non bastasse, ero diabetico. Devo dire che questa parola ebbe il potere di sconvolgermi. Avevo conosciuto soltanto una persona afflitta da questa malattia ed era un ometto grassoccio, molle come un budino malriuscito che rifiutava persino un succo d’arancia esibendo un mesto sorriso. Mi aveva fatto pena. Impazzii all’idea di trasformarmi in una persona simile. Non ero mai stato particolarmente goloso di dolci, anzi certe torte farcite mi ripugnavano, la cioccolata non mi aveva mai tentato, di certo non sarei mai entrato in una pasticceria per soddisfare una voglia irresistibile. Ma improvvisamente l’immagine e il ricordo di bomboloni caldi e fragranti, di gelati che si sciolgono in bocca avvolgendola di un sapore delizioso, di mandarini canditi che quando li addenti lasciano scivolar fuori una goccia di nettare, si presentarono imperiosamente alla mia mente con tutta la concupiscenza delle cose proibite. Diabete. Questa era una parola mostruosa e definitiva. Definitiva come la morte. Tutti gli avvenimenti irreversibili mi hanno sempre suscitato questa associazione di pensiero. “Ha perso una gamba nell’incidente. Non potrà mai più camminare
come prima.” Definitivo. E ineluttabile. “ E’ guarito dal tumore, ma non potrà mai più fare la vita di prima e le scalate che tanto adorava.” Definitivo. Una specie di spartiacque fra la tua vita da persona sana e quella da malato. Una sorta di rassegnata condanna che finirà solo il giorno che finirai tu. Da qui l’accostamento alla morte. E, per un certo verso, io avevo cominciato a morire. E mi rendevo conto di quanto ero stato stupido a scherzare con i malanni degli altri: avrei desiderato mille volte avere dolori reumatici che con qualche pillola si attenuano e che ti consentono di mangiare e bere tutto quello che vuoi. E’ per questo che mi sto disfacendo: fisicamente, perché il braccio continua a farmi un male boia, ho tutte quelle cose spaventose che non si riesce a capire coma mai ancora non mi abbiano procurato un infarto e moralmente perché l’avermi privato delle mie certezze, oltre ad un stato di abbattimento mai conosciuto, mi ha reso partecipe del fatto che gli anni sono ati anche per me. Inoltre, da qualche tempo, mi rendo conto che guardo Luciana. Dopo più di quaranta anni ati con una donna, ben difficilmente la guardi: la vedi, ma non la osservi. E invece proprio questo mi sono messo a fare. La guardo quando se ne sta davanti al televisore, fumando una sigaretta o scartando uno dei cioccolatini che tiene sempre in una coppa sul tavolino. Una tranquilla, normale e serena donna borghese, come è stata una tranquilla, serena e normale ragazza borghese ed una giovane mamma, tranquilla, serena e normale. Poche volte ho visto i suoi occhi azzurri scurirsi per un avvenimento negativo, poche volte ha dimostrato apprensione o paura: per quanto mi sforzi, nei miei ricordi lei è sempre stata presente a se stessa, calma e serafica. Ha mangiato per tutta la vita padellate di pesci fritti, salami piccanti, montagne di formaggi che adora, non si è mai risparmiata davanti ai dolci, producendone persino di molto buoni. Ha bevuto sempre dell’ottimo vino e fumato in modo eccessivo. Inoltre non è mai stata un tipo sportivo preferendo la lettura, il teatro e il cinema. Si è mossa poco, giusto quel tanto necessario a superare le settimane bianche che, peraltro, le piacevano molto. Eppure lei non ha niente, le sue analisi cui si sottopone con encomiabile regolarità sono sempre perfette come quelle di un bambino. Anche lei, durante il corso della vita, ha perso due o tre denti, ma sono stati subito rimpiazzati con l’implantologia e la cosa si è fermata lì. Ha avuto due figli senza quasi accorgersene, non è ingrassata in modo sensibile, soltanto quei tre o
quattro chili che le sono rimasti addosso ma che hanno reso la sua figura più femminile e più soffice. Ormai è una vecchia signora che non dimostra i suoi anni, la sua pelle sul viso é ancora poco grinzosa e soltanto quella del collo e delle braccia denunciano il are del tempo. E allora mi domando: “Perchè?” Non è un vero sentimento di invidia o di astio, Dio mio, le voglio bene e dovrei essere contento per lei. E invece non lo trovo giusto: da quando non sono più stato un giovanotto, ho cercato di attenermi agli insegnamenti che medici, televisione e riviste non fanno che propinarci: una dieta sana, ricca di verdure e di frutta, quanto più moto possibile, niente fumo e niente superalcolici. Ormai lo sanno anche le pietre. Non dico di essere diventato un maniaco, non mi sono mai privato di nulla, ma l’ho fatto con moderazione: e poi c’era lo sci, che mi piace immensamente, e il tennis che non mi apiona allo stesso modo ma che ho sempre praticato con alterne fortune. D’estate, mentre Luciana, come fanno quasi tutte le donne, si lasciava rosolare dal sole stesa sul lettino di una spiaggia, io ho nuotato, sono rimasto in mare delle ore e poi c’erano le eggiate nei boschi alla ricerca di funghi e qualunque altra occasione per non rimanere ozioso. Lei no. Detesta la fatica fisica e non capisce perché la gente si sottoponga alla tortura di una camminata in salita col sole d’agosto sulla testa. Stando alle statistiche, dovrebbe essere già morta, e invece non ci pensa neppure. Ma la cosa più tremenda è che, da quando mi sono saltate fuori tutte queste magagne, mi accarezza con rinnovato amore e dice: “ Dato che la pasta asciutta ti fa male, ho preparato un pinzimonio grandioso:” La odio. Cioè, la odio quando dice così. Mi rendo conto che la sua è semplicemente premura nei miei confronti, ma non ho voglia di spiegarle che essere sovente trattato da malato fa innervosire parecchio, soprattutto uno come me, che aveva la certezza di essere inossidabile. E allora la osservo cercando di trovarle qualche segno devastante di un’incipiente decadenza. Ha parecchie macchie sulle mani e qualcuna anche sul viso: forse la melanina sollecitata per tutti quegli anni ha deciso di vendicarsi; se annuncia di avere l’ emicrania, cosa accaduta tre o quattro volte nella vita, le suggerisco di andare a coricarsi e di prendere un antidolorifico, così, semplicemente per tentare di bilanciare le sue premure nei miei confronti. Ma è troppa la differenza, io mi sto riducendo un povero vecchio debilitato e destinato ad un’uscita di scena ingloriosa, in mezzo a dottori, tubicini e bottiglie di soluzioni per endovena. Non riesco a tollerare questo pensiero ma più tento di respingerlo, più si
impossessa della mia mente. La depressione sta lentamente strisciando nelle mie vene, distrugge la voglia di vivere che ancora mi resta, giorno dopo giorno guadagna terreno e diventa sempre più forte: uno di questi giorni smetterò di lottare e mi abbandonerò, vinto, fra le sue grinfie trionfanti. “Ho il diabete!” qualcuno grida incessantemente dentro di me, una malattia ritenuta da molti quasi vergognosa e di cui non parlare mai come si fa per la sifilide o per la schizofrenia. E soprattutto lo avrò per sempre, fino a che non avrà divorato ogni organo, insaziabile e inarrestabile. Quando dovevo portare il tutore per tenere fermo il braccio avevo una scusa fin troppo evidente per starmene chiuso in salotto davanti alla televisione, oppure nello studio a giocare con il computer. Non volevo vedere nessuno, ma gli amici insistevano per venirmi a trovare, per farmi distrarre portandomi al cinema o a mangiare la pizza. Li seguivo senza voglia, guardavo i film, sedevo al ristorante senza quasi mai prender parte alla conversazione. Luciana mi tagliava la pizza, mi versava il vino, insomma mi aveva finalmente in suo potere. Odiavo quelle serate e alla fine tutti se ne accorsero e lasciarono perdere: prima o poi sarei rientrato in me stesso. Ma quando potei usare nuovamente il braccio, lei divenne ancor più noiosa - Ma perché non vai a giocare a tennis?- dice stufa di vedermi ciondolare per casa – L’hai sempre fatto e adesso te lo hanno pure consigliato. Moto, hanno detto, devi fare moto. – Ecco, appunto: lo devo fare e allora non mi interessa più. Tutte le cose obbligatorie mi hanno sempre procurato un prurito allergico: i pranzi di Natale, obbligatori pena la scomunica, le vacanze in agosto, il riconoscimento di capolavori a film che mi avevano annoiato a morte, i regali consegnati nei giorni dei compleanni...Perché? Finché non ci sono stati i bambini ho sempre ignorato questi comportamenti, se avevo voglia di andare a sciare il giorno di Natale, ci andavo ed ero mille volte più felice sulle piste deserte che seduto ad un tavolo a rimpinzarmi come un tacchino. Poi ho dovuto cedere: e, dato che il sacrificio era fatto in nome della felicità dei miei figli, non mi è neppure sembrato così difficile. I bambini cambiano la vita, lo sanno tutti, la mia, direi che è stata trasformata. Ma ne sono sempre stato felice. Adesso loro sono adulti e poco disposti a dedicarmi più di qualche ora alla
settimana. In compenso ci lasciano con estremo piacere la loro prole, una bimba di mia figlia e i due maschietti di mio figlio. Sono adorabili, tutti e tre bellissimi ma anche molto stancanti. Non fanno che correre, bisticciare e spingersi: poi si mettono a piangere e vengono da me o da Luciana a farsi consolare. Devo riconoscere, e la cosa non mi fa onore, che ho una preferenza: per la piccola Claudia ho perso la testa. E’ una bambina da cartolina: occhi blu, gote paffute e piene di salute, lunghi capelli biondi leggermente ondulati. Ha tre anni e sa già come fare per ottenere quello che le sta a cuore. Lo chiede con grazia, facendo risplendere gli occhioni e comparire due deliziose fossette agli angoli della bocca. E’ già dannatamente femminile. Ed è perfettamente conscia di avermi in suo potere. Per i due maschietti, più grandi di lei, il maggiore frequenta già la terza elementare, provo lo stesso amore di tutti i nonni per i loro nipoti. Ma non adorazione. E così riesco ad essere molto più obbiettivo nei loro confronti. Ad ogni modo, anche la loro presenza non riesce a farmi ritrovare la serenità e la gioiosità di prima. Non ho più voglia di mettermi a giocare con loro, di nascondermi dietro alle tende per spaventarli con un agguato, di are ore ed ore a muovere soldatini sui campi di battaglia. Luciana ed o abbiamo in odio i giochini elettronici che fanno rimbecillire i bambini, perciò ci siamo ripromessi di dar loro delle valide alternative: se il tempo è bello, usciamo e li portiamo ai giardini muniti di giochi dove possano scatenare la loro vivacità: tappeti su cui saltare, casette da esplorare, scivoli da cui precipitare. Se dobbiamo stare in casa rispolveriamo i giochi della nostra infanzia e cerchiamo di adattarli a questa generazione per certi versi così spaventosamente adulta e per altri così più sprovveduta di come eravamo noi, bambini durante la guerra. Ma adesso tutto questo non mi attira più. Ed un giorno che c’era un silenzio pesante ed avvolgente in tutta la casa, i bambini non erano venuti e Luciana si era messa il cappotto nuovo per correre ad un torneo di bridge, ho provato per la prima volta il desiderio di ritrovare i miei ricordi, di riare gli avvenimenti della mia vita, quelli di cui riuscivo ad avere maggior rimpianto.. Sapevo benissimo che questo era un altro gradino da scendere verso la vecchiaia: tutti gli anziani si rifugiano nella loro giovinezza, nelle loro speranze quasi sempre deluse, nelle canzoni che hanno segnato la loro epoca. E’ tutto naturale, una tappa direi quasi obbligatoria. Ed io c’ero arrivato.
E così mi sono apparsi alcuni fra i miei compagni di scuola, quelli con cui ero stato più in sintonia, con cui avevo condiviso scherzi impietosi nei confronti di un professore antipatico, piccole bugie per marinare la scuola, primi innamoramenti infelicissimi. I loro volti mi tornarono in mente come erano allora, cristallizzati nel tempo, fermi per sempre in un momento irripetibile della vita come quelli che sorridono da una foto scolorita. E mi é venuta una voglia matta di riscontrare come il tempo li avesse cambiati. Con alcuni l’amicizia era continuata anche all’università e anche dopo, quando ci eravamo presentati le rispettive fidanzate e ci eravamo invitati ai nostri matrimoni. Poi ci eravamo persi di vista: é fatale. La vita sposta la gente a suo piacere: uno trova un lavoro in un’altra città, un altro ha sposato una donna autoritaria che non gli lascia spazio per le vecchie amicizie imponendogliene delle nuove, un terzo si rivela un uomo d’affari efficientissimo che lavora dodici ore al giorno per sei giorni e non trova il tempo neppure per la sua famiglia. Ma c’era Carlo Pontiroli, il più scapestrato. Il più simpatico di tutti. Le sue mascalzonate, raffrontate a quelle dei veri teppisti dei nostri giorni, apparirebbero come giochi per educande, ma all’epoca gli avevano procurato la fama di ragazzo da evitare perché destinato ad un cattivo futuro. Al liceo era lo spauracchio di tutti i professori, tranne quello di lettere che lo adorava perché era il più bravo e il più dotato. E forse era stato proprio questo docente a salvarlo dalla sospensione due o tre volte. Nonostante quello che di lui pensavano i miei e nonostante le loro raccomandazioni perché non lo frequentassi, io avevo continuato a farlo e con molto piacere. Era divertente, dissacrante, sicuro di se stesso: era anche molto intelligente e, dopo non aver quasi aperto i libri per tutto l’anno, gli bastavano poche settimane di studio per essere sempre promosso. Non si sapeva mai come sarebbe finita una serata in sua compagnia, perché le idee gli spuntavano nella testa all’improvviso e voleva metterle subito in pratica. Una sera di quasi estate, era l’anno della maturità e faceva un caldo eccessivo per il mese di maggio, eravamo stati invitati ad una festa di compleanno da una nostra compagna che, avendo invitato tutta la classe, non si era sentita di lasciar fuori soltanto la pecora nera. Lo aveva invitato a denti stretti e si era fatta promettere che non avrebbe fatto stranezze. “Speriamo in bene!” aveva concluso sollevando in un sospiro il suo affascinante tentativo di seno.
Naturalmente Carlo ed io ci andammo insieme. Avevamo lo smoking acquistato da poco dai nostri genitori felici di quella prova tangibile di perbenismo e che faceva pensare ad una festa molto casalinga e molto castigata. Mi ò a prendere lui con l’auto del padre e non ho mai saputo se il poveruomo ne fosse a conoscenza: il fatto è che Carlo, da quando aveva la patente, e cioè da pochi mesi, si presentava sovente con questa millecento abbastanza nuova e ben tenuta e mi sembra strano che, conoscendo il carattere del figlio, gliela affidasse spontaneamente. Ad ogni modo ci dirigemmo correndo verso la casa della ragazza, ma ad un certo punto lui fermò l’auto davanti ad un bar che andava di moda fra i ragazzi, scese e mi invitò a seguirlo. “Arriveremo in ritardo “ obiettai. Io ero molto più ligio di lui nel rispettare le buone maniere. - Ho voglia di una birra. E magari anche di un whisky. Alla festa ci daranno soltanto Coca e aranciata...Ebbe la sua birra e anche due whisky, mentre io fingevo di stare al gioco bevendone soltanto uno. Incontrammo degli amici, lui cominciò a scherzare con loro e il tempo ava. Di nascosto lanciavo occhiate sempre più frequenti all’orologio ma non osavo sollecitarlo per paura di ottenere soltanto l’ effetto contrario. Alla fine ripartimmo, ma quando fummo davanti ai parchi di Nervi spense di nuovo il motore e si diede una pacca sulla fronte: “Cavolo! Non possiamo arrivare tardi e a mani vuote. Perché non hai comprato qualcosa oggi pomeriggio? Dei cioccolatini, dei fiori...insomma quelle menate che si offrono ai compleanni!” - E perché non l’hai fatto tu? – risposi piuttosto seccato. Nonostante la sua simpatia, a volte Carlo mi dava sui nervi. “Va be’...Adesso ci penso davvero io.” Cominciò ad arrampicarsi sul cancello di ferro battuto mettendo in pericolo il
suo stiratissimo smoking. C’erano punte molte aguzze sulla cima e pensai che avrebbe stracciato i pantaloni. Ma fu abilissimo e riuscì a saltare indenne dall’altra parte. - Ora vado a cercare il roseto – disse a bassa voce- tu stai attento che non arrivi qualcuno. Caso mai suona due volte il clacson..E il buio del viale lo inghiottì. Per darmi un contegno, appoggiato all’auto, mi accesi una sigaretta e pregai che non apparisse il guardiano o qualunque altro essere vivente. Carlo stette via pochi minuti, ma sufficienti per farmeli sembrare ore, poi riemerse di corsa con cinque magnifiche rose in mano. Me le porse attraverso il cancello che riprese a scalare in senso inverso e con la stessa abilità. Quando arrivammo alla festa, questa era già iniziata da tempo, i dischi giravano sul giradischi, le ragazze facevano le sdolcinate ballando sulla terrazza con i loro filarini e i ragazzi che non erano riusciti ad agguantare una ballerina ciondolavano attorno con un bicchiere in mano. Carlo offrì le rose alla festeggiata che depose uno sguardo poco convinto sui fiori senza confezione. “Sono molto belle “ disse perché era una ragazza educata e anche perché le rose lo erano sul serio. Il giorno dopo sul giornale locale apparve un piccolo articolo in cui si denunciava che ignoti si erano introdotti nottetempo nel roseto, vanto di Nervi, ed avevano sottratto cinque rose magnifiche, appena ottenute da incroci che avevano preso anni di studi, e che erano destinate alla moglie del presidente della repubblica in visita alla città la settimana seguente. “Voi due non vi smentite mai!” commentò la ragazza quando ci ritrovammo a scuola. Ma Carlo fu prontissimo a rispondere: - Di cosa ti lamenti? Hai ricevuto le rose destinate alla First Lady...Era questa sua estrema abilità a cacciarsi nei pasticci e ad uscirne con poche frasi
indovinate che me lo rendevano simpatico sopra tutti gli altri. Gli riconoscevo inventiva, persino genialità, sicurezza in se stesso, ma soprattutto una gran voglia di godersi la vita. Lui era uno di quegli amici che avevo frequentato anche dopo la scuola: col suo carattere non avrebbe mai potuto seguire le orme del padre, direttore di banca, e infatti aveva preso una laurea in economia e commercio ed aveva impiantato una ditta di import-export, lavoro per il quale doveva sovente andare in giro per il mondo soddisfacendo in questo modo la sua indole di zingaro di lusso. Poi ci eravamo persi di vista: qualcuno talvolta mi aveva parlato di lui assicurandomi che il lavoro gli andava a gonfie vele. Ne provai una nostalgia struggente. Andai a guardare nell’agenda del telefono: era una vecchia agenda che Luciana non voleva buttare perché le era stata donata dalla madre, ma avrebbe avuto bisogno di essere aggiornata almeno da cinque anni. E proprio per la sua vetustà vi trovai il numero di Carlo. Se lo avesse cambiato, lo avrei cercato sulla guida e in ultima analisi mi restava Internet. Ma non ce ne fu bisogno. Alla mia chiamata fu proprio lui a rispondere. Risentire la sua voce fu come fare un balzo indietro negli anni e, dandomi del cretino, dovetti ammettere di essere vagamente commosso. Esclamazioni di sorpresa, dichiarazioni di contentezza e subito la solita folla di domande da ambe le parti. Ma lui troncò quasi subito: “Vediamoci – disse – ci racconteremo tutto a viva voce. Dove ci vediamo? Sei libero adesso?” Evidentemente le sue esclamazioni erano sincere, anche lui aveva proprio desiderio di ritrovarmi. - Vuoi venire da me? – chiesi – sono solo in casa.Un attimo di silenzio, poi lui rispose: - Ma no, vediamoci fuori, è una bellissima giornata. Lo sai dov’è quel bar alla fine di Corso Italia, c’era anche ai nostri tempi, non ti puoi sbagliare. Io ci vado sovente. Ti va se ci vediamo lì fra mezz’ora?-
Quando arrivai, dopo aver faticosamente cercato un posteggio, girai lo sguardo fra le poche persone che sedevano ai tavolini del dehors e non lo vidi. Probabilmente doveva ancora venire, ma una seconda occhiata me lo fece riconoscere. Non era possibile. Quello era il padre di Carlo, che avevo conosciuto tanti anni prima. Poi mi diedi dello stupido e mi resi conto che anche lui avrebbe potuto provare la stessa impressione nei miei confronti. Lo guardai meglio: il viso era il suo, inconfondibile, il naso un po’ lungo, gli zigomi alti, gli occhi scuri, ma il ricordo finiva lì. Non c’erano più i folti capelli castani che, secondo la moda , portava abbastanza lunghi sul collo, si erano ridotti ad un semicerchio spelacchiato che partiva da un orecchio fino a raggiungere l’altro: nel mezzo non c’era più niente. Era sempre stato magro, ma adesso si era come raccorciato, come rinsecchito e sembrava caduto dentro al cappotto di ottima lana blu. Avvicinandomi scorsi pure un bastone appoggiato ad una sedia. Gli arrivai addosso e lo strinsi in un abbraccio. Poi Carlo mi indicò una poltroncina di fronte alla sua e mi chiesi che cosa intendevo bere. C’era dell’imbarazzo fra di noi, come se fossimo quasi due estranei che hanno appena fatto amicizia. Non commisi l’errore di dire che non era cambiato. E lui non usò questo luogo comune nei miei riguardi. Al contrario sorrise con la fotocopia di un vecchio sorriso ed esclamò: “Sono un po’ diverso, non è vero? Ma soltanto un pochino...” - No: sei cambiato moltissimo. Anche io lo sono: é naturale...“Meno male che non siamo cambiati dentro: non ci siamo mai detti bugie: ecco, adesso raccontami di come è stata la tua vita...” Non ci misi molto: in fondo, a parte il matrimonio, i figli e il lavoro, non era capitato altro. Niente che valesse la pena di raccontare, almeno la prima volta che ci si incontrava. Perché c’era qualcosa che mi era capitato, che pochi conoscevano e di cui mi vergognavo moltissimo. Decisi che a Carlo potevo farlo sapere, per lo meno al Carlo che avevo conosciuto tanti anni prima. Lui si era sposato tardi, troppo preso dal lavoro che stava iniziando e dalle avventure amorose senza seguito che erano le sue preferite. Poi aveva incontrato la persona giusta ed aveva capitolato. Poco dopo era nato un figlio, l’unico.
- Ho sentito che sei stato in gamba, che hai fatto una discreta fortuna...“ Erano altri tempi, quelli. Chi aveva idee e voglia di lavorare, era quasi scontato che avesse successo. Il mondo non era ancora l’infernale gabbia di matti in cui viviamo adesso. E sono felice soltanto perché mi sono dato da fare per lasciare un posto di lavoro a mio figlio, anche se é diventato tutto molto più difficile e si fa una fatica improba a mantenersi i clienti...Tu sei un avvocato, vero? “ Mi misi a ridere: - Ero. Ormai sono in pensione: e lo sai qual é il dispiacere più grosso? Che la società per cui ho lavorato, che ha riconosciuto le mie capacità e le ha anche pagate, dall’oggi al domani abbia potuto sostituirmi. Certo, ho continuato a lavorare con loro...consulenze...la solita storia. Ma non era più lo stesso. Io, praticamente appartenevo già al ato...Almeno tu, con un lavoro autonomo, puoi ancora occuparti dell’azienda...Scosse il capo ed abbozzò un sorriso. “ Innanzitutto c’è mio figlio che sa tutto e che decide tutto. E mi costa ammetterlo, ma se la cava molto bene. E poi, fino a cinque anni fa sì, era quello che facevo. Tutti i giorni andavo in ufficio anche se quasi sempre c’erano discussioni da affrontare e anche veri e propri litigi. Poi ho avuto un ictus...no, non è stata una cosa gravissima...la prova ne é che sono qui. Il cervello pare che funzioni ancora per benino, ma la gamba sinistra è rimasta offesa. Ho avuto due o tre istruttori per la rieducazione e l’ultimo soprattutto ha fatto miracoli, tuttavia devo usare un bastone e mio figlio vorrebbe che non uscissi affatto. Sai che divertimento!” - E tua moglie? – Sospirò: “ Lei sta peggio di me. Da un paio d’anni è scivolata in una follia senile precoce. Ci sono giorni che riconosce tutti e si comporta normalmente, ma sono sempre più rari. Di solito dice che io sono suo nonno e nostro figlio un cugino suo morto da tempo, per non parlare di nostra nuora...la chiama signorina e le chiede chi l’ha invitata a casa nostra.” Ero annientato da quella serie di sciagure. Ero partito con l’idea di raccontargli
l’enormità che mi era capitata con il diabete, avevo avuto l’intenzione di sfogarmi con lui, di mandare insieme a lui tutti gli accidenti di cui ero capace e invece mi trovavo di fronte ad una situazione mille volte peggiore. Riuscii persino a vergognarmi. “Ma la cosa più tremenda che ti auguro di non provare mai è l’arrivo di una badante. Avevamo una domestica con cui ci trovavamo molto bene e ad un certo punto mio figlio ha deciso che dovevamo licenziarla e prenderci questa ucraina che si chiama Liuba e che prende ordini soltanto da lui. Ma lo stipendio glielo devo dare io...Hai capito? Non sono più libero di decidere di me stesso. Probabilmente se sapesse che sono arrivato fin qui da solo, senza la presenza di quella cialtrona che non posso sopportare, interverrebbe personalmente e mi riporterebbe a casa.” Non avrei mai pensato che un giorno il mio amico Carlo, il compagno di mattane, il brillante e simpatico e anche un po’ canaglia Carlo, avrebbe potuto indurmi un sentimento di pietà. Era difficile da accettare. Stavo scivolando in un abominevole sentimentalismo, ma lui se ne accorse, mi batté la mano su un ginocchio e disse, cambiando tono di voce: “Sai chi ho rivisto poco tempo fa? Bice Orlandini...la ricordi? Una bella ragazza bruna, studiosissima. L’ho incontrata ad una conferenza sulla stagione cinematografica della nouvelle vague...la nostra. Ci sono andato perché l’argomento mi incuriosiva e forse anche per ritrovare qualcosa che mi era appartenuto. Invece ho incontrato lei. Aveva organizzato tutto perché fa parte di una associazione con qualche pretesa di intellettualità...ce ne sono diverse, purtroppo e solitamente non producono niente di buono. Invece la conferenza è stata interessante, Bice ha presentato l’oratore, un professore che insegna all’università di Roma, e l’ha fatto con grande semplicità e intelligenza. Poi c’è stato un piccolo rinfresco e ho potuto parlare con lei. E’ diventata un’anziana piacevolissima signora molto arguta e per niente smaniosa come qualche sua collega. E’ sposata, naturalmente, ha tre figli e sei nipoti. Mi ha detto che la sua vita non ha mai pause: la casa, l’associazione, la cura dei nipoti...Se ne occupa lei perché i figli e le nuore sono tutti impegnati col lavoro...” - Questo, ormai, è diventato un luogo comune. Lo facciamo tutti. Sembra che sia indispensabile. –
“Certo, certo! – rispose Carlo con una punta di tristezza . Non voleva confessarmi che, da quando si era ammalato, suo figlio non aveva più voluto affidargli i suoi ragazzi. Io lo capii e lasciai cadere il discorso. Bevve un sorso della sua bibita e poi riprese: “ E poi sono rimasto in contatto per tutti questi anni con Beppe Sartori...Non ci vediamo quasi mai, ma ci telefoniamo sovente..” - Il placido Beppe...- sorrisi al ricordo. Un ragazzone tranquillo, educato e gentile: non sembrava molto intelligente ai tempi della scuola: era sempre rimandato in qualche materia...“E’ molto cambiato – disse Carlo che aveva subito compreso il mio pensiero – La maturità ha accentuato in lui quelle doti di buon carattere, di disponibilità e di amicizia che noi prendevamo per scarsa intelligenza. E’ dotato di molta umanità, mi è stato molto vicino ai tempi della malattia. Inoltre ha fatto un’ottima carriera in banca. Adesso è in pensione ma fa parte del consiglio amministrativo. Chi l’avrebbe detto?...” - Mi piacerebbe rivederlo...Ma, alla fine, mi piacerebbe rivederli tutti..Carlo fece una smorfia molto indicativa: “Certuni non ci sono più.- disse con tristezza - Stefano Angelini, per esempio, è morto da tre anni. E anche Paola Robbiano , non la ricordo molto bene, ma ho letto tempo fa il necrologio...” - Io non li leggo mai – dissi bruscamente. Lui allargò la bocca in un ampio sorriso: “Hai paura di leggervi il tuo?” Queste erano le battute di un tempo, qualche guizzo fugace che rivelava la sua vera identità. Quella che lo rendeva così divertente, così diverso dagli altri. - Siamo stati giovani al tempo giusto – esclamai. “ Bravo! Sono d’accordo. Noi abbiamo saputo divertirci, abbiamo goduto la vita,
ma siamo anche riusciti a studiare e a concludere qualcosa. Non mi piacerebbe essere giovane adesso. “ Com’era logico stavamo lasciandoci avvolgere dalla malinconia. Da parte mia e soprattutto da parte di Carlo era intollerabile. “Ho un po’ freddo – dissi anche se non era del tutto vero – Ce la fai a fare due i? “ - Come no?...E anche a sciare in neve fresca, anche a guidare la moto, anche..“ a scalare cancelli di ferro “ conclusi per lui. Rimase un attimo sorpreso, poi il ricordo affiorò e si mise a ridere: - Le rose di Nervi... Già, è stata una gradevole esperienza...Ci incamminammo sulla eggiata a mare. Vidi che trascinava appena la gamba sinistra e che il bastone serviva soltanto come optional. Tra poco il crepuscolo di una giornata di fine inverno avrebbe colorato il mare di quella tinta rossodorata difficilissima da riprodurre. C’era una grande calma, si sentiva soltanto il rumore delle auto, per il resto una sensazione di pace che avrebbe indotto a scendere sulla spiaggia per sentire lo sciabordio delle onde sui sassi. “Non ti ho chiesto notizie di Luciana – disse lui con un tono diverso, quasi impacciato – Sta bene?” Lo rassicurai: Luciana era l’immagine della salute e ci avrebbe seppelliti tutti. Sorrise: “Mi fa piacere, che almeno per qualcuno di noi vivere non sia diventato una fatica...” Era completamente sfiduciato e rassegnato e questo non potevo accettarlo. - Smettila. Non devi lasciarti andare, non tu...“Perché sono sempre stato il buffone della compagnia? Non te lo hanno mai
detto che i clown sono tutti irrimediabilmente tristi?.” - Non lo eri, non lo sei mai stato. Adesso, perché non sei del tutto sano...“Del tutto sano?- mi interruppe- per favore risparmiami le pietose metafore. “C’è gente che sta molto peggio di te, guardati indietro” e altre scemenze del genere. Io sono io e non mi importa di quante tonnellate di malati riescono a trascinare a Lourdes ogni anno. Mi fanno pena, come faccio pena a me stesso. C’è una classifica di importanza del dolore come al pronto soccorso ci sono i colori che distinguono i casi più urgenti? Non c’è, non può esserci. Ognuno di noi soffre il proprio dolore in base alla propria natura, al proprio ato, anche al proprio egoismo. Per questo ci sono malati che non rompono le scatole e altri che diventano irascibili e protervi. Dipende dal valore che dai alla malattia che ti ha colpito, dalla tua capacità di adattamento, dalla tua fede. Ma gli altri, quelli che non riescono ad essere sereni, quelli che tutti accusano di essere intrattabili e che fanno impazzire le buone signore dell’A.V.O., non soffrono di meno, anzi direi quasi che soffrono di più. E le sofferenze fisiche sono niente rispetto a quelle morali...” Non trovai nulla da ribattere. Non mi ero precipitato da lui con l’intento di rovesciargli addosso tutta la mia rabbia ? Io appartenevo alla seconda categoria, quella che non vuole rassegnarsi. La più infelice. Carlo si era appoggiato alla balaustra che separava il corso dalla spiaggia; il mare veniva a sbattere con eleganza sui sassi e provocava appena una schiuma bianca, forse non era così tanto inquinato... - Non posso credere che un giorno non lo vedrò più – mormorò lui – lui ci sarà sempre e verrà sempre a sbattere sulla spiaggia e ci saranno altri uomini e altre donne che lo ammireranno, ma io sarò ato.Carlo, oh! Carlo amico mio carissimo degli anni incoscienti...Ho fatto male a cercarti, ho fatto male a volerti rivedere: per me saresti rimasto fino alla fine lo scapestrato, giovane e irridente con cui avevo trascorso i miei giorni migliori.... “ Mi accompagneresti fino a casa? – mi chiese già certo della risposta. Viveva in una palazzina di una strada nascosta e piena di verde. Piante rampicanti ricoprivano il vialetto di accesso e sul davanti c’era uno spiazzo discretamente ampio ricoperto di ghiaia. Alcune poltroncine di ferro smaltate di
bianco stavano in attesa sotto un enorme cedro del Libano. “E’ un gran bel posto.” Non potei fare a meno di commentare. Questo lo rianimò un pochino. - E’ vero. Ci abito molto volentieri. Abbiamo anche un giardino privato che si apre sul retro e mia moglie vi a le giornate. Era molto bello quando invitavamo gli amici e facevamo il barbecue...Lo capivo. Avrei voluto infilarmi dentro di lui per fargli intendere che in quel momento eravamo una persona sola, con gli stessi rimpianti... “Qui è molto riparato – disse lui segnando col bastone le due poltroncine – hai ancora un po’ di tempo?” - E’ l’unica cosa che non mi manca mai...Sedemmo sotto l’albero e veramente ci si stava benissimo. “Ti dovrei invitare a casa – mormorò – ma ho paura del cerbero. Se lo racconta a mio figlio mi toccherà una lunga tirata su quanto sono privo di buon senso, irragionevole e come vanifichi i tentativi di procurarmi la massima sicurezza. Invece, se sono fortunato, riesco ad entrare senza farmi sentire e a scivolare in camera, e forse Liuba non si accorge neppure che sono uscito.” - Ma è orribile non essere padroni di noi stessi. Non sarai troppo condiscendente?...In fondo sei tu il padrone di casa e lei dovrebbe rispettarti.Fece un cenno vago, facendo ruotare la mano: “Non ho più voglia di lottare. Piuttosto, se ti è possibile, ci sarebbe qualcuno che ha molto bisogno...” - Qualcuno che conosco? – “Altrimenti non te ne avrei parlato. Giovanni Dupont...” Gianni era il compagno più ricco della classe. I suoi erano broker ed erano stati armatori marittimi da generazioni, viveva in una splendida villa sul lungomare e
in casa sua, oltre alla cuoca, c’era anche un cameriere molto solerte e professionale. La prima volta che ero stato invitato, lo avevo scambiato per un parente maleducato che ava la giornata in pigiama. Avevo sei anni e le ricchezze altrui non riuscivano ancora ad impressionarmi. - Che cosa gli è successo? – “Hanno perso tutto. Già ai nostri tempi la loro ditta aveva difficoltà, sembra che suo padre non sia stato all’altezza ed abbia dato inizio alla discesa che, in poco tempo è diventata una valanga. Quando è stato il turno di Gianni a diventare il capo, ormai era tutto molto compromesso. Cattivi consiglieri, qualche ingenuità pagata molto cara e, in breve, si sono ritrovati col sedere per terra. Nel frattempo lui si era sposato e aveva una moglie molto viziata e poco comprensiva, due figli, uno dei quali drogato, e un fratello molto furbo che si era allontanato dall’impresa di famiglia quando aveva cominciato a scricchiolare. La prova ne è che adesso lui sta benissimo e che il nostro Gianni è alla miseria...” - Non ci posso credere. Alla miseria...stai esagerando.Scosse il capo: - Riesce difficile da crederlo, però è la pura verità. Lui vive in un appartamentino di una zona semipopolare, sai quei tipici appartamenti che si comprano come investimento e che, ringraziando il cielo è ancora di sua proprietà. La moglie se ne è andata da anni e credo che abbia sposato in seconde nozze un chirurgo plastico. Il figlio sta per lasciarci la pelle, dopo tanto tempo di droghe e ufficialmente vive con lui, ma parecchie volte se ne va senza lasciare recapito per riapparire ancora più fatto e più miserabile. L’altro figlio, il maggiore, è stato aiutato da un amico di famiglia che un tempo era loro concorrente e che lo ha assunto alle sue dipendenze. Triste, amaro, lo capisco, ma per lo meno ha un stipendio fisso.“ E tu aiuti Gianni...In che modo? “ - Nell’unico modo possibile...Gli o una piccola cifra mensile.. di nascosto, si capisce. Mio figlio non approverebbe, ma, da quando sono stato malato, non spendo più quasi niente per me. E posso permettermi di dare una mano a che ne ha bisogno.-
Rimasi sconvolto da tutte quelle notizie. Gianni Dupont che veniva a scuola accompagnato dall’autista, che faceva feste indimenticabili nella sua splendida casa, che ava le vacanze di Natale a Garmish dove sua madre possedeva uno chalet... “Come posso fare per fargli avere qualcosa?” chiesi molto ingenuamente. Carlo si fece una risatina. “Robi – disse – devi capire che è ato il tempo dei minuetti e della discrezione. Una volta la gente che voleva fare beneficenza aveva dei grossi problemi di eleganza: inventava bugie incredibili, cercava di far are il dono come un prestito...Adesso ti do l’indirizzo di Gianni e il suo numero di telefono: lo chiami e gli dici che lo vai a trovare. Lui avrà già capito di che cosa si tratta e ti riceverà con un vassoio d’argento in mano, sempre che gliene siano rimasti. I primi tempi mi ero posto il problema e avevo cercato di risolverlo usando i soliti mezzi, gli avo il denaro dicendo bugie e lui lo accettava dopo aver doverosamente rifiutato, dicendo altre bugie. Ad un certo punto, l’ho guardato negli occhi, gli ho allungato le banconote e gli ho detto.; “ Non ti sembra ridicolo quello che stiamo facendo?” Da allora è diventato tutto molto più semplice, quando ci vediamo non ci sentiamo imbarazzati, lui mi racconta i suoi guai ed io gli racconto i miei che sono di un altro tipo, ma sempre guai sono. Solo di tanto in tanto mi abbraccia con una forza che mi leva il respiro...” - E tu dici che, se lo faccio io, non rischierò di offenderlo? – “ Svegliati, Robi, te l’ho appena detto. Non c’è più niente che possa offenderlo: c’è soltanto la possibilità di aiutarlo a pagare le bollette o le medicine che non a la mutua. Punto. “ Lo guardai con un affetto che non supponevo di avere: - Dicevano che eri un balordo, che saresti riuscito male nella vita...E invece eri il migliore di tutti...Ma io lo avevo capito...Fece un gesto di stizza: “ Ognuno è come é. Inutile fare paragoni. Ti ho voluto molto bene, e non perché eri l’unico che mi desse la sua amicizia più completa. Sì, anche questo ha avuto la sua importanza, ma ti ho voluto bene perché ho capito che ragionavi con la tua
testa, e ho sempre pensato che le persone libere intellettualmente sarà ben difficile che ti diano fregature.” Anch’io gli volevo bene: in quel momento era la persona cui volessi più bene, eccezion fatta per la piccola Claudia. - Uno di questi giorni potresti venire a pranzo da noi – dissi sorridendo – Luciana sarà felicissima di rivederti e ha avuto il tempo per diventare un’ottima cuoca. Ti telefonerò presto...Lui scosse il capo: - Non lo farai, ne sono certo. E d’altra parte, che cosa avremmo da raccontarci? Quello che la vita ha fatto di noi ce lo siamo già detto: ad un certo punto l’orizzonte si restringe, gli interessi scemano, gli argomenti su cui conversare sono sempre gli stessi. Non possiamo più esserci utili. Penso che non ci vedremo più e che, tutto sommato, sia la cosa migliore. Rivangare i nostri ricordi possiamo farlo anche da soli e forse fa meno male... – Rimasi talmente sconcertato che non riuscii a ribattere e dire che le parole non mi sono mai mancate. Ma c’era un tono così deciso, così definitivo nella sua voce che compresi quale fosse la risposta che si attendeva da me. “Addio, Carlo. Buona fortuna.” Lui annuì, mi rivolse un sorriso sincero e infilò la chiave nel portone elegante della sua abitazione elegante. Ma all’ultimo istante mi pentii di aver seguito il suo pensiero: ora che lo avevo ritrovato mi riusciva impossibile ricacciarlo indietro fra i ricordi di una vita. In fondo, eravamo ancora lì ed eravamo ancora vivi. - No, aspetta. Non voglio dirti addio. Voglio rivederti ancora, voglio stare ancora con te. Ti prego, non essere così assolutista, prometti che avremo ancora qualche occasione...Carlo sorrise: “Era solo per evitarci altre delusioni, ed è soltanto questo che potremmo incontrare. Comunque, non voglio ipotecare quel minuscolo pezzettino di futuro
che ancora ci aspetta. Perciò, arrivederci Robi.” Lo guardai svanire oltre la porta e non mi decidevo ad andarmene. Poi, alla fine, lo feci e mi resi conto che non gli avevo neppure detto che avevo il diabete.
Cap. 2
Il ritrovamento di Carlo Pontiroli, che, nelle mie ingenue e sprovvedute speranze, avrebbe dovuto rimettere le cose al loro posto e ridonarmi la serenità perduta, aggravò invece la situazione, facendomi comprendere quello che tutti sanno e che pure io avrei dovuto sapere: le persone, i luoghi, persino gli avvenimenti sono gradevoli e felici nel momento in cui li viviamo. Non è assolutamente possibile credere di ritrovare dopo tanti anni lo stesso amico che avevamo amato in gioventù, anche nella più fortunata ipotesi costituirà sempre una fonte di rimpianto. Per cui avrei dovuto avvicinarmi a lui dato che lo desideravo, senza troppe illusioni, senza sperare che lui avesse la bacchetta magica o la panacea per tutti i mali. Sempre di più trascorrevo le giornate in casa senza lasciarmi coinvolgere dagli alberi che gettavano le prime foglie verdissime, le mimose che fiorivano in un’apoteosi di giallo e tutta quella strana, eterna agitazione che la primavera incipiente provoca dentro di noi. Anzi, i giorni più lunghi, i tramonti che indugiavano colorando il cielo e il mare di tinte affascinanti, mi davano fastidio: per la prima volta nella mia vita avrei voluto che fossimo alle soglie dell’inverno quando la notte scivola presto sulla luce e ci si può rintanare in casa senza bisogno di scuse. Ormai anche Luciana aveva smesso di tormentarmi istigandomi ad uscire, a giocare a tennis, a camminare. Mi lasciava seduto al computer o sdraiato davanti alla televisione ed usciva con le sue amiche. Un giorno andai in cantina dove sapevo di aver stivato scatole con tanti ricordi che mai più avevo pensato avrebbero rivisto la luce; trovai fotografie, pagelle, biglietti che qualche ragazza mi aveva indirizzato e di cui avevo persino scordato le sembianze. E poi, i dischi, i vecchi carissimi dischi a 78 e quelli più recenti a 45. La mia giovinezza. Non avrei potuto riascoltarli, non esistevano più gli apparecchi idonei, però potevo farli stampare su c.d, e mi ripromisi di farlo il primo giorno che avessi avuto voglia di uscire.
D’altro canto capivo molto bene che, come tutto il genere umano, mi stavo aggrappando ai ricordi felici per oppormi in qualche modo alla consapevolezza che la vita era ata e il mio tempo stava per scadere. Era inutile girarci attorno: da quando la mia esistenza era stata bruscamente attraversata dalla rottura della spalla, tutto dentro di me era cambiato: quello era stato il mio giro di boa. Stavo rimettendo le foto al loro posto da dove forse non sarebbero mai più uscite, quando ne venne fuori una in cui mi riconobbi. L’aveva scattata mia madre che aveva una ione quasi maniacale per eternare qualunque avvenimento reputasse degno di essere tramandato e imprigionato nella macchina fotografica, un modello tedesco anteguerra, di cui lei andava molto fiera. Sul retro della foro c’era la data: 5 ottobre 1946. Il mio primo giorno di scuola. Ci andai tenuto per mano dalla mamma, entrai attraverso un alto e antico portone in un atrio squallido dove già stavano moltissimi bambini. In effetti quello era un vecchio monastero abbandonato dalle suore molti anni prima e che, essendo stata rovinosamente bombardata la scuola del quartiere, si era deciso di adibire momentaneamente a tale funzione perché i ragazzini potessero seguire le lezioni. Indossavo come tutti gli altri scolari un grembiulino nero comprato per la crescita e che, quindi, era abbondante in tutto, per esempio le maniche mi arrivavano quasi alle dita delle mani. Avevo inoltre un colletto di piquet bianco ed un fiocco blu che mi era particolarmente odioso In mano tenevo la cartella con dentro una matita, una gomma, un quaderno a grossi quadretti ed un libro che doveva procurarmi i primi rudimenti di scrittura, lettura e aritmetica. Mi sentivo molto fiero di me stesso perché ero riuscito a farmi comprare una cartella di stoffa scozzese e non quella di pesante cuoio nero che preferiva la mamma. Non c’era molta scelta a quei tempi: per scrivere c’erano solo due possibilità: la matita o la penna con pennino da intingere nel calamaio: a nessuno sarebbe venuto in mente di far adoperare le penne a dei bimbi inesperti.. Le biro, i pennarelli, gli astucci e gli zaini di Barbie, di Superman e di cento altri marchi costosissimi erano ancora più lontani dei sogni inverosimili. Marciai insieme ai componenti della mia classe verso una scala di marmo che mi portò al primo piano ed entrai nella mia prima classe. L’insegnante assegnò ad ognuno di noi il proprio posto e poi disse che ci avrebbe chiamati ad uno ad uno per fare una prima conoscenza.
Quando chiamò il mio cognome, mi alzai in piedi col cuore che batteva forte. La maestra mi aveva già incantato: era giovane, bionda con i capelli che le sfioravano le spalle, ed un sorriso molto dolce che aveva il potere di rassicurare all’istante. Per me era bella come un’attrice del cinema. Dietro la cattedra, accanto al crocifisso, era appeso il ritratto di un anziano signore. La repubblica era nata soltanto da pochi mesi e per me non significava niente. Ricordavo soltanto che un giorno si era precipitata a casa nostra zia Maritè, la sorella di papà, agitatissima e quasi piangente. “Ha vinto la repubblica – aveva strillato istericamente – C’è Giulio che è furibondo, ha preso a pugni l’armadio della camera e si è fatto male alle nocche. Ho una gran paura che commetta qualche sciocchezza.” La mamma si era presa cura di lei, abbracciandola e facendola accomodare in salotto, mentre papà infilava la porta di casa per andare a vedere che cosa stava combinando il cognato. Veramente avevo visto mio padre saltare dalla gioia quando la radio aveva comunicato la notizia e non riuscivo a capire come mai qualcosa che riempiva di gioia mio padre potesse sconvolgere lo zio. Ad ogni modo avevo deciso che la cosa non mi riguardava ed ero tornato a giocare. Quel giorno la maestra spiegò ai bambini con parole molto semplici che cosa era capitato pochi mesi prima. Molti di loro non sapevano neppure che prima ci fosse stato un re che un referendum aveva mandato via dando il potere al popolo. A questo punto mi chiesi, facendo parte anche io del popolo, per quale motivo dovevo continuare a sottostare ai voleri dei genitori e in generale della persone grandi. Soltanto molto tempo dopo capii sulla mia pelle che non c’è molta differenza tra monarchia o repubblica, come del resto fra un governo e l’altro: in Italia, come diceva il grande Tomasi di Lampedusa “ bisogna che tutto cambi perché resti sempre lo stesso.” Ma allora, nell’euforia che aveva invaso la nazione, nella ricostruzione che fu sollecita, nelle illusioni che finalmente questo sarebbe
diventato un paese normale, erano tutti felici e contenti. E devo dire che effettivamente quello fu un periodo esaltante: chi aveva idee e voglia di lavorare riusciva a scalare molti gradini della scala sociale, procurandosi un benessere mai conosciuto; dopo tutte le sofferenze causate dalla guerra, qualunque avvenimento appena gradevole veniva rivestito di un’importanza foriera di tempi migliori e favolosi. Io ero uno scolaro modello: un po’ perché veramente interessato ad apprendere, un po’ per figurare agli occhi della maestra, divenuta il primo idolo femminile della mia carriera. Si chiamava signorina F ed a quei tempi era già molto conoscere il cognome del proprio insegnante, non essendo questi tenuto a presentarsi e ritenendosi che “ signorina maestra” fosse l’unico modo per rivolgersi a lei. E tanto doveva bastare. Mi ero invaghito del suo viso veramente molto bello e del suo sorriso; si rivolgeva a noi con dolcezza e soltanto una volta la udii alzare la voce con un bambino particolarmente svogliato e recidivo. Ma era un’eccezione: nel complesso eravamo bambini timidi e rispettosi che non si permettevano di parlare senza prima aver alzato la mano e che, se proprio diventava necessario andare in bagno, lo chiedevano a bassa voce e con un velo di vergogna. Comunque, fu un vero choc, lo ricordo benissimo, quando l’anno successivo, il primo giorno di scuola non ritrovammo più la signorina F. Al suo posto arrivò una maestra anziana, corpulenta, con spessi occhiali da miope e troppo in discordanza con la figuretta giovane e gentile di chi l’aveva preceduta. Tutti avremmo voluto chiedere che fine aveva fatto la maestra F, ma nessuno ne ebbe il coraggio: mi limitai ad ingoiare la delusione e a barricarmi mentalmente contro la nuova insegnante. Che si rivelò una persona eccezionale. Tanto per cominciare, si presentò subito dicendo che si chiamava Gemma Devoto, che aveva due nipotini piccolissimi di cui andava fiera arrivando ad estrarne le foto dalla borsetta per farceli ammirare. E questo comportamento servì a sciogliere una buona dose di quell’antipatia che la sua presenza ci aveva procurato. Poi, a poco a poco, dovemmo imbatterci nella sua collaudata esperienza che l’aiutava a riconoscere i vari caratteri dei bambini e capimmo che per ognuno di noi adattava il metodo giusto: sempre molto equa, si soffermava tuttavia con alcuni di noi particolarmente duri di comprendonio ed in genere riusciva a far comprendere anche a loro l’argomento. Era rigida soltanto quando ci lasciavamo andare a far troppo baccano, ma non
mandò mai nessuno fuori della porta: le sue punizioni consistevano nel far scrivere una pagina in più, o nell’imparare a memoria una piccola poesia. E alla fine dell’anno le volevamo tutti un gran bene. I ricordi affioravano, l’uno agganciava il successivo e, per quanto potesse sembrare ridicolo, arrivai al punto di rivedere la mia classe com’era. I visi dei miei compagni, li rammentai quasi tutti, e per ognuno di loro ricordai le loro capacità. I più bravi che erano sempre gli stessi, avevano madri ambiziose, io ero fra quelli e anche mia madre si era trasformata in una sorta di vicemaestra che si installava accanto a me e sorvegliava i miei compiti. E poi c’erano bambini molto in ritardo sugli altri perché i loro genitori erano analfabeti. Tutto sommato furono anni sereni: ma, per quanto mi sforzassi di ricordare un episodio, qualcosa di diverso accaduto a quel tempo, non ne riuscivo a trovare. Mentre, appena arrivai agli anni del liceo fu come una rimpatriata. I miei compagni erano tutti lì, seduti ai posti che avevano occupato, con visi brufolosi su cui cominciava ad apparire una peluria nera. E, fra tutti, il viso di Carlo, mio compagno di banco e di avventure. Io ero stato dotato di una Vespa, attualissima e molto ambita tra i ragazzi , ci andavo a scuola e la parcheggiavo dentro il cortile munita di una catena che bloccava il manubrio. Al ritorno c’era sempre Carlo sul sedile posteriore: lo accompagnavo a casa perché abitavamo abbastanza vicini e partivamo seguiti dagli sguardi invidiosi dei compagni appiedati. Ci sentivamo padroni del mondo. E forse lo eravamo davvero, così spensierati e felici, sapendo di poter contare su due famiglie che ci amavano, dove ci trovavamo molto bene e che ci permettevano molto di più di quanto a quei tempi fosse in uso. Per esempio, potevamo uscire il sabato sera: c’era l’obbligo di rincasare a mezzanotte come Cenerentola, ma non ci lamentavamo, persuasi di essere già dei privilegiati. Le discoteche non si sapeva che cosa fossero, le ragazze che conoscevamo non avevano il permesso di uscire la sera e al massimo organizzavano festine casalinghe viste di buon occhio dai genitori. Che ci rimaneva? Il cinema, naturalmente. E quanti film vedemmo insieme, in quelle sale buie piene di fumo, quanti western, quanti attori conoscevamo e quante attrici. Facevamo, tornando a casa, le graduatorie di quali, secondo noi, fossero le più belle. Carlo diceva che Ava Gardner era la donna più desiderabile del mondo, io preferivo quella bomba bionda che era Marilyn Monroe, ma, quando esplosero sullo schermo la finta ingenuità e le lunghissime gambe di Brigitte
Bardot ritornammo sulle nostre decisioni. “Non è bella – sentenziò Carlo che, a quanto ne sapevo non aveva ancora avuto un’esperienza sessuale – ma è la quintessenza della sensualità.” Io lo guardavo ammirato e mi dichiaravo assolutamente d’accordo. Una notte, rientrando dopo il cinema, Carlo scese davanti al portone di casa sua ma non lo aprì. Sedette invece sul muretto lì accanto, io spensi il motore della Vespa e andai a sedermi accanto a lui. Faceva un freddo bestiale perché era inverno e le nostre giacche non ci coprivano abbastanza, ma eravamo giovani e ce ne infischiavamo. “Sai – cominciò lui – è da tempo che voglio parlarti di un argomento spinoso. Lo sai che a settembre chiuderanno i casini e che noi non ci siamo mai stati?” Ero stupito e lo dimostrai restandomene in silenzio. “ Mi scoccia di non fare quest’esperienza. Sarà irripetibile, non avremo mai più questa possibilità.” - Ma non siamo maggiorenni, non ci lasceranno entrare.- mi opposi timidamente. “ Lo sapevo che avresti detto così. Ma io mi sono organizzato: mio cugino, che ha ventidue anni, sarebbe disposto a cedermi la sua carta di identità....” Sussultai: “Sei impazzito? E se ti scoprono? Puoi anche finire in questura...” - No, mi sono informato. C’è un casino in vico della Lepre, che è il migliore, fra l’altro, dove la direttrice non è troppo fiscale: a lei importa soltanto che i ragazzi ci vadano e spendano soldi. Mio cugino dice che certamente chiuderebbe un occhio. Tu saresti in grado di venire con me?Faceva lo strafottente, si atteggiava ad uomo navigato ma in realtà aveva un tremendo bisogno di essere accompagnato. - Ma io non posso...A chi la chiedo la carta di identità? –
“ Guarda che io ti faccio un favore, ti metto in condizione di avere un’esperienza che mai più potrai conoscere. Ma, se non te la senti...” Mi sentii punto sul mio orgoglio maschile. - Io me la sento, invece. Solo non so come fare per avere il documento...“Va bene. Datti un po’ daffare, chiedi a qualche amico più vecchio, ne avrai certamente...” - E se quello va dritto dritto a riferirlo a mio padre?Lui balzò in piedi scocciato: “ E se un meteorite investisse la terra? Se arrivasse il diluvio universale? Non essere ridicolo! Lo sai quanti ragazzi escono ed entrano dai bordelli, e hanno tutti la nostra età. Solo bisogna volerlo sul serio, non a parole.” Non potevo deludere il mio più caro amico e. anche se personalmente non avevo questa smania di conoscere quel luogo di delizie, sapevo già che ci sarei andato in un modo o nell’altro. Per giorni fui afflitto da quel pensiero: dovevo farmi prestare un documento da qualcuno più vecchio di me. E che mi somigliasse. Facile a dirsi! L’unico che aveva queste prerogative era un tale Fabrizio Colli, maggiorenne da pochi mesi ma assolutamente non usufruibile: faceva il catechista, era sempre stato iscritto all’Azione Cattolica e la domenica pomeriggio molte volte andava ai Vespri. Mai avrei pensato che fosse proprio lui a cavarmi dai guai. Ovviamente non gli chiesi il suo documento per poter entrare in un bordello: inventai una storia abbastanza confusa in cui c’era di mezzo una ragazza più grande di me e che non credeva io avessi già ventuno anni. Era solo per farla rimanere di stucco: si trattava soltanto di uno scherzo. Questo Fabrizio dapprima disse che era una stupidaggine, che la ragazza si sarebbe accorta della differenza, che non è bello prendere in giro le ragazze etc. etc. Ma io insistetti tanto che alla fine cedette. “ Solo per una sera – ammonì – la mattina dopo mi devi riconsegnare la carta: e, se ottieni l’effetto contrario, non venire a lamentarti. Io ti ho avvisato.”
Era un ragazzo molto ingenuo, che frequentava troppo la parrocchia e a cui mai e poi mai sarebbe venuto in mente di entrare in una di quelle case. “Ce l’ho! – gridai al telefono a Carlo e sembrava che avessi vinto alla lotteria. - Benissimo. Allora stasera si parte.La sera, in groppa alla mia fida Vespa, ci infilammo nei dedali del vicoli fino a raggiungere la destinazione. Chissà che cosa mi ero creduto! Era una casa come tutte le altre, vecchissime e quasi fatiscenti, all’angolo c’era un vespasiano maleodorante e la porta d’ingresso avrebbe avuto bisogno di una verniciatura. “Allora? – chiese Carlo guardandomi – Suono?” Io trassi un sospiro: - Suona.- ma avrei voluto salire in moto e scappare. Ci venne ad aprire una cameriera col grembiule bianco che rimase un attimo indecisa e ci soppesò con lo sguardo. Io ero avvampato: lo sentivo che ero rosso in viso e provai una grande stizza verso me stesso. Carlo, invece, diede una leggera spinta al portone semichiuso e si infilò nell’androne. La cameriera alzò le spalle, tenne aperto il portone a me che entrai quasi barcollando e lo richiuse immediatamente. C’era subito una scala e Carlo cominciò a salire come se già fosse pratico del luogo. Al primo piano, sollevando un tendone di velluto rosso, penetrammo in una grande sala dove c’era un sacco di gente. Ragazze quasi nude e coperte soltanto da vestaglie trasparenti sedevano sulle ginocchia o accanto a uomini di tutte le età che avevano indistintamente espressioni ridicole, il fumo di troppe sigarette galleggiava a mezz’aria grigiastro e fastidioso. Pochi ci degnarono di uno sguardo. Ma la maitresse sì, lei ci vide e si affrettò a venirci incontro. Era una donna prosperosa con i capelli tinti di biondo e raccolti sul capo, aveva le labbra rosse ed un trucco pesante in cui si mescolavano l’azzurro e il nero. Però si dimostrò gentile. “Benvenuti – disse con eleganza – Siete proprio carini, due bei ragazzi davvero. Volete approfittare degli ultimi fuochi, vero? Non sarò certo io a dissuadervi. Sedete, volete bere qualcosa? Vi mando subito due belle ragazze...Le tariffe le conoscete? Sono esposte sopra quel banco. Prendetene visione a scanso di
equivoci...” Carlo ed io non riuscimmo a trovare la più stupida frase di risposta: eravamo allibiti. Tanta pena, tante bugie per avere una carta di identità e quella neppure si sognava di chiedercela! Aveva capito subito e chissà quanti ragazzi come noi aveva visto are in quei giorni! Due coppie si alzarono dai divani foderati dello stesso velluto della tenda e si eclissarono in un corridoio. Io stavo vivendo come al risveglio dopo un’anestesia: sapevo di essere vivo ma non riuscivo a partecipare alla scena. Quando arrivarono due ragazze abbastanza giovani e ancora abbastanza graziose, sentii che non avrei resistito un attimo di più. Una delle due, infilò il suo braccio sotto al mio e sorrise: aveva il seno nudo ed un paio di mutandine di pizzo nero che non coprivano niente, non sapevo dove posare gli occhi, sapevo che stavo facendo una figura pietosa ma ero irrigidito: un manichino sarebbe stato più duttile di me. La ragazza di Carlo stava già trascinandolo verso un divano: chiamò il vecchio cameriere che si aggirava tristemente nella sala e ordinò dello champagne. Carlo non ebbe la forza di ribattere ed io continuai a morire: io non avevo abbastanza soldi, forse lui era più provvisto di me: la mia ragazza mi pilotò verso lo stesso divano dove la sua collega stava interrogando il mio amico su come si chiamasse e che cosa fe. Sorridevano tutte e due: sembrava che qualcuno avesse prodotto quei sorrisi in serie e poi glieli avesse applicati sulle labbra. Bevemmo lo champagne che era dello spumante molto scadente, poi le ragazze di alzarono facendo un cenno col capo. Carlo fu prontissimo ad alzarsi e a seguirla: svanirono tutti e due ingoiati dal corridoio. - Andiamo? – mi sollecitò la mia tirandomi per un braccio. E in quel preciso momento seppi che non avrei combinato niente. E non importava se avessi fatto una figuraccia, se la maitresse, per vendetta avesse chiamato i carabinieri rimangiandosi le sue asserzioni sulla nostra età, se mi avessero accompagnato in questura ed avessero telefonato ai miei genitori. Nulla importava, ma io non sarei andato con quella ragazza a rotolarmi sul suo letto già sporcato da altri clienti. Lei capì che non avrebbe ottenuto nulla da me, cercò con lo sguardo la signora
che si affrettò a raggiungerci. “Che cosa c’é, carino ? – chiese con voce flautata – Non aver paura di Iside, è una brava ragazza e molto disponibile. Vedrai che con lei ti troverai benissimo.” Io restai immobile, lo sguardo fisso sulle mie scarpe. Allora la direttrice si rese conto che tutto sarebbe stato inutile e cambiò il tono di voce: - Se sei venuto per fare, bene. Se sei venuto solo per curiosare, hai sbagliato indirizzo. Questa non è una mostra di quadri, questo è un posto dove si lavora. Il suo amico? – chiese rivolta alla ragazza. “ Lui è in camera.” - Benissimo, allora tu puoi andartene: e anche alla svelta. Non abbiamo tempo da perdere, noi...Non me lo feci ripetere due volte: scattai su dal divano come spinto da una molla e mi precipitai giù dalle scale inseguito dalla cameriera che, evidentemente, doveva richiudere la porta. Non ce ne fu bisogno: la sbattei io con tutta la mia forza e quel suono si propagò nel silenzio notturno come una cannonata. Avevo il cuore in tumulto: in vita mia non mi ero mai sentito così infelice, attraversai il vicolo e mi misi accanto alla Vespa ad attendere Carlo, un piede che poggiava contro il muro e la gamba piegata. Accesi una sigaretta con la mano che un poco tremava, ma poi, a poco a poco sentii che le pulsazioni diventavano normali e che il cuore stava tornando al suo posto. Adesso avrei dovuto sopportare gli scherni di Carlo, e speriamo che non vada in giro a raccontarlo: sarebbe terribile. No, Carlo non mi farà una parte simile, Carlo è leale... Non dovetti attendere molto. Poco dopo il portone si riaprì ed apparve il mio amico. Se lo avevano lasciato andare, evidentemente aveva saldato il conto: e questa era già una bella notizia. Mi disposi ad accettare le sue sfottiture e le sue botte di “coniglio” che altre volte mi aveva rivolto. Ma lui avanzò verso di me con un’espressione strana, incomprensibile: mi guardò per qualche istante e poi scattò verso l’angolo della casa. Cominciò a vomitare. Quando non udii più i suoi conati mi avvicinai lentamente: stava ripulendosi la
bocca con un fazzoletto ma in viso era verde. “Deve essere stato quello spumante ignobile.” disse. - Senz’altro – lo assicurai. E insieme risalimmo in Vespa per tornarcene a casa.
Cap. 3
E’ mai possibile che certi episodi della vita si siano stampati così fortemente dentro di noi che possiamo riviverli in tempo reale mentre altri si siano disciolti per sempre? Di quella famosa serata ricordavo tutto, ma proprio tutto, persino il colore del vestito indossato dalla maitresse, persino il viso della ragazza, avrei potuto riconoscerlo, se lei si fosse arrestata a cinquanta anni prima. Chissà che fine aveva fatto? Forse era già morta, forse, invece era una vecchietta serena attorniata da figli e nipoti. Quanta gente sfioriamo nel nostro procedere, gente che frequentiamo per qualche tempo e che poi sparisce: di loro ci scordiamo alla svelta salvo tirarli fuori dalle pieghe della memoria quando siamo diventati abbastanza vecchi per preoccuparcene. E non già per riparare al torto di averli accantonati, ma semplicemente perché nel nostro lungo ato troviamo un po’ di forza per andare avanti. E ci sembra impossibile di essere stati protagonisti di certi avvenimenti, di certi comportamenti : stentiamo a riconoscerci. “Io ho fatto questo?” impossibile, non ne sarei stato capace. E invece abbiamo fatto tante cose, certune che giustamente ci riempiono d’orgoglio, altre di incredula vergogna. Quello era stato l’anno della maturità, dei giorni ati a studiare per tentare di mettere una toppa ai tanti voti negativi sulla pagella, giornate caldissime, il sole che picchiava su quei fortunati che erano già in vacanza ma anche su noi chiusi in una stanza bollente, col sudore che colava dalla fronte e che inutilmente si cercava di frenare con frequenti docce. E notti da incubo, brevi perché si studiava fino a tardi e ci si alzava presto con un caffè e poi subito nuovamente al tavolo davanti ai libri. Per noi quell’esame rappresentava il primo vero scoglio della vita, la prima vera occasione per dimostrare a noi stessi e agli altri che valevamo oppure che non valevamo niente. Non si trattava soltanto di un esame scolastico: era la porta della vita che volevamo conquistare. Stupidaggini! Quanti ragazzi non sono stati promossi e hanno avuto lo stesso una vita interessante, un lavoro di responsabilità, una famiglia e dei figli! Ma allora non si ragionava in questi termini: se qualcuno non riusciva, veniva guardato in un certo modo: si trattava
sicuramente di un ragazzo poco intelligente oppure di uno scansafatiche.. Ad ogni modo fui promosso, e, per dimostrarmi la loro felicità, i miei acconsentirono a permettermi una lunga vacanza in casa di un mio compagno che aveva una villa antica ma ancora bella nella riviera di ponente. Era proprio una costruzione di altri tempi: doveva risalire al primo ottocento. Era stata più volte restaurata e i vari interventi risaltavano come pezzi avulsi. Un bagno era stato creato dove prima c’era una stanza da letto e risultava perciò esageratamente grande, un altro, a pianterreno era piccolissimo perchè ricavato dalla rientranza in cui una volta c’era il forno a legna. Anche il riscaldamento, aggiunto da pochi anni, si faceva notare per i grossi tubi che correvano lungo le pareti sotto al soffitto decorato da stucchi ingialliti. Se fosse stato possibile restaurarla in un quadro unico e affidato ad un architetto, la villa sarebbe diventata un capolavoro Ma, a quei tempi queste raffinatezze non erano ancora d’uso corrente: la gente, anche quella benestante si accontentava di piccoli miglioramenti aggiunti a poco a poco senza una logica. La mia camera aveva un letto ad una piazza dell’ottocento, con materassi di lana e un prezioso copriletto di cotone realizzato a mano da chissà quale ava, un armadio con lo specchio la cui anta cigolava ogni volta che veniva aperta, due sedie di noce molto belle ed un pavimento di cotto antico, forse originale che, sotto il peso dell’uso e degli anni si era incurvato al centro. Dalla finestra vedevo il giardino che non era molto grande ma ben tenuto, con aiuole di fiori e alberi secolari sotto cui erano posizionate seggiole di ferro smaltato. Complessivamente, una casa accogliente e calda come tutte le vecchie case in cui si sono succedute varie generazioni ed ognuna ha lasciato una traccia I genitori di Stefano erano gentili e facevano del loro meglio per rendermi il soggiorno piacevole C’era anche la sorella del mio amico, più grande di noi, aveva appena compiuto ventidue anni Si chiamava Bianca ed era una ragazza molto bella, portava il bikini e si lasciava allegramente corteggiare da due o tre giovanotti Non posso nascondere che la sua presenza mi inquietava un poco: avevo l’impressione che mi prendesse in giro quando diceva che ero proprio un bel ragazzo, volendo intendere che lei era troppo al di sopra di me e poteva trattarmi come un fratellino minore. A tavola sedeva di fronte a me e mi
sorrideva spesso: non parlava molto e questo trovavo fosse un’ottima dote per una donna, ma era sempre pronta a far scivolare dal piatto di portata il boccone migliore sul mio piatto e, alle rimostranze di suo fratello, alzava le spalle e diceva che lui era abbastanza grassottello, mentre io ero soltanto quattro ossa in croce. La leggerezza, l’atmosfera serena di quei pasti consumati nella sala da pranzo rivestita di legno! Adesso come mi sembravano invidiabili e perduti per sempre! Allora, forse, non le gustavo in pieno, anche se la cucina di una vecchia domestica era veramente superba: da giovani il cibo interessa poco: interessa molto di più quello che verrà dopo, a pranzo ultimato. Ovviamente Stefano ed io frequentavamo una compagnia di ragazzi della nostra età con i quali trascorrevamo le giornate al mare, facendo il bagno o giocando al pallone. La sera trascinavamo i nostri zoccoli sulla eggiata leccando un gelato e tentando di rimorchiare qualcuna delle belle tedesche che affollavano il paese. Ma si era rivelata subito un’impresa difficile. Le tedesche, alcune paonazze dal sole, cercavano la compagnia di ragazzi maggiori, che avessero i quattrini per portarle a cena o a ballare e per noi avevano soltanto sorrisi e qualche incomprensibile frase pronunciata con allegria. C’erano delle ragazze insieme a noi, ma erano tutte molto castigate, indossavano costumi interi, con gonnellini e sviavano subito il discorso appena cominciavamo a far loro dei complimenti un po’ spinti. Santo cielo! Erano spinti per quei tempi, adesso non credo che a qualunque diciottenne verrebbero in mente frasi del genere. Eppure la nostra sensualità scoppiava dentro di noi: io facevo sogni abbastanza erotici che mi lasciavano un senso di rabbia e di impotenza, non riuscivo a guardare una bella ragazza senza pensare come poteva essere sotto il vestito., e naturalmente, come facevano tutti, provvedevo da solo a soddisfare le mie voglie represse Ma mordevo il freno e, quando trovai il coraggio di parlarne con Stefano, scoprii che anche lui era nelle mie stesse condizioni. “Abbiamo diciotto anni – disse lui col tono di un vegliardo – e mi vergogno di non aver ancora avuta un’esperienza vera...si, qualcosina, qualche toccatina, qualche carezza, ma poi si ritraggono e balzano in piedi dicendo che sono uno sporcaccione,,,” Intendeva le ragazze, naturalmente. Finchè c’era stata la scuola e l’incubo della
maturità, il pensiero di arrivare finalmente all’atto sessuale completo, era stato congelato dalle pressanti necessità di studio ad oltranza, ma adesso che finalmente eravamo fuori da quel periodo, potevamo abbandonarci del tutto alla soluzione del problema. Che sembrava molto più difficile di quelli risolti agli esami. Ripensando a quel tempo, all’ingenuità che ancora ci permeava, all’innocenza con cui affrontavamo uno dei più importanti avvenimenti della vita, vengo preso da una malinconia profonda: il rimpianto di quei giorni, la fortuna di essere stato giovane al momento giusto, di aver dovuto aspettare e desiderare, persino la sofferenza che avevo provato. Tutto adesso mi sembra così giusto, così naturale, così preferibile alla sfrenata sessualità che praticano le giovani genti di adesso. .E improvvisamente le cose andarono a posto da sole, o per meglio dire, senza la mia consapevole partecipazione. Bianca doveva partire il giorno dopo per l’Inghilterra: era il secondo anno che andava a trascorrere un mese a Oxford per seguire dei corsi molto utili agli studi che stava per ultimare: infatti avrebbe dovuto laurearsi in lingue ed aveva già ato alcuni mesi a Parigi. Questo suo essere così cosmopolita era forse la ragione del suo atteggiamento disinibito e molto diverso da quello delle ragazze che non si erano ancora mosse da casa. Ad ogni modo, quella sera, rientrato dalle solite infruttuose eggiate, me ne stavo sul letto e leggevo Topolino: non avevo sonno e non avevo trovato niente di più interessante con cui raggiungerlo. Ad un certo punto la porta si aprì ed entrò Bianca. Indossava un babydoll, allora molto in voga che lasciava le sue belle e lunghe gambe completamente scoperte. Anche i seni, non eccessivamente grossi ma prosperosi si intravedevano sotto la stoffa trasparente. Era letteralmente uno schianto. Io non riuscii a rivolgerle una parola, perché, nonostante la poca pratica e l’assoluta incompetenza, avevo capito perfettamente che cosa era venuta a fare. Ed ero molto più stupito che imbarazzato. Lei sedette accanto a me e mi ò una mano sul viso, teneramente, poi si protese per essere baciata, cosa che feci subito e con grande impegno.
“Ti ho sempre detto che sei un bel ragazzo – mormorò lei, la bocca contro la mia guancia – sei il più bello fra tutti gli amici di Stefano.” Allora era vero, allora non mi prendeva in giro quando mi faceva i complimenti, allora ero riuscito ad interessarla sul serio! Fui preso da un tumulto che ancora non conoscevo, rinunciai di colpo alle ferree leggi di comportamento che mi erano state inculcate e, come se non fossi io, ma un altro ragazzo nuovo e consapevole, cominciai a baciarla con furia, le carezzai il seno, le baciai il collo . Non fu un rapporto tenero e guidato dall’innamoramento, fu uno scontro fra una donna che cedeva al capriccio di un momento e un neofita che finalmente approda al suo desiderio. Lei si sfilò la leggera camicia dalla testa e così, a seni completamente nudi, si adagiò sopra di me. Il contatto della sua carne contro la mia finì di mandarmi fuori di testa. Brancicavo, toccavo, succhiavo ogni pezzo del suo corpo che mi veniva a tiro: da troppo tempo desideravo un’esperienza simile. Lei prese in mano il mio pene, lo carezzò e poi se lo infilò in bocca. Chiusi gli occhi e non tentai neppure di trattenermi. Sarebbe stato impossibile. Bianca si mise a ridere della mia poca resistenza e ricominciò a carezzarmi il ventre e gli organi maschili, era pratica, dannazione, maledettamente esperta. Mi sentivo un neonato così alla sua mercé, in un sopore piacevolissimo che lei sapeva sfruttare alla perfezione. Non pensavo a nulla, mi ero abbandonato completamente e mi sembrava di non essere mai stato così bene, in tutta la mia vita. Poco dopo, quando reputò che fossi di nuovo pronto, scivolò sotto di me, allargò le gambe e mi guidò dentro di lei. Potenza della giovinezza. Immediatamente, per la seconda volta, provai l’estasi che avevo sempre immaginato. Poi le scivolò al mio fianco in un silenzio incomprensibile. Eravamo entrambi sudati, sporchi e rilassati. A poco a poco tornai su questa terra e pensai se fosse il caso di dire qualcosa, magari un complimento, una frase gentile. Ma non ebbi il tempo di decidere. Lei raccolse i suoi indumenti, se li infilò in un baleno e corse verso la porta. “Buona notte, - disse a bassa voce per non farsi sentire – Mi lasci andare per prima nel bagno?” Il giorno dopo lei partì, ci salutammo con un piccolo bacio sulla guancia e per tutte le volte in seguito che la incontrai ci trattammo con la massima cortese indifferenza.
Ma non per me. Quando fu partita, per qualche giorno rimasi come trasognato: la desideravo ancora, ero sicuro che l’avrei amata per sempre. Al suo ritorno ‘l’avrei cercata, avrei fatto il possibile perché la notte trascorsa avesse un seguito. Dentro di me, invece, ero certo che non sarebbe accaduto; avevo capito che quello era stato solo un episodio, e chissà quanti episodi del genere avrebbe avuto in Inghilterra! E infatti è stato ingoiato dal tempo. Da quanti anni non lo ricordavo più? Da quanto non rammentavo la sofferenza provata nel vederla andar via, lo sgomento che un fatto del genere aveva lasciato dentro di me, lavagna immacolata su cui si poteva scrivere di tutto? Adesso capivo che era normale, che era poco importante il comportamento di Bianca: l’unica cosa che avrei potuto recriminare era la sua spregiudicatezza un po’ troppo ante litteram. Ma siccome ne avevo beneficiato io, ero magnanimamente pronto a perdonargliela soprattutto perché era trascorso mezzo secolo. Lei si laureò e due anni dopo sposò un tale di Bologna. Non la rividi mai più, ma nel frattempo sulla mia lavagna molte altre parole erano state scritte, forse anche troppe e il suo ricordo era scivolato via nelle pieghe della memoria. Intanto era iniziato il periodo dell’università che, a quei tempi, si viveva goliardicamente, almeno per i primi anni. Subii le angherie degli studenti più avanti nel corso e, come tutte le matricole di allora, fui costretto ad esibizioni squalificanti ma che dovevano essere accettate pena il tormento continuato e gli scherzi per tutto il tempo che avrei impiegato a laurearmi. La prova cui sottoposero le matricole di giurisprudenza, l’autunno di quell’anno lontano e rimpianto, fu di doversi presentare nel bar più elegante della città all’ora del tè, cerimonia ancora in auge, e calarsi tutti quanti i pantaloni restando in mutande. Cosa che effettivamente venne eseguita alla perfezione. Dopo un attimo di sgomento, gli avventori, costituiti in massima parte da eleganti signore di età intorno alla menopausa e oltre, scoppiarono in piccole grida allarmate: “Ma chi sono? Ma che cosa fanno? Dove siamo arrivati! Cameriere, cameriere, venga subito.” Alcune, le più esaltate, gridavano di chiamare la forza pubblica. I camerieri, quattro e tutti abbastanza anziani, si precipitarono con tovaglie sciorinate per
gettarcele addosso, ma i lanci non riuscirono e noi continuammo a restarcene lì, fermi e muti come statue. Ci fu un notevole trambusto: sedie rovesciate da signore indignate che volevano andarsene di furia, intimazioni a ricoprirci da parte di qualche avventore maschio, persino una risata oceanica che proveniva dall’unico uomo presente dotato del senso dell’humour, o che forse ricordava i suoi anni universitari. “Sono matricole! – gridava – sono costretti da quelli del secondo anno. Cercate di calmarvi. Sono sicuro che adesso se ne andranno.” E infatti fu proprio quello che facemmo. Ci rialzammo i pantaloni, tentammo di rabbonirli con un sorriso e personalmente volai verso la porta. Se qualche amica di mia madre fosse stata presente! Ma fui bloccato dalla voce di Luigi Airoldi, un nostro compagno e figlio di uno dei più importanti avvocati della città, che aveva trovato il coraggio di chiedere soavemente: - Siate gentili: ci offrite qualche lira per la festa delle matricole?E la cosa più inverosimile di quella situazione inverosimile, fu che riuscì persino a raggranellare qualcosa. Come può un uomo che ha queste esperienze nel suo ato rassegnarsi a morire ? Ricordando quell’episodio, scoprii che mi sarei sentito di ripeterlo, se l’idea di un anziano coi capelli bianchi e le braghe calate, non mi avesse suggerito l’arrivo immediato di qualche associazione che si occupa di alienati e il ricovero istantaneo in una di quelle case-famiglia che vanno tanto di moda. C’è un tempo per ogni cosa, è vero: peccato che il tempo felice sia così breve rispetto a tutto il resto della vita. Ho scoperto che i ricordi sono come le ciliegie: uno tira l’altro, senza accavallarsi, tutti in perfetto ordine cronologico, e così vivi, così atrocemente desiderabili! Succede a volte che qualcuno ti chieda se ricordi un particolare giorno o un particolare avvenimento e che tu proprio non lo riesca a rammentare: perché per te non è stato importante, non ha suscitato il tuo interesse da trascinare nel tempo, ma quello che ha marcato la tua esistenza, quello che per un motivo qualsiasi, un profumo, una frase, uno stato d’animo ti ha colpito, si è insinuato nella tua mente e si è scelto un angolino da cui sbucare al momento giusto e lo
ritroverai sempre. Intanto, allora, bisognava studiare e studiare davvero. Bisognava frequentare i corsi, cosa che si poteva fare agevolmente perché eravamo un numero folto ma non eccessivo e non succedeva mai, come succede adesso, che alcuni studenti preferiscano rimanere a casa perché non trovano mai posto nelle aule e non riescano a seguire le lezioni perché troppo distanti o addirittura al di fuori. C’era più compattezza fra di noi, si forgiavano amicizie sincere, ci si sceglieva, naturalmente, e si studiava insieme, a piccoli gruppi. E si finiva l’università quasi sempre dentro i termini prescritti. Un fuoricorso era uno studente guardato con sospetto, mentre ora lo sono quasi tutti e nessuno ci fa più caso. Avevamo anche noi le nostre distrazioni: il cinema, che andava molto anche perché ben pochi di noi possedevano un’auto e, dunque, era il luogo più gettonato dove portare le ragazze. Lì, al buio, nelle ultima file, avvolti da una nube azzurrina delle molte sigarette fumate, potevamo sbaciucchiarci senza problemi: si guardava poco il film e in seguito avremmo giurato di non averlo mai visto. Poi c’erano i tè danzanti organizzati da varie istituzioni studentesche e fonte inesauribile di incontri con ragazze di tutti i ceti sociali, e le feste in casa, dovute, queste, soltanto alle ragazze di buona famiglia con case abbastanza grandi da ospitare quaranta e più persone e con i mezzi per offrire loro da mangiare e da bere. Arrivavamo separatamente o in gruppo, con l’autobus, ognuno di noi con il suo bravo settantotto giri sotto braccio con cui omaggiare la padrona di casa. I fiori facevano raramente comparsa, troppo cari per le nostre tasche e altrettanto le scatole di cioccolatini. Poveri anni in cui si era felici di poco! Si andava in giro con grossi cappotti spigati che si portavano a lungo, qualcuno, i più ricchi, avevano un abito in più da indossare alle feste, ma tutti non uscivamo di casa senza la giacca e senza cravatta. Avevo scoperto di avere un certo successo fra le ragazze e non mancavo di sfruttarlo: uscivo per qualche mese con una, poi ne conoscevo un’altra più carina e, se non aveva un ragazzo, provvedevo subito a colmare la mancanza. Ma quasi tutte erano molto serie, vale a dire che non venivano a letto: tutto il resto, chissà perché, lo facevano con grande entusiasmo. Per noi andava anche bene così. In definitiva non mi ero ancora innamorato: trovavo che fosse molto meno
ingombrante avere delle piccole relazioni, allora si chiamavano flirt, senza importanza per potersi sganciare al momento buono senza troppi danni da ambe le parti. Ma allora non ero ancora stato attratto da qualcuna, non avevo ancora provato il desiderio di stare accanto ad una ragazza ogni istante libero, non avevo mai pensato che i suoi occhi fossero i più belli, i suoi capelli dorati da far impallidire la Primavera di Botticelli, non ero mai stato roso dalla gelosia, in estasi per i suoi baci, non avevo mai pensato di stare con lei tutta le vita: in poche parole, non avevo ancora conosciuto Ilaria.
Cap. 4
Questa sera i bambini di mio figlio si sono fermati a cena da noi. Ce li hanno recapitati intorno alle otto e se ne sono andati di corsa, avevano una serata importante cui mia nuora era ansiosa di partecipare; i bambini li vediamo sovente, per l’amor del Cielo, ma è risaputo che la mamma della donna è sempre la preferita: nel nostro caso la signora è rimasta vedova da pochi anni e così, con la scusa che i nipotini le servono moltissimo per attenuare il profondo dolore, è presso di lei che li si può trovare più facilmente. Invece, per convalidare la regola, mia figlia ci lascia la bambina quasi tutti i giorni e sarà forse per questo motivo che mi sono affezionato a lei in modo particolare. Sono due bambini molto belli e molto simpatici, a tavola si comportano con educazione e sono sicuro che queste norme siano state insegnate loro dalla nonna, non avendo i genitori il tempo necessario per farlo. Questa è la realtà: i figli dei genitori che lavorano tutto il giorno non possono ricevere le cure e le attenzioni di quelli che hanno almeno la mamma a disposizione. Sono d’accordo che al giorno d’oggi una famiglia non può arrivare in fondo al mese senza due stipendi e oserei dire due stipendi molto buoni, tuttavia si avverte in questi bambini una maturità eccessiva per quanto concerne lo sbrigare da soli molte operazioni che un tempo avrebbero richiesto l’intervento di un genitore, una capacità per me quasi surreale per l’impiego di qualunque mezzo tecnologico, ma una difficoltà evidente nelle relazioni sociali. Non mi pare che abbiano un amico per la pelle, uno con cui vivere in simbiosi e con cui dividere lo studio e gli eventuali danni. Certo, bambini timidi come una volta, non se ne incontrano più, ma neppure aperti, curiosi e disarmanti nella loro ingenuità. I computer e i video giochi sono i loro amici, non sentono il bisogno, finiti i compiti, di scappar fuori di casa a giocare. Si piazzano davanti alle loro deità e diventa molto difficile convincerli a staccarsene. Se qualche nonno, come Luciana ed io, racconta loro vecchie storie, abitudini ormai desuete, proverbi o modi di dire non più di moda, ascoltano e ne sono interessati e così avranno la possibilità di tramandare un patrimonio popolare che
altrimenti andrebbe perduto del tutto. E ti accorgi subito se un ragazzo non ha ricevuto queste informazioni: la prima volta che in una lettura o in una conversazione si imbatte in una frase che non ha mai sentito, rimane in silenzio, alza il mento interrogativamente e conclude con un “ ah!” di estremo disinteresse. Per la maggior parte dei ragazzi la storia è cominciata il giorno in cui sono nati: tutto quello che è accaduto prima rimane avvolto in una nebbia fastidiosa, demerito, questo della formazione scolastica che da tempo ha trascurato questo settore. Durante la guerra io ero troppo piccolo, non ricordo quasi nulla. Ma mio fratello, maggiore di me di quattro anni, si industriava a costruirsi giocattoli usando legni, canne e fili di stoppa, faceva parte di una banda di ragazzini del paese in cui eravamo sfollati e, anche se era il più piccolo, non si tirava mai indietro se si trattava di mettersi in pericolo: come quella volta in cui tutti quanti andarono in una casamatta dei tedeschi dove sapevano esserci della balestite e la rubarono per sperimentarla facendo saltare in aria i loro soldatini. Un’altra loro bravata era questa: avevano delle cerbottane con palline in cui avevano inserito degli spilli. Durante le rare feste paesane, processione, messa cantata e tutto il paese nella piazza principale dov’erano allestiti alcuni poveri banchi di dolciumi, si divertivano a far scoppiare i palloncini che un uomo, raccogliendone i fili nel pugno, faceva volteggiare nell’aria. I bambini supplicavano per un’ora e alla fine, quando avevano ottenuto l’oggetto del loro desiderio legato solidamente al polso, quei piccoli mascalzoni lo prendevano di mira, soffiavano, il palloncino faceva “pof” e si sgonfiava e i bambini cominciavano a piangere, mentre loro sgattaiolavano via di corsa prima di essere scoperti. Certamente non sono aneddoti da imitare, ci mancherebbe, ma è soltanto un esempio di come la mancanza di giocattoli fe aguzzare la creatività : e poi quelli erano bambini abituati agli scoppi e alla morte: tutto sommato, com’è giusto che sia, i bambini sono il prodotto del tempo in cui vivono. Il tempo in cui vivevo io quando mi sono imbattuto in Ilaria era ancora per poco quello dell’università. Volevo attribuire al ricordo di Ilaria la massima attenzione, volevo riuscire a ritrovare quanto più possibile di quello che era stato l’amore della mia vita. Così, appena i bambini furono andati a letto, entrai nella camera per dar loro il bacio
della buonanotte e sperai che non fero come altre volte in cui non ne volevano sapere di dormire e mi chiedevano di stare con loro a raccontare delle storie. Mai favole, non erano stati abituati a questo: Luciana ed io raccontavamo loro storie che attingevano una verità negli studi che in seguito avrebbero incontrato. E loro già conoscevano la guerra di Troia, Annibale che aveva portato gli elefanti in Italia, la grandezza di Roma imperiale, la sua caduta irrefrenabile ad opera dei barbari e mille altre avvenimenti raccontati con parole semplici e molto superficialmente ma tali da interessarli. Quella sera erano molto stanchi e non chiesero nulla. Li guardai, i loro corpicini sprofondati nel letto matrimoniale e fui preso da un’ondata di tenerezza. Li amavo moltissimo, non avrei saputo concepire la vita senza di loro: in fondo stavo scoprendo che alla nostra età l’unico motivo veramente serio per cui continuare a vivere sono proprio loro: i nostri nipoti che diverranno un pezzo di noi proteso nel futuro che noi non vedremo mai. Poi me ne andai in quello che pomposamente viene chiamato lo studio, ma che è in realtà un locale abbastanza piccolo in cui ho stivato i miei libri, qualche riconoscimento attribuito a suo tempo al mio lavoro ed una comodissima poltrona in cui sprofondare con una sorta di voluttà. C’è anche un piccolo televisore; quello ufficiale, grande e costoso troneggia in salotto ed è appannaggio di Luciana .Accesi la TV per avere qualcosa su cui concentrare lo sguardo, ma subito lasciai che la mente arrivasse ai giorni lontani che da tempo avevo battezzato segretamente “il tempo di Ilaria” Stranamente non ho un ricordo nitido del nostro primo incontro. Solo il giorno prima Ilaria non c’era e il giorno dopo si era impossessata della mia vita. Avevamo organizzato una cena sulla spiaggia; le ragazze si erano date da fare per procurare le vettovaglie e noi maschietti avevamo comprato vino e birre. Qualcuno era stato incaricato di portare il giradischi e i dischi, ormai andavano di moda i trentatre giri che avevano il vantaggio di durare a lungo ed erano stati scelti con molta cura: niente rock, per piacere, l’unica musica che interessa coloro che ballano sulla spiaggia è quella lenta e suggestiva che favorisce il braccio di lei girato attorno al collo di lui, le braccia di lui avvinghiate al corpo di lei e poi i baci, dati senza timore di essere interrotti.
La mezzanotte era ata da un pezzo, parecchie coppie si erano appartate dietro alle barche e cominciavo a sentire freddo. La notte era splendida, piena di stelle e il mare sciabordava a pochi metri, una enorme distesa nera e .che sussurrava il più discretamente possibile Anche il fuoco stava spegnendosi e mi domandavo se non fosse l’ora di tornare a casa. Accanto al giradischi notai una bottiglia di ottimo whisky e ne bevvi un lungo sorso per cercare di riscaldarmi. “ E’ ottimo- commentai al mio amico che era intento a girare il padellone del trentatre.- Chi è il riccone che l’ha portato?” Lui girò il mento verso una coppia che faceva finta di ballare ma che in realtà stava abbracciandosi in modo inequivocabile. - Beppe? – risposi incredulo – ma se è più spilorcio di un ebreo scozzese!“Lei “ puntualizzò l’amico e se ne andò per gli affari suoi. Lei stava abbandonata fra le braccia del suo lui ma non ne sembrava particolarmente attratta:.infatti, appena lui tentava di baciarla, si ritraeva con molta grazia, ma si ritraeva e questo non significava niente di buono per il ragazzo. Non l’avevo mai vista, forse era l’amica di un’amica trascinata a quella serata perché non aveva di meglio da fare, ma nonostante l’oscurità, illuminata appena dalle fiamme che stavano spegnendosi, la trovai bellissima, senza alcun dubbio la più bella fra le ragazze presenti. Come diavolo avevo fatto a non vederla e a cercare di avvicinarla prima che lo fe l’attuale suo corteggiatore che, a quanto pareva, neppure era di suo gusto? Ormai era troppo tardi, non potevo avvicinarmi mentre il mio amico stava tentando gli approcci tradizionali, sarebbe stato inopportuno e che avrei fatto se lei mi avesse congedato gelidamente? Aveva un abito a fiori, leggerissimo, che lasciava vedere la perfezione delle sue gambe, lunghi capelli arricciati che ricadevano a destra e a sinistra senza ordine, ma in maniera deliziosa, non potevo conoscere in quel buio il colore degli occhi, ma mi sembravano chiari e molto grandi. Inoltre aveva una figura snella, forse anche troppo sottile, in quel tempo che ancora amava le curve e le forme prosperose.
Tutto l’insieme era, comunque, assolutamente perfetto e non potevo lasciarla andar via senza parlarle. Stavo arrovellandomi pensando a come potevo raggiungerla, quando la ragazza con cui avevo diviso la serata mi tolse dai pasticci. - Carina, vero? – disse apparendo accanto a me – Un po’ tanto secca ma indubbiamente carina. Peccato sia completamente fuori di testa.Il suo era un lampante ed ingenuo tentativo di riaccaparrarsi la mia attenzione. “ Davvero?- feci tentando di non mostrare interesse – Perché è fuori di testa? - E’ molto strana. Fa cose strane. _ “ Ad esempio?” - Ad esempio è capace di dare l’appuntamento a qualcuno e non presentarsi e quando quello telefona per avere spiegazioni si sente dire che è partita per un mese.“Carina...e poi che cosa fa? “ “Ho sentito dire che usa marijuana. “ - Tutti quanti spinellano di tanto in tanto. Non mi sembra così strano.“Forse a te – replicò lei piccata – io, ad esempio non l’ho mai fatto.” - Non hai perso niente. Ma tu la conosci o ne hai sentito parlare?Lei si fece una risatina nervosa. Non le piaceva il tono che aveva preso la conversazione. “Chiedi un po’ in giro chi è Ilaria Vezzosi...ne sentirai delle belle... Comunque, adesso ho proprio freddo: che ne dici di andare via?” Ero venuto con lei, non potevo dirle di andare al diavolo, perché avevo incrociato una ragazza che mi aveva colpito. “Ok. Vado a sentire se anche Carlo vuol venire via. Siamo venuti con la sua
macchina.” Ma ovviamente di Carlo non c’era traccia. Probabilmente era infrattato da qualche parte con una ragazza e non si sarebbe mosso per tutto l’oro del mondo. E invece spuntò fuori quasi subito abbracciato ad una ragazza che si strofinava le braccia nell’intento di riscaldarle. “ Gianna ha freddo – disse lui – noi ce ne andiamo.” - Perfetto! Anch’io non ne posso più.“Vengo anch’io – fu subito pronta ad intervenire la mia ragazza, temendo di essere lasciata a terra – Ormai fa troppo freddo per rimanere in spiaggia la sera. L’estate è ata.” Sarebbe stato un commento triste, sempre la fine di un’estate era motivo di malinconia, ma non quella sera. Avevo altro cui pensare. Stavamo raccattando le nostre cose, uno zaino, un plaid, e mi lambiccavo il cervello per trovare una scusa che mi permettesse di chiedere il numero telefonico ad Ilaria, quando, incredibilmente, fu lei ad avvicinarsi. “State andando via? – chiese – Non avreste un posto anche per me ?” La guardai incredulo della fortuna che mi capitava. - Certo, certo, ci stringiamo un po’ sul sedile posteriore...Carlo non sembrò apprezzare molto la decisione che avevo preso per lui ma non aprì bocca. In cinque ci allontanammo dalla spiaggia dopo un saluto collettivo e fummo seguiti dalle lagnanze degli altri. “ Sempre la solita storia. Venite con noi, mangiate e bevete e mai che vi fermiate a dare una mano per mettere in ordine.” - Se dipendesse da voi, la spiaggia diventerebbe un porcile. C’è la spazzatura da raccogliere, ehi...dico a voi...“ Vi saremo sempre riconoscenti – gridò Carlo che aveva già quasi raggiunta la strada.- Pregheremo per le vostra anime. “
Una sequela di improperi seguì questa frase ma eravamo già lontani e le offese risuonarono attutite. Stranamente, durante il tragitto di ritorno, non ci fu alcuna conversazione. Ilaria se ne stava in silenzio schiacciata contro la portiera posteriore, la mia ragazza era stretta contro di me ma non parlava perché voleva farmi capire di essere molto contrariata e Carlo, che di solito sapeva intrattenere tutti con molto spirito, diventava improvvisamente taciturno se aveva troppe donne attorno. “ Dove abiti? “ chiese soltanto ad Ilaria quando fummo entrati in città. - Al Lido. Via De Gaspari – Carlo sembrò sollevato dalla risposta: forse aveva temuto di dover accompagnare l’intrusa in qualche strada inerpicata sui monti. Quando scese per prima dalla macchina, vidi che la sua era un’abitazione di pregio. Infilò un attimo il capo nel finestrino e lanciò un “ grazie “ doveroso ma caloroso come una pista di ghiaccio. Un attimo dopo era sparita nel portone. Ero al settimo cielo. Sapevo il suo cognome e conoscevo il suo indirizzo, l’avrei cercata al più presto possibile. Probabilmente Ilaria aveva capito che l’avrei fatto: ho scoperto che le donne sono munite di un’antenna invisibile ed efficacissima che le avverte all’istante quando hanno fatto colpo su qualcuno, perché il giorno successivo, dopo aver ingaggiato una breve ma sanguinosa battaglia con il buon senso che mi suggeriva di attendere un po’, riuscii a vincere e le telefonai. Mi ero preparato ad un gelido ma educato rifiuto, ad un rinvio motivato dagli studi pressanti, ad un “ Grazie, ma il mio ragazzo non gradirebbe “, tutte possibilità assolutamente probabili : invece, appena le dissi chi ero Ilaria mi interruppe: -Vuoi uscire con me?Sorpreso non trovai le parole per rispondere e così lei continuò: “Anche a me fa piacere. Stasera verso le cinque sotto casa mia. Va bene?” E come poteva non andar bene? Mi affrettai ad assentire prima che quella strana ragazza cambiasse idea, e subito lei tolse la comunicazione.
Quando la vidi aprire il portone e venirmi incontro sorridendo capii che ero stato folgorato da quello che si chiamava “Colpo di fulmine” e su cui avevo sempre scherzato come di una leggenda nordica. Invece esiste, eccome se esiste. Ed è l’esperienza migliore che si possa fare. Trasformare uno sconosciuto o una sconosciuta nell’essere che più ti importa al mondo, cercarne in ogni parola l’intelligenza, la sua storia, i suoi sogni, le sue paure: diventare nel brevissimo tempo di un giorno così intimo di lei o di lui da non poterne più fare a meno. Le porte di un paradiso insperato che si aprono e il futuro davanti da percorrere stringendosi per mano. Forse ero troppo romantico a quei tempi, ma il sentimento che provavo era di assoluto rapimento: avrei voluto guardare il suo viso, i suoi occhi azzurri senza parlare, senza neppure toccarla. “Andiamo a prendere un gelato? “ propose lei molto più pedestremente. Iniziò così quel periodo incantato, stralunato, un po’ fuori dal mondo che fu la mia relazione con Ilaria. L’avevo giudicata strana e strana era davvero, almeno per i canoni di comportamento del momento. Era la persona più dolce e delicata che avessi conosciuto, la più sensibile, quella che sapeva riconoscere la bellezza anche in un ciuffo d’erba che spuntava da un muro, che riusciva a rendere indimenticabile una semplice eggiata, che vedeva cose di cui gli altri neppure si accorgevano: la dolcezza di un tramonto, i giochi di un gattino su un terrazzo, la tenerezza di un bambino che mangiava un gelato sporcandosi il naso col cioccolato. Sembrava una persona che apprezzasse al massimo le piccole gioie quotidiane e che ne fosse paga. E poi, all’improvviso, diventava silenziosa, rispondeva a monosillabe e se ne andava mormorando un semplice: “Scusa, non ho più voglia di parlare” Era talmente diversa da ogni altra ragazza incontrata fino allora che riusciva a legarmi sempre più strettamente a se, perché volevo capire, volevo arrivare a conoscere le cause di quel suo stranissimo carattere e più ci pensavo, più mi arrotolavo in quella matassa, meno ne sapevo. Provai a chiederglielo badando ad usare le parole giuste che non potevano ferirla, e infatti non si mostrò per niente offesa, si limitò ad alzare le spalle e a dire:” Non si può essere sempre dello stesso umore. Solo gli stupidi sono sempre uguali.” E tornavo a casa avvilito come se la colpa fosse mia e mi sorprendevo a riare ogni istante della giornata per capire dove avevo sbagliato, che cosa avevo detto per farla
cambiare così repentinamente, ma, neppure sotto l’incantesimo di un innamoramento così totale, riuscivo a trovare il benché minimo indizio a mio sfavore. Se fossi stato solo un po’ più lucido, avrei potuto concludere che quello era il suo fascino ed il suo limite e avrei tentato di accettarla com’era, esattamente come accetti una coi capelli biondi o con gli occhiali. Ma io non mi rassegnavo, non volevo rassegnarmi e quel pensiero assillante, costante, fastidioso riuscì a rovinare anche la media dei voti dei miei esami all’università. Li avo, certo, ma non più così brillantemente. Ilaria era diventata il centro della mia vita al punto che trascuravo anche gli amici per i quali avevo sempre meno tempo e provocando le loro più che giustificate prese in giro. L’unico che non sciorinò il solito repertorio di banalità, fu Carlo Pontiroli. Per lui trovavo il tempo di tanto in tanto. Uscivamo insieme qualche sera e andavamo al suo bar preferito a bere una birra, parlavamo di tutto, anche di Ilaria ma lui non si permise mai una sfottitura. Era diventato leggermente più serio, stava per laurearsi e stranamente non ne era felice. “ Il tempo delle pazzie è finito – mi disse una sera – e ho una paura tremenda di quando comincerò a rimpiangerle." Lo guardai stupito: nonostante la lunga amicizia non avrei mai sospettato in lui una corda così visibile di sentimentalismo. - Be’, la vita va avanti...“ E soprattutto procede a periodi ben distinti. La giovinezza, intesa come la parte più incosciente sta per concludersi. No, non fare quella faccia! Pensaci e vedrai che ho ragione. Certo, saremo ancora giovani, ci mancherebbe, per l’anagrafe siamo giovanissimi, ma l’incoscienza non possiamo più permettercela. E’ già superata, ci sono già altri che hanno preso il nostro posto e che ne possono godere a buon diritto. E’ molto triste.” Si, a ragionarci sopra, era abbastanza triste, ma allora non mi sembrava così grave. Non avevo ancora terminato l’università, avevo Ilaria e tutta una vita che non chiedeva altro di essere conquistata. Ed io mi preparavo a farlo, su questo non c’erano dubbi. Ero talmente innamorato che, soltanto a pensarla, venivo colto da una tenerezza
mai conosciuta e trascorrevo i minuti che mi separavano da un appuntamento nel terrore di non vederla arrivare. Che cosa avrei fatto, se non fosse apparsa camminando fra le gente, i lunghi capelli fluttuanti sulle spalle e le gambe snelle che procedevano velocemente? Adoravo la sua figura, le sue ginocchia ossute, il suo viso, i suoi occhi che sapevano are in un attimo dal sorriso ad una cupa tristezza. E finalmente un giorno, all’improvviso, mi raccontò qualcosa di lei. Non c’era stato un motivo che potesse provocare quelle confidenze, era un pomeriggio invernale e stavamo seduti su di una spiaggia, con le spalle ad una fila di cabine e il viso rivolto al timido sole che non ci avrebbe abbronzati. Ma era una giornata bellissima, non c’era un alito di vento e nel deserto che ci circondava potevamo fingere di essere due naufraghi approdati in un luogo incantato. “ Mia madre non sta con noi – esclamò come se stesse continuando un discorso – Se ne è andata tanto tempo fa, è tornata in America, lei è americana. Avrebbe voluto portarmi con se, ma mio padre si è opposto e il tribunale gli ha dato ragione. Così lei ha potuto divorziare e sposarsi un’altra volta: e ha messo al mondo altri due figli che si ostina a chiamare “i miei fratelli”, Ma non mi piacciono, sono ragazzini imbottiti di vitamine e di cheeseburger, giocano a baseball e sono convinti che Dio li abbia messi nella parte giusta del mondo. Sono lo stereotipo di quello che dovrebbe essere il ragazzo americano per eccellenza.” Non sapevo nulla di tutto questo e francamente, a quei tempi, una rivelazione del genere poteva scioccare. Nello pseudo perbenismo in cui ci muovevamo non esisteva il divorzio, la gente si sposava e volente o nolente restava sposata fino alla morte. C’erano casi di separazioni, poche e additate alla pubblica disapprovazione, ma in quei casi i disgraziati vivevano senza farsi notare, quasi in punta di piedi e con un atteggiamento volto a chieder scusa al mondo. I facili divorzi, la disinvoltura con cui si mettevano al mondo bambini che avevano in comune un solo genitore erano commentati con un sorriso e con il termine “ americanate”. In seguito avremmo fatta nostra questa maniera comportamentale e l’avremmo adottata con una semplicità ed una velocità da far pensare ad una pentola in pressione che venga scoperchiata all’improvviso.
- Li conosci? – chiesi abbastanza scioccamente – e conosci anche il nuovo marito di tua madre? – Mi sembrava di pronunciare una bestemmia. “ Certo. Che discorsi. Vado a Boston una volta all’anno, durante l’estate. Lui non è tanto male. E’ una persona che potrebbe are benissimo per europea, un europeo di classe. E’ istruito, insegna all’università, innamoratissimo dell’Italia e di tutte le sue opere d’arte e non è sicuro di far parte della popolazione più giusta del mondo. Oserei dire che mi piace. “ - E tua madre? – Alzò le spalle: “ Mi vuole bene, almeno questo è ciò che dice. E’ una bella donna educata, non molto intelligente, espansiva e generosa. E’ profondamente orgogliosa della sua bella casa, del suo giardino ben curato, degli amici che frequenta. Non avrebbe potuto resistere in Italia, lo capisco benissimo.” - Perché? In Italia non esistono persone del genere? – “ Certamente, anche troppe, ma lei non avrebbe resistito accanto a mio padre. Forse se ne è innamorata perché lui è un uomo affascinante, ma ha un carattere impossibile.” - E com’è questo carattere? – chiesi dato che Ilaria si era fermata di colpo. Lei scosse il capo: “ Non ho più voglia di parlarne e poi mi è venuto freddo. Facciamo una corsa per scaldarci. “ Balzò in piedi e prese a correre sui sassi, vicino al mare.
Cap. 5
Questa sera, mentre guardavo il telegiornale e imprecavo mentalmente contro i politici che facevano a gara a chi raccontava le balle più grosse, Luciana è venuta a sedersi accanto a me. Non lo fa mai: da tempo ha rinunciato ad ascoltare discorsi triti e cattiverie lanciate in faccia agli antagonisti, per cui mi sono girato a guardarla e ho chiesto: “ Cosa è successo? “ - Niente. Deve per forza succedere qualcosa perché io abbia voglia di comunicare? ” Comunichiamo o” ho risposto e ho spento il televisore. - Il fatto è – cominciò lei con un tono che immediatamente mi ricordò i primi tempi del nostro matrimonio – che all’improvviso mi sono resa conto di quanto poco io sappia di te in questo momento. Devo ammetterlo: non mi lascio mai andare all’introspezione, però ho capito che tu lo stai facendo e forse so di che cosa si tratta. – “ Ah! Si? E di che cosa si tratta?” - Paura della vecchiaia e della morte, non è così? – “In parte. – mi fermai un attimo perché non sapevo come proseguire. Luciana, nonostante i quarantacinque anni trascorsi con me, non era mai stata la persona cui avrei preferito confidarmi: troppo positiva, troppo ottimista e soprattutto fastidiosamente irritante nel voler minimizzare anche la situazione più grave. “Non si tratta soltanto di questo – continuai dopo che stranamente lei se ne era rimasta zitta in attesa che riprendessi il discorso.- Cioè, sì, è vero, da un po’ di tempo non riesco a liberarmi da questo pensiero, e non venirmi a dire che è una cosa sciocca perchè è inevitabile e che succede a tutti e quindi...” - Non lo dirò – mi interruppe lei alzando la voce per sovrastare la mia – e poi? –
Mi stupii della sua accondiscendenza, capii che veramente voleva essermi di aiuto e le fui riconoscente. “ Hai mai pensato – chiesi – a che cosa si riduce la vita? A parte la giovinezza in cui tutto sembra possibile e che ci fa sentire pronti a scalare tutte le montagne, il resto diventa di una monotonia asfissiante, si fanno e si dicono le stesse cose tutti i santi giorni, sempre che non sopravvenga qualche guaio che ci offra un nuovo motivo di conversazione...Me ne sono reso conto da quando ho avuto l’incidente...” - Io l’ho sempre saputo – disse lei con molta tranquillità – Sapevo che mi sarei sposata, che avrei avuto dei figli e che avrei tentato di allevarli nel modo migliore: e loro sarebbero cresciuti e se ne sarebbero andati. Era già tutto scritto, ma era quello che volevo e che, ringraziando Dio, ho avuto. Non sono una stupida, so già che in questo momento nulla di tutto ciò è importante per te: ma non credere di essere un' eccezione. Succede a quasi tutti, anche ai più fortunati, di avere rimpianti e ribellione per il tempo che a: non si può evitare. Solo mi dispiace di vederti così triste, perchè stai rovinando il tuo sistema nervoso per qualcosa che è ineluttabile.Che altro avrebbe potuto dire? Dal suo punto di vista non poteva comprendere lo sconforto, il senso di impotenza, persino la rabbia che si erano annidati dentro di me. E accadde quello che era sempre accaduto le volte che avevamo provato ad avere una discussione seria. Le presi una mano, le sorrisi e chiesi: “ Ti va di uscire a mangiare una pizza? “ Le andava. Si alzò per andarsi a cambiare e sicuramente dentro di sé si sentiva felice per essere riuscita a convincermi. Era sempre stato così fra di noi. Non abbiamo mai avuto dei veri litigi, la nostra vita si è dipanata nel rispetto e nella buona educazione reciproca e, fintanto che ci sono stati i ragazzi con tutti i loro quotidiani problemi, non abbiamo avuto molto tempo per accorgerci che noi due non parlavamo mai. Abbiamo avuto momenti difficili, come quando la società per cui lavoravo sembrava essere decisa a trasferire la sede in un’altra città. O dentro o fuori, questa era l’alternativa, compreso i dirigenti alla cui categoria mi onoravo di appartenere. Mesi difficili, di attesa, mesi in cui svisceravamo i motivi per restare e quelli per
andarcene. Per Luciana sarebbe stato lo stesso, non aveva particolari preferenze. Io avevo ancora tutti e due i genitori e non potevo pensare di lasciarli soli, visto che anche mio fratello si era da tempo trasferito. Inoltre avevo ancora alcuni cari amici cui volevo bene e che frequentavo con piacere e poi c’erano il mare che non avrei più avuto, i luoghi della memoria, il panorama che avevo imparato ad amare. I ragazzi non sembravano entusiasti di partire, avevano i loro compagni, le loro abitudini, ma non si sarebbero strappati i capelli all’idea di ricominciare in un’altra città. Dunque, c’ero soltanto io a dover decidere e alla fine avevo deciso: sarei rimasto anche se questo sottintendeva cercare un altro lavoro senza nessuna certezza e senza le garanzie che quello attuale mi dava. Alla fine non fu necessario perché la società rimase dov’era. Ed io tirai un enorme sospiro di sollievo. Ripensando adesso a quell’episodio provavo una sensazione strana, mi pareva che il destino non avesse voluto mettere alla prova il mio coraggio, che fossi stato protetto e graziato, perché prima o poi mi sarei pentito del mio estremo sentimentalismo: non avrei trovato un impiego alla pari di quello che lasciavo, la mia famiglia avrebbe dovuto fare alcuni sacrifici e alla fine mi sarei sentito frustrato e umiliato. E invece, indipendentemente dalla mia decisione, mi ero ritrovato salvo. Quando la notizia della decisione fu ufficiale comprai una bottiglia del miglior champagne e la stappai a cena, per festeggiare. Luciana prese parte alla mia gioia e gustò con molta serietà il suo vino, ma, deponendo il bicchiere si lasciò sfuggire. “ Peccato! Tutto sommato, non mi sarebbe dispiaciuto conoscere qualcosa di diverso!” E quello fu l’epitaffio che pose fine ai festeggiamenti. Comunque, siamo andati in pizzeria e, in mezzo al rumore che di solito accompagna questi esercizi, sembrò naturale non riprendere la conversazione incominciata a casa. In fondo io temevo che accadesse, forse per partito preso o forse perché non mi facevo più illusioni sul fatto di poter confidarmi a mia moglie. Eravamo molto diversi e negli anni avevo imparato a tacere le cose che lei non avrebbe compreso: e non mi sarebbe piaciuto cambiare idea alla nostra età. Ormai lei era confinata in un limbo che lei stessa aveva creato in cui poteva
continuare a vivere come aveva sempre fatto, e in cui io non cercavo mai di penetrare. “Chissà quante coppie della nostra età hanno dato alla loro esistenza un accomodamento del genere!” pensavo talvolta e non riuscivo a dispiacermene. Perché io avevo avuto tanto tempo prima una donna della quale avrei desiderato conoscere ogni remoto pensiero e che, invece, sfuggiva, mi scivolava fra le dita mentre il mio amore per lei mi faceva conoscere le più angosciose frustrazioni. Imputavo quei suoi sbalzi d’umore ad un carattere un po’ eccentrico e ricco di grande intelligenza: certo Ilaria non era una ragazza comune, era uno spirito libero, affrancata da quelle pastoie che l’ipocrisia del tempo imponeva, libera di dire e di fare quello che più le piaceva, libera anche di are per una poco di buono o, nel migliore dei casi per una svitata. A me piaceva proprio così, per quello che era, per quel suo giocare a nascondino con i sentimenti e con le cose importanti, per quel suo darsi completante per poi ritrarsi in un silenzio incomprensibile. Alla fine avevo concluso che era fortemente indecisa fra l’abbandonarsi interamente e svelare ogni più recondito angolo del suo animo o restare sospesa a metà, per timore di mettersi del tutto nelle mani di un altro. Temeva di esserne ferita, non si fidava di me, quel poco che mi aveva raccontato della sua vita era stato sporadico e detto in tono ironico, quasi a nascondere la verità e cioè che era stata profondamente segnata dall’abbandono della madre, che col padre non aveva un rapporto stretto e soddisfacente e che si sentiva una persona senza radici e senza profondi legami. Potevo capirla, forse, mi piaceva pensare, ero l’unico ad aver compreso quel suo malessere che era troppo fiera per manifestare: non voleva essere compatita e, col are degli anni, aveva costruito dentro di se l’immagine di una ragazza forte e decisa, capace di poter fare a meno dei sentimenti e che fingeva di ironizzare su quelli degli altri. Ma io avevo la convinzione che quello fosse soltanto un muro eretto faticosamente contro il mondo. “Se non mi fido di nessuno – doveva pensare – non ne resterò mai delusa, se non mi lascerò andare ad amare con tutta me stessa, non soffrirò quando verrò abbandonata.” Ritenevo che fosse estremamente doloroso e autodistruttivo essere arrivata a quel punto. E non perdevo occasione per dimostrarle amore e tenerezza, per tentare di farle comprendere che di me poteva fidarsi perché non l’avrei mai delusa, perché, se avesse voluto, sarei stato ad ascoltarla e avrei cercato di aiutarla ad uscire dal bozzolo protettivo ma deleterio in cui era andata a nascondersi.
Sicuramente un po’ ci riuscii. Col are dei mesi ci fu una sorta di scioglimento, le volte in cui parlava della sua famiglia divennero più frequenti, a volte diventava persino triste e non se ne vergognava. Ero fiero di me stesso. A spizzichi e bocconi mi aveva raccontato molto della sua vita tanto da riuscire a sconvolgermi. Suo padre, diceva, non si curava di lei pur non facendole mancare nulla, ma ogni tanto veniva assalito dalla smania di fare il padre sul serio e pretendeva di essere messo al corrente di ogni cosa: la scuola, gli amici, i divertimenti. Tutto in una volta: lei detestava quel modo di agire, finché era piccola non aveva trovato il coraggio di opporsi, ma, crescendo, gli aveva fatto capire che quelle interrogazioni sporadiche e di tipo poliziesco la contrariavano parecchio. Aveva cominciato a rispondere a monosillabi, si e no e basta: lui aveva mostrato di arrabbiarsi finchè un giorno l’aveva presa a ceffoni. Aveva solo ottenuto il risultato di farla chiudere del tutto: “ picchiami pure – lei aveva pensato – puoi anche massacrarmi ma io non aprirò più bocca, non ti darò questa soddisfazione.” Comunque la sua era diventata una vita di paura: ogni volta che si metteva a tavola con suo padre ingaggiavano la battaglia del silenzio e Ilaria tribolava che lui la interrompesse per ricominciare a farle il terzo grado. Aveva una gran paura di essere picchiata ancora, ma era determinata nei suoi propositi. “ Come fai a resistere?- le chiesi, sinceramente esterrefatto – Non puoi provare a parlargli, a spiegargli che preferiresti un rapporto normale, dialoghi, colloqui...” Lei si mise a ridere e scosse il capo: - Figurati! Non me ne ha mai dato la possibilità. So per certo che ha frequentato molte donne, che ne ha mantenute alcune e che attualmente sta con una signora di cui pare essersi innamorato. Non rientro nelle sue precedenze. Ma tu non sai che cosa è successo pochi mesi fa...La guardai senza trovare parole e gli avvenimenti più turpi arono nella mia mente. Ero disposto a credere che quell’uomo le avesse fatto qualcosa di orribile, invece saltò fuori che era stata lei a ferirlo. “ Be’ – raccontò Ilaria giocando con un lembo del suo golfino che tormentava di continuo – L’ultima volta che mi ha affrontata e voleva essere messo al corrente della mia storia con un ragazzo di cui erano andati a riferirgli, arrivò a dirmi che
ero una puttana e che lui lo aveva sempre sospettato. Ho perso la testa, ho afferrato un paio di forbici e gliele ho piantate in una mano...” Trattenni un piccolo grido. Mai, mai avevo sentito un racconto del genere, mai avrei immaginato che dentro le nostre rispettabili famiglie borghesi potessero avvenire simili drammi. - E’ stata una ferita grave? – riuscii a farfugliare. - Si, forse...Ha chiamato il nostro medico di fiducia che gli ha messo tre punti. Devo dire che non me lo sarei aspettato da parte sua: non ha voluto ricorrere all’ospedale per non farmi are dei guai...almeno, è questo che dice.“ Se lo dice, sarà vero. In fondo è tuo padre e, a modo suo, ti vuole bene...” Se ne stette zitta per qualche minuto, poi mi sorrise e chiese: - Pensi che sia pazza? – Mi rendo conto, adesso, che avrebbe desiderato sentirsi rispondere di si, voleva inconsciamente punirsi e se lei mi avesse fatto ribrezzo, forse avrebbe considerata sufficiente la sua espiazione. Ma io non feci nulla di simile, la abbracciai stretta, la baciai delicatamente sul collo e sul viso e sul collo, disperatamente partecipe di quella sua orribile esperienza. “Non è mai stata facile la mia vita – riprese quando si fu calmata – la mamma ci ha lasciati che ero ancora una bambina, avevo appena otto anni. Le volevo bene come tutti i bambini lo vogliono alle loro mamme: e poi, all’improvviso era scomparsa: papà mi disse che era tornata al suo paese, perché non riusciva più a vivere in Italia,” - Ma ti ha detto che voleva portarti con sè ? – ormai ero disposto a credere qualsiasi cattiveria da parte di quell’uomo. Ilaria ci pensò un attimo e poi annuì: “ Me lo ha detto, ma così per dovere di cronaca e poi ha assunto una specie di governante che si prendeva cura di me. Era una persona gentile e direi quasi affettuosa, ma non è proprio come essere curata dalla propria madre...D’estate la signorina andava in ferie ed io venivo spedita dai nonni a Forte dei Marmi. E lì,
devo dire, ci stavo proprio bene e mi divertivo...” - E tuo padre veniva a trovarti? – “Qualche volta, a ferragosto, per esempio. Ma poi se ne andava subito in barca con i suoi amici, a girare nel Mediterraneo.” - Mi spiace per te. Hai ragione, non è stata bella la tua infanzia..._ Dopo di che, lei si chiuse nel suo silenzio che io rispettai. .Un pomeriggio, era ormai primavera, eravamo in campagna: Avevamo raggiunto una località tranquilla, piena di prati a pochi chilometri dalla città. Lo facevamo spesso, a quei tempi in cui le auto o i prati erano gli unici posti in cui potersi amare. E quel giorno lo facemmo con una tenerezza mai usata, come se la furia che di solito ci prendeva quando i nostri corpi si avvicinavano, avesse lasciato il posto ad una dolcezza molto più profonda, segno che la nostra storia non si basava soltanto sul sesso, segno che l’amore stava prendendo il sopravvento. Ne fui felicissimo. Lei era stesa accanto a me e profumava di terra , i suoi lunghi capelli erano sparpagliati sull’erba di cui avrebbero riportato qualche filo. Ero molle, esausto, col cuore traboccante di affetto e il cervello pieno di idee per il nostro futuro. Sopra di noi un cielo azzurro da cartolina illustrata si lasciava percorrere da piccolissime nuvole di organza. Stavo per lasciarmi andare alla più sfrenata oleografia, quando lei si alzò di scatto e fece qualche o verso un albero di ciliegio letteralmente ricoperto di delicatissimi fiori bianchi; da lì si poteva vedere la vallata che scendeva a fasce verdissime fino alla strada provinciale. Era un momento magico, da non interrompere parlando. Poi, dopo qualche minuto Ilaria tornò verso di me, si lasciò scivolare in ginocchio e disse: “Oggi siamo stati quasi felici.”
Cap. 6
Una delle preferenze di Ilaria era andare in giro per i vicoli e aveva preso l’abitudine di trascinarmi con lei: devo ammettere che non avevo mai reso giustizia a questa parte della città, la conoscevo poco e non avevo mai sentito il desiderio di farlo. Ma con lei era tutto diverso, come al solito, del resto. D’altra parte stava per laurearsi in belle arti ed era logico il suo entusiasmo per vecchi palazzi maltenuti ma di forma squisita, per chiese buie ma ricche di pitture e di marmi, per località dai nomi strani in cui si era svolta una parte della nostra storia. “Questa è una città da guardare con il naso per aria – mi aveva spiegato – Non è colpa sua se il terreno è sempre stato poco e se hanno dovuto costruirla in altezza. Se cammini guardando in terra, vedrai soltanto selciati sconnessi e sporcizia. Ma se ti dai la pena si sollevare lo sguardo, ecco, guarda quell’edicola all’angolo...è un esempio magistrale del barocco, e quei piccoli poggioli in ferro battuto, e gli architravi dei portoni...una bellezza, in marmo scolpito da qualche ignoto artista che sapeva il fatto suo.” A volte si incantava davanti ad una finestra spalancata, arrivava ad infilarvi dentro la testa ed io la imitavo, un po’ vergognandomi di essere sorpreso da qualche indignato padrone di casa. Effettivamente valeva la pena: soffitti a vela che riportavano affreschi scoloriti e bisognosi di restauro, ma delicatissimi nell’esecuzione, oppure si trattava di soffitti a cassettoni che il tempo aveva miracolosamente preservato e da cui scendevano verso il suolo stupende colonne di marmo. Androni scuri e trascurati, perfetti nelle proporzioni, e scaloni in marmo oppure in ardesia che si inerpicavano verso i piani superiori. Case patrizie, una volta, adesso smembrate e affittate a famiglie povere o ad artigiani come laboratori. Le casate si erano estinte, forse, e forse i discendenti c’erano ancora ma non avevano più i soldi necessari per mantenerli in tutto il loro splendore e preferivano lasciarli andare in malora. E poi ancora, finestre a bifore, a trifore, tetti di ardesia in cui avevano trovato eccellente ricovero famiglie di piccioni, chiese antichissime in cui, al contrario, tutto era stato restaurato e i cui ori luccicavano per la maggior gloria di Dio. E
per ogni posto, palazzo o chiesa, Ilaria aveva una storia da raccontare. Era una delle poche volte in cui la vedevo felice; raccontava cercando di rendermi partecipe delle sue conoscenze, e parlava con grande entusiasmo, senza salire in cattedra, ma con gli accenti di una vera ione che avrebbe desiderato condividere. Scoprii così che era una ragazza scontrosa soltanto quando la gente che aveva attorno non la interessava o quando si lasciava avvolgere dalla malinconia di un’infanzia infelice e di rapporti non risolti; era invece una creatura apionata e serena quando si trovava a suo agio. Tutto sommato aveva un disperato bisogno di certezze che durante la sua breve vita non aveva avuto. Oh! quante certezze avrebbe potuto avere da me, quella di non sentirsi più sola, quella di aver qualcuno su cui poter contare sempre, per ogni cosa, quella di un amore totale, che è proverbialmente cieco perché non vede i difetti e neppure gli interessano, quel tipo di amore, insomma, che, stando a quanto si dice, accade una volta sola nella vita e tanti neppure riescono a conoscerlo: solo se me lo avesse chiesto. Ma lei non lo fece mai. Ogni volta che il suo ricordo riemerge, una canzone, un profumo, una frase pronunciata da qualcuno, si impone sugli altri un pomeriggio d’estate, al mare, in quel posto incantevole che era ed é tuttora Portovenere. Avevamo fatto un lungo bagno in quello che era, e forse non è più, un mare azzurro, trasparente, da dèpliant pubblicitario. Io ero uscito prima e lei mi aveva seguito poco dopo, venendosi a coricare a pancia in giù sul suo grande asciugamano giallo. Il sole stava già cominciando ad asciugare la sua pelle abbronzata ma alcune gocce di mare indugiavano sulle sue spalle, come se detestassero di essere cancellate per sempre. Non seppi resistere: mi chinai e cominciai a leccarle via, una ad una, con una sorta di godimento leggermente erotico e incoercibile. Una cosa tremendamente sconveniente per l’epoca e infatti, girando appena gli occhi mi accorsi di sguardi riprovevoli rivolti alle nostre persone, tranne uno, quello di una signora di mezza età, ancora molto bella e seduta sotto un ombrellone in prima fila: lei stava sorridendo, oh! un piccolo, vago sorriso mentre il suo sguardo si era spostato da noi ed era fermo nell’aria o forse nel tempo. In quegli anni si cominciava a parlare seriamente di divorzio: la legge stava rigirando tra i mille anfratti e le mille controversie delle camere e dei partiti: una
fortissima, almeno apparente opposizione, veniva dal partito di maggioranza sostenuto dalla Chiesa e dalle associazioni cattoliche, per le quali evidentemente, i secoli non erano ati abbastanza lentamente e tutto doveva rimanere fermo all’Inquisizione. Che poi lo spreco, l’abuso, il menefreghismo dimostrato dai cattolicissimi italiani nell’impossessarsi di un mezzo legale che avrebbe dovuto sanare tante situazioni annose, si siano rivelati il piccone con cui cominciare a smantellare l’istituzione familiare, questo é un altro discorso. Lo stesso, immutabile divertimento che, messo in mano ad un popolo infantile e privo di proprie convinzioni, degenera nel caos più totale. Ma allora, in virtù di quella più che solida speranza, molte coppie separate e senza soldi vedevano nel divorzio la fine di tante disgraziate esperienze e fra quelle dotate di mezzi, il modo civile e ormai quasi universale con cui porre fine ad un legame sbagliato senza attraversare pericolosi sentieri fatti di finti annullamenti, mezzi divorzi all’estero e in ogni caso problemi di ogni sorta. Il padre di Ilaria era divorziato in America, cosa che in Italia non voleva dire nulla: fra poco avrebbe finalmente potuto mettere fine ad un matrimonio mal riuscito, che era durato poco e le cui conseguenze stavano protraendosi da troppi anni. Fra gli amici se ne parlava come di una situazione emblematica. “ Chissà se il padre di Ilaria vuole risposarsi?” - Mia madre dice di sì. Dice che ha già la sposa pronta e scalpitante...“ Be’ speriamo che questa volta sia più felice.” Io li ascoltavo incuriosito, anche se mi dispiaceva che si fero pettegolezzi sulla famiglia di Ilaria. - A proposito – mi chiesero – lei che cosa ne dice? – “Non dice niente, come dovreste fare voi...” Qualcuno si fece una risatina: - Ti ha raccontato che suo padre è un uomo spaventoso, che la odia, che...-
“Non mi ha raccontato altro che la verità.” - Ah! Si? E quale sarebbe la verità, secondo lei? – A quel punto ero fuori di me: mi rivoltai verso il gruppetto e dissi alzando il tono della voce: “ Ilaria è una ragazza che ha sofferto, che soffre e che non ha bisogno di essere ironizzata... Ha sofferto per la partenza della madre, soffre per il comportamento del padre...” - Ecco: è proprio qui che ti voglio. Quale sarebbe questo comportamento? Indifferente, senza alcun segno di affetto, certe volte, invece, inquisitorio...Sentii che il terreno si era fatto scivoloso, capii che loro sapevano qualcosa a me sconosciuta e non ero per nulla a mio agio. “ Certo, a parte il fatto che non sono affari vostri...” Ci fu un attimo di esitazione, poi uno mi chiese. - Lui è arrivato a picchiarla? – Diventai rosso in viso, mi resi conto che stavo precipitando per una china, ma non volli egualmente troncare il discorso. Era come chi sa perfettamente che sta andando incontro al disastro, ma questo lo attrae in modo inspiegabile. Attesi. E loro mi chiesero: “ Ti ha raccontato di aver ferito suo padre al braccio con un le forbici? “ Ecco: era stato detto. Sapevo che si sarebbe arrivati lì. - Sei proprio innamorato, povero Roby. La sappiamo tutti quella storia, ma c’è un piccolo particolare: “ non è vera “ Si, si, non guardarmi come se dicessi una bestemmia. Ilaria non ha mai preso a forbiciate suo padre per il semplice fatto che suo padre è una brava persona e non l’ha mai sfiorata neppure con un dito. – Devo dire che la notizia mi sconvolse molto più di quello che avevo immaginato.
“ Come fate a saperlo? Chi ve l’ha detto? “ Si guardarono fra loro come a farsi coraggio, poi uno riuscì a terminare: - E’ stata Ilaria stessa. L’ha raccontato a Daniela in un momento in cui era euforica o forse soltanto ubriaca. E’ questa la verità, credimi..Avevo tanta rabbia dentro che dovevo farne uscire un po’. Li affrontai urlando e dicendo che erano soltanto dei poveri pettegoli, delle comari intente a stendere i panni, che non avevano cervello e come si permettevano di entrare così grossolanamente nell’intimo della gente. Girai loro le spalle e me ne andai di corsa. Ma, purtroppo, neppure per un attimo avevo pensato che stessero raccontando bugie, neppure per un attimo avevo dato ragione ad Ilaria. Dentro di me sapevo che quella era la verità E mi sentivo offeso, tradito, e soprattutto ridicolo: Si può combattere contro la cattiveria, l’invidia, la falsità, ma lo sanno tutti, non c’è niente da fare contro il ridicolo: E’ l’arma più micidiale per distruggere una persona. Corsi, più che camminai verso la casa di Ilaria, spalancai il portone con un impeto che provocò un rimprovero da parte del portinaio, salii le scale senza curarmi dell’ascensore e finalmente suonai due o tre volte il camlo. Ilaria stessa venne ad aprire: indossava un paio di jeans ed aveva una matita in mano, segno che l’avevo sorpresa mentre stava studiando. “Che cosa è successo?” ebbe il tempo di chiedere ed io la spinsi dentro, contro una parete. - Bugiarda – le sibilai contro – povera stupida che ha bisogno di sotterfugi per farsi coccolare, che bisogno c’era di raccontarmi che tuo padre ti ha picchiata e che hai dovuto fermarlo con una forbiciata? Ti fa sentire più interessante?...“ Ah! – disse lei con molta calma – quello! E’ un gioco che faccio con la gente per scoprirne le reazioni, prima o poi te l’avrei confessato...” - E io sarei la gente? Io, per te sono soltanto uno di aggio con cui è divertente giocare!
Va be’, ora è tutto chiaro Non devo più spaccarmi il cervello per comprendere i tuoi bruschi. cambiamenti di umore, sei soltanto una povera ragazza senza cuore, E, dammi retta, vai a consultare uno psichiatra. – Mi voltai e con la stessa velocità con cui ero entrato, uscii sbattendo maleducatamente la porta. Ecco, se nella vita di un uomo ci sono soltanto cinque o sei scene madri, per me quella fu una. A lungo ritornò alla mia mente e sempre con la stessa intensità di rabbia e di dolore. Da quel momento, pensai, devo riabituarmi a vivere senza Ilaria, devo metterla nel dimenticatoio. Ma sapevo che non ci sarei riuscito Non ho un ricordo ben preciso dei giorni che seguirono: deve essersi trattato di un lungo, estenuante dolore che mi toglieva la volontà di occuparmi di qualunque cosa. Ormai stavo per laurearmi, avrei avuto molte cose da fare, rivedere per l’ultima volta la stesura della tesi, portarla in legatoria, parlare con il mio relatore. Ma non facevo niente di tutto questo: stavo sdraiato sul letto e guardavo il soffitto. Poi, arrivato finalmente il giorno della laurea, per un miracolo divino rientrai in me, fui brillante, calmo e mi ritirai con una buonissima votazione. Nella stanza accanto trovai i miei, mio fratello e tanti amici che ridevano e mi sfottevano picchiandomi sulla spalla. Avevano portato fiori e qualche piccolo regalo. La scenata di pochi giorni prima, evidentemente, era stata dimenticata e tutti facevano a gara per dimostrarmi il loro affetto. C’era Carlo, con un sorrisino fra l’ironico e il soddisfatto, c’era Gianni Dupont che mi aveva portato una finissima cartella da manager, c’era Daniela col suo ragazzo e c’era Ilaria...Scostata dal gruppo, in silenzio, reggeva fra le mani un mazzo di fiori misti a foglie di alloro. Di colpo sentii che la desideravo con tutto me stesso, che, se fossimo stati soli, sarei corso ad abbracciarla: invece dovetti accontentarmi di andarle vicino, prendere i fiori e posarle un bacio sulla guancia. Come avevo fatto con tutti gli altri. Ma lei mi sussurrò all’orecchio: “Perdonami. La vita è impossibile senza di te.”
Cap. 7
La lunga battaglia per ottenere in Italia il divorzio stava per entrare sulla direttiva di arrivo. Ormai era questione di giorni, il parlamento avrebbe approvato la legge, e questo, nonostante gli strilli isterici di una parte di cattolici integralisti e le reprimende continue che arrivavano dal Vaticano. Finalmente stavamo uscendo dal medioevo os urantista e tutti i giovani come me se ne rallegravano. Purtroppo non potevo immaginare che questa conquista sociale mi avrebbe rovinato la vita. Infatti il padre di Ilaria aveva deciso di divorziare immediatamente per poter sposare la donna con cui aveva una relazione da molto tempo. Era una donna gradevole, mi raccontò Ilaria, di bell’aspetto e di maniere educate: aveva un negozio di pelletterie molto esclusivo e gli affari le andavano molto bene. Aveva anche due figli nati dal solito matrimonio rovinoso che, secondo le speranze del padre di Ilaria sarebbero dovuti andare a vivere in casa loro. Questo lei non poteva tollerarlo. “Mi sentirei un’esclusa – si lamentò con me – una sopportata. Non riesco neppure ad immaginare che razza di vita potrebbe essere la nostra, dei perfetti estranei che improvvisamente dividono una casa. Non voglio neppure pensarci. Io li odio, tutti e tre, li vorrei veder svanire in una nuvola, altro che formare con loro un nuovo nucleo familiare...” Era tesa, parlava in modo concitato e quasi rabbioso. Potevo capirla, io potevo capire tutto di lei ma non provai neppure a calmarla: sarebbe stato inutile, conoscevo il carattere di Ilaria e sapevo che non era tipo da lamentarsi di una situazione senza cercare di uscirne. E lo fece. ..Il giorno dopo la sua laurea, che seguì di poco la mia, mi annunciò quello che temevo da tempo e cui non volevo pensare, come per esorcizzarlo. “ Me ne vado – disse – lascio il campo libero a mio padre e alla sua nuova famiglia.”
- Intendi dire che vai a vivere da sola? Hai già trovato un lavoro?Lei scosse il capo lentamente e per qualche istante non rispose, poi mi accorsi che aveva radunato tutto il coraggio di cui disponeva per darmi la notizia: “Vado in America. E adesso non cominciare a chiedermi come mai ho fatto questa scelta, visto che anche mia madre ha una nuova famiglia e non sono mai andata d’accordo con lei. Bisogna sempre scegliere il male minore, e il male minore consiste nel fatto che lì ho un amico, per impossibile che possa sembrare, l’unica persona dotata di buon senso e sinceramente disposta ad aiutarmi è Frank, il marito di mia madre. Mi è sempre piaciuto, è il padre che avrei voluto avere, sono sicura che mi vuole bene. E lui si è offerto di aiutarmi. Ha un numero imponente di amici, ed è sicuro che riuscirà a trovarmi un lavoro in poco tempo. Io gli credo. Non è la persona che promette senza sapere come fare per mantenere.” Aveva detto tutto, quasi di corsa, quasi avesse avuto paura di essere interrotta e di non poter finire. L’amavo tanto e non riuscivo neppure a prendere in considerazione l’idea di non rivederla più. “Pensavo che saremmo stati insieme per sempre – mormorai stupidamente quasi fossi stato un bambino che tiene in mano il suo giocattolo preferito definitivamente rotto – Pensavo che ormai laureati, avremmo trovato un lavoro e ci saremmo sposati...” Appena pronunciate queste parole mi resi conto della loro ingenuità e diventai rosso in viso per la figura da stupido che stavo facendo, ero molto vicino a scoppiare in singhiozzi e mi imposi di trattenermi ad ogni costo. Lei mi prese il viso fra le mani e mi guardò negli occhi: - Non ho mica detto che sarà per sempre – mi disse, la bocca a pochi centimetri dalla mia – Non voglio che questo sia un addio, voglio credere che ci ritroveremo. Chissà, potresti venire anche tu in America, non ti piacerebbe? Tutti sarebbero contenti di andarci, almeno credo..“ Io no. Sto benissimo a casa mia e l’unico motivo che avrei per andarci saresti tu. Per stare con te lo farei.” Lei scoppiò a ridere:
- E allora? Dov’è il problema?... Avremo un sacco di possibilità in più, vivremo una vita più agiata e da vecchi ci ritroveremo seduti sul portico di una casa in mezzo al verde e sembreremo un quadro di Hopper...Sorrisi per farle piacere. Ma naturalmente non accadde niente di simile. Lei partì poche settimane dopo, il buon Frank le aveva già trovato un posto in una galleria d’arte dove la retribuzione era almeno il doppio di quella che avrebbe avuto in Italia e, ati i primi tempi di assestamento in cui ogni tanto saltava fuori la nostalgia per me e per i luoghi dove avevamo vissuto, le sue lettere presero un piglio più deciso, più allegro. Stava americanizzandosi. D’altra parte io avevo avuto la scelta fra tre diverse proposte di lavoro, a quei tempi era normale, e per qualche giorno avevo pensato di mandarle tutte al diavolo, fare su il mio fagotto e prendere il primo aereo per Boston. Evidentemente mi sono mancate le palle: in fondo quelli erano anni in cui si ascoltavano ancora i genitori, ero il prodotto di una tipica famiglia italiana borghese e le convenienze che avevo sempre preso come dogmi, mi stringevano troppo forte. Il famoso salto nel buio lo facevano ancora i disperati, quelli che non avevano niente da perdere; andavano negli States oppure in Australia e probabilmente facevano la scelta giusta. Accettai l’offerta più allettante pensando che, se davvero Ilaria si fosse adoperata per avermi accanto a se, sarei sempre stato in tempo a licenziarmi e cambiare la mia vita. Ma non successe. Le sue lettere diventarono più infrequenti e meno affettuose, e poi anche le mie divennero quasi un’abitudine, rallentarono fino a cessare del tutto. Tutto molto soft, proprio come dicono gli americani. Il fatto era che il lavoro mi piaceva e mi prendeva moltissimo, i colleghi erano simpatici, mi presentarono le loro fidanzate e mi invitarono ad uscire, in poco tempo ottenni notevoli avanzamenti nella società in cui mi resi conto di essere molto stimato. Questo riempì d’orgoglio il mio ego fino allora quasi sconosciuto e i miei parenti che, a quanto sembrava, avevano sempre creduto nelle mie possibilità. E poi forse mi ero stancato di soffrire come un cane per Ilaria: nei primi tempi non c‘era giorno in cui non pensassi a lei, leccandomi le ferite, sentendomi il più
infelice degli uomini, rimpiangendo il suo viso, il suo corpo ancora un po’ acerbo, le sue stranezze. A poco a poco, senza rendermene conto, la sofferenza era scivolata in una rassegnazione torpida e benefica provocata dalla necessità della vita quotidiana di andare avanti. L’ultima volta che sentii parlare di lei fu molti anni dopo: venni a sapere che aveva sposato uno stimatissimo professore universitario di storia medievale, aveva due figli e dirigeva un museo a New-York, ma abitava nel New-Jersey o forse nel Connecticut. Non lo ricordo con precisione, ma ricordo di aver concluso che, tutto sommato, le sue aspirazioni si erano realizzate, era una donna che aveva un incarico importante, presumibilmente molti soldi, una bella casa ed un marito con cui poter dissertare di arte e antichità. Ritenni che potevo concludere che fosse anche felice. Dal canto mio non l’amavo più, il tempo aveva messo le cose al loro posto, ma, sentendone parlare, avevo provato una scossa di adrenalina e poi una dolcezza amara, da leccare a poco a poco come fosse un gelato. Inoltre, fra i nuovi amici con cui dividevo serate danzanti, gite a sciare, cene rumorose ed allegre, avevo conosciuto Luciana e ci eravamo sposati.
Cap. 8
Ieri era il mio compleanno, data ormai da dimenticare, altro che i festeggiamenti di un tempo, con tutti gli amici invitati, regali ed una cena importante. “Tieni – mi ha detto Luciana, porgendomi un piccolo involto – non sapevo cosa comprare, ormai hai tutto, ti ho preso un libro di Ken Follett. So che ti piace.” Ormai ho tutto...giusto. E’ trascorso il tempo dei pullover di cachemire, che bisognava avere in buona misura, per adattarli ai vestiti e alle cravatte; queste, poi, si sciupavano perché indossate tutti i giorni e allora me ne poteva regalare un’altra, sempre di ottimo gusto e di splendido materiale. E poi c’era la possibilità di ricevere una nuova racchetta da tennis, una tuta per andare a correre, un nuovo completo da sci. Ormai questi sarebbero stati doni inutili e quasi sarcastici. Ormai quello che potevo aspettarmi, per l’appunto, era un libro oppure un C.D. con le musiche della nostra giovinezza. Le donne, invecchiando, hanno più fortuna coi compleanni. A tutte le età possono ricevere un piccolo gioiello, un paio di scarpe alla moda, il profumo che usano da sempre. Le maledette, infatti, non si fanno scrupolo di andare in giro con le amiche, di partecipare a tornei di bridge per beneficenza, il che sottintende presentarsi tutte tirate a lucido e cosparse di gioielli. Poi vanno a sentire conferenze di cui non gli importa niente e che qualcuna neppure capisce, ma sarebbe imperdonabile non presenziarvi. E il teatro, non è forse vero che molte di loro si abbonano agli spettacoli anche se sanno che saranno tutti di una noia mortale? Ma avranno l’occasione di andare dal parrucchiere e di indossare il tailleur nuovo. Luciana non rappresentava un’eccezione, solo che sapeva usare il cervello: dopo due stagioni di teatro e ventiquattro rappresentazioni di cui soltanto tre non l’avevano fatta addormentare, aveva preso la saggia decisione di non andarci più. Ma le colazioni con le amiche, le partite di bridge casalinghe o al club erano intoccabili, come il cinema due volte la settimana e quella insopportabile beneficenza che la faceva lavorare una settimana per i preparativi.
Lei non era mai cambiata. La vita sembrava essere scivolata su di lei senza lasciarvi tracce. Era sempre stata un’ottimista e, se questa dote era stata il principale motivo che mi aveva attratto, dopo quarantadue anni, mi era diventata insopportabile. Quando l’ho conosciuta, come si conoscevano allora le ragazze perbene, e cioè in casa di amici, non mi aveva colpito, non c’era stato il colpo di fulmine che avevo avuto con Ilaria. Se mi avessero chiesto che pensavo di lei, avrei dovuto guardarla una seconda volta tanto poco mi ero soffermato sulla sua persona.. “Una bella ragazza – avrei risposto – con dei bellissimi occhi azzurri e sempre sorridente.” Punto. In seguito, dopo aver chiacchierato a lungo insieme e ballato sulle note di qualche lacrimosa canzone dell’epoca, avrei aggiunto che era simpatica e che metteva di buon umore. Ma la cosa sarebbe finita lì. Invece, essendo appena uscito dal tunnel di disperazione dovuta alla partenza di Ilaria, mi ero detto: “Perché no?” e le avevo chiesto di uscire. E così avevo potuto capire che non era una stupida, che era colta, che amava la musica e il ballo, che aveva sensibilità, spirito di adattamento, ma soprattutto che riusciva sempre a vedere il lato bello delle cose e non faceva tragedie per gli inevitabili contrattempi. E infatti gli amici le avevano dato un soprannome molto adatto: la chiamavano “ cuor contento. “ Un carattere invidiabile – aveva commentato mia madre quando gliela avevo presentata – Questa è una ragazza che non creerà mai problemi al marito.” E siccome anche mio padre era rimasto favorevolmente colpito, trovai logico intensificare la nostra relazione fino a chiederle di sposarmi. Luciana ebbe il suo brillante, un anello che era appartenuto a mia madre, ci fu una cena solenne con la presenza dei miei futuri suoceri e tutto si svolse secondo le regole prestabilite. Devo ammettere che il giorno del matrimonio, quando la vidi entrare in chiesa al braccio di suo padre, elegantissima in un semplice abito di gran classe e con gli occhi sfolgoranti di felicità, pensai di esserne molto innamorato e mi lasciai
trasportare dalla gioia della festa. Ero felice. Siccome i nostri rapporti non erano mai andati oltre baci e carezze un po’audaci, durante il viaggio di nozze scoprii anche un altro lato positivo: Luciana amava fare l’amore, lo dimostrava con una certa ingenuità ed inesperienza, ma partecipava con tutto il suo corpo e con il profluvio di parole e di richieste che non avrei mai sospettato in lei. E i primi anni insieme furono davvero molto felici. Eravamo alle soglie della vita insieme, c’erano mille cose da organizzare, l’arredamento della casa da completare, gli inviti agli amici che volevano vederla, e poi il cercare le nostre abitudini, che, come in tutti i matrimoni, erano mediate da quelle delle famiglie d’origine. A casa sua la prima colazione era d’obbligo, era un momento d’incontro, prendevano tutti il caffelatte con biscotti e marmellata e si raccontavano che cosa avrebbero fatto nella giornata: a casa mia nessuno faceva colazione: mio padre prendeva un bicchiere di latte stando in piedi, mia madre si alzava più tardi e si preparava un tè ed io mi davo la sveglia con un caffè doppio al bar. Nel menu della mia famiglia la pasta compariva tutti i giorni, da loro, invece, si preferiva are direttamente al secondo. E così via, una lunga serie di abitudini che non erano irrinunciabili, che occorreva plasmare e adattare alla propria vita. Devo ammettere che, a causa del suo carattere, fu Luciana quella che si adattò maggiormente. La pasta asciutta apparve tutti i giorni in tavola e, a poco a poco, cominciò a mangiarla anche lei, dimostrando di gradirla e cercando sui libri qualche nuova ricetta. Lei non aveva mai freddo e teneva le finestre spalancate anche d’inverno; io non sono certo freddoloso, ma l’aria gelida che entrava in casa in pieno gennaio mi disturbava moltissimo. “Ti rendi conto – diceva – che nonostante fumiamo tutti e due, in casa non ristagna mai quell’odore rancido che si sente di solito entrando nelle case dei fumatori?” Sotto questo punto di vista aveva ragione, ma la possibilità di beccarsi una polmonite che le facevo balenare, la convinse definitivamente. Avrebbe tenuto aperto quando ero in ufficio e richiuso una mezz’ora prima del mio rientro. Povere cose, naturalmente, nessuna così importante da meritare di soffermarcisi più di tanto, ma è questa la base su cui si costruisce un matrimonio, un insieme
di piccoli, insignificanti fatti quotidiani che, messi tutti insieme, formeranno la nostra vita. E di cui sentiremmo una grande nostalgia se ci venissero a mancare. A volte mi trovavo a guardarla quando avevamo ospiti e apprezzavo l’eleganza con cui porgeva un vassoio, la grazia sorridente con cui rispondeva ai complimenti che le rivolgevano: sembrava nata per essere una padrona di casa, sicura, accurata, sempre pronta a soddisfare le richieste degli invitati. Lei era stata educata per diventare quello che era, la sua sarebbe diventata l’ultima generazione di ragazze a ricevere quell’istruzione e poi se ne sarebbero perse le tracce. Pensavo come sarebbe stata Ilaria, al suo posto. E non riuscivo ad immaginarla: educata, certo, ma non ossequiosa: se qualcuno le avesse chiesto un poco di whisky, lei avrebbe additato il posto dove si trovava e avrebbe detto:”Serviti pure”. Avrebbe portato in tavola piatti esotici, sperimentati quel giorno stesso senza curarsi della loro riuscita ed avrebbe scandalizzato le altre mogli, molto più tradizionali. Probabilmente se la conversazione fosse stata interessante, avrebbe preso parte anche con piccole battute spiritose e ad un certo punto sarebbe stata il centro dell’attenzione ma, se i commensali si fossero rivelati banali e le loro idee troppo scontate, si sarebbe chiusa in un rigoroso silenzio, non avrebbe neppure tentato di mascherare la noia. Ilaria faceva parte di un mondo che io avevo soltanto intravisto, che avevo trovato stimolante e intelligente, ma nel quale non mi sarei mai trovato a mio agio. Forse le sue stravaganze che mi avevano incantato, col are degli anni mi sarebbero spiaciute, forse avrei finito per odiarle. Alla fine, già da tempo, avevo concluso che io non la meritavo, non sarei mai stato alla sua altezza, sarei rimasto per sempre come un satellite insignificante che ruota attorno al suo sole. Eppure mi infastidiva questa mia pochezza, questo desiderio di evasione che, alla resa dei conti, sarebbe stato fagocitato dalle abitudini e dalla sicurezza. “L’importante – mi dicevo- è prendere coscienza dei propri limiti.” Questo l’avevo fatto ma, evidentemente, non avevo ritenuto Ilaria abbastanza importante, non così importante come la via sulla quale mi ero incamminato e che mi offriva tangibili certezze. Poi il momento di ricordi e forse dei rimpianti, ava e per molto tempo Ilaria
non riappariva nella mia mente. Stava per nascere il mio primo figlio e questo fatto riempiva ogni pensiero, ogni momento libero. Mi sentivo emozionato, non credevo che stesse capitando proprio a me: come se tutti i giorni non venissero al mondo migliaia di bambini. La casa si stava riempiendo di tutine, scarpine, coperte lavorate ai ferri dalle nonne impazienti: ad ogni visita mia madre e mia suocera arrivavano con un pacchetto e facevano a gara a chi comprava o produceva gli oggetti più carini .Eravamo tutti elettrizzati e persino Luciana si lasciava andare a sogni ad occhi aperti. Il bambino o la bambina, a quei tempi ringraziando il Cielo nessuno poteva prevederlo,le uniche a formulare ipotesi erano le comari, sarebbe stato bellissimo, avrebbe dimostrato una sicura intelligenza e dovevamo attenderci molte soddisfazioni nel corso della vita. Peccato che una sera, mentre ce ne stavamo tranquillamente a guardare la televisione, all’improvviso sul viso di Luciana apparve un’ espressione di paura. “ Ho un’emorragia ! “ strillò alzandosi di scatto per correre in bagno. Era vero: un’emorragia scura, continua, spaventosa. “ Che cosa sta succedendo?” gridava lei terrorizzata e naturalmente io non sapevo che fare. L’unica cosa che mi venne in mente fu di telefonare prima a mia madre e poi a mia suocera, ma entrambe mi consigliarono di caricare Luciana in macchina e di portarla in fretta all’ospedale. Quando arrivammo i miei suoceri erano già là con l’angoscia dipinta suo visi cerei, e non si distesero affatto quando un medico, dopo aver visitata Luciana, ci annunciò che era in corso un aborto. Mia madre, sopraggiunta con mio padre, scoppiò in lacrime senza alcun ritegno: era una persona ipersensibile e non è mai riuscita a controllarsi. “I l mio nipotino – mormorava – il mio povero nipotino…” E, se quest’espressione poteva indurre ad una sorta di pietà nei suoi confronti, la diceva lunga sul suo carattere e su come aveva affrontato ogni evento della sua vita.
Mio padre, santo uomo, cominciò a confortarla come faceva sempre e fu lei a rubare la scena che doveva essere di Luciana, perché infermiere, ginecologo e presenti vari si prodigarono tutti a farle coraggio mentre mia suocera ed io fummo gli unici ad accostarci al lettino dove giaceva Luciana che, ovviamente, era precipitata nel panico. Ma poi le cose presero il giusto corso. Il medico, sfoderando un sorriso rassicurante, spiegò a Luciana che la avrebbero anestetizzata subito e in pochi minuti tutto sarebbe finito. Ecco uno di quei momenti della vita in cui la sorpresa supera il dolore: non può capitare a me, questo è sempre successo agli altri. E questa prima, spiazzante reazione si verifica sempre, quando muore tuo padre, quando i ladri ti svaligiano la casa, quando tuo figlio finisce all’ospedale con una grave malattia, quando perdi il lavoro o scopri che tua moglie ha un amante. La vita che ti presenta il conto non è mai stata considerata: tu hai sempre pensato di esserne esente, chissà per quale fortunato incantesimo. Sarà così anche nei minuti che precedono la morte? Forse, anche se nessuno ha potuto confermarcelo. Ad ogni modo,quando, due giorni dopo, potei riportare a casa Luciana, fisicamente stava benissimo, ma era di umore cupo ed io non mi sentivo meglio di lei. E’ incredibile come ti affezioni all’idea di questo bambino che deva nascere, e non te ne accorgi fino al momento in cui ti rendi conto che non nascerà più; ti senti defraudato, derubato di qualcosa che ti apparteneva, che era tuo, sacrosanto e infinitamente prezioso. Mi stupii di me stesso per queste considerazioni che mai avrei pensato di poter provare, ma mi rassicurava il pensiero che eravamo giovani e che il medico aveva detto a chiare lettere che nulla avrebbe ostacolato un ‘altra gravidanza. Infatti l’anno successivo nacque Gloria, una bambina bellissima e sanissima, che, però, fin dai primi giorni diede un anticipo di quale sarebbe stato il suo carattere urlando e piangendo e, soprattutto, rifiutandosi di dormire quando noi cascavamo dal sonno. Dopo un’esperienza così disastrosa pensai erroneamente che il desiderio di maternità in Luciana fosse soddisfatto; mi sbagliavo perché lei era fermamente decisa a produrre un altro bambino. “ I figli unici non mi piacciono e poi non è detto che siano tutti quanti così
tremendi. Vedrai che con il prossimo andrà tutto benissimo.” E, con questa frase Luciana ebbe ragione delle mie perplessità. Naturalmente aveva ragione lei, Stefano, infatti, nato dopo due anni dalla nascita della sorellina, era un bambino dolcissimo, mangiava e dormiva quando glielo chiedevamo, non piangeva quasi mai e, se lo faceva, c’era da preoccuparsi, perché sicuramente non stava bene. Per questo, forse, per non avermi fatto tribolare nella prima infanzia, mi sono affezionato a lui in particolar modo. E così avevo compiuto quello che mi si richiedeva, quello che si richiedeva ad ogni uomo del mio tempo: mi ero riprodotto ben due volte, il mio primo dovere era stato assolto ed ora mi attendeva la parte più difficile: essere un genitore e crescere i figli nel modo migliore, vale a dire farli diventare educati, insegnar loro ad usare la forchetta, a non interrompere i discorsi dei grandi e a salutarli con un sorriso, affinché le persone potessero guardare i bimbi con sorrisi compiaciuti e permettere a noi genitori di sentirci orgogliosi. Forse il segreto della vita sta tutto qui: nell’accettazione pedissequa di ciò che il mondo ti indica e si aspetta che accada. Ilaria non sarebbe stata d’accordo. Lei avrebbe allevato i figli più serenamente, non si sarebbe soffermata troppo a lungo sulle rigide regole di comportamento, li avrebbe cresciuti più liberi, più spontanei, forse più maleducati ma senza dubbio, più felici. Potevo solo immaginarlo. E forse anche lei era cambiata, forse anche lei, trovando finalmente una stabilità solida, aveva gettato alle ortiche quel suo anticonformismo che tanto mi aveva attratto. Ma dentro di me sapevo e speravo che lei fosse rimasta come avevo imparato ad amarla. E fu proprio allora che mi accorsi di una cosa tanto semplice e che di solito nessuno vede negli anni della giovinezza e cioè che fino ad un certo punto sei tu a fare le tue scelte, a decidere di te stesso, poi, senza che te ne accorga, la vita decide per te se non sei abbastanza forte per opporti. Io non lo ero, non lo sono mai stato. Tutto sommato le implicazioni che un modello di vita sottintende mi stavano strette, ma, come quando avrei voluto troncare tutto e seguire Ilaria in America, non ero riuscito a trovare la forza di fare il grande salto, altrettanto adesso mi lasciavo risucchiare dalle battaglie in ufficio, quasi sempre perse, dalle varicelle, orecchioni e via elencando che
periodicamente affliggevano la casa, dal problema di guadagnare di più, perché i bambini dovevano avere la settimana bianca, il corso di tennis e le vacanze estive. Forse in questo ho avuto fortuna, perché, andato in pensione il direttore generale, ne arrivò uno più giovane, più intelligente, a cui piacquero le mie idee di trasformazione di alcuni settori della società, mi diede carta bianca e un immediato aggio di categoria. Più soldi, certo, più rispetto, ma anche molto più lavoro. E anche in questo momento non feci che allinearmi. Troppe ore dedicate all’ufficio e sottratte alla famiglia, troppe cene saltate e troppe a tavoli di lavoro. I bambini finivo col vederli la domenica ed allora ero stanco e non potevo occuparmi di loro come sarebbe stato giusto. E mi allineai pure su qualcosa invalsa fra i colleghi ma che a me portò sicuramente un mare di guai e il periodo peggiore della vita.
Cap. 9
“Venga, venga, carissimo – il direttore generale mi invitò ad entrare nel suo ufficio perché esitavo a farlo vedendolo occupato con una signora – Le presento la dottoressa Cavanna che entrerà a far parte della nostra società fra pochi giorni.” Allungai un braccio e strinsi una mano che per essere femminile, era forte e decisa. “La dottoressa – continuò il direttore - si occuperà del nostro ufficio di pubbliche relazioni.” “Ne abbiamo uno ?” chiesi molto sorpreso. “ Da adesso. Stiamo cercando di ammodernare il nostro sistema e allora un ufficio del genere è più che utile: direi irrinunciabile. Al giorno d’oggi chiunque ha una persona che si occupa di queste cose, figuriamoci noi, che siamo una potenza.” Rivolse alla donna uno dei suoi ammalianti sorrisi. Lei rispose con un sorriso appena abbozzato.
“Vedremo se sarò veramente di una qualche utilità”.
La sua voce era come la stretta di mano, decisa e senza alcuna indulgenza alla civetteria. Era una bella donna, non c’erano dubbi. Stava seduta e non potevo calcolarne l’altezza, ma era snella, quel che si vedeva delle gambe era perfetto e il suo viso, non bellissimo, era animato da grandi occhi scuri sapientemente truccati, inoltre
aveva un casco di capelli neri, dritti e lucidi che le ballavano intorno al viso appena muoveva il capo. Mi sedetti e il direttore cominciò a spiegarmi le idee della nuova assunta per pubblicizzare al massimo la nostra società. Indubbiamente idee ne aveva molte e certe persino convincenti. Non avevo mai avuto una grande stima di queste prolifiche persone che se ne vanno in giro per gli uffici con tailleur e sciarpe, parlano tanto e lavorano poco, riscuotendo in fondo al mese uno stipendio ragguardevole. Ma questi non erano affari che mi riguardassero. A quei tempi tutte le società erano piene di soldi da spendere e la maniera in cui decidevano di farlo importava pochissimo. Benvenuta, quindi, Silvia Cavanna, sociologa esperta di p.r. la sua persona e la sua presenza non mi avevano particolarmente incuriosito. La cosa, però, non aveva mancato di elettrizzare alcuni colleghi che avevano cominciato a parlarne con tutti, vantando le doti fisiche della dottoressa e dichiarandosi pronti ad intervenire se solo ci fosse stato uno spiraglio di condiscendenza. I soliti discorsi fra impiegati di una grossa società, molte volte soltanto parole, soprattutto da parte di quelli che conducevano una vita assolutamente morigerata. C’era, però, un altro gruppo di persone, realmente interessati alle avventure, e quelli parlavano poco ma agivano parecchio, informandosi sulla situazione familiare della donna di turno, cercando di incontrarla per caso nei corridoi e nel suo ufficio con scuse abbastanza puerili e facendole capire senza troppe cerimonie che avrebbero avuto piacere di vederle anche fuori dall’ufficio. A volte le cose procedevano, a volte i corteggiatori venivano raggelati con sguardi e frasi indubitabili. Da voci ricorrenti venni a sapere, mio malgrado, che la Silvia Cavanna era sposata con un ingegnere, non aveva figli e non le si conoscevano ancora scappatelle né relazioni durature. Queste notizie fecero sbollire gli ardori di tanti, ma non di tutti, quelli abituati a situazioni del genere che, anziché sentirsi demoralizzati, venivano maggiormente spronati alla conquista. Naturalmente si trattava di individui molto collaudati, con varie esperienze precedenti andate a buon fine che avevano logicamente instillato in loro una certa sicurezza .
Tutti i giorni trascorrevo la pausa pranzo con due colleghi la cui compagnia mi era molto gradita: invece di stiparci insieme alla moltitudine in un grosso bar accanto al portone della società, facevamo qualche o in più fino ad un bar piccolo ed elegante, dove i piatti freddi, le insalate e persino i panini venivano preparati al momento e risultavano molto gradevoli. Un giorno trovai ad attendermi insieme ai colleghi anche la dottoressa Cavanna che era stata invitata da uno di loro. Al momento la cosa non suscitò in me alcun interesse, ma alla fine dell’ora trascorsa tutti insieme, dovetti ammettere che lei, fuori dall’ambiente di lavoro, aveva dismesso i panni della donna in carriera, risultando allegra, spiritosa e persino intelligente. Quando riapparve il giorno dopo ne fui molto contento e, chissà mai perché, mi sembrò di provare una punta ridicola e indisponente di gelosia osservando uno dei miei amici che la corteggiava elegantemente ma visibilmente. Lei non sembrava molto attratta da quelle attenzioni, tuttavia neppure lo raggelava con frasi taglienti, era una di quelle donne che sanno farsi corteggiare senza sbilanciarsi e senza entrare in rotta di collisione con il maschio in questione. Poteva essere molto pericolosa, mi trovai a pensare, perché ero sicuro che sapesse come condurre il gioco di schermaglie riuscendo a prenderne il sopravvento. Durante il pomeriggio, ogni tanto sollevavo la testa dal lavoro e mi lanciavo in pensieri assurdi: sarebbe stato meglio che non fosse più venuta a mangiare con noi, avremmo ricostituito il nostro gruppetto storico e avremmo potuto riprendere a parlare di calcio o di politica senza doverci avventurare in critiche sui film della stagione o sulle pecche della nostra società che ancora lei conosceva poco. Ma quando qualcuno di noi introdusse quasi per scherzo un argomento che riguardava una nuova legge varata dal governo, Silvia non solo dimostrò di conoscerne tutti i retroscena ma di essere molto più informata di quanto lo fossimo noialtri. Quella sera decisi che non avrei più frequentato il gruppo e mi rovinai le meningi allo scopo di inventare un pretesto plausibile. E questo pretesto rimuginai il giorno dopo nell’ascensore che mi portava a pianterreno dove di solito incontravo i colleghi. E lì rimasi sconvolto, perché lei non c’era.
“E’ stata trattenuta dal direttore – spiegò un collega – probabilmente vanno a colazione insieme.” Non riuscii a trattenere il mio disappunto. Ma, santo cielo, che cosa volevo? Avevo escogitato un pretesto per allontanarmi dal gruppo e l’assenza di Silvia aveva scombussolato i miei piani. E la cosa che mi infastidiva di più era quella colazione insieme al direttore. “Certo – pensai con molta stizza – il direttore è più importante, al direttore non si può dire di no…” E all’improvviso mi si piazzò in testa il sospetto che ci fosse una tresca fra loro: Infatti non avevo mai sentito che si cercasse una p.r., la sua assunzione era stata un fulmine a ciel sereno. Dove l’aveva conosciuta? Chi gliel’aveva presentata? Trovai estremamente estenuante fingermi disinvolto e uguale a tutti i giorni, mentre nella mia testa giravano immagini lascive che includevano lei e il nostro direttore. Alla fine, rientrando in ufficio, mi diedi mentalmente uno schiaffetto sulla guancia e mi ordinai di farla finita. Ero semplicemente fuori di testa e questo mi stava capitando perché in tutti quegli anni di matrimonio, non avevo mai tradito Luciana, non ci avevo mai neppure pensato e così mi ritrovavo come un fanciullino ai primi approcci con le donne, anzi, se i miei ricordi non mi ingannavano, da ragazzino ero senza dubbio più furbo di adesso. Ebbi pietà e stizza contro me stesso, provai a mettermi nei panni di Fantozzi che spasima per la signorina Silvani, ma neppure quest’immagine così spaventosamente ridicola, mi sollevò il morale. Il giorno dopo dovevo partire per Londra e sarei stato via almeno una settimana, cosa che in quel momento mi faceva molto piacere, perché avrei avuto il tempo di venir fuori da quella situazione incresciosa in cui le mie immaginazioni mi avevano cacciato. Perché di questo si trattava: pure e semplici follie alle quali non dovevo permettere di rovinarmi l’esistenza. Effettivamente il soggiorno londinese mi fece bene. Avevo in agenda numerosi incontri per conto della mia società ed essendo quasi tutti estremamente fruttuosi, risentii spuntare in me la sicurezza e l’assoluta lucidità di mente. Fino alla sera in cui, per festeggiare la buona riuscita dei nostri reciproci interessi, venni invitato dagli inglesi ad una serata in mio onore. Il che, lo sapevo per certo, avrebbe incluso una cena in un ottimo ristorante ed una visita ad un locale alquanto scollacciato. E fu proprio lì, con quelle graziose spogliarelliste che venivano a sedersi sulle nostre gambe e ci carezzavano ammiccando, che il
pensiero di Silvia si presentò all’ improvviso come un fulmine a ciel sereno. Non mi erano mai interessate queste avventure squallide e scontate, non ne avevo mai approfittato, a differenza di alcuni colleghi che, abbastanza ubriachi e rossi in viso, si concedevano un appuntamento con delle ragazze. Ma non perché mi assalisse il pensiero di Luciana, assolutamente no, le rifiutavo quasi come un tradimento fatto a me stesso. Quella sera, invece, le rifiutai perché mi ero ricordato di Silvia scoprendo con grande spavento che avrei voluto lei seduta sulle mie gambe a baciarmi e a stringermi forte. Al mio rientro non andai come al solito a pranzare con i colleghi: adducendo impegni con il direttore al quale dovevo riferire del mio viaggio, restai in ufficio, proponendomi di uscire quando gli altri sarebbero rientrati. Ero dunque seduto alla mia scrivania rileggendo per l’ennesima volta il rapporto che avevo preparato quando sentii bussare leggermente alla porta. Era Silvia, elegante, truccata e desiderabile come al solito. “Pensavo di vederti al bar – disse avvicinandosi – Hai davvero tutto questo lavoro?” Sorrideva e si avvicinava sempre più pericolosamente, sapevo benissimo che cosa stava per accadere, ero stupito, felice e nello stesso tempo avevo una grande paura. Che ò immediatamente appena le sue labbra si accostarono alle mie, a pochi centimetri, in attesa. Non dovette attendere a lungo. La baciai dapprima con dolcezza, come chi morde un dolce a poco a poco per farlo durare di più, poi con più determinazione e infine quasi furiosamente. Era tanto tempo che non baciavo una donna a questo modo, la semplice routine della mia vita con Luciana non prevedeva più da parecchi anni un comportamento simile. Con Silvia stavo riscoprendo una parte dell’esistenza che credevo finita per sempre, una parte di giovinezza ormai accantonata, un’esplosione di desiderio che si era esaurita con Ilaria. Ero felice. “Basta – disse lei ad un tratto – la tua segretaria sta per rientrare e anche i nostri cari colleghi non tarderanno.” Prese un fazzoletto di carta dalla tasca della giacca e me lo ò sulle labbra più
e più volte fino a che l’ultima traccia di rossetto fu sparita, poi si chinò sulla scrivania, scarabocchiò qualcosa e mi porse uno dei miei foglietti adesivi. “Questo è il mio numero di telefono a casa, e questo è quello del mio interno in ufficio. Così non dovrai chiederlo al centralino.” Si voltò e fece per andarsene. “ Ma io voglio vederti subito. Non sei libera questa sera?” Lei scosse il capo sorridendo. “Questa sera no, ma tu chiamami…” Un attimo dopo era sparita. Ovviamente la chiamai, in ufficio, il giorno dopo, perché avevo troppa paura di telefonare a casa, il marito, poteva essere geloso, poteva far partire una scenata, poteva… nella mia carriera di amante ancora da iniziare c’erano troppe esitazioni, troppi timori. Invece si rivelò tutto estremamente semplice. “ Stasera – lei disse – a Nervi, sul viale delle Palme. Alle 6. “ E chiuse il telefono. Così, senza schermaglie, senza alcun tipo di corteggiamento: un arido appuntamento che mi dispiacque e mi deluse. Quella sera avrei dovuto fermarmi di più in ufficio, avevo molto lavoro arretrato e urgente ma naturalmente lo accantonai e mi feci trovare nel luogo che mi aveva indicato puntualissimo e non certo sicuro di quello che stavo facendo. Silvia salì in macchina e disse soltanto: “ Gira in quella stradina, la prima che trovi.” Era una di quelle viuzze strette fra muri su cui prosperavano edera ed altri rampicanti: una festa per gli occhi: in fondo c’era un piccolo albergo con uno spiazzo per il parcheggio. E nessuno in vista. Lei scese per prima ed entrò molto decisa, la seguii come un ladro che sta per
consumare il suo primo furto in un’abitazione. Lei ò dritta davanti al portiere che si limitò ad un cortese saluto e salì al primo piano. Aveva già in mano una chiave con la quale aprì una porta ed insieme entrammo in una camera ben arredata anche se piuttosto piccola. Mi sentivo molto ridicolo e non riuscii a trattenermi. “ Mi sembra di andare con una prostituta.” Silvia scoppiò in una risata disarmante; invece di risentirsi per la mia infelice battuta, venne vicino a me cominciò a slacciarmi la cravatta – e ti assicuro che ti piacerà .molto.Aveva ragione. Frastornato, infastidito, pentito di essermi lasciato coinvolgere, desideroso soltanto di essere a casa mia, a poco a poco tutte queste sensazioni negative scomparvero fino a farmi raggiungere un livello di eccitazione intenso e assoluto, non più provato da tanto tempo e proprio per questo coinvolgente. Se pensai qualcosa, dapprima fu che la dottoressa Cavanna si era comportata come una puttana, dimostrando la sua perfetta conoscenza delle regole del gioco e quindi una frequentazione assidua di quel posto e la totale indifferenza nei miei confronti dal punto di vista sentimentale, poi mi tornò in mente la mia prima infelice esperienza nella casa di tolleranza, poi che, tutto sommato, chi se ne fregava, se così piaceva a lei e infine non pensai più a niente, tranne che ero felicissimo di trovarmi dov’ ero. Poi, fumando entrambi l’ inevitabile sigaretta ( bei tempi, quelli, quando nessuno si sognava di proibirti questo piacere) mi lasciai andare ad alcune confidenze. Lei si mostrò diversa da prima, pareva rilassata, ammorbidita, una persona umana, insomma. Le parlai dei miei nipoti, della mia vita con Luciana, del fatto che non l’avevo mai tradita prima di allora. “ Non c’è bisogno che tu lo dica – rispose lei con un sorriso – era evidente, e ti prego di scusarmi se ho preso io l’iniziativa, ma temevo che saresti sgusciato via per sempre. “
Mi venne da chiederle se quella era la sua routine, ma questa volta mi trattenni. In fondo c’è un limite anche a quello che vorresti sapere ma che è buona educazione lasciar perdere. Lei non tirò fuori la solita storia di una vita infelice col marito, non ne parlò affatto, ma disse che, al momento, il suo più irrinunciabile pensiero era per la carriera. Voleva diventare una donna manager, sarebbe stata la soddisfazione personale per una vita quasi tutta dedicata a questo scopo. “Ci sono donne appagate e felicissime di stare a casa a cucinare e a badare ai figli. Fanno benissimo, se è quello che desiderano. Ma se non lo è, farebbero meglio a cercarsi un lavoro, a dedicarsi alla pittura, alla musica, all’arte, insomma a ciò che amano maggiormente. Non sei d’accordo?” “Non a tutte le donne è concesso di poter scegliere. Il lato economico , di solito, è molto rilevante”. Lei stava infilandosi una calza e così potei notare ancora una volta la linea perfetta del polpaccio, la esilità della caviglia e la lunghezza levigata della coscia. Mi buttai su di lei baciandola sulla bocca. Era bella, spudorata e mi aveva fatto il dono di concedermi la sua attenzione. Di che cosa potevo lagnarmi? Naturalmente, rientrando a casa, i bambini avevano già cenato e mi aspettavano in camera da letto per il bacio della buonanotte, venni assalito da mille sensi di colpa. Luciana mi aveva tenuto in caldo la cena e mi sorrideva col suo solito sorriso azzurro. Mandai un ringraziamento mentale a Silvia che aveva scelto di non seguire la prassi facendo precedere una cena allume di candela, perché potei sedermi a tavola con il consueto appetito e non lasciai nulla, ma proprio nulla dentro il piatto. Più tardi, però, quando fummo a letto e Luciana già si era addormentata, scoprii che ero troppo eccitato per dormire. Dentro di me si agitavano sentimenti diversi e assolutamente scontati. Mi sentivo un verme nei confronti di quella donna
gentile che era a pochi centimetri dal mio corpo e allo stesso tempo provavo un benessere come da tempo non sentivo. La consapevolezza di essere piaciuto, l’infantile sensazione di aver qualcosa da nascondere, l’idea che da quel momento avrei dovuto muovermi con cautela e prima o poi inventare un mucchio di bugie, erano sensazioni troppo forti e troppo nuove. Ma avrei imparato in fretta a gestirle.
Cap. 10
Quello che seguì fu decisamente un periodo molto confuso. E non avrebbe potuto essere diversamente, con tutti i problemi che mi ero creati, con la mia incapacità a gestirli, con la mia naturale inclinazione verso tutto ciò che è semplice e senza complicazioni. Potevo smetterla subito, potevo defilarmi da Silvia con infiniti pretesti, ma non lo feci. Tutto sommato, lei mi piaceva molto, insieme a lei riprovavo sensazioni perdute, forse persino un’ illusione di essere tornato giovane e indipendente, padrone di me stesso e del mio tempo. Tutte scuse banali che la mia coscienza sollecitava e che puntualmente io le regalavo. Ma la mia vita aveva preso un’angolazione pericolosa, il lavoro mi occupava quasi tutta la giornata, non volevo che i miei incontri con Silvia diventassero delle veloci scopate consumate con l’orologio sotto gli occhi, volevo che la mia famiglia non si accorgesse di nulla e quindi volevo dedicare un po’ di tempo a Luciana ma soprattutto ai bambini. Una fatica da Ercole. E dovevo stare anche molto attento a non lasciarmi intaccare dai sentimenti, non dovevo permettere che dentro di me nascesse qualcosa di troppo grande, un amore che avrebbe apportato nuove e più tremende esperienze a me e alla mia povera moglie. Ma lei continuava ad essere allegra e spontanea, con quei grandi occhi azzurri sorridenti e il suo inesauribile ottimismo sempre pronto in tasca. A volte la guardavo e pensavo che forse per una volta nella vita quel suo dannato ottimismo avrebbe potuto ricevere una grossa sberla, solo che qualcuno le avesse raccontato che cosa facevo le sere in cui dovevo fermarmi in ufficio oppure andare a cena con il gran capo. Malignamente, in quei momenti che tutti attraversiamo, in cui ci balocchiamo con l’idea di essere malvagi, immaginavo me stesso mentre le buttavo in faccia la verità: avrei finalmente visto spegnersi quel sorriso dolce e soddisfatto, avrei visto il frantumarsi di tutte le sue più rocciose convinzioni, l’avrei ammirata finalmente per la sua reazione, mi avrebbe schiaffeggiato, insultato, avrebbe fatte le valigie e se ne sarebbe andata di casa. Piangere no, non lo avrebbe fatto: non aveva pianto mai, neppure quella volta che Stefano, bambino vivacissimo e impavido, si era buttato giù dall’armadio sopra il quale era riuscito ad arrampicarsi, aveva battuto la testa ed
era rimasto tre giorni in coma. Nemmeno all’ospedale, mentre ancora lo visitavano e noi attendevamo nel corridoio andando avanti e indietro, muti, sconvolti, disperati, nemmeno allora lei pianse. Era cerea in viso, non riusciva a capire quello che le dicevo, ma le lacrime no, quelle non le vennero proprio. Piansi io, tre giorni dopo, quando ci dissero che Stefano era fuori pericolo e potevamo stare tranquilli. E, ripensandoci, trovavo cento altri episodi in cui la forza di Luciana era riuscita a sbalordirmi, no, forse sbalordito lo ero stato la prima volta, poi avevo preso l’abitudine e a considerare quello un dato di fatto, una piacevole sensazione di complicità, una sicurezza per ogni evenienza della vita. E adesso stavo ricompensando mia moglie per non avermi mai fatto pesare una situazione di disagio o di preoccupazione, trattandola come la più lamentosa e inetta donna di questo mondo. Non avevo scusanti: il mio poteva considerarsi un matrimonio felice, tutti lo avrebbero potuto testimoniare, avevo quello che in genere si chiama una vita riuscita e serena, e allora perché? Perché quando avevo appuntamento con Silvia le ore non avano, ero felice soltanto all’idea di rivederla, avevo una necessità quasi morbosa di toccare il suo corpo, di sentirne il profumo, di precipitare avvinto a lei in pochi attimi esaltanti? Riuscii persino a dimagrire, Luciana se ne accorse e una sera osservò: “ Dovresti farti vedere dal dottore, secondo me stai facendo una vita troppo stressante. “ Aveva ,come al solito, perfettamente ragione. Un sabato ero riuscito, inventando bugie subliminali, ad averlo tutto intero libero e a disposizione, di Silvia, si capisce. Eravamo andati a Portovenere, un luogo che ambedue amavamo e che così, fuori stagione, ci avrebbe messi al riparo da incontri non graditi. La giornata di primavera appena iniziata era avvolta da un tiepido sole ammiccante, ma c’era vento e camminando sul molo i capelli e il foulard di Silvia venivano continuamente sollecitati. Lei rifaceva il nodo e si ava una mano nel caschetto di capelli scompigliati. Era molto attraente, molto femminile e molto desiderabile. “Lo sai – dissi senza riflettere – che potrei innamorarmi di te?” Lei si voltò di scatto a guardarmi:
“Ti è già accaduto? – chiese e poi precisò – di innamorarti di me?”
“ Potrebbe anche essere “ e mi stavo maledicendo per aver iniziato quel discorso. “Non farlo – tagliò corto lei con una certa durezza – non abbiamo bisogno di altre complicazioni”. Ma poi, quando fummo nella camera dell’albergo che avevamo scelto, riprese lei l’argomento e fu dolcissima, carezzevole e spietata. “Non credere che mi spiacerebbe – mormorò con la bocca nell’incavo della mia spalla; ci eravamo appena amati con la ione di sempre e probabilmente lei stava lasciandosi andare alla tenerezza che quei momenti sempre fanno riaffiorare – mi sei piaciuto dal primo istante, ho detto a me stessa che ti avrei avuto e tutto si è avverato. Quando non possiamo incontrarci soffro come una studentessa di liceo, quando ti vedo è come se fossi invitata ad una festa, sei un uomo sensibile, profondamente buono, no, non ridere, penso che sia la verità, e mi reputo fortunata perché ti ho incontrato. Ma questo è tutto. Non sbilanciamoci oltre, tu hai una bella famiglia e molto da perdere, io ho un marito che non amo più e la mia carriera. Anch’io ho qualcosa da perdere. Giurami che lasceremo le cose come stanno. “ Glielo giurai sapendo di giurare come fanno i bambini: sanno già che non manterranno il giuramento.
Cap. 11
Sono andato a trovare Dupont. Ai tempi della scuola ci si chiamava col cognome e a volte non ricordavamo neppure il nome di battesimo dei nostri compagni, tanta era l’abitudine a non udirli quasi mai. I professori incutevano un timore reverenziale e nessuno si sarebbe sognato di non balzare in piedi come una molla al loro apparire in classe. Certuni tentavano seriamente di comprendere l’indole di ognuno di noi e ci trattavano con molta umanità, altri erano granitici, autoritari e non lasciavano are il minimo errore. E’ ovvio che costoro diventavano il bersaglio di infiniti scherzi, li prendevamo in giro, imitavamo la loro voce e le loro maniere, gli facevamo dire cose senza senso di cui ridevamo come matti. Però, appena il nostro cognome veniva pronunciato per un’interrogazione il sangue tendeva a scivolare fuori dalle nostre vene e ci avvicinavamo alla cattedra in preda a qualcosa che somigliava al terrore. Non ho mai saputo che qualcuno di noi venisse traumatizzato da questo trattamento, non amavamo le persone che dovevano istruirci e alle volte li maledicevamo per la loro intransigenza. I cattivi voti fioccavano ma nessuno osava replicare e anche i nostri genitori non ammettevano lamentele, tuttavia siamo tutti cresciuti benissimo e abbiamo imparato molto di più di quello che hanno imparato i nostri figli e mille volte di più di quello che stanno imparando i nostri nipoti. Mia nonna, che come tutte le nonne, era la depositaria della saggezza popolare, aveva un proverbio o una frase per ogni circostanza e, per quanto riguardava l’educazione dei bambini diceva che “ troppa confidenza fa perdere la riverenza” E il discorso finiva lì. C’erano poi i professori “ buoni”, quelli che adoperavano maniere gentili e che cercavano di responsabilizzarci senza mettere dei brutti voti sul registro. Ovvio che fossero i preferiti. E di loro ho ancora un ricordo felice e quasi un rimpianto. Ad ogni modo, Dupont non era uno studente modello. Arrivava a scuola in auto con l’autista e soltanto negli ultimi anni del liceo, i suoi si decisero a lasciarlo venire da solo. Non studiava molto, non era dotato di un’intelligenza particolare, sicuramente pensava che i suoi quattrini avrebbero sopperito sempre alle sue negligenze. Però era generoso, faceva sovente feste grandiose nella sua villa dotata di un ampio giardino e ci invitava tutti, poveri e ricchi; anzi, per i
compagni che si sapeva provenire da famiglie non abbienti pagò più volte la loro quota del viaggio scolastico. Insomma, era un bravo ragazzo e, come sentii dire una volta a mio padre che parlava di lui “ Peccato che abbia tutti quei soldi...” In effetti, ai tempi della scuola la fortuna dei Dupont stava già scricchiolando. Gli antenati, Dupont de La Buissonière erano degli aristocratici si che, molto oculatamente, erano scappati dalla Francia ai tempi della rivoluzione e si erano stabiliti in Italia. Un avo capì che non avrebbero potuto continuare a vivere di rendita come avevano fatto fino a quel momento e, primo di tutta la dinastia, si inventò un lavoro. Divenne un piccolo armatore , visto che avevano scelto una città di mare, e profuse tutte le sue risorse nella buona riuscita della sua impresa. Che prosperò, diventò sempre più grande e portò una fortuna nelle casse della famiglia. Per un secolo e mezzo l’attività di famiglia fu condotta con saggezza mista a talento per gli affari. Fino a che tutto arrivò nelle mani del padre del mio compagno. I tempi erano cambiati, le grosse società tendevano a soffocare le piccole, una miriade di leggi impastoiavano le trattative e le operazioni che una volta si svolgevano senza problemi. Il papà di Giovanni aveva già trovato un cambiamento: da armatori i Dupont erano diventati broker marittimi. Sarebbe stata un’idea vincente se l’attuale capo della famiglia ne fosse stato all’altezza: ma non lo era e a poco a poco la Dupont cominciò a scivolare verso il suo fatale destino. Ai nostri tempi, l’ho già detto, nessuno poteva immaginarlo, tranne gli addetti ai lavori, ma, quando sopravvenne il crac avevamo già concluso l’università ed eravamo tutti già inseriti nel mondo del lavoro e del matrimonio. Avendo perso di vista Giovanni, seppi soltanto come pettegolezzo della loro rovina e ne lessi anche sui giornali. Ma non avrei mai immaginato che si fossero ridotti così. Abitava, come mi aveva annunciato Carlo, in un quartiere popolare ma non degradato. Grossi casermoni di cemento eretti uno accanto all’altro senza neppure una pianta, panni stesi alle finestre, molti negozi di alimentari e di verdura. L’androne della sua casa era stretto e le pareti necessitavano di una ripulita, le scale odoravano di fritto, però c’era l’ascensore che mi trasportò al quinto piano, un ballatoio dove si aprivano le porte di ben sei appartamenti. Tristissimo. Mi venne ad aprire lui e stranamente non lo trovai molto cambiato. Era ingrassato, aveva messo su una discreta pancetta, ma il suo viso risultava ancora giovanile, i suoi occhi erano sereni come una volta. Perché, nell’immaginario
collettivo, uno in difficoltà economiche deve essere magro, invecchiato e lacrimoso? Gianni non rientrava affatto in questo schema. Ci abbracciammo come avevo fatto con Carlo e, come era successo con lui, provai una sensazione di malinconia per tutti quegli anni perduti. Mi fece strada verso un piccolo soggiorno zeppo dei mobili di pregio che erano stati nella sua villa. Non tutti, ovviamente, soltanto alcuni ma bastanti a dimostrare che in quella casa abitava qualcuno che non avrebbe dovuto essere lì. Riconobbi il bellissimo ritratto di sua madre appeso sopra al divano e che, nell’altra casa, troneggiava sopra un caminetto di marmo. “Era proprio una bella donna “ dissi tanto per dire qualcosa. ”Ha avuto una sorte ben triste! Ha dovuto abbandonare la sua casa, i suoi mobili, le sue abitudini e questo ad un’età in cui si dovrebbe godere di tutti gli agi possibili. Non vuoi sederti? Ti posso offrire una bibita, oppure un whisky? Non ricordo se bevi alcolici...”. Si dava daffare e parlava in fretta sicuramente per aver ragione dell’imbarazzo: lo potevo capire. Il whisky era di gran marca, perché difficilmente chi è abituato al meglio, nelle piccole cose si accontenta del abile. Gianni abitava in un appartamento modesto, aveva rinunciato a tutti gli agi, ma sono convinto che mangiasse ancora usando le posate d’argento. Non ci fu bisogno di fargli domande, perché cominciò lui stesso a raccontare. Forse era un modo per dimostrare che tutti i suoi guai non lo avevano ferito troppo o che non se ne vergognava: non so, ma non credo che nella realtà fosse così sereno come voleva far credere. “ Mi hanno dato la pensione sociale, ma non completa perché sono proprietario di questa casa, così i già pochissimi euro sono stati decurtati. D’altra parte, per me non sono mai stati versati contributi mentre io li ho pagati per i miei dipendenti. Questa è la vita, caro mio. Mio figlio maggiore mi dà un piccolo aiuto, ma non guadagna molto, è sposato ed ha una figlia che studia ancora: non posso pretendere, è già tanto quello che fa per me. Per fortuna ho sempre avuto molta manualità, ricordi?...Così ho cominciato ad offrirmi come restauratore di mobili, poi hanno cominciato a darmi anche lampade che non funzionavano, giocattoli che si erano rotti e stranamente riesco ad accontentare tutti. Figurati
che mi sono anche improvvisato imbianchino e vado a pitturare le pareti dei miei vicini. Senza quest’introito non potrei farcela. E poi c’è il grosso problema di Fabio...” “Il minore dei tuoi figli...”. Sospirò: “Il minore dei miei figli...un disastro ormai senza possibilità di riscatto...Entra ed esce dalle comunità di recupero che, a quanto pare recuperano ben poco, almeno con lui. Ogni tanto arriva a casa e dice che è tutto finito, che ha deciso di cambiar vita, che ne è profondamente convinto. Io gli dico di sì e aspetto la prossima crisi che, in genere arriva dopo pochi giorni. Allora sparisce e non ne so più niente fino a quando mi avvertono che è stato ricoverato in un' altra comunità. E il giro ricomincia.” Ero veramente imbarazzato e guardavo le punte delle mie scarpe per essere sicuro di non incontrare il suo sguardo. “Dev’essere terribile..- commentai con una banalità irritante – credo sia il peggior dolore per un padre...” “Ci si abitua, sai? Guarda che l’uomo si abitua a tutto. Quando Fabio scappa di casa perché è in crisi di astinenza, va a batter cassa da sua madre che lo aiuta sempre a rovinarsi ancora di più, se possibile. Lo imbottisce di soldi e lui corre a comprare dosi fino a quando cade per terra in coma e viene portato all’ospedale. Lo salvano, lo infilano in uno di questi di centri, lui ci resta finché non ha ripreso le forze e poi se ne va. E’ una storia molto comune, non ha niente di eccezionale..”. Sentii di dover dire qualcosa di meno stupido dei luoghi comuni: “ Non puoi parlarne in questo modo, come se si trattasse di raccontare che tuo figlio a da un viaggio all’altro. Non è credibile. Penso che tu stia soffrendo moltissimo e me ne dispiace...” Gianni abbozzò un sorrisetto e si versò altre due dita di whisky. “Può darsi, ma la sofferenza di tanti anni mi ha anestetizzato, riesco a parlarne con tranquillità, come di un fatto ineluttabile. E poi Fabio ormai è adulto, ed è
già un miracolo che sia arrivato alla sua età. Un giorno mi verranno a dire che l’ultima dose gli è stata fatale e sarà tutto finito.”. Diceva quelle cose tremende con un tono di voce piatto, quasi senza espressione; non era possibile che non soffrisse. Pensai di quante disgrazie era stato protagonista e mi dissi che io non sarei riuscito a sopportarle. O forse no, forse avrei fatto come lui e mi sarei abituato. Non avevo capito se avesse desiderio di sfogarsi con me o se invece mi stesse raccontando una storia che aveva quasi imparato a memoria. A chi aveva potuto raccontarla? A Carlo Pontiroli sicuramente, e poi ? Agli antichi amici che gli davano le lampade da riparare o ai nuovi vicini che gli affidavano le pareti delle loro case? “E’ stato molto brutto prima, quando c’era ancora qualcosa da salvare e Fabio la sottraeva per andare a venderla. E poi le spese per farlo curare in cliniche private dove non gli facevano niente tranne farlo riposare in una camera di lusso e mangiare come in un grande albergo: costava molto, costava tutto, persino la pillola che gli davano per farlo dormire, era tutto riportato nelle fatture che dovevi pagare immediatamente, altrimenti sarebbe stato buttato fuori. In cambio ti assicuravano la discrezione più completa. A quei tempi era qualcosa che mi sembrava irrinunciabile: Fabio sarebbe guarito, sarebbe rientrato nella vita normale e non volevo che gli venisse pregiudicato un incarico, un lavoro, un matrimonio se si fosse risaputo che per un periodo era stato un tossico...Poi, a poco a poco ho realizzato che non sarebbe mai uscito da quello stato e che la discrezione non rappresentava più una priorità. D’altra parte non c’erano più soldi, mio padre era morto, e la ditta non ci apparteneva più. Ho capito che stavo combattendo una battaglia inutile e che non era giusto nei confronti di Paolo, il mio primogenito per cui non ho mai speso la metà di quello che ho speso per Fabio. Così ho lasciato la villa che era già stata venduta, mi sono liberato di tanti mobili e di tanti oggetti che non avrei saputo dove sistemare e ho realizzato una piccola cifra che mi permette di andare avanti. E naturalmente sono venuto ad abitare qui, dove, almeno non pago l’affitto. “ “E qui...come ti trovi?” “ Non male, credimi. La gente è molto gentile, hanno capito che cosa combina Fabio e si sono offerti di darmi un aiuto. L’hanno fatto con grande delicatezza, non l’avrei mai creduto. Così, come in questo periodo che sono solo, quasi ogni
giorno arriva qualcuno con una pietanza cucinata dalla moglie: c’è un tale che abita al piano di sotto che è un ottimo giocatore di carte e alle volte, la sera, sale su per fare una partita. Di solito vince. E sai che ho fatto una scoperta? All’inizio pensavo di dovermi trasformare in un uomo di sinistra, giusto per non andare subito a cozzare contro le loro idee, e invece no...c’è una percentuale altissima di neri, ma quando dico neri, sono proprio dei neri convinti, Addirittura ho conosciuto un uomo molto anziano ma ancora in gamba che a diciannove anni ha militato nella decima Mas e ne è ancora fierissimo. Incredibile...Ho riflettuto a lungo su questo fenomeno e sugli amici dei tempi d’oro che erano quasi tutti comunisti...E’ molto facile essere di sinistra vivendo in un appartamento di quindici stanze e ando le vacanze a Porto Cervo...”Bisogna annientare questo sistema, bisogna essere progressisti, solidali e volere a tutti i costi una distribuzione più equa della ricchezza.” Per anni ho ascoltato questa tiritera da uomini che gestivano due o tre società oppure da donne che mai avrebbero rinunciato al parrucchiere neanche sotto una disgrazia naturale. E’ facile dire che qualcuno deve prendersi cura seriamente del problema immigrati, è facile scandalizzarsi per i luoghi in cui vengono ospitati...altra cosa sarebbe offrirgli la casa delle vacanze o interessarsi ai problemi della domestica di colore. Mi sono sempre sentito preso in giro da questa gente, li ho odiati per quello che dicevano e adesso ho avuto la conferma di quanto fossero falsi e meschini. La gente che abita in questi rioni non va in giro a sbandierare la sua dignitosa povertà: lavora, cresce i figli e la domenica li porta in chiesa: cercano di migliorare la loro condizione, cercano di avere dei risparmi, di comperarsi la casa in cui abitano. Forse non saranno composti a tavola, non avranno maniere raffinate, ma la maggior parte di loro aiuta veramente chi è in difficoltà, questo l’ho capito sulla mia pelle. In piazza ad urlare e a sbandierare striscioni non li vedrai mai...” Involontariamente mi venne da ridere. Ed in effetti, Gianni aveva una maniera di raccontare queste cose che non poteva non indurre al riso. Pensai che era migliorato dai tempi della scuola, che riusciva a far funzionare il cervello molto meglio e molto più autonomamente. Inoltre stava dimostrando di possedere un senso di autoironia che non gli avrei attribuito. Non sapevo come continuare la conversazione, mi sentivo imbarazzato come tutte le persone che credono di andare al soccorso di qualcuno mentre questo qualcuno non sembra averne bisogno. Ma fu Gianni che riprese a parlare allungando le gambe e lasciandosi scivolare nella poltrona in cui stava seduto.
“Perché non parliamo un po’ di te? Che cosa hai fatto, come è stata la tua vita?...”. Come è stata...anche per lui era il caso di parlarne al ato, per lui e per Carlo le nostre vite non si dovevano più considerare un fatto ancora attivo, ancora suscettibile di cambiamenti...per loro era già tutto finito e, se non fossi stato così spaventosamente cieco, avrei dovuto capirlo anch’io. “Ecco...- risposi – non riesco ad accettarlo...Non accetto che la vita sia ata, fino a pochi mesi fa ero ancora un uomo forte, pieno di voglia di vivere, ottimista e fiducioso...poi mi sono capitati alcuni malanni mai avuti e non riesco ad abituarmici...Mi sento derubato, frustrato, non voglio guardare un po’ avanti come facevo prima tranquillamente, perché allora reputavo di avere ancora tante cose da fare, tante da sperimentare e adesso vedo soltanto una voragine, il buio che mi sta aspettando..-“ Gianni non rise, non fece finta di non capire e non cominciò a sfottermi. Rimase in silenzio a lungo e poi disse: “Immagino che non siano guai seri...- e quando io annuii, trasse un respiro e continuò – Allora puoi ancora guardare avanti: non c’è subito il precipizio, e anche se così fosse, non devi esserne spaventato. Io credo che la tua vita sia stata serena, direi quasi felice...mi sbaglio? Non mi sbaglio, l’avevo capito. Hai una moglie, dei figli?” Risposi di sì, che avevo la moglie e che era una gran brava persona e anche i miei figli, tutto sommato, non mi avevano deluso e che c’era anche Claudia, la più bella bambina del mondo, e altri due nipotini affettuosi... Questa volta lui si mise a ridere: levò le mani con le palme aperte quasi in segno di resa: “ Basta così. Non potrei sopportare altre fortune da parte tua, comincerei ad essere invidioso...Ma lo sai quanta gente alla nostra età è in grado di fornire un quadro così allettante della sua famiglia? Pochissimi, ne sono convinto. “ Insomma, alla fine venne fuori che fu lui a dovermi confortare. “ Non volevo parlarne – gli dissi quando stavo per andar via – ma il ricordo delle feste nel tuo giardino è stato sempre uno dei più gradevoli. Eravamo ragazzini
felici, senza tante complicazioni: ci piaceva stare insieme e ci divertivamo con poco. Ma le tue feste...erano una specie di invito del principe, ne parlavamo per mesi...Quel giardino che profumava di pitosforo, il giradischi con tutti i dischi del momento, i cibi meravigliosi che venivano serviti, tutti buonissimi, e tua madre che a un certo punto si materializzava tra di noi, salutando i ragazzi e le ragazze che conosceva, dando il benvenuto agli altri...così sorridente, così elegante...si soffermava poco tempo, una visione quasi irreale, avvolta in scialli leggeri e profumata delicatamente, ci chiedeva qualcosa di nostri genitori, dei nostri studi, persino dei nostri flirt, ma lo faceva con grande delicatezza e poi si ritirava in casa con discrezione per non farci sentire imbarazzati... “ Non riuscivo a fare un discorso conseguente: l’emozione mi stava stringendo la gola e le parole mi uscivano come quelle pronunciate da un ubriaco. Gianni strinse gli occhi, forse perché anche lui era commosso, ma li riaprì subito ed erano soltanto un po’ lucidi, mi diede una pacca sulla spalla e concluse: “ E’ successo tutto tanto tempo fa...in un’altra vita, non vale la pena di parlarne.” “E invece sì, perché sono ricordi molto belli. Eravamo così giovani, allora, senza problemi, ci accontentavamo di una festa per sentirci al settimo cielo. E la vita sarebbe stata incantata...”. Lui annuì più volte: “Altri tempi – mormorò – i nostri ingenui, incommensurabili, rassicuranti anni ’50! Eravamo tutti ancora...- si arrestò per trovare l’aggettivo giusto e fece una pausa abbastanza lunga, ma poi finì per trovarlo perché abbozzò un sorriso e lasciò scivolare la parola con dolcezza – innocenti”. E quell’aggettivo che aveva scelto fra i tanti possibili, non avrebbe potuto essere più adatto. Sentendomi un idiota, gli feci scivolare in mano l’assegno che avevo preparato per lui. Non lo guardò neppure, infilandolo in tasca con noncuranza. Aveva imparato da tempo a gestire queste elemosine con la stessa eleganza con cui era stato abituato a vivere. E non disse come Carlo che sarebbe stato inutile rivederci, ma non credo che la voglia di rivedermi fosse da attribuire ad altri assegni che avrei potuto dargli.: a lui importava davvero ritrovarmi, parlare con me, persino confortarmi. Era diventato un grand’uomo, dovetti ammettere, la
sfortuna non era stata così malevola da inaridirlo o trasformarlo in un essere piagnucoloso e rinchiuso in se stesso. La sfortuna aveva tirato fuori da lui qualità insospettate e insospettabili, una maniera di accettare e di accettarsi senza continui e inutili rimpianti, una forza che è prerogativa di pochi. “Grazie – disse soltanto quando mi trovavo già fuori, sul ballatoio che sapeva di fritto – di tutto” tenne a specificare. Fuori, andando verso l’auto che avevo parcheggiato poco distante, mi resi conto della gente che abitava quel quartiere: ragazze in fuseaux che fasciavano atletici polpacci e autorevoli sederi, donne e uomini vestiti senza gusto e bambini che si sporgevano da carrozzini mentre le madri fumavano una sigaretta. Abitavano in brutte case accatastate le une sulle altre, sembravano abituati al traffico rumoroso e disordinato e i loro bambini non avevano neppure un praticello dove giocare. Tutto preda del cemento e della fatica di stare al mondo. In auto non misi subito in moto. L’incontro avuto con Gianni Dupont era stato molto più incisivo di quello con Carlo, il mio inseparabile compagno di un tempo. Gli avevo voluto veramente bene, lo avevo ammirato, avevo pensato che nulla sarebbe riuscito impossibile ad un ragazzo con tanta intraprendenza e sicurezza. E forse, in certa parte, era stato così, ma adesso sembrava che Carlo si fosse liberato di una prima pelle, come fanno i serpenti, e si fosse mostrato in quella che era la sua realtà: un uomo stanco, provato e disilluso, finalmente non più costretto ad interpretare un ruolo che a poco a poco gli era diventato odioso. Pensai anche a Gianni e mi resi conto che anch’io avevo voglia di rivederlo. Era forse l’unica persona con cui avessi voglia di parlare e sentivo che avrei potuto farlo senza troppi pudori, solo se fossi riuscito a soffocare il mio inutile, insignificante ego. Molto meschino, dopotutto, anche se non volevo colpevolizzarmi troppo. Nella vita di tutti i giorni, a chi poteva importare se avevo la pressione alta, il diabete e un braccio ancora e forse per sempre dolorante? A me, cui importava troppo. Quando misi in moto cominciarono a cadere le prime gocce di pioggia, azionai il tergiscristallo e subito mi innervosii sentendo che si muoveva emettendo un lamento stridulo: mi ricordai che dopo l’ultima volta che era piovuto avevo deciso di sostituirlo per poi dimenticarmene e adesso dovevo sorbirmi quel suono sgradevole fino a casa, cioè per diversi chilometri. Mi disturbava, mi distoglieva dai miei pensieri, e allora provai a sovrapporgli, mentalmente, una
vecchia canzone che era stata il tormentone di un’estate lontana e felice. E a poco a poco mi accorsi che lo stridio si amalgamava alle note della canzone, andavano a tempo, si davano un ritmo, nella mia testa avevano raggiunto un accordo e non c’era più un suono fastidioso o il ricordo di una musica: erano diventati una cosa sola. Volevo costringermi a credere di aver imparato molto dai racconti dei miei vecchi amici: e in fondo era vero. Ma non riuscivo, forse soltanto per il momento, a liberarmi di quel senso di vuoto, di fine, che da tempo mi ossessionava. Non volevo accettare il capolinea, la fine del viaggio. “Ma questo è soltanto l’ordine delle cose” aveva commentato Luciana l’unica volta che mi ero lasciato andare e le avevo confidato i miei tormenti. “E’ ato Giulio Cesare, è ato Napoleone, persino Michael Jackson...e il mondo ne ha fatto a meno benissimo. Figurati se non potranno fare a meno di te.” Certo, avevo pensato, ma sono io che non posso fare a meno del mondo. Sono io che lo amo e che non voglio abbandonarlo, sono io che dovrò fare a meno dei tramonti, della neve, degli alberi fioriti a primavera, sono io che dovrò lasciare la mia cuccioletta Claudia e non potrò vederla diventare donna, sono io che non riuscirò a visitare i paesi di cui ho tanto sognato e che, per un motivo o l’altro, ho dovuto rinunciare a vedere, sono io che non ho ancora esaurito la linfa vitale, la forza e la voglia di essere vivo. Non sono del parere di Therèse Desqueyroux per la quale la fine della vita è la fine della notte: mi aveva colpito questa frase quando avevo letto il libro e l’avevo trovata di una disperazione senza pari. Per me era tutto il contrario, non volevo precipitare nella notte, non volevo essere cancellato: é questa la maledizione che incombe sulla vita, e non il contrario. Continuavo a guidare senza avere nozione del tempo e neppure dei luoghi, forse avrei scoperto di aver sbagliato strada, forse non sarei mai arrivato a casa, ma avrei seguitato a girare per sempre. Nella mia testa c’era una grande confusione, scrash scrash faceva il tergicristallo insieme alle note della mia canzone, voglia di non lottare più e di rassegnarmi, di urlare e piangere sugli errori della mia vita, sui tempi che erano stati belli e che mi rodevano col loro insistente rimpianto, sul niente che avevo davanti, sul desiderio acutissimo di poter ricominciare tutto daccapo “ aiuto” gridava il mio cervello, ”non ce la faccio più”, ma, nonostante questo caos, riuscii a pensare che la vita è un’avventura preziosa, difficile, entusiasmante, deludente, crudele, fortunata ma in ogni caso completamente priva di senso.