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Questo libro è un'opera di fantasia. Personaggi e luoghi citati sono invenzioni dell'autore e hanno lo scopo di conferire veridicità alla narrazione. Qualsiasi analogia con fatti, luoghi e persone, vive o scomparse, è assolutamente casuale.

Lisa Adler Schegge

A mamma, una signora del tempo.

L'OMBRA

«Fermi! Che fate? Vigliacchi lasciatelo in pace!» Will afferrò per le spalle un tipo tozzo e pieno di brufoli scaraventandolo a terra, poi sferrò un pugno allo stomaco all'altro, era magro e con un incipiente calvizie, questi rimase accasciato qualche secondo, ma appena vide Will partire di nuovo alla carica, dette un'occhiata al compare e i due in un nanosecondo sparirono. «Stai bene?» Chiese Will, al giovane davanti a sé, che si stava massaggiando la mascella dov'era stato brutalmente colpito. «Tutto okay, grazie per l'aiuto.» «Figurati non c'è di che, potresti essere mio figlio, in un certo senso me lo ricordi.»Abbozzò un sorriso amichevole. L'altro annuì, poi si mise seduto sul muretto vicino alla porta d'ingresso della tavola calda “IL PIT STOP”, da qualche giorno sostava lì e raggranellava qualche dollaro dai clienti di aggio. Si posizionò il suo cartello a lettere cubitali sul petto e fece un cenno di saluto all'indirizzo di Will per congedarlo. Ma Will non riuscì a salutarlo e basta, quel giovane per qualche motivo aveva catturato la sua attenzione. Il cartello poi; la scritta era tutta un programma, “1$ SALVA LA VITA”. Prese 1$ e lo mise nel barattolo vicino al giovane, poi sorrise. «Una frase che cattura, qual è il senso?» Domandò incuriosito. «A me la salva, se tutti quelli che ano lasciano 1$, posso continuare a viaggiare e mangiare!» Rispose diretto il giovane. «Esaustivo non c'è che dire.» Pensò fra sé Will.

«Ti va di mangiare un boccone con me?» E prima che l'altro rifiutasse, aggiunse: «Offro io s'intende!» Il giovane fece un cenno affermativo e si alzò. «Come ti chiami?» Chiese Will mentre entravano nel locale. «Bud.» Dichiarò alzando il mento il giovane. «Bene, io sono Will, piacere di conoscerti Bud.» Si diedero un'energica stretta di mano. Il locale era semivuoto, ordinato e classico come la maggior parte delle tavole calde che si trovavano nei pressi di Reno, per il lusso bisognava entrare in città, fra grandi alberghi e casinò. Ordinarono bistecche e patate arrosto, niente alcolici, solo una bibita a testa. Calò il silenzio mentre mangiavano, poi Will attaccò discorso. «Posso chiederti come mai un ragazzo come te, forte e aitante, si accontenti di qualche dollaro, anziché essere al college a costruirsi una brillante carriera?» Bud alzò gli occhi, lo fissò per un momento, poi con calma affermò: «La vita è breve, io voglio vedere il mondo, quindi viaggio tutto l'anno.» Will era sorpreso, ma Bud dava l'impressione di sapere il fatto suo, ed ispirava fiducia. Forse fu questa la molla che lo fece partire, sfogando su Bud tutte le sue amarezze. «Ti ho detto che mi ricordi mio figlio, Jim, vent'anni, ma non è vero, tu sembri sapere quel che vuoi, anche se sinceramente preferirei saperti al college; lui invece, sta buttando via la sua vita e mia moglie Kate è distrutta per questo.» Scosse la testa sconfitto. «Perché?» Chiese schietto Bud. Will non sapeva se continuare, però sentiva di doverlo fare, come spinto da un

bisogno soverchiante di vuotare il sacco. «Jim è un drogato ed un violento, ha mandato Kate in ospedale più volte perché rifiutava di dargli i soldi per la roba. Proprio in questi giorni lei è a casa con la gamba ingessata, grazie alle gentili attenzioni di Jim, io non so come fermarlo, le ho provate tutte, dalla comunità, alla polizia, agli psicologi. Lavoro parecchio, noi stiamo a Carson City e faccio avanti e indietro quasi tutti i giorni fino qui a Reno, un'ora e cinque. Sono un programmatore di video games, quando sono fuori, lui e i suoi due pseudo amici Karl e Jade l'aggrediscono, non so quanto ancora potremo andare avanti così, Kate è disperata e terrorizzata.» Sospirò amareggiato. «Scusa, non so perché ti sto raccontando tutto questo, forse proprio perché potresti essere mio figlio.» Osservò Bud che non sembrava scioccato dai suoi discorsi, infatti tranquillamente asserì fra un boccone e l'altro. «Io non mi drogo e non bevo, penso che dovresti mandare tuo figlio e i suoi amici in trazione con le gambe fratturate in più punti.» Rise di gusto, come se avesse semplicemente consigliato il terapeuta più in voga degli Stati Uniti. Will rimase sconcertato, ma in fondo non era una così cattiva idea, forse avrebbe davvero dovuto farlo, magari Jim avrebbe definitivamente chiuso con la droga. «Dove sei diretto?» Gli chiese. «Ovunque.» Rispose a bocca piena. «Io torno a casa a Carson City, se ti va ti do un uno strappo fin lì.» L'altro parve riflettere, poi annuì con la testa. Arrivarono che era pieno pomeriggio, Kate li accolse con un caloroso sorriso, si aiutava con le stampelle, quando Will le presentò Bud dicendole che viaggiava per vedere il mondo, lei esclamò un bel, «beato te, fallo finché sei giovane!» I due entrarono subito in sintonia. Bud rimase loro ospite per alcuni giorni, aiutava in tutto Kate e dava una mano anche a Will, lo seguiva come un'ombra, dappertutto e in qualsiasi lavoro o

incombenza fosse impegnato. L'incontro con Jim e i suoi amici fu tutto un altro paio di maniche. Jim era un bullo e uno strafottente, i suoi seguaci altrettanto. Bud li studiava attentamente, non lasciava mai Kate sola con loro, di questo era contento anche Will. Si sentiva più tranquillo sapendo che Bud si trovava nei paraggi a tenere testa a Jim. Lo aveva rimesso in riga almeno in un paio di occasioni. Era semplice: Bud gli intimava risoluto di avere maggior rispetto per i genitori, punto e basta. Era sera tardi, Will e Kate erano già andati a dormire, ma Bud si sentiva irrequieto, così scese in cucina per bere un bicchier d'acqua, fu lì che sentì Jim, Karl e Jade progettare l'assassinio di Will e Kate. «Dobbiamo solo far uscire il gas in cucina e assicurarci che le finestre siano ben chiuse.» Ridacchiò sguaiatamente Jim mentre illustrava quel piano atroce. «Sei sicuro che rimarranno stecchiti?» Chiese serio Karl. «Assolutamente, poi se per bontà divina dovessero sopravvivere, ci penserò io a dargli il colpo di grazia!» Affermò spavaldo Jim. «Sei certo che l'assicurazione pagherà senza problemi?» Domandò Jade, più interessato ai soldi che alle modalità di eliminazione. «Al cento per cento, sicuro come l'oro, pagheranno entro trenta giorni, ho letto bene la polizza, dopo finalmente, niente più scocciatori e via libera alla bella vita!» Esclamò soddisfatto Jim. Bud capì che non c'era tempo da perdere doveva agire in fretta. Dopo colazione sganciò la bomba. «Devo rimettermi in marcia, parto.» Dichiarò. «Guarda che puoi restare, a noi fa piacere, sei di grande aiuto qui.» Disse con fervore Will, si unì alla sua supplica anche Kate, ma Bud ringraziò calorosamente i due, li abbracciò con grande affetto come fossero davvero la sua famiglia e partì. Un colpo secco si abbatté sulla testa, poi un altro e un altro ancora.

Il buio. Gli occhi si aprirono appannati, il dolore al cranio martellante, mani e piedi legati stretti, lo spazio angusto. «Ehi, gran figlio di vacca, facci uscire! Liberaci!» Ringhiò Jim, seguito da Karl e Jade nelle urla e nelle imprecazioni. «Niente da fare! Verme spregevole! Volevi ammazzare i tuoi, non te lo lascerò fare canaglia!» Sentenziò Bud lapidario. «Apri subito la portiera brutto bastardo!» Sbraitò Jim. Ma Bud non lo fece e inserì il tubo flessibile sigillando bene il finestrino dell'auto in moto, il monossido di carbonio fece il resto, i tre pian piano furono accolti dal sonno eterno. Will spense l'auto, tolse il tubo, slegò i tre farabutti e lasciò addosso a Jim un souvenir, riprese il leggero bagaglio, la sua sacca, e sparì. «1$ SALVA LA VITA.» Piangendo e tremando Will andava avanti e indietro sul ciglio della strada. Gli agenti di polizia avevano ritrovato Jim e i suoi amici chiusi nell'auto, morti, e quel bizzarro cartello poggiato sul suo petto, con sopra attaccato 1$. Kate sconvolta armeggiava col cellulare del figlio e con orrore trovò alcuni sms, lo porse subito al poliziotto di fianco, vennero immediatamente esaminati anche i due di Karl e Jade, il piano studiato per uccidere lei e Will con tutti i dettagli, lì, proprio davanti ai loro occhi. Will e Kate si abbracciarono forte. Si guardarono scioccati, ma la disperazione fu sostituita all'istante da gratitudine. Bud, l'ombra, gli aveva salvato la vita.

L'ALBA

«Fermo! Non lì! Torna indietro Book, vieni qui!» Ma il cane sembrava attratto da una forza sovrannaturale e benché i primi raggi di sole stessero inondando e schiarendo la distesa d'acqua e il manto celeste che la sovrastava, lì sulla spiaggia era ancora piuttosto buio, l'alba stava in quel momento avanzando a piccoli i. Dopo una notte tremendamente afosa, Keith era uscito presto per godersi almeno un po' di tempo ad una temperatura accettabile, con a fianco il suo inseparabile pastore tedesco Book, avanzavano speditamente sulla battigia. D'altronde, Miami beach in Giugno, nelle ore diurne era un vero forno, il caldo era insopportabile, l'umidità toglieva il respiro, era una fatica immane uscire di casa. Il cane abbaiando e in preda ad una improvvisa frenesia si era messo a correre come un fulmine, cercò di richiamarlo a sé inutilmente, Book continuò imperterrito la sua corsa, diretto ad una barca a remi rovesciata al limitare della spiaggia, Keith si arrese all'evidenza e gli andò dietro, nella speranza di riportarlo verso le onde, dove il refrigerio e l'estasi erano il premio ideale per un buon inizio di giornata, scosse la testa sconsolato lasciandosi alle spalle il magico mondo acquatico. «Ma che diavolo...» Soffocò un imprecazione e dire che in tanti anni di servizio come detective al 21° distretto di polizia del dipartimento di New York, era più che pronto a giurare di averne viste di cotte e di crude e quella immagine non era molto diversa dall'enorme catalogo di cose orrende contenute nel suo bagaglio personale. Fatta una piccola eccezione, davanti ai suoi occhi, una vita molto giovane spezzata. Si gettò immediatamente in ginocchio accanto al corpo inerte, per capire se ancora ci fosse qualche segno di vita, purtroppo la speranza si spense all'istante,

prese la piccola torcia che aveva attaccata al portachiavi ed esaminò attentamente il corpo, cercando di fare luce su ogni particolare. Dal colore bluastro che cominciava a diffondersi sotto le unghie delle mani, ne dedusse che la morte doveva essere avvenuta almeno da quattro ore. Prese dalla tasca dei pantaloncini un fazzoletto di carta e girò in su i palmi delle mani, proprio sui polpastrelli si vedeva chiaramente del colore verde, forse un colore per dipingere o dell'inchiostro, difficile a dirsi su due piedi. Intimò a Book di stare qualche metro più in là, il cane ubbidiente non se lo fece ripetere e si mise seduto come un bravo assistente in attesa di ulteriori istruzioni. Gli occhi vitrei, aperti, fissi al cielo, il corpo atletico, a giudicare dalla tonicità e dal colore della pelle circa vent'anni, a quella vista Keith sentì stringersi il cuore, era sempre uno strazio trovarsi di fronte a certe immagini. Si impose di riprendere il controllo, non era il momento di lasciarsi andare, doveva essere freddo e professionale come lo era stato un tempo. La ragazza stesa a terra, forse una studentessa, non mostrava ferite evidenti, o segni di aggressione tanto da spiegarne la morte, ma per esperienza sapeva che spesso è ciò che non si vede, a fare la differenza fra vita e morte. Frugò ancora in tasca dei pantaloncini, estrasse il cellulare e digitò il 911. Più che sulla scena di un crimine, la polizia di Miami, sembrava al raduno domenicale per la classica partita, scapoli contro ammogliati. Alla faccia del preservare il luogo! C'era chi camminava avanti e indietro come se stesse arando un campo per la semina, senza curarsi minimamente del corpo della ragazza. Chi non usava nemmeno gli indispensabili guanti in lattice e peggio ancora, si sprecavano le battute fuori luogo, quasi fosse una scampagnata fra amici, senza il dovuto rispetto per una giovane donna spedita prematuramente al creatore. Keith fremeva come i pistoni del motore di un' auto da corsa spinta a trecento all'ora, non sapeva per quanto ancora si sarebbe trattenuto da spaccare il muso a

qualcuno di quegli incompetenti, era a tanto così dal tuffarsi in mezzo al loro e ridurli tutti quanti in poltiglia, veder svolgere un lavoro importante e delicato come quello, in simili circostanze, lo stava facendo uscire di senno. Ad un certo punto non ci vide più, sbottò e al suo: «Ehi! Dannati incapaci! Dico a voi! Che ne dite di darci un taglio e cominciare l'indagine come si deve, lavorando con perizia, anziché inquinare tutte le prove!» Urlò tanto forte che probabilmente fu udito dall'altra parte del pianeta. Tutti si voltarono allibiti e un agente piuttosto scocciato gli si avvicinò con o deciso, era basso e tozzo, gli si parò davanti a gambe divaricate e mani sui fianchi, l'espressione minacciosa ricordava una caricatura più che un uomo di legge. «Tu chi diamine sei?» Esordì, «smamma o ti sbatto dentro per intralcio alle indagini!» Keith lo guardò dall'alto in basso, lo sovrastava di un bel po' e con il suo sguardo argenteo lo trafisse, abbozzando un sorriso beffardo e digrignando i denti. «Fallo! bellimbusto da quattro soldi, e giuro che entro stasera ti ritrovi a dirigere il traffico giù a Bayside, ho anch'io i miei agganci che credi!» L'altro sgranò gli occhi, ma prima che potesse ribattere, Keith tirò fuori il suo tesserino identificativo, incollandolo con un movimento fulmineo a pochi centimetri dal viso paffuto dell'agente. «Keith Sanders NYPD, 45 anni. Da New York? Che ci fai qui a Miami?» Chiese irritato l'agente. «In pensione.» Rispose divertito Keith dall'espressione stupita del suo interlocutore. Soddisfatto di essersi finalmente guadagnato la sua attenzione proseguì senza esitazione. «Dopo venticinque anni di onorata carriera, ho detto stop, questo mestiere alla lunga ti ruba l'anima e si porta via un pezzo alla volta la tua vita, quindi ho deciso che era ora di cambiare aria ed eccomi qui al caldo sole del sud. Ora “collega” visto che ti ho raccontato la storia della mia vita, perché non incoraggi

i tuoi “colleghi” ad adempiere al proprio dovere e magari darsi una mossa, vista la gravità del caso? Altrimenti bello mio sarò costretto a fare una denuncia formale sul modo che avete di condurre le indagini per omicidio.» Parlò forte e chiaro in modo che anche gli altri udissero bene tutto il discorso. L'altro mandava lampi dagli occhi, ad un certo punto si accigliò piegando la testa di lato, come per cercare di schiarirsi le idee e formulare una frase di senso compiuto. «Ma quale omicidio?» Guardava smarrito i suoi colleghi come a chiedere aiuto, era evidentemente confuso. Keith alzò gli occhi al cielo e rassegnato allargò le braccia in segno di resa. Poi imitò l'agente guardandosi intorno per avere un qualche sostegno, che ovviamente non arrivò. «Ma qui i distintivi li regalano?» Chiese in preda allo sconcerto più totale. La reazione dell'agente non si fece attendere e a denti stretti si mosse verso Keith. «Attento a come parli gran pezzo di...» Inveì a gran voce. «Calma non ti scaldare!» Disse sarcasticamente Keith. «A proposito agente...?» Domandò tornando serio e con tono perentorio. «Ryan Pert.» Rispose irato, ma tirò fuori il distintivo e glielo mostrò. Keith lesse. Il tipo aveva superato di poco i cinquanta, però a guardarlo si sarebbe detto fosse suo nonno. Nel frattempo si avvicinò un altro agente, che si presentò come Sam Lanter, era alto e allampanato, «evidentemente a Miami avevano esaurito le scorte di poliziotti forti e scattanti.» Pensò sconsolato Keith fra sé. «Sei tu che hai telefonato al 911 all'alba?» Con quella domanda pose fine al battibecco intercorso con l'agente Pert e alle riflessioni nella testa di Keith. «Sì, faccio questo tratto di spiaggia la mattina presto, col mio cane.» Indicò con

la mano Book, che si era accucciato poco distante da tutto quel via vai di gente. «Hai notato nulla di insolito?» Chiese Lanter scarabocchiando domande e risposte su un taccuino, come un bravo studente. Keith era sull'orlo di un'eruzione di proporzioni bibliche. «Invece che perdere tutto questo tempo in chiacchiere inutili, che possono essere fatte anche più tardi, perché non fate venire qui subito quelli della scientifica? E perché no? Anche il medico legale?» Sbraitò fuori di sé davanti a tanta negligenza, infischiandosene di parlare a due poliziotti in servizio. Lanter con una calma snervante chiuse il taccuino e lo ripose nel taschino dell'uniforme, poi guardò negli occhi Keith. «Perché?» Domandò senza scomporsi. A quel punto era ormai al limite e non si trattenne più. «Perché brutti idioti! Questa ragazza è stata quasi certamente ammazzata e se voi caproni che non siete altro, continuate a inquinare le prove, quel criminale che l'ha uccisa, la farà franca tranquillo e beato!» Urlò in preda alla frustrazione più completa. I due lo fissarono come se fosse un alieno. «Tralasciando per un attimo l'oltraggio a pubblico ufficiale, è probabile che qui non sia stato ucciso nessuno, infatti se guardi bene, ti renderai conto che la ragazza non mostra né ferite, né segni di violenza subita, è possibile che ieri sera abbia partecipato ad una festa in spiaggia, quelle che vanno tanto di moda adesso, ed abbia ingurgitato qualche pastiglia di troppo, faranno l'autopsia domani con calma all'ufficio del medico legale, vedrai se non ci ho visto giusto.» Per amplificare il concetto Lanter diede una gomitata a Pert, che annuì prontamente. «Sentite non so a che gioco state giocando, ma ci sono macchie evidenti di inchiostro verde sui polpastrelli e a ben vedere anche sotto le unghie, come se avesse opposto resistenza e si sia difesa dal suo aggressore, come se non bastasse

ha una posa scomposta, non esattamente rilassata, del tipo: sono in piena estasi, capite?» Keith digrignava i denti e sbuffava come un toro, mentre esprimeva a fatica le sue analisi. «E' tutto fiato sprecato!» Pensò furibondo. In quel momento si avvicinarono un uomo e una donna di mezza età, appena fu mostrato loro il cadavere, l'aria intorno tremò al grido disperato e straziante della donna. Erano i genitori. George e Laura Still. Keith lasciò perdere gli agenti, aveva già capito che non ne avrebbe cavato un ragno dal buco e si avvicinò invece alla coppia. Per prima cosa fece le condoglianze ed espresse un grande rammarico per la grave perdita che si trovavano ad affrontare, poi con molto tatto, lasciò il suo nome e numero di telefono. In caso avessero avuto bisogno di aiuto, magari perché non troppo convinti dello svolgimento delle indagini. Guardò torvo in direzione degli agenti, in modo inequivocabile. Lo ringraziarono un po' perplessi, senza capire esattamente il motivo di quell'offerta. Keith dirigendosi verso Book, si soffermò ancora un attimo vicino al corpo della ragazza, qualcosa attirò la sua attenzione, brillò accanto ad una mano, si chinò per guardare meglio, era una medaglietta e senza essere visto dagli agenti, la raccolse svelto. Ritraeva un arcobaleno con colori fluorescenti e sul retro due lettere “JC”, l'avvolse nel solito fazzoletto di carta e borbottando un fugace saluto all'indirizzo degli agenti sparì col suo cane. Lo squillo del telefono lo riscosse dalla ricerca infruttuosa in internet, che lo aveva tenuto occupato per tutto il giorno, cercando informazioni su chi o cosa fossero il logo e le iniziali impresse sulla medaglietta. «Pronto?» Con tono spazientito Keith pronunciò la parola nella cornetta del

telefono. «Signor Sanders? Sono George Still, io e mia moglie vorremmo vederla se è possibile, come aveva previsto, non siamo per niente convinti di come vengono svolte le indagini.» Non ne era affatto sorpreso. Keith chiese il loro indirizzo e dopo una decina di minuti sedeva nel soggiorno, con in mano una tazza di caffè e davanti a sé una foto di una bellissima ragazza di diciotto anni, che sorrideva felice e piena di vita. «Pamela voleva diventare chirurgo.» Singhiozzò la madre. «Ed era molto brava negli studi.» Asserì il padre con una punta di orgoglio nella voce, mentre abbracciava la moglie nel tentativo di darle conforto e sostegno. Keith non aveva dubbi sulle doti scolastiche di Pamela Still, ne era una conferma nonché prova inconfutabile, la borsa di studio conquistata per la Boston University, dove si sarebbe dovuta trasferire in autunno, per realizzare il suo sogno. «Ora non più.» Rifletté dispiaciuto Keith, per come a volte sia crudele il destino. Cercò di schiarirsi le idee per formulare le domande giuste, così da acciuffare il farabutto o i farabutti responsabili di un'atrocità simile. «Pamela frequentava qualcuno? Sì, insomma aveva un ragazzo? Non so, avete idea del perché fosse in spiaggia sulla Ocean Drive ieri sera?» Domandò con calma Keith, reduce dal suo retaggio di detective, intento a scandagliare ogni pista possibile. «Non che io sappia, almeno, l'unica stranezza è che ieri sera dopo una telefonata, piuttosto breve a dire il vero, era agitata, non è da lei, in genere è calma, appena le ho chiesto cos'era successo, ha risposto che avevano sbagliato numero, poi ha sorriso come al solito e ha detto che doveva incontrarsi con degli amici al “Toffee Apple”, tutti ragazzi che conosciamo bene, ci ha rassicurati e come ogni sabato sera è uscita. Durante la settimana non lo fa mai, deve studiare.» Affermò solenne il padre e la madre confermò, non correggendo il marito, che in ultimo aveva parlato come se la figlia fosse ancora lì fra loro, la cosa colpì come un

macigno Keith nel profondo. «Non vi viene in mente altro di inusuale, capitato in questo periodo?» Formulò la domanda, riflettendo sulla possibilità di poter risalire alla telefonata ricevuta da Pamela la sera prima, aveva un paio di agganci anche a Miami, per rintracciare l'utente tramite le compagnie telefoniche in zona. Poteva tentare, mai lasciare niente al caso. I due ci pensarono un po' su poi sorrisero al ricordo. «Pamela ci ha chiesto il premesso per farsi fare un tatuaggio, diceva che le avrebbe portato fortuna all'università, noi non eravamo troppo d'accordo, ma alla fine l'ha spuntata, ha promesso di farselo molto piccolo, così qualche giorno fa è tornata a casa con un quadrifoglio verde smeraldo dietro la nuca, alla base del collo, carino direi.» Disse Laura compiaciuta. Keith rimuginò un po' sul tatuaggio, poi tirò fuori dal portafogli la medaglietta trovata vicino a Pamela, sulla spiaggia e la mostrò ai signori Still. «Avete mai visto questo logo?» Non sperava in una risposta unanime, che invece arrivò, forte e chiara. «Certo, è l'All Colours, il negozio di tatuaggi dov'è andata, il proprietario e tatuatore è Jared Colte.» «Bingo!» Esclamò Keith e senza perdere tempo salutò gli Still, dicendo che si sarebbe fatto vivo al più presto e partì a razzo. Appena entrato nel negozio, cominciarono a formicolargli le dita delle mani, chiaro segno che qualcosa non quadrava. Aveva sempre avuto un certo sesto senso per le situazioni pericolose, ma fece del suo meglio per tenere a bada i nervi e una volta visto Jared capì perché tutti i suoi sensi erano allerta. Jared Colte era un uomo sui trent'anni, con una luce sinistra negli occhi e l'aria di uno che ti fa a fettine solo se gli dai il buongiorno. Il poliziotto che era in lui gli diceva di fare molta, ma molta attenzione.

«Potrei dare un'occhiata ad un catalogo prima di decidere quale tatuaggio farmi?» Chiese Keith affabile. L'uomo lo guardava fisso dal bancone, stava seduto dietro al registratore di cassa, masticando svogliatamente una chewing gum. Il negozio era male illuminato e pieno di oggetti etnici male assortiti e provenienti da mezzo mondo. Faceva venire i brividi e l'odore era anche peggio, un misto di spezie più adatto a una drogheria che a un posto per piercing e tatuaggi. «Lugubre e fetido, un connubio micidiale.» Pensò fra sé Keith. «Certo, le faccio vedere i miei lavori, ecco qui.» Fece piombare con un tonfo il grosso catalogo sul bancone alzando un gran polverone. Strascicando le parole aggiunse: «Si accomodi pure.» Keith si avvicinò guardingo e pronto a scattare se necessario. Si mise a sfogliare le pagine con cura, osservando attentamente i disegni e le immagini, ad un certo punto individuò il quadrifoglio verde smeraldo, si soffermò a guardarlo, quando il buio lo avvolse. Legato mani e piedi, un dolore lancinante alla testa e sentì il sapore metallico del sangue uscire in fiotti dalla bocca. Keith cercò di aprire gli occhi, ma faceva un male cane, dopo vari tentativi ci riuscì. Da una finestra rotta vide distintamente l'oceano e l'infrangersi delle onde, era pieno giorno, la casa dove si trovava era vecchia e stava letteralmente cadendo a pezzi, mentre faceva un tentativo per slegarsi, si sentì strattonare violentemente e sbattere a terra, la fitta alla schiena che seguì fu devastante e fortissima, tanto da lasciarlo senza fiato. «Ehi! Cowboy, non vorrai andartene proprio ora che inizia la festa?» Echeggiò un ghigno.

Si vide ciondolare davanti agli occhi la medaglietta presa vicino a Pamela. «Già, ho recuperato ciò che è mio!» Sbottò sprezzante Jared. «Quella cagna non voleva stare al gioco e darsi alla ginnastica con me, faceva tanto di quel baccano da farsi sentire fino in Messico, così ho dovuto praticargli un piercing speciale, infilandole un bello spillone su per il naso ed estraendo una certa quantità di cervello.» Rise sguaiatamente e prese a ondeggiare un macabro flacone, con dentro, immerso in un liquido alcolico, una piccola parte di materia grigia. Keith sentì lo stomaco abbandonare l'abituale cavità toracica e risalire repentinamente verso l'esofago, come il decollo di una navicella spaziale e dire che erano ore che non toccava cibo. Non ebbe tempo di riprendersi che un urlo squarciò l'aria, era Jared preso d'assalto da Book, il suo cane, gli era piombato addosso come un tornado, con il suo intervento provvidenziale aveva azzannato il braccio di quel criminale, dilaniandogli la carne e atterrandolo, mantenendolo fermo col suo morso micidiale. Keith fu un lampo a liberarsi e saltò sull'assassino bloccandolo. Fu una lotta all'ultimo sangue, senza esclusione di colpi. Keith lo afferrò saldamente alla gola avvolgendolo con le gambe. «Perché? Infame! Era poco più di una ragazzina! Miserabile!» Ringhiò con tutto il fiato che aveva. Jared con una mossa a sorpresa si liberò dalla presa e piombò su Keith come un lottatore di wrestling. «Perché le voglio giovani, le attiro e quando ho finito le faccio secche, solo che lei era una tosta, ha capito l'antifona, di cosa sono capace, quando ho cercato di intortarla per telefono, così mi sono reso conto che con le buone non l'avrei spuntata, allora l'ho seguita, era con i suoi amici e appena la serata è finita e stava per tornare a casa, l'ho catturata e portata proprio qui. Ha lottato come una tigre, graffiandomi ovunque, quindi niente so col sesso

ahimè! Sono ato direttamente a farla fuori, poi le ho dato una ripulita e ho trasferito il corpo vicino alla barca sulla spiaggia.» Rise di gusto, tutto soddisfatto, facendo accapponare la pelle a Keith, che si rese conto in quell'istante dell'assassino impenitente che si trovava davanti, un vero carnefice a pochi centimetri da lui. Intanto Book ringhiava e aspettava il momento giusto per azzannarlo senza ferire il suo padrone. «Quante ne hai assassinate lurido verme?» Sbraitò fuori di sé Keith. «Per ora quattro, ma la vita è lunga, qui è addirittura uno sballo, la polizia archivia i casi per overdose, fanno un'autopsia sommaria da asilo nido, è roba da matti, stando così le cose io sto in una botte di ferro! E quando mi prendono quegli idioti?» Si pavoneggiò super soddisfatto Jared. Keith non ci vide più, alle ortiche venticinque anni di onorata e gloriosa carriera. Al diavolo tutto, la legge, le frasi del tipo: “io non sono Dio”, tutto il bla bla bla sull'etica e sulla morale, all'inferno tutto e tutti; quel maiale farabutto l'avrebbe semplicemente spuntata e là fuori chissà quante altre giovani donne sarebbero morte per mano sua. «Che orrore! Assolutamente raccapricciante!» Sibilò a mezza voce Keith. Intollerabile. Inconcepibile. Inaccettabile. In una parola inammissibile e sull'onda della più totale furia, chiamò Book, il cane al suo comando si materializzò lì e azzannò Jared direttamente alla trachea. Keith si liberò all'istante, prese un fil di ferro che poco prima lo aveva tenuto legato come un salame e lo avvolse al collo dell'essere che gli si parava davanti, dimenandosi come un indemoniato sotto l'attacco feroce di Book, lo strinse in una morsa d'acciaio e attese mentre l'altro esalava l'ultimo respiro. Con un tonfo cadde a terra esanime.

«Un mostro in meno!» Sibilò Keith accarezzando la testa a Book, che scodinzolava freneticamente al suo padrone. L'alba. Di nuovo, una strana amarezza, ma anche un grande sollievo accompagnava il nuovo giorno. Keith si fermò solo un attimo, mise l'oggetto nella cassetta delle lettere con un biglietto e salì in macchina, uscendo silenziosamente da Miami. «Guarda George, non è la medaglietta che ci ha mostrato il signor Sanders?» Domandò Laura al marito durante la colazione, dopo aver preso la posta del mattino. «Già! E c'è anche un biglietto.» George lo lesse sgranando gli occhi e rimanendo a bocca aperta. «Giustizia è fatta.» Tutti e due scoppiarono in un pianto dirotto e liberatorio. Keith ripensò agli eventi che lo avevano portato lontano da Miami, all'inabissarsi del corpo senza vita di Jared Colte nelle acque dell'oceano, in un punto dove la corrente era così forte che se mai l'avessero ritrovato, senz'altro sarebbe stato su una spiaggia del Venezuela e non poteva non considerare e essere più che sicuro di aver fatto la cosa giusta. L'alba lo aveva trascinato a forza in quella vicenda e l'alba lo aveva miracolosamente liberato da quella vicenda.

LA SVOLTA

«Insomma basta!» Il cristallo s'infranse lanciando piccoli frammenti in ogni direzione, tanto che i presenti balzarono in piedi in un lampo. «Ottimo! Andata anche la brocca di Boemia da cinquecento dollari! Maledizione!» L'aria era carica di tensione, gli sguardi smarriti e increduli dell'equipe riunita in sala conferenze, la dicevano lunga sull'inevitabile sviluppo della giornata. Tutti aspettavano l'evolversi della tirata del capo, già sapevano che non li aspettava niente di buono, si trovavano chiusi là dentro da solo un quarto d'ora e i primi pezzi pregiati stavano prendendo il volo, schiantandosi inesorabilmente contro la solida parete. Ogni volta che i nervi cedevano e la furia omicida s'impossessava del capo, quella era la via che si imboccava per un susseguirsi di eventi terribili e disastrosi, che restavano impressi per giorni, sconvolgendo la sanità mentale di tutti i dipendenti. Finiva che si bisbigliava, anziché parlare con un tono normale e ci si muoveva con cautela nei vari settori, per rimanere il più possibile nell'ombra, onde evitare altre scenate da brivido, come quella in corso. «Calmati per favore, adesso stai esagerando.» La voce ferma di Bryce risuonò nella stanza, attirando l'attenzione e uno sguardo di speranza da parte dei collaboratori, in effetti, se c'era qualcuno in grado di sedare gli animi e calmare le ire del capo, quello era lui, anche se per il momento, non pareva godere della solita capacità persuasiva che normalmente lo distingueva. «Calmarmi un corno!» Riprese fiato solo un attimo e ripartì alla carica come un autotreno.

«Faith, ascolta...» Bryce non riuscì a concludere la frase, lei lo investì con una sequela di imprecazioni degna di uno scaricatore di porto e un carcerato messi insieme. «Cosa facciamo qui? Cosa pensate che svolgiamo alla K&K Sly? Un lavoro di secondo piano? Per piccoli negozianti e verso un pubblico limitato? Forse da piazzare in provincia!» Faith urlò come se ne andasse della sua stessa vita e prima che Bryce intervenisse nuovamente, ripartì all'attacco. «Questa, per chi ancora avesse dei dubbi è un'agenzia, no, anzi è l'agenzia pubblicitaria più importante della West Coast, pensate che lavorare qui sia come stare al bancone di un bar? O in un piccolo supermercato? Dove al massimo vi chiedono di fare lo sforzo di regalare un sorriso al cliente di turno? Statemi bene a sentire e vi consiglio di farlo davvero, perché non ho intenzione di ripetermi, qui si esige il massimo, in termini di creatività, velocità, ma soprattutto tenacia! Non facciamo insaccati! Brutti idioti, noi creiamo slogan! Tanto formidabili che i più grossi marchi della terra si avvalgono di noi!» Mentre martellava il suo staff senza sosta, camminava avanti e indietro e per sottolineare meglio ogni concetto sbatteva i pugni sul lungo tavolo tirato a lucido, lasciando delle minacciose impronte lungo il percorso, sotto lo sguardo attonito dei suoi collaboratori. Se ne infischiava altamente del terrore o del sudore freddo che imperlava i loro volti, se non scattavano come molle ai suoi comandi, era prontissima a strapazzarli senza remore, più sembravano impietriti, più lei ci andava giù pesante. Quel giorno poi, dopo aver visto le prime idee, che onestamente per essere Lunedì mattina, erano decisamente fiacche, non ci aveva visto più, davanti a quella inconcepibile apatia, era sbottata di brutto, ed era partita in quarta travolgendo tutto e tutti. Squadrandoli ad uno ad uno, fulminandoli ad ogni aggio del suo sguardo, fece un cenno brusco con la mano, per invitarli di nuovo a sedersi, al che, scossi e abbacchiati, si mossero silenziosi, obbedienti come agnellini, ripresero posto e aprirono con cautela le cartelle poggiate lì di fronte. «Faith, devi tenere conto che siamo appena usciti da una delle più snervanti campagne pubblicitarie dell'anno, sai quanto me cosa implichi soddisfare gli

stilisti d'alta moda, siamo reduci da un periodo molto stressante, dacci modo di raccogliere nuove idee, altri stimoli e vedrai che in un batter d'occhio io e gli altri rientreremo in pista più determinati che mai, sai che siamo una squadra vincente.» Ribadì, calmo e sicuro di sé Bryce andandole vicino. Gli pareva di aver fatto progressi, Faith appariva più calma ora. Sbagliato. «Tu! Più di tutti dovresti appoggiarmi e sostenermi ad oltranza, dare una sveglia a questi buoni a nulla! Sei o non sei l'art director? Come intendi procedere con il tuo copywriter? Pensi che trattandolo in guanti bianchi si spremerà di più le meningi? Certo che no! Oh, ma lo so, davanti a me sei uno zuccherino, è là fuori, alle mie spalle, che diventi una iena. Ti dirò una cosa, stai molto attento caro Bryce Martin, perché se tenti di mettermi i bastoni fra le ruote, sperando di eliminarmi, anche solo accondiscendendo o fingendo di assecondarmi, vedrai tuo malgrado, di che pasta è fatta la sottoscritta Faith Long!» Inveì con quanto fiato aveva in gola Faith. Bryce capì che era meglio tacere, quando i livelli si alzavano a dismisura era più saggio chiudere il becco, non era una tenera, ma nel suo lavoro era un genio e meritava rispetto, era decisamente una che perdeva le staffe, però era capacissima di accaparrarsi anche il cliente più difficile sulla piazza, questo le andava riconosciuto. Oltretutto era esperta in vari settori, grazie anche alle due lauree raggiunte con lode, in chimica e in marketing, a livello neuroni non si poteva competere e Bryce ammirava in parte le sue competenze. «In parte.» Pensò fra sé. «Sai che ti stimo troppo per andare in giro a sparlare di te.» Affermò deciso Bryce. Con quelle parole sortì l'effetto sperato, Faith ritrovò una parvenza di autocontrollo e riprese la riunione con un po' più di calma. Il sollievo fu generale. «Per darvi un'idea di ciò che intendo.» Proseguì Faith, con la sua solita competenza, catturando l'attenzione dei presenti.

«Ho rispolverato alcuni dei più famosi slogan del ato, molti dei quali sono stati creati proprio qui, altri addirittura arrivano da oltre oceano, il punto è che, se tralasciamo il fatto che risalgono a epoche diverse, rivestono tutt'oggi un ruolo importante, perché possono vantare il primato di essere rimasti nel cuore e nella mente della gente. Sono addirittura oggetto di battute umoristiche in vari show televisivi, uno slogan non sempre raggiunge questo tipo di popolarità, ma quelli che lo fanno, sono come i diamanti, per sempre, tanto per citarne un altro famosissimo.» Mentre parlava, faceva scorrere sul tavolo alcune copie, con delle frasi inconfondibili trascritte in grassetto, che iniziò prontamente a leggere. «Come potete vedere, i primi in alto, sono stati proposti al pubblico quando alcuni qui non erano ancora nati, il che li rende assolutamente incredibili. Uno spot dedicato ai jeans ha fatto il giro del mondo: “chi mi ama mi segua”, oppure “non avrai altro jeans fuori di me”. Invece per un importante società elettrica: “accendiamo il presente per illuminare il futuro” e ancora, “ è osservando la forza del vento che abbiamo visto il futuro dell'energia”. Ce ne sono decine, uno più accattivante dell'altro. Il podio spetta decisamente a questi ultimi. Per un auto: “la perfezione non si raggiunge in un attimo”. Per le caramelle: “si scioglie in bocca. Non nelle tue mani”. Ma la più esilarante a mio avviso, rimane quella per una bibita: “è proprio quello che ci vuole” concisa e diretta, arriva immediatamente al probabile consumatore, stuzzicandolo a provarla subito. Ovviamente, come sempre, oltre la frase ad effetto, se si propongono immagini altrettanto seducenti per accompagnare lo slogan, il prodotto viene lanciato sul mercato con tale forza, da poter battere la concorrenza all'istante.» Terminò osservandoli attentamente. Avevano ripreso colore, con fogli alla mano, iniziarono a commentare i vecchi slogan, dando vita ad un'accesa discussione. Ritrovato l'entusiasmo di sempre, partirono a raffica idee e progetti per la nuova campagna pubblicitaria, che li vedeva impegnati per il lancio di un' importante linea di cosmetici. Finalmente la sfuriata era servita, come sempre dopo la burrasca che si abbatteva sulle loro teste, riacquistavano energia e mettevano in campo la loro innata bravura, era sicura che da un momento all'altro sarebbero arrivati gli slogan giusti, quelli che prima di tutto mandavano in visibilio i loro clienti e che poi sarebbero entrati come tormentoni nelle case della gente. «E' proprio quello che ci vuole.» Ripeté il famoso slogan Bryce, in direzione di Faith.

«Non lo trovi anche tu strepitoso? Sai che ha quasi trent'anni di vita?» Sbottò nel solito modo rissoso Faith. «Diamine, altroché! Devo dire che non lo citiamo spesso, ma indubbiamente è uno dei più azzeccati, nonostante fossi nato da poco quando è stato ideato, rimane uno dei miei preferiti, hai fatto bene a rievocare alcuni dei più celebri, come vedi ci siamo immediatamente scatenati, tornare a slogan più concisi e diretti non è male.» Disse con tono riflessivo Bryce. Faith lo guardò in tralice, a parte le diversità caratteriali e la competizione che spesso li faceva trovare ai lati opposti del ring, in genere erano un buon team, almeno questo era positivo nel lavoro. Soprattutto in quel lavoro, dove la rapidità era tutto, anche nello sbollire e sedare, per così dire, “le risse verbali”. «All'occorrenza ho sempre un asso nella manica, comunque grazie per l'approvazione.» Drizzò le spalle con fare altezzoso mentre recuperava il suo materiale, poi si rivolse al gruppo, che le prestò subito ascolto. «Bene signori, vedo che avete ritrovato il vostro spirito, quindi vi lascio lavorare; per qualsiasi cosa, sarò nel mio ufficio fino a tardi.» Uscì senza voltarsi, mentre il gruppo mormorava un fugace saluto al suo indirizzo. Lei sbatté la porta alle sue spalle con il solito fare sbrigativo. Tutti tirarono un sospiro di sollievo. Bryce strizzò gli occhi riducendoli a due fessure. «Kaylee! E' pronto il contratto?» Con la solita voce alterata Faith investì la sua segretaria, che a quel suono scattò come una molla. «Sì, signora Long, è proprio sulla sua scrivania.» Balbettò impacciata la ragazza. «Prega che sia impeccabile!» Strillò, entrando nel suo regno Faith. «Paige, dov'è il mio caffè?» Ringhiò all'altra segretaria, che a quella richiesta si precipitò alla macchina del caffè come un razzo e tornò a tempo di record con una tazza fumante. Portandosi la tazza alle labbra, Faith agitò la mano per congedarla, senza uno

straccio di ringraziamento, era già immersa nel lavoro. Non si perdeva mai in smancerie, o cose del genere, i modi gentili ed educati, quando era assorbita completamente dalle scartoffie, non erano contemplati. Diventava brusca e irritabile; per lei l'efficienza aveva priorità assoluta. Paige uscì dall'ufficio sconsolata, lavorare con quella donna era un vero incubo, non aveva ancora chiuso la porta che Faith la bloccò. «Di' a Zoe di portarmi subito i documenti da firmare e la corrispondenza di oggi, dille anche di fare in fretta, non ho tutto il giorno!» Ruggì guardandola da sopra la tazza. Paige annuì con la testa e si voltò, una volta fuori dalla portata del suo capo, iniziò a massaggiarsi le tempie, poi si avviò con aria tetra verso Zoe per informarla. «Giornataccia è?» Le chiese Kaylee mentre le ava di fianco, l'altra alzò gli occhi al cielo. «A quanto pare... peggio di così si muore!» Esclamò affranta Paige, poi aggiunse a bassa voce. «Ma di tutte le società esistenti a San Diego? O meglio ancora, di tutta la California? Per non dire addirittura di tutti gli Stati Uniti? Proprio in questo maledetto buco dovevo finire? E' un girone dell'inferno!» Guardò le altre due, che a quello sfogo cominciarono a ridere, alla fine nel vedere quelle facce in preda agli spasmi, anche lei ne fu travolta e si unì a loro. Il sole stava tramontando e mentre saliva sulla sua auto, scrutò le alte vetrate del grattacielo in acciaio davanti a sé, come sempre all'ultimo piano una luce era accesa, quella del suo capo. Faith Long, assolutamente immancabile come ogni sera, usciva sempre dopo i dipendenti, ormai da un decennio, da quando dopo la laurea, era stata assunta come manager lì alla K&K Sly, lo stesso periodo in cui era arrivato lui, avevano circa la stessa età, ma decisamente due personalità molto diverse. Bryce scosse la testa e avviò il motore, allontanandosi da quella stressante giornata lavorativa. «Sam, si può sapere quante volte ti devo ripetere di non prendere biglietti da visita da chicchessia? Almeno che non sia io ad autorizzarti? Questi grafici pubblicitari freschi di laurea, mi assalgono ovunque, se si sparge la voce che il

mio portiere funge da assistente e che me li recapita, siamo spacciati, non ce ne libereremo più. Fritti! Ecco cosa siamo! Non mi occupo di emergenti e non lavoro al settore risorse umane! Chiaro?» Strillò Faith al poveretto di fronte a sé. «Sì, signora Long, lo so ma... questo ragazzo mi fa tenerezza, viene qui ad aspettarla tutti i giorni da più di tre settimane, ma lei torna a casa così tardi, che ad un certo punto deve andare via per aiutare la madre, sa, ha anche altri due fratelli piccoli, il padre è lontano perché lavora all'estero e io...ecco...non ho saputo rifiutare.» Balbettò intimidito il portiere. Quella donna poco più che trentenne lo faceva sempre sentire una nullità e dire che lui aveva già oltreato i sessant'anni! Faith lo trafisse con gli occhi. «Sam, non dirmi che credi a tutte le sciagure che ti raccontano i nuovi talenti? Sarebbero disposti a vendere l'anima al diavolo pur di approdare alla K&K Sly!» Disse divertita, per la prima volta in tutto il giorno Faith. «La situazione di questo giovanotto è vera, lo so bene, perché si da il caso sia mio vicino di casa!» Stavolta fu Faith ad abbassare il tono. Sam chissà come aveva alzato la cresta, in barba ai timori, conosceva la famiglia di quel ragazzo e non era disposto a sentir mettere in dubbio la sua sincerità. Faith sorpresa da tanta risolutezza da parte di un uomo solitamente pacato, decise di lasciar perdere, aveva fame, un po' a malincuore prese il biglietto da visita e lo infilò in tasca. Alzò una mano per fermare Sam. «Non ringraziarmi, darò semplicemente il biglietto da visita a quelli delle risorse umane, non alzerò un dito per altri scopi, intesi?» Affermò secca. Sam s' illuminò. «E' tutto quello che speravo signora, quindi grazie!» Si allontanò fischiettando, Faith fece una smorfia divertita, per la seconda volta in quella giornata aveva ritrovato il sorriso, grazie a Sam; era un brav'uomo e un ottimo portiere. Sollevata per aver fatto un gesto carino, si diresse a o svelto verso gli ascensori, lasciandosi alle spalle un magnifico atrio rivestito in marmo rosa, con specchi altissimi alle pareti e mentre le porte in acciaio satinato del suo

ascensore stavano chiudendosi, strizzò l'occhio in direzione di Sam, che da dietro il grande bancone in mogano, ricambiò il gesto. Appena entrata nel suo lussuoso appartamento, Faith capì di non essere sola. C'era un bagliore proveniente dalla cucina. Percorse l'ampio corridoio fino all'altezza dell'armadio a muro, dove lanciò letteralmente la giacca, sul fondo aprì la cassettiera e vi scaraventò le scarpe dal tacco vertiginoso, poi si precipitò in camera da letto, dal guardaroba a specchio estrasse una maglietta fucsia e un paio di pantaloncini neri, corse a piedi nudi sul parquet in rovere, facendolo scricchiolare ad ogni o, fiondandosi nella direzione da cui proveniva un appetitoso profumino. Si arrestò nella sontuosa sala, dove l'imponente divano angolare in pelle color avorio, occupava gran parte della stanza e si accorse che sul bracciolo era stata gettata una giacca scura ed una cravatta elegante, lo stereo stava diffondendo un graffiante pezzo jazz, dove il sassofono, magistralmente suonato dal musicista, impregnava l'aria rendendola elettrica. Sorrise. E con questa erano ben tre, le volte che in quella esasperante giornata, si era arresa ad un sorriso. Entrò in cucina e l'odore prelibato che le investi le narici la inebriò del tutto. «Non pensavo ad un accoglienza così.» Ammiccò Faith. «Perché? Se no saresti tornata a casa prima? Magari precipitandoti?» Quella risata così aperta, aveva il potere di accenderle tutti i sensi. «No, però avrei cercato di accelerare un po'.» Asserì divertita. Si avvicinò sinuosa e provocante verso i fornelli. «Beh! Dolcezza se vai avanti così, addio cena.» La strinse fra le braccia. «Eh! No, Connor, non ci provare, alla cena non ci rinuncio, vedo con piacere che stai preparando la paella, oh! E questo cos'è? Cielo! Agnello! Dio esiste!»

Cominciò a saltellare come una ragazzina al luna park, mentre Connor si godeva l'estasi della sua donna, non era frequente vederla così euforica. «Non ti priverò dei tuoi piatti preferiti, a patto che apparecchi tu la tavola, ah! Con tanto di candele, grazie.» Le invio un bacio al volo, lei fece una smorfia, ma ricambiò con un altro bacio lanciato, prese tovaglia e stoviglie e preparò la tavola. La cena era eccellente, Connor fantastico. Mentre mangiavano lei lo tempestava di domande sul caso a cui stava lavorando, allo studio legale del padre, essendo un avvocato civilista, venivano sempre fuori storie pazzesche su qualche suo assistito, a lei piaceva da matti lasciarlo parlare a ruota libera. Ad un certo punto, fu lui a bombardarla sulla giornata appena trascorsa. Loro non vivevano ancora insieme, più che altro a fare la difficile era Faith, non per un motivo preciso, solo... esitava. Tendeva a rimandare continuamente per qualche impedimento bizzarro, che cambiava di volta in volta, ma Connor pensava, che prima o poi, sarebbe riuscito a spuntarla, lei era tosta, ma anche lui non scherzava. Avevano un sacco di cose in comune e amavano lo sport, avano un mucchio di tempo insieme, pur non abitando sotto lo stesso tetto, spesso cenavano a casa dell'uno o dell'altra e si raccontavano tutto, ma proprio tutto. «Insomma anche oggi li hai tartassati senza pietà quei poveretti.» Ridacchiò perverso Connor. «Per forza, non mi ascoltano, devo sempre urlare se voglio catturare la loro attenzione, stamani poi, ciondolavano, anziché lavorare. Se non riusciamo a soddisfare i clienti in tempo, quelli ci rimpiazzano al volo col primo venuto, mi pagano bene per far funzionare le cose e io lo faccio, sono dannatamente brava.» Alzò il mento come per sfidarlo ad essere contraddetta. Ma lui non lo fece, sapeva che nel lavoro era in gamba, in effetti, anche piuttosto intransigente, per fortuna nella vita privata era un'altra cosa. Gli raccontò dello stratagemma di aver ripreso gli slogan famosi dei tempi

ati e di come a quel punto, i suoi collaboratori, si erano rinvigoriti e sbizzarriti nel coniarne di nuovi. «Non ci crederai! Perfino Bryce, che solitamente è tutto d'un pezzo, ha approvato l'iniziativa. In particolare lo slogan di una bibita, faceva così: “è proprio quello che ci vuole”.» A bocca piena, annuì soddisfatta. «Brava, con mezzi un po' troppo autoritari per i miei gusti, ma hai rimesso in pista le loro capacità artistiche, complimenti!» Si congratulò orgoglioso Connor, mentre gustava la cena con altrettanta voracità. Lei sollevò lo sguardo, poi gli chiese sorniona. «Domani mattina presto, diciamo verso le sei, vuoi venire con me in spiaggia a fare jogging? Vado a Coronado Beach, a quell'ora ci sono poche persone.» Connor parve rammaricato. «Devo essere in tribunale presto domani mattina, ma tu ci vai anche Giovedì giusto?» Chiese speranzoso. Lei rise. «Certo che ci vado anche Giovedì, come sempre del resto, non vedo l'ora di lasciarti indietro.» Disse sbarazzina. «Lo vedremo!» La sfidò divertito Connor e tutti e due scoppiarono in una sonora risata. «Ma si può sapere dove hai la testa? Ma dico io, si può essere più imbranati di così?» La frase pronunciata in tono stizzito rimbombò nel garage. «Scusa, sai? Non tutti sono geni come te, ma dato che sei il capo dell'intelligenza, non vorrei offenderti, però ti do lo stesso un suggerimento gratuito, perché non togli i viveri dalla scatola e li incastri semplicemente fra un pacco e l'altro? Vedrai che poi il bagagliaio si chiuderà!» La voce resa roca da una nota di evidente astio. Con sguardo assassino l'uomo lo fulminò.

La grossa scatola fu tolta dal bagagliaio e tutti i prodotti alimentari, comprese svariate confezioni di cibo in scatola, furono temporaneamente poggiate sul pavimento in cemento. «Caro Trevor, se non fossi così ottuso, tanto da riempire questo maledettissimo scatolone con provviste utili per almeno un secolo, a quest'ora avremmo già chiuso l'auto e saremmo partiti in orario, invece devo fare i giochi di prestigio e spargere tutte le cibarie incastrandole alla meglio fra gli attrezzi.» Era madido di sudore, mentre inveiva come una mitragliatrice impazzita. «Caro Dalton, tanto per usare il tuo tono, ho preso così tanta roba da mangiare, perché tu mi hai detto di farlo e per la cronaca, non sono un imbranato, tu piuttosto, invece di lamentarti guarda cosa stai facendo, hai incastrato quella bottiglia di vino a testa in giù, alla prima frenata, soprattutto se urta la cassetta degli attrezzi, vedrai che spettacolo, di sicuro i anti sentiranno l'odore prima di vedere arrivare l'auto!» Esclamò, mentre sghignazzava impunemente Trevor. Dalton era sul punto di strangolarlo subito, ma si trattenne, Trevor gli serviva in piena forma. Intanto rimise dritta la bottiglia di vino, poggiandola in sicurezza fra alcune coperte. «Ti ho detto di fare provviste sufficienti per almeno una settimana, non di saccheggiare tutti i supermercati di San Diego.» Ruggì rabbioso, schiacciando con i piedi la scatola ormai vuota e calciandola all'angolo del garage. Sbatté con forza il bagagliaio e si diresse alla guida dell'auto, Trevor scosse la testa, mentre borbottava fra sé prese posto dal lato eggero, per non essere da meno, quando la portiera si chiuse, vibrarono pericolosamente tutti i vetri dell'abitacolo, al che, i due si guardarono in cagnesco. Dalton fermò l'auto pochi metri più avanti, scese e chiuse con un colpo secco il basculante del garage, saltò di nuovo al volante e partì sgommando. «Hai almeno preso tutto il materiale?» Chiese Dalton scandendo bene le parole, come se stesse parlando ad uno straniero. Trevor aveva un prurito tremendo alle mani, lavorare con Dalton era sempre uno strazio, aveva quella brutta abitudine di sentirsi il capo assoluto, niente di più sbagliato, loro erano cinquanta e cinquanta, doveva costantemente ricordarglielo.

«Sì, come da copione!» Rispose altrettanto lentamente Trevor, digrignando i denti, per far recepire bene il messaggio. Dalton mugugnò, da un po' di tempo farsi capire da Trevor era diventato snervante. «Bene, dobbiamo arrivare presto alla villa sulla spiaggia e sistemare tutto come da accordi con colletto bianco, domani mattina comincia il lavoro, è necessario avere tutto pronto.» «Non preoccuparti, io sono nato pronto!» Una risata sguaiata risuonò nell'auto. Dalton sperava che Trevor rispettasse sul serio la tabella di marcia, tenerlo in riga non era cosa facile. Voleva a tutti i costi portare a termine quel lavoro senza problemi, gli avrebbe fruttato un bel po' di soldi e non intendeva in alcun modo perderli. Il resto del tragitto lo trascorsero in assoluto silenzio, i giorni successivi sarebbero stati impegnativi, era imperativo conservare calma e nervi saldi, quei due meno parlavano e più le cose filavano lisce. Il sole stava sorgendo, illuminando con i suoi caldi raggi la baia, la sabbia stava colorandosi di luce dorata, i primi aironi volteggiavano emettendo suoni acutissimi, qualche gabbiano intrecciava il loro volo, la scena era bellissima, il dondolio pigro delle onde creava un sottofondo suadente infrangendosi sulla battigia. Si preannunciava una giornata splendida. Il cielo era terso e la spiaggia magnifica «e, soprattutto ancora deserta,» pensò soddisfatta Faith, mentre procedeva ad un buon ritmo con la sua corsa mattutina. Le piaceva da matti correre sulla battigia, godersela appieno, senza dover zigzagare fra secchielli e palette. In orari più comodi, c'erano sempre dei bambini piccoli sfuggiti al controllo delle madri, per tuffarsi incautamente in acqua da soli, investiti poi prontamente, dalle urla isteriche delle donne in preda al panico, o peggio, vecchietti precari impegnati a eggiare in gruppo, che inevitabilmente la intralciavano senza nemmeno rendersene conto. Quella era l'ora ideale, a volte incrociava qualcuno intento nella corsa come lei, ma si potevano veramente contare sulle dita di una mano.

Mentre procedeva, ammirando l'incantevole paesaggio e l'aria ancora frizzante le faceva ondeggiare alcune ciocche di capelli, sfuggite dalla coda di cavallo, sentì un rumore alle spalle, rallentò il o, voltandosi non vide niente di strano, fece per riprendere la solita andatura, ma sbatté su qualcosa di alto e solido. Un torace. Per istinto fece un balzo indietro. Due grosse mani l'afferrarono per le spalle. Il gigante di fronte a lei aveva il viso coperto, cercò di divincolarsi, ma anche il tizio che l'aveva afferrata da dietro era alto e ben piazzato, anche lui a viso coperto. Cercò di non farsi prendere dal panico e di ricordare i fondamentali di Karate appresi da ragazzina. Sferrò una gomitata all'addome dell'uomo che la teneva ferma e con una mossa fulminea colpì il viso dell'altro, riuscì a scappare, pregò che le arrivasse per magia la forza della donna bionica, vista tante volte in televisione, ma ahimè, le sue doti erano solo umane. Corse con quanto fiato aveva in gola, spingendo e demandando alle sue inseparabili Nike il compito di salvarle la pelle, aveva un milione di domande per la testa, una fra tutte, “perché proprio a me? Qui non è mai successo niente del genere”, sibilò fra i denti. In vista non c'era nessuno, Faith continuava ad aumentare l'andatura come se fosse in lizza per le Olimpiadi, sbirciò dietro, aveva messo una certa distanza fra sé e i suoi inseguitori, fece un sospiro di sollievo imboccando a tutta velocità il sentiero che portava verso la strada, dopo pochi secondi intravide la sua auto, azionò il telecomando e il bip che spezzò il silenzio le diede nuovo slancio, raggiunse la portiera e afferrò la maniglia, come un naufrago il salvagente. La fitta arrivò repentina e acutissima. Un brivido le attraversò il corpo e un grido le morì in gola. «Dovevi per forza usare la sparachiodi? Potevi ferirla seriamente!» La domanda irruppe secca.

«L'ho presa solo di striscio, poco più di un graffio, altrimenti come saremo riusciti a fermarla secondo te? Sembrava avesse il diavolo alle calcagna, volevi forse implorarla di lasciarsi catturare?» Il commento acido non si fece attendere. Movimenti precisi e sicuri, immobilizzarono mani e piedi, un panno maleodorante premeva sulle labbra, lo schiocco provocato dalla testa contro il vetro, dopo essere atterrata sul sedile posteriore dell'auto, fu il colpo di grazia, la vista iniziò ad annebbiarsi e la coscienza a scivolare via. L'ultima suono impresso nella mente fu il rumore roboante dell'auto che partiva a gran velocità, poi il nulla. Lentamente e con immensa cautela aprì le palpebre. Sbatté più volte le folte ciglia, l'immagine che le si apriva davanti era incomprensibile. Era immobilizzata su una sedia, al centro di una lussuosa cucina, dai mobili lucidissimi e bianchi, con un enorme piano da lavoro in granito nero, dalla vetrata si intravedeva un giardino ben curato, che portava direttamente alla spiaggia sottostante. Non c'erano dubbi che quell'abitazione fosse a pochi minuti da dove era stata rapita, era una delle tante ville con spiaggia privata, che punteggiavano a nord la baia di Coronado Beach. «Impossibile.» Pensò. «Non possono essere persone facoltose i miei rapitori, a che scopo?» Faith rimuginava tra sé, cercando di capire chi avesse interesse a rapirla, non certo gente di quel ceto sociale, tanto più che molte delle ville situate in quel tratto di costa, in quel periodo erano vuote, essendo Febbraio i proprietari non le frequentavano, in genere venivano da altre città, tornavano a occuparle solo dal mese di Maggio, per trascorrervi i week end durante tutta l'estate. «No, devono essersene impossessati abusivamente, devo cercare di liberarmi.» Sussurrò sgomenta. Si diede da fare con i polsi, ma il nastro adesivo di cedere non volle saperne, tentò di allentare il panno sulla bocca, scuotendo la testa e spingendo con la mandibola, l'unico risultato fu un lieve abbassamento della stoffa, non abbastanza da permetterle di gridare. E dire che era pronta a strillare per farsi sentire fino in Alaska.

La porta della cucina si spalancò. «Ehi! Gattina, come andiamo?» La voce gracchiante e fastidiosa si diffuse per la stanza e un uomo imponente si chinò, piazzandosi davanti a Faith, per guardarla dritta negli occhi. «Non dirmi che stai già progettando la fuga? Se farai la brava, vedrai che fra qualche giorno tornerai dai tuoi cari. Intesi?» Mentre parlava le aggiustava il panno sulla bocca, per stringerlo un po' meglio. «Fa' sì con la testa.» Le disse sarcastico l'uomo. Faith lo fece. Forse con troppa grinta. Assestò al tizio un colpo con la testa, tanto che per poco, quello non cadde steso a terra. Faith vide tutte le stelle, ma era piuttosto soddisfatta di sé. Se non altro, aveva tolto l'espressione divertita dallo sguardo di quella canaglia. L'uomo si aggrappò al piano da lavoro, imprecando a denti stretti. «Brutta serpe! Aspetta un attimo e ti faccio vedere io! Come osi fare questi giochetti?» Sbraitò e uscì barcollando dalla stanza, per rientrare qualche minuto dopo. Aveva sulla fronte un cerotto grande come una cartina geografica, si era tolto il cappuccio, ma teneva sul viso una mascherina da chirurgo, impossibile capire chi fosse. In mano stringeva un asciugamano arrotolato e bagnato, con il quale cominciò a colpire Faith all'addome e alle gambe, mai il volto però. Le fitte erano tremende e lancinanti. Faith singhiozzava in preda al dolore, l'uomo si fermava pochi attimi e poi ricominciava con maggior vigore, lei si muoveva sulla sedia come in preda a convulsioni. «Ora basta!» La voce cavernosa interruppe l'assalto in corso.

«Fermati subito! Vuoi ammazzarla? Così niente riscatto!» Ruggì l'uomo, avvicinandosi a grandi i per fermare il compare. I colpi cessarono, Faith tirò un lungo respiro, per ora era finita. «Questa vipera mi ha sferrato un colpo pazzesco alla fronte, deve capire chi comanda!» Gridò rabbioso l'altro. «E tu non avvicinarti troppo, te l'ha detto colletto bianco che è una pericolosa, no?» Domandò torvo. L'altro annuì contro voglia, poi uscì. «Vado a prendere il cibo.» Sentenziò. «Bravo, ottimo, prendi le provviste.» Rivolto a Faith e misurandole un pugno a pochi centimetri dal viso, l'ammonì minaccioso. «Sta' attenta a come ti muovi, il mio collega come hai ben visto non è molto magnanimo, fai un favore a tutti, fa' la brava e ne uscirai viva e vegeta, fa' la ribelle piantagrane e te ne torni a casa in una bella bara!» Così dicendo si diresse fuori dalla stanza. Faith si agitò sulla sedia, non sarebbe mai e poi mai rimasta a guardare mentre decidevano se lasciarla andare o no, era pronta a vendere cara la pelle, se quei due avevano in mente di chiedere un riscatto, era spacciata, nonostante appartenesse a una famiglia ricca, le autorità avrebbero imposto il blocco dei beni. Doveva agire presto, con le proprie forze, magari scoprire chi erano, soprattutto il colletto bianco in questione, che evidentemente si trovava in regia. Come faceva a sapere che era una pericolosa? Senz'altro l'avevano spiata da tempo, non era così che facevano sempre? Il tizio con cui si era scontrata frontalmente, nel vero senso della parola, rientrò nella stanza con un vassoio su cui era poggiata una scodella zeppa di cornflakes e latte, Faith scosse la testa, non mangiava quella roba a colazione dai tempi delle elementari, c'era anche un cucchiaio; stava meditando su che uso ne avrebbe fatto. Una luce perfida le attraversò gli occhi.

“Sì, decise, gli avrebbe fatto sputare l'anima un pezzo alla volta “. Quei due non avevano idea delle risorse che ha una donna messa spalle al muro. Si sarebbe difesa con le unghie e con i denti, poco ma sicuro. Era un sollievo non avere quell'orrendo panno sulla bocca e seppur controvoglia divorò la colazione, utilizzando solo una mano, l'altra era bloccata saldamente alla sedia, studiava le mosse degli avversari e cercava di cogliere l'attimo giusto per agire. Si presentò quando il superstite del precedente attacco frontale, si spostò per portare fuori i resti della colazione, da gettare nella pattumiera. Afferrò saldamente la scodella, tese il più possibile il braccio, come le aveva insegnato il padre da piccola quando la faceva giocare a baseball e la lanciò con impressionante energia, centrò perfettamente l'obiettivo: la testa dell'energumeno che aveva interrotto poco prima il socio, mentre la strapazzava percuotendola come un tamburo. Un urlo agghiacciante si liberò nella stanza. «Dalton che succede?» Arrivò di corsa il compare. «Per la miseria! Trevor prendi del ghiaccio, presto!» Ordinò Dalton, coprendosi la testa con le mani, che già cominciavano a macchiarsi di sangue. Faith non perse altro tempo, mirò di nuovo, Trevor non si accorse del bagliore, ma avvertì l'impatto immediato dell'oggetto che lo colpiva implacabile nell'occhio. Un grido strozzato gli salì dal petto e si mise in ginocchio, quasi in una posa di preghiera. Raccolse l'oggetto e lo piegò ferocemente, si girò, gli occhi mandavano lampi, si avvicinò a Faith, tendendo la mano come se impugnasse un'arma letale, invece... Era un cucchiaio, lo stesso che Faith gli aveva lanciato prendendolo in pieno. «Io ti faccio secca, brutta viscida impenitente!» Si avventò su Faith come un predatore, la sedia si rovesciò, fu colpita selvaggiamente ovunque. All'improvviso fu afferrato e tirato indietro, solo per essere sostituito dal socio

che si dette da fare per completare l'opera. Faith pensò seriamente che non sarebbe mai sopravvissuta a quel linciaggio. Adesso era tutto buio, «sono morta» bisbigliò, ma il dolore diffuso in tutte le parti del suo essere la fece ricredere. Probabilmente era conciata male, ma ancora viva, dopo l'ultimo scontro con i suoi carcerieri era anche un po' impaurita, «solo un po',» sogghignò fra sé. «Paige, come sarebbe a dire che non si è presentata in ufficio oggi?» Chiese impaziente Connor. «E' così signor Jones, oggi non è venuta, infatti eravamo un po' preoccupati, è tutto il giorno che proviamo a rintracciarla ai vari recapiti, ma niente da fare, non ha mai risposto.» Dichiarò la ragazza costernata. «Non le è successo niente vero?» Chiese con voce rotta. «Non lo so, stamani è andata a fare jogging come ogni Martedì, non sono potuto andare con lei, ero impegnato in tribunale tutto il giorno. Non ci siamo sentiti e quando sono andato a casa sua non l'ho trovata, il portiere non l'ha vista da quando è uscita. Io vado alla polizia!» Sentenziò perentorio, mentre un brivido gli scorreva lungo la schiena, aveva un brutto presentimento. «Devo sporgere denuncia per rapimento.» Affermò deciso Connor all'agente che lo aveva ricevuto al distretto di polizia. «Aspetti un attimo, devono trascorrere almeno ventiquattro ore dalla scomparsa, è il tempo in cui manca da casa la persona in questione?» Chiese fermo l'agente. «Non ancora, ma è da stamani alle sei che è scomparsa, le assicuro che non si è allontanata volontariamente, non salta il lavoro nemmeno con la febbre a quaranta!» Asserì infuriato Connor, cosciente degli ostacoli che gli avrebbero impedito di far partire subito le ricerche. «Non può esserne sicuro, abbiamo le mani legate, devono trascorrere le ventiquattro ore non si transige, niente eccezioni.» L'uomo si voltò lasciando Connor basito, che però non si lasciò scoraggiare.

«Voglio parlare con il sergente Cameron Moore, ora!» Disse alzando la voce, in modo che tutti i presenti lo sentissero. L'agente stava per sbatterlo fuori, ma una voce si levò su tutte le altre. «Signor Jones, che succede, cosa posso fare per lei?» Il sergente Moore si diresse porgendo la mano a Connor, che la strinse vigorosamente. L'agente tornò alle sue scartoffie, con l'aria di chi non vede l'ora di mandare tutti al diavolo. ”Che quel rompiscatole scocci il sergente, anziché me”! Pensò irritato. «E' sparita la mia ragazza sergente, le assicuro che c'è solo una possibilità, l'hanno rapita, anche se secondo il suo agente non è trascorso il tempo necessario per la denuncia.» Indirizzò un'occhiataccia verso il poliziotto, che lo ricambiò con altrettanta cortesia. «Venga con me andiamo nel mio ufficio, con te parleremo dopo.» Sibilò il sergente al suo sottoposto. «Conosce le procedure, riconosco che il tatto, soprattutto in questi casi sia d'obbligo, ma rimane il fatto che le ricerche non possono partire, se prima non è trascorso quel lasso di tempo dalla scomparsa.» Giunse le mani sopra la scrivania, con un'espressione cupa in volto. «Sergente ci conosciamo da anni, lei è amico di mio padre, il nostro lavoro ci porta ad incontrarci spesso, non farei pressioni se non sapessi che Faith non fuggirebbe per qualche meta esotica, stiamo insieme da anni, è totalmente presa dal lavoro, è un periodo pieno di impegni, non lascerebbe in asso da un momento all'altro i suoi collaboratori.» Disse con veemenza Connor, puntando il suo sguardo dritto negli occhi del sergente. Moore parve voler controbattere, poi alzò il telefono e si fece are il suo superiore. La casa di Faith brulicava di gente, apparecchiature disseminate ovunque, erano arrivati anche i genitori, Marissa e Tom Long, agitatissimi e pronti a sborsare qualsiasi cifra se necessario. La telefonata cambiò completamente il corso della giornata.

«Cinquanta milioni di dollari.» La voce contraffatta comunicò una cifra esorbitante. «Avete settantadue ore di tempo per organizzarvi, consegna: al Great Center ore dodici in punto, se notiamo poliziotti, la ragazza muore, chiaro?» La comunicazione fu interrotta. Connor imprecò come uno scaricatore di porto e la madre di Faith scoppiò in un pianto dirotto. Dal punto in cui si trovava vedeva diffondersi un certo bagliore, le prime luci filtravano dalle fessure poste quasi al soffitto, dal poco che si intravedeva doveva trovarsi nello scantinato, non più in cucina come la mattina precedente. Era indolenzita per le percosse, ma abbastanza in forze, cercò di tirarsi su dalla branda su cui era stata “delicatamente” scaraventata. Ricordava perfettamente l'atterraggio brusco, che l'aveva lasciata senza fiato al momento dell'impatto. Stava valutando le opzioni. La casa era immersa nel silenzio, i rapitori, o dormivano, o erano fuori, quest'ultima ipotesi era decisamente la più auspicabile, perché le dava il tempo di tentare una fuga, ammesso e non concesso fosse riuscita a liberare mani e piedi, saldamente bloccati da un odioso nastro adesivo. Ascoltò per parecchi minuti, ma nessun rumore le arrivava dall'interno, né movimenti al piano di sopra, si spronò a muoversi, a tentare l'impossibile, tendendo bene le orecchie per captare l'arrivo dei suoi aguzzini. Si alzò in piedi, la stanza era spartana e in semplice cemento, disadorna, ma in fondo accatastati uno sull'altro alcuni scatoloni, non si fece illusioni di essere così fortunata da trovare un taglierino, ma valeva la pena darci un'occhiata, fermo restando fosse possibile, visto che era legata come un salame, l'unica consolazione, era che almeno quel tremendo panno, non le era stato infilato di nuovo in bocca. Arrivò saltellando alla meta, maledicendo a denti stretti quei due farabutti che l'avevano pestata a più non posso.

Con mani impacciate e aiutandosi con il mento, cominciò a rovesciare uno scatolone alla volta, alcuni non erano chiusi e il materiale al loro interno si sparpagliava sul pavimento, erano per lo più vecchi abiti, coperte e giochi per bambini. Sbuffò frustrata. Niente che potesse essere utilizzato per tagliare il nastro. In preda ad una furia cieca, prese a spingere freneticamente gli scatoloni, che non poteva aprire perché ben chiusi. Evitando di soffermarsi sull'indicibile dolore che le si diffuse in tutto il corpo, data la foga con cui si scagliava sugli imballi. Qualcosa attrasse la sua attenzione. Una bambola ben conservata, scivolò fuori dal contenitore reduce dal trattamento isterico. Aveva appuntato sul vestitino pieno di pizzi e fiocchi, una spilla piuttosto grande, lo sguardo di Faith riprese vita. Si catapultò sulla povera bambola e con vari tentativi riuscì ad aprire la spilla. Il più era fatto, grazie a questo inaspettato colpo di fortuna, dette inizio ad un assalto impetuoso al nastro adesivo, che per parecchi minuti resistette senza la minima scalfittura, poi si aprì un piccolo solco fra i polsi e di lì a poco cedette completamente. Faith emise un suono acuto in segno di vittoria e si liberò anche i piedi. Imboccò le scale due gradini alla volta. Perlustrò rapidamente la casa. Forse era meglio definirla una fortezza o un bunker. Finestre blindate con annesse inferriate. Allarme inserito su tutte le uscite.

Stizzita bofonchiò fra sé, «appena cerco di aprire porte e finestre, qui suona tutto, c'è da scommetterci la testa! E quei due bestioni correranno qui, prima ancora che giri l'angolo.» Avvilita sbirciò fuori, ormai era giorno, si vedeva la spiaggia e il mare, lì nel piazzale era parcheggiata solo la sua auto, quella dei due simpaticoni non c'era, se non altro poteva sfruttare un altro po' di tempo per inventarsi qualcosa e svignarsela, «più facile a dirsi che a farsi!» Pensò avvilita. Niente telefono. Niente computer. Impossibile chiamare aiuto. Doveva arrangiarsi da sola, come sempre del resto. Strinse i pugni e si lanciò alla scoperta delle risorse esistenti in quella casa. «Signori, dovrete are sul mio cadavere e vi assicuro che venderò cara la pelle!» Ringhiò il sergente Cameron Moore, spaventando a morte i genitori di Faith, che lo guardavano come fosse un alieno. «Ma noi dobbiamo pagare, sergente, la nostra bambina va tratta in salvo!» Piagnucolò Marissa Long, tenendo stretto un fazzoletto ormai intriso di lacrime. «Mia moglie ha ragione, questi malviventi è evidente che non scherzino, noi dobbiamo pagare, o per Faith sarà la fine.» Affermò deciso Tom Long, che ancora aveva i nervi saldi. «Col cavolo! Qui non paga nessuno, mi atterrò alle procedure più ferree, dispongo l'immediato blocco dei beni!» Urlò al limite della ragione il sergente Moore. «Voi non capite, se li assecondiamo vostra figlia è spacciata comunque, vogliono uno scambio in un luogo affollato, con noi della polizia fuori dai piedi, il che significa, campo libero a chissà quali altri brutti tiri, chi può sapere cosa hanno ancora in serbo? Ve lo potete scordare! Devono sapere che non cediamo al ricatto, nel frattempo l'investigazione procede, riusciremo a stanarli ve lo garantistico!» Rincarò la dose ancora più infervorato di prima.

«Se torcono un capello a Faith, giuro che sarò io a are sul suo cadavere, lo tenga a mente!» Sbraitò Tom Long, mandando alle ortiche il buon senso e i cari nervi saldi, ormai era decisamente in preda all'ira. «Calmiamoci okay? Ragioniamo con ponderatezza, cerchiamo di valutare la situazione e la strategia migliore da mettere in campo via via che evolvono gli eventi, stiamo a vedere gli sviluppi, non facciamoci prendere dal panico.» Cercò di far placare i bollenti spiriti Connor. «Qui se non si smuovono le acque io faccio un macello, altro che calmarmi!» Inveì Tom Long, con sguardo assassino. «Appena avrò qualcosa di concreto ve lo farò sapere!» Ruggì a denti stretti il sergente, lasciandoli di sasso e dirigendosi dai suoi agenti. «Se quel bellimbusto sputa sentenze, non fa l'impossibile per portare a casa Faith sana e salva, preparatevi a leggere sul giornale, che il sottoscritto ha ridotto in poltiglia un sergente di grande esperienza e di onorata carriera, giuro! Lo faccio secco con le mie mani, senza pensarci due volte!» Disse ferocemente Tom Long, puntando come un radar il suo obiettivo. «Di necessità virtù!» Esclamò soddisfatta Faith, che lavorava alacremente da circa un'ora, andando da un punto all'altro della casa, senza lasciare nulla al caso. Avvalendosi dei più comuni prodotti casalinghi, scovati nei vari pensili e armadietti, riuscì a miscelare molti articoli utili. Dall'aceto, al bicarbonato, all'alcool etilico, varie bottiglie di plastica tipiche delle bibite, alcuni fogli di alluminio, farina e qualche fiammifero, trovò persino dell'acido muriatico, insomma, tutto quello che poteva incendiarsi o esplodere, se combinato a dovere faceva al caso suo. «Quando si dice impara l'arte e mettila da parte, se esco viva da quest'inferno, mia madre dovrà ricredersi sull'utilità di una laurea in chimica!» Mentre lavorava senza sosta, fischiettava per il ritrovato ottimismo, se da una parte era alla deriva e in preda all'ansia per l'incertezza del futuro, che vedeva assolutamente nero, soprattutto per il fatto di non sapere chi aveva di fronte e perché fosse stata rapita, non era di sicuro così ricca da essere un bocconcino prelibato per chi faceva i soldi grazie ai rapimenti, da un' altra si sentiva piena di energia e pronta a dare del filo da torcere ai miserabili che la tenevano in

ostaggio, quale che fosse la vera motivazione. «Tu va' a controllare la serpe, nel frattempo io sistemo il materiale, così per l'incontro di domani al Great Center sarà tutto pronto.» Disse Dalton, andando nel salone con diversi pacchi. L'altro lo squadrò torvo, di malavoglia annuì e si avviò giù per le scale diretto allo scantinato. Un boato fece tremare i cristalli contenuti nella vetrina di quercia pregiata in corridoio. «Ma cosa?...» Dalton lasciò cadere i pacchi e si precipitò verso le scale. Trevor era a faccia in giù coperto di polvere, tutto rannicchiato, mugolava. Dalton lo girò, da una ferita alla testa colava del sangue. «Che ti è successo?» Chiese agitato, vedendo che l'altro faceva fatica persino ad aprire gli occhi, sembrava semi cosciente. Una vampata di forte calore gli arrivò alle spalle e in un attimo il fuoco lo travolse. Le grida terrificanti di Dalton echeggiarono in tutta la casa, mentre senza tanti complimenti lasciava cadere di botto Trevor e ripercorreva a ritroso la strada per tornare come un fulmine su nel salone, sembrava una torcia umana. Si gettò sul tappeto e prese a rotolare. Andava leggermente meglio, ma le fiamme ancora lo avvolgevano sulla metà superiore del corpo. Si alzò e corse nel bagno, lanciandosi sotto la doccia, il getto ghiacciato placò il dolore acuto, finalmente poté ricominciare a respirare regolarmente. Uscendo dalla stanza e dirigendosi verso la sala aveva gli occhi iniettati di sangue, non sapeva bene cosa stesse accadendo, ma una certa intuizione lo indusse a procedere con la massima cautela. Non servì. Fu centrato in pieno petto, perse l'equilibrio e andò a sbattere sull'angolo di una massiccia mensola, rovinando a gambe all'aria e tirandosi addosso un enorme

quantità di libri. Svenne. «Dalton, Dalton. Dove sei?» La voce incrinata di Trevor pareva arrivare dall'oltretomba, mentre si trascinava su per le scale, non sentendo pervenire alcuna risposta iniziò a sudare freddo. «Rispondimi, ti prego!» Continuava a implorare Trevor, lungo il tragitto, man mano che conquistava scalino per scalino, come fanno i bambini che muovono i loro primi i. Non appena scorse Dalton sommerso dai libri e inerte, urlò, bestemmiò e cercò di raggiungerlo. Invano. Un colpo accompagnato da un fischio aberrante lo colpì alla testa, non vide più niente. Un rumore secco e ovattato irruppe nella mente annebbiata. Un occhio si aprì, poi l'altro, l'immagine da principio era sfocata, pian piano riprese la consueta nitidezza, i volti si fissarono attoniti. Il grido mozzò l'aria. A pochi centimetri dal viso la scritta “ GSK 50 Bosh”. «Ehilà ragazzi, come andiamo?» Rise di gusto Faith, osservando i due impietriti e sconvolti davanti a sé. Dalton e Trevor balbettavano confusamente, con frasi senza senso e parole sconnesse. «Tranquilli, è tutto okay, ci penso io a voi, non affannatevi, tanto ne capireste poco o niente dei giochetti che vi ho riservato, però sono stati divertenti vero? Che dite ne devo architettare altri? O state qui buoni buoni?» Chiese sorniona e con stampato in faccia un sorriso beffardo.

I due scossero prontamente la testa, mentre Faith finiva di inchiodarli con la sparachiodi ad un pannello in legno contro la parete, sembravano pronti per il giro della morte sopra un otto volante, tanto erano terrei in viso. «Come hai fatto a liberarti?» Articolò con difficoltà Dalton, ancora incredulo di trovarsi ben legato e inchiodato per i vestiti insieme al suo socio, che sembrava più perso e allucinato di lui in quel momento. «Ingegno ragazzi, il caso ha voluto che in quelle scatole giù nello scantinato, ci fosse un oggetto che faceva al caso mio, una spilla presa in prestito ad una graziosa bambola Ed eccomi qua, avreste dovuto assicurarvi che non ci fossero oggetti appuntiti là sotto.» Ridacchiò soddisfatta Faith. «Avevi detto d'aver controllato!» Sbraitò fuori di sé Dalton. «C'erano solo cianfrusaglie, chi poteva far caso a una spilla su una stupida bambola!» Ringhiò di rimando Trevor. «Che razza di roba ci hai buttato addosso?» Chiese furibondo Dalton rivolto a Faith e lasciando perdere Trevor, consapevole che era tutto fiato sprecato. «Non capireste un accidente ve l'ho detto!» Affermò scocciata Faith, ma all'occhiata truce di Dalton riprese con aria esasperata. «Che diamine! Ho semplicemente dato libero sfogo alla fantasia, con qualche prodotto trovato in casa. L'illuminazione per inchiodarvi lì, però, mi è venuta come una folgorazione quando ho adocchiato la sparachiodi “GSK 50 Bosh”, che poi presumo sia la stessa che avete usato contro di me, quando mi avete gentilmente prelevata dalla spiaggia.» Osservò meditabonda Faith. «Potevi ammazzarci, brutta strega!» Sibilò Trevor come un cane rabbioso. «Che esagerazione! Dopo che mi avete trattata con tanto garbo, dovevo ricambiare no?» Sogghignò Faith. «Ti stai cacciando in un mare di guai bellezza, questo non piacerà a colletto bianco!» L'apostrofò spavaldo Dalton. Faith lo fissò per un istante.

«Tu dammi il telecomando, così disattivo l'allarme e tolgo il disturbo, ci penserà la polizia a discutere con voi e poi chi diavolo è colletto bianco?» Il clic interruppe lo scambio di battute. Il freddo provato alla schiena, fece scorrere un lungo brivido in tutto il corpo. «Fai un o indietro e voltati lentamente.» La voce piatta arrivò ferma alle sue spalle. Sgranò gli occhi per la sorpresa e un indicibile confusione si impossessò di lei. «Sorpresa! Per un altro po' non vai da nessuna parte mia cara.» L'ordine non lasciava spazio ad eventuali trattative. «Bryce perché?» Chiese in preda al panico, autentico e inconfondibile ora, con una pistola puntata al cuore e il suo più stretto collaboratore pronto a far fuoco. «Non è evidente? Per la tua tirannia, mancanza di rispetto, sadica arroganza e... mettici pure mera questione di soldi. Sgobbo da anni quanto e più di te, con uno stipendio ridicolo al tuo confronto, inoltre non ti sopporto personalmente, semplice e lineare no? Mi ritiro a vita privata con un bel gruzzolo, con soddisfazione ti ho fatto are le pene dell'inferno, a parte questi due idioti che per poco non fanno saltare tutto il piano, domani sparirò con il riscatto, offerto generosamente da paparino, direi che non fa una piega!» Rise sguaiato, tanto che stentò a riconoscere l'uomo metodico e misurato che aveva avuto a fianco per anni. «Bryce, so di non essere una piena di delicatezza sul lavoro, ma non siamo mai arrivati ai ferri corti, scambi scontrosi a volte, ma mai attacchi personali, sempre inerenti a errori o disattenzioni lavorative, per preservare il buon nome dell'azienda, non ti ho mai considerato niente di meno che un valido braccio destro, il mio ruolo di manager non ha mai messo in dubbio le tue capacità di art director, lo stipendio poi, sai che gli avanzamenti di carriera non dipendono da me, ma dall'amministratore delegato.» Disse determinata Faith. «Già, diamo la colpa agli altri, tiriamo in ballo l'interesse dell'azienda, celiamoci dietro un velo, no! Meglio guardare in faccia la realtà, tu sei un' indemoniata, calpesti la dignità degli altri, basta guardare quelle poverette delle tue segretarie, per avere il quadro della situazione, sono terrorizzate, credimi, loro non lo

ammetteranno mai, ma sto facendo un favore a tutti facendoti abbassare la cresta, infatti mi prendo di diritto la giusta ricompensa, un bel pacco di soldi.» Ribadì alterato Bryce. Faith abbassò lo sguardo e una lacrima solitaria scese su una guancia. Bryce rimase imibile, il suo sguardo era pieno d'odio e non prometteva niente di buono. Le porse un cellulare. «Chiama il tuo big Jim, devi solo fargli sapere che stai bene non una parola di più, quell'imbecille è riuscito a far attivare la polizia prima del tempo, Dio solo sa perché tiene a te e come riesce a sopportarti, per me è un mistero, non propinarmi la storiella delle vostre affinità, perché a parte l'aspetto da fotomodella, hai l'anima di un demone, su questo non ci piove.» Sentenziò acido Bryce. Faith afferrò il telefono rigirandolo nelle mani. «Ah! Non darti pena, è un telefono con carta prepagata, irrintracciabile.» La informò soddisfatto Bryce. Il cellulare squillò solo tre volte. «Pronto?» «Connor sono io.» «Oddio Faith! Dove sei?» «Non posso parlare a lungo, solo dirti che sto bene.» L'arma puntata al volto la fece trasalire, quasi le sfuggì il telefono di mano. «Faith, tranquilla ne verremo fuori, pensa che presto sarà tutto finito, pensa a me, riuscirò a trovarti!» Connor aveva la voce rotta, era in preda ad un dolore intenso che gli spaccava il petto, nel sentire il terrore nella voce di Faith. «E' proprio quello che ci vuole.» Singhiozzò Faith, in preda allo sconforto più

nero. Interruppe la chiamata. Connor rimase impietrito col telefono in mano, quasi a volerlo stritolare. Familiari e poliziotti lo circondarono e dettero il via ad un fuoco incrociato di domande. Lui sembrava in trans e fissava un punto lontano, quasi a cercare risposte sulla parete immacolata di fronte a sé. Poi alzò un braccio, in segno di stop, tutti lo guardarono sconcertati. «Che mi venga un colpo, lo slogan!» Ruggì. «Scusi?» Chiese il sergente Moore socchiudendo gli occhi e decidendo se non era il caso di far ricoverare il giovane, in sicuro stato confusionale, vista l'espressione del volto, era una via di mezzo, fra uno che ha appena vinto la lotteria e un reduce da un tamponamento mortale sull'autostrada. Connor si riscosse. «Dannazione, lo slogan, mi ha appena inviato un messaggio!» Gridò euforico. Erano gli altri ora a sembrare pronti per essere internati. «Per la miseria, Faith ha detto una frase che ci svela il rapitore.» Connor gesticolava e andava avanti e indietro. «Insomma signor Jones, che significa?» Chiese spazientito il sergente. Connor schioccò le dita. «E' lo slogan per pubblicizzare una bibita “è proprio quello che ci vuole” ne parlavamo a cena due giorni fa, ha detto che persino Bryce Martin l'aveva apprezzato molto ricordandolo. Lo ha infilato nel discorso per concludere la telefonata, non calzava troppo, ma lo ha detto lo stesso, perché sapeva che avrei capito. Seguite Bryce Martin, di sicuro ci porterà da Faith.» «Tenetela a bada fino a domani o vi cavo gli occhi con la spilla con cui si è

liberata.» Minacciò fuori dai gangheri Bryce, guardando i suoi scagnozzi e sfidando Faith a tentare qualche altro giochetto. Aveva rimesso in piedi Dalton e Trevor, liberandoli, erano un po' instabili dopo i colpi ricevuti, ma in grado di sorvegliare la prigioniera. «Ancora ventiquattr'ore e potremo andare tutti a sarcela, quindi datevi una regolata!» Ordinò secco Bryce. «Sì capo, non la perderemo più di vista.» Asserì contrito Dalton, appoggiandosi a Trevor che annuiva ad ogni parola. «Sarà utile. Ci vediamo qui domani mattina.» Mise in evidenza i denti, come a simulare un morso vampiresco Bryce. I due per istinto fecero un o indietro. Faith scosse lentamente la testa, sperava solo che Connor avesse colto l'indizio, o erano davvero cavoli amari. L'allarme fu disinserito. i regolari rimbombarono nell'atrio. «Oggi è il gran giorno! Siete pronti?» Uno sparo squarciò l'aria, un grido e poi i concitati irruppero il silenzio della casa. «Noi siamo pronti signor Martin e lei?» La domanda con voce baritonale partì dal sergente Moore, che afferrò strattonando Bryce, gli mise immediatamente le manette con fare rude. Intorno un gran vociare di agenti, grida e imprecazioni giungevano da ogni parte. «Come mi avete scoperto?» Chiese sbuffando Bryce. «Grazie a uno slogan, “è proprio quello che ci vuole” lo ha detto la signorina Faith quando ha concluso la telefonata con il signor Jones, è lui che ha capito il suo coinvolgimento nella faccenda, noi non abbiamo fatto altro che seguirla per

verificare. Infatti ci ha condotti qui, avevano parlato a cena di questo slogan, pare che lei lo avesse apprezzato molto.» Sghignazzò soddisfatto il sergente. «Brutto infame, ce l'avevo quasi fatta a mandare tutti al diavolo, soprattutto quella dannata donna!» Scoppiò pieno di veleno Bryce. Un pugno lo colpì alle costole. «Stà attento a come parli bastardo!» Gli intimò Connor, che aveva assistito alla scena, mentre stringeva fra le braccia Faith. Gli agenti avevano ammanettato Dalton e Trevor, che scalciavano e si professavano innocenti. Faith abbracciò i genitori, poi tornò nel rifugio sicuro delle braccia di Connor. Lui la baciò intensamente. Lei sospirò. «Sai me la sono fatta sotto, anche se inizialmente ho reagito alla grande.» Asserì. «Ci credo.» Rispose lui, massaggiandole la schiena con fare protettivo. «Sono a una svolta.» Dichiarò Faith. E prima che Connor partisse con la solita raffica di domande, lo anticipò. «Bryce è fuori di testa, non c'è dubbio, ha covato tanta rabbia che per smaltirla dovrà imbottirsi di valium, a proposito sei stato fantastico a capire il messaggio, “cifrato”, grazie allo slogan, ma su una cosa ha ragione, sul lavoro sono una iena, terrorizzo la gente, non voglio più essere quella persona, cambio registro.» Riprese fiato. «Semplice ho ricordato la nostra cena... ma...» Connor cercò di inserirsi inutilmente. «Lascio la K&K Sly. Non vale la pena sprecare la vita essendo nevrotici e al limite. Mi fermo qui, è troppo tempo che ho smarrito la mia vera identità, non dico di essere una santa, ma neanche quello in cui mi sono trasformata, ho capito

di avere un gran tesoro, te, non voglio rischiare di perderti, quindi all'inferno il lavoro.» Gli strizzò l'occhio. «Wow! Questo sì che è dare una svolta!» Esclamò euforico Connor. «Cosa pensi di fare? Magari la signora Jones a tempo pieno?» Chiese speranzoso. «Sarebbe grandioso! Ma non solo, che so? Potrei dedicarmi a corsi di auto difesa per donne, in questo frangente non me la sono cavata poi così male!» Fece una smorfia divertita. «Niente male davvero! Devo dire che hai fatto vedere i sorci verdi a quei derelitti e per i corsi puoi decidere in tutta calma, ora però, pensiamo “alla signora Jones”, mi piace da morire come suona!» L'afferrò per mano e corsero allacciati fuori dalla casa urlando come ragazzini, travolgendo tutto e tutti, mentre si lanciavano a perdifiato in una folle corsa sulla spiaggia, assolutamente liberi.

L'OSTAGGIO

«Fermo e non ti muovere!» Non vedeva niente, buio totale, grosse mani lo spintonavano malamente, poi un rumore sordo lo fece sussultare e un attimo dopo fu sbattuto su un piano duro in uno spazio angusto. «Un bagagliaio di un auto!» Pensò in preda al panico. Ad ogni sobbalzo sbatteva la testa, gli ronzavano le orecchie, quel tragitto pareva un salto ad ostacoli, non doveva essere durato più di dieci minuti, finalmente sentì lo stridore dei freni e quando il veicolo si fermò di botto, lo stomaco gli arrivò in gola, ma almeno quell'inferno era finito. «Scendi e non fare scherzi o te ne pentirai amaramente!» Gli inveì contro una voce baritonale. Appena in piedi fu strattonato e spronato a camminare rapidamente. Dopo alcuni minuti si ritrovò a sedere su una poltrona girevole, il cappuccio che gli copriva la faccia fu tolto, si guardò intorno smarrito e interdetto, non capiva perché si trovasse lì, con degli uomini armati fino ai denti e pronti a farlo fuori, o almeno questa era l'impressione che davano. L'ambiente era arredato con mobili lineari tipici di qualsiasi ufficio, se non per la gran quantità di computer disseminati per la stanza, l'illuminazione solo artificiale, niente grandi finestre, «strano per essere nel centro di Boston, ma forse siamo in un sotterraneo,» realizzò fra sé. «Mi spiegate razza di incompetenti, come è possibile che abbiate perso il segnale?» Urlò il tenente Bob Asher alla sua squadra. Era un uomo di mezza età, alto come un armadio e in quel momento lanciava fuoco e fiamme. «Gli abbiamo piazzato cimici ovunque, quel dannato hacker è a tanto così da

finire in gattabuia, con a carico una sfilza alta come un grattacielo di reati informatici e voi brutti idioti non sapete dov'è finito? Trovatelo ora!» Ruggì il tenente con quanto fiato aveva in gola. In cuor suo sapeva già che qualcosa non quadrava, se Victor Lane era sparito di punto in bianco nel nulla, non c'erano buone notizie all'orizzonte, quello era un hacker di tutto rispetto, persino laureato al MIT. Sulla piazza era molto richiesto, aveva violato un gran numero di enti governativi, riuscendo ad avere accesso a files segretissimi, infischiandosene dei sistemi più sofisticati di protezione, lui sapeva invaderli, sempre, lasciando poi qualche frase burlona a ricordo del suo aggio. Gli stava alle costole da un po' e appena lo avesse colto in flagrante, gli sarebbe saltato addosso con il suo bel paio di manette, forse qualcun altro stavolta voleva far are un brutto quarto d'ora a Vic, di sicuro qualcuno non particolarmente propenso a seguire la legge. «Dovevi collaborare quando ti è stato chiesto gentilmente e accettare il gruzzolo generosamente offerto dal signor Luis Quintino, invece di fare tante storie.» Affermò l'uomo alto di fronte a lui. «Ho già la polizia col fiato sul collo per cose molto meno gravi, figurarsi se mi metto in combutta con un boss della mafia, niente da fare, scordatevelo!» Vic pronunciò la frase con una certa spavalderia, al che il suo interlocutore sghignazzò rivolto ai suoi uomini. «Sentito? Questo secchione ha una discreta parlantina! Quasi mi dispiace averlo rapito, sarebbe stato più divertente trattarlo da pari, peccato, bé è ora di mettersi a lavoro, Cole, fallo sedere davanti al computer, cominciamo.» Ordinò Ryan, il braccio destro del boss Quintino. «Subito signore.» Rispose prontamente. «Ho detto che non farò niente per voi!» Sentenziò Vic. Ma fu afferrato bruscamente e scaraventato a pochi centimetri da un monitor. «Quello che vuoi e quello che ottieni sono due cose molto diverse pivello, adesso leggi bene questi dati e fa' esattamente come ti ordino.»

«Devi trasferire questa somma di denaro da questo conto a questo, alla Cayman International Bank di George Town-Gran Cayman, tutto chiaro?» Domandò sprezzante Ryan. L'atmosfera era carica di elettricità, sembrava che tutta la stanza fosse sul punto di esplodere e mentre Vic seguiva le istruzioni, con il tremito alle mani per la tensione, il telefono squillò. «Sì Luis, il pivello ha terminato il trasferimento.» Riferì conciso Ryan al ricevitore. «Okay Ryan, fallo fuori.» Diretto come un proiettile e con tono perentorio Luis Quintino istruì il suo secondo. «Sarà fatto!» Si udì uno sparo. Luis Quintino andava avanti e indietro come una tigre in gabbia, erano diverse ore che non parlava col suo secondo, avrebbe dovuto essere già lì, la cosa lo mandava in bestia. «Riprova un'altra volta Dan. Insisti ancora con quel maledetto cellulare!» Sbraitò sbuffando come un toro. «Ancora niente signore.» Lo informò Dan. «Dannazione! Dobbiamo andare sul posto.» Affermò con tono glaciale. «Signore, posso andare io, non è sicuro per lei trovarsi dove teniamo l'ostaggio, quel tenente Asher sta smuovendo mari e monti nel tentativo di ritrovare il suo hacker preferito.» Disse Dan con un sorriso beffardo stampato in faccia. «Non ci provare Dan, devo controllare i conti bancari, accertarmi che il trasferimento dei soldi sia stato effettuato correttamente, quei dati non li condivido con nessuno, quindi vado di persona, tenente nei paraggi o meno!» Strillò, ed era chiaro che non ammetteva repliche. «Mark, prendi l'auto e portami dall'ostaggio!» Ordinò secco.

Un odore forte e metallico investì le sue narici. La scena che gli si aprì davanti era cruenta e pazzesca, c'era sangue dappertutto e sulla parete alla sua destra una scritta fatta col sangue: “CHI E' ORA L'OSTAGGIO”? A terra in una posa scomposta vide Ryan completamente coperto di sangue, poco più in là, Cole e Ian. Un massacro, erano tutti morti. Con un imprecazione andò al computer, appena digitò i codici si accorse che i soldi non erano stati affatto trasferiti e peggio ancora erano spariti anche da tutti gli altri conti. «L'ostaggio, quel figlio di cane.» Mugugnò fra sé. In preda ad un raptus iniziò a spaccare mobili e sedie, urlando improperi come un pazzo. Si avventò sulle telecamere di sicurezza per controllare le registrazioni, così vide con i suoi occhi, con che ferocia Victor avesse trucidato i suoi uomini uno dopo l'altro e come rideva soddisfatto mentre saccheggiava i suoi conti bancari, digitando abilmente su più tastiere contemporaneamente. Era evidente dalle mosse ben assestate che Vic fosse esperto di arti marziali, le immagini mostrate dal video erano tremende, in pochi attimi aveva ucciso selvaggiamente Cole e Ian. Lasciando vivo Ryan solo il tempo necessario a gettare fumo negli occhi del capo, il temibile “Luis Quintino”. Il boss era terreo in volto e l'ira provata nel vedere quelle scene lo mandò letteralmente fuori dai gangheri, afferrò come un ossesso le registrazioni lanciando gli hard disk sulla parete, frantumandoli. Ormai era davvero prossimo al collasso. Peccato. Il boss Luis Quintino, un mafioso di prim'ordine a breve perderà la testa, grazie ad un colpo micidiale di Katana. Vic aveva svuotato il conto ad una Triade della mafia Giapponese, facendo

ricadere magistralmente la colpa sul Boss Luis Quintino. Nemmeno un uomo spietato e ben organizzato come lui riuscirà a salvarsi dall'esecuzione inflittagli dall'inarrestabile Triade. «Sul cellulare compaiono due chiamate di Luis Quintino, non c'è dubbio che si sia messo in contatto con Victor Lane, è la pista migliore che abbiamo, forse l'unica, rintracciate tutti gli edifici, gli scantinati, i club a nome di quel maledetto mafioso, o giuro su Dio che entro stasera vi avrò spianato le chiappe a suon di calci!» Sbraitò fuori di sé il tenente Asher. Un colpo di tosse attirò la sua attenzione, si voltò e vide un poliziotto muoversi a disagio e torcersi le mani. «Che c'è Ross?» Ringhiò Bob Asher ormai prossimo ad un' embolia, visto l'andamento dell'indagine e la piega presa da quella giornata infernale. «Tenente, forse abbiamo l'indirizzo di un edificio sospetto, non è a nome di Luis Quintino, ma da un computer all'interno sono partite alcune operazioni verso un conto bancario alle Cayman e dopo un'infinità di controlli incrociati, è venuto fuori il nome del boss.» Balbettò impacciato l'agente. «Era ora! Andiamo subito sul posto!» Urlò ai suoi uomini Bob Asher. La scritta sulla parete era agghiacciante, “CHI E' ORA L'OSTAGGIO?”. Rosso scarlatto. Sangue. Davanti a loro il caos, sangue ovunque, ma niente corpi, i mobili sfasciati e i neon col loro sfrigolio in sottofondo avevano un che di sinistro. La domanda terrificante “dov'é l'ostaggio”? Aleggiava nella stanza e nello sguardo di tutti gli agenti. «Ma che diavolo è successo qui?» Mormorò allibito Bob Asher, dando voce ad un pensiero unanime. In tanti anni di carriera mai si era imbattuto in un disastro come quello, tutta

quella faccenda era assurda e dura da digerire, si sentiva impotente ed era finito dritto in un vicolo cieco. Giornata fiacca, caffè freddo e nervi a fior di pelle. «Fantastico! Proprio fantastico!» Disse sarcastico il tenente. «Peggio di così si muore!» Rincarò la dose frustrato, dopo quasi tre settimane di indagini inconcludenti era arrabbiato e scoraggiato come mai prima, poi con un gesto di stizza liberò la scrivania dai dossier aperti e qualcosa catturò la sua attenzione. Una cartolina. Era sicuramente arrivata con la posta quella mattina, il tenente la fissò un momento, ritraeva palme e spiagge bianche come polvere di luna. “BAHIA EL SALVADOR – BRASILE”. Era scritto in caratteri fluorescenti, la girò e nel leggerla rimase di sasso. “AD UN VERO SEGUGIO, SALUTI, L'OSTAGGIO”. Bob Asher ricadde pesantemente con la fronte sulla scrivania.

IL BARO

«Oh! Cosa vedo, una stella cadente, ecco è mia, l'ho afferrata, ma che peccato in un soffio è volata via!» «Buonasera Stan, galante come al solito è? Non ti smentisci mai tu.» Alana rivolse un sorriso raggiante all'uomo seduto sui gradini all'entrata principale del locale, ormai quello scambio di battute era una vera e propria consuetudine per loro due, si salutavano così da un paio d'anni, Stan aveva il potere di risollevarle sempre il morale all'inizio di ogni turno serale, dire che era di umore nero appena varcava la soglia, era rendere poco l'idea dello stato d'animo in cui si trovava. Faceva la ballerina di lap dance da più di...Da troppo tempo ormai, era un modo per guadagnarsi da vivere, niente di più, non molto soddisfacente o edificante in realtà, solo un mezzo per restare a galla e Stan, un senzatetto, che campeggiava tutte le sere della settimana lì al locale, era un vero campione di aforismi, detti popolari e ogni sorta di frase carina da lanciare in direzione del gentil sesso. Si era a poco a poco guadagnato la simpatia di tutte le ballerine compresa la sua e con il suo acume e battuta pronta anche l'attenzione di tutti i dipendenti del locale, era molto famoso anche fra i clienti abituali, che gli lasciavano nel suo onnipresente barattolo di vetro laute mance, come le definiva lui, che al solo nominare la parola elemosine storceva il naso e faceva smorfie a non finire. «Sono sempre pronto a strappare un sorriso ad un'incantevole creatura, tu rientri a pieni voti nella categoria.» Le disse col suo solito fare affabile. «Sono lusingata per le belle parole, magari potessi rimanere qui per ore ad ascoltarti, fai più tu con due frasi, che una seduta dallo psicologo lunga una vita.» Dichiarò divertita Alana. Poi alzò gli occhi e li incollò sulla grande insegna affissa sull'immenso portone tutto vetri e acciaio splendente, la scritta a lettere cubitali le metteva una certa soggezione pur essendo luminosa e sgargiante. Candyfloss. Dentro c'era di tutto, fuorché dello zucchero filato, poco ma sicuro, sospirò rassegnata.

Lui corrugò la fronte, mentre osservava la ragazza incerta se entrare o rimandare ancora di qualche minuto l'inevitabile, cercò di andarle in aiuto con le sue solite chiacchiere, per alleggerire il carico dei guai che sembrava opprimerla. Un colpo di tosse le fece riportare lo sguardo su Stan. «A proposito, il fidanzato sarà dei nostri stasera?» Il viso le si illuminò e per Stan quello fu meglio del sorgere del sole. «Credo di sì, forse riuscirà a portare alcuni suoi amici e dopo andremo a mangiare qualcosa insieme da Moon.» Affermò raggiante. «Ottima idea, anche se, fossi in lui, ti porterei in un posto più raffinato, che so al Riz!» Pronunciò l'ultima parola come un vero Lord d'altri tempi. «Alla faccia! Niente di meno? Ma sappiamo bene tutti e due che sei un uomo dal palato fine e soprattutto ricco sfondato!» Rise di gusto Alana. Con Stan era sempre piacevole qualsiasi conversazione e su qualsiasi argomento. «Sono un uomo, beh, nessuno è perfetto.» Rincarò Stan con il suo umorismo contagioso. «Sei tremendo e incorreggibile, comunque con Blaze andrei anche in capo al mondo, non conta il posto, ma con chi sei e lui rende tutto straordinario.» Con aria trasognata mise una banconota nel barattolo e salutò con la mano Stan, poi si diresse all'ingresso. Stan scosse la testa, sperava in cuor suo che quella ragazza aprisse gli occhi al più presto. «E' una bella prigione il mondo.» Bisbigliò fra sé. Si rigirò, più volte fra le mani, il cartello che si teneva appoggiato davanti al torace, quello accattivante, che serviva a far piovere le offerte degli avventori del night club. La scritta era una sorta di auspicio, “la casa è dove si trova il cuore”. Lui sperava intensamente che lo fosse.

Fissò a lungo la figura slanciata che si inoltrava nell'atrio del Candyfloss, finché non scomparve alla vista, lasciandolo in preda ad una feroce agitazione, lì, in piedi davanti all'ingresso. «Dai che strazio, andiamo in un posto un po' più frizzante, sempre il solito pub sfigato!» Asserì irritato Blaze. «A parte che il X&X non è un pub sfigato, ci vanno tutti quelli del campus, poi scusa non è abbastanza frizzante per te? Birra da sballo, musica a tutto volume e ragazze a go go!» Si difese Ace. «E sentiamo, cos'hai da proporre di così esplosivo?» Blaze assunse la sua aria da ribelle incallito e con calma studiata guardò uno ad uno i tre amici. «Il Candyfloss. Primo perché è grandioso, secondo ha tutto quello che uno studente stressato di Cambridge può desiderare nella City, terzo è nel posto più ambito, nel cuore del West End, quarto le ragazze sono a go go e bellissime, caro Ace, non come le tue decantate del pub, definirle ragazze è più che altro un eufemismo e quinto, Beh, ammetto che questo è più il mio campo che il vostro, ha il più fantasmagorico salone per il gioco d'azzardo di Londra, il che lo rende il mio posto preferito, insomma il numero uno.» Gli altri tre si guardarono incerti, poi Ace e Dave annuirono, Cal invece non era per niente convinto. «Primo, tanto per stare al o con te Blaze, un giorno ti butteranno in gattabuia per il vizio di giocare d'azzardo e il gusto di fare i tuoi magheggi, secondo, se mio padre mi becca in un night del genere, mi taglia i viveri per l'eternità, terzo, difficilmente al pub ci metteremmo nei guai, invece nei posti in cui ci trascini tu, finisce sempre in un gran caos.» Blaze storse la bocca, non troppo sorpreso dalle affermazioni di Cal, che era indubbiamente un osso duro, in fatto di buttarsi in divertimento sfrenato, del gruppo era di sicuro il più piantato coi piedi per terra, infatti lo riteneva un guastafeste e a volte di una noia mortale. Tentò un altro approccio, per farlo definitivamente capitolare.

«Tuo padre non verrà mai a saperlo, non è una vera e propria trasgressione, diciamo più una semplice uscita fuori porta, magari piccantina, poi scusa non vuoi darmi l'opportunità di incontrare la mia dolce metà?» Ammiccò speranzoso per una resa totale e incondizionata. L'altro lo guardò torvo. «Ora definire una ballerina di lap dance la tua dolce metà, mi sembra un po' troppo, oltretutto quella poveretta spera che tu la trascini via da quel posto da mesi, mentre tu prendi tempo con scuse campate in aria, non proprio un comportamento da gentleman e ripeto e sottoscrivo, se mio padre viene a saperlo sono spacciato, addio laurea in medicina, è capace di spedirmi su un mercantile nel Pacifico.» Ace e Dave li guardavano come a un torneo di tennis, aspettando il verdetto, l'espressione ansiosa di chi non sa quale sarà l'esito finale. Impaziente di uscire Blaze rincarò la dose, esprimendo il concetto con voce calma ma ferma. «Non è vero che prendo tempo, Alana sa perfettamente che devo laurearmi, non le ho promesso niente, è un dolce diversivo tutto qui, figurarsi poi, la sua vita è un disastro, il padre ha abbandonato lei e la madre quando aveva solo tre anni, lasciandole in uno stato di totale indigenza. C'è di più, per tenerla sulle spine, quel fenomeno, le ha mandato un mucchio di lettere per anni e alla fine di ognuna le scriveva una frasetta vuota e sdolcinata, “vola solo chi osa farlo, mia dolce Pepita” e così evadeva in un colpo solo i suoi doveri paterni. Per potersi mantenere madre e figlia si sono dovute arrangiare, adesso se vuole prendere uno straccio di diploma deve lavorare al Candyfloss tutte le sere, io ovviamente non ho alcuna intenzione di interpretare il ruolo del principe azzurro, che salva la fanciulla indifesa con la scintillante armatura! Nemmeno per sogno!» Rise maligno. «Che vero signore.» Dichiarò furente Cal, non poteva reggere le sbruffonate e l'altezzosità di Blaze, che ultimamente si stavano ingigantendo a dismisura. «Calma ragazzi.» Si intromise Ace prevedendo aria di tempesta. «Dai su, almeno stasera rilassiamoci, non azzanniamoci per cose che non ci

riguardano.» Lanciò uno sguardo carico di significati verso Cal, il quale si voltò con stizza. «Blaze, non hai promesso mari e monti? Allora vuoi portarci nel regno del peccato?» Chiese fremente Dave.

«Okay, sbrighiamoci e per la cronaca, non c'è alcun pericolo che mi metta nei guai con il gioco d'azzardo, io sono il re e nessuno può competere con il re.» Assunse un'aria regale e fulminò con lo sguardo Cal, che senza scomporsi lo mandò a quel paese e contro voglia seguì gli altri, con la strana sensazione, che avrebbe fatto meglio a filarsela. Ma forse, era per il fatto di essere furibondo pensò. Il locale era davvero magnifico, con specchi altissimi e luci soffuse ovunque, il palco poi, era strepitoso, pedana nera e pareti rosso scarlatto, le cromature in acciaio risaltavano come lame in tutta la sala, i tavoli distribuiti a ventaglio nell'ampia platea, erano in cristallo e la luce che si rifletteva era abbagliante. Le ballerine arano già in azione, tanto che i tre rimasero a bocca aperta come in una scena da cartone animato, Blaze che era un frequentatore abituale del night e conosceva alla perfezione la scaletta degli spettacoli, sogghignava nel vedere gli amici già ridotti in quello stato, erano bastati solo pochi minuti davanti alle ballerine ed erano già andati. «Ehi! A fine serata dovranno mettervi le maschere con l'ossigeno!» Li schernì. Si voltarono a guardarlo come se avesse due teste, tanto erano inebetiti e ammaliati da tutto il ben di Dio che gli si parava davanti. «Okay ho capito, appena riuscirete a riacquistare la ragione e il possesso della parola fatemelo sapere, io intanto salto questo ballo, l'ho già visto parecchie volte, mi dirigo nel mio regno, faccio qualche poker, raggranello qualche sterlina e torno a cambiarvi la flebo, va bene? Nel frattempo non stramazzate al suolo, ricordate inspirate e espirate, lentamente e con calma.» Strizzò l'occhio al loro indirizzo e divertito si voltò in direzione dell'area riservata ai tavoli da gioco. Ace si riscosse.

«Blaze e noi dove ti aspettiamo qui in piedi?» «No, poveri orfanelli, sedetevi a un tavolo e ordinate da bere, ma mi raccomando non succhi di frutta, non si intonano al locale, meglio cocktail da tipi tosti, che ve ne pare di Gin sling? Oppure Daiquiri? Almeno non ci buttano fuori a tempo di record dopo solo dieci minuti di presenza qui!» Uscì ridendo a gran voce. «Vorrei sapere perché continuiamo a uscire con quel gradasso?» Brontolò Cal. «Perché è divertente, poi guarda questo posto è iper!» Esclamò esultante Dave. «Già ha ragione, poi resterà al tavolo da gioco per ore, così noi potremo goderci lo spettacolo in santa pace.» Disse Ace. Cal sorrise e si concentrò sulle ragazze, che a onor del vero erano favolose, una di loro li salutò, era Alana, l'avevano incontrata qualche volta insieme a Blaze. Era davvero bellissima, si ritrovò a pensare che se fosse stata sua, non solo l'avrebbe portata via da quel posto e dallo sguardo lascivo di tutti quei bifolchi seduti ai tavoli, ma l'avrebbe messa su un piedistallo per il resto della vita, oltre a una gran bella donna, era una ragazza intelligente e dolcissima, due caratteristiche incredibilmente elettrizzanti in una donna. «Salve Dom.» Salutò allegro Blaze mentre entrava impettito nella sala da gioco, sembrava che il locale gli appartenesse di diritto, era sempre stato sicuro di sé, nel gioco poi si sentiva imbattibile, andava fiero delle sue astute mosse e di qualche giochetto che di tanto in tanto gli permetteva di accaparrarsi il piatto, lasciando gli altri giocatori con un pugno di mosche in mano sul più bello. Fin da bambino era affascinato dai giochi di prestigio, era abbastanza bravo e piuttosto furbo da applicarli con perizia al momento opportuno quando giocava a poker, per ora nessuno se ne era mai lamentato o forse accorto e lui si sentiva invincibile, nonostante in qualche occasione alcuni giocatori avessero sollevato dubbi sulla sua vincita alquanto imprevista. Si mise seduto ad un tavolo d'angolo e salutò gli altri giocatori, le carte vennero distribuite, il gioco ebbe inizio. Per un'ora tutto filò liscio, Blaze aveva vinto solo una mano, mentre gli altri stavano dandosi battaglia, vincendo a rotazione e infervorandosi ad ogni mano sempre di più.

Da un certo punto in poi, le cose cominciarono a prendere una piega diversa. Blaze cominciò a sbaragliare gli altri tre, vincendo una mano dopo l'altra. Un tonfo risuonò nella sala. Tutto attorno cadde il silenzio. Si sentì strattonare a forza e si ritrovò in piedi, davanti a Dom Cox, uno dei buttafuori del locale, alto almeno due metri e con una cicatrice che gli attraversava la faccia dalla tempia al mento sul lato sinistro, dall'espressione, era evidente che stavano per fioccare un mare di guai. «Saluti tutti, signor Clark e mi segua in ufficio, prego.» Intimò minaccioso con voce baritonale Dom. Blaze si divincolò e si liberò dalla presa. «Perché? Non vede che sto giocando?» Chiese al limite della pazienza. «Il signor Rolf Patel vuole vederla subito, mi segua.» Disse la frase in un tono che non ammetteva repliche, ma Blaze non voleva mollare, che diamine stava vincendo alla grande e quelli volevano separarlo dal suo malloppo, «col cavolo.» Sbraitò, «andate all'inferno.» Gridò. Fece per sedersi nuovamente, ma Dom lo prese per le spalle, Blaze si girò di scatto e sferrò un calcio all'inguine di Dom che parve a mala pena accorgersene, in un secondo cominciarono a volare sedie, i tavoli vennero rovesciati, urla e imprecazioni investirono la sala come un tornado, una scazzottata in piena regola ebbe inizio, erano tutti contro tutti. Rolf Patel, il proprietario, uscì dal suo ufficio con lo sguardo di fuoco, ordinò ai buttafuori di muoversi subito, non voleva certo che il suo night diventasse in pochi minuti il teatro di un massacro o il ring di un incontro di pugilato. Men che meno attirare l'attenzione della polizia, che nonostante i suoi agganci ai piani alti, gli teneva incessantemente il fiato sul collo. Già gli affari negli ultimi tempi, avevano subito un forte calo, colpa della crisi economica, ci mancava solo che lo fero chiudere e poi era a posto.

Il Candyfloss dietro la sua facciata di locale alla moda, grazie al sontuoso ristorante, agli spettacoli sexy di lap dance e il gioco d'azzardo regolare, era e doveva rimanere, soprattutto una bisca clandestina, dove si spacciava droga e all'occorrenza per intrattenere e compiacere i clienti più assidui, si combinavano alcuni incontri “particolari” con le ragazze, insomma per dirla in breve, ci si occupava anche di sfruttamento della prostituzione. Era proprio dalle attività illecite che arrivavano enormi guadagni. Quindi era imperativo far cessare all'istante quella zuffa da saloon western. Rolf Patel aveva le mani sui fianchi come un dittatore, mentre i suoi sbattevano come tappeti gli incauti rissosi. Appena ripreso il controllo, al comando di Patel, i suoi uomini iniziarono a far uscire i clienti, tranne Blaze. «Scusi prego?» Chiese perplesso Ace. «Mi spiace, avrete un buono sconto per un altro ingresso, ma stasera il locale chiude prima, abbiamo avuto un problema tecnico.» Il buttafuori alto e nerboruto con la scritta sul badge “Hank”, sembrava decisamente irritato, aveva fretta di farli sloggiare, era evidente e chiaro come il sole. Rassegnati si alzarono, poi Dave si voltò verso l'uomo. «Ehi, dov'è Blaze? Era nella sala da gioco non lo vediamo da un pezzo.» Chiese accigliato. Hank era decisamente infastidito, infatti mandava lampi dagli occhi, se quei tre non si decidevano a levarsi dai piedi tempo due secondi, li avrebbe trascinati di peso e sbattuti in mezzo alla strada. «Il vostro amico è uscito con Alana, se non vi ha avvertito vorrà dire che aveva altri programmi.» Digrignò i denti, al che i tre si dileguarono senza altre proteste. «Certo bel modo di fare.» Si lamentò Cal mentre saliva in macchina.

«Un buttafuori non fa un corso di dialettica.» Ridacchiò Ace. «Non mi riferivo a quello scimmione, ma al caro Blaze, poteva almeno farci un fischio.» Ribatté stizzito Cal. «Sì, figurati sarà già a folleggiare con la sua bella, che per una sera è uscita prima da lavoro.» Disse ammiccante Dave. «Ma, sarà, per me rimane un gran cafone!» Borbottò Cal. Dal locale si riversò in strada parecchia gente e per uscire dal parcheggio ci vollero parecchi minuti, ma alla fine la Toyota blu elettrico si inserì sgommando sulla via principale. «Non ho fatto niente di male!» Urlò Blaze. «Io direi di sì, signor Clark, la teniamo d'occhio da diversi mesi, può aver fregato i clienti ma non me, sa come mi chiamano nell'ambiente? Lo squalo, ci sarà un perché no?» Rise seccamente Rolf Patel, mentre esaminava da capo a piedi Blaze, che cominciava a tremare sotto l'esame di quell'uomo letale e inespressivo davanti a sé. «Vi prego ho solo racimolato qualche sterlina extra.» Balbettò in preda al panico. «Solo stasera più di millecinquecento, devo farle un resoconto dettagliato degli ultimi mesi?» Chiese mellifluo Patel. E prima che Blaze si lanciasse in spiegazioni rocambolesche e al limite del buon gusto, Patel riprese con tono secco. «Lei usa una tecnica molto precisa che può sfuggire a un uomo non esperto, ma si da il caso che io lo sia, lei li frega senza ritegno con l'impalmaggio, roba da circo, che può andar bene fra gli illusionisti, ed è bravo, glielo concedo, ma nel mio locale non è ammissibile, soprattutto in modo continuo e senza freni. Se mai i trucchi li faccio io, non li concedo a qualche cliente bizzarro e incurante del pericolo, cosa credeva che gliela avrei fatta are liscia? Per chi mi ha preso?» Diede un pugno sul tavolo che rimbombò per tutta la sala, Blaze sussultò. «Il gioco lo conduco io e non ammetto interferenze! Chiaro?» Ringhiò fuori di sé Patel.

«Portatelo via.» Ordinò ai suoi uomini Rolf Patel. Blaze cercò di avere l'ultima parola, ma fu strattonato all'uscita laterale del locale e sbattuto a terra nel vicolo. Hank lo teneva fermo mentre Dom si avvicinava minaccioso, estraendo un coltello a serramanico dalla giacca. «Ragazzi calma, non farò più niente, anzi non tornerò più qui, per favore ragioniamo.» Con lo sguardo da rettile Dom lo fissava inesorabile. «Hai tirato troppo la corda campione, il boss non concede seconde occasioni, dovevi essere un po' più discreto amico mio, spiacente fai buon viaggio! Se può consolarti a ruota ti spediremo la tua fidanzatina Alana, lo faremo sembrare un omicidio-suicidio, così non ci saranno indagini a nostro carico, che te ne pare geniale no?» La risata gutturale di Dom echeggiò sinistra e inquietante nel vicolo e Blaze capì senza margine di errore di essere maledettamente spacciato, inutile invocare tutti i santi del Paradiso, probabilmente col suo atteggiamento da bastardo, anche loro avevano deciso niente seconde occasioni, in fondo a se stesso sapeva di essersi ficcato volontariamente nella fossa dei leoni e per la miseria stavolta l'avrebbe pagata cara, non poteva fare più niente. L'aria si fermò immobile. Il tempo si arrestò alla fioca luce di una Luna intransigente e spietata, col suo bagliore illuminava la scena agghiacciante che si svolgeva al suo cospetto. Blaze sentì appena la lama fredda affondare nella trachea, il sangue iniziò la sua lunga corsa verso l'asfalto, come un fiume in piena e l'ossigeno lo seguì a ruota in un rantolo straziante. Il corpo cadde riverso a terra con gli ultimi spasmi che lo scuotevano ritmicamente. «Spostiamolo laggiù, poi vai a prendere Barbie così finiamo il lavoro e ce ne andiamo.» Disse Dom rivolto a Hank, che stava pulendo il manico del coltello, facendolo stringere nella mano destra di Blaze.

L'eco di uno sparo gli fece fare un balzo in avanti e mentre si voltava vide Hank cadere come un sacco in un lago di sangue, cercò di estrarre dalla fondina sul fianco la pistola, ma un altro boato squarciò l'aria e un dolore atroce gli immobilizzò il braccio, era appena stato colpito al polso, che ora era irrimediabilmente maciullato Il sangue fuoriusciva a fiotti e Dom cacciò un urlo così acuto che in altre circostanze lo avrebbero certamente scritturato al Teatro dell'Opera. «Tu!» Sibilò Dom in preda ad una furia cieca, cercò di scagliarsi in avanti, ma un'altra detonazione lo colpì alla gamba, si accasciò a terra contorcendosi e bestemmiando a denti stretti in più lingue. «Già, come si dice? Il Diavolo fa le pentole ma non i coperchi!» La voce calma e piatta resa roca dal momento cruciale. «Siamo alla resa dei conti, non è vero?» «Ti abbiamo permesso di bivaccare qua intorno per anni, gran figlio di cane e tu ci ripaghi così? Miserabile che non sei altro! Stan il pezzente, vedrai appena arriverà qui il signor Patel cosa ti farà! Diventerai all'istante cibo per cani!» Sbottò verde di rabbia Dom. «La vedo un po' difficile è...Come dire...Fuori combattimento, sta in bagno appeso alla doccia, non credo potrà partecipare al nostro meeting.» Alzò gli occhi al cielo in segno di riflessione. «Ah! Anche gli altri tuoi scagnozzi dubito potranno raggiungerci a breve, sono un tantino inciampati, ops! Gli si è rotto un pochino l'osso del collo.» Ridacchiò divertito dall'espressione omicida di Dom, che mugolava e imprecava in contemporanea. «Troverò il modo di fartela pagare brutto viscido di un ingrato!» Continuava imperterrito a inveire Dom. «Non credo tu possa definirmi ingrato, ho lasciato per troppo tempo che le cose si svolgessero così nel vicolo, i vostri cosiddetti regolamenti di conti. Oh, bada bene, non l'ho fatto per quel meschino insignificante che avete fatto secco poco fa, tutt'altro, era un baro e un farabutto, ha usato mia figlia divertendosi con i

suoi sentimenti e ingannandola, quindi, per quanto mi riguarda ben gli sta. No, è proprio quando ho sentito che volevate ammazzare anche lei che non ce l'ho fatta più e sono dovuto per forza intervenire, non permetterò mai a nessuno di farle del male! Da che ho saputo che lavorava qui, ho sempre vegliato su di lei, visto quali criminali erano i suoi titolari. Era il minimo che potessi fare, se non altro, per rimediare almeno in parte al male che le ho fatto lasciandola quando era solo una bambina.!» Aveva la voce rotta dall'emozione e dal rammarico. L'altro sgranò gli occhi. «Vuoi farmi credere che sei il padre di Alana? Tu?» Rise beffardo. «Ma per piacere!» Sghignazzò ancora più sarcastico. S'interruppe di botto. «In persona!» Sibilò Stan con quanto fiato aveva in gola. Il colpo arrivò in piena fronte, freddandolo all'istante, Don Cox, rimase ad occhi aperti, vitrei per la sorpresa e in una posa scomposta sotto i lampioni di fianco al Candyfloss. Stan rimise la pistola in tasca, si voltò e prese la figlia tra le braccia, percorrendo a tutta velocità il vicolo fino in fondo e adagiandola a terra con delicatezza. Quei farabutti l'avevano colpita, facendola svenire per portarla nel vicolo e inscenare la bella rappresentazione teatrale da dare in pasto alla polizia. Tornò sui suoi i, entrò nel locale, cosparse col liquido infiammabile i vari settori, poi si ricordò un dettaglio importante, salì le scale, in fondo al corridoio spalancò la porta afferrò il pacco e si fiondò di nuovo verso la porta che dava sul vicolo. Trascinò all'interno i corpi dei tre delinquenti stesi, poi prese un fiammifero e con tutta calma lo sfregò sui suoi jeans scuciti, appena lo poggiò alla moquette l'incendio divampò impetuoso. Stan sbatté con forza la porta e si allontanò rapidamente dal rogo, sorridendo soddisfatto. Il tocco di classe era stato prendere un bel pacco di soldi, dall'ufficio di quel criminale di Rolf Patel. Un forte cerchio alla testa e un ronzio alle orecchie così insistente, che per mettersi seduta, dovette tentare più volte. Alana era stordita, ma finalmente sveglia, si guardò intorno, era distante dal

locale che era avvolto dalle fiamme, in lontananza il suono stridulo e incessante delle sirene, le ci volle qualche attimo per mettere bene a fuoco e realizzare cosa stesse succedendo, la scena davanti a lei assolutamente raccapricciante. Almeno era salva, grazie a Dio. Aveva avvertito un gran dolore alla testa e poi il buio, qualcuno l'aveva colpita brutalmente da dietro, ora era lì fuori confusa e spaventata a morte. Non ricordava granché dell'accaduto, solo la salda presa di due mani forti, nel momento in cui i buttafuori stavano facendo uscire tutti i clienti dal locale. Poggiato in grembo un cartello. Lo prese aggrottando la fronte e guardandolo bene riconobbe la calligrafia. Era di Stan. La frase inconfondibile. “La casa è dove si trova il cuore”. Lo girò e la frase stavolta la lasciò senza fiato. “Vola solo chi osa farlo mia dolce Pepita”. Solo suo padre le scriveva questa frase con il simpatico nomignolo “Pepita”; in tutte le sue lettere, fin da quando era piccola. La consapevolezza la trafisse come una lama. «Oh! Mio Dio!» Urlò e spostandosi urtò qualcosa, era una pacco, lo aprì e dentro c'erano tanti, tantissimi soldi. Strizzò gli occhi incredula. «Oh! Papà, caro dolcissimo Papà.» Scoppiò in un pianto dirotto. Ripensando a quanti momenti negli ultimi due anni lo aveva avuto a fianco. Stan, suo padre. Quante frasi ora le tornavano in mente. Dette con semplicità e naturalezza, le avevano davvero alleviato il peso della vita, con quella genuina ironia, tanto da farle vedere di nuovo il mondo pieno di

luce e colore. Purtroppo, senza mai rendersi conto, di chi fosse veramente quell'uomo gentile e così speciale da essersi conquistato il cuore di tutti. Alana si alzò e lentamente sgusciò via da quel vicolo e da quella vita, ora il futuro poteva abbracciarla e proiettarla verso un viaggio pieno di nuove e magnifiche sorprese. Stan era riuscito a saldare il suo debito, salvando la figlia da un destino crudele. Non ce l'aveva fatta a ripagare l'amore mancato, ma era riuscito a renderla finalmente una donna libera. Nel vederla da lontano, sorrise commosso e pensò che la vita a volte sa essere davvero meravigliosa.

L'ALBA SOSPESA

«Calma!» «No! Piano!» Inutile tentare di fermare una vera forza della natura. Keith scosse la testa, aumentò il o e rassegnato seguì il suo più caro amico. Book, il cane più incredibile del mondo. Un pastore tedesco di cinque anni, con tanta energia in corpo da far rabbrividire anche il più tenace dei fedeli amici a quattro zampe, un portento di iniziative inesauribile. Quella mattina, pareva seriamente intenzionato a far sgranchire le gambe del suo padrone, con una scarpinata degna della maratona di New York. Era quasi l'alba, la spiaggia ancora deserta, il lento dondolio delle onde che s'infrangevano sulla battigia, scandendo il tempo col loro suono ritmato, metteva le ali allo spirito. Come sempre, era il momento magico della giornata, il sincrono perfetto che orchestra la pace interiore col senso di libertà. Il cielo, magnifico, si stava tingendo di rosso screziato e accarezzava lentamente la distesa cristallina di un mare così cangiante, da togliere il fiato. Keith sospirò e cercò di raggiungere lo scatenato Book, che ormai stava correndo sulla lingua di sabbia a velocità impressionante. Mentre macinava la distanza che lo divideva dal suo irrequieto amico, Keith aggrottò la fronte, davanti a sé vide profilarsi la figura di un uomo che proveniva dall'estremità opposta della baia. Qualcosa di familiare nella sua andatura gli mise tutti i sensi in allerta. Si fermò e lasciò che Book continuasse da solo la folle corsa. Il cane era davvero elettrizzato nell'avanzare, come se sapesse perfettamente chi fosse l'individuo di fronte. Keith era sicuro che Book avesse ben chiara l'identità dell'uomo, non era mai stato un cane molto confidenziale in prima battuta, per avere un tale slancio, era evidente un'alchimia preesistente.

Sentì distintamente Book abbaiare festoso e l'uomo che lo investiva con complimenti e risa assordanti. Per un attimo il sangue parve defluire al contrario. Keith era sul punto di fare dietrofront e fuggire. Poi l'uomo alzò lo sguardo e mentre si avvicinava con Book a fianco, puntò i suoi occhi in quelli di Keith. In un attimo, una scarica di corrente elettrica parve attraversarli. Il tempo sembrò fermarsi, come risucchiato da un vortice. I due si fronteggiarono. Keith con aria smarrita. L'uomo con aria di speranza. «Buongiorno signor Sanders.» L'uomo sorrise, la sua voce era calda e rassicurante. Keith strinse gli occhi, quasi a voler scacciare l'immagine, come un sogno improvviso che ci coglie impreparati dall'impatto che avrà sulla nostra vita. «Come mi ha trovato?» Chiese in tono duro. «Non facilmente.» Nella semplicità di quell'affermazione, tutta la caparbietà di chi non molla l'obiettivo. «Senta signor Sanders non sono una minaccia per lei, vorrei che questo fosse chiaro.» La sincerità dell'espressione fece rilassare un po' Keith, cosa non facile per uno come lui, sempre in guardia e pronto ad ogni evenienza. «Perché è qui signor Still?» Il tono sempre aspro rendeva quello scambio surreale e teso. In un lampo rivide con la mente tutti gli avvenimenti di un anno e mezzo prima. Miami. Pamela Still trovata senza vita sulla spiaggia di Ocean Drive. La polizia che voleva archiviare il caso per overdose. George e Laura Still, genitori distrutti per la perdita di una figlia giovane e promettente, solo diciotto anni e una vita da vivere. E poi lui. L'assassino. Un essere aberrante che riusciva a arla liscia con tutta la tranquillità del mondo. Jared Colte, un tatuatore che tentava di stuprare giovani donne e che, raggiungendo o meno lo scopo, immancabilmente alla fine le uccideva, senza pietà. Keith che lo aveva avuto faccia a faccia, realizzando l'impotenza di assicurarlo alla giustizia, senza alcun rimorso, con l'aiuto del fedele Book, lo aveva spedito al creatore, inabissando il corpo nelle acque implacabili dell'oceano Atlantico. Ora, davanti a George Still, era in preda ad una ridda di emozioni. Dopo aver eliminato Colte, Keith era sparito lasciando agli Still un ultimo biglietto e allontanandosi definitivamente dalla Florida e dagli Stati Uniti. Ora viveva in Messico a

Veracruz, un porto e un luogo che lo tenevano protetto dal suo ato, dove si sentiva al sicuro. Soddisfatto di potersi godere la meritata pensione; dopo gli anni bui trascorsi come detective al 21° distretto di polizia di New York, lontano miglia e miglia, da quella Miami che, lo aveva visto coinvolto in una faccenda così cruenta. Tutt'oggi il ricordo gli metteva i brividi, si era trasferito così distante, per evitare anche il più piccolo aggancio che lo collegasse alla dipartita di Jared Colte. Gli piaceva la sua nuova vita, era finalmente sereno, ma l'arrivo imprevisto di George Still, non portava niente di buono, di questo Keith era maledettamente sicuro. «Nessuno ha fatto domande dopo la scomparsa di Jared Colte, se è questo che la turba.» Affermò George, intuendo i suoi pensieri. «Nessuno si è scomposto nel vedere il suo negozio chiuso per settimane, il proprietario del fondo si è limitato a sbattere in una discarica la quantità esorbitante di cianfrusaglie che Colte aveva come merce, adducendo che, lo sballato Jared Colte, forse, aveva seguito qualche strampalato fanatico sulla West Coast.» Gli strizzò l'occhio, al che Keith sorrise. «Niente vieta che prima o poi qualcuno faccia due più due, un parente che salta fuori... Un amico.» Keith si zittì all'espressione torva di George. «Ho fatto parecchie ricerche su quel tipo, dopotutto ha distrutto la mia vita, quella di mia moglie... A proposito Laura la saluta con affetto,» Keith gli diede una pacca sulla spalla, «ricambi i saluti, è una donna in gamba sua moglie.» Si guadagnò un gran sorriso, era grazie a Laura se teneva ancora insieme i pezzi della sua vita. «Tornando a Colte,» riprese George, «dopo aver perso Pamela, sono crollato in uno stato catatonico, un abisso tanto profondo, dal quale, nonostante sapessi che quel verme fosse stato cancellato dalla faccia della terra, non riuscivo a risalire. E' stata Laura a farmi rinsavire. Sono andato in pensione, ho lasciato l'azienda farmaceutica per cui lavoravo e ho indagato con perizia su Jared Colte. Volevo scavare a fondo, ogni aspetto di quel miserabile, ogni dettaglio sul suo conto, quasi un ossessione che bruciava le mie viscere. Le farà piacere sapere che non ha parenti in vita e che gli unici amici, sono gli scarafaggi che ospitava nel suo negozio, come vede nessuno verrà a chiederle notizie di quell'infame.» Rise soddisfatto.

Si squadrarono per un momento, sotto lo sguardo acuto di Book, che non perdeva una sillaba, seduto ai piedi del suo padrone, come un giudice di gara, intento ad assegnare i punti alle rispettive formazioni. Poi Keith si decise a formulare nuovamente la spinosa domanda. «Perché è qui signor Still?» Lo fissava intensamente, quasi volesse sondarne l'anima. «George.» Un bisbiglio. «Come?» Chiese keith incerto. «Non signor Still, solo George e diamoci del tu, lei ha onorato Pamela più di chiunque altro, rendendole giustizia e fermando un maniaco efferato.» All'assenso dell'altro proseguì. «Sono qui perché tu puoi fare la differenza, hai intuito e caparbietà, due componenti esplosive se catalizzate contro i criminali.» Osservò con attenzione Keith, che a dire la verità era spiazzato e incapace di collocare la frase in un contesto. «Che intendi dire?» Keith aveva l'aria sospettosa. George fece un respiro profondo e prese a muovere la sabbia in cerchio con i piedi, l'espressione assente, in un viaggio lontano, insidioso. A Keith parve un monito tutto quel silenzio improvvisamente calato fra loro. «Devi tornare.» Esordì neutro. Keith scosse la testa con un colpo secco, per un attimo pensò di essere sul punto di staccarsela, dato il brusco e repentino movimento. George alzò le mani. «Sono venuto fin qui per riportarti indietro.» Affermò perentorio. «Non se ne parla!» Esplose Keith. «Ho una casa, nuovi amici...» Lo voce un tantino incrinata.

Sotto lo sguardo scettico di George, mosse una mano fugacemente per minimizzare. «Okay, qualche conoscente, però sto benissimo, il mare è splendido, il clima è fantastico e Book adora i Colibrì!» La tirata era stata un po' forzata, ma credibile, si convinse soddisfatto di sé. «I Colibrì?» George inarcò le sopracciglia e sorrise sarcasticamente, Book drizzò le orecchie per avvalorare l'affermazione del suo padrone. «Già, è un vero asso nel correre dietro ai variopinti pennuti.» Ribatté controvoglia Keith, vedendo trattenere a stento le lacrime a George. «Senti, niente mi farà cambiare idea, porta i miei più cari saluti a Laura e grazie per la visita, ma...» S'interruppe bruscamente, perché George mise una mano in tasca ed estrasse una pagina di giornale piegata accuratamente. Un quotidiano, il Washington Post. La data era quella del giorno prima, “ 2 Aprile”, con al centro la foto in bianco e nero di una bambina, sorridente e raggiante. Il nome scritto a caratteri cubitali: Cassandra Turner – dodici anni. Scomparsa dalla città di Macon, capoluogo della contea di Bibb, nel cuore della Georgia. Lesse brevemente le prime righe dell'articolo, dove venivano elencati i luoghi frequentati dalla piccola, la scuola e alcuni vicini di casa. Niente ipotesi o illazioni, solo un susseguirsi di generalità personali e abitudini della famiglia. Veniva evidenziata la ione della piccola per gli animali, ne era una prova inconfutabile, l'immagine del suo cane in fondo al trafiletto, un maltese bianchissimo, agghindato con un fiocco rosa sgargiante al posto del collare. Guardò imibile George e girò sui tacchi, senza emettere un suono. Sentì distrattamente il fruscio del foglio che veniva piegato, ma non si voltò. Era deciso ad allontanarsi, qualsiasi fosse l'intento del suo interlocutore, lui era fermamente convinto a restarne fuori. Si bloccò solo quando si accorse di non avere Book al suo fianco.

Quando sbirciò sopra la spalla, vide il suo fedele amico, in piedi accanto a George, che scodinzolava insolente, senza accennare a seguirlo. «Infimo come una serpe! E traditore anche!» Borbottò Keith. Book mugolò senza scomporsi, rimanendo dov'era. «Pare che Book la pensi come me.» Dichiarò soddisfatto George, un alleato potentissimo stava sposando la sua causa. «Ripeto, non intendo saperne niente, qualsiasi cosa sia successa, la polizia farà luce e troverà la piccola. Andiamo Book, saluta il nostro amico!» L'ordine era severo e irremovibile. Book abbassò il muso e si sedette di nuovo. Keith era furioso. «Book ha ragione, se non seguirai tu la vicenda, per Cassandra sarà la fine; andiamo Keith, sai meglio di me come opera la polizia e anche se questo fosse il classico caso d'eccezione, sai che le prime ventiquattrore sono determinanti, dopo potrebbe essere troppo tardi, pensa a Pamela.» Enfatizzò le ultime sillabe, per dare maggior peso alle parole. Keith alzò il mento in segno di sfida. «Se penso a Pamela, so già che è troppo tardi, il suo assassino l'ha uccisa dopo solo qualche ora dal rapimento, ricordi? Se Cassandra ha a che fare con uno psicopatico, il rischio è lo stesso.» Sbraitò fuori di sé. «E' per questo che dobbiamo sbrigarci.» Vedendolo combattuto, George rincarò la dose. «E' la figlia di un caro amico, abbiamo lavorato per la stessa azienda per anni, siamo andati in campeggio con le famiglie, non voglio vedergli subire il mio stesso destino, forse siamo ancora in tempo, non puoi lasciarmi solo a fronteggiare questi fantasmi, ti prego.» Keith muoveva un muscolo della mascella a ritmo serrato e aveva del sudore freddo sulla fronte, mentre un sole abbagliante stava salendo impetuoso,

conquistando minuto per minuto una porzione sempre più ampia di cielo. Alcuni gabbiani volteggiavano maestosi nell'intenso azzurro, lanciando striduli richiami e riportando Keith miseramente coi piedi per terra. «Non sono un giustiziere, il Rambo della situazione, che risponde alla chiamata di turno, non posso ripulire il mondo da tutto il letame che lo ricopre!» Ringhiò senza freni. «Nessuno te lo chiede, ma non puoi negare di essere molto abile, non dico di agguantare un altro sociopatico e stecchirlo, dico di andare laggiù e dare una mano nelle ricerche, poi che ci pensi un giudice a friggerlo sulla sedia elettrica, o farlo secco con l'iniezione letale.» George allargò le braccia, mostrando il mondo intorno a sé, chiara ed evidente l'ammirazione per quel paradiso, lontano anni luce, dal dramma vissuto in quelle ore dalla famiglia Turner. «Sai quante bambine sono scomparse nell'ultimo anno in Georgia, tutte più o meno dell'età di Cassy?» Vedendolo esitare, George proseguì. «Tre. Brittany Wood, tredici anni, scomparsa fra Columbus e Albany - Jordyn Bell, undici anni, a Savannah – Caroline Smith, quattordici anni, ad Augusta. Sparite nel nulla. La polizia e l'FBI brancolano ancora nel buio, nessun o avanti.» Keith chiuse gli occhi e imprecò a mezza voce. «Ogni anno George, scompaiono molte persone, non sono un mago, non posso far ricomparire la gente per miracolo o con un semplice schiocco delle dita! Ho detto basta al NYDP proprio per questo, dopo venticinque anni d'ininterrotta carriera, a soli quarantacinque anni. Troppo dolore, troppa rabbia, troppa impotenza, alla fine questo mestiere ti inghiotte e sputa per terra un pezzo alla volta la tua anima, non posso più vivere certe situazioni, credimi, i professionisti di Macon, faranno bene il loro lavoro e se Dio vorrà, Cassy come la chiami tu, tornerà a casa.» Accarezzò la testa di Book e lo esortò a riprendere il o. «Melanie, la sorella di Cassy è l'ultima ad averla vista a scuola, poco prima dell'uscita, ora non si da pace, è rimasta indietro per aver dimenticato un quaderno, si sente responsabile, è convinta che se fosse stata presente, nessuno avrebbe avvicinato Cassy.» George si asciugò una lacrima che solcava solitaria il suo volto. «Dieci anni, devi vederla è un tornado.» Aggiunse emozionato.

Book abbaiò forte. Keith lasciò cadere le braccia lungo i fianchi. Due contro uno. Era troppo. Una battaglia persa in partenza e lo sapeva. «Dannazione, andiamo! Ma se un piedipiatti, o chicchessia, ci rispedisce fuori dai piedi, noi togliamo il disturbo senza replicare, intesi?» George riprese grinta ed entusiasmo. «Non ho alcuna autorità per seguire le indagini, tienilo bene a mente George Still!» Ruggì esasperato oltre ogni dire. «Sì, capo. Quasi dimenticavo, Laura ti ha fatto dei biscotti al cioccolato.» Lo informò pimpante, al suo sguardo interrogativo, aggiunse ironico: «nel caso non avessi ceduto a me, saresti capitolato davanti a lei.» Keith incredulo scoppiò a ridere, seguito a ruota da George, che mostrava le chiavi dell'auto come un trofeo. «Come sarebbe a dire, nessuno a visto niente? Cos'è? Improvvisamente sono tutti sordi e ciechi in questa città?» Sbottò furioso lo sceriffo Jacob Harris. Era un uomo corpulento, sulla sessantina, con la pancia talmente gonfia da ricordare un'anguria matura. Aveva capelli e baffi bianchi e portava il cappello sempre leggermente spostato di lato, gli conferiva un'aria bonaria, assolutamente inesatta, quando tuonava gli ordini, le mura del suo ufficio tremavano come sotto l'assedio di un uragano. Aveva impiegato ogni uomo disponibile nelle ricerche della piccola Cassandra Turner, un migliaio di volontari stavano perlustrando campi e vecchi stabili dalla notte precedente. E lui non si capacitava su dove potesse essere finita la ragazzina; a Macon certi fatti non accadevano, punto e basta. Non sotto la sua giurisdizione. L'agente che gli si parava davanti era nervoso e in preda al panico. David Martin, era alto e allampanato, sembrava in procinto di svenire e balbettava. «Per la miseria Martin, sei sicuro di aver interrogato tutti?» Inveì lo sceriffo, sul

punto di stendere il sottoposto con un gancio destro degno di un ventenne. «Sì, sceriffo. Chiunque nella zona, a partire dai vicini. Per scrupolo sono stato anche in parrocchia, dal parroco.» Azzardò un sorrisetto, ma all'occhiata al vetriolo dello sceriffo, piegò la bocca nel solito ghigno imbronciato. «Sì, per l'estrema unzione, la tua!» L'apostrofò sgarbato lo sceriffo. «Va bene continua a chiedere, qualcuno deve pur aver notato qualcosa d'insolito, torna alla scuola insieme a Justin, fra un paio d'ore facciamo il punto della situazione.» Mentre l'agente Martin si dileguava, lo sceriffo Harris, si ò una mano sulla fronte, era sconcertato, se non riuscivano a seguire una qualsiasi traccia, sarebbero intervenuti presto i federali e lì sì, che si poteva dichiarare vittoria. Uno dopo l'altro i suoi agenti rientrarono senza alcun indizio. La bambina svanita nel nulla. Jacob Harris, iniziò a temere il peggio. Più ava il tempo e più il rischio di una tremenda tragedia si profilava all'orizzonte. Inoltre l'ipotesi più nera si verificò nel giro di un ora. Una squadra di agenti dell'FBI si materializzò, con a capo un bullo di proporzioni bibliche. Samuel Hall era un gradasso palestrato sui trentacinque anni, abbronzato e più incline alle maniere forti, che alla strategia. Il gruppo per lui aveva senso solo a calcetto. Individualista e spocchioso, partì a razzo, trattando tutto lo staff dello sceriffo, come un manipolo di incompetenti adatti solo a dirigere il traffico. In pochi minuti s'impossessò dell'ufficio e ordinò ai suoi agenti di usufruire delle scrivanie disponibili. Senza attendere risposta, iniziò a impartire ordini a destra e a manca, spodestando senza alcuna pietà sceriffo e agenti in un colpo solo. Lo sceriffo avrebbe volentieri spaccato il muso a quell'arrogante, ma l'FBI era quel che era, con rassegnazione, esortò i suoi a far spazio ai nuovi titolari dell'inchiesta e si diresse nell'unica stanza disponibile. La sala d'attesa. Seguito dagli agenti che, borbottavano improperi all'indirizzo degli usurpatori.

Lo sceriffo intimò ai suoi di mantenere la calma, soprattutto nell'interesse delle indagini. Con estrema lentezza si diresse al distributore di bevande e selezionò il caffè più amaro della sua vita. Era ben consapevole che altra caffeina sarebbe stata come buttare benzina sul fuoco per il suo già compromesso sistema nervoso, ma ignorò gli effetti collaterali e anzi si diede da fare per rifornire di una tazza fumante tutti i suoi agenti. Intanto l'FBI era in piena frenesia, agenti speciali che digitavamo sulle tastiere dei computer con una destrezza da far invidia ai giocatori di playstation più incalliti. I telefoni squillavano di continuo e il brusio in sottofondo era interminabile. Jacob Harris si lasciò cadere su una delle poltroncine e guardò affranto i suoi colleghi, che lo ricambiarono con un'espressione facciale ancora più tetra. «Non si sarebbe mai allontanata da sola, non Cassy.» A parlare era stata l'agente Sierra Long, madre di due adolescenti e al servizio della legge da vent'anni, una donna energica e risoluta, che non aveva remore nell'affermare le proprie idee. «Conosco lei e la famiglia, c'è di mezzo qualche bastardo pervertito, ci scommetterei i gioielli di mio marito!» Ringhiò sicura. Tutti intorno a lei parvero della stessa opinione, gli assensi seguiti da imprecazioni da stadio non si fecero attendere. «Buoni ragazzi, o ci toccherà un'altra parata dal simpaticone laggiù!» Lo sceriffo indicò Samuel Hall, intento a sfoggiare il suo ghigno migliore, sembrava su un palcoscenico davanti ad una folla in delirio. Abbassarono immediatamente il tono, nessuno voleva un altro incontro ravvicinato col bellimbusto. «Comunque concordo, purtroppo Cassy è stata rapita da qualche farabutto, ma se master mind, non si dà una mossa, ho paura dell'epilogo, non che a noi per ora sia riuscito seguire una pista degna di questo nome, ma almeno eravamo là fuori ad ascoltare la gente, non capisco da qui cosa può ottenere.» Osservava perplesso il fermento che regnava sovrano nell'FBI, ma nessuno lasciava la stazione di polizia. «Una promozione!» Esordì acida l'agente Haley Foster, ormai aveva capito che, al governo procedevano con standard del tutto diversi dai loro. «Probabile.» Concordò lo sceriffo. «In questo caso sono guai seri.»

Erano talmente presi da quei lugubri pensieri, che non notarono i due che entrarono come proiettili nella sala. «Buongiorno, potrei parlare con lo sceriffo?» La voce tonante riscosse l'intera squadra. Si trovarono davanti un tizio alto più di un metro e novanta, atletico e con due occhi di ghiaccio da trafiggere un drago. I capelli scarmigliati di un indefinibile castano dorato e un sorriso letale. Le agenti donne rimasero stregate da tanta avvenenza, ma lo sconosciuto neanche se ne accorse. Gli uomini deglutirono, sembrava uno pericoloso e determinato a far fuori chi lo avesse osteggiato. L'altro era un uomo più anziano, più basso, ma ancora prestante, i capelli corvini facevano risaltare gli occhi verde mare dall'espressione decisamente più rassicurante, rispetto al suo accompagnatore. «Sono io.» Avanzò di un o Jacob Harris e tese la mano. «Salve, mi chiamo keith Sanders.» Rispose il nuovo arrivato e strinse con vigore la mano dello sceriffo, poi estrasse il suo tesserino identificativo. Si instaurò subito un certo cameratismo, una volta appurato il trascorso lavorativo di Keith e assolti i convenevoli di rito, allo sceriffo non parve vero avere un pluridecorato a tenere testa all'insopportabile squadra speciale dell'FBI e al suo detestabile capo. «Il mio caro amico qui George Still, conosce bene la famiglia, vorremmo poterci unire alle ricerche, senza interferire con voi s'intende!» Dichiarò conciliante Keith, tastando il terreno e sondando fin dove ci si poteva spingere. «Col cavolo, lei interferirà eccome! Viene da New York, motivo sufficiente per farla interferire, questa è una piccola città, si perde a memoria d'uomo un caso come questo, la grande mela invece propone un campionario aberrante di situazioni simili! E poi...» Accennò con la testa agli agenti speciali e digrignò i denti. «Quelli non stanno facendo un fico secco per trovare Cassy!» Borbottò una bestemmia che tutti fecero finta di non sentire. «E' l'FBI, non posso andare lì e aggiungermi all'organico!» Bisbigliò Kaith, divertito nel vedere lo sceriffo sul punto di esplodere. Poteva capire bene la frustrazione di avere fra i piedi i federali, tutti schemi e profili psicologici, in una piccola città le forze dell'ordine erano abituate ad agire senza tante strategie da strizzacervelli.

«Oh! Sì, che può! Stia a vedere.» Lo afferrò per il gomito e lo trascinò davanti a Samuel Hall, che lo squadrò con aria di sufficienza, Keith lo ricambiò col sorriso più beffardo che riuscì a sfoggiare, irritando a morte il suo nuovo interlocutore. «Le presento il consulente che rappresenta la contea!» Jacob Harris mise in mostra tutta la sua dentatura splendente. «Chi?» Apostrofò Samuel Hall interdetto. Lo sceriffo si schiarì la voce, soddisfatto di aver spiazzato il damerino. «La contea di Bibb, ha presente? La nostra. Abbiamo un consulente esterno che ci rappresenta nelle indagini e noi saremo a sua completa disposizione. L'FBI gli lascerà seguire ogni o è la legge!» Lo sceriffo tuonò le ultime parole soddisfatto di aver giocato il jolly. Nemmeno sapeva di avere un jolly fino a cinque minuti prima, la cosa lo rese audace e spavaldo, per la prima volta in due giorni terribilmente angoscianti, si sentì ottimista. «Neanche per sogno! Fuori dai piedi!» Sbraitò Samuel Hall e fece per voltare le spalle. «Ho paura abbia ragione lo sceriffo.» La voce graffiante come ferro di Keith, fece sussultare anche l'impiegato più lontano dal diverbio. «Secondo l'emendamento 465 B articolo 37, se la contea nomina un consulente, chiunque diriga un'indagine deve far operare l'incaricato, ma se non è d'accordo, può chiamare il Presidente degli Stati Uniti, oppure l'intero Congresso. Sappia che le confermeranno tutto!» Allargò le labbra in un sorriso smagliante. Samuel Hall era sul punto di inveire contro la costituzione, il capo dello stato, governatori a seguito e qualunque istituzione dei cinque continenti. Trattenne il fiato per un tempo infinito, tanto che gli altri lo fissavano come fosse un alieno. Poi stizzito e con il sudore che gli imperlava la fronte, borbottò qualcosa d'incomprensibile rivolto ai suoi. A Keith invece lanciò uno sguardo di fuoco. «Se mi sta fra i piedi oltre il dovuto, la sbatto dentro per intralcio alle indagini, sono stato chiaro?» Le ciglia aggrottate lo rendevano goffo come una caricatura di qualche vignettista satirico.

«Cristallino!» Lo schernì senza pudore Keith e lo vide andare al telefono rigido come un palo della luce. «Sceriffo dica la verità, mi vuol far fare secco da quel bulletto è?» Ammiccò Keith, lo sceriffo rise e fece spallucce. «Qualche volta bisogna giocare sporco.» Ghignò entusiasta. «Putrido direi.» Keith scoppiò a ridere seguito dallo sceriffo e dai suoi. Nell'arco di dieci minuti Keith aveva il quadro completo della situazione, i rapporti degli agenti di polizia e in mano un nulla di fatto. Una dodicenne ormai scomparsa da quarantottore nel nulla e poco altro. Non perse la calma. Esaminò ogni dettaglio, più e più volte. Rilesse tutto daccapo. Fu distratto dagli agenti speciali dell'FBI, che con fragore e un'inspiegabile concitazione stavano parlando a raffica. «Una setta religiosa a cinquanta minuti da qui, ci scommetto l'osso del collo se non c'entrano con il rapimento, quei figli di puttana; chissà quali atti, in onore di riti e spregevoli sacrifici, sono disposti a compiere!» Ruggì Isaac Perez avvelenato ai colleghi, mostrando un foglio A4 fresco di stampa. «”Il centro della Terra”, gli adepti si riuniscono il Mercoledì. La ragazzina è sparita Lunedì.» Ragionò Samuel Hall, andando avanti e indietro con i dati della congrega in mano. «Bé, staranno per compiere il rito sacrificale stasera. E' Mercoledì!» Osservò l'agente Scott, inserendosi nelle ipotesi. «Va bene andiamo a dare un'occhiata, Adams tu con me, Perez e Scott sull'altra auto.» Sbrigativo Hall afferrò la giacca e sparì oltre la porta, con a seguito i suoi mastini. Keith non si era intromesso, ma aveva forti dubbi che la pista fosse concreta. Rilesse il foglio, quella setta sembrava più un circolo ricreativo che altro, a partire dal nome, alle attività svolte. Il giovedì era previsto il bingo e il sabato fiera di beneficenza. «Questi non fanno riti satanici, piuttosto pizzette e pasticcini, al massimo ci danno dentro con dolcetto o scherzetto per Halloween!» Chiarì Keith, deluso

dalla dubbia efficienza degli agenti speciali. «Non hanno vacillato un attimo, sono partiti a razzo, sicuri d'aver già risolto il caso!» Convenne lo sceriffo. «Keith lei ha visto giusto, conosciamo bene gli iscritti della pseudo setta, definirla tale in effetti è un bell'azzardo, un gruppo di casalinghe annoiate che, per dare un senso eccentrico alla routine, una decina di anni fa, ha costituito nei locali adiacenti la biblioteca, il famigerato ritrovo. Parlano di ricamo e riviste di moda. La cosa più scabrosa da loro ideata, è stata posare in bikini per il calendario del 2010. Un vero strazio per gli occhi. Hanno tutte più di cinquant'anni!» Immediatamente tutti si piegarono in due dalle risate. A fatica ripresero il controllo. «Bene lasciamo all'FBI le gentili massaie, cominciamo a fare sul serio. Qui c'è un emittente televisiva locale? Carta stampata o altro?» Chiese rapido Keith. Non ebbe bisogno di risposte, Jacob Harris gli indicò il cortile. Campeggiava proprio al centro un furgone, con scritte fluorescenti e un cameraman con reporter a seguito, che stava sistemando l'attrezzatura per le riprese. Keith annuì e si diresse fuori. «Salve!» Esordì. «Salve!» Rispose una sinuosa reporter col rossetto più infuocato che avesse mai visto. «Emma Diaz e lei bel fusto sarebbe...» Sfoggiò un sorriso perfetto e strinse la mano con decisione. Keith abbozzò un sorriso. Non c'era dubbio, Lì a Macon le donne erano decisamente intraprendenti. «Keith Sanders, ex detective di New York e attuale consulente della contea di Bibb. Vorrei scambiare quattro chiacchiere con lei.» Fece cenno al cameraman di non riprendere con la telecamera, l'uomo con un'alzata di spalle si spostò sul retro del furgone. «Solo quattro chiacchiere? Speravo in un interesse più personale, ma vedrò di

accontentarla almeno in questo.» Gli strizzò l'occhio, Keith ricambiò il gesto stando al gioco. Era una donna simpatica e valeva la pena metterla a proprio agio. Se le abitudini del posto erano quelle, per lui andava più che bene. «Può parlarmi di Cassandra Turner.» Le chiese diretto. «Non c'è molto da dire, penso che chiunque le abbia già detto tutto. Una ragazzina tranquilla, amante degli animali, vivace e una studentessa modello. Niente nemici, niente invidie o gelosie, almeno apparenti. Famiglia unita, genitori religiosi. Frequentano la chiesa Batista di St. John. E' scomparsa all'uscita da scuola. Volatilizzata. Cosa purtroppo analoga ad altri tre casi sparsi in Georgia. Tutti accaduti nell'ultimo anno.» Marcò bene le parole, perché non ci fossero dubbi sull'illazione che i fatti avessero una matrice comune. «Mi faccia indovinare: Brittany Wood, Jordyn Bell, Caroline Smith.» Erano i nomi dell'articolo che George gli aveva portato in Messico, li aveva letti così tante volte, da riuscire quasi a vedere l'immagine nitida di quei volti. «Ottimo detective! Ma devo informarla meglio.» Fece una pausa e sospirò. «Un'altra ragazzina, è scomparsa due anni e mezzo fa, fuori Columbus, Isabelle Jones, dodici anni.» «Il primo caso e il più remoto fra questi.» Strinse gli occhi. Keith le fu grato di quella manifestazione di sensibilità. Niente a paragone del voltastomaco e rabbia omicida che avevano pervaso immediatamente le sue viscere. Cominciava a sospettare che il tanto temuto giustiziere albergasse in lui. Cercò di scacciare quei pensieri. «Le sarei grato di informarmi subito, qualora le venisse in mente qualcosa di utile, anche il più insignificante dettaglio, è una corsa contro il tempo, ci serve tutto l'aiuto possibile.» Ammise impacciato. «Senz'altro terrò occhi e orecchie aperti.» La donna fece un cenno di saluto e tornò a prepararsi per la diretta dell'ora di pranzo. Dentro la stazione di polizia, lo sceriffo e i suoi erano intenti a scrutare cartine geografiche e archivi della motorizzazione. «George, andiamo dai Turner, poi facciamo un giro dalle amiche di Cassy. Sceriffo, con gli agenti tornate dai vicini, negozianti e alla chiesa Batista di St. John. Torchiate senza pietà, il tempo stringe.

Con i compiti assegnati il gruppo si divise come le acque per Mosé. Non c'era tempo da perdere ogni minuto poteva essere decisivo, con l'FBI impegnata in una caccia al tesoro fuori città, bisognava mettere in campo tutte le energie possibili. Priorità assoluta trovare una pista degna di questo nome e soprattutto vera. George scese per primo dall'auto, Ian Turner gli corse incontro e lo abbracciò di slancio, scosso da un pianto dirotto. Keith entrò nel suo campo visivo, rimanendo in silenzio. George si sciolse dall'abbraccio e fece le presentazioni, pochi istanti dopo Angela Turner li raggiunse, era in uno stato anche peggiore del marito, sembrava in trans e lontana anni luce dalla realtà. L'unica che mostrava segni di lucidità era la piccola Melanie, la figlia più piccola. Pur manifestando paura e trepidazione, riuscì a riassumere la giornata della scomparsa di Cassy, con estrema precisione, elencando un'infinità di dettagli e soffermandosi sulle persone incontrate con la sorella prima e durante la permanenza a scuola. Keith scrisse ogni sillaba su un taccuino, aveva l'impressione che potesse tornare utile rileggere più volte il racconto, era sicuro che fra quei dettagli qualcosa l'avrebbe condotto verso la meta. E così fu. Due nomi. Apparentemente scivolati per caso nel discorso di Melanie, catturarono la sua attenzione. Mya Nelson e Jade Ward. Amiche inseparabili di Cassy e onnipresenti nelle giornate a scuola, in chiesa, alle feste cittadine e così via. Lo sceriffo Jacob Harris aveva già parlato con le ragazzine, parecchie volte in due giorni, senza ricavarne granché. Motivo sufficiente per far muovere Keith in quella direzione. Impossibile non avessero notato nulla. Paura. L'unico movente a far tenere la bocca chiusa a due giovani ragazze.

«Melanie sei stata di grande aiuto, vedrai che troveremo Cassy!» Affermò deciso Keith. «Grazie a me?» Chiese incredula la piccola. «Grazie a te, certo!» Confermò Keith sorridendole, la piccola per la prima volta durante tutta la conversazione, distese le labbra nel più bel sorriso che Keith avesse mai visto. Sconvolgente come l'alba più abbagliante del mondo. E dire che lui era un vero esperto! George rassicurò i Turner che, avrebbero rivoltato il pianeta pur di riportare a casa Cassy e seguì Keith nella sua nuova tappa. Problema ostico entrare in sintonia con due dodicenni e scovare qualche informazione utile. Mya e Jade abitavano nell'arco di un isolato dalla casa dei Turner, George parlava con i genitori delle bambine mentre Keith conquistava un o alla volta la loro simpatia. Partì da lontano. Aneddoti della sua adolescenza. Rocambolesche avventure di uno scavezzacollo impenitente. Per are all'incontro con Book, preso per disperazione dalla cucciolata di una vicina impicciona e pedante di New York, che non mollò la preda, finché Keith cedette all'adozione del cucciolo di pastore tedesco. Un incontro burrascoso, ma del quale era assolutamente grato al cielo, Book era tutto il suo mondo e per il suo fedele amico, era esattamente la stessa cosa. Le due parti di un intero. Un'intesa perfetta e indissolubile. Le bambine erano rapite dai suoi racconti e stregate nel guardare Book che, ai piedi del padrone, sembrava concordare in pieno su tutta la linea. Non finivano più di accarezzarlo e l'animale gongolava compiaciuto da tante attenzioni. Book adorava i bambini. In questo stato di assoluto relax, Keith si spinse sull'argomento che più gli stava a cuore. Cassandra Turner, per tutti Cassy. Dopo parecchia reticenza, Mya Nelson svuotò il sacco. «La scorsa settimana Cassy ci ha mostrato una cosa.» Rimase con la frase in sospeso. Keith dall'acuto detective qual era non interferì, attese. Mya lanciò un'occhiata a Jade che annuì lentamente. «Un minivan bianco, di quelli usati da imbianchini o idraulici. Era appostato vicino alla scuola, sia all'entrata che all'uscita, è stato così per quasi tutta la settimana, ad eccezione di Venerdì, quel giorno non l'abbiamo mai visto e

abbiamo tirato un sospiro di sollievo, pensavamo di essere paranoiche.» Molte lacrime scesero copiose sul bel faccino. A Keith si strinse il cuore. Dio, come avrebbe voluto avere il responsabile fra le mani e stritolarlo un centimetro alla volta! «Avete notato chi era alla guida?» Chiese porgendole un fazzoletto e incoraggiandola a tenere duro. «No, i vetri erano oscurati, non l'abbiamo mai visto in movimento era lì e basta, all'inizio ci scherzavamo su, ridendo di Cassy, ma il giorno dopo era di nuovo appostato e allora invece di ridere, abbiamo cominciato a preoccuparci.» Ammise Jade, con una punta di rammarico per aver banalizzato le paure dell'amica. «Ricordate qualche numero della targa?» Domandò con poche speranze. Erano troppo giovani per certe accortezze. «No, erano molto sporche, avremmo dovuto avvicinarci troppo e non volevamo rischiare un brutto incontro.» Osservò Jade. “Giudiziose”. Pensò fra sé keith. «Quando Venerdì non si è presentato, pensavamo di aver solo esagerato con l'immaginazione, per questo non abbiamo parlato con nessuno dei nostri genitori, sembrava tutto ato.» Disse Mya singhiozzando. «Nessuno può prevedere situazioni di questo genere, molte volte vediamo persone che ci insospettiscono, non per questo nascondono lati oscuri, non dovete sentirvi in colpa. Con il vostro prezioso aiuto vedrete che troveremo Cassy!» Keith era convincente e rassicurante, le bambine parvero alleggerite dal loro fardello. «George è ora di andare.» L'uomo si congedò dai familiari delle piccole e seguì Book e Keith verso la macchina. «Scoperto qualcosa?» Rivolse a keith uno sguardo interrogativo, mentre si allacciava la cintura di sicurezza. «Un minivan bianco, appostato la scorsa settimana a scuola. Il problema è

rintracciarlo. Niente numero di targa e da venerdì è scomparso alla vista.» keith sbuffò frustrato. George tossì spavaldo. Allo sguardo perplesso di Keith, si affrettò a spiegare. «Un aiuto satellitare? Che ne dici?» Sganciò la bomba come se niente fosse. Keith per un attimo ebbe la tentazione di gridare, poi una lampadina si accese nella sua mente. «Sei un genio! George Still!» Fece un' inversione a U da brivido e accelerò di scatto, alzando polvere sulla tutta la corsia. «Insomma signora, basta con queste frittelle! Deve dirci cosa combinate in questa setta della malora!» Sbraitò Samuel Hall spalleggiato dai suoi uomini, nella sala ricreativa de: “Il centro della Terra”. Una decina di massaie li stava facendo letteralmente impazzire, con discorsi sull'imminente fine del mondo e meteoriti in arrivo dalle profondità dell'universo. Tutto fuorché i avanti per l'indagine di rapimento. Rimpinzandoli durante tutti gli sproloqui, con cibi grassi e bevande ultra caloriche. «Solo un'altra giovanotto, che non si dica nulla sulla nostra ospitalità!» Così dicendo la donna infilò un' untuosissima frittella fra le labbra di Hall. Mai come quel giorno, sperimentò la sua furia omicida a stento trattenuta. «Basta cibo! Siamo in servizio! Vogliamo sapere se avete mai sentito il nome di Cassandra Turner, o meglio Cassy turner!» Tuonò con quanto fiato aveva in gola. Sempre più esasperato e sul filo di una crisi di nervi. Le donne si guardarono l'un l'altra, osservando gli agenti speciali, come fossero muniti di due teste. «Al telegiornale! Che tragedia, una ragazzina così amabile e che sguardo !» Si misero a piangere in un coro assordante. Samuel Hall accarezzava il calcio della Glock, dietro la cintura dei pantaloni. Era preda di un tale sgomento, da tremare per lo sforzo di trattenersi.

«Non la conoscevamo personalmente, ma è inaudito che si possa sparire nel nulla così!» Piagnucolò quella che sembrava la leader del gruppo. Hall gettò gli occhi al cielo. Era chiaro come il sole che a parte qualche rotella fuori posto, il gruppo di casalinghe era fuori dai giochi. Niente rapimenti là dentro, niente offerte sacrificali. Era una setta per torte fatte in casa, col pallino di catastrofi all'orizzonte, niente di più. Ennesimo buco nell'acqua. «D'accordo, adesso vi lasciamo alle vostre ossessioni da disfatta universale! Noi abbiamo una ragazzina di trovare, ci siamo dilungati anche troppo!» Girò sui tacchi come una furia e uscì senza lo straccio di un saluto, seguito dai suoi, scuri in volto come ad un funerale. «Non avranno mica pensato che c'entrassimo col rapimento vero?» Chiese sbalordita una delle adepte. «Ma che dici? E' impossibile!» Le rispose un'altra. Però tutte aggrottarono la fronte e si guardarono poco convinte. Aidan Parker rispose al secondo squillo. Era un uomo di cinquant'anni alto e con i capelli di un intenso rosso rame. La sua professione lo rendeva al momento l'uomo da sei milioni di dollari. Era il direttore della Nasa. Amico di Keith di vecchia data e attualmente prezioso come un carico d'oro. «Salve Aidan, sono Keith e ho bisogno di te come l'aria.» Esordì così keith, non lasciando dubbi sulla necessità di avere un grande aiuto. «Felice di sentirti Keith, spara.» Dritto al punto, come sempre. Aidan era un uomo concreto e disponibile a dare subito una mano ad un amico. Keith fece un riassunto conciso dei motivi che lo avevano condotto in Georgia. La scomparsa avvenuta il due Aprile di Cassandra Turner e la sua intenzione di stanare il responsabile o i responsabili. «Mi servono immagini satellitari della scorsa settimana.» «Esattamente...» Aidan non fece in tempo a concludere.

«Un minivan bianco. Macon. Calvet street. A nord del fiume Ocmulgee.» «Ho Ikonos, Envisat e Geosat, dammi due ore e ti mando anche la scansione dei tasselli degli pneumatici.» disse Aidan senza perdere tempo. «Aidan, confido nella tua discrezione.» Affermò Keith sulle spine. Non era prassi normale avvalersi della Nasa per questioni civili. «Muto come un pesce, racconto un paio di balle agli analisti e ti snocciolo le informazioni in un lampo, sono o non sono il capo qui?» Rise divertito. «Aidan... grazie!» Keith era un po' impacciato, non gli piaceva mettere un amico in una posizione scomoda, ma Cassy aveva una manciata di ore per salvarsi la pelle, ogni stratagemma era indispensabile. «Keith è tutto okay, ti richiamo presto!» Aidan aveva sempre un tono determinato e affidabile, il che rese più facile rilassarsi. «A più tardi.» Replicò grato Keith. Osservò la sua improbabile squadra, al distretto di polizia: lo sceriffo, gli agenti, George. Tutti con gli occhi smarriti e agitati e lui non poteva far altro che aspettare che qualcosa capovolgesse la situazione, un evento che sbloccasse la fase di stallo. Sperò in cuor suo che la Nasa operasse un miracolo. Samuel Hall era rientrato dall'infruttuosa conversazione con la famigerata setta. Era ancor più irritabile e se possibile più scontroso, aveva evitato di riassumere quell'incontro, ma a Keith non importava, aveva già previsto l'inutilità del viaggio, si teneva a debita distanza dall'FBI, era sicurissimo che impiegassero poca materia grigia nelle indagini e quindi, decisamente insignificanti per le ricerche, li liquidò con uno sguardo fugace. Il telefono irruppe scuotendolo dalle sue meditazioni. Rispose al primo squillo. Girando le spalle agli agenti speciali, ma avendo tutti i suoi ad ascoltare attentamente. «Keith ho la targa.» Dichiarò Aidan senza tergiversare. «Grandioso!» Esclamò keith.

Prese un pezzo di carta e George gli lanciò una penna al volo. «Detta, sono pronto. Almeno è un punto di partenza!» Esultò raggiante. «Faccio di meglio, ti do un indirizzo e un nome, la motorizzazione in Georgia è super efficiente!» Rise soddisfatto, sentendo fermarsi il respiro all'altro capo del telefono. «Seth Gray, n° 401 Bindley Street, zona Macon Coliseum. Spaccagli il culo se è il nostro uomo. Intesi?» Ruggì serio Aidan. «Consideralo fatto! A presto grand'uomo!» Salutò brevemente Aidan e diede il biglietto allo sceriffo. Quattro agenti si mossero con lui, per andare a stanare il sospettato. Keith attese e attese. Non vedeva scorrere il tempo. Fremeva e sbuffava come un toro. Inutile la calma contagiosa di George. Quando lo sceriffo ricomparve con un tipo sui trent'anni smilzo e dallo sguardo vacuo, keith fu catapultato ancora al cospetto di Jared Colte. Pensò amaramente che i pervertiti li facevano con lo stampino. Visto uno visti tutti. Aveva un ghigno soddisfatto il bastardo, come se nessun pensiero al mondo lo sfiorasse. Aria divertita come al Luna Park. Uno strazio indefinibile osservarlo. Fu subito chiaro che l'amico si prendeva gioco di tutti. Le sole notizie vere, erano la professione di muratore e un paio di denunce risalenti al liceo per aggressione a un coetaneo. Il resto non denotava nulla di sospetto. Alle domande, sulla presenza del suo minivan vicino alla scuola di Cassy, sghignazzava impudente, senza dare alcuna spiegazione plausibile, solo frasi riprese da film e battute di cattivo gusto. Keith era sul punto di scuoiarlo sul posto. Poi ebbe la provvidenziale folgorazione, mentre tutti erano in preda alla smania più nera, davanti al miserabile viscido seduto come un pascià. Chiamò Book. Il cane come sempre interpretò alla perfezione i pensieri del padrone e con un balzo posizionò le zampe anteriori sulle spalle del sospettato, che per la paura improvvisa, ribaltò la sedia all'indietro, sbattendo rumorosamente la testa a terra. Cacciò un urlo agghiacciante e iniziò a tremare come una foglia. Book non si scompose, non ringhiò, non digrignò i denti. Prese solo ad annusare, ogni centimetro del corpo dell'uomo, senza fretta, con sguardo terrificante e assassino. Seth Gray aveva del sudore che colava impietosamente dalla fronte, rendendolo ancora più abbietto, i denti battevano come sotto l'assedio di un'improvvisa

glaciazione globale. Keith era in estasi, era solo l'inizio della partita, ma Book ci stava dando dentro alla grande e il suo sorriso si allargò, quando da sotto la sedia una copiosa quantità di urina imbrattò il pavimento, il cazzone si era pisciato nei pantaloni. “Dov'è finita ora la tua spavalderia campione”? Pensò soddisfatto keith. Book come sempre, sapeva essere spietato e letale. Lasciò a gambe all'aria il suo antagonista e partì di corsa, fuori dalla stazione di polizia. A caccia. Tracce. Cassy. Keith seguì senza riserve il suo cane. Book era l'arma vincente. Il solo e unico, in grado di portarlo dalla piccola. Tutti si mossero dietro Keith. L'improvvisa fermata lasciò tutti di stucco. Book iniziò a scavare sul lato est della chiesa Batista di St. John. Qualcuno lo aiutò con una pala e dopo un quarto d'ora ossa umane fecero capolino dal terreno arido del prato. A gran velocità si precipitò il medico legale e la macchina della legge si mosse con una rapidità impressionante. L'identità dei resti fu chiara agli addetti ai lavori un'ora più tardi. Isabelle Jones, scomparsa due anni e mezzo prima, fuori dalla città di Columbus. Arrivata ai piedi della chiesa proprio lì a Macon. La notizia sconvolse e lasciò tutti increduli. Non Keith, lui sapeva che in qualche modo, Seth Gray, era invischiato nella storia. Restava solo da scucirgli le labbra. E presto! Nella frenesia degli ultimi eventi, con il via vai di forze dell'ordine che avevano nastrato il perimetro della chiesa, nessuno fece caso a Keith. Esaminava, setacciando ogni zolla di terra, che per due anni e mezzo aveva custodito le spoglie della giovane Isabelle Jones. Un fremito gli traò le ossa, pensando che i suoi genitori in quel preciso istante, erano stati convocati dal medico legale per espletare tutte le incombenze burocratiche di quell'orribile scoperta. Le mani sgretolavano i granelli con rabbia, senza sosta, quasi a voler trovare un nome che sbucasse dalle viscere della terra. Niente nomi.

Niente di niente in realtà. A parte... Un momento... Qualcosa di ruvido emerse fra ciuffi d'erba. Scosse energicamente la terra intrappolata nell'oggetto. Un pezzo consistente di corda, sopravvissuto al deterioramento e all'attacco incessante degli agenti atmosferici. Alzò il braccio per richiamare l'attenzione di uno degli agenti della scientifica. Il quale, scattante ed efficiente, lo raggiunse armato di guanti in lattice e busta con grip. Keith depositò con cura il reperto nella busta e si assicurò fosse ben chiusa; quando dette precise istruzioni all'uomo perché fe analizzare subito la corda e gli comunicasse i risultati a tempo di record, l'uomo annuì e corse diretto come un fulmine all'auto, che lo avrebbe condotto al laboratorio distante solo un paio di miglia da lì. Keith girò su se stesso e osservò lentamente la piccola folla che si era radunata al di là del nastro adesivo. Gente comune di ogni età, un brusio in sottofondo, ad evidenziare quello stridulo, delle sirene di ambulanze e auto della polizia che, partivano e arrivano in un susseguirsi spasmodico. La scena era in contrasto col posto. Il ritrovamento avvenuto accanto ad una chiesa, luogo di culto e di preghiera. Si chiese per un attimo se, l'assassino avesse voluto dare un senso spirituale al suo gesto infernale e spaventoso. Poi ripensò alle parole di un collega di New York. “La spiegazione è sempre la più semplice”. La sepoltura era avvenuta lì per una scelta puramente logica. Terreno in abbondanza e improbabile a scavi di manutenzione urbana. Se Book non avesse seguito con il suo formidabile olfatto quella traccia, la povera Isabelle Jones, non sarebbe mai più tornata alla luce. Mentre si avvicinava al gruppo di curiosi per raggiungere George e Book, fermi sul lato opposto della strada, diverse persone lo assediarono con un mucchio di domande. Non voleva essere scortese, ma la situazione esigeva il più totale riserbo, motivo sufficiente per essere schivo e sbrigativo. Accennò alle indagini ancora in corso e si spinse attraverso la calca con decisione. Alcuni irriducibili lo afferrarono per il braccio, Keith gli rivolse la sua occhiata di ghiaccio, senza sortire l'effetto sperato. Poteva capire l'ansia di quelle persone, ma a tutto c'è un

limite! «Signori! Ripeto che l'indagine è in corso, avrete notizie al più presto...» Non riuscì a districarsi come avrebbe voluto, avevano mani che somigliavano a tentacoli. «Siete sulle tracce di qualcuno?» Urlò la voce impaziente di un uomo. «Già! Avete in mano qualcosa o no?» Rincarò la dose un altro. «Dovete tenerci informati! Una tragedia come questa potrebbe colpire le nostre famiglie!» Le grida esasperate e velate di condanna, erano perfettamente condivise da Keith, ma era necessario mantenere gli animi calmi. «Sentite ci stiamo muovendo nella direzione giusta, ma dovrete avere fiducia, non posso dire di più, ora lasciatemi tornare al lavoro.» Keith sorrise conciliante, sperando di aprirsi un varco. Più facile a dirsi che a farsi! Un'anziana gli si parò davanti, aveva un paio di occhiali così spessi, da non far trapelare le pupille dietro le lenti. Si fece il segno della croce. Attaccò una preghiera veloce e gli afferrò i polsi come in segno di: “Aiutaci! Oh! Salvatore”! Keith alzò gli occhi al cielo. La donna non si scoraggiò e continuò a tenerlo stretto. “Forza notevole la vecchietta”: Si trovò a pensare fra sé. «Figliolo, io vengo in chiesa tutte le mattine, prego per le povere anime delle fanciulle, sperando che nostro Signore intervenga e le protegga. Soprattutto l'amata Cassy, in mano a chissà chi. Ma voi della polizia dovete darvi una mossa! O qui finisce tutto a puttane!» L'anziana corresse il tiro facendosi il segno della croce a ripetizione e sussurrando nomi di Santi e di Beati. Keith era sconcertato e sorpreso dal lessico della signora. Sospirò e sorrise, sperando di cavarsi d'impaccio quanto prima. “Dov'era il Playboy da copertina dell'FBI ora”? “Ovviamente a debita distanza”! Osservò l'avvenente soggetto, dileguarsi su un'auto di servizio, prima di essere

risucchiato dalla folla scalpitante. «Signora, ribadisco che siamo sulla strada giusta, vedrà che a breve potremmo dare maggiori informazioni.» Scostò le mani artigliate della donna e riprese il cammino. Un angolo della bocca abbozzò un sorriso. La temeraria creatura in gioventù doveva essere stata un vero tornado, al polso sinistro, sotto un orologio degno dell'epoca Egizia, aveva un tatuaggio nero che raffigurava una testa di tigre. “Hai capito l'audace vecchietta”! Rifletté ironico. Si lasciò alle spalle delle frasi irripetibili, dettate da rabbia e paura da parte della gente e raggiunse finalmente George, che al volo mise in moto l'auto e appena lo sportello di Keith si chiuse, partì sgommando. Stava esaminando con lo sceriffo e i nuovi colleghi i primi esiti dell'autopsia. Niente di non prevedibile. L'ipotesi più accreditata, morte per strangolamento. Varie ossa rotte facevano pensare ad una lotta ininterrotta con l'aggressore, con probabile stupro. Erano solo le prime verifiche fatte su un corpo ormai ridotto a scheletro, ma non era difficile intuire il percorso che avevano condotto quella piccola al prato della chiesa Batista. Keith muoveva freneticamente gli occhi da un foglio all'altro. Sentiva un freddo insopportabile ed era impaziente di riprendere il discorso col suo seducente indiziato. Un avvocato al limite del rispettabile gliel'aveva tolto dalle mani in tempo perché non lo spedisse in orbita con il bene placido della Nasa, il suo amico direttore dell'ente spaziale era più che deciso a dargli man forte, redigendo un dossier alto come il K2, per avallare la spedizione spaziale sotto la voce: ricerca scientifica a scopo umanitario – liberare il pianeta da esseri spregevoli-. Lui e Keith erano dell'avviso che con un ben documentato plico di motivazioni, il governo avrebbe appoggiato tale impresa. Sogni irrealizzabili. L'avvocato aveva spinto il cliente ad avvalersi della facoltà di non rispondere e si era incollato al suo assistito come una zecca. Fine dell'interessante interrogatorio portato così magistralmente avanti da Keith. La cosa lo mandava in bestia, senza possibilità di controllo. Per fortuna l'agente Justin Hill lo riscosse dalle sue meditazioni furibonde, piazzandogli in mano alcuni fogli appena arrivati dal laboratorio della scientifica. Il suo reperto era stato analizzato e si trattava di un pezzo di corda composta da

quattro trefoli, due di Ramia, una fibra vegetale che si trova prevalentemente in Oriente e due di Sisal, ricavata da una pianta grassa, l'Agave Sisalana, che si trova nello Yucatan, in Messico. Keith pensò al o successivo, era interessate quel tipo di corda, inusuale, data la particolare composizione. Ad un suo cenno lo sceriffo Harris gli si avvicinò, intuendo le intenzioni ancor prima che venissero espresse a voce. «Bisogna setacciare ogni ferramenta, utensileria e fai da te dell'intera contea. Contattiamo tutte le città dove nell'ultimo anno sono scomparse le bambine. Troviamo chi ha comprato quella corda!» Tuonò Keith, già proiettato al momento dell'arresto del verme che si era macchiato di quelle selvagge uccisioni. In meno di trenta secondi tutta la squadra dello sceriffo era evacuata in diverse direzioni, le prime telefonate erano già in corso e George si era mosso verso Keith per partire dai negozi in città e battere a tappeto qualsiasi esercizio commerciale potesse essere lontanamente collegabile a quel tipo di corda. «Che intende fare?» La voce acida dell'agente Samuel Hall, gli arrivò alle spalle, infima come un serpente a sonagli. Keith si voltò lentamente, l'espressione impenetrabile, ma la luce sinistra che brillava nei suoi occhi non prometteva niente di buono. Osservò distrattamente il resto degli agenti che, in allarme per la tensione che era calata all'improvviso nell'ufficio, si erano ammutoliti all'istante. Keith si spostò di un o verso il suo interlocutore, il quale spavaldo drizzò le spalle e si atteggiò a prepararsi in uno scontro corpo a corpo. Le mani infilate in tasca lo facevano somigliare ad un pistolero dei vecchi film con John Wayne. La bocca piegata in un ghigno sarcastico e le sopracciglia sollevate in attesa di risposta. Keith fu... Bè, fu Keith.

Non si può spingere troppo sull'acceleratore. Tirare troppo la corda. Con lui fare il macho serviva davvero a ben poco. Come un tuono. Improvviso e dal rombo devastante. Caricò un destro da paura che si abbatté in pieno viso sull'agente Hall. Caricò un sinistro altrettanto micidiale e colpì lo stesso punto. L'altro allibito e preso in contropiede, cadde steso lungo il pavimento, la faccia una maschera di sangue, il naso piegato innaturalmente di lato, gli occhi sgranati e fuori dalle orbite, per il dolore e la rabbia omicida. Keith era soddisfatto del risultato. Non ne poteva più di quell'inetto rompipalle fra i piedi, pronto a dirigere tutto e tutti senza il minimo senso, inseguendo piste insulse e predicando come un luminare. Aveva intenzione di salvare Cassy e se quel fesso avesse continuato a stargli alle costole, era fondamentale sapesse che, la prossima sessione di carezze, lo avrebbe spedito sei mesi in trazione nel più vicino ospedale. «Ho intenzione di agire e... Come vedi se insisti a fracassarmi i coglioni, io frantumerò le tue ossa pompate col testosterone, andole al tritacarne. Ora un consiglio...» Fece una pausa e respirò a pieni polmoni per dare maggior enfasi alle parole. Gli altri, oltre a non aver alzato un dito per fiancheggiare il loro capo, o assisterlo con le ferite, erano stregati dalla scena e dalla presenza imponente di Keith, ammaliati da tanta forza e per niente dispiaciuti, per il pallone gonfiato che li comandava a bacchetta. La cosa piacque parecchio a Keith. «Sparisci!» Indicò il sangue che cadeva a fiotti sul pavimento, mentre Hall tentava inutilmente di tamponarsi con un fazzoletto quasi inservibile, visto il rapido assorbimento della stoffa. Samuel Hall digrignò i denti, alzandosi faticosamente, una muta minaccia, che svanì alla velocità della luce, quando Keith abbozzò un salto in avanti, a mimare un placcaggio mortale. Videro dileguarsi l'agente speciale dell'FBI in un baleno, probabile meta di tanta urgenza, il pronto soccorso. Alcuni applausi presero vita e in pochi minuti l'intero ufficio dello sceriffo esplose in uno scroscio assordante, urla e incitamento per quella strepitosa mossa, ricaricarono di nuova energia tutto il dipartimento.

«Bene, prima che il nostro amico “Mr. FBI”, riprenda vigore, diamoci da fare, voglio il pezzo di merda che rapisce e uccide ragazzine, steso su quel tavolo entro stasera!» Si accorse della gaffe guardando i volti smarriti dei colleghi. Aveva indicato un'ampia scrivania, che nella sua fervida immaginazione, sarebbe andata benissimo per legare il criminale e dissezionarlo con calma un pezzo alla volta. Si snebbiò la mente. Era intenzionato a perseguire la legge, senza indulgere troppo nella brama di vendetta spicciola e personale. Tossicchiò per schiarirsi la voce. «Lapsus! Ovviamente intendo dire, inchiodarlo con prove inconfutabili e farlo confessare fino all'ultimo omicidio, senza mollare la presa!» Affermò deciso. Gli altri però non sembravano del tutto convinti. «Seduto a quella scrivania.» Aggiustò il tiro sfoggiando un ampio sorriso. Il gruppo a quelle parole annuì e Keith si ammonì mentalmente di moderare i toni. «Sceriffo lei controlli costantemente l'ospite indesiderato: Seth Gray, mi gioco la testa che c'è dentro fino al collo!» Lo sceriffo si diresse nella stanza dove il sospettato confabulava col suo subdolo avvocato. «Appena il cane da guardia va a pisciare e prima o poi dovrà farlo, dirò due paroline al bastardo in stato di fermo e se gioco bene le mie carte, quanto meno, imiterò la maestria di Book! Magari io lo faccio cagare nei pantaloni!» Lo sceriffo eruppe in una grassa risata e Book abbaiò per sottolineare l'intesa. Keith approvò in pieno e con un George rinvigorito a fianco, uscì dalla centrale di polizia per rintracciare l'acquirente della corda. Dopo ore di giri a vuoto, tutto sembrava in una soffocante fase di staticità. Le altre pattuglie facevano rapporto, senza purtroppo alcuna novità, su dove fosse stata acquistata la corda, o cosa ancora più importante, da chi. Keith era sotto una cappa di pressione assurda. Meditava di polverizzare qualcuno.

Elaborava idee senza approdo. Era quasi sul punto di rastrellare porta a porta uomini in grado di compiere azioni del genere, o donne, su quest'ultima ipotesi, che scartò immediatamente, si diede dell'idiota. Sarebbe stato un lavoro immane e inutile. Era infatti possibile, che l'assassino non vivesse nemmeno a Macon, magari aveva complici sparsi in tutta la Georgia. Tenendo conto fra l'altro, che le ragazze scomparse, provenivano da città diverse molto distanti fra loro. «Cazzo!» Sbottò, sbattendo la portiera dell'auto e imprecando fra i denti. «Vada che è una corda non comunissima, ma non riuscire a trovare un fottutissimo negozio che la vende, è il colmo!» Sbraitò nervoso e avvilito George. Keith scrutò la strada davanti a sé, si perse nella visione del Macon city Auditorium. La più grande cupola di rame del mondo, con le sue immense colonne Doriche ai lati e l'imponenza che dominava l'intera area, stagliandosi nel cielo più terso che ricordasse di aver visto in una città. Il traffico scorreva rapido, non era l'ora di punta, un Giovedì come tanti per molta gente. Il pensiero cupo sul destino di Cassy lo teneva sui carboni ardenti. Quattro giorni in mano ad un pazzo con turbe mentali e manie sessuali fuori controllo, erano troppi, l'esito imprevedibile della vicenda gli faceva martellare il cuore come un rullo compressore, ed era un fascio di nervi, senza alcuna possibilità di allentare la presa. Sentiva un giogo che gli stringeva sempre di più la gola e aveva una voglia irrefrenabile di urlare, fino a restare senza fiato né voce. Doveva ritrovare l'equilibrio s'impose. Per Cassy, in qualunque modo fosse andata, doveva riportarla alla sua famiglia. Viva o morta, ragionò, con la bile che gli saliva in bocca al solo pensiero. Camminò alcuni metri e urtò qualcuno, un uomo di mezza età lo guardò torvo. Keith alzò le mani in segno di scuse, per tutta risposta ebbe il cortese gesto del dito medio alzato. “Gentile”. Sussurrò a fil di voce. Poi la sua attenzione fu catturata da un'immagine vagamente familiare. Non era sicuro, ma...Sul polso sinistro, seminascosto da un orologio pacchiano con placcatura dorata di dubbio gusto, gli parve di scorgere il tatuaggio di una testa di tigre. «In questa città sono tutti fulminati per i tatuaggi, soprattutto quelli di una certa età.» Disse mentre invertiva la rotta e proseguiva verso il Macon State College,

seguito da Book e George, un po' spiazzati dalla direzione presa. «Come dici?» Chiese George che non aveva sentito bene. «Oh, niente andiamo a fare un giro, magari esce fuori un negozio da rigattiere che ci è sfuggito.» Ribatté. «Credi sia possibile?» Domandò George scettico. Avevano seguito alla lettera la cartina della città e i negozi con il materiale in questione erano praticamente finiti. «No. Però se sto con le mani in mano, esplodo.» Serrò la mascella e affrettò il o. Dopo aver costeggiato il Wandell Barnes Botanical Gardens e percorso il suo interno di centosessantasette ettari, erano spompati come due atleti ripresi da poco da una convalescenza, l'unico fresco come una rosa era Book, scodinzolava felice, pronto a riprendere la marcia. «Abbiamo chiesto anche ai giardinieri, inservienti, addetti al complesso universitario, che diamine! Questa corda non arriverà da Marte, qualcuno dovrà pur venderla!» Ruggì Keith demotivato e al limite. Prese a camminare nervosamente avanti e indietro, osservato con preoccupazione dai suoi affabili amici. «Già che abbiamo iniziato il torneo “corsa campestre”, facciamo un giro dei parchi, non sia mai che un dipendente comunale, intento a riparare una recinzione, ci indichi l'agognato fornitore della famigerata corda!» Azzardò George, più per caparbietà che per convinzione. Keith scuro in volto, si girò in direzione dell'auto. «Tentar non nuoce.» Le notizie telefoniche degli agenti impegnati nella ricerca, non erano molto più confortanti. L'unica nota positiva, riguardava l'agente Samuel Hall. Dimesso dopo le dovute cure dall'ospedale nel giro di un'ora e congedato per malattia. “Il macho”, non aveva sporto denuncia e tanto meno spiegato

coerentemente l'accaduto, si era limitato a firmare per uscire dalla struttura sanitaria, ed era sparito. «Un vero gentleman!» Affermò ironicamente Keith. «Io direi fifa allo stato puro. Sapeva che, se ti avesse denunciato, lo avresti pestato ancora di più!» Rise George. Keith gli diede una pacca sulla spalla in segno di approvazione. Il Parco Nord Macon non diede novità. C'era solo un tecnico arrampicato su un palo per la compagnia elettrica, che armeggiava bestemmiando, fra un groviglio di fili degno di un filatore tessile. Tentarono di farsi dire qualcosa sul tipo di corda che stavano cercando, ma l'uomo più impegnato a districarsi, quasi li mandò al diavolo. «Non lavoro mica da Leroy Merlin!» Ringhiò scortese. E li ignorò deliberatamente, voltandosi e proseguendo col suo lavoro in cima alla scala. Keith spazientito lo ripagò con un caldo saluto: «Vaffanculo!» «Lascia perdere Keith.» Lo ammonì George, temendo salisse sulla scala e tirasse giù a suon di legnate lo sgarbato individuo. Si fece spingere via da George opponendo una discreta resistenza, pronto a tornare dal cittadino esemplare e fargli un massaggio ristrutturante. Solo quando furono al Parco Est Macon riprese la calma e un pensiero gli attraversò la mente. Anche il tecnico aveva un tatuaggio raffigurante la testa di tigre sul polso sinistro. La cosa cominciava a risultare strana, appena tornato alla centrale avrebbe consultato il computer. Incontrarono molte persone a eggio nel parco. Tutti molto cordiali e pronti a dare ogni informazione utile. Niente su ferramenta ancora inesplorate.

Fino ad una signora, che spingeva un eggino con un bimbo vivace, il piccolo appena vide Book allargò le braccia e lo strinse a sé. Il cane non mancò di ricambiare tanto affetto. «Non so se ha l'articolo che cercate, è più un bazar che un negozio di ferramenta, però ha abbastanza materiale per il fai da te.» Spiegò la donna, indirizzandoli in fondo alla strada che ava davanti all'entrata del parco. Ringraziarono caldamente la neo mamma e saettarono per i circa trecento metri che li separavano dall'ultima spiaggia. L'ultima possibilità in città di trovare l'oggetto che poteva dare una svolta alle indagini. Sull'insegna il nome spiccava col colore verde brillante: “Pepe'S”. Entrarono. Un settore era dedicato a vestiti da lavoro e biancheria per la casa. Un'intera corsia di scaffali era zeppa di detersivi, un'altra di cibi in scatola e in fondo prodotti di cartoleria. In vista niente fai da te. Poi, degli oggetti dall'inequivocabile utilizzo per il giardinaggio, fecero risorgere la speranza in Keith. C'era solo un angolo con utensili di vario tipo, ma sufficiente per trovare su una mensola l'ambita corda. L'etichetta spiegava la sua fabbricazione. Keith tirò il fiato. George si catapultò al bancone informazioni ad alta velocità per la sua età. Dopo alcuni minuti ed aver intervistato tutti i collaboratori del negozio, dal titolare al magazziniere più remoto. Il responso fu unanime. Grazie agli scontrini, una decina di telefonate alla centrale e non ultimo, alcuni video di sorveglianza, che il proprietario aveva prontamente messo a disposizione della polizia, una volta appurato l'utilizzo al quale era indispensabile. Un volto emaciato e con lo sguardo da furetto, emerse dall'immagine che diede nome al ricercato numero uno. Dalton Cox. Ingegnere meccanico e inventore di oggetti strampalati perlopiù in campo medico. Trentun anni. Celibe e con la fedina penale più immacolata della

Vergine Maria. Downey street a due i da Bindley street, dove il caro amico Seth Gray era stato prelevato. «Abbiamo il gatto e la volpe!» Sentenziò Keith, precipitandosi all'auto e avvertendo le pattuglie della direzione da prendere. George faticava a stargli dietro. Book invece era nel suo habitat naturale, la caccia e la corsa. L'appartamento di Cox era situato fra un mini market e un fast food, al secondo piano di un edificio che aveva visto giorni migliori. In tutto quattro piani, con terrazzo sulla via principale, infissi bisognosi di carta vetrata e intonaco che chiedeva a gran voce almeno dieci mani di vernice. Un posto anonimo come milioni di altri sparsi per gli Stati Uniti. Quando Keith parcheggiò ad un centinaio di metri, alcune pattuglie della polizia erano già arrivate e lo sceriffo Harris vedendolo si avvicinò a o di carica, gli occhi truci e la tensione di un condannato a morte. Keith si preparò a concordare il piano d'azione, non c'era più tempo, la partita era lì e il finale tutt'altro che scontato. «Idee?» Chiese reciso Jacob Harris, indicando la dozzina di uomini che piantonavano l'edificio del presunto rapitore. Keith diede una rapida occhiata a George, concentrato nella direzione degli agenti, poi a Book che attendeva paziente l'ordine d'attacco. Si strofinò pensoso la mascella e tornò a concentrarsi sullo sceriffo. Indicò la via parallela. «Prendete la scala antincendio, io e Book saliremo dalla rampa di scale regolare. Appena sarò dentro fate irruzione.» Non si profuse in dettagli o ulteriori spiegazioni, era chiaro l'intervento rapido. Lo sceriffo annuì e tornò sui suoi i per dirigere l'operazione. «Pensi sia ancora dentro?» George diede voce ad un dubbio grande come il Sahara.

«Non lo so, ma prego sia così.» Keith fischiò a Book un sola volta, il cane s'incollò alle calcagna del padrone e lo seguì pronto all'irruzione. Appena tutti furono in posizione, Keith entrò nel palazzo. La porta cigolò appena aprendosi su un piccolo corridoio, sulla parete di sinistra delle cassette per le lettere quasi arrugginite, straripavano di posta. Una scala stretta si arrampicava con gradini sbreccati verso l'alto. Keith trattenne il fiato qualche secondo, lo rilasciò in un colpo solo e iniziò la scalata più dura della sua vita. Molte volte aveva assistito a missioni impossibili, ma questa gli sembrava mastodontica. Trovare Cassandra Turner viva era quasi al limite della ragione. I mostri come Dalton Cox, annientano la vittima entro poche ore, per un'inspiegabile sensazione, era convinto di avere ancora una possibilità, sentiva da qualche parte nella sua mente, che non si trattava solo di mera speranza, c'era di più, l'idea balzana di aver disturbato con la sua presenza, col suo zelo, con le sue domande fra la gente, l'intento del miserabile Cox. Mentre saliva lentamente e felpato come un felino, si augurava di aver colto nel segno. La porta dell'appartamento era scura e in ombra sul pianerottolo. “Un posto perfetto per non dare nell'occhio”, pensò fra sé Keith. Si spostò di un paio di i, con due balzi si scontrò con il legno e la forza che impresse scardinò i ganci nel muro al primo colpo. Come un ariete era entrato nella stanza. Keith era per prendere le situazioni di petto, aveva preferito l'effetto tornado, al mettersi a sce silenziosamente, col rischio di essere sentito mentre tentava l'entrata soft. Gli agenti sulla scala antincendio appresero da quel frastuono il segnale di “via”. L'ambiente era semplice e abbastanza pulito, mobili a basso costo di colore bianco, campeggiavano in ogni stanza. Tutti si precipitarono ad ispezionare ogni angolo. Cassandra Turner non era lì.

La delusione dipinta negli sguardi e una rabbia omicida stava montando in ogni uomo impegnato nell'indagine. Gli sproloqui iniziarono a fioccare come una tempesta di neve. Keith era rigido ma non del tutto sorpreso, questo però non impedì alla frustrazione di avere il sopravvento. «Merda!» Ringhiò e afferrò un cuscino dal divano consunto del soggiorno e lo scaraventò contro la parete. Book si alzò sulle zampe posteriori e appoggiò quelle anteriori sul petto di Keith, il gesto servì da solo a riportare la calma e la concentrazione. Keith gli accarezzò la testa e il cane mugolò in segno di contentezza. Rimise le zampe saldamente a terra e partì di corsa per tutto l'appartamento, emerse dal bagno con qualcosa fra i denti. L'aria si fermò, tutti gli agenti compresi Keith e George strabuzzarono gli occhi. Book scodinzolava soddisfatto. Lasciò cadere ai piedi del suo padrone l'oggetto che aveva scovato. Una maglietta a righe. Quando Keith chiese:- E' di Cassy?- Il cane squarciò l'aria con l'ululato più acuto che Keith avesse udito finora. Gli occhi incrociarono ad uno ad uno quelli degli agenti di polizia, poi si incendiarono in quelli dello sceriffo, ed in un muto assenso Keith sparì dall'appartamento, seguito con difficoltà da George. Lasciandosi alle spalle una scia di punti interrogativi; sentì appena lo sceriffo sbraitare ai suoi:- impacchettate anche le pulci se ne trovate, voglio sapere tutto di questo maniaco del cazzo!George era in affanno per il ritmo della corsa, ma non osava chiedere niente, si fidava ciecamente del suo detective preferito. L'auto partì stridendo sull'asfalto, lasciando due strisce nere a terra,

rispecchiando perfettamente l'umore tetro che regnava sovrano da diversi minuti, anche Book sul sedile posteriore lo percepiva e le sue pupille solitamente brillanti, erano cupe più della notte. Alla centrale di polizia ormai gli agenti dell'FBI svolgevano pressoché lavoro d'ufficio, redigendo ciclicamente rapporti quasi fossero bollettini meteo, senza avanzare di un millimetro nell'indagine. Nessuno per ora aveva sostituito l'agente Samuel Hall. Keith entrò come una furia, non dando spiegazioni o informazioni di alcun genere, si diresse invece senza esitazione nella stanza dov'era Seth Gray, il suo simpatico indagato, deciso più che mai a fargli sputare fino all'ultimo goccio di sangue. Spalancò la porta. L'avvocato del verme era seduto con una cartellina aperta davanti e parlava piano al suo cliente, il quale era stravaccato sulla sedia di fronte, indolente come al solito e con un sorrisetto ebete sulle labbra. Si riscosse mettendosi quasi sull'attenti, appena Keith esordì con la sua entrata trionfale. «Si vede che ha bisogno di un caffé!» Pensiero unanime che si riferisse a Gray. Sbagliato. Afferrò per le spalle l'avvocato, artigliandolo senza possibilità di fuga, alzandolo di scatto e dirigendolo verso la porta fra le braccia di George, che guardava la scena divertito come al cinema. «Non può parlare col mio cliente senza la mia presenza!» Balbettò il solerte avvocato, nonostante meditasse di darsela a gambe il prima possibile, aveva già intuito che col suo interlocutore i giochi di parole eruditi e professionali, avevano la stessa validità di un silenzio tombale. Lui faceva quel che voleva, punto e basta. «E chi a intenzione di parlare!» Ruggì, chiudendo fuori il colletto bianco.

Si avventò in un nano secondo su Seth, il miserabile iniziò a piagnucolare senza ritegno, implorando pietà e sfoderando ogni sorta di motivazione, purché non lo trucidasse seduta stante. Keith sorrideva sinistro, mentre lo trascinava verso un'altra porta. Book dietro di lui manifestava la sua presenza ringhiando, in attesa di istruzioni, senza interferire. Con un colpo secco la porta si aprì. Seth strizzò gli occhi pietrificato, fiutando che con quel tipo, le cose sarebbero precipitate all'istante. Deduzione azzeccata. Il bagno della centrale era infondo ad un lungo corridoio. Keith non si prese la briga di entrare in quello riservato agli agenti e al personale, ma in quello riservato al pubblico, più piccolo dell'altro e fornito solo dell'essenziale. A lui ciò che serviva, era sistemato a dovere in un punto con le pareti avvolgenti, tanto da permettere l'accesso ad una sola persona. Il Water. Per riuscire ad infilarsi nell'angusto spazio, visto che eccezionalmente erano in due, non gli rimase che girare il suo ospite, afferrarlo per il collo e per la cintura dei pantaloni, infine, alzarlo dieci centimetri da terra. Il resto del viaggio, si concluse con la testa dell'infame direttamente immersa nella tazza del cesso e Keith che spingeva a ripetizione il pulsante di scarico. La cosa si faceva interessante. Fra uno scroscio d'acqua e l'altro, il bastardo proponeva accordi pur di raggiungere una tregua, ma Keith voleva solo una cosa: «dimmi dove l'ha portata!» Il verme tenne duro per un po'. I muscoli gli si tesero quando sentì distintamente abbaiare. Il sangue gli defluì al contrario e come tutti i vigliacchi che si rispettino, iniziò a tremare. Il ricordo dell'incontro con i denti affilati di Book, gli diedero lo spunto per rivedere le sue

intenzioni. Con il fiato a stento trattenuto, l'acqua gli ava dal naso in cascate e le lacrime gli inondavano gli occhi copiosamente, strillò. «Basta!» «Ma se abbiamo appena cominciato!» Sghignazzò Keith. «A sud di Savannah, sull'oceano, ci sono alcune case direttamente sulla spiaggia, una era del demanio, incustodita da anni!» Urlò scosso dai fremiti Seth. «Scelta intelligente!» Lo rimise in piedi e lo afferrò saldamente al collo. «Prega che sia viva!» Gli occhi erano lava incandescente, Seth sapeva che quell'uomo sarebbe tornato e lo avrebbe fatto personalmente a pezzi. Giudici e giurie, avrebbero potuto spedirlo nel braccio della morte, ma il suo avversario gli avrebbe concesso la salvezza della morte, solo dopo immani sofferenze, quel pensiero gli si appiccicò addosso come una seconda pelle. Uscirono dal bagno lasciando a terra un fiume in piena, quando entrarono nella sala operativa, tutti trattennero il respiro. Keith scaraventò Seth su una sedia che per miracolo resse all'impatto, poi lanciò un oggetto simile ad un ipod su una scrivania. Tutti erano esterrefatti, soprattutto gli agenti dell'FBI. L'avvocato di Seth avanzò per esercitare il suo ruolo con espressione indignata. «Io non lo farei, anzi rivedrei daccapo tutta la difesa!» Keith fermò l'avvocato trafiggendolo con gli occhi. «Ho la conferma che quest'individuo ha preso parte al rapimento, suppongo anche a quelli delle altre bambine, mi ha dato un luogo dove Dalton Cox, evidentemente suo complice, ha portato l'ultima vittima, Cassandra Turner.» Fece una pausa, che nessuno tentò d'interrompere, erano come mummificati da quelle rivelazioni, quelli dell'FBI neanche sapevano chi era Dalton Cox!

«Fategli spiegare i dettagli, lui sa che lo farò a modo mio se continua la scena muta. Avvertite lo sceriffo Harris, io mi dirigo a sud di Savannah, esattamente...» Seth Gray si tese come una corda e strinse le palpebre per evitare quello sguardo rapace. «Brunswick, due chilometri a est del porto, è poco più di una baracca , spicca fra le case ben tenute.» Rilasciò il fiato come se avesse corso per diverso tempo. «Bene, io corro dalla piccola mandate presto i rinforzi!» Apostrofò senza attendere reazioni. George fece per seguirlo. «No, tu resta qui e tieni sotto controllo l'avvocato, non mi fido di lui.» Additò l'uomo che intimorito fece un o indietro. George annuì e riprese il braccio dell'uomo, tanto per chiarire che, gli sarebbe restato incollato come un francobollo, fino alla fine dei suoi giorni se necessario. Book e Keith sparirono come frecce, mentre gli agenti si adoperavano a eseguire gli ordini, chi al telefono con lo sceriffo, chi con l'indiziato. La strada era sgombra e keith stava infrangendo un numero enorme di norme stradali, prima fra tutte, l'eccesso di velocità, avrebbe tranquillamente potuto gareggiare a Daytona, sfrecciava come un missile schivando al limite delle leggi fisiche ogni veicolo che gli si parava davanti. Mentre volava verso la meta, il cellulare prese a squillare, aggiungendo un'altra infrazione al cumulo già accantonato, l'afferrò sbrigativo e rispose gridando. Il segnale era disturbato. «Pronto!» Urlò acido. «Sanders stiamo partendo adesso, non faccia niente fino al nostro arrivo!» Intimò lo sceriffo Jacob Harris senza perdere tempo. «Sceriffo, con tutto il rispetto, devo fare di tutto per salvare la bambina appena scenderò dalla macchina!» Precisò, senza esitazione, Keith manifestando la sua

determinazione a non perdere altro tempo. «Vuole farsi ammazzare e far fare la stessa fine alla bambina? Lei deve aspettare i rinforzi, cioè il sottoscritto e tutto il dipartimento, stiamo correndo come proiettili. Dopo quello che ci ha detto l'energumeno che lei ha strapazzato in centrale, Seth Gray, ce né per farsi drizzare tutti i capelli in testa. Quei due maledetti bastardi, studiavano la bambina presa di mira per settimane, poi, agivano come un blitz militare. Mi fermo qui con i dettagli, non voglio farla andare troppo su di giri, prima dell'incontro imminente con quello squallido depravato di Dalton Cox. So che è uno incline al famoso detto: “occhio per occhio, dente per dente;” ma voglio vedere il terrore nello sguardo di quei due miserabili dentro un'aula di tribunale, fino a pisciarsi nei pantaloni, al verdetto di pena capitale. Keith niente giustizia “fai da te!” Intesi?» Disse perentorio lo sceriffo. «Niente vendetta personale, prometto, ma sono quasi arrivato e non intendo aspettare con le mani in mano per almeno altre due ore che la cavalleria mi sostenga!» Interruppe la telefonata e schiacciò i freni, l'auto si bloccò con un sobbalzo, aprì lo sportello e fece scendere Book. «Porca puttana!» Lo sceriffo imprecò e si ò una mano sul mento, rivolgendo uno sguardo perso e sgomento all'agente Josè Thomas impegnato nella guida. «Brutte notizie?» Chiese preoccupato l'agente, vedendo l'espressione contrita dello sceriffo. «Una montagna Josè, schiaccia l'acceleratore e di' agli altri di fare lo stesso!» Era già buio pesto, lo sceriffo strinse gli occhi, pensando mestamente, sarebbe stata un'angosciante interminabile notte. Josè non se lo fece ripetere, via radio intimò alle pattuglie di aumentare il ritmo e la lunga colonna di auto penetrò nell'oscurità come un serpente di fuoco, i lampeggianti squarciarono le tenebre come sicari inviati a portare luce. Keith rimase qualche minuto ad osservare la lunga striscia di sabbia che si estendeva per diversi chilometri, le onde rumoreggiavano lente sulla battigia, a pochi metri dalla stradina che lo aveva condotto alle case sul mare, le indicazioni di Gray erano state millimetriche. Il silenzio ovattato gli ricordò l'assenza di vita in quel tratto di mare. I

villeggianti arrivavano nei mesi estivi, in Aprile il luogo non era ancora preso d'assalto, inoltre, era una notte troppo fresca e con una Luna troppo pallida, per invogliare a eggiate romantiche qualche temerario con la bellezza di turno al braccio. Alcune stelle facevano capolino in un cielo altrimenti spesso come velluto. Strinse la mascella e puntò l'obiettivo. Seth Gray non aveva esagerato, la casa era poco più di una baracca, alcune assi di legno che reggevano il portico dondolavano sotto la leggera brezza. Nell'insieme era inquietante guardarla. Una figura tetra in contrasto con lo sfondo suadente dell'oceano. Infilò un paio di pinze nei Jeans e con o felpato si diresse all'entrata, con Book incollato a sé e in modalità assalto imminente. Procedeva piano, senza far rumore e con la fioca luce che riverberava sull'acqua, salì il primo gradino. Tutto tranquillo e silenzioso, se non fosse stato per i suoi sensi in allerta e il formicolio alle mani, avrebbe giurato di essere un'altra volta fuori pista. Book confermava la presenza di estranei abbassando la testa, pronto all'attacco. Fatti tre gradini al rallentatore, si posizionò davanti alla porta. Il legno ormai marcio, lasciava intravedere tra le fessure larghe quasi due dita, ombre inquietanti, sagome immobili di arredi fatiscenti e abbandonati lì da decenni. Trattenne il fiato e afferrò la maniglia, la girò piano, un certo attrito la trattenne alcuni secondi, poi il clic sentenziò l'apertura. Dalla soglia vedeva una stanza lugubre e con ragnatele avvolgenti in grado d'impacchettare chiunque avesse fatto un o avanti. Piegò le ginocchia per schivare l'intrico, abbassandosi con cautela di almeno trenta centimetri, ed entrò. Un boato assordante lo colse di sorpresa. I suoi piedi persero aderenza. Book guaì. La voragine che gli si aprì sotto i piedi, lo inghiottì in un baratro umido e impenetrabile. Lo schianto assordante echeggiò nell'aria. Fu pervaso da fitte lancinanti, terribili come frustate.

Lo spasmo gli penetrò ogni muscolo con lame affilatissime. Il dolore immobilizzò i suoi sensi e prima di crollare in un vortice senza uscita, udì un grido straziante e il guaito stridulo di Book. «Bene bene, eccoci qua, il rompipalle è giunto a destinazione!» La voce roca metteva i brividi. Una luce accecante gli traò gli occhi, quasi accecandolo. Keith cercò di snebbiarsi la mente e riprendere il controllo. L'uomo piegato davanti a lui era persino peggio del fermo immagine visto al bazar. «Buonasera.» Articolò a fatica, con una spiccata nota sarcastica nella voce. Dalton Cox strinse i denti, visibilmente seccato da tanta arroganza. Keith pensò che la strategia di irritarlo poteva andare. Tutto pur di temporeggiare. «Sei un coglione, se pensi che caschi nella tua rete, amico.» Sbottò acido Cox. Keith lo osservò più attentamente, confermando la prima impressione, aggiungendoci su un altro paio di considerazioni: la somiglianza ad un furetto era sorprendente. A livello emotivo, il deviato denotava agitazione e smania, poteva sfruttare a proprio vantaggio entrambe, mandandolo su di giri e facendolo collassare in un fascio di nervi. Non poté sperimentare il piano. Un colpo secco al torace gli tolse il respiro. Era legato sopra una sedia e l'impatto lo fece ondeggiare pericolosamente. «Dovremo conoscerci meglio più tardi, devo prima sistemare il tuo amico dalla mandibola da squalo, ti assicuro che al mio ritorno ci divertiremo un mondo!» Eruppe in una risata sguaiata, mostrando una dentatura sconnessa e sgradevole. «Non ti azzardare a toccare il mio cane!» Ringhiò Keith.

L'altro accennò un sorriso diabolico e si voltò per andarsene. «Tenetevi compagnia finché non torno.» Gracchiò soddisfatto del controllo ottenuto. Keith sgranò gli occhi, “cosa intendeva il farabutto”? Si girò per guardare meglio, sembrava uno scantinato ricavato direttamente nel terreno sotto la casa, ampio non più di quattro metri, niente grate verso l'esterno, solo una scala in legno che portava al piano di sopra. Il piano da cui era precipitato Keith, forse l'amico aveva improvvisato una botola, si spiegava il volo e il brutto atterraggio. Un singhiozzò lo fece sussultare. Dietro di sé, un grido soffocato. Girò ancora di più la testa e la vide. Cassandra Turner. Scosse la testa per essere sicuro di non aver avuto un'allucinazione. La bambina era ancora lì, scossa da tremiti e da un pianto che stava diventando dirotto. Legata mani e piedi, i Jeans strappati in più punti, la maglia sporca di terra, i capelli arruffati, ma salva, almeno fisicamente. Keith sorrise, la piccola incrociò il suo sguardo e smise di piangere. «Cassy, sono Keith, mi ha mandato Melanie, tua sorella, puoi fidarti di me, riuscirò a portarti via!» Esclamò raggiante, anche se in realtà non sapeva come. «Melanie?» La bambina lo squadrò attentamente, incerta su come reagire a quelle parole, poi un sospiro di sollievo la ghermì. «Davvero?» Chiese trepidante. «Giuro!» Affermò Keith, riacquistando fiducia e ottimismo. La bambina smorzò un po' l'entusiasmo. «E' malvagio, ha promesso di farmi soffrire parecchio, se qualcuno si avvicinerà.» Disse con un brivido che le attraversò le corde vocali.

«Ti ha toccata?» Chise Keith allarmato, vedendo tanta agitazione. Cassy ci pensò un attimo, poi scosse la testa vigorosamente. «Non nel senso che intende lei, solo qualche schiaffo, ma mette i brividi con quello che dice, poi sono legata da quando mi ha trascinata in quel furgone sudicio e zeppo di odori orribili.» Piegò la bocca in una smorfia disgustata. Keith riprese colore a quelle parole, almeno questa volta era arrivato in tempo, cercò di aggrapparsi a questa considerazione come un naufrago ad una scialuppa di salvataggio. L'incognita era ancora come fare per svignarsela, prima che il debosciato li ammazzasse entrambi. «Che odore c'era nel furgone?» Domandò Keith, per distrarre il più possibile Cassy. «Ma...Non saprei di preciso...Vernice, fritto, cipolla...Sì, tanta cipolla!» Rispose accennando un sorriso. «Ama il take away, il campione.» Disse Keith, scimmiottando repulsione. Cassy rise di gusto, finalmente dopo diversi giorni si sentiva al sicuro. Keith aggrottò la fronte e Cassy smise di ridere. Sentirono Cox richiamare l'attenzione di Book, fischiando ripetutamente all'esterno della casa e accartocciare qualcosa a intervalli regolari. «Su bello! Vieni a prendere la pappa!» Ad alta voce e facendo il giro della casa. Keith s'irrigidì, pur essendo abbastanza sicuro dell'intelligenza di Book, temeva che lo stratagemma del cibo funzionasse, s'impose di darsi da fare con le corde. Si trascinò con la sedia verso Cassy, fu un'impresa ardua, ma alla fine ci riuscì. Fuori Dalton continuava ad elogiare le prelibatezze della casa, cercando di appetire il cane con polpette farcite al veleno per topi. Book per ora l'osservava a debita distanza senza farsi vedere. Keith lottava insieme a Cassy per tagliare la corda con le pinze

provvidenzialmente infilate nei jeans che, l'amico all'aperto aveva ignorato. Sentendo i i sulle scale, Keith riprese a fatica la posizione iniziale, saltando con la sedia rapidamente. Quando Dalton sbucò con la testa tutto era come prima. «Tutto bene qui?» Ammiccò ai due ostaggi spavaldo, agitando un sacchetto pieno di polpettine appetitose. «Sono un tipo generoso, penso anche alla cena del tuo cane!» Andò verso Keith e sventolò le leccornie sotto il suo naso. Keith spalancò gli occhi. «Torno presto ragazzi, non vi divertite troppo è?» Se ne andò fischiettando, sicuro di sé. Un grido aberrante squarciò l'aria, pochi attimi dopo Dalton tornò letteralmente indietro volando e atterrando ai piedi di Keith. Aveva sbattuto violentemente la testa e un rivolo di sangue colava profusamente dalla tempia, stordito, non riusciva ad alzarsi. Book lo aveva aspettato a metà scala e cogliendolo di sorpresa, lo aveva spinto con forza giù, il risultato era più che evidente. Il criminale mugolava e si contorceva, Keith si alzò più che poté con la sedia ancora incollata e calò con un tonfo, ingabbiando a terra Dalton, il dolore che gli provocò si tradusse in un rantolo sommesso e un quasi soffocamento, lacrime a fiotti ora fluivano dai suoi occhi sbarrati. «Presto Cassy le pinze!» Ordinò rapido Keith. La piccola in ginocchio si avvicinò e riprese il lavoro, maneggiando faticosamente le pinze, ma con l'abilità di Keith in pochi minuti la corda iniziò a sfilacciarsi, con uno strattone le mani si liberarono. Stava per fare lo stesso con i piedi, ma una spinta decisa rovesciò la sedia, sbattendolo a terra, Cassy gridò, Book si mosse, ma Keith gli copriva col corpo quello di Dalton, iniziò così a ringhiare come una belva pronta a sbranare la preda, girava in tondo aspettando di colpire.

Keith si liberò dalla corda e dalla sedia scaraventandola e fracassandola sulla schiena del sadico rapitore e stupratore di bambini, l'altro reagì sferrandogli un pugno alla gola e immobilizzandolo sotto di sé. Ne nacque una lotta senza esclusione di colpi. Per essere uno smilzo era piuttosto forte Cox, Keith ne rimase sorpreso, pensava di avere un discreto vantaggio su di lui. «Farò una carneficina stanotte!» Promise digrignando i denti Dalton. «Vedremo!» Ribatté furibondo Keith. Calci e pugni venivano assestati con rabbia e determinazione. «Eri sempre tu! Vero?» Sbraitò con tutto il fiato che aveva in gola Keith, afferrando il polso sinistro dell'avversario e mostrando il tatuaggio con l'effigie della testa di tigre. Pensando all'immagine che aveva focalizzato poco prima, quando l'assassino aveva sventolato le polpette avvelenate come un trofeo. Dalton sogghignò perverso. «Già, sono tremendamente astuto! Per osservarti da vicino dovevo fingermi qualcun altro!» Rise di gusto. Keith ebbe il flash della vecchietta, dell'anziano e dell'operaio della compagnia elettrica, tutto in una volta e colpì con ferocia il cavallo dei pantaloni del lurido verme. Un grido acuto si levò nell'aria e il rifiuto umano volò di schiena sbattendo sonoramente a terra. «Ti dai anche ai travestimenti brutto figlio di puttana!» Si catapultò su di lui come uno schiacciasassi e lo afferrò per il collo, la sua stretta micidiale stava per spedirlo al creatore. Un rapido movimento della testa e un morso terribile alla mano fecero perdere la presa a Keith, l'attimo di respiro permise a Dalton di liberarsi e afferrare le pinze di Keith, come un fulmine le strinse al polpaccio, la carne lacerata prese a sanguinare, Keith urlò a squarciagola per il dolore improvviso.

Dalton sorrise maligno e alzò il braccio per ripetere l'operazione. Cassy piangeva e gridava in preda al panico. Il colpo non arrivò mai a segno. Il tempo parve fermarsi. L'aria rimase immobile. Un'ombra scura volteggiò. Si udì solo lo scricchiolio assordante di ossa rotte e solo dopo diversi secondi, il suono stridulo e straziante di grida imploranti. Book teneva saldamente nella mandibola il braccio di Dalton, che perdeva sangue come carne al macello. Keith si rimise in piedi, corse a calmare e slegare Cassy, cullandola al petto e bisbigliandole parole dolci, la bambina parve rianimarsi e riprendere colore. Dalton sotto assedio e ferito piagnucolava pietà e prometteva redenzione. Keith era sul punto di eliminarlo senza tante cerimonie. La mente prese a vagare, i volti di Jared Colte e Dalton Cox si sovrapposero inesorabilmente, ando per quello di Seth Gray, l'espressione grottesca e inquietante di quegli occhi morbosi, lo chiamavano ipnotizzandolo e inducendolo ad un gesto estremo. Guardò Cassandra, luce e pace lo investirono come un treno. Lei lo osservava attonita, in attesa. Keith respirò a fondo e schiarì la mente. Accarezzò Book che attendeva istruzioni, vivere o morire, parevano inneggiare i suoi occhi. Keith scosse lievemente la testa, il cane lasciò la presa e il braccio di Cox cadde a terra lacerato e smembrato in più punti. Keith lo afferrò per le spalle e con un pezzo della camicia tamponò la ferita.

Dalton Cox sussultava mentre Keith lo trascinava su per le scale seguito da Book e da Cassy. In silenzio uscirono dalla casa e attesero. In lontananza una fila indiana di luci scintillanti serpeggiava lungo la strada che portava alla spiaggia. Seduti sui gradini del portico videro le prime ombre schiarirsi, il cielo are da velluto a seta. Striature rame disegnare fili che univano cielo e mare. L'alba. Sospesa fra cielo e terra. Solo un attimo. “Vita o morte”, pensò serenamente Keith. Era stato ad un o dal baratro. Nuovo e vecchio scenario. Aveva vinto il nuovo. Per Cassy, perché i suoi occhi non vedessero quanto è profondo l'abisso di un uomo. Per sé stesso, per dimostrare ancora piena lucidità di scegliere. Libero arbitrio. Bene e male. Per Book, un eroe senza macchia, fedele ad ogni scelta e decisione del suo padrone. Eccola maestosa e divina, l'alba.

Luminosa e potente, dispiegarsi sul mondo, con l'aggressività di un'aquila. Lo sceriffo Harris arrivò di corsa battendo tutti, FBI compresa. Trafelato e rosso in viso, si fermò di botto, davanti ai quattro esseri che sembravano usciti da un romanzo Horror. «Salve sceriffo.» Esordì Keith con un sorriso enigmatico. «Che spettacolo è?» Indicò l'oceano, attraversato da riflessi lucenti e i primi raggi di sole, che investivano come lame taglienti la lingua di sabbia. Jacob Harris si ò una mano fra i capelli. «Già! Spettacolare.» Si avvicinò alla bambina e circospetto si abbassò davanti a lei. «Stai bene?» Chiese ansioso, contando ogni graffio sulla pelle di Cassy e imprecando mentalmente contro l'umanità intera, incapace d'impedire oscenità simili. «Grazie al mio angelo sì!» Rispose Cassy stringendo la mano di Keith, Book parve deluso e abbaiò, la piccola rimediò abbracciandolo forte. «Scusi, ai miei angeli!» Rise felice. Lo sceriffo riprese a respirare. Agguantò Dalton Cox, ridotto a brandelli e lo strattonò. «Spero che ti friggano il culo, maledetto mostro!» Sbraitò a denti stretti. Cox trasalì, ma non aprì bocca. Keith si avvicinò. «Augurati di finire nel braccio della morte, perché come esci, io sarò lì ad aspettarti, stavolta non ci sarà una bambina a proteggerti con i suoi occhi limpidi!» Sussurrò a labbra serrate. Dalton Cox, strinse le palpebre, maledettamente sicuro che, quelle parole

sarebbero state tradotte in realtà. Fu consegnato agli agenti e portato via in manette verso un'auto della polizia. George che era rimasto un po' in disparte andò ad abbracciare Keith. «Siamo un'ottima squadra!» Sentenziò «Formidabile!» Ribatté Keith. «Allora...» George stava per proporre qualcosa, ma Keith lo fulminò con lo sguardo. «Non pensarci nemmeno!» Lo zittì senza appello. I genitori di cassandra si catapultarono sulla figlia dibattendo con i paramedici che la stavano medicando, per abbracciarla senza sosta. Melanie corse e strinse forte Keith e poi Book. «Hai mantenuto la promessa!» Singhiozzò la piccola. «Davanti a una fanciulla, sempre!» Rispose, distendendo le labbra in un caldo sorriso. La bambina ricambiò illuminandosi in volto. Salutò con la mano e sfrecciò di corsa ad abbracciare la sorella. «Eppure dovresti...» Azzardò George. «No!» Sbottò Keith. «Stavo per invitarti a tornare con me da Laura, è intenzionata a ricoprirti di dolci.» Rise, all'espressione meravigliata di Keith. «Bé detto così, come potrei rifiutare!» Si diedero una sonora pacca sulle spalle e si avviarono verso l'auto. Keith diede un ultimo sguardo alla distesa d'acqua.

Un'altra alba lo aveva trafitto e salvato.

LIME

15 Ottobre 2012 Lunedì ore 8,00 a.m.

«Okay, gente datevi una mossa non abbiamo tutto il giorno, impacchettate ogni prova e catalogate i reperti, non voglio che il procuratore tiri fuori le solite storie sul lavoro approssimativo, siamo dei professionisti noi!» Il comandante Herb Johnson camminava da un capo all'altro dell'appartamento senza sosta, impartendo ordini agli agenti, che eseguivano all'istante, ben sapendo del temperamento focoso dell'uomo. Era concentrato ad esaminare ogni angolo recondito, intento a scrutare ogni particolare per scongiurare anche la minima probabilità di errore. Era fiero della sua meticolosità nel condurre un'indagine, ed analizzava acutamente anche i mobili e gli oggetti disseminati qua e là. C'era proprio un gran caos in tutte le stanze. Nella sua mente si faceva sempre più strada la convinzione che si trattasse di una rapina, ma non si illudeva di averne la certezza su due piedi, il suo motto era: “non dare mai niente per scontato”. Finché non avesse perlustrato come un segugio tutti gli ambienti della casa, non avrebbe espresso alcuna teoria, nel suo lavoro era fondamentale tenere la mente aperta ad ogni possibilità, bastava un insignificante dettaglio a capovolgere la situazione. Aveva inforcato i suoi occhiali bifocali, i guanti in lattice e come un radar umano, ava al setaccio anche i granelli di polvere. L'appartamento di circa cento metri quadrati aveva un arredamento elegante, con mobili in noce e quadri di un certo valore, un terrazzo sulla via principale, due bagni, uno piccolo ma funzionale nella camera da letto matrimoniale, uno più

grande in fondo al corridoio, ai lati due camerette da letto, apparentemente inutilizzate da anni. La sala era ampia con divani in pelle color cioccolato, un bel tappeto orientale di un rosso rubino al centro e una libreria alta fino al soffitto, che divideva elegantemente la sala dalla cucina; qui i mobili erano di un bianco panna con il ripiano di un lucidissimo marmo antracite, il tavolo era in angolo con le quattro sedie, le finestre davano sul giardino condominiale due piani più in basso. Un appartamento perfettamente in linea con le case di quella zona, sofisticato e signorile, non eccessivo, affacciato sull'Hannover street nel North end di Boston. L'unica nota stonata ovviamente, era il disordine che dilagava da tutte le parti, biancheria rovesciata sul parquet, sportelli dei pensili aperti, stoviglie sparse sul banco da lavoro della cucina, ad un primo sguardo, due quadri mancanti dalla sala. E ciliegina sulla torta, cassaforte sradicata dal muro; ne era una prova tangibile e inequivocabile lo squarcio in mezzo alla parete della camera matrimoniale, con molta probabilità abbattuto col proverbiale mazzuolo, i detriti erano disseminati come un sinistro percorso lungo il corridoio che conduceva alla porta d' ingresso. A rendere la teoria inoppugnabile, ci si era messa quella vocina fastidiosissima in testa, della serie e... i due poveretti stesi in bagno? Già, poteva reggere... una rapina finita male? Herb Johnson scosse la testa, era un uomo robusto e con i capelli ormai ingrigiti dal tempo, ma incredibilmente acuto e ancora intuitivo. Sentiva inesorabilmente di trovarsi davanti ad un altro rompicapo, ogni settimana o quasi, la storia si ripeteva, cadaveri da qualche parte. Il disastro era quando succedeva in quartieri residenziali come quello, molto ben fortificati da impianti d'allarme di ultima generazione, telecamere a circuito chiuso, portiere all'ingresso dello stabile e via dicendo. Aveva alle spalle vent'anni di onorata carriera, ma in certi casi non bastavano, per avere la certezza matematica di come si erano svolti i fatti, non era sufficiente l'esperienza o il sesto senso, ci voleva ben altro per risolvere un caso. Era fondamentale capire le dinamiche di ciò che era effettivamente accaduto e perché.

Date le circostanze tutto lasciava intendere che si trattasse proprio di rapina, ma quella vocetta si insinuava con tutti i dubbi e le incertezze nel profondo del suo essere, dandogli come al solito una maledetta emicrania. «Signore, spariti contanti e gioielli.» L'agente Jeff Thomson lo riscosse dalle sue elucubrazioni mentali. «Il medico legale che sta esaminando i cadaveri cosa dice?» «Un colpo d' arma da fuoco alla testa, forse una calibro trentotto, ma aspetta di eseguire l'autopsia in laboratorio ed avere in mano i proiettili per esserne sicuro al cento per cento.» Il comandante sbuffò spazientito, era fremente di sapere con certezza, perché due anziani coniugi avessero fatto quella brutta fine. «Signore, per me non ci sono dubbi guardi qua!» L'agente Kanny Lewis arrivò fiondandosi a fianco del comandante, con una fotografia in mano. «Questa foto ritrae, alle spalle delle vittime, i due quadri mancanti di Edward Hopper.» Vedendo il comandante perplesso specificò, «il famoso pittore.» L'altro alzò gli occhi al cielo. «Ma per favore, so chi è Hopper.» Osservò scuro in volto la fotografia e si rese conto di essere certo del perché e del per come si fosse consumaa la tragedia. «Questo è senza dubbio un caso di rapina, i ladri forse sorpresi dai coniugi, hanno reagito in maniera spropositata uccidendoli, sì, deve essere andata proprio così!» Si sentì molto più sollevato, ci mancava solo un assassinio mascherato da rapina per intasare il suo ufficio per mesi, no, meglio una rapina, senz'altro più digeribile dalla collettività. «Non ci provi nemmeno!» La voce alterata sovrastò tutti nella stanza. Una ragazza alta e biondissima sfrecciò come una furia in mezzo alla sala, i suoi occhi verdi come smeraldi puntarono dritti in quelli del comandante e a o di carica sbaragliò ogni agente che le si parò davanti.

Irritati da quei modi sbottarono al suo indirizzo, ma la giovane con un'alzata di spalle li liquidò e si piazzò davanti al comandante, con tutta l'aria di volerlo spedire a quel paese senza tanti complimenti. «Signorina, questo non è posto per lei c'è un'indagine in corso, per cui mi faccia il favore di u...» Interdetto il comandante Johnson, fu bloccato prima di concludere da un'imprecazione così forte, da gareggiare con uno scaricatore di porto. «Ma...» Tentò di articolare una protesta, la sua interlocutrice era di tutt'altro avviso però. «Senta tenente, qui c'è un errore di valutazione grande come il monte Everest e non,» «comandante,» «cosa?» «Non sono tenente, sono il comandante del dipartimento di polizia del North end.» Specificò paziente Johnson. La ragazza scosse la mano, per liquidare tutte le precisazioni che al momento non erano di vitale importanza, almeno questa era l'impressione che dava, vista l'impazienza di proseguire il discorso. «Come vuole, ma qui c'è qualcosa che non quadra, conoscevo personalmente il signor Hall e sua moglie, due persone squisite, certamente non sprovvedute, se avessero colto in flagrante dei ladri in casa, avrebbero gridato a più non posso, inoltre, io abito proprio nell'appartamento accanto, avrei sentito qualcosa, dei rumori, non le pare? A giudicare dal macello che campeggia qui, avrebbe sentito qualcosa anche un abitante della Groenlandia!» La ragazza allargò le braccia, ad indicare che c'era più roba per terra che nei rispettivi mobili. Il comandante tirò un sospiro, chiaro segno di frustrazione, ma cercò ugualmente di tenere un atteggiamento consono al suo ruolo e con uno sforzo non da poco, cercò di rivolgersi alla giovane come avrebbe fatto con sua figlia, lì, ringraziò mentalmente il padreterno per avergli concesso due figli maschi, meno inclini delle femmine a puntualizzare sempre tutto. «Senta signorina, a proposito come si chiama?» Le chiese trattenendosi a fatica nel vederla spazientita, mentre batteva il piede sinistro, pronta evidentemente a non mollare la sua presa di posizione. «Samantha Jones e come ho già detto abito qui a fianco, venivo spesso durante

la giornata a far visita ai signori Hall, sbrigavo loro anche alcune commissioni, quindi so di chi e di cosa parlo!» Affermò con una grinta da olimpionica e come un tornado afferrò la fotografia con i dipinti, strappandola direttamente dalle mani dell'agente Kenny Lewis, che rimase a bocca aperta per la sorpresa. «Sono super convinta che il furto non sia altro che una messinscena.» Dichiarò sicura di sé. «Senta signorina Jones, vista l'entità e il valore di alcuni oggetti mancanti, posso dirle che al novantanove per cento è un furto, in presenza del quale, purtroppo i due poveri coniugi hanno avuto la sfortuna di trovarsi.» Ribatté secco Johnson. «E io le dico, che è pazzesco non aver fatto il minimo rumore, nemmeno uno sparo, eppure quell'agente laggiù, ha asserito che, Carl Hall e sua moglie Bess Bailey, sono stati uccisi con una pallottola in testa, ora chi spiegherà ai figli di queste brave persone che il caso sarà archiviato come semplice rapina!» Sibilò al limite della pazienza Samantha. «Punto primo, i ladri potrebbero aver usato un silenziatore e poi perché nessuno mi ha avvisato che le vittime hanno dei figli?» Urlò il comandante, facendo vibrare pericolosamente anche i vetri delle finestre. «Non sono qui in America, vivono e lavorano a Parigi, vengono un paio di volte l'anno, perlopiù durante le feste. Due maschi, consulenti finanziari per una società in Europa.» Concluse soddisfatta, nel vedere tanti volti agitati intorno a sé. “Quelli dovevano indagare e battere tutte le piste”? Pensò delusa. Più che altro sembravano ansiosi di concludere e svignarsela alla svelta, ma col cavolo, lei avrebbe fatto fuoco e fiamme per andare fino in fondo, la storia della rapina non la convinceva proprio per niente! «Bene Signorina, grazie per la sua disponibilità e per le ulteriori informazioni, ma ora lasci fare a noi, avvertiremo i figli dei signori Hall, lei può stare tranquilla, saremo molto scrupolosi nelle indagini, adesso devo proprio salutarla e tornare al mio lavoro.» Il comandante Johnson fece un cenno di saluto con la mano e tornò a parlare con i suoi agenti, senza aspettare una risposta di Samantha. Lei strinse le labbra in una linea sottile, era improbabile che quegli zucconi

optassero per valutare le varie alternative, ormai si erano convinti si trattasse di rapina e non si sarebbero smossi di un millimetro da quella convinzione. Avrebbe dovuto darsi da fare da sola per vederci chiaro, forse scoprire un'altra probabile e agghiacciante verità. “Omicidio”. Uscì impettita senza voltarsi indietro e per prima cosa si attaccò al camlo dell'appartamento di fronte agli Hall. Addy Reed una ragazza mora, con occhiali di varie sfumature e vestita con tutti i toni dell'arcobaleno, aprì immediatamente la porta. «Ciao!» Salutò cordiale e con un sorriso incerto sulle labbra. «Scusami se ti disturbo, posso entrare un attimo?» Samantha puntò lo sguardo al soggiorno di Addy. «Certo, vieni.» Mentre richiudeva la porta, sbirciò in corridoio accennando con la testa al gran via vai di agenti che avevano invaso il corridoio e tutto il condominio. «Già un bel trambusto e il peggio è che secondo me, non ci hanno capito un tubo!» Affermò con una smorfia Samantha, ancora furiosa, per non essere stata minimamente presa in considerazione dalla polizia. Si sedette su un divano angolare che sembrava un giardino tropicale in piena fioritura, era evidente che ad Addy i colori sgargianti davano il delirio, lì tutto era vivace ed eccentrico, per non parlare delle pareti, di un lilla accecante. Samantha la guardò dritta in faccia e senza indugiare le rivolse la domanda che più le premeva. «Eri in casa stamani? Hai per caso sentito rumori sospetti, o che so, voci alterate?» «No, nessun rumore, tutto assolutamente tranquillo, neanche un bisbiglio a dire la verità, ero qui e non sono proprio uscita, figuriamoci poi, dopo che ho saputo dell'accaduto dal portiere, ero pietrificata dalla paura; due persone così perbene, incredibile.» Disse Addy, stringendosi le braccia al petto, scossa da un brivido.

«Avevo paura anche prima che accadesse un fatto come questo, ma adesso, devo dire che sono terrorizzata.» Aggiunse con voce atona. «Hai ragione, non si è più sicuri nemmeno in casa, ma se l'intuito non m'inganna, qui non si tratta di una comune rapina, la polizia sembra essere di tutt'altro avviso, ho intenzione di indagare per conto mio, gli Hall meritano giustizia.» Asserì torva Samantha, ripensando al comandante Johnson e alla sua squadra. «Oh! Mio Dio! Pensi si tratti di omicidio?» La voce di Addy era stridula. Samantha le rivolse uno sguardo eloquente, «non lo escluderei.» «Chi potrebbe aver avuto motivi per voler uccidere gli Hall? Erano gioviali e affabili con tutti.» Addy si torceva le mani in grembo, agitandosi sul divano, quasi volesse farlo decollare. «E' ciò che intendo scoprire e giuro che svelerò l'arcano, se poi è davvero una rapina finita male, chiederò scusa alla polizia per la mia testardaggine, ma la supposizione del furto con scasso senza alcun rumore, mi fa inevitabilmente pensare ad un omicidio in piena regola, in ogni caso, sono morte due persone splendide e non avrò pace finché i responsabili non pagheranno.» Dichiarò recisa Samantha. «Perché non chiedi anche a Carin Cox? In fondo al corridoio, lei soffre di insonnia, magari ha sentito o visto qualcosa.» Propose invasa da un'improvvisa illuminazione Addy. «Buona idea, ci vado subito grazie, se ti viene in mente anche il dettaglio più insignificante avvertimi.» Samantha le strinse affettuosamente una mano e scattò in piedi come una molla. «Senz'altro.» Ribatté prontamente Addy. Samantha guardava il traffico dell'ora di punta dal balcone del suo appartamento, mandando lampi dagli occhi, dopo aver parlato con Carin Cox, come suggerito da Addy, aveva un diavolo per capello, sembrava che fosse piombata in un maledettissimo vicolo cieco. Nessuno aveva né visto, né sentito niente di strano, sembrava tutto così anomalo... a quanto pareva i malviventi si erano materializzati dal nulla

nell'appartamento degli Hall e si erano smaterializzati come pulviscolo atmosferico, era assurdo e incomprensibile, forse fantascientifico. Eppure doveva pur esserci una spiegazione logica, mica erano sotto un attacco alieno! Irritata oltre ogni dire, afferrò il suo tablet e con abilità digitò alcuni nomi, avviando una ricerca rapida, setacciando l'intera area di Boston, Sotto la dicitura “agenzie investigative”. Afferrò il telefono e compose un numero, poi un altro e un altro ancora. «Caspita! Ma sono tutti oberati di lavoro!» Storse il naso delusa, poi notò un indirizzo poco distante, schiacciò i tasti come un bulldozer e attese in linea. Libero. Libero. Libero. Con rabbia riattaccò, senza esitazione afferrò la borsa al volo e uscì di casa. Ty Investigation, Cross street duecentonove. Aveva memorizzato l'indirizzo dell'agenzia investigativa e visto che era lì vicino, decise di andare di persona. La targa alla porta sembrava risalire alle Guerre puniche, ma lo stabile era elegante e ben tenuto, Samantha con un sospiro si fece coraggio e suonò il camlo. La porta emise un lieve ronzio e si aprì. Entrò e... Una montagna di scatoloni occupava l'intera stanza, l'odore di tabacco era così forte da far bruciare gli occhi e come se non bastasse, una voce tenebrosa sbraitava improperi permeando tutto l'ambiente.

Samantha si ò una mano sugli occhi. «Possibile non azzeccarne una!» Sì apostrofò a fil di voce. Ormai era lì, tanto valeva farsi avanti e vedere chi fosse l'essere che pronunciava certe oscenità. «E' permesso?» Pronunciò bene le parole, con voce chiara e squillante. Un uomo alto e con tutti i muscoli al posto giusto, emerse da dietro un enorme scatolone, un sigaro sporgeva all'angolo della bocca, i capelli castani arruffati, come se avesse corso la maratona e due occhi color ghiaccio, puntati su di lei come un radar. Samantha fece un o indietro. Aveva dato per scontato che tutti, ma proprio tutti gli investigatori privati, fossero tozzi, di mezza età, con incipiente calvizie e quei pochi capelli rimasti rigorosamente color sale e pepe; gli occhi poi, senza ombra di dubbio, infossati e dietro lenti spesse come fondi di bicchiere. Mai e poi mai, avrebbe creduto possibile che un esemplare del genere fosse un investigatore privato. L'uomo inclinò la testa di lato, esaminandola da capo a piedi, esibì un sorriso sornione, in chiaro segno di approvazione e senza il minimo ritegno, accompagnò la sua soddisfazione con un sonoro fischio. Samantha rimase interdetta, sapeva di non essere un tipo che a inosservato, ma addirittura quella spudorata manifestazione di palese apprezzamento, era semplicemente assurda. Si schiarì la gola spazientita. «Salve, posso parlare col titolare?» Chiese sbrigativa, senza lasciarsi prendere dall'imbarazzo, anche se temeva di avere le guance in fiamme. «Chi lo desidera?» Ribatté l'uomo, con un sorriso irriverente stampato sulle labbra.

«Senta, la smetta con questi giochetti, non ho tempo da perdere! C'è o non c'è il titolare?» Lo trafisse con gli occhi. L'uomo drizzò le spalle, si tolse il sigaro di bocca, poggiandolo con cura su un posacenere e le si avvicinò come un felino in procinto di atterrare la sua preda con un solo balzo. Altro o indietro, se indietreggiava ancora un po' sarebbe uscita di nuovo in strada, pensò mestamente Samantha. «Sono io il titolare, mi chiamo Andrew Taylor.» Le porse la mano, lei era combattuta se stringergliela educatamente, seppellendo lascia di guerra, o atterrarlo senza pietà con una mossa di Kung Fu, ripensando al trattamento che le aveva appena riservato. Optò per la versione civile. Se avesse fatto ancora il cascamorto, sarebbe ricorsa ad una riata coi fiocchi e contro fiocchi, così Mister macho, ci avrebbe pensato due volte la prossima volta. Afferrò la mano e la strinse con vigore, tanto per dare l'idea di essere una tosta. «Piacere, io sono Samantha Jones e ho bisogno di affidarle un incarico.» Soddisfatta di sé per aver tenuto la voce ben salda, nonostante un certo inspiegabile senso di vertigine, sotto l'assedio di quello sguardo così penetrante. «Piacere mio, ma dubito accetterò un qualsiasi incarico da lei, sto traslocando e sono fuori servizio fino a nuovo ordine, il mio!» Rise di gusto vedendola in difficoltà. «E' una questione di estrema importanza, non può rifiutarsi, almeno senta di che si tratta.» Rimase incredula, vedendolo riprendere il sigaro e voltarle le spalle. Girò appena la testa nella sua direzione. «Oh, si che posso, stia a vedere!» Così dicendo si diresse dietro gli scatoloni, lasciandola impalata lì, con una rabbia di proporzioni bibliche da smaltire. «Ehilà! Stanno arrivando i rinforzi!»

Un uomo alto e moro, quasi la travolse, portava degli occhiali da sole ed aveva un sorriso aperto e disarmante, niente a che vedere con quello assassino appena mostrato da Andrew Taylor, s'intende. Samantha si riscosse da quelle inopportune riflessioni, non le poteva importare di meno l'avvenenza dei due in quella stanza, era lì per un motivo, un motivo soltanto, scoprire cos'era accaduto veramente agli Hall. «Oh! Mi scusi, con questi pacchi davanti non l'avevo vista, non le ho fatto male vero?» Le chiese l'uomo, togliendosi gli occhiali e mostrando due occhi verde mare incredibilmente intensi. Sembrava sincero “e, finalmente una persona educata”, pensò immediatamente Samantha; senza alcun interesse sfacciato e secondi fini. «No, non si preoccupi, tutto a posto.» Rispose sorridendogli Samantha, da dietro arrivarono altre imprecazioni e una specie di ringhio. Senza dubbio super cortesia era all'opera, con un altro repertorio di finezze e frasi a tema. «Non si spaventi è per lo più innocuo.» Le bisbigliò ammiccante l'uomo. «Sì, ho già avuto ampiamente modo di constatarlo.» Ammise divertita suo malgrado Samantha. «Bene allora le risparmio inutili convenevoli, ne approfitto per presentarmi da solo, tanto se aspettiamo che faccia lui gli onori di casa, ci ritroveremo vecchi e decrepiti.» Le strizzò l'occhio e le strinse la mano. «Bastian Lee, un amico di quell'orso là dietro.» Disse con una smorfia all'indirizzo di Andrew, che nel frattempo aveva fatto capolino e lo stava fulminando con gli occhi. «Samantha Jones, molto lieta, anche lei lavora qui?» Gli chiese, sperando in un colossale sì, sembrava di gran lunga una persona più responsabile e disponibile, del cavernicolo con cui aveva appena avuto a che fare. «Oh! No, Dio ce ne scampi e liberi, sarei già morto e sepolto, io faccio il bancario, alla National Bank, a due isolati da qui, orario fisso, vita piatta e ripetitiva. Non come il nostro ospite, al limite dell'impossibile, orari terribili, week end inclusi, ed estremamente avventurosa.» A quelle parole, da dietro

arrivò un sibilo e una nuova sessione di altri sproloqui. Bastian tossì per reprimere una grassa risata, si era accorto che fra quei due doveva già essere avvenuta una mezza schermaglia, a giudicare dall'espressione di lei e dal cipiglio di lui. Non si aspettava di trovare una donna lì in quel momento e che esemplare, sembrava una diva del cinema e a giudicare dall'atteggiamento del suo amico, doveva pensarla allo stesso modo. «Peccato, avrei potuto affidare a lei il mio caso, pare che l'investigatore capo, non intenda occuparsene.» Sospirò frustrata, non solo alla polizia la snobbavano, ma anche mettendo mano al portafoglio, pareva proprio una sfida trovare anche solo un professionista disposto ad assumere l'incarico. «Sarà meglio che vada ora.» Salutò con un cenno Bastian e si voltò verso l'uscita. «Brava, saggia decisione.» Le arrivò a brucia pelo la frase aspra di Andrew. Lei lo incenerì con lo sguardo e si lasciò travolgere dalle emozioni. Fece una cosa che non faceva dai tempi dell'asilo. Una spudorata linguaccia. Guadagnandosi un urlo di approvazione da parte di Bastian, che si avvicinò ed esultante le diede anche il cinque. Uscì altezzosa e rigida, come se avesse ato ore al poligono di tiro, cosa che effettivamente ogni tanto faceva, le allentava decisamente i nervi. Cinicamente rimpianse di non avere lì un' arma, per scaricarla tutta su Andrew Taylor, un tipo estremamente irritante. Ragionandoci su non sarebbe stata una cattiva idea, meglio però non accarezzare troppo quel pensiero, si rimproverò nell'intimo, era il giorno giusto per macchiarsi di nefandezze, l'imperativo era lasciar perdere certi lampi di genio. «Andrew, mi sa che hai trovato pane per i tuoi denti.» Detto questo, Bastian uscì in strada correndo dietro a Samantha, lasciando dentro, un Andrew confuso e

incredulo, lui non si faceva mettere i piedi in testa da nessuno, tanto meno da una donna; vero strepitosa, ma assolutamente fuori questione assumere un incarico. Prima il trasloco, era in cima alla lista delle cose da fare. Vedendo che tipetto era, probabilmente la “questione di estrema importanza” stava nel fatto di acciuffare il ladro che le aveva sottratto la sua boccetta di smalto preferita; o il gatto persiano, scomparso inspiegabilmente nella notte. Col cavolo! Lui non voleva averci niente a che fare. Le belle donne da copertina patinata davano priorità a scemenze inenarrabili! Riprese a impacchettare il materiale con fare sbrigativo. «Aspetti!» Apostrofò col fiatone Bastian. «Mi spiace, vorrei dirle che di solito è un uomo cordiale e socievole, ma direi fandonie, è piuttosto uno che spara a raffica quello che ha sulla punta della lingua, il collegamento ai piani alti arriva per ultimo.» Si toccò con l'indice la tempia e sorrise. Samantha lo ricambiò. «Non fa niente, non ho tempo di analizzare la personalità di quell'... quell'individuo.» Concluse in fretta, prima che dalla bocca le uscissero parole scurrili, degne di un vocabolario a parte. «Ha detto che voleva affidargli un caso, può dirmi di che si tratta?» Le chiese seriamente interessato. Samantha ci pensò su un attimo, era un tantino combattuta, c'era un' indagine in corso, ma la notizia in ogni caso sarebbe stata divulgata a breve dalle reti televisive locali, quindi rilasciò il fiato, che solo ora si era accorta di aver inavvertitamente trattenuto e partì. Il racconto breve ma esaustivo. Il quadro della situazione completo e ricco di dettagli. I dubbi. Solo uno. Niente rumori.

Possibile? «Improbabile.» Confermò senza esitazione Bastian, concentrato come un giocatore di scacchi alla finale mondiale. «Senta, Andrew è bravo, ma effettivamente è in un momento caotico, ha ato gli ultimi quattro mesi dietro a un caso di rapimento, una bambina di otto anni, duro, logorante e pieno di insidie.» Vedendo gli occhi atterriti e stravolti di Samantha, si affrettò a concludere. «Finito bene, la piccola è finalmente a casa con la sua famiglia, certo non sarà facile per la bimba riprendersi, ma gli psicologi sono ottimisti.» Samantha si ò le mani sulla faccia riprendendo colore. «Comunque, quello che intendevo dire, è che si trasferisce sotto al suo appartamento, in un ambiente più piccolo, in fondo alla strada, dopo quest'esperienza preferisce occuparsi di casi meno stressanti, gli serve staccare un po' la spina, a partire da un locale diverso. Però lui è il migliore sulla piazza, ha lavorato in polizia per alcuni anni, è un segugio e se vuol tentare di convincerlo, c'è una cosa a cui non rinuncia mai, inverno e estate, pioggia o sole, il jogging, tutte le mattine, sei in punto, al Boston Public Garden.» Terminò scuro in volto Bastian, ripensando al tremendo periodo appena vissuto dall'amico. Lui lo aiutava ogni volta che poteva, occupandosi delle solite scartoffie burocratiche, sapeva in quale inferno a volte Andrew veniva catapultato. «Dice che non mi strozzerà su due piedi se tento di avvicinarlo? Sa, vorrei tenermi ancora un po' la gola tutta intera.» Domandò scherzando Samantha, riprendendo il suo solito tono sbarazzino. «E' abbastanza aggressivo, ma mai da toccare, se non con un fiore, una bella signora.» Ribatté deciso Bastian. «Speriamo si attenga a questa filosofia anche il diretto interessato, o per me saranno guai seri, ad essere sincera devo avvertirla, me la cavo piuttosto bene con il Kung Fu.» Gli strizzò l'occhio divertita da quello scambio. «Ottimo, non mi rimane che augurarle in bocca al lupo, a proposito amici?» Propose affabile Bastian.

«Amici, allora.» Samantha gli strinse la mano. «A questo punto siamo una squadra, possiamo anche darci del tu, no?» Le chiese, contento di averle dato un nuova possibilità, sperava solo in cuor suo, che Andrew non strangolasse lui, per quella bella dritta spifferata alla seducente fanciulla. «Affare fatto e grazie per avermi dato l'opportunità di tentare ancora con il signor Taylor, devo assolutamente fare giustizia per gli Hall, erano buoni amici e se è vero che lui è il migliore, deve risolvere il caso, ne va della memoria di quelle persone!» Era carica di energia e si sentì piena di forza nel dare voce a quei pensieri. Non si vedeva granché, quella mattina una bruma densa e lattiginosa saliva dal mare, rendendo la visibilità scarsa, le piante si erano già tinte di ruggine e le prime foglie cadevano dagli alberi. Samantha procedeva a o ben cadenzato inspirando ed espirando, inoltrandosi nei vialetti del Boston Public Garden, uno dei parchi più suggestivi della città. I salici piangenti incorniciavano il laghetto, dove le oche starnazzavano liberamente e gli scoiattoli saltavano dovunque, rendendo quel posto una vera oasi, era davvero entusiasmante attraversarlo, respirando odori e fragranze che si intrecciavano al gusto di salsedine proveniente dall'Atlantico. Si era alzata presto, aveva indossato la sua tuta verde acido, le inseparabili Nike e si era diretta al parco percorrendo Freedom Trail, il sentiero a mattoni rossi tanto affascinante per i Bostoniani quanto per i turisti di tutto il mondo. Aveva ato alcuni minuti ad ammirare lo Skyline di Boston, nonostante la nebbia si fosse impadronita di gran parte del paesaggio, lasciava intravedere le vette dei grattacieli più alti e lo spettacolo era sempre mozzafiato. Era entrata poco prima delle sei, sperando di incontrare subito il suo reticente e controverso candidato. Niente da fare. Aveva incrociato si e no due persone. Un anziano, intento a lanciare briciole a scoiattoli e erotti.

Un altro visitatore impegnato nel jogging come lei, ma all'orizzonte Andrew Taylor non c'era. «Sta' a vedere che proprio stamani non si fa vivo.» Rifletté a fil di voce. Aveva ato gli ultimi due giorni a ispezionare il luogo, seguendo discretamente il suo bersaglio senza avvicinarlo, sospettando che potesse prevedere una mossa del genere. Doveva essere prudente, per non sprecare anche questa insperata occasione di convincerlo a lavorare al suo caso, fargli capire senza mezzi termini che il suo aiuto era di vitale importanza, per non avallare un' immane ingiustizia, dettata dalla superficialità della polizia. Tentò di costringersi a essere paziente, anche se era al suo limite massimo, non vedeva l'ora di cominciare le indagini. Ecco improvvisamente spuntare da una curva il suo obiettivo. Repentina aumentò l'andatura. Lui aveva un ipod e auricolari, guardava fisso davanti a sé, come se il resto del mondo fosse chiuso fuori. Incurante della sua presenza, ma Samantha era assolutamente intenzionata a rivelargliela. Direttamente sulla sua traiettoria, appena di fronte, rallentò quel tanto da assestargli una sonora pacca sulla spalla, colto di sorpresa lui si sbilanciò e per un attimo parve rovinare a terra, Samantha lo afferrò per il braccio mantenendolo saldamente in piedi e beccandosi un'occhiata al vetriolo. «Ma che diavolo... fa?» Col fiato corto Andrew le si avvicinò minaccioso. Samantha si erse in tutta la sua statura, per una donna notevole, anche se lui la sovrastava di almeno dieci centimetri. «L'ho afferrata in tempo, non può lamentarsi, buongiorno, anche lei da queste parti?» Fece due occhi da cerbiatta degni di un oscar Hollywoodiano. Lui digrignò i denti, parve sul punto di azzannarla, lei come suo solito non cedette, aveva una missione da compiere, non c'era tempo di essere timida.

«Bello qui vero? Vengo spesso, l'aria aperta è un vero miracolo, prima che la neve investa tutto, una sana corsa mattutina è rigenerante!» Esclamò battendo le ciglia, come se quell'incontro fosse del tutto casuale. «Gliel'ha detto Bastian? Appena lo avrò a tiro gli farò saltare tutti i denti!» Sbottò Andrew. A quelle parole Samantha strabuzzò gli occhi, incapace di articolare parola. Andrew nel vedere la sua espressione non riuscì a trattenersi, echeggiò nell'aria la sua sonora risata. Lei lo osservò scioccata, le alternative erano due: o era pazzo, o si stava prendendo gioco di lei. «Non lo manderò di corsa dal dentista, se è questo che la preoccupa, ma grazie alla sua espressione, ho avuto la conferma, se mai ce ne fosse stato bisogno, che è qui grazie alla boccaccia di Bastian.» Rise di nuovo. «Lei si diverte a farmi venire un colpo, dica la verità?» Chiese stizzita Samantha, arrabbiata più con se stessa che con lui, per esserci cascata con tutte le scarpe, Bastian non le aveva forse detto che quei i due erano amici? Allora perché pensare che gli avrebbe torto anche solo un capello? Si era lasciata abbindolare come una liceale. «Mi stia a sentire, ho scelto lei per investigare sul mio caso e non intendo mollare, può opporsi quanto le pare, ma le assicuro che alla fine cederà!» Gli inveì contro. «Bastian ha istruito anche me, non ha per le mani un caso futile com'ero propenso a credere, bensì un probabile omicidio, però...» Fu interrotto bruscamente. «Se pensa di dissuadermi, adducendo tutti i buoni motivi per cui dovrei lasciar perdere, l'avverto non sprechi altro fiato!» Sibilò fra i denti Samantha, ormai lanciata come un proiettile. Andrew alzò le mani. «Non sia mai! Piuttosto ho una sfida da proporle. Tanto ho già capito che per

sbarazzarmi di lei, dovrò affrontare quantomeno un'impresa impossibile.» Batté due volte le mani per assicurarsi la sua piena attenzione. «Fa jogging spesso?» Le chiese. «Abbastanza.» Rispose lei, cercando di intuire dove volesse andare a parare. «Allora, la sfida è: chi arriva all'entrata del parco in cinque minuti vince, se sarà lei, io accetterò il caso, se invece il vincitore sarò io, la manderò al diavolo senza diritto di replica, e per inciso, non ci sono regole, se ha delle ali nascoste le usi, perché anche una persona con un buon allenamento, da questo punto, ci impiega otto minuti per arrivare al cancello.» Le restituì la sonora pacca sulla spalla, a sottolineare che l'avrebbe stracciata senza pietà. Samantha annuì mantenendo la calma, in realtà correva solo nei fine settimana, lei era una pediatra mica una maratoneta, però doveva tentare il tutto per tutto. «Okay al mio via: uno, due, tre, via!» Alla fine della sillaba Andrew scattò come una molla e Samantha cercò di imitarlo, diamine quello era veloce come una freccia, sarebbe stata ardua superarlo. Concentrata sulla traiettoria e intenta a pompare sui muscoli come uno stantuffo, si focalizzò sulla respirazione, rispolverando i fondamentali della corsa veloce, senza badare al problema distanza. “Poi doveva pur essere valso a qualcosa l'allenamento protratto per anni del Kung Fu”, pensò fra sé. Ad un certo punto, vide che lui deviava dal percorso iniziale, allora non si trattenne più, “bene niente regole”! Okay, s'impose di essere scorretta e letale, fece dietrofront e sparì. Andrew si chiese dove diavolo si fosse cacciata, un minuto prima era lì. Sperò non fosse a terra attanagliata da crampi indicibili. Arrivato all'entrata ghignava come uno che ha appena vinto la lotteria nazionale. Il ghigno gli morì sulle labbra. Lei era lì, in piedi con due uomini che si complimentavano.

«Com'è possibile?» Sbraitò. «Ho tirato fuori le ali, come hai suggerito tu!» Rise felice, come al diciottesimo compleanno, quando i suoi genitori le regalarono una moto Ducati 999 rossa fiammante. «Impossibile, eri dietro di me prima che...» Disse un po' impacciato. «Prima che cambiassi percorso tentando di fregarmi, niente regole ricordi?» Chiese impunemente. «Così ho fatto marcia indietro, ho tagliato per il laghetto, scavalcato la recinzione, eh sì, quella alta tre metri ed eccomi qui, fresca e pimpante, ma soprattutto vincente!» Trillò felice e fiera per la sua astuzia, i due uomini confermarono. «E' vero è arrivata per prima.» «Porca p... miseria.» Si riprese Andrew, era stato abbindolato senza ritegno, gli toccava il caso e dire che era sicuro di avere la vittoria in tasca. «Ben venuto a bordo, il lavoro è tuo, lo dimostra il fatto che negli ultimi minuti, ci stiamo dando del tu.» Sorrise e gli porse la mano, che lui strinse controvoglia. «Per prima cosa, voglio nomi e cognomi di tutti quelli nelle immediate vicinanze, compreso attività commerciali e affini, poi vedremo se qualcuno può aver avuto un qualsiasi motivo per uccidere gli Hall, questo naturalmente impone, discrezione assoluta, la gente che parla con noi non deve in alcun modo sentirsi minacciata o peggio braccata, altrimenti perderemo indizi importanti, regola numero uno: devono fidarsi di noi.» Andrew elencava una prima strategia d'azione, mentre Samantha prendeva nota mentalmente e cercava di ricordare gli abitanti della sua via. Erano rientrati in fretta dopo l'incontro mattutino. Fermandosi all'ufficio di Andrew, nonostante il caos per l'imminente trasloco, Samantha si rese conto che gli strumenti fondamentali erano in pieno funzionamento. Computer, cellulari criptati, cimici, microtelecamere e nota un po' da brivido, almeno per lei, alcune pistole, un paio di coltelli a serramanico, una serie non ben definita di manette e registratori tascabili, insomma, il kit di

sopravvivenza del perfetto investigatore privato, era ancora in modalità: “pronto all'uso”. Samantha, nel profondo, sperava di non trovarsi nel bel mezzo di uno scontro a fuoco, la sua esperienza finiva al poligono di tiro. Lungi da lei pensare di ferire qualcuno, o peggio, farlo secco. Aveva già dovuto sudare sette camicie per farsi ammettere nella squadra investigativa. Andrew era un osso duro. Convincerlo, calcando la mano sulla sua indicibile esperienza nel Kung Fu, evidenziando le sue doti e puntando tutto sul fatto che era assolutamente all'altezza della situazione, non era stato per niente facile. Ora che finalmente lui aveva capitolato, non poteva certo farsi vedere inorridita davanti a quella carrellata di armi. Andrew le ò un cellulare, un coltello e un piccolo registratore, le mostrò come usare il tutto e senza perdere tempo la trascinò verso il suo appartamento, che si trovava ad un centinaio di metri da lì. «Devo cambiarmi.» La informò semplicemente, mentre la teneva per mano e schivava la gente sul marciapiede che aumentava di minuto in minuto. «Anch'io!» Protestò lei. «Non c'è problema, lo farai quando andremo ad ispezionare l'appartamento degli Hall, sbaglio o sono tuoi vicini?» Le chiese diretto. Samantha avrebbe voluto dirgliene quattro, ma a che scopo? Tanto aveva già deciso tutto lui! Finalmente si trovavano ad esaminare la proverbiale scena del crimine. Samantha non ricordava di aver sofferto tanto come nell'ultima mezz'ora. Si era ritrovata nell'appartamento di uno scapolo, imbarazzata su cosa avrebbe potuto pensare chiunque li avesse visti entrare, si erano letteralmente fiondati in casa, come due amanti in preda ad un raptus incontrollabile, per il bisogno impellente di fare sesso. Come se non bastasse, era stata lasciata in mezzo alla sala, che di per sé non aveva niente di strano.

I mobili erano bianchi con ante in cristallo, il divano in cuoio color tabacco, il televisore cinquanta pollici al plasma, protagonista assoluto della parete verniciata di un intrigante blu elettrico e il tappeto etnico con colori pastello, dal giallo pallido al verde giada, davano all'ambiente vivacità e calore. Tutto nella norma, carino anche, poi ecco la nota dolente, c'erano tante di quelle foto incorniciate di donne di varie etnie, sorridenti e avvinghiate ad Andrew, da tappezzare una galleria d'arte. La cosa non le era piaciuta neanche un po', non che le frequentazioni e la vita amorosa di quello scontroso arrogante la riguardassero minimamente, però a tutto c'è un limite, almeno un po' di decoro! Esporre così, in bella mostra, tutte quelle donne come dei trofei, era allucinante, non che lei fosse una bacchettona incallita, ma diamine, dov'era finito il buon gusto. E poi, chi era la titolare reggente nel cuore del dongiovanni ora? Ci mancava solo una fidanzata nevrotica e gelosa, pronta a cavarle gli occhi, per il solo fatto di aver insistito a partecipare alle indagini, nell'innocente intento di rendersi utile e dare una mano. Sarebbe stato il colmo! Sperava decisamente di non trovarsi coinvolta in una scazzottata del genere, per la miseria, era lei che lo aveva assunto e pagava anche una discreta parcella per giunta, le spettava di diritto affiancarlo per scoprire i colpevoli. Rabbrividendo sotto l'assedio di quei pensieri, cercò di ritornare al presente. «La polizia non sarà contenta della nostra visitina.» Gli disse preoccupata. Andrew scosse le spalle con noncuranza. «Devo farmi un' idea e il quadro completo della situazione, inoltre conosco bene il comandante Herb Johnson.» Per lui era tutto chiarissimo, per Samantha un po' meno. «Il che significa che... ti fanno gironzolare sulla scena del crimine a tuo piacimento, così come se niente fosse?» Gli chiese incredula. Lui alzò gli occhi al cielo.

«Come vedi non sono corso al telefono ad avvertili che avrei fatto una visita di cortesia, dico solo che, se dovessero beccarci sul fatto, spiegherò le mie ragioni, ed avendo un buon rapporto col comandante, mi auguro di convincerlo a chiudere un occhio.» Lei borbottò, «anche tutti e due mi sa.» Lo osservava circospetta, mentre spostava oggetti e prelevava campioni di vario genere, da fibre di stoffa, a pezzetti di muro qua e là. «Dicevi?» Le mandò un occhiata in tralice da far paura. Lei prontamente fece finta di non aver sentito e fulminea diresse lo sguardo altrove, allontanandosi il più possibile. Sarebbe stata una collaborazione a dir poco spinosa. Fuori il sole splendeva, ed era piacevole godersi quegli ultimi stralci di clima mite. La città era come sempre in pieno fermento, i clacson irrompevano di tanto in tanto con il loro suono roboante, erano ate da poco le dodici e lo stomaco cominciava a farsi sentire, era praticamente dalle prime luci dell'alba che non toccava cibo, ma Samantha si guardava bene dal farlo notare al suo “collega”. In quel momento Andrew stava scorrendo la lista delle persone residenti in Hannover street. Era così concentrato che Samantha pensò di fargli un pizzicotto, per vedere se reagiva, quel pensiero le strappò un sorriso. Lui se ne accorse. Cavolo. «Bè?» La incenerì all'istante. Gli mollò un pizzicotto al braccio senza esitazione. «Ahi!» Sbottò lui. «Ecco il motivo della mia ilarità, mi chiedevo come avresti reagito, ora lo so!» Si voltò con aria beffarda e senza aspettarlo si diresse verso la panetteria.

Meglio iniziare a visitare i negozi, che starlo a sentire imprecare per chissà quanto. Invece lui sorrise, quella donna era un tornado, riflettendo su quella considerazione la seguì. Con una penna rossa, Andrew spuntava i posti e le persone già visitati. Negozio di panetteria : Darrell Young e sua moglie Dixie Ward. Autonoleggio: titolare Edric White, impiegate Eveline Still e Fran Howard. Negozio abbigliamento: commesse Jill Ross e Kae Long. Tendential Hair: il proprietario Fabian Davis, i dipendenti Gib Smith, Leah Foster e May Butler. Pub Ruler: i baristi Leo Scott e Pete Green. «Qui per ora niente sul fronte occidentale.» Esordì Andrew, piegando accuratamente il foglio e infilandolo nella tasca dei jeans logori. «Tutti conoscevano benissimo le vittime, nessuno a visto niente di strano, a quell'ora tutti dovevano ancora aprire bottega, come si dice in gergo e nei giorni precedenti alla presunta rapina, nessuno ha notato gente nuova, presenza di auto, o furgoni sospetti, direi che è tutto da copione, perfetta omertà, del tipo non voglio guai, se anche ho visto qualcosa me lo tengo per me. E noi siamo al classico punto morto!» Soffiò esasperato l'aria dai polmoni. Vedendo lo sconcerto sul volto di Samantha, cercò di moderarsi. «Non preoccuparti, scoveremo qualcosa, adesso andiamo dalla donna delle pulizie, vediamo se salta fuori almeno un barlume d'indizio.» Prese di nuovo il foglio. «Harriet Parker, è lei che si occupa delle pulizie condominiali giusto? In quali giorni?» Andrew fissava Samantha come un falco e lei si sentiva a disagio, era impacciata quando puntava gli occhi in quel modo dentro i suoi, come se riuscisse a penetrarle l'anima. «Il lunedì e il venerdì.» Lo informò spedita per evitare di incespicare nelle parole. «Immagino che lunedì, sia arrivata a lavoro quando ormai il fattaccio era stato compiuto.» Affermò Andrew.

«Sì, lei inizia il turno alle otto e trenta, l'allarme era già stato dato dal portiere Bob Rundall. E' lui che ha chiamato la polizia. Ha, o meglio, aveva l'incarico di citofonare tutte le mattine ai signori Hall alle sette e trenta, sai persone anziane, preferivano essere sicuri di alzarsi a quell'ora, per via dei medicinali da prendere a orari stabiliti. Così quando non hanno risposto a Bob come al solito, lui si è insospettito ed è salito a controllare, non ha nemmeno dovuto usare la sua chiave, la porta era socchiusa e li ha trovati già morti, poveretto urlava così forte, che quando siamo corsi tutti in corridoio, ho temuto gli sarebbe venuto un infarto.» Samantha tremava al ricordo. Andrew era turbato nel vederla afflitta, lui di casi di quel tipo ne aveva un bagaglio strapieno, ma per una persona con un lavoro normale, era terribile trovarsi faccia a faccia con la cruda realtà. A volte le brave persone facevano una brutta fine. Tragico sì, purtroppo frequente, quell'amara consapevolezza lo incupì, certe esperienze lasciavano un segno indelebile dentro. Le mise un braccio sulla spalla, voleva solo essere un gesto di conforto, ma si ritrasse in un lampo, avvertì una scossa elettrica, ci mancava solo di provare attrazione per una cliente. Impensabile. «Senti, tu pensi si tratti di una rapina, o credi come me che siano stati uccisi?» Gli chiese Samantha mordendosi il labbro inferiore, temendo di aver travisato un po' le cose ed essersi infilata in un'impresa strampalata. Andrew ci pensò solo un attimo. «Uccisi.» «Senza ombra di dubbio, non c'è stata effrazione, come se avessero avuto la chiave, o una copia, gli oggetti mancanti sembrano presi solo per inscenare una rapina, a parte sradicare la cassaforte, fin troppo plateale; ma le due cose che mi ronzano in testa come elementi fuori posto sono: a) una cassaforte piccola come quella poteva aprirla anche un ragazzino alle prime armi, poi quanti gioielli o denaro avrebbe mai potuto contenere? Avevano già i due dipinti di Hopper, che se la memoria non mi inganna, valgono più di tutto l'appartamento. E, b) in tanti anni di onorata carriera, ho visto parecchie rapine finite male e con una scia di cadaveri, ma in nessuna di quelle, le vittime erano state uccise con un colpo in testa da una calibro trentotto. Se mai, gente crivellata di colpi sparati

all'impazzata per fuggire alla svelta, oppure accoltellata, con quattro o cinque fendenti. No, questo scenario assume più i contorni di omicidio, quasi come i delitti di mafia per un regolamento di conti.» Samantha trasalì. «In questa zona non è mai successo un fatto così orribile.» Quasi piagnucolò in preda alla confusione più nera. «La polizia crede fermamente si tratti di rapina, può darsi abbiano ragione?» Sperava quasi lui concordasse con quell'ipotesi, l'idea dell'omicidio stile mafioso, le dava il capogiro, cominciava a pensare di aver imboccato un tunnel senza sfondo. Andrew aveva lo sguardo torvo e si ò una mano fra i capelli, un gesto che denotava un certo nervosismo. «La polizia si lascia troppo spesso irretire dalla soluzione più semplice, ti assicuro che qui di semplice non c'è un bel niente. Il quesito principale ad una fredda analisi, rimane il perché, ovvero il movente, chi li ha uccisi? Qual è la vera ragione di questo assassinio. Coniugi anziani, apparentemente senza alcuna macchia sul loro conto, stimati e apprezzati. Se riusciamo ad afferrare il senso di questo scempio, cogliere il più piccolo indizio e congiungerlo all'inafferrabile anello mancante, ricostruiremo il percorso e l'intento dell'assassino o degli assassini. Ci deve pur essere una crepa, in questo, che sembra essere un piano perfetto.» Sospirò frustrato. «Anche se tutto pare ben congegnato, non significa che qualcosa sia sfuggito al controllo. Dobbiamo solo scovarlo.» Ribadì concentrato. «Vieni torniamo in ufficio, devo fare un paio di telefonate, ho alcuni agganci in laboratorio, farò analizzare questa roba, sentiamo cosa ne salta fuori.» Agitò il sacchetto di plastica dove aveva infilato i reperti e la guidò fuori dall'appartamento, richiudendo agilmente la porta alle sue spalle, non lasciando nessuna traccia del loro aggio. «Aggressione?» «Quando?»

«Sembra ieri sera intorno alle ventuno.» «Non ho sentito niente.» Il barista diede un'alzata di spalle, «nemmeno qui dentro, erano tutti presi dalla partita di football, le urla di incitamento e le grida ad ogni punto conquistato assordavano tutto il locale.» Andrew e Samantha erano al bancone del Ruler già da un po', stavano esaminando le carte e le poche informazioni ricevute dal laboratorio. Le analisi non avevano svelato granché, forse una piccola speranza di individuare un DNA diverso da quello degli Hall fra le fibre di tessuto analizzate, ma poteva trattarsi di una persona estranea ai fatti, magari un vicino di casa. In ogni caso, cercavano di non ignorare neanche il più piccolo dettaglio. Tutte le piste erano valide, fino a prova contraria. Il locale era semivuoto, un posto con le pareti ed il soffitto neri come la notte, pieno di specchi e foto di vecchi film, qualche locandina di prima cinematografica appesa qua e là, un bancone tirato a lucido in acciaio satinato, tavoli e sedie lucidi in tinta con le pareti, pavimenti in grès porcellanato rosso rubino, così brillante, da sembrare in grado di rilasciare luce propria. Da un paio di giorni si dirigevano lì, poco prima di cena, per rielaborare i dati raccolti durante la giornata in loro possesso, scambiando quattro chiacchiere e prendendo un drink, giusto per riconciliarsi col mondo. Era snervante procedere pressoché alla cieca e visto che non riuscivano a fare progressi, speravano ancora di estrapolare qualche indiscrezione ai clienti abituali. In effetti avevano conversato più volte con vari negozianti, che solitamente a quell'ora, erano inclini a concedersi la pausa aperitivo. «Ieri sera sono crollata in un sonno profondo subito dopo cena e stamattina quando ho incrociato il portiere, non ha fatto cenno all'accaduto.» Disse Samantha, cercando di ricordare bene l'incontro. «Non so chi lo sappia con esattezza, è corso ad informarci il signor White dell'autonoleggio all'ora di pranzo, aveva appena subito l'ennesimo interrogatorio dalla polizia, qui la cosa sta mettendo tutti in agitazione, prima la tragedia degli Hall, ora il simpatico Ted Mylon, cosa deve ancora succedere? E dire che questa zona era estremamente sicura fino a qualche giorno fa!» Affermò Leo, mentre

serviva un succo d'ananas a Samantha. «La cosa è parecchio sospetta, il signor Mylon cosa faceva in quel fondo, se non sbaglio è vuoto.» Domandò Andrew sorseggiando un Bloody Mary. «Infatti, è vuoto da diversi anni, da quando Ted è in pensione, ha lavorato in quel locale per gran parte della sua vita, faceva il tappezziere, non lo ha mai venduto o affittato, lo tiene come garage, ed è contento di lasciarlo in eredità ai nipoti, cerca di fare regolare manutenzione in funzione di quella prospettiva, di sicuro dentro non c'è niente di valore, quando lui è lì a trafficare per riordinare le cose, lascia il portone immancabilmente aperto per ore.» Leo rise, pensando a tutte le cianfrusaglie che Ted, di tanto in tanto, rovesciava nel cassonetto della spazzatura. «Ora come sta il signor Mylon?» Chiese preoccupata Samantha, nonostante avesse visto solo di sfuggita l'anziano uomo. «Se la caverà, ha diverse contusioni e pare gli abbiano dovuto dare dei punti sulla testa, un brutta ferita fatta con un oggetto pesante, ma tra qualche giorno potrà tornare a casa, è stato fortunato, poteva finire molto peggio, fronteggiare degli aggressori armati fino ai denti è assolutamente sconsigliabile, ma conoscendo Ted ha reagito d'istinto, cercando di difendersi.» Disse Leo, sapendo bene come era fatto il suo più affezionato cliente. «Forse dovremmo andare a fargli visita.» Propose Andrew. «Già, non è una cattiva idea.» Confermò Samantha, sperando che l'uomo potesse portare un po' di luce sugli eventi che avevano investito quella settimana. Mentre prendevano un'ascensore strapieno di gente, per salire al piano dov'era ricoverato il signor Mylon, Samantha era concentrata ad inviare un sms col suo cellulare. «Problemi?» Le chiese Andrew, vedendola digitare sui tasti con la destrezza di una pianista. Lei alzò brevemente gli occhi. «No, ho solo chiesto ad un collega di sostituirmi per qualche giorno in studio, sperando di risolvere questa faccenda alla svelta, prima delle vaccinazioni

influenzali.» Andrew aggrottò la fronte, la posa era piuttosto buffa e Samantha gli rivolse un mezzo sorriso. «Faccio la pediatra, lavoro in uno studio medico in centro.» Lo informò divertita, rendendosi conto di averlo lasciato a bocca aperta. «Questa sì che è una rivelazione! Pediatra, da non credere, ti facevo più da... istruttrice in palestra!» Esclamò lui scuotendo la testa, non riuscendo a conciliare l'immagine di lei con la professione di medico. «Spiacente, laureata e a pieni voti anche!» Samantha rincarò la dose, sottolineando i suoi meriti, vista la faticaccia che aveva fatto nel corso degli anni per raggiungere quei risultati. «Bè sbalorditivo, davvero sbalorditivo.» Si complimentò sinceramente colpito Andrew. «Allora, il tuo collega che fa? Ti copre solo le spalle, o è anche il tuo spasimante?» Le chiese ammiccando, guadagnandosi l'attenzione di tutti gli occupanti dell'ascensore. Samantha stava per mandarlo in lidi più felici, quando le porte si aprirono e le persone si riversarono nel corridoio come un fiume in piena. andogli accanto lo spinse di lato senza tante cerimonie, Andrew quasi si spalmò contro la parete. «Ehi! Che irruenza, per una domandina personale, quante storie, secondo me ho toccato un nervo scoperto.» Le fece una smorfia arricciando le labbra. «A parte che non sono affari tuoi, ma prima che ti lanci in ipotesi assurde che potrebbero distrarti dalle indagini, ti informo che si tratta solo di un collega, sì, è vero ci scambiamo dei favori qualche volta, solo e soltanto lavorativi ovviamente, quindi piantala e spremiti le meningi esclusivamente per il caso!» Gli intimò puntandogli l'indice direttamente al centro del torace. Andrew alzò le mani.

«Afferrato il messaggio, però accidenti siamo parecchio suscettibili sulla sfera privata è? Chi è il debosciato che ha ferito il tuo piccolo e caldo cuoricino? Se me lo dici gli farò un lavoretto che si ricorderà per il resto dei suoi giorni, garantito!» Sentenziò ridendo. «Lo sai? Oltre che scontroso e arrogante, sei terribilmente insolente, uno di questi giorni dovrò proprio darti una raddrizzata!» Samantha gli ò davanti tagliandogli quasi la strada, Andrew rischiò di inciampare e per evitarlo, rallentò il o facendola are senza protestare. Chiesero ad un infermiera dove fosse la stanza del signor Ted Mylon, la donna prontamente gliela indicò, così si inoltrarono nel dedalo di corridoi di cui l'ospedale era fitto. Raggiunta la stanza, bussarono e attesero che dall'interno una voce desse il via libera. «Avanti!» Il tono forte e chiaro li investì all'istante. «Salve, lei è il signor Ted Mylon?» Chiese Samantha conquistando il centro della stanza. «In persona, chi mi vuole?» Samantha tese la mano e l'uomo la riconobbe, anche se si erano visti di rado, eccetto qualche saluto di cortesia quando si incrociavano, non avevano mai avuto una reale conversazione. Samantha gli porse una scatola di cioccolatini e Ted le rivolse un sorriso aperto in segno di eterna gratitudine. «Chi dice che i giovani hanno scordato le buone maniere? E perbacco, questa è la mia marca preferita!» Esclamò tutto contento, mentre assicurava l'agognata scatola nel cassetto del comodino. «Mi pare il minimo, visto la brutta avventura che ha vissuto, speriamo di cuore che il cioccolato allevi almeno un po' le sue sofferenze.» Samantha gli batté affettuosamente una mano sulla sua e l'uomo parve estremamente compiaciuto da quelle attenzioni.

Andrew invece ne era infastidito, come se le attenzioni dell'anziano nei confronti di Samantha non gli andassero a genio, eppure quei due potevano tranquillamente essere zio e nipote, ma per una ragione alquanto ignota, gli prudevano le mani, se il caro vecchietto si prodigava ancora un po' in tutte quelle profusioni, era sicuro che la sua prognosi sarebbe stata immediatamente prolungata. «Senta Signor Mylon, ci dispiace infastidirla dopo quel che ha ato, però potrebbe raccontarci com'è andata?» Andrew si inserì fra i due come un giudice di gara, beccandosi un'occhiataccia da parte di Samantha. «Perché lo volete sapere? Collaborate forse con la polizia?» Chiese sospettoso Ted. «Non proprio, vede ho assunto io il signor Andrew Taylor, è un investigatore privato, dopo che i signori Hall sono stati trovati morti nel loro appartamento, ho deciso di vederci chiaro, devo ammettere che l'ipotesi di rapina fatta dalla polizia non mi convince affatto.» Chiarì prontamente Samantha, sperando di tranquillizzare Ted e fargli decidere di rivelare qualche ulteriore dettaglio. Ted sospirò. «Già che tragedia, li conoscevo da anni sapete, quasi tutta la loro tappezzeria viene dal mio negozio, quando ero in piena attività, qui ero una specie di celebrità, ho fornito a tanta gente, sete, pizzi, rasi di ogni genere, rendendo le loro case dei luoghi fantastici. Purtroppo con l'età ho dovuto chiudere il negozio, ma ho mantenuto ottimi rapporti con i clienti. Forza che volete sapere? Se posso essere utile lo farò volentieri!» Disse risoluto. Si guardarono un attimo, poi Andrew si lanciò in un interrogatorio a tappeto. «Ho ricevuto diverse telefonate ultimamente, soprattutto nelle scorse settimane.» Li informò Ted. «Che tipo di telefonate?» Lo incalzò Andrew. «Per lo più agenzie immobiliari, chiedevano immancabilmente, se fossi intenzionato a vendere il fondo, dove per anni aveva avuto sede il mio negozio, io ripetevo che non volevo vendere, ma dopo alcuni giorni le telefonate riprendevano, come se non fossi stato abbastanza chiaro.»

«Ricorda se la voce fosse sempre la stessa?» Domandò Andrew, mentre prendeva appunti su un taccuino. Ted ci pensò su per alcuni minuti. «Non sono sicuro, però credo di no, il timbro sembrava diverso, comunque era sempre una voce maschile.» «L'aggressione, può dirci qualcosa?» Andrew alzò brevemente gli occhi, per scorgere eventuali emozioni nel suo interlocutore, ma Ted sembrava a suo agio e concentrato nel ricordare la sera precedente. «Come spesso accade mi reco nel mio fondo per controllare che sia tutto in ordine, dare una pulita qua e là. Tengo lì vecchi documenti, abiti dismessi, giocattoli di figli e nipoti, ieri sera però, stavo cercando alcune foto per una ricerca scolastica di mio nipote, quando qualcosa si è abbattuto sulla mia testa. Ho visto tutte le stelle del firmamento e ho imprecato come un indemoniato.» Ted respirò profondamente prima di proseguire. «Quando mi sono voltato c'erano un paio di tizi piuttosto alti e incappucciati che brandivano due mazze da baseball, non so se mi hanno colpito con una di quelle, il dolore era tremendo e non mi sono messo a disquisire su i loro mezzi da teppisti, fatto sta che non ho perso tempo, ho fatto il militare io, Vietnam, per la precisione.» Gonfiò il petto marcando bene le parole. «Un eroe a tutti gli effetti.» Sentenziò ammirato Andrew, guadagnandosi un saluto militare da parte di Ted, orgoglioso del rispetto dimostratogli. «Per farla breve, nonostante l'artrite non favorisca certe prese di posizione, ho afferrato l'estintore che avevo di fianco e l'ho scaricato sui due ceffi, dopodiché gliel'ho scagliato ripetutamente addosso, i due codardi se la sono filata a gambe levate, non so che danni abbia provocato a quei vermi, ma li ho messi in un fuga come due conigli e questo alla veneranda età di ottantadue anni!» Esclamò gongolante, lasciando Andrew e Samantha esterrefatti. Fischiarono in coro e poi scoppiarono a ridere seguiti da un raggiante Ted. «Caspita Ted è un fenomeno, ben fatto!» Si complimentò Samantha. «L'esperienza ha i suoi vantaggi, però la nota dolente è che non sono in grado di

identificarli e tanto meno so che accidenti volessero da me, nel mio fondo non ci sono cose di valore, lo si capisce ad una prima occhiata.» Ribadì Ted. «Non cose di valore, ma il fondo in sé, potrebbe essere stato l'obiettivo.» Rifletté ad alta voce Andrew. Salutarono riconoscenti, un Ted Mylon meditabondo sulle ultime parole. Uscendo dall'ospedale Samantha si bloccò di botto. «Che cavolo...» Sbottò Andrew evitando per miracolo di travolgerla. «Porca miseria e se fosse...» Samantha gesticolava come per aiutarsi a trovare le parole giuste. «Gli Hall hanno un fondo proprio davanti al palazzo dove abitiamo, vuoto da anni, naturalmente verrà ereditato dai figli con tutto il resto. Sostenevano di non volerlo affittare o vendere, sarebbe aumentato di valore di pari o con l'appartamento.» «Brava, forse dietro a tutto c'è qualcuno interessato a farsi vendere quei fondi, è pur sempre meglio di niente, ora abbiamo una pista.» Andrew le diede un buffetto sulla guancia e assurdamente Samantha si sentì gratificata da quel gesto, un sospetto rossore le investì le guance. Per fortuna Andrew parve non farci caso. «Andiamo, devo chiedere un grosso favore a Bastian, lui con le scartoffie è un asso.» Andrew aumentò l'andatura, tanto che Samantha dubitò fortemente di riuscire a tenere il o. «Non se ne parla!» Ringhiò Bastian. «Ti do' due biglietti per la finale del campionato.» Implorò al limite della decenza Andrew, strappando una sonora risata a Samantha, che tutto si aspettava, tranne che, vedere quei due impegnati in un tira e molla degno del primo anno di asilo.

Loro la incenerirono all'istante, ma Samantha non si scompose neanche un po' e continuò a ridere imperterrita. «Stai scherzando? L'impiegata responsabile di quel posto se la batte con la maga Circe, ti rendi conto? L'ultima volta che mi hai spedito in quel buco, per poco non mi salta addosso come un'ossessa, no! Scordatelo io là dentro non ci torno!» Bofonchiò Bastian, girando per lo studio dissipato di scatoloni. Andrew lo tallonava, promettendo ogni sorta di ricompensa degna di quell'estremo sacrificio, anche se a dire il vero, Samantha non aveva la minima idea di cosa quei due stessero discutendo così animatamente, l'unica cosa chiara, era che, Bastian pareva terrorizzato da una non ben identificata impiegata di un altrettanto ignoto ufficio. Alla fine Andrew giocò la sua carta. «Una cena al lume di candela con lei!» Indicò Samantha. La risata le morì in gola. Bastian fissò tutti e due. Andrew avrebbe voluto rimangiarsi quelle parole, era perfettamente conscio che a Bastian Samantha andava incredibilmente a genio, ma a mali estremi estremi rimedi, infondo una cena che male avrebbe fatto? Poi ripensandoci, lui non aveva niente a che spartire con la sua avvenente datrice di lavoro, potevano anche andare a vivere insieme per quel che lo riguardava, dopo aver raccolto le informazioni per il caso s'intende. Non del tutto onesto con se stesso, visto il senso di protezione che stava sviluppando per Samantha, cercò di convincere l'amico, alzando un po' la posta. «E magari dopo cena anche un bel film al cinema, ci stai?» Gli chiese speranzoso. Samantha allibita scese dallo scatolone su cui era rimasta seduta a godersi la scena, piombando a terra con un tonfo. «Ehi! Da quando si organizza una serata davanti a me come se io non ci fossi?» Strillò scioccata.

Andrew schioccò le dita spazientito. «Vogliamo proseguire con le indagini sì o no?» Digrignò i denti andandole vicino. «Non a mie spese però!» Lo investì lei. «Niente di personale!» Si rivolse a Bastian, che con un gesto la tranquillizzò, avendo capito il suo punto di vista. «Se qualcuno non va al municipio per vedere le quotazioni attuali degli immobili in questione, non faremo nessun o avanti!» Rincarò la dose. Samantha ancora non era riuscita a farsi il quadro esatto della situazione, le sfuggiva il senso di tutta l'animosità che all'improvviso li aveva travolti e spavalda lo sfidò. «Allora vacci tu, anziché obbligare lui. Ti esorto ad evitare di donare me come premio. Una cena poi! Roba da matti, ma per chi mi hai preso? Per una sfigata? Tanto disperata da non potersi permettere di accaparrarsi nemmeno un appuntamento da sola? Se Bastian e io, ribadisco se, avessimo intenzione di andare a cena insieme, sta' pur certo che non ci serviremo di te per farci da Cupido! Gran pezzo di idiota!» Aveva gli occhi fuori dalle orbite e gesticolava in modo convulso. Andrew era a un o dallo strangolarla sul posto, per riprendere il controllo, chiuse gli occhi e si costrinse a darsi una calmata. Riando mentalmente le tabelline, per essere sicuro di non compiere un gesto sconsiderato. «Ci andrei, se l'impiegata al municipio non volesse incenerirmi ogni volta che le chiedo il più piccolo favore. Per me ci sono sempre divieti sospetti e si deve seguire un fantomatico e rigido protocollo. In questo caso probabilmente tirerebbe fuori che dovrei avere l'iscrizione ad un qualche albo, che so, degli immobiliaristi, oppure l'autorizzazione con la firma del presidente degli Stati Uniti, tanto per dire, insomma, quella mi trova sempre un mucchio di impedimenti. Invece se ci va Bastian, è tutto okay, niente intralci burocratici, lo porta perfino nell'archivio e gli fa maneggiare anche documenti riservati se gli gira, come se fosse il sindaco!» Sbuffò al limite della pazienza Andrew. Bastian imprecò a denti stretti. «Per forza, quella mi ha messo i suoi occhi da gattamorta addosso. Tu non hai la

più pallida idea di cosa mi faccia are quella donna, per farmi vedere, come dici tu, il materiale, sono costretto a farmi palpare ovunque, ripeto ovunque e non è l'esperienza più esaltante della mia vita, te l'assicuro! E per inciso, non ho bisogno che mi procuri a mo' di ricompensa, velata da ricatto, un appuntamento con Samantha, perché posso farlo da solo.» Si avvicinò a lei con un sorriso seducente, ma allo sguardo truce della ragazza preferì tornare sui suoi i. In quella fase di stallo in cui tutti e tre mandavano lampi e respiravano affannati, il pensiero di non poter mettere le mani su quelle informazioni prevalse. «E va bene, vada per una cena e un film, ma niente lume di candela.» Capitolò Samantha sudando freddo, non perché Bastian non le fosse simpatico, tutt'altro, ma piuttosto pensando a quali eventi quella concessione l'avrebbe condotta, osservando lo sguardo torvo di Andrew, non era tanto sicura di uscire indenne da tutta quella storia. Bastian sorrise, in fondo l'incontro con l'impiegata assatanata avrebbe portato a qualcosa di buono, almeno stavolta. «Okay, se per Samantha va bene ed è per svelare il mistero, vado in municipio dall'arpia!» Si mise la mano sul petto, come pronto a un solenne giuramento. «Ti assicuro che sarò un perfetto gentiluomo.» Porse la mano a Samantha, che la strinse decisa. La forte stretta sancì l'alleanza per la buona causa, tanto bastava, per rinnovare l'entusiasmo a proseguire nelle indagini più determinati che mai. Le stanze erano ampie e ben illuminate da alte finestre, l'odore di carta permeava l'aria. Quando Bastian entrò e si avvicinò al bancone di accoglienza, fu subito raggiunto dal suo incubo peggiore. La temuta impiegata si catapultò da lui con la velocità di un proiettile. Mettendo in evidenza senza pudore il suo prominente e debordante davanzale, poggiandosi con l'addome sul piano laccato e allargando le braccia, tanto per non lasciare niente di nascosto alla vista, grazie ad una camicetta color avorio, magistralmente aperta di due bottoni di troppo.

Aveva le unghie delle mani smaltate di un rosso porpora, dello stesso colore delle labbra. Lo sguardo languido fece tremare Bastian dalla testa ai piedi. “Comincia il calvario”, pensò tristemente. «Buongiorno, vorrei avere alcune informazioni sugli immobili nella zona del North End, in Hannover street.» Esordì senza lasciarsi prendere dal panico, nel vederla emettere mugolii, come un'adolescente in preda ad uno sbalzo ormonale. La donna si ò impunemente la lingua sulle labbra e sospirò deliziata, squadrandolo da cima a fondo. «Ho una certa fretta.» Esplose Bastian. Al diavolo la missione, se quella donna insisteva con quell'atteggiamento, avrebbe girato sui tacchi e abbandonato l'impresa. «Sta cercando di mettere su casa tesoro?» Gli chiese con voce melliflua. «Può darsi.» Replicò Bastian, aggrappandosi ad una possibile scappatoia che lo strape dalle sue grinfie. La donna s'irrigidì, vedendo sfumare la possibilità di irretire la preda. Ostinatamente e senza remore, proseguì imperterrita nel suo intento di adescarlo. «Sa anche a me piace molto la zona, potrei accompagnarla personalmente a vedere alcuni appartamenti, molto eleganti.» Poggiò una mano stile ventosa su quella di Bastian, strusciandola avanti e indietro con evidente piacere. Bastian si vide perso, per mantenere il controllo cominciò a ripetere mentalmente l'andamento del mercato azionario, o avrebbe commesso un omicidio seduta stante. «No grazie, mia moglie si occupa della scelta io dei prezzi.» La informò bruscamente. La donna ritrasse la mano come un fulmine, incupendosi e allontanandosi dal

bancone. «Allora dovrebbe informarsi dalle agenzie immobiliari, non qui, noi non diamo informazioni sui prezzi.» Gli voltò le spalle e prese a consultare uno schedario, ignorandolo. «Maledizione!» Sussurrò fra i denti Bastian. «Ehm, senta... sono in fase di separazione, quelle informazioni mi farebbero davvero comodo sa? Alle agenzie immobiliari si tengono sempre un po' di margine per concludere bene l'affare, io vorrei sapere il valore reale, non so se mi capisce?» La voce gli tremava un po', forse era un bene, invece che in preda a un'imminente crisi di nervi, poteva sembrare in disperazione per il divorzio. «Ma certo ho capito benissimo, l'appartamento va a sua moglie per via del divorzio vero? E lei cerca di trovare un buon affare, le dirò tutto io tesoro!» Cinguettò affabile, tornando sui suoi i con un sorriso da guinness dei primati. Bastian contrasse la mascella, sarebbe stata una lunga giornata. «Negli ultimi tempi gli appartamenti e i fondi della zona sono lievitati, raddoppiati per l'esattezza.» Irruppe Bastian, entrando come un treno nell'ufficio di Andrew e colpendo con un pugno uno scatolone in bilico sopra un altro, l'improvviso rumore fece scattare sull'attenti anche Samantha, che per ammazzare l'attesa si era data da fare ad aiutare Andrew col trasloco, ancora in alto mare per la verità. «Ottimo, il che significa, che qualcuno li vuole e forse, è disposto anche a sporcarsi le mani pur di averli.» Disse Andrew pensoso. «Ho bisogno di bere.» Proruppe Bastian. Gli altri due lo guardarono perplessi non era ancora l'ora di pranzo e Bastian beveva di rado. «Che c'è? Devo riprendermi, quell'ufficio in municipio mi manda al manicomio e spero di non doverci tornare per un bel pezzo, ne va della mia sanità mentale, sviluppo istinti omicidi là dentro e lungi da me essere un violento.

I due scoppiarono a ridere e nel vederli, anche Bastian si lasciò andare seguendoli a ruota. «Va bene amico, andiamo!» Propose Andrew dandogli una vigorosa pacca sulla spalla. «Dai che stasera andiamo a rilassarci.» Aggiunse Samantha smagliante. Bastian vide con estrema chiarezza Andrew scurirsi in volto. Senza farsi troppe domande, con noncuranza agitò una mano per minimizzare quell'eventualità. «Magari un'altra volta, sono troppo scosso per essere di buona compagnia, approfitterò di te in momenti migliori.» Le lanciò un'occhiata strana che Samantha non seppe identificare, però, se lui non intendeva reclamare la ricompensa, tanto meglio, lei era felicissima di lasciare le cose così come stavano. Bastian osservò Andrew riprendere colore e tirare un sospiro di sollievo. Scosse la testa all'indirizzo dell'amico, che colto in flagrante deviò lo sguardo altrove. Pete parlava sciolto, mentre andava da un cliente all'altro, con una destrezza da fare invidia, riuscendo a esplicare più mansioni contemporaneamente. Il Ruler era gremito di gente e il brusio era incessante, un grande schermo trasmetteva video musicali e qualcuno canticchiava a mezza voce la canzone diffusa. «Ehilà gente! Splendida giornata vero?» Una voce cavernosa li investì. Andrew, Samantha e Bastian erano appollaiati sugli sgabelli, chiacchierando con altri clienti e sorseggiando rilassati i loro drink. L'uomo si sedette di fianco a Bastian, richiamando l'attenzione di Pete, con un singolare fischio stile cowboy. «Salve Fabian.» Lo salutò Andrew.

Si erano già incontrati diverse volte al Ruler, Fabian avendo il negozio Tendential hair lì vicino, era solito fare pausa al pub, praticamente uno dei clienti fissi, come quasi tutti i negozianti di zona. «Il solito Fabian?» Gli chiese al volo Pete. «Sì.» Rispose. Poi, rivolgendosi loro, affermò: «che posso farci? Stravedo per il Clover club, non ci sono orari, lo adoro in qualsiasi momento della giornata, eh, sì! Lo ammetto sono schiavo del lime.» Esplose in una sonora risata. «Non sei il solo, qui è il più richiesto.» Ammise soddisfatto Pete, che senza falsa modestia, era sicuro di essere un luminare in materia. A quelle parole tutti quelli al bancone alzarono i bicchieri per un brindisi collettivo. «Di sicuro in quanto a consumarne, io batto tutti.» Ammise Fabian. «Uno di questi giorni indiremo una gara per vedere se è vero.» Propose Pete. «Sono sempre pronto.» Rispose sicuro di sé Fabian. «Ragazzi che ne dite se riprendiamo il lavoro? I delinquenti non aspettano che torniamo dello spirito giusto, ciondolando tutto il giorno!» Andrew si accinse a pagare, anche se Samantha sembrava volerlo anticipare. «Lascia faccio io.» La bloccò prima che si sporgesse verso Pete. «Almeno un drink lo concedo fuori onorario.» Le disse sarcastico. «Grazie, mio benefattore.» Gli rispose divertita. In fondo stavano trovando un buon ritmo, riuscivano persino a scherzare. «Che simpatica. Ora pensiamo alle indagini, nel pomeriggio cominciamo ad andare anche dai proprietari di altri condomini, dato che i negozi li abbiamo esauriti, sentiamo se qualcun altro ha ricevuto qualche sorta di pressione per vendere.»

«Sì, capo.» Samantha si mise sull'attenti come un bravo soldato. «Io aspetterò nuovi ordini, devo tornare in banca, al lavorio serio, ho già bruciato una mattinata di ferie con il mostro in municipio.» Replicò Bastian. «Okay, ti aggiorneremo su nuovi sviluppi, a più tardi.» Uscirono rapidamente dal locale, lasciandosi alle spalle, sguardi acuti e attenti sulle loro ultime battute. «Non serve che mi accompagni.» Lo apostrofò risentita Samantha. «E' notte, ti assicuro che è assolutamente necessario, ho l'auto proprio qui davanti.» Le rispose spazientito Andrew. «Guarda che da Cross street a casa mia ci saranno si e no dieci minuti.» Ribatté lei, avviandosi lungo il marciapiede. «A parte che a piedi ci vuole più tempo e poi una bella ragazza di notte, non la lascerei andare da sola nemmeno dall'altro lato della strada.» Ribattè acido. Samantha inclinò la testa di lato, mettendolo con quella posa terribilmente a disagio. Lui non perse tempo. «Insomma, dai sali, ti accompagno io.» L'afferrò per il braccio, conducendola alla sua Jeep Cherokee color argento. «Bella ragazza è?» Gli chiese ammiccante, divertendosi un mondo nel metterlo in imbarazzo. Andrew borbottò qualcosa di incomprensibile e fece per aprirle lo sportello. Non entrarono mai. Un colpo secco. Un grido soffocato. Andrew cercò di voltarsi.

Qualcosa di pesante lo colpì. Un tremendo senso di vertigine e mentre sprofondava in un abisso denso di foschia, vide Samantha accasciarsi a terra immobile, un brivido lo trafisse, ma ormai era troppo tardi. L'assalto arrivò cruento. Svegliandoli d'un tratto. Lasciandoli spiazzati e annichiliti davanti a tanta violenza. Si riversava loro addosso con tale ferocia, che perfino urlare per il dolore risultava impossibile. Andrew cercò lo sguardo di Samantha, che era legata ad una sedia poco distante da lui. Un uomo la schiaffeggiava intimandole di non pensare nemmeno ad azzardare una mossa. Un altro si stava lavorando lui, assestandogli dei pugni micidiali all'addome, impedendogli di respirare. Non era tanto per se stesso che temeva, quanto per Samantha, sembrava una bambola di pezza, percossa dalla furia cieca del criminale che la teneva ferma alla spalliera, senza il minimo scrupolo. Doveva fare qualcosa, ma legato e sotto quella pioggia martellante del suo aguzzino, non riusciva a pensare lucidamente. Con la testa diede uno scatto in avanti per provare a colpire il bastardo, che però schivò abilmente. «Sei furbo amico, ma non ti conviene.» Lo ammonì l'aggressore. Andrew ruggì e tentò ancora di spostarsi con tutto il peso, la sedia però si mosse appena, come se fosse arpionata a terra. «No, no, devi stare fermo, così ti sistemo per le feste e tornerai buono buono ad occuparti di altri casi, lasciando questo alla polizia, chiaro?»

Il delinquente scandì bene ogni sillaba, perché il messaggio fosse forte e chiaro. «Non prendo ordini de te viscido verme!» Ringhiò fuori di sé Andrew. «Smettetela subito di picchiarla,» indicò con un cenno del capo Samantha, «o appena mi libero vi spedisco al creatore senza alcuna esitazione!» Urlò come un baritono, ma i rapitori si scagliarono su di loro come due belve, sferrando botte come pugili professionisti. Andrew vide Samantha perdere i sensi, di nuovo. Poi non poté far altro che imitarla, impossibile resistere all'assalto. Un fruscio simile a quello del vento si insinuò lentamente nella testa, riportandolo lentamente al mondo cosciente, aprì gli occhi, era ancora buio, una morsa di terrore lo travolse, quando vide Samantha. Era coperta di sangue e sembrava priva di vita. Andrew non riusciva a sentire il suo respiro e nelle tenebre non distingueva, se il torace, si alzasse e si abbassasse in modo regolare. Fu preso dal panico e iniziò a gridare come il demonio, chiamandola spasmodicamente. Lei non accennava a riprendersi. Andrew sbatteva i piedi a terra non potendo trascinarsi più vicino, era in preda ad un raptus incontrollabile, si sentiva perso, avrebbe dovuto impedire che ciò accadesse, era addestrato per evitare situazioni del genere, eppure erano lì, pestati a sangue e forse per Samantha era andata anche peggio. Ad un tratto lei aprì gli occhi. Lacrime di sollievo rigarono il viso di Andrew. «Come stai?» Le sussurrò. La voce roca per la tensione e la gioia di sapere che era viva. Samantha si schiarì la gola, la lingua sembrava incollata al palato e intenzionata

a non muoversi, ma dopo un paio di tentativi ebbe successo. «Viva e vegeta.» Gli rispose, abbozzando anche un sorriso, un bagliore si rifletté sui denti a darne conferma. Andrew tirò il fiato. «Tu, piuttosto, le ossa sono ancora intere? Ho visto che hai cercato di reagire.» «A quanto pare con scarso successo.» Ammise impacciato. «Guarda come ci hanno conciato!» Le disse. «Si vede il sangue anche se è quasi del tutto buio!» Pronunciò la frase in tono rabbioso. «Mi dispiace avrei dovuto proteggerti, non farti ridurre come un colabrodo.» Sbottò costernato. «Ehi! Ci hanno presi alle spalle, che avresti potuto fare?» Samantha aveva un tono sicuro. «Non puoi mica pretendere di avere anche il dono della chiaroveggenza!» «Ancora non mi hai risposto su come ti senti.» Gli fece notare con dolcezza. «Tutto sommato bene, non ho niente di rotto, anzi, propongo di sbrigarci e smammare, prima che tornino.» «Più facile a dirsi che a farsi.» Replicò Samantha, tentando di spostare la sedia. «Non preoccuparti ho sempre un asso nella manica.» Qualcosa brillò nella notte. «Un coltellino svizzero.» La informò e Samantha fece un gran fischio. «Caro Andy, sei il mio eroe!» Trillò baldanzosa. «Che un onore!» Disse gongolante. «Quei due idioti hanno perquisito solo le tasche davanti dei jeans, questo gioiellino è rimasto indisturbato finora, mi ci è

voluto un po', per via di queste corde ai polsi, ma alla fine eccoci.» E così dicendo si slegò le mani e corse a fare lo stesso con quelle di Samantha. «Mi piace Andy.» Le disse appena l'aveva slegata. Lei lo abbracciò felice di essere di nuovo libera. Lui rimase sorpreso da quello slancio. «Posso chiamarti Samy?» Le chiese stringendola forte, inebriato dal suo profumo. «Da adesso puoi chiamarmi come ti pare, gli eroi hanno permessi illimitati.» Ammise ridendo. «Bene a sapersi, lo terrò presente.» Le scoccò un sonoro bacio sulla guancia, lasciandola estasiata. «Ora presto, usciamo di qui!» Raggiunse la porta e la spinse fuori, nell'aria fredda della notte. In lontananza le luci dello skyline invadevano il cielo notturno, uno spettacolo incredibile in altre circostanze. L'aria era gelida e loro non erano coperti abbastanza per difendersi dal vento che sibilava incessante. Il gorgoglio delle acque diede una collocazione precisa del luogo e nonostante la scarsa visibilità, di tanto in tanto faceva capolino alta nel cielo, una pallida Luna, ammiccando fra una nuvola e l'altra. «Cos'è una capanna?» Samantha indicò la baracca dov'erano stati tenuti prigionieri. «Sembra una vecchia rimessa per barche, ormai in disuso.» Azzardò Andrew. «Ad occhio e croce siamo alla confluenza del Charles e del Mystic, guarda.» Andrew la fece voltare. In effetti, le calme acque dei due fiumi scorrevano sciabordando lente davanti a loro, proiettando frammenti lucenti nell'oscurità.

«Siamo parecchio distanti da casa.» Considerò Samantha, ispezionando il luogo per trovare un modo per andarsene alla svelta. «Dobbiamo scovare un veicolo o qualcosa di simile.» Ammise Andrew, camminando lungo il piazzale che circondava la baracca. «In ogni caso, sarà meglio non tornare a casa, chi ci vuole fuori gioco, sa chi siamo e dove viviamo, meglio nascondersi per un po'.» Rifletté Andrew. «E come? Siamo a piedi.» «E' il problema minore, la domanda più ovvia è dove?» Andrew si fermò a pochi i dal Mystic, la riva era scivolosa e la melma rischiava di diventare un surrogato delle sabbie mobili. Si abbassò per osservare un punto lungo il corso, dove l'acqua era come petrolio e in quel punto l'odore era un misto di sostanze chimiche miscelate a escrementi di animali, un tanfo insopportabile. Samantha si portò le mani alla bocca. «Stai cercando di farla finita con questo orrendo aerosol?» Gli chiese in preda alla nausea. Lui sorrise. «Non sono incline al masochismo, però forse ho trovato un mezzo di trasporto.» Puntò l'indice a pochi metri di distanza, un'ombra scura dondolava contro l'argine. «Quella?» Chiese Samantha incredula. Andrew annuì deciso. «E' una bagnarola e osservandola bene sembra inclinata su un fianco.» Mugolò Samantha sconcertata dalla prospettiva di tentare una fuga su un aggeggio simile. «Abbiamo alternative? Controlliamo almeno se è fattibile.» Andrew partì spedito e puntellando bene i piedi si sporse sulla barca, agitandola con vigore e

ascoltando ogni rumore. «Non imbarca acqua.» «E' già qualcosa.» Mugugnò Samantha, dopo le ore ate in un inferno senza via d'uscita, si rendeva conto che questo poteva essere considerato un piccolo miracolo, ma la razionalità in certi momenti diserta, era terribilmente inquietante pensare di raggiungere la costa con quella barchetta vecchia e sfasciata. Si era immaginata, appena libera, di trovare un' auto, una moto, una bicicletta, qualunque altra cosa, ma non questa! Andrew le fece cenno di avvicinarsi, lei obbedì controvoglia, pregando di non cadere come nel proverbiale detto: “dalla padella nella brace”. «Coraggio.» La incitò. «Fidati è sicura!» Lei ne dubitava fortemente, però si sbrigò, quei farabutti potevano tornare da un momento all'altro, non poteva indulgere facendo una marea di storie. Strinse la mano di Andrew, inspirò a fondo e salì sulla barca. Il legno era marcio e crivellato di buchi, per fortuna non sul fondo. Chiuse gli occhi sedendosi di fronte ad Andrew, quella giornata l'avrebbe torturata per secoli ne era certa. Lui afferrò saldamente i remi e la barca scivolò sul fiume, seguendo agilmente il corso che poco più avanti si immetteva in mare aperto. «La fuga è iniziata.» Annunciò grintoso Andrew. «Speriamo vada a buon fine.» Sussurrò Samantha incrociando le dita. «Sei con me, in che altro modo potrebbe finire se no?» Sicuro di sé, le strinse fugacemente la mano per darle coraggio, poi riprese a remare, allontanandosi rapidamente da quel luogo e dagli aguzzini che li avevano pestati a sangue. «Pronto?»

«Ma che ore sono?» «Quasi le cinque!... del mattino? Ma che diamine è successo?» La voce impastata dal sonno, improvvisamente riprese il tono squillante di sempre. «Bastian non posso spiegarti ora, ma serve che tu faccia subito, via internet, un bonifico a queste coordinate.» Andrew snocciolò una serie di dati, che Bastian faticò a trascrivere su un foglietto recuperato al volo, dal comodino della sua camera da letto. «Ricevuto, faccio subito, quando...» Non riuscì a terminare la frase. «Ti sono debitore. Oggi non andare al mio ufficio, non fidarti di nessuno, siamo stati aggrediti, sta' attento anche tu, ti chiamo appena posso, ciao.» Il telefono attaccato repentinamente lasciò bastian senza parole e rimuginando sulla conversazione appena avvenuta, mentre dal laptop eseguiva il bonifico, gli fece correre un brivido agghiacciante lungo la schiena. «Chi diavolo c'era dietro quella brutta vicenda? Tanto da spingersi a fronteggiare un esperto come Andrew Taylor?» Si chiese cupo Bastian. «Grazie amico.» Disse Andrew al portiere del motel, in cui si trovavano da una decina di minuti. Convincerlo che non erano drogati o delinquenti non era stata affatto una eggiata di salute. L'uomo sembrava incerto se fidarsi o meno. Poi ad Andrew era venuto il lampo sull'incidente d'auto. Aveva ingigantito l'accaduto con il racconto dell'improvvisa sbandata, nell'intento di schivare un grosso gatto e successiva perdita di sensi. Un altro scoglio era stato insistere per non fargli avvertire la polizia e più ostico ancora, persuaderlo dal portarli in ospedale, accampando la classica scusa della mancanza di un'adeguata copertura sanitaria. Si era bevuto quella storia, ora li guardava con simpatia. «Maledetta crisi economica!» Aveva sbottato. «Uno non può beccarsi neanche un' influenza, figurarsi un incidente stradale,

dove andremo a finire di questo o?» Rincarò la dose, imprecando su tutto e sull'economia mondiale, sbraitando che i giovani erano i più penalizzati, partì in un'invettiva colossale, lasciando Andrew e Samantha a guardarsi disorientati. «Non pensavo di scatenare un putiferio!» Si giustificò Andrew, bisbigliando all'orecchio di Samantha. «Ho tirato fuori la prima cosa che mi è saltata in mente.» «Ecco perché si dice “collegare la lingua al cervello”.» Ammonì lei, non sapendo bene che mossa tentare per uscire da quella bufera. Il portiere parve riprendere il controllo e porse loro una chiave, indicando un lungo corridoio alle loro spalle. Svelti si diressero alla camera, prima che il portiere riprendesse il suo turpiloquio. L'ambiente era pulito anche se i mobili erano alquanto decadenti, la finestra dava sulla strada principale, questo permetteva di avere una buona visuale su chi si avvicinava al motel e se ce ne fosse stato bisogno, dare il via ad una fuga abbastanza rapida. Avevano raggiunto il porto senza grosse difficoltà. A piedi si erano spostati di un paio di miglia. Ora si trovavano a Somerville, un sobborgo a Nord di Cambridge, poco distante da Boston, in un motel anonimo su una strada che ne ospitava diversi. Il modo migliore per non dare troppo nell'occhio e riprendersi dalle ecchimosi dovute al barbaro pestaggio. «E ora?» Chiese perplessa Samantha. «Intanto doccia rigenerante, poi una sana dormita e infine riflessione e analisi dell'accaduto, probabile che qualche dettaglio apparentemente insignificante riaffiori alla mente, dovremo sondare e scandagliare ogni frase che quei due hanno pronunciato, poi decideremo il da farsi.» «Buon piano, ma non possiamo rintanarci per molto, quelli ci staranno già

cercando.» Samantha fu percorsa da un fremito al solo pensiero di quei farabutti. «Vero, ma per adesso dobbiamo stare alla larga da casa, è il primo posto dove andranno.» Ragionò logicamente Andrew. «Vai prima tu sei esausta, io mi sdraio per un po'.» Le indicò il bagno. Samantha annuì e vi si diresse a o incerto, chiudendosi la porta alle spalle. Quando riemerse nella stanza, riconoscente all'inventore delle docce, si era calmata e si sentiva molto meglio. Andrew era disteso su un fianco e dormiva profondamente, Samantha era esitante, il letto era uno e abbastanza piccolo, non voleva ritrovarsi a stretto contatto con lui, comunque sospirò e si distese sul bordo tentando di prendere sonno. Invano. Andrew si svegliò di scatto, come al suono di una sveglia, diede un'occhiata fugace alla stanza, accertandosi che Samantha stesse bene, con un sospiro di sollievo si alzò. Controllò fuori dalla finestra, ormai era pieno giorno, sembrava tutto normale, il traffico del mattino come in qualsiasi città del mondo. Chiuse le tende per smorzare un po' la luce accecante del sole e si diresse nel bagno, per godersi quella meritata doccia di cui ancora non aveva beneficiato. Quando uscì dal bagno trovò Samantha in piedi che sbirciava fuori dalle tende. Sembrava sfinita, la postura rigida indicava tensione e qualcos'altro, che Andrew rifiutò di analizzare. Era una situazione al limite, un'indagine rischiosa, non voleva farsi coinvolgere più di tanto e le distrazioni dettate dai sentimenti, nel suo lavoro, erano pericolose e devastanti. Si schiarì la voce per annunciare la sua presenza. Samantha si voltò e abbozzò un sorriso. Indossavano i vestiti del giorno prima, sporchi di sangue e sgualciti, per prima

cosa dovevano andare in portineria e prendere un po' di soldi, gentilmente offerti da Bastian, poi cambiarsi gli abiti. C'era un market che avevano oltreato quella notte e soprattutto mangiare, erano parecchie ore che digiunavano, per combattere una guerra bisogna essere in piena forma. All'ora di pranzo erano di nuovo nella camera d'albergo, con abiti puliti e sazi, dopo un mega hamburger super farcito con contorno di patatine fritte. Si erano muniti di cellulare nuovo di zecca, blocco per appunti e penne, una cartina topografica e un paio di spray al capsicum antiaggressione. Andrew aveva appena chiamato Bastian per fargli un resoconto conciso dell'accaduto. «Okay riiamo i fatti.» Le disse, dopo aver concluso la telefonata e aver concordato con Bastian di sentirsi ogni tre ore. Samantha partì con tutto quello che ricordava, i suoni, le voci dei due uomini, la forza che imprimevano nei colpi, gli odori. Andrew fece altrettanto, elencando ipotesi, ripercorrendo il probabile orario di prigionia e cercando di identificarli, anche se era chiaro che avessero cercato di alterare la timbrica della voce. Ragionando sulla loro stazza corporea, meditando sulla possibile età. Ogni volta che rimuginava sulla notte appena trascorsa, gli sfuggiva inesorabilmente qualcosa, un dettaglio, che però sentiva di vitale importanza. Come Samantha, anche lui ripercorreva o dopo o la notte precedente e alla fine il suo intuito prevalse. «Il lime.» «Come scusa?» Gli chiese. «Sì, ecco cos'era! C'era quel penetrante odore di lime che invadeva le narici, in assoluto disaccordo con il fetore stantio della baracca.» Dichiarò secco, affidandosi ciecamente all'istinto. Come se con questo esile particolare avesse già risolto il caso.

«Sì, è vero e allora? C'entra in qualche modo?» Domandò pensosa Samantha. «Accidenti se c'entra, anche a casa degli Hall non riuscivo a rendermi conto di cosa stonasse nell'ambiente, era questo odore, il lime, siamo stati a tanto così da chi li ha uccisi.» Sbottò furioso Andrew. «Cavolo!» Proruppe Samantha. «Credo sia il caso di fare un salto dal comandante Herb Johnson, abbiamo una trappola da preparare.» «Per chi?» Samantha ridusse gli occhi a due fessure. «Per l'assassino.» Rispose con aria diabolica Andrew. «Chiamo un taxi.» Samantha afferrò il cellulare e telefonò al servizio, in breve comunicò l'indirizzo. «Dobbiamo scovarli prima che si organizzino per bene, o saranno guai per noi.» Ringhiò l'uomo. «Forse ci siamo spinti troppo in là.» Lo aggredì il suo interlocutore. Erano fermi in mezzo alla stanza, dopo aver conciato l'investigatore e la donna per le feste, sicuri di averli lasciati in un coma che li avrebbe stesi per ore erano tornati in città, chiudendo accuratamente la baracca sull'argine del fiume. Sorpresa! I prigionieri erano scomparsi, sbattendo persino il portone, una lastra di lamiera tenuta in piedi col fil di ferro. «Non possiamo mollare ora, ci siamo fatti un mazzo così per riuscire ad avere quei dannati fondi, non si torna più indietro, ci siamo dentro fino al collo, da qui il o è breve... o l'iniezione letale, o una ricchezza stratosferica.» Ammonì reciso l'uomo imponente. «Ne avevamo già acquistati a sufficienza, quelli che si erano convinti a vendere senza tante storie, dovevamo accontentarci, invece tu li volevi tutti, i fondi vuoti saranno nostri! Blateravi, ed ora eccoci qui, con due cadaveri all'attivo, un uomo ferito in ospedale e due ficcanaso in fuga! Quanto pensi ci metterà la polizia ad intervenire? Ci stiamo lasciando dietro una scia identificativa da far invidia alla

Muraglia Cinese!» Apostrofò in preda al panico il complice. «Non è il momento dei ripensamenti, troveremo il modo di mettere a tacere quei due rompiscatole, e completeremo l'opera, basta mantenere i nervi saldi.» Gli intimò l'ideatore del piano. «Fa' in modo che sia così, o prima di finire in galera, giuro che te la farò pagare!» Dichiarò rabbioso. «Ora a lavoro, dobbiamo scovarli!» I due uscirono guardandosi in cagnesco e prendendo direzioni opposte. «Sono a tre isolati da te, raggiungimi subito, ho individuato i nostri bersagli, li sto seguendo,Taylor è alla guida della sua auto, vanno verso il porto.» L'uomo riattaccò dopo aver informato il complice. «Bene bene, piccioncini stiamo per arrivare!» Ghignò in modo sinistro, mentre guidava rispettando il codice stradale alla lettera, per non imbattersi in una pattuglia di poliziotti troppo zelanti. Si teneva prudentemente ad una distanza di due auto per rendersi invisibile, i suoi fuggitivi sembravano intenti a perseguire lo stesso piano senza attirare l'attenzione, cercavano di trovare un nascondiglio, a giudicare dal modo in cui rallentavano vicino agli stabili, come soppesando se potessero fare al caso loro. Dovevano aver trovato un aggio per tornare in città, pensò allegramente, assaporando il magico gusto della vendetta, che sarebbe indubbiamente stata spietata. Dopo alcuni incroci perse il suo obiettivo e un impeto di rabbia lo inghiottì, catapultandolo in una sequela di insulti e imprecazioni da far rabbrividire anche lo sboccato più incallito. «Li ho persi.» Bofonchiò col fiato corto contro il cellulare. «Ci penso io.» La risposta arrivò sibillina e pronunciata a denti stretti. L'adrenalina a mille, il sangue pompava come una turbina idraulica e i nervi a fior di pelle.

Se non terminavano l'inseguimento a breve, gli sarebbe partita un'embolia galattica, pensò al limite della pazienza l'uomo. Il display del cellulare s'illuminò. Il messaggio, gli fece riprendere colore. «Beccati, molo Sud.» L'uomo fece una brusca inversione, conquistandosi un numero elevato di clacson che lo mandavano direttamente a quel paese, ma era troppo esultante per curarsene, distese le labbra in un gran sorriso e si diresse verso l'indicazione appena ricevuta. «Siete morti!» La voce acida e piatta echeggiò nel vicolo attraverso i corridoi fra i container. Il molo Sud era un crocevia di merci internazionali, che venivano sistemate ordinatamente in attesa di essere prelevate ad orari precisi, in quel momento tutto era deserto, i portuali non sarebbero arrivati in quel punto per altre due ore almeno. C'era tutto il tempo di sistemare le cose. Pensò beffardo il criminale. Puntava una calibro trentotto sui suoi ex ostaggi. Un sibilo acuto squarciò l'aria, seguito da un grido agghiacciante, l'aggressore si piegò su stesso e cadde pesantemente al suolo. Inorridito tastò la gamba, un oggetto metallico acuminato era conficcato nella sua carne, con uno sforzo di volontà lo estrasse, il dolore intenso lo faceva tremare come una foglia giù fino al midollo e il sangue fluiva dalla ferita come un fiume in piena. Tra le mani si rese conto di avere una stella ninja a sei punte, la strinse in preda ad una furia cieca e cercò di rimettersi in piedi. Inutilmente. «Non ti affannare amico o peggiorerai le cose.» «Vi farò a pezzi.»

«Io non credo proprio. Sei finito, la polizia è qui vicino e sta arrivando.» «Se fosse vero sarebbero già qui.» Ringhiò il ferito. «Pensala come ti pare, intanto vediamo chi sei veramente.» Andrew si avvicinò cautamente tenendo lo sguardo fisso sulla calibro trentotto, ancora saldamente in mano dell'uomo accasciato a terra. Fulmineo gli strappò la pistola e la lanciò a Samantha che la prese al volo, assicurandola dietro nei jeans. Quando gli strappò via occhiali a specchio e cappellino da baseball, rimase a bocca aperta. Un fischio intenso lo investì. Una pallottola gli sfiorò il braccio, facendolo spostare di scatto. Il complice dell'uomo a terra stava sparando a ripetizione da dietro l'angolo. «Arrenditi carogna, o giuro che ti stendo senza pietà.» Ruggì dal suo riparo. «La polizia è già qui.» Gli urlò Andrew. «Non vedo piedipiatti in giro, canaglia, sei fregato, vengo a finire il lavoro del mio collega.» Andrew cercò di indietreggiare alla meglio, pareva che il tizio non avesse visto Samantha sparire dalla traiettoria e il complice a terra era troppo occupato a contorcersi per informare l'ultimo arrivato. «Speriamo di farcela.» Mormorò fra sé Andrew. La polizia sarebbe dovuta essere già lì. Con il comandante Johnson avevano pianificato tutto, la loro ricomparsa per fare da esca in zona, il posto dove trascinare i malviventi, peccato che come al solito era sopraggiunto l'imprevisto; quei due bastardi erano comparsi da due direzioni opposte. Il risultato era che, anziché piazzarsi al molo Est, dove li attendeva il comandante con la squadra, avevano dovuto ripiegare al molo Sud, avevano immediatamente avvertito del cambio di programma, ma l'attesa sembrava

interminabile e ora dovevano sbrigarsela da soli. Confidava enormemente nelle risorse di Samantha, in effetti dopo averla vista all'opera con le stelle ninja il morale gli si era risollevato. «Eccoci qua damerino da quattro soldi, devo complimentarmi, il posto è perfetto per occultare un cadavere.» Una risata macabra gli uscì dalle labbra rimbombando come un tuono. «Buona idea, lo terrò presente.» Lo schernì Andrew. «Figlio di un cane!» Fece un balzo per afferrarlo, ma lo sforzo fu inutile. Una sequenza di colpi micidiali lo travolse, senza fiato si voltò e si trovò davanti una Samantha inferocita, intenta a scaricargli addosso tutta l'ira repressa in quelle ore. Le puntò la pistola contro, ma lei fu svelta a scaraventarla a distanza, lui abbassò la testa e caricò come un toro, Andrew si gettò in avanti e lo intercettò, i due finirono a terra avventandosi l'uno sull'altro come bestie feroci. In quei minuti interminabili la lotta diventò intensa e letale. Andrew fu preso alla gola dal suo avversario e prima che Samantha potesse dargli man forte, una mano le si strinse sulla caviglia, quello colpito con la stella ninja si era trascinato fin lì e non mollava la presa strattonandola giù. Andrew che aveva intravisto la scena rabbrividì, la pistola che Samantha aveva fatto volare era proprio a pochi i, doveva impedire che qualcuno dei due criminali la raggiungesse. Senza perdere tempo cercò di liberarsi in fretta per soccorrerla. Alzò tutte e due le gambe e con agilità le avvolse alla vita del suo aguzzino, un colpo brusco con l'anca e l'uomo si trovò steso di schiena con Andrew che aveva ribaltato la situazione, il tizio però non si arrese, ed estrasse un coltello dalla cintura. Lottarono violentemente per alcuni minuti, poi Andrew sferrò un colpo cruento al suo contendente e s'impossessò del coltello, lo affondò in profondità nella gamba dell'uomo, che per il dolore lanciò un grido aberrante e svenne. Le sirene spiegate si impadronirono di tutta l'area e lo stridio delle gomme arrivò

improvvisamente alle loro spalle. In una frazione di secondo gli agenti scesero dalle auto, con le pistole spianate intimando l'alt. Andrew e Samantha avevano il fiato corto e una cera pessima, ma erano salvi. Andrew incrociando lo sguardo sollevato di Samantha le inviò un enorme sorriso. Il comandante si fiondò in mezzo alla scena, c'era sangue in quantità sufficiente per rifornire un centro donatori. «State bene?» Irruppe, incenerendo con occhi pieni d'astio i due assassini agonizzanti a terra. «Vivi anche se mal ridotti.» Ammise Samantha. Quando il comandante svelò anche il volto dell'uomo colpito da Andrew, Samantha trasalì. «Bene, mai dire mai, vero signor Davis? E lei signor Smith? Proprio una bella coppia non c'è dubbio.» «Ma come...» Samantha era travolta dalla rabbia e dallo sdegno, lì davanti a lei, due persone che conosceva bene e al di sopra di ogni sospetto, il proprietario e il suo fidato dipendente del Tendential hair, che si erano trasformati in assassini e rapitori. «Brutti degenerati, farabutti assassini, erano splendide persone, perché?» Samantha era fuori di sé, voleva stritolarli lì su due piedi, ma fu afferrata da Andrew che la teneva stretta sussurrandole parole di conforto. Il comandante non ne era troppo sorpreso, dopo che Andrew e Samantha gli avevano fatto il quadro della situazione, si era convinto che la rapina ipotizzata all'inizio, non c'entrava un bel nulla e restringendo il campo, era saltato fuori che le persone coinvolte dovevano essere molto vicine alle vittime, quell'interesse smodato ai fondi invenduti della zona era significativo, poi quell'odore di lime persistente sulle varie scene, aveva sollevato non poche ipotesi e circoscritto una rosa di nomi, fra i quali quelli dei presenti.

Infatti Andrew ricordava benissimo Fabian al Ruler, asserire e pavoneggiarsi di essere un fedele estimatore del Clover club, un drink a base di lime. Al comandante non era rimasto che tirare le somme e gettare l'esca, come volevasi dimostrare, l'epilogo era sotto gli occhi di tutti. «Dannati piantagrane, avreste dovuto fare la fine degli Hall!» Gridò Fabian con gli occhi lampeggianti e fuori dalle orbite, trafiggendo Andrew e Samantha. «Tu lurido miserabile, in nome dei soldi, ti sei macchiato delle peggiori nefandezze, ma per grazia divina pagherai per tutto quanto e prega di restare in galera per molto tempo, perché semmai dovessi uscire, sarò lì, pronta ad aspettarti!» Gli inveì contro Samantha, che se non fosse stato per Andrew, avrebbe eseguito personalmente la pena capitale su due piedi. «Chiudi il becco Fabian!» Lo aggredì Gib, «siamo già incasinati fino al collo, vedi di non aggravare la situazione!» Digrignò i denti in una smorfia grottesca, evidentemente ebbe efficacia, perché Fabian s' incupì, ma non pronunciò più neanche una sillaba. «Portateli via!» Tuonò il comandante Johnson ai suoi uomini, poi si rivolse ai suoi nuovi paladini di giustizia. «Le devo delle scuse.» Iniziò, rivolgendosi con tono rammaricato a Samantha, «avrei dovuto ascoltarla fin da subito, credevo di essere nel giusto.» «Tutti possiamo sbagliare.» Replicò Samantha. «Avete fatto un ottimo lavoro e avete rischiato molto per seguire quest'indagine, un grande servizio per la comunità, non c'è che dire.» Il comandante gonfiò il petto nel pronunciare quelle parole, riversando tutto il suo orgoglio, sui due temerari e al momento un po' imbarazzati lì in piedi. «Andrew Taylor sei un ottimo investigatore, collaboreremo ancora insieme.» Disse il comandante porgendogli la mano. Andrew la strinse forte. «Ci conto.» Gli rispose entusiasta. Guardarono gli agenti salire sulle auto e uscire dal molo.

«Lime è?» Domandò con una luce perfida Samantha. «Lime!» Confermò ironico Andrew. «La chiave di tutto, no?» Rimarcò soddisfatto Andrew, che aveva fatto i salti mortali per dare spessore alla sua tesi, prima con Samantha e poi con il comandante Johnson. Una fatica immane, ma alla fine gli avevano concesso il beneficio del dubbio, stilando un elenco di nomi sospetti e guarda caso Andrew ci aveva visto giusto. «E' finita!» Sospirò radiosa Samantha. «Alla grande!» Ribatté Andrew e per un attimo si perse nei suoi occhi, con tutto il fuoco che aveva in corpo la baciò profondamente, affondando in lei, come fosse la terra promessa. Era finalmente a casa. Poi staccandosi lentamente, la strinse forte al petto e quando lei gli si abbandonò contro, si sentì davvero al settimo cielo «Wow!» Mormorò Samantha gongolante, sfiorandogli il viso con dolcezza. Lui posò la mano sulla sua con fare possessivo, poi la trascinò verso l'auto. «Qui ci vuole qualcosa di forte, che ne dici? Andiamo a festeggiare la vittoria?» Le chiese, riprendendosi a fatica, ci sarebbero stati altri momenti per approfondire quell'emozione, per adesso dovevano solo stare insieme e andare via al più presto da lì, quel pensiero gli diede nuova carica. Lei gli sorrise raggiante. «Escluderei il lime per principio, non ne sono una fun sfegatata, ma dopo tutto questo, credo sia meglio evitarlo come la peste, il solo odore mi mette i brividi!» Precisò schietta. «Assolutamente d'accordo, niente lime.» Ripercorsero il tragitto fino ad Hannover street, mentre si dirigevano al Ruler, Bastian li intercettò e gli si avventò addosso come una sanguisuga. «Oh, mio Dio! State bene! Sono morto di paura quando ho saputo, quell'ermetico del comandante Johnson, ha detto sì e no due parole, non sapevo come stavano

le cose, in che pasticcio vi eravate cacciati!» Gracchiò in preda ad una commozione incontrollabile, tanto che li stava soffocando nell'impeto dell'abbraccio. «E' tutto okay, gli assassini affidati alla giustizia e noi ancora vivi, tutto è bene quel che finisce bene!» Andrew gli assestò un'affettuosa pacca sulla spalla. «Per fortuna! Quando mi hanno detto di Fabian e Gib, non ci volevo credere, è assurdo.» Borbottò Bastian. «Non tanto, se ti fai prendere dal fascino dei soldi e da una sete perversa di potere, quei due si erano messi in testa di diventare dei magnate immobiliari, da lì, non sono riusciti a rinsavire, commettendo di tutto e di più.» Concluse Andrew, scuotendo la testa, al pensiero delle due canaglie, che per poco non li ammazzavano giù al molo. «Forse dovrei ampliare la mia agenzia investigativa, includendo voi due nell'organico.» Li guardò sbiancare di botto. «No!» Gridarono in coro, mandando lampi dagli occhi. Andrew alzò le mani per placarli. «Okay, come non detto, continuate pure con le vostre vite piatte, quando in cambio, io vi offro avventure e colpi di scena.» Vedendoli sempre più neri, indietreggiò preoccupato che lo accopero all'istante. «D'accordo d'accordo, mi accontenterò di un po' del vostro tempo libero per darmi una mano nelle ind...» Non concluse mai la frase, perché i suoi compagni di viaggio lo assalirono, fu costretto a darsi alla fuga, con loro che lo braccavano come segugi.

IL SILENZIO

«Ermil apri!» La voce imperiosa risuonò nell'aria. L'uomo eseguì rapido, senza battere ciglio. Con mani ferme e sicure, fece scattare le due grosse serrature a combinazione numerica, poste ai lati dell'enorme cassa ferma ai suoi piedi. Un clic metallico diede il segnale di via e il coperchio si sollevò come fosse animato di vita propria. L'aria era gelida, la notte impenetrabile, una cortina di nebbia avvolgeva il piazzale del cantiere in cui stava per avvenire lo scambio. Gli uomini disposti a semicerchio in attesa di istruzioni, erano immobili, solo il loro respiro disegnava cerchi opachi nel buio, rischiarato appena, dai fari delle due auto di lusso, piazzate una di fronte all'altra. Una mano esperta ò sopra la merce, quasi in segno di venerazione, senza fretta, con scrupolosità e attenzione, con tutta la professionalità di chi conosce fin troppo bene il materiale che sta per acquistare. «Ottimo! Signor Bark, sembra sia tutto in ordine.» La voce chiara e squillante denotava soddisfazione, segno che la transazione era imminente. Ariy Bark distese le lunghe sopracciglia nere, cominciava a rilassarsi, non era la sua prima volta in quel genere di cose, ma la tensione era sempre quella del debutto. Aveva volutamente scelto Vidnoye, a circa quattordici miglia da Mosca, una tattica consolidata, non Mosca, ma molto vicino, in modo da far fronte ad eventuali problemi improvvisi, sempre preferibile trovarsi a portata di mano dal quartier generale. Sorrise, cosa davvero rara per uno come lui, più incline alla tortura che al relax. «Non avevo dubbi, che avrebbe gradito questo ben fornito campionario di autentici gioielli!» Esultò all'apice del suo compiacimento. In certi momenti si sentiva un Dio, stava già pregustando la seducente magia dei soldi, che da lì a qualche istante, avrebbe morbosamente accarezzato. «Tengo a precisare che questo è semplicemente il meglio che può trovare oggi sul mercato, signor Hunt!» Afferrò un fucile M200 Chey Tac, a colpo singolo,

semiautomatico, o da molti conosciuto come Bolt-Action, per bersagli umani, un'arma di tutto rispetto; esponendolo come la scoperta del secolo e mostrandolo da tutte le angolazioni, perché non ci fossero dubbi, sulla perfezione e la tecnologia contenute in un oggetto di tale bellezza. Hunt non si lasciò irretire, dopotutto non era uno sprovveduto e non era facile incantarlo con le frasi ad effetto da affabile venditore. Inoltre mai cedere troppo alle lusinghe, c'era sempre da limare un po' il prezzo, ed era buona norma, fare almeno un po' i difficili, prima di pagare certe somme di denaro. Strappò quasi bruscamente il fucile dalle mani di Bark, che spalancò gli occhi per la sorpresa. «Non c'è male, ma speravo in qualcosa di più, vista la pompa magna che avete messo su per questa sera.» Calcò molto sulle ultime sillabe, lasciando di stucco il suo interlocutore e allibito da tanta grinta. Ariy Bark strinse i denti, ripetendosi mentalmente come un mantra, “il cliente ha sempre ragione”, ma se quel tipo insisteva su quella strada, non era certo di riuscire a concludere l'affare senza aver prima freddato qualcuno. Estrasse dalla cassa un fucile Barrett M95 Cal. 90, considerato un'arma micidiale, in grado di forare un blocco di cemento spesso duecento millimetri, è definito in ambienti militari, “antimateriali”. «Questo dovrebbe appetire anche i palati più fini, è un vero portento!» Lo ò nelle mani di Hunt, che dopo averlo maneggiato e scrutato a lungo, lo porse al suo socio. «Che te ne pare Taill, vale la spesa?» Cal Taill sogghignò, consapevole degli sguardi che si era attirato dagli uomini. «Direi di sì Dick, credo sia un buon affare.» Dick Hunt diede una pacca alla spalla del socio, pienamente d'accordo e ò in rassegna anche altre armi. La cassa conteneva diversi fucili XM 2010, utilizzato soprattutto dai cecchini; mitragliatrici Heckler & Koch MPS, M60E3 e le Mg 42/59 calibro 7,62 mm. Un vero arsenale da guerra, dispiegato lì davanti, quasi fosse il campionario di giochi prediletto da tutti i sociopatici del mondo. «Okay signor Bark, mi ha convinto, prendiamo il pacchetto completo!» Hunt fece un cenno significativo a Taill, che senza perdere un attimo aprì una ventiquattrore.

«Trenta milioni, come pattuito.» Affermò deciso Cal. Ad Ariy Bark brillarono gli occhi come due diamanti. Balbettò qualcosa di incomprensibile. L'unico suono che arrivò chiaro ai presenti, fu un flebile “dollari”. Non ci fu modo di approfondire, perché nell'istante in cui le sue mani si chio sulla valigetta, l'inferno si scatenò sulla terra. Una pioggia di proiettili invase l'area, grida e ordini squarciarono l'aria, il sangue scorreva a fiumi, fra tutto quel caos indistinto, le uniche parole veramente chiare, erano le imprecazioni a squarciagola che, Ariy Bark urlava a più non posso. Le detonazioni facevano tremare il terreno, sembrava di essere sbalzati via lontano, pur rimanendo inchiodati al suolo. Una voce dal marcato accento americano gli intimò di non opporre resistenza, elencandogli i suoi diritti e stringendogli i polsi, nella morsa inanimata di due scintillanti manette. Ariy Bark, afflitto e sanguinante, lasciò ricadere la testa in avanti, era caduto con tutte le scarpe in una trappola. «Ehi! Eccoli, gli eroi della settimana! Niente popo' di meno che... Salsa e Merengue! I due intrepidi, che sotto mentite spoglie, hanno fottuto il giovane trafficante d'armi Ariy Bark!» Una fragorosa risata saturò l'aria della sala investigativa. L'applauso che seguì fu ancora più assordante. C'era tutta la squadra al gran completo. Il distaccamento degli agenti speciali della CIA lì ad Amsterdam , era su di giri per la vittoria appena conquistata a Vidnoye. Un punto importante contro i trafficanti d'armi, il lavoro di mesi ripagato dalla perfetta sincronia degli agenti, un successo su tutta la linea. In quei momenti si sentivano davvero dei Supermen. «Adesso non esageriamo ragazzi! Il merito è in primo luogo del colonnello Farran Gray, ha orchestrato lui il piano, ed è giusto che il merito sia suo!» Fischi di approvazione echeggiarono da ogni parte. «Non fare il modesto Salsa, tu e Merengue avete fatto un'interpretazione da Oscar, non ci piove!» Il colonnello si mise fra i due e li strinse a sé, creando non poco imbarazzo. Erano una squadra affiatata da cinque anni, tanti casi risolti, molti criminali assicurati alla giustizia. Erano approdati ad Amsterdam come punto nevralgico in Europa e per tutto l'Est. Salsa e Merengue, altri non erano che, Dick Hunt e Cal Taill, questi però, erano solo i nomi della loro ultima copertura, infiltrati direttamente nel regno di Ariy Bark, al secolo, per i loro amici e parenti erano: Fulk Bell e Gage Cox, in ufficio e per tutta la CIA restavano Salsa e Merengue. Dopo una copertura a dir poco anticonvenzionale, per mettere k.o. alcuni trafficanti di cocaina in Colombia, avevano dovuto rivestire il ruolo improbabile di insegnanti di ballo, guarda caso, proprio la Salsa

e il Merengue. Erano risultati così credibili e convincenti, che tutta la squadra speciale, li aveva ribattezzati col nome delle danze da loro interpretate. La cosa all'inizio li aveva fatti imbestialire, ma a poco a poco, si erano assuefatti, infine il divertimento li aveva contagiati, tanto che spesso si chiamavano così anche fra loro. «Ragazzi vi siete assicurati una bella licenza!» Esordì il colonnello Gray, sfoggiando uno dei suoi carismatici sorrisi. Fulk e Gage si guardarono sbalorditi, le licenze erano il Santo Graal, venivano date col conta gocce e spesso per pochi giorni, un vero miracolo accaparrarsene una! «Di quanto... quarantotto ore?» Chiese titubante Gage. Il colonnello lo trafisse torvo. «Così mi offendi, mi sento generoso, diciamo... due settimane, va bene per voi rompipalle patentati?» Gli si piazzò davanti scrutandoli uno per volta, sfidandoli a ribattere una qualsiasi protesta. Che ovviamente non arrivò. In compenso eruppero in un urlo da stadio e iniziarono a saltare per tutto l'ufficio, abbracciando e baciando i colleghi, in preda ad un raptus incontenibile. «Queste sì, che sono parole sante colonnello! Finalmente è approdato qui il genio della lampada! Posso esprimere altri due desideri?» Ridacchiò Fulk, provocando un ghigno terrificante nel colonnello. «Fossi in te non tirerei troppo la corda, ora forza portate i vostri ingombranti culi fuori di qui!» Gli intimò con fare minaccioso. I due per niente impressionati, in uno slancio di euforia, gli diedero un paio di pacche sulle spalle, a quel contatto il colonnello li incenerì. «Ops!» Mormorò Gage tirandosi indietro. «Fuori ho detto! Prima che ci ripensi, non voglio vedere i vostri brutti musi per almeno quindici giorni!» Tuonò senza troppa convinzione, facendo una fatica immane per rimanere serio. Fulk e Gage non se lo fecero ripetere, alzarono i tacchi e si fiondarono verso la porta, non tralasciando di alzare il dito medio, in segno di cordiale saluto, rivolto magnanimamente ai colleghi, di rimando naturalmente, ebbero lo stesso educato e conciso trattamento. Fuori la giornata era fredda, ma il sole regnava sovrano e splendido nel cielo terso di quella mattina di Febbraio. Piazza Dam era gremita di gente, il Palazzo

Reale magnifico e imponente, era assediato da turisti con la bocca spalancata, ipnotizzati ad ammirarlo. Fulk e Gage erano appena arrivati da destra, sbucando svelti da Kalverstaat, dove si trovava la sede operativa, per paura di essere richiamati in ufficio dal colonnello. Fulk si era perfino soffermato davanti alla chiesa Oudekerk, facendosi il segno della croce, guadagnandosi una smorfia sarcastica da Gage. «Che c'è? Sono solo grato per la svolta presa dagli eventi, la missione è andata alla grande e adesso anche una licenza del tutto inaspettata, ovvio che ringrazi l'alto dei cieli!» Sbottò, senza smettere di camminare come avesse il diavolo alle calcagna. «Ehi! Non ti scaldare! Solo è praticamente impossibile vederti così devoto, nemmeno in mezzo alla furia omicida di criminali incalliti, ti ho visto venerare l'altissimo.» Sogghignò senza ritegno Gage, beccandosi una gomitata micidiale dall'amico. «Comincia a pensare a cose pratiche, tipo stipare le tue cianfrusaglie in una valigia, si parte subito, prima che scoppi un'emergenza internazionale a cui non possiamo rinunciare!» Lo apostrofò Fulk. «Sì, mamma, devo portare anche un golf per la sera?» Rise di gusto, ma aumentò il o per rimanere al fianco di Fulk. Le loro vite erano in sincrono dai tempi dell'infanzia, si conoscevano da sempre, stesse scuole, stessi amici, persino la scelta di entrare in accademia. Il loro rapporto si era ulteriormente rafforzato, da quando Gage aveva perso in rapida successione i genitori. Erano in terza liceo e da allora Gage era stato accolto dalla famiglia di Fulk come membro attivo, lui considerava i Bell il porto sicuro. Ogni o era stato fatto a due, anche adesso che Fulk aveva moglie e un figlio, Gage rivestiva un ruolo determinante, pur rimanendo uno scapolo incallito, ava vacanze, feste o anniversari con la famiglia Bell, loro adoravano averlo tra i piedi. «Voglio che spulciate anche i granelli polverizzati su questo stramaledetto piazzale!» La voce sprezzante tuonò irrigidendo tutti. Agap Berlix, si muoveva come un leone in gabbia, lo sguardo tetro esaminava come un radar ogni dettaglio, i suoi uomini disposti a ventaglio avanzavano lenti come a una battuta di caccia, si sentiva solo il rumore delle auto in lontananza, un fastidioso ronzio che interferiva con la concentrazione assoluta che regnava sovrana.

«Se necessario rivoltate tutta Vidnoye!» Agap scagliò una grossa pietra dall'altra parte, schivando a malapena un paio dei suoi. «Signore, qui non c'è niente a parte la distesa di bossoli che copre tutta l'area, abbiamo già stabilito che l'operazione è stata condotta dalla CIA americana, che altro può servire?» Chiese fin troppo spavaldo Gleb Lunter, un uomo robusto e dallo sguardo di ghiaccio, al servizio di Berlix da molti anni. «Voglio i nomi dei protagonisti della sceneggiata, per staccargli personalmente il collo, voglio recuperare quell'inetto di mio nipote Ariy, da quella topaia di prigione olandese e voglio fare questo...» Caricò il destro e centrò il viso di Gleb come un missile, fracassandogli il naso, che prese a sanguinare come le cascate del Niagara. L'uomo bestemmiò ed emise un suono strozzato per il dolore, poi si allontanò sperando di non ricevere altre attenzioni dal capo, la giornata stava precipitando in un abisso di situazioni, una più tremenda dell'altra. «Ricorda il silenzio è d'oro, soprattutto in certi momenti!» Ringhiò Agap su tutte le furie, se c'era una cosa che lo mandava in bestia, era essere istruito da qualcuno, peggio se a farlo era un suo sottoposto; lui decideva, lui ordinava e se gli girava di farli ballare il Lago dei Cigni, loro eseguivano zitti e remissivi. Punto e basta. Sferrò un calcio al terreno, alzando un polverone, irritato oltre il limite prese a scuotere con vigore i pantaloni, poi qualcosa attrasse la sua attenzione. Un piccolo bagliore. Si chinò e prese fra le dita l'oggetto. Un ghigno soddisfatto comparve sul suo volto di pietra. «Ecco cosa può servire!» Ruggì ai suoi uomini, mentre cauti si avvicinavano, mostrò loro “il reperto”. Tutti osservarono in silenzio, il bottone oro e argento che si rigirava fra le dita. «Questo è il nostro punto di partenza per un nome, il nome che pagherà amaramente per aver intralciato la strada del sottoscritto, Agap Berlix! Scovate quel nome Ora!» Tuonò Agap, con aria assassina. La temperatura era decisamente buona, la giornata chiara e limpida, il mare una favola. «Devo dire che ci voleva!» Dichiarò soddisfatto Gage, mentre si strofinava un telo mare sul corpo.

«Ti avevo detto di fidarti, il posto è magnifico!» Replicò Fulk soddisfatto, non staccando un attimo gli occhi dalla moglie Margaret, che stava uscendo dall'acqua, come una sirena delle pubblicità televisive. Gage scosse la testa. «Come fa Meg a sopportarti è un mistero, guardati, sembri un ragazzino in piena crisi ormonale!» Gli lanciò il telo, riscuotendolo dall'ipnosi. «Ha qualità nascoste, a parte fare il cascamorto ovviamente!» Meg rise pronunciando quelle parole. Baciò il marito, che strizzò l'occhio a Gage. «Lo spero bene, per essersi accaparrato un angelo come te, deve averne parecchie!» Sbottò Gage, sentendosi di troppo, in mezzo a quel quadretto familiare, per fortuna a salvarlo arrivò Josh, il figlio dei due colombi. Dodici anni, un vero campione di sport acquatici, da quando erano arrivati, aveva messo a dura prova Gage, trascinandolo per ore, in gare di surf, immersioni, pallanuoto e tutto un repertorio di giochi da spiaggia, da far impallidire anche un campione olimpionico. La famiglia Bell si era riunita a La Palma, un'isola dell'arcipelago delle Canarie. I genitori di Fulk, Adam e Jane Bell, avevano una bella casa al porto di Santa Cruz, la città principale dell'isola, un vero incanto e quando potevano, si rifugiavano in quell'angolo di paradiso. Ogni giorno il programma serratissimo di Josh occupava quasi tutta la giornata, il divertimento era assicurato, l'unico inconveniente era una stanchezza disarmante, che costringeva tutti ad andare a dormire presto, impedendo anche l'agognata vita sociale di Gage, impaziente di irretire qualche bambola, con le sue arti amatorie. Non che ambisse a chissà quali avventure, ma di tanto in tanto un bel diversivo infuocato non faceva male. Purtroppo era fuori questione, dal momento che le gambe lo abbandonavano immancabilmente al calar del sole, una vera sfiga, perché aveva già puntato un paio di bellezze degne di nota, che gironzolavano spesso nei paraggi. A due giorni dal triste rientro ad Amsterdam, Josh volle assolutamente visitare la cima del Roque De Los Muchachos, dove sulla vetta si trovava l'osservatorio internazionale di astrofisica. Una gita indimenticabile, soprattutto per le ossa. Rotte al ritorno. La trattativa aveva previsto un picnic rigenerante e all'insegna dell'assoluto relax, su una delle spiagge più belle dell'isola. San Andres Sauces.

Controvoglia, Josh aveva ceduto alla richiesta e ora erano tutti sdraiati al sole. Jane, la madre di Fulk, stava preparando dei panini e il profumo era così appetitoso da far resuscitare anche i morti. In pochi secondi si catapultarono ai posti di combattimento, si sentiva solo il suono del loro frenetico masticare. «Piano, così vi strozzerete!» Avvisò Adam con un sorriso divertito, vedendo i suoi familiari all'attacco. «Non preoccuparti papà, conosco una mossa infallibile per ovviare al problema.» Per dare maggior enfasi al concetto, Fulk picchiò il pugno al centro del petto, facendo risuonare la cassa toracica come un gong, un nodo di tosse, quasi lo soffocò sul serio. Gli altri per niente impietositi, si piegarono in due dalle risate. Appena ripreso, anche Fulk non poté fare a meno di unirsi a loro. Non ebbero tempo di assaporare il divertimento, una moto d'acqua si stava dirigendo pericolosamente a tutta velocità verso la spiaggia. La direzione tremendamente precisa. Una raffica di colpi di mitragliatrice colpirono la sabbia. Non c'erano molte persone, ma il fuggi fuggi fu immediato. Le grida agghiaccianti irruppero come macigni, dissolvendo gli attimi di gioia appena trascorsi come foglie al vento. I primi a cadere furono Adam e Jane, invano ogni tentativo di rianimarli. Fulk urlava di andare a riparo dietro le palme. Gage correva in acqua per scagliarsi sull'individuo che sparava all'impazzata, fregandosene del pericolo. Avrebbe fatto di tutto pur di eliminarlo a mani nude. Un boato squarciò l'aria. Il fuoco divampò implacabile sulla lingua di spiaggia, le palme avvolte dalle fiamme, sembravano dei giganti in corsa, il vento che le agitava rendeva la scena ancora più terrificante. Un calore devastante imprigionò cielo e terra in una morsa irrespirabile e il fumo cominciò a seguire la corrente coprendo tutto. Un commando, di almeno due dozzine di sicari, emerse dal rogo. Sembrava di vivere a rallentatore, una scena stile apocalisse, da film saturo di effetti speciali. Il fatto aberrante, era che si stava svolgendo tutto in modo maledettamente reale. Fulk atterrò su suo figlio, schiacciandolo al suolo e facendogli da scudo. Meg, poco distante tentò di raggiungerli. Invano. Un proiettile le ò il cranio da parte a parte. Cadde inerte con un tonfo, i suoi bellissimi occhi nocciola, atterriti e fissi verso il vuoto. Fulk gridò con tutto se stesso. Il dolore che lo trafisse al petto, più subdolo e dilaniante di qualsiasi proiettile. Josh sgusciò via dal padre e corse piangendo accasciandosi sulla madre, il volto, una maschera d'orrore puro. Prese a chiamarla, a scuoterla, ma niente, Meg rimase immobile. Un uomo

afferrò Josh per le spalle, trascinandolo via. Fulk balzò in piedi e piombò sull'essere che aveva preso suo figlio. Nacque un corpo a corpo feroce e cruento. Josh strillava in preda al panico, ma l'uomo non accennava a mollare la presa, nonostante Fulk lo stesse colpendo in modo efferato. Fulk lo prese per la gola, iniziò a stringere, facendogli allentare le mani, tanto bastò per far scappare Josh come una freccia. Libero di entrare davvero in azione Fulk lo atterrò, era un osso duro il suo avversario, con una mossa repentina estrasse un coltello a serramanico e affondò la lama in mezzo alle costole, Fulk si contorse per la fitta improvvisa, ma non cedette, strinse le gambe intorno all'uomo, lo atterrò di schiena e con destrezza s'impossessò del coltello, dopo alcuni secondi di resistenza, riuscì a tagliare di netto la gola del sicario, un fiotto di sangue imbrattò la sabbia e dopo un rantolo, la vita fluì dal suo corpo. Si guardò intorno. Non c'era tempo di elaborare i fatti, la priorità assoluta era salvare Josh. Sentiva voci rombanti intorno a sé e scorse Gage, braccato da tre bestioni intenzionati a farlo fuori senza esitazione. Digrignando i denti e pregando di individuare Josh, si scatenò sui tre, dando modo a Gage di tirare il fiato. Erano ben addestrati, gente spietata e armata fino ai denti; uno gli lanciò una stella ninja, che si conficcò nella coscia, facendolo vacillare, la gamba parve perdere sensibilità all'istante. Si costrinse a resistere al dolore, la rabbia montò dentro di sé come lava incandescente. Afferrò con forza la stella ninja e la scagliò contro l'aggressore, piantandola nell'occhio destro, L'uomo sbraitò un'imprecazione e oscillò, Fulk non si fece attendere, spinse con decisione la stella più in profondità, traando completamente il bulbo oculare, il criminale cadde come una bambola di pezza esanime. Intanto Gage si stava lavorando gli altri due, senza lasciare margine, una furia cieca lo stava divorando. Preciso come un killer, stroncò l'osso del collo a quello più vicino in una sola mossa. L'altro tentò di puntargli la Glock alla testa, Gage con un calcio quasi gli spezzò il polso, recuperò al volo la pistola prima che ricadesse ai suoi piedi e sparò. Diretto al cuore. All'avversario non rimase che formare con le labbra una “o” di stupore, piegò le ginocchia e riversò la faccia nella sabbia. «Josh!» Gridò Fulk attanagliato dalla paura. «Da quella parte, è sfrecciato via come il vento, ma lo hanno inseguito, andiamo presto!» Gage, indicò il molo infondo alla baia, dopo un attimo di esitazione raggiunse la moto d'acqua, protagonista all'inizio dell'attacco, il suo occupante galleggiava senza vita, con un buco nella pancia, a poca distanza. Gage la mise in moto e Fulk saltò su, lanciando un'occhiata sadica al cadavere. Non sapeva come avesse fatto Gage senz'armi a fermare l'assassino, o come avesse procurato

una ferita grande quanto un cratere nel ventre del bastardo, ma quegli uomini avrebbero fatto tutti la stessa fine, era intenzionato a vendicare i suoi cari, e per tutti i demoni ci sarebbe riuscito. Josh era sul pontile, oltre la metà, braccato da un gruppo di cinque o sei uomini, che giocavano al bersaglio, lo avevano ferito superficialmente alle gambe, quasi volessero fare come il gatto col topo. Fulk balzò giù e cominciò a salire sui pilastri, arrampicandosi velocemente, pregando di avere tempo, doveva averne, sbuffava e tremava, la paura lo stava distruggendo, cercava di restare lucido, almeno finché Josh fosse stato tratto in salvo, ci sarebbe stato tempo dopo per crollare, per cedere alla disfatta, ora doveva pensare solo ad annientare quegli uomini. Gage ò dall'altro lato, rimanendo nascosto sotto il pontile, avanzando in acqua senza attirare l'attenzione, elaborando un piano, esaminando tutte le opzioni. Poche per la verità. Una Glock, quasi scarica, un coltello a serramanico e una stella ninja. Davvero scarso come equipaggiamento. Sfruttarlo al meglio era l'unica possibilità. Fulk afferrò le caviglie di un tipo nerboruto, un po' discosto dagli altri, lo sbatté violentemente sul cemento del pontile e senza pietà lo gettò in mare. Il corpo si inabissò subito, lasciando una scia di sangue a testimonianza del suo aggio. Era soddisfatto di sé, ma fu un'amara vittoria, gli altri scaricarono una cascata di colpi su Josh, crivellandolo e uccidendolo in un attimo. Fulk non riuscì a far partire alcun suono, il suo mondo era crollato in una manciata di minuti. Tutto ciò che amava gli era stato strappato con artigli spietati. Si sentì mancare. Il buio lo avvolse, portandolo lontano, in un luogo spento e gelido. Gage seppe con assoluta certezza che era davvero finita. Vide gli assassini raggiunti dal resto del gruppo. Vide Fulk steso immobile, forse morto di crepacuore. Vide Josh, il suo beniamino, che amava come un figlio, crudelmente strappato troppo presto alla vita. Vide Margaret, la donna bellissima dal sorriso magnetico, ferma e rigida, in una posa quasi spettrale. Vide i Bell, che adorava come veri genitori, sulla spiaggia, lambiti dalle fiamme. Vide se stesso soccombere. Non con la semplice resa però. Se doveva morire, l'avrebbe fatto portando qualcun altro con sé. I mostri che avevano distrutto le persone che contavano di più nella sua vita. Sicuro come l'oro, “quel che è fatto è reso”, ringhiò a denti stretti. Notò lì vicino alcuni cavi, per l'illuminazione notturna del pontile. S'immerse e con molta cautela li portò a pelo d'acqua, non fu affatto facile, erano in tirare e le alghe avevano fatto il resto, ma con decisione riuscì nell'impresa. Tornò sull'altro lato, salì sul pontile e approfittando della distrazione dei suoi bersagli, intenti a spostare Fulk e suo figlio, prese a sparare, alcuni furono freddati all'istante, altri risposero al fuoco, ma l'unico effetto, fu solo quello di fare il gioco di Gage, seguendolo. In prossimità dei cavi divenne

agile come un felino, tra un colpo e l'altro fece cadere in acqua i criminali, poi colpì i cavi. Una scarica elettrica attraversò i corpi fulminandoli. Distrutto piombò disteso a terra. Al suono delle sirene in lontananza si riscosse, corse verso Fulk, il battito era debole, ma era vivo, questo gli diede la forza necessaria per sollevarlo e portarlo via il più in fretta possibile, mentre un nodo gli stringeva lo stomaco, oltreando il piccolo corpo straziato di Josh. «Oggi è il giorno più triste e desolato della mia vita, come ufficiale e come uomo, in tutta la mia carriera, ho perso molti compagni, molti amici in realtà. Noi facciamo un lavoro rischioso, costantemente a stretto contatto con la morte. Per la patria, per difendere la giustizia, per servire i cittadini. Purtroppo, spesso scateniamo vendette in chi combattiamo con tanta determinazione. Questa volta, non solo due eroi a noi ben noti, ma i loro familiari hanno pagato con la vita, operazioni che dovrebbero essere riservate esclusivamente agli ambienti militari! Ogni pensiero e rammarico, per non aver intercettato e fermato quei miserabili assassini, investe le nostre anime! Ma giuro, sui gradi che porto sulla mia uniforme, sulle mie mostrine, che troverò e assicurerò al carcere, chi si è macchiato di questo scempio! Fulk Bell, Gage Cox e tutta la famiglia Bell, avranno giustizia, dovessi rivoltare il mondo!» Il colonnello Farran Gray aveva gli occhi lucidi, ma la sua voce era decisa e tonante. L'elogio funebre fu toccante e accorato e alla fine, dopo il picchetto d'onore, i presenti si lanciarono in uno scrosciante applauso. I funerali svolti in Virginia, dove risiedevano sia i Bell che Gage Cox. A pochi chilometri da Langley sede della CIA, dove proprio quella mattina, il colonnello Gray, aveva sbattuto i pugni sul tavolo, inveendo contro chiunque, domandandosi come fosse stato possibile, per un commando russo attaccare in pieno giorno, su una tranquilla isola delle Canarie, senza che nessuno dell'intelligence si fosse accorto di niente. E minacciando senza mezzi termini, di affogare personalmente, gli incapaci, o peggio i corrotti, della sede, direttamente nel fiume Potomac. Solo dopo un meeting estenuante con i generali, si era indotto a trattenere l'ira. Inutile dire che i capoccioni professavano un'assoluta estraneità ai fatti, propinando spiegazioni fasulle e affermando con decisione che, i loro agenti in vacanza non venivano monitorati, come invece avveniva durante una missione. Il colonnello sapeva bene che quelle erano tutte stronzate, loro erano seguiti anche sulla tazza del cesso, figurarsi in vacanza. Ma tutto quel fumo negli occhi era in uso da sempre alla CIA, bisognava sedare gli animi, mantenere il resto della squadra rigorosamente concentrato su questioni di sicurezza nazionale, non in preda a probabili vendette personali, quindi negare anche l'evidenza più lampante, glissare su eventuali negligenze, o responsabilità, era fondamentale per le alte sfere. Inoltre gli agenti

erano sempre, ribadisco sempre, sacrificabili. Restava un maledetto amaro in bocca; a peggiorare l'umore collettivo, il fastidioso sospetto che aleggiava al quartier generale: qualcuno dall'interno poteva aver posizionato un enorme bersaglio su Bell e Cox, i due agenti di punta in Europa, disgustoso, ma del tutto possibile. Comunque, era imperativo per i vertici, fischiettare e insabbiare la cosa, infondo erano crepati due ottimi elementi, niente di più! Il colonnello Gray non sapeva bene cos'avrebbe fatto, come si sarebbe mosso, ma di sicuro, non si sarebbe fermato, la sua squadra era intoccabile, i vertici potevano tranquillamente andare affanculo! Recuperata una certa calma, solo apparente peraltro, si era diretto al funerale, espletando l'arduo compito di salutare un ultima volta le salme. Solo una cosa gli dava la forza di concludere quell'orribile giornata, i corpi di Bell e Cox non erano stati identificati in mezzo a quella carneficina, per quanto ne sapeva lui, potevano essersela cavata, in tal caso i giochi non erano ancora fatti! «La dottoressa Tish Argent in sala uno!» La voce squillante diffusa dall'apparecchio, echeggiava fra i corridoi gremiti di persone, che sfrecciavano da una parte all'altra dell'ospedale. La chiamata fu ripetuta scandendo ancora una volta ogni sillaba, come fosse l'appello al patibolo. Tish sospirò esausta, c'erano giornate in cui si chiedeva perché diavolo avesse scelto un mestiere simile. Solo corse, emergenze, situazioni critiche, un bel da fare per l'equilibrio mentale. Senza parlare del totale assorbimento di tempo, praticamente viveva lì, orari impossibili e straordinari continui. Una vita personale inesistente, come poteva essere diversamente? Non c'era la benché minima possibilità di programmare uno straccio di appuntamento, o una qualsiasi serata fra amici; all'ultimo scattava sempre un allarme e il cellulare iniziava a squillare all'impazzata. Non rimaneva che precipitarsi e tentare di salvare il paziente di turno. Ovviamente la soddisfazione di strappare vite alla morte era immensa, gratificante e di grande soddisfazione, ma allo stesso tempo tremendamente stressante. Lavorava al St. James, nel cuore di Londra, un ospedale noto per un'efficienza impeccabile e professionalità senza pari Questo era il motivo per cui molti medici ambivano ad un posto lì. Lei per la maggior parte del tempo era orgogliosa di farne parte. Non quella sera. C'era stato un incendio ad una fabbrica di solventi chimici. Aveva già visitato una ventina di ustionati e ce n'erano altrettanti in sala d'attesa, il pronto soccorso congestionato come in pochi altri giorni dell'anno, forse solo appena migliore della notte di San Silvestro. Lasciò il suo ultimo paziente nelle mani esperte di un'infermiera e si diresse in sala uno.

«Cosa abbiamo qui Alyson?» L'infermiera alzò un attimo gli occhi, mentre preparava ago e filo, con una concentrazione maniacale. «Ferita da taglio all'addome, ferita da taglio alla coscia destra e contusioni, sul paziente a sinistra.» Indicò il lettino vicino alla porta. «L'altro ha ecchimosi e contusioni un po' ovunque, ma piuttosto superficiali.» Indicò il lettino vicino alla finestra. «Bene allora tu occupati di lui, io comincio col più grave, ah! Alyson prepara un antidolorifico.» Tish si mosse sicura e iniziò il lavoro meticolosamente, una delle sue peculiarità era la rapidità nei movimenti, un vero prodigio, tutti lì al pronto soccorso l'ammiravano per quella innata capacità, una qualità davvero rara. «Cosa le è successo?» Chiese Tish, lavorando di ago e filo. L'uomo a occhi chiusi contorse le labbra in una smorfia di dolore, mantenendo un silenzio totale. «Una rissa... sa qualche birra di troppo, divergenze sulla partita, roba da tifosi fuori di testa.» La voce le arrivò scherzosa dal paziente vicino alla finestra. Lei lo osservò per qualche istante, aveva un'aria irriverente, ma le indirizzò un sorriso schietto, che la fermò in tempo, per non travolgerlo con una tirata di orecchie degna del guinness dei primati. «Mi sembra che i vostri amici ci siano andati giù pesanti.» Constatò finendo di chiudere la ferita. Il paziente aprì gli occhi e le fece un cenno col capo, in segno di ringraziamento, rimanendo muto. Lei ricambiò il gesto e prese il posto di Alyson con quello dalla parlantina sciolta. «Oh, dovrebbe vedere come sono conciati loro!» Affermò sarcastico l'uomo, strizzandole l'occhio. Tish non poté fare a meno di sorridere, quel tipo aveva un modo tutto suo di esprimersi e la sua battuta pronta era irresistibile. «Dovrò occuparmi anche di loro allora.» Replicò lei, andogli una copiosa dose di disinfettante sul braccio. L'uomo strinse i denti, evidente il dolore dal viso contratto. «Affatto sono già sistemati... in un altro ospedale.» Rise come se avesse fatto una battuta incredibile. Tish aggrottò la fronte, quella pausa l'aveva insospettita, ma lasciò perdere, con tutto il lavoro da fare, non era dell'umore adatto per continuare quel botta e risposta, era richiesta la sua presenza per altre urgenze,

tentò di ricordare che si trovava al pronto soccorso, non in un club a divertirsi. «Bene abbiamo finito, potete andare. Per i punti, può farli togliere dal suo medico fra una settimana circa, è stato fortunato, i tagli non erano particolarmente profondi, presto sarà come nuovo.» Dichiarò rivolta al paziente silenzioso. Lui asserì con un cenno deciso del capo e prese a rivestirsi con cautela. «Grazie dottoressa...» L'altro abbassò lo sguardo sul suo badge, «Tish Argent, è stata un angelo!» E senza preavviso la baciò. «Sulle labbra!» Strillò nella mente Tish, scioccata da quel comportamento. Si sentì le guance in fiamme e dal sorriso sornione stampato sul volto dell'audace paziente, doveva gongolare non poco a quella visione. Cercò di articolare qualche parola, ma in realtà era interdetta e spiazzata. «Ah! A proposito, lui è Salsa io sono Merengue. Indovini un po' perché?» Le ò una carezza sul volto, afferrò la camicia e uscì dalla sala uno in un lampo, seguito dall'amico taciturno. Tish Argent, non riusciva a crederci. Mai in dieci anni di onorata carriera, qualcuno l'aveva stordita così. Era sicura che l'episodio l'avrebbe perseguitata per giorni. «Dannazione! Che tipo!» Bofonchiò stridula. «Sexy direi, un po' troppo macho, ma... wow!» Alyson le diede un buffetto sulla guancia. Come spesso accade, non c'era solo un rapporto professionale fra loro, ma di amicizia e un gesto del genere, consolidava ancora di più il legame d'affetto che già condividevano. «Non dirmi che ti ha colpito!» Sbottò Tish, confusa dal senso di panico che le stava montando dentro. «Certo! E' un fusto sbalorditivo, non che l'altro non lo fosse, ma era cupo come la notte, sembra però che a te abbia fatto un effetto decisamente più devastante!» La provocò Alyson, divertita dalla reazione sconvolta di Tish. Non era frequente vederla così smarrita, per un uomo poi! «Per forza, mi ha baciata!» Quasi gridò per la foga. «E allora? Buon per te!» Alla sua espressione irosa, Alyson alzò le mani e indietreggiò, scoppiando in una fragorosa risata. Si fronteggiarono per poco, perché allentata la tensione, Tish la seguì a ruota un secondo dopo, ripensando alla scena, aveva le lacrime agli occhi.

«Devo dire che la dipartita degli agenti della CIA in vacanza a La Palma è stata notevole. E' chiaro che io saldo sempre i conti in sospeso! Adesso un'altra incombenza esige la mia attenzione, diciamo così... un intervento forzato.» Agap Berlix si erse in tutta la sua statura, oltre il metro e novanta, rigirava distrattamente fra le dita, il bottone dal quale era risalito agli agenti speciali Bell e Cox. Grazie al quale, ora era tronfio e raggiante, il suo ego già smisurato, si innalzava così in alto da sfiorare l'universo. Squadrò sistematicamente i suoi uomini, gli occhi come laser perforanti, tanto che nella stanza la tensione si fece palpabile, nessuno osò incrociare quello sguardo diabolico. Il suo umore era improvvisamente cambiato, non una novità, Berlix ava da uno stato euforico a uno omicida alla velocità della luce. Di botto emise un sibilo a labbra serrate. «Dobbiamo tirarlo fuori da lì!» Sbraitò come un dannato ai suoi uomini. Mentre afferrava spazientito, da sopra l'enorme scrivania in mogano, una pianta planimetrica delle carceri di Leiden, vicino ad Amsterdam, dov'era rinchiuso suo nipote Ariy, scampato per miracolo alla morte durante il blitz della CIA. Era a Leiden grazie ai loro capi d'accusa; questo Agap non poteva tollerarlo, un conto era essere consapevoli della totale incapacità lavorativa di suo nipote, un'altra lasciarlo nelle mani di quei maledetti rompipalle ficcanaso. Pagava profumatamente alcuni agenti corrotti a Mosca, perché gli tenessero fuori dai piedi quei fottuti “agenti speciali”. Non trascurabile il fatto che, Ariy sapeva troppo e non teneva il becco chiuso sotto tortura. Ormai aveva mollato la speranza di farlo diventare un osso duro come lui. Inutile l'addestramento impartito. Ariy, purtroppo, era uno smidollato senza eguali. Dura da mandar giù, per un tipo di ferro come Agap, ma l'evidenza azzerava la speranza. Era assodato: Ariy era una nullità. Quando lo avesse avuto di nuovo fra le mani, gli avrebbe fatto un servizio completo, alla sua maniera. andolo al tritacarne. Per ora però bisognava recuperarlo e quel carcere non era uno scherzo! Massima sicurezza, sorveglianza smisurata, tecnologia di ultima generazione. In un impeto di rabbia, scagliò la pianta contro la parete e si afflosciò a terra, piegandosi su se stessa scompostamente, il che fece imbestialire ancora di più Agap. «Signor Berlix, forse è il caso di prendere in considerazione un piano alternativo, anziché un'intrusione.» A parlare era stato uno degli uomini più vicini ad Agap, per il tempo in cui avevano lavorato fianco a fianco e per le ottime strategie di cui si era reso protagonista, in anni di “onorata carriera” per così dire, si era

guadagnato un posto di rilievo nell'organizzazione capeggiata dal temibile Agap Berlix, il più potente magnate di contrabbando di armi belliche, della Federazione Russa. Kirill Konn era uno spietato killer, ma soprattutto un esperto di tattiche militari. La sua parola valeva oro. «Che proponi Kirill?» Chiese interessato Agap, riprendendo il controllo sui nervi. «Intanto, di spostare la base operativa temporaneamente ad Amsterdam.» Affermò senza esitazione Kirill. Agap era tutto orecchie, già di primo acchito l' idea gli piaceva, era fiducioso sul resto della storia. A tempo di record erano riusciti a trasferire un gruppo scelto di uomini, a poca distanza dalla prigione di Leiden. Agap era entusiasta dell'efficienza dei suoi killer, precisi e determinati. Avevano predisposto una prima ricognizione e stavano per decollare con un elicottero, i rotori erano già al massimo e lui si sfregava le mani, pregustando l'imminente conclusione della trasferta. Un sorriso beffardo gli si disegnò sulle labbra, vedendo salire alcuni dei suoi fedelissimi. Lui sarebbe rimasto a terra, come ogni condottiero che si rispetti, dirigeva l'operazione tranquillamente seduto su una strepitosa poltrona in cuoio e attendeva con trepidazione l'evolversi degli eventi. Con la brillante mente di Kirill, avevano studiato nei dettagli alcuni aggi importanti, prima di poter prelevare Ariy. Il o sul luogo di alcuni infiltrati, avrebbe reso possibile lo stratagemma per tirare fuori dalla prigione il nipote. Qualcosa lo mise in allarme. Uno strano ronzio che aumentava di intensità a velocità strabiliante. Non ebbe modo di aguzzare l'udito. Fu la vista a sostituire tutti gli altri sensi. Fiamme altissime si levarono dall'hangar di fronte, in cui si trovavano alcuni aerei Cessna. Istintivamente Agap indietreggiò, urtando la poltrona e cadendo con un tonfo sordo a terra. Davanti a sé un turbinio di immagini. Uomini che correvano da ogni parte, altri che tentavano di spegnere l'incendio, affannandosi con gli idranti, il fumo stava imprigionando tutto e tutti. Ad un tratto si sentì afferrare. Kirill al suo fianco

urlava per farsi sentire, tentando di sovrastare il boato che imperava nell'area. Agap furibondo e incredulo cercò di resistergli, ma quando senti indistintamente i suoni striduli delle sirene in avvicinamento, si arrese e si lasciò trascinare sulla Rolls con cui era arrivato lì. Una verità disarmante. Era stato boicottato. «Per ora è meglio far calmare le acque, dobbiamo rientrare a Mosca, abbiamo attirato l'attenzione di qualcuno e finché non sappiamo con esattezza di chi si tratta, dobbiamo ritirarci, Ariy dovrà aspettare ancora un po'!» Kirill guidava a tutta velocità seguito da altre due auto, con il resto della squadra a bordo, non c'era nemmeno il tempo di verificare eventuali vittime, era urgente tagliare la corda. Agap serrò la mascella, mandava lampi dagli occhi, ma dovette ammettere che Kirill aveva ragione, in un paese straniero non era consigliabile fare troppo i gradassi. «Facciamo il possibile per chiudere questa faccenda al più presto.» Con questo monito Agap intendeva sistemare in una vasca d'acido, chiunque si fosse azzardato ad intralciarlo. «Pensi sappia di noi?» Il timbro inespressivo la diceva lunga sullo stato d'animo. «Lo scopriremo presto.» Ribatté, una voce più briosa. «E' furbo l'amico!» Disse cupo Fulk. «Già, ma come primo approccio direi che non possiamo lamentarci, intanto è scappato con la coda fra le gambe!» Aggiunse Gage. Si sfregò le mani sui jeans logori e fissò lo sguardo sulla densa colonna di fumo a qualche centinaia di metri. «Forza, abbiamo un aereo da prendere.» Si riscosse Fulk, dando una gomitata al socio. «Sì, sbrighiamoci.» Concordò Gage. Saltarono sulle moto, che avevano poco cavallerescamente sottratto a due ragazzini e sfrecciarono via.

«I suoi contatti, dovremmo prima far fuori loro, poi staccare la testa a lui.» Dalla voce roca e graffiante di Fulk, traspariva tutta la frustrazione di un periodo al limite dell'immaginabile per lui. Erano a Mosca ormai da tre settimane, seguendo, registrando e aspettando di colpire. Lui non ne poteva più, voleva trucidare, finire, cancellare dalla faccia della terra quei miserabili, non solo per il male fatto alla sua famiglia, ma per quanto ne facevano continuamente, beati e indisturbati contro l'umanità. «Calma, è la virtù dei forti, ricordi? Una mossa sbagliata e non vendichiamo proprio nessuno!» Gage gli ò il binocolo a infrarossi, erano nascosti dietro un chiosco per la vendita di giornali, di notte era chiuso e al momento serviva bene allo scopo, ripararli, mentre con la modalità notturna, osservavano i loro obiettivi. Avevano già raccolto parecchie informazioni, sull'ultimo affare di Agap Berlix. Il verme stava trattando una grossa partita di armi, con due agenti corrotti del FSB, i servizi federali per la sicurezza della Federazione Russa, in breve l'erede del vecchio KGB. Voin Seidin e Zot Vorobiev, questi i loro nomi, facevano il solito balletto che normalmente si riscontra in certe trattative. Sfiancare il venditore, affinché abbassi notevolmente il prezzo. Niente di nuovo, routine del mestiere. Gli incontri avvenivano per lo più al Caxap, come quella sera. Era un locale nel centro storico di Mosca. Raramente in un ufficio secondario di Agap, a Reutov, qualche miglio fuori città. Il proprietario del Caxap era un tizio indebitato fino al collo, Osip Pankov, completamente alla mercé di Agap. Pagava un pizzo esorbitante per tenere aperto il locale, per gentile concessione Agap faceva lì molti dei suoi incontri d'affari, scroccando alcolici e infastidendo le ragazze che lavoravano al locale. Si sa, d'altronde la carne è debole, anche un losco individuo come lui, aveva bisogno di certi sollazzi e atempi. Le cameriere infatti, ogni volta che gli vedevano varcare la soglia, rabbrividivano e incrociavano le dita. Sperando ardentemente che restasse occupato con i suoi clienti per tutta la sera, e magari poi, crollasse sotto i fumi dell'alcool, dopo aver trangugiato svariati bicchierini di vodka, in modo da lasciarle stare. Finalmente dopo tre quarti d'ora Seidin e Vorobiev, uscirono circospetti dal locale, seguiti dal corteo di Berlix. Dalle facce torve era evidente che l'accordo non era ancora stato raggiunto, dopo uno stizzito ultimatum per decidere in fretta sull'acquisto della merce, Agap voltò le spalle ai due potenziali clienti e si diresse alla sua auto, scortato come al solito dai suoi tirapiedi. Seidin e Vorobiev, andarono nella direzione opposta, discutendo animatamente e insultandosi a vicenda, per la maldestra gestione delle trattative. Quando anche l'Audi partì sgommando, lasciandosi dietro una scia di polvere, Fulk e Gage uscirono dal nascondiglio. Si guardarono attorno, il campo era sgombro, ed era

ora di andare a curiosare un po' all'interno del locale. Studiare bene l'avversario prima di un rush finale, era la regola numero uno per avere in tasca la vittoria e magari la testa su un piatto d'argento del delinquente di turno. Il Caxap era un mix fra un pub irlandese e un Harem orientale. Luci soffuse, quasi del tutto nascoste da drappi di stoffa scuri e spessi, che andavano dal porpora al viola cupo. I tavoli di mogano davano un che di sinistro, ad un'atmosfera già di per sé tetra, il bancone del bar scuro e intagliato, tanto da rendere l'entrata ancora più lugubre di quanto si potesse immaginare e infine delle alcove di dubbio gusto, con cuscini enormi, sempre in tonalità estremamente solari e vivaci, dal grigio piombo, al nero assoluto, nei vari punti appartati delle salette. «Accogliente è?» Ironizzò Gage, col suo solito sarcasmo impenitente. «Da sogno!» Replicò asciutto Fulk. Nonostante la vita gli pesasse addosso come un masso gigante, era deciso ad assecondare Gage, più cazzeggiava, meno si sviliva nell'autocommiserazione e per concretizzare l'assoluta intenzione a vendicare la sua famiglia, restava di primaria importanza mantenere lucidità ed equilibrio, decisamente necessari, per raggiungere la meta. «Vado al bancone, faccio quattro chiacchiere con l'avvenente barman.» Gage gli strizzò l'occhio e si diresse disinvolto verso il tipo rigido come un palo, che puliva il piano di lavoro in maniera quasi ossessiva. Fulk rabbrividì, definire avvenente un essere simile, era tipico di Gage, brutto ogni ragionevole dubbio, inquietante come uno zombie e come se non bastasse, era dotato di un occhio di vetro così macabro, da far scappare terrorizzato anche il navigato Stephen King. Mentre guardava di sottecchi l'amico lavorarsi Lerch della famiglia Addams, si spostò verso l'unico tavolo da biliardo, sistemato vicino ad un cantante di piano bar, che stava tirando il collo ad un povero sax, alternando la musica ad una canzone degna di un inno alla devastazione mondiale. Rimasero nel locale per un po', parlando con diversi clienti, offrendo bevute e scambiando battute con le cameriere, finito il giro di rappresentanza, con molta nonchalance se ne andarono, quasi fossero clienti abituali del posto. «Qualcosa d'interessante?» Chiese Fulk, spostandosi verso la Prius a noleggio, parcheggiata lungo la strada. «Solo che il caro Agap Berlix, dovrà incontrare ancora i suoi recalcitranti acquirenti, ha dovuto rimandare un'altra volta l'incontro, stasera non ha

concluso.» Gage aprì la portiera e si mise al posto di guida. «Bene, inoltre pare stia dando di matto per la storia del nipote Ariy, qui si mormora voglia riportarlo a casa in tutti i modi, forse avremo di nuovo l'occasione propizia per abbrustolirlo definitivamente!» Fulk era fiducioso che la situazione stesse per prendere finalmente la piega giusta, dovevano solo decidere il dove e il quando e poi per Berlix sarebbe stata la fine. Si mise comodo al posto del eggero e per la prima volta dopo la tragedia, le sue labbra si distesero in un sorriso. «Ripeta il suo nome prego.» L'agente Judie Kreck era infastidita dalle imposizioni, soprattutto da superiori sciovinisti e conservatori. Quella mattina aveva dei trasferimenti da organizzare e dover fare da balia, a un gruppetto di scribacchini della carta stampata, proprio non le andava giù. Piegò la lettera ministeriale con decisione e la porse all'interlocutrice altezzosa e piena di sé, che stava facendo la vamp senza alcun ritegno, proprio lì a pochi i. «Yana Shikov, giornalista del Telegraaf, ho l'esclusiva per il servizio sulle carceri in territorio olandese, è il quarto istituto che visito questo mese.» Affabile e melensa, fin troppo esagerata, come un bignè straripante di crema. Notando il sospetto nell'espressione dell'agente, cambiò tono ed assunse un'aria professionale e austera, perfettamente in linea col suo ruolo. «Il giornale per cui lavoro ha inoltrato la richiesta da parecchio, spero non ci siano complicazioni, devo consegnare il pezzo quanto prima.» Judie Kreck continuava a sentirsi a disagio, una sensazione che le metteva in allerta tutti i sensi, ma visto la lettera di richiesta e le credenziali della giornalista, non poté far altro che lasciar are la troupe. “Non ci voleva”, pensò irritata. Una giornata già di per sé caotica, rischiava solo di diventare ancora più ingestibile, vista la presenza dell'allegra brigata, iper bramosa di fare un tour guidato del complesso carcerario. «Un'ora, come da indicazioni, non un minuto di più!» Intimò senza riguardo alla spocchiosa reporter, la quale con sfrontata disinvoltura oltreò l'ingresso senza nemmeno un semplice grazie. L'agente Kreck serrò la mascella, osservando la donna altissima e vestita con abiti eleganti, inoltrarsi nel dedalo di corridoi che si snodavano nella struttura detentiva. «Uno di questi giorni leggeranno me, sul giornale! Chi crede di essere quell'arpia! Miss Mondo con il per accesso illimitato all'intero Universo!» Bofonchiò a mezza voce.

Distrattamente accarezzò il calcio della pistola nella fondina, poi si costrinse ad abbandonare l'idea di macchiarsi di omicidio, meglio tornare alle scartoffie, prima di cacciarsi nei guai. “Per certa gente non ne vale la pena”, pensò furibonda. Nella ricetrasmittente urlò al collega di accompagnare la giornalista e il suo seguito. «Ah! Spencer, non perderli di vista un secondo! Non mi piace quella donna, men che meno il resto della compagnia!» Interruppe bruscamente la comunicazione, le arrivò appena l'eco lontano di un, «Agli ordini!» Spencer era immediato come un fulmine e questo era un bene, a lei piacevano i colleghi efficienti e scattanti. Con disagio si mise alla scrivania e riprese a lavorare come un robot. Spencer era un uomo alto e robusto, ma con la classica faccia rassicurante e col sorriso pronto. Un agente affabile e rispettoso delle regole, anche con i detenuti mostrava sempre rispetto, insomma un tipo apposto e ligio al dovere. Non gli dispiaceva occuparsi dei giornalisti o visitatori che periodicamente si dirigevano al carcere per i più disparati motivi. Quel giorno per lui era uno come tanti, in più la giornalista che stava per accogliere era davvero una bellezza fuori dal comune, almeno gli occhi avrebbero avuto un piacevole diversivo. In effetti i detenuti, non erano quel che si suol dire, dei tipi da copertina, senza contare che lì c'erano solo uomini. Dettaglio non trascurabile. «Buongiorno!» Una voce suadente lo investì. Balsamo per le sue orecchie. La giornalista tese la mano e gliela strinse forte, Spencer ricambiò imbambolato, ammirando le sinuose curve della donna e apprezzando visibilmente anche le altre due, che completavano il gruppo. In cambio ne ebbe dei sorrisi da capogiro, per quanto lo riguardava la giornata era già cominciata alla grande! «Signore benvenute, sarò felicissimo di scortarvi, prego da questa parte.» Indicò il corridoio alla sua destra, con un lieve inchino, quasi fosse al cospetto della regina d'Inghilterra, fece are le tre donne, che divertite da quel comportamento reverenziale sghignazzarono, mandandolo definitivamente in brodo di giuggiole. Yana Shikov, non fece altro che tempestarlo di domande in rapida successione, registrando tutto con la telecamera, magistralmente manovrata dalle due assistenti e prendendo appunti a velocità supersonica. Spencer si sentiva l'uomo dell'anno e spiegava euforico la vita quotidiana dei detenuti; i pasti, le visite, le attività ricreative, i lavori svolti, insomma tutto il repertorio della vita carceraria. Yana non perdeva una sillaba e lo gratificava con innumerevoli complimenti per

le risposte esaustive e professionali, il che lo rendeva ancora più incline a parlare senza sosta, arricchendo l'esposizione, con particolari e aneddoti vissuti nel corso di un decennio di attività, a stretto contatto con i detenuti. Sottolineando l'importanza del recupero di molti di loro, per il reintegro nella società e il ritorno ad una vita normale, una volta scontata la pena. Yana concordava in tutto e per tutto finché... Una luce abbagliante si incuneò negli occhi assorti dell'agente Spencer. Per la sorpresa andò a sbattere contro una porta metallica alle sue spalle, il suono vibrante che ne seguì, ricordava lo scoppio sibilante di un petardo. Accadde in un attimo. Nemmeno il tempo di rimettersi dritto e fermo sulle gambe. Fu afferrato e bloccato, con una mossa fulminea atterrato bruscamente. Il colpo cruento che gli arrivò alla testa, prima lo stordì e poi lo spedì nelle tenebre. «Okay, sapete cosa fare! Fra dieci minuti, all'uscita est!» Yana Shikov ripose la piccola torcia nella tasca posteriore dei pantaloni, impartì gli ordini e si precipitò nella direzione opposta. «Afferralo per le gambe.» «Niente di più facile.» Gaiya Zeif e Iya Ziv, le due assistenti di Yana non persero tempo, sollevarono agilmente Spencer e lo spostarono all'interno di uno sgabuzzino poco distante. L'odore dei prodotti per le pulizie e del disinfettante fece storcere le loro labbra, una smorfia disgustata che rendeva bene l'idea dell'entusiasmo provato nell'adempiere al compito. Legarono mani e piedi l'agente e senza esitazione gli coprirono la bocca con un panno imbevuto col cloroformio, ogni precauzione era ben studiata, meglio evitare sorprese indesiderate. Uscirono silenziosamente e percorsero a ritroso il tragitto già fatto, stavolta svoltarono a sinistra e poi scesero una lunga scala. Avevano poco più di una manciata di minuti. Arrivarono indisturbate alle celle con i detenuti di massima

sicurezza. Il campo era sgombro. Cominciarono a lavorare col computer portatile al tastierino posto accanto alla prima porta blindata, la sequenza numerica cominciò a scorrere febbrilmente, poi si arrestò con un bip, il numero comparve sullo schermo e una volta digitato correttamente, il pannello si aprì con un clic secco. Corsero per almeno trenta metri e si fermarono alla successiva porta blindata, stessa operazione, altra porta aperta. Intanto Yana aveva messo al tappeto i due agenti nella sala di sorveglianza, cogliendoli di sorpresa e attaccandoli alle spalle. Uno era crollato a terra con una sicura commozione cerebrale, l'altro era svenuto dopo un fendente all'addome. Si era data da fare con le telecamere, mandando immagini di corridoi deserti invasi da un silenzio tombale. Era abile come un hacker, digitava sui tasti come un pianista di fama internazionale, ed era fredda e determinata come un sicario. Sistemata la parte informatica, si alzò di botto e saettò fuori dalla stanza, in una corsa contro il tempo degna di un velocista professionista. Judie Kreck si ò una mano sulla fronte, il cerchio alla testa la stava annientando, pose l'ultimo timbro sulla pila di carte che ingombravano la scrivania e si poggiò pesantemente alla spalliera della poltrona girevole. Chiuse gli occhi sconfitta. Le palpebre le si riaprirono a fatica, l'ideale sarebbe stato piantare tutto e sgattaiolare via. Impossibile. Troppe cose da fare. Lo sguardo le si bloccò sul monitor di sorveglianza. C'era qualcosa che non andava. Ecco di nuovo, quella sensazione di inquietudine, provata davanti alla giornalista farsi avanti. Osservò con più attenzione l'immagine. E' no, qualcosa non quadrava. Troppo deserto nei corridoi. Troppo silenzio. Scattò in piedi, praticamente sull'attenti e come un bolide su di giri, partì spinta da una forza a lei del tutto sconosciuta, macinando metri e metri di corridoi e parlando a raffica con la ricetrasmittente. Gaiya Zeif, tirò su senza tanti complimenti Ariy Bark, che era interdetto e spaesato. Due donne letali come l'armata delle tenebre, erano piombate nella sua cella, una, quella di nome Iya, gli aveva ordinato di tenersi pronto, nemmeno un secondo dopo, lo aveva coperto col suo corpo, tramortendo un agente che si era precipitato lì. Ora veniva strattonato fuori dalla stanza, scavalcando una mezza dozzina di corpi stesi a terra, pozze di sangue imbrattavano il pavimento, altrimenti immacolato. Corse con le due donne su per le scale, sperava solo di trovarsi con una squadra messa su da suo zio Agap Berlix, perché in caso contrario, era probabile il

classico epilogo, del tipo... “finire dalla padella nella brace”. In quel momento non aveva tempo di fare domande, dagli sguardi truci delle sue soccorritrici, il mutismo era l'unica via percorribile. Col fiatone e con un' ansia fuori controllo, si trovò davanti ad una porta a vetri, le sue beniamine, mirarono alla serratura con due pistole quarantaquattro magnum, il silenziatore attutì l'impatto dei proiettili e la porta si aprì con un suono sinistro. Dall'altra parte una donna dagli occhi impenetrabili, li ammonì di darsi una mossa. Dal vicolo adiacente lo stridore dei freni lo fece sussultare, ma le tre non gli diedero il tempo di elaborare, lo spinsero rudemente in avanti, una portiera si aprì quando era ormai ad un o dal Ford Edge. Stava assaporando l'idea inebriante di lasciare quel posto di merda, quando... Un rombo assordante, come l'esplosione di un ordigno, fece tremare l'aria. Si sentì sbalzare a terra. Delle mani lo tenevano giù, schiacciato contro l'asfalto. Iniziò a sudare freddo e a tremare dalla paura. Un elicottero si posizionò sopra di loro. Urla e spari si dispiegarono su tutta l'area. Le voci gracchianti si accavallavano e un altoparlante mise fine alle sue esigue speranze. «Non vi muovete o siete morti!» Lasciò cadere la testa, che cozzò sul manto stradale, freddo e inanimato, proprio come si sentiva lui in quel momento, per un attimo aveva davvero sperato di lasciare quel fetido buco, ma ora sapeva di dover tornare indietro, iniziò a imprecare a mezza voce, anche questo però non lo aiutò affatto. Le tre salvatrici, non si lasciarono scoraggiare. Scivolarono sotto il Ford e lanciarono dei lacrimogeni, una raffica di proiettili si riversò sul suv, ma quando la cortina di fumo si dissolse delle tre tigri neanche l'ombra. «Perfetto!» Borbottò amaramente Ariy, lo avevano lasciato lì, in balia degli eventi. «Bel salvataggio davvero!» Ringhiò a fil di voce. Due manette e una sfilza di improperi che gli trafissero i timpani, lo avvolsero, quando l'agente Judie Kreck, lo afferrò brutalmente, riportandolo dentro. «Mettitelo bene in testa bamboccio, da qui non esce nessuno, senza un bel foglio di via firmato a lettere cubitali da un giudice, dopo aver scontato la pena!» Judie Kreck lo scuoteva come uno straccio e le parole erano taglienti come rasoi. C'era mancato poco che lo scaltro ospite se la svignasse. Non sotto la sua custodia. Lei

dava sempre ascolto al suo sesto senso e alla fine anche questa volta, si era rivelato provvidenziale. «Riportate questo infame nel suo angolo di Paradiso! Io vado a cercare Spencer!» Spinse il prigioniero fra due agenti che lo trattennero e dopo l'ennesima invettiva, cosa della quale Ariy avrebbe fatto volentieri a meno, si diresse sconfitto nella sua cella. Tristemente consapevole che, sarebbe ato molto tempo prima che qualcuno tornasse a prenderlo, suo zio avrebbe aspettato un secolo prima di correre di nuovo un simile rischio. «Spencer, dove diavolo ti hanno cacciato!» L'agente Kreck, stava ribaltando le carceri da ogni parte, c'era una mobilitazione generale di guardie che avevano controllato ogni piastrella, ogni antro e ogni angolo del posto, ma di Spencer nemmeno l'ombra. Furibonda e alterata oltre il limite, in un impeto di rabbia, Judie Kreck si avventò sul distributore di bibite accanto agli uffici, l'unico risultato che ne seguì, fu un disastro di liquido appiccicoso che si riversò sul pavimento, in un collage di colori pastello, coca, aranciata, acqua e una serie, non ben identificata, di bevande energizzanti. «Porca puttana, che casino!» Sbottò Judie, ormai ben oltre il senso di decoro, che solitamente le apparteneva. «Qualcuno vada a prendere degli stracci e del detergente!» Rendendosi conto che tutti erano presi da tutto il trambusto, lasciò cadere le braccia lungo i fianchi e cupa come fosse a un funerale, si diresse verso il ripostiglio dei prodotti. Aprì la porta e accese la luce, il neon sfrigolò dando un paio di flash, prima di inondare la stanza di luce opaca. Colta di sorpresa, s'irrigidì e in un nano secondo, cacciò un urlo così forte, da richiamare le balene del mar Baltico. A tempo di record, ogni agente nei paraggi, si materializzò lì. Spencer era legato come un salame e privo di sensi. «Fate venire qui subito quelli dell'infermeria!» Tuonò ai suoi colleghi, ormai per quel giorno aveva assunto il comando e come per tacito accordo, tutti scattavano come molle ai suoi ordini. Dopo un'ora esasperante e carica di tensione, Spencer riaprì gli occhi, tornando al presente. Tutti si sentirono sollevati, il collega era fuori pericolo, solo il suo orgoglio ne uscì ferito.

«Mi hanno rigirato perbene!» Si lamentò, pronunciando stentatamente le sue prime parole. «Oh, sopravvivrai a questo smacco! Questo è ciò che succede ad essere suscettibili a due occhioni da gattamorta!» Lo derise Judie e dall'espressione di Spencer aveva colto nel segno. «Forza torniamo a lavoro, rimettiamo tutto a posto e cerchiamo di torchiare il nostro detenuto speciale, per scoprire chi vuole fargli prendere il volo.» Tornata in modalità super sbirro, l'agente Kreck seguì i colleghi. Spencer la richiamò dalla barella. «Pensi di scucirgli qualche informazione?» Domandò perplesso. Judie Kreck lo fissò negli occhi, era nel suo carattere, niente imbrogli, niente giochetti, dritta al punto. «Ne dubito fortemente.» Concisa come sempre. Spencer la vide uscire a o di carica, sospirò e rimise la testa sul cuscino. L'arrivo all'aeroporto fu un Odissea, una vera fortuna essere davvero una giornalista, considerò fra sé Yana Shikov, per prendere indisturbate, tutte e tre, l'aereo che le avrebbe riportate in patria. Le sue colleghe erano poco più avanti, non sedute vicine, meglio non dare nell'occhio. Dopo il fallimento alla prigione di Leiden, si erano dirette ad Amsterdam, non era stato facile dileguarsi, con la polizia alle calcagna, un elicottero inchiodato sulla schiena e almeno una dozzina di posti di blocco. Ma l'esperienza aiuta e anche una discreta adrenalina, nel momento del bisogno. C'era voluta tutta la sua grinta per non demordere e non perdere il controllo, alla fine fra uno slalom e l'altro, erano riuscite a svicolare via. Adesso poteva rilassarsi sul comodo sedile di prima classe, a fine giornata sarebbe stata di nuovo nel suo lussuoso appartamento a Mosca, impegnata a godersi nella sua vasca idromassaggio, un bel bicchiere di pregiatissimo champagne. Agap Berlix avrebbe escogitato un altro piano, per far evadere il nipote e lei avrebbe guadagnato il gruzzolo pattuito, quel secondo lavoro le garantiva da sempre una vita agiata ed intrigante, un cocktail esplosivo per la sua sete di uccidere. Gaiya Zeif, si sentiva su di giri per essersela cavata egregiamente, in barba alle

forze dell'ordine e già pregustava una notte infuocata, nella sua villa alle porte di Mosca, con i suoi due amanti, rigorosamente insieme. Decisamente era una insaziabile e viveva nel credo, “due al prezzo di uno”, le sue serate erano a dir poco dirompenti, assaporava con la mente, tutta la sequenza di gingilli che avrebbe avuto il piacere di sperimentare con i due stalloni. Iya Ziv sorrideva fra sé. Per il rientro a casa, data la fortuna sfacciata di essere ancora tutta intera, voleva organizzare una festicciola fra amici speciali per quella notte. Digitava assorta sul cellulare, reclutando per l'incontro, alcuni esemplari con cui animare la serata e scatenarsi in un'orgia selvaggia al limite del possibile. Le persone di grande esperienza sostengono: “che quello che vuoi e quello che ottieni, sono due cose molto diverse”, nel caso di Yana Shikov e delle sue colleghe senz'altro. I programmi per la serata andavano davvero rivisti e corretti. La prima avvisaglia si ebbe all'uscita dell'aeroporto Internazionale di MoscaDomodedovo. Quando Agap Berlix era fermo, in piedi, davanti alle porte scorrevoli. Le tre donne furono accerchiate dai suoi uomini e fatte salire sulla lucidissima limousine Lincoln Town nera. I bagagli lasciati senza convenevoli, sul marciapiede. Non era un buon segno. A giudicare dall'inizio, le cose prendevano una brutta piega. «Signor Berlix, vorrei dirle...» Yana fu interrotta da un gesto stizzito. «Taci!» Tuonò Agap, con lo sguardo di un rapace in procinto di strapparti gli occhi con gli artigli. Yana deglutì a fatica. Gaiya e Iya si pietrificarono sul sedile. La situazione stava sfuggendo al loro controllo. Pur essendo ben addestrate erano in netta minoranza e poi anche riuscendo a eliminare la scorta di Berlix, cosa del tutto impossibile, abbattere lui, sarebbe stata un'impresa mastodontica, al di là delle loro capacità. Quando Berlix attaccava, era letale cento volte su cento. Si lanciarono un'occhiata fugace, sapevano maledettamente bene che quella notte avrebbero partecipato a dei festeggiamenti molto, ma molto esplosivi. Fuori dalla portata

delle loro previsioni. L'auto scivolava agevolmente, districandosi perfettamente nel traffico cittadino serale, in direzione nord. Le luci dei lampioni dipingevano sui loro volti immagini intermittenti, tanto da farli sembrare il prodotto di effetti speciali cinematografici. Il viaggio fu teso e silenzioso, appena udibile, solo il respiro accelerato delle prigioniere. Dopo una ventina di minuti scorsero la città di Khimki, distante solo poche miglia da Mosca. La direzione presa lasciava presagire l'arrivo alla zona industriale, i quartieri erano disseminati di palazzi vecchi e malconci, abitazioni popolari ridotte a misere condizioni dalla crisi economica. Aree desolate, dove già brulicavano gli addetti ai lavori: tossici, prostitute, alcolisti. Un pugno di feccia umana, al limite della sopravvivenza. Si riversava fra vicoli e strade mal illuminate. Vietato a chi avesse ancora un po' di sale in zucca, avventurarsi in certe zone. Non per Agap Berlix, nessun problema per lui, quello era il suo regno, lui sguazzava nel liquame, nessuno da quelle parti si sarebbe sognato di oltraggiarlo, l'imperativo era asservirlo, chinando il capo. La sua imponente auto ava indisturbata dovunque. Una fila interminabile di stabili li fiancheggiò, fino ad arrivare in una zona più aperta, dove immensi capannoni occupavano isolati interi, le strade lì erano ampie e deserte. Raggiunsero una radura. Il terreno accidentato faceva sobbalzare l'auto, che sussultava ad ogni buca, fino a rallentare e poi fermarsi. Lo sportello si aprì e Agap uscì rapido senza degnarle di uno sguardo, un suo uomo le fece scendere rudemente strattonandole fuori dall'abitacolo. L'aria era fredda, nessuna stella a schiarirla. Ombre tetre si muovevano sinuose, ogni volta che gli alberi venivano mossi dal vento. In lontananza il suono stridulo di qualche sirena riverberava scandendo il tempo. Che parve immobile. Solo per poco. Agap diede un ordine usando solo lo schiocco delle dita, anche quello parve innescare l'inesorabile conto alla rovescia per il massacro. Yana strinse gli occhi. Se lo sentiva nelle ossa, avrebbe pagato caro il mancato recupero di Ariy Bark. Non ci sarebbero state proroghe o seconde occasioni. La partita era al termine, lì e subito. Si riscosse dalle inutili considerazioni, quando vide aprire un portone scorrevole

di un capannone poco distante. Fu esortata con le altre a muoversi, ma i piedi sembravano inglobati nel terreno. Con grande sforzo cercò di ritrovare il sangue freddo e si lasciò guidare all'interno. Era enorme e completamente vuoto, ad eccezione di qualche cassa e una vasca metallica che occupava un angolo distante dall'entrata. La prima ad essere allontanata fu Gaiya, anche se stoicamente trattenne le emozioni, il suo volto tirato e cereo denotava un'altissima tensione. Uscì con due uomini da una porta laterale. Iya e Yana furono gettate a terra una accanto all'altra e minacciate di non muoversi. L'orologio segnava i minuti. Il silenzio era snervante. Le orecchie tese nell'intento di cogliere il più piccolo segnale. Poi il suono sordo di una catena sbattuta incessantemente e le grida strazianti che investirono tutto, catapultarono le donne nell'inferno più nero. Grida maschili imperiose senza pietà echeggiarono nell'aria. Il pianto dirotto di Gaiya che implorava di finirla. Nessuna misericordia, nessuna clemenza. La tortura andò avanti senza sosta per più di un'ora, poi il silenzio cadde di nuovo nello stabile. La porta si aprì, Gaiya era trascinata dagli aguzzini sgarbatamente e lasciava a terra un rivolo di sangue; era priva di conoscenza e aveva ferite da taglio in vari punti del corpo. Agap si accese un sigaro cubano e socchiuse gli occhi, aspirò lentamente e si voltò, come se la cosa non fosse per niente eccitante. Iya scattò in piedi e si catapultò sull'uomo più vicino, ne nacque una colluttazione, lei s'impossessò della pistola e fece fuoco, Yana cercò di andarle in aiuto, ma un calcio alla testa la tramortì. C'era sangue che sgorgava a fiumi, grida e imprecazioni. Poi qualcosa luccicò, rilasciando un bagliore nello spazio fioco del capannone. Un urlo raggelante pose fine alla lotta. Iya cadde a terra, gli occhi sbarrati verso l'alto e un sussulto scosse il suo corpo, ormai prossimo alla definitiva immobilità. Agap aveva lanciato il suo coltello dal pregiato manico in avorio, proprio in mezzo al torace della donna, centrando con un unico colpo il suo cuore, disegnando nell'aria un arco perfetto e brillando magistralmente all'impatto. Yana un po' annebbiata, ma consapevole, tentò di recuperare il coltello, purtroppo con scarso successo, fu legata con una cinghia di cuoio e portata al centro, ormai disillusa sull'epilogo imminente, prese a divincolarsi come un'ossessa, ringhiando imprecazioni e sbraitando le peggiori oscenità all'indirizzo di Agap. Il quale tutt'altro che offeso, si lasciò andare in una grassa risata.

«Dov'è finita la fredda professionista che ho ingaggiato?» Chiese divertito. Yana si protese in avanti e sputò sulla faccia del suo carnefice. Con una calma da esaurimento, Agap estrasse dal costoso cappotto in Cashmere, un fazzoletto di cotone Egiziano e senza scomporsi lo ò sul volto, finita l'operazione alzò di scatto gli occhi e... si avventò su Yana, come un lupo sulla preda. Una lotta impari e senza esclusione di colpi, lei era incapace di proteggersi, il suo corpo era scosso da ondate di dolore lancinante, Agap non le risparmiava nulla, la stava usando come un sacco da allenamento, ad un certo punto, quasi annoiato dalla facilità con cui metteva a segno i suoi colpi, le ò l'addome da parte a parte, col gemello del coltello riservato ad Iya. Yana emise un suono gutturale, smorzato da uno spasmo. Vide il suo sangue imbrattarle rapidamente l'abito di alta moda che indossava, vide le sue mani tentare di bloccare l'emorragia e vide Agap storcere la bocca in un ghigno soddisfatto, poi si sentì alzare di peso e con stupore si trovò ai bordi della vasca che aveva appena notato all'arrivo, era ancora viva quando fu scaraventata là dentro. Un secondo dopo l'urlo sulle sue labbra morì con lei. L'acido perclorico la sommerse e agì con tutta la forza e la furia di cui era composto, scomparve nel liquido, risucchiata da una vita scelta all'insegna del rischio. Il prezzo altissimo per un'esistenza dedita all'omicidio. La risata beffarda echeggiava convulsa tutto intorno, Agap era euforico, amava da matti eliminare personalmente la gente, soprattutto chi lo aveva deluso. «Fate fare una nuotata anche alle altre due!» Ordinò perentorio. Girando sui tacchi e dirigendosi all'uscita, si soffermò solo un attimo a recuperare i suoi preziosi coltelli, li ripose nelle fondine sotto le ascelle e riprese il o. «Nazar assicurati di non lasciare tracce. Ricorda bene cosa succede a chi non rispetta le mie volontà!» Un ampio gesto del braccio, ad indicare i corpi straziati abbandonati per terra. «Sarà fatto signore!» Nazar Milosz, non era un fesso qualunque, lavorava per Berlix da parecchio tempo, conosceva le regole e le seguiva alla lettera. Se Agap Berlix voleva una cosa, lui avrebbe fatto un salto sulla Luna per prendergliela, poco ma sicuro, questo gli garantiva un futuro e una posizione di rilievo alle sue dipendenze, ed era fermamente intenzionato a restare nelle grazie del suo signore. «Sentito gente olio di gomito!» Invei contro i colleghi. Agap salì in macchina, il suo autista partì rapidamente e riprese la strada per Mosca.

Quel coglione di Ariy sarebbe marcito in prigione, per quanto lo riguardava, si era già dato da fare anche troppo, se il caro nipote si azzardava a spifferare anche il più piccolo dettaglio sulla sua rete d'affari, Agap lo avrebbe spedito al creatore. Affanculo la litania di sua sorella di riportare il pargolo a casa, il pargolo era una catastrofe e la famiglia stava senz'altro meglio senza quell'idiota fra i piedi. Non si era dato da fare per fuggire, nemmeno con l'aiuto delle donne assunte per lo scopo. «Roba da far incazzare anche il Patriarca!» Sibilò fra i denti Agap, lasciandosi alle spalle quell'operazione disastrosa e deludente. «Ha detto qualcosa signor Berlix?» Chiese affabile l'autista. Agap irritato lo guardò torvo, ma riacquistò subito il suo tono baritonale. «Niente di che Sila, torna a guardare la strada.» L'autista capì l'antifona e prontamente alzò anche il pannello di separazione dell'auto, lasciando al suo capo la dovuta privacy. Meglio glissare davanti agli sbalzi d'umore di Berlix, se gli rompevi troppo le palle, era capace di farti accostare e buttarti nel primo canale di scolo a portata di mano. Agap Berlix apprezzò il gesto intuitivo del suo autista e proiettò la mente verso pensieri più edificanti, come concludere l'affare milionario con gli agenti del FSB. «Oh! Mi scusi, non volevo...» La donna imbarazzatissima cercò di raccogliere velocemente il contenuto della spesa, completamente rovesciato sul malcapitato di fronte. «Lasci perdere...faccio da solo!» L'uomo irritato si scostò bruscamente e stizzito prese a scuotersi di dosso, una quantità esagerata di frutta e verdura. La donna si diede da fare, forse con troppa foga, perché non vide il ante alle sue spalle. Con il gomito lo colpì alla gola, il grido strozzato che ne seguì, la bloccò all'istante, quando si voltò, il poveretto era piegato e cadde immediatamente a terra, colto da un dolore incredibile. La donna urlò per lo spavento e si chinò a prestare soccorso, non sapendo bene, come alleviare tale sofferenza. Il mercato alle nove del mattino, era gremito di gente, una calca che sfilava fra una bancarella e l'altra, lei aveva fretta, ed era distratta dalla necessità di far presto, questo l'aveva resa goffa, ed eccone il risultato, due uomini inferociti e con lo sguardo assassino e lei non aveva più tempo, doveva rientrare in casa.

«Signora, stamani ha deciso di fare piazza pulita?» L'apostrofò quello con tutta la spesa sparsa sul corpo. Si era chinato per vedere se il dolorante compagno di sventura stesse riprendendosi. Un gruppetto di persone si era fermato lì e ognuno diceva la sua, su cosa era meglio fare. Le opzioni più bizzarre scesero in campo. “Forse è meglio con la respirazione bocca a bocca”, disse qualcuno, ma all'occhiata torva del ferito, si cambiò rotta. “meglio chiamare l'ambulanza, potrebbe avere una lesione alla trachea, addirittura all'esofago”! Azzardò qualcun altro. Lo sguardo del ferito si fece ancora più truce. Vedendolo così reattivo, tutti chio il becco e si dileguarono, tornando senza rimorso alle proprie faccende. L'uomo si rimise in piedi, un po' stordito dal colpo subito, ma abbastanza in forma, tanto da investire l'ignara colpevole, con una sfilza di improperi da far tremare la terra. «Sono desolata, giuro che non mi sono resa conto di averla alle spalle, ora non ho tempo, ma se mi permette, le lascio il mio numero per le eventuali spese mediche. Propose in preda al panico, questo inconveniente proprio non le ci voleva, doveva sbrigarsi, avrebbe promesso qualsiasi cosa pur di potersene andare alla svelta. Un colpo di tosse catturò la sua attenzione. L'uomo con le verdure addosso, la guardò cupo. Con un gesto eloquente sottolineò la condizione pietosa in cui si trovava, gli abiti macchiati da una varietà indistinta di colori, si andava dal verde tenue, a quello scuro, per are ad una sfumatura graduale di rosso. La donna si affrettò a rassicurarlo per evitare altre scenate. «Ovviamente risarcirò anche a lei le spese della tintoria, ma vi prego ora devo proprio scappare.» Afferrò dalla borsa un taccuino e con una penna dell'epoca Vittoriana, scarabocchiò alcune lettere, poi strappò il foglio e lo lanciò a l'uomo vestito da Arlecchino. «La prego dia lei il mio numero al signore, io devo proprio andare, arrivederci!» Girò sui tacchi e scomparve fra la folla. L'uomo osservò per qualche secondo il pezzo di carta, poi lo mise nella tasca dei

pantaloni. Un sorriso soddisfatto gli animò il volto. «Okay è andata!» La voce trionfale lo investì. I due si mossero e in pochi minuti uscirono dalla calca e dal mercato. Raggiunsero la Prius e una volta partiti tirarono un sospiro di sollievo. «Abbiamo il gancio, anche se lei non lo sa.» Affermò Fulk rinvigorito dagli sviluppi. «Sì, ora dobbiamo lavorarcela un po' e il gioco è fatto!» Replicò pimpante Gage. «E' stato pazzesco, avresti dovuto vederti quando quel tipo ha proposto di farti la respirazione bocca a bocca!» Gage esplose in una fragorosa risata. «Se quello si azzardava a poggiare quei gommoni di labbra sulla mia bocca, gli avrei fatto fare il giro del mondo in un minuto, garantito, che orrore!» Rabbrividì disgustato Fulk. «Comunque non stavi messo bene neanche tu!» Lo annusò e Gage lo guardò insospettito, Fulk rise di gusto. «Già, amico mio, oltre a sembrare un arcobaleno, puzzi di cipolla!» Gage parve offeso, ma un secondo dopo scoppiò a ridere unendosi a Fulk, avevano entrambi le lacrime agli occhi. Lasciarono are due giorni, prima di chiamare la donna intercettata al mercato e fissare un incontro. Preso l'appuntamento, che si sarebbe svolto di lì a due ore, Gage poggiò un fascicolo dettagliato sulla scrivania. Avevano preso un appartamento in affitto nella periferia est di Mosca. Non eccezionale ma decoroso. Un angolo cottura di un colore arancio vivace, con tavolo e sedie della stessa tonalità, un divano in velluto grigio, con a fianco una scrivania in rovere, dove tenevano un portatile, una stampante e gli immancabili cellulari pronti all'uso, lì davanti, un tappeto sintetico di colore rosso fuoco, qualche stampa con isole tropicali attaccata alle pareti, due camere color senape piccole, ma funzionali, un bagno solo di fatto, minuscolo quanto un tovagliolo di carta, color verde giada e un terrazzino sulla via principale, comodo per tenere a bada eventuali incursioni. Il tutto molto semplice ed essenziale.

Fulk prese i fogli e scorse di nuovo le informazioni raccolte, soprattutto le ultime riguardanti la donna. Zlata Morev era la governante di Agap Berlix da cinque anni, aveva quarant'anni ed aveva due figli adolescenti, entrava a lavoro alle sette del mattino e usciva alle venti di sera, ad eccezione di eventuali cene organizzate dal suo datore di lavoro. Il marito della donna, lavorava presso un ristorante per camionisti alle porte di Mosca. Zlata organizzava la casa di Berlix, c'erano altre due cameriere e due giardinieri, che entravano e uscivano dall'abitazione del magnate d'armi, ma abbordare Zlata, era parsa la scelta più saggia, era evidente che conosceva gli orari e i movimenti di Berlix, meglio di chiunque altro, ergo, farle spifferare informazioni, era di fondamentale importanza e quale miglior incentivo, se non quello di farla sentire responsabile di un piccolo incidente, per entrare nelle sue grazie e in confidenza? Fulk e Gage si prepararono ad interpretare la parte. Due ore più tardi erano seduti in un caffè a un isolato dalla villa di Berlix, ad intrattenere la governante. Erano arrivati da direzioni opposte e con una differenza d'orario di circa un quarto d'ora. All'inizio avevano trattato la donna freddamente e con un certo distacco, irritandosi a vicenda per enfatizzare il fatto di essere due perfetti sconosciuti. La donna aveva saldato le ricevute che le erano state messe davanti, continuando a scusarsi per la sbadataggine che aveva avuto due giorni prima. Pian piano la tattica era cambiata, uno dopo l'altro si erano adoperati nel rassicurarla e nel farla sentire una persona integerrima che rispetta le promesse fatte e gli impegni presi, a quel punto la donna gongolava, anche perché i due erano davvero attraenti. Le avevano imbastito tutta una storia sul loro lavoro. Gage si era lanciato nell'impiego per una compagnia aerea. “Ispettore per il controllo qualità”, le aveva fornito un mucchio di dettagli sul lavoro complesso e di responsabilità che svolgeva. Fulk aveva esordito con la professione di concertista per un'orchestra sinfonica di Boston, la fatica per raggiungere una posizione tanto ambita e i sogni di ragazzino realizzati dopo anni di conservatorio e di ore spese al pianoforte. Tutti e due conclo con la pazienza inesauribile che occorreva nel dover viaggiare continuamente in tutto il mondo. Lei a quel punto era estasiata e irretita. Se poi aggiungiamo che Gage, come al suo solito, iniziò pure a farle gli occhi dolci! Zlata ad un certo punto era in delirio. ava il suo sguardo perso dall'uno all'altro. Non poteva trattenersi dall'ammirare tanta avvenenza. Forse era il fascino degli stranieri. Alti, col fisico asciutto, ma muscoloso nei punti giusti. Uno moro con occhi color argento, un sorriso enigmatico, molto accattivante. L'altro castano, occhi azzurri come il cielo, un sorriso malizioso e aperto, pronto alla battuta. Si sentiva come una liceale, cercò di ammonirsi e di tornare coi piedi per terra, avrebbe salutato con

cortesia e sarebbe tornata a lavoro immediatamente. Non aveva tutto il giorno da perdere in fantasticherie su due perfetti sconosciuti come un'adolescente. Il signor Berlix le aveva dato un'ora di tempo, si sarebbe infuriato come una bestia se telefonando non l'avesse trovata in casa. Fece per alzarsi e congedarsi, ma due mani si posarono sulle sue trattenendola al tavolo. Ahimé, non riuscì a resistere, rimase lì, seduta e imprigionata, come una falena alla luce di una lampada. «Caspita, se sorrido ancora mi si smonta la mascella!» Gage si gettò sul divano con un tonfo. Fulk scosse la testa. «Ci credo, ti sei talmente calato nella parte che, ad un certo punto, ho temuto volessi sdraiarla sul tavolo e fare del sesso selvaggio seduta stante!» Rise guardando il suo socio. «Ma dai, non ho usato neanche il venti percento del mio repertorio ammaliatore, ho solo sorriso e fatto un po' di complimenti, se davvero fossi entrato in azione, a quest'ora la poveretta starebbe urlando per la voglia di avermi!» Affermò spavaldo. «Però, la cosa che mi ha sempre colpito di te, è la tua smisurata modestia, del tipo... se voglio quella donna, lei ancora non lo sa, ma è già mia, non potrà fare a meno di cadere ai miei piedi!» Lo schernì Fulk, puntandogli il dito accusatore. «Non vedo l'ora di assistere alla tua disfatta!» Aggiunse ghignando. «Cazzate! Nessuna mi metterà un laccio al collo. Io decido chi, io decido come e io decido quando! Ricordalo!» Sbottò Gage, un po' irritato da quelle affermazioni. «Sicuro, per questo sarà ancora più divertente, tu sei convinto di avere il controllo completo, ma ricorda, a volte le emozioni ti travolgono e tu cazzone, non puoi far altro che arrenderti!» La luce che brillò per un attimo negli occhi di Fulk, fu così intensa da rivelare un mondo intero, poi cambiò e tornò scherzosa come prima. «Non so, mi viene in mente un pronto soccorso a Londra.» Dichiarò sarcastico. Gage ci mise un secondo ad afferrare, era rimasto un po' perso dallo sguardo dell'amico. Inevitabile il pensiero alla grave perdita che in prima persona aveva subito, ma ammirava totalmente la sua forza di volontà, il voler a tutti i costi reagire, l'intenzione di andare avanti con la vendetta, tutto questo, gli dava

ancora la spinta per vivere e smorzare anche con l'ironia, una situazione altrimenti tremenda. Gage balzò in piedi e afferrò Fulk, ne nacque una lotta da strada; ridevano a crepapelle come ragazzini, si pestavano restando comunque nei limiti consentiti, due amici da sempre, due fratelli per scelta, due soci di vita. Avevano il fiato corto ed erano paonazzi. «Sai che è una stronzata megagalattica, vero?» Chiese Gage, andosi la mano fra i capelli. «Oh, come no!» Fulk gli strizzò l'occhio. «Basta! dovremmo lavorare al piano, adesso sappiamo dell'incontro che Berlix terrà con in due agenti corrotti del FSB.» Sbraitò Gage, poco convinto. «Abbiamo ancora un po' di tempo, dure le pene d'amore è?» Rincarò Fulk. Gage gli balzò addosso e la lotta continuò per un bel po'. «Felice di vedervi ancora tutti interi campioni!» Esordì una voce squillante, sbattendo la porta d'ingrasso e rimbombando le suole spesse delle scarpe sul pavimento. «Ben arrivato Basil, gli altri?» Chiese Gage, lasciando are l'amico e collega di vecchia data. «Dieci minuti e saranno qui.» Basil fece una pausa, poi con voce incrinata riprese sincero, «Fulk siamo tutti con te.» Si avvicinò al vecchio compagno di accademia e lo abbracciò forte. Fulk tenne duro, era commosso e in preda ad una ridda d'emozioni indicibili, per tutto ciò che era successo, per la solidarietà di compagni leali, per se stesso, che nonostante tutto, cercava di rendere giustizia alla sua famiglia, come un robot, lasciando fuori, disperazione e angoscia, in quell'abbraccio c'era solidità, l'ancora per la sopravvivenza e di questo era grato al destino, per avergli permesso di avere amici tanto valorosi, Gage in cima alla lista. Si conoscevano dai tempi dell'accademia, avevano svolto diverse missioni insieme, a parte Gage, la squadra che stava per riunirsi era la formazione di cui si fidava di più in assoluto. Appena avevano contattato i compagni, questi si erano resi subito disponibili, lasciando tutto il resto indietro, per andare in contro ad una missione forse suicida, non retribuita e fuori dalle regole, solo per

amicizia, solo per solidarietà, un gesto che in certi ambienti era più unico che raro. «Non so esprimere a parole il grazie enorme che vorrei manifestare, per la tua generosità.» Fulk era commosso e lo si sentiva dal timbro della voce. «Non avrei potuto fare altrimenti, uno come te merita di saldare i conti, con le buone o con le cattive, per me meglio con le cattive!» Mimando un colpo mortale, rise di gusto, stemperando la tensione e trascinando con sé anche gli altri due. Dopo la lotta goliardica e ripreso faticosamente il controllo, Fulk e Gage si erano studiati l'intervento da operare su Berlix, ovviamente l'esperienza insegna. Avevano valutato bene rischi e possibilità, ma era evidente che da soli, avevano poche probabilità di sistemare la faccenda. Era stato Fulk a pensare ai ragazzi che potevano essere un ottimo o; con un buon appoggio, era sicuro di riuscire nettamente a pareggiare i conti con Agap Berlix. Avevano impiegato meno di mezz'ora a rintracciarli, il loro sostegno immediato, ora stavano arrivando dai quattro angoli del mondo, in rapida successione, in poco più di ventiquattrore dal lampo di genio avuto da Fulk. Perfettamente in tempo per organizzare l'agognato incontro con Berlix. Non sarebbe stato contento di averli alla sua festa privata, ma si sa, le feste riescono meglio con un po' di botti. Basil si lasciò cadere sul divano e accese un sigaro, mentre Gage gli porgeva una birra ghiacciata. Poco dopo il suono secco alla porta annunciò l'arrivo di un nuovo ospite. In realtà tre. Chaz, Corie ed Ed, impersonavano perfettamente i cavalieri di un'armata. Enormi, sguardo impenetrabile e aria minacciosa. Trovarseli davanti era uno choc, anche per chi li conosceva bene ed era sicuro di non essere sulla loro lista nera. «Salve!» Esclamarono quasi all'unisono quando entrarono, l'appartamento già piccolo, scomparve, con loro ad occupare ogni spazio vitale. Lanciarono le sacche da viaggio in un angolo e si apprestarono a scambiarsi pacche e saluti, degni di giocatori di rugby.

«Ero sicuro che la notizia della vostra morte, fosse una cazzata mastodontica, Salsa e Merengue, muoiono solo quando lo decidono loro!» Sentenziò Chaz, come un giudice della Corte Suprema. «Giusto.» Ribadirono gli altri. «Forse un po' utopistico, ma può andare come inno all'indistruttibilità!» Scherzò Gage. «Diciamo che, l'abbiamo scampata per puro culo!» Scoppiò a ridere Fulk. «Culo e destrezza!» Precisò Gage. «Per me siete due fottuti fenomeni!» Disse ammirato Ed. «Già, soprattutto due che, non vorrei mai e poi mai trovarmi contro, siete capaci di ribaltare il mondo, pur di andare fino in fondo!» Li elogiò convinto Corie. «Ci puoi scommettere l'uccello!» Ammise carico Gage. Tutti lo fissarono come se gli fossero spuntate tre teste. «Magari proprio l'uccello no!» Corie mise le mani sull'inguine. Gli altri lo imitarono coprendosi platealmente il pacco. Un secondo dopo, erano tutti piegati in due dalle risate, avevano le lacrime agli occhi. Fu molto difficile riprendere il controllo e mettersi a lavorare di brutto. Agap Berlix andava calcolato dalla A alla Z, un banale errore di valutazione, era il biglietto di sola andata, per l'incontro privato col Padreterno. «Le armi?» Fulk guardò dritto negli occhi Basil. «Ti bastano?» Aprì la sua sacca, conteneva un arsenale di tutto rispetto, semi automatiche, coltelli, stelle ninja e diversi tirapugni. Gli altri compagni fecero lo stesso, mostrando il loro repertorio. «Okay, capito, le armi non sono un problema.» Sorrise a Basil, che ricambiò prontamente. «D'accordo, focalizziamoci sulle postazioni e sui tempi.» Gage afferrò una carta

geografica e con dei post-it, segnò alcuni punti, poi con una penna rossa, tracciò sulla carta le vie più veloci per raggiungere il luogo d'incontro organizzato da Berlix, per la vendita delle armi. «Da qui in poi si decide la partita, lui porterà il suo seguito, solitamente disposto a ventaglio, di fronte i due agenti corrotti, per quel che sappiamo saranno soli, ma aspettiamoci qualche sorpresa, la governante ha detto parecchio, però non era a conoscenza di tutti i dettagli. Direi quindi, di restare nascosti fino all'apertura delle casse con la merce, poi Basil darà il segnale. Rimanete freddi e concentrati, soprattutto attenti ad Agap Berlix, è un asso nel dileguarsi quando le cose si mettono male.» Gage parlava osservando i compagni, era teso, ma convinto che tutto avrebbe funzionato. «Ad Agap Berlix ci penso io!» Sentenziò Fulk, sfidando chiunque a dire il contrario. Tutti annuirono e la tensione si dissolse all'istante. «Bene allora, riiamo le fasi e dopo prendiamoci un po' di tempo libero, sarà una notte massacrante, meglio essere pronti e scattanti.» Gage ò ad ognuno il promemoria già letto più volte e mentre stava per attaccare discorso, fu interrotto da Ed: «c'è uno strip club nelle vicinanze? Meglio un bordello!» Fulk lo incenerì, «guarda che per stasera ci servi in forma!» Gli inveì contro, l'altro, con aria del tutto innocente alzò le mani, «appunto, una sana e bella scopata, mi tiene in gran forma!» Li guardò pienamente soddisfatto di sé. A quel punto tutti si misero le mani nei capelli. «Kirill, possiamo andare?» Chiese al suo braccio destro Agap, infilandosi i guanti e il cappotto. «Sì, è tutto pronto, possiamo andare all'appuntamento.» Kirill, aprì il portone in legno massiccio della sontuosa villa di Agap e lo tenne aperto, appena oltreata la soglia, si assicurò di chiuderlo bene con un movimento deciso, il colpo sordo che ne seguì, fugò ogni dubbio. La notte era gelida, rischiarata solo da una pallida Luna, qualche stella brillava solitaria, troppe luci nei centri abitati per poterle scorgere. Agap le guardò distrattamente, la sua vita era tutta incentrata fra traffici, imbrogli, esecuzioni, non apprezzava altro, se non l'adrenalina del complotto, più intrighi e eliminazioni riempivano la sua agenda, più si sentiva realizzato e soddisfatto della sua aberrante carriera. Se per molti la sua esistenza rappresentava il declino

umano, per Agap era un vanto che teneva alta la bandiera della razza, punti di vista decisamente distanti; a volte certe considerazioni lo mettevano di buon umore, anche quella sera sapere di essere un mostro, lo rinvigorì, almeno lui poteva vantare di avere un'identità precisa, a dispetto di tanti altri. Voin Seidin e Zot Vorobiev erano nervosi, aspettavano da cinque minuti e ancora nessuno era in vista. Il luogo dell'incontro era una vecchia distilleria, in una zona isolata di Vidnoye, da quel punto non si distinguevano neanche le luci della vicina cittadina. Lo stabile ormai fatiscente, puzzava di muffa e di spazzatura, il pavimento composto da vecchie assi di legno, scricchiolava ad ogni o, evocando sussurri improbabili di spiriti maligni. Voin rabbrividì al solo pensiero. Ancora non si capacitava di essersi cacciato in quel casino. Okay, se la cosa andava in porto, soprattutto liscia, gli avrebbe garantito una bella somma di denaro, avevano già nomi e consegne da effettuare con la merce, ma se qualcosa andava storto, il lavoro non sarebbe stata l'unica cosa che avrebbe perso, garantito al limone. «La vuoi smettere!» Lo apostrofò Zot. «Stai facendo un solco, a forza di andare avanti e indietro!» Lo aggredì, teso come una corda di violino. Nonostante cercasse di fare il duro, anche lui era nervoso oltre ogni dire, non amava i ritardi, soprattutto in un affare delicato, l'attesa lo stava divorando, prese ad accarezzare la pistola infilata dietro la cintura dei pantaloni, quasi a cercare conforto. «Non riesco a stare fermo e se ci giocano un brutto tiro? Se fosse un' imboscata? Magari un nostro superiore sa di questa faccenda!» Azzardò agitato Voin, guardandosi intorno circospetto. «Smettila! Nessuno dei nostri ha il minimo sospetto, datti una calmata e pensa a gestire bene la trattativa, voglio concludere stasera, strappare il prezzo migliore e finirla con questi incontri del cazzo!» Sbraitò fuori di sé. Dal rudere penetrarono fasci di luce e il rumore di auto in avvicinamento li mise in allerta. Da una finestra col vetro scheggiato, intravidero tre auto di grossa cilindrata, riconobbero all'istante la Lincoln di Berlix, un minimo di sollievo li pervase.

Il corteo entrò nella distilleria, dopo una serie stentata di convenevoli, Agap volle vedere i soldi, Zot un po' contrariato, mostrò la valigetta col malloppo. «Non abbiamo ancora concluso.» Precisò rabbioso. «Dettagli.» Ribatté Agap con un ghigno di scherno. «Ermil, porta qui la merce.» L'uomo si avviò alla macchina, sperando di non trovarsi ancora nella situazione vissuta con Ariy, lì, ne era uscito vivo per un pelo e senza farsi beccare dagli agenti della CIA, solo grazie alla sua prontezza di riflessi, qui in un posto così isolato e scoperto, non avrebbe avuto la stessa fortuna. Cercò di scacciare tutte quelle elucubrazioni e con l'aiuto di tre uomini del clan di Berlix, portò dentro lo stabile le casse piene di armi. Appena furono aperte, Voin e Zot distesero le labbra in un largo sorriso. Poi si lanciarono in una trattativa degna del Grand Bazaar di Istanbul. Alla fine, non con poche difficoltà, raggiunsero l'accordo e fissarono il prezzo definitivo, un tira e molla sfiancante, Berlix era un osso duro, tutti nel mondo dell'illegalità conoscevano la sua fibra. Esausti ma soddisfatti dopo più di un'ora di quello show erano pronti ad andarsene. Berilx chiuse la valigetta con i soldi, assicurandola nelle mani sicure di Kirill. Voin e Zot cominciando a sistemare la prima cassa, per infilarla nel furgone parcheggiato davanti alla porta sgangherata della distilleria. I piani a volte non riescono. Una sferragliata di mitragliatrice fece evacuare a tutta velocità la squadra di Berlix, che per tentare di rispondere all'attacco, cercava di trovare riparo dietro le auto. Arduo come scalare il K2, i proiettili erano interminabili, tre uomini caddero inerti nei primi minuti. Berlix inveiva e ordinava ai suoi di sbrigarsi. Voin e Zot cercavano di farsi scudo con le casse, con scarso risultato. Una granata fu esplosa a pochi i da loro, frantumando le casse e seminando armi come coriandoli. Urla e bestemmie echeggiavano al pari del frastuono dei proiettili, Zot in un eccesso di eroismo, uscì dal precario nascondiglio e corse per raggiungere il furgone, nella speranza di filarsela. Spenta, con un colpo netto alla testa, cadde a terra esanime, con un foro al cranio

grande come un chicco di grandine. Voin travolto dagli eventi, cercò di soccorrere il socio, pur sapendo dell'assoluta inutilità del gesto. Era morto ancora prima di stramazzare al suolo. Infatti, da vicino, il foro alla testa, gli parve inequivocabilmente mortale. Rimase scoperto e una scheggia, gli si conficcò nel cuore, la sorpresa e il dolore micidiale, disegnarono sul suo volto una smorfia agghiacciante. Il caos generale e il polverone denso e soffocante che investì tutti, rese l'aria acre e irrespirabile. Da sopra il tetto dello stabile, i ragazzi di Fulk e Gage dominavano il piazzale e l'area intorno alla vecchia distilleria, non lasciando spazio e iniziative creative, seguendo ogni mossa degli avversari, che presi in contropiede, stavano arrancando alla cieca, senza riuscire ad individuare e annientare alcun bersaglio. L'adrenalina scorreva a fiumi, i segnali che Fulk e Gage inviavano erano precisi e letali, in pochi minuti una mezza dozzina di uomini, era stesa a terra in pose scomposte. Ad un tratto però, si sentì il suono inconfondibile di un telecomando per auto, che azionò l'apertura immediata di un portabagagli. Nemmeno rivedere al rallentatore la scena, avrebbe potuto allertare Fulk e gli altri. Tutto accadde con rapidità strabiliante. Kirill che teneva in mano un'arma e che puntava dritto su di loro, occhi iniettati di sangue e attraversati da un lampo omicida devastante. Fece fuoco, il suono che ne seguì, parve quello di un aereo in fase di decollo, i vetri già pesantemente provati dal tempo e anni di incurie dello stabile, si frantumarono ancora prima che fosse centrato l'obiettivo. «Saltate giù!» Ruggì Basil ai suoi, che senza esitazione eseguirono alla lettera. L'esplosione creò un cratere nel tetto dell'edificio e partirono a raffica schegge che sfrecciarono da tutte le parti. Atterrarono riparandosi sul fianco dello stabile, il boato aveva reso difficile l'udito, i suoni arrivavano ovattati e con un fastidioso ronzio di accompagnamento. »Un bazooka RPG-7, cazzo!» Ringhiò Ed, intento a seguire lo scontro, voltandosi convulsamente in tutte le direzioni per monitorare gli avversari. «Dannazione, questa non ci voleva!» Corie, afferrò due granate e in successione cronometrica, le lanciò verso Kirill, il bastardo era scaltro come una lince e

saettò sul lato opposto della distilleria, sembrava animato da una forza sovrannaturale, quasi avesse azionato il teletrasporto. «Merda!» Sbottò Chaz, «faccio il giro, tenetelo occupato, cerco di stenderlo più in fretta che posso.» Affermò sibilando un'imprecazione e mettendo i razzi ai piedi per fermarlo, prima che fe secchi tutti. «Glebb, muovi il culo, abbiamo un piccolo vantaggio, sfruttiamolo ora o mai più!» Ermil strattonò il collega, mentre dietro la Lincoln, Agap sparava con una mitragliatrice, come fosse in presenza del demonio. «Sì, tiriamoci fuori da quest'inferno.» Approvò Glebb, puntando verso Gage, mantenendosi chinato per schivare i proiettili, che imperversavano come una tempesta estiva. Gege si accorse del movimento e si stese a terra, puntò il fucile a ripetizione e investì i due come una cascata, in un secondo si ritirarono di nuovo dietro la Lincoln, Agap bestemmiò davanti a tanta codardia e colpì selvaggiamente i due, con il calcio dell'arma centrandoli sullo sterno e lasciandoli senza fiato e piegati in due, stretti in una morsa, quasi fossero stati schiacciati da un rullo compressore. «Figli di cani, tornate là fuori e sterminate quei figli di puttana, non vi pago per oziare! Dopo avrò tutto il tempo di staccarvi, pezzo per pezzo, l'inutile carne che riveste i vostri insignificanti corpi! Quest'infami dovevano essere già stati sistemati!» Ruggì fuori di sé e con gli occhi strabuzzati fuori dalle orbite. Li colpì alle gambe con foga, ma i due per il momento erano annebbiati dal pestaggio e incapaci di alzarsi. Gage dalla sua posizione ghignava, aveva visto tutta la scena, anche se non poteva sentire le parole, i gesti erano più che eloquenti. Un altro sibilo scosse l'aria, il terreno tremò, Kirill si era spostato sfuggendo a Chaz che cercava di braccarlo, con pessimo risultato, Kirill sapeva il fatto suo, zigzagava, rendendo nulli tutti gli sforzi di Chaz, che per la frustrazione digrignava i denti e imprecava senza sosta. Quando Fulk, vide avanzare Kirill dritto verso di loro come una macchina da guerra, gridò.

«Mettetevi a riparo!» I suoi occhi erano atterriti, gli uomini di Agap lo coprivano in modo eccellente e l'avanzata di Kirill stava per mettere fine allo scontro. Non poteva permettere che finisse così, che i suoi amici fero la fine atroce della sua famiglia. Le gambe si mossero da sole. Infilò i tirapugni alle mani, prese il coltello e lo tenne saldamente, con la sinistra puntò la pistola dritta e ferma davanti a sé e... uscì allo scoperto, animato da un odio perverso e da qualcos'altro. Pazzia distruttiva. Gage gli intimò di tornare subito indietro, ma Fulk lo sentì appena, Basil prese a sparare per tentare una copertura, gli altri lo imitarono, Gage scattò in avanti per raggiungerlo, ma Ed lo afferrò saldamente scuotendo il capo. «Di morto ne basta già uno!» Lo ammonì, Gage cercò di liberarsi dalla stretta, ma invano. Fulk sentiva solo il frastuono intorno e il cuore pompargli in petto come un martello pneumatico, i muscoli del corpo rigidi e tesi, una certezza. Ammazzare quei farabutti: Affanculo la giustizia, per eventuali analisi del cazzo sulla cosa giusta da fare, avrebbe riflettuto in seguito, era lì e ora che si giocava la partita e quegli stronzi non l'avrebbero vinta, mai! Kirill era interdetto, Fulk scivolava tra un proiettile e l'altro come un contorsionista, non credeva ai suoi occhi, fu per quest'attimo di smarrimento che, quando sentì il proiettile traargli la spalla, rimase a bocca aperta, più per la sorpresa che per il dolore. Fulk approfittando del momento propizio si scagliò su Kirill, i due si avvolsero in un corpo a corpo agghiacciante, Fulk sferrava pugni a raffica, Kirill parava egregiamente, caddero a terra stretti in un abbraccio mortale. Fulk fu colpito da un fendente, il luccichio che brillò nella notte espose la lama di un coltello affilatissima, che gli lacerò la carne sul fianco. Non mollò la presa e con i tirapugni intensificò la lotta. Il sangue sgorgava zampillando, quasi fosse una sorgente di alta montagna. Kirill lo afferrò alla gola, in carenza di ossigeno Fulk annaspò, perse per un attimo la presa, Kirill ne approfittò bloccandolo meglio con la gambe e stringendo ancora di più. A Fulk si annebbiò la vista, un nero assoluto lo avvolse, si sentì quasi trasportare lontano e per un secondo il richiamo della morte lo stuzzicò, lasciar perdere tutto e seguire i suoi nell'aldilà, una promessa allettante. Ma era un combattente, un uomo vero, che aveva servito il suo paese e i suoi affetti come pochi altri, non avrebbe potuto lasciare

qualcosa in sospeso, una fine certa era l'unica opzione per uno come lui. Lealtà e concretezza avevano segnato da sempre la sua vita. Anche adesso. Alzò il braccio, lanciò via il tirapugni, serrò le dita sul manico del coltello e affondò, deciso, sicuro e micidiale. La lama entrò velocemente nel petto di Kirill, Fulk la girò su se stessa un paio di volte, quando le mani intorno al suo collo cedettero, seppe con certezza, che il coglione era su un treno di sola andata. Kirill rantolò su un fianco, tenendosi le mani al petto, in preghiera, con la macchia di sangue che si allargava sempre di più non lasciandogli scampo. Un colpo di tosse e poi il niente. Fulk tirò un sospiro di sollievo, si alzò e proseguì nel suo intento, staccare la testa a Agap Berlix. Il criminale si accorse dell'intenzione omicida riservata senza ombra di dubbio a lui e da bastardo qual era, afferrò un suo tirapiedi e lo scaraventò addosso a Fulk, che per liberarsi dal rissoso individuo, dovette faticare non poco, ma l'interruzione diede modo alla canaglia di saltare su una Mercedes del suo seguito e battere in ritirata. Alcuni uomini di Agap seguirono l'esempio del capo, riuscendo a svignarsela dietro di lui. Lasciandosi alle spalle una carneficina, tonnellate di proiettili e una distilleria definitivamente ridotta a un colabrodo. Sembrava di stare su una scena di guerra, i corpi a terra esangui, l'odore della polvere da sparo e quello inconfondibile e metallico del sangue. Tanto sangue. Morte e distruzione. L'obiettivo numero uno, ancora una volta era scampato all'agguato. Tanto casino per niente, o meglio, il suo vice era andato all'aldilà, ma restava Berlix in circolazione. «Maledizione!» Tuonò Fulk stringendo i pugni. Gage lo atterrò e iniziò a colpirlo. «Brutto figlio di puttana, che ti è saltato in mente, volevi farla finita?» Sbraitò fuori di sé. «Scherzi, ho fatto la cosa migliore, con quel cazzo di bazooka ci avrebbe polverizzati!» Ribatté fuori controllo Fulk. Ma l'attimo di esitazione la diceva lunga, sul suo travaglio interiore, era stato davvero sul punto di farla finita, di farsi ammazzare. Gage lo lasciò andare bruscamente.

«Mi tiro fuori, sei solo un pazzo egoista e in preda a deliri di onnipotenza, ti vuoi far uccidere? Liberissimo, ma io tolgo il disturbo, non combatto guerre suicida, la vendetta è un'altra cosa, è tattica, non follia, va al diavolo Fulk, da solo!» Gage girò sui tacchi, fece un cenno di saluto e sparì nella notte, lasciandosi dietro un silenzio tombale. L'appartamento sembrava tetro e vuoto, stranamente impersonale. Dopo tutto il pianificare, l'escogitare strategie, ora restava solo un locale privo d'anima. Fulk strinse gli occhi. Strano come a volte la situazione precipiti e sfugga di mano. Guardò i suoi amici, tutti con aria abbattuta e seri da far paura. Nessuno aveva pronunciato una sillaba, era ancora buio, mancavano più di tre ore all'alba. Dopo lo scontro e l'uscita rabbiosa di Gage, erano tornati all'appartamento, spompati e incazzati neri. Difficile dire cosa bruciasse di più. La mezza vittoria? O la perdita di un compagno insostituibile? Fulk sinceramente non lo sapeva, aveva solo voglia di spezzare ossa e il suo desiderio per il momento sarebbe rimasto inappagato. Si ò le dita fra i capelli, un gesto che ripeteva, quando la situazione era oltre il limite, non aveva la più pallida idea di dove fosse andato Gage, però sperava intimamente che sbollisse la rabbia al più presto, senza Gage non avrebbe avuto alcun senso tentare di andare avanti, era il suo catalizzatore, la spalla su cui piangere, la roccia a cui aggrapparsi, da solo, era solo un'ombra. Si diresse con o pesante verso il bagno, si svestì con gesti automatici e scivolò sotto la doccia. Sperimentò tutto il repertorio, miscelando l'acqua, da bollente stile geyser a glaciale stile Polo. Niente gli diede sollievo, o il minimo stimolo a ritrovare il giusto spirito. Quando uscì, era più distrutto che mai. Tornando in soggiorno, vide gli altri chini sulla scrivania e intenti ad osservare il monitor del portatile. Sospirò, non sapeva cosa dire, era solo amareggiato per come erano andate le cose. Gli altri alzarono gli occhi nel sentirlo arrivare, non c'era condanna o disprezzo nei loro sguardi, questo almeno gli diede un po' di speranza. Forse, non era stato poi così stronzo come lo aveva dipinto Gage prima di andarsene. Rifletté... no, indubbiamente era stato un vero stronzo! Gage aveva ragione, ma gli amici per grazia divina, a volte sorvolano miracolosamente su certi dettagli, lasciandoti almeno, il beneficio del dubbio. «Stavamo cercando eventuali indirizzi di Agap Berlix, nel caso tu voglia fare un'imboscata in una delle sue dimore.» Disse Basil, non facendo trasparire alcun stato d'animo.

Fulk li osservò per un istante. «In questo momento il nostro campione sarà fuori città, non è un tipo facilmente impressionabile, ma non ama giocare troppo col fuoco. Sicuramente starà elaborando e soppesando le varie ed eventuali. Ci conviene tenere gli occhi aperti sui suoi luoghi preferiti, sui suoi tirapiedi, dove si muovono i suoi dipendenti eccetera, prima di colpire di nuovo, stavolta non intendo permettergli di sfuggirmi...sempre che voi vogliate ancora aiutarmi.» Abbassò lo sguardo, non aspettandosi niente. Potevano andarsene con la stessa rapidità con cui si erano presentati, senza rancore. «Ci puoi scommettere le palle, è entrato nella lista dei miei preferiti e chi lo molla ora!» Ed gonfiò il petto e sbatté il pugno sulla scrivania, facendo vibrare tutta la stanza. Gli altri prima rimasero basiti, poi si riscossero e con grandi pacche sulle spalle appoggiarono l'amico, sghignazzando soddisfatti che i giochi fossero ancora aperti. Fulk era commosso dall'appoggio dei ragazzi e ne era piacevolmente sorpreso, solo una nota amara gli attraversò il cuore. Gage. «Perché?» Agap Berlix, non era uno che si perdeva in chiacchiere, poche parole, ma cruciali. «Perché, voglio chiudere i conti.» La voce sicura era chiara e senza inflessioni. «Come?» Era una conversazione stile telegramma, ma Agap era stufo di intoppi, voleva tornare ai suoi affari e lasciarsi alle spalle le ultime settimane. Non era uno da vita protetta, semmai erano gli altri a doversi nascondere in una tana. Dallo scontro era sospettoso anche nei confronti del panettiere, senza Kirill non sapeva cosa fare. Il suo luogotenente era stato indispensabile in tutti quegli anni, ora dover fare da solo gli complicava non poco la gestione degli affari. Poi naturalmente doveva piazzare a un nuovo compratore, le armi destinate agli agenti dell'FSB. Certo i soldi li aveva prontamente messi al sicuro, ma non era un collezionista di artiglieria, quindi l'unica possibilità era disfarsene al più presto. Le sue riflessioni furono interrotte. «Prima ti riporto tuo nipote, poi ti lascio in pasto il tuo nemico e tu ti dimentichi chi sono e dove mi dirigerò una volta conclusa l'operazione.»

Agap socchiuse gli occhi. Non era affatto convinto della cosa, ma dopotutto forse sarebbe stato un bene accordarsi, poteva sempre prendere due piccioni con una fava, considerò. «Portami intanto mio nipote, poi vedremo.» Con aria di sufficienza, prese a spalmarsi di burro e marmellata, una fetta di pane bianco. Era una mattina qualunque, con la casa di campagna in fermento e piena di gente, i collaboratori domestici che si alternavano per servire il padrone di casa e un numero ingente di scagnozzi a fare da body guards per tutto il perimetro della proprietà. Una casa grande ma non vistosa, ad un solo piano e rivestita di legno, quasi una baita. Alcuni ettari di terreno lasciato a prato, la circondava. La sala dove si trovava era calda e confortevole senza essere eccessiva, le pareti di un intenso giallo ocra, rendevano l'ambiente accogliente e armonioso. Solo il dialogo con il tizio che torreggiava davanti al suo tavolo per la colazione, stonava col resto, decisamente fuori posto nel suo ambiente, convenne fra sé Agap. «O tutto o niente!» Impose l'uomo, «prendere o lasciare, ma ricorda, è un'offerta che farò una volta soltanto, dopodiché ti conviene starmi alla larga, te l'ho già detto voglio chiudere subito i conti!» Le mani si poggiarono sul bordo del tavolo, increspando leggermente la sfarzosa tovaglia di lino; per un motivo incomprensibile, solo per un attimo, Agap si sentì esposto e vulnerabile, come quel lembo di stoffa sgualcito nelle mani di quell'individuo, una sensazione fastidiosa che non gli piacque affatto. Riprese il controllo e scacciò via stati d'animo fuori luogo. Con tutti i suoi uomini, dispiegati per la proprietà, non aveva proprio niente da temere. «Okay, sistema la faccenda e io scorderò il tuo brutto muso!» Alzò lo sguardo e trafisse quello del suo interlocutore. Il quale non mostrò il benché minimo cedimento, un pezzo di marmo sarebbe stato più espressivo. «Tieni fede al patto e tutto filerà liscio, non intendo approfondire di più la nostra conoscenza.» L'uomo fece per voltarsi e Agap azzardò un sorriso di saluto, che interruppe immediatamente sotto il suo sguardo truce. Quel tizio mandava

segnali indiscussi di strage imminente, meglio levarselo di torno alla svelta ragionò, calcolando il come e il quando. «Ti avvertirò al momento giusto...ah, di' a tuo nipote di convertirsi alla religione Cattolica.» Dichiarò l'uomo uscendo dalla sala. «Ma...» Agap era confuso, la cosa era senza senso e cominciava ad essere stufo delle frasi a metà. «Digli, che gli serve assolutamente...un prete!» Così, dicendo si dileguò, lasciando Agap irritato e incapace di riscuotersi, era tutto assurdo e la cosa lo mandava fuori dai gangheri. «Prega figliuolo, perché hai molto peccato!» Il prete ripartiva con un'altra sessione di preghiere sussurrate e poi con slancio, poneva le braccia rivolte al cielo, le mani aperte, in segno di accoglienza divina e senza tante cerimonie, le calava sulla sua testa, facendogli vibrare il cranio, il dolore arrivava in scosse. Ariy era stordito e pronto a strangolare il prete seduta stante. Non poteva. Suo zio era stato categorico. «Vuoi uscire di lì? Prega col prete!» Aveva gracchiato al telefono, nell'ultima conversazione. Ariy dubitava fortemente che pregare col prete e prenderle di santa ragione, avrebbe in qualche modo portato a qualche risultato, men che meno, ad una fuga di successo, però che altro poteva fare? Meglio aggrapparsi anche a quell'esile speranza, che marcire là dentro. «In ginocchio, ora! Il Signore, nel suo magnanimo amore riscatterà la tua futile anima!» IL prete lo strattonò giù dalla branda con tale foga, che il rumore delle ginocchia sul pavimento, parve decretare la fine delle gambe dell'immondo peccatore. Ariy stinse i denti e mugolò, il dolore gli penetrò nel corpo come una lama micidiale. Pregò, pregò sul serio, per non avventarsi sul prete e mandare tutto a puttane. «Tornerò Martedì, recita il Rosario e Dio ricompenserà il tuo pentimento!» Il prete si alzò di scatto e con la Bibbia colpì la testa di Ariy, calde lacrime scivolarono sulle sue guance. Nemmeno ai lavori pesanti in carcere soffriva così. «Bravo, pentiti e piangi. Dio apprezza manifestazioni profonde!» Il prete sospirò e chiamò il secondino, la porta emise un clic metallico e si spalancò, uscì

platealmente sussurrando versi del Vangelo. Ariy vide il volto ilare della guardia, la rabbia gli montò dentro come uno tsunami. Restò chino e in silenzio. Sperando una volta fuori, di ritrovare il prete e stecchirlo. Suo zio poteva sbraitare quanto voleva, evasione o no, il prete si divertiva a sbatterlo come un tappeto e finita la messinscena, lui si sarebbe preso lo sfizio di far are al “devoto” un brutto quarto d'ora. La settimana trascorse lentamente come sempre, Ariy non ne poteva più, anche perché il prete, a parte fingere tutte quelle manfrine, non gli lanciava alcun segnale e non lo avvisava sul piano che aveva in mente. Questo lo rendeva agitato e in balia di emozioni contrastanti. A volte pensava che fosse suo zio a punirlo con false speranze e a lasciarlo subdolamente pestare dal falso prete, altre, era sicuro della sua buona fede, nel rendere tutto credibile, per riuscire a tirarlo fuori di lì, con astuzia e risolutezza. Il fatidico giorno dell'incontro, arrivò sotto una cortina di nebbia lattiginosa. Ariy si era svegliato presto, aveva espletato le sue funzioni corporali, regolare come un orologio svizzero e aveva trangugiato un'abbondante colazione. Più degna di una mangiatoia per vacche che per esseri umani. Dettagli trascurabili. L'importante era essere energici per... qualsiasi cosa il prete avesse in mente. Quando un agente bussò fragorosamente alla porta della sua cella, l'entusiasmo lo avvolse. Durò poco. Ariy vide la guardia spostarsi di lato per far entrare il prete. La porta rimase socchiusa e dalla fessura vide altri esponenti della chiesa. Suore, frati e chierichetti intenti a bisbigliare fra loro. Non seppe collocare in nessun modo quell'inatteso corteo di gente. Ma non ebbe tempo di analizzare. Un colpo al petto lo catapultò indietro, mandandolo a sbattere nella parete, senza fiato e con gli occhi sgranati, osservò il prete farsi avanti e sferrargli un altro dritto alla bocca dello stomaco, ci mancò poco che, rovesciasse su due piedi l'abbondante colazione. Il prete gli strizzò l'occhio, quasi volesse rassicurarlo. C'era qualcosa nel suo sguardo che gli faceva presumere di conoscerlo, ma più ci pensava, più gli sembrava pazzesco, anche se a dire il vero, il colore dei capelli e i baffi gli parevano posticci. Non era interessato al travestimento del suo salvatore e scacciò ogni pensiero dalla mente, per averla sgombra e pimpante al momento giusto. Il prete lo agguantò e lo rimise in piedi, gli bisbigliò di restare indifferente qualunque cosa fosse successa e gridò con quanto fiato aveva in gola. «Confessione!» Strillando come un isterico lo fece uscire dalla cella. L'agente di

guardia, chiuse la porta e seguì la processione, Ariy gli sentì dire senza mezzi termini, che se fosse stato per lui, altroché confessione, un bel plotone d'esecuzione, per un criminale trafficante d'armi del suo stampo. Ariy guardò in avanti, le considerazioni sul suo conto non gli facevano né caldo né freddo, l'unica cosa importante, era finalmente darsela a gambe. Arrivarono alla piccola cappella del carcere, graziosa e minuscola, le candele erano disposte vicino al sobrio altare, brillavano disegnando tenui sfumature alle pareti e l'immagine di Cristo crocefisso occupava quasi tutto lo spazio. Ariy, non vi era mai entrato prima, non sapeva bene che via di fuga potesse rappresentare un posto simile, ma si adeguò alla sceneggiata. «Nel confessionale, umile pecorella smarrita!» Gli intimò perentorio il prete, lui sbirciò di sottecchi l'agente che li sorvegliava, pareva tranquillo e senza alcun pensiero al mondo. Ariy, s'immaginò una sparatoria efferata, con suore e frati che estraevano da sotto gli abiti talari, mitragliatrici e pistole, mentre accorrevano tutti gli agenti del carcere, venivano esplose bombe a ripetizione, tanto da far crollare tutta la prigione. Una pioggia di tritolo degna della guerra in Vietnam. Rimase stupefatto quando fu introdotto nel confessionale. Esternamente era come aveva visto in televisione. Legno massello, decisamente imponente, con inginocchiatoio e tenda porpora a dividere sacerdote da fedele. Garantiva assoluta riservatezza, infatti, una volta dietro l'alta ala di legno, si spariva alla vista di chi sedeva alle panche ben allineate della cappella. Molto utile, perché questo diede la provvidenziale possibilità di non essere controllati costantemente dall'agente. Soprattutto nell'atto di are attraverso il grosso buco apportato nel muro, proprio dietro il confessionale. Ariy uscì dal carcere con tale facilità, da non sapere se ridere o piangere una volta fuori. Il prete ghignò vedendolo così stupito e lo incoraggiò a sgattaiolare lungo il vicolo. Svoltato l'angolo fu afferrato da mani rudi e sbattuto sul sedile logoro di una piccola utilitaria, l'auto partì silenziosa e dopo pochi minuti s'immerse nel traffico cittadino. Ariy chiuse gli occhi, una fuga al limite del credibile, ma splendidamente riuscita. Finalmente lasciava quel posto infernale e la città di Leiden. Dentro di sé la promessa di non tornarvi mai più. Si rilassò completamente solo quando l'aereo atterrò su suolo Russo. Era tornato a casa. Questo gli fece allargare le labbra in un radioso sorriso. «E' fatta!» Pensò soddisfatto, dalla piega presa dagli ultimi eventi.

Nonostante il prete avesse agito in maniera pazzesca e strampalata, sperò ardentemente fosse uscito indenne dal carcere. Non l'aveva più visto, da quando era rientrato nell'apertura del muro che portava alla cappella. “Meglio lui di me”! Si decise ad ammettere, se lo avevano arrestato, pazienza. Con quel pensiero riacquistò il buon umore e si diresse verso gli arrivi internazionali, non vedeva l'ora di ringraziare suo zio. Due uomini lo attendevano imibili. Li riconobbe. Erano efferati sicari di Agap Berlix. «Ben tornato signor Bark.» Con voce atona, il saluto risultò più che altro una formalità. Ad Ariy andava bene così, non era mai incline a confidenze con i luogotenenti di suo zio, le distanze garantivano una certa autorità, anche se, il sospetto di essere tollerato unicamente per la parentela col famigerato Berlix, qualche volta lo aveva sfiorato. «Grazie.» Rispose diretto. I due fecero strada e lo scortarono alla Lincoln, parcheggiata davanti all'entrata principale. Il viaggio fu silenzioso e piacevole, Ariy stava riprendendo possesso dei luoghi che gli appartenevano. Non fece domande, quando il percorso intrapreso lasciò presumere l'uscita dalla città e proseguire in direzione nord, verso la campagna. Suo zio era in continuo movimento, potevano esserci mille motivi per raggiungerlo lontano dal quartier generale, nulla gli fece saltare la mosca al naso, per Ariy era tutto in regola. Dopo quarantacinque minuti di terre lasciate al pascolo e mucche disseminate qua e là, intente a brucare erba semi-congelata, finalmente la Lincoln imboccò una strada secondaria, un miglio più avanti comparve la casa di campagna rivestita in legno. Ad Ariy quel posto non era mai piaciuto, troppo anonimo, fuori mano e incredibilmente spartano, lui amava la sontuosità, il centro storico e tutto il lusso possibile, non stava più nella pelle all'idea di tornare nel suo attico elegante e raffinato, sperava di svignarsela alla svelta dall'incontro con lo zio e riprendere il suo posto. L'auto si fermò al centro del piazzale, alcune Mercedes erano parcheggiate sul lato est, segno che c'era un certo fermento, si sentì lusingato, erano lì per lui. La portiera fu aperta da uno dei suoi accompagnatori, che rimase fermo e attese che Ariy uscisse dall'abitacolo. Una volta fuori Ariy si guardò intorno, gli parve

strano che nessuno lo attendesse alla porta, ma si decise ad entrare senza rimandare oltre. A o svelto salì i tre scalini del portico e bussò, nessuno aprì, con un certo senso di disagio girò la maniglia ed entrò da solo. Dalla sala sentiva provenire un coro di voci ovattate, drizzò le spalle, fece un respiro profondo e si avviò. Rimase sulla soglia, i volti si girarono nella sua direzione e invece del caloroso benvenuto, con tanto di abbraccio stritolante da parte di Agap, si sentì travolgere da...«Brutto figlio di una cagna, che poi sarebbe mia sorella! Hai fatto un casino infernale, se non fossi preso da una situazione merdosa ben più grande, ti stenderei all'istante, mi sei costato una fortuna! Siediti, prima che torni in me e persegua nel il mio primo intento.» Agap sbatté violentemente il pugno sul tavolo in quercia, il suono parve quello di un tuono, Ariy deglutì, non disse nulla e si sedette all'estremità opposta a suo zio. Aveva voglia di bestemmiare, “perché diavolo l' aveva fatto evadere, se aveva intenzione di punirlo”? La risposta risuonò nella sua mente chiara e lampante, “perché era un bastardo sadico”, la cosa non lo fece sentire meglio, anzi inasprì il suo stato d'animo. Un brivido gli percorse la spina dorsale, quando entrò come un proiettile il suo salvatore. Il prete. «Finalmente ecco un uomo che ha i controcazzi!» Tuonò Agap, rivolto ai presenti. Ariy aveva sempre di più la sensazione di aver già visto prima quell'uomo, ma non riusciva a collocarlo, a focalizzare dove e quando. Se non altro, era evidente che era sfuggito abilmente alle autorità olandesi, doveva ammettere che era senza ombra di dubbio, un tipo in gamba. Il prete o come si fe chiamare, attaccò un'arringa stile avvocato del diavolo, da far drizzare i capelli. Prima elencò i punti salienti del suo geniale piano, poi scese nei dettagli sulla straordinaria liberazione di Ariy, esaltando ogni aggio e concludendo: con quanta facilità se la fosse svignata una volta messo in sicurezza il detenuto. Ariy era al limite della sopportazione, il tizio lo faceva apparire un inetto smidollato. Il genio della “Confessione” terminò la spiegazione, con la sequenza di mazzette elargite ad un gruppetto di agenti, per uscire indisturbato dalla prigione. Ariy pensò torvo: “se avessi avuto anch'io un bel po' di contanti, ne sarei uscito da solo”!

Agap non faceva che assentire compiaciuto, rivestendo il falso prete di complimenti. Ad un certo punto l'argomento principale divenne un'imboscata in piena regola, ai danni di agenti della CIA. Ariy presunse fossero gli stessi della sua disfatta, non prestò particolare attenzione, se non fin quando venne pronunciato il suo nome. «Hai sentito?» Chiese sprezzante Agap. Ariy lo guardò inebetito. «Io?» Si guardò intorno confuso. Agap gli lanciò un tagliacarte di metallo. Il braccio di Ariy fu un lampo, deviò la sua traiettoria rendendolo inoffensivo. Se non fosse stato così rapido, lo avrebbe trafitto ad un occhio, Ariy guardò incredulo l'oggetto sbattere a terra e permeare la stanza con un suono stridulo. «Tu idiota! Chi altri? Dopo tutto, è il minimo che possa fare per riabilitare il tuo nome. Prenderai parte all'incursione, stavolta sarò presente e se sgarri, ti farò agire a suon di fucilate!» La minaccia, una certezza, fece rabbrividire Ariy. “Gran rientro a casa! Forse avrei fatto meglio a sparire su un'isola del Pacifico”! Bofonchiò nella mente. Invece disse: «Ottimo zio! Quando si va in azione?» Sperò di essere abbastanza credibile, simulando un discreto entusiasmo, ma dallo sguardo tenebroso di suo zio, ne dubitò fortemente. Per fortuna Agap lasciò correre e prese a spiegare i dettagli scambiandosi opinioni col prete, sembravano in procinto di dichiarare una guerra internazionale, dal canto suo Ariy, pregava di uscirne tutto intero, sfidare troppo la sorte non era saggio, soprattutto per lui. L'incontro andò avanti per ore, fu estenuante e complesso. «E' fondamentale che tu abbia una visuale eccellente!» Affermò il prete, rivolto a Tsarev, il cecchino con un cenno del capo annuì senza esitazione. «Direi che il tetto di fronte, direzione nord ovest, è perfetta. hai la pizzeria che ti da un'ottima copertura, agirai indisturbato al segnale convenuto.» Il prete fece tre intermittenze con una torcia al led. Agap approvò entusiasta anche l'ultima postazione assegnata e quando tutti

ebbero chiaro il proprio ruolo, la riunione si sciolse. Lasciò a tutti qualche ora libera. Tranne ad Ariy, per lui aveva altri piani. Ariy sentì stringersi un nodo alla gola, “i piani”, come li chiamava suo zio, di solito erano un incontro ravvicinato con una bella frusta, arricchita di altri gingilli infernali. La serata che lo attendeva, non sarebbe stata di certo una delle migliori, ma ad Agap Berlix, non c'era proprio modo di dire di no. Strinse i pugni e seguì il carnefice. Un altro smacco da segnare sul libro nero. Un giorno avrebbe fatto pagare al caro zio ogni tortura subita. Non ora però. La detonazione fece saltare in aria tutta la parete esterna dell'appartamento. Il boato squassò l'aria e tutti gli arredi tremarono, alcuni oggetti vennero schiantati sulla parete interna, polvere e schegge volavano da ogni parte. Fulk balzò dal letto come un missile e afferrò la mitragliatrice da sotto il letto. Basil era sdraiato in corridoio già pronto all'assalto. Chaz alla porta d'ingresso osservava le scale, deciso a far fuoco contro chiunque avanzasse di uno scalino. Corie ed Ed dall'angolo cottura scrutavano la strada sottostante. Il silenzio parve interminabile. Erano tutti allerta. In attesa. Un altro boato sbalzò tutti a terra, ammaccati e storditi, videro entrare, da quel che restava della parete confinante, una dozzina di persone. In prima fila Agap Berlix con a fianco il nipote Ariy e dietro... «No!» Urlò Fulk fuori di sé. «Perché?» Balbettò atterrito. «Volevi farla finita, ti accontento!» Gage si fece avanti, lasciando anche Basil e gli altri di stucco.

Ariy imprecò fra i denti. «Dannazione!» Due sillabe gli uscirono dalle labbra: «il prete!» Adesso nonostante il trucco riconosceva l'uomo. Fece per avvertire suo zio, che lo bloccò. Segno evidente che era d'accordo e consapevole del rischio di un doppio gioco in pompa magna; del resto Agap, aveva le sue contromisure da sfoderare. «Come hai potuto?» Lo aggredì sconfitto Fulk. «Così!» Rispose divertito Gage, allargando le braccia e indicando la squadra armata fino ai denti di Agap. Ariy in un raptus eroico puntò l'arma al viso di Fulk, eccitato all'idea di pareggiare i conti. Non poté. Un proiettile saettò nella sua direzione e traò il bulbo oculare con precisione millimetrica. Cadde all'indietro schiantandosi sul pavimento con un tonfo. Gage aveva ancora la Glock fumante in mano e un sorriso beffardo a sottolineare la sua posizione. Agap ruggì, ma l'attimo di sorpresa gli fu fatale. La voce baritonale riscosse tutti. «Giù le armi e stendetevi a terra, o qualcuno oggi si farà davvero male!» Il colonnello Farran Gray, irruppe con un esercito di uomini. Agap impugnò l'arma e la puntò dritta su Gage, Fulk fu un fulmine, centrò il cuore con un colpo solo, l'uomo si accasciò come un burattino senza fili. Gage non perse un attimo, corse alla parete esterna del palazzo, ormai quasi inesistente, puntò il suo fucile di precisione e sparò deciso. Tsarev il cecchino, colpito alla testa, cadde dal tetto dell'edificio di fronte, schiantandosi per strada, una pozza scura si allargò sotto il suo corpo. Da lì successe il finimondo, grida e imprecazioni, proiettili a profusione, fuori due elicotteri monitoravano l'area, il quartiere sotto assedio delle forze speciali, quattro ambulanze pronte davanti al portone. Si attivarono nel giro di pochi

minuti. «Scusa.» Affermò costipato Gage, guardando di sottecchi Fulk. Intorno a loro un via vai incessante di agenti che perlustravano ogni angolo del palazzo, le suole delle loro scarpe, scricchiolavano calpestando i detriti provocati dalle esplosioni, nei muri rimasti in piedi, l'intonaco aveva subito parecchi danni e al loro aggio si scrostava in piccoli pezzi. «Ti ho usato come cavia.» Aggiunse, aspettandosi un'invettiva interminabile. Invece Fulk sorrise sarcastico. Mosse un paio di i cauti e poi altri in rapida successione, afferrò Gage e quasi lo stritolò in un abbraccio che assomigliava ad una morsa mortale. «Non farlo mai più! Ho avuto un infarto nel vederti con Berlix.» Gli diede una pacca energica e si scostò. «Dopo la distilleria, sapevo di dover fare qualcosa, la tua sete di vendetta era al limite, così ho rintracciato Berlix e ho fatto in modo di essere credibile, per prima cosa, mi sono offerto di riportare a casa suo nipote. Naturalmente ho pianificato tutto quanto, inclusa l'evasione, col colonnello Gray, il quale, non solo era felicissimo di saperci vivi, ma ansioso di fare un macello, tanto per sottolineare anche a Langley, che i suoi agenti sono sacri!» Gage sorrise sornione. «Potevi almeno avvertirci.» Fulk indicò anche Basil e i ragazzi, che in quel momento stavano parlando col colonnello. «Il silenzio non ha mai tradito nessuno, lo affermava Antoine Rivarol!» Gage pronunciò solennemente la citazione. Fulk ci pensò su un attimo ed annuì. «Meglio tacere e are per idiota, che parlare e dissipare ogni dubbio! Abraham Lincoln.» Replicò ironico, guardando beffardo Gage e dandogli una gomitata significativa alle costole. Tutti e due scoppiarono a ridere.

La tensione accumulata si stava lentamente smorzando. Gage tornò improvvisamente serio. Si mosse impacciato, spostando il peso da un piede all'altro. «Non potevo rischiare di mettervi ancora di più in una posizione di rischio, la possibilità che Berlix fosse più veloce era reale e concreta, aveva la sua contromossa, una squadra sul lato opposto, pronta a intervenire. Calcolando un mio probabile doppio gioco, si era dato da fare.» Si avvicinò allo squarcio nella parete che si affacciava sulla strada e indicò giù. Una decina di individui, ammanettati e trascinati nel blindato pronto a partire. «Come sei riuscito a batterlo sul tempo?» Chiese Fulk con un sopracciglio inarcato. «Il cecchino Tsarev. Nonostante il fumo negli occhi che Agap ha cercato di buttarmi, sul piano e i vari ruoli destinati agli uomini, ho capito che c'era di più, che alcuni erano appostati in caso io bluffassi. Ho intuito che si sarebbero mossi solo quando Tsarev mi avesse stecchito. Era lì per me, se avessi fatto qualche scherzo. Per sua sfortuna l'ho steso prima io e la squadra è rimasta ad aspettare un segnale che non e mai arrivato, i nostri come vedi li hanno arrestati. Ammirò la scena in strada come il più incredibile degli eventi. Un senso di profonda esaltazione lo pervase. Stavolta era una vittoria schiacciante. Fulk lo strinse di nuovo e Gage lo guardò di traverso. «Che c'è? Ti sono davvero grato, una rappresentazione degna del premio Oscar! In più ho avuto l'immenso piacere di mandare al creatore quel figlio di puttana di Berlix e assaporare così la mia agognata vendetta!» Emise un fischio acutissimo. «Bene, perché temevo fossi ato all'altra sponda, tutti questi abbracci mi mettono a disagio!» Gage fece una smorfia di disappunto. Fulk scoppiò a ridere, «a pensarci bene siamo davvero una bella coppia,» non riuscì a terminare, perché Gage gli diede una poderosa spinta e lo stese. «Su questo concordo, ma preferisco ancora le vecchie abitudini.» Eruppe in una sonora risata.

«Finalmente, eccoli di nuovo in forma, i miei indomabili, Salsa e Merengue!» Il colonnello Gray, aiutò Fulk a rialzarsi. «Temevo davvero di avervi perso, quando Gage mi ha contattato sono rinato, la squadra ora è tornata al completo.» Guardò dritto negli occhi tutti e due, ma con particolare intensità Fulk. Dopo la sua perdita personale, la domanda implicita era evidente, sarebbe saltato di nuovo in sella? Fulk ebbe un fremito, la sua mascella si contrasse. Tutto il suo dramma interiore riaffiorò. Sapeva di dover dare una risposta sincera e inequivocabile. Il mondo aveva bisogno di persone schiette. Un agente distrutto non sarebbe stato di alcun aiuto. Un agente motivato e deciso a renderlo un posto migliore, sì. Fulk alzò il mento in segno di sfida. «Qual è la prossima missione?» Chiese spavaldo. Il colonnello Gray distese le labbra in un largo sorriso. «Sud America, abbiamo bisogno di due esperti nelle danze latino-americane.» Disse ghignando. Gage scattò sull'attenti. «E' il nostro pane quotidiano! Avremo bisogno di alcuni assistenti...» Indicò maligno Basil, Chaz, Corie ed Ed, i ragazzi sbruffarono e alzarono il dito medio. Il colonnello Gray scoppiò a ridere, «non è una cattiva idea.» Fu mandato al diavolo in un coro da stadio. «Sono un superiore!» Intimò con le lacrime agli occhi, vedendo le espressioni atterrite sui loro visi. I ragazzi si rilassarono. Solo un po'. Con quell'uomo non si poteva mai sapere, era capace di iscriverli ad un corso di ballo quel giorno stesso. Lasciarono lì molti agenti a completare il lavoro di investigazione, era tempo di rientrare alla base, avevano finalmente concluso con Agap Berlix e la cosa li rese comprensibilmente euforici. «E' finalmente finita!» Sentenziò Fulk.

«Già!» Convenne Gage. «Tu dovresti fare un'altra cosa...» Fulk abbozzò un sorriso. Gage non afferrò subito. «Una fermata a Londra!» Decretò Fulk. Non era a suo agio e non sapeva perché avesse ceduto all'impulso, ma ormai era lì, ed era intenzionato ad andare fino in fondo. Appena varcò la soglia della sala riservata ai medici e agli infermieri, si ritrovò con diverse paia di occhi puntate contro. Un'infermiera ammiccò in direzione della macchina per il caffè e gli inviò un sorriso raggiante, poi si rivolse alle persone nella stanza. «Fuori gente! Abbiamo esseri umani da rattoppare!» Gli ò accanto, sul suo badge era scritto il nome: Alyson Groove. L'aveva incontrata quando lui e Fulk erano stati lì al St. James. La dottoressa Tish Argent a quelle parole si voltò. La tazza di caffè si frantumò a terra. Davanti a lei, il paziente fuori di testa, che si era presentato col nome di Merengue! Le porse un mazzo di rose blu elettrico. Aveva un'aria incerta, in netto contrasto con la spavalderia mostrata al loro primo incontro. «Che ci fa qui?» Gli chiese con voce stridula. «Sono venuto a vedere come sta... l'ultima volta sono stato un po'... invasivo.» Tish deglutì a fatica. «Cos'è un eufemismo?» Gli chiese fin troppo agitata. «Constatazione. Intendo rimediare e fare come si deve stavolta.» Ammiccò alle

rose che lei teneva in mano come qualcosa di scottante. Si riscosse e bilanciò meglio la presa fingendo naturalezza. Gage sorrise compiaciuto, il primo impatto gli sembrava incoraggiante, segno che non gli era del tutto indifferente. «Per prima cosa voglio presentarmi perbene. Gage Cox.» Le afferrò la mano e la tenne stretta. Tish trasalì, ma non la ritirò. «Intendo portarla fuori a cena!» Affermò senza il minimo dubbio. «Sono di turno!» Balbettò persa in quegli occhi disarmanti. «Non stasera.» Gage indicò la porta, un bel numero di curiosi sostava lì, aspettando l'evolversi degli eventi, davanti il primario tossì per schiarirsi la voce. «Ha la serata libera dottoressa Argent, se la merita.» Con un cenno del capo sparì. «Ma... come? Io...non...» Non sapeva cosa dire, era esterrefatta. «E' semplice, dica sì!» Gage le teneva ancora la mano. «Lei vince sempre?» Gli chiese in preda al panico. «Sempre!» Le rispose Gage. Senza darle tempo la strattonò a sé e la baciò impetuosamente, lì davanti a tutti, senza ritegno, in segno di possesso e la promessa di un futuro, molto, molto incandescente. Insieme. Un applauso assordante si scatenò e li avvolse completamente, fischi e urla li investirono quando le loro anime ormai erano già lontane.

RINGRAZIAMENTI

A tutte le persone che hanno atteso questo viaggio. A tutti i lettori che sono assetati d'avventura. Grazie per il vostro impagabile sostegno. A tutta la mia impareggiabile famiglia, per la grinta con cui azzanna la vita. Per scaricare gli altri miei lavori gratuiti o avere informazioni su quelli a pagamento andate sul mio blog: http://adlereds.blogspot.it o visitate la mia pagina Facebook: http://www.facebook.com/lisa.adler.773

Con il cuore Lisa Adler