Diego Piccaluga
Quasi Donna
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Indice
Introduzione
Introduzione
Nina è una ragazza che ha alle spalle una situazione familiare complicata. Ha un padre che pensa più a ubriacarsi e andare a donne che a lavorare. Una sera, il padre decide di non rientrare a casa e così farà la sera dopo e così via, per poi abbandonare definitivamente la famiglia. Nina ha una madre che crede di essere sempre in credito con tutti e con tutto. Vuole imporre le proprie idee ai figli riguardo al loro futuro. Vuol governare una barca che fa acqua da tutte le parti, senza essere cosciente che sta affondando. Il fratello grande di Nina occupa il posto del padre, appena lui sparisce di casa, con il permesso della madre e inizia subito a tiranneggiare lei e il fratello piccolo, timido e introverso. Nina si sente mancare il respiro in una situazione del genere. Un giorno, per svagarsi, decide di prendere un treno e mettere qualche chilometro tra sé e i suoi problemi, la sua famiglia. Va a Pisa. eggiando per le vie del centro storico, nota un cartello sulla porta di un bar, un’offerta di lavoro. La prende come un soccorso da parte del destino. Entra nel bar, parla con il proprietario ed è subito assunta. Le sembra di volare, afferra tutto il coraggio che trova dentro di sé e decide di andare oltre, vuole trovarsi addirittura una stanza dove abitare e poter così dare un taglio, anche se non definitivo, con la sua famiglia. Il padre, quando ancora viveva con loro le aveva regalato, di nascosto dai fratelli, una macchina fotografica. Nina rimase talmente sorpresa per quel regalo così inatteso che decise di nasconderlo nell’armadio, non sapendo al momento cosa farci. In seguito, diventerà un oggetto estremamente importante per il suo futuro. Punterà tutto su quell’oggetto; prorompente verrà fuori la sua volontà di diventare fotografa. Dopo aver lasciato la casa materna inizia la sua nuova vita, la sua crescita. Un giorno conosce un ragazzo cinese. Dapprima le sembra una conoscenza inutile e fastidiosa, poi invece, dopo un evento particolare tra loro, decide addirittura di farlo diventare il suo modello. In seguito i due scopriranno,
nonostante la diversità di costumi e di razza, di avere qualcosa in comune, che poi li farà diventare amici; la solitudine. In tutto il romanzo è presente il difficile rapporto che Nina ha con la famiglia. Combatterà con tutta se stessa per far capire alla madre il proprio bisogno di libertà. Grazie alla fotografia, al voler inseguire i propri sogni e ai propri conflitti con sé e con la madre, piano piano cresce. Diego Piccaluga
Ero stata a trovare mia madre e i miei due fratelli, nell’incubo di quella casa in cui avevo vissuto sino a qualche tempo fa. Mio padre se l’era data a gambe da alcuni anni. Ricordo che in casa si vedeva poco, la scusa era il lavoro che lo teneva tante ore occupato. Quando rientrava, ad ora tarda, si sentiva l’odore forte dell’alcol misto al fumo emanato dal suo fiato, dal suo corpo. Tutte le volte la mamma, appena lui varcava la soglia di casa, insisteva nell’assalirlo con le solite monotone domande, alle quali riceveva sempre le solite vacue risposte. Ogni volta si perdevano per ore in lunghissime feroci litigate che rimbalzavano sulle pareti delle stanze e si diffondevano per tutta la casa, infilandosi prepotentemente nelle nostre tenere orecchie. Mentre Gill, il fratello grande, sembrava inattaccabile da qualsiasi cosa, il fratello più piccolo era paurosamente scosso dai loro litigi e così, ogni volta, s’insinuava tremante nel mio letto per cercare conforto e riparo da quella grandinata di parole che circolavano minacciose nell’aria. Sembrava impossibile sottrarsi a quel turbinio di voci. Per non sentire quelle urla, ci chiudevamo le orecchie con le mani, sino a quando il sonno non prendeva il sopravvento sui nostri gracili corpi. La mamma, col are degli anni, era arrivata a detestarlo, mio padre. Sapeva benissimo la vita che conduceva fuori di casa: lavoro poco, puttane, vino e alcool e sigarette, tanto che il suo alto corpo era divenuto flaccido e con una prominente pancetta. La pelle di un colore malato emanava un odore strano, anche dopo lavata. La cosa peggiore, però, era il suo alito pesante,colpiva, mi colpiva come un pugno, era una tortura stargli vicino, soprattutto perché aveva il maledetto vizio di parlarti a dieci centimetri dal viso; dopo un tentativo forzoso di resistenza, dovevo inventare qualcosa per allontanarmi e cercare aria fresca, mi veniva da vomitare a stargli così vicina, viso a viso. Il suo lavoro era nel business, che vuol dire tutto e niente. So solo che la mamma era costretta a cucire sino a tarda notte e a finire in fretta i lavori per portarli ai clienti, per riscuotere e comprarci il necessario. Era tutto un debito e una rincorsa per pagare. Noi eravamo poco consapevoli di quello che accadeva veramente tra loro due,
ma in compenso sentivamo bene quella cappa pesante che incombeva sulle nostre vite, di giorno e di notte e che non ci faceva vivere sereni. Mi sembrava di vivere le mie giornate sempre un po’ con la testa incassata tra le spalle, ero sempre pronta a sopportare un’improvvisa pioggia di parole sputate con cattiveria che ogni volta cadevano come grosse gocce fredde sulle nostre teste. Sinceramente non capivo il meccanismo masochista di questo rapporto che li legava. Ero troppo giovane ancora. I soli momenti di pace erano quando lui non era in casa. Tutto sembrava assumere un ritmo giusto, noi giocavamo o studiavamo, la mamma cuciva o sbrigava le faccende di casa e poi in un attimo, quando lui tornava, si scatenava il caos, quel precario equilibrio andava distrutto. La mamma, subito, si trasformava alla sua vista e diventava una iena, lo assaliva, lo metteva all’angolo, come fosse in un incontro di pugilato. Lui incassava mite, colpevole, quella scarica di domande, di odio che gonfiava in lei da tutto il giorno o forse da troppo tempo. Un rancore che era rimasto a sedimentare in lei per anni, accumulandosi in strati su strati sino a creare una diga, per quel disprezzo che lei cercava con tutte le sue forze di contenere, ma che ad un certo punto della sua vita, sentiva che il crollo sarebbe stato imminente. Il forte amore che aveva provato per lui, nel ato, non bastava più, l’odio premendo prepotente aveva fatto cedere la diga e il fiume nero ormai straripava impetuoso e smodato. Da lontano a volte osservavo tremando quello sguardo, quegli occhi fuori dalle orbite che aveva mia madre in quei momenti e la testa di mio padre che si piegava lentamente, sempre più, verso il basso; lo sguardo arreso a quella sopportazione, a quei giudizi taglienti. Il mio cuore piangeva a vedere quella loro trasformazione. Perché continuavano a stare insieme, mi domandavo. Anche se desideravo con tutta me stessa che quei litigi finissero, non avrei mai potuto concepire che uno dei due se ne andasse via per sempre. Erano mio padre e mia madre ed io li volevo entrambi presenti nella mia giornata, nella mia vita.
Pregavo perché ritornasse quell’amore, quell’armonia del ato ormai troppo lontana, ma il mio desiderio s’infrangeva, ogni volta, che li vedevo scontrarsi. Forse, forse io ero la sua preferita, non so. Forse solo gli piaceva farmelo credere, oppure era talmente forte il desiderio di considerazione che a me piaceva crederlo. Una sera arrivò con una scatola e di nascosto dai miei due fratelli mi chiamò in camera sua e me la dette, dicendo che mi aveva comprato un regalo, solo per me. Io avevo sempre delle resistenze nel credergli, non riuscivo mai bene a capire se quello che sosteneva era la verità o un’invenzione nata dai fumi dell’alcool nel suo cervello. Titubante, presi tra le mani quell’involucro che non sapevo cosa contenesse e timidamente biascicai qualche parola di ringraziamento. Camminando a ritroso uscii dalla sua camera e mi diressi subito nella mia. Ero turbata e infastidita da quell’inatteso regalo, invece di esserne contenta, come lo sarebbero tutti i ragazzi della mia età che ricevono un regalo dal proprio padre, io sentivo una specie di prurito addosso, raramente nostro padre ci aveva portato qualcosa che somigliasse a un regalo. Appoggiai la scatola sul letto, mi sedetti accanto e rimasi a osservarla. Sopra non recava nessuna dicitura, che aiutasse a capire cosa contenesse. Rimasi a guardarla per un tempo lunghissimo, il mio cervello si era bloccato, non riusciva a comandare nulla alle braccia, alle mani, mi sembrava di essere una statua di marmo. Avevo timore ad aprirla, chissà poi perché. Non mi fidavo di mio padre e temevo uno scherzo di cattivo gusto, lo sospettavo di crudeltà mentale. Rinvenni dal mio torpore quando sentii che la mamma ci chiamava per la cena. Mi alzaidal letto dove ero seduta cercando di staccare gli occhi incollati a quella scatola. Feci un paio di i in direzione della porta di camera ma poi un attacco di curiosità mi scattò dentro, prorompente, costringendomi a ritornare a sedere sul letto davanti a quella scatola di cartone. La presi in mano e frenetica la aprii. Un qualcosa era incartato in una velina bianca, era di un certo peso, tolsi la carta, strappandola per lo più e al mio sguardo sorpreso apparve una macchina
fotografica, così bella che la sua vista mi fece battere forte il cuore. Subito dopo mi venne da pensare – chissà dove l’ha presa? –. Non mi venne in mente neppure per un attimo che l’avesse comprata, i soldi solitamente li spendeva per altre “cose”. Me la rigirai un po’ tra le mani, non capivo se ne potevo essere contenta o cosa provavo, forse ero solo colpita dalla curiosità che suscitava in me quell’oggetto nero a me, almeno per ora, indecifrabile. Intanto la mamma insisteva a chiamarmi per cenare. Mi alzai da sedere più pacificata. Istintivamente mi venne da nascondere quell’oggetto che mio padre mi aveva regalato, volevo che nessuno lo vedesse. Non ne sapevo niente di macchine fotografiche e di come usarle. Mentre la tenevo tra le mani però avvertii immediatamente una bella sensazione, una vibrazione particolare. Era nato subito qualcosa tra noi, sentii nel toccarla un’elettricità, come quando dai la mano a qualcuno e senti una scossa al contatto, come se ci fosse un destino già scritto in quest’incontro. Velocemente mi ripresi dalle fantasie e la nascosi nell’armadio e poi andai a cenare. Per mesi rimase nascosta e accantonata in un angolo della mia mente. E poi, un giorno, me la ritrovai davanti, aprendo lo sportello di sinistra dell’armadio. Ci guardammo per attimi, silenziosi. Muovendo il busto in avanti, verso di lei, la presi in mano e la nascosi nella borsa, come fosse un qualcosa di proibito, da tenere nascosto, e uscii da casa decisa a saperne di più su quell’oggetto. Nel quartiere c’era il negozio di un fotografo. Mentre uscita da casa ero risoluta sul da farsi, quando arrivai davanti alla sua vetrina rimasi un po’ incerta se entrare. Cercavo le parole da dirgli. Nella mia mente mi si affollavano idee che all’apparenza sembravano quelle giuste, che però dopo un secondo s’ingarbugliavano, creandomi titubanza. Rimasi un po’ a pensare, poi stanca di questi dialoghi tra me e me, spensi la mente ed entrai nel negozio. Lui mi accolse con un bel sorriso, che servì ad alleggerire notevolmente il mio stato d’animo. Riuscii subito a trovare le parole per dirgli semplicemente che mi avevano regalato una macchina fotografica e non sapevo come usarla. La presi dalla borsa e gliela mostrai.
< E’ un ottima macchina > mi disse guardandola con interesse. < Organizzo dei corsi, la sera dopo cena, due volte la settimana, potresti partecipare per imparare a fotografare con questa macchina >. Mi sentii salire dallo stomaco un senso di smarrimento e balbettando gli dissi: < Non posso uscire la sera… > e poi mi afflosciai come un sacco vuoto. Lui mi guardò per qualche secondo in silenzio e poi mi disse: < Bene, allora potresti venire dopo pranzo, vorrà dire che due pomeriggi la settimana aprirò mezzora prima, così ti farò il corso solo per te, allo stesso prezzo di quello che tengo la sera… ti va bene? >. Feci un salto di gioia, lo guardai con gratitudine, spalancando gli occhi, avrei voluto abbracciarlo forte. Frequentai quel negozio anche dopo la fine del corso, per dei mesi, lui era sempre prodigo nel darmi suggerimenti e consigli che nel tempo, mi fecero crescere stilisticamente. Nacque un bel rapporto di simpatia, per cui ogni volta che avevo qualche dubbio, andavo a trovarlo e lui con pazienza mi spiegava il da farsi. Intanto le cose in casa sembravano procedere come fossero fatte in fotocopia, giorni tutti stancamente uguali. Una sera però lui, mio padre, non rientrò, e poi un’altra e ancora. Non riuscivo a capire e a fare a nessuno quella domanda che mi nasceva quando mi guardavo negli occhi allo specchio, perché? Dov’è lui? La mamma non protestò mai, non si allarmò mai, non si agitò mai, come sarebbe stato comprensibile succedesse per qualsiasi donna che non avesse visto più ritornare a casa il marito e non ne avesse saputo più nulla. Si chiuse a riccio in un silenzio impenetrabile, come si fosse creata un guscio intorno. ava ore e ore a cucire, raccolta in se stessa, incassata nella sua poltrona, muovendo solo le mani con quei gesti sempre uguali, che davano l’impressione di un mantra.
Era tanto se si alzava per organizzare un pranzo o una cena, con quelle poche cose che compravamo noi, un po’ a caso, o con quello che ci portavano i vicini, consci delle nostre difficoltà e dello smarrimento di nostra madre, proprio per non farci soffrire la fame. La mamma era assente, c’era un alone che si era creato intorno a lei non visibile ma ben percepibile e che si espandeva sempre più, risultando impossibile per noi ogni contatto con lei. Non usciva in pratica più, era persa nelle stanze buie della sua mente, nei suoi pensieri di dolore che ne immobilizzavano il più del corpo e ne devastavano il suo interno corrodendolo piano piano. Mi sembrava strano, guardandola, che ancora in lei esistesse il concetto di avere dei figli da allevare. Da parte nostra, cercavamo di essere il più invisibili possibile. La stanza in cui ava la maggior parte del suo tempo era diventata un tempio inviolabile. Il silenzio più pesante, regnava in casa. La luce che di giorno filtrava dalle persiane, che lei si ostinava a tenere chiuse, era poca. Mentre lei, silenziosamente elaborava il suo lutto, a me sembrava di vivere in una tomba. Lo percepivo dall’odore dell’aria, che via via, sapeva sempre più di chiuso, dall’umidità stagnante che invadeva le mie narici. La morte, sotto forma di ombre cupe, sembrava vagare frastornata per le stanze della nostra casa. La sera il clima rimaneva pressoché uguale, con quelle lampadine smorte che davano, come sempre del resto, l’impressione delle luci della strada, nelle notti d’inverno, quando la nebbia è fitta, e la luce si vede fioca; mi salivano piccoli brividi su per la schiena umida di sudore freddo. Nonostante quel rodersi dentro, lei non si dannò neanche un secondo nel cercarlo, mio padre. Accettò il fatto come un condannato, a testa bassa, accetta la sentenza per l’espiazione della sua colpa. Senza dire nulla, tacitamente ci intendemmo che era meglio così, che il babbo fosse uscito dalla nostra famiglia. Che non esistesse più. Per tutti noi. Io, la notte, abbracciata al fratellino piccolo, piangevo lacrime disperatamente, silenziose e asciutte. Era soprattutto la notte che sentivo la sua mancanza. L’assenza di quelle urla, tra lui e la mamma, che da una parte mi devastavano il petto, dall’altra mi davano la sicurezza che lui c’era ancora, che era tornato, che
era presente nelle nostre vite, che comunque eravamo una famiglia. Per un po’ una parvenza di pace aleggiò nella casa. Si manifestava sotto forma di silenzi e di rumori trattenuti. Soprattutto da parte di noi figli che non osavamo dire nulla alla mamma, che sembrava ingoiare veleno a ogni ago che infilava nella stoffa, come se si trattasse invece del corpo di lui, come se ogni cosa che cuciva fosse una bambola woodoo. Io non riuscivo più guardarla negli occhie questo mi procurava un dolore tale che mi faceva perdere l’equilibrio. Malgrado non fosse stata colpa mia, che mio padre se ne era andato di casa, sentivo un fastidio inchiodato in un angolo della mia testa, nella mente, un senso di colpa assurdo che mi faceva stare a disagio, quando ero in casa. Gill, il fratello più grande, sembrava essere staccato da tutto questo. Evitava di entrare nelle situazioni di famiglia, come si evitano gli ostacoli che ci vengono incontro, gli bastava un leggero movimento della spalla per scansarli, senza affannarsi. Sembrava vivesse in un mondo tutto suo. Papà era il suo maestro, il suo eroe, lo si leggeva nei suoi occhi di bastardo, cosi cresceva giorno dopo giorno. La mamma, non ho mai capito perché lo amasse tanto più di noi, nonostante si vedesse bene quello che sarebbe diventato, un essere infido e maligno. Bugiardo. Forse proprio perché assomigliava al papà lo amava più di noi, lo aveva sostituito a lui nella sua mente. Lei ormai odiava quell’uomo, ma non le riusciva staccarsi di dosso l’amore che aveva provato e ancora, nonostante tutto, nel profondo provava per lui. Gli si era sempre aggrappata, nel disperato tentativo di ricevere amore. Amore per lei sconosciuto. Dalla nonna, sua madre, aveva ricevuto solo disprezzo e distacco e così lei cercava disperatamente di soddisfare quel bisogno furioso di ricevere amore da qualcuno, attaccandosi come una sanguisuga a mio padre. La nonna l’aveva avuta da un uomo che appena saputo che era incinta, l’aveva abbandonata senza indugiare. Non le aveva mai voluto bene, la vedeva costantemente come una vergogna da nascondere e invece, ogni volta, la sua vista quotidiana le ricordava quell’errore, quella colpa. Avrebbe voluto nascondere quella figlia, sperderla, per poter cosi dimenticarsene e cancellare
quell’atto sconsiderato, dettato da un momento di debolezza o di amore. Oggi tutto questo non avrebbe il peso devastante che aveva a quei tempi e forse mia madre avrebbe ricevuto quell’affetto che le spettava. Ma le cose sono andate così e non si possono cambiare. Come dicevo, la pace durò poco, anche se era una pace solo di non suoni, Gill prese subito le veci di papà nel voler spadroneggiare. Si sentiva in diritto, anche grazie alla complicità silenziosa della mamma, di fare e disfare a suo piacimento. Iniziò anche lui a bere e andare a puttane, inoltre non faceva nemmeno quel poco di lavoro, che al babbo, portava un po’ di soldi. Lui li rubava direttamente alla mamma che si consumava dal lavoro. Dio quanto lo odiavo, soprattutto quando faceva il grande, il duro con il fratellino, che stava crescendo introverso, debole, fragile, spaventato. Si divertiva a umiliarlo, a vederlo piangere. Io cercavo di proteggerlo come potevo, anche mettendomi nel mezzo, tra loro, fisicamente, ma Gill era più forte di noi, e soprattutto più determinato nel suo essere… Bastardo. Un giorno che avevo voglia di evadere, non solo da casa ma anche dalla mia città, presi la macchina fotografica, la misi in borsa e uscii di casa in fretta, a testa bassa, come un toro determinato a caricare chiunque gli si para davanti. Mi avviai a grandi i alla stazione e salii su di un treno, non importava se la direzione era nord o sud, non acquistai neanche il biglietto. Il primo treno che sarebbe arrivato andava benissimo, ero decisa a scendere alla prima fermata, mi bastava mettere qualche chilometro tra me e l’abitudine, la routine. Non andai molto lontano, per dir la verità feci solo 20 km, ma mi bastò essere in posti differenti dal consueto, per sentire una porta che si chiude e un’altra che si apre. Pisa è animata dal movimento di molti studenti, provenienti da ogni posto d’Italia. Provai una bella sensazione camminando a ascoltare dialetti differenti dal mio, fu come se mi sentissi in una città aperta a tutti e questo mi fece respirare meglio. Mentre camminavo per le strade, guardando negozi e vetrine, ogni tanto, svogliatamente, mi fermavo a scattare qualche foto, più per giustificare il fatto che mi ero portata la macchina fotografica, che per voglia.
A un tratto, girando la testa curiosando a destra e a sinistra, fui colpita da un piccolo foglio, che era attaccato alla porta di entrata di un bar. Mi fermai e lessi la scritta“ Cercasi giovane barista, non richiesta esperienza “. Ebbi, come una visione, un dejavu, come se avessi un appuntamento con quel luogo, con quella porta a vetri, inconsapevolmente. Mi sentii come se quella smania di uscire di casa, lasciare per qualche ora la mia città, fosse finalizzata ad arrivare in quel posto. Quei fili invisibili che a volte percepisci presenti e che ti conducono in posti segnati dal destino. Mi fermai a pensare alla mia condizione di ragazza, persa nel mare aperto, in balia delle acque e qualcuno stava gettando un salvagente. Mi resi conto, svegliandomi, come se molto tempo fa fossi caduta in trance,che io potevo e non solo, volevo fortemente afferrare quel salvagente. Presentivo che il destino lo aveva gettato proprio per me. Non me lo feci scappare. Lo afferrai al volo e senza perdere un secondo di più, entrai nel bar decisa, pensando – questo posto deve essere mio -. Senza nemmeno rendermi totalmente conto di quello che facevo, sentivo che sarei arrivata anche a lottare per averlo. Mi assunsero subito, senza tanti problemi. Quello che doveva succedere accadde. Avrei potuto iniziare dall’indomani, se volevo, ed io lo volevo. Uscii dal bar che camminavo a dieci centimetri da terra – sì sì sì, ho un lavoro, posso fare… Appena dieci metri più in là, però, mi fermai e mi chiesi -come ho potuto prendere una decisione cosi repentina, senza pensare prima ad avvertire la mia famiglia -. Mi sentii sgonfiare, come un pallone bucato, ma nello stesso istante, sentii crescere una rabbia di ribellione, come un ascensore che va giù e uno che viene su, che non sospettavo di avere e che mi fece dire – no, devo afferrare quest’occasione e tenere duro, combatterò anche contro la mia volontà di sconfitta nata, se necessario, e contro la mia famiglia –.
Feci qualche altro o e mi fermai di nuovo e pensai – voglio andare ancora più avanti, al punto in cui sono, potrei trovare anche un posto per vivere in questa città, e lasciare casa mia. Dare veramente un taglio a tutto. Sono stanca di quella pesantezza che mi attanaglia la gola, ogni volta che varco la soglia, per entrare in casa -. Oddio, il petto me lo sentivo espandere, la testa era rivolta in alto, orgogliosa, ma le gambe mi tremavano, da cadere sdraiata in terra, a sentire quelle parole che mi saltellavano nella mente – sì, ma un appartamento da sola, penso sia troppo… Forse dovrei trovare qualcuno con cui condividere l’affitto, così potrebbe essere più fattibile –. Camminavo fantasticando, e nello stesso tempo, per la prima volta mi sentivo concreta, avevo finalmente la vita in mano mia, una sensazione mai provata. Totalmente nuova. Solo qualche minuto prima, vagavo cercando solo una piccola distrazione, che mi potesse dare un po’ di… di sentire dentro un qualcosa che non fosse disperazione e poi, addirittura, mi trovai nella possibilità che la mia vita prendesse una direzione completante diversa. Ribaltata a trecentosessanta gradi e soprattutto con grandi possibilità di una vita migliore. Di speranza. Di avere una vita in cui sarei stata io, per la prima volta, a scegliere per me. Camminavo, leggera, trasognata. Mi fermai davanti ad uno specchio, vidi la mia immagine, il viso, gli occhi che sorridevano, fu come se mi vedessi per la prima volta – benvenuta al mondo – mi dissi. Guardavo i miei amati capelli, cortissimi con una cresta nel mezzo poco più lunga, tinta di blu, il piercing nel sopracciglio sinistro e uno sotto il labbro, le magliette nere, due, una a maniche corte sopra di una a maniche lunghe, i Jeans elasticizzati neri e gli anfibi rigorosamente neri. Sì, ero la “vecchia io” e al medesimo istante ero appena nata. Riflettevo freneticamente, il mio cervello si stava fondendo, tra pensieri che si mischiavano a idee, speranze, paure e mille altre cose – sì, è proprio il mio giorno fortunato. Voglio proprio vedere se la fortuna continua ad aiutarmi -. Mi venne in mente che nelle segreterie delle varie università, c’era sempre qualcuno che cercava un appartamentino da condividere. Perché non provare
subito. Entrai nella prima segreteria, nulla, cosi nella seconda e nella terza, sembravano già tutti sistemati. Mi sentii un pochino scoraggiata - già finita la mia fortuna? –. Ma non m’importava, ero sicura che l’aver trovato lavoro, fosse un inizio preciso per una nuova vita, il resto, ero sicura, sarebbe venuto – a questo punto un bel caffè, buona idea –. Entrai in un bar pieno di ragazzi e ragazze. Quell’ambiente mi mise subito allegria, tanto che subito dopo trasalii al sentire questo sentimento, cosi nuovo per me. Cercai di farmi vedere dal barista, c’era troppa gente davanti al bancone, aspettai, guardando il locale per paragonarlo a quello dove avrei lavorato – meglio il “mio” – pensai, poi vidi e m’infilai in un “buco”, riuscendo a ordinare un caffè. Ne avevo proprio voglia, uno di zucchero, uscii dalla ressa e iniziai a bere. Vidi dei fogli ammassati in una specie di bacheca – vediamo un po’ che c’è lì – ragazzi che impartiscono lezioni, un gruppo che cerca un batterista – eccolo – un trafiletto diceva “Ragazza cerca persona di sesso femminile per dividere piccolo appartamento, cellulare … “. Ricordo che quasi il caffè mi andò di traverso, tanto ero eccitata. Posai la tazzina nel primo ripiano che mi capitò a tiro. Presi dalla borsa il cellulare e feci subito il numero, senza nemmeno appuntarlo, per paura che qualcuno telefonasse prima di me. < Pronto, ciao, mi chiamo Nina. volevo sapere se è sempre valido il tuo annuncio… Sì, bene, no, non sono una studentessa, ho appena trovato lavoro in un bar in città, sono di Livorno però volevo spostarmi a vivere qui per non andare su e giù. Ti va se ci incontriamo subito… Bene… Sei a casa, allora dammi l’indirizzo, aspetta… Prendo la penna… Ok ci sono, via Paoli 45, perfetto, scusa in che zona rimane… Ah ok, ho capito, è vicino a dove sono io ora, arrivo… Ciao >. Uscii senza pagare, tornai in dietro. Riuscii, volavo, ma poi la mente trovò un buco e vi s’infilò, mi venne da pensare a mia madre, al mio fratellino, alla
tristezza di quella casa – si sentiranno abbandonati, traditi –lasciare il mio povero fratellino, ancora di più, nelle mani di quel bastardo. Mi sentii colpita da un dolore, al pensiero. Tanto che misi le mani all’altezza dello stomaco, per assorbire meglio il colpo. Rallentai, sentii scemare piano piano l’allegria, la sicurezza provata solo un attimo prima. Le gambe, i piedi erano diventati pesanti come macigni, fare un o mi costava sforzo. Era più forte della mia volontà, non mi riusciva di non pensare a lei, mia madre. Al suo ripeterci sempre, di quanto si era sacrificata per noi, e che per di più sarebbe stata costretta a sopportare quell’impegno sino alla sua morte. Che nostro padre era scappato, lasciandole il pesante fardello di allevarci. In fine, quel suo pensiero fisso di vederci sistemati, prima del suo ultimo respiro. Sistemati come avrebbe voluto lei, naturalmente. Pensandoci su non mi sembrava che le cose, comunque fossero andate, che io restassi o andassi via, avrebbero seguito i suoi desideri. E poi, non è forse il destino delle mamme, desiderare un qualcosa per i figli che spesso prende una direzione diversa, se non addirittura opposta? Tutti questi pensieri mi s’ingarbugliavano nella mente, appesantendomi. Continuavo a camminare, ma con il respiro corto, come se avessi corso. Per percorrere 50 metri, impiegai un tempo assurdo, tuttavia riuscii ad arrivare al portone. Cercai il nome, suonai ed entrai a testa bassa. Lo stomaco era contratto, avevo quasi voglia di vomitare, ma dovevo resistere. Non potevo farmi vedere in quello stato. Mi sembrava di essere appena stata a un funerale, e poi, che impressione le avrei dato, cinque minuti prima ero tutta allegra e pimpante e ora sembravo un “viaggio d’acqua” – dai, su, non pensare troppo, devi darle una bella impressione, hai bisogno di questo posto –. Riuscii a tirare fuori un sorriso, da non so dove. sca era sulla porta di casa trepidante. Sembrava contenta di vedermi. Mi mise le mani sulle braccia e mi baciò sulle guance con calore.
Intuii che aveva proprio voglia, di avere una ragazza con cui condividere l’appartamento. Era contenta, forse era stanca di stare da sola, o di pagare interamente l’affitto. Subito m’istruì sulla disposizione dell’abitazione. Era come un fiume in piena. < Guarda, sono due stanze, una per uno: la cucina è “grandina” e il bagno non è male. L’appartamento è un po’ buio, anche di giorno bisogna tenere la luce accesa > ma si affrettò ad aggiungere: < In primavera e in estate però, vedrai che bello, diventa più luminoso e poi il prezzo è buono per essere in centro >. Non m’importava di nulla. Non riuscivo a essere lucida, a giudicare, avevo troppi pensieri che lottavano tra di loro in testa. Ero come fuori “asse”, mi muovevo a fatica. Lei mi sembrava carina e simpatica e questo mi fu sufficiente, e poi – questo appartamento non sarà mai peggiore, di quello in cui abito – pensai. Parlammo un po’, davanti a due bicchieri di birra che io assaggiai appena, per via della contrazione nervosa che subiva il mio stomaco. Lei studiava legge. Era più alta di me, capelli lunghi castano chiaro, viso luminoso, aperto, di quelli che ti aspetti sempre con un sorriso sopra. Mi disse che ava molto tempo in casa, a studiare e che era fidanzata. Si affrettò a tranquillizzarmi, non mi sarei dovuta preoccupare, lui non girava per casa, possedeva una casa sua e si incontravano lì. < Qui non viene quasi mai, non gli piace, ha ragione, però a me va bene, che ne dici… >. Non riflettei più di tanto. < Sì, va bene anche per me, d’altra parte non cercavo chissà che… – e poi mi affrettai a dire per congedarmi:
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Non vedevo l’ora di essere in strada per pensare da sola. In questa situazione non riuscivo a sopportare il peso di una conversazione, e cioè con una persona alla quale dovevo dare una buona impressione per forza. < Mi sembravi più contenta per telefono, c’è qualcosa che non va? >. Mi disse, un po’ allarmata dal mio cambiamento. Mi dovetti sforzare e calmare ancora di più, per non comunicarle la mia agitazione. < No, no, sono un po’ frastornata dagli eventi di oggi, capisci, lavoro, casa, sai, tutto cosi immediato… Non me lo aspettavo proprio >. La abbracciai e riuscii persino a farle un sorriso. Ci tenevo a darle, di primo acchito, una bella impressione. Uscii dal portone, ero in strada e stavo ritornando verso casa, nella valle della disperazione - è possibile che una volta che provo una gioia, non possa godermela sino in fondo –. Mi dissi, e poi “ gioia”… Non potevo certo paragonare le piccole cose positive, che ogni tanto si affacciavano nella mia vita, per poi fuggire via veloci, alla “gioia”. Subito, mi rimisi addosso quel pesante telone grigio che mi aveva sempre accompagnato, che ricopriva il mio essere, facendomi respirare a fatica… E con quanta fatica – ed ecco che la piccola fiammiferaia, riprende la strada di casa -. Forse sarebbe stato questo l’ostacolo più difficile da superare, il sentirmi nata sconfitta. Ricordo che quando andavo a scuola, la mamma ci teneva tanto che studiassi, così poi avrei potuto aspirare a una posizione sicura. Nel tragitto da casa a scuola camminavo triste. In aula ero silenziosa, parlavo poco con le compagne, potevo anche dare l’impressione di snobbarle, ma non era così, mi sentivo inadeguata in qualsiasi posto ero, e quindi non facevo amicizia facilmente. Prediligevo il banco, in angolo, in fondo all’aula. Ero brava, prendevo sempre dei buoni voti e per questo potevo dare l’impressione di avere un atteggiamento di superiorità, essendo schiva ma era
l’esatto contrario, malgrado fossi tra le più brave, mi sentivo l’ultima della classe. Mi sembrava di essere una pezzente, sempre a indossare quei vestitini dismessi e rabberciati, di mia madre o di qualche figlia delle nostre vicine di casa, che mi davano un’aria da orfanella. Erano cosi pesanti da portare, perché non era la pesantezza fisica che sentivo, ma morale. Pesavano dentro. Avrei voluto essere invisibile... Avrei dovuto ribellarmi, strapparmeli di dosso, ma a cosa sarebbe servito, a riavere un altro vestito dismesso, simile a quello che “avevo distrutto” e allora… Chinare la testa e sopportare era l’unica soluzione per me visibile al momento. Quella sera tornai a casa con una sensazione che non avevo mai provato. Ero soddisfatta di me stessa e non poco. Aprii la porta di casa e subito indossai la solita maschera che portavo quando ero in famiglia, non volevo che si accorgessero, neppure per un istante, che mi era successo qualcosa d’importante nel pomeriggio, sentivo tuttavia, nonostante tutti gli sforzi che facevo, che il mio viso era raggiante. Avrei voluto nascondermelo tra le mani, per salvarmi dalle loro possibili domande, dai loro sguardi indagatori. Salutai appena e subito mi appartai con il fratellino. Lo abbracciai forte, non capiva. Lo baciai tenera su una guancia, era l’unica persona con cui mi potevo lasciare andare un po’. Gli chiesi della sua giornata, inventandomi lunghe eggiate solitarie per la mia, avevo solo bisogno di stare a contatto con lui. E poi cena, silenziosa, occhi nel piatto e pensieri cupi, per rimanere attaccata al personaggio che ero, in quella casa. Non vedevo l’ora di ritirarmi in camera mia per progettare fughe, in parte indolori e pensare su come avrei arredato la mia futura la camera… - Finalmente, solo mia, in un posto mio -. Mi venivano i brividi a pensare che da lì, la mia famiglia, ne sarebbe rimasta fuori. Avevo ato tutta la vita con loro e ora avevo la possibilità, concreta, di liberarmi - … Avrò paura, di nuotare in questa improvvisa libertà? Mi sentirò
ancora più sola, più persa? Chi può prevedere come sarà il futuro? Se però dentro di me sento una contentezza che emerge… Che nasce, allora vuol dire che dentro di me, c’è qualcosa che mi spinge a fare questo salto, lontano da casa… pur incerto che sia – pensai. La mattina presto, presi il treno per Pisa e andai ad affrontare il mio primo giorno di lavoro. Quando entrai nel bar, ero imbarazzata, titubante. Dovevo in pratica imparare tutto. I proprietari si dimostrarono da subito pazienti e sereni. Capirono immediatamente il mio stato d’animo e fecero di tutto per mettermi a mio agio, seguendomi, o o, per tutta la mattina. M’insegnarono a fare il cappuccino e il caffè, e in quali bicchieri andavano servite le varie bibite, e dove si trovavano nei frigo. Il funzionamento della lavastoviglie. Soprattutto mi fecero capire, che era meglio lavorare con calma, con i clienti, per servirli al meglio. Conobbi anche i miei compagni di lavoro, Roy ed Emi. Mi muovevo un po’ confusa, avrei voluto assimilare tutto in una mattinata. Impossibile. Osservavo molto i miei nuovi compagni lavorare. Li vedevo tranquilli, non erano mai in panico, anche quando il locale era pieno. Notai che facevano le cose con calma, badando a servire le persone nell’ordine con qui erano entrate nel bar. Lavoravano decisi, senza perdere tempo. Era affascinante per me vederli muoversi con quella sicurezza; dopo qualche ora di lavoro, pensai che potevo farlo anch’io quel mestiere, dovevo solo aver pazienza. Intendevo metterci tutta me stessa, per imparare, perché quel lavoro mi serviva assolutamente. Non volevo che i proprietari si lamentassero di me.
Erano ati mesi da quegli avvenimenti. Ero ferma alla stazione di Livorno che aspettavo il treno, dopo essere stata a trovare i miei, in salvo da tutto quello che era la mia vita ata, che pensavo solo di odiare ma che in realtà, riflettendoci in seguito, mi accorsi che mi dava anche un senso di sicurezza. Lì trovavo meccanismi che conoscevo bene. Certe dinamiche che sapevo come funzionavano e quindi mi potevo lasciare andare, tranquilla, a quel fiume di schifo, perché sapevo bene dove mi portava. Non avrei dovuto affrontare nuove situazioni, che avrebbero potuto crearmi degli sbandamenti. Un po’ come il maiale nel porcile, che ci sta bene, anche se è tutto sporco. E’ strano, odi tanto una situazione. i anni, mesi, giorni a maledire quella casa, tuo fratello maggiore, a litigare ogni momento con la mamma. Progetti sognando fughe disperate, in parte possibili e in parte no e poi ti accorgi, al momento che puoi uscirne, che hai paura di lasciare tutto. Ti senti smarrita, impacciata nei movimenti. L’abitudine ti avvolge, immergendoti in un torpore simile al limbo. La libertà ti offusca la mente, come quando si è ad alta quota. Cosi ti devi auto convincere, lottare con te stessa, per superare quel muro, che la paura ti ha eretto davanti. Ti devi forzare, per incamminarti per quella strada che tanto avevi desiderato, sognato. Devi cercare la forza dentro di te, che esiste e che poi, una volta trovata, ti permetterà di fare quel o, di saltare quel muro, senza remore, senza avere il rimpianto di guardarti indietro e vedere chi hai lasciato su quella “torre“… Dovendo scegliere, tra loro e me. E una volta scelto, dovetti andare avanti, senza più voltarmi, per non correre il pericolo di diventare “una statua di sale”. Mentre penso a tutto questo, arriva il treno, con la coda dell’occhio mi accorgo che c’è un uomo che mi guarda già da un po’. Gli lancio subito un’occhiataccia per distruggere ogni sua velleità. Non ho proprio voglia di rompipalle.
Il treno si ferma, le porte si aprono, entro innervosita,non faccio caso a nulla. Il vagone è quasi vuoto, bene, mi lascio andare a sedere nel primo posto che trovo. Subito mi metto a guardare fuori dal finestrino, mentre il treno lento parte. Volto la testa e mi trovo di fronte l’uomo che prima mi guardava. Vorrei abbaiargli addosso, di primo impulso, ma mi trattengo. Lo osservo, sempre con la bocca “pre-abbaiata”, mentre lui mi sfoggia un sorrisetto da schiaffi. Accidenti è cinese. Lo osservo con più attenzione, è vestito impeccabile e anche di più, ha abiti e scarpe di lusso, penso firmati, per quel che me ne intendo. Rimango stupita e mi rannicchio un po’ di più nella mia poltroncina, forse intimorita da quel “lusso” che mi sta davanti. Nonostante tutto sento aleggiare qualcosa nell’aria, come se stesse per crearsi una situazione tra me e lui, non capisco bene cosa sta succedendo. Lui nel frattempo ha estratto un taccuino e con la penna scrive qualcosa d’incomprensibile, per me, con quegli strani segni che usano loro, che però cattura la mia attenzione. Guardo verso il suo taccuino. Devo dire che quei segni sono proprio affascinanti. Alza la testa e mi guarda, sempre sorridendo, e gentilmente mi dice: < Stavo provando a indovinare il suo segno zodiacale > naturalmente, nel calendario cinese. – Ma che vuole, non penserà mica diattaccare discorso, e chi lo sopporta-. Parla bene italiano, con pochissimo accento, ma io che cosa ho da condividere con lui, un cinese. Continua a parlare per tutto il breve viaggio. Mi racconta di dove vive: in una villa con un grande parco, dei suoi studi fatti in
America, in non so quale college, della ricchezza di suo padre; dovuta a importazioni ed esportazioni di non so bene cosa. Io l’ascolto fra un pensiero e l’altro dei fatti miei. Per fortuna siamo arrivati. Mi alzo e provo ad accomiatarmi, salutandolo prima di uscire e invece mi accorgo che scende anche lui. Attraversiamo la stazione e usciamo insieme. E lui, sempre a parlare. L’unica speranza, per me, è che prendiamo direzioni diverse, cosi da togliermelo di torno. Infilo una via e lui sempre accanto e parla parla parla. Non so, in un altro momento lo avrei mandato a… Ma ora, con lui, non mi riesce, mi sento come fossi in preda ad un incantesimo. < Posso offrirti un gelato? > mi propone, fermandosi davanti ad una gelateria. Mi sento arresa, è cosi gentile < E… E va bene > dico; mentre dentro di me si scioglie, si sblocca qualcosa e mi trovo a parlargli, come se lo conoscessi. Riprendiamo a camminare. Quasi come se mi sdoppiassi per qualche secondo, mi vedo dall’alto che lecco il gelato, con accanto questo tipo cinese. Mi sembra una situazione cosi ridicola e al tempo stesso divertente. Il “giramento” nel frattempo, mi è ato. Camminiamo ancora e ancora, poi svoltiamo a un angolo e all’improvviso, davanti alla porta di un bar, gli dico: < Io sono arrivata > apro decisa la porta ed entro senza dargli il tempo nemmeno di un saluto. Lui rimane li, fermo. Bloccato. Il corpo immobile, ruota solo la testa di lato, per squadrare il bar fuori e dentro e in quel suo fare, sembra, are un tempo lunghissimo, anche se in realtà è di pochi secondi.
Non vedo l’ora si tolga di lì, ora mi pento di avergli dato tanto spago. Ho voglia di dimenticare, tutto, in fretta e di tuffarmi nel lavoro del bar. Appena arrivo dietro il bancone Emi mi chiede: < Ma quel tipo era con te? >. Lo sapevo. Minimizzo e cambio subito discorso. Poi lei mi racconta una storia di una nostra amica: < Sai Lina ha lasciato Ale perché vuole uscire solo con Tina, ma ti rendi conto, con una ragazza, non pensavo che Lina avesse quelle tendenze >. Io un po’ scocciata rispondo: < Ma aspetta, non andare troppo in là. Forse con lui non stava più bene, a prescindere dal volere frequentare di più Tina, che magari è solo una bella amicizia, e comunque sia se è contenta cosi, va bene, no?>. - Uffa, questi discorsi - parlavo per inerzia, non m’importava. In realtà sentivo che la mia mente voleva tornare indietro, a quello che era successo. A quell’improbabile incontro, e pensare a lui, e lavorare e basta. < Che cosa? Un tè… Sì, subito >. Il pensiero di lui era prepotente. Mi distraevo un attimo e subito riprendeva a tormentarmi. Ma che cosa me lo faceva pensare? Che cosa era scattato in me? Era strano. Forse quel suo modo di porsi così gentile, affabile, a cui io ero cosi poco abituata, per non dire, per nulla abituata. Mi stupiva che con quel suo modo di porsi, era riuscito subito a farmi uscire da pensieri pesanti; solitamente ci impiegavo molto tempo. ano due giorni di ordinaria routine. Non voglio tornare a trovare i miei. Desidero stare tranquilla nei miei pensieri di diciannovenne.
Stavo pensando di farmi un altro piercing o forse meglio di cambiare colore alla mia cresta, magariarancio, il blu mi aveva un po’ stancata. Oppure, trovarmi un ragazzo – questa la vedo più complicata, non me ne piace uno che sia uno, forse è meglio ripiegare sul colore dei capelli, è più fattibile – mi dico. Prendo dalla lavastoviglie le tazze pulite. Metto il cestello nella vaschetta del lavandino, per prendere tazze, piattini, cucchiaini e metterli a posto. Alzo lo sguardo e lo getto per il tempo di un attimo fuori dal locale, distrattamente. E non voglio credere a quello che vedo, in quell’attimo. Tolgo nuovamente lo sguardo da quello che sto facendo, per ritornare a guardare fuori. Il cuore accelera all’impazzata i suoi battiti. Chiamo, con maggior vigore, un respiro che non vuole entrare, per prendere ossigeno e darmi la forza di credere a quello che sto vedendo… Lui… E’ lui sicuramente. Sta sotto a una pioggerellina sottile, romantica, quasi se la fosse portata dietro, per fare più effetto su di me. Forse. Appoggiato allo stipite d’ingresso di un portone, con un cappello a tesa piatta, lui sta fumando con una tranquillità solenne. Ancora una volta non voglio credere a quello che vedo. Distolgo lo sguardo da ebete che mi si è formato sul viso e poi di soppiatto, di sbieco, torno a guardare nella sua direzione, per accertarmi che sia effettiva la sua presenza, tanto mi sembra assurda la realtà che si pone davanti ai miei occhi. Sì è lì, è lui, è indubbiamente vero. Mi prende un tremore, mi domando che cosa sto provando. Sono contenta, sono scocciata?… Che cosa dovrei provare? Due fazioni opposte, stanno combattendo dentro di me. E intanto il tremore s’impossessa delle mie gambe, facendomi perdere stabilità. < Cosa…? Che cosa ha chiesto? Un caffè, ma… macchiato… Ha no, un macchiato e uno semplice… Sì certo, arrivano subito >.
Sono confusa, la situazione mi sta sfuggendo. – Ma aspetta, calma, concentrati bella mia – mi dico, in fondo, perché dovrei sentirmi così? E poi… Si stancherà, esco tra due ore, ha voglia di aspettare. E a un tratto mi ritrovo a ridere di me stessa. < Ma che ridi da sola? Sei impazzita > mi dice Emi, sorpresa. < No, nulla, pensavo a una storia… Ah ah ah >. < Boh… Fai tu… >. Continuo a lavorare. Ora sono più tranquilla e concentrata sulle richieste dei clienti e sul da farsi. Dopo un po’ vince ancora la curiosità e guardo nuovamente fuori. Lui non c’è più. Lo cerco guardando a destra e a sinistra, non c’è, mi scopro un po’ delusa, è sparito. – E’ cosi che ci tiene a me… Solo una mezz’oretta di attesa e subito via –. Mi pento subito di questo pensiero e riprendo a lavorare. Non riesco più però a essere attenta a quello che faccio. Una parte della mia mente ripensa a lui, mio malgrado, e mi domando se e quando tornerà. Il respiro mi si ferma in gola, mi sento fragile. E’ un po’ che non ho una storia, anche se poi, se vado a vedere, quante storie ho avuto? E come sono state? Da dove mi viene fuori la voglia di affrontare un’altra storia, storia… E che ne so io di storie, d’innamoramenti, dopo quell’una e mezza che ho avuto. Non posso proprio considerare una storia vera, la mia prima con Raul, fatta solo di qualche bacio veloce e abbracci dati con più ione, dopo che uscivo da casa, distrutta da una litigata o in preda ad angosce di future catastrofi.
Lo lasciai dopo poco. Ero troppo coinvolta a subire e a combattere le tristezze che si susseguivano giorno dopo giorno nella mia famiglia per interessarmi con un po’ di ione a lui. Che avevo frequentato più per distrazione che per altro. Distrazione dalle mie nebbie, dalle mie angosce, che mi si appiccicavano addosso come le sanguisughe e mi toglievano tutte le energie. Lui poverino non poteva sopperire e sopportare le mie devastanti pesantezze. Come avrebbe potuto. Con Marco invece, fu la mia prima volta. Prima in tutto, sesso, ione, attaccamento. Lui mi piaceva veramente. Quei sentimenti erano nati dentro di me, come un seme portato dal vento fa nascere una piantina, in un posto dove non t’aspetti. Ciò nonostante non riuscivo a vederlo a pieno. Era come se, per me, fosse una fotografia sfocata. Non riuscivo a scinderlo dalla mia vita catastrofica, dalla maledizione di mio fratello Gill. Volevo staccare questa parte della mia vita, proteggendola dal resto, per farla rimanere incontaminata, ma non ne ero in grado. Ero troppo piccola. La mia mente era ancora cosi debole e fragile, non era preparata a uscire dalle sabbie mobili in cui avevo vissuto cosi per tanto tempo, anzi, in cui ero nata. Mi sembrava impossibile, provare sentimenti di contentezza, ione, amore. E cosi costruivo e poi per paura distruggevo. Perché per assurdo, in definitiva, mi sentivo più sicura quando provavo dolore. Era una sensazione che conoscevo bene. L’amore invece mi era sconosciuto, non sapevo come plasmarlo. E come tutte le cose sconosciute, all’inizio perlomeno, danno una sensazione di sbandamento. Scomparivo da lui, per giorni, in preda ai dubbi più atroci. Poi, quando sentivo così forte la sua mancanza, il bisogno di un affetto, lo cercavo e pretendevo devozione assoluta, lo volevo appiccicato a me. Mettevo alla prova il suo amore. Una prova dura, spietata, distruttrice, priva della consapevolezza, di cosa volevo dal nostro rapporto. Non ero proprio capace di costruire qualcosa di bello, di piacevole. Nessuno me lo aveva insegnato.
Quello che avevo visto nella mia vita, sino a quel momento, era lotta, lotta per sopravvivere, per prevaricare, per riuscire ad ottenere. Quando facevamo l’amore, non riuscivo a godermi a pieno, tutta l’attenzione e le dolci carezze che Marco mi dava. Ero sempre contratta, mi spaventavo e a volte scappavo. Volevo liberarmi del suo contatto sulla pelle, che sentivo e che mi infastidiva. Se mi voleva, non lo volevo. Se mi trascurava, lo volevo, scatenando scenate isteriche, se poi mi resisteva. Lo volevo amare, ma non sapevo come, facevo una gran confusione. Ero disperata nel vedere che esisteva qualcosa di diverso dalla sofferenza, e che non sapevo gestire, apprezzare. Difendere. Infine, lo costrinsi a lasciarmi. Era sfinito da questo rapporto di lotta. Un rapporto che avrebbe logorato chiunque, ne fui distrutta, ne fui alleggerita. Ritornare totalmente nel mio fango mi fece respirare, per assurdo che possa sembrare. Spesso costruire non è facile. Poi penso, tornando alla realtà – ma con lui… Nooo… Ah ah ah… Un cinese no, proprio no, sicuramente no, una storia con lui -. Trascorrono altri giorni, senza che lui si faccia vedere. E’ inutile far finta di nulla, mentre lavoro, lo sguardo, mio malgrado, punta in direzione del portone, dove lo avevo visto aspettarmi immobile. In quel suo vestito impeccabile e così assurdo per me. Con le scarpe di pelle marrone con i lacci, con i calzini a righine, perfettamente intonati al colore del vestito e alla cravatta, che spuntava dal pullover a v. Tutto preciso, perfetto, non faceva una piega, come si suole dire. Con quel suo sguardo calmo, come se il mondo aspettasse lui per girare. M’irrita e mi affascina che un tipo simile si sia accorto di me ed io di lui. Tutto questo è cosi fuori da ogni mio pensiero, anche più perverso. Mi sembra così assurdo che sia nata la benché minima “cosa” tra noi, che sia anche una piccola intesa.
Vedrò centinaia di persone, di ragazzi ogni giorno are qui dal bar e quando cammino in strada e proprio con lui doveva nascere questo “non so cosa”. Più ci penso e più mi sorprendo di pensare a lui, e m’incazzo con me stessa, mi do della cretina. Accetto, di mala voglia, un invito a cena della mia famiglia. Arrivo a casa di mia madre, svogliata. Il pensiero di are ore in compagnia di mio fratello Gill mi disgusta, pari al piacere di vedere l’altro fratello, quello piccolo. Ceniamo, mentre mia madre cuce seduta, nella stanza accanto alla cucina. Deve finire un vestito per una cliente. Noi tre mangiamo quasi in silenzio, in cucina, al tavolo, con quel lume sopra le nostre teste che produce una luce fioca, triste, e che sembra quasi messo lì, in alto, per osservarci, per giudicarci. Mio fratello piccolo, allunga la mano per prendere l’ultimo pezzo di pollo rimasto nel piatto, a lato del tavolo< Lascialo è mio > gli abbaia Gill, volendo imporgli il suo potere, come fa sempre del resto. Lo guardo con disprezzo < Lasciaglielo > gli urlo, ma non serve a farlo desistere, lo ha già fatto suo mettendolo nel piatto. Mi alzo furente < Mi fai schifo > gli dico, secca, uscendo dalla cucina. Attraverso la stanza dove mia madre cuce, a o spedito; lei, non fiata, non alza nemmeno la testa, continua il suo lavoro. Mi ritiro in bagno, chiudendo decisa la porta. Lo odio, è una tortura mangiare con il suo volto di fronte. Escono alcune lacrime di rabbia dai miei occhi – No… Non voglio dargli questa soddisfazione –. Le trattengo, le rimando indietro. Vorrei saper volare, esprimo questo desiderio con tutta la forza che ho dentro, per uscire dalla finestra, per non dovere rivederli, e invece non posso fare a meno di attraversare l’appartamento per uscire.
Raduno tutte le mie forze nervose per calmarmi. Penso al mio fratellino, lo voglio salutare e dargli un bacio. Quanta pena mi fa lui che per forza deve rimanere in questa situazione. Per me è ormai diventata insostenibile. Esco dal bagno e saluto la mamma. < Vai già via… > mi dice. < Sì, la mia compagna di casa mi ha chiamato, dicendomi di aver dimenticato le chiavi, e cosi devo essere lì, non troppo tardi >. Bacio tenera il fratellino, che è rimasto seduto a tavola impietrito dalla scena, poi mi giro di scatto per non incontrare nemmeno lo sguardo di Gill e vado via. Chiudo la porta e il portone alle mie spalle e respiro. Un solo, pieno, profondo, ed espello l’aria pesante di quella casa. Cammino piano, tentando di scrollarmi di dosso quella pesantezza accumulata. Mi guardo in una vetrina, ho il viso stravolto, in disordine. Affretto il o. Non vedo l’ora di prendere il treno e arrivare a casa, per gettarmi sul letto, prima che mi venga voglia di gettarmi nel fiume. Casa. Bene, chiudo la porta dietro di me e a quello che è stato della serata. La mia amica non è ancora arrivata. Il silenzio, la quiete, mi avvolgono cullandomi in un abbraccio. Apro la porta di camera, finalmente nel mio posto. Veramente mio. Dove ritrovo le cose che ho scelto io; la pace è lì ad accogliermi. Accendo subito un po’ d’incenso al sandalo – quanto mi piace – penso. Mi sdraio sul letto, avvio la musica, la metto a basso volume. Sì, ora tutto è perfetto, chiudo gli occhi e penso subito alle foto che ho fatto tempo fa, e che vorrei modificare – sì, ho bisogno di lavorare di più – mi dico; da poco ho iniziato a fotografare e ancora non mi sento soddisfatta del lavoro fatto sin’ora.
Ho deciso di lavorare sul corpo, sui visi, ma ancora non riesco a cogliere quel qualcosa che sento dentro e che non riesco a tirare fuori e fermare nell’immagine. Non riesco a vederlo riprodotto nelle mie foto. Forse perché, ancora non ho avuto il coraggio di affrontare l’argomento che più mi sta girando in testa, avere un modello per fotografarlo più volte. Per fare questo, però lo devo trovare un modello e non è semplice, me ne rendo perfettamente conto. Mi alzo di scatto, accedo il computer. Voglio vedere le ultime foto che ho fatto e lavorato. Mi sento posseduta dalla brama di fare, creare… - Immagini - apro la cartella, eccole. Le guardo con attenzione, le spulcio senza pietà una a una e mi accorgo che più le faccio scorrere e più lo stomaco mi si stringe e la mente mi dice: – No no, no … No, non vanno bene, non hanno abbastanza forza. Me lo sentivo, l’ultima volta che ho lavorato – e ora, riguardandole, ne ho la conferma. Le luci, le inquadrature non mi piacciono, non mi convincono. – Ho bisogno di dedicarmi di più alle foto. Non posso farmi prendere da tutto il resto. Devo lavorare di più. Più concentrata, più determinata nello sviluppare quello che ho in mente. Affrontare l’argomento con maggiore attenzione e vedere concretamente dove mi può portare, che risultati è possibile avere, per valutare, poi, se è giusto continuare in quella direzione o se è meglio cambiare idea –. Mentre penso a queste cose, suona il camlo di casa. Esito un istante sul da farsi e poi mi dico: – Ma sì, chiudo tutto, ci ritorno sopra con più calma; non voglio fare le cose in fretta –. Vado ad aprire alla mia amica, < Ciao tesoro, tutto bene > e le do un grosso bacio. < Sì bene, anche se… Paolo potrebbe essere… Va beh, lasciamo andare… Ehi, ho una fame… E tu hai già mangiato? >.
< E’ sì, è… Sono le undici, ho mangiato pollo e odio dai miei > rispondo. < Sempre pesante lì, vero… >. < Direi di sì, ti preparo qualcosa da mangiare, cosi non penso troppo >. Vado in cucina. Lei accende la tv, per vedere l’ennesima serie di telefilm. Prendo una pentola, metto olio, cipolla tagliata fine e carota a pezzi. Accendo il fornello. Apro il frigo, prendo un finocchio, pomodori maturi, un peperone. Lavo il tutto, li taglio e li metto nella pentola. Pelo anche due patate, che ci stanno bene, e metto nella pentola anche quelle – sarà troppa roba per una persona sola? – mi chiedo – ma va be’, se avanza, lo mangeremo domani -. Non ho voglia di ragionarci su troppo… Aah, il sale e il peperoncino, poco, se no lei brontola – bene – aggiungo un po’ di brodo vegetale e metto il fuoco al minimo con il coperchio un po’ rialzato per fare uscire il vapore e aspetto con calma la cottura. Vado, nel frattempo, a sedermi accanto a lei, < Che ne dici di una birra in due? > mi propone. < No, vino bianco fresco > controbatto. < A beh, non ce n’è più… L’ho bevuto tutto ieri > arresa, dico: < Ok per la birra allora >. Intanto, mi alzo e controllo il pasticcio di verdura. E’ pronto. – Meglio cuocere poco la verdura – penso. Lo assaggio, è buono. Un pezzetto di formaggio nel piatto, affetto un po’ di pane, apro la birra e la cena: < E’ pronta, la tua cena mia cara… >. Noo, si è addormentata sul divano, nel giro di un istante. Deve essere proprio stanca.
Non ho mai capito, come fanno certe persone ad addormentarsi così velocemente. – Boh, e ora che faccio –. Decido di tornare in camera e provare a rilassarmi, magari leggendo un libro e mi bevo la birra.
< Mi scusi, vorrei un prosecco > mi chiede un cliente del bar. < Meno male che tra poco faccio festa, oggi sono esausta > dico, rivolgendomi a Emi < Che pensi di fare? >. < Ma, non so, forse faccio un giro in libreria, vorrei vedere dei libri sulla fotografia >. Sorrido al pensiero e intanto alzo la testa dal lavandino e volgo lo sguardo distrattamente fuori e… Lo vedo. Il cinese. Vorrei nascondermi, buttandomi giù, dietro il bancone. Forse sono diventata rossa in viso? Guardo la mia compagna di lavoro, non dice nulla, non si è accorta – cavolo, tra poco finisco e devo uscire. Questa volta non ho scampo – penso, in preda allo smarrimento. Lui guarda intensamente i miei movimenti e aspetta, come il falco, la sua preda. Ora non gli può sfuggire. E’ lì e aspetta me, non c’è dubbio, non è certo lì ad attendere l’ambasciatrice cinese, aspetta me. Bene, o male, che dir si voglia. Ho finito e prendo il giacchetto – niente panico – mi dico. Esco, lui mi guarda, sorride. Cerco di far finta di niente, ma al contempo sento una forza che mi calamita nella sua direzione. Giro la testa verso il bar, nessuno guarda – meno male-. Mi si mette a fianco e ci incamminiamo vicini, quasi fossimo amici. Questa volta parla poco, sembra però sapere esattamente dove andare. Io lo seguo, come il cane, il suo padrone, “ Io però, un po’ meno felice”…
Quanti anni avrà. E’ difficile per me dare un’età a un cinese, d’impeto glielo domando, per rompere quel silenzio imbarazzante. Subito dopo, mi sorprendo che le parole mi siano uscite dalla bocca, < Trentadue > mi risponde. Non dico altro. Abbasso la testa e continuo a seguirlo. Il silenzio ritorna a frapporsi tra di noi. Dovrei essere agitata, mi dico. Sto seguendo uno sconosciuto, non si sa bene dove e perché. E invece sono tranquilla, addirittura fiduciosa, alzando la testa penso – o pazza, che fai … -. Vorrei proprio sapere dove stiamo andando. Non conosco bene questa parte della città, appena fuori dal centro. Case basse, di solo due o tre piani, che fanno da cuscinetto tra il centro e quegli enormi casermoni di sedici piani o più, che nascono come i “fiori“ nei prati della periferia. Là dove una volta i contadini, con i buoi, solcavano la terra e gli odori profumavano di campagna. Arriviamo davanti ad una porta, di un colore verde, sbiadito dal tempo. Lui la apre, sicuro, e gentilmente e si fa da parte per lasciarmi entrare. Non è un fondo come pensavo, è una specie di appartamento senza un corridoio che introduce alla porta d’ingresso; di fatto entriamo subito in una stanza che è una camera. Non me lo aspettavo. Una luce di metà pomeriggio filtra dentro, smorzata dalla persiana chiusa, dell’unica finestra. Mi sento quasi mancare il respiro, come stessi andando in apnea, i polmoni sono in debito di ossigeno, ma la mente rimane presente, vigile. Mi guardo intorno: sulla destra c’è un tavolino basso con tre poltroncine, sul pavimento un tappeto marrone, color terra di Siena bruciata. Ho il cuore in gola, eppure, c’è una parte di me che rimane presente, fredda. Mi sento divisa in due parti.
Faccio un o e vado avanti nella disamina del locale: sulla sinistra, un grande letto con spalliere di legno antico, con sopra lenzuola bianco crema e due cuscini del solito colore. Mi sento malferma sulle gambe, ingoio tensione, però continuo a sentire una parte di me presente, che m’impedisce di fuggire da quel posto inatteso. Mi sorprende questa dualità di sensazioni che mi attraversano orizzontalmente, mente fredda, polmoni e stomaco nel quasi panico. Le pareti sono rosa antico, un piccolo mobile libreria, con pochi libri, si appoggia a una parete e su un’altra, alcune mensole con dei piccoli vasi cinesi e un porta incenso. Tende chiare separano, lasciando intravvedere, un altro ambiente più piccolo, dove si può scorgere un salottino con poltroncine e un tavolino basso in vimini. Una porta chiusa che intuisco essere il bagno e accanto un frigo che impera su una stretta parete. E’ tutto qui l’arredamento e i locali. Non sembra esserci la cucina, quasi non sia ritenuta necessaria, forse è il frigo che ne supplisce la funzione. Comunque, la prima parola che mi viene, per definire quel posto, èessenziale. Subito dopo essermi guardata intorno, mi fermo, bloccata. Lui è alle mie spalle. Mi giro, ci guardiamo negli occhi. Mi domando cosa si aspetti da questa situazione. In lui per la prima volta leggo trasparire un po’ di tensione, o meglio d’insicurezza. Io invece, inizio piano piano, più o il tempo lì dentro, a tornare padrona di me stessa. Si è instaurato un dialogo fra noi due, fatto di sguardi e piccoli movimenti, ora. Un gioco di sensazioni si sta svolgendo, atto a catturare le vibrazioni che emanano i nostri corpi. All’improvviso mi sento contenta di essere lì, quasi divento spavalda, ho voglia di lasciarmi andare, di sapere dove mi porterà questa nuova avventura.
Lui si toglie la giacca. Lo sento ancora incerto nei movimenti, la mette sull’attaccapanni alle sue spalle. Si gira, mi guarda, sorride titubante. Si avvicina. Anch’io lo guardo, ma ora, con un che di sfida dipinto sul volto. Mi tolgo il giacchetto, piano e lo lascio cadere ai miei piedi. Si avvicina un altro o. Il tempo è lento e silenzioso, quasi avesse paura di disturbare, di far rumore. Ora possiamo sentire i nostri respiri, tanto siamo vicini. Azzardo, gli allento la cravatta, la tolgo, lasciandola cadere a terra, poi mi fermo. Lui mi guarda negli occhi con un leggero sorriso, ora si è fatto nuovamente più sicuro di sé, le sue braccia lungo i fianchi sono ferme, in attesa. Percepisco i suoi desideri, vuole che continui a spogliarlo ed io lo faccio. Gli tolgo la camicia e aprendola per toglierla, scopro il suo petto nudo, privo di peli, come quello di un ragazzino. Mi fermo e lo guardo. Il respiro mi è tornato lento. Prende la mia mano e l’accompagna verso la fibbia dei suoi pantaloni. Vuole che vada avanti, mentre io sono ancora vestita. Lo sta eccitando questo gioco. Deglutisco mentre gli apro i pantaloni e poi m’inginocchio per toglierglieli. Vedo in primo piano le sue gambe lisce, con i muscoli allungati, prive anch’esse della virilità dei peli. Le carezzo piano, con curiosità, con delicatezza, quasi avessi paura di incrinare quella pelle simile alla porcellana. Sento un calore invadermi, dal petto scende nel ventre e lo fa pulsare, come se il cuore fosse caduto lì. Mi ascolto. Chiudo gli occhi un momento. La bocca è semiaperta, un respiro, gli slaccio le scarpe e le tolgo. Guardo sorpresa quei calzini, che nessuno dei miei conoscenti oserebbe mai mettersi.
Sorrido un attimo e respiro, li tolgo… I piedi, le sue dita, perfette nel loro scalare dal pollice al mignolo. Alzo lo sguardo, lo sento emozionarsi alle mie leggere carezze. Torno in piedi e lo vedo eccitato. M’invade il panico, ora. Dalla mia bocca scompare il sorriso. Lui ha gli occhi socchiusi, la testa leggermente all’indietro e aspetta. Io mi blocco. Non so più cosa fare. Lui aspetta, calmo, eccitato, che l’ultimo indumento gli sia tolto. E poi… Le mie mani fanno da sole quello che la mia mente non osa comandargli. Gli tolgo gli slip, bianchi come la neve. Ed eccolo lì davanti a me, completamente nudo, spoglio di ogni difesa, fiducioso di un prossimo piacere. Un attimo di fermo immagine, e poi lui, dopo aver riaperto gli occhi, alza le braccia per appoggiarle sui miei fianchi. – No, no… Non posso… Che sto facendo –. In un attimo mi risveglio come da un sogno, come colpita da uno schiaffo in pieno viso. Mi chino velocemente, afferro il giacchetto e volo via, attraverso quello spiraglio di porta che riesco appena ad aprire, per are, e mi ritrovo che corro, come una forsennata, per strada. Quasi volessi riavvolgere la pellicola del tempo e ritornare a quando sono uscita dal bar. Corro per le vie che non conosco, cercando di indovinare il percorso giusto che mi porterà in luoghi conosciuti. M’interrogo su cosa sto sentendo, provando, oltre l’affanno. Forse paura? O panico? No… No. Mi fermo, dopo aver rallentato la mia furente corsa. Rido, sì… rido e mi piego in due, al pensiero che mi è venuto, di lui, lì nudo, in mezzo alla stanza, sbigottito per la mia fuga.
Allora riprendo a camminare, e lo faccio quasi fossi un ebete col sorriso stampato in viso, che ogni tanto è preso da un convulso irrefrenabile di risata. La gente mi guarda e a sua volta sorride, pur non capendo.
Entro nel bar, è mattina presto. Troppo presto, come sempre del resto, sono le sette. Non guardo nessuno, vado a cambiarmi, esco e vedo che c’è Roy dietro il banco con me stamattina a rendere lieto il risveglio dei nostri clienti. E’ alto, serio, troppo per i suoi ventidue anni, a mio parere. Non chiacchiera molto e da un certo punto di vista va bene così, è adatto per tutte le occasioni, che uno sia allegro o triste. Ci lavoro bene insieme, non mi fa la corte, e questo mi dà respiro. < Un caffè signorina, per favore > ah già, sono qui a servire. Buongiorno, mi dico. Finalmente mi guardo in giro. Tutto a posto, come gli altri giorni. Anche i clienti delle sette sono i soliti. Il tipo di fronte a me fa un o di lato per prendere lo zucchero, ed è allora che lo vedo. La saliva mi va di traverso nel deglutire. Tossisco un po’, tento di contenermi. Meno male non avevo niente in mano, altrimenti l’avrei mollato nel lavandino, sulle tazze. Cerco di darmi da fare. Lui, il cinese, è lì, tranquillo che legge il giornale o almeno finge molto bene. Sul tavolo, un cappuccino quasi terminato gli fa compagnia. Il mio cervello all’improvviso, nel vederlo, si sveglia e parte subito in quarta. Se fossi un cartone animato, mi si vedrebbero gli occhi girare a mille. Pensieri s’inseguono, si accavalcano, si scavalcano. Vorrei andare lì e dirgli qualcosa che giustifichi il mio comportamento del giorno prima. Vorrei scusare la mia uscita di scena melodrammatica, da film. Non saprei che dirgli però, e poi lì, nel bar dove tutti mi conoscono e dove mi sentirei giudicata. Mi metto a sorridere, quasi a ridere, ripensando alla scena di lui nudo, come mamma l’ha fatto, ed io che scappo e lo mollo lì ah ah ah – ma sì, che mi frega, peggio per lui, non mi devo giustificare di nulla –. E così, continuo il mio lavoro, col sorriso sulle labbra. Per fortuna inizia ad arrivare gente, lui va a pagare, non mi degna di uno sguardo
e va via. Questo suo modo di fare m’indispettisce tuttavia. Mi domando se, forse, mi aspettavo che fe o dicesse qualcosa, anche una minima cosa. Forse mi aspettavo un gesto di stizza nei miei confronti – uff. basta pensare, lavoro lavoro e lavoro…-. < Sì, come? Un corretto, subito > di mattina? Ma!–. La mattina scorre tranquilla, non penso più al “mio“ cinese. Finalmente è l’ora, ho finito. Ricordo che volevo fare un salto in libreria e poi non sono più andata, vado ora, ho voglia di vedere qualche libro di foto. Entro in una libreria del centro, spedita ed entusiasta, mi pregusto la bellezza delle immagini che tra poco vedranno i miei occhi. Quanti bei libri d’arte, di foto, ah… Araki – lui è bravo, interessante, apionante –. E mentre sfoglio le pagine del libro, non so per quale fenomeno visivo – associativo, mi viene in mente il “mio amico“ cinese, forse perché Araki è giapponese e lo sono anche le sue modelle. Un’idea pazza, entra come un fulmine nella mia mente – e se fotografassi “lui” come mio primo modello? Nudo l’ho già visto… -. Mi fermo a pensare, con il pesante libro aperto in mano, con lo sguardo perso nel vuoto – no, ma dai, che follia è… E’… E’ pazzesca questa idea –. Ma più mi sembra incredibile e più ho voglia di realizzarla, e poi…- ma come posso fare, non so nemmeno se lo rivedrò, e inoltre non ho uno studio, dove posso fargli le foto? Nel suo fondo-appartamento? Sì, perché no, comunque voglio prendere questo libro e il resto lasciarlo al caso, si vedrà -. Esco dalla libreria, sono distratta nei miei pensieri, ho voglia di fare un giro, un bagno di folla, perdermi nel non essere. Vago tra le vie centrali, piene di genti e piccole vie strette, laterali, quasi deserte. Sento e vedo l’energia della gente che mi a accanto, che va al di là di come è
vestita. La mia concentrazione a dai miei pensieri ai volti che incontro, come una pallina di un flipper. Mi sale dentro la voglia di fotografare corpi nudi, sempre di più, osservando la gente che incrocio. Il corpo nudo, emanazione di energia più vera, più pulita. Riuscire a togliere strati di finzione che creano barriere tra mente e mente. Arrivare sempre più vicino all’essenza della persona, carpire con la foto, il più possibile, la sua veridicità. La sua bellezza interiore. Arrivare a toccare quel qualcosa dentro l’essere umano che non si può sporcare con niente, che rimane inalterato, al tempo e alle situazioni. Che magia sarebbe. Mi inoltro poi nelle vie quasi deserte, nelle quali incontro solo poche persone e sperimento cosi l’assenza, la mancanza di vibrazioni tra esseri umani. La solitudine. Capire i silenzi e apprezzare il proprio silenzio della mente, per sentire maggiormente la propria energia, il respiro, i cinque sensi, aperti all’ascolto, alla ricezione, ecco. Ecco, perché devo stare il più lontano possibile dalla mia famiglia. Ho voglia di provare queste cose, di sperimentarle sempre di più le sensazioni che mi arrivano frequentando luoghi e persone. Voglio uscire da quel pozzo di melma che mi porto appresso, che m’inghiotte lento lento. Inesorabile. Voglio contatti con esseri umani veri, che non abbiano paura di mostrare i propri sentimenti. E non di persone che si nascondono per poi saltare fuori all’improvviso per ferirti. Ho bisogno di sentirmi pulita, per dare il meglio di me stessa. Devo uscire da quell’impietoso buio, nel quale mia madre e mio fratello Gill vivono da sempre e che mi hanno appiccicato addosso sin dalla nascita. Loro, li sento che scivolano sempre più giù. Nel pozzo nero. Io devo trovare la forza per risalire, per respirare aria pulita. Devo distaccarmi dalla mia famiglia, per far si che tutto quello che desidero, per me, si possa realizzare. Sarà duro, lacerante a volte. Anche perché dovrò probabilmente abbandonare nelle loro mani, il fratello più piccolo e questo mi procura non poco sgomento. Io da sola, dovrò impegnare tutta me stessa, per affrontare tutto quello che mi verrà incontro e non sarà facile, non sarà facile giudicare quello che potrebbe essere bene o male per me.
Mentre queste sensazioni fluttuano in me, che a fatica riesco a tradurre in pensieri, avverto una presenza alle mie spalle. Come un’ombra, o meglio come un fluido che mi segue. Sento un brivido che mi scuote. Mi giro di scatto, non vedo nessuno, rimango ferma immobile a guardare, a indagare, con i sensi al massimo della ricezione; ancora nessuno. Nessun rumore particolare attira la mia attenzione. Riprendo a camminare, lenta, ma sento ancora quel brivido presente, alla schiena, che mi agita e m’irrita sempre più. Giro solo la testa di lato, nessuno. Forse sto impazzendo. Sento addosso un fardello pesante, che mi fa camminare, ora con più fatica. La fotografia mi porta entusiasmo, desiderio di fare, ma appena questi piaceri si affacciano in me, il buio della mia mente li fa sparire, divorandoli, come se cadessero in un pozzo, senza fondo. Sempre più mi domando, se ho veramente voglia di rivedere il cinese, e affrontare con lui quella folle idea di farne il mio modello. Da una parte ne sento lo stimolo, dall’altra percepisco il pericolo dell’ignoto. Mi chiedevo, giorni fa, se è più pericoloso, a livello di attrazione, essere nella posizione dell’uomo nudo, con me vestita che lo guardo, o più nella mia, di donna vestita, con davanti un uomo nudo. Se l’altra volta non mi fosse scattato il panico, e mi fossi lasciata andare… Forse, forse sarebbe stato eccitante, e magari anche divertente, chissà. Accidenti – perché non si può essere mai sicuri di fare la cosa giusta –. A volte, mi sembra di essere sul bordo di una piscina, a chiedermi – mi butto o non mi butto? Che cos’è meglio fare? Mi piacerà la sensazione dell’acqua sul corpo o mi irriterà? Maledizione e, e…E poi se veramente voglio scattare foto, devo saper andare al di là di queste storie. E osare. Essere più intraprendente. Se no rischio sempre di essere banale e di combinare poco. Di avere una mente che si chiude, invece di aprirsi. Provare: e perché no, e poi lui sembra cosi gentile. Ma continuerà a esserlo, anche dopo quello che gli ho combinato l’altra volta? –.
Mi sento cosi sola al mondo. Accidenti. Senza nessuno a cui chiedere un consiglio – è cosi, cara mia, devi essere forte per te, solo per te… Cazzo lo sarò, lo voglio con tutta me stessa – mi dico. Immersa nei pensieri, sento a mala pena la porta di casa che si apre. Subito la voce di sca mi fa rizzare sul letto. < Ci sei > mi grida appena entrata. < Sì, sono qui in camera >. Ma non le do neanche il tempo di arrivare che le vado incontro e l’abbraccio forte. < Che bello vederti, avevo proprio voglia di compagnia, mangiamo insieme o devi uscire subito? >. < No, no… Che dici di andare a mangiare una pizza… > mi propone. < No, fuori no, ho voglia di casa > e mi avvio verso la cucina. < Organizziamo qualcosa di buono, insieme, ti va? >. < Va bene, prima metto un po’ di musica e vengo subito >. E la sera a serena, fra cibo, poco ma buono, confessioni, risate e tv. Si ora sto proprio meglio.
E’ ata una settimana, non ho più visto il “mio” cinese. Sono contrariata dalla sua scomparsa, proprio ora che volevo fargli la proposta di diventare il mio modello. Quando lavoro al bar, ogni poco, getto lo sguardo fuori, nella speranza di rivederlo lì, appoggiato al portone, che mi aspetta. Gli vorrei parlare. Voglio sentire dentro cosa provo ad averlo nuovamente davanti a me, per poi vedere se riesco ad avere il coraggio di proporgli di posare per me. Cammino in strada, piano, nella speranza che fosse lui a seguirmi quel giorno e che la cosa si ripeta. All’improvviso mi è presa la smania di rivederlo. Lo voglio fotografare. Voglio crescere artisticamente, oramai mi è venuta questa idea in testa e finché non ottengo una risposta, mi logoro. Potrei anche cercare un altro modello o iniziare da una ragazza. Qualche conoscente per esempio, ma la mia mente è cosi, quando si fissa… Va avanti come un toro che punta la muleta. a un’altra settimana. Sento che orami mi è sfuggito. Forse sente che non vale la pena confondersi con una ragazza giovane come me. E poi chissà quante donne può avere. E’ ricco. E per di più, noi siamo così diversi. Mi sembra di aver perso tempo, ad aspettarlo per due settimane. Credo che sia meglio, a questo punto, che mi dia da fare per trovare dei modelli, non importa se uomo o donna. Sì, ma non sarà facile, visto che non posso pagarli. Per di più dovrò lavorare per più sedute con lo stesso modello, troverò qualcuno che avrà voglia di imbarcarsi in questa avventura? E’ importante che ci sia un certo feeling tra me e il modello, che mi permetta così di fare un buon lavoro. Spargerò un po’ la voce in giro. Certo, sono un po’ delusa che questa idea, che mi è venuta, sia naufragata cosi.
E’ mattina, manca poco alle sette, esco da casa a testa bassa come il solito, per andare al lavoro. Quest’ora di mattina, per me, è troppo presto. Penso che non mi ci abituerò mai e per di più oggi mi sento come se mi avesse morso una tarantola, sono in bestia, senza un motivo apparentemente valido. Gli vado quasi a sbattere contro. Sento un: < Ciao >. Alzo la testa e lo vedo. Il cinese. Non gli lascio nemmeno il tempo di respirare, per la paura che mi scappi gli dico subito: < Voglio parlarti, ho un progetto, vediamoci alle tre al parco, all’ingresso >. Lui mi guarda circospetto, prende qualche secondo e mi dice: < Va bene, ci sarò >. Riprendo il mio cammino verso il bar. Sono più pimpante ora, sollevata, oserei dire quasi contenta… Ma sì, contenta. Spero proprio di evitare tutta quella ricerca di un modello. Lui, è lui il modello giusto, lo sento, soddisfa la mia immaginazione, me lo vedo già protagonista delle mie foto. Lavoro allegra. Non vedo l’ora di capire se la mia idea andrà a buon fine, è ormai da troppo tempo che mi frulla nel cervello, per i miei gusti. Arrivo al parco con un leggero ritardo, lui è già lì che mi aspetta. Entro nel vialetto di sassolini grigio chiaro e lui mi si mette a fianco. Non parliamo, ci siamo salutati appena. Cerchiamo un posto in disparte per parlare. Mi sento fremere, ma esteriormente mantengo la calma. Anche lui sembra calmo. – Penserà che ci ho ripensato e gli voglia saltare addosso… Ah ah ah. Voglio
proprio vedere la sua faccia, quando gli espongo il mio progetto –. Ecco una panchina, sembra proprio il posto giusto per poter parlare. Ci sediamo, non troppo vicini. Mi giro verso di lui, lo guardo. Le parole mi si fermano in gola, non riesco a tirarle fuori e allora inizia lui a parlare. Mi fa una piccola confessione. Mi parla della prima volta che ci siamo visti alla stazione. Mi dice che era entrato in stazione solo per curiosità. Per vedere le persone che aspettavano il treno; era annoiato. La realtà era che non doveva prendere nessun treno, e poi girando, guardandosi un po’ intorno, mi aveva visto ferma lì, al binario… L’avevo colpito. Alzando gli occhi aveva guardato la destinazione del treno, sul display, e senza domandarsi il perché, fu preso dall’impellente voglia di seguirmi. Come fosse un gioco deciso e creato all’improvviso. Sono una ragazza carina ma ho l’impressione di essere così diversa dalle donne che è abituato a frequentare. Donne di classe, penso, ricche, piene di gioielli, oppure puttane di case di lusso. Vedendomi, mi dice ancora: era stato più forte di lui, farsi prendere da una voglia matta di “giocare”. Di fare un gioco, per un giorno, ando qualche ora diversa, delle sue consuete. Un gioco che non sapeva e nemmeno si chiedeva dove lo avrebbe condotto, “Dove lo avrei condotto”. L’idea lo divertiva e così, mi seguì, sul treno e poi in città. Tutto lì. Risi di gusto, lo trovai così tenero mentre mi esponeva questa sua piccola confessione. Mi piaceva l’idea del gioco, per uscire dalla propria consuetudine e sfidarsi a nuove sensazioni. – Sìì, bella idea – pensai. < Quale sarebbe il progetto di cui mi hai parlato? > mi chiede, poi, diretto. < Ah… Sì… Sai, avrei proprio bisogno di un modello per fargli delle foto artistiche >. Pausa, deglutire saliva… < La foto è la mia ione > gli dico, senza girare in torno al discorso più di
tanto. La sua espressione da prima è di stupore. E’ comprensibile. Lascia are qualche secondo e poi sorride divertito, scuotendo la testa. < Non so, non l’ho mai fatto, ho paura di non esserne capace… Ma se… Va bene, l’idea mi intriga, giochiamo al gioco che vuoi tu, sarò il tuo modello > e sorride ancora, divertito. < Ah… Poi ci sarebbe un’altra cosa, poiché non ho uno studio, si potrebbero fare le foto nel tuo posto, l’appartamento dell’altra volta? > e lui: < Sì, nessun problema, è il mio posto… Però voglio in cambio qualcosa > risponde. < Ma… Che cosa? > gli domando subito preoccupata. < Ci penserò e ti dirò, è un gioco, no? >. Sono un po’ contratta da questo piccolo mistero, ma voglio andare avanti. < Venerdì pomeriggio a quest’ora ti andrebbe bene? > gli propongo. Per lui va bene. Mi dice che tanto lui non fa mai nulla di particolare, non lavora. A volte viaggia, cerca amanti per rotolarsi nell’amore, cena o pranza in ristoranti bellissimi, anche se deve percorrere dei chilometri per raggiungerli… Insomma si gode la vita al massimo. O gioca a fuggire la noia? – Eh, sì, certo, lui se lo può permettere – penso tra me.
Dopo un lungo giorno di attesa, finalmente arriva venerdì. Arrivoal cancello del parco, lui è già lì che mi aspetta. Ci salutiamo un po’ imbarazzati, siamo visibilmente contratti, ma in me sento una forte voglia di iniziare questo gioco. A tracolla porto la mia macchina fotografica e la borsa, in mano ho il cavalletto, camminiamo guadandoci intorno, senza considerarci troppo, come fossimo a eggio, ognuno per conto proprio. La mia mente è piena d’idee, c’è solo da fare il primo o. Sono convinta che le cose procederanno spedite, ora c’è un po’ d’imbarazzo, ma è normale. Ieri ho pensato un po’ a cosa vorrei fare, a come fotografarlo, riflettendo anche sull’ambientazione in qui si sarebbe lavorato. Ho immaginato giusto poche cose, perché mi piacerebbe essere il più spontanea possibile. Lavorare sull’improvvisazione, sul vedere e seguire dove il lavoro si dirige, capire i momenti, le sensazioni che ci sono tra di noi, per infilarsi poi in certe situazioni che possono crearsi. Siamo arrivati, finalmente, nel suo fondo-appartamento, tutto sta per iniziare. Sto fremendo. Abbiamo fatto un accordo, lui mi fa da modello senza tentare approcci sessuali, ed io in cambio soddisfo un suo desiderio, che non so ancora quale sia. Mi sto buttando un po’ al buio in questa prima volta. Lui si sta togliendo i suoi begli abiti, io traffico con la macchina fotografica. Scatto un po’ di foto per capire le luci, prendo il cavalletto, sistemo la macchina dandomi un’aria professionale. La persiana è chiusa, come l’altra volta, mi piace la luce che filtra. Mi vengono in mente le foto in b/n di Tina Modotti, le adoro – sì, usare il b/n, perché no – mi dico convinta. Lui si toglie scarpe e calze, gli sono rimasti solo i pantaloni.
Faccio ancora qualche scatto di prova, bene, tutto bene. La luce è tenue come piace a me, ho calibrato la macchina fotografica. Ora ha solo gli slip addosso, lo guardo negli occhi, impaziente di iniziare. Lui esita, legge la mia determinazione e poi con un gesto deciso li toglie, ora è nudo, ma non eccitato come l’altra volta, anzi è un po’ smarrito, è la prima volta per lui e anche per me. Mi avvicino al letto, dove lui si è messo disteso, senza pensare inizio subito a scattare. Voglio lavorare d’istinto, so già che un certo numero di foto saranno inutili e le dovrò cancellare. Lo fotografo abbassando sempre più la linea d’orizzonte, ricordo quanto mi è sempre piaciuto il “Cristo Morto“ del Mantegna. Mi frulla in testa questa immagine, lo voglio fotografare così. o dal lato destro del letto, al centro e poi al sinistro, più scatto e più mi cresce la voglia, l’eccitazione artistica, mi sento come posseduta. Lui respira piano, lo sento in balia di quell’occhio meccanico che lo spulcia in ogni suo centimetro e che può eccitare o spaventare. Il “mio uomo“ non è ancora calato nella parte, è teso, lo sento, non va ancora bene. Probabilmente si sente in una parte che non è la sua. Lo vorrei schiaffeggiare, per farlo sciogliere. Prendo una poltroncina ci salgo su, lo voglio fotografare dall’alto, sono nervosa, confusa, spazientita. Non va, sembra una situazione forzata, un po’ come quando cerchi di raddrizzare un ferro che si è storto e non ci riesci in nessun modo. Siamo troppo contratti entrambi. Poi, inaspettatamente, succede un qualcosa che non mi sarei mai aspettata. Lui si tira su, con fare molto lento, sino a piegarsi in due. Io mi fermo stupita e rimango ad osservarlo. Prende le ginocchia tra le braccia e inizia a piangere. Silenzioso.
Si sente troppo nudo, troppo esposto, forse. Fuori, il rumore delle macchine che ano, dentro il silenzio cristallizzato. Rimango, giusto un attimo, interdetta e poi colgo l’occasione di vederlo finalmente vero e inizio freddamente a fotografarlo. Mi tremano un po’ le mani, per l’eccitazione di quel momento inaspettato, che non avrei mai e poi mai potuto costruire. Inizia adibattersi sul letto come un invasato, sembra combattere contro i suoi mostri. Mostri che vuole scacciare da dentro di sé. E’ meraviglioso. So che sta soffrendo. L’artista che è in me ha preso il sopravvento e sta godendo dello spettacolo che mostra il suo corpo contorto, la pelle e sotto i muscoli, e oltre, le sue ossa, l’anima. Mi sento cinica, fredda, sta soffrendo nell’aprirsi, nel strapparsi strati di maschere, per cercare, suo malgrado, di mostrare la sua parte più vera. Sembra un pesce fuori dall’acqua, che fa di tutto per rientrarvi. Io è cosi che lo voglio, fuori dall’acqua, voglio cogliere quel aggio, prima che rientri nel suo personaggio. Continuo a scattare come una forsennata, sono a trecento foto, sono esausta e anche lui lo è. Siamo come avessimo fatto l’amore per ore, stremati ci fermiamo, gli sussurro: < Basta cosi, va bene, puoi rivestirti >. Lui, dopo alcuni momenti di esitazione, trova la forza di scendere dal letto e curvo, quasi rotolando, si avvicina ai vestiti. Io intanto mi siedo e respiro piano, sento l’eccitazione calare e riprendo il controllo di me. Lo guardo mentre si veste. Anch’io rientro nel mio personaggio piano piano, e penso agitata che ora spetta a me fare la mia parte. Ormai completamente vestito, va a prendere una bottiglia di vino bianco fresco, che tira fuori come dal cilindro – che bella sorpresa – penso.
Ne riempie due bicchieri. Beviamo lenti, assaporando quel vino veneto fruttato che a me piace tanto. Ognuno di noi è immerso nei propri pensieri; mentre ci godiamo il gusto del vino che rimane ad avvolgere il palato, aspettiamo lo svolgimento della seconda parte dell’accordo, a me sconosciuta, ancora. < Togliti le scarpe, voglio vedere i tuoi piedi nudi > mi dice, quasi fosse un ordine perentorio. Ha ripreso pieno possesso di se stesso. Appoggio subito il bicchiere, senza neanche finire di bere e poi una volta alzata lo riprendo e finisco il vino d’un fiato. Obbedisco, come fossi un manichino che ha ricevuto un comando. Mi metto in piedi di fronte a lui. Tolgo prima una e poi l’altra scarpa con il tacco, che mi ero messa inconsapevolmente per essere più carina, forse intuendo qualcosa. Rimango a piedi nudi sul gelo del pavimento, che invece di irritarmi, mi elettrizza. Lui li fissa bloccando il respiro. Cade in ginocchio, li guarda con ione, so… che li vorrebbe baciare, ma non può. Allora usa la vista e le vibrazioni emanate dai nostri corpi per trarne piacere. La voglia soddisfatta, in parte, gli fa battere il cuore ancora più forte. Lo sento nei miei occhi, il suo cuore. Il suo sguardo, amoreggia con i miei piedi, piccoli. Bianchissimi. Dalla pelle quasi di vetro, che lasciano trasparire il blu delle vene. Gli concedo tutto il tempo che vuole. Suda. La sua fronte si riempie di lacrime e nel frattempo si piega e cade sul pavimento a testa in giù, a pochi centimetri dai
miei piedi. Le mani tuffate tra i capelli, è esausto. Per tutto il tempo ha espanso e contratto il suo desiderio, come mai gli era capitato di fare, e poi gli sono usciti fuori i fantasminascosti nel suo profondo che a fatica ha dovuto far rientrare nel nascondiglio dentro di sé, tutto questo gli è costato uno sforzo enorme. Prendo in mano le scarpe e piano per non svegliarlo dal suo torpore, indietreggio. Afferro la macchina fotografica e il cavalletto, rispettando quel sacro silenzio. Lo guardo ancora un attimo. Mi sento commossa, lo vorrei accarezzare, coccolare. E’ lì immobile, ancora, quando esco. Accosto piano la porta e mi avvio con mille sentimenti sconosciuti che mi si affollano nel cuore e nella mente. Cammino di corsa, quasi sollevata da terra, vorrei urlare, saltare, non avevo – mai – provato una sensazione di gioia così intensa, il cuore sembra scoppiare– è andato tutto più che bene – getto un pensiero verso di lui – spero non stia soffrendo troppo –. Non vedo l’ora di scaricare le foto sul computer per vederle, ora non voglio fermarmi per dargli nemmeno la più piccola occhiata. Salgo gli scalini di casa, a due a due – ohDio, le chiavi dove sono – cerco nelle tasche frenetica – eccole – apro la porta, non guardo nemmeno se c’è sca, corro in camera, accendo il computer – dai dai – sono impaziente, le mie prime foto con un modello… Vero – ecco – metto il cavo nella macchina e nel computer – ok sta scaricandole, ci vorrà un po’, sono trecento circa –. Vado in cucina nel frattempo, non voglio vedere le foto, cosi piccole, mentre le scarica. Prendo una birra, torno in camera, e improvvisa un’idea mi assale– che stupida, potevo anche farle a colori e poi trasformarle in b/n, pazienza, tanto sono convinta del b/n, però può essere un’idea per la prossima volta –. ano solo pochi minuti, ma sembrano lunghissimi.
Anche se la tecnologia è sempre più veloce, in questi casi, non lo è mai abbastanza – eccole tutte, finalmente –. Mi siedo comoda, non voglio la benché minima distrazione. Inizio a guardarle piano piano, come allargassi le carte in una partita di poker. Non pensare, non giudicare con la mente, voglio prima sentirle, provare che sensazioni mi comunicano nel guardarle. Le prime, sdraiate sul letto, sono buone ma banali, scontate, non mi danno quella botta allo stomaco che vorrei, e così è, per il primo centinaio d’immagini. Poi piano piano – si si si si… Eccole lì – quando lui è piegato, prima piange e poi quando si contorce, lotta con se stesso. Finalmente un lavoro che sento. Può essere importante. Arrivo alla fine e chiudo gli occhi quasi non ci voglio credere. Li riapro e spengo subito il computer, mi devo calmare e riguardarle dopo – ora esco e faccio un bel giro, sono troppo elettrizzata –. Lascio la birra a metà. Suona il cellulare. Lo ignoro, lo lascio sul tavolo ed esco di corsa, non lo porto nemmeno con me, non voglio essere disturbata, desidero godermi sino in fondo questa situazione di elettricità che sento. E poi non voglio correre il rischio che sia mia madre a chiamarmi, sarebbe capace di distruggere, in un secondo, quest’idillio. Scendo le scale, questa volta lentamente e il pensiero mi va ancora a lui. Mi si stringe il cuore. Capisco sempre più che avrei voluto abbracciarlo, accarezzarlo, tanto era tenero. Non penso di averlo ripagato abbastanza, avrei voluto dargli di più, emotivamente. Cammino con lo sguardo perso nel vuoto, anzi, nel ricordo di quel corpo cosi fragile, piegato sul pavimento. Ritorno a casa, dopo aver fatto un bel giro a piedi e scaricato un bel po’ di adrenalina. Ora sono più calma. Ho mangiato un kebab e bevuto una birra, veloce. Ho voglia di rimanere in quest’atmosfera, che mi sa dare solo la fotografia.
Sono di nuovo in camera, l’eccitazione è sempre presente, ma si è sedimentata. Voglio essere un po’ più fredda, nel rivedere le foto. Apro il computer, lo accendo, penso di cancellare quello che non va bene e anche quello che va bene. Lascerò solo l’ottimo, o almeno, quello che a me sembrerà, l’ottimo. Se voglio crescere, devo lavorare sempre al massimo, non accettare compromessi con me stessa. Sarei già contenta di salvare venti foto su trecento. Inizio a guardarle e so già che le prime cento sono buone, ma non sono come le voglio io. Non le cancello ancora, le metto però, in un’altra cartella per studiarle meglio e capire cosa va e cosa non va. Guardo, penso, analizzo, critico ferocemente. Devo essere io, la più spietata critica di me stessa. Faccio un break, un po’ di vino ci vuole. Meno male che sca non c’è, deve essere dal suo ragazzo, in questi momenti ho bisogno di essere sola. Silenzio, anzi un po’ di musichetta piano, perché no, bene, un bel bicchiere di vino bianco fresco, quasi quasi mi porto di là la bottiglia, è mezza piena. Torno in camera, il vino mi mette subito nello stato d’animo giusto. Sempre più decisa, guardo, cancello, vado avanti, salvo e avanti ancora e ancora sino all’ultima foto. Ho finito, bene, sono contenta, quante saranno le foto che ho salvato? Faccio un rapido conto, sono quarantacinque, non male, ma ho ancora qualche dubbio, le riguarderò domani. Mi prendo ancora tempo e forse, ne toglierò ancora, prima di lavorarle. Ora dormo, sono stanca, domattina lavoro, quello che mi dà i soldi vivere, per ora.
La sveglia, accidenti alla sveglia alle sei e un quarto di mattina. Cinque minuti e poi ancora cinque – ora mi devo proprio alzare – mi dico, facendomi forza. Doccia e via al lavoro. Pur essendo presto, sono pimpante, di solito testa bassa, gentile con i clienti, ma sintetica al massimo. Oggi invece sento ancora l’effetto dell’incontro con il “mio cinese“ e le foto. Eh sì, bello, proprio quello che vorrei sempre fare… E poi, accidenti, all’improvviso, prima di uscire da casa, mi fermo e mi dico – che deficiente che sono, oggi non lavoro, oh no, potevo dormire di più –. Che faccio, torno a letto? – no, no – oramai sono sveglia, non ho voglia di ritornare a letto. Accendo un po’ di radio, bassa per non svegliare sca e inizio a prepararmi la colazione. Metto su il caffè, intanto prendo dal frigo il burro e la marmellata e da dentro il mobile le fette biscottate. Mi siedo, imburro le fette, metto su un po’ di marmellata e aspetto con pazienza l’uscita del caffè. Mi sento una deficiente, avverto il sonno negli occhi, ma la mia mente ormai è alzata e non vuole tornare indietro. Così faccio colazione senza nessuna fretta. Vorrà dire che mi farò un giro in città tra un po’. Ho voglia di stare con i miei pensieri leggeri. Ieri sera, prima di addormentarmi, ho visto che sul cellulare, quando l’ho lasciato in casa, c’erano un paio di telefonate perse, di mia madre. Mi vorrà vedere. Questo pensiero mi fa subito scendere di quota. Mi ritorna in mente quella sera che tornai a casa, dopo aver trovato il lavoro qui al bar e preso la stanza in affitto… Accidenti che serata… Di pianti, di drammi, di recriminazioni e chi più ne ha, più ne metta. Ricordo, che salivo le scale con cento chili nel petto. Mi pareva, tanto sentivo il cuore pesante. Entrai, salutai appena e questo non era un problema, spesso era così.
Non sapevo proprio come fare, che dire, dove iniziare il discorso, dove attingere per trovare il coraggio. Pensavo al mio fratellino e al dolore che gli avrei dato e anche alla mamma. L’avrebbe presa male e poi, sì, pensavo anche a Gill non ne sarebbe stato contento, ne ero certa, che una delle attrici dello psico-dramma famigliare, si defilasse dalla scena. Lasciai finire la cena. Intanto mi guardavo intorno, come se vedessi quel posto per la prima volta. Vedevo quella cucina cosi cupa, con quei mobili tristi. E poi mia madre, con quella faccia sempre spenta, tendente al malinconico… Si sentiva in credito con il mondo intero. Quel mondo che l’aveva sempre bastonata, a suo dire. Lei si è sempre vista come un pianeta, con noi, i suoi satelliti che le girano intorno, e che vivono di quella forza che lei ci elargisce. Il vederne andare uno fuori dalla sua orbita, le avrebbe creato uno squilibrio non da poco, ne ero sicura. Finita la cena. Dopo i discorsi di mia madre e gli sguardi strafottenti di Gill, m’infilai in un silenzio generale e provai a dire del lavoro che avevo trovato. Mia madre come fosse stata punta da cento api, uscì dal suo torpore post-pasto e disse: < Come, rinunci a trovare un posto come ragioniera, con tutti i sacrifici che ho fatto per te, ti butti a lavorare in un bar > ed io: < Se è per questo, non è neanche la barista, la mia aspirazione > ribattei stizzita. < E cosa vorresti fare, sentiamo… >. < La fotografa > dissi serena, quasi spavalda. < Ma quello non è un mestiere, speri di vivere facendo foto, sei ammattita > disse lei, visibilmente alterata, alzando la voce. < Ecco, la vedi com’è, mamma, se ne frega di te, di noi, di tutto, pensa solo a se stessa > la attizzò Gill come se non bastasse la sua rabbia.
< Stai zitto tu, che non fai niente e per di più rubi i soldi in casa, per mantenerti i tuoi vizi schifosi >. Non l’avessi mai detto, mi si avventò contro, mi prese per i capelli e mi schiaffeggiò. < State fermi, voi due> intervenne d’autorità la mamma. Il fratello più piccolo tremava, soffriva e piangeva, in silenzio da una parte. Gill si fermò e mi lasciò, giusto per il tempo che riuscii a scappare dietro alla mamma. < Picchiala, picchiala è un’ingrata > abbaiò Gill scosso nel suo delirio. Io, nel frattempo, trovai la forza, che mi venne dalla rabbia di voler uscire da tutto questo. Il desiderio, forte, di lavorare con le foto, mi dette un’energia inaspettata, e più decisione di quanto pensassi. E così, per finirla definitivamente e togliermi tutto di dentro, gli vomitai, anche: < Me ne vado, ho trovato un posto dove stare >. Il silenzio a quel punto calò, pesante e grosso, come nuvole nere piene di pioggia, che spostate dal vento, presagiscono il temporale. C’era elettricità intorno a noi, ma tutto era ancora fermo, immobile. Sembrava l’attesa prima del finimondo, e invece si sentì solo il rumore delle lacrime di mia madre, che le solcavano il viso. Si lasciò andare su una sedia, la guardai impietrita. Soffrivo, nel vedere quel suo volto distrutto. Era una sofferenza di testa, visiva. In realtà, nel profondo, sentivo il cuore più leggero, per essermi liberata di quel peso e inoltre perché vedevo concretizzarsi sempre di più una reale via di fuga. Gill non sapeva che fare, sembrava aspettare un comando da mia madre per saltarmi addosso. Mio fratello piccolo, intanto, era scivolato in camera sua ed io approfittai di quella situazione di stallo, per uscire di scena. Mi sentivo come a un incontro di pugilato, quando suona il gong della fine del primo round.
La notte, ricordo che dormii un sonno agitato. Pieno di sogni frammentati, di fughe, di lotte, di affanni. Tanto che, ogni volta, dovevo andare al di là del sogno, violentandomi per uscirne, per poi svegliarmi con il fiato rotto. Dopo questi devastanti ricordi, esco da casa. Ho voglia di folla, un bagno di gente inconsapevole che non sappia chi sono io, ed io, chi sono loro. Accidenti, ma uno lo conosco. Mischiato ai molti, è il ”mio cinese“ che eggia, sembra che mi aspetti. Come avrà fatto a sapere che non vado al lavoro oggi, forse si è informato al bar – speriamo di no – forse, casualmente è lì. Mi vede e subito sorride e mi dice: < Niente lavoro oggi, ti sei alzata con comodo > gli sorrido anch’io, sembra contento di vedermi. Ero un po’ in pensiero, per come avrebbe reagito, dopo la sua prima esperienza di modello. < Voglio bere un caffè, mi accompagni? > gli propongo. < Certo >. La sua compagnia non mi dà più fastidio, come una volta, ma anzi, ora che è legata al mio lavoro di foto, sono quasi contenta di averlo conosciuto. Parliamo un po’ del più e del meno e poi stiamo in silenzio, prima di arrivare all’argomento che più ci interessa. < Mi dispiace che sei stato male, non avrei voluto che andasse cosi. Anche se devo ammettere che le più belle foto sono quelle di quando piangevi, del tuo dolore > e lui risponde, in quel suo modo a voce bassa, rispettoso, e mi racconta di quei momenti. < Ho veramente avuto mille sentimenti che mi attraversavano la mente, e non so dirti da dove sono nati, e soprattutto perché sono venuti a galla proprio in quel momento. Sono arrivati improvvisi, e si sono conficcati nella mia carne, come fossero degli spilloni. Non c’èra solo dolore.
Sentivo anche molta ammirazione, per quello che stavi facendo. Il tuo lavoro di foto, e l’aver scelto me, per la tua prima volta, che poi ha coinciso anche, con la mia prima volta da modello > e ride, in un sorriso appena accennato. < Vedi, io non faccio nulla, come ti ho già detto, e vedere te che insegui un sogno… E che per farlo, hai avuto il coraggio di lasciare la tua famiglia… Che ti sei cercata un lavoro per poterti permettere di fare questo, la fotografa, sperando che un giorno ti dia da vivere. Beh… Tutto questo, mi ha letteralmente devastato, perché io non riesco ad avere quel coraggio che hai avuto tu; ma mi ha fatto sentire anche tanta ammirazione per te. E mi ha fatto intravedere una speranza, che forse un giorno, anch’io potrò fare come te. Inseguire il mio sogno. Ho sentito cosi tanta gratitudine, per averti conosciuto e seguito >. Chiude un attimo gli occhi e prende ossigeno. Li riapre e mi guarda con le mani giunte. < Ma allora ti è anche piaciuto? > gli dico. < Si > risponde. < Allora possiamo rifarlo se vuoi, ho bisogno di fare pratica. Ho bisogno di fare tante foto, per crescere >. Gli dico col viso che emana gioia da ogni poro. < E poi, con te, mi sento tranquilla e mi trovo bene > gli dico ancora, con non poco pudore. Sentiamo un certo imbarazzo, ma subito dopo ne ridiamo e fissiamo un altro appuntamento. Ognunova per la sua strada. Mi sento così, così felice… Sì, è una parola che mi spaventa il solo pensarla, e il sentirla nel mio animo mi fa tremare il cuore, e lui è uno degli artefici di questa gioia. Non sento la voglia di “stare” con lui, ma vedo sempre di più la possibilità di diventare amici.
Siamo nel suo appartamento. Mentre lui si sta per spogliare, lo fermo, non lo voglio nudo, almeno non subito. Voglio prendermi dei tempi più lunghi, magari per arrivarci per gradi, al nudo. Inizio a fotografarlo in piedi vestito, giocando sulla luce, che si sposta sul suo viso, nelle diverse posizioni in cui lo faccio mettere. Piano si toglie la giacca e l’immancabile cravatta, ecco… Un paio di bottoni della camicia slacciati: < Sì, fermo lì, un po’ di lato, sì, col viso fiero, con lo sguardo lontano > sì, sento l’energia giusta, oggi. < Ora mettiti seduto, con la camicia sempre più slacciata >. E poi si toglie le scarpe e le calze. Le braccia sono larghe, lasciate andare giù, con i palmi rivolti in avanti. Il corpo è abbandonato sullo schienale della poltroncina. E poi, quello sguardo fisso, intenso, cosi cinese, così uomo sul punto di commettere un atto peccaminoso. Rimango dell’idea di non farlo spogliare completamente. C’è un bel feeling che aleggia nella stanza e ci avvolge. Ho fatto molte foto anche questa volta. Si è tolto anche i pantaloni, ora, però voglio che tenga gli slip. Lo guardo, gli dico di rialzarsi in piedi. Si mette con il petto in fuori e le braccia un po’ indietro, piegate ad arco, i pugni appena chiusi e un piede leggermente più avanti dell’altro. Mi sembra un torero, un samurai, un Gesù, pronto al sacrificio. Non ho un ideale di uomo e non capisco bene, cosa provo per quest’uomo di Pechino che è piovuto nella mia vita. In questa mia vita piena di tempeste, dolori, sofferenza, è come se si fosse creato un buco, dove tutta la sofferenza sta
scivolando via, come l’acqua dentro una vasca a cui è stato tolto il tappo. Quel piccolissimo vortice che si crea, è quel qualcosa che identifico come la mia gioia, dentro il mio animo. E’ la mia piccola felicità. Mia, solo mia. Fuori da quella famiglia che ha riempito, nel tempo, quella vasca di angoscia. Questa volta, dopo le foto, in cambio mi chiede che lo lavi. Rimango paralizzata da questa richiesta. Non so che fare. Non me lo sarei proprio aspettato. Lui sembra ridersela dentro di sé, sento che si pregusta il momento. Mi domando se l’ha già fatto con un’altra donna. Penso di sì, ha cosi tante donne, mi dico. Avrà sperimentato tanto nella sua vita. Un’idea fulminea mi schizza in testa. Nonostante il mio sbandamento iniziale alla sua richiesta, il mio essere artista prende il sopravvento. Voglio continuare a fotografare mentre lo lavo. Sistemo la macchina sul cavalletto e la metto in posizione strategica. Imposto l’autoscatto. Voglio sfruttare anche questi momenti che sarebbero suoi. Prende da non so dove una larga bacinella. Sinceramente, non so da dove iniziare. Prende dell’acqua dal rubinetto, una saponetta e una piccola spugna, poi una poltroncina di vimini, nell’altra stanza. Toglie il lenzuolo dal letto, con un movimento deciso e vi copre la poltroncina. Lo guardo, tra stupore e inconsapevolezza di cosa dovevo fare di preciso. Si mette a sedere e aspetta. Si è tolto anche gli slip, ora, è completamente nudo. Mi fissa tranquillo, senza aprire bocca. Allora mi avvicino piano. Il respiro lo sento partire dalla pancia, e lento venire su, sino a uscire e poi lo riprendo, a bocca larga. Mi chino per prendere la spugnetta e il sapone. Lo guardo, mentre intingo le due
cose nell’acqua. Strofino il sapone profumato nella spugnetta. Non perdo, neanche per un secondo, i suoi più piccoli movimenti del viso. Non mi viene nulla in mente. La mente mi ha abbandonato. Lasciandomi completamente sola sul da farsi. Da dove iniziare a lavarlo? I piedi, sono la prima parte del corpo dalla quale spontaneamente mi viene da iniziare. Mi curvo, inizio ad accarezzarne uno con la spugna insaponata. Vedo spuntare una scia bianca di piccolissime bollicine e quasi mi spavento a questa vista – che stupida –. Prendo un po’ più di fiducia e coraggio, continuo con l’altro piede – sì, ce la posso fare – mi dico. L’ossigeno mi torna al cervello e la mente ricomincia a essere presente. Salgo su per le gambe e poi, un’idea mi blocca. Forse dovevo iniziare dalle spalle e venire giù? Entro in panico, i miei movimenti diventano incerti, non so più che fare – va bene, calma… –. Gli sciacquo le parti insaponate e decido di continuare senza il sapone, a lavarlo solo con l’acqua. Non penso voglia farsi proprio lavare,ma vorrà godersi il tocco leggero della spugna che si frappone tra la mia mano e il suo corpo. Decido di ricominciare dalle spalle, mi sento impacciata – mi sembra di non fare quello che lui si aspetta. O che io mi aspetto –. Più mi faccio queste domande e più non mi sento naturale nei movimenti. Se solo potessi ricominciare. Vorrei riavvolgere il nastro, ma non posso. Provo a rilassarmi nuovamente e a lasciarmi andare di più. Bagno la spugna e la o sul suo petto, sul collo, leggera come una carezza, cercando di procurargli piacere.
Lui ha gli occhi chiusi e le braccia svenute sui braccioli della poltroncina. Ora mi sento più sicura. Bagno ancora la spugna, l’acqua gli scende lungo la pancia, il sesso, le gambe, sino a bagnare il lenzuolo. Ora sono alla pancia. Segno dolce, la sua rotondità, disegno con la spugna la linea dei suoi fianchi e poi salgo alle ascelle, le braccia, sino ad arrivare alle mani. Ne prendo una, con la mia sinistra, e sento il contatto pelle pelle, calore calore, la sensazione mi fa scorrere un brivido, su per il braccio. Deglutisco e continuo, sento che mi sta divertendo, questo gioco. Ora l’altro braccio – sì, è piacevole – penso, ma subito un altro pensiero mi assale, sormontando ogni altra sensazione, e mi blocco ancora – è rimasto solo il sesso da lavare –. Vorrei chiudere gli occhi, ma non posso. Mi sento nuovamente contratta, come quando ho iniziato. Mi faccio coraggio e m’insinuo con la spugnetta tra le sue gambe. Faccio piano. Lo guardo in viso, ha gli occhi chiusi, la bocca leggermente aperta su un mezzo sorriso. Continuo, sono in apnea piena, ho quasi finito– ecco… ho finto – mi scosto, tremando, per vederlo nella sua interezza. Prendo piccoli respiri, uno dietro l’altro, veloci, come avessi corso su per le scale. Lo guardo ancora. Nudo. Non resisto, prendo la macchina, la tolgo rabbiosa dal cavalletto e scatto a raffica, prima che lui si desti dalle sue sensazioni, e possa aprire gli occhi o muoversi.
Una sferzata di gioia mi sale dallo stomaco – sì, ancora una volta un fatto inaspettato, mi dà lo spunto per foto particolari, forse migliori, delle altre fatte sin’ora –. Apre gli occhi, con molta calma, mi sorride gentile, prende il lenzuolo e vi si fascia. Mi ringrazia. Mi giro, prendo il cavalletto, la macchina fotografica, la borsa e dopo avergli gettato un largo sorriso, esco da quel luogo che, sempre di più, sa tanto di nostro. Sono esausta ma contenta, avrei voglia di correre, per scaricare l’adrenalina, ma non ce la faccio. Entro in un bar < Vino bianco, per favore >. Mi lascio cadere su una sedia, mando indietro la testa e chiudo gli occhi – ah, ah… -.Sento la tensione sul collo, torno dritta con la testa e bevo in un fiato il vino. < Me ne dà un altro >. Ritorno a sedere dopo aver preso il bicchiere di vino al banco. Questa volta, a occhi aperti, penso a quanto è successo. Sorseggio il vino, sorrido e mi dico – però, è stato divertente -.
Perché un posto piace più di altri? E ogni volta che lo rivedi, rinnovi quel piacere, che sembra dover durare per sempre. Questa piazza, ogni volta che ho occasione di venirci, mi fa stare bene, perché, mi domando? Vedo tanti posti e solo pochi mi provocano questo effetto di emozione, ogni volta. Dipenderà, forse dalla sua forma rettangolare, o forse dal suo spazio interno, cinto da palazzi di un’altezza simile tra loro. Non troppo alti, tanto che basta sollevare lievemente la testa per vedere subito l’apertura al cielo, che richiama a un senso di libertà. O forse, è la storia intrinseca che emana. Che ne è rimasta imprigionata. Accumulatasi nel are del tempo e che giorno dopo giorno, sembra poi rilasciare a noi contemporanei. Come fosse una signora anziana, che con il suo fascino, ancora presente, fa girare al suo aggio, ricordando una bellezza che non ha tempo. Come un’essenza che ha cristallizzato il suo profumo nell’aria. Questa piazza mi appartiene. Sembra esserci un qualcosa di antico, dentro di me, che la riconosce. Visione di vite ate; chissà. Io che sono appena entrata in questa vita, non potrei chiamarla “vecchia amica“ ma è quello che mi fa pensare, ogni volta che la rivedo. Quando sono nei suoi pressi, mi viene sempre voglia di farle una visita. E’ come se mi sentissi chiamare. Anche oggi sono qui e ho voglia di sedermi e bere un bicchiere di vino all’aperto, sfidando questo cielo che promette pioggia – questo localino è nuovo, che carino. Perfetto, ha i tavolini fuori. Chissà se ha anche del vino buono, voglio provare -. Mi accoglie una giovane ragazza, quasi della mia età. Il locale è veramente
piccolo, al suo interno. < Da quant’è che hai aperto? >. Le domando, guardandomi intorno. < Da poco >. < Ma fai anche da mangiare? >. < Sì, qualcosina >. < Ma fai tutto da sola? >. < Sì, ma a volte mi aiuta mia madre >. Che dolce che è. < Mi dai un bicchiere di vino rosso > le dico. < Scegli pure tu, tanto lo devo aprire >. Vado a istinto. < Provo quello lì > e le indico una bottiglia nel mezzo ad altre. < Ah, bene, un San Giovese in purezza, ottima scelta > e mi sorride. Prendo il mio bicchiere di vino e vado a sedere fuori, mi sento cosi bene. Inizia a pioviscolare, com’era prevedibile. Non fa freddo e sono sotto l’ombrellone. Cosi rimango tranquilla a sorseggiare il vino e la piazza. Non posso però are lunghi momenti di tranquillità. E’ più forte di me. Subito, sono assalita dal pensiero di mia madre. Delle delusioni che le ho dato, andandomene. E di quanto, sempre più, sento che la mia barca ha lasciato quel porto che è la mia famiglia. E piano, molto piano, ma inesorabilmente, si avvia verso nuove mete. Come attratta dal canto delle sirene. Avrei voluto che tutto fosse diverso. Vorrei avere una famiglia “normale“ per sentirmi protetta, coccolata, amata. Quest’ultimaparola, non oso mai pronunciarla. Quando la penso, un brivido mi scuote e mi fa vacillare impercettibilmente la testa, da sinistra a destra. Nessuno sarebbe in grado di accorgersene e men che meno potrebbe sospettare il dolore
che mi provoca questo lieve movimento di sbandamento interno. Amore, amore… No, non posso proprio pronunciarla questa parola. Mi fa sentire come se un pugile, ogni volta che la dico, mi desse un cazzotto alla bocca dello stomaco. Tanto che devo smettere subito, e distrarmi con un nuovo pensiero. La mamma, quanto la… Ho bisogno di lei. Di avere una relazione vera con lei. Anche se mi fa soffrire per quella sua sbandata perenne per mio fratello Gill. Sono costretta a volerle bene, ho solo lei. Anche se il suo sguardo non è mai diretto verso di me. E’ come se mi schivasse– ah… ah, che dolore.-E’ come camminare su un piede fratturato. Che dolore, sento. Ogni volta che tento di buttarmi tra le sue braccia, o cerco il suo cuore, o anche solo conforto. Per lei esistiamo tutti e tre. Dice di amarci in egual misura, ma non è cosi in pratica. Si vede bene, che solo Gill ha spazio nel suo cuore. Che è il suo prediletto. < Mi porteresti un altro bicchiere di rosso >. E’ meglio distogliere la mente da questi pensieri irrisolvibili, e godermi la “mia“ piazza, il vino e questa simpatica ragazza, il tutto incorniciato da questa pioggerella.
La seconda serie di foto che ho fatto al cinese, è a colori. Dopo di quelle in b/n della prima volta, che poi mi rammaricai di non averle fatte a colori, per poi trasformarle in b/n e cosi poter vederle nelle due versioni. Questa volta, non ho commesso la stessa leggerezza. Quando ho iniziato a trasformarle in b/n, mi è venuta un’altra idea, riportare in alcune parti, un po’ di colore. Magari non un colore al cento per cento, ma provare a farlo con percentuali diverse. Per dare, l’impressione di un colore usurato, sfumato, che armonizzi di più con il b/n. Mi piace l’idea. Forse non sono originalissima. Non m’importa. Voglio fare, senza guardare quello che è stato già fatto. Non voglio stupire per forza con idee nuove, magari esasperandole o facendo lavori assurdi. Voglio fare ciò che mi viene in mente e mi piace, senza farmi troppe domande. Anche in questa serie di foto faccio una rigorosa selezione e alla fine, come prevedevo, salvo di più le immagini dell’idea improvvisata. Quelle in cui sono di spalle, mentre lo lavo, e quando sull’ultimo, lui è a occhi chiusi, nudo sulla poltroncina. Credo sia fondamentale “afferrare” questi momenti al volo. Dopo averle lavorate al computer, mi accorgo che sono riuscite bene trasformate in b/n, un po’ sgranate, con quei piccoli dettagli colorati che ho ripreso. Le pupille, in alcune, il nero dei capelli che è diverso se portato in b/n, il bianco del lenzuolo, soprattutto le sue ombre, le labbra, appena un po’ di colore. Con il mio “amico“ non ci siamo neanche “scambiati il cellulare”, cosi se lo voglio contattare per chiedergli qualcosa, non lo posso fare. Un po’ mi dispiace, anche perché sono costretta alle sue “voglie” di farsi vedere. Mentre sto guardando le foto che ho lavorato, squilla il mio cellulare, è la mia amica del bar:
< Ciao tesoro, giacché oggi non ci vediamo, volevo dirti una cosa, ho parlato di te a due mie amiche che mi hanno chiamato. Mi sono ricordata che gestiscono una galleria, molto carina. Lavorano tantissimo con le donne, soprattutto giovani. Hanno un bel giro di affezionati… insomma, per fartela breve, gli ho parlato di te, dicendogli che sei una brava fotografa, anche se giovane. Loro sono disposte a vedere il tuo lavoro, senza impegno, naturalmente. Mi sembra buono, no… >. < Buono… E’ splendido… E… Però, magari vado da loro fra un po’ di tempo. Pensandoci, è meglio che lavori ancora. Prima di mostrare il mio lavoro, voglio che sia, come dico io. Voglio sentirmi più sicura, capisci >. < Sì, si non c’è fretta, prenditi pure il tuo tempo, intanto c’è il contatto, e quando sei pronta, vai e… magari andiamo insieme, che ne dici? > io entusiasta, le rispondo: < Sì, bella idea, bacio tesoro e grazie > le dico. < Bacio, ci vediamo >. Waooo, splendido, che gioia. Sì, ma le devo presentarle bene le foto. Devo lavorare ancora per crescere e sceglierle con più attenzione, e fra più materiale – cinese, dove sei, vieni fuori che bisogna lavorare… –. Lui, come se mi avesse sentito, apparve. Mentre ero nei pressi del bar, me lo vedo arrivare incontro. < Ciao > mi dice e senza lasciarmi il tempo di aprir bocca, aggiunge: < Pensavo di invitarti a cena, se per te va bene > lo dice con quel suo modo sereno, tagliato da un mezzo sorriso. Io aspetto un attimo, lo guardo e rispondo: < Va bene, quando? >. < Pensavo domani sera, verso le otto > io aggiungo: < Sì, ma vediamoci alla vineria, in via del Giogo, voglio offrirti un aperitivo,
prima > e lo guardo con un sorrisetto di sfida. Lui indietreggia appena, con il busto. < Sì, va bene, ciò che fa piacere a te, lo fa anche a me. Smorzo il sorriso e sento un’impercettibile ansia allo stomaco, per questa sua frase… Faccio finta di nulla. < Va bene allora, io vado al lavoro, a domani, ciao >. < Ciao >. Entro nel bar immersa nei miei pensieri, come il solito. < Ehi Roy, come va? >. < Ciao cara, tutto ok > ritorno a immergermi nei miei pensieri. Pensavo alla mia solitudine. Da dove viene? Mi guardo intorno e vedo ragazze e ragazzi avere decine di amici. Ed io, sempre sola, schiva. E’ come se avessi fatto qualcosa di male e gli altri lo vedessero, lo leggessero in me. E’ come se dovessi avere sempre vergogna di qualcosa. Quel qualcosa, so bene cos’è… E’ la mia famiglia. E’ quella vergogna di mio padre ubriacone e puttaniere, scappato via come un ladro. Di mia madre che l’ha sposato. Di essere venuta al mondo in una famiglia cosi. Di mio fratello Gill che sta sempre più assomigliando a mio padre. Anzi, si avvia a esser ancora peggiori di lui, come se non bastasse. E poi il mio fratellino, inghiottito in quelle sabbie mobili, che inesorabilmente lo tirano sempre più giù. Quella famiglia lo sta distruggendo, nell’animo. Ripercorrevo il ato, alla ricerca dell’inizio della mia solitudine. Più tornavo indietro e più mi sembrava dovesse essere ancora più lontano, il suo inizio. Sino al momento in cui pensai che l’inizio fosse da ricercare, addirittura, in una vita precedente. Forse, non ne avrei mai trovato il bandolo.
Poi il lavoro mi prende, per fortuna, ed esco da questi pensieri pesanti, appiccicosi.
La sera dell’incontro con il mio “amico” cinese. Sono in casa con la mia amica, con cui condivido l’appartamento. Sono nel panico. Oddio, cosa mi metto? < Dai, aiutami a scegliere qualcosa. Ai giapponesi piace molto il nero, sarà cosi anche per i cinesi? Aaahquesta cresta blu, non so, non mi va più… Ma ora è tardi per cambiare colore. Dai,Emi vieni qua, aiutamii > le urlo. < Ok, ok arrivo, ma calmati, che ti succede, non ti ho mai visto cosi. Non avevi detto che non t’importava di lui? > ed io: < Sì, si… Ma comunque sono in panico. Non voglio vestirmi da schifo, e poi chissà, dove mi vuol portare… > Emi mi risponde: < In un ristorante cinese e se no dove… ah ah ah >. < Spiritosa, molto, veramente >. Ok decido. Voglio essere carina. Ho messo un vestito rosso, che arriva appena sopra il ginocchio. Mi metto anche le scarpe con i tacchi, senza calze. E’ più trasgressivo. E il giubbotto di pelle, anzi no, quello di jeans, meglio. < Che ne dici >. Guardo Emi in viso. Lei piega leggermente la testa, di lato e mi dice con un mezzo sorrisetto, tipo “io la so lunga“. < Sì bene, perché no >. Arrivo all’appuntamento, alla vineria, leggermente in ritardo. Non lo vedo. Mi metto a sbirciare, attraverso la porta a vetri, dentro il locale, per vedere quanta gente c’è... Scorgo lui, che è già lì a sedere, con lo sguardo nel vuoto, immerso in pensieri. Allora apro la porta ed entro nel locale. Mi piace molto questa vineria con le luci basse, pochi tavoli e un ambiente che
sembra vecchio di cento anni. L’ho scelta apposta, per iniziare bene questo incontro. Appena mi vede entrare, si alza in piedi, mi sorride e m’invita a sedermi. Una bottiglia di prosecco è già sul tavolo. Ottima scelta, adoro il prosecco e poi, conoscendolo, avrà preso la marca migliore che hanno. Mi guarda compiaciuto, sembra apprezzare come mi sono vestita. Ho messo anche una goccia di profumo delle grandi occasioni, come se dovessi andare a un incontro galante. Che lo sia? Non so. Non riesco a vederlo, ancora, come un possibile amante. Versa da bere, nei due bicchieri da vino che sono sul tavolo, sa che il prosecco mi piace berlo nei bicchieri grandi, mentre appoggio la borsa con dentro la macchina fotografica che mi sono portata all’insegna del ”non si sa maicome può finire la serata”. Beviamo lentamente. Uno e poi due e tre bicchieri, sino a finire la bottiglia. Intanto lui parla. Mi racconta delle sue innumerevoli amanti che gli allietano giorni e notti, arricchendo, infiocchettando i racconti con dettagli lievemente piccanti. Sceglie donne di tutti i colori, dalle cinesi alle africane, alle europee, per ritornare alle asiatiche. Ne parla con leggerezza, come se lo dicesse a un amico. Forse vuole stupirmi. Vedere la mia reazione. Io non sono una grande esperta in materia di sesso. Lo ascolto, senza far trasparire le mie emozioni. Mi limito a sorridere e penso che, per uno che ha tutto, come lui, per trovare un po’ di piacere, sia necessario esasperare le situazioni. Non gli basta una donna, ne deve fare una raccolta, una diversa al giorno. Per provare, poi, che cosa? Forse qualcosa a se stesso, più che agl’altri. Ma… A me basterebbe solo un ragazzo che mi ami. Che riesca a farmi provare, quel sentimento che cosi poco ho assaggiato nella mia vita. A cui posso dare il mio semplice e pulito amore. In definitiva, poi… Se mi soffermo a pensare un po’ di più, mi domando, sarà proprio quello che cerco? Chissà poi cosa voglio veramente, nella mia vita.
E’ come se appena formulato un pensiero, che reputo vero per me, si inserisse subito dopo il dubbio che destabilizza quella che pensavo fosse una certezza. Mentre riflettevo su queste cose, lui inizia a farmi una confessione, che mi stupisce veramente. Mi confida che sta per sposarsi. Un matrimonio d’interesse, potrei anche aggiungere, naturalmente. Con una donna che nemmeno conosce. Stasera vuol festeggiare con me, forse una specie di addio al celibato. Ah… Ecco perché ha voluto portarmi a cena, e stiamo bevendo come pazzi… Io mi sento invadere da una profonda tristezza, ma la butto giù, con quello che rimane del prosecco. Non voglio, assolutamente, essere infelice stasera, e poi a me non riguardano le sue tristezze e anche delle mie ne ho fin sopra i capelli. Mi porta nel migliore ristorante della città, per cenare. Ne sono intimidita, al principio, ma subito dopo, mi scrollo di dosso anche questa mia incertezza. Voglio essere serena o almeno desidero divertirmi e mangiare. Tutto quel vino mi ha messo appetito e voglia di are una bella serata. Mi sono tolta il giubbotto di jeans, ho le spalle e le braccia nude, la pelle bianca fresca, quasi brillante. Lui mi guarda con piacere le curve delle spalle che portano al collo. Sento vorrebbe baciarlo o almeno carezzarlo. Compiaciuta, allungo la mano per prendere il bicchiere del vino. Lui non perde un mio movimento. Poi la mia bocca si apre appena, per accogliere il liquido rosso del vino che lui ha scelto. Sembra incantato nel vederlo scendere giù nella mia gola. Deglutisce lievemente. Mangiamo, parliamo pochissimo. Siamo immersi nelle nostre visioni, alimentate dai fumi alcolici, che salgono alla testa. Ascoltiamo i sensi, che si espandono, per poi lentamente contrarsi. Alternando momenti di un’euforia di sensazioni che si espandono dentro di noi,
per poi tornare ad essere se stessi. Ora sono le mie labbra a ricevere il cibo, aprendosi appena, il giusto. I denti bianchi lo incorniciano, impreziosendone l’immagine. Il suo sguardo è fisso, ormai guarda solo me. Senza toccare nulla, dal piatto. Percepisco i battiti del suo cuore, che si riflette sulle sue pupille, che colgo, dal suo sguardo fisso, sui miei movimenti del viso, della pelle, mentre mastico. La fame di cibo e la sua voglia si mescolano, formando una sorta d’incantesimo. Tutto intorno a noi è sparito. Non siamo più nel bellissimo ristorante. Siamo soli, al nostro tavolo e viviamo la nostra magia. Tutto questo dovrebbe imbarazzarmi e invece stasera mi sento bene, forte. Non so se è stato il vino a trasmettermi in tutto il corpo questa forza, che non sospettavo di avere in me. Potrebbe anche “ mangiarmi”,non sentirei imbarazzo. Stasera mi sento più forte di lui. Potrei anche essere nuda a mangiare. Lo lascerei guardare, eccitarsi, ma non lo farei andare oltre, su questo non ho dubbi. Potrebbe mettersi anche in ginocchio, e pregare in cinese, sento che potrei essere anche crudele con lui. No… Forse questo no. Non voglio trasformare questa forza, che sento, in sentimenti bassi che non mi si addicono. Va bene cosi, guarda, eccitati pure. Intanto, io soddisfo un bisogno più primordiale. Mangio. Mangio questi ottimi cibi e bevo questo vino rosso da mille e una notte, che scende giù come il nettare e mi lascia in bocca i suoi sapori, avvolti al palato. Non resiste, mentre prendo il pane, ad accarezzarmi la mano, fingendo di avere avuto la mia stessa idea. Accidenti, non si metterà mica a farmi piedino, ora. No… E’ troppo fine, non lo
farebbe mai. Ora il dolce. Sto scoppiando. Lui lo assaggia solo, è troppo intento a guardarmi e ascoltare i brividi di eccitazione che lo pervadono. Sorride… Che stia pensando, a un “certo” dopo cena? Sono sazia e ho tutto il fare di una che è sbronza. Paga e ci alziamo. Vacillo. Usciamo, mi sorregge. Non sono tanto abituata ai tacchi. Barcollo, inciampo. Lui allora mi cinge con il suo braccio, per sostenermi. Per la prima volta, sento il suo contatto, su di me. La sua mano sul mio fianco. Mille piccole scossettine affollano il mio corpo. La testa gira leggermente. Sto pensando a che fare, se chiedergli di accompagnarmi a casa, per sicurezza. Sono molle, potrebbe benissimo approfittare della situazione, non avrei neanche la forza per porre una resistenza degna di tale nome. Intanto, nella mia mente, si sta facendo spazio un’altra idea, che cresce sempre più prepotentemente – E se andassimo a fare delle foto, da lui? Per vedere che cosa viene fuori? –. Voglio foto speciali. Sono risoluta nel provare, nel rischiare. Ho sete e fame, ma di una natura diversa, ora. Ho fame di creare nuove immagini, di crescere. Tanto che, questo lavoro spero, mi dia la forza di uscire definitivamente da quel mondo cupo che è stata la mia vita sino ad ora. Ho visto un filo di luce entrare e voglio seguire quella direzione a tutti costi. Non mi posso permettere di fallire. Ho diciannove anni, ma è come se fossi già, all’ultima possibilità che mi offre la vita. Questo è quello che sento, forte, in questo momento. Lo rendo partecipe della mia idea. Gli chiedo di portarmi al suo fondoappartamento. Lo voglio fotografare. Lo voglio vedere nudo. Lo voglio vedere fremere di desiderio, e cogliere quegli attimi, fissarli, renderli eterni. Lui mi rivolge uno sguardo stupito. Se fosse un altro, magari, riderebbe divertito per lo stato in cui mi trovo. Lui no.
Chiude gli occhi, per un secondo di più di un battito e piega leggermente la testa in giù e mi conduce, in silenzio, alla sua macchina. Una Mercedes ultimo tipo, non so, forse. Mi apre lo sportello e mi fa entrare con gentile delicatezza. Poi va al posto di guida e parte e fa scivolare quello spettacolo di macchina, per le vie di Pisa sicuro, senza fretta. Ci godiamo quel breve viaggio in un silenzio che sa di sacro. Un silenzio di preparazione. Arriviamo, scendiamo. Apre la porta del fondo-appartamento e mi fa spazio per are. Cerco subito, con le mani, la macchina fotografica. La prendo. Lo guardo, fredda. Il mio cervello è diventato di ghiaccio. La sbornia è evaporata, come l’alcol in una bottiglia aperta. Lui è fermo in piedi, sembra una statua di sale. Aspetta “ordini” da me. Non ho il cavalletto, per metterci la macchina fotografica. Un’idea mi arriva veloce. La prendo e metto su un tavolino dei libri, arrivando così, all’altezza giusta per quello che voglio fare. Sopra vi sistemo la macchina fotografica. Lo voglio spogliare io e fotografarci, mentre lo faccio, come quando lo lavai. Glielo dico: < Stai fermo, faccio io >. Regolo l’autoscatto e inizio col togliergli la giacca. < Chiudi gli occhi > lo fa, ubbidiente. Sento iniziare gli scatti della macchina fotografica. Continuo, la cravatta, il gilet. Sono indecisa se togliergli prima la camicia o i pantaloni. Poi, invece, scelgo le scarpe e le calze. I suoi piedi sono piccoli e perfetti, sembrano scolpiti da Michelangelo. Rimango
a osservarli per un po’, chissà cosa pensa abbia intenzione di fargli. Le mie mani ora, sono sulla cintura, la apro. Gli tiro giù la lampo, con lentezza voluta. Gli apro piano i pantaloni e tiro fuori la camicia. Ha un fremito, porta indietro la testa. Gli occhi sempre chiusi, la bocca leggermente aperta, sento il tremito che lo scuote, che lo percorre da cima a fondo. Sorrido, mi sento potente. Lo sento in mano mia, nonostante tutti i suoi soldi e tutte le amanti che ha e potrebbe avere. Ora non conta nulla. Ora ci siamo solo io e lui. E lui non può toccarmi, non può comprarmi, deve stare lì e lasciarmi fare. Questo è il nostro gioco. Un gioco a cui lui non è abituato, un gioco anche per me nuovo. Via la camicia. Il suo petto nudo, le sue braccia leggermente aperte, come a sacrificio. La testa piegata un po’ da una parte. Il fiato corto. Le mie mani, intorno ai suoi fianchi, per togliergli i pantaloni. Scendo lentamente, verso il basso, mentre osservo il suo sesso eccitato, dentro gli slip. La mia mente, è già proiettata, sul momento in cui glieli dovrò togliere. Questo pensiero mi spezza il ritmo. Scuoto la testa come per scacciarlo. Voglio andare avanti. Sento uno scatto della macchina e questo mi distoglie il pensiero. Proseguo. Gli tolgo i pantaloni del tutto, lui abbassa la testa e apre gli occhi, è più forte di lui. Mi guarda, lascio cadere a terra i pantaloni. Lo guardo a mia volta. Mi viene l’improvvisa voglia di baciarlo, gettandomi, abbandonandomi in lui. Scaccio anche quest’impeto e gli dico piano: < Gli occhi… > lui li chiude, a fatica. Gli guardo gli slip e invece di usare due mani, per toglierglieli, lo faccio con una
sola. Infilo solo un po’ le dita dentro gli slip e per un brevissimo secondo, tocco il suo membro eretto, il tempo di allargare l’elastico e tirarli verso il basso per toglierli. Lui ha una scossa forte, quasi come lo avesse toccato un filo dell’alta tensione. Sorrido a bocca larga. Sono fiera di me, di averlo ai miei voleri. Me ne fotto di tutte le sue decine e decine di donne, io, una giovane ragazza e lui eccolo lì, nudo, eccitato sì, ma impossibilitato nel dare sfogo alle sue voglie. Legato da una promessa che deve rispettare. La macchina, incurante di noi, continua a scattare inesorabile come… A quel punto, lui apre gli occhi e vedo il suo sguardo farsi duro. Mi dice che ora sta a me fare una cosa per lui. Sento strizzarmi lo stomaco. Tutta la mia forza, presente solo un minuto fa, si spegne, come il fuoco, soffocato da un secchio d’acqua. Questa parte del gioco, mi sconvolge sempre, soprattutto l’attimo prima che lui mi dica cosa vuole che io faccia. Questa volta vuole vedermi vestita del solo intimo. Riprendo le forze, saputa la sua richiesta. Guarda impaziente, mentre metto le mani sulle spalline e le porto ai lati e poi le lascio cadere giù. Sposto le mani sulla schiena e apro la lampo, lascio scivolare giù il vestito rosso ai miei piedi. Con un o, vagamente indeciso, lo scavalco. Tengo le scarpe. Sono solo con le mutandine, non ho il reggiseno. Non m’importa che mi guardi, che mangi, che morda, i miei piccoli seni, con i capezzoli induriti, eccitati. Con lo sguardo è libero, può fare tutto. Avanzo, decisa, sino a fermarmi a pochi centimetri da lui. I miei occhi sono fissi
nei suoi. Lo trao con lo sguardo, dando la sensazione di volergli entrare dentro, e lui non riesce a fare altro che abbassare i suoi, intimidito. Sento il suo odore e gli lascio sentire il mio. L’animale che è in noi è pronto a saltare fuori, lo sento. Controllarsi non è semplice. Prova ad alzare le braccia, chiude gli occhi. Gli dico: < No > in uno sbuffo, leggero, ma deciso. Per gratificarlo, gli soffio in viso, un piccolo dolce alito di me. Il suo membro, quasi mi tocca, ne posso sentire il calore. Poi, faccio un o in dietro, prendo una poltroncina e gli dico: < Siediti e guardami > esegue. Sono in piedi a due i da lui. Gli do qualche attimo lungo e poi gli faccio un sorriso e mi volto, vado verso il vestito, lo raccolgo, voltata di spalle, senza piegare le gambe. Lo metto, tiro su la lampo, infilo il giubbotto, mi volto verso di lui, lo guardo. Lo guardo lì, è sempre eccitato ma il suo sguardo è triste, arreso. Continuo a guardarlo, mentre prendo la macchina fotografica ed esco. Cammino nella notte fresca, è piacevole. Ripenso a tutto quello che è successo, con o tranquillo. Sorrido tra me e mi dico – non so se un ragazzo italiano accetterebbe tutto questo -. Poi un’idea mi arriva improvvisa, torno indietro, sono curiosa di vedere che cosa fa. Sbircio attraverso la persiana che da sulla stanza da letto, e lo vedo. Eccolo là. E’ ancora seduto su quella poltroncina. Guarda il suo membro, arreso alla situazione. Lo vedo triste. Mi sembra di capire che questi nostri incontri, stanno diventando come il gioco,
che è la sua vita. Forse si sente che sta svolgendo un ruolo da comprimario, come lo è con suo padre. Sua madre è morta che lui era piccolo. Lui non è ricco, lo è suo padre. Senza i suoi soldi non sarebbe niente, anzi non è niente. E lo sa bene. Immagino che sia questo quello che sente dentro, nel suo profondo. Niente. Sono sicura che questa parola lo sconquasserebbe, se la sentisse rimbalzare nella sua mente. In superficie, sì, ci sono le donne, le macchine, i viaggi, la bella vita, ma poi, come scende un po’ dentro di sé, vede, sente quel vuoto che lo spaventa, l’ho capito. E ora, anche questa costrizione a sposarsi, per soldi. Per unire due ricchezze. Soldi non i suoi. Interessi non suoi. Lui è solo una pedina, su una grande scacchiera, serve per accrescere gli interessi, il potere di suo padre. E tutto questo fa crescere ancora di più, in lui, la solitudine, il vuoto. Poi arrivo anche io e metto su questo gioco, che a me sta divertendo, ma sarà così anche per lui? E’ possibile che all’inizio fosse preso dalla novità del nostro “rapporto” così differente da quello che ha con le altre donne, ma ora nel vederlo così triste sarà sempre compiaciuto del nostro gioco, mi domando? Oppure si vedrà sottoposto all’altrui volere, come con suo padre? C’è sempre qualcuno che comanda e lui deve eseguire. Che sia il suo destino di essere un comprimario? Ho visto bene, che la ribellione che sto praticando nei confronti della mia famiglia lo ha colpito, che mi osserva, mi studia. E’ possibile che dentro di se gli si scateni, anche a lui, una voglia di rivolta per uscire dalla prigione d’orata in cui sta. La libertà, la libertà spesso la si deve conquistare con la lotta, contro gli altri, si spesso, ma è altrettanto vero che il più delle volte la lotta è con noi stessi che si
deve fare, ed è dura, soprattutto quando per conquistare la libertà, si deve rinunciare alla ricchezza. Si alza piano dalla poltroncina, pesante come avesse ottant’anni. Raccoglie gli slip e li infila per coprire quel gioco di sconfitta, di non conclusione, di non appagamento completo. Volto la testa per staccarmi dalla sua immagine di uomo sconfitto, o almeno non voglio leggere in lui quella fatica del vivere che mi ricorda tanto la mia. La morte, mi arriva come un’immagine improvvisa. Sì la morte del vecchio padre lo libererebbe dalla prigione, ma dovrebbe trarre vantaggio dalla morte, piuttosto che dalla forza di prendere la decisione di voler camminare da solo? Di voler sottrarsi a scelte non sue, come quella di sposare una donna che nemmeno conosce? Scaccio questi pensieri, come fossero una mosca noiosa e riprendo il mio cammino verso casa.
Ogni tanto ritorno alla casa dei miei. Non ne posso fare a meno. Il rimorso qualche volta mi assale e poi loro fanno parte comunque di me. Come fossero una parte del mio corpo. Uso la destra ma ogni tanto, devo usare anche la sinistra. Mi carico i miei cento chili di tristezza sulle spalle e salgo quelle scale per il purgatorio. Mi apre mia madre, che subito mi squadra dall’alto in basso, mi pesa, in cerca di un appiglio per una critica e poi: < Sempre con quei capelli blu >. Le rispondo stanca: < Non ti preoccupare, ho intenzione di cambiare colore >. < E quale sarebbe il prossimo? Che ne dici di nero? > risponde acida, tanto per creare subito quel clima che le piace tanto, di tensione. Alzo le spalle. < Non ho ancora deciso >. Mi smarco da lei. Vado a salutare il fratellino piccolo, che ancora sta studiando in camera sua. Lo accarezzo, lo bacio, poi lo lascio tranquillo. Guardo in giro, come se non riconoscessi più quel posto. Apro un cassetto pieno di cose inutili. Da un lato spunta una foto. La prendo in mano, è di mia nonna con me in braccio, che ci fa in questo cassetto, nel mobile del mio fratellino? La guardo intensamente, come volessi far rivivere quel momento. Io ero cosi piccola, non ricordo. Una donna minuta, mi punta gli occhi negli occhi. Capelli bianchi, con un vestito semplice, a righine verticali. Portava gli occhiali, che le ampliavano leggermente
le pupille e il suo sguardo deciso. La sua forza, a un attento osservatore, si poteva anche leggere dalle sue braccia nude. La vista di quei tendini tesi, come fossero le corde che tengono la barca legata al molo, come mi teneva in braccio, dava quel senso di sicurezza, senza la benché minima possibilità che io cadessi. La vedo in questa foto, che mi dice molto di lei. Altre cose le ho sapute dai racconti, se pur scarsi, di mia madre. Su queste basi, mi sono tracciata un’idea di che cosa era, della sua forza. Anche se io non la ricordo bene, questa foto testimonia che lei è esistita, che mi teneva in braccio. Quel momento è stato vero, qualcuno l’ha immortalato. Anche se mia madre tende a nascondere la sua esistenza, io continuo a guardarla e a pensare, è incredibile come una semplice foto possa testimoniare per sempre il aggio di una persona su questa terra. Ed io potrò ricordarla per sempre. Questo mi elettrizza della fotografia. La testimonianza, il fermare un momento per sempre. Poter dire, sì, questa persona è esistita, anche se nessuno se ne ricorda più. Questa foto lo dice, ne parla. E se un giorno qualcuno la trovasse in un mercatino dell’usato, la guarderà, non saprà chi è, però capirà che è stata una persona. Una persona che è esistita, come anche lui o lei che la sta guardando. < Ti dispiace se tengo questa foto? > e il fratellino: < No, no, fai pure >. Prendo la borsa, cerco il quaderno d’appunti, lo apro e con un velo di tristezza negli occhi, ci metto dentro la foto. Un’altra cosa che riesco a portare via da casa. Ricordo che dopo essere scappata da qui dovetti, un giorno, farvi ritorno per prendere le mie cose più urgenti. Ero di festa al bar.
Ricordo che aspettai metà pomeriggio per ritornare. Volevo essere sicura che almeno mio fratello Gill fosse fuori di casa. Non ce l’avrei fatta, ad affrontare nuovamente lui e mia madre insieme. Lo vidi aprire il portone e andare via a o deciso. Aspettai un po’ che si fosse allontanato. Il cuore lo sentivo battermi in gola, dovetti serrare i denti, per non farlo scappare fuori. Mi feci coraggio, prima o dopo avrei dovuto avere un incontro con mia madre. Fosse altro, per cercare di calmarla e avere la possibilità di farle vedere il mio punto di vista. Salii le scale lentamente, le gambe procedevano incerte. Sapevo però che volevo affermare la mia scelta, il mio diritto a essere libera. Aprii la porta di casa e subito chiamai, < Mamma, sono io >. Uscì da una camera. Mi guardò negli occhi, < Ah, sei tu, finalmente sei tornata >. Era gelida. Doveva aver sofferto, pianto. Prima mio padre e ora io. < Sono tornata a prendere un po’ di cose > le dissi, evitando il suo sguardo duro. < Allora sei decisa > mi disse ringhiosa. < Sì mamma, ho bisogno di fare quello che sento giusto per me >. < Ma facendo la ragioniera, potevi avere un posto sicuro e anche un avvenire più stabile >. Io le risposi in mia difesa: < Ma mi sarei sentita sempre fuori posto, con un mestiere che non sento. Sono andata in quella scuola per te, per farti contenta. Ora te lo posso dire, ma l’ho sempre detestata. Se continuassi per questa via, morirei dentro, piano piano,
anche se materialmente avrei potuto avere quella che tu chiami sicurezza. Mi piace fotografare, vorrei provare a vivere di quello… >. Abbassò un attimo gli occhi, era stanca, rifletté un attimo. < Ma come fai a campare vendendo foto? Non avrai mai certezze. E se non riuscirai? Farai sempre il lavoro al bar? > ed io di rimando, come stessimo giocando a ping-pong: < Mamma devo provare. Più fotografo e più mi sento bene, in quello che sto facendo. Nel creare, nel fissare un momento su un pezzo di carta, che rimarrà per molto tempo e che, a tutti quelli che lo guarderanno, potrà dare sempre un’emozione >. M’infervorai nel parlare, tanto che, mi spuntarono ai lati degli occhi due piccole lacrime di emozione. La mamma sembrò cogliere questo momento e rimanerne colpita. Soprattutto dall’ardore vero che sentì esserci dentro di me, nel parlare dei miei sogni. E forse un pochino, a questo punto, si arrese e si lasciò scappare: < Se a te fa piacere fare queste cose… Infondo la vita è tua >. Accennai un sorriso, come se avessi ottenuto una piccola vittoria. Ero cosciente, però, che la battaglia sarebbe stata lunga e non priva di ferite. Subito dopo pensai che questo contentino, fosse il minimo che mi era dovuto. Anzi, non mi fu sufficiente per nulla, visto quello che avevo fatto io, a confronto di mio fratello Gill che era un vagabondo e che sperperava i soldi che nostra madre guadagnava col sudore. Mi arrabbiai e calmai in fretta, non potevo pretendere più di tanto, al momento da lei. Andai in camera mia a riempire due borse di cose e vestiti. Volevo uscire in fretta, prima che mia madre ci ripensasse o che tornasse quel bastardo. Finito, misi le borse davanti alla porta, andai da mia madre che trovai a cucire silenziosa.
Alzò la testa, arresa, non disse nulla. Cercai un abbraccio di approvazione. Ottenni di averlo da un corpo rigido, immobile, freddo. Mi fece più male di quanto pensassi. Odiai, con tutta me stessa, il bisogno di dover sempre cercare affetto, comprensione, incoraggiamento fuori della mia famiglia. Pensare che questa debba essere la vita per me, assume l’aspetto dell’irreale. Eppure, per ora, questa è la realtà e non mi ci posso incaponire. Sarebbe come tentare di oltreare un muro, facendosi breccia a testate. Ricordo che nel girarmi, dopo aver chiuso il cassetto delle molte cose in camera di mio fratello piccolo, mi sentii contenta di aver trovato quella foto della nonna. Naturalmente, quando tornai di là da mia madre, non ne facci parola. Una persona più attenta avrebbe letto sul mio viso che avevo un po’ di nodo in gola. Sempre dover nascondere, difendersi, scappare, ma che famiglia è questa. Per fortuna mio fratello Gill non era in casa. La mamma, non sembrava avesse voglia di parlare più di tanto. Dopo quella “specie” di abbraccio, rimasi a guardarla mentre si rimetteva a sedere, immergendosi immediatamente nei suoi pensieri di rancori. Il fratellino studiava ancora nella sua camera, allora ne approfittai per uscire dalla scena, dopo quella breve visita.
E’ sempre stato così innaturale, per me, svegliarmi presto al mattino. Ora che lavoro, bisogna che m’infligga una sorta di violenza, ogni volta, per alzarmi alle sei e mezza e uscire per recarmi al bar. E poi relazionarmi con il pubblico, che è sempre più sveglio di me. Finisce sempre che, per essere al o dei clienti, devo schiacciare il pedale dell’acceleratore, al massimo. Anche se, poi, non è granché, in un motore ancora freddo e rispondente poco alle sollecitazioni. Sono sempre stata così, anche quando andavo a scuola, iniziavo a tornare in me dalla seconda ora di lezione. Per mia fortuna le materie della prima ora non erano sempre le stesse. E cosi potevo recuperare, in seguito, quello che perdevo, peraltro con ottimi risultati. Preferivo di gran lunga indugiare alzata, la sera. Non andavo a letto, mai, prima della mezzanotte. Ero e sono più un animale notturno. E’ affascinante essere svegli, quando gli altri dormono. Il tempo scorre diversamente, più lento. I suoni sono più acuti, più netti e rari nel silenzio. Tanto che ogni volta che mi accade di sentirne uno, mi fermo ad ascoltare, a cercare di capire cosa sia. A volte è il vento, un animale, o l’impercettibile movimento della terra che ha fatto cadere un qualcosa, che ha provocato rumore. In casa, quando abitavo con i miei, tutto era fermo. Mia madre e il fratellino dormivano con la porta chiusa di camera. Gill era fuori, sino a tardi, a soddisfare i suoi vizi. Io spesso leggevo o studiavo. Poi, per distrarmi un po’, mi alzavo e vagabondavo per casa, alla ricerca di suoni riconoscibili, come fosse, per me, un gioco. Cosicché rimanevo sveglia per molte ore, come del resto mi capita anche ora che vado a lavorare. Non mi bastano uno o due caffè, al mattino. Devo aspettare, con calma, che il mio cervello raggiunga i giri giusti, prima di carburare a pieno regime. Ora sono le dieci e mi sento perfettamente a mio agio. Pronta ad affrontare tutte
le situazioni. Lavoro, scherzo, sorrido con i clienti e con la persona che lavora con me. Guardo la porta, dopo aver riempito un bicchiere d’acqua. Ciò mi permette di cogliere il momento in cui sta entrando un ragazzo, proprio bello; quel bello che ti dà l’impressione di sfiorare la perfezione. Alto ma non troppo, spalle larghe, sguardo vivo, conscio di richiamare attenzione al proprio aggio. Capelli leggermente lunghi che si appoggiano appena sulle spalle, castano, tendente più al rosso piuttosto che al biondo. Portati all’indietro, per permettere al viso di mostrarsi, in tutta la sua bellezza. Sopracciglia ben disegnate, a far da cornice a due occhi sorridenti e maliziosi. Naso forte, deciso, statuario. Bocca carnosa, quel giusto da farti perdere ogni inibizione nel cercare di baciarla, e a lungo, aggiungerei. Insomma, proprio un bel ragazzo. I clienti del bar si aprono naturalmente al suo aggio, anche per poi poterlo guardare da una distanza più giusta. Per godere della sua interezza. Questo non è un fare solo delle donne, ma anche gli uomini, non si fanno cruccio di gettargli una lunga occhiata. Non fosse altro per trovare, in questo “dio”, un qualcosa che li possa accomunare. Guardandolo ancora, mi soffermai a pensare, per qualche secondo, quanto potrebbe piacermi una bellezza cosi trasbordante come la sua. Una bellezza persino da dirsi inattaccabile dal tempo, come fosse una statua, estratta da un blocco di marmo da Michelangelo o forgiata da Benvenuto Cellini. Vedo alcune signore nutrirsi di lui, con lo sguardo. Lui non sembra per niente imbarazzato. Penso, deve esserci abituato, a quel manifestarsi di occhi curiosi.
Io continuo a guardarlo, più per studiarlo che per altro, da apionata fotografa. Mi sorprendo, in un secondo momento, ad ascoltarmi dentro e a non provare il battito veloce del cuore, che dovrebbe manifestarsi di fronte a cotanta bellezza. Mi scopro curiosa ma abbastanza freddina alla sua vista. Mi meraviglio di questo mio scarso calore, soprattutto dopo aver visto i risultati che ha prodotto la sua entrata sui volti dei clienti. La mia idea di bellezza forse è diversa. Forse un uomo va sfogliato un po’ per leggere la sua bellezza, non solo di copertina. La mia emozione, forse, è più lenta nel crescere. Ha bisogno di più tempo e di conoscere la persona, anche di mente e di cuore, per esserne affascinata, sedotta. Non mi basta lo strato epidermico. Senza volere, mi ritrovai a pensare al mio primo e potrei direi unico “amore“. Cercai, mentre continuavo a lavorare, di capire, di ricordare, che cosa mi aveva attratto di lui appena lo vidi. Nel primo ricordo che ho di lui, direi che non si faceva notare per la sua bellezza. Usciva, semmai, fuori alla distanza la piacevolezza del suo corpo. Era, inoltre, un tipo schivo. Infatti ricordo il giorno che lo conobbi; era infilato in un angolino della stanza, nell’appartamento, dove si svolgeva una piccola festa. Mi ci volle un’ora buona, prima di notarlo. Moro, con i capelli lunghi, che oltreavano le spalle e che sul davanti, gli invadevano il viso. Vestiva semplicemente, con jeans e camicia del medesimo tessuto. Alternava, il guardare la gente della festa, a quella della strada attraverso la finestra. Quello che mi attirò a fare qualche o nella sua direzione fu il suo sguardo, quando voltò la testa e i suoi occhi incontrarono i miei. Diretto, sicuro, schietto, come se mi dicesse: < Sì, vieni pure qui, che non disturbi, anzi, tra tutta questa gente voglio conoscere proprio te >.
Quello sguardo, mio malgrado, mi scese nel cuore, dopo essere stato vagliato e accettato dagli occhi. Mi scosse, mi elettrizzò i nervi delle braccia, del corpo, sino a scendere alle gambe. Io che non ero certo avvezza agli uomini e ai loro sguardi, non sapevo neanche cosa era giusto che sentissi, provassi. Che cosa fare? Evidentemente, dentro di me, c’era un qualcosa che sapeva bene cosa fare, perché, le gambe, si mossero nella sua direzione, quasi avessero una loro indipendenza. Malgrado la mia poca esperienza capii subito che lui non sarebbe stato uno qualsiasi. Non posso dire che fosse “ bello “. Ora poi, che mi trovo davanti questo “dio” greco. Non era neanche tanto alto, un metro e settanta circa. I capelli però erano proprio belli, neri con striature tendenti al blu. Appena mi avvicinai, sentii subito in lui la tranquillità di una persona, che non vuole dimostrare qualcosa di diverso da quello che è. Per me, che vivevo con i miei fratelli e mio padre… Quelli erano i modelli di maschio. Il fratellino troppo debole, e mio padre e Gill, due bastardi boriosi pieni di sé, strafottenti nelfar vedere un qualcosa che celasse il vuoto, il nulla che erano. E quindi lui, nel vederlo in quel suo modo di essere se stesso, ne rimasi piacevolmente colpita e attratta. Inoltre trapelavano dal suo essere, cose interessanti da scoprire. Per me fu come un fulmine a ciel sereno. Non so, trovai subito che un qualcosa tra di noi s’incastrava. Il suo fisico ricordo che lo guardai di più in un secondo tempo, ero molto più concentrata sulle emozioni che sapeva trasmettermi. Anche il mio amico cinese mi sovviene in questa disamina di uomini che ho conosciuto. E’ carino.
Non mi è venuto di accettarlo di primo impatto. Forse perché lo vedevo così diverso dalla mia cultura. Non ero preparata ad avere una relazione con un cinese, di qualsiasi genere fosse stata. C’era un qualcosa che andava oltre la ragione. Un’attrazione che non si sarebbe potuto dire che fosse capace di evolversi in un amore. Questo a rigor di logica. Non saprei inscatolare con un nome questo interesse e quindi mi limiterò a dire che c’era qualcosa che mi attraeva a frequentarlo. E più tardi a chiedergli di diventare il mio modello. Anche lui, ricordo che ho cercato di “sfogliarlo” piano piano. Senza studiarlo troppo con la mente, istintivamente mi accorgo ora che sono andata alla ricerca della sua profondità. Per scoprire quali fossero i suoi sentimenti. Il suo essere, il suo fisico, ben fatto, equilibrato, non mi ha attratta più di tanto. In lui, forse, la cosa che mi ha colpito di più, destabilizzandomi, è stata la sua pura gentilezza. Quel qualcosa di non costruito che sentivo veniva innato, dal profondo e che non avevo mai avuto occasione di vedere, di sentire in un uomo. Dopo tutti questi pensieri, affollati nella testa, guardo nuovamente questo modello di ragazzo, che ho davanti e che sta pagando, prima di lasciarci e penso: - Beh, forse, veramente bisogna andare oltre alla copertina. Per lo meno, io non mi faccio condizionare troppo dal primo impatto… O forse, è solo, che alcuni ti colpiscono, toccandoti un qualcosa dentro e altri no, anche se sono molto belli -.
Sto camminando lungo il corso, sento una vicinanza, volto la testa di lato. < Ah, sei tu >. Il mio cinese. < Si vede che non hai di meglio da fare, che seguirmi >. < Mi piace la tua compagnia, quando facciamo le foto?>. Sorpresa dico: < Ah… Ci hai preso gusto, bene >. E poi un’immagine mi arriva prepotente in testa, come spesso mi succede. < Pensi di poter trovare una donna, meglio cinese, per fare delle foto insieme con te? >. Lui mi guarda negli occhi e dice: < Che cosa hai in mente o dolce fanciulla? >. Mi strappa un sorriso largo. < Beh… Una mezza idea si sta formando in me, ma ti dirò al momento. Voglio ancora pensarci un po’ su >. Lui mi guarda finto serio, cercando di leggere nei miei occhi, quello che non gli dico e poi scatta e mi propone, < Un aperitivo? >. Lo guardo un po’ sorpresa. < Ok, non vorrai mica farmi ubriacare, come l’altra volta >. Ora se la ride. < Anche ubriaca, non hai da temere, conservi sempre un bel controllo di te > ed io: < Ah, ma allora vuol dire che l’altra volta ci hai provato, per vedere se cedevo e infrangevo il nostro patto… Bene, bene, dovrò stare più attenta >.
< Eh sì, un pochino ci ho provato. Penso che in fondo mi piaci, proprio perché sei così… Forte >. Rispondo: < Ho dovuto imparare per forza a esserlo. La mia famiglia è stata una bella palestra. Soprattutto, mio fratello Gill, se non avessi trovato la forza in me, lui mi avrebbe mangiato, distrutto, come fa col fratellino. Quel porco è un sadico, ci prova gusto a farti trovare in difficoltà, a vederti soffrire >. Mi accarezza, sfiorandomi appena la mano, per farmi sentire la sua comprensione e vicinanza. <… E’ così cattivo? >. Lo guardo diritta negli occhi e dico: < Lo odio… Ma lo sento lo stesso mio fratello. Non so spiegarti, quando parlo o penso a lui, sento dentro scoppiare una guerra devastante di sentimenti contrastanti… Ma… Parliamo di noi che è meglio. Dove mi porti? >. Andiamo in un bel locale, pieno di gente “figa”. Io non mi sento del tutto a mio agio, in quel posto. Tanto che, dopo il primo prosecco, gli chiedo di uscire, dicendogli: < Vieni, ti porto io in un posto carino >. Lui mi segue senza protestare. Docile e tenero come sa essere solo lui. Lo porto nel localino della ragazza che ho conosciuto tempo fa, nella piazzetta che tanto mi piace. Arrivati, ci sono un po’ di persone a sedere fuori e altre, in piedi, a riempire il ristretto spazio del localino. Per fortuna ci sono due sedie vuote intorno ad un tavolino all’aperto, che corro a occupare prima che arrivi qualcuno. Lei, la ragazza del bar, sta chiacchierando con una coppia ” rasta” molto carina. Attiro la sua attenzione e arriva subito, mi sorride e mi dice:
< Ti sei fatta bionda, stai benissimo >. Il mio amico cinese mi guarda sorpreso, e dice: < E’ vero, che figura… Non me ne ero accorto >. < Infatti, aspettavo appunto il momento in cui te ne saresti reso conto. Meno male, che è venuta lei >. Ridiamo divertiti tutti e tre. E’ bello stare nella “mia“ piazzetta e in questo localino. E’ inutile, qui mi sento nel posto più giusto per me. < Cosa vi porto, ragazzi? >. Mi piace lei, la presagisco vera, mi ci sento in sintonia. Sto per parlare, ma il mio amico mi anticipa, < Una bottiglia di rosso >. Io e lei ci guardiamo. < Quello dell’altra volta va bene, te lo ricordi? >. < Sì, sì, arrivo subito, vi porto anche qualche stuzzichino >. E si rituffa veloce nel piccolo locale. < Ah, ah… Ma allora è proprio vero… > e lui: < Che cosa?>. Sorrido scuotendo la testa. < … Che mi vuoi ubriaca >. Ride di gusto. < No, no, beviamo quello che ci va >. Stiamo un po’ in silenzio a sorseggiare il vino. Sembra che all’improvviso non abbiamo molto da dirci.
Poi gli domando: < Ma non ti annoi, tutto il giorno, a non fare niente > lui, finisce il sorso di vino: < Beh, sì, a volte mi annoio > e di rimando, io: < Perché non fai un qualche lavoro, con tuo padre per esempio? > e lui risponde: < Sai, i cinesi lavorano molto se sono poveri, perché devono sopravvivere e se sono ricchi, perché non gli basta mai. Più soldi, più potere. Vedi, è anche per questo che mio padre vuole che io mi sposi. Perché quest’unione farà crescere il suo potere. Per me, che sono in pratica cresciuto qui e ho potuto vedere il vostro modo di vivere e di godervi la vita, è quasi una sorta di protesta nei confronti di mio padre, non lavorare. Vuole farmi fare la vita che pretende lui, condizionando le mie scelte. Ecco anche perché vado con tante donne. Quella che sposerò è già stata scelta da tempo per me ed io non ho voce in capitolo a riguardo. Se per caso m’innamorassi di te… Non potrei mai sposarti, anche se tu lo volessi. Non sarebbe possibile. Questo gioco, tra me e te, mi piace proprio per questo, noi non potremmo mai avere un futuro insieme >. E’ un fiume in piena non può arrestarsi, e così continua: < E’ vero, possiedo delle belle macchine, soldi a volontà, ma mi sento in una gabbia, sì, di lusso, ma pur sempre in gabbia. Senza libertà e inoltre sono troppo vigliacco per andare via, lasciare tutto e farmi una vita mia. La ricchezza ti toglie la fantasia, le forze, il coraggio. Ti si appiccica addosso e non te ne puoi staccare, come da un incubo, quando sogni >. Dice tutto questo con una profonda tristezza. In questo momento, mi sembra più disperato di me. o, in un attimo, da cercatrice di perenne affetto a infermierina, dispensatrice di umana comprensione.
< Stai soffrendo molto, vero >. Questa volta sono io, che gli metto una mano sulla sua. Vorrei abbracciarlo, sento affetto per lui, vero, sincero. < Sto soffrendo, soprattutto per la mia debolezza, per la mia vigliaccheria, per quel pensiero che a volte mi si affaccia e dice “aspetta, quando tuo padre morirà, tu potrai essere ricco e libero“. Mi odio. Questa vigliaccheria, mi serra la gola e mi soffoca >. E’ fragile, tenero, penso che se fosse stato mio fratello Gill a questo punto, minimo, avrebbe spaccato a terra, bottiglia e bicchiere e forse, preso a calci anche il tavolino, per scaricare la rabbia. Lui invece, tiene tutta dentro, la sua sofferenza, la sua collera. Mi sovviene, la prima volta che lo fotografai… Ora capisco di più, quel suo pianto disperato sul letto. < Vieni facciamo due i, non rimaniamo qui in compagnia dei pensieri pesanti, andiamo lungo il fiume a camminare >. Alza gli occhi e mi guarda, dice sì con la testa. Io mi giro verso il locale e vedo la ragazza guardarci. Penso che sia un po’ che ci osserva. Vedendoci parlare cosi intensamente, immagino che si faccia delle domande. Anch’io mi faccio una domanda, perché dovrei preoccuparmi, se qualcuno mi vede in giro con il mio amico cinese? Infondo in città chi mi conosce? Sì, i clienti del bar, e allora? Mi sento di poter dire che in fondo in fondo non ho un’immagine da difendere e poi se la gente sapesse da che famiglia provengo… Allora sì che avrebbe qualcosa di cui sparlare… Mi sento in una posizione nella quale posso dire… E chi se ne frega… Non devo e non voglio dimostrare nulla a nessuno. Infondo, quest’uomo cinese mi sta dimostrando rispetto, più di molti che mi hanno sempre guardato come una sbandata.
Voglio costruirmi la mia vita e camminare con persone vere, sincere, che mi dimostrino amicizia. Possono provenire da qualsiasi parte del globo, non m’importa… Ah ah, bene. Dopo questi pensieri, mi sento più leggera e meglio con il mio “nuovo“ amico cinese. eggiamo in silenzio, un leggero venticello fresco ci segue. Una meravigliosa luna, quasi piena, ci illumina il cammino e si riflette nell’acqua del fiume sottostante. Mi sorge una domanda: - Forse è destino che percorra una parte della mia vita, in compagnia di quest’uomo? Non so? Mi dà l’impressione di essere come due malati che si reggono a vicenda per non cadere -. Arrivo a casa, non ho mangiato nulla e sono le dieci di sera. Entro, la luce è accesa, la mia amica studia, ha presto un esame, è inchiodata alla sedia. < Dove sei stata, hai mangiato? > mi chiede. < Sono stata in giro, non ho fame > le dico per tagliare corto. Non sto male, ma sento un po’ di malinconia. < Vuoi che ti faccia un tè ? > le chiedo. < Sì, magari, sei un tesoro >. Vado in cucina, non posso fare a meno di ripensare alla serata e mi scopro a sussurrare tra le labbra… – Certo ognuno ha i suoi guai… Ma è anche vero, che ci sono anche tante belle cose. Io le sto scoprendo e voglio crescere e puntare a stare bene, bene dentro. Sentire delle sensazioni belle, più che stare bene avendo soldi; m’interessa il giusto il benessere materiale. Sarà che ora sono così infervorata dalla forza che ho scoperto in me. Che mi ha
permesso di lasciare la mia famiglia e dedicarmi alle foto. Mi dà gioia aver scelto un futuro per me, forse non facile ma entusiasmante. La notte sogno che faccio piccoli voli radenti al terreno. Apro le braccia e mi lascio andare e fluttuo a un metro da terra. Sento la gioia del volo e la voglia di alzarmi ancora di più ma per il momento non ci riesco. Al risveglio sono contenta e percepisco la possibilità che posso volare ancora più in alto. Associo questi piccoli voli con l’essere riuscita ad andare via di casa. I miei primi i da sola, con le mie forze. Voglio trattenere in uno scrigno dentro di me questi miei i, che raffiguro come fossero perle preziose. Le foto mi danno tanta forza e coraggio per inseguire una meta. Anche se il lavoro del bar non mi dispiace, è un’altra cosa. Le foto mi esaltano, mi eccitano, ci vedo il mio presente, il futuro. Sono ansiosa di sviluppare la mia nuova idea. Ci penso e ripenso, foto con due modelli, uomo-donna. Idee mi si accavallano l’una su l’altra. Scelgo e scarto, pensando che forse la prima idea che mi è venuta sia la migliore. Poi, però, subito dopo, ne dubito. So che spesso, in corso d’opera, cambia tutto e prende una direzione inaspettata. Cerco di rilassarmi e pensare senza troppa intensità, lascio semplicemente scivolare le idee che mi vengono, senza fermarle.
C’eravamo dati appuntamento, al solito, a metà pomeriggio. Mi aveva promesso di portare con lui una donna cinese. Lo aspetto all’ingresso del parco, cammino nervosa, sono un po’ in anticipo. Fremo dalla voglia di iniziare. Lui è puntuale, di solito, infatti arriva all’ora concordata. C’è una ragazza con lui, cinese, di media statura, magra, fatta bene, un volto giovane, non deve avere più di vent’anni. Lui ci presenta, lei parla poco italiano e lì, in sostanza, finisce il nostro dialogo. Arriviamo a quello che ormai è diventato, il “nostro“ posto. Entriamo tutti e tre in fila, in silenzio, quasi entrassimo in un tempio. Lui è curioso di sapere cosa gli chiedo di fare, lo vedo, quindi di proposito indugio con la macchina fotografica e il cavalletto. Mi sposto di qua e di là, cercando una posizione che in realtà vedrò dopo, al momento in cui inizierò a scattare. Lo voglio tenere un po’ sulle spine. Lei sembra staccata da tutto, attende paziente, senza darsi pensiero di quello che succederà. Lo guardo dritto negli occhi e gli dico: < Vorrei fotografarvi lo sguardo, mentre fate l’amore. Inizio subito, mentre vi spogliate >. Attendo un suo cenno di assenso con il fiato sospeso. Sono sicura che un po’ se lo aspettasse. Ne ho conferma, poi, dal sorriso che fa, complice. In me nel frattempo, però, s’insinua un momento d’incertezza. Una specie di ansia che mi gira nello stomaco e mi mette un po’ di nervosismo addosso e mi rende ancora più impaziente di iniziare. Bisbiglia qualcosa alla ragazza e iniziano, proprio come se fossero due amanti.
Io però ancora non sono pronta, non ci sono. Mi sento battere forte il cuore, non ho saliva in bocca, sono emozionatissima. Non avrei mai pensato di poter arrivare a scattare foto simili. Non avrei potuto scovare dei modelli più giusti, oppure avrei dovuto trovarne due tra le mie conoscenze e pagarli, ma non posso permettermelo, e per di più non sarebbe la stessa cosa, come con loro due. Si guardano negli occhi. Io inizio a scattare, tremante, con la paura che quel piccolo suono emesso dalla macchina, possa disturbare il momento. Loro due sono completamente immersi nella parte e non vi badano, penso che siano amanti veramente. Lei gli accarezza il viso con la mano, lui chiude gli occhi per cercare di sentire una sensazione più amplificata. Si toccano le guance, l’uno con l’altra. La mano di lui è tra i capelli neri di lei. Ho timore ad avvicinarmi troppo, per paura di disturbare quell’inizio. Uso così un po’ di zoom ma vorrei essere a pochi centimetri per non perdere i loro più piccoli movimenti. Il respiro, l’odore che piano piano si libera, uscendo dai loro corpi. I sospiri. Mi piacerebbe avvicinarmi il più possibile per essere più coinvolta anch’io, per sentirmi più parte dei loro giochi. Sono lenti, delicati, lo spostamento d’aria è di due piume. Il tocco leggero del bacio a labbra chiuse è quello della foglia del tiglio che gira e si posa in terra senza rumore. Mi tremano le gambe, ho i brividi che mi percorrono in lungo e in largo la schiena, come fossero piccoli lampi che si vedono nel cielo in lontananza. E siamo appena agli inizi. Mi sembra sempre di far troppo rumore nei miei spostamenti. Sono impacciata, mi devo sciogliere di più, lasciarmi più andare, entrare nella danza anch’io. Il labbro inferiore di lei, percorre la sua guancia, per poi riunirsi al superiore, in un bacio agli occhi chiusi di lui.
Le due mani di lei, sono dietro la nuca del cinese. Lui resta immobile, a godersi con tutto se stesso le carezze e i baci della compagna. I corpi ora sono uniti, lui si divincola stringendola a sé e la bacia deciso. Labbra e lingue che danzano, ione che cresce. Mi sento irrequieta, non posso rimanere fredda, distaccata e nemmeno ce la faccio ad entrare in sintonia con loro. Il mio occhio digitale è focalizzato nelle loro espressioni del viso, sarò lì, incollata, per tutto il tempo del loro incontro. Le sue mani scendono sulle braccia di lei, che accarezzano. Entrano in contatto con i suoi muscoli snelli, la pelle soave e ritornano alle spalle. Allora le mani di lei, di colpo, prese da un’impazienza febbrile, iniziano a toglierli la giacca, che lasciano cadere a terra. Lui aspetta, in complice attesa, poi si gettano in un abbraccio; e allora, ancora e di nuovo, le labbra, le lingue si cercano, si bramano in cerca di soddisfazione. Si staccano nuovamente, per permettere alle mani, mosse da spasmodico desiderio, di slacciare, di aprire, di togliere, di gettare gli indumenti, ora non più necessari, anzi, diventati di ostacolo alle loro voglie di pelle, comandate da una mente ormai presa dal febbrile desiderio. Sono solo con gli indumenti intimi. Frenano, ora, la furia nervosa di arrivare alla nudità completa. Sembra vogliono gustarsi questi attimi, che precedono… Ritrovando il ritmo iniziale, lento. Si esplorano con le labbra, ora chiuse e poi aperte a succhiare il gusto della pelle. Il collo, le spalle e poi il petto e a scendere le braccia, le mani, le dita, per poi inginocchiarsi prima uno e poi l’altra, per baciare la rotondità della pancia e accarezzarla con la guancia a occhi chiusi. Ora lei lo guarda dall’alto, è compiaciuta del tocco leggero e caldo che il compagno dedica al suo corpo, come lo sarà altrettanto per lui un attimo dopo.
Il tempo a lentissimo, immacolato. Non un granello di polvere oserebbe cadere a disturbare il nostro gioco. Ora lui è all’attaccatura delle gambe di lei, insinua la lingua e le dita tra l’elastico delle mutandine e la pelle caldissima di lei. Avanza centimetro per centimetro, con una lentezza disarmante. Io gli giro in torno, cercando sempre la loro espressione e scatto tra le palpitazioni del mio cuore. Lei è immobile, si gode ogni secondo quel piacere. Lui scende giù, sino ai piedi, li bacia tenendoli con le due mani, come se tenesse il suo volto. Sono costretta a sdraiarmi a terra per fotografarlo. Si rialza a fatica, le va dietro, le toglie il reggiseno, liberandole quelle due pesche di dolcezza, chiare, con quel punto più rosa intenso in evidenza. Le bacia la schiena, le a la punta della lingua a disegnare linee da brivido e a un tratto prende a mordergliela e morde con vigore, sembra debba farle male. Lei geme, ma di piacere. Mi accorgo, in quel momento, come sono poco avvezza ai giochi erotici. Intanto lui torna in ginocchio e le fa scivolare sino ai piedi le mutandine, piano piano, poi prende ad accarezzare le sue natiche dorate. Le bacia soffermandosi, le lecca, si alza la gira, la guarda, si prendono con gli occhi. Posso sentire, sempre di più, il calore emanato dai loro corpi. Gli sono vicinissima, ora. Mi tolgo anch’io la maglia, sento caldo, sudo. Ora è lei a inginocchiarsi per togliergli gli slip. Sono nudi, belli, cinesi, lisci, gioiosi, vogliosi di prendersi. Lui la accoglie tra le sue braccia e la depone delicatamente sul letto. Io li seguo, sono in affanno e prego che la macchina supplisca alle mie mancanze, anche perché non so se avrò un’altra occasione così.
Danzano sul letto stringendosi, cercandosi, allacciandosi, per poi staccarsi e rincontrarsi in nuove posizioni. Per me non è facile essere solo un occhio digitale, freddo. Sono bravi nell’incontrarsi nel sentimento senza badare alla mia invadente presenza e a quell’occhio fisso, che li immortala in decine e decine di piccoli fotogrammi. Infine, dopo un tempo che non saprei determinare, fermo il loro piacere massimo dentro la memoria della macchina fotografica. Tremo per la tensione da capo a piedi. Ero sconvolta, sudavo che gli occhi mi si appannavano. Prendo un fazzolettino di carta, me lo o sul volto per asciugare sudore e tensione. Ho voglia di uscire da questo triangolo e rimanere un po’ sola a respirare, dopo tutto quel rimanere col fiato interrotto. Lasciarli un po’ soli. Sento che ognuno ha bisogno di ritrovare il proprio ritmo. Per darmi una scusa per allontanarmi, mi dirigo verso il frigo a cercare una bottiglia di vino bianco e dei bicchieri. La stappo, il fresco della bottiglia sulle mani mi dà una piccola scossa che mi permette un po’ di riprendermi dal trance in cui ero caduta. Verso il liquido, color paglierino, nei bicchieri, ne bevo un sorso, ascoltandolo scendere giù per la gola dopo essere ato a deliziarmi lingua e palato. Rimango un po’ lì, appoggiata al frigo, lasciando scivolare i miei pensieri nel nulla, per assaporare il vuoto della mente. Poi mi rinvengo e svogliata ritorno in camera, per portargli il vino anche a loro che sono lì, ancora sdraiati sul letto. Beviamo silenziosi e soddisfatti, ognuno in modo diverso.
E’ andato tutto bene? Non ne sono certa. Ho scattato tantissimo. Sono troppo spossata per capire a pieno il lavoro che ho fatto. Rimando tutto a dopo, o meglio ancora a domani, dopo il lavoro al bar, quando potrò ritornare a casa e stare in pace e vedere con calma quello che ho fatto questa sera. Lui mi guarda e sorride, è rilassato e mi dice con un filo di voce: < Bene, ora sta a te… >. Queste parole mi svegliano come il suono rimbombante di uno schiaffo, me ne ero completamente dimenticata. Ero già proiettata all’esterno, con la mente. < Co… Cosa vuoi che faccia? > e lui con un sorriso furbetto e gli occhi lucidi: < Beh, ora lavaci e vestici. Siamo nelle tue mani capaci>. Rimango interdetta per un po’, sono stanca, anche forse più di loro. Riempio nuovamente il bicchiere e lo bevo voracemente come fosse un tonico, per cercare di riprendere un po’ di energia. Loro sono lì sul letto in attesa. Allora mi muovo, prendo due poltroncine le dispongo una di fronte all’altra e in mezzo pongo, dopo essere andata a riempirla, la bacinella con l’acqua e la spugnetta. Si alzano e si accomodano, dopo che io ho adagiato i lenzuoli sulle poltroncine. Non so da chi iniziare. Mi volto verso di lei, la guardo dal basso in alto, è bella, minuta. E’ fiera, la sua pelle è chiara come la luna, liscia come la seta, la peluria sul pube appena accennata. Nera, che spicca su quella pelle chiara, come fosse un segno, un tatuaggio, posto appena sopra al suo dolce frutto. Una sorta di rispetto reverenziale m’invade. Le appoggio piano la spugnetta bagnata sulla pelle, come avessi a che fare con
un neonato. Sento salire, per le narici sino al cervello, il suo odore, di quello che è stata ione. Mi fa vacillare un attimo, come avessi aspirato etere, subito però ripristino l’equilibrio e continuo. Salgo su, arrivo alla pancia. La guardo negli occhi cercando in lei un’approvazione, un invito a continuare così. Il suo respiro è impercettibile, le labbra chiuse, gli occhi seri su di me, ma senza voler sfidare il mio sguardo, è solo attesa. Arrivo al piccolo seno. Ho paura, tremo, vorrei fuggire dire: - No -. Mi contraggo, deglutisco a forza, ma riprendo subito il controllo per andare avanti. Chiudo un attimo gli occhi e lascio cadere la spugnetta nella vaschetta, mi bagno le mani e le lavo i seni a mani nude, sempre guardandola negli occhi alla ricerca di un cenno di emozione. Appena le mie mani toccano la sua pelle, socchiude lo sguardo piano. Proseguo accarezzandole i seni, con fare morbido, come dovessi rimodellarli dopo averne conosciuto meglio la forma. Li ispeziono. Li paragono ai miei. Sento la sua pelle prigioniera della mia. L’acqua fa scivolare le mie mani, ammorbidendo le carezze. Sono stordita. Bagno ancora le mani, le faccio scivolare sul collo, ha un lieve sussulto. Le piace ora che uso le mani nude. Mi odo fremere, mi sento posseduta da questa nuova scoperta di piacere. Finisco di lavarla, mi distacco da lei con le mani tremanti. Lei mi guarda negli occhi e un brivido mi percorre per tutto il corpo, da capo a piedi. Abbasso lo sguardo, mentre si china per prendere il lenzuolo e ci si avvolge dentro, ringraziandomi, con un lieve cenno del capo. Mi volto, ora tocca a lui. Sono veramente spossata ma mi sento più sicura, tranquilla, l’ho già fatto con lui, lo conosco. Infatti procedo più esperta, decisa, con i sensi più rilassati.
Quando però arrivo al sesso, mi monta immensa l’agitazione. Arrossisco un po’ anche per la presenza della cinesina che ci sta guardando. Cerco di fare in fretta per finire e poter respirare e sentire il cuore ritornare ai suoi battiti da eggio. Ho finito, anche lui si avvolge nel lenzuolo per asciugarsi. Aspetto perché voglio cominciare da lui a vestirlo. Sono curiosa di lasciare lei per ultima e vedere se provo le stesse sensazioni di prima nel toccarla. Inizio col vestire lui, voglio fare in fretta. Lo faccio con gesti nervosi per congedarmi velocemente. La mia mente aspetta frenetica il momento di rivolgere la mia attenzione su di lei. L’ho vestito tra i suoi risolini muti. Calze, pantaloni, camicia abbottonata, scarpe, tutto, e poi lo guardo sorridendo anch’io. Subito mi giro per iniziare con lei. Raccolgo il reggiseno, glielo metto, accarezzandole la schiena con il dorso delle dita. Sento, ancora, un brividino salire sugli avambracci. Poi raccolgo le mutandine, lei alza un piede e poi l’altro e se le lascia infilare su, sempre un brivido mi pervade nel sentire pelle su pelle. Il silenzio ovatta l’ambiente, tanto che sento i nostri respiri ritmati. La guardo negli occhi, non c’è sfida tra noi, non l’ho mai percepita, piuttosto curiosità, direi. Mi chino per prendere il suo vestito cinese, con i due spacchi laterali e senza colletto, rosso con mille disegni ricamati in oro. Lo infilo da sopra la sua testa e piano piano lo lascio scivolare giù, accompagnandolo con le mani lungo le curve del suo corpo. Mi sento infervorata ad aver toccato ancora quel corpo di donna così statuario, si… Ma caldo e sensuale. Appunto, da brivido. Tutto è finito, faccio due i indietro, non riesco a staccarle gli occhi di dosso. La vorrei baciare sulla bocca, chiudendo gli occhi ma non oso, anche lei mi guarda e il suo sguardo è penetrante, tanto da farmi barcollare ancora. E’ sicura
di sé. < Vieni, ti accompagno con la macchina > mi dice, lui. La sua voce mi porta di colpo alla realtà. < No, grazie faccio volentieri due i, mi sento di camminare >. Saluto entrambi, a lei do la mano, voglio sentire un’ultima volta la sua energia. E poi mi giro, m’incammino piano verso casa. Ad ogni o mi sento riprendere, rientrare in me, rilassare, tornare le forze. Arrivo a casa, mi fiondo in camera, accendo il computer. E’ più forte della stanchezza, del sonno, la voglia di scaricare e vedere le foto. E’ più forte della ragione, del pensiero che molto probabilmente domani al lavoro sarò stravolta da far paura. Mentre aspetto, mi appoggio al cuscino sul letto, chiudo gli occhi, nell’attesa di vedere quegli scatti e prego che siano riusciti bene. L’agitazione che mi è salita, mi tiene sveglia. Ecco, ora posso vederle, sono tante, mi metto con pazienza e impazienza a guardarle. Alla fine mi butto indietro con la schiena sul cuscino che ho appoggiato al muro. Le braccia in alto e le mani unite e mi dico, sì, c’è tanto materiale ottimo, tiro un respiro di sollievo. Sono rimasta con il fiato sospeso sino alla fine. E’ certo che devo rivedere le foto con più calma, domani. Dovrò fare una bella selezione, perché voglio stampare qualcosa per portarlo in visione alle ragazze della galleria. Potrei avere, a questo punto, un bel po’ di materiale tra cui scegliere. Sono impaziente di sentire il loro giudizio. Ho voglia di confrontarmi, mi sento pronta per questo o. Ora però basta, a letto, sonno, riposo e domattina, bar, lavoro.
Dopo il lavoro invece di correre a casa a vedere le foto, esito e penso che ho bisogno di distaccarmi ancora un po’ dalle foto, per essere più serena nel valutarle. Prolungo l’attesa, quasi in una sorta di gioco masochista. Voglio arrivare proprio a non resistere più e staccarmi da ogni cosa per vederle. M’immergo nelle strade della città, indolente, sino a quando vedo una bancarella di libri usati. Non resisto ai libri, bisogna sempre che dia un’occhiata. Compro dei libri d’arte. Nonostante siano usati, spendo un po’ troppo. Mi sono lasciata tentare, ma ogni tanto si può fare. Mi siedo su una panchina lungo il corso – voglio dare un’occhiata ai miei libri -. Sono contenta, sono bellissimi. E’ sul far della sera quell’ora in cui non è chiaro e non è ancora buio, quell’ora che a volte ti fa venire un po’ di tristezza, di nostalgia. Quell’ora in cui i limiti dell’essere umano si sentono più presenti che in ogni altra ora del giorno. La gente a un po’ tutta uguale, un po’ differente. Non le faccio caso più di tanto. Mentre sto guardando le immagini sul libro, sono attirata da un movimento dinanzi a me, vicino ai miei piedi. E’ un piccolo insetto, che corre veloce in direzione dei miei piedi, per poi sparire sotto la panchina. Un pensiero, si affaccia… La sua vita, è pari alla mia. Forse, di egual valore. Ambedue viviamo con un tragitto da percorrere e sento che io non valgo più di lui, ambedue abbiamo una meta, nostra e solo nostra e abbiamo un senso tutti e due in questo mondo, in questa vita. A volte basta una minima cosa a farmi scatenare pensieri di questo tipo. Non so neanche io da dove vengono e dove vogliono andare. Mi alzo, incerta, sul dove andare, su dove spendere un po’ del mio tempo. Vagabonda, arrivo in una piccola piazza, dove fuori dai locali ci sono a sedere tanti ragazzi che parlano tutti insieme. Mi viene voglia di sedermi su un gradino, vicino a quel vociare e scrivere appunti, idee sulle foto. E’ bello scrivere in mezzo alla gente che mi fa da cornice e da sonoro. Bastano solo pochi minuti per fermare alcune idee e poi mi alzo per riprendere il
cammino, “del non so dove andare”. Immediatamente però altri pensieri mi salgono alla mente. Devo appuntarli subito. Scelgo un altro scalino e scrivo quelle poche righe. Un africano mi si avvicina, per vendermi non so cosa. Gli sorrido, parliamo un po’. Ho voglia di gente un po’ fuori dal comune, stasera. Poi mi saluta e riprende il suo lavoro errante e anch’io riprendo a camminare. Esco dalle vie più frequentatee giro per quelle più deserte. Non so bene, mi sento contenta, sì, ora la vita mi sorride, però dal fondo sento arrivare su una mancanza. Un qualcosa che riconosco essere il non poter mai condividere le emozioni con qualcuno di vicino. Molto vicino. Intendo anche le emozioni belle, non solo quelle brutte. Svolto, nel frattempo che penso queste cose, per una via più grande. Non c’è nessuno, ma in lontananza vedo una figura che barcolla. O per dirla meglio, che sbanda paurosamente, tanto quanto mai ho visto fare. Dal marciapiede sbanda e scende lo scalino, sino a finire in mezzo alla strada, per poi ritornare vacillando sul marciapiede. Le poche macchine che arrivano lo evitano rallentando, è un uomo. Affretto il o, voglio vederlo da più vicino. Arrivo alla sua altezza, credo sia ubriaco o finge di esserlo molto bene. Penso di trovarmi di fronte un uomo distrutto. Lo soro e mi fermo, lo guardo, ha bei vestiti e fisicamente sembra a posto. Forse ha una cinquantina d’anni. Non riesco a fissarlo bene in volto, per via della scarsa illuminazione. Si appoggia al muro, poi riprende a camminare e si riferma e fa un o. Gli chiedo se ha bisogno di aiuto, mi dice di no con la testa. Non è stato sgarbato, però ha l’aria di non voler essere disturbato, di volersi godere la sua sbornia, tutta da solo. Vorrei andare via, lasciandolo solo al suo destino. E’ più forte di me. M’incuriosisce al punto di rimanere lì a guardarlo ancora, attaccata a quell’immagine come stessi vedendo un film apionante. Poifinge o crede di essere arrivato. Si appoggia a un portone. Suona, dopo aver “rufolato” col dito, un camlo, ma non succede nulla. Sembra volersi
nascondere alla mia vista. Non so bene, se si rende ancora conto che io sono sempre lìche lo guardo. Accenno qualche o e mi fermo. Aspetto che esca da quell’angolo nascosto nel buio. Lo fa, barcolla sempre, ma almeno non finisce in mezzo alla strada. Infine, fatti pochi metri, si appoggia a un altro portone, formato al centro, da rettangoli in vetro che lasciano intravedere spaccati d’interno. Suona di nuovo, come aveva fatto all’altro portone, ma a differenza di prima, qui, qualcuno gli apre. Entra, vedo attraverso la vetrata, accanto alla porta d’ingresso, che c’è qualcuno all’interno che gli parla. Rimango un po’ delusa, sono di nuovo sola. E’ già finita questa piccola avventura. Sono sempre ferma sul marciapiede, e penso – Se mi avesse chiesto di seguirlo… Se mi avesse afferrato per una manica e trattenuto, sento che avrei anche potuto seguirlo. Magari sarei arrivata persino ad andare a letto con lui, se mi avesse guardata negli occhi, deciso -. Questo pensiero, subito dopo averlo formulato, mi spaventa. Veramente posso averlo avuto io, questo proposito? Ho un vuoto allo stomaco, mi sento vogliosa stasera. Mentre il mio sguardo indugia ancora all’interno di quel posto, un’altra sensazione si appoggia sopra alla prima e la fa scomparire coprendola. No, invece sto bene. Mi sento arrivare una forza, che mi dà una sferzata, quasi potessi fare di tutto stasera, sconfiggendo le mie paure. Faccio un o indietro, guardo il palazzo verso l’alto e vedo una grossa scritta, “Affitta Camere”. Credo che tutti i piani del palazzo, siano suddivisi in camere da affittare. Sembra di essere in uno di quei posti che si vedono all’estero. Mi giro e riprendo a camminare, sono stupita di me stessa, di quello che avrei potuto fare, di dove avrei saputo arrivare, un qualcosa che raramente mi era capitato. Qualcosa in me sta sicuramente cambiando. Sto lasciando la ragazzina che viveva in quella famiglia di pazzi e che dava tutta la sua esistenza, la sua attenzione, a quella condizione di per… Mi sento come il serpente che lascia la pelle vecchia, per vestirsi con quella nuova che gli si è creata sotto. Ho voglia di nuove avventure. Mi sento curiosa di situazioni, di gente nuova…
A questo punto, mi sembra ci voglia un bel bicchiere di vino rosso per brindare alla nuova vita. Non faccio in tempo ad aprire la porta di un’osteria, che mi squilla il cellulare, è mia madre. < Ciao tesoro, come stai? Ho voglia di vederti, quando vieni a cena? >. Fuori del locale, ci sono due sedie che fanno da cornice a un tavolino tondo. Scelgo la più vicina a me e ci crollo letteralmente sopra. In questo momento, mi accorgo di quanto potere ha ancora mia madre, di distruggermi gli entusiasmi, di ridurre a zero quella forza provata solo qualche attimo prima. Forza che sembrava cosi potente e reale. E’ come se fossi in ascensore, ora salgo contenta verso il futuro, ora scendo depressa nel ato. Sono al tempo stesso, però, anche contenta di sentire mia madre. Non vorrei provare quella sensazione, quando sento la sua voce, di cazzotto allo stomaco. Ancora rappresenta una vita che vorrei allontanare con tutte le mie forze e purtroppo, vedere mia madre, implica di conseguenza stare anche con mio fratello Gill e però poi, gioire del mio fratellino. Questo turbine di sentimenti, m’incasina ancora testa, stomaco e budella. Vorrei essere, più forte, per superare questi sentimenti contrastanti e poter scindere i componenti della famiglia e costruire un rapporto vero con mia madre. Ho la testa troppo confusa per darle una risposta precisa, e quindi le dico: < Una di queste sere mamma vengo, ti avverto prima >. < Anche se ora stai per conto tuo non dimenticarti di noi, non ti fare aspettare troppi giorni… Capito? >. La tranquillizzo. < Sìmamma, vengo presto vedrai, al massimo tra due o tre giorni, comunque ti chiamo, ti abbraccio>. Ecco, ora invece di brindare, il vino mi servirà a tirarmi su. Macchinalmente penso a quando potrei andare. Mi prende l’angoscia. Scaccio questi pensieri, voglio bere qualcosa e andare a casa a lavorare alle foto, invece di intristirmi.
La prossima… Anzi fra qualche giorno, voglio aver scelto le foto, così poi le porto a stampare, almeno dieci, e la prossima settimana, sì, voglio andare alla galleria in compagnia di Emi Entro sicura nell’osteria, ci sono diversi posti liberi per mettersi a sedere. Resto in piedi, non voglio stare troppo tempo, al massimo due bicchieri, mi voglio togliere di dosso la scimmia. E’ sempre bello sentire la sensazione del vino in bocca, se è buono. Come dicevo un paio di bicchieri e via a casa. Accendo il computer per scegliere le foto, dovrò selezionarne dieci o quindici tra circa seicento. Sarà veramente dura ma almeno questo mi terrà occupata la mente e non penserò a mia madre. Ne scorrono dieci, cento e ancora e ancora, duecento, trecento, ho gli occhi fusi. Mi sembra quasi impossibile sceglierne solo poche ma non ne posso stampare cinquanta. Devo fare una prima selezione senza pensarci, andare a sensazione, perché se ci ragiono troppo ne scelgo un numero che poi non potrò stampare, almeno al momento. Vado ancora avanti, ora più veloce. Alla fine opto per una settantina di immagini. Non male, ma devo scartarne ancora. Non c’è fretta, voglio procedere con calma, è importante. Domani altra visione a mente riposata e più fredda. Se occorre, ci metterò tre o quattro giorni ma voglio essere sicura di quello che faccio. Per ora decido di non fare più foto con il mio amico cinese, un po’ mi dispiace. Il gioco s’interrompe ma se faccio altre foto, mi si ammassa una tale e tanta mole di lavoro che finirò per non capirci più nulla e inoltre voglio andare a sentire cosa mi dicono le amiche di Emi prima di continuare.
Dopo qualche giorno di scelte sfibranti, finalmente sono pronta ad andare a fami stampare le foto. Sono dodici in tutto. Vorrei farle mettere su carta opaca, un formato 30x40, una misura giusta per farle vedere bene. Entro nel negozio, do la “pennetta” con le foto al commesso. Gli dico come le voglio e lui mi risponde che se ce la fa, saranno pronte per sabato mattina o al massimo per lunedì sera. Sarà una tortura aspettare. Azzarderò, sono troppo impaziente, chiederò a Emi di prendere subito un appuntamento in galleria, ancora prima di aver visto il risultato delle foto stampate. Subito prendo il cellulare e le telefono. < Ciao tesoro, ho potato le foto a sviluppare> le dico senza tanti preamboli. < Ma dai, che bello non vedo l’ora di vederle > io incalzo: < Potresti chiamare le tue amiche per un appuntamento? Scusa se ti metto un po’ fretta, ma non vedo l’ora di vedere la loro reazione >. < Sì, certo tesoro, nessun problema, entro oggi le chiamo e ti faccio sapere, bacio >. Sono più tranquilla ora. < Bacio, ciao a domani al lavoro, così mi fai sapere >. Tutto sta andando bene, loro mi sembravano ben disposte e quindi non dovrebbero esserci problemi. Se poi le foto gli piaceranno o no, questo lo affronterò in un secondo momento. A questo punto è fondamentale che io abbia un giudizio esterno professionale, prima di continuare. Le ore scorrono lente, si sa, soprattutto quando si sta aspettando.
Vorrei essere subito a domattina, per sapere che cosa hanno detto le amiche di Emi. Soprattutto se sono sempre disposte di vedere le mie foto e quando. Potrei anche telefonarle, a sera tarda, ma preferisco aspettare e saperlo domattina. Sarò un po’ masochista? Sera tranquilla, non so bene che fare. Guardare le foto ancora, no. Preparo la cena, anche per la mia amica che sta studiando in camera sua. Non so bene, sono un po’ annoiata in quest’attesa. Vorrei uscire e al tempo stesso rimanere in casa a non fare niente, cosi però mi annoio - uffa -. Intanto la cena è pronta, per ora pensiamo a questo. Mangiamo. Due chiacchiere sugli studi di sca e poi parole parole, perse in cose senza o con poco senso, tanto per far are il tempo. sca ha bisogno di distrarsi un po’ dai suoi studi e socializzare, come si dice. Io sono scocciata, triste, rabbiosa, mi sento insoddisfatta. A volte mi ritornano in mente le scelte che ho fatto delle foto, come treni che arrivano e ripartono. Ho paura che non siano tutte quelle giuste. Vorrei avene scelte altre o forse no, non so più, è meglio lasciare stare tutto così. Oramai le ho portate a stampare e non ha senso ripensarci, mi devo distrarre. – Va tutto bene – mi dico fra me. Sì, non devo preoccuparmi, è importante cacciare le ombre dalla mia testa, non hanno senso queste sciocchezze. Accendo la televisione, mille pensieri continuano ad affollarmi la testa. Le foto, il mio amico cinese, il giorno da scegliere per andare a cena dalla mia famiglia, vorrei smettere di pensare a tutte queste cose insieme. Non riesco a trovare un canale che mi vada di vedere e così cambio spesso. La mia amica mi ha lasciato sola, per tornare ai suoi studi. Spengo la televisione. Andare a letto e dormire? No, e chi ce la farebbe. Leggere allora? No, mi sento una belva in gabbia, preferisco uscire, fare due i e vedere che mi porta la notte. Chiudo il portone di casa, poca gente nella via.
Stasera, al contrario del solito, ho voglia di andare dove c’è gente e magari parlare con qualcuno. C’è poca gente in giro, un venticello leggero ma gelido mi accompagna seguendomi. E’ un po’ fastidioso. Forse i ragazzi si radunano nei locali ma io non ho voglia di rinchiudermi. Giro a destra – ma no, forse è meglio andare di qua – penso, sì, verso la piazzetta del mercato, lì c’è sempre qualcuno. Eccomi arrivata. Che delusione, solo un paio di gruppetti che parlano e sembrano in procinto di andarsene. Non è proprio serata, forse è meglio che torni a casa e mi atrofizzi il cervello alla televisione. Mi avvio verso casa. Le vie sono pressoché deserte. Mi sta prendendo una strana eccitazione, una voglia animale di incontrare uno sconosciuto che mi corteggi crudamente. Cammino sempre più in preda a queste sensazioni. Voglie che aumentano accendendomi un calore che si espande dal ventre a tutto il corpo, sino a impossessarsi della mente scuotendola. Sento le gambe procedere incerte, mi guardo intorno, pochi frettolosi anti. Arrivo in fondo ad una via, sono quasi a casa, torno indietro, non sono soddisfatta. Mi allontano, ho voglia di avventure, non so bene, ma voglio cercare nella notte. Il mio corpo è come immerso in un fluido che lo fa scivolare in cerca di qualcuno, in quelle vie strette, dove i suoni dei miei i rimbombano tra i muri dei palazzi e si espandono in lontananza. Sono spaventata ed eccitata allo stesso tempo. Vorrei incontrare qualcuno e nel medesimo momento ne sono scossa al pensiero. Rimango a cavalcare l’onda di questa eccitazione, nel mare in tempesta della mia mente turbata. Sento dei i, mi giro, è una ragazza che entra subito in un portone. Deglutisco alcune gocce saliva, la gola si sta seccando.
Giro l’ennesimo angolo in questo mio vagare disperato, mi viene incontro un uomo. Subito m’irrigidisco, sento qualcosa possibile? Ci incrociamo, lui esita e si ferma dopo che gli sono ata accanto. Deve avere captato qualcosa. Si gira e rimane a guardarmi, lo sento, anche senza voltarmi. Ho paura, lo stomaco ha un tremore ma sono tentata da piaceri sconosciuti. Giro un po’ la testa, lui lo legge come un invito a seguirmi. E’ quello che volevo, no? Ora certamente mi segue ed io non so che fare. Vorrei fermarmi e affrontarlo o correre come una pazza, scappare via. Mi è vicino, lo sento dal suono dei suoi i che s’impossessano delle mie orecchie. Il cuore si è messo a correre all’impazzata, ho paura. La testa mi scoppia ma faccio proprio la cosa che mi sarei meno aspettata di fare, mi fermo. Anche lui si ferma. Mi giro, lo guardo in faccia, avrà sessant’anni, ha la giacca aperta. Una mano sulla patta dei pantaloni, si tocca e mi guarda, vorrebbe rendermi partecipe della cosa. La vista mi si annebbia. Un brivido violento mi scuote da capo a piedi. All’improvviso mi assale violento, tutto lo schifo di questa situazione, dell’eccitazione di un’avventura, creata, cercata, voluta della mia mente. E sarebbe questo che cercavo? Lo squallore di incontrare uno sconosciuto, vecchio, eccitato di voglie animali, così basse, senza il minimo sentimento? Lo scarto con uno scatto, corro, corro, corro, corro e sento le lacrime invadermi gli occhi e scendere in un rivolo, giù per le guance, entrare nella bocca aperta e affannata.
Esausta per la corsa, mi fermo, scuoto la testa. Vorrei gridare contro me stessa e queste voglie schifose che mi stanno prendendo, che entrano nella mia vita da non so quale porta. Perché? Da dove vengono? Io non voglio squallido sesso, desidero amore, sentimenti puliti e allora questo cos’è? Questa merda da dove viene? Alzo i pugni, grido un urlo silenzioso, che viene dal profondo ed entra nella mente senza are dalla bocca piena di lacrime disperate. Mi piego in me, sento lo stimolo del vomito affacciarsi. Mi siedo su di uno scalino, sono senza forze, eppure qualcuna la devo ritrovare per andare a casa. Forse questa improvvisa libertà… La mia mente non era preparata e fugge nelle direzioni più strane. Mi devo controllare, non voglio are da un incubo a un altro. Rimango con gli occhi chiusi e poi un pensiero mi arriva improvviso – e se quel tipo mi cercasse ancora? Se arrivasse qua? –. E’ meglio che mi alzi, mi faccia coraggio e torni a casa. Arrivo spossata, ormai la mia mente non riesce a elaborare più un pensiero. Chiudo il portone, ora posso respirare, sono in salvo, dagli altri e da me stessa.
Sabato mattina. Trovo un momento dal lavoro per andare al negozio e sapere se mi hanno stampato le foto, non vedo l’ora di vederle. Entro: < Buongiorno, sono venuta per le mie foto > e subito il commesso scuote la testa e mi dice: < No, mi dispiace, saranno senz’altro pronte lunedì in serata >. Esco sconsolata, bisogna sempre aspettare. Anche la mia amica, mi ha detto che non è possibile andare questa settimana in galleria, perché loro sono a una fiera e anche per la settimana dopo, sarà difficile che siano libere. Al ritorno devono sistemare i quadri e allestire la nuova mostra. Più hai voglia che le cose succedano subito e più devi aspettare, perché c’è sempre qualche piccolo imprevisto che fa allontanare il momento che aspetti? Come se il fato ci mettesse lo zampino e ti dicesse: – no cara, le cose non succedono subito, devi aspettare, usa la pazienza –. Che bel gioco, ma quando aspetti sei sempre impaziente. E allora bisogna imparare a essere calmi. Io non ci riuscirò mai, quando desidero una cosa, la vorrei subito. Comunque non c’è niente da fare, gli eventi non li puoi gestire. Vorrà dire che se vedo il mio cinese, farò altre foto. Meglio non sprecare tempo e lavorare, nell’attesa. Un’altra cosa che posso fare nell’attesa, è andare a trovare la mamma. Questa volta ha preparato una bella cena. Io ho portato dei bei fiori. Dei garofani bianchi che hanno un filo di rosso sul bordo, sono cosi eleganti. Voglio gettare le basi per una bella serata e forse è cosi anche per la mamma, vista la cena che ha preparato. Antipasti, un risotto di mare e per secondo un pesce arrosto con patate di contorno, deve aver speso, c’è anche il dolce. Gill è ammutolito da una parte, sente nell’aria tutta questa volontà di are una bella serata. Sento gioia, desidero con tutta me stessa aver un bel rapporto con mia madre, quanto ci tengo a veder soffrire mio fratello Gill.
Vorrei che sparisse da questa casa. Anche perché così il mio fratellino potrebbe respirare, finalmente, in una situazione più sana, più vera. Se Gill se ne andasse, lasciasse la casa, per mia madre sarebbe una grossa sofferenza, lo so, gli vuole troppo bene. Lo vuole lì vicino a lei, non riesco a capacitarmene, io vorrei che morisse. Mentre penso a queste cose, mi convinco sempre di più che sarà difficile, se non impossibile, ipotizzare un futuro tranquillo per me in questa casa. Mangiamo tutti di gusto, era un po’ di tempo che la mamma non faceva una cena così elaborata. Mangiando parliamo del più e del meno. Sento un grande sforzo aleggiare per non incrinare quest’armonia. Anche il fratellino sembra rilassato. MentreGill si morde le labbra, a lui non piace l’andazzo che ha preso la serata. Preferisce di gran lunga la rissa, le urla, lo scontro. Lì ci sguazza, sa bene come istigare i più bassi istinti. Aizzare mia madre contro di me, facendosi forza di quell’amore che la mamma ha per lui. Infatti, il bastardo, appena finito di bere il caffè si alza e senza nemmeno salutare prende la porta e se ne va. In quella bella situazione non ci sta bene. Mia madre non ci fa caso, come fosse un atteggiamento normale. Io invece sento il mio cuore gridare “evviva se n’è andato“ e quindi vivo ancora di più nella speranza della riuscita di questa serata. < Come va il tuo lavoro? > mi chiede. < Quale lavoro, mamma? > rispondo con un mezzo sorriso. < Quanti ne hai… Al bar intendo > e io smorzando il sorriso. < Ho anche le foto e comunque il bar va… Al solito. Non mi piace tanto alzarmi presto, per il resto bene, mi dà da vivere >. Sento in me iniziare a insinuarsi un briciolo di nervosismo, come se qualche granello di sabbia fosse entrato nell’ingranaggio della serata. < Le foto sono un divertimento e non un lavoro > mi dice cupa, come parlasse a se stessa.
< Mamma, le foto spero siano il mio futuro > e lei risponde stizzita: < Il tuo lavoro poteva essere molto meglio, se entravi in banca e sfruttavi l’unica… L’unica conoscenza che abbiamo e che poteva aiutarti a sistemarti >. Taccio, abbasso la testa, per non incendiare la serata e allora lei, purtroppo, continua: < Con il lavoro al bar guadagni quello che spendi… E poi chissà quanti ne butti nelle foto… E io sono costretta a lavorare come una matta, perché noi possiamo tirare avanti… Tu te ne freghi >. La mia testa sta a rullare con fosse un razzo in partenza. Sento che tutto sta crollando e non posso farci nulla. <Mamma… Mamma, ti prego non roviniamo tutto, questa serata, ti prego > e lei girandosi, per mettere le stoviglie nel lavandino, con un filo di voce dice:
. A questo punto non ne posso più, capisco che la serata ormai è persa ed esplodo. < Perché allora permetti a Gill di fare come papà. Perché gli permetti di rubarti i soldi, per fare quella vita dissoluta, di gettare nel gioco, nelle donne, parte dei tuoi guadagni… E’ lui, la disgrazia di questa famiglia, non io, io voglio fare solo la mia vita, inseguire i miei sogni… >. Lei si gira con gli occhi che lanciano saette. < Non lo dire… Non dare la colpa a tuo fratello, se tu fossi in banca, ora potremo vivere meglio. Sei un egoista, pensi solo a te… >. Il fratellino, intanto, trema come una foglia, singhiozza in silenzio tra sé. Sembra caricarsi dentro tutto il peso di questa tragedia. La serata è distrutta e sarà sempre così. Lei darà sempre tutta la colpa a me e difenderà Gill assolvendolo da tutti i suoi “peccati“. A questo punto non vedo altra soluzione che, una volta ancora, lasciare questa
casa. Fuggendo via per liberarmie salvare il mio futuro che devo difendere come fosse un bimbo appena nato, cosi fragile, ed io amo così tanto. Ho uno scatto di rabbia, lascio la stanza. Prendo le mie cose e corro via senza dire nulla, come fossi una delinquente. Perché devo sentirmi come una colpevole, solo per il fatto di voler costruirmi un futuro diverso da quello che vuole mia madre? Tentare di percorrere una strada, che nel buio della notte mi manda un segnale luminoso per tracciarmi un cammino, che mi chiama ad una nuova vita. Vado via arresa a quell’ennesima incomprensione da parte di mia madre. Una volta di più mi sento sola, vorrei abbracciare un corpo. Un corpo, una mente, un’anima che mi ama veramente. Cammino per quei vicoli stretti, immersa completamente nei miei pensieri. Essere nella consapevolezza di non poter fare un o né avanti né indietro, ogni volta che torno in famiglia. Questo peso è insopportabile. Spesso, dubito dei miei desideri, mi domando del loro effettivo valore. Se i miei desideri vanno in direzione differente da quelli di mia madre, a cui voglio bene e che vorrei amare con tutta me stessa, è giusto che io mi chieda se imporre, anche alla mamma, il mio volere sia egoismo? Poiché solo io credo che sia giusto percorrere la via che ho scelto, mi domando è legittimo desiderare di perseguirla comunque? La gioia è tale quando due persone ne condividono il piacere, e quel piacere, a volte è fatto di idee comuni. Allora cosa mi rimane se capisco che questo mio desiderio, non essendo condiviso da mia madre, rimane solo mio? Non importa allora il desiderio che ho di voler avere un rapporto di amore con lei; gli eventi mi dimostrano ogni volta che è impossibile che ciò accada. Ci stiamo allontanando sempre più, e allora la ragione vince, sul cuore, portandomi a pensare che sia inevitabile che abbia la meglio il mio “egoismo”, la mia voglia di seguire la mia natura, a discapito del rapporto che desidero avere con mia madre. La natura di un albero è di far crescere i propri rami. Anche se a volte crescono
sbilanciandolo di più da un lato, e questo non si può cambiare, a meno di un intervento drastico. Tagliando quei rami che potrebbero danneggiare la sua vita, che lo potrebbero far crollare, ma la sua natura non si può cambiare. Lui, l’albero, continuerà a crescere nel suo modo, pur non potendo modificare il percorso di quel ramo che lo sbilancia. La natura di una persona come si può salvare, mutandola? Si può cambiare la natura di mia madre, togliendole di torno mio fratello Gill, il suo grande amore, e cioè quel ramo che la fa sbilanciare pericolosamente? Anche se si vede che sta scivolando in un burrone di oscurità, come farle cambiare volontà? Se lei comunque non si rende conto, o non vuole rendersi conto, che mio fratello è la sua rovina più grossa, alla fine cosa valgono tanti ragionamenti? La conclusione è che devo essere io a scegliere, visto che lei non cambierà mai idea, su di me, su mio fratello Gill. Quale dei desideri è più forte, più giusto, più importante per me? Amare mia madre? Per poi annullare, uccidere l’altro desiderio, quello di libertà? Dovrei forse soccombere alla voglia di scegliermi la mia vita? Quindi, ambedue le possibilità non possono coesistere? Devo per forza arrendermi, se opto per la libertà perderò la mia famiglia, mia madre. Non è giusto costringermi a questa scelta, perdere loro sarebbe come se mi strapi una parte di me per gettarla via. Sarebbe doloroso e non poco. Sapere, ogni volta qual è il o più giusto da fare per non procurare e non procurarsi dolore, sarebbe bello. Ma il futuro è celato, che io faccia una scelta piuttosto che un’altra devo andare a vedere dove mi porterà, non lo posso sapere a priori. Che cos’è quel qualcosa dentro di noi che attende sempre di essere appagato? Quale sarà la scelta che potrà soddisfare quel qualcosa in me? Ma soprattutto la scelta, l’una o l’altra che sia, basterà poi ad riempire quel vuoto? Perché è noto che spesso quello che desideriamo con tanto ardore, non è detto, che una volta ottenuto ci appaghi. Ma d’altra parte se uccidi il desiderio, quello più potente che pulsa in te, cosa ti rimane da inseguire? Come farai a sapere se quella via che vorresti percorrere è quella giusta, se non la segui? Forse mi resta solo dare retta all’istinto, sperando che mi indichi la via più giusta
per me, tra: andare dove mi porta la mia natura o obbedire ai desideri di mia madre. Non vedo altra possibilità.
Il lunedì di solito non è mai un giorno piacevole, ma per me oggi non è cosi. Oggi sono di turno di festa ed è tutta la mattina che aspetto il momento per andare a ritirare, finalmente, le foto. Arriva il pomeriggio, le cinque, spero siano pronte. Vado al negozio. Appena entro il commesso mi fa un largo sorriso e mi anticipa, < Sì, sono pronte > tiro un respiro di sollievo, pago esco e mi domando: – Quale sarà il posto migliore per guardarle in santa pace? – forse è meglio che vada nella mia stanza. – Sì, meglio –. Affretto il o, volo gli scalini, apro la porta di casa < Ciao > saluto al volo sca che come il solito, sta studiando e corro a chiudermi in camera. Mi tremano le mani – No, aspetta – mi dico, prima voglio farmi un caffè e tranquillizzarmi. Voglio guardarle con uno stato d’animo meno agitato. < Vuoi un caffè tesoro? > chiedo a sca. < No l’ho preso poco fa, grazie >. Vado in cucina, non riesco a controllare l’agitazione. Prendo la macchinetta, la apro, mi cade il filtro in terra e si sparge tutto il residuo del caffè – accidenti pulisco, riesco a mettere la macchinetta sul fuoco e aspetto. La guardo come se così facendo potesse arrivare prima il caffè. In realtà non penso, la mente è vuota, il mio sguardo è oltre la visione della macchinetta, perso chissà dove. Il rumore del caffè che arriva mi desta da quel torpore. Spengo il gas, prendo lo zucchero e metto il caffè nella tazzina, giro e bevo subito scottandomi la lingua, guardo in cielo. – Calma, bevi piano è solo questione di attimi e poi vedi le foto, e se non sono venute come voglio…? –. Basta, mollo la tazzina nel lavandino e torno decisa in camera. Mi siedo alla scrivania, afferro la busta la apro ed eccole. Poso piano la busta da un lato, con
lo sguardo fisso alle foto. Inizio a guardare la prima e vado avanti, dedicando a ciascuna qualche minuto di visione. Il cuore mi batte forte, non respiro nemmeno, solo le mani si muovono nel sfogliare le immagini – sì, sì, sono buone –. Vado avanti sino ad arrivare all’ultima – evviva, sono perfette, proprio come le volevo – ah ah ah ah respiro di sollievo, avevo paura che cambiassero, che su carta fossero diverse da come apparivano sul video, soprattutto i colori e invece la resa è perfetta. Mi posso sciogliere un po’, mi lascio cadere indietro, prendo in mano le foto per riguardarle. Sì sì, sono proprio come le volevo, corro in camera da sca, < Guarda, ho le foto… >. Lei me le prende di mano e le guarda eccitata. < Sono belle tesoro, belle. Sono sicura che piaceranno alle galleriste, vedrai >. Sì, sono fiduciosa, riprendo le foto e torno in camera e immediatamente mi viene da pensare al mio amico cinese. Vorrei che le vedesse subito, per sapere cosa ne pensa. Sì…ma dove lo trovo? Non ho nemmeno il suo cellulare… Ma perché poi non ce lo siamo mai scambiato, è un mistero. Forse da parte mia non c’è ancora quella confidenza, o meglio fiducia. Perché devo essere sempre cosìprevenuta. Lui è sempre cosi gentile, l’ho visto bene ormai che rispetto ha per me. Quando lo rivedo, glielo voglio chiedere… E… Certo, anche a mia madre le vorrei far vedere, per mostrargli quanto impegno ci metto nel lavoro che faccio. Voglio proprio farle vedere che non è una cosa da poco, solo un divertimento, ma per me è una cosa seria. Allo stesso tempo, però, ho paura a mostrargliele, senon sapesse apprezzarle? Se le denigrasse, per me sarebbe un colpo troppo forte, non so se sarei capace di sopportare un suo disprezzo. Eppure prima o poi devo affrontare questa situazione. Vorrei essere più forte, saper andare oltre… Oltre i giudizi di tutti, di mia madre, della mia famiglia. Ancora non mi sento così pronta e quindi devo stare attenta a non procurarmi delle ferite che mi farebbero sanguinare e che poi avrei difficoltà a curare.
Infine ci sarà anche mio fratello Gill che le vorrà vedere. Lui proprio no, non voglio che le veda, nemmeno morta gliele farei guardare a quel bastardo, distruttore delle gioie altrui. Devo aspettare il momento in cui lui non è in casa, quando decido di andare con le foto. Sì, farò così, è meglio. Torno in camera da sca dopo aver posato le foto a malincuore sulla scrivania. Le porterei con me ovunque. < Ti aspetto, andiamo a farci un aperitivo, festeggiamo, vieni? >. Lei alza la testa dal libro e con un’espressione sconsolata mi dice:
. Ci abbracciamo emozionate. sca è molto contenta per me e devo dire che fra noi sta nascendo una bella amicizia. Iniziamo a condividere le reciproche emozioni. Da quando abito qui con lei, mi sento un po’ meno sola. Esco, vorrei incontrare il mio amico cinese, ma mi sembra un’impresa impossibile che si avveri un desiderio cosi repentinamente. Vago per la città, per farmi venire un’idea di dove andare a bere un bel prosecco. – Ah, ecco…dalla mia amica in piazza. Accidenti, vedi, se avessi portato le foto, avrei potuto farle vedere a lei, uffa –. Mentre mi avvio mi viene un pensiero - … e se provassi ad andare all’appartamento,il mio amico potrebbe trovarsi lì… sì però se c’è una ragazza con lui? Non m’importa, voglio provare lo stesso-. Cambio direzione, devo fare un bel pezzo a piedi per arrivare lì. Non importa, sono decisa e poi camminare mi piace, mi scioglie quel po’ di tensione che mi porto sempre dietro. o attraverso quelle vie strette, incontro ragazzi intenti a parlare di studi, di esami e altri che camminano con gli occhi incollati al cellulare. Il mio o è veloce, voglio arrivare presto, spero che lui ci sia e soprattutto che sia solo. Anche se, pensandoci bene, cosa ci farebbe poi lui lì da solo? Boh, oramai sono quasi arrivata, provo, ecco la porta verde.
Busso… Silenzio, riprovo – dai, dai vieni ad aprirmi –. Un uomo a e mi guarda – che vuoi… Ancora una volta busso, è inutile… Non c’è, merda. Mi giro e torno sui miei i, accidenti avevo proprio voglia di vederlo, di festeggiare con lui, sarei persino ritornata a casa a prendere le foto per mostrargliele. Sembra che sia destino che devo festeggiare da sola. Giro un angolo e sbatto contro una persona, < Ehi, ma sei tu > allora qualche volta i desideri si avverano. < Dove andavi? >gli domando. < Andavo all’appartamento a prendere… Ma tu da dove vieni?> mi chiede. < Da lì, sono stata a cercarti. Sai, ho ritirato le foto, volevo cercarti per fartele vedere e festeggiare, sperando che ti piacciano >. Gli sorrido, sono contenta. < Va bene, andiamo un attimo all’appartamento e poi vengo con te a vedere le foto, e poi ti porto a cena > Io gli rispondo: < Ok, ma il posto dove mangiamo lo scelgo io. Se no, chissà dove mi porti tu… Ah ah > e lui: < Va bene, ai tuoi ordini > mi dice sarcastico. Arriviamo sotto casa mia: < Aspettami qui, arrivo subito >. Non voglio portarlo in casa. Non ho voglia che conosca sca e non ho voglia di mostrare la mia camera a nessuno. Voglio che rimanga un luogo solo mio. Prendo le foto ed esco al volo. < Prima iamo dalla piazza a farci un aperitivo, cosi le faccio vedere anche alla mia amica, ti va? > e lui < Certo >. Ci avviamo parlando di sciocchezze. Ormai non c’è più la minima tensione tra noi. Finalmente, ecco la mia adorata piazza. Quanto ho camminato oggi, ho proprio voglia di bere.
< Ciao cara, ho una cosa da farti vedere, stiamo fuori, ci porti due bicchieri di prosecco… >. < Ciao bella, che piacere vederti, vi servo subito… Ma che hai da farmi vedere? >. Gli rispondo: < Curiosa, eh… Dopo, quando ci hai portato da bere >. Intanto sono elettrizzata nell’attesa di farle vedere a lui. Ci tengo al suo giudizio. Ci sediamo, non m’importa più di nascondere la nostra amicizia. Gli o la busta con le foto, lui laprende e le estrae. Leggo un po’ di emozione dalle sue mani che desiderano ardentemente l’impazienza nel farle uscire dalla busta. Le guarda, attento, arriva all’ultima e ricomincia da capo, senza dare il minimo cenno di un’emozione. Io sono tesa, aspetto con trepidazione, penso lo faccia un po’ apposta a non trasmettere nessuna emozione. Finisce di guardarle e finalmente: < Si sono bellissime, mi piacciono. Sono cosìemozionato nel vedermi ritratto. Puoi stamparne qualcuna per me, da tenere, mi piacerebbe… Te le pago naturalmente… >. Ed io commossa: < Davvero ti piacciono… Certo che te ne darò alcune… Poi mi fai vedere quali vuoi e te le faccio stampare… Waooo come sono contenta >. Intanto ritorna anche la ragazza con i bicchieri del prosecco e gli stuzzichini. < Di cosa sei cosi contenta… >. Le o le foto. < Guarda, sono le mie foto. Quelle che ho fatto con lui che mi fa da modello >. Mentre beviamo, guardo l’espressione del suo viso. Sorride e mi guarda, poi continua, e alla fine mi dice: < Sì, sono proprio belle. Pensi di esporle, potresti metterne anche qualcuna qui da me, nel bar… Non c’è molto posto ma sono sicura che almeno quattro, di questa grandezza, ci starebbero… Che dici? >. Io euforica, rispondo subito: < Sì mi piacerebbe, le ristampo, le preparo e te le porto >. Le dico:
< Portaci altro prosecco e uno anche per te, che brindiamo, tesoro >. Sì, sì che gioia sto provando ad avere queste conferme dalla gente che il mio lavoro sta procedendo bene. Voglio proprio are una bella serata in compagnia del mio amico cinese. Ristorantino tranquillo in piazza del mercato. Ha cambiato gestione, l’ho capito leggendo il menu fuori e vedendo i prezzi un po’ aumentati. Entriamo, c’è poca gente ai tavoli, bene, non ho voglia di confusione. Il menù sembra invitante. Scegliamo due primi diversi, lui un primo di pesce, io un più classico raviolo al ragù. Il vino lo preferiamo rosso, il migliore che hanno. L’oste lo apre e subito sento un buon aroma che esce dalla bottiglia. Ne versa un po’ nel bicchiere del mio amico ed io gli faccio cenno che lo voglio assaggiare anch’io, cosi ne versa anche un po’ nel mio bicchiere. Lo introduco attraverso le labbra in bocca, sì, è corposo, ha quell’età giusta che è come piace a me, tanto. Ah ah ah sento i miei sensi esultare, buono. Intanto l’oste ci istruisce sulla caratteristica del loro ristorante: < Facciamo tutto noi, dalla pasta, al pane, ai dolci >. Bene, penso si mangerà bene qui. L’oste ci lascia e lui sta zitto, per rompere quel silenzio gli dico: < Buono questo vino >. Lui improvvisamente si è fatto strano. Taciturno, quasi fosse immerso completamente in un mondo suo, ed io ne sono fuori. Aspetto un pochino in silenzio, lo guardo in quel suo volto serio, e poi gli domando: < E’ successo qualcosa, ho detto qualcosa di sbagliato? > Alza la testa, tornando in questo mondo e mi dice: < No, no tutto bene… E’ solo che stavo pensando che tra dieci giorni mi sposo >. < Di solito quando uno si sposa non ha quella faccia >. Lui mi guarda dritto negli occhi e dice: < Lo sai che è un matrimonio combinato, non posso esserne entusiasta >.
< Beh, sarà per te solo un’altra donna in più… No? >. Lui triste, mi risponde: < No, non sarà così. Mi dispiace anche per lei. Siamo solo due pedine da spostare, in mano di altri. Ecco quello che m’intristisce, ancora una volta devo chinare il capo al volere di mio padre e forse anche rendere infelice un’altra persona >. No o o… < No, dai non stiamo male stasera, ti prego, bevi un po’ di vino e non ci pensare. Ora sei qui con me e con le nostre foto… Bello, no? >. Lui alza la testa, mi guarda e sorride. < Sì, hai ragione, ora siamo qui e rimaniamo solo qui >. Il cibo è veramente buono, si sente che lo fanno loro. Anche i dolci che dopo ci scambiamo col mio amico, sono buoni. Poi il caffè e una grappa. Lui paga e usciamo contenti, anche e soprattutto di aver superato quel momento di tristezza. Nell’attesa di prendere l’appuntamento con le ragazze della galleria, tanto per non rimanere troppo inattiva, propongo al mio amico cinese di fare un’altra seduta di foto, prima dell’incombente matrimonio. < Ci vediamo all’appartamento? >. Mi chiede. < No, questa volta ho voglia di fare qualcosa di diverso, vorrei fotografarti in prevalenza, il viso… Poi ti dirò. Vediamoci al barrino in piazza domani sera alle dieci, potrai? >. Lui mi propone: < Non vuoi che ceniamo insieme? >. < No, penso che mi deconcentrerei, beviamo qualcosa dopo… Va bene? >. < Come vuoi, a domani allora… >. Ho un’idea che mi frulla in testa da qualche giorno. Una volta feci un paio di foto a un’amica con la “compattina” digitale. Era notte, mentre tornavamo a casa, quasi per gioco, e il suo viso, la pelle, venne rossa, come se la luce della strada che ci illuminava, appunto, fosse rossa. A casa il giorno dopo le guardai, erano particolari, bellissime, mi avevano colpito molto, le salvai in una cartella a parte. Ripromettendomi poi di farne delle altre e invece rimasero lì.
In qualche cassetto della mia mente, erano sempre presenti e mi sono venute fuori appena ho pensato a un nuovo lavoro da fare con il mio amico cinese. Mi piace molto lavorare cercando la casualità, attraverso foto scattate senza tanto pensare, o programmandole. Spesso porto con me la compatta digitale e quando qualcosa mi colpisce, scatto, senza tanto pensare e poi guardo il risultato, dopo averle scaricate sul computer. A volte vengono fuori cose veramente interessanti, come queste dei visi rossi. Ricordo che vennero un po’ mosse, anche se cercai di rimanere molto ferma. Trattenni persino il respiro, ma non bastò, quindi per queste che voglio fare al mio amico nelle stradine del centro di notte, è meglio che porti il cavalletto, per essere più sicura del risultato.
La sera successiva,appena la ragazza del bar mi vede arrivare con il cavalletto, mi dice: < Eccoci, altre foto… >. Le sorrido e dico: < Sì, serata di foto > mi chiede: < Cosa ti posso portare >. < Aspetto il mio amico >. < E’ carino il tuo amico >. Io la guardo e le rispondo: < Sì, ma non guardarmi così, siamo solo amici, lui mi fa da modello >. Nel frattempo eccolo che arriva, con quel suo o da “ cascasse il mondo io non vado più veloce“. Sorride con gli occhi appena incrocia i miei. Sono contenta di vederlo e non solo per le foto. < Che cosa beviamo? > mi domanda. < Vino rosso > ma non troppo, devo essere tra l’eccitato e il lucido. Chiamo la ragazza che era andata a servire altri clienti e le dico: < Portaci una bottiglia di rosso, ma a metà portacela via, ti prego >. Beviamo con calma. Vorrei che le strade fossero deserte, anche se voglio andare nelle stradine poco frequentate. Lui intanto m’interroga su cosa vorrei fargli fare. < Vuoi che mi spogli in mezzo alla via? O sul prato di un giardinetto pubblico? > e ride divertito. < Stai attento a non farmi venire strane idee… Ah ah no, voglio fotografarti prevalentemente il viso… Ma poi vedrai, non essere troppo curioso >. Scherziamo ancora un po’ e finiti di bere due bicchierini di vino, lasciamo il resto nella bottiglia sul tavolo. A malincuore ci alziamo e ci inoltriamo a piedi
tra le vie, cercando il posto con la luce giusta per fermarci a fare le foto. Voglio trovare una situazione di oscurità, con una luce tenue, che s’insinui nel buio, per inserire il mio amico proprio tra buio e luce. Troviamo il vicoletto giusto, apro il cavalletto e installo sopra la macchina digitale. Gli chiedo di spostarsi un po’ di più verso il buio, facendo un o indietro, spostando leggermente il viso in avanti verso la luce. Faccio due scatti di prova – No, no ancora non ci siamo –. Gli dico di fare un altro etto indietro verso il buio, di appoggiarsi al muro e guardare un po’ di lato. Faccio altri due scatti– sì ora va bene, ma è meglio che guardi sul display della digitale – il viso viene rosso come volevo, emerge dal buio fondendosi con buio e luce, rosso. E’ perfetto, però voglio “zummare”, per entrare di più sul tondo del suo viso. Faccio altri scatti girandogli intorno. Sì, bene così. Mi allontano, lo voglio prendere intero. No, mi soddisfa meno. < Togli la giacca e la cravatta, voglio fotografare viso, collo e parte del petto >. Lui mi obbedisce divertito ed io scatto. Mi allontano e mi avvicino “zummando”, prendendolo dall’ombelico in su. Mi conquista, la pelle color rosso contornatadal nero intenso del buio, sembra ne sia immerso. Poi servirà forse un’aggiustatina al computer, e andrà bene. Giriamo per altre vie, per trovare luci diverse, che mi permettano di fare, se pur lievi, variazioni. E’ mia intenzione trovare un miscuglio tra luce e buio che mi soddisfi, e che poi rivedendo le foto, mi tolga il fiato. Ci sono vicina. Scatto, provo e scatto, come fossi posseduta da quella brama di creare. Dopo due ore intense di lavoro penso di aver finito. Cerchiamo e troviamo un pub aperto per sederci e riguardare le foto con calma, rilassandoci un po’. Sono abbastanza convinta del risultato, ma voglio esserne certa, poiché tra qualche giorno lui si deve sposare e chi sa quando lo potrò rivedere.
Ordiniamo una birra, abbiamo sete, e subito ci immergiamo con lo sguardo sul display della macchina fotografica. Alla fine ci guardiamo soddisfatti, < Ce ne sono tante bellissime. L’effetto del rosso sulla pelle che hai saputo creare è stupendo >. < Lo trovi anche tu… Vero. Era proprio quello che avevo in testa e mi è riuscito tirare fuori >. Siamo soddisfatti e mi fa molto piacere vederlo entusiasta. Mentre sto pensando che fra poco potrò vedere le immaginipiù in grande nel computer, lui mi dice: < Ora sta a te fare qualcosa per me >. E’ abbastanza tardi ed io vorrei andare subito a rivedere le foto, ma questi sono i patti. Come il solito, tanto mi assorbe il mio lavoro che poi mi dimentico sistematicamente della seconda parte dell’accordo. < E… Cosa verresti che faccia per te…? >. Ridacchia, mentre mi dice: < E… E ho un’idea. Andiamo alla macchina >. < Ma, dove mi vuoi trascinare? Che hai in testa? >. Mi dice: < Aspetta a… >. Arriviamo alla macchina, saliamo e lui mi dice: < Voglio che ti spogli nuda qui, ora >. Mi viene uno scoppio di riso e insieme un’idea, cosi gli dico: < Va bene lo faccio, ma mentre guidi e giriamo per le vie del centro >. Lui mi guarda con un sorrisetto complice. < Bene, bene, bella idea, mi piace, sì… Andiamo >. E mette in moto l’auto e parte. < Però vado piano, se no, non posso vedere >. Gli rispondo: < La velocità sceglila tu >. Inizio col togliermi le scarpe e gli mostro i piedi nudi, uno per volta. Pensando che sia un po’ feticista, visto quanto gli erano piaciuti. Sento e so che vorrebbe toccarli, accarezzarli. Forse è proprio questo trattenersi, che lo eccita di più, cosa che non è abituato a fare con le altre donne.
Li guarda e guida, abbassa e alza lo sguardo, per guardare i piedi e la strada. Intanto inizio a sbottonarmi la camicetta, sopra una maglietta, il tutto sotto il giubbotto di jeans che però non tolgo. Dopo metto le mani dietro la schiena e slaccio il reggiseno sotto la maglietta. Lui continua a guidare per le vie quasi deserte e a guardare a scatti quello che faccio e le parti del mio corpo che riesce a vedere da sotto i vestiti. Non mi ha mai visto completamente nuda. Posso quasi toccare la sua eccitazione, che si spande dentro l’abitacolo della macchina. Gli piace questo gioco, con le sue amanti si rinchiude in stanze e fa l’amore e probabilmente non si accorge nemmeno della differenza fra una donna e l’altra. Alzo la maglietta, per fargli vedere la rotondità della mia pancetta che sfioro; l’ombelico. Mi accarezzo come se fosse la sua mano a farlo. Infilo parte delle dita sotto l’elastico delle mutandine, rimanendo sul pube a toccarlo. Lui si gira verso di me sempre di più, tanto che a una curva è costretto a frenare bruscamente, per non finire sul marciapiede. Non ci fa neanche caso, è troppo concentrato sul gioco. Ingrana la marcia e riprende ad andare. Intanto io mi sollevo sempre di più la maglietta, con una sola mano, sino ad arrivare sotto i seni. Una mano apre l’accesso allo sguardo al seno, l’altra indugia dentro le mutandine nere. Lo guardo, gli sorrido e di scatto sollevo la maglietta e il reggiseno sino sotto il mento, scoprendo completamente il seno, puntando i miei capezzoli nei suoi occhi assetati. Rimango cosi dandogli il tempo di guardarli a suo piacimento. Il aggio sotto le luci dei lampioni, li illumina a tratti, facendo risplendere il bianco della pelle e dei due punti rosa. Lui deglutisce e rallenta, non sa più che piede usare, quello dell’acceleratore o quello del freno. Morde le labbra nervosamente e a un incrocio si ferma a guardarmi per qualche momento. I suoi occhi sembrano essere il prolungamento delle sue labbra, delle sue mani
che vorrebbero stringere quelle due coppette bianche, baciarle, bagnare quella pelle chiara, colore della sensualità. Quel colore che cattura lo sguardo, che tramortisce i sensi, che li attrae come una farfalla è catturata dal polline dei fiori. Ho la pancia e i seni scoperti, il giubbotto e la camicia aperti che fanno da cornice al bianco della mia pelle, delle mie rotondità. Inizio a sbottonarmi i pantaloni neri come la notte. Tiro giù la lampo, lui inizia a sudare, guida a scatti, accelera, rallenta. Sembra di essere più a cavallo che su una macchina. Per un attimo mi guardo intorno, non so nemmeno dove siamo. Poco importa. Ora anche la lampo è aperta e s’intravedono le mutandine e i peli del pube che escono formando un ciuffetto. Infilo i pollici tra le anche e i pantaloni, alzo leggermente il sedere e inizio la lenta manovra per farli scivolare in basso, verso le ginocchia e scoprire ai suoi occhi curiosi il mio sesso. Scendono giù i pantaloni accompagnati dalle mutandine. Scopro il sesso e quel triangolo nero che sembra una punta di freccia che serve a indicarlo, del tipo, “guardare per di qua”. Le mie anche, delimitano la mia suadente figura. Lui è a bocca aperta, mi guarda le gambe, la pancia. Poi metto su una mano per tenere la maglietta in alto e l’altra giù, ad accarezzare la parte delle gambe scoperta, quasi a dirgli: – Ecco, guarda pure – non sa più dove rivolgere gli occhi. Ha fermato la macchina, un autobus cittadino, forse l’ultimo che va verso il deposito, giunge noioso e impertinente. Ci “sfanala” per farci muovere, la strada è stretta, il mio amico impaziente e visibilmente irritato, ingrana la prima e parte veloce, per poi girare alla prima traversa, togliendosi da sotto il giogo dell’autobus. Si ferma, vuole ancora e ancora guardare, godersi la vista del mio corpo nudo, che si espone per lui, ai suoi occhi penetranti. < Girati, per favore, voglio vederti anche da dietro >. Mi dice pragmatico.
Gli sorrido guardandolo negli occhi e mi giro, mettendomi in ginocchio sui tappetini soffici della macchina e appoggiando la pancia sul sedile e il viso sullo schienale. Mi volto verso di lui, < Muoviti, guida, non stare fermo > gli dico con un filo di crudeltà nella voce. Le mie natiche le tiro su inarcando la schiena più che posso. Le luci della via le esaltano facendole quasi brillare, sono belle, tonde, sode, giovani. Lui inizia a guardare la schiena e poi vedo la sua attenzione scivolare sotto la curva, dove le natiche finiscono e iniziano le gambe. Frenando di colpo, china la testa per guardare quel rigonfio di pelle più scura che gli fa battere il cuore all’impazzata, come un cavallo al galoppo. Il suo sguardo è curioso di ogni mio centimetro di pelle. Di posti proibiti alle sue mani, voglioso di soddisfare anche gli altri sensi, non solo quelli di vista e olfatto. Mi eccita, mi emoziona, nessuno mi aveva posseduta cosi, con questa carica di erotismo sprigionata dagli occhi e commentata con il respiro. Mi giro poi, lenta, mi rivesto. Prima chiudo alla sua vista le gambe, tirando su i pantaloni e chiudendoli, intanto la maglietta è scesa, da sola, sulla pancia. Riallaccio il reggiseno, anche il mio respiro è affannoso. L’eccitazione è palpabile dentro l’abitacolo della bella macchina. Lo guardo teneramente, intensamente nei suoi begli occhi neri, profondi, che riflettono un puntino di luce della via, come fosse una stella nelle sue pupille. Gli accarezzo la mano paralizzata sul cambio. Lui è pietrificato, non so nemmeno come fa a fermare la macchina. Prendo le mie cose, le scarpe in mano e scendo a piedi nudi sulla strada, senza dirgli nulla chiudo lo sportello, faccio qualche o, lascio cadere le scarpe a
terra, le infilo. Sento il suo sguardo su di me. Ora per un po’ non ci vedremo, il matrimonio, il viaggio… Senza rendermene conto mi assale, improvvisamente, la tristezza. Quell’uomo di Pechino mi manca già? Gli mando un messaggio col pensiero – a presto amico mio dolce –. M’incammino verso casa, a testa bassa, pesante di pensieri. Forse siamo pazzi, che gioco perverso sta diventando questo. I giochi, a maggior ragione quelli troppo esasperati, finiscono per rompersi, se non vanno da nessuna parte. E il nostro, mi domando, ora, dove sta andando? Ed è giusto sempre frenare, impedire così per tanto tempo, ai nostri sensi di compiacersi. Non so proprio cosa pensare. Forse tutto questo gioco è frenato dal fatto che una vita di coppia per noi è impossibile, è inconcepibile, lo sappiamo entrambi. Lui sta per sposarsi. Io non lo sento come un possibile ragazzo e poi sono troppo concentrata sul riuscire nel lavoro, sia al bar, sia nella foto. Quel lavoro che per me rappresenta l’ancora di salvezza dalla mia famiglia e da quell’incubo di vita. Forse questa pausa giunge al momento giusto, così si dice di solito, no?
Stamattina al lavoro c’è Roy con me. Meglio, non ho tanta voglia di parlare. Lavoro e lo guardo come se fosse la prima volta che lo vedo. Lo guardo più come maschio, oggi, non come compagno di lavoro. Certamente è un bel ragazzo, alto, snello ma muscoloso, dà l’ideadella compattezza, della solidità. Di chi ti prende al volo se caschi. Per niente stupido. I suoi interventi sono sempre equilibrati, sensati, è piacevole lavorare con lui. Forse un pochino troppo serio per la sua età. Ti affianca senza intralciarti e senza voler imporre il suo modo di veder le cose, sta nel suo e ti dà fiducia. Oggi lo guardo spesso, lo osservo e rifletto. Mi viene da chiedermi come mi piacerebbe che fosse il mio ragazzo. Mi chiedo come mai sono cosi chiusa al sesso maschile. Se un ragazzo tenta un approccio, io m’irrigidisco istintivamente. Mi chiedo se è perché non ho avuto dei bei soggetti come esempi, mio padre e mio fratello Gill. Non sono stupida, capisco che ci sono molti tipi diversi di uomini che ano: dall’arrogante, antipatico, egoista, scostante, pomposo, per continuare con lo “sbrindellato”, sciatto, fino all’ubriacone, e al tossico. E’ anche vero che esistono altri tipi di uomini: intelligenti, buoni, sensibili, educati, premurosi. E’ certo che la cosa che mi colpisce nei primi cinque minuti è l’aspetto. Quando ho conosciuto il mio amico cinese, durante i suddetti cinque minuti, mi sono detta:– Che vuole questo qui da me? – Anche se era un discreto ragazzo e da un certo punto di vista mi sono sentita anche gratificata. Era così lontano dal mio mondo. Vederlo con quel suo vestito “incravattato”… E invece poi si è rivelato cosi tenero, gentile, tanto che ha saputo toccare qualcosa dentro di me. Penso che all’inizio un po’ di apparenza non guasti, anche se, come ho potuto sperimentare, è meglio aspettare e vedere cosa c’è oltre. Probabilmente in
entrambi i casi, sia che uno abbia o no un bell’aspetto. Subito dopo, mi viene da cercare un altro tipo di bellezza: ad esempio guardo la mente, come si pone a riguardo del mondo, della gente, anche verso se stesso. Se è capace di essere sincero anche con gli altri. Se ha una mente confusa, del tipo: – procedo da sempre per tentativi e casco sempre nelle medesime trappole –. Oppure sa quello che vuole. Se è costruttivo o distruttivo, per me questo è fondamentale. Una persona può essere anche incerta nell’affrontare la vita, ma avere comunque una mente positiva, costruttiva, che insegue una crescita, anche a piccoli i. Non c’è bisogno di correre ma nemmeno di girare in tondo continuamente, pensando di fare chissà che cosa, non mi va nemmeno se una persona è solo fascino e niente “arrosto”. Sarà perché ho dovuto lottare, per conquistarmi la libertà e anche ora… mi devo dare da fare per stare a galla. Non voglio solo galleggiare, desidero crescere, costruire, godermi la vita e le sue bellezze, non le sue e mie angosce. Un’altra cosa importantissima che cerco in una persona è la profondità, la sua interiorità o come la chiamo io la sua anima… Sono attenta a sentire attraverso il mio radar interiore quello che una persona emana. Ho proprio bisogno di sentire della bontà dentro ad una persona. Di sentire che ha uno spessore, che crede in un qualcosa di vero, di profondo, che va al di là del solo guadagnare denaro e comprare cose. Dopo tutta la vita vissuta nella mia famiglia, ho bisogno di valori veri, autentici, ho voglia d’amore profondo. Forse dovrei avere più coraggio e buttarmi di più, quando conosco un ragazzo che mi piace. D’altra parte, non posso sapere cosa mi aspetta, se non mi lascio un po’ andare, se non provo. Ora, però sono distratta da molte cose. Intanto, uno, tenere a bada la mia famiglia, due, lavorare al bar ma soprattutto fare le foto, questo sì che mi entusiasma. Mi prende mente e anima. Non so se avendo una relazione sarei più distratta. Sento che per riuscire a fare qualcosa di buono, con le foto, gli devo dedicare
tanto di me stessa, tanto impegno e concentrazione. E’ possibile che loro, al momento, sostituiscano il ruolo di un amante. E il mio cinese che cosa è?… Il mio cinese è solo mio amico o potrebbe diventare anche qualcosa di più? Mah? Poiché sta per sposarsi, potrei diventare al massimo la sua amante… Forse non sarebbe male, è ricco. Però non potrei farlo solo per denaro. Sta diventando un buon amico, forse è meglio dire “un amico particolare”. Non riuscirei a fare, con un altro, il nostro gioco erotico. Non sarebbe facile, trovare un altro uomo cosi gentile e pieno di rispetto. Certo, come pensavo ieri, è strano questo gioco. Soprattutto per lui, io beh… dell’erotismo e del sesso ne conosco così poco, anche se ne sento gli impulsi. Lui, che si può dire che cambi donna ogni giorno… Mi domando come veramente si sente in questo gioco… Lui che non mi può toccaree con le altre donne ci può fare quello che vuole e quando lo vuole. Lui che le può comprare o avere, spesso, attraverso il fascino dei suoi soldi, non si sentirà maledettamente frustrato con me? O forse è proprio perché non c’è in ballo il sesso o il potere dei suoi soldi che in lui subentrano altre cose, magari più sottili. Sentimenti, chissà? Ci stiamo innamorando, in maniera tutta nostra, che va al di là della nostra lontananza di costumi, o percorsi di vita diversi? O ci stiamo legando, oltre il nostro gioco, perché in fondo siamo ambedue soli, con famiglia, amici, conoscenti, sì, ma profondamente e interiormente soli. Bisognosi di un qualcuno che ci voglia bene sinceramente. Che abbia voglia di ascoltarci, che ci tenga veramente a noi e a capire quali sono i nostri sogni… e incitarci a inseguirli. Penso che sia per questo che nel tempo in cui non potrò vederlo, so già che mi mancherà.
Finalmente arriva il giorno per andare a Firenze alla galleria delle amiche di Emi. Lavoriamo insieme tutta la mattina e alle due usciamo e andiamo ognuna a casa propria per prepararci. Il treno parte alle sedici e trenta quindi abbiamo tutto il tempo di prepararci con calma. Io sono stanca, ho dormito poco e male tutta la notte, girandomi e rigirandomi nel letto nel tentativo malriuscito di dormire. Più mi sforzavo di prendere sonno e più rimanevo sveglia. C’era poco da fare, ero tesa e non poco, decine e decine di pensieri rimbalzavano nella mia testa come pallinein un flipper. Altro che contare le pecore per facilitare il sonno, sembravano cavalli al galoppo le immagini che mi arrivavano. Soprattutto erano maledetti dubbi sulla scelta delle foto da portare alle ragazze. E’ possibile che la mia mente debba sempre, e ripeto sempre, essere negativa? Proiettata su visioni di tragedie inevitabili, piuttosto che essere indirizzata verso visioni più positive? E’ sempre stata così, credo di esserci nata nel pessimismo, tanto che ormai, penso, si sia cronicizzato. Ci vado in bestia. Anche perché mi accorgo che spesso le situazioni volgono in positivo e quindi, vedere sempre tutto nero mi dà l’impressione di attirarmi addosso la sfortuna. So che le foto sono belle. So che io sono la prima critica di me stessa e non sono per niente tenera. Pertanto, non dovrei avere tutti questi dubbi. Anche se è altrettanto vero che è la prima volta che mi espongo al giudizio di persone esperte e quindi è piuttosto normale che ci sia in me un po’ di tensione. Sì, un po’è capibile, ma non cosi… Ho ato una notte da panico e stamattina ho lavorato come se i miei vestiti avessero centinaia di spilli conficcati che mi facevano saltare a ogni movimento. E più si avvicinava il momento di uscire dal bar e più diventavo nervosa. Se qualcuno mi avesse toccata, avrei fatto un salto di tre metri.
No, non posso continuare così, non vedo l’ora di incontrare Emi, cosi lei mi aiuterà a calmarmi un po’, intanto bevo un bicchiere di vino, così mi si sciolgono un po’ i nervi. Doccia e poi il rito di vestirsi e altri dubbi mi assaltano subito, cosa mi metto? Come sarà meglio vestirsi? In maniera sobria, oppure, stravagante a mo’ di artista? Basta, basta, basta… mi scoppia il cervello. Ok, mi vesto di nero, con il giubbotto di jeans e sopra ancora quello di pelle nera e fa’ ‘n culo la mia mente. Prendo la cartellina delle foto, dopo aver superato l’ostacolo del vestirmi, sto per uscire e mi dico: – mi sa che mi ci vuole un altro bicchiere di vino – lo bevo e finalmente riesco a uscire da casa. Mi avvio alla stazione, però accidenti, è presto. Meglio fare un giro, non ho voglia di aspettare come un palo della luce. Nel mio vagare senza una meta precisa, mi trovo nelle vicinanze del barrino della mia amica, in piazzetta. Appena mi vede mi dice subito: < Ma che hai… Hai una faccia… > < … Eh, sai sono un po’ tesa, vado a far vedere le foto alle galleriste a Firene >. E poi le chiedo: < Mi daresti un prosecco, penso di averne bisogno >. < Sì, sì… Ma calmati, non stai andando a un processo in tribunale, non sarà il giudizio universale… E poi di che hai paura, le foto sono splendide… Anzi ti ricordo che mi avevi promesso di portarmene quattro per esporle qui >. Che tesoro, subito mi fa sentire meglio – ma sì, che problemi ci sono -mi dico – va tutto bene e poi sono contenta del mio lavoro e questa è la cosa più importante. Non l’ho mai fatto cosi, da professionista, e non ne sono mai stata così entusiasta. Se a loro non andrà bene, cercherò altre gallerie, o possibilità espositive per farle vedere –.
Improvvisamente scatta in me un qualcosa, forse anche grazie al contributo del vino, che mi fa sentire tranquilla, anzi, quasi sono sicura di me. Accidenti, ora si sta facendo tardi. Finisco di bere il prosecco, saluto e mi avvio verso la stazione. Questa volta mi sento certamente meglio, lo stomaco ha finalmente allentato la sua morsa e il cervello ha ripreso i giri giusti. Arrivo e vedo Emi che è in fila per fare il biglietto. Mi avvicino: < Ciao, lo fai anche a me? > < Certo, ci avevo già pensato >. Bene, mi sento allegra addirittura, possibilista che andrà tutto bene. Lei mi guarda e sorride fra sé, chissà che impressione do alla gente che mi vede. Ecco arriva il treno, saliamo, sento che è un tempo importante quello che sta arrivando, non so come potessero sentirsi i grandi condottieri prima di una battaglia. Io mi sento un po’ cosi, prima di questo grande evento, come un semaforo che alterna il rosso, il giallo e il verde, come in me si alternano euforia e paure. Durante il viaggio parliamo del lavoro al bar, ridiamo di alcuni clienti più o meno simpatici. Sono contenta che sia venuta anche Emi così mi sento, per una volta tanto, accompagnata, sostenuta. Arriviamo alle diciassette e trenta. L’appuntamento che ha preso Emi con le sue amiche è per le diciotto – diciotto e trenta. Abbiamo tutto il tempo per fermarci a un bar e bere un caffè. Dio solo sa se ne ho bisogno. Mentre siamo nel bar e sorseggio il caffè, inizio a sudare freddo, da prima leggermente, e finito il caffè, sempre di più. La mia amica è già alla cassa per pagare, poi mi guarda e aspetta un mio movimento, per uscire. Io sono lì, ferma, bloccata. Allora mi si avvicina e mi dice: < Ma che hai… sei sbiancata >. Sono veramente in difficoltà, le dico: < Scusa, ma devo sedermi un po’, non sto bene >. E lei, < Si vede, accidenti >. Mi avvio a sedere, mentre la testa è sempre più scombussolata da ondeggiamenti, come fossi su una barca sul mare. Come odio
stare male, soprattutto nei luoghi pubblici e quando una amica è lì ferma ad aspettarmi. Riesco a raccogliere quel poco di forze che trovo per muovermi, mi avvio verso il bagno, voglio sciacquarmi il viso per vedere se riesco a riprendermi un po’ ma la porta è chiusa, nooo… Sbando, sotto gli occhi allarmati di Emi, vado alla cassa. < Scusi, ci vuole la chiave per il bagno? > domando alla cassiera. < Sì, eccola signorina > mi risponde premurosa, forse leggendo sul mio volto l’urgenza. La prendo e con o incerto, mi avvio in bagno, tesa al massimo. Giro la chiave e apro la porta, entro, mi appoggio con le mani al lavandino, poi apro il rubinetto, unisco le mani raccolgo un po’ d’acqua e me la o sul viso con delicatezza. Il fresco dell’acqua mi dà subito una sensazione di sollievo. La tensione accumulata mi si sta giocando un brutto scherzo. Unisco ancora le mani, ma questa volta non per raccogliere altra acqua, ma per pregare che questa tensione mi i, ho bisogno di stare bene e subito. Rimango lì un po’, mi prendo il tempo necessario per ristabilirmi. Uffa, che faticata. Ora mi sento un po’ meglio. Esco, richiudo la porta e porto la chiave alla cassa. Sì, sto decisamente meglio, anche se sono ancora un po’ scombussolata. Emimi viene in contro, < Come stai? > Mi dice preoccupata, < Meglio, meglio, possiamo andare >. Ora basta, andiamo, non m’interessa che ora è, voglio vedere le ragazze e mostrargli queste benedette foto e farla finita con i miei conflitti mentali. Per fortuna la galleria non è lontana. Percorriamo la distanza dal bar in silenzio. Sembra stia andando a levarmi un dente e in un certo qual modo è cosi. Entriamo finalmente, immetto aria nei polmoni facendo un respiro di sollievo. Ci sono tutte e due, bene, Emi sorride e le saluta. Ci vengono incontro contente di vederci e abbracciano Emi e poi ci presentiamo.
Si scambiano delle battute fra loro, io rimango in silenzio e lì buona ad aspettare che arrivi il momento tanto atteso, troppo atteso. Una di loro mi dice sorridendomi, < Allora hai portato qualcosa da farci vedere… vero? > ed io, espellendo dalla bocca l’aria stantia dell’attesa. < Sì, si eccole qua >. E appoggiandomi sopra la loro scrivania, slaccio i fiocchi di stoffa che tengono chiusa la cartellina, che contiene le sospirate foto. Tutti gli occhi si catapultano sulle immagini. Il mio cuore batte da infarto. Loro in un silenzio religioso, le guardano attentamente una a una, con calma, dedicando a ogni foto il tempo necessario per una visione d’impatto e per un’analisi più attenta e profonda. Aspetto il giudizio finale, mordendomi un labbro. Sono tesa come una corda di violino. Finalmente arrivano all’ultima, alzano la testa e una di loro mi dice: < Hai solo queste o ne hai altre? >. Mi sento un po’ presa in contropiede. Non mi aspettavo una domanda come questa. Loro leggono sul mio volto la mia indecisione e si affrettano a dire: < Sai, queste sono buone, veramente, ma abbiamo bisogno di più materiale da vedere, per renderci conto che hai molte foto così valide. E cioè ti spiego meglio, non vorremmo che le altre che hai, siano, come dire… più deboli, meno d’impatto di queste, capisci. Anche perché, più lavoro vediamo e più abbiamo la possibilità di renderci conto del tuo effettivo valore >. E l’altra ragazza aggiunge, vedendomi un po’ smarrita, < Vogliamo sempre essere sincere, per non illudere nessuno. Non ti preoccupare però, queste che hai portato vanno bene. Vorremmo solo conoscere di più il tuo lavoro, prima di proporti qualcosa… Ok? >. E l’altra di nuovo interviene aggiungendo: < Potresti spedirci altre foto… Che ne dici? Così non dovresti ritornare >. Riprendendo un po’ di entusiasmo. < Sì, sì, fra l’altro in questi giorni ne ho fatte altre, che mi sembrano molto
belle… Certo, vi mando qualcosa >. Loro, quasi in coro: < Perché sai, stiamo preparando una serie di tre collettive, con sei artiste per ogni mostra, dedicate alla fotografia. Ogni artista avrà la possibilità di esporre cinque o sei foto, vediamo se c’è la possibilità di inserire anche te. A proposito tu, di solito, che o usi per esporle? >. Titubante dico: < Beh, pensavo di farle incollare su forex e poi mettere dietro una cornice che permetta loro di staccare dal muro due centimetri… Che ne pensate? > < Sì, sì va bene, perfetto > Più parliamo e più mi sciolgo, mi sembra di essere stata promossa ma con riserva di verifica. Non so, forse mi aspettavo più entusiasmo da parte loro. Mi sembra giusto, però, che loro si muovano con i piedi di piombo, che vadano caute, non mi conoscono, non mi posso aspettare di più. Va bene così, sono contenta. Mi guardo intorno, mi stacco dal gruppetto e giro per la galleria. Le ragazze continuano a parlare tra di loro, è un po’ che non si vedono con Emi. Osservo i lavori esposti in questa collettiva mista tra pittori e fotografi. Guardo le loro opere, sono belle, interessanti, non le solite foto. Dentro di me si sta facendo posto una forza, mentre osservo queste immagini. Sento che anch’io, col mio lavoro, potrei stare accanto a questi fotografi, penso che le mie foto potrebbero reggere il confronto con le loro, senza aver nulla da perdere.Questo mi rasserena forse anche più del loro giudizio e mi dico: – sì, si forse… Anzi senz’altro dovrò lavorare ancora e con più grinta e decisione, ma sento di essere sulla strada buona. Non mi basta, ma ci posso entrare in questo mondo –. Intanto mi si avvicina una di loro e mi chiede: < Che cosa ne pensi, ti piacciono questi lavori? >. Io rispondo serena e sintetica: < Sì, sono interessanti >. E continuo a guardare, senza darle l’impressione di sentirmi troppo emozionata di fronte al lavoro di altri. Ora mi è montato quasi un senso di ribellione, di spavalderia, che comunque cerco di tenere per me, in me. Troppe emozioni mi stanno ando dentro in
questo pomeriggio, devo lasciar sedimentare un po’ il tutto, per capire meglio, per trarre conclusioni più giuste. Le ragazze ci propongono di fermarci per fare un aperitivo, prima di ripartire. E noi accettiamo più che volentieri. Primo perché qui a Firenze ci sono dei localini molto carini, e poi, anche perché ci tengo a conoscerle un po’ di più, per capire meglio la loro mentalità. Non voglio far giudicare il mio lavoro da persone che non mi convincono, anche se sono amiche di Emi. - Anche loro devono are un piccolo esame, no?-. Nell’attesa che venga l’ora di chiusura della galleria, facciano un giro, io ed Emi. Mentre eggiamo, guardando le vetrine di abbigliamento, la mia amica mi chiede: < Bene, allora che ne pensi? E’ andata bene, no? >. Ed io senza esitare: < Sì sì, è andata bene, però voglio lasciare are qualche giorno per vedere come mi sentirò. Intanto gli spedisco altre cose e rimango in attesa del loro giudizio. Sono curiosa di sapere se anche queste foto sono all’altezza delle altre. Non voglio avere fretta di avere giudizi esaltanti, è giusto cosi, che non ci sia stato eccessivo entusiasmo >. < Sì,fai bene a essere con i piedi per terra. Non conviene mai eccitarsi troppo o credere di aver fatto chissà che capolavoro. Però… Le tue foto, sono piaciute e devi essere contenta di questo risultato, tesoro >. Detto questo, si ferma per lanciarsi in un abbraccio sincero, che io ben volentieri contraccambio. Ora che tutta la tensione è sparita, mi sento come su una nuvola e mi sembra di aver fatto un ettino in più nel mondo dell’arte. E’ già qualcosa. Sento con piacere che dentromi sta già venendo voglia di prendere la macchina fotografica per lavorare. La mia mente e i miei sensi sono già a caccia d’idee nuove. – Sì, così mi voglio sentire, elettrizzata e vogliosa di catturare attimi che fluttuano nel mondo, nella giornata di noi esseri umani e non aspettano altro che
di essere catturati -. Le due ragazze della galleria hanno terminato la loro giornata. Noi, puntuali, le abbiamo raggiunte per l’ora della chiusura. Stanno parlando di portarci in un bel localino, non distante dalla galleria e dalla stazione. Ci avviamo con calma parlando del più e del meno. Mi chiedono di me. Che cosa faccio oltre le foto. Nel frattempo arriviamo al locale, fuori c’è un mucchio di gente, sembrano tutti modelli e modelle tanto sono belli e vestiti bene. Non sono posti che prediligo, però il locale è molto carino e il clima è bello, la gente è allegra, spensierata. Ci sono camerieri che girano con vassoi in mano. Uno ci accosta e ci offre dei bicchierini con un liquido caldo e chiaro che non saprei dire cos’è. Lo sorseggio e mi accorgo che è brodo caldo ed è piccante. Bella idea e soprattutto buono, molto. Intanto ne a un altro, con un vassoio di uova sode ripiene, che buone. A questo punto, andiamo al banco a prenderci un bicchiere di vino. Io e Emi prendiamo un bianco fermo, siciliano, le altre ragazze, un bicchiere di rosso, un chianti classico. Che fame che mi è venuta. Mi guardo intorno e vedo dei fornellini con dentro delle salse calde. Ne scelgo una con pomodoro, capperi e acciughe piccanti a pezzetti. Ne metto un po’ sul pane abbrustolito, è fenomenale. Non si parla molto, la fame e la voglia di bere hanno il sopravvento. Io sono già al secondo bicchiere di vino. Arriva un altro cameriere, con un vassoio con foglie d’insalata con dentro baccelli cotti e formaggio a dadini. Mi sembra un sogno questo posto, non avevo mai fatto un aperitivo cosi buono, in un posto così simpatico. Ci mettiamo un po’ a sedere, le ragazze sembrano conoscere molti dei frequentatori del locale, e quindi sembra un po’ svanire l’opportunità di conoscerle un po’ meglio. Alla fine è più il tempo che parlo con Emi che con loro.
Si è fatta quasi l’ora di andare a prendere il treno. Andiamo a pagare e salutiamo le ragazze, con la rinnovata promessa di mandare loro altre foto in visione. Il treno parte infilandosi tra le luci artificiali della notte. Non riesco a capire bene cosa sento, e cioè se sono delusa o contenta. Delusa non potrei dire, in definitiva le ragazze mi hanno fatto una buona impressione, in quel poco tempo in cui sono potuta stare con loro. Avrei preferito parlare a loro di più. Sento che mi devo anche fidare di un certo istinto. D’altra parte non potevo aspettarmi che suonassero le trombe e mi stendessero davanti tappeti rossi. Sono i primi lavori che sento veramente buoni. Credo che anche partendo da questo presupposto, non mi sentirei di dire che hanno sbagliato a essere caute. Poi c’è anche la mia età che ha il suo peso. Sono così giovane, credo che abbiano preso in considerazione anche quest’aspetto, la mia poca esperienza. Avessi avuto trent’anni forse, sarebbe stato diverso, non so. Comunque con dodici foto soltanto, non si può capire molto del lavoro di una fotografa, ed è più che normale che vogliano vedere altro materiale. Questo però non mi spaventa, so che ho molte altre foto, allo stesso livello di quelle che ho stampato e gli ho portato. In definitiva, sembra che tutto sia andato bene. E allora che cos’è questa spina che sento nel fianco. Che non mi fa godere a pieno questo piccolo successo che ho ottenuto oggi, dopo aver tanto lavorato, per queste foto, da sottoporre alle galleriste? Mi sono meritata questa piccola soddisfazione, e allora perché mi sento cosi poco appagata? Ho agognato per settimane questo momento, è arrivato, è andato bene, come speravo, e dentro di me sento questo vuoto che non riesco mai a riempire, anche se credo di sapere cos’è, sono onnipresenti angosce del ato che mi girano dentro. Il pensiero di mia madre soprattutto, e poi i miei fratelli, la loro approvazione che ancora non ho ottenuto.
Sì, ecco che cosa manca a questa giornata. Ho visto il mio lavoro a casa e in galleria. L’hanno visto le amiche e le galleriste… E’ piaciuto a tutti. C’è quel ma, che ora riesco a vedere come fosse un’apparizione, che sale da sotto la terra e mi si mostra. Manca il giudizio finale di mia madre che è ancora per me, purtroppo, importante. Il tassello che fa incastrare tutti gli altri. M’illudo e a volte riesco a dimenticare il mio ato, ma lui non dimentica me e mi aleggia sempre intorno. Non sono libera, mi sento ancora sotto il giogo di mia madre. La mia famiglia la sento appiccicata addosso, come l’edera avvinghia l’albero per succhiargli la linfa. Io non mi voglio lasciare soffocare, sto facendo i concreti per staccare quest’edera e vedere la mia famiglia come tale e non come la mia persecutrice. Voglio arrivare a far dire a mia madre che è fiera di me, che è contenta delle decisioni che ho preso. E magari, un giorno, e perché no, poterla aiutare anche finanziariamente. Sono cosciente che Gill continuerà a sottrarle di nascosto soldi che poi sperpererà nella sua vita smodata. Va bene, affronterò anche questa prova. Porterò le foto a farle vedere a mia madre, anche se so già che questa sfida dovrà ripetersi e ripetersi e non sarà facile. Questa è la vita che ho scelto, per tirami fuori da quella fogna. Guardo inebetita nel vuoto della notte che corre, nel treno che cerca di fuggirle. Emi ha gli occhi chiusi, forse si è assopita. Le luci troppo bianche del vagone m’infastidiscono gli occhi. Il mio corpo è stanco, provato da tutte queste emozioni. La mia mente gira a vuoto, basta pensare. Vorrei proprio essere nella mia stanzetta, abbracciata al cuscino e a luci spente, con la mente che viaggia molto lenta, a velocità di eggio. Tutto il giorno ho sentito una mancanza, che solo ora, tra queste luci noiose, la stanchezza, gli occhi che mi si chiudono dal sonno, riesco ad afferrare e a rendere reale. Mi è mancata la presenza del “mio cinese”. Sarebbe stato bello se lui fosse
venuto con me, per affrontare insieme questo mio primo esame. Chissà dov’è, se mi pensa un po’ o è concentrato esclusivamente sul suo matrimonio e sulla sua futura sposa. Mi sembra cosi folle essere ricchi e tristi. I poveri sì che lo possono essere tristi, è un loro diritto acquisito. Essere ricco, poter avere molto, se non tutto ed essere insoddisfatto della propria vita, essere prigioniero d’idee e bisogni altrui, mah!… Io, non riuscirò mai a fare questa esperienza. Beh, l’insoddisfazione l’ho assaporata, in quanto alla ricchezza la vedo dura per me da provare. Ciò che diventerò un giorno, penso che lo dovrò a me stessa e all’impegno che sto investendo nella mia vita. E’ meraviglioso, mi fa sentire bene, anche se il mio futuro è incerto e lo dovrò conquistare metro per metro.
Mentre sono in camera, accendo il computer, quasi con fare meccanico. Ho del tempo e voglio “gettare” un’occhiata alla serie delle foto che ho fatto, tra cui, le dodici foto che ho stampato. Devo sceglierne un po’ da spedire alle ragazze ma oggi non lo voglio fare, le guardo solo per vedere le emozioni che mi suscitano. Voglio prendermi del tempo, non è necessario che gliele invii subito. Inizio a scorrerle, dalle prime che ho fatto al mio amico cinese. Mi sento bene a guardarle, mi viene da sorridere, ricordando quei momenti e questo mi conforta. Ne conto diverse che sono buone. Non vedo l’ora di arrivare alle ultime fatte nei vicoli, quelle in cui mi sono concentrata sul suo volto e selezionare le migliori anche di quelle. Sono alle foto che ho fatto di spalle, mentre lo lavo. Interessanti, tanto che ne vorrei fare altre nella stessa situazione. Magari usando due macchine, una dietro di me e un’altra dietro di lui. Ci penserò, le idee vanno conservate e sperimentate. Eccomi arrivata alla serie di lui e la ragazza cinese. Mentre scorro le foto, sento un piccolissimo tuffo allo stomaco, come se per un attimo una mano lo stringesse e subito lo rilasciasse. Questa cosa mi stupisce, mi fa pensare, mi domando come mai mi succede questo… Ricordo che provai una sensazione simile solo col mio secondo ragazzo, quando capii che avremmo fatto l’amore. In quell’occasione fu più forte la stretta allo stomaco e durò molto di più. Non mi era più successo e poi ora, mentre guardo le foto di lei. Nella mia mente salta fuori come da un nastro registrato la sensazione che provai a vedere e a toccare quella sua pelle liscia, come mai avevo toccato. Quei piccoli seni tondi, sodi, caldi, che bollivano fra le mie mani altrettanto calde. La vista di quell’indicazione di peluria, quel triangolo appena accennato ma che faceva scivolare lo sguardo appena più sotto, dove la pelle diventa più scura e si divide in due parti. Mentre penso a quella situazione, sento il petto e il ventre prendere calore come una stufa a serpentina che diventa rovente piano piano.
Le orecchie mi ronzano leggermente, gli occhi sono catturati, incollati a quelle immagini, a quel piccolo, minuto corpo dalla pelle brillante. La luce lo colpiva, facendolo risplendere e rimbalzare dentro i miei occhi. Sto provando ancora la sensazione che avevo sentito quella sera per strada, quando cercavo un’avventura. Questa parte di me la conosco talmente poco che ogni volta che si affaccia ne rimango turbata. Non capisco bene da dove mi arriva. Capisco solo che mi sale un calore, un turbamento. La testa mi va fuori equilibrio, è come se a un certo punto mi mancasse di colpo il respiro e mi sentissi che sto per macchiarmi con il colore del peccato. Di una macchia che mi dà la sensazione di essere indelebile. Ritraggo il dito che preme il tasto per far girare le foto, come se fosse diventato incandescente. Mi guardo intorno, la porta di camera è chiusa sca non c’è. Sono sola, eppure è come se mi sentissi addosso gli occhi di decine di me, pronte a giudicare le mie emozioni e condannarle. Dentro di me c’è un qualcosa che mi dice: – non è giusto che provi emozioni per una donna –. Ho assaggiato cosi poco il frutto del sesso, che non so proprio cosa sia giusto provare. Il pensiero mi corre subito alla mamma. Che cosa penserebbe se mi vedesse così, ora. Se potesse leggere in me queste mie emozioni che mi traversano il corpo come una scarica elettrica, accendendomi i sensi come una lampadina a incandescenza. Sono spaventata, impaurita, mi ritorna alla mente la voglia che mi prese di baciarla e vestirla per ultima, per rimanere di più con il suo calore addosso e prolungare cosi il contatto con lei. Le strinsi anche la mano invece di salutarla con un cenno della testa. Spengo il computer imbambolata, senza pensare, incantata mi spoglio. Sfiorando con le mani la mia pelle, guardo fuori della finestra. La mia mente si perde nel vuoto, cercando la pace del silenzio interiore per fuggire a quegli strani desideri. In mutande, a piedi nudi, mi avvio verso il bagno per lavarmi, inconsapevolmente, non solo il corpo. A testa bassa, tento di cacciare tutti i pensieri. Mi pesa il senso di peccato che mi sento dentro che mi scaccia l’eccitazione,
imponendo la sua più pesante e invadente presenza. Apro la doccia, attendo sino a che non si scalda l’acqua e mi metto sotto il getto piacevole, del calore giusto per il mio corpo. Sento lo scorrere dell’acqua sulla mia pelle, che accarezza come piovessero mille piccole manine, che si uniscono a formare un corpo, che mi scivola addosso, dal davanti e dal dietro nel medesimo istante. Non riesco a scacciarmi quell’immagine, della donna nuda dalla mente, sento il duro conflitto che avviene dentro di me. Sto lì ad ascoltarlo, come io ne fossi una spettatrice, sono curiosa di sapere chi vincerà… La mano destra sale, sino al seno e lo tocca, come fosse quello della cinesina. Tolgo la testa da sotto il getto dell’acqua. Apro gli occhi e guardo lontano, oltre la parete e mi abbraccio. La nebbia del vapore mi avvolge, come se fossi dentro la mia mente. Ho voglia di masturbarmi ma la mano non riesce a staccarsi dall’abbraccio che mi scalda l’anima. Scuoto la testa, chiudo l’acqua. Afferro l’asciugamano e mi ci avvolgo dentro, gettando gli occhi allo specchio e guardandomi fissa cerco nel mio sguardo un’approvazione che mi provenga dal profondo. I miei lineamenti si sono fatti duri, quasi cattivi. Il rumore dell’apertura della porta di casa mi entra negli orecchi, come uno spruzzo di acqua gelida che sveglia la mia mente e rimette in moto il cervello. Afferro la maniglia della porta e la apro decisa ed esco, seguita dal vapore. Mi sento come se fossi stata colta sul fatto e colpevole di una colpa che ha poco senso, abbasso gli occhi. Mi sono trovata un altro ostacolo da superare, il mio senso di colpa. sca mi viene incontro, io l’abbraccio, nascondendo il viso tra i suoi capelli. < Ehi, stai attenta, mi bagni… ah ah >. E’ bello rivederla, anche se mi ha fatto uscire troppo velocemente da me stessa.
Mentre sono al bar che sto lavorando, squilla il cellulare, finisco di servire un cliente e tento di rispondere, ma non faccio in tempo. Guardo, è mia madre, penso che voglia che vada a trovarla. Effettivamente è già più di una settimana che mi dico: – poi, domani andrò a trovarla –. E così, vado avanti per giorni. La richiamo: < Pronto, mamma, tutto bene? >. Frase fatta, perché mi sembra impossibile che vada tutto bene, infatti, lei mi risponde: < No, non va tutto bene, sai, hanno picchiato tuo fratello >. Per un momento mi faccio prendere dal panico, non so perché penso subito al mio fratellino piccolo. Dopo un attimo, caccio quest’ansia assurda e sospettando chi è il malcapitato, le chiedo: < Chi? Gill >. < Sì> risponde con un filo di voce, il suo preferito e quindi è per forza molto triste. Io non so se essere contenta o dispiaciuta che abbia trovato un bastardo peggiore di lui. D’altra parte questa è la vita che si è scelto. Ambienti equivoci e quindi spesso pericolosi, dove trovi persone che non scherzano. Lui, il misero essere, è abituato in casa a fare il furbo, quello che spadroneggia. Fuori di quelle mura domestiche, però, non trovi la sorellina gracile che al massimo t’inveisce contro o il fratellino che come lo guardi male si fa piccolo piccolo e dove c’è una madre che ti protegge costantemente. Il “poverino“ oggi ha capito, se non se ne era ancora reso accorto, che fuori, dove va lui, c’è la giungla che lo aspetta, e lì vige la legge del più forte. Lui, in definitiva, è uno “stupidotto“. Per farmi sentire interessata e farle piacere, le chiedo notizie: < Ma come sta? E’ a casa? >. < Sìè a casa, ha un occhio gonfio, un labbro tagliato e ha perso sangue dal naso. L’hanno picchiato in tre, mi ha detto…>. Ed io fingendo interesse maggiore,
< … E il motivo? >. Pausa di lei e poi quasi le cavassero un dente, mi dice: <Mi ha spiegato che in quel bar ce l’hanno con lui. L’hanno accusato di aver rubato dei soldi… Non ho capito bene, come e dove… Sai, non riesce a parlare bene e si stanca >. Dal profondo della pancia, mi sale velocemente una rabbia che ci è mancato poco che urlassi. Certo, certo, poverino lui, è sempre l’angioletto innocente, i cattivi sono gli altri. Ruba in casa e lei lo sa bene che razza di disgraziato è, ma in un bar no… Non è possibile, ce l’hanno con lui… Quanto lo odio e anche mia madre mi fa innervosire non poco con il suo atteggiamento. E’ certo che se fosse capitato al mio fratellino o a me, ci avrebbe condannato, senza nemmeno farci aprire bocca. Bisogna che cerchi di calmarmi per continuare a parlarle. < Potresti venire a casa oggi o domani… >. Non ha il coraggio di dirmi di venire a trovarlo. Forse da una parte vorrebbe vedermi dispiaciuta per l’accaduto, dall’altra ha paura di leggere sulla mia faccia la soddisfazione di vedere che qualcuno gli ha dato, finalmente, quello che da qualche tempo meritava. Di certo mia madre non può pretendere da me che in qualche modo m’interessi di mio fratello Gill, nel bene o nel male. Così per calmarla un po’ mi faccio sentire un minimo preoccupata e inoltre, per tagliare corto poiché sono al lavoro, le dico: < Va bene mamma, oggi nel tardo pomeriggio faccio un salto a casa >. < Resti anche per cena? > Ingoio il rospo e pazientemente le rispondo: < Sì, mamma, però devo andare via presto, sono stanca e domattina lavoro, ciao, mamma >. Desidererei andarla a trovare in un’occasione diversa, magari quando Gill non è in casa, perché mi piacerebbe proprio portarle a far vedere le foto. Oggi non mi sembra il caso, sarà completamente concentrata a leccare le ferite a Gill e non vedrà altro. Meglio aspettare.
Roy avverte che dopo la telefonata, il mio umore è cambiato e si mette a scherzare facendomi subito ritrovare il sorriso. Sì… Voglio lavorare tranquilla e a stasera ci penserò stasera. Potrei prendere il treno delle diciassette e trenta e invece aspetto quello delle diciotto e dieci, perché non ho voglia di arrivare troppo presto. Salgo in treno e mentre sto cercando un posto a sedere, vedo un bimbo dare uno schiaffo a quello che probabilmente è il suo fratellino. Questa immagine me ne evoca un’altra del mio ato, quando noi eravamo più piccoli… Stavamo giocando in camera, quando il fratellino prese un giocattolo da dentro una scatola. Una macchinina sportiva. Gill lo videe come il solito volle strappargliela di mano. Il fratellino tentò di porre resistenza e Gill gli mollò uno schiaffo, gustandosi poi il gesto. Il fratellino pianse a dirotto. A me venne il sangue al cervello. Il mio fratellino non si può toccare. Detesto quando Gill esercita queste prepotenze su di lui. Gli saltai addosso e gli mollo un calcio in una gamba, lui grida e a sua volta si avventa su di me. Mi diede, una spinta che non mi aspetto, mi buttò a terra. Caddi distesa sulla pancia. Non contento di aver esercitato totalmente il suo sadismo, s’inginocchiòaccanto a me, di fianco e iniziòa darmi dei cazzotti sulla schiena. Mi fanno rimbombare la cassa toracica, come fossi un tamburo. Avevo il fiato bloccato, non riuscivo a urlargli contro di smettere. Il fratellino era così spaventato, che non so dove trovò il coraggio di saltargli addosso, interrompendo quel suo martellamento su di me. Non avevo mai visto il fratellino piccolo reagire così. Lui che era solito nascondersi, in caso di scene simili. Penso che in quell’occasione fosse veramente in pena per me. Naturalmente Gill non vedeva l’ora che lui avesse una reazione simile, per poi picchiarlo più a fondo. Che sadico bastardo che è sempre stato con noi. L’ho sempre odiato dal
profondo delle mie viscere. Accaddero decine di situazioni analoghe fra noi, il babbo a volte interveniva. Le rare volte in cui era presente, cercava di difendere noi più piccoli. Non direi che lui avesse un preferito, come per la mamma. Se ne fregava ugualmente di tutti, senza fare discriminazioni. La mamma, pretende un po’ troppo, se mi vuole coinvolgere nel suo “lutto“. Non vedo l’ora di guardare Gill nei suoi occhi di bastardo, per fargli leggere nei miei quanto piacere provo nel vederlo così pesto. Starò attenta a non far vedere il mio sguardo a mia madre, che comunque m’intristisce vederla soffrire. Anche se, a dirla proprio tutta, è una sofferenza che non vale la pena di darsi. Dopo solo quindici minuti arrivo a destinazione. Esco dalla stazione e prendo l’autobus che mi porterà vicino a casa di mia madre. Questa sera, più di altre volte, mi sembrerà di dover recitare una parte, giacché la serata sarà improntata sulla visita più a mio fratello Gill che alla famiglia. Invece di sentirmi depressa per questa rimpatriata in famiglia, mi voglio proprio divertire a vedere mio fratello “pesto”. Appena aperta la porta di casa, mi viene incontro il fratellino piccolo, che gioia mi dà sempre vederlo. Poi cerco la mamma, che trovo in cucina ai fornelli. Anche Gill è lì a sedere in cucina. Appena mi vede alza lo sguardo e mi guarda negli occhi. Nonostante la “riata” che gli hanno dato, mi getta uno sguardo strafottente. Non ci salutiamo, al solito. I miei occhi lo guardano con un sorrisino maligno stampato sopra. Vorrebbe ruggirmi contro le sue frustrazioni in versione “macho”, ma il dolore che sente persistente, sulle ossa e sulla carne del suo viso, glielo impedisce e il suo orgoglio, questa volta, è costretto a subire i miei sguardi divertiti. Mia madre cercando di coinvolgermi mi dice:
< Hai visto cosa gli hanno fatto quei vigliacchi >. Io mi limito a un laconico < Già…>. La serata a prevalentemente nell’essere più concentrati sul mangiare che sul parlare, meglio per me. Gill mangia con difficoltà, tanto che quasi subito si arrabbia e lascia la tavola per rinchiudersi in camera, sbattendo la porta dietro di sé. La mamma è triste e imbarazzata nel vederlo così, io me la godo, è una delle poche volte in cui ho il piacere di vederlo in difficoltà. Persino la mamma penso che sotto sotto, anche se non lo ammetterà mai, pensi che sia stato lui a rubare in quel bar. E ancora una volta mi domando, e non smetterò mai di farlo, presumo, perché, perché mai, la mamma è così “innamorata” di lui anziché di noi. Beh, non parlo tanto per me quanto per il fratellino piccolo, che è così indifeso e bisognoso di attenzioni, affetto, amore. Non che io non ne abbia bisogno, ma almeno, anche se a fatica, riesco a camminare da sola. Rispolvero la scusa che devo alzarmi presto, per lasciare presto quella casa che ormai sento sempre meno mia. Saluto la mamma, la abbraccio, per darle l’idea che le sono vicina in questi momenti. < Ciao mamma, domani ti chiamerò per sentire come va >. Ed esco da casa come non mi capitava da qualche tempo di uscire, serena.
Che bella questa giornata, ho appena finito di lavorare – andare a casa e non sfruttare questo magnifico sole, mi sembra stupido. Andare al parco a sdraiarsi su un prato potrebbe essere già un’idea migliore –. M’incammino, però non mi sento nella motivazione giusta. Infatti sento che la mia mente mi spinge in una direzione diversa da quella che hanno intrapreso i miei piedi. E’ meglio che mi fermi a pensare, e poi decido – no, il parco no, non mi convince. Non saprei dove andare a godermi questo bel sole –. D’impulso mi viene da prendere il cellulare e telefonare a mia madre, mentre aspetto che mi venga l’ispirazione sul da farsi.
. < Al solito >. Per farle piacere le domando di Gill. < … E Gill sta meglio? >. < Sì, sìsta meglio, tanto che è andato a trovare degli amici a Genovae tornerà domenica >. Io spalanco le orecchie, non voglio credere a quello che ho appena sentito, tanto per essere più sicura le ripeto: < … Ah sì, tornerà domenica, allora ti sentirai un po’ sola… >. Meno male che stava così male, che figlio di un cane. Comunque questo mi dà l’occasione che aspettavo per portarle a far vedere le foto. Sto letteralmente friggendo dall’impazienza e cosi le dico: < Allora potrei venirti a trovare domani sera, cosi ti porto a far vedere le foto, cosa ne dici? > e mia madre mi risponde subito: < Sì, se vuoi… Mi fa piacere, anche se forse le avrebbe viste volentieri anche Gill. Potevi portarle ieri sera quando sei venuta >. Cerco di mascherare la mia piccola malizia. < Sì, ma le potrà vedere un’altra volta, capiterà un’altra occasione. E poi
pensavo che ieri non fosse il caso, visto il suo stato di salute >. Lei pensa giusto un momento e mi dice: < Va bene, allora a domani sera per cena, ciao >. La saluto: < Sì, ciao mamma >. Due sere a cena in famiglia, sarà troppo, ma… Però ho troppa voglia di far vedere le foto alla mamma. Un suo giudizio positivo mi rasserenerebbe. Purtroppo mi sento ancora legata ai suoi giudizi. Mi sono fissata sul fatto che voglio che un giorno sia fiera di me. Nell’attesa che questo giorno arrivi, andrò a sdraiarmi su di un prato a leggere. L’indomani è un’altra bella giornata, oggi voglio sfruttare due occasioni, andare a cena dalla mamma e fare un “salto al mare”, per godermi sole e profumo di salsedine – bella idea – mi dico. o da casa a prendere le foto e già che ci sono, voglio portare con me anche la macchina fotografica. Così magari ci scappa di fare anche due foto al mare e farle poi vedere ai miei amici del bar e farli morire d’invidia. Faccio tutto di corsa, voglio essere al mare il prima possibile, mi precipito a casa prendo le cose e volo alla stazione. Per fortuna ho il treno tra soli venti minuti. Troverò all’uscita della stazione di Livorno l’autobus per il mare. Fa capolinea lì e l’ultima fermata è proprio all’inizio della costa. Salgo in treno, sono contenta ho proprio voglia di lasciarmi andare al sole, sopra uno scoglio, magari anche solo per un’oretta. La cosa migliore è che Gill non sia in casa. Voglio far vedere le foto alla mamma in tutta tranquillità. La sua opinione può essere importante per avere un nuovo rapporto con lei, in futuro. Sarebbe bello che riuscisse a capire, prima o poi, che può essere positivo anche fare fotografia e non solo avere un posto fisso da qualche parte. Anche se lei, penso, lo capirà meglio il giorno che comincerò a guadagnare con le foto. Già il fatto che possa apprezzare il mio lavoro, può essere un primo o. Perché ci tengo a farle vedere che non sono andata contro le sue attese perché voglio contrariarla, ma solo perché ho bisogno di cercarmi una strada più consona alla mia natura.
Esco dalla stazione, acquisto il biglietto, l’autobus è lì fermo, mi dicono che partirà tra dieci minuti. La giornata è proprio bella, penso che senz’altro scatterò qualche foto. Scendo all’ultima fermata, proprio dove inizia la scogliera e la striscia di boscaglia che s’interpone tra la strada e gli scogli. Devo fare un piccolo tratto a piedi per arrivare alla stradina in terra battuta che attraversa la striscia di boscaglia. Mi a a fianco lenta una macchina che si va a parcheggiare proprio vicino all’ingresso della stradina. Ne scende una coppia.Lui sembra vicino ai cinquant’anni, non molto alto, capelli corti, grigi, dà l’impressione di essere un bel tipo. Lei invece è molto più giovane, qualcosa di più di trent’anni, un bel corpo equilibrato, messo in evidenza dagli abiti attillati. Capelli castani scuri, tagliati pari, che le arrivano a metà schiena, carina. Mi anticipano, inoltrandosi sulla via per il mare. Penso che con questa bella giornata ci sarà gente a prendere il sole, anche se non è ancora iniziata la stagione. Sono a cinquanta metri da loro, a un certo punto li vedo lasciare la stradina e inoltrarsi tra la vegetazione. Questo fatto subito m’incuriosisce. Arrivo anch’io al punto che hanno tagliato per entrare nella boscaglia. Mi fermo a pensare. Di fronte a me, inizio a vedere la linea blu del mare. Il sole è già caldo ma un leggero venticello mitiga la temperatura. Non c’è nessuno in giro. Sento il rumore della natura che mi circonda. Intanto il mio cervello si è bloccato e le mie gambe non vogliono proseguire. Prendo la macchina fotografica in mano, senza pensare tolgo il tappo dall’obiettivo e la accendo. Trovo la forza per voltarmi di lato, il cuore inizia ad accelerare il battito, la mente nasconde ciò che non osa pensare. La pancia inizia ad accogliere tensione. Le gambe si muovono incerte e malferme, sto seguendo quella coppia. Mi è presa l’irrefrenabile voglia di fotografarli di nascosto.
Tremo letteralmente dalla paura. Inizia sfrenato il combattimento dentro di me tra due voglie opposte, seguirli o no. Proseguo scansando i rami, cercando di non far rumore, si sono inoltrati più dentro la boscaglia. Guardo dentro il mirino della macchina e muovo lo zoom per cercarli, non li vedo ancora. Allora avanzo, mi tremano le gambe e le mani, non oso pensare cosa succederebbe se mi scoprissero. Mi fermo ad ascoltare il cuore che vuole uscire del petto. No, non ce la posso fare, mi si smuovono mille movimenti di stomaco, di pancia, il respiro è interrotto… Ne faccio uno a pieni polmoni, per portare più ossigeno al cervello e vedere se riesco a prendere coraggio. Avanzo ancora un po’ e ancora e ancora. Finalmente eccoli, li posso vedere da una distanza di ragionevolesicurezza. Sono in piedi, lei è appoggiata a un albero, la camicetta aperta e la maglietta tirata su fino a sotto il mento. Lui le sta baciando un seno e con la mano le accarezza l’altro. Li guardo e mi paralizzo. Porto la macchina davanti al viso, quasi più per nascondermi dietro che per fotografarli. Ho una paura folle che possano sentire il clic dello scatto, anche se sono abbastanza lontana. Li osservo da dentro l’obiettivo e ascolto i rumori che produce il venticello che muove le foglie e del mare, per capire se possono coprire i miei rumori, e poi… Finalmente… Azzardo e faccio la prima foto. Tolgo subito la macchina dal viso per accertarmi che non abbiano sentito. Tutto bene, posso continuare relativamente tranquilla, sono presi dal loro vortice d’amore. Ora lui si è inginocchiato e le bacia la pancia e l’ombelico, mentre continua a baciarla, le slaccia i pantaloni e le tira giù la lampo dei jeans attillati. Le mani di lei, sono sulla testa di lui, gli occhi chiusi, la bocca semi aperta. La posizione della testa leggermente indietro che si puntella al tronco dell’albero, per inarcare
la schiena e offrire meglio la pancia ai baci di lui. C’è una parte di me che vorrebbe sempre scappare, la devo trattenere a forza, mentre cerco di stare concentrata su quello che sto facendo. Voglio fare più foto che posso. Intanto lui le ha tolto i pantaloni, lasciandoli cadere da una parte senza badarvi e la guarda dal basso in su. Con le dita delle due mani afferra le mutandine e con una mossa decisa, gliele tira giù sino ai piedi. Mentre lei ha una scossa di piacere, io quasi nello spostarmi inciampo e casco in terra. Mi devo appoggiare all’albero che mi sta nascondendo, per non far rumore. Lui affonda il viso tra la pancia e le sue gambe, lei è completamente persa, gli afferra i capelli con le mani serrate a pugno. Io provo a spostarmi, per inquadrarli più di fronte. Ecco ora lui lo vedo di spalle e inquadro bene lei. L’espressione del piacere sul suo viso e il suo desiderio di ulteriore attenzione. Poi d’improvviso lui si alza in piedi, si toglie la maglia, i pantaloni e le mutande con una foga, una velocità fulminea e le si fa addosso prendendola, dopo averle sollevato parzialmente una gamba. Inizia a muoversi in lei, che ha la testa piegata all’indietro, offrendo il collo ai baci di lui e nel farlo soffoca in gola un urlo a bocca aperta. Nella mia di bocca, invece, non riesco a trovare più una goccia di saliva, è completamente secca. Mi sento tramortita, sconquassata da tutte le parti, il cuore che si sposta dal petto alla gola per finire nella pancia. o da stati di fermezza, di decisione, a quelli di paura, rasenti al tremore. I miei piedi sono piantati in terra, fermi, come se sotto avessero sviluppato le radici. Non so più se continuare a fotografarli o solo guardarli. Lei lo bacia sul viso dolcemente, lui la bacia sul viso altrettanto delicato. Emanano amore. Si percepisce non solo ione.
Mi sorprendo gli occhi inumiditi di emozione. Ora basta, basta, li voglio lasciare soli al loro amore. Mi giro e lentamente ripercorro i miei i a ritroso, per arrivare alla stradina sterrata. Mi sta assalendo un gran senso di colpa che mi s’indurisce nello stomaco. Mi sento un po’ come una ladra. Sono altrettanto curiosa, però, di vedere cosa è venuto fuori da queste foto. Raggiungo gli scogli, mi tolgo il giubbotto, metto gli occhiali da sole e guardo dinanzi a me l’orizzonte. Il mare calmo, a discapito di ogni cosa, fa il suo movimento di avanti e indietro. Il rumore delle piccole onde che s’infrangono sugli scogli e il sole assopiscono i miei sensi. Non penso più ai ragazzi, sino al momento in cui li vedo arrivare mano nella mano. Mi ano vicino, ignari, sorridendomi, io li saluto con un cenno del capo. Si vanno a sdraiare su uno scoglio piatto, poco più in là. Provo un po’ d’invidia. Mi sdraio anch’io e provo a non pensare e a sentire solo la natura. Si è fatta l’ora per lasciare questo splendido angolo di paradiso e andare a prendere l’autobus che mi condurrà in città. Mi alzo svogliata da sopra il mio scoglio, il venticello si è fatto via via più fresco e il sole è sul tramontare. Mi guardo intorno e pochissime sono le persone che rimangono a guardare lo spettacolo del tramonto. Mi è preso qualche brivido di freddo, aumentato forse dalla tensione che inizia a farsi spazio in me. Far vedere le foto a mia madre, sarà una bella e ulteriore sfida – sarà sempre cosi la mia vita, un susseguirsi di sfide? –. Bene, andiamo, mentre ripercorro la stradina sterrata, un altro pensiero arriva a farsi sentire. Vedere le foto che ho fatto prima ai ragazzi, m’incuriosisce e non poco. Cerco di rimanere attaccata a questo pensiero e al ricordo delle sensazioni che ho provato nel fotografarli, mentre percorro il tratto di strada che mi porta alla fermata dell’autobus e la tensione si mette per il momento in stand-by. Non ho voglia di arrovellarmi il cervello su cosa dirà mia madre nel vedere le foto. I nudi del mio amico modello. Nonostante abbia messo questo pensiero in retrovia, ritorna più forte e presente
che prima e scavalca tutti gli altri. Sarà una sorta di suicidio far vedere a mia madre quelle foto? Quantomeno un azzardo. Non potevo fare foto diverse e stamparle, solo per farle vedere a lei. Questo è il mio lavoro. D’altra parte, se le ragazze della galleria m’inseriranno in una collettiva, cosa farò?… Non inviterò la mia famiglia? Proprio alla mia prima mostra? E allora come potranno mai capire il mio lavoro di fotografa, e il mio modo di esprimermi. È un rischio quello che sto correndo lo so, ma sento che lo devo fare. Ho bisogno di far capire e condividere le emozioni della mia vita con lei, mia madre. Se non sarà ancora pronta a capire, comunque io andrò avanti per la mia strada, finché arriverà il giorno in cui dovrà arrendersi al fatto che questo sarà il mio lavoro. Questa sfida sento che mi stimola a tirare fuori il meglio di me e a lavorare con più determinazione. Se già la mamma vedesse, leggesse questa mia ione, nelle mie foto, sarebbe importante. Salgo sull’autobus come una condannata che è portata al patibolo – no… non voglio avere questo sentimento dentro di me –. Lo scaccio, cercando di far emergere la forza della convinzione e del pensiero che il mio lavoro è bello e di valore. Voglio arrivare a casa, bella carica e non già sconfitta, devo emanare positività, convinzione, se no è meglio che non ci vada nemmeno. Mi fermo dal pasticcere, vicino casa, per comprare un po’ di paste. So che al mio bello e dolce fratellino faranno molto piacere e anch’io sono golosa di dolci. Apro la porta di casa e subito il fratellino, che mi vede, mi corre incontro abbracciandomi forte. E’ sempre contento di vedermi. Il conquistarmi la stima e l’amore della mamma e il vedere lui, sono il motivo principale per ritornare qui, in questa casa, cosi spenta, senz’anima, soprattutto di sera, con queste luci cosi fioche che richiamano la tristezza e la malinconia. La mamma è in cucina ai fornelli, si gira appena per salutarmi, continuando a rimescolare nelle pentole. Poso le paste sul tavolo e vedo gli occhi del fratellino brillare: < Sei contento che ho portato le paste… >
Gli dico sorridendogli. Nonostante tutto ogni volta che ritorno in famiglia, i primi momenti, spero sempre di are una piacevole serata. Non potrei nemmeno lontanamente pensarlo, se fosse presente Gill ma soprattutto stasera che non c’è mi attacco, con tutte le mie forze, a questa piacevole speranza. Prima di mangiare non mi azzardo nemmeno a tirare fuori le foto e nemmeno a parlarne. Non ho l’intenzione di incrinare l’atmosfera di tranquillità che c’è nell’aria. Mangiamo parlando poco e facendo attenzione a non toccare argomenti pericolosi per il buon andamento della cena. Siamo al caffè. Il momento si avvicina. Bevo in fretta, improvvisamente mi è presa la smania di arrivare al dunque della serata. Desidero vedere la reazione della mamma. La aiuto a sparecchiare e nello stesso tempo le dico: < Mamma, hai voglia di vedere le mie foto? >. Lei mi guarda, come se, all’improvviso, con questa mia frase, l’avessi fatta tornare sulla terra, e mi dice stanca: < Sì, va bene >. Le dico, emozionatissima: < Allora siediti lì, mamma >. Il fratellino le si siede accanto in trepida attesa. Anche nella mamma vedo affacciarsi un certo desiderio di sapere quel che faccio. Prendo le foto e le tiro fuori dalla cartellina rigida. Sono le dodici foto che ho portato a far vedere alle galleriste. Per ora, non ho avuto ancora il tempo di stamparne altre. Gliele o, lei inizia a sfogliarle con attenzione ed io approfitto per riguardarle con lei ancora una volta. Gli occhi della mamma, mentre procede, si spalancano sempre più verso uno sguardo d’incredulità, mi sembra di leggerle sul volto. Sono tesa, non oso pensare a nulla. Le foto sono belle e nude. Arriva all’ultima, il suo volto si è fatto una maschera di cera, tanto non lascia trasparire nulla. La sua bocca è muta e chiusa. Il
fratellino ha un sorriso enorme stampato negli occhi, gli sono sicuramente piaciute. Io cerco di rompere il silenzio imbarazzante, dicendole: < Lo so mamma, che non sono le foto che ti saresti aspettata… Sto lavorando sul corpo umano e le sue espressioni più diverse e… E ho bisogno di lavorare sul corpo nudo. Non saranno sempre così, infatti, le ultime che ho fatto e non ho ancora stampato sono tutte dedicate al soggetto del viso >. Trattengo il respiro mentre aspetto una sua reazione. Lei non parla, sento che mi sfugge, che non capisce. Non ci prova nemmeno, è lontana da questo mondo, da questo modo di vedere le cose e così cerco ancora, con le parole, di ridurre questa distanza e le dico: < Sai, sono stata da due ragazze a Firenze che hanno una galleria d’arte… E a loro sono piaciute molto, tanto che stiamo parlando di fare una mostra, tra qualche mese >. Allora lei con sforzo, sgretolando quella sua maschera, esce dal suo mutismo e dice, con lo sguardo perso, nel vuoto: < … E ci sarebbe gente interessata a vedere questo tipo di foto? >. Il gelo cala nella cucina, come se una lastra di ghiaccio incombesse sulle nostre teste. Con un ulteriore sforzo, richiamo tutte le forze nervose che ho in corpo per non voler assistere alla disfatta di questa serata. Dalla pancia mi viene su con un tono di preghiera mista alla disperazione da dirle: < Ti prego mamma, dammi una possibilità, cerca di capire in che realtà viviamo oggi. Inoltre cerca di vedere anche la qualità delle foto, non ti fermare solo al concetto di nudo… > e lei di rimando: < E poi, chi sarebbe quel tipo cinese, non starai mica con lui? >. Con il cuore in gola, afferrato con i denti per non sputarlo sul tavolo, le dico: < Mamma, è solo il mio modello, è per caso che ho scelto lui >. Si alza dalla sedia, pesante come una montagna e getta lì una frase, che determina la conclusione della serata, almeno, io, la vivo cosi: < Ma… Forse, io sono un po’ troppo all’antica e… E non posso capire… >. Mette tutta la sua pesantezza, nel rafforzare e strascicare quelle parole “ non posso capire “. Come se, in realtà, volesse dire che sono io che non capisco.
Sì, prevedevo questa reazione, purtroppo. La strada sarà lunga, ma mi sono messa bene in testa di riuscire a farle apprezzare il mio lavoro, un giorno. Va bene, stasera è andata cosi, lo sapevo già prima di entrare in casa. Questa situazione mi mette dentro anche la rabbia di andare avanti e fare sempre meglio, perché una volta ancora, riguardando le foto, ho sentito che io valgo. Raccolgo le foto dal tavolo, le rimetto con attenzione nella cartellina. Alzo lo sguardo e la vedo di spalle, con quella sua forma pesante ricurva sull’acquaio. Non provo rabbia, semmai tenerezza nei suoi confronti ma mi sento ancora una volta sola. Il fratellino ha assistito, silenzioso, ma non impaurito. Sento che lui almeno è dalla mia parte. Lo guardo negli occhi e con un sorriso un po’ triste dico: < Io vado mamma >. Lei non risponde nemmeno, sta lottando con i suoi pensieri pesanti. Il fratellino si alza e mi accompagna alla porta, per sussurrarmi, < … A me sono piaciute tanto > e mi bacia sulla guancia, tenero. Mi accarezza il cuore sentire le sue parole ed esco da casa più leggera. Cammino percorrendo la strada che mi porterà a casa, stordita, in preda a sensazioni altalenanti che vanno dal piacere delle ultime parole pronunciate dal fratellino, alla tristezza della pesantezza, della chiusura mentale, espressa da mia madre. Cammino a testa bassa, ma non posso dire che mi sento sconfitta. Anzi, o dopo o, sento che mi si sta sviluppando in testa l’idea di scegliere le foto da mandare alle galleriste. Sì, proprio stasera, quando arrivo a casa. Sento che c’è qualcosa al centro di me che è solido, che è deciso, che non si piega a nessun vento. Da qualsiasi parte arrivi questo vento. Questo mi meraviglia molto. Sentire questa certezza mi carica al punto che accelero il o, non vedo l’ora di accendere il computer e vedere le foto da selezionare fra cui ci saranno le ultime, quelle del viso rosso. Ho anche da vedere quelle fatte al mare. Già che ci sono, seleziono anche quelle da mettere su o e portare alla mia amica al bar… Waoo. Sì, mi prede sempre più un’eccitazione che spazza tutte le
nebbie. Eccomi al portone, lo apro in fretta e salgo a due a due i gradini per arrivare prima alla porta di casa. Dalla porta socchiusa di camera di sca, la vedo china sul libro. La saluto appena e corro in camera, accendo il computer e m’immergo, con lo sguardo attento, nelle mie immagini. Dopo una mezzoretta ho scelto le quattro foto da portare al bar e le quindici da spedire alle ragazze. Le spedisco subito e metto nella pennetta le altre, domani le porterò a sviluppare e montare su o. Bene, ora sono proprio stanca, mi metto a dormire.
Dopo tre giorni finalmente sono pronte le foto da portare al bar, mentre dalle ragazze ancora nessun messaggio, non sono preoccupata. Intanto mi avvio al bar della mia amica nella piazzetta, munita di borsa, con foto, martello e chiodini per montare le foto sulla parete libera, di fronte al bancone. < Ciao tesoro,sorpresa!… Ti ho portato le foto da appendere >. Lei fa un salto di contentezza ed esce da dietro il bancone e mi dice: < Facciamo subito un brindisi… > io rispondo: < No, prima attacchiamo le foto e poi brindiamo >. Lei fa un po’ di posto sulla mensola per farmi appoggiare le mie cose e mi dice: < Ti va bene metterle qui, no? >. Io sorridendo rispondo: < Certo, anche perché è l’unica parete libera che hai… >. Ridiamo contente, siamo emozionate tutte e due. < Hai mica un metro? >. Lei torna dietro il bancone e ne esce con un metro in mano. Mi metto con comodo a prendere le misure. Questa è un’ora tranquilla, difficilmente entra qualcuno, posso lavorare con tutta calma. Voglio fare proprio un lavoro fatto bene, in fin dei conti è la mia prima esposizione. Mi ci vuole un po’ per far tornare precise le misure per poi mettere i chiodi, non voglio fare troppi buchi sul muro. Finito, eccole appese, in fila, le mie quattro foto. Gli spazi che intercorrono tra una e l’altra sono pressoché tutti uguali, sono stata attenta. Le ho distanziate quel tanto che basta a permettere la lettura di ciascuna foto senza il sovrapporsi delle immagini. Sono soddisfatta, mi allontano per guardarle, anche se la limitata larghezza del locale non lo permette più di tanto. Guardiamo tutte e due, vicine, l’effetto che creano sulla parete e dentro il bar, quei quattro visi rossi cinesi che escono dall’oscurità.
E’ come se ti venissero incontro, come se uscissero dalla foto. Ci guardiamo e lei mi abbraccia, sembra più emozionata di me. Mi dice: < Sono proprio contenta di ospitare il tuo lavoro, mi piace moltissimo, spero di vendertene qualcuna >. E poi gira dietro il bancone e prende dal frigo una bottiglia di prosecco e ne riempie due bicchieri, di quelli da vino rosso belli grandi. Io adoro bere il prosecco in quei bicchieri, perché me lo gusto maggiormente e soprattutto dura anche di più. Brindiamo, ridiamo, mi soffermo ancora a guardare, con un piacevole sorriso sulle labbra. Le mie foto, bene. Contenta lascio la mia amica e subito dentro mi scatta una voglia di fotografare irresistibile. Senza neanche pensarci mi avvio verso casa, per prendere la macchina fotografica. Si sta facendo sera, bramo vedere cosa mi porterà la notte. Mi salta in mente di andare a fare un giro a Lucca.Sulle mura e dentro, nella città. Metto le ali ai piedi, per arrivare prima a casa. Apro il portone, salgo i gradini di corsa e apro la porta di casa lasciandola aperta, tanto vado di fretta. Entro in camera alla velocità del lampo, afferro macchina e cavalletto e corro fuori. Poi mi assale un dubbio – sarà carica? –. Mi fermo di botto dentro il portone e accendo la macchina e guardo – sì, è carica, posso andare tranquilla – spengo e affretto il o in direzione della stazione. Non vedo l’ora di arrivare a Lucca. Spero in una serata ricca d’immagini da catturare. Lo sapevo, sarebbe stato troppo bello trovare subito un treno in partenza. Il primo partirà tra un’ora e mezza, e ora che faccio? Tutta la carica e l’entusiasmo che avevo mi si stanno spegnendo, come in una batteria scarica. Entro in un locale lì vicino e ordino delle patatine fritte. Mi siedo mentre aspetto. Il cavalletto, quanto mi rompe portarmelo dietro, ma la sera è importante averlo per fotografare e quindi… Ora m’infastidisce, ma dopo mi sarà indispensabile.
Mentre sono a sedere annoiata, che mangio svogliatamente le patatine, entrano due ragazze molto truccate, con gonne corte. La loro vista subito mi disturba, ma continuando a osservarle poi mi fa venire un’idea – E se le seguissi, per vedere cosa fanno, che vita hanno? –. L’idea si fa sempre più spazio nella mia mente. Gli occhi si risvegliano e iniziano a brillare. Lascio galoppare la fantasia per qualche momento, ma la precedente idea di andare in giro per Lucca, torna quasi fosse un boomerang e spegne questa, come una folata di vento spegne la fiammella di una candela – no, non ho voglia di seguire queste due e infilarmi in chissà che squallore –. Guardo l’ora, mancano ancora quarantacinque minuti, uffa. Chiedo una birra al banco, nel frattempo le due ragazze escono ridendo sguaiatamente. Le seguo con lo sguardo e poi mi giro annoiata. M’infastidiscono questi tempi morti che devono trascorrere. Mi sento un po’ fiaccae non voglio essere così. M’irrita aver perso tutto quell’entusiasmo che avevo all’uscita del bar della mia amica. Torno alla stazione, faccio il biglietto e mi metto a eggiare in mezzo alla gente che aspetta, che parla, che guarda il cellulare, che telefona, che ride, che legge aspettando. Sono interessanti i volti differenti delle persone. Oggi poi, lo sono ancora di più, ci sono cosi tante razze che s’incrociano nelle stazioni, sui treni, nei viaggi anche brevi. Sembra quasi che il mondo, ora, sia sul treno o aspetti per spostarsi e spostarsi continuamente da un posto all’altro. E come fossero formiche, trasportano le loro cose serrate nelle valigie, nelle borse. A me quanto m’infastidisce avere pesi da trasportare. Avere le mani occupate, come ora che mi devo portare dietro il cavalletto, sarebbe stato meglio avere una foderina in cui metterlo per portarlo a tracolla, mi darebbe molto meno fastidio. Sono un po’ infastidita dall’attesa, ma mi sento bene in mezzo alla gente. Bene è l’ora, mancano solo dieci minuti. Mi avvio sul binario, il treno è puntuale, c’è gente che aspetta.
Davanti a me salgono due ragazzi di colore – che bel fisico che hanno, muscoloso, sono alti e fieri come re africani, belli, mi piacerebbe fotografarli, forse… Un giorno… - oggi mi sento piena di voglie, d’idee. Le persone che escono dalla “normalità“ mi attraggono, come il polline attrae le api. Cammino per cercare un posto, mentre il treno parte. Voglio sedermi vicino a persone piacevoli, mi fa stare bene, al contrario di quando sono accanto a persone che emanano vibrazioni cupe, buie. E’ come se sentissi un’irritazione appiccicata sulla pelle che piano piano entra, attraverso i pori, per poi scorrere lungo il percorso dei miei nervi, appunto, irritandoli. Tanto che a volte, proprio non riesco a resistere dall’alzarmi e andare in cerca di un altro posto. Come quando mi capita di sedere accanto a uno o una che hanno un odore forte. E’ incredibile, come l’odore penetri su per il naso creandomi un disgusto tale che devo fuggire. Come quella volta che mi capitò di parlare con una persona, anche interessante dal punto di vista intellettuale, ma il suo fiato mi dava l’impressione di due mani, che mi prendevano alla gola, o come se un muro avanzasse verso di me togliendomi l’aria. Tanto che dovetti smarcarmi fisicamente da lui, con una scusa, per rimettere aria pulita dentro i miei poveri polmoni. Il disgusto per quell’odore m’infilò su per il naso e mi ci volle un bel po’ di tempo per liberarmene. Che fastidio irritante provai. Il tragitto in treno è breve e in quindici minuti arrivo a destinazione. Si è fatta sera, mi sento avvolta nel buio, mentre cammino. Percorro la via, che m’introduce alla parte della città dentro le mura, dove fiumi di persone camminano dando proprio l’impressione di essere formiche in fila, che si seguono per entrare nella tana. Sto bene, mi sento serena. Mi dirigo, per prima cosa, verso un’enoteca che conosco. Ho bisogno di mangiare e bere qualcosa, prima di entrare in azione. Sento che è ancora presto per infilarmi nelle viuzze, o sulle mura, alla ricerca di un qualcosa che catturi la mia attenzione e liberi la mia fantasia. Ho visto, prima alla stazione, che c’è un treno all’una e un quarto di notte, quindi ho tutto il tempo.
Bevo tre bicchieri di rosso di Moltalcino e mangio un po’ di affettati, formaggio e carciofini sott’olio. Me la prendo comoda. Aspetto che la massa della gente ritorni nel proprio rifugio, per vagare ansiosa di qualcosa di speciale da fotografare. Spero che tutta quest’attesa valga la pena. Dopo aver pagato, esco – bene – sono le nove e mezzo, le vie sono pressoché deserte. Mi armo di pazienza e mi avvio per le stradine strette della città. Mi dà l’impressione che ci sia un po’ troppa luce, a prescindere dal fatto che non so bene cosa aspettarmi. Incontro portoni chiusi, chiese, finestre grandi illuminate, ma niente che mi susciti interesse. Certo che le finestre grandi, senza persiane del centro storico sono proprio belle. Mi hanno sempre affascinata. Dalla strada si vedono solo i soffitti, a volte con bellissimi affreschi, i lampadari, la parte alta dei muri, con la cornice colorata, piccola o grande, che circonda la stanza. Vorrei vedere quello che succede all’interno. Spiare, per vedere come fossi in un film, i movimenti delle persone. I loro dialoghi, privi del sonoro, che comunque creano espressioni sui volti, che permettono di capire gioie, dolori, indifferenza, noia, ione. Bocche che si aprono e chiudono, denti che s’intravedono, barbe che si muovono al ritmo delle parole mute, occhi fissi o abbassati che seguono il movimento della testa. Mani che accompagnano i dialoghi, per dargli più forza con il loro gesto; che portano il cibo o il bicchiere del vino o dell’acqua alla bocca, aperta, come fosse la mano di un mendicante, in attesa di una moneta. – Come sono poetica, ah, ah -. Sto camminando sempre più tenendo la testa alta. Curiosa di quegli spazi illuminati che il mio sguardo non riesce completamente a raggiungere. Mi viene però un’idea. Salire sulle mura che cingono la città, e farne tutto il giro, per vedere se è possibile insinuare lo sguardo dentro qualche finestra e carpirne i segreti. Da lì sopra se volto lo sguardo, da una parte, vedo le case moderne, probabilmente costruite da dopo la guerra a oggi e dall’altra parte, all’interno delle mura, si vedono i palazzi storici, così affascinanti con le loro finestrone che sembrano grandi occhi luminosi.
eggio tranquilla, non c’è quasi nessuno, posso sbirciare con tutta calma se vedo qualcosa di attraente dentro le finestre. Intanto guardo se con lo zoom, posso veramente entrare e avere immagini fotografabili. Scatto qualche foto di prova e vedo che è possibile fotografare dentro ai palazzi più vicini alle mura. Lo zoom è abbastanza potente e mi permette di avvicinarmi ed entrare negli interni luminosi. Le foto che ho scattato per prova sono buone, ora devo solo trovare qualcosa d’interessante, non sarà semplice. Sono un po’ troppo scoperta però, se qualcuno mi vedesse fare delle foto mirando dentro una finestra, potrei avere delle noie. In alcuni punti però, ci sono dei cespugli abbastanza alti da coprirmi. Bisognerà vedere se saranno posti proprio davanti ad una finestra dentro la quale si svolgerà qualcosa d’interessante. Ci vorrebbe un bel colpo di fortuna. Mentre continuo a eggiare, prima di essere coperta da una serie di cespugli, vedo una finestra a un terzo piano che s’illumina. E’ proprio all’altezza dove mi trovo io, sulla eggiata del muro di cinta della città. Lo vedo come un segnale, un qualcosa che m’invita ad avvicinarmi e sbirciare all’interno. Non esito neanche un secondo, mi nascondo nei cespugli che fortunatamente sono nel posto giusto per coprirmi le spalle. Accendo la macchina, che avevo già in precedenza messo sul cavalletto per essere pronta a ogni evenienza, e mi metto comoda a osservare. Guardo dentro l’obiettivo e attivo lo zoom. C’è una donna vicino a un letto, è in camera, la vedo bene dalla grande finestra alle sue spalle. La posizione della testa mi fa pensare che ci sia un’altra persona con lei. Si toglie l’impermeabile color cachi e lo getta, staccando il braccio dal corpo, su una sedia vicina al muro. A un tratto un uomo entra nel mio campo visivo e la afferra per il collo, dalla nuca, e ne nasce una sorta di lotta, nell’abbraccio. Inizio a scattare, sembra interessante la storia. Si fermano, si guardano, si parlano. Lei ha le mani appoggiate sulle spalle di lui.
Poi, si dividono, lei si gira e viene verso la finestra. Lui la osserva in piedi. Lei sembra abbia intenzione di spogliarsi, fa cadere a terra la gonna che si è slacciata. Lui non resiste lì inerme, le si avventa addosso, afferrandola per capelli per poi metterla in ginocchio. Le schiaccia il viso contro la patta dei suoi pantaloni. Non riesco a vedere dove sono le mani di lei. La obbliga a togliergli i pantaloni, stringendole ancora, con maggior vigore, i capelli. Lei, non sembra, abbia voglia di sottrarsi alla danza violenta. Ora lui è nudo nella parte inferiore del corpo e continua a costringerla ad accarezzargli il sesso con il viso, le guance, la bocca. Poi la forza ad alzarsi in piedi e sempre tenendola per i capelli, con una mano, le strappa di forza le mutandine e la getta bocconi sul letto. Lei non oppone il minimo di resistenza, si fa usare, come fosse priva di forze per resistere. La scena mi fa eccitare, guardo nell’obiettivo, come se andovi attraverso, potessi entrare nella loro stanza. Le salta sopra e non contento le strappa la camicetta, che mi fa piacere immaginare di seta. E il reggiseno, gettandoli lontano con un gesto deciso. Le mette le braccia sotto le ascelle e la possiede come fosse un animale. Non contento, dopo un po’, si stacca dal corpo di lei facendo leva con un braccio e con l’altra mano inizia a schiaffeggiarla sulle natiche, per poi subito dopo avventarsi nuovamente sopra di lei, afferrandola con ambedue le mani ai capelli, per possederla con violenti colpi di bacino. La scena è di una tale intensità brutale che a guardarla mi scoppia il cuore. Ansimo e scatto, cerco di immettere aria nei polmoni con potenti respiri e scatto. Mi asciugo il sudore della fronte e scatto. Intanto vedo che lei ha girato la testa in dietro per guardarlo. Sembra che lei non gli muova rimproveri, da quanto percepisco guardando dentro l’obbiettivo.Allora lui placa, all’istante, quell’impeto di fuoco che lo governa. Si guardano per un lungo istante e poi si baciano, cosi a lungo che sembra non
debbano staccarsi più. Mi accorgo sorpresa che la mia mano sinistra si è infilata dentro i pantaloni e si fa strada nelle mutandine, mentre la destra è sempre incollata, al pulsante della macchina fotografica. Sono eccitata e non poco, tutta bagnata, ho voglia di gridare il mio disperato bisogno di carezze. Riesco a prendere la mia attenzione e con forza portarla a guardare nell’obiettivo e a scattare. Sono esausti, lui è steso sopra di lei come un cappotto appoggiato sulle spalle. Continuo a toccarmi leggermente, gli occhi mi si sono chiusi e la macchina fotografica si è spenta. Mi tocco ancora, sento i brividi che elettrizzati salgono e scendono dalla schiena. Il calore invade la pancia, il cuore, il petto. Malgrado ciò non vado sino in fondo, voglio rimanere in questa eccitazione che mi scuote tutto il corpo, come se i miei nervi fossero i fili elettrici di una luce accesa. Mi fermo all’improvviso, ansimo, il cuore batte forte forte, la mente si è staccata dal lavoro e si è lanciata in desideri poco esauditi, ma riesco ancora una volta a bloccarla. Voglio riprendere il controllo di me stessa e ripiegare le fantasie e rimetterle nel retro bottega. Afferro il cavalletto con un gesto nervoso, esco dai cespugli. Non sa più a cosa pensare, la mia mente, si è bloccata. Un senso di tristezza, misto a malinconia, mi sale alla gola, la vista mi si appanna, il o è incerto e pesante. La voglia di un qualcosa che mi manca da troppo tempo, viene su dal profondo e mi si espande nel petto comprimendo i polmoni, impedendo loro il respiro . Mi scappa un singhiozzo e subito di seguito un altro. Mi fermo, mi piego e pongo l’attenzione su un sospiro profondo, per non piangere sconsideratamente. Ancora aria e ossigeno per la mia mente, per svegliarla, per non farla precipitare nel burrone delle voglie non raggiunte, non appagate, non vissute. Riprendo a
camminare, trascinandomi dietro cavalletto e macchina. Non so neanche più dove sono e dove devo andare. Mi massaggio lo stomaco, per cercare di sciogliere il blocco di nervi che vi si è indurito dentro. Sento la mia fragilità impossessarsi delle mie forze e sconfiggerle, scoprendo tutte le mie paure di giovane essere, di pulcino fuori dal nido, perso per uno spazio cosi vasto da non vederne la fine. Sbatto i piedi in terra, mi divincolo, scuoto la testa, sputo l’aria cattiva fuori dalla gola, basta, basta… Vedo una panchina che mi arriva come una scialuppa di salvataggio, ci crollo sopra. Appoggio la schiena, butto la testa indietro e rimango a bocca aperta sino a che il corpo si calma, come fosse arrivato alla fine di una corsa. Sì, rimango lì seduta, alcuni minuti a respirare piano, a calmare ogni singola cellula del mio povero corpo e poi mi avvio alla stazione. I fantasmi, ancora una volta, sono volati via, ce l’ho fatta. Non è semplice per me fotografare persone che si amano, anche se da una parte è bellissimo. Mentre sono sul treno che mi riporta a Pisa, mi viene da pensare alla mia famiglia e alle poche sicurezze che mi ha saputo infondere. Tutto era cosi traballante, non vi era nulla di sicuro, non potevi aggrapparti a nessuno. Era come essere una pianta che riceve l’acqua non da chi l’ha voluta portare a casa ma dalla natura, quando piove. E se potrà crescere, sarà per la benevolenza della natura e non grazie a coloro che l’hanno voluta. Ora mi sembra di essere rinata. Mi sembra come se mi fosse data una seconda possibilità. Essere rinata e alimentata dall’autosufficienza. Come se mi versassi da sola l’acqua nutriente per la mia crescita. La vita mi sta innaffiando di esperienze ed io devo saper discernere quali sono più adatte a me, per crescere forte. In famiglia mi facevano sentire come un cucciolo abbandonato, che da solo è costretto a cercarsi il cibo. Anche se ero circondata da una madre, un padre e un bastardo di fratello maggiore, che vivevano lì, nel mio stesso ambiente, ma che in definitiva mi consideravano alla stregua di una sconosciuta. – No, ma che dico, una sconosciuta è vista, è considerata, io, la loro figlia, una volta creata, basta, è sufficiente così -.
Talvolta mi domando se riesco a vedere veramente quello che è la verità? Ma poi, qual è questa verità? Quella che mi suggerisce la mia mente e cioè la mia verità. Quella che io vedo e credo, e m’illudo che anche gli altri debbano vedere al mio stesso modo e sottostarvi come fosse una legge divina, uguale per tutti. Invece poi mi accorgo che quella verità è solo quella che vedo io. Allora mi nascono mille domande, su ciò che è giusto o sbagliato, sul vero o sul falso. Se la mia mente è abbastanza matura da giudicare. Perché spesso mi sembra che sia come se volessi afferrare qualcosa, con la sola forza della mente, il pensiero giusto, appunto, un pensiero che possa essere universale, ma non esiste tale pensiero, esiste il mio pensiero. C’è però, la sento, una parte in me, nel profondo e non nella mente, forse nel cuore o fra il cuore e lo stomaco, che mi chiama e mi vuole indicare quello che è più giusto per me. A volte la identifico come fosse un radar in contatto con tutte le cellule dell’universo e quindi capace di captare la verità. La via giusta con la “G” maiuscola. Qualcosa che solo una parte più profonda ed eterna, insita in me, può afferrare, cogliere. In quei momenti vorrei smaterializzarmi ed essere in tutto e sentire il tutto, per entrare a far parte di quella unica verità. Mi sento governata da queste due entità, mente e cuore e spesso la domanda è cosa seguire? Ragione o sentimento?
Questo pomeriggio voglio stare in casa, per vedere e selezionare le foto fatte al mare e a Lucca di notte. Le o in rassegna velocemente, cancellando quelle che vedo subito non andare bene. Poi le riguardo con più attenzionee ne faccio una selezione più mirata, coinvolgendo anche la mente e non solo l’istinto. La parte tecnica, mista a quella emozionale. Il numero si assottiglia sempre più ma la contentezza di aver fatto un bel lavoro aumenta. So che come il solito ne rimarranno poche. E’ un po’ come estrarre un concentrato da un frutto. In una goccia, senti tutto il sapore degli zuccheri, dei minerali che contiene. Così da una sessione di foto, estraggo quelle poche che creano da sole l’immagine di tutto l’evento. Vorrei spedire anche queste alle ragazze per dare loro la possibilità di conoscermi meglio. Ce la voglio mettere proprio tutta per entrare a far parte di quella collettiva. Percepisco che per me sarebbe una grande possibilità. Estraggo otto foto dai due eventi e le spedisco immediatamente alle ragazze… E vediamo cosa succede. Credo che ora non potranno fare a meno di rispondermi, dopo tutto il materiale che ho mandato loro. Non vedo l’ora che arrivi un loro parere, in un modo o nell’altro, basta che sia il prima possibile. La mattina al lavoro c’è Emi. Colgo subito l’occasione di domandarle se ha saputo qualcosa dalle sue amiche galleriste. < No, non le ho sentite, ma se vuoi che le chiami…? >. Mi chiede, guardandomi negli occhi. < No, tesoro, è meglio non disturbarle, comunque ieri ho mandato loro altre foto >. < … E allora vedrai che ti chiameranno. Sai, hanno molte cose da fare, ma non ti preoccupare, sono persone che fanno bene il loro lavoro. Se ti selezioneranno,
vedrai che ti troverai bene con loro >. Sì certo, devo aspettare con calma e continuare comunque a lavorare. La voglia di scattare mi prende sempre di più. Non andrei nemmeno a lavorare al bar, tanto non ho voglia di perdere tempo. Questo lavoro, per ora, mi serve e poi forse è anche bene non pensare solo alle foto. Torno a casa, sono un po’ stanca, vado in camera e mi lascio cadere sulla sedia dietro alla scrivania e accendo, di prassi, il computer. Voglio guardare ancora le otto foto che ho spedito, per essere ancora più sicura che vadano bene. – Sì, sì tutto bene, mi piacciono proprio –. Già che ci sono do un’occhiata alla posta. Mi collego a internet e con mia somma incredulità, tra le stupidaggini della posta spazzatura, c’è pure un messaggio delle ragazze. Mi fermo come murata. Esito ad aprirlo, per gustarmi questi momenti di attesa nel sapere se la risposta sarà positiva o no. Finalmente mi decido e apro il messaggio, che dice: < Cara amica, innanzi tutto scusaci se abbiamo tardato a darti una risposta. Hai fatto molto bene a mandarci le ultime foto, così abbiamo avuto più materiale a disposizione per conoscerti e conoscere il tuo lavoro. Abbiamo deciso che sarebbe bene rivederci uno di questi giorni, per parlare a voce di quella che potrebbe essere una futura collaborazione. Non so se hai il nostro cellulare, così ti allego il numero… Chiama, così ci accordiamo sul giorno da vederci. Per noi sarebbe meglio evitare il venerdì e il sabato, che sono giorni un po’ impegnativi. A sentirci presto, ciao >. Salto letteralmente sulla sedia. Chiudo gli occhi e dentro di me sento un grido – sì, sì, sì -. Li riapro. E rileggo il messaggio, quasi voglio accertarmi che sia reale. Lo è. Prendo il cellulare e mi catapulto a telefonare a Emi per dirle la risposta delle ragazze. Parliamo per mezzora, anche lei è felice, < Sapevo che ce l’avresti fatta, le foto sono super >. Ho voglia di piangere tanta sento essere l’emozione dentro di me. Mi alzo dalla sedia, voglio uscire, dirlo a tutti e correre dalla mia amica in piazza e brindare con lei, un’altra volta. Abbracciarla fino a farle male.
Prendo il giacchetto, non spengo neanche il computer e infilo la porta e il portone al volo e mi ritrovo a correre in strada, come una forsennata. Arrivo ansimante al bar in piazza e senza che lei abbia il tempo di salutarmi, l’abbraccio forte, < Ehi, ehi, che è successo, hai vinto al lotto … >. La libero dall’abbraccio e le dico: < No, meglio, le ragazze della galleria di Firenze mi hanno detto che mi vogliono parlare. Vedrai che mi vogliono inserire in una mostra collettiva, nella loro galleria. Ci pensi… >. Anche lei è felice per me. < Beh, allora ci vuole un brindisi > Tira fuori la bottiglia del prosecco, prede i bicchieri grandi da vino rosso e ne versa fino quasi a riempirli. < Cin cin, stai andando forte, mia cara > Sì, speravo cosi tanto di ottenere dei risultati positivi, dopo tutto il lavoro che ho fatto, e… All’improvviso mi viene in mente il mio amico cinese – ma dove sarà? –. < A proposito, sai che le foto che hai messo qui piacciono molto. La gente ne rimane colpita >. Sorrido e le dico: < Forse e ripeto forse, la fotografia sarà veramente il mio futuro, lo sento, ma lo dico piano… Ah ah ah >. La mattina, mentre sono al lavoro, mi appare come in un sogno il mio amico cinese, appena lo vedo vicino al bancone gli dico: < Ha… Finalmente ti fai vivo, che cosa hai fatto, il giro del mondo o la tua sposa ti è piaciuta talmente che vi siete chiusi in camera per un mese… Eh? > Lui, come il solito molto gentile, quieto mi sorride. Leggo nei suoi occhi che è contento di vedermi. < No cara, nulla di tutto questo. Il matrimonio è andato abbastanza bene. E’ che sono dovuto tornare anche in Cina e purtroppo per cose che non mi fanno felice, che poi ti dirò… Sarebbe meglio, se non sei occupata, vederci più tardi, in qualche posto dove si può parlare più tranquillamente >. Lo guardo attenta, negli occhi, cercando di leggervi tutto quello che ha in mente, ma che ovviamente mi sfugge.
< Va bene, vediamoci in piazza, al bar della mia amica… E fra l’altro, ho intenzione di farti vedere anche una cosa, verso le sei ti va bene? >. < Sì, ci sarò, a dopo > Si gira e se ne va, senza ordinare niente da bere. Ma! Non mi è piaciuto molto quello che ho sentito. Le vibrazioni che mi ha mandato. Mi sembra sempre più infelice, boh sarà anche una mia impressione… La mattina scorre come il solito. Io non riesco a togliermi dalla testa il mio amico, non vedo l’ora di incontrarlo, per sentire tutto quello che gli è successo e sapere in che stato d’animo si trova. L’attesa mi snerva, sono a casa e non so che fare, mancano ancora tre ore all’appuntamento. Mi lancio sul letto, mi giro e rigiro e poi cerco di assopirmi per are il tempo, senza dover pensare o fare qualcosa d’inconcludente, per lasciarmi guidare dalla mente nel sogno e vedere dove mi porta. – E’ meglio che metta la sveglia sul telefonino, se no, chissà quanto dormo –. Il cellulare squilla, è l’ora di svegliarmi, schizzo al volo in piedi e mi dirigo in bagno per farmi una bella doccia e preparami poi a incontrare il mio amico cinese. Sono contenta che sia ritornato. Ormai lui è ufficialmente il mio amico. Mi ci trovo bene, ci tengo a sapere che sia sereno. Arrivo al bar un po’ in anticipo. Mi metto a sedere ai tavolini fuori. Appena mi vede la mia amica mi dice: < Ti diverti a veder lavorare gli altri e... >. Ironizzo e le rispondo: < Sì… Mi piace, dopo aver lavorato tutta la mattina vedere una poveretta sgobbare, ah ah… No, sono qui per aspettare il mio amico cinese. Cosi gli faccio vedere le foto nel tuo bar >. Mentre parlo, lo vedo arrivare, mi alzo e gli dico: < Eccoti finalmente, dai che voglio farti vedere una cosa > e prendendolo per un braccio lo introduco nel bar. < Ecco, guardati >. Lui rimane pietrificato, non se lo aspettava di certo di vedere il suo volto incorniciato e attaccato a una parete di un bar. < Beh... Di qualcosa… >. Lui si risveglia e dice: < Mi piacciono tanto, non me lo sarei mai aspettato >.
< Hai visto come sono brava… Beh anche il modello, un po’, ha contribuito alla riuscita delle foto > e rido allegra, mi sembra più rilassato, spero che stamani fosse così perché non si era svegliato bene. Ci sediamo fuori a bere del vino rosso e parliamo di sciocchezze, prima di arrivare alle cose che lui ci tiene a dirmi: < Il giorno del matrimonio è filato tutto liscio, tutto come doveva andare, a parte il fatto che nello stomaco sentivo rigirarmi uno sciame di api, messe in allarme dall’arrivo di un essere che vuole insinuarsi nella loro “casina“. Ho ato la giornata come in trance, come se vedessi il film di un tizio che si sposava, come se fossi seduto su una comoda poltrona di un cinema x qualsiasi. La mia futura sposa era ed è carina. Anche in lei leggevo una rassegnazione malinconica. Un pochino come il condannato che si avvia al patibolo. Vomita parole, come una cascata getta tonnellate di litri di acqua giù per alimentare il fiume. < Sai, tutti sembravano contenti e si godevano la festa tranne noi due. Da un certo punto di vista non ti sembra comico? Però ti dirò che mano mano che le ore avano e stavo vicino a lei, sentivo che la tensione si allentava. La guardavo di sott’occhio, cercando di capire chi era quella ragazza, con la quale avrei dovuto are tutta la vita. Scoprivo, anzi sentivo dentro di me, che non stavo poi cosi male accanto a lei. Sembrava che a un certo punto noi due fossimo entrati, come in una specie di bolla che ci isolava completamente da tutti, in mezzo a tutti, capisci? >. Ed io: < Ci provo, continua … > < Ad un certo punto, mi sono accorto, mentre eravamo seduti, che le nostre mani erano una nell’altra. Sentivo un piacevole calore espandersi in me. Un calore che piano piano mi scioglieva tutta quella tensione che avevo accumulato dal giorno prima. E nella mia mente si faceva sempre più spazio la voglia di rimanere soli, nella nostra stanza, nel mondo e al contempo da tutto. Chiudere quella porta dietro le nostre
spalle a tutti, a mio padre, a suo padre, ai fratelli, amici, parenti, inservienti, cinesi, italiani. Tutti tutti… Tutti. E poi, quel momento è arrivato. Ci siamo trovati nella stanza a bere ancora, in silenzio, guardandoci, finalmente soli, senza dover recitare una parte… Ci siamo potuti lasciare andare, nella voglia di scoprirci reciprocamente. Poi ho messo della musica e abbiamo ballato, stretti, teneri. In un certo qual modo, mi sono ritrovato a provare un po’ le sensazioni che ho quando sono con te e ne sono stato contento. Ho intravisto uno spiraglio di possibile non ti dico felicità, ma almeno di serenità. E poi abbiamo fatto l’amore… E non mi sono sentito, come quando vado con tutte quelle donne, che so che può essere solo per una volta o solo per qualche volta. L’ho fatto cercando di sentirmi il suo uomo, per capire e dare piacere a quella donna che era e sarà sempre una donna diversa da tutte le altre, per me. E’ mia moglie. Beh alla fine, è stata una bella sorpresa questo matrimonio. Il giorno dopo, però, ho dovuto subire subito una doccia fredda. Naturalmente artefice di questa cosa, è stato ancora mio padre… >. Fa una lunga pausa e beve d’un fiato il vino, poi china la testa e sottovoce mi dice: < Devo tornare in Cina a lavorare, per imparare a dirigere un ufficio di spedizioni di mio padre. Ho protestato, ma come puoi ben capire non è servito a nulla, e quindi dobbiamo partire… >. Gli appoggio una mano sulla spalla. E’ crollato in una tristezza profonda, lui è sempre vissuto qui. Certo la Cina è il suo paese e non è questa la cosa più pesante, secondo me, ma è l’ennesima impossibilità di decidere della propria vita, è questo che lo ferisce. Il non potersi sottrarre alle decisioni di suo padre. Il matrimonio si era indirizzato sul giusto binario, ma poi, per lui, vedersi costretto in un posto e in un lavoro che non aveva scelto lui, lo distruggeva. Forse si sentiva ferito anche dal fatto che agli occhi della nuova moglie aveva dovuto mostrare subito il suo lato debole e se n’era vergognato, a mio parere.
< Beh, però aspetta a intristirti, hai visto cosa è successo per il matrimonio. Può darsi che il nuovo lavoro ti piaccia e poi ritorni nel tuo paese. Forse andrà tutto bene > gli dico, per cercare di infondergli fiducia nel futuro. Lui alza piano la testa emi guarda negli occhi e mi dice: < Non potrò più vederti, néessere fotografato da te. Il nostro gioco finisce qui, équesto che mi rattrista da morire >. E abbassa la testa per l’ennesima volta. Io rimango di stucco, pietrificata, come se un fulmine mi avesse colpito. Non mi sarei mai aspettata una dichiarazione di attaccamento a me, cosi… Cosi sentita, che viene fuori dal suo profondo. Mi vengono le lacrime agli occhi e un nodo in gola grosso come una noce di cocco. Non so, a quel punto, non riesco proprio a dire più nulla. Siamo lì fermi, l’aria è immobile, tutto è fermo. Sembra che il tutto senta la solennità del momento e il tempo si sdoppi, rallentando per darci la possibilità di sentire di più questo momento. Nessuno mi aveva mai dimostrato un affetto simile. Mi sento molto grata a quell’uomo di Pechino e vicina alle sue sofferenze. Prima ho cercato di dargli delle speranze sul suo futuro, ma odio che sia costretto a lasciare la città e soprattutto me. Mi fermo, ancora una volta, a chiedermi che cosa sto provando per lui, oltre all’amicizia. Forse ne sono innamorata? Innamorata forse è troppo, anche perché come spesso ho detto, l’amore è un sentimento quasi sconosciuto per me e quindi non riuscirei nemmeno a vederlo se mi asse davanti. Per lui provo cosi tanto affetto, sento… Non so spiegare, e in definitiva non m’interessa dare un’etichetta a quello che provo per lui. Che cosa devo fare, dire, non so… Accavallo una gamba e provo a prendere il bicchiere con il vino. Sì, la tristezza si annuvola sopra le nostre teste. Volevo proporgli di fare altre foto ma ora mi sembra un’idea cosi assurda.
Ci vedo come fossimo un palazzo colpito da un’enorme palla di ferro; stiamo crollando, sta andando a pezzi, come il nostro gioco, come i nostri sentimenti. Perché questo? Ora che ho finalmente trovato una persona che ci tiene a me, che ha un sentimento vero nei miei confronti… Questa se ne va. Almeno lui ha trovato una compagna, ma io mi ritrovo sola, sola in questo infinito mare. Veramente ognuno ha la propria strada da percorrere. Continuiamo a bere in silenzio assoluto, anche se stando attenti si potrebbe sentire il rumore prodotto dai nostri pensieri. Sembra che non vogliamo più toglierci da lì, per non spezzare quello che rimane della nostra unione. E’ una sorta di ribellione al nostro distacco che però avverrà di lì a poco. Lui si alza si avvia dentro il bar, lo vedo guardare ancora le foto del suo volto; paga il vino. Un’idea mi nasce improvvisa, mi alzo anch’io ed entro di corsa dentro il bar, stacco le foto dal muro. Lui si gira, mi guarda, non capisce, anche la mia amica è stupita, sorpresa. < Prendile, portale con te, ovunque tu andrai, pensami ogni volta che le guardi. Saprai che anch’io, ogni volta che guaderò una foto che ti ritrae, penserò ai momenti che abbiamo ato insieme >. Lui mi guarda intensamente. Il tempo ancora una volta ci fa la grazia di fermarsi. Subito l’incantesimo però è spezzato dall’ingresso di due ragazze nel bar. Usciamo, facciamo qualche o insieme verso un luogo che non porta in nessun posto, almeno per noi. E poi giunge il momento tanto atteso, tanto odiato. Per la prima volta, ci perdiamo in un abbraccio infinito e ci lasciamo andare in un bacio intenso, eterno. Lo vedo allontanarsi curvo, le lacrime mi scendono senza far rumore nel rispetto della mia sofferenza. Lo vedo scomparire dietro un angolo di un palazzo antico. Vorrei trovare un posto dove lasciarmi andare a sedere. Non ne vedo, allora
azzardo un o incerto e poi un altro e vedo che non ho altra possibilità se non farne un altro e poi ancora altri, per avviarmi verso casa.
Sono ati due giorni, da quando il mio amico cinese se n’é andato ed io non riesco a staccarmi dal pensiero di lui. Quel volto triste mi pulsava nella mente come un mal di testa. Cosi, per uscire da questi pensieri malinconici, telefono alle ragazze. Ci troviamo d’accordo per vederci in galleria giovedì pomeriggio, tra due giorni. Avrei preferito andare domani o addirittura oggi pomeriggio - uffa - mi sento sfasata. Ho voglia di svagarmi, di togliermi questa pesantezza dal cervello. Ho bisogno di fare, fare cose costruttive per stare bene. Aspettare mi sembra una gran perdita di tempo e invece, al solito, quando ci tieni a fare una cosa, c’è sempre da aspettare. Nel frattempo però, per usare questo tempo d’attesa, penso di portare altre foto a sviluppare e metterle su o, per collocarle nel bar, della mia amica. Che si è ritrovata il muro vuoto, dopo il mio gesto d’impeto dell’altra volta. Poverina, devo provvedere al più presto a sostituirle, quelle foto che ho regalato al mio amico. Cosi farò qualcosa di utile che mi distrarrà dal pensiero di lui. Non riesco ad accettare di non rivederlo più, sia come amico sia come modello. Saranno pronte tra un paio di giorni, sembra che tutto debba succedere giovedì. Andrò a Firenze, e a ritirare le foto erò venerdì mattina, sgattaiolando un momento fuori dal bar. Il treno per Firenze partirà tra mezzora. Mi avvicino al giornalaio per guardare le riviste d’arte e di fotografia, ne scelgo una di foto, la guarderò sul treno. Oggi tutto avviene con una lentezza esasperante, vorrei, a volte, avere le ali per non dover aspettare treni e autobus. – Ah, eccolo che arriva – bene è un treno a due piani. Mi piace stare a sedere al piano superiore, si vede meglio il panorama dal finestrino, e poi sono belli, nuovi questi treni, puliti e dal sedile davanti si può tirare giù un piccolo piano d’appoggio per scrivere o leggere o mettervi sopra il computer, molto comodo.
Mi siedo contenta a leggere la mia rivista. Dall’altra parte del corridoio c’è un ragazzo che finge di essere interessato al suo telefonino e invece mi accorgo che è più interessato a guardare le mie gambe. Ho messo la gonna corta oggi, senza calze e le scarpe con i tacchi. La cosa non m’infastidisce, anzi, mi fa piacere. Lo lascio fare e sposto l’attenzione sugli articoli della rivista. Mi sento leggera come se fossi portata dal vento, più che dal treno. Sto andando a un appuntamento che potrebbe essere importante, per il mio presente e futuro. Non dico che potrei smettere di lavorare al bar, se le cose andassero come spero. Ce ne vorrà, prima che questo possa accadere. Però… Potrebbe essere come mettere il primo mattone, per la costruzione del “castello“… Dell’avverarsi del sogno. Apro la porta della galleria e le ragazze mi accolgono da lontano con un gran sorriso. Questo mi toglie di dosso anche quella punta d’incertezza che si nascondeva in qualche parte del mio cervello. Ora che sono arrivata lì, di fronte a loro, mi sento limpida come un cielo senza la più piccola nuvolina a creare la minima ombra. < Ciao, come stai, tutto bene? >. < Sì, a posto e voi? >. Ci sediamo. < Beviamo qualcosa? Ti va? >. < Certo, amo il vino, se va bene anche a voi >. Telefonano al bar e ordinano una bottiglia. Intanto parliamo del più e del meno. Mi alzo, guardo le opere esposte, mentre un cameriere fa il suo ingresso con bicchieri e vino. Lo apre e lo versa. Mi avvicino a loro, prendo un bicchiere, lo sollevo e brindiamo. Si fa silenzio, ci gustiamo compiaciute il sapore e il profumo di quel meraviglioso chianti classico. < Bene cara, allora… Abbiamo deciso di inserirti nella prima collettiva della
serie delle tre che vogliamo dedicare esclusivamente alla fotografia, e se sei d’accordo questo accadrà tra un mese… Quaranta giorni circa. Potrai vedere i tuoi lavori esposti su questi muri, che ne dici, ce la puoi fare a essere pronta? Ti va bene di esporre qui? >. Io con un sorriso, che va da un orecchio all’altro, dico loro: < Si certo, non dovrebbero esserci problemi. Quante foto pensavate di espormi? > La più alta mi dice, decisa: < Sei, più due o tre da tenere di riserva, nel caso qualcuno volesse vedere altre cose tue o in caso di vendita di quelle esposte. Per quanto riguarda il o, va bene quello che usi, che le stacca dal muro un paio di centimetri >. Cosi ci mettiamo tutte e tre intorno al computer a scegliere le foto. Non è facile, almeno per me, mi piacciono tutte. Alla fine, dopo averle guardate più volte, decidiamo di prenderne tre, di quelle fatte mentre il mio amico fa l’amore con la ragazza cinese, sulle espressioni dei loro volti. Altre tre tra quelle fatte nel bosco al mare, l’amore dei due ragazzi è tenero e bello. E le ultime tre, sono tra le prime che ho fatto al mio amico cinese, quelle sul letto, quando lui è in preda a liberarsi dalle sue angosce. – Ah ah ah … Bene -. Mi sembra quasi di aver scaricato cento chili di riso. Sposto il peso del corpo verso lo schienale della sedia e alzo la testa contenta e rilassata. Non è stato facile scegliere tra tutte le foto che ho spedito loro, queste nove. E’ un po’ come scegliere tra i tuoi figli qual è il più bello. A questo punto mi sento un po’ impacciata, non so bene cosa dire. Ho più voglia di uscire a eggiare per la città, in compagnia dei miei pensieri. Sento il cuore volare. Ho voglia di godermi questi momenti da sola. Ora che l’unica persona amica è partita, sono tornata inesorabilmente sola, anche se a dire il vero, in questo momento, non mi pesa. Forse sarà merito della fotografia e dell’entusiasmo che mi dà, forse diventerà lei la mia futura amica e compagna di viaggio. Forse addirittura la mia famiglia. Sento che in questo momento, che sono qui a parlare del mio lavoro, la fotografia riesce a riempire quel vuoto che mi porto sempre dentro. Riesce a supplire a quelle mancanze che tante volte mi fanno sentire sola come una
briciola di pane sopra un tavolo perfettamente pulito. E’ come se il mio lavoro fosse un falò nella notte buia della campagna che, anche se lontano, m’indica una direzione da seguire. Si è nel buio della mia vita questo piccolo fuoco, almeno ora ho un punto di riferimento. Un compagno, per me vuol dire tanto. Sono sul treno che torno verso casa, non ho voglia di leggere o guardare la gente che mi circonda o il paesaggio che scorre veloce nell’incontro tra giorno e sera. Ho solo voglia di tenere gli occhi chiusi e immaginarmi le mie foto appese, nella galleria, illuminate a una a una. Al pensiero, quasi la mia mente vacilla, non può concepire una tale visione. Apro gli occhi e nell’uscire dal sogno, mi accorgo che sto sorridendo beatamente. Mi guardo intorno per vedere se qualcuno mi osserva ma i più hanno gli occhi fissi sul cellulare. Bene, chiudo ancora gli occhi e torno immersa nel mio stupendo sogno. I cuccioli degli animali vivono con la madre e forse, alcuni, anche con il padre, non so. Non so bene se il maschio è presente anche lui al momento del parto. Non ricordo bene, se dopo l’inseminazione, dopo l’atto, se ne va per i fatti suoi. Nei ricordi tirati fuori dal retrobottega della mia mente, mi sembra di rammentare che alcuni animali vivono sempre in coppia, ma credo che i maschi per lo più non rimangono, vanno, per i fatti loro. Rimangono le femmine a provvedere alla crescita dei cuccioli, insegnando loro tutto quello che devono sapere per poi essere autosufficienti, per vivere nel mondo… E’ cosi che funziona. Nell’essere umano le cose vanno diversamente, è la coppia uomo-donna che vigila sulla crescita dei figli, rimanendone, poi legata emotivamente, sino alla morte. Diciamo che molte volte è così che funziona, ma non sempre. Si direbbe che sempre di più il mondo degli umani si avvicina a quello degli animali, e cioè l’uomo dopo un po’ fila via e lascia il compito della crescita dei figli quasi esclusivamente alla moglie, per andarsene a ”giocare“ in altri luoghi, in altri recinti.
La sostanziale differenza tra i due mondi, comunque, rimane nel fatto che i cuccioli animali dopo aver imparato il necessario, lasciano la mamma e vanno per i fatti loro a esplorare la vita e a continuare a fare ciò che la natura gli detta. Le mamme non se la prendono a male quando i cuccioli cresciuti lasciano il nido. Anche loro, le mamme, seguendo la natura, ritornano in giro, pronte a procreare altri cuccioli conpadridiversi. Per i figli dell’uomo non è cosi, per la maggior parte succede che rimangono legati alla mamma e a maggior ragione se rimasta sola, per tutta la vita, anche se si spostano in città diverse. Io sempre di più mi domando a che categoria appartengo, umana? Beh, certo sono umana, ma a me sembra che la mia natura debba sempre più assomigliare a quella animale. Vorrei rimanere attaccata alla mamma, ma sempre di più mi domando se lei vuole rimanere attaccata a me. Certo, sarei più facilitata a esserlo, se io mi comportassi da bravo soldatino e cioè fi tutto quello che vuole lei. Magari anche sopportando, o meglio, volendo bene a quel bastardo di mio fratello maggiore. Poiché voglio preferibilmente tentare di vivere la mia vita, seguendo gli istinti, che a suo tempo mi hanno indicato una via diversa da quella che voleva lei per me, allora è lei, che prende le distanze da me. Anche se mi cerca, sì, ma sempre per recuperare quel controllo che sente sempre di più che sta perdendo. E’ meglio che segua la natura, come i cuccioli che lasciano il nido. La differenza è che io non ho avuto tutti quegli insegnamenti, atti a favorire la mia indipendenza per affrontare la vita. Mia madre che cosa mi ha insegnato? Non certo a farcela da sola, no! Non certo a crescere nelle mie scelte, no. Solo ad essere dipendente da lei, ecco quali sono i suoi veri pensieri. Se fossi rimasta a casa, allora sarei stata sulla sua barca, di cui lei è il capitano e che sa qual è la rotta più giusta da seguire… Almeno, lei ci crede fermamente, se non altro sino a quando non prende il timone mio fratello Gill per andare dove gli pare e incasinare tutto… Lei non si vuol nemmeno rendere conto che la sua vita è una barca in balia delle onde di un mare in tempesta. Non lo vuol vedere, e a maggior ragione non vuol
darlo a vedere agl’altri. E’ come se si guardasse in uno specchio rotto, tra una crepatura e l’altra, facendo finta che l’immagine che riflette lo specchio sia perfettamente intera e che quindi vada tutto bene. Non riesce nemmeno a vedere che gli avvenimenti che sono successi nella sua vita, hanno rotto irrimediabilmente quello specchio, dove si ostina a guadare senza vederne le rotture. Non riesce, o non vuol vedere che tutte le sue speranze sono andate distrutte. Allora io, chi, o cosa, devo essere? Figlia dell’uomo, o cucciolo? Mi sento molto una via di mezzo, che da una parte sta seguendo la natura animale, ma a metà, perché ho lasciato il nido ma senza sentirmi interiormente pronta ad affrontare la vita. E dall’altra mi sento come un essere umano che vorrebbe essere legato alla madre, ma non posso perché la mamma non mi capisce e quindi non mi accetta. Presumo che dovrò cercarmi un altro maestro che m’insegni a vivere. O forse sarà la vita stessa a insegnarmi anche se forse sarà un po’ come in una pista di autoscontri: prendendo una botta di qua e una di là, imparerò a camminare. Ho proprio paura che sempre più mi stia allontanando dalla mia famiglia. Un po’ come quando sei sopra il treno, che dopo aver lasciato la stazione piano piano prende velocità. Ti volti indietro, e cerchi di rimanere attaccato a quelle figure a terra che ti guardano, ma il treno inesorabilmente ti porta via. Penso proprio di essere sopra a quel treno. Il viaggio è iniziato per me.
Inviterò la mia famiglia all’inaugurazione della mia mostra, compreso mio padre, voglio cercarlo per invitarlo. Vorrei vederli tutti lì, come fosse lo specchio della mia vita ata, per vedere se rifletterà anche l’immagine della mia vita futura. Sto aspettando con trepidazione l’inaugurazione della collettiva di cui farò parte anch’io. Sei lavori esposti non sono pochi, per una collettiva. Sembra quasi una piccola personale. Le persone avranno la possibilità di leggere il mio lavoro e se vogliono saperne di più, ci saranno altri tre lavori da fargli vedere loro. Per essere la mia prima esposizione, è una situazione ottima. Lavoro al bar, ma svogliata, non riesco a concentrarmi. I clienti scherzano come il solito ed io, appena gli elargisco loro qualche sorriso, è come gettassi un osso a un cane. Sono insofferente, niente riesce a coinvolgermi, trovo tutto noioso, scontato, banale. Tutto quello che faccio, lo faccio con sforzo. Osservo il tempo che a lento e mi frustra, non lo posso accelerare e questo m’innervosisce. Vorrei buttarmi sul letto e svegliarmi a due giorni dalla mostra. Sto evitando anche di andare dalla mamma, non ce la faccio. Se trovo pesante quella situazione normalmente, ora addirittura la trovo insopportabile, per il mio povero, scarso, equilibrio mentale. Cose che non cambiano mai, situazioni in fotocopia. Dover sempre entrare in quella casa con le armi spianate, sempre pronti sulla difensiva è dura. Entrare e al medesimo momento, non vedere l’ora di uscire per respirare, come se rimanere in quella casa ti togliesse l’ossigeno, come immergersi in un liquido e sentire mancare il respiro. No, no, ora proprio non lo sopporterei di dover affrontare quel breve viaggio e quelle poche ore ate con i miei. Esco dal lavoro e giro per le vie come una stupida, senza una meta aspettando l’ora di andare a letto per potermi dire: – bene un altro giorno è ato –. Capisco che non è bello sentirmi così, ma la mia mente è bloccata, non riesce a
produrre un’idea sensata che sia una. E’ ingrippata come un motore che non vuole andare più avanti, meno male che ho il lavoro al bar, che mi obbliga a fare qualcosa per otto ore se no… Già mi vedo sdraiata sul letto a guardare il soffitto, aspettando il lento are del tempo. Certamente non posso continuare così per due settimane, va a finire che vado al manicomio, non ho neanche voglia di fotografare e questo la dice lunga sul momento che sto ando. Attesa, solo attesa. Se almeno il mio amico cinese fosse qui potrei distrarmi un po’ con lui, magari parlando delle sue foto che esporrò e invece no, non posso, è andato. E ancora e ancora, mi accorgo di quanto sono sola, di quanto mi manchino gli amici veri e di quanto poco mi prodigo per farmi delle amicizie. Non so, non mi capisco, sono sola e tuttavia scanso la gente come se la loro presenza, il più delle volte, m’infastidisse. Come se mi suscitasse un prurito sulla pelle, vorrei e allo stesso tempo non vorrei, si può essere più complicati? Leggere, almeno spendere il tempo su un bel libro, ci ho provato, ma dopo aver letto forzatamente poche pagine, lo richiudo. Mi sembra una perdita di tempo. Non leggo con la voglia giusta, allora è inutile forzare. eggiare, sì va bene, ma non sto facendo altro e per di più vago sempre per le stesse vie. Vedo fiumi di gente che potrebbero anche essere alberi, sassi o fili d’erba per quanto m’importa. E per di più, se qualcuno mi guarda con un certo interesse, subito gli getto uno sguardo tipo “non ci provare, sono velenosa“. Accidenti non mi prenderà sempre cosi, ogni volta che dovrò fare una mostra… Se anche oggi, finito il lavoro, vado a fare due i in giro, va a finire che urlo come una pazza e mi rinchiudono, cosi risolvo tutti i miei problemi. Sì ma allora che fare? Andare a trovare i miei, tassativamente escluso. Fare un giro, non ne posso più, fare delle foto… Boh, idee zero virgola zero. Andare in piazza al bar dalla mia amica, no, non ho voglia di parlare e poi di che… Di cose senza senso o di lavoro o della mostra, no no no… Lavorare al computer e chi ne ha la forza, stare a letto… Da suicidio e allora… Forse, forse stasera potrei andare a vedere cosa c’è di bello al cinema. Lì basta sedersi e guardare, non devi neanche durar fatica a pensare. Bella idea,
speriamo solo che ci sia qualcosa di piacevole da vedere. Dopo aver mangiato un pezzo di pizza e aver bevuto la classica birra, esco dal locale con calma e mi avvio fiduciosa verso la multisala, sperando che su tre film che proiettano, uno sia decente. Arrivo sotto i cartelloni e vedo che uno dei film è “On the road“ tratto dal celebre romanzo di Jack Kerouac. Splendido, non guardo nemmeno di cosa trattano gli altri due, entro contenta. Faccio il biglietto, chiedendo una poltrona nelle ultime file. Entro in sala, è quasi piena. Mi piace essere distante, vedo meglio. Mi siedo e noto che sulla mia sinistra c’è un posto vuoto e poi una coppia e sulla mia destra ci sono tre posti vuoti. Posso stare bella larga senza avere gente addosso. Appena inizia il film, vedo della gente entrare in sala, i soliti ritardatari, e un ragazzo si siede alla mia destra, proprio accanto a me. Gli do un’occhiata veloce e noto che è un ragazzo sulla trentina, ma il film è iniziato e subito sono catturata dai suoi fotogrammi. Il film è bello, mi piace proprio, finora. Trovo un particolare eccitamento nel vedere, nel conoscere la vita degli artisti, di qualunque genere di arte si tratti. E’ come se in quelle vite, spesso sgangherate, cercassi un’ispirazione per la mia. Capire che nonostante le difficoltà, in un campo cosi difficile e strano quale è l’arte, ce la puoi fare. Vedere che loro sono riusciti a emergere. A fare quello che volevano e spesso a campare con il proprio lavoro, attingendo da quella forza che nasce dentro di loro. Una forza irrefrenabile, tanto da non potere far a meno di fare quello che sentono, e seguire quella via per tutta la vita. Alcuni sentivano forte il desiderio di scrivere, altri di cantare o ballare o fare musica o dipingere o fotografare il mondo, combattendo spesso contro di tutto e tutti per emergere, per far vedere che erano nel giusto, che il loro lavoro era valido. Io ho bisogno di tanta ispirazione per condurre la mia vita di fotografa…
Ispirazione che devo attingere da qualsiasi cosa che me ne dia sentore. Alcuni hanno avuto accanto, un compagno o compagna, che li sostengono o famiglie che hanno creduto in loro. Altri hanno dovuto fare da soli, almeno all’inizio, e poi le cose sono arrivate, gli amici, gli amanti, i finanziatori. Io per ora, devo credere in me e fare da sola. Credere che ce la possa fare, che il mio lavoro vale e poi il resto verrà, voglio avere fiducia. Intanto, mentre penso a queste cose, e guardo il film, sento una mano accarezzarmi il braccio. Senza muovere la testa, sposto solo gli occhi e vedo che è la mano del mio vicino, il ritardatario. La mia attenzione si sposta subito dai miei pensieri e dal film a quella mano, così inattesa e a sentire cosa sta continuando a fare. Il mio corpo istintivamente s’irrigidisce e si concentra sul sentire. Non so bene che reazione avere, non voglio decidere nulla, lo lascio semplicemente fare. Sono curiosa di vedere dove vuole arrivare. Dopo alcuni minuti di carezze più o meno intense, la mano si sposta coraggiosa sulle mie gambe e inizia a spostare la gonna per insinuarsi più su. E’ calda e delicata, e forse, mi sento anche un pochino lusingata delle sue attenzioni. Una certa tensione, nonostante tutto, si è creata tra noi. Forse entrambi ci stiamo chiedendo cosa può succedere. Io mi domando se ho voglia di dargli spago e lui probabilmente, si domanderà quanto lo lascerò fare ancora. Mi sta distraendo dal film e questo un certo fastidio me lo provoca, però mi stuzzica vedere cosa può succedere. Lui non è stato volgare o pesante nel suo approccio e questo mi è piaciuto. Ora fa un quarto di giro su se stesso, rivolgendo il viso e il corpo verso di me. Io ancora non oso guardarlo, non mi muovo di un millimetro, forse anche perché ho paura di rovinare questi momenti. La sua mano intanto è arrivata alle mutandine e le sue dita cercano di entrarvi. Ci sa fare, è deciso e delicato. Avvicina la sua bocca sul mio collo, prima del tocco delle sue labbra, sento il suo alito caldo e poi il bacio leggero e al
medesimo istante scansa l’elastico delle mutandine e mette le sue dita a contatto con la carne più intima del mio corpo. Inizia all’unisono a baciare la pelle del mio collo e ad accarezzarmi nella mia intimità più nascosta. Sento il calore irrorarsi dalla pancia e salire e scendere per tutto il corpo, l’eccitazione elettrizza tutte le parti nervose. Io in quell’istante decido di lasciarmi andare a quelle carezze esperte e di prendermi quel piacere. Lui è bravo, ora che ha capito che lo lascio fare, è diventato più deciso a provare e a darmi piacere. Prosegue prendendosi tutto il tempo per allungare quel piacere proibito, inaspettato. Si è staccato con la bocca dal collo e con l’altra mano, ora mi tocca il seno da sopra la camicetta. La sbottona, un solo bottone poi s’insinua sotto il reggiseno e riempie la sua mano con la mia rotondità. Poi cerca di toccare il bottoncino rosa che nel frattempo si è indurito. Sto perdendomi completamente. In un ultimo momento di lucidità, capisco che è meglio se mi giro di più verso di lui per non fami vedere dalla coppia che è alla mia sinistra. Le sue dita s’immergono nella profondità del mio lago e simulano un amplesso. Sento che non resisterò a lungo. Serro la bocca sino a sentirne lo stridio dei denti, cerco di comprimermi in un silenzio esteriore, per dare spago solo all’eccitazione che mi esplode dentro. E poi tutto succede. Mi comprimo la bocca con entrambe le mani per non emettere il ben che minimo rumore, ma dentro di me sento lo scoppio forte, come l’apertura di una diga per troppo tempo compressa. Il mio essere si espande in quel piacere. Il mio corpo si lascia andare, la mente tace, lui ritira le sue mani, da sotto la gonna e da sopra il mio seno. Ho gli occhi chiusi, sento un leggero rumore, li apro appena in tempo per vederlo di spalle, mentre s’insinua tra le poltroncine e la gente, per uscire dalla fila e lasciare la sala buia.
Il film va avanti, tutti sono concentrati sullo schermo. Mi guardo intorno chiedendomi se qualcuno potrebbe confermarmi quello che è successo, ora che lui è scomparso. Nessuno sembra aver visto. Mi guardo le gambe, sistemo la gonna, mi sento bene, serena, come se fosse successa la cosa più normale che può succederti in un cinema. Non m’importa di lui, di chi è, m’importa solo del piacere che ha saputo darmi e che mi sono preso tutto per me. Rivolgo lo sguardo allo schermo e guardo il film.
Sono appena ata dal negozio a prendere le foto che porterò alla mostra. Ho voglia di vederle, però aspetto, m’incammino verso casa con o lento, ho desiderio di godermi questi momenti, che mi separano dalla vista delle foto che ho sotto il braccio. Contrariamente al solito, che sarei corsa, come una pazza a casa per vederle. Una strana sensazione di sicurezza mi ha invaso appena ho preso in mano le foto, ho sentito piacere nell’attesa. Mi guardo in giro, come se questa bella giornata fosse un giorno di festa. In effetti penso che la festa si sta svolgendo dentro di me. Guardo le vetrine, la gente, i bimbi con un sorriso pieno, quasi come se tutto mi sembrasse nuovo, e le persone, amici. Entro in casa, la mia amica deve essere all’università a lezione. Entro in camera, poso borsa e giacchetto e subito mi metto sulla scrivania ad aprire i pacchetti contenenti le foto. Dentro di me sento un silenzio solenne, avverto forza e pace. Prendo le foto montate su forex. Mano mano che prendo una foto non la guardo subito, la dispongo nella stanza, di modo che possa vederla a distanza. E via via le sistemo tutte e nove intorno, poggiate dove capita. Le guardo soddisfatta. Voglio avere un ultimo definitivo giudizio, prima di portarle via. Sono messe tutte intorno alla stanza, non so da dove iniziare, mi giro a destra, a sinistra, davanti, dietro, la gioia mi assale come una vertigine, salto felice, grido entusiasta di quello che vedo intorno a me, le mie immagini, create da me, scelte da me, da me, mie… Mi devo dare una calmata, se no mi scoppia il cuore. Ora basta guardarle, devo uscire a smaltire la sbornia d’immagini, magari bevendo un po’ di vino. Non ho voglia di stare in città, vorrei andare lontano e perdermi, ma al medesimo tempo ho paura ad allontanarmi troppo dalle foto, nel caso avessi voglia di rivederle ancora. Mi chiedo dove potrei andare. Se fossi a Firenze andrei senz’altro in quel bellissimo locale in cui siamo state con le ragazze della galleria, ma sono qui e non mi voglio allontanare troppo, come dicevo.
E allora è bene che scelga qualcosa qui a Pisa. Nel frattempo, mi prende una voglia irrefrenabile di telefonare a mia madre, per ricordarle dell’inaugurazione di sabato. < Ciao mamma, come stai, ti ricordi di venire a Firenze sabato pomeriggio, vero? > < Ma sì, sì, veniamo >. Mi dice senza eccessivo entusiasmo. Io però questa volta non mi faccio smontare, e le domando, persino: < Pensi che venga anche Gill >. < Sì, anche se ho dovuto quasi obbligarlo, ma… Non ci credo troppo a quel suo atteggiamento. Sono convinta che anche lui sia curioso di vedere quello che hai fatto >. Mi viene spontaneo fare un sorrisetto ironico. < Bene, allora vi aspetto, hai capito bene dov’è il posto? >. < Sì, si ho capito, ciao >. Parla trascinando le parole a fatica, non vuole darmi troppa soddisfazione, penso. < Ciao mamma, a sabato >. Chiudo il telefono e rimango a guardare un po’ nel vuoto… Questa fra me e i miei genitori e fratelli sarà una sfida. Sono convinta che non si aspetteranno di vedere quello che ho fatto. Per loro sarà un qualcosa di talmente nuovo, un qualcosa così al di fuori del loro mondo che, sono convinta, ne rimarranno destabilizzati. Sono proprio intenzionata a vincerla questa sfida, desidero proprio da loro il riconoscimento del valore del mio lavoro, del percorso che sto intraprendendo. Sabato sarò io la protagonista della scena. Non vedo l’ora di vedere le loro espressioni, soprattutto di Gill che si sente tanto superbo e invece è un incapace. Mi domando anche se verrà mio padre, boh? Mi ha promesso di sì, ma a me non sembrava per niente convinto e per di più mi sembrava che non avesse avuto per niente piacere che fossi riuscita a scovarlo nel suo nuovo mondo. Vedremo. Intanto, o dopo o, mi trovo fuori dal ristorante dove cenai con il mio amico cinese. Mi fermo e senza pensare entro – ma sì, una bella cena… Mi festeggio da sola – per fortuna il locale è quasi pieno.
La ragazza che mi viene incontro mi riconosce e subito mi chiede: < Sei sola o aspetti qualcuno? >. < No, stasera sono sola, hai un posto per me? >. Lei con un cordiale sorriso, m’indica un tavolino dicendomi: < Certamente, eccolo >. Ceno, mangio di gusto e soprattutto bevo quasi tutta la bottiglia di vino rosso. Spendo un po’, ma non m’importa è il mio momento, mi sento bene, esco allegra dal locale. Non me la sento di tornare subito a casa. La serata è bella ed io sono troppo contenta per rinchiudermi tra quattro mura. Ho voglia di gente e di bere ancora. Incrocio una banda composta di ragazzi e ragazze che a allegra, anche più di me. Due ragazzi mi prendono sottobraccio, coinvolgendomi nella loro vitalità. Io mi lascio andare e mi mischio al loro gruppo. Cantano in coro, saltano, alcuni corrono, altri si abbracciano, si spingono, mi abbracciano, i sensi sono liberi, lasciati andare al galoppo come cavalli selvaggi, e penso – questi hanno bevuto e anche più di me –. Arriviamo nella piazzetta nei pressi del mercato, ci sono tantissimi giovani seduti e in piedi fuori dai tre locali. La piazza fa eco al loro vociare che rimbalza fra le pareti dei palazzi che la circondano. Tutti parlano insieme, questo posto mi è sempre piaciuto, sa di vissuto, di gente, di esseri umani. Unisce, in un unico abbraccio, stranieri, giovani, uomini, donne, anziani e cani che vanno in giro come ubriachi tra la gente. E poi cibo, vino, birra, prosecco e fumo, sudore e risa e urla, abbracci e baci apionati, cuori che battono, pensieri, speranze e ancora e ancora tanto altro… Prendiamo da bere, nessuno mi chiede il mio nome e neanche io lo chiedo a loro, non importano i nomi stasera. Un ragazzo mi guarda negli occhi, ci sganasciamo in una risata da piegarci in due. Il romanticismo sembra comico in questa situazione.
Poi frasi senza senso, parole per ridere, per guardarci, per stare vicini. Si ferma di botto, non dice più nulla e mi bacia sulla bocca che sa di vino, per un attimo, e riprende a bere e alitare parole sconnesse. Mi fa ridere da morire, mi diverte la sua follia, di getto l’abbraccio e faccio cadere la sua sigaretta e il mio vino sul selciato. Il mio cuore lo sento battere senza controllo, poi, ci stacchiamo e ci buttiamo in mezzo agl’altri e ancora parole, risa, vino e birra e baci. Ci baciamo davanti ai suoi amici, davanti e dentro la notte, non mi sono mai sentita cosi leggera e libera come stasera. Lo bacio apionatamente, come ho visto fare agli altri, come non ho mai fatto. Lui si stacca nuovamente da me e malfermo sulle gambe lo vedo avviarsi dentro il localino per riempire il bicchiere. Fulmineo sento arrivare il panico dentro di me. Sento arrivare il freddo, dato dal distacco di quel corpo andato via. Come un dolore profondo si fa presente dopo aver fatto un certo movimento. Sento la terra aprirsi sotto i miei piedi. Il mio equilibrio vacilla. All’improvviso tutta questa gente, il loro vociare, mi soffoca, mi stringe sino a farmi mancare il battito del cuore. Faccio alcuni i indietro, mi stacco dai nuovi amici, mi giro di scatto e le gambe iniziano a correre all’impazzata. L’unica cosa che riesco a vedere, è uscire da questa situazione per non rimanere poi delusa dal suo perpetrarsi, forse fatta in seguito di scambi di nomi, di cellulari, di realtà che stasera non richiedo. Preferisco conservare intatta quest’allegria, come fosse prigioniera in una bolla di vetro, di modo che possa sempre rivederla, con lo sguardo del ricordo e possa rimanere una bella serata, ata nella mia vita libera e spensierata. Cammino proteggendo questa bolla di vetro, attenta a non romperla. Vado verso casa serena, non vedo l’ora di riabbracciare le mie foto e di baciarle apionatamente.
I giorni ano lenti da non credere. Provai a chiamare mio padre al cellulare per sentire quali fossero le sue intenzioni, riguardo alla mostra. Non ottenni nessuna risposta, e non persi neanche tempo a scoraggiarmi. Mi sentoin discesa, corro verso la meta che desidero e nulla mi può fermare o abbattere. Ormai manca poco, mi sento bene, pronta ad affrontare l’evento, la gente che verrà e la mia probabile agitazione del momento. Oggi pomeriggio vado a Firenze per portare le foto e assistere al montaggio della mostra. La mia amica Emi si è offerta di accompagnarmi, mi fa piacere fare le cose in due. Spesso soffro di solitudine e quindi a volte condividere con qualcuno le mie emozioni fa molto piacere. Sto lavorando al bar ma così distratta non sono mai stata. Non faccio che guardare l’orologio, non vedo l’ora di finire, andare a casa, prepararmi e in compagnia della mia amica andare alla stazione. Fra l’altro, meno male, che viene anche lei, perché avrei avuto difficoltà a portare le foto da sola. Le persone mi stanno ando davanti come fossero trasparenti. Caffè, cappuccino, pezzi dolci, il mio corpo oggi sembra possa fare a meno del cervello, andando in automatico. Viaggia in posti differenti, da quello in cui sto lavorando. Arriva a fatica il tanto sospirato fine turno, al bar; è fatta. Mi guardo intorno come se cercassi di capire dove sono e come sono capitata qui. Guardo se tutto è a posto, prima di andare. Mi metto d’accordo con Emi per l’ora in cui trovarci in stazione e mi avvio a casa. In casa trovo sca che sta studiando mentre sorseggia un caffè. Mi guarda e sorride con gli occhi: < Allora ci siamo, è arrivato il momento… >. La guardo e dico:
< Sì, finalmente… Ma che stress in questi giorni. Mi sembrava che il tempo seguisse il ritmo di una lumaca, ma ora ci siamo >. Vado in camera, mi spoglio, doccia, nella quale mi soffermo per qualche minuto in più del solito, per rilassarmi. Ora sembra che sia io a non avere più fretta, ora che vedo il nastro del traguardo, me la prendo con calma. Mi voglio assaporare questo tempo che rimane, quasi fosse un bicchiere di Tignanello. Sento dentro una parte di me che si dedica completamente a pensare a quando entreranno in galleria i miei, e a vedere le loro facce che faranno. Questa visione mi elettrizza, si stacca da tutto il resto dei miei pensieri, quasi fosse una parte aggiunta del mio cervello. Mi guardo allo specchio, sì, sono proprio carina oggi, fuori e dentro. Do un bacio a sca prima di uscire e mi avvio con i tre pacchi di foto sotto le braccia. Meno male che la stazione è vicina. - Oh mamma, che fatica - più che altro non riesco ad agguantare bene i pacchi. Non riesco a capire bene qual è il modo migliore di portarli, per durare meno fatica. Cammino notevolmente impacciata. Stazione, amica, treno, viaggio e da ultimo galleria. < Eccoci >. Le ragazze ci vengono in contro visibilmente emozionate. C’è un’aria particolare, di entusiasmo, di leggerezza direi. Ci sono già anche le altre artiste che partecipano alla collettiva, che bello. Presentazioni e complimenti per tutti, da tutti. Ognuna si mette a guardare i lavori delle altre, mezzi scartati e mezzi ancora impacchettati, nella carta o nel pluriball. Al momento la galleria sembra un magazzino dopo l’arrivo delle merci. Siamo un po’ tutte agitate, non vediamo l’ora che i nostri lavori siano attaccati alle pareti, nello spazio assegnato, per poi riguardare per la centesima volta le proprie foto… Sembra sempre che manchi l’ultima occhiata, per essere sicuri che tutto vada bene.
E’ anche vero che un conto è vederle alla rinfusa in camera, sparse un po’ qua e un po’ là, e un conto è guardarle sui muri della galleria sistemate per bene, uno accanto all’altro, ognuna con un faretto puntato, che gli dà la giusta illuminazione. Il tempo a frenetico e piano piano la galleria assume il suo aspetto più consono. Il suo aspetto definitivo. Siamo tutte emozionate e contente di come sono stati sistemati i lavori, dopo ore di frenesia e titubanze varie. Li guardiamo, ognuno per conto proprio, senza poter staccarci da quelle immagini opportunamente sistemate per essere esaltate. Infine ci dirigiamo tutte, un po’ stanche ma soddisfatte, a bere in un locale e finire cosi la serata, festeggiando. E’ tutto uno scambio di complimenti, di emozioni. Le ragazze sono state brave a gestire la situazione, facendoci sentire tutte importanti in egual misura e assegnandoci gli spazi che hanno soddisfatto ognuna. La notte nel letto mi sento agitata, mi giro più volte, non riesco a prendere sonno. Domani al lavoro sarò distrutta, se non dormo. Per la prima volta è un’agitazione di contentezza, una preoccupazione che sa di positivo, d’inizio di nuova vita. Anche se, da una parte, non vorrei aspettarmi troppo da questa prima esposizione e rimanere con i piedi piantati per terra, dall’altra, sotto sotto, mi aspetto qualcosa di esaltante che mi apra le porte, permettendomi di are da un mondo a un altro, più di crescita, più costruttivo. So che è meglio non volare alto, per poi non rimanere delusa, ma almeno oggi, voglio volare. Mi sveglio di botto, mi è sembrato di aver sentito un suono lontano. Guardo la sveglia sul cellulare, l’ho fermata, allora era quello il suono che ho sentito, dal profondo dei miei sogni. Subito il pensiero si rivolge all’evento che avrà luogo nel pomeriggio – uffa, are tutte queste ore al lavoro, che palle – ma ripensandoci, forse è la cosa migliore, se no rimarrei a struggermi per tutto il tempo. Mi lavo via anche l’angoscia del lavoro, sotto la doccia, ed esco da casa pimpante.
Al lavoro rido, scherzo, la prendo leggera. I titolari del bar mi guardano compiaciuti, sorridono benevoli, immaginano che non vedo l’ora di scappare a Firenze. Anche oggi mi accompagnerà la mia amica del bar. Ormai si sente coinvolta e ne ha buon diritto. E’ lei che mi ha fatto conoscere le ragazze e mi ha sostenuto in questi giorni. Siamo a Firenze verso le diciassette e trenta, è ancora presto. Non voglio arrivare quando non c’è ancora nessuno. Cosi propongo di fare un giro in città. Mi perdo nella vista delle vetrine, ora posso anche permettermelo. Le foto sono a posto, tutto è stato fatto e posso anche concedermi di staccare il pensiero dall’evento per un po’, anche se le gambe conservano una certa frenesia di avviarsi alla galleria. Arriviamo a evento in corso. La galleria è piena e non solo dentro, anche fuori molte persone sostano parlando e bevendo. Subito, dopo aver fatto qualche saluto, mi dedico alla ricerca visiva di mia madre e dei miei fratelli. Ogni volta che giro lo sguardo, spero di vederli, ma mi sembra che non siano ancora arrivati. Sono moderatamente preoccupata, è ancora presto. Le ragazze ogni tanto mi vengono incontro con qualcuno da presentarmi. Io sorrido a tutti e parlo con finta tranquillità e sicurezza. Il tempo a e una parte consistente della mia concentrazione è sul pensiero che loro non arrivano. Sto un po’ dentro e un po’ fuori della galleria. Rientro per prendere un qualcosa da bere, cercando di frenare l’agitazione che si sta allargando in misura preoccupante. E poi ritorno fuori. Il nervosismo mi sta montando alla testa, rischio di non godermi nulla per stare appresso al pensiero di loro che non vengono. Vado in bagno, mi guardo allo specchio, il viso è notevolmente teso, non me lo posso nascondere. Mi squadro fissa per qualche minuto negli occhi e mi lascio andare due schiaffi sonori sulle guance e mi dico, sempre con gli occhi puntati negli occhi – eh no, bella mia, non puoi farti distruggere anche questa cosa da loro, no non puoi, non posso, no – vorrei urlare.
Richiamo tutto il mio controllo, decisa a uscire da questo bagno, determinata a godermi l’evento, sia che loro arrivino o no, non mi importa. Mi sciacquo il viso ed esco completamente diversa da come sono entrata. Ho chiuso la porta all’attesa e infatti mi sembra subito di essere più leggera. Mi bevo un prosecco e mi guardo intorno vogliosa di relazionarmi con gli altri. Mi avvicino a un tipo che mi era stato presentato e che sosta davanti alle mie foto. Mi vede, mi guarda, esitando un attimo prima di rivolgermi la parola, poi mi dice: < Sei brava… >. E fa una lunga pausa, io mi attendo un – ma… – che puntuale arriva. <… ma si vede che devi crescere, sei un’autodidatta? >. < Sì > rispondo un po’ sulle mie e poi aggiungo: < Mi rendo conto che devo percorrere ancora tanta strada, ma non ne sono spaventata > e lui: < Si… Brava, fai bene a non spaventarti. E’ sempre bene puntare a crescere. Anche, magari, di un ettino alla volta e non solo nel lavoro, è bene anche nella vita farlo… In te vedo della potenzialità. Per meglio dire la vedo nel tuo lavoro. Ho voglia di parlarti di una proposta che stavo elaborando prima che tu arrivassi, mentre osservavo le tue foto … >. Io lo guardo assorta e stupita al medesimo istante. Non mi sarei mai aspettata che oggi avrei ricevuto una proposta riguardo al mio lavoro, boh, e poi cosa vorrà dirmi? Mi sarei aspettata dei complimenti, una promessa di acquisto ma non questo… Comunque aspetto curiosa di sapere. Lui mi guarda negli occhi, nel frattempo si avvicina quella che presumo sia sua moglie o la sua compagna. Ci presenta, si rivolgono verso le foto e lui le riferisce la nostra conversazione. Io aspetto sempre più incuriosita e un po’ divertita, distaccata. Sono riuscita a rilassarmi, tanto che, sembra solleticarmi un sorriso interiore.
Si girano di colpo verso di me e lui mi dice: < Sai… Abbiamo una carissima amica che organizza un corso biennale di fotografia a Berlino, a… Veramente alto livello. Guardando le tue foto, mi è venuto immediato pensare a lei. Vorrei parlarle di te, sono sicuro che vi troverete in sintonia e sono abbastanza certo che ti accetterebbe nel suo corso… Prima, naturalmente, gli farei vedere il tuo lavoro, e visto come la conosco, penso ne sarebbe interessata, e che le piaceresti >. E si rivolge verso la compagna, per avere una conferma alle sue parole, che lei non tarda a esprimere. La cosa mi spiazza completamente, non so se fare salti di gioia o cosa… La mia mente però si blocca, dopo essere partita subito in quarta, come la mia bocca aperta, che non riesce a emettere un suono che si avvicini a una parola capibile. Subito penso alle difficoltà del progetto e poi balbetto, < Si… Ma… Ma… E’ molto bello e per me, molto interessante e anche gratificante. Come… Come faccio col lavoro, come potrei lasciarlo, non ho soldi per mantenermi, addirittura due anni, a Berlino, bello ma… >. Mi sento le braccia cadere, mi sembra una bella proposta ma per me decisamente irraggiungibile. Lui non si scompone di fronte alle mie resistenze e ai miei dubbi e continua a guardarmi fisso negli occhi e con calma mi dice: < Sì, certo, lo so, ci avevo già pensato, ma devi sapere, innanzitutto, che noi abbiamo la possibilità di ospitarti. Abbiamo una piccola dependance in cui potresti stare e poi in cambio di qualche piccolo aiuto in casa, avresti i soldi per mantenerti e poter frequentare il corso… Che ne dici? >. Io come se avessi il vuoto in testa e sotto i piedi, come se fluttuassi in un liquido amniotico, li guardo sempre più smarrita e dico: < Sì, bene, ma c’è un ulteriore problema, io non parlo tedesco… >. E lui mi fa un bel sorriso e dice: < Non ti preoccupare, il corso è in lingua Inglese, perché sai, vengono un po’ da tutta Europa per parteciparvi e poi inizia a settembre, così hai anche la possibilità di rispolverare un po’ la lingua, un po’ la conosci? >. Sembra sia preparato a
superare ogni ostacolo e così io rispondo: < Beh, si la conosco abbastanza, a scuola ero “bravina” in Inglese… Sembra che lei abbia una risposta a tutto… Certo è proprio una grande e allettante proposta >. Guarda la moglie e si sorridono, < A noi farebbe molto piacere che tu venissi, però capisco, è più che naturale che tu ci pensi un po’ su >. Apre il portafoglio e ne toglie un suo biglietto da visita e me lo dà. Lo guardo, il nome è Italiano e infatti non si sente nessun accento straniero nel suo modo di parlare. Mi racconta che sono diversi anni che vivono in Germania e che lì si trovano bene. Ogni tanto tornano a trovare gli amici, fra cui le ragazze qui a Firenze della galleria. < Bene, pensaci un po’ su e poi ci sentiamo e mi dici… Va bene? > Ed io stonata, come se avessi bevuto una bottiglia di rum, gli rispondo: < Va… Bene la chiamerò… >. Ci stringiamo la mano. L’impressione che mi hanno fatto… E’ più che buona – Vediamo… -. Si avvicina la mia amica, subito le racconto tutto. Mi sento più che mai come in alto mare, in balia di onde enormi che mi mandano su e giù scombussolandomi lo stomaco. Mi devo subito sedere prima di cadere in terra. Esco e mi appoggio a una macchina parcheggiata, riprendo fiato e ritorno sul colloquio avuto con la mia amica. Ci guardiamo negli occhi in silenzio, non so proprio che dire, poi lei rompe il silenzio buttando nell’aria: < Certo che è proprio una gran proposta>. Siccome resto muta, lei aggiunge per scuotermi: < Che pensi di dirgli … >. La guardo e le rispondo: < Non lo so proprio… >. Intanto si è fatto tardi, ritorna ad assalirmi il pensiero della mia famiglia che non si è fatta vedere. Guardo il cellulare per vedere se c’è un messaggio, nulla. Scuoto la testa, ma subito la fermo e mi dico: – non m’importa – e la chiudo li.
Andiamo a cena a festeggiare. Io sono abbastanza abbottonata sulle mie, mentre tutte raccontano le loro impressioni. Qualcuna ha avuto anche delle proposte di vendita. Le ragazze dicono che anche le mie foto hanno suscitato interesse. Io mi sforzo nel tirare fuori un entusiasmo che mi prende poco. La proposta del quel tipo mi ronza nella testa, come fosse uno sciame di api dentro l’alveare, non riesco a pensare ad altro. Sento il cuore incerto nei suoi battiti e la mia mente che continua a dire: – che cosa gli risponderai? –. Mille possibilità mi si aprono e chiudono, mettendomi in difficoltà più che mai. La mia amica mi scruta, cercando di non farsene accorgere. Vorrei che questa cena finisse presto per andare a eggiare nel silenzio della notte, e pensare in libertà. Andrei a Pisa a piedi. Tutto termina, riesco a mascherarmi, appiccicando un’impressione di contentezza sul mio volto. Non sto male, certo, ma sono scombussolata e non poco. Mi addormento con difficoltà maggiore della notte precedente e la mattina mi sveglio spossata, come se avessi lottato per tutto il tempo. Sono irritata, non vorrei sentirmi così, come se mi fosse ato addosso un camion a rimorchio. Vorrei pensare a quella proposta in modo più sereno, stando tranquilla, valutando i pro e i contro. Certo la cosa è allettante e non poco, è una grande opportunità per me… Ma come posso fare… Sarebbe come rivoltare la mia vita come un calzino e poi sarei cosi lontana dalla mia famiglia… Già, la mia famiglia, sono proprio curiosa di sapere che scuse inventerà la mamma per giustificarsi. Vorrei chiamarla subito, per sapere, ma aspetto che sia lei a farlo, è meglio. Sono proprio incazzata con loro, ora che ci penso su. Sono troppo curiosa di sapere cosa le è successo, ma sento anche distacco in me, ormai da loro non mi aspetto più granché. Delusione sino alle lacrime, lacrime che non vale più la pena di
versare per loro. Meccanicamente mi avvio al lavoro della domenica mattina, ne farei volentieri a meno, per fortuna oggi stacco prima, all’una e mezza. Tutti vogliono sapere com’è andata la mostra. Giustamente mi fanno mille domande, a cui con molta fatica rispondo, e poi, piano piano la mattina scivola via. E dai miei nessun segnale di vita, mah! Va bene aspetterò ancora. Nel pomeriggio, finalmente, arriva la tanto attesa telefonata da mia madre, che esordisce con un: < Ciao, tesoro >.Una parola, da lei, quasi mai usata nei miei confronti. Tesoro, mah! < Ciao mamma >. Le rispondo molto sintetica molto sulle mie. Inizia la sua spiegazione: < Sai, tesoro, tuo fratello Gill se ne era dimenticato o meglio pensava fosse sabato prossimo. Io non sono riuscita a mettermi in contatto con lui, ci ho provato tutto il pomeriggio e… Quando è arrivato a casa, era ormai troppo tardi per venire… Spero non ti dispiaccia troppo… Intanto ne farai altre mostre, ci saranno altre occasioni… >. La voce le trema un po’, non ci crede nemmeno lei in quello che farfuglia, e poi non sa cosa altro dire e si zittisce. Io mi sento la gola stretta stretta, improntata a soffocare, il singhiozzo che mi sta per uscire o la rabbia che sta per esplodere o tutte e due le cose. Prendo un profondo respiro, mi obbligo a stare calma e le dico: < Sì va bene mamma, ci sentiamo, ora scusa ma ho un appuntamento e sono già in ritardo >. La scusa più banale di questo mondo per dare un taglio a questa conversazione tediosa. Mi guardo attorno, come se non mi capacitassi di essere a questo mondo, ora. Mi sento vuota, come una bottiglia di vino dopo una festa. Mi lascio cadere sul letto a peso morto, guardo nel vuoto per un tempo che a me sembra lunghissimo.
Hanno vinto ancora loro. Mi rimbalzano nel cervello queste parole, non hanno voluto darmi la soddisfazione di venire da me, e rendermi omaggio con la loro presenza. Penso che a mia madre, non sia dispiaciuto per niente, non esserci all’inaugurazione. Venire sarebbe stato come accettare, in qualche modo, le mie scelte, il mio prendermi la vita in mano, decidere io, per me. Per loro queste cose sono inconcepibili, bisogna vivere tutti insieme, per affondarci nel mare della disperazione, tutti insieme e insieme distruggere le nostre vite, tutti insieme. E se per caso, una vuole decidere per sé e staccarsi dal gruppo, non va bene, è peccato mortale e quindi bisogna farla sentire un’emarginata, una diseredata. Nella mia mente si fa sempre più chiara l’idea che segna la via che devo percorrere. Mano mano che vedo questa via tracciarsi nella mia mente e aprire il mare della confusione, dell’incertezza, mi vedo serena nel sapere cosa devo fare, cosa è giusto per me. Accetterò la proposta di andare a fare quel corso di fotografia a Berlino. E se i miei non lo capiranno, non m’importa, voglio essere io, sempre di più, padrona della mia vita e voglio allontanarmi da quelle ombre, dall’oscurità che sento sempre rincorrermi. Ho proprio bisogno di prendere una decisione drastica e dare un taglio più deciso al legame con loro, devo recidere quel cordone ombelicale che mi lega ancora alla mia famiglia. Sarà doloroso? Sì, lo sarà, sicuramente. Mi dispiace per il fratello più piccolo, ma devo farlo, se no affogo in questo mare cosi cupo. Non riusciranno a riportarmi nel loro mondo. Prendo in mano il cellulare e formo il numero del mio “nuovo“ amico. Mi risponde lui, gli dico subito, dopo un breve saluto, con voce ferma: < Ho deciso, accetto di venire a Berlino > e lui: < Bene, hai preso la decisione più giusta per te e per il tuo lavoro. Ci vediamo stasera e ne parliamo meglio… Sono contento per te, ciao a dopo >.
Chiudo il cellulare, e all’improvviso mi sento più matura. Quasi donna.