Phobia 4213i

Cristian Borghetti - Kuchisake

Phobia

UUID: 2390f2b6-8db1-11e9-b5b5-bb9721ed696d

Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write http://write.streetlib.com

Indice dei contenuti

Intro - Snowflake - WaLterproof - La strega di Salhem - Il male d'inverno - Coraggio - Zampette nere - Il corvo - Alla fine dell’estate - La folla - Ossa di vetro -

Note

Intro

Nè tu nè io siamo un libro, per quanto bello e immortale ti sembri. Siamo mille libri, mille storie, mille racconti già scritti o ancora da vergare, con penne di piuma o bisturi d'acciaio, con un arcobaleno di inchiostri.

- Snowflake -

Mi si accoccolava sul petto ogni volta se ne presentava l'occasione e riempiva l'aria di quel suo ronzio, basso e profondo, che raccontava di tutta la sua felicità. Era entrato nella mia vita un caldo pomeriggio di fine luglio. Piccola, spettinata pallina di pelo sporco, con due occhioni azzurri che ne divoravano il musetto aguzzo. Ci eravamo studiati circospetti: una donna sola, stanca di aprire gli occhi e tuffarsi, ogni giorno, nella solita, trita, routine, lavoro, casa, libro... Un piccolo felino randagio, già toccato dalla vita, da ritrarsi di fronte ad una mano tesa. Mi era piaciuto quell'esserino tutto ossa. Mi era piaciuta la voracità famelica nel bere il latte senza distogliere gli occhi da me; mi era piaciuta la sua immediata indipendenza, il coraggio di esplorare ogni angolo della mia dimora con la coda ritta e le orecchie tese. E così Snowflake era entrato nel mio mondo ed io nel suo. Avevamo imparato a rispettare i nostri confini reciproci, a suon di graffiate e voli attraverso la stanza... Riconosceva i miei momenti no ed io i suoi. I mesi, gli anni si infilarono, veloci, uno dietro l'altro. E noi diventammo una coppia di vecchi conviventi: non occorrevano parole o

versi per capirci perfettamente. Snowflake non perse mai la sua natura felina, sebbene amasse vivere in casa, aveva la sua vita segreta, che iniziava con il calar del sole e terminava, spesso, solo a mattina. Aprivo la finestra della mia camera e lui appariva, niveo bagliore nella luce tenue. Un veloce otto tra le gambe, una sosta alla sua ciotola e via, appallottolato tra il cuscino e il materasso, sulla mia parte di letto. Detestabile abitudine di un animale, per altro, assolutamente ordinato e dedito alla toelettatura quotidiana con la pignoleria di un'istitutrice. Una mattina, era il primo luglio, però, mancò il nostro appuntamento: aprii la finestra e non comparve, per la prima volta, nella nostra lunga convivenza. Mi sporsi con lo sguardo rivolto al limite del bosco che lambiva il confine della mia proprietà, certa di cogliere il lampo candido del suo corpo snello. Nulla. Non si muoveva niente, né foglie né voli d'insetti, né uccelli... Niente. Un'immobilità sospesa ed aliena avvolgeva la natura. Avverti il tocco lieve e ghiacciato del disagio sfiorarmi la nuca. arono i giorni, due, tre, cinque... Ormai disperavo di rivedere il mio agile coinquilino. Tutte le mattine aprivo le persiane, con la speranza, frustrata, di vederlo comparire; dopo il caffè, prima di avventurarmi nel traffico dei pendolari, entravo nel bosco, un pacco di croccantini nella mano, agitato come una marachas, urlavo il suo nome tra i rami densi di foglie estive... Nulla.

Snowflake era scomparso. Mi accorsi di quanto la sua assenza mi violentasse nel confronto con la mia solitudine. Una solitudine costruita negli anni, con attenzione e cura; una solitudine che credevo appagante... «Basto a me stessa!»; quante volte mi sono ripetuta questo ritornello arrogante? Fino a convincermene, fino a che la sparizione di uno stupido gatto bianco non mi ha mostrato il Re nudo... La pochezza della mia vita... Poi, una torrida mattina di un'estate senza pioggia, aprendo le persiane senza alcuna attesa, me lo trovai davanti. Magro, arruffato, di un bianco abbagliante nella luce solare: Snowflake! Non penso di aver mai provato un'emozione simile: il cuore a mille, gli occhi pieni di sciocche lacrime sentimentali, lo abbracciai affondando il naso nella pelliccia vibrante di vita, aspirando l'odore felino della sua pelle. Sembrava stare benissimo, semplicemente smagrito e arruffato, con un orecchio intaccato da una qualche ferita di guerre lontane, ormai perfettamente cicatrizzata. Divorò il pasto con voracità e si accoccolò al suo posto, sul letto. Lo osservai compiere le sue operazioni di bellezza e mi accorsi che aveva i polpastrelli e il pelo tra essi intrisi di sangue. Pensai si fosse azzuffato, o avesse, come spesso faceva, catturato qualche preda gustosa, divorandola prima di appoggiarla, come un trofeo, sulla porta di casa. La nostra routine riprese, quasi non si fosse mai interrotta. Eppure il sottile disagio che provai la mattina in cui, per la prima volta, non si presentò all'appuntamento, mi assaliva, a volte, quando coglievo il suo sguardo

inseguire i miei movimenti. Scomparve altre volte, quell'estate. Ritornava due, tre giorni dopo, sempre con le zampe sporche di sangue rappreso, senza apparenti ferite o segni di violenza. Non saliva più sul mio petto, per ronfare soddisfatto, ma faceva davvero caldo e la cosa non mi dispiaceva. A volte mi inquietava quel suo muoversi furtivo e silenzioso, sembrava in allerta, pronto a colpire... Ridevo tra me: è solo un gatto, sciocca donna, uno stupido gatto bianco… Il tempo scivolava inesorabile, venne l'autunno, foglie rosse e cielo luminoso e terso, l'aria frizzante, della nuova stagione salutava il nostro frettoloso incontro, al confine di due esistenze: una che iniziava la sua lotta quotidiana per la sopravvivenza, l'altra che si accingeva a godere del meritato riposo. Venne il 30 ottobre e Snowflake non rientrò... «Avrà festeggiato Halloween» mi scoprii a pensare. ò la giornata, uggiosa e nebbiosa, calò la notte. Mi svegliai con la bocca secca e il cuore galoppante... Ero coperta di sudore ghiacciato, ma non ricordavo alcun incubo che potesse aver così bruscamente interrotto il mio sonno. Mi girai su un fianco e chiusi gli occhi. Ad un tratto l'aria si riempì di un verso straziante, un lamento, un pianto, una supplica, una minaccia. Un suono inumano che mi spezzò il respiro. Ad esso rispose una risata beffarda. Cosa stava accadendo?

Mi alzai, titubante e impaurita e, sbirciando tra le stecche delle persiane chiuse, cercai di scorgere, nella nebbia e nel buio, la fonte di quei versi inumani. Scorsi una sagoma felina, malferma sulle zampe, che, barcollando, si dirigeva verso il muro di confine del giardino. La nebbia si diradò ed io riconobbi Ash, il soriano della signora Pina. Il grosso felino aveva i fianchi lacerati e sanguinava copiosamente. Oh mio dio, chi poteva... Alla luce di un faro di aggio scorsi un'altra sagoma, scura e snella. Seguiva la fuga stentata di Ash con pigra flemma, ma qualcosa, nella tensione del corpo, mi dava la certezza che fosse solo in attesa di infierire il colpo fatale. Restai ad osservare, atterrita ed affascinata, la macabra danza tra i due. Si affrontarono ancora una volta, emettendo versi inumani, le orecchie tese all'indietro, i musi sporti uno verso l'altro. La sagoma snella si avventò contro il grosso animale e lo abbatté. Ash emise un flebile, ultimo gnaulio spezzato e restò immobile. L'altro felino rimase accovacciato sul corpo, nascosto nell'ombra e nella nebbia, non riuscivo a capire cosa fe. Avevo l'impressione di assistere al pasto di una belva feroce che, abbattuta la preda, si avventava sul cadavere ancora caldo, per gustarne le parti migliori. Era qualcosa di così estraneo, alieno alla mia esperienza, da avere un fascino malsano ed impedirmi di tornare a letto, addolorata per la fine cruenta del povero Ash. Improvvisamente la sirena di un allarme ruppe il silenzio della notte, facendomi trasalire. Spaventato il gatto alzò la testa e la girò verso la mia finestra.

Il cuore smise di battere, stille di sudore mi imperlarono la fronte, le mani tremarono. Nella nebbia ormai sfilacciata, Snowflake intrecciò il suo sguardo al mio. Non era una sagoma scura, era il candido felino cui davo croccantini ogni giorno, che dormiva sul mio letto... Completamente coperto di sangue! Mi allontanai di scatto dalla finestra atterrita. Il mio gatto! Un assassino! Non potevo crederci, non volevo crederci. La mattina mi colse seduta sul letto, le ginocchia strette tra le braccia. Avevo cercato una spiegazione logica e credibile a ciò che avevo visto. Certamente era stato il frutto di una lotta per una femmina, oppure Ash era stato ferito da un'auto e Snowflake lo aveva semplicemente minacciato perchè aveva invaso il suo territorio. Volevo convincermene. Avevo bisogno di inquadrare in un perchè ciò che avevo visto. Quella mattina non aprii le finestre. Snowflake era sul davanzale, lo scorgevo, in attesa. Niveo come sempre, perfettamente pulito, candido... Nessuna traccia di sangue. Ma io non aprii. Non aprii nessuna imposta, non aprii la porta.

Scesi in garage. La saracinesca automatica si alzava con una lentezza esasperante. Temevo che il gatto entrasse, non lo volevo in casa, non lo volevo più vedere. Non potevo dimenticare: era un assassino! Attesi che la saracinesca si richiudesse, osservando i dintorni. Non scorgevo da nessuna parte il lampo bianco del suo corpo. Probabilmente, speravo, era rientrato nel bosco. La giornata trascorse, in un angolo della mia mente le immagini della notte si proiettavano in un loop senza fine. I tentacoli della paura mi sfioravano il cuore, gelandone il battito. Sul vialetto di casa mi accorsi di avere la bocca secca, i peli della nuca ritti. L'adrenalina pompava forte nelle vene. Era buio. Freddo. La casa, con tutte le persiane chiuse, sembrava un luogo abbandonato e solitario. Non scesi nel garage, parcheggiai di fronte all'ingresso. Aprii la porta con mani così tremanti, che mancai la serratura più volte. Accesi tutte le luci, esplorando ogni camera, ogni angolo. L'inquietudine divenne una sorda stretta allo stomaco, l'impressione che qualcosa stesse per accadere. Attesa, sospesa, angoscia.

La mia parte razionale cercava un dialogo con quella istintiva. Cercava di convincermi a smetterla di essere idiota. Una donna moderna, in carriera, che si lascia atterrire da un gatto bianco e da qualcosa che, forse ha visto o forse no, nel buio e nella nebbia. Riuscii a convincermi abbastanza da infilarmi sotto le coperte e tentare di dormire. Non spensi la luce dell'abat jours; mi girai e rigirai a lungo finché caddi in un sonno inquieto. Boccheggiavo, non potevo più respirare, qualcosa mi stava soffocando. Aiuto! Annaspavo in cerca di un alito d'aria! Spalancai gli occhi... Tenebre. Caldo, un peso schiacciante sul petto mi impediva di far entrare aria nei polmoni, lui seduto su di me, mi guardava, indifferente, quasi sornione. Immobile lo fissai. Abbassò le orecchie, scoprendo le zanne. Urlai! “ Efferato assassinio, il gatto veglia sul cadavere della padrona!” La donna viveva sola, con il gatto. L'allarme lanciato dai vicini che udirono urla agghiaccianti nella notte. Nessun segno di effrazione, apparentemente nulla è stato toccato nell'abitazione.

Sul cadavere segni di una violenza inaudita, probabilmente un arma da taglio con cui l'assassino ha infierito, asportando un macabro trofeo: il cuore. Gli inquirenti stanno scandagliando ogni pista. Il gatto della donna, che ha vegliato sul corpo della vittima fino all'arrivo della polizia, è stato affidato alla vicina, alla quale, proprio la notte precedente, era stato ucciso il suo (...)

- WaLterproof -

Un respiro profondo, le acque calme tutt'intorno; il mare è una tavola, uno specchio azzurro lambito dai raggi caldi del sole. Galleggio. Aspetto il momento giusto poi, a pieni polmoni, inspiro e, con un'agile capriola, mi immergo. Le braccia fendono l'acqua. Un colpo dietro l'altro, mi allontano rapidamente dalla superficie, dalla boa, dalla barca, dai flash delle macchine fotografiche, dal vociare del pubblico, dalla luce, scendendo velocemente verso la meta. Ho aspettato questo giorno sin da bambino, quando sognavo di diventare un campione come quelli che guardavo in Tv. Continuo a scendere, malgrado il freddo e l'oscurità, ricordando che dovrò risalire o il record non sarà convalidato. Le grandi pinne mi danno una spinta prodigiosa, copro metri in pochi secondi, seguendo la fune che mi guida sino alla meta. Scendo, le bolle d'aria salendo mi superano; indossando la muta mi sento come un super eroe della Marvel: forte, invincibile. Vado giù, ad ogni spinta il buio accieca, il freddo graffia; i primi formicolii cominciano a mordere alle dita delle mani e dei piedi. Antoine, il mio coach, diceva che avremmo dovuto aspettare: «Mi hai convinto! La tua testardaggine, Walter - disse, pochi giorni prima della partenza - avremmo dovuto aspettare, lo sponsor avrebbe capito...

Andiamo a conquistare questo record, ma ti avverto: se quel giorno non ti vedo in forma più che perfetta, la testa sotto non la metti! Capito?!» Antoine, caro vecchio amico, aveva ragione... Sono testardo, sono fatto così, la mamma me lo diceva sempre: «Hai il cervello impermeabile, Walter? Possibile che tu non capisca? Non ti entra proprio in testa!» Mamma era terribile quando si arrabbiava. Era fissata con la pulizia, la scuola, lo sport ed era severa, tanto. Lo diceva anche papà; lo ripeté anche quel giorno prima di andare a comprare le sigarette e non tornare più. Papà ci ha lasciati soli, la mamma ed io. Non sono stato un bravo bambino, questo è certo, altrimenti papà sarebbe tornato a casa e mamma non mi avrebbe punito tanto spesso. È sempre stata integerrima: ero io a disubbidire, a non ascoltare, a non fare quello che diceva, a non ottenere i risultati che si aspettava. E la punizione era giusta, la verità è questa. «Imparerai! Oh, per Dio, se imparerai! Tu non mi deluderai, Walter, questo te lo prometto!» A scuola ero bravo, ma non abbastanza per lei... «Il nove, Walter, è il voto che merita un numero due! Tu vuoi essere un eterno secondo?»

La mamma voleva che fossi il primo della classe, il primo in tutto! Soltanto in piscina era fiera di me; lì, ero il migliore, ma dovevo esserlo sempre: una minima sbavatura nello stile, un rallentamento in corsia... Tornavamo a casa e lei non diceva una sola parola; aspettava l'ora del bagno, un'abitudine di tutti i giorni da quando avevo cinque anni. «Walter, è ora! Vieni subito!» La stanza da bagno era il luogo in cui la mamma impartiva la sua educazione, la sua disciplina. Sedeva su una grande sedia in vimini che, a me, sembrava gigantesca con quello schienale alto e gli imponenti pattini a dondolo. L'acqua era bollente, ma la mamma diceva che era la temperatura giusta per lavare via lo sporco, i peccati. Faceva caldo, tanto; il vapore si condensava sulla pareti bianche di ceramica, l'umidità era altissima. Mi muovevo alla cieca nella fitta nebbia, indovinando appena la sagoma degli arredi, la vasca, la figura della mamma che mi stava aspettando. «Spogliati Walter!» Diceva, con tono perentorio, guardandomi mentre lasciavo cadere i vestiti. Mi vergognavo, ma la mamma non sentiva ragioni. «Cos'è questo imbarazzo? Sei mio figlio, ti ho fatto io! Ricorda, Walter: io ti ho fatto, io ti distruggo! Oh, mio Dio, guardati!

Sei tale e quale a tuo padre: tutto pelle e ossa! Come farai a vincere le olimpiadi? Perchè tu le vincerai, non è vero?!» «Sì, ma-mamma...» Nudo, sulle gambe lunghe e magre, con la testa bassa tra le spalle aguzze e le braccia strette lungo i fianchi scarni, rispondevo con tono sommesso. Quando parlavo con la mamma, balbettavo... «Forza, entra...» Un piede, poi l'altro; tentennavo nell'immergermi nel bagno bollente, che mi ustionava la pelle e faceva bruciare gli occhi, ma dovevo obbedire. «Obbedisci, Walter! Siediti!» Piegavo le ginocchia e mi sedevo fino a che l'acqua non copriva le spalle. Ero accaldato, la pelle scottava, sudavo; i capelli erano fradici ancora prima che l'acqua... «Come è andata oggi a scuola?» Diceva, dondolando sulla sedia, con le gambe accavallate, fissando le mani fresche di manicure appoggiate sui braccioli levigati. Seduto, il mento sul petto, fissavo la schiuma, l'acqua, le macchie rade in cui era già scomparsa, per non incrociare l'inverno dei suoi occhi glaciali. «Ho pre-preso di-dieci in ma-matematica...» «Bravo Walter, il mio bambino...» Con la coda dell'occhio, la guardavo annuire, soddisfatta: il suo metodo funzionava.

A volte, capitava che il voto fosse ottimo, ma non il più alto, allora... «Altro?» Silenzio. Un silenzio che diceva tutto. «Allora Walter?» «Ma-mamma io...» Balbettavo, ma non per il freddo. «Ma-mamma io, cosa, Walter? Cosa?!» Tuonava rabbiosa come un temporale in arrivo. Dovevo rispondere, ma avevo troppa paura. Il dondolio della sedia si arrestava; mamma si chinava su di me come un cumulo di nubi nere, minacciose. «No-non mi so-sono ri-ricordato quanti fo-fossero gli a-abitanti del GiaGiappone...» Sentivo i suoi occhi spalancati addosso... «Il voto, Walter... Voglio saperlo adesso ed è bene che tu me lo dica subito...» Il sibilo gelido bucava la coltre calda e umida. Dovevo dirglielo. «No-nove e me-mezzo, ma-mamma...» Ancora silenzio. Poi, quella voce spettrale... «Guardamiii Walterrr...

Tira su la testaaa e guardamiii...» Dopo un momento di calma surreale, esplodeva tutta la sua rabbia. «Perchè non ti sei ricordato?!» E scoppiava in finimondo. La stanza diventava un pandemonio di imprecazioni e minacce, contenitori di profumo schiantati sulle pareti e a terra. Sentivo gli specchi infrangersi, il suo manrovescio arrivare a segno in faccia. «Sei tale e quale a tuo padre! Un buono a nulla esattamente come lui! Lui si è persino dimenticato di tornare a casa!» I suoi occhi, fessure di ghiaccio, mi fissavano dietro le lunghe ciglia, mentre le essenze sparse ovunque ammorbavano l'aria. In quei frangenti, mamma era pericolosa; papà, quando litigavano, diceva che era pazza. Poi, dopo il disastro, ancora la quiete assoluta. Come se non fosse successo niente, tornando a sedere sulla poltrona a dondolo, guardandosi le mani, riprendeva la solita litania: «Non fumare, Walter; non farlo mai o diventerai come tuo padre.» «No, no, ma-mamma, non fu-fumerò...» Rispondevo, sapendo che non sarebbe finita così. «Sai perchè devo farlo, Walter! È per il tuo bene! Guardami Walter!» Intimava, con una calma spaventosa.

L'ombra avanzava sull'acqua, la morsa della sua mano calava inesorabile sulla testa; afferrava i capelli tra le dita sottili... Gli anelli pungevano, tagliavano, ma non provavo dolore, non sentivo niente. Dovevo solo prendere fiato al momento giusto, l'ultimo, prima di incontrare il pelo dell'acqua. Quanto ho pregato in quei secondi interminabili, con la testa sotto... La mamma mi obbligava a farlo. Sentivo la sua voce arrivare all'orecchio anche se attutita. «Prega, bambino mio! Prega!» Trattenevo l'aria, per quanto potessi, arrivando al limite. L'acqua calda penetrava nel naso bruciandomi le narici, la schiuma amara mi riempiva la bocca. Non potevo arrendermi. Pensavo ai miei eroi, questo mi dava coraggio e forza. Mi dicevo: «Resisti Walter! Resisti!» Immaginando di essere vicino alla conquista del record, convinto che mamma avesse ragione, perchè, infondo, era per il mio bene. Mi permetteva di riemergere, solo quando le bolle d'aria gorgogliavano in superficie; allora ritrovavo i suoi occhi fissi su di me. I capelli zuppi, il viso paonazzo, la pelle calda; aspettavo... Riprendevo fiato appena in tempo, poi, giù, sotto un'altra volta. Durava sempre un pochino di più... La punizione mi avrebbe aiutato a crescere, a diventare un uomo retto, pulito, a diventare un campione.

Un giorno avrei conquistato il record in apnea e avrei ringraziato la mamma, perchè senza le sue le sue punizioni sarebbe stato impossibile: lei era la mia coach! «Oggi mi odi, bambino mio - diceva - ma lo faccio per il tuo bene. Mi ringrazierai, domani, vedrai! Se solo anche tua nonna avesse agito così con tuo padre!» Avrei dovuto odiare l'acqua, non amarla. Mamma l'adorava. D'estate andavamo al lago tutti i giorni, non potendoci permettere una vacanza al mare. Quando si arrabbiava con me, non mi vietava mai di andarci, come succedeva ad altri bambini; no, ma continuava a punirmi... Ed io ero felice: potevo continuare ad allenarmi. Crescendo, cambiai classe, scuola; le difficoltà aumentarono, fu sempre più difficile essere all'altezza delle sue richieste, essere il primo, il suo numero uno. Così, le punizioni arrivarono con più frequenza e fu un bene. Ci fu una stagione, però, in cui a scuola fui davvero bravo; la mamma era così contenta, sì, ma non mi puniva più e questo era diventato un problema: come potevo fare esercizio, inseguire il mio sogno? Per il mio decimo compleanno, chiesi che mi permettesse di frequentare un corso di apnea, ma lei rifiutò: «Nuota Walter! Io ho ato la mia giovinezza a nuotare... Diventerai un campione! Lo diventerai per me!» Allora, nuotai, come voleva lei, ma lo feci al di sotto delle mie reali possibilità,

così che riprendesse a punirmi... Antoine, il mio allenatore in piscina, sapeva quanto fossi portato per l'apnea, ma sapeva anche che finché ci fosse stata la mamma... Poi, in una sera d'inverno, mamma morì. Alla mamma piaceva tanto la schiuma, diceva che solo così, immersa nella sua leggerezza e nel suo profumo, si rilassava completamente. Da bravo bambino, quella sera di dicembre, le preparai la vasca con acqua calda, schiuma profumata. Accesi tante candele, preparai l'accappatoio e gli asciugamani. Quando rientrò a casa, tornata dal lavoro, vedendo ciò che avevo preparato per lei, capii che, per la prima volta dopo tanto tempo, era davvero felice. «Bambino mio... Grazie...» Disse, stringendomi in un abbraccio. «Grazie a te, mamma...» Risposi io. Fissavo la vasca. Volevo che mamma fosse felice; ancora e per sempre. Mi chiese di insaponarle la schiena... Non fu facile, mamma era stata una nuotatrice, era forte. Con tutta la forza che avevo in corpo, premetti sulle spalle finché la testa non sparì sotto la schiuma. Mamma si dibatteva nell'acqua come un pesce nella rete che non ha via di scampo. Sbatteva le gambe, allungava le braccia; tutto il corpo si scuoteva nel tentativo vano di resistere. Poi, salirono le bolle d'aria...

Tante, una dopo l'altra, velocemente, poi più niente. La stanza era buia, le candele spente; un forte odore di cera infestava l'aria. Seduto sulla sedia in vimini, appoggiato al grande schienale, mi cullavo, pensando alla conquista del record.... A polmoni pieni, trattengo il fiato e continuo a scendere veloce. Un colpo di pinne e un altro, un altro ancora, verso il record, l'abisso... Diventa tutto scuro, tutto nero, siamo soli il mare ed io. Fa freddo. Perchè l'acqua è così fredda? Brividi gelati mi attraversano, i crampi mordono le braccia, le gambe, li sento azzannare la carne, staccarmi le dita come fossi attaccato da mille bestie voraci. Sotto di me, l'abisso è un mostro. Mi fissa con occhi grandi e scuri, spalancando l'enorme bocca. Non sento niente, solo una voce... «Vieniii Walterrr...» Mamma?! «Vieniii bambino miooo...» La sento! È qui! Mi guarda! «So cosa hai fattooo, Walterrr...» Il mostro, i suoi occhi luminescenti...

I denti enormi, taglienti come lame da rasoio affilate! «Vieniii... Ti sto aspettandooo...» Oddio! È la mamma! No, non puoi essere tu! Non siamo a casa! Io ti ho... «Come puoi essere così stupidooo, Walterrr... Sei tale e quale a tuo padreee...» No! Mamma! Ti prego! Basta mamma! Mamma... «Sai perchè devo farlo, Walter! È per il tuo bene! Guardami!» Ti ho chiamato Walter! Walter capito?! O devo chiamarti WaLterproof?!»

- La strega di Salhem -

«Sophia! Dai, aprimi! Sophy, lo sai che odio stare al chiuso! Aprimi, dannazione! Aprimi!» La voce si affievoliva ad ogni o, il rumore dei colpi sferrati alla dura roccia erano attutiti dai muri che, con curve e giravolte, la portavano lontano. Sempre più lontano, veloce, prima di ripensarci e far are tutto come uno stupido scherzo. Via, di corsa! Appena fuori si addossò alla parete arroventata dal sole. Le mani sulle ginocchia, i capelli che sfioravano la terra battuta e secca. “L'ho fatto - pensò, ansimando - l'ho fatto davvero!“ Si raddrizzò, strappò il legaccio di cuoio che portava al collo e lo gettò con forza oltre il portale da cui era appena uscita. Scosse il capo e si mescolò tra la folla. «Sophia, tesoro! Fammi uscire, dai! Cosa vuoi? Perchè fai così?

Amore, dolcezza mia?» Bloccato, con le spalle larghe incastrate nella pietra, i piedi puntati sul fondo di roccia, Salhem non riusciva quasi a muoversi. Il silenzio ed il buio erano assoluti; Sophia aveva lasciato per ultima la visita a queste antiche tombe, non c'era nessuno nemmeno quando erano entrati insieme. Sophia... La vedeva: la maglietta a righe e i jeans, i capelli sciolti sulle spalle, come lui voleva. Vedeva i grandi occhi liquidi, ombreggiati da lunghe ciglia ricurve. Occhi che lo avevo incantato al primo sguardo, così dolci, ridenti, spalancati sul mondo con la curiosità leggera di un bimbo. Occhi che non dovevano vedere altri che lui! L'aveva voluta per sé e se l'era presa! Che soddisfazione quel giorno! E adesso, la puttanella che scherzo voleva fare? Gli avrebbe fatto vedere lui, una volta fuori da lì; un briciolo di sano timore, due colpi ben assestati, senza lasciar segni e poi, sesso sfrenato! Sì, così si gestiscono le bizze femminili! Al solo pensiero sentiva già un guizzo di eccitazione; il cavallo dei pantaloni sfregava contro il membro che si inturgidiva, malgrado la scomoda e soffocante posizione. Adorava farsi temere e desiderare ad un tempo e sapeva che Sophia era in sua mercé completa, anima e corpo. Anzi, sospettava che questo stupido scherzo altro non fosse di un alibi per farsi dare qualche colpo bruciante sul sedere sodo e poi fingere ritrosia per eccitarlo.

Lo faceva spesso, era un'ottima attrice! Tentava di scappargli, si lasciava riprendere; lo sfidava di continuo per giustificare il desiderio di una sana battuta e una bella scopata. Era arrivata persino a simulare le lacrime, le implorazioni; che tesoro, sapeva bene come eccitarlo! Pensare a quanto era timida e devota, all'inizio... «Tu sei mia!» La guardava fissa in volto mentre esclamava queste parole, tenendole una mano stretta al collo, la prima volta che aveva espresso un parere diverso dal suo. «Sei mia! Chiaro?!» Aveva abbassato gli occhioni scuri, annuendo, una lacrima le era scorsa lungo la gota liscia. «Io ti amo. Io avrò cura di te. Sempre. Tu sei mia!» lo aveva ripetuto, perchè fosse ben chiaro. Poi l'aveva rovesciata sullo schienale del divano e l'aveva presa così, con un po' di forza. Ah, ma quanto le era piaciuto! I suoi versi di godimento erano talmente forti che le aveva coperto la bocca con la mano, per soffocarli. Il giorno seguente le aveva regalato lo scarabeo, il simbolo del suo assoluto possesso, legato al collo sottile in modo da nascondere i segni violacei che le erano comparsi; d'altra parte la sua pelle delicata era una delle migliori attrattive.

La piccola, però, era indisciplinata! Ogni tanto doveva ricordare quale fosse il suo posto nel mondo: un o dietro a lui, sorridente e decorativa, obbediente e devota, docile e remissiva. Ah, ma la ragazza era colta, aveva ioni che voleva seguire, come questa stronzata delle tombe. E adesso era lì, chiuso dentro, tra la polvere dei morti. «Cazzo cazzo cazzo! Sophia, lo scherzo è durato a sufficienza! Vieni qui immediatamente e fammi uscire subito!» Niente, nessun rumore. Silenzio assoluto. Cominciavano a fargli male le articolazioni, così bloccato, le spalle, le ginocchia. E poi, gli sembrava l'aria fosse troppo calda. Non voleva mica morire soffocato, in trappola come uno stupido sorcio! Era Salhem, non un cretino qualsiasi e a Salhem nessuno faceva uno scherzo del genere senza rimetterci un paio di denti! «Sooooopppppppppphhhiiiiiiiiiiiaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaa!» Si stava incavolando di brutto! Il gioco è bello se dura poco, porca puttana! Si mise a tempestare di calci e pugni la parete di pietra, ma riusciva a muoversi solo qualche centimetro e i suoi colpi non erano molto potenti. Si contorse, si tese, urlò, imprecò, sudò. Alla fine si assopì...

Lo svegliò un rumore sottile, un leggero raspare. Aprì gli occhi nella tenebra assoluta, doveva essere buio, ormai, perché anche il leggero chiarore che penetrava dalla fessura tra coperchio e sarcofago si era spento. Il vago disagio provato fino ad allora, si stava lentamente trasformando in uno strisciante senso di claustrofobia. Non vedeva nulla e i suoi sensi gli dicevano che lo spazio si stava rimpicciolendo. Il soffitto della sua cella si stava abbassando poco a poco, ecco il rumore che lo aveva svegliato! Iniziò a sudare, stille salate gli cadevano negli occhi sbarrati, senza che potesse asciugarli. L'aria si faceva sempre più pesante, densa. Boccheggiava, cercando un refolo più fresco, forzando i polmoni. Cominciò a dibattersi, a tentare di scalciare, cozzando contro la roccia che lo serrava a sé: «Aiutooooooo! Qualcuno mi aiuti! Cazzo, aiutooooooooooooo!» Urlava disperato, ma la sua voce si perdeva nel labirinto di roccia. «Aiuto aiuto aiuto aiuto!» Iniziò a singhiozzare senza ritegno, lo stomaco serrato in una morsa di gelido terrore. Si sentiva schiacciato da un peso immane, immaginava la roccia scendere e stritolarlo, lentamente, inesorabile; l'aria che usciva sibilando dal naso, i polmoni brucianti, la vista annebbiata.

Come quando stringeva le mani intorno al collo delicato di una donna: una lenta, inesorabile pressione, fino a vederla annaspare, gli occhi spalancati e terrorizzati, il corpo scosso da singulti, il viso terreo... Gli piaceva infinitamente esercitare questo potere: dosare la forza fino al limite, decidere se dare morte o vita: il potere di Dio, nelle mani di Salhem! Adesso no, però! Adesso doveva uscire, in un modo o nell'altro, da quella stupida tomba di sasso! La rabbia scacciò nuovamente la paura. Doveva trovare un modo... «Pensa, pensa, pensa!» Iniziò a mormorare come un mantra, mentre cercava di puntare le mani e sollevare il coperchio. Udì di nuovo un leggero raspare. «Ehi? C'è qualcuno! Aiuto! Liberatemi!» Niente. Silenzio. Toc. Qualcosa gli era caduto sul petto. Un pezzetto di pietra, forse. Ricominciò a spingere con le braccia, concentrando la sua forza brutale per far leva.

Qualcosa gli sfiorò la guancia. “Una stilla di sudore” pensò, spingendo, spingendo sempre più forte. Un'altra goccia gli toccò l'orecchio. Maledizione faceva caldo lì dentro. La sentì solleticare il lobo, raccogliersi nel condotto uditivo. Nell'attimo in cui realizzò che non poteva essere una goccia di sudore, un dolore lancinante gli trafisse il cranio. Urlò e scosse il capo, urtando a destra e a manca contro la roccia che gli serrava la testa. Urlò di dolore e paura, sentendo qualcosa strisciare sempre più in profondità, emettendo un leggero raspo. Dio che male! Lo sentiva tagliare, mordere, lacerare, urlando e piangendo, dibattendosi inerme. Finché un lampo bianco lo accecò e fu silenzio. Sophia guardava la luna, osservandone il freddo lucore che accarezzava i dolmen. La veste bianca le si avvolgeva al corpo snello, mentre, un o dopo l'altro si avvicinava alla foresta di betulle che sembrava accoglierla festante, le argentee foglie scosse da una brezza gentile. Si riuniva alla sua gente. Aveva portato a termine la sua missione, adesso poteva risposare in pace...

- Il male d'inverno -

La tua infaticabile mano ha scavato per l'ultima volta, raspando con unghie uncinate, raccogliendo nel palmo la terra smossa. Sapevi che quassù non avresti dovuto tornare: i monaci ti avevano avvertito. Le tonache pesanti sfidarono la neve, il freddo. Le vedesti arrivare come la Divina Provvidenza mentre, vestito di stracci, barcollando al gelo dell'inverno, trascinavi i piedi scalzi e intirizziti sulla coltre bianca. Ti videro cadere e accorsero in tuo aiuto. Vaneggiavi indicando il cimitero; i monaci si voltarono e la bambina era lì, avvolta dalla nebbia, il viso scarno, gli occhi incavati, un'enorme bocca spalancata e quella voce che di umano non aveva niente. Ti fissava tendendo il braccio, la mano scheletrica, indicandoti con l'indice nodoso. Loro sapevano... Si affrettarono a raccoglierti per portarti al convento e curarti, disidratato, indebolito, stremato come eri dalla febbre alta, ad un o dalla morte. Si presero cura di te e, quando ti svegliasti, ti vestirono con una tunica ed un crocifisso al collo, offrendoti di restare al convento. Il monaco carpentiere era appena scomparso e tu avresti potuto pendere il suo posto. Non avevi nulla da perdere e accettasti il saio e la regola. Allora i frati ti raccontarono tutta la storia del convento, del cimitero, di ciò che

accadde prima della costruzione, della maledizione, del ruolo che i confratelli avevano avuto nei secoli. Si fidarono di te, ma tu non eri fatto per l'abito talare e la clausura. Non sopportavi l'obbedienza, il rispetto per la gerarchia; volevi andartene, ma sapevi che loro te lo avrebbero impedito. Ciò di cui eri stato testimone doveva restare tra le mura del convento. I monaci non potevano rischiare che il segreto, custodito per secoli, potesse trapelare. Sapevi che ti avrebbero imprigionato o ucciso piuttosto che lasciarti andare. asti gli anni covando rabbia per i tuoi carcerieri, finché una sera, fingendoti malato per non partecipare al Vespro, scendesti nelle cantine di nascosto. Non era la prima volta, ma fu l'ultima. Spillasti la birra e la bevesti schiumandola prima di gustarla. Un soffio d'aria gelida arrivò alle tue spalle, ti voltasti e vedesti quella grata malferma che, forzata, ti aprì una via di fuga. Era la sola possibilità di andartene. La tua grande corporatura ti fu d'ostacolo; ti feristi alle mani, alle braccia, alle gambe, strisciando nello stretto aggio, ma non cedesti. Ti aggrappasti con le unghie nei punti più ripidi, graffiando la pietra, facendo leva sui sassi. Il sangue colava, la pelle si staccava dalle lacerazioni, ma non potevi, non volevi fermarti. Arrivato ad un restringimento, piangesti in silenzio per lo sconforto, sicché nessuno potesse sentirti. Dovevi uscire da lì ad ogni costo o saresti morto.

Se avessi chiesto aiuto, i confratelli ti avrebbero ucciso; se non fossi riuscito a superare l'ostacolo, saresti crepato come un grosso topo in trappola. Vivo o morto avresti lasciato quel posto. Con uno sforzo immane, soffocando le urla di dolore per la lussazione di una spalla, ti spingesti avanti, ansimando fradicio di sudore, sporco di calcina, strisciando verso l'uscita. Dopo due ore di sforzi ti trascinasti fino all'apertura, finalmente libero. Stanco, ma con rinnovato coraggio, protetto dalla tunica pesante, con una piccola riserva di pane e birra, ti avventurasti fino a valle. Non fu facile, il dolore per la lussazione era quasi insopportabile; quasi, perché la tua volontà fu più forte. Il giorno seguente l'abate e i confratelli furono sorpresi dalla tua assenza e ti cercarono ovunque; soltanto più tardi, quando avevi ormai otto ore di vantaggio, uscirono a cercarti. Scoprirono la via di fuga, videro il sangue, i segni lasciati dal tuo aggio... In tanti anni non avevi mai messo piede fuori dal convento e si convinsero che non avresti fatto molta strada, che l'inverno ti avrebbe ucciso, risparmiando loro il gravoso compito. Con volontà incrollabile superasti le difficoltà della notte, del sentiero impervio, fino a che raggiungesti la valle. Un nuovo capitolo della tua vita ebbe inizio, ma non riuscisti mai a dimenticare... Odiavi i monaci e la brama di vendetta crebbe, infestante come la gramigna. Aspettasti finché non arrivò il momento della resa dei conti, quando... All'alba di questo mattino imbiancato dalla brina, all'inizio dell'inverno che quassù morde come un lupo affamato, sei arrivato scalando il pendio a cavallo di quell'enorme mostro cingolato, cogliendo i monaci alla sprovvista.

Senza che avessero modo di capire, di reagire, hai sollevato la mano d'acciaio e hai inflitto quattro, cinque colpi, sfondando il tetto dell'abbazia, la cupola della chiesa, abbattendo il campanile, radendo al suolo la cantina, sigillando tutto e tutti sotto cumuli di macerie. Nessun rimorso per le sessantacinque anime sepolte vive, anzi, non pago, hai tirato le redini della bestia a motore e, sprezzante del pericolo, sei salito su per il colle fino al cimitero. L'antico Campo Santo riposava in pace nell'alba gelida dei secoli. I monaci ti avevano avvertito: i morti non si toccano. Conoscevi la storia, la maledizione... Quattrocento anni fa, in questo luogo dimenticato da Dio, sessantasei donne accusate di stregoneria, furono condannate e crocifisse. Gli uomini del villaggio le condussero qui in dicembre, scalze, vestite solo di una tunica bianca. Le inchiodarono mani e piedi alle croci; le grida, i colpi dei martelli si udirono a chilometri di distanza. I chiodi attraversarono le carni, il sangue sporcò la terra. I monaci diedero ordine di scavare fosse profonde, piantarvi le croci e seppellirle capovolte, perché le streghe erano indegne di morire come il Cristo. Fu un abominio. Poi tracciarono un perimetro con la cera benedetta, confinando i corpi e gli spiriti al suo interno; bandirono l'uomo da quella terra, assumendosi il compito di custodirla. Il cimitero pullulava di pali senza un nome... Il male era stato sconfitto e confinato in questo luogo di orrore e morte. Poi, sei arrivato tu, l'ultimo dei frati custodi.

Hai superato i confini del cimitero e cominciato a scavare, scoprendo le croci, i cadaveri. Fermato il mostro meccanico, sei sceso e, messo piede sul terreno, hai visto i corpi putrescenti tornare in vita. Non credevi ai tuoi occhi, mentre le carcasse, scivolando sui pali, cadevano nelle fosse, per trascinarsi fuori dalle tombe, affondando le mani nella terra. Li hai guardati avanzare sull'erba gelata, in posizione eretta; zoppicando sulle ossa e la carne marcia a brandelli; camminando sui palmi delle mani con le schiene curvate all'indietro, le gambe piegate e i piedi sopra la testa. Terrorizzato hai tentato di fuggire, ma, ovunque, mani artigliate sono spuntate dai cumuli di terra smossa, impedendoti di scappare. Strisciando come un verme, hai raggiunto il perimetro benedetto che avevi appena violato, convinto che, oltreato, saresti stato al sicuro, ma loro ti hanno raggiunto. Allora hai pensato ai monaci che vennero in tuo aiuto e, imprecando, ti sei pentito di ciò che avevi appena fatto. Forse, se non li avessi uccisi, ora, avrebbero potuto salvarti... Troppo tardi. Le resuscitate ora ti circondano; ti guardano attraverso le cave nere tra gli zigomi e la fronte; fiutano il tuo odore dalle fessure aperte in mezzo al volto; ti cercano con le braccia scarnificate, le mani artigliate. Le bocche vomitano terra, si preparano; presto ti faranno a pezzi e ti divoreranno, mantenendoti in vita il più a lungo possibile, affinché tu possa guardarle. Poi scenderanno a valle... Ecco, il cerchio si stringe su di te, le mani si protendono, ti toccano, le unghie affondano nella pelle, le mascelle staccano pezzi di carne a morsi.

Oh, vorresti morire, adesso? No, non è ancora tempo... Una dopo l'altra, le maledette si sfamano addentando brandelli sanguinolenti, per poi oltrearti e superare il confine di cera che i monaci avevano tracciato, la prigione che tu hai distrutto. Eri l'unico che avrebbe potuto farlo, avevo confidato in questo... E pensare che lo stratagemma dei frati aveva funzionato perfettamente; portarono qui le donne, mentre io seguivo la processione confuso tra gli astanti... Credevo di essere al sicuro, ma mi sbagliavo... Le crocifissero per indebolirmi e poi, circondandomi, spingermi all'interno del perimetro. Fu tutto così rapido... Mi ritrovai imprigionarono qui e sarebbe stato in eterno, credimi, se tu non fossi arrivato a liberarmi. Tu non lo sai, ma io ti avevo scelto e sapevo che avresti fatto ritorno per portare a termine il tuo compito. Grazie a te, tutto è cominciato e nulla potrà fermare il corso di questa storia che secoli fa fu interrotto. Il male dilagherà sulla terra, ma, non temere, tu sarai al sicuro, qui, all'interno del Campo Santo. Le cose cambiano... Ora io sono fuori, tu dentro e ci resterai, pagando le tue colpe in eterno. Mi guardi incredulo, mentre sono io, ora, a tracciare il perimetro del tuo inferno, eppure so che ricordi, ci siamo già incontrati, anche se è ato molto tempo. Guardamiii...

Ascoltamiii... Chi sono, ti stai chiedendo? Io sono la bambina nella nebbia, sono colui che indicandoti ti ha scelto, io sono il Diavolo e ti ringrazio per aver liberato il male d'inverno...

- Coraggio -

«Mamma, dai, andiamo al Castello con la carrozza! Dai per favore per favore per favoreeee!» Ludo era incontrollabile. Da quando eravamo arrivati al parcheggio per i camper, per poi visitare il castello, aveva avanzato pretese di ogni genere: gelato con panna montata (in Germania a novembre...), cappello del castello, puzzle da mille pezzi... Sentivo già le tempie strette in una morsa di tensione. Avrebbero dovuto essere tre giorni di vacanza, ma, o l'accezione di vacanza subisce uno snaturamento dopo che si ha un figlio, o la mia era tutto, ma non una vacanza! Guardai mio marito. Calmo e imibile, come sempre, osservava le giravolte del figlio, le mani in tasca, gli occhiali scuri a nascondere lo sguardo. Quel week end era stata una mia idea; una sera, dopo aver messo a letto il bambino, esausta, ero crollata sul divano. Fra stava guardando la Tv, qualcosa sulle antiche tradizioni religiose. Ultimamente si stava apionando a riti esoterici e cose del genere; me ne ero accorta riordinando la pila di libri ammucchiati sul comodino: piramidi, templi aztechi, tradizioni Maya... Toccandogli un braccio, tentai di attirare la sua attenzione: «Fra, è tanto che non usciamo in camper, noi tre; perché non ne approfittiamo per fare un giretto? Ludovico adora il camper e anch'io ho voglia di uscire un po' di casa.» Silenzio.

“Dai – pensai – per una volta dimmi di sì, una sola dannata volta! Non costringermi a puntare i piedi.” sco fece un po' di zapping, prolungando il silenzio... «Andiamo a Fussen» dichiarò, infine: «Ok (dove sarà mai Fussen e cosa ci sarà?), va bene, andiamo lì.» Il giorno seguente scoprii che Fussen si trovava in Baviera, ai limiti della Romanticher Strasse. Era famoso per il castello di Ludwing, riprodotto su tutti i libri per bambini e su moltissimi puzzle. Arrivò il giorno della partenza. La meta era stata accuratamente registrata nel navigatore, mio marito si era procurato guide, libri, mappe... Sembrava stessimo partendo per un viaggio in terre lontane e sconosciute. Io mi preoccupavo solo che il mio tedesco, ormai da tempo in disuso, mi venisse in soccorso in caso di necessità. Ed eccoci alla meta. Stanchi e annoiati per il lungo viaggio sotto una fredda pioggerella novembrina, avevamo parcheggiato il mezzo nell'area di sosta apposita. Avremmo dormito qui, per visitare il castello in mattinata, sperando si alzasse la nebbia e si aprisse un pochino il tempo. Stavamo giusto facendo quattro i prima di cena, Ludo doveva sfogare la sua vivacità, altrimenti metterlo a letto sarebbe stata un'impresa titanica. «Mammaaaaaa - mio figlio mi tirava la manica verso il negozio - entriamo qui a vedere, dai mamma, dai dai dai!» «No, sai che poi papà si arrabbia se entriamo in tutti i negozi» - lo stavo dicendo

con convinzione, era una scenetta che si ripeteva troppo spesso: marito sbuffante, fuori dal negozio ed io a cercar di convincere il pargolo - quando sco mi superò per varcare la soglia dell'esercizio. E Ludo dietro. Uscimmo un'ora dopo, con buste e sacchetti. Stranamente mio marito, notoriamente taciturno, chiacchierava con il bambino, tenendolo per mano. La notte trascorse tranquilla, un silenzio profondo avvolgeva il parcheggio. Schegge di brina brillavano come diamanti alla luce dei lampioni perimetrali. "Si è rasserenato" – pensai, il naso schiacciato contro il vetro, le braccia strette al petto nell'aria fredda, un attimo prima di andare a letto. sco stava leggendo dalla sua parte, la piccola luce dorava la parete della mansarda. Mi piaceva dormire in mansarda, sul camper, mi dava la sensazione di essere protetta, al sicuro. «Perché andiamo a piedi mamma?» «Perché mamma non abbiamo preso la carrozza?» «Mamma sono stanco...» «Mamma ho sete...» «Mamma, ma quanto manca ancora?» Ci sono momenti in cui odio l'appellativo “mamma”, mi stride i nervi!! Stavamo salendo lentamente il largo sentiero che ci avrebbe condotto alle pendici della rocca su cui si erge il Castello di Neuschwanstein: il cigno di pietra grigio. Eravamo soli.

Un quarto d'ora prima ci aveva superato una vecchia carrozza trainata da due grassi e sgraziati cavalli: portava una coppia di asiatici, i volti seminascosti tra cappelli e sciarpe. Nessun altro. Fra camminava avanti, in silenzio. Ludo saltellava tra i miei piedi, tenendomi per mano. Il sole creava arabeschi tra i rami spogli, non si udivano suoni, solo la vocetta di mio figlio e l'eco dei nostri i. Avvicinandoci alla meta, una nebbia strisciante iniziò a raccogliersi tra le nostre caviglie. Ecco il castello: svettava imponente e immobile sulla rocca, dominando il bosco e la pianura dove avevamo lasciato il camper. Le finestre ad ogiva erano buchi neri sulla facciata grigia. Il grande portone serrato, nessun movimento. Anche i bar e le bancarelle tipiche dei luoghi turistici erano chiusi e silenziosi. Una vaga inquietudine iniziò a strisciare nella mia mente: perché non c'è nessuno? Appena oltre la curva che portava all'accesso del ponte levatoio, i due grossi cavalli della carrozza, brucavano da una grossa balla di fieno secco. «Andiamo a vedere il castello, andiamo!» Ludo ci incalzava a continuare la nostra salita. Attraversato il ponte levatoio, largo e solido abbastanza da non crearmi alcuna ansia a causa dell'altezza, ci trovammo di fronte il portone chiuso, inesorabilmente sbarrato. “Schluss” citava laconico un cartello nero. Accidenti, perchè? Mi chiesi.

Per una volta che facciamo qualcosa tutti insieme, è chiuso! «Mamma andiamo?» « Non possiamo oggi, Ludo, vedi? Indicati il cartello e il portone – è chiuso, è scritto qui!» «Ma io voglio vedere dentro, voglio vedere la prigione, voglio vedere il principeeeeeee!”» Ecco, come temevo, la testardaggine di un bambino di cinque anni contro l'imprevisto della vacanza. Mio figlio aveva il broncio e gli occhi pieni di lacrime di frustrazione, mentre guardava il cartello. «Dai, Ludovico, risaliamo domani, oggi sarà chiuso perchè è il primo novembre, è festa anche in Germania, sai? Diamo un'occhiata qui intorno, ho letto che c'è un bellissimo ponte sopra un torrente e una erella di cristallo, andiamo a cercarli.» sco era intervenuto con maestria a sedare l'imminente capriccio del figlio. Lo guardai con gratitudine, interveniva così raramente! Poi realizzai il senso delle sue parole: ponte sul torrente? erella di cristallo? Una stretta allo stomaco: ponti e erelle, piani alti, scale, camminate in montagna... Tutto off limits, per me. Era afflitta da una paralizzante acrofobia: vertigini, nausea, paralisi del movimento, ansia anche solo al vedere qualcuno camminare su un ponte. sco lo sapeva bene, artefice dell'acuirsi della mia fobia, con uno stupido scherzo che, ancora a distanza di anni, mi svegliava nel cuore della notte, coperta di sudore gelido con il respiro strozzato in gola.

Eravamo in vacanza in Val d'Aosta (ai tempi amavo camminare in montagna, la discesa mi impensieriva sempre, ma riuscivo ad affrontarla senza troppi patemi), stavamo facendo un picnic su un piccolo falso piano che dominava la valle sottostante. Il prato, di un verde intenso, terminava con un breve ciglio, oltre il quale non riuscivo a spingere lo sguardo (e nemmeno ci provavo, a dire il vero). Mi ero seduta il più lontano possibile da questo sottile confine e mi godevo il sole caldo, mentre l'aria frizzante della montagna ne stemperava la carezza sulla pelle nuda. sco stava mangiando un panino, attraversando il prato. Lo osservavo: era davvero un bel ragazzo, così alto e snello, i capelli lucenti al sole, come il manto di una volpe... Mi beavo che mi avesse scelta, tra le tante che smaniavano per lui. D'un tratto lo vidi avvicinarsi al ciglio. I miei sensi si risvegliarono immediatamente. Lo stomaco si tese. Il cuore pompava veloce. «Fra att...» Non terminai la frase. In una frazione di secondo era sparito alla vita. Caduto nel vuoto! Sfracellato! Morto! Mi alzai di scatto, inciampando nei piedi, urlando il suo nome, piangendo, affannandomi verso il ciglio, immemore della mia paura, terrorizzata dalla sua sorte.

Ansavo, avanzando carponi, incapace di alzarmi. Lacrime e muco, saliva e urla. Morivo anch'io, ad ogni metro che guadagnavo verso l'ignoto. Mi sdraiai sulla pancia, tirandomi con le braccia verso il bordo del prato e lui era lì. Sdraiato sul dolce declivio che digradava fino al bosco, venti metri più in basso. Un declivio che, accecata dalla mia paura, non avevo visto, pensando che oltre il ciglio vi fosse un burrone, un salto, un vuoto. Rideva di me... Da allora la mia paura divenne fobia, paralizzante, invadente. Basta montagna, basta ponti, basta visite ai piani alti, basta tutto ciò che mi imponeva di staccare da terra anche solo il pensiero. E adesso mi stavano trascinando verso un ponte, verso una erella di cristallo... Incontrammo un cartello: Marienbrucke – gola di Pollat. Eccolo, fragile struttura di metallo tesa a venti metri sopra una stretta gola, nel cuore della quale scorreva un impetuoso torrente. «Belloooo! Andiamo papà, mamma, andiamo sul ponte!» Ludo correva qualche metro avanti a noi. Ad ogni o verso l'imboccatura del ponte, cresceva la mia apprensione e rallentava la mia andatura. Non sarei mai salita su quella fragile struttura che sfidava il vuoto. Non potevo. No!

Punto! Mi arrestai qualche metro prima della erella, dove la terra era solida e la gola non era visibile, nascosta da una caduta disordinata di massi ed alberi spogli e contorti. sco e Ludovico arrivarono a metà ponte. Non riuscivo nemmeno a guardarli. Solo il saperli lì, sospesi su quel graticcio, mi paralizzava il respiro, mi rendeva molli le gambe. Sentivo i muscoli della schiena contratti dall'apprensione. «Wow, papà che bello, sembra di volare!» Sentivo la vocina di mio figlio, acuta e distante. «Vedrai, tesoro, papà ti farà volare, presto, vedrai!» La voce profonda di Fra si perdeva nel vento. Non ne potevo più. La tensione, la paura, l'adrenalina, mi imponevano di fare qualcosa per occupare la mente e non pensare ai miei due amori, là sopra. Scrutai i dintorni, oltre il ponte svettava il castello, seminascosto dalla nebbia, una figura immobile e spettrale. A destra e a sinistra si aprivano i fianchi scoscesi della gola naturale: una cascata di massi e rocce, arida e angosciante. Sul ciglio di fronte scorsi un movimento: erano i due asiatici che avevamo incrociato salendo, intabarrati in caldi manti scuri. Sembravano sospesi sull'abisso. Avvertii immediata la stretta di angoscia.

Sciocca, mi dissi, sono sulla pedana di vetro! Li osservai, forzandomi di non pensare che fossero su una fragile lastra trasparente. Guardavano mio figlio e mio marito con attenzione, con troppa attenzione forse. Uno dei due si abbassò di colpo, facendomi sobbalzare: temevo fosse caduto. Una nebbia sottile ed improvvisa li nascose per qualche istante. Quando si diradò i due erano spariti. «Andiamo sulla erella papà, dai dai, andiamo!» Stanco del ponte, Ludo stava trascinando sco verso la erella. «Aspettiamo la mamma» disse mio marito, lasciandogli la mano. «Tanto non viene! Ha paura delle vertigini!» Rispose il piccolo proseguendo spedito verso il trampolino nel vuoto. «Ludovico aspetta papà!» Esclamai, senza riuscire a nascondere del tutto la tensione nella mia voce. Ludo, però, era già sulla erella. sco era dietro di me. Mi avvicinai un poco. «Amore, stai fermo, ok? Aspetta che venga con te il papà, non sporgerti!» Mi accorgevo di essere sull'orlo delle lacrime, quasi nel panico. «Dai mamma, è duro, il vetro, vedi?» Così dicendo fece un piccolo salto, poi un altro.

«No! No non salt...» Crack! «Mammaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaa!» Oddio! Oddio! Oddio! Era sparito! Era morto! Era caduto! «Ludoooooooooooooooooooooooooooooo!» Mi precipitai sul ciglio dell'orrido, in ginocchio, aggrappata ai ciuffi di erba secca, in lacrime, senza lacrime, senza respiro, senza… Guardai giù. Il vuoto mi venne incontro vorticando. Caddi prona. Le unghie conficcate nel terreno. Sbattei gli occhi più volte. «Bambino mio... Amore mio... Bambino mio... Dio ti prego...

Ti prego Dio... Dio ti prego...» Scrutavo tra la nebbia e le lacrime, mormorando il mio mantra, indifferente a tutto. Poi lo vidi: era caduto solo qualche metro, restando impigliato in quello che sembrava un cespuglio. «Tesoro, tesoro!» Sentii le mani di sco sulle spalle, che mi tiravano indietro. «E' lì, facciamo qualcosa, dobbiamo prenderlo! Dobbiamo prenderlo, prenderlo adesso! Adesso!» Ero isterica. Gelata. Instupidita dal terrore. sco mi prese tra le braccia. «Okay, tesoro, adesso vado a cercare qualcosa per poterlo tirare su. Vado a cercare aiuto, non muoverti, ok? Resta qui. Ludovico è svenuto, vedrai andrà tutto bene.» Mi strinse a sé poi scomparve nella nebbia. Restai a guardare il corpicino del mio bambino, immobile. Rivissi la sensazione di calore, di amore, di orgoglio e meraviglia, la prima volta che lo strinsi a me; rosso, sporco ed urlante, dopo un parto lungo e difficile.

Sentii il calore della sua manina stretta fiduciosamente nella mia; la luce che splendeva nei suoi occhioni spalancati sul mondo. Era la mia vita. Non potevo perderlo. Se fosse morto, non avrei potuto sopravvivere. sco si materializzò accanto a me, insieme ai due asiatici con i mantelli scuri Teneva tra le mani le briglie dei cavalli, con cui aveva improvvisato una specie di imbragatura. «Adesso ti lego e ti faccio scendere da Ludovico» – mi disse. «No, io io no, non posso, ti prego!» Piangevo atterrita. La paura del vuoto stava tornando impetuosa. «Ascolta, puoi scendere solo tu, sei leggera e le corde ti terranno, non farò fatica né a calarti né a recuperarvi. Io sono troppo pensante, non riusciresti a tirarmi su!» Aveva ragione, senza dubbio. Era riuscito a mantenere la logica e la razionalità, mentre io mi ero fatta prendere dal panico. Me ne vergognai. «Hai ragione, calami!» «Andrà tutto bene, non guardare in basso, i la corda sotto le ascelle di Ludo e lo abbracci, tenendoti al cavo, io vi tirò su. Ok?» «Ok!»

Chiusi gli occhi e trattenni il respiro finché non sentii la sporgenza di roccia sotto i piedi. Ludo aveva gli occhi chiusi e un brutto graffio su una guancia, ma respirava. Mio dio grazie! Grazie! Grazie! Mi slegai rapidamente e ai la corda sotto le sue braccia abbandonate. Guardai in su, sco e i due asiatici ci osservavano dal ciglio. «Tiraci su, in fretta per favore!» La nebbia stava salendo dalla gola, umida e fredda, presagio di neve. “Kommst grosse Schwann, wir haben dein Geschenk...” Cosa stava succedendo? I due asiatici mormoravano una litania in tedesco, di cui mi sfuggivano parecchie parole. sco esitava, la corda in mano. Poi la corda cadde sulla roccia ai miei piedi. «sco?» Guardai in su, non c'era nessuno. «sco! Aiuto sco! Aiuto! Aiuto, aiuto!

Qualcuno mi aiutiiiiiiiiiiiiiiiii!» La mia voce si ruppe sulle rocce, tra la nebbia sempre più densa. «Mamma?» Una flebile vocetta attirò la mia totale attenzione. «Fermo amore mio, non ti muovere» lo abbracciai. «Mi fa male la testa, mami...» Piagnucolò Ludo. «Adesso vedrai che vengono a prenderci e andrà tutto bene, tutto bene, vedrai.» «Dov'è papà?» "Già, dov'è papà?" Un rumore improvviso ci fece sobbalzare, un frullio di ali, fortissimo. Poi comparve. Il lungo collo aggraziato, le ali snelle, immense, il becco nero. Un enorme cigno, grigio come la pietra, volò verso la roccia su cui eravamo abbarbicati. Emise un lungo, lugubre stridio. Ludovico si attaccò alle mie gambe. Io lo strinsi forte a me. L'uccello protese gli artigli, gremendo il bambino alle spalle. «Nooooo! Mammmaaaa!» «Lascialo, andare maledetta bestiaccia, lascialo!» Tempestavo il corpo, gli artigli di pugni, di morsi.

Un turbinio di nebbia e penne ci avvolgeva. Sentii il corpicino di Ludo staccarsi da me. No! No! No! Non poteva portamelo via! Noooooooooooo! Mi attaccai alle sue gambe! Il cigno sollevò entrambi senza sforzo. Si levò sopra il ponte, alto, così alto che non vedevo nulla. Ludovico urlava. Io sentivo la presa cedere, le braccia non reggevano più lo sforzo. Caddi. Urlando caddi nel vuoto. Il mio incubo! La mia realtà! Cadendo vidi con terrificante lucidità mio marito e i due asiatici prostrati a terra; sembravano in adorazione. Lo schiaffo dell'acqua gelida mi tramortì come un pugno in piena faccia. La corrente mi sbatteva contro le rocce, non riuscivo a contrastarla. Sapevo di doverla tagliare, ma non ne avevo la forza.

Una curva stretta, un'altra e un rumore assordante, oltre quello della acqua impetuosa. Il torrente finiva; oltre, un salto nel vuoto... Ancora. Non avevo più paura. Non sentivo nulla. Niente di niente. Caddi. Caddi. Caddi. Per un attimo sospeso mi parve di volare, senza peso, senza corpo. Poi vidi le rocce venirmi incontro e il buio. Dall'iscrizione in tedesco sul basamento della statua del grande cigno grigio: “Da oggi Primo novembre 1815, ogni duecento anni in questo giorno, se una madre supererà le sue paure per dare la vita al proprio figlio, egli sarà il prescelto del cigno, e il padre ricoperto di gloria ed onore finché avrà vita.”

- Zampette nere -

Lo vedo. Un brivido mi corre dalla testa ai piedi; non è certo il miglior risveglio che mi potessi augurare: gocce gelate mi imperlano la fronte, trasudano su tutto il corpo tra migliaia di microscopiche cuspidi che affiorano sulla pelle come fossi un'oca appena spennata. È qui e si muove veloce su di me con le sue zampette pelose e nere. Non lo perdo di vista nemmeno per un battito di ciglia, mentre raggiunge il seno e si ferma, compie un giro su stesso, poi mi guarda. I suoi occhi grandi mi scrutano; ho la sensazione che stia pensando a cosa fare, così come me lo domando io. Da dove è venuto? L'ho sempre e soltanto immaginato, è una fobia radicata in me da tempo, da quando lei… Eppure pensarlo, immaginarlo, è una cosa, vederlo qui davanti a me, fermo, mentre rigurgita saliva appiccicosa, un’altra. Il suono vibrante dello strofinio degli arti sottili, mentre tesse la sua tela, mi penetra i timpani; quanto vorrei farlo tacere adesso, ma devo badare a ciò che faccio: basta poco perché con un morso… Ah, quanti dolorosi black out ha già scatenato in me fino ad ora? Quattro paia di enormi occhi, lucidi e neri, mi scrutano, quasi a ribadire che la parte superiore del mio corpo, ormai, gli appartiene. Ha lasciato la tana che aveva scavato in profondità nella mia mente ed è uscito allo scoperto; non mi fa paura, solamente ribrezzo.

È stato per tanto tempo nella mia testa; solo ora, il prode aracnide ha finalmente avuto il coraggio di farsi vedere o forse, in me non ha più nulla da fare. In questi anni mi ha letteralmente divorata viva; di giorno, di notte, l'ho immaginato, l'ho sognato, tuttavia sono ancora qui e gli sono davanti; siamo alla resa dei conti. Ho sempre odiato lui e la sua lurida specie di bestie schifose; odio gli insetti in generale, soprattutto i ragni, questo poi! Sono stata il suo nutrimento per anni! Si è insinuato in me, ha inoculato il suo veleno, mi ha avvolto nella sua tela, poi ha cominciato a mangiarmi poco a poco. Quante volte mi sono scoperta catturata dalla sua trama, prigioniera della sua bava setosa, pronta per essere divorata viva. Sono così queste bestiacce! Ti mangiano viva, rigurgitando acidi che ti consumano i capelli, la pelle, i muscoli, le ossa, riducendo tutto in poltiglia pre-digerita. Che schifo! Lui, poi, è il peggiore della sua specie: ti mangia dall'interno. Dio mio! Lo vedo farsi largo nel cranio, sciogliendo uno ad uno i lobi del cervello, succhiandone la polpa grigia; aggredendo i bulbi oculari, il nervo ottico, facendo incetta del vitreo molle; concludendo il lauto pasto, nell'incavo dell’orecchio, divorando timpano e martelletti. Vederlo qui, adesso, mi fa pensare: che lo stia soltanto immaginando? Ah, se penso al cortocircuito dei neuroni che collassano, alle cavità orbitali svuotate lentamente, al suo avanzare inesorabile nelle trombe uditive... Beh, se è soltanto immaginazione, devo ammetterlo, sono proprio brava e farei

bene a mettermi a scrivere, potrei avere successo! Cosa dico?! Ho scritto così tanto in vita mia! Pochi lo sanno, ma l’importante è che io lo ricordi ancora. Sono fiera di ciò che ho realizzato in questi quarantacinque anni e non permetterò a questo insulso insetto, perché questo è, solo un insetto da schiacciare, di consumarmi, di uccidermi lentamente come ha fatto con lei. Si chiamava come me, aveva le mie stesse ioni, lavoravamo insieme, eravamo amiche e lui, lui l’ha uccisa! Le si è insinuato nella testa, maledetto bastardo, inoculandole il potente veleno, giorno dopo giorno, terrorizzandola, notte dopo notte. Lo vedeva ovunque, come ora lo vedo io: lo sentiva arrampicarsi tra i capelli senza riuscire a levarselo di dosso; lo guardava scalare la parete dietro il letto fino al suo punto d'osservazione preferito, il soffitto; lo ascoltava saziarsi del silenzio notturno per non darle pace. L’ho vista soccombere, consumandosi impotente, dimagrendo fino a diventare un manichino scarno, vestito di pelle, tutta vene e ossa. E mi dicevo che a me non sarebbe accaduto, che se fosse successo, non gli avrei dato soddisfazione. Quando ho scoperto che anche io ero stata aggredita, ho pensato ad una coincidenza, non certo ad una premeditazione. Invece mi sono resa conto, soltanto dopo, che la bestiaccia aveva architettato tutto, scegliendo le sue vittime tra donne con gli stessi interessi, ioni, pulsioni. Sapeva di cosa volersi nutrire, ci ha cercate, trovate, scelte. Io, però, sono ancora viva e ho intenzione di vendere cara la pelle!

Beh, cos'hai da guardare? Pensi che sarà così facile anche con me, non è vero? Scordatelo, capito?! Continua a fissarmi, sbavando come se stesse preparandosi a concludere il lauto banchetto. Dovrei essere spaventata a morte, ma da pochi istanti qualcosa, in me, è cambiato. Lo guardo, calma, controllando il respiro, il battito del cuore; forse pensare a lei… Beh, se vuole avermi, venga a prendermi! Piccolo bastardo, credo che tu abbia commesso un grave errore mostrandoti così presto, troppo presto. Ti sei rimpinzato abbastanza? Oppure, lurido vigliacco, sei uscito allo scoperto, ben sapendo che ormai c’è poco da fare, godendoti così lo spettacolo della mia fine? Continua pure a gongolarti, plaudendo con le tue sozze zampette, già certo della vittoria, ma, attento, non sono ancora morta. Oh, quanto vorrei torturarti come tu hai fatto con lei e poi ucciderti, farla finita una volta per tutte! Come una vedetta, o in rassegna la sua posizione, il divano su cui sono sdraiata, la stanza. È tutto perfettamente in ordine come è mia abitudine; ogni cosa è al suo posto. Se solo non fossi così pignola e trovassi qualcosa a portata di mano… Un momento! Dietro la mia testa, oltre il bracciolo, sul tavolino, dovrebbe esserci un bicchiere.

Sì, quel bicchiere d’acqua ghiacciata. Se solo potessi arrivarci, saprei cosa fare, sai? Potrei schiacciarti fra le pagine patinate di quel libro appoggiato tra te e il mio basso ventre, quel bel volume illustrato, costato un occhio della testa. Se solo zampettassi avanti di qualche centimetro, sarebbe così facile, in un attimo, entreresti a far parte di un importante tomo di medicina. Un movimento rapido e fine della storia, della tua! Tu, però, stai lì fermo e mi guardi. Non fai altro che guardarmi! Sei astuto, quasi sapessi cosa ho in testa. Che stupida, certo, lo sai benissimo! È da lì che sei venuto! E poi, sarebbe una morte troppo veloce e indolore, non certo nel tuo stile: tu godi della sofferenza, sadico maestro! Te ne andrai con tutti gli onori, non temere. Sai già che farò di te, non appena avrò afferrato il bicchiere, vero? Sei pronto? Lei, io, noi non lo eravamo! Forza, vediamo quanto sei abile, io, ormai, non ho nulla da perdere: sei qui per uccidermi e lo farai comunque. Allora guardami, continua a guardarmi… Adesso! È fatta!

Mi affaccio sull'orlo del bicchiere: il mostro, capovolto sul dorso, si da un gran da fare, dimenando le zampette per aria. È furioso; se potesse mi ucciderebbe all'istante, invece non può. Con una mossa da vero funambolo si capovolge, cercando di risalire, ma l'acqua fredda, il ghiaccio glielo impediscono. Sei in trappola, bastardo! Oh, ma quanta agitazione! Hai paura? Calmati, non hai avuto fretta in tutti questi anni, non vorrai averne proprio adesso. Non voglio ucciderti, almeno non subito; ho tanto tempo da dedicarti. Aspettami qui, non andartene, mi raccomando - dico, sorridendo beffarda, lasciandolo all'ennesimo tentativo di fuga - torno subito... Eccomi! Non ti agiti più adesso? Che fai, usi la tattica del morto? Spiacente, ma non funziona. Il piccolo bastardo si riprende: le mie parole devono averlo colpito nell'orgoglio. Si muove lentamente, intontito dalla temperatura glaciale, Sai, quasi mi spiace che tu non possa parlare; d’altra parte posso solo immaginare che voce fastidiosa potresti avere, ma ascoltarti supplicare mi piacerebbe da morire. Morire: questo vorresti? Mi stai forse supplicando?

È questo che mi stai dicendo con la tua mimica da sordomuto? E tu pensi davvero di potermi impietosire? Lo osservo affondare inerme tra iceberg d'acqua gassata, finché il suo zampettare si arresta del tutto. Che farne adesso? Potrei schiacciarlo, sarebbe la fine che merita un bastardo della sua razza, invece no, sarebbe troppo facile. Ci spostiamo in cucina, dove gli mostro la fucina e gli attrezzi di tortura; mi verrà certo un'idea. Lo afferro con una pinza e osservo, un'occhiata a lui, una al fornello; ruoto la manopola, dando gas, decisa a tormentarlo sulla fiamma blu del fornello. La bestia riprende subito conoscenza, ricominciando ad agitarsi! Potrei bruciarlo vivo come un eretico sul rogo, incenerirlo; oppure cuocerlo, mangiarlo io stessa, come fanno in estremo oriente, ma solo il pensiero di averlo ancora in me mi fa rabbrividire. Lo afferro di nuovo, tutto rattrappito come un vecchio sofferente d'artrosi, con le zampette piegate, senza che accenni benché minima reazione. Premo sui manici, stingendo i becchi arroventati della pinza e, finalmente, ottengo una risposta: lui soffre e questo mi fa stare bene. Fa male, vero? Lo capisco da come si raggomitola, cercando di arrampicarsi: vorresti forse venire a prendermi?! Oh, si che vorresti, ma non ce la fai. Ustionato e annerito, si ferma; non muove un arto, ma gli otto occhi continuano a fissarmi; che sia veramente… Non so se mi stia sfidando o se sia già morto.

No, non può esserlo! Non puoi essere già morto! Non ancora! E smettila di fissarmi, capito! Non riuscirai ad impietosirmi! Oh, no, non siamo uguali, niente affatto se è questo che stai cercando di dirmi. Lo lascio cadere sul banco in metallo, un tavolo chirurgico. Afferro l’ago da morfina che avrei dovuto iniettarmi e l'infilzo; un occhio dopo l’altro e la bestia immonda reagisce: è ancora viva! Lo chiudo sotto una campana trasparente, fa caldo adesso, ho sete, voglio bere! Apro la finestra e guardo il mondo, l'estate, respirando aria fresca, mentre tracanno un sorso di acqua fredda e, improvvisamente, mi accorgo che, là fuori, la siepe in giardino è piena di altri bastardi come lui. Come ha potuto Dio, sempre che esista un Dio, permettere che questa razza nascesse? Rifletto un momento su Dio e la creazione, quando… Che grande idea, come ho potuto non pensarci prima! Mi volto verso il mostro: ecco cosa farò, ti farò divorare vivo da un crudele cannibale della tua specie! Voglio godermi questo spettacolo, guardarti soffrire ciò che tu hai inflitto a lei, a me! Sai come si dice: “occhio per occhio” e tu ne hai, ne avevi, otto! Sono così eccitata, carica di rabbia e pretendo vendetta. Esco in giardino, pinza alla mano, scelgo il più grosso tra i tanti e, stringendo la

presa, lo stacco dalla sua ragnatela. Vorrei strappargli le zampe una ad una, strapparle a tutti, fare una strage di massa, ma preferisco rimandare l'olocausto a dopo lo spettacolo. Di tutti gli altri mi occuperò dopo... Dio mio, quanto è grosso; sarà un carnefice perfetto! Rientro, alzo il coperchio, gettando il boia nella mischia. Lo spettacolo può cominciare, mi chino sulla campana, guardando il mio vendicatore giustiziare lo schifoso bastardo che mi ha terrorizzata, torturata per anni. Ecco che comincia: prima lo osserva, gli gira attorno sfiorandolo appena, poi, senza preavviso, gli salta addosso, mordendolo ripetutamente, sventrandolo, cominciando a mangiarlo ancora vivo. Il vigliacco soffre; lo vedo da quanto si agita. Morso dopo morso, il mio prediletto – quanto odio anche lui – consuma il suo pasto. Assistere allo spettacolo mi ha fa tornare l’appetito, appetito che lui mi aveva fatto perdere in tutti questi anni: per la prima volta dopo tanto tempo ho fame. Voglio mangiare, prima però voglio dormire, cosa che, come l’appetito, a causa sua avevo da tempo dimenticato. Lascio il cancro maledetto, o ciò che ne rimane, al suo destino, il cannibale crudele alla sua missione letale: che violenza bestiale è questa! Non avrei mai nemmeno immaginato di provare piacere da una visione simile. Sono cambiata, cosa sono diventata? Penso, mentre mi stendo sul divano, chiudendo gli occhi, sorridendo... Oh, Dio!

Mi sollevo di scatto. Calma, calma… Ricomincio a respirare dopo l’apnea improvvisa, il sudore cola, goccia dopo goccia, dalla fronte alla punta del naso, formando una piccola pozza tra le gambe nude. La maglietta, la sola cosa che indosso, è intrisa di ansia fredda. Piegata su me stessa, la testa fra le mani, riprendo fiato. Sarà morto, penso, cercando di capire se tutto sia stato solo un sogno o sia accaduto veramente. In cucina, sotto la campana niente si muove, nulla vive. Tutto è morte: il cancro divorato come il boia esploso, dopo aver ingurgitato il mostro. Afferro un paio di frutti dal frigorifero, gustandone il sapore, altra cosa che mi ero persa in tutti questi anni, ridotta alla mercé di quella bestia schifosa... É tutto finito. Ritorno sul divano, mi stendo di nuovo, voglio addormentarmi e dormire. È un grande giorno! Ho ucciso il cancro! Un ultimo pensiero mi a per la mente: dove c'è uno, ce ne sono tanti...

- Il corvo -

L'occhio di lucida ossidiana mi fissa, nera tenebra, vuoto che mi risucchia. Odore di rame, di vecchie monete tenute nel pugno sudato. Il suo respiro caldo sul viso, mentre mi tiene per i capelli e mi inchioda contro il muro. Piango nel segreto del cuore. Le lacrime lo infuriano, ormai ho imparato, le cancella con la cinghia che schiocca sulla pelle nuda e fredda. Aspetto che finisca, odiandolo ed amandolo ad un tempo. Desiderando disperatamente che arrivi la punizione e tutto finisca, nel buio assoluto della cella in cui mi tiene; fino alla prossima volta. Cresco tra buio e lampi di luce che feriscono gli occhi, bramando la morte; una malattia, un incidente, qualsiasi cosa ponga fine a questa vita. L'uccello saltella nervoso, piegando la testolina nera a scatti. Scuote le ali, coprendo, per un attimo, la luce tagliente del sole d'agosto. Estate. Un caldo appiccicoso addosso, una sonnolente indolenza avvolge il mondo come un sudario. Lui non c'è.

I suoi occhi porcini, incuneati tra le pieghe della pelle unta non seguono ogni mio gesto con brama ferina. Sono sola, per la prima volta da che ricordi, sono da sola, fuori dalla cella, alla luce. Suonano alla porta. Oddio! L'alta figura riempie tutto lo spazio, il sole lo illumina da dietro, cancellandone il viso. Lo guardo, il respiro sospeso. Mi tende la mano. Calda, asciutta, amica e conforto. L'afferro. Mi rapisce il suo sguardo celeste, il sorriso abbagliante, quel ciuffo ribelle che cade tra gli occhi. Cosa trovi lui in me, non lo capisco, sono un topo atterrito, una creatura cresciuta strisciando tra buio e dolore. Eppure mi salva, mi ama e mi salva. E vivo, finalmente, la luce del sole, gli alberi, i colori, i suoni della vita che scorre! Mi ama e rinasco. Imparo a camminare, a leggere, a scrivere, a vivere, ad amare. A fidarmi dell'essere umano. Un secondo uccello, più grande e più nero si posa accanto al primo. Apre il becco gracchiando, un verso che sembra un pianto.

Fa male tenere i cocci di un sogno stretti tra le dita: l'amore, il rispetto, la pace, una casa, un cane, un bambino... La pasta era scotta, l'arrosto bruciato, la casa in disordine, il mio aspetto sciatto. Il sorriso di un tempo diventa un ghigno beffardo. Colpisce duro, colpisce spesso. Inaspettato un calcio, un pugno, poi mi chiede scusa e piange con me. Chiede il mio perdono, mi giura che non sarà più così, mai, mai, mai... La mia vita è un inferno di botte e suppliche, di sesso violento e dolcissimo amore. Ne sono schiava, senza possibilità di appello. Il mostro, che avevo lasciato con il suo odore di rame, è tornato e mi tiene avvinta a sé. I due volatili si avvicinano saltellando, sento il loro sguardo vuoto scrutarmi nell'anima. Basta! Ho detto basta, un giorno, ho preso mio figlio per mano e sono andata, senza un biglietto, senza un addio, senza un soldo, senza una meta. Sono semplicemente andata via. Lontano da lui, dall'incubo. E, per un tempo felice, mi sono illusa d'aver vinto; una nuova serenità per noi: un piccolo lavoro, un luogo in cui sentirmi al sicuro, le risate di un bimbo che cresce. Lo guardo scivolare felice, il visetto alzato al cielo, il ciuffo birichino scompigliato da vento. L'ombra al suo fianco spegne la luce del sole.

Lo prende per mano, lo tira a sé. No, mio dio, no! Non toccare il mio bambino, non lo toccare! Il grido muore sulle mie labbra. Ha vinto. Uno dei due si avvicina ancora. Non ne vedo che le piume del petto, un nero assoluto, che inghiotte la luce del giorno. Fa caldo. Il sudore mi cade negli occhi e brucia. Le labbra, riarse, si spaccano in mille piccole crepe. La pelle delicata del viso si copre di piccole, dolenti, bolle. Mi ha lasciato qui. Stesa sulla nuda terra, arsa come il mio corpo ad aspettare la fine, inerme. Ha preso il bambino, piangeva disperato, tendendo le manine paffute verso di me e lo ha chiuso sull'auto. Poi mi ha colpito una sola volta al collo ed il mio corpo non è più stato mio. Ne ha fatto scempio: violato, ferito, umiliato, colpito ancora e ancora. Sento il dolore come se fosse di un'altra, mi guardo morire tra le sue mani e so di non poter far nulla. Mi ha portato qui, buttato come un rottame e se n'è andato. Uno dei due corvi si abbassa di scatto, il becco colpisce la guancia ferita, stacca

un lembo di pelle e lo inghiotte. L'altro si avvicina, curioso. Occhio di ossidiana, maligno, beffardo, vuoto. Il rostro cala sul mio viso e torna, finalmente, la tenebra...

- Alla fine dell’estate -

Li trovarono ancora legati, nonostante le onde alte almeno tre metri avessero investito con forza il molo per tutta la notte. Alex era con loro. Quando, alle prime luci dell’alba, arrivammo alla spiaggia di Ocean Grove, dovemmo farci largo tra la folla: gente del posto, giornalisti, curiosi, tenuti a bada dalla polizia, che aveva circoscritto la zona in prossimità dei pali dove degli innocenti erano stati giustiziati. Regnava un surreale silenzio; solo i flash delle macchine fotografiche esplodevano come lampi di un temporale in arrivo... Nessuno poteva credere che fosse accaduto, che fosse tutto vero. L’odore del mare, forte come mai lo avevo sentito in quarantacinque anni, mi bruciava le narici, coprendo il lezzo pungente che veniva da sotto il pontile. Avevo sempre raccomandato ad Alexander di non dare retta agli sconosciuti, come potevo immaginare… Il vecchio, disteso faccia a terra sul pietrisco, ammanettato con lacci di plastica, con la mascella rotta, non era uno sconosciuto. Cosciente nonostante il colpo ricevuto, con gli occhi spalancati, ci guardava, interrogandosi su cosa fosse successo. Avrei dovuto saltare il cordone della polizia e ammazzarlo con le mie mani, le stesse che erano state riconoscenti con lui. Come me, però, nessuno dei genitori accennò ad una reazione. Soltanto l’agente Coltraine, seduto in disparte, con la testa fra le mani, lo aveva colpito con un gancio così potente da renderlo inoffensivo.

Tutti conoscevano Rupert il pugile, il campione dei massimi del corpo di polizia di Ocean Grove, un gigante buono, che si era trovato a are di lì lungo il suo giro di corsa. Era stato attratto al pontile dal tredicesimo bambino, chissà come sfuggito alle grinfie di quel demonio. Il piccolo Jacob era stato l’ultimo della conta… Aveva aiutato il vecchio nel suo folle disegno, senza rendersi conto del pericolo, per quanto possa rendersene conto un bambino di undici anni, quanto sono incoscienti e spericolati a quell'età; quanto lo era Alexander. Così vivace, impetuoso, sempre pronto a correre un rischio sulle attrazioni più alte e veloci dei luna park... Credo avesse preso da Catherine, la mia compagna, sua madre. Ringrazio Dio per averle risparmiato questo dolore: se ne è andata l’anno scorso, dopo una lunga agonia; non avrebbe sopportato nulla di simile. Eravamo una bella famiglia Cath, Alex ed io, fino a che lei non si è ammalata; dopo è arrivato lui, il vecchio. Avevo bisogno di una mano con Alexander, lui sembrava una persona a modo. Abitava a pochi i da casa nostra, era affabile, gentile con noi e sopratutto con i piccoli... Con il tempo mi ero fidato di lui. Aveva le chiavi di casa, accompagnava Alex a scuola, ai tappeti a molla a saltare, al campo di baseball a giocare. Il mio piccolo campione… Lì a terra, a pochi i da me, c'era la sua maglietta numero 32, l'età di sua madre. Oh, mio Dio!

Cath perdonami! Per cinque lunghi anni gli ho affidato il tuo bambino! In quella mattina di settembre, qualcuno si appartò per piangere, altri per vomitare, altri per non svenire: nessuno di noi voleva dare soddisfazione al mostro e alla sua follia: dodici bambini di undici anni, maschi, nudi, legati ai pali del pontile, lasciati lì a morire consumati dal sole e dalla furia del mare. Oh, se penso alla sofferenza, al dolore di Alex! «Ragazzi - disse loro il vecchio con la sua voce roca e rassicurante - andiamo a giocare giù al molo…» «Siiiii - risposero i bambini, euforici, pronti per un nuova avventura - andiamo al molo! Al molo!» Amavano quel suo modo di fare, i giochi che sapeva inventare, i luoghi in cui li portava e li faceva divertire; il mio piccolo mi raccontava sempre, orgoglioso e felice, delle avventure a cui aveva preso parte. Non era la prima volta che andavano al molo, abbandonato da tanti anni, ci erano già stati, si erano divertiti. Eppure avrei dovuto capirlo o ascoltare chi mi aveva messo in guardia; avrei dovuto fidarmi del mio sesto senso, della mia vista, del mio udito, quando… Anche gli altri genitori avevano un’ottima opinione del vecchio, sempre disponibile. Oddio, se ripenso alle sue mani in quelle di Alex, alle sue dita nei capelli che facevano capolino sulle spalle, che gli accarezzavano la schiena... Non facevo altro che rivederlo, mentre toccava il suo viso, la sua bocca, le sue braccia, le sue gambe, quando si prendeva cura di mio figlio ammalato e poi lo baciava. Come ho potuto? Dio mio, cosa ho fatto?!

Le onde s'infrangevano sulla riva, sollevando pietre e conchiglie, la risacca era forte e ritraeva il mare con una violenza che… Cosa nascondeva il volto rugoso del vecchio, dietro il moto ondoso dei solchi sul viso, solo apparentemente tranquillo? Odio, ecco cosa. Odio covato in segreto per anni, riversato, poi su di noi, come una furia cieca e devastante, tutta in una notte. Nessuno poteva fermare l’acqua e l’acqua aveva spazzato via i nostri bambini... Di lì a poco, la polizia cominciò le operazioni di recupero: uno ad uno, i cadaveri furono slegati, deposti a terra e coperti con lenzuola bianche, come quelle del suo lettino che, da lì in poi, sarebbe rimasto vuoto, come un enorme buco nero che niente avrebbe più riempito; nero come i dodici sacchi di plastica, preparati dal Coroner. Li attendeva l'obitorio; ci attendeva il riconoscimento, il momento peggiore. L’ultimo ad essere slegato fu Alexander, il primo della conta. Lo raccolsero come Cristo liberato dalla croce, sbiancato da un pallore disumano, brutalmente offeso dalla furia incontenibile del mare, martoriato dal pietrisco, dalle corde strette. Lo adagiarono sui sassi bianchi… «Eccoci arrivati! Attenti a non scivolare, mi raccomando - disse loro il vecchio, sempre attento e premuroso. Oggi giochiamo ai Normanni - la sua voce li rassicurava e allo stesso tempo li incitava - chi sa dirmi come era fatta una delle loro velocissime navi da guerra? Ricordate cosa c’era sulla prua? Chi sa dirmelo?»

«Una Chimera rispose il coro eccitato e scalpitante.» Continuavo a fissare il vecchio. Cosa lo aveva cambiato così repentinamente dall'oggi al domani? Lo avevo visto uscire con Alexander, mano nella mano ieri mattina, salutare i vicini e prendere con sé anche i loro bambini... Mi fidavo di lui. E non io soltanto. Domande, troppe e inutili! Dio, quanto tempo avrà impiegato a completare il suo assurdo gioco di navi da guerra?! Come? Quando? Perché? Ancora domande. Dio dov'eri, quando tutto questo è successo?! Ed eccolo lì, il vecchio, come se nulla fosse accaduto. Due occhi spiritati, dietro la ragnatela del vetro rotto di una paio di occhiali, ci avano in rassegna, uno ad uno, sfidandoci apertamente. Non ero certo di poter sopportare ancora la sua assurda tranquillità senza reagire. Guardò ognuno dei presenti con aria compiaciuta, accennando un saluto di riverenza, abbassando il capo verso terra. Poi arrivò a me, fissandomi con lo sguardo vacuo, abbozzando un sorriso da ebete, con le sopracciglia alzate e un ghigno idiota tra le labbra...

Non potei resistere oltre. Non potevo, per quel figlio non mio che tanto avevo amato, per sua madre, sopportare quella sua assurda smorfia di compiacimento stampata in faccia senza reagire. Le dita si strinsero in pugni serrati; le ginocchia, piegate, si caricarono per il balzo, ma il cordone della polizia era una barriera impenetrabile, un muro umano di divise blu, macchiate di sale e sudore. Mi chiedevo come potessero resistere loro stessi alla tentazione di farlo fuori, lì, seduta stante. Una scarica elettrica mi attraversò dai piedi alla testa; sussultai, mosso da una pulsione che mi spingeva a compiere qualsiasi gesto pur di avere soddisfazione e vendetta, un gesto come sfilare una pistola da una delle fondine, che erano così vicine e, con un movimento rapido, tolta la sicura… Un colpo, uno solo alla testa... Poi, fine del moto ondoso, del vecchio, fine di tutto! Tutti avrebbero ascoltato tuonare il colpo, visto la testa esplodere in una nube rossa, carica di sangue, ossa, cervello, un miscuglio spappolato pronto a piovere sopra ogni cosa. Mi guardai attorno, pregustando il momento, poi abbassai lo sguardo: eccolo lì Alexander, il primo bambino. Ah, Padre celeste, perché? Perché proprio lui?! Completamente nudo, livido, gonfio, con gli occhi fuori dalle orbite, pieni di sangue; le labbra cianotiche e i segni delle corde che lo avevano legato al collo, ai polsi, in vita, alle caviglie: quel demonio lo aveva crocifisso! «Facciamo la conta, poi prendiamo le corde dal furgone - il vecchio aveva premeditato tutto, preparato con cura il suo piano.

Ci sono dodici pali, dodici navi, dodici prue, ad ognuna la sua Chimera. Siamo una flotta normanna che sfida l’oceano…» Il vecchio esercitava una potente influenza e fascinazione sui bambini; riusciva a convincerli, coinvolgerli, con facilità… «Io sono il capo, il saggio, io che porto i segni delle ferite di guerra – diceva mostrando la cicatrice di un intervento cardiaco, che divideva in due il petto glabro, flaccido e cadente – mentre il tredicesimo di voi, estratto a sorte, sarà il comandante della flotta e capo di tutte le navi. La sua sarà l’ammiraglia: eccola!» Indicò il palo centrale, il primo davanti al mare, con tanta ione, che i bambini cominciarono subito a chiamare in causa la sorte. Cominciò la conta: Alexander fu il primo, Jacob il prescelto. I bambini furono issati sui pali, uno dopo l’altro, assicurati per i polsi ai ganci arrugginiti, un tempo utilizzati per ancorare le barche, poi legati per i piedi, la vita. Il vecchio sapeva che da solo non sarebbe mai riuscito nel suo intento, ma con una squadra, una flotta di fedeli guerrieri… Tutti parteciparono al completamento del macabro disegno di quel pazzo: Jacob, da comandante, lavorò più di tutti e fu legato più in alto, sull'unico palo che superava il pontile in altezza. Fu la sua fortuna. I bambini, ormai crocifissi da più di un’ora, sotto il sole cocente delle due del pomeriggio, cominciarono a lamentarsi: «Fa caldo… Ho sete… Le corde stringono…

Mi fanno male le gambe, le braccia… Sono stanco… Questo gioco non mi piace più… Voglio andare a casa…» Casa: nessuno vi avrebbe mai più fatto ritorno... Soltanto Jacob. Quel demonio voleva continuare a giocare nonostante tutto e tutti e lo fece, per Dio se lo fece, stringendo loro un cappio attorno al collo per farli tacere. Poi tornò da Jacob: «Avanti Comandante! Seguitemi! Via così!» Su una barca malandata, che faceva acqua da tutte le parti, si allontanò dal molo per osservare la flotta: il suo capolavoro. Alle tre, il calore era diventato insopportabile; nessuno andava più al molo da anni, nessuno poté sentire, vedere. Il sole bruciava la pelle, picchiava forte sulla testa nuda, accecava gli occhi, asciugava le gole, le bocche arse delle dodici Chimere. Che atroce tortura! Il vecchio guardava. Alle cinque del pomeriggio, la marea cominciò a salire, il livello dell’acqua lambì i piedi, poi le caviglie, le gambe, le ginocchia. Alle sei, il sole aveva cominciato a calare, non scaldava più, e la marea salì rapidamente fin sotto il mento: Alexander fu il primo ad affogare. Dio, Dio Santo! Perchè non hai impedito tutto questo?! Lo immaginavo annaspare, alzando il mento verso le assi di legno, aprendo la bocca verso un’apertura, forse un foro nel legname marcio, cercando di trovare ancora aria da respirare.

Lo vedevo, bagnato, infreddolito, dibattersi senza potersi liberare, balbettando il mio nome, perché io lo potessi aiutare, salvare… Io non ero lì, ero al lavoro, quel maledetto lavoro a turni, giù alla fabbrica. Tutti e dodici affogarono uno dopo l’altro, tutti tranne Jacob che, issato più in alto, era il solo ancora in vita. Fu lui a raccontare tutto ad una psicologa della polizia accorsa sul posto, poco prima di noi. Raccontò che il vecchio ammirava da lontano le sue tredici Chimere, anche se ormai ne era rimasta visibile solo una, quella dell’ammiraglia; che poi voltò la barca e fece rotta verso il mare aperto, gridando: «Ecco, là io vedo i miei fratelli, le mie sorelle… Ecco, loro chiamano me… Mi invitano a prendere posto nel Valhalla, dove l’impavido può vivere per sempre!» La barca e il suo timoniere si allontanarono, finché sparirono nel mare... La marea si sollevò sempre più potente, colpendo il molo, investendo le navi, le prue, le Chimere, abbattendosi sui bambini con una violenza inaudita. Il gancio a cui il tredicesimo guerriero era legato si staccò dal pontile, consegnandolo al mare… Alle otto di quella sera maledetta, chiamai Alexander al telefono: niente. Chiamai il vecchio: il cellulare era irraggiungibile. Chiamai tutti i genitori degli altri bambini: nessuno era rientrato a casa. Decidemmo di dare l’allarme, chiamammo la polizia: forse il vecchio si era sentito male, un attacco di cuore o chissà che altro ancora. Andammo alla centrale, le ricerche cominciarono immediatamente, mentre noi restammo ad lì, inermi, ad aspettare…

Rupert Coltraine stava correndo le sue dieci miglia al giorno, facevano parte del suo allenamento: di lì a quindici giorni avrebbe difeso il suo titolo dei pesi massimi. Arrivò al pontile abbandonato attorno alle cinque del mattino e vide una figura minuta, immobile sul pontile... Gli parve strano, molto strano. Si avvicinò: era il piccolo Jacob Ross Iuith. Rupert lo raggiunse, prese il piccolo fra le braccia: «Oh, Madre di Dio!» Il bambino era nudo, tremava; era sporco, aveva gli occhi sbarrati, non parlava, non reagiva, non rispondeva alle domande. Lo strinse a sé: «Cosa fai qui, piccolo Jacob? Cosa…» Il bimbo, con gli occhi fissi nel vuoto, disse: «Navi... Pali... Chimere... Comandante…» Rupert si sporse per guardare i pali sotto il pontile, poi scese rapidamente: «Oh, Cristo! Cosa diavolo è successo qui?! Oh, mio Dio no! No! Noooooo!» Un’ombra apparve sul pietrisco, Rupert avvertì il rumore di uno spostamento di sassi. Si voltò di scatto, vide il remo scendere veloce sulla sua testa, lo schivò a sinistra sferrando, nel contempo, un prodigioso gancio mancino al volto dell’aggressore che finì a terra. Poi si voltò di nuovo verso i pali, le Chimere… Si lanciò verso i bambini, sollevandoli per i piedi uno ad uno, come se, così facendo, potesse salvarli o forse riportarli in vita…

«Respirate! Vi scongiuro, respirate!» Non erano più bambini, erano solo cadaveri appesi. Sì fermò esausto, piegandosi sulle ginocchia, con le mani appoggiate sul pietrisco ancora bagnato. Il sudore copioso si mischiò alle lacrime. La frustrazione lasciò il posto alla rabbia, la rabbia alla preoccupazione. Rammentò il tredicesimo bambino, solo, in stato di shock e si alzò, tornando in fretta sul pontile. Prese con sé il piccolo Jacob, poi compose il 911… Ecco lì una fondina; click, con un movimento rapidissimo aprii il gancio in pelle, impugnai l’arma, tolsi la sicura - mio padre era un ottimo tiratore, mi aveva insegnato a sparare - puntai la canna mirando alla testa, non potevo sbagliare… Giustizia era fatta! Per il Alex, per Cath, per tutti. Io lo avevo affidato a quel mostro! Io avevo raccomandato il vecchio a tutti i genitori, li avevo rassicurati, consegnando alla sua follia le vite innocenti dei loro figli, i loro sogni, le loro speranze... Tutto finito: il colpo spense tutto. Per pochi secondi tutto mi girò attorno, mi sentii cadere a peso morto, come un onda che si infrange. Fu tutta colpa mia, solo colpa mia. I poliziotti si voltarono, accorrendo in massa; gli altri genitori si allontanarono in preda al panico.

Solo il vecchio continuava a fissarmi. Alex, Cath: sono tornato, siamo di nuovo tutti insieme, dissi, sperando di morire e così trovare pace. Quella, però, non fu la mia fine, ma solo la fine dell’estate…

- La folla -

«Sediamoci lì, ci sono ancora dei posti! Dai mamma, sbrigati!» Terry mi tira verso uno spiraglio libero tra i corpi accalcati, uno accanto all'altro. Centinaia di adolescenti vocianti, qualche genitore con lo sguardo tra il perso e il preoccupato e un paio di cameriere che tentano di fendere la folla, tenendo in bilico vassoi colmi di bibite analcoliche. E il concerto di ZJ, il rapper più famoso del mondo, se hai un'età compresa tra i 12 e i 17 anni. «Una cosa che non posso perdere, dai mamma! Ci vanno tutte le mie amiche, i compagni di scuola, dai! Finisce presto, non servono nemmeno alcolici, il biglietto lo compro con le mance... Per favoooorrree!» Dopo settimane di queste suppliche accorate, dopo averne discusso con il padre (chissà perchè, una volta che il figlio lo han fatto, questo diviene esclusiva gestione della genitrice) «E lasciala andare, no? La porti e la vai a prendere, cosa vuoi che le succeda?» (Già, la porti e la vai a prendere tu, cara mammina) «Ha 14 anni! É troppo giovane per queste cose!» «Dai, anche tu hai avuto 14 anni, no?» «Si, ma non andavo ai concerti dei rapper, al massimo in discoteca al pomeriggio!»

Alla fine mi sono arresa. L'espressione di pura felicità negli occhi di Terry dovrebbe ripagarmi del fatto di essere qui, gomito a gomito con un ragazzo il cui volto si è arreso all'acne, assordata da questo incontenibile entusiasmo sonoro. Guardo mia figlia... Sta messaggiando furiosamente con il suo smartphone nuovo (regalo del padre), i capelli lunghi le cadono sugli occhi, come sempre. Il profilo dolce, con le gote ancora da bambina, un po' rotonde e rosate, il naso dritto ed importante, così pieno di carattere, che lei detesta. Il lungo collo sottile sulle spalle strette e scarne, che la maglietta nera mette in evidenza Mia figlia, la mia dolce bimba che cresce troppo in fretta! Vorrei tenerla sempre con me, proteggerla dalle delusioni e dalle cattiverie della vita, non vedere mai la tristezza e la delusione nei suoi occhi, ma devo lasciarla andare, guardarla muovere da sola i suoi i nella vita. Questo concerto è un compromesso: vai se vengo con te. Ed eccoci qui: una madre troppo protettiva e un'adolescente che scalpita. Il brusio della sala si alza di un tono, hanno le luci sul palco rialzato, il concerto sta per cominciare. Terry si agita eccitata, mi sorride, mi stringe la mano: “Grazie mamma!” Si spengono le luci, i musicisti prendono il loro posto. La sala è sospesa nel silenzio, in attesa del protagonista che entra con un agile balzo: «Bella zio! Ciao raga...» partendo con quel linguaggio che, se hai più di 20 anni, diventa una lingua straniera. Inizia la musica, la sento nelle ossa, mi scuote le viscere.

Tutti ballano e scandiscono i testi. La sala straripa di energia e di vita. Mi alzo anch'io, contagiata mio malgrado. Ballo. Improvvisamente mi fermo, mi sembra di sentire un vago odore, come di fumo, ma è severamente vietato fumare, qui. Annuso l'aria con attenzione. Si, è odore di fumo, di qualcosa che brucia, lontano. Mi guardo intorno, nella sala buia non si vede niente. Le luci delle uscite di sicurezza occhieggiano alla mia destra. «Brucia la città, la rabbia delle ore...» Canta il rapper. Forse, questo odore, è solo una parte dello spettacolo, mi dico, cercando di calmarmi. L'odore, però, diventa più forte. «Vieni!» Urlo a mia figlia, strattonandola per mano. Lei mi guarda e accenna ad un no con la testa. «Vieni Terry! - la tiro con forza - sento odore di fumo, andiamo via!» Le urlo nell'orecchio, cercando di avvicinarmi all'uscita più vicina. Sul palco lo spettacolo continua, ma nella sala vedo altri adulti guardarsi attorno preoccupati. Tra poco inizierà la calca per raggiungere le uscite. «Andiamo!» Urlo ancora.

«Mamma il cell, aspetta!» Terry si divincola dalla mia stretta e torna verso i posti dove eravamo un attimo fa «Lascia star...» inizio, ma, ecco, un urlo sovrasta la voce del cantante. «Un incendio! C'è un incendio!» La folla si ferma, si azzittisce e, come un'onda, di getta contro le uscite di sicurezza. In un attimo è un caos di urla, di spintoni. Mi trovo incastrata tra il ragazzo acneico e una ragazza obesa, che mi schiaccia contro la schiena di qualcuno. Annaspo, cerco di girarmi verso mia figlia, ma non la vedo, non la vedo più! «Terry!» «Mamma!» Eccola, spinta dalla parte opposta. Un ragazzo la spintona con violenza, un altro cerca di scavalcarla arrampicandosi addosso. Non la vedo più. Un gomito mi si conficca tra le costole, ho il naso premuto contro la schiena davanti a me, non riesco a respirare. Dov'è l'uscita? Le luci si accendono, dal microfono il rapper invita a lasciare con ordine la sala. La folla rincula, prende la rincorsa, si getta con più foga ancora verso la salvezza. Sento urla, gemiti di dolore.

Una ragazza cade, tenta di appallottolarsi, ma piedi implacabili la calpestano. Piange, la bocca spalancata in una O di sgomento. Vedo un piede calarle sulla faccia, urlo, voglio trovare mia figlia, ma la stretta di questa bestia imbizzarrita mi vince, mi trascina via. I piedi non toccano terra, i polmoni non riescono a far entrare aria... Piango. Improvvisamente la schiena che mi ha sostenuto fin ad ora, incastrata, mi lascia. Barcollo. Mani mi spingono, braccia mi urtano, gambe mi calciano; tento di mantenere l'equilibrio, calpesto qualcosa, incespico. Una spinta mi manda per terra. Cado. Le braccia sulla testa, dolori alle costole, alla schiena, calci, pedate... Oddio! Mille piedi mi calpestano, urlo urlo urlo senza fiato il nome di mia figlia... Qualcuno mi ha avvolto una coperta sulle spalle, non so chi. Guardo i lampeggianti blu che illuminano la notte senza vederli davvero. Tutto è silenzio, adesso, un silenzio irreale, così strano che tutti bisbigliano sottovoce. Accanto al mio piede c'è una scarpa: una bella calzatura nera e lucida, da ragazza. Forse comprata proprio per questo concerto. I pensieri navigano oziosi nella mia mente.

Li fuori sembrano pesci in un acquario... Camminano a rallentatore, si chinano, frugano. Le ambulanze stanno caricando altri feriti. Io aspetto mio padre. La polizia l'ha chiamato, arriva subito, mi hanno detto. La mamma è lì, stesa. L'ho trovata dopo che tutto è finito, dopo che la follia si è spenta, incastrata tra l'uscita e il muro. Le hanno rotto l'orologio che le ho regalato a Natale, il mio cellulare, invece, lo stringo in mano, integro. Mamma aveva ragione a non volermi far venire... Bisognerebbe ascoltare i genitori. Io non posso più farlo...

- Ossa di vetro -

Sono giorni che, non so per quale motivo, entro nel grande capannone e guardo in alto. Cammino tra le corsie, fissando la volta trasparente che sembra sostenere il peso di un cielo grigio piombo, carico di pioggia. Le nubi si addensano, sembrano fiocchi di cotone imbevuto; tra poco comincerà a piovere. Odio questo posto quando piove: il frastuono dell'acqua battente è insopportabile, copre ogni altro suono, ammutolisce ogni voce. Lavoro qui da così tanto tempo, ma mai, se non la prima volta, ho guardato sopra la mia testa. Preferisco tirare dritta fin dove devo, non senza ansia o preoccupazione, ma evitando di guardare in alto. Dalle otto alle dodici, dalle tredici alle diciassette, il mio impiego è qui: sono addetta ai rapporti con l'estero per conto di questa azienda che commercia vetro. Il vetro: un miracolo di sabbia e fuoco, due elementi che, presi separatamente, mi fanno una paura del diavolo. Quante notti, quanti incubi, che paura, vedendomi ingoiata dalla sabbia o arsa dalle fiamme! Fin da bambina, ho sempre temuto l'una e l'altro elemento... Ah, Dio mio, meglio non pensarci! Attorno a me, sopra di me, tutto è vetro: la cupola del capannone, le lastre, migliaia, di varie tipologie, dimensione, spessore, stipate su altissimi scaffali di metallo, praticamente, pareti di vetro in cui mi muovo raramente, ma con

disinvoltura, anche se, qualche volta... Questa è una di quelle volte. Cammino tra le corsie del magazzino, una grande Manhattan di vie che si incrociano, divise da altissimi “palazzi” di vetro disposti ordinatamente. È tutta colpa del mio titolare, uno sfegatato anglofono se, muovendomi qui, mi pare di percorrere le strade di New York. Con la sua fissa per gli Stati Uniti ha contagiato tutti; perfino il nome dell'azienda è in inglese! E poi, quanto odio quel suo vizio di storpiare i nomi italiani in nomignoli americani! Bleah... Mi aggiro con circospezione, non senza quella brutta sensazione che oggi mi perseguita, alla ricerca di ciò che mi interessa, ando per Little Italy, tra i prodotti realizzati qui, in Italia dalla nostra fabbrica, per poi continuare fino a Chinatown, tutta roba cinese. Attraverso una fragilissima Soho di prodotti artistici, realizzati a mano, per arrivare a quella che io chiamo Trebeca, al vetro di lusso, quello firmato. Perchè poi tutti questi stilisti abbiano il vezzo di firmare ogni cosa non lo capirò mai! Comunque, proprio qui volevo - dovevo - arrivare: un importante cliente ci ha chiesto vetro firmato Versace. Sono lastre lavorate, molto appariscenti, troppo per i miei gusti minimal. Anche se potessi permettermelo, non spenderei un euro, pardon, un dollaro - se mi sentisse il mio titolare - per rivestire casa mia con questa robaccia, che, inoltre, costa un occhio della testa! “To each is own and customer is always right!”, come si dice...

Odio aggirarmi da sola in questo ambiente, mi auguro sempre di incontrare qualche collega, ho sempre il timore, giustificato o no, non so, che possa accadermi qualcosa, ma ecco... Incontro un paio di colleghi con cui scambio due battute veloci, mentre ci facciamo di lato per permettere il aggio di un carrello elevatore. Mio Dio, mi a così vicino che lo spostamento d'aria della massa che mi supera mi scompiglia i capelli, mentre l'odore della gomma nuova degli pneumatici appena sostituiti e il puzzo pungente di acqua e acido delle batterie mi colpiscono come un pugno allo stomaco; con quel suo carico pesante e fragile mi fa pensare... Vetro, sabbia e fuoco... E se tutto questo peso si rovesciasse, adesso, sopra di me? “You're a wren, little bird...” Io sono uno scricciolo, è vero - che fastidio quando Mr. Glass mi apostrofa così piccola e minuta, non oso pensare alla fine che potrei fare... Ah, quintali di sabbia fine, miliardi di minuscoli granelli che possono insinuarsi ovunque, nel naso, nelle orecchie, in bocca, tanto da impedirmi di sentire, di gridare, di respirare; pensarlo mi fa mancare l'aria. Oh, Dio no! La sabbia cade su di me chiusa in una clessidra, coprendomi lentamente, completamente. Il tempo scade, granello dopo granello, mentre tutto diventa buio. Mi tremano le gambe, brividi mi attraversano la schiena come una scossa elettrica, mentre l'abbraccio umido mi stritola come fossi prigioniera tra le spire di un gigantesco serpente. Non mi lascia scampo, mi seppellisce, fino a che la clessidra si ribalta, ruotando su stessa e tutto ricomincia...

Mi ritrovo con la schiena inchiodata ad una piantana di metallo dello scaffale, gelo sulla pelle; la mia camicetta è intrisa di paura liquida. Mi stacco immediatamente, prendendo fiato con un respiro lunghissimo che sembra straziarmi i polmoni, a bocca spalancata, affamata di aria. Quest'incubo mi ha terrorizzata per tanto tempo... Il carrello ed il suo pauroso carico mi superano, sono fradicia, ma indenne. Niente sabbia, niente di niente... Accidenti! Non devo più pensare a quel maledetto sogno! A volte, la suggestione... Ok, adesso basta, devo sbrigarmi, non ho voglia di ascoltare i lamentevoli slang del mio titolare... Mi aggiusto il tailleur, poi faccio un o, ma che diavolo! Non ho mai capito perchè, a norma di sicurezza, debbano esserci estintori ovunque, sopratutto qui, dove non c'è nulla di infiammabile! Risultato: una maledetta staffa di sostegno, per nove chili di polvere estinguente, si è impigliata nel giacchino! Il mio bel giacchino di stoffa nera! Ecco fatto! La mia bella divisa di rappresentanza della GlassBone è rovinata. La spalla strappata, non credo che riuscirò ad aggiustarla... Odio gli estintori! Uffa!

Più di queste enormi bombole rosse, però, che io non sarei nemmeno in grado di sollevare prima che maneggiare, odio il fuoco. A casa non ho un fornello, né un camino, nulla che produca una fiamma viva. È tutto elettrico. Mi sono bruciata una volta, da piccola, ed è stata sufficiente; a giocare con il fuoco... E se adesso, come quella volta a casa della nonna, invece di essere circondata da tutto questo vetro, fossi... Ah, voglio uscire da qui, voglio uscire! Aiuto! Nonna! Non dovevo giocare con l'accendino del nonno, ma non pensavo che... L'erba secca accesa fa fumo, molto, troppo fumo soffocante. Fatico a respirare, non riesco a vedere, mi bruciano gli occhi e la gola! In un attimo le fiamme divampano, il fuoco esplode, ruggisce, si stringe attorno a me e mi circonda. Oddio! Aiuto! Chiudo gli occhi, coprendo il viso con le mani, mentre saltello sulle punte dei piedi, quando le lingue infuocate mi bruciano. No! No! Non voglio bruciare viva!

Nella catasta della legna, dove il nonno mi aveva proibito di entrare, il calore diventa insopportabile! Nonna! Aiuto! Sento la porta spalancarsi, il fuoco rinvigorire, esplodendo in un boato, roboante sussulto... La nonna mi sgrida, un ceffone, a volte servono le maniere forti... Cosa diavolo... Appunto, diavolo, fuoco... Non esiste il diavolo, non c'è nessun fuoco! Farei meglio ad andare a casa, oggi non è giornata... Il sudore freddo mi cola sul viso, sciogliendo il trucco, ombretto, matita, mascara. Non oso pensare a come sono combinata adesso: giacchino strappato, tutta sudata, spettinata, con una maschera slavata dipinta sul volto. Meglio che... «Via! Via!» Cosa?! Via? Perchè? Non c'è... Il fragore anticipa il boato.

Una folgore, luce bianca, una saetta, veloce, prima di capire, il detonante suono che esplode, poi... Silenzio. Frantumi. Cosa è successo? Perchè non riesco a muovermi, fatico a respirare. Non vedo niente, non sento niente... I dolori sono insopportabili, le fitte lancinanti. Non voglio morire adesso, mentre il mio bambino sta venendo al mondo! Il dottore preme sul ventre, il peso enorme mi impedisce di respirare. So che deve farlo, fisso la cupola di vetro, sopra, mio marito e i miei genitori assistono... Non resisterò a lungo sotto l'immane pressione che mi inchioda... A terra. Non posso muovermi, così bloccata non riesco a pronunciare una sola parola, la sola che sarebbe utile gridare: a iu toooo... Il suono flebile non oltrea la coltre a doppio strato: doppio vetro insonorizzato. Ecco, bel casino ho combinato! Un rivolo di sangue cola dalla fronte, dal naso, alimentando la pozza in cui sono riversa. Sporcherò tutto il prezioso manufatto firmato! Cosa dirà il mio titolare? Altro che il suo maledetto e logorroico “Yes, we can!”

Il vetro trasparente diventa fumè. Il respiro affannato lo appanna. A stento vedo la luce filtrare tra le lastre, sento gli occhi così pesanti... Devo chiuderli, anche se non vorrei: ho paura, paura di non riaprirli più. Il mio bambino... Ascolto il suo vagito, nella confusione dei sensi che mi lasciano, è un maschietto... Sento l'aria fuoriuscire, un sibilo, un soffio che mi sgonfia, la luce lasciare i miei occhi che si chiudono. «C'è stato un crollo in borsa, lo dicevano in Tv... Le azioni della GlassBone...» «Sì, ho sentito...» «Adesso questo...» Sento le voci avvicinarsi e allontanarsi, intravedo bagliori blu, lampeggianti. Chi c'è di là dal vetro? È crollato tutto, sì, su di me, a spezzarmi la schiena, disintegrarmi i polmoni, mettendo la parola fine alla mia vita normale di donna, di mamma. Vedrò il mio bambino crescere, senza poterlo toccare, accarezzare, baciare; non potrò aiutarlo nei compiti, accompagnarlo al parco a giocare... Sarò condannata ad essere rinchiusa per sempre in un polmone artificiale per poter respirare. Sento la pioggia sul viso, mentre mi sollevano sulla barella... È cambiato tutto dopo il crollo, non il crollo di Wall Street, ma quello a Tre be caaa...

[1] In un originale progetto letterario due scrittori si confrontano con le proprie paure.

Una raccolta di racconti, brevi lampi di luce che illuminano gli angoli bui, dove si nasconde l'ignoto, curata da Cristian Borghetti, regala al lettore una visione inusuale dell'horror, narrata a due voci, una maschile ed una femminile.

E questo coro di terrore non ha che un nome: Phobia.

[2] Copertina realizzata da Alessia Coppola http ://erelneah.wix.com