Vanessa Zavanella
Storie vere mai accadute
© 2014 Gilgamesh Edizioni
Via Curtatone e Montanara, 3 – 46041 Asola (MN)
[email protected] - www.gilgameshedizioni.com
Tel. 0376/1586414
ISBN 978-88-6867-057-3
È vietata la riproduzione non autorizzata.
Illustrazioni di Beatrice Varriale
In copertina: L'ispirazione di Vanessa di Beatrice Varriale
© Tutti i diritti riservati
UUID: 978-88-6867-057-3
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Indice
Chi vola non sa camminare Il matrimonio di Anna-pest Balthazar Monsieur Latemp e i ricconi sui tulipani La lupa La notte della chimera La città Chi resta L’orfano La battaglia dell’Uomo La liberazione dell’universo Metamorfosi Il cuore di Alice Torna da me Ringraziamenti
ANUNNAKI
Narrativa ebook
7
Avete mai provato a chiedervi se quello che vi succede attorno è reale?
Questa raccolta di racconti potrebbe essere la risposta.
Attraverso un ato che forse non è mai esistito e mondi paralleli dominati da esseri che scavalcano qualunque limite, dalle barriere solide alla morte, fino a padroneggiare perfettamente l’ubiquità, i personaggi del libro si rincorrono attraverso amori violenti e dolci vendette per dimostrare che le storie vere non accadono mai.
Vanessa Zavanella è nata nel ’92 a Mantova, dove attualmente vive.
Si è diplomata al Liceo Classico “Virgilio” di Mantova nel 2011 ed è iscritta al corso di Lettere Moderne dell’Università di Bologna.
Ha pubblicato articoli per i giornali La Nuova Cronaca di Mantova, Lo Sguardo, la webzine Sul Romanzo e un libro di poesie intitolato ato.
Dedico questo libro a una persona che mi è rimasta accanto per nove anni,
qualunque cosa accadesse, dovunque fossi:
a Mara, sperando che la nostra amicizia si conservi in eterno.
Chi vola non sa camminare
La giovane donna era in piedi sul gradino più alto della scala che portava alla cantina.
Di fronte a lei prendeva forma una larga strada, perché non c’era una porta a proteggere il suo mondo sotterraneo.
Sentiva bene la canzone che i ragazzi avevano messo alle sue spalle per farsi compagnia mentre spostavano la mobilia da una stanza all'altra. Il ritmo le prese le gambe e i lunghi capelli neri cominciarono a ondeggiarle lungo i fianchi, ma era ferma nella propria preoccupazione.
Chiuse gli occhi sul volto pallido e inspirò piano.
Si gettò perpendicolarmente alle scale, controllando con perfezione ogni singolo aspetto del movimento. Offrì la spalla sinistra e una porzione della guancia allo spostamento lieve dell'aria. Abbassò il sedere e sfilò più vicina ai gradini, senza peso. Vide che quattro sui amici stavano spostando un letto da una stanza a quella di fronte, bloccandole il aggio.
Decise che un po' di divertimento non poteva farle male.
Sorrise in modo misterioso e sfilò sotto l'unica, stretta apertura tra il materasso e il pavimento. Mentre lo faceva, alzò con grazia il mento verso le molle ed ebbe una fugace visione della cantina: un lungo corridoio colorato, sgargiante, che sembrava essere stato dipinto senza nessuna apparente logica, se non quella di usare solo colori i caldi, separava due file di porte perfettamente regolari, una di
fronte all'altra, in legno massiccio. Si voltò per godere l'espressione ammirata degli amici: non si stancavano mai di vederla giocare a mezz'aria.
Continuando a scivolare verso la propria meta, rivolse un sorriso radioso ai suoi spettatori e alzò con studiata lentezza le braccia lungo i fianchi facendo un cenno, come per dire voilà. Tornò a concentrarsi sui propri pensieri e veleggiò più rapidamente verso l'unica porta in fondo al corridoio, di fronte alle scale. Quando arrivò a poca distanza da questa, si accovacciò, ancora sospesa sul pavimento, di fronte all'uscio. Bussò con convinzione. «Nastagio, vi prego, apritemi.» Non ricevette nessuna risposta, se non un rumore di conati soffocati. La giovane aprì lentamente. La stanza era buia.«Nastagio, il vostro silenzio m'è pesante come un fardello...» L’uomo chiamato Nastagio divenne improvvisamente visibile dalla penombra, perché la ragazza aveva lasciato uno spiraglio aperto.
Stava seduto su un'alta sedia e teneva ben stretta una botte tra le gambe. Quando apriva la bocca per sfogare il rigurgito, si poteva vederne uscire una grande testa appartenente a un uomo, cianotica; ma nel giro di qualche istante, l'essere veniva completamente espulso, lasciando solo una fugace apparizione delle gambe. Questo atto gli provocava la disarticolazione dolorosa della mascella e una lacrima gli scorreva lungo una guancia. Lei si avvicinò cupa alla botte, supina, e guardò nel contenitore: era già pieno per metà. ò una mano gentile sui capelli dell’uomo chinato e sussurrò:
«Nastagio, venite con me, fuori dalla cantina. Stare qui vi porta questi crudeli pensieri». Nastagio scacciò la carezza e disse, guardandole il volto:
«Non uscirò da questa stanza finché non avrai imparato a correre».«Ma voi sapete ch'io non riesco a correre! Finché sto sospesa, l'aria mi sorregge amichevole, ma appena poso piede a terra... Mi lega le gambe senza via d'uscita.» L’uomo abbassò lo sguardo e riprese a vomitare.
Lei continuò:
«Perché non vi piace guardare i miei arabeschi alati? Agli altri nostri amici divertono moltissimo». Detto ciò si fece trascinare verso sinistra da un rapido movimento con la mano e il braccio, avvitandosi graziosamente sul dorso; fece poi un'inaspettata capriola all'indietro e si afferrò i piedi, prendendo la forma di un cerchio.«È così bello volare, mio buon amico. Perché non imparate voi la mia arte, anziché io la vostra?»«Tu non voli, Tamara. Ti limiti a stare sospesa per aria. E comunque, qui ho da fare. Se desideri che continuiamo gli esercizi per correre, ben venga. Altrimenti, lasciami in pace.» Nastagio riprese a vomitare con impegno. Tamara incrociò gambe e braccia e cominciò a ruotare come un fusillo nell'acqua della pentola.
Planò con precisione sotto il volto dell'amico, che, non avendola vista, le lanciò un cadavere addosso. La ragazza lo afferrò senza fatica, anche se l'urto la spostò lievemente verso il cerchio della botte.
Quando lui si accorse che il corpo non era caduto, aguzzò lo sguardo verso il basso e si spaventò non poco, finché non vide, sotto l'uomo livido, Tamara che lo stringeva, ridendo a crepapelle. Nastagio fece schioccare la lingua con impazienza e buttò le braccia lungo i fianchi.«E va bene, sia. Usciamo.» La giovane fece una forte esclamazione di gioia e veleggiò con delicatezza verso l'uscita. Per ingannare l'attesa, si mise a giocare con un enorme lampadario, non presente prima che la ragazza entrasse nella stanza di Nastagio.
Notò le decorazioni di ampi drappi rossi, che pendevano fino a terra con lunghezze diverse. Tamara si divertiva placidamente, facendoli scorrere sul suo corpo sinuoso.
D'un tratto le venne un'idea divertente. Prese un membro del suo pubblico estasiato e lo sollevò fino al soffitto, senza nessuna difficoltà.
Improvvisarono un'elegante valzer attorno alla sfera cristallina, che riluceva a causa della luce proveniente dall'apertura della cantina.
Quando lo riportò sul pavimento, circondata da risate festose, arrivò Nastagio. Era cupo, molto diverso da come apparivano gli altri inquilini.
Prese per mano Tamara, quasi a invitarla a scendere, ma lei non fece segno di
accorgersene e tenendo strette le dita dell'amico, risalì le scale a pancia in su, con le braccia spalancate.«Ma non ti stufi mai?» le chiese Nastagio.«Preoccupatevi piuttosto di istruirmi bene alla corsa» rispose Tamara. Fuori dal sotterraneo splendeva un sole forte che mostrava una grande città, piena di palazzi di una certa altezza e parecchi incroci. Tamara, ubbidiente, dalla precedente posizione a testa in giù, posò per la prima volta da mesi i piedi a terra. Si vedeva subito che le gambe ne soffrivano e pareva decisamente appesantita.«Ora camminiamo lungo questa via. Fai come faccio io e presta attenzione a non alzare le ginocchia in modo troppo irruento.» Nastagio iniziò a muoversi lentamente per consentire a Tamara di copiare l'atto. La ragazza lo osservò attentamente per un po', poi decise di tentare. Ma quando alzò il ginocchio, lo fece con tale violenza che si sradicò dal suolo e si staccò di almeno un metro, sempre con la gamba alzata.
Dapprima sorpresa, rise poi di gusto, alzò anche l'altra e veleggiò pacifica con le ginocchia puntate verso il sole e i capelli a terra.«Basta!» urlò Nastagio indignato «Torna qui!» Tamara atterrò mesta di fronte a lui e notò che aveva il volto scarlatto. Riprovò, anche se l'aria le era molto d'impedimento.
Capitava che riuscisse a fare tre i in scioltezza, ma doveva fermarsi presto, come se le avessero chiuso le gambe in un sacco. E tuttavia si divertiva: provò anche qualche tentativo di corsa e, addirittura, per qualche metro si muoveva con una certa velocità.
Nastagio, esaltato dai risultati dell'amica e non curandosi degli sguardi indagatori dei anti, prese anch'esso a correre dietro a Tamara imitando la sua
particolare andatura, ridendo. Quando furono molto stanchi e decisero di tornare alla loro cantina, Tamara chiese: «Allora, Nastagio, ricomincerete a non volgermi più la parola, seppure sia stata oggi una buona allieva?». Lui la guardò con tenerezza, si fermò e alzò le braccia. La fanciulla lo sollevò senza nessuna fatica afferrandogli i polsi. Stringendolo, Tamara guidò Nastagio verso le case, in un punto dove si trovava qualche edificio diroccato.
Per farlo divertire, scivolò in modo acrobatico attraverso le fessure nei muri e creò qualche sviluppo labirintico, tanto che, alla fine, non sapevano più da dove fossero entrati. Approfittando dello straniamento dell’amico, lei gli disse, sussurrando:
«Non mi avete risposto». Lui prese un respiro profondo e rispose, afferrandole un braccio:
«No, avevo torto sui tuoi arabeschi. A proposito, quando ti sei infilata sotto la rete del letto è stato notevole». Lei divenne purpurea e disse:
«Allora... Allora piacciono anche a voi».
L' emozione nello scoprire che Nastagio trovava sollievo e divertimento osservando le sue evoluzioni era palpabile. Le accarezzò i capelli con dolcezza:
«Ma certamente. Sono l'unica e la migliore distrazione che mi concedo le poche volte che posso mettere il naso fuori dalla stanza». La ragazza gli prese una mano e, tenendola nella propria, provocò una lieve spinta che avvicinò i loro corpi. Rimase tranquilla nella stretta di Nastagio, ma presto parve ricordare qualcosa e assunse una strana rigidezza.«S'è fatto tardi.Ho sottratto tempo alle vostre prime occupazioni.» Lui rimase spiazzato per un attimo, ma non ribatté a quanto detto da Tamara, né fece commenti. La ragazza scivolò fuori da una fessura nel tetto della casa in cui si erano fermati e depose l’uomo sul marciapiede di fronte.«Allora, buonanotte» disse Tamara, con voce inespressiva.«Non torni a casa?» chiese Nastagio, con preoccupazione.«Oh, no. Non è ancora calato un buio così inespugnabile. Andate e non fatevi troppo pensiero di me.» Nastagio, un po' dubbioso, camminò in direzione della cantina, pensando alla botte che lo aspettava nella propria stanza. Tamara, per distrarsi un po', camminò qualche metro a testa in giù, come se stesse calpestando il cielo. Ma visto che questo non le era di alcun sollievo, decise di rientrare anch'essa a casa, mentre osservava con aria impenetrabile le stelle.
Il matrimonio di Anna-pest
«Re Peste e sua figlia, la principessina Anna-pest!»
Quando i due comparvero sul tappeto rosso che conduceva all’altare nuziale, ci furono giubilo e ovazioni; scheletri e cadaveri di pochi giorni in abiti sfarzosi offrivano fiori e dolciumi alla piccola principessa dal volto butterato e color madreperla. Dal lazzaretto si levarono i cori dei moribondi, che spiravano al aggio degli aristocratici.
«Anna-pest, guardate, un giorno tutto questo sarà vostro, mia pupilla adorata!»
Un corteo di topi neri le reggevano l’abito bianco.
«Padre, padre! Io non mi voglio sposare!»
«Ma che dite? I vostri pretendenti aspettano una risposta.»
Si presentò uno scheletro dall’andatura sghemba che si piegò sulla manina coperta di croste, nell’imitazione grottesca di quello che avrebbe dovuto essere un bacio galante. Ma Anna-pest scosse la testa.
Si presentò un giovanotto morto da poco che le porse un mazzo di rose apite. Ma Anna-pest scosse la testa.
Si presentò un vecchio sdentato dalla pelle consunta offrendole una collana d’oro. Ma Anna-pest non lo degnò neppure di uno sguardo. Allora, tutti gli aspiranti intonarono un canto:
«Oh Anna-pest, Anna-pest dal cuore crudele! Ci hai tolto la vita e ora ci neghi il tuo amore! Principessa dal cuore di ghiaccio, se non scegli un marito, che tu possa restare con i topi neri che per il mondo portano l’ambasciata di tuo padre. Anna-pest, non essere schizzinosa e scegli chi tra noi in futuro proteggerà il tuo popolo e ne ingrosserà le fila con gioia e ilarità».
E avanzarono verso di lei con ogni genere di doni. La piccina girò i tacchi e corse a perdifiato per tutte le vie del lazzaretto, finché esausta si fermò a osservare una scena curiosa: un uomo molto anziano vestito da frate cappuccino stava pregando assieme a uno molto più giovane e vestito poveramente per qualcuno di cui Anna-pest riusciva a scorgere solo un paio di stivali neri.
Finalmente i due se ne andarono e lei poté vedere il volto del suo nuovo suddito. Si intuiva piuttosto facilmente l’origine nobiliare dell’individuo a causa della spada che gli pendeva sul fianco, seppure indossasse solo una lunga camicia sporca di macchie giallognole; aveva il volto olivastro, ornato da fini baffi neri.
Al vederlo, lei esclamò: «Oh, per tutte le piaghe putrefatte di mio padre! Questo è il dannato che voglio sposare!».
Rimase a osservarlo rapita ancora per qualche tempo; non l’aveva mai visto, eppure notò come qualunque dettaglio della sua persona e dei bubboni le parlasse di lui.
“I bubboni non mentono mai!” soleva dirle il genitore.
A quel pensiero le sovvenne Re Peste, abbandonato sull’altare per gli sposalizi e corse di nuovo a cercarlo per comunicargli la sua scelta.
Gli arrivò di spalle: «Padre!» e lui sobbalzò.
«Padre, ho deciso chi voglio sposare!»
Tutti cominciarono a battere le mani e a mormorare entusiasti, anche i pretendenti.
Il re sorrise alla figlia: «Ebbene, portami da chi ti ha rapito il cuore e lo faremo principe del lazzaretto, un giorno suo padrone indiscusso!».
Anna-pest prese per mano il genitore vestito di un magnifico abito giallo e lo condusse dove aveva assistito alla morte dell’amato. Era ancora lì e sembrava che stesse dormendo.
«è lui?» chiese Re Peste alla figlia. Anna-pest annuì solamente, troppo emozionata per parlare.
«Sia fatto il tuo volere, mia pupilla. Gioiranno tutti della tua scelta.»
Il re si sistemò l’abito con aria compunta e si avvicinò al cadavere: «Buon uomo…».
Vedendo che quello non rispondeva alzò la voce: «Ehm ehm. Buon uomo!».
Il poveretto sobbalzò nel giaciglio improvvisato, composto da un po’ di pagliericcio schiacciato.
«Che succede? Non ero morto?!»
«Oh, sì. E sta per diventare il più fortunato di tutto il lazzaretto.»
Il nobile, pensando a uno scherzo biascicò: «Quel fratucolo da strapazzo mi sentirà se sono scherzi da fare…».
«Ma cos’ha da borbottare! Suvvia! Oggi la sorte le è favorevole» strillò Re Peste, dimenticando la compunzione.
L’ospite si alzò all’improvviso, ma era, per quell’epoca, considerato svestito e Anna-pest rise melodiosamente da dov’era nascosta.
«Chi ha osato ridere di me? Io, don Rodrigo!»
«Il suo nome e tutto il resto non ha più importanza, le servirà solo un buon vestito. Gioisca! Oggi sposerà la mia dolce bambina, Anna-pest! Uomo fortunato! è stato preferito a sudditi millenari.»
Re Peste porse una bella giacca color porpora e un paio di pantaloni a don Rodrigo, con tanto di fusciacca.
«No, io non mi sono mai sposato e di certo non lo farò perché me lo dice un buffone…»
Lo interruppe Re Peste: «Mio futuro erede, se contraddirai le mie regole ti caverò via quelle piaghe purulente per l’eternità e ti assicuro che sentirai dolore».
L’uomo rimase piuttosto impressionato da quest’ultima affermazione, soprattutto perché il monarca che desiderava così ardentemente averlo per suocero aveva tutto l’aspetto di un cadavere decomposto da qualche anno; notava dei particolari che avrebbero quasi potuto definirsi grotteschi, seppur macabri, come la mancanza completa dell’occhio destro e lo stomaco ridicolmente gonfio da cui fuoriusciva un trionfo di vermi. Apparentemente a causa dello scoppio d’ira di Re Peste, sembravano brulicare ancora più forsennatamente.
Il fu don Rodrigo, pensando ci fosse una scappatoia, disse: «Va bene. Sposerò questa Anna-pest. A quanto ammonta la dote?».
«Tutto il lazzaretto! E la mia corona, una volta scomparso.»
«Potrò far morire di peste chiunque voglia?»
«Ma che domande! Tutto per l’uomo amato da mia figlia.»
Don Rodrigo era quasi convinto: «Bene, la prendo, subito, adesso, presentatemela!».
Re Peste chiamò la futura sposa: «Mia pupilla, il vostro uomo desidera darvi uno sguardo e conoscervi».
Anna-pest uscì dal suo nascondiglio e camminò lentamente verso di lui.
«Che zuccherino» pensò don Rodrigo quando la vide.
«Piacere. Io sono Anna-pest, la vostra futura moglie.»
La figlia di Re Peste appariva piuttosto imbarazzata e si grattava nervosamente una verruchetta sul mignolo della mano destra. Aveva un corona di rose apite attorno alla testa. Era obiettivamente graziosa, nonostante il colorito poco sano e la figura vagamente idrocefala.
«Quanti anni hai?» le chiese lui.
«Quindici anni.»
«Bene,» pensò don Rodrigo «sarebbe proprio una cara mogliettina.»
«Allora, la vuole sposare?» disse Re Peste, con un accento vagamente isterico nella voce.
«E sia! Oggi stesso.»
«Allora indossate il vestito e venite con me.»
Don Rodrigo si sistemò e seguì tutto arzillo la fidanzata e Re Peste.
Tornarono all’altare e il monarca esclamò:
«Ecco a voi, parenti, amici, la scelta di mia figlia; si chiamerà Rodrigo il Famigerato Morbo. Un giorno mi succederà per darvi altri anni di morte serena e nuovi arrivati da festeggiare!».
Il fu don Rodrigo si sentiva più felice di quanto non lo fosse mai stato in vita; quella strana allegria ultraterrena l’aveva contagiato.
«E ora, celebriamo il matrimonio!»
Quello che sarebbe stato un prete era un untore che chiese a entrambi gli sposi di confermare la loro decisone. Poi ci fu una grande festa con dolci, frutta, i migliori vini del mondo, e il Famigerato Morbo pensò che sicuramente in quel mondo colorato e vivace, per nulla spaventato da scheletri e bubboni, avrebbe ato un ottimo periodo.
Per prima cosa chiese a Re Peste di portargli fra Cristoforo e fu accontentato. Tuttavia, non si scoprì così soddisfatto della vendetta giacché anche il frate trovava salutare la rinascita ad abitante pustoloso del lazzaretto e si scopriva traboccante di energia: quel luogo aveva tutto quello che ogni morto desiderava, come feste, buon cibo, bella compagnia, oppure biblioteche e musei, ma soprattutto case accoglienti.
Tutti vivevano (se mi è concesso dirlo) in pace e armonia.
Così, il Famigerato Morbo don Rodrigo, decise di risparmiare Renzo Tramaglino dalla peste e fargli condurre una vita di miserie.
Quando sentiva quest’ultimo ringraziare per non essere morto, sghignazzava perversamente.
Balthazar
Era una fredda giornata di ottobre.
Il villaggio piccolo e sperduto riposava in una pianura tra le montagne; ai giorni nostri il suo nome è già stato dimenticato. Si sa solo che si trattava di un paesello italiano, probabilmente sorgeva vicino a Firenze, ma in realtà anche questo non è certo…
Gli abitanti erano immersi nelle loro solite faccende: nelle case, le donne cucinavano e rammendavano, mentre gli uomini si preparavano per andare a pascolare le capre.
La natura all’esterno era immobile e silenziosa; per questo si stupirono all’improvviso rumore causato da un forte tintinnio, appartenente senza dubbio ai finimenti di qualche cavallo che trainava una serie di ruote molto veloci.
Gli uomini furono i primi ad affacciarsi alle porte, mentre mogli e figlie in casa aguzzavano le orecchie per capire da dove provenisse il suono.
Ben presto i contadini videro comparire dalla nebbia una gigantesca carrozza di legno intarsiata d’oro, trainata da otto cavalli bianchi, anzi, albini.
Gli animali erano ornati da finimenti di broccato con le borchie di rubini e le gualdrappe tempestate di zaffiri e perle.
Il misterioso mezzo si fermò davanti al municipio.
Dopo qualche minuto di trepidante attesa, ne uscì un giovanotto alto e prestante, vestito di velluto nero che lanciò un sorriso ammiccante. Camminò contegnoso ed eretto fino al centro della piazza e chiese del sindaco, dal quale fu raggiunto in poco tempo.
Mentre parlavano, gli uomini, anche se ancora timorosi, si avvicinarono alla carrozza per ammirare le tende di broccato e accarezzare i cavalli albini.
«Buongiorno, signor sindaco. Il mio nome è Baldassarre De’ Medici, cugino di secondo grado di Lorenzo De’ Medici. Residente a Firenze dalla nascita.»
Mostrò zelante la patente di nobiltà.
«Benvenuto, giovanotto. Lieto di avere qui tra noi un personaggio così illustre. Ma, perdonatemi, a cosa dobbiamo questo grandissimo onore?»
Baldassarre si inchinò leggermente per raggiungere l’orecchio del vecchio e nel frattempo gli posò una mano ornata da un unico pesantissimo anello con il blasone di famiglia sulla spalla:
«Detto tra noi, signor sindaco, alla corte fiorentina le donne hanno perso tutto il loro antico fascino. Forse qui c’è qualche bella ragazza disposta a sposare il sottoscritto».
«Ma sicuro! Un bell’uomo come voi! Ne avrete fino a stancarvene…»
«Bene, bene! Ma mi raccomando, non dite nulla per ora, ho intenzione di fare con calma.»
Poi guardò negli occhi il suo interlocutore e quest’ultimo si sentì strano. Pensò a causa di quell’azzurro glaciale; a un esame più approfondito notò che avevano qualcosa di ipnotico e ricordò di quando sua nonna da bambino gli raccontava del potere dell’Occhio Malo, il sortilegio che poteva ridurre in schiavitù la mente di chi aveva la sfortuna di incrociarlo.
«Voi non lo farete» disse Baldassarre, e il vecchio si dimenticò inspiegabilmente di quello cui stava pensando prima e annuì frastornato.
Quando i due ebbero terminato la conversazione, la gente curiosa si fece attorno al nobiluomo, compresi donne e bambini, per farne la conoscenza e lo sommersero di domande riguardo età, lavoro e situazione matrimoniale; si scoprì che Baldassarre aveva appena compiuto trent’anni, era rigorosamente senza lavoro e celibe.
Tutto si svolgeva secondo i classici canoni che imponeva la cortesia quattrocentesca, o quantomeno, i poveri contadini si sforzavano in questo senso, finché una bambina disse: «Signore, che odore strano, sembrano quasi uova marce… Ma siete un diavolo? I diavoli sono sempre ricchi e puzzano così…».
Ovviamente la piccola fu fatta sparire in fretta dalla scena. Tanto sforzo per apparire meritevoli dell’attenzione che il personaggio illustre aveva riservato a quel posto miserabile, tutto rovinato perché un’inutile creatura gli aveva detto che puzzava.
L’uomo fece uno dei suoi sorrisi più accattivanti e scrutò negli occhi tutti i presenti: «Vogliate perdonare questo profumo inusitato: il cuoco, per salutare la mia partenza, ha deciso di farmi gustare una pietanza della Cina, l’Uovo dei cent’anni».
Un borbottio ammirato percorse velocemente la platea per affermare la grande familiarità del De’ Medici con i costumi del mondo.
Riprese:
«Ma orsù, amici, adesso ditemi dov’è la locanda del paese: ho intenzione di offrire un buon pranzo a tutti!».
Ci furono esclamazioni di stupore e gioia.
Baldassarre fu letteralmente trascinato via dalla folla: gli uomini gli stringevano amichevolmente la mano; le donne lo guardavano affascinate e ammirate.
Una di loro tentò di confluire al centro di quel pandemonio per parlare con lui. Gli afferrò con fare suadente il polso, per avvertirlo della sua presenza:
«Illustrissimo duca, mi presento: sono Ilaria».
«Piacere, signorina.»
Le prese la mano e gliela baciò, poi la guardò fissamente negli occhi e lei cominciò a sentirsi strana, forse innamorata.
«I vostri occhi sembrano potenti, avete forse il dono dell’Occhio Malo?»
«Nulla di tutto questo, li ho ereditati da parte materna.»
Chiacchierarono per tutto il tragitto verso l’osteria e Baldassarre gestiva alla perfezione ogni argomento di conversazione, dalla moda alle ultime novità in campo culturale.
La locanda comparve dopo mezz’ora di cammino, ed era veramente ben tenuta, per essere in un tal genere di villaggio, ma, di fronte alla bellezza rifulgente dei vestiti e dello stesso Baldassarre, sembrava la peggiore delle bettole.
La folla si scansò, invitandolo a entrare per primo, e lui si inchinò modesto.
Prese posto nel mezzo di un enorme tavolo in fondo alla camera in legno e gli invitati facevano a gare per stargli il più vicino possibile.
I bambini gli giocavano tra le gambe contando gli arabeschi cuciti sulle scarpe e il nobiluomo spesso allungava loro un fiorino con un sorriso indulgente.
«Che cosa desiderate?» chiese il sindaco a Baldassarre.
«Se non vi offende, mi farò preparare quello che ho portato con me. Naturalmente ce n’è per voi tutti: caviale di salmone e arrosto di agnello affogato nel Chianti, poi insalata di patate, bistecca di cervo, un buon Ramandolo per annaffiare il tutto e per dolce torta di mele.»
«Illustrissimo, la vostra carrozza è rimasta più in là, come farete a…»
Il De’ Medici non sembrava affatto turbato dalla questione.
«Il mio cocchiere mi segue ovunque vada. Quindi, siate gentile, mandate qualcuno fuori a prendere il pranzo.»
Il sindaco era lievemente incredulo, ma non era opportuno darlo a vedere.
Mandò due ragazzi fuori dalla locanda, e questi ultimi portavano davvero un quantitativo di cibarie adatto a placare anche la fame in sogno.
Baldassarre osservò compiaciuto le manovre di trasporto verso la cucina.
«Informate che ogni cosa deve essere cucinata senza sale, per cortesia» continuò Baldassarre, fissando il sindaco negli occhi.
L’uomo andò a dare disposizioni al cameriere, ma tornò poco dopo seguito da quest’ultimo:
«Mi perdoni illustrissimo duca De’ Medici, gli arrosti senza sale non si possono proprio fare, verrebbero un vero obbrobrio…».
Baldassarre gli sorrise, scrutandolo:
«Non preoccuparti di questo, non posso mangiare sale a causa di miei disturbi di salute. Andrà bene così».
Sulla tavola troneggiavano i coloratissimi e raffinati cibi che i palati contadini non avevano mai neppure osato sognare e tutti ridevano e scherzavano. Erano totalmente rapiti dalla cultura che dimostrava Baldassarre, mentre lui divorava contegnoso il suo arrosto di cervo senza sale.
Solo la bambina, quella che gli aveva fatto notare il peculiare odore di marcio, stava in un angolo a fissarlo senza gioia, sentendo crescere dentro di sé un terrore che non sapeva spiegarsi.
Anche lui la guardava e lei dimenticava all’improvviso la paura e pensava a cose piacevoli, ma contrastava quella fiducia che sentiva essere condizionata artificialmente dall’uomo che le stava di fronte.
Il nobile la invitò a sederglisi accanto. La bambina andò subito.
«Come ti chiami?»
«Veronica.»
«Hai paura di me, Veronica?»
«Molta, sì.»
Quest’ultima affermazione provocò una risata belluina e prolungata da parte dei commensali.
«Dove sono la mamma e il papà?»
«Mio papà è a casa malato, mentre la mamma è morta.»
«Non hai altri parenti che vivono con te?»
«C’è mia sorella…»
A quel punto saltò in mezzo Ilaria, seduta alla destra di Baldassarre:
«Sono io la sorella di questa sciocchina».
Lui sorrise.
«Che graziosa; ma, dimmi, perché ti faccio tanto angosciare?»
«Non lo so… È talmente alto che oscura il sole e odora come un diavolo.»
«Ora lo zio Baldassarre ti regala una bella mancina con cui comprarti delle bambole e vestiti, ma devi promettermi che non avrai più paura di me.»
La scrutò e lei si sentì strana, come se qualcuno le stesse accarezzando una guancia per celare una misteriosa minaccia:
«Promesso».
«Brava piccina!» e le diede tre fiorini, tra le risate generali degli ormai ubriachi commensali.
I mesi correvano veloci e Baldassarre ritenne opportuno comunicare la sua volontà di trovare una moglie in quel villaggio. Tutte le fanciulle sognavano un matrimonio con lui per la bellezza e la parlantina, ma anche i padri delle ragazze sognavano che queste si sposassero con lui per il portafoglio a fisarmonica.
Baldassarre De’ Medici non faceva mancare nulla alle sue spasimanti, così non si capiva chi preferisse e ciascuna credeva di essere la preda ambita, ma Ilaria sembrava senz’altro la più decisa ad accaparrarsi il giovanotto.
Era una calda giornata di giugno.
Tutto appariva gaio e spensierato, molto diverso dal clima in cui si era presentato Baldassare tempo prima.
Gli abitanti del villaggio formavano un’allegra comitiva che aveva appena finito di pranzare all’osteria. Il nobiluomo aveva terminato un abbondante pasto cucinato senza sale, come sua abitudine, e mentre teneva un paio di bambini per gamba, qualche signorina avvinghiata alle braccia, tintinnò un cucchiaio contro il bicchiere:
«Signori, ormai sono otto mesi da quando giunsi qui da voi, mandato per grazia del destino, e di Dio. Come promisi, domani finalmente mi sceglierò una sposa, ma nel frattempo siete tutti invitati alla festa campale che organizzerò domani sera, alla fine della quale nominerò la ragazza designata».
Gli strinsero tutti la mano e lo ringraziarono calorosamente per l’onore concesso al villaggio. Lui, rispettoso, abbassava gli occhi verso terra, dove qualche fanciullo speranzoso aspettava la mancia abituale.
Baldassarre aveva fatto le cose in grande. Lo spiazzo era quello nel centro del paese, davanti alla chiesa: si era occupato di portare le vivande e organizzare i
festeggiamenti.
Ovunque troneggiavano immense torte di panna; le pietanze erano composte da carne di cinghiale e verdure di vario genere.
Il nobiluomo aveva anche fatti preparare piatti più rustici per non mettere in imbarazzo i commensali.
Quando i paesani arrivarono, lo trovarono vicino a una torta, intento a scrutare i festoni che aveva fatto appendere dai suoi servi.
Tutti i partecipanti avevano fatto del loro meglio per apparire eleganti, soprattutto le ragazze, ma Baldassarre era il più bello, completamente vestito di bianco, con la camicia ricamata di fiamme rosse e d’oro.
Inutile dire che anche Ilaria e Veronica erano presenti. Perfino il padre delle due si era rimesso in fretta dal suo male per prendere parte a quel grande evento e ne aveva approfittato per discutere con il nobiluomo della casuale presenza di un fratello minore per la figlia più giovane.
Più di tutto stupiva la gioia che pervadeva i cuori degli invitati, talmente immensa che ognuno di loro si mise a ballare e cantare.
Baldassarre batté le mani e un’orchestra inesistente cominciò a produrre melodie, ma nessuno faceva caso allo strano fenomeno.
Le ragazze si portarono al centro della piazza e iniziarono i i che le madri avevano insegnato loro con tanta cura fin da bambine. Ed era davvero un bello spettacolo vedere i colori delle camicie e delle gonne grezze che risplendevano nella luce ovattata.
Le danze si fecero impercettibilmente sempre più vorticose con il ritmo della musica; era un mulinare continuo, torbido, che all’improvviso condusse le giovani maritate da poco a lasciare le mani dei loro sposi per accompagnarsi ai vecchi più decrepiti; così i ragazzi abbandonavano le fidanzate e cingevano i fianchi delle donne avvizzite.
La pazzia aveva oscurato tutti gli occhi allargando le pupille e irrigidendo le iridi; i danzatori dimenticavano la propria esistenza, di avere mai amato.
Bevevano vino come se fosse stata acqua e questo rendeva i movimenti dei partecipanti ancora più grotteschi.
Baldassarre ballava con Veronica, che non riusciva a spiegarsi come fosse finita tra le braccia di un uomo che temeva come nient’altro.
Mentre volteggiava con eleganza, il nobiluomo stese un braccio:
«Ammira, Veronica, la perversione, la depravazione della tua gente!».
La bambina si mise a piangere:
«Ma perché ci fate questo? Vi abbiamo voluto bene. Da noi ha avuto ospitalità e fiducia. Mia sorella si era innamorata di voi…».
Baldassarre scoppiò in una grassa risata e cominciarono a cadere pesanti gocce di pioggia che puzzavano di zolfo:
«Voi miseri mortali! Tu sei l’unica che ha avvertito la mia potenza distruttiva! Nessuno può amarmi, mocciosa. Io sono Balthazar, il Demonio!».
Allora la bambina, con uno strattone, riuscì a liberarsi e corse in mezzo ai suoi compaesani.
I capelli delle ragazze cadevano a terra e gli occhi rotolavano fuori dalle orbite, mentre i corpi dei ragazzi si accartocciavano come foglie secche al vento e venivano sommersi da un gigantesco torrente di melma:
«Tu sarai condannata! Ti risparmierò e mi seguirai per avvertire i villaggi del mio arrivo. Ma nessuno ti darà ascolto».
Poi Baldassarre lanciò un lungo urlo che aveva poco di umano e risuonò per tutta la vallata. Veronica vide arrivare un grande cavallo nero correre a briglia sciolta verso il suo padrone, mangiandosi velocemente la strada che lo separava da lui.
Balthazar si trasfigurò in una creatura informe e non aveva più nulla del fascino del Baldassarre che si era presentato al villaggio mesi fa: la pelle grigia, i denti storti, il corpo curvo come un vecchio stanco.
«Addio, bambina.»
Montò in sella e scomparve sotto lo sguardo esterrefatto di Veronica. Lei lentamente si voltò e vide cos’era rimasto del suo villaggio: solo un enorme cumulo di fango, che poco per volta si trasformò in un prato verde, come se non ci fosse mai stato costruito nulla.
Era rimasta sola e decise che avrebbe tentato di fermarlo a tutti i costi, nonostante le ultime parole di avvertimento del diavolo.
Veronica vagò di villaggio in villaggio per fermare l’avanzata di Balthazar, ma in pochi le credettero e coloro che le prestarono ascolto, quando lo vedevano nelle vesti di Baldassarre la cacciarono via senza reticenze.
Molti villaggi furono cancellati dalla memoria delle carte geografiche italiane e tutto questo accadde perché l’aspetto lezioso del diavolo ebbe sempre più potere della verità.
Monsieur Latemp e i ricconi sui tulipani
«Inaudito, mai vista una cosa simile!» urlava qualcuno per strada.
Erano le otto di mattina in punto nella maggiore piazza parigina e una folla si era fermata intorno agli enormi tulipani gialli cresciuti all’improvviso nei pressi della Tour Eiffel.
Monsieur Latemp si fermò sotto uno di essi e si mise a chiamare a gran voce:
«Maddalena!»
Una gigantesca ragnatela cadde dal primo fiore della schiera, e l’uomo si mise a piangere mestamente.
La triste storia di Monsieur Latemp, scrittore povero in canna, iniziò quando conobbe Maddalena Malatesta, una ricca italiana di nobili origini.
I due si incontrarono un po’ per caso, e, nonostante la grave crisi pecuniaria in cui versava Monsieur Latemp, decisero di sposarsi dopo qualche tempo. Tuttavia, ben presto la carriera da attrice della signora Malatesta decollò, e lui si ritrovò piantato in asso da un giorno all’altro. La ex consorte, da brava riccona snob quale era, andò a vivere
in un hotel rinomato di Parigi.
Ma cos’era accaduto quella mattina di cui parlavo poco fa?
Cinque tulipani, disposti in fila ordinata, svettavano sulla piazza, e l’uomo piangeva ancora per quella che considerava la perdita della sua Maddalena.
Senza nessun motivo apparente, Monsieur Latemp si mise sotto il secondo e cominciò a parlare:
«E lei, che mi racconta?»
«Luis Fragonard, riccone di Strasburgo, piacere» rispose una voce lontana.
«Perché si trova lassù?»
«Un tempo anch’io fui povero e vissi coi miei adorati rampolli, ma poi mi accasai con una benestante vedova di Salisburgo e li abbandonai in Francia. Mi dissero che la folla del quattordici luglio maledetto me li uccise.»
«Non mi capacito di come abbia potuto dare più valore al denaro che ai suoi figli.»
Un’enorme ragnatela cadde fluttuando dal tulipano.
Monsieur Latemp, costernato, si avvicinò ad essa e provò ad esaminarla. Richiamò a gran voce il suo interlocutore, ma non ottenne risposta. Capì che aveva tra le mani i resti di Fragonard.
Era alquanto preoccupato, credendo di essere lui stesso la causa della metamorfosi del riccone, quindi decise che per il resto del giorno avrebbe fatto meglio a starsene a casa.
Portò con sé la tela della sua Maddalena, e mentre l’accarezzava, su un foglio di carta scrisse questo:
“Non c’è pietà per chi dimentica se stesso”.
Monsieur Latemp rimase a meditare per tutta la notte, finché, con aria risoluta, prese il cappotto e tornò sotto i tulipani, che nel frattempo da cinque erano diventati sette.
Andò sotto il terzo e gridò:
«Buongiorno a lei!»
«Macché buongiorno e buongiorno,» rispose quello «qua è notte!»
«Mi parli di lei, Monsieur.»
«E che ti posso dire: sono morto, null’altro che questo.»
«Per via di quali cause si trova lassù?»
«Per la causa della morte, ti dico» replicò l’uomo, brusco.
«Come moristi?»
«Mi mancarono carta e penna, ohimè!»
Il burbero scoppiò in un pianto dirotto.
«Ero un povero scrittore sconosciuto. L’opera peggiore che scrissi mi fruttò tanto di quell’oro che nessuno poteva immaginare. Come venne la ricchezza, lasciai perdere carta e penna. Sentendomi abbandonato dalla Musa, ne morii.»
«Ora è il mio turno di presentarmi: Monsieur Latemp, di mestiere sono scrittore.»
La ragnatela che gli piovve addosso tentò brutalmente di soffocarlo, di certo per invidia, e fu solo con grande difficoltà che riuscì a districarsene.
Al quarto tulipano, decise che si sarebbe arrampicato su di esso per veder morire il seguente riccone.
Riuscì a risalire lungo lo stelo, aggrappandosi alla peluria che normalmente nei piccoli fiori non è molto visibile, ma che in questi si rivelavano ottimi appigli. Raggiunse la cima e spostò un grande petalo per issarsi nella corolla.
L’ospite all’interno aveva il viso di un brutto colore verde: suggeriva scarsa sanità fisica e spirituale. Monsieur Latemp, trattenendo il disgusto, chiese:
«E a lei che successe?»
«Io mi ammalai per il denaro: quando non era con me divenivo pallido, poi giallo, poi verde. Il giorno che per disgrazia persi tutti i miei averi, crollai nel letto, con il viso di questa sfumatura che può vedere.»
«Se mi è permesso, lei ha rinunciato alla propria vita per qualcosa di superfluo.»
La trasformazione fu improvvisa e sollevò una terribile folata di vento, tanto che lo scrittore barcollò, aggrappandosi a un petalo. La tela scivolò verso uno spiraglio e vi si lanciò, come animata di vita propria.
Monsieur Latemp ridiscese e si mise sotto il tulipano successivo, ma non aveva più intenzione di arrampicarsi sul fiore.
«Dimmi, chi sei?»
«Parlate con Madame Voiselle.»
«Perché sei qui?»
«Avevo patito la fame fin da giovinetta, ma quando fui adottata dalla mia meschina zia, d’un tratto mi ritrovai a poter disporre di un ingente patrimonio. Vivendo con lei, imparai presto a tenere al denaro più che a qualsiasi altra cosa. Non ero mai certa di nessuno, vedevo ladri e truffatori appostati ovunque. Così, un giorno decisi di mettere in salvo una volta per sempre la mia eredità e cercai di mangiare i soldi conservati in casa. Morii intossicata.»
Lo scrittore commentò:
«Se cerchi di diventare tutt’uno con il denaro, non potrai più essere definito un essere umano».
La quinta ragnatela volò molto leggera dal suo tulipano. Nella luce del nuovo giorno volteggiò eterea fino a terra.
Il sesto era il fiore più alto dei sette.
«Qui abita il disperato…» sussurrò l’ospite.
«Sono nato un brutto giorno, di un pessimo mese, di un terribile anno. Era lo stesso giorno in cui il denaro mi convinse che il mio amico d’infanzia François, l’unico che avessi mai amato, valeva quanto quello sputo d’oro che mi porgevano. Dimmi, tu chi sei?»
Monsieur Latemp gli rispose indignato:
«Non sei meritevole di conoscere la mia identità, essere ignobile. Se hai sperato nel perdono o nel riscatto, puoi dimenticare tutto ciò!»
La ragnatela cadde con un tonfo, anche troppo rumoroso.
Il settimo tulipano mise angoscia a Monsieur Latemp, anche se non sapeva spiegarsene la ragione.
Vide con sorpresa Maddalena, la donna che era certissimo di aver perduto per sempre, brillare come acqua in un bicchiere di vetro all’interno del fiore, pur essendo nascosta dai petali. Lo scrittore raccattò le sei reti che erano sul terreno; le modellò con cura e costruì una pancia, due gambe, due piedi, una testa e due mani.
Si arrampicò sul tulipano della ex moglie, portando con sé quello strano pupazzo che veniva scosso a ogni minimo alito di vento.
Quando infine la raggiunse, inserì la propria creazione nei contorni baluginanti
della donna. Tentò anche di mettere la ragnatela mancante nella sua bocca, ma non ci riuscì.
Maddalena rimase nel tulipano come un inutile manichino avvolto negli stracci.
Monsieur Latimp scese dal fiore e cercò di fingere che quell’episodio non fosse mai accaduto.
La lupa
C’era una volta una lupa.
Si trattava della cacciatrice più abile e fiera di tutto il branco. Ogni giorno portava le spoglie più succulente ai suoi compagni: con lei al loro fianco non avrebbero mai patito la fame.
Tuttavia, le cose iniziarono impercettibilmente a peggiorare, dal principio la lupa quasi non se ne rese conto, finché a un certo punto si ritrovò sola, osteggiata da tutti.
Com’era potuto succedere qualcosa del genere alla predatrice migliore?
La capobranco e molti suoi compagni avevano cominciato a rodersi d’invidia, perché mentre lei riusciva a portare un paio di cervi a pasto, loro raramente catturavano non più di due lepri al giorno.
Fatto sta che era rimasta sola: preferivano morire di fame, piuttosto che darle i riconoscimenti dovuti.
Un giorno la lupa, mentre cercava di avvistare qualche preda dall’alto di un picco, vide arrivare un cacciatore, attratto dai guaiti dei cuccioli avuti dalla capobranco qualche mese prima.
Lei era fortissima e veloce, avrebbe potuto ucciderlo lacerandogli la gola senza che neppure se ne rendesse conto, ma decise di non farlo.
Se ne andò dal suo appostamento e, dopo aver sentito i gemiti dei lupacchiotti e gli spari risuonare nella vallata, pensò che fosse venuto il momento di unirsi a un nuovo branco.
La sua fama era grande: presto trovò un altro gruppo che la accettò senza riserve grazie alla sua ineguagliabile bravura. Ne divenne il capo facilmente, riuscendo perfino a mettersi al riparo dalle gelosie.
Ma la vecchia rivale era sulle sue tracce; poco dopo lo sterminio della prole, era accorsa in tempo per notare la lupa allontanarsi, e aveva compreso ogni cosa.
Non poteva assla di fronte agli estranei, ma raccontò a tutti loro della tragedia.
In breve decisero di scacciare la lupa anche da lì, perché non mettendo il bene del gruppo davanti a se stessa si era macchiata di grande infamia.
Dopo qualche mese giunse nella valle una terribile biscia; era voracissima e voleva sorprendere nel sonno tutti gli animali che avesse trovato sul suo cammino, per divorarli con calma.
La cacciatrice stava eggiando al crepuscolo. Senza saperlo, finì nella zona in cui riposava il serpente. Lei non era a conoscenza dei suoi piani, ma decise di ucciderlo per mettere alla prova il proprio coraggio.
Dopo una lunga ed estenuante colluttazione, ebbe infine la meglio su di lui.
Lo prese tra le fauci per mostrarlo al branco di cui era stata a capo, come dono per farsi riaccettare.
Quando lo mostrò ai lupi, questi ultimi riconobbero il serpente senza difficoltà, perché già altre volte si era avventurato in quei luoghi per fare strage di animali, così intuirono di essere stati salvati da una grave minaccia.
Fu invitata a riprendere senz’altro il proprio posto tra loro, non sapendo che aveva ucciso il nemico per puro prestigio personale e non per favorirli.
Una volta compreso il fraintendimento, confessò le sue reali intenzioni ai precedenti sudditi, e così fu bandita di nuovo, questa volta per sempre.
Per abitudine si trovò a girovagare nei pressi del luogo in cui sostava il suo primo branco e riconobbe una sua vecchia conoscenza, il cacciatore.
Era ancora in cerca della nuova cucciolata della capobranco, che quell’anno aveva partorito cinque splendidi piccoli.
Dopo l’avventura del serpente, la lupa aveva imparato la lezione.
Si avventò alla gola dell’uomo senza nemmeno pensarci, e in breve lo lasciò in un lago di sangue.
La madre dei cuccioli aveva osservato la scena da una roccia, perché aveva sentito i loro richiami ed era prontamente accorsa.
Avevano entrambe imparato una cosa importante: per un animale sociale, ogni singola azione compiuta ricade sul branco, è meglio saperlo per evitare tragedie.
La lupa fu riaccettata dai suoi fratelli. Tramandandosi ancora questa storia, riescono a vivere in pace.
La notte della chimera
«È vietato addentrarsi nei territori pericolosi. Non è consentito avere paura! Ho stuprato una vergine mostruosa e le ho promesso in regalo una casa migliore. In mezzo agli animali! Come questi animali!»
Perché non possiamo incularci in pubblico? Perché non possiamo evirare i nostri nemici? Perché non possiamo pisciare in bocca ai nostri fratelli? Perché facciamo così fatica ad amare?
Ma noi l’abbiamo già fatto, ti dico.
Le atrocità più terribili sono state commesse dalla civiltà e il mondo conosce individui felici che vivono come bestie, divorandosi a volte l’un l’altro.
Che piacere.
Il dubbio va oltre l’apparenza ed esso è la strada per la verità. La domanda ne genera un’altra senza soluzione di continuità e, per il suo incessante movimento, svela la mortalità delle leggi e dell’universo.
«Sono felice che tu sia qui, molto felice che tu sia qui.»
Io no. Volevo solo andare in bagno. Ultimamente devo evacuare talmente spesso che mi accuccerei dove capita.
«Questo posto è schifoso.»
Un luogo di impareggiabile bellezza si staglia davanti ai miei occhi.
Ovunque ci sia un mare invernale, deve per forza essere la casa di un dio.
La vegetazione lussureggiante è stata dipinta con sfarzo e, seppure placida, scatena la torbida sequela del caos.
La neve ammutolisce come le vesti di Iride, che al suo aggio fermano la creazione per consentirle di ammirarla.
Questo favore luminoso è vitale, il dono gelido sa di cimitero.
Ho pensato per anni alle città più calde e più fredde, di giorno e di notte, ma nessuna è come la mia, che può cristallizzarle tutte.
Entro in un bar; forse finalmente riuscirò ad andare in bagno.
«Perché sei così timida? Dobbiamo pisciare entrambi, no? Allora facciamolo assieme, no? Mal comune mezzo gaudio!»
Mi rifiuto di calare le mutande di fronte ad un estraneo, e per di più palesemente
ubriaco.
I suoi schizzi fanno il rumore di una cascata e mi arrivano fin sul cappello.
«Non me ne frega niente se ti ho sporcata. Sai, qualche giorno fa ho violentato una vergine davvero mostruosa. Voglio portarla in un posto più bello.»
Il vento fischia forte e dice: «Sì, vai fino in fondo a questa storia pazzesca e scopri perché il beone che ha violato il mostro desidera condurla in un posto migliore».
«Non ha molto senso che io ti spieghi dove ci troviamo. Nessuno mi crede quando lo faccio.»
Ma io forse sì, mi fiderei.
«Lascia che ti porti con me, per farti capire... spiegare.»
Ci allontaniamo nella notte con la sua automobile e la domanda suggeritami dal vento mi tamburella in testa: perché il beone che ha violato il mostro desidera condurla in un posto migliore?
Un gruppo di papere si sta cibando in una ciotola nel giardino dove ci siamo fermati:
«Vedi questi animali? Vivono e mangiano in un luogo schifoso. Ma io glielo toglierò e li porterò in un posto migliore».
L’ubriaco orina nel contenitore, da cui gli uccelli si allontanano disgustati.
Marciamo sul sentiero che porta alla villa, incuranti del loro destino.
L’interno della casa è spazioso, ma piuttosto spoglio.
«Non c’è tana migliore del gineceo, in questo buco. Conoscerai mia mamma, mia sorella e anche mia moglie.»
Fremo dal desiderio di vedere il mostro.
Al suo avvicinarsi, la madre e sua figlia distolgono lo sguardo.
Risulta difficile anche la definizione di chimera per questa bestialità: io che sono un’esteta e amo indistintamente la bellezza femminile come quella maschile, mi sento urtata da tale bestemmia organica.
Il corpo poggia su quattro zampe, di quattro animali diversi: cavallo, bue, ippopotamo, leone. Il collo è di giraffa, aculei di porcospino, una coda di serpente e una di scimmia. Solo il volto umano è riconoscibile in mezzo a
quell’insieme rappezzato.
«Sono incinta. Non so, però, se mia figlia, avendo un padre umano, lo sarà anch’essa, oppure diventerà una chimera, o erediterà una forma in parte umana assieme a un’unica specie animale.»
Potrebbero verificarsi con le medesime probabilità tutti e tre i casi.
«Io non ero felice, mentre lui mi violentava, ma ha promesso di portarci in un posto migliore, che si sarebbe preso cura di noi.»
Noi sappiamo in cuor nostro che un uomo non mantiene mai le sue promesse.
Ti ha torturata e rapita.
Perché dovrebbe donarti una vita migliore?
«Nella lingua del mio popolo non esiste la parola tortura. Tu mi causi dolore superfluo spiegando che da voi il dolore non conduce al bene. Le chimere stuprano, uccidono e rapiscono per bisogno. Sarebbe terribilmente noioso restare soli: ci impadroniamo di ulteriore grandezza e diventando uniti siamo onnipotenti.»
Non avresti dovuto lasciarti ingannare dalla tortura.
«Forse meritavo di essere più felice di lui, ma lo amo, anche se non so perché.»
Provi affetto e comione per una creatura che ti teme e ti odia; talmente ipocrita da essere stato attratto da te come un folle, ma che ha irrimediabilmente tacitato il tuo spirito selvaggio per dimenticarti in questa prigione di male.
«Ti guardi mai intorno quando usi questo linguaggio schietto? Non ti chiedi perché quando continui a ripetere cazzo inorridiscono tutti?»
Non me ne faccio mai un problema. Piuttosto mi chiedo perché quella parola genera il loro rifiuto e il concetto di tortura, invece, gli a dentro come l’ombra di un sasso e li lascia risoluti nel credere di non poterla immaginare.
Così mi sveglio al chiarore di una mezzaluna sogghignante.
La mia mente è un macigno doloroso che non presta attenzione a niente della stanza.
Imputo la causa di tutto ciò al libro abbandonato sul comodino: devo smettere di rapire e stuprare Orwell prima del sonno.
Questa risoluzione non mi lascia perplessa quanto la domanda che tormenta crudelmente il mio cervello: «Cosa significa questo sogno?»
La città
Due uomini fermarono i propri cavalli in prossimità di quello che si presentava come il cratere di un enorme vulcano.
«Fermiamoci qui un momento, Ettore» disse il più vecchio dei due.
«Sai, ho già cinquant'anni, non sono più abituato a questo genere di sforzi» e ridacchiò piano.
Ettore smontò da cavallo sovrappensiero e andò a sedersi a gambe divaricate sull'erba bruciata che cresceva sul terreno depresso.
Il più anziano aveva capelli, baffi e barba completamente bianchi e il volto solcato da una miriade di rughe. L'altro, d'aspetto, poteva avere quarant'anni, ma in realtà era appena ventenne. I suoi freddi occhi celesti indugiarono lungamente sull'espressione stanca del compagno, che pareva non accorgersi dello sguardo indagatore puntato su di lui.
«Padre, perché iamo da questa... Città? Sai cosa si dice.»
Il vecchio scosse la testa e posò con gentilezza una mano sul polso di Ettore:
«Non avere paura. Io stesso ci sono venuto qualche tempo fa e ti assicuro che non succederà proprio nulla».
Il giovane nascose il volto tra le mani.
«Quel luogo è maledetto...»
«Cosa non è maledetto, di quello che hai visto finora? Ascolta, avevo promesso a tua madre che ti avrei riportato qui ed è esattamente quello che farò.»
«Ma lei è morta! L'hai sepolta tu, con le tue mani, dieci anni fa.»
Il padre osservò amaramente il paesaggio di fronte a loro.
«Mi sento così colpevole... Ma devi farti forza, tra poco sarà anche il mio turno.»
Ettore balzò in piedi all'improvviso e strinse il vecchio in un abbraccio, piangendo sommessamente.
Per il padre fu una sorpresa sentire l'umore apatico del figlio mutare in un istante.
«Se almeno ci fosse stata una qualche apocalisse... qualcosa di improvviso, irreversibile...»
L'uomo accarezzò la testa dell'altro.
«Mi dispiace, figliolo. Eravamo così stupidi che non ce ne stavamo accorgendo, proprio non ce ne stavamo accorgendo...»
Una giallognola luce malata, che filtrava attraverso la nebbia perenne, indicò l’inizio del tramonto.
«Adesso cerchiamo di dormire,» disse il vecchio «domani dobbiamo avere abbastanza forza per affrontare quello che ci aspetta.»
E venne la notte senza buio, color itterizia; senza il minimo rumore, se non quello del respiro pesante dell’anziano, che si era addormentato, sfinito dalla cavalcata.
Gli animali non riposarono. Avrebbero servito i due uomini ancora per poco.
La mattina dopo, Ettore, che non aveva potuto chiudere occhio, decise di scaldare due lattine di fagioli per colazione. Il padre, svegliato dal rumore scoppiettante del fuoco, mugugnò. Aprì un occhio e sorrise al figlio:
«Vedo che finalmente hai imparato a usare le pietre focaie.»
Lui gli allungò un cucchiaio e un barattolo, il cui contenuto fu divorato con avidità.
Consumarono il pasto in silenzio.
«È tempo di andare. Lasciamo qui i cavalli.»
Scaricarono le bestie del proprio bagaglio e gli animali parvero disorientati.
Il vecchio accarezzò con gentilezza il muso di entrambi e poi li abbandonò al loro destino.
«Sai, una volta li usavamo per fare ogni sorta di lavoro... Quando diventavano inutili li uccidevamo pure...»
Vide un'espressione sgomenta apparire sul volto del figlio.
«Forse, se avessimo saputo che non ne sarebbe rimasto praticamente più nessuno...»
Si arrampicarono con fatica lungo il pendio particolarmente scosceso. Ettore dovette più volte afferrare le braccia del padre per aiutarlo a salire nei punti più ripidi, ma a fine giornata guadagnarono la cima.
La prima reazione del giovane fu urlare di orrore.
All'interno del cratere enorme si poteva vedere quella che avrebbe dovuto essere una foresta. Tuttavia, già dai colori spettrali e dalle forme squadrate si intuiva che si trattava di minerali. Erano ancora visibili reminiscenze animali e vegetali, ma ogni parte era inglobata dalla roccia in modo caotico. Per un ulteriore, crudele scherzo, certe pietre più grandi avevano assunto la forma di giganteschi alberi secolari.
Al centro del luogo terribile, c'era una donna nuda, alta circa trecento metri, completamente immobile.
Ettore si era accasciato a terra. Rantolava: «Quella donna... Quella donna!»
Il padre lo rialzò e continuò a guardare la sagoma imponente.
«È Tannhä. Un Titano. L'avevamo chiamata noi così, lei non ricordava il suo nome. Alla fine di un film molto bello, un androide diceva all'uomo che lo stava per uccidere:
I've seen things you people wouldn't believe, attack ships on fire of the shoulder of Orion, I watched the c-beams glitter in the dark near the Tannhä Gates. All those moments will be lost in time, like tears in rain. Time to die.
Nessuno aveva idea di cosa fossero queste grandiose porte di Tannhä, ma le sue gambe per noi erano abbastanza enormi da poter essere cancelli spaziali» e sorrise al ricordo di quella frivola memoria.
Riprese: «Vieni, entriamo in città».
Discesero con estrema lentezza la parete. Una volta in piano, Ettore ebbe modo di capire che il padre stava cercando di portarlo ai piedi del Titano.
«Non voglio! Non puoi costringermi ad andare da quella creatura!» si ribellò con forza.
Il vecchio lo prese per le spalle e lo scosse con poca energia.
«Non può più fare del male, ormai è morta da tempo, da dieci anni. Non devi temerla. Ti ho portato qui per mostrarti e farti conoscere la storia dell'ultima città umana. Della tua città natale! Per tramandarne la memoria...»
Ettore incurvò le spalle; diveniva sempre più tormentato a mano a mano che procedevano nella foresta minerale.
Presto poté scorgere meglio i dettagli del volto e del corpo di Tannhä. Era stata legata da tre enormi fasce a una colonna di roccia color ebano. Una le stringeva le ginocchia, l'altra era all'altezza dello stomaco; si capiva chiaramente che la funzione della terza era stata quella di non permettere alla testa di ricadere sul petto, ma, essendosi allentata, il capo del Titano era poggiato sulla spalla destra, dando al collo un’angolatura disturbante. Aveva gli occhi chiusi: un ciuffo di capelli biondi le accarezzava morbidamente la fronte.
Il corpo, bellissimo e pallido, non dava affatto il pensiero che fosse morta. Le
labbra erano ancora rosse.
«E se non foste riusciti a ucciderla? Se stesse solo dormendo?»
L'anziano scosse la testa.
«Le abbiamo tagliato la gola. È stato difficile catturarla, ma quando ha capito le nostre intenzioni non ha provato neppure a opporre resistenza.»
Ettore alzò lo sguardo e notò la cicatrice rossastra che brillava come una minaccia alla luce notturna.
Continuarono a camminare. Alcune pietre semi trasparenti, investite dalla luminescenza del cielo, coloravano arditamente i corpi dei due uomini. In certi punti erano ben visibili i cadaveri perfettamente conservati delle persone e degli animali incastonati nel paesaggio immutabile.
Infine, raggiunsero i piedi di Tannhä. Erano bianchi come l’avorio. A causa del lungo periodo di permanenza sullo stesso punto, avevano scavato un solco che contornava la sagoma di quelle gigantesche estremità. Avvicinandosi, era possibile vedere i talloni e le dita macchiate di sangue: i resti degli sfortunati esseri che aveva calpestato con furia.
Nonostante ciò, Ettore si sorprese a provare pietà per il Titano dall'incomprensibile bellezza.
«Sediamoci» disse il vecchio, sospirando.
«Quando Tannhä venne da noi, il mondo stava già iniziando il proprio sconvolgimento; capisci che, quando vedemmo per la prima volta questa donna alta trecento metri che avanzava verso di noi, non fummo particolarmente ospitali. Devi anche sapere che all'epoca credevamo praticamente tutti in un solo dio, per cui, quando lei ci disse di essere figlia di Gea e Urano e che aveva altri fratelli e sorelle, cercammo di ucciderla subito. Ma era benevola: non rispose mai agli attacchi con violenza. Alcuni di noi decisero di seguirla in questa nuova città, fondata da Tannhä stessa.»
«Forse non era realmente un Titano... Forse è stata una delle prime vittime delle radiazioni...»
«Per noi era davvero una dea. Aveva creato un luogo meraviglioso dove l'acqua scorreva in abbondanza, la vegetazione e gli animali erano sani e floridi. Soprattutto c'era pace, perché lei era una divinità tangibile che aveva pensato ed edificato la città dove vivevamo. Ogni questione teologica era accantonata. Veneravamo Tannhä.»
Ettore proruppe in una risata sardonica. Quando terminò, fissò il padre negli occhi e disse: «Era solo una pazza assassina».
Sentirono uno spaventoso rumore roboante provenire dall'alto. Il più giovane lanciò un grido, ma l'altro conservò il solito autocontrollo.
Il legaccio che tratteneva la testa del Titano si era allentato ulteriormente e un paio di vertebre avevano fatto rumore quando il collo era rovinato più in basso
sulla spalla.
Ettore la fissava con occhi sgranati:
«Lei può ancora sentirci. È ancora viva, è ancora viva!».
Il vecchio andò in collera:
«È morta! L'ho uccisa proprio io, con queste mani! Sono io che le ho tagliato la gola!».
Il figlio si zittì e guardò il padre esterrefatto. Quest'ultimo riprese la propria storia.
«Credevamo che Tannhä ci avrebbe protetti dallo sfacelo che andava compiendosi attorno a noi. Aveva costruito lei la colonna a cui è legata: un tempo reggeva una cupola. Aveva depurato l'aria della città inghiottendo quella malsana e aveva soffiato il suo respiro all'interno. Non espirava anidride carbonica. Quello che effondeva dai polmoni sapeva di iodio, di mare.»
Fece un profondo respiro per sentire se qualche traccia di quel profumo fosse ancora presente. Scosse la testa.
«Le facevamo ogni genere di regalo. Eravamo persino, Zeus sa come, riusciti a costruirle una collana per ringraziarla di tutto quello che aveva fatto. L'aveva
presa, mi ricordo che aveva sorriso con dolcezza. Alzò i capelli con una mano, per non farli impigliare nella corda. L'unica cosa che non osavamo proporle erano dei vestiti. Era talmente splendida che agli uomini e alle donne pareva arrecarle una grave offesa, chiedendole di coprirsi...»
«Che fine ha fatto la collana?» chiese Ettore all'improvviso.
«Gliela strapparono via poco dopo la cattura e abbiamo fuso l'oro per farne monete.»
«Tentò di trattenerla, quando andaste a portargliela via?»
«No. Non era più in grado di ricordare perché gliel'avessimo donata e lei non aveva particolare interesse nei confronti dei gioielli...»
Il figlio non rivolse ulteriori domande, quindi il padre continuò:
«Tannhä viveva fuori dalla città. La notte abbracciava la cupola per creare il buio. Al calar del sole c'era già questa luce orribile che vedi ora. Si acciambellava attorno alla base e con le mani chiudeva la sommità. Una mattina... Sentimmo un urlo disumano, lungo, penetrante. La copertura andò in miliardi di pezzi e ne caddero schegge ovunque. Capimmo subito che la causa di tutto ciò era lei. Tentammo di calmarla, ma aveva completamente perso il lume della ragione».
«Perché era impazzita?»
«Come puoi sperare di capire cosa c'è nella testa di un Titano? Non lo scoprimmo mai.»
«Nella Bibbia i costruttori di città erano sempre gli sfavoriti da Dio. Non a caso, il primo è stato Caino.»
«Ho smesso da un pezzo di credere alle favole della Bibbia, ma forse Tannhä era davvero stata scacciata dal suo mondo. Quello non era neppure il suo vero nome. Avrei fatto volentieri ricerche in merito, ma i libri erano già andati tutti distrutti.»
Ettore aveva un vago ricordo del terribile urlo del Titano. Sapeva per certo solo di essere svenuto dopo che un uomo vicino a lui era morto sfracellato da un enorme frammento di vetro.
«Era preda dell'isteria. La sua pelle color avorio si era riempita di chiazze rosse. I capelli sudaticci e unti le si erano appiccicati alla faccia e i suoi occhi verdi erano diventati vacui, alternativamente colmi di furia cieca.
Quando cominciò a camminare, non prestava attenzione e calpestava tutto quello che incontrava sui suoi i. Capitava che le si infilassero alcune schegge nei piedi nudi, allora strillava ancora più forte.
Eravamo terrorizzati e senza la minima idea su cosa fare contro Tannhä. La fondatrice della nostra città, colei che credevamo ci amasse profondamente, ci stava improvvisamente maciullando con una crudeltà senza pari. Le lanciarono
contro delle pietre, sperando di spaccarle le caviglie o le ginocchia, ma era troppo forte e non servì a nulla. Ideammo una trappola banalissima, ma in cui eravamo certi che sarebbe caduta perché ormai non aveva più alcuna capacità logica: tendemmo la corda più lunga che avessimo e la facemmo inciampare. L'imponente, saggia Tannhä piegata da una strategia così infantile...
Cadde a terra diritta. Il suolo tremò e fece un chiasso mai udito. La legammo strettamente con la stessa corda, molto in fretta, e anche i polsi, sulla schiena.
Istituimmo un'assemblea speciale per giudicare il Titano, di fronte al suo volto, in modo che la decisione avesse pieno valore legale.
Mi resi conto ben presto che nessuno sarebbe stato disposto a perdonarla, ma io non sono mai stato un ingrato, figlio mio.»
Ettore ebbe un sussulto:
«Ma aveva ucciso mia madre! Tua moglie! Come potevi anche solo concepire l'idea di darle un'altra possibilità?».
L'anziano volto sorriso in modo misterioso.
«Spero che tu possa vivere abbastanza a lungo per capire che non siamo mai in grado di scegliere consapevolmente a chi donare il nostro amore e la nostra comione.»
Dopo un lungo silenzio, continuò:
«Ricordo ancora i suoi polsi e le caviglie tumefatti perché avevamo stretto le corde quasi eccessivamente. Mentre discutevamo il da farsi, Tannhä seguiva i discorsi con occhi folli. Volevano metterla a morte. Persino i suoi precedenti servizi resi alla comunità non erano sufficientemente importanti rispetto alla terribile colpa di cui si era macchiata. Io la difendevo: avevamo dei chirurghi, potevano operarla per scoprire le cause della sua improvvisa pazzia, oppure sarebbe stato sufficiente esiliarla per un certo periodo, tentare di ricontattare il suo mondo d'origine... Quando finii di parlare, sentii Tannhä ridere, il suo sguardo crudele puntato su di me. Disse: "Tu che mi difendi, esigo che sia tu a uccidermi. Se non rispetterete la mia volontà, calpesterò tutti quelli che sono rimasti vivi".
Ero sgomento, allucinato dai livelli raggiunti dalla sua perversione. Sapevo che le sue non erano vuote minacce. Rise ancora, quella disgraziata.
Non potei fare altro che sottostare al volere di quel Titano spietato.
I nostri ingegneri lavorarono per mesi alla costruzione di una gigantesca impalcatura, che doveva sorgere attorno alla colonna della città. Avevamo deciso che il modo migliore per ucciderla era tagliarle la gola: non avrebbe richiesto un eccessivo spreco di energie, ma tenerla eretta era importante per far defluire il sangue più velocemente.
Il giorno stabilito mi diedero una grande mannaia: era pesantissima, ma per fortuna riuscivo a sollevarla perché ero ancora molto forte.
Salii fino alla cima della colonna, mentre l'arma veniva issata con una carrucola.
Camminai lungo il ponteggio di fronte al collo di Tannhä e mi fermai davanti alla carotide. Il Titano non poteva vedermi, ma aveva ascoltato i miei i che si avvicinavano. Ricordo ancora perfettamente le sue parole: "Sii fiero, potrai vantarti con gli altri uomini di aver ucciso una dea!"
"Non mi vanterò mai di un'azione come questa."
Non rispose. Alzai la mannaia con grande fatica e mentre menavo il fendente che le avrebbe strappato la vita, avevo di sottofondo la sua terribile risata che mi feriva i timpani. Rideva talmente forte che, quando le recisi la carotide, il sangue gorgogliava e me ne venne addosso una quantità impressionante. Quasi soffocai.»
Al ricordo, il vecchio padre cominciò a piangere. Ettore gli posò una mano sul braccio, per invitarlo a continuare.
«Cosa successe dopo?»
L'altro sospirò.
«Ripulimmo il cadavere del Titano e distruggemmo immediatamente la mannaia. Cercammo di continuare a vivere nella città, anche se gli effluvi insalubri della terra circostante stavano spazzando via ogni traccia di aria pulita. Molti si ammalarono di lebbra e ci fu modo di rimpiangere il tempo di pace che avevamo
perduto. Quando ci rendemmo conto delle mutazioni che stava subendo questo luogo, quelle che tutt'ora puoi vedere, decidemmo di allontanarci definitivamente.
Dichiarammo questa terra maledetta e lasciammo Tannhä a suggellare l'epiteto. Forse anche come monito alla sua famiglia, nel caso fossero venuti a cercarla. Per informarli che non sarebbero stati ben accolti. E questo è tutto.»
Ettore alzò lo sguardo lungo il corpo della donna. Immaginò di essere sovrastato da uno dei suoi giganteschi piedi senza controllo, un attimo prima di rimanere calpestato.
All'improvviso, il suo corpo fu sferzato da un vento caldo e pressante. Il padre si mise in piedi.
«Si è alzato il vento, è tempo di rimettersi in cammino.»
Superarono silenziosamente le gambe del Titano e si diressero verso l'altro capo della città.
Chi resta
Ho sbagliato ogni volta: non credeva nella semplicità.
Doveva essere alquanto complicato trovarsi sempre e totalmente in balia di tutto quel chiasso interiore.
Ora in che modo lo potrei chiamare, delirio o genialità?
Eppure sembrava prendere le cose come venivano e non si faceva mai domande. Pensavo fosse facile; invece, a quanto pare…
Questa è la casa.
Mi piaceva sognarla perché non sapevo come immaginarne l’insieme ogni volta che me ne raccontava un pezzetto; a un certo punto mi sforzavo di unire i tasselli che avevo, e vederla, finalmente.
Ho la sensazione di essere come un assassino che torna sul luogo del delitto, ma non dovrei sentirmi colpevole.
È stato il suo atto, non l’ho compiuto io, non sono stato io a ucciderla materialmente.
Salgo le scale. C’è qualcosa che mi opprime lo stomaco.
Trovarsi impreparati alla presenza della morte è rischioso, come sputare sulla corona di un monarca: prima che tu possa rendertene conto, ti ha levato tutto, tranne il corpo.
Allora sai che, per quanto siano numerosi gli anni che ti mancano, il tuo tempo è scaduto.
Apro l’armadio in camera sua.
I vestiti hanno tutti quell’inconfondibile puzza di follia, il profumo che l’avvolgeva da mesi; la contraddistingueva tra le masse pacate che scivolavano tra le nostre vite, silenziose e inconsistenti.
Sto sudando anch’io, ora.
È come se fosse rimasta lì, ad aspettarmi, seduta da qualche parte.
Vedo la sua ombra dappertutto, ma cerco di scacciarla dagli angoli degli occhi.
In qualunque luogo sia, sento.
Quand’era viva mi cercava disperatamente, ma ora è silenziosa.
Non ha bisogno di chiamarmi perché è proprio qui, accanto a me.
Guardo alla mia destra e riesco a vedere il balcone.
È basso, e poco sotto c’è un’aiuola, ma è atterrata di testa perché qualcuno lassù l’ha aiutata a esaudire l’ultimo desiderio.
Immagino il suo volo delirante nel profumo notturno della primavera. Come una civetta che si getta per afferrare la preda. Come un allocco di velluto che fruscia nell’oscurità.
Le sue cervella morbide e gravide di un peso insopportabile, sparse come spazzatura appiccicosa da ripulire.
Se fossi stato lì, giuro che avrei pianto, avrei tentato di fermarti.
Io come mi sento?
Non lo so.
So solo perché si è suicidata.
Mi preoccupo tanto per lei, ma sono io l’ultimo che resta.
È vero che il peso del mondo a volte è un eccesso sulle nostre vite e ruba la sanità dalle menti, ma questo è veramente un dono?
Il fatto che qualcuno abbia desiderato a tal punto sbarazzarsi di me, è davvero un dono?
Continuo a girare senza meta per tutta la casa.
Non ho pranzato. La debolezza mi calma i nervi come una potente droga che mi lascia entrare nell’incoscienza.
Sono tranquillo.
Le ioni umane non attecchiscono nella mia fame.
Mi fermo e guardo fuori da una finestra.
Una volta mi è capitato di vederla fare lo stesso. Non era più lei. Non riuscivo a immaginare cosa stesse osservando, ma sembrava un pensiero di pace.
Era come aver sorpreso un cavaliere mentre si toglie l’armatura per concedersi
un bagno refrigerante dopo ore di battaglia.
Un momento come il mio, adesso.
Mi piace pensare che sia solo scappata… Mi scappava via con l’aria smarrita. Non sapeva cosa fare. Non lo sapevo neppure io. Non lo sapevamo.
Ormai questa casa non ha più nulla da dirmi; non ha lasciato nemmeno un biglietto a spiegare perché pensava fosse necessario mentire fino all’ultimo.
Perdonami, ma non la biasimo.
Quel tessuto era talmente intricato e meschino… L’ha uccisa il negare la verità!
Il funerale è solenne, come non avrebbe voluto.
Piccola mia, non rispettano le tue disposizioni nemmeno adesso che non le puoi più difendere.
Recitano Pater Noster e piangenti Ave Maria, come nel Medioevo.
La mia immaginazione; che mente perversa.
Alla fine di questa bella cerimonia, in questa bellissima chiesa, rido.
Lei avrebbe odiato tutto ciò!
Forse proprio ora ci sta maledicendo, ma credo che in realtà non gliene importi più niente.
C’è un corpo sottoterra, uno spirito con me.
Un po’ come quando la persona che ami è viva: un corpo lontano e un’anima vicina.
Sono un inguaribile ottimista.
È terminata la funzione.
Non capisco esattamente perché l’ha fatto.
Non mi sembrava un fardello così doloroso.
Qui fuori c’è molta luce, tira un po’ di vento. Il suo ricordo non è una presenza
invasiva ed è perché sto cercando di abituarmi al fatto che non la vedrò per i prossimi anni che verranno.
Se ci penso meglio, è un ricordo quasi vago.
Eppure continuo a sentire un peso.
In questa giornata estiva ci sono domande a cui non trovo risposta, ed è una sensazione orribile. Un sentimento che condivide tutta l’umanità. Ma questo non c’entra con la sua morte.
Con la notte cala il mio ottimismo, e mi assalgono la paura e il rimorso.
Prima o poi la dimenticherò, se desidero continuare a vivere.
Perché rattristarmi? Sento che cammina ancora… Non riesco a ricordarla, era solo capace mentirmi… E lo sapeva, ma ha continuato talmente a lungo da morirne.
Folle, triste paura di un ostacolo che sembrava invalicabile.
Il freddo se n’è andato e ha portato via con sé tutti i ricordi migliori.
Il sole, il calore, non sono per chi ha bisogno di turbarsi l’animo come invece fa il gelo pungente.
Ogni cosa sarebbe stata nitida e giusta se fosse morta d’inverno, ma in primavera la solitudine è d’obbligo per chi ha un destino come quello, e così è morta.
È ato un giorno.
Stamattina ho creduto di vederla in quel suo sorriso storto e sfigurato dalla demenza, tra le dita violacee, mentre mi diceva: «Ciao».
Non c’era mai un perché o una benché minima motivazione.
L’importante era scappare, fuggire, come si fa abitualmente con qualcosa che non si capisce, e io non ero compreso.
Mi dicevo che ormai era finita.
Ma che cosa potrebbe terminare, visto che continuo a chiedermi che cosa so e che cosa sapevo?
Ogni tentativo di estirparle la verità era diventato vano: vedevo solo un gigantesco porridge ricco d’ingredienti che non si amalgamavano tra loro.
E così cominciai a misconoscerla anch’io perché ormai non la comprendevo più.
Mi sembra di sentirla chiamarmi… che smette e resta soffocata…
Che cosa l’ha distrutta? Le troppe menzogne o perché l’hanno portata a credere che aveva il dovere di rassegnarsi?
Non c’è clemenza per i suicidi, neppure tra le schiere dei loro amici e parenti.
Penso che lei mi credesse un bugiardo. Ma era lei, la sporca bugiarda!
Cosa avrei potuto fare per impedire che accadesse? Assolutamente nulla!
Ora piange, perché la calma dell’ipocrisia è stata rotta.
Finalmente un po’ di sana disperazione lo pervade. Ma lei?
No, soffre il doppio di me. Sento ancora che non ha abbandonato questi luoghi dove il suo abominio continua a persistere.
Tu sai che un dolore abbastanza grande non può comunque gettarti in ginocchio.
Allora perché non volevi abbracciarlo? Perché non hai ceduto?
Perché non mi hai mai detto che mi amavi?
Eppure lo sapevo. Quale risposta degna di te. Ma la verità è che non capivo niente.
Non me lo hai mai concesso!
Ora mi lascio e non mi riconosco.
Che lotta perversa.
Per quanto dovrò cedere e combattere per poi essere zittito dalla tua bontà?
Il fiore dell’amore più vero, che cadeva su di me all’improvviso quando toccavo
l’apice del fondo, per poi mi rimettermi su un piedistallo.
Le tue dita che scioglievano le mie lacrime senza chiedermi mai di fare lo stesso per te.
Sentivo il tuo sentimento che si eclissava tra le mani per correre con agilità attraverso il mio sangue.
Quando ti sembravo indifeso, pensandomi chiuso nella tua stessa gabbia, perché in quel momento non mi hai detto la verità?
A volte anche aspettare è mentire.
L’orfano
Il corpo del padre stava disteso sul triclinio d’onore.
La sua pelle bianca e traslucida sembrava colorarsi d’oro a ogni folata di vento che entrava nella stanza, ma era solo il riflesso degli intarsi preziosi che correvano sul letto.
Poteva quasi dirsi un tributo di notevole bellezza, ma si trattava unicamente di un ultimo sprazzo di splendore che creava un’isola nei bordi del buio.
Il ragazzo biondo si avvicinò lentamente e toccò i piedi al cadavere. Sentendoli freddi, l’adolescente guardò il volto dell’uomo e cominciò a piangere.
L’avrebbero inchiodato alla bara per impedirgli di tornare nel mondo dei vivi. Suo padre non lo desiderava di certo, bastava leggerne il volto ancora sofferente per capirlo.
Per quell’espressione ci sarebbe stato posto solo nel regno dimenticato delle larve.
Poggiò la chioma riccioluta sullo stomaco del defunto:
«O padre mio, perché ci avete abbandonati? Dannati tutti gli dei, perché senza di voi il mio cuore si spezza!».
Suo padre non era stato come gli altri uomini, che esigevano ferrea disciplina in loro presenza: quando tornava dalla guerra salutava sempre lui per primo. Era spesso un apparizione improvvisa, insperata.
Capitava che un giorno arrivasse un messo a ordinare la partenza dell’uomo.
Le campagne erano lunghe, faticose; gli imperatori mandavano i legionari nelle terre più selvagge, oltre i confini dell’impero.
Quando lui e sua madre lo salutavano, erano consapevoli che non l’avrebbero rivisto per almeno sei mesi. Cercavano di condurre la vita come se tutto procedesse nel solito modo, ma in realtà erano quasi sempre all’erta.
I momenti più vividi delle attese erano senz’altro le notti, quando il ragazzo si sdraiava nelle coperte, vicino alla donna.
Lei tremolava come una fiammella troppo debole che sta per spegnersi. Allora il bambino si raggomitolava contro il ventre di lei, ma era così duro, teso, come se ci fosse stato un muro d’ossa nello stomaco.
Era così piccolo.
Non dormivano, restavano muti a contemplare il senso d’angoscia che l’incertezza non risparmia in nessun caso.
Alla fine arrivava la mattina, e scaldava la mente con qualche pensiero lieto.
Nel giardino era aspettato dall’aio per la lezione quotidiana e lui, nonostante la stanchezza, riusciva ad ascoltare con attenzione.
Così, a volte, accadeva che durante un pomeriggio come molti altri, sua madre uscisse dalla casa e si affrettasse verso il figlio, commossa, per avvertirlo che il suo amato padre era in casa ad aspettarlo.
Allora il bambino di quel tempo correva con le braccia in avanti per raggiungerlo prima, con tanta foga che inciampava ogni volta nella soglia.
Vedeva la donna che cercava di riparare una tunica, spazientendosi, perché odiava quel genere di lavoro. Ingobbita sul tessuto, sentiva battere due colpi alla porta; mollava tutto a terra, inciampava nel vestito e spalancava l’uscio di botto.
Suo padre sorrideva e aveva come dei tizzoni brucianti negli occhi che scioglievano la povera moglie.
Non lo abbracciava, non usava così, ma gli prendeva la mano per portarlo dal figlio.
All’epoca in cui combatteva per l’imperatore, suo padre era ancora giovane, biondo, con gli occhi chiari, considerato una vera stranezza, che gli aveva causato non pochi guai.
Ma nonostante questo era riuscito a fare una brillante carriera, che lo aveva portato a diventare generale.
Quando tornava dalle campagne, aveva spesso i capelli sottili macchiati di rosso e la moglie doveva ricucirgli qualche ferita sulle braccia e sulle gambe che si era riaperta durante le marce, ma prima che lei potesse anche solo dirgli che andava a prendere l’ago, suo marito si faceva travolgere dall’impetuosità del figlio e rideva di gusto. Lo prendeva in braccio; non faceva come gli altri uomini, che per prima cosa chiedevano ai primogeniti se si erano occupati con saggezza della casa e della famiglia: preferiva domandare alla moglie, mentre lavorava sugli squarci, come si era comportato.
Ricordava che il padre era sempre stato sano e forte mentre era bambino, ma con il suo ingresso nell’adolescenza, il genitore si era ammalato gravemente.
Tornò a svolgere la matassa dei ricordi dall’inizio, quando i chirurghi non sapevano di quale male potesse trattarsi.
Non c’erano tagli infetti, bruciature, riversamenti di sangue o altro che lasciasse pensare a cause naturali.
La diagnosi allora fu che, alla fine, gli umori malvagi nel corpo dell’uomo avessero preso il sopravvento e lo stessero possedendo, avvelenando gli organi interni.
Fu masticato lentamente dal dolore, che rese succubi lui e il genitore, per otto anni.
Improvvisamente diventavano pallidi, si sentivano soffocare e avevano paura della morte. Anche la madre non riusciva ad accettare la fine incalzante del marito e cercava di assisterlo come meglio poteva, sforzandosi di non lasciar trapelare angoscia.
Il ragazzo tornò al presente.
Suo padre era morto quella mattina.
La madre avrebbe avuto per sempre il ventre di marmo.
A quella vista, sentì di impazzire: si alzò tremando e cominciò a mordersi le unghie, poi i vestiti, a squarciarsi la carne e distrusse tutti i mobili e tutti gli altari con un’ira che non gli era comune.
«Padre mio, non mi abbandonare!» urlò con le braccia dilaniate, le unghie masticate e la tunica stracciata.
Uscì molto tardi dalla stanza, era già notte.
Estrasse qualche moneta dal sacchetto che portava nascosto tra le pieghe della veste e un nugolo di donne gli si fece intorno. La magra consolazione della sera scivolava di braccia in braccia e si lasciava baciare sulle labbra con gli occhi altrove, su una stella.
La battaglia dell’Uomo
Il nostro è il mondo della magia.
Questa è l’era degli dei.
Io sono stato salvato da loro, ho acquisito potere grazie a loro e morirò per loro causa.
Odio gli uomini che ci abitano vicino. Hanno narici particolarmente dilatate e i musi schiacciati in smorfie da scimmie.
Li temo: non venerano gli dei e non sono ancora morti. Ne ho paura pur sapendo che questi esseri che non credono in nulla in realtà possono provare per me quel terrore che non conoscerò mai.
Il mio clan non pratica più la caccia da molti anni e così, per soddisfare la rabbia che sentiamo dentro di noi, abbiamo scoperto il piacere di sottomettere le popolazioni formate da questi esseri che non sanno nulla della magia, né della violenza e dell’arte della guerra.
Non so se abbiano paura di qualcosa, io non credo…
Se ne vanno di villaggio in villaggio, senza capelli e con il volto dipinto di rosso a ucciderci e incendiare le nostre capanne.
Ogni volta che finiscono di sterminare un clan, ridipingono i loro visi e le membra del sangue di tutti i morti, bruciano i corpi e cantano urlando un nome, in coro, e io non capiscono mai cosa dicono. Attaccano solo quelli come noi: credono di essere migliori perché non hanno il naso grande e la faccia schiacciata, ma soprattutto perché non vanno più a caccia di animali.
Uno di loro porta una maschera di penne d’anatra, pelle e code di pesce, è molto vecchio e presto morirà.
Ero un semplice uomo che combatteva per il capo del suo villaggio, ma da un giorno all’altro mi ritrovai ad essere considerato un emarginato perché sono diverso da tutti gli altri, e questo li spaventa.
Perché adesso che stiamo incendiando tutte le capanne in questo posto orribile dove c’è un lago immenso ed enormi acquitrini, io eggio solo sulla sua riva e mi domando perché quegli sciocchi non si vogliono piegare alla nostra potenza, ma si limitano a guardarci spiazzati, pieni di timore e poi, infine, morire.
Mi avevano imprigionato la notte scorsa e stavano per uccidermi perché avevo risposto a uno dei miei superiori che non accettavo di eseguire degli ordini, se non quelli dell’anziano capo.
Io non cambierò mai, nulla e nessuno potrà mutarmi; lo dico perché spesso quello che cambia attorno a me lo fa in peggio.
Ogni notte, durante i riti, chiedo solo questo agli dei, di non rendermi soggetto a trasformazioni.
Improvvisamente il capo clan era morto e allo sciamano era stato chiesto di scegliere chi tra noi gli sarebbe succeduto.
Gli spiriti dissero che ero io: un giovane ribelle doveva succedere al vecchio saggio.
Nessuno volevano crederci, tutti mi urlavano contro maledizioni. Ma questo era stato deciso: ho messo la maschera e sono diventato la loro guida.
Gli dei ispirarono timore ai miei compagni.
So che il vecchio con la maschera è morto: me l’hanno detto i defunti. Sono entrata nella capanna e l’ho visto che mi guardava, ma avevo capito immediatamente che non era più vivo.
Questo è l’ultimo villaggio che vogliono bruciare ed è sprofondato nelle paludi, come tutti i nostri uomini. Questo è un villaggio di donne.
È da molto ormai che viviamo sole e nessuno lo sa. Per avere figli andavamo dai clan vicini, ma poi tornavamo tutte qui.
Le ho salvate io.
Molto tempo fa raccoglievo solo uova, ma gli spiriti mi avevano informata che un gruppo degli uomini alti avrebbe invaso il villaggio.
Le donne, che sapevano quanto fossi capace, si nascosero con me; gli uomini furono tutti uccisi e prima di morire, mi schernirono dal primo all’ultimo dicendo che ero solo un’incapace.
Da quel giorno terribile, sperammo che non sarebbero più tornati.
Però noi siamo donne che amano le pietre e le lance, facciamo scorribande lungo il lago e razziamo i nostri vicini per rubare loro il cibo, ma non arriviamo mai a uccidere i bambini o trucidare per il gusto del sangue, come fanno gli uomini alti.
Ora sono stata eletta sciamano e la nostra capo clan è una ragazza molto abile che ci difenderà dal secondo assalto.
La prima volta che accadde aspettavo un bambino, ma ero troppo giovane e dopo l’orrore che avevo vissuto era nato morto.
Quella maschera di pelle, piume e code era ed è il fulcro di tutti i nostri dolori.
Questo è il momento di attaccare. Faremo in modo che su quella terra maledetta non abiti più nessuno. Dopo questo villaggio, non ci saranno più uomini bassi dalle facce schiacciate. Tutti sterminati. Il mio gruppo mi odia, ma fa quello che dico perché seguirebbe chiunque in un mattino dove non sai se il tuo destino è la
vita o la morte.
Credono di prenderci di sorpresa, ma noi siamo pronte e non so se durante questa mattina grigia e fredda vinceranno gli uomini della violenza o la nostra razza di raccoglitori e cacciatori. Sono armata e pronta a difendere il futuro. La nostra capo clan mi ha chiesto molte cose prima di combattere e io le ho saputo dire solo che i nemici hanno un nuovo capo giovane, ma i suoi occhi vedono come quelli di un vecchio.
Siamo andati all’attacco e abbiamo capito che quelle sono tutte donne. Bellissime donne dalle pance immense che i miei uomini stanno squarciando con ferocia selvaggia. Solo io ho capito che sono donne. Stupende. Magnifiche. E mi accorgo che di fronte a me c’è una macchia, non distinguo le cose se sono troppo vicine. Si allontana un poco e sono sicuro che quello è il mio Dio, quello che mi ha salvato la vita.
Mi toglie la maschera.
Il giovane non capisce cosa sono. Non mi vede e io gli tolgo la maschera perché quelle code di pesce lo fanno sembrare quello che in realtà non è; così avrò meno paura.
Non l’ho mai visto. L’ho sempre odiato e lo colpisco forte con la lama di selce.
Il mio Dio mi ha colpito. Mi ha salvato solo per uccidermi poco dopo. È inutile. Lo trafiggo anch’io e cadiamo entrambi in una buca che avevo scavato io stesso la sera prima per compiere un rito.
Si allontana un poco, è tutto sporco di sangue. Allora finalmente si vede bene che cos’è.
Capisco che ha paura di morire, così l’abbraccio, ma lei ormai è già morta.
Era una donna. Di quelle cui davo la caccia con ferocia perché non onoravano i nostri dei.
Sopra di noi continua a infuriare la guerra che abbiamo iniziato.
Sento che non ci sarà mai pace per la nostra specie, se la vinceremo noi. È meglio non dover guardare il volto del futuro, così vicino che non riesco a scorgerlo distintamente.
Per fortuna non sopravvivrò alla mia battaglia.
La liberazione dell’universo
Non è facile adolescere al giorno d’oggi.
Con l’avanzare dei secoli, gli individui considerati adulti hanno iniziato a restare sempre più infantili, perché il mondo che corre veloce non ha lasciato loro il tempo di scoprire che cosa significasse la reale portata di questo cambiamento.
Insomma, mentre fuggivano dalla propria maturazione si sono fermati.
All’epoca della mia storia ero una bella donna, alta e snella con gli occhi gialli; lavoravo in un archivio storico. Avevo scelto quell’occupazione perché adoravo i libri antichi, sentirne l’odore e prendermene cura.
In un certo senso ero una di quelle persone che ho biasimato poco fa, qualcuno che preferiva rifugiarsi nell’utopico universo letterario pur di non affrontare la realtà. Non ero mai cresciuta veramente, ma non riuscivo a rendermene conto.
La mia vita era scandita da ritmi regolari, senza mai sgarrare: lavoravo giorno e notte, ero meticolosa e ordinata, una vera lavoratrice modello.
Con il are del tempo, però, qualcosa iniziò a premere contro di me con insistenza per portare a chiedermi se non ci fosse qualcosa oltre a quella che oggi considero un’assurda routine; così rimuginai su questo, finché una mattina mi svegliai e mi resi conto che era vero.
Un essere umano non può mai raggiungere un grado assoluto di completezza, e
pretendere di afferrarlo solo mediante una vita ordinata era impossibile.
In quel momento credetti di aver raggiunto la maturità, ma non ero mai stata tanto lontana dal vero.
Non stavo accettando il presente, a farmi parlare era l’innamoramento, che per me si configurava come un sentimento crudele e indomabile. Ed era cresciuto troppo in fretta, il valore sommo nato come un’acacia dentro il deserto brullo dell’infanzia.
Dell’uomo di cui parlo non ricordo nulla poiché, proseguendo nel mio viaggio alla scoperta dell’amore, ero rimasta sola con la mia disperazione, che alla lunga me l’aveva cancellato dalla memoria.
All’inizio ero felice, potevo essere una dei pochi prescelti per la comprensione della fonte primaria che rende eccellente la vita dell’essere più infimo; ma in realtà non ero pronta. Credevo di poter agire come una donna matura, facendo scelte che non ero in grado di sostenere.
Caddi nel tranello perché pensavo che sarei sopravvissuta a qualunque difficoltà mi avesse posto questa prova, ma non avevo idea della reale portata dell’ evento e dell’abilità che dovevo possedere per non lasciarmi masticare dalla mia ossessione.
Quell’amore era un fiore che si apriva e chiudeva a intermittenza, senza requie, lasciandomi del tutto inebetita per la velocità con cui mi consumava, senza mai mostrare segni di sfaldamento.
Le mie stranezze divennero a poco a poco motivo di scandalo: mangiavo giusto l’indispensabile, limitandomi a sbocconcellare frutta e verdura per pranzo e cena; la notte riposavo male e non mi sentivo stanca; proseguivo le mie attività per inerzia. Al lavoro ero estremamente distratta, tanto da sembrare una sciocca, nemmeno più desiderosa di impieghi come prima.
Le cose proseguirono in questo modo per qualche mese, finché un pomeriggio, mentre stavo andando all’archivio, ero talmente persa nel labirinto miei pensieri che non vidi l’autobus arrivare dalla parte opposta fino all’ultimo istante. Svenni appena ebbi la sensazione della lamiera che mi sfiorava le gambe; il freddo del metallo sulla pelle era doloroso, la prova della sconfitta.
Sapevo che le cose non sarebbero potute andare avanti così in eterno; gli eventi seguono il proprio corso e la natura riequilibra sempre ciò che sfugge al suo controllo.
Nonostante tutto, riuscirono a salvarmi la vita, anche se non sapevo fino a che punto meritassi di calcare questa terra, a fronte dell’essere patetico che ero diventata, a maggior ragione dopo aver perso anche l’uso di entrambe le gambe.
Mi misero su una sedia a rotelle e ogni giorno i miei genitori si prendevano cura di me a prezzo di smisurati sacrifici: dovettero rinunciare un po’ per volta a tutte quelle attività che gli esseri umani eleggono a missioni per non morire nel senso più assoluto di inutilità.
Quando decisi di ricominciare il mio personale tran tran lavorativo, capii immediatamente che nulla sarebbe più stato come prima. Quel luogo era per me inaccessibile ormai, senza l’aiuto di qualcuno.
Assegnarono al mio pensiero fisso il compito di aiutarmi negli spostamenti. Sono quasi certa che avessero pensato di licenziarmi, ma la mia penosa condizione mentale traspariva in modo troppo evidente per essere ignorata, tanto che non ebbero mai il coraggio di propormi un ritiro dal lavoro per timore di qualche reazione eccessiva.
Dopo questa svolta improvvisa, ben presto il tempo per me ricominciò a scorrere in modo troppo lento, costantemente difforme, intervallato da periodi che si dilatavano smisuratamente o che, senza alcuna ragione, si contraevano all’improvviso; ma nella realtà erano ati solo altri giorni, che diventarono mesi, e alla fine fu un anno.
Mi ritrovai ad avere quarant’anni ati, ero una donna sciupata, senza più un barlume di ragione, che conviveva con un profondissimo senso di colpa.
I miei superiori, i miei amici, la mia famiglia facevano terribili sforzi affinché continuassi a vivere nel modo più normale possibile. Quello che mi scorrazzava per l’archivio e che poi ben presto era stato costretto ad aiutarmi nelle faccende di casa, non avrebbe mai voluto davvero condurre un’esistenza così.
Non aveva una moglie, una sua vita propria, era succube del mio egoismo.
Un tentativo futile per cercare di reinnestare nel mio corpo martoriato un barlume di umanità che non mi apparteneva più.
Tutto ciò non aveva assolutamente alcun senso e il fatto di averlo compreso così
tardi mi fece intuire che ero diventata una persona incapace di amare, perché avevo sacrificato la causa della mia illuminazione nella speranza, continuando ad esistere, di poter assorbire ancora quel meraviglioso sentimento che avevo trasformato in rovina per tutti noi a causa del mio indegno contenitore di carne.
Meditai a lungo sull’ultima risoluzione che avevo deciso di prendere: non c’era speranza di miglioramento.
Se ne avessi avuto la possibilità, sentivo che avrei cercato di rifare tutto, ma proprio tutto da capo, a partire dalla mia nascita, ed era un ragionamento strano perché fino ad allora avevo sempre considerato la mia vita come il frutto delle scelte migliori possibili. Invece no, non era più vero. Dovevo aver costruito l’esistenza di qualcun altro sul mio corpo. Dopo lunghi ripensamenti non ero tuttavia ancora sicura, ma una notte di marzo accadde: ero un tranello della schiavitù, dovevo semplicemente levarmi di mezzo.
Chiamai un taxi da casa, che arrivò immediatamente. Non che ci fosse qualcosa di strano, essendo le sei di mattina.
L’aria era ancora fredda e da qualche parte si potevano intravedere mulinelli di nebbia nelle zone depresse della strada.
Ricordo tutto in modo particolareggiato, tanto che mi sovviene ancora l’aspetto grottesco di una figura che camminava sul marciapiede di fianco all’archivio.
Arrivata, mi feci aiutare a salire fino all’ultimo piano dell’edificio. Non era particolarmente alto, ma ci soffiava un vento così sottile che mi entrava nelle cuciture dei vestiti.
Pensai alle ultime cose, rapidamente, e mi buttai.
Anche in quel momento non ero animata da alcun tipo di sentimento qualificabile come tale; dovevo essere rimasta per forza vuota, dopo tutto quel tempo ato a raccogliere i frutti di un’esistenza assurda.
La mattina venne una ressa di gente a vedere cos’era accaduto: c’erano poliziotti che scattavano fotografie, madri talmente sbigottite che dimenticavano di coprire gli occhi ai figli più giovani, e c’era lui, fuori dal cerchio gigantesco che si guardava attorno incuriosito, senza capire che cosa stessero facendo davanti all’archivio tutte quelle persone.
Infine decise che era inutile restare lì a girarsi i pollici.
Camminò a piedi fino alla casa dei suoi genitori, lontano dalla calca, al limite della vita.
Me ne andai anch’io con quel ricordo presente di lui finalmente tranquillo, sereno, ma soprattutto libero, che fendeva l’aria mattutina, solo nel limbo che creava al suo aggio tra il regno dei vivi e quello dei morti.
Metamorfosi
Luisa osservava cogitabonda il cielo limpido: «È Adamah».
Lo disse così, senza pensarci, guardando cadere gigantesche gocce d’acqua.
Si ricordò di una notte in cui aveva piovuto, ad aprile.
Adamah era disteso nell’erba alta; faticava a vederlo così nascosto, al buio, mentre lei si doveva accontentare di guardare la scena dietro il vetro freddo della finestra che dava sul bosco.
I rivoli le scendevano di fronte come fiumi veloci, senza arrestarsi mai. Non sapeva chi fosse, ma aveva un’aria magica.
«È Adamah» continuava a ripetersi, in stato di trance.
«Che cos’è Adamah?»
Sua madre non sapeva del ragionamento che aveva fatto in quella notte assurda. Ma poi, perché assurda? Era inclassificabile, ecco il motivo.
«Adamah se n’è andato» disse Luisa, con una nota di tristezza nella voce e negli occhi.
Il sole splendeva stentatamente.
«Dov’è andato…»
Le lettere del suo nome parlavano della morte, ma spiegavano anche che era venuto dalla terra. Il padrone della resurrezione donava una forma nuova a qualunque essere avesse avuto la sfortuna di perdere la precedente.
La stella splendeva sempre più, impedendo ad Adamah di eseguire il proprio compito alla luce del giorno.
Luisa sentì la sua mente schiacciarsi nelle mani del Creatore come un mango maturo e sotto di lei si aprì una voragine profonda. Iniziò a cadere sottoterra.
Lungo la strada dove si trovava, molti si spaventarono vedendola entrare nell’asfalto che la inghiottiva.
«Chi sono?»
Sapeva di chiamarsi Luisa Prosardi, ma il problema trascendeva quei piccoli dettagli.
Non era a conoscenza di cosa fosse in realtà.
La materia che Adamah aveva catturato per plasmarla di nuovo non apparteneva al luogo in cui l’aveva posta successivamente alla rinascita, per questo un certo senso di straniamento l’aveva accompagnata fino ad allora.
Scendeva progressivamente: vide che il buco appena fatto era già stato murato.
Da quanto era lì? Qualche secolo, forse?
Alla fine toccò terra e si addormentò, pensando al sorriso beato del Creatore.
Dopo millenni si svegliò nella buia profondità e mise le ali dietro la schiena.
Le era già capitato altre volte, ma quelle estremità erano più grandi e forti del solito, da angelo.
Per la precisione da arcangelo, perché il suo corpo si era rivestito di una leggera armatura e al suo fianco pendeva una spada che trasudava potere.
«Io esisto?»
Se lo chiedeva spesso, probabilmente a causa delle continue manipolazioni subite.
Era plausibile considerarle come violenze, delle specie di orrende torture con cui Adamah l’affliggeva per tenerla legata a sé, o manifestavano qualche genere di benevolenza?
La sua precedente incarnazione, Luisa Prosardi, aveva dieci anni, non era in grado né di leggere né di scrivere e non amava la compagnia.
I suoi conoscenti la denigravano, pensando che fosse autistica, perché lasciava sempre i discorsi a metà.
Ora che aveva le ali, poteva finalmente risalire dalla terra. Le venne da pensare alla genitrice scelta in modo arbitrario da Adamah.
Il flusso ininterrotto le sfuggì con rabbia, perché il Creatore sembrava trovare un sadico piacere nel non affidarla mai alla sua vera madre.
L’ultima che aveva avuto, per lei era solo una tutrice, mandata per educarla senza successo.
Nonostante gli scherzi crudeli, il Creatore era la persona che Luisa aveva amato di più nel corso dei tempi.
La bambina immaginò che avrebbe dovuto conservare quell’aspetto ancora per qualche tempo, così si preoccupò di cercare il proprio nome.
Uscì dalla voragine squarciando l’asfalto e vide altre persone, in vesti futuristiche, che si spaventarono alla vista dell’arcangelo che sbucava dalla spaccatura dove qualche secolo prima era caduta Luisa, di cui avevano perso il ricordo.
Adamah controllava anche loro; ne cancellava abilmente le memorie, ogni volta. Conservava solo quelle di Luisa.
Le venne incontro un altro essere, arrivando dall’altro capo della strada:
«È Raffaele» pensò subito lei.
«Michele, dovresti stare attento a non spaventare gli umani.»
Michele, bel nome.
D’un tratto sentì il familiare spasimo che preludeva a una nuova ricostituzione della propria materia; svenne e ricadde al suolo, accanto alla sua antica prigione.
Non aveva mai visto i dettagli esatti del volto del Creatore, nonostante questo e la sua crudeltà lo amava più di ogni altra cosa.
Tuttavia, non poteva permettergli di manipolarla ulteriormente. Adamah non
avrebbe più avuto nulla su cui esercitare il suo potere se avesse insistito a deformarla di nuovo.
A ogni vita perdeva sempre più forza, a ogni trasformazione doveva pagare donando sempre più dolore.
Una donna che camminava lenta tra i anti si fermò sopra di lei, che si contorceva a terra.
Chiese, incerta: «Michele, sei tu?».
Lui cercò di girarsi sulla schiena, ma aveva un’ala spezzata: «Mamma?».
Si rese conto di avere una bellissima voce, non quella che odiava nell’esistenza ata.
«Mamma, perché devo morire e ricordarmi quello che ero?»
La donna tacque, poi rispose: «Lascia che Adamah riprenda in mano la tua essenza e ti riporti da me. Sono stata così sola in questi secoli in cui ci ha tenuti divisi. Non so perché l’abbia fatto, ma credo che finalmente sia giunto il momento che aspettavamo.»
Michele tentò di alzarsi, ma il dolore era intenso e ci riuscì solo a in parte, per abbracciare la vera madre, dopo averla perduta per millenni. Lei lo capiva, e lo
amava.
«Sono stato una bambina umana, prima ancora un frutto inghiottito da un pesce, persino una pietra, e le energie morenti della terra hanno distrutto la mia forza. Se permetterò al Creatore di avviare un nuovo ciclo, mi smembrerò e di me non resterà più nemmeno la vitalità necessaria per conservarmi nell’universo.»
«Fidati di Adamah, anche lui conosce il significato della sofferenza. Non ti lascerà morire.»
«Lo spero. Devo fidarmi di lui perché lo amo più delle fibre del mio pensiero. Farò quello che chiedi.»
La madre iniziò una dolce cantilena e lo tenne con gentilezza tra le braccia mentre la trasformazione lo dilaniava internamente.
Alla fine, lei dovette allontanarsi per lasciare che il processo raggiungesse la sua conclusione. Sembrava afflitta dal dolore del figlio.
Adamah mandò la pioggia a consolare le pene delle sue creature.
Infine, la donna scomparve alla vista.
L’arcangelo acquisiva aspetti irriconoscibili, spesso microscopici e chi si trovava su quella strada lo calpestava senza pietà, non vedendolo.
Michele si fece forza pensando alla ricompensa che lo aspettava.
Sentì che Adamah entrava dentro di lui come una morbida sensazione di pace. Iniziò a rimettere ordine nei suoi tessuti, come se avesse deciso di creare un luogo confortevole di cui prendere possesso.
L’arcangelo seppe di avere speranza perché il Creatore lo abitava come un fuoco inestinguibile.
Adamah si palesò agli occhi di Michele e gli disse che non lo avrebbe mai abbandonato.
L’arcangelo, allora, si alzò in volo, perché stava morendo e a loro succede così, vengono attratti verso l’alto, mentre gli esseri umani cadono sottoterra.
Si tagliò le ali con la spada per frenare l’ascensione e precipitò in un ospedale.
«Piccolo mio…»
Era la voce di una donna.
«Ciao, mamma.»
«Come stai?»
«Molto bene!»
Si avvicinò un medico: «Sono contento che tu sia allegro, ti riprenderai più velocemente dall’intervento. È andato tutto come previsto, tra un paio di mesi potrai giocare con i tuoi amici e tornare a scuola.»
«Hai sentito, Michele?»
«Sì.»
Il bambino fece un largo sorriso.
Finalmente l’anima errante poteva fermarsi e dimenticare.
Il cuore di Alice
Alice guardava le bolle di sapone che aveva appena fatto la piccola Kira, ma teneva anche d’occhio i giovani Drago e Lupo, stando in disparte.
La bambina ne faceva sempre più, non scoppiavano mai; Alice si specchiava dentro ognuna e vedeva il riflesso di Drago alle sue spalle. Stava facendo una strana danza con l’amico.
Le piaceva osservare i suoi lunghi capelli neri macchiati di sapone muoversi con vivacità sul viso perfettamente ovale. Amava Drago, anche se era suo fratello.
L’altra la fissò con i suoi occhi viola.
«Ora basta, altrimenti affogheremo nel sapone!» esclamò Lupo.
Kira si fermò improvvisamente e camminò fino al centro della stanza: «Sorellina, devo parlare con Lupo».
Il ragazzo dagli occhi gialli scattò: «Usciamo sul retro».
I due si avviarono verso la porta e, quando l’aprirono, entrò una folata di vento che fece scoppiare la maggior parte delle bolle.
Alice e suo fratello rimasero soli.
«Io non ti conosco» gli disse lei.
«Neppure io ti conosco. Non sei mia sorella.»
La chioma bruna si scosse.
«Ti devo mostrare una cosa» continuò Alice.
Salirono la gigantesca scala a chiocciola e camminarono fino a fermarsi davanti a una porta decorata da un motivo a spirale giallo e viola.
Alice la spinse: la stanza era poco illuminata e le pareti erano dipinte di blu elettrico; un’unica finestra di fronte a loro permetteva di sentire le voci di Lupo e Kira.
Drago non conosceva quella camera del palazzo.
Alice avanzò con sicurezza e prese una sfera rossa come i suoi capelli da un mobile in mogano che stava sotto la finestra: «Guarda».
Il ragazzo alzò la sfera e scrutò il nucleo: era argenteo.
Il cuore del giovane sussultò: «Com’è potuto accadere?».
Alice alzò le spalle e indicò Kira che discuteva concitatamente con Lupo in giardino.
«E ora come faremo?»
Un raggio di luna li sfiorò entrambi.
Alice si sporse dalla finestra e urlò: «Kira!».
La bambina si congedò dal suo interlocutore con un gesto ed entrò in casa.
I due scesero i gradini e attesero pazientemente che lei li raggiungesse.
Quando la bambina rientrò, si fermò di fronte a loro. Non iniziò a parlare subito: era ansiosa, ma si prese un istante per studiarli attentamente, come se temesse di ferirli. Infine disse, rivolta ad Alice:
«Questa notte te ne devi andare, altrimenti non ci rivedrai mai più».
Alice si stava ricoprendo di un’armatura nera che risaltava lo splendore dei capelli rossi.
«Cosa scegli di fare?» chiese Kira, che non tradiva alcun tipo di emozione.
«Tornerò dopo aver saldato il mio debito con il destino.»
«Saggia scelta. Arrivederci.»
Alice si calò l’elmo sulla testa e corse fuori, nella notte.
Torna da me
Accadde un giorno.
Tutti chini sui nostri compiti, galleggiavamo inetti e non meritevoli della vita che sprecavamo, non curandoci che fosse un dono degli dei.
Amavamo la nostra sfortuna, amoreggiavamo con la nostra ipocrisia. L’obiettivo dei padroni era renderci macchine universali, e così noi vivevamo non badando al pericolo del supplizio cui ci avrebbe condannati quella terribile follia. PUM PUM Un cuore inizia a battere, e io mi sento viva. PUM PUM Io sono viva! Sono viva! PUM PUM Ho membra, desideri e amore, cos'è la mia esistenza all'infuori di ciò?
Tutte le teste grigie davanti e dietro a me si alzano.
Quel battito non era di un cuore, bensì la vittoria della musica. Questo trionfo è così potente che ci scivola nelle vene e fa sentire tutti allo stesso tempo orribili e marci. Qualcuno ha mandato musica dagli altoparlanti. Un dio ha deciso di salvarci e noi siamo incontrovertibilmente il suo popolo eletto.
Acclamazioni ruggenti esplodono nella stanza, solo pochi vigliacchi fanno come se nulla fosse.
Io sola mi alzo e guardo verso la porta con la bocca schiusa in una muta preghiera: “Torna da me”. In un parossismo di misericordiosa bontà, tutto il Popolo si alza preda di commozione: la musica ha provocato addirittura un piacere fisico in loro, che godono all'effusione del seme, non avendo mai conosciuto prima le gioie della libertà. Ed ecco che arrivo! Sono io quel grandioso dio che ha chiamato il Suo Popolo con qualche nota stonata di vecchio grammofono.
Danzo in modo scomposto e casuale, preda di un fervore inumano:
«Mio dolce Popolo! Venite a me e liberatevi di questo mondo dove non assaggerete mai il piacere della vita».
Sono palesemente invasata e più che urlare le parole, le biascico.
Penso che devo essere stata pazza per credere di salvare il Mio Popolo accendendo un grammofono.
Eppure, oltre mille teste si alzano di scatto sbraitando che se ne vogliono andare, che sono disposti a rinnegare la famiglia e i valori in cui hanno sempre creduto fino a questo momento purché io li salvi e li conduca dove possano davvero affidarsi a qualcosa.
Voglio andare con lei. Così dolorosa e affaticata, ma così raggiante per aver trovato La Risposta.
La vedo allontanarsi con le teste dei miei compagni danzanti e folli verso un nuovo inizio senza più dolore. Ma è solo quello che vorrei. Mentre ballava è inciampata rompendosi l'osso del collo; non potrà mai più salvare il Popolo. Siamo chini su questi inutili fatti che non creano verità, ma solo angoscia. Ogni momento che o qui, ricordo la melodia del grammofono confusa col battito del mio cuore e mi ripeto piano: «Ti prego, torna da me, Vanessa».
Ringraziamenti
Ringraziamenti
Voglio ringraziare per il o mio nonno Renzo per essere sempre dalla mia parte, anche nelle situazioni più improbabili; mia madre perché quando torno a casa fa lei i mestieri e io ho il tempo di scrivere, e, non meno importante, non mi fa morire di fame; il capo Dario Bellini per avermi concesso di pubblicare con lui; Beatrice Varriale per le splendide illustrazioni, l’amicizia proficua e l’entusiasmo con cui partecipa ai miei progetti; Giuseppe Andiloro per aver preso parte in qualità di traduttore a questa mia opera prima; Chiara Valerio ed Elena Sofia Olivieri, insieme a Sara Cafaggi, per essere una fonte continua di ispirazione, sostegno e una prova che tra gente che vive sotto lo stesso tetto può nascere un’amicizia solida; sca Minghini per il nostro rapporto che, seppur a volte burrascoso, mi ha regalato tante risate e tanta saggezza in più; Riccardo Sganzerla per la paziente sopportazione dei miei drammi amorosi; Angelica Pedron per la sua splendida verve da romagnola verace; Antioche Tambre Tambre perché lui è Antioche Tambre Tambre; Le coppie Tiziana Tommasi – Luca Morselli e Fabio Segala – Marco Giaccherello, che nei momenti di sconforto mi hanno ricordato che per fortuna avere una relazione d’amore profonda è ancora una cosa possibile; Dario Bagnoli che mi ha traviata fin da piccola convertendomi a una ione smodata per i fumetti; Marta Pianori, Giorgia Naldi e Barbara Ramponi per il o alle mie pene umane e di scrittrice; sca Spinosi per avermi accolta quando mi ero chiusa fuori dall’appartamento senza cellulare, impedendomi di avere un esaurimento nervoso. Un ringraziamento speciale al professor Fabrizio Eleonori per la sua ferma gentilezza e l’interesse mostrato nei confronti dei miei miglioramenti anche una volta terminato il liceo.