Igor Sibaldi LE PORTE DELL’IMMAGINAZIONE Istruzioni per chi viaggia in altri mondi
Igor Sibaldi Le porte dell’immaginazione. Istruzioni per chi viaggia in altri mondi © 2018 Igor Sibaldi © 2018 Edizioni Tlon Tutti i diritti riservati Progetto grafico Andrea Pizzari Editing Matteo Trevisani Redazione Matteo Trevisani, Giulio Mastrorilli I edizione: Settembre 2018
Nell’estate del 2006 stavo scrivendo un lungo libro sull’iniziazione, intitolato Il mondo invisibile. Volevo dimostrare che l’iniziazione non è soltanto – come si ritiene di solito – un tipo di riti comuni a tutte le culture arcaiche, sopravvissuti qua e là fino ai giorni nostri, ma anche e soprattutto un’esigenza vitale di ciascun individuo, della quale ci si può accorgere a ogni età, nell’infanzia come nella vecchiaia: l’esigenza di un rinnovamento profondo, totale; di porre fine a un periodo della propria vita, di sperimentare così la fine di tutto, e poi di sperimentare di nuovo un inizio di tutto, come nella nascita. Molti riti iniziatici, così come sono stati descritti e studiati finora, non esprimono appieno questa esigenza, rappresentano anzi, secondo me, una sua strumentalizzazione, a vantaggio della collettività e di chi, nella collettività, detiene il potere: invece della fine di tutto e dell’inizio di tutto, celebrano l’ammissione dell’adolescente nel gruppo degli adulti, o del neofita in una comunità religiosa – cioè il momento in cui un giovane perde un certo grado di libertà e comincia a comportarsi come molti altri, gli adulti o i confratelli, perché così vogliono le gerarchie sociali. Prima di questi riti – di questa ritualizzazione – era diverso; e accanto a questi riti, e dopo che in ciascuna civiltà questi riti furono tramontati del tutto o in parte, il bisogno dell’iniziazione autentica ha continuato a trovare espressioni autonome, negli individui più sensibili, in forma di esperienze personali o di veri e propri miti, che questi individui creavano; e queste espressioni sono state avvertite come una potente suggestione dagli altri. Dimostrando questa idea, mi ripromettevo di spiegare due cose. Una era la somiglianza strutturale tra le iniziazioni documentate nei rituali e miti di culture diverse e lontane tra loro: poiché l’esigenza psichica che li aveva determinati era ovunque la stessa, sia quei miti sia quei rituali si somigliano così come si somigliano in ogni parte del mondo gli atti sessuali o i modi in cui si esprime la paura degli spettri. L’altra cosa che intendevo spiegare – e che, con mia sorpresa, nessuno aveva ancora notato – era l’emergere di ben precisi aspetti di riti e miti iniziatici antichi in opere di narratori e poeti, e anche in teorie di scienziati, che di quei miti e specialmente di quei riti sapevano poco, pochissimo o
niente del tutto. Così, per esempio, nel Conte di Montecristo e nelle Avventure di Pinocchio è narrata una prova iniziatica – una liberazione nel profondo delle acque – che si ritrova nei Testi delle piramidi ; ma Il Conte di Montecristo fu pubblicato nel 1846, Le avventure di Pinocchio nel 1883, e i Testi delle piramidi vennero scoperti solo nel 1890. N e Il Mondo invisibile riportavo e interpretavo vari casi del genere, spaziando da Tolstòj a Ermete Trismegisto, da Konrad Lorenz a Castaneda, da Shakespeare ad Ariosto, a Dante, alle fiabe. Tutti questi esempi mostravano anche (e a questo davo e do molta importanza) che, per seguire e realizzare quell’esigenza di tornare all’inizio, non c’è bisogno di apparati religiosi né di sacerdoti di alcun tipo: è sufficiente sentirla, seguirla e tutto avviene da sé, secundum naturam – con una meravigliosa uniformità, come se un programma iniziatico fosse inscritto geneticamente nella specie umana. Ma il libro non prese la forma giusta. Divenne troppo ampio, gli argomenti si moltiplicarono e avrebbero richiesto almeno tre libri a sé stanti: uno sull’esigenza universale di iniziazione, uno sugli ostacoli che nell’iniziazione si incontrano, e un altro sulla psicologia delle guide interiori, degli Dèi, gli Angeli e di tutte le altre entità che fanno per gli iniziati ciò che Virgilio e Beatrice fecero per Dante – e che in ogni epoca i sacerdoti iniziatori hanno tentato di mimare. Nell’estate del 2006 ero troppo impaziente, e Il mondo invisibile, che uscì nel novembre di quell’anno, ebbe come unico suo merito, almeno a mio parere, l’abbondanza dei materiali su cui richiamava l’attenzione dei lettori. Non fu un insuccesso, venne ristampato un paio di volte, ma continuò a pesarmi sulla coscienza come un’opera incompiuta, una promessa non mantenuta. Poco meno di dieci anni dopo, cominciai a rimediare. Nel 2015 le edizioni L’Arte di Essere ed Edizioni Tlon pubblicarono I confini del mondo, una rielaborazione delle prime duecentoventi pagine de Il mondo invisibile, che era ormai fuori catalogo. Ora presento la rielaborazione di altre centocinquanta pagine dell’edizione originale, dedicate agli ostacoli e alle resistenze che gli iniziandi incontrano quando, appunto, si staccano dal mondo in cui sono stati abituati a vivere, dalla realtà così come la intende la stragrande maggioranza dei loro contemporanei: quando cioè entrano nel cosiddetto aldilà. Cosa che accade molto più spesso di quanto non si creda. L’aldilà è tutto ciò che si apre al di là di ciò che sappiamo di sapere, di ciò che sappiamo di volere, di ciò che sappiamo di essere – e che non è ciò che veramente sappiamo, e che vogliamo, e che siamo. Entriamo nell’aldilà non soltanto durante certe esperienze “spirituali”, estatiche, ma anche ogni volta
che creiamo, ogni volta che compiamo una scoperta, ogni volta che ci capita una precognizione, addirittura ogni volta che prendiamo sul serio un sogno: e, ogni volta, in chi entra nell’aldilà un periodo della vita finisce e si ha un nuovo inizio di tutto; ciascuno di questi ingressi diventa, cioè, una soglia e poi un tragitto iniziatico, e richiede perciò le stesse indicazioni e cautele e attenzioni segnalate nel corso dei millenni nei racconti di eroi, profeti, sciamani che scelsero di affrontare per proprio conto l’esigenza di iniziazione. Su tutto ciò, gli antichi ne sapevano più di noi. E se in questo libro non ne parlo nei termini della psicologia attuale, è per le ragioni che spiego nell’introduzione. Igor Sibaldi Milano, giugno 2018
LE PORTE DELL’IMMAGINAZIONE
INTRODUZIONE CERTE VERTIGINI A CUI CI SI È RASSEGNATI
Fino agli ultimi anni del XIX secolo, la psicologia occidentale era convinta che i sogni fossero soltanto un disturbo del sonno. Freud smise di crederlo; provò a pensarla come gli antichi, che ai sogni davano molta importanza, e di lì a poco tutti si accorsero che l’esplorazione della psiche era appena incominciata. Così avviene spesso, nei grandi balzi in avanti della conoscenza, e in generale nei cambiamenti in meglio: ci si volta indietro, si dà più credito a idee remote, che non alle convinzioni dei contemporanei, e d’un tratto si apre un orizzonte nuovo. Mosè riscoprì un Dio dimenticato da quattrocento anni. Gesù riscoprì certe teorie di Mosè, vissuto almeno un millennio prima di lui. sco d’Assisi riscoprì certe idee di Gesù, che per almeno un millennio erano state dimenticate o fraintese. E che Freud avesse capito quanto lo sguardo indietro dia impulsi ad andare avanti, lo si vide in tutta la sua carriera di studioso: con le sue idee sul complesso di Edipo, che fu il ritrovamento di una traumatologia psichica elaborata dai greci già nel V secolo a.C.; con i suoi studi sui totem e sui tabù; con le sue ipotesi sui traumi ancestrali dell’umanità, sull’origine delle religioni, sulla decifrazione psicoanalitica del Mosè di Michelangelo e via dicendo. Jung procedette alla stessa stregua, attingendo a piene mani dall’alchimia, dallo gnosticismo, dalla mitologia occidentale e orientale. Ma in quel voltarsi indietro, i due fondatori della nuova psicologia non riuscirono a staccarsi dalla convinzione – tipica della seconda metà dell’Ottocento, in cui entrambi si erano formati – che la mente cosciente fosse lo strumento e il fondamento sia della psicologia, sia di ogni altra conoscenza valida. E con “mente cosciente” intendo quella parte della psiche, che è in grado di descrivere se stessa in una qualsiasi lingua attuale: in pratica, ciò che l’io sa di sapere di sé. Di là dalla mente cosciente si aprivano, secondo la nuova psicologia, le profondità del cosiddetto inconscio, cioè di quel che l’io non sa della propria psiche – o non sa di saperlo. Freud e Jung stabilirono che l’inconscio andasse studiato dal punto di vista del conscio. Oggi questa convinzione è talmente
famigliare, che, a dirla così, non suscita alcuna meraviglia: esperti e dilettanti di psicologia si sentirebbero in diritto di esclamare: «Ma certo, e come altro si dovrebbe fare? Come può una conoscenza non essere cosciente?» Gli antichi la vedevano diversamente: accanto alla mente cosciente ponevano un altro strumento, un altro fondamento, un altro luogo della conoscenza. Per lo più lo chiamavano Dio. Così, quando Giuseppe egizio, nell’accingersi a interpretare il sogno del faraone, dichiarò che «le interpretazioni appartengono a ’Elohiym» (Genesi 40,8), intendeva dire che chi indaga un sogno lascia da parte, appunto, la propria mente cosciente, e lascia che si attivino nella psiche sensori e processi di cui non sa nulla di preciso, se non che funzionano. E i filosofi greci, nel V secolo a.C. (suppergiù milleduecento anni dopo Giuseppe egizio) e gli eretici gnostici, nel II secolo d.C., e Tommaso d’Aquino, e Dante, ponevano, accanto alla mente – più in là, e tutt’intorno ad essa – il noûs, o intellectus, che era un principio di conoscenza più grande di qualsiasi io e tuttavia accessibile all’io, in certe condizioni supreme: quando la mente cosciente rimane indietro, e proprio perciò si accede a rivelazioni. Trasumanar significar per verba non si porìa
avverte Dante nel Paradiso (I,70), narrando di ciò che si scopre quando ci si lascia alle spalle la mente cosciente: per verba, cioè con le parole, non c’è verso di riuscire a comunicarlo. E pochi versi prima, Dante spiega: Molto è licito là, che qui non lece
a le nostre virtù, mercé del loco
fatto per proprio de l’umana spece.
Cioè: molte cose sono impossibili alla nostra mente cosciente, e diventano possibili quando ne usciamo; eppure la mente è il “loco” della psiche in cui vuole consistere l’“umana spece” – cioè la sottospecie chiamata giustappunto sapiens sapiens: suggestiva e deprimente definizione, che fa pensare a un sapere di sapere, più limitato del semplice sapere, che a sua volta è una limitazione dello scoprire. Perciò, per indicare quell’impossibilità mentale, Dante dice qui “non lece”, cioè: non è permesso. E non: non ne avremmo in nessun caso la capacità. In pratica, l’“umana spece” si autolimita, si autopreclude l’utilizzo di certe “nostre virtù”, di certe nostre forze. Dell’intellectus, Freud e Jung e i loro continuatori non si curarono affatto, come se non ne avessero mai sentito parlare – il che è impossibile, dato che entrambi, e Jung soprattutto, sapevano di filosofia. In realtà, non volevano
curarsene. L’intellectus presentava lo svantaggio di essere una via alla rivelazione di dimensioni sempre ritenute divine; e Dio, i nuovi psicologi si guardavano bene dal ritenerlo un punto di riferimento della conoscenza, per timore di venire accusati di adoperare un linguaggio non scientifico. In tal modo, imponendosi di rimanere aggrappati alla mente cosciente, andarono incontro a una grave contraddizione, di cui evidentemente non vollero accorgersi, o peggio (nel caso di Jung) non vollero accorgersi di essersene accorti. Studiare il cosiddetto inconscio dal punto di vista della mente cosciente era come studiare il mare dal punto di vista dell’agricoltura, o i Testi delle piramidi da un punto di vista cattolico: un tentativo inutile e improduttivo di adattare, di ridurre l’ignoto a ciò che si sa già. Operazione sempre losca, e particolarmente riprovevole in campo scientifico. La mente cosciente era, d’altronde, anche il preincipale oggetto di studio della psicologia, e in che modo la mente cosciente poteva sperare di studiare se stessa? Tell me, good Brutus, can you see your face?
– domanda Cassio, nel Giulio Cesare di Shakespeare (I,2): dimmi, la tua faccia puoi vederla? Bruto risponde, ragionevolmente: No, Cassius; for the eye sees not itself but by reflection, by some other things.
– l’occhio non vede se stesso se non in immagini riflesse da qualche altra cosa. Tanto meno potrà vedere se stessa la mente cosciente, la quale, a differenza dell’occhio, non può contare su nessun’altra cosa in cui riflettersi, dato che la mente cosciente ha la caratteristica di inglobare in sé tutto ciò di cui riesce a parlare. Qualunque cosa sappia la mente cosciente, ciò che ne sa conferma ed esprime soltanto ciò che sa di sé e, qualunque cosa ne dirà, starà parlando soltanto del fatto che lei ne parli. È un simbolo di questo limite della mente cosciente il dono che Dioniso fece al re di Frigia, Mida: il potere di trasformare in oro tutto ciò che toccava con una qualsiasi parte del suo corpo – e perciò Mida moriva di fame. Così anche la mia conoscenza langue, quando si affida soltanto alla mente cosciente. La mente cosciente, magari, non se ne accorgerà mai, perché non potrà mai darsi veramente torto: dando torto a se stessa avrà comunque ragione. Non potendo smentirsi, non potendo superarsi, non potrà mai progredire. Non conoscerà mai i propri confini, perché, ovunque giungerà il suo sguardo, ci sarà sempre essa stessa, e mai un altrove di cui poter dire: «Ecco, qui io non
ci sono più» – e da cui osservarsi dal di fuori. Per la stessa ragione, non saprà mai quale sia il suo centro, perché ovunque giungesse il suo sguardo sarebbe ancor sempre al centro di se stessa, cioè nel pieno possesso delle sue facoltà: non potrebbe sapere nulla, se no. Non a Dio, come tanti ritengono, o all’universo, o al tempo, come ritengono altri, ma alla mente cosciente sembra riferirsi quell’immagine, quella specie di incubo concettuale, concepito nel XII secolo, da chi scrisse il Liber XXIV philosophorum, e poi rimbalzato da Cusano a Giordano Bruno e a tanti altri, fino a Borges: una sfera che ha una circonferenza infinita e il centro in ogni luogo. Chi vi vide Dio, o l’universo, o il tempo, non fece che dimostrare, involontariamente, che anche parlando di Dio, o dell’universo, o del tempo, la mente cosciente può soltanto parlare di se stessa. 1
Nel caso dei due fondatori della psicologia novecentesca, l’adesione alla mente fece sì che, malauguratamente, proprio nel loro sforzo di essere il più possibile scientifici, precludessero alla loro psicologia di essere una vera e propria scienza: perché diventava impossibile determinare i confini del suo oggetto di studio – come sarebbe stato possibile solo a condizione di osservarlo da fuori, ovvero da fuori della mente stessa. La psicologia novecentesca rimase, così, solo un’espressione del periodo di civiltà in cui i suoi due fondatori si erano laureati. Come l’Europa di fine Ottocento era persuasa di essere il più alto prodotto dell’evoluzione della vita sul pianeta, e considerava inferiore ogni altra cultura, presente o ata, privandosi della possibilità di criticarsi davvero, allo stesso modo la psicologia novecentesca – tutta centroeuropea – negò che esistesse una dimensione più alta, più ampia, dalla quale osservare la mente cosciente: ammetteva che una qualche altra zona ci fosse, nella psiche, più ampia sì, ma più alta certamente no, bensì torbida, pericolosa, da tenere sotto controllo, e di cui non fidarsi in nessun caso. La psicologia novecentesca si immaginava questa zona, l’inconscio, come un mare smisurato, dove vanno alla deriva detriti di processi psichici rifiutati, rimossi dalla mente cosciente; e al contempo come un insieme di forze oscure che continuamente tentano di agire sull’io cosciente, e spesso ci riescono: Abbiamo tutti provato tale impressione, anche se quelle forze non ci hanno sopraffatto.
– sosteneva Freud nel 1922, senza peraltro precisare chi intendesse con la parola “tutti”; e aggiungeva che queste forze insidiose sono talmente vicine, da impedire alla mente cosciente di «sentirsi padrona in casa propria». Jung 2
provò ogni tanto a descrivere l’inconscio in termini più ottimistici: L’inconscio non è ciò che è semplicemente ignoto; da un lato, è l’elemento psichico ignoto, ossia tutto ciò che presupponiamo non si distinguerebbe in nulla dai contenuti psichici a noi noti, qualora pervenisse alla coscienza; d’altro lato, dobbiamo aggiungervi anche il sistema psicoide, sulla cui natura non siamo in grado di fare affermazioni dirette. Il termine «inconscio», così definito, descrive un dato di fatto estremamente fluido: tutto ciò che io so, ma a cui momentaneamente non penso; tutto ciò che per me una volta è stato cosciente, ma che ora è dimenticato; tutto ciò che viene percepito dai miei sensi, ma non viene notato dalla mia coscienza; tutto ciò che io avverto, penso, ricordo, voglio e faccio senza intenzione e senza attenzione, cioè appunto inconsciamente; ogni cosa futura che si sta preparando in me e che affiorerà alla coscienza solo più tardi; tutto questo è contenuto dell’inconscio. Questi contenuti sono tutti, per così dire, più o meno suscettibili di assurgere alla coscienza. 3
Così la prospettiva restava un po’ più aperta: l’inconscio, diceva qui Jung, è ciò che non è conscio, e nulla esclude che ne possa venire fuori qualcosa di buono. Ma notiamo come emerge, in questa descrizione, la paura che la mente cosciente ne ha (paura del proibito, di ciò che “non lece”): nel descrivere l’inconscio, Jung non fa che elencare negazioni, senza alcuna frase affermativa. In più, leggiamo qui che i contenuti dell’inconscio possono “assurgere” alla coscienza – come a una superiore regione, da molto in basso. L’impressione che se ne ha, è di un uomo che soffra di vertigini e che, guardando giù da una piattaforma, e cercando di tenersi indietro, allunghi un po’ il collo. A leggerle oggi, queste frasi suscitano irresistibili domande demolitrici. Innanzitutto, come si può, da quella piattaforma, essere tanto sicuri che l’inconscio abbia dei “contenuti”, che cioè sia una specie di scatola? Dove finisce questa scatola? E cosa c’è oltre? E quel livello inferiore, da cui gli elementi inconsci “assurgono”, era una metafora, e dunque qualcosa di non scientifico, oppure Jung credeva veramente che la psiche fosse una realtà spaziale, con luoghi alti e luoghi bassi? Se lo credeva, perché non lo dimostrò? Se invece era una metafora, da dove la trasse? Dall’idea di un luogo sotterraneo, come il regno dei morti? È probabile: Jung in gioventù si era interessato di spiritismo. Oppure dall’idea delle classi sociali, che vengono dette alte o basse a seconda del potere d’acquisto? Anche questo è probabile: Jung visse sempre nell’agiatezza. Dunque, se fosse stato di origine umile, venuto dal basso, la sua concezione della psiche sarebbe stata diversa? Altrove Jung abbandona l’immagine di un inconscio come d’uno scatolone posto più in basso dell’io cosciente, e capovolge la situazione: L’inconscio dispone di un patrimonio enorme, costituito dai sedimenti di tutte le vite dei progenitori, i quali, già per il solo fatto di aver vissuto, hanno contribuito alla differenziazione della specie. Se si
potesse personificare l’inconscio, esso apparirebbe come un uomo collettivo, al di là della giovinezza e della vecchiaia, della nascita e della morte: con l’esperienza umana, pressoché immortale, di uno o due milioni di anni. Quell’uomo sarebbe senza dubbio superiore al mutare dei tempi. 4
Ecco che l’inconscio cessa di “assurgere” e diventa “superiore”. Cessa di essere il contenitore di ciò che l’io dimentica o non nota, e diventa un emanatore di sapienza accumulata in “uno o due milioni di anni” (un milione o due milioni?). Forse a questo punto sarebbe stato opportuno trovare due sostantivi diversi per indicare i due tipi di inconscio, dato che non erano la stessa cosa; ma Jung non lo fece, e li distinse solo con aggettivi: inconscio personale e inconscio collettivo – che è un po’ come chiamare “pianura bassa” un territorio pianeggiante e “pianura alta” le catene montane circostanti. Perché? Si direbbe che la ragione fosse sempre la stessa: quell’altra dimensione psichica chiamata “inconscio” veniva vista, nell’uno e nell’altro aspetto, solo e sempre dal punto di vista della mente cosciente, che non la conosceva, e perciò poteva cambiare continuamente opinione al riguardo. E il termine “inconscio” era comunque mal scelto. Trattandosi di una scienza, cioè di un’attività volta a conoscere, non le era vantaggioso bollare fin da principio un suo oggetto con un termine che ne indicasse l’inconoscibilità. Tutto nella scienza è Unbewusste (così suona “inconscio” in tedesco, e letteralmente significa: ciò che è sconosciuto) prima che lo si studi e lo si scopra. Ma la biologia o la fisica avrebbero sicuramente faticato a progredire, se l’una avesse stabilito di chiamare “la sconosciuta” la fotosintesi clorofilliana, e l’altra di chiamare “gli sconosciuti” i protoni. Le parole hanno un loro peso psicologico, come Freud e Jung avrebbero dovuto sapere. Chiamare Unbewusste un’area della psiche era porre un tabù. Nel migliore dei casi, nel caso cioè che dopo qualche anno di studi quell’Unbewusste si fosse conosciuto meglio, la psicologia avrebbe dovuto cambiargli nome, e chiamarlo Bewusste, il “conosciuto”, obbligandosi a liquidare come preliminari tutti i propri lavori precedenti – oltre che a cambiare nome anche al “conscio”, per evitare confusione. A dieci, venti, trent’anni dalla pubblicazione dell’Interpretazione dei sogni, questo miglioramento della situazione continuava a non avvenire: Freud e Jung invecchiavano e avevano scritto opere fondamentali sullo “Sconosciuto”, fondando due scuole contrapposte; chi avrebbe avuto l’ardire, allora, di compiere scoperte che trasformassero l’Unbewusste in un Bewusste, facendo così apparire superati i due capiscuola? Né, tantomeno, erano disponibili ad autodichiararsi superati né Freud né Jung, che abbondavano entrambi d’amor
proprio. Così, compito sia della psicoanalisi, sia della psicologia analitica junghiana fu sempre, fin dal principio, preservare il conscio (e le loro teorie) dall’inconscio, lasciando che quest’ultimo rimanesse ignoto. Non per nulla, Jung decise di tenere solo per sé le proprie visioni, e le affettuose, illuminanti conversazioni con gli Spiriti Guida – a cui si era dedicato intensamente dopo il 1913. Ne scrisse in segreto, nell’autobiografia Ricordi, sogni, riflessioni, che volle fosse pubblicata postuma. «Temeva la reazione del pubblico», notò con devota benevolenza, nell’introduzione al volume, la curatrice e discepola Aniela Jaffé. Cosa temeva Jung precisamente? Che migliaia di pazienti e un numero ben maggiore di colleghi, e un numero ancor maggiore di lettori, si sentissero ingannati? Era possibile: per sessant’anni la psicologia aveva eretto linee fortificate contro l’inconscio, mentre Jung intratteneva con quello stesso inconscio cordiali rapporti di collaborazione. «Se si potesse personificare l’inconscio»! Jung lo personificava eccome: in Elia, Salomé, Ka, Filemone e molti altri suoi Spiriti Guida. 5
Filemone rappresentava un’intelligenza superiore. Per me era una figura misteriosa. A volte mi sembrava reale proprio come se fosse una persona viva. eggiavo con lui su e giù per il giardino, ed era per me ciò che gli hindu chiamano un guru. Filemone e le altre figure della mia immaginazione mi diedero la decisiva convinzione che vi sono cose nella psiche che non sono prodotte dall’io, ma che si producono da sé e hanno una vita propria. Filemone rappresentava una forza che non ero io. Mi diceva cose che io non avevo coscientemente pensato, e osservai chiaramente che era lui a parlare, e non io. Diceva che mi comportavo con i pensieri come se fossi io a produrli, mentre, secondo lui, i pensieri erano dotati di vita autonoma, come animali nella foresta, o uomini in una stanza, o uccelli nell’aria: «Se tu vedi della gente in una stanza, non dici certo di averla prodotta tu!» Così egli, un po’ alla volta, mi insegnava l’obiettività psicologica. 6
Jung la imparava, ma non la insegnava a sua volta ai pazienti. Come sarebbero cambiate le sue terapie, se, di tutti gli insegnamenti di Filemone, avesse applicato anche soltanto quell’osservazione dei pensieri che ano per la mente come uccelli nell’aria? Ma quel “timore della reazione del pubblico”, che Jung nutrì per decenni, si rivelò infondato. La pubblicazione della sua autobiografia nel 1960 non determinò alcuno sconvolgimento nella psicologia analitica. I pazienti continuarono a voler essere difesi dalle intrusioni dell’inconscio nella loro vita quotidiana, e gli analisti continuarono a curarli nello stesso modo di prima, sostenendo la necessità assoluta di questa difesa. Una volta stabilito un tabù, è difficile abolirlo; e il tabù che la psicologia aveva posto sull’Unbewusste non fa eccezione.
Proviamo a immaginare quel che sarebbe avvenuto se Jung avesse cominciato a pubblicare i risultati della sua cooperazione con Filemone fin dagli anni Venti. La psicologia novecentesca avrebbe cessato di farsi are per una scienza medica, perché un medico è tenuto a sapere ciò che fa nel suo ambulatorio, e Jung non lo sapeva: non aveva, come dicevano i suoi Spiriti Guida, la necessaria “obiettività psicologica”. Invece di porsi come una specie di odontoiatria della coscienza, la psicologia sarebbe stata un’esplorazione di realtà che la mente cosciente non può conoscere, e un’analisi critica della mente cosciente, per scorgervi ciò che ostacolava tale esplorazione. Così, sarebbe cambiato radicalmente il concetto di malattia psichica: invece di un ostacolo all’adattamento degli individui al mondo adulto, la si sarebbe intesa come un segnale degli ostacoli che la mente cosciente oppone alla scoperta della psiche. Soprattutto, si sarebbe stabilita, nel linguaggio psicologico prima, e poi nel linguaggio comune, una differenza netta tra la mente e l’io. Oggi – anche dopo che la neuropsicologia ha dichiarato che sia Freud sia Jung sono superati – si continua a credere che la mente sia il centro e al tempo stesso il vertice della psiche, e che l’io si debba trovare nella mente. Se cent’anni fa la separazione tra conscio e inconscio non fosse diventata una condizione necessaria alla psicologia, ci si sarebbe accorti che la mente è solo una modalità dell’io, e che non lo contiene affatto, così come un mio malumore non contiene tutte le mie capacità conoscitive. Sarebbe risultato chiaro che l’io è più grande della mente cosciente, e che quanto più scopre di esserlo, tanto più trova nella psiche vie lungo le quali può imparare cose utilissime, attraverso altre sue modalità – che l’immaginazione ha descritto, nel corso dei millenni, come figure benevole, guide, maestri, più grandi, anch’essi, di quel “loco” mentale troppo piccolo in cui la specie sapiens sapiens si è rinchiusa. Proprio perché inspiegabili in questo “loco”, quelle figure avrebbero dato alla psicologia il modo di studiare e spiegare come e perché e quando la specie umana vi si fosse chiusa. Questa maggiore ampiezza dell’io si sarebbe riconosciuta come la ragione principale di tante forme di infelicità, di angoscia, di paura. Infatti, si può soltanto essere più infelici, più angosciati, più impauriti, se ci si sente attorniati da forze ignote, di cui gli esperti mettono in guardia come da un pericoloso Unbewusste – così come ci sentiremmo male in casa nostra, se ci avessero convinti che non bisogna assolutamente entrare in una stanza o aprire alcune ante dell’armadio. Quante nevrosi derivano proprio da simili
divieti, quante ossessioni servono soltanto a giustificarli? La psicoanalisi e la psicologia analitica curavano e hanno continuato a curare questi disagi, aiutando i pazienti ad accettare ciò li aveva prodotti, cioè a evitare alcune stanze e alcune ante. Ma perché guarire a questo modo un occidentale infelice? Perché ritenere che la sua infelicità sia sbagliata? C’è un o, nei Vangeli, che sotto questo rapporto acquista un grande valore psicologico: Si fa più festa in cielo per un peccatore che sia accorto, che non per novantanove giusti che non sentano il bisogno di accorgersi di nulla. Luca 15,7
Di solito viene tradotto «per un peccatore che si pente» o «che si converte», ma è una svista: nel testo è usato qui il verbo μετανοειν, cioè “pensare (νοειν) più in là (μετα) di prima”, ovvero accorgersi. Se si sostituisce “peccatore” con “infelice”, o con “nevrotico”, il o fa proprio al caso nostro. Un occidentale infelice o nevrotico ha tutte le ragioni di esserlo: è il suo mondo che non va; e il suo mondo, altro non è se non il modo in cui la sua mente cosciente capisce, descrive e giudica il mondo. Perciò la notizia di qualcuno che si sia accorto delle ragioni della propria infelicità, cioè dei difetti del mondo, rallegra gli Angeli più del sapere che in quel mondo novantanove benpensanti si trovano a loro agio. Ne viene che l’infelicità, le nevrosi sono da considerarsi indicatori di salute mentale (come la nausea dopo aver ingerito cibo avariato è indicatore di salute fisiologica); dunque perché curarle? La psicologia nata nel Novecento difendeva non tanto l’io, quanto la mente che teme l’ignoto, perché sa che perderebbe, se lo si conoscesse, la possibilità di controllare e limitare l’io. In tal senso, questa disciplina svolgeva una potente funzione sedativa – in apparente concorrenza, e in realtà in parallelo con l’altra grande sedatrice, la religione. Così facendo, la psicologia novecentesca sopprimeva, rimuoveva proprio ciò che nei primi decenni del Novecento aveva determinato il suo successo: mai disciplina con pretese scientifiche era giunta a contare in così breve tempo un tale numero di apionati, che imparavano a usarne la terminologia come, in quello stesso periodo, si imparava a usare l’automobile. Era perché ridestava il desiderio antico di scoprire proprio ciò che nella psiche è ignoto all’io. La psicologia novecentesca proclamava l’esistenza di malattie nuove: faceva, cioè, scorgere fenomeni morbosi là dove prima si vedevano soltanto gradi di normalità – così come l’automobile faceva apparire insopportabilmente lente le carrozze o i cavalli, di cui prima ci si
accontentava. Dunque puntava a una nuova salute: una salute – sembrò allora – per un soggetto diverso dalla mente cosciente, più grande del “conscio”, cioè di ciò che si sapeva già di se stessi. Così la intesero, per esempio, i surrealisti, e André Breton, nel 1921, cercò invano di spiegarlo allo stesso Freud. Se Breton fosse stato più convincente, e Freud meno timoroso, la psicologia avrebbe permesso di see your face, cioè di formare un nuovo concetto di individuo, e di diventare individui nuovi: se io so qualcosa di me e, sapendola, non mi basto più, io sono due – uno che non basta e un altro a cui non basto. Questo piaceva immensamente, negli anni Dieci, negli anni Venti. Ed era precisamente ciò che gli antichi cercavano nelle iniziazioni eroiche: superamenti di limiti mentali che solo l’iniziazione stessa avrebbe insegnato a riconoscere. Ma la psicologia ne ebbe paura, e richiuse la porta che stava per varcare. Così, a chi si inoltra nell’aldilà, cioè nell’ignoto psichico, né gli schemi, né la terminologia, né tantomeno i “non lece” della psicologia attuale sono d’aiuto: conviene dimenticarsene, come se non fossero ancora stati inventati, o come se fossero già da molto tempo caduti in disuso.
1
Liber XXIV philosophorum (XII sec.), II; Giordano Bruno, De la causa, principio ed uno, V; J. L. Borges, La sfera di Pascal, in Altre inquisizioni; cfr. Il libro dei ventiquattro filosofi, Adelphi, Milano 1999. 2 S. Freud, L’io e l’es (1922), in Opere, Bollati Boringhieri, Torino 1977, p. 486; e Introduzione alla psicoanalisi, Bollati Boringhieri, Torino 1978. 3 C. G. Jung, “Riflessioni teoriche sull’essenza della psiche” (1954), in La dinamica dell’inconscio, Boringhieri, Torino 1976, p. 204. 4 C. G. Jung, “Il problema fondamentale della psicologia contemporanea” (1934), in La dinamica dell’inconscio, op. cit., pp. 375-376. 5 In C. G. Jung, Ricordi, sogni, riflessioni (1960), Rizzoli, Milano 1978, p. 12. 6 C. G. Jung, Ricordi, sogni, riflessioni, op. cit., p. 225-226.
PARTE PRIMA PRIMI I NELL’INVISIBILE
L’INVENZIONE E L’IMAGINATIO Chiudete la porta. 7
Io abito nel mondo degli altri. Ciò che la mia mente cosciente sa, la mia mente cosciente lo dice – e, per dirlo, lo pensa – nella lingua che usano altri, e che io ho imparato da altri. Il lessico, la grammatica e la sintassi di questa lingua, cioè la sua logica, controllano dunque tutto ciò che so, limitando tutto ciò che io posso scoprire; e si direbbe che la mia mente cosciente svolga volentieri questa funzione limitatrice, perché ritiene insensato o inesistente tutto ciò di cui non può parlare nel rispetto delle regole della logica – per esempio, qualcosa che sia al tempo stesso singolare e plurale, o che sia in un luogo e al tempo stesso non sia in quel luogo perché è altrove, o che ci sia ancora mentre non c’è più. Come mi apparirebbe il mondo degli altri, in cui abito, se a un tratto i sistemi di controllo esercitati dalla mente smettessero di agire su di me? Sono sistemi di controllo – logici, rispondenti alle regole della grammatica e della sintassi – le tre dimensioni in cui collochiamo ogni cosa: lunghezza, larghezza, profondità; e l’idea del tempo come un flusso unidirezionale e irreversibile; e il principio di causa-effetto, che spiega il presente in base al ato; e la morale, che ci impone di vedere in ogni circostanza ciò che è giusto e ciò che è sbagliato; e certi impedimenti fisici che siamo abituati a ritenere ragionevoli in ogni occasione, come il non poter balzare più in là di tanto, o il non poter are attraverso un muro. Che cosa comincerebbe a guidarmi, se tutto ciò non valesse più? Se potessi, cioè, non trovarmi soltanto in un punto dello spazio-tempo alla volta, ma in due o tre. Se potessi tornare indietro nel tempo. Se nulla di ato avesse più conseguenze su di me. Se non riconoscessi come sensate le parole “giusto” o “sbagliato”, perché troppo approssimative e prive di fondamento. Se potessi are attraverso muraglie e pareti di roccia. Ma tutte queste cose mi capitano spesso. Faccio esattamente questo genere di cose ogni volta che ricordo, ogni volta che desidero. Cioè mi trovo in un punto dello spazio e del tempo, e anche in altri punti dello spazio e del tempo: nel ato, quando ricordo; nel futuro, quando
desidero. E non mi lascio influenzare dal ato, anzi lo cambio: è sufficiente che il ricordo e il desiderio si sommino, e subito assisto a come sarebbero andate diversamente le cose se, nella tale o tal’altra occasione, avessi fatto qualcosa di diverso. E nei miei desideri – sia che riguardino il ato o il presente – mi faccio avvenire cose con una tale rapidità da non potermi domandare se siano giuste o sbagliate; e in questa rapidità supero in un attimo ogni genere di ostacolo materiale. Ma mi hanno addestrato a credere che, quando ricordo e desidero, non sono io a fare ciò che ricordo e desidero, ma un qualcos’altro, una specie di mio drone – mentre io rimango quello di sempre, nello spazio tridimensionale in cui la mia mente cosciente si trova tanto a suo agio, perché lì la logica è rispettata. E se invece fossi io? Se proviamo ad accordare il pronome “io” a quella parte di me che si sposta e agisce nel ricordo e nel desiderio, i viaggi nell’aldilà, di cui narrano i miti, i libri sacri e i veggenti, diventano una parte importante della mia esperienza personale, quotidiana. Scopro di avere e di avere sempre avuto la capacità di lasciare da parte lo spazio-tempo della mente cosciente e di muovermi in modi che la mente cosciente non capisce e che, soprattutto, non controlla. Fuori da quello spazio-tempo il mondo cambia, se chiamiamo “io” il viaggiatore. Ogni disagio diventa un indicatore di direzione: là, mi sposto da un luogo in cui sento che qualcosa mi manca, e vado verso ciò che mi piace o che comunque mi attira di più. In questo mio andare, tutti i miei limiti si trasformano in domande: sono veri limiti? Oppure esistono solo perché io li superi? Tutto il contrario di quel che avviene nello spazio-tempo della mente cosciente. E l’altro mondo, o magari gli altri mondi che prendono forma davanti a ogni sguardo dell’io viaggiatore, non negano il mondo che conosco già (in questo mondo vivo da tanto tempo, e so bene che esiste) ma lo fanno diventare molto più piccolo di quel che era. Ciò che prima era tutto, diventa soltanto una parte di qualcos’altro. E – se fossi io a sperimentarlo, e non un mio drone – non potrei dire a me stesso: «Ma lo sto soltanto immaginando». Quel “soltanto” non avrebbe senso. Lo starei immaginando perché non lo si può percepire in nessun altro modo. I miei cinque sensi fisiologici, infatti, non mi servono più in quel mondo diverso, perché sono abituati allo spazio tridimensionale e al tempo
unidirezionale: la vista, l’udito, il tatto colgono solo ciò che è davanti, dietro, a destra, a sinistra, in alto, in basso; dagli altri due sensi, olfatto e gusto, sono abituato a trarre solo le informazioni che non contraddicono a quelle fornite dai primi tre: se percepisco un odore o un sapore ne cerco subito – da sempre – l’origine in qualche punto dello spazio vicino; e ciò ha talmente specializzato il mio olfatto e il mio gusto, che ormai selezionano automaticamente solo gli odori e i sapori che alla mente cosciente risultino tracciabili. Invece in quel mondo diverso, non tridimensionale, nulla è un po’ più a destra, o più in basso, o più in là di qualche altra cosa: neanch’io. Più ancora, lì nulla è ciò che è: tutto cambia di continuo – perché il tempo non procede in una direzione sola, né a una sola velocità. Lì tutto diventa. Perciò, fuori dallo spazio-tempo che la mia mente conosce e che ritiene l’unico reale, percepirei attraverso un altro organo di senso, più agile e veloce, che da millenni si chiama immaginazione. Altra cosa sarebbe se dicessi: «Me lo sto soltanto inventando». Immaginazione e invenzione sono due funzioni psichiche del tutto diverse, e anzi contrapposte. La parola “invenzione” deriva dalla retorica latina (inventio), che indicava la ricerca di argomenti utili a convincere un uditorio. Di cosa dovesse convincere l’uditorio, il retore romano lo sapeva, naturalmente, in anticipo. Allo stesso modo, anche in ognuno di noi l’invenzione è ciò che ci permette di far apparire convincente, ad altri e anche a noi stessi, qualcosa che avevamo deciso in precedenza. In tal senso noi inventiamo spesso, nella nostra vita quotidiana. Ben poco di ciò che in ogni istante ricordiamo di aver visto, o udito, o pensato, o sentito (tutto, per noi, è soltanto il ricordo di qualcosa che abbiamo pensato, o percepito con i sensi, o colto sottoforma di sentimento) è veramente come lo abbiamo visto, udito, pensato o sentito: è bensì il risultato del nostro inventare, il cui scopo principale è farci sembrare che ci sia una coerenza tra tutte le cose, una coerenza stabilita sempre in anticipo dalla nostra mente, e imposta alla realtà come un sistema di riferimento viene imposto, nella meccanica, ogni volta che si tratta di descrivere un oggetto o un fenomeno. Solo, con la differenza che, mentre in meccanica si è ben consapevoli di adottare un sistema di riferimento, nella nostra mente non ci si accorge che lo si sta facendo. E non ci si accorge di farlo, perché la mente chiama quel sistema di riferimento: la realtà – con l’articolo determinativo, come se non ce ne fosse un’altra. E noi ci fidiamo. E
inventiamo, perciò, senza accorgerci di inventare. L’immaginazione, invece, è la facoltà con la quale proviamo a raffigurarci ciò che percepiamo, ma che non sappiamo ancora capire e dire. Ed è involontaria, proprio perché non sappiamo abbastanza di ciò che ci raffigura, e non possiamo decidere cosa immaginare e cosa no. Non agisce solo nel ricordo e nel desiderio; a tratti nel mio mondo consueto – fatto in piccola parte di percezioni sensoriali e in gran parte di invenzioni nostre o altrui – mi si aprono varchi di ignoto in cui solo l’immaginazione può entrare: varchi nei miei pensieri, nei miei sentimenti, e anche nelle mie percezioni di ciò che mi circonda. Basta una coincidenza: incontro per strada una persona a cui stavo pensando mezz’ora prima; se mi domando “Perché l’ho incontrata adesso? Com’è stato possibile?” sono già nel territorio dell’immaginazione. Oppure emerge in me un ricordo più forte degli altri, che, prima che io l’abbia voluto o deciso, mi fa sentire altrove o mi suscita l’impressione della presenza di qualcuno che dovrebbe essere altrove: di nuovo, se mi domando “Com’è possibile?” entro nell’immaginazione. Lo stesso avviene quando, invece di un ricordo, emerge o discende in me un’ottima idea, non so come e da dove: basta che io faccia caso a questo avvenimento, e subito l’immaginazione si attiva e guarda al di là di tutto ciò che la mente cosciente conosce. Succede. L’immaginazione succede, come l’accorgersi: e così come nessuno può decidere se e quando accorgersi di qualcosa (succede!), allo stesso modo nemmeno l’immaginazione è ai nostri ordini. Possiamo solo attenderla: voler immaginare è innanzitutto voler evitare il più possibile che qualcosa impedisca che l’immaginazione succeda. L’immaginazione può attivarsi in qualsiasi momento: in qualsiasi momento può avvenire, cioè, che ci sottraiamo ai sistemi di controllo della mente cosciente. La mente cosciente non imparerà mai a tollerarlo: in ogni caso del genere, attiverà i suoi segnali d’allarme, sottoforma di perplessità, stupore (termine deprimente, affine a “stupidità”, derivato dal latino stupere, “immobilizzarsi”), paura e impulso a tornare indietro. Perciò Dante avverte, in uno dei due o tre i che cito più volentieri: Imagini chi bene intender cupe Quel ch’i’ or vidi (e ritegna l’image, Mente ch’io dico, come ferma rupe) Paradiso XIII, 1-3.
Ritegna, cioè trattenga le immagini, perché non svaniscano subito: perché la mente cosciente non le dissolva, con sforzi di invenzione. Dante usa qui un
tono da istruzioni per l’uso: i viaggiatori psichici vi ricorrono spesso, come se si sentissero responsabili di chi prima o poi vorrà seguirli, nei varchi e poi nelle vie che l’immaginazione permette di scorgere. Ritroviamo quello stesso tono, e quasi quelle stesse parole, nei dialoghi del Corpus Hermeticum, di cui Dante poteva aver saputo qualcosa, o addirittura letto qualche brano, conversando con qualche dotto bizantino: Io dico: «Desidero apprendere tutto riguardo agli esseri e intendere la loro natura e conoscere Dio. Questo voglio ascoltare!» Mi rispose: «Trattieni con il tuo intelletto ( noûs) tutto quello che desidererai apprendere, e allora io potrò istruirti». 8
Sia Dante sia il Corpus Hermeticum insistono su quel trattenere, che è certamente un atto volontario, e costituisce il secondo momento dell’immaginazione – dopo il suo improvviso succedere. È un atto indispensabile, per chi si inoltra nel mondo che ancora non si conosce – così come qualsiasi strega si tiene saldamente afferrata alla ramazza che si è alzata in volo. Altre raccomandazioni in proposito si trovano nel Rosarium philosophorum, un trattato di alchimia della metà del Cinquecento, caro a Jung: 9
Bada bene che la tua porta sia fermamente chiusa, perché colui che è dentro non possa fuggire; e, se Dio vorrà, giungerai in tal modo alla meta. La natura esegue gradatamente le sue operazioni; e io voglio che così faccia anche tu, che la tua immaginazione si orienti secondo natura. Tu osserva secondo la natura, i corpi della quale si rigenerano nelle viscere della terra. E immagina tutto ciò con vera immaginazione, e non con immaginazione di fantasia.
La “porta” è quella che separa l’immaginante dal mondo già noto, dal mondo che è in gran parte opera della mente cosciente. Suona audace, alle nostre orecchie del XXI secolo, quell’idea di una cooperazione tra l’immaginazione e la natura: per natura noi siamo talmente abituati a intendere una componente fondamentale del mondo già noto, da trovare strano che sia menzionata qui, come se vi fossero leggi naturali anche aldilà di questo mondo. Evidentemente, per gli alchimisti l’idea che il mondo già noto fosse solo una parte di qualcos’altro era talmente salda, da risultare del tutto naturale. Quanto alle “viscere della terra”, questa espressione, tipica dell’alchimia cinquecentesca, è l’annuncio di una chiusura ancor maggiore, che l’immaginante dovrà imparare e abituarsi a sperimentare. È un’immagine antichissima: non solo nell’arte etrusca troviamo porte chiuse scolpite nella roccia, ma nelle pitture parietali del periodo magdaleniano (dodicimila anni fa) vediamo le pareti delle caverne trasformate in spazi da cui si avvicinano animali, o in cui animali fuggono da chi li guarda, suscitando il desiderio di
inseguirli. La roccia compatta, impenetrabile al corpo umano, è un potente simbolo del confine del mondo, che può essere varcato soltanto da chi “rigenera il corpo” a tal punto, da disobbedire alle leggi della materia così come la mente cosciente si sforza di intenderle – o diciamo meglio, così come è abituata a inventarle. Avviene, ripeto, spesso. Quindi tutte le indicazioni, le geografie dell’invisibile, le descrizioni di figure, i resoconti di esperienze e trasformazioni interiori, e anche i resoconti di scoperte, illuminazioni, insegnamenti ricevuti nell’aldilà, che si trovano nella letteratura mistica, profetica di ogni tempo, e nelle fiabe, e in tanta letteratura fantastica più seria e più psicologica di quanto non si pensi, riguardano un’abilità che tutti noi abbiamo. Parlano di occasioni che la mente cosciente ci ha fatto perdere innumerevoli volte – dicendoci: «Non guardare là, non badarci, non andare, resta qui con me». Occasioni che possiamo non perdere più.
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L. Sterne, Vita e opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo, capitolo IV. Corpus Hermeticum, Trattato I, 2. Cfr. C.G.Jung, Psicologia e alchimia (1944), Bollati Boringhieri, Torino 1995, p. 167.
IL RITROVARMI
Dunque ogni volta che immagino, io vado oltre – e la mente cosciente rimane indietro. E ciò è “secondo natura”, non secondo la natura nota, ma secondo quella che è ancora ignota – e che è quella stessa per la quale avvengono i miracoli. Altrettanto naturalmente, a Dante risultava che chi stia scoprendo l’aldilà del mondo conosciuto (cioè l’aldilà del nostro modo di conoscere il mondo) scopra innanzitutto un’altra parte di se stesso, di cui non sapeva o non ricordava nulla. Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura
Il viaggio di Dante comincia con l’annuncio di una scoperta di sé, avvenuta al di là del mondo noto. L’espressione “mi ritrovai” riceve, dalla metrica del verso, un risalto tutto speciale (come se il poeta in quel momento gettasse un’occhiata intensa al lettore e fe una pausa brevissima e particolarmente significativa) che suggerisce di non intenderla, com’è secondo il linguaggio consueto, soltanto nel senso “mi accorsi di essere capitato in un posto che non mi ero aspettato“, bensì io ritrovai il mio io
di cui avevo perduto le tracce chissà quanto tempo prima, o di cui magari non avevo mai saputo nulla. Gli io sono due. Chi ritrova chi? Tentare di rispondere dà una certa vertigine: se si tratta di due miei io, io sono entrambi, eppure sono due, diversi l’uno dall’altro. Se io sono due io, tutto ciò che i miei due io fanno sono io a farlo, ma al tempo stesso non sono io a farlo, perché ciò che fa uno non lo fa l’altro. Così non so; o meglio, uno dei miei due io non sa, non capisce, e si ingarbuglierebbe se provasse a dirlo: «Io ritrovo il mio io che mi sta ritrovando?..». E io sperimento il suo non saperlo nello stesso istante in cui sperimento il saperlo dell’altro mio io. A questo punto, la mia mente cosciente capisce di non essere più padrona della situazione: il senso di vertigine è il suo; ed è una perdita di potere, un potere che esercitava da tanto tempo su di me e sul mio mondo. Se mi lascio intimorire da quella sua
vertigine, non entro nell’aldilà, rimango soltanto il mio io consueto e non so più niente – e fingo di non aver mai saputo niente – dell’altro. Una sensazione analoga dà un o di Paolo (un altro mio prediletto) che Dante doveva aver ben presente: Adesso vediamo come in uno specchio, in un enigma; ma allora vedremo faccia a faccia. Adesso conosco in parte, ma allora conoscerò così come sono conosciuto. 1 Corinzi 13,12.
“Adesso”, per Paolo, significava nel mondo già noto. E Paolo si immaginava (immaginava, e tratteneva l’immagine) che il mondo già noto fosse non una parte di qualcos’altro, ma addirittura uno specchio, in cui un’altra dimensione si riflette. “Adesso”, nel riflesso che il mondo ne dà, questa dimensione si può conoscere solo ex parte, εκ μερους, e in forma interrogativa, in aenigmate, εν αινιγματι, così da indurci a domandare: «E il resto, l’originale di ciò che è riflesso, come sarà?» e a guardare il mondo già noto come a qualcosa in cui il nostro io comincia a non sopportare più di essere contenuto. Anche di noi stessi, nello specchio, vediamo solo ex parte, una parte soltanto, così da poterci fare, su noi stessi, solo domande che “adesso” non trovano risposta. “Allora”, fuori dal mondo noto, “conoscerò come sono conosciuto”, e s’intende: io conoscerò tutto, incluso me stesso, nel modo in cui sono conosciuto dall’altro mio, quello che è fuori dal mondo consueto – e che secondo Paolo è addirittura il mio io originale, di cui nel mondo si muove solo un riflesso. Non solo I shall see my face, ma I shall see me, e sarà di sicuro emozionante da un lato e deludente dall’altro, perché “allora” ciò che “adesso” so non mi servirà più, se non come un ricordo di quando non sapevo abbastanza. Tutto ciò che so non solo non mi basterà più, ma non mi servirà più. Da queste sensazioni la mente cosciente vuole tenersi al riparo, e perciò provvede tanto spesso a negare, a censurare i varchi di immaginazione che a noi succedono. Ci sono cose che, per il solo fatto di averle potute immaginare, cambiano il mondo in cui viviamo. Così il mondo di “adesso”, il mondo già noto, diventa, all’inizio della Commedia, la “selva oscura”, messa lì apposta per limitare l’immaginazione: in quella selva, un io di Dante si accorge di essersi perduto nel mezzo del cammin di nostra vita, cioè nel suo essersi adeguato a ciò che ai noi, agli altri, risulta essere il cammino da seguire. L’altro suo io sa, invece, che quel cammino di nostra vita è un allontanarsi da una diritta via, che conduce
altrove. E quest’altro io viene in aiuto al primo, e lo guida, attraverso quella “selva oscura” che fino ad allora gli ha nascosto troppe cose. Succede (lo ripeto e lo ripeterò per tutto questo libro): può succedere continuamente, anche un attimo dopo aver finito di rileggere questa riga. Qualsiasi ricordo o desiderio può farti ritrovare te stesso nella selva oscura, e proprio nel mezzo del cammino della tua vita d’ogni giorno. E mostrarti una diritta via. Tale e quale a Dante. Poi, molto più avanti, dopo che avrà attraversato l’inferno e il purgatorio, l’io viaggiatore di Dante si sentirà dire, da Virgilio: «Non aspettar mio dir né più mio cenno; libero, dritto e sano è tuo arbitrio, e fallo fora non fare a suo senno: per ch’io te sovra te corono e mitrio». Purgatorio XXVII, 139-142.
In italiano contemporaneo: non stare ad aspettare altre indicazioni da me, perché il tuo volere è, adesso, libero, diritto e sano, e l’unico tipo di errore che potresti commettere sarebbe non fidarti di ciò che il tuo volere sente (suo senno): perché d’ora in poi un tuo io rinnovato, rigenerato, è diventato ciò che prima credevi di trovare in autorità del mondo che allora conoscevi; quest’io ti fa re e papa di te stesso. Dunque, a un certo punto gli io che all’inizio erano diventati due rimarranno due, ma in stabile connessione. Ciò che invece cambierà radicalmente, saranno alcune certezze fondamentali dell’io che all’inizio era smarrito nella “selva”: prima fra tutte, l’accettazione del principio d’autorità espresso dal potere politico e dal potere religioso. “Adesso”, nello “specchio”, qualsiasi individuo vede che quel potere è sempre altrui, a meno che quell’individuo non sia un papa o un re. “Allora”, volgendosi via dallo specchio, l’io scoprirà che tutto ciò che attribuiva a un capo di Stato o a un papa è in realtà qualcosa di suo. Se questo vale per il nostro rapporto con il potere politico e il potere religioso, dovrà valere anche per molte altre forme di supremazia, di privilegio – la ricchezza, per esempio. Tanto più in allarme dovrà dunque sentirsi la mente cosciente, e tanto più spiegabili diventano le sue resistenze, che la spingono a chiudere i varchi apertisi all’immaginazione. La mente cosciente, come sappiamo, ha un irresistibile impulso a valutare tutto in termini morali: tutto, per essa, è giusto o sbagliato – e andare contro l’autorità costituita è, certo, moralmente sbagliato. Ma sapevamo anche che il giusto e lo sbagliato non valgono più, là fuori. Ne deve derivare che chi osa avventurarsi là va incontro a una crescita
interiore in conflitto con il mondo di “adesso”. È una buona prospettiva: solo dai conflitti con l’esistente possono prendere forma cose nuove, atti creativi, progetti, ideali. Ma non corriamo avanti: per uscire dallo specchio di cui parlava Paolo, o dalla selva, occorre ancora un lungo cammino.
IL CAMMINARE
Dalla “selva oscura”, cioè da un luogo privo di direzioni utili, l’io deve giungere in un altro luogo, dove gli si apre una via diritta, che in italiano medievale significava non tanto rettilinea quanto “ben guidata”, ben diretta. E abbiamo visto che a ben dirigerla sarà, a un certo punto, il “libero, dritto, sano arbitrio” del viaggiatore stesso. L’accesso all’Aldilà era per Dante l’inizio della conquista di una autorità interiore totalmente autosufficiente – e dunque qualcosa di molto diverso da ciò che ritengono quei molti, per i quali le esperienze estatiche richiedono maestri, sacerdoti, obbedienze a gerarchie, integrazioni a gruppi. Nell’aldilà così come lo si intende comunemente, molti bramano di abdicare al proprio libero arbitrio, di affidarsi totalmente a potenze altrui: sia che si tratti dell’aldilà religioso, costituito da Paradiso, Inferno e – per i cattolici – Purgatorio, dove interi eserciti di Angeli o diavoli decidono la sorte di chi vi giunge; oppure dell’aldilà dei reincarnazionisti, in cui a decidere le sorti è un sistema cosmico; o del facile aldilà a cui si accede attraverso le droghe: a decidere tutto sono, in questo caso, le virtù delle piante psicotrope. E in tutti questi casi l’accesso all’Aldilà è immaginato come più o meno rapido: è sufficiente sottomettersi, o abbandonarsi. Ma queste prospettive non si riferiscono all’aldilà del mondo già noto. Nel mondo già noto ci si sottomette e ci si abbandona sempre al parere della mente cosciente – e siccome la stragrande maggioranza lo fa, ci si sottomette e ci si abbandona al parere altrui. Il presunto aldilà delle religioni, o dei reincarnazionisti, o delle droghe, è soltanto uno specchio montato sul confine, uno specchio più o meno deformante in cui si riflette il mondo già noto: il riflesso di un riflesso, direbbe Paolo di Tarso. Troviamo invece, nei viaggiatori più antichi, l’idea che ogni viaggio nell’aldilà sia un camminare, cioè qualcosa che il viaggiatore deve fare personalmente, nel pieno della sua volontà, e con attenzione vigile. Il camminare è anche il simbolo di una costanza, di una gradualità, nell’accedere all’aldilà: non è un correre. Così risultava all’alchimista cinquecentesco che ho citato: La natura esegue gradatamente le sue operazioni; e io voglio che così faccia anche tu.
Gradatim: da gradus, che in latino è “o”; e “anche tu” sarai tenuto a procedere o o. Dante puntualizzava: A retro va chi più di gir si affanna. Purgatorio XI,15.
Gire, in italiano medievale, significava “andare”. Più fretta hai, in questo genere di viaggi, e più retrocedi, invece di avanzare. Possiamo spiegarci questi avvertimenti, solo supponendo che lungo la via che conduce all’aldilà si presentino di continuo occasioni di scoperte indispensabili al viaggiatore, il quale perciò si troverebbe a dover tornare indietro se, per la fretta di progredire, se le fosse lasciate sfuggire. E tenderebbe a lasciarsele sfuggire così solo in un caso: se confidasse di sapere già abbastanza di se stesso, e di essere già sufficientemente formato, così che nuove scoperte non gli aggiungerebbero nulla. Invece no: a ogni tratto di quella via l’io del viaggiatore è ancora incompleto, e a ogni o non fa che accorgersene. Così, non avere fretta. Il varco che si apre richiede pazienza. Tanto più che la via, da lì in avanti, modificherà chi la percorre – fino a farlo diventare re e papa di se stesso. Bisogna dare alle modifiche il tempo di compiersi; e all’io, di accorgersene. Questi significati assume l’immagine della via, in una moltitudine di tradizioni iniziatiche. Lente vie modificatrici dell’io erano dròmoi, i “corridoi”, che dovevano percorrere gli adepti delle religioni misteriche ellenistiche. E le lunghe camminate di Carlos Castaneda con Don Juan Matùs, sugli altipiani del Messico centrale. E la lunga fuga di Giona, fino al naufragio e al Grande Pesce, nel ventre del quale Giona diventa finalmente profeta. Cappuccetto Rosso e Biancaneve percorrono pian piano una via attraverso la foresta. Una via di trasformazione è il cammino dei pellegrini medievali per giungere ai luoghi sacri. Vie di trasformazione sono i labirinti che vediamo sui pavimenti delle cattedrali gotiche, a Chartres, a Rouen. Sono vie da percorrere i canali dell’Albero della Vita. E così pure gli itinerari lungo i quali gli aborigeni australiani raggiungono la loro percezione dell’Alcheringa, cioè del “Tempo del sogno”. Vie preistoriche erano i leys, i tracciati che congiungevano l’uno all’altro i luoghi di potere – dolmen, menhir, rocce, alberi sacri –traversando l’Europa
intera e parte dell’Asia; e anche noi in questo libro congiungeremo l’uno all’altro luoghi, frasi, figure in qualche modo sacre. È una via di trasformazione la ricerca del Graal. E il viaggio di Odisseo. Era una via di trasformazione il Serpente, che conduce l’’iŠaH all’Albero della Conoscenza, e sul quale poi l’’iŠaH porrà sempre il piede (sempre: una via che non finisce mai), come sappiamo dal primo volume di questo libro. E anche il tragitto dall’Egitto verso la Terra Promessa. E le istruzioni di viaggio che il libro dell’Esodo fornisce ai viaggiatori sono tante e talmente precise, da far ritenere che chi lo scrisse abbia voluto svelare, sotto la forma della cronaca prodigiosa della fuga degli ebrei, ciò che in origine era stato un rituale iniziatico egizio, simboleggiato in un cammino, e custodito, prima dello scisma prodotto da Mosè, da qualche gerarchia sacerdotale. Vediamone subito alcune.
OLTRE I MURI
All’inizio del libro dell’Esodo, il futuro popolo eletto è prigioniero dell’Egitto come uno dei due io di Dante lo è della selva oscura, ma è rassegnato alla sua situazione, tanto da ritenerla una specie di normalità. Ha autorità a cui obbedire, e a cui tutti obbediscono lì: il Faraone e i sacerdoti di una religione locale, alla quale i futuri ebrei sono devoti. Più o meno come ognuno di noi, nel mondo consueto: per noi l’autorità è un governo, una serie di tradizioni, di abitudini, di divieti, di tabù, di pubbliche opinioni, di illusioni condivise da gruppi di persone e ritenute, in quei gruppi, obbligatorie, e anche correttezze di vario genere, e una religione, oppure il rifiuto di averne una, e via dicendo. E il “mi ritrovai” è, nell’Esodo, il momento in cui grazie a Mosé il popolo acquista faticosamente coscienza della propria oppressione: in Egitto, i futuri ebrei erano costretti a lavorare alla produzione di mattoni, narra l’Esodo, e Mosé insegna loro ad accorgersi di come le loro forze venissero impiegate per fornire ad altri il materiale necessario a costruire muri – che sono il contrario di una via. Ma, di nuovo, non è così per tutti, nel mezzo del cammin di nostra vita? Tutti i muri che chiudono le nostre prospettive sussistono soltanto perché l’energia che non osiamo utilizzare per noi stessi è servita e serve a costruirli. Gesù lo spiegava così: I suoi discepoli si avvicinarono per mostrargli gli edifici del Tempio. Ma disse loro: «Vedete tutte queste cose? In verità vi dico che qui non resterà pietra su pietra che non sia diroccata». Matteo 24,2
Dunque, una prima istruzione ebraico-antica per i viaggiatori che abbiano deciso di accorgersi dei varchi e di incamminarsi nelle direzioni che si scorgono più in là: smettere di costruire muri. E accorgersi che per liberarsene occorre innanzitutto smettere di lavorarci.
CANAAN
Cessata la costruzione di muri, l’orizzonte si apre. Quando il popolo eletto smise di servire all’edilizia e partì, l’Esodo narra che «l’Egitto fu svuotato» (12,36). Non solo perché i fuggitivi portarono con sé molte ricchezze, ma anche perché cambiò d’un tratto ciò che i fuggitivi vedevano dinanzi a sé: al posto del Paese dei Muri si spalancò davanti a loro il vuoto del deserto. Lo spazio, da chiuso e labirintico, divenne vuoto. È sempre uno shock, per i viaggiatori, are dal mondo pieno, strapieno di muri, al suo contrario – alla sensazione che là fuori non valgano più le condizioni restrittive che bloccavano l’immaginazione dell’io nella “selva”. È facile spaventarsi, lì, e voler tornare indietro. Così, nel deserto, i fuggitivi protestavano spesso, perché non sapevano dove Mosè, ex-nobile egiziano, ora profeta, li stesse guidando. Dicevano i figli di Israele: «Fossimo morti per mano del Signore in Egitto, quando eravamo seduti davanti alla pentola di carne e mangiavamo pane a sazietà! Invece ci avete fatti uscire in questo deserto». Esodo 16,3
I discepoli di Gesù dicevano qualcosa di molto simile: «Signore, non sappiamo dove vai. Come possiamo conoscere la via?» Giovanni 14,5
Vi è qui un’altra istruzione fondamentale per i viaggiatori: la mèta delle vie per le quali si incamminano non è conosciuta in anticipo – e questo deve far sentire smarriti. Capiamo perché: se la funzione delle vie è di trasformare il viaggiatore, tutto ciò che il viaggiatore stesso sa al momento della partenza non basta a indicargli dove giungerà. Se sapesse già, lo guiderebbe qualcosa che sa già, cioè qualcosa che appartiene già al mondo della sua mente cosciente. Invece, deve essere l’ignoto ad attrarlo, e a riplasmare il suo io, destando in lui potenzialità che ignorava o spingendo a produrne di nuove. Perciò, per gli ebrei che si avventurano nel deserto, la terra promessa ha il
nome di ןענכ KaNa‘aN, che in ebraico geroglifico significa il concretizzare, il solidificare ( נ כ, KN) le caligini, l’informe ( ן ע, ‘N).
Dinanzi allo sguardo dell’immaginazione, Canaan non è neppure un luogo, non ancora: è solo una caligine che rimarrebbe per sempre tale se non ci si avvicinasse, cioè se l’immaginazione, oltre il varco, non continuasse a percepire. Là fuori, diventerà vita solo ciò che si comincerà a vivere. Prima degli ebrei dell’Esodo, Abramo aveva scoperto questo progressivo formarsi dell’aldilà, quando YHWH l’aveva esortato a partire senza sapere per dove: «Va’ via dalla tua patria, via dal tuo parentado, via dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò». Genesi 12,1
“La terra che ti indicherò”, e non “che ti indico” o “che ti ho indicato”. Prima ancora, l’aveva sperimentato Noè, quando ’Elohiym gli aveva dato istruzioni per salpare verso un mondo nuovo, non solo sconosciuto ma inimmaginabile. Anche in una fiaba russa rielaborata da Tolstòj compare questo motivo: Vennero dallo zar e gli dissero: «Bisogna mandare a chiamare Emel’jàn e dirgli: Va’ in un posto che non sai e portami qua una cosa che non sai. Così non potrà più cavarsela. Ovunque andrà, tu dirai che è andato nel posto sbagliato; e qualunque cosa ti porterà, tu dirai che avrà portato la cosa sbagliata. E allora lo si potrà mettere a morte, e potrai prendergli la moglie». Molto si rallegrò lo zar: «Stavolta» dice «avete pensato proprio una cosa intelligente». 10
Ma l’umile Emel’jàn va, confidando nella propria capacità di scoprire: e risolve il doppio enigma, e di lì a non molto rovescerà lo zar. Le vie assecondano chi si fida senza sapere. Lo si tenga presente – torno a insistere – ogni volta che una qualsiasi coincidenza, o nuova idea spuntata da non si sa dove apre varchi.
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L. Tolstòj, Il lavorante Emel’jàn e il tamburo vuoto (1886).
LA CAUSA FUTURA
Don Juan Matùs spiega a Carlitos l’importanza dell’ignoto, parlando della differenza tra l’aldiquà (che lui chiama: il tonal) e l’aldilà (che lui chiama: il nagual): Il nagual non è esperienza o intuizione o consapevolezza. Questi elementi, e così qualunque altro tu abbia voglia di nominare, sono soltanto elementi dell’isola del tonal. Il nagual, invece, è solo effetto. 11
Solo effetto. La causa non c’è, se per causa intendiamo – come oggi appare a tutti indispensabile in Occidente – un avvenimento ato che determini qualcosa del futuro. Se nell’aldilà, nel nagual, esistono cause, sono cause che agiscono dal futuro sul ato – il che per l’odierna mentalità occidentale è incomprensibile. Un occidentale si domanderebbe inevitabilmente: «Come può un avvenimento futuro, che non si è ancora prodotto, determinare una qualsiasi cosa che sta avvenendo ora? Se è futuro, non sarà per forza determinato da qualcosa che è avvenuto prima?» La risposta a questi interrogativi è il turbamento che provocano: quel turbamento diventa un varco, l’inizio di un viaggio, se l’immaginazione si attiva. Un altro istruttore, che qualche lettore ricorderà, scriveva a proposito del turbamento, agli inizi del II secolo d.C.: Chi cerca non smetta di cercare fino a quando non avrà trovato; quando avrà trovato, si meraviglierà. Quando si sarà meravigliato, sarà turbato, e allora sarà re su tutto. 12
Il turbamento è il segnale di qualsiasi scoperta che avviene nell’aldilà: la mancanza di cause ate fa sì che qualunque cosa ci si accorga di sapere nell’aldilà, non si riesca a spiegare come si sia arrivati a saperla. Il che ci permette di dare all’aldilà una collocazione abbastanza precisa, nel campo delle nostre esperienze: siamo nell’aldiquà quando possiamo spiegare in che modo abbiamo saputo ciò che sappiamo; siamo nell’aldilà, ogni volta che non lo possiamo, e che non abbiamo altra scelta se non meravigliarcene. Da qui un’altra istruzione: un viaggiatore nell’aldilà non potrà contare su nessuna guida che non garantisca meraviglia. Preoccupa, certamente, questa imponderabilità. Preoccupa ancora di più, per altri versi, quel “sarà re su tutto” – che ricorda da vicino la corona e la
mitria di cui parlerà Dante, oltre alla corona di zar che toccherà a Emel’jàn. Essere re su tutto? Non è Dio che governa tutto? Si ha qui l’impressione – davvero conturbante, se attribuita a Gesù, com’è appunto nel Vangelo di Tomaso – che l’attuale re del tutto, il Dio creatore, stia cercando allievi, e successori. Ma quanto più ci si pensa, tanto più appare probabile, verosimile e coerente. «Io sono il tuo Dio, che ti ha tolto dall’Egitto, dalla casa degli schiavi» dice quel Dio di tutto (Esodo 20,1) «e non avrai altro Dio dinanzi a me»: dunque il togliere qualcuno dagli Egitti, dai Paesi dei Muri, è una prospettiva illimitata, che fa diventare stretta ogni immagine di una reggia, anche l’immagine di una reggia divina, dato che ogni reggia è fatta di muri. Si può dunque obbedire a quel Dio dell’Esodo – a quel Dio, cioè, del cammino – soltanto lasciandosi alle spalle l’idea che sia lui a governare tutto: lungo la via dell’aldilà anche l’immaginazione comincia a creare tutto, come Dio crea, e senza aver saputo come.
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C. Castaneda, L’isola del tonal, II, cap. III. Vangelo di Tomaso, loghion 2.
IL SONNO
Perciò si narra che molti viaggiatori chiudano gli occhi all’inizio della via. Non si tratta di un non voler vedere. È che ci si accorge da subito, in questi viaggi, che i nostri occhi, cioè il nostro modo di conoscere, addirittura il nostro modo di percepire, sono inadeguati a ciò che sta incominciando, perché si sono adattati da troppo tempo a cogliere soltanto il mondo della mente cosciente. Nell’aldilà, altri nostri sensori devono cominciare ad agire. Così si chiudono gli occhi e tutti gli altri sensi specializzati nell’aldiquà, perché là non servono e anzi saranno d’intralcio. In pratica: oltre il varco non si sa, e, come ripeteva Socrate, si sa di non sapere. Così, l’’aDaM aveva gli occhi chiusi da un “torpore” (Genesi 2,21) quando vide l’’iŠaH – che, come sappiamo dal primo volume, è il simbolo della nostra capacità di conoscere ciò che i nostri sensi non percepiscono. E al suo primo incontro con ’Elohiym, Mosè 13
si nascose la faccia, perché temeva di gettare uno sguardo verso ’Elohiym Esodo 3,6
– perché se avesse guardato con i propri occhi non avrebbe visto nulla. Marcel Mauss, ai primi del Novecento, scriveva a proposito delle percezioni dei maghi e degli sciamani: si può dire che la loro tecnica sia sempre la più facile, perché evita lo sforzo, sostituendo le immagini alla realtà. Non fa nulla, o quasi nulla, ma fa credere tutto, tanto più facilmente in quanto mette al servizio dell’immaginazione individuale forze e idee collettive. 14
Mauss, nel 1903, non sospettava che ben presto il suo punto di vista sarebbe apparso antiquato. La sua nozione di “realtà”, gettata lì come se chiunque sapesse di che cosa stava parlando – come se fosse ovvio che ciò che gli uomini percepiscono con i cinque sensi sia la realtà, con l’articolo determinativo – era destinata a far sorridere: già tre anni dopo il Saggio di Mauss, l’Occidente cominciò ad abituarsi, con Einstein, all’idea che lo spazio tridimensionale sia solo uno di tanti spazi possibili, e che il tempo sia un atto di fede della nostra mente, e che quelle che Mauss chiama “le immagini” sarebbero diventate strumenti essenziali per rappresentare altri universi. Ciononostante l’intuizione di Mauss risulta giusta, malgré lui, se la
rielaboriamo così: per percepire al di là del percepibile non occorre fare quasi nulla, solo accorgersi di immaginare (che come sappiamo non è un’azione, non è un fare, ma solo un lasciar avvenire) e dare importanza a ciò che succede di immaginare; il “far credere”, di cui parla Mauss, corrisponde al trattenere, al ritegna l’image, di cui diceva Dante. Quanto invece al carattere “collettivo” di quelle forze e di quelle idee, si tratta di un’ipotesi che Mauss (come Jung qualche anno dopo) aveva troppa fretta di trasformare in una certezza. Per verificarla, sarebbe stato necessario un lungo lavoro statistico. Si sarebbe dovuta chiarire la portata di quel carattere “collettivo”, cioè quanto grande fosse la collettività a cui si riferiva. Un’intera popolazione? Una parte della popolazione? Quale parte? Quelle forze e idee sono collettive tanto quanto lo erano, nel 1903, le aspettative del pubblico dell’opera lirica o del teatro di burattini? Oppure quanto lo sono i bisogni e i rimorsi su cui fanno leva i pubblicitari, quando per lanciare un prodotto ricorrono a immagini di famiglie felici di averlo acquistato? Mauss (come anche Jung) avrebbe fatto meglio a osare di più: a definire quelle forze e idee non “collettive” – che, dopotutto, è un sinonimo di “banali” – ma universali. Universale è qualcosa che riguarda tutti – ma che al contempo è accessibile solo a chi sappia “chiudere la porta”, distogliendosi proprio da ciò che è collettivo. Ma ciò avrebbe elevato troppo la statura intellettuale dei maghi e degli sciamani, e Mauss non aveva questa intenzione. Rimane a Mauss il merito di aver riconosciuto, per primo in Occidente, l’importanza del “non fare nulla, o quasi nulla”, per poter superare i limiti dell’io già noto. Chiudere gli occhi è non fare quasi nulla. Ne troviamo un’illustre conferma nel racconto della Trasfigurazione, là dove l’evangelista narra di uno speciale “sonno” che fa diventare possibile la rivelazione: Pietro e i suoi compagni erano oppressi da un sonno, ed essendo svegli videro. Luca 9,32
È un paradosso: si tratta di un sonno che non è un sonno. Un sonno in cui si può essere svegli come non mai. Teresa d’Avila lo descrive come un sonno delle facoltà attive dell’anima: esse non si perdono del tutto, ma non capiscono in che modo operino. 15
La stessa impressione segnalava Dante: Io non so ben ridir com’io v’entrai tant’era pieno di sonno a quel punto
Inferno I,10-11
– cioè: uno dei miei io non saprebbe spiegare come l’altro mio io fosse entrato in quella dimensione, perché il primo dei due miei io era pieno di quel “sonno”. Così era anche nei dialoghi dei sacerdoti di Thot: Una volta avevo preso a riflettere sugli esseri, e il mio pensiero si era molto elevato, mentre i miei sensi corporei erano fermi, come avviene a chi è gravato dal sonno […] e mi parve di vedere un essere di statura superiore alla grandezza (υπερμεγεθη), superiore a qualunque misura definibile, il quale mi chiamava per nome e mi diceva: «Che cosa vuoi udire e contemplare, apprendere e conoscere per mezzo dell’intelletto?»16
A quell’“essere” incommensurabile si accede quando, semplicemente, chiudi gli occhi. Quell’“essere” incommensurabile è tutt’uno con il re di tutto, di cui parla il Vangelo di Tomaso ; e anche con l’“io sopra l’io” annunciato da Virgilio nella Commedia. E non è enorme, quanto piuttosto “superiore alla grandezza” e a ogni volume noto o misurabile: fuori scala rispetto a tutto ciò che si conosce già. Come già accennavo e come scopriremo presto, tutto lo è nell’aldilà. Gli autori del Corpus Hermeticum avevano già intuito, evidentemente, la possibilità di immaginare spazi non tridimensionali. Quell’“essere”, dunque, non è tanto un altro individuo quanto un altro modo di essere, che può benissimo riferirsi all’io del viaggiatore: là fuori si diventa fuori scala. Si diventa, o ci si accorge di esserlo? Ci si accorge, direi. Così fuori scala è, infatti, lo sfondo su cui, nella nostra psiche, prendono forma i pensieri che la mente cosciente riesce a formulare – e che altro non è se non quella dimensione diversa, che abbiamo sempre in noi e con noi, anche se la piccolezza del “loco” della nostra mente si sforza di non farcene accorgere. E per scoprire che non la si diventa ma la si è, occorre soltanto quel quasi nulla. Semplice, fin qui. Non facile. Facile è quello che si è abituati a fare, e nel mondo consueto noi siamo abituati a fare, fare, fare sempre qualcosa, o a sentire che dovremmo fare fare fare qualcosa.
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Cfr. I. Sibaldi, I confini del mondo, Edizioni Tlon, Roma 2016, pp. 20 ss. M. Mauss, Saggio di una teoria generale della magia (1903), Einaudi, Torino 1965, pp. 145-146. Libro della mia vita (1565), XVI, 1.
16
Corpus Hermeticum I,1-2.
DISLIVELLI
Le palpebre chiuse sono simbolo del limite della mia conoscenza: sono l’unica parte del mio corpo che non potrò guardare mai, nemmeno allo specchio. Perciò sono il simbolo del confine di me: del mio non plus ultra, di là dal quale, nel mondo della mente cosciente, io non sono più. Ma fin dall’inizio del viaggio si scopre che quel confine non è più il mio, e che non lo è mai stato. Era solo il confine di un mio io, e tratteneva l’altro mio io. Ora il mio altro io può andare oltre, e scopre che al di là delle palpebre chiuse c’è un altro “essere”, cioè sta avvenendo un cambiamento nella scala dei fenomeni, che posso percepire. Questo altro “essere” mi invita, e accettare l’invito significherà certamente sperimentare dislivelli rispetto allo spazio in cui sono abituato a orientarmi. Dante lo segnala, scrupolosamente: Ma poi ch’i’ fui al pié d’un colle giunto, là dove terminava quella valle […] guardai in alto
e poco dopo: ripresi la via per la piaggia diserta, sì che ’l pié fermo era il più basso. Ed ecco, quasi al cominciar dell’erta Inferno I,13-14.16.29-31
Il pié fermo, quello cioè su cui poggiava il peso del corpo, era più in basso dell’altro: come sempre quando si procede lungo qualche pendio. Muoversi nell’Aldilà è salire o scendere. Goethe lo segnala nel Faust, nelle istruzioni che Mefistofele dà per un viaggio particolarmente audace: Sprofonda dunque! O potrei anche dire: sali! È la stessa cosa. Fuggi da quel che è già stabilito verso i liberi regni delle immagini! Faust, vv.6275-6277
Per Mosè è un salire: incontra infatti il suo Dio quando giunge «al monte di ’Elohiym, il Ḥoreb» (Esodo 3,1), e poi salirà sul Sinai (Esodo 19,9). Allo stesso modo, Gesù conduce tre discepoli su un monte, per insegnare loro la Trasfigurazione; e sarà «su un monte» che gli Undici lo ritroveranno dopo la
sua resurrezione (Matteo 28,16). Ciò toglie qualche attrattiva alle gite turistico-religiose e alle ricerche archeologiche su alture care al cristianesimo e all’ebraismo. Mosè e Gesù non erano alpinisti. I dislivelli sono altrove. Di quell’altrove – dato che per arrivarci occorre chiudere gli occhi – verrebbe voglia di dire che è dentro di noi. Ma non conviene: suonerebbe inevitabilmente come una facile collocazione psicologica dei vari monti, colli, valli all’interno di uno solo dei due io di cui parlava Dante – il primo dei due, quello che sente il sonno: come se stesse soltanto sognando alture. La situazione è tutt’altra: quel primo io si rivela ottuso, inetto, perché è giunto al suo limite; l’altro mio io comincia invece ad accorgersi di essere stato troppo a lungo contenuto, trattenuto entro il primo, come in un contenitore (quello che nel volume precedente avevamo indicato come la םdell’’aDaM) e di trovarsi, adesso, e di stare affrontando dislivelli, dentro un contenitore molto più grande, di cui non sa, in quell’altra scala incommensurabile, se esistano confini. A questo punto, naturalmente, il momento iniziale – il ricordo, il desiderio, la domanda su una coincidenza, o su un’improvvisa idea, o su una presenza percepita, che mi ha permesso di accorgermi del varco – è già abbastanza lontano alle mie spalle; mi sto muovendo nell’immaginazione, nell’aldilà, dove non so nulla e so di non sapere nulla, salvo una cosa: se voglio proseguire o no.
LE RAGIONI DEL VIAGGIATORE
Oltre a chiudere gli occhi, è necessario che il viaggiatore voglia partire. L’aldilà può chiamarlo, ma sarà il viaggiatore a decidere se ascoltare o no. Il serpente deve persuadere l’’iŠaH, perché assaggi il frutto dell’Albero della conoscenza. Noè deve valutare se obbedire o no a ’Elohiym che gli comanda di costruire l’“Arca”. Giona deve accettare l’investitura di profeta, perché YHWH parli attraverso di lui. Perfino il timido Lot deve decidere se seguire o no il consiglio degli Angeli, di allontanarsi da Sodoma, prima che cominci il disastro – e l’Angelo che gli parla tiene a precisare: «Io non posso far nulla, prima che tu te ne sia andato». Genesi 19,22
“Non posso fare nulla”: e a dirlo è un Angelo! Davvero il viaggiatore deve cooperare e, quindi, decidere di cooperare. Così anche Mefistofele può cominciare a operare le sue magie soltanto se Faust accetta di firmare il patto. Il viaggio nell’aldilà non è dunque una abduction, come quelle attribuite agli extraterrestri. L’ufologia risponde a un bisogno diverso da quello espresso dagli autori della Genesi e del Corpus Hermeticum, o da Dante, o da Goethe: in questi, vi era un desiderio di conoscenza, di crescita, di entrare in una prospettiva nuova, addirittura in nuovo stadio evolutivo della psiche; nell’ufologia troviamo invece un desiderio-timore di essere conosciuti da estranei, una profonda paura del futuro, e un senso di ripugnanza verso un ignoto avvertito come unicamente ostile, rapace. Questi timori, questa ripugnanza sono i caratteri distintivi della mentalità oscurantista, tutta sulla difensiva, angosciata e affascinata dalla propria angoscia. Non per nulla l’ufologia si intreccia strettamente al cospirazionismo: alla voglia di credere che qualcuno sappia e voglia tenere nascosto. Quel qualcuno c’è di sicuro, e non chissà dove, ma dentro chi crede che ci sia. Ed è ancor sempre la mente cosciente, che in questo caso dice: “Tutto ciò che può esserci al di là del
conosciuto è pericoloso, estraneo, allarmante!” E che l’elemento fondante dell’ufologia sia proprio la paura di conoscere, lo si vede anche da un punto di vista puramente lessicale. Gli UFO sono cose unidentified, non identificate. Ed “extraterrestre”, “alieno” sono aggettivi, non sostantivi: non indicano cioè qualcosa o qualcuno di preciso, ma solo il modo in cui si vuole percepire non si sa cosa o chi. La facile angoscia che provocano è, da un lato, la stessa delle porte socchiuse, buie e silenziose negli horror, e dall’altro la stessa che Freud suscitò, come dicevo nell’Introduzione, coniando il termine Unbewusste, l’inconscio, lo “sconosciuto”. È facile, e perciò può diventare collettiva – come la ripugnanza verso i diversi, gli esotici, o, in altre epoche, verso gli eretici. All’opposto di queste resistenze collettive c’è l’atteggiamento psicologico del viaggiatore che entra nell’ignoto, in un qualsiasi momento della sua vita quotidiana, e vuole, decide di entrarci. Deve deciderlo, dicevamo. E possiamo intendere facilmente quella necessità dell’assenso del viaggiatore, se prendiamo per buona l’idea che entrando nell’aldilà si attivi e si sveli un altro nostro io. Quest’altro io è più grande, ma è pur sempre io: è tutt’uno con l’io più piccolo – quello che fino a poco prima era in potere della mente cosciente. Perciò l’io piccolo deve dare il suo assenso. Se non vuole, neanche l’altro può muoversi, “non può far nulla”, come diceva l’Angelo a Lot. E accettare, decidere, significa trovare, in se stessi, ragioni che appaiano sufficientemente valide a entrambi gli aspetti dell’io. Nei racconti di questi viaggi ne troviamo di molti generi. Il desiderio di conoscenza: Odisseo salpa verso l’Hades perché vuole ottenere informazioni utili al suo ritorno a casa. La necessità spasmodica: Noè sale sull’“Arca” perché tutto il suo mondo gli è diventato inabitabile. Un eccesso di sentimento: Orfeo va nell’Hades perché vuole ritrovare la sua sposa Euridice, finita là per aver poggiato il piede su un serpente che l’aveva morsa – ma a ben guardare anche l’eccesso di sentimento è un desiderio di conoscenza: se accostiamo il mito di Orfeo al terzo capitolo della Genesi, vedremo in Euridice un’’iŠaH che percorrendo il serpente-strada apre la via all’’iYŠ-Orfeo. E Orfeo divenne infatti un maestro di aldilà, dopo la sua impresa. Oppure lo sgomento: Dante decide di incamminarsi verso “l’erta” perché si è finalmente convinto di aver perso la “diritta via” – e solo in un secondo tempo scoprirà in sé anche il desiderio di ritrovare Beatrice, che è per lui ciò che per Orfeo era stata Euridice.
Oppure la ribellione: Pinocchio si avvia per il suo amore della disobbedienza. O la brama di potere: Faust accetta il patto con Mefistofele, perché è sconvolto all’idea che il suo immenso sapere non basti a dargli il successo. O la paura: Giona parte perché vuole fuggire da Dio. O l’audacia fine a se stessa: Bellerofonte balza in groppa a Pegaso per vincere battaglie, e perché vuole vedere come sono le sedi degli Dei in cima all’Olimpo. E così via. E tutti questi viaggiatori hanno, in comune, il fatto di essere dei solitari, o almeno sono soli nel momento in cui l’aldilà li chiama. Nessuno di loro è felicemente innamorato, o legato da grandi amicizie, o impegnato in un qualche lavoro collettivo o utile alla collettività. La chiamata dell’aldilà li coglie in una fase della loro vita in cui sono concentrati soltanto su di sé. Perciò la prima esortazione che YHWH rivolge ad Abramo è ךל-ךל – lekh-lekhà, letteralmente «va a te stesso». Aggiungiamo dunque alle ragioni dei viaggiatori anche quest’altra: la voglia di essere il più possibile se stessi, e la convinzione che questa voglia sia ostacolata da tutto ciò che sanno già. Senza queste ragioni, l’aldilà finisce subito dopo aver superato il suo primo varco, dopo aver chiuso gli occhi e aver notato i primi dislivelli. Finisce, ci si accorge soltanto di essersi ritrovati per qualche istante in un vago altrove, e non rimane altro da fare se non tornare indietro, alla vita di sempre, leggermente scossi, mormorando: “Mah, che strana cosa…” e fantasticando un po’. Avventura finita. Gli altri vanno.
PRIME FORZE PROPULSIVE, APPARENTEMENTE OSTILI
Una volta che il viaggiatore ha deciso di voler proseguire, intervengono forze propulsive – da più avanti, o da dietro, da sotto o da sopra – e queste sì, il viaggiatore le avverte come estranee a sé, e sempre irresistibili. Alcune di queste forze accelerano l’andatura del viaggiatore spaventandolo. Lo inseguono, o lo minacciano di lato e sembrano deviarlo; ma questo è solo il modo in cui il viaggiatore le percepisce all’inizio: poi scopre che l’hanno guidato sempre nella direzione giusta. Così è per le tre belve che Dante incontra una dopo l’altra nel folto della selva: proprio evitandole giunge al luogo in cui lo attende Virgilio. Così è anche nell’Esodo, quando l’esercito del Faraone insegue la carovana degli israeliti: è certamente una minaccia, ma fa sì che gli israeliti si affidino più fiduciosi alla colonna di nubi e alla colonna di fuoco che stanno indicando loro la via attraverso il deserto, verso il mare. Lo spavento che quelle forze suscitano ha anche un’altra funzione, molto utile all’inizio del viaggio: consolida nel viaggiatore la sensazione di trovarsi alle prese con realtà nuove. Se i luoghi che gli si aprono dinanzi fossero soltanto sue invenzioni, non lo atterrirebbero a tal punto. E d’altra parte, se quei luoghi fossero soltanto luoghi, e la via che sta trovando fosse soltanto una tra tante direzioni possibili, il viaggiatore si fermerebbe a ragionare: invece si sta aprendo in quei luoghi immaginati (e reali, proprio perché è l’immaginazione a coglierli) una via diversa da quelle del mondo già noto, una via che ha una sua volontà e che gli sta ponendo condizioni irrefutabili. Dunque da un lato quei luoghi sono luoghi, e dall’altro la via non è soltanto una via. Il viaggiatore non è in grado di capire cosa significhi tutto ciò, e si sente inevitabilmente inadeguato all’impresa. Ha ragione a sentirsi tale: lo è, deve abituarsi a esserlo, e a intendere la propria inadeguatezza come un limite da superare continuamente. La condizione di pericolo in cui si viene a trovare aumenta questa sua sensazione di inadeguatezza. Si ha dunque una situazione paradossale: quanto più appaiono ostili quelle forze propulsive, tanto più sono utili. Ne tengano ben conto i viaggiatori, quando all’inizio hanno paura, qualunque aspetto, qualunque nome riescano a dare a queste
loro benefiche paure.
GLI AIUTANTI
La via è una crescita. Continuare a camminare è, per il viaggiatore, continuare ad accorgersi di cambiamenti che stanno avvenendo intorno a lui e in lui, e ai quali deve adattarsi. Le forze propulsive apparentemente ostili lo costringono a questo adattamento. Altre forze intervengono, nel frattempo, in suo soccorso, aprendogli possibilità imprevedibili, innanzitutto permettendogli accelerazioni straordinarie: nella maggior parte dei resoconti, gli si presentano spesso sotto forma di aiutanti – entità, uomini, animali, o anche oggetti magici. Aiutanti di questo genere sono il velocissimo Lupo Grigio delle fiabe russe e turche, e al-Buraq, il destriero dal volto umano sul quale l’Arcangelo Gabriele fa salire Maometto, nel Libro della scala (di data ignota; in Europa si diffuse attorno al 1220). E Pegaso. E il cavallo bianco degli sciamani, che li guida nelle loro esplorazioni di altri mondi. Oggetti-aiutanti sono i tappeti volanti delle Mille e una notte, e gli stivali delle sette leghe, che il Gatto mette a disposizione del suo marchese di Carabas. Gli antropologi, in genere, vedono in questi aiutanti una dimostrazione del fatto che la mentalità arcaica fosse ancora incapace di concepire le qualità astratte, e quindi di descrivere l’aumento delle forza dell’eroe di un mito o di una fiaba come un suo aumento di forze: la mentalità primitiva lo spiegava piuttosto come un dono concessogli temporaneamente da qualcun altro. Per la medesima ragione – ritengono solitamente gli antropologi, o gli studiosi che si dilettano di antropologia – i poeti antichi avevano come aiutante la Musa ispiratrice, e Socrate parlava non del talento musicale ma del dàimon della musica, e l’iconografia cristiana pone accanto a ciascuno dei quattro evangelisti un aiutante ispiratore: il leone per Marco, il toro per Luca, l’aquila per Giovanni, l’Angelo per Matteo. Quanto più le categorie mentali si evolvono – sempre secondo questa ipotesi – tanto più si assiste, da un lato, a una spiritualizzazione di questi doni e aiuti, e dall’altro a una loro umanizzazione. Fu una spiritualizzazione degli aiutanti, nel cristianesimo, la decisione di attribuire il talento degli evangelisti allo Spirito Santo, invece che ad animali, o a un ibrido tra uomo e animale, come l’Angelo di Matteo. E fu per umanizzazione, se i veggenti
cristiani ebbero sempre più spesso, come aiutanti, i santi o Maria di Nazareth. È una buona ipotesi. La si può sviluppare, notando come nel XIX secolo quella spiritualizzazione e quell’umanizzazione degli aiutanti cominciarono a convergere: l’aiutante per eccellenza divenne – e per molti scienziati è ancor oggi – l’evoluzione delle specie, che le guida verso trasformazioni non meno imprevedibili di quelle che attendono i viaggiatori nell’aldilà, solo molto più lente. L’evoluzione come la intendono i biologi è, per la specie umana, un’umanizzazione della funzione dell’aiutante: l’evoluzione che fa emergere dagli individui potenzialità latenti o ne crea di nuove, che permette loro di fare cose sorprendenti senza che sappiano come (ed è ciò che il filosofo statunitense Daniel Dennett, accanito assertore dell’evoluzionismo, chiama competence without comprehension: i tecnici e gli ingegneri che cooperarono all’invenzione di internet non sapevano in anticipo ciò che stavano realizzando), questa evoluzione, dicevo, non è pensata come qualcosa di estraneo alla specie, ma è insita nella specie stessa. Ma permangono, nel concetto attuale di evoluzione, tratti palesemente spirituali: lo stesso Dennett arriva infatti a sostenere l’idea che «Evolution is cleverer than you are», ovvero l’Evoluzione ne sa più di te – proprio come se l’evoluzione non avesse ancora cessato del tutto di assomigliare a un Lupo Grigio, o a un Gatto con gli stivali. Dal che si vede che, per quanto possa apparire imbarazzante, ciò che i biologi chiamano oggi evoluzione è un’evoluzione dell’antica immagine degli aiutanti dei viaggiatori, con la differenza che mentre anticamente gli aiutanti magici intervenivano solo nell’aldilà, in biologia l’intervento avviene nell’aldiquà. In base a questa teoria evoluzionista possiamo dunque porre la questione in questi termini: gli antichi narratori presentirono, in Pegaso, nel Lupo Grigio, nei tappeti volanti, negli stivali delle sette leghe, gli elicotteri e i jet che l’uomo avrebbe costruito, e dunque anche la capacità, insita nell’uomo, di costruirli; ma proprio perché li attribuivano ad aiutanti magici non osarono accorgersi di quel che avevano presentito nell’uomo; d’altra parte, l’uomo non avrebbe scoperto il modo di volare se l’evoluzione non fosse sempre stata più clever di lui, e non l’avesse guidato. 17
Ma questa ipotesi esclude l’immaginazione come noi la intendiamo, cioè come una facoltà in grado di cogliere realtà che la mente cosciente non può cogliere. Un’altra ipotesi può rivelarsi più fruttuosa. Gli antichi immaginarono, cioè percepirono, sotto forma di aiutanti magici, certe modificazioni che nell’aldilà avvengono nella struttura psicomotoria della realtà dell’io. I viaggiatori, come abbiamo visto, cominciano quasi subito
ad accorgersi che nell’aldilà qualcosa non va nel modo consueto: percepiscono-immaginano, sotto forma di dislivelli, strutture diverse dello spazio. Poi, scoprono che muoversi nell’aldilà non è come muoversi nell’aldiquà. Sappiamo perché: stanno cessando i condizionamenti che la mente cosciente è convinta di dover subire ad opera del corpo. Poiché le possibilità d’azione del nostro corpo sono limitate, anche la nostra mente cosciente tende a credere di avere certi limiti naturali insuperabili: così come la nostra visuale non giunge oltre una certa distanza, e le nostre gambe non possono spiccare salti di decine di metri, allo stesso modo la mente cosciente ritiene di non poter percepire nulla di ciò che avviene in un luogo lontano da dove il suo corpo si trova in un determinato momento. Nell’aldilà, il viaggiatore scoprirà che questi limiti non valgono. Lo scoprirà. All’inizio non è ancora in grado di ammetterlo, di concepirlo. Perciò – e qui concordiamo con gli antropologi di cui dicevo poco fa – il viaggiatore percepisce-immagina le strane velocità dei suoi spostamenti non come una sua nuova caratteristica, ma come opera di entità soccorrevoli. Ma in questo immaginare non vi è affatto una carenza della cosiddetta mentalità primitiva. La cosiddetta mentalità primitiva si rivela anzi, in questo, molto accorta, per varie ragioni. Il mio io che viaggia nell’aldilà non coincide interamente con l’io che so di essere nell’aldiquà. Se dopo un viaggio nell’aldilà pensassi di essere io – io come mi conosco nel mondo – il proprietario dei poteri che la mia immaginazione mi ha fatto sperimentare, la mia personalità ne risentirebbe. Non sarei più capace di interagire con la realtà quotidiana: le abilità che avrò immaginato di acquistare durante i viaggi mi intralcerebbero in tutte le mie azioni e soprattutto nelle mie decisioni, perché su quelle abilità, nell’aldiquà, non potrei più contare. Mi troverei nella stessa situazione di uno che credesse di avere in banca un credito che invece non ha, e pensasse di poter fare spese enormi. Così un Omero o un evangelista avrebbero potuto sentirsi in diritto di parlare, poniamo, di politica o di agricoltura con la stessa geniale competenza con cui avevano narrato i viaggi di Odisseo o i miracoli di Gesù. E poiché questo rischio è tutt’altro che raro nei viaggiatori, la mentalità primitiva li tutela stabilendo che quelle doti appartengono non al loro io ma ad altri, agli aiutanti, appunto. In tal modo la cosiddetta mentalità primitiva consegue due scopi importanti. In primo luogo, richiama i viaggiatori alla necessità di non distaccarsi da quello che abbiamo definito: il loro io piccolo – che è la sede della loro lenta, pesante razionalità.
Quando la mente cosciente cessa di limitare le potenzialità dell’io, anche questa razionalità viene portata in volo dagli aiutanti, ma rimane sempre lenta e pesante di per sé. Non va trascesa, non va lasciata indietro: senza la razionalità il viaggio sarebbe, infatti, inutile; senza razionalità non vi è né memoria, né linguaggio coerente – e non vi sarebbe dunque possibilità di riportare, dai viaggi nell’aldilà, alcuna informazione. Così Dante, che in Paradiso viene portato in volo, è per tutto il tempo il più razionale dei viaggiatori, il più avido di risposte, il più scrupoloso nel segnare l’ubicazione di ogni luogo dell’aldilà, per ricostruirne la mappa. In secondo luogo, con il potenziamento della velocità la cosiddetta mentalità primitiva prepara il viaggiatore alle dimensioni diverse che incontrerà nell’aldilà. Il viaggiatore scoprirà, in seguito, che nell’aldilà non vale il concetto di distanza che aveva nell’aldiquà. Nell’aldilà, l’immaginazione amplierà l’io: due luoghi che, dal punto di vista dell’aldiquà, sono molto distanti l’uno dall’altro, nell’aldilà non sono distanti affatto, perché l’immaginazione permette di essere in entrambi. La fisica, nel Novecento, si è avvicinata a questo diverso concetto di spazio: con le ipotesi sui varchi spazio-temporali, i wormholes; ma non è ancora pervenuta a ciò che i viaggiatori antichi erano riusciti a concepire – o, diciamo meglio, a intuire, come intuirono i jet. L’idea di varco spazio-temporale rimane ancora entro la prospettiva della distanza tra due punti, nella convinzione che un qualunque individuo possa occupare soltanto un punto nello spazio-tempo, e che il suo trovarsi in un punto gli impedisca di trovarsi in un altro punto. I viaggiatori superano tale prospettiva descrivendo l’esperienza di universi multidimensionali, ciascuno dei quali è meno ampio dell’io del viaggiatore stesso, il quale può dunque trovarsi in alcuni di essi, o anche in tutti, contemporaneamente. Ma a un viaggiatore alle prime armi, accorgersi di quella multidimensionalità caebbe una tremenda confusione: occorre anche qui, come diceva l’alchimista, che “la natura esegua gradatamente le sue operazioni”. Così, gli aiutanti che accelerano gli spostamenti del viaggiatore provvedono, in realtà, a rallentare un po’ la scoperta, proprio quando il viaggiatore si sta meravigliando della velocità che gli viene fatta sperimentare. Farlo volare a straordinarie velocità è un lasciargli credere che nell’aldilà esistano ancora distanze, solo un po’ più facili da superare – mentre non ce ne sono affatto. Dobbiamo perciò figurarci che, quando ci accompagnano in un volo su tappeti o su altri mezzi magici di locomozione (anche questo avverrà), gli
aiutanti fingano soltanto di socchiudere le palpebre contro il vento – perché, là, il tappeto sta fermo: è immobile in un ovunque che, per ora, l’io piccolo del viaggiatore non riuscirebbe non solo a capire, ma nemmeno ad ammettere. Gli aiutanti, a loro volta, non sono figure fittizie, inventate per spiegare, grossolanamente, doti che la mentalità primitiva non osava attribuire all’uomo, e che in seguito si sarebbero rivelate nella costruzione di velivoli. Gli aiutanti sono modi, poetici, suggestivi, in cui il viaggiatore antico percepisce-immagina ciò che lui stesso sarà di lì a poco: un io più ampio, dotato di una capacità di orientarsi in universi molto diversi da quello che il viaggiatore, all’inizio, è in grado di figurarsi. E questo suo io futuro si prende cura del suo io presente, lo accudisce, lo protegge da scoperte troppo sbalorditive. Vale anche qui il principio che abbiamo già annunciato: nell’aldilà, ogni causa è futura. E qui noi, nel XXI secolo, incontriamo una difficoltà considerevole, lungo le nostre vie nell’aldilà. Il nostro immaginario è meno ricco di quello degli antichi. Ciò che nel Novecento abbiamo scoperto sugli animali, ci impedisce di immaginare Lupi Grigi, Gatti con gli stivali, destrieri alati, o aquile, tori, leoni ispiratori. Il battitappeto e i nostri rapporti con la lavanderia sotto casa ci impediscono di immaginarci tappeti volanti senza sentirci ridicoli. L’impoverimento anche iconografico delle religioni tradizionali, da un lato, ci impedisce di immaginarci Angeli sufficientemente suggestivi; e dall’altro, ce lo impedisce, se abbiamo un minimo di buon gusto, il kitsch che nell’odierna, cosiddetta “spiritualità” ha investito massicciamente gli Angeli. Quanto alle Muse, per noi sono soltanto reperti di archeologia della cultura. Rischiamo così di incagliarci, all’inizio della via, in un fastidioso presque-vu, nella sensazione cioè di voler cogliere un qualcosa di preciso e vicinissimo, e di non riuscirci, come quando non si riesce a ricordare un nome che “si ha sulla punta della lingua”: solo che qui non si tratta solo di nomi, ma di forme. Qualcosa, lungo la via, sta per avvenire, o sta già avvenendo, e tanti viaggiatori odierni, non sapendo dire nemmeno a se stessi cosa sia, non trovando un volto da dare a chi la fa avvenire, possono lasciarsela sfuggire, e fermarsi. Le soluzioni a questo svantaggio attuale sono ben poche, e avventurose. O si riesce a “rigenerare” il proprio immaginario riscoprendo quello degli antichi, e immergendovisi, e nutrendosene – ma la condizione per riuscirci è prendere le distanze dalla religione che ci è stata insegnata, e dalla scienza, che, entrambe, disprezzano e snobbano quell’immaginario. Oppure ci si rassegna a
essere ignoranti, a non sapere né voler sapere nulla di quel che avviene, come persone in deliquio che si fidino di non si sa chi, sperando che qualcosa, non si sa cosa, funzioni in qualche modo che non si sa: e se avrà funzionato, lo si scoprirà più avanti, nelle fasi successive del viaggio, dopo che si sarà persi questo primo spettacolo.
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D. C. Dennett, Intuition Pumps and Other Tools for Thinking, Penguin, London 2014, p. 225 ss.
IL SUPERAMENTO DEI LIMITI TEMPORALI
Nell’aldilà, le trasformazioni del senso dello spazio si comunicano anche al modo di percepire-immaginare il tempo. Non può essere altrimenti, anche e soprattutto perché il tempo, per la nostra mente cosciente, è un’estensione della nostra idea dello spazio. Usiamo dire, infatti, che un avvenimento ato o futuro sono più o meno “vicini” o “lontani”, come se fossero luoghi; o che un periodo di tempo è “breve” o “lungo”, come se fosse un tratto di strada. Queste espressioni ci mostrano quanto la nostra razionalità si sforzi di ancorare il tempo alla materia – a ciò che la mente cosciente sa della materia. Tutta quanta materiale è la più scientifica dimostrazione dell’esistenza del tempo unidirezionale e irreversibile, che tanti esperti intendono ancora come l’unico tempo reale dell’universo: la dimostrazione, cioè, basata sull’entropia, che nei processi fisici può soltanto aumentare, attraverso la variazione decrescente del calore. In realtà, tale dimostrazione è inconsistente, perché presuppone ciò che vuole dimostrare, cioè appunto il tempo: dedurre l’esistenza del tempo dall’orologio che un fisico tiene d’occhio misurando l’entropia di un gas, è come voler dedurre l’esistenza del Dio cattolico dalla forma di un confessionale. Gli autori della Genesi sapevano che questo modo di agganciare il tempo alla materia era incominciato a un certo punto della storia della mente. E raffigurarono quel momento nella maledizione che YHWH pronuncia sul serpente dell’Eden: 18
Striscerai sul tuo ventre e mangerai la polvere per tutti i giorni della tua vita. Genesi 3,14
Quel serpente è un simbolo della strada che si apre nell’Eden e che condurrà fuori; ma è anche un simbolo del tempo, di una direzione del tempo, lungo la quale l’’iŠ e l’’iŠaH, che decisero di seguirla, cambiarono a tal punto che l’Eden non potè più contenerli. YHWH li aveva avvisati che se avessero mangiato i frutti dell’Albero della conoscenza sarebbero morti, cioè il tempo avrebbe assunto per loro una forma, appunto, unidirezionale e irreversibile; dunque prima d’allora il tempo era anche qualcos’altro. E la maledizione
scagliata al serpente è appunto la descrizione di questo tempo unidirezionale e irreversibile, una serie di anni-giorni-ore-minuti-secondi che striscia sempre avanti e “mangia polvere”, si nutre di materia. Ma questo tempo-rettile e rettilineo vale solo nell’aldiquà, e solo nell’aldiquà siamo certi di trovarci sempre al suo interno, come prede che il temposerpente abbia inghiottito. Nell’aldilà, si scopre che la linea del tempo non rinchiude più i viaggiatori. Da quella linea si può uscire. La si può percorrere in entrambe le direzioni. Il principe azzurro può riportare in vita Biancaneve: cioè, la riporta a quando era ancora viva. Hermes può riportare in vita il fanciullo Pelops, ucciso e cucinato da suo padre Tantalo: il Dio opera questa resurrezione tornando indietro nel tempo – riportando i resti del cadavere di Pelops nelle cucine, rimettendoli nella pentola, ripetendo i gesti dei cuochi, e tutto ciò che era stato fatto al cadavere, a ritroso, fino al momento in cui il fanciullo era, e d’un tratto ridiventa, ancora vivo, «ancora più bello di prima». Odisseo, Enea, Dante, nell’Ade, si intrattengono con persone che nell’Aldiquà sono morte da tempo. Gesù, sul “monte” della Trasfigurazione, incontra Mosè ed Elia, che erano vissuti molti secoli prima di lui. Chi non se la sente di rinunciare all’idea che il tempo debba strisciare sempre in avanti in ogni luogo di tutti gli universi, si accontenta di pensare che quegli incontri siano stati possibili perché l’anima sopravvive alla morte. Odisseo, Enea, Gesù, Dante avrebbero cioè incontrato alcune anime, ed Hermes e il principe azzurro avrebbero ricondotto anime nei corpi dai quali erano uscite. Questo tipo di spiegazioni consiste nell’aggiungere un articolo di fede – la fede nella sopravvivenza dell’anima – a un fatto; e non dà mai risultati soddisfacenti, a meno che scopo della spiegazione non sia quello di rifiutarsi di capire in che cosa consista il fatto in questione. Il fatto qui in questione, è che si sia potuto immaginare che Odisseo, Enea, Dante, Gesù abbiano parlato con persone morte che, nell’aldiquà, sarebbero state irraggiungibili, e che Hermes e il principe azzurro abbiano visto viva una persona che prima era morta. Se a questo fatto non aggiungiamo nessuna spiegazione basata sulla fede, possiamo dedurne soltanto che incontri simili siano avvenuti fuori dal tempo consueto. E che dunque dal tempo unidirezionale e rettilineo si possa immaginare di uscire. Nell’immaginazione, cioè (conviene ripeterlo) in una percezione di realtà diverse da quelle note alla mente cosciente, si può uscire dal tempo tornando 19
indietro; e questo risalire indietro nel tempo non ha limiti: nei miti di creazione, nei testi sacri, qualche vivente non solo mostra di aver saputo come tutto l’universo avesse avuto inizio, ma ne parla come se in quell’inizio fosse stato presente e avesse visto: la terra era informe e vuota e il respiro di Dio increspava le acque. Genesi 1, 2
Oltre che in direzione del ato, nell’aldilà si può uscire dal presente anche in direzione del futuro. A Odisseo, Enea, Dante, Gesù, i morti parlano di avvenimenti che non sono ancora accaduti. Odisseo ha, nell’Ade, notizie che nell’Aldiquà avrebbe potuto ricevere solo a Itaca – sulla morte della madre, sul comportamento di Penelope – e l’anima dell’indovino Tiresia gli profetizza i viaggi che lo attendono. A Enea, l’anima di Priamo non solo dà profezie, ma gli mostra chi saranno i suoi discendenti, nel corso dei secoli: nei Campi Elisi le loro anime ci sono già. A Dante, nel Paradiso, l’anima di Cacciaguida narra dettagliatamente ciò che gli avverrà a Firenze e in altre città. E a Gesù, Mosè ed Elia narrano di ciò che lo attenderà a Gerusalemme. Che non si tratti di invenzioni, ma di scoperte dell’immaginazione, lo mostrano tanti celebri casi. L’uscita dal tempo in direzione del futuro è il presupposto su cui si fondano le Centurie di Nostradamus, in cui avvenimenti futuri sono ora accennati, ora accuratamente descritti, e ricondotti talvolta a date precise, da ricostruire secondo l’astrologia, come a fornire un prontuario di sovratemporalità applicata: così nella quartina 605 viene annunciato il disastro di Chernobyl, nelle quartine 222 e 1074 il colpo di stato che detronizzò il settimo capo dell’URSS, Michaìl Gorbacëv. Nella stessa prospettiva si collocano anche gli esperimenti di Remote View – il “vedere a distanza” – compiuti negli anni Sessanta e Settanta dai servizi segreti sovietici e statunitensi per spiare piani strategici, progetti tecnologici, sviluppi delle reti di informazioni delle parti avverse: in tali esperimenti, lo scopo era appunto uscire dal tempo per scoprire subito informazioni che, senza la Remote View, si sarebbero apprese soltanto molti anni dopo. Vi è una memorabile dichiarazione rilasciata, al riguardo, da un capo di stato maggiore statunitense. E. R. Thompson, sull’attività dei remote viewers di quel periodo: 20
Non mi è mai piaciuto discutere con gli scettici, perché se voi non credete che la Remote View sia una realtà, vuol dire semplicemente che non avete fatto il vostro dovere. Noi non sappiamo come si spieghi, ma ciò che ci importa non era spiegarla, ma valutarne l’utilità pratica. 21
A noi, invece, importa anche spiegarla. Quanto all’utilità pratica, i
viaggiatori avranno modo di valutarla di persona, nel prosieguo della loro via.
18
Cfr. C. Rovelli, L’ordine del tempo, Adelphi, Milano 2017, p. 28 ss; trovo d’altronde in questo libro di Rovelli, a p. 170, una frase raggelante, e tanto più deprimente perché detta da uno scienziato: «Non credo che ci sia molto più di così da capire». 19 Apollodoro, Bibliothecae epitoma 2,3. 20 R. Boscolo, Nostradamus. L’enigma risolto, Mondadori, Milano 1991, p. 324 ss.; 378 ss. Alcune interpretazioni proposte da Boscolo sono tanto più ragguardevoli, in quanto questo suo strano libro fu pubblicato anni prima che gli avvenimenti annunciati si verificassero. 21 J. Schnabel, Remote Viewers. The Secret History of America’s Psychic Spies, Dell Publishing, New York 1997, The Dream Team, p. 33.
LA TRASFORMAZIONE DEL SENSO DEL TEMPO
A quanto pare, quando ci si inoltra nell’aldilà, la linea del tempo diventa più piccola, se il viaggiatore può percorrerla in avanti e indietro. Non solo, ma la linea del tempo cessa anche di apparire una retta. Chi provasse a immaginarla nell’aldilà, la vedrebbe incurvarsi in un cerchio, o piuttosto in diversi cerchi, concentrici: il cerchio del secondo, quello del minuto, quello del giorno, e poi della settimana, e del mese, e dell’anno, dei decenni, dei secoli, dei millenni, e così via. Una serie di orizzonti:
All’interno del cerchio più piccolo – quello del secondo – c’è l’io piccolo, che nell’aldiquà sa di avere intorno, più oltre, gli altri orizzonti del suo presente: il giorno, la settimana, l’anno, il decennio, il secolo, il millennio. Di questi altri orizzonti, nell’aldiquà, l’io piccolo percepisce solo ciò che ciascun secondo gli permette di percepire: la loro maggiore dimensione gli è preclusa, la sua mente cosciente ha il diametro temporale del secondo – così come il suo campo visivo abbraccia solo ciò che ha dinanzi agli occhi. Così, nell’aldiquà, il presente dura sempre e soltanto un secondo – non potendo la mente umana distinguere gli uni dagli altri avvenimenti che durino un decimo di secondo. Gli avvenimenti che possono essere contenuti in un minuto, l’io piccolo non li avverte tutti come presenti: troppe cose ha percepito nei trenta secondi che sono appena trascorsi – milioni di informazioni sensoriali, di pensieri e ricordi e sentimenti e intuizioni: non può ricordarseli tutti – e non può vedere ciò che gli capiterà nei prossimi ventinove secondi del minuto che sta vivendo: altri milioni di informazioni sensoriali, pensieri, ricordi, sentimenti, intuizioni! Avventurandosi nell’aldilà, invece, l’io del viaggiatore amplia il proprio diametro. L’orizzonte che prima conteneva solo un secondo, comincia a estendersi: a disporre, come se li avesse tutti davanti a un’unica occhiata, dei dati che i suoi sensi, la sua mente, il suo animo gli hanno fornito e gli forniranno nell’arco di un giorno, di giorni, mesi, anni e millenni. Tutti quei dati diventano presenti: stanno avvenendo, per l’io del viaggiatore – e ciò diventa altrettanto normale quanto lo era, prima, per il suo io piccolo nell’aldiquà, il presente vissuto entro l’orizzonte di un solo secondo alla volta. Un onesto neurologo, a questo punto, potrebbe cominciare a riflettere sulla possibilità di monitorare l’attività del cervello di un viaggiatore, per scoprire se con aldilà si possa intendere una modificazione delle strutture neuronali. Forse uno studio del genere darebbe risultati interessanti, ma non me ne intendo abbastanza per fare previsioni. Quali che siano, poi, i risultati, anche nel caso che ne venga qualcosa di clamoroso, non basterebbero a vincere le resistenze che ha la mente cosciente dinanzi alla possibilità che il tempo non sia sempre e ovunque così come si è abituati a pensarlo nell’aldiquà.
RESISTENZE
La trasformazione dell’orizzonte temporale che ho appena descritto non è diversa da quella che si produce nell’orizzonte spaziale di qualcuno che salendo su un monte abbracci con un unico sguardo un’area via via più vasta di quella che, con un unico sguardo, abbracciava prima della salita. Ma mentre immaginare un ampliamento dell’orizzonte spaziale non richiede alcuno sforzo alla mente cosciente, immaginare un ampliamento dell’orizzonte temporale le riesce difficile. La mente cosciente è troppo abituata all’idea che il tempo sia una linea retta, da ciascun punto della quale – cioè da ciascun secondo – ci si può affacciare soltanto sul punto-secondo immediatamente successivo, più in là dal quale tutto è incerto. Chi può dire – pensa la mente cosciente – se tra tre secondi non riceverò una telefonata, o non mi ricorderò di qualcosa d’importante, o non mi accorgerò di provare un sentimento nuovo? Mentre in direzione del ato, oltre il secondo che sto vivendo, tutto ha già cominciato a diventare ricordo, e di nessun ricordo posso essere certo che sia preciso: così, non saprò mai se un’idea che ho avuto dieci secondi fa fosse esattamente come la sto ricordando ora; o se ciò che ricordo di aver udito, o visto, o letto un minuto fa non sia molto meno di ciò che un minuto fa stavo udendo, vedendo o leggendo. Nell’aldiquà, questa cortezza della visuale, sia in direzione del futuro sia in direzione del ato, sembra del tutto normale e inevitabile, così come è normale è inevitabile che il nostro corpo abbia soltanto due occhi, soltanto due orecchi, soltanto una bocca, e una portata d’udito e d’olfatto limitata. Entrando nell’aldilà, ci si accorge invece che è dovuta ai limiti imposti dall’idea che il tempo sia una linea retta; e se questa idea appare ben salda alla mente cosciente, e confermata dall’esperienza, è solo perché questa idea le sta impedendo di guardare oltre l’orizzonte di un punto-secondo: nello stesso modo, una persona potrebbe convincersi che la città che vede dalla sua finestra si estenda per centinaia di chilometri, se non fosse mai uscito di casa, e potrebbe decidere di non uscire mai di casa per non dover rinunciare a quella sua convinzione. E se anche riuscisse ad accettare la possibilità teorica di quell’ampliamento,
cioè l’idea che il tempo sia non una retta ma una serie di cerchi concentrici, la mente cosciente non si capaciterebbe di come un cervello possa essere in grado di elaborare l’enorme aumento di informazioni che quell’ampliamento temporale produrrebbe. Se da quando ha memoria di sé la mente cosciente fatica a gestire tutte le informazioni che gli giungono nell’arco di quattro o cinque secondi, come potrebbe tener conto delle informazioni di un giorno intero, o di un anno, o di dieci anni che gli giungessero tutte in una volta? Con quale energia? Con quale aumento, cioè, del consumo di zuccheri, indispensabili al funzionamento del cervello? Entrando nell’aldilà (o meglio: ogni volta che entra nell’aldilà, ogni volta, cioè, che si accorge di sapere qualcosa senza sapere come l’abbia appresa) l’io del viaggiatore si accorge, invece, che tutto ciò è non soltanto possibile, ma anche facile. Abbiamo visto che nei racconti dei viaggiatori uno dei primi i lungo la via è un rilassamento, simile al sonno: ciò ci fa supporre che, in realtà, nell’ampliarsi dell’orizzonte temporale lo sforzo diminuisca, il dispendio di energia sia minore di quello che si richiede per costringersi a rimanere entro l’orizzonte temporale di un secondo. Perciò le tante, piccole o grandi, precognizioni che abbiamo quotidianamente, altro non sono che ampliamenti dell’orizzonte temporale, avvengono in momenti in cui siamo tranquilli, distratti. E se nella maggior parte dei casi la mente cosciente si affretta a cancellarle dalla memoria, oppure, se non riesce a dimenticarle, le avverte come esperienze allarmanti, fastidiose, non è affatto perché in quei momenti si sia affaticata più del solito, e tema che il suo cervello si esaurisca, ma perché crede di non poterne dare una spiegazione logica: e lo crede soltanto perché quella spiegazione disgregherebbe la sua idea, la sua faticosa fissazione che il tempo sia soltanto una linea unidirezionale e irreversibile. Nell’aldilà questa idea si disgrega; e l’orizzonte del secondo, a cui l’io piccolo è abituato, può collocarsi in punti diversi del nuovo orizzonte temporale. Gesù e i discepoli, sul “monte” della Trasfigurazione, dispongono di un orizzonte temporale molto ampio, se possono incontrare Mosè ed Elia ancora vivi: in quell’ampio orizzonte temporale, Gesù colloca l’orizzonte temporale d’un secondo, a cui il suo io piccolo è abituato, nell’epoca di Mosè – cioè dodici secoli prima – e, al contempo, in quella di Elia – cioè sette secoli prima – e, secondo dopo secondo, comincia a discutere con loro di ciò che gli accadrà tra qualche mese. Lo stesso avviene a tutti i viaggiatori dell’aldilà. La razionalità del viaggiatore stenterà a lungo ad ammetterlo. Quando ne farà esperienza, cercherà spiegazioni che salvino in qualche modo la sua idea 22
del tempo. Quando, nell’aldilà, si accorgerà di sapere qualcosa del futuro o qualcosa che ignorava del ato, lo attribuirà a qualche aiutante, spirito, Angelo, diavolo, divinità, o fantasma, che lo stia assistendo, e che sia dotato di misteriosissima veggenza. Così fu anche per me, indimenticabilmente, la prima volta che riuscii a percorrere con successo una mia via verso l’Aldilà. Giunsi – cioè la mia immaginazione mi condusse – in un luogo che mi piacque particolarmente. Era una grotta, su un’alta scogliera. Sembrava una grotta naturale, ampliata e adattata in molti anni di lavoro, chissà quanti secoli prima. Il suolo era liscio, c’erano sedili scavati nelle pareti, e soprattutto un gradino, a cinque i dalla soglia, alto circa un metro, che attraversava diametralmente la grotta: stando seduti su quel gradino si vedevano, guardando verso l’entrata, soltanto il mare e il cielo. Io pensai che fosse una reminiscenza di Robinson Crusoe, o della grotta di Edmond Dantès sull’isola di Montecristo; e immaginai di arredare la mia grotta, perché fosse più confortevole: immaginai di disporvi tappeti, cuscini, mobili di mio gusto e varie comodità. E lì andavo a riflettere, o a parlare con quelli che chiamo: i miei Maestri Invisibili. Erano i primi di marzo del 1986, quando l’avevo scoperta nella mia immaginazione, e a quei tempi mi guardavo bene di parlare a chiunque dei miei esperimenti. Alla fine di luglio fui invitato a are qualche settimana nel Sud, in Salento, dove non ero mai stato. A destra della bella spiaggia di Torre dell’Orso, sulla scogliera, c’era un’area archeologica: la recinzione era stata abbattuta, e una lunga scala scavata nella roccia conduceva a una grotta identica a quella che da cinque mesi era diventata la mia prima sede stabile nell’Aldilà. Provai una punta acuta di sgomento, poi allegria, e poi un senso di smarrimento. Neanche di questo parlai a nessuno, tanto nessuno mi avrebbe creduto. Ma soprattutto, per anni ne parlai a me stesso evitando accuratamente di considerare l’ipotesi che nel marzo dell’’86 io fossi già giunto, nell’aldilà, alla grotta che avrei visto cinque mesi dopo. Mi convinsi che fossero stati i miei Maestri a mostrarmi, in marzo, quel luogo in cui sarei stato in luglio, e che non ci fosse altro da capire. E anche se dal marzo dell’’86 in poi mi capitarono, nell’aldilà, molte altre esperienze dello stesso genere, per anni feci ogni volta in modo (oggi non posso non sorprendermene) di accontentarmi di una spiegazione tanto vaga e scarsa: “Me l’hanno detto i Maestri!” senza farmi domande in proposito, così come si potrebbe stare seduti su un forziere pieno di cose preziose, senza pensare mai ad aprirlo.
22
Questo rifiuto di cercarne la spiegazione è documentato nel celebre saggio di Jung La sincronicità come principio dei nessi acausali, del 1952 (in La dinamica dell’inconscio, op. cit., pp. 537-538): «La mancanza di una possibile spiegazione non deriva qui […] soltanto dal fatto che la causa sia ignota, ma dal fatto che non c’è causa pensabile con i nostri mezzi intellettivi. È il caso che si verifica necessariamente quando spazio e tempo perdono il loro significato, o diventano relativi, perché in tali circostanze diventa impossibile stabilire, anzi addirittura pensare in generale a una causalità, la quale presuppone, per poter esistere, lo spazio e il tempo». Quanta fretta sospetta, nel dichiarare che la causa è ignota!
GUARDIANI E RICHIESTE
Poco dopo l’avvio del viaggio, un terzo tipo di forze cominciano a intervenire, in modo diverso sia da quelle apparentemente ostili, sia dagli aiutanti: non precedono né inseguono il viaggiatore, bensì lo fermano, ed esigono che faccia qualcosa, prima di lasciarlo proseguire. In genere prendono la forma di guardiani di una qualche soglia, più o meno impressionanti, ma non ancora veri e propri avversari; quelli, verranno dopo. Guardiani celebri, su queste vie, furono Caronte, rumoroso gestore del traghetto infernale; Baba-Jagà, strega delle fiabe russe; Arianna, la sorella del Minotauro, che prima fermò Teseo, e poi gli mostrò come uscire dal labirinto. Il vecchio Caronte dal lurido mantello (Eneide VI,301), barcaiolo di morti e occasionalmente di viaggiatori vivi, brutale, stizzoso, si prendeva il diritto di maltrattare i eggeri. Gridava, minacciava con il remo, insultava. E chiedeva un obolo per il suo servizio di traghettatore. Ma con alcuni ospiti illustri si quietò e li lasciò are gratis: con Ercole, Orfeo, Enea, e con Dante accompagnato da Virgilio, i quali dal canto loro furono cortesi con lui. L’abominevole Baba-Jagà voleva invece che i viaggiatori gustassero del cibo preparato da lei. Quell’invito a pranzo era una versione orrida dell’ospitalità delle nonne di campagna, e celava una trappola, in tutto simile a quella in cui cadde Persefone quando venne portata nell’Aldilà dal suo innamorato rapitore, il Dio Hades: Persefone si vide offrire chicchi di melagrana, ne accettò, e dopo che li ebbe ingeriti non riuscì mai a liberarsi del tutto dal fascino del luogo. «Hai paura di restare qui per sempre?» intendeva dunque dire la Baba-Jagà porgendo le portate al viaggiatore, con le sue mani unghiute. «Niente affatto!» rispondevano i migliori viaggiatori – principi, eroi, giovani sciamani – e lodavano la sua cucina, mangiando. La casa della Baba-Jagà aveva un paio di gradini all’ingresso, due porte, la stufa, le finestre: tutto come un’isbà vera; ma di sotto, al momento opportuno, spuntavano due gigantesche zampe di gallina, sulle quali l’isbà girava su se stessa, così che la porta d’ingresso si apriva, d’un tratto, su una
parte diversa, verso «il Regno lontano», come nelle fiabe russe viene chiamato l’aldilà: poiché l’isbà era proprio sul Confine. Arianna, non si sa precisamente che cosa chiese: agli studiosi risulta che il mito, qui, sia lacunoso. Lei e Teseo conversarono, davanti alla porta del Labirinto: entrambi principeschi, lui ateniese, audace, lei giovanissima e certamente infelice, con un fratello mostruoso e pazzo, la madre ancora più pazza, che si accoppiava con i tori, e il padre, Minosse, re temibile e solitario. Arianna era la guardiana della soglia, perché non c’era che lei lì. E il Labirinto era un monumento all’aldilà, d’un genere che a Freud sarebbe piaciuto: i cretesi vi avevano rinchiuso il mostro per metà uomo e per metà bestia, simbolo dei pericolosi istinti primordiali che ognuno cova, secondo Freud, in qualche parte di sé; e in qualche modo veneravano quel mostro, gli offrivano sacrifici umani: bastava spingere le vittime oltre la soglia, e là dentro si sarebbero smarrite, il panico le avrebbe annientate, il mostro le avrebbe uccise. Il Labirinto era in fondo un tempio, o meglio ancora l’immagine dei templi di tutte le religioni, così come le intese poi anche Freud: culti tributati a “contenuti dell’inconscio”, fratelli oscuri della mente cosciente, dai quali si crede di non potersi liberare. Ma Teseo era l’evoluzionista, l’evolutore, venuto a uccidere il Minotauro, a svuotare il tempio. E Arianna lo aiutò: legò all’ingresso, o chissà, addirittura tenne in mano un capo del gomitolo che l’ateniese svolgeva penetrando nei corridoi del Labirinto, tutti ipnoticamente uguali. Là dentro Teseo le massacrò il fratello a colpi di bastone; e quando uscì, lei volle partire con lui. Lui l’abbandonò qualche settimana dopo, su un’isola: è il lato mascalzonesco dell’evoluzione, che nel suo guardare avanti si lascia indietro ogni cosa, prima o poi. Che cosa aveva chiesto Arianna a Teseo, in cambio dell’aiuto che gli offriva? Davvero il mito ha lacune, qui? Penso il contrario: che sia il più eloquente di tutti i miti della soglia. Due cose chiede Arianna, e mostra in tal modo cosa occorra per accattivarsi i guardiani delle soglie: chiede attenzione (sguardi, parole, accorgiti di me, stai davanti a me e parlami, tienimi nel cuore almeno per un po’) e chiede che il viaggiatore tenda la mano – nel caso di Arianna, per prendere il capo del filo. Anche Caronte chiedeva attenzione. Berciava perché i defunti si accorgessero di lui, riscuotendosi dal loro stordimento postmortale, che li ripiegava tutti su se stessi; e poi voleva che tendessero la mano per dargli
l’obolo. E che l’importante non fosse l’obolo stesso, lo spiega Virgilio, narrando che Caronte lasciò are Enea quando l’eroe troiano tese la mano per mostrargli un prezioso ramo d’oro: «E questo ramo» e mostrò il ramo da sotto il mantello, «tu lo riconosci!» Al che si placa il cuore tumido d’ira, non più parole: Caronte ammira il venerabile dono, la fronda fatale, che da tanto tempo non aveva più visto. Eneide VI, 406-409
Frazer asserì, come se ne fosse certo, che non poteva non trattarsi di un ramo di vischio, pianta sacra a Diana nei santuari di Nemi. Frazer avrebbe dovuto cercare più in là di Nemi: 23
YHWH ’Elohiym disse, allora: «Ecco, l’uomo è diventato come uno di noi, giacché conosce il giusto e lo sbagliato. Ora facciamo che non tenda più la mano, e non colga anche dall’albero della vita, perché se ne mangiasse [i frutti] vivrebbe per sempre!» Genesi 3,22
Il ramo d’oro, nell’Eneide, non è importante di per sé, ma perché è il pegno, il simbolo di un atto compiuto molto tempo prima e che Caronte, appunto perciò, da tanto tempo non aveva più visto.
“Dunque costui cerca la conoscenza” dovette pensare Caronte, di Enea, “costui è disposto a violare divieti imposti da chi, come YHWH, si oppone agli sconfinamenti tra i mondi.” E provò simpatia e ammirazione per l’eroe, e lo lasciò salire sul traghetto. Anche la Baba Jagà vuole attenzione: complimenti alla cuoca; ma vuole anche vedere la mano del viaggiatore che si tende verso il piatto. Allo stesso modo, Mefistofele vuole vedere la mano di Faust, che prende la penna e firma. Perché un gesto? Perché non uno sguardo o una frase? Per gettare uno sguardo avanti, per pronunciare parole, non occorre che le membra del corpo si muovano: la mano che si protende è, invece, un’espressione intensa di un atto di volontà. E per are, devi volere. Si deve vedere che vuoi. Lo tengano presente i viaggiatori dell’aldilà. Entrare nell’aldilà è accedere a u n sapere oltre. È un tendersi oltre. I guardiani della soglia possono presentarsi ai viaggiatori odierni in aspetti non necessariamente antropomorfi. Un guardiano della soglia potrebbe essere anche soltanto il pensiero: “Cosa direbbe mio padre se sapesse che sono qui?” O invece del
padre, potrebbe trattarsi di un dirigente, di un professore, di un qualche uomo comunque rispettato e temuto. Guardiane della soglia potrebbero essere, allo stesso modo, pensieri come: “Cosa direbbe mia madre? Cosa direbbero le mie amiche?” O comunque una qualche donna che il viaggiatore rispetta e teme, o alla quale, semplicemente, teme di non piacere abbastanza. L’abilità richiesta a questo punto al viaggiatore è quella di accorgersi che quei pensieri sono guardiani proprio come lo erano Caronte, la Baba-Jagà, Arianna. E vanno trattati allo stesso modo: prestando loro attenzione, e tendendo la mano, spingendosi avanti. Non vogliono altro, sono lì apposta, per una verifica delle intenzioni.
23
J. G. Frazer, Il ramo d’oro (1922), Boringhieri, Torino 1973, vol.1, p. 7 ss.
GLI ENIGMI
L’attenzione e il tendersi in avanti per dare o per afferrare diventano tutt’uno in un’altra richiesta frequente dei guardiani: la soluzione di un enigma. Risolvere un enigma è ascoltarlo attentamente, con un’attenzione tutta particolare, e poi tendere in avanti la propria psiche per varcarlo, come si varca una soglia. La Baba-Jagà lascia entrare e proseguire il viaggiatore solo quando questi dimostra di conoscere i nomi delle varie parti dell’isbà magica: cardini della porta, maniglia, gradini… Il precedente remoto non è tanto l’indovinello della Sfinge, quanto un’altra interrogazione documentata nel paese delle Sfingi: nel Libro dei morti egiziano (XIV sec.a.C.; e il titolo autentico era Le formule per uscire nella luce del giorno), al capitolo 127: «Noi non ti lasceremo are» dicono al morto [cioè all’iniziato] i chiavistelli di questa porta, «finché non ci dirai il nostro nome». «Io non ti lascerò are» dice il pilastro sinistro della porta, «finché non mi dirai il mio nome». «Non lascerò che tu mi attraversi» dice la soglia «finché non mi dirai il mio nome». «Io non mi aprirò per te» dice la serratura «finché non mi dirai il mio nome».
Si noti che l’enigma è semplice: questi nomi non sono parole di un linguaggio sacro, sono termini quantomai consueti, che indicano gli oggetti d’uso quotidiano. Per la Baba Jagà come nelle formule egiziane, la richiesta è: guarda e di’ quello che vedi! È dunque un’esortazione a essere ben presenti a se stessi. Così anche YHWH, dopo che ebbe accolto l’’aDaM nell’Eden, volle che dicesse i nomi di quel che vedeva lì. Allora YHWH ’Elohiym condusse davanti all’’aDaM tutte le vite animali che vi sono nella natura della terra e ogni volatile dei cieli, per vedere quale nome l’’aDaM avrebbe dato loro. Genesi 2,19
E soltanto dopo questo test, YHWH lo condusse più in là, fino alla ’iŠaH, che fu il suo accesso all’aldilà. Anche l’enigma della Sfinge di Edipo è test di presenza a se stessi: consiste, com’è noto, in tre domande che esigono un’unica risposta: «l’uomo». L’interpellato deve cioè dire la parola che indica lui stesso, per poter are. Altre volte l’enigma non viene formulato esplicitamente: basta che il viaggiatore ci sia, si mostri com’è, sulla soglia dell’aldilà: così, in un poema
sumero del XVI sec.a.C., la dea Inanna deve spogliarsi, per superare i sette cancelli del Palazzo Ganzer, che è il regno dei morti. Su ciascun cancello deve lasciare un indumento, così che alla fine entra nuda. Più verecondi, gli autori dell’Esodo narrano che ’Elohiym, al suo primo incontro con Mosé, gli ingiunse di togliersi i sandali (Esodo 3,5). Una prova di presenza è anche quella che Circe descrive a Odisseo come il rituale necessario a far sì che la soglia dell’Ade si apra: Odisseo – dice Circe – sul confine dell’Ade, dovrà scavare una buca quadrata e fare una modesta libagione: latte, miele, vino, acqua, farina d’orzo e quarti di pecora; una sorta di lista della spesa per un pic-nic di quei tempi (Odissea X,516 ss.). Tutte le voci di questa lista potevano certamente avere, ciascuna, uno specifico valore simbolico, ma nel loro insieme non erano che un altro inventario – come i nomi delle parti dell’isbà, quelli delle porte egiziane, e i nomi degli animali dell’Eden – di cose consuete, azioni consuete, in questo caso: scavare, versare, scolare, raccogliere, tagliare, disporre. Ovvero: il diritto di varcare il Confine richiede anche il coraggio, semplicissimo, di accorgersi di come si è. Ma, di nuovo, che sia semplicissimo, non significa affatto che sia facile. Facile e complicato (e noi siamo abituati a ciò che è complicato, e perciò lo troviamo più facile di ciò che è semplice) è fingere di non essere ciò che si è o, se si preferisce, di essere ciò che non si è: mentire su se stessi, agli altri e a se stessi, e di conseguenza mentire anche su ciò che ci circonda. A nessun viaggiatore dell’aldilà viene richiesto, sul confine, di ammantarsi in abiti sacerdotali, o, magari, di mettersi in tight, o di truccarsi: questo genere di cose sono richieste nelle occasioni del mondo consueto – il mondo in cui l’io piccolo si sforza di credere che il tempo lineare e unidirezionale sia l’unico, e finge che lo sia. Nell’aldilà non serve. Quando là (in una visione, o inseguendo un’idea giunta all’improvviso, o in qualsiasi altro atto dell’immaginazione) ci si sente bloccati, è perché qualche guardiano sta ponendo l’enigma, sempre uguale: sei abbastanza te stesso? hai il coraggio e la semplicità di esserlo? e, perciò, guardandoti intorno, vedi le cose semplicemente per quello che sono? Io – diversi anni prima che cominciassi a scoprirne il senso nei testi antichi – mi sentii porre dai miei Maestri invisibili una condizione non meno semplice, per varcare il Confine: mi dissero di fermarmi, sulla via che stavo immaginando di percorrere, e di immaginare una cornice, che doveva servire da porta verso altre dimensioni. La condizione era: «La cornice che immaginerai deve piacerti davvero». Dapprima mi sentii smarrito. Mi accorsi di non sapere quale forma, quale
materiale mi piero davvero. Nel mondo consueto mi ero abituato da troppo tempo a dire agli altri e a me stesso che cosa mi doveva piacere, che cosa era bene che mi pie in modo da non contrastare con l’immagine di me che volevo dare, agli altri e a me stesso. I miei Maestri aspettavano e sorridevano: «Non c’è fretta» dissero. E quando riuscii a immaginare la mia cornice, mi dissero di entrarci, come in una porta sospesa a mezz’aria.
QUALCOSA DA DICHIARARE
Essere se stessi, e dunque sentirsi leggeri, non appesantiti da nulla che non sia nostro: c’era soltanto una piuma su uno dei piatti della bilancia, nel tribunale ultraterreno di Osiride, ed era una piuma delle ali di Maet, la Dea della verità. Sull’altro piatto della bilancia veniva posto il cuore del “morto”, come lo chiamano i testi egizi – ma “morto” era un termine tecnico per indicare l’iniziando, il viaggiatore cioè, uscito dal mondo già noto, dal mondo della gente comune, come la gente comune crede che solo i morti possano uscirne. E quella pesatura era il più solenne degli impedimenti da superare, lungo la via immaginata dagli egizi. Il Dio Anubi controllava il peso del cuore. Il Dio Tot prendeva nota. Intorno, quarantadue giudici divini assistevano, con Iside e Nefti; e Ammit, un Dio molto pericoloso, coccodrillo-leoneippopotamo, aspettava lì accanto, pronto a divorare i morti il cui cuore fosse risultato più pesante di una piuma della verità. Nel Giudizio cristiano delle anime, invece della pesatura del cuore, ci si figurò l’esame dell’elenco, in partita doppia, dei peccati e dei meriti: invece di valutare l’individuo, la giurisprudenza celeste dei cristiani – più pratica – valutava le sue azioni, comprovava cioè le prove concrete del grado della sua pericolosità per l’ordine costituito. Il test egiziano dà un’indicazione più profonda, più psicologicamente precisa: a fermare il viaggiatore non sono tanto il numero e la gravità dei suoi peccati, quanto il modo in cui lui li avverte, e in cui avverte se stesso, ed è preoccupato di sé. Il cuore leggero non è infatti prerogativa di chi è innocente o innocuo, ma di chi è a tal punto se stesso da non sentire la propria interiorità come un peso. Goethe, nelle ultime pagine del Faust, fa descrivere quella pesantezza alla Sorge, cioè alla “Preoccupazione”, personificata in forma di demone grigio: Per colui che ho in mio possesso il mondo intero non vale più nulla. Eterna oscurità scende su di lui; il sole non si leva e non tramonta; anche se sono perfetti i suoi sensi esteriori, le tenebre abitano in lui. Di tutti i suoi tesori non sa più essere il padrone. Fortuna e sfortuna non sono che ansia, per lui;
muore di fame nell’abbondanza; rinvia sempre al domani e nell’attesa perenne del futuro non sa concludere nulla. Deve andare? Deve venire? Ogni decisione gli è tolta: a i incerti, a tastoni avanza lungo una strada sgombra, si perde sempre più. Un rotolare senza sosta e senza volere, dolorose rinunce e un dovere riluttante, mentre si crede ora libero e ora oppresso, tra mezzi sonni e cattivi riposi, lo vincoleranno al suo posto, lo prepareranno all’inferno. Faust, vv.11455 ss.
Così non si a. Così non sai dare i nomi. Non osi tendere la mano. La Sfinge o Ammit ingoiano la tua immaginazione, e il peso del cuore ti riporta giù – verso una vita nell’aldiquà, tutta quanta pesante. L’ostacolo della preoccupazione compare anche nell’Esodo, strettamente associato a un tribunale, umano invece che divino. Nelle prime settimane del viaggio verso la Terra Promessa, Mosè aveva cominciato a risolvere di persona tutte le contese private della gente che lo seguiva: faceva da giudice in casi di furti, sopraffazioni, debiti non pagati, e si sfiniva tenendo udienze per ore. Fu il suocero Itrò, venuto a fargli visita, a segnalargli quell’errore e ad alleggerirgli il cuore: Il suocero gli disse: «Non va bene quello che fai! Finirai per esaurirti, tu, e con te anche questo popolo, perché è un compito troppo pesante e non puoi farlo da solo». Esodo 18,17
Suo suocero Itrò – un saggio sacerdote di qualche culto orientale che il testo biblico non nomina – gli consigliò di eleggere dei giudici tra il popolo, che sbrigassero le questioni di ordinaria amministrazione; Mosè obbedì, ne ebbe grande sollievo, e il viaggio poté proseguire più speditamente. Fanno eco due i dei Vangeli. Uno è: Se stai per deporre la tua offerta sull’altare e là ti ricordi che tuo fratello ha qualcosa contro di te, lascia la tua offerta accanto all’altare e va’ prima a riconciliarti con lui; dopo, verrai a offrire il tuo dono. Matteo 5,23-24
Se, cioè, in te c’è una preoccupazione, è tempo perso accostarti a una dimensione sacra: figurarsi intraprendere un viaggio nell’Aldilà.
L’altro o, la parabola dell’amministratore ingiusto, è tra i brani più enigmatici dei Vangeli. Un amministratore che sta per essere licenziato dal suo padrone si chiede come trovare nuovi amici e un nuovo lavoro, e in breve tempo trova la soluzione: convoca i debitori del padrone e li informa di aver dimezzato i loro debiti, falsando i registi. Gesù ne trae la seguente conclusione: Fatevi degli amici con le ricchezze disoneste, perché quando vi verrà a mancare vi ricevano in dimore eterne. Luca 16, 9
La lezione per i viaggiatori è anche qui la stessa: liberarsi a qualsiasi costo, in qualsiasi modo, dai tentacoli della preoccupazione. Non cadere nella tentazione di risolvere i problemi dell’Aldiquà, così come l’Aldiquà imporrebbe, ma sbrigati a superarli, per procedere verso dimensioni diverse.
ALTRI ECCESSI DI RESPONSABILITÀ
Ancor più enigmatico – ma analogo – è un altro impedimento che Mosè aveva incontrato, proprio all’inizio della sua vocazione di guida del popolo. Una notte, durante il viaggio di ritorno in Egitto, dove doveva svolgere la sua predicazione, YHWH gli si era misteriosamente scagliato contro, come un guardiano furioso: YHWH gli venne contro e cercò di farlo morire. Allora Tsippora, sua moglie, prese una selce tagliente, recise il prepuzio del figlio e con quello toccò i piedi di Mosè e disse: «Tu sei per me uno sposo nel sangue». Allora [YHWH] si ritirò da lui. Essa aveva detto «sposo nel sangue» a motivo della circoncisione. Esodo 4,24-26
Tutt’a un tratto, qualcosa nel Dio ebraico si accanì contro il suo profeta egizio, e ne venne quell’affannosa scena di sangue, con il bambino che strillava dal dolore e Tsippora che brandiva il lembo di pelle, bisbigliando davanti all’invisibile. I commentatori ne sono imbarazzati. I rabbini ortodossi ipotizzano che Mosè non avesse circonciso il figlio, e che YHWH l’avesse voluto punire per questo: ma dal testo ciò non risulta affatto. D’altra parte, né Mosè, cresciuto in Egitto, né sua moglie, figlia di un sacerdote straniero, sapevano nulla di circoncisione: se YHWH voleva che adottassero questa pratica ebraica, avrebbe potuto chiederglielo. Più probabile è che una preoccupazione paterna pesasse sul cuore di Mosè: stava accingendosi all’impresa di guidare una folla impreparata, paurosa, riottosa, fuori dal mondo in cui aveva vissuto, di trasformare quella folla in un popolo, di iniziare quel popolo (iniziare un popolo intero!) per farne una nazione di profeti, e di condurlo attraverso il deserto, fino a Canaan, dove avrebbero dovuto sostenere una guerra di conquista. Che cosa avrebbe comportato tutto ciò, per la sua famiglia? Quali privazioni, quali pericoli? E, anche nel migliore dei casi, il suo amore per quel Dio ancora sconosciuto, a lui straniero, non l’avrebbe cambiato talmente da allontanarlo dalle persone che ora amava? Forse Mosè stava sforzandosi di non pensarci: commise questo errore, che tutte le persone assillate da qualche timore commettono, prima o poi. E la preoccupazione, come sempre avviene quando si tenta di
ignorarla, si era trasformata in incubo: d’un tratto Mosè aveva avvertito YHWH come una calamità che stava per schiacciarlo. Allora Tsippora superò d’un tratto il problema: le parole che disse quella notte a Mosè significano «Io vengo con te: tu sei mio sposo anche nel sangue! Se il tuo Dio vuole la circoncisione, noi faremo anche questo, e se vuole altre ferite, le sopporteremo!» Dopodichè toccò con le dita insanguinate i piedi di Mosè, e ciò gli diede forza, perché riprendesse il cammino. Sembrerebbe una scena vista in sogno: così rapida, assurda e decisiva. Ed è verosimile che fosse stato un sogno, da cui Mosè si svegliò sbalordito, fradicio di sudore. Può avvenire a tutti. Il ruolo famigliare che i viaggiatori rivestono nell’Aldiquà può determinare questi turbamenti, all’inizio di una via che conduce verso non si sa dove, ma che di certo li cambierà profondamente, e in tal modo metterà a dura prova i loro affetti. Non tutti hanno accanto una Tsippora. (E d’altronde, Tsippora poi rimarrà indietro, Mosè troverà nel deserto altri amori ). Quanto a questo, sono giustificabili gli invitati che, in un’altra parabola evangelica, si scusano di non poter venire: 24
All’ora di pranzo il padrone di casa mandò un suo servo a dire: «Venite, tutto è pronto!» Ma tutti, uno dopo l’altro, cominciarono a scusarsi. Uno disse: «Ho comprato un campo e devo andare a vederlo. Ti prego di scusarmi». Un altro disse: «Ho comprato cinque paia di buoi e sto andando a provarli. Ti prego di scusarmi». Un altro ancora: «Ho preso moglie e dunque non posso venire». Luca 14,17-20
Per molti, è prudente che la via verso l’Aldilà rimanga irraggiungibile, fantasiosa.
24
Numeri 12,1 ss.
PARTE SECONDA LE ACQUE
MARI E FIUMI DELL’ALDILÀ
Grandi ostacoli lungo la via nell’aldilà sono, poi, le acque. Mari e fiumi sempre pericolosi, nei quali molti scompaiono, e in cui molto di ciò che credevamo nostro deve scomparire. Sulla riva dell’Acheronte, il fiume che separa dall’Ade, Enea vede che solo alcuni salgono sul traghetto di Caronte, mentre altri sono costretti a lunghe attese: e la vecchia Sibilla, che fa da guida a Enea, gli spiega che solo chi è stato sepolto può essere traghettato. «Al di là delle buie sponde e dei rochi flutti non è dato are prima che le ossa abbiano avuto riposo. Qui si erra anche per cento anni, volitando attorno alle rive». Eneide VI,327-329
Virgilio ha ragione: l’ostacolo delle acque ha a che vedere con il ato, in tutte le tradizioni. Chi è sepolto a: chi ha chiuso i conti con ciò che ha vissuto, ha via libera. L’avevano già intuito gli autori della Genesi, fin dall’inizio. Il primo viaggio nell’aldilà, aldilà di ciò che è già noto, è, nella Genesi, la Creazione dell’universo, di un universo nuovo: e, quando questo aldilà era ancora abisso e tenebre, il respiro di ’Elohiym increspava la superficie delle acque. Genesi 1,2
Anche ’Elohiym dovette superare una distesa di acque, che altro non poteva essere, in quel momento, se non il simbolo di ciò che grazie alla nuova creazione diventava ato. Forse questa simbologia provenne dal parto: si nasce da acque, e nella nascita le acque rimangono indietro. Forse ha a che fare con l’idea che ciò che sprofondava nelle acque era, per gli antichi, irraggiungibile proprio come il ato. Oppure – ed è molto più interessante – possiamo pensare che, nel linguaggio dell’immaginazione, la distesa d’acqua, mare o fiume, sia il grande ostacolo, la soglia principale – e che perciò chi nasce si lascia alle spalle le acque-ato, e chi non riesce a are viene inghiottito e scompare nelle acque-ato.
’Elohiym le superò da solo. I viaggiatori, generalmente, no: occorre che qualche aiutante possente intervenga, a fare da levatrice.
NOÈ
Così è nel racconto del Diluvio: Noè non avrebbe potuto scamparla, se non avesse ricevuto le indicazioni di ’Elohiym, e se non avesse accettato che quell’esplosione di acque annientasse tutto il mondo a lui noto. E, come sappiamo, ’Elohiym è il Dio che dice di sé: «Io sarò ciò che sarò» (Esodo 3,14): un Dio del futuro, corrispettivo di quello che i più antichi filosofi greci chiamavano il Divenire. Il Diluvio fu opera, invece, di YHWH, il Dio di ciò che c’è già, il quale – narra la Genesi – aveva preso la decisione di distruggere il proprio dominio, cioè il mondo che c’è già. YHWH distrusse un mondo, e in quello sfacelo ’Elohiym salvò qualcuno, per poi guidarlo verso un mondo nuovo. Dal volume precedente, abbiamo sufficiente dimestichezza con questi due volti dell’antica divinità ebraica, per dubitare che quella catastrofe e quella salvazione fossero azioni disgiunte: anzi, a un più attento esame ci si accorge che furono, in realtà, tutt’uno. YHWH si era risolto a distruggere il mondo 25
perché sulla Terra ogni forma corporea lasciava che la sua via si abbassasse sempre più. Genesi 6,12
Alcuni uomini, invece, crescevano sempre più, grazie a unioni celesti: i “figli di ’Elohiym” si univano alle più belle tra le figlie degli uomini e ne nascevano individui capaci di creare (Genesi 6,4). La tradizione sia ebraica, sia cristiana tende a figurarsi YHWH scandalizzato da questi connubi tra figure angeliche ed esseri umani: grave errore di interpretazione, derivato da troppi problemi irrisolti, in entrambe le religioni, nei riguardi dell’eccitazione sessuale e della bellezza. “Figli di ’Elohiym” significa nuovi aspetti del Dio creatore, accessibili ad alcuni individui grazie alla loro bellezza; e per la prima volta troviamo qui annunciata l’idea della bellezza che apre la via a mondi nuovi, e che si ritroverà millenni più tardi in Kant, Schiller, Dostoevskij. Per i “figli” di quegli individui la Terra così com’era allora diventava insufficiente, troppo “bassa” – e qui, per la prima volta nella cultura mediterranea, si annuncia il concetto di evoluzione, addirittura di speciazione 26
culturale: era divenuto possibile e sempre più necessario un nuovo stadio evolutivo dell’umanità, che si lasciasse per sempre indietro, più giù, ciò che diventava vecchio. Il Diluvio fu quel lasciarsi indietro il mondo vecchio. ’Elohiym, il Dio del Divenire, insegnò a Noè (e in ogni nuovo stadio evolutivo, insegna a tutti i Noè) come giungere oltre, mentre YHWH, il Dio di ciò che c’è, delle cose così come stanno, faceva risultare il mondo vecchio sempre più superato. Sono due volti di un medesimo cambiamento. Dunque il Diluvio non fu una strage. L’acqua che sale è simbolica: è la distanza tra chi si evolve e chi no. E sott’acqua si è sordi: chi sta evolvendosi, da sopra le onde, non può farsi udire da chi, là sotto, ha perso l’occasione di salire. Nemmeno ciò che in me stesso è incapace di evoluzione può tenersi ancora legato a ciò che in me cambia. Quanto alle istruzioni che ’Elohiym diede a Noè, sono un enigma la cui soluzione era evidente all’epoca in cui la Genesi veniva scritta, e che divenne invisibile poi. Il termine usato per “arca”, 27
הבת tebah, significa, in ebraico, sia “contenitore” sia “parola”: in ebraico geroglifico è 28
ת: ciò che manifesta, esprime ב: un contenuto ה: invisibile
Un contenitore che si apre e rivela ciò che altrimenti non si vedrebbe: così è un linguaggio nuovo – un nuovo contenitore di ciò che qualcuno sa del mondo. ’Elohiym spiega a Noè che per are da una vecchia fase evolutiva a una nuova occorre formarsi un linguaggio individuale, diverso dai linguaggi usati dagli altri: cioè, trovare un nuovo senso, una nuova interpretazione personale di tutto ciò che esiste. E – spiega ’Elohiym – questo linguaggio nuovo dovrà essere come le diramazioni della vite Genesi 6,14
– in ebraico: רפגיצע
‘azey gofer: ‘azey è il plurale di ‘ez, “diramazione”, gofer è un vocabolo modellato su gefen ()ן פ ג, “vite”. È insensata la traduzione che troviamo in tutte le edizioni attuali della Bibbia: “di legno di cipresso”, o “di legno resinoso”, o “di pino” – che fa inventare un cantiere in cui Noè costruisse, tutto solo, un enorme natante, dopo aver deforestato i dintorni e trasportato migliaia di tronchi di conifere, da segare e piallare. La vite è una pianta rampicante, che aderisce ai suoi sostegni: sia così anche il nuovo linguaggio individuale dei Noè, aderisca strettamente a tutto ciò che nomina, più e meglio dei linguaggi già esistenti. E nomini tutto: tutto ciò che vive e si riproduce deve trovare posto nell’arca-linguaggio – il che, nella tradizione sia ebraica sia cristiana, si riduce miseramente al quadretto delle coppie di animali che si lasciano stivare nella grande barca. Valgono, tutte queste istruzioni di ’Elohiym, anche per i viaggiatori in partenza per l’Aldilà. Dovranno affrontare, ciascuno per sé, una nuova evoluzione, e guardare con occhi nuovi al mondo che si sono lasciati alle spalle e al futuro che stanno scoprendo, e che prima non c’era. Dovranno trovare un nuovo linguaggio per descrivere sia tutto ciò che già conoscevano (e quasi tutto ciò che già conoscevano cambierà valore per loro) sia ciò a cui la loro immaginazione li condurrà; e dovranno accorgersi di quanto siano poveri e vaghi, in confronto, i linguaggi che già conoscono. Poi, se ancora vorranno parlare a chi in quell’evoluzione è rimasto indietro, dovranno tradurre dal proprio linguaggio nuovo ai linguaggi vecchi. Il che non è né nuovo, né strano. Accade a chiunque si accorga che per esprimere ciò che pensa, sente, intuisce, immagina, deve ricorrere a forme d’arte, di poesia – sperando che nei suoi interlocutori si attivi un talento artistico, poetico, che permetta loro di intendere, o magari un talento telepatico (come altro chiamarlo?) che permetta loro di cogliere ciò che la loro mente cosciente non capisce. Solo a queste condizioni, secondo il racconto di Noè, i viaggiatori saranno pronti a superare le acque. 29
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Per un antico, caparbio errore, questo nome di ’Elohiym viene tradotto in Occidente: «Io sono quello che sono». 26 Sono, nel testo biblico ebraico, i GiBoRiYM, termine che solitamente e grossolanamente viene tradotto “i giganti”. Cfr. I. Sibaldi, Libro della creazione, Mondadori, Milano 2016, p. 313 ss. 27 Cfr. I. Sibaldi, La specie nuova, Roi edizioni, Macerata 2017. 28 Cfr. I confini del mondo, op. cit., p. 19 ss; Libro della creazione, op. cit., pp. 87-99. 29 Forse un neologismo, forse un errore di trascrizione dell’ultima lettera.
OKEANOS
Anche Odisseo dovette superare “il fiume Okeanos” per giungere sulle rive dell’Ade – senza incontrare alcun Caronte, che Omero non conosceva – e la traversata andò bene. Non gli occorse nessun mutamento interiore: «Circe, e chi lo guiderà questo viaggio?» Dissi così e subito rispose lei, chiara fra le dee: «Divino figlio di Laerte, Odisseo pieno di astuzie, non ti preoccupare che manchi una guida alla tua nave: dopo che avrai alzato l’albero e spiegato le bianche vele, siediti: la condurrà il soffio di Borea, la tua nave». Odissea X,501-507
Un buon vento bastava. Omero, quanto a questo, era davvero ottimista. Ma nell’Ade, Odisseo venne a sapere che tutti i suoi compagni sarebbero periti prima di arrivare a Itaca. Uno di loro, Elpenore, che quel giorno non era salpato con gli altri verso l’Okeanos, era anzi già morto: Odisseo lo scorse tra le prime “ombre” che gli si avvicinarono sulla soglia dell’Ade: «Elpenore, come sei giunto nella tenebra fosca? A piedi sei giunto prima di me con la nera nave…» Odissea XI, 57-58
Poco dopo, Odisseo scorge lì la propria madre: neanche della morte di lei l’eroe sapeva ancora nulla. Sono altri simboli del superamento del ato, che l’aldilà impone. E ciò indica un’altra condizione del viaggio: chi teme di scoprire che qualcosa che gli sembra presente, o che vorrebbe fosse ancora presente, in realtà è già ato – già sommerso in quelle che un autore della Genesi avrebbe chiamato: acque del diluvio – non si accinga al viaggio. Rimanga con ciò che non vuole perdere, per obbedienza, o per paura, o per comione, o per amore, anche a costo di rimanere lui, lui stesso, nel ato; per amore si può.
GIONA
La connessione tra le acque e il ato si scorge anche nel libro di Giona. Giona è il profeta riluttante: non obbedisce a YHWH, che gli ordina di andare a predicare a Ninive; e siccome il Dio insiste, Giona tenta di allontanarsi dalla “presenza di YHWH”, viaggiando per mare. Si imbarca al porto di Jaffa, e sulla nave si sente talmente al sicuro che si addormenta: non perché ritenga che YHWH sia un Dio locale, e che fuori dai confini della Palestina la sua giurisdizione finisca, ma perché YHWH è il Dio di ciò che è, il Dio del presente, e le acque sono il ato. Dunque, per rifiutare la propria vocazione profetica che gli impone di agire adesso a Ninive, Giona fugge sulle ampie distese, sul mare del prima. Ma la nave è scossa da un’improvvisa tempesta, rischia il naufragio, e i marinai capiscono che la colpa è di Giona: Sapevano che stava fuggendo dalla presenza di YHWH, perché a loro Giona l’aveva confidato Giona 1,10
È Giona stesso a chiedere che lo si getti in mare, perché la nave si salvi. Come a dire: che il ato mi inghiotta del tutto! Ma YHWH fece sì che un grande pesce inghiottisse Giona. Così Giona rimase nel ventre del pesce per tre giorni e tre notti. Giona 2,1
E in quei tre giorni Giona capisce il proprio errore: nel ato si può soltanto rimanere bloccati, sentirsi chiusi, venire portati qua e là da forze estranee. Giona è come un Noè che abbia scelto di lasciarsi sommergere dal Diluvio (come fanno molti in ogni periodo di grandi cambiamenti) e comincia a rimpiangerlo, a inorridire: «L’abisso mi aveva avvolto, le alghe si erano attorcigliate attorno al mio capo. Ero sceso fino alle radici delle montagne, in un paese sotto la terra e le sue spranghe mi avrebbero imprigionato per sempre». Giona 2,6-7
YHWH lo salva, il grande pesce riporta Giona a riva, e Giona accetta la missione. Gesù parlò del “segno di Giona”: «Una generazione malvagia e falsa pretende un segno [da me]; e nessun segno le sarà dato se non il segno del profeta Giona. Così come Giona stette tre giorni e tre notti nel ventre del pesce, allo stesso modo il figlio dell’uomo resterà tre giorni e tre notti nel cuore della terra». Matteo 12,39-40
Sarebbe un annuncio della morte e della resurrezione di Gesù – come lo intendono solitamente i teologi – se non comparisse qui l’espressione “il figlio dell’uomo”, che era ed è ancora, in ebraico, un’espressione colloquiale, a significare “chiunque”. Chiunque – dice qui Gesù – dopo aver ascoltato il mio insegnamento si sentirà nel “cuore della terra”, cioè al centro del suo mondo consueto, proprio come Giona si sentiva nel ventre del pesce: immerso, avvolto, attorcigliato nelle acque dell’“abisso”. Poi chiunque dovrà scegliere se rimanervi o uscirne, verso un presente nuovo. Lo stesso vale per chiunque abbia cominciato a viaggiare nell’aldilà.
LETÉ E EUNOÉ
Anche Dante, nel Purgatorio, fa delle acque un simbolo del ato: prima di accedere al Paradiso, deve immergersi in due fiumi e berne qualche sorso. Deve, cioè, sentire appieno l’effetto che le acque del ato producono su di lui e dentro di lui. Prima, il “fiume sacro” Leté, che toglie altrui memoria del peccato Purgatorio XXVIII,127
Poi l’Eunoé, dalla “santissima onda”, che fa invece ricordare ogni “ben fatto”, ogni buona azione, e dal quale riemergi rifatto sì come piante novelle rinnovellate di novella fronda puro e disposto a salire a le stelle. Purgatorio XXXIII,143-145
Dante sapeva qualcosa di greco: lethe, in greco, significa “oblio”, e “eunoé” richiama il greco eynoia, il “pensare bene”. Immergersi nel Leté è acquistare coscienza – e perciò prendere le distanze – dal potere annientante del ato, che dissolve e stravolge i ricordi; immergersi nell’Eunoé è ritrovare i ricordi belli nel ato, per riportarli nel presente. Ma ciò che più colpisce in questi due episodi danteschi sono le parole altrui memoria del peccato.
Altrui significa: di altri. Il ato in cui Dante si immerge, nel Leté, è ciò che gli altri sanno e ricordano dei suoi peccati, e dei peccati in genere. Sono idee morali che, lì, Dante impara a riconoscere come ate: dunque da lì in avanti le opinioni altrui riguardo a ciò che è male o bene non influiranno più sul suo modo di conoscere. L’immersione nel Leté è un Diluvio personale. I viaggiatori lo tengano presente: entrando nell’aldilà, si entrerà anche in una dimensione etica, in cui tutti i valori saranno diversi da quelli degli altri.
NELL’ACQUA, SOPRA L’ACQUA E L’ACQUA DA DENTRO
Gesù non amava i rituali, e perciò «Gesù non battezzava», tiene a precisare l’evangelista Giovanni (4,2). Sempre secondo il Vangelo di Giovanni, non si era nemmeno fatto battezzare: il Battista aveva solo «dato testimonianza di lui, quella volta, sul Giordano» (Giovanni 3,26); cioè avevano solo parlato, e poi il Battista aveva parlato molto di lui. Gli altri tre Vangeli canonici informano invece che Gesù si era fatto battezzare; ma Matteo narra che il Battista voleva impedirglielo e gli diceva: «Io avrei bisogno di essere battezzato da te e tu vieni da me?» Gesù gli disse: «Per ora sì; devi, perché bisogna che adempiamo a tutto quello che si ritiene giusto». Allora Giovanni acconsentì. Matteo 3,14-15
Quel “per ora” aiuta a chiarire questa controversia tra evangelisti: colui che si fece battezzare sulla riva del Giordano non era ancora pienamente il profeta Gesù, ma un uomo nel periodo della sua sottomissione a ciò che altri ritengono giusto. Poi d’un tratto divenne se stesso: Uscì rapido dall’acqua e vide i cieli aprirsi e lo Spirito scendere su di lui come una colomba. E giunse una voce dai cieli: «Tu sei il mio Figlio prediletto, di te sono contento». Marco 1,10-11; Matteo 3,16-17
Ciò su cui tutti gli evangelisti concordano, è che da allora Gesù cominciò ad avere altre idee sulle acque. Se per il Battista erano un mezzo per un rituale – che ricalcava la conversione di Giona –, per Gesù le acque divennero un ostacolo da sfidare. Gesù insegnava a camminarvi sopra: La loro barca era in mezzo al mare e […] lui venne verso di loro, camminando sul mare, e voleva are accanto a loro. Marco 6,47-48
Come a dire: vedete, così si fa; così bisogna fare, perché c’è un Diluvio nel mondo; il mondo che conoscete è già sommerso, e la cosa giusta è camminarvi sopra, per stare ad al là del mondo conosciuto. Quelli che sono sott’acqua sono sordi – hanno la mente piena di “altrui memoria del peccato”, avrebbe detto Dante – e non bisogna curarsene, né lasciarsi intimidire dalle
onde del loro ato. Anzi – aggiunge Gesù in un altro o – diventerete voi stessi sorgenti di acque, che li travolgeranno: «Chi ha sete venga a me e beva. Chi ha fede in me, come dice la Scrittura, avrà fiumi di acqua viva che gli sgorgheranno dal ventre». Giovanni 7,38
Sarete Diluvi, nel mondo! Attraverso di voi irromperà nel mondo conosciuto un aldilà che lo sommergerà. Tra i molti che non riuscirono a seguire Gesù in questo suo modo di intendere le acque, Pietro e Giovanni Battista costituiscono due casi a sé stanti.
PIETRO, IL SASSO
Pietro una volta prova a camminare sull’acqua – lui, di professione pescatore! – e affonda: Cominciò a camminare sull’acqua e andò verso Gesù. Ma vedendo la violenza del vento ebbe paura, cominciò ad affondare e gridò: «Signore, aiuto!» Gesù stese la mano, lo afferrò e gli disse: «Uomo di poca fede, perché hai dubitato?» Quando salirono sulla barca, il vento cessò. Matteo 14,29-30
Un’altra inversione: Gesù “stende la mano” – gesto che conosciamo bene, sul Confine – non verso l’aldilà, ma dall’aldilà verso l’aldiquà, per impedire che Pietro finisca sott’acqua. E Pietro, in tutti i Vangeli, è il discepolo incapace di intuizione, ottuso, appunto come la pietra. Era naturale che affondasse così, trascinato giù dal peso di troppe sue vecchie certezze non ancora consumate. Su una scala della crescita interiore elaborata nel cristianesimo antico, Pietro rappresenta il grado più basso:
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Pietra Acqua Vino e pane Sangue
L a Pietra è la gente inerte, incapace di movimento autonomo: può essere solo spostata, trasportata da un posto all’altro, grazie a energie altrui, per volere altrui, e là dove la si lascia rimane. Le persone Acqua sono un poco più mobili: non appena le circostanze sono propizie – come, nei corsi d’acqua, la pendenza del terreno – fluiscono; e in più evaporano; piovono; ma anche nel loro caso, la causa del movimento è esterna. Le persone Vino e Pane sono coloro in cui è avvenuta una trasformazione: sono fermentate, hanno prodotto in se stesse qualcosa di diverso dagli elementi naturali di cui sono costituite – il succo d’uva non è ancora vino, e farina, acqua, sale non sono ancora pane. Le persone Sangue, infine, sono coloro in cui tutto è in movimento
autonomo: la vita fluisce in loro. Ognuno, nella propria crescita interiore, ha queste quattro fasi da attraversare, nel loro ordine: prima Pietra, poi Acqua, poi Vino e Pane, poi Sangue. E nei Vangeli sono mostrate tutte e quattro, una dopo l’altra. A Cana C’erano lì sei giare di pietra […]. Gesù dice: «Riempite le giare di acqua». Le riempirono fino all’orlo. Giovanni 2,7
E l’acqua nella pietra viene trasformata in vino. Poi, durante l’ultima cena, Gesù dichiara che il vino è diventato sangue, e il pane carne viva. Sono i simboli delle fasi del suo insegnamento. Il diavolo, durante le tentazioni nel deserto, aveva proposto a Gesù di barare sull’ordine delle fasi: «Di’ che queste pietre diventino pane». Matteo 4,3
Era un’astuta proposta di quello che oggi chiameremmo marketing spirituale: un gran numero di persone si sono sempre sentite attratte dai maestri che promettono progressi rapidi, balzi dalla fase Pietra alla fase Pane, senza are dall’Acqua. Gesù rifiuta, preferendo un insegnamento impopolare, paziente. E Pietro rimaneva indietro. O meglio: era più propenso all’idea del diavolo (non per nulla Gesù lo chiama “Satana”, Matteo 16,23; Marco 8,33), dato che pur restando Pietra si sentiva un discepolo, un Pane che sta fermentando. Si vide che non lo era, quando rinnegò Gesù per timore delle autorità: si rivelò un sasso, pronto a lasciarsi spostare da volontà altrui. Perciò non poteva camminare sulle acque. Non era fatto per i viaggi di cui stiamo narrando qui. Nell’acqua, Pietro affondò anche un’altra volta. Avvenne sulle rive dal lago di Tiberiade, quando avevano gettato le reti «a destra della barca» per consiglio di uno sconosciuto che (un altro discepolo, il prediletto, lo intuì per primo) era Gesù risorto. Pietro, sulla barca, stava tirando le reti piene di pesci, e appena udì che quello era il Signore, Simon Pietro si cinse della sua sopravveste, poiché era nudo, e si gettò in acqua. Giovanni 21,8
Per l’urgenza di parlare a Gesù risorto, lo raggiunse a nuoto. Sì, ma perché la sopravveste? Non era un indumento leggero, era di lana, ingombrante per nuotare. Gesù poco dopo ne trae spunto, mentre lo rimprovera, o piuttosto lo
smaschera: «In verità in verità ti dico: quando eri più giovane ti cingevi la veste da solo e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le braccia e un altro ti metterà vesti e ti porterà dove tu non vuoi». Giovanni 21,18
Ai tempi in cui il Vangelo di Giovanni venne ultimato e cominciò a diffondersi, verso la metà del II secolo, Pietro era già per tutta la cristianità l’emblema della cosiddetta Grande Chiesa, cioè della ricca comunità cristiana di Roma: e questa faceva già buona pesca, ma si immergeva sempre più nell’acqua vischiosa dei compromessi religiosi e politici con l’aristocrazia dell’Impero. Ha perciò un suono cupo la famosa frase: «Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa», frase che compare nel solo Vangelo di Matteo (16,18). Quella Chiesa trionfò, e cominciò a formare gerarchie ricalcate su culti precedenti: sott’acqua.
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Cfr. R. Smoley, Inner Christianity, Shambhala, Boston & London 2002, p. 220.
IL BATTEZZATORE
Giovanni Battista, invece, non ebbe il coraggio di attraversare le acque. Stava fermo sulla riva, dove ancora si toccava: lì immergeva nell’acqua uomini adulti, con gesti da levatrice, per propiziare una rinascita che diceva imminente, ma che per lui non arrivò mai. Il Battezzatore esitava, infatti, quando quella gente lavata domandava che cosa bisognasse fare dopo. Un evangelista lo nota amaramente: Vennero anche degli esattori corrotti a farsi battezzare, e gli chiedevano: «Maestro, che dobbiamo fare?» E diceva loro: «Non esigete più delle quote fissate». Anche alcuni soldati venivano a chiedergli: «E noi, che cosa dobbiamo fare?» Rispondeva: «Non maltrattate e non estorcete niente a nessuno, accontentatevi delle vostre paghe». Luca 3,12-14
Quote? Paghe? Cosa diceva il Battezzatore, di veramente nuovo? Quelle sue risposte sono un elenco di occasioni perdute, se si paragonano all’inesorabile massimalismo di Gesù, che agli esattori corrotti e ai soldati avrebbe dato ben altre risposte. «Basta! Verrà un altro più forte di me!» esclamava il Battezzatore, assillato da quelle domande della gente, come su una riva friabile. Rampollo di famiglia aristocratica, figlio di grande sacerdote del Tempio di Gerusalemme, il Battezzatore non riuscì mai a concepire un pensiero che si staccasse dalla riva dello status quo, da una religione intesa come semplice speranza in un futuro migliore. Gesù diceva di lui: «In verità vi dico: fra i nati di donna non è mai stato suscitato uno più grande di Giovanni Battista; eppure il più piccolo nel Regno di Dio è più grande di lui. Fino a Giovanni tutti i profeti e la Legge hanno fatto profezie [sul futuro]; ma dai giorni di Giovanni Battista fino ad ora il Regno di Dio si conquista di slancio, e solo chi sa usare la forza se ne impadronisce». Matteo 11,11-13
A Giovanni mancava questo slancio, senza il quale la via dell’aldilà non si percorre. Perciò il Vangelo di Giovanni insiste che il Battista era «dall’altra parte del Giordano» (Giovanni 1,28; 3,26), benché predicasse sia a Betania sia a Salim, che si trovavano l’una di là dal fiume e l’altra al di qua, rispetto a Gerusalemme. Era «dall’altra parte» dell’acqua in senso non geografico, ma
spirituale. I viaggiatori tengano conto anche di lui, oltre che di Pietro, per valutare il proprio comportamento sulla riva.
NAUFRAGI DI RE
Illustri re, principi ed eroi affrontarono invece le acque fiduciosamente, come Noè. Così Sargon di Accad, re in Mesopotamia nel XXIV secolo a.C., lasciò scritto di sé su una stele: La mia umile madre mi concepì e mi diede alla luce in segreto, mi mise in un canestro di vimini, lo spalmò di bitume e mi affidò al fiume, che non mi inghiottì. L’acqua mi sostenne e mi trasportò fino ad Akku, il giardiniere, che mi allevò come suo figlio e fece anche di me un giardiniere; e mentre ero un giardiniere la dea Ishtar mi amò. Così conquistai il regno. 31
Come nella vicenda di Odisseo, rileviamo anche qui una madre perduta – un ato, cioè, da cui le acque allontanano per sempre. Anche Romolo aveva perduto sua madre – Rea Silvia, figlia di un re – in modo molto simile: nato da uno stupro, con il suo gemello Remo, viene abbandonato in una cesta durante una piena del Tevere, e lì trovato e salvato, dapprima da una lupa – in cui scorgiamo senza difficoltà un aiutante in aspetto animale – e poi da un pastore, da un uomo, cioè, esperto di animali. Così anche Romolo si avviò a conquistarsi un regno. Notiamo subito: le acque non solo salvano chi non si oppone alle sue correnti, ma lo conducono verso una sorte eccezionale, al di sopra, al di là delle possibilità della gente comune; e, a differenza delle sorti eccezionali che abbiamo visto finora, tutte proiettate nell’aldilà, quelle di chi supera la prova delle acque hanno conseguenze nel mondo consueto, tra la gente comune. Dalle acque si torna pronti a grandi responsabilità, ad atti eroici, al successo – e si tratta puntualmente di un successo che cambia molte cose, nel mondo consueto. Perséo, anche lui nipote di re, salpò non meno fortunosamente, ma insieme alla madre: non in una cesta, ma in uno scrigno con il coperchio inchiodato. Ed è anche questa una storia utile per i viaggiatori. Tutto incominciò perché ad Acrisio, re di Argo, un indovino aveva raccomandato di non avere nipoti: da tutti gli auspici risultava che sarebbe stato un nipote a ucciderlo. Acrisio rinchiuse allora la figlia Danae in una cella sotterranea, perché nessuno la ingravidasse. Danae, come Cenerentola chiusa in casa, simboleggia il nostro obbedire al mondo così com’è, dal quale
siamo nati e che teme di non durare. Qui, invece della fata intervenne Zeus, che si era invaghito di Danae: il Dio si trasformò in pioggia d’oro e cadde sul grembo di lei, da un qualche varco misterioso tra il soffitto della cella e il letto. Quella pioggia scintillante è simbolo di uno dei nemici più pericolosi dei re conservatori: la ricchezza, che può prodursi ovunque e generare un futuro che li distruggerà; non per nulla, anche i Magi persiani portarono oro, in segreto, a Gesù appena nato, quando Erode temeva i nuovi nati, non meno di Acrisio. Acrisio non capì quella simbologia dell’oro e non fece che infuriarsi, quando seppe che Danae aveva concepito in quella pioggia d’oro. Acrisio lasciò che desse alla luce un bambino: Perséo, appunto – nome che significa forse “il saccheggiatore”, o forse “il persiano”. Poi, il re nonno comandò che si rinchiudessero madre e figlio in uno scrigno, e che li si gettasse in mare. Un’altra arca. Così Perséo fluttuava, come Noè, come Sargon, come Romolo, ma con la madre accanto. Veramente accanto? Nei miti, questo avverbio ha spesso intensità speciali. Accanto: è sufficiente figurarsi quell’arca-scrigno dal punto di vista di Perséo, con l’acqua e il tepore materno tutt’intorno, e quella navigazione diventa subito l’immagine di una gravidanza, in cui la madre e lo scrigno sono tutt’uno. Anche Noè, del resto, rimase chiuso nell’arca per nove mesi: a metà maggio ebbe inizio il Diluvio, ai primi di febbraio Noè praticò un’apertura nello scafo (Genesi 7,11; 8,6). Poi, come Sargon e come Romolo, Perséo venne salvato su un’altra riva, a Serifo – da un pescatore, fratello del re locale. Lì crebbe: la dea Atena lo amò, come Ishtar amò Sargon; e Atena lo aiutò quando volle compiere grandi imprese. Gli diede calzari alati e un cappuccio che fa diventare invisibile chi lo indossa; e Perséo con quei calzari attraversò l’Okeanos, correndo-volando; giunse alle grotte di Medusa, la Gorgone che pietrificava con lo sguardo: Perséo, invisibile grazie al cappuccio, decapitò quel mostro. E dal collo mozzato della Gorgone balzò fuori Pegaso, che divenne il destriero di Perséo. Quante vie si intrecciano sulle acque di Perséo (ma, come sappiamo, “il mare ne fa di questi scherzi” ): Perséo cammina sull’Okeanos, e non si lascia pietrificare, a differenza di Pietro! Il suo aiutante prodigioso, Pegaso, esce dal sangue: e come non pensare a Mosè e al sangue, che, in quel suo incubo, gli diede forza? Poi, galoppando-volando sopra le onde del Mediterraneo, Perséo giunse in vista di uno scoglio, sul quale era stata legata una fanciulla, Adroméda, 32
offerta in sacrificio a un mostro marino; la salvò, e quello scoglio era davanti a Jaffa: proprio il porto da cui Giona doveva salpare. Infine, Perséo uccise il vecchio re Acrisio – perché il vecchio ordine del mondo non sopravvive a chi ha varcato le acque.
31 32
Cfr. J. Campbell, Le maschere di Dio. Mitologia occidentale (1964), Mondadori, Milano 1992, pp. 88-89. Cfr. C. Collodi, Le avventure di Pinocchio, cap. XXXIV; cfr. I confini del mondo, op. cit., p. 128 ss.
LE ACQUE E I NOMI DEGLI ANGELI
Anche Mosè, naturalmente, era esperto di acque. Come Sargon, e Perséo, e Romolo, anche Mosè era stato affidato alle correnti, appena nato, e le correnti del Nilo gli avevano portato fortuna: si era liberato da subito del suo ato, e poi era cresciuto diverso da tutti, dalla sua famiglia ebraica, che lo aveva abbandonato, e dalla famiglia regale egiziana, che lo aveva accolto ma per la quale fu sempre un adottivo. Da adulto, al pari di Perséo, sconfisse un antico re, e tornò ad affrontare le acque, in grande stile, stavolta: attraversò a piedi un mare, guidando un intero popolo. Predispose quel aggio: scelse bene il momento, calcolò i tempi in modo che le acque si richiudessero sugli inseguitori egizi e, così, anche su tutto ciò che per il suo popolo di profughi rappresentava un legame con il ato. Ad alcuni geologi risulta che l’episodio non sia inverosimile. Il Mar Rosso a quei tempi aveva davvero secche che improvvisamente comparivano da una riva all’altra, e che dopo qualche ora venivano di nuovo sommerse: nel XIII secolo a.C. quel mare era più basso di almeno sei metri, e venti e maree favorivano questo fenomeno. È interessante saperlo; ma nel racconto dell’Esodo è documentata anche un’altra dinamica, non idrogeologica: il aggio di un “mare” non segnato sulle carte geografiche, ma psichico ed esistenziale – e qui la vicenda di Mosè ci fa comprendere, meglio di ogni altri mito, che cosa voglia rappresentare il simbolo delle acque per qualsiasi viaggiatore nell’aldilà. Quest’altra dinamica è cifrata con estrema, straordinaria precisione, nei tre versetti che precedono immediatamente il aggio del mare, nel capitolo 14 dell’Esodo: 33
19. L’Angelo di ’Elohiym, che precedeva la carovana di Israele, cambiò di posto e dal davanti ò indietro. Anche la colonna di nube si mosse e dal davanti ò indietro. 20. Venne così a trovarsi tra le truppe egiziane e la carovana di Israele. La nube era tenebre per gli uni, mentre per gli altri illuminava la notte; così gli uni non poterono avvicinarsi agli altri per tutta la notte. 21. Allora Mosè protese la mano verso il mare. E YHWH, durante tutta la
notte, sospinse il mare con un forte vento d’oriente, così che fu asciutto. Le acque si divisero. A leggerlo così, si direbbe una cronaca di magia. Ma guardiamo come e perché avvenne davvero: il testo non lo narra, ma lo mostra. In ebraico, ciascuno di questi tre versetti ha, stranamente, settantadue lettere. Settantadue è un numero caro agli ebrei: simboleggia la possibilità della mente umana di abbracciare tutto il proprio orizzonte. Settantadue è infatti trecentosessanta diviso cinque: cinque è il numero che simboleggia l’uomo (creato il quinto giorno) e la capacità umana di afferrare (le cinque dita della mano); trecentosessanta sono i gradi dell’eclittica, dello Zodiaco. Settantadue è dunque il simbolo numerico del rapporto tra l’uomo e l’universo: di ciò che l’uomo può capire dell’universo e del suo modo di ricevere ciò che dall’universo gli giunge. Settantadue sono anche le Potenze angeliche, nella tradizione ebraica; e notiamo che vi è appunto un Angelo, all’inizio del primo di questi versetti: l’Angelo si muove, e il suo movimento – “dal davanti ò indietro” – rivela la chiave interpretativa di queste tre serie di settantadue lettere. “Dal davanti si a indietro”: se infatti, nel testo ebraico, si congiunge la prima lettera dei tre versetti che ho riportato più sopra, che è una ו, W,
con l’ultima lettera del secondo versetto, che è una ה, H,
e con la prima lettera del terzo versetto, che è di nuovo una ו, W,
si ottiene il nome della prima delle settantadue Potenze angeliche: ו ה ו, WHW,
o WeHuWiYaH, com’è chiamata dai cabbalisti. Se si congiunge la seconda lettera del primo versetto, י, Y,
con la penultima del secondo, ל, L,
e con la seconda del terzo,
י, Y,
si ottiene il nome della seconda Potenza angelica: י ל י, YLY,
o YeLiY’eL; e così via, fino a che congiungendo l’ultima lettera del primo versetto, מ, M,
con la prima del secondo, ו, W,
con l’ultima del terzo, מ, M,
si ottiene il nome dell’ultima delle settantadue Potenze angeliche: מ ו מ, MWM, o MWuMiYaH.
Nella tradizione ebraica si ritiene che i settantadue nomi trilitteri siano dotati di una immensa energia. Sono oscuri come la notte per chi non li conosce (e quindi non li si vede nei tre versetti della Genesi tradotti in altre lingue), mentre a chi li conosce possono aprire la via attraverso ogni ostacolo, se correttamente intesi, come insegna l’antica disciplina chiamata angelologia. E lì sono i tragitti attraverso le acque di tutti.
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È la tesi dell’ammiraglio e archeologo Flavio Barbiero, nel suo volume La Bibbia senza segreti, edito da Profondo Rosso, Roma 2010, pp. 159-160.
L’ANGELOLOGIA E IL MARE DELL’ESISTENZA
L’angelologia suddivide lo Zodiaco, invece che in dodici Segni e dodici Case, in settantadue settori di cinque gradi ciascuno: ciascun settore corrisponde a una Potenza angelica, e gli angelologi adoperano le Potenze come gli astrologi adoperano i Segni. Così come in astrologia i Segni configurano una meticolosa tipologia, una classificazione di tipi psicologici, allo stesso modo ciascuna Potenza angelica rappresenta un particolare destino; e si crede che un individuo riuscirà tanto meglio nella sua vita, quanto più comprenderà la Potenza angelica nei cui giorni è nato, e quanto più avrà saputo adeguarvisi. Ciascuno dei settantadue Angeli viene così a essere davvero un “forte vento” che apre una via migliore attraverso l’esistenza, in direzione della propria autenticità e libertà – proprio come attraverso il mare che separava gli ebrei dalla via della Terra Promessa. Non solo, ma per chiunque ci sono cose che riescono meglio in certi giorni e non in altri, perché concordano con “il vento” angelico che in quei giorni sta soffiando all’interno dell’area dell’universo delimitata dall’eclittica. Così si crede, e gli angelologi adducono conferme numerose. Per esempio, Ivan il Terribile, Montgolfier, Goethe, Hegel, Tolstòj, Borges sono nati a fine agosto, nei giorni dell’Angelo ב כ ל, LKB, LeKaBe’eL, che rappresenta l’impulso a esercitare un controllo su un vasto territorio, o a organizzare vasti ambiti del sapere. Caterina di Russia, Machiavelli e Marx sono nati ai primi di maggio, nei giorni dell’Angelo י ז ה, HSY, HaSiY’eL, che rappresenta l’impulso a vedere chiaro in ciò che riguarda tutti. Il 4 luglio è il giorno di nascita di Garibaldi e l’anniversario dell’Indipendenza degli Stati Uniti, e cade sotto l’Angelo כ ל נ, NLK, NeLKa’eL, che rappresenta l’impulso a opporsi ai tiranni. E così via, si potrebbe continuare davvero a lungo a elencare simili “sincronicità” angelologiche, come le avrebbe chiamate Jung. Dunque, settantadue Angeli, settantadue “venti” cosmici guidano – o meglio, possono guidare, se presi in considerazione – il viaggio degli individui attraverso il mare dell’esistenza, come Borea guidava la nave di Ulisse attraverso l’Okeanos, e illuminano il cammino a chi li conosce; mentre, per chi non sa, quel mare è imprevedibile, e c’è il rischio perenne di andarvi alla deriva, o di affogarvi. Il mare dell’esistenza: questo che i viaggiatori devono 34
saper attraversare, e lasciarselo alle spalle per proseguire nell’aldilà. Ciò che li trattiene sono le correnti, i gorghi, le profondità che affrontano quotidianamente nel mondo, tra la gente. La prova delle acque, lungo la via dell’aldilà, simboleggia, annuncia, prepara questa abilità esistenziale, che i viaggiatori devono avere. Così, Noè raggiunge un mondo nuovo perché non si lascia travolgere da quel mare. Odisseo solca in ogni sua avventura quel mare, esplorando sempre nuovi aspetti dell’aldilà. Giona si lascia inghiottire da quel mare, e se ne salva quando accetta la sua vocazione di profeta – la sua capacità, cioè, di dire di più, più in là di ciò che la gente può sapere. Sargon, Mosè, Romolo, Perséo appena nati si lasciano portare fiduciosamente da quelle acque, in adeguate ceste, confidando più di tutti in una loro competence without comprehension. Pietro e Giovanni il Battezzatore non riescono a non immergersi in quelle acque, mentre Gesù e Perséo vi camminano sopra. Dante ha chi lo traghetta oltre quelle acque e, poi, sa immergervisi e uscirne. E così via. Dunque le acque non sono soltanto il simbolo del ato, ma anche del presente e del futuro che il mondo dell’esistenza, il mondo già noto può offrire ai viaggiatori: ed è perché, dal punto di vista del mondo dell’immaginazione, anche il presente e il futuro dell’aldiquà sono qualcosa di ato, che rimane sempre indietro. A una condizione: che lo si sappia attraversare, giorno dopo giorno! E riguardo alla capacità di attraversarlo, la teoria angelologica dà un’indicazione nuova, rispetto ai miti che abbiamo visto finora: di vie, secondo l’angelologia, non ce n’è una sola; ce ne sono molte –settantadue! – e ognuno ha la sua. È come dire: settantadue criteri di verità, settantadue tipi di missioni, di vocazioni, settantadue etiche, ciascuna dei quali permette di superare e trascendere le esigenze del mondo già noto, e ciascuna delle quali non è meno vera, valida, nobile, delle altre settantuno. Ognuno ha la sua: potrà arrivare a definirla, a vivere e a lottare per quella – e non coglierà, in tal modo, che un settantaduesimo soltanto della Verità suprema, meta dei sapienti e dei profeti, che altro non è se non la possibilità di cogliere tutte le vie insieme, senza preoccuparsi di come sembrino contraddirsi l’un l’altra. Alcuni dotti rabbini sostengono che Mosè, davanti al mare, pronunciò tutti i
settantadue nomi-vie. Li conosceva, li approvava tutti, e voleva che il suo nuovo popolo li conoscesse. E dopo averli pronunciati, narra la Genesi, Mosè protese la mano. Fece cioè il gesto decisivo, come ben sappiamo. E giunse oltre.
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Cfr. I. Sibaldi, Libro degli Angeli, Sperling & Kupfer, Milano 2017.
ALCHIMIA
C’è un’altra famosa teoria su ciò che permette di superare le acque lungo la via, e Mosè doveva esserne al corrente: tale teoria era infatti uno dei fondamenti dell’iniziazione egiziana – e Mosè, essendo cresciuto alla corte del faraone, doveva esserne stato iniziato. In seguito, come altre sapienze dell’antico Egitto, anche questa teoria iniziatica ò all’alchimia – che appunto perciò è così chiamata, dall’arabo Al-kīmiyā’, che significa “l’egiziana”. Secondo tale teoria egiziana e poi alchemica, le acque erano un’esperienza da attraversare in quattro fasi, così descritte nei Testi delle piramidi , circa venticinque secoli a.C., nel frammento 629: 35
Il grande Il grande Il grande Il grande
nero nel tuo nome dei laghi amari, sia lodato. verde nel tuo nome di mare, sia lodato. cerchio nel tuo nome di orlo maggiore, sia lodato. cerchio nell’ampio giro dell’oceano intorno, sia lodato.
Attraversare queste acque significava diventarle: questo era il senso dell’espressione “nel tuo nome di” – come a dire “nella tua qualità di”, quando l’avrai acquisita. Così, quei quattro versi andavano intesi: la grande oscurità di quando diventi i laghi amari, sia lodata questa grande oscurità; la grande verdità di quando diventi il mare, sia lodata questa grande verdità; il grande cerchio di quando diventi la soglia più grande, sia lodato questo grande cerchio; il grande cerchio di quando diventi un’ampia circolazione
(e noi ricordiamo la “circolazione” dell’’aDaM ) 36
che non ha più confini noti, tutt’intorno: sia lodato questo grande cerchio.
Il risultato di questa progressione era ciò che nell’alchimia venne descritto come la trasformazione del piombo in oro: cioè il aggio dalla vita pesante, inerte, grigia, allo splendore di esperienze e capacità straordinarie. Nel racconto biblico del aggio del Mare riconosciamo le prime tre fasi: il “grande nero” della notte davanti alla riva, il “grande verde” del mare stesso, il “grande cerchio” che è l’orizzonte nel deserto; dopodiché Mosè profuse ogni sforzo per condurre il suo popolo fino alla quarta fase: l’“ampio giro dell’oceano”, che simboleggia il rinnovamento totale, “le acque” dell’inizio,
che il respiro di ’Elohiym increspava, prima di creare il nuovo. Molti altri, in seguito, hanno appreso, o riscoperto, o intuito, o sperimentato senza averne saputo nulla, qualche tratto di questa antica sequenza, viaggiando all’aldilà. Lo hanno dunque constatato. C’era. C’è. Il succedersi delle quattro fasi, stabile come nel mondo lo è quello delle stagioni, o l’alternarsi del giorno e della notte, non è diverso dall’Angelo che apre il mare per Mosè, o dall’“Arca’”, o dalle istruzioni di Circe a Odisseo, dagli ordini che Dante riceve dinanzi al Leté e all’Eunoè, dai calzari donati da Atena a Perséo: è, di fatto, un aiutante, ma non personificato in un’entità, in una divinità o in un oggetto magico – a meno che non lo si intenda come una “forza della natura”, il che sarebbe già una personificazione, o in un intervento dell’evoluzione che è sempre cleverer than you are. È un processo psichico: diciamo, un aiutante da dentro, insito nell’essere umano. E in tal modo avvicina l’uomo a quel Dio che, come sappiamo, all’inizio della Creazione attraversa le acque senza aiuto esterno. Dobbiamo supporre che anche quel Dio conosce e sperimenta questo processo, e che questo, dunque, è uno dei casi in cui noi siamo a sua immagine e somiglianza. Esaminiamo uno per uno i suoi quattro momenti, che nell’alchimia europea presero i nomi, rispettivamente, di Opera al Nero, Opera al Verde, Opera al Bianco e Opera al Rosso.
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Oppure “la segretezza”, dall’arabo khema, “segreto”. Ma anche khema sembra derivare dal termine copto che indicava l’Egitto, Kemi. 36 Cfr. I confini del mondo, op. cit., pp. 18-20.
NIGREDO
Ciascuna fase di questa iniziazione egizia spaventa a suo modo, ma l’Opera al Nero è la più angosciosa. È, come dicevo, il mare ancora buio, di notte, con le schiere del Faraone che si avvicinano alle spalle: “il grande nero” è la condizione del viaggiatore nel momento in cui si accorge di quanta parte di lui si trovi proprio in quelle schiere, e sia avviata verso la catastrofe. Questa parte di lui giunge, qui, a un punto in cui vorrebbe soltanto esitare: ma il viaggiatore deve riconoscere che, in fondo, questa sua parte non ha mai fatto altro che esitare; ha trascorso la vita in un’attesa, in cui ha finito per ripetere sempre gli stessi errori, infliggendo sempre di nuovo, a se stesso e ad altri, vecchie ferite, senza riuscire a vedere, intorno, nulla che lo fe progredire, che lo liberasse davvero. «Fino a quando starò con voi? Fino a quando dovrò sopportarvi?» Matteo 17,17
Quando pronunciava queste parole, Gesù stava sentendo, acutamente, l’approssimarsi della Nigredo. Ne aveva già parlato ai discepoli, mettendo a tacere le proteste di Pietro, ottuso come sempre: Gesù cominciò a dimostrare ai suoi discepoli che era necessario che lui andasse a Gerusalemme, e soffrisse molto per volere degli anziani e dei capi dei sacerdoti e degli scribi, e che fosse giustiziato e resuscitasse il terzo giorno. E Pietro allora lo prese in disparte e cominciò a rimproverarlo dicendo: «Toglitelo dalla mente, Signore! Non sarà così, mai!» E lui, voltatosi, disse a Pietro: «Tu rimani indietro a me, Satana! Mi sei d’intralcio, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!» Matteo 16,21-23
Pietro è talmente sicuro di sapere cos’è necessario e cosa no, da rimproverare Gesù; ma Pietro non sa (e simboleggia chi non sa e non capisce) niente di iniziazione. Poi, tutto avviene come Gesù aveva voluto: e sulla croce Gesù diventa l’emblema dell’individuo inchiodato da tutto il suo ato. Anche i capi del popolo si beffavano di lui, dicendo: «Salvava gli altri! Che salvi se stesso, adesso, se davvero è l’Eletto». Luca 23,35
Ciò che nella Nigredo l’io non può salvare è davvero se stesso: qualcosa di troppo forte lo ha immobilizzato, e la croce è il simbolo di quel qualcosa. Ma ne è un simbolo anche la caverna in cui Aladino si trova rinchiuso. E la selva oscura di Dante. E il Lupo di Cappuccetto Rosso. E la cenere, l’oppressione, la disperazione di Cenerentola. E il pozzo di Giuseppe. E il carcere del castello d’If. E lo sgomento di Pinocchio quand’è diventato ciuchino, e quando è azzoppato e viene portato in riva al mare, per morire annegato. E la notte in cui YHWH assalì Mosè. E il monologo di Amleto. E la paura che prova chi, indagando se stesso, si sta avvicinando all’origine – sempre lancinante, brutta – di qualche blocco della sua personalità, che gli ha guastato tutta la vita: e chi non ne ha? Non vi è crescita che non imponga questa Opera al Nero: che non sloghi e non disfi dolorosamente ciò che fino a quel momento l’io credeva di dover essere, di non poter non essere, e che ora può soltanto finire. C’è chi si ferma lì, subito, come Amleto. C’è chi si sforza di evitarlo, come Pietro, che tradisce Gesù, e che fugge, insieme agli altri discepoli, e guarda da lontano.
VIRIDITAS
L’Opera al Verde è il dissolversi di ciò che la Nigredo ha disfatto. Nella simbologia alchemica è il Mercurio che scioglie i metalli già frantumati: il Solve – “disciogli”: disciogliti! – e solo più tardi verrà il Coagula. È verde come l’acqua profonda. Sono i mesi in cui il Diluvio, dopo avere distrutto il mondo, conduce l’Arca qua e là, da una corrente all’altra. L’io, lì, non ha più nulla se non il proprio smarrimento. Ne è un’immagine tragica e rigorosa la più famosa Pietà di Michelangelo: Maria che tiene sulle ginocchia il cadavere di Gesù, così stranamente leggero, sospeso come nell’acqua; e ancor di più la Pietà Rondanini, in cui il corpo morto sembra già aver cominciato a sciogliersi.
Viriditas sono i giorni che Giona e Pinocchio trascorrono nel Grande Pesce, nel profondo del mare. È il fiume dei bambini Sargon, Mosè, Perséo, Romolo. È il giorno del aggio del mare, così come fu per gli egiziani: travolti e dissolti, mentre Israele era sull’altra riva. Quel giorno YHWH salvò Israele dalla mano dell’Egitto, e Israele guardava gli egizi morti sulla riva del mare. Esodo 14,30
Certo, se si vedono gli ebrei in fuga e gli egizi come due aspetti di un’unica personalità, e si prova a riconoscersi negli uni e negli altri al tempo stesso, non si sa più chi si è. Ma Viriditas è precisamente il non saperlo più. Eppure, è anche Dante che nell’Inferno vede tanti propri volti: «perché cotanto in noi ti specchi?» gli domanda un dannato immerso nell’acqua gelata, e Dante può accorgersi di vedere, in quel ghiaccio, anche il proprio volto. E Viriditas è anche Aladino che strofina la lampada e lì si specchia, vedendo com’è ridotto, e perciò cominciando a desiderare. Viriditas può infatti diventare un riemergere tra lente correnti: il trovare in sé forze inattese, senza sapere bene chi sia a trovarle – perché tutto ciò che l’io sapeva di sé non c’è più. Qualcun altro in me trova e nuota – come Pinocchio sott’acqua, mentre le sue membra di ciuchino vengono divorate dai pesci – e riemerge, e sono io e non ero io, e non so chi sarà. Viriditas, a questo punto, è l’inizio della rivelazione: come le lacrime che, il primo giorno della settimana, impediscono alla Maddalena di vedere, dapprima i due Angeli che le domandano perché pianga ancora, e poi Gesù risorto. 37
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Inferno XXXII, 54. Cfr. I confini del mondo, op. cit., p. 146 ss.
ALBEDO
Era appunto ata da poco l’alba, quando avvenne quell’incontro tra la Maddalena e il risorto. E così pure quando Gesù risorto si avvicinò ai discepoli, dispersi sulla riva del lago di Tiberiade: Quando già era giorno, Gesù stette sulla riva Giovanni 21,4
È sempre primo mattino, nell’Opera al Bianco, quando l’io giunge sull’altra riva, dopo la Viriditas. È già giorno, ma non è giorno pieno. Non è ancora la mèta. Né la Maddalena né i discepoli riconoscono subito Gesù risorto. Il nuovo io c’è e sta cominciando a splendere, ma non si è ancora consolidato. Si è sul “grande orlo”, come lo definisce l’antico Testo delle piramidi : in margine a qualcosa di grande. Così è descritto in un altro testo egizio, nel Libro delle due vie, discorso 1063: Io ho ereditato l’orizzonte di Râ, Io ho detto: io sono erede dell’orizzonte
Questo orizzonte è l’“orlo”, il confine tra il regno di YHWH e quello di ’Elohiym, tra l’inerzia causale di ciò che c’è già, e il divenire di ciò che c’è al di là, che non ha cause note ma che, come diceva don Juan, è “solo effetto”. L’occhio del nuovo io vede più oltre: come l’occhio di Horo:
Le due lacrime che scendono dall’occhio del Dio mostrano il segno dell’opera delle acque – le prime due fasi dell’iniziazione, indispensabili perché l’occhio del nuovo io si apra. Ma nell’Albedo queste due linee si sviluppano soltanto in due direzioni: è moltissimo, sì, a paragone della fine di ogni direzione, che si era avuta nella Nigredo, o dell’assenza di direzioni in cui l’io si trovava, in balia delle correnti, all’inizio della Viriditas; ma troppo poche per l’io che deve ereditare l’intero orizzonte, “l’ampio giro dell’oceano intorno”. È l’erede, ma non se n’è ancora impossessato: prima, dovrà essere veramente se stesso, e lo sarà soltanto quando tutto ciò che è due diventerà uno. La Genesi annunciava questo momento fin dall’Eden: in ebraico, il o che solitamente viene interpretato come l’istituzione del matrimonio indissolubile descriveva proprio questo “diventare uno” (Genesi 2,24). Il Vangelo di Tomaso riprende tale immagine e ne trova altre, altrettanto valide: 38
Di due farete uno, la parte interna la farete come l’esterna, la parte esterna come l’interna, la parte superiore come l’inferiore, del maschio e della femmina farete un unico essere, così che non vi sia più né maschio né femmina. 39
Nell’Albedo l’io è ancora soltanto due. È Maria Maddalena che guarda Gesù. È Dante e Beatrice. L’Adeptus e la Soror, o il Rex e la Regina, secondo gli alchimisti europei: l’immagine di tutti i grandi amori, degli incontri tra anime gemelle.
Per i greci, e poi per i romani, erano i Gemelli, o Dioscuri, i “fanciulli divini”: Castore mortale, perché figlio di un uomo, e Polideuce immortale, perché figlio di Dio – due volti e due sapienze di un medesimo io. In loro è ogni viaggiatore, quando sa di essere io piccolo e io grande, mente cosciente e supercosciente, razionalità e immaginazione, ’iYŠ e ’iŠaH – e non sa ancora come essere tutt’uno.
Anche per gli egizi vi erano due Gemelli tra gli Dèi: S’u, Dio dell’aria, e Tefnut, Dea-leonessa, figli entrambi del Dio supremo Râ, e sposi inseparabili; e i Testi delle piramidi (glossa 1248 d) mostrano come intenderli: I Gemelli S’u e Tefnut pongono te tra loro.
Tu sei tra loro, in una trinità diversa (ma non lontana) da quella che i cristiani proiettarono poi in cielo. I due che “pongono te tra loro” si riconoscono anche nella Trasfigurazione di Gesù, che è tutta quanta nel bianco dell’Albedo: fu trasfigurato: il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero bianche come la luce. Ed ecco, due uomini si intrattenevano con lui: erano Mosè ed Elia, che apparsi nella [loro] immagine, gli parlavano del o che doveva compiere a Gerusalemme. Luca 9,30-31
L’Albedo è un grado di crescita interiore alto e dolcissimo, ma va superata: i due profeti parlano a Gesù del suo futuro. Ciò che è due non basta: anche i due Angeli che appaiono alla Maddalena davanti al sepolcro vuoto erano “vestiti di bianco” (in albis sedentes) e hanno il solo compito di assistere all’istante in cui Maddalena si volta per avere la rivelazione (Giovanni 20,12).
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Cfr. Libro della creazione, op. cit., pp. 245-246. Vangelo di Tomaso, loghion 22.
RUBEDO
L’Opera al Rosso è l’unificazione dei due nuovi aspetti della personalità, formatisi nell’Albedo. Nel Novecento la fisica scoprì che dalla fusione di atomi si genera energia, e che da quella energia possono prendere forma nuovi mondi – le stelle nascono per fusione – oppure ne può venire enorme distruzione – come nella bomba all’idrogeno. È una scoperta che ritroviamo anche negli antichi. Ricordiamo la descrizione egizia dell’ultima fase iniziatica: Il grande cerchio nell’ampio giro dell’oceano intorno.
Un cerchio ha un centro, uno solo. E intorno, in quest’ultima fase, si apre un’orizzonte senza più ostacoli: può essere sia un oceano sul quale salpare in qualunque direzione, sia il luogo di un duello, di una battaglia, di un’esplosione nucleare, dopo che l’avversario è stato annientato. In questa seconda chiave, distruttiva, Romolo giunge alla Rubedo uccidendo Remo, per fondare la città: non potevano essere due; finché fossero stati due, non sarebbe sorta Roma. Caino aveva fatto lo stesso con Abele, e fu il culmine di un’iniziazione narrata come la storia di una famiglia: era cominciata con la Nigredo della cacciata di Adamo ed Eva dall’Eden, poi c’era stata la Viriditas del loro avviarsi in un mondo ancora sconosciuto, e l’Albedo della nascita dei due fratelli. E dopo la Rubedo del fratricidio – del raggiungimento dell’uno attraverso l’eliminazione del secondo – avvenne che Caino concepì e generò Hanok, e in seguito costruì una città fortificata, alla quale diede il nome di suo figlio: Hanok. Genesi 4,17
La città è il principio di un’altra storia, un centro irradiante, dentro il quale si sta al sicuro, e che può sviluppare un regno, un impero intorno. Possiamo immaginare che le mura di quella città di Hanok fossero di un colore rossastro. Nell’altra chiave, più gioiosa, l’uno si raggiunge per integrazione dei due, e qui si spalanca un’immensità. Gli egizi la chiamavano anche “l’unione delle due terre”, ed era pressappoco ciò che Gesù intendeva con le parole:
Venga il tuo Regno, sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra.
Assume aspetti numerosi. È Rubedo il congiungimento tra ciò che capisco e ciò che non voglio capire di me e degli altri, oppure tra ciò che ricordo e ciò che dimentico di me e degli altri: e sia l’una sia l’altra cosa avvengono quando supero una tensione, un conflitto tra due elementi antitetici della mia personalità. È Rubedo il congiungimento tra le mie massime aspirazioni e la vita che sto conducendo, e che mi sembrava ostacolare quelle mie aspirazioni. Quando ciò avviene – quando cioè la realtà si apre al desiderio, e il desiderio, realizzandosi, vi irrompe, e la mette sottosopra, e la riorganizza – ne sono scosso profondamente, come da un’esplosione, solo che si tratta di un’esplosione di gioia. È Rubedo il congiungimento tra ciò che sono stato in ato e ciò che sarò in futuro, senza che né il ato né il futuro ne siano in alcun modo diminuiti: e avviene quando ritrovo in me la genialità, la creatività dell’infanzia, il coraggio dell’adolescenza. È Rubedo, sul piano sociale, la fine dei conflitti ideologici, nei quali ciascun ceto si contrappone agli altri ceti: ne viene, in un popolo, o comunque in una comunità, un periodo di straordinaria energia espansiva – come fu per i macedoni al tempo di Alessandro, poi per i romani, e per i cristiani, e i popoli barbarici, e gli arabi, e i tataro-mongoli, e così via, fino al più recente impero mondiale, quello statunitense. Ma è Rubedo anche la fine della contrapposizione tra patria ed estero, tra una civiltà e le altre – come annunciato nell’esortazione: «Amate i vostri nemici» (Matteo 5,44). Su un piano ancora più vasto, è Rubedo la fine della contrapposizione tra divino e umano, il come in cielo così in terra, appunto; nel Vangelo di Giovanni è descritta così: che tutti loro siano uno: come tu, Padre, sei in me e io in te, così siano anch’essi uno in noi. Giovanni 17,21
Ed è una unificazione con tutto, dato che quel Padre, nella sua onnipresenza, è anche tutto. Dante descrive una Rubedo, alla fine del Paradiso, come l’integrazione del “disìo” e del “velle”, cioè del desiderio e della volontà, sì come rota ch’igualmente è mossa.
Desiderare non è volere. Desiderare è accorgersi di ciò che non si è ancora avuto il coraggio di volere. La “rota” di Dante è il prodigio esistenziale del desiderare ciò che si vuole e del volere davvero ciò che prima si riusciva soltanto a desiderare – invece di ciò che conviene o che è imposto. Gli egizi lo rappresentavano nel ka-nu, l’individuo che, pienamente dotato di Ka, congiunge desiderio, volontà e realizzazione. Montecristo, come sappiamo, poteva esserlo: lui che faceva sempre ciò che voleva, dietro le sue molte maschere – perché quando si è diventati uno, nella Rubedo, ogni volto che proviamo ad assumere nel mondo degli altri è parziale, una maschera, un ruolo d’attore, e può sembrare un gioco, e va benissimo così, perché, nella Rubedo, uno è diventato “il grande cerchio nell’ampio giro”, e non sarà mai più nulla di meno: potrà solo fingere, giocare a essere di meno. Jung provò ad avvicinarsi a questa dimensione con la sua idea del Selbst, del Sé sostantivato e maiuscolo, in cui si armonizzavano – così diceva – tutte le potenzialità della psiche dell’individuo: ma purtroppo scelse, per indicarlo, un pronome riflessivo, gravemente esposto al rischio borghesissimo di venire inteso come un programma di ricerca tutta interiore; qui sbagliò in pieno, perché nella Rubedo quell’io-uno è tutto quanto azione. Così lo descrive, alla fine del Seicento, l’alchimista John Pordage: 40
Ha tre cose in un’unica essenza o proprietà: ha corpo, anima e spirito; ha fuoco, luce e gioia; ha la caratteristica del Padre, la caratteristica del Figlio e ha anche quella dello Spirito Santo, e tutte queste tre in una sola fissa e costante natura. Questo è il figlio della vergine, il suo primogenito, il nobile eroe, colui che calpesta il serpente, e che getta e schiaccia il drago sotto i propri piedi. […] Perché adesso l’uomo del paradiso è chiaro come un vetro trasparente, in cui il sole divino traspare sempre più, ed è come oro chiarissimo, puro e limpido, senza macchia né menda. L’anima, adesso, è un autentico Angelo Serafino, può tramutarsi in un medico, in un teologo, in un mago divino, può fare di sé ciò che vuole, e fare e avere ciò che vuole, perché ora tutte le proprietà hanno una volontà in unità e in armonia. E questa unica volontà è l’eterna infallibile volontà di Dio; e l’uomo divino è diventato nella sua propria natura tutt’uno con Dio. 41
Tutto qui è fare. È “natura”, e non riflessione soltanto. I Serafini sono infatti gli Angeli della prima Sefirah, Keter, che esprime l’onnipotente volontà di Dio. E particolarmente importante è l’insistenza di Pordage sull’“adesso”: in realtà, chiunque possiede già questa unificazione onnipotente, e in ogni giorno della sua vita realizza sempre e soltanto ciò che vuole (gli uomini, diceva Sartre, sono “condannati alla libertà”), con l’universo intero che è pronto a obbedirgli in ogni istante; ma i più, per non accorgersene, vogliono soltanto poco e in modo scadente e incerto, imitando i desideri altrui, temendo “l’altrui memoria del peccato”, obbedendo a qualche Faraone. L a Rubedo è manifestare e alimentare quella condizione sovrana, dopo essersi liberati, attraverso le altre tre fasi, di ciò che in noi vuole tanto
malamente. La distanza tra la Rubedo e le vite sottomesse veniva misurata così, nel II secolo, da un leader del primo cristianesimo: Da che cosa derivano le guerre e i conflitti che sono in voi? Non vengono forse dalle vostre ioni che combattono le une contro le altre nelle vostre membra? Voi non avete perché non chiedete. E chiedete e non ottenete, solo perché chiedete male. Lettera di Giacomo 4,1.3
Chiedere male non è, di per sé, né più facile né più difficile del chiedere bene. È soltanto più dispendioso in termini di vita da vivere: si spreca in “guerre e conflitti”, in paure e mostri interiori, generatori di avversità esteriori, che già nella Nigredo si dovevano affrontare e superare. Ogni via verso l’aldilà conduce, attraverso le acque, a quel chiedere bene, prima attraverso il Grande Nero, poi attraverso il Grande Verde, poi nella doppia fase dell’Albedo, fino a che la Rubedo si formerà da sé. Quando l’opera sia stata portata fino a questo punto, diverrà un lavoro facile: tant’è che dotti filosofi hanno detto che, poi, fare la pietra filosofale è un lavoro da donnette e un gioco da bambini. 42
È facile: tutto diventa facile, se prima non ci si è lasciati atterrire da quanto sembrasse difficile.
40
Cfr. I confini del mondo, p. 171 ss. J. Pordage, “Missiva sulla pietra dei sapienti”, in C.G.Jung, La pratica della psicoterapia, 1958, Bollati Boringhieri, Torino 1981, pp. 297-301. 42 Ibidem. 41
PARTE TERZA ALTRE TRASFORMAZIONI
DELLE FIGURE IRREGOLARI
Dunque, secondo l’iniziazione egizia, l’accesso all’aldilà deve are prima da un senso di sconforto e di sgomento, poi da un periodo di indeterminazione, poi dall’aprirsi a una presenza accanto, e culminare con un’unificazione, con il formarsi di un’identità nuova e trionfante. Poiché, come sappiamo, l’aldilà è tutto ciò che sperimentiamo ogni volta che giungiamo oltre ciò che sappiamo già, oltre i confini della nostra attività psichica consueta, converrà riconoscere queste fasi in ogni nostra intuizione, e scoperta, e creazione. Chi crea, chi elabora una teoria, chi non fugge dinanzi a una coincidenza ma vuole capire perché sia avvenuta, a da un iniziale sgomento, allo smarrimento, alla sensazione che qualcun altro più o meno invisibile gli sia accanto, e approda a una nuova e superiore coscienza di sé. E dicevamo che anche il Dio ebraico può aver sperimentato queste quattro fasi, ogni volta che crea: è probabile, sì. Nella Genesi, la Nigredo e la Viriditas sono riconoscibili nei primi versi: E le tenebre sono sopra l’abisso e il respiro di ’Elohiym increspa le acque.
L’albedo incomincia con il «Sia la luce!», e prosegue fino alla creazione dell’’aDaM, “immagine” del Dio, sua emanazione, sua (davvero) anima gemella; in più, nel libro dei Proverbi, si narra di una presenza femminile accanto al Dio creatore, la ḤoKMaH, la “Sapienza”, in funzione sia di architetto, sia di figlia-compagna: Quando lui fissava i cieli, io ero là, quando disegnava il firmamento sulla superficie dell’abisso […] quando consolidava le fondamenta della terra io ero al suo fianco, come esperta; ed ero il suo diletto, ogni giorno, giocando sempre, davanti a lui. Proverbi 8,27,29-30
E la Rubedo, l’unificazione, molti libri dopo, avvenne secondo i Vangeli con l’ultimo discorso di Gesù: Io sono nel Padre e il Padre è in me […] e anche loro siano uno come noi siamo uno, io in loro e tu in
me, perché siano compiuti nell’unificazione. Giovanni 14,10; 17,22-23
Torneremo ancora su questa comunanza psichica dell’uomo con il Dio ebraico, nel prossimo volume. Intanto, va segnalato che queste quattro fasi del aggio delle acque – a differenza dei quattro livelli della crescita spirituale veterocristiana, che abbiamo visto a pag. 137-138 – non conducono l’una all’altra una volta per tutte. Capita bensì di riconoscere momenti di Viriditas già all’inizio di una via, o magari di ritrovarne dopo quella che pareva già una Albedo, o addirittura, dopo l’Albedo, di imbattersi in nuovi difficili momenti di Nigredo. E queste inversioni di marcia si rivelano sempre, non solo significative, ma necessarie e fruttuose. Così Mosè, dopo aver superato il Mare, impone di nuovo al suo popolo una Nigredo, per disperdere l’improvviso culto ribelle del vitello d’oro: aggredisce il loro idolo, che aveva cominciato a rappresentare per loro la certezza, la protezione, la salvezza, e lo dissolve. Allora l’ira di Mosè si accese. Afferrò il vitello che avevano fatto, lo bruciò nel fuoco, lo fratumò fino a ridurlo in polvere, ne sparse la polvere nell’acqua e fece trangugiare quell’acqua agli israeliti. Esodo 32,19-20
Quel culto si sarebbe detto, da ogni punto di vista, un grosso errore: gli ebrei tornavano ad adorare un feticcio del Toro Apis, dopo che YHWH, Dio notoriamente geloso e irascibile, li aveva fatti uscire dall’Egitto e liberati dagli inseguitori! Mosè aveva ragione ad adirarsi. Ma vi sono buone ragioni anche per pensare che quell’oro egiziano dovesse venire trasformato, inghiottito, assimilato dagli israeliti: altrimenti se lo sarebbero tenuto nelle bisacce o al collo, ai polsi, alle dita, alle orecchie, nelle forme della raffinata gioielleria dell’Egitto, che avrebbero ricordato loro la superiorità della civiltà faraonica sulla nuova civiltà che stavano per costruire. E risultò poi (o forse lo si sapeva già allora?) che l’oro colloidale ha proprietà benefiche, se ingerito. In realtà, tutte le ricchezze, e tutte le forme che le ricchezze assumono, hanno proprietà tanto più benefiche, quanto più se ne assimila il senso. Ricordiamo, a questo riguardo, il Vangelo di Giovanni: «Chi ha sete venga a me e beva, e fiumi d’acqua viva gli sgorgheranno dal ventre». Dunque l’errore del vitello d’oro non fu soltanto un errore. E probabilmente, nelle quattro fasi, nessun ritorno a una fase precedente lo è. I i che muove un uomo, dal giorno della sua nascita a quello della sua morte, disegnano nel tempo un’inconcepibile figura. L’intelligenza divina intuisce tale figura immediatamente, come quella degli uomini un triangolo. Quella figura (forse) ha la sua determinata funzione nell’economia
dell’universo. 43
Probabilmente ogni accesso all’aldilà ha bisogno proprio della figura che tutti i i del viaggiatore stesso disegnano, mentre cerca, scopre, percorre la via, e nel percorrerla esita, si sbaglia, devia, torna indietro e ricomincia – così come Giuseppe Egizio e Pinocchio avevano bisogno dei loro errori e guai.
43
J. L. Borges, Lo specchio degli enigmi, in Altre inquisizioni, op. cit.
PAURE CULTURALI
Vediamo alcuni dei possibili errori-vitelli in cui i viaggiatori incorrono di frequente, e che richiedono replicazioni di Nigredo, Viriditas, Albedo. Primo fra tutti, per la sua forza inerziale e l’ampiezza delle sue conseguenze, è il rinnovarsi di quell’impulso che appesantiva i soldati del Faraone in mezzo al mare, e che li fece annegare: sono le vecchie obbedienze, l’attaccamento alle consuetudini, ai recipienti, alle ם, di ciò che il viaggiatore aveva imparato a capire o a credere prima di partire per l’aldilà. Nei loro inseguitori egizi, gli israeliti vedevano non soltanto gli ex padroni, ma anche la propria servitù, la propria inferiorità a quella nazione civilissima, colta, intelligente, innamorata dei propri indubbi progressi in ogni campo. Non tutti hanno il coraggio di attirare l’immagine della propria servitù, della propria inferitorità, in una trappola in cui annegherà. I carri egiziani erano capolavori di tecnologia, ma si impantanavano nella fanghiglia del mare prosciugatosi all’improvviso: tutto ciò che appartiene a un periodo precedente naufraga dinanzi al nuovo. Per paura di vedere naufragare il proprio ato, o magari di accettare l’idea che sia naufragato, molti viaggiatori mettono in atto censure interiori, che rallentano la via, o la bloccano del tutto, facendola apparire soltanto un’invenzione. Simili censure sono e saranno il nemico più grande, nell’aldilà, o meglio l’origine di tutti i nemici: dato che l’aldilà è territorio di immaginazione, di scoperta, che cosa può opporglisi se non appunto una censura, un non voler conoscere, che facilmente diventa un non dover conoscere, o almeno un non dover conoscere più di tanto. Da queste censure mette in guardia l’iscrizione che Dante legge sulla porta dell’Antinferno: «Dinanzi a me non fur cose create se non etterne, e io etterna duro: lasciate ogni speranza, voi ch’entrate». Inferno III,7-9
Lo si intende di solito come un monito della spietatezza infernale, un’anticipazione dei lager. Ma non è questo il senso, come Dante fa subito precisare a Virgilio:
Queste parole di colore oscuro vid’io scritte al sommo d’una porta. Per ch’io: «Maestro, il senso lor m’è duro». Ed elli a me, come persona accorta: «Qui si convien lasciare ogni sospetto; ogni viltà convien che qui sia morta».
Viltà, sospetto: ogni “speranza”, ogni aspettativa di coloro che stanno entrando per quella porta ha, alla sua radice, una serie di certezze già acquisite che temono novità e che spingono a diffidare. Conviene, qui, al viaggiatore che quel genere di “speranze” muoiano. Quale che sia, per esempio, la religione in cui si vuole credere, o in cui si è stati educati (e che perciò limita la mente, religandola), nell’aldilà potrà capitare di volerla proteggere, sforzandosi di vedere o ascoltare soltanto ciò che a quella religione può corrispondere: nei suoi viaggi – se la Nigredo non ha dissolto a sufficienza quelle speranze-viltà-sospetti – un cristiano si imporrà dunque di ricordare soltanto ciò che somigli in qualche modo a ciò che lui sa degli Angeli biondi e alati, dei santi riconosciuti dalla sua Chiesa, delle virtù teologali, del perdono, o dei diavoli e via dicendo. E quelli diverranno, nell’aldilà, i suoi vitelli d’oro. Sarà bene, allora, che li faccia fondere, li frantumi, li polverizzi fino a vedere gli elementi di cui erano costituiti e si appropri di questi ultimi, se veramente si tratta di oro. O viceversa, se una religione o una particolare Chiesa a cui era appartenuto lo hanno per qualche ragione spazientito (magari perché vorrebbe ancora credervi ma non può più), il viaggiatore si sforzerà di ricordare, dei suoi viaggi, soltanto ciò che non somigli agli Angeli biondi, ai santi, alle virtù, ai diavoli come li spiegano i sacerdoti di quella religione o di quella Chiesa. Nell’uno come nell’altro caso, ciò che al viaggiatore sembrerà aldilà sarà, in realtà, tutto quanto sott’acqua, prediluviano, al di sotto della Viriditas: la traversata non sarà riuscita; e per quanto lui possa tentare di convincersi di avere visto o udito Angeli biondi o simili, ne tornerà con un senso di insoddisfazione sempre più consapevole e, quel che è peggio, con la patetica voglia di parlarne a qualcuno con fervore, per compensare i propri dubbi. La stessa cosa avviene ai viaggiatori che nell’aldilà cerchino conferme di altre certezze: morali, politiche, sociali, razziali, e in genere di proiezioni collettive non ancora ridotte in polvere. Tante correnti spiritualiste, tante sette, tante veggenze sono molto prediluviane in tal senso.
PAURE DOMESTICHE
Altre censure possono derivare dall’impulso a tutelare legami d’affetto – d’amore o di odio – che alla mente del viaggiatore appaiano importanti. Mi riferisco qui a un impulso, non a una volontà cosciente. È una differenza importante. Posso, per esempio, volere mantenere un mio legame d’amore che so essere sbagliato, perché già finito; semplicemente non voglio farne a meno, per ora, anche se so che mi sarà d’impaccio. In questo caso, non avrò bisogno di produrre censure nel mio aldilà: parlandone con le guide che incontrerò, con un mio Virgilio, con una mia Beatrice, mi aspetterò che abbiano da ridire in proposito, e potrò apprezzare il loro parere ma continuare a fare di testa mia, senza che ciò intralci la mia comunicazione con loro. Quando invece si tratta di un impulso, che avverto ma a cui non ho pensato abbastanza, o che addirittura non mi accorgo di avvertire, tutto ciò che nell’aldilà può entrare in conflitto con esso mi apparirà confuso, incomprensibile, inquietante. Se, per esempio, fosse questione di una mia complicata dipendenza psicologica da un coniuge (con tutti gli impulsi più o meno inconsapevoli che tale dipendenza suscita in me), nell’aldilà mi caà ansia qualsiasi discorso od oggetto che riguardi anche soltanto l’arredamento della casa o le vacanze estive. Ciò farà assomigliare le mie esperienze nell’aldilà a tormentose partite a nascondino, in cui il mio io piccolo si sforza di tener nascosto a se stesso qualcosa; e se le mie resistenze sono particolarmente forti, mi spingerà ad avvertire timori, terrori addirittura, e a figurarmi spettri o mostri o diavoli dove non ce ne sono. Conviene anche qui lasciare “ogni speranza” e “ogni viltà” – e sottoporre quel mio legame di dipendenza a una Nigredo e a una Viriditas, a un’immersione nel Leté, che lo dissolva negli elementi di cui si compone: scoprirò, così, che quel legame per me tanto importante è in realtà un’illusione a cui mi aggrappo per nascondere agli altri e soprattutto a me stesso i miei veri sentimenti. E noi sappiamo che fu il caso di Amleto. 44
44
V. I confini del mondo, op. cit., pp. 155 ss.
FOGLIE DI TIGLIO
Vedremo come i Virgili, le Beatrici, le Guide, nell’aldilà, propongano spesso prove da superare, il cui intento è rinnovare o consolidare gli effetti della Nigredo. Lo fanno per addestrare i viaggiatori a quell’indispensabile dono iniziatico che è l’invulnerabilità: cioè il continuo afflusso di energie nuove, diventate disponibili con la polverizzazione e l’assimilazione delle proiezioni affettive o culturali – dato che non siamo mai tanto vulnerabili come quando cerchiamo di difendere qualche nostra proiezione. A volte è doloroso dissolverle, come si può immaginare che lo fosse la precocissima Nigredo a cui Teti sottopose Achille neonato, tenendolo su un braciere – per bruciare in lui “ogni speranza”, “ogni viltà”. Per Dante, fu non meno doloroso l’Inferno, in cui Virgilio gli mostrò una lunga serie di specchi (proiezioni, appunto) dei suoi traumi, costringendolo a fissarli, a riconoscerli, a provarli di nuovo per purificarsene, come sappiamo dal volume precedente. È doloroso, così, riconoscere che in coloro che odiamo noi proiettiamo aspetti di noi stessi che non vogliamo riconoscere; o che in coloro che ammiriamo, adoriamo, o amiamo, stiamo proiettando aspetti di noi stessi che non osiamo ancora – per senso di inferiorità, per paura del successo – riconoscere come nostri. Altre volte si tratterà di compiere imprese eroiche, come lo fu il combattimento di Sigfrido contro il drago: i draghi, in ogni mitologia, simboleggiano enormi blocchi della personalità, che da tanto tempo impediscono l’accesso a tesori interiori altrettanto enormi. A far diventare invulnerabile chi li uccide è il loro sangue scuro, quando sgorga dalle ferite mortali e, imbrattando l’uomo, sembra sangue suo: e lo è, in realtà, trattandosi del sangue, delle energie che quei blocchi gli avevano sottratto – come vampiri – nel corso di chissà quanti anni. In queste prove, in queste tempre, possono sempre verificarsi intoppi. Ad Achille rimase il tallone fragile, perché Peleo sorprese Teti mentre immergeva il bambino nelle fiamme, e interruppe il rituale quando l’unica parte ancora da temprare era appunto il tallone. A Sigfrido capitò una foglia di tiglio: durante la lotta contro il drago, quella foglia appiccicosa (doveva essere estate) gli si era incollata dietro la spalla, e
in quel punto il sangue del drago non lo bagnò; in quel punto, molto tempo dopo, affondò la lancia un amico-nemico invidioso. Così, anche nei viaggiatori più esperti possono rimanere talloni d’Achille o spalle di Sigfrido: placche di vulnerabilità, di cui le censure saranno il sintomo. Particolarmente insidiosa è, per esempio, la sordità a tutto ciò che nell’aldilà può scalfire le nostre certezze su noi stessi. Nei casi più semplici si tratta della paura di scorgere in noi un tratto da biasimare dove invece si pensava che tutto andasse per il meglio. Nei casi più complicati, e più frequenti, si tratta di nostre pulsioni vecchie, incallite in schemi di comportamento e di pensiero che ci imprigionano. Produttrice di grandi e astute censure è, per esempio, la paura della riuscita: è la paura – sempre vecchia – di accorgerci di nostri bisogni di infelicità, che solitamente dissimuliamo dietro a qualche forma di pessimismo nei riguardi degli altri, dietro alla convinzione che la gente sia stupida, incapace di apprezzare ciò che è buono, e in particolare ciò che è buono in noi. Molti viaggiatori sperano di ricevere, nell’aldilà, qualche incoraggiamento a questo loro modo di pensare: e ogni volta che viene loro negato, si bloccano in un’angoscia non meno grande e non meno vorace di un drago.
LA PERDITA DELL’ESSERE
Superare questi appiccicosi limiti, è superare e al contempo trovare se stessi. È ciò che intendeva Gesù quando parlava del perdere la psykhé, parola che ai suoi tempi significa sia “psiche”, sia “modo di vita”, sia “anima”: Chi trova la sua psykhé la perde; ma chi avrà perso la sua psykhé a causa mia, la trova. Matteo 10,39
Si sostituisca a “a causa mia” con “a causa di una sua nuova immagine dell’io”, e si avrà, in questo o, un’altra buona definizione dell’autosuperamento che i viaggi nell’aldilà richiedono. Davvero, solo se perdo la mia psykhé posso trovarla. Per trovarla, per scorgerla, devo smettere di coincidere con essa, non esserla più (se no, come potrei vederla? can you see your face?) e posso non esserla più in due modi: o diventando qualcosa di meno, o diventando qualcosa di più. Nel mondo consueto è molto facile diventare qualcosa di meno della propria psykhé: ci si riesce stipulando compromessi, asservendosi, tradendo se stessi, nascondendo a se stessi, oltre che a chiunque altro, le proprie autentiche qualità e aspirazioni. Si vedrà allora la propria psykhé come un’aspirazione troppo grande, irraggiungibile. Nell’Aldilà, dopo la Nigredo, la Viriditas, l’Albedo, è impossibile, nella Rubedo, non diventare qualcosa di più di quel che, prima di intraprendere il viaggio, si era nel mondo già noto. E si vede, allora, la psykhé di prima come un’approssimazione insufficiente, una serie di timidi tentativi di esprimere ciò che, nell’aldilà, ci si accorge di avere e di essere – e di aver sempre avuto, e di esserlo sempre stati, fin da bambini. Gran parte della questione dipende dall’uso che si fa del verbo preferito di YHWH: essere. Alla domanda «Chi sono io?» le censure affettive della mia psykhé mi faranno rispondere: io sono un parente delle tali e tal’altre persone, io sono quello che ama la tal persona e detesta quell’altra. I limiti culturali della mia psykhé mi faranno rispondere: io sono un ingegnere, io sono un insegnante, sono uno che legge certi libri e certi giornali e frequenta certi ambienti, e che perciò ha determinate opinioni.
Oppure, quella particolare categoria di limiti culturali che sono i limiti religiosi, mi faranno rispondere: io sono un ebreo, un cristiano, o un islamico, o un ateo. In base a queste risposte imperniate sul verbo essere, noi compiamo tutte le nostre scelte di vita, e viviamo nelle conseguenze di tali scelte. È inevitabile che nell’Aldilà tutto ciò si smantelli, nella Nigredo e nella Viriditas, e che l’io si ampli, sentendosi rinascere nell’Albedo e nella Rubedo, entrando in una condizione nuova, nella quale, ovunque si volga l’attenzione, si percepisce senza scegliere che cosa percepire e cosa no, cioè senza tenere conto di che cosa convenga a ciò che prima eravamo certi di essere. Anche perciò Faust sentiva di dover perdere l’“anima” nel suo patto con Mefistofele, per poter cominciare una gran corsa attraverso sempre nuove occasioni di scoperta e di conquista. In tante versioni del mito di Faust, questa perdita dell’anima è mostrata come una sventura. Goethe insegnò a intenderla in un altro modo: il Mefistofele goethiano, prima di tentare Faust ha concluso un patto con Dio, che gli ha dato il permesso – e che, come si vedrà alla fine, dirige sempre le vicende. Il diavolo che vuol togliere “anime” agli uomini non è dunque, per Goethe, un’autonoma personificazione del male, dalla quale ci si debba attendere solo rovina: tutte le avventure che Faust vive dopo il patto non fanno che liberarlo, via via, dalla mediocrità in cui la sua psykhé era bloccata all’inizio. Dio voleva proprio questo, a quanto pare. Faust lo intuisce da subito, come vediamo dalla condizione che pone a Mefistofele prima di firmare: Se dirò a un qualsiasi attimo: «Fermati! Sei tanto bello!» allora potrai mettermi in catene, allora andrò volentieri in rovina! Faust, vv. 1698-1702
Ovvero: tutte le meraviglie, tutte le mie scoperte finiranno quando mi dichiarerò contento, come il più banale dei borghesi. Così avviene, nel finale: Faust muore nell’istante stesso in cui prova, finalmente, a essere contento di se stesso, di ciò che è già; ma l’intervento degli Angeli salva Faust dall’Inferno, e non per portarlo in un Paradiso immobile, come quello cristiano, in cui ognuno è ciò che è diventato, ma per avviarlo a un’altra crescita, stavolta illimitata, in cui il verbo essere sparisce e rimane soltanto il divenire. Secondo Goethe, dunque, chi perde tutto non è chi accede all’aldilà, ma solo chi a un certo punto si ferma.
E questa intuizione ci è particolarmente utile, dato che a un certo punto il viaggiatore deve pur fermarsi.
LA LIBERAZIONE DAL ATO
Il viaggiatore, raccomandava Dante, impari a ricordare il più possibile – «ritegna l’image come ferma rupe!» – perché quando deciderà di fermarsi e di tornare nel mondo consueto, sarà alto il rischio che tutto ciò che ha sperimentato nell’aldilà svanisca. Nell’aldilà, narra Dante, vidi cose che ridire né sa né può chi di là su discende; perché appressando sé al suo disire, nostro intelletto si profonda tanto, che dietro la memoria non può ire. Paradiso I,5-9
Il nostro intelletto – la più alta delle facoltà umane, secondo la psicologia di Tommaso d’Aquino, alla quale Dante aderiva – via via che si avvicina a ciò che più desidera conoscere, scopre tali profondità salendo in alto, che la memoria non arriva a seguirlo. E non soltanto perché la nostra memoria è troppo abituata a ricordare ciò che conviene alla psykhé consueta. Dicevamo che, nella condizione in cui si entra attraverso la Rubedo, si percepisce senza scegliere che cosa percepire e cosa no, senza commisurare le percezioni nuove alle certezze vecchie; si aprono così un presente e un futuro, senza interferenze del ato. Scopriremo che anche le persone e le cose che risalgono ad anni, secoli o millenni addietro, quando le si vede là sono soltanto presenti e future. Il problema è che ciò che la nostra memoria arriva a contenere è sempre, necessariamente, un ato. L’aldilà è dunque, per i viaggiatori, un luogo senza memoria: l’unico modo di conoscerlo è stare conoscendolo, trovarsi là. E trovarsi ancora nell’aldilà quando si è tornati nell’aldiquà, stare conoscendolo quando lo si sta solo ricordando, è assolutamente impossibile. Ciò getta una luce nuova sul modo in cui adoperiamo il ato, nell’aldiquà. Che ce ne accorgiamo o no, ce ne serviamo di continuo per tutelare ciò che già sappiamo di noi – e anche ciò che sappiamo di noi è ciò che di noi ricordiamo. Dunque, nemmeno un istante della nostra vita è mai veramente presente, nell’aldiquà, ma tutto – anche ciò che sto rileggendo in questa riga – è solo ciò che un attimo fa ho ricordato di aver letto un attimo
prima. E chi mi garantisce che la mia memoria sia perfettamente oggettiva: che non si sia lasciata sfuggire nulla di importante, e che abbia colto e conservato tutto così com’era davvero, senza manipolarlo, senza censurarne qualcosa che contraddiceva a ciò che mi sono abituato a sapere, cioè a ricordare, di me? Così, anche chi ha la pretesa, o l’impressione addirittura, di saper e poter “ridire” ciò che ha scoperto e sperimentato nell’aldilà, non sa in quale misura ciò che ne “ridice” sia frutto di invenzione – di un’invenzione attuata, e ricordata, tutta quanta nell’aldiquà, al ritorno dai viaggi compiuti là fuori. Questi ricordi non sono, né contengono, né esprimono l’aldilà che il viaggiatore ha sperimentato: si può sperare che ne descrivano alcuni frammenti, sparsi, sconnessi – mentre il resto è stato rimosso ad opera della censura della mente cosciente. Carlos Castaneda ripete, in vari suoi libri, di aver impiegato decenni, con radicali cambiamenti di vita, e con una durissima disciplina, per ricostruire gli insegnamenti che il suo maestro Don Juan gli aveva impartito nella “seconda attenzione”, e che la memoria della sua mente cosciente rifiutava. Maometto non ebbe questa pazienza, e «Iqra! Ripeti subito!» gli comandavano gli Angeli, ogni volta che Allah gli parlava: quel che aveva udito, Maometto doveva ripeterlo immediatamente ai fidi scrivani che gli sedevano attorno in attesa di prendere nota (Maometto era analfabeta); e anche dettare esattamente le parole del Dio, udite solo pochi istanti prima, costava al profeta una terribile concentrazione, tensione, spasimo. Chi invece sa scrivere, come vedremo, scrive, prende nota durante i viaggi. Dante sostiene che è l’unico modo: l’aldilà è, per lui, quella materia ond’io son fatto scriba Paradiso X, 27.
Era anche il compito che nell’aldilà egiziano spettava a Thot, scriba indispensabile dell’operato degli Dei. Nulla rimarrebbe, se no: nulla collegherebbe il nostro tempo sempre ato all’assoluto presente e futuro dei viaggi. Il confine diverrebbe un totale abisso, quando se ne ritorna, e sulla superficie di quell’abisso c’è come un’ acqua che ritorna equale Paradiso II,15
Sull’acqua sparisce rapidamente ogni scia, e nulla permette più di ritrovarla.
FAUST E L’IGNORANTE Maledetta soprattutto l’alta opinione con cui lo spirito umano tiene se stesso prigioniero!45
Poi, per fortuna, quando di nuovo si torna nell’aldilà, vi si ritrova tutto ciò che nell’aldiquà si era dimenticato. Che la psiche umana abbia due diversi orizzonti – un ’iYŠ e una ’iŠaH – separati l’uno dall’altro ma entrambi sedi di conoscenza, diventa allora un fatto evidente: e così pure quanto una sede sia piccola e lenta rispetto all’altra. Durante i viaggi la prima raggiunge la seconda, vi entra, ne condivide la vastità, l’energia, la crescita; poi, tornandone, ridiventa se stessa soltanto. E se invece rimanessero unite per sempre? Cosa avverrebbe, se Cenerentola non tornasse a mezzanotte? L’aldilà interverrebbe nella vita quotidiana, a guidare, a decidere, ad agire addirittura? Noi, da quel che avevamo visto nel primo volume, sappiamo che non si può; ma proviamo a scoprire meglio perché non si possa. La tentazione, certo, è forte, e anche logica. Se nell’aldilà scopriamo noi stessi, perché non essere ciò che abbiamo così scoperto? La via, con i suoi ostacoli e i suoi simboli, serve a scoprire le nostre potenzialità, molto superiori a quelle della mente cosciente: allora, perché non decidere che, una volta percorsa la via, quelle nostre potenzialità rimangano attive in noi, accanto a quelle consuete? Nel Faust di Goethe, questa è una delle prime idee del protagonista: e lo spinge a modificare il primo verso del Vangelo di Giovanni («In principio era la Parola»), nella traduzione che ne sta facendo: ecco che vedo il senso e scrivo sicuro: «In principio era l’Agire!» Faust, vv.1236-1237
Faust vuole agire. Vuole il potere. Soffre perché non ne ha abbastanza e ne chiederà a Mefistofele. È l’idea di certi apionati assertori della realtà dell’aldilà, che vogliono trarne pratiche magiche da usare nell’aldiquà – come se i viaggi nei mondi diversi fossero altrettanti master. A questi faustiani non basta che al principio di tutto, nell’aldiquà, ci sia la parola: ovvero, non si accontentano di accorgersi che tutto ciò che esiste per noi, esiste soltanto come la nostra mente cosciente riesce a dirlo agli altri e a noi stessi; e che
l’aldilà sia aldilà del principio, e sia la scoperta di ciò che la mente cosciente non riuscirà mai né a dire né a capire davvero. I faustiani sono meno filosofici, fanno meno distinzioni: per loro, quel che più conta è il fare, e vogliono convincersi che i viaggi nell’aldilà siano anch’essi un fare, in cui si impara un fare diverso, e che questo fare diverso si possa poi replicare nell’aldiquà. Quella dei faustiani è una prospettiva che alle persone industriose deve apparire allettante. Ma la prassi magica dei faustiani sarà comunque la magia dell’io che già conoscono e di cui si accontentano: un altro modo di preservare la םdell’’aDaM. Di non uscirne. E non conviene. Ciò che i faustiani vogliono è conservare, come il loro bene più prezioso, il loro io – che per essi costituisce l’unico principio di identità, sia nell’aldiquà sia nell’aldilà, ed è perciò stabile nell’aldilà come nell’aldiquà. Quell’io, nel loro modo di vedere, deve e può imparare, nell’aldilà, a fare cose nuove, e poi farle anche nell’aldiquà. Per poter credere ciò, occorre essere insensibili alle contraddizioni che implica: prima fra tutte, il fatto che chi crede di essere soltanto un io si serva della parola “io”. Ogni volta che uso la parola “io”, “io” diventa un personaggio di ciò che dico e “ridico”; e se è un personaggio di ciò che racconto, non è ciò che io sono. E tanto meno l’“io” è ciò che io sono, quanto più mi accorgo che quei miei racconti sono, da un lato, sempre imprecisi e, dall’altro, mutevoli: se confrontassi ciò che raccontavo di me dieci anni fa con ciò che ne racconto oggi, sarei molto imbarazzato dalle differenze; mi accorgerei che i miei racconti hanno costruito, nell’arco di dieci anni, vari “io” diversi, nessuno dei quali è più vero di un altro, e nessuno dei quali esaurisce ciò che in quegli stessi anni ho scoperto e intuito di essere. Dunque io non sono “io”. E infatti, nell’aldilà, constato a ogni o – dal “mi ritrovai” in avanti – di non essere soltanto l’“io” di cui posso parlare e ragionare nell’aldiquà. Nell’aldilà, tutto ciò che so di essere diventa un limite che ho già superato, nel momento stesso in cui l’ho notato. A questo riguardo, Mefistofele tiene a chiarire: Ti dico una semplice verità. Se l’uomo, piccolo mondo di pazzia, solitamente si considera un intero, io sono una parte della parte che all’inizio era tutto, una parte della tenebra che generò da se stessa la luce, l’orgogliosa luce, che ora alla madre Notte contende l’alto rango, lo spazio che le spetta.
Faust, vv.1346-1352
Il riferimento è all’inizio del primo Giorno della creazione, quando, come sappiamo, la tenebra ricopriva l’abisso, e in quella tenebra Dio disse «Sia la luce» e la luce fu, generata appunto dalle tenebre. Mefistofele rivendica la capacità della tenebra di produrre luce quando Dio lo richiede. Ma tenebra è, per noi, anche ciò che siamo oltre il nostro “io”. E quella tenebra è come ciò che lo spettatore non vede dietro le quinte e i fondali, mentre lo spettacolo va in scena. Mefistofele non si pone, qui, come un colonnello che si senta una parte di una parte dell’esercito, o un vescovo che si senta una parte di una parte della Chiesa cattolica. Sta bensì addestrando Faust all’aldilà; gli spiega che per entrarvi dovrà innanzitutto accorgersi di come anche il suo “io” sia solo una parte di una parte di ciò che “all’inizio” era il suo tutto, prima che l’insensibilità alle contraddizioni lo spingesse a credere di essere soltanto “io”, e che “io” fosse un intero. Dunque, come credere che l’“io” nell’aldilà impari a fare, e poi faccia nell’aldiquà? D’altronde, che sia impossibile ridurre l’aldilà ad attrezzo del nostro “io”, nel nostro “piccolo mondo di pazzia”, lo si vede proprio nella pratica. Per quanto alta sia l’opinione che l’io cosciente ha di sé, il contatto con l’aldilà gli dimostra ben presto che è scarsa. Come vedremo, non vi è conversazione autentica con gli Spiriti Guida, che non dimostri che ciò che chiamiamo “io” non è altro che una sosta momentanea nel progredire della nostra conoscenza di ciò che siamo. Quell’“io” fatto tutto quanto di soste momentanee – una diversa dall’altra – è a suo modo necessario: è la sede della coscienza, della ragione, della memoria, del linguaggio; senza di esso, non sarebbe possibile né riflettere né dire alcunchè su ciò che via via si scopre. Ma sulla sua transitorietà conviene mettersi il cuore in pace. Anche Gesù lo spiega ai discepoli, parlando dell’“io” come un costante superamento dell’“io” stesso: Io conduco a Te, e dico queste cose mentre essi sono nel mondo, perché abbiano in se stessi la pienezza della mia gioia. Io non chiedo che Tu li tolga dal mondo. Giovanni 17,13.15
Dire “io” è non aver ancora interrotto la relazione con il mondo già noto, e così deve essere. Ma è “gioia” sapere che quello stesso “io” conduce continuamente oltre. E ancora: Dove vi sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro.
Matteo 18,20
Quei “due o tre” sono fasi superate della conoscenza di sé, e ciò che sei davvero non è in nessuna di esse, ma “in mezzo”. Potrebbero anche essere molte di più, magari anche “settanta volte sette”: subito dopo aver parlato di quel “due o tre”, Gesù viene infatti interrotto dal goffo Pietro, ansioso di avere numeri precisi: Allora Pietro si fece avanti e chiese: «Signore, se un mio fratello pecca contro di me quante volte dovrò rimettergli il peccato? Fino a sette volte?» Gesù gli dice: «Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette». Matteo 18,21-22
La connessione tra questi due i diventa chiara, se si considera che il verbo usato nei Vangeli per indicare la “remissione dei peccati” è afìemi, cioè “allontano”. Quante volte dovrò allontanare, superare ciò che in un mio “io” mi ha limitato, quante volte dovrò superarmi? – così va intesa la domanda di Pietro. E la risposta di Gesù è una metafora, a significare “innumerevoli volte!”. Non si percorre una via se a ogni o non ci si lascia indietro qualcosa: l’“io”, ogni nostro “io”, ci è indispensabile soprattutto in quanto terminus a quo, cioè come soglia da superare. E a questa necessità accenna anche uno dei tanti i misteriosi del libro del Siracide (II secolo a.C.), che sotto il suo apparente moralismo velava leggi e simboli dell’Aldilà: Non trattare alla leggera l’ignorante perché non siano disprezzati i tuoi antenati. Siracide 8,4
Sembrerebbe un consiglio di usare cautela con le persone ottuse, perché non si risentano e non insultino te e i tuoi parenti. Ma il senso più profondo è un altro: tu sei “l’ignorante”, tu sei colui che ancora e sempre ignora ciò che scoprirà tra poco, e questa condizione va ammirata, così come conviene ammirare anche il progresso che finora hai fatto, nel tuo lasciarti alle spalle tanti “tuoi antenati” del tuo io attuale. Dei suoi “antenati” sempre in aumento, dei propri limiti-“io” da cui via via si allontana, il viaggiatore dovrà dunque avere chiara consapevolezza. Nell’aldilà vai in cerca di te stesso, e conosci te stesso per liberarti da te stesso, perché qualcosa di più grande possa continuare a rivelarsi in te. E questa rivelazione non avviene, in coloro che cercano nell’aldilà tecniche magiche, di cui fare scorta, perché con esse l’“io” che già conoscono agisca di
più. Di certo, nell’aldilà e grazie all’aldilà avvengono cose che nessun nostro “io” aveva o avrebbe mai ritenute possibili. Ma non sono un fare – tantomeno il fare di un “io”. Sono un succedere, di cui l’“io” non avrà mai la chiave. E il succedere è proprio il contrario del fare.
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J. W. G. Goethe, Faust, vv.1591-1592; qui il termine “spirito” (Geist) è da intendersi, come il se esprit, nel senso di “mente”, “pensiero”, “ingegno”.
I SETTE VIZI DEI VIAGGIATORI
L’impulso di Faust all’“agire” è tuttavia frequente tra i viaggiatori. Ne derivano varie difficoltà ad adoperare l’aumento di energia che la via produce: i viaggiatori faustiani se ne servono per alimentare malamente il proprio egocentrismo, e per guardare gli altri da più in alto. Le conseguenze di questo egocentrismo sono note da millenni; secondo l’angelologia, si manifestano in sette veri e propri vizi, chiamati: “fulmine”, “tempesta”, orgoglio, ambizione, invidia, disprezzo e bisogno di “doni dagli amici”. E alcuni di questi vizi compaiono, cifrati comicamente, nel film Fantasia di Walt Disney, nell’episodio che ha per protagonista Mickey Mouse, in veste, non certo casuale, di apprendista stregone. Ed ecco in cosa consistono. 46
I l “fulmine” è la tendenza a scambiare per intuizione, o addirittura per illuminazione, ciò che è soltanto un’impressione. Diventa sciocca disponibilità ai “colpi di fulmine” in qualsiasi campo: nelle proprie ioni intellettuali, come nella vita di relazione. L a “tempesta” è l’irascibilità facile, la sensazione di volersi e potersi indignare più spesso di prima e la conseguente ricerca di pretesti per farlo. È una caratteristica di molte persone religiose. Come a queste, anche al viaggiatore che incorre in questo vizio sembra indispensabile protestare contro i numerosi difetti del mondo già noto; in realtà, è soltanto uno dei modi peggiori di non riuscire a staccare lo sguardo da quel mondo. L’orgoglio, cioè l’eccessivo senso del proprio io, è il più ovvio carburante della “tempesta”. È il primo rischio dei viaggiatori incapaci di reggere alla scoperta di ciò che hanno in sé di più grande: è quando la intendono non come una maggiore libertà e “ignoranza”, ma come un senso di supremazia che debba per forza farsi notare, e che produce sofferenza (del tutto superflua) quando non è notato abbastanza. Quanto all’ambizione, è sufficiente qualche minima frequentazione dell’aldilà per accorgersi di come la via possa far intravedere all’io piccolo obiettivi concreti più alti di quelli a cui era abituato; e certamente li potrà
raggiungere, ma solo dopo aver superato ciò che fino ad allora glieli aveva preclusi – ed essersi, a tale scopo, superato. I viaggiatori maldestri hanno, invece, fretta e diventano impazienti di farsi valere in campi d’azione, ai quali non sono ancora adatti. Allora diventano ambiziosi, nel senso più ansioso e più vano del termine. L’ambizione frustrata produce l’invidia, che è una grave perturbazione della propria capacità di guardarsi intorno. “Invidiare” viene dal latino in-videre, che può significare sia “non riuscire a vedere”, se si intende il prefisso income un privativo, sia “guardare con gli occhi di un altro”, dislocare in qualcun altro la propria capacità di vedere e di scegliere. In entrambi i casi, il termine latino descrive bene la condizione dell’invidioso: un individuo che soffre talmente dei successi altrui, da non poterli più considerare per ciò che sono, ovvero storie di altre persone, che non lo riguarderebbero più di tanto. Invece se ne sente o umiliato o sfidato, e o si sforza innaturalmente di non averli visti, o vuole gareggiare con loro, allineandosi così con le loro direzioni, e perdendo la propria. L’invidia, in genere, produce disprezzo rabbioso e voglia di calunniare, che a loro volta esaperano l’orgoglio, le “tempeste”, i “fulmini”. Il settimo inconveniente, i “doni dagli amici”, sembrerebbe, in confronto ai precedenti, una debolezza di minor conto: è infatti semplice bisogno di amicizia. Ma di tutti e sette, è il più pericoloso. L’amicizia, infatti, può esserci solo tra pari, ma al viaggiatore orgoglioso e soggetto a “colpi di fulmine” avviene spesso di sentirsi attratto da persone che gli sembra abbiano bisogno del suo aiuto, cioè che suoi pari non sono. Se ciononostante riesce a diventarne amico – o a credere di esserlo diventato – è alta la probabilità che stabilisca con loro un legame di codipendenza, un’assuefazione cioè al fatto che altri dipendano in qualche modo da lui: che vedano in lui una guida, un protettore, un maestro. Ne derivano situazioni amare, di reciproco sfruttamento psicologico e senso di colpa; e sia lo sfruttamento sia il senso di colpa, nelle relazioni, sono tollerabili soltanto per un certo periodo, dopodichè producono catastrofi. Gesù, per esempio, era il maestro di coloro di cui avrebbe voluto essere amico: «Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa che cosa fa il padrone. Vi ho chiamati amici, perché vi ho fatto conoscere tutto ciò che ho udito dal Padre». Giovanni 15,15
Sperava che chiamandoli “amici”, lo sarebbero diventati. Ma l’evangelista fa risaltare, nel discorso dell’ultima cena, la sproporzione fatale, nel rapporto tra Gesù e i discepoli: «Voi siete miei amici, se fate ciò che vi comando. Non siete stati voi a scegliere me, io ho scelto voi». Giovanni 15,14.16
Gesù, cioè, si illudeva sull’amicizia. Per loro, lui rimaneva il κυριος, il “signore”: così lo chiamavano sempre. E alla fine venne tradito, rinnegato, abbandonato da quegli uomini, a cui aveva cercato – invano – di trasmettere la propria sapienza e i propri poteri. Nello stesso modo Sigfrido venne tradito da Gunther, che amava e che aveva spesso aiutato: il problema era che Gunther valeva, in ogni campo, molto meno di lui, così che una parità, nel loro rapporto, non era possibile. Giuseppe fu aggredito e venduto dai grossolani fratellastri, di cui desiderava l’affetto. Amleto viene tradito dal debole Laerte. Dantès, da Danglars e Fernando. Non c’è ragione di meravigliarsi che tanti eroi e profeti non abbiano intuito per tempo simili squilibri nei loro tentativi di amicizia, e le intenzioni dei loro presunti amici: la fascinazione che le persone di bassa energia intellettuale esercitano su chi ha alta energia è una costante ben nota. L’economista Carlo Cipolla la illustrò in un celebre grafico, ne Le leggi fondamentali della stupidità umana: «L’asse delle X misura il guadagno che Tizio ottiene da una propria azione» scrive Cipolla, «l’asse delle Y mostra il guadagno che un’altra persona, o gruppo di persone, sperimenta a seguito dell’azione di Tizio. Il guadagno può essere positivo, nullo o negativo». I quadranti così ottenuti configurano quattro categorie di individui: gli intelligenti (I), cioè coloro che guadagnano e fanno guadagnare altri; i banditi (B), cioè coloro che guadagnano danneggiando altri; gli sprovveduti (H), cioè coloro che ci rimettono facendo guadagnare altri; e gli stupidi (S), che ci rimettono sempre e fanno sì che altri ci rimettano sempre, ad avere a che fare con loro. 47
Il comportamento di tutte e quattro le categorie di persone sarebbe prevedibile per chiunque, se – prosegue Cipolla – gli stupidi non esercitassero sugli intelligenti una fascinazione speciale, ancor più forte e più insidiosa di quella che i banditi esercitano sugli sprovveduti. Gli intelligenti, infatti, da un lato si sentono spinti ad aiutare gli stupidi; dall’altro, sono sicuri di non doverli temere più di tanto, di poterli controllare; ma hanno torto: gli stupidi sono destinati a danneggiare comunque gli intelligenti, non diversamente da come danneggiano qualsiasi altra categoria di persone. Potrebbe andare diversamente solo se gli stupidi si accorgessero di essere stupidi, ma ciò, spiega Cipolla, è impossibile, perché gli stupidi sono l’unica delle quattro categorie che non avrà mai coscienza delle proprie cattive qualità. Così, nel rapporto con chi è più stupido di lui, l’intelligente, la persona di alta energia, soccombe inesorabilmente, per una codipendenza di cui, poi, dovrà incolpare soltanto se stesso, il proprio senso di superiorità, che ha ammantato di altruismo. In una situazione analoga a quella degli intelligenti di Cipolla vengono a trovarsi i viaggiatori orgogliosi, ambiziosi, invidiosi, e inclini ai “fulmini” e alle “tempeste”: al pari degli intelligenti di Cipolla, devono restare soli, reprimendo il loro naturale bisogno di amicizia. Il mondo appare loro pieno di gente deludente o pericolosa: e, per non ammettere che in questo si sbagliano, faranno in modo di scegliersi come amici solo persone deludenti o dannose. Gli evangelisti mettono in guardia da situazioni del genere: il Gesù che descrivono incorreva in alcuni dei vizi dei viaggiatori, era orgoglioso, ambizioso, incline ai “fulmini” e alle “tempeste” («nessuno è perfetto”, come dice lui stesso in Luca 18,19) e perciò dice: «Non gettate le vostre perle ai porci, perché le calpesteranno con le loro zampe e poi si rivolteranno contro di voi e vi sbraneranno». Matteo 7,6
– ma siccome vi è, nel settimo rischio dei viaggiatori, un che di evidentemente irresistibile, per tutta la sua vita pubblica Gesù continuò a sprecare perle.
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Cfr. I. Sibaldi, Libro degli Angeli, op. cit., pp. 45-48. C. Cipolla, “Le leggi fondamentali della stupidità umana”, in Allegro ma non troppo, Il Mulino, Bologna 1988, p. 52. 47
PARTE QUARTA LE GUIDE
NOI E GLI SPIRITI GUIDA
Nei suoi rapporti con gli Spiriti Guida, il viaggiatore corre il rischio di trovarsi nella posizione degli stupidi di Cipolla. L’intelligenza degli Spiriti Guida è, infatti, molto superiore alla sua, ed essi si occupano di lui, gli sono amici, vogliono elevarlo: è impossibile non avere l’impressione, ogni tanto, che stiano perdendo il loro tempo. È il lato comico dei libri di Castaneda, in cui Don Juan suscita tanta tenerezza, per i lunghi, pazienti sforzi che prodiga nel chiarire aspetti e dinamiche del nagual al suo allievo statunitense Carlitos, il quale continua a non capire. Forse gli Spiriti Guida la vedono in tutt’altro modo – pensavo una volta, – dato che certamente ci rimettono, dedicandosi a noi, eppure non sembrano scontenti. Lo domandai ai miei Maestri invisibili, durante una conversazione di molti anni fa: È giusto che noi prendiamo energia da voi? E se non lo è, perché lasciate che succeda? Giusto, sbagliato. La legge rimane sempre indietro. Anche Mosè spezzò le prime Tavole della Legge, perché scendendo dal Sinai si accorse che andavano superate. Così è sempre. Tu dici: è giusto, è sbagliato? Ma a domande simili, la risposta è sempre interrogativa: «Giusto o sbagliato che sia, così è finora: che fare per andare oltre?» Così è in tutti i mondi. Allora mettiamola in un altro modo: a parte il giusto e lo sbagliato, è una buona cosa che voi vi esauriate per noi? Non è il fine che conta? Il fine è all’origine di ogni cosa. E il fine del «giusto o sbagliato?», o del «è bene o è male?» è la libertà che c’era prima di queste domande. Il vostro fine è questo: nascete per essere sempre bambini, senza le leggi – che sono una cosa da adulti – e da adulti continuate a crescere per diventare bambini. Noi vi aiutiamo: ci deve pur essere qualcuno, nell’universo, che vi aiuti a superare le leggi. Così è anche per il nostro “esaurirci”, come lo chiami tu. È un esaurirci, certo; ma esaurirci, per noi, è tornare all’inizio. Perdere forze dandole a voi, per noi è perdere ato e tornare a dove si era cominciato ad accumularlo. L’inizio è sempre più in alto
del resto, ed è bello. Anche gli Spiriti si evolvono, crescono: si staccano dall’inizio e diventano adulti, proprio come voi. Solo ascoltando le vostre domande cominciano a ricordarsi dell’inizio. Della loro origine. E allora si accorgono anche di voler cambiare tutto. Dunque, il buono è che da voi viene di nuovo un’origine. Così parlano di solito. E ora vedremo chi sono.
CONGIUNZIONI
Parlano di loro, in varie forme e con molti nomi diversi, tutte le tradizioni iniziatiche: fin da Esiodo, che riteneva fossero gli uomini dell’Età dell’Oro, rimasti sulla terra come consiglieri più o meno invisibili, nelle quattro Età successive: E dopo che questa stirpe sparita fu sotto la terra, spiriti (dàimones) son divenuti ora, per volere di Zeus, buoni, che stanno sopra la terra, custodi dei mortali. Custodi sono dei mortali, delle buone e cattive opere, son circonfusi d’aria, frequentano tutta la terra, distribuiscono le ricchezze: han questo privilegio di re. 48
Per Maometto, erano invece un popolo creato fin da principio, al pari dell’umanità: Il Signore creò l’uomo da fango seccato, come argilla per vasi, e creò i jinn, di fiamma purissima di fuoco. 49
Sono i daimones di Socrate, il winged people degli indiani nordamericani, l’Ariel della Tempesta di Shakespeare. Discorrono, come YHWH ed ’Elohiym discorrevano con Noè, con Abramo, con Mosè; come Elia e Mosè discorrevano con Gesù sul monte; come Bagheera e Baloo con Mowgly; come Filemone e Ka con Jung. Fanno ciò che Faria fa per Dantès in carcere, e ciò che Don Juan e Don Genaro fanno per Carlitos nei romanzi di Castaneda. Nella dottrina cristiana, se ne riconoscono i tratti in certi atteggiamenti degli Angeli custodi, o nel culto dei santi. Dante ne dà la trattazione più famosa, facendone, in Virgilio e Beatrice, i coprotagonisti della Commedia. Sono tutte quante attestazioni di una ben precisa realtà della psiche, e insieme del modo in cui i viaggiatori li percepiscono, con la loro immaginazione, nell’aldilà. Consistono, propriamente, nella congiunzione di un fenomeno psichico e di un concetto mitologico: sempre uguale il primo, in ogni epoca, a giudicare dalle tante attestazioni che se ne hanno; e variabile invece il secondo, nel variare delle culture. Al di fuori di questa congiunzione, gli Spiriti Guida non esistono, o sono
soltanto un’invenzione. Il fenomeno psichico che è il loro fondamento non basterebbe, di per sé, a farli esistere per il viaggiatore: proprio così come una sinagoga non esisterebbe per me, cioè non la scorgerei, in nessuna città del mondo, se non sapessi che cos’è ciò che gli ebrei chiamano una sinagoga. Mentre il concetto mitologico non mi permetterebbe, di per sé, di conoscerli, se non ne sperimentassi il fenomeno: proprio così come la parola “sinagoga” non mi direbbe granché, finché non ne avessi visitata una.
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Esiodo, Le opere e i giorni, vv. 121 e ss Corano, Sura VI, 112.
IL FENOMENO PSICHICO DEGLI SPIRITI GUIDA
Sia il fenomeno psichico degli Spiriti Guida, sia la percezione che se ne ha, incominciano quando si producono tre condizioni: quel grado di rilassamento che, come abbiamo visto, tanti viaggiatori chiamano “il sonno” (occhi chiusi e attenzione desta); l’attivarsi dell’immaginazione; e un sia pur minimo desiderio di sapere qualcosa di più, non importa che cosa. Gli impedimenti, le prove che si incontrano lungo la via servono a produrre l’ultima di queste tre condizioni: quando si è in difficoltà si vuole sapere qualcosa che prima non occorreva ancora. Così è per Dante, che fa precedere l’incontro con Virgilio da una fase di “sonno” (prima condizione) e da un trekking nella selva, in cui comincia a vedere esseri strani (seconda condizione): e Virgilio non parla per primo a Dante, ma è Dante a rivolgergli la parola, per sapere chi sia (terza condizione). Così è nella Trasfigurazione: Gesù conduce i discepoli su un “monte” e poi li lascia per un po’ in attesa, in uno speciale torpore (prima condizione), prima di insegnare loro a vedere due Spiriti Guida (seconda condizione), di cui i discepoli desiderano sapere chi siano (terza condizione) e d’un tratto lo sanno: Mosè ed Elia! Così è anche per Mosè, che quando incontra ’Elohiym – anche lui su un “monte” – deve prima incuriosirsi (terza condizione) poi avvicinarsi e obbedire a certi comandi – «Non avvicinarti di più! Togliti i sandali!» Esodo 3,5 – che valgono come impedimenti da superare lungo la via e che segnano l’inizio della sua percezione immaginativa (seconda condizione) e deve infine velarsi gli occhi (prima condizione). Da un punto di vista teologico, queste condizioni imposte a Mosè sono anomale: un Dio, di solito, non ha bisogno di imporre una camminata, un arresto, un denudamento dei piedi, per comunicare con gli uomini. Ma con Mosè il rapporto tra uomo e Dio cambia: ’Elohiym era considerevolmente indebolito dopo il lungo abbandono da parte del suo popolo – vale per ’Elohiym ciò che Dante dice di Virgilio: Per lungo silenzio parea fioco. Inferno I,63
Virgilio come ’Elohiym tacciono da molto tempo, perché nessuno aveva provato curiosità per loro. Mosè doveva dunque scoprire chi era quel Dio, di cui fino a quel momento non aveva saputo nulla, ed ’Elohiym doveva perciò istruirlo, guidarlo. Il Dio di Mosè diventa così, all’inizio, uno Spirito Guida, datore di una conoscenza che può comunicarsi soltanto se l’uomo vuole conoscere. Nessuno Spirito Guida, per quanto divino, può da solo apprestare tutte e tre le condizioni necessarie a percepirlo e a comunicare con lui. L’uomo deve contribuirvi: camminare, rilassarsi, immaginare, voler sapere – come nella messa cattolica occorre sedersi, alzarsi, sedersi di nuovo, andare all’altare e tornare al proprio posto, così anche qui l’uomo deve attivare alcune delle proprie forze, per raggiungere e mantenere il particolare livello d’attività psichica in cui la comunicazione può avvenire. Questo livello occorre al viaggiatore per porsi al di sopra della portata di altri e molto meno interessanti fenomeni psichici, che nell’aldiquà disturbano pressoché sempre la mente cosciente: fantasie sconnesse, brevi pensieri inquieti, superflui, voces ossessive (quelle spiacevolissime frasi o sequenze di frasi più o meno prive di senso, che tornano a ripetersi monotonamente in mezzo ai nostri pensieri, appena siamo un po’ stanchi), ricordi fastidiosi, istanti di paura immotivata, e via dicendo. Il livello d’intensità psichica necessario alla comunicazione con gli Spiriti Guida dà invece un sensazione di calma. Si ha l’impressione, sempre sorprendente all’inizio, che nella mente si faccia tutt’a un tratto silenzio. Allora può avvenire l’incontro con ciò che il concetto che il viaggiatore ha degli Spiriti Guida gli permette di scorgere di loro.
IL CONCETTO MITOLOGICO DEGLI SPIRITI GUIDA
Maometto espone concisamente il problema di questo secondo elemento costitutivo degli Spiriti Guida. Informa che possono esservi jinn fastidiosi: Noi ponemmo accanto a ogni profeta un nemico, esseri satanici che, sia tra gli uomini sia tra i jinn stessi, ispirassero parole adorne allo scopo di sedurli. 50
Ma dice che ve ne sono altri capaci di gioire della verità, e anche jinn conoscitori delle Scritture, e ispiratori anche di testi sacri, sia pur inferiori al Corano. E lascia a ogni “profeta” – noi diremmo: a ogni viaggiatore – il compito di riconoscerli. Ciascuna di queste categorie di Spiriti Guida è veramente accanto al viaggiatore, non perché tutte le attornino, ma perché dal modo in cui il viaggiatore si accosta ai suoi Spiriti, e si pone rispetto ad essi, dipende la sua capacità di cogliere ciò che gli Spiriti Guida hanno da offrigli; e il suo modo di accostarsi e di porsi rispetto a questo fenomeno psichico dipende, a sua volta, da ciò che il viaggiatore sa o crede di sapere di loro. Chi si aspetta di udirne “parole adorne per sedurre”, meglio che lasci perdere. Chi invece osa pensare che lo consiglino rettamente, ha le migliori possibilità che così avvenga. È un po’ quel che avverrebbe se, mostrando a due bambini la celebre fotografia di Einstein che mostra la lingua, si dicesse a uno dei due che è la foto di un pazzo o di un mostro, e a un altro che è la foto di un uomo geniale, coraggioso e buono: il primo bambino ne sarebbe spaventato, mentre il secondo bambino lo troverebbe molto simpatico. 51
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Gli Spiriti Guida, dal canto loro, nei primi istanti dell’incontro sembrano attendere dal viaggiatore la loro definizione: li si avverte infatti vaghi. Possono apparire come figure, se la mente del viaggiatore è molto visiva – se cioè ha il dono, abbastanza frequente, di produrre con facilità immagini che la memoria trattenga. Altre volte sono soltanto percezioni di presenze lievi, o sensazioni affettive, come di una leggera impazienza, che non si capisce se sia in noi o in loro. Solo a tratti, all’inizio, sembra di intuire che abbiano detto qualcosa, ma – proprio come avvenne a Mastro Ciliegia – all’inizio è forte il dubbio che, qualunque cosa possano avere comunicato, siamo stati noi a inventarcela. 53
E questo dubbio, oggi, è pressochè tutto ciò di cui i viaggiatori occidentali dispongono per decidere cosa pensare – e dunque che cosa percepire – degli Spiriti Guida. Le religioni attuali, infatti, non sono d’aiuto in nessun senso: da troppo tempo le teologie hanno trascurato questo elemento soprannaturale. La scienza attuale è ancor più fuori questione, giacché il rifiuto che oppone a questi argomenti è talmente brusco, da lasciar sospettare che esprima non una decisione maturata dopo analisi di dati e di possibilità, ma una nevrotica voglia di non sapere. Di miti autentici e suggestivi che riguardino gli Spiriti Guida, e che permettano di riconoscerli nei testi antichi, l’Occidente non ne produce più da quasi un secolo – da quando Yeats dedicava ai suoi “istruttori sconosciuti” intere raccolte di poesie, sia prima sia dopo aver ricevuto il premio Nobel per la letteratura, nel 1923. Così, uno studente delle scuole superiori o delle università italiane può prendere buoni voti in un’interrogazione su Dante, o addirittura specializzarsi nella Divina Commedia, senza che gli venga mai fatto are o che gli i per la mente che Virgilio e Beatrice sono Spiriti Guida. Dinanzi ai propri “istruttori sconosciuti”, perciò, un viaggiatore attuale è molto più sguarnito di quanto non lo si fosse ai tempi di Maometto, e può fondarsi solo sulle proprie opinioni, inevitabilmente incerte. Tali opinioni, a quel che ho notato, si dividono in tre categorie, a seconda del temperamento dei viaggiatori stessi. La prima categoria si può tranquillamente trascurare, perché non porta a nulla: è solo una fuga – cioè il decidere, non appena si cominci a percepire uno Spirito Guida, che tra immaginazione e invenzione non ci sia grande differenza, e che il prendere sul serio certe invenzioni porta solo lontano dai veri problemi dell’aldiquà, dal cui abbraccio non bisogna cercare via d’uscita. Le altre due categorie, quella dei “realisti” e quella dei “simbolisti”, sono invece più interessanti. 54
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Sura LXXII, 1. Sura XXVII, 40. 52 Sura XVII, 88. 53 C. Collodi, Le avventure di Pinocchio, cap. I; cfr. I confini del mondo, op. cit., p. 100. 54 The Double Vision of Michael Robartes, il volume di poesie Michael Robartes and the Dancer, Owen Aherne and his Dancers, e altre ancora; cfr. anche il lungo trattato di Yeats sulla filosofi a degli Spiriti Guida: Una visione (1938), Adelphi, Milano 1973. 51
SECONDO I “REALISTI”
La maggior parte dei viaggiatori non fuggitivi ritengono, o vogliono ritenere, che gli Spiriti Guida abbiano una loro esistenza autonoma da quella del viaggiatore che li percepisce, e che siano o esseri puramente spirituali, o anime di persone defunte, buone, molto evolute e preferibilmente illustri. Al primo tipo di Spiriti Guida appartengono i daimones di Socrate e jinn della tradizione araba. Alla seconda, i daimones di Esiodo, i santi, gli unknown istructors di Yeats, e anche gli Spiriti Guida di Jung, di cui abbiamo parlato nell’Introduzione. Yeats scrisse, nel 1932, dopo avere frequentato per diciott’anni i suoi Spiriti: What they undertook to do They brought to ; All things hang like a drop of dew Upon a blade of grass. 55
Yeats se li figurava cioè come esseri capaci di intraprendere e portare a termine qualcosa. Anche Jung, come abbiamo visto nell’Introduzione, era di questo parere: credeva che il suo Filemone fosse stato un pensatore gnostico, vissuto nel I o n e l II secolo e, come ricordiamo, «mi diceva cose che io non avevo coscientemente pensato, e osservai chiaramente che era lui a parlare e non io». A volte Jung sembrava nutrire qualche dubbio: 56
Tutte le mie opere, tutta la mia attività creatrice è sorta da quelle iniziali fantasie. Tutto ciò che in seguito ho fatto nella mia vita vi era già contenuto, anche se dapprima solo in forma di emozioni e di immagini. […] Gli anni più importanti della mia vita furono quelli in cui inseguivo le mie immagini interne. In quegli anni si decise tutto ciò che era essenziale; tutto cominciò allora. I dettagli posteriori sono solo completamenti e chiarificazioni del materiale che allora scaturì dall’inconscio, e che da principio mi travolse con le sue onde: ma fu esso la materia prima di un lavoro che durò tutta la vita. 57
Erano sue “fantasie”, “immagini interne”, “scaturite dall’inconscio” oppure si trattava di esseri che gli parlavano autonomamente, da fuori? I tre stupiti discepoli che assistevano alla Trasfigurazione non avrebbero avuto dubbi, nel momento in cui “videro”: Essi videro due uomini che parlavano con lui, ed erano Mosè ed Elia.
Luca 9,32
L’evangelista dice qui che, per i discepoli, quelli erano veramente “due uomini che parlavano” con Gesù, e che “erano Mosè ed Elia”. L’opinione dei “realisti”, secondo cui gli Spiriti Guida sarebbero oggettivamente reali – oltre che indubbiamente superiori all’io, dato che si incaricano di guidarlo – ha due pregi. Innanzitutto, contribuisce ad accrescere la nitidezza delle impressioni visive che il viaggiatore ha degli Spiriti: sapere come si chiamino, di che sesso siano, a che epoca risalgano, aiuta l’immaginazione a precisare il loro aspetto, come il ricordo di una fotografia rafforza il ricordo che si ha di un volto. In secondo luogo, l’opinione dei “realisti” è una spiegazione del fenomeno: implica infatti che, se il viaggiatore li vede e parla con loro, è perché loro esistono. Jung illustra questo secondo vantaggio e, al tempo stesso, quasi senza accorgersene, le perplessità che esso sembra placare, e che sono molto importanti: Mentre annotavo quelle mie fantasie, una volta mi chiesi: «Ma che cosa sto facendo realmente? Di certo non ha nulla a che vedere con la scienza. Ma allora cos’è?» Al che una voce mi disse: «È arte». Fui sorpreso, non mi era mai ato per la testa che le mie fantasie potessero avere a che fare con l’arte. Allora pensai: «Forse il mio inconscio ha dato forma a una personalità che non sono io, e che potrebbe esprimere le sue personali vedute». Con molta enfasi, e fermamente restio, dissi a quella voce che le mie fantasie non avevano nulla a che fare con l’arte. Allora la voce tacque e io continuai a scrivere. Poi ci fu un altro assalto e si ripeté la stessa asserzione: «Questa è arte». E nuovamente io protestai: «Non è arte! Al contrario, è natura». 58
Il sollievo che Jung vuole provare qui nel convincersi che non sia arte concorda con i fondamenti della sua psicologia. Se si fosse trattato di arte, sarebbe stata infatti espressione dell’io: e ne sarebbe derivato necessariamente che la psiche di un individuo ha un qualche altro suo centro, al di fuori della coscienza consueta, che pur essendo “una personalità che non sono io” può tuttavia dirsi io – come il personaggio interpretato da un attore (Riccardo III non è Lawrence Olivier, ma Lawrence Olivier è Riccardo III) o come il personaggio narrato da un romanziere (Madame Bovary non è Flaubert, ma Flaubert è Madame Bovary). Ma se Jung avesse ammesso l’esistenza di un qualche altro centro dell’io, e dunque una molteplicità dell’io stesso, gran parte del concetto di salute psichica proposto dalla psicologia occidentale del Novecento si sarebbe dovuto rielaborare. Sarebbero sorte domande diverse da quelle che sia Jung sia Freud avevano considerato. Ci si sarebbe dovuti chiedere:
ma dunque quanti io ha un uomo? e questi io sono paralleli tra loro, e ben distinti, come le cosiddette personalità multiple in certe persone attualmente definite psicotiche? oppure questi io diversi interagiscono tra loro? ma nell’uno come nell’altro caso, ha ancora senso limitare l’analisi al solo io cosciente, e usare come principale strumento dell’analisi il pronome “io”, così come il paziente è abituato ad adoperarlo, cioè al singolare? non sarebbe molto più utile coinvolgere nell’analisi anche gli altri suoi io, arricchendo il linguaggio con quella che Jung chiamava qui “arte”, e di cui negava l’esistenza? Giuseppe Egizio aveva imparato a dire: «Non io!» nell’interpretare i sogni, e per lui significava: non ciò che io so di me; e dopo averlo detto praticava con gioia la sua arte oniromantica. Ma Jung non era disposto ad ammettere nulla del genere: fuori da ciò che l’io sa già di sé deve esserci – secondo lo psichiatra svizzero – soltanto la “natura”, cioè una realtà oggettiva radicalmente differente dall’io cosciente, il quale, dal canto suo, deve restare l’unico principio di individuazione di un individuo. Questa sua spiegazione obbligata produsse qualche contrattempo. Nell’autobiografia, Jung narra che tre anni dopo, in un periodo in cui si trovava «in uno stato di emotività favorevole ai fenomeni parapsicologici», in casa sua si verificarono circostanze moleste: 59
Tutta la casa era come abitata da una folla di gente, come se fosse stipata di spiriti. Si affollavano fin sotto la porta, e si aveva la sensazione di poter respirare solo a fatica. Ero naturalmente tormentato dalla domanda: «Per amor di Dio, di che mai si tratta?» Allora in coro gridarono: «Ritorniamo da Gerusalemme, dove non abbiamo trovato ciò che cercavamo». 60
Una invasione di jinn o l’approssimarsi di una crisi di panico? Jung avrebbe optato per la prima. Ma ciò che descrive somiglia molto alla seconda, e uno stato emotivo favorevole a crisi di panico sarebbe stato probabile, in uno studioso che da anni si stava costringendo a non ammettere qualcosa che avrebbe posto in discussione i fondamenti delle sue teorie. Jung aggiunge: «Poco prima di questa esperienza avevo annotato una fantasia: la mia anima era volata via da me». E vi elabora sopra un ragionamento facilmente interpretabile, ma che lui non interpretò: Quella fantasia era un fatto significativo: l’ “anima” stabilisce un rapporto con l’inconscio. In un certo senso, questo è anche un rapporto con la collettività dei morti, perché l’inconscio corrisponde alla mitica terra dei morti, la terra degli antenati. Se perciò uno ha la visione dell’anima che evade, ciò significa che essa si è ritirata nell’inconscio, ovvero nella terra dei morti. Ciò produce una misteriosa animazione, e dà forme visibili alle tracce ancestrali, ai contenuti collettivi dell’inconscio; come un medium che dà ai
morti la possibilità di manifestarsi. Perciò, subito dopo la sparizione della mia anima mi erano apparsi i “morti” […]. Da allora in poi per me i morti sono diventati sempre più chiaramente le voci dell’Inesplicabile, dell’Irrisolto, dell’Irredento. 61
Questo ragionamento esprime (con l’arte quasi di un romanziere che descriva le inquietudini di un suo personaggio) un incubo della psicologia junghiana e lo sforzo di Jung di ricacciarlo indietro. L’anima “evade”! Il termine è azzeccato, sintomatico: evade come da una prigionia dallo schema in cui Jung stesso la vorrebbe incasellare. L’anima ne fugge e si ritrova altrove: perché se non è nell’io, per Jung essa deve certamente essere altrove, e questo altrove – come Jung si affretta a precisare a se stesso – non può che essere un cupo, minaccioso e soprattuto “inesplicabile” mondo dei morti. Strana situazione: uno scienziato che preferisce ricorrere a lugubri superstizioni sull’Oltretomba, e le pone addirittura come una realtà assodata (considera il mondo dei morti come un dato di “natura”!) pur di non ammettere che l’io possa essere molto più grande della piccola mente cosciente, dell’’aDaM, da cui si dà per scontato che un occidentale perbene non dovrebbe poter evadere mai. Non c’è una ’iŠaH, ci sono solo i “morti”, là fuori. Ci credeva davvero, Jung? A giudicare da quella folla di spettri che gli toglieva il respiro in casa sua, si direbbe il contrario: sembrerebbe un’ampia proiezione della sua personale voglia di evadere da “Gerusalemme”, dalle certezze stabilite una volta per tutte. Una voglia che, rifiutata, rimossa, uccisa, tornava e diventava invasione di emissari “morti”. Ai viaggiatori, di solito, non capitano queste cose: non tutti hanno stati di emotività tanto “favorevoli ai fenomeni parapsicologici”. Ma, di certo, l’opinione che gli Spiriti Guida siano nient’altro che persone morte nasconde il bisogno dell’’aDaM di non cambiare idea sulla propria estensione (se loro sono loro, loro non sono io) e dunque sull’immagine che può avere della realtà. Ciò favorisce la sensazione della presenza di Spiriti Guida come esseri reali, sensazione che può risultare sgradevole o gradevole a seconda dei casi. A Jung parve insopportabile, e gli sembrò un vero e proprio assedio, nel 1916, quando divenne troppo angoscioso il contrasto tra ciò che voleva credere e ciò che poteva intuire. La presenza di Spiriti Maestri gli era sembrata invece piacevole nei tre anni precedenti. Gli pareva lusinghiero che alcuni Spiriti molto evoluti si
occuero di lui, invece di dedicarsi alle loro faccende ultraterrene: gli permetteva di rafforzare, in tal modo, quella che Castaneda avrebbe chiamato la sua “importanza personale”, le mura del suo io cosciente, e di credere nei propri limiti come in veri e propri confini. Il che è tipico dei “realisti”, fondamentalmente innamorati di ciò che sanno del proprio io, come lo si può essere della propria buona reputazione di genitore, di coniuge o di professionista.
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Gratitude to the Uknown Istructors. «Quel che hanno intrapreso/hanno portato a termine./Tutte le cose sono appese come goccie di rugiada/a un filo d’erba». 56 Vedi sopra, p. 22. 57 C. G. Jung, Ricordi, sogni, riflessioni, op. cit., pp. 236, 244. 58 C. G. Jung, Ricordi, sogni, riflessioni, op. cit., pp. 228-229. 59 Cfr. I confini del mondo, op. cit., p. 70 ss. 60 C. G. Jung, Ricordi, sogni, riflessioni, op. cit., pp. 234. 61 Ivi, pp. 235-236.
SECONDO I “SIMBOLISTI”
I “realisti” hanno, naturalmente, una concezione religiosa dell’aldilà; non per nulla, Jung era figlio di un pastore protestante. Così come i fedeli di una religione ritengono necessario credere nell’esistenza autonoma di Angeli, Arcangeli, diavoli, Dèi, e anime dei morti – e di conseguenza nella limitatezza umana, e, in particolar modo, nel fatto che l’uomo sappia esattamente di cosa sta parlando quando parla del proprio io (l’io non è gli Angeli, gli Arcangeli, i diavoli, gli Dèi, o le anime dei morti) – allo stesso modo e per la medesima ragione i “realisti” ritengono credibile, sensato e inevitabile parlare degli Spiriti Guida come di entità esterne all’io. Altrettanto naturalmente i “realisti” si obbligano, perciò, a credere che i momenti di contatto con gli Spiriti Guida siano momenti in qualche modo “sacri”, cioè ben distinti, e da tenere separati dalle altre attività dell’io – per evitare interferenze con queste ultime, come le invasioni di entità di cui narrava Jung. E solo da questa inclinazione religiosa potè sorgere un fenomeno come lo spiritismo, in cui tra il mondo degli spiriti e quello degli uomini si posero le figure dei medium, degli intermediari, che corrispondono, nelle religioni, ai sacerdoti. L’altra opinione sugli Spiriti Guida, quella dei “simbolisti”, o potremmo anche dire degli scettici, ha lo svantaggio di far apparire sempre labili le immagini degli Spiriti stessi, dato che le considera semplici compromessi tra il modo in cui il viaggiatore li percepisce e ciò che gli Spiriti sono. Ma è uno svantaggio che ha precedenti illustri: ha a che fare con il velo di Mosè, con il cappuccio iniziatico, con la cecità attribuita a vari veggenti, a Omero, a Tiresia, a Isacco – sia l’Isacco biblico, «che non vedeva più» (Genesi 27,1) sia Isaac di Gerona, eminente figura della Qabbalah sul finire del XII secolo. Secondo i “simbolisti”, infatti, chi nell’aldilà vede davvero, sa di non vedere. Anche Gesù vi accenna: Se foste ciechi non avreste più il peso dei vostri peccati; ma poiché dite «Noi vediamo», ogni vostro peccato rimane. Giovanni 9,41
Si sostituisca alla parola “peccati” la parola “limiti” e si avrà una buona formulazione del punto di vista dei “simbolisti” sulle percezioni che si hanno
degli Spiriti Guida: percezioni inevitabilmente intrise di proiezioni, e rimane prigioniero delle proprie proiezioni chi crede che non siano proiezioni. I “simbolisti” negano agli Spiriti Guida un’esistenza autonoma da chi li percepisce. Li intendono come estensioni dell’io, aree ulteriori della coscienza, che l’immaginazione rappresenta come figure umane o animali simboliche, non perché vuol far credere che lo siano davvero, ma perché non ritiene che il lessico e la sintassi di cui il viaggiatore dispone in un determinato momento storico siano adeguati a descriverli – e dunque per la stessa ragione per cui un pittore dipinge, dato che se il lessico e la sintassi della lingua di cui dispongono bastassero a dire quel che il pittore desidera comunicare, si accontenterebbe di scrivere un articolo, o un trattato, o un diario. Secondo i “simbolisti” dunque la percezione degli Spiriti Guida è innanzitutto arte. I “simbolisti” hanno la logica dalla loro parte. Che nell’aldilà vi sia una popolazione di esseri spirituali o di morti è certamente possibile, oltre che bello a pensarsi, ma proprio il fatto che si trovi nell’aldilà, cioè in dimensioni diverse dalla nostra, fa ritenere che tale popolazione ci sia in un modo diverso dal nostro: che disponga di un tempo e di uno spazio diversi da quelli che di cui noi disponiamo, e abbia perciò esperienze incompatibili con le nostre, per tutto ciò che riguarda i numeri, le differenze tra singolare e plurale, tra il prima e il dopo, tra il mio e il non mio, tra l’io e gli altri, tra il fuori e il dentro, e il sopra e il sotto – a meno di non ritenere, come Newton, e come dopo Einstein non è più possibile, che i nostri orologi e calendari e le nostre unità di misura spaziale siano criteri validi in ogni parte dell’universo sia fisico sia psichico. Ma senza il tempo e lo spazio così come noi li conosciamo diventa impossibile anche ciò che noi, nell’aldiquà, chiamiamo esistenza autonoma, e cioè una precisa collocazione di un qualsiasi essere in un qui e in un adesso, a una qualche distanza dal nostro io. Dimodoché chi si avventura nell’aldila potrà tanto più condividere quelle diverse dimensioni, quanto più saprà che tra il suo io e ciò che là percepisce ci sono differenze che non è in grado di spiegare – e proprio perché non è in grado di spiegarle, sceglie di parlare, agli altri e a se stesso, solo di ciò che prova a immaginarne, sapendo che la sua immaginazione è arte. Secondo i “simbolisti” è anche molto probabile che tutti, incluso chi è digiuno di viaggi nell’aldilà, giungano spontaneamente a quelle dimensioni piuttosto spesso nel corso delle loro giornate: ma non se ne accorgono, proprio perché le loro percezioni si limitano a ciò che ha esistenza
spaziotemporale, numerabile e differenziabile. Possono così trovarsi in mezzo ai più generosi daimones socratici, o jinn di Maometto, e non saperne mai nulla. Secondo il punto di vista “simbolista”, le vie verso l’aldilà sono procedimenti per accorgersi sempre meglio di questi nostri spontanei sconfinamenti; perciò, qualsiasi via verso l’aldilà rimane tanto più approssimativa, quanto più il viaggiatore crede che i suoi Spiriti Guida siano le immagini che ne ha: che Virgilio sia Publio Virgilio Marone, e che Beatrice sia Beatrice Portinari De’ Bardi. Queste immagini, secondo i “simbolisti”, sono ancor sempre una fase di Albedo. L’io del viaggiatore le produce perché e finché non osa accettare la propria grandezza, che sta scoprendo nell’aldilà: non riesce ad ammirare, ad amare ciò che sta diventando, e ammira e ama immagini proiettive. Ricordiamo l’emblema biblico del superamento del confine: Pose davanti alla recinzione dell’Eden i Cherubini e la fiamma della spada che gira su se stessa, a sorvegliare il diramarsi delle vie. 62 Genesi 3,24
L’impulso più immediato sarebbe quello di volgersi via da questa spadaspecchio che al contempo riflette la luce dell’io stesso e spezza i suoi precedenti gusci, le sue ם: si avrebbe voglia di ritornare nel guscio della mente cosciente, così come il popolo nel deserto chiedeva a Mosè di poter ritornare in Egitto. Gli Spiriti Guida sono un modo di impedirlo: sono specchi che parlano al viaggiatore ancora esitante, dandogli l’impressione rassicurante di parlare con loro, in attesa che si accorga di essere lui stesso a parlare per mezzo di loro. Gli Spiriti svolgono così la funzione di una interface che permetta una compatibilità tra due fasi dell’io tanto sproporzionate tra loro. È una funzione paragonabile a quella che svolgono gli Angeli, secondo le teologie delle tre grandi religioni mediterranee: come di veli luminosi emanati dalla divinità e interposti tra questa e l’essere umano, perché l’essere umano possa ascoltarla senza venire travolto dalla potenza divina. La differenza tra gli Angeli e le immagini che il viaggiatore ha degli Spiriti è che queste ultime sono emanazioni non di un Dio ma dell’io stesso. Tali immagini possono apparire vivissime, ma non appena l’io ritorna verso l’aldiquà, e quell’energia diminuisce, scompaiono. Non restano là, né se ne vanno da qualche altra parte, come potrebbe pensare un “realista”. Cessano,
come l’ombra sparisce quando si spegne la luce. E, quando ritornerà nell’aldilà, ricominciano a dire al viaggiatore cose che nell’aldiquà non sapeva di poter sapere. Questa interfaccia permane a lungo. Solo alla fine del Paradiso Beatrice rimane indietro, e Dante comincia ad ammettere di stare vedendo se stesso, e proprio quando sta vedendo Dio: O luce etterna, che sola in te sidi, sola t’intendi, e da te intelletta, e intendente te ami ed arridi! Quella circulazion che sì concetta pareva in te come lume reflesso, dalli occhi miei alquanto circunspetta dentro di sé, del suo colore stesso, mi parve pinta della nostra effige; per che ’l mio viso in lei tutto era messo. Paradiso XXXIII,124-132
Questi versi sono una vasta avventura della conoscenza, che richiede grande attenzione. Innanzitutto, apprendiamo che non si tratta, qui, di una luce che stia irradiando da una qualche sorgente luminosa: è una luce che “in sé sola side”, cioè risiede in se stessa. È il simbolo dell’“intendere”, in entrambi i sensi di questo verbo, cioè “capire” e “volere”. E questo “intendere” è ciò che san Tommaso chiamava intellectus, è la conoscenza, la percezione – poiché ognuno, Dio o uomo che sia, percepisce solo ciò che vuole percepire. Illumina ciò che vuole illuminare. Fa esistere ciò che vuole fare esistere. E questa luce-intellectus è “etterna”, cioè fuori dal tempo e dallo spazio. La fisica del Novecento concepì un’idea quasi simile a questa, quando decise che nessuna informazione può viaggiare più velocemente della luce: cioè che la luce costituisce il limite spazio-temporale dell’universo, oltre il quale può cominciare ciò che i mistici chiamano eternità. La fisica concepì e misurò questa luce nel mondo materiale; Dante ne intende la dimensione psicologica. Il fatto che, in questo o del Paradiso, la luce-intellectus eterna sia Dio non toglie che anche in ognuno di noi la percezione sia diversa da qualsiasi cosa con cui abbiamo a che fare, diversa non soltanto da ciò che avviene nel tempo e da ciò che c’è nello spazio, ma anche dal tempo e dallo spazio: anche in noi, la percezione, l’intendere, “in sé soli sidono”, stanno a sé, sono prima e oltre tutto. La differenza tra la luce-intellectus e la luce studiata dalla fisica, è che la luce-intellectus intende se stessa. Dante concorda qui con Aristotele, che così
descriveva l’intendere, il cui equivalente in greco è noûs: Il divino noûs è ciò che vi è di supremo, e conosce se stesso, e la sua conoscenza è conoscenza della conoscenza (εστιν η νοησις νοησεως νοησις). 63
E Dante immagina-scopre che quella luce-intellectus è una “circulazion”: un movimento in un cerchio – e noi ricordiamo il significato dell’’aDaM: un irradiarsi all’interno di un orizzonte. Dante contempla la “circulazion” di quella luce-intellectus e vi scorge un riflesso, come in uno specchio: pareva in te come lume reflesso.
E guardando ancor di più, si accorge che ciò che vi si riflette è anche un volto: mi parve pinta della nostra effige
– così come un volto (un volto umano: “nostra effige”) si riflette nella pupilla di chi la guardi da vicino. E – can you see your face? – anche di un’altra cosa si accorge: che “’l mio viso tutto era messo” in quel cerchio: quel viso, quel volto era quello di Dante. M a visus, in latino, significa anche vedere: l’immagine del volto di Dante riflesso nel cerchio della luce si evolve vertiginosamente: il cerchio-pupilla in cui Dante si sta specchiando era il suo stesso visus, il suo stesso vedere, il suo occhio: ovvero: arriva il momento, nell’aldilà, in cui il viaggiatore deve accorgersi che tutto ciò che sta vedendo, scoprendo, conoscendo è inteso da lui: è tanto capito quanto voluto da lui, è sua creazione, sua arte. Tutto. Non solo tutto ciò che percepisce nell’aldilà, ma ovunque, perché quella luce-intellectus sta sempre facendo esistere tutto, anche nell’aldiquà. Paolo, come sappiamo, aveva detto: «allora conoscerò come sono conosciuto». Qui è quell’allora: Dante vede anche se stesso dal punto di vista dell’occhio-luce divino. E qui non vi è più lo specchio, proprio perché il “viso”, il visus di Dante era in quell’occhio-luce. La Commedia incominciava con un “mi ritrovai” – il mio io grande ritrovò il mio io piccolo e ne fu ritrovato – e termina allo stesso modo, ma più in alto: io trovai Dio e scoprii di essere il Dio che ritrovava me che l’aveva cercato, ed era salito fino a lui e lo stava guardando. È un nuovo modo di conoscere, e Dante tiene subito a segnalarlo: a quella vista nova, veder volea come si convenne l’imago al cerchio e come vi s’indova;
ma non eran da ciò le proprie penne vv.136-139
Una decina d’anni prima, Dante aveva scritto la Vita nova, un romanzo autobiografico tutto incentrato sul suo amore per Beatrice. Ora, alla fine del Paradiso, Beatrice in qualità di Spirito Guida lo ha condotto a un confine oltre il quale ha avuto inizio un “vista nova”. E Dante narra di aver voluto vedere come fosse possibile che l’immagine del volto riflesso fosse essa stessa l’occhio-luce-intellectus divino (“dove vi si indova”) ma di non aver avuto “penne” sufficienti. È una conclusione ironica: le “penne” non sono le ali, sono gli strumenti di scrittura. Il Vangelo di Giovanni terminava allo stesso modo: Ci sono anche molte altre cose che Gesù fece, e se si scrivessero una ad una il mondo intero non basterebbe a contenere i libri che si dovrebbero scrivere. Giovanni 21,25
Come a dire: a un certo punto, le parole del mondo non bastano. Bastano fino a che un viaggiatore ha immagini dei suoi Spiriti Guida come di figure diverse da lui, ma quando si accorge di esserle – di essere addirittura la luce-intellectus da cui tutto proviene, lui incluso – insieme alle immagini diventano insufficienti, e limitanti, anche le parole. E quella sarà la mèta di tutti i viaggiatori. Virgilio l’aveva già promesso, a Dante, per allusione – in chiave più che mai “simbolista”. Da subito aveva detto a Dante: Non omo, omo già fui. Inferno I,76-78
Qui, un “realista” potrebbe sentirsi confortato, pensando che Virgilio intendesse: sono un ex-vivo, sono l’anima di un uomo che è morto. Ma il senso è tutt’altro: non sono un essere umano – dice Virgilio – perché essere un uomo, soltanto un uomo, è cosa di livelli più bassi, che qui si superano e che anche tu supererai. Infatti, dopo avergli confermato di essere stato l’autore dell’Eneide, lo Spirito Guida Virgilio prosegue: «Ma tu perché ritorni a tanta noia? Perché non sali il dilettoso monte Ch’è principio e cagion di tutta gioia?» Inferno I,76-78
Perché ragioni ancora sul livello in cui si è soltanto uomini, invece di salire oltre? In quella salita, Dante procederà mediante autoidentificazioni
successive, e sempre crescenti, in coloro che incontra: nell’Inferno, nel Purgatorio, nel Paradiso “si specchierà” in centinaia di personalità, trovando in ciascuna “principio e cagione” di qualcosa di suo, e superandole tutte – come l’iniziato egiziano si liberava via via delle bende della propria mummia. E questo, appunto, è “simbolismo”. La prospettiva psicologica che i “simbolisti” aprono è diametralmente opposta a quella dei “realisti”. Se gli Spiriti Guida sono un fenomeno proiettivo, se sono modi in cui l’immaginazione del viaggiatore rappresenta altre dimensioni della sua stessa psiche, il contatto con gli Spiriti Guida non è un momento “sacro”, ma può avvenire in qualsiasi circostanza della giornata. Se i “simbolisti” hanno ragione, imparare a capire il fenomeno degli Spiriti Guida significa imparare a capire in quale misura un nostro pensiero sia prodotto dalla mente cosciente, e in quale misura sia invece nato da altre dimensioni della nostra psiche – e, appunto perché proviene da quelle, ci possa aiutare a conoscerle, a esplorarle, ad adoperarle, a esserle quando lo vogliamo. Se i “simbolisti” hanno ragione, la nostra psicologia è in una sua fase preistorica. Se i “simbolisti” hanno ragione, anche la teologia lo è – come abbiamo visto parlando delle funzioni di Spirito Guida che assume qualche Dio, e segnatamente il Dio ebraico antico e il Dio dei cristiani. E, se i “simbolisti” hanno ragione, teologia e psicologia non sono due discipline diverse fra loro, e non possono che progredire entrambe, se se ne accorgono.
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Così nel testo ebraico; cfr. Libro della creazione, op. cit., p. 261-262. Metafisica XII, 9, 1074b.
SECONDO GLI SPIRITI GUIDA
Gli Spiriti Guida, dal canto loro, tutte le volte che ho domandato chi o che cosa fossero in realtà, mi hanno dato risposte che al tempo stesso confermano, e al tempo stesso superano, sia l’opinione dei “simbolisti” sia quella dei “realisti”. La loro risposta preferita è: Noi siamo te, solo che tu sei tu in un mondo piccolo, mentre noi siamo te in un mondo più grande. Dunque non esistono di per sé, ne deducevo, benchè tanto spesso mi sembri il contrario. Poi notavo quel “noi siamo te”. E sorridevano. Mi spiegavano: La questione è un po’ diversa da come la poni tu. E il verbo essere non è come tu pensi. Tu pensi che sia una specie di segno di uguale: “io sono Igor” significherebbe, secondo te, “io = Igor” e quindi “Igor = io”. Non è così, visto da qui. Per noi, il verbo essere equivale a far essere. Esprime non un’identità, ma un’azione. Così, tu nel tuo mondo riesci soltanto a far essere te stesso. E anche qui noi te lo lasciamo fare, finché non crescerai un po’. Via via farai essere, di te, molto di più. E voi? Siete mie emanazioni, se ho capito bene? Tanto quanto tu lo sei. Il tuo io più grande fa essere noi, qui; e fa essere te, nel tuo mondo. Ma ciò che vedo di voi qui è comunque in gran parte una mia proiezione? Certo, come anche tu lo sei nel tuo mondo. E dietro tutto questo “far essere”, cosa c’è? Dietro? Non c’è nessun dietro. Dov’è il dietro di te, quando tu ti volti? In tal modo, non viene negata l’ipotesi che gli Spiriti Guida abbiano una loro esistenza autonoma da me: diventa solo problematica l’ipotesi di una mia esistenza autonoma – ma essere un’ipotesi non è un’esperienza spiacevole. Un’altra volta mi spiegarono accuratamente una delle conseguenze
principali del loro punto di vista, dalla quale ho tratto vari spunti per i capitoli precedenti: e cioè che ciascuno Spirito Guida può essere inteso come la differenza tra ciò che chi lo vede riesce a essere adesso (o a “far essere di sé”, come dicono loro) e ciò che potrà diventare in futuro (ciò che in futuro “farà essere di sé”).
Così, se per esempio una donna non ha ancora figli e tra qualche anno ne avrà, uno dei suoi Spiriti Guida le spiegherà oggi varie cose che lei, oggi, non avrebbe potuto capire, e che avrebbe capito solo quando sarebbe diventata madre. Soprattutto le parlerà di ciò che oggi interferisce con quel suo potenziale ruolo nuovo, e con il suo desiderio di attuarlo. Ma questa idea che si possa superare immediatamente la differenza tra il nostro io presente e il nostro io futuro comporta notevoli cambiamenti nella nostra concezione del tempo.
ULTERIORE INTERPRETAZIONE DELLE ESTENSIONI TEMPORALI
A un certo punto cominciai a utilizzare a scopi pratici quella differenza, che gli Spiriti esprimono e al contempo permettono di superare, tra ciò che un io è (o fa essere di sé) in un dato momento e ciò che diverrà (o farà essere di sé) di lì a qualche tempo. La prima volta fu più di venticinque anni fa, quando cominciavo a tradurre la Genesi: chiedevo spesso consigli ai miei Spiriti Guida, dato che il senso di quasi tutte le frasi nel testo ebraico risultava troppo diverso da quello indicato nelle traduzioni consuete – e a quel tempo me ne meravigliavo e pensavo di essere io a sbagliarmi. In certi i, poi, come nell’elenco dei patriarchi prediluviani, nel quinto capitolo della Genesi, l’interpretazione era bloccata da evidenti enigmi numerici – le strane, incredibili età raggiunte da Adamo, Set, Enoš e via via, fino a Matusalemme – che nessun commentatore aveva risolto. I miei Spiriti mi spiegavano, e io verificavo poi a lungo le loro spiegazioni con gli strumenti della filologia, trovandole sempre puntuali. Domandai se fossero vissuti a quei tempi, dato che conoscevano così bene la lingua. Risposero:
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No. E d’altronde non conosciamo nessuna lingua. Sappiamo soltanto ciò che sai tu. Ma io non so queste cose che mi dite. Adesso non le sai, certo. Ti ci vorrebbero cinque anni di studi per scoprirle. Ma noi andiamo a vedere ciò che saprai tra sei anni, cioè quando avrai chiarito bene il problema, e te lo diciamo adesso. Così nei prossimi dodici anni avrai modo di fare tante altre cose. Quando mi fui convinto di non essermi inventato questa risposta, comincia ad accorgermi delle sue implicazioni. La questione era: se per risolvere un determinato problema mi sarebbero occorsi alcuni anni di studio e di riflessione, com’era possibile che, avendo ottenuto in anticipo il frutto di quegli anni di lavoro, potessi poi dedicare quegli stessi anni ad altre attività? Chi e quando avrebbe svolto quel lavoro,
indispensabile alla mia scoperta, se invece di svolgerlo io avessi fatto qualcos’altro? Se si adotta il punto di vista dei “realisti”, l’interrogativo non sussiste: se gli Spiriti Guida hanno un’esistenza autonoma dalla mia, possono semplicemente rivelarmi qualsiasi cosa in anticipo. Ma se gli stessi Spiriti Guida sostengono di sapere soltanto ciò che io so, l’interrogativo non trova risposta finchè ci si attiene alla nostra logica consueta, fondata sul principio di non contraddizione: se io sono, poniamo, nel 1993 (l’anno in cui cominciai a studiare la Genesi in ebraico) non posso essere anche nel 1998 (l’anno in cui scrissi il mio primo libro sulla Genesi). Se invece si lascia da parte la logica consueta, la risposta risulta sorprendentemente semplice. Così come lo vedono gli Spiriti Guida, il mio futuro non è una linea che proceda a questo modo:
ma è una molteplicità di linee che si aprono da qualsiasi istante, così:
Ciascuna linea è una possibile direzione che, a partire dall’istante presente, io posso preferire alle altre e percorrere in futuro. Per il principio di non contraddizione – che anche la psicologia attuale accoglie senza eccezioni – io sono io e, per così dire, non ho altro io all’infuori di me: dunque sono solo dove sono, percorro una sola direzione alla volta, tra tutte quelle che si dipartono da un mio istante presente. Secondo gli Spiriti Guida, invece, io non sono soltanto il mio io: ma nel “mondo piccolo” faccio essere un mio io, e in un “mondo più grande” posso far essere – al contempo – un mio io più grande, in un mondo ancora più grande posso far essere – al contempo – un mio io più grande ancora, e così via. I miei Spiriti Guida sono anche personificazioni della differenza tra il mio io più piccolo e questi io più grandi. Ciascuno di questi io più grandi ha un suo presente, un suo adesso, più grande del presente del mio io più piccolo (che è l’unico di cui la psicologia attuale si occupi), così:
In questa figura, le varie circonferenze sono il presente dei vari io più grandi, e le aree dei loro cerchi sono il loro ato – a partire dall’istante presente dell’io più piccolo. In tal modo, ciascuno di quei miei io più grandi non solo sa più cose di quante ne sappia il mio io più piccolo, ma ha già compiuto esperienze che per il mio io più piccolo sono ancora future. Un’altra differenza tra i miei io più grandi e il mio io più piccolo è che ciascun io ha uno spazio-tempo diverso da quello degli altri miei io. Nel mondo del mio io più piccolo il futuro appare come un’unica linea, perché il mio io più piccolo è abituato a pensarla così: i punti che costituiscono quella linea sono i momenti che il mio io piccolo vivrà; ciascun momento che il mio io piccolo vivrà lo condurrà ad un altro momento: uno solo, perché il mio io piccolo esclude di poter essere in due posti contemporaneamente – e, naturalmente, il mio io piccolo non sa quanto sia lunga quella sua linea di futuro, perché non sa quando morirà. Nel mondo di un mio io più grande, invece, buona parte di ciò che l’io più piccolo vede come futuro è, oggi, già ato, ma non è una linea soltanto, bensì un certo numero di linee, ciascuna delle quali rappresenta una serie di possibilità dell’io più piccolo, di cui quell’io più grande sa già tutto. Per ciascun mio io ancora più grande, quelle linee sono più numerose. Compito degli Spiriti Guida è mettere in relazione questi mondi dei miei io, e permettere tra gli uni e gli altri uno scambio di informazioni, da cui chi trae il massimo vantaggio è naturalmente l’io più piccolo di tutti. Può avvenire, in tal modo, che da un mio io più grande il mio io più piccolo sappia in anticipo quali scoperte farà su una determinata linea di futuro, e possa così fare a meno di percorrerla, e preferirne un’altra. Per esempio, nell’illustrazione successiva indico con P la scoperta del significato delle età dei patriarchi prediluviani elencate nel quinto capitolo della Genesi, indico con E una serie di scoperte nel campo della teoria evoluzionistica, con V una serie di scoperte filologiche e teologiche concernenti i Vangeli, e con altre lettere dell’alfabeto una serie di altre scoperte in altri campi; e indico con una linea tratteggiata il percorso che il mio più piccolo può compiere, se dà ascolto a ciò che, mediante gli Spiriti Guida, gli dicono i miei io più grandi:
L’io più piccolo comincia ad avviarsi in direzione di P, ma un suo io più grande, mediante i suoi Spiriti Guida, gli racconta in anticipo ciò che scoprirà in quella direzione: l’io più piccolo non ha più motivo di procedere in direzione di P, e decide di avviarsi in direzione di E: un altro suo io più grande gli racconta in anticipo ciò che troverà in E, e l’io più piccolo decide allora di procedere in direzione di V, e via dicendo. Con mia grande gioia, mi accorsi che questa stessa struttura era già annunciata in un o del Vangelo di Giovanni, che solitamente viene inteso come la promessa di Gesù di trovare una buona sistemazione dei suoi discepoli in Paradiso: io vado a prepararvi il posto, e quando sarò andato e vi avrò preparato il posto, tornerò e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi. E [così] di dove io vado voi conoscete la via. Giovanni 14, 3-4
Il senso del o diviene chiaro se con “io” si intende qui la somma dei vari io più grandi, e con “voi” l’io più piccolo. Certo, i punti di scoperta, P, E, V e tutti gli altri, sono soltanto singoli momenti su lunghe linee dense, ciascuna, di ogni genere di avvenimenti, scelte, vicissitudini; su ciascuna di quelle linee c’è anche, a un certo punto, il momento della morte (M): su alcune è più vicino, su altre è più lontano. E nulla impedisce che l’io piccolo si informi con buon anticipo sul punto in cui una certa linea incontrerà la morte, e cambi linea al momento opportuno.
Così l’io più piccolo potrà rimandare il momento della morte fino a che ne avrà voglia.
Lo stesso schema può estendersi al ato: Anche nel ato, cioè, un io più piccolo può compiere scoperte che non ha compiuto, sulla linea che ha percorso, ma che avrebbe potuto compiere se ne avesse percorse altre, che i suoi io più grandi vedono: i suoi io più grandi possono spiegargliele, e in tal modo aumentare la sapienza, la saggezza, l’esperienza con cui l’io più piccolo compirà da oggi in poi le sue scelte tra le varie linee. L’unico limite che si incontra in questo ampliamento della conoscenza è dato dal fatto che tutti quanti i miei io siano, appunto, miei io. Miei io e non io altrui. In ognuno di essi, io sono me stesso: sono ciò che sarò, ma sempre e soltanto ciò che sarò io. Il che spiega perché (me lo ero domandato a lungo) Dante nell’aldilà chieda e ottenga vari generi di informazioni, sia sul futuro sia sul ato, ma non domandi per esempio come guarire qualche malattia, o quali continenti ci siano sul pianeta. Non fu perché non gli venne in mente di chiederlo, ma perché nessun suo io più grande nutriva vero interesse verso queste questioni. Per la stessa ragione Gesù si spinse, nel ato, fino ad Abramo e non fino a Gauthama Buddha, o fino a Pitagora, o fino a Omero. Ognuno ha accesso solo ai mondi che vuole, e vuole solo i mondi che può volere. 65
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Cfr. Libro della creazione, op. cit., pp. 289-308. Giovanni 8,56-58.
IL LOGOS
In questi scambi di informazioni, in queste interazioni tra i mondi dell’aldilà, il linguaggio svolge un ruolo fondamentale: non solo perché non ne sapremmo nulla se non fossero state narrate da qualcuno, ma perché non sarebbero esistite se chi le sperimentava non le avesse in qualche modo descritte, prima di tutto, a se stesso. Anche il primo giorno della Creazione “la luce” comincia a esistere solo dopo che ’Elohiym l’ha nominata. Il ruolo del linguaggio viene spiegato così, nei dialoghi del Poimandres: Mi domandò: «Hai inteso cosa ti dice questa visione?» Io risposi: «Lo conoscerò». «Quella luce» disse «sono io, Noûs, il tuo Dio, precedente alla sostanza umida manifestatasi dalle tenebre. Il Logos luminoso proveniente dal Noûs è il figlio di Dio». «E dunque?» dissi. «Dunque sappi che quanto in te vede e ode è il Logos del Signore, e il Noûs è invece Dio Padre: questi due non sono di per sé separati l’uno dall’altro; la vera vita, infatti, è l’unione dei due». 66
Riconosciamo qui un’altra fonte di Dante (il Corpus Hermeticum cominciò a diffondersi in Occidente nel XV secolo, ma era stato redatto a Bisanzio cinque secoli prima, e Dante aveva legami con i dotti bizantini): anche qui il Noûs è tutt’uno con la “luce” e crea tutto. Ma creare non è ancora far esistere. Creare fa essere, ed essere ed esistere non sono la stessa cosa. Esiste ciò di cui ci si accorge. Di tutte le percezioni che abbiamo in ogni instante – milioni! – esistono per noi solo quelle di cui ci accorgiamo. E accorgersi di una nostra percezione significa farla rientrare, integrarla nella dimensione di ciò che siamo in grado di conoscere: dimensione che è cartografata dal linguaggio. Esse est percipi, essere è essere percepiti, diceva Berkeley; ma esiste solo ciò che è realized, ovvero ciò che qualcuno si è accorto di percepire, e di poter descrivere. E il far esistere è compito di quello che in greco si chiama il logos – letteralmente “il discorso”. Il logos entra in azione, nella Genesi, nel momento in cui ’Elohiym dice: «Sia la luce!». E il Poimandres vuole, evidentemente, dare un seguito a quel o della Genesi: là, il Primo Giorno, come ben sappiamo, le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di’Elohiym increspava la superficie delle acque;
e qui il Poimandres menziona, appunto, la “sostanza umida” e le “tenebre”. Il o avanti rispetto alla Genesi è annunciato, nel Poimandres, dalla domanda: «E dunque?»
Dunque – prosegue il Poimandres – tu impara dal Dio creatore. Ciò che la Genesi narrava su un piano cosmico, tu riconducilo alla tua esperienza personale. Dio è un Noûs che fa esistere il creato mediante il logos: scopri che anche tu puoi farlo. Anzi, lo stai già facendo. Lo fai sempre. Anche in te agisce il logos, anche tu, quando ti accorgi di percepire una cosa, stai dicendo: «Esista quella cosa per me!» come Dio faceva esistere per sé la “luce” e dopo la “luce”, mediante la “luce”, l’universo intero. E anche in te, come in Dio, Noûs e logos diventano tutt’uno, e il loro diventare tutt’uno dà sostanza al tuo vivere: l’unione dei due è la vera vita
– cioè è ciò che veramente intendi quando dici la parola “vita”. Questa connessione tra ciò che è e ciò che esiste è decisiva sia nell’aldiquà, dove i più non la notano, sia nell’aldilà, dove il viaggiatore assiste di continuo al trasformarsi di qualcosa che là c’è, e che lui ancora non percepisce, in qualcosa che per lui comincia a esistere. Perciò gli Spiriti Guida parlano con i viaggiatori, come direbbe un “realista”; o l’io grande del viaggiatore (il suo noûs) parla al suo io più piccolo mediante l’interfaccia degli Spiriti Guida, direbbe un “simbolista”. Il logos, il parlare, il conversare, i discorsi che fanno esistere tutto, nell’aldilà richiedono dunque particolare attenzione.
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Corpus Hermeticum, I, 6.
CRITERI DI SCRITTURA Quella materia ond’io son fatto scriba. Paradiso X, 27
I l logos è tutto ciò che l’io può dire: è dunque tutto ciò che sa di sapere, incluso ciò che sa di non sapere ancora – perché anche questo è un sapere. I l Noûs è oltre: è ciò che l’io non sa di non sapere o non sa ancora di sapere. Se dunque gli Spiriti Guida sono l’espressione del Noûs, il viaggiatore si trova, lì, ad ascoltarli nonostante se stesso, e nonostante tutto il mondo che già conosce: il suo compito diventa quello di evitare che la comunicazione con loro sia interferita da ciò che lui sa già di sé e di qualsiasi argomento che stia discutendo con i suoi Spiriti. Nella notte di Giacobbe sullo Yaboq, questo compito è simboleggiato dalla lotta con l’’iYŠ; perciò i due contendenti chiedono entrambi, l’uno all’altro: «Dimmi il tuo nome!» (Genesi 32,28-30). Era una lotta nel, con il, per il linguaggio. Nelle conversazioni con gli Spiriti Guida, la lotta è tra l’io grande e l’io piccolo dei viaggiatori, e si svolge tutta nel territorio di quest’ultimo, perché il linguaggio non può che essere quello che l’io piccolo conosce. E ciò contro cui l’io grande deve lottare sono interferenze di vari tipi, tutte determinate dalla razionalità, che ha sempre paura di ciò che è più grande e diverso, soprattutto di ciò che nella psiche è più grande e diverso da ciò che la razionalità è abituata a capire. Da un lato, la razionalità del viaggiatore vorrebbe continuamente aggiungere, a ciò che ascolta nell’aldilà, qualcosa che gli confermi ciò che già sa o crede. Dall’altro, vorrebbe togliere ciò che nei discorsi degli Spiriti Guida contrasta con le sue conoscenze già acquisite, con le certezze che su queste conoscenze ha costruito. L’arma principale di cui la razionalità dispone in questa lotta è la memoria. Può e vuole ricordare, delle conversazioni, alcune cose e non altre. «Nostro intelletto si profonda tanto, che dietro la memoria non può ire», scriveva Dante: quel “non può” non è tanto un cannot quanto un may not, un permesso che la razionalità vorrebbe non concedere. E per impedirsi di potere, to may not, la razionalità intralcia la memoria – che già di per sé fatica a conservare per più di qualche istante una qualsiasi frase esattamente 67
così come le è pervenuta – con pensieri che distraggono; con l’emozione di ascoltare dimensioni strane; con la sensazione di non aver capito abbastanza, che è anch’essa una potente distrazione; con il dubbio di stare inventando; con cali d’attenzione e con lo sforzo di evitarli – che è anch’esso un modo per distogliere l’attenzione da ciò che gli Spiriti Guida stanno dicendo. E la conseguenza è che se la memoria dovesse essere l’unico depositario delle conversazioni con gli Spiriti Guida, il viaggiatore ricorderebbe ben poco delle informazioni che dagli Spiriti Guida riceve. Perciò il ricorso alla scrittura è indispensabile, in queste conversazioni: il viaggiatore deve prendere nota di quel che ascolta nel momento stesso in cui l’ascolta, prima che la razionalità abbia il tempo di manipolare la memoria. E indispensabili sono alcuni criteri nel prendere nota, perché ciò che si scriva siano davvero e soltanto le conversazioni stesse, e non le ansie, le resistenze dell’io piccolo. Innanzitutto deve essere chiaro ai viaggiatori che, nell’aldilà, nulla di quanto il loro pensiero si accorge di formulare proviene dagli Spiriti Guida. Se, per esempio, dopo aver domandato qualcosa ai suoi Spiriti Guida il viaggiatore si accorge di pensare una loro risposta, quella non sarà mai una loro risposta, ma soltanto un’interferenza, un’invenzione o un’ipotesi dell’io piccolo, per quanto significativa gli possa sembrare. Un primo criterio, a questo riguardo, viene formulato così dai miei Spiriti Guida: La buona comunicazione dipende da te: noi rispondiamo sempre, ma l’unico mezzo di cui disponi nell’aldilà per intendere le nostre risposte è la punta della penna in movimento, mentre scrivi frasi sensate e ben leggibili. Non il pensiero, cioè. La mente cosciente del viaggiatore deve essere impegnata non tanto a scrivere, quanto piuttosto a leggere ciò che sta scrivendo, e a cominciare a pensarci via via che il viaggiatore scrive. Questo primo criterio permette anche di riconoscere rapidamente le resistenze dei viaggiatori: quando la mano comincia a scrivere in modo illeggibile, scrive frasi insensate o traccia parole sconnesse o disegni, oppure rimane ferma, significa che l’io piccolo non vuole, non può, may not, comunicare con i suoi Spiriti Guida, e sarà bene allora domandarsi perché, o meglio ancora domandarlo agli Spiriti Guida. Quando invece sono gli Spiriti Guida a dire ciò che la mano sta scrivendo, il viaggiatore avrà continuamente sensazioni di incertezza, di perplessità e di sorpresa, proprio come lungo la via la sua immaginazione scopriva, uno dopo l’altro, i luoghi da attraversare.
Un altro criterio che i miei Spiriti Guida mi hanno indicato è: Nelle buone conversazioni con noi, le parole fluiscono sulla carta con la stessa velocità e continuità che si avrebbero nel copiare un testo: senza né ripensamenti, né cancellature, perché chi copia non ripensa e non cancella. La differenza da una copiatura è naturalmente che, nelle conversazioni con gli Spiriti Guida, il testo da copiare non c’è. Compito del viaggiatore è soltanto assumere e mantenere il ritmo di scrittura che assumerebbe copiando. Ovvero essere sicuro di sé mentre non lo è affatto. Non è difficile. Quando ci si fa l’abitudine è, anzi, piacevole. E siccome copiare un testo significa non poter decidere di terminare una frase a proprio piacimento, allo stesso modo il viaggiatore dovrà sviluppare l’abilità – anch’essa tutt’altro che complicata – di continuare a scrivere ogni frase fino a che non siano i suoi Spiriti Guida a fare la pausa d’un punto fermo. Un altro criterio riguarda lo stile. Lo stile caratteristico degli Spiriti Guida, quale che sia il livello culturale del viaggiatore, è sempre semplice: parlano per frasi pacate, brevi o lunghe ma sempre ben rifinite; mai una parola di troppo, mai un’insistenza, pochi aggettivi, rarissime esclamazioni, così che nel rileggere quel che se n’è scritto si avrà, se sono stati loro a parlare, l’impressione che si tratti di un testo pazientemente elaborato. Il che produce ulteriore sorpresa, perché al viaggiatore risulta che quel testo è stato scritto di getto. Quando invece, in quel che sta annotando, il viaggiatore trova giri di parole superflui, frasi approssimative, toni suasivi, sappia che si è trattato non di una conversazione autentica, ma di un suo personale inventare. I Vangeli danno un’indicazione in tal senso riguardo alla preghiera: Quando pregate, non accumulate parole inutili, come fanno gli estranei, che credono di venire ascoltati a forza di parole. Matteo 6,7
La “preghiera”, nei Vangeli, non è, come per tante persone religiose, una recitazione di giaculatorie imparate a memoria: è un chiedere e un apprendere, cioè un udire una risposta alle richieste, proprio come lo è una conversazione con gli Spiriti Guida. Tanto più significativo è ciò che Jung osservava nelle sue conversazioni con gli Spiriti Guida: Annotavo di solito le fantasie con un “linguaggio elevato”, poiché questo corrisponde allo stile degli
archetipi. Gli archetipi parlano un linguaggio patetico e anche ampolloso. È uno stile che mi riesce fastidioso e mi dà ai nervi, come quando qualcuno sfrega le unghie su un intonaco o un coltello su un piatto. 68
Che uomo nervoso. Ma è evidente, già da questa descrizione, che erano certe resistenze di Jung a fargli credere che quello fosse “lo stile degli archetipi” – e “archetipi” è un altro termine che Jung usa nella sua autobiografia per indicare i suoi Maestri invisibili. L’io piccolo di Jung aveva deciso che quel linguaggio dovesse essere fastidioso, per giustificare il nervosismo che gli suscitava il conversare con Spiriti che criticavano radicalmente il suo modo di intendere la psiche, e dei quali doveva tacere, come sappiamo, “per timore delle reazioni del pubblico”.
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Cfr. I confini del mondo, pp. 48-52. C. G. Jung, Ricordi, sogni, riflessioni, op. cit., p. 220
DELL’ATTENZIONE E DELLA TRANCE O mente che scrivesti ciò ch’io vidi Inferno II,8
La conversazione con gli Spiriti Guida è, dunque, un proseguimento e una trasformazione della via che si è percorsa per raggiungerli: invece che attraverso nuovi spazi visti dall’immaginazione, il viaggiatore procede attraverso nuove aree e nuove dimensioni della psiche e della conoscenza, dimensioni che prendono la forma di argomenti, ragionamenti, dimostrazioni, informazioni. Invece di immaginarsi di camminare, immagina di porre domande. Invece di guidare i i e lo sguardo, guida la mano che scrive. Tutto dipende, proprio come lungo la via, dall’attenzione desta, dalla tenacia del viaggiatore: il che esclude la trance, tanto sopravvalutata nel secolo scorso dagli spiritisti. Il maggiore svantaggio della trance sta proprio in ciò che, agli occhi di molti spiritisti, costituisce la sua principale attrattiva: il circolo, il gruppo, l’aggregazione che la trance sempre richiede. Chi è in grado di cadere di trance si trova infatti privo di volontà propria, in un vuoto di memoria, come durante uno svenimento, e in fase di grande dispendio di energie psichiche, tanto che quando se ne riprende si sente sfinito. Ha dunque bisogno di qualcuno che lo guidi: che gli ponga le domande, che ne sorvegli le condizioni psicofisiche, che lo aiuti a ridestarsi; e di qualcun altro che prenda nota; e, preferibilmente anche di un pubblico che gli comunichi un po’ di vigore sottoforma di emozioni e aspettative. Questo affollamento, nelle sedute spiritiche, impedisce ai partecipanti di accedere all’aldilà. Il medium non vi accede, perché avviene in lui l’esatto contrario: qualche altra dimensione psichica si serve di lui, spersonalizzandolo. Non è lui ad agire: a percorrere la via, a superare le prove, ad ampliarsi, a “ritrovarsi”, a connettere io piccolo e io grande; viene agito, e non sa da chi o da cosa. Mentre coloro che assistono restano nella dimensione del loro ’aDaM, e in questa dimensione pongono le domande e capiscono le risposte che il medium riesce a dare: adattano dunque, inevitabilmente, l’aldilà all’aldiquà, l’ignoto al già noto, il nuovo al vecchio – cedendo continuamente alla tentazione di consolidare, con il loro modo di domandare e soprattutto con il loro modo di capire le risposte, certezze che avevano già prima dell’inizio della seduta.
Quando invece il viaggiatore è solo davanti ai suoi Spiriti Guida, non vi è sfinimento: la conversazione stimola i suoi processi intellettivi, lo spinge a pensare di più, a chiedere e a scoprirsi ogni volta di più – dato che non soltanto può discutere di questioni estremamente private, che in un circolo nessuno oserebbe affrontare, ma scopre, nell’aldilà, di poter porre anche domande che il suo ’aDaM non era mai riuscito a pensare. Dante ne scrive così: et io sol uno m’apparecchiava a sostener la guerra sì del cammino sì della pietate, che ritrarrà la mente che non erra. O Muse, o alto ingegno, or m’aiutate; o mente che scrivesti ciò ch’io vidi, qui si parrà la tua nobilitate. Inferno II,3-9
I viaggiatori riconoscono qui in ogni verso un riflesso di loro esperienze. Quanto alla “guerra della pietate”, la si deve intendere come una lotta per superare la pietas, cioè le osservanze condivise da un gruppo: Dante era un ben noto eretico, e un eretico sta a sé, è un “io sol uno”.
LE APPRENSIONI NEL DISCUTERE CON GLI SPIRITI
Una “guerra” da combattere da soli. Una “guerra” tutta interiore, contro le proprie resistenze alla scoperta. Ne abbiamo già elencate numerose, parlando della via. Altri tre intralci, particolarmente potenti, vanno affrontati durante ogni conversazione con gli Spiriti Guida. Il primo di questi intralci è una nostra vecchia conoscenza: la tendenza degli adulti a non notare – a voler ignorare – ciò che non capiscono. La maggioranza degli adulti ha questa tendenza: prende per buone leggi scientifiche imparate a scuola, o leggi dello Stato, o descrizioni di fatti storici, o luoghi comuni, o i delle Scritture che non capisce, senza domandarsi che cosa precisamente non abbia capito – perché vede che nessuno o troppo pochi lo fanno. Ne viene un’abitudine a rimanere nel vago, e a pensare che così debba essere. Se il viaggiatore non si scrolla di dosso questa abitudine, anche le sue conversazioni nell’aldilà saranno per lo più caliginose. Per evitarlo, farà bene a ricorrere spesso alla domanda cara a Socrate: 69
In che senso?70
Occorre cioè accorgersi il più spesso possibile di non aver colto qualcosa. E quasi a ogni pie’ sospinto, nelle conversazioni con gli Spiriti Guida, si scopre che c’è qualcosa in più, da cogliere. Il secondo intralcio è la paura di sentirsi annunciare dagli Spiriti Guida qualche avvenimento triste. Si tratta di una paura infondata, perché gli Spiriti Guida non riconoscono alcun valore all’idea di fatalità – come abbiamo visto analizzando la loro idea di futuro sempre multiplo. Se domando loro, per esempio, come andrà un mio progetto o un mio rapporto con una persona, rispondono solitamente: Andrà come tu vorrai che vada. Tu come vuoi che vada? Io potrò rispondere che vorrei andasse benissimo; e, se questo è ciò che il mio io più piccolo vuole davvero, mi daranno indicazioni in merito. A volte potranno invece obiettare: Sei sicuro che lo vuoi? Secondo noi, no.
E mi spiegheranno perché. Riguardo invece a ciò che nel futuro non dipende dalla volontà del mio io più piccolo, gli Spiriti Guida mi daranno indicazioni non su ciò che deve succedermi, ma su come farmi succedere ciò che voglio e non farmi succedere ciò che non voglio. Da un lato, è sempre più semplice di quel che si creda: per evitare una qualsiasi cosa, o per avere una nuova opportunità può essere sufficiente anche soltanto rallentare tutt’a un tratto l’andatura mentre si cammina per strada. Ma dall’altro lato, è difficile chiederlo: per ottenere queste informazioni, occorre un atteggiamento privo di apprensioni verso il futuro, una curiosità tranquilla – e sono qualità rare. Svilupparle è impossibile se non ci si impratichisce in quella che Dante chiama “la guerra del cammino”, il gusto cioè di individuare e superare i propri limiti, nel presunto potere dei quali risiedono tutte le ragioni della paura di informarsi sul futuro. In questo potere dei limiti sta anche il terzo grande intralcio che i viaggiatori incontrano nelle conversazioni con gli Spiriti Guida. Dei propri limiti ignoti si ha infatti ancor più paura che delle fatalità future: ed è una paura speciale, violenta, come la paura dell’abisso – come se nella nostra psiche vi fossero aree in cui ci si sente vicini a un burrone. Ognuno ne ha. Così, per esempio, ho conosciuto individui che provavano un’invincibile angoscia – che essi stessi trovavano disgustosa – al solo pensiero di superare certe loro carenze di volontà, che fino ad allora avevano determinato in loro pesanti blocchi professionali: è la paura del successo. Alcuni di questi individui ritenevano che la ragione fosse il timore, certamente superstizioso, di un qualche grave prezzo da pagare una volta che avessero conseguito un obiettivo grande e molto desiderato. In realtà, era soltanto la voglia di conservare la propria mediocrità come un bene prezioso: preziosa perché già nota, familiare, facile e soprattutto confermata e approvata dalla loro cerchia di parenti, amici, conoscenti. Fuori dal territorio assegnatogli da quella cerchia, il viaggiatore trova enormi quantitativi della propria energia, che non ha ancora osato utilizzare. I precipizi che gli sembra di avvertire lì sono la vertigine dinanzi alla sua stessa ampiezza. Le conversazioni con gli Spiriti Guida conducono sempre a queste vertigini, e oltre esse; il che scoraggia molti superstiziosi, e li spinge a interrompere presto la loro esperienza di viaggiatori. Alcuni, come avvenne anche a me, la interrompono a lungo, e non è facile decidersi a riprenderla: anche accorgersi di quanto quell’angoscia limiti gli orizzonti nell’aldiquà, oltre che nell’aldilà,
serve a poco, perché prevale la voglia di accontentarsene. Occorre invece provarne indignazione, in nome della propria “nobilitate”. E allora si ricomincia. Di ciò diremo ancora, esaminando una per una le varie categorie di Spiriti che solitamente si incontrano esplorando l’Aldilà: sia quelli che favoriscono le indignazioni e le vittorie, sia quelli che svolgono la funzione opposta, diventando mostri o diavoli o altro del genere. Fin qui, abbiamo soltanto teorizzato sulle premesse.
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Cfr. I confini del mondo, op. cit., p. 198 ss. Fedro 261e.
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