Un attimo di tempo
Nello Ghio
Camelot Titolo originale: “Un attimo di tempo” © 2013 Giovane Holden Edizioni Sas - Viareggio (Lu) I edizione cartacea ottobre 2013 ISBN edizione cartacea: 978-88-6396-384-7 I edizione e-book novembre 2013 ISBN edizione e-book: 978-88-6396-432-5 www.giovaneholden.it
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Un attimo di tempo
Indice dei contenuti
Colophon I II III IV V VI VII VIII IX X XI XII XIII XIV XV
XVI XVII XVIII XIX XX XXI XXII XXIII XXIV XXV XXVI XXVII XXVIII XXIX XXX XXXI XXXII XXXIII XXXIV L'Autore
È la nostra solitudine il nostro desiderio.
I
Non è tanto partire. È proprio il luogo che vai scoprendo che poi ti racconterà il viaggio. I paesaggi, le persone e i momenti che incontri ti parlano sempre dopo, quando sei ripartito. Accusi il distacco da qualcosa che ti fa star bene. Le tante cose che hai visto e che hai vissuto ti parlano da lontano, ti dicono di tornare e desideri tornare. Sembra attenderti lì il futuro che sogni. Venivano da oltre le stelle. Arrivarono, girando come in una danza, nei pressi di una stella e si fermarono sul suo pianeta. In un luogo vicino a voi. Anzi, molto vicino a voi. Si chiamavano Io e Tu. “Dove ci mettiamo?” domandò Tu. Io osservava i luoghi della città. C’erano tante piazze e strade trafficate piene di caffè, ristoranti e negozi. E c’erano molte persone a eggio per la città. Era difficile ascoltarle, ma soprattutto le persone non si lasciavano pensare. Il loro pensiero pensava all’esterno di loro: era nelle vetrine, fra la gente, sugli oggetti e le svagava e non le annoiava come faceva di solito. Il loro pensiero le faceva pensare solo alle immagini che i loro occhi vedevano: Uomo giacca e cravatta; uomo in jeans; donna in jeans; donna in gonna; uomo e donna griffati; uomo e donna non griffati; bambino con il gelato; bambina che piange. Non solo non si riusciva a sentire il pensiero che pensa, non si sentivano nemmeno le intuizioni, le riflessioni e gli istantanei attimi della loro vita, quelli che scorrevano in quel momento.
Allora Io prese la decisione: “Vieni!” disse. “Entriamo in quel caffè, è l’ora giusta.”
II
Io e Tu entrarono e si misero a sedere. Si stava bene in quel caffè. I riflessi delle luci rimbalzavano dovunque ed erano riflessi caldi, del calore del legno. Si sentivano profumi intensi e aromi delicati. Ci si sedeva e ci si confortava. Lì il pensiero riusciva a pensare e a dire qualcosa in più. (“…” “…”) “Cosa sono questi puntini di sospensione fra parentesi?” chiese Tu. “È il pensiero-che-pensa!” “Il pensiero-che-pensa?” “Sì. Sono le intuizioni!” “Le intuizioni?” “E le riflessioni!” “Le riflessioni?” “Sì. I loro attimi!” “Gli attimi?” “Sì! Il pensiero-che-pensa, le intuizioni, le riflessioni e tutti i loro attimi! …devo ripetere?” chiese spazientito Io. “Ho capito cosa sono! Non ti agitare!”
“Peraltro non puoi non saperlo!” “Infatti lo so!” “Allora perché me lo chiedi?” “Indovina?” (“…” “…”) Trascorsero alcuni attimi poi Tu chiese ancora: “…Ma io e te, chi siamo?” “Dipende.” “Dipende?” “Direi che al momento tu sei Tu, cosi ti chiami e sei con te e io sono Io, mi chiamo così e sono con me.” “Manca qualcosa, sento!” “Sì! Lei. L’incompiuta.” “Manca anche a te vero?” “…Eh, sì. Ci ha mandati qui e ora manca anche a noi,” concluse tristemente Io. (“…” “…”) Poi Io e Tu rimasero in silenzio per un po’ e mentre tacevano pensavano insieme: Ogni volta che torniamo qui sulla Terra troviamo sempre cose nuove, tanti strumenti nuovi, nuove invenzioni, ma lo stesso uomo. Abitudini diverse e diversi modi di fare, di divertirsi, di darsi da fare e lo stesso uomo. In un mondo che continuamente cambia vediamo l’uomo rimanere lo stesso. È lo stesso da sempre. Sente le stesse cose e sempre sotto lo stesso sole, come dicono qui sulla Terra. L’uomo cerca, gira intorno, cade, si rialza e continua a cercare. Girando su se stesso e intorno al sole. E mentre a la mano, continua a cercare.
III
Entrò nel caffè una giovane coppia. Pioveva e lui aveva la giacca bagnata. Se la tolse e con le mani provò a spazzar via l’acqua. Il cameriere si avvicinò. “Vuoi qualcosa?” chiese l’uomo alla donna. “No, non prendo niente.” “A me porti un caffè semplice. (“…” “…”) “Non ne posso più! Tua madre mi fa veramente rabbia,” disse, “le dico di non toccare le mie cose e appena mi volto le sposta a dispetto. A dispetto! Te ne potrei raccontare mille. Mi indispettisce con le sue osservazioni. Non la sopporto più!” “Ai nostri figli non pensi?” replicò la donna “Questo è un ricatto! Il tuo solito ricatto!” “Ma no, che dici! Ti prego parliamo!” lo supplicava. “No! Non ne voglio più sapere e se non la pensi come me e non mi aiuti io me ne vado ad abitare da solo fin quando tua madre non avrà trovato un altro posto dove andare. Chiaro! E ora usciamo per favore!” (“…” “…”) “Allora…?”
“Che vuoi che ti dica? Come si dice qui sulla Terra: penso che stiano litigando!” disse Io. “A me non pare,” rispose Tu. “No?” “…Direi che si confrontano,” precisò Tu. “Chiamalo come vuoi, litigio o confronto che sia quei due hanno un problema serio da gestire. Rischiano una crisi familiare per colpa della madre di lei.” “Sarà quello il motivo? Magari non è il motivo principale.” “Ma è di questo che stanno parlando!” “Non possiamo saperlo con certezza! Fin li non vediamo.” “Ma puoi esprimere un’opinione no? Insomma, come pensi che andrà a finire? Cosa intuisci? Cosa immagini? Avanti rifletti! Siamo qui per questo e questo lo possiamo fare no?” Allora, sollecitato, Tu pensò: …quel signore si ritrarrà in sé convinto e forte delle sue ragioni. Cercherà la sua solitudine e invece entrerà nel suo isolamento. Seguirà solo i suoi istinti, ascolterà solo loro. Striscerà nel tempo fino a quando il vuoto gli farà vedere il suo vero volto. Allora, chiuso al futuro, vorrà rivedere il ato. Spererà nel ato, ma sarà triste per lui quando si accorgerà che il ato esiste solo nella memoria e che non potrà tornare indietro. In nessun modo. “Mmmh. Non sarei così pessimista!” riprese a dire Io. “È un’esistenza! Sono esistenze! Quel signore capirà! In qualche modo capirà!” “Può essere,” disse Tu girovagando.
IV
Nel caffè entravano e uscivano continuamente persone e cose, profumi e colori, occhi e sguardi. C’erano molti camerieri al servizio e in certe ore della giornata era un andirivieni continuo di camerieri in giacca bianca. Entrò una signorina infreddolita e andò a sedersi a un tavolo d’angolo. “Per favore un bicchiere di acqua e un caffè.” “Con latte signorina?” “No grazie, senza latte.” La signorina, riunì le mani e chiuse gli occhi: …ora concentrati, pensava …metti e lascia tutto-fuori-dalla-mente…, tutti gli ostacoli, sì anche il messaggio che ti è arrivato poco fa sul cellulare, immagina un cielo stellato e guardalo. Respira… e recitala. Vorrei tornare a sera dentro un cielo libero in mezzo ai tuoi pensieri sentire la mano che mi accoglie allontanare ogni possibile paura in un cielo così vasto in un cielo così vasto così grande.
(“…” “…”) “Cosa guardi Tu?” “Quella ragazza. Non hai sentito? Ha recitato una poesia.” “Una Poetessa?” “Sì!” “Sì? E tu come lo sai?” “Ma, insomma, non mi hai detto che possiamo sentire e ascoltare i pensieri di ognuno, capire le intenzioni, vedere nelle cose? …capire dunque!” “Ma solo gli attimi del loro pensiero, mentre scorrono nel presente. Non il ato, non il futuro, solo questo ci è concesso non dimenticarlo! Come gli uomini qui sulla Terra, anche noi il futuro possiamo solo immaginarlo.” “Sì, hai ragione.” “Quindi come lo sai che è una Poetessa?” “Sono tutti poeti qui sulla Terra no? Dunque è una Poetessa! E poi ha recitato una poesia. Dunque è una Poetessa!” “Messa così non fa una piega, ma non saprei… magari è un’impiegata di banca…, magari è la direttrice della banca,” concluse Io. “Guarda sta uscendo. Vuole prendere la Metro. Seguiamola!” Io e Tu le corsero dietro. (“…” “…”) “Cosa sta guardando?” “I cartelloni pubblicitari.” “Ha fatto rientrare nella mente tutti quanti gli ostacoli?”
“Sì tutti! Ma sta pensando ancora alla poesia. Le piace. Sta pensando che le piace molto.” “Scende! Andiamo…” “Le scale mobili della Metro sembrano un giocattolo. Sono divertenti!” disse Tu. “Un giocattolo? Che strana idea!” si stupì Io. “Ma non è mia!” “Ah no?” “No! La sto leggendo nel pensiero di tutti quelli che salgono e scendono.” “…Guarda! Sta entrando in quel portone.” “Sì lo vedo e non è una banca! Riesci a leggere la targhetta?” “L.D. Insegnante di Letteratura.” “Lo sapevo! Studia letteratura, dunque è una Poetessa!” “Perché occorre aver studiato lettere per essere poeti?” “…Non credo. Ma penso che aiuti.” “E se quell’insegnante L.D. fosse un uomo? E se fosse il suo uomo? Se fosse il suo amore?” domandò Io. “E se non fosse cosi?” obiettò Tu. “No! Non guardare dentro! Non deve interessarci. Andiamo via!” “Sì, andiamo via. Scopriremo poi chi è l’Insegnante di Letteratura.” Io e Tu ripresero la Metro per tornare al caffè. “…è confortevole la Metro.” “Lo stai leggendo nel pensiero di tutti quelli che salgono?”
“No, no! Lo penso io, proprio io.” “Ah sì! Che strano!” “…Però si sta meglio in quel caffè!” “Consolati, fra poco saremo di nuovo lì.” (“…” “…”)
V
Erano chiare le immagini che Martin vedeva riflesse in quei cerchi di luce dentro il catino di acqua colpito dal sole. Con il pensiero tornava ai momenti in cui l’esistenza sembrava raccomandargli la via giusta quando lo avvertiva della felicità presente nell’accadere degli attimi che senza tempo succedono gli uni accanto agli altri come a suggerire il senso che tengono nascosto e che sempre, in ogni tempo, sembrano voler donare per appagare l’invincibile desiderio di pace che andiamo cercando… Martin salì mentre il treno era già in movimento. Aveva telefonato a Kurt una settimana prima. Cercava contatti di lavoro. Gli chiese la cortesia di fissargli alcuni colloqui. Fu felice quando l’amico lo informò che era riuscito a ottenere dei contatti. Martin pensava continuamente a quanto si erano detti la sera prima lui e Laura. Pensò con sofferenza alle parole di Laura e si impadronì di lui una malinconia profonda. Rilesse la poesia ancora una volta addormentandosi con il foglio fra le dita lì sul treno che lo stava portando in città.
VI
Io e Tu di ritorno dalla Metro si erano infilati di nuovo nel caffè. (“…” “…”) “Sì, si sta meglio seduti qui che nella Metro! Questo poi è davvero un bel caffè! Tutto questo legno intorno… che atmosfera! D’epoca, si direbbe eh?” “Hai letto?” “Cosa?” “Laggiù!, uno scrittore. Ha appena iniziato a leggere un romanzo. Parla di ricordi e di una storia d’amore credo.” “Amore? Allora parlerà anche di Destino!” “Può essere interessante seguirlo non credi?” “Prima la Poetessa, ora il Romanziere. …ma è il caffè degli Artisti?” “Ma no! Non vedi? Entrano ed escono continuamente molte persone e chissà quanti mestieri fanno, cosa li impegna e li affanna. Guarda? Tanti non si siedono nemmeno? Vanno di fretta. Hanno da fare!” “Vuoi dire che chi si siede non ha nulla da fare? E che gli Artisti non…” “Smettila Tu! Sai cosa intendo dire! Lo sai come lo so io!” “Sì, so cosa vuoi dire! Vuoi dire che l’Artista in questo mondo qui… non è che non ha da fare… è che non è richiesto!” “Esatto!”
“…Tuttavia racconta, disegna, compone, scolpisce, crea…insomma: illude!” “Sì, nel senso delle illusioni…” precisò Io. “E se non ci fossero gli Artisti?” “…Per questo mondo qui sarebbe un problema!” scandì Io. (“…” “…”)
VII
Il Romanziere continuò a leggere dalle ultime righe del capitolo precedente… …Rilesse la poesia ancora una volta poi si addormentò con il foglio fra le dita lì sul treno che lo stava portando in città. Appena fuori il paese una strada sterrata conduceva alla casa di Laura. La casa era circondata da un giardino con una grande varietà di piante e di fiori che lei curava personalmente. Nell’ampio androne una finestra accoglieva attraversata da un raggio di luce. Era una casa a tre piani con molte stanze e dopo l’ultimo piano si saliva su una piccola torre. Da lì, la vista sui luoghi intorno catturava l’attenzione di chi si fermava ad osservare. Qualcosa distrasse il Romanziere. Osservò intorno a lui poi si mise a rovistare dentro la borsa. (“…” “…”) “Hai notato?” chiese Io. “Non ha ancora scritto il nome del luogo dove si svolge la storia.” “Probabilmente non la vuole ambientare in nessun luogo preciso della Terra! O forse non lo sa ancora: in occidente? In oriente? In Africa? Chissà…” affermava Tu guardando per aria. “Certo in Africa! Lì, è noto, ano molti treni da prendere al volo per andare in cerca di lavoro!” ironizzò Io. “Hai ragione! In Africa è difficile ambientare…” “Però concedo che sia giusto domandarsi se è poi così importante collocare una storia d’amore in un luogo preciso, in un posto che debba essere necessariamente conosciuto e famoso. Non pensi che sia secondario se si parla di amore?”
“Dell’universale?” chiese Tu. “No ovviamente! Parlo di quello individuale. Dell’amore che uno sente per un altro e crede e si aspetta che l’altro senta per lui e per la mancanza del quale, quando quest’ultimo si accorge di non essere più amato, si deprime.” “È quasi chiaro quello che dici! Comunque: certo che è fondamentale il luogo, se si parla d’amore! Che domande fai? Specie oggi, in quest’epoca!” “Ammetterai però che molto dipende dall’essenza dei significati nascosti che ogni storia possiede. In ogni vicenda umana occorre scoprire e capire quel vero che c’è,” ribadì Io. “Ma questo inizialmente lo sa solo lo scrittore! Comunque sia, le storie finiscono sempre nel posto giusto.” “Ah si? Allora lo sai? Dimmelo!” “Sempre lì! …nell’animo del Lettore! …se chi le scrive…” (“…” “…”) Tu e Io frullavano in aria. Il Romanziere intanto continuava a cercare. Ora stava frugando dentro le tasche della giacca. “Cameriere mi porterebbe un caffè con panna?” “Subito signore.” “Mi scusi, posso avere anche una penna?” “Certamente!” (“…” “…”) Come? Uno scrittore che non ha la sua penna? pensò Tu. “Zitto! E ascolta.”
(“…” “…”)
VIII
Il Romanziere riprese a leggere sempre dalle ultime righe del paragrafo precedente… …La vista sui luoghi intorno catturava l’attenzione di chi si fermava ad osservare. I genitori le avevano comperato la casa al termine degli studi universitari. A Laura piaceva vivere in campagna e poi quella casa non era distante dalla fattoria di Martin. Si erano conosciuti all’università. “Mi chiamo Martin.” “Ciao! Io sono Laura. Studio Filosofia e tu?” “Ingegneria.” “Caspita! Scienza e Pensiero. Sarà difficile per noi due andare d’accordo.” “Già! Pare che sia così.” Quando gli raccontò che sarebbe venuta ad abitare li vicino finalmente Martin decise di dirle quello che lei aspettava di sentirsi dire da tempo. “Laura, ogni tanto i sogni si avverano! Ho sempre sperato che tu venissi qui con me. Speravo e restavo in silenzio ad aspettare.” Lei lo baciò, poi rispose:“A te sembrava di rimanere in silenzio ma io sentivo ogni tuo pensiero”. Vivevano nella casa.
A Laura piaceva scrivere. Non erano proprio poesie, diceva, ma frasi in qualche modo poetiche: “Come in qualche modo poetiche? Che significa?” le chiese Martin. “Così! Frasi in un certo modo capaci di dire qualcosa in più. Non in modo così potente come sanno fare i grandi poeti, ma comunque capaci di dire cose che coinvolgono, che emozionano. Poesia insomma!”precisò Laura. “Sì, capisco. Anche se non credo che esistano i Poeti con la maiuscola e quelli con la minuscola!” “Sai Martin, la Prosa e la Poesia hanno scritto molto pensiero e hanno aiutato molto. Molto pensiero ha contribuito a salvare l’uomo dalla totale miseria spirituale. Molti Poeti e Scrittori; chi più e chi meno certo. Ma c’è chi pensando e scrivendo ha saputo raggiungere profondità altissime.” “Come profondità altissime?” chiese lumi Martin. “Sì, intendo molto alte! Vuoi i nomi mio bell’ingegnere?” “No, no! Grazie. Non importa…” Non riposi mai nemmeno se se sei stanco senti la stanchezza solo se hai lavorato diviso calcolato ti addormenti accantonando ogni dubbio anche se il dubbio non ti lascia mai. “Questa l’ha scritta per te una poetessa con la minuscola. Ricordalo.”
Quando arriva la stagione calda le notti estive non regalano nulla dei loro incantesimi. Li mostrano, poi li portano via tutti. Il buio è un manto caldo. L’aria è mossa da un soffio tiepido che al vento ruba solo il nome. Si rimane come sospesi e abbracciati da qualcosa che è intorno. Lo sentiamo dentro e tuttavia non riusciamo a situarlo, non riusciamo a definire cosa o chi ci abbraccia; se la quiete intorno, se il cuore che batte come a chiamare, se il nostro pensiero o quello degli altri, di ogni altro. Cos’è? È un sentimento? Fra i tanti? Un’illusione? Sì. Un sentimento, un’illusione. Le illusioni che ti consentono il cammino. I cari inganni di cui non puoi fare a meno. In una calda sera di queste, Laura decise di dire così: “Martin io sento in questo momento, in questo attimo, un tempo che non è misura. Qualcosa di me e di te… come costante, eterno, tu non lo senti amore?” Lui rimase in silenzio. La teneva fra le braccia ma non parlava. Poi le rispose: “No! mi sfugge! Ti dirò: mi sento ben poco attratto da questo possibile eterno. A me non sembra essere l’interpretazione migliore. Scusami, ma non mi basta. Abitiamo la disposizione del mondo e viviamo in questo mondo. Siamo destinati a correre e a rincorrere le cose che ci servono e ci piacciono. L’eterno non ci avverte ne ci chiama e sentirlo è difficile. Che ne sappiamo in realtà di questo eterno? Che sapere è? A volte sospetto che il nemico del nostro desiderio di sapere sia il sapere stesso. Siamo mondani e dissonanti Laura, come gocce di amaro in un dolce. Non decidiamo mai spinti o animati da grandi riflessioni! Applichiamo alla nostra vita solo istruzioni d’uso”. Lei non si aspettava quella risposta di Martin. Si stupì, ma non lo contestò. Replicò brevemente: “Applichiamo solo istruzioni d’uso perché conosciamo poco noi stessi, tanto poco da averne paura e ci illudiamo di” “No! Non è cosi Laura!” la interruppe Martin. “È così Martin.” “No. È difficile chiamare illusione il mondo pensando che tutto sia solo apparenza, pensando che la verità non sia questo mondo qui!” Laura non avrebbe mai immaginato di suscitare in lui tutto quel risentimento. Replicò ancora: “Martin, se è amaro il sapore del mondo continuare a gustarlo così come stiamo facendo pensando che non c’è altra via non ci aiuterà. Il
movimento ci condurrà, ma non ci porterà da nessuna parte. Crediamo sia del tutto inutile trascendere la quotidianità, ma commettiamo un errore. Non discuto l’importanza del vivere quotidiano, ma fermarci un po’ a meditare, a pensare, consente una visione distaccata che aiuta. Come una pausa nel tormento. Non è la semplice ricerca di un sollievo. È un modo di stare, un modo di essere, osservando questo tutto, che davanti a noi si trasforma in chiari cicli. Possiamo chiudere gli occhi possiamo dire che la vita e il mondo sono solo belli e sempre pronti per essere consumati, ma sappiamo che non è così e se lo neghiamo, ci limitiamo! Negando ci si limita. È possibile salvarci dal naufragio? Possiamo negare che ci sia il rischio di naufragare, ma il pensiero sta al di là delle negazioni e la questione del senso e della sua comprensione anche se oggi è derisa resta fondamentale per l’uomo”. “Laura sono illusioni, illusioni!” disse Martin. “Sì anche illusioni! Non lo nego! Ma non possiamo limitarci e credere che il pensiero sia come un viandante stanco ritenuto inutile e incapace di proporre alcunché, ivo, mortificato, soffocato dai ritmi convulsi. Se il pensiero non suggerisce più e le parole non bastano più e non definiscono più nessuna armonia, lo ammetterai, dentro si muore.” “Resta solo il dolore dunque?” le chiese Martin. “Sì!” esclamò Laura. “Sì. Restano il dolore e la noia. Oggi accumuliamo solo questo. E insieme al dolore e alla noia esiste solo ciò che facciamo per allontanarli da noi e dimenticarne la presenza. L’aria in quel momento era mossa da un soffio tiepido che al vento aveva rubato solo il nome.
IX
Il Romanziere smise di leggere annotò alcune parole sul bordo del brogliaccio e con calma finì di bere un altro caffè che nel frattempo si era fatto portare. (“…” “…”) “Stanno dicendo la verità?” chiese Tu. “Chi?” “I protagonisti della storia!” “L’autore dice sempre la verità,” rispose Io. “Oh no! È impossibile dire sempre la verità!” contestò Tu. “Perché?” “Santo cielo, nessuno qui sulla Terra la dice!” “Sta scrivendo una storia! Dire la verità è lo scopo della storia. Scrivere non dicendo la verità non avrebbe alcun senso,” sentenziò definitivamente Io. “…Posso concederti questo, che si dice la verità solo quando si scrive una storia o una poesia!” “In realtà qui sulla Terra sono convinti di dire sempre la verità. Ne esistono sempre più versioni, si confrontano sempre più verità. Vedi? Anche nel racconto del nostro Romanziere! È questo il loro problema.” “E pensare che dire la verità è più semplice!” “È semplice per noi che veniamo dalle stelle!”
“Credimi, sarebbe più semplice anche per loro,” concluse Tu sospirando. (“…” “…”) Martin aveva ereditato la fattoria e l’aveva ristrutturata per accogliere turisti e visitatori occasionali. Di questo vivevano lui e Laura. Lavoravano alla fattoria e abitavano nella casa di Laura. Questo a loro bastava. Questo a lei bastava. Questo, fino ad oggi, a lui era bastato. Non riuscì a prendere sonno quella sera. Si domandava cosa spingesse Laura a ricercare ossessivamente un senso alla vita che non fosse viverla, semplicemente viverla. A che scopo continuare a cercare un’entità come l’essere, come l’eterno che nessuno ha mai potuto definire in modo compiuto o comunque utile per l’uomo? Che senso aveva domandarsi cos’è, dov’è l’essere eterno? Ascoltare ora un’interpretazione e subito dopo un’altra che rinnega quella prima? Serve questo per far sparire noia e dolore? La sera dopo Martin decise di parlare con Laura di un suo progetto: voleva andare a vivere e a lavorare in città e voleva che Laura lo seguisse. “Ho pensato che sarà facile per me trovare un lavoro, Kurt ha molte conoscenze posso fare diversi colloqui e trovare un lavoro in poco tempo.” Laura allora comprese un po’ di più. Comprese anche l’irritazione di Martin del giorno prima. “Ma perché? Stiamo bene qui! E…” “Laura, il poco che guadagno con la mia fattoria non ci può più bastare.” “Non è vero ci basta eccome, possiamo farcelo bastare!” “Ecco sì, farlo bastare, dici bene,” ironizzò Martin. “Finora ci è bastato e ci basterà,” replicò Laura.
“Ma insomma dì che non vuoi venire a vivere con me in città!” “Ma insomma dì che non vuoi più restare a vivere qui con me Martin!” Laura si mise a piangere, poi lo abbracciò senza dire più niente. Il Romanziere terminò di prendere appunti, chiuse il brogliaccio e si avviò verso l’uscita. “Buonanotte!” “Buonanotte signore,” rispose il cameriere. (“…” “…”) “Ti piace la storia?” domandò Io. “Domanda malposta”. “Ti fa pensare?” “Domanda capziosa.” “Ti emoziona?” “Non posso dirlo, è vietato!” “…Bene! Possiamo andarcene un po’ in giro, torneremo domani mattina. Si sta bene in questo caffè!” (“…” “…”) “Vuoi pensare qualcosa stasera?” Tu annuì… “Ti ascolto…” disse Io. “Ciò che mi raggiunge dall’esterno mi influenza e mi limita. Le sue caratteristiche oggettive mi costringono a scegliere. Capita quindi, ad esempio, che mi allontani dal fuoco quel tanto che basta per sentire solo il caldo buono. E,
pressappoco come fa il fuoco, mi influenza il sentire degli altri, il loro comportamento, le loro opinioni, gli sguardi persino. Sono, tutte queste, condizioni che determinano anche le mie scelte. Tuttavia se ci illumina un’autentica libertà di espressione, si riesce a tenere lontano molto di tutto ciò che limita. Nell’autentica libertà di espressione e di pensiero trovo la via giusta per allontanare ogni vincolo. Solo allora l’approssimarsi di qualcuno o qualcosa completa ma non determina una mia diversa espressione interiore che, così, nasce autenticamente mia. Espressione fra le altre e come quelle degli altri, ma sovrana e capace di suggerirmi un insegnamento che vale per me come per gli altri. Intendo dire che il male di vivere è indotto. Entra dall’esterno e, certo, io gli consento di entrare e gli consento soprattutto di influenzare, modificare, decidere per me questo mio sentire, il mio stato emotivo. Insomma, il mio essere. La verità esiste in me e in ognuno. Per affiorare libera deve solo essere libera.” (“…” “…”) “Buonanotte Tu.” “Buonanotte Io.” “Buonanotte Mondo.” “Tu?” “Sì? Dimmi.” “Riusciremo a fare quello che ci ha chiesto?” “Non so risponderti… mi dispiace… non lo so.” “Ho sentito dire che l’hanno vista di nuovo!” “Dove?” “Sui i Andini fra il Cile e l’Argentina.” “Ah…! Speriamo che sia vero!”
X
Al mattino Io e Tu arrivarono al caffè di buon’ora. Pioveva a dirotto, in un modo che l’acqua cadendo suonava così forte che a sentirla stupiva. (“…” “…”) “Accidenti che acquazzone!” “…Senti che confusione! Ma chi sono?” si incuriosì Io. “Un intero Gruppo! Uomini e donne di ogni età,” affermò Tu. “Siedono ai tavoli!” “Vedi? Non solo gli artisti si siedono ai tavoli.” “E chi ti dice che non siano artisti?” (“…” “…”) “Caffè per tutti grazie e latte a volontà!” ordinò il Gruppo. “Subito signori,” risposero prontamente due camerieri. Da lì a poco nel Gruppo iniziò la discussione. Era curioso sentire come si avano la parola senza interruzione alcuna. Parlavano uno dietro l’altro e sembrava che a parlare fosse uno solo come se il pensiero fosse unico. “Eccerto!” esclamò convinto uno del Gruppo. “Eccerto?” “Sì, eccerto! eccerto! E guai a te se critichi questo termine!”
“Per carità! Chiedevo solo perché non scrivete certo! anziché eccerto!” “Beh! Si capisce chiaramente che tu non usi lo strumento. Tu sei il famoso Scettico! Non è vero?” “Allora se vuoi stare in questo Gruppo impara! Si ciatta e si posta così!” “Eccerto! Suona meglio! Si scrive come sente l’orecchio!” “Si scrive dando calore!” “E sostituiamo le parole con dei simboli!” “Scriviamo più velocemente usando i simboli, i segni, come x, nn, ke, tt e i segni di interpunzione per imitare le faccine o usando il cuoricino o i pallini, eccetera eccetera eccetera…” “Ah!” esclamò quello che non usava lo strumento, cioè lo Scettico. “E quando facciamo i sornioni furbi postando una foto che ci ispira scriviamo hihihi…” “E quando vogliamo far ridere scriviamo una bella battuta tipo …sto bevendo mojito a iosa e conto le cannucceee…” “E la risposta del ciattatore sarà una risata auhauhauh… daiii voglio contare anch’io le cannucceee… dove seiii???” “E la risposta alla risposta sarà hihihi hahaha… quii… vieni ti aspettooo…” “E la risposta finale sarà ssseee non posso… sto lavorando accidenti, ma le ferie sono vicineee… e i miei caraibi mi stanno aspettando!!! ;-)))” “Capito? Compreso? L’uso che se ne può fare?” Lo Scettico ascoltava con attenzione ma dava proprio l’impressione di non capirci niente. Sembrava intuire, ma non capire. “E naturalmente puoi condividere! In tutta libertà!” “E in tutta libertà puoi far sapere se ti piace cliccando su mi piace!”
“E poi amico mio, ognuno di noi ha migliaia di amici che condividono e rispondono!” “Qui nel Gruppo ci sono persone che hanno anche tremila amici… e anche di più!” “A te dove ti troviamo?” domandò uno del Gruppo. “Al telefono,” rispose lo Scettico. “Sveglio il ragazzo eh?… sì vabbè, ma dove? In quale spazio sei? Dove sei? Come esisti?” Lo Scettico continuava a intuire che qualcosa era avvenuto sulla Terra e ora c’era qualcosa di nuovo nei loro pensieri e anche nei suoi, ma proprio non riusciva a capire di più. Un signore seduto poco distante intervenne. “Scusate, vi ascoltavo e vorrei dire una cosa…” “Prego, dica!” “Ma tutto questo non fa un po’ ridere? Non è un po’ misero?” Tutto il Gruppo appoggiò tazze e bicchieri sul tavolo e smise di bere. “Intellettuale! E anziano per giunta!” esclamò una voce dal Gruppo. “Ma la smetta con le sue complicazioni. Esca dal guscio e si aggiorni. Poi ne riparleremo,” replicò un’altra voce. “Vorrei ricordarvi che ci sono anche i problemi umani!” disse l’Intellettuale. “Problemi? Umani? E quali?” domandarono dal Gruppo. “Il problema della storia, dell’educazione, della libertà, del lavoro, della morale, dell’arte, della filosofia, della tecnica, della religione, della convivenza e altri problemi ancora…” “…Capiamo signor Intellettuale anziano,” disse il Gruppo dopo un attimo di
spaesamento, “ma sono problemi suoi dal momento che ha deciso di porseli! Noi ne facciamo volentieri a meno!” “Non sono solo problemi miei! Sono problemi di tutti!” replicò l’Intellettuale. “Intanto inizi lei a risolverli. Ha tutta la nostra ammirazione. Noi poi vedremo!” “E ora se non le dispiace vorremmo continuare a bere il nostro caffè in tranquillità!” disse una voce. “Abbiamo il suo permesso? O ce lo dobbiamo prendere da soli?” aggiunse minacciosa un’altra voce ancora. Finì lì. Tutti bevvero il loro caffè, alcuni il loro latte altri non bevvero nulla. Poco dopo uscirono e un cameriere rimise in ordine i tavoli e le sedie. A Tu e Io venne il fiatone per lo sforzo fatto nel seguire la disputa. Rimasero anche un po’ confusi perché quella discussione finì con un nulla di fatto come si dice qui sulla Terra. Io e Tu erano stati sballottati qua e là dal ritmo delle battute. Sentirono il bisogno di prendere un po’ d’aria. (“…” “…”) “Tu, usciamo. Vuoi?” “Sì, ha smesso di piovere. È uscito anche il sole. Usciamo anche noi.”
XI
“Sento di aver bisogno di pensare una cosa,” disse Tu. “Pensa! Pensa! Pensa!” gli rispose Io. “A Lei farà piacere quando le diremo dei nostri pensieri?” “Certamente!” esclamò Io. “Si aspetta grandi cose eh!” “Non si aspetta nulla. Li ama. Vorrebbe che fossero tutti felici.” “Sai che l’hanno vista ancora!” “Credono?” “Sì. Alcuni a Port Louis, in un’isola in mezzo all’oceano Indiano. Hanno visto che era trasparente e vellutata come quell’acqua. Dopo poche ore l’hanno vista anche a Bambari in Africa. Lì a molti è parso che si comportasse in modo strano. Hanno detto che stava sempre seduta per Terra e si ava continuamente fra le mani pugni di Terra.” “…Dunque pensavo che qui quando gli uomini camminano per strada e vedono questa moltitudine di persone che si muove insieme a loro si accorgono che se questa moltitudine non consuma qualcosa in un bar o non compera qualcosa in un negozio tutto si ferma! Proprio tutto. Anche gli aerei smettono di volare. Il meccanismo delle abitudini produttive s’inceppa.” “Mio caro Tu, lo sanno tutti. Questa è la verità!” (“…” “…”)
“Scusami, volevo dire la realtà. Questa è la realtà!” “Aiuta saperlo?” domandò Tu. “Beh, sì, direi di sì. Li aiuta a capire come funziona e soprattutto a non rallentare questa loro corsa. Come si dice qui sulla Terra: non possono smettere di consumare! Si convincono che non devono! Questo sistema è la loro cultura…” rispose Io. (“…” “…”) “…Cioè parte della loro cultura, ma è prevalente sai? Girano sulla giostra e non scendono, non possono e non vogliono!” “…Però poi da lì, quando vedono la Terra e i suoi tesori, ricordano di aver letto della sua solitudine, del suo isolamento e sentono di mancare alla Terra forse più di quanto lei manchi a loro. Allora la Terra li chiama e li fa piangere di nostalgia,” disse Tu evocando i ricordi. “Nostalgia?” “Sì! Credi che sia fuori moda?” “Beh, tutto oggi è fuori moda, sempre fuori moda. E neanche alla nostalgia si fanno sconti. Dici bene, ma sta certo che quella moltitudine risponderebbe: ‘Che possiamo fare? Dovremmo forse essere diseredati come molti, per amare e essere amati dalla Terra?’” “Allora meglio soffrire di nostalgia, eh?” “Lo vedi mio caro Tu, qui sulla Terra nei luoghi dove non c’è giostra che gira mediamente si muore prima dei quarant’anni.” “Allora sia peggio per loro vero? Un dramma per chi non ha la giostra!” “Ripeto: direbbero che non possono fare di più per aiutare chi ha meno.” “A no? Se il dramma è visibile perché non rimediano? L’Eguaglianza?”
“Sarebbe svantaggioso per loro. Direbbero: la Libertà?” “L’appetito universale eh? Ma ci sono grandi zone su questa Terra che chiedono aiuto. La Solidarietà?” “È un velo che non si fa squarciare. Una volta sulla Terra ò un uomo buono, un grande illuso. Illuse molti, ma non riuscì a fare di più. Non possono farci niente!” aggiunse Io. “Non vogliono fare niente!” replicò Tu. “Non ne viene nulla a loro. A loro non conviene convenire. E anche chi se ne avvede non può fare niente. Soldi soldi… ci vogliono tanti soldi non sogni! E i soldi non li hanno, non gli bastano, non ne hanno mai a sufficienza.” Dopo aver pensato tutto questo in termini normalmente comprensibili sulla Terra, Tu e Io smisero di camminare fra la gente, si nascosero dietro un albero e dissero: “Ma, allora… come potremo fare qualcosa? …qualunque cosa sarà inutile!” “Lo sai vero? Finirà! Un giorno qui sulla Terra tutto questo finirà.” “E in quel momento sarà possibile fare qualcosa? “Questo può saperlo solo Lei.” Discutevano di questo mentre eggiavano. Discutevano di cose che l’uomo non vuole sentirsi dire. Di cose a cui l’uomo si rifiuta di pensare, che considera ridicole e crede ridicolo chi le pensa. Cose che l’uomo non condivide nemmeno con se stesso. A un tratto Io fu richiamato nel suo attimo da una presenza: (“…” “…”) “Sento che è qui vicino.” “Cosa? Chi?” domandò Tu. “Il Romanziere. Tu lo vedi?”
“No non lo vedo, ma hai ragione è qui vicino.” “Eccolo la!” “Dove?” “Là, lungo il fiume, sta eggiando sul lungofiume, sta pensando. Sogna.” Il Romanziere annotò alcuni frasi, poi continuò a pensare ai suoi sogni e a cantare la sua opera. Si mise a sedere vicino al bordo del fiume come aveva fatto molte altre volte. Prese dalla borsa il brogliaccio e continuò a leggere dalle ultime righe… Tu e Io, nel frattempo, tornarono a sedersi nel caffè. (“…” “…”) “Guarda! Il Gruppo e l’Intellettuale sono di nuovo qui e stanno di nuovo discutendo.” “Ascoltali tu, poi mi racconti. Io leggo insieme al Romanziere,” disse Io. “Va bene. Facciamo così.” (“…” “…”)
XII
…Continuò a leggere dalle ultime righe. …Lo abbracciò senza dire più niente. Laura scrisse la poesia e lasciò il foglio sul suo tavolo perché Martin lo vedesse prima di partire. Tutto di me in un attimo la tua assenza decide tutto anche della mia presenza perché in quell’attimo ti porti via tutto di me. Martin salì mentre il treno era già in movimento… …rilesse la poesia ancora una volta poi si addormentò con il foglio fra le dita lì sul treno che lo stava portando in città. Kurt lo invitò a are a casa sua quei pochi giorni di permanenza in città e lui accettò volentieri. In quei giorni partecipò a diversi colloqui di lavoro. Non fu difficile per Martin trovare l’offerta di lavoro giusta. Accettò un incarico di ingegnere progettista in un’azienda che costruiva macchine per l’agricoltura. Un lavoro per lui ideale. Fortuna migliore…? “Bene! A stasera ho pensato io,” disse Kurt, “prima che tu riparta per andare a dire a Laura della novità del tuo lavoro bisogna far festa. Ho prenotato in un
posticino niente male. Ottimo cibo e buon vino invecchiato.” Martin aveva conosciuto Kurt a una festa di universitari prossimi alla laurea. In quella occasione gli aveva presentato anche Laura. Kurt era stato diverse volte da Laura e Martin alla fattoria ando in loro compagnia ore piacevoli. Li conosceva bene e sapeva che insieme erano felici. Era morbido e profumato quel vino… Poi la domanda arrivò puntuale. “E Laura?…raccontami un po’ di lei.” “Sta bene! Sì! …sì, sta bene,” disse Martin. Ma all’amico comune era difficile nascondere la verità. Continuò: “Solo l’ho lasciata un po’… in uno stato un po’… confusionale”. “Confusionale?” si stupì Kurt. “Sì! Mi ha fatto un sacco di discorsi sul senso ultimo delle cose… sull’essere… che ho capito a malapena anzi che non ho proprio capito! Ho come la sensazione che non le interessi poi molto che io capisca.” “…Continua!” lo sollecitò Kurt. “Non so cosa chiede esattamente e soprattutto non capisco se lo chiede a me o a se stessa… è una situazione imbarazzante. A volte non ho parole per risponderle.” “Immagino!” “Forse, semplicemente, non mi ama più!” disse Martin. Lo sguardo di Kurt ogni tanto si perdeva nel vuoto e sembrava che cercasse qualcosa. “Io credo che le necessità razionali guidino in modo logico i comportamenti!” affermò Martin deciso. “Bravo!” esclamò Kurt. “Dunque se mi chiedi di spiegarti perché lei mi dice queste cose devo
risponderti… che non lo so! Non-lo-so!” scandì Martin. Kurt annuì. “Quindi suggeriscimi tu qualcosa! La conosci! Hai studiato con lei le stesse cose!” “Sì. Capisco. Comprendo. Però certo non può essere diventata pazza all’improvviso! Questo lo ammetterai.” Martin faceva cenno di sì con la testa. “L’accusi di non essere razionale. Tu lo sei? Noi lo siamo?” “Sant’iddio ora ti ci metti anche tu?” imprecò Martin tirando fuori un foglio dalla tasca interna della giacca. “Ecco qua! Leggi! Questa l’ha scritta tre giorni fa.” L’Essere è il silenzio quando parla è lo scopo non raggiungibile è ciò che disvelando dona senso alla nostra armonia instabile è la necessaria felicità è la nostra malinconia è ciò che essendo presente manca che chiama inascoltato che ascolta interpretato l’Essere lo vedono gli occhi che non guardano è il luogo che accoglie tutto ciò che lo riempie è il pensiero e il suo attimo come in un gioco l’Essere è
è anche illusione anche attesa di ciò che verrà donando senso l’Essere non è in queste mie parole ma in tutte le parole L’Essere è. “È una bella poesia! A me piace e a te?” disse Kurt “Ma lascia stare la poesia!” “Lascio stare’?” “Sì lascia stare!” “No. No. Un momento…” disse Kurt aggiustandosi sulla sedia. “Tu sai che cosa è la Poesia? Che significa? Perché si scrivono le poesie? Te l’ha mai spiegato Laura?” “No, non lo so.” “Che la Poesia è come la Musica lo sai?” “Come la Musica come?” domandò Martin “Cioè l’uomo non può giudicarla! Lo sai?” “No, non lo so.” “Che solo evoca e non pretende di insegnare niente lo sai?” “No, sono ingegnere!” “Che l’unico scopo della Poesia è provare a dire la verità attraverso le emozioni lo sai?” “No.” “Deriva dal greco e dal latino. Significa creare, costruire qualcosa intorno a
qualcosa componendo con le parole. Laura lo sa fare bene!” “Ripeto, lascia stare.” “Ripeto, non si può lasciar stare!” terminò Kurt. Martin era confuso. Kurt lo lasciò pensare. Rimasero in silenzio. Poi Martin disse una cosa che sapeva non sarebbe piaciuta a Kurt, ma la disse ugualmente: “…Dimmi Kurt: si può vivere di ontologia? Di metafisica?” “Ora esageri! E sei banale!” “No che non esagero! Ultimamente Laura parla solo di queste cose!” Kurt alzò la voce: “Ti parla di queste cose perché ne ha bisogno! Con chi ne deve parlare se non con te! Avrebbe potuto parlarne con i suoi studenti se avesse accettato quella cattedra, ricordi? Ma decise di stare con te! È ciò che sente e che conosce per sensibilità e per cultura e lo vuole condividere con te! È una colpa così grave? Cos’è? Non produce ricchezza materiale? Non produce soldi? Ti chiede qualcosa in cambio Laura? È una visione del mondo a cui non intende rinunciare ed è bellissimo che possa essere così. Tutto qui!” “Tutto qui!?” “Può non piacerti ma è così. Si chiama trascendenza!” “Ma che c’è da trascendere?” chiese con sgomento Martin. “Le ho detto che saremmo venuti ad abitare in città, mica che l’avrei lasciata sola, che avrei trovato un lavoro e avremmo continuato la nostra vita sereni e felici come sempre e anzi in città ci saremmo potuti divertire anche di più!” “Ecco! A mio avviso è proprio questo il punto.” “Che punto?” “Il Punto! La questione!” “…Senti Kurt, amico mio, non so più che pensare ne cosa dire. Troppo complicato.”
Kurt sentiva tenerezza per quel suo amico, capiva la difficoltà della condizione anche se una volta di più si mostrava che la difficoltà di una condizione spesso la determiniamo noi stessi. Sentì di doverlo pregare: “Martin ti prego, non smettere di essere comprensivo e non commettere l’errore di essere troppo esigente, neanche con te stesso. Cerca le parole giuste, trovale signor ingegnere e Laura verrà con te, ti seguirà. Tu lavorerai qui in città e lei verrà a vivere qui con te. E noi tre insieme ogni tanto torneremo alla fattoria a sarcela un po’. Beninteso in compagnia dell’essere e sempre se vorrà seguirci! “ “Sì. Lo spero Kurt, lo spero,” concluse tristemente Martin.
XIII
Martin sperava davvero che si avverasse la previsione di Kurt, ma il dubbio proprio non lo lasciava. Continuava a ripetersi che l’unico senso che la vita portava con sé era viverla la vita. E per viverla serviva un lavoro retribuito e che per trovare un lavoro che fe al caso suo occorreva andare a vivere in città. Questo poi aveva anche i suoi lati positivi, anzi molti lati positivi. “È vero che in città non si vedono le stelle ma ci si può svagare e divertire molto. Lì, ci si diverte sempre…”. E se lei non lo avesse seguito? Avrebbero potuto vivere distanti? Vedersi solo nei fine settimana? Sempre meno? Lui in città e lei giù alla fattoria? Lei lo avrebbe accettato? Era vero. Lavorare e vivere in città non era la loro idea iniziale non era il loro progetto iniziale. Era vero. Avevano ideato e deciso insieme di vivere dedicandosi al lavoro in fattoria. Bene! E allora? Non è possibile cambiare i progetti? Specie se le esigenze lo impongono? Conosceva le sue obiezioni. Avrebbe detto: “Martin, quali esigenze te lo impongono?” E non sarebbe servito a nulla risponderle che lo imponevano le esigenze degli eventi, delle cose, del mondo, la necessità insomma e il suo destino. Per Laura il mondo, la necessità e il destino erano un’altra cosa. Io e Tu erano molto impegnati ad ascoltare i pensieri di tutti. (“…” “…”)
“Gran pienone oggi eh? Che fa il Romanziere?” chiese Tu. “Continua a scrivere, ancora seduto là vicino al fiume. “Ha deciso il posto dove ambientare la storia?” “No! Ma credo di aver capito perché non lo fa,” precisò Io. “Perché dunque?” “Perché è una storia lunga che dura da sempre e non c’è bisogno di ambientarla in un luogo preciso, vanno tutti bene i posti sulla Terra per parlare di quelle cose e va bene ogni tempo.” “Ah! Beh! Capisco!” “Sì è così! Raccontami del Gruppo e dell’Intellettuale. Che combinano?” “È una vicenda, ora ti racconto. Quando l’intellettuale…” (“…” “…”) Mentre Tu parlava, Io si mise di nuovo ad ascoltare il Romanziere che nel frattempo aveva ripreso a leggere ripetendo le ultime righe del paragrafo precedente. …Ma per Laura il mondo, la necessità e il destino erano un’altra cosa. Martin ritornò a sera tardi. Laura era ancora sveglia. Lo stava aspettando. Sperava quanto lui, ma l’esatto contrario. Sperava che non avesse trovato occasioni di lavoro che non partisse per la città che non le chiedesse di partire con lui, sperava un ripensamento. “Laura tu farnetichi! Sono arrivato poco fa, appena sceso dal treno mi sono precipitato da te per dirti che ho travato lavoro, che possiamo andare a vivere insieme in città e tu l’unica cosa che mi sai dire è che hai bisogno di me e non della città!! Ma che significa? Perché mi rispondi cosi?” “È semplice: voglio stare qui con te.” “Mi pare di averti spiegato bene perché dobbiamo andare. Io ti devo
comprendere, ma tu comprendi me?” “Non dobbiamo andare. Tu, ritieni che bisogna andare! Tu, vuoi andare! Non ci obbliga nessun vero bisogno.” “Già! Dimenticavo! Tu non hai bisogni Laura! Tu vuoi stare qui per inseguire non so che!” Lei non rispose. Pensò che in quel caso Martin non meritasse nessuna risposta. La faceva soffrire quel suo amore. Perché se due persone si amano devono soffrire? Non sembra impossibile che avvenga? Come se qualcuno a un certo punto si intromettesse fra i due. Qualcuno. Non si sa chi, ma certamente molto vicino a loro. Lo guardò a lungo. Avrebbe voluto parlargli, tentare ancora di convincerlo. Avrebbe voluto dirgli di più, dirgli di più… “Perché mi guardi cosi? Laura perché mi guardi così?” chiese Martin. Avrebbe voluto parlargli, lo amava e avrebbe voluto parlare con lui… e invece rispose con un’espressione dura: “Martin tu hai paura! Hai paura del vuoto dell’esistenza e della noia! Tu scappi da te stesso! In questo sei mediocre!” Martin rimase muto. Quando le parole restano dentro fanno male almeno quanto quelle violenti che vengono dette. Quando le parole non vengono pronunciate e restano dentro bruciano fino a quando non si spengono e insieme a loro bruciano anche i sogni che le parole non dette si portano dietro. “Io vado via Laura.” “Io resto qui.” Rimasero seduti. Uno di fronte all’altra. In silenzio. Per diverso tempo, mentre tutti quegli attimi sconcertati e tristi giravano loro intorno. Martin aveva comperato un biglietto del treno anche per lei ma partì da solo dopo tre giorni. Avrebbe iniziato a lavorare in città la settimana successiva. Laura non lo salutò. Rimase in camera tutto il giorno quando Martin partì.
Lo pregò di non dormire nella casa la notte prima della partenza, lo pregò di lasciarle il suo anello e lo pregò un’ultima volta di non dimenticarla.
XIV
(“…” “…”) “Scusami, mi sono distratto continuavo ad ascoltare il Romanziere. Si sono lasciati… “Chi si è lasciato?” chiese Tu che non aveva capito. “Nel racconto, nel romanzo… Si sono lasciati…” “Ah! Qui sulla Terra capita spesso.” “Infatti, …è triste però! È triste,” disse Io. “Dai, tirati su,” lo consolò Tu. “Ora che fa il Romanziere? “Ora ha smesso di leggere e annotare e sta venendo qui al caffè. Cosa mi dicevi dell’Intellettuale?” “Ti stavo dicendo che quando l’Intellettuale ha interrotto il Gruppo affermando che erano ridicoli, tutti quanti sono usciti e sembrava che la cosa fosse finita lì. Ricorderai peraltro!” “Sì, certo.” “E invece appena usciti in strada è successa una cosa, anzi due, a cui non potrai credere.” “Avanti!” “Alcuni nel Gruppo si sono messi a discute fra loro. C’era chi dava ragione all’Intellettuale e chi naturalmente gli dava torto. Alcuni dicevano agli altri che avevano fatto molto male ad offendere l’Intellettuale in quel modo, che non meritava un trattamento simile e che in fondo aveva detto delle cose giuste. La discussione è andata via via animandosi tanto che una parte del Gruppo ha
cominciato a urlare verso l’altra e viceversa e a voce così alta che ormai la zuffa sembrava inevitabile. “Ma è incredibile!” “Già! Te l’ho detto! Poi aspetta, senti questa: qualcuno ha riportato la calma nel Gruppo.” “Chi?” “Indovina.” “Non saprei!” “Lui! Il nemico del Gruppo! L’intellettuale!” “Senti senti,” si stupì Io. “Aveva notato tutta quella animazione e si era deciso a seguire il Gruppo a distanza. Quando si è accorto che la situazione…la situazione…come si dice qui sulla Terra…?” “…Si dice stava precipitando.” “Ecco! La situazione stava precipitando, l’Intellettuale è intervenuto, ha calmato gli animi e ha invitato tutto il Gruppo a rientrare nel caffè. Lì hanno ripreso a parlare dal punto lasciato in sospeso quando erano usciti.” “E come è continuata la discussione?” chiese Io. “Intanto devo dirti che non c’è stata più discussione. Non c’era più nulla da scuotere. Quindi, invece di discutere, hanno cominciato a dialogare perciò si capivano meglio. Ha iniziato a parlare l’Intellettuale dicendo…” E Tu raccontò l’accaduto. “Signori miei, quando vi ho chiesto di poter intervenire non crederete che il mio intento fosse quello di farvi azzuffare?” “No, non lo crediamo infatti,” rispose una voce del Gruppo. “Dunque, ripeto, ma tutto questo non fa un po’ ridere? E
non credete che sia misero?” “No, riteniamo che non ci sia nulla di comico in quello che facciamo e se fe comunque anche un po’ ridere dica cosa c’è di male nel ridere.” “Nulla di male in effetti, anzi!” “Bene! Dunque lei sottintendeva altro.” “Lei voleva dirci che siamo insensibili ai problemi del mondo perché tutto il nostro mondo è circoscritto a quella tastiera, intendendo con questo accusarci anche di miseria spirituale.” “Esattamente! Questo ho pensato e ho inteso dire!” “Deve ricredersi!” affermò il Gruppo. “Provate a convincermi del contrario!” disse l’Intellettuale. “Beh, intanto se il mondo gira così, su anonime tastiere come pensano in molti, forse è colpa più sua, signor Intellettuale, che nostra.” “Sarebbe a dire?” “Data la sua età!” “Cosa centra la mia età?” “Lei c’era al momento delle decisioni! E prima di lei c’erano i suoi padri a decidere! E prima ancora hanno deciso i padri dei padri! Gira così perché hanno voluto, avete voluto, abbiamo voluto far-girare-tutto-cosi! E a tutti, fuori dal loro mondo, dei problemi del mondo è sempre importato poco!” L’Intellettuale rimase interdetto. C’era del vero in quelle parole. Poi disse: “Gli uomini come me hanno sempre denunciato i rischi a cui ci esponeva la tecnica e tutto il suo processo”. “Rischi? Noi non vediamo rischi!” disse il Gruppo. “Vedete che anche voi non vedete? Sapete leggere il ato, come facciamo tutti, ma non leggete niente del futuro.”
Il Gruppo rimase interdetto. C’era del vero in quelle parole. “Si rischi!” continuò l’Intellettuale. “Quello dell’assuefazione e della povertà emotiva per primi! Di questo intendevo accusarvi quando vi ho elencato i problemi del mondo.” “Lei ha detto di aver denunciato questi rischi. In che modo lo ha fatto?” “L’ho scritto! Lo abbiamo scritto in tanti! Naturalmente siamo rimasti inascoltati. Voci!” “Lei ritiene di aver fatto la sua parte eh! Si sente la coscienza a posto!” “Questo non è vero! L’impotenza mi ha mortificato e continua a farlo. Vorrei non sapere. A volte vorrei non esserci più e anche non esserci mai stato!” “Lei ritiene che noi siamo capaci solo di postare e di chattare dunque?” “No, non lo credo, anche se ciò che ritengo io, devo dire, ha poco valore. Io temo però che voi facciate are il tempo preoccupandovi più delle vostre condivisioni virtuali che dei problemi del mondo.” “Lei si rende conto signor Intellettuale che dire problemi del mondo significa dire molto e niente nello stesso tempo?” “No! Non voglio rendermene conto!” Il Gruppo tacque per alcuni minuti guardando fisso negli occhi l’Intellettuale, poi continuò: “Ognuno di noi è impegnato nel proprio lavoro o nello studio. Avremo pure il diritto di decidere come comunicare fra noi e come are il tempo libero”. “Non lo discuto! Ma c’è bisogno di voi! C’è del vero in quello che dite. Gli errori sono stati compiuti quando ne voi ne io eravamo ancora nati ma questo non ci solleva dalle nostre responsabilità. Qualcosa va pensato! Qualcosa va tentato! Occorre che lo facciate voi. Noi non lo abbiamo saputo fare evidentemente. E ora siamo vecchi e non abbiamo più tempo.” “Non ci sono scelte definitive in questo mondo qui e non c’è una soluzione certa. Lo sa lei quanto lo sappiamo noi.”
“Sì lo so e questa è una tristezza. Non ci saranno scelte definitive, ma ci saranno pure scelte migliori da fare!” disse l’Intellettuale. “Non lo sappiamo,” replicò il Gruppo. “A meno che lei non voglia svelarci una soluzione finale! Una Liberazione! La Liberazione!” Nel caffè era calato un silenzio assoluto. Ascoltavano anche quelli che stavano bevendo il caffè in piedi. Tenevano il pugno appoggiato al banco, gustavano il sapore del caffè, il suo buonissimo retrogusto e intanto ascoltavano. Tutti avevano ascoltato. “No. Non ho soluzioni che non siano idee da mettere insieme alle idee degli altri. Tanto meno ho da suggerire processi di liberazione. Tuttavia occorre consapevolezza. La consapevolezza. Almeno questa,” concluse l’Intellettuale. Nessuno aggiunse altro, bevvero solo acqua, poi uscirono. Tutti. Non fu necessario rimettere a posto le sedie e i tavoli. Tutto fu lasciato in perfetto ordine.
XV
(“…” “…”) “Gliel’ha cantate eh!” disse Tu. “Chi? Il Gruppo all’Intellettuale o l’Intellettuale al Gruppo?” “L’intellettuale al Gruppo perdiana!” “Mah, non saprei! Qui sulla Terra, per quanto mi par di capire, nessuno ha il diritto di puntare il dito accusando altri! La disputa sarebbe lunga, senza fine. E c’è del vero in ogni versione.” Io fu preso dall’insistente curiosità di sentire come la pensava il Romanziere. “Tu, senti un po’, avvicinati al tavolo dove è seduto il Romanziere e vedi di suggerire una sua riflessione. Mi piacerebbe sapere cosa pensa in proposito.” “Ma non sappiamo se ha ascoltato!” “Tutti hanno ascoltato! Come… come si dice qui sulla Terra…?” “…Si dice è informato.” “Ecco, è informato! Dunque sta tranquillo, vai.” Tu andò dal Romanziere e insieme a Io si misero ad ascoltare quello che pensava. E il Romanziere pensava così: Quando osserviamo le persone mentre discutono e gesticolano non ci danno mai l’impressione di avere cose importanti di cui parlare, specie quando sono sedute in comodi locali. Non ti pare?…
“Ma si rivolge a se stesso come se fossero in due! È matto?” “È savio! È savio!” “Dici?” “Taci!” E continuarono ad ascoltare i pensieri del Romanziere. …Allora credi che le persone, noi tutti, si viva solo un superficiale e perenne stato estetico? Che ci caratterizzi solo la chiacchiera priva di impegno? … Credo che ci convinca l’idea di poterla fare sempre franca a dispetto degli altri che non riteniamo meritevoli di niente. Il nostro egoismo vince sempre. Sì, il puro estetismo, la cura dell’immagine, è la condizione che definisce meglio il vuoto in cui siamo immersi! Comprendi? Penso che sia come un’autolimitazione. Sì! Autolimitazione emotiva. Questo rinchiudersi nel particolare non prezioso, nullo, nella limitata cornice della nostra visione. In questo c’è come il timore che aprendo un po’ di più al senso si possa rimanere fregati. Si possano aprire baratri di solitudine e isolamento. Non ci smuovono risonanze interiori, non riusciamo a tirar su niente, le nostre immagini, i nostri sentimenti, i desideri, le nostre speranze, niente! I nostri occhi non riescono a far vedere niente! Non riusciamo a parlarne. Non abbiamo risposte per i mali del mondo. Allora stiamo nei nostri confini e li salvaguardiamo. Se necessario diventiamo bugiardi, mediocri, ipocriti e amici degli ipocriti. In questo senso possiamo dirlo: siamo tutti amici. Amicizia? La chiamerei piuttosto convenienza di atteggiamenti pratici, convenienza amicale la chiamerei. Ipocrisia e menzogna irritano ma ormai sono assunte a virtù e l’uomo che mente è quello che più merita. È il più premiato. “Possiamo aiutarli?” Il Romanziere interrogava l’altro se stesso cercando una soluzione. “Non interessa e non siamo richiesti!” “Proviamoci! Un’idea?” “Ma te l’ho detto! Gli uomini sono scettici, timorosi. Hanno paura dei sogni. Temono il futuro. Temono di soffrire di più. Hanno tutti molta paura. Hanno
paura ad amare. Ecco, potremmo chiedere all’uomo: perché non amate? Perché non cercate l’autentica dimensione del sentimento? Là, oltre il desiderio! Ma questi non sono i loro impegni, non hanno da pensare a cose del genere, non vogliono! Vogliono altro, vogliono solo fare e avere. È lecito e lo vogliono!” “Senti: allora una risposta, più o meno consolatoria non importa quanto, ce l’hai?” “E come può esserci una risposta! Significherebbe che esiste una soluzione! E non c’è. E voglio precisare che non è una soluzione né mi consola accusare gli altri. Quando accuso gli altri di estetismo anch’io divento un esteta. Quando accuso anch’io mi autolimito non riuscendo ad andare oltre l’accusa. Nessuno oltre noi. Nessun salto nel vento. Non c’è la soluzione. Lo ha detto anche il Gruppo, lo hai sentito anche tu.” “Allora restano solo le parole! Ma rischi di non fartene nulla delle parole!” “Appunto questo ha detto l’Intellettuale e hai sentito anche lui. Hai sentito due verità. Puoi scegliere di camminare in una delle due sponde del fiume. L’altra ti mancherà sempre.” “Nulla dunque? Il nulla?” “Forse una via… un comprendere… una comprensione intorno a qualcosa… Seduti. Sulle sponde del fiume.” (“…” “…”) “Tu… “Dimmi! “Mi piace quel Romanziere!” “Lo sai che rischi! Le emozioni sono impegnative! E poi, proprio tu! Non dovresti esprimere! È vietato! E poi lo hai sentito il Romanziere: è meglio autolimitarsi.” “Sì lo so, ma…”
“Fai attenzione!” “…Ha creato immagini che ho compreso. Appunto come dice lui: compreso.” “…Belle le immagini, eh Tu? In realtà tutto quello che facciamo e siamo possiamo descriverlo efficacemente solo con le immagini. Sono contento che piacciano anche a te. (“…” “…”)
XVI
Il Romanziere lasciò quei pensieri appesi in aria insieme agli altri e aprì il suo brogliaccio: …dunque sono arrivato al punto in cui Martin e Laura si lasciano e lui va a vivere e a lavorare da solo in città… …E lo pregò un’ultima volta di non dimenticarla. Arrivò in città. Alcuni giorni dopo si presentò in azienda e iniziò a lavorare. Lavorò, adempiendo e facendo. Realizzò progetti ed eseguì compiti. Lavorò. Un anno e mezzo dopo fu chiamato nel suo ufficio dall’amministratore. “Buongiorno Dottor Mc Kinsley” “Prego si accomodi.” “Grazie.” “Mio caro Martin vorrei venire subito al punto, ho stima di lei e intendo evitare preamboli.” “Mi fa piacere sentirglielo dire Dottor Mc Kinsley.” “Martin, lei lavora in questa azienda ormai da più di un anno. Ha iniziato benissimo, si è integrato benissimo e ha lavorato con un entusiasmo invidiabile. Le sue capacità sono state riconosciute da tutti qui. Tuttavia ultimamente alcuni indici che riguardano la sua attività sono risultati negativi. Io per primo non riesco a spiegarmi la ragione. Se ci sono motivi di insoddisfazione nel lavoro che le impediscono di raggiungere adeguati livelli di produttività la prego di parlarmene e io vedrò cosa posso fare. Il consiglio di amministrazione mi chiede di intervenire in tutti questi casi e per quanto riguarda lei lo faccio volentieri perché sono convinto che lo merita e che potrà facilmente rimediare e tornare a
eccellenti livelli di produttività. Poi direi che lei caro Martin… L’amministratore continuò a parlare. Ciò che diceva, le parole che usava, le sue espressioni contenevano qualcosa di meccanico, sembrava che funzionassero come spinte da un ingranaggio. Martin smise di ascoltare e si mise a pensare a un sogno che ultimamente faceva spesso… Da qualche mese faccio sempre un sogno. Sempre quello. Sogno di camminare attraverso un paese. Le case del paese sono tutte in legno. Continuano diritte una accanto all’altra e la strada è un selciato di terra che le divide in due ali. Ogni casa ha un colore diverso e sono belle anche per questa varietà di colori. Il paese sembra sempre in festa. C’è sempre il sole, il vento fresco spazza l’aria e la rende pulita. Cammino e sento una musica che mi piace, mi piace molto. Le porte e le finestre delle case sono chiuse. Soltanto una finestra si apre al mio aggio e in una luce due occhi scuri, neri, belli, mi sorridono. Intuisco la presenza di un volto ma del volto vedo solo quegli occhi che mi sorridono. Poi la finestra si chiude e quando si chiude riesco a fare solo qualche altro o poi sento che anche il mio respiro si ferma e dal mio petto compresso come in una morsa sale uno spasmo. Sale, sale fino alla gola e mi fa piangere, esce il mio pianto e non smette più. Non smetto più di piangere. Seduto sulla poltrona mentre pensava al sogno lo visse interamente. Si accorse di essersi assentato con la mente dall’ufficio e in quel momento capì anche di non sentire più nessun interesse per il suo lavoro. Attese che l’amministratore concludesse il suo discorso e poi annuì fingendo di essere interessato alla proposta che gli veniva offerta. In realtà si stava congedando. “Grazie di tutto. A presto dottor Mc Kinsley.” “A presto mio caro Martin. La chiamerò presto.” Ora sonoestraneo a ogni cosa. Dedico poca attenzione a me stesso. Mangio e dormo poco, il tanto che basta per le forze. La forza la cerco anche in mezzo alla gente dove eggio spesso, nel frastuono della città dove mi accompagno come in un ballo durante il quale per il troppo danzare la testa comincia a girare e il pensiero insieme alla musica diventa malinconico e mi porta lungo le vie dove i muri sono umidi e pieni di muschio. Sento di somigliare a un continuo rinvio. Alla vita come continuo e inevitabile rinvio. Prese dalla tasca un foglio e lesse di nuovo.
Anche sotto un sole che ti scalda girovaghi sperduto e straniero lì la libertà sembra essere solo una parvenza ti accompagna solo un sentimento di estraneità di incompiuta appartenenza. Chi è che parla?, si chiedeva Martin, chi ci parla? A Laura sarebbe piaciuta questa poesia. Mi avrebbe sorriso e le avrei riempito il cuore di gioia e la bocca di baci e la sua gioia avrebbe aumentato la mia. In un crescendo. Comprendi Martin? In un crescendo! Perché comprendere significa amare! Capisci?
XVII
Kurt e Martin andavano spesso a cena insieme. Martin gli era molto grato. “Non ringraziarmi, non lo faccio solo per te, lo faccio anche per Laura. Penso spesso a voi due sai? A voi due insieme. E spero di rivedervi insieme!” Era sincero Kurt sentiva affetto per Laura e per Martin. E sperava. Una sera uscirono. Aveva appena smesso di piovere, l’aria era fresca e sapeva del sapore della pioggia. “Questa riserva avrà il prezzo che si merita. Profumo intenso, un vino morbido, asciutto con un sapore speziato che sa di frutti iti.” “Sei bravo Kurt! Descrivi le qualità di un vino come stessi parlando di un’opera d’arte.” Kurt si rivolse al sommelier: “Eh, eh… non ci faccia caso, il mio amico è già ubriaco!” Poi messi i gomiti sul tavolo chinò la testa verso Martin dicendogli a voce bassa: “…Non ti far sentire asino! Vuoi farti buttare fuori dal locale?” E continuò con tono normale: “Il vino è… arte!” Sempre in vino mai invano, dicono i si. Al terzo piatto: “No grazie basta, basta ti prego”. “Mangi pochino Martin.” “È tutto molto buono! Ma mi sazio presto.”
“Immagino…” disse Kurt bevendo un sorso, poi aggiunse: “Sai nulla di Laura?” “No, nulla. Nessuna notizia. Non ci siamo più sentiti né cercati.” “Non la ami più?” “La verità Kurt?” “Hai bevuto! Dovresti dirla!” “Non ho mai smesso di amarla…” “Allora tu sei pazzo!” “Forse lo sono stato…” “Ora che te ne fai dei rimpianti Martin?” “Ora è necessaria questa tua crudeltà Kurt?” “Scusami, scusami. È colpa del vino.” Ma Kurt diceva la verità. E Martin lo sapeva. Rimpianti. Le esperienze fanno crescere molto. I cambiamenti ti modificano dentro. Ma le emozioni che hai provato se sono autentiche non puoi negarle e non puoi rifiutarle. Ti domandi se non ti saresti comportato ora in modo diverso, Ma aiuta ora questo domandare? Si dice che vivere la vita senza tradire se stessi è fondamentale. Chi non lo fa sbaglia. Non si può vivere la vita che altri si aspettano da te. Se la vivi così, muori. Ma un punto in cui incontrare chi ami, uno spazio comune deve esserci, altrimenti ci si perde e si vive il freddo dell’abbandono. Se guardi indietro vedi tutti i sogni che non sei riuscito a realizzare. È triste accorgersi che molti sogni non sono stati realizzati per scelta o per mancanza di scelte, per paura, per pigrizia, per ignoranza. Lavorare duramente è quello che si crede essere fondamentale e risolutivo e c’è del vero in questo e lo crediamo fermamente. Poi però inevitabilmente cresce il rimpianto per aver pagato un prezzo troppo alto.
Sentiamo di aver perduto, perduto altro. Ci sembra di poter rinunciare ai sentimenti poi languiamo al ricordo di ciò che non abbiamo più. Si illanguidisce per quello che abbiamo perso. Martin rifletteva su tutto questo. E Kurt aveva ragione: “Ora che te ne fai dei rimpianti Martin?” Era semplice vivere con Laura, era felice con lei. Aveva il suo ascolto. È possibile sbagliare? Volle rispondersi di sì. E ora aveva bisogno di chiedere: Posso tornare? Si può ritornare? Il Romanziere riordinò i fogli del suo brogliaccio, si alzò e usci dal caffè dimenticando la penna sul tavolo.
XVIII
“Non c’è granché di cui parlare, occorre solo accettare, essere uniti perché in questo momento ci conviene. Poi quando i giochi saranno fatti e avremo ottenuto quel che vogliamo, chi vorrà potrà prendere una posizione più netta se ne sarà capace.” “Prego signori, desiderate?” “Vogliamo tutti il caffè?” I colleghi annuirono. “Cameriere ci porti sei caffè e sei whiskey.” “Subito signori.” (“…” “…”) “Li vedi? Li senti?” domandò Tu, “Li vedo e li sento!” gli rispose Io. “Le vedi le divise?” “Le vedo… cosa!?” “Le divise di… come si dice qui sulla Terra? Le divise di…” “Ah, vuoi dire gli abiti gessati?” “Ecco, i gessati! Le divise di ordinanza appunto. Le vedi?” “Ti ho detto di sì!”
“Tutti in fila, tutti uguali. Non solo sembrano di plastica, sanno di plastica! Hanno ragione qui sulla Terra a dire così,” rifletteva Tu gironzolando. (“…” “…”) Gli uomini di plastica continuarono l’analisi. “I superiori dei nostri superiori gradiranno certamente questa nostra devozione!” “Se noi lecchiamo i piedi ai nostri superiori, i nostri superiori leccheranno i piedi ai loro superiori! Quindi gradiranno tutti!” “Ma non credi che…” disse uno dei cinque che ascoltava quello che pareva il loro capo. “Ma no! Un po’ di pelo sullo stomaco e tutto a!” lo interruppe bruscamente il capo. “Io, comunque, vorrei provare a eccepire.” “Tu con le tue eccezioni prima o poi ti ritroverai fuori da questa Organizzazione.” “Tuttavia vorrei provare, almeno provare.” “Come vuoi. Eccepisci!” “A me le piramidi non piacciono. Dubito anche di quelle egiziane. Mi è chiaro che il vertice è sostenuto dalla base. So che funziona così. Ma il vertice qui ormai non si fa più scrupoli. Non usa più mezze misure, la base sta reggendo tutto il peso e non ce la farà. Converrete!” “No, su questo non conveniamo! La differenza fra noi e te è che noi lecchiamo i piedi di chi ha il potere, ci piace e ci conviene mentre tu non hai ancora deciso se farlo e se ti conviene non farlo, mentre impietosito guardi la base! Vai avanti! Che altro vuoi aggiungere?” “Non c’entra niente la pietà. Qui si tratta di un decadimento della qualità che di fatto impoverisce tutti, anche umanamente…”
“…umanamente?!” “Sì…, umanamente, umanamente! Si può fare molto in quella direzione! Qualche investimento in più! Gli alti margini di guadagno lo consentono! Il vertice non può drenare sempre tutto e pensare solo a sé!” “Mah! Senti, a noi non ci impoverisce! Sto ancora pensando all’ultimo compenso che ho ricevuto. Un po’ di pelo sullo stomaco e tutto a! Riguardo al resto i nostri progetti hanno bisogno di essere finanziati e i soldi arrivano dal lavoro della base…” Quello che sembrava il loro capo smise un attimo di parlare, poi aggrottando le sopracciglia aggiunse: “Soldi! Non Poesia! Funziona così dovunque ragazzo mio, ingenuo mio, balordo mio. Dai! Un po’ di pelo sullo stomaco e tutto a!” “Contribuiremo a distruggere tutto,” lamentò l’ingenuo. “Ma dico!” si spazientì il capo. “Non temi di are da predicatore? Non temi di sentirti dire che filosofeggi?” “Io temo tutto ma non ho paura di niente.” “Irrecuperabile!” sbottò il capo. “Non sarà distrutto nulla! Prima che accada interverremo! Taglieremo! Diversificheremo! Fonderemo! Venderemo! Smembreremo! Ottimizzeremo! E noi…” “Appunto.” “Noi avremo sempre da guadagnare da tutto questo!” “Io non firmo!” affermò l’ingenuo. “Bene firmeremo in cinque e denunceremo la tua opposizione… blasfema! … ottimo questo whiskey, non trovate colleghi?” “Sì ottimo.” “Sì ottimo.” “Sì ottimo.”
“Sì ottimo.” “Ingenuo? Avevi già preparato la valigia questa mattina, non è vero?” Gli uomini di plastica in divisa di ordinanza gessata, si alzarono e si avviarono verso l’uscita. “Cameriere? Noi usciamo! Il conto lo paga il collega rimasto seduto al tavolo!” “Va bene signore.” “Arrivederci cameriere!” “Arrivederci cameriere!” “Arrivederci cameriere!” “Arrivederci cameriere!” “Arrivederci cameriere!” (“…” “…”) “Commenti?” chiese Io. “Soldi, non Poesia!” fu il commento di Tu. “Deve essere molto triste per molti, qui sulla Terra, ammettere che è così…” L’Ingenuo rimase seduto a bere il suo whiskey a piccoli sorsi. Io e Tu lo osservavano mentre lo sentivano pensare a qualcosa che somigliava a un sogno: …Naturalmente non ho detto nulla di male! …di male no! Ma avrai detto qualcosa di sbagliato? …mah! Non saprei. Certo tutto è opinabile, quindi anche quello che penso io, altrimenti sarei come loro. Murati nella loro opinione. Mineralizzati nella loro opinione. Sì, capisco il meccanismo! Da una parte i costi, dall’altra i ricavi. Ma perché la differenza non può risultare mai uguale a zero? Si chiama pareggio! Quando conviene, se conviene, la differenza la facciamo diventare persino negativa. Si chiama perdita! Serve la perdita sai? Serve a tante cose e serve per preparare i piani triennali di recupero. E quei piani prevedono sempre un processo che chiamiamo di distruzione creativa. Si
distrugge per creare! Ci vuole un disordine per avere un ordine! È bello creare facendo disordine! Perché non riesco a capirlo? Che ingenuo! Dicevo, il pareggio. Non serve a nulla. È noioso persino il termine. Bene! Ma dico: immaginiamo che ogni tanto, diciamo ogni due anni, il risultato positivo, che si chiama utile, venga azzerato fino al pareggio perché viene inserita fra i costi una voce che si chiama Felicità. …Felicità? Sì! Costo di Produzione per il Recupero della Felicità RF. Dio che bellezza sarebbe! Pensa: tutte le ultime Ruote del carro, tutte quelle Ruote che sopportano il peso del carro, tutte quelle Ruote trattate solo come mezzo, tutte le ultime Ruote del carro diventerebbero Felici. Sì, signori. Grazie al RF, sarebbero Felici! …E Felici perché? Di che? …Perché si produrrebbe una loro reazione emotiva. …Reazione emotiva?, sì! E questa attraverso le emozioni creerebbe cultura emotiva. Scomparirebbe la discrepanza fra la loro fantasia incupita e bloccata e le loro tante capacità. E genererebbero Felicità! Avverrebbe!!! Una nuova energia! Questa sì, capace di creare nuova ricchezza. La Felicità, la Felicità! Ci vuole il RF! Ci vuole il Costo di Produzione per il Recupero della Felicità! Viva il RF! Smise di sognare mentre continuava a bere e gli sembrò di sentire una voce che da lontano diceva: “Bevi il tuo whiskey Ingenuo! E meno male! Meno male! Sia benedetto! Meno male che gente come te non è a capo di nulla qui sulla Terra”. (“…” “…”) “Commenti caro Io?” “Sì, uno.” “Prego!” “So che una volta qualcuno, un uomo importante ammise la possibilità di misurare il benessere degli uomini con un sistema basato non sulla creazione di prodotti ma sul grado di felicità raggiunto dagli uomini. Mi pare di ricordare che il sistema proposto avrebbe dovuto chiamarsi FIL.” “Ah sì? E chi te lo ha detto?” “Me lo ha detto lei un po’ di tempo fa, prima della nostra partenza. Mi disse
anche che avrebbe funzionato e che gli uomini lo sapevano che avrebbe funzionato e avrebbe funzionato soprattutto per quelli che non avevano la giostra.” “Ah! E ora dov’è quell’uomo importante?” “Lo hanno ucciso. Gli hanno sparato.”
XIX
“Usciamo Io? Ho voglia di eggiare.” Uscirono dal caffè. Nella tormenta più nera, quella del cuore. (“…” “…”) “L’ultima volta dicono di averla vista a Katmandu,” disse Tu con nostalgia. “Dov’è?” “È in Nepal. Un posto qui sulla Terra.” “Allora deve essere un bel posto!” “Sai? Ieri, quando eravamo sulla metro, ascoltando la conversazione di tre uomini ho sentito uno dire agli altri due: ‘Scusate ma il vostro problema è questo, voi aprite e affrontate contemporaneamente otto argomenti, otto problemi e non riuscite a chiuderne uno!’” “Ah! Non me lo hai detto.” “Non credevo fosse importante.” “Come no! Qui sulla Terra la chiamano contraddizione. Pensa che ci fu anche chi ne stabilì il principio. È stato un uomo importante che pensava molto.” “Hanno sparato anche a lui?” “No, a questo no… La contraddizione la chiamano anche spirito di contraddizione ma dire spirito è sbagliato, è un modo di dire dunque è un errore. La contraddizione non è spirito è qualcosa di molto concreto che produce effetti reali e spesso fa soffrire. Significa molto concretamente non poter andare
d’accordo con se stessi, significa pensare giusta una cosa e fare il contrario. Fa soffrire, sé e gli altri.” “Crederanno all’unità originaria della coscienza?” chiese improvvisamente Tu. “Sapranno cos’è l’unità originaria della coscienza?” ribatté subito Io. “Perché non si informano? Dovrebbero leggere!” “Pensano che sia poco utile, che sia una fede.” “Ma tutto è fede! Anche quando dicono che la vita va vissuta fino in fondo, che bisogna lottare e vincere, anche questa è una fede.” “Ma in questo caso si agisce e l’uomo vuole agire. Se si ferma e, desiderando conoscere si ferma solo a pensare, teme di diventare pazzo. E qui sulla Terra pare che sia anche capitato di impazzire a qualcuno per il troppo pensare.” “Chi pensa non diventa pazzo, viene considerato pazzo! Di dissonanza e conflitto, di questo vive l’uomo.” “Già. È stato detto da molti, hanno scritto tutto e lo hanno scritto in tutte le lingue esistenti e in ogni cultura qui sulla Terra.” “Ma non hanno ancora detto la cosa più importante,” disse solennemente Tu. “E quale sarebbe?” “Non hanno detto niente di noi, non hanno pensato a noi, non se ne sono occupati, non ci hanno mai elevato a identità vera, questo non hanno mai detto e fatto!” “Sbagli? Su noi hanno scritto con fiumi di inchiostro, hanno detto tutto quello che c’era da dire su di noi!” “Ma no! Lo avranno scritto in dieci e lo avranno letto in venti! E qui sulla Terra ci sono sette miliardi di uomini.” “Ma tu credi veramente che gli attimi di un uomo possano essere considerati cosi importanti? Che possano dargli quello che cerca? Tu credi veramente che l’uomo
riesca a comprendere e possa veramente sentire in sé che nell’attimo c’è tutto?” “Sì, lo credo! I momenti, gli attimi di vita possono essere fondamentali per l’uomo, possono decidere della sua felicità o della sua infelicità. Occorre volere! Sentire in modo autentico il desiderio di conoscere, l’essenza del conoscere. Nell’attimo si nasconde l’epoca.” (“…” “…”) “…Dove l’hanno vista l’ultima volta?” “A Katmandu, in Nepal. L’hanno vista in molti.” “Era lei? “A loro è sembrata lei. Sembrava proprio lei.” “Ci riuscirà?” (“…” “…”) Io e Tu parlavano mentre eggiavano lungo il fiume. Due uomini di fronte a loro camminavano agitando le braccia. Uno conduceva un cane al guinzaglio. Capitò che il cane avvicinandosi a una signora per annusarla suscitò nell’animo di lei l’incontenibile desiderio di accarezzarlo e non appena la signora allungò la mano per fare il prezioso gesto il cane tirò un urlo baio così deciso e forte che la povera signora per lo spavento incespicò su se stessa e si ritrovò con le gambe per aria e tutto il tailleur sporco di fango. Mentre il padrone del cane tirava a sé l’animale, che nel frattempo continuava a ringhiare, l’altro aiutò la signora a rialzarsi e si preoccupò di ripulire, per quanto riusciva, lei e il suo tailleur. Poi, a incidente chiuso e dopo le opportune scuse, il cane smise di abbaiare e i due ripresero a camminare parlottando e dicendo così: “A te piacciono gli animali?” chiese il padrone del cane. “Certo, sì che mi piacciono.”
“Allora ti posso far avere un cucciolo di cane!” “No, grazie. Non lo voglio.” “Perché?” “Beh, lo vedi? Penso che diano noia.” “Ah! Sei per la vivisezione!” “No! Non sono per la vivisezione, io non voglio vivisezionare nessuno.” “Ma se dici che gli animali ti danno noia!” “Che c’entra! Intendo dire che dovrebbero essere tenuti al loro posto.” “Lo sai che gli animali capiscono più degli uomini?” “No, non credo che capiscano più di noi.” “Ah no? Quando parli a un animale ti capisce al volo, capisce i tuoi sentimenti e sembra che ti risponda!” disse l’animalista. “Ti sembra così perché quando parli agli animali loro non replicano alle tue affermazioni e, se non hanno fame, ti danno sempre ragione. A te sembra di parlare con uno che ti capisce solo perché non ti pesta sui piedi e perché non ti accorgi che stai parlando con te stesso e in quel momento gli vuoi bene più che a te stesso perché stai capendo e amando solo te stesso,” rispose l’altro signore. “E anche se fosse così? Cosa c’è di male ad amare se stessi amando gli animali? Eh, sapientone?” “Ottimo! Ottimo! Niente di male in effetti. Purché non si attribuiscano agli animali virtù che non hanno.” “Ah, la pensi così? Ora ti faccio vedere io! Dammi il tuo indirizzo che ti spedisco un cucciolo di cane,” disse deciso l’Animalista. “Ti avviso che lo respingo al mittente!” “Dammi il tuo indirizzo ti dico!”
“Abito in via del Regno dei Gatti, al numero 47.” “…Doooveee?!” esclamò incredulo l’Animalista, “…in via del Regno di chi?” “Si chiama così, non posso farci nulla. Ma non ci sono gatti, ti assicuro, non ci sono.” Io e Tu non riuscirono a farsi un’idea precisa in merito a quello che avevano ascoltato. Provarono anche a sentire il pensiero del cane ma il suo pensiero non rispondeva. Il pensiero del cane sembrava anzi totalmente assente nonostante scodinzolasse la coda e guardasse attentamente il suo padrone parlare. Improvvisamente Tu, stupefatto, richiamò l’attenzione di Io. “Guarda, sono loro! Sono loro!” “Dove?” “Laggiù!” “Già… sì… sono loro… proprio loro.” “Che sorpresa? Lo avresti mai detto? O pensato?” “No. La Poetessa non è mai venuta al caffè con lui.” “Eh…! Ecco il motivo!” “E tu immaginavi l’Insegnante di letteratura.” “Già, già, già, eh sì!” “Saranno felici? Almeno loro?” “Come facciamo a saperlo! Qui sulla Terra non sembra possibile saperlo con certezza.” “Ora lo sembrano!” “Come vorrei che lo fossero. Come vorrei che fossero sempre felici. Che tutti qui sulla Terra fossero sempre felici,” disse Tu.
Continuarono a eggiare fra la gente. Ogni tanto Tu si voltava indietro ancora stupito per quell’incontro inaspettato e rivelatore. Pensò com’era vero che dietro le decisioni, le scelte, i comportamenti, i litigi e gli scontri dell’uomo con se stesso e con gli altri ci fosse così tanto della loro quotidianità , ci fossero i tanti pensieri padroni più che servi dell’uomo che lo riempivano di desideri per soddisfare i quali l’uomo mente continuamente anche a se stesso, anche se non crede di farlo anche se cercherà sempre una giustificazione. “Ho deciso! Farò un bel viaggio con te, senza meta! In ogni istante del viaggio sarai sempre tu la meta così potrò evitare di fermarmi…” disse così il ragazzo che camminava davanti a Io e Tu tenendo stretta a sé la sua ragazza. “…Vedremo luoghi, persone, culture. Sarà meraviglioso farlo con te.” “Oh amore… sarà meraviglioso comunque stare con te!” rispose la sua ragazza facendo cadere la testa e il suo profumo sulla spalla del ragazzo. “E il mondo lo terremo fuori!” “Il mondo starà fuori amore, lo terremo fuori!” Poi il sole andò giù. Andò via dalle piazze, dalle vie, dalla città e andò giù. (“…” “…”) “Vuoi dire tu qualcosa questa notte?” “Sì.” “L’idea è quella della contrapposizione. Delle contrapposizioni. Sono sempre ragioni. Per esempio quando si parla della verità. Basta cominciare a parlarne e c’è subito bisogno di distinguere. Ce ne sono due e solo stabilire di quale parliamo è complicato. Una non si fa mai vedere. Ci si chiede: cos’è?, chi è? Ha una capacità demoniaca. Non si è mai fatta vedere e riesce comunque a far parlare di sé. Molti dicono che l’hanno vista, che la possiedono, che sanno dove si trova. Moltissimi dicono che non l’hanno mai vista, che non sanno dove si trova e che tanto meno la possiedono. Ma in tutti lascia comunque un vuoto incolmabile. La sua è una assenza sempre presente che rinnova una continua nostalgia e che rende tristi. Per colpa sua o forse per merito suo, spesso la voglia di fare e di avere diventa una voglia di stare e di essere. L’altra è, come si dice
qui sulla Terra, relativa. Ah, bene! Su questa si potrà quindi convenire perché se è relativa sarà relativa a qualcosa dunque sarà semplice stabilire cos’è! No! Affatto! Per nulla semplice! Qui si vuole stabilire non tanto cos’è ma chi ce l’ha. E ci poniamo altre domande: di chi è? Chi la dice? Quale versione la possiede? E anche: chi si interessa a lei? Chi si disinteressa? Chi la usa? Ragioni e contrapposizioni. Quest’ultima verità chiama l’altra, la evoca, ma l’altra non risponde. Non so se si può dire su questa Terra, ma quest’uomo qui non ha voce, nessuno ormai chiama più da questa Terra. L’uomo è afono, apre la bocca ma non parla, non dice e non fa cose che la possano interessare. L’uomo non riesce a dire e a fare niente che possa interessare la verità. Lui fa i fatti suoi. L’uomo si aderge e poi si adagia sull’unica sua giustificazione: non posso che agire così! L’uomo si contrappone a tutto e dice: ho ragione io! Non avverrà mai l’incontro. Su questa Terra, quest’uomo, non la potrà mai incontrare. La realtà andrà sempre per la sua strada invitando con se l’uomo al quale non rimarrà che percorrerla fino in fondo.” “Buonanotte Io.” “Buonanotte Tu.” “Buonanotte Mondo.”
XX
Il Romanziere cenò da solo quella sera e subito dopo aver mangiato prese il manoscritto, si stese sul letto e continuò a scrivere e a rileggere partendo dalle ultime righe del capitolo precedente. …Era semplice vivere con Laura, era felice con lei. Aveva il suo ascolto. È possibile sbagliare? Volle rispondersi di sì. E ora aveva bisogno di chiedere: Posso tornare? Si può ritornare? Martin, si recò un’ultima volta in azienda, entrò nell’ufficio dell’amministratore che lo attendeva con una nuova proposta formativa, come si doveva dire. “…Ecco tutto. Non può che essere soddisfatto Martin!” “Signor Mc Kinsley io non ho parole per ringraziarla ma sono venuto per dirle che mi dimetto. Torno a casa. A casa.” Tornò prendendo quello stesso treno. Ritornò in quell’aria. Ritornò in mezzo ai quei profumi, in quel vento. Ritornò da lei. Ritornare. Ti vibra lo stomaco e senti un fremito, sempre più intenso. In quegli attimi l’unica cosa che puoi fare è stringerti fra le braccia per fermare tutto. Lascerò are alcuni giorni. Lascerò che si dica in giro che sono tornato. Lei avrà modo di sapere, si aspetterà che io vada a trovarla… Sì, lascerò are alcuni giorni. Non la vedo da quasi due anni, ora lascerò are alcuni giorni. E si stringeva fra le braccia per fermare tutto. In assenza di Martin la gestione della fattoria era stata condotta da alcuni amici. Sarebbe tornato al suo lavoro, nella sua fattoria. Con lei. Ogni tanto Kurt gli telefonava: “Ingegnere che fa?
“L’affittacamere.” “Interessante! Una libera per me?” “Per lei una camera libera ci sarà sempre signor Kurt.” “Fra qualche mese. Aspettami!” “Ti aspetto Kurt!” Il telefono rimase muto per un po’, a Martin sembrò che asse molto tempo ma erano attimi, pochi attimi, avevano però una consistenza che li faceva scorrere più lentamente. E infatti dopo quell’attesa Kurt disse: “Dimmi di Laura”. “Non l’ho ancora vista.” “Va da lei Martin, va da lei!” “È ato tanto tempo Kurt. Aspetto ancora un po’ prima di…” “Va da lei.” “Pensavo di aspettare un po’ intanto che si dica che sono tornato poi…” “Martin, va da lei!” Non vorrà vedermi, non le interesserà più… pensava Martin. “Ti prego Martin, va da lei,” disse Kurt. “Sì… sì…” “Va da lei,” ripeté l’amico. “Sì…” Tutto ritorna. Anche questo si impara, che tutto ritorna, difficile ottenere senza dare. Nel gesto si nasconde molto e nello sguardo ancora di più. Anche la felicità può essere nascosta lì se il gesto e lo sguardo non sono finzioni interessate ad altro.
Queste cose le aveva sentite da Laura. Ora Martin mentre la pensava rivedeva i suoi gesti, il suo sguardo attento, che lo interrogava. A volte la sentiva parlare. Gli mancava molto. Tornò su quella strada sterrata. Si fermò lontano per non essere visto. La casa e il giardino erano sempre ben curati. Martin tornò più volte senza riuscire a vedere Laura. Poi un pomeriggio la vide nel cortile con il cappello di paglia in testa che le copriva il viso. La vide così come l’aveva sempre pensata e immaginata per tutto quel tempo lontano da lei. Rimaneva lì, a guardarla. Da lontano non riusciva a distinguerla bene, ma non aveva importanza, gli bastava sapere che era lì. Martin sentiva di non aver mai desiderato altro. Ora, quegli attimi, glielo dissero. Restò seduto per Terra. Si nascondeva. Aveva paura. Sapeva che Laura non gli apparteneva più, mentre sperava il contrario. Quando Laura rientrava in casa lui se ne andava, tornava alla fattoria in compagnia di una tristezza profonda. Martin tornò più volte. Si fermava li nello stesso posto dove continuava a rimanere nascosto alla vista di lei. Un giorno comparve un uomo vicino a Laura. Martin vide un abbraccio. Comprese. La giustificò. E pensò anche che poteva smettere di rimanere nascosto. Sentì il bisogno d parlarle. Parlarle almeno. Doveva parlarle! Cominciò a percorrere la strada che lo avvicinava alla casa. Tremava. Arrivato al cancello di entrata la chiamò balbettando il suo nome: “Laura…” Lei si voltò di scatto quasi impaurita: “Buongiorno signore…” A Martin prese a girare la testa e disse senza respirare: “…Oh, scusi signora, io… io l’ho scambiata per un’altra persona, .una mia amica che abita qui…” “Ci abito io qui signore! Lei chi è?” A Martin sembrava di vivere in un brutto sogno. Disse con sgomento: “.Mi chiamo Martin abito nella fattoria all’entrata del paese, ero venuto appunto per salutare Laura, la mia
amica. Lei sa dove posso trovarla?” “Come ha detto che si chiama lei?” ripeté la signora alzando la voce. “Mi chiamo Martin, abito nella fattoria all’entrata del paese.” La signora esclamò qualcosa che Martin non comprese però vide chiaramente che si agitava mentre togliendosi il cappello si avvicinava a lui a grandi i. “Ah! Finalmente signor Martin sono veramente lieta di conoscerla. L’aspettavo, l’aspettavamo da tempo,” disse porgendogli la mano in segno di benvenuto. “Io sono Sofia, vivo qui con Ruben, mio marito. La prego si accomodi in casa dobbiamo parlare con lei.” A Martin la testa girava sempre più forte. Non riusciva a capire niente, era confuso. Tutti quegli attimi ridevano e si prendevano gioco di lui. Al Romanziere si chio gli occhi. Fece appena in tempo ad appoggiare il manoscritto ai piedi del letto.
XXI
Io e Tu di buonora erano già lì davanti al caffè con il sole che si era appena levato e con la voglia di sedersi fra quei tavoli di legno. Ma c’era deserto intorno e la porta di entrata del caffè era ancora chiusa. (“…” “…”) “Che strano! È chiuso!” disse Io. “Non c’è niente di strano!” gli rispose Tu. “Ah no?” “È scritto lì! È chiuso per turno di riposo: Il Caffè riaprirà nel pomeriggio alle ore 16.00” “Ma allora si riposano qui sulla Terra!” affermò Io. “Sì ma poco. Molto poco. Temono il riposo. Lo temono molto.” “E adesso che facciamo?” “eggiamo?” “eggiamo.” (“…” “…”) E via così. Di concerto. Il pensiero-che-pensa, le intuizioni, le riflessioni e gli attimi. Gli uni intorno agli altri in un continuo interminabile giro. Come in un vortice di polvere. Come in una nobile danza.
Dopo avere incrociato molte strade e sempre tante persone che non stavano pensando, Tu fra sé pensò: Nella città si vive un’altra realtà. Ci si sfiora, ma di fretta. Per fortuna hanno sempre qualcun’altro cui affidare i propri sentimenti. Solo così superano l’indifferenza della città. La città corre dietro a un’altra gioia. (“…” “…”) “Fermiamoci un po’ qui,” propose Io. “Ma questo non è un caffè!” “Lo vedo! Ma mi piacciono questi quadri sono proprio belli.” “È una… una… come si chiama qui sulla Terra un posto cosi?” “Si chiama Galleria d’Arte!” “Ecco! Fermiamoci in questa Galleria d’Arte.” Nella Galleria la luce era tenue. Piccoli fari illuminavano ogni singolo quadro mettendone in risalto i colori, i cromatismi e le tecniche di composizione usate dagli artisti. Il Gallerista si avvicinò a un cliente. “Posso essere di aiuto?” “Sì!” esclamò risoluto il cliente. “Saprebbe elencarmi sinteticamente i vari periodi in cui è stata classificata l’arte pittorica e dirmi come sono stati chiamati?” Benché la domanda del cliente fosse alquanto inusuale, giungesse inaspettata e somigliasse più a un interrogatorio che a una domanda, il Gallerista desideroso di rendersi utile e di accontentare il cliente li elencò sinteticamente. “Tralasciando l’Antichità direi: Barocco 1600, Neoclassicismo 1750 1815 circa, Romanticismo 1830 1850, Realismo 1850, Impressionismo 1860 1880 circa, Post Impressionismo 1880 1900. Poi abbiamo avuto il periodo denominato Fine Ottocento, L’Espressionismo e tutti i suoi indirizzi nel 1900, fino al Post Moderno dei giorni nostri.” Il cliente insistette: “Bene, e potrebbe indicarmi fra i quadri esposti qui uno del
periodo diciamo… Neoclassico e un altro del periodo Impressionista?” “Signore… non crederà di trovare in questa Galleria un quadro dipinto da un Impressionista o un quadro risalente al periodo Neoclassico?” domandò cauto il Gallerista. “Ah no? Perché no? Non si vendono quadri qui? Quello lì tutto rosso per esempio a che periodo risale? Chi l’ha dipinto? Che significato ha? A me per esempio non piace! È chiaro che il pittore non essendo capace di ritrarre oggetti o figure ha riempito la tela di rosso e nulla più, pensando a chissà che!” Il Gallerista in un primo momento rimase immobile e smise anche di respirare. Poi cominciò ad allontanarsi dal cliente molto lentamente. Si mise a camminare lungo la Galleria tenendo le mani unite dietro la schiena. Divenne triste. Non riusciva più a ricordare chi mai aveva detto che il colore era un mezzo per influenzare l’anima. Lo prese un languore cosmico pensando a quell’Artista divino che si era così tanto immedesimato nei colori che volle uccidersi per diventare lui stesso un colore. E pensò… La pittura è silenzio. Occorre una particolare delicatezza di animo per riuscire a interpretare una creazione artistica. Il suo titolo non spiega mai l’opera anzi a volte l’opera sembra finita ma non lo è. In ogni opera c’è sempre un altrove che ti ispira. La vera ione per l’interpretazione può anche condurre all’inverosimile ma quando ci si avvicina a un quadro se a guidarti è quella sensibilità, quel luogo altro, allora mentre la osservi l’opera s’illumina per te. In quel modo possono aprirsi voci intime che ti fanno sentire tutte le emozioni riprodotte nell’opera. Le nostre sensibilità estetiche, le nostre esperienze estetiche, quel sentire, non possono, non devono essere ostaggio delle opinioni. Il cliente nel frattempo era uscito. Tu e Io lo sentirono pensare che il Gallerista era stato molto maleducato a piantarlo lì, da solo, in mezzo alla sala. Durante gli attimi di quel pensiero il Gallerista raccontò a se stesso anche l’incomunicabilità, quello che spesso succede quando le parole sono deboli e non riescono a dire nulla. Pensò di nuovo a quel divino e a un quadro che dipinse raffigurando un caffè di notte dove le ioni umane affiorano alla vista. L’Artista stesso disse di aver voluto esprimere con quei colori tutte le ioni che dentro un caffè, la notte, possono anche far diventare pazzi. Il Gallerista chiuse la porta della Galleria d’Arte e appese il cartello Torno
subito. Gli era venuta voglia di prendere un caffè. “Andiamo via Tu. Quest’uomo ha bisogno di rimanere un po’ solo.” “Di lei dicono nulla?” “Dicono di averla vista a Parigi e contemporaneamente a Berlino.” “Beh… potrebbe essere!” “A Parigi hanno detto di averla trovata dentro un museo, a Berlino era in una piazza. L’hanno vista che ballava.” “Sicuri?” “Sì, loro credono di sì, dicono di sì.” (“…” “…”)
XXII
“Ore 16.00, sono puntualissimi!” Il caffè aprì in perfetto orario per la gioia di Tu e Io che entrarono di filato. Il sole era sparito dietro le nuvole e aveva cominciato a piovere. “…Come si sta comodi!” “Guarda Tu, la nuova coppia!” “La Poetessa è sorridente.” “Ne ha motivo!” “Perché lui no?” “Ma certo che sì! Ne ha moltissimi anche lui a quanto pare…” La sua giacca era bagnata. Se la tolse e con le mani spazzò via l’acqua. Si misero a sedere a un tavolo d’angolo. Il cameriere si avvicinò: “Signori?” “Un caffè in tazza grande e anche un po’ di acqua bollente per favore,” ordinò la Poetessa. “Certamente signora!” “Due, ne porti due, grazie.” “Sì signore. Signore?” “Sì?”
“Ieri uscendo ha dimenticato la sua penna sul tavolo. Eccola, l’ho conservata.” “Oh… grazie, grazie mille.” “…Aveva perso di nuovo la penna? Eh… beati Romanzieri!” sospirò Tu. (“…” “…”) “Mi aspetto che lei adesso gli reciti una poesia,” disse Io. “È possibile, anzi probabile.” “Chissà! Forse quelle che ha inserito nella storia le ha scritte lei,” ipotizzò Io. “Se non le ha scritte lei di suo pugno certamente sono anche sue.” Lui cominciò a cercare qualcosa. La Poetessa ridendo prese una penna dalla sua borsa e gliela porse insieme ad alcuni fogli, così ora il Romanziere aveva due penne e altra carta su cui scrivere. Poi si alzò, indossò il cappotto, baciò due volte il Romanziere e uscì. “No. Niente poesia caro Tu.” La Poetessa uscendo ò vicino a loro. Sulla sua camicia, ricamate a mano, Io e Tu lessero due iniziali: L.D. (“…” “…”) “L.D.?” “Le abbiamo già lette! Dove le abbiamo…” “…Ah! L’Insegnante di letteratura!” esclamò Tu. “Sì sì sì… l’insegnante L.D., certo…” “Vedi, vedi, vedi le congetture! Se fosse, se non fosse e poi scoprire che lei stessa è l’Insegnante e scoprire che il suo amore è il Romanziere… eh… quanti rigiri!” “Tu, questo è quello che qui sulla Terra chiamano amore? Come da noi?”
“Sì è quello. Ma ho l’impressione che anche in questo caso qui facciano una gran confusione.” “Perché dici questo? Come è possibile fare confusione?” “Non so! Dovrebbe essere semplice in effetti. Se è amore è amore, se c’è si sente, quando c’è si sente. Più ne dai più ne ricevi. Spesso però questo amore è vittima della finzione. Tutto quello che li fa stare bene, anche se solo apparentemente e anche se solo per un’ora, ecco tutto ciò lo chiamano amore. E questo per loro è un altro problema!” Intanto il Romanziere si era messo a leggere e aveva iniziato a prendere appunti. Lo scrittore un giorno si accorse che alcune scene del romanzo che stava scrivendo erano cambiate. In quelle scene erano state modificate molte parole e gli eventi descritti avevano assunto un andamento e una finalità completamente diverse. Ricordava di aver scritto precisamente cosi: Il signor Lacomb tornava a casa sempre a notte inoltrata. La moglie gli lasciava le luci dell’ingresso accese e lui sistematicamente dimenticava di spegnerle costringendo la moglie ad alzarsi in piena notte per riparare alle sue dimenticanze. Una notte di queste la signora Lacomb si alzò come sempre per spegnere le luci dell’ingresso e ne vide una, tenue, giungere anche dal salotto. La signora si avvicinò alla porta della sala e quando l’aprì… Lo scrittore ricordava poi di aver chiuso il manoscritto e di averlo momentaneamente riposto nel cassetto della scrivania. Il giorno dopo quando tornò a rileggerlo per continuare a sviluppare la storia si accorse che la scena scritta il giorno prima era cambiata. Sul manoscritto trovò scritto cosi: La signora Lacomb aspettava alzata il marito che tornava a casa sempre a notte inoltrata. Lo aspettava seduta in salotto con una sola abatjour accesa mentre le altre luci della casa restavano spente. Una notte di queste la signora Lacomb sentì aprire la porta d’ingresso, chiamò il marito ma lui non rispose. Dall’ingresso giungeva in salotto una luce tenue. La signora si avvicinò alla porta della sala e quando l’aprì…
La storia era stata modificata! Era cambiato completamente lo svolgimento degli eventi. Potete immaginare l’impressione che tutto questo generò nell’animo dello scrittore. Il giorno dopo andò dal medico al quale raccontò l’accaduto. Il medico rimase scettico. Restò convinto che tutto fosse dovuto a una distrazione. Disse allo scrittore di riscrivere la storia, di chiudere in cassaforte il manoscritto e consegnare la chiave della cassaforte a un amico. Quindi lo scrittore avrebbe dovuto continuare a scrivere il seguito della storia e dopo alcune settimane avrebbe dovuto farsi ridare la chiave, riprendere il manoscritto e verificarne la perfetta integrità. Il medico disse che così lo scrittore si sarebbe facilmente convinto che il tutto era stato solo distrazione. Inconscia distrazione. Lo scrittore convenne con il medico e si comportò come concordato. Riscrisse la storia, chiuse il manoscritto in cassaforte, e consegnò la chiave a un amico pregandolo di riportargliela dopo due settimane. Intanto continuò a scrivere il seguito del suo romanzo. Al termine delle due settimane lo scrittore riprese il manoscritto dalla cassaforte e si mise a leggere… Si sentì svenire: le parole… erano… no! No!, impossibile! No! Impossibile!, non era possibile… Tu non credeva a ciò che stava ascoltando! “È andato fuori strada!” esclamò.” Ha perso il filo della storia? Come dicono qui sulla Terra?” “Se tu stessi un po’ più attento, capiresti!” disse Io. Ma Tu non capiva. “Senti cosa sta pensando?” …è un bell’inizio amore… direi che la storia può interessare… sempre se si riesce a vedere in quel che si scrive il vero che c’è… “Ah! l’ha scritto lei!” capì finalmente Tu.
“Già!” rimarcò Io. “Non fare del sarcasmo, io arrivo a capire sempre dopo, ma è una qualità!” precisò Tu. “Non gli ha recitato una poesia, ma gli ha lasciato l’inizio di un romanzo!” “Scrivere, scrivere, scrivere! Quello che conta è scrivere!”
XXIII
“Scrivere è come…” Io lo interruppe bruscamente. “Tu, guarda un po’ chi sta entrando.” “Oh, il nostro Filosofo!” “È in compagnia di un suo Amico.” “Vedrai che anche questo suo amico non sarà d’accordo con lui,” disse Tu. “È normale. Gli amici dei Filosofi non sono mai d’accordo con i Filosofi.” “Sono in molti quelli che non si accordano con loro! Dicono che i Filosofi stufano!” “Però i Filosofi sono gli unici a parlare di noi.” “Allora in molti non andranno d’accordo nemmeno con noi!” “Ti illudevi?” concluse Io. Il Filosofo e il suo Amico presero posto a un tavolo da sei. Il cameriere consigliò loro un tavolo da due ma il Filosofo gli disse: “Vorrei rimanere a questo tavolo, ho bisogno di uno spazio relativo!” “…Certo signore…” disse perplesso il cameriere. “Un vino ito e un caffè per favore,” ordinò l’Amico. “Subito!” rispose il cameriere. (“…” “…”)
“Quanti siamo sulla Terra?” attaccò l’Amico. “Sette miliardi. “E tutti pensiamo? “Sì, siamo un continuo pensiero.” “E sempre quei sette miliardi? “No, ogni istante molti smettono di pensare e molti altri cominciano a farlo.” “E questo da sempre?” “Da duemilaseicento anni è cosa certa anche se in quel tempo non erano sei miliardi gli abitanti della Terra, ma l’uomo esisteva già molto prima di duemilaseicento anni fa.” “Ma allora siamo un enorme pensiero!!!” “Eh… già!” sospirò il Filosofo. “E cosa ha prodotto tutto questo pensare?” Il Filosofo sentenziò deciso: “Tanta miseria”. “Solo quella? Nooo!” “Sì! Tanta miseria e tanto dolore e vuoto. Vuoto. Molto vuoto.” “Che vuoto?” chiese l’Amico. “Un vuoto pesante! Esistente nell’esistenza!” L’amico lo fissò con sguardo interrogativo. “Vuoi che sia più chiaro, vero?” “Magari…” Il Filosofo prese respiro, cercò le parole e disse: “Il vuoto è una specie di
pressione che comprime e pesa sullo stomaco e fa star male! …è più chiaro così, vero?” “Ma non è possibile che questo enorme pensiero, in così tanto tempo, nella testa di cosi tanti uomini, abbia saputo produrre solo tutto questo dolore, miseria e vuoto nella vita dell’uomo! Sarebbe uno scempio!” disse l’Amico aprendo le braccia. “Bravo! Ecco! Uno scempio! Bravo! Dici bene!” Si congratulò il Filosofo. “Ma l’enorme pensiero è tutto questo mondo qui e questo mondo qui è meraviglioso!” ribadì l’Amico con le braccia ancora più aperte. “È uno scempio,” concluse il Filosofo. “È una meraviglia!” esclamò orgoglioso l’Amico. “Uno scempio.” “Maravilloso!” “Uno scempio.” “Wonderfull!” “Uno scempio.” “Merveilleux!” “Uno scempio.” “Wunder!” “No! È uno scempio,” sentenziò definitivamente il Filosofo. “Allora non esiste nessuna storia a lieto fine?” “Non esistono storie a lieto fine! Il lieto fine è un dei tanti modi di dire dell’uomo!” “Ma cosa dici! Certo che esistono storie a lieto fine!” disse spazientito l’Amico.
“Esistono storie. Ma mai a lieto fine. Sono un’illusione. Servono ai sentimentali,” replicò il Filosofo arrotondando le sopracciglia. “Non mi sembra possibile! È impossibile che sia come dici tu!” osservò con sconforto l’Amico. “Infatti sembra impossibile. Ma è cosa certa!” “Allora ci deve essere qualcosa che salva gli uomini, qualcosa che a loro insaputa li salva. Li fa sopravvivere. Anche felici!” disse rianimandosi l’Amico. “Sì, questo lo credo anch’io!” “E sopravvivono!” “Sì, questo lo credo anch’io!” L’amico si appoggiò barcollando alla sedia, guardò in alto e disse: “Ci dev’essere qualcosa di magico che riesce a far dimenticare miseria e dolore. Forse quando gli attimi suggeriscono di…” “…Forse quando gli attimi smettono! Lasciando il dolore in eredità!” Lo interruppe il Filosofo riportando l’Amico sulla Terra. “In eredità? Io proprio non ti capisco. Sei nero come il nulla. Non ti capisco mio caro Filosofo.” (“…” “…”) “De-situazione e dis-allontanamento. Ti piacciono queste parole?” “Che roba è?” chiese nauseato l’Amico. “Avvicinano all’essere, lo disvelano.” “Ma cosa ciancichi?” “Il singolo può de-situarsi e avvicinarsi all’essere!” scandì il Filosofo. “Hai la testa malsana? Ti capita spesso?” lo canzonò l’Amico.
“E a questo punto l’uomo può scegliere fra due vie. Può disperdersi impaurito nell’essere, che dona senso ma mette angoscia, è invisibile, introvabile o l’uomo può scappar via e radunarsi in massa nel non essere che è pratico, comodo, molto visibile, placa e rende tranquilli. Dunque, potremmo dire: o Esistenza o Prassi.” “E tu per chi stai?” Lo interrogò l’Amico. “Io partecipo a me stesso. Senza certezze in merito alla conclusione,” volle rispondere il Filosofo. L’Amico appoggiò la testa fra i pugni, cominciò a scuoterla dicendo: “No, no, no! Accidenti a te! Troppo complicato e tutto inutile! Non mi piace non mi piace! Ontologia, metafisica! Pensiero che non serve, non serve a niente! Non mi piace! Ho altro da fare! Troppo complicato e inutile! Ho altro da fare!” “Porca miseria non urlare!” ringhiò il Filosofo. “Lo so che non ti piace e che hai altro da fare! Non ripeterlo cosi tante volte che mi da fastidio!” (“…” “…”) “Scusate questo è un tavolo da sei, è spazioso, possiamo occupare questi due posti a lato?” domandarono con gentilezza un signore e una signora interrompendo il Filosofo e il suo Amico. (“…” “…”) “No!” rispose l’Amico con un mezzo urlo.” In questo spazio voi non potete stare! In questo spazio voi non potete esserci!” Il signore e la signora, intimoriti, cercarono un altro tavolo. Poi il Filosofo e l’Amico rimasero in silenzio. Quando uscirono, Tu suggerì qualcosa al Filosofo; lui camminando mise una mano sulla spalla dell’Amico e gli disse: “Dai… non pensarci… non prendertela… non soffrire… non devi… lascia are… lascia che i…” Uscendo dal caffè il Filosofo andò a sbattere con la sua spalla contro la spalla di un tizio scapigliato che in quel momento stava entrando con una piccola cinepresa in mano. Il Filosofo si scusò immediatamente e lo stesso fece il tizio
stringendogli la mano. Il tizio era seguito da un altro non meno acconcio di lui. Andarono a sedersi e ordinarono un liquore amaro. “…Azione!” “Vedi? Un’inquadratura delle colline in campo lungo mentre il panorama scorre a destra. Da sinistra il suo viso entra nell’inquadratura in primissimo piano e lei dice…” “Non mi piace!” intervenne. “Che significa non mi piace!” chiese il Regista. “Cosa c’entra il campo lungo sulle dune?” “Senti: tu sei lo Sceneggiatore ma se permetti la storia con le immagini la racconto io.” “È proprio questo che non condivido!” “Ma cosa?” si inalberò il regista. “Le immagini potrebbero raccontare molto di più, lo sanno fare benissimo, ma le stai sacrificando troppo, stai modificando troppo quello che è scritto nel libro!” rispose lo Sceneggiatore. “E allora non dovevi cedere i diritti al produttore! Hai fatto un accordo con lui, parlane con lui!” Era vero. Lo Sceneggiatore aveva accettato l’offerta e ciò che di vero c’era scritto nel libro era divenuto ormai una semplice realtà nelle mani del produttore. Realtà da rivendersi a un prezzo equo. Poi il Regista in modo pacato disse: “Ti capisco, ma lo vedi, il sentiero è stretto. C’è la produzione con tutto quel che si porta dietro. Bisogna are da lì…” Lo Sceneggiatore chiuse gli occhi e annuì aggiungendo: “Non possiamo fare niente? Non possiamo amare quello che facciamo? Insistere cercando una via?” “No, non possiamo. Credo di no, temo di no.”
“Però lo sai che le mie parole e le tue immagini in questo modo non…” “…Non dire altro, ti prego non dire altro.” …Stop. è buona, va bene così.
XXIV
Nel frattempo il Romanziere, dopo aver annotato qualcosa sui fogli della Poetessa, aveva ripreso a leggere e annotare sul suo romanzo. Ripartì dall’ultima frase del capitolo precedente. …A Martin la testa girava sempre più forte. Non riusciva a capire niente, era confuso. Tutti quegli attimi ridevano e si prendevano gioco di lui. E continuò. Entrarono in casa, in quella casa dove aveva vissuto con Laura. “Ruben ti presento il signor Martin è arrivato finalmente!” “Ah! Che piacere conoscerla, prego si accomodi Martin,” disse Ruben con familiarità. Si misero a sedere in sala, Ruben versò qualcosa da bere. “Signor Martin, noi l’aspettavamo da tempo con una certa ansia…” prese a dire Sofia. Martin non faceva altro che annuire, si limitava ad annuire e basta. “Intanto deve sapere che noi abbiamo comperato questa casa quando Laura la mise in vendita dopo il vostro addio…” Martin la interruppe e senza ragionare chiese: “…Ma lei come fa a sapere questo? Come sa di me e di Laura?” “Fu lei a parlarcene, naturalmente. Ci raccontò la vostra storia. Ne ha parlato a lungo con noi e disse che ci avrebbe venduto la casa a una sola condizione…”
“…Quale condizione?” Martin fremeva. “Avremmo dovuto conservare con cura un plico e consegnarlo a lei nel caso lei stesso fosse venuto qui a cercarla. Accettammo senza indugio anche perché capimmo che era importante per Laura e non avremmo saputo dirle di no.” Sofia prese una busta dal cassetto di un mobile e la consegnò a Martin. “Ma non vi ha detto dove sarebbe andata? Non vi ha lasciato un recapito?” “No. Ci disse solamente che sarebbe andata da conoscenti, nient’altro. La invitammo a rimanere un po’ qui con noi, la casa è grande e avrebbe potuto occupare liberamente una camera per tutto il tempo che voleva, ma non volle.” “Ci disse…” Sofia indugiò mentre lo sguardo di Martin la indagava. “…Disse che questa casa dopo la sua partenza per la città non gli parlava più! Disse proprio così. Disse che non riusciva più a sentirla sua come se lei partendo avesse tolto a queste mura il calore dell’accoglienza. Disse così. Poi partì e non l’abbiamo più vista.” Quanto dolore. Quante volte non riusciamo a renderci conto di quanto dolore possiamo causare con i nostri comportamenti. Rincorriamo i nostri desideri e ad ogni o causiamo danno. E sembra che l’unico rimedio sia solo il pianto. Sembra che non si possa fare altro che piangere, piangere così tanto da superare il dolore e sperare di non sentirlo più. Pensava così Martin mentre salutava Sofia e Ruben. Sui loro volti intanto si era disegnata la tristezza. Intuirono che anche Martin non sarebbe più tornato in quella casa. Se ne andò tenendo la lettera in mano e immaginando Laura mentre la scriveva. Aprì la lettera e si mise a leggere camminando. La lettera iniziava con una poesia. Siamo qui tra un inizio e una fine.
Sia pure. E quando avrò finito e il tempo sarà chiuso allungherò la mano e fermerò il respiro… Sei qui? Sei tu, amore? Si, per sempre… Caro amore, in realtà siamo partiti insieme. Ho pensato che non avremmo avuto più niente da dire. Poi ho capito che avevamo invece molto di cui comunicare, solamente non direttamente: non io a te non tu a me. Sarebbe avvenuto attraverso la nostra esistenza. Nel viaggio. Saremmo stati insieme, per sempre e dovunque. Saprò dove cercarti, come sentirti , come riconoscerti. Così ti amerò. Per sempre.
XXV
Un Maleducato entrò nel caffè. “Cameriere mi porti un caffè!” “Normale signore?” “Un caffè ho detto. Veloce! Si sbrighi che ho fretta!” Il cameriere aveva un vassoio in mano. Lo appoggiò sul tavolo e disse: “Io non la servo! Se vuole un caffè lo prenda al banco!” “Come sarebbe? Come non mi serve?” domandò velenoso il Maleducato che subito urlò: “C’è qualcuno che comanda in questo locale?” L’urlo fece accorrere il cameriere anziano: “Cosa succede signore?” “Chi è lei?” “Sono il cameriere più anziano. Dica pure a me signore.” “C’è poco da dire! Qui avete un servizio di quart’ordine! Mi porti un caffè! E speriamo che non sia scadente quanto il servizio che offrite!” Rimasero tutti in silenzio. Io e Tu per un attimo non sentirono pensare nessuno. Poi il pensiero del cameriere giovane raccontò gli attimi appena trascorsi al cameriere anziano che poco dopo disse: “Signor Maleducato, lei è convinto di aver ragione ma io sono altrettanto convinto della mia. Desidero che lei esca da questo locale e desidero che non vi faccia più ritorno. Mi aspetto che racconti a tutte le persone che conosce l’affronto che le è stato fatto. E spero invero che lo faccia! Mi aspetto che d’ora
in poi lei sconsigli tutti quanti di venire a prendere il caffè in questo locale. E invero spero che faccia anche questo! Sono veramente curioso di vedere come andrà a finire. Se a motivo di tutto questo saranno in tanti a darle ragione non mettendo più piede qui, significherà che in questa città regna la maleducazione e allora questo caffè non avrà più motivo di esistere e farà bene a chiudere. Se avverrà l’inverso e le persone continueranno a frequentare questo locale sarà chiarito con tutta evidenza che il maleducato è lei e verrà etichettato e riconosciuto come una delle poche persone maleducate di questa città e ne saremo felici. L’avviso tuttavia che comunque andrà a finirà lei per me resta una persona spregevole! E ora la prego signore: esca da questo locale!” Al Maleducato non restò che alzarsi e filar via. Mentre usciva si raggomitolò nelle spalle e si alzò il bavero del cappotto per nascondere il rossore che nel frattempo gli aveva preso il viso. (“…” “…”) “Eh,” disse Tu, “aveva ragione anche lui: le pulsioni!” “Gli diedero ragione in molti?” replicò Io. “Non ebbe nemmeno bisogno di conquistare ragioni, i fatti stessi gli davano ragione su ciò che diceva degli istinti e delle pulsioni. Si limitò a descriverli. Naturalmente aggiunse che servivano alla vita qui sulla Terra, solo che nell’uomo era tutto nascosto, latente, inconscio sosteneva lui. Diceva che l’uomo le teneva nascoste, anche in amore, ma che le sentiva in modo forte, talvolta violento, che riusciva a mitigarle ma non ha trattenerle. Da allora il dibattito su questi argomenti è divenuto intenso e nessuno è mai riuscito a contestare la validità di quelle analisi. La realtà delle pulsioni che l’uomo sente sta lì e si dimostra da se, ogni giorno.” “Hai detto realtà.” “Beh sì, certo, realtà!” “Non so, ma mi fai tornare in mente l’Ingenuo e i suoi colleghi di plastica in divisa gessata di ordinanza…” “Perché? Credi che l’Ingenuo sia un violento?”
“No no, violento no. Ma istintivo e incapace di nascondere il suo stato d’animo, sì!” “Riesci a immaginare come andrà a finire per lui?” “Certo che lo posso immaginare! …Se ne andrà, sparirà e non se ne saprà più nulla. Lo dimenticheranno quasi tutti. I suoi superiori nemmeno sentiranno il bisogno di dimenticarlo, i suoi pari saranno contenti per la sua scomparsa. Lascerà di sé un vago ricordo insieme a una domanda a cui nessuno potrà rispondere.” In quel momento entrò nel caffè una signora anziana accompagnata da un uomo molto più giovane. Io e Tu lo riconobbero. Si trattava dell’uomo che non sopportava i dispetti della suocera e che minacciò la moglie dicendole che lui se ne sarebbe andato di casa mentre lei lo pregava di capire. Sia lui che la suocera avevano un’aria depressa, erano veramente malconci. “Ma dove è andata? Lei dovrebbe saperlo!” disse l’uomo. “Non lo so! Ti giuro che non lo so! So solo di essere disperata!” “Due caffè, grazie.” “E i bambini, i miei bambini, i miei nipoti…” disse la suocera. “…I nostri figli vorrà dire!” precisò l’uomo. “Scusami, scusami tanto, hai ragione. Ha portato via anche loro. Deve essere impazzita mia figlia!” “I pazzi siamo noi cara suocera! E probabilmente io lo sono più di lei.” “Ci ha piegati,” ammise la suocera. L’uomo confessò con amarezza: “Voleva parlare e io non volevo ascoltare! La cercherò, la troverò, le chiederò scusa cento e cento volte. Le chiederò scusa per l’inutile uomo che sono. Mi farò perdonare. Spero che mi perdoni. La pregherò di tornare e spero, spero che ritorni.” “…Hiii hiii hiii…”
“Che fai? Stai chattando?” chiese Io. “No, sto ridendo. Sto pensando agli uomini forti!” rispose Tu. Hiii hiii hiii presero a ridere tutti gli attimi che erano nel caffè. (“…” “…”) Intanto, discosta in un angolo della piazza, una signora parlava da un pulpito che si era portata dietro. C’erano molte persone nella piazza e mentre la signora parlava si erano tutte riunite intorno a lei. Non si riusciva a capire come fosse possibile che la sua voce arrivasse dalla piazza fin dentro il caffè dove tutti la sentirono dire: “O miei Fratelli in vita vissuta! Miei Amici, miei Compagni, travolti e tracimati dal vivere! Il tempo è misura che scorre e non è altro! Fratelli, i problemi ci sovrastano! Si mettono in mezzo! Stanno con noi! Fra di noi! Sono noi! Noi stessi li coltiviamo e li facciamo aumentare di numero e importanza! O miei Fratelli in vita vissuta! Cosa possiamo fare insieme? …Insieme! Come possiamo fare Insieme? … Insieme!, è mai possibile che sia solo possibile prenderne atto? È forse solo questa la strada?”
XXVI
…Così ti amerò per sempre. …E dopo diversi anni… in un posto… non importa dove… “…Eccone un’altra!” “Prendila Elena! La sta portando via l’onda, prendila!” “Mamma, mi fai raccogliere ancora le conchiglie come quando ero piccola!” “Una collana fatta con queste conchiglie vale una fortuna!” “Perché, vuoi venderla?” “Ma no! La sto facendo per te, vita mia.” “Ma ne ho un cassetto pieno a casa!” “Tienile lì. Valgono una fortuna ti dico!” Ma il mare l’attraeva molto più delle conchiglie e si rituffò in acqua. Con il padre nuotava fino alle boe, ritornava e camminava con lui fino alla torre sul promontorio sopra il golfo. Laura guardava l’orizzonte. La linea continua del mare… “Tom, Elena si sta allontanando troppo chiamala per favore.” “Sa nuotare bene e poi è forte, a diciotto anni non si può che essere forti. Non preoccuparti Laura.” “Mi sento morire… chiamala per favore…”
Tom acconsentì. “Elena! …Elena la mamma ti vuole torna indietro!” “Sì papà!” “Okay. Sta tornando. Sei tranquilla ora?” “Grazie, sì grazie… scusami…” “Certo, ma cosa dici! Certo.” Dopo brevi attimi Laura disse: “Tom… mi piacerebbe andare qualche giorno in campagna… Mi piacerebbe tornare a rivedere la casa che avevo laggiù e rivedere Sofia… mi accompagni…vuoi?” “In questo periodo non riesco Laura, vai tu! Qualche giorno… starai bene là…” “Sì, mi piacerebbe…” Tornò a guardare l’orizzonte e la linea continua del mare poi disse: “Andiamo a casa Tom?” “Sì, rientriamo.” Elena uscì dall’acqua. “Brrr… è fresca l’acqua laggiù!” “Elena, mamma vorrebbe tornare a casa.” “Sì andiamo, certo. Non stai bene mamma?” “Sto benissimo amore… ho solo voglia di tornare… di tornare.”
XXVII
…Sto benissimo amore, ho solo voglia di tornare… di tornare. Erano chiare le immagini che Martin vedeva riflesse in quei cerchi di luce dentro il catino di acqua colpito dal sole. Con il pensiero tornava ai momenti in cui l’esistenza sembrava raccomandargli la via giusta quando lo avvertiva della felicità presente nell’accadere degli attimi che senza tempo succedono gli uni accanto agli altri come a suggerire il senso che tengono nascosto e che sempre, in ogni tempo, sembrano voler donare per appagare l’invincibile desiderio di pace che andiamo cercando. Erano ati diciotto anni ma il ricordo, la nostalgia, la malinconia non lo avevano più lasciato. Lavorava nella fattoria, ospitava i turisti, si fermava con loro, parlava con loro, trascorreva le serate in loro compagnia, rideva conversando, ma quel ricordo, quella nostalgia, quella malinconia erano sempre lì. Tre figure, reali più di tre persone in carne ed ossa. Erano sempre con lui e se voleva pensare a Laura o parlare con lei era con quelle tre figure della mente che doveva parlare. Quando a una quando all’altra era a loro che doveva chiedere di Laura. Un giorno si presentò alla fattoria un ragazzo. Arrivò a piedi con lo zaino in spalla. Domandò se poteva alloggiare lì. Disse subito che non aveva denaro, ma se Martin avesse voluto lo avrebbe ripagato lavorando nei campi. “Bene! E quanto vuoi?” chiese Martin. “Poche cose.” “Ovvero?” “Un piatto di minestra, un po’ di carne, ma poca, molto sole… e a volte, la sera, vorrei poter stare sotto il portico a conversare con gli ospiti della fattoria. Tutto
questo fino a quando traerò,” rispose quel ragazzo. Traerò! …disse proprio così. Martin accettò. “Però prima che lei accetti devo dirle anche un’altra cosa.” “Avanti!” disse Martin incuriosito. “Io non ho ato,” affermò il ragazzo. Martin accettò ancora più convinto e lo prese con sé a lavorare nella fattoria. An, questo il suo nome, seppe conquistarsi una stima assoluta. Divenne l’uomo di riferimento nella fattoria, quello che sapeva tutto, che sapeva fare tutto. E si faceva amare. Per Martin, fratello e padre e madre. Restò con lui. Non se ne andò più. E insegnò a Martin una cosa meravigliosa: gli insegnò ad ascoltare le persone. Martin da lui imparò ad ascoltare anche le parole che non venivano dette e che rimanevano inespresse nel pensiero di chi si fermava a parlare. Pensò a Laura, lei gli diceva le stesse cose. Diceva che ascoltare e comprendere avrebbe dovuto essere il compito di tutti. Martin si domandò spesso perché An, quel ragazzo che non aveva ato, fosse venuto da lui e si fosse fermato lì. Kurt veniva ogni tanto a trascorrere qualche giorno alla fattoria e portava sempre del buon vino. Il vino aiutava diceva Kurt e diceva che il vino era il miglior compagno che l’uomo avesse mai potuto incontrare nella vita.Con Kurt le lunghe serate avano in un attimo. Lui era come uno spazio infinito. Quando arrivava alla fattoria Martin si abbandonava in quello spazio dove si faceva trasportare dalle parole dell’amico. Nemmeno Kurt riuscì ad avere più notizie di Laura né le cercò. Smise anche di parlare di lei. Solo se Martin la nominava, Kurt parlava di lei.
XXVIII
In tutti quegli anni Martin conobbe molte altre persone. Ascoltò le loro storie e le esperienze di ognuno. Ebbe modo di conoscere la sensibilità umana e i necessari ripieghi di quelle vite, vissute e disperse nella gelida realtà. Conobbe chi considerava le cose per quello che sono, invitanti e belle, altri che le consideravano incombenti e angoscianti. Conobbe molti che non avevano nessuno scopo e si preoccupavano solo di soddisfare ogni loro desiderio; altri, che cercavano di farsi una ragione del dolore dell’esistenza. Tentavano di comprenderlo quel dolore, di vincerlo, superarlo, ma non riuscivano e li vide sconfitti; non si accorgevano che la causa del dolore erano loro stessi e la loro stessa smisurata vanità. Ascoltò molti non comprendere che nonostante i suoi calcoli e le sue incertezze l’unico aspetto peculiare dell’uomo è il suo destino. Da questo destino non riuscivano a liberarsi nemmeno i molti che portavano le loro esperienze dalle terre dell’oriente e che si affidavano al puro intelletto per superare le laceranti contraddizioni della vita; Martin intuiva che non riuscivano a superarle nonostante la loro delicatezza d’animo e la loro tenacia. Parlò con i molti che cercavano una calda solitudine e i tanti che si rinchiudevano in un freddo isolamento. Ascoltò chi pensava che siamo mortali e che per questo possiamo amarci perché, dicevano, occorre amare ciò che finisce e avere consapevolezza della fine fa amare di più. Si fermava a riflettere con chi pensava spesso alla felicità ma se la vedeva sfuggire continuamente senza capire perché, senza capire che l’ego asfissiante non lascia respirare e impedisce di sentire la felicità li dove si trova, nella speranza che crea futuro. Vedeva chi cercava il lusso e ritenendo di non trovarlo nella finezza dei pensieri e delle azioni delle persone della fattoria, non restava li un momento di più. Notava chi amava troppo la parte furba di sé e non amava per niente la parte stupida, quella parte che ritenevano sciocca e capace perfino di commuoversi per una poesia. Altri erano confortati interiormente perché conoscevano l’insignificanza delle eccessive ioni e sapevano che erano destinate a scomparire presto nell’autentica libertà di pensiero dove le ioni vengono smascherate. C’erano quelli che comprendevano le intuizioni e le amavano solo per quello che erano e non si domandavano a cosa potevano servire, le amavano e basta.
Arrivavano con i loro pensieri i loro timori i loro sogni. C’era fra loro chi era capace di sospendere ogni giudizio per tutto il tempo che stava lì e voleva solo lavorare nella fattoria e fare i lavori più semplici. Arrivavano i lettori; si portavano dietro quattro cinque libri, iniziavano a leggerne uno poi quasi a metà avano a un altro, ne iniziavano un terzo e finivano le pagine del quarto cominciato prima di arrivare lì e la forza che li spingeva in quella apparente disordinata lettura dicevano di trovarla nella semplicità della vita e in una continua ricerca di un modo per guardarla perché sostenevano che per amare la vita occorreva imparare a guardare. Noia, paura e rabbia arrivavano insieme a molti, alcuni riuscivano a comprenderle e se ne liberavano, altri ripartivano annoiati, paurosi e arrabbiati più di prima sempre oppressi dal desiderio e dall’ambizione. Tanti cercavano nell’ignoto una ragione. Alcuni arrivavano piangendo perché non riuscivano più a ricordare i colori di un campo coltivato e i colori dell’erba, piangevano perché si erano dimenticati del suono dei tuoni e non ricordavano più la pioggia. Molti si sentivano forti e la sera andavano a letto presto, altri restavano alzati fino a notte fonda a guardare il cielo stellato perché temevano la loro debolezza. I più dicevano sorridenti di volere la gioia di vivere; la volevano la volevano la volevano e la cercavano la cercavano fino a diventare tristi e tornavano a sorridere solo quando ripartivano chiusi di nuovo nella conformità, al sicuro. Molti arrivavano rassegnati perché non riuscivano più a ingannarsi, dicevano di aver fatto tanta strada per nulla, tanta strada in fondo alla quale avevano trovato solo le fredde lande della delusione. Diversi di loro non erano condotti lì dall’umiltà, i pochi umili che arrivavano non avrebbero voluto più ripartire. C’erano i solitari che spacciavano per cultura il loro rimanere chiusi in camera e c’era chi per cultura voleva condividere con gli altri anche il pane a tavola. Molti volevano vincere o morire disposti a morire se non riuscivano a vincere e c’era chi cercava amore e voleva solo amore chiedeva solo amore. Non mancavano i sognatori i puri sognatori che bevevano vino la sera sotto le stelle. C’era chi diceva di aver paura della solitudine ed era quello il motivo per cui non voleva sapere, conoscere; altri invece la desideravano dicendo di non temerla, pregavano solamente che nei momenti di solitudine non morisse in loro l’immaginazione. In tanti arrivavano portando con sé i loro vizi e per loro anche poche ore di riposo diventavano afflizioni; avevano come tutti il bisogno incontenibile di evadere ma volevano farlo solo nei loro vizi. Arrivavano anche quelli che cercavano un punto di equilibrio, restavano nella fattoria alcuni giorni cercando quell’equilibrio, ma lo cercavano sempre fuori da se stessi e a ogni o cadevano sbilanciati. Molti che arrivavano erano innamorati della Poesia, recitavano la sera sotto i pergoli, recitavano frasi ermetiche, evocando con frasi sempre più brevi, sempre più
brevi… fino al silenzio. Molti si volevano fermare dicevano di volersi fermare e non dicevano altro. E tutti, cercavano lei. La cercavano in tutti i sentieri del mondo senza pensare e nemmeno sospettare che lei non poteva trovarsi in quei sentieri, ma in un altro luogo molto più vicino a loro. “Quanti mondi! Quanti mondi! Ognuno ha il suo. Ognuno è nel suo. Come riusciremo a comprenderci. Riusciremo a comprenderci?”
XXIX
Martin, un giorno, mentre percorreva il viale di entrata della fattoria fece cadere lo sguardo sulle onde di calore che il sole muoveva laggiù vicino al cancello d’ingresso. Vide lì una figura di donna che si muoveva nella sua direzione. In quell’attimo, senza apparente motivo, gli tornò in mente il sogno che aveva fatto così spesso. Gli apparvero di nuovo quegli occhi sorridenti e ripensò al pianto alla fine del sogno. Continuava a camminare verso quella figura che intanto si avvicinava e la sua immagine era sempre più chiara e nitida. Cominciò a sentire quello stesso spasmo che gli chiudeva la gola e gli faceva sentire forte il battito del cuore. Pensò il suo nome Laura… …poi lo pronunciò: “Laura…” …continuò a pronunciarlo. “Laura… Laura…” E iniziò a correre verso di lei. Non era cambiata. Gli stessi capelli, il loro colore, il modo di muoversi e di camminare. Era Laura, …era Laura. Cominciò a correre a braccia aperte mentre senza accorgersi di farlo gridava il suo nome. Gli batteva il cuore, forte. Lo sentiva come se bastonasse il suo petto mentre lei si avvicinava, sempre più vicina… più vicina… Martin si rese conto allora quanto fosse rimasta giovane quella figura che si era materializzata con il sole e che stava arrivando…in un cielo così vasto, in un cielo così vasto, così grande. Pensò: …sei giovane amore, non è possibile che tu sia rimasta così giovane, eri così quando ti ho conosciuto, ora non puoi essere ancora così giovane… Laura. Si fermò non distante da lei. “Martin?…Sei Martin?”
“Sì… Laura… sono io…” “…Non sono Laura…” “…Non sei Laura? …Tu le somigli molto…” Rimasero in silenzio. “Sono sua figlia…” “Sua figlia?” disse con sconcerto Martin. “Sì Martin, sono Elena… È stata mia madre a dirmi di venire qui, mi ha detto che ti avrei trovato qui.” “Sei la figlia di Laura?…Dov’è Laura?” “Martin…” “Dov’è Laura?” “Martin, un mese fa… mia madre non c’è più…” La strinse forte fra le braccia, come avrebbe stretto lei. La tenne stretta e si abbandonò fra le braccia di Elena. Piangevano. Piangevano e non riuscivano a smettere di piangere. Andarono alla fattoria tenendosi per mano. Tutti videro Martin camminare con quella ragazza. Non si stupirono. Solo non riuscivano a immaginare chi fosse quella ragazza giovane che Martin teneva per mano. Solo An lo guardò sorridendo e lo salutò con un gesto della mano.
XXX
Elena salì in camera e si preparò per la sera. Si mise a tavola con Martin e cenarono insieme. Poi uscirono sotto il portico. Si misero lì seduti continuando a tenersi per mano e a parlare. “Quando rientrammo a casa dal mare lei era molto stanca, provata dal viaggio, disse a mio padre che sarebbe andata subito a letto a riposare. Iniziò a salire le scale e quando arrivò a metà le mancarono le forze e svenne. Rimase in terapia intensiva per una settimana. Non la potevamo vedere non potevamo parlare con lei. I medici ci dissero che si sarebbe ripresa, ma dissero anche che non sarebbe riuscita a combattere ancora per molto la sua malattia. Si riprese e fu trasferita in una camera privata dell’ospedale. Parlavamo molto. Parlavo molto con lei, fin da piccola. Parlavamo di ogni cosa. Con mio padre ero più riservata ma con lei sono sempre riuscita a parlare dei miei sentimenti più nascosti, con lei era facile parlare. Mi diceva continuamente che mi amava. Un giorno le chiesi perché me lo dicesse così spesso e mi rispose che non le bastava mai, che non può bastare a nessuno il bisogno di dare amore e riceverne continuamente. Poi un pomeriggio mi prese la mano, la tenne stretta per un po’ e poi sentii che piano piano aveva smesso di stringermi… anche quella poca forza l’abbandonò… È così che ci ha lasciato.” Martin ascoltava senza riuscire a trattenere le lacrime. Sentiva l’amore di Laura. Sentì che Elena glielo aveva portato. “…L’ho aspettata per tutto questo tempo. L’aspettavo sai? L’aspettavo…” Dopo attimi continui di silenzio, Elena disse: “Ora devo dirti una cosa Martin”. Lui la guardò attentamente. Elena sembrò concentrarsi e continuò: “Il giorno prima lei mi raccontò una storia. Mi fece promettere che l’avrei raccontata solo all’uomo di cui mi avrebbe parlato. La baciai e lo promisi. ‘è stata colpa mia,’
cominciò,’ …non sono riuscita a fargli sentire il mio amore, è stata colpa mia, non ho gridato abbastanza, non gli ho gridato il mio amore…’ Si mise a piangere e come a volersi scusare con me mi disse che aveva sempre amato mio padre. Le parlai, la calmai, le risposi che io questo lo sapevo e che anche mio padre sapeva del suo amore. Lei si calmò. Attese prima di continuare. Mi guardò a lungo negli occhi. Mi sorrise e poi mi disse che mio padre aveva dei bellissimi occhi neri. ‘Mamma,’ la fermai, ‘gli occhi di papà sono celesti!’ ‘No amore, gli occhi di tuo padre sono neri, neri e scuri come i tuoi.’” Elena attese qualche attimo, guardò Martin intensamente… “…ecco perché sono venuta qui, volevo conoscerti.
XXXI
Martin strinse forte a sé la figlia e rivide lo sguardo di Laura e ricordò come lo guardava prima che si lasciassero: “Perché mi guardi cosi? Laura, perché mi guardi così?” Avrebbe voluto parlargli. Lo amava e avrebbe voluto parlare con lui… E sentì la sua voce: “…Ma non era il momento amore. Ti amavo e amavo i tuoi sogni e non volevo impedirti di fare quello che sentivi. Io non volevo che tu partissi, ma non volevo impedirti di fare quello che sentivi… e non ti dissi che aspettavo un figlio da te”. “…L’ho aspettata per tutto questo tempo. L’aspettavo sai? L’aspettavo…”. ripeteva Martin. “…Ha mandato me papà. Ora ci sono io con te. E non ti lascerò più, non ti lascerò più.” …E dopo qualche tempo, non importa quanto… Destini. Ognuno ha il suo papà, e lei lo sapeva. Sapeva di un continuo rinnovarsi di eventi non cercati non voluti e spesso decisivi. Un susseguirsi di tempo: ora felice ma fuggevole, più spesso pervaso di ansia e malessere. Ti era sempre mancata e ora desideravi raggiungerla al più presto. Vero? Con lei eri felice senza lei la tristezza non ti aveva più lasciato. Pensavi la felicità come attimo gratuito sempre destinato a finire presto in un vuoto incolmabile. Era così, non è vero papà? Era così. Martin lasciò a sua figlia una raccolta di pensieri, di riflessioni, di intuizioni e attimi di vita che lui aveva annotato per tutto il tempo vissuto senza Laura. Elena si fermò su una pagina dove era scritto cosi: Amore, ti avevo visto da poco e già ti guardavo non visto. Così tutto avvenne.
Ora che non ci sei, pretendo che tu ci sia per sempre. Continuerò a guardarti non visto, ti penserò dimenticato, soffrirò per la lontananza mentre altri ti saranno vicino. Piangerò di nascosto per non dover dimostrare altro. Perduto, certo, perduto. Cercherò continuamente la luce dei tuoi occhi e infine, per andare oltre le parole, vorrò solamente ascoltare. Apri le mani esistenza! Lascia cadere tutto! Dismetti il gioco della vita! Facci giocare solo richiamati dal tempo! Donaci un respiro più ampio! Ecco, vedi amore? In ogni attimo c’è il momento; il o ti muove e resta la tua assenza. Appare che non ci sei più. Ora trascorri insieme al tempo che non si ferma! Non si ferma! Nemmeno se lo imploro di darmi amore. Adesso un silenzio immenso ha preso a navigare dentro. Il frastuono sembra sconfitto. Questa pace è l’unica che sa parlarmi di te. Se fosse possibile ritrovarti al di là del silenzio ascolterei in silenzio il possibile sperando di incontrarti. Ti conosco così poco, così poco. Amore, esiste come un’impossibilità di vivere e amare l’essere e il suo eterno. Un vincolo materiale ci lascia sempre e solo un senso di mancata compiutezza. Ma ora sento che di un essere eterno abbiamo bisogno come dicevi tu e se ne abbiamo bisogno significa che in qualche modo si fa sentire e ci chiama. In qualche modo. Non so come… Non lo so ancora amore… Ma certo in qualche modo. Elena si fermò a lungo su quella pagina. Tenne la mano su quelle parole che avrebbe voluto afferrare con le dita per rubare i segreti dell’esistenza e la cura per i cuori malati.
XXXII
Il Romanziere si mise a scrivere. Io e Tu per un attimo pensarono che iniziasse un nuovo racconto poi lo ascoltarono mentre pensava di scrivere alcune righe per l’Editore al quale avrebbe inviato il manoscritto nella speranza che venisse pubblicato. Egregio Editore, vorrei sottoporre questo mio Romanzo alla sua lettura. Il Romanzo non ha titolo. Andrebbe trovato! Io credo che questo che Le invio sia il Romanzo più bello scritto negli ultimi cinquant’anni. Vorrei tanto che venisse pubblicato, pubblicizzato e sponsorizzato adeguatamente. Io non posso farlo. Non ho un centesimo. Non ho niente. Ho solo lei e questo Romanzo. Io e Tu si stupirono della frugale sincerità del Romanziere. (“…” “…”) “Caspita, ha fiducia!” disse Io. “No, spera!” gli rispose Tu. “In cosa?” “Al di là della bellezza dei Romanzi di questi ultimi cinquant’anni, lui spera che riesca a farsi sentire una certa idea di verità.” “Quale?”
“Ti stai abituando alla Terra. Ultimamente fai domande fuori luogo.” (“…” “…”)
XXXIII
E da li a poco tempo dopo Lei li chiamò. Avrebbero dovuto tornare. Io, Tu, il pensiero-che-pensa, tutti gli attimi, le intuizioni e le riflessioni si allontanarono da quel luogo molto vicino a voi, lasciarono il pianeta, lasciarono tutte le stelle e arrivarono oltre le stelle. “Ciao Io, ciao Tu e tutti voi, ben tornati amici miei.” “Ciao a Te. Siamo felici. Ti rivediamo finalmente.” “Non rimanete così in silenzio vi prego parlate. Vi ascolto.” (“…” “…”) “Ti stavamo contemplando. Sei così bella. Ci sei mancata molto.” “Ora siete qui, con me…” “Dicono di averti vista e sentita spesso laggiù sulla Terra.” “E dove?” “In molti posti. In molti angoli di quel mondo.” “Mi hanno vista e sentita solo in quei molti posti?” “Sì. In diversi posti, ma solo in quei posti. Ti vedono solo in certi loro momenti e non puoi immaginare quanto gli manchi! Ti cercano dovunque. Sui loro monti, sui loro mari, nelle loro pianure, nei loro deserti, nelle città che hanno costruito e nelle campagne che coltivano.” “E mi cercano solo lì?”
“Sì, lo abbiamo visto, ti cercano solo lì…” “Ma io sono molto più vicina a loro! Veramente non sanno dove possono trovarmi?” “No. Sulla Terra questo non lo sanno…” “Ma è triste cari amici. È molto triste…” “Sulla Terra continui a mancare e sei incompiuta, Anima e Conoscenza.” Trascorsero molti attimi di silenzio durante i quali l’Anima che era anche Conoscenza si raccolse in se stessa continuando a rimanere in silenzio. Allora Io, Tu e tutti gli altri dissero insieme: “Abbiamo ascoltato i pensieri di molti sulla Terra. Siamo entrati nei pensieri di uomini e donne e abbiamo vissuto insieme a loro gli attimi delle loro intuizioni, delle loro riflessioni. Abbiamo sentito le loro pulsioni alimentate dai loro sensi e dalla loro mente desiderosa. Sulla Terra non c’è differenza fra gli uomini riguardo a questo. Vogliono stare insieme; in realtà l’uomo ama stare con l’uomo, non riuscirebbero a vivere isolati gli uni dagli altri, hanno bisogno di condividere idee e sentimenti e hanno bisogno di vivere in comunità; una noia mortale li annienta quando si isolano. Un solo difetto basta però a sopprimere questo loro desiderio e a deturpare i loro cuori, questo: provano tutti un istinto naturale di prevaricazione sugli altri. L’amico nei confronti dell’amico; l’individuo sull’altro individuo; il gruppo cerca di prevaricare sull’altro gruppo; la comunità nei confronti dell’altra comunità; lo stato su altri stati; i continenti prevaricano su altri continenti; gli interessi e i desideri degli uni sono sempre contro gli interessi e i desideri degli altri. E non rinunciano. Questa è la loro finitezza. Gli uomini pur di soddisfare questo istinto di prevaricazione e appetito hanno spaccato la Terra in due parti. Una l’hanno chiamata nord, l’altra parte è per loro il sud. Non siamo riusciti a capire perché ma nelle terre del sud del mondo hanno meno cose però gli uomini del sud sembrano più sereni e, forse anche per questo, ci sono più colori. Nelle terre del nord c’è più ordine più disciplina hanno molte cose, ma sono terre più fredde, i colori si accendono di meno e diminuiscono in varietà e lucentezza; gli uomini del nord piangono di più e anche se pare ne abbiamo meno motivo, sono più tristi; forse perché non conoscono la vera tristezza. Tutti sulla Terra cercano quel luogo che non c’è, hanno dato un nome anche a quello, ma nome è rimasto. Gli uomini della Terra non vorrebbero essere la causa del male che c’è nel loro mondo, ma ogni loro azione fa del male, non sanno perché e, per paura, non se lo
chiedono. La loro vita, la loro stessa esistenza è contraddizione. Saprebbero amare, sarebbero capaci di amare, ma nessuno glielo può dire, non vogliono e allora ogni singolo uomo ama in verità solo se stesso. E adesso vorremmo parlarti del nostro dolore. Noi torniamo sconfitti. Non siamo riusciti a fare quello che ci hai chiesto, quello per cui ci hai mandato laggiù. Non siamo riusciti a trovare la risposta. Non esiste! Non esiste risposta! Perdonaci, ma noi pensiamo che non sarà mai possibile vedere l’uomo felice sulla Terra, non avrà, non potrà mai avere certezze. Al di là delle cose, non conosce senso, fine, valore. Ci dispiace ci dispiace molto. Speravamo di poter capire e trovare un rimedio alla loro infelicità e al loro dolore. Non ci siamo riusciti. Torniamo sconfitti Anima, di nuovo e ancora una volta, ai tuoi piedi”. Poi tutti si inchinarono di fronte a Lei e attesero le sue parole. “Amici miei, miei cari amori, tutto questo è triste, molto triste,” disse l’Anima. “Io voglio insistere, insistere. Sono vicina a loro, non possono non sentirmi! Non possono non trovarmi! Non posso non compiermi! Loro hanno me! Lo devono sapere, loro devono essere felici…” Poi videro che piangeva. Piangeva dicendo: “È colpa mia, non sono riuscita a fargli sentire il mio amore, è colpa mia, non ho gridato abbastanza il mio amore”. E continuò implorando: “È possibile fare qualcosa per loro? Voi pensate che sia possibile fare qualcosa per l’uomo sulla Terra? Vi prego, facciamo qualcosa per loro…” Al suono delle sue parole, che di musica si trattava, il pensiero-che-pensa, le intuizioni, le riflessioni e gli attimi si riunirono gli uni intorno agli altri e come in un vortice di polvere come in una nobile danza iniziarono a girare e a danzare per l’ennesima volta in un continuo interminabile eterno giro dentro un attimo di tempo.
XXXIV
Mi muovevo per la città mentre mi preoccupavo della mia educazione di vita. Anche le serate erano felici e mi placavo in loro. Ho eggiato spesso lungo il fiume, sotto gli alberi lungo il bordo del fiume e mi domandavo quanti Poeti e Scrittori e Artisti e Donne e Uomini lo avevano fatto prima di me e se avessero mai provato, come me, a ritrarsi in loro stessi, dentro piacevoli sogni a cantare le loro opere, di uomini, di tempo, di mondo. Pensava questo mentre l’aspettava seduto sotto un albero lungo il fiume. Quando arrivò le corse incontro. “Ciao amore, cosa c’è?, che cos’hai?” gli domandò. “Mi è giunta ieri,” le rispose porgendole una lettera. Egregio Romanziere, con profondo rammarico, La prego di credermi, mi trovo costretto ad informarLa che la Commissione di esperti da me presieduta dopo avere, sia pur sommariamente, letto e analizzato la sua opera ha stabilito di rifiutare la pubblicazione del suo Romanzo in quanto certamente destinato a non incontrare i gusti del mercato espressi, anche recentemente, in molti consessi. Sono sicuro che Lei potrà comprendere vieppiù considerando talune cose da Lei scritte nella sua opera. Desidero inviarLe i miei più cordiali saluti e ottimi auguri per il prosieguo della sua Attività Artistica. per l’Editore, f.to Dottor *** Lei lo abbracciò, lo strinse, lo baciò.
“Non preoccuparti amore, ci sono io con te. Tu hai me.” La guardò a lungo. “Lo so anima. Io ho te. È vero. Io ho te, Laura.”
L'Autore
Nello Ghio vive e lavora a Carrara. Tra le sue ioni la musica, ama comporre canzoni, e la lettura in particolare tutti i libri autenticamente capaci di illudere. Un attimo di tempo è il suo romanzo di esordio.