Copyright © 2012 YOUCANPRINT.IT - Self-publishing Via Roma 73 - 73039 Tricase (LE) Tel. 0833.772652 Fax. 0832.1836533
[email protected] www.youcanprint.it
Titolo: Racconti senza fine Autori: Wiki-racconti.com Copertina: Youcanprint.it ISBN: 9788866188728 Prima edizione digitale: 2012
Questo eBook non potrà formare oggetto di scambio, commercio, prestito e rivendita e non potrà essere in alcun modo diffuso senza il previo consenso scritto dell’editore.
Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata costituisce violazione dei diritti dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla legge 633/1941.
Wiki Books, il self-publishing incontra il crowdsourcing
Youcanprint.it in collaborazione con il Wiki della narrativa di StoriaContinua.com, lanciano una nuova collana editoriale dedicata ai libri collettivi.
Ispirata dal sito letterario che si propone come punto di incontro per gli scrittori online, oltre al nome, i Wiki Books di Youcanprint, ne assumono anche la filosofia: raccoglieranno, infatti, le migliori storie e i racconti scritti a più mani, già apparsi su wiki-racconti.com, per riproporli in delle vere e proprie antologie di qualità, sia in formato cartaceo, che digitale.
E’ l’occasione per ogni aspirante scrittore di iniziare a farsi conoscere espandendo la propria audience e le proprie capacità sia tecniche, utilizzando i nuovi strumenti del digitale, sia creative interagendo con gli altri autori del Wiki. Ma soprattutto l’occasione di vedere pubblicata la loro opera ben due volte: prima online e poi in una versione più tradizione e professionale, senza perderne i diritti e, perché no, iniziando anche a farli fruttare. Youcanprint, infatti, come self-publishing, non acquisisce i diritti sull’opera e si occuperà di produrre le copie dei libri effettivamente richieste dal mercato, distribuirle sia nelle librerie del territorio nazionale che ne faranno richiesta, che sugli store online, garantendo agli autori una percentuale sulle vendite.
I Wiki Books, frutto di un mash-up tra social networking, blogging e selfpublishing, vogliono proporsi come trampolino di lancio per i nuovi autori, a volte troppo preoccupati di tenere le loro opere al sicuro in un cassetto per accorgersi di come dalla collaborazione e dall’incontro di creatività possano nascere successi inaspettati.
Premessa
Innanzitutto grazie per aver scaricato questo ebook. Quello che ti appresti a leggere rappresenta un piccolo saggio di ciò che saranno a breve i Wikibooks, i libri della collana editoriale voluta da Youcanprint.it ed ispirata al Wiki della Narrativa di Storiacontinua.com - piattaforma aperta al libero contributo degli scrittori online. Nelle pagine che seguono abbiamo raccolto la migliore produzione ad opera degli autori più attivi su wiki-racconti.com dal suo sbarco online. Racconti più o meno brevi, alcuni dei quali rispondenti perfettamente alla filosofia che di solito anima un Wiki - condivisione, scambio e partecipazione - ossia: la loro trama resta tutt'ora aperta ad ogni possibilità; il loro sviluppo dipenderà dalla volontà di chiunque leggendo le nostre storie abbia voglia di aggiungere ogni volta un nuovo capitolo. Ciò che ci auguriamo quindi, una volta letti i racconti, è di instillare anche in te questa voglia di creatività. Se così fosse, troverai in fondo all'ebook tutte le indicazioni su come partecipare al Wiki della Narrativa e magari, perché no, diventare uno degli autori dei Wikibooks di Youcanprint. In caso contrario, se sei e resterai sempre un lettore puro e apionato, speriamo di aver allietato un po' del tuo tempo, ma ti ricordo che potrai comunque partecipare alla piattaforma, continuando a leggere gratis i racconti pubblicati online e scegliendo con un “click” quelli che faranno parte del prossimo volume della collana. Buona lettura e buon divertimento!
Quattro personaggi in cerca d'autore
di Daniele Savi: giovane creativo, autore del romanzo “Hope, le mirabolanti avventure di un'astronave” pubblicato a puntate sul blog astronavehope.com, Daniele ha scritto per noi questo spin-off che vede come protagonisti gli stessi personaggi che compongono l'equipaggio dell'astronave della speranza, ma alle prese con il loro stesso ideatore...
Lo Scrittore sedeva stanco sulla sua poltrona ergonomica di fabbricazione svedese. Occasionalmente, il fluire delle parole bianche sullo schermo nero del programma di scrittura del suo macintosh si inceppava, richiedendo un nuovo ascolto. In quei momenti egli si fermava e raccoglieva i suoi personaggi intorno a sé, chiedendo loro di raccontargli l’evolversi delle vicende, per poterle meglio rendere sui bit digitali del file di testo. Così fece anche questa volta. Nella stanza apparvero quattro figure stranissime, o meglio tre figure stranissime e uno stupendo esemplare di cane tertelliano, con sei zampe e il pelo variopinto e psichedelico. - …non è possibile, da qualche parte dovrà pur… – esclamò Ian Volk, lasciando a metà l’accorata discussione che stava avendo con l’animale. – Che cosa? Dov’è finita la plancia? - Benvenuti – li accolse lo Scrittore. - Chi sei? – domandò Aria. - Benvenuti – ripetè lui. I quattro personaggi si guardarono tra loro allibiti. Due uomini, una donna e un cane, prontamente ritrasformatosi nella forma umanoide standard, componevano l’equipaggio originario dell’Astronave Hope, costruita dalla Resistenza Terrestre in seguito all’invasione Venster, alieni brutti e soprattutto molto, molto cattivi.
Altri extraterrestri, gli Atariani, si erano invece alleati con gli umani fornendo tecnologia e personale: l’ex cane tertelliano era, in realtà, Buzz, un atariano capace come tutti i suoi simili di trasformarsi in qualsivoglia forma, animata o meno. Alla guida del quartetto il capitano Shepard, ex astronauta NASA, scelto per comandare l’ultima speranza di salvezza della Terra, insieme agli amici Aria Marconi, primo ufficiale e pilota espertissimo, e Ian Volk, scienziato russo geniale ed egocentrico. Assumendo un’espressione minacciosa si avvicinarono allo sconosciuto seduto dietro a una scrivania, scavalcando matasse aggrovigliate di cavi. - Non temete, non vi farò alcun male – li rassicurò lui, deciso ad evitare qualsiasi inconveniente sgradevole. - Resta da vedere se saremo noi a farne a te! – esclamò Volk, che quando si trovava in apparente superiorità era sempre pronto a sfoderare un coraggio inaspettato. - Ian, sei sempre così diplomatico… – sbuffò Aria puntando un silaha, arma versatile sia nel corpo a corpo che a distanza, contro lo Scrittore. – Dove siamo? Egli sorrise. – Siete nel luogo dove la realtà diventa fantasia, e la fantasia realtà. - Chiaro – annuì la donna. – Quindi dove siamo? - Avete presente i libri? Ecco, non c’è un modo gentile per dirvelo, lo dico e basta: sto scrivendo un libro su di voi. - Su di noi? Non ne ho mai sentito parlare – si intromise il capitano. - No…non nella vostra realtà. Ian era giunto a una conclusione. – Stai dicendo che siamo personaggi di un libro? Parto della tua fantasia? Irreali? L’autore sgranò gli occhi, stupito. – Sei arrivato in fretta a questa idea, pensavo
di poter scrivere ancora qualche riga, prima. Beh, non è proprio così. Siete reali, nel vostro mondo. Io trascrivo solo quello che voi raccontate…ma in questo luogo posso anche modificare le cose, volendo. - Toh, dio – ironizzò Aria che non credeva a una parola. Lo Scrittore si mise a digitare sulla sua tastiera, e improvvisamente lei sentì l’irrefrenabile bisogno di baciare lo scienziato russo. Appena prima di avventurarsi in esplorazioni compromettenti, però, il testo fu cancellato e tutto ritorno sotto il controllo dei rispettivi proprietari. - Wow – esclamò Ian. - Carino eh? - Ma…cosa…che… -. Aria era senza parole, forse per la prima volta nella sua vita. - Scusa, serviva una dimostrazione pratica. - Ah certo… – la donna aveva subito riacquisito la sua naturale verve – e non potevi farla tra Ian ed Henry, questa dimostrazione? - Oh, sì, è un’idea interessante. – Digitò di nuovo sulla tastiera. I due uomini si avvicinarono, ma poi l’autore scosse la testa. - No, volevo solo dare una piccola soddisfazione ad Ian…prevedo decine e decine di pagine di frustrazione. Tanto poi… - Poi? – chiesero in coro i membri dell’equipaggio. - Ve lo dirò dopo. Ora…Il capitano rivolse uno sguardo eloquente a Buzz. – Henry, se vuoi sapere se lui è uno di noi – intervenne l’atariano – no, è un umano, come voi. Sembra che sia questo luogo…ad avere qualcosa di strano. - Sì, ve l’ho detto, questo è un luogo di interscambio. Da qui accedo alle vostre vite, e le racconto. -
- Ci manipoli! – gli urlò contro Volk, in preda all’ansia. - Discretamente. Voi vivete la storia, mi limito a darvi qualche aiuto, nel caso serva. Meglio che essere un Venster no? Perderanno. - Quindi – continuò incurante lo scienziato – potresti far finire tutto questo in qualsiasi momento! - Beh…sì…ma non sarebbe logico…non funzionerebbe. - Che intendi dire? Puoi farci tornare a casa o no? - Tecnicamente…sì, ma una storia deve svilupparsi naturalmente, con una trama, i suoi colpi di scena, problemi e soluzioni credibili…non posso semplicemente interrompere tutto e scrivere “vissero felici e contenti”. Vi assicuro comunque che salverete la Terra. - Non mi basta! – gridò Ian fuori di sé dal terrore e dai miliardi di possibilità diverse che il suo geniale cervello aveva calcolato. Estrasse la pistola a fase in dotazione ai componenti della Resistenza, e la puntò dritta al volto dello Scrittore. I suoi amici, più diplomatici e meno inclini a farsi travolgere dalle emozioni, cercarono di farlo ragionare. Anche l’uomo verso il quale l’arma era puntata, allarmato dall’evolversi degli eventi, cercò di tranquillizzarlo, senza successo. - Spostati – intimò lo scienziato, avvicinandosi al computer. Guardò lo schermo nero con alcuni paragrafi appena terminati. Pose le mani sulla tastiera. - Non farlo, non finirà come… – cominciò a spiegare lo Scrittore, subito zittito dall’ulteriore avvicinarsi della canna della pistola. Il russo digitò la frase “L’Astronave Hope e il suo equipaggio tornarono finalmente sulla Terra”. L’atmosfera stessa sembrò vacillare di indecisione, poi come una bolla sapone che svanisce nell’aria, i quattro personaggi scomparvero. L’orbita intorno al terzo pianeta della stella Sole pullulava di oggetti estranei. Svuotata dalla consueta spazzatura, satelliti, vecchie parti di razzi e rottami delle varie agenzie spaziali che avevano esplorato le vicinanze della Terra, era ormai da molti mesi occupata dalle navi nere della forza di invasione Venster, di
svariate forme e dimensioni. Ogni tanto, dato l’affollamento, alcune di esse si scontravano fra loro, precipitando nell’atmosfera e provocando la distruzione di questa o quella città superstite ai bombardamenti delll’inizio della guerra. Improvvisamente, tra un cargo di trasporto prigionieri e un bombardieredistruttore-dannatamente-enorme apparve una piccola nave, completamente diversa dalle altre. La novità inconsueta provocò l’immediata deviazione di rotta di una decina di vascelli alieni, che precipitarono annientando alcuni importanti avamposti della Resistenza, oltre a una foresta pulllulante degli ultimi esemplari rimasti di panda (senza che nessuno potesse organizzare una protesta a riguardo). - Bentornati a casa! – gridò Ian, felice che finalmente un suo gesto sconsiderato avesse portato dei risultati positivi. - Aria, situazione! – ordinò il capitano, mentre la donna effettuava un’ardita manovra evasiva per evitare altre collisioni. - E’ un po’ affollato. Ma se Buzz ci scherma, dovremmo riuscire ad atterrare senza farci scoprire. L’astronave Hope, prima ed unica nave ad iperpropulsione atariana della Resistenza Terrestre, era tornata a casa. Mentre si avvicinavano a uno dei tanti punti di attracco segreti delle basi nascoste sulla superficie, Henry contattò il comando su un canale criptato per avvisare del loro ritorno. - Qui Hope, identificazione 41554 DELTA 42 - Avanti - Siamo tornati. Chiediamo autorizzazione per attracco al punto 13c - Autorizzati. Vi preparo il comitato di accoglienza. Certi di poter festeggiare presto il proprio rientro a casa, tutti i membri dell’equipaggio sorrisero, sollevati per la fine della loro disavventura e di poter tornare presto a combattere per la Terra. Anche Aria si era convinta della fortuna, oh sì per una volta si era sbagliata, del gesto dello scienziato russo durante l’inspiegabile incontro con il misterioso personaggio.
In questa condizione, con i volti irradianti felicità, aprirono il portello scendendo la scaletta di sbarco della nave, per ritrovarsi di fronte un’intera unità con fucili a fase spianati contro di loro. - Voi! – urlò l’ufficiale comandante della base. – Avete anche il coraggio di tornare, come se niente fosse! - Che diavolo? – esclamò sconcertato Shepard. Non ebbe il tempo di aggiungere altro. - Prendeteli e portateli nella stanza degli interrogatori. I soldati si strinsero intorno ai quattro compagni increduli. Buzz, intuendo che la situazione stava degenerando velocemente, intervenne colpendo gli inaspettati avversari e disarmandoli. Il comandante non sembrò sorpreso. Dietro di lui, infatti, apparvero due atariani che, forti della superiorità numerica, intrappolarono Buzz e gli impedirono ulteriori azioni, trasportandolo istantaneamente chissà dove. Senza più l’aiuto dell’amico alieno, i tre membri superstiti dell’equipaggio della Hope furono velocemente disarmati, e condotti in un’area riservata al cospetto degli ufficiali superiori. Seduti dietro a una spoglia scrivania, sulla quale torreggiava lo schermo lcd di un vecchio computer, l’ammiraglio Ballard e i capitani Sun Tzu e Bollani costituivano un’improvvisata corte marziale, per giudicare il crimine più nefando in tempo di guerra: il tradimento. - Siete spariti mentre vi avvicinavate alla nave madre Venster! – urlò Ballard sfogando la rabbia e il disprezzo che provava nei loro confronti. - Sì – intervenne Volk – se ci lasciate spiegare, siamo stati risucchiati da una distorsione spaz… - Silenzio! Non penserete che crediamo a queste sciocchezze! Poco dopo la vostra scomparsa miracolosa, i Venster hanno attaccato con precisione millimetrica quattro nostre importanti installazioni segrete, note solo ai capitani di flotta e agli atariani. -
Aria si alzò in piedi, stringendo i pugni. – Vorreste insinuare che vi avremmo venduti ai Venster? – la donna era fuori di sé per quello che considerava il massimo insulto. - Insinuare? Non insinuiamo niente. Vi accusiamo formalmente di tradimento. Questa corte marziale delibererà in breve sulla fondatezza delle accuse, per le quali vi ricordiamo – sul suo volto apparve un ghigno – la pena prevista è la morte. L’italiana, nonostante l’addestramento, perse il controllo. Dirigendosi verso una vicina guardia, la colpì, disarmandola, e puntò il fucile verso i tre ufficiali della corte. Sparò un colpo verso i tre accusatori, deflesso da un campo di energia invisibile. - Questo equivale a una dichiarazione di colpevolezza, puttana! – esclamò Sun Tzu. Shepard era incredulo, conosceva quegli uomini e mai si erano comportati in quel modo assurdo. Bloccato dall’insensatezza della situazione, non sapeva che decisioni prendere. Guardò impotente i soldati che trascinavano l’amica lontana dai tre ufficiali, togliendole il fucile e buttandola a terra per renderla inoffensiva, senza troppi riguardi. Ian, nel frattempo, aveva seguito la stessa sorte della donna, ma volontariamente: come di consueto in condizioni di pericolo era rannicchiato, tremante, in posizione fetale. A seguito di un’istantanea delibera della corte, i tre vennero scortati in una cella di detenzione, in attesa dell’esecuzione della pena. Dopo alcune ore ate nell’impossibiltà di escogitare un piano di fuga, ricevettero nuovamente la visita di alcuni soldati, che li trasferirono verso la superficie, fuori dalla base. L’ammiraglio fece loro un brevissimo discorso, per informarli che in seguito ai loro crimini contro la Resistenza e l’umanità sarebbero stati giustiziati seduta stante. L’intera vicenda era talmente illogica che i tre, invece di cercare di reagire, sentirono l’irrefrenabile desiderio di non fare nulla per mutare la propria sorte. Proprio mentre decidevano di non salvarsi la vita, un piccolo ricognitore Venster si materializzò sopra di loro, trasportandoli istantaneamente a bordo mentre il comandante della base urlava imprecazioni irripetibili contro la nave nera. - Siete fortunati, terrestri – sputacchio il traduttore automatico della nave
seguendo lo sputacchioso idioma dell’enorme pilota. – Vi avrei distrutti come meritate, se il Primo non volesse parlarvi! - Non vi daremo le posizioni delle nostre basi! – gli urlò contro Volk – non siamo veramente traditori! L’alieno si mise a ridere sballottando l’enorme deretano sul sedile posto di fronte ai comandi, e facendo tremare tutte le paratie interne della plancia. - Posizioni delle vostre…ah ah ah – non riusciva a smettere – bombarderemo tutto il vostro pianeta, non ci serve sapere dove siete nascosti – concluse sputando verso i tre umani un quantitativo di saliva pari a un boccale di birra. Smise di ridere e si fece serio. – Per caso, il Primo ha assaggiato un certo prodotto terrestre di fabbriche che abbiamo già distrutto. Sfortunatamente per alcuni miei colleghi, quella roba gli è piaciuta moltissimo, e ora vuole assolutamente averne la formula, che sappiamo essere registrata nella vostra nave. Voi ce la fornirete. - Ma di cosa state parlando? – domandò Aria che ormai aveva superato la soglia dell’incredulità e navigava in un mare di probabilità illogiche. - Di quella cosa che piace tanto al vostro capitano Shepard! Il Primo la vuole, e se gliela darete vi ucciderà velocemente. - Ah – esclamò il capitano comprendendo la situazione. – Altrimenti? - Altrimenti vi terrà in vita per qualche mese, mentre vi darà in pasto pezzo per pezzo ai suoi affamatissimi kragg Shepard non sapeva cosa fosse un kragg, ma intuiva che non sarebbe stata una morte piacevole. - Direi che possiamo trovare un accordo… – concluse quindi. Inspiegabilmente, il Venster si mise a saltellare di gioia per tutta la plancia, sputando frasi sconnesse sulle proprie aumentate possibilità di carriera e di arrichimento grazie alla collaborazione dei prigionieri tanto desiderati dal suo superiore. Proprio mentre emetteva uno sfiato celebrativo, non esattamente dalla bocca, non si accorse di un allarme apparso sullo schermo principale del
ricognitore. Non se ne avvidero neanche i tre terrestri, perché naturalmente era scritto in lingua aliena e non tradotto. Davanti alla navetta apparve un enorme bombardiere, in rotta di collisione, che percepì lo schianto come una lieve puntura, stringendo infastidito i finestrini. Tutti i presenti a bordo dello sfortunato trasporto vennero vaporizzati all’istante, e con essi il segreto della bevanda tanto agognata dal Primo dei Venster. Lo Scrittore sorrideva, ma assunse un’espressione accigliata e preoccupata non appena i quattro personaggi apparvero di nuovo nella sua stanza. - aaaaaahhhhhhh – finì di gridare Ian Volk, mentre ava dalla vita alla morte, e poi di nuovo alla vita. - Bentornati. - Che scherzo è questo? - Comunque prego di avervi salvati. - Che cosa? – il russo era in preda a uno stato confusionale, pur mantenendo la propria genialità. - Capite perché non posso affrettare le conclusioni di una storia? Va sempre a finire male… - Stavolta! Ma ci riproveremo! – affermò lo scienziato dirigendosi nuovamente verso il computer. Henry ed Aria si guardarono, e lo presero ognuno da un lato, bloccandolo. - Bene, direi che abbiamo capito – esclamò Shepard. – Forse è meglio continuare il nostro viaggio – aggiunse, mentre sentiva l’irrefrenabile desiderio di baciare il russo. - Ehm…colpa mia – si scusò lo Scrittore – ho premuto mela-Z per sbaglio ed è riapparsa quella frase. - Non importa – sorvolò il capitano mentre Aria rideva di gusto. – E’ la cosa…
beh, direi di tornare alla nave. Se ben ricordo eravamo nel mezzo di un bombardamento intorno a un pianeta sconosciuto! - Oh sì, è vero. E penso che sia il momento di fare una visitina a una vostra nuova amica. Con un gesto lo Scrittore congedò i personaggi, facendoli tornare alla loro realtà. Sapeva che non avrebbero ricordato nulla fino al loro prossimo incontro, e che a quel punto sarebbero stati molto più collaborativi. Sorrise malignamente. Era stato oneroso modificare a tal punto, anche se temporaneamente, la realtà terrestre per far volgere tutti gli eventi contro ai suoi personaggi, ma li aveva convinti. Si era assicurato di poter terminare senza problemi il resoconto delle mirabolanti avventure di quella strana compagine. Un successo assicurato.
Le ceneri di Salambò
di Jean Claude Riviere: ovvero, Claudio Ridarelli, classe 1929. Autore tra i più prolifici del Wiki. Dai suoi numerosi racconti traspare una profonda conoscenza della storia e della letteratura. “Le ceneri di Salambò” è solo uno dei tanti esempi del talento narrativo che ha finalmente messo a frutto una volta liberatosi dei panni del pubblicitario. Oltre che su wiki-racconti.com, J.C. Riviere ha pubblicato su diversi altri siti letterari e con la casa editrice Edizioni di Karta.
Negli uffici dell’Impresa Teatrale a La Madeleine Oscar Lubin stava illustrando il suo ultimo lavoro teatrale, ispirato al capolavoro di Flaubert, all’impresario, al regista e allo scenografo, che l’avrebbero messo in scena per la prima mondiale a Parigi: - Che cos’è Salambò? Un’opera letteraria colma di magnifici pannelli decorativi: un immenso affresco dove l’assenza di una psicologia definita e di una scelta etica fra le parti in urto (Cartaginesi e Mercenari, Matho e Salambò) contribuisce ad accentuare l’unico valore valido: l’arte, lo stile, il colore… Solo poche figure in questo arabesco acquistano un certo (e sempre appena abbozzato) rilievo sculturale: Matho, Amilcare, Giscone e Spendius con la sua umanità greca. In quanto a Salambò, la vergine devota a Tanit figlia di Amilcare, meritava cento pagine in più dedicate a lei, come lo stesso Flaubert riconosceva. In realtà l’autore non avrebbe potuto dedicarle altro spazio senza entrare in un psicologismo dannoso all’opera stessa. Rivolgendosi particolarmente al metteur en scéne, Oscar continuò: - In realtà nel romanzo esiste un protagonista più importante, più patetico, più vivo della stessa Salambò e degli altri singoli personaggi ed è l’esercito dei Mercenari. Presentato nella sua umanità vera e sofferta durante la partenza da Cartagine, esso matura lentamente per sbocciare nel penultimo capitolo del libro, le défilé de la Hache (a cui corrisponde la prima parte dell’ultimo quadro della mia opera teatrale), dove gli addii patetici, i pianti di quella accozzaglia di Barbari venuti da ogni parte dell’Occidente a combattere Cartagine svelano
quella loro virilità dolorosa ed aspra, contenuta in una apparenza d’imibilità durante il corso faticoso del loro vivere quotidiano. Più che un romanzo, quello di Flaubert poteva essere definito un poema in prosa. E proprio ispirandosi a questo, Oscar aveva realizzato un poema per balletto recitazione e coro. Stilisticamente si era ispirato al Romeo e Giulietta di Prokofiev. Come nelle opere del compositore russo, aveva cercato di riunire ed amalgamare atteggiamenti tradizionali e tendenze nuove e moderne. Continuando ad illustrare la sua opera, Oscar ò alla struttura del lavoro teatrale, a cominciare dai quadri di cui l’opera balletto veniva suddivisa: l’accampamento dei Mercenari con il festino, la danza e l’apparizione di Salambò; il Tempio, con la funzione religiosa e l’adorazione di Tanit e nella notte il furto del sacro velo; la battaglia del Macar; l’accampamento con la tenda di Matho e la seduzione di Salambò, istigata dal Grande Sacerdote, per riavere il velo sacro; la gola de la Hache con l’annientamento dei mercenari e, infine, Cartagine in festa e morte di Salambò, rea d’aver toccato il mantello di Tanit. La parte musicale, era basata su alcuni temi fondamentali per lo più rielaborazione di musiche popolari mediterranee, frutto di un’accurata ricerca, come il dolce tema di Salambò, i temi dei Mercenari (inno e marcia, la travolgente danza greca, la nostalgia), mentre aveva attinto all’Aria sulla quarta corda e alla corale Wachet auf, ruft uns die Stille. Composta appositamente da Lubin era invece l’Overture che costituiva anche il liet motive per il quale si era voluto ispirare a Scherazade e alla musica pittorica di Rimski Korsackoff. Anche se non era riuscito ad arrivare a tanto, il risultato era più che soddisfacente. Il lavoro era imperniato su parti recitate e danze, in un gioco di controfigure tra attori e ballerini, reso possibile da un abile uso di luci e movimenti scenici. La protagonista sarebbe stata Hermione Sheen, la sua dolce Hermione, che si stava affermando interpretando Euridice nel musical, dello stesso Oscar, Orpheus in New Orleans in scena a Broadway. Oscar la vedeva stupenda e affascinante nella scena della seduzione di Matho al fine di carpirgli il velo rubato. D’altronde era proprio pensando a lei che aveva creato Salambò, così come era per lei che tre anni prima era nato Orfeo a New Orleans.
Ricordava perfettamente come aveva elaborato la ricetta di quel musical. Con l’immagine di Hermione bene impressa negli occhi e nella mente aveva preso la Favola d’Orfeo del Poliziano (trasformando l’Inferno in un locale notturno), il Vieux Carré di New Orleans, aveva aggiunto il colore e l’animazione del Mardi Gras, miscelato con rielaborazioni in chiave Jazz del Concerto numero 2 di Rachmaninov e di Una Notte sul Monte Calvo, spruzzato abbondantemente con brani attinti dal repertorio Blues o appositamente composti, in fine aveva decorato il tutto con balletti e coreografie. E in mezzo a questo cocktail spumeggiante sorgeva, come Venere, la piccola incantevole Hermione. Oscar si sentiva abbastanza Orfeo e lei era la sua Euridice. Impegnato a Hollywood per la realizzazione di colonne sonore, Oscar aveva impiegato molto per realizzare il suo Orpheus in New Orleans. Ancora più fatica gli era costata convincere il suo impresario, Sam Manthiakis, ad affidare ad Hermione Sheen il ruolo di Euridice. Per le coreografie, l’impresario era orientato a valersi di un mostro sacro di Broadway, la cinquantenne Alda Desmond, che aveva al suo attivo molteplici successi. Manthiakis aveva già scelto gli interpreti dei due principali ruoli maschili: Orfeo e il mefistofelico proprietario del night L’inferno. Ora era alla ricerca di una stella affermata a cui affidare il ruolo di Euridice. Oscar riuscì a convincerlo che Hermione era sufficientemente brava e aveva le physique du role: il pubblico l’avrebbe sicuramente apprezzata… Era rimasto, infatti, stregato da quella giovanissima ballerina che aveva potuto ammirare in uno spettacolo della compagnia di danza delle Antille Olandesi: flessibile come un giunco, agile come una gazzella. - Va bene m’arrendo, hai vinto tu: Hermione Sheen sarà la protagonista… Era riuscito a far capitolare Manthiakis, ma bisognava parlare con Hermione ed il suo agente e maliziosamente Sam gli aveva chiesto se voleva pensarci lui, ma Oscar ci aveva tenuto a puntualizzare che non rientrava nei suoi compiti. L’agente di Hermione aveva accettato, erano iniziate le prove e quindi c’era stato il Pre Broadway a New Orleans e il definitivo debutto a New York nel Teatro della 46th strada. Ma soprattutto il legame d’amore tra Oscar e l’incantevole Hermione era diventato importante.
Terminata la riunione a Parigi, Oscar si recò all’Aeroporto. Aveva trovato posto in un volo notturno. Arrivato a New York si sarebbe diretto nel proprio appartamento e la mattina dopo avrebbe telefonato a Hermione per comunicarle la bella novella. Le prove di Salambò sarebbero iniziate a metà febbraio e per quella data Hermione sarebbe stata la Signora Lubin e il viaggio a Parigi la loro luna di miele. Purtroppo la partenza del volo per motivi tecnici era prevista con forte ritardo. Pazientemente Oscar si accomodò nella sala d’attesa e trascorse il tempo con il pensiero rivolto a Hermione, rivivendo i momenti più belli trascorsi con lei. Ricordò il giorno dell’inizio delle prove di Orpheus in New Orleans al quale non era voluto mancare. Gli avevano presentato i vari interpreti e la coreografa Alda Desmont, una donna ancora affascinante. Hermione, da quando ne era rimasto soggiogato vedendola danzare per la prima volta, si era fatta più bella e conturbante, era cresciuta e sembrava molto più padrona di se, insomma la bella crisalide si era trasformata in un’ancora più bella farfalla. Avvicinatosi a lei, le aveva chiesto se era emozionata per quello che l’aspettava: sarebbe stata la star e il suo nome avrebbe figurato in grande sui manifesti. Hermione si sentiva piuttosto fiduciosa, niente spavalderia ma molta determinazione. Aveva saputo dal suo agente che era stato lui ad esigere la sua scrittura e lo ringraziò. Oscar le disse che aveva subito pensato a lei come l’interprete ideale di Euridice e faceva molto affidamento sulle sue doti. Oscar temeva che la coreografa non avrebbe condiviso la sua scelta, invece Alda avendo a sua volta saputo che era stato lui a sceglierla, si era congratulata per le sue indubbie doti di talent scout. Con Hermione, Oscar si comportò in modo cortese e premuroso senza andare oltre. Era come se attendesse che la pera fosse matura e cadesse dall’albero e dopo averla rivista si augurava che maturasse quanto prima. Stranamente teneva in sottordine nei suoi pensieri il sesso e per la prima volta si accorgeva di essere innamorato, teneramente e perdutamente innamorato. Dovette tornare nuovamente ad Hollywood ma poté rientrare a New York per assistere alle prove generali. Si sedette in sala cercando di non farsi vedere. Le scene si succedevano ma attendeva con impazienza l’entrata in scena di Hermione ed eccola finalmente.
Aveva indossato un vestito nero molto provocante con uno spacco vertiginoso che permetteva di ammirare le sue bellissime gambe slanciate. Quel physique du role che Oscar aveva messo in rilievo nel presentare la sua candidatura non le mancava certamente: era veramente affascinante, con la sua bellezza ingenua, il viso da adolescente e il corpo sensuale e conturbante, proprio come esigeva il suo ruolo. I suoi apprezzamenti non erano solo per lei: tutti gli interpreti meritavano gli applausi e lo meritavano anche le sue musiche, l’impianto scenico e le coreografie specie nel quadro che chiudeva la prima parte con la sfilata di carnevale mentre Orfeo e Euridice si cercavano tra la folla, con il diabolico Mr. Devil e i suoi scagnozzi che ogni volta che Euridice e Orfeo riuscivano a vedersi e avvicinarsi uno all’altro s’intromettevano facendoli ancora perdere di vista. Era quanto mai soddisfatto e orgoglioso di se stesso, ma il suo personale successo ava in secondo piano, perché al primo posto nei suoi pensieri c’era lei, la sua dolce Euridice. Attese che Hermione si fosse rivestita per bussare alla porta del suo camerino. Sembrò particolarmente lieta di rivederlo e quando Oscar le chiese se aveva impegni in quanto avrebbe avuto piacere di cenare con lei. Hermione accettò con gioia l’invito. Accompagnò Hermione al Residence dove alloggiava e un’ora dopo tornò a prenderla. L’addetto alla reception provvide ad avvertirla del suo arrivo e dopo poco scese. Appena lo vide lo baciò, quindi sorridendo felice gli chiese: - Dove mi porti di bello? Malgrado i suoi quarantacinque anni Oscar si sentiva impacciato come uno scolaretto al suo primo appuntamento, mentre lei era molto più spavalda. Aveva fissato un tavolo in un ristorante italiano molto esclusivo nella 114th Street. Quando si sedettero, al lume di candela, Hermione gli carezzò una mano e guardandolo negli occhi gli chiese se veramente, come le aveva detto qualche settimana prima, credeva in lei e nelle sue capacità.
Non ebbe problemi a dirle quello che pensava e la testimonianza era il fatto che aveva voluto fermamente che fosse lei ad interpretare il ruolo che aveva creato su misura per lei. - Mi fa molto piacere perché io ho una grande ammirazione per te. Cominciò ad elogiarlo: sembrava quasi una dichiarazione d’amore, anche se in primo piano c’era la stima. Finito di cenare e risaliti in macchina, Oscar le prospettò di salire da lui per chiacchierare e ascoltare un po’ di musica e lei rispose con un “perché no?”. Arrivati nell’appartamento nell’Upper East Side, Oscar l’aiutò a sfilarsi la pelliccia e mise un CD con la colonna sonora di un film d’amore da lui composta. Le offrì un drink e le rivelò i sentimenti che nutriva per lei. Mettendogli le braccia al collo e guardandolo fisso negli occhi con lo sguardo indagatore, Hermione gli chiese se era proprio sincero, se era proprio quello che desiderava e avuta la conferma che l’amava, mormorò: - Sono veramente felice perché anche io ti amo – e s’attaccò alla sua bocca. Si sistemarono sul divano e Oscar la fece stendere con la nuca sulle sue gambe. I baci si fecero sempre più prolungati e apionati, finché Hermione gli chiese di portarla in braccio in camera da letto. Trovandosi il corpo nudo della splendida donna bambina, si sentì travolto dalla ione. Non altrettanto si poteva dire di Hermione, che si era limitata ad un atteggiamento quanto mai tenero ma ivo, stringendosi felice a lui nel momento in cui l’aveva sentito raggiungere l’apice del piacere. Carezzandolo lei disse che quello che desiderava più d’ogni altra cosa da lui era che fosse con lei sempre dolce e protettivo. L’aereo atterrò all’Aeroporto JF Kennedy all’alba. Oscar pensò di cambiare il suo programma. Si sarebbe recato subito da Hermione che in quel momento stava sicuramente dormendo. Senza svegliarla le avrebbe lasciato la collana che le aveva portato in regalo da Parigi e sarebbe uscito senza far rumore per recarsi a casa sua. Immaginava la sorpresa di Minnie svegliandosi e gli sembrava di udire il suo consueto piccolo urlo felice trovando il regalo. Quindi sarebbe corsa al telefono per ringraziarlo…
Giunto nei pressi del Residence, Oscar vide un fioraio che stava aprendo il negozio. Comprò un bel mazzo di fiori e salì da Hermione. Con la massima cautela, apri con la chiave la porta dell’appartamento. Anche Mammy dormiva, andò alla ricerca di un vaso dove mise i fiori, quindi socchiuse piano la porta della camera per non svegliarla: nel letto con lei c’era Alda. Si erano addormentate abbracciate e appariva evidente che Alda non era venuta per farle semplicemente compagnia. Depositò il vaso e il regalo sul comò e richiuse piano la porta. Non sapeva come comportarsi ma non aveva nessuna intenzione di far finta di non aver visto niente. Andò nel cucinino per bere un bicchiere d’acqua perché all’improvviso si era sentito la bocca arsa e proprio in quel momento arrivò Mammy che appena lo vide rimase impietrita. Oscar la salutò dicendo che era riuscito a partire prima e aveva voluto fare una sorpresa a Hermione. Ci tenne anche a dirle che aveva lasciato dei fiori in camera per farli trovare a Minnie quando si svegliava. Era un modo per farle sapere che aveva visto tutto. Sempre più impacciata e confusa, Mammy gli chiese se voleva un caffè. La ringraziò, ma le disse che andava subito a casa per lasciare i bagagli e cambiarsi. Non se la sentiva infatti di affrontare la cosa con Hermione e Alda. Non sapeva come avrebbe reagito e pensò di prendere tempo per riflettere. Poco prima di mezzogiorno arrivò la telefonata di Hermione. - Buongiorno amore, sono contenta che sei tornato… Stiamo insieme a pranzo o preferisci are dopo a Teatro? - Ho diversi impegni e poi alle cinque ho un nuovo aereo per Los Angeles… - Ma allora non ci vediamo? - Non pensi che ho già visto abbastanza? Hermione rimase un attimo titubante, poi preso coraggio, con sfrontatezza chiese: - … E cosa cambia?
- Direi che cambia molto le cose… Ancora un attimo di perplessità, quindi, forse incoraggiata da Alda, pensò di are al contrattacco: - Mi deludi. In te ho visto una persona con una mentalità aperta, al di sopra delle convenzioni e dei pregiudizi, in grado di capire e comprendere, incapace di giudizi affrettati. M’accorgo di essermi sbagliata, sei come tutti gli altri e questo mi rattrista e mi addolora. - Per prima cosa, Minnie cara, io non ho espresso nessun giudizio e questo perché quando si ama (ed io ti amo) è impossibile emettere giudizi. In secondo luogo io ti comprendo. Quello che desideravi dal nostro rapporto era tenerezza e protezione: un uomo non riuscirà mai ad essere tenero… come un’altra donna, che oltre tutto ha il vantaggio di conoscere la morfologia e la psiche femminile. E in quanto a protezione, penso che una professionista affermata ed energica possa darti quella sicurezza alla quale aneli. - E noi due? - Il mio affetto per te non cambia. Andremo a Parigi per la messa in scena di Salambò e per te io elaborerò nuove creazione di cui sarai interprete. Potrai sempre contare sulla mia affettuosa amicizia. Solo nei riguardi del sesso il nostro rapporto cambia. Ho sempre sperato che quel mare piatto che mi accoglieva si sarebbe prima o poi increspato, con ondate sempre più crescenti che avrebbero travolto sia me che te. Non puoi negare che sia stato paziente con te, cercando di non precorrere i tempi, di lasciarti il tempo di maturare, di avvicinarti gradatamente al piacere. Ora so da che dipendeva la tua frigidità e ora per me sarebbe difficile, se non impossibile, fare l’amore con te, perché l’amore si fa in due, correre verso il piacere mano nella mano e insieme giungere alla vetta. - Vuoi dire che non staremo più insieme? - Staremo ancora insieme ma solo per lavoro. Tu sei sempre stata deliziosa e hai sempre dimostrato di essere felice nel sentire che provavo piacere ma, te lo ripeto, l’amore si fa in due e la paura è che vedendo i miei sforzi inutili, finirei per disprezzarti. E questo non vorrei che avvenisse mai. Voglio continuare ad avere affetto verso di te, un affetto che non finirà mai, così come non finirà la stima che ho per Alda.
- Ma io ti amo… essere amici non mi basta! - A mente fredda avremo la possibilità di valutare meglio le cose. Comunque ci tengo a ribadire che ti voglio ancora bene. Anche se non era in programma (o almeno non era previsto per quel pomeriggio), alle cinque Oscar prese l’aereo per Los Angeles. “I’ve drunk your youngness, I’ve drunk your happiness – ripeteva dentro di se – and now my head is turnig round, round, round”. Ho bevuto la tua giovinezza, ho bevuto la tua allegria e ora la testa mi gira, mi gira, mi gira… Il bel sogno era tramontato. Non sapeva se poteva considerarlo un capitolo definitivamente chiuso. Restava infatti il loro legame artistico. Sul palcoscenico Hermione, nelle vesti della vergine Salambò, immacolata, raggiante e bella come Tanit, sarebbe penetrata nella tenda del prode Matho per sedurlo e carpirgli il velo sacro che lui aveva rubato. Come descritto da Flaubert: Matho la contemplava e i vestiti che aveva indosso facevano ai suoi occhi tutt’uno sul corpo di lei. Le onde serpeggianti della sua veste di muhàyyar, lo splendore della pelle, era qualche cosa di unico che apparteneva a lei sola. Gli occhi, sfavillavano al pari dei diamanti; la lucentezza delle unghie s’accompagnava alla fierezza delle gemme che le gremivano le dita; i due fermagli della tunica, rialzandole un poco i seni, li accostavano ed egli si smarriva col pensiero in quell’angusto aggio… Matho non aveva resistito alla seduzione di Salambò. Sarebbe lui riuscito a rimanere insensibile al sorriso accattivante di Hermione, alle sue fusa, alle sue movenze da gazzella, a quel suo splendido corpo in cui affogare la sua delusione, la sua amarezza, il suo amore?
Vamos a matar
di Pierantonio Mecchia: una vera rivelazione per noi del Wiki; Pierantonio è subito entrato nello spirito del progetto pubblicando questo suo racconto arguto e divertente sui “vizietti” del Bel paese, seguito da una seconda serie di racconti ad esso collegati (per ora solo online) dal titolo “Rimembranze”. Ma se per noi è stato una novità, Pierantonio Mecchia, può di certo definirsi un veterano per Youcanprint, avendo pubblicato solo nel 2011, la raccolta di poesie “Rami secchi” e il romanzo giallo “Habeas corpus”.
Il sole era sorto alle cinque e trenta e con il are delle ore la giornata si era fatta limpida e calda. Era iniziato un giorno d’estate anche per me che la sera prima, essendo reperibile, ero stato richiamato in ospedale per un’ urgenza che mi aveva impegnato fino alle tre del mattino. Per questo motivo avevo deciso di fermarmi e di non far ritorno a casa. Pertanto mi ero disteso sul letto dello studio, ancora di verde vestito, e mi ero addormentato quasi subito. Solamente i primi raggi del sole che filtravano attraverso la tapparella semichiusa mi avevano destato. Avevo trascorso un’altra notte lontano da casa e da colei che da oltre sei anni condivideva la mia vita. Il lavoro, le guardie e le reperibilità mi tenevano troppo spesso lontano da lei, specie di notte, quando, una volta addormentate le nostre due piccoline, potevamo finalmente stare liberamente insieme. Ma troppo spesso la sera, per la smania di progredire e fare carriera, avo ore nello studio a leggere articoli medici, a studiare o riare tempi e tecniche operatorie, soprattutto alla vigilia di nuovi interventi o relazioni a congressi. E così mi trovavo a trascurare i suoi desideri, la sua voglia di stare con me, di ascoltare eventuali suoi problemi, di parlare finalmente di noi e dimenticavo quanta gioia mi desse are le dita fra i suoi capelli morbidi come la seta, stringerla forte a me e nello stesso tempo tenerla teneramente fra le mie braccia, baciare le sue carnose e dolci labbra, accarezzare la pelle vellutata del suo corpo, e finalmente fare l’amore e poi addormentarmi sereno ed appagato accanto a lei. Ogni giorno mi ripromettevo di cambiare e darle l’amore che meritava, ma poi finivo per ricadere negli stessi errori.
“Ma questa sera si cambia. Questa sera sarò diverso, sarò l’uomo che desidera: le farò capire quanto lei sia importante per me” mi ripetei deciso “Ma ora mi devo alzare. Mi aspetta una giornata di lavoro”. Ma forse quello che mi ero appena detto ad alta voce come per ribadire al mio io l’impegno assunto sarebbe rimasto l’ennesimo buon proponimento non mantenuto. No! Avevo deciso di mutare finalmente la rotta della mia vita privata quella sera: ma adesso era solamente mattino! Mi alzai e mi diressi verso la finestra. Sollevai la tapparella permettendo alla luce del giorno di inondare la stanza. Aprii la finestra ed inspirai profondamente lasciando che la tiepida aria del giorno che iniziava andasse a purificare i miei bronchi incatramati dal fumo delle sigarette della sera precedente. La finestra dello studio dava direttamente sul posteggio interno dell’ospedale. Le auto dei dipendenti, in lenta e continua processione, superavano la sbarra d’accesso intervallate alle auto dei soliti furbi che, approfittando del traffico, si intrufolavano abusivamente alla ricerca di un posteggio gratuito. Quello che chiamavo “studio” e che dividevo con Paolo, un collega, era una stanzetta di circa tre metri per tre nella quale trovavano posto a fatica due armadietti metallici nei quali riponevamo abiti e divise; il letto cigolante sul quale avevo ato parte della notte; due scrivanie ingombre di riviste, carte, mascherine di sala operatoria, gadget lasciati dagli informatori farmaceutici, contenitori con penne ed evidenziatori, ed altro indescrivibile ed inutile ciarpame. In verità il caos regnava sovrano sulla scrivania di Paolo, mentre la mia appariva più ordinata ed organizzata. Quella mania di organizzare e pianificare tutto, dalla scrivania fino ai singoli momenti della nostra vita, era considerato da mia moglie uno dei difetti peggiori del sottoscritto, forse il meno tollerabile. Completavano l’arredamento due poltroncine spartane ed un appendiabiti a piantana. Mi guardai attorno amareggiato e sconfortato. Avevo sempre sognato uno studio tutto mio: ampio, spazioso, ben arredato come quello del primario ed attrezzato anche per esercitarvi la libera professione! Chissà se il mio sogno sarebbe divenuto, alla fine, realtà! Adesso avrei voluto solamente essere altrove, magari con mia moglie e con le mie bimbe! Troppo spesso quei due angioletti mi chiedevano “papi, quando ci porti ancora a Gardaland?”. Eravamo stati a Gardaland oltre un anno prima, in una splendida giornata di sole come quella che era appena iniziata. Ci eravamo
tanto divertiti tutti e quattro assieme a discendere le rapide del Gran Canyon sulle canoe, a volteggiare seduti all’interno di tazze magiche al suono del valzer, a percorrere in trenino una galleria echeggiante di suoni melodiosi, affrescata con paesaggi dai fantasmagorici colori e popolata da fiabeschi personaggi. Non avevo mai visto le mie piccoline così felici e mia moglie così serena! “Papi, mi porti sulle barchette degli indiani?” cinguettava Dony, la più piccola, con il suo braccino teso verso un piccolo corso d’acqua davanti a noi. “Si chiamano canoe, tesoro” le avevo risposto prendendola in braccio e dirigendomi là dove ella indicava, mentre Cristi, la più grande, trotterellava vicino a me aggrappandosi ai pantaloni. “Vengo anch’io sulle canotte!” ripeteva storpiando la parola “canoe” ad alta voce per paura che non la sentissi. Mia moglie ci seguiva a distanza, con o lento e timido, quasi per non disturbare quel dialogo a tre che così raramente si verificava. Dovevo ripetere quella esperienza per riassaporare e condividere quella gioia e quella serenità! “Ecco un altro proponimento ancora non mantenuto!” trovai a rimproverarmi ad alta voce. Mi affacciai alla finestra. I rumori esterni si erano intensificati: altre auto in arrivo, gente che parlottava dirigendosi al lavoro, cinguettio di uccellini sui pini del giardino. Mi sentii stranamente felice e sereno. Inspirai profondamente e, richiusa la finestra, andai al bagno per una rapida e tonificante doccia. Mi rivestii, questa volta con pantaloni e maglietta bianca (la classica divisa che dovevamo indossare in reparto sotto al camice), e, trangugiata velocemente una tazza di caffé prelevata al distributore automatico del corridoio, mi recai in reparto per il giornaliero giro-visita. Durante il breve tragitto incontrai la caposala anch’essa diretta in reparto e Fabio, un barelliere, che spingeva un lettino con un paziente anziano che mi sorrise. Lo riconobbi: era il signor Cesari, ex-direttore delle Poste, ricoverato alcuni giorni prima per una emorragia digestiva da ulcera duodenale sanguinante a cui Paolo, endoscopicamente, aveva provveduto all’emostasi. «Lo porti in endoscopia per il controllo?» chiesi «Si, dottore. Lo aspettano di sopra per le nove» mi rispose Fabio proseguendo il suo lento incedere come fosse zavorrato dalla barella che spingeva innanzi a sé. «Ci vediamo più tardi, signor Cesari» dissi, salutando con la mano il vecchio;
ma già la barella era scomparsa, inghiottita dall’ascensore che portava al piano superiore, dove si trovava la sala di endoscopia. Normalmente chi di noi giovani chirurghi non era di turno in sala operatoria era impegnato, a turnazione, o in Pronto Soccorso o in ambulatorio o in consulenza o in reparto. E quel giorno io ero di turno in reparto. Iniziai il giro-visita accompagnato da Mina, una giovane ed efficiente infermiera che era stata anche mia allieva alla scuola infermieri, ed una delle migliori oltre che delle più carine. Mi soffermai più a lungo del solito presso uno degli ultimi letti. A quel paziente mi ero particolarmente affezionato, sia perché era con noi da circa venti giorni sia perché colpito dalla grande dignità che emanava. Era un uomo poco più che cinquantenne ed era stato sottoposto ad un delicato intervento di duodenocefalopancreasectomia per cancro. Conoscevamo e conosceva la gravità del caso, ma ti accoglieva sempre con un sorriso dicendo: “Bella giornata, vero dottore? Finché il giorno inizia con il sole mi sento tranquillo e sereno. Poi verrà la notte e con essa un po’ di tristezza. Ma non si può avere tutto dalla vita, vero?”. Ed io gli sorridevo senza saper che rispondergli. Finito il giro-visita, avevo compilato alcune cartelle cliniche e provveduto alla medicazione dei pazienti operati. Il tempo era trascorso in fretta e poco dopo mezzogiorno avevo terminato la mia routine: mi mancava solamente di la lista operatoria per l’indomani e di sottoporla al vaglio ed alla approvazione del Primario. Una volta avuto il suo assenso, avrei dovuto batterla a macchina e consegnare le copie rispettivamente alla nostra capo-sala ed alla capo-sala del reparto operatorio. E questo era un compito che mi era stato assegnato di recente. Certamente di responsabilità, ma gravato da problematiche, come quella di non scontentare i colleghi, specie quelli più anziani e gerarchicamente superiori. Poi avrei potuto finalmente far ritorno a casa, pranzare con la mia famiglia e fare una siesta pomeridiana prima di rientrare in ospedale verso le sedici. Pertanto verificai le cartelle dei pazienti pronti per l’intervento, li suddivisi nelle due sale operatorie, che spettavano alla chirurgia, a seconda dell’importanza e della difficoltà dell’intervento stesso: in sala A una colecistectomia ed una resezione gastrica; in sala B due ernie inguinali, due safenectomie, due asportazioni di fibroadenomi della mammella. Presi con me il foglio e le cartelle dei pazienti e mi diressi verso lo studio del Primario. Solitamente la porta accostata voleva significare che il Professore si
trovava all’interno ed era libero; chiusa, anche non a chiave, voleva dire che il Professore era assente o impegnato in una conversazione. Per fortuna era accostata. Bussai e sentito chiaramente l’“avanti” entrai. Il Primario era seduto alla sua scrivania e stava scrivendo. Il professor Piccione era un uomo sulla cinquantina, di statura media, forse troppo magro a causa della smania di non ingrassare, con capelli nero corvini qua e là spruzzati di bianco. Portava occhiali con montatura in tartaruga che inglobavano grosse lenti da miope, dietro le quali spiccavano due occhi vivaci, sempre in movimento. Era un uomo di buona cultura, grande clinico ed ottimo chirurgo, ma con un difetto che per me ne minava la figura del capo: era forte con i deboli e debole con i forti. Quando mi vide posò la penna e girò il busto verso di me. «Cosa c’è?» chiese guardandomi di sottecchi da sopra le lenti degli occhiali «Le ho portato la lista operatoria di domani» risposi andando a posizionarmi alla sua destra mentre gli porgevo la lista e posavo le cartelle sul piano della scrivania. Prese il foglio fra le mani e bisbigliando nomi ed interventi scorse velocemente la lista. «Sono i casi che avevamo concordato ieri? Bene. Chi è di turno di voi assistenti domani?» «Io e Pedro in sala A e Paolo e Silvio in sala B» «Allora domani in sala A tu eseguirai la colecistectomia aiutato da me e dal Pedro. Poi, tu ti fermerai per aiutare me e De Papi (il secondo aiuto), nella resezione gastrica. In sala B andrà Guerra (il primo aiuto) e deciderà lui eventualmente come suddividere gli operatori». Mentre mi parlava, nello stesso tempo andava vergando di suo pugno i nomi a fianco degli interventi. Mi augurai che il mio nome fosse scritto a fianco di qualcuno degli interventi più importanti. Nel frattempo il mio pensiero andava ai pazienti che avevo da poco visitato cercando di ripensare se quello che avevo deciso, terapie ed esami, fosse stato veramente corretto. Ritornai al presente e, scorrendo la lista da sopra la testa del primario e vedendo che la resezione gastrica non era stata assegnata a De Papi, gli chiesi:
«Mi scusi, professore: cosa devo dire a De Papi? Sa, ieri sera mi aveva assicurato che la resezione gastrica l’avrebbe eseguita lui…» Il Primario mi guardò con espressione accigliata ed incredula allo stesso tempo. «Sono io il Primario. Decido io chi opera e che cosa si opera, non De Papi! Capito?» urlò «Va bene, Professore» gli risposi calmo « ambasciator non porta pena…» Ripresi le cartelle e la lista che lui mi porgeva e riguadagnai lestamente l’uscita. Non spettava a me sindacare sulle sue scelte né tanto meno ergermi a paladino del De Papi: costui sapeva benissimo pensare a sé stesso ed ai suoi interessi. Appena uscito fui bloccato da Paolo che, ando davanti alla porta dello studio, aveva captato il tono alterato del primario e, quatto quatto, si era appoggiato allo stipite per meglio origliare. «Come farai a dirlo a De Papi?» mi chiese con sorrisino compiaciuto. Paolo era un giovane assistente come me, piuttosto mingherlino, che stava sempre un o indietro, cioè preferiva farsi i fatti propri ed evitare discussioni. Nonostante non condividessi il suo atteggiamento a volte fin troppo “diplomatico” e fosse, sia fisicamente che caratterialmente il mio opposto, lavoravamo bene insieme, come fossimo l’uno il completamento dell’altro. «Sono fatti loro. Si arrangerà De Papi con il capo, vedrai» gli risposi dirigendomi verso lo studio degli assistenti per redigere le copie della lista operatoria. Ma proprio di là usciva De Papi che, appena mi vide, si diresse verso di me con o di carica. «Fammi vedere la lista!» mi disse perentoriamente strappandomela letteralmente dalle mani. Rimasi sconcertato ed avrei voluto riprendermi quella stramaledetta lista e dirgli “Me lo chieda per favore, brutto stronzo!”. Ma ne sarebbe derivato uno scontro non solo verbale: personale e malati sarebbero usciti dalle stanze e la nostra dignità professionale sarebbe andata a farsi benedire. Allora feci quello che mia madre a volte mi diceva: “Figlio mio, conta fino a dieci: la tua rabbia sbollirà e tu farai miglior figura del tuo antagonista”.
Il cafone nel frattempo stava scorrendo quanto scritto, mentre il suo viso roseo e rotondo, completato da un naso da maialino di latte, cominciava a cambiare colore virando progressivamente dal rosato al rosso aranciato, per are poi al rosso cupo fino a farsi paonazzo. Gli occhi sembravano voler uscire dalle orbite e come le palline del flipper sfondare le lenti da miope. Le mani e tutto il suo brevilineo corpo erano scossi da fini tremori. Le vene del collo si erano fatte così turgide che dovette allentare il nodo della cravatta e sbottonare il bottone del colletto della camicia. Sicuramente si sentiva soffocare. Ed infine sbottò! «Quell’intervento è miooo..!» urlò e si riferiva certamente alla resezione gastrica «Me lo aveva promesso, chille omo e’ ‘merda! S’andasse a cagà u’ cazzo e … mo’ vediamo» e partì di gran carriera verso lo studio del Primario. I tacchi delle sue scarpe si abbattevano come martellate sul pavimento ed egli caracollava ritmicamente a destra ed a sinistra, probabilmente sbilanciato nell’andatura dai rialzi che portava, per superare il complesso della limitata statura, nelle scarpe. Le braccia mulinavano come pale, quasi dovesse vincere la forza contraria di un vento impetuoso che volesse rallentarne la carica. Il frastuono fece uscire da una stanza Paolo seguito dalla caposala. Come il Nostro giunse a ridosso dello studio, il suo pugno serrato colpì sonoramente la porta e dall’altra parte si udì uno strozzato e tremebondo “avanti”. Ma De Papi era già all’interno dopo aver sbattuto la porta con tale violenza da far cadere un pezzo di intonaco dello stipite. La porta vibrò alcuni istanti sull’infisso e poi, quasi per magia, si riaprì lentamente rimanendo socchiusa. Io, che avevo seguito il De Papi “Furioso” a debita distanza, mi accostai alla porta. Da lì potevo non solo sentire quello che si sarebbero detti ma, dato che la scrivania era proprio di fronte, vedere entrambi. Il professor Piccione alzò la testa dalle carte che aveva dinanzi e guardò, al di sopra degli occhiali, verso l’intruso che si era letteralmente proiettato nel suo studio. Con lo sguardo fra l’impaurito ed il sorpreso, la sua bocca si aprì e riuscì a stento ad emettere un sussurrato e balbettante: «Qual buon vento ti porta, caro De Papi?» «Buon vento, un cazzo!» gli disse di rimando il finetto sbuffando come un torello. Sentii qualcuno appoggiarsi lievemente alle mie spalle. Mi voltai: Paolo mi sorrise e sussurrò: «Sono arrivato in tempo?». Mi limitai ad annuire con il capo.
Si udiva chiaramente il vociare concitato del nostro Orlando furioso intervallato da timidi “va bene, ma calmati per favore” che il povero Professore, come don Abbondio al cospetto dei bravi, proferiva con voce tremebonda. De Papi si era posto di fronte al professor Piccione, i pugni serrati appoggiati alla scrivania, il busto proteso in avanti, il volto paonazzo con occhi che sembravano voler uscire dalle orbite e trattenuti a stento dalle lenti degli occhiali. La bocca, innaturalmente aperta, eruttava invettive frammiste a spruzzi di saliva che investivano il malcapitato primario. «A che gioco stai giocando! Mi avevi promesso che io» e sottolineò quel io con un colpo di tosse a raschiarsi la gola divenuta oramai arida «avrei eseguito quella resezione. E mo’ sta novità! Io sono venuto a lavorare qui da Cava dei Tirreni perché il tuo maestro aveva garantito a mio padre che tu mi avresti favorito. Perché tu sai bene che io dovrò diventare primario dopo di te» e sottolineò il dovrò assestando un pugno sulla scrivania. La vibrazione fece sobbalzare pericolosamente il portaritratti che si trovava in un angolo della scrivania. Il povero Piccione, pur spaventato, fu lesto nell’afferrarlo ed impedire che rovinasse a terra. Con il volto pallido, le mani scosse da fini tremori e le labbra fattesi irrimediabilmente secche, il meschino riuscì solo ad emetter un impercettibile “calmati, la resezione la farai tu, si capisce”. Ben sapeva il tapino che, se non avesse accondisceso, quell’energumeno sarebbe stato anche capace di mettergli le mani addosso. E poi, come avrebbe potuto giustificarsi con il suo maestro e con quell’altro esagitato di suo padre? Povero lui, in quale situazione si era andato a mettere per una resezione gastrica! Capiva che se gli avesse fatto fare quel benedetto intervento tutto si sarebbe aggiustato. Ma doveva trovare il modo di salvare almeno la faccia di fronte agli altri. Ero sicuro che avrebbe trovato come togliersi d’impaccio! Infatti, abbozzato un compiaciuto sorriso per la soluzione trovata e battendosi la mano sulla fronte come se proprio allora si fosse ricordato di un impegno, disse all’inferocito De Papi: «A proposito: mi ero dimenticato che domani mattina dovrò andare in direzione a discutere con il direttore sull’acquisto di alcune attrezzature per la sala operatoria e che, quindi, non potrò andare in sala operatoria». De Papi ritrovò la calma e si eresse, tronfio e pettoruto, in tutta la sua subdola
statura. Si riabbottonò il colletto della camicia e sistemò il nodo della cravatta. «Ti ringrazio» mormorò soddisfatto De Papi avviandosi verso la porta «Sapevo che una pacata discussione fra persone civili avrebbe sortito un risultato consono ad entrambi! Ora vado. Ti saluto e ti auguro una buona giornata». «Porgi i miei più sinceri saluti al signor Primario tuo padre, quando lo senti» concluse mellifluo Piccione. «Non mancherò» rispose in tono asciutto e compiaciuto De Papi. Infine calò un profondo silenzio. Poi la porta si spalancò e De Papi uscì trionfante brandendo la lista. Io, nel frattempo, mi ero allontanato di qualche metro lungo il corridoio. Come De Papi mi vide, mi chiamò ad alta voce facendo anche cenno con la mano di avvicinarmi.. «Tu, vieni qua!» e porgendomi la lista trionfante disse «Ora la lista è a posto! E domani tu mi aiuterai nella resezione gastrica. Il professore si è ricordato di avere un impegno e, quindi, non sarà in sala» e, lasciatomi quel povero foglio oramai stropicciato, si allontanò con il suo tipico incedere cadenzato. «”Vamos a matar, companieros”» sussurrò alle mie spalle la voce di Paolo ricomparso improvvisamente, uscendo da una stanza di degenza dove si era velocemente rifugiato «Domani il nostro eroe scenderà nell’arena e si esibirà “nel matar el toro gastrico”, mio caro» «Lo so… Paolo. Ed ancora una volta c’è chi “puote e chi non puote”. E noi non potiamo o meglio potiamo solo gli alberi dei nostri giardini» gli risposi con un amaro sorriso «Così va la vita in ospedale, come del resto in tutte le cose del mondo: se sei figlio di qualcuno (e De Papi è figlio di un primario campano, amico fraterno del maestro, pure lui campano, del nostro primario) puoi permetterti questo ed altro. Noi, poveri assistenti e figli di nessuno, possiamo permetterci soltanto di assistere a questi teatrini e sorridere». Ci salutammo ed io mi recai nello studio a battere a macchina l’edizione riveduta e corretta della benedetta lista, mentre i pazienti, diretti interessati pur nulla sapendo, riposavano oramai nei loro letti. Appesi una copia della lista nella bacheca dello studio perché i colleghi potessero prenderne visione e consegnai le altre copie alle caposala interessate. Guardai l’orologio e mi accorsi che si era fatto tardi: erano quasi le tredici e trenta. Allora mi tolsi il camice e, cambiatomi,
lasciai il reparto. Velocemente discesi le scale e raggiunsi il piazzale dove avevo parcheggiato l’auto. Ero felice di lasciare quel teatrino a volte meschino e popolato da simili tristi personaggi. Non vedevo l’ora di essere a casa e di mantenere quanto mi ero riproposto quella mattina. E così uscii “per rimirar il risplendente sole e poter finalmente respirar un po’ di aria calda e pura”.
Figlio
di Massimiliano Prandini: esperto di scrittura collettiva, Massimiliano sta lavorando con il suo gruppo "Xomegap Finisterra" ad una trilogia fantasy scritta per l'appunto a più mani. Per questo ha potuto regalarci solo (si fa per dire) questo "singolo" ispirato alle famoste strisce di Schultz , ma dai toni decisamente più inquietantanti, come nello stile che lo ha contraddistinto fin dalla sua prima raccolta di racconti "Bestiario Stravangante" (Damster Editore, 2010)
Questo è il primo dei racconti aperti ai quali partecipare scivendone il seguito:
Quando ero bambino amavo i fumetti dei Peanuts. Mi piacevano i personaggi, il forte contenuto morale delle strisce che non di rado si trasformavano in storie. Mi piacevano quei bambini che parlavano come i grandi. Anche io ero così, in qualche modo. Mi riconoscevo in Charlie Brown, nella sua indecisione e ività. Dentro di me sognavo che un giorno o l’altro “il bambino dalla testa rotonda” si arrabbiasse e gliela fe vedere, a tutti gli altri, che era una persona di valore. Perché io lo vedevo che lo era. Ma nelle storie di Schultz non accade. Mai. C’è una striscia in particolare che ora mi torna alla mente. Grossomodo si svolgeva così, o almeno così io la ricordo e sono certo di non tradirne il senso generale: Piperita Patty e Marcie erano seduti sui loro consueti banchi di scuola. Piperita Patty seduta sul banco davanti si sporgeva verso Marcie e le diceva di avere compreso una grande verità, ossia che ci sono due tipi di domande, quelle che qualcuno ti fa per verificare se conosci la risposta e quelle alle quali nessuno sa rispondere.
Vorrei tanto avere compreso il senso di quella striscia quando era il momento, e invece lo capisco solo ora. Mamma. Mi hai educato ad essere un bravo bambino. Mi hai insegnato che era importante studiare, che era importante essere persone tolleranti, essere buoni con gli altri, essere prudenti e coscienziosi. E io ho imparato. Non credo di essere una persona molto intelligente, però studiavo e i risultati venivano. Gli altri bambini correvano, saltavano, gridavano, facevano le marachelle, cadevano e si rialzavano. Io no. Non era da bravi bambini fare baccano, non era da bravi bambini trasgredire le regole, non era prudente correre e cadere. Tu mi avevi insegnato così, e io ho imparato. Ho imparato fin troppo bene. Gli altri bambini non si interessavano a me. A volte tentavo di unirmi a loro e alcuni, pochi per la verità, a loro modo cercavano di darmi una possibilità. Ma a dieci anni parlavo già come un adulto: a loro non piaceva. Loro volevano che salissi sugli alberi, ma io non me la sentivo, era pericoloso. Volevano giocare a palla, ma per me era un gioco che non aveva senso, e comunque sarei stato sconfitto in partenza. Non mi trattavano male, semplicemente mi lasciavano in disparte. Ero diverso da loro, e se ne accorgevano. Quante volte sono tornato a casa da te piangendo? Tu mi tenevi tra le braccia e mi dicevi di avere pazienza, perché un giorno gli altri avrebbero capito. Un giorno non mi sarei più sentito così solo.
A dodici anni mi sono innamorato. Era una mia compagna di classe delle medie e tutti la chiamavano Lalla. Era stata bocciata un anno ed era l’unica a cui sembrava piacere lo stare con me. Forse perché anche lei era tenuta in disparte, forse perché era più matura e mi vedeva già come un figlio. Non lo so. Io però volevo toccarla, lei invece andava coi ragazzi delle superiori. Mi respinse con una risata. Non ero un uomo per lei e un uomo, questa è la verità, non lo sono mai diventato. Rimasi comunque suo amico, quel po’ di affetto che lei mi dava era l’unico che conoscessi a parte il tuo. Quel giorno, quello in cui mi respinse, corsi a casa da te a piangere come ogni volta. Tu mi dicesti quello che mi dicevi sempre: che un giorno, quando fossi stato più grande e anche gli altri miei coetanei fossero diventati più maturi, come io ero già, avrei conosciuto una ragazza; una ragazza che avrebbe capito che io ero una persona buona, che avrebbe compreso tutto l’amore che avevo dentro e che potevo darle, che avrebbe capito che l’avrei resa felice. Non come mio padre aveva fatto con te, quel tipo d’uomo che io mai sarei dovuto diventare. Io ti credevo. Dovevo crederti, non potevo non farlo. Prima ho atteso fiducioso, poi ho pregato disperatamente perché quel tempo venisse. Ma non è accaduto. E col tempo quell’amore che avevo dentro è imputridito. Mamma. Una parte di me in realtà lo sapeva. Io non potevo essere amato da altre che da te, perché non potevo essere uomo, e dunque ero destinato a rimanere per sempre figlio. Lo sapevo, nel più profondo
di me. Credo di averlo anche accettato, a mio modo, anche se era una cosa inaccettabile. Finché c’eri tu ad amarmi la vita era comunque sopportabile. Ma poi sei morta e nella mia vita non è rimasto più nulla. E allora sono impazzito, credo. Sì deve essere così, per forza. Ora che sono qui davanti a lei capisco tutto. Innanzitutto quella striscia dei Peanuts. Ero un bambino adulto, sono divenuto un adulto bambino. Per tutta la vita ho dato soltanto le risposte giuste alle richieste che tu mi facevi, non ho mai cercato una risposta che fosse davvero mia, a nessuna delle domande della vita. Le richieste non me le facevi davvero, naturalmente, non più da molti anni. Sono convinto che in realtà non te ne accorgessi nemmeno. E io neanche. Era come mi avevi educato, o forse come io avevo recepito quell’educazione. O magari soltanto il mio essere costantemente prigioniero della paura. Per tutta la vita sono rimasto un bravo bambino, in modo da garantirmi almeno il tuo amore. Quando sei morta ho scoperto che senza di te non ero nulla. Per mesi ho cercato Lalla, ma non l’ho trovata. E’ stata una fortuna per lei, credo. Chissà dov’è finita.
E allora tutto quel rancore che ho accumulato in questi anni ha cominciato a premere verso la superficie, finché non ho fatto quello che Charlie Brown non ha mai fatto. Mi sono arrabbiato. Un mese fa ho avvicinato la ragazza. Lei era così giovane e graziosa, fragile e fiduciosa. Si vedeva che si sentiva già una donnina, come Lalla. Credevo che fossimo diventati amici, ma come possono diventare amici un adulto di quarant’anni e una ragazzina di tredici? Ora capisco tutto, ma come sempre è troppo tardi. Non era colpa di Lalla, né tua. E’ sempre stata solo colpa mia. Quanto vorrei poter riavvolgere il nastro del tempo fino alla mia infanzia, ricominciare tutto da capo. Ma anche tornare indietro di un mese sarebbe sufficiente, già così molte cose si potrebbero ancora salvare. A questo punto anche solo dieci minuti basterebbero: per tutto il resto sarei pronto a pagare. Vorrei solo non averla già uccisa.
Un bel faccino
di Gm Willo: animatore della community “Rivoluzione Creativa”, Gianmaria Villoresi, in arte Gm Willo, è promotore di numerosissimi giochi e laboratori online di scrittura creativa. Una vera ispirazione per il Wiki della Narrativa, sul quale ha dato il via, con “Un bel Faccino”, alla serie di racconti dell'horror che abbiamo pubblicato e continueremo a pubblicare in occasione della festa di Halloween.
Puoi partecipare come autore alla stesura dei racconti di Halloween, più avanti ti spiegheremo come fare.
Sabina si è messa a guardare la TV come ogni sera, distesa sul divano foderato di velluto beige e i cuscini a fiori sparsi un po’ dappertutto. Ha in mano il telecomando che controlla con fare svogliato, mentre con l’altra mano descrive un movimento preciso verso la ciotola dei popcorn sul pavimento. Nell’etere si ode solo il brusio dell’apparecchio a basso volume e lo sgranocchiare lento dei fiocchi di mais: due suoni che sembrano galleggiare sopra un oceano di silenzio. La casa è immersa in un’oscurità profonda, a parte il salotto, illuminato a fatica dalle immagini random del televisore. Sabina ha tredici anni e sogna di partecipare ad X Factor, forse il prossimo anno, se i suoi le danno il consenso. Dovrà lavorare un po’ sulla voce, ma il suo bel faccino bucherà senz’altro lo schermo. Glielo dicono tutti che ha proprio un bel faccino, i compagni di classe, le ragazze della squadra di pallanuoto, persino suo padre, anzi, soprattutto suo padre. Non fa che ripeterlo… Si mette in bocca un altro popcorn ed abbraccia con più vigore il suo cuscino preferito. La serata è calda e lei indossa solamente il sopra del pigiama e un paio di mutandine bianche di cotone. La luce fredda dello schermo al plasma le scivola sulle gambe nude, la destra distesa per tutta la lunghezza del divano mentre la sinistra aggrappata allo schienale. Continua a cambiare canale,
soffermandosi di tanto in tanto su un programma, ma solo parte della sua attenzione è rivolta allo schermo. Sabina pensa a quella scimunita di Fabrizia, che è andata a dire in giro che lei e Fabio hanno una storia, come se lei avesse bisogno di questi aiutini per avvicinare uno come Fabio. Certo, lui ha tre anni più di lei, anche se tutti gliene danno almeno quindici e non certo per il faccino da angelo, ma per le tette che sono già ben sviluppate. Mamma è andata dalle sue amiche a vedere un dvd mentre papà aveva la partita di calcetto. Torneranno a mezzanotte, dato che è venerdì e domani non lavorano. Restare sola a casa non la disturba, ormai ci ha fatto l’abitudine. I suoi la lasciavano già a otto anni, con tutte le comodità ed il telefonino sempre a portata di mano. I popcorn sono quasi finiti, la TV continua ad annoiarla ma lei non ha alcuna voglia di alzarsi dal suo divano. Preme il pulsante rosso del telecomando e con un click richiama il silenzio e l’oscurità. È una sensazione strana, quasi soffocante, ma anche perversamente piacevole. Chiude gli occhi anche se non fa molta differenza. Si chiede perché la gente abbia paura del buio. Lei ha solo tredici anni ma già sa che ci sono cose ben peggiori del buio; l’indifferenza, ad esempio, oppure un brutto voto a matematica, o la presa in giro di un ragazzo. No, non c’è nulla da temere dall’oscurità. Sorride, distendendo le sue gambe nude, e s’immagina il suo bel faccino dentro quelle tenebre. Nelle tenebre senza ombra. Nelle tenebre senza suono. Poi qualcosa alla porta, il chiavistello che scatta. Sabina rimane immobile, incapace di pensare, di respirare, di gridare. - Sabina, dove sei? Sono papà… “Ah, per fortuna è solo papà…” pensa Sabina, tirando un sospiro di sollievo. Ancora non sa che è proprio papà l’orco cattivo di tutte le storie…
Self-Publishing
Scopri la magia dell’auto-pubblicazione per creare, distribuire e vendere la tua opera in libreria e online.
Entra nel mondo dell'Editoria! I servizi di self-publishing Youcanprint ti permettono di creare con cura, pubblicare, distribuire e vendere la tua opera sia online sui principali book store che offline in libreria. Grazie all'aiuto e alla presenza costante di esperti editoriali, la pubblicazione sarà un'esperienza magica.
Servizi Editoriali Potrai usufruire on demand dei servizi di Editing, Correzione Bozze, Grafica Illustrata, Traduzione, Blogging, Booktrailer, per distinguere la tua opera ed offrire la migliore esperienza di lettura.
Pubblica in Ebook Pubblicando il tuo libro in ebook potrai accedere alla distribuzione e vendita su tutti i principali store online: Ultima Books, ibs.it, bol.it, lafeltrinelli.it, mediaworld.it, pilade.it, 9am.it, ebook.it, ilgiardinodeilibri.it, libreriauniversitaria.it, webster.it, biblet.it, Deastore, Rizzoli, Ebookyou, Youcanprint.
Il tuo Consulente Editoriale
L'unico self-publishing ad offrire un o umano diretto per la pubblicazione delle proprie opere. Nell'era del digitale, dell'automazione e degli algoritmi, puntiamo tutto sul valore aggiunto che l'esperienza e la ione del nostro team possono darti. Con Youcanprint l'esperienza di pubblicazione diventa facile e indimenticabile. Perchè costruiamo valore intorno a te, prima ancora di farlo intorno al tuo libro. Info&Contatti
http://www.youcanprint.it
[email protected] Tel. 0833.772652 Fax. 0832.1836533
Blog sul mondo della scrittura online e della letteratura 2.0.
Spazio dedicato ai nuovi generi letterari nati su Internet, ai blog narrativi, che stanno ridisegnando l'ordine delle classifiche di vendita, e ai progetti di scrittura collettiva, come Lunedì ore 6:00, primo romanzo collettivo “work in progress” realizzato tramite pagine wiki.
Partecipa
Patecipa al Wiki della Narrativa aggiungendo un nuovo capitolo ai racconti già inseriti sulla piattaforma, oppure, pubblicando a puntate i tuoi racconti rimasti fin'ora nel cassetto.
Condividi
Condividi le tue opere con i tuoi contatti sul social network; fai sapere a tutti che pubblichi sul Wiki e ottieni quanti più click possibile...
Guadagna
Sblocca i "Wiki Badge" accumulando i punti che ti verranno assegnati per ogni nuova azione compiuta sul Wiki (check-in, inserimento di nuovi capitoli, commenti e condivisioni) e scala la classifica autori.
Pubblica con noi
Gli utenti più attivi potranno pubblicare i loro racconti e romanzi brevi anche nel formato "WikiBooks", i libri dell'Innovativa collana editoriale tutta dedicata ai nostri autori da Youncaprint.it
Indice
Copertina Copyright Racconti senza fine