Emanuele Anaclerio Sono andata a letto presto Lettere Animate Editore Isbn: 978-88-6882-137-1
Copyright Lettere Animate 2014 www.lettereanimate.com
Tutti i diritti letterari di quest'opera sono di esclusiva proprietà dell'autore.
Ai miei figli
Questa storia è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi e luoghi citati sono un’invenzione dell’autore. Qualsiasi analogia con fatti, posti o persone reali, esistenti o esistite, è del tutto casuale.
Prima parte
1. In fuga
Correva a perdifiato nel bosco, nel disperato tentativo di allontanarsi da quel posto e da quanto di ripugnante e spaventoso rappresentava. La casa degli orrori. L'avrebbe definita così se gliel'avessero chiesto, se solo lì, nei paraggi, avesse incontrato qualcuno con cui parlarne. Ma lì non c'era nessuno. Non c'era mai stato nessuno. Quante volte aveva desiderato un'amica con cui parlare? Quante volte, addirittura, aveva immaginato che lì ci fossero i suoi genitori, al punto da intavolare con loro lunghe e interminabili conversazioni? Tante volte. Così tante che ormai ne aveva perso il conto. Non poteva permettersi, però, di pensare al ato, non in quel momento. In quel momento doveva solo pensare a correre, più in fretta che poteva. Il ato era un'altra storia, il ato non doveva riguardarla: quello era il presente, solo su quello doveva concentrarsi. Quando si era calata da quella finestra - che per sua fortuna si trovava al piano terra, a meno di un metro dal suolo, pertanto era stato come scavalcare un piccolo muretto - aveva da subito preso a correre al limite delle sue possibilità, nonostante fosse consapevole che non avrebbe resistito a lungo, che in poco tempo avrebbe bruciato tutte le energie e che presto avrebbe dovuto fermarsi per riprendere fiato.
Ma che altro poteva fare? Era riuscita a scappare, tutto ciò che desiderava era che quella fuga riuscisse. Se avesse avuto tempo per rifletterci, se quella fuga fosse stata progettata nei minimi dettagli, allora avrebbe agito diversamente. All’inizio avrebbe certamente corso veloce ma, dopo essersi allontanata un po’, avrebbe cercato un posto dove nascondersi. Ecco. C'era cascata di nuovo. Aveva, ancora una volta, perso la concentrazione per affliggersi delle scelte fatte. Come se fossero delle scelte, come se veramente in quel momento poteva avere il sangue freddo e la lucidità per decidere quale fosse la strategia migliore. No che non poteva, non in quelle condizioni, non con la paura che le toglieva il respiro, non con l'angoscia che solo una preda può provare e che di certo non le avrebbe permesso di agire con discernimento. E poi cosa le dava la certezza che nascondendosi avrebbe eluso le sue ricerche? Niente. Assolutamente niente. La vegetazione poteva essere meno fitta di come dava l'impressione di essere. Se non lo fosse stata tanto da nasconderla completamente, lui l’avrebbe scovata in poco tempo. Non si sarebbe nascosta, non sarebbe rimasta ferma in un posto in attesa che lui si affacciasse per gridarle il suo "cucù?". Si sentiva braccata, percepiva la sua presenza incombere sempre più, in un crescendo pauroso. Sentiva il suo fiato sul collo, le sue mani vicine, pronte a serrarsi intorno alla carotide, ad afferrare le ciocche corte e arruffate dei suoi capelli per strapparla via dalle sue illusioni. Non si sarebbe nascosta, lui l'avrebbe di sicuro stanata, avrebbe continuato a correre, finché poteva.
Quando si fermò, erano trascorsi non più di dieci minuti.
Era stremata. Si appoggiò con una mano al tronco di un albero, piegata in due da un dolore lancinante che le martoriava un fianco; un dolore così intenso da toglierle il respiro. Premette la mano sul fianco per placare quella fitta che minacciava di diventare sempre più intensa. Aveva scartato l’ipotesi di nascondersi e adesso era costretta a fermarsi per la stanchezza, senza che ci fosse nei paraggi un riparo che la proteggesse. Non avrebbe potuto fare cosa più pericolosa di questa, ma non aveva la forza di incamminarsi in cerca di un rifugio. «Clarissaaaaaaaaaaaaaaaaaa!» Quando sentì urlare il suo nome, il terrore la paralizzò. I muscoli delle braccia e delle gambe rimasero inerti. Anche il respiro si bloccò, per qualche istante. Solo pochi attimi, prima che il cuore cominciasse a martellarle nel petto. Aveva sperato di far perdere le sue tracce, si era illusa che una cosa del genere fosse possibile, aveva osato credere che, in quel momento, chi le stava dando la caccia fosse da un'altra parte, depistato dalla sua smisurata abilità nel nascondere i segni del suo aggio. Come aveva potuto pensare una cosa simile visto che era lui l’esperto del posto? Che era lui che conosceva bene quei luoghi e che sapeva come muoversi nell’intrico di quegli alberi? Che non avrebbe avuto difficoltà a starle dietro, come un segugio che insegue la sua preda, un segugio che con il suo infallibile fiuto era riuscito a scovare le tracce che inevitabilmente si stava lasciando dietro? Sapeva perfettamente che presto avrebbe sentito la sua voce, sapeva perfettamente che la sua era solo un'illusione. Lo sapeva bene, così come sapeva che non aveva il minimo scampo, che il suo era stato un gesto impulsivo e irresponsabile, un gesto che se suo padre fosse stato lì avrebbe sicuramente deprecato con tutta la veemenza di cui era capace. Lo sapeva bene. Eppure quando questo accadde, quando sentì l'orribile voce che nell'ultimo periodo aveva tanto detestato e temuto, fu colta dal panico. Un dolore al basso ventre si aggiunse a quello che la corsa le aveva procurato al fianco. Era la paura.
Era arrivato il momento di usare la testa. Doveva fare appello a tutto il coraggio che le era rimasto. Doveva fare in modo che la sua parte raziocinante avesse il sopravvento e la aiutasse a stanare la padronanza che aveva sempre contraddistinto le sue azioni e che adesso si era rifugiata in qualche meandro a lei ignoto. Doveva agire con freddezza e lucidità. Quando fu in grado di riprendere il controllo, seppur quel tanto necessario a non commettere imprudenze, si rese conto che quella voce in realtà era giunta da lontano, che a malapena era riuscita a percepirla, che se il vento avesse soffiato con più impeto non l’avrebbe nemmeno sentita perché dirottata in un'altra direzione e sovrastata dal sibilo e dal frusciare delle foglie. Aveva quindi un po' di tempo per riprendere fiato, di sicuro non molto, forse secondi, al massimo qualche minuto. Ma andava bene lo stesso, era completamente a corto di ossigeno, anche pochi secondi le avrebbero dato la possibilità di ridurre un po' il debito che aveva accumulato. Rimase in quella posizione, piegata in avanti, il respiro che rallentava, fino a quando non fu in grado di rialzarsi; anche se per restare eretta, dovette sostenersi al tronco di un albero. Rimase appoggiata al tronco di quell'albero ancora qualche attimo, fino a quando non udì di nuovo urlare il suo nome. Questa volta la voce le giunse forte e nitida. Il suo inseguitore si era avvicinato, la distanza che li separava si era ridotta pericolosamente. Capì che era arrivato il momento di muoversi. Avrebbe corso, se solo ne fosse stata capace. Ma a malapena riusciva a sollevare i talloni dal suolo. Le gambe erano diventate inverosimilmente pesanti, un fardello difficile da trasportare. Sopraggiunse lo sconforto. Aveva rallentato la sua marcia, aveva quasi annullato il suo vantaggio: lui l'avrebbe raggiunta di lì a poco.
Per quale ragione aveva preso quella decisione avventata? Per quale motivo aveva deciso di scappare senza averci riflettuto, senza prima aver elaborato un piano, senza essersi organizzata? Come aveva potuto pensare che sarebbe stata in grado di correre più svelta e più a lungo di lui? Avrebbe dovuto aspettare un momento migliore. Avrebbe dovuto tentare la fuga solo in sua assenza, escogitando un modo per liberarsi, per avere un vantaggio che adesso era maledettamente esiguo. Ma come avrebbe potuto farlo se la lasciava libera solo in sua presenza? Per tutto il resto della giornata - la maggior parte del tempo - era sempre confinata in quei sotterranei con una catena al collo, chiusa da un lucchetto. Se solo fosse ato qualcuno da lì, se avesse sentito dei rumori o avvertito la presenza di anima viva, allora avrebbe potuto gridare. Ma non sentì mai nessun rumore: era un posto talmente isolato che potevano are anni senza che ci mettesse piede un essere umano. Non lo fece mai, non provò mai a urlare, non sarebbe servito a nulla. Aveva capito di trovarsi in un posto isolato ancor prima di riceverne conferma, qualche tempo dopo, quando poté vedere con i suoi occhi il luogo nel quale era stata condotta. Fu quando, dopo tre mesi, le fu concesso di rivedere la luce del sole. Il posto nel quale era stata confinata, infatti, non aveva finestre, l’illuminazione era affidata a una comune lampadina da sessanta watt che pendeva al centro del soffitto. Fu la sola luce che vide per tutto quel tempo, finché un giorno il suo carceriere scese nel seminterrato, aprì il lucchetto, la liberò e, senza dire una parola, salì le scale lasciando dietro di sé la porta aperta. Lei capì che avrebbe dovuto seguirlo. Non si mosse subito, era incerta sul da farsi, perché, se da un lato aveva bisogno di riemergere dalle fondamenta di quella casa, dall’altro aveva paura di questa novità. Non riusciva a comprendere cosa avesse in mente e perché avesse necessità di portarla in un altro posto. Quando più tardi fu riportata nella sua cella, capì che aveva solo deciso di farla stare per un po’ fuori dalla sua prigione.
Anche adesso che tutti i giorni ava del tempo fuori dalle segrete di quel posto, non aveva mai trovato un modo per scappare. Pensò che avrebbe potuto cercare l'atra chiave del lucchetto: una la portava sempre con sé, l'altra doveva averla nascosta. Era un normalissimo lucchetto, di quelli che si comprano nelle ferramenta o nei grandi magazzini e che vendono sempre con la doppia chiave. Poiché le lasciava aprire ante e cassetti per preparare caffè e colazione, avrebbe potuto cercare quella chiave. Ma scartò subito quell'idea, di sicuro quella chiave era stata nascosta dove lei non avrebbe potuto trovarla. Non aveva mai pensato a un piano per fuggire, non le era mai ata questa idea per la mente, così, quando si era presentata l'occasione, ne aveva subito approfittato affidando alla buona sorte l'esito di quella fuga. Quella mattina il suo aguzzino era alle prese con un tostapane mal funzionante; quando lo sentì dire: «vado un attimo a prendere un giravite, tu non ti muovere, non costringermi a legarti», l'istinto sopraffece ogni possibile reticenza razionale. Lo sgabuzzino si trovava in fondo al corridoio, così mentre lui vi si diresse, si sedette sul lavandino, si girò, mise le gambe fuori dalla finestra e saltò giù. Sapeva che si sarebbe accorto immediatamente della sua assenza, alla fine si era allontanato solo per pochi secondi. Il suo vantaggio era minimo.
Si fermò di nuovo, dopo pochi minuti. Era sfinita. Aveva un bruciore atroce al petto, la milza sembrava in procinto di scoppiare e le gambe erano così indolenzite da non rispondere più ai comandi. Non aveva altra scelta: si sarebbe fermata lì. Si addossò contro un albero e si lasciò andare pesantemente per terra. Sentì di nuovo chiamare il suo nome, ma questa volta quella voce giunse da lontano; stava procedendo in un'altra direzione, una direzione che lo stava allontanando da lei. Quando, per l'ultima volta quella mattina, sentì chiamare il suo nome, con una voce che le apparve deformata, forse per la paura di averla persa definitivamente
- con tutto il carico di conseguenze che ne sarebbe derivato - o più semplicemente per lo sfinimento, poté costatare, con sollievo, che si era allontanato ulteriormente.
Poi il silenzio.
Era una bellissima mattina di maggio, il cielo era terso, l'aria immobile, la temperatura mite e gradevole. Il respiro rallentò fino a raggiungere il ritmo a riposo. Fu colta da una piacevole quanto inattesa sensazione di serenità e benessere. Come se avesse finalmente raggiunto la libertà. Come se si fosse liberata per sempre dell'uomo che le stava dando la caccia. Nondimeno sapeva che era troppo presto per cantare vittoria, che era stato tutto fin troppo facile e che avrebbe dovuto attendere ancora prima di ritenere concluso il suo rapimento. Doveva evitare di crearsi false illusioni. Fu colta da un terribile sospetto: e se lui, non sentendo più il rumore dei suoi i, aveva intuito che si era fermata e si stava avvicinando di soppiatto per sorprenderla? No, si disse, non avrebbe potuto sentirli; se li avesse uditi, l'avrebbe raggiunta prima, non avrebbe corso il rischio di lasciarsela sfuggire per giocare al gatto con il topo. In fondo se aveva mantenuto un minimo di vantaggio, non era certo perché avesse corso più veloce di lui, ma solo perché quell'uomo non sapeva che direzione avesse preso. Se avesse sentito il rumore dei suoi i, l'avrebbe raggiunta immediatamente.
I minuti avano, lentamente, sempre di più, nel silenzio più totale. E con i
minuti aumentavano le speranze. C'è l'aveva fatta per davvero? Era stato davvero così semplice far perdere le sue tracce? Dopo più di un anno era finalmente libera? Se avesse riflettuto prima di prendere qualsiasi decisione, forse se la sarebbe cavata, forse tra non molto sarebbe ritornata libera. Restò seduta ai piedi di quell'albero per quella che poté considerare una mezz’ora. Adesso che aveva recuperato le forze si sarebbe incamminata. Aveva bisogno di aiuto. Doveva assolutamente trovare qualcuno: un boscaiolo, un escursionista, magari una guardia forestale. Fino a quel momento aveva solo pensato a correre, senza una meta, con il solo scopo di allontanarsi dalla casa e dal suo inseguitore: era arrivato il momento di rendere concreta quella fuga. Il bosco, però, poteva essere infinitamente vasto, e poi non sapeva che direzione prendere. Non avrebbe avuto alcun senso scappare per poi morire di fame o sete; perché per uscire da quel bosco, poteva esserci una distanza impensabile da percorrere a piedi, oppure perché poteva girare in tondo anziché procedere diritto, dato che non sapeva come orientarsi. Senza contare il terrore che avrebbe provato nel momento in cui le tenebre avrebbero avvolto quel posto; quando una serie di rumori sinistri e terrificanti l'avrebbe sicuramente fatta impazzire (se prima non fosse morta di paura). Si alzò. Non c'era più bisogno di correre, adesso camminava lentamente, mentre rifletteva sul da farsi. Se solo ci fosse un sentiero, pensò. Già, un sentiero. Per quanto lungo, l'avrebbe seguito. Un sentiero non l'avrebbe fatta vagare nel bosco, un sentiero l'avrebbe portata da qualche parte. Fu in quel momento che le venne in mente che un sentiero c'era: era quello che prendeva il suo carceriere con la sua auto, quello che percorsero quando la portò in quel posto la prima volta. Perché non ci aveva pensato prima? Forse perché non poteva prendere in considerazione quell'idea?
Già! Solo un pazzo avrebbe potuto farlo! Dopo che era riuscita a far perdere le sue tracce cosa faceva? Si andava di nuovo a buttare tra le sue braccia? Prendere il sentiero significava ritornare indietro e are di nuovo vicino alla casa. Era una follia! Le scelte possibili erano solo due. Perdersi nel bosco (forse tra un po' sarebbe terminato, qualche minuto ancora e ne sarebbe uscita), oppure tornare indietro e prendere il sentiero esponendosi al rischio di essere scoperta (e di conseguenza tornare nella sua prigione, dove la attendeva quell’incubo dal quale sperava di essersi liberata). Ma era inutile girarci attorno. Non poteva avventurarsi nel bosco. Non aveva cibo con sé, non aveva pensato a prenderne, quand’anche le fosse venuto in mente di portarsi via qualcosa da mangiare, non avrebbe avuto il tempo di procurarselo. Non aveva cibo, quindi, e non avrebbe saputo come procacciarselo. Se avesse trovato una pianta, un frutto, una radice o un tubero commestibile, non avrebbe saputo riconoscerlo. Cosa ancora più urgente, non aveva acqua. Aveva sentito o letto storie di persone che erano riuscite a sopravvivere per molto tempo senza mangiare. Non si può, però, sopravvivere a lungo senza bere. Questo lo sapeva. Doveva correre il rischio, doveva tornare indietro e imboccare il sentiero. Se solo avesse saputo che proseguendo in quella direzione avrebbe incrociato un fiume che ava lì vicino, molto frequentato in quel periodo...
Procedeva tentoni. Non aveva punti di riferimento attraverso i quali orientarsi, non aveva pensato a prenderne, non le era ato per la mente che avrebbe avuto la necessità di servirsene. Aveva pensato solo a correre; voleva allontanarsi il più possibile dal posto che aveva tanto odiato in quei mesi, come poteva pensare che sarebbe dovuta tornare indietro? Camminava lentamente, con cautela, evitando ogni minimo rumore. Se avessero
battuto la stessa zona, lui avrebbe potuto sentirla. La natura non le era d'aiuto. Udiva di continuo rumori di foglie che frusciavano, rami secchi che si spezzavano, sterpaglia calpestata. Si fermava e restava in ascolto, immobile, fino a quando era completamente sicura che non vi fosse traccia del suo aguzzino, che quei rumori non fossero dovuti alla sua presenza. Il rischio che potessero incontrarsi c’era, ed era un rischio che doveva correre se voleva tornare indietro. Quando sentì, in sequenza ravvicinata, il rumore dei rami che prima sbattevano su di un corpo in movimento per poi piegarsi e ritornare nella posizione iniziale, come colpi di frusta e, allo stesso tempo, il rumore di foglie e rami secchi che crepitavano sotto i i di ciò che vi camminava sopra, capì che la sua fuga era giunta al termine. Come una fiera, il suo inseguitore aveva fiutato il suo odore e si era lanciato al suo inseguimento. Era vicino, a pochi i. Non provò nemmeno a muoversi: l'aveva trovata e ora l'avrebbe catturata. Attese la sua comparsa con rassegnazione. Il rumore ò oltre e proseguì riducendosi fino a quando non lo udì più. Non era il suo carceriere, con molta probabilità si trattava di un animale. Poteva anche essere un animale pericoloso, forse un cinghiale, ma quella volta non era interessato a lei e continuò a fare ciò che l’aveva portato a are di lì.
Le sembrò di aver percorso più strada di quanta fatta all’andata. Forse la sua era una percezione alterata, d'altronde all’andata la maggior parte del tempo aveva corso, mentre ora procedeva molto lentamente. Eppure il rischio che non andasse nella direzione giusta non era per niente alieno. Per quella volta le andò bene. Non aveva sbagliato strada, alla fine il casolare si parò dinanzi: ora era vicina al sentiero, di lì avrebbe potuto seguirlo. Se fino allora era stata molto accorta, adesso, se possibile, doveva prestare
ancora più attenzione. Se era ritornato indietro, cosa a quel punto molto probabile poiché da un pezzo aveva smesso di sentirlo, avrebbe potuto vederla. Doveva sbrigarsi, sgattaiolare verso il sentiero procedendo radente al suolo, invisibile come un fiume surrettizio; e doveva farlo prima possibile. Una volta raggiunto il sentiero, per non correre il rischio di essere vista, non avrebbe dovuto percorrerlo, ma costeggiarlo restando all'interno del bosco. In quel momento, però, accadde qualcosa; qualcosa di prevedibile, a pensarci, ma che proprio non ci voleva: fu colta da un bisogno impellente e irrefrenabile di bere. Quanto tempo sarebbe ato prima di incontrare chi avrebbe potuto aiutarla? Come avrebbe fatto se già adesso aveva la gola completamente secca? Aveva bisogno di cibo, acqua e di una coperta. Perché era maggio, e per quanto la temperatura in quel momento della giornata fosse piacevole, di notte si sarebbe abbassata (pur se con terrore, doveva mettere in conto l’eventualità di una notte all’addiaccio). Sapeva benissimo dove trovare tutte quelle cose. Eppure sapeva altrettanto bene che sarebbe stata un’idiozia. Finora l’era andata bene, ma questo non voleva dire niente, non poteva continuare a sfidare la fortuna. Nondimeno se voleva che quella fuga riuscisse, doveva organizzarsi, anche a costo di correre qualche rischio. Aveva bisogno di quelle cose, senza non sarebbe arrivata da nessuna parte; tanto valeva bussare alla porta e rientrare in casa. Nella casa ci sarebbe rientrata, sì, ma dalla finestra, che era ancora aperta. Piegata in avanti, per non superare in altezza le finestre, raggiunse il casolare. Si accostò a quella della cucina e cercò di sentire se dall’interno provenissero dei rumori. Non ve ne furono. Allo stesso modo si avvicinò alle altre, stette in ascolto ma da nessuna udì provenire alcun suono. Sembrava che il suo rapitore non fosse in casa, o, se ci fosse, che dormisse; era da escludere, però, che stesse facendo una pennichella a quell'ora e in quella circostanza, era più probabile che fosse ancora fuori a cercarla. Non seppe spiegarsene il motivo, ma qualcosa la spinse a controllare la rimessa che si trovava sul lato opposto rispetto alla cucina.
Quando vi sbirciò dentro, attraverso lo spazio che c'era tra la cornice della porta e il battente, vide che l’auto non c’era. Era tornato indietro, allora. Doveva essere stato quando aveva sentito la sua voce allontanarsi; era tornato indietro per prendere l’auto. Ora capiva cosa l'avesse spinta a guardare nella rimessa. Forse, inconsciamente, sperava che l’auto non ci fosse, perché in quel caso l’avrebbe sentito se fosse rientrato mentre era ancora in casa. Ritornò alla finestra della cucina ando dal retro, per una maggiore sicurezza, lui l'avrebbe sicuramente vista se fosse rientrato in quel momento. Appoggiò le mani sul davanzale, fece forza sulle braccia e s'issò. Poggiò prima un ginocchio e poi l'altro, roteò il busto e si sedette; posò i piedi sul lavandino e, scivolandovi sopra, entrò in casa. Quando fu dentro, per prima cosa aprì le finestre delle due camere da letto: sarebbero state le sue vie di fuga nel caso lui fosse rientrato mentre era ancora dentro. Ritornò in cucina e si diresse verso il frigorifero. Lo aprì ma lo richiuse subito dopo; aveva bisogno di qualcosa che non si deteriorasse. Così frugò nella credenza, dalla quale sottrasse due buste di pane in cassetta, delle scatolette di tonno e di carne, dei biscotti e una bottiglia di succo di frutta. Erano le cose più semplici da utilizzare e la dispensa ne era piena. Avrebbe potuto prendere molte altre cose, ma non doveva appesantirsi. Prese dal frigorifero due bottiglie di bevande che svuotò del loro contenuto originario e riempì di acqua. Adesso le serviva qualcosa che le permettesse di trasportare quella roba, una borsa, una sacca o qualcosa di simile; l’avrebbe cercato in camera. Adagiato sul fondo dell'armadio, trovò un vecchio zaino che risultò adatto per il suo scopo, perché poteva trasportarlo in spalla. Un rumore sordo la fece trasalire. Un piccolo colpo. Secco. Isolato.
Era rientrato? E perché non aveva sentito l’auto arrivare? Anche se non l’avesse parcheggiata nel garage, avrebbe dovuto sentire il rumore dei pneumatici sullo sterrato, soprattutto nel momento della frenata. Rimase immobile. Trattenne il fiato e si mise in ascolto: se avesse sentito altri rumori, si sarebbe catapultata dalla finestra. Non ve ne furono. In quel momento un’immagine terrificante s'insinuò nei suoi pensieri: le aveva teso una trappola. Aveva nascosto l’auto da qualche parte, era rientrato in casa e ora la stava spiando. Non aveva intenzione di catturarla subito, voleva prima divertirsi un po'; per far accrescere la sua speranza e lo sconforto che ne sarebbe seguito quando l’avrebbe sorpresa. Scacciò via quell’immagine. Le case sono vive, si disse. Uno se ne accorge soprattutto di notte. Il legno dei mobili che scricchiola per assestarsi a causa delle variazioni dell’umidità; il motore del frigorifero, che parte all’improvviso; il ronzio che scaturisce dall’impianto elettrico e altri rumori dei quali spesso non conosciamo la provenienza. Non poteva spaventarsi per un singolo suono. Si diresse in cucina per riempire lo zaino con i rifornimenti per la fuga. Un avanzo di paura resisteva ancora. Camminò piano, poggiando delicatamente i piedi per terra per attutire il rumore delle suole contro il pavimento. Temeva che una delle porte potesse spalancarsi all’improvviso per mostrargli il suo aguzzino che, con un orrendo ghigno impresso sul volto, l’avrebbe poi inseguita brandendo un’ascia. Non accadde nulla, tutte le porte rimasero sprangate. Si affacciò nella cucina e sbirciò all'interno. Era vuota. Entrò, riempì lo zaino con le provviste recuperate dalla credenza, se lo caricò in spalla e uscì dalla finestra, allo stesso modo di quando era scappata qualche ora prima. Si ricordò solo in quel momento della coperta. Aveva dimenticato di prenderne
una. Non sarebbe tornata indietro, ormai stava uscendo; avrebbe dovuto fare senza. Non si diresse verso il bosco, lo lambì soltanto mentre costeggiava il sentiero. Avrebbe dovuto fare da subito così. Se si fosse fermata solo pochi attimi per riflettere, adesso forse sarebbe già in salvo. Ma non l’aveva fatto, ed era inutile rimuginarci sopra. Si allontanò da quella casa non più di un chilometro, o almeno così le era sembrato, quando un raggio di sole riflesso da un vetro sul lato opposto del sentiero la abbagliò. Con la vista offuscata non riuscì a capire cosa avesse causato la rifrazione di quel raggio. Si allontanò dalla direzione di quel riflesso e si piegò sulle ginocchia per nascondersi dietro un cespuglio. Quando fu nuovamente in grado di mettere a fuoco le immagini vide, parzialmente nascosto dai rami, quello che sembrava il lunotto posteriore di un'auto; che, con molta probabilità, era quella del suo aguzzino. Si chiese che cosa ci fe lì. Che senso aveva aver preso l'auto per inseguirla per poi parcheggiarla dopo appena un chilometro? Forse si era sentito male ed era andato a finire contro un albero? Avrebbe dovuto scoprirlo? Assolutamente no! Doveva solamente alzarsi, voltarsi e allontanarsi prima possibile. «Brutta troia figlia di puttana! Dove cazzo pensavi di andare, eh?» Era arrivato alle sue spalle, di soppiatto, con lo sguardo da invasato. La tirò per un braccio, alzandola di peso, e la trascinò verso l’auto.
Il suo inseguitore in un primo momento aveva perso le speranze di ritrovarla. Non sapeva che direzione avesse preso, non aveva idea di dove cercarla. Ormai in preda alla disperazione aveva abbandonato le ricerche ed era tornato indietro. In casa non fece altro che andare avanti e indietro da una stanza all’altra. Non riusciva però a rassegnarsi. Non poteva lasciarla andare così. L'avrebbe cercata in auto e non si sarebbe fermato finché c’era luce. Aveva da poco preso il sentiero quando, con la coda dell’occhio, gli sembrò di
scorgere qualcosa muoversi tra gli alberi. Era difficile che si trattasse di Clarissa, non poteva trovarsi ancora lì dopo tutto quel tempo. Che si fosse persa e, senza rendersene conto, fosse tornata indietro? Era una possibilità concreta, doveva assolutamente fermarsi e andare a controllare. Sterzò bruscamente e abbandonò l’auto poco dopo il bordo del sentiero. S'inoltrò nel bosco alla ricerca di quella che poteva essere solo l’ombra di un ramo spostato dal vento. Frugò in tutte le direzioni, cercò segni del suo aggio, guardò con attenzione alla ricerca della seppur minima traccia, senza però riuscire a trovare nulla. Quando abbandonò le sue infruttuose ricerche e ritornò verso l’auto, si trovò di fronte una scena alla quale quasi non riusciva a credere: Clarissa si trovava lì, in ginocchio dietro un cespuglio, di spalle a lui, che guardava in direzione della sua macchina. La afferrò per un braccio per condurla verso l’auto, trovando non poche resistenze. Si permetteva pure di essere recalcitrante, adesso. Gli aveva fatto perdere tutto quel tempo, gli aveva fatto vivere delle ore di angoscia – per lui sarebbe stata la fine se fosse riuscita a scappare – ora opponeva pure resistenza. Il comportamento di Clarissa non fece che accrescere la sua rabbia, già esasperata dall'ingratitudine che aveva dimostrato in quell'occasione; proprio adesso che aveva iniziato a darle maggiore libertà, lei l'aveva ripagato con quella moneta. Ah, si! Era fuor di dubbio. Ne sarebbe conseguita una terribile punizione.
Poi parve calmarsi, o almeno così le sembrò. L'espressione di pazzia fu rimpiazzata; dal suo viso sembrava fosse scivolato via quel velo di follia che gli aveva trasfigurato il volto fino a un attimo prima. All'improvviso lui si fermò e la strattonò verso il basso. La violenza di quel gesto non le dette modo di opporsi al suo volere: si trovò carponi nel terreno senza quasi rendersene conto. Sollevò le mani da terra e le strofinò per rimuovere il terreno che vi si era attaccato sopra. Era ancora in ginocchio quando lo vide tirar giù la cerniera. Ecco il motivo per il quale si era fermato e l'aveva buttata per terra, il motivo per il quale non era più in collera. Non stava sfogando la sua rabbia, non aveva
intenzione di picchiarla. Era altro che faceva quando aveva il membro gonfio e turgido. Tutto ciò che quella mattina era successo e che sulle prime l'aveva fatto infuriare, ora gli stava procurando una preoccupante eccitazione. Le avrebbe imposto di fare quella cosa che tanto detestava. C'era modo di evitarlo? No, non c’era. Non c’era mai stato modo di farlo. Non aveva mai potuto evitare né quello né tutto il resto. Ricordava bene le volte in cui ci aveva provato: la sua reazione era sempre stata così brutale che difficilmente avrebbe potuto dimenticarsene. Le sue esplosioni d'ira, le percosse ricevute, i lividi su tutto il corpo, il sangue che le colava dal naso. Le era rimasto tutto impresso nella memoria, come il marchio a fuoco sulla pelle degli animali da allevamento. Si chiese se sarebbe riuscita a vincere i rigurgiti che erompevano impetuosi quando sentiva il suo piacere scivolarle nella gola, oppure se avrebbe vomitato, come già altre volte era capitato. Non lo poteva sapere, per quanto odiasse vomitare certe volte non riusciva proprio a trattenersi, il disgusto che provava era così forte che lo stomaco si contraeva con spasmi violenti e incontrollabili. Fu quello che accadde. Era troppo debole e sfibrata per trovare la forza di smorzare gli spasimi che la travolsero e le fecero rendere quel po' di colazione che era riuscita a consumare quella mattina, prima di lasciarla, ancora quasi intatta, per calarsi dalla finestra e prendere la via della fuga.
2. La punizione
Aveva azzardato troppo. Pur di avvicinarsi al sentiero era ritornata indietro, fino alla casa. E se già questo era stato un gesto avventato, ne aveva fatto un altro ancor più pericoloso: per quanto consapevole del rischio che correva, approfittando della sua assenza, si era addirittura introdotta furtivamente in casa. Al posto di dolersi della sua imprudenza, aveva ritenuto che la sorte le era stata avversa, che la sua fuga non meritava questo epilogo, che, per il coraggio avuto, quell'evasione non doveva finire in quel modo. Erano questi i pensieri che le attraversavano la mente mentre fu condotta all'automobile; quando lui, una volta appagati i suoi bassi appetiti, si era rassettato i vestiti, l'aveva sollevata per un braccio e aveva ripreso a camminare.
Arrivati alla macchina, prese una corda dal bagagliaio. La legò perché avrebbe potuto aprire lo sportello e lanciarsi dall'auto in corsa. Avrebbe potuto inserire la protezione per i bambini, quella che impedisce l'apertura anche quando la sicura non è abbassata. Ma da sola non sarebbe stata sufficiente a fermarla; le sarebbe bastato abbassare il finestrino per aprire lo sportello dalla maniglia esterna. Non era un'eventualità remota, quella, non sarebbe stato complicato buttarsi dall'auto perché, a causa del terreno impervio, avrebbero viaggiato a una velocità poco sostenuta. Certo non sarebbe andata lontano, l'avrebbe ripresa immediatamente, ma era una perdita di tempo che avrebbe evitato volentieri, visto che aveva già sprecato l'intera mattinata a cercarla. E poi, anche se non avesse tentato di lanciarsi dall'auto, avrebbe potuto infastidirlo alla guida, chissà, mettendogli le dita negli occhi fino a farlo uscire di strada o usando la maglietta a mo' di cappio per provare a strangolarlo. Sì, era meglio perdere qualche minuto per legarla piuttosto che ritrovarsi ad affrontare fastidiosi ed estenuanti contrattempi.
Venne di nuovo legata alla catena. Per diversi giorni la sua reclusione fu di nuovo totale. Dopo i primi mesi, nei quali restò per tutto il tempo segregata in quei sotterranei, il suo aguzzino aveva preso l'abitudine di farla uscire ogni mattina per un po’ di tempo. La prima volta che le fu concessa questa possibilità dovette faticare parecchio per abituarsi alla luce del sole, per via di tutto il tempo trascorso in una perenne penombra. Ricordava perfettamente la data, era il 20 luglio del 1992, un lunedì; la vide segnata con una croce sul calendario della cucina. Quelli che di solito regalano i commercianti e che nella parte superiore pubblicizzano l’attività commerciale. Ma quella parte da quel calendario era stata rimossa e, insieme a quel frammento, era finita nel cestino della spazzatura anche la possibilità di capire dove si trovasse. Nelle brevi uscite giornaliere dai sotterranei, non aveva mai visto per casa un televisore, una radio oppure dei giornali: era tagliata fuori dal mondo. Di sopra le era concesso di trattenersi solo il tempo della colazione. Già da subito fu incaricata di prepararla. Ormai in autonomia prendeva dai pensili i biscotti e le tazze, dal frigo il latte, e, in ultimo, preparava la macchinetta del caffè. Per diversi giorni questo non accadde. Ci fu un ritorno al ato, tutto si svolse come fossero ancora i primi giorni della sua prigionia.
Clarissa aveva fame, nonostante lo spavento. La corsa le aveva messo appetito. Ma per tutta la giornata non ci fu traccia del suo aguzzino. Lo rivide solo di sera, quando le portò una zuppa calda. Il mattino seguente fu svegliata dal rumore delle mandate della serratura. Si mise a sedere sul letto sapendo che le avrebbe portato la colazione. Quando lo vide scendere le scale si accorse che non aveva tra le mani il vassoio sul quale le serviva i pasti. Portava, invece, due sacchetti di plastica che
contenevano una discreta quantità di provviste, una quantità sufficiente per permetterle di sopravvivere alcuni giorni. Si sarebbe assentato per un bel po’, forse tre o quattro giorni, a giudicare da tutta la roba che le aveva portato. Era già capitato altre volte che si fosse allontanato, ma mai per tanto tempo. Non riusciva a capire. Si aspettava una punizione, ma questa tardava ad arrivare. Una punizione dettata dalla rabbia non poteva essere procrastinata così a lungo né, tantomeno, poteva consistere nella sola reclusione. Sarebbe stata una misura insufficiente. Stava sicuramente escogitando qualcosa, qualcosa di orrendo, ne era certa. Per quanto si sforzasse, non riusciva proprio a immaginare cosa avesse deciso di riservarle. Infine arrivò. La punizione. Fu quando vide la porta aprirsi, al suo rientro. Era rincasato prima del previsto; le scorte, infatti, non erano ancora terminate, anzi, su quel tavolo c’era ancora più della metà della roba che le aveva lasciato. Dovevano essere ati un paio di giorni da che se n'era andato, non di più, anche se non avrebbe potuto stabilirlo con certezza, perché la luce, rimasta accesa per tutto il tempo, non le aveva dato modo di distinguere il giorno dalla notte. Durante i primi mesi, quelli della reclusione totale, aveva trovato il modo di regolarsi, perché il tempo era cadenzato dalle consuetudini. Come i pasti: colazione, pranzo e cena rappresentavano una sorta di orologio che scandiva le varie fasi della giornata. E anche il giorno e la notte venivano in qualche modo ricreati; quando andavano a dormire, infatti, lui spegneva la luce per poi riaccenderla il mattino seguente, cosicché si trovava ad avere una specie di surrogato del sole. Tutto questo non avvenne in quei (due?) giorni. La possibilità di utilizzare elementi esterni per contare lo scorrere delle ore, in quell’occasione, non fu praticabile: la luce rimase accesa, anche di notte, mentre i pasti non furono portati a intervalli regolari. Erano lì, stava a lei decidere quando consumarli.
Così, mentre durante la giornata le sembrò di essersi attenuta ai ritmi consueti, di aver rispettato gli orari del pranzo e della cena, di essere andata a letto all'incirca al solito orario, al suo risveglio aveva perso la certezza che fosse già mattino e che non si fosse svegliata, invece, in piena notte. Durante il sonno la cognizione del tempo si era dissolta fino a svanire completamente al suo risveglio. Lo vide scendere per le scale con il vassoio della colazione. Cavolo. Sembrava felice. Sorrideva. Non riusciva a vederlo ancora bene in viso, ma sembrava proprio che stesse sorridendo. Non riuscì a trattenersi, sorrise anche lei. Per la prima volta in sua presenza. Anzi, per la prima volta da che era lì. Non aveva mai avuto alcun motivo per sorridere, neanche le volte in cui le erano venuti in mente i ricordi legati al suo ato. Perché se il ricordo delle persone care e dei bei momenti trascorsi riusciva a celare per brevi attimi la realtà della sua condizione, questa le ritornava presto in mente, in tutta la sua nitidezza. Come quei sogni che uno sa essere tali. Quando sentì il rumore della porta, si preparò al peggio. Invece il suo timore fu subito scacciato. Non l’aveva mai visto così raggiante, né, tantomeno, si sarebbe mai immaginata una cosa simile. Di sicuro qualche avvenimento aveva smorzato il suo bisogno di vendetta. Forse aveva ricevuto una bella notizia? Magari un incontro inaspettato? Non importava, qualunque cosa fosse, aveva migliorato il suo umore, ed era questa l'unica cosa che contava. Quell'avvenimento gli aveva fatto dimenticare che doveva punirla, oppure gli aveva fatto are la voglia di farlo. Mentre scese le scale, con quel sorriso cristallizzato sul volto, lo stato d’animo di Clarissa nel giro di pochi istanti, cambiò nuovamente. Era ata dal terrore per la punizione al sollievo nel vederlo felice.
Poi sopraggiunse l'orrore. Qualcosa non quadrava. Sul vassoio si aspettava di trovare latte e biscotti, come al solito. Ma non ne vide. C'era invece qualcosa che non riuscì a determinare: su quel vassoio sembrava esserci un tappeto bianco, dal pelo lungo, ripiegato in malo modo. Era ovvio che non potesse trattarsi di quello. Per quale motivo una persona avrebbe dovuto portare un tappeto su un vassoio? Anche quando quella cosa fu abbastanza vicina, non riuscì ancora a comprenderne la natura. Fino a quando lui lasciò cadere il vassoio sul tavolo, con un tonfo che la risvegliò dal torpore nel quale era piombata.
Aveva quindici anni. Mancavano pochi giorni al Natale. Quel pomeriggio la madre le chiese: «ti va di accompagnarmi in centro a fare compere?» Se le andava? Certo che le andava! Adorava eggiare per le vie del centro nei giorni che precedevano le festività natalizie. Si respirava in pieno tutta l'aria delle feste. Le illuminazioni, i negozi colmi di decorazioni, le strade affollate di gente. E poi sapeva che a un certo punto si sarebbero fermate in un bar, a bere una cioccolata calda e a chiacchierare. Lasciò i libri aperti sulla scrivania, avrebbe finito dopo i compiti, o almeno fu quello che disse alla madre prima di correre a prepararsi. Erano le sei di pomeriggio quando giunsero nel centro cittadino, la zona commerciale della città, brulicante di vetrine addobbate e insegne luminose. La madre doveva acquistare gli ultimi regali. Non per lei, per la figlia e per il marito li aveva già comprati. Le mancavano molto i suoi genitori. Pensava spesso a loro. Provava più pena per loro che per se stessa. Perché sicuramente anche adesso si struggevano dal dolore e, forse, ancor di più, dal senso di colpa. Già, perché, per come si erano svolti i fatti, c'era da considerare la possibilità che la sua scomparsa fosse stata interpretata come un allontanamento volontario. Si era dileguata, senza dire niente. Era corsa via,
senza avvisare. Nessuno aveva visto quell'uomo avvinghiarla, sedarla e trascinarla verso la sua auto. Come potevano sapere che non era stata lei a scappare? Come potevano sapere, invece, che era stata rapita? È una cosa che capita. Persone che all’improvviso spariscono nel nulla, gente di ogni età della quale si perde ogni traccia. Spesso senza che ci siano dei motivi evidenti. Se non avesse preso a seguire quel programma in televisione, quel programma nel quale si mostravano le foto delle persone scomparse nella speranza che la risonanza mediatica fosse d'aiuto nelle ricerche, Clarissa non si sarebbe mai resa conto di quanto spesso capitassero eventi di quel tipo. È un po’ come per gli incidenti stradali, purtroppo ce ne sono tantissimi, ma giornali e telegiornali non possono parlare di tutti quelli che avvengono: solo alcuni, quelli più gravi, trovano spazio nei trafiletti di cronaca o nei servizi televisivi. Vedendo quel programma, Clarissa cercava di comprendere i motivi che potevano indurre una persona a far perdere le proprie tracce; non le era mai ato per la mente che alla base di quelle sparizioni potessero esserci ragioni differenti, che la causa non necessariamente era la fuga. Solo allora si rese conto di aver interpretato male quelle storie, che il suo era stato un modo di ragionare superficiale, che le cause di quelle sparizioni potevano essere infinite. E se anche altri avessero ragionato nel suo stesso modo? In quel caso anche la sua scomparsa sarebbe stata giudicata come un atto volontario. Anche i suoi genitori avrebbero potuto giustificare in quel modo la sua scomparsa. Non avrebbero saputo spiegarsene il motivo, ma avrebbero potuto pensare a un'eventualità simile. Quando ripensava ai suoi genitori, le venivano in mente le domeniche mattina, l’unico giorno della settimana in cui riuscivano a fare colazione tutti e tre insieme; le sere d’estate in cui la tv era spenta e giocavano a carte; oppure i pomeriggi in cui aiutava la madre a preparare un dolce.
È strano come si provi nostalgia per le cose quotidiane, pensava. Non i viaggi, le feste, le vacanze. Ma le piccole cose, quelle di ogni giorno. Quelle che con accezione negativa sono definite routine. Le mancavano anche il suo ragazzo e i suoi amici. Era preoccupata anche per loro. Sicuramente erano stati interrogati dalla polizia. Per forza, erano stati gli ultimi a vederla. Solo loro potevano fornire dei particolari utili a comprendere le cause della sua scomparsa. Per loro non doveva essere stata una bella esperienza. Sperava solo che non avessero mai ipotizzato una loro complicità, che non avessero mai minimamente messo in dubbio la loro estraneità a questa brutta storia. Chissà se anche loro si sentivano in colpa, per non aver capito che qualcosa non andava. O se invece avevano immaginato cos'era accaduto realmente, visto che stava bene, che non aveva problemi in famiglia e che con il suo ragazzo viveva un rapporto bellissimo. Fabrizio. La aspettava ancora? Oppure l'aveva già dimenticata?
Erano in giro già da un po'. La madre propose una pausa indicandole un bar. Accettò volentieri. Aspettava quel momento, si sarebbero prese una pausa dal trambusto di quelle strade, e dal rapporto tra madre e figlia; era il momento in cui si confidava apertamente, il momento in cui parlavano da amiche. Quando uscirono dal bar, la sua attenzione fu attirata da un crocchio di curiosi intenti a osservare qualcosa che non poté discernere, perché coperto da quel capannello. S'incuriosì al punto da convincere la madre ad aggregarsi a quel gruppetto. Dietro di loro c'era un banchetto con sopra alcune scatole di cartone, dalle quali si affacciavano dei minuscoli batuffoli bianchi: erano degli irresistibili cuccioli di barboncino, che dei volontari di un'associazione regalavano. Dei cuccioli così irresistibili, che non poté fare a meno di chiedere alla madre di portarne a casa uno. Ma non erano più nel bar, e la madre aveva smesso i panni da amica. «Non se ne parla nemmeno, togliti quest'idea dalla testa» le rispose risoluta.
«Ma mamma li regalano! Non devi nemmeno spendere dei soldi.» «I soldi lì spenderemo dopo. Ma non è questo il problema. Chi se ne prenderà cura? Chi lo porterà fuori per i bisogni?» «Io mamma, me ne prenderò cura io, te lo giuro. Lo farò ogni giorno. Ti prego, ti prego, ti prego. Rinuncio al mio regalo di Natale, puoi riportarlo indietro. Ti supplico.» La madre iniziò a cedere. Aveva imparato a conoscerla. Quando faceva una pausa prima di ribattere nuovamente, quando sospirava mentre frugava nella sua mente in cerca di altre obiezioni, allora era il momento di approfittarne, di lanciare l’ultima stoccata, con un colpo deciso. «Ti prego, sarebbe il più bel regalo di Natale» le disse un’ultima volta guardandola con aria afflitta. «Dovremmo chiederlo a tuo padre.» «Ne sarà felice, non occorre chiederglielo. Rischieremmo di non trovare più nessun cucciolo fintanto che cerchiamo un telefono per chiamarlo.» Fu così che Spank entrò nella loro famiglia. Clarissa non avrebbe mai immaginato che sarebbe stato proprio Spank il membro della sua famiglia che avrebbe rivisto per primo. Anche se da morto. Su quel vassoio, infatti, c'era la sua carcassa.
Anche se in giro non ne vide mai, quando andava nel paese più vicino, il suo aguzzino recuperava delle vecchie copie di quotidiani, che si faceva mettere da parte. Grazie a quelle si teneva aggiornato soprattutto sulle notizie che la riguardavano. Era così che scopriva se c'erano evoluzioni nelle ricerche, oppure se sorgevano sospetti su quanto realmente accaduto. Così, e con un’attenta
visione di telegiornali e programmi di approfondimento. Lei non lo sapeva, non avrebbe potuto saperlo, ma la sua vicenda aveva suscitato un certo clamore mediatico. Almeno agli inizi, fino a quando l'interesse non iniziò a scemare, come avviene sempre in questi casi. Quando non ci sono più sviluppi, quando non c'é più nessuna pista da battere, allora non se ne parla più e la storia col tempo finisce nel dimenticatoio. Ma all'inizio se ne parlò molto, nei telegiornali e nei programmi di cronaca. Ci fu anche un appello dei suoi genitori, ma soprattutto un servizio davanti casa loro. Un servizio che il suo carceriere seguì e attraverso il quale ottenne le indicazioni per scoprire dove abitavano. Non che ci fosse molto da scoprire: il cronista aveva nominato il paese, mentre le immagini avevano ripreso la targa di marmo sulla quale era inciso il nome della via. Non dovette fare altro che annotarsi quei dati. Quando andò alla ricerca della casa, si portò con sé una macchina fotografica. Il suo intento, infatti, era quello di portarle una fotografia dei suoi genitori, per dimostrare che sapeva chi erano e dove abitavano, che in qualsiasi momento avrebbe potuto raggiungerli per far loro del male. Così l’avrebbe portata all’ubbidienza, alla sottomissione completa: se non poteva irretirla in altro modo, l’avrebbe fatto con la minaccia di una ritorsione. Nel caso avesse provato un'altra volta a scappare, lui avrebbe raggiunto i suoi genitori e avrebbe fatto loro del male. O meglio, li avrebbe uccisi. Avrebbe così ottenuto una rassegnazione assoluta, una totale remissività. Sapeva che ci sarebbe riuscito.
Si appostò nei pressi della casa. Rimase in auto con un giornale aperto. Non dovette attendere molto, il padre di Clarissa uscì per portare il cane fuori. Lo inquadrò nel mirino della macchina fotografica e iniziò a scattare alcune fotografie. All’improvviso un’idea baluginò nella sua mente.
Perché limitarsi alle foto? Avrebbe raggiunto appieno il suo scopo compiendo un atto concreto, un atto crudele a tal punto da non lasciare dubbi sulla sua determinazione. Le avrebbe riportato il suo cane, morto. In quel modo avrebbe ottenuto anche un altro risultato. Non solo l’intimidazione, ma anche la punizione. Ucciderle il cane sarebbe stato un atto di ripicca, che in più le avrebbe fatto capire che non scherzava per nulla. Si sentiva un genio, certe volte, proprio non riusciva a capacitarsi di come potessero venirgli in mente certe idee. Scese dall'auto per pedinare quell’uomo. Restò a una certa distanza, cercando di apparire disinvolto. Quando il padre di Clarissa entrò in un giardinetto, rimase fuori e da lontano ne seguì i movimenti. Lo vide sedersi su una panchina e iniziare la lettura del giornale che si era portato appresso. La sua attenzione si soffermò sul guinzaglio: era il modello avvolgibile, di quelli che si allungano, per lasciare al cane un più ampio spazio di movimento. Quando quell'uomo dette corda e il guinzaglio arrivò a fine corsa, bloccò il fermo. Era il momento di agire. Entrò nel parco e quando il cane si portò dietro la panchina, ad annusare un albero in cerca di un posto per i bisogni, si accucciò, lo prese dal collare e lo accarezzò per non farlo spaventare. Poi staccò il gancio dal collare e lo fissò alla rete metallica che delimitava le aiuole, per evitare che il meccanismo a molla richiamasse indietro il guinzaglio. Si dileguò velocemente, portandosi dietro il cane.
Clarissa non riusciva a credere a ciò che vedeva in quel momento. Non poteva esserci Spank su quel vassoio.
Quale persona con un minimo di umanità avrebbe potuto compiere un gesto così crudele? È vero, l’aveva rapita, e che ciò che le faceva era ripugnante, ma questa era una cosa differente. Si portò una mano alla bocca e provò a urlare. Ma non emise alcun suono, se non un rantolo strozzato. Senza nemmeno provare ad avvicinarsi alla tazza, vomitò. «Se provi un'altra volta a scappare, quello che ho fatto al cane lo farò ai tuoi genitori, ma molto più lentamente» furono le parole che le rivolse, prima di aggiungere «e pulisci quello schifo!» «Sei… sei… sei…» cercò di ribattere Clarissa. Ma non riuscì a trovare le parole. Non esistevano, o lei non conosceva, aggettivi appropriati da affibbiare a un essere così spregevole. Solo adesso capiva la ragione di quel ghigno, il perché le avesse dato l'impressione di essere appagato. Quando lui andò via, portò con sé Spank. Avrebbe volevo starci un po' insieme, per un ultimo saluto. Ma forse fu meglio così. Se l'avesse lasciato lì, sarebbe stato peggio. Sapeva che non l'avrebbe seppellito: non confidava in un gesto così caritatevole. L'avrebbe sicuramente buttato in un sacco di plastica, insieme al resto della spazzatura.
Nei giorni seguenti rimase ancora confinata in quei sotterranei. Dal piano superiore sentiva giungere in continuazione dei rumori: sembrava stesse ristrutturando casa. Quando scendeva da lei, si tratteneva solo il tempo necessario; risaliva quasi subito per riprendere i lavori. Una mattina, dopo una settimana dal suo rientro, il suo carceriere aprì la porta
del seminterrato e la lasciò spalancata: era arrivato il momento di ritornare di sopra. Una volta in cucina scoprì la causa dei rumori che aveva sentito per tutto quel tempo: aveva applicato delle grate alla finestra. In questo modo poteva far entrare la luce lasciando aperte le imposte, senza correre il rischio che scape. Per una maggiore sicurezza, nel caso le minacce di ritorsione non fossero state sufficienti. Erano delle grate fisse, senza battenti. Non c’era alcuna possibilità di aprirle. Così, a causa di quel maldestro tentativo di ritrovare la libertà, tutta la casa, e non più solo il seminterrato, si trasformò nella sua prigione.
Seconda parte
1. Il rapimento
Clarissa Bartali aveva vent'anni quando fu rapita. Era una bellissima domenica di aprile del 1992. A novembre dell'anno precedente aveva iniziato a frequentare il primo anno della facoltà di giurisprudenza. A lezione occupava sempre i primi banchi. Lo faceva per prendere quanti più appunti fosse possibile, non aveva alcuna intenzione di are ore e ore a casa a sbobinare le registrazioni. E poi i primi banchi erano occupati per ultimi, vi trovava sempre posto, anche quando arrivava più tardi degli altri. Come lei faceva lo stesso anche un'altra ragazza. Dopo i primi giorni nei quali il saluto era uno stentato sorriso, Clarissa si avvicinò. «Ciao, ci sediamo sempre insieme ma non ci siamo mai presentate. Io mi chiamo Clarissa» le disse porgendole la mano «e tu?» «Ilenia» rispose lei con una stretta vigorosa. Diventarono presto amiche. In facoltà stavano sempre insieme, non solo in aula, ma anche in biblioteca, se dovevano frequentare qualche laboratorio oppure se c'era bisogno di andare in segreteria. Immancabile era diventato il caffè di metà mattinata, il loro piccolo rito quotidiano. Dopo quasi un mese, un venerdì mattina, si scambiarono i numeri di telefono. Si sarebbero sentite il giorno dopo per organizzarsi per la sera per un'uscita a quattro. Dovevano decidere in quale pizzeria andare.
Da quella volta uscirono spesso insieme. Erano insieme anche il giorno precedente quella domenica sciagurata. Ilenia insisteva affinché, il giorno dopo, partissero per una breve gita. C'erano state delle giornate così belle che sarebbe stato un vero peccato non approfittarne. Quell'anno, infatti, la primavera era esplosa in tutta la sua potenza e lei, dopo il letargo invernale, avvertiva un bisogno incontenibile di trascorrere delle giornate all’aria aperta. Premeva affinché andassero a visitare un piccolo paese, un borgo medievale nel quale era stata una sua cugina che gliene aveva poi parlato con toni entusiastici: «è un posto bellissimo, ancora intatto, avevo l’impressione di essere tornata indietro nel tempo» le disse la cugina quando gliene parlò. A Clarissa allettava molto quell’idea. Aveva anche lei voglia di are una domenica all’aperto, dopo i mesi invernali trascorsi in casa a studiare. Meno ai ragazzi, che avrebbero preferito continuare la serata andando a ballare, piuttosto che svegliasi presto l’indomani mattina. E poi quel posto non era proprio vicino. Avrebbero dovuto fare parecchia strada, spendendo per giunta un bel po’ di soldi. Erano queste le loro obiezioni. Ilenia, però, nella sua testa aveva già organizzato tutto. Avrebbero visitato quel posto per l’intera mattinata e a pranzo sarebbero andati in un ristorante della zona, sempre consigliato dalla cugina, che proponeva piatti tipici del posto, con prezzi contenuti. Anche se si frequentavano da pochi mesi, Clarissa aveva da subito scoperto questo lato del suo carattere: quando si metteva in testa una cosa, doveva farla. Non imponeva niente a nessuno, ma sapeva essere convincente. «E perché, andando a ballare non ne spenderemmo di soldi? Tra ingresso in discoteca e consumazioni non sarebbero neppure pochi.» Oppure «ereste veramente tutta la mattinata a dormire, sprecando così una bella giornata?» Erano alcune delle risposte alle obiezioni dei ragazzi. Era in grado di ribattere su tutto, e alla fine, anche se controvoglia, era difficile rifiutare dopo averla sentita
perorare la sua causa. Fu così che il giorno dopo sarebbero partiti per quella breve gita. Si svegliarono presto, dovevano percorrere parecchia strada. Si erano dati appuntamento alle sette - «in punto!» si era raccomandata Ilenia - sotto casa di Clarissa, perché era la più vicina all’ingresso dell'autostrada. Fabrizio arrivò qualche minuto prima degli altri. Parcheggiò l’auto perché avrebbero usato quella di Giorgio, il ragazzo di Ilenia, che era a diesel. «Ciao piccola, hai ancora sonno?» le chiese Fabrizio stropicciandosi gli occhi. «Un po’» rispose lei reprimendo uno sbadiglio, mentre si sollevava sulle punte dei piedi per baciarlo. Arrivarono Ilenia e Giorgio strombazzando con il clacson in segno di saluto. «Smettila idiota» disse Clarissa rivolta a Giorgio, preoccupata che svegliasse l’intero vicinato. «Perché mi chiami con il nome del tuo fidanzatino?» rispose lui. «Diamoci una mossa, ci aspettano tre ore di macchina» tagliò corto Fabrizio, un po' imbronciato per via del sonno. Salirono in auto. La proposta di un caffè prima di partire fu bocciata da Fabrizio. L’avrebbero preso più tardi, in autostrada si sarebbero fermati a una stazione di servizio. Non che il viaggio fosse tanto lungo da richiedere una sosta, l'autonomia del serbatoio avrebbe permesso di arrivare a destinazione senza che si esaurisse completamente; e la sera prima, per l'occasione, avevano fatto il pieno. Ma per Fabrizio un viaggio in autostrada non poteva chiamarsi tale senza una sosta all’autogrill. «Tanto alle ragazze scappa sempre, dovremmo fermarci comunque.» disse per chiudere la questione. Non parlarono molto in auto, lasciarono alla radio il compito di tenergli
compagnia: avevano poche ore di sonno, dovevano ancora riprendersi del tutto. Durò un'ora l'astinenza da caffeina. Giorgio rallentò, mise la freccia e imboccò la corsia di decelerazione. Nessuno si lamentò, erano tutti d’accordo. Quando scesero dall'auto, non si avviarono subito. Erano intenti a stiracchiarsi, stropicciarsi gli occhi e sbadigliare. Mancava solo il caffè perché il risveglio fosse completo. Quando uscirono dalla caffetteria, Clarissa e Ilenia si diressero verso il bagno, che si trovava all'esterno e non era comunicante con il bar, come in alcune stazioni di servizio. I ragazzi attesero fuori. Una volta fuori le due amiche presero a discorrere. Avevano quasi raggiunto la macchina quando Clarissa all'improvviso smise di parlare, si voltò di scatto e tornò indietro. Aveva dimenticato sul lavandino l'anello che si era tolto per lavarsi le mani. Era l'anello che le aveva regalato Fabrizio, non poteva permettersi di perderlo. Fortunatamente l'anello era ancora lì, lo indossò, e aprì la porta per uscire. Fabrizio e Giorgio, che non erano ancora saliti in auto, si girarono a guardare la scena ma non fecero in tempo a chiederle cosa fosse successo: Clarissa era già entrata nel bagno. Nessuno di loro dette peso a quell'episodio, avevano immaginato che avesse dimenticato qualcosa. Così decisero di aspettarla in auto. Per questo non la videro uscire. Per questo non videro le braccia possenti che la avvinghiarono, né la pezza che le coprì la bocca e il naso. Erano già tutti in auto, per questo non la videro perdere i sensi e accasciarsi tra le braccia di quell'uomo. Cloroformio. Aveva letto libri e visto film nei quali veniva usato. S'imbeve un panno e con questo si occludono le vie respiratorie della vittima. Il malcapitato tenta di
inalare ossigeno, ma finisce per aspirarne i vapori, che lo portano alla perdita di conoscenza. Certo non era per quel motivo che veniva prodotto adesso, ma in ato sì. Si usava in ambito medico, per anestetizzare i pazienti. Perse immediatamente i sensi.
Lui l'aveva adocchiata da subito, ma aveva dovuto desistere, la sua prediletta non era sola. Per catturarla avrebbe dovuto prima tramortire la sua amica, ma a quel punto Clarissa avrebbe urlato e si sarebbe venuta a creare una confusione che di sicuro non poteva permettersi. Quel trambusto l'avrebbe costretto alla fuga e per quel giorno avrebbe dovuto rinunciare al suo piano. Nascosto dietro l'albero dal quale spiava la porta d'ingresso del bagno delle donne, pensava a quanto i suoi sforzi fossero stati mal ripagati. Aveva ato l'intera mattinata a controllare l'ingresso di quel bagno e solo una ragazza aveva catturato la sua attenzione, ma non poteva rapirla. Era perfetta. Bella, giovane e allegra. Non avrebbe potuto desiderare di meglio. Quando la vide tornare indietro, da sola, allora ne ebbe la conferma: era lei la predestinata, era lei che doveva avere. Era stato il destino. Altrimenti per quale altro motivo era tornata indietro se non per permettergli di rapirla? Già, il destino! Ripensò a un episodio che gli era rimasto impresso nella memoria. Un fine settimana, tanti anni prima, quando era ancora un bambino, doveva andare in montagna con la sua famiglia. Poi degli impegni di lavoro del padre fecero saltare quella gita. Ricordava ancora il padre, qualche giorno dopo, raccontare di aver ascoltato in radio la notizia che una slavina era venuta giù proprio sulla pista che avrebbero battuto loro: «Dovevamo esserci noi su quella pista» disse il padre, pensieroso, cupo, mentre fissava il muro.
Il destino aveva voluto che quel giorno loro non fossero su quella pista. Il destino, in quell'occasione, aveva voluto che quella ragazza fosse tornata indietro da sola, per permettergli di rapirla. Quello stesso destino che, quando era ancora un ragazzo, aveva deciso di prendersi i suoi genitori. Entrambi, in un colpo solo. Quando la loro auto sbandò mentre affrontavano una curva che si affacciava sullo strapiombo nel quale precipitarono.
Quando Clarissa riprese conoscenza, scoprì di non potersi muovere. Era stata legata, bendata e imbavagliata. All’inizio, e per quanto possa sembrare strano, avrebbe ringraziato il suo sequestratore di questo. Del fatto di essere stata bendata. Perché le aveva evitato una crisi di panico. Non che risvegliarsi all’interno di un’auto, così conciata, vittima di un rapimento, fosse una situazione gradevole. Ma almeno non ebbe modo di scoprire che si trovava all’interno del bagagliaio, e non, come credeva, dietro i sedili posteriori di quella vettura. Non soffriva di claustrofobia, prendeva regolarmente gli ascensori, anche da sola. C’èra una cosa, però, che la terrorizzava come nessun’altra: essere sepolta viva. Trovarsi in uno spazio ristretto, toccare le pareti e rendersi conto che sono così vicine, che lo spazio che ti circonda è limitato, che l’ossigeno non può durare in eterno, che, anzi, è già in via di esaurimento: se si fosse resa conto di trovarsi all’interno di un bagagliaio avrebbe provato tutte quelle sensazioni insieme e il terrore sarebbe divampato come un incendio in una fabbrica di zolfanelli. Cercò di comprendere le ragioni di quel rapimento. L'aveva rapita per una richiesta di riscatto? No, come avrebbe potuto essere per quello? La sua famiglia non era benestante. Anche se in casa non era mai mancato niente, anche se aveva potuto iscriversi all’università, i suoi genitori non avrebbero potuto permettersi di pagare un riscatto. Non le vennero in mente altri motivi. Tranne... Pensò a come fare per liberarsi. I nodi erano stati stretti con forza. Provò ad allentarli muovendo i polsi, ma non ottenne alcun risultato, se non delle abrasioni dove la corda stringeva di più. Provò a fare la stessa cosa con le
caviglie, ma anche in quel punto quei nodi non vollero saperne di allentarsi, nonostante quel giorno avesse indosso delle calze in spugna che, attenuando un po' la pressione, le permisero di insistere più a lungo. Provò allora a liberarsi del bavaglio, strofinando il viso contro la spalla, ma anche questo tentativo fu vano: quell'uomo aveva agito con estrema dovizia.
ò parecchio tempo prima che l'auto si fermasse. Lo sentì scendere, armeggiare con il tappo del serbatoio e versarvi dentro la benzina. Eppure qualcosa non tornava. L’auto era smossa continuamente dallo spostamento d’aria prodotto dai veicoli che sfrecciavano su quella strada. Se si fossero trovati in una stazione di servizio, questa cosa non sarebbe potuta accadere. Dovevano trovarsi, allora, in una piazzola di sosta, dove il suo rapitore stava rifornendo il serbatoio con delle lattine riempite in precedenza. Non poteva fermarsi dove c'era altra gente, era comprensibile, sarebbe stato troppo rischioso: se fosse riuscita a liberarsi dal bavaglio, avrebbero potuto sentire le sue richieste di aiuto. Se ora si trovavano in autostrada, come credeva (e sperava), perché andavano troppo spediti per essere su qualche strada provinciale, così come veloci andavano le altre auto, c'era un altro posto dove avrebbe dovuto fermarsi nuovamente. Il casello. Non avrebbe potuto evitarlo: per uscire dall'autostrada doveva fermarsi necessariamente lì per pagare il pedaggio. Cercò nuovamente di sciogliere il nodo del bavaglio. Mentre in precedenza aveva provato a farlo più per il fastidio che le procurava che per una reale speranza (chi avrebbe potuto udire una voce proveniente da un’auto in corsa?), adesso, invece, provò a farlo per essere pronta a urlare con tutta la forza di cui era capace nel caso in cui l’auto si fosse fermata alla sbarra del casello.
Ci provò, in tutti i modi possibili. Cercò di allontanare quella pezza spingendola con la lingua, ma era stretta troppo forte. Cercò un appiglio sul quale incastrare il fazzoletto affinché si sfilasse, ma non ne trovò. Ci provò, in tutti i modi possibili, fino a quando l'auto rallentò per avvicinarsi al casello. Ma non ci riuscì. Era amareggiata, pensava che se fosse riuscita a liberarsi da quel bendaggio, avrebbe avuto una possibilità, perché erano fermi in un posto dove c’erano anche altre persone. Non sapeva che nessuno l'avrebbe sentita, neanche se avesse gridato con tutta la forza di cui disponeva: erano fermi a un casello elettronico per il pagamento con Viacard prepagata. Non l'avrebbero sentita gli automobilisti in coda nelle altre file, perché lontani, né l'avrebbero sentita gli addetti alla riscossione del pedaggio, perché rinchiusi in quelle gabbie di vetro.
Ripartirono poco dopo. Proseguirono a una velocità inferiore, finché l'auto non rallentò fino quasi a fermarsi, per poi imboccare una stradina sterrata. Clarissa lo capì dalle vibrazioni dell'auto che adesso erano diventate molto più intense. Capì anche che era una strada in salita, perché la forza di gravità la spinse verso il fondo. Era convinta che ormai fossero quasi giunti a destinazione, qualunque essa fosse, ma si sbagliava; camminarono ancora per parecchio tempo prima di arrivare nel posto in cui aveva deciso di portarla.
Quando l'auto si fermò e sentì il suono secco del freno a mano, Clarissa preferì essersi sbagliata anche quella volta. Sapeva, però, che quel suo desiderio non avrebbe trovato soddisfazione. Erano arrivati.
Fu colta dal panico. I battiti del cuore accelerarono. Finché si trovava in quella macchina, legata e imbavagliata, non era obbligata a pensare alla sua situazione e a quello che avrebbe dovuto affrontare in seguito. Poteva permettersi di fantasticare sul modo di liberarsi e ritrovare la libertà che da qualche ora qualcuno aveva deciso di sottrargli. Ma adesso tutto questo era finito: era giunto il momento di affrontare la realtà. Lo sentì aprire una porta e condurre l’auto all’interno di un luogo chiuso. I rumori poi cessarono per qualche istante, finché il portellone del bagagliaio non fu aperto. La prese in braccio allo stesso modo del marito che varca la soglia di casa con la sua sposa la prima notte di nozze. La posò a terra, tagliò con un coltellino svizzero, che portava sempre con sé, la corda dalle caviglie, e la liberò dalla benda. Si trovavano nel garage. I suoi occhi non dovettero abituarsi alla luce perché da sotto la porta ne filtrava solo qualche lama. Rimasero solo le mani legate, dietro la schiena, e il bavaglio, ancora stretto sulla bocca. Per la prima volta da che l'aveva rapita poté guardarlo in faccia. Aveva già vissuto quel momento, nelle sue fantasie. Aveva immaginato di trovarsi di fronte un uomo con l'aspetto di un orco. Un orrido, ripugnante mostro. Un essere immondo. E invece si trovò a guardare un viso comune. Il viso di un signore che, se incontrato per strada, sarebbe ato inosservato, per poi essere dimenticato subito dopo. Almeno per quel che riguardava i tratti somatici. Perché una cosa non sarebbe ata inosservata: la sua stazza. Quell'uomo aveva una corporatura impressionante. Alto, muscoloso ma nello stesso tempo agile. Non erano muscoli gonfiati in palestra, si capiva subito. Erano muscoli asciutti, creati da un duro e costante lavoro. «Andiamo» le disse senza guardarla in faccia, con un tono che a Clarissa sembrò quasi gentile.
Con delicatezza la spinse dalla schiena verso una porta comunicante con la casa. Non oppose resistenza, sapeva che non sarebbe servito a niente ribellarsi.
Quella porta metteva in comunicazione il garage con la casa; da lì entrarono in una stanza che aveva tutta l'aria di essere il salotto. A differenza della rimessa, che era completamente in legno, la casa era in muratura; solo il tetto e le porte erano dello stesso materiale della rimessa. Era un salotto molto spoglio, con un arredamento scarno ed essenziale, senza quadri né suppellettili. Solo il minimo indispensabile. Accanto alla porta d'ingresso, quella principale (non quella laterale dalla quale erano entrati), c’era un vecchio divano. Di fronte un mobile con il televisore, una credenza e il corridoio, sul quale si affacciavano le porte delle altre stanze della casa. Tra queste vi era anche quella che le permise di accedere nella stanza che, per molto tempo, sarebbe stata la sua dimora. Prima di liberarle le mani, le legò al collo una catena, che chiuse poi con un lucchetto. La catena era fissata al muro, ed era abbastanza lunga da permetterle di raggiungere il tavolo, la branda e la tazza, che era a vista: quando avrebbe avuto necessità di usarla, l'avrebbe fatto con la consapevolezza che la sua intimità sarebbe stata a rischio. Quando quell'uomo uscì, Clarissa si lasciò andare sulla sedia.
Una grande confusione regnava nella sua testa, non riusciva ancora a mettere a fuoco la situazione nella quale si trovava. Forse per questo era così calma, forse per questo non si era ancora messa a urlare e scalciare. Era come se tutto stesse accadendo a qualcun altro, come se si trattasse di un incubo. Dove si trovava? Quanto poteva essere lontana da casa sua? Quanto tempo era rimasta nel bagagliaio di quell’auto? Non lo sapeva.
Ma non le importava, perché trovare una risposta ai suoi interrogativi non le sarebbe stato in alcun modo d’aiuto.
Quando il suo rapitore ridiscese in cantina, aveva un vassoio con un piatto di minestra, una bottiglia d’acqua e un bicchiere. Clarissa non toccò niente. Non aveva per niente fame. Lui non disse una parola, non le chiese come mai non avesse mangiato. Forse lo sapeva già, quella poteva essere una reazione normale per una vittima di rapimento. E lui doveva essere abituato a quel tipo di reazione, perché non era la prima ragazza che aveva rapito. E se non era la prima, allora non sarebbe stata neanche l’ultima. Avrebbe abusato di lei fino a quando si sarebbe stancato. Forse per qualche giorno, se era fortunata qualche settimana, ma poi la sua agonia sarebbe terminata. Si chiese se quella non fosse la soluzione più comoda, ma non era da lei. Lei voleva vivere. Non si sarebbe arresa così presto. Sperava che la sua fine non fosse vicina, che, anche se come sua prigioniera, avrebbe continuato a vivere.
Avrebbe evitato tutte quelle preoccupazioni se avesse saputo da subito le reali intenzioni del suo rapitore. Era vero, non era stata la prima ragazza a essere rapita, ma, se tutto fosse andato per il verso giusto, sarebbe stata l’ultima. Anche la ragazza prima di lei doveva essere l'ultima, ma qualcosa non era andata come doveva: c'era stato un incidente. Un incidente che, però, non sarebbe più capitato, adesso che aveva organizzato tutto nei minimi particolari. Con il are del tempo Clarissa ebbe modo di scoprire che lo scarno mobilio di quel seminterrato avrebbe svolto, per lei, la funzione di sala da pranzo, camera e bagno per molto, molto tempo.
2. L’orrore
Il primo giorno in quella casa lo ò da sola, seduta sul letto, a pensare a tutto quello che era capitato in quella lunga e interminabile domenica, che oramai volgeva a termine. Cercò di capire cosa volesse, ma, soprattutto, se il suo timore fosse fondato: avrebbe abusato di lei fino a quando non si sarebbe stancato, per poi ucciderla? Si stese sul letto. Era stata una giornata pesante. Era esausta, tutte quelle emozioni l'avevano sfinita. ò una notte completamente insonne. Fissò per tutto il tempo la porta. Temeva potesse spalancarsi da un momento all'altro. Sapeva bene che se quella notte quella porta fosse stata aperta, sarebbe stato per un motivo ben preciso: per portare a compimento ciò che aveva in serbo per lei. Si addormentava spesso, per brevi istanti. Si risvegliava subito dopo, agitata, sudata, col respiro che perdeva colpi, come un'auto con una candela fuori uso che andasse a tre tempi. Se la porta fosse stata aperta, non avrebbe potuto vederla, perché l'oscurità era totale. Avrebbe solo potuto sentirne il rumore. Eppure continuò a guardarla, come se avesse potuto difendersi, nel caso in cui fosse entrato. Ma per quella notte la porta rimase chiusa.
Alle prime ore del giorno Clarissa si quietò.
Cadde in un sonno senza sogni; un sonno che durò poco, infranto dal rumore delle mandate della chiave e dallo stridio dei cardini, quando la porta fu aperta. Il suo carceriere entrò con il vassoio sul quale le portava la colazione. Questa volta mangiò. Dopo un giorno e una notte di digiuno, aveva bisogno di recuperare le energie. Aveva ancora la tazza del latte in mano quando gli chiese: «cosa vuoi da me? Perché mi hai rapito?» Non ottenne risposta. Si comportò come se non avesse sentito le sue domande o come se non le dovesse alcuna spiegazione. O forse come se non gliene importasse niente. Andò via portandosi il vassoio senza dire neanche una parola.
Avrebbe avuto modo di scoprire molto presto quali erano le sue intenzioni. Quella sera stessa. Quando scese nel seminterrato con una pezza e una bottiglietta di cloroformio. Quando Clarissa riprese i sensi, si ritrovò distesa sul tavolo. Provò ad alzarsi ma non ci riuscì. Era stata legata mani e piedi alle gambe del tavolo, oltre ad essere stata nuovamente imbavagliata. Avvertì una strana sensazione alla schiena, come se sentisse freddo. Era ancora stordita e non ne comprese subito il motivo. Quando sollevò la testa, vide le punte dei suoi seni e i peli del suo pube: era completamente nuda. Urlò, ma ciò che uscì dalla sua gola fu solo un mugolio sommesso. Iniziò ad agitarsi, come fosse posseduta, ma non poté muoversi più di tanto, a malapena riusciva a inarcare la schiena. Si ricordò della presenza del suo aguzzino solo quando sentì le sue mani posarsi sui seni. S'irrigidì. Chiuse gli occhi.
Sentì prima il suo alito sul collo, solo dopo le labbra posarvisi sopra. Ebbe un moto di ribrezzo. Girò la testa dall'altro lato, per allontanarla da lui. Poteva fare ben poco, però; non aveva modo di sottrarsi a quella violenza. Percepì l'odore del suo alito, un odore acre, intenso; doveva aver bevuto. Quell'odore era rivoltante, avrebbe presto vomitato se non si fosse spostato. Poco dopo avvertì una specie di formicolio. Stava usando la lingua, aveva preso a leccarla. Lo sentì dal collo spostarsi verso il seno, finché entrambi i capezzoli furono inumiditi dalla sua saliva. Indugiò ancora un po' in quel punto, finché si spostò sul suo ventre. Poi da lì raggiunse il pube. Come se seguisse il movimento della lingua sul suo corpo, un brivido si spostò lungo la schiena. Insisté a lungo sul pube, ma a quell'orrida ingerenza non poté opporre alcuna resistenza. Era nauseata, ma non poté fare niente per evitarlo. Le gambe erano divaricate, non aveva possibilità di chiuderle, e inarcare la schiena non le era in alcun modo d'aiuto. Era inerme, non riusciva a muoversi, non poteva opporsi alla brutale violazione della sua intimità. Pianse. Singhiozzò come una bambina. Continuò a piangere, per tutto il tempo della violenza. Aveva ancora gli occhi chiusi quando lo sentì staccarsi da lei. Non lo vide spogliarsi, udì solo il rumore di una sedia che veniva trascinata. La sedia che usò per salire sul tavolo. Non aprì gli occhi, non ce n'era bisogno. Sapeva cosa stava per accadere. La tragedia che si stava per consumare fu come anticipata dalla situazione d'immobilità che si creò in quel momento. Come quando nell'aria si respira quell'odore intenso, quell'odore foriero di un imminente temporale. Quando fu sopra di lei, fu come se qualcosa, dentro, si spezzò per sempre, un
danno irreparabile al quale sarebbe stato impossibile porre rimedio. Quando fu dentro di lei, fu come se qualcosa finì per sempre, spazzato via come un castello di sabbia da un improvviso, violento e devastante acquazzone. Alle volte un residuo d’innocenza, d’ingenuità e spensieratezza resiste nell'età adulta. Per lei era arrivato il momento di dire addio a ogni retaggio adolescenziale. Provò orrore nel sentire il suo piacere nel suo ventre, e nessun sollievo quando finì e scivolò via da lei.
La slegò e le prese il braccio per aiutarla a scendere dal tavolo. Clarissa si divincolò dalla sua presa con un gesto brusco. Non si sarebbe fatta aiutare, sarebbe scesa da sola. Prese gli abiti da terra e si rivestì in fretta. Non voleva farsi vedere ancora nuda. Poco importava che l'avesse vista nuda fino a quel momento. Poco importava che l'avrebbe vista nuda nei giorni a venire. Poco importava che lo sperma che le colava dalle gambe le avrebbe imbrattato i vestiti. Nei rari momenti in cui poteva scegliere, non avrebbe indugiato un solo istante. Avrebbe coperto le sue nudità. Quando era stata sedata, quando l'aveva legata, aveva dovuto sottostare al suo volere. Non aveva potuto opporsi, era stata costretta a stare nuda di fronte a lui. Ma adesso che era libera, e poteva scegliere, non gli avrebbe concesso di guardarla un solo istante di più. Dopo che si fu rivestita, lui la legò alla catena e andò via. Avrebbe voluto dirgli qualcosa. Avrebbe voluto sfogare la sua rabbia, urlare la sua indignazione. Avrebbe voluto rispondere con degli insulti all'indifferenza dei suoi gesti. Quei gesti così naturali, come se quello che avesse appena fatto fosse una cosa normale. Non riuscì a dire niente: i singhiozzi, che ancora resistevano, erano violenti e la squassavano completamente. Si sedette sul letto, con le gambe piegate sul petto e la testa appoggiata alle ginocchia. Restò a lungo in quella posizione, mentre il pianto si calmava. Non le riuscì, invece, di smaltire la rabbia, l’indignazione e la vergogna.
Anche quella sera saltò la cena.
L'aveva sempre saputo, da subito aveva capito cosa sarebbe successo; ma aveva sempre evitato di pensarci. Quando quel pensiero si affacciava, cercava di scacciarlo, di sostituirlo con un altro. Era l'atteggiamento che assumeva di fronte alle situazioni che le procuravano inquietudine. Quando c’era qualcosa che non aveva voglia di fare, ma che sapeva di dover fare, allora cercava di allontanare quel pensiero, di procrastinare il momento in cui avrebbe dovuto affrontare la realtà. Tanto quel momento così detestato sarebbe arrivato comunque, che senso aveva rovinarsi anche il resto del tempo? C'era un altro pensiero, adesso, che avrebbe rimandato volentieri: il motivo per il quale quell'uomo non aveva adottato precauzioni. Se avesse avuto intenzione di tenerla con sé per un tempo abbastanza lungo, avrebbe dovuto prendere delle precauzioni. Sarebbe stata un bel guaio, una gravidanza. Era chiaro che non gliene importava niente, che non aveva motivo di darsene pensiero: presto si sarebbe liberato di lei. L'avrebbe uccisa. Magari non subito, prima si sarebbe divertito un po'. Ma presto si sarebbe stancato, e per lei sarebbe stata la fine. Se voleva tentare qualcosa, per liberarsi, aveva solo pochi giorni per farlo.
Il giorno dopo, quando sentì il rumore della porta, sapeva che non fu per la cena. Sulle prime, al risveglio, non capì cosa stesse accadendo. Era stata legata allo stesso modo della sera prima, polsi e caviglie ancorati alle gambe del tavolo. Solo che questa volta era distesa a faccia in giù. Si riebbe subito dallo stordimento. Perché si trovava in quella posizione?
Forse perché sarebbe stato più comodo abusare di lei? Stesa sul tavolo, di schiena, con le gambe che non potevano essere sollevate, si veniva a trovare in una posizione che non agevolava la penetrazione. A faccia in giù, lui sarebbe riuscito a possederla più facilmente. Poi, però, sentì la pressione del suo membro in un punto che non si aspettava. E allora capì. Un'esplosione di dolore si diffuse nel suo ventre, e una serie di fitte prese a squarciarla a ogni suo colpo. Pianse anche quella sera, ancora più forte della precedente. Pianse, questa volta, non solo per l'umiliazione e per la rabbia. Questa volta c'era anche il dolore, lancinante. Non le era mai ato per la mente che potesse farle una cosa del genere. Era stata una stupida a non pensarci. Per quale motivo non avrebbe dovuto farlo? Aveva il pieno controllo, poteva fare tutto ciò che voleva. Come abusare di lei con un rapporto contro natura. Fu in quella la posizione che si sarebbe ritrovata, al risveglio, anche le sere successive.
Non usò sempre il cloroformio. Dopo una settimana portò con sé la pezza e la bottiglietta un'ultima volta, ma rimasero lì, inutilizzati. Le intimò di stendersi sul tavolo e lei ubbidì, senza opporre resistenza. Non aveva altra scelta. Non sarebbe servito a niente ribellarsi. Lui l'aveva legata e addormentata solo per farle capire che avrebbe ottenuto il suo scopo in ogni caso. Avrebbe potuto sopraffarla anche senza legarla. Avrebbe vinto le sue resistenze senza che ci fosse il bisogno di anestetizzarla. L'avrebbe violentata in ogni caso, senza grandi sforzi. Ma voleva farlo senza riluttanza da parte sua, voleva che fosse accondiscendente ad ogni sua più turpe richiesta. In quel modo le aveva fatto capire chi comandava, e che avrebbe dovuto fare sempre quello che le chiedeva.
Non la legò più, e allora non fu più necessario usare il tavolo. Gli abusi furono consumati sulla branda.
Subiva quelle violenze ormai da quasi due settimane. E se questo rappresentò una tortura indicibile, c'era un fardello ancora più opprimente che si portava dietro: il timore di essere giudicata. Se mai fosse tornata libera, allora avrebbe dovuto giustificare la sua acquiescenza, l'assenza, da parte sua, di una reazione. Come avrebbe potuto spiegare che non aveva scelta? Che non poteva opporsi? Avrebbero avuto tutti un'opinione negativa di lei. Trascorreva così le sue giornate. Col supplizio delle sevizie che subiva, da un lato, e con il senso di colpa, dall'altro, per la sua rassegnata accettazione degli eventi. Non avrebbe mai giudicato negativamente una ragazza che si fosse trovata in una situazione simile alla sua. Eppure questo non bastava a convincerla che gli altri avrebbero fatto lo stesso con lei. Non riuscì ad assolversi. Si portò appresso il senso di colpa per molto tempo.
Terza parte
1. La sua prigione
Per le abluzioni quotidiane, nei primi mesi, Clarissa usava il lavandino, l'unico altro sanitario, oltre la tazza, presente in quella parte della casa. Una volta la settimana lui portava nel seminterrato una grande tinozza nella quale faceva il bagno, proprio come si usava fare in ato. Il giorno del bagno vedeva spesso il suo aguzzino. Doveva essere il suo giorno libero, perché per tutto il resto della settimana, dopo che le portava la colazione, lo rivedeva solo di sera, quando scendeva per abusare di lei. Aveva pensato che fosse il lavoro la causa della sua assenza, era troppo regolare per essere altrimenti. Aveva contato i giorni. Per sei giorni di fila lo vedeva solo di mattina, quando le portava la colazione, e poi la sera. Il settimo giorno lo vedeva più spesso, durante tutto l'arco della giornata. Per quanto si fosse sforzata, non era mai riuscita a capire quale lavoro avesse potuto svolgere in un posto che, come ebbe modo di scoprire durante la fuga, era completamente isolato. Eppure un lavoro lo impegnava per tutta la settimana, su questo non potevano esserci dubbi.
Dopo quei primi mesi qualcosa cambiò: ebbe la possibilità di uscire dalle fondamenta di quella casa. Da quel momento non dovette più usare la tinozza per lavarsi, poté finalmente usare la vasca da bagno. Fu allora che scoprì di essersi sbagliata. Il giorno del bagno non era la domenica, ma il lunedì. Era il lunedì il giorno libero del suo aguzzino. Il suo lavoro, quindi, lo impegnava soprattutto nei fine settimana. Ma non erano solo i giorni del calendario a stabilire quando doveva lavorare.
Clarissa ebbe modo di costatare, nel tempo, che a influenzare lo svolgimento della sua attività lavorativa contribuivano le condizioni climatiche: quando pioveva, non lavorava. Doveva essere impiegato in una fattoria, o qualcosa del genere; probabilmente si occupava di animali da far pascolare o di campi da coltivare. Per questo motivo la pioggia gli impediva di lavorare. Non capiva, però, la ragione per la quale lavorasse soprattutto nei weekend. Un lavoro di quel tipo poteva essere fatto durante la settimana, lasciando libera la domenica. Anzi, per quanto ne sapeva, proprio nella tradizione contadina si era sempre rispettata la sacralità della domenica.
Il lunedì, quindi, e nei giorni in cui il tempo era brutto, iniziò a are più tempo di sopra. Solo in quei giorni, però, negli altri trascorreva l'intera giornata da sola nel seminterrato. Questo per tutto il primo anno di permanenza in quella casa, fino a quando non ci fu un cambiamento inaspettato: qualche giorno dopo la sua fuga, quando alle finestre furono applicate le inferriate, le fu concesso di restare di sopra tutto il giorno. Per tutta la settimana, non più solo il lunedì. Da quel momento nel seminterrato ci andò solo per dormire. Non riusciva a spiegarsi questo cambiamento. Aveva provato a scappare e, al posto di essere rinchiusa per sempre nei sotterranei, per evitare nuovi tentativi di fuga, lui le aveva concesso tutta quella libertà. Dipendeva dal fatto che aveva trasformato la casa in una vera e propria fortezza. Alle finestre della cucina, del bagno e delle due camere aveva messo delle inferriate. Alla porta dello sgabuzzino e del salotto aveva applicato delle serrature antiscasso, quelle che hanno un tondino di ferro che, con le mandate inserite, s'incastra nel pavimento e in un anello sulla parte superiore della porta. Non aveva alcuna possibilità di scappare. Inoltre da lì non ava mai nessuno. Il sentiero che correva lungo il lato del casolare era poco battuto, anzi, non lo era quasi per niente. Se non si prestava attenzione, ando dalla strada principale, non se ne notava la presenza. Nessuno si sarebbe sognato di percorrerlo se non doveva recarsi proprio in quel
posto. E nessuno aveva motivo di andarci. E poi quel sentiero era interminabile, e non si trovava niente lungo la strada. Pertanto se anche qualcuno vi si fosse addentrato, o se avesse sbagliato strada, non avrebbe continuato a lungo: per il timore di perdersi, sarebbe sicuramente tornato indietro, molto prima di arrivare al casolare. Non si trattava di congetture, d'ipotesi o di supposizioni. Era la realtà dei fatti. Era ciò che il suo aguzzino sapeva per esperienza, ciò che aveva imparato in anni di vita solitaria in quel posto. C'era infine un altro fattore che gli aveva fatto prendere quella decisione: il risultato che aveva ottenuto quando le aveva impartito la punizione per la fuga. L'idea di ammazzarle il cane, di portarglielo morto, come monito per il futuro, per mostrarle ciò che avrebbe fatto ai suoi genitori se avesse provato ancora a scappare, aveva portato al risultato sperato. Per paura di ulteriori ritorsioni, Clarissa non avrebbe più tentato di fuggire.
Come per la colazione, ebbe il compito di cucinare anche per la cena. Nella parte restante del tempo, si dedicava alle faccende domestiche. Si occupò da subito alle pulizie, dal primo giorno che ò di sopra; da quel momento la casa fu sempre in ordine e pulita. Non che gliene importasse più di tanto. Certo, ci viveva anche lei in quella casa, ma non lo faceva per quello, non ci teneva neanche un po'. Lo faceva per are il tempo, perché non aveva altro da fare. Non poteva guardare la televisione, né ascoltare la radio o leggere i quotidiani. Insisté più volte affinché le procurasse dei libri. Alla fine cedette e iniziò a portargliene qualcuno, che divorava con avidità; ogni volta si ritrovava quasi subito senza niente da fare. Fu in quelle occasioni che si rese conto di quanto le mancasse la lettura, e di quanto questa le fosse d'aiuto. Se già in condizioni normali leggere le permetteva di staccarsi per qualche ora dalla realtà e rifugiarsi in luoghi ed epoche fino allora sconosciuti, solo per puro piacere, senza che ce ne fosse una reale
esigenza, adesso quell’evasione era una vera e propria necessità. Altre volte, non potendo accontentarla, le portò dei giornali, ma solo dopo averli letti ed essersi assicurato che non ci fossero notizie che la riguardassero. Leggeva anche quelli con avidità, per vedere cosa accadeva al di fuori di quel bosco. Preferiva, però, i libri, e quando glieli portava, quel giorno, per quanto cupo, si trasformava in giorno di festa.
Ma qualcosa, ancora, era destinato a cambiare. Il piano di quell'uomo prevedeva che Clarissa vivesse per sempre in casa con lui. Il seminterrato era solo una necessità temporanea, che serviva a farla abituare alla cattività. Quando la rassegnazione della sua vittima avrebbe raggiunto un livello tale da non compromettere i suoi piani, allora Clarissa avrebbe per sempre occupato quella stanza, in principio vuota, che aveva adattato allo scopo, già da prima di rapirla, già dal primo rapimento finito poi in tragedia. La prima volta che Clarissa dormì di sopra era un lunedì, per la precisione il 19 settembre 1994. Ma questo non era ancora avvenuto quando ci fu un episodio che cambiò le sorti della sua vicenda, un episodio che, molto tempo dopo, contribuì a influenzare le sue scelte.
2. Una visita inattesa
Era una mattina come tutte le altre. Nei giorni in cui lavorava, il suo aguzzino la svegliava molto presto per permetterle di preparare la colazione che avrebbero poi consumato insieme, com'era ormai d'abitudine. Quando entrava in cucina, Clarissa trovava le imposte già aperte ma la luce non ancora spenta, perché fuori era ancora buio. Iniziava ad albeggiare solo quando erano seduti al tavolo, in silenzio, a bere il caffè. Clarissa non aveva problemi a svegliarsi così presto perché la sera la riportava in cantina subito dopo cena. Lui aspettava che raggiungesse il letto e poi spegneva la luce, perché non sarebbe più ritornato là sotto. Anche quando aveva smesso di spegnere la luce - poiché non la legava più alla catena, lei poteva spegnersela quando desiderava - la maggior parte delle volte, anche se aveva riposato nel pomeriggio, la smorzava quasi subito e prendeva sonno in poco tempo. Dopo il caffè il suo carceriere andava a prepararsi mentre lei si occupava di rimettere a posto e di pulire. Anche quella mattina le cose andarono allo stesso modo. Fino a quel momento. Fino a quando lui, poco dopo essere uscito, piombò di corsa in casa, percorse il corridoio e aprì lo sgabuzzino. Clarissa posò lo strofinaccio con il quale aveva asciugato il bollitore usato per il latte e si affacciò sul corridoio, sporgendosi dallo stipite della porta. La porta dello sgabuzzino era socchiusa, ma lo sentì frugare dentro. Ne uscì poco dopo con un oggetto che, nella concitazione del momento, non riuscì a
distinguere. Era troppo agitato perché si fosse semplicemente dimenticato di prendere quell'oggetto. Doveva essere successo qualcosa. Rientrò in cucina non appena lo vide chiudere a chiave la porta del ripostiglio. Poco dopo entrò anche lui e prese lo strofinaccio che Clarissa aveva lasciato sul bordo del lavello. Poi la spinse fuori dalla cucina. Erano nel corridoio quando sentirono una voce provenire dall’esterno: «mi scusi? Signore? Avrei bisogno di un'indicazione, mi sono perso. Potrebbe uscire per cortesia? Lei è del posto, sono sicuro che può aiutarmi.» Clarissa non fece in tempo a udire le ultime parole che quell'uomo pronunciò: lui, strattonandola con impazienza, l'aveva già condotta nel seminterrato. Era ancora di spalle quando le mise in faccia lo strofinaccio imbevuto con il cloroformio recuperato dallo sgabuzzino. La sua mossa fu così repentina che Clarissa non ebbe nemmeno il tempo di voltarsi.
Quando aveva aperto la porta della rimessa, il suo carceriere aveva notato un'auto ferma lì vicino. Il guidatore, nel vederlo, fu visibilmente sollevato. Doveva aver pensato che anche quel casolare fosse disabitato, come tutto là attorno. Sembrava fosse in giro da molto tempo, e adesso, finalmente, incontrava qualcuno. Quell'uomo stava per scendere dall'auto ma il suo aguzzino, che aveva guardato di sottecchi quella scena, finse di non vedere l’auto. Si frugò nelle tasche dei pantaloni come in cerca di qualcosa, dette dei colpi alle tasche della giacca per verificare se ciò che cercava fosse lì, e, non trovandovi niente, con un gesto di stizza per la sua dimenticanza, rientrò in casa. Non poteva permettersi di discorrere con quell’uomo con lei libera in casa. Doveva nasconderla al più presto. E, ovviamente, non poteva lasciarla sveglia: avrebbe potuto urlare. Non era ato molto tempo dalla sua fuga, quella sarebbe stata un'occasione troppo allentante da lasciarsi sfuggire. E Clarissa, in effetti, non se la sarebbe lasciata sfuggire, se solo non fosse stata colta di sorpresa. All'inizio non aveva capito cosa stesse accadendo e, quando
sentì la voce di quell'uomo che invitava il suo persecutore a uscire per fornirgli delle indicazioni, non ebbe i riflessi pronti: al posto di urlare a sua volta, di buttarsi sulla porta e di colpirla più forte che potesse, si lasciò spingere in cantina senza avere la seppur minima reazione. In seguito capì che era stato meglio che i fatti si fossero svolti in quella maniera. Perché se quell'uomo non fosse stato armato, o se non avesse avuto una possanza tale da sopraffare il suo carceriere, difficilmente avrebbe potuto aiutarla. Se avesse urlato senza avere la certezza che quell’uomo poteva giocarsela in uno dei due modi, avrebbe messo in pericolo non solo la vita del visitatore ma, forse, anche la sua.
Sedata Clarissa, lui poté uscire e fornire a quell'ospite inatteso le indicazioni delle quali aveva bisogno, sperando di liberarsi di quell'impiccio il più presto possibile. «Buongiorno signore» disse lo straniero «cerco la vecchia stazione di pesca di Landino. Avrei dovuto essere lì già da un pezzo, ma non sono riuscito a trovarla. A dire il vero credevo che non avrei trovato niente, è un posto così isolato, questo. Sono in giro da ore e non ho visto altro che alberi. Per fortuna ho trovato questo casolare.» Sembrava cortese e umile ma, Nick ne era convinto, era solo apparenza. Quell'uomo non si sforzava nemmeno di celare la sua diffidenza nei suoi confronti. Lo capiva dal modo in cui lo squadrava, guardingo e inquisitore. «Sa, all'inizio avevo temuto che anche questa casa fosse disabitata. Poi ho sentito dei rumori, ho visto i battenti aprirsi e l’ho vista affacciarsi dalla rimessa. Anche se per poco tempo, visto che é rientrato subito dopo essersi accorto di me.» «Mi dispiace che abbia avuto questa impressione» gli rispose il padrone di casa «ma mi creda, non l'avevo vista, ero intento a cercare le chiavi della macchina che come al solito avevo dimenticato di prendere.» Quell'uomo non credeva per niente alla sua versione, non credeva che non l'avesse visto poco prima; capiva, da come lo guardava, che non era riuscito a dargliela a bere.
Fece di tutto per ostentare la massima tranquillità e, con fare amichevole, terminò di fornirgli le indicazioni necessarie affinché fosse in grado di raggiungere la sua destinazione: «il posto che cerca, in linea d'aria, si trova a nord, in quella direzione. Immagino, però, che lei non abbia una bussola con sé. Con l'auto le basterà proseguire per il sentiero dal quale è arrivato per dodici chilometri, finché non troverà una deviazione sulla sinistra con un cartello con le indicazioni per raggiungere il santuario della Madonna dello Sterpeto. Dopo nove chilometri troverà, sulla destra, un insieme di palafitte, la vecchia stazione di pesca.» «Non so proprio come ringraziarla» rispose l'ospite in quel suo tono cortese «non sarei mai riuscito a trovare quel posto da solo. Le sue indicazioni sono state chiarissime, sarà un gioco da ragazzi, adesso, trovare quel posto.» «Si figuri» gli rispose assumendo lo stesso tono «adesso, però, non vorrei sembrarle scortese ma devo proprio lasciarla, sono in ritardo per il lavoro». Dopo essersi accomiatato da quell'intruso, si avvicinò alla sua auto e vi montò sopra. Fece finta di cercare qualcosa, per perdere tempo, mentre aspettava che quell'uomo si allontanasse. Quando finalmente vide l'auto dello straniero imboccare il sentiero nella direzione che lui gli aveva indicato, scese dalla macchina, chiuse la rimessa e andò in cantina per svegliare Clarissa, senza sapere che era già sveglia. Non era riuscito a sedarla. Per la concitazione non si era premurato di verificare che lo strofinaccio fosse imbevuto con una quantità sufficiente di cloroformio. Clarissa se ne accorse subito. Non l’era mai capitato di avere quella pezza premuta sul viso e di rendersene conto: tutte le volte che l'aveva sedata, aveva perso immediatamente conoscenza. Capì subito che qualcosa non era andata come il suo aguzzino avrebbe voluto. Forse era stato tradito dal fatto che lo strofinaccio che aveva usato era già umido, perché con quello vi aveva asciugato i piatti. Oppure, per chissà quale motivo, da quella bottiglia il cloroformio non era uscito. Quale che fosse il motivo, il risultato fu che rimase cosciente per tutto il tempo, anche se non lo dette a vedere. Finse di perdere conoscenza e si accasciò, sapendo che lui l'avrebbe sostenuta, com’era successo tutte le volte.
Il suo aguzzino la adagiò sul letto e corse fuori. Non chiuse a chiave, non ce n'era bisogno. Bastava solo che fosse addormentata e che non fe rumori. Quando uscì dalla stanza, Clarissa si alzò dal letto e si avvicinò alla porta del seminterrato. La schiuse appena e rimase in ascolto finché non sentì la porta d'ingresso chiudersi: solo allora uscì dalla cantina. Si avvicinò alla porta d’ingresso ma non riuscì a sentire niente, quei due discorrevano vicino al sentiero. Era rischioso, ma se voleva ascoltare i loro discorsi, doveva aprire la porta. Ci volle un'eternità, dovette fare molto piano, non poteva rischiare che se ne accorgessero. Doveva agire con molta cautela. Abbassò la maniglia lentamente e aprì la porta, scostandola solo di pochi centimetri. Riuscì a sentire poco di quel discorso. Sentì parlare di un fiume, che si trovava a nord, sul quale facevano rafting. Ripensò alla sua fuga. Avrebbe potuto farcela, se solo avesse continuato a camminare invece di tornare indietro. Alla fine avrebbe incrociato quel fiume e, se lì praticavano il rafting, qualcuno sarebbe ato da lì. Solo che allora non poteva saperlo. Provò a sbirciare da quello spiraglio, per capire se quell'uomo fosse abbastanza grosso da sopraffare il suo carceriere, ma da quell’angolazione non riuscì a vederli. Quando udì Nick congedarsi, chiuse con delicatezza la porta, ritornò nel seminterrato e si distese sul letto, dove lo attese, immobile, fingendo di non aver ancora ripreso conoscenza. Il suo aguzzino si era tranquillizzato. Era riuscito a liberarsi di quel ficcanaso e a tenere al sicuro il suo segreto. Quell'uomo aveva dato a vedere che dubitava delle sue parole, é vero, ma non avrebbe mai potuto sospettare cosa nascondesse tra le mura della sua casa. Era impensabile che potesse farlo. Poteva are per un asociale, al più, ma certo non per un sequestratore, di questo era sicuro. Così com'era sicuro che quella visita appena ricevuta fosse un avvenimento più unico che raro. Erano anni che di lì non ava nessuno, e un’eccezione era più che
accettabile. Era così sicuro da riportare Clarissa di sopra senza preoccuparsi che una cosa del genere potesse verificarsi nuovamente.
Era in ritardo. Quel contrattempo gli aveva fatto perdere parecchio tempo. Ora avrebbe dovuto correre, cosa che di solito non faceva a causa delle condizioni proibitive di quelle strade.
In auto ripensò alle parole di quell'uomo. Preso com'era dalla necessità di tenere nascosta la presenza di Clarissa, non aveva prestato attenzione al motivo che portava quell'uomo ad andare alla vecchia stazione di pesca, un posto che conosceva bene, nel quale si trovavano le vecchie palafitte, ormai in disuso, utilizzate un tempo per la pesca. C’era un particolare al quale non aveva dato peso, però. Un particolare che avrebbe potuto rivelarsi pericoloso. Quell’uomo gli aveva detto che ad attenderlo lì c'era un suo amico, con il quale avrebbe fatto rafting lungo il fiume. Quel suo amico era un esperto della disciplina. Era lui ad avere l'attrezzatura necessaria e che conosceva le tecniche di quello sport. A quel punto rallentò. Non aveva più fretta di recarsi al lavoro. Quell’uomo rappresentava una minaccia. Non l’avrebbe mai detto, eppure quell'uomo in quel momento avrebbe potuto metterlo nei guai. Aveva l’aspetto di un impiegato, un classico colletto bianco, con la camicia dai polsini abbottonati con cura, la penna nel taschino e la cravatta con il nodo allentato per via del doppio mento. A vederlo non avrebbe mai immaginato che quell’uomo potesse costituire un pericolo. Ma la vera minaccia non arrivava dal visitatore, almeno non direttamente. Non arrivava da quell’innocuo visitatore, ma dal suo amico. Era lui che avrebbe
potuto mettere a repentaglio il suo segreto. Una persona in grado di praticare da solo quello sport doveva essere sicuramente in gamba, pensò; una persona in grado di attraversare quel fiume, in certi tratti anche pericoloso, senza l'aiuto di una guida, avrebbe potuto costituire un serio pericolo. In quel momento ebbe la certezza che quell'uomo avrebbe raccontato all'amico del suo incontro con quel signore dal fare così misterioso, che si era rifugiato in casa fingendo di non averlo visto, per poi uscirne poco dopo simulando una tranquillità che in quel momento non aveva. Quel padrone di casa che, dopo aver finto un po’ di cortesia, l’aveva liquidato appena possibile, fingendo di recarsi al lavoro. L'amico allora si sarebbe insospettito e forse avrebbero rinunciato alla loro spedizione per vederci più chiaro. Se le cose avessero preso effettivamente quella piega, avrebbe dovuto impedirlo. Quel giorno non si sarebbe più recato al lavoro. Avrebbe trovato una scusa, avrebbe detto che l'auto si era fermata. Cambiò strada e si diresse verso la vecchia stazione di pesca abbandonata. Si sarebbe fermato poco prima di arrivare alle palafitte, per non farsi scoprire. Se quei due non avessero modificato il loro programma originario e si fossero preparati per il rafting, lui sarebbe tornato al lavoro, adducendo come scusa per il ritardo l’auto che non voleva saperne di partire. In caso contrario li avrebbe fermarti. Lasciò l'auto qualche centinaio di metri prima di giungere alla sua nuova destinazione e si diresse a piedi. Arrivato nei pressi del luogo in cui avevano concordato l'appuntamento, rimase di vedetta, nascosto dietro un albero. Vide subito quello che doveva essere l'amico dell'uomo che si era presentato in casa sua. Era intento ad armeggiare con la sua attrezzatura. Vide il gommone che avrebbero utilizzato, i remi, i giubbotti salvagente: non si era sbagliato, aveva di fronte a sé un vero esperto. La persona che stava spiando in quel momento conosceva bene quello sport e, probabilmente, anche quei posti. Sembrava non ci fossero cambiamenti nel loro programma; quell’uomo stava
controllando che tutto fosse in ordine prima di partire. Non capiva però la sua esitazione: continuava a controllare l'attrezzatura, a sistemarla, anche se era già pronto da un pezzo, anche se, da tempo ormai, avrebbe potuto calare il raft in acqua. Invece non faceva altro che guardarsi intorno. Poi si accorse che quell’uomo non stava esitando; aspettava qualcuno. Era solo. Il suo amico non si era ancora presentato. Che quell'incapace non fosse stato in grado di seguire le sue indicazioni? Eppure era stato molto chiaro, e la strada da seguire non era complicata. Possibile che avesse deciso di ficcare il naso da solo, senza coinvolgere l'amico? Non poteva restare lì ad aspettarlo, nel caso fosse veramente tornato indietro per spiare in casa sua, non avrebbe dovuto indugiare oltre. Doveva sbrigarsi. Ritornò verso casa percorrendo al contrario la strada che aveva indicato all'avventore, nel caso si fosse perso di nuovo e si stesse recando in ritardo all'appuntamento. Più si avvicinava al casolare, più la sua preoccupazione aumentava. Quell'impiccione si voleva occupare di affari che non lo riguardavano. Se così fosse stato, avrebbe pagato a caro prezzo la sua intrusione. Era quasi arrivato al casolare quando vide l'auto di quell'individuo. Era ferma, parcheggiata tra due alberi. Si fermò e smontò dalla sua macchina. L’auto di quell’uomo era chiusa e al suo interno non c'era nessuno. Quel figlio di puttana si era scavato la fossa con le sue mani. Poteva farsi i fatti suoi, raggiungere l'amico e are una bella mattinata scendendo per quel fiume, godendosi l'incantevole spettacolo che offriva la natura in quelle zone. E invece no, aveva deciso di cacciarsi nei guai. Peggio per lui!
Lasciò anche lui l’auto lì e proseguì a piedi. Non aveva altra scelta, pensò, doveva eliminarlo. Aveva provato a risolvere la faccenda in modo pacifico, non era certo nelle sue intenzioni ammazzare quell'uomo. Non voleva attirare l'attenzione della polizia da quelle parti. L'amico avrebbe presto denunciato la sua assenza, e sarebbero iniziate le ricerche: quel posto si sarebbe riempito di gente e sicuramente sarebbe stato interrogato chi vive e lavora lì vicino. L'avrebbe evitato volentieri, ma non poteva fare altrimenti. Quell'uomo era ottuso, si era messo in testa di voler fare l'eroe. Ed era anche poco scaltro; aveva deciso di fare l'eroe solitario, quando invece poteva farsi aiutare da chi sarebbe riuscito meglio nell'impresa. Ma cosa si era messo in testa? Che cosa pensava di trovare? Possibile che avesse intuito qualcosa? Non capiva come avrebbe potuto. Va bene, aveva fatto finta di non vederlo, ma é una reazione che può benissimo avere chi s’infastidisce degli scocciatori, non necessariamente un criminale.
Clarissa, nel frattempo, si trovava in cucina quando sentì dei rumori provenire dall’esterno. Aveva appena terminato di mettere in ordine. Voleva preparare subito la cena, così da are il resto della mattinata a leggere i giornali della settimana precedente che lui le aveva procurato qualche giorno prima. Quando sentì il rumore dei i sulle foglie secche, non vi dette subito peso. Era già capitato altre volte che qualche animale si fosse spinto fin nei pressi della casa. Solo che quei rumori non cessarono. Sembrava che quell'animale andasse avanti e indietro, come una fiera in gabbia. Si affacciò dalla finestra ma le sbarre dell'inferriata non le permisero di sporgersi al di fuori: con l'angolo di visuale così limitato non riuscì a scorgere nulla.
«C'é qualcuno qui?» Quella voce la fece sobbalzare. Indietreggiò di qualche o. «So che c'é qualcuno! Prima ti ho visto aprire la porta. Chi sei?» Era l'uomo che poco prima si era fermato a chiedere le indicazioni. Aveva riconosciuto la sua voce, una voce dal timbro un po' alto, come se vi aggiungesse un leggero falsetto. Era ritornato indietro, forse aveva capito che qualcosa non andava. Aveva atteso che il suo sequestratore andasse via, per tornare indietro a controllare. «Mi chiamo Clarissa. Sono stata rapita. Mi tiene prigioniera in casa» rispose con veemenza. «Vengo lì da te» ribatté lui. Si diresse verso la finestra dalla quale aveva sentito provenire il suono della voce di Clarissa. Clarissa sentì il rumore dei suoi i avvicinarsi finché non s’interruppero bruscamente, dopo che un colpo sordo anticipò un tonfo, al quale seguì un frusciare di foglie secche. Sembrava che quell’uomo fosse inciampato, rovinando sulla sterpaglia. «Signore?» Non ricevette risposta, eccezion fatta per il rumore di qualcosa che veniva trascinato. Che quell’uomo stesse spostando l'ostacolo che l'aveva fatto inciampare? «Signore? É ancora lì?» chiese senza ricevere alcuna risposta. Si sporse ancora di più dalla finestra, premette il viso tra le sbarre per riuscire a scorgere qualcosa e lanciò un urlo di terrore quando si parò davanti il suo aguzzino. Era madido di sudore, ansimava. Aveva in mano una pala. La pala con la quale aveva colpito quell'uomo.
«Stai zitta. Vattene in cantina» le intimò lui. Clarissa obbedì senza la minima esitazione. Se non l'avesse fatto, l’avrebbe condotta con la forza. Era delusa. Questa volta aveva iniziato a crederci, per davvero.
C'era un solo modo per evitare di attirare l'attenzione sul bosco e impedire che si riempisse di militari e volontari impegnati nelle ricerche: doveva simulare un incidente e, allo stesso tempo, fare in modo che l'auto fosse ritrovata presto. Quell'uomo si era perso. Era talmente concentrato sulla strada, in cerca del luogo dell’appuntamento da non accorgersi dello strapiombo verso il quale si stava dirigendo e nel quale aveva finito per cadere dentro. L'aveva colpito con la pala, in testa. Quel colpo, però, non aveva ucciso il malcapitato, l'aveva solo tramortito. Per evitare sospetti preferì non infierire ulteriormente: avrebbero considerato quell'unico trauma una conseguenza dell'incidente. Doveva muoversi, doveva mettere in atto il suo piano prima che quel guastafeste si risvegliasse. Non poteva trascinarlo, però, era pesante e l'auto troppo lontana. Avrebbe avvicinato la macchina. Gli frugò nelle tasche in cerca delle chiavi. Trovò prima il suo portafogli, che per curiosità entrasse per guardare la carta d'identità. Osservò per qualche secondo la foto, ormai sbiadita, poi lesse il nome stampato sopra: Matteo Castelletti. Solo in quel momento si rese conto che stava lasciando le sue impronte. Pensò di far sparire i documenti, ma convenne che una cosa del genere sarebbe stata imprudente; se l'avesse fatto, se addosso a quell'uomo non avessero trovato il portafoglio, la cosa avrebbe destato dei sospetti. Allora con un fazzoletto ripulì gli oggetti che aveva toccato e li rimise al loro posto. Entrò in casa per prendere dei guanti, nel caso a qualcuno fosse venuto in mente di cercare delle impronte nell'auto. L'acqua probabilmente le avrebbe cancellate, ma era meglio non correre rischi. Ritornò poco dopo con l'auto del signor Castelletti che, fortunatamente, non si
era ancora ripreso dalla botta ricevuta. Il rischio che si risvegliasse c'era, ma non se ne dette pensiero; anche se si fosse ripreso, era talmente grasso che non sarebbe andato lontano, l'avrebbe raggiunto in breve tempo. Stese il signor Castelletti sui sedili posteriori e si mise alla ricerca del punto nel quale simulare l'incidente: un posto lontano da casa sua e non necessariamente vicino al luogo dell’appuntamento, poiché si era perso. Quando trovò il luogo adatto per mettere in atto il suo piano, fermò l'auto in folle con il motore accesso e il freno a mano inserito. Mise la sua vittima al posto di guida, premette la frizione con la mano e inserì la prima. Era un'auto diesel, non c'era bisogno che accelerasse, l'auto avrebbe camminato lo stesso. Lasciò andare lentamente la frizione e chiuse lo sportello mentre l'auto si allontanava, precipitando nel fiume sottostante. Restò a guadare l'auto sprofondare fino a quando fu sommersa quasi completamente. Attese ancora qualche minuto, si allontanò soltanto quando fu sicuro che il signor Castelletti non sarebbe più riemerso.
L'auto non era stata sommersa completamente dall'acqua, vi fuoriusciva parte del baule posteriore. Era quello che voleva, in quel modo non avrebbero impiegato molto per trovarla. L'auto, in effetti, fu ritrovata quasi subito; non a seguito delle ricerche, ma quasi per caso. A notarla fu un gruppo di diportisti che in quel punto portavano a spalla il raft per superare una zona rocciosa poco praticabile. I rilievi delle forze dell’ordine durarono poche ore. Nella zona dell’incidente, perché tale fu considerato, non furono trovati solchi di altri pneumatici né impronte, perché aveva smosso il terreno e sparpagliato le foglie secche per coprire ogni sua traccia. A nessuno venne in mente che i fatti si fossero svolti diversamente da quello che la scena che si presentava loro davanti lasciava intendere. Era stato molto abile in questo. Quell'uomo aveva avuto un incidente e la faccenda si era chiusa così, senza conseguenze per nessuno. L’unico elemento che avrebbe potuto far sorgere qualche sospetto, cioè la ferita che aveva sul capo, inferta dal colpo con la vanga, fu attribuita alla caduta nel fiume. Nessun
altro dettaglio fu notato. Il caso fu subito chiuso. Anzi, non ci fu nessun caso.
Quarta parte
1. Il ato
arono due anni nei quali la vita si svolse senza grandi cambiamenti. Il fatto che le avesse permesso di dormire di sopra, nell'altra camera, rappresentò la novità più importante. Ma il percorso che aveva portato Clarissa a vivere fuori dal seminterrato e ad avere una stanza tutta sua non si era ancora concluso: c'era ancora un o da compiere. L'ultimo. Un o che il suo aguzzino avrebbe affrontato solo quando in Clarissa la rassegnazione avrebbe raggiunto il massimo grado, un livello tale da non compromettere quelli che erano i suoi progetti. E quel momento, a suo giudizio, era arrivato. A fargli decidere di compiere quel o aveva contribuito la reazione avuta da Clarissa quando il signor Castelletti si era presentato in casa sua: Clarissa non aveva gridato quando aveva sentito la voce di quell'uomo e aveva lasciato che la conducesse in cantina senza opporre resistenza. In quel momento aveva compreso di essere vicino al risultato tanto sperato. Solo vicino, però. Sapeva che era ancora presto, che il suo obiettivo non era stato ancora raggiunto, che la rassegnazione in Clarissa non era ancora assoluta. Era consapevole che se non aveva cercato aiuto in quel forestiero era più per il timore della tanto paventata ritorsione nei confronti dei suoi genitori che per una resa dettata dalla rassegnazione. Era, però, sulla strada giusta. Presto la sua accondiscendenza sarebbe stata totale.
Non sapeva che quella di Clarissa non era una forma di acquiescenza, ma solo un'estrema cautela. Non sapeva che non era riuscito a sedarla e che lei l’aveva seguito di sopra, nella speranza che si presentasse l’opportunità giusta per farsi aiutare da quell’uomo, senza metterlo in pericolo. Non sapeva che, se non aveva richiesto aiuto, era solo perché l'occasione giusta non era mai arrivata.
E così un lunedì mattina, mentre facevano colazione, lui la guardò e le disse: «sul letto ti ho lasciato dei vestiti.» Dei vestiti? A parte i primi mesi di queste cose se ne occupava sempre lei. Era lei, ormai da tempo, a farsi carico di tutto il bucato. Escluse a priori che le avesse lavato e stirato qualcosa. Forse le aveva comprato dei vestiti nuovi? Quando entrò in camera, lo sguardo le cadde subito sulle scarpe che aveva lasciato ai piedi del letto. Non erano le solite pantofole che usava in casa: erano dei sandali, di quelli con i lacci che si avvolgono intorno alle caviglie. Era da tempo che non vedeva scarpe del genere, non si usavano più da un pezzo. Ricordava di averle viste indosso alla madre, quand’era ragazzina, ma adesso erano fuori moda. Alzò lo sguardo e, adagiato accuratamente sul letto, a fare bella nostra di sé, c'era un vestitino semplice, bianco, con dei fiorellini stilizzati. Sembrava che anche quel vestito fosse dello stesso periodo dei sandali. Aveva saputo dell’altra ragazza rapita, e della tragica conclusione di quel rapimento. Eppure faceva fatica a credere che quei vestiti fossero i suoi. Quella ragazza era stata rapita solo qualche mese prima di lei, quei vestiti, invece, non si usavano più da almeno dieci anni. È vero, potevano essere della madre o della sorella maggiore che glieli avevano ati: ma anche fosse stato così, le sembrava strano che una ragazza della sua età non seguisse almeno un po' la moda. A chi potevano appartenere, allora? Forse il suo carceriere non era stato sempre solo?
Forse aveva avuto una moglie? E in quel caso che fine aveva fatto? La sua intuizione era corretta, quel vestito non apparteneva a quella ragazza, ma nemmeno alla moglie del suo aguzzino, perché non ne aveva mai avuto una. C’era stata una donna nella sua vita, ma quella storia era finita tanto tempo fa. Quando Nick - dopo sue insistenze le aveva detto di chiamarsi così, anche se non credeva per nulla che fosse il suo vero nome - il Nick di paese e non il Nick lupo solitario, ancora ragazzo, frequentava un gruppo di coetanei. Se qualcuno avesse raccontato a Clarissa questo lato della vita del suo persecutore, sicuramente non avrebbe creduto alla veridicità di quelle affermazioni. Nick, infatti, non solo frequentava un nutrito gruppo di amici, nel quale, peraltro, si trovava completamente a suo agio, ma addirittura ne era il leader. Era accaduto in modo naturale senza che avesse mai fatto niente per ottenere quel ruolo: non si era proposto, né tantomeno aveva imposto niente a nessuno; era semplicemente successo. Da quando era entrato nel gruppo, si era distinto da subito per le sue doti d’intrattenitore: raccontava in continuazione aneddoti e storie divertenti, riusciva in modo naturale ad attirare su di sé l'attenzione di tutti. Ci sapeva fare, i suoi amici pendevano letteralmente dalle sue labbra quando raccontava quelle storie. Ma, soprattutto, era stato considerato da tutti un capo naturale per la sua infinita generosità. Non si tirava mai indietro quando c’era da spartire le sigarette o da anticipare i soldi per una birra, così come non si tirava indietro quando c'era da aiutare qualcuno in difficoltà. Nick non si sarebbe mai aspettato di diventare il capo di una comitiva di coetanei. Non pensava minimamente di avere quelle caratteristiche, di riuscire a far presa su quelle persone, di avere la capacità di guidare e prendere decisioni per quel gruppo: era la prima volta che socializzava con qualcuno dopo gli anni ati in solitudine a seguito della perdita dei suoi genitori. Non sapeva nemmeno se sarebbe riuscito a integrarsi in quel gruppo, non avrebbe mai immaginato di diventarne addirittura il leader. E invece non solo si trovava bene in quel ruolo, ma addirittura gli sarebbe mancata terribilmente quella carica, nel caso l'avesse persa.
Ne acquisì consapevolezza quando scoprì una cosa che sulle prime lo sconcertò. Accadde quando, una sera, una ragazza del gruppo portò con sé alcuni suoi amici nella speranza che entrassero a far parte della compagnia. Fin qui nulla di strano, era successo altre volte che fossero proposte nuove persone da inserire nella comitiva: era in quel modo che il gruppo si era ampliato nel corso del tempo arrivando a essere composto da quasi tre decine di ragazzi rispetto alle poche unità che ne facevano parte inizialmente. Ed era in quel modo che Nick era entrato a far parte di quella combriccola, portato da una sua amica conosciuta ai tempi della scuola. Fin qui nulla di strano, quindi. Eppure qualcosa non andava. Tra i nuovi arrivati c’era un ragazzo che, da subito, aveva minato la sua tranquillità. Un ragazzo che, anche se non di proposito, era entrato in competizione con lui. Tutto era avvenuto per le sue qualità, per la sua giovialità e allegria. Era un vero buontempone, le sue beffe erano nutrite ma non scadevano mai nella volgarità; quelle facezie non portavano mai alla noia né erano moleste. Così in poco tempo fu in grado di canalizzare su di se l’attenzione dell’intero gruppo. Nick provò una strana sensazione nel vedersi rubare la scena. Accusò una particolare forma di disagio. S’isolò dal gruppo, diventando cupo e silenzioso. Gli altri sembravano non essersi accorti di nulla, tanto erano presi dalla vitalità di Paolo, il nuovo venuto, che sembrava pronto a espugnare il suo regno: regno che non aveva né preteso né richiesto, ma che la perdita gli stava facendo provare una terribile sensazione di malessere. Eppure era solo una sua impressione, per quanto fossero attratti dalla vivacità di Paolo, i suoi amici non avevano mai smesso di considerarlo il loro capo. Solo che adesso l’attenzione si era spostata sul nuovo venuto, come se qualcuno avesse posato una calamita nelle vicinanze di una bussola, modificando la direzione dell’ago. Quel malessere aumentava ogni giorno di più, fino a quando non fu raggiunto il punto di rottura.
Prima di prendere quella decisione, Nick ci pensò su parecchio. Valutò le alternative possibili. L’unica che sembrava praticabile era l’allontanamento di quel ragazzo. Solo che non avrebbe mai potuto prendere un provvedimento del genere. Se l’avesse fatto, sarebbe stata un’azione talmente impopolare da portarlo ad avere tutti contro. Non avrebbe avuto motivo di proporre una cosa del genere, quel ragazzo era simpatico a tutti, avrebbe ottenuto come solo risultato una sommossa che l’avrebbe costretto ad abdicare. E Paolo non si sarebbe lasciato scappare l’occasione di occupare il posto del suo antagonista. E allora, se non poteva più far parte della comitiva - perché mai sarebbe rimasto come semplice comparsa, o come un qualsiasi figurante; perché mai sarebbe rimasto se avesse dovuto rinunciare al ruolo da protagonista - che cosa gli impediva di vendicarsi di quel ragazzo che gli aveva rubato la scena, rompendo quell’idillio? E mentre faticava a trovare il modo di riprendersi la ribalta, rompicapo che sembrava non avere soluzione, gli fu facile immaginare una serie di modi per mettere in atto i suoi propositi di ritorsione. Ma la buona stella di Paolo fece si che Nick non portasse mai a compimento i suoi intenti vendicativi. Perché un sentimento contrario a quello provato nei confronti del suo rivale, un sentimento radioso, si insinuò nel suo animo. Era l’amore. In quella tornata, infatti, era stata decretata l’ammissione nel gruppo anche di una ragazza. Una ragazza nei confronti della quale Nick provò da subito un trasporto totale. Si chiamava Adele. In principio Nick non le era per niente simpatico: era troppo estroverso per i suoi gusti. Si vedeva che provava piacere a essere al centro dell’attenzione, mentre lei, al contrario, era piuttosto schiva, non faceva altro che sfuggire dalla curiosità degli altri. Fosse stato per lei, non sarebbe mai entrata in un gruppo, solo che non aveva saputo vincere le insistenze della sua amica che aveva voluto a tutti i costi farla entrare in quella comitiva. Non ce l’aveva con l’amica, sapeva che se aveva insistito tanto era solo perché ci
teneva a lei, perché non sopportava che se ne stesse sempre sola, in disparte, rifiutando la compagnia di chiunque. Ma quello era il suo carattere, era fatta così, non poteva farci niente. Lo capirono presto anche gli altri, soprattutto i ragazzi, che col tempo avevano imparato a non stuzzicarla troppo, che se voleva starsene in disparte era meglio lasciarla stare e non disturbarla. L’avevano imparato dopo aver assistito ad alcune sue esplosioni d’ira. In particolare ciò che non sopportava nelle compagnie erano quei ragazzi che facevano di tutto per mettersi in mostra, per attirare l’attenzione. E se questo poteva piacere alle altre, a lei non interessava minimamente. Se qualcuno mostrava interesse, lei se ne infastidiva. Se quel qualcuno, poi, iniziava a fare lo scemo per attirare la sua attenzione, rendendola ridicola (a suo modo di vedere) agli occhi degli altri, allora perdeva completamente il lume della ragione e iniziava a urlare e inveire come un'indemoniata. Non capitò molte volte, ben presto se ne guardarono tutti bene da azzardare un approccio di quel tipo. Ma nel giro di poco qualcosa cambiò. Quello che sembrava essere il capo di quella compagnia nella quale era stata introdotta controvoglia, quel ragazzo così spigliato e allegro che quasi incantava la platea che faceva capannello quando aveva da narrare le sue bravate o qualche altro avvenimento, d’un tratto s’incupì. Diventò taciturno e introverso. A dirla tutta, sembrava triste. Se aveva apprezzato che, a differenza degli altri ragazzi, lui almeno non aveva tentato un approccio in quel modo che riteneva veramente scontato e infantile, adesso provava una sorta di attrazione nei suoi confronti. Benché la sua iniziale vivacità non avesse generato in lei sentimenti positivi, provava quasi pena per questa sua trasformazione. Se era avvenuta, era perché qualcosa doveva essere successo. Qualcosa di spiacevole, se si era spento come un rogo ormai esaurito che sprigiona gli ultimi crepitii prima di consumarsi definitivamente. S’incontrarono nel loro rispettivo isolamento. Comunicarono con i loro silenzi.
Si guardarono, senza incrociare i loro sguardi. Nick aveva deciso di venire fuori da quel gruppo dopo la perdita del suo ascendente sui compagni, Adele avrebbe preferito non entrarci mai: le loro strade si unirono mentre entrambi si allontanavano dagli altri. Ad accomunarli erano le loro rispettive debolezze. Nick con quel disagio che mostrava quando l’attenzione di tutti non era focalizzata su di sé; Adele con la sua ritrosia mutuata da un ato di delusioni. Solo loro erano in grado di capirsi, gli altri non ci riuscivano. Non era per cattiveria. Non è che non volessero, o che non ci provassero: era che proprio non erano capaci di farlo. Non erano in grado di entrare in sintonia così come avevano fatto loro due. Non erano in grado di comprendere la loro intima sofferenza. Quella storia non durò molto. Per quanto fossero entrati in sintonia, per quanto fossero riusciti a comprendere le loro rispettive solitudini, non riuscirono a compenetrarsi completamente. In particolare fu Adele a non aprirsi del tutto, fu lei a non essere in grado di vincere quel malessere esistenziale, quel disagio che l'avrebbe portata a gettare la spugna. Ma questa è un'alta storia, accaduta in un'altra città e in un altro tempo. Una storia che trovò la sua conclusione qualche anno dopo la fine della loro relazione. Una storia che Nick non conobbe mai perché aveva deciso di non volerne sapere più niente di lei. Perché per lei aveva provato amore vero. Un amore che era durato a lungo, anche dopo che l'aveva lasciato. Non riuscì mai ad accettarlo. Aveva dovuto rassegnarsi, per forza di cose, al fatto che i suoi genitori l'avessero lasciato per sempre. Aveva dovuto accettare che ai suoi amici di lui non importasse niente. Ma che ad abbandonarlo fosse stata lei, no, questo proprio non riuscì ad
accettarlo. Non ebbe più altre storie; se capitava qualche incontro, faceva in modo di troncare sul nascere ogni possibile implicazione. In seguito fu lui a scegliersi le ragazze e a seppellire, con loro, quella storia.
Clarissa aveva ragione. Quei vestiti non appartenevano alla ragazza rapita prima di lei. Non sapeva, però, che appartenessero a un'altra ragazza. Non sapeva che, negli anni ati, di ragazze ce n‘erano state molte altre. Certo se l’avesse saputo non se ne sarebbe meravigliata, visto il sangue freddo con il quale aveva ammazzato quella persona che aveva deciso di intromettersi nei suoi affari. Anche se non aveva intenzione di farle del male, anche se non voleva farne alla ragazza che l’aveva preceduta, almeno non intenzionalmente, prima di decidere di avere una concubina Nick aveva catturato, violentato e ucciso molte altre ragazze. Non era un serial killer, non nel senso stretto del termine. Se lo fosse stato, avrebbe continuato a uccidere; sarebbe stato un bisogno al quale non avrebbe potuto rinunciare. Invece a un certo punto aveva smesso. Cosa che non capita nei serial killer, che continuano con i loro delitti fino a quando non vengono fermati. La carriera di un serial killer, di solito, termina con la cattura o la morte proprio a causa di quel bisogno smisurato di ammazzare, un bisogno che cresce in maniera esponenziale finché raggiunge un’intensità tale da fargli perdere il controllo. Non aveva questo bisogno, il suo fine era di possedere per un po' quelle ragazze. Non aveva la necessità di uccidere le sue vittime, era costretto a farlo: non poteva lasciarle libere, loro lo avrebbero denunciato e, anche se isolato, alla fine avrebbero trovato il posto nel quale viveva. Se Clarissa era ancora viva, lo doveva al fatto di essersi trovata in una fase della vita di Nick in cui aveva deciso di cambiare registro.
Aveva deciso di smetterla perché non poteva più continuare così: stava diventando una pratica pericolosa. Per rapire quelle ragazze doveva allontanarsi sempre di più, per evitare che fosse troppo alto il numero di giovani donne che sparivano nel nulla in una zona circoscritta. Ma, soprattutto, non poteva continuare a disseminare cadaveri in giro per il bosco: un giorno uno di quei sacchi sarebbe saltato fuori. Un cacciatore si sarebbe spinto fin lassù e a un certo punto sarebbe inciampato in un lembo di plastica nero sporgente dal terreno; allora si sarebbe inginocchiato e avrebbe iniziato a scostare il terreno intorno alla parte scoperta. Quando la zona ripulita sarebbe stata abbastanza ampia, avrebbe capito che ciò che spuntava dal terreno smosso dalle piogge di quegli anni era un sacco di plastica nero. Avrebbe scavato con più vigore, spellandosi le mani, fino ad aprire un varco abbastanza ampio da scoprirne il contenuto. E per Nick sarebbe stata la fine. Quella del signor Castelletti era stata una circostanza diversa. In quel caso lui voleva che il suo corpo fosse rinvenuto. Perché qualcuno, il suo amico e forse qualcun altro, sapeva che si trovava in quel posto. Non poteva permettersi perquisizioni a tappeto o addirittura che qualcuno andasse da lui per fare delle domande. Se fosse scomparso nel nulla, si sarebbe sollevato un caso che avrebbe attirato l’attenzione sul suo bosco per molto tempo, rendendo quel posto troppo frequentato per le sue esigenze.
Clarissa stava per indossare gli abiti appartenuti a una di una di quelle ragazze. Si guardò allo specchio. Le sembrò di vedere una vecchia foto. In quell'immagine riflessa nello specchio rivide la madre, bella, come lo era lei anche se con se stessa non l’aveva mai ammesso - forte, come l'aveva sempre vista, e orgogliosa della sua unica figlia che in quella foto teneva in grembo. Non aveva mai chiesto ai suoi genitori perché non avessero mai avuto altri figli: se non ne avessero più voluti o se non avessero più potuto averne. Quand'era piccola ci fu un periodo in cui avvertì il bisogno di avere un fratellino o una sorellina. Più una sorellina. Le risposte della madre a quelle domande erano molto evasive, anche se si rivolgeva sempre con dolcezza. Le risposte del
padre, invece, erano più brusche. Di solito il padre non lo era mai: la adorava, non si voltava mai male. Tranne che a quelle domande. Non che le rispondesse con cattiveria, ma si vedeva che il discorso lo infastidiva: la invitava a rivolgersi alla madre. Un po’ per l’invito che riceveva, un po’ perché, insistendo, la madre cedeva un po’, era a lei che lo chiedeva la maggior parte delle volte, ottenendo come risposta un «vedremo, non ti prometto niente.» Poi quel periodo ò e da quel momento quella questione fu archiviata. A dirle cosa fosse accaduto fu sua zia, la sorella della madre, con la promessa che non ne fe mai parola con nessuno, in particolare con i suoi genitori. La gravidanza della madre fu da subito a rischio. Avvertiva spesso dei dolori, delle fitte che di solito non erano particolarmente intense. Tranne una volta, quando le fitte, più insistenti, furono accompagnate da copiose perdite di sangue. Questo spinse il marito ad accompagnarla d’urgenza al pronto soccorso. Dalle analisi e dalle visite alle quali fu sottoposta, venne fuori che aveva avuto delle minacce d’aborto. Per fortuna quelle minacce non dipendevano da cause ovulari, per questa ragione, le spiegò il medico, le speranze che riuscisse a portare a termine la gravidanza erano più alte. Ma solo se, si raccomandò il dottore, avesse seguito attentamente le sue indicazioni: assoluto riposo a letto, una cura a base di farmaci per ridurre le contrazioni dei muscoli dell’utero e vitamine. La prima volta che la signora Bartali era rimasta incinta ebbe un aborto spontaneo. Non se ne rese nemmeno conto. Una mattina, mentre eggiava guardando le vetrine dei negozi, sentì bagnarsi le mutandine. Entrò in un bar e chiese di poter usare il bagno. Aveva capito di aver avuto delle perdite, ma non quanto queste fossero abbondanti. Quando uscì dal bagno, bianca e smunta come un cadavere, non tanto per le perdite quanto per la paura, chiese al barista, sgomento nel vederla in quello stato, se poteva chiamare un'ambulanza. Il barista si precipitò fuori dal bancone e la fece sedere su una sedia, prima di correre all'apparecchio telefonico. La visita che le fecero d’urgenza, una volta giunti in ospedale, confermò il suo timore: aveva perso il bambino. Non voleva commettere l'errore della prima volta. Sarebbe rimasta tutto il tempo a letto. Per fortuna ad aiutarla c'era la sorella maggiore, che non era sposata, non aveva una famiglia da accudire e andava da lei ogni santo giorno per occuparsi
delle faccende domestiche. Un giorno, quando era ormai nella trentesima settimana di gestazione, sentì nuovamente bagnarsi nello stesso punto. Era a letto, alzò le coperte per controllare e lanciò un urlo. Entrò di corsa la sorella che le chiese cosa fosse successo. Sulle prime non ottenne risposta; poi si rese conto che, oltre la risposta, da lei non aveva ricevuto nemmeno uno sguardo; era intenta a fissare le lenzuola. Abbassò gli occhi per vedere cosa stesse fissando con tanta insistenza e si accorse di un'enorme pozza rosso scuro che impregnava le lenzuola: sembrava che su quel letto avessero sgozzato un maiale. «Ti prego Signore, non adesso» disse ad alta voce, come per darsi forza «non posso svenire in questo momento.» Dovette appellarsi a tutte le sue energie, oltre che al Padreterno, per restare in piedi, arrivare al telefono e far compiere alla rotella quelle tre rotazioni parziali, due corte e una più lunga, necessarie per chiamare un’ambulanza. Il telefono si trovava sul comodino, per chiamare si era seduta sulla punta del letto: quando si volto, dopo aver riagganciato, trovò la sorella priva di sensi. E’ morta, pensò. Il sangue si gelò nelle vene, un brivido le percorse tutto il corpo. Non fare la stupida, si disse infine, è soltanto svenuta, tra un po’ arriverà l’ambulanza e loro la aiuteranno. Prese un asciugamano per tamponare la fuoriuscita del sangue e spostò tutti gli ostacoli che avrebbero impedito il aggio della barella. La signora Bartali aveva avuto un improvviso e imprevedibile distacco della placenta. Al quale era seguita una forte emorragia. Appena giunsero in ospedale, fu immediatamente portata in sala operatoria. Riuscirono a bloccare l’emorragia e a far nascere la bambina, anche se ci furono delle complicazioni: Clarissa fu portata immediatamente in un altro ospedale della zona, specializzato in bambini nati prematuri. La signora Bartali poté vedere la figlia solo dopo una settimana, perché dovettero farle un’isterectomia. Le asportarono l’utero, non avrebbe più potuto avere altri figli. Ma in quel momento non le importava.
Appena aprì gli occhi, il giorno dopo l’intervento, la prima cosa che volle sapere fu se la bambina stava bene; era la cosa che le premeva più di tutte, l'unica cosa che le importasse veramente. Il marito dovette faticare non poco per convincerla che la bambina era viva, che se non poteva vederla era solo perché si trovava in un altro ospedale nel quale avrebbe avuto le cure adeguate. Pensava (e come darle torto?) che non potevano dirle subito che la figlia non ce l’aveva fatta. Avrebbero aspettato qualche giorno e solo quando si sarebbe ripresa, non del tutto ma almeno un po’, le avrebbero dato quella terribile notizia. Non avrebbe avuto nessuna reazione, non avrebbe pianto né urlato. Tanto sapeva già com’erano andate le cose. Quando finalmente poté vederla, una settimana dopo, fu felice di essersi sbagliata. La sua bambina era bellissima, anche se poteva guardarla solo dietro il vetro dell’incubatrice. Sarebbe stata l’unica, ma non importava, quello che contava era che stava bene e che si stava riprendendo. Dovettero attendere quasi due mesi per portarla finalmente a casa e, quando lo fecero, Clarissa si era ripresa completamente. Non aveva mai messo in dubbio la buona fede di sua zia, aveva sofferto molto anche lei, se gliel’aveva raccontato, era solo perché non riusciva più a nasconderle la verità. In ato gliel’aveva nascosta, la verità, ma solo perché l’aveva promesso alla sorella, che non voleva che Clarissa ne venisse mai a conoscenza. Perché la madre sapeva che Clarissa non l'avrebbe presa per niente bene, che sarebbe stata assalita dal senso di colpa: se non le aveva mai raccontato niente, e se aveva chiesto anche alla sorella di celarle la verità, era stato solo per proteggerla.
2. Libera uscita
Clarissa aveva indugiato parecchio di fronte allo specchio. Nick andò a controllare a che punto fosse e, vedendo che ormai era pronta, la invitò a seguirlo. Era stranamente inquieto. Era eccitato come un bambino al quale i genitori hanno promesso una giornata al parco giochi e al quale, arrivato il giorno tanto atteso, il tempo sembra non are mai. Lo seguì per il corridoio. Entrarono nel salone e fu incredula quando lo vide aprire la porta di comunicazione con il garage. Non vedeva quel posto dal giorno in cui aveva messo piede in quella casa. Quando entrarono nella rimessa, si trovò di fronte ad un posto completamente nuovo. Non ricordava niente di quella stanza, non solo per tutto il tempo che era ato, ma anche perché, allora, non si trovava nella condizione per notare gli oggetti e il mobilio presenti in quella parte della casa. Dovunque lui avesse intenzione di condurla, avrebbero usato l’auto. Clarissa guardò le sue mani e ne ricevette conferma: nella sinistra stringeva le chiavi della macchina. Per qualche istante un velo di preoccupazione calò come un sipario che decreta la fine di uno spettacolo. Poi però pensò che, se avesse avuto intenzione di chiudere quella faccenda, non si sarebbe preso la briga di farla conciare in quella maniera. In ogni caso, nel bene o nel male, dopo quasi cinque anni, per la prima volta sarebbe uscita da quella casa. Il viaggio fu lungo.
Ripensò a quando fu portata lì la prima volta. Legata e imbavagliata dentro il cofano dell’auto non era riuscita a stimarne la durata. Eppure già allora, quel tratto di strada sterrata, le era parso interminabile. In quel secondo viaggio poté costatare quanto quel sentiero, che dalla prima strada praticabile portava al casolare, fosse, in effetti, lungo. Anche il resto del viaggio non fu per nulla breve. Una volta imboccata la strada principale, ò parecchio tempo prima che giungessero nel posto dove Nick aveva deciso di portarla quel giorno. Un grande magazzino nella periferia di un paese del quale avrebbe conosciuto il nome solo in seguito. Non avrebbe saputo dire quanto tempo durò il viaggio. Non aveva un orologio con sé e quello del cruscotto aveva le lancette ferme alle undici e venticinque, di chissà quale giorno.
Clarissa non avrebbe tentato di fuggire o di chiedere aiuto; Nick si era premunito nei confronti di un’eventualità di questo tipo. Sapeva perfettamente a quali rischi andava incontro portandola in un posto affollato come quello: usò le minacce per evitare che un'idea del genere potesse venirle in mente. Mentre più volte le paventò la consueta minaccia di ritorsione nei confronti dei suoi genitori, nel caso in cui avesse disatteso le sue raccomandazioni, ve ne aggiunse una nuova. Se qualcuno si fosse intromesso, lui non avrebbe avuto la minima esitazione a reagire, com’era avvenuto con quell'uomo che era andato a curiosare in casa sua. Nell’eventualità che avesse provato a chiedere aiuto, non solo avrebbe messo a repentaglio la vita di altre persone innocenti, ma la sua stessa vita. Perché, se fosse stato costretto a scappare, non l'avrebbe più portata con sé, né, tantomeno, l'avrebbe lasciata in vita, con il rischio che raccontasse alle autorità tutto quello che aveva fatto a lei e al signor Castelletti. E nel dirle questo si portò una mano sul borsello, come a farle intendere che lì vi custodiva l'arma che avrebbe usato nel caso vi fosse stato costretto. L’unica cosa che doveva fare, per evitare tutto questo, era fingersi sua figlia e non attirare in alcun modo l'attenzione su di loro. Si svolse tutto in quel modo, come se realmente fossero padre e figlia dediti a far
compere.
Ci fu solo un episodio degno di nota: Clarissa fece colpo su un ragazzo. Non riuscì a spiegarselo. Erano anni che non si sentiva attraente. Un po’ perché non aveva alcuna intenzione di curarsi per la gioia del suo aguzzino: era segregata in casa, lui era l’unica persona che vedeva, non gli importava certo curare il suo aspetto. Ma anche perché non aveva modo di farlo. Per comodità portava i capelli corti; se li tagliava lei stessa, e il risultato non era certo dei migliori. Eppure quel ragazzo proprio non riusciva a staccarle gli occhi di dosso. Non solo, sembrava che addirittura la seguisse. Forse era un caso, ma ne dubitava: ogni volta che cambiavano reparto, se lo ritrovava lì, sempre intento a fissarla. Che non fosse un caso lo capì guardando il suo carrello, che non si era più riempito da quando aveva iniziato a puntarla. Arrossì quando comprese che l’interessamento mostrato da quel ragazzo le procurava piacere. Non aveva mai smesso di pensare a Fabrizio, e quella non era la situazione ideale per un approccio tra due persone. Ma ricevere degli apprezzamenti non poteva che farle piacere. Non la infastidirono le sue attenzioni, quindi, però temeva che Nick potesse accorgersene. Se si fosse reso conto dell’insistenza e della sfrontatezza del suo corteggiatore, la sua reazione sarebbe stata tremenda. Per fortuna non accadde nulla. Rivide quel ragazzo un'ultima volta, all'uscita dal supermercato. Avrebbe voluto congedarsi rivolgendogli un sorriso, per ringraziarlo della piacevole sensazione che le aveva fatto provare, ma non era il caso di sfidare la buona sorte che aveva permesso che tutto fosse filato liscio.
Il mattino seguente Clarissa si svegliò molto presto. Non ci fu bisogno che fosse
Nick a chiamarla scuotendole il piede, come accadeva di solito: quando lui si alzò, lei era già in cucina a preparare la colazione. Non aveva dormito granché quella notte, era troppo eccitata; Nick le aveva fatto proprio un bel regalo. Non sapeva che, in realtà, l'aveva portata con sé perché voleva che fosse a tutti gli effetti la sua donna. Che per questa ragione cercava di ricreare il maggior numero possibile di situazioni che potessero essere definite - a suo modo di vedere - normali per una coppia. La sua donna cucinava, badava alla casa, faceva il bucato, stirava, e lui l'accompagnava a fare la spesa. Clarissa pensava, invece, che si trattasse di una ricompensa, un premio per la sua buona condotta, un permesso speciale che sperava non fosse straordinario. Era così felice che per la prima volta da quando aveva avuto la sfortuna di incappare nei suoi folli progetti non provò quell’odio allo stato puro che di solito nutriva nei suoi confronti. Di certo si trattava di uno stato temporaneo; se non il giorno dopo, e nemmeno il successivo, l'altro ancora si sarebbe rianimato quel profondo risentimento che ormai caratterizzava la sua vita da un po' di tempo a quella parte. Ma adesso quel sentimento non c'era, celato da una forma di riconoscenza che sentiva di dovergli. Sull’onda di queste emozioni decise che gli avrebbe preparato una cena speciale. In fondo bastava poco, era sufficiente cucinare con un po' d’impegno in più. Di solito lo faceva sempre controvoglia, senza alcun entusiasmo, limitandosi a fare solo il minimo necessario affinché avessero di che nutrirsi. Il risultato che ne veniva fuori era facile da intuire: magari non proprio della sbobba, ma non si discostava molto. A Nick sembrava non importare più di tanto, non era una di quelle persone che di solito sono definite "buone forchette". Oppure non dava a vederlo. Sta di fatto che non si era mai lamentato di quello che gli faceva trovare in tavola. Ma non poteva non notare la differenza, pensò Clarissa, se ne sarebbe accorto sicuramente. E anche se non ne avesse fatto parola, di sicuro avrebbe apprezzato che si era data da fare per preparargli una cenetta prelibata e magari l’avrebbe premiata portandola con sé la prossima volta.
Nick si accorse del cambiamento di umore della sua vittima. Non aveva dubbi su quale fosse la causa: la libera uscita che Clarissa pensava di aver ottenuto. Eppure sapeva altrettanto bene che quello stato d'animo non sarebbe durato a lungo. Per quanto si sforzasse di ricreare una normale vita di coppia, era consapevole che si trattava solo di apparenza. Potevano andare insieme a fare la spesa, e un giorno, chissà, sarebbero potuti andare anche al cinema o in pizzeria. Clarissa non avrebbe fatto nessun tentativo per fuggire o attirare l’attenzione gridando, così come non l’aveva fatto ai grandi magazzini, se avesse continuato nella sua opera di dissuasione imperniata non solo sulle minacce verso i suoi genitori e verso chiunque si fosse messo in mezzo ma anche sulle sue continue raccomandazioni che costituivano un costante promemoria. Certo, avrebbero potuto fare tutte queste cose, ma non subito, un po’ per volta, perché il rischio che qualcuno la riconoscesse c'era sempre. È vero, Clarissa era cambiata in questi anni. Non solo perché portava un taglio di capelli differente, ma anche perché erano mutati i suoi lineamenti. Era dimagrita, i tratti del viso erano più affilati, e poi era cresciuta. La differenza tra l’avere venti anni rispetto all’averne venticinque c’è ed è visibile, già in situazioni normali, ma ancor più quando ci si trova in una condizione di sofferenza e afflizione. Inoltre non si parlava quasi più di quel rapimento, né sui giornali né in televisione. Non sarebbe stato facile riconoscerla, se qualcuno avesse avuto un sospetto, avrebbe dovuto fare affidamento sulla propria memoria, poiché di foto di Clarissa non se ne vedevano più in giro già da un bel po' di tempo. Era cambiata, probabilmente nessuno ricordava la sua fisionomia, eppure era meglio non rischiare. Riteneva più opportuno sondare il terreno con brevi apparizioni nei centri abitati. Ancor meglio se a distanza di tempo. Anche per le prossime volte avrebbe evitato il paese che frequentava di solito, per non fomentare l'interesse degli abitanti che l’avrebbero visto per la prima volta in compagnia, dopo che per anni vi si era recato sempre da solo. La gente parla e, in un piccolo paese, le notizie fanno in fretta a diffondersi. Trovare una risposta alle domande su chi fosse quella ragazza, sarebbe stato un fastidio che avrebbe evitato ben volentieri.
Eppure, qualunque cosa avessero fatto insieme, per quanto a lei avrebbe fatto piacere uscire da casa, sapeva che non sarebbe mai riuscito a farle accettare quella vita, a farle accettare la sua presenza, a farla sentire, insomma, a casa sua.
Mentre era intenta a lavare le stoviglie usate per la colazione, Clarissa pensava a cosa cucinare quella sera. Ogni tanto si fermava, le posate o una tazza in mano, l'acqua che continuava a scorrere, e guardava fuori gli alberi incorniciati a scacchiera dalle griglie della grata, inoltrandosi in un dedalo di riflessioni. Ripensava al giorno prima, a tutta quella gente che aveva visto dopo tanto tempo. Troppa, tutta insieme, tanto da procurarle una sensazione di vertigine. E ripensava a quel buffo incontro con quel ragazzo che sembrava aver perso la testa per lei. Decise che avrebbe preparato dei piatti a base di funghi. Nick li raccoglieva sempre, chiedendole di cucinarli, dovevano piacergli tanto; o almeno lo sperava. Poteva anche non essere così, forse li raccoglieva solo perché li aveva lì, a disposizione, non doveva fare altro che prenderli. Ma non aveva molta scelta, doveva tentare. In uno di quei momenti in cui era rimasta incantata a guardare fuori, Nick si avvicinò per informarla che stava uscendo. Quasi le cadde di mano la tazza, tanto repentino fu il risveglio da quello stato cogitabondo. Chiuse in tutta fretta il rubinetto, dal quale continuava a scorrere acqua inutilizzata nel lavandino, si girò per guardarlo e gli fece un cenno di assenso. Nick restò in attesa qualche secondo; era come se si aspettasse qualcosa, pensò Clarissa, ma non sapeva cosa. Infine uscì. Clarissa terminò di riordinare e si sedette. Aveva da sbrigare le altre faccende per poi organizzarsi per la cena. Non subito, però. Prima avrebbe dedicato un po’ di tempo per se stessa. Voleva aggiustarsi i capelli. Non sarebbe stato facile farlo da sola, ma ci avrebbe provato. Se lui l'avesse informata per tempo di quella visita ai grandi magazzini, l’avrebbe fatto già da allora, ma invece non le aveva dato nessun preavviso. La volta successiva, semmai ce ne sarebbe stata una, non si sarebbe fatta trovare impreparata: sarebbe stata quantomeno presentabile. Soprattutto nel caso avesse avuto altri incontri.
Quante probabilità potevano esserci di incontrare nuovamente quel ragazzo ai grandi magazzini? Pochissime, almeno non in un intervallo limitato. Riuscì ad accomodarsi l’acconciatura. Fu abbastanza soddisfatta del risultato, era il massimo che potesse fare da sola e senza l’ausilio di prodotti e strumenti adatti. Terminate le altre incombenze, poté dedicarsi alla preparazione della cena. Preferiva portarsi avanti nel lavoro. Nel caso fossero insorti dei contrattempi, non avrebbe dovuto scapicollarsi per recuperare il tempo perso, facendo tutto di fretta. Voleva che il risultato fosse apprezzabile, avrebbe preparato tutto con la dovuta calma. E poi, così facendo, avrebbe potuto riposare un po’ nel pomeriggio, visto che aveva ato quasi tutta la notte in bianco. Per prima cosa doveva preparare l'ingrediente principale, i funghi. Avrebbe dovuto lavarli per bene per rimuovere il terreno, poi eliminare parte del gambo e infine tagliarli a fettine. Era intenta a recidere i gambi quando sentì, come in un sussurro, chiamare il suo nome: «Clarissa?» Si fermò un momento ma poi riprese quasi subito il suo lavoro, senza distogliere lo sguardo dal tagliere. Era sicura di non aver udito realmente quella voce. Doveva averlo immaginato. La notte insonne le stava sicuramente giocando qualche brutto scherzo. Dopo pochi istanti avvertì una curiosa sensazione: era come se sentisse la presenza di qualcuno, come se qualcuno la stesse osservando. Alzò la testa per controllare e lanciò un urlo. Indietreggiò d'istinto e inciampò in una sedia. Cadde di peso a terra, non avendo un appiglio sul quale sostenersi. L'urto le fece perdere il coltello; si tuffò per recuperarlo, lo strinse forte con entrambe le mani e lo puntò in direzione della finestra. Poi si rimise in piedi. C’era qualcuno fuori che la guardava. Non aveva sognato, non si era immaginata quella voce, non si trattava di un’allucinazione: quella persona che adesso si trovava lì e che la stava guardando da dietro le sbarre della finestra della cucina, l’aveva chiamata per nome.
«Chi sei? Come fai a conoscere il mio nome?» Mentre gli rivolgeva quelle domande, sempre con il coltello tra le mani, Clarissa lo guardò negli occhi. Si era così spaventata per quell’improvvisa apparizione che sulle prime non era riuscita a vederlo bene in faccia. Quando riuscì a farlo, appena ebbe riacquistato un minimo di autocontrollo, si rese conto che quel volto le era familiare. Prima di ricevere risposta, quasi incredula, arrabbiata, gli disse: «Ma sei tu? Sei quel ragazzo che ieri per tutto il tempo in cui sono rimasta in quel negozio non ha fatto altro che pedinarmi? Che cosa vuoi da me? Chi sei? Come hai fatto a venire qua? Mi hai seguito?» «Clarissa, aspetta, calmati…» «Non dirmi di calmarmi» gli urlò infervorata «rispondimi!» «Clarissa, so chi sei, se conosco il tuo nome è perché so chi sei!» Clarissa in quel momento parve calmarsi un po’. L’aveva terrificata l’assurdità di quella situazione. Quel ragazzo che prima l’aveva tallonata nel negozio si era poi preso la briga di seguirla per scoprire dove abitava. Doveva essere un altro pazzo, fu l'unica cosa che le era venuto in mente. Non aveva previsto che i fatti fossero, invece, differenti da come la paura gli aveva fatto intendere. Non aveva fatto colpo, lui non l'aveva seguita perché si era invaghito di lei, non l'aveva squadrata per tutto il tempo perché non riusciva più a toglierle gli occhi di dosso per via del suo irresistibile fascino: quel ragazzo l’aveva riconosciuta, sapeva che era scomparsa e che di lei non si sapeva più niente da cinque lunghi anni. «Come hai fatto a riconoscermi?» «Non è questo il momento per parlarne» le rispose «dobbiamo cercare un modo per farti uscire da qui.» «E come pensi di fare?» ribatté serafica «ci sono grate a tutte le finestre e serrature blindate alle porte.»
«Un modo esiste sicuramente. Devo solo pensare a come fare. Quanto tempo abbiamo prima che ritorni quello lì?» «Tutto il pomeriggio. Di solito rientra poco prima del tramonto.» «Ok, ok. Adesso ascoltami bene. Sai se ci sono degli attrezzi in casa?» «Sì, ma sono nello sgabuzzino. E anche quello è chiuso a chiave.» «Cazzo!» «Forse...» «Cosa?» «Dovrebbero esserci degli attrezzi pure in garage. Quando deve riparare la macchina non li prende mai dallo sgabuzzino. Deve averne degli altri anche lì.» «Bene. Vado a dare un'occhiata.» Si era appena allontanato quando ritornò indietro. Clarissa era ancora alla finestra. «Perdonami, non mi sono ancora presentato, mi chiamo Stefano» le disse rivolgendole un sorriso e strizzando un occhio in segno di complicità prima di allontanarsi per davvero. Clarissa rimase ancora affacciata alla finestra. Era disorientata, pensava a quanto fosse pazzesca tutta questa storia. Le era venuto in mente quel corteggiatore incontrato il giorno prima al supermercato e all’improvviso se lo trovava davanti, nelle vesti del suo salvatore. Non sapeva cosa fare, se doveva preparare la cena o lasciare tutto lì com’era. Non aveva ancora realizzato cosa stesse realmente accadendo. Per questo, dopo lo spavento iniziale, era riuscita a mantenere la calma. Quello stato confusionale, però, non sarebbe durato a lungo, presto avrebbe messo a fuoco tutta la faccenda e allora l'ansia avrebbe preso il sopravvento offuscando la sua capacità di giudizio.
Stefano fece il giro della casa e si fermò davanti alla porta della rimessa. Notò subito che si trattava di una costruzione differente rispetto al casolare: era interamente in legno. E poi era più bassa e aveva un tetto a spiovente che declinava verso il sentiero. Sembrava che fosse stata aggiunta in seguito, come se non fe parte del progetto iniziale. Per fortuna non si trattava di una costruzione recente. S’intuiva dal fatto che in alcuni punti il legno era consumato o addirittura sbriciolato. In altri la struttura era completamente marcia, in particolar modo nella parte più bassa della costruzione, probabilmente corrosa dalle acque stagnanti prodotte dalle piogge che si erano riversate nel corso degli anni. In quei punti il fabbricato era visibilmente danneggiato, tanto che l'intera costruzione dava l'idea di essersi indebolita. Se quell'impressione fosse stata confortata dalla realtà, forse sarebbe riuscito a scardinare i battenti della porta. Certo, avrebbe dovuto faticare non poco, ma poteva farcela. Soprattutto, doveva sperare di trovare veramente degli attrezzi là dentro; in caso contrario avrebbe perso solo del tempo prezioso, perché, se realmente la rimessa era stata costruita in un secondo momento, allora da lì non avrebbe avuto modo di accedere all’interno dell’abitazione. Non sapeva che dal muro sul quale era stata addossata la rimessa, avevano ricavato una porta che comunicava con il salone: Clarissa non l'aveva informato di questo, un po' perché non ne aveva avuto il tempo e un po' perché riteneva quell'informazione di poco conto, poiché anche quella porta era stata messa in sicurezza. Provò a saggiare la resistenza della porta che aveva di fronte. A discapito dell'apparenza si dimostrò piuttosto solida, non sarebbe riuscito ad aprirla solo con le sue mani. Un moto di sconforto cercò di insinuarsi in lui, ma quel sentimento non faceva parte del suo repertorio, lo respinse subito. Fece il giro della rimessa, dove vide, sul lato esposto al sentiero, un finestrino. Sarebbe entrato da lì. Si avvicinò per esaminarlo meglio, era a due battenti. Non sarebbe stato sufficiente rompere i vetri, non avrebbe avuto lo spazio necessario per entrare: doveva sradicare l'intero telaio. Come per il resto del fabbricato anche il legno di quella finestra nel corso del
tempo era stato logorato dalle intemperie. In più era piccola: non avrebbe impiegato molto tempo per romperla. Aveva solo bisogno di qualcosa di pesante per farlo. Gli bastò guardarsi intorno. Disseminati lungo il sentiero, c'erano, in numero considerevole, sassi di varia foggia e dimensione. Ne recupero alcuni, abbastanza grandi e appuntiti, che adagio sotto il finestrino. Ne prese uno e lo scagliò, con tutta la forza che fu un grado di imprimere, nella parte centrale della finestra. I vetri andarono in frantumi all'istante. Il telaio vibrò e scricchiolò, ma rimase intatto. Mirando sempre al centro del finestrino, si portò il sasso sopra la testa, per avere uno slancio maggiore, e lo scagliò verso il telaio. Il masso spezzò in due il legno di entrambi i battenti, forse indeboliti dal colpo precedente, e piombò all'interno della rimessa. Si dedicò all'opera di rifinitura. Scelse il più appuntito dei sassi e iniziò a colpire i cardini dei battenti, che vennero via dopo pochi colpi. Ce l'aveva fatta. Ora al posto della finestra c'era un varco abbastanza grande da permettergli di entrare. Spiccò un salto e si aggrappò al tetto. Prese a dondolare finché non riuscì, con un ultimo slancio, a infilare i piedi nel pertugio che aveva appena ricavato. Lasciò andare la presa e, con un colpo di reni, che gli permise di inarcare la schiena per non urtare la testa, atterrò all'interno della rimessa, perdendo però l'equilibrio e rovinando per terra. Per fortuna non si fece niente. Dentro notò subito la porta che metteva in comunicazione la casa con la rimessa, ma non vi dette peso; quella doveva essere sicuramente una delle porte blindate di cui Clarissa gli aveva parlato. Si guardò intorno. Alla sua destra, sul lato opposto alla porta di accesso al garage, c'era un grande scaffale. Rovistò tra gli oggetti poggiati sulle mensole e uscì dalla rimessa quand'ebbe recuperato gli attrezzi che sarebbero serviti per il suo scopo. Ritornò indietro. Clarissa era seduta alla sedia che poco prima l'aveva fatta cadere e che ora era stata rimessa al suo posto, vicino al tavolo. Non si era accorta della sua presenza. Lui la chiamò e lei si avvicinò alla finestra.
«Sono riuscito a entrare nel garage. Ho dovuto rompere il finestrino; era piccolo, ma sono riuscito a arci attraverso.» «Ho sentito i rumori. Hai trovato qualcosa?» «Si! Guarda qui!» Le mostro un grosso giravite, con il manico di legno e la testa di ferro, e un grosso martello. «Credo che nello sgabuzzino abbia solo qualche giravite per i piccoli lavori di casa. Il grosso degli attrezzi, per nostra fortuna, li ho trovati lì, in una cassetta.» «Pensi di riuscire ad aprire la porta con quelli?» «Non ho intenzione di aprire la porta. Non credo sia possibile farlo dall'esterno. Voglio rimuovere la grata.» «Ti ci vorrà un'eternità!» «Guarda!» le disse mostrandole delle saldature ai lati dell'inferriata «all'interno del muro ci sono dei tondini di ferro, che poi sono stati saldati alla grata. Lo vedi? Proprio qui. In tutto ce ne sono dieci, tre su ogni lato lungo e due su quelli corti. Mi basterà rompere il muro in corrispondenza di questi perni. Non servirà rompere anche in alto, dovrei riuscire a farti uscire rompendo sotto e ai lati.» «Che cosa accadrebbe se Nick rientrasse prima? Tu potresti scappare, ma io no. E se la prenderebbe con me.» «Pensaci Clarissa, se lui rientrasse mentre sto rompendo il muro, non lo sentirei arrivare. Saremmo nei guai entrambi. È un rischio che dobbiamo correre. Ormai siamo in gioco, ho già rotto la finestra del garage.» «Il garage si trova dall'altra parte, ed io non ho modo di accedervi. Non può incolparmi se qualcuno l'ha danneggiato. Ma se rompi la finestra, mi riterrà complice.» «Io non capisco. Preferisci restare sua prigioniera piuttosto che affrontare la sua ira? Che cosa ci perderesti?»
«Ieri per la prima volta dopo cinque lunghi e interminabili anni sono uscita da qui. Se il tuo piano fallisce, se non riesci a farmi scappare, per il resto della mia vita non mi porterà più da nessuna parte. Ecco cosa perderei.» «Posso farcela. Abbiamo ancora molto tempo a disposizione. Vuoi veramente che ne vada? Vuoi veramente rinunciare alla possibilità di scappare? Fosse anche una possibilità su mille, non varrebbe la pena provarci?» Seguì un lungo silenzio. Clarissa era combattuta. Certo che avrebbe voluto scappare, ma se Stefano non fosse riuscito ad aiutarla, lui avrebbe rischiato la vita, come già era accaduto al signor Castelletti, mentre lei avrebbe potuto dire addio alla speranza di nuove visite al mondo esterno. «Va bene» gli disse infine «rompi quel muro.» Stefano si mise all'opera. Non fu per niente semplice. Quel muro era costruito con una pietra molto resistente, dovette faticare parecchio. In più ci si mise anche il sole di giugno, che irradiava i suoi raggi, in quel momento, perfettamente perpendicolari. Scavò parecchio sotto la saldatura; quel tondino penetrava nel muro per non meno di venti centimetri. Quando riuscì a liberare il perno dal muro che fino a quel momento l'aveva circondato, guardò l'orologio posto sopra la porta della cucina: erano ati venticinque minuti. Se avesse continuato a scavare senza soste, avrebbe terminato prima delle quindici e trenta, al più alle sedici, nel caso fosse sopraggiunto qualche imprevisto. Avrebbero avuto un vantaggio discreto prima che quel bastardo rientrasse e si accorgesse che qualcuno aveva fatto scappare la sua preda. Aveva cominciato dal basso. Non solo per comodità, ma anche perché sperava di riuscire a creare un varco sufficiente ancor prima di aver liberato tutti gli ancoraggi; se ci fosse riuscito, avrebbero guadagnato altro tempo prezioso. Verso le tredici e trenta, Stefano aveva già scardinato i due perni di sotto e il primo del lato destro e in quel momento si stava dedicando al successivo: aveva deciso di terminare un intero lato, anche se sapeva che non sarebbe stato
sufficiente per allontanare la grata dal muro; avrebbe dovuto liberare almeno uno o forse due perni dalla parte opposta prima di riuscire a smuovere l’inferriata. Clarissa aveva preparato dei tramezzini con del pane in cassetta. Stefano accolse con favore quello spuntino, non mangiava dal giorno prima, da che aveva iniziato a seguirla. Per fortuna aveva bevuto, aveva una bottiglia d’acqua in auto che si era portata appresso, ma il lavoro sotto quel sole gli aveva fatto venire una gran sete; prima di mangiare ingollò quasi un litro d’acqua. Mentre assaporava il suo tramezzino al tonno, si rivolse a Clarissa: «Devi prepararne degli altri. E dobbiamo portarci via anche delle bottiglie d’acqua.» «Perché? Non sei in macchina?» «Sì, ma fai come ti dico. Ti spiego dopo, non è questo il momento per parlarne.» e così dicendo trangugiò l’ultimo boccone e si rimise al lavoro. Dopo aver finito di rompere il primo dei due lati, provò a smuovere la grata, che però rimase ferma. Non riuscì a smuoverla, se non fosse per una leggera vibrazione, neanche quando erano ormai liberi tutti i perni di sotto, quelli del lato destro e due dei tre del lato sinistro. Erano quasi le sedici e trenta, un’ora dopo le sue più rosee previsioni, quando riuscì a liberare anche l'ultimo perno del lato sinistro. Non aveva considerato un fattore fondamentale: la stanchezza. Non aveva tenuto conto del fatto che non avrebbe potuto mantenere lo stesso ritmo per tutto quel tempo. Nonostante il sole si fosse spostato e il casolare avesse iniziato a proiettare la sua ombra proteggendolo dall'arsura, per colpa della fatica aveva impiegato sempre più tempo per liberare ogni cardine. Nel frattempo aveva visto aumentare la preoccupazione sul volto di Clarissa, ma per quanto avesse provato ad accelerare per arginare la crescente angoscia di quella povera ragazza, non aveva potuto far nulla per contrastare quel naturale calo fisiologico del suo vigore fisico. «Ci siamo!» le disse infine, quand'ebbe terminato. Clarissa balzò dalla sedia come una recluta oziosa richiamata all’ordine da un superiore.
«Aiutami» le chiese «io tiro la grata verso di me e tu la spingi.» L'inferriata si mosse. Lo spazio era più che sufficiente per permetterle di arvi attraverso. «Prendi la roba che ti ho chiesto di preparare e saluta questo posto per l'ultima volta» le disse trionfante. Clarissa prese lo zaino che aveva preparato, lo stesso che aveva usato quattro anni prima, e che aveva trovato sempre lì, nello stesso posto. Lo ò a Stefano e scivolò dalla finestra mentre il suo salvatore reggeva l’inferriata.
3. Fuga per due
Stefano si caricò in spalla lo zaino e condusse Clarissa per mano. Si erano appena allontanati dal casolare che lei gli chiese dove avesse lasciato l'auto. «La macchina è fuori uso» le rispose. «Non stai scherzando. Non scherzeresti mai in un momento come questo, vero?» «No, non sto scherzando. Ieri si è fermata e non ha più voluto saperne di ripartire.» «E quando pensavi di dirmelo?» «Eri spaventata, ho dovuto faticare non poco per convincerti a fuggire. Se avessi saputo che eravamo a piedi probabilmente avresti rinunciato. Non avercela con me. Ho mentito per il tuo bene.» «Certo che avrei rinunciato! E lo sai perché? Perché sono già scappata una volta e lui mi ha ritrovato. Quanto tempo pensi che ci metterà prima di farlo con noi? Te lo dico io! Pochi minuti!» «Clarissa mancano tre ore al tramonto. Abbiamo un buon vantaggio, basta che non perdiamo altro tempo adesso.» «Potresti prendere degli attrezzi dal garage e provare ad aggiustarla» propose speranzosa Clarissa. «Non saprei dove mettere le mani» le rispose «ho provato a dare un’occhiata al motore ieri sera ma non ho visto niente di anomalo.» «Ma era buio. Forse con la luce potresti riuscirci.» «Clarissa, non è una questione di luce. Avevo una torcia. È che proprio non
saprei dove guardare.» «E cosa facciamo adesso?» domandò lei. «Possiamo seguire il sentiero. È da lì che sono venuto.» «No!» esclamò «è lì che mi ha trovata quando sono scappata. È troppo pericoloso, ci a lui con la macchina. E poi è molto lungo, l’hai visto anche tu. E una volta terminato c’è solo una strada. Che cosa facciamo, l’autostop? Con il rischio che sia lui a fermarsi?» «Hai ragione! Fammi pensare.» «C'è un posto» prese a dire «non molto lontano da qui, almeno andandoci in auto, dove organizzano escursioni di rafting per i turisti. Se riuscissimo a trovarlo potremmo chiedere aiuto a loro. So che bisogna andare a nord, ma non ho la più pallida idea di come potremmo orientarci.» «Il nord è da quella parte» le disse lui indicando con l’indice la direzione. «Come fai a saperlo? E come fai a esserne così sicuro?» «Mi regolo con il sole. La mattina, poco dopo l'alba, l'ombra che proietta è in direzione ovest, perché sorge a est. Se stendi le braccia con il sinistro verso la direzione dell'ombra e con il destro verso il sole, il nord sarà proprio di fronte a te. E poi ne ho avuto conferma a mezzogiorno: a quell'ora l'ombra è orientata verso il nord. Non ti preoccupare, non mi sbaglio, sono un apionato di escursionismo, e queste sono le basi della disciplina. Serve per non perdersi, per avere dei punti di riferimento.» «Non ne dubito.» «E allora coraggio, andiamo!» S'incamminarono nella direzione indicata da Stefano. Lui le chiese come avesse saputo di quel posto. Lei gli raccontò tutta la storia del signor Castelletti, di come aveva ascoltato la loro conversazione e del tragico epilogo di quella vicenda. Camminavano ormai da due ore. Il sole era diventato basso all'orizzonte.
«Tra un po' il sole tramonterà» esordì Stefano interrompendo il silenzio che era calato tra di loro dopo il racconto di quella vicenda. Clarissa si era rabbuiata al pensiero che una sorte simile potesse capitare anche a questo ragazzo che, animato da un grande senso di giustizia, incurante del pericolo, con tanta caparbietà aveva deciso di aiutarla. Stefano sentiva, invece, crescere il suo odio nei confronti di quell'essere così spregevole da aver rapito e segregato una ragazza, Dio solo sa per quali abietti motivi, e ucciso, così, a sangue freddo, chi prima di lui aveva tentato di salvarla. «Senza non mi sarà più possibile orientarmi. Rischieremmo di perderci. Anche se c'è ancora luce conviene fermarci e trovare un posto per are la notte.» «Pensi che ci siamo allontanati abbastanza?» «Sì, abbiamo camminato parecchio.» «Se non è già rientrato, lo farà a momenti e scoprirà che non ci sono più.» disse lei riferendosi a Nick. «Non ti preoccupare» cercò di tranquillizzarla «non verrà a cercarci nel bosco. Penserà che chi ti ha liberato deve essere arrivato in auto.» «Allora prenderà la macchina e troverà la tua in panne. E ci verrà a cercare.» «Non la troverà, l'ho spostata. Dal sentiero non si vede. E adesso sbrighiamoci a trovare un posto per la notte. Dobbiamo preparare un giaciglio comodo che ci protegga dal freddo.» Dopo una breve ricerca trovarono un posto che Stefano giudicò adatto per il loro scopo. Si trattava del relitto di un grande albero con il tronco cavo che avrebbe offerto loro un adeguato riparo dal vento. Con le coperte che le aveva chiesto di sottrarre, non avrebbero avuto problemi. Anche se era giugno, e di giorno si raggiungevano temperature elevate, a quell'altitudine, di notte e all'aperto, se non si fossero premuniti in quel modo, non avrebbero chiuso occhio per via del freddo. Clarissa pensò alla sua prima fuga, a quanto fosse stata superficiale a non considerare questo fattore: se Nick non l'avesse trovata, avrebbe ato una notte all'addiaccio senza nulla per coprirsi. Forse sarebbe morta assiderata. Stava per chiedergli se una cosa del genere, cioè morire di freddo a maggio, sarebbe
potuta capitare. Poi però non lo fece. Era successo tanto tempo fa e quella fuga si era conclusa prima e in maniera differente rispetto a come avrebbe voluto. Dopo aver preparato il giaciglio per la notte, Stefano prese dallo zaino due tramezzini e una bottiglia d'acqua. Si sedettero sulle fronde che aveva adagiato sotto il tronco per rendere un po' più morbido il terreno sul quale avrebbero ato la notte, per consumare quel frugale pasto. «Sarebbe bello accendere un fuoco» disse Clarissa con ancora metà del tramezzino in mano. «Non credo sia il caso» rispose contrariato Stefano «la prudenza non è mai troppa.» «Non mi avevi detto di stare tranquilla, che non sarebbe venuto a cercarci nel bosco?» «Sì, l'ho detto, ma se mi sbagliassi il fuoco sarebbe il modo migliore per farci scoprire. Dai, finisci di mangiare. Dobbiamo riposare. Non sappiamo quanta strada abbiamo ancora da percorrere.» Clarissa non aveva per niente sonno, per via di tutta l'adrenalina che le scorreva in circolo. Lo stupore nel trovarsi di fronte quel ragazzo; la speranza di ritrovare la libertà che si era rianimata; la paura che Nick potesse rientrare prima, uccidere Stefano e mettere in atto nei suoi confronti la vendetta tanto paventata; lo sconforto nell'apprendere di non avere a disposizione un'auto; il timore di rivivere quanto già ato durante la sua prima fuga; l'angosciante apprensione che il suo aguzzino potesse materializzarsi da un momento all'altro trasformando in illusione la speranza che forse questa era la volta buona, che forse finalmente avrebbe riabbracciato i suoi genitori, i suoi amici e Fabrizio, che forse, non solo quella notte, ma anche per tutte le notti a venire, non avrebbe più dormito in quel letto che aveva accolto i suoi sogni tormentati negli ultimi cinque anni: tutte queste emozioni si agitavano in le, in un turbinio che aveva spazzato via ogni forma di stanchezza. «Come hai fatto a riconoscermi?» «Ti ho visto qualche sera fa in televisione. C'era un programma dove parlavano della tua scomparsa.»
«Parlano ancora di me?» «Credo che fosse una replica di qualche vecchio programma, perché é andato in onda a tarda notte.» «E tu cosa facevi in piedi a quell'ora?» «Ero in guardiola, toccava a me il turno di piantone quella notte.» «A cosa dovevi fare la guardia?» «Sto facendo il servizio militare. Non l’ho fatto prima per via dell'università, ma dopo la laurea ho dovuto farlo. Al momento sono di stanza a Irsino, un paese non molto lontano dall'ipermercato dove ci siamo incontrati.» «Cosa ci facevi in quell'ipermercato?» «Ma cos'é, un interrogatorio?» «Dai, non fare lo stupido.» «Ero in licenza premio, stavo ritornando al mio paese. Mi sono fermato lì per comprare dei prodotti del posto da portare ai miei genitori e un regalino per i miei nipoti, i figli di mia sorella. Poi ti ho visto e ti ho subito riconosciuta. Sono un buon fisionomista. Eri diversa dalla foto, ma sapevo che eri tu, non ne ho mai dubitato.» «Sono sicura che avrai un altro premesso premio, più lungo. E pure una medaglia.» «Sì, certo, magari quando uscirò dalla gattabuia, se non avranno buttato la chiave.» «Perché dici questo?» «Il permesso era solo di due giorni. Domani sera entro le diciannove dovrò presentarmi in caserma. Se non lo faccio, sarò dichiarato disertore.» «Così mi metti paura. Riusciremo mai a uscire da questo posto, sempre che lui non ci trovi prima?»
«Certo che usciremo da qui. Solo che potrebbe volerci del tempo, per questo ti ho chiesto di preparare un po' di provviste. Non ho dubbi sul fatto che ti porterò in salvo, ma non credo in tempo per rientrare in caserma domani sera. È questa la mia unica preoccupazione. Sai com'è la vita militare, non si scherza su queste cose.» «Non capisco il motivo della tua preoccupazione. Quando sapranno la ragione del tuo mancato rientro, non potranno dirti niente. Anzi dovrebbero elogiarti pubblicamente.» «Penso che tu abbia ragione. Ma un po' di preoccupazione mi resterà sempre. Non fraintendermi, però, non mi sono pentito di averti aiutato, e lo rifarei in qualsiasi momento, a costo di dover are il resto della mia vita dietro le sbarre di una cella.» «Perché hai pensato che fossi stata rapita? In fondo ero in un supermercato a fare la spesa con un uomo. Poteva essere stata una mia scelta quella di scappare e non aver dato più notizie di me.» «Se non ti avessi riconosciuta, non ci avrei fatto caso. Com'è avvenuto con tutte le persone presenti, vi avrei scambiato per dei semplici clienti. Ma quando ho capito chi eri ho prestato attenzione al tuo comportamento. E allora ho visto che ti giravi spesso a controllare quell'uomo, che non eri per niente tranquilla, che avevi paura. Per questo motivo ho deciso di seguirvi. E l'ho fatto fino all'inizio del sentiero, dove la macchina si è fermata.» «Hai percorso a piedi tutto il sentiero?» «Sì, ci ho impiegato quasi tutta la notte, sono arrivato poco prima dell'alba.» «Mi dispiace tanto che tu abbia percorso tutta quella strada a piedi per colpa mia.» «Non dispiacerti. Ci sono abituato. Ho fatto camminate anche più lunghe. Solo che avevo paura di non riuscire più a trovarti. Il nascondiglio nel quale ti teneva poteva essere molto distante, o non essere visibile dal sentiero. Quando ho visto quel casolare, speravo fosse il posto giusto, ma non potevo esserne sicuro. Ne ho avuto conferma solo quando ho visto quel Nick andare via. Se non fosse stata la casa giusta, avrei dovuto rimettermi in marcia con il rammarico di aver perso del tempo prezioso.»
«E invece mi hai trovato. Non pensarci più.» «Già, adesso dobbiamo pensare solo a riposare. Domani ci alzeremo presto, appena ci sarà un po’ di luce. E se quel posto è lontano, vorrà dire che dovremo camminare per tutto il giorno. Penso sia meglio smettere di parlare e metterci a dormire.» Stefano era sfinito, era sveglio da più di quaranta ore, aveva camminato per tutta la notte precedente, e aveva ato l’intera mattinata e parte del pomeriggio a spaccarsi la schiena sotto il sole per liberare quella finestra dalla grata. Si addormentò non appena poggiò la testa su quel cumolo di foglie che aveva sistemato a mo’ di cuscino. Clarissa ci impiegò un po' più di tempo, ma alla fine cedette anche lei e dormì di un sonno inquieto interrotto da brevi risvegli attraverso i quali ogni volta si sincerava di non aver sognato e di essere realmente nel bosco con Stefano.
Furono svegliati entrambi dalle prime luci dell'alba. Recuperarono tutta la loro roba e si rimisero in marcia. «Aspetta! Voglio trovare io il nord.» disse Clarissa mentre si metteva nella posizione che le aveva insegnato Stefano il giorno prima «è da quella parte» disse indicando la direzione con l’indice. «Bravissima» si complimentò lui prima di caricarsi lo zaino in spalla e di invitarla, con un cenno della testa, a seguirlo. Il cielo era completamente sgombro da nuvole, si annunciava un'altra giornata afosa. E una giornata torrida non era certo l'ideale per una camminata che poteva rivelarsi molto lunga; Stefano avrebbe preferito la pioggia. Non tanto per lui, conosceva il suo grado di resistenza, ma non conosceva quello di Clarissa: se fosse stato basso, non avrebbero percorso molta strada. Per loro fortuna gli alberi offrivano un'ottima copertura dai raggi del sole. Per quanto l'afa, che sarebbe sicuramente arrivata durante la mattinata, avrebbe rallentato la loro marcia, almeno sulle loro teste non sarebbero calati a picco i roventi raggi di quel sole di giugno. Sperò che la coltre di foglie, che adesso gli faceva da scudo, lungo il tragitto non si diradasse.
Camminarono per alcune ore prima di sentire un rumore di sottofondo. Uno scroscio continuo e sommesso. Avevano incrociato il fiume. Era il fiume che cercavano, quel fiume sul quale apionati della disciplina o turisti in cerca di emozioni forti, con la propria attrezzatura o dietro la guida di un istruttore, a bordo di un gommone e in gruppi di quattro, sei o otto persone, cavalcavano le rapide che la conformazione di quella terra creava in più punti. Eppure mai nessun posto era apparso loro più desolato di quello appena raggiunto. Avevano sperato di trovare quel fiume dall'inizio della loro marcia, erano andati a nord e sulla direzione non si erano sbagliati - di questo Stefano ne aveva assoluta certezza - eppure non vi era il minimo segno che su quel fiume si praticasse quello sport. Avrebbero dovuto trovare una costruzione che fungesse da base operativa, il luogo dove conservavano, quando inutilizzata, tutta l'attrezzatura; ma neanche di quella vi era traccia. «Mi dispiace, ti ho portato fin qui inutilmente, solo sulla base di alcune informazioni che credevo di aver carpito correttamente. Ma è chiaro che mi sbagliavo» disse Clarissa mortificata. «Non è detto che tu ti sia sbagliata. Forse non abbiamo considerato un fattore importante» le rispose. «Sarebbe?» «Sarebbe che i fiumi non seguono una linea retta.» «Non riesco a seguire il tuo ragionamento. Potresti spiegarti meglio?» «Quando abbiano visto il fiume, abbiamo pensato entrambi di essere arrivati a destinazione. Ma non credo sia così. Forse abbiamo solo incrociato un'ansa del fiume.» Ora Clarissa aveva compreso il suo pensiero. E quel ragionamento non avrebbe dato adito a grandi obiezioni, nemmeno da parte del più puntuale degli oppositori.
«Credo che non abbiamo ancora raggiunto il luogo da dove partono le escursioni» riprese «penso si trovi più avanti, oltre il fiume.» «Se seguissimo il fiume, troveremmo ciò che stiamo cercando.» disse Clarissa. «Non possiamo seguire il percorso del fiume. In questo tratto si estende da est a ovest e noi dobbiamo andare a Nord. Non abbiamo modo di sapere se dobbiamo andare a destra o a sinistra, né di quanto allungheremmo seguendolo. C'é solo una cosa che possiamo fare. Attraversare il fiume.» «Scommetto che anche questa volta tu non stia scherzando» gli rispose. «Scommessa vinta.» «Ma tu hai idea di quanto possa essere profondo in questo punto? E come facciamo con le scarpe e i vestiti? Ce ne andiamo in giro completamente fradici?» «No! Non so quanto sia profondo. I vestiti e le scarpe li mettiamo nello zaino. Lo terrò sollevato, fuori dall'acqua.» «Tu sei pazzo se credi che mi spogli davanti a te!» gli rispose. «Non saremo nudi, resteremo con la roba intima. Quella si asciugherà presto.» «Pensi che cambi molto?» «Clarissa, non abbiamo scelta» e così dicendo iniziò a spogliarsi. Clarissa aveva messo il broncio, ma non poté fare altro che imitarlo. Misero i vestiti e le scarpe, dei quali si erano appena spogliati, nello zaino che Stefano sollevò sul suo capo prima di invitare Clarissa a seguirlo in acqua. La sensazione fu davvero piacevole: la temperatura dell'acqua rinfrescò i loro corpi accaldati. Dopo pochi i l'acqua arrivò all'altezza dei loro stomaci. «Ho paura che il fiume sia più profondo di quanto pensassi» le disse Stefano «sai nuotare?» «Si» gli rispose «ma come facciamo con la corrente?»
«Non ti preoccupare. Non è forte, non ci farà allontanare di molto.» «E come farai con lo zaino? Si bagnerà.» «Lo terrò sollevato con un braccio. Nuoterò con l'altro.» L'acqua diventò quasi subito alta. Per loro fortuna in quel punto il fiume non era molto largo; anche se a fatica, Stefano raggiunse la sponda opposta dove ad attenderlo c'era Clarissa che, non avendo un carico da trasportare, era arrivata prima. Si rivestirono e ripresero il cammino. Incrociarono il fiume una seconda volta. Questa volta trovarono ciò che cercavano: un grande capanno di legno, con un portico sul davanti. Anche lì, però, era tutto deserto. Si avvicinarono alla costruzione ma la trovarono chiusa, porte e imposte erano sprangate. Non si demoralizzarono, era una cosa normale e del tutto prevedibile: lì non c'era nessuno perché erano fuori per l'escursione. La cosa importante era che, presto o tardi, qualcuno sarebbe arrivato. E allora avrebbero chiesto aiuto. Ormai erano ad un o dalla salvezza, Clarissa avrebbe riabbracciato la sua famiglia e forse Stefano sarebbe rientrato in tempo in caserma. O, quantomeno, avrebbe potuto dare notizie di se. Clarissa non riusciva a crederci. Certo, non erano ancora in salvo, dovevano sempre stare all'erta ed evitare di uscire allo scoperto, Nick poteva essere sulle loro tracce: ma ormai era quasi fatta. Se fossero rimasti nascosti finché quel gruppo di escursionisti fosse rientrato, sarebbero saliti a bordo di una delle loro auto. Esternò il suo pensiero: «forse conviene restare nascosti. Lui potrebbe venire a cercarci qui.» «Non sa che sei a conoscenza di questo posto, vero? Era convinto che tu dormissi, o mi sbaglio?» «Non ti sbagli. Non l'ha mai scoperto. Se ne avesse avuto anche solo il minimo sentore, ti posso assicurare che l'avrei saputo.»
«Comunque hai ragione, meglio non rischiare.» Cercarono un punto che gli permettesse di tenere sotto controllo il capanno ma che li nascondesse alla vista di chi vi fosse giunto. Si sedettero ai piedi di un albero e rimasero in attesa. Ma più il tempo ava, più facevano fatica a tenere gli occhi aperti. Non potevano addormentarsi, dovevano restare vigili, in attesa che quel gruppo rientrasse. Ma la stanchezza era troppa. Avevano dormito poco e camminato tanto. Lentamente, con dolcezza, cullati da una lieve brezza, le palpebre si chio e scivolarono in un sonno profondo. Qualcosa la destò. Clarissa aprì gli occhi e, mentre se li stropicciava, chiese a Stefano se fosse sveglio. Non ottenendo risposta si girò per controllare se fosse ancora lì o se si fosse già alzato. Stefano era lì, con la testa fracassata da un masso che giaceva lì vicino, riverso in una pozza alimentata dal sangue che continuava a sprizzare dalla sua tempia. Urlò terrorizzata. Si allontanò strisciando da seduta, finché non urtò contro qualcosa. Si girò per vedere cosa l'avesse fermata: in piedi, alle sue spalle, c'era Nick. Era a pezzi, aveva ato tutta la notte a cercarli. Aveva però trovato la forza di sollevare quel masso e di scagliarlo con violenza sulla testa di quel ragazzo che gli aveva distrutto il finestrino della rimessa e scardinato l'inferriata. Quel ragazzo che aveva poi visto riposare al fianco della sua Clarissa.
Quella mattina avrebbero atteso invano l'arrivo del gruppo di escursionisti: Nick aveva rimandato quell'uscita. Nessuno avrebbe potuto sostituirlo, era l'unico in grado di condurre in sicurezza i turisti tra le rapide di quel fiume. Appena aveva scoperto che Clarissa era stata aiutata a fuggire, si era lanciato al
loro inseguimento. Verso la fine del sentiero aveva notato delle siepi falciate. Si era fermato e, a piedi, aveva seguito quella scia di rami spezzati fino a trovare l'auto che di sicuro apparteneva alla persona che l'aveva liberata. Vi aveva guardato dentro e aveva visto le chiavi inserite. Aveva provato a metterla in moto, ma il motore aveva solo singhiozzato. Era in panne, per questo si trovava lì. Chi aveva aiutato Clarissa a scappare l'aveva nascosta, prima di abbandonarla, per non fargli sapere che erano a piedi. Dovevano trovarsi nel bosco, allora, non avrebbero seguito il sentiero, sarebbe stato troppo rischioso farlo. Durante la notte aveva provato a immaginare chi fosse stato a farla fuggire. Chi poteva sapere che lei era lì? Forse qualcuno che al supermercato l'aveva riconosciuta e che li aveva seguiti? Poteva darsi. Oppure un escursionista che si era spinto fino al casolare? Se questa era l'ipotesi corretta, allora quella persona probabilmente conosceva il capanno dal quale partivano per il rafting; e, se lo conosceva, l'avrebbe condotta lì in cerca di aiuto. L'indomani li avrebbe cercati in quel punto.
Clarissa si era chiesta spesso che lavoro fe il suo aguzzino, ma ogni volta che gliel'aveva domandato, lui le aveva risposto che erano fatti che non la riguardavano. Se avesse saputo del suo lavoro, non si sarebbero mai diretti in quel posto. E la sua fuga si sarebbe conclusa diversamente: con lei libera e Stefano ancora vivo. La perdita del suo nuovo amico fu un trauma. Anche se avevano ato poche ore insieme, si era affezionata a quel ragazzo. In più non aveva mai assistito a una scena cruenta. Ritrovarselo accanto, con la testa fracassata, grondante di sangue, la turbò parecchio.
Nick la chiuse nel capanno. Quando la fece uscire, Stefano non c'era più, così come non c'erano più il masso insanguinato e la pozza di sangue.
Nick le fece segno di seguirla. Era stanco, ma non sembrava arrabbiato. Questa volta non ce l'aveva con lei. Non era stata una sua iniziativa, era stato quel ragazzo a essersi intromesso tra di loro. E quel ragazzo era già stato punito. Clarissa guardò l'ombra che proiettava Nick. Si stendeva, di poco, alle sue spalle: significava che era mezzogiorno, che il sole aveva raggiunto lo zenit e che loro si dirigevano a sud. Era quello che le aveva insegnato Stefano.
Epilogo
1. Qualcosa è cambiato
Dopo quella brutta disavventura, Clarissa aveva definitivamente perso le speranze di sfuggire alle grinfie del suo aguzzino; con la morte di Stefano il suo grado di rassegnazione era arrivato al massimo livello: non avrebbe più tentato la fuga, anzi, se si fosse presentato qualcun altro per offrirle il suo aiuto, avrebbe rifiutato, lo avrebbe implorato di andare via e di mettersi in salvo. Aveva pensato che il casolare fosse la sua prigione, ma si era sbagliata, la sua prigione era molto più ampia, la sua prigione era l'intero bosco e Nick ne era il guardiano. Non poteva in alcun modo scappare. Era come trovarsi imbrigliati in un'enorme ragnatela. A un certo punto aveva creduto di esserne fuori, ma la sua speranza si era rivelata vana, era ancora all'interno di quelle maglie; sarebbe potuta arrivare nella regione più estrema, ma questa era sempre all'interno del suo dominio. Non c'era modo di fuggire, non vi riuscì neanche quando qualcuno provò ad aiutarla. Eppure ci aveva provato, in tutti i modi possibili. Non le importava se un giorno avrebbe dovuto giustificare la sua rinuncia; non le importava del senso di colpa che la tormentava: aveva fatto quello che aveva potuto. Non avrebbe più provato a scappare, era rassegnata a quella vita. Non avrebbe più lottato, non ne avrebbe avuto la forza.
Dopo la morte di Stefano cambiarono molte cose. Nick rinunciò ai suoi progetti. Non l’avrebbe più portata in giro, era troppo pericoloso, la volta precedente gli era servita da lezione.
Non avrebbe più osato fare una cosa del genere: era bastata una sola uscita pubblica per scatenare un simile putiferio. Prima di portarla con sé al centro commerciale si era domandato se non fosse troppo presto; ma evidentemente il problema non era quello. Forse il rischio che qualcuno la riconoscesse non era inversamente proporzionale al tempo trascorso, quel rischio non diminuiva man mano che gli anni avano: in qualunque momento qualcuno avrebbe potuto riconoscerla. No, non avrebbe più osato fare una cosa simile. Per fortuna non era accaduto nulla. Dopo due anni poteva ritenere conclusa positivamente quella vicenda, senza ulteriori ripercussioni. Ma aveva dovuto darsi non poco da fare perché tutto si aggiustasse. Era stato costretto ad ammazzare ancora. Aveva, ancora una volta, dovuto occultare un cadavere. Preferì non simulare un incidente, come aveva fatto con il signor Castelletti. Perché, per quanto improbabile, avrebbe potuto destare sospetto il fatto che, nella stessa zona, si fosse ripetuto un incidente simile a quello già avvenuto qualche anno prima. E poi, mentre il signor Castelletti aveva un motivo per trovarsi da quelle parti, quel ragazzo non ne aveva nessuno. Più difficile era stato liberarsi della macchina. Era andato a piedi, portandosi dietro gli attrezzi, fin dove aveva visto l'auto il giorno prima. L’aveva messa a posto e aveva guidato fino a casa, per poi nasconderla nella rimessa. Nelle settimane successive l'aveva smontata pezzo per pezzo. Si era liberato dei rottami lasciandoli delle volte nel recinto di uno sfasciacarrozze, dove, accatastati in un angolo, c’erano altri rifiuti; altre volte in alcune discariche a cielo aperto, ma solo se vi era dell’altro materiale ferroso; altre ancora nei bidoni di raccolta lasciati, in attesa che si riempissero, nel cortile di una fonderia. Ci vollero diversi mesi, ma riuscì a liberarsi di ogni pezzo senza destare il minimo sospetto.
Le precauzioni adottate da Nick non si limitarono alla sola rinuncia alle uscite con Clarissa: dopo molti anni ati di sopra, per lei fu riaperta la porta dei
sotterranei. Non di notte, di notte dormiva sempre nella sua stanza. Ma quando Nick andava al lavoro, oppure quando si assentava per altri motivi, venne di nuovo rinchiusa nel seminterrato. Non poteva più permettersi di lasciarla in casa da sola, non dopo quello che era successo. Fu una regressione, quella, che peggiorò ancora di più il suo umore. Non solo aveva dovuto dire addio all’idea di vedere altre persone, adesso doveva trascorrere la maggior parte della giornata nella cantina. Ma due anni dopo la morte di Stefano qualcosa cambiò. Clarissa non riuscì più a tenere a bada il senso di colpa. Non riuscì più a perdonarsi il fatto di aver gettato la spugna. I suoi genitori soffrivano per la sua scomparsa: lasciarsi andare, accettare gli eventi senza fare niente per cambiarli, significava essere responsabile della loro sofferenza. Questo non riuscì più ad accettarlo.
2. Amanita phalloides
Da un po' di tempo, nei giorni in cui Nick non lavorava, andavano insieme a correre. Era quella l’unica uscita che le era permessa. Poteva prendere un po’ d’aria, ma non avrebbe incontrato altre persone: quella possibilità, ormai, le era stata preclusa per sempre. A Clarissa piaceva molto correre nel bosco. Aveva anche lei l’abitudine di farlo, prima del rapimento. Andava di mattina presto, quando non c'erano ancora auto in giro; credeva che a quell'ora l’aria fosse pulita. Correndo nel bosco capì di essersi sbagliata. Capì cosa significasse realmente parlare di aria pura. Se un giorno fosse tornata libera, le sarebbe mancata terribilmente la bellezza di quei posti e la purezza di quell’aria. Un giorno, in autunno, dopo aver corso, Nick prese dalla rimessa due cestini in vimini. Avrebbe portato Clarissa a raccogliere i funghi. Ci teneva a usare i cestini in vimini. S’infuriava con chi usava le buste di plastica: solo le sporte in vimini permettono alle spore che cadono dalle lamelle di spargersi nel terreno contribuendo alla nascita di altri funghi. Le buste di plastica, invece, ne impediscono la fuoriuscita. Per questo motivo, nelle zone più battute, di funghi ne spuntano sempre meno. Quello era il posto perfetto per i funghi, soprattutto perché non ci andava mai nessuno. Ce n'erano molte varietà, certi erano enormi, altri più piccoli, atri ancora veramente belli. Clarissa non conosceva le varie specie, ma Nick sì, era lui a indicarle quelli buoni da raccogliere. Poi faceva un controllo del suo cestino, per sincerarsi che non ne avesse raccolti di velenosi. Voleva che imparasse a riconoscerli, ma non s’impegnava più di tanto; per questo non si sentiva mai sicura, ed era costretta, il più delle volte, a chiedere
conferma sulla bontà di questo o quel fungo. Questo fino a quando non iniziò a prestare estrema attenzione ai suoi insegnamenti. Il 22 marzo del 1999, un lunedì, Clarissa indossò l'incerata di Nick, che aveva delle tasche molto capienti. Aveva preso l’incerata perché voleva infilarsi nelle tasche alcuni funghi: non di una specie qualsiasi, ma di una in particolare. Fu molto attenta e quando sotto un albero riconobbe un gruppetto di quei funghi, se ne infilò qualcuno in tasca, di nascosto, mentre lui era impegnato a raccoglierne altri; riuscì a non farsi scoprire. Quei funghi le servivano per preparare un risotto. Quando cucinava, Nick solitamente si dedicava ad altre faccende. Aveva la cucina a sua disposizione. Sul gas mise una pentola in più; oltre la pentola per il brodo e quella per il risotto, usò un pentolino. Gli sarebbe servito per cucinare i funghi che aveva raccolto di nascosto. Appena cotti, li versò in un piatto, lavò il pentolino e lo rimise a posto. Poi versò il risotto: metà in un piatto vuoto e metà nel piatto che conteneva i funghi raccolti a parte. Nick era un vero esperto. La invitava a prestare attenzione soprattutto ad alcune specie. Funghi molto pericolosi poiché hanno al loro interno tossine particolarmente nocive: tossine che resistono anche alla cottura. Più volte le aveva mostrato, assicurandosi che ascoltasse con attenzione, l’amanita phalloides, uno dei funghi più pericolosi, se non il più pericoloso in assoluto, presente in quelle zone. Prima dei suoi insegnamenti Clarissa conosceva un solo fungo velenoso, l’amanita muscaria, anche se non ne conosceva il nome, era stato Nick a dirglielo. È un fungo facile da individuare, ha il cappello rosso a pois bianchi. Non ci si può sbagliare. L'amanita phalloides è differente, non ha nessuna particolarità evidente. Ha la forma, il colore e la dimensione di un comune fungo. Ma è proprio questo che lo rende micidiale: a vederlo sembra innocuo.
Si tratta di un vero e proprio veleno. Basta un solo fungo per portare un adulto alla morte. Non ci si rende subito conto dell’avvelenamento; l’incubazione è lunga, possono are anche dodici ore dall’insorgenza dei primi sintomi. E una volta comparsi, quei sintomi non sono subito associati all’avvelenamento. Compaiono nausea, vomito, diarrea, all'inizio in forma così lieve da non destare sospetto, da essere confusi con una banale gastroenterite. Per questo l’avvelenamento da amanita è così insidioso: perché a un intervallo abbastanza lungo senza problemi, e, quando i sintomi si manifestano, non sembrano pericolosi. A quel punto, però, è già troppo tardi. Il fegato è già compromesso, danneggiato in maniera irreversibile, e la morte sopraggiunge in breve tempo. Questa fine diventa ineluttabile se si è avuto la “fortuna” di fare un buon raccolto. Nel qual caso c'è la concreta possibilità che quei funghi possano essere consumati più volte durante la giornata. A pranzo e a cena, ad esempio. E se un solo fungo è sufficiente per avvelenare a morte un adulto, una dose maggiore, somministrata a più riprese, non lascia scampo. Infatti, se una possibilità di salvezza ci può essere in una lavanda gastrica fatta per tempo, in un’eventualità di quel tipo ogni tentativo di scampare alla morte diventa vano. Erano di quella specie i funghi che Clarissa aveva raccolto di nascosto e cucinato. Erano di quella specie i funghi che Clarissa aveva messo nel piatto destinato a Nick. Questa storia si sarebbe chiusa solo con una terza vittima: se due persone, in precedenza, avevano perso la vita a causa sua, adesso Nick l’avrebbe persa per mano sua. Nick non sospettò nulla. Non era la prima volta che Clarissa cucinava i funghi raccolti. Lui le aveva sempre controllato il suo cestino, mai addosso, non gli era mai ato per la mente che potesse fare una cosa del genere. Non aveva visto pentole differenti rispetto al solito, perché aveva rimesso a posto il pentolino usato per cucinare l'amanita. Non si era accorto di nulla, perché Clarissa non aveva tradito la minima emozione: aveva mangiato come se nulla fosse, come una spietata mantide religiosa che si nutre del maschio durante il rapporto.
Non avrebbe potuto sospettare niente. Dopo anni di totale remissione, di completa rassegnazione, non avrebbe mai immaginato che potesse essere in grado di fare una cosa simile. Quando Nick avvertì i primi sintomi, un dubbio lo pervase. Aveva controllato il cestino di Clarissa? Ma sì, certo, ricordava perfettamente di averlo fatto. L’aveva controllato per bene? Era proprio sicuro di averne verificato con attenzione il contenuto? Non poteva essere che in quel momento fosse distratto? No, era sicuro. Aveva controllato per bene. Doveva avergli fatto male qualcosa. Non poteva trattarsi di qualche fungo velenoso sfuggito al suo controllo, altrimenti anche Clarissa si sarebbe sentita male. Più tardi sarebbe andato a controllare se stava bene. Ma non adesso, adesso si sarebbe riposato un po'.
Il suo stato peggiorò. Aveva controllato il cestino, era sicuro di questo, e l’aveva anche controllato attentamente. A quel punto gli apparve tutto molto chiaro. Non poteva essere altrimenti. Clarissa l'aveva avvelenato. Non c’erano più dubbi. Non era un mal di pancia, stava troppo male perché lo fosse. Provò ad alzarsi, ma era molto debole. Riuscì ad arrivare fino alla stanza di Clarissa, abbassò la maniglia, ma la porta non si aprì. Iniziò a sbraitare. Era consapevole che la sua fine era vicina, conosceva fin troppo bene gli effetti dannosi delle tossine di quei funghi, eppure aveva in mente un solo pensiero: vendicarsi, farle pagare a caro prezzo questo suo scherzo. Poi, però, prese il sopravvento l'istinto di sopravvivenza. Allora iniziò a
implorarla, a supplicarla. Le chiese di salvarlo, di portarlo in ospedale. Non gli importava che l’avrebbero scoperto, disse, voleva sopravvivere. Clarissa restò barricata all'interno della sua camera. Non cedette alle sue minacce e, anche se a fatica, riuscì a farsi scivolare addosso le sue suppliche. Rimase in attesa della sua fine. Si era portata in camera dell'acqua e qualcosa da mangiare, aveva spostato il comò davanti alla porta per evitare che riuscisse ad aprirla: avrebbe atteso con pazienza la sua morte. Non scappò, questa volta. Non voleva fuggire, dovendosi guardare alle spalle. Non più. Questa volta sarebbe andata via solo quando avrebbe avuto la certezza di essere veramente salva. Uscì dalla sua camera. Aveva smesso di sentire la sua voce già da un pezzo. Si diresse in camera del suo aguzzino, voleva accertarsi che fosse finita veramente. Nel caso fosse ancora vivo sarebbe tornata indietro; a quel punto lui non avrebbe potuto seguirla, non ne avrebbe avuto la forza. Quando entrò in camera, lo trovò disteso sul letto. Provò a scuoterlo, ma non reagì. Prese dal comodino una piccola cornice con la foto di una ragazza e la avvicinò al suo naso. Sul vetro della cornice non si formò la condensa: Nick aveva già esalato il suo ultimo respiro, il veleno si era portato via la sua vita. Prima di uscire dalla camera cercò le chiavi della porta e dell'auto. Non andò subito via. Prima volle farsi un giro della casa, per l’ultima volta. In fondo ci aveva ato sette anni della sua vita. Non si trattava di un saluto, o di un addio. Voleva solo guardare quel posto sapendo di farlo per l’ultima volta, per rendersi conto che era finita veramente, che non l'avrebbe mai più rivisto. Scese nel seminterrato. Era così bella la consapevolezza che non avrebbe dovuto
are più un solo minuto in quel luogo opprimente. Infine aprì lo sgabuzzino. Era l'unica parte della casa nella quale non aveva mai messo piede. Quando l'attenzione per la sua storia si era esaurita, come le ceneri residue di un falò spazzate via dal vento, poté accedere al salotto; non si parlava più di lei, pertanto poteva guardare la televisione. Ma non era mai entrata in quello stanzino. Anzi in quello che credeva essere uno stanzino. Perché quando vi entrò, scoprì che in realtà era molto grande. E scoprì anche il motivo per il quale lui non le aveva mai permesso di entrarci: lì vi aveva conservato gli effetti personali delle tante ragazze che aveva rapito e ucciso. Vi trovò vestiti, scarpe, borsette con dentro i documenti di quelle povere ragazze. Dio, ce n'erano un'infinità. Più in là le indagini le permisero di capire quanto fosse stata fortunata. Se solo fosse stata rapita l'anno prima, avrebbe fatto la stessa fine di quelle ragazze. Provò un senso di nausea. Uscì dallo sgabuzzino prima che una sorta di vertigine la risucchiasse in quel vortice di terrore. Uscì da quella casa. Salì in auto e discese il sentiero. Era libera. Questa volta, per davvero, era libera.
Quel momento, per lei, non rappresentò la fine di una brutta storia, ma un inizio: l'inizio di una nuova fase della sua vita, quella di una ragazza che, dopo sette lunghi anni, poteva finalmente riscoprire la libertà. Non sapeva cosa avrebbe fatto nei giorni a venire, dopo aver riabbracciato i suoi genitori. Avrebbe rivisto Fabrizio?
Sarebbe uscita con i suoi amici? Non ne aveva idea, ma di una cosa era sicura. Da quel giorno avrebbe fatto tardi la sera, visto che per tutti quegli anni era andata a letto presto.
Fine
Un ringraziamento particolare va a mia moglie, per tutto il o fornito, in particolar modo nella definizione degli stati d’animo della protagonista.
Ringrazio inoltre Giulio Vinci, amico di vecchia data e formidabile chitarrista dei gruppi musicali "Os Argonautas" e "PhOrnOamicrOonde", per aver creduto in me, per i preziosi consigli, e per essersi prestato come "cavia" per la lettura della prima stesura.