Margherita Pierini Marzi
Lo scapolo
Lo scapolo
Margherita Pierini Marzi
Edizione digitale: giugno 2013
ISBN: 9788868550646
Edizione digitale realizzata da Simplicissimus Book Farm srl
Una moderna antica storia
Introduzione al racconto di Margherita Pierini Marzi.
I lettori di libri, e storie, spesso non gradiscono le “introduzioni” che, quasi, rallentano l’ingresso nella meraviglia della fantasia, anche se questo racconto si ispira a fatti veramente accaduti. Spero che avrete una paziente attenzione per le parole che voglio dedicare a Margherita Pierini Marzi, ben nota ai lettori e direi, a coloro che guardano all’arte e alla letteratura come a un “pane necessario” per nutrire la nostra sensibilità e vivere nel bene e in armonia con il creato. “Lo scapolo” è un racconto che “legge il lettore” tanta e tale è la presa narrativa che la semantica esercita in chi disvela, pagina dopo pagina, il cammino di una persona alla scoperta della vita. La vita è una “scoperta continua” e, a volte, come accade al protagonista, si alternano momenti meravigliosi a tempi complessi e dolorosi. Taluni sostengono che “solo nel dolore si trova la verità” e si intuiscono i “veri valori” per cui vale la pena di impegnarci. Altri indicano nei “momenti di normalità”, apparentemente banali, gli istanti che “fabbricano” i ricordi utili. Noi preferiamo indicare nei tempi di “sobria e misurata bellezza”, anche se non durano all’infinito, gli istanti in cui si plasma il “nostro amore verso gli altri, ben oltre noi stessi.” Forse, il racconto è proprio un viaggio verso la risposta a queste domande, un cammino che guarda al senso ultimo della vita, appesa fra “libertà di scelta” e “casualità.” Il racconto ci parla, in definitiva, del valore di “lasciarsi pescare” consapevoli
delle nostre possibilità, di costruire e plasmare la vita, ma docili per capire le vie misteriose che il “trascendente” ci indica, nelle pieghe dello spazio e del tempo, con segnali d’orientamento, come se vivessimo una “moderna antica” storia. Claudio Ricci Sindaco di Assisi
Presidente Beni/Siti Italiani “Patrimonio Mondiale” UNESCO
Prefazione
Per un romanzo breve, una breve presentazione. Quanto basta per dire che si tratta di una narrazione avvincente, dall’inizio alla fine. Un racconto che si muove tra il vissuto personale dell’autrice e il fantastico calato nelle esperienze altrui, ma sempre aderente al verosimile. Il vissuto si tinge di nostalgia nelle rievocazioni di luoghi e persone di una lontana giovinezza, trascorsa in una Perugia che non c’è più, nelle strade e stradine di campagna o delle indimenticabili “vasche” di Corso Vannucci… Questo e altro sono come destati nella memoria dell’autrice da «un polveroso cappello militare, dimenticato in soffitta, tra vecchi libri e carte ingiallite dal tempo…». Fantasia e realtà, o meglio: fantasia che «veste la realtà, come i petali di un fiore adornano uno stelo». Il racconto prende l’avvio dal porto di Ancona. «Quanto sarà lungo il viaggio verso il futuro?» si chiede chi scrive. Il protagonista di questo romanzo breve (o racconto lungo) è un medico di trent’anni che ha ereditato dal padre la ione per la medicina e, ora, veste l’uniforme militare grigioverde in un accampamento di soldati italiani in Albania, durante il ventennio fascista. Egli ha un rapporto conflittuale con la sola idea del matrimonio e, ogni volta che gli si parla di questa istituzione e delle donne, va regolarmente in crisi, anche quando gli si presenta in infermeria la signora Catena, di origini italiane, moglie del capitano Lorenzi Carlo, che fa servizio in Albania. Il protagonista del romanzo, che si chiama Gabriele, non può non ammettere, però, che si tratta di una donna “bella” e “molto seducente”, e raccontando in prima persona dice: «Oggi, mentre uscivo per una eggiata, ho incontrato di nuovo la signora…». Egli e la donna si siedono all’ombra di una quercia, sotto la quale lei gli parla della propria solitudine, del proprio matrimonio e gli confessa che ora è
«infelice, molto infelice…». Nonostante la propria misoginia, Gabriele, dopo una settimana, ammette di essersi perdutamente innamorato di Catena. A trent’anni finiti: una disgrazia! Tanto da confessare: «Ieri ho ato la notte agitato, mi sono svegliato più volte, girandomi e rigirandomi nel letto, ma il sonno non veniva, pensavo a lei». E a dire, quasi gridando al mondo e a se stesso: «Catena è entrata nella mia vita come un temporale». Finché i due s’incontrano e si amano con ione. «Chissà perché - si chiederà qualche tempo dopo - alle donne sposate piacciono particolarmente gli scapoli e agli scapoli piacciono le signore!» Quando la scoperta del tradimento e della volubilità della donna fa svanire questa nella nebbia, portandosi «via la gioia e l’ultima speranza…». Ma la vita - e il racconto - non finiscono qui… sco Santucci
LOSCAPOLO
Gli occhi azzurri
Tutto inizia per caso, la vista di un polveroso cappello militare, dimenticato in soffitta, tra vecchi libri e carte ingiallite dal tempo, risveglia la memoria addormentata. Quando l’ho avuto tra le mani, tremavo, l’ho messo in testa, poi mi sono posto davanti allo specchio. E che ho visto? L’immagine di un vecchio che indossa un capello da militare usurato dal tempo e bucato dalle tarme! Ho la mia vita più segreta dinanzi agli occhi; un brivido mi corre lungo la schiena, lo tolgo dal capo ma, nel toccarlo, le mani sudano per l’emozione. Il tempo è ato veloce, coprendo di polvere le persone e i loro sentimenti. In quel momento, all’improvviso, tornano alla luce del sole i ricordi, vivi e quasi prepotenti, come portati da una folata di vento e mi costringono a raccontare. Questa storia si svolge alla fine degli anni Venti in Albania, ma potrebbe essere ambientata in qualsiasi parte del mondo, poiché le ioni dell’uomo non hanno confine. In quegli anni il governo fascista italiano, spinto da mania di grandezza, cerca di espandersi di là dell’Adriatico, stringe un trattato di amicizia con l’Albania e vi stabilisce una sorta di protettorato. Un secondo trattato conferisce all’Italia, che mantiene là delle truppe con armamenti e comandanti in campo, la supervisione sulla politica finanziaria del paese. A capo della nazione c’era re Zog, che non impersonava un re come l’intendiamo noi, con l’uniforme piena di medaglie, che esce dalla reggia su un cavallo bardato, in mezzo a dignitari che gli fanno da cornice. Figlio di una terra selvaggia discendeva da una dinastia, gli Zogolli, un clan di pastori montanari. Era un uomo coraggioso ma privo di scrupoli, aspro come la terra da cui proveniva. Per reggersi aveva bisogno dell’aiuto degli italiani. In quel periodo, mi trovavo in quella terra come tenente medico.
Oggi quel mondo è lontano nel tempo, ricordo alcune cose, per altre ho usato la fantasia, spesso la memoria vola e ricama immagini ed eventi. La fantasia veste la realtà, come i petali di un fiore adornano uno stelo. Partito dal porto di Ancona, la nave traghetto sembra aspettarmi, sta lì con i motori accesi e dalla sommità, vicino alla bandiera italiana, escono verso il cielo pennacchi di vapore che s’innalzano, confondendosi con le nuvole. Sono salito, trascinando la mia sacca, insieme con altri militari e addetti ai servizi civili. Quando ho veduto ritirare la erella e la nave scostarsi dal molo, sono rimasto lì attaccato al parapetto, guardando la costa finché la terra era visibile. La nave, dopo una faticosa partenza, solcava il mare, aprendosi un varco tra le onde dell’Adriatico, lasciando dietro di sé una lunga scia. Quanto sarà lungo il viaggio verso il futuro? Steso sulla dura cuccetta, dormo a tratti. La nave rulla e ondeggia nel mare mosso. Ho paura di cadere, ho l’animo incatenato dai ricordi, la nostalgia mi turba. Torno con il pensiero alla casa di Perugia, dove sono nato.
***
“Mamma ho deciso di arruolarmi. Vado in Albania come tenente medico, non c’è la guerra, mi affideranno la salute dei militari italiani che vivono là: sono due anni poi tornerò.” “Gabriele mio, fa’ come credi, che il Signore ti assista!” In un’alba fredda e pallida di primavera, dopo aver messo a posto i miei abiti eleganti e nei cassetti le camicie profumate di spigo, chiudo l’armadio, ficco le
mie cose nella sacca militare alla svelta, per non pensare. Sul letto, un bauletto con le cose più care che devo spedire. Mamma è entrata in quel momento. “Cocco, ti porto due canottiere di lana, una camicia pesante e due paia di calzini di lana fatti ai ferri da me!” “Esageri. Cara mamma, ti voglio tanto bene!” Ho preso il cappello grigioverde come la divisa, la sacca in spalla e sono partito. Avevo le lacrime agli occhi e, per farmi coraggio, fischiettavo una vecchia canzone: Addio, mia bella addio che l’armata se ne va, e se non partissi anch’io sarebbe una viltà. Mi fermo senza fiato, sospiro poi continuo la canzone, cerco una consolazione. Il sacco l’ho preparato e il fucile l’ho con me ed allo spuntar del sole io partirò da te. (Canzone. Della guerra 15-18)
***
Cullato dalle onde, sdraiato nella scomoda cuccetta della grande nave che mi porta di là dell’Adriatico, tra sogno e realtà, ricordo e rivedo Perugia antica, le vecchie case di Borgo XX Giugno. Uno slargo, un cortile, ed ecco tra i vicoli appare il sole. La nostra vecchia casa, giù in fondo, vicino alle mura, si illumina. Non l’avremmo cambiata per nulla al mondo, ci sembrava bellissima e sicura, quando a sera ci accoglieva nel suo grembo! Lì vivevamo in sette: i genitori e una nidiata di cinque figli, tre maschi e due femmine. Allora, il quartiere intero viveva animato dai suoi abitanti, la vita scorreva serena. C’era chi tornava stanco dal lavoro, le comari curiose occhieggiavano dalle porte di casa, i ragazzini nel cortile rincorrevano i gatti, che inseguivano i topi. Io correvo per i vicoli con gli amici e tiravamo sassi. Qualche volta, l’estate facevamo delle spedizioni nella campagna vicino alla città per rubare frutta. Com’era bello mangiare le ciliegie sotto l’albero, alla svelta, prima che il contadino se ne accorgesse e ci corresse dietro con il bastone! Nelle nostre bocche il dialetto perugino, condito di parolacce. “Chettepiàsse ‘n colpo”, “còmo stè Pasquèle?” “Al come la va Cesare?”, così saluto il calzolaio, il fabbro, il sarto per uomo, il falegname, tutti artigiani al lavoro. ando per le viuzze si ode un’orchestra di rumori che nasce dalle botteghe. Voci che si chiamano e si rincorrono per i vicoli, per i fondaci. I fondi, oscuri e umidi, sono occupati da raccoglitori di cartone e stracciaroli, gente umile che gira per le strade con il carrettino per raccogliere quello che altri gettano: vivono e commerciano con i rifiuti degli altri. Che antri maleodoranti! ando verso mezzogiorno, è facile aspirare profumo di cipolle soffritte o l’effluvio penetrante di brodo di manzo bollito. Le donne, tranne poche eccezioni, non lavorano, ma sono delle brave cuoche, sovente preparano, con abilità quasi artistica, tagliatelle all’uovo sulla spianatoia di casa.
Solo verso la fine di Corso Cavour si possono vedere le caserme dei pompieri e dei carabinieri, custodi di quell’operosa popolazione. Le case antiche, alte e strette, sono separate da viuzze oscure, dove il sole non fa mai capolino. In queste stradine non c’è marciapiede e le porte delle case si aprono direttamente sulla strada, una dopo l’altra, come vecchie signore che fanno da sentinella. La luce del sole rallegra soltanto Corso Cavour. Gli abitanti di Borgo XX Giugno sono stati e sono ancora fieri e coraggiosi. I loro antenati hanno combattuto strenuamente nel 1859 contro le truppe svizzere del comandante Schmidt, mandato da papa Pio IX per riconquistare la città. Allora per le strade vi erano fiumi di sangue, case saccheggiate, barricate, bambini e donne uccisi. I Perugini non vinsero a causa della mancanza di armi, di strategie e di uomini, non certo perché fosse venuto meno il coraggio. Da allora, tra gli uomini specialmente, c’è un diffuso sentimento anticlericale. Parecchi, tra i signori e anche tra gli artigiani, sono mangiapreti o addirittura massoni. Gli abitanti di questo borgo sono poco sentimentali, facili allo scherzo, amanti della buona cucina. Galanti con le donne, ma diretti nei confronti dell’altro sesso: quando a una bella donna, si odono fischi sonori e prolungati. “Cosa abbiamo scolpito oggi, un angioletto o una testa di medusa?” chiedo un poco impertinente allo scultore che lavora nel cortile sotto il ballatoio di casa mia. Un cortile strano, animato da tante figure in terracotta: angeli, donne con i fiori, santi, alcune figure sembravano vive, fatte di creta. Lo scultore vi trascorreva, la maggior parte del giorno, con un berrettone in testa, un grembiale polveroso che lo ricopriva sino ai piedi, lo scalpello in mano, alzava per un momento il viso impolverato, scuoteva il capo sorridendo. Io andavo via di corsa senza attendere risposta. L’artista, come annegato nella
sua palandrana, scuoteva il capo mormorando: “gioventù”, e continuava a modellare la creta. All’inizio di questa storia avevo circa trent’anni e una grande ione per la medicina. Mi ero da poco laureato all’Università di Perugia, ma non avevo trovato lavoro. Carattere timido e malinconico, ero e sono permaloso, insicuro e anche scettico, miseriaccia! Potreste pensare: “Ma allora sei un disastro!” Certo che no! Avevo e ho anche qualche buona qualità, in un mare di difetti. Rincorrendo le mie fantasticherie, ricordo mia madre sempre vestita di nero, la sera, capelli illuminati dalla luce, l’ultimo raggio si posava sul capo bianco, mentre recitava il rosario. Spesso mi chiedeva: “Figlio mio, perché non ti sposi?” In realtà, stavo lontano dalle donne. Ero diviso tra ammirazione e paura. Sovente, quando tornavo a casa: “Mamma, cara mammina anche oggi sono arrivato!” “Mettimi giù, burlone!” La sollevavo per abbracciarla meglio! “Vieni, ti voglio presentare la mia amica Milly con la figlia, sono di là nel salotto.” “Mamma, quando smetterai di farmi conoscere delle ragazze? Queste aspiranti mogli sono numerose, ma una ha il naso lungo - simpatica! tu dici - un’altra ha le gambe storte: brava figlia, tutta casa e chiesa! Un’altra così magra, scheletrica: ottima famiglia! Insomma, cara mamma, non me ne piace nessuna!” Le donne sono per me esseri strani, incomprensibili e misteriosi, ne aspiro il profumo quando ano vicino, affascinato da movimenti quasi felini, cerco di indovinarne le forme occultate da ingombranti vestiti. “Sei un romantico, o meglio sei un poeta!” “Mi piacerebbe essere un poeta, ma non lo sono, non ho mai scritto due versi!”
Scrivo, invece, dei racconti di vita contadina, ma sino ad ora non sono riuscito a pubblicarne nessuno. “È l’animo che conta.” “Tu hai grandi ideali, cerchi il grande amore ma avrai solo delusioni! Ora vieni di là a conoscere questa ragazza!” Poco prima di mezzogiorno, nelle campagne di Perugia, per strade e stradine, qualche volta nei pressi del Tevere, era facile vedere camminare infaticabile, da una casa all’altra, un uomo di una certa età con gli stivali e una grande borsa. Era mio padre, medico condotto di un paesino arroccato su di una collina che guarda la piana del Tevere. Un castello medioevale dominava la valle, residenza dei conti, allora padroni di quelle terre. Le sue mani accarezzavano i malati, guarivano le ferite, con l’aiuto di poche medicine scacciava la febbre. Le partorienti lo chiamavano, sapendo che con lui i bambini sarebbero nati sani. Io da ragazzetto lo seguivo spesso, gli portavo la borsa, ero un aiutante in erba. Talvolta non lo potevo seguire: questo accadeva quando si recava più lontano a dorso di un mulo. Così, oltre alla mia scuola, ne frequentavo un’altra: quella della vita. La mia ione per la medicina l’ho ereditata da lui.
***
Appena tornato dalla eggiata serale, tutte le sere faccio le cosiddette “vasche” per il Corso Vannucci. Mia sorella mette fuori il capo dalla porta della camera, ha una testa piena di riccioli e un sorriso birichino, è una piccola peste, mi vuole molto bene. Mi chiama.
“Gabriele, vieni, ti devo leggere una cosa!” “Di che si tratta?” “È un libro di un certo Sacco, dei primi del Novecento.” “Perché mi dovrebbe interessare?” “È l’argomento che ti sta a cuore, parla del matrimonio.” “Titolo?” “Il modo di vivere felici nella vita coniugale.” “Di grazia, quale sarebbe?” “Ascolta e impara.” - Il matrimonio è l’unione vitalizia, stabilita per legge, tra l’uomo e la donna: è un contratto civile e religioso nel quale i due contraenti si obbligano a vivere insieme sino alla morte, in comunione vicendevole d’amore e fedeltà. “Ah, mi piace l’idea! È un carcere a vita!” “Continuo: - Dalla natura è stato fermamente stabilito che l’uomo e la donna si debbano unire. Ne consegue che tutti coloro che disconoscono questo cardine naturale, considerati dal punto di vista della madre natura, non sono che produzione imperfetta della natura stessa. L’uomo celibe non può essere giusto, né verso se stesso né verso l’umanità “Mi pare che esageriamo! Io non mi sento colpevole.” Mia sorella con il dito sulle labbra mi fa segno di tacere, poi aggiunge le parole: “Taci e ascolta! C’è un seguito.” - Perché per procurarsi agi e ozi, condanna, fa rimanere nubile una buona ed onesta fanciulla la quale, dal lato del diritto naturale, potrebbe elevare su di lui le sue pretese. Agendo così, priva se stesso di quell’occasione che lo condurrebbe allo sviluppo intellettuale, morale e spirituale che solo un’esperienza normale può procurare
ad ogni uomo. Egli lascia impoverire il suo cuore e il suo cervello e soffoca i più eletti sentimenti della sua anima. Intervengo. “Hai mai ascoltato le urla dei nostri vicini e poco dopo hai visto scappare lui, rosso in faccia, con i capelli ritti, e dietro la moglie con la scopa in mano?” Sorrido, ma più che un sorriso è un ghigno. “Perché non mi sposo? Secondo le tue teorie, posso diventare un uomo piatto e vuoto, una specie di ritardato.” “Certo, fratello: il matrimonio ha, come tutte le istituzioni umane, i suoi vantaggi e le sue delusioni!” “Qui ti voglio!” “Per questa ragione si dovrebbe procedere con cautela nella scelta di una compagna.” “E come si fa?” aggiungo costernato. “Non ti scoraggiare, l’autore dice anche come si riconosce il vero amore.” “Io non mi scoraggio, non ci provo nemmeno!” -Se volete sapere come si fa a riconoscere il vero amore, pensate che esso porta l’immagine del silenzio. In una leggera stretta di mano, in uno sguardo amoroso, vi è molta più eloquenza che nelle stesse parole. Le parole servono spesso a nascondere i veri sentimenti “E se io interpreto male lo sguardo, oppure la ragazza è strabica?” “Sono guai.” “Ti ringrazio per la lettura, cara sorella, ma non ci credo e penso che chi ha scritto il libro sia un uomo di altri tempi, con idee fisse e stereotipate, e non può conoscere la realtà odierna.
Oggi è molto diverso, le grandi scoperte hanno fatto sì che la vita sia più movimentata, ora si va all’estero e ci sono mille possibilità di incontri! Le donne non sono più sottomesse e non devono necessariamente dipendere da un marito. E poi ti voglio dire che la moglie viene a noia in fretta a tutti, quando non accade di peggio, ma non tutti dicono la verità, perché è vergogna mettere in piazza i fatti e gli affetti mancanti di una famiglia! E che mi dici della suocera che, in qualche modo, sarebbe presente nel mio ménage? Parlando seriamente, il matrimonio è qualche cosa che coinvolge profondamente il nostro io, l’esperienza affettiva che dura a lungo con tutto il carico di emozioni, ma anche di difficoltà e diversità di vedute, di carattere, è talmente potente da trasformare la vita, ci vuole pazienza, tanta pazienza per non ferirsi uno con l’altro. Non voglio perdere la mia libertà! Perciò ti ringrazio, per ora scanso il pericolo, ciao, sorella!” Vado via più dubbioso e scettico di prima. Ma innamorato no, mai! Sono troppo giovane! Io non sono pronto per l’amore eterno. “È una pazzia legarsi per sempre!” Detto tra noi, non mi dispiacerebbe farmi amare senza amare, senza tormenti senza melanconia. Io odio il matrimonio e tutte le convenzioni.
La mia giovinezza
Che bell’uomo è il dottore: alto, occhi azzurri, capelli biondi! Così mormorano le ragazze, quando o. Arrivato all’età di diciassette anni non avevo mai baciato una donna. Sì, le mie compagne di scuola erano affettuose con me, una poi, non ricordo come si chiamava, quando mi incontrava mi baciava sulle guance con lo schiocco, ma nulla di più. A farmi conoscere le donne intimamente era stata Marietta, la cameriera di casa, figlia di chi? Dicevano che era figlia di un carrettiere ambulante sempre ubriaco e morto alcolizzato, altro non sono riuscito a scoprire. Era molto piccola, capelli così ricci e crespi che rifiutavano il pettine, gli occhi marroni e dolci guardavano i padroni con fedeltà assoluta, il suo sguardo era simile a quello del cane cocker del nostro vicino. Portava sotto il grembiale dei sottanoni lunghi. Se uno gli domandava “dove hai preso la stoffa” rispondeva con orgoglio: - Questa è una stoffina svizzera - e con ciò il discorso era chiuso. Marietta in casa non sapeva fare un gran che, era povera in canna, non sapeva cucire o cucinare, ma solo ramazzare e lavare i pavimenti. Perciò il suo destino era segnato, non restava che fare la serva presso qualche famiglia della città e così fu. Che guaio nascere dalla parte sbagliata! Ma, attenzione, Marietta aveva un carattere particolare e direi invidiabile. Era un’anima semplice, simile ai semplici del vangelo. Lavorava dall’alba al tramonto, senza un lamento, mai stanca. All’epoca di questi avvenimenti aveva circa trent’anni, ma il suo viso era senza età. Possedeva una gran bontà. Se incontrava degli uomini cattivi, rimaneva un attimo stupita, poi rideva, rideva e
si piegava in due dalle risa. Non sapeva piangere, rideva della vita. Parlava con gli animali: cani, gatti, come se fossero persone. Portando sottobraccio il gatto a dormire nel garage, l’ho sentita dire: “O gatto, hai una faccia brutta che non mi piace per niente!” Il gatto, che aveva intuito, le diede un bel graffio. La gente la credeva un poco tocca, ma non era proprio così. Aveva per me una tenerezza particolare: una sera, rimasti soli, accadde. Ero in camera seduto sul mio letto, non completamente sveglio. Si è avvicinata sorridendo, mi ha accarezzato i capelli, poi mi ha baciato proprio sulla nuca, stava seduta dietro di me appoggiata alle mie spalle, una sensazione dolcissima e un languore mai provato mi impediva di muovermi e l’ho lasciata fare. Dopo questo episodio la mia fantasia si era popolata di donne. La notte con il capo affondato sul cuscino sognavo i seni di una donna, grande immensa, mi svegliavo da questo incubo, bagnato di sudore. Con gli amici, quando era sera, a volte mi recavo al bordello, laggiù, in via del Bugigattolo, un vicolo buio, umido, pieno di gatti, qualche topo strusciava lungo i muri, panni stesi gocciolavano da una parete all’altra del vicolo. Cercavo di non farmi vedere. Nessuna persona per bene si avventurava da quelle parti. La vergogna più grande era quando la maitresse mi riconosceva. “Dottore, che piacere vederla, le preparo un caffè?” Ero molto triste in quel periodo, non riuscivo a fare il medico come avrei desiderato. Avevo studiato tanto, la pila di libri posata sulla scrivania cominciava a essere coperta di polvere, conoscevo i sintomi delle malattie più importanti, ma non avevo chi curare.
La mia laurea stava lì, attaccata alla parete con una bella cornice, la guardavo e mi prendeva un’acuta tristezza. Ho ritrovato una vecchia foto di quei giorni, indossavo il camice bianco, come i compagni, seduto sorridente davanti al Policlinico. Ero molto giovane e innamorato della vita. Solo più tardi sono stato travolto dalle delusioni. Nessuno mi ha offerto una supplenza o un qualsiasi impiego. Il mio avvenire era come avvolto dalla nebbia.
L’arrivo
La nave sta rallentando, il mare è mosso. È trascorsa la notte, lunghe ombre oscure fuggono, è un’alba gelida. Mi affaccio dall’oblò, dove guardo non vedo che acqua. Salgo in coperta, chiedo al capitano: “Quando si arriva?” “Se il mare lo permette, verso mezzogiorno.” Le ore ano, ecco la costa selvaggia, alberi, scogliere, anfratti, poi la terra ferma si apre, in una insenatura. Il porto di Valona è di fronte a me. Guardare il mare mi piace: così limpido, quasi verde, vicino alle coste diventa viola, prima della tempesta. Ora siamo in porto. I gabbiani volteggiano numerosi, poi si buttano a picco tra le onde per afferrare i pesci. La nave accosta, un marinaio getta una grossa corda all’ormeggiatore che aspetta sulla panchina, questo con mosse rapide la fissa alla bitta. Viene gettata una scaletta, fatta di corde e con pioli di legno, scendiamo uno dopo l’altro, non siamo molti e presto ci ritroviamo tutti a terra. Un odore salmastro fatto di acqua stagnante mi investe. È un piccolo porto, un poco più indietro casette di legno una addossata all’altra, dipinte di vivaci colori, sono le case dei pescatori. L’arrivo di una nave è un avvenimento. Tutti corrono curiosi per vedere lo spettacolo, si accalcano, si spingono per osservare meglio da vicino queste persone, che provengono dall’altra parte del mare. Dappertutto ci sono barconi
di pescatori ormeggiati con le reti stese come vele e rotoli di grossa corda. Sul molo un rumore di freni: arriva una balilla dell’esercito, un ufficiale scende, è grasso, il viso tondo, anche la persona è un tutto tondo: la grassa pancia balla, ci viene incontro. Sotto i baffi un sorriso sciocco, sembra prenderci in giro. “Benvenuti, vi troverete bene qui, l’Albania per noi italiani è una seconda patria; vedrete, l’esercito è come una grande madre, vi protegge e vi accoglie. Non vi pentirete di questa scelta, la carriera militare esige disciplina, ma dà onori e sicurezza. Io medesimo ho portato qui la mia famiglia.” Le sue parole non mi convincono, sanno di falso. La sua divisa stinta e l’aspetto non curato, la barba lunga fanno una brutta impressione. Allarga le braccia, come per stringerci a sé, poi ci ripensa. Ha fretta di andarsene, prima che qualcuno faccia domande, sorride, si gira goffo, la pancia sembra ballare, rimonta in macchina. Addio, poveri soldatini. Che malinconia! Siamo lì fermi in attesa, vorrei tornare indietro! Sento su di me gli sguardi delle persone che si sono avvicinate, curiose. Capisco, facciamo spettacolo! Soldati italiani! Non ho un buon aspetto, a causa del lungo viaggio in treno fino ad Ancona e che treno! Il fumo della motrice impediva di affacciarsi, chi metteva il naso fuori del finestrino diventava nero di polvere e i vagoni lentamente, molto lentamente avano sferragliando sui binari. Sono tutto dolorante, la notte sulla nave, la cuccetta dura, per di più non ho dormito, pensieri oscuri, dubbi mi hanno tormentato.
Guardo intorno, sono troppo stanco, un camion grigioverde, con la bandierina italiana, ci aspetta. Osservo tutto, annoto, mi pare la scena di un teatro, ma i contorni sono confusi, ai miei occhi tutto è sfumato. Sullo sfondo vicino al molo scorgo un edificio: è un poco scrostato, forse il municipio, le altre case sembrano appoggiarsi una all’altra per sostenersi, imbiancate a colori vivaci, da lontano paiono persino graziose. Più lontano vedo ammassi di ancore arrugginite, anelli di ferro, tavole marce. Transitano molte vecchie bici, trasportano fagotti, una madre ha un bimbo legato con un fazzolettone dietro le spalle. a qualche moto. ano muli, li vedi per le strade carichi sino all’inverosimile, poi qualche asino, fa tenerezza, occhi miti e il muso bianco spruzzato di grigio. Un pescatore grida spingendo il suo carretto, dentro le ceste, pesce dai riflessi d’argento. Come a teatro, la scena sparisce. “Dottore, mi dia il suo bagaglio e salga vicino a me, starà più comodo” dice l’autista sceso dal camion. Un tipo gentile. “La borsa la prendo io e la mettiamo davanti, il bauletto lo sistemiamo dietro, sotto il tendone verde e marrone, sulle panche di legno siedono gli altri militari!” Un tentativo, due, il camion non parte, senza scoraggiarsi l’autista prende la manovella e via… il motore scoppietta. Il camion è rumoroso, le ruote scricchiolano balzando sulla strada. Minaccia pioggia, grosse oscure nuvole su di noi. Il mio lavoro è al nord del paese in una cittadina, Elbasan. Vedo scorrere le montagne rossicce e tra le pietre elci e pini si contorcono, cercando la luce. ano alcune ore di un viaggio faticoso per le strade piene di buche, nel frattempo mi sono addormentato e la mia testa sconsolata ciondola, seguendo le curve.
La pioggia battente colpisce rumorosa il tendone del camion. Non so quanta strada abbiamo percorso, dopo alcune ore il mezzo si ferma bruscamente, siamo arrivati. I monti non sono vicini, la città un poco più lontana è un agglomerato di case antiche. Ho sporcato la divisa, i capelli sono incollati e gli occhi mi bruciano, scendo stanco morto. Provo le gambe, sono irrigidite, ma reggono. Mi stropiccio gli occhi, non riesco a pensare, guardo intorno, come per fotografare l’ambiente circostante, vedo un edificio tutto bianco, appena ai limiti del bosco. Dietro la casa, la pianura si arrampica verso le colline ricoperte da vigne e più in là cupe e immobili montagne con un cappello di neve. L’autista: “Ecco qui la sua nuova casa, non le pare carina?” Lo fisso curioso. “Uh” mugolo. Due colonne ai lati della porta sorreggono un balconcino chiuso con due finestre, come si usa in oriente. In quel momento una voce mi chiama. “Dottore, sono così felice che è arrivato!” È l’attendente che si rivolge a me. È comparso all’improvviso. Devo dire che parla in modo poco comprensibile. Una voce profonda e stentata, le parole dovrebbero essere poi un misto di siciliano, italiano, condito con qualche parola, suppongo, di albanese. Ora guardo la casa. Mentre da lontano sembrava in buone condizioni, le cose cambiano quando mi inoltro, la casa è come una vecchia signora: più mi avvicino, più vedo le rughe, crepe sui muri, finestre sbilenche che stanno su per miracolo! Sono a pianterreno, mi affaccio alla porta sulla destra e un odore acre di disinfettante mi respinge, è l’ambulatorio! Non mi fermo, mi avvio per le scale, chiazze di umidità ai lati sulle pareti.
“Attenzione - dice l’attendente - i gradini sono un poco rotti!” Salgo come se avessi un gran peso addosso, i miei pensieri neri. Al piano di sopra la mia abitazione, che condivido con due colleghi ufficiali, loro sono arrivati prima di me dall’Italia. “Dottore, venga l’accompagno” dice con voce servizievole l’attendente. È un personaggio un poco speciale, originale e curioso, magro, molto alto, occhi tondi, neppure un capello in testa, le braccia ossute sbucano da una camicia color kaki, mi ricorda, non so bene perché, un’immagine di Don Chisciotte. Cammina leggermente curvo, come se gli interessasse guardare il suolo più che le persone o forse è un sognatore. Scopro più tardi il suo nome strano, Vimille, in principio non lo sopportavo, solo con il tempo ho capito la sua importanza e l’affetto che aveva per me, voleva proteggermi, come se fosse stato un padre. “Dottore, l’accompagno in camera!” Entro timoroso. La stanza a me destinata è priva di tutto, un letto di ferro, una coperta bianca, che certo ha conosciuto tempi migliori, un baule in un angolo. Un vecchio comò con tre piedi, il quarto sostituito da due mattoni messi lì a sorreggerlo. A lato un completo per la pulizia, un antico lavabo di ferro con bacinella, sotto la brocca, a lato un portasapone e sopra, miracolo, un piccolo specchio. La polvere del tempo si è posata prepotente sui mobili. Ho capito che Vimille è un disordinato. Che avvilimento! Unica forma di vita, un gatto nero che dorme acciambellato sul tappeto posto sotto al letto. “Come si chiama il gatto?” “Gastone, dottore.” Mi gratto la testa! La stanza è sporca, sembra quella di un povero, o di un eremita.
“Prendi i miei libri e posali sul comò.” “Va bene.” Dopo un poco sento un gran tonfo alle mia spalle, mi giro e vedo Vimille, che è caduto a terra e tutti i miei libri sparsi per il pavimento. Una disgrazia! Si china rapido per raccoglierli, ma alcuni fogli volano. “Lascia perdere! Faccio io.” Apro un vecchio comodino a lato del letto, non ne ho visto mai uno simile, la parte inferiore è chiusa con un foro tondo e un vaso bianco dentro. “Che cavolo è questo?” “Dottore, ma è una comodità, serve per fare pipì senza andare al bagno!” “Che schifezza!” “Se non l’adopera, ci può mettere il pennello da barba e il sapone.” “Lasciamo perdere!” “Vorrei fare un bagno, sono tutto sporco, è possibile?” chiedo costernato a Vimille. “Non si preoccupi, dottore, penso a tutto io.” Giù al pianterreno c’è una grossa tinozza di legno, servirà egregiamente come bagno. “E l’acqua?” “La butto addosso io con un secchio, non si preoccupi, la riscaldo.” “Ah, mi fa piacere!” Attendo un poco pensieroso. “Dottore - una voce dal pianterreno mi chiama - in cucina sopra la stufa c’è una
grossa pentola con l’acqua calda!” Scendo, vedo una grande mastella di legno, l’acqua è fumante. Mi spoglio, entro dentro, mi vergogno, sono nudo come un verme. Vimille dietro di me continua a buttarmi acqua e mi strofina le spalle. Anche se rustico e alla buona il bagno funziona. Un senso di benessere mi invade. Torno in camera: “Per favore, fammi avere un calamaio e una penna, vorrei scrivere a casa!” “Provvedo subito” risponde premuroso l’ometto. Il tempo di sedermi e l’attendente torna con il necessario per scrivere. Due parole per la mamma, perché non stia in pena, prima di chiudere la lettera mi sono accorto che due lacrime hanno bagnato il foglio. “Vedrà, con noi si troverà bene, questo è un posto tranquillo e i malati sono pochi.” “Ti confesso, d’istinto desidero tornare subito indietro a casa mia” borbotto poco convinto. “Dove sta il quartiere generale?” “Non molto lontano - risponde l’attendente balbettando - appena è possibile l’accompagno.” Con un grosso sospiro appendo la giacca ad un gancio. Dispongo meticolosamente i miei oggetti personali sopra un panno posato sul tavolinetto: un pennello da barba, un rasoio, il sapone e un pettine, vederli lì in ordine mi dà una certa sicurezza. Metto in ordine i miei amati libri, poesie si di Villon, Baudelaire, racconti di Gogol, la Divina Commedia, i Promessi Sposi li ho portati con me, sono la mia compagnia per le lunghe sere in un paese sconosciuto, da essi ricevo la forza di vivere!
Dietro ai libri, un voluminoso quaderno, è il mio amato diario. Mi sento meglio, respiro profondamente, “Coraggio, Gabriele - dico a me stesso - ora sei pronto per una nuova vita!” Do all’attendente la borsa professionale con i ferri chirurgici, lucenti forbici, bisturi, pinze, la maggior parte mai usati. “Mi raccomando, non li toccare, ti puoi ferire! A proposito non ci saranno mica i topi?” “Ma le pare, all’occorrenza abbiamo il gatto, è terribile e affamato, un cacciatore!” Avevo visto, appena arrivato, il camion militare fare un rapido giro e sparire veloce improvvisamente, anche se pensavo di essermi rasserenato, mi viene un dubbio e mi rivolgo all’attendente. “Se desidero andare da qualche parte, come si fa? Devo andare al quartiere generale e chiedere un camion? Oppure posso avere una vecchia moto o una scassata bici?” “Si figuri, dottore! - mormora indignato - una macchina ce l’ha solo il comandante e chi dirige il campo militare, venga, usciamo dalla porta del retro, faremo prima, avrà una bella sorpresa!” Vedo un giardino selvatico, erbacce, rose selvatiche, rovi, seguo Vimille a testa bassa, scontento di tutto. Guarda che bel tipo mi hanno assegnato! Una collinetta si alza alla fine del giardino e in cima una costruzione precaria, come se nel costruirla avessero avuto una gran fretta. “L’hanno fatta i soldati?” chiesi. “Sì, certo, ma venga, tenente.” Apre la porta, dentro tre stalle divise da pannelli, ci sono dei cavalli. “Eccoci qua, Stella - disse l’ometto accarezzando il muso di una cavalla - è arrivato il tuo padrone! Nitrisce, ha capito!”
Al muro è appesa la sella e i finimenti. La cavalla mi guarda con occhi umidi di devozione, lei è sola come me. Gratta il terreno con uno zoccolo. Ha una stella bianca in fronte, che bello! Mi avvicino, poso la guancia sul suo lungo muso, è morbido e umido. Finalmente, qualcosa di vivo e piacevole in questo paese! La sua presenza mi consola. Con lei farò delle belle eggiate.
Il mio secondo giorno
Sono le sette di sera, ho una certa fame, sono invitato a cena a casa del capitano, mi vuole conoscere. Abita non molto lontano; la casa, una villetta bianca, circondata da un alto muro, sorge a metà costa della collina. Per arrivarci bisogna percorre un lungo vialetto ombreggiato dai faggi. “Accompagno lei e i suoi colleghi - dice l’attendente, cammina incerto sulle gambe, sembra preoccupato - vi prego, seguitemi.” I miei compagni, credo di capire, sono un ufficiale napoletano addetto alla logistica e un tenente triestino. Apre la porta vicino alla mia stanza e li chiama. “Signori ufficiali, volevo farvi conoscere un collega venuto dall’Italia.” Me li trovo di fronte all’improvviso, già vestiti in uniforme. “Benvenuto, mi chiamo Edoardo” mormora quello moro, il meridionale, sorridendo. Lo guardo, non mi piace. Una di quelle sensazioni che non sai spiegare. Quel tipo ha un sorriso accattivante sotto un paio di baffetti neri, capelli impastati di brillantina, l’impressione è che sia un presuntuoso, uno di quelli che sanno tutto. L’altro, il triestino, è un ragazzo simpatico, ha i capelli biondi come una pannocchia matura e il viso pieno di efelidi. Quando mi vede fa un largo sorriso, che gli illumina il viso. “Sono Giorgio.”
Quei due non potrebbero essere più diversi tra loro. “Veniamo con lei, siamo invitati.” Camminiamo spediti, ho fame, Vimille saltella dietro a noi, ogni tanto inciampa sui sassi, poi bestemmia. Noi non parliamo, si ode solo il rumore dei i. È l’ora del tramonto, nel cielo la luna e pallide stelle, ci affrettiamo in silenzio, in fila evitando le pozzanghere, ai lati una siepe di biancospino, i fiori profumano di primavera. Là, al disotto, nella valle, scorgo tante casette bianche con il tetto rosso tutte in fila, al centro una costruzione più grande circondata da un muro. “Cos’è?” chiedo. “È l’accampamento dei soldati italiani” mi rispondono. “E gli ufficiali dove stanno?” “Quelli sposati nella palazzina in fondo, con le famiglie, gli altri sono distaccati.” Camminiamo ancora. La casa del comandante si trova a poca distanza, non lontano dall’accampamento, è costruita più in alto, in pochi minuti arriviamo. Mi sono vestito con l’uniforme militare grigioverde con le spalline di fili d’argento intrecciati e le stellette, porto il cappello sotto braccio. L’inserviente ci apre la porta di casa, una vistosa targa di ottone porta il nome e i titoli del padrone. “Benvenuti, il capitano vi aspetta!” Ha dei tratti orientali e indossa una giacca militare e degli ampi calzoni bianchi stretti alle caviglie come usano i turchi. Dalle stanze di sopra vengono rumori confusi e, a tratti, scoppi di risa. “Signori ufficiali, accomodatevi: il capitano e la signora vi aspettano.”
Saliamo una ripida fila di scale in legno, un poco buia, in cima al pianerottolo c’è una porta aperta, da lì viene il chiasso. Una sagoma scura maschile si profila, è il comandante. Ci accoglie dandoci una amichevole pacca sulle spalle. Qualche o verso di lui, mano alla visiera, saluto alla maniera militare, battendo i tacchi. “Niente formalità tra di noi, siete miei ospiti!” Il comandante si muove rigido, da vecchio militare. Lo osservo, il viso contornato da una breve barba, solcato da numerose rughe, in cima al capo pochi capelli rossi, è enorme, grandi spalle muscolose strizzate in una uniforme. Ha un sorriso buono. Tutto sommato il mio capo non dovrebbe essere male. “Volete bere qualche cosa? Venite con me, una bevanda vi riscalderà.” Ho appena finito di bere un aperitivo, che si rivolge a me: “Lei è nuovo di qua, non conosce usi e costumi di questa gente! In principio sarà dura.” “Imparerò.” “Vuole visitare la mia casa? Venga, gliela mostro.” “Non era così quando sono arrivato, era una antica casa costruita senza sicurezza da maestranze locali, ho fatto consolidare le mura e rivestire i pavimenti con il legno di queste foreste e ora danno un senso di calore, qui infatti l’inverno è molto freddo!” Il salottino dove entriamo è accogliente, ma confuso, luci, colori, tutto sembra girarmi intorno. La sala, le tende di velluto rosso alla finestra filtrano la luce, dando alle cose un’atmosfera irreale, che mi rimane nella memoria.
Avanzo. Il pavimento, fatto di tavoloni di legno, geme sotto i miei stivali, come se si lamentasse. Poi, la sala da pranzo e piccole stanze. “Le piace la mia casa?” “Mi sembra bella! Ha un carattere particolare, ogni stanza sembra raccontare una storia.” È in quel momento che incontro quella che sarà la donna più importante della mia vita. Non c’è molta luce, entro esitante guardando bene dove mettere i piedi. Appena entrati, nella penombra del salottino la scorgo. Il capitano: “Le presento la mia signora!” Lei, la moglie del comandante, sta seduta sul divano in compagnia della sua bambina, sotto un grande ritratto di Pio IX benedicente. Parla con la figlia. Attratto da quella voce, dolce e sommessa, mi avvicino. È curiosa, parla agitando le mani e scuotendo i capelli folti, con tanti riccioli color delle castagne. Meccanicamente, appena mi scorge, si mette a lisciare l’abito sulle ginocchia. Alza lo sguardo e mi sorride. Anche se nelle presentazioni sono sempre un poco impacciato, mi avvicino inchinandomi e le bacio la piccola mano, che è poco più grande di quella di un bambino. Si forma immediatamente un ponte di simpatia tra lei e me, che vengo da lontano. Le sue manine poggiate nelle mie grandi mani. L’osservo. Pallida, un viso minuto, i capelli ribelli ondeggiano al movimento del capo, gli occhi grandi e nocciola, dolci. Ha la faccia di una bellezza antica, come le
madonne dipinte dai pittori del Rinascimento. Mi guarda curiosa, ride. “Felice di conoscerla!” Avverto qualcosa dentro di me, non saprei, forse un calore. Deve essere giovane, molto più giovane del marito. Quando sorride, due fossette si formano sulle guance. “Ora che sono arrivati, caro - dice la signora - possiamo andare tutti nella sala da pranzo.” Quando si alza in piedi la vedo bene, è piccola di statura, quasi una bambola. Io, in confronto, con la mia altezza di un metro e novanta, sembro un gigante. “Semia, porta il pranzo” si rivolge alla cuoca, un donnone con un fazzoletto legato in testa. Nel divano vicino, diverse signore, penso mogli di ufficiali, mi guardano e ridono, qualcuna mi saluta con la mano, non ho tempo di avvicinarmi, il pranzo è pronto. Sorridono e bisbigliano, credo che siano commenti tipicamente femminili. Seduta in una poltrona, composta, vestita di nero, una giovane donna, sembra uscita da una rivista fine Ottocento, è sola e sta in silenzio. “Chi è?” chiedo al triestino che mi sta vicino. “È la maestra del paese, si chiama Irina, carina, non è vero?” Da come lo dice, si capisce che ha un certo interesse per lei. “Ma è albanese?” “Mista, la madre era greca!” Ammutolisco, è ora di mangiare.
Arrivano i vassoi. Un odore di spezie si diffonde nella stanza, forse è cannella o curry. Vedo are dinanzi ai miei occhi un vassoio profumato con oca in umido, un altro con patate, ho fame, tanta fame! Ci siamo seduti su due panche ai lati del tavolo, solo il comandante e la signora hanno delle seggiole, vicino a loro un notabile albanese, molto impacciato. Mi butto sul cibo avido, bevo un vino frizzante, forse ne bevo troppo. Ricordo confusamente Gli occhi del capitano si posano su di me. “Perché è venuto in Albania?” mi domanda a bruciapelo. Rispondo vagamente, sono geloso della mia vita. Ognuno ha diritto ai suoi segreti. La moglie mi accarezza con lo sguardo. “Ma perché mi guarda così?” sono imbarazzato. Certo, con la divisa so di fare un certo effetto. “Si annoierà qua, non avrà conoscenze e probabilmente non conosce la lingua” dice il comandante. Dalle presentazioni ho capito che la moglie si chiama Catena. È un nome molto strano e inusuale, non si trova nell’elenco dei santi del calendario e in nessun lunario. Chiedo alla signora: “Se non le sembro indiscreto, perché questo nome?” “Non le piace?” “Sì, ma è inusuale.” “Lo portava mia nonna - risponde - è un nome siciliano, laggiù esiste anche una Madonna, detta della Catena, poi mi ci sono affezionata - e sorride dolcissima -
sono ventidue anni che lo porto!” Detto questo, comincia a fissarmi più di prima, mentre io mi agito sulla seggiola, una bambola un poco curiosa! “Cosa naturale - penso - qui si annoiano tutti!” Inequivocabile sotto al tavolo la pressione complice di un piedino, il suo piedino, la guardo, mi sorride, mi brucia il viso, sono diventato rosso. Mi agito sulla sedia, come fossi seduto su degli spilli. Intorno a me i soliti noiosi discorsi. Il capitano vuole sapere che novità ci sono in Italia. “Ho sentito parlare delle grandi opere del fascismo, strade, bonifiche, ordine, la marcia su Roma ha fatto grande l’Italia!” “Io ho l’onore e il privilegio di comandare le truppe qui ad Elbasan.” “Oggi è qui, in terra straniera, il cuore dei soldati d’Italia batte maggiormente.” “L’Italia ha mire espansionistiche in questo paese! - rispondo - specialmente ora che c’è il fascismo.” “Vede, giovanotto, è da innumerevoli anni che l’Italia ha degli stretti legami con questa terra, possiamo risalire al tempo dei romani.” “A proposito, lo sa che gli archeologi del regime, scavando hanno scoperto una città romana chiamata Butrino?” “Abbiamo gli stessi antenati. Romani e Greci lungo le coste.” “Ma re Zog - aggiungo - che ne pensa di questa protezione?” “Lui è astuto, sa che per reggersi ha bisogno di noi e noi abbiamo bisogno di lui.” “Se rinuncia la protezione e fugge magari nella vicina Grecia?”
“Non credo, caro giovanotto, lei mi pare un poco scettico!” Ostento indifferenza, non posso parlare liberamente. E anche gli altri presenti sono d’accordo con lui su quella linea politica. Ora posso solo pensare. Mi viene in mente il mio fratellino, il più piccolo della nidiata, che fa le elementari, lo rivedo sfilare in divisa da balilla, non so che cosa pensasse, troppo piccolo per reggere un fucile di latta, mentre sfilava ho notato le caviglie gonfie. Altri ricordi mi vengono in mente, ma non oso parlare. Va bene che sui muri ci sono tante scritte del genere “NEI CAMPI LA VITA” e il Duce si fa fotografare con un fascio di grano durante la mietitura, ma la condizione dei contadini, anche sotto il fascismo, non è molto cambiata! Intorno a me parlano di argomenti vari. Sono distratto dai ricordi. Rammento le parole di Menco, il mio amico contadino. I fatti che mi raccontava erano accaduti durante le visite del Duce nelle campagne. Quando arrivava lui, Dux, era in genere d’agosto, la stagione più bella, con i gerarchi in visita ai poderi. I fascisti, aiutati dai contadini, lo precedevano con dei camion ripieni di bianche vacche e vitelli, scaricavano le bestie e le disponevano in fila nelle stalle. Non appena finita la visita, gli animali venivano caricati di nuovo in fretta e fatti ripartire, destinazione la prossima stalla da visitare. Tutto prima che arrivasse il Duce. Le bestie erano sempre le stesse. “Come ti sei accorto del trucco?”
“Ho notato che una zoppicava leggermente e un’altra aveva un corno mozzato!” Sembra una barzelletta! “No, è tutto vero!” È una delle tante falsità del regime! “E il re cosa fa? Come sono i suoi rapporti con Mussolini e la Chiesa?” Faccio finta di non capire. Avrei dovuto rispondere, ambiguamente. Si cambia argomento. Un ufficiale, che sinora è stato silenzioso, tiene in mano un vecchio giornale. “Lo sapete che c’è scritto? In Inghilterra le suffragette rivendicano il potere alle donne?” Alcuni ridono. “Mi sembra prematuro” esclama il capitano. Un impiegato si alza in piedi per dire la sua, sarà che ha bevuto, è rosso in viso! “La donna è stata creata per piacere all’uomo!” declama, con il bicchiere in mano. “La moglie - seguita - deve essere l’angelo della casa e tutti i suoi interessi devono concentrarsi esclusivamente sul marito e i bambini. La compagna ideale deve osservare continuamente quale sia l’umore del marito e la sua disposizione spirituale. Ma i suoi doveri non finiscono qui: deve amministrare e dirigere accortamente la casa, poiché la vita è piena di noie e difficoltà, mostrandosi una compagna lieta, quando il marito ha bisogno della sua presenza, adoperando il suo fascino per essere un’amante calorosa! Altro che politica!” “Hai finito! - dice il mio collega Giorgio - parli come una vecchia comare!” Si alza un ufficiale e continua lo sproloquio: “Vedete, le donne sono deboli per carattere, tranne poche eccezioni, piangono per nulla, allora bisogna farle piangere, la natura si deve sfogare in qualche modo e poi, se non trovano marito,
prese dalla malinconia si intristiscono e si ammalano!” Giorgio: “Ma fammi il piacere, sta’ zitto, ogni volta che parli dici una cojoneria!” Un altro ufficiale prende la parola, il suo intervento è una specie di sermone: “Il sesso maschile non avrà mai i privilegi che hanno le donne, noi si deve sempre lasciare il o nei locali pubblici, raccogliere il fazzoletto, quando cade per terra, talvolta fare l’inchino, cosa importantissima, non fanno il soldato; è comodo aspettare a casa!” “Ma le donne partoriscono con dolore!” afferma un ufficiale. Gabriele: “Direi piuttosto che se osano uscire da quel limbo di affetti dove la società le ha confinate, sono guai per tutti, ma soprattutto per loro stesse. Dovranno incominciare a lavorare negli uffici, nelle fabbriche, solo con il lavoro si conquista l’indipendenza. Qui, ma anche da altre parti, molte donne sono sfruttate e costrette all’ignoranza, basti pensare che l’ottanta per cento sono analfabete, quando sono piccole i genitori invece di mandarle a scuola, le mandano nei boschi a guardare le greggi, calzano zoccoli e hanno pochi stracci per ripararsi dal freddo. Ci vorranno anni di lotta, di incomprensioni, ma poi si vedrà il loro valore! Cortei, manifestazioni servono a poco!” Il capitano: “Soprattutto se interviene la polizia e le sbatte in galera!” “Le cose cambieranno - dico io - se daremo un posto di lavoro alle donne che lo desiderano.” Ride e sogghigna un altro militare. “Ma va’!” “I gruppi di suffragette in Inghilterra sono formati da tante zitelle arrabbiate.” “Ma no, da noi, solo le mogli hanno licenza di urlare!”
“Chiedo scusa alle signore presenti!” “Beviamo, un brindisi alla salute delle donne! Il vino riscalda!” Un pivello giovane, giovane: “Aiuta l’amore!” Le signore tacciono. “Smettiamola!” “Viva il capitano e i suoi pranzi!” Una pausa, tutti continuano a bere. “Voi siete venuti qui, in questa terra per aumentare il prestigio di una patria grande e influente sui Balcani. L’Albania è ora un problema, cari colleghi. La Grecia tende ad annettere le regioni meridionali, come parte dell’Epiro e noi protestiamo! L’Italia infatti, come sapete, ha raggiunto con re Zog un patto di alleanza e protezione, questo piccolo stato da solo non ce la farebbe.” Ora il capitano parla, è commosso, la voce è bassa quasi sommessa, non ha più il tono ufficiale. “Mi preoccupo molto per i miei soldati, tengo particolarmente a loro, li conosco uno per uno. La patria ha bisogno di uomini che facciano il proprio lavoro e anche noi ufficiali dobbiamo farlo. So che molti di voi hanno una nostalgia accorata dell’Italia, ma dobbiamo aver pazienza ed essere operosi, un giorno la rivedremo e torneremo fieri di aver compiuto il nostro dovere. Io, dalla mattina alle otto alla sera, sono al lavoro, mi occupo dei miei ufficiali, di tutta l’organizzazione, insomma mi adopero perché tutto vada bene.” “Un ufficiale forse si dovrebbe riposare un poco di più e stare attento alla sua salute!”
“La mia salute è l’esercito!” risponde. Rimango pensieroso. Si è fatto tardi, la signora si alza da tavola. Il capitano chiede: “Cara, perché non ci canti qualche cosa, una canzone della tua terra, io mi metto al piano.” “Canterò per voi uno stornello napoletano.” Ascolto. Catena ha una voce forte melodiosa, canta con ione e nostalgia. Non so perché, mi viene in mente il canto di un usignolo. Applausi calorosi. Poco dopo, la moglie del capitano saluta tutti con un sorriso e scompare leggera. I suoi i non fanno rumore. La conversazione diventa monotona, la mia curiosità è rivolta solo a lei. È una donna interessante, diversa. Le altre signore si alzano e se ne vanno, le seguo con lo sguardo, piccole streghe maldicenti. Irina è sparita silenziosa. “Ora che siamo soli vi farò una sorpresa - annuncia il comandante - seguitemi in salotto, qui vicino.” Andiamo, ci spinge il coraggio della curiosità. Qualcuno pesta i piedi del vicino. Che sarà mai? Il comandante apre una porta, la porta del mistero. Entriamo in un salotto un poco oscuro, libri ammassati dappertutto e tanta polvere. In fondo alla stanza noto un mobile strano. È alto poco più di un metro, di legno chiaro, chiuso da due sportelli con maniglie nere.
“Cos’è? Un mobile bar?” “Ora vedrete” dice il comandante. Apre gli sportelli e appare una fitta griglia nera, sopra è applicato l’emblema di un fascio d’argento nel legno, al disotto due manopole nere. “Un fonografo!” esclama un ufficiale. “No, è una radio! Una delle poche, forse l’unica in Albania, l’ho comperata a Trieste.” Ci spingiamo, per vedere bene. Il capitano gira le manopole, dapprima sibili e fischi, poi una voce di donna dolce si espande nell’aria. “È una voce di angeli!” esclama uno dietro di me. “Viene dall’Italia, incredibile” mormoro commosso. Torniamo in salotto. I discorsi continuano sino a tardi. La piccola stanza illuminata da un lume ad acetilene si riempie di fumo, che sale al soffitto e copre le stampe militari che ornano le pareti. L’odore acre del tabacco si diffonde nell’aria, la corrompe e la inquina. A quel punto desidero tornare nella mia stanza, chiamo Vimille e torniamo a casa.
***
Oggi è venuta a trovarmi all’infermeria la signora Catena. Diritta, vicina alla porta, mi fissava immobile. “Entri, la prego, sono felice di vederla!”
Le tendo la mano. “Mi sento poco bene.” La guardo, è pallida, ma ancor più affascinante, vestita di nero sembra piccola e fragile. Potrebbe ammalarsi in un clima così freddo, penso, siamo circondati da alti monti e poco distante ci sono le foreste. “Scusi, ma posso chiamarla Katy?” Le ho dato un ricostituente a base di olio di fegato di merluzzo, è cattivo ma serve a meraviglia per tutti i deperimenti. Catena è bella, ma una certa inquietudine traspare dal viso, gli occhi cambiano colore secondo la luce. È una donna molto seducente. Prima di uscire, ha posto la mano sulla mia, sono rimasto turbato, era così vicino che la potevo sentire respirare. Ha un profumo di violetta. Credo di essere arrossito! Ha detto che tornerà. A proposito, qui in infermeria non ho quasi nessun medicinale, ho mandato Vimille con una lunga lista scritta in farmacia. È tornato con poche cose: aspirina, chinino, olio di ricino e un’erba chiamata artiglio del diavolo. “E questa che cosa è?” Vimille si è stretto nelle spalle: “Il farmacista mi ha detto che serve per i dolori reumatici.” “E le altre medicine?”
“Arriveranno, basta aver pazienza!”
Lettera alla sorella
“Cara sorella, come stai? È molto tempo che non ho vostre notizie, la mamma è in salute? Dille che la penso sempre e che le voglio tanto bene! Come è possibile vivere senza le cose e le persone della nostra vita! Comunque qualche cosa di buono c’è anche qui! A parte l’attendente, che è un tipo tutto particolare e ogni tanto me ne combina una, ieri mi ha lavato i panni poi li ha stesi su di un filo sopra la concimaia della stalla! Mentre scrivo, sale dalle scale un buon profumo di cucina, dovresti vedere la cuoca: ti faresti una risata! È grossa, indossa una lunga veste nera con stivali neri e una cuffia bianca in testa come usano le albanesi, sorride sempre, solo se scendiamo troppo presto, spinti dalla fame, scosta la tenda, che divide dalla cucina, e appare tra i vapori delle pentole e ci minaccia con un grosso mestolo di legno. Nelle mie eggiate mi dirigo verso i monti, questi luoghi sono selvaggi, qui la natura è immobile, oscuri abeti danno ombra, cammino tirando calci ai sassi, questo è il paese delle aquile, ma sinora non ne ho vista una. Non ci sono campi di girasoli come da noi, grandi corolle gialle alzate verso il cielo, dove giocavo da bambino. Scusami per questo sfogo! Se puoi, inviami qualche libro di poesie, e quello che trovi nel tavolo del mio studio! Ho nostalgia dell’Italia e di tutti voi! Scrivimi presto!
Un bacio. Tuo Gabriele.” Aperto sul mio tavolino, mi aspetta il mio diario. Caro diario, proprio ora che avrei cose interessanti da raccontarti forse ti tradirò, non ti arrabbiare, scriverò sempre su di te, le mie ansie, le mie ioni, quello che ho di più intimo. Sfioro i fogli con le mani, carta. Carta come sei preziosa, bianca e trasparente. Ora ti spiego. Mi hanno promesso in prestito una macchina da scrivere che sta in ufficio, così potrò fissare i miei racconti. Tu sai che mi piace raccontare della mia campagna e della vita dei nostri contadini. Certo, lo faccio quando sono libero dal lavoro. E poi questi racconti li manderò ai giornali italiani, se vorranno pubblicarli. Ora ti chiudo, diario, ci vediamo domani.
***
Oggi mentre uscivo per una eggiata, ho incontrato di nuovo la signora, la scorgo seduta sotto l’ombrello di un albero secolare, una immensa quercia. Questo pianta è così grande che non basterebbero le braccia tese di tre persone per circondarla in un abbraccio, tra i suoi rami fanno il nido tanti erotti. Signora quercia, coprici con la tua ombra e proteggici. Catena gioca con la figlioletta di pochi anni, mi ha fatto cenno di avvicinarmi. Indossa un buffo cappellino con fiori e spighe di grano, questo impedisce ai suoi occhi di riempirsi di sole. Mi ha invitato a sedere, mi sono accovacciato sull’erba incrociando le gambe. Lei mi guarda in un modo strano, con insistenza e ammirazione.
Sono un poco curioso ma anche contento, faccio buona figura, un certo successo con le donne fa piacere! Dicevo che sono preoccupato perché, quando la vedo mi, comporto in modo illogico e strampalato: divento rosso e balbetto, cosa strana per me. “Tenga, questo è per lei, tenente - dalle sue mani spunta un pasticcino - li ho fatti io, spero le piacciano!” Per la verità, è lei che mi piace molto! Quella sua aria misteriosa e dolcissima mi attrae indicibilmente! “Tenente, lei è arrivato da poco in questo posto maledetto, qua io sono sola, anche se ho un marito e una figlia, mi lasci parlare senza interrompermi.” Faccio cenno di sì con il capo, ma per l’imbarazzo non so dove guardare. Sono rimasto muto, ascolto. “Pensi, l’ho sposato che avevo diciotto anni!” E qui comincia il racconto, è come un fiume in piena. Un giorno, qualcuno bussò al nostro portone. Le cose si svolsero all’incirca così. Toc, toc, mamma va ad aprire. Io mi nascondo dietro la porta della mia camera, lasciandola socchiusa per cercare di vedere. Un uomo alto e grosso, di mezza età, si profila occupando tutto il vano della porta. “O capitano, che piacere vedervi, accomodatevi! Posate il capello - lo conduce nel salottino - sedetevi vi prego, gradite un goccio di rosolio o un bicchierino di Strega?” “No grazie, non bevo.”
“Ma allora gradisce un tè?” “Dopo, dopo ci sarà tempo.” È molto imbarazzato, si lascia cadere nella poltrona. “Per favore signora, ascoltatemi, vi devo parlare di una cosa molto importante aggiunge - vi meraviglierete per ciò che sto per dirvi!” Il capitano è arrossito, si agita, come se fosse seduto su acini di granturco, come quelli su cui mi faceva inginocchiare la maestra quando non facevo i compiti. Incomincia a parlare. Mamma, tutta orecchie, ascolta attentamente. “Ho conosciuto la vostra graziosa figlia, un fiore appena sbocciato! Io ho una certa età e vorrei formare una famiglia. Sono un poco anziano, ma ho una buona posizione e pochi grilli per la testa! Insomma la vorrei sposare!” Disse questo tutto d’un fiato, poi si rilassò asciugandosi la fronte con un fazzoletto come se avesse fatto un’immane fatica. “Vi meravigliate? Per un uomo non è mai troppo tardi per sposarsi!” Così parlava il capitano, ma dentro di sé rifletteva, sono giunto a questo dopo tanti dubbi, per la mia carriera sarebbe stato l’ideale una ereditiera, ma non è facile trovare una simile occasione. “Lei, signora, che mi risponde?” “Non me lo aspettavo, sono molto contenta della sua proposta, ma devo parlare con la ragazza, è affettuosa e anche un poco capricciosa, con un po’ di buona volontà e carezze, data la sua età può essere facilmente guidata.” Guidarmi, però, era la cosa più difficile, tanto che mia madre mi mandò a studiare in un convento di suore Venerine. Rimasi lì per circa un anno, poi un giorno accadde che le monache mi trovarono insieme a tre o quattro collegiali a leggere di nascosto, mentre eravamo a letto, al lume di candela, un libro all’indice: “Figli e amanti” di Lawrence.
Scandalizzate, bruciarono il libro e poi mi mandarono via, potevo corrompere le mie compagne! Ma questo mamma, al capitano, non lo disse. So di essere bella, ma per molti anni sono stata insignificante, giocavo con i maschi a pallone e non potevo soffrire le bambole. A circa dieci anni ho cominciato a studiare piano e canto, ma non ne avevo la ione, dopo un poco ho smesso. A quindici ho cominciato a migliorare, avevo le prime curve, la pelle era diventata bianca e rosea, gli occhi più grandi e luminosi. Ho iniziato a are molto tempo davanti allo specchio facendomi i riccioli, ero, insomma, vanitosa, ma non mi sono mai innamorata. Ascolto la voce di mia madre che dice: “La mia è una cara figliola, mi dispiace molto separarmi da lei, ma lo faccio per il suo bene, per il suo avvenire.” “Sono d’accordo, ora se volete posso gradire un tè.” Ma certo è una buona idea! “Devo confessare che non ho i soldi per la dote! In compenso ha un bel corredo la mia ragazza, dodici paia di lenzuoli, dodici asciugamani, dodici fazzoletti, dodici mutande, eccetera, tutto ricamato dalle monache!” “Non mi importa della dote e nemmeno del corredo!” Da dietro la porta potevo vedere la nuca del capitano, aveva molti capelli bianchi. “Devo sposare un vecchio!” Il colloquio finisce, la mamma lo accompagna alla porta, lui la saluta con un leggero inchino. “Mi raccomando, signora, la mia felicità è nelle sue mani!” La sera nella mia camera la mamma mi dice: “Devo dirti una cosa importante, il
capitano Lorenzi mi ha chiesto la tua mano, è un’occasione importante per te!” “Vuoi sbarazzarti di me? Io non ci penso nemmeno, sono troppo giovane e lui è troppo vecchio per me!” Ero una ragazza che viveva di sogni. La vita per me, allora, era un’avventura affascinate da viversi giorno per giorno. “Ti voglio bene e proprio per il tuo bene ti consiglio di accettare. Cosa farai? Non sai che ricamare o suonare il piano. Come pensi di vivere? Le signorine di buona famiglia non lavorano!” Mi sono sposata che non lo conoscevo per niente, ma perché, maledizione, l’ho fatto! Una sistemazione, mai sentita parola più sciocca!
Il matrimonio
La chiesa è gremita, le candele accese, i bianchi fiori, posati sull’altare, sono una gioia degli occhi. L’organo comincia a suonare, la musica vola nell’aria solenne. C’è odore di incenso. Avanzo nella navata principale, una bimba mi regge lo strascico. Guardo innanzi. o tra due ali di folla, le gambe sono incerte. Sono contenta che mi ammirino, il mio vestito da sposa è veramente bellissimo, e io sono vanitosa. La messa comincia, non seguo la funzione, distratta da mille pensieri, aspiro l’odore dei fiori, gigli bianchi, guardo gli angeli dorati al disopra dell’altare. Una domanda del prete risveglia la mia attenzione. “Vuoi tu, Catena, sposare il qui presente capitano Lorenzi Carlo, assisterlo nel bene e nel male finché morte non vi separi?” Lo guardo inginocchiato vicino a me. Domanda molto difficile! Non so che cosa rispondere! Mi giro, guardo mia madre seduta in prima fila, mi sta facendo cenno di sì con il capo. Obbedisco automaticamente. “Sì, lo voglio.” Alla fine della cerimonia esco e mi guardo intorno, mi pare che tutti mi osservino con comione, una così bella ragazza, sposare un uomo anziano e
anche insignificante. Fuori dalla chiesa una pioggia di riso, getto il mazzolino di fiori, spero che lo prenda una ragazza e che sia più fortunata di me. La mia casa è una bella villetta in stile liberty, alla periferia di Padova, con fiori e angioletti scolpiti sopra le finestre, nella sala teste di medusa in gesso adornano gli angoli, lì sono cresciuta e vissuta sempre. Il tempo è dolce, una leggera brezza muove le cime degli alberi. Il ricevimento per le mie nozze è fuori all’aperto sotto una grande pergola di glicine fiorito, piccoli tavolini sparsi nel giardino. La mamma con un ridicolo cappellino ornato di un erotto, ava da un tavolo all’altro per parlare con gli ospiti. Io, confusa, bevo champagne. Lo champagne frizzante mi dà una specie di allegria. Troppo presto è giunta l’ora di andare al treno, il distacco doloroso, bacio tutti per prendere tempo. Mio marito ha preso la mia mano e mi ha tirata via. Quando mi sono avvicinata alla stazione, ho provato un’angoscia fortissima. Come è terribile lasciare la mia casa, mia madre, le amiche! Il treno era in stazione, sbuffava pronto a partire, io piangevo, la mamma tra le lacrime sventolava un fazzoletto. Sono rimasta affacciata al finestrino fino a che le figure dei miei genitori si facevano sempre più piccole, sino a scomparire. Io che non ero mai stata fuori dall’Italia, lontano dalla mia famiglia, strappata alla mia vita di sempre. Andavo incontro a una vita ignota, in Albania, un paese conosciuto solo di nome e tremendamente lontano, al di là del mare nostro.
Ancora oggi sono indicibilmente presa dalla nostalgia. Sogno la mia città, le piazze, i vicoli, le fontane, le chiese che diventano rosa al tramonto. Muoio di tristezza!” Mi guarda. “Sono infelice, molto infelice, l’ho forse annoiato con la mia storia?” “No.”
Quel che pensa il marito
Il matrimonio, come ricordo, è stata una cerimonia semplice, ma la gente era troppa, non vedevo l’ora di abbandonare parenti e invitati. Ho detto ai presenti: ecco la mia mogliettina, guardatela, ha le guance di pesca e gli occhi assassini. Le stringevo la vita, ero fiero della mia conquista. Che noia le chiacchiere! Discorsi da parte degli invitati, allusioni un poco pesanti. Un giovanotto maleducato ha posto un interrogativo sulla mia virilità. Prima di partire, un brindisi con champagne con i testimoni, poi la mia sposa bella si è cambiata, abbandonato l’abito bianco, si è vestita di celeste, è venuta per i saluti. Con una macchina a noleggio siamo corsi alla stazione, era da poco arrivato il treno che ci avrebbe condotti al porto per imbarcarci. I genitori e alcuni amici ci hanno accompagnati per salutarci. La madre era commossa, Catena aveva gli occhi arrossati per il pianto, sventolava un fazzoletto. È rimasta al finestrino a lungo, ma poi tutto è sparito. Pensavo al mio lavoro. Destinazione Albania. Dopo non molto tempo, alcuni mesi, ho preso coscienza dell’errore fatto. Discussioni, incomprensioni con mia moglie all’ordine del giorno! È capricciosa e volubile. Chi me lo ha fatto fare, è stata una sciocchezza sposare a quasi cinquanta anni una ragazza di diciotto! Sono quattro lunghi anni che sono maritato, ma non mi posso dire un uomo felice. È così giovane, pensavo di educarla, ma mi sono sbagliato, ha un carattere
difficile, non si contano le bugie che mi racconta, le crisi isteriche, le rispostacce che mi dà, la voglia di soldi che spende per i vestiti o altre cose. Da notare che non le faccio mancare nulla, le ho comperato collane, braccialetti, spille d’oro, tutto quello che serve a una vera signora. Voglio che faccia la sua figura, quando la porto fuori. Solo i denari non ne do molti, perché ha le mani bucate. Io faccio tutto questo perché l’amo, ma la detesto quando mi fa le scenate! Talvolta mi umilia dicendo che mi ha sposato per la mia posizione e per denaro. Non mi fido di lei, però nonostante tutto le voglio bene. Quando non c’è, vado nella sua camera, guardo il suo letto, la vestaglia di trine gettata sopra, la specchiera dove tiene i profumi e i trucchi, aspiro il suo profumo di violetta che rimane a lungo nell’aria. Mi fermo a guardare una foto scattata poco dopo il matrimonio, io vestito in tight, lei vestita di bianco, una coppia felice! Aprendo il suo cassetto ho visto il suo album di foto, l’ho preso e ho iniziato a sfogliarlo, c’era una fotografia di un giovanotto con dedica - Ti amerò per sempre! - senza data, ma sembrava piuttosto recente. Sono geloso. È una donna molto strana.
Il campo d’aviazione
È tanto tempo che volevo andarci! Io e Vimille lo raggiungiamo a piedi, è lontano, una spianata grande e larga come se i monti si fossero aperti per miracolo. In fondo, si scorgono i capannoni e gli hangar. Gli aerei, almeno una decina, stanno lì custoditi, lucidi e possenti con la fusoliera rivolta in alto, pronti per staccare il volo. “Come sono belli! Vorrei vederli quando si alzano, spariscono tra le nuvole poi ridiscendono in picchiata, virano all’improvviso, pare che si schiantino a terra!” “Li vedrà dottore - disse Vimille - tra pochi giorni ci sarà un’esercitazione e noi verremo.” Un aviatore si avvicina. “Tenente, non è mai salito su di un aereo?” “No.” “Venga, la faccio salire, potrà vedere la carlinga dove si sistema l’aviatore e sedere dietro, faremo un piccolo giro.” “Sono mezzi moderni, sicuri, non come i dirigibili, a proposito: lo sa che il dirigibile di Nobile si è schiantato pochi giorni fa, prima di raggiungere il polo?” “Mi dispiace, è una sconfitta del progresso” rispondo. “No, non è così.” Ci sono notizie più importanti per gli italiani, il regime fascista non trascura nulla per la gloria della nazione.
“È il coraggio dei piloti soprattutto che noi ammiriamo e la tecnica che sbalordisce. De Pinedo ha attraversato l’Atlantico, partito da Capo Verde ha raggiunto il Brasile. Una vittoria splendida, una lotta vittoriosa con gli elementi, il vento, le correnti, l’altitudine.” “Dottore, ha messo la tuta e gli occhialoni?” “Sì, sono pronto!” “Ha paura?” “No.” “Allora, salga dietro di me.” L’elica gira veloce, sempre più veloce! Ci alziamo in volo, via verso le nuvole, oltre le nuvole! Sono vicino al cielo. Quel giorno sono stato felice! Come è buffo il mondo visto dall’alto. Anni prima avevo visitato una villa veneta, un museo dove vecchi velivoli dormivano. In una stanza ce n’era uno piccolo e fragile, tutto di legno. Ma quanto progresso, che abisso con gli aeri di oggi!
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Abito nell’infermeria da poco più di una settimana, ma non per puro caso; vedo la signora quasi tutti i giorni, non ho conosciuto mai una come lei.
Comunque, Katy mi gira intorno e trova i più svariati pretesti per venire all’ambulatorio. Non so come comportarmi. Vimille la vede, ma tace, forse ha capito. Qualcosa sta cambiando dentro di me, un sentimento nuovo sorge diretto dall’anima, ma non so ancora se questo è una dolce amicizia o amore. Quello che mi incanta è la sua grazia, la tenerezza del suo sguardo che si posa su di me, nei suoi occhi nocciola, quando sorride, sembra si immerga il sole. Vimille ha notato in me un gran cambiamento. Qualche volta mi da del voi all’uso fascista. Ieri mi ha detto. “Quando siete arrivato somigliavate a un cane bastonato, ora no: sorridete. Attenzione alle donne!” Certo che innamorarsi per la prima volta a trent’anni finiti è una disgrazia!
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“Cara mamma, non so se questa mia lettera ti arriverà presto, ti prego: non pensare che io non ti voglia bene, qui le comunicazioni sono difficili, la posta non è regolare. Da quando sono in Albania non ho fatto che girare, in questo momento mi trovo in montagna, lontano dalla strada carrozzabile, un giorno di cammino a cavallo. Sto facendo le visite per il reclutamento, dovrò stare qui per circa venti giorni, poi tornerò a Elbasan. Sono contento di sapervi in buona salute, spero che sia sempre così. Io sto bene, anche se non mi diverto tanto. Sono stato a Durazzo e per questo viaggio ho speso cento lire!
Mandami un pacco di vestiti pesanti da montagna, sebbene sia Aprile qui, la sera fa molto freddo. Un abbraccio, tuo Gabriele.”
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La primavera comincia a riscaldare la terra, le margherite fioriscono nei prati e io sono confuso nel mezzo di una tempesta. Il dubbio è sparito! Dove è finito il cinico di un tempo? La desidero! Questo desiderio sfugge al mio controllo. Non ho molta esperienza in questo campo, ho sempre girato al largo dalle donne, anche quando queste mi facevano gli occhi dolci. La corazza di timidezza che tanto mi ha protetto, mi sta abbandonando, non so come finirò! Sono molto solo. Sento che sto scivolando in una situazione alquanto pericolosa. Vorrei parlarle, vorrei capire i suoi sentimenti, le parole mi muoiono in bocca prima che riesca a pronunciarle, non ho il coraggio! Spesso bevo un poco più del dovuto, bere, infatti, mi dà un calore come l’amore. Qualche volta, Vimille mi trascina a letto e mi rimbocca le coperte come fossi un bambino. Ieri ho ato la notte agitato, mi sono svegliato più volte, girando e rigirandomi nel letto, ma il sonno non veniva, pensavo a lei. Era l’alba, il gallo cantava, dicono che i galli cantino per fame! Se sapessi cantare, canterei anche io per salutare il giorno! Sono maledettamente stonato!
Almeno questa signora, se ci dovesse essere uno sviluppo, non mi chiederà di sposarla. Lo so che alle signore piacciono gli scapoli! Ma è una magra consolazione, il marito, poi, è una presenza molto ingombrante! Sono un incosciente, di certo è che sono mutato, mi ritrovo completamente diverso e non riesco a pensare alla profondità di questo cambiamento. Credo di aver paura. Talvolta, per sfogarmi, tiro i pugni al muro! Bevo e fumo, sono un vizioso o un disperato, intorno a me puzzano di fumo persino le lenzuola. Spero che sia una momentanea pazzia.
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Oggi è una domenica particolare, c’era la messa al campo, il cappellano ha appena aperto una borsa, sotto l’ombra di una grande quercia fa da altare un tavolo posto su di un prato con una tovaglia, posata sopra. Dalla valigetta di don Carlo, come per magia, è spuntato tutto: il messale, il calice e una stola. C’è una leggera brezza. Credo che il Signore sia contento, certo, ama la semplicità. La natura ci avvicina a Lui. Un’aria fresca di primavera e il profumo dei fiori calpestati, i militari e tanta gente venuta dalle città vicine. Vedo Catena seduta in prima fila, forse raccolta in preghiere, vicino al marito. I bisbigli cessano, comincia la messa. Dietro, una folla di curiosi, molti ortodossi e anche qualche mussulmano, che si
tiene, però, lontano. Arrivato al vangelo, il cappellano si rivolge a noi. “Fratelli carissimi, il mio cuore è vicinissimo a voi, che soffrite di nostalgia lontani da casa, dalle vostre famiglie, pregate, verrà il giorno in cui, terminato il lavoro, potremo tornare alla nostra cara Italia. Coraggio, miei cari amici, Dio è con voi!” La commozione mi assale, ho un nodo alla gola. All’elevazione dell’ostia ci inginocchiamo, uno accanto all’altro. Poi ci rialziamo, tante file di soldati verdi, molti hanno gli occhi rossi. Ora sono in piedi ad ascoltare. Cantano in coro, è un canto a Dio, ma è anche il canto dolcissimo della nostalgia e della speranza. La messa è terminata, il cappellano ripone il messale, il calice e la stola nella valigia, come un prestigiatore di Dio. Sorride e ci benedice con la mano. Ora è un uomo come noi, solo il colletto bianco rivela che è un prete. Me la trovo davanti all’improvviso. Sbuca tra i militari in divisa come un fiore nel prato. “Buon giorno, signora” mormoro, mi chino a baciarle la mano. “Buon giorno, tenente” e mentre sorride un biglietto scivola rapido dalle sue mani alle mie. L’ho preso al volo, stupito, l’ho letto, c’erano scritte poche parole. “Ho bisogno di vederti, verrò da te, devi aiutarmi!” sotto, un piccolo cuore. È ancora una ragazzina! penso. Padre Carlo, il nostro cappellano. “Se ha tempo, vorrei confessarmi.” “Vieni da me questa sera ti aspetto.”
Entro, una stanza semplice imbiancata da poco, un tavolino, delle seggiole e più lontano all’angolo un lettino, al di sopra sul muro appesa una grossa corona in legno. È sera, davanti a lui faccio per mettermi in ginocchio, mi rialza affettuoso e mi abbraccia. “Vieni più vicino, posso ascoltarti meglio.” Deve avere all’incirca la mia età. “Devo dirvi che non sono molto religioso, ma nella circostanza nella quale mi trovo ho bisogno di aiuto.” Siamo seduti su due seggiole, uno di fronte all’altro. “Parla, figliolo.” Non è facile, ma ci provo. Mi vergogno. In fondo anche lui è un uomo. “Credo di aver fatto una sciocchezza, sto scivolando verso l’ignoto.” Racconto, senza fare nomi, cosa mi sta succedendo. Il prete ascolta attentamente, poi parla. “Senza Cristo, nemmeno l’amore ha senso, Gesù è il centro della persona umana. L’amore più intenso della vita non ha valore se non in lui. Cerca di riflettere, la ione e il dolore sono quasi sempre strettamente collegati.” Mi indica come mi dovrei comportare. I consigli di don Carlo. Ah, se li avessi seguiti! “Immergiti nel lavoro e, per quanto compatibile con la tua professione, vai lontano.
Al mattino, apri la finestra e ammira la natura. Ama tutti gli uomini, bambini e animali, sopporta il dolore, non chiuderti nella gioia. Soprattutto prega, la preghiera è la tua forza.” Ci provo. La sera, nella mia camera, tento di riallacciare un colloquio con Dio. Sono anni che non prego, sono un poco arrugginito per quel che riguarda la preghiera. “Dio mio, fammi sentire la tua presenza!” In ginocchio, vicino al letto. “Confesso a Dio Onnipotente, alla beata sempre Vergine Maria, all’Arcangelo Michele, a san Giovanni Battista, agli Apostoli e a tutti i Santi e a voi fratelli che ho peccato molto in pensieri.” È l’inizio della messa, da piccolo ho fatto il chierichetto, non ricordo altre preghiere.
È l’alba di un amore
Ieri è accaduto qualcosa, qualcosa che può cambiare la mia vita. Ma Dio, qualche volta, non può chiudere un occhio? L’amore è un peccato così grande? Sono sempre convinto che quando si sbaglia per amore si è sempre perdonati. Bisogna capire le debolezze di un uomo, io posso sbagliare, posso anche perdermi, a volte sono pieno di gioia, ma fragile come persona. Vivo momenti d’ebrezza e, talvolta, ho voglia di cantare. Tutto si è svolto tra le bianche mura dell’infermeria. È venuta a trovarmi di nuovo Catena, le ho detto di accomodarsi e poi di salire sul lettino che l’avrei visitata. In quel momento un colpo di tosse, seguito poi da un altro e da un profondo respiro. “È molto che ha questa tosse?” dico preoccupato. Da sola non riesce a salire, perché il letto di ambulatorio è piuttosto alto. Mi avvicino per aiutarla, è leggera tra le mie braccia. Non so perché, ho cominciato a sudare, il sudore mi bagna la fronte, mi cola giù la camicia mi si è appiccicata addosso. Le mani diventano umide, mi tremano mentre la tengo. Mi guarda con i suoi occhi dolci e subito intuisce il mio turbamento. Lei trema leggermente, mi getta le braccia al collo, attirandomi verso il suo viso.
Ho sentito come piegarsi le mie ginocchia e un sentimento dolcissimo si è impadronito di me. Non ho capito più nulla, è allora che ci siamo baciati. Qualcosa bagna il suo viso: sono lacrime. La sera, ho annotato nel mio diario; “Un bacio, sensazione celeste seguita da tachicardia e vertigini, poi una specie di malore, sono tornato in camera, camminavo malfermo sulle gambe, avevo paura di cadere. È stato il primo vero bacio, sono stato stravolto, credo che abbia preso lei l’iniziativa, ma non saprei dire, sono confuso!” Vergognosa, si è staccata da me, se n’è andata veloce senza dire niente. La seguo con lo sguardo, cammina lungo il viale, ai lati cespugli di fiori primaverili, tiene il cappellino in mano per non farselo portar via dal vento, si allontana ondeggiando. “Mi sento mille volte morire, poi basta il suo profumo, ascolto il rumore dei suoi i, immobile, in attesa in piedi dietro la porta. Mi basta vederla un attimo da lontano, mentre cammina piegando il capo leggermente sotto un cappello più grande di lei per sentirmi rinascere. Ho messo la mia vita nelle sue mani, che cosa accadrà? Spero solo di non farmi molto male.” Mi sembra di perdermi, quasi annegando nei suoi occhi. Da quanto ho potuto capire, da tanti piccoli particolari, dai suoi sguardi, oso sperare di essere amato. Solo questa piccola signora mi può dare quello che ho tanto cercato e sognato, un amore. So che dovrei essere più prudente, innamorato di una donna maritata! Rido, piango, sono pazzo! Spero, subito dopo mi dispero.
Penso a lei e sono geloso, geloso di tutto, dei suoi pensieri, dei suoi sogni, di suo marito che le vive accanto. Per lei ho una fortissima attrazione, è una signora di estrema sensibilità. Appena la vedo, un senso di turbamento mi assale, come uno stordimento che mi impedisce di muovermi o di parlare, vorrei dire qualcosa, ma la lingua mi si appiccica al palato.
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Il tenente Giorgio, mio compagno, un giorno mentre stiamo a pranzo insieme, si confida con me. “Irina, la maestra, quella che tu hai notato seduta in disparte, l’ho conosciuta in casa del capitano, sono rimasto ammirato e turbato. Alcuni giorni fa, ero uscito a eggiare quando l’ho vista are, l’ho seguita di proposito sino a casa, senza farmi vedere per scoprire dove abitava. La casa di Irina è posta sulla collina, forse è stata sempre lì con le sue vecchie pietre, bassa, con due piccole finestre, quasi nascosta tra gli alberi. Dal camino esce un fumo biancastro, segno che la sorella ha il fuoco. La sorella è più anziana e, da quanto ho capito, dirige la casa e ha grande influenza anche su Irina. In quel momento, forse ha veduto qualche cosa, si affaccia alla porta. Non potrebbe essere più diversa da lei. Un fazzolettone bianco annodato sotto il mento circonda una faccia solcata dalle rughe, sulla soglia della casa due secche gambe avvolte da calze in ruvida lana nera. Vede Irina e forse me in lontananza, fa cenno alla sorella di entrare.
La porta si chiude e io, fermo dietro un albero, mi domando che sapore possano avere i suoi baci.” Giorgio continua a parlare, quasi confessandosi. “Lavoro tutto il giorno, ma quella domenica mi è preso il desiderio di andare a messa, non esiste una chiesa cattolica, abbiamo solo un cappellano, quando mi sono trovato dinanzi alla chiesa ortodossa sono entrato, è così bella a croce latina con cupole e cupolette che dal tetto si innalzano verso il cielo. Entro, c’è odore di incenso, la vedo inginocchiata, un velo le copre il capo, ma è lei! Aggiro i banchi lateralmente sino a trovarmi nella zona destinata agli uomini, quasi di fronte a Irina. È triste, mi sembra di scorgere gli occhi arrossati, forse sta piangendo. Esco e l’aspetto fuori, deve apparire un incontro casuale. Il mio problema è di trovare il coraggio di rivolgermi a lei. Aspetto fuori sui gradini della chiesa. Alta, sottile, finalmente appare, è vestita di viola come le violette a primavera, è un poco imbronciata. Non ho mai veduto nulla di più affascinante.” Le rivolgo la parola. “Signorina, sono Giorgio, il tenente italiano, ci siamo da poco conosciuti a casa del comandante.” Mi guarda e sorride. “È vero.” “Signorina, le piace la campagna, posso accompagnarla un poco?” Dice sì. “Amo la campagna. Sì, mi piace, da piccola giocavo con i figli di chi aveva la
terra, correvo a piedi nudi per i prati, andavo con i miei compagni che guardavano le pecore.” Quella che sto per raccontare è la storia più romantica, l’incontro di due anime. Camminavamo vicini, io le ho preso la mano, poi a un certo punto abbiamo girato per un sentiero non molto frequentato. Dietro un grosso cespuglio una vecchia fonte, dalla bocca di un leone di pietra sgorgava un getto d’acqua limpida, c’era un silenzio assoluto, solo qualche uccello si alzava in volo spaventato. L’ho stretta a me e ho affondato il capo tra i suoi capelli. Sono rimasto così non so per quanto tempo, poi le ho alzato il capo e l’ho baciata a lungo. “Scusami - le ho detto - questo amore mi fa arrossire e impallidire, così sono in questo momento baciato da te e dal sole.” Lei: “Il tuo amore è anche il mio amore!” “Prendimi tutto intero come sono oggi, come sarò da vecchio. Possiamo addormentarci insieme in un unico letto, svegliarci alla luce del mattino sempre uniti, sempre vicini, soffrire insieme, invecchiare tenendoci per mano. Questo è il mio amore testardo, questo sogno per noi!” In quel momento ho capito che non avrei mai potuto vivere senza di lei. Ho chiesto a Irina di sposarmi, ha detto di sì, quel giorno sono tornato salticchiando per strada, il mondo intero pareva sorridermi. “Posso darti un consiglio d’amico? Giorgio, io penso che sei poco prudente, hai un buon carattere e una bontà che confina con l’ingenuità. Ti lasci travolgere dai sentimenti, prendi fuoco ma, quando questi sono così accesi e improvvisi, durano poco, altrettanto rapidamente svaniscono.” “Non credo, ma ascolta: sono più pazzo di quel che tu pensi.
Mentre fa scuola al secondo piano di quell’edificio che tu vedi laggiù in mattoncini con le grandi finestre, di nascosto, quando sono libero dal lavoro, mi arrampico sui rami di quel grosso albero che è davanti all’edificio e, protetto dalle foglie, sto lì quasi per un’ora.” “Perché?” “Per vederla parlare, muoversi con grazia tra i banchi.” “Sei cotto stracotto! Prudenza, amico mio, prudenza.” Quel giorno ero entrato in casa, volevo presentarmi alla sorella di Irina, che era tutta la sua famiglia. Un piccolo salottino all’orientale, tappeti e cuscini per terra, alla parete un ritratto di un uomo moro, baffuto, il defunto padre. Lei è ostile. Sotto la cuffia bianca mi guarda storto. Irina: “Vi preparo una tazza di tè.” Ci lascia soli. Tra me e la sorella un silenzio pesante come pietra, ci guardiamo, non mi viene in mente nulla da dire. Dopo poco torna Irina. “Cara sorella, Giorgio è venuto apposta per conoscerti. C’è una grande notizia che tu non sai.” “Quale?” “Ci vogliamo sposare!” L’incanto è finito. La sorella ha un sussulto, poi si ricompone. È aspra. “Non mi fido dei soldati italiani, tutti innamorati, sdolcinati, prima o poi partono. Lasciano tutto, dimenticano le ragazze, talvolta con un bimbo nella pancia.”
“Io posso parlare per me, dire che il mio affetto è sincero, voglio sposare Irina.” “Anche se lei fosse sincero, ci sono parecchi ostacoli. Irina è ortodossa.” “Non importa, potrei fare tutte e due le cerimonie, naturalmente con il permesso delle autorità religiose.” “Irina dovrebbe lasciare la sua patria e il lavoro e me, che sono tutta la sua famiglia dopo la morte dei genitori!” In quel momento lei, Irina, viene a salvarmi. “Non ti preoccupare, tutto si accomoderà!” mi mormora all’orecchio. La sorella di Irina è di quella razza di donne che non è piaciuta a nessuno. Per questo, penso, è acida. Dopo poco è esaurita la visita, il clima è penoso, mi alzo e mi avvio alla porta. Esco, sento lo sguardo della sorella sulla schiena come fosse fatto di lunghi spilli. Questo è quel che mi ha raccontato Giorgio, sono curioso di sapere come andrà a finire.
***
In questi miei giorni in terra straniera, mi è capitato qualche cosa di inatteso. Catena è venuta da me, ti dirò, è entrata nella mia vita come un temporale! Con la scusa della salute viene a trovarmi, fa di tutto per incontrarmi e io non so sfuggirle. “Spero di non disturbare” mi ha detto.
Ieri quando è venuta, nella casa c’ero solo io, l’ufficiale napoletano era fuori in missione, Vimille lontano per commissioni. Porta un cappellino con veletta, che nasconde i suoi occhi, cammina leggera e si avvicina a me, aspiro un profumo di violetta. Lei conosce la mia debolezza, intuisce il mio turbamento. Eravamo nell’infermeria, uno davanti all’altro, quando accenna con le labbra a un bacio. Poi, piangendo, si è avvicinata. “Che spalle grandi hai Gabriele, vaste come una pianura!” L’ho sollevata e, quasi volando, l’ho portata su nella mia camera. Abbiamo messo un certo tempo a salire ogni gradino un bacio. Arrivati in camera, l’ho deposta leggermente sul letto di ferro e ho chiuso la porta e il mondo è rimasto fuori. Siamo stretti, sempre più stretti, infine un essere solo. Ci siamo amati così, ci muoviamo insieme come le onde del mare vicino alla riva. Non saprei quanto è durato il tempo della ione. Sono innamorato. Ieri è venuta a trovarmi, sono andato in camera a prendere una scatola di pastelli a cera, che avevo portato da Perugia.
Lei, mentre era seduta su di un masso, all’ombra di un platano, ho appoggiato la carta su di un piano di legno. “Sta ferma, sorridi, ti farò un ritratto.” Ogni tanto la guardavo, mi sembrava sempre più bella, era difficile fissare i suoi
tratti, ma l’ho fatto adoprando i colori con amore. Lei sorride e si muove intenta a cacciare le formiche, anche loro forse innamorate. Il ritratto è finito, sono orgoglioso del mio lavoro, le assomiglia, l’ha voluto portare via con sé, lo stringeva sottobraccio riposto in una cartellina! .
L’appuntamento
“Se vedi un asciugamano alla finestra è segnale di via libera, vuol dire che mio marito è lontano, allora puoi venire, manderò l’attendente fuori per una commissione e tu vieni sicuro.” Proprio così, Catena mi ha invitato. Comunque, questa donna è per me un mistero, cerco di capirla, lavoro di fantasia, c’è qualcosa che mi dà una stretta al cuore, vorrei fuggire, ma non riesco, il ricordo dei suoi baci mi brucia! Visto il segnale alla finestra, ieri sono andato, mentre cammino i dubbi si affollano nella mia mente. “Dove vado?” Il pensiero di essere scoperti mi tormenta. Cammino, il rumore dei i non si sente, mi inoltro lungo un muretto che, come un amico, mi nasconde agli sguardi. Abbasso il capo, ho timore di essere visto. Un vigliacco sono, come un ladro che si introduce in casa di soppiatto, quando non c’è il padrone. Il nostro amore è l’amore di un minuto rubato, non possiamo viverlo come una coppia sposata, non possiamo poi cancellare il ato, perché insieme ai brutti momenti se ne andrebbe anche il bello che abbiamo vissuto. Mi piace immaginarla sul suo letto addormentata e sognare di accarezzala sino a che non apra gli occhi. Il mio amore non si è affievolito nel tempo, pur breve, che ci siamo trovati.
Solo che non è facile condividerlo con la presenza di un marito. Ma, cotto come sono, mi lascio andare rassegnato. Vorrei uscire da questa situazione. Se, per cacciare l’amore, bastasse, mi rotolerei nel fango della strada come un maiale! La mancanza di esperienza, questa è stata la fregatura! La timidezza ha fatto il resto. Il mio carattere profondamente sincero mi tormenta, un’idea fissa mi gira per la testa, portarla via da lì, ma come fare? Devo però andare, preoccupato per la sua salute, so che non stava bene. Appena salito la scorgo. Rannicchiata, quasi affondata sul divano, poggia i piedi in un morbido tappeto, sembra ancora più piccola, le mani posate sulle ginocchia, il viso più pallido del solito. Scorge la mia faccia. “Ciao, musone!” Le pongo le dita sulla fronte, scotta, deve avere un po’ di febbre. Di sicuro ha un brutto raffreddore, la voce è bassa e roca. Mi siedo di fronte, per guardarla più da vicino, le gambe della seggiola oscillano. Nel vedermi così, scoppia a ridere! “Vieni qua, seduto vicino a me, non sono un lupo che ti mangia!” “Dovresti smettere di fumare” le dico. “Ma non fumo molto, non ora che ho la tosse! Forse hai ragione, ma il fumo mi calma e mi fa sognare, qualche volta è come entrassi in una nuova dimensione.” Le prendo una mano, il silenzio ci accomuna più delle parole!
Poi il rito del tè, quasi maniacale, tutti i giorni alle cinque. “Vorrei chiederti, sono io importante per te?” “Sì, molto importante.” “Non hai rimorsi?” “No” risponde. Saliamo in camera. “Sei sicura?” “Stai tranquillo, in casa non c’è nessuno, io poi ho la mia camera!” “Non dormi con tuo marito?” “No, vieni” e mi prende per mano. La camera di Catena, al piano di sopra, è linda e pulita, un odore aleggia per aria, è il suo odore di rosa. Mi stendo sul letto vicino a lei. Mi accarezza. “Come sei bello, amo i tuoi occhi azzurri!” “Dono di famiglia!” Sento il suo calore, il suo profumo mi avvolge. “Tu hai e mi dai - balbetto - la bellezza, la dolcezza, la tenerezza e la gioia.” Allora, una sensazione di leggerezza mi invade. Il tempo dei baci e delle parole è volato via breve. Me ne vado al tramonto, striscio lungo il muro di casa veloce e furtivo come un grosso topo.
***
“Cara sorella ti invio questa lettera, c’è qualche novità a casa? Qui le notizie arrivano lente e io sono preoccupato. Nella precedente ti ho raccontato, almeno a grandi linee, velate dal mio pudore, quel che è accaduto. Dovrei essere più prudente. Purtroppo ho poca fede. Ho provato a pregare, ma la preghiera non mi aiuta. Catena è tanto dolce e riempie la mia vita. È un destino, ma una moglie, una casa e il matrimonio non fanno per me. Tu e mamma siete lontane. Sai quanto mi consola la lettura. Mandami qualche libro, quelli che ho, li ho letti tutti!”
***
“Domani ci sarà un ballo al Circolo Ufficiali, vorrei che indossassi quel bel vestito di seta rosso fiamma e la collana di coralli che ti ho regalato.” “Sì marito mio! Ti posso accontentare, pochi giorni fa sono stata dalla sarta, questa volta quella donna ha fatto miracoli!” “Ho trovato nel bazar una stoffa proveniente dalla Turchia, se la guardi alla luce si illumina. Per farmi bella sono stata mezz’ora davanti al luminoso specchio della mia toilette, i miei riccioli non volevano stare fermi, li ho appuntati con dei fiori, ultimo tocco una spruzzata di profumo e la cipria sul naso, ora sono pronta.”
Alla sera. La festa è iniziata, entro al braccio di mio marito e tutti mi guardano. Gente che arriva, gente che va, risate, rumore di bicchieri, il vino scorre. Tante sono le luci, illuminano le pareti decorate di palloncini e frasche. I gioielli delle signore brillano e gli ufficiali, con le uniformi tirate a nuovo, girano per la sala. Le signore osservano curiose, un poco maligne, fanno un gran chiacchiericcio tra loro; abiti, balli, corteggiamenti, i loro argomenti preferiti. Allungano il collo per vedere me, Catena. “Il primo ballo con me!” “Certo, con chi se non con mio marito!” Per fortuna, non ho bisogno di fingere. Lui, mio marito, dopo aver ballato è sudato, si ritira nella saletta attigua per fumare un sigaro e giocare a carte. “Gabriele vieni da me - lo chiamo, è appoggiato al muro in fondo alla sala - bevi un poco di champagne.” “La guardo, rimango a bocca aperta. Come sei bella, Catena!” Bello il tuo viso pallido, il collo sottile, le braccia esili che escono dal vestito color fiamma. Balliamo il valzer: è come volare, la musica pare sollevarci da terra, per ricadere poi sfiorando il pavimento. In quei momenti l’amo, sì l’amo molto. Chissà! perché alle donne sposate piacciono particolarmente gli scapoli e agli scapoli piacciono le signore!
La scenata
È mattina inoltrata, il sole filtra dalle persiane, una lama di luce illumina il mio letto. Racconta Catena: “Mi sono accorta che era in piedi, vicino, potevo sentire il suo respiro. Scosto le coperte, faccio per alzarmi. Indossa un panciotto di velluto, che gli tira all’altezza dello stomaco, mangia troppo infatti, primo piatto abbondante, secondo piatto carne arrosto e i dolci, poi il vino, tanto vino. È rosso in viso e mi guarda con occhi furiosi.” “Non sai fare la moglie, tanto meno la signora moglie di un uomo importante, forse faresti bene la cameriera!” “Perché?” “Non ti sei occupata della beneficenza, della vendita dei biglietti, come hanno fatto le altre signore.” “Io sono stata un poco a vendere i biglietti e ne ho venduti, tanti, perché tutti venivano da me, ma sentivo la musica, le gambe mi tremavano e mi dicevano: va’, va’ a ballare!” “Già, hai ballato e fatto la civetta con tutti i giovani ufficiali.” “Non c’è niente di male nel ballo, sono carina e tutti mi corteggiano.” Il marito: “Ho sbagliato. Perché, Catena, mi hai sposato? Nessuno ti ha costretta.” “Lo vuoi proprio sapere? Te lo dico: ti ho sposato per i soldi e la posizione, per
fare una vita migliore e poi mi fai anche un poco di pena!” Mi dà uno schiaffo! Ho affondato il viso nel cuscino, disperata. Da quel giorno, soffro di giramenti di testa, di palpitazioni, dormo poco la notte, sono dimagrita, insomma: non sono più io l’allegra ragazza di un tempo. Due giorni su tre rimango chiusa nella mia camera, mi porta il pranzo la mia cameriera. Non ho fame. Se scendo a tavola e vedo mio marito, mentre mangia avidamente chino sul piatto, mi dà un senso di disagio, è rosso in viso, congestionato, perle di sudore gli colano dalla fronte. Se mangia sempre così, prima o poi gli prenderà un accidenti. Non lo sopporto. “Dammi il mio aporto.” “Per che fare?” “Voglio recarmi qualche giorno in Italia.” “Solo se ti comporti bene, riavrai il tuo aporto.”
Memorie dal mio diario
Sono nel piccolo ambulatorio dell’insediamento militare. “Vieni avanti giovanotto e togliti i vestiti, ti devo visitare.” Davanti a me una recluta, un bel giovanotto alto e snello, sembra l’immagine della salute. “Mi devo togliere tutto?” “Sì.” Non è molto soddisfatto. Per lui devo scrivere una scheda e così per gli altri, mi devo assicurare che non siano portatori di malattie, specialmente quelle contagiose, pericolose per il nostro esercito. Per oggi ho finito il lavoro, metto le schede in un cassetto, poi le farò vedere al comandante. Questi mi ha già detto che il mio giudizio è insindacabile. Il problema più grande non è l’arruolamento, ma quello che chiamano addestramento. I ragazzi hanno fatto una vita molto diversa dalla nostra, mal sopportano la disciplina, l’unica attività che fanno bene è andare a cavallo, cavalcano come dei!
***
In questo ambiente militare è accaduto quello che sarà il primo duro colpo al mio amore. Nella scrivania di un ufficiale, vicino al mio ufficio è comparso un biglietto anonimo, scritto con lettere ritagliate da un giornale. Leggo curioso. “La signora Catena, moglie del nostro comandante, ha un amante tra gli ufficiali!” Mi chiama il collega con fare misterioso: “Gabriele, non lo dire a nessuno, la massima discrezione.” Le gambe mi tremano, rimango muto, per fortuna c’è una seggiola vicino, mi ci lascio cadere. Il collega: “È una vigliaccheria! Ma, poi, perché insultare una signora tanto per bene? Non ci credo. E tu?” “No, nemmeno io!” il cuore mi batte in gola. “Comunque, non lo diciamo a nessuno.” Strappa il biglietto.
***
Il locale è posto nella parte più vecchia della città. Sopra di noi, enormi travi di quercia da cui pende una grossa lampada ad acetilene. Le voci dei bevitori rimbalzano nell’aria. Nel fondo un bancone e, sopra, una botticella di vino e, dal lato opposto, un’enorme teiera, che sta sbuffando.
Il tutto è avvolto dalla penombra, gli avventori: qualche soldato e due pastori. “Che cosa è questa brodaglia?” chiedo al mio amico Giorgio che è seduto al tavolo di fronte a me. “È un caffè alla turca.” “Ma i fondi si bevono?” “No, quelli no, qualcuno ci legge il destino.” “Raccontami.” “Tra poco è finita la mia ferma e andrò in Italia, devo parlare ai miei genitori e fare le carte, quando tornerò mi sposo!” “Sei proprio deciso? Vieni qua, sotto la luce ti voglio leggere un brano di questo libricino.” Il titolo “Come essere felici nella vita coniugale” - Dalla natura è stato fortemente stabilito che l’uomo e la donna si debbano unire in matrimonio “Sono d’accordo, ho deciso di sposarmi.” “E le difficoltà?” “Superate, almeno credo, dopo la ferma mi stabilirò in Albania, così non dovrà lasciare il lavoro.” “Ti auguro che tutto vada bene!” “Sì, avrò anche bisogno di te, mi aiuterai non è vero?” “Certo, conta su di me.”
La visita
Da alcuni giorni sto chiuso in casa, esco solo per lavoro, in questo periodo ho molto da fare con le visite del reclutamento. Dopo la scoperta del biglietto anonimo, mi sono immerso nel lavoro. Verso il tramonto ho la stufa economica che riscalda il salottino, fuori piove ed è freddo. Sopra ho messo il bricco del tè. Sento bussare, scendo le scale, chi sarà? È una giornata molto triste, nuvole viola, cariche d’acqua, rendono livido il paesaggio. Apro, me la trovo davanti. È lei, Catena. Ha i vestiti bagnati, i capelli sciolti sulle spalle che, come tanti serpentelli, gocciolano impietosi. Le prendo la mano, è gelata. “Vieni” e la conduco alla poltrona vicino alla stufa. “Togli il cappotto.” Sorride. “Volevo vederti.” “È pericoloso, in casa non vi è nessuno, ma qualcuno può scorgerti davanti alla porta. Non sai del biglietto anonimo?” “Sì, me lo ha confessato la mia cameriera, ma non potevo resistere. Mi dai un bacio?” Prendo un grande asciugamano, le strofino i riccioli, le spalle, le asciugo i piedi, per le scarpe non posso fare nulla! “Appena asciugata te ne vai - l’abbraccio - ti
accompagno per un poco.” Ho preso un grosso telo militare impermeabile, ho coperto lei e me insieme, stretti sotto la pioggia, abbiamo camminato, finché nel buio si scorsero le luci di casa sua, poi sono sparito. Quanto è dannosa la gelosia, ti tormenta, ti rende infelice, ti toglie il sonno, scava dentro di te, implacabile, la vuoi cacciare, ma torna sempre come un’ombra oscura. Sono geloso! Come fa, lei, a muoversi in un mondo pieno di bugie? Come fa a sopportare suo marito? È strana: in certi momenti cambia umore rapidamente e il suo viso luminoso viene coperto da un’ombra, allora Catena sembra diventare più piccola, come se si ripiegasse su se stessa. Qualche volta, nel mezzo di una conversazione, accade anche questo: comincia a ridere, una risata piena, incontenibile. “Perché ridi? Non è il momento” nota il marito. E lei continua a ridere senza motivo. Il suo umore è un’altalena tra il riso e il pianto. Ieri mi sono accorto che la sua voce ha una nota amara, mentre mi saluta. “Ciao Gabriele” è un sussurro roco. Il suo carattere è un mistero per me, non la conosco ancora bene come vorrei. Qualche volta si rivolge al marito in tono aspro. Lui la rimprovera. “Non ti sopporto” dice. Nonostante questi difetti, e altri che forse non conosco, sono attratto da lei. Vivo così il mio amore giorno per giorno, ho perso la cognizione del futuro, ma anche del ato. Ho la sensazione di vivere in un mondo ovattato dove i
rumori e le voci vengono da molto lontano. La sera, sotto la coperta, la sogno sempre, sono un sognatore innamorato.
***
“Sta’ attenta, Stella, non mettere il piede su qualche buca, ci sono massi nascosti sotto l’acqua, se cadiamo andiamo a finire male tutti e due!” Il fiume corre veloce, quando Stella avanza, gli spruzzi mi colpiscono in faccia. Non è contenta neppure la cavalla di quella strada, dietro di me su di un mulo c’è Vimille. Andiamo a reclutare soldati, su, verso la montagna. Ho imparato poche parole di albanese e spero che basti per questo lavoro. Siamo tornati a sera stanchi, ma non abbiamo concluso molto. In quelle zone sono poveri, anzi poverissimi, ma non hanno il concetto di patria. Pascolano le greggi, di notte dormono vicino a loro negli ovili, ricoperti di stracci e coperte. Dividono il formaggio e il pane con i cani pastore. Questa è la loro vita da tante generazioni, sempre uguale. Non ne vogliono un’altra. In compenso, una nuova ospite ci rallegra, è una piccola volpe rossa con due occhietti vispi e una coda bellissima. L’ha trovata la cavalla, quando per il reclutamento attraversiamo un bosco, Stella si ferma e graffia la terra con gli zoccoli. “Che succede, cosa hai visto?” Sono sceso, di lato, coperta dalle foglie e riparata da un tronco, ho scorto
qualche cosa che si muoveva. Un musetto spaventato mi fissa, è una piccola volpe sola e spaventata, forse la madre è morta. “Vieni, piccola, con noi.” avvolta in una sciarpa, la portiamo a casa. Ora cresce come un cagnolino, furba ma affettuosa, quando mi siedo mi salta in grembo. Devo dire che l’ho viziata, questo animaletto mangia solo biscotti. Giorni fa ero affacciato alla finestra dell’infermeria, vedo avvicinarsi un uomo a cavallo, tiene in braccio un bambino, confabula con Vimille. “Dottore, lo vuole visitare? Il piccolo sta male.” “Ma certo” ho risposto. Il bambino si regge a stento in piedi, ha un collo sottile e una testa grossa e dietro quadrata. Un rachitico! Poggio la mano sulla fronte: scotta. Mi guarda con due occhi dolci, mi commuovo. “Questo bimbo è mal nutrito” dico al padre. “Vimille, dagli del latte e l’aspirina che ho in camera.” Mi ha sorriso, la più bella ricompensa.
***
Italia, terra mia così dolce, non ti sogno più come prima, ora cerco di ambientarmi, sto imparando la lingua con un’anziana maestra italo-albanese. Mi reco due volte a settimana nella sua casa posta sulla collina, poche stanze, dove abitano lei, un grosso cane e un gatto. Entro in un salottino piuttosto spoglio, tante vecchie foto alle pareti, un piccolo
divano che una volta, forse, era di color verde, un caminetto. Questa stanza parla di ricordi, di anni perduti, di una vita di lavoro in una vecchia scuola. In fondo, una grande lavagna. “Prendi il gesso, Gabriele.” Mi sento piccolo, traccio con mano incerta le prime parole di albanese. Per lei sono un bambino. Ho sbagliato, maestra? Lei sorride, sta seduta in un seggiolone, tiene sulle ginocchia un vecchio scaldino con della brace, per scaldare le mani. Scuote il capo, cara, vecchia maestra! Quando sono con lei, mi immergo nello studio, il tempo a senza pensieri e senza angoscia. Vorrei leggere in questa lingua. Specialmente, mi piacerebbe conoscere i loro poeti. Tranne una vecchia grammatica e un messale, non ho trovato libri in albanese. Un giorno, entrato in casa della maestra per la solita lezione, mi accoglie sorridendo, mille rughe si increspano gioiose ai lati della bocca. Vedo un uomo seduto in salotto, sprofondato nella vecchia poltrona di velluto vicino alla finestra. È molto magro, il viso pallido è quasi nascosto da un paio di grandi occhiali da miope. Ha l’aspetto di uno studioso, tipo raro a trovarsi in questi luoghi. “Buongiorno, maestra; buongiorno, signore.” “Buongiorno a lei” risponde l’ospite. La maestra: “Questo è Gabriele, il mio allievo italiano e questo è il famoso scrittore Leon Kardè. È stato mio alunno, si è ricordato di me e mi è venuto a trovare.”
“Famoso - risponde lui - non direi, non qui in patria!” Gabriele: “Io ammiro molto chi scrive. Come è riuscito a farlo qui in Albania?” “Sono andato un periodo a Mosca, dove c’è una tradizione e una famosa scuola per scrittori, ma devo dire che lì ho imparato poco, va in voga la scrittura tradizionale e conformista che prima o poi sarà dimenticata. Per chi ama scrivere la verità, non vi è posto in quel luogo.” “E in Albania?” “La situazione è pressoché la medesima, la politica pretende di comandare e dettare modelli. È la dittatura del conformismo sostenuta dalla militarizzazione della mia patria.” “Questo, in forme diverse, accade anche in Italia.” Così mi risponde il mio interlocutore: “Non si può scrivere, lo scrittore scrive e opera in un mondo senza limitazioni di sorta. La vera letteratura è libera e lotta per la libertà senza confini. Tuttavia, non sono pessimista: accadrà un giorno che avremo un mondo migliore, anche se non sappiamo quando e come. Certo, il processo non sarà semplice e indolore, ma avanzerà lentamente, non senza dolori o lacerazioni e il popolo soffrirà per questa libertà agognata. Io sono un uomo solo, non ho legami, non ho orari, la mia compagnia, il mio amore è la scrittura.” “Lei - dico io - ha pubblicato il libro “La via del vento.” L’ho visto a Tirana in una piccola libreria, era nascosto sotto una pila di libri, l’ho aperto, è in se, una lingua che conosco bene. Così, l’ho comperato e portato con me. È stata una lettura affascinante e coinvolgente.” “Sì, sono riuscito a pubblicarlo a Parigi.” La maestra ci interrompe: “Volete del tè con i pasticcini fatti da me?” “Certo, mi farà bene, mangio in maniera disordinata e dove capita, qualche volta per distrazione salto i pasti.” Gabriele: “Avrei tanto piacere di coltivare la nostra conoscenza, spero che potremo rivederci, mi piacerebbe scambiare delle idee con lei.”
“Non sarà facile. Non ho fissa dimora, vado dove mi porta l’ispirazione e il momento. Sono uno zingaro della letteratura.” Mi sorride e mi tende la mano.
***
Oggi sono partito per una esercitazione con i miei compagni, siamo saliti su, tra i monti aspri, attraverso sentieri sassosi, camminando lungo uno strapiombo; sto bene attento a dove metto i piedi, ogni tanto qualche sasso ruzzola con grande rumore, cade giù nel fosso, davanti la guida e dietro i miei compagni ufficiali e soldati. Arrivati a un altopiano, ci hanno dato l’ordine di accamparci, tutto sudato mi sono buttato per terra. “Ma la tenda dov’è?” chiedo al mio attendente. “Dottore, il bello sta qui, ce la dobbiamo costruire” - risponde ridendo il disgraziato - ma non vi preoccupate, vado io per voi a tagliare i rami, le corde le abbiamo e anche le coperte di lana per difenderci dal freddo della notte.” Vimille ha per me tante cure, quasi un sentimento di devozione. Non lo merito. Bene o male un rifugio è stato costruito con i rami tagliati e sopra ci hanno legato dei teloni, che lusso! Ho persino una brandina dove distendermi. All’improvviso, vedo comparire un uomo, uno di queste parti, cammina veloce, scansa i sassi con un bastone. Ci viene incontro saltando agile sul sentiero sassoso. È vestito come un cacciatore, giacca di velluto stinta, calzoni rimboccati e un fucile in spalla. Confabula con la nostra guida, forse in dialetto, sta di fatto che questa lingua è ancora per me un mistero, anche se ho imparato le parole più semplici. “Dottore, viene da parte del suo capo, qui vicino vive una tribù, è venuto per invitarci a pranzo, che gli dico?” “Forse, in questa circostanza ci fa comodo, abbiamo solo acqua, durissime
gallette, e delle barrette di cioccolato.” Lo seguiamo, è sera, il sole rosso accende il tramonto, attraversiamo un bosco di lecci, poi una pietraia. Percorriamo circa un chilometro, sempre a piedi, i sassi ruzzolano sotto le mie scarpe, ho inciampato più volte. Poi giungiamo a un pianoro. Una lunga costruzione in pietra bassa ci è apparsa, è così legata alla terra che segue il terreno adattandosi a questo. Il tetto sembra paglia impastata di fango. Vicino, il ricovero delle bestie, pecore e capre dormono. Sopra la casa, una parete di roccia. Un piccolo cane nero è corso incontro, scodinzolando e abbaiando, alla nostra guida. Curvandoci siamo entrati uno dopo l’altro attraverso una bassa porticina, è come immergersi all’improvviso nel Medioevo, ci siamo trovati in un unico lungo ambiente scarsamente illuminato, grandi archi sorreggono il soffitto, diverse torce infisse alle pareti mandano lampi di luce, l’unico chiarore naturale proviene da una finestrina sotto il tetto. In fondo un focolare emette fiamme di luce rossa. Non appena i miei occhi si abituano alla semi oscurità, vedo dentro la stanza figure immobili, sedute con le gambe incrociate su dei cuscini. Giù, in fondo, c’è un uomo anziano, ho l’impressione che sia il capo. La luce del fuoco illumina un viso come scavato nella creta, solcato di rughe, è lui, fuma. Un turbante gli fascia la testa, ha la barba lunga che scende su di una veste marrone, sotto la veste si intravedono calzoni sbuffanti. Mi guarda, ha uno sguardo di calma serafica. Un momento stiamo fermi sulla porta, poi entriamo. Il santone, o così mi sembrava, si sta grattando la lunga barba, ci sorride con una bocca sdentata. “Chi è?” chiedo all’attendente che mi sta a fianco. “È un capo spirituale, tanti arrivano qui per raccontagli i propri guai, lui ascolta, li prende su di sé, sul proprio corpo e la gente va via rasserenata.” “Una specie di confessione?” “Sì e hanno altri riti, le cui tradizioni si perdono nella notte dei tempi. C’è una montagna non lontana da qui che credono sacra, una volta all’anno ciascuna
famiglia sale in alto, vicino alla cima salgono come formiche portando legate dietro di sé una pecora o una capra. Queste saranno sgozzate e sacrificate agli dei, come buon auspicio per un buon raccolto. Il sangue scorre dappertutto, carcasse di poveri animali giacciono uno sull’altro, intorno tanta gente, venuta da tutte le parti, che danza e si ubriaca.” Mi paiono tradizioni antichissime e molto primitive. Nel frattempo, il santone, che pare contento di vederci, ci mette nelle mani una fetta di pane e un bicchiere di vino. Alzo il bicchiere alla sua salute, gli altri comprendono, si alzano e brindiamo insieme. Non ci sono altro che cuscini e io ho ripiegato a fatica le mie lunghe gambe. Per terra, una lunga stuoia di cannucce fa da tavolo. Due uomini entrano, appoggiato sulle spalle un gran vassoio di legno. Portano una capretta arrostita e fumante, che buon odore! Tutti si gettano sul cibo e ne strappano un pezzo con le mani. Il mio collega mi dà una spinta: “Mangia o si offendono.” Allora, mi sono arrangiato! Intorno a me molti si leccano con gusto le dita unte. Eravamo alla fine, quando ho udito un grosso rutto, era il capo che digeriva! Subito dopo gli altri emettono un coro di rutti. “Che dolce musica!” “Rutta anche tu, significa che hai gradito e che ringrazi!” Vomitevole! Siamo forse maiali? Ho ruttato! Posto che vai, usanze che trovi!
***
Sono cambiato, io così riflessivo e prudente, direi scettico, ora sono confuso, non so se è amore o una pazzesca tempesta dei sensi. Lei, Catena, una maga? Mia madre avrebbe detto che è un inganno della carne, ma lei ha le idee antiche e rigide sulla morale. L’amore fuori del matrimonio è peccato mortale. Ma come è dolce questo peccato! Fiori di montagna, un mazzolino per Catena, che è la catena che mi lega qui, l’ho riportato dalla mia missione. L’altro giorno le ho dato la catenina d’oro che tenevo legata al collo, ricordo della mia prima Comunione. Sono felice, mentre osservo la sua bocca aprirsi in un sorriso. L’appuntamento era nel boschetto vicino al fiume. Appena mi ha scorto si è nascosta dietro a un tronco. L’ho chiamata. “Vieni amore, sono qui” fa capolino dietro un albero. “Ciao, Gabriele!” L’ho salutata con una antica ballata: “Amor che attendi, amor che fai? Amor ardito, Amor pentito, Amor possente, Amor cortese,
Amor segreto, Come mi insegna amor, Io canto.” “Gabriele, sei unico e romantico, come ho fatto a incontrare un tipo come te!” Ha riso, non conosceva il mio amore per la poesia! “Guarda!” È primavera e anche questo paese sa essere splendido! Come è bello il riflesso del sole sui suoi capelli, ha un vestito rosa e nelle mani fiori di campo! Entriamo nel bosco, la luce filtra tra i rami, è caldo, non c’è un alito di vento. Mi ha fatto scoprire un nascondiglio tra gli arbusti. Siamo entrati chini in un varco di un muro verde, era come una stanza con le pareti di rami e foglie I miei piedi calpestano l’erba tenera che fa da tappeto. Non si sentono rumori. Un uccellino canta. Un luogo di sogno, dove il tempo si è fermato. Ho tolto la mia giacca e l’ho stesa per terra, lei si è adagiata sopra. Mentre infilavo le mie dita tra i suoi capelli, lei, birichina, mi ha preso il naso tirando un poco. L’ho baciata sul collo, sui minuscoli seni rosa, sul ventre, ho baciato ogni centimetro della sua pelle, profumava di rosa. Tremava di gioia, rispondeva alla mia bocca. Non sapevo più chi ero e dove stavo. Stanco, mi sono rovesciato sulla schiena e guardavo il cielo. Siamo tornati a casa, ha dei fili d’erba tra i capelli. “Sei una dea della foresta!”
“Come Diana?” “Sì, come Diana cacciatrice, ma di uomini!” “Non essere cattivo con me - dice Catena - vivo ogni giorno della mia vita per poterti dire: ti amo, e ogni giorno quando è l’alba e ogni sera quando muore il sole ho te nei miei occhi anche se non sei presente.” Non ho parole, sono commosso. I giorni scorrono, tra incontri e bugie. Il lavoro è aumentato e occupa buona parte della giornata. Lei, il mio amore, ora è dolce, ora è malinconica, i suoi cambiamenti di umore mi fanno impazzire. Non so se mi ama, non so se durerà, per ora sono felice, quasi ubriaco come se bevessi champagne. Oggi, per la prima volta ho provato l’infelicità della gelosia. Eravamo a uno dei soliti pranzi che il comandante offre a noi ufficiali. La signora ci riceve gentilissima con tutti, è una perfetta padrona di casa, la sua conversazione vola da un argomento all’altro. Stando a tavola sento, come sempre, un certo disagio guardando il capitano, amo sua moglie. I miei sentimenti sono come immersi in una tempesta, per calmarmi, mi affaccio alla finestra, il vento soffia, mi porta il profumo del mio amore. Mentre sto seduto vicino alla bambina di Catena, scherzando, accade una cosa strana. Si parla al solito della politica italiana, argomento per me molto pesante. Non capisco perché in Italia si tenga tanto a un’influenza sui Balcani. Alzando gli occhi dal piatto vedo, senza ombra di dubbio, che la signora sorride al napoletano.
So che lui è uno che ha successo con le donne. Mi arrabbio, le mani mi tremano! “Che cosa c’entra quel bell’imbusto, Catena è mia, soltanto mia, è la mia dolce Catena!” Accendo una sigaretta, il fumo mi calma. Ritorno all’alloggio in preda all’agitazione.
***
Oggi cavalco Stella, infatti chiusa nella stalla diventa malinconica e via, allora, nei momenti liberi corriamo insieme per la campagna. Incontro fortunato! È una bellissima giornata, la primavera offre i suoi primi fiori, le siepi lungo il sentiero sono di un tenero verde. Un poco fuori città l’ho scorta, ha aperto un ombrellino da sole e eggia con la donna e la bambina. Appena mi ha scorto mi ha chiamato, poi rivolta alla sua compagnia: “Voi due tornate a casa, dopo vi raggiungo.” Si è avvicinata al mio cavallo e gli ha accarezzato il muso. “Sono qua - mi ha detto sorridendo - e sono libera!” Ho provato un attimo di gioia. “Sali con me, possiamo andare in due sul cavallo. Come il principe e la bella!” “Già, una specie!”
Siamo arrivati oltre il fiume, laggiù in fondo si vede una casa colonica. Le galline e le oche saltano nell’aia. “Andiamo a vedere se c’è qualcuno.” Un cane magro e malconcio abbaia. “Avverte la nostra presenza.” Un uomo si affaccia alla porta. Abbiamo l’aspetto di gente per bene. Rassicurato, ci invita. “Venite in questa povera casa, vi offrirò da bere e, se volete, pane e marmellata. È buonissima, la fa mia moglie con le bacche di bosco!” Entriamo. Un lungo tavolone occupa la cucina, a lato c’è un camino , i bagliori del fuoco accendono di luce dorata le tante pentole di rame appese alle pareti. “In questa casa l’ospite è sacro, sedetevi e mangiate.” Catena sorride e addenta una fetta di pane nero. La guardo e mi commuovo. In questo momento, siamo quasi una famiglia. Mi alzo, scuoto le briciole dai calzoni. “Andiamo, cara, si fa tardi!” Non ci vediamo di frequente, sono sei mesi che è iniziata questa storia, sei mesi della mia vita trascorsi come un sogno, rapiti in un’altalena di sentimenti, felicità e disperazione, il suo pensiero qualche volta mi sfugge, non sono sicuro che mi ami. Finita la primavera, trascorsi l’estate e l’autunno, si sta avvicinando l’inverno e
io l’amo sempre più. Lei mi invia dei bigliettini attraverso la sua donna, che è fidata. Semplici parole d’amore, ogni appuntamento è una sfida al destino, esiste sempre la paura di essere scoperti!
Nelle funzioni di medico
“Avanti uno. Spogliati che ti devo visitare.” Davanti a me un ragazzetto spaurito, magro come un chiodo. Uno, poi un altro, e un altro ancora, circa venti persone al giorno. Poi metto tutte le schede in fila per ordine alfabetico, per farle vedere al comandante. Sto nell’ambulatorio dell’accampamento, una stanzetta piccola con un lettino, un armadio per le medicine, qualche ferro chirurgico e il tavolino dove io scrivo una scheda a persona: un’anamnesi medica, così mi avevano ordinato. Gli aspiranti soldati vengono alloggiati in un grande camerone, posto a lato dell’accampamento, una doppia fila di letti divisi da un corridoio centrale e in fondo le docce ed i gabinetti, il tutto piuttosto spartano. Gli arruolati sono tutti pastori o contadini, non conoscono la disciplina, poco la pulizia, niente le armi. Solo a cavallo sono fantastici, quando cavalcano, li vedi venire giù dalle colline fieri come dei. I più anziani hanno la barba, guai a toccagliela! Si lavano fuori e si asciugano con grossi fazzoletti, che poi legano intorno al collo. Con i fucili la cosa è quasi comica, chi lo prende come un bastone, chi lo impugna alla rovescia, ma, dopo pochi giorni, tutti hanno imparato a mirare e sparare. “Come va la vita, amico mio? - rivedo Giorgio - sono felice di incontrarti.” “Sono ritornato da pochi giorni dall’Italia, con Irina abbiamo deciso: ci sposiamo! Posso contare su di te?”
“Sempre.”
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Alcuni giorni dopo. Il giorno della cerimonia, ho indossato il mio vestito migliore, sto appena dietro agli sposi, c’è pochissima gente, per lo più curiosi. Dentro è tutto uno sfavillare di ori, le icone con le Madonne dal lungo viso e con gli occhi cerchiati di nero ci guardano dalle pareti, giro il capo e san Giorgio, che infila il povero drago, sta alle mie spalle. La sposa entra, bianca come un cigno, ha un velo davanti agli occhi. Giorgio, immobile, l’attende. Si prendono per mano. Non so chi impone loro in testa due coroncine di bianchi fiori, fanno il giro dell’altare cantando. Il sacerdote, dalla lunga bianca barba, unisce le loro mani. “Signore, se mi ascolti, fa’ che possano essere felici, che il loro amore viva nel tempo.” Questa è la mia umile preghiera per loro.
Il dolore
Cominciano per me i giorni tristi! Il napoletano affacciato alla finestra mi sta chiamando, vuole parlarmi. “Gabriele, fai il favore, vieni su.” Sebbene a malincuore, non mi è molto simpatico, ho obbedito. Quel viso, non so perché, mi procura disagio. Gerolamo Esposito, l’ufficiale napoletano è arrivato in Albania molto prima di me. Conosce tutti, nell’ambiente militare italiano è popolare, in compagnia scherza, racconta barzellette e mastica anche un poco della lingua del paese che ci ospita. In quel momento si sta cambiando: “Sai, dobbiamo andare a una riunione con il comandante, viene anche un generale dall’Italia! Prendi la giacca posata sulla seggiola e portamela, per favore!” mi dice. Sta davanti allo specchio, annodandosi la cravatta. Forse sono maldestro e così, svogliatamente, do uno strattone alla giacca e faccio per dargliela. In quel preciso momento, un attimo, cambia tutta la mia vita, un biglietto piegato cade dal taschino. Mi chino per raccoglierlo e l’occhio automaticamente mi cade sulla scrittura, le mani incominciano a tremare rimango immobile, come sospeso nel tempo, incapace di pensare, quella è la calligrafia di Catena. La conosco bene, come conosco i suoi biglietti! Carta rosa e profumo! Credo di essere arrossito e poi impallidito, gocce di sudore si formano sulla fronte. Rimango a bocca aperta. Non sento nulla, non so dove mi trovo, fuori dal tempo,
fuori dal luogo. Poi la coscienza ritorna. Monta la rabbia, stringo i pugni. Mi giro di scatto verso di lui. Ho voglia di picchiarlo. Comincio a bestemmiare. “Porca miseria, sei figlio di una cagna!” Ho ripreso a parlare come al tempo dei vicoli. Si gira sorpreso, mai mi ha udito così. “Calmati! Che ti prende? Sei impazzito? Non c’è una ragione perché tu mi insulti!” “Ah, forse ho capito, lo sospettavo da tempo, anche tu sei l’amante della signora Catena! Ho indovinato, non è vero?” Sorride amaro. Lo guardo muto, lo odio. “Tranquillo, io lo sono stato, ma ora non lo sono più. Ti spiegherò, calmati, cerca di ascoltarmi.” Mi accascio sulla sedia, anche volendo, non riuscirei a dire una parola. “Ero appena arrivato in Albania. Il comandante, assegnandomi i compiti, mi chiese un favore personale, si trattava di accompagnare la signora, quando usciva e fargli da scorta. Uscivamo insieme, lei si attaccava al mio braccio e sorrideva. Ho preso con lei una certa confidenza. Un giorno, mentre si eggiava in campagna era quasi mezzogiorno e il caldo dell’estate bruciava i campi e le nostre guance ardevano, si è sentita male, era
quasi svenuta. Non c’era un alito di vento, respirava a fatica, l’ho presa in braccio perché non cadesse, ci siamo abbracciati. Si è innamorata di me e io di lei, come avrei potuto resistere! E così è iniziato. Credo abbia un debole per gli ufficiali. Devo dire che da qualche tempo non mi cerca più! Ora comprendo, sei arrivato tu, il bel tenente-medico dagli occhi di cielo, arrivato da Perugia per scacciare l’infelicità e la noia dei suoi giorni.” “Sono amareggiato da tanta volubilità” dice il napoletano con una smorfia. Una rabbia improvvisa mi fa tremare. Non mi controllo. Gli sferro un pugno al viso. Lui, annichilito, si appoggia al muro, le gambe non lo reggono. Corro via. Ricordo poco di quel momento, so solamente che sono scappato, fuggito laggiù per la campagna verso il bosco, lungo il fiume dove qualche volta ci incontravamo. Poi, alfine stanco, mi sono seduto all’ombra di una vecchia quercia. C’è una nebbia umida e grigia, mi siedo, il freddo penetra sino alle ossa. Lì sono rimasto per ore, come stordito, la vedo come la prima volta, vestita di rosa, con la gonna mossa da un vento leggero, venirmi incontro sorridendo; quel posto mi dà un poco di pace. La pioggia, che ha cominciato a cadere, mi risveglia. Sento un freddo terribile,
torno all’infermeria. Sapevo che il nostro amore era fragile, proibito e nascosto, ma non immaginavo che la fine venisse in maniera così improvvisa. Un pensiero mi gira per la testa, un dubbio, lei mi ha veramente amato? Trascorro la notte lunga e buia sul mio letto di ferro, affondando il viso nel cuscino bagnato dalle lacrime. Ho sognato lei che se ne andava, svaniva nella nebbia senza voltarsi, senza una parola, portando via la gioia e l’ultima speranza.
Lettera della sorella Clota
“Caro Gabriele, stiamo tanto in pensiero, perché non abbiamo ricevuto più tue notizie. La mamma ti avrà scritto almeno venti lettere senza aver risposta. Ha paura per la tua salute e si tormenta. Qui è tanto freddo, se mi affaccio alla finestra vedo la brina che copre i campi. Ho paura che la mamma si ammali. Ti prego, scrivile, povera donna, soffre molto!” Già da diversi giorni sto disteso sul mio letto di ferro, ho la febbre alta, immobile fisso il soffitto e guardo con indifferenza i travicelli di legno, la vista del cibo mi dà la nausea. Ho un forte bruciore allo stomaco, l’intestino sembra intrecciarsi su se stesso. In pratica tutto, tutte le mie cellule sono in rivolta, come se il dolore volesse uscire senza riuscirci. Non avrei saputo distinguere la veglia dal sogno. Sono scivolato in una specie di torpore, come se fosse entrata la nebbia nella mia camera e mi avesse avvolto. Le immagini scorrono veloci, il mio arrivo in Albania, la tristezza della solitudine e lei, Catena, mi appariva come l’ho vista al fiume, accarezzata dal sole e bella come un angelo, vado per afferrarla e ridendo svanisce. Ho ricoperto la coperta del letto con i suoi biglietti, mescolati con le foto, foto di gruppo. Mi sono risvegliato, vicino a me Vimille mi tocca la fronte. “Dottore, ha una febbre da cavallo!” “Prendimi l’aspirina nel cassetto” rispondo tremando.
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È arrivata all’improvviso come una folata di vento. Entra in infermeria, si toglie il cappello, si avvicina, ombre oscurano il suo viso. Sono lì, tra medicine e puzza di disinfettanti, ho appena medicato un ferito, per terra garze insanguinate. Ha gli occhi rossi, sa tutto. “Che vuoi da me?” “Posso avere sbagliato, ma io ti ho sempre amato e ti amerò sempre.” “Bugiarda!” le ho allungato uno schiaffo! “Ti credevo la più sincera delle donne! Sei un’attrice che recita l’amore! Sono stato molto male, ora ho bisogno di riflettere, ti prego vai! Il ato è ato.” Dice lei: “Tu sei il mio amore assoluto.” Si è coperta gli occhi, ha cominciato a singhiozzare, si è girata e ha cominciato a correre fuori, verso il prato. Ho pianto, non mi importa se non è da uomo. Io, che facevo il duro, lo scettico e mi tenevo alla larga dalle donne! Chi mi sa dire perché ci si innamora? Che casino, la vita! L’altra notte non potevo respirare, seduto sul letto boccheggiavo come un pesce nella rete, mi era venuta una crisi d’asma, stavo male; allora, decisi di abbandonare tutto e tornare presto in Italia. Ma ho firmato per due anni. Vimille è molto preoccupato, mi porta i pranzi a letto, è pieno di premure per me. Oggi guardo, con il naso appiccicato al vetro della finestra, una grossa nuvola viola nel cielo, porta neve, grandine, non so, certo quella nuvola è anche sopra la
sua casa e lei è infelice. Comunque la storia è finita, nel più ridicolo e triste dei modi, per me è un gran dolore. Il gelo dell’inverno, l’abbandono delle speranze sono arrivati insieme, si tengono a braccetto come due amici. Dovevo allontanarmi, perché un uomo solo, lontano dal suo paese, senza un affetto, fa una vita priva di ogni senso. È tornata il giorno dopo. Sono appoggiato sulla porta di casa, tremo di rabbia. Quando l’ho vista avvicinarsi, sono rimasto immobile. “Gabriele” mormora vicinissima. Il suo profumo mi avvolge, mi stordisce, mi tenta. “Se mi perdoni, ti sarò sempre vicina, sarò la tua ombra, il tuo respiro, la tua gioia, la tua speranza!” “Vattene, non abbiamo più nulla da dirci.” Si è allontanata piangente. Dopo un poco di tempo, due o tre giorni, lei è venuta di nuovo. Vimille non l’ha fatta are. Mi protegge. “Che desidera, signora? Il dottore è ammalato e non può ricevere nessuno.” “Ma io devo vederlo a qualunque costo!” “Non posso - rispose l’attendente - ho delle disposizioni.” È diventata pallida e non riesce a muoversi, rimane sulla soglia della porta. “Si sente male, signora, le vado a prendere un bicchiere d’acqua?” “No, grazie, gli dia questo.” È un affettuoso biglietto.
“Amore mio caro, perdonami, ho sbagliato tante volte nella mia vita, ma io ti ho amato e ti amo tanto, se puoi, dammi un poco del tuo tempo, anche un solo minuto, ti devo parlare, guarisci presto, un bacio, la tua Catena.” Dalla finestra l’ho vista allontanarsi, camminava ondeggiando lentamente, a un certo punto ha inciampato sui sassi della via, è stata per cadere poi si è ripresa, pioveva una pioggia fredda, veniva giù continua, senza speranza di tregua. Così, quella sera si è allontanato il mio amore. Vimille, preoccupatissimo per la mia salute, mi porta da mangiare in camera, mi rimbocca le coperte come un bambino. Povero ragazzo, è venuto qui per lavorare, è di indole buona, è generoso, gli voglio bene come a un figlio, che non ho mai avuto. Non conosce le donne e quanto perfide e bugiarde possano essere. Nella mia camera rifletto: Io, Gabriele, non so come comportarmi. Forse tornare nella mia terra mi farebbe bene. Vorrei fare domanda per un congedo anticipato per malattia. Ormai il lavoro di medico militare non lo sento più mio. Iniziato l’inverno, io esco di rado, cammino per la campagna, pioggia, freddo e fango, mi sento come uno che ha il gelo addosso e le scarpe bucate sotto la pioggia.
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Nuvole cariche di pioggia si addensano in cielo e il vento fischia come un lamento tra gli alberi, quando due figure femminili escono furtive dal portone della villetta del capitano. Quella vestita elegantemente con cappellino e veletta che copre gli occhi è la signora Catena, l’altra la sua cameriera. Camminano rapide, è chiaro che non desiderano essere notate.
La cameriera parla, quasi sussurra, alla sua signora. “La maga dove andiamo è una fattucchiera, con le carte sa fare delle piccole magie, predice il futuro e dicono che possa parlare con le anime dei defunti, toglie il malocchio e confeziona strani oggetti.” “Sbrighiamoci, è sera!” Scendono verso la città antica, camminano tra gli oscuri vicoli, lì il sole non penetra mai, ano sotto file di panni stesi da una parte all’altra della stradina. In fondo alla viuzza si fermano davanti a una casa miserevole, bassa, con il tetto di grigia ardesia e le imposte chiuse, bussano. La porta cigolante, chiusa da una spranga, si apre. Una figura si profila sull’uscio. “Entrate.” La stanza assomiglia a un salottino, pesanti tende di vecchio velluto mettono l’ambiente nella penombra, una lampada ad acetilene emette bagliori rossastri. Alle pareti lunghe strisce di carta giallognole che scendono dal soffitto sino al pavimento, sono antiche, piene di segni misteriosi e di parole magiche. Due occhi scrutano. È lei, la maga. Un’anziana, sotto il turbante un viso scavato, solcato da innumerevoli rughe immobile, senza espressione attende seduta dietro a un tavolo. “Venite, vi aspettavo, le carte mi avevano annunciato il vostro arrivo. Non abbiate paura, volete sapere la fortuna, l’amore, gli eventi della vita!” Un’aquila impagliata sembra guardare intorno con i suoi immobili occhi gialli. “Sì, fatti coraggio mia signora” mormora la cameriera. Catena si avvicina al tavolo. “Che cosa rappresentano quelle carte appese?” “Spiegano i misteri delle antiche magie, i movimenti celesti che influenzano la
nostra anima, alcune vengono dalla Transilvania e narrano di vampiri.” Catena spaventata: “Sono venuta perché credo nelle carte, so che non si può sfuggire al destino e la magia mi attira, mi affascina. Vorrei vivere un’altra vita.” “Siediti, cara, ora prendo le carte, i tarocchi sanno ogni cosa!” Due occhi grandi sporgenti, di un celeste slavato, la fissano indagatori. Le mani, così magre che lasciano trasparire le ossa, sfogliano i tarocchi, ognuno rappresenta una figura, sono affascinanti e di oscuro significato. Sono carte bellissime: cavalieri, dame, fanti, asse di cuori, asse di picche, tutti disposti in fila sul tavolo spiccano sotto la luce, quasi fossero vivi. “Ora, silenzio, la mia mente deve volare nello spazio e nel tempo, percepire gli umori, le tracce di pensiero lasciate nell’aria dalle persone. Devo aiutare le carte a dire quello che sanno. Concentrati anche tu sulle figure, queste non mentono e ci racconteranno la verità dei fatti.” “Davvero?” “Potessi rimanere secca così seduta, all’istante.” La maga parla con voce profonda e rauca che sembra venire da lontano. “Dunque, vedo un cavaliere cha sta vicino a una regina (Lei, signora) e la ama, ma un pericolo prossimo la minaccia, è questo fante di bastoni che cerca in tutti i modi di rovinare l’armonia.” “Vedi altro?” “C’è uno sviluppo, entra un’altra donna, ma è donna di picche, è una femmina cattiva, cerca di rovinare quella buona. E poi, è tutto confuso, ma mi pare di vedere persone in fuga, cavalli che corrono, non so dirti altro. Sei come in mezzo a un mare in tempesta. Dovrai lottare per essere felice!” Catena impallidisce, sta per svenire. “Gabriele, povero amore mio!”
“Dammi le tue mani” ordina la maga. Delle mani adunche, magrissime, dalle lunghe unghie si sovrappongono, tiranne, a quelle della signora. “Sentirai calore, è il fluido vitale, ti scuoterà, rinascerai come persona nuova.” “Grazie, ho brividi di calore, è come una scossa elettrica.” “Ti senti più forte?” Balbettò di sì. La maga: “Penso che ti abbiano fatto una fattura.” “Che cosa è una fattura?” “È qualche trucco che fa chi odia una persona per farle del male.” “Non capisco.” “Vai a casa, quando sei nella tua camera, guasta il tuo cuscino, se dentro vi è una croce fatta di piume, bruciala, è lei che porta disgrazia. Torna figliuola, insieme sconfiggeremo le forze del male.” “Vedremo, ora devo andare, tieni il denaro.” Gli occhi celesti della maga la fissano e la seguono, a Catena sembrano enormi, fugge.
***
“Corra, corra, dottore!” Vimille ha la voce strozzata, lo guardo sulla porta, ha una faccia da fare paura. “Che succede?”
“Il capitano sta male, anzi malissimo.” Afferro la mia borsa da medico e vado di corsa. Arrivo ansando. Entro nella camera in penombra, scorgo il letto grande e, sopra, sprofondata, una grande figura. Il silenzio mi colpisce, è un silenzio cupo, profondo. Ora distinguo meglio, è il comandante, il suo corpo grande affossato tra le lenzuola, le labbra viola, non respira. Intorno a lui persone costernate. Mi guardano, sperano che possa fare qualche cosa. Catena, pallida, è in un angolo, si torce le mani. Lo chiamo, lo sfioro, non risponde agli stimoli, gli occhi sono aperti, come per guardare il cielo, gli prendo la mano, è inerte. Prendo dalla borsa lo stetoscopio e apro la camicia, il cuore non batte più. Un evento troppo repentino e inaspettato perché si possa fare qualche cosa, o si possa tentare almeno una rianimazione. “È morto.” In quel momento un mormorio di incredulità, poi singhiozzi. “Questa mattina ha fatto colazione, si sentiva bene, a me sembrava tutto normale” dice Catena, la sua voce debole sembra venire da lontano. “Eravamo seduti in camera, è diventato rosso, quasi viola, ha cominciato a tremare, si è messo una mano al petto.” “Che hai?” ho esclamato. “Non mi ha risposto, dalla sua bocca è uscito un lamento lungo, straziante, poi con un tonfo è caduto per terra.” Gabriele: “Il suo cuore non ha retto, si è spezzato.”
“Ma come? Un uomo così forte, come avremmo potuto immaginare?” “Mi dispiace” è solo quello che riesco a dire. Mi rialzo affranto, triste come se mi avessero bastonato. Questa è una grande sconfitta, mia e della medicina. Tutti corrono, cercando di fare qualche cosa. Si accendono le candele al lato del letto. Il prete inginocchiato prega, qualcuno piange. Nella confusione non pensavo a lei, era lì immobile in un angolo, mi avvicino per dire due parole di consolazione, mi guarda senza vedermi, è assente. Le prendo la mano, la poso sulle mie guance. Sono dispiaciuto e imbarazzato, la morte è padrona della stanza. Penso di andare. Mi avvicino alla porta, lei mi segue, si avvicina e mi sussurra all’orecchio: “Ti amo!” Esco. Vado via rapido, fuori piove, la pioggia trasportata dal vento mi entra negli occhi, intorno a me non c’è anima viva, pieno di tristezza raggiungo casa.
Villa La Quiete
Si erge su di una collina, non molto lontana, tanto tempo fa era una vera villa, residenza di signori che lì trascorrevano le vacanze. Da una parte un folto bosco, dall’altra non lontano, tra due file di pioppi, scorre il fiume. Un grande cancello di ferro un poco arrugginito mi impedisce di entrare, lo spingo con forza, cigolando si apre. Cammino lungo il viale ombreggiato, dappertutto il segno del degrado, piante inselvatichite, panchine rotte, gatti spelacchiati alla ricerca di cibo. Arrivato sotto la scalinata, lego la cavalla a un pino, entro. Un gatto nero mi a proprio davanti ai piedi: brutto segno! Alcune sembianze di persone vestite di bianco eggiano. Una mi a vicino, mi sfiora, senza guardare, ha gli occhi vuoti, privi di espressione. Villa La Quiete, a prima vista, appare come una vecchia villa malconcia. Ha una torretta centrale e due ali, una a destra per uomini e una a sinistra per le donne. Le ali sono divise in tante camerette. Ora guardo le finestre, hanno le sbarre, assomiglia a una prigione. Il cuore batte così forte che respiro con difficoltà. Salgo le scale, le gambe mi tremano. Entro nell’ingresso, c’è poca luce, un infermiere a, lascia dietro di sé un tintinnio, un suono sinistro. Lo guardo, intorno alla vita pendono una serie di
chiavi. “Posso vedere il dottore responsabile della clinica?” chiedo. “Vado ad accertarmi che sia libero.” Lunghi corridoi girano intorno alla torretta come serpenti, salgo le scale, con il fiatone, in cima l’ambulatorio del direttore. Mi riceve quasi subito. “Sono un tenente medico dell’esercito” mi presento. È gentile, ma distante nel suo camice bianco al di là della scrivania, una grande finestra guarda la valle, alle spalle un muro di libri vuole confermare la sua scienza. “Sono venuto per la signora Catena, è qui da pochi giorni, penso, e soprattutto la posso vedere?” “Lei non è un parente, comunque come collega qualcosa le posso dire. È sedata in terapia farmacologia, in quanto a vederla, cinque minuti soltanto. La faccio accompagnare da un infermiera. Quando l’hanno portata qui era disidratata, probabilmente non aveva mangiato né dormito da molto tempo, c’è qualcosa o qualcuno che le fa paura. Parla in continuazione del marito defunto, si rivolge a lui come fosse vivo, ha scatti d’ira alternati a crisi di pianto. Rifiuta di parlarmi, anzi, se mi vede, urla. Le abbiamo fatto molte flebo, perché continua a non mangiare. Le uniche parole che pronuncia sono, il nome della figlia ed il suo, si chiama Gabriele, non è vero?” “Sì, mi chiamo Gabriele. Come reagisce alla terapia farmacologia?” “Non so se potrà essere sufficiente, ma ora ci sono nuove scoperte della scienza.” “Quali?” “L’elettroshock.”
Tremo, ne ho sentito parlare, ma non bene, all’università dicevano di questo: “tecnica testata su dei maiali, quindi non adatta alle persone, ma ai maiali in questione!” Il dottore mi guarda in silenzio, gli occhi grigi dietro agli occhiali sono diventati di ghiaccio. “Mio caro collega, forse non ha molta pratica neurologica né conosce i progressi della scienza, non sono assolutamente d’accordo con lei. L’elettroshock ha dato buoni risultati e si farà.” Il nostro colloquio finisce così, nella totale incomprensione. “Posso vedere la paziente?” “Per cinque minuti soltanto, la faccio accompagnare dall’infermiera.” “Buongiorno, la ringrazio!” Arriva una donnona con il camice bianco, alla vita chiavi tintinnanti, la seguo. Davanti alla porta si ferma, tira fuori una chiave, mi infilo dietro di lei. La stanza è dipinta di bianco, una finestra con le sbarre dà sul giardino. Non c’è nulla, tranne una seggiola e un lettino. Lei è seduta lì e guarda fuori, lo sguardo perso nel vuoto. Le hanno messo una specie di camice bianco, hanno tagliato corti i suoi riccioli color delle castagne, non si muove, capisco che ha i polsi legati. È pallidissima. Faccio cenno all’infermiera di uscire. “L’aspetto dietro la porta” bofonchia. La stanza è fredda, attraverso le mura ogni tanto si ascoltano le grida dei malati. Catena mi riconosce subito, i suoi occhi si riempiono di lacrime, singhiozza
forte. “Gabriele salvami, portami via da qui, soffro troppo, la mia casa, voglio vedere la mia bambina! Io ti ho sempre amato!” “Non ti abbandonerò, tornerò presto, amore mio, abbi fiducia in me.” “Ora devo andare” la bacio sui capelli. “Ti prego, ti prego, torna!” Alcuni giorni dopo sono tornato dal dottore, mi ha ricevuto con la solita fredda cortesia. Senza alzarsi dalla seggiola: “Lei, ancora qui?” “Dottore, questa mattina ho fatto visita alla paziente, mi pare che stia abbastanza bene - mentivo - posso portarla via?” “No, lei non è il marito e neppure un parente, dove vuol portarla? Lei non ha nessun titolo legale per prendere queste decisioni.” “Il marito è morto, i parenti sono in Italia, e io penso che a casa sua con la bambina starebbe meglio che qui.” “La signora non è in condizioni di lasciare la clinica, è sotto sedativi, tra l’altro mi pare di aver capito che ci sia stata una discussione anche con lei.” “È vero, ma chiarirò tutto! Sia sicuro che io le sono affezionato e mi prenderò cura di lei.” “Vedremo se farà progressi, per ora non è possibile.” Con queste poche parole il dottore mi ha congedato. Mi volto, sul suo viso è stampato un sorriso cattivo. “Posso almeno vederla? ” “Sì, però in presenza dell’infermiera.”
Questa volta nessuno mi accompagna, vado da solo per lunghi corridoi, o finestre con l’inferriate, vedo alcune donne sedute, paiono fantasmi. “Ehi, amico” sento battere una mano sulla spalla, mi giro, un uomo alto e allampanato sta dietro di me. “Chi sei?” “Non mi riconosci? Sono il generale Cialdini, quello che ha sconfitto l’esercito del Papa a Castelfidardo.” “Ah, hai combattuto in Italia?” “Sì, nelle Marche, tanto tempo fa.” “Bravo!” non faccio in tempo a parlare che un grosso infermiere arriva e lo porta via. “Generale, andiamo!” “Non le faccia del male” dico io. Pochi i dopo riconosco la camera dove sta Catena. Spingo la porta, è chiusa a chiave, chiamo l’infermiera, mi apre. È sempre li seduta immobile, la guardo: è notevolmente dimagrita, è pallida e trema. Quando mi vede piange. Faccio cenno all’infermiera di allontanarsi. Mi chino e le dico, mentre le accarezzo il viso: “Tornerò e ti porterò via da questo posto maledetto. Ancora non so come farò a mantenere la promessa.” “Sono come cieca, incapace di credere che le cose possano cambiare, tutto è grigio, questo è un incubo! Questa è una prigione per matti!” “Mi ami ancora?”
“Sì.” “Allora abbracciami.” Con il dottore ho perso la speranza di qualsiasi trattativa, ogni mia richiesta va a vuoto e io mi trovo come davanti a un muro. Appena uscito dalla camera, corro giù per le scale a testa bassa, immerso nei più cupi pensieri. Improvvisamente, urto contro qualche cosa, una massa bianca e morbida, stordito, mi fermo: “Dottore, sono io, Bulloc, l’infermiere del reparto dove è appena stato.” “Scusami.” “Se ho ben capito è dispiaciuto per la signora, la numero 12 (i pazienti sono chiamati con i numeri).” Quella montagna bianca mi sta sorridendo. “Forse io posso fare qualcosa.” Lo ascolto attentamente.
Progetti di fuga
“Caro Giorgio, ti devo confidare un segreto” gli prendo le mani. “Sei un amico, il solo amico che ho qui.” “Dimmi.” “È un segreto che ho nascosto nel mio cuore. È qualche mese che ho un’affettuosa amicizia, per parlare chiaro, sono innamorato e corrisposto della signora Catena. Ora, tra noi ci sono dei problemi, abbiamo litigato, l’ultima volta che è venuta da me non l’ho ricevuta, ma non per questo l’abbandonerò, mi sento in parte responsabile del suo esaurimento. E poi il marito è morto!” “Sono sorpreso, senza parole! Ti credevo indifferente alle donne, non sarò io, un amico, a giudicarti!” mormora Giorgio. “Qualche volta la vita e l’amore prendono delle strane direzioni. Tu sai che ora è in clinica. Sono andato a trovarla, è un posto terribile e i trattamenti, invece di curare i malati, secondo me li peggiorano. Lei ha avuto uno shock per la morte del marito, ma ti posso assicurare che non è pazza! È solo una donna fragile e sensibile. Se tu la vedessi, soffre di essere chiusa come un uccellino in gabbia.” “Ma come mai è a Villa La Quiete?” “Giorgio, lo so. La sorella del marito della cui esistenza nessuno era a conoscenza, è venuta dopo la morte del fratello e si è insediata in casa da padrona. Lei ha fatto in modo che fosse ricoverata.” “E come?”
“Il certificato di un medico compiacente.” “Ma che cosa è accaduto per provocare questo?” “Erano parecchi giorni che la signora era strana, la vedevano correre in giardino, strapparsi i capelli, parlava da sola, le parole erano incomprensibili, più volte è svenuta!” “Dicono che una mattina ha iniziato a urlare, poi ha strappato tutto quello che le capitava sotto mano, i lenzuoli, le tende delle finestre, poi è scesa in cucina, ha preso un coltello e si è scagliata contro la cognata. O te ne vai o ti uccido, tu non sei la sorella di mio marito, ma il demonio!” “Evidentemente non la poteva sopportare!” dice Giorgio. “È una crisi isterica” aggiungo io. “Ah, che guaio! E la bambina?” “Temporaneamente è affidata a Irina. In poche parole, voglio portarla via da lì, in quel posto con quelle cure peggiora! E nel più breve tempo possibile.” “Devi sapere che lì dentro gli uomini sono privati della loro dignità umana, sono un niente nelle mani del dottore e degli infermieri, talvolta sono materiale d’esperimento. Per i corridoi, puoi vedere are fantasmi di uomini. Quando camminano gli infermieri, si ode un tintinnio di chiavi che fa rabbrividire, le hanno legate alla vita. Le cure non sono vere cure, docce fredde improvvise, elettroshock, qualche volta anche percosse, manderebbero fuori di testa anche il più saggio degli uomini. Se osi protestare ti praticano una puntura di sedativi, questa ti toglie ogni sentimento e ti fa cadere in un sonno profondo. La voglio portar via da lì. Mi serve il tuo aiuto.”
“Sono pronto, mi fido di te, che devo fare?” “Prenderò una licenza, dirò che devo andare in Italia per motivi familiari. Mi devi accompagnare, da solo non ce la faccio.” “Per prima cosa devo trovarti un cavallo, poi ti dirò.” “Non sarebbe meglio il treno?” “No, è troppo lento, non ci sono orari precisi, alla stazione ci possono vedere, poi lo sai: c’è a tratti, non copre tutta la rete!” “Anche i militari preferiscono arrivare per nave.” “Nessuno qui deve sapere.” Il martedì è giorno di mercato nella radura appena fuori della piccola città. Vimille cammina attento a non scivolare nel fango o, peggio, a evitare gli escrementi del bestiame. Al di sotto di una verdeggiante fila di elci, sono legate a dei pali numerose vacche bianche e mucche pezzate con il camlo al collo, molte hanno il muso affondato nella biada. A lato, in un recinto, pecore e caprette, di fronte galline e oche che allungano il collo, chiuse in grosse gabbie. Solitario, un imponente gallo dalla cresta cremisi si affanna a stare in piedi, ha le zampe legate e gonfia il collo, come offeso dal trattamento. Tra gli animali i contadini, venditori urlanti, pollaioli e qualche compratore riempiono l’aria di grida. Le loro voci si mescolano al grugnito dei maiali tra esclamazioni, bestemmie e grida di richiamo. Il chiasso è grande, la puzza quasi insostenibile. “Dove stanno i cavalli?” chiede Vimille a un contadino, ando a fatica tra i posteriori di due vacche. “Laggiù, vicino al fiume!”
“Chissà perché il mio tenente mi ha mandato a comprare un cavallo, anzi due, non gli bastava quella che abbiamo nelle stalle?” I cavalli in fila sono bellissimi, da tiro, enormi, da corsa dagli agili garretti, poi somari e qualche mulo. Vimille scorge infine un cavallo nero dalla pelle lucida e una lunga criniera. “Questo mi piace, quanto vuoi?” “È un cavallo arabo, costa parecchio!” “Macché arabo! Dimmi quanto vuoi, poco perché non ho tanti soldi, e lo porto via insieme all’altro, subito!” Dopo poco i due cavalli e l’uomo camminano per la strada che porta dai militari.
La fuga
È l’alba, gli alberi si intravedono e le lunghe ombre si ritirano in fretta nel bosco, quando due cavalieri, Gabriele e Giorgio, arrivano alle scale della clinica. Hanno fasciato le zampe ai cavalli per non fare rumore. Per strada non c’è anima viva. Gabriele sale le scale e bussa leggermente. Dopo poco un rumore di i, la porta cigola, la spranga che la chiude cade a terra. Sono attimi di terrore. Nel vano, la sagoma di un grosso infermiere che sostiene una bianca sottile figura: è Catena. “Il denaro, presto! Devo pagare l’infermiera che è addetta alla sua persona.” “Eccolo!” Gabriele allunga la mano, contiene una busta. “Sbrigatevi, prima che arrivi qualcuno! - mormora l’infermiere - Lascerò il portone aperto, deve apparire che è fuggita da sola! Lo crederanno, perché già una volta ha cercato di fuggire attraverso il giardino, l’hanno ripresa fuori del cancello.” La spinge in avanti, qualcosa di bianco la veste, forse un lenzuolo, forse un camice, lei barcolla. “Attenzione! Ieri sera le hanno somministrato dei forti sedativi.” È pallidissima, trema, le hanno tagliato i capelli. Sono un centimetro ritti sul cranio.
Quando mi vede, fa un profondo sospiro: “Gabriele, amore mio, sei qui! Sei venuto a prendermi?” “Vieni con me, presto, montiamo sul mio cavallo. Giorgio ci aspetta dietro quegli alberi, andiamo!” Mette le braccia intorno al mio collo con le ultime forze che ha, mi scocca due deboli baci sulle guance. Poi silenzio, la testa le cade da un lato, dorme. È freddo, vieni.” la avvolgo in un mantello. Non so più che cosa provo per lei, pietà, affetto e amore o tutti questi sentimenti insieme? La risposta non l’ho, devo riflettere. I due cavalli corrono per viottoli e strade di campagna, a quell’ora deserte. Solo lunghe ombre di alberi e di frasche mosse dal vento durante il cammino. Dopo poco raggiungono la casa di Irina. Già da lontano si vede il fumo che esce dal camino e sale verso il cielo. Dalle imposte filtra la luce. Salgo le scale di corsa e busso. Irina apre la porta: “Siete arrivati, finalmente.” Catena, che è davanti a me, scende, è pallida, trema di freddo. “La bambina è qui? So che l’hanno affidata a te!” “Dorme, ora la sveglio. Vieni, ti puoi cambiare, e poi vi faccio qualche cosa di caldo, un tè?” Giorgio: “Purtroppo abbiamo fretta, abbiamo paura di essere visti, dacci qualcosa da portare via, acqua e viveri.” In quel momento, un grido.
“Mamma, mammina mia!” e la bambina tende le braccia. “Cara, sono qua e non ti lascerò più.” Catena piange stringendola. La piccola mi guarda, cerco di farla sorridere. “Che sembro?” Ho i pantaloni e gli stivali militari, ma indosso un maglione di lana troppo grande, che ha fatto mia madre, sopra un vecchio giaccone a quadrettoni nocciola e un cappellaccio di feltro con la piuma, li ho trovati in soffitta! “Somiglio a Robin Hood!” La piccola ride. “Ora siamo nella foresta di Sherwood. È tempo di andare, montiamo a cavallo.” “Dove andiamo?” “Ci dirigiamo verso il nord, seguendo strade secondarie.” “Un momento - dice Irina - sento il rumore di una macchina, nascondetevi, portate i cavalli dietro casa e, voi, chiudetevi nel magazzino dietro l’orto.” Bussano con forza alla porta. “Signora Irina - l’infermiere parla - avete visto una donna in fuga?” “No, perché?” “È scappata questa mattina presto la vedova del capitano italiano, il dottore vuole che la ritroviamo, potrebbe farsi male o combinare qualche guaio. Sappiamo che ha qui la sua bambina e pensiamo che la voglia prendere.” “La bambina è a letto che sta dormendo, ora la prendo e ve la faccio vedere, vi prego non la spaventate.” Irina torna quasi subito con la bimba in braccio, è piena di paura, stringe con
forza il collo di Irina. “Eccola, ma la madre non c’è, se sarò a conoscenza di qualche cosa vi avvertirò.” “Scusi tanto, signora” così dicendo, l’infermiere si gira e se ne va. L’infermiere, mentre va alla macchina, mormora tra sé: “Ma come avrà fatto quella donna a scappare, è impossibile che abbia fatto tutto da sola. Sarà, ma qui sotto c’è lo zampino di qualche mio collega!” Sono quasi le dieci, quando il camioncino bianco della clinica, guidato da un autista accompagnato dall’infermiere arriva nel piazzale antistante a Villa La Quiete. È ancora molto freddo. L’infermiere scende borbottando e soffiandosi rumorosamente il naso arrossato, sale poi rapido sulla torretta, dove si trova lo studio del direttore della clinica. “L’avete trovata?” “No, per prima cosa siamo andati a casa della maestra Irina, dov’è anche la bambina. Irina meravigliata, meraviglia sincera le assicuro. Poi, di fronte alle nostre insistenze è tornata con la bimba in braccio. Ha detto che ci aiuterà e se sa qualche cosa ce lo farà sapere. Nella strada di casa abbiamo poi incontrato un contadino. Ehi, buon uomo, avete visto una donna fuggire?” “Ho visto poco fa due uomini a cavallo, uno portava davanti una donna, andavano veloci, non so altro.” Il dottore, agitato, misura a grandi i il suo ambulatorio. Poi si mette seduto e pensa, si tiene la testa tra le mani, come fosse un peso troppo grande: “O è fuggita nei boschi o è corsa verso il fiume. Se è andata per i sentieri la potete ritrovare, non così se si è diretta verso il fiume. Queste persone malate sono attirate dall’acqua che scorre.
Se è limpida e ha riflessi d’argento, si specchiano. Qualche volta pensano di scorgere un angelo che le chiama. Si tuffano, credendo di dimenticare i dolori e le angosce, ma nell’acqua c’è un demonio che le abbraccia e le porta via lontano, in un posto da dove non tornano più. Un posto pauroso e oscuro più della notte. Non capisco, forse se è viva, è stata aiutata da quel poco di buono di tenente medico, mi ha detto che voleva portarla via da qui, o con la mente oscurata si è buttata nel fiume. Comunque, non sopporto che un paziente fugga dalle mie cure speciali, è per me un’offesa! Prendete il camioncino e cercatela, domandate, qualcuno l’avrà veduta.” “Sino a dove dobbiamo spingerci?” “Sino ai confini, prendete due latte di benzina e andate.” È calata la sera, il vento che scende giù dai monti ci circonda in un gelido abbraccio. La primavera offesa ripiega le sue ali e fugge. Stanchi, dopo aver cavalcato per diversi chilometri arriviamo ai piedi di una collina, proprio ai limiti di un folto bosco, come stesse lì da sempre tutt’uno, con la terra e il luogo, una piccola casa di pietra. È una abitazione di povera gente, pensa Gabriele. “Andiamo, abbiamo bisogno di riposo.” “Sì, sono tanto stanca” sussurra con un filo di voce Catena. Giorgio bussa, nessuna risposta, il suono si perde nell’aria. Persa la pazienza, prende la porta a calci. “Chi è?” una voce roca, viene dall’interno.
“Aprite, non siamo banditi.” La porta cigola come se stesse per cadere a pezzi, poi si apre lentamente, il lume di una lanterna appare e, dietro, l’ombra di un uomo. “Che volete?” “Un posto al coperto per dormire, abbiamo con noi una donna e una bambina!” “Non ho posti per dormire, l’unica camera l’occupiamo io e mia moglie!” “Ci accontentiamo di poco!” “Se è così, potete trovare posto nella stalla, lì il fiato delle vacche riscalda l’ambiente, vi darò un poco di paglia e due coperte.” “E i cavalli?” “Potete legarli laggiù sotto la tettoia. Però, in cambio, mi dovrete dare qualche cosa. Siamo poveri, molto poveri!” Gabriele si fruga nelle tasche: “Tieni.” “Seguitemi.” Appena messo piede nella stalla una vampa di calore mista a una folata di puzza ci avvolge. “Lì, potete sdraiarvi” indica un mucchio di fieno gettato in un angolo. Saranno ate quattro o cinque ore, io dormo sul fieno preso da una immensa stanchezza. Il mio è un tipo particolare di sonno, prima profondo e pieno di incubi, ora, vicino all’alba leggero, ho gli occhi chiusi, ma posso avvertire i rumori intorno a me. Non so dove mi trovo, non so se dormo o sono sveglio, ma odo alla mia sinistra un rumore strano, come se qualcuno scivolasse sulla paglia. Mi alzo di scatto seduto, un bacio umido mi tocca la guancia. Apro gli occhi, è Catena che è venuta vicino a me.
Ci guardiamo. “Mio Dio, mi hai spaventato! Credevo che fosse il contadino, è un tipo avido e ho paura che ci voglia derubare.” È quasi l’alba, una luce tenue filtra dalle grate di ferro della finestrucola della stalla. “Sveglia gli altri e ce ne andiamo via in silenzio.” Ora, dentro di me, sento rinascere un sentimento. “Prendi lo scialle e una coperta, è tutto quello che serve per salvarci dal freddo.” Anche Giorgio si alza, scrolla la paglia e poi prende in braccio la bambina, la avvolge nel suo mantello e va fuori. In un momento siamo a cavallo. In quell’istante il contadino corre fuori, affannato, rosso dall’ira brandisce un bastone e urla. “Disgraziati, vagabondi, andate via, ma io voglio denari, molti denari!” Noi a cavallo corriamo via. Siamo quasi al confine, oltre questo fiume c’è il territorio della Iugoslavia. Bisogna fare presto a uscire dall’Albania, ci possono inseguire. Alcune ore fa, ho intravisto il camioncino della clinica che correva per la strada principale, mentre noi stiamo inoltrandoci nel bosco! Giorgio: “Non ci raggiungeranno!” “Come faremo ad attraversare il fiume?” “Vieni, seguitemi, camminiamo lungo la riva, prima o poi troveremo un ponte o qualche cosa che gli assomigli.” Abbiamo camminato parecchio nella campagna, lungo il fiume una fila di pioppi
sembra non finire mai. Dall’altro lato numerosi salici sembrano piangere, con le chiome sfiorano l’acqua. Gli zoccoli dei cavalli affondano nel fango, più di una volta sono stato per cadere. Appena superata l’ansa del fiume, all’improvviso, lontano verso l’orizzonte, Giorgio vede qualche cosa. “Una zattera, coraggio andiamo!” Un fischio prolungato, è il traghettatore. Arrivati, guardiamo. La zattera è grande, formata da tronchi di quercia tagliati a metà, da questa parte un grosso cavo con occhiello che scorre su un cavo di acciaio che va da una parte all’altra del fiume. “Possiamo salire? Due cavalli tre adulti e una bimba, reggerà?” “Sì.” “Vieni - rivolto a Giorgio - abbiamo trovato un Caronte che ci guiderà al di là del fiume attraverso onde e correnti al di fuori dal guado, liberi dal pericolo!” Mi incammino, dietro di me viene Giorgio, poi Catena e la bambina. Il traghettatore prende un lungo e robusto palo, spingendolo nel fondo del fiume e poi, tirandolo su più volte, fa scorrere la zattera lungo il cavo. Siamo arrivati dall’altra parte! Proprio in quel momento intravedo, al di là del fiume, il camioncino bianco di Villa La Quiete, ci ha inseguito sino a lì, ma ormai siamo in salvo. Infatti, gira e torna indietro. Attraversiamo un terreno paludoso, incolto, con ciuffi d’erba, piccoli stagni, fango, qua e là, disturbati dagli zoccoli dei cavalli, saltano dei ranocchi.
Oltreata questa terra ingrata, vediamo una collinetta, in cima un lungo muro dall’intonaco scrostato. “È il muro del cimitero!” esclama Giorgio. Camminiamo sino a sera, quando il freddo pungente diviene insopportabile. C’è un bosco dinanzi a noi, il sentiero ci porta dentro. Qui è quasi notte, tronchi altissimi chiudono la luce del sole. Rompe il silenzio il crepitio di qualche ramo che si spezza. L’odore di muschio e di funghi impregna l’aria, l’erba è umida e scivolosa. Gli alberi hanno perso le foglie, cadute a terra in un tappeto giallo e rosso. Fermarsi, sdraiarsi e aspettare l’alba? Come è possibile con una donna e una bambina? Il freddo si fa più intenso. Cominciano a cadere bianchi fiocchi di neve. Decido: meglio camminare sino a quando un barlume di luce ci fa distinguere il sentiero. “Ascolta” mi dice Giorgio. Un ululato cupo, profondo si innalza dal fondo del bosco. All’improvviso, dai cespugli spunta un muso dai peli bianchi, due occhi come fessure ci guardano. “Un lupo!” “Non aver paura, non assaltano l’uomo se non in caso di fame estrema.” Il lupo ci segue a distanza, anzi ci precede saltellando tra l’erba. “Guarda, si direbbe che voglia insegnarci la strada!”
Camminando, io rimugino sul mio destino, ho perso ormai la speranza, quando vedo gli alberi farsi più radi e un leggero chiarore comparire all’orizzonte. Trattengo il respiro, chiamo Giorgio e, via, di corsa, una radura si apre di fronte a noi. È un vasto prato, non credo ai miei occhi, vedo in fondo la sagoma di un imponente castello. “Gabriele, quello che vediamo è un castello antico come quelli delle leggende? Vedi le torri, sono quattro, una per ogni lato con i merli in cima, c’è il ponte levatoio?” “Avviciniamoci, potremo osservare meglio.” Arriviamo di corsa al fossato che lo circonda, dove una volta scorreva l’acqua c’è una melma verdastra. Una portone di quercia rinforzato da enormi chiodi, ferito e pieno di tarli ci sbarra il o, a lato pende un cordino di ferro attaccato a una piccola campana, disperato mi ci attacco e suono con tutte le mie forze. Dopo un tempo che sembra interminabile, nel grande angusto portone si apre uno sportellino quadrato, grande abbastanza per fare affacciare la testa di un uomo. Da quella apertura, intravedo parte di un capo e due occhi scrutatori ci fissano. L’esame dovrebbe essere positivo, sento infatti rumore di ferraglie, è il catenaccio che scorre. Ci appare un vecchietto curvo con una lanterna in mano, accanto a lui un enorme cane nero, con la lingua rosa a penzoloni dalla quale cade abbondante saliva bianca schiumosa. “Il cane, è pericoloso?” “No, è un molosso, nonostante l’aspetto è buono, non abbiate paura, non vi farà del male.”
Prima che potessi fermarla, la bambina allunga la sua piccola mano e la pone sul groppone dell’animale. Il cane si gira sorpreso, ma con mia grande meraviglia dà una leccata sulla guancia alla bimba. Il custode: “Adora i bambini.” “Venite, prima portiamo i cavalli nella stalla, poi andiamo a parlare con il padrone.” “Chi è?” “Un nobile inglese, sir Arthur Lin.” Senza altre parole ci fa cenno di seguirlo. “Ci sono dei trabocchetti?” “No, sono stati chiusi da tempo.” Nel frattempo ci guardiamo intorno, mentre iamo sopra le mura di cinta, poggiati lì, da chissà quanto tempo, scorgiamo una fila di vecchi cannoni. “Di che epoca sono?” chiedo. “Della prima guerra mondiale, il padrone li ha raccolti dopo le battaglie - mi risponde il vecchietto - e li ha portati qui.” Il guardiano ha un o stanco e strascicato, cammina illuminando la strada con la lanterna, il cane lo segue agile, saliamo un’imponente scalinata di legno, arriviamo a una porta coronata da uno stemma, ai lati due armature di ferro, è aperta, entriamo. Io per primo, gli altri timorosi dietro di me. La luce è fioca, due torce alle pareti, riflettendosi sulla stanza, mandano bagliori rossastri. Appena la vista si è abituata alla quasi oscurità, scorgo in fondo alla sala, sprofondato in una poltrona un distinto signore, fuma la pipa, con una mano fa cenno di accomodarci. Mi sorride, ha due enormi baffi.
“Good evening, accomodatevi.” Parla italiano con un buffo accento inglese. “Ci dispiace di presentarci così, dopo diversi chilometri a cavallo siamo molto sporchi, abbiamo tutti i vestiti bagnati e tanto fango nelle scarpe.” “Potete restare per la notte e anche più se vi aggrada, mi farete compagnia, in questo posto sperduto non è facile fare due chiacchiere. Dirò al mio maggiordomo Gastone di preparare per tutti un bagno caldo e degli abiti per cambiarvi, stasera starete a cena con me.” Seguendo Gastone, entriamo in un lungo corridoio, ci sono della feritoie, la luna, che ora è alta nel cielo, illumina alcune parti del muro, lasciandone altre in tetra penombra. Alle pareti ritratti degli antenati del barone, guerrieri, prelati, signore ingioiellate ci guardano severi. Tutti camminano in silenzio intimoriti, la bambina mi ha preso la mano e la stringe forte. “Eccoci arrivati, questa è la camera per la signora” apre la porta con una pesante chiave di ferro. “Qui hanno dormito, cardinali, conti e tanti nobili!” “Che meraviglia!” Al centro un gran letto con quattro colonne di legno ritorte sorreggono un baldacchino di damasco rosso, sulla parete ci sono angeli dorati che sostengono delle candele, ai lati due specchi gemelli riflettono le nostre facce stanche e spaventate. Di fronte al letto un arazzo con scene di caccia, cavalli e cani, che rincorrono nel bosco la volpe. Per terra morbidi tappeti nascondono il pavimento. Da un lato, un grande e alto specchio sopra un mobile scuro.
“Per una notte puoi sognare di essere una principessa! Chiuditi dentro con la spranga, non si sa mai!” Noi continuiamo. “Dove ci porti?” “Nella torre di destra ci sono altre camere per gli ospiti.” Avanziamo per umidi corridoi, i muri sono di pietra, è quasi buio, saliamo dei gradini, Gastone apre una porticina scricchiolante e ci introduce in quella che sarà la nostra camera. L’arredamento è più spartano, pavimento in rozzi mattoni, un letto di ferro, un lavabo e una cassapanca. “Il letto è abbastanza grande potete starci in due.” Guardo attentamente, la finestra dà sul fossato. “Ma questa finestra ha le sbarre, è forse una prigione?” “Non ora, forse lo è stata” dice il maggiordomo, io ho l’impressione che rida sotto i baffi. “Verrò a chiamarvi per la cena e porterò qualcosa per cambiarvi!” È arrivata l’ora della cena, bussano alla porta, è Gastone, in mano ha degli abiti, li depone sul letto. Vedo con meraviglia due paia di stivali, due calzoni in alto sbuffanti, attillati in fondo, e le giacche rosse con i bottoni d’oro. “Ma che abiti sono? Forse da caccia?” “Sì, signore, ogni settimana c’è una grande partita di caccia oltre a noi servitori partecipano anche signori che abitano nei castelli vicini. Andiamo, il signore vi aspetta.” La sala da pranzo ampia e bella, adatta a ricevere molta gente, è illuminata da torce infisse sulle pareti, numerosi candelieri aprono le loro braccia luminose sul
tavolo, un leggero vento fa tremare le fiammelle che sembrano vive. La tovaglia bianchissima riflette la luce. Si respira un’aria di antico. Servitori in livrea vanno e vengono, camminano silenziosi dietro le nostre spalle portando vino e vivande. Imbarazzano un poco, chi, come noi, non è abituato a tante raffinatezze. Sir Arthur è seduto a capotavola. “Accomodatevi.” Siedo vicino a lui in preda a una certa curiosità. Ma le sorprese della giornata non sono finite, anzi stanno per cominciare! Dietro alle mie spalle avverto un rumore leggero di i, un fruscio di vesti, un profumo intenso di rose mi avvolge. È Catena fasciata in un abito prestato e dietro di lei una ragazza. “È Jane, mia nipote!” Due grandi occhi verdi mi guardano, al di sotto di una massa di capelli corvini il viso è pallidissimo, la bocca rossa, ha qualcosa di strano, non sorride mai. “Abbiamo ospiti - esclama - questa è una sera veramente speciale!” Vorrei parlare ma, impacciato e sorpreso, riesco appena a balbettare e dire come mi chiamo e a presentare i miei amici. Dietro alle nostre spalle i camerieri sono pronti a riempire i nostri bicchieri, sento i loro sguardi. Se fosse per me, direi loro di andarsene. Mi imbarazzano. Sul tavolo molte posate, diversi piatti, una scodellina per lavare le mani, non so come mangiare, sono intimorito. Non ho più fame. Jana è seduta di fronte a me.
“E il castello di che epoca è?” Mi racconta. “Questo castello è antichissimo, è stato costruito dai cavalieri di Malta nel 1290. In quel tempo fuggivano dalla Terra Santa, cacciati da Gerusalemme dagli arabi. Alcuni cavalieri proseguirono per la Francia e l’Italia, altri si fermarono qui, nascondendo il proprio tesoro.” “E dove?” “Nessuno lo sa e i pochi documenti che abbiamo su, in biblioteca, non sono chiari.” “Dopo mangiato possiamo visitare il castello?” “Vi accompagno, vedrete cose interessanti, la parte restaurata e quella ancora in rovina. Non tutta la parte vecchia del castello è illuminata.” Catena e la bimba preferiscono andare in camera, riposare. Gastone ci accompagna. Catena entra in camera, mette la spranga e poi posa la bimba addormentata sul letto. Finita la cena, Jane si avvia lungo i corridoi, ha in mano una torcia, cammina leggera, appena sfiorando il pavimento. Camminando, racconta. “Dopo che i Templari furono perseguitati, alcuni di loro sono venuti ad abitare nel castello e i monaci benedettini hanno raccolto nella biblioteca tutti i manoscritti più antichi. Un bibliotecario viene una volta a settimana per catalogarli. Venite, andiamo a visitarla.” Entriamo in biblioteca, gli scaffali in noce sono altissimi sino al soffitto, stipati di libri con copertine di cartapecora.
Jane ci spiega: “Qui potete trovare documenti antichissimi, gli incunaboli, i codici in pergamena, tanti libri del Cinquecento, le cinquecentine, e abbiamo anche una bolla papale. Ci sono libri che parlano di Galeno, il celebre medico, edizioni della Divina Commedia, diverse Bibbie, insomma, tutto quel che può interessare uno studioso, una ricchezza immensa!” Davanti a me un messale, sembra dimenticato aperto su di un leggio. Mi chino a guardarlo, c’è una bellissima miniatura, vicino le note di un canto gregoriano. “Ci sono anche libri di magia! A proposito di magia - continua Jane - raccontano che questi corridoi hanno visto girare i fantasmi dei Templari vestiti di bianco con la croce rossa sul petto. Compaiono dove una volta era la chiesa, poi spariscono, inabissandosi nel pavimento.” L’atmosfera è cupa, l’ambiente pieno di mistero. iamo nella galleria grande, la fantasia mi gioca uno scherzo, le ombre della notte paiono animarsi, sono i cavalieri, i guerrieri, le dame scese dai quadri, mi impediscono di camminare, prendo coraggio, seguito da Giorgio tremante, o attraverso le loro ombre. Jane continua a percorrere antiche stanze, dietro Tobia, il cane nero gigante, la segue sbavando. Mentre cammino, qualcosa di freddo e umido mi sfiora il collo, urlo, oh - oh. “Non si spaventi, sono i pipistrelli attaccati alle pareti, li conosco bene, sono innocui, vede, io vivo per lo più la notte, non sopporto la luce del sole! Ho una malattia che mi affligge, la pelle mi si riempie di bolle e gli occhi si arrossano e piangono se vedo il sole!” Ora capisco perché ha la pelle pallidissima. Che strana ragazza! Parlando, siamo arrivati all’antica farmacia, il locale è male illuminato, sugli scaffali ampolle con nome latino indicano i rimedi, sul tavolo altre ampolle, storte per la distillazione, ora casa dei ragni.
Un gufo impagliato, con i suoi occhi gialli, pare sorvegliare la farmacia addormentata. “In questo luogo, i frati avevano quello che ora noi chiamiamo un ospedale aggiunge la ragazza - curavano i pellegrini che bussavano malati alla loro porta, erano per lo più gente in cammino che per la via Francigena, raggiungevano san Giacomo di Compostela, adoperavano erbe e altre misture a noi ignote. Ora, andiamo a visitare la cappella.” Entrati, sento un odore pungente di muffa, respiro appena, in fondo un’antica pietra con incisa una croce. È l’altare. I muri sono nerastri, affumicati nel tempo dalle candele, quadri di santi appesi alle pareti. La polvere ricopre tutto. Sollevo gli occhi e vedo il ritratto di un angelo cacciato dal diavolo. Il diavolo è spaventosamente realistico, le corna, gli occhi, la bocca spalancata. Al di sotto una scritta in latino mezza cancellata, aguzzo gli occhi. « Hic est enim locus terribilis ! » Andiamo, questo luogo non invita alla preghiera. “Infatti c’è un mistero, la leggenda racconta che qui è stato nascosto il tesoro dei Catari, quella setta perseguitata. Il tesoro non è mai stato trovato.” Rabbrividisco. “Vorrei andare a riposare.” “Va bene, vi accompagno!” Si fa presto a dire di dormire, mi giro e rigiro nel mio letto. Nel dormiveglia, mi pare di vedere angeli dorati guardarmi, hanno gli occhi verdi di Jane. Nel silenzio si odono i tocchi di un orologio, è mezzanotte!
Mi alzo, sono tutto sudato, Giorgio dorme. In quel momento, un urlo terribile echeggia. Confuso, mi vesto alla meglio ed esco, un altro urlo più debole si propaga per i corridoi, poi un tonfo come se qualcosa fosse caduto a terra. I raggi della luna piena attraversano i finestroni, scivolano sulle pietre erose. So che queste apparizioni favoriscono il risveglio di strane creature. Avanzo a tentoni lungo il corridoio, inciampo, cado, mi rialzo e proseguo sino alla sala. C’è Jane curva su di una persona. Che sta facendo? Al rumore dei miei i alza il capo e sorride, i suoi denti bianchi come perle luccicano al lume delle torce. “È svenuto, cerco di rianimarlo!” Urlo, ho una paura tremenda. Mi vengono in mente i vampiri. Basta, ne ho fin troppo per questa sera! Vado a letto! Trovo la mia camera e mi chiudo dentro con il chiavistello. È tardi, ho dormito come un sasso, Gastone mi chiama. “Il padrone vuole vederla nel suo studio.” “Me solo?” “Sì.” Sir Arthur mi aspetta, una bottiglia e un sigaro sono posati sul tavolo. Il camino è , il fuoco rischiara l’ambiente e illumina le pareti di legno.
Dietro di lui un grande quadro di stile rinascimentale: lo osservo meglio, rappresenta il dio Bacco mentre sta sorseggiando una coppa di vino, il viso è arrossato, le labbra turgide, una collana di alloro in testa, vicino a lui, sedute, ninfe del bosco. Che quadro godereccio! Sir Arthur ride. “Vai - ordina al cameriere - lascia il vino e i sigari.” “Caro ragazzo, so che è un dottore e le voglio raccontare quello che mi è accaduto stanotte.” “È successo qualche cosa?” “Già, non so se avevo bevuto un goccetto di troppo, ero quasi assopito quando mi sono accorto di non essere solo nella stanza. Lì, sulla poltrona, dove ora è seduto lei, vedo una figura trasparente davanti a me, un teschio che mi sorride, indossa una tunica bianca con una croce rossa sul petto.” Un crociato dunque? Proprio qui? Sarà l’impressione ma un’aria gelida mi scorre alle spalle. Comincio ad averne abbastanza di questo posto. Il cavaliere continua. “Ehi, tu! - mi dice il fantasma - dà un goccetto anche a me! Sono tanti anni che mi aggiro in questo castello, e non ho più assaggiato vino e mi piaceva, come mi piaceva!” “Preso dalla disperazione - aggiunge sir Arthur - gli tiro il vino che ho nel bicchiere: Vattene! E lui, forse offeso, sparisce. Che dice dottore, forse un’allucinazione?” “Può essere. Il confine tra realtà e sogno è molto sottile in determinate circostanze e sotto l’influsso dell’alcol.” L’atmosfera di questo castello influenza anche me.
“Vorrei dirle, Sir, che domattina all’alba noi partiremo.” “Cosi presto! Dirò a Gastone di prepararvi il calessino, tre persone ci vanno comode. I vostri cavalli li lascerete qui a riposare.” “Grazie, ne hanno proprio bisogno, hanno camminato tanto. La ringrazio molto, lo riporteremo insieme ai cavalli dopo aver accompagnato la signora: deve raggiungere l’Italia.” “Non c’è di che, io non l’adopero più, ho comperato una Balilla, come è bella, lucida e nera, con la tromba a lato e ho anche uno chauffeur!” “Certo, una macchina dà un’altra soddisfazione” dico io. “Il progresso, mio caro, va rapido! Macchine, treni, aeri sempre più veloci, i telefoni hanno trasformato il mondo, non so immaginare il futuro! Ora ho in mente di comperare un’Alfa Romeo decappottabile, mi piace sentire il vento sulle guance quando corre, mi dà il senso della libertà.” “Anche a me piacciono le macchine, ma sino ad ora non ho avuto la possibilità di comperarle!” “E che ne dice del cinema? Per ora è muto, ma in futuro cambierà e sarà una cosa bellissima.” “Sono d’accordo, anche se ancora non l’ho visto.” “Grazie dell’ospitalità, è stato veramente gentile.” “Di nuovo grazie.” Mi alzo, lo saluto. “Scusi, devo andare in camera ad avvertire il mio amico e la signora. Sir Arthur, mi raccomando, non beva più di un bicchiere al giorno!” Non sto molto bene, mi duole terribilmente il capo, non credo ai fantasmi ma alcuni fatti inspiegabili mi spaventano in questo maniero. Alle prime luci dell’alba, un’alba livida e fredda, bussano alla porta, è Gastone:
“Seguitemi nelle stalle.” Scendiamo diversi scalini sdrucciolevoli, dietro di me Catena, Giorgio e la bambina ancora addormentata. La stalla è ampia, diversi cavalli in fila nei loro box, in un angolo ammassati diversi fucili. Li guardo preoccupato. “Sono per la caccia” dice Gastone. In fondo il calessino coperto, che ci aveva promesso, è grazioso e comodo. “Ecco, ora vi attacco due cavalli robusti e così potete partire.” “Guarda di tenerci bene i nostri due cavalli - Gastone - li riprenderemo al ritorno.” Non vedo l’ora di partire! “Il signore non è stato bene al castello?” “Certo, ma l’aria fresca mi fa stare meglio. Addio, è ora di andare, ci aspetta una lunga strada.”
A Dubrovnik
Guardo il mare dall’alto delle mura, siamo al tramonto e il sole rosso scompare lentamente annegando tra le onde, laggiù, all’orizzonte. Scendo per ripidi scalini, mi ritrovo dentro la città. È calata la sera, cammino solo per le strade della cittadina, ho lasciato i miei amici alla locanda. Le mie gambe prese da una misteriosa irrequietezza hanno bisogno di muoversi e i miei occhi vogliono vedere il sole. Me lo trovo dinanzi all’improvviso, un vecchietto dai lunghi capelli grigi, si regge su due gambe arcuate e viene avanti con o insicuro. Arrivato proprio di fronte a me, mi sorride, ha solo due denti. Mi dà un foglio. “Sono italiano, non so leggere il croato.” Mi guarda, poi socchiude gli occhi, mi scruta di nuovo, ha deciso: gli sono simpatico. “Vedo che cammina pensieroso, come cercasse qualche cosa - dice il vecchietto io posso fare al caso suo! Questo foglio è una poesia, la posso tradurre, venga con me.” “Dove?” “Alla mia bottega.” “Bottega?” “Sì, sono un raccoglitore di anticaglie, come voi dite: un rigattiere. Non lo potrei dire, sussurra con aria misteriosa, ma nel retrobottega ho un torchio da stampa, dei timbri, lì, se è necessario, posso fare dei documenti di viaggio, che
assomigliano moltissimo a quelli veri!” “Avrei proprio necessità di un aporto per una signora.” “Mi deve portare una foto, posso fare miracoli!” “Cerco di trovarla, la devo avere nell’altra giacca, molto presto la porterò!” “Se non la trova, posso ritoccarne una qualsiasi, in modo che le assomigli, in tal caso devo vedere la signora. Ora, andiamo!” E si incammina lesto per le strade lastricate da grosse pietre. Il locale è grande e profondo, a prima vista distinguo poco, tanto è il caos. La luce è scarsa e c’è un certo odore di muffa sotto le antiche arcate a vela. I pezzi antichi sono ammassati lungo le pareti, i tappeti arrotolati sul pavimento mi fanno inciampare. “Visto che stiamo diventando amici, le chiedo un favore. Alla locanda hanno una camera solo per la signora e la bambina, io e il mio amico non sappiamo dove dormire.” “Ah - mi risponde - è facile, basta un poco di adattamento.” “Che vuol dire?” “Qui, in fondo alla bottega, ho un comodo divano letto e vicino una poltrona allungabile, potete stare da me.” Corro alla locanda, Catena è seduta in un angolo che attende. “Cara, sono qui! Volevo dirti che io e Giorgio dormiremo da un rigattiere, ci ha trovato posto nel suo negozio, tra pezzi antichi e scartoffie.” Lei mi interroga. È pallida e stanca. “Non pensavo di rivederti, l’ansia mi stringe il cuore, c’è ancora amore tra di
noi?” “In questi giorni, è vero, sono confuso, ma l’affetto che ho per te è sempre vivo. Il problema è che tu non puoi restare in questa terra, qui non hai avvenire, devi ritornare in Italia, alla tua casa.” “Vogliamo mangiare - quasi urla Giorgio - dopo tanti chilometri ho una fame da lupo.” È mezzogiorno! Entriamo all’osteria, ando sotto a un grande arco, poi un piazzale con tante galline libere di ruspare la terra. Un grosso architrave di quercia, una stretta porta, siamo dentro. L’oste, con un grembiule che doveva essere stato bianco, corre, è di fronte a noi. “Sedetevi, vi porto una caraffa di vino buono della casa e una bottiglia d’acqua!” Vicino a me, Giorgio annusa come un cane. Sente odore di arrosto, forse un’oca o un capretto. “Buon uomo, cosa ci puoi dare?” “Risotto coi cavoli o farro con pezzi di agnello.” “Non c’è qualche cosa di più semplice?” “Sì, certo, zuppa di cipolle.” “Va bene per la zuppa e di secondo?” “Bistecca di maiale alle erbette.” Catena appoggia la sua testa alle mie spalle. Finito di mangiare, metto una mappa militare sul tavolo: “Ecco noi siamo qui indico con il dito - abbiamo di fronte il mare e tante, tante isolette.” “Sono debole” mormora Catena.
“Fatti forza, siamo vicini alla meta. Noto che con facilità a dal riso al pianto. Mi alzo di scatto, le o un braccio dietro alle spalle: “Andiamo cara.”
***
A Spalato, il castello di Diocleziano, imponente, stava di fronte a noi, delle lunghe mura, in blocchi di pietra squadrati, formano un quadrilatero e quattro torri ai lati. Di fronte, palme mosse dal vento. Non molto lontano, oltre gli alberi, il mare nostro, bello come non mai, azzurro con bagliori verdi, sembra aspettarci. Era come se dicesse: Venite, venite, affaticati, nostalgici, al di là delle mie onde c’è il riposo, c’è la nostra patria, l’Italia. In una di queste torri abbiamo trovato una pensione, per noi quasi un miracolo, stanchi come eravamo. Scrollata la stanchezza, dopo aver dormito in un lettino dalle lenzuola sporche, in un’umida cameretta, sono uscito e mi sono messo alla ricerca. Per una stradina, scendo verso il mare ed ecco, laggiù, ai miei occhi assonnati si profila il porto. Questo è caotico, le barche dei pescatori stanno tornando, si intrecciano le voci, volano i saluti, qualcuno bestemmia in varie lingue. Inciampo su delle corde arrotolate. “Dove posso trovare il capitano di quella nave grande, ormeggiata laggiù vicino al molo principale?” chiedo ad un marinaio. “Beve alla bettola.” Ridono.
Appena arrivato davanti all’entrata, una vampa di caldo, puzza di fumo, mi chiude la gola. Un rumore di grida e chiacchiere, interrotto da forti risate, mi circonda. Pochi gradini scivolosi. Entro in una cantina oscura, non mi piace quel luogo. I tavoli sono pieni di marinai seduti, intenti a bere. “Dove posso trovare il capitano della nave, L’Adriatica, ormeggiata nel porto?” “Laggiù nell’angolo, signore, è quello con il berretto blu che fuma il sigaro.” “Signore, lei è diretto al porto di Ancona?” “Non sono un signore, solo un misero capitano che cerca di sbarcare il lunario, portando merci di qua e di là dell’Adriatico.” Le braccia muscolose escono prepotenti dalla maglietta, il viso è bruciato dal sole. “Sì, comunque sono io il comandante.” “Potrebbe portare in Italia una signora, che, per essere sincero, non ha il aporto in regola, ma ha tanta necessità di raggiungere l’Italia.” “Non si potrebbe veramente, la mia è una nave da carico.” “Questa è una situazione particolare, mi raccomando a lei.” “Comunque, sono pronto ad aggiustare tutto, ho delle conoscenze al porto di Ancona, che possono chiudere un occhio. Dipende da quanto è disposto a spendere.” “Il prezzo non importa.” “Allora dirò di sì, a patto che la signora si chiuda nella cabina che le darò e non esca per tutto il viaggio.” “Va bene.”
“Partiremo questa sera, si tenga pronto. Accompagni la signora un’ora dopo del tramonto”. Quando ormai l’oscurità avvolge tutto, si distinguono a mala pena le banchine del porto, la nave imponente e immobile, ormeggiata si prepara ad accogliere il suo carico. Ci avviciniamo, un fischio acuto ci avverte che i pochi eggeri possono salire. Sul molo, Catena mi abbraccia. “Penso che niente sia più come prima, ho paura che non potrò vederti più.” Ha le lacrime agli occhi. “Non vorrei lasciarti.” “Non si possono cancellare i sentimenti - mormoro - per me è impossibile dimenticare un amore che vivo ancora, né scordare che ti ho tenuta tra le braccia. Ricordo ogni singola parola che ci siamo detti. Nel bene e nel male, non so, hai cambiato la mia vita. Questo sentimento ferito e negato, non è mai cambiato. Ho sempre saputo che la nostra era una situazione difficile, non è stato facile vivere con il tuo ato. Spesso, nel silenzio della mia camera, la mia bocca pronuncia il tuo nome. Sei il mio angelo.” Lei: “Il mio ultimo dolce e amaro pensiero sei tu, vorrei fermare il tempo!” “Io, che ti ho amata come mai nessuna, ti dico che in questo momento bisogna inevitabilmente dirci addio.” Catena: “Vivrò aspettandoti, vivrò per il ricordo dei nostri incontri!” “Ho inviato un telegramma a tua madre, verrà a prenderti ad Ancona, tieni anche questi pochi denari!” “Non li voglio!” “Non essere sciocca, sono per te, ti potrebbero essere necessari!”
Cerco un fazzoletto, le asciugo le lacrime! L’abbraccio, è appoggiata a me. A fatica l’allontano. “Ti verrò a cercare, il tuo amore è anche il mio amore, non devi dubitare.” Catena: “Addio amore! Ci rivedremo!” La nave, al buio, ha i motori, lascia lentamente il porto, si allontana, domani sarà in Italia. Sono rimasto fermo, sinché mi fu possibile scorgere i fari della nave, poi il buio inghiotte tutto e porta lontano il mio amore. Giorgio mi ha messo una mano sulla spalla. “Andiamo.”
La campagna umbra
Ieri, sopraffatto dalla malinconia, sono partito. Ho preso la stessa nave con la quale ero arrivato, sembrava aspettasse me, lì, immobile nelle acque del porto di Valona. Ho viaggiato tutta la notte, sveglio, immobile nella mia cuccetta. La mattina ho visto, dopo tanto tempo, le coste d’Italia, finalmente una piccola gioia per la mia anima. Sono arrivato alla stazione con il mio sacco e ho preso il treno. Questo sbuffava, tremava, il fumo della locomotrice, un enorme pennacchio grigio lambiva i finestrini, una spessa nebbia avvolgeva tutto. I prati, gli alberi, si susseguivano e, veloci, svanivano alla mia vista. Ricordo come rapidi sono trascorsi gli anni, ora siamo verso la fine dell’anno del Signore 1939. Adesso sono sul treno che mi porta nella campagna di Perugia, verso la casa di mia sorella. Gli studenti che vanno in città, lo chiamano “la mucca,” per via della lenta goffaggine, poi sui suoi fianchi c’è la sigla MU, che fa pensare a quell’animale. Ci vuole una mezz’ora per arrivare. Sceso dal treno, mi metto in cammino lungo un viale di querce, verso la sua abitazione. Mi corre incontro e mi abbraccia. “Benvenuto caro! Sono tanto felice! Speravo che tornassi presto da me, ma non
ne ero sicura!” Da quando sono tornato dall’Albania, più malato che sano, sto sempre lì. L’amore si è allontanato da me, malconcio, come addormentato. Mia sorella abita in un grande edificio rurale. Dalle finestre, si vede il fiume Tevere. Sotto la luce del sole appare ai miei occhi, tra due file di pioppi come un serpente d’argento che scorre, si torce su se stesso e scompare. Lì non ho trovato rumori della città. Il gallo del vicino pollaio, la mattina all’alba, mi sveglia con il suo canto, che assomiglia a un inno dedicato al giorno. Qui faccio il contadino, il fattore, zappo l’orto, la mattina presto vado al pollaio, penso che i polli mi conoscano e aspettino le briciole di pane e il granturco che porto con me. Il silenzio della campagna è interrotto solo dal canto degli uccelli, dal sorgere del sole sino a sera. Nel pomeriggio, prima che cali l’oscurità, raccolgo la legna e accendo il caminetto, il fuoco riscalda le mie braccia stanche. Prendo un libro e leggo, storie di poeti o di condottieri che sono ati in tempi antichi da qui. Questa vita mi piace. Sto dimenticando i miei dolori. Le voci dei contadini, che talvolta si chiamano da lontano, le ruote dei carri che cigolano sulla strada, interrompono il silenzio, che altrimenti sarebbe assoluto. Faccio lunghe eggiate e riporto sempre qualche cosa, frutta, funghi e, un giorno, un uccellino ferito da curare. Un mattino, eggiando, sono arrivato a un piccolo podere su in collina. Numerosi polli, anatre, oche si sono spaventati a vedermi e volavano
starnazzando in tutte le direzioni. Si è affacciato il contadino, dovreste vedere che tipo, magro con i calzoni legati alla vita da un cordino, in testa un berretto bisunto! “Sono Bastiano, il colono, benvenuto nella mia casa, signore!” Mi ha fatto entrare in una cucina nera di fumo, ai lati del camino la moglie lavora a calza. Un bambino con una camiciola senza mutande scorrazza vicino al fuoco. “Gradisce un bicchiere di vino? È un rosso frizzante che ho fatto io.” Mi metto a sedere, sono stanco per la camminata. “Volete vedere il podere, signore? È in vendita, abbiamo una stalla con due vacche e una mucca, nei campi poi la terra è buona, farinosa, ci cresce il grano e il granturco che è una meraviglia! Chi lo prende fa un affare, parola di Bastiano!” “Ma, Bastiano, quando ti devi spostare o portare i mangimi per il bestiame come fai?” “Io ho la Gigia, la somara, la dovreste vedere come è bella tutta grigia con il musetto bianco, poi quando ti guarda con quegli occhi dolci! È tanto brava e utile! Ci faccio salire mia moglie, i bambini e la roba!” “Non ci crederai, ma mi ha convinto.” Tornato a casa, da mia sorella, gli propongo di comperarlo in società. Ho sempre amato la terra, ora poi che sta arrivando la primavera, mi incantano le gemme sugli alberi, i ciuffi delle viole spuntate ai lati della strada, i riflessi della luce che fanno divenire d’argento le foglie degli olivi della collina. Sento quella terra più vicina, questo specialmente da quando ho comprato il podere, Bastiano compreso. Ho un senso nuovo della vita, che nasce in me.
La sera, a casa di mia sorella vicino al camino, apro il libretto colonico dove segno tutte le spese, concimi, mangimi per il bestiame. I guadagni sono pochi, anzi direi inesistenti. Vado a trovare Bastiano. Le prime che mi vengono incontro sono le galline, dietro le segue un cane curvo e macilento, ha l’aria di aver preso numerose botte. Bastiano è lì nell’aia che spacca la legna. L’accetta si alza minacciosa verso il cielo, poi ricade sul tronco facendolo a pezzi. Mi corre incontro: “Quanto sono contento che è venuto! Sor padrò, la stagione è stata cattiva - dice il contadino - ma l’estate e l’autunno porteranno i loro frutti, sono sicuro. Io lavoro con tutti i tempi, con il sole e con il vento, queste zolle conoscono il mio sudore, da mattina a sera curvo sull’aratro scavo nelle profondità alla ricerca del suo segreto, strappo via la gramigna, erba cattivissima e infestante. Studio quando la luna è crescente per gettare i semi. Ho messo nel campo uno spaventaeri vestito con i miei vecchi abiti, per fare paura agli uccelli, dovreste vedere: sembro io a braccia aperte, ma per il raccolto aspettiamo l’estate. Tuttavia, io amo questa terra dove sono nato e cresciuto. A luglio c’è la battitura e io voglio invitarvi, dovete fare l’onore di stare a pranzo con noi. Ora, entrate in casa voglio offrirvi un bicchiere di vino.” Mi metto seduto dinanzi al camino, alla tavola che ospita tutta la famiglia, bevo, i pensieri se ne vanno. La moglie è al fuoco e rimesta un pentolone, ma non c’è un buon odore di cucina, anzi un odore strano, penetrante. “Che fa tua moglie?”
“Fa bollire nel caldaio le cotiche di maiale, poi quando hanno bollito versa il composto in una pietra di marmo perché si raffreddi.” “Ma che ne viene fuori?” “Il sapone, del buon sapone.”
A tavola con i battitori
Il sole picchia. Sono seduto a capotavola sotto l’ombra di una pergola di uva fragola, è una gran tavola coperta di bianco, punteggiata da bottiglie oscure di vino frizzante. Mi si avvicina la moglie di Bastiano, porta un vassoio con un’oca arrosto, il profumo è una cosa deliziosa. La figlia del contadino, con le guance rosse come una mela, ha sottobraccio un filone di pane, le fette tagliate cadono sulla tavola e vengono rapidamente afferrate. “Dottore - dice la moglie di Bastiano - questa mattina avete respirato la polvere della pula, prima di mangiare andate al pozzo a lavarvi, dirò a mia figlia di tirarvi su un secchio d’acqua.” “Hai ragione vado subito! Intanto riempimi il piatto.” “Che, avete paura? Fra poco verrà anche l’anatra arrosto e un grosso torcolo!” Con la pancia piena, sonnecchio seduto sulla seggiola. Ad un tratto una musica si avvicina, ora è davanti a me un uomo con tanto di cappello, ha la fisarmonica appoggiata sulla pancia e suona, un suono dolce e triste delle ballate popolari. E canta. “Quant’è bello fa l’amore stretti, stretti, core a core!” Le donne in coro rispondono.
“Ma quel brutto traditore più l’amore non vo fa’! Trallarallì, trallarallà!” È sera. Mi alzo commosso e torno a casa. “Sta’ attento - mormora mia sorella - Bastiano è furbo e ti buschererà. Penso che conosci il proverbio: contadino, scarpe grosse e cervello fino.” Sono rimasto circa un anno da lei. “Bastiano, amico mio - così esclamo abbracciandolo - devo rientrare a Perugia!” Per me non era più il contadino, ma un amico e lui ricambiava il mio affetto. “Ma perché, potete rimanere! Siamo ai primi di ottobre e i lavori più grandi della campagna sono finiti. Venite in cantina, vi voglio fare assaggiare il mosto!” Scendo con lui, pochi umidi gradini, ed ecco un odore meraviglioso che mi prende la gola. Il mio amico contadino affonda il bicchiere nella tina e me lo porge. “Bevete alla salute, l’anno prossimo non so.” La guerra, come un’ombra oscura, sta coprendo le nostre campagne, se devo andare lontano, che potranno fare la moglie e la figlia? Le mie due donne!” Cammino leggermente curvo e tra i capelli biondi spuntano i primi fili bianchi. Mia sorella, un giorno, quando aveva già perso la speranza di vedermi tornare quello di prima, mi dice: “Gabriele sei rifiorito! La campagna ha fatto un miracolo.” “Sì, ma con diversi anni in più, mia cara!” È tempo di tornare a Perugia.
La casa di Perugia è grande e spaziosa, forse troppo per una sola persona. Le alte volte sono decorate in stile Liberty. A ogni angolo delle stanze, teste di medusa con le bocche spalancate sembrano ridere degli abitanti, nei loro riccioli avvinghiavano il nostro destino e nella bocca puoi leggere lo scherno. Con un manovale e tanta buona volontà mi sono messo al lavoro. Ho abbandonato la medicina. Troppe sono state le delusioni e le esperienze dolorose. Ho le mani screpolate e un berrettaccio in testa, per ripararmi dalla polvere che cade. Mi puoi vedere spingere la carriola con la rena e fare l’impasto con il cemento, sono diventato impresario e muratore. Con grande fatica alzo muri divisori, faccio di un appartamento grande due appartamenti più piccoli e funzionali. Ora, due porte gemelle si aprono a poca distanza sul ballatoio. In questo lungo periodo sono stato sempre solo, gli anni ano uno dopo l’altro.
***
Un giorno, mentre eggio per Corso Cavour, qualcuno mi ferma. “Ehi, ma tu sei Gabriele!” “E tu sei Farfallone!” “Sì, cosiddetto!” ride. Un abbraccio, lo guardo meravigliato.
“Sei quello di sempre! Non sei cambiato molto da quando andavamo al liceo insieme.” “Ma che dici? Sono invecchiato.” Il mio amico è un tipo buffo e strano, molto piccolo, la testa sparisce sotto il basco, al posto della cravatta ha sempre una farfalla di colore diverso. “Che fai?” “Gabriele, tu non sai, ho avuto un’idea geniale!” “Quale?” “In un ampio fondo non lontano da qui, ho fondato e creato un giornale e l’ho chiamato - Perusia - Faccio tutto io, sono il direttore responsabile, l’addetto stampa, il giornalista e il tipografo.” “Ma come fai?” “Ti dirò, ho comperato da una vecchia tipografia, che chiudeva, cassetti pieni di lettere per stampare, un cassetto per la a, uno per la b, etc., una vecchia macchina tipografica, dei bidoni di inchiostro da stampa, per la carta mi arrangio.” “Ancora non ho capito.” “Facile, Gabriele, ci vuole un poco di pazienza, ma compongo da me le lettere sul foglio di carta, prima di arle sotto i rulli del torchio, che fa da macchina stampante, metodo certosino!” “Fai come gli antichi, ma così ti ci vorrà molto tempo!” “Certo, non è, per caso, mi vuoi venire ad aiutare?” “E che posso fare?” “Mi aiuti a comporre le lettere, puoi scrivere qualche articolo.” “Di quale argomento?” “Quello che vuoi, attualità, costume, sport, moda, puoi fare interviste, tutto,
insomma, purché non parli di politica, quella è pericolosa!” “Ti voglio dire che io scrivo anche racconti.” “Davvero, benissimo, li pubblicheremo a puntate sul giornale. Per scrivere racconti ci vuole conoscenza della natura umana, originalità e un tantino di umorismo, che non guasta” dice Farfallone. “Il primo racconto vorrei che fosse quello su Bastiano.” “Bastiano?” “Sì, il mio contadino.” Da quel giorno ho cominciato, lavoriamo di notte sino a tardi, è nata una grande amicizia stando insieme in quella oscura stanza a lavorare con le mani nere. La mattina il giornale è pronto, odora di inchiostro fresco. La distribuzione attraverso amici e conoscenti, ci sono anche due galoppini che lo distribuiscono fuori dalla chiesa cercando di non farsi vedere, così, alla buona! Un giornale alla macchia. Mi piace molto maneggiare le lettere e comporre il giornale. Quando è finito, lo guardo: mi sembra quasi un miracolo.
***
Qualche tempo dopo, ho messo l’avviso per affittare l’appartamento, che ho ricavato contiguo al mio. Quanto ho lavorato su e giù con la carriola piena di vecchi mattoni, le mani e il viso impolverati dai calcinacci. Finalmente, il piccolo appartamento è pronto.
Un giorno odo bussare alla porta, vado ad aprire. Sono una giovane coppia, sorridono, hanno l’aria di sposi novelli. Lui piccolino e vivace, lei una splendida mora con la bocca dipinta a cuore. “Cerchiamo un appartamento, anche se piccolo e modesto per noi va bene! Mio marito si chiama Evaristo e fa il meccanico, io mi chiamo Rosa e non so fare nulla all’infuori delle faccende di casa!” Rosa, penso, nessun nome è più appropriato di quello! Gabriele pensa: se mi avvicino ne sento il profumo! Poi mi vergogno di quel pensiero. “Entrate, penso vorrete visitare la casa!” La casa piace a lei, lui non parla, ma accenna di sì con il capo. “Sa - mi dice - basta che piaccia a mia moglie, io lavoro fuori e sto molto tempo lontano, l’affitta?” “Oh, per quello ci metteremo d’accordo.” D’ora in avanti avrò un poco di compagnia! La conoscenza e la confidenza, tra me e Rosa nei giorni è cresciuta. Eravamo vicini, forse troppo vicini. “Dottore, le ho portato le camicie già stirate!” “Come è gentile a occuparsi della mia biancheria, da quando c’è lei profuma di lavanda!” “Metto sempre dei mazzetti di spigo nei cassetti!” risponde lei. Era ato qualche tempo dal loro arrivo, seduto alla scrivania mentre curvo stavo cercando di mettere in ordine nelle mie carte, alzo gli occhi; Rosa era dinanzi a me, non l’ho sentita arrivare.
Era entrata silenziosa, con la chiave che le avevo dato. La guardo stupito e non riesco a smettere. Certo, penso, non mi sono sposato, ma direi che le donne mi piacciono molto, forse troppo! Che fortuna, i pensieri sono invisibili! “Che begli occhi ha, dottore, sono azzurri come il mare!” pensa la signora. Non si rende conto, forse un movimento automatico involontario, ma la mano di Gabriele afferra quella della donna, l’avvicina alla bocca e la bacia. All’improvviso, gli occhi di questa si riempiono di lacrime. “Sono tanto infelice, lei non può sapere!” “Mi dispiace, sono stato maleducato - rosso in viso, mi alzo in piedi - mi perdoni se mi sono comportato così.” “Non ha niente da rimproverarsi, io sono confusa e non so quello che voglio!” Quella volta Rosa scappa veloce, dal canto mio ho compreso che non è felice. È trascorsa una settimana o forse un mese da quell’episodio, chissà, non ricordo, un giorno viene da me portando un vassoio e una tazzina di tè. Posa il vassoio, le tazzine ondeggiano per il brusco atterraggio, poi, senza esitare mi afferra le mani. Io ho cominciato a tremare. Mi alzo per abbracciarla, la tazza di tè, ormai inutile, cade a terra e il liquido caldo bagna le sue mani, si sparge per il pavimento. In quel momento, le parole cominciano ad uscire come un fiume in piena, veloci, una dopo l’altra, l’attiro a me, le accarezzo i capelli piano, con dolcezza. “Sono un uomo che ha molto sofferto, non ho bisogno di un’avventura, questo lo devi sapere! La situazione è strana, hai un marito e, si può dire, viviamo sotto il medesimo tetto!”
Lei piange piano. “Voglio bene solo a te!” la voce è soffocata. Una vampata, un caldo al cuore, il sangue corre veloce, solo una donna può darmi una gioia simile! Rosa dagli occhi color inchiostro ha fatto il miracolo, ha riaperto il mio cuore a una dolcezza nuova. Si può dire che tutto iniziò a maggio, al tempo che fioriscono i prati e gli uccelli fanno il nido. “Rosa - un giorno le ho detto - il nostro non è un amore da ragazzi, è caldo come il sole a mezzogiorno, lungo come un sospiro, forte come l’acqua che spunta tra le rocce, prezioso come una perla dentro ad una conchiglia, da custodire con cura come una bella pianta cresciuta per sbaglio nel mio giardino.” “Caro, che vuoi dire con tutte queste parole?” “È la speranza che rinasce!” Il marito è assente e quasi tutte le sere dormiamo nel mio lettone, il mio capo vicino al suo. Che gioia la mattina vederla addormentata, i suoi capelli neri sul cuscino vicino al mio. La giornata comincia con un bacio. Questo è un amore diverso, tranquillo, quasi domestico, si può dire che io così ho trovato una famiglia, la mia segreta famiglia, che importa se non c’è un matrimonio? Indubbiamente, c’è l’affetto. Un giorno è nata una bimba, io non me lo aspettavo e non sono pronto per un tale evento. Geloso, inutile nasconderlo, arrabbiato che Rosa dedichi tante attenzioni alla bimba, e così poche a me. Rosa non è uscita per quaranta giorni.
“Perché non vai fuori?” chiedo. “Sono in quarantena, al quarantesimo giorno devo andare in chiesa con una candela accesa per purificarmi, e il prete mi benedirà. Così usa dalle mie parti.” “Mi sembra strano - dice Gabriele - hai tanto sofferto per questa bimba!” Una cosa mi turba molto, non so, perché lei non lo ha mai voluto dire, se è figlia mia o del marito. “Perché non me lo dici?” “Perché desidero che tu le voglia bene comunque.” Mi crogiolo nel dubbio, conto le volte e i giorni che abbiamo fatto l’amore e faccio i conti con il calendario. Sono buffo, no? Non concludo niente. È trascorso del tempo, forse qualche mese, la mia indifferenza svanisce, un giorno all’improvviso, in un minuto, forse un istante, i sentimenti per la piccola cambiano. La madre l’aveva lasciata per un poco dentro un cestone, sopra la mia scrivania, lei mi sorride e afferra un dito della mia mano, che vuole accarezzare. Gorgheggia, come volesse cantare. “Sei splendida” mormoro. È quasi sera, una di quelle sere limpide di primavera quando tutto sembra sospeso, immobile nella sua bellezza, odo un tocco discreto alla porta; è lei. È turbata, la vedo venire verso di me, incerta. È avvolta in un’ampia vestaglia. L’abbraccio, il suo viso è umido, in quel momento mi accorgo che ha pianto. “Che succede, stai male?” “No, ma è peggio, amore mio devo partire, devo lasciarti, sono disperata!”
“Non capisco.” “Devo andare.” La bocca rossa si apre come una ferita, le parole escono, ma non riesco ad afferrare il significato. Non capisco, non voglio capire. “È uno scherzo? Hai studiato tutto questo per farmi soffrire?” “Mio marito ha paura dei tedeschi e teme di essere richiamato in guerra, ha deciso di lasciare l’Italia, ed io lo devo seguire!” “Dove vuole andare?” “In America, ha dei parenti, li ha contattati, partiamo tra due giorni dal porto di Genova.” L’oceano tra di noi! “È la verità.” La mia anima si ribella. È un grido di dolore! Perché devo essere sempre disgraziato! Nulla di quel che amo dura. Così, Rosa esce per sempre dalla mia vita. Ormai sono solo, mi ritrovo a parlare con gli alberi del mio giardino, “Sei davvero strano” direbbero le persone, ma anche gli alberi hanno una vita immensamente diversa.
***
Sono le sette di mattina, sono sveglio nel mio letto, immerso nei miei pensieri, sto fumando una sigaretta quando sento bussare.
Chi è a quest’ora che viene a scocciarmi? Apro, è Farfallone, tremante e spaventato: “Vieni.” Cosa è accaduto? È disperato. Farfallone è piccolo, due occhi neri vivacissimi aggiungono al suo viso qualcosa di particolare. Ha un cappello sformato in testa e l’immancabile farfalla, gli chiude la camicia al collo. Entra e racconta. “Qualcuno è entrato questa notte nel nostro laboratorio, hanno buttato tutto all’aria, vuotato i cassetti e gettato le lettere per terra, versato l’inchiostro, strappati i fogli, un disastro.” “E perché?” “Forse a qualcuno ha dato fastidio quel che scriviamo.” “Vai alla polizia.” “Ma dove vado? Ho il sospetto che siano stati proprio loro!” “Ma che cosa avevi scritto?” “Avevo scritto un articolo sulla cultura.” “Titolo - L’onesta verità sul teatro e sull’arte - Accennavo alla mancanza di sussidi e soprattutto alla libertà di espressione che un giornalista dovrebbe avere.” Gabriele: “Caro mio, i giornali dicono sempre le stesse cose, sono pieni di articoli di leccapiedi e di voltagabbana.” Farfallone: “Attualmente siamo tutti ligi e conservatori, succubi dei politici che spadroneggiano con una violenza inaudita. Io sono nato libero e voglio vivere libero!” “Meno male che non ti hanno trovato, potevi essere arrestato!”
“Una fortunata coincidenza. Senti, Gabriele, devo scappare, ho ricevuto una cartolina per arruolarmi nell’esercito, ma tu sai che cosa penso della guerra!” “Dove andrai?” “Sui monti, dove un amico, che è cacciatore, ha una specie di rifugio in mezzo al bosco, luogo da capre, dove nessuno mi ritroverà. Noi italiani abbiamo l’arte di arrangiarci. Mio Dio! Ti chiedo per favore di prendere tutto quel che puoi, metterlo negli scatoloni e nasconderlo in soffitta aspettando che ino questi brutti tempi.” “Amico mio carissimo - l’abbraccio - vai via, che dolore!” “Tornerò, non aver paura e ricominceremo a lavorare e a stampare, questa volta liberi di scrivere. In tempi più tranquilli! - afferma Farfallone - Lo sai che nel 1937 Hitler giurava di rispettare l’Austria, poco dopo occupava Vienna e poi tocca alla Cecoslovacchia, Praga invasa nell’agosto del 1939, a settembre invasione della Polonia, poi la Danimarca e Norvegia, Belgio e Olanda, ora guarda alla Russia e vi vuol mandare le divisioni, ma si troverà male, la Russia è come un grosso mastino addormentato!” Che pericoloso alleato abbiamo! “Gli Italiani saranno anche poco bravi per la guerra, ma stupidi no, ci vuol poco a capire che tutto andrà a finire male! L’anno in cui viviamo è il 1940! A giugno quando l’estate si avvicina, scoppia la guerra. Dove ti giri miseria, ora perdo anche i miei amici.” Farfallone: “Dopo sarà anche peggio.” Ieri sono andato in un fondo nascosto, dentro a un cortile di Borgo XX Giugno, per comperare qualcosa alla borsa nera. Che prezzi: la carne a cento lire, le uova, dieci lire l’uno, olio e vino poi sono carissimi, il formaggio e il pane non si trovano. Povere massaie, che miracoli devono fare per tirare avanti! Poiché tutte queste cose vengono dalla campagna, ho deciso di prendere la bicicletta, che ho nascosta accuratamente, e andare a trovare Bastiano.
Chi non ha mai inspirato il profumo del pane appena sfornato dal forno a legna posto in fondo ad un’aia, che si espande nell’aria, non può essere un uomo completo, aperto alle piccole gioie della vita. Così io, seduto davanti alla casa di Bastiano, aspetto il cibo, non si può fare a meno del pane: è necessario. Arriva la moglie di Bastiano con una grossa cesta, tira fuori una fila e me la porge. È bellissima, sopra la donna vi ha tracciato una croce. “Perché la croce?” domando. “Perché la benedizione del Signore scenda su questo pane e su chi lo mangia!” “Speriamo bene!” In giro c’è la carestia, ho poco cibo e, ogni tanto, inforco la mia vecchia bicicletta e per vie secondarie, mi avvio in campagna. Davanti alla bici ho legato un cestino che spero di riempire di vivande, la contadina è generosa, mi regala, oltre il pane, le uova, un poco d’olio e del vino. Torno a casa pedalando felice.
L’ebrea
Un giorno sento bussare alla porta, un brivido percorre le mie spalle, sono spaventato, ma devo aprire. C’è una ragazza sulla soglia, è giovanissima, mi sorride, vicino a lei un’amica. Allora non lo sapevo, ma lei era l’ultima, la più dolce donna della mia vita. “Sono Laura, e questa è la mia mica Sara. Siamo venute, qui a Perugia, per studiare. È libera la camera? Abbiamo poche esigenze, ci bastano due letti e un armadio e se lei non è contrario vorrei abitare qui con la mia amica!” “Certo che non sono contrario, anzi, ho piacere di avere un poco di compagnia, venite che vi mostro la camera!” Le due ragazze escono presto con i libri sottobraccio e le vedo soltanto a sera. Tutto va nel migliore dei modi, le studentesse sono educate e gentili con me. Laura specialmente mi piace, ha un bel sorriso e quando la guardo mi ricorda qualcuno, ma non so chi. Quasi tutti i giorni, le ragazze vengono a trovarmi, una volta mi portano i biscotti caldi e profumati, un’altra volta un piatto di spaghetti al pomodoro. Poi le riserve sono finite e iamo al minestrone, dove galleggia di tutto, una rapa, qualche patata e poco più. Il mangiare è razionato. Io procuro il pane, dividiamo tutto il cibo. Quando vengono, ci mettiamo a tavola insieme, siamo una piccola famiglia. Laura un giorno si mette in testa di pulirmi la casa e arriva con la scopa e lo straccio. “Che fai? Non c’è bisogno.”
“Dottore, lei è un pasticcione, lascia cadere la cenere della sigaretta sul pavimento!” Un giorno, mentre sto seduto in poltrona e sto rileggendo delle vecchie lettere, Laura apre a qualcuno, arrivano subito da me. Sono due individui dall’aspetto poco raccomandabile con cappellaccio in testa e cravatta nera, frugano con lo sguardo dappertutto. “Dottore, ha delle pensionanti?” “Sì - ma prudentemente dico una bugia - solo la signorina che vi ha aperto, è di Padova e studia all’Università. “Cerchiamo una ragazza ebrea, ne abbiamo perse le tracce.” “Qui non c’è.” Quando sono usciti chiamo: “Laura, Laura, ma la tua amica è forse ebrea?” “Sì.” “Perché non me lo hai detto? Oggi è andata bene, ma non sempre sarà così.” Mi sfogo. Qui siamo arrivati alla caccia all’uomo, alla ricerca del diverso, dell’ebreo per eliminarlo. Non hanno pietà di nessuno. Gli ebrei sono persone che hanno perso tutto, anche il lavoro, per le indecenti leggi razziali, la casa, gli amici. “Gabriele, ci aiuti e aiuti soprattutto lei.” “Non sai che ci sono le squadre di azione che cercano gli ebrei casa per casa!” “Mi scusi tanto, pensavo che qui fosse sicura.”
“No, non è così, e ora dovremo trovare un posto per nasconderla. Andrò dai frati di san Domenico, se mi possono consigliare. Quando torna, mandala qui da me, ci voglio parlare!” Le antiche navate della chiesa mi accolgono, dai grandi finestroni di vetro dipinti, alcuni santi sembrano guardarmi. Qui regna la pace. In fondo, inginocchiato, un frate prega. Arrivo silenzioso dietro, batto delicatamente una mano sulla spalla. Si gira: “Che vuoi figliuolo?” “Ho bisogno di aiuto e soprattutto di un consiglio.” “ Parla, confidati.” “Vede, padre, è capitata a casa mia un’ebrea, una cara ragazza che non ha fatto male a nessuno, ma la polizia la sta cercando, come posso fare?” Il frate riflette. “Dovrebbe raggiungere Assisi, lì c’è un mio confratello che aiuta gli ebrei a nascondersi. Io lo posso avvisare, ma quando arrivereste?” “Partiamo domattina all’alba, nel pomeriggio, salvo incidenti possiamo essere ad Assisi.” “Va bene, ma state attenti le strade non sono sicure.” “Ora andrò ad informare la ragazza.” Torno a casa, la ragazza piange. “Non fare così, domani partiremo e ti porterò in un posto sicuro.” “Vorrei venire anche io” dice Laura. “No, più persone siamo e più è pericoloso, aspettami qui.”
“Ti ringrazio immensamente.” mi dà un bacio sulla guancia. Sono commosso. Mi sono affezionato a queste due ragazze. Sono le prime luci dell’alba quando ci incamminiamo con due vecchie biciclette, vestiti come due contadini, per la discesa di Ponte san Giovanni. Lei nel cestino della bicicletta, per rendere più verosimile il travestimento, porta dell’erba di campagna e delle uova, ha in testa un fazzolettone. È pericoloso attraversare il ponte sul Tevere, ma noi con un lungo giro abbiamo attraversato un ponte secondario. Io teso e preoccupato, lei nervosa, per strada nessuno di noi due parla. Quando siamo vicini all’aeroporto di sant’Egidio, un rumore cupo si spande per l’aria. “Guarda, Gabriele, gli aeri volano alti.” “Mio Dio, vengono giù dal cielo bottiglie argentate. Presto, a terra.” La spingo, saltiamo dentro un greppo profondo, lungo la strada. Vicino a noi urla e gemiti, le bombe hanno colpito dei anti. Un contadino carica su di un carretto i feriti e li porta via in cerca di aiuto. È pomeriggio quando stanchi e stralunati vediamo profilarsi la sagoma inconfondibile di Assisi. “Cara, siamo vicini!” Il colle con i suoi olivi d’argento è sopra di noi, vedo le chiese di pietre rosa, i campanili, tiro un sospiro di sollievo. Non è finita. Due uomini ci tagliano la strada.
Sono due uomini con la camicia nera della milizia fascista. Sorvegliano chi va e chi viene, sono simili a corvi. “Dove andate?” “Andiamo a portare viveri della campagna alle suore, io sono un medico, questa è mia figlia.” “Perché non è in guerra?” “Sono riformato per la mia salute.” “Fate vedere i documenti.” Malcontenti ci lasciano are. Penso che un angelo ci abbia protetto, dopo tante fatiche ed emozioni siamo arrivati. iamo sotto un grande arco medioevale, la gente è poca e ha paura di parlare. Spingiamo le biciclette su per i vicoli, sempre più in su, sino alla piazza del Vescovado. Come è bella la città, le pietre delle sue case al tramonto, quando arriviamo, sono rosa. Sporchi di fango, con i vestiti stracciati, non facciamo buona impressione. A suo tempo se san sco ci avesse visti; ci avrebbe donato il suo mantello! Il frate ci aspetta. Appena ci vede liscia la lunga barba, gli occhi sono seminascosti da grossi occhiali, sorride, è contento di vederci. “Pace e bene.” “Anche a lei.”
“Venite con me, andiamo al convento, è qui vicino. Finalmente siete arrivati, andiamo, figliuoli, dalle monache Clarisse di clausura che, bontà loro, nascondono tanti ebrei!” La camla suona, a un tempo che mi sembra un eternità, il portone si apre e appare una piccola suora. “È questa la ragazza?” “Sì, suora, e spera in voi.” “Andiamo dalla superiora.” Percorriamo lunghi corridoi, attraversiamo le stanze, a sinistra scorgo un chiostro, poi un altro, è così grande il convento che sembra un paese un poco speciale, unico. Qui abitano gli angeli di Dio. Altra porta, altra lunga attesa. Un grosso catenaccio è tirato da dentro. La porta grande della clausura si apre. Qui, pochi mortali possono entrare. Finalmente appare la madre superiora. È vestita di nero e ha il viso coperto da un velo. Sembra una persona d’altri tempi. Un’ombra oscura, da sotto il velo una voce gentile. “Farò il possibile - dice - ancora i tedeschi non hanno osato violare la clausura, il futuro nessuno lo assicura. Vieni, figliola, troverai tanti amici!” Prima che sparisca la ragazza si volta, sorride e mi manda un bacio. “Addio, mio salvatore, ti ricorderò per sempre!”
Ci abbracciamo. “Mi raccomando - dico alla suora - questa ragazza non ha più nessuno. Accetti una piccola offerta.” “Servirà per tutti quelli che sono nascosti qui.” Non capisco la sua calma, la voce è come distaccata. “Sì, faremo il possibile per questa ragazza, certo i tempi sono orribili, la città è piena di tedeschi, grazie a san sco e a Giotto che l’ha affrescata, la sua chiesa è stata dichiarata città aperta e non può essere bombardata. L’ospedale che si trova in cima alla città è pieno di soldati tedeschi feriti. C’è un dottore tedesco che li cura, è un buon cattolico e noi abbiamo fiducia in lui. La ragazza dovrà cambiare nome, appena potremo le faremo dei documenti falsi! Un tipografo molto bravo, nascosto nel suo fondo, riesce a stampare dei documenti che sembrano veri. Per ora non potrà uscire. Ti dirò di più, cara, dovrai imparare anche il paternostro e l’avemaria come se fossi una cattolica, non si sa mai. Anche il nostro vescovo ci aiuta.” Gabriele: “Sono fiducioso che tutto andrà bene, la ringrazio e le bacio la mano. Suora, sono stanco, una richiesta, mi potrei riposare sino a domani?” “Sì, nella foresteria ci sono diversi letti, può dormire lì. Chieda di suor Clelia.” La porta si chiude, inesorabile, dietro alla monaca e alla ragazza che spariscono, silenziose, nella inviolata clausura. Quella è l’ultima volta che l’ho vista, la guerra ci ha divisi.
Oggi è domenica, mi riposo dalle fatiche della strada per Assisi. È una giornata grigia e poco festiva, acquazzoni alternati a sprazzi di sereno, fumo sdraiato e penso. Perugia, la bellissima Perugia è stata bombardata. Sono steso sul mio letto, sento bussare alla porta della camera, solo lei ha le chiavi di casa, Laura. Entra, sono ancora a letto. Mi alzo seduto e afferro una vestaglia. Lei arriva vicino sorridente, ha qualche cosa in mano, sembra un pacco di lettere. “Voglio dirti una cosa importante, anzi importantissima.” Mi si avvicina. “Che cosa?” “Prima voglio ringraziarti per aver messo in salvo la mia amica.” Mi dà un bacio. “Ho fatto quel che potevo.” “No, non tutti lo avrebbero fatto, sei molto buono, hai sfidato i pericoli.” “Sono stato fortunato mi è andata bene.” Laura: “Ora tieniti forte alla seggiola. Vengo da Padova, lo sai.” “Sì.” “Ma non sono quella che tu pensi.” “Come?” La guardo con la bocca aperta, impietrito dallo stupore.
“Chi sei, non sei una studentessa, la mia cara Laura?” “Sì, sono Laura, ma ascolta. Per tanto tempo ho studiato questo viaggio, ti conoscevo per le foto e qualche lettera.” “Dove le hai viste?” “Le foto e le lettere erano nel comodino di mia madre, direi che sei un poco cambiato.” “Sono invecchiato.” “Sei sempre bello.” “Ma chi era tua madre e perché aveva le mie lettere?” “Non noti qualche cosa di familiare?” “Sì, un certo sorriso mi fa venire in mente una persona che ho amato anni fa.” “Sono proprio io, la figlia di Catena, la bambina di tanto tempo fa, che hai conosciuto in Albania.” “Incredibile! Perché non mi hai detto niente?” “Volevo essere sicura che tu fossi una persona degna e gentile, come mi raccontava mia madre.” “Tua madre? L’ho amata tanto!” “Non c’è più e nemmeno la nonna.” “Mio Dio! È stata sempre delicata. Se n’è andata come un angelo!” “Quanti anni ati, da quanto tempo ho perduto quel grande amore! Non l’ho mai dimenticata. Tu, sua figlia, qui nella mia casa!” “Sono sola.” “No, non sei sola, vieni ad abbracciarmi, sarai mia figlia, la mia amata figlia a lungo attesa.”
Poi, improvvisamente, appena ha finito di parlare, strappo gli appunti che tengo in mano, scrivo per disperazione, tutta la mia vita sino ad ora è stata avvolta in una angoscia oscura, sono stanco. Non sospettavo quello che il destino mi ha preparato. Tutto è accaduto all’improvviso! La vita è tornata splendida. Voglio ignorare disgrazie, guerre, dolori, malattie e guai. La gioia mi fa un nodo alla gola. In pochi minuti, è tutto cambiato, voglio vivere. Una folata di vento trasporta nell’aria, lontano, mille frammenti, una piccola nuvola di carta fugge dalla finestra. L’estate è vicina. Ora oso sperare. “Perché hai rotto quelle pagine?” La ragazza ha gli occhi lucidi e posa una mano sopra la mia. “Perché è ora di ricominciare.” E questa è la mia storia, storia di un uomo come tanti, che, grazie a+ un vecchio cappello, forse non sarà dimenticata.
INDICE
Introduzione Prefazione
Parte prima
Gli occhi azzurri La mia giovinezza L'arrivo Il mio secondo giorno Lettera alla sorella Il matrimonio Quel che pensa il marito Il campo d'aviazione E l'alba di un amore L'appuntamento La scenata Memorie dal mio diario La visita
Nelle funzioni di medico Il dolore Lettera della sorella Clota Villa La Quiete Progetti di fuga La fuga A Dubrovnik
Parte seconda
La campagna umbra A tavola con i battitori L'ebrea