Sulle Orme Della Notte 5d2j1k

Tiziana Iaccarino

Sulle orme della notte

R o m a n z o

SULLE ORME DELLA NOTTE

Autore: Tiziana Iaccarino

Copyright © 2012 CIESSE Edizioni

Via Conselvana 151/E 35020 Maserà di Padova (PD)

Telefono: 049 8862219 - Fax: 049 2108830 [email protected] www.ciessedizioni.it - http://blog.ciessedizioni.it

ISBN versione eBook 978-88-6660-035-0

Impostazione grafica e progetto copertina: © 2012 CIESSE Edizioni

Tutti i diritti sono riservati. È vietata ogni riproduzione dell’opera, anche parziale.

Collana: Green Editing a cura di: Irina Turcanu, Sonia Dal Cason

A mia madre.

Giacevo tra le braccia della notte ed essa mi portò la pace. La notte viveva serena perché non era stordita dal caos del giorno.

La notte viveva l’assenza del giorno e ne gioiva per la possibilità di sognare qualcosa che al giorno non sarebbe mai spettato di sognare.

Capitolo I

Venezia

In un tiepido pomeriggio d’inizio Settembre, la sonnolenza di una natura ancor rilassata da una placida Estate sulla via del tramonto si sfogava in una pioggerellina di tristezze disperse tra grigie nubi che oscuravano il sole, mentre osservavo il Ponte dei Sospiri sotto cui si agitavano acque scosse dal movimento d’ogni imbarcazione di aggio. Quelle acque erano più agitate di me, più scure del mio umore e più fredde della mia anima. Ne ero fortemente attratta e non ne conoscevo la ragione. Fissavo le onde come se mi chiamassero a scoprirne i segreti celati dai fondali e speravo di trovare la forza e il coraggio per inseguirne le incessanti movenze dal basso. In quel momento non si scorgeva nessuno nei dintorni. Erano tutti corsi a rifugiarsi nei bar da cui si percepiva distintamente, anche in lontananza, la frenesia del continuo tintinnio di cucchiaini infilati in schiumose tazzine da caffè appena servite, tra confusi mormorii di voci scomposte sotto i gocciolanti e imponenti portici di Piazza San Marco. Stesse scene si ripetevano nelle locande più caratteristiche delle deserte stradine di città, nei colorati negozietti arricchiti dai souvenir realizzati all’isolotto di Murano o nei ristoranti che accoglievano anti e turisti con la speranza che consumassero qualche pasto con la frugale distrazione di chi è in attesa che la pioggerella termini d’infierire sulle calli di un fiabesco soggiorno. Ero sola, come sempre. Ero triste, più di sempre. La pioggia m’infradiciava capelli e anima, forse nella speranza di ripulirli dalle sbiadite tinte della vita. Dopotutto, i colori dell’esistenza non emergono all’esterno solo attraverso il nostro aspetto, ma utilizzano anche l’anima per farsi notare. I miei capelli scuri lo sembravano ancor di più da bagnati, mentre nel giacchino

color nocciola macchiato dalla pioggia insistente mi rintanavo fuori da un mondo che mal sopportavo. Ma di che colore era la mia anima in quel momento? Cosa celava davvero e perché non reagiva? Perché? Il dolore sa esprimersi con le lacrime, la rabbia, la frenesia, l’angoscia, l’ansia, il risentimento, l’amarezza, la delusione, l’ira e la violenza di non riuscire ad accettare un patimento quasi obbligato. Perché siamo costretti a soffrire? Perché la vita ci costringe? Perché? Perché viviamo da condannati senza saperlo? Non siamo esseri umani. Siamo anime che si dimenano in invisibili gabbie d’illusioni alimentate da ioni prive di raziocinio. Siamo illusi feriti, sognatori ingannati, bambini mai cresciuti, saggi folli, esseri in cerca di verità inesistenti. Non sappiamo realmente chi siamo. Eppure viviamo. Andiamo avanti e ci raccontiamo la vita. La parte che decide di lasciar raccontare solo a noi stessi, anche se abbiamo l’illusione di raccontarla ad altri. Viviamo di illusioni, ma esse non fanno che condannarci, giorno dopo giorno, perché ci relegano a destini insensati. Siamo dei forsennati incatenati, degli ammalati festanti, dei perdenti entusiasti, dei relitti ammantati, dei prigionieri liberi che cercano bugie in grado di nutrire serenità mai trovate. A cosa serve il dolore? A cosa? Dove vuol condurci e perché non ci abbandona? Perché non molla la presa? Credevo di non resistere alle onde già scure d’un canale che conduceva lontano correnti di ioni mai davvero sopite eppure qualcosa, o meglio qualcuno, afferrò il mio braccio nel momento in cui cominciai a sporgermi in modo inequivocabile verso l’acqua sottostante. Lo sguardo voleva perdersi nel vuoto d’un tempo interminabile, poi mi volsi e lo vidi. Per la prima volta. La sua mano teneva ben stretto il mio braccio e cominciai a riappropriarmi di un’esistenza creduta ormai finita. Chi sei? Da dove sbuchi? Perché mi afferri con veemenza e decisione? Lui mi guardava e taceva. Fradicio, scrutava i miei pensieri come se potesse

leggerne ogni parola, ma speravo non ci riuscisse. Volevo crederci, ma non ne avevo la certezza e avevo paura di ciò che vi avrebbe trovato. Sfidavo il suo sguardo, lo sostenevo, non m’intimoriva, ma mi gelava. Era di ghiaccio. E io avevo ancor più freddo. Braccia muscolose uscivano da una maglietta quasi estiva su di un jeans inzuppato d’acqua che ne scoloriva la tinta, mentre gli occhi verdi e diretti erano attenti a non distogliermi lo sguardo di dosso. Una barba appena incolta ne faceva un uomo misterioso, indefinibile e attraente, sebbene un po’ trasandato tra lineamenti quasi perfetti nella padronanza d’una forza imperscrutabile. Con un movimento del braccio da cui mi teneva, la sua mano mi attirò verso di sé, indicandomi di allontanarmi dal ponte presso cui mi ero pericolosamente sporta. Aveva capito. Aveva capito tutto. Non guardava i miei occhi. Stava guardando la mia anima. L’anima e tutto ciò che in essa celavo. Non distoglieva lo sguardo, la osservava come se ne potesse scoprire ogni angolo, ogni ombra, ogni sfumatura e ogni respiro, fino in fondo. Fino a trovarne le fondamenta nel vento che ci sbatteva addosso lacrime d’un cielo scuro di nubi di dolore. Non parlava e non lasciava la presa. Il mio braccio era freddo e quasi insensibile al tatto, ma ciò che sentivo addosso più della pioggia che mi rivestiva da capo a piedi era la carezza del suo sguardo fisso, immobile, determinato, indagatore, ionale e feroce. Avrei voluto divincolarmi, ritrarmi, cercare di scappare, indietreggiare o parlare, ma non potevo. Non ce la facevo. Avrei voluto restare immobile sotto la pioggia a studiare quella presenza e ogni sua muta espressione. Pensavo di udirne la voce, ma nulla mi permise di conoscerne anche un solo suono o di sapere chi fosse. La pioggia parlava per noi, lambendo anime sconosciute al mondo di una visione ostentata dalla follia di un gesto. Immaginai il suo nome proprio come la sua voce. Immaginai di sapere chi fosse.

Immaginai di svegliarmi. Ma non era un sogno. Ero sicura che non lo fosse. O lo era davvero? Pensai di resistere alla sua presa, di sostenere quello sguardo fino all’ultimo dei miei più lucidi istanti, ma non ci riuscii e tutto svanì nel lasso di un minuto. Non ne seppi più nulla. Mi svegliai nel morbido calore di un letto candido. Avevo avuto un incubo? Avevo sognato? No. Non poteva essere. Avevo vissuto quello sguardo fino alle radici del mio essere e non credevo fosse stato solo un sogno. Guardai il soffitto che mi sovrastava. Era elegante e vi campeggiava un lampadario di cristalli. Cercai di alzarmi, ma ero fiacca e dolorante. Il freddo sentito sotto la pioggia era rimasto a coprire anche la mia pelle. Sì, ero sicura di esser rimasta sotto la pioggia per chissà quanto tempo, sebbene non ne potessi decifrare o ricordare il lasso o una qualche misura. Avevo vissuto oltre il tempo e lo spazio un momento che ricordavo con confusione e poca lucidità, ma che sapevo, o meglio, sentivo di aver vissuto fino in fondo. Non sapevo più chi ero, ma non contava, avrei voluto rivederlo. Avrei voluto ritrovarmelo davanti. Pensavo che quel ponte sarebbe stato la fine invece fu solo l’inizio.

Venezia ritrovò il suo sole, tra le calli vivacizzate dai turisti che le riportavano il timido mormorio di tutto un mondo attraverso la visita di persone appartenenti a ogni nazionalità, razza, cultura e religione. Io ero tra loro e, allo stesso tempo, non c’ero più. Ora lo sapevo. Ero sopravvissuta per arrivare in quel luogo e in quel giorno. Non c’era stato nulla di casuale. Era scritto. Lo sapevo, lo sentivo. C’era qualcosa di superiore, qualcosa che non apparteneva a una qualunque volontà umana. Sarei dovuta arrivare a vivere quel giorno. Il mio giorno non sarebbe finito nel canale, ma sarebbe ricominciato dalla pioggia con cui il cielo aveva voluto purificarmi. Io lo cercavo ancora. Io volevo sapere, capire, trovare. Dovevo ritrovarlo. Dovevo sapere che esisteva. Che non era stato frutto della mia immaginazione.

Che mi aveva salvato. Che mi aveva strappato alla furia di un canale sconosciuto e di un’incosciente follia. Non avrei avuto più pace, non avrei più vissuto. Finalmente qualcosa mi avrebbe riportato la voglia di riscoprire il mondo circostante, qualcosa che non conoscevo davvero, qualcosa che mi avrebbe riportato l’essenza di un’esistenza creduta perduta. Tornai sullo stesso ponte per giorni di sole e nuvole, mattine, pomeriggi, sere e notti di attese fatue che consumavano la propria esistenza tra la folla diurna e il silenzio notturno. Nella confusione di chi pensa di cercare l’inesistente, ma non vuol uccidere una speranza più viva di sé e della propria vita. La speranza che viveva in me era più viva di me. Non volevo sapere nulla. Solo rivederlo come la prima volta, ancora una volta, anche l’ultima, purché ancora infinita e intima come mai avrei creduto possibile con chi non conoscevo. Raggiunsi quel ponte anche l’ultima sera. Il giorno seguente sarei ritornata a casa e ancora speravo. I lampioni del porticciolo presso cui erano ormeggiate le gondole illuminavano a stento la stradina percorsa, mentre le luci dei ristoranti cominciavano ad affievolirsi per indicare che la chiusura era prossima. Le coppiette d’innamorati che eggiavano stretti in un’unica ombra facevano notare la loro presenza solo attraverso lo scalpiccio dei loro i nell’eco degli angoli più deserti di una città che si stava pigramente svuotando. Decisi di attendere seduta ai piedi di una delle spallette del ponte. Attesi a lungo. Sperai fino a capire che non sarei riuscita a resistere con le palpebre aperte fino all’alba e mi arresi. Il baratro ricominciò a corteggiarmi. Avevo sognato. Avevo immaginato tutto. Non era accaduto nulla e lui non esisteva. Non era mai esistito. Quando al risveglio, la mattina seguente, intravidi le prime luci dell’alba, mia madre aveva già preparato le valigie, impacchettato i souvenir acquistati e lasciato in reception le cartoline chiedendo al personale dell’hotel di spedirle quanto prima. Sarei tornata a Sorrento privata di ogni illusione e non riuscivo ad accettarlo. Ma come si fa ad accettare una realtà troppo bieca? Come si fa a rassegnarsi alla

vita? Come ci si abitua alle sue nefandezze? Chi ci può proteggere? Avevo paura. Volevo volare via. Sarei voluta andare più lontano. Avrei voluto ritrovare la me stessa perduta. Ma non sapevo da dove cominciare. Non sapevo neanche come avrei ripreso a vivere. Quasi ogni giorno ormai l’alba di Sorrento mi sfiorava la pelle con la sua luce fioca, nella speranza di riuscire a riacquistare un po’ di quel buonsenso che sapevo di aver perso. Perché non mi vengono in aiuto? Perché il Cielo mi ha abbandonato? Perché provo questa inquietudine e questo dolore? Sono insofferente a tutto, sono arrabbiata con tutti, sono delusa da tutto, sono lontana da tutti, sono disillusa da tutto eppure, allo stesso tempo, mi aggrappo a tutti. A chi mi può offrire un sorriso, una parola, uno sguardo, un’attenzione, un istante che non ricorderanno più, un solo momento di quella serenità inesistente tra le insulse pagine della mia vita. Perché non ho scritto io la mia vita? Perché quando sono nata era già scritta? Perché non mi è concesso di limarne le sbavature? Perché sono sempre e solo io ad affondare nell’ipocrisia di un mondo che non mi guarda? Perché? Sorrento mi osservava armoniosamente, tra gli olivi avvolti in un lucente manto verde che la natura diradava tra le casette dei suoi abitanti e i tramonti infuocati di un rosso che voleva promettere sereno, ma forse non ci sarebbe riuscito. Almeno non per me. Guardavo ogni tramonto come fosse l’ultimo, pur consapevole che mi sarei potuta sbagliare. E ogni giorno il cielo mi ricopriva di tinte che sembravano auto-dipingersi in un quadro quasi astratto, mentre sospiravo nella brezza che proveniva direttamente dal mare. Dall’alto di una solitaria collina, guardavo il Golfo di Napoli come una bambina che ogni volta sembra scoprire per prima l’infinita bellezza dell’azzurro che all’orizzonte sa illusoriamente unire cielo e mare, a tratti divisi solo dalla delicata visione di qualche insenatura peninsulare o di qualche isoletta emersa dai fondali. Mi ero sempre rifugiata in quel luogo tanto solitario quanto magico: da bambina ci andavo a giocare, quando la mamma mi sgridava o mi puniva, perché amavo scappare dalla mia cameretta al piano terra della tenuta appartenente alla nobile dinastia da cui provengono le sue origini. Quella cameretta mi aveva sempre

permesso di “assentarmi” in modo molto discreto e, allo stesso tempo, molto divertente. La tenuta della famiglia Monti era situata in una zona quasi strategica da quel punto di vista, all’interno di un viale alberato che portava al suo angolo di mare privato e, sul lato opposto, al centro cittadino poco distante attraverso un vecchio sentiero di sterpaglie che riusciva a superare le strade principali. Ogni volta che raggiungevo quella stradina, sapevo di essere “al sicuro” e, allo stesso tempo, sapevo che a pochi metri, imboccando un viale tra gli olivi che campeggiavano imponenti tutto intorno, dominando persino l’irreale silenzio del luogo, sarei potuta arrivare alla “mia” collina. Quel luogo era poco frequentato perché vicino c’era anche un boschetto di cui un’antica leggenda narrava essersi smarrita ogni persona che vi entrava. Si diceva fosse un labirinto a picco sul mare pronto a non dar scampo ad alcuno, perché l’unica sassosa via facilmente percorribile al suo interno conduceva unicamente a un dirupo che dava sugli appuntiti scogli sottostanti contro cui il mare sbatteva le sue voluminose e spumeggianti onde. Non mi ero mai introdotta in quel boschetto, o meglio, non ne avevo mai avuto il coraggio. Mi ero sempre “limitata” a scappare sulla collina che lo affiancava, perché sapevo che da essa sarei potuta facilmente tornare a casa o raggiungere il centro. Da sempre, ogni volta che mi fermavo a contemplare il paesaggio circostante, mi sembrava di riuscire finalmente a dominare ogni emozione, ogni paura, ogni inquietudine, ogni dolore, ogni difficoltà, ogni ritrosia, ogni dilemma. La chiamavo “la collina magica”, perché da essa mi sembrava di poter superare ogni avversità, di riuscire a cancellare ogni sofferenza umana. Era sempre stata solo la mia impressione o davvero quella collina possedeva qualcosa di magico? Non l’ho mai saputo. Ero convinta dell’esistenza del suo potere terapeutico perché da essa mi sentivo più protetta, più sicura, distante da ogni pericolo e da ogni difficoltà esistenziale, anche se a pochi i pareva incombere il misterioso boschetto. In cima a quella fiorita e solitaria collina, una volta tornata da Venezia, avevo ripreso a pensare allo sconosciuto. Mi aveva afferrata per un braccio per strapparmi alla dilaniante follia che mi lusingava, mi attraeva, mi conquistava,

mi chiamava, mi voleva tra le proprie braccia. Alla mia follia. La stessa che mi voleva in fondo a un canale. La stessa che ogni giorno mi schiaffeggiava. La stessa che mi martellava la mente. La stessa che mi pugnalava al cuore. La stessa che massacrava le mie speranze. La stessa che infliggeva il colpo di grazia a un’esistenza già distrutta. Lo rivedevo nell’azzurro manto di un paesaggio che sembrava quasi ferire lo sguardo con la sua pura e immensa bellezza. La natura aveva dato il meglio di sé in quel luogo. La bellezza del mare che si fondeva con il cielo, il silenzio, la luce del giorno, la poetica esistenza di una visione idilliaca e, allo stesso tempo, furente nella propria complessità, sosteneva i miei i. Li conduceva, li marcava sul terreno incolto che oltreavo, li richiamava, li ossequiava. Il suo sguardo era rimasto nella mia mente. Il suo riflesso si confondeva con quello che il cielo produceva sul mare. Sentivo ancora sulla pelle la pioggia che mi aveva impregnato l’anima come una spugna gettata al suo destino su quel ponte. E lui mi guardava, mi fissava e taceva. Sentivo solo la sua stretta, forte, prepotente, diretta, sicura, decisa a tenermi ancorata a quella terra. Avrei voluto capire se era stato solo un sogno o se lo avevo davvero incontrato. Se esisteva o se era stato solo frutto della mia immaginazione. Ero convinta che non lo fosse stato. Ero convinta che esistesse davvero. Ma chi era? Come si chiamava? Come aveva fatto ad afferrarmi e perché? Come mi aveva trovata? Da dove era venuto? Non avrei mai risposto da sola a tante domande, anche se affollavano con prepotenza i miei vigliacchi pensieri di cartapesta. Ora lui esisteva solo nei miei sogni, nella mia immaginazione, nei miei pensieri o anche nella realtà? Avrei voluto tornare a Venezia, ma, forse, non sarebbe servito a nulla. Non mi avrebbe permesso di ritrovarlo. Quel ponte non avrebbe parlato né per me né per lui. Quel ponte era stato un testimone silenzioso. Aveva vissuto, ma non avrebbe mai potuto raccontare, proprio come me.

Sarei rimasta a interrogarmi per il resto della giornata, ma sapevo che se non fossi tornata a casa, avrebbero cominciato a cercarmi o a tempestarmi di domande quando mi avrebbero rivista, soprattutto per sapere perché non mi portassi mai dietro il telefonino per rendermi rintracciabile. «Dea!», sentii subito chiamarmi da Betta, la ragazza a servizio che mamma aveva assunto solo da un paio di mesi, dopo che la precedente era fuggita con il primo servizio di posate d’argento che aveva scovato in casa «Tua madre ti cerca!», mi fece sapere quando ancora ero sulla soglia del cancello che, attraverso un piccolo giardino di ortensie, conduceva alla dimora nella quale vivevo con mia madre. Non le risposi. Non ne avevo voglia. Entrai silenziosamente in casa e mia madre, vestita di tutto punto della sua solita ed elegante superbia, mi accolse all’ingresso con uno sguardo di rimprovero che parlava da solo. Infine decise di proferir parola, prima che scapi in camera «Pensi di continuare ad andartene senza mai far sapere niente a nessuno?», chiese. Non le risposi. Mi diressi verso la camera che ospitava il mio mondo, ma lei proseguì «Don Carmine ti ha fatto cercare da Loretta per tutta la mattinata: sarebbe questo il tuo modo di lavorare?», domandò con tono aspro e rigido. Me ne andai senza rispondere, mentre lei mi guardava indispettita senza aggiungere altro in presenza di un’esterrefatta e intimidita Betta, ragazzina appena ventenne alle sue prime esperienze a servizio presso le dimore del luogo. La mia camera era silenziosa come sempre. Luminosa, colorata e ricca di peluche appartenenti alla mia scolorita e dolorosa infanzia. Da sempre mi tenevano compagnia e mi rassicuravano costituendo un vero e proprio zoo dei sogni: c’era un coniglietto rosa sulla scrivania in disordine tra scartoffie senza importanza, un notebook mai aperto, qualche testo scolastico e un libro di poesie, un orsacchiotto bianco sul termosifone, un gattino grigio sul divanetto dell’angolo relax, un cagnolino bianco con chiazze marroni ai piedi di una colonna su cui imperava in bella vista una pianta finta, un maialino ammassato sul letto in compagnia di una tartaruga e un cammello che si addormentavano ogni sera con me. Era tutto il mio introverso mondo di bimba mai cresciuta. Mi guardavano. Erano i miei compagni di giochi, i miei fratelli, i miei amici più sinceri, i miei

confidenti, i miei amori, i miei custodi. Erano i miei peluche più belli. Non parlavano, ma dicevano tanto, o meglio, significavano tanto. Il silenzio era il loro mondo e nel silenzio io comprendevo ogni loro senso. Nel silenzio e col silenzio mi erano sempre venuti in aiuto, mi avevano suggerito consigli, mi avevano affidato le loro esistenze e avevano custodito l’anima della bambina che ero stata. La mia camera non era vistosa, né ricca di oggetti di valore, ma per me era il luogo più importante dell’intera tenuta e custodiva le cose che reputavo più preziose. Era il mondo sempre pronto ad accogliermi come ogni volta Alice veniva accolta dal suo Paese delle Meraviglie. Era l’universo che alimentava il mio essere e la mia stessa esistenza. Sapevo rinchiudermi in esso per giornate intere, riuscendo a non vedere né sentire nessuno. Spegnevo il telefonino che spesso e volentieri usavo come oggetto d’arredo piuttosto che di utilità e mi rintanavo nel mio Paese delle Meraviglie. Un Paese che conoscevamo solo io e Alice attraverso il libro delle favole che più avevo amato. Vivevo solo con mia madre, vedova da quasi 22 anni. Mio padre era morto in un incidente di cui non era mai emersa la verità. I suoi resti erano stati trovati in fondo a un dirupo. Non avevo voluto neanche immaginare il motivo per il quale avesse deciso di fare un gesto inconsulto, poiché credevo che non ne avesse mai avuto uno. E se fossi venuta a conoscenza di una verità scomoda per la famiglia? Ero figlia unica. Infelice e solitaria figlia unica. La solitudine era sempre stata la mia vera compagna di giochi quasi fosse la sorella tanto desiderata, ma mai avuta, un’amichetta del cuore o quel papà che non ero riuscita a conoscere davvero, perché quando era scomparso avevo appena compiuto cinque anni. Era produttore di olio, come tutti gli amici di mamma e la famiglia da cui provenivo. Si erano conosciuti giovanissimi. Le loro famiglie erano vicine di casa a Vico Equense, bellissima e caratteristica frazione della penisola sorrentina.

Erano cresciuti insieme, si erano da subito piaciuti e si erano sposati appena ventenni. Il loro matrimonio era stato tra i più felici nella storia delle loro famiglie, almeno così tutti avevano sempre creduto. Poi, però, qualcosa aveva interrotto quella felicità, qualcosa di sconosciuto che aveva annientato in un istante l’esistenza e la serenità di mio padre. Mia madre, che diceva di amare alla follia suo marito, aveva deciso di portare a lungo il lutto e di rinunciare a qualsiasi altro tipo di relazione con l’altro sesso, sebbene provasse grande affetto per il suo miglior amico, Don Carmine, anche lui vedovo e padre di una ragazza che era stata una delle mie migliori amiche. Don Carmine era un simpatico e intraprendente produttore di olio e proprietario di una bellissima bottega in centro. Da sempre segretamente innamorato di mia madre, non si era mai dato per vinto. La figlia di Don Carmine, Felicia, era cambiata con il ar del tempo, divenendo una ragazza spesso scontrosa, dal momento in cui avevamo cominciato a condividere le stesse amicizie. Felicia aveva ventidue anni, appena cinque anni meno di me, ma ne dimostrava molti di più: era bella, ma in sovrappeso e questo sembrava averla sempre penalizzata con una serie di complessi con cui si trovava a fare i conti prima ancora che con chi voleva farle comprendere che l’aspetto esteriore non era tutto nella vita. Felicia, però, era superficialmente portata a valorizzare soprattutto l’esteriorità di un’esistenza che non pareva darle troppe soddisfazioni, anche se non le faceva comodo farlo notare. Diceva di non riuscire a trovare il suo Principe Azzurro, di essere molto sfortunata e di sognare il grande amore, ma che, forse, costui non esistesse davvero. Per quanto mi riguardava, pur avendolo sempre sognato come ogni bambina cresciuta a minestra e Cenerentola, altra beniamina della mia infanzia, subito dopo le avventure di Alice nel “nostro” Paese delle Meraviglie, anch’io avevo sempre sognato il Principe Azzurro, ma non ero molto ottimista e, così come Felicia, non credevo esistesse realmente. In realtà, non credevo d’incontrarlo, per cui mi ero sempre lasciata andare, anche col ar del tempo e la maggiore età, a una solitudine forzata dagli eventi e dalle mie stesse stupide e, per certi aspetti,

distruttive convinzioni evitando qualsivoglia rapporto con i maschietti incontrati sul cammino. Mi distruggeva l’idea che il mio Principe non esistesse e mi demoralizzava la sua mancanza all’interno di giornate già pesantemente vuote per proprio conto, ma poi lentamente ero riuscita a are a una fase di noncurante rassegnazione verso tutto ciò che mi circondava, mi accadeva e aveva deciso o voleva riguardarmi.

Capitolo II

Sorrento

I suoi occhi mi scrutavano, mi gelavano. Mi cercavano e non potevo evitarli. Erano lì, così vivi e veri e soprattutto così tremendamente diretti. Erano di nuovo innanzi ai miei. Mi guardava nel profondo. Mi denudava, mi colmava, mi teneva stretta con le sue mani, tra le sue braccia, immergendomi in un silenzio sconosciuto, nel silenzio della notte.

Mi svegliai di soprassalto. Era stato un sogno. Un incubo, non so. Lo avevo sognato davvero. Ma lui non era un sogno, ora lo sapevo, anzi lo sentivo e quella convinzione mi chiedeva maggiore spazio, imponendomi di seguirne le orme. Avevo lasciato le persiane aperte. Dalla finestra della mia camera, la luna piena mi scrutava. La sua luce opulenta illuminava l’intera stanza ed era riuscita a svegliarmi. Forse era stato meglio. Il silenzio circostante avvolgeva ogni mio senso. La luna, bellissima, poetica, romantica, viva, luminosa, solitaria guardava le anime della Terra da incurante spettatrice di un mondo che sa di esser profondamente unico. Ma, forse, era solo un’illusione. Guardavo la luna. Ero attratta dalla sua bellezza. Avrei voluto osservarla in eterno. Mi trasmetteva una sconosciuta e indescrivibile pace, trascinandomi in un nuovo e irreale, ma meraviglioso sogno. Mi alzai per cercare la bottiglietta d’acqua che ero solita lasciare per terra di fianco al letto, ma non la trovai. Allora, decisi di mettermi la vestaglia e recarmi in cucina.

La casa nella quale vivevo sapeva incutere timore, quando voleva. Nel buio della notte appariva tetra e isolata. Pareva una gabbia dorata e, allo stesso tempo, costellata di illusioni. Il buio l’avvolgeva e il silenzio la divorava. Ero lì a lasciarmi inghiottire dai ricordi, dalle grida di una me bambina riccioluta e dai suoni emessi dalle persone da cui era stata visitata, dalle feste di compleanno vissute, dai dolori affrontati e dall’inferno in cui era bruciata. Quell’inferno aveva bruciato anche me. Aveva bruciato la mia carne e la mia anima. La mia esistenza, la mia infanzia, le mie illusioni, i miei sogni, le mie aspirazioni. Quell’inferno era tornato e lo sapevo. Era dentro di me. Viveva con me e in me. E io non potevo evitarlo, non potevo mascherarlo, non potevo distruggerlo, non potevo annientarlo, non potevo annullarlo, dimenticarlo, cancellarlo perché a cancellare ci avrebbe pensato lui e lo avrebbe fatto con me. Lo sapevo, lo sentivo. Aprii il frigo semivuoto, Betta non aveva provveduto ancora alla spesa settimanale, e presi la prima bottiglia d’acqua che scorsi. Frugai nella dispensa alla ricerca di un bicchiere e vi versai un po’ d’acqua. Bevvi. Me ne riempii fino in fondo. Era rara la mia sete. Normalmente ero restia a bere, ma sapevo fosse necessario per idratarmi. L’unica sete che conoscevo era quella d’amore, quella che mi aveva disidratata da bambina, quella che nessuno aveva provveduto a colmare per evitare il disastro. Ora era il disastro a farla da padrone. Era lui a possedere me e nel peggiore dei modi. L’acqua era solo un simbolo, ma non mi avrebbe mai realmente salvata. Nel giorno che seguì, la timida Betta fece sapere a mia madre che aveva ricevuto una telefonata da una parente, che le chiedeva di correre a Firenze al capezzale della nonna materna in fin di vita. La nonna era una figura importante nella sua vita, perché l’aveva quasi cresciuta. Mia madre rimase imibile innanzi alla richiesta della ragazza di avere qualche giorno di permesso per potersi recare a dare l’ultimo saluto alla cara nonna.

«È giusto che tu vada», mi permisi di dire, sfidando le ire funeste di mia mamma che, invece, aveva preferito il silenzio in risposta alla richiesta della ragazza. C’erano momenti in cui non comprendevo gli atteggiamenti di mia madre. Era molto cambiata dopo la morte di mio padre. Era divenuta un’altra persona. Era la donna che non avevo ancora avuto modo di conoscere. A volte m’intimoriva e mi estraniava. Era divenuta così aspra, così dura, così inflessibile, così severa, anche e soprattutto con sé stessa, da impedire a chiunque di accedere o di aprire anche solo per un breve istante il cancello dietro il quale si rintanava la sua anima. Si era chiusa dentro. Si era chiusa in sé stessa e aveva gettato via le chiavi. Era prigioniera di sé stessa. Era divenuta persino la custode della sua stessa prigionia. Era prigioniera e custode, ma era stata anche giudice e si era condannata da sola. Aveva deciso di condannarsi alla solitudine, al lutto, alla malinconia, al dolore, alla rassegnazione, la stessa che si era presa presto la briga d’impossessarsi anche di me, sebbene per altre ragioni. Non la giudicavo. Non volevo giudicarla. Non era mio compito farlo. Lei si giudicava e puniva da sola. Non aveva bisogno di nessuno. Solo di comprensione. Muta e insulsa comprensione. «Signora, cosa dice Lei?», si permise di dire timidamente Betta, rivolgendole uno sguardo timoroso e interrogativo al tempo stesso. Donna Mimosa, mia madre, restava muta e assorta nel silenzio. Si vestiva sempre con camicette bianche riccamente ricamate e tirate fuori da chissà quale baule o armadio e una semplice gonna che le arrivava alle ginocchia. Inoltre, indossava da un’eternità lo stesso paio di orecchini d’oro ad anello che le aveva regalato il marito nei primi anni di matrimonio. «Betta, chi tace acconsente. Mia madre è rimasta di certo sorpresa da questa richiesta. Come saprai, non è facile per noi. Abbiamo a servizio un giardiniere e un guardiano, ma non abbiamo nessuno a cui rivolgerci per la gestione della casa. Comunque, non ti preoccupare», aggiunsi a un silenzio divenuto ormai imbarazzante. «Ti concedo solo tre giorni. Dopodiché, se non ti presenterai, ti riterrò licenziata!», esclamò improvvisamente la mamma.

«Va bene», acconsentì la ragazza con lo sguardo basso. Mia madre le dava una miseria al mese e pretendeva di dominarne la vita. Non lo trovavo giusto, ma non potevo evitarlo. «Penso che avrei bisogno anche io di un week end da qualche parte», sorrisi malinconicamente. «Ti dispiacerebbe se ti accompagnassi?», le chiesi. Lei mi guardò con gioia, poi si volse verso mia madre e non si permise di fiatare. «Ma tu non hai da fare?», si precipitò a chiedere mia mamma «Don Carmine mi ha detto che ti sei già assentata diverse volte questo mese. Vuoi che ti sottragga ore e soldi?», mi domandò con un’espressione amara e, allo stesso tempo, ironica del volto. «Tre giorni non cambieranno nulla. Quando tornerò, troverò il modo di recuperare il tempo perduto», sentenziai e alzai i tacchi in compagnia di Betta che si recò nella sua stanza per preparare le valigie. Tre giorni a Firenze mi avrebbero fatto bene. Mi avrebbero ritemprata. Venezia mi aveva spossato. Era stupenda, ma in pochi giorni non c’era stato il tempo sufficiente per visitarne tutte le meraviglie e poi, essendoci andata in compagnia della mamma, non ero riuscita a vedere neanche un locale alla moda, ma da sola o in compagnia di una amica, forse, un soggiorno pure breve mi avrebbe fatto bene. Non avevo voglia di tornare in bottega e men che meno di fossilizzarmi sui libri del mio nuovo corso d’Inglese. Decisi comunque di fare una capatina in bottega, giusto per avvertire di persona Don Carmine che negli anni mi aveva fatto quasi da secondo padre, offrendomi un lavoro da commessa e aiutando economicamente mia madre nei momenti più difficili della gestione degli affari di famiglia. Il centro si stava lentamente animando di turisti che venivano dalla vicina costiera amalfitana: tedeschi, americani, italiani, spagnoli, russi. Tutti alla scoperta della penisola sorrentina. Tutti con la voglia d’immortalare con le fotocamere ogni angolo della cittadina, ogni locale, ogni bottega, ogni luogo, ogni veduta panoramica, ogni tipica chiesetta, ogni scoglio. Si fermavano tra i negozietti che offrivano i souvenir e le cartoline, i bar già affollati e i ristorantini più tipici.

Sorrento si offriva radiosa di una bellezza pura, immune dal comune caos di un mondo che voleva coinvolgere le anime in una frenesia divenuta ormai fin troppo scontata. Avevo bisogno di rilassarmi, facendomi un giro, curiosando in mezzo “agli stranieri”, sorseggiandomi un caffè al “Bar dell’angolo”, sedendomi su una delle panchine che si affacciava su un panorama suggestivo e spettacolare, nella bellezza di un luogo meravigliosamente irrinunciabile per chiunque in qualunque stagione. In piazza le Lingue si parlavano in mezzo al caos delle auto di aggio, dei ciclomotori, delle carrozze coi cavalli che offrivano un giro turistico più originale, dei bambini rincorsi dalle mamme per trovare un angolo in cui poter giocare a palla in libertà. Il cielo offriva una luce priva di nubi, in un’immensità che non conosceva ostacoli o limiti ai propri orizzonti e la voglia di scoprirne le meraviglie si faceva più viva ed entusiasmante che mai. Quando feci il mio ingresso nella bottega “Il moro” di Don Carmine, scendendo le scalette di pietra scavate nella terra che conducevano all’interno del locale, incontrai lo sguardo di Loretta, una delle mie più care amiche d’infanzia, nonché commessa del negozio, che mi annunciava l’assenza del titolare. «Don Carmine oggi non è venuto», mi disse subito, restando a braccia conserte, appoggiata al bancone centrale che troneggiava in fondo al locale. «Ero ata per dirgli che non verrò per almeno tre giorni», le feci sapere cercando di evitare il suo sguardo. «Perché non vieni?». «Accompagno Betta a Firenze; deve correre al capezzale della nonna in fin di vita e approfitto per farmi una pausa lontana da tutto e tutti». «Ma cosa pensi di fare da sola a Firenze per tre giorni di seguito?», alzò le spalle, quasi annoiata. I suoi occhi erano stanchi, assonnati o, forse, solo tristi. Anche se non evitava di osservare i miei atteggiamenti. Loretta era una bella ragazza: molto magra, anzi troppo magra. Conviveva da

oltre due anni, ma ancora non si decideva a fare il grande o. Era fidanzata con un bravo ragazzo, un giovane ingegnere che cominciava a farsi strada nel complesso mondo del lavoro. Non avevano ancora una situazione economica agiata per potersi sistemare, ma, forse, un giorno o l’altro avrebbero cambiato idea e la loro casa in affitto sarebbe stata sostituita da una da acquistare con un mutuo. Loretta mi aveva sempre parlato del desiderio di costruirsi una vita “normale”: avere una bella casa, una famiglia, dei figli, una vita modesta, ma serena e sperava di riuscirci. Per questo, però, sapeva che servivano tempo e pazienza e non avrebbe potuto certo correre, perché ogni obiettivo andava raggiunto solo grazie a costanza e sacrifici, soprattutto perché la famiglia di lei non era abbiente e non poteva aiutarla. La famiglia di lui, invece, era più benestante, ma il suo bel ragazzo era molto orgoglioso e non aveva mai voluto farsi aiutare dai suoi. Quando frequentava l’Università, riusciva a mantenersi grazie a una serie di lavori saltuari ed era sempre riuscito a essere indipendente, soprattutto da quando, dall’età di 19 anni, aveva deciso di uscire di casa e di seguire la sua strada. Si erano conosciuti in piazza, una sera di Capodanno. Li invidiavo. Erano una bellissima coppia. Lui si chiamava Lorenzo ed era un tipo molto semplice e simpatico, diverso dagli altri componenti della sua famiglia: i suoi tre fratelli erano tutti molto meno “accessibili”, amavano darsi arie per la loro condizione sociale e poco condividevano le scelte della “pecora nera” che aveva deciso di andarsene di casa troppo giovane. Loretta era riuscita a trovare per entrambi una casetta molto piccola, un monolocale in affitto che avrebbe coronato il loro sogno di andare a convivere solo sei mesi dopo essersi conosciuti, quando lui aveva 20 anni e lei poco più. Sì, li invidiavo davvero. Erano belli, sereni, felici. Poveri, ma felici. Non pensavo di riuscire a invidiare la felicità di qualcun altro, ma alla fine era così: loro due erano poveri. Vivevano senza l’aiuto economico di alcuno, ma erano estremamente felici e questa era la prova più evidente di quanto il denaro non creasse la vita agiata di chi si amava realmente. Non so se ci sarei mai riuscita. Cominciarono a entrare delle persone nella bottega, forse degli stranieri e ci salutammo frettolosamente. Le lasciai detto che al mio ritorno avrei recuperato il

tempo perduto e mi sarei fatta perdonare da Don Carmine. Brava persona, Don Carmine. Il classico capofamiglia dai sani principi che aveva cresciuto da solo la figlia Felicia. La moglie era morta in un incidente stradale in compagnia del fratello e lui si era dovuto sobbarcare tutte le difficoltà che devono affrontare i genitori rimasti soli troppo giovani. Felicia aveva perso la mamma a soli 5 anni, la stessa età nella quale io avevo perso mio padre, e questo sembrava quasi uno scherzo del destino. I destini di mia madre e di Don Carmine, grande amico di mio padre, sembravano molto simili e quasi in grado di finire lungo uno stesso percorso. Don Carmine era sempre stato innamorato di mia madre. Lo sapevo. Lo sapevano in tanti, ma non si era mai permesso di mancare di rispetto all’amico Gentile, mio padre, e men che meno alla mia mamma che era folle d’amore per il marito. Carmine e Gentile si erano a lungo contesi le attenzioni di mamma. Anche se ad averla spuntata per primo era stato mio padre e Don Carmine aveva dovuto rivolgere le sue attenzioni verso la madre di Felicia. Scesi in strada, districandomi tra la folla di curiosi e turisti che si stava accalcando a visitare la bottega e i negozietti vicini. Cominciava a far fresco. Si alzava un vento che pareva promettere un brusco abbassamento della temperatura e nel mio abitino di fine estate ero infreddolita. Non mi ero portata neanche una giacchetta e questo mi ricordava di esser un’assoluta sbadata. Decisi di tornare a casa. Avevo da preparare il mio fagotto. Volevo portarmi poche, ma essenziali cose per il viaggio e il breve soggiorno nella splendida città toscana. Non ero mai stata a Firenze e volevo godermi appieno il mio primo soggiorno in una meravigliosa città d’arte, tra le più visitate e le più affascinanti che l’Italia potesse offrire al mondo. Portai con me l’indispensabile: pochi indumenti intimi, un paio di jeans, due magliette, una canotta, un paio di giacchette, un foulard, un paio di scarpe sportive e uno con tacchi di pochi centimetri.

Infilai anche un libro, il mio preferito. Le poesie di Prévert. Mi avrebbero fatto compagnia in treno. Betta bussò alla porta della mia camera per sapere se avevo preparato tutto. La feci accomodare con me sul letto. Il mio comportamento nei suoi riguardi era decisamente più semplice di quello che aveva mia madre, distaccata e sulle sue. In me, invece, avrebbe potuto trovare un’amica, una confidente, quasi una sorella maggiore. Betta aveva solo vent’anni e tutta la vita davanti, ma era sola. Anche lei era figlia unica e anche lei era una persona indecisa che si lasciava condizionare da fattori esterni insulsi, fattori che, a lungo andare, le avrebbero cambiato l’atteggiamento nei confronti della vita. La abbracciai con affetto, cercando di consolarla. Era molto legata alla nonna materna che l’aveva cresciuta quando i suoi genitori non avevano il tempo necessario da dedicarle. La capivo. Era cresciuta sola, anche se in un altro senso, proprio come me. Nessuno meglio di me poteva capirla. Nessuno. «Domani partiamo col treno delle 07:24 per Napoli e da lì prendiamo un Intercity per Firenze», mi disse con lo sguardo basso e perso nel vuoto. Non guardava nulla, non fissava nulla. Era soprappensiero, quasi insofferente. Era preoccupata, sembrava che qualcos’altro, oltre ai problemi familiari che pativa in quel momento, la vincolasse. «Va bene», le sorrisi, cercando il suo sguardo che non mi raggiunse mai. Non la vedevo serena. Era triste e sentivo che il motivo non era solo la nonna. Non mi permisi di chiederle nulla. Non me la sentivo. Cenammo in cucina. Avvolte nel silenzio che regnava in casa come sempre, contemplammo il cielo fuori dalla finestra, di fronte al bancone e agli sgabelli che, in centro alla sala, davano maggiore spazio alla zona adibita a cucinare, che sembrava voler accogliere l’imbrunire ancor più lentamente del solito. I colori dell’orizzonte dipinsero un quadro ricco di una bellezza artisticamente rara. La cornice di quel quadro era data dalle estremità della finestra, bianca, candida, limpida. Quella finestra esaltava l’opera d’arte innanzi a noi come nessun artista avrebbe mai potuto fare. Mia madre cenava, come sempre, nella sua camera. Si faceva servire la sua striminzita cena su di un vassoio ogni sera alla stessa ora, alle 20:20

puntualmente. Poi cenavamo noi due insieme in cucina, nel tentativo di farci compagnia e di chiacchierare per rompere l’assurdo silenzio che si era impadronito di quella casa dal giorno della morte di mio padre. A volte accendevamo il piccolo televisore appoggiato al bancone inferiore della vecchia dispensa e sorseggiavamo un po’ di vino. Cercavamo di toccare argomenti che avrebbero potuto interessare entrambe, giusto per intavolare una qualche conversazione tra una portata e l’altra. Betta era timida e impacciata, ma io cercavo di farla uscire dal suo guscio, nel tentativo di trovare le parole più adatte a confrontarci e confortarci. La notte trascorse lenta e insonne. La luna non c’era o, per lo meno, dal mio letto non la scorgevo, pur avendo lasciato le persiane aperte così come le tende, affinché la luce del giorno, quando fosse sopraggiunto, mi avrebbe potuta svegliare presto. Non amavo usare la sveglia, benché quella notte fosse indispensabile per prendere il treno in orario. I miei pensieri correvano altrove, lontano. Avevo voglia di evadere. Quella casa mi sembrava una galera e io ero prigioniera di me stessa, così come lo era mia madre. Spesso, troppo spesso si diventa prigionieri di sé stessi senza che ce ne rendiamo conto e questo diventa una catena che c’inchioda ai disastri del nostro vivere in un tempo che non ci è possibile accettare serenamente. Quei pensieri mi lasciarono andare a un sonno leggero e molto più tranquillo di quanto avrei potuto immaginare.

Il viaggio verso Firenze si rivelò noioso e più deprimente di quel che mi potessi aspettare. Il mio sguardo si perdeva oltre il finestrino lungo le campagne che superavamo, oltre i cieli che cambiavano aspetto col are delle località e i colori di una natura che si consegnava lentamente all’Autunno alle porte. Gli alberi cominciavano a esser più spogli, le campagne decisamente desolate, le città si chiudevano nel proprio manto impregnato di smog come una cappa che si rinchiude con il sopraggiungere del freddo irritante. Ogni paesaggio, seppur nelle proprie diversità, assumeva un aspetto arido e quasi triste, esplicitamente

malinconico. Mi chiusi la giacchetta di cotone arancio, infreddolita al solo pensiero di dover affrontare stagioni sempre più fredde, ancor più fredde della mia anima. Scoprii di aver appoggiato sulle gambe accavallate il libro di poesie che donava al mondo la sensibilità artistica di Prévert e decisi di riaprirlo per rileggere la pagina sulla quale mi ero soffermata. Amavo le poesie di Prévert, mi sollevavano da terra, mi permettevano di raggiungere la dimensione di un sogno, di un mondo che reputavo solo mio e al quale non permettevo l’accesso a nessuno. Nessuno avrebbe mai potuto superare la soglia del mio cuore e della mia anima. Nessuno. Firenze era ancora lontana quando mi addormentai di un sonno profondo. Avevo dormito poco nel corso della notte, mi ero svegliata presto e mi ero sentita subito spossata. Betta mangiava il suo panino di fronte a eggeri distratti che consultavano il quotidiano preferito, che leggevano il classico romanzo da viaggio, che guardavano qualche film attraverso il lettore dvd portatile o semplicemente rompevano le scatole ai timpani di tutti i presenti parlando per ore al telefonino. Ogni tanto ava qualcuno in cerca della toilette o della carrozza ristorante, il controllore o l’ambulante che alla fermata di Roma Termini era salito a chiedere se qualcuno volesse i panini e le bibite che vendeva. Non riuscivo a ingannare il tempo mangiando. Non avevo fame. Non avevo sete. Avevo dormito un po’ e mi ero ripresa nel pieno del viaggio alla volta di Firenze. Betta, a differenza di tutti, invece, amava are il tempo sgranocchiando qualcosa: dal panino allo snack e dalla patatina alla fetta di crostata acquistata presso il bar del treno a una cifra esorbitante. Ora capivo da dove sbucavano i suoi chili di troppo. Mangiava qualsiasi cosa alle ore più impensate. Io avevo lo stomaco chiuso. Mi ero portata da casa un panino con prosciutto e formaggio, ma non riuscivo a mandarlo giù. A quel punto, per non doverlo buttare, decisi di regalarlo alla mia amica che non pensò minimamente di rifiutare, anzi sembrava non aspettasse altro! In effetti, a un certo punto del

viaggio, il suo sguardo sornione cominciò a vagare intorno al mio “sacco” e capii subito a cosa mirasse. Sorrisi e glielo porsi senza indugi. «Sei sicura?», mi chiese quasi intimorita. «È un peccato che non lo mangi!», terminò, prima di agguantare il suo “dono”. «Mangialo tu, non ho fame: il vero peccato è buttarlo via!», e glielo lasciai tra le mani pronte a infilarselo in bocca a morsi. Arrivammo nel primo pomeriggio. Il viaggio ci aveva stancate, per fortuna alla stazione vennero a prenderci dei cugini più grandi di Betta: Franco e Morena. La famiglia di Betta viveva a Fiesole, una bellissima collina alle porte di Firenze. Avevano una casa molto modesta, ma, allo stesso tempo, curata. Mi accolsero con grande cortesia e mi permisero di “accamparmi” in una stanzetta che avrei dovuto dividere con Betta. Malgrado le loro insistenze, chiesi invece di farmi accompagnare in qualche pensione o in un hotel economico che avrebbe potuto ospitarmi, perché non volevo essere d’impaccio alla famiglia in un momento tanto delicato. Alla fine, su mia insistenza, Morena, la cugina quarantenne di Betta, mi accompagnò con l’auto presso un Bed & Breakfast non distante dal Ponte Vecchio. In quel luogo c’era un via vai di studenti stranieri e, dopo essermi congedata ringraziandola per la cortesia del aggio, chiesi al personale di assegnarmi una camera con bagno privato munito di doccia. Mi feci una doccia rapida, perché avevo voglia di visitare Firenze e di andarmene in giro per i negozi a curiosare. Inoltre, volevo vedere gli Uffizi e il Duomo. Lasciai i miei capelli lunghi sciolti, non misi neanche un filo di trucco. M’infilai un jeans, una magliettina a maniche lunghe, una giacchetta beige e presi con me la fotocamera. Volevo fotografare qualunque cosa. Corsi in strada e mi tuffai nella mischia come un’anonima turista in cerca di “scoop artistici”, di un’esperienza culturale in grado di restare impressa nei ricordi per tutta la vita, perché sapevo che Firenze mi sarebbe rimasta impressa come a tutte le persone che, almeno una volta nella vita, l’avevano visitata. Per la prima volta, dopo tanto tempo, mi sentii serena. Una parola un po’ grossa,

forse più grossa di me, ma alquanto veritiera. Ero lontana da tutto e molto più felice e serena di ciò che avessi potuto anche solo immaginare qualche giorno prima.

Immortalai Piazza della Signoria da ogni angolazione, raggiunsi il Duomo e gli Uffizi e la giornata parve così lunga e intensa da non rendermene neanche conto. Mi fermai in una trattoria per gustare la famosa fiorentina e del buon vino rosso. Avevo finalmente voglia di riempirmi lo stomaco e la mente. Volevo colmarmi di arte, cultura, storia, turismo, sereno shopping con i pochi risparmi messi da parte per le grandi occasioni e la leggiadria che si può avere a ventisette anni, sebbene me ne sentissi di più. Nella vita avevo superato ostacoli apparentemente insormontabili che mi avevano indurito le spalle e la schiena, la testa e il cuore, divenendo ciò che non avrei mai voluto. Poi, però, accadde qualcosa che mi spinse nel baratro, qualcosa che non avrei mai pensato esistesse proprio a pochi i.

In trattoria, al momento di pagare, mi accorsi che nella borsetta a tracolla non avevo portato con me il telefonino e che mi ero resa irreperibile a mia madre e a chiunque ancora una volta! Chissà cosa avrebbero pensato tutti, ma non ce la facevo a ricordarmene: lo avevo lasciato a casa, sulla scrivania tra le cianfrusaglie che regnavano sovrane in mezzo ai peluche della mia vita. Pazienza! Pagai e, verso sera, mi misi a vagare come un’anima in pena lungo il Ponte Vecchio. I turisti erano tantissimi e i negozi gremiti di persone che spendevano qualunque cifra pur di portarsi a casa un ricordo prezioso della città d’arte. Lungo il ponte a far la parte del leone erano i negozi di gioielleria, uno più bello dell’altro. Mi fermai a curiosare tra le vetrine che si susseguivano ininterrottamente per un lungo tratto di strada e mi lasciai trasportare dal mormorio multirazziale presente. Mi sentivo cittadina di un mondo intero, perché il mondo pareva trovarsi tutto lì: sentivo Lingue differenti nelle voci che lasciavano trapelare entusiasmi collettivi

nel mio stesso modo. Persone di ogni cultura, Paese, tradizione, Lingua si lasciavano conquistare da ciò che le circondava, innamorandosene al primo sguardo, di primo impatto, in un istante, in un solo momento di gioia nel corso di un viaggio fatto per i più svariati motivi, pronti a dimenticare tutto il resto. A dimenticare il resto del mondo, il resto della vita, il resto delle persone, il resto delle giornate, il resto del tempo. Quella vacanza sarebbe stata indimenticabile, forse in fondo al cuore lo sapevo e lo sentivo anche io. Mi sentivo come Cenerentola prima dell’arrivo della mezzanotte e per nessuna ragione al mondo avrei voluto che arrivasse il nuovo giorno. Volevo tenermi stretta l’abito, le scarpette di cristallo e perfino la carrozza che sapevo sarebbe tornata a esser una semplice zucca. Mancava solo il Principe, ma a quello non badavo, perché ciò che più mi prendeva era la città. Ne ero totalmente conquistata. Le sue luci serali erano magnifiche rispecchiate nell’Arno. I ristorantini più romantici disponevano i tavoli all’aperto per le comitive, gli amici, le coppiette pronte a raccogliersi in una cena da Mille e una notte, mentre le bancarelle cominciavano a smontare le attrezzature. Decisi di fermarmi sotto un portico di Ponte Vecchio per contemplare il paesaggio all’imbrunire, per sentire nell’aria gli odori più disparati, per imprimere nella mente le scene più belle, per udire le voci più caratteristiche, per sorridere dell’entusiasmo dei anti ricolmi di una gioia dallo sguardo festante, per ricordare le colline che sfumavano nel buio e i lampioni delle isolate stradine che da lontano facevano notare la loro esistenza. Non potevo sapere che qualche istante dopo sarebbe accaduto ancora. Non sapevo, eppure accadde. Fu lì che lo rividi. In mezzo alla folla, in mezzo ai colori, in mezzo al fragoroso caos di un andirivieni che portava le persone a casa e i turisti a riempire i locali sparsi per la città. Appoggiato al mio stesso parapetto, a qualche metro di distanza, affacciato alla stessa contemplazione di un paesaggio fiabesco, lui era lì. Decisi di avvicinarmi

per capire, per guardare meglio, per vederlo in volto. E solo a pochi i ebbi la conferma di non essermi sbagliata. Non potevo crederci: era davvero lui. Era lì, innanzi a me. Era a Firenze e contemplava le stesse scene e lo stesso luogo che stavo contemplando io. Si voltò verso di me. Forse aveva sentito o intuito che qualcuno lo scrutava e mi guardò dritta negli occhi. Eravamo di nuovo faccia a faccia. Era lui. Non era stato frutto della mia immaginazione. Lui esisteva. Era sempre esistito e mi aveva salvato la vita a Venezia. Forse mi riconobbe, perché non si sorprese di rivedermi. Tornò a fissarmi, ancora in silenzio, sempre in silenzio. Non riuscii a blaterare nulla. Non riuscii neanche a muovermi, non riuscii a fare altro che a guardarlo, a studiarne ogni lineamento, ogni espressione, ogni dettaglio per imprimermelo nella mente per sempre. I suoi occhi verdi erano gli stessi che avevo trovato sotto la leggera pioggerella veneziana del mio dolore, i lineamenti del volto regolari, il naso fine e dritto, la fronte alta, i capelli quasi rasati, ma presumibilmente scuri. Maglietta grigia, jeans blu e giacca lunga marrone scuro, stava innanzi a me e riusciva ancora a contemplarmi l’anima attraverso uno sguardo misteriosamente indagatore. Silenziosi entrambi. Fermi entrambi a guardarci come era accaduto la prima volta, con la differenza che la seconda aveva l’irruente mondo esterno che scorreva freneticamente ai fianchi. Le luci soffuse dei lampioni che si specchiavano nell’acqua dell’Arno facevano da contorno alle nostre idee e il tempo ci lasciava alla nudità di un momento per entrambi sconosciuto. Aveva una sigaretta tra le dita della mano sinistra che si appoggiava al parapetto del ponte così come la destra, mentre il suo volto era rivolto per intero verso di me. Potevo osservarlo con maggiore attenzione rispetto alla prima volta. Potevo studiarne ogni dettaglio e restavo immobile ad aspettare che parlasse. Mi avvicinai lentamente a un o da lui. A pochi centimetri i nostri occhi non facevano che specchiarsi e sprofondare gli uni negli altri, verso il profondo, in

cerca di chissà cosa. Avevo smesso di sentire chiunque attorno: le voci, il caos, il aggio dei turisti, tutto era divenuto improvvisamente lontano. Sì, ora sì. Lo sentivo, lo sapevo. Mi aveva riconosciuto anche lui. Mi aveva ritrovato come io avevo ritrovato lui. E ora non ero votata all’acqua come quando mi aveva sorpreso la prima volta a Venezia. Ora ero votata a guardarlo, a scoprire chi realmente fosse, perché mi aveva salvato la vita. Volevo ringraziarlo. Volevo pronunciare un suono o una parola, ma non ci riuscivo. Facevo fatica. La mia bocca si schiudeva, ma non emetteva suoni. Restava immobile, priva di forze, priva della capacità di essere usata per comunicare. Lui era serio. Mi guardava attentamente. Mi scrutava. Mi studiava. Non parlava. Ci guardavamo nell’attesa che l’altro dicesse qualcosa o, forse, ci faceva comodo non dir nulla, restando a osservarci in silenzio come due anime perse e ritrovate. Mi chiesi cosa lo avesse portato lì. Perché si trovasse a Firenze e come era stato possibile che nella stessa sera, nello stesso momento in cui avo per il Ponte Vecchio, lui fosse lì come me, quasi pronto a incontrarmi. Come aveva potuto giocarci un simile tiro, il destino? Come aveva fatto? Quali pedine aveva mosso? Quali forze aveva attratto? E soprattutto quale disegno stava completando a nostra insaputa? Erano domande a cui era impossibile rispondere, perché a quel punto nulla sembrò contare ancora, null’altro che quegli occhi. Chi era? Cosa faceva lì? Cosa aspettava e perché mi fissava? Perché non parlava e perché tremavo? Sì, tremavo di nuovo. Era il freddo o cosa? Avevo un brivido. Le gambe non avrebbero retto ancora a lungo e non me ne spiegavo il vero motivo. Non mi era mai accaduta una cosa del genere. Cosa stavo realmente provando? Ero emozionata? Ero felice? Ero sorpresa? Avevo paura. Un tuffo al cuore e un brivido si erano improvvisamente impadroniti di me.

Capitolo III

Una brezza leggera mi scompigliava i capelli. Avevo freddo. Si stava facendo tardi ed ero ancora ferma a contemplarlo. Lo guardavo irrigidita per la temperatura che calava, feci per chiudermi lentamente la giacchetta. Lui non mi staccava gli occhi di dosso e continuava a tacere. Mi sembrò di perdere i sensi come la prima volta. Mi sembrò di crollare sulle gambe che quasi non sentivo più mentre cercavo di capire, di sapere chi fosse. Lui accennò un sorriso, pur non parlando e non guardando che me. Poi cominciò a studiarmi. Pareva sereno o contento, non saprei. Io ero presa. Afferrata. Affascinata. Incuriosita. Conquistata. Forse totalmente rapita. Non ero più io. Ero Cenerentola e ora il mio Principe era innanzi a me. Ma temevo la mezzanotte, temevo il dissolversi di un incanto che avrebbe tramutato la magia di un momento nello squallore pronto a concedersi all’indolente realtà dei miei giorni. Ma era possibile essere a pezzi ancor di più? Era possibile riuscire a frantumarsi ancor più di quanto mi fosse accaduto? Non riuscivo a immaginarlo. Tutto ciò che volevo era sentire la sua voce, era conoscerlo, ringraziarlo, parlargli e sapere il suo nome. Lui lo intuì, ma non parlò. Gettò via la sigaretta che si stava consumando tra le dita e si avvicinò ancora, fino a fermarsi a un centimetro dal mio viso. Potevo sentire più forte il suo sguardo, più intenso un brivido sulla pelle e più vero il fiato che usciva dalla sua bocca socchiusa. Aveva labbra sottili e lineamenti perfetti. Era misteriosamente affascinante. Avrei voluto sapere tutto di lui. Tutto. Abbassò il suo sguardo sulle mie labbra. Le sfiorò alzando la mano destra fino a

portarne le dita dal labbro superiore all’inferiore. Lento, leggiadro, sensuale, placido, spudorato. Non mi mossi. Abbassai anch’io lo sguardo. Ero in trepida attesa di chissà cosa. Sentivo vibrare ogni centimetro del mio essere. Per la prima volta in vita mia sentii d’esser viva. Sentivo i nostri respiri all’unisono, ne sentivo addosso gli occhi pronti a percorrere ogni centimetro di me e le labbra sfiorate dalle sue dita si lasciavano andare a un tocco impercettibile, assecondandone ogni movimento. Pensai: “Perché non mi parli? Perché non mi dici chi sei?”. Sentivo ancora le forze venir meno. Sentivo di dovermi sedere. Avevo mangiato poco. Ero stata tutto il giorno in giro. Avevo camminato molto e a quel punto non reggevo più la stanchezza: il viaggio in treno, il caos alla stazione, la voglia di evadere, la paura dell’ignoto. Mi sembrò di perder l’equilibrio e cercai un appoggio al parapetto del ponte, ma lui mi resse ancor prima che la mia mano trovasse un appiglio. Aveva intuito ancora una volta. Le sue braccia e le sue mani, sempre forti, mi raccolsero ancora una volta. E ancora mi tennero stretta a lui. Mi fecero sentire protetta. Mi strinse a sé. Il suo calore raccolse il mio infreddolimento e la debolezza che mi spossava. Le sue braccia cingevano il mio corpo al punto da riuscire a chiudersi dietro la mia schiena, mentre i nostri volti e le nostre labbra a un solo centimetro si sfioravano attraverso aliti di vita. Avevo davvero freddo. La notte cominciava a incombere. Avevo perso la cognizione del tempo, non sapevo più che ora fosse e da quanto tempo mi trattenessi su quel ponte tra le sue braccia, ma non m’importava. Ero felice. Mi chiedevo: “È questa la felicità? È ciò che sto provando?” Nessuno avrebbe potuto rispondermi. Nessuno. Eppure aspettavo che qualcosa o qualcuno mi conducesse all’introvabile soluzione di quei miei interrogativi. Intanto lui mi teneva stretta, al sicuro tra le sue braccia. Mi trasmetteva il suo calore e mi scrutava attratto da ogni mio movimento e ogni mia espressione.

Occhi negli occhi, le nostre anime si divoravano a vicenda, si tenevano strette, s’incastonavano come rari diamanti in mezzo al fango, nella melma della vita, nel bruciore del suo manto, pronte ad accompagnarsi lungo il difficile percorso del nostro cammino. Intanto la strada si svuotava e la gente si diradava lungo le vie correndo nelle case, nei locali, nei ristorantini, negli hotel, nei bus e nelle auto attraverso la frenetica corsa di un tempo che voleva rinchiudersi nello sbiadito torpore della notte. Sorrisi, ero serena. Ero felice. Sarei rimasta immobile tra le sue braccia in eterno come se null’altro importasse davvero. «Ho freddo», mormorai improvvisamente quasi senza accorgermene, ma riuscendo a emettere finalmente un suono pronto a trasformarsi in un paio di parole sensate. Lui sorrise. Non parlò. Sciolse l’abbraccio e mi prese per mano. Sembrò condurmi in un luogo già conosciuto. Sembrò volermi indicare una strada già percorsa. C’incamminammo mano nella mano, come due innamorati. Eppure non eravamo altro che sconosciuti. Perfetti sconosciuti. Non avevo ancora sentito la sua voce, ma qualcosa mi suggeriva di fidarmi, di seguirlo. Forse, in quel momento, l’avrei seguito ovunque. Era stato talmente intenso il desiderio di ritrovarlo che, nel momento stesso in cui quell’utopica idea s’era materializzata, non riuscivo quasi a capacitarmene, restando imbambolata tra le confuse immagini che mi ero costruita. Lui camminava e si voltava verso di me. Guardava un momento innanzi a sé e il momento successivo verso di me. Sorrideva. Sembrava contento. Sembrava sereno. Solo qualche metro più avanti entrammo in una trattoria molto accogliente. Non era gremita di gente, c’era qualcuno che suonava un vecchio piano a muro. Le luci del locale erano d’ogni colore, quasi come le lampadine degli addobbi di Natale, i tavoli tondi e con due sedie, pronti a ospitare solo coppiette. Al pianoforte un ragazzo vestito in modo casual suonava una melodia romantica e

sconosciuta. Mi sentivo improvvisamente la protagonista di un film a sorpresa. Non c’era un copione. Non c’era la macchina da presa, non c’erano attori, non esisteva un regista o una sceneggiatura. Era la vita vera. Ed era la mia. Ci accomodammo a un tavolo appartato in un angolo vicino a una finestrella che sembrava di quelle appartenenti alle vecchie casette del Far West, con una ruota di legno appesa al muro e qualche luce soffusa. Un ragazzo ci lasciò al volo un paio di menù e scappò via. Ero imbarazzata. Avevo fame, ma non volevo approfittare del suo invito. Lui continuò a sorridermi. Mi porse un menù e prese il suo. Non sapevo cosa fare. Non sapevo se scegliere qualcosa da mangiare o prendere solo da bere. Cercavo i prezzi delle portate, ma non erano menzionati e, nel dubbio, scelsi qualcosa di leggero: un’insalata di pollo e verdure alla griglia. Per caso notai i suoi occhi scrutarmi da dietro il menù che teneva ritto vicino al volto. Sembrava non riuscisse a togliermi gli occhi di dosso. Ero in una favola e il mio Principe era dei più affascinanti, ma anche dei più misteriosi. Il ragazzo venne a prendere le ordinazioni. «Cosa prendono i signori?», disse distrattamente con block notes e penna alla mano. Lui guardò me e decisi allora di ordinare per prima «Per me un’insalata di pollo con verdure miste alla griglia», risposi, restando nella trepida attesa che, subito dopo di me, fosse lui ad aprir bocca, visto che non avevo ancora avuto modo di sentire la sua voce. «E Lei, signore?», chiese a quel punto il cameriere al mio misterioso accompagnatore. «Una fiorentina», rispose lui, facendomi sentire finalmente la sua chiara e profonda voce. «E da bere?».

«Vino rosso», rispose ancora lui. «Molto bene», terminò il ragazzo scomparendo tra i tavoli occupati da altre coppiette. «Allora parli!», esclamai con un sorriso. «Non avevo ancora sentito la tua voce ed ero curiosa», gli feci sapere in un lieve, ma giustificato imbarazzo. In quel momento percepivo un certo disagio, anche se mi piacevano le sensazioni che stavo provando. Lui continuava a fissarmi e non rispondeva. Il suo sguardo rispondeva per lui. Il suo sguardo intenso, la bellezza del suo volto, il suo sorriso perfetto. Lo scrutavo con curiosità. Cercavo delle risposte che non avevo da domande che non osavo porre. Ma volevo che parlasse, volevo sentire ancora la sua voce. La sua rassicurante voce. Ne sentivo il bisogno quasi fisico. Il mio udito cercava con attenzione ogni suono, ogni dettaglio che avrebbe emesso la sua bocca. In sottofondo, il pianoforte componeva le note di una colonna sonora offerta a una serata che non avrei potuto immaginare più romantica. Decisi di fare scena muta per qualche minuto, poi mormorai appena un leggero «Grazie». Sapevo che avrebbe capito ciò che volevo dire. Lo sapevo, perché a lui dovevo la mia presenza lì in quel momento. Gli dovevo la vita. A lui che mi aveva con forza strappato alla follia di un tuffo nelle fredde acque del Canal Grande di un pomeriggio di inizio Settembre. A ringraziarlo era tutto il mio essere. Erano il mio sguardo, le mie labbra e la mia anima vibrante in quella splendida serata. Intanto le strade si erano svuotate e la notte prometteva un insolito e più insistente freddo. Ma non avevo più freddo. A riscaldarmi era il suo sguardo, la sua presenza, il suo lieve e disarmante sorriso. Sorrisi anche io, sperando che lui decidesse di aggiungere altre parole, ma non lo

fece. Amava il silenzio. Non riuscivo a capire il motivo per cui non parlasse e non smettesse di fissarmi. Ma mi piaceva. Mi seduceva. M’incantava. Mi estasiava. Esaltava i miei sensi. Avrei voluto mi guardasse in eterno. Avrei voluto che quella sera non terminasse o che quel momento fosse solo l’inizio di qualcosa di molto più grande. Non riuscivo a credere che lui fosse innanzi a me. Sorridente e muto. E, allo stesso tempo, serio e sereno. Poi decisi di parlare ancora e sussurrai «Non posso credere di averti ritrovato», feci una pausa e abbassai lo sguardo per evitare il suo che era sempre più fisso. «Avrei voluto ringraziarti a Venezia. Sono persino tornata sul ponte del nostro incontro, ma tu non c’eri», terminai, sperando che lui commentasse le mie parole. «A chi appartengono i tuoi occhi?», mi chiese mormorando e parlando di tutt’altro, facendosi ancor più serio. Io sorrisi. Non mi era mai stata fatta una domanda del genere. Impossibile rispondere. Cosa avrei potuto dire? Inoltre ero molto imbarazzata. «E le tue labbra?», continuò a chiedermi, correndo con lo sguardo su di esse. Io continuai a sorridere, probabilmente arrossendo e senza riuscire a proferir parola, semplicemente perché non sapevo cosa dire. Non mi erano mai state fatte considerazioni del genere e men che meno da un uomo affascinante e sconosciuto. Non potevo quasi credere a ciò che udivo e non capivo cosa volesse comunicare. Pensavo quasi scherzasse, ma il suo tono e il suo sguardo serio mi fecero capire che non scherzava affatto. I suoi occhi erano diretti ancora alla mia anima e a essa parlavano, solo a essa, mentre io non riuscivo a dare alcuna risposta. A quel punto cominciai ad arrossire e sentii la fiamma di un improvviso calore in volto che mi sorprese a perdermi nel suo sguardo. Mi strinsi nelle spalle cercando una protezione che non arrivò, provai a staccare lo sguardo da lui e a dare un’occhiata tutt’intorno. C’erano altre coppiette sedute ai tavoli e qualche turista che mangiava appoggiato al bancone. Qualcun altro

sorseggiava cognac, mentre altri consumavano uno spuntino solitario e la musica del pianoforte accompagnava i silenzi e gli sguardi di tutti i presenti, inclusi noi. Ripresi a guardarlo e mi accorsi che lui non aveva distolto lo sguardo da me, che sembrava totalmente preso, che non prestava alcuna attenzione all’ambiente circostante, che non cercava altro che i miei occhi. A interrompere l’idillio fu l’arrivo delle portate accompagnate dal vino rosso. Me lo servì da vero gentiluomo e poi riempì il suo bicchiere. Lo alzò accennando un brindisi e io feci lo stesso. Accostammo i due bicchieri fino a urtare il vetro e lo sorseggiammo senza perderci di vista. Mi piacque il suo modo di fare. Era galante ed elegante nei modi. Sembrava sapersi comportare bene e sembrava un uomo sicuro di sé. Non si perdeva in complimenti fatui e artefatti. Sembrava riuscisse a esprimersi lo stretto necessario e a far sapere molto bene cosa volesse e intendesse. Non avevo mai conosciuto una persona come lui. Forse il mondo ne era pieno, ma io non avevo mai avuto la fortuna d’incontrarne. Iniziammo a mangiare e mi chiese «Ti piace?», riferendosi a ciò che avevo ordinato. «Sì». Poi proseguimmo in un silenzio che decise di dire ciò che voleva. Sarebbe bastata qualunque cosa. Un’emozione sconosciuta si respirava nell’aria, s’imprimeva nei pori della pelle, si mescolava tra i sospiri, si tuffava nelle poche parole pronunciate, s’immergeva negli sguardi, si donava alla serata che ò rapidamente. Molto più rapidamente di quanto avrei voluto e immaginato, giunta a quel punto. A fine pasto, ordinò un dessert per me e un caffè per lui. Infine, si recò al bancone per pagare il conto. Lo attesi seduta al tavolo. Poi mi alzai, mettendomi di nuovo a tracolla la borsetta che avevo appoggiato allo schienale della sedia e feci giusto in tempo a chiudermi nella giacchetta che indossavo che mi prese nuovamente per mano. Mi colpì il suo gesto. Lo stesso che aveva fatto in strada, dopo avermi sciolta

dall’abbraccio che mi aveva impedito di lasciarmi andare sulle gambe pronte a cedere alla stanchezza cumulata nel corso della giornata. Ancora una volta lo seguii. Non sapevo dove mi avrebbe portata. Non disse nulla. Tornò a regnare il silenzio tra noi nel freddo della notte. Mi riportò nel luogo in cui c’eravamo ritrovati, sul Ponte Vecchio, per contemplarne la bellezza anche nella semioscurità cittadina, quando a illuminarlo erano solo i lampioni della strada. Poi ruppe il silenzio «Dove alloggi?». Non avrei voluto rispondere. Avevo freddo, era tardi, avevo sonno, ma avrei voluto che quella sera durasse in eterno. Temevo di perderlo ancora. Temevo di perderne nuovamente le tracce e di non ritrovarlo più. Lui non sembrò aspettare la mia risposta. Portò alle sue labbra la mia mano e la baciò delicatamente. Lo osservavo con timidezza. Anche baciandomi la mano non staccava lo sguardo dal mio e feci per rispondere «Alloggio al… », che improvvisamente mi attrasse a sé con la ionalità di un gesto sicuro e con le labbra raggiunse in un istante la mia bocca socchiusa. Sentii il calore del suo corpo avvolgermi e le sue labbra vibrare con ione tra le mie. Poi mi prese il volto tra le mani e schiuse leggermente una bocca vogliosa di altro. Sentii infuocare i miei istanti in quel bacio rovente nel freddo buio di una notte che isolava le nostre anime. La ione avvolse i miei sensi e la voglia di restar con lui si accese con maggiore intensità. La mia bocca si perdeva nella sua e ciò che provavo era indescrivibilmente magico, mentre le labbra si donavano al più naturale e puro dei desideri. Quel bacio parve infinito. Era voglioso di me come scoprii di esserlo io di lui. E da quel momento in poi più nulla fu come prima. Ci staccammo con delicatezza, pur non volendo e mi sussurrò «Dimmi dove ti porto». Io sorrisi e risposi «Dove vuoi», ma lui voleva vivere quell’incontro con la dovuta calma. Lo capii e lo compresi. Mi riprese per mano e mi riaccompagnò al

mio hotel. Baciò nuovamente la mia mano, la stessa che aveva tenuto stretta alla sua e mi promise di venire a prendermi il mattino successivo, per fare colazione insieme. Infine, baciò ancora le mie labbra vogliose di lui e andò via solo dopo aver atteso che mi chiudessi il portoncino dell’albergo alle spalle. La mattina che seguì mi svegliai su un altro pianeta. Ero felice. Il mio misterioso incontro aveva risvegliato ogni senso sopito. Aveva restituito alla ragazza che ero un’età che non sentivo. Mi sentivo vecchia. Mi ci ero sempre sentita. Anche a dodici o quindici anni. La mia infanzia era stata un inferno. I miei problemi personali e familiari avevano sempre avuto il potere di condizionare la mia vita e le mie scelte. Mi avevano portata a sentire il peso di ciò che mi pioveva addosso. Mi ero sempre sentita più vecchia di ciò che ero. Avevo ottant’anni. Moralmente e psicologicamente era quella la mia età. Mi sembrava di aver vissuto in breve tempo tutto ciò che in un’intera vita sarebbe potuto accadere a qualcun altro. No, non avevo ventisette anni, ne avevo decisamente di più. Ma non avevo voglia di pensarci. Volevo godermi ogni attimo che la vita mi avrebbe donato. Volevo godermi appieno ogni minima gioia, perché pensavo e sentivo di meritarlo. Non sapevo come sarebbe andato il resto della mia esistenza, ma sapevo di voler vivere ogni attimo che mi sarebbe stato concesso. Mi alzai. Avevo fame. Sentii improvvisamente bussare alla porta e, dopo essermi munita di vestaglia, andai ad aprire. Che fosse il mio misterioso sogno della sera precedente? Mi guardai allo specchio e non mi piacque affatto l’aspetto che si rifletteva, anche se mi ero appena alzata ed era normale. Erano appena le 9:00 e non ero riuscita ad alzarmi prima. Non avevo messo la sveglia, avevo voluto dormire di più. Sospirai dietro la porta e chiesi «Chi è?» con il cuore che batteva fino a esser

percepito nello stomaco. «Betta», rispose, mentre aprii, dopo aver sentito pronunciare quel nome che divenne un’immagine ritrovata. Betta entrò in camera piangendo. Mi abbracciò e i singhiozzi presero il sopravvento. Ricambiai il suo abbraccio e cercai di capire. Poi ricordai il dramma che stava vivendo la sua famiglia e il motivo per cui eravamo a Firenze. Forse sua nonna era andata via. Cercò di blaterare qualcosa, ma, tra le lacrime e i singhiozzi, avvinghiata al mio abbraccio e con il volto posato sulle mie spalle, non riuscivo a capire cosa dicesse. La spinsi a entrare per chiudere la porta della camera e ci sedemmo sul letto disfatto. Mi riabbracciò da seduta e con una smorfia di dolore, tra le lacrime che le rigavano il viso fino a bagnare la mia vestaglia, disse «È morta nella notte!», e si lasciò andare a un nuovo disperato pianto. «Mi dispiace, Betta», mormorai tra i lunghi capelli dorati, nel vano tentativo di consolarla, seppur sapessi bene che a quel dolore niente avrebbe potuto porre rimedio solo il tempo. E in quel momento il dolore per quella lacerante ferita era ancora troppo fresco. La ferita non andava toccata. Andava custodita. Andava coperta e protetta, nell’attesa che il tempo fe la sua parte. Quella più importante. Quella di essiccazione. Il tempo ha il compito di essiccare tutto ciò che di dolorosamente o gioiosamente fresco entra a far parte della vita di ciascuno. Solo il tempo e ciò che deciderà di fare di noi. Betta si era appoggiata nuovamente alla mia spalla e pareva inconsolabile. Le accarezzai il capo come avrebbe fatto una sorella maggiore o qualcuno che le voleva davvero bene. «Quando ci saranno i funerali?», le chiesi, cercando di guardarla negli occhi che nascondeva sprofondando il viso nella mia vestaglia, dopo essersi avvinghiata alla mia spalla. «Domani», rispose tra le lacrime. «Scusami», infine disse, cominciando a divincolarsi dal febbricitante abbraccio di un momento prima. «E di che cosa?», le risposi. «Non devi preoccuparti: vorrà dire che staremo un

giorno in più, così potrai congedarti da tua nonna con maggiore calma e stare un po’ con la tua famiglia». «Ma chi lo dice alla Signora Mimosa?», mi guardò dritta negli occhi cercando un appiglio a ciò che le avrebbe potuto permettere un giorno di riposo in più. «Non preoccuparti. Con mia mamma ci parlo io», le promisi, cercando di asciugarle con una mano le lacrime che continuavano a scendere ininterrottamente sul viso. «E se mi licenzia?», insisté, quasi pronta a precipitare nuovamente nello sconforto dell’imbattersi nel primo ostacolo che le si fosse presentato dietro l’angolo o solo nel tentativo di trovare una nuova motivazione per ricadere nel pianto dirotto. Quello trattenuto a lungo o, semplicemente, quello di cui aveva più bisogno per liberare il cuore e l’animo dal dolore che aveva custodito per tutto il tragitto in treno. La lasciai piangere. Doveva sfogare ogni dolore e le dissi di non preoccuparsi. Mia madre non l’avrebbe mai licenziata, perché glielo avrei impedito io. Mi alzai per andare al bagno. Avevo bisogno di una doccia. La lasciai piangere sul letto e il tempo ò rapidamente. L’acqua nella doccia era calda e pura. Avevo la sensazione che riuscisse a rinfrescare e ripulire persino l’anima. Forse, a modo mio, ne avevo bisogno anche io. Lasciai che ogni goccia di quell’illusoria essenza entrasse nei più intimi angoli del mio corpo e mi permettesse di riordinare le idee. Tornai col pensiero alla serata precedente e ancora mi parve un sogno. Finalmente avevo anche io il mio sogno. Un nuovo sogno. Pensavo di aver sotterrato tutto, ma avevo scoperto che così non era. Avevo capito di aver bisogno di un nuovo sogno, di una ragione per vivere. Sentii sulla mia pelle ancora il suo sguardo. Era sempre e ancora così diretto. Era sempre e ancora così deciso e intimo. Vagava nel mio essere fino a raggiungerne le viscere. Mi aveva completamente posseduta col suo modo di porsi. Sentivo di appartenergli.

Lo avevo baciato. Era stato il momento più esaltante di tutta la serata. Ma non ne conoscevo neanche il nome. Eppure, prima o dopo, avrei pur dovuto sapere chi fosse! Quando uscii dal bagno in accappatoio bianco e capelli raccolti in una asciugamano, non trovai più Betta in camera. Era andata via, ma scorsi un bigliettino sul letto:

Grazie di tutto. Ci vediamo domani.

Sorrisi. Speravo si riprendesse, anche se capivo che non erano quelli il tempo e il modo giusti. Guardai l’orologio da polso che avevo appoggiato sul comodino: erano già le 10:10 e non ero ancora pronta! Dovevo prepararmi, perché da un momento all’altro sarebbe potuto venire a prendermi per andare a fare colazione. Me lo aveva promesso. Andai ad asciugarmi i capelli con il phon dell’hotel e mi vestii rapidamente, lasciando i capelli sbarazzini sulla schiena come la sera precedente. Presi la borsetta a tracolla, la fotocamera, il portafoglio e mi rimisi al polso l’orologio. Infine scesi rapidamente in reception incrociando un discreto via vai di ragazzi che arrivavano o che partivano con i loro ingombranti bagagli. Restai a guardarmi intorno per una decina di minuti tra persone che entravano e uscivano, ma non riuscii a scorgerlo da nessuna parte. Poi, il receptionist, un ragazzo di vent’anni o poco più, mi chiamò e lo raggiunsi vicino al bancone. «Questa mattina hanno lasciato qualcosa per Lei», mi disse incontrando lo sguardo sorpreso che avevo assunto nell’udire le sue parole. E mi porse una busta bianca contenente un bigliettino. La aprii e la lessi a bassa voce:

È stata una delle sere più belle della mia vita. Devo scappare, ma ti prego di chiamarmi al numero che ti indicheranno in hotel.

E alzai gli occhi a guardare il receptionist. Forse non sarebbe venuto. Chiesi al ragazzo se dovessi chiedere a lui un numero di telefono abbinato al biglietto e me ne porse un secondo recante solo il numero di un telefonino. Poi gli chiesi chi avesse portato quei bigliettini. «Un uomo sulla trentina. Non ho chiesto il nome. Non c’è scritto sui biglietti?», mi chiese. «No», risposi intristita. Mi chiedevo dove fosse finito e perché non fosse venuto. Ero delusa. Mi sentivo ata, da un giorno all’altro, dalle stelle alle stalle. Non sapevo cosa avrei fatto. Lo dovevo chiamare? Ma cosa gli avrei dovuto dire? E, soprattutto, quali parole avrei dovuto usare? Ero indecisa eppure sapevo di dover fare qualcosa per rivederlo. Sì, lo dovevo sentire, ne sentivo il bisogno quasi fisico, anche se non volevo e non dovevo affrettare i tempi. Avevo paura d’infastidirlo, non volevo che scape. Decisi di conservare entrambi i biglietti. Una volta tornata a Sorrento, lo avrei contattato con maggiore calma. La fretta, spesso e volentieri, fa fare e fa dire cose insensate e non avrei voluto rovinare per nulla al mondo la magia attraverso la quale il destino stava raccontando di noi. Ero delusa per il suo mancato arrivo, ma volevo farmela are, così chiesi dove era possibile fare colazione e cercai di rilassarmi con un croissant e un cappuccino. Visitai ancora la città, ma mi accorsi che le stesse strade percorse il giorno precedente non erano uguali in sua assenza.

ai per lo stesso luogo in cui lo avevo ritrovato: era gremito di gente, turisti e bancarelle come ogni giorno. Gente distratta che viveva in una bellissima città come chiunque pronto ad accogliere chi è solo di aggio. Decisi di andare a porgere le mie condoglianze alla famiglia di Betta, per non fare la figuraccia di quella che, avendola accompagnata fino a Firenze, non si era fatta neanche vedere. Non volevo essere indiscreta, ma non sarei neanche dovuta esser maleducata. Poi, ricordai di dover chiamare mia madre per dirle che saremmo tornate con un giorno di ritardo e che, per una volta, avrebbe potuto lasciar are alla povera Betta un momento tanto delicato. Dopotutto, aveva il diritto di piangere sua nonna e di stare un po’ con la sua famiglia. Il giorno che seguì assistei ai funerali. Volevo consolare Betta, esserle vicina come una sorella e cercare di non pensare alla delusione del mio ultimo mancato incontro.

Tornammo a Sorrento con l’apatia di chi sa che riprenderà la solita vita. Quella stessa vita che scorre quasi senza che ce ne accorgiamo. Un aggio in cui il dolore sa alternarsi alla gioia in modo naturale e continuo, quasi volesse donare a sorsi una medicina amara, pronta a rendersi più sopportabile se presa con un po’ di zucchero ben distribuito sui bordi del bicchiere, solo nel punto in cui le labbra ne coglieranno l’iniziale sapore. Anche per il viaggio di ritorno, ripresi in mano il mio libro di Prévert e la realtà mi si addolcì come se lo zucchero contenuto in quei versi potesse cambiare anche la mia vita. Sapevo che nessuna zolletta sarebbe stata in grado di addolcirmi un’esistenza acida, ma decisi d’illudermi. Amavo le illusioni, perché ero sempre stata convinta che grazie a esse ogni essere umano riesce a superare meglio le avversità. Raccontarsi delle favole significa rendersi la realtà più accettabile, perché diversamente sappiamo tutti che non lo sarebbe.

A casa trovammo una mamma indifferente al nostro arrivo. Betta corse a risistemarsi nella sua stanza e io mi rintanai, come al solito, nella mia. Il silenzio di quel luogo tornò a devastarmi. Percepivo che in quella casa qualcosa era mutato con la scomparsa di mio padre. Qualcosa che non mi ero mai saputa o potuta spiegare. Avevo sempre e solo intuito che si trattasse di qualcosa d’inquietante, ma non avrei saputo dire di cosa si trattasse. Decisi di fare una scappata sulla collina, avevo bisogno di prendere un po’ di aria: tutte le ore ate sul treno del ritorno mi avevano intossicata di tristezza. Uscii dalla finestra al piano terra, come avevo fatto fin da bambina quando non volevo che qualcuno in casa si accorgesse della mia assenza. Corsi verso il viale d’uscita per imboccare la stradina di campagna diretta verso il boschetto misterioso e la collina magica, quasi fossero due punti di riferimento. I due opposti di una stessa medaglia, le facce di un’esistenza, il bene e il male. Era tardo pomeriggio. C’era una fresca brezza proveniente dal mare che sbatteva con veemenza contro il mio volto già arrossato. Le correvo incontro quasi a volerla abbracciare. Volevo abbracciare il vuoto di quella brezza come avrei voluto abbracciarlo nel vuoto della sua assenza. Ma ormai era di nuovo lontano, era di nuovo chissà dove. Poi ricordai i bigliettini che avevo conservato nella borsetta e pensai di poterlo contattare con il telefonino, anche se avevo paura. Chissà di cosa. Forse d’udire qualcuno che non fosse lui o semplicemente di scoprire che l’incantesimo si era dissolto a Firenze. Non avevo neanche un pizzico di coraggio, ma sapevo di doverci provare. Non volevo ritrovare la rassegnazione di chi non ha avuto coraggio. La vita stessa necessita di coraggio. Che lo accettiamo o meno, essa ce lo imporrà a ogni o che faremo, comunque e ovunque ci condurrà con i suoi capricci. Mi lasciai andare sul terreno incolto, tra le margherite sfiorite dal vento e la voglia di rilassare ogni muscolo troppo teso. Quel luogo sembrava riuscire a trasportarmi in un’altra dimensione, quella in cui

probabilmente nessuno mi avrebbe mai potuto infliggere un qualche assurdo e inspiegabile dolore umano. A casa rigirai tra le mani entrambi i bigliettini che mi aveva lasciato nella reception dell’hotel di Firenze, ma non mi decisi. Avevo paura, anche se non sapevo precisamente di cosa. «E se non mi avesse riconosciuta? E se mi avesse scambiata per qualcun altro? E se quel numero di telefono non fosse il suo e se…», avrei potuto morire seduta sopra quei “se” eppure mi seducevano, perché con quell’insicurezza ero sempre riuscita a convivere bene, fino a rendermi conto che riusciva a divenire persino parte integrante di me. Sui “se” nella vita ero riuscita a costruirmi la barriera corallina pronta a proteggermi dalle avversità. I “se” erano il mio scudo, la mia muraglia, la scorta nella possibilità di ripararsi dalle intemperie, dalle difficoltà esistenziali, dalle delusioni pronte a fare agguati nei modi e nei tempi più impensati, dalle decisioni da prendere, dall’inconsistenza di un’esistenza che miete disagi come grano che si trasformerà in ciò che mangeremo. Quei “se” erano la mia sola via di scampo, l’uscita pronta a mettermi in salvo in ogni occasione, il vero rifugio di un essere che ha paura di affrontare la realtà, che ha paura delle verità e della vita che gliele sbatte contro, che gliele rinfaccia, che gliele sputa sulla pelle, che gliele frantuma addosso, che gliele trascina ai piedi ovunque si trovi. Infine, riposi i bigliettini in un cassetto della scrivania. Avevo deciso di rimandare. Non so perché, ma non sarei mai riuscita a tradire le mie insicurezze, perché erano la parte più viva di me, della mia anima, della mia mente, della mia stessa carne. Mangiavo ogni giorno pane e insicurezze e non potevo farne a meno, sebbene il primo fe ingrassare il corpo e le seconde nuocessero all’anima. E a proposito di cibo. Mi stava venendo una gran fame e decisi di recarmi in cucina a svuotare il frigo: in quel momento percepii l’incontenibile desiderio di dimenticare persino chi fossi. Trovai Betta a preparare un buonissimo Gateaux e decisi di anticiparmi con un qualche stuzzichino, sottraendo in giro qualche pezzetto di formaggio tra le confezioni semiaperte poste in bella vista sul tavolo della cucina.

«Come va?», le chiesi, tra un furto di formaggio e l’altro, mostrando che mi finisse quasi distrattamente in bocca. «E come deve andare?», mi chiese con voce roca. Aveva gli occhi lucidi. Non avevo intenzione di farla sprofondare in un nuovo incontenibile pianto, ma il tempo che aveva avuto a disposizione era stato davvero poco. La nonna era scomparsa da pochi giorni e nessuno avrebbe potuto consolarla. Una volta mi aveva raccontato che era stata la nonna materna a crescerla, quando i suoi genitori erano particolarmente occupati o non avevano avuto tempo da dedicarle. La sua famiglia era modesta e non si era mai potuta permettere una baby-sitter, per cui, come molte famiglie in difficoltà, i suoi si erano spesso rivolti ai loro genitori, affinché li aiutassero a crescerla. E quando un qualche favore diventa un po’ troppo frequente e si trasforma in abitudine, in seguito diventa difficile tornare sui propri i. In parte la capivo e non potevo fare altro che confortarla come avrei voluto che qualcuno confortasse me, quando ne avevo bisogno. «A che ora sarà pronta la cena?», sopraggiunse l’austera figura di mia madre che, con la sua solita camicetta antiquata e una gonna nera che scendeva sulle ginocchia, fece capolino in cucina. «Una decina di minuti, signora», rispose di scatto Betta. Mi sembrò una marionetta. Capii che temeva mia madre e la sua severa presenza, per cui scattava a comando, come un robot, ogni volta che lo reputava indispensabile. Feci un sorriso distratto. Mi sembrò ridicola quella scena. Poi incontrai lo sguardo di mia madre che si accorse del sorriso e, con un’espressione interrogativa del volto, parve volermi chiedere il motivo per cui sorridessi. Omisi, guardando altrove e mi precipitai in camera. Avevo bisogno di star da sola e soprattutto non mi andava di dare futili e stupide spiegazioni solo per aver sorriso un po’ come qualunque ragazza della mia età avrebbe potuto e dovuto fare a ogni sciocchezza. Dare delle spiegazioni per ogni espressione, ogni parola, ogni sorriso, ogni atteggiamento assunto in qualunque momento e a qualunque età era totalmente assurdo, oltre che ridicolo. Eppure in quella casa sembrava che tutto dovesse esser spiegato e che nulla sarebbe dovuto

esser frutto del puro caso. Era qualcosa che mal sopportavo e che mi faceva sentire vittima di una circostanza di vita davvero beffarda. A sera inoltrata decisi di recuperare dal cassetto della scrivania i bigliettini. Presi quello su cui era segnato il numero di telefono e lo digitai sulla tastiera del cellulare. Ero insicura eppure lo feci. Composi il numero, ma esitai nel premere il pulsante verde che avrebbe avviato la chiamata e il mio dito vi sostò a lungo. Perché era così difficile? Perché? Riposi di nuovo il bigliettino nel cassetto e il cellulare sulla scrivania. Ero una vigliacca e una grandissima stupida, forse mi ero persino innamorata. Ma era possibile? Non lo sapevo. Eppure, come ci si poteva innamorare di uno sconosciuto? Come? Che stupida! Che idiota! Forse non era amore, forse era attrazione fisica, ma, un momento: allora, perché non mi mettevo alla prova? Perché non ci provavo anche solo per capire cosa stessi realmente vivendo? C’era stato solo un bacio, ma era bastato a divorarmi ogni alito d’anima. La domanda che mi posi era quasi scontata: appartenevo ancora a me? Non lo sapevo e soprattutto non lo sentivo.

Capitolo IV

Abbracciai nel buio della notte la mia tartaruga di peluche. Avevo di nuovo freddo, come nell’indimenticabile sera trascorsa tra le strade di Firenze. Ancora una volta avevo lasciato le persiane aperte per permettere alla luna di confortarmi con la sua presenza e d’illuminare ogni più buio angolo della mia stanza. Ma, in realtà, sapevo di chiederle d’illuminare anche ogni più buio angolo della mia anima. Il silenzio mi stava avvolgendo nel suo subdolo manto e decisi di alzarmi. Corsi a prendere il bigliettino col numero di telefono per digitarlo sulla tastiera del cellulare. Lo feci ancora una volta. E ancora una volta il dito si fermò sul pulsante verde. Il mio semaforo interiore era ancora rosso. Eppure quel verde mi attraeva come null’altro. Dipendeva solo da me. Avrei dovuto decidere io se far scattare il verde o meno. Guardai a lungo il display. Non aveva immagini, non avevo inserito foto. Non ne volevo. Aveva il colore default blu ghiaccio come il freddo che mi trasmetteva l’indecisione in quel momento. Il dito era ancora fermo sul pulsante verde. Ma non scattava. Non lo premeva, timoroso di chissà cosa. La paura o la timidezza, per qualche oscura ragione, impediscono ogni azione, ogni gesto, ogni voglia, ma un senso c’è sempre. Poi, però, d’improvviso lo feci. Era notte inoltrata. Preferii non guardare che ora fosse. Ero attenta a sentire i battiti del cuore che tornò a rimbombarmi nello stomaco e lo sentii perfino salirmi alla gola. Non sapevo se avrei avuto la forza e il fiato per parlare, ma tentai. Il suo telefonino era . Attesi uno, due, tre, quattro squilli. Avevo chiamato in piena notte, come avrei potuto pretendere che mi rispondesse subito? Di certo dormiva. Ma l’ansia mi prese e agguantò ogni mio più piccolo antro. Mi sentivo

di gomma. Non sentivo più la carne del mio corpo e neanche le ossa. Sentivo rimbombare i battiti del cuore. «Pronto», lo udii pronunciare improvvisamente. Mi aveva risposto. Era lui. Era davvero lui. Di sicuro lo avevo svegliato. Che stupida! Perché non mi ero decisa a chiamarlo prima che arrivasse la notte? La notte è fatta per dormire! «Ciao», sussurrai con due leggere lacrime che dagli occhi raggiunsero le labbra per inumidirle, quasi volessero entrarmi in bocca e rischiararmi la voce, come avrebbero potuto fare due gocce d’acqua salata. Ero felice come un’ebete. Sentivo la sua voce ed ero già diventata una povera ebete. «Ciao», rispose dopo avermi riconosciuta, senza tradire alcuna sorpresa né alcun tono di fastidio nella voce profonda «Come stai?», mi chiese, come se in quel momento fosse la cosa più importante o urgente da domandare. «Io… », ero imbarazzata, ma tremendamente felice. «Bene», sorrisi nel buio della mia stanza, dopo essermi di nuovo accoccolata tra le lenzuola. «Perdonami per essere andato via senza poterti avvertire, ma non ne ho avuto il tempo», mi disse per giustificare la nostra mancata colazione a Firenze. «Non importa», mi scoprii a dire. «Spero non manchi l’occasione di ritrovarci un’altra volta». «No, non mancherà», mi rassicurò con un tono deciso. «Dove sei?». «A… », mi si ruppe la voce. E ora? Cosa avrei detto? Come potevo dirgli dov’ero? Non potevo certo farlo venire a casa! Non lo conoscevo neanche, come avrei potuto presentarlo a mia madre? Feci una pausa, ma poi mi scappò detto «Sorrento». «Cosa fai a Sorrento?», mi chiese in seguito, senza cambiare tonalità di voce. «Vivo qui». Non volevo nascondergli nulla, non volevo inventare una vita che non avevo, né essere ciò che non ero. «Ti raggiungo in settimana», mi disse subito. «Mi chiami dal tuo numero personale?».

«Sì», risposi con prontezza e il cuore non faceva che battere più forte di prima, mentre le mani tremavano e un’allegria improvvisa s’impadroniva beatamente di me. «Lo memorizzo in rubrica e ti ritrovo», mi fece sapere, ando a un tono meno marcato. «Quando vieni?», volli sapere con il rischio di divenire insistente e poco piacevole, ma non riuscii a evitarlo. Dovevo sapere. Dovevo chiedere. «Forse tra un paio di giorni. Ti richiamo per confermare quando arrivo a Sorrento». Il mio sorriso mi fece fare una pausa. Non riuscii a dire altro. Non riuscii a chiedergli come si chiamava. Il fiato mi si ruppe e la voce non emise altro suono. «La tua voce è il sogno di questa notte. Domani cercherò sul mio telefono il tuo numero e saprò se sei reale o se ti ho solo immaginata», la sua voce divenne improvvisamente meno intensa. «Non mi hai immaginata», gli sussurrai nella semioscurità di una stanza illuminata solo dalla bellezza della luna che aveva appena fatto capolino dalla finestra aperta. «Buona notte», mi sussurrò, infine, congedandomi. «Buona notte», risposi a mia volta. E mi precipitai a premere il tasto rosso. La chiamata era terminata e una notte per me meravigliosamente insonne a immaginare e sognare di lui era appena iniziata. Mi sentivo più folle di prima. Ma sentivo di volerlo conoscere e di desiderarne ancora lo sguardo addosso. Uno sguardo fermo, deciso, tenero e magnetico allo stesso tempo. Era divenuto lo scudo in grado di proteggermi da ogni cosa, lo avevo sentito tanto forte e deciso, sicuro e protettivo da non riuscire più a farne a meno. Sentivo di sfuggirmi di mano. E ora lo sapevo. Mi stavo sfuggendo e non mi appartenevo più come non mi appartenevano più i giorni che vivevo. Era tutto molto più chiaro di prima.

Il cuore della notte mi sorprese a cullare anche i suoi sogni in compagnia dei miei, tra le braccia che stringevano un peluche di polvere e amore. Il giorno che seguì mi svegliai di buon mattino: appena le 06:37. Ero molto infreddolita. Corsi a farmi una doccia, a prepararmi una colazione abbondante di cereali, accompagnati da biscotti alla panna innaffiati da caffè e latte e a scappare alla bottega di Don Carmine. Percorsi la mia stradina “segreta” in mezzo alla campagna, per raggiungere in breve tempo il centro cittadino. Volevo approfittare della scorciatoia per respirare un po’ di aria pulita. Erano appena le 07:41 e decisi di non affrettarmi. Di solito dell’apertura della bottega ce ne occupavamo io e Loretta. Avevamo entrambe le chiavi per volere di Don Carmine che, invece, amava dormire e si presentava in negozio quasi sempre verso le 11:00 o le 12:00. Solo durante il pomeriggio era puntuale all’apertura delle 16:00. Notai delle margheritine lungo il percorso e ne raccolsi qualcuna. Poi, senza badarci, inciampai in un fossato. Una scema: questo sono! Cos’altro? Solo questo. Presi una storta che mi provocò un forte dolore alla caviglia, ma proseguii per la mia strada come se nulla fosse accaduto. Arrivai in piazzetta che erano già le 08:10 e mi fermai a parlare con un ragazzo che lavorava in uno dei bar vicini: il “Bar dell’angolo”. Si chiamava Mario. Era molto giovane: appena sedici anni ed era al suo primo impiego. Lavorava e studiava contemporaneamente. Doveva aiutare la sua modesta famiglia. Andava alla scuola serale, per riuscire a prendere un diploma di studi classici. Non so come fe a districarsi così bene tra un lavoro faticoso e lo studio a tarda sera, né dove trovasse il tempo di mettersi sui libri. Aveva tutta la mia ammirazione. «Ehi, come va?», mi strizzò l’occhio quando mi vide entrare nel piccolo bar semideserto, mentre rassettava i due tavolini disposti negli angoli. «Bene, se non fosse che ho appena preso una storta», gli feci sapere, con un sorriso da stupida. «Ma dai!», sorrise mentre ava uno straccio umidiccio sui tavolini di marmo

tondo, piccoli ed eleganti. «È vero!», dissi. «Stavo camminando, quando sono inciampata in un fosso per raccogliere delle margherite!», esclamai infine, mostrandogli il mazzetto di cinque margheritine sfiorite che facevano bella mostra nella mia mano destra, mentre appoggiavo la sinistra al bancone. Mario completò il suo giro di pulizia e tornò dietro il bancone «Vuoi un caffè?», chiese. «Offre il bar», ostentò, cercando di non farsi notare dal proprietario, Don Antonio, che da fuori lo teneva d’occhio, mentre chiacchierava con alcuni compari amanti della caccia come lui, dopotutto si stava avvicinando l’apertura della stagione. Era una brava persona, Don Antonio, sebbene fosse troppo burbero e nessuno osasse contraddirlo. Voleva avere sempre voce in capitolo e soprattutto voleva sempre avere l’ultima parola. Aveva una famiglia molto numerosa. La moglie Rosetta aveva partorito ben 5 figli (due maschi e tre femmine), tutti emigrati al nord. All’inizio si era opposto alle loro decisioni, ma quando aveva capito che nessuno di loro si sarebbe prestato a gestire il bar di famiglia, perché desiderava un’attività propria e forse più proficua, si era dovuto arrendere all’idea di rivedere i figli solo per le feste comandate, quando tornavano per le ferie a Sorrento. Io li conoscevo tutti. Eravamo stati amici e compagni alle scuole medie, in seguito ognuno aveva intrapreso una strada differente. Ognuno aveva deciso di studiare in istituti diversi, in base alle proprie preferenze e ai propri gusti. Ogni tanto pensavo a loro: Giacomo e Alberto si erano trasferiti a Milano, mentre Lucia, Concetta e Rosalba avevano deciso di vivere in città diverse. Lucia e Rosalba lavoravano come impiegate presso una struttura pubblica a Bologna, invece Concetta era diventata insegnante presso una Scuola d’Arte di Ancona. Li rivedevo sporadicamente, quando capitava, di solito a Natale o a Pasqua, anche se sapevo che arrivavano a trovare i genitori anche ad Agosto. Don Antonio ebbe la delusione di non trovare neanche un figlio a dirigere il bar, ma sperava che un giorno, forse, qualcuno di loro o anche un nipote avrebbe

deciso di riappropriarsi delle origini e dei beni familiari che gli sarebbero spettati. Mario si mise a preparare caffè a raffica, appena cominciarono a richiederne, uno in fila all’altro, i clienti entrati e accomodatisi presso il bancone con l’aria di chi ha fretta. Era appena sopraggiunto, come ogni mattina, anche un ragazzino del Panificio “Sorrento buona”, che era a pochi isolati e aveva il compito di portare, per due turni consecutivi, i croissant, i cornetti e le brioches calde da servire ai clienti. Tra essi si distinguevano molti commercianti della zona, pronti a godersi una buona prima colazione in bella compagnia prima di aprire il negozio. Al “Bar dell’angolo” i pettegolezzi non erano mai mancati e, anzi, si poteva dire che ogni mattina si sprecavano. A tutti piaceva conversare degli altri e sembrava non mancasse mai occasione per riuscire a commentare gli eventi o gli incontri, come i personaggi della zona. Era un modo come un altro per diventare un po’ tutti conoscenti, per diventare amici o colleghi o meglio ancora soci, perché poi sarebbe stato più semplice districarsi negli affari di una comunità che amava andare d’accordo in armonia e semplicità. Sapevo che, come ogni mattina, anche Loretta sarebbe arrivata al bar prima di aprire la bottega e decisi di aspettarla, cercando di non disturbare gli avventori che si mettevano in fila per ordinare qualcosa. Mi accomodai a uno dei tavoli interni e attesi pazientemente, osservando con curiosità ogni persona che si affacciava, entrava, consumava e usciva compostamente dal bar. Loretta si fece aspettare, arrivò verso le 08:50. Sapeva di essere in ritardo e, in tutta fretta, si precipitò a chiedere un cappuccio a Mario che già raccoglieva i soldi lasciati sul bancone per pagare alla svelta. Poi, nell’attesa, si voltò e mi vide. «Aspetti da molto?», mi chiese con aria stralunata, sedendosi e appoggiando sul tavolino la borsetta, nella quale si mise a cercare le sigarette e l’accendino. «Avevo voglia di camminare un po’», le risposi in tutta fretta, osservando distrattamente il lento caos che si alternava all’interno del bar.

«Tutto bene?», mi chiese, non distogliendo lo sguardo dalla borsetta che non ne voleva sapere di restituirle sigarette e accendino «Cavolo!», esclamò d’impulso. «Devo averli dimenticati a casa!». Era tardi, non sarebbe potuta tornare indietro a prenderli. Dovevamo aprire la bottega. Mario le portò il cappuccino e scappò a servire gli altri clienti, tutti di fretta, quasi si fossero messi d’accordo nel creare la confusione che aveva iniziato a dominare la saletta in un placido mormorio di voci. «Va tutto bene», mentii, fingendo noncuranza. Avevo ancora freddo. I brividi. La pelle d’oca. Mi strinsi nelle spalle. Avevo dimenticato anch’io qualcosa: la mia solita giacchetta di cotone. Quella a cui ero più affezionata, quella da cui mi separavo difficilmente a meno che, come quella mattina, non me ne dimenticassi. «Bevo e andiamo, ok?», mi fece sapere, posando la borsetta a terra. Il suo sguardo, però non si alzò, non sfiorò neanche per un istante il mio. «A te va tutto bene?», le chiesi a quel punto, pensando che, in realtà, ci fosse qualcosa che non andasse. «Sì», non tardò a rispondere. «Sono solo molto stanca. Avrei bisogno di una vacanza anche io, ma chi lo vuol sentire Don Carmine! Di vacanze non se ne parla proprio». La sua sembrava quasi una frecciatina, forse voleva alludere al fatto che io mi fossi presa la libertà di andarmene a Firenze, senza subire alcuna ramanzina dal titolare della bottega, per il semplice motivo che era amico di mia madre e, pertanto, non si sarebbe fatto alcun problema per la mia assenza o, meglio, non me l’avrebbe mai rinfacciata o fatta pesare e, forse, a Loretta quella situazione non andava a genio. Potevo capirla. Feci finta di niente. Non mi andava di discutere o intavolare argomenti fatui. Mi alzai e dissi «Comincio ad aprire, mentre finisci il cappuccino». «No, ho finito!», bevve tutto d’un sorso quel che rimaneva nella tazza e si alzò afferrando di scatto la borsa.

Ci avviammo nel tiepido mormorio di una strada del centro che cominciava la giornata. Erano le 9:00 ate e tutti i negozianti della zona si apprestavano ad aprire. Avevo voglia di correre via. Non so perché. Non ne avrei saputo spiegare il motivo, ma ne avevo voglia. Quel luogo cominciava a starmi stretto e mi sentii avvolgere il punto vita da una cinta di cuoio che mi dava improvvisamente fastidio. Mi provocava dolore e avevo bisogno di allentarla, ma non sapevo come fare e da dove cominciare. Arrivammo alla bottega, non era molto distante. Loretta mise mano alla borsetta e prese la copia delle chiavi. Aprimmo e la giornata cominciò. Non appena la serranda raggiunse un’altezza in grado di farmi are, fui la prima a intrufolarmi. Scesi le poche scale che davano accesso all’interno e andai ad accendere la luce. C’erano angoli illuminati al neon, soprattutto verso gli scaffali che esponevano i prodotti e altri, invece, con lampadine classiche che, ai lati del locale, davano un tocco ornamentale all’ambiente. L’arredamento era in legno di ciliegio, molto curato e soprattutto lavorato da veri maestri artigiani, vecchi amici di scuola del titolare. Il bancone aveva la forma di un tronco d’albero, laccato, lucido sulla superficie su cui ci appoggiavamo e frastagliato ai lati e verso l’esterno, quasi a dare l’idea d’esser stato segato in quel preciso momento o poco prima. I prodotti erano sistemati sugli scaffali come soprammobili. Tutti con il prezzo esposto in modo ordinato e preciso e disposti in grande sintonia, curati nei minimi dettagli. Alle nostre spalle, dietro il bancone, sulla destra e sulla sinistra, facevano bella mostra di sé due grosse botti di buon vino rosso. Ciascuna aveva una targhetta riportante importanti dettagli artigianali e il prezzo di vendita al litro. I clienti potevano scegliere le dosi da portarsi a casa in tutta libertà: concedevamo la vendita anche di mezzo litro che infilavamo in bottigliette di vetro. Il punto di forza della bottega, oltre i prodotti confezionati industrialmente come

la pasta di grano duro nei più classici formati e i biscotti, era l’olio extravergine di oliva, prodotto dallo stesso Don Carmine che possedeva non so quanti ettari di oliveti ed era a capo di una cooperativa in grado di rendere commerciabile un olio che era tra i più apprezzati e consumati del luogo, ma non solo. Don Carmine si occupava di fornire anche una serie di amici negozianti della bassa Campania e della Calabria. Con orgoglio, ogni anno, portava a casa una soddisfazione in più, perché sapeva che l’olio ottenuto dalla molitura delle sue olive risultava tra i più pregiati della penisola sorrentina. Ogni anno la raccolta delle olive, rigorosamente a mano o con l’aiuto di scuotitori, era una festa, perché sapeva raggruppare in armonia operai, amici, conoscenti e giovani che avevano bisogno di pagarsi gli studi all’Università, guadagnando la fiducia del titolare che ogni volta li includeva nella lista dei ‘lavoratori stagionali’ con una paga degna di esser menzionata. Gli oliveti di Don Carmine erano tutti sporti verso il mare. I loro splendidi arbusti guardavano la bellezza incantatrice del Golfo come a volerne far parte e sembravano disposti a offrire in cambio i loro “gioielli”. Ero cresciuta tra l’armoniosa bellezza degli oliveti posseduti da papà che poi, con la sua scomparsa, erano andati a unirsi a quelli di Don Carmine. La mamma non era mai stata in grado di occuparsi degli affari di famiglia e aveva deciso di affidare a Don Carmine la gestione e l’amministrazione dei possedimenti del marito. Ero legatissima agli oliveti, perché erano stati il mondo di papà e tutto il mio mondo. Le loro reti avevano protetto la nostra economia, raccogliendo meglio di chiunque altro i frutti offerti dagli arbusti, nel silenzio di una campagna che voleva dirsi eterna, infinita, vistosamente scintillante nelle sue vesti ornate da una natura generosa. Da bambina rincorrevo i miei sogni dietro quegli arbusti. Belli e altissimi: li guardavo dal basso verso l’alto e mi sembravano meravigliosamente pronti a spiccare il volo o a raggiungere l’immensità del cielo per aggrapparsi alle nuvole con i lunghissimi rami. Chiamavo “braccia” i loro rami, perché tali mi sembravano e avevo l’impressione che volessero celare anche i sogni di papà, custoditi da qualche parte. Eppure, tra di essi scacciavo i miei fantasmi, le paure che assillavano la mia esistenza incompiuta e la sofferenza che seguì alla

scomparsa di papà. Tra di essi mi ero sempre sentita amata e protetta, perché percepivo che la natura sapeva bene di cosa avessi bisogno. Quel luogo sapeva rapirmi come nessun altro. Sapeva essermi vicino quando ero triste e sapeva gioire della mia rara gioia. Quel luogo lo sentivo mio più di qualsiasi altra cosa al mondo. Sì, quel luogo era mio. E io ero sua. Io ne ero parte integrante, sentivo di appartenere a quegli arbusti, ai silenziosi ondeggiamenti dei rami mossi dai venti, al loro aspetto tanto rude quanto forte, alla vita a cui inneggiavano e alla poeticità di una maestà che me ne faceva da sempre attenta e scrupolosa osservatrice innamorata. Sì, amavo l’odore degli olivi, la loro portentosa presenza, l’agrodolce essenza del loro corpo, la natura dei loro frutti, la bellezza di un tempo che me ne faceva scoprire la più matura raccolta, la voglia di portarne alle labbra la vita contenuta nel sapore raggiunto dal succo di quegli stessi frutti. A volte mi piaceva strappare qua e là qualche oliva che riuscivo a raggiungere con le mani andoci vicino. La tenevo stretta nella mia fragile mano, sperando quasi che s’impregnasse della sua polpa. Poi me la portavo alle narici, la contemplavo, la arrotolavo sulle labbra e ne sentivo il sapore, la bontà all’origine e ne percepivo la consistenza. Ciò che stringevo a me come un tesoro avrebbe portato in tavola un olio extravergine unico: non solo un semplice prodotto, ma la riscoperta di un valore, di un mondo a sé stante, di una favola raccontata attraverso l’abbraccio della bocca a una bruschetta tostata, a una genuina fetta di pane nostro, a un sugo prelibato che per ore sapeva starsene rintanato in una pentola di terracotta bollente che ne avrebbe saputo trattenere gli aromi profumati, a una pizza appena infornata e a tutto ciò che l’umana creatività culinaria avrebbe permesso. Bella, la mia terra. Forte e radicata in ciò che ne manteneva viva l’importanza dei valori esistenziali. Avevo sentito da sempre la gioia di appartenervi e da sempre me l’ero portata dietro ovunque, come una scia da cui sarebbe stato impossibile liberarsi, come l’essenza di un profumo che esalta l’olfatto al primo incontro con la pelle e ne lascia la fragranza sugli indumenti nel tempo. «Ehi!», Loretta mi riportò alla realtà, la guardai attonita e non capii. Poi udii l’insistente trillo del telefonino che dalla borsetta ricordava a tutti di esistere e corsi a recuperarlo per rispondere.

Sul display apparve un numero privato, non sapevo se rispondere o meno, ma Loretta mi guardava «Allora, rispondi?», mi incitava a premere il pulsante verde per togliersi dalle orecchie quel fastidioso trillo. Risposi. Era lui. Il cuore iniziò ad accelerare i battiti, la mente era confusa. D’improvviso non mi trovai più in bottega. Ero in Paradiso. Il tremolio delle gambe cominciò a rievocare il fastidioso senso d’insicurezza che m’investiva ogni volta che mi trovavo impreparata o imbarazzata in una situazione nella quale non mi sentivo a mio agio. Sorrisi. Guardai nel vuoto e esso mi divorò. Non avevo più una mente, non pensavo, non riuscivo a farlo e neanche a parlare. Cosa mi stava accadendo ancora? Cosa? «Tutto bene?», sentii chiedermi dall’altro capo del telefonino. La sua voce era sicura come sempre, profondamente attraente, invitava a un relax che mi chiamava, ma che non riconoscevo. «Sì, sì», mormorai, balbettando, mentre volsi per un istante lo sguardo verso Loretta che cominciò a incuriosirsi nel vedermi tanto nervosa, tremante, imbarazzata e intimidita e cercò di capire cosa mi stesse accadendo. «Domani sarò a Sorrento», mi annunciò lui. Sì, ero in Paradiso, ne avevo appena avuto la conferma. «Davvero?», sorrisi, mentre la voce tremava tradendo un’immensa e sconosciuta gioia. Quell’annuncio mi esaltò. Mi appoggiai al bancone. Guardai ancora nel vuoto e il silenzio s’impadronì dei secondi che seguirono. «Quando arrivo, ti scrivo un messaggio per dirti dove possiamo vederci», era incredibilmente sicuro di sé. La sua voce non tradiva alcun imbarazzo, alcuna timidezza, alcun timore, mentre io ero come intontita. Non immaginavo mi chiamasse così presto e soprattutto non immaginavo che avrei potuto rivederlo in così breve tempo. «Grazie», sorrisi quasi estraniata, mentre sentii sorridere dall’altro lato. Sembrava contento, non lo percepivo agitato come me. Forse ero troppo emotiva, forse quell’incontro mi aveva presa in modo totale e possedeva ormai anche le radici del mio essere. Loretta se ne accorse. Sorrise maliziosamente e andò a dare una spolverata alla bottega. «A domani», mormorò dolcemente prima di riattaccare, anche se attese prima

che io rispondessi. «A domani», ripetei senza aggiungere altro e chiusi la comunicazione. Ero da un’altra parte: il mio corpo in bottega e tutto il resto molto più distante di ciò che potessi immaginare. Notai che la mano che reggeva il telefono tremava e un calore improvviso arrivava alle guance come se una qualche parte del mio corpo avesse cominciato a prendere fuoco e, inevitabilmente, ogni fiamma raggiungesse gli estremi. «Hai preso una bella botta, tesoro!», commentò Loretta con un sorriso inequivocabile, mentre spolverava gli scaffali con uno dei panni umidicci che conservavamo nel ripostiglio dietro il bancone «Non ricordo di averti mai vista in uno stato del genere», proseguì. Feci a stento attenzione alle sue parole. Incrociai le braccia, sentii di nuovo i brividi, avevo freddo. Sì, erano brividi di freddo. Non mi sentivo molto bene. «Domattina, se dovesse are in bottega Don Carmine, puoi giustificare la mia assenza?», le chiesi d’impulso. «Ma figurati!», sospirò. «Non me lo devi mica chiedere, ho ben capito cosa succederà domani!», sorrise ancora con il tono di una mamma che ricorda alla figlia di mettersi la giacchetta più pesante, perché comincia ad arrivare il fresco Autunno. «Cosa?», le chiesi incuriosita da ciò che pensava e che, forse, mi avrebbe lasciato intuire. «Io non ti tolgo la sorpresa, penso che lo scoprirai da sola», commentò con un sorriso malizioso dedicandosi poi a ripulire il bancone. Non aggiunsi altro e non insistei, non avevo nessuna voglia di giocare agli indovinelli e mi diedi da fare per darle una mano a rassettare. Don Carmine, come d’abitudine, si fece vedere verso le 12:00 col suo solito sigaro in bocca, anche se non fumava. Non lo accendeva, gli piaceva tenerlo tra le labbra. Non ne ho mai compreso il motivo, anche se una volta, molti anni prima, quando ero appena una ragazzina che sbocciava alla vita, mi rispose per scherzo che quel suo inseparabile amico lo avrebbe aiutato a non baciare mia

madre, perché se avesse tenuto sempre la bocca “occupata”, non gli sarebbe saltato in mente di cercare con essa la donna che aveva sempre dichiarato di amare più di tutte. A quel tempo non gli diedi retta. Non gli credetti. Poi, col are degli anni, la frequentazione con mia madre sembrò farsi più costante e assidua, soprattutto da quando erano rimasti entrambi vedovi e quel suo sigaro che, casualmente, s’interponeva sempre tra di loro, anche a breve distanza, aveva cominciato ad assumere una sua importanza, un suo vero perché. Forse era davvero una barriera. Forse gli era utile, perché non aveva mai accettato che mia madre volesse rimanere fedele al ricordo di mio padre. Anche Don Carmine era rimasto solo con una figlia da crescere, esattamente come era accaduto a mia madre. Il loro destino in quell’assurdo gioco dei ruoli aveva deciso di incrociarne per sempre le esistenze fino alla fine dei loro giorni. «Come va?», chiese a denti stretti per non lasciarsi sfuggire il sigaro di bocca, cercando uno degli sgabelli di legno che, di solito, lasciavamo vicino all’entrata per far accomodare chi, come lui, non aveva voglia di stare in piedi davanti al bancone. Don Carmine aveva 64 anni, ma ne dimostrava di più. Leggermente in sovrappeso, usava ancora gli abiti che gli aveva rattoppato la moglie. Non perché non avesse i soldi necessari a comprarne di nuovi, ma perché diceva sempre che se ne affezionava e che, pertanto, preferiva consumarli fino al logorio più completo. Le sue giacche erano datate come i suoi pantaloni, ma il suo stile era sempre inconfondibile e, malgrado tutto, persino ammirato da chi, invece, nel seguire sempre i mutamenti della moda con l’andare delle stagioni, non era mai riuscito a distinguersi attraverso un’immagine interessante. In paese la gente ci teneva a vestirsi come si deve. Soprattutto le donne, giovani o meno, amavano aggiustarsi come se fossero dovute andare alla prima di un film americano in una sala cinematografica della capitale o a chissà quale convegno internazionale. Senza rendersene conto, alcune sapevano rasentare il ridicolo con le borsette fintamente griffate e i loro atteggiamenti da gran signore, mentre le rimanenti

lasciavano scorrere le mode che non seguivano per mostrare personalità e stile individuali. I signori di una certa età spesso vestivano i soliti pantaloni e il cappello d’ordinanza della domenica mattina più assolata, insieme al classico bastone per i più anziani, mentre colorati foulard avvolgevano delicatamente le teste delle pettegole comari di turno. Guardavo Don Carmine con amore e notavo che rispecchiava perfettamente il modo di essere dei compaesani. Era di una bellissima semplicità e ciò che amavo di più vedergli indossare era l’armoniosa serenità del convivere con sé stesso e con ciò che mostrava di essere innanzi a un mondo sempre pronto a evolvere confusamente nel fatuo perdersi in valori insensati. Quella mattina, però, lo notai leggermente trasandato. Che avesse bevuto il giorno precedente e si fosse svegliato tardi? «Don Carmine, come si sente?», gli chiesi, fissandolo con insistente curiosità, mentre il suo sguardo si perdeva nel silenzio del suo animo. «Bene», rispose ostentando una sicurezza che sapevo essere inusuale per il suo modo di essere «Perché?», chiese. «Mi trovi male?». «No, la mia era solo una domanda, perché La vedevo un po’ stralunato. Come ha ato la serata di ieri?», mi permisi di domandare. «A guardare la tv con un goccetto di buon Chianti», sorrise improvvisamente con l’aria ingenua di un bambino felice di aver ricevuto un dono atteso da tanto. «E lo immaginavo», commentai con un sorriso. «Ne ha bevuto tanto?», chiesi a quel punto, dopo aver capito il motivo per cui lo trovassi abbattuto. «Noo…», la sua risposta fece eco in bottega nel trascinarsi una “o” di troppo mentre, alle mie spalle, dietro il bancone, Loretta sghignazzava. «Ho bevuto solo 4 o 5 bicchierini, niente di che», fece sapere a denti stretti, rosicando il sigaro che, ormai, era divenuto parte integrante di lui.

Nell’abbassare il viso, portai una mano alla fronte e con l’altra nascosi un sorriso di divertimento che mi nacque spontaneo, mentre Loretta, cercando di trattenere una risata molto più evidente, continuava a nascondersi dietro il bancone su cui ero appoggiata.

Capitolo V

Nel silenzioso sopraggiungere della notte, cercavo il volto della luna che quasi ogni sera, puntualmente, veniva a illuminare la mia stanza. Ero contornata dai ricordi, ero ricca di piccoli gingilli in grado di riportarmi alla mente ogni attimo della vita che mi ero lasciata alle spalle. Quella casa e quella stanza riportavano ogni giorno alla mia esistenza il dolore che la vita mi aveva provocato con i suoi indistinguibili graffi. Graffiata era la mia schiena, sfigurato il mio volto, deturpata la mia anima. Questo aveva fatto di me la vita. Il buio che mi avvolgeva nel gelo che sentivo fuori e dentro quelle mura giungeva fin dentro di me. La luna non faceva capolino da nessuna parte e smisi di cercarla con lo sguardo che si perdeva in un cielo limpidamente stellato da una stagione che anticipava un Inverno esistenziale per tutti. Le foto esposte all’interno delle cornici in un legno logorato dal colore con cui si è deciso di ricoprirlo, erano animate da miniature di coniglietti e orsacchiotti che mi riportavano il volto di una bambina stupida, ingenua, povera, abbandonata e distrutta, massacrata, violata nel profondo di un animo che ne aveva soffocato l’esistenza per sempre. I peluche che raccoglievo mi guardavano, mi circondavano, mi parlavano con i loro occhi sornioni e malinconici allo stesso tempo. Sapevano bene che quella bambina era morta. Sapevano bene di me. Ciascuno conserva le ombre del ato e, nel presente, le porta come fardelli. Le ombre restano a tormentarci solo se il ato ha il potere di prevalere sul futuro e d’influenzarne le scelte che segneranno per sempre la strada tracciata dal destino. Avevo bisogno di abbracciare qualcuno e di sapere che non ero così sola e

indifesa nell’abbandono di un lasciarsi scorrere il dolore sulla pelle come acqua che scivola via. Ma chi avrei potuto chiamare a notte inoltrata? Chi avrebbe potuto rassicurare quei miei dolenti istanti? Tornò a cercarmi il dolore di un animo ammanettato da un’inspiegabile e vigliacca inquietudine. Pensai nuovamente a lui e al fatto che, probabilmente, sentire la sua voce mi potesse ancora aiutare. Avrei voluto chiamarlo, ma non ne avevo il coraggio e sapevo che non ce l’avrei fatta. Eppure avrei solo dovuto pazientare un po’. Aspettare l’inevitabile arrivo della mattina successiva. Aspettare di ritrovarmelo davanti a confondermi nel suo sguardo, a perdermici fino alla fine dei miei giorni. Mi faceva sentire sicura la sua vicinanza, mi faceva sentire protetta. Non me ne spiegavo la ragione, ma sentivo che qualcosa in lui mi rasserenava, mi avvolgeva nell’invisibile manto di cosa? Non lo sapevo. Forse non lo avrei mai saputo, ma avevo deciso di fidarmi. Sentivo che non mi avrebbe fatto del male, anche se non sapevo come fi a intuirlo. Abbracciai il guanciale per immaginarmi stretta a lui, protetta e soprattutto desiderosa d’immaginare cosa riuscissi a provare chiusa nel suo abbraccio ancora una volta. Finalmente mi addormentai, ma il mio si rivelò ben presto un sonno leggero e agitato. Infatti, nel perdere la cognizione del tempo, mi svegliai di soprassalto. Accesi il lume sul comodino per dare uno sguardo all’orologio da polso che ero solita appoggiarvi e vidi che erano appena le 03:18. Piena notte. Sbuffai. Spensi la luce e cercai di riaddormentarmi. Mi accorsi che dal momento in cui mi ero addormentata e risvegliata erano ate soltanto tre ore. Richiusi gli occhi e sperai di riposare più serenamente. Sapevo che la mattina seguente sarebbe venuto da me e questo lentamente mi tranquillizzò.

Forse me ne ero innamorata e ne ero diventata gioiosamente consapevole oltre ogni immaginazione. Pensavo a lui e al sentimento che mi scatenava dentro come se avessi ricevuto un dono che non aspettavo. Un dono che ricolma la vita di una linfa sconosciuta e piacevole, in grado di elevare l’anima per farci sentire in volo. È bello pensare che grazie all’amore ogni dolore possa svanire. E credere che solo con l’amore sia comprensibile il senso della vita e sia raggiungibile la gioia di esistere anche solo in sua funzione. L’amore sa compensare tutto e sa rivitalizzare ogni esistenza, salvandone le malconce membra da ogni ingiustificata ferocia. La mattina seguente, il cielo si risvegliò cosparso di nubi che minacciavano tempesta. Mi diressi in bagno. Avevo bisogno di una doccia che mi risvegliasse dal torpore in cui ancora mi trovavo. L’acqua che scivolava sulla mia pelle era la stessa che scivolava dal cielo, la sentivo scorrere come qualcosa di velatamente medicamentoso. In seguito mi diressi in cucina per fare colazione e trovai Betta che preparava già il pranzo. Mia madre le aveva impartito l’ordine di creare un menu ricco, perché aveva invitato Don Carmine e sua figlia Felicia a farci compagnia. Era la prima volta che succedeva, dopo tanti, se non troppi, anni. Sorrisi. Strano che mia madre invitasse di punto in bianco Don Carmine e sua figlia a pranzo senza farmene parola. Comunque, non ci badai, anche se Betta mi rivelò che tenevano alla mia presenza, perché avrebbero dovuto annunciarmi qualcosa. «Non sai di cosa si tratta?». Sì, era davvero strano che non me ne fosse stata fatta parola. Mia madre era solita parlarmi delle decisioni che prendeva e degli inviti che faceva prima ancora di annunciarli in casa e questo era sempre accaduto, anche quando c’era mio padre. «Mi dispiace, ma non so nulla», fu la risposta netta di Betta che sminuzzava le

cipolle, mentre un odoroso sugo cominciava a raggiungere le nostre narici attraverso la lenta e studiata cottura in una pentola di terracotta che, semiscoperta, faceva bella mostra di sé su di un fornello a fuoco basso. «Va bene, comunque adesso devo uscire», annunciai. «Se non mi vedi tornare in tempo, scrivimi un messaggino sul telefono, quando pensi che serva urgentemente la mia presenza in casa». «Va bene», la sentii rispondere e mi preparai un cappuccino, estrassi dalla dispensa delle fette biscottate e la marmellata alle pesche che mi piaceva tanto, un pacco di cereali e il latte dal frigo: avevo bisogno di una colazione sostanziosa. Ero in trepida attesa. Aspettavo una chiamata o un messaggio che mi avrebbero annunciato il suo arrivo. Lo aspettavo con grande smania. Sentii quasi la necessità fisica di riabbracciarlo e non vedevo l’ora di ritrovarmelo davanti. Intanto, la pioggia cominciò a farsi udire con più fragore. Leggere, ma decise goccioline di acqua iniziarono a zampillare anche sui vetri della nostra tenuta. Il cielo era nuvoloso e annunciava ben di peggio di quelle delicate goccioline che, timidamente, cominciavano a bagnare la nostra mattinata. Finita la colazione, mi diressi in camera. Dovevo scegliere cosa indossare, ma volevo essere casual per non mostrarmi come qualunque altra ragazza che civettava al primo appuntamento. Non sapevo cosa abbinare a un semplicissimo jeans e misi a soqquadro l’armadio per trovare qualcosa che vi si adattasse. Poi il trillo di un messaggio in arrivo mi fece sobbalzare e corsi a leggere chi mi avesse scritto. Avevo nuovamente il batticuore. Ma perché ogni volta quella sensazione? Perché ero così agitata e perché mi esaltava tanto l’idea di quell’incontro? Il messaggio era: “Sono in riva al mare. Vediamoci dove vuoi”. Era lui. Sorrisi. Ero felice. Risposi al messaggio dandogli un appuntamento in piazza, su una terrazza che dava su un panorama del Golfo di Napoli davvero eccezionale.

Avrei percorso di corsa la mia stradina di campagna che portava alla scorciatoia per raggiungere il centro in poco tempo. Feci tutto in fretta. Non salutai neanche mia madre che, di sfuggita, vedendomi arle di fianco, mi disse a stento «All’una devi essere qua!». Di certo sapeva che Betta mi aveva detto del pranzo in programma e del fatto che dovessi essere presente. Presi il primo ombrello che trovai all’ingresso e uscii in silenzio. La pioggia si era fatta più insistente, ma non era ancora forte. Avevo il cuore in gola. Ero davvero io che stavo correndo incontro a chissà chi? Sì, ero io e ne ero immensamente felice. La stradina, che con le sue scorciatoie ricche di steppa scolorita portava direttamente in centro, era completamente infangata in mezzo alle erbette e ai fiorellini ripiegati su sé stessi dalla furia del vento portato dal temporale. Le mie scarpette sportive ci si immergevano a meraviglia e, in effetti, le avevo già inzuppate, ma cosa importava? Non mi importava della pioggia, né del fango, né del vento o dell’arrivo del freddo. L’inverno si avvicinava, ma io rincorrevo la Primavera. Mi sentivo rinascere ed ero già un’altra. Non so quale altra. Non so chi altri. Non ero io e lo sapevo. Ero immensamente felice di tale consapevolezza, ne gioivo e non riuscivo a spiegarmelo, né a comprenderlo. Non volevo spiegarlo a nessuno e men che meno cercavo di capire. Volevo vivere come non avevo mai avuto il coraggio di fare prima. Volevo ritrovare ciò che di me avevo smarrito lungo il cammino. Lo volevo con tutta me stessa. Il silenzio mi circondava, ma non ci feci caso. La pioggia rendeva tutto inerme. Non si poteva incontrare nessun ante, perché nessuno avrebbe imboccato quella stradina ricolma di fango. Solo io. Io, perché lo volevo e sempre io, perché rincorrevo ciò che neanche sapevo. Ne ero cosciente, ma anche decisamente incosciente. Non importava. Arrivai in piazza ansimando. Avevo corso. La terrazza era vuota. Non era ancora arrivato. Decisi di aspettarlo. Notavo attorno solo desolazione. Pochissimi anti e qualche auto che sfrecciava. Sorrisi. La felicità mi bagnava come l’acqua scesa dal cielo.

Ero follemente felice. Chiusi l’ombrello. Volevo sentirla tutta su di me quella pioggia che scendeva. Volevo bagnarmi. Volevo purificarmi. Sentire addosso la forza di una natura che mi aveva fatta scoprire più forte di quel che pensassi. Improvvisamente sentii un braccio avvolgermi la vita e mi girai di scatto. Sorrisi. Il suo sguardo era a pochi centimetri dal mio. Intenso e forte come la bellezza di quel momento. Era senza ombrello. Eravamo entrambi sotto la pioggia. Bagnati. Felici. Mi sorrise. Io feci altrettanto. Non lo credevo possibile. Non lo credevo reale. Ci eravamo ritrovati. La pioggia ci scorreva addosso come la prima volta. Come nel nostro primo incontro a Venezia. In silenzio ci guardavamo negli occhi come la prima volta. In silenzio ci sorridevamo come se non ci fosse nulla da dire o altro da fare. Il suo sguardo era sereno, sorridente, profondamente ionale e tremendamente rassicurante. Mi sentii protetta. Sentii il mondo lontano. Non c’era altro che mi interessasse. Non c’era altro che mi incuriosisse. Né altro che mi attraesse. Solo lui. Era lì per me e io ero solo per lui. Mi teneva stretta con un braccio, mentre con una mano tenevo basso l’ombrello di cui avevo deciso di privarmi, per permettere alla pioggia di ripulire ogni centimetro del mio essere. La sua stretta era delicata. Gentile. Decisa. Ne sentivo tutto il potere e la voglia di tenerci a pochi centimetri di distanza. «Andiamo via di qua», mormorò con gentilezza e io annuii. Sciolse la stretta e mi prese per mano. Ci rifugiammo in uno chalet poco distante. Una specie di ritrovo per turisti. Ci accomodammo presso un tavolo in disparte e ordinammo qualcosa di caldo da bere. C’era un gruppetto di turisti, forse tedeschi, che brindavano con dei boccali di birra e scrivevano cartoline. Donne e uomini biondissimi in calzoni corti e calzini colorati su scarpe sportive, camicie a quadri e cappellini da boy-scout. Qualche zaino e le fotocamere a portata di mano. Sì, erano turisti rifugiatisi al riparo.

Lo guardai dritto negli occhi ancora una volta e mi sfuggì di dirgli con un orgoglio velato da una grande curiosità «Cosa ci fai qua?». Sorrise lievemente senza staccarmi gli occhi di dosso. Quando eravamo insieme, aveva sempre tenuto il suo sguardo fisso e attento su di me. Sembrava rapito come lo ero io. I suoi occhi non vagavano, non cercavano nessuno. Solo me e questo mi lusingava, mentre il cuore batteva ogni volta all’impazzata. «Lo sai», rispose in modo sintetico, mentre ci portarono un paio di tazzine di caffè bollenti. Non guardai il ragazzo che era venuto a servirci l’ordinazione. Non riuscivo a smettere di fissarne ogni muta espressione e mormorai con tono indeciso «Ti prego, dimmi tutto». Lui prese la tazzina e la sorseggiò senza staccare lo sguardo dal mio. Era attraente ogni suo atteggiamento, ogni suo sorriso, ogni suo silenzio. Le parole non erano importanti, non erano necessarie, non servivano a nulla. Ogni parola sarebbe stata inconsistente. Per la prima volta mi accorsi di quanto fosse inutile il tanto parlare. Di quanto potessero essere vuote le parole e quanto potessero condurre al nulla più completo. Il silenzio parlava per noi. Il silenzio aveva un potere maggiore. Il silenzio era padrone di noi e della nostra vita. Attraverso di esso ogni dettaglio diveniva superfluo e ogni cosa assumeva un significato più vero di ciò che si potesse credere. In quel suo silenzio c’era tutto. Di quel silenzio conoscevo ogni sfumatura. Quel silenzio mi diceva il suo nome, mi parlava della sua vita, mi descriveva il suo carattere. Quel silenzio mi raccontava tutto ciò che avevo bisogno di sapere. Quel silenzio era il vero interlocutore. Il vero padrone. Dominava le nostre esistenze e i nostri destini. Mi chiesi quanto fosse possibile parlare senza mutare il nostro fato. E quante bugie fosse possibile raccontarsi e raccontare senza cambiar nulla. Quante vuote e inutili parole possiamo dire senza arrivare a nulla? Quanto possiamo arrabbiarci, discutere, urlare, chiacchierare, conversare, sussurrare,

senza riuscire a dir mai nulla? Il nulla ama sopraggiungere quando meno ce lo aspettiamo per avvolgere le nostre vite. Il nulla ama impadronirsi delle persone attraverso le parole. Il nulla sa camuffare le proprie sembianze attraverso semplici sillabe. Sa divenire tutto e il suo contrario. Il nulla attraverso il tutto. Il cielo cominciava a rischiararsi. Le nuvole si squarciavano lentamente lasciando intravedere la luce. Il sole era sempre stato lì, dietro le nubi. Era pronto a uscire allo scoperto, a farsi vedere, a mostrarsi, a illuminare le nostre vite, ma non sempre gli era concesso. Finalmente tornò allo scoperto. Finalmente riusciva a raggiungere le strade deserte e invitava le persone rifugiatesi nelle case e nei negozi a uscire di nuovo in strada, a godere dei suoi raggi, a ritrovare la luminosità mancata, a ritrovare il giorno nell’azzurro di un manto che si era semplicemente rintanato in una coperta grigia, quella delle nubi, che portava la stagione più fresca per invitare quella fredda a unirsi a lei. Senza sapere come, mi ritrovai a condurlo sulla mia collina magica per fargli ammirare lo stesso panorama di cui avevo sempre goduto fin da bambina. Volevo che sapesse di me tanto quanto io non conoscevo nulla di lui. Volevo rivelargli ogni cosa, volevo che sapesse tutto, che intuisse, che capisse, che credesse, che trovasse la me più sconosciuta anche a sé stessa. Sapevo che in quel luogo avrei conosciuto anche lui. Sapevo che quel luogo mi avrebbe fatto scoprire chi fosse. Prima di prendere la stradina che conduceva alla collina, giungemmo al bivio che intersecava il boschetto misterioso, il luogo in cui si era sempre detto che, una volta entrati, sarebbe stato impossibile uscire. Se n’erano sempre raccontate di storie strane intorno a quel luogo e nessuna delle persone che conoscevo ci aveva mai voluto mettere piede. Quel posto era tanto misterioso quanto funesto. Era affascinante, ma crudelmente subdolo. Una specie di labirinto in cui non mi ero mai azzardata a mettere piede. Avevo sempre avuto paura. Non avrei mai voluto sfidare la sorte.

Sapevo che in ato erano scomparse troppe persone e non avevo mai pensato di scoprire il perché. Avevo sempre percorso la mia strada verso la collina e il resto era rimasto al di fuori. Abbracciati, ci fermammo innanzi a quel bivio. Eravamo usciti dallo chalet non appena aveva smesso di piovere. Inzuppati d’acqua, ci eravamo tenuti per mano lungo il tragitto, in un silenzio completo. Ci eravamo incamminati senza meta in un luogo che ci vedeva sconosciuti amanti di un sogno forse irreale. Eppure quel sogno stava prendendo forma. La forma delle nostre vite. In silenzio avevamo percorso alcune delle stradine meno frequentate e ci eravamo intrufolati in una serie di scorciatoie che dal centro ci avrebbero condotti poco distante dalle tenute nelle quali era compresa quella in cui vivevo. In un certo senso avevo voluto che lui conoscesse, anche se a distanza, i luoghi che mi erano familiari, che mi avevano vista crescere, che mi avevano vista vivere fino a quel momento un’esistenza discutibilmente avvinta, ma mai realmente rassegnata, anche se avrei potuto e voluto dire ancora tanto. «Alla nostra sinistra c’è una strada che porta al bosco», gli feci sapere. «È pericoloso». Feci una pausa. «Nessuno è mai riuscito a uscirne dopo essercisi avventurato. È un posto che fa paura», gli feci notare la stradina che costeggiava tra la sterpaglia quella che, invece, portava alla collina. «Se mi ci dovessi mai inoltrare, nessuno riuscirebbe a trovarmi. In paese si racconta che molte persone siano scomparse senza esser mai tornate indietro». Lui mi guardava tenendomi stretta a sé per un braccio, quasi intento a proteggermi da qualcosa, forse da quel luogo tanto misterioso o forse, dalle mie stesse parole. Poi sorrise e, con sicurezza, sussurrò «Io ti troverei», e fece una pausa con cui il suo sguardo mi raggiunse in fondo all’anima «Sono un militare». Il mio sguardo era dritto nel suo e sorrisi. I nostri occhi erano distanti pochi centimetri, così come i nostri volti e le nostre labbra. Potevo sentire il suo alito sfiorare la pelle del mio volto e tutta la sicurezza che riusciva a trasmettermi. Quella sicurezza di cui avevo sempre avuto bisogno e che nessuno mai era

riuscito a trasmettermi, anche solo illusoriamente. Un militare. Non riuscivo a crederci. Forse mi avrebbe trovata ovunque, anche in quel boschetto. Doveva essere di certo addestrato a tutto. A quel punto gli indicai la strada che avremmo potuto percorrere. Quella che conduceva alla collina e tornammo a incamminarci verso di essa. La salita era infangata, perché il terreno era ancora bagnato dalla pioggia, mentre l’umidità s’infiltrava nelle nostre ossa. In pochi minuti fummo in cima. La vista era spettacolare. L’aria fresca. La nostra gioia immensa. Sospirai. Lui inspirò profondamente l’aria ripulita dalla pioggia, il luogo era selvaggio e meraviglioso e, attraverso di esso, la natura sapeva mostrare il meglio di sé. L’orizzonte si era rischiarato e da lontano si poteva scorgere il Golfo di Napoli con le sue isole. Qualche nube sembrava voler indirizzare il proprio cammino verso il Vesuvio. Mentre nel resto dell’orizzonte pareva padroneggiare il sereno. Gli olivi ci circondavano e le reti a essi avvinghiate per raccoglierne i frutti coprivano le nostre teste stendendosi per chilometri lungo la campagna circostante. Il silenzio ci invadeva. Ci perquisiva. Ci studiava. Ci rivelava. Ci portava alla luce di un giorno che ritrovò i nostri volti più limpidi nel chiarore del sole. Le nubi erano andate ormai via da noi. Erano lontane. E, forse, non sarebbero tornate. Eravamo ancora zuppi d’acqua. I nostri vestiti erano bagnati. Lui cominciò a disfarsi della giacca che portava per poi togliersi la maglietta, rimase a torso nudo. Il mio sguardo cadde sul suo corpo. Aveva un torso scolpito. Rasentava la perfezione, se non fosse stato per una lunga cicatrice marcata che gli attraversava un fianco all’altezza del bacino. Non dissi nulla. Lo guardavo. Il suo fascino era raro. E io, cosa potevo togliermi? Sentii la necessità di tornare a casa a cambiarmi, non volevo restare zuppa fino all’osso. Dopotutto, vivevo a pochi minuti dalla

collina, ma non volevo che nessuno ci vedesse. Volevo che la sua presenza fosse tutta per me. Diedi uno sguardo all’orologio e notai che erano già le 12:15. E per le 13:00 sarei dovuta essere a casa. Non sapevo cosa fare. Gli chiesi di accompagnarmi. Non avevo scelta. Non volevo lasciarlo lì, non volevo lasciarlo. Cosa m’importava di dover per forza esser presente al pranzo organizzato da mia madre senza chiedermi nulla? Sapevo, però, di doverci essere e non trovai alcuna plausibile scusa per evitare l’appuntamento. Mi riaccompagnò lentamente al cancello della mia tenuta. Oltreammo il giardino posteriore. Io ero intenzionata a entrare dalla solita finestra della mia camera al piano terra e mi feci accompagnare. Decisi di salutarlo al momento di scavalcare il davanzale. Lo abbracciai. Lui rimase a guardarmi quasi divertito dal mio modo di “accedere” alla casa. Gli feci presente che non era normale entrare dalla finestra, ma che io potevo permettermelo, perché la mia camera era al pian terreno. Sorrise ancora. «Devo essere in casa per il pranzo», gli feci sapere. «Ma nel pomeriggio sarò libera». Mi salutò con un bacio sulle labbra, senza proferire parola. Prese il mio viso tra le mani. A dividerci era solo il davanzale: io ero dentro e lui fuori, in giardino. «Torno in hotel», mi disse. «Ho bisogno di cambiarmi», sorrise, abbassando il volto e indicando con lo sguardo il suo jeans completamente bagnato. Sorrisi. Accarezzai il suo volto. Il suo volto dai lineamenti perfetti. Per accompagnarmi a casa, si era dovuto rimettere la maglietta e portava a braccio la giacca. Non erano certo le condizioni ideali per are del tempo insieme, almeno non con gli indumenti inzuppati e le scarpe ricoperte di fango. «Va bene», dissi nel salutarlo e me ne distaccai lentamente, allontanandomi. Feci qualche o all’indietro per entrare in camera e salutarlo con la mano quando, nel volgere di un secondo, lo vidi scavalcare il davanzale e investire di baci le mie labbra socchiuse.

Tenne in un istante il mio viso teneramente tra le mani. Lo abbracciai. Quel suo impulso mi tolse il fiato. Non me lo aspettavo. L’agilità con cui aveva scavalcato per raggiungere le mie labbra, aveva rivelato in lui prontezza di riflessi, forza, destrezza e ione. Quella ione mi stava riportando alla vita. Ero stata un cadavere fino a quel giorno. Ero morta e non me n’ero accorta fino a quel momento. Lui mi stava strappando con tutte le sue forze e la sua energia alla fossa che mi ero scavata da sola e nella quale ero stata da tempo seppellita. Mi era venuto in soccorso e mi stava tirando fuori. Non immaginava che le mie mani fossero come uscite dalla terra. Che il mio corpo e la mia esistenza avessero ritrovato la luce nel cuore della notte, in pieno buio, quando pensavo che non fosse più possibile. La vita continuava. La vita esisteva. La vita di cui ero ancora padrona. La vita che avevo ricevuto in dono. La vita appieno. La vita vissuta da viva. «Torno», mi sussurrò, mentre le nostre labbra si confondevano tra i baci. Voleva mordere in un momento la nostra ione e far proprio un desiderio più forte della nostra stessa volontà e capacità di resistere. Ma poi, resistere a cosa? Mi baciò ancora e ancora e ancora, senza fermarsi in un impulso continuo di vogliosa ione. Le labbra, le guance, gli occhi. Ormai tutto il mio volto aveva conosciuto le sue labbra. E la voglia di scoprire ogni centimetro di pelle ancor ricoperta dall’acqua sui nostri indumenti bagnati si faceva più insistente. «Torno», ripeté in un sussurro e nella delicata armonia con cui le sue mani mi accarezzavano i capelli e mi stringevano con trasporto al suo corpo. Infine, andò via senza aggiungere altro. Rimasi a osservarlo allontanarsi. Ero estasiata. Vivevo su una nuvola e ci stavo a meraviglia. Pensai che nessuno avrebbe potuto di nuovo tirarmi giù per farmi sprofondare nell’abisso di un ato senza fondo.

Capitolo VI

A tavola mia madre, Don Carmine e Felicia erano silenziosi. Regnava una strana atmosfera. Sentivo che c’era qualcosa che non andava. Felicia poi, che era stata persino una cara amica, non alzava lo sguardo dal piatto, mentre notavo mia madre lanciare fugaci occhiatine a Don Carmine. Sì, sapevo che stava succedendo qualcosa, ma non avrei mai potuto immaginare cosa, se mia madre non avesse deciso d’intavolare il discorso. «È da molto che Don Carmine e Felicia non vengono a trovarci, non trovi?», mi fece notare sorseggiando un po’ di vino bianco, mentre gli orecchini dondolavano a ogni suo movimento. Annuii, ma non capii un bel niente. Don Carmine, che era seduto a capo tavola, allungò una mano per toccare il braccio di mia madre. Bella e arrogante. Mia madre aveva vissuto sempre come aveva voluto, senza guardare in faccia nessuno. E, in seguito alla morte di mio padre, il suo carattere si era notevolmente indurito. «Deana», sentii pronunciare il mio nome a chiare lettere. «Tua madre e io abbiamo deciso di sposarci», annunciò Don Carmine, scandendo bene ogni sillaba. In un primo momento pensai di non aver compreso bene, poi impallidii. Lasciai cadere la posata nel piatto che conteneva un’insalata di calamari in salsa rosa. Guardai mia madre che taceva e Felicia che non emetteva un suono. Sapeva tutto? Sì, forse sì. Ma allora? L’unica a non esserne a conoscenza ero io? Ma come era possibile? Perché mi era stata tenuta nascosta la loro relazione? Perché? Non sapevo cosa dire o, meglio, non avevo nulla da dire. Avevo gli occhi lucidi, mi sembrò di tradire la memoria di mio padre e mi sembrò che la prima a tradirla fosse mia madre. Già, lei. Lei che aveva sempre tenuto alla decenza

impartendomi lezioni di morale. A me? E ora? Qual era la sua lezione? E perché non me ne aveva mai fatto parola? «E tu non dici niente?», chiesi a Felicia che sembrava non avesse il coraggio di guardarmi negli occhi. «Lo sapevi già, non è vero?», nel tono della mia voce si percepiva un tremolio convulso misto a stupore. «Credo che tu abbia ben altro da sapere», sentenziò come se improvvisamente io fossi divenuta un’estranea all’oscuro di qualunque cosa riguardante la famiglia. «Dea, tuo padre lo ha sempre saputo, ma ha sempre finto», disse mia madre con una risata isterica che rasentava il ridicolo. Sì, si stava ridicolizzando e non se ne rendeva conto. «Saputo, cosa?», chiesi, non capendo a cosa si riferisse. «Felicia è tua sorella», sopraggiunse come un fulmine a ciel sereno la voce di Don Carmine che cominciò a mettere in chiaro le cose. Rimasi esterrefatta. Non avevo parole. Non avevo fiato. Sì, mi mancava il fiato. Non potevo credere a ciò che mi veniva detto. Come faceva a essere mia sorella? Eravamo cresciute insieme, ma in che modo eravamo legate? «Sei mia figlia, Deana», rispose Don Carmine, quasi leggendo i miei pensieri e rivelando ciò che mi stavo chiedendo in quel preciso istante. «Cosa?», domandai esterrefatta con un filo di voce, pensando di aver capito male «Tu e … ». Mia madre era l’amante di Don Carmine? E mio padre? Cosa era davvero accaduto? Perché avevano deciso solo in quel momento di parlare? Perché non mi era stato detto tempo addietro? Perché quelle rivelazioni alla luce del sole, quando meno me le aspettavo e meno le avrei potute immaginare? Che cosa stava succedendo? Possibile che avessero atteso tanto prima di parlarne? Possibile che stessero aspettando di sposarsi per confessare le loro bieche verità? Non potevo credere a una sola parola. Mi alzai. Non avevo più fame. Non volevo saperne più. Non avevo voglia di guardarli ancora in faccia. Erano ridicoli. Nessuno mosse un dito per il mio allontanamento da tavola. Nessuno emise un suono o disse una parola, nessuno dei tre. Perché mi stava accadendo tutto ciò?

Perché? Raggiunsi la mia stanza come sotto ipnosi, quasi meccanicamente, senza rendermene conto. Mi accorsi di esservi arrivata, una volta che mi richiusi la porta alle spalle. Chiusi a chiave. Non volevo che nessuno entrasse o mi disturbasse. Volevo lasciarli fuori. Anche dalla mia vita. Li volevo fuori per sempre. Il mio mondo era un altro. Io non ero più in grado di sopportare altre dolorose rivelazioni. Mi buttai sul letto come un sacco di patate. Distesa, guardavo immobile il soffitto che girava. Ero stanca. Avevo bisogno di dormire. Solo in quel momento capii il motivo per cui Don Carmine non mi aveva mai sgridata, che andassi al lavoro nella sua bottega o meno. Non mi aveva mai fatto pesare nulla, smuovendo l’invidia di una Loretta che non si spiegava il motivo per cui dovesse essere l’unica a non potersi prendere una mattinata libera senza alcun divieto. Chissà da quanto tempo andava avanti quella storia! Dunque, mia madre aveva tradito mio padre! Dunque, era stata l’amante di Don Carmine! Ma, dopo esser rimasti entrambi vedovi, avevano finalmente deciso, seppur dopo tanti anni, di sposarsi e di portare alla luce la loro relazione. Già, perché avevano deciso di sposarsi dopo tutti quegli anni? Perché dopo venti anni? Perché? Doveva sicuramente esserci qualcos’altro in ballo. Una spiegazione che non mi era stata riferita. Io ero sua figlia. Don Carmine era mio padre? Non potevo crederci. Non volevo crederci. Mio padre era sempre stato solo Gentile Monti e soltanto lui lo sarebbe rimasto per il resto della mia esistenza. Ancora non comprendevo tante cose, troppe e non riuscivo a realizzare cosa fosse mai potuto accadere all’interno di quella che avevo sempre reputato la mia famiglia, ma che in realtà lo era solo in parte. C’era qualcosa che non quadrava. Non mi avevano raccontato tutto. Mancavano dei tasselli. Cosa era davvero accaduto tra le nostre famiglie? Cosa? Dovevo scoprirlo, dovevo indagare. Dovevo sapere, capire. Mi addormentai tra le domande e i dubbi. Il tramonto tinse la mia stanza di un rosa come una lampadina quando sopraggiunge la sera. La sua luce raggiunse il mio viso. Sentii un brivido. Mi accorsi di essermi addormentata scoperta e, anche se ero vestita, avevo freddo.

Mi alzai. Il silenzio attorno mi proiettò in una dimensione quasi irreale. Ricordai improvvisamente di avere un appuntamento. Lui mi avrebbe raggiunta a casa. Mi affacciai alla finestra semiaperta e non vidi altro che desolazione. Una campagna che viveva nel proprio inquietante silenzio e la bellezza del tramonto che la illuminava con la sua naturale e meravigliosa ione. Chissà se sarebbe venuto. Forse c’era già e io non riuscivo a vederlo da nessuna parte. Mi recai in bagno a sciacquarmi la faccia. Avevo bisogno di acqua. Sulla pelle e nel corpo. Scesi in cucina per bere, ma udii delle voci che mormoravano e mi diressi nella stessa direzione. Riconobbi le voci: erano di mia madre e di Don Carmine che nello studio conversavano amabilmente tra il bicchierino di cognac di lei e il sigaro tenuto in bocca da lui. Mi fermai a origliare dietro la porta socchiusa. A braccia conserte scoprii qualcosa d’inquietante che non avrei mai pensato o immaginato di scoprire. «Scopriranno la verità quando meno lo immagineremo», sentenziò Don Carmine seduto dietro la scrivania che era stata di mio padre nel rivolgersi a mia madre che, invece, nell’angolo bar si versava altro cognac. «Non sarò certo io a parlarne», rispose mia madre che continuava a sorseggiare il suo bicchierino quotidiano. «Lo so bene, ma quello che è successo non potrà esser nascosto a lungo, Mimosa, lo sai», Don Carmine fece una pausa e cambiò tono «La nostra esistenza è radicalmente cambiata e niente sarà più come prima», sospirò, guardando delle carte appoggiate sulla scrivania innanzi a lui. «Nessuno può tornare indietro, Carmine», gli ricordò mia madre, di cui a stento riconoscevo la voce. Sembravano le parole di una persona che non conoscevo affatto. «Le nostre figlie stanno pagando un prezzo troppo alto», Don Carmine aveva una voce leggera, ma apparentemente rassegnata.

«Nessuno avrebbe mai potuto prevedere quello che è accaduto. Nessuno lo ha voluto, nessuno lo ha cercato. È successo e basta!», mia madre fingeva malinconia mista a irritazione. Ma di cosa stavano parlando? Cosa era accaduto? Cosa dovevamo scoprire? Perché stavamo pagando un prezzo tanto alto? A cosa si riferivano? Non lo avrei mai scoperto se non avessi deciso d’iniziare a indagare per conto mio. Prima di tutto avrei chiesto a Felicia e, in seguito, avrei deciso cosa fare e come muovermi. Quanto prima sarei dovuta entrare nello studio per sbirciare tra i documenti custoditi sotto chiave da mia madre. Avrei potuto facilmente scoprire dove teneva le chiavi dei cassetti dei documenti importanti. Intanto, mi diressi verso la cucina. Dovevo bere. Dovevo mandar giù acqua, ma non solo. In cucina incontrai lo sguardo indagatore di Betta che preparava un the. Non parlava, ma fui io a rivolgerle per prima la parola. «Dov’è Felicia?», le chiesi con falso disinteresse, prendendo una bottiglia di acqua naturale dal frigo. «Penso sia uscita. Prima l’ho sentita dire che sarebbe andata a prendere le sue cose per trasferirsi quanto prima qua». «Davvero?», le chiesi con stupore. Non potevo crederci! I nostri genitori ci avevano appena annunciato le nozze e già si prodigava a fare i bagagli per trasferirsi in casa. Non mi piaceva. Ero sorpresa e non certo contenta. C’era qualcosa che non andava. Qualcosa che non mi spiegavo. Forse Felicia sapeva quel qualcosa in più che io non sapevo. E, a parte le nozze, probabilmente lei era molto più informata di me anche intorno a ciò che avevo involontariamente udito. Dovevo scoprire cosa stesse accadendo. Volevo aggiunger altro, ma quando udii avvicinarsi le voci di mia madre e Don Carmine, presi l’intera bottiglia di acqua e corsi a rifugiarmi in camera. Non avevo voglia di fermarmi a parlare con loro dei progetti che pensavano di realizzare.

Avrei atteso il mio incontro dalla finestra della mia camera. E se avessi voluto uscire, l’avrei utilizzata come sempre avevo fatto quando volevo allontanarmi senza incontrare nessuno e senza che nessuno potesse saperlo o evitarlo. L’imbrunire sopraggiunse prima di quanto pensassi, ma lui non venne. Eppure mi aveva detto che sarebbe tornato. Avevo bisogno di uscire. Non stavo bene. Non avevo voglia di restare chiusa in camera. Dovevo prendere un po’ di aria. Scavalcai il davanzale della finestra e mi diressi verso la collina. Avevo dimenticato di prendere la giacca. Faceva fresco. L’aria della sera preannunciava un clima rigido e mi strinsi nelle spalle. Il vento cominciava ad alzare il proprio alito e scompigliava i capelli. Gli olivi dialogavano tra loro. Li sentivo conversare. I rami ingioiellati di olive erano leggiadramente mossi dal vento. Li scorgevo muovere le loro mani e le loro braccia. Erano armoniose danze di una natura che voleva viverne l’essenza. C’era un odore di ginestra nell’aria. C’era un sapore salmastro di vita che ondeggiava nel tempo di un giorno imbrunito in mezzo alla campagna. La stessa che mi aveva vista crescere apprezzandone ogni sinergia e assaporandone ogni frutto. La sera avanzava. Il cielo era ormai scuro. Lo guardavo con meraviglia. Volevo scorgere la bellezza delle stelle, ma era ancora presto. Avrei dovuto aspettare. Raccolsi i miei lunghi capelli attorno alla nuca per appoggiarmi al grande olivo che sovrastava la collina. Sotto di esso mi rifugiavo per sentirmi in pace col mondo. Avevo bisogno di sentirmi protetta. Avevo bisogno di sentire amore. Seduta a terra mi misi a contemplare il paesaggio ormai scuro che andava illuminandosi lentamente di luci artificiali; quelle delle case, delle stradine, delle piazzette di paese, quelle del porto, delle navi, delle barche dei pescatori che all’orizzonte mostravano la loro presenza attraverso la fatica di un lavoro tramandato in famiglia come un tesoro da custodire nel tempo per generazioni. Famiglia. Tesoro. Generazioni. Argomenti che mi bruciavano da dentro. Che mi rodevano le viscere come un’irritazione innaturale. Avevo vuoti infiniti di giorni perduti che sapevo nessuno mi avrebbe mai potuto restituire.

Nessun guaritore e nessun medico avrebbero potuto curare quelle ferite. L’invisibile manto che le proteggeva era tanto resistente quanto invadente. Mi debilitavano. Mi dolevano. Mi distruggevano poco alla volta. Non riuscivo a farne parola con nessuno. Sapevo che nessuno avrebbe mai potuto comprendere il mio disagio, né la sua origine, per scoprirne le cause e curarne la sofferenza. Mi abbattevo nel dolore di una sensazione senza riconoscerne le sinergie. Avevo timore d’incontrarne una nuova delirante sofferenza. Era ormai buio. Non avevo portato con me l’orologio. Non sapevo che ora fosse, ma non mi andava di tornare indietro. Non mi andava di tornare a casa. Non ora. Non più. E se Felicia fosse già tornata con le sue cose? E se anche Don Carmine vi si fosse già stabilito? Non riuscivo ad accettarlo. Avevano fatto tutto di corsa. Non ci avevano voluto dire niente, ci avevano poste innanzi al fatto compiuto, alle decisioni prese, alle sentenze emesse e senza alcuna domanda avevano imposto il loro volere. Non ero pronta. Non ero stata preparata. Non ne sapevo nulla. E non mi piaceva esser presa in contropiede. Avrebbero potuto informarmi. Avrebbero potuto prepararmi. E, invece, non ero stata presa neanche in considerazione. Mi feriva il comportamento che mi avevano riservato. Volevo starmene per conto mio. Lasciare che vivessero le loro vite nello stesso modo in cui le avevano vissute prima di quel momento: senza la mia presenza, senza rendermi partecipe delle loro decisioni, senza alcuna voglia di farmi sentire parte integrante di un nucleo quasi familiare. Già, una famiglia. Ma quale? Quella non era mai stata una famiglia e non lo sarebbe mai diventata. Non mi trasmetteva amore né gioia. Restavo indifferente alle decisioni di mia madre ormai da anni. E lei ne era consapevole, per cui viveva la sua vita. E io, come potevo, vivevo la mia.

Ma le nostre erano due solitudini affrante. Due vite parallele che non amavano intersecarsi, due strade che non si incrociavano, due alberi spossati. Eravamo vicine, ma distanti anni luce e nessuno avrebbe mai potuto avvicinarci se non fossimo riuscite noi stesse a farlo per prime. Il vento cominciava a ululare. Ero troppo infreddolita. Decisi di tornare a casa. Era buio pesto e non avrei potuto continuare a starmene per terra a gelare. Avevo bisogno del mio letto. Avevo bisogno della mia camera. Sarei rincasata di nuovo dalla finestra. Avevo lasciato la camera chiusa a chiave. Non volevo che nessuno entrasse in mia assenza. Ripresi la stradina che portava a casa. Il buio impregnava l’aria di inquietudine e malinconia. C’era appena qualche lampione lungo il tragitto e, anche se conoscevo alla perfezione la via che mi avrebbe fatta rincasare, percepivo una strana sensazione tutt’intorno. Cominciai ad affrettare il o. Non mi sentivo sicura. Volevo essere a casa il prima possibile. Avevo fame e mi resi conto a stento di quanto assurda fosse stata la mia uscita. La casa era avvolta nel buio del giardino. Nessuno aveva i pochi lampioni presenti. Finalmente raggiunsi la finestra della mia camera e oltreai il davanzale. L’avevo lasciata aperta apposta. Ero stanca. Sentivo di aver percorso molta più strada di quel che pensassi. Avevo fame, ma prima decisi di recarmi in bagno a fare una doccia. Cominciai a far scorrere l’acqua all’interno della cabina e iniziai a svestirmi. Volevo liberarmi di tutto ciò che avevo addosso come un gesto di stizza oppure una semplice voglia di cambiare indumenti che non sentivo più puliti. Non ci misi molto a rilassarmi, cercando di non pensare ad altro che alla voglia di riprendermi dalla giornata pesante che avevo avuto. In seguito, sarei andata in cucina, mi sarei preparata un tramezzino e mi sarei nuovamente ritirata nella mia stanza.

La cucina era deserta. Non ci misi molto a prepararmi il panino. Presi dal frigo la lattina della prima bibita che mi capitò sotto mano e tornai in camera. Accesi il televisore come un gesto che si fa automaticamente quando non si sa cosa altro fare. Avrei voluto compagnia. Fare quattro chiacchiere con qualcuno, ma non con chi era in casa in quel momento. Decisi di scegliere un talk show che avrebbe potuto tenermi compagnia. Si parlava di genitori e figli. Tanto per cambiare. Spensi. Non avevo voglia di cercarmi un altro programma facendo zapping, volevo solo rilassarmi, non stressarmi nell’ascoltare conversazioni impegnative. Decisi di prendere un libro. Sullo scaffale avevo conservato l’opera di un giovane autore e non avevo avuto ancora il tempo di iniziarla. Così, tramezzino alla mano, mi misi a leggere nella quiete della stanza. Eppure non riuscivo a concentrarmi. Non riuscivo a seguire il senso e il filo del racconto. Pensavo a lui. Il mio lui. Colui che aspettavo, cercavo, sognavo, desideravo, forse anche amavo e non me ne rendevo conto. Non era venuto. Non si era presentato. Perché? Lo avrei aspettato, ma non mi sentivo di stare tra quattro mura. Volevo l’aria, la libertà, l’evasione. E l’attesa era insostenibile. Cosa aspettavo? In cosa credevo in quel momento? Non lo sapevo e non volevo neanche saperlo. Mi raggomitolai nel letto col mio libro fresco di lettura e decisi di rilassarmi, di non pensare ad altro. Volevo semplicemente lasciarmi andare al quieto trascorrere di una sera che si concedeva alla notte. Spensi la luce e accesi il lume sul comodino. Avevo voglia di pace. La lettura avanzava e la pace scorreva. Il silenzio ne era complice e la voglia di ricominciare a dialogare con me avanzava. Ben presto cominciai a sbadigliare e decisi di cambiarmi. Mi misi in camicia da notte e lasciai riposare il libro sul letto. Avevo voglia di abbandonarmi a un sonno ristoratore. Avevo voglia d’irrealtà. Avevo desiderio di distaccarmi da una realtà nella quale non mi riconoscevo.

Mi coricai pensando che, forse, il giorno seguente lo avrei rivisto. Pensai persino di chiamarlo, ma di nuovo non ne ebbi la forza, né il coraggio. Diedi un’occhiata al suo numero memorizzato nel telefonino. Volevo inviargli un messaggio. Ma non ci riuscii. Poi improvvisamente mi raggiunse un trillo. Arrivò un suo messaggio: “Aspettami nella notte”. Sorrisi. Sarebbe venuto da me. Quella notte lo avrei rivisto. Era troppo bello per essere vero. Non potevo immaginare la sua presenza in casa. Non potevo immaginarmelo al mio fianco eppure sarebbe venuto. Ci credevo. Avevo bisogno di crederci, volevo crederci. Sognante spensi la luce. Non era tardissimo. Appena le 22:00, ma avevo sonno. Avevo spesso sonno. Sapevo che dormire mi avrebbe permesso di allontanare una realtà poco piacevole. Sapevo che, grazie al sonno, avrei potuto vivere ciò che più desideravo. Il sonno era il mio custode, il mio rifugio, la mia compagnia, la mia voglia di isolamento. E isolarmi da una realtà che non avevo mai amato era il mio unico modo di salvare ciò che restava della mia esistenza. Cosa restava di essa? Cosa? Cosa me ne facevo di ciò che mi portava a viverne i giorni? Cosa? Chiusi gli occhi e mi lasciai andare. Il buio mi accompagnò al riposo assoluto e il silenzio mi portò a una quiete irreale. Avrei dovuto aspettarlo. Lo sapevo. Ma non ci riuscii. Avevo bisogno di riposo. Avevo bisogno di assenza. La mia e del mondo. Lontani a dimenticarci e a non illuderci. Lontani a non trovarci nella frenesia di un tempo a noi estraneo. In casa la monotonia mordeva i giorni che ci accompagnavano. Nessuno esisteva per l’altro. Ciascuno era solo il punto di riferimento di se stesso. E la realtà sapeva avvelenarci poco alla volta. Perché mi avevano nascosto la verità? Perché ero figlia di un uomo che avevo da sempre considerato solo un amico di famiglia? Perché? E Felicia? Cosa c’entrava in tutto quel che stava accadendo? Perché non mi aveva detto nulla? Sapeva, ma taceva. Perché? Le era stato imposto? Era stata obbligata o semplicemente aveva deciso che mi fosse fatta una sorpresa poco piacevole nel

momento in cui non l’attendevo? Perché nessuno aveva detto la verità? Perché nessuno era stato sincero? Perché? Mi addormentai tra le domande e i punti interrogativi. Tra le risposte inesistenti e il dubbio che non mi fossero mai state poste. Cosa era realmente accaduto? Cosa sapeva che io non conoscevo? E perché con lei era stato condiviso tutto e a lei era stato confidato quel che non era stato detto a me? Perché? Che la preferissero? Perché? Don Carmine era mio padre, ma per me era come se non lo fosse. Da sempre mio padre era stato Gentile Monti e lo sarebbe stato fino alla morte. Il mio nome era Deana Monti e lo sarei rimasta per tutta la vita. Non avrei mai accettato alcuna imposizione, perché sarei restata ciò che avrei voluto, non certo ciò che mi sarebbe stato imposto. Cosa era accaduto realmente a mio padre? Perché e come era scomparso? Cominciai ad avere dei dubbi sulla veridicità della sua scomparsa. Cominciai a sospettare che qualcosa di grave fosse accaduto a mia insaputa. Mio padre non poteva essersi avventurato sugli scogli da solo. Non amava avventurarsi da solo in luoghi che conosceva poco. Non amava isolarsi. Non potevo credere che si fosse suicidato. Non lo avevo mai accettato, benché quella fu l’ipotesi di chi lo aveva scorto in fondo a un dirupo. Perché mia madre mi aveva nascosto la sua relazione con Don Carmine? E perché Felicia non era venuta a parlarmene direttamente? Perché non aveva deciso e scelto di confidarsi? Perché aveva voluto covare, nascondere, riservare tutto al più fatuo dei nostri giorni? Eravamo state molto amiche. Avevamo condiviso tante cose in ato. Tutto ciò che mi era mancato in assenza di una sorella, lo avevo condiviso con Felicia e ciò che lei non era riuscita a condividere con me, lo avevo trovato in Loretta. La nostra sarebbe dovuta essere un’amicizia veritiera. Non lo era. Non lo era mai stata. Perché? Eravamo entrambe figlie di Don Carmine e, anche se avevamo madri diverse, avremmo dovuto sentirci più affini e vicine di quel che fossimo state fino a quel momento. Invece, in seguito, scoprii che non era ciò che pensavo e, in parte, avrei sperato.

In effetti avrei sempre voluto avere una sorella, avrei sempre voluto condividere con lei la vita di chi vuol costruire qualcosa di migliore. Ma non avevo mai trovato quel che cercavo. Lei non era stata e non era ciò che pensavo. Lei era diversa e me ne ero resa conto da tempo, anche se non avrei mai immaginato fosse in grado di nascondermi verità tanto importanti e tanto sconvolgenti per le nostre ancor giovani vite. Mi aveva deluso il suo comportamento e mi ero dovuta ricredere. Ero tornata sui miei i. Ero divenuta l’estranea di me stessa e non sarei certo potuta divenire familiare per lei o per chiunque altro. Non avevo mai avuto una vera famiglia e quelle ultime rivelazioni non me l’avrebbero di certo data. Ero cresciuta nell’inganno e questo era un dato di fatto. Ero stata forse anche manipolata. Ero stata ingannata, illusa, studiata, forse ridicolizzata e non riuscivo ad accettarlo. Non riuscivo ad accettarlo, né tanto meno a perdonarlo. Era stata tutta una farsa la mia vita e continuava a esserlo. Se non mi fossi ribellata, avrei fatto il gioco di chi aveva deciso di prendermi in giro e di fare della mia vita ciò che voleva. Il sonno mi pervase. Mi agguantò. Mi rapì. Mi portò più lontano ancora e la mia febbrile voglia d’evasione cominciò a pervadere ogni secondo di quella notte. Era solo l’inizio di un lungo riposo e volevo godermelo appieno. Me lo volevo tenere stretto, avvinghiarmici, non lasciarlo andare per nulla al mondo, perché l’arrivo del giorno mi avrebbe portato altro dolore e non volevo patirne neanche la sensazione. Mi sarei tenuta stretta quella notte per tutta la vita, prima ancora di sapere come sarebbe stata e come l’avrei vissuta. Ricordai i suoi occhi, lo sguardo divorarmi e la voglia di baciarlo. Sentii pervadere ogni angolo del mio essere di desideri sconosciuti, di sogni ammantati. Ero rinata e non mi riconoscevo. Mi rivivevo, ma non ero la me che ero sempre stata. Ero un’altra e lo sapevo. Mi piacevo, mi riscoprivo, mi sorridevo in un sogno che estasiava i miei sensi. Mi girai sul lato destro. Avevo bisogno di cambiare posizione. Avevo bisogno di star comoda e di provare a immergere ogni istante nella voglia di solitaria armonia che pervadeva la mia esistenza notturna.

Non mi accorsi di aver lasciato la finestra aperta e dimenticai il suo messaggio: “Aspettami nella notte”. Sarebbe venuto? Non ne ero più certa, sebbene lo sperassi. Poi udii dei rumori. Una brezza che spostava le imposte. Il soffio del vento. I grilli che cantavano. La quiete della notte. L’ombra di un sogno che avanzava silenziosamente. Percepii un ondeggiamento delle lenzuola tra le gambe, il leggero alito di una presenza che si portava alle mie spalle, in un letto ancor freddo d’Autunno quando le foglie cominciano a cadere e il clima porta a scoprire velate essenze di castagne che profumano nell’aria rotolando dalla griglia. Voci di bambini che corrono a coprirsi, mamme che li invitano a raggiungerle. Le prime sciarpe avvolgersi e il calore sul collo, tra i capelli che rilassano il loro ondeggiare in un’aria infreddolita. Raggiunse il letto e si distese al mio fianco. Mi abbracciò al di sopra delle lenzuola e mi sussurrò all’orecchio «Sono qui». Mi voltai di soprassalto, dopo essermi ripresa dal leggero torpore di una stanchezza che aveva cominciato a lasciar spazio al sonno. E me lo ritrovai disteso ad accarezzare teneramente il mio viso. Era lì, sul mio letto con me, e ne ero spudoratamente felice. Lo abbracciai in un impeto di pura gioia. Lui mi strinse, poi si divincolò solo per liberarsi degli stivali che indossava. Dei jeans, della maglietta. Di tutto ciò che lo ricopriva. E s’infilò sotto le lenzuola. Ero in camicia da notte, ma sentivo la sua nudità. Cercava la mia e, con delicata fermezza, mi liberò lentamente di ogni indumento. Lasciammo cadere oltre il letto, in quel mondo circostante che quasi non ci apparteneva, tutto ciò che mi rivestiva per restare nudi sotto le lenzuola riscaldate dal mio corpo prima del suo arrivo. Sapevo che il silenzio avrebbe accompagnato quella nostra prima notte insieme fino al sopraggiungere dell’alba. Ritrovai le sue labbra tra le mie, il calore del suo corpo a contatto col mio e la voglia di stringermi a esso. Mi era mancata la sua presenza, il suo respiro, il suo silenzio. Mi teneva stretta a sé con la determinazione di chi sa bene cosa vuole. Sentivo inutile ogni parola, ogni domanda, ogni risposta, ogni richiesta. Ci desideravamo più di ogni cosa e più di ogni cosa volevamo tenerci stretta quella notte.

Le sue mani, forti e ferme, accarezzavano la mia pelle, fremevano dal desiderio di percorrere il mio corpo e d’insinuarsi negli angoli più intimi del mio essere. Sentivo il suo respiro già affannato e labbra divorarmi in un turbinio di baci ansiosi per qualcosa che ne avrebbe reso più significativo il senso. Avvolsi le mie braccia attorno al suo collo e ci rotolammo nelle lenzuola. Mi strinsi alla sua voglia di esplorare ogni mia nudità. Poi restai immobile sotto la sua determinata fermezza di voglie rincorse da desideri sopiti. Non sapevo nulla di lui. Neanche il suo nome. Eppure, il fatto che fosse un militare mi spiegava il suo modo di essere: la forza, la fermezza, la destrezza, il dominio col quale pervadeva ogni angolo del mio essere. Ne dominava con ione le oscurità e lasciai che ne scoprisse ogni taciuta verità. Aveva cicatrici che parlavano per lui e silenzi che ne contemplavano la storia. Eravamo sconosciuti alle nostre cicatrici e ai dolori che ne erano seguiti, ma nulla importava davvero quella notte. Nulla esisteva oltre quel letto. Ci stringevamo al febbrile desiderio d’una ione che eccitava le nostre anime attraverso la scintilla prodotta da un calore bruciante, avvolgente, esaltante, ammantati tra sentieri di corpi che si univano nella gioia di un sogno vivente.

Capitolo VII

Il sole illuminava ogni angolo della stanza, ma qualcosa non quadrava: era tutto sottosopra. Mi guardai intorno come se non ricordassi cosa avessi fatto il giorno precedente e soprattutto come avessi trascorso la notte. Ero sola. Lui non era più al mio fianco. Chissà quando era andato via e chissà perché se ne era andato. Mi misi seduta in mezzo al lettone e, guardandomi attorno, mi resi conto che la camera era in disordine: i peluche e un mucchio di scartoffie che occupavano la scrivania erano gettati sul pavimento, la sedia era capovolta a terra e il mio armadio aveva le ante spalancate come se fosse entrato un soffio di vento. Non riuscii a credere che quella stanza fosse la mia. Ma cosa era accaduto? Non lo ricordavo. O, meglio, ricordavo la notte trascorsa con lui, ma non ricordavo di aver partecipato a quello sconquasso. Non riuscivo a capire chi avesse mai potuto fare una cosa del genere e per quale ragione. Inoltre in mia presenza. Mi alzai. Ero nuda. Non sapevo che ora fosse. Cercai sul comodino l’orologio da polso che solitamente lasciavo a portata di mano per poterlo consultare in qualunque momento, ma non lo trovai. Che fosse stato rubato? Ma da chi? E perché? Che fosse stato lui? No. Non volevo e non potevo crederci. Dovevo trovare l’orologio, uscire dalla stanza e accertarmi che nulla in casa fosse stato sottratto. Trovai sul pavimento la vestaglia che avevo l’abitudine di appoggiare ai piedi del letto, la indossai e mi precipitai alla porta per dare un’occhiata in giro. Se avessi incrociato qualcuno, avrei finto di usare il bagno principale tra il salone e il corridoio che nell’ala destra della villa dava sulla camera di mia madre e su quelle degli ospiti, una delle quali doveva esser stata destinata a Felicia.

Raggiunsi la cucina in punta di piedi, ma non trovai Betta, così mi incuriosii e corsi nel salone di fronte, dopo aver oltreato un breve tratto di corridoio. Udii in lontananza la voce irritata di mia madre, ma non riuscii a capire cosa dicesse. Sembrava diretta alla povera Betta. Erano nello studio con la porta socchiusa. Mi affacciai e notai Don Carmine seduto alla scrivania che da sempre era stata di mio padre. Entrai e cercai di capire cosa stesse accadendo. «Allora, vuoi dirci dove sono finite?», domandò mia madre in piedi immobile di fianco alla finestra che dava sul giardino d’ingresso a Betta che era di fronte a lei, rinchiusa in un mutismo che faceva un’immensa tristezza. «Che succede?», chiesi a quel punto, sperando che qualcuno mi potesse spiegare l’accaduto. «È il caso che ne resti fuori, Dea!», intervenne Don Carmine col suo solito sigaro consumato in bocca. Non mi piacque il suo modo di rivolgersi a me. Non era mio padre e non si era mai permesso di parlarmi in quel modo. Aveva forse iniziato sapendo che avrebbe sposato mia madre? Non lo sopportavo. Non lo condividevo e ancora non ci ero abituata. «Abito anche io in questa casa e credo sia giusto che sappia cosa è successo!», esclamai con la voglia di capire perché accusassero Betta e cosa fosse sparito in casa. «Niente di importante», sorrise con stizza mia madre, abbassando lo sguardo e incrociando le braccia. «Se non è niente di importante, perché state facendo il terzo grado a Betta?», chiesi. «Andiamo, Dea. Sai bene come vanno queste cose!», sorrise Don Carmine con un tono che sottolineava il fastidio per la mia intromissione. «No, non lo so. Come vanno queste cose?», risposi con ironia indispettita dal suo atteggiamento e dalla sua interruzione.

«Sono sparite delle carte», aggiunse mia madre per tagliare corto e impedirmi di continuare a far domande. «Quali carte?», domandai a quel punto, non avendo voglia di smettere di chiedere e di sapere. «Ieri, nel primo cassetto della scrivania, avevamo riposto una busta che conteneva dei documenti che non ci sono più e che non si trovano da nessuna parte», aggiunse Don Carmine indicandomi la superficie spoglia e polverosa della scrivania dove aveva appoggiato i gomiti. «Quante erano?», domandai ancora, nel tentativo di farli parlare. «Non tantissime, ma erano importanti», mia madre cercò di mascherare un imbarazzo che mi pareva evidente, anche se assolutamente nuovo per lei, poi proseguì «E non andavano di certo toccate!», concluse con un filo di voce. «E si può sapere di cosa trattavano quelle carte nel cassetto?», chiesi, notando la contraddizione nelle loro parole. Perché mai Betta avrebbe dovuto rubare dei documenti? Cosa ne avrebbe fatto? Non riuscivo a capire nulla. «Credo sia il caso che Betta continui le sue faccende in cucina. Mi sono appena alzata, ho fame e ho bisogno di qualcuno che mi prepari la colazione, ho molta fretta stamattina!», dissi. «Ti sei sempre preparata la colazione da sola: da quando hai bisogno di Betta?», chiese mia madre, comprendendo che desideravo liberare la ragazza da quell’imbarazzante situazione. Poi sospirò e, con un gesto infastidito della mano destra che ci invitava a uscire dallo studio, dopo essersi resa conto che non avrebbe cavato un ragno dal buco, ci lasciò andare. Presi Betta per un braccio e ci rintanammo in cucina, lasciandoli macinare con difficoltà e disappunto il mio improvviso e fastidioso intervento. Betta mi guardava disorientata. Nel suo volto c’era scritto tutto: lei non capiva e non sapeva di cosa stessero parlando. Era stata tirata in un ballo poco piacevole ed era stata costretta a ballare, ma nulla di ciò che le era stato chiesto la

riguardava, perché lei non sapeva di quali carte stessero parlando. Nel dirigermi verso la cucina a braccetto con lei, chiesi sottovoce «Sono sparite solo delle carte in casa?». «Che io sappia sì!», dichiarò. «Mi hanno chiamata per dirmi che ieri una busta con dei vecchi documenti di famiglia era stata lasciata nel primo cassetto della scrivania che stamattina non hanno più trovato. Ma io ho spiegato che non ne sapevo niente!», esclamò tutto d’un fiato. «Mi sembra strano che mia madre lasci in un qualunque cassetto della scrivania nello studio delle carte importanti. Non era mai accaduto prima e mi sembra ancor più strano che si sia fatta sfuggire qualcosa!», riflettei ad alta voce. In casa, a quanto sembrava, non c’erano stati furti di alcun genere, altrimenti ne sarei stata già informata. Mancavano solo quelle carte, mentre la mia camera era stata messa a soqquadro. Perché? E da chi? Non sapevo cosa pensare e soprattutto non sapevo dove cercare per capire. Pensai di chiamarlo non appena avessi finito la colazione. Dopotutto, era scomparso. Una notte d’immensa gioia mi aveva portata a un mattino di grandi dubbi e, soprattutto, di paure sconosciute. Troppe cose, ormai, non quadravano. Troppe domande cominciavo a pormi e non mi piaceva ciò che si stava verificando nella mia sbiadita vita in così breve tempo. Addentai l’ultima fetta biscottata ricoperta di burro e marmellata e, prima di precipitarmi in camera a cambiarmi, terminai in un ultimo sorso il cremoso cappuccino che mi era stato preparato frettolosamente. Quando rientrai in camera, fui investita da un’immensa desolazione. Il silenzio la divorava. Betta non avrebbe avuto il tempo di riordinarla e un inspiegabile senso d’inquietudine avvolse quei minuti. Con l’irradiante luce del giorno la camera assumeva un aspetto diverso se confrontato al chiaro di luna contornato dallo sfavillio degli astri, nel cuore della notte, quando cautamente il sonno cattura le persone e le anime prive di pace cominciano a vagare per le oscure estremità delle proprie esistenze.

La notte è raccolta in un mondo che tace nella confusa disarmonia di banchetti d’ombre e pensieri senza ato né futuro, quando a unirsi a essi arrivano sogni e desideri che, nel corso del giorno, vincolano le proprie esistenze a catene di cui sono vittime nella prigione delle paure. I pregiudizi ispessiscono quelle paure e spezzano gli equilibri faticosamente raggiunti dalle quotidiane coscienze di latta custodite dall’aridità terrena di un giudizio umanamente universale. Avevo voglia di ributtarmi sul letto, nella malinconia che ne raccoglieva le ormai fredde e spoglie vesti dalle sembianze di lenzuola già affrante di quotidiana solitudine. Voglia di chiudere gli occhi per riaprirli solo accanto a lui. Voglia di sapere e scoprire, capire e conoscere. Voglia di cedere alla gioiosa illusione che la vita ci illumini solo della vivida essenza di ogni alba e ci nutra sempre della disarmante bellezza d’ogni tramonto. Decisi di chiamarlo. Dovevo chiarire, sapere. Perché era scomparso? Perché era andato via senza lasciar scritto nulla, senza una parola, un segno, forse neanche una carezza? Presi il telefonino e digitai il suo numero, ma il bussare alla porta m’interruppe e decisi di aprire. Era Felicia. Imbarazzata, la feci entrare, anche se ero contraria al suo arrivo alla tenuta Monti. «Ciao», disse quasi sottovoce, entrando in punta di piedi. La percepivo come un’estranea che s’intrufolava in una proprietà, una famiglia, un mondo che non le apparteneva. Pareva anche lei imbarazzata e, forse, anche poco convinta di ciò che i nostri genitori stavano per fare. «Ti sei già trasferita?» le chiesi senza indugiare, perché volevo che vedesse con i suoi occhi il mio totale disappunto. Volevo che capisse ciò che provavo e quanto mi fossi indignata nello scoprire che lei sapeva tutto, forse dall’inizio. Quando era cominciata la storia tra suo padre e mia madre? E quando avevano deciso di sposarsi? Perché mia madre aveva sempre voluto ostentare un lutto per la mancanza di mio padre che poco si addiceva a ciò che realmente provava? E poi come era possibile che Felicia fosse la mia sorellastra? Come potevo essere figlia di Don Carmine? Cosa era davvero successo tra loro?

«Mi dispiace, Dea», anticipò ciò che era venuta a riferire. «Avrei voluto dirtelo prima. Avrei dovuto dirtelo. Ma… », fece una pausa per accomodarsi ai piedi del mio letto. «Non ho potuto», disse e notò improvvisamente il disordine. «In che senso, non hai potuto?», le chiesi senza indugiare, restando in piedi di fronte a lei, mentre la guardavo tenere gli occhi bassi. Non aveva il coraggio di guardarmi in faccia, di parlarmi senza veli, senza maschere, senza ipotetiche protezioni. «Mio padre me lo ha impedito», chiarì a quel punto, senza aggiungere altro, mentre un lungo sospiro sembrava volerla liberare dal profondo disagio che la opprimeva. «Cosa vuoi dire, Felicia?», le chiesi ancora. Avevo bisogno di comprendere il suo ruolo nella vicenda. «Non voleva che tu lo sapessi, perché avresti potuto capire che era quella la ragione per cui ti aveva impiegato nella sua bottega e ti pagava uno stipendio quasi regalato, visto che andavi di rado a lavorare», terminò tenendo gli occhi bassi. «Stai scherzando?», sorrisi con gli occhi che uscivano quasi dalle orbite in un’espressione che rasentava il ridicolo. Sì, in quel momento mi sentii assolutamente ridicola. Sapevo che quelle parole rispecchiavano una verità poco onorevole e piuttosto esplicita, ma non avrei potuto immaginare che tutto si basasse su una così futile banalità. Avevo sempre creduto che Don Carmine avesse mantenuto un atteggiamento protettivo nei miei confronti solo per affetto e per senso del dovere in seguito alla misteriosa scomparsa di Gentile Monti, il cui corpo era stato restituito dal mare e ritrovato tra le rocce alla base del dirupo del misterioso boschetto. Mi sedetti a fianco di Felicia, pensierosa. Mi scoprii improvvisamente timorosa di venire a conoscenza di verità che nessuno aveva mai avuto il coraggio di confessare. Sapevo che c’era qualcosa d’inquietante in quel luogo e sapevo che c’era qualcosa d’irrisolto in quella vicenda. Avevo troppi dubbi e troppe domande che

mi assillavano, ma non avrei potuto porle a Felicia che, probabilmente, era stata vittima di un’imposizione paterna. Ma come avrei potuto scoprire la natura dei silenzi che avvolgevano la tenuta Monti e conoscere la verità che sentivo taciuta intorno alla scomparsa di mio padre? Mia madre aveva sempre voluto tacere. Non si era mai voluta esporre più di tanto e soprattutto non aveva mai voluto rivelare cosa avesse visto e sentito la notte in cui mio padre aveva deciso di avventurarsi in mezzo al boschetto fino a raggiungere il dirupo che gli sarebbe costato la vita. Ma poi, perché mio padre avrebbe dovuto entrare nel bosco? Quale motivo lo avrebbe mai potuto spingere a una tale insensata decisione? Non ricordavo molto di quella notte. Anzi, non ricordavo quasi niente. A quel tempo avevo solo 5 anni e tutto mi sembrava confuso. Quel ato, ormai, sembrava appartenere a un’altra persona. Già, pareva quasi un’altra vita, pareva un tempo troppo lontano per sentirlo mio. I ricordi s’intrecciavano in un lungo e sinuoso labirinto di fievoli convinzioni che mi proiettavano tra macerie emerse a caso da un ato troppo lontano. Eppure volevo portare alla luce ciò che mi disturbava, ciò che sentivo non tornare. Sì, ero più convinta che mai: i conti non tornavano, le cose non quadravano. C’era qualcosa di non detto che si era prodigato a distruggere il resto della mia esistenza. Ed era qualcosa che non emergeva. Avrei dovuto scoprire di cosa si trattasse. Avrei dovuto farlo per me e per la memoria di mio padre. «Hai saputo qualcos’altro della loro relazione?», chiesi a Felicia, portandomi le dita della mano sinistra alle labbra, mentre con l’altro braccio mi cingevo la vita quasi per proteggermi da altre terribili e inconfessabili verità. «Non so, per esempio, da quanto tempo dura». «Non so da quanto duri. Non ho mai saputo se mia madre fosse al corrente della loro relazione», chiarì Felicia «So solo che le nostre famiglie erano a conoscenza del rapporto speciale tra tua madre e mio padre». «Questo fa presagire che tua madre ne fosse al corrente», accennai un sorriso di disappunto «Penso che ogni moglie si accorga se il marito nasconde qualcosa. Ogni moglie sa, cara Felicia. Non è possibile che tua madre non si fosse accorta di nulla. Non credo alla versione della moglie all’oscuro delle bravate del marito.

Credo che queste cose s’intuiscano. Credo che si sappiano sempre!». Felicia non mi guardava. Pareva fosse il pavimento il suo interlocutore. Non alzava lo sguardo e non accennava neanche a farlo, sebbene dialogasse come una persona incuriosita dai fatti. «Anche io penso la stessa cosa». «Sai per caso quali siano le carte sparite dallo studio?», le chiesi a un certo punto, cercando una risposta che, sebbene sapessi di non poter trovare, ero convinta di riuscire a intuire in ciò che mi avrebbe detto. Forse il padre si sarebbe confidato con lei o, forse, avrebbe potuto scoprire e sapere qualcosa che io non sarei stata certo in grado di conoscere. «No», rispose repentina, tagliando corto «Non mi ha detto niente», terminò alzandosi dal letto e dirigendosi verso l’uscita. «Dove vai?», le chiesi, allora, vedendola muoversi come un automa, senza il coraggio di voltarsi a salutarmi. Mi dava le spalle mentre apriva la porta della camera e, senza rispondere, se la chiuse dietro, lasciandomi in attesa di un saluto che non accennò ad arrivare. Non mi piaceva affatto quella situazione e non mi convinceva il loro atteggiamento. Non li consideravo parte della famiglia. Non era Don Carmine mio padre e non consideravo sua figlia mia sorella. Non potevo accettarlo. Troppe cose ci dividevano, troppe bugie, troppi dubbi, troppe incomprensioni, troppi sotterfugi, troppi segreti. Non potevano far parte della mia famiglia. Squillò il telefonino. Speravo fosse lui, ma notai il nome di Loretta sul display. Esitai un momento. Non sapevo cosa dire, non sapevo come giustificare un’altra assenza al lavoro. Ai suoi occhi io continuavo a essere una dipendente comune. «Ciao», risposi svogliatamente. «Allora, pensi di non presentarti al lavoro neanche stamattina?», andò subito al sodo. «Loretta, il tempo di cambiarmi e arrivo. Hai fretta?», chiesi con una sgarbatezza che non faceva parte di me, ma me ne accorsi tardi.

«Sono già le 11:00. Pensi sia presto?», ironizzò dall’altro capo del telefono. Sapevo che aveva ragione, ma non volevo dargliela. «Ti sei alzata con la luna storta stamattina?», le chiesi infastidita dal suo modo di fare, sebbene lo capissi e lo condividessi, perché se fossi stata al suo posto, probabilmente mi sarei arrabbiata per prima. Dopotutto a nessuno fa piacere avere come collega un’impiegata privilegiata che fa il bello e il cattivo tempo e riesce a prendersi tutte le libertà senza pagare alcuna conseguenza e con lo stipendio che arriva puntuale in tasca senza il minimo intoppo. Lei non lo sapeva, ma glielo avrei detto. Ero stanca. Avrei detto tutto ciò che sapevo a chiunque mi fosse capitato a tiro. Avrei voluto sottoporre all’attenzione del paese ciò che mi stava accadendo. Ero stanca delle bugie e dei segreti che erano ruotati per anni attorno agli eventi che avevano stravolto la mia vita. Decisi che era arrivato il momento di farla finita.

Il paese mi accolse taciturno. Appariva quasi smorto. S’incontravano le solite facce, si ritrovavano le solite strade e un paesaggio che parlava per tutti, che descriveva tutto e contornava i nostri umori. Già, il mio umore cambiava come il tempo. Come il vento che viaggiava, come il sole che tornava dopo una tempesta, come il mare che ritrova la pace dopo la burrasca. Sostenevo un o lento, svogliato, incupito, indeciso e riflettevo: dove era finito? Perché non mi aveva lasciato neanche un messaggio? Un biglietto? Una sola parola che potesse giustificarne l’assenza in un mattino stravolto dal mondo intorno? Non lo sapevo. Non avrei saputo dare risposta a quelle domande, ma c’era qualcosa che mi spingeva a fidarmi, perché mi piaceva e ne ero totalmente rapita. Giunsi in bottega con la faccia di una che sa di dover dare una pessima notizia, ma non conosce le reazioni che scatenerà eppure ero decisa come non lo ero mai stata in tutta la vita. Loretta era appoggiata al bancone con un’aria affranta e mi salutò a stento quando mi vide.

«Novità?», le chiesi appoggiando lo zaino sul bancone, ma notai che non ricambiava i miei sguardi. «Nessuna: sei sempre al lavoro con comodo, quindi nessuna novità», commentò infastidita dal mio arrivo intorno alle 12:00, non potevo darle torto. «Devo parlarti, Loretta», decisi d’introdurre un argomento che non avrei voluto evitare per nulla al mondo «C’è un motivo se sono arrivata così tardi anche oggi». «Certo», sorrise ironicamente andando a sedersi dietro al bancone «Già le immagino le tue ragioni eppure lo stipendio resta uguale anche quando ti assenti. E io che faccio il lavoro per due, vengo pagata per uno! Strano, vero?», era arrabbiata e lo potevo capire. «Hai ragione, non ho scuse», cercai di dire, non sapendo come giustificare il mio atteggiamento e non sapendo neanche da dove cominciare il discorso che pensavo di essermi preparata lungo il cammino. Ma non era così. «Ti prego, Dea. Evitami frasi fatte. Vorrei fossi più coerente e che ne parlassimo con Don Carmine, perché questa situazione non mi è mai andata bene. Ho anche io i miei problemi e le mie cose da sbrigare, ma non per questo mi assento o arrivo al lavoro quando mi pare!», esclamò spalancando gli occhi in un’espressione che raccontava il suo disagio. «Non posso darti torto, ma non accadrà più e comunque...», cercavo parole che non trovavo. «Senti, perché non facciamo così: quando arriva Don Carmine gli diciamo che se ci sono delle regole in questa bottega come in tutte le altre, vanno rispettate e devono valere per tutti. Ma dico, se non aprissi io il negozio, chi credi che se ne occuperebbe?», chiese a un certo punto. «Beh, forse se non te ne occui tu, certamente si troverebbe qualcuno che lo farebbe al tuo posto», risposi, nel tentativo di tenerle testa. Sapevo che aveva tutte le ragioni del mondo, ma non volevo permetterle di zittirmi. Almeno non quella mattina. Almeno non dopo le mie scoperte e la situazione in cui mi ero trovata, senza neanche sospettarlo lontanamente.

«È successo qualcosa a cui non crederai!», decisi di sbottare, stufa delle sue ramanzine. In quel momento, il sopraggiungere di un gruppetto di clienti ci interruppe e fui costretta a tacere. Loretta andò incontro al gruppo per servirli, mentre io sollevai lo zaino dal bancone e mi diressi nel retro per sistemarlo e tornare in bottega. Quella mattina Don Carmine non arrivò. E, seppur non potessi saperlo in anticipo, ci rendemmo conto che non sarebbe arrivato neanche nel pomeriggio. Non immaginavo cosa fosse accaduto e, allo stesso tempo, non volevo saperlo. Avevo paura. Non volevo scoprire altro. Non volevo avvicinarmi a lui. Non volevo più frequentarlo, sebbene avesse cominciato a dormire a casa Monti. Non avevo intenzione di avere alcun tipo di rapporto con lui, né alcun tipo di dialogo. Non accettavo di divenire vittima di un’ulteriore presa per i fondelli, come mi ero sentita nel corso del pranzo in cui avevano deciso di rivelarmi le loro tresche e le bieche decisioni che avevano preso senza consultarmi. No, non ero sua figlia. Non lo ero mai stata e non accettavo di diventarlo in quel momento. Gli avrei sbattuto in faccia il mio rifiuto in mille modi. Lo avrei evitato con la fermezza di chi sa di avere voce in capitolo, pur non essendo stato interpellato, malgrado ne avesse il diritto e non gli avrei dato l’importanza che aveva creduto di avere fino a quel momento. Mia madre aveva giocato con tutti, a cominciare da mio padre o, per lo meno, da colui che avevo sempre considerato tale, e non le avrei permesso di fare lo stesso con me. Mi torturavo senza sapere dove avrei sbattuto la testa e ciò che più faceva male era la consapevolezza che nessuno mi avrebbe potuta comprendere o aiutare. Sentii trillare il telefonino a cui avevo inserito la vibrazione. E, mentre i clienti parlavano con Loretta e si guardavano attorno, gettai uno sguardo al display. “Ti aspetto sulla collina in serata, raggiungimi alle 22:00”. Era un suo messaggio. Non potevo crederci: finalmente si era fatto vivo. Quello che non avevo avuto il coraggio di fare io, aveva deciso di attuarlo lui. Sorrisi. Ne ero felice, anche se consapevole che avrei dovuto chiedergli molte cose.

Il nostro rapporto, se di quello si trattava, sarebbe dovuto venire alla luce e molte cose si sarebbero dovute chiarire. «Scusi», una ragazza appena entrata in bottega si avvicinò con aria disorientata. «È possibile acquistare un cesto di prodotti confezionati dalla vostra azienda?», mi chiese. «Certo», risposi prontamente, cercando di farmi vedere attiva da una Loretta che pareva avesse installato delle invisibili antenne pronte a percepire ogni mio movimento. Ormai mi controllava e lo sapevo bene. «Vieni, ti mostro i cesti confezionati e pronti all’acquisto», aggiunsi, facendomi seguire nell’ala destra della bottega che aveva il soffitto a volta come quello di una grotta ed era ben illuminata. Inoltre, vi erano esposti una serie di cesti confezionati artigianalmente che contenevano alcuni dei prodotti appartenenti all’antichissima tradizione culinaria sorrentina. «Ecco, come potrai notare, all’interno di questo cesto sono contenute un paio di confezioni di biscotti al cacao, una bottiglia di olio extravergine di oliva proveniente dalle terre della nostra azienda, una bottiglia di limoncello di Sorrento da 75ml, un paio di confezioni di pasta fresca, una confettura di marmellata di albicocche e un paio di salamini piccanti», indicai, elencando ogni prodotto che faceva bella mostra di sé all’interno della confezione avvolta da un nastro rosso da regalo. «Ma se preferisci, puoi anche scegliere di comporre da sola un cesto vuoto che mettiamo a disposizione dei clienti, per inserire un numero di prodotti superiore o inferiore, in base ai gusti, tra quelli che produciamo e vendiamo, senza alcun limite di provenienza o prezzo», conclusi. Sì, ero più serena dopo aver ricevuto quel messaggio. Mi mancava e avrei potuto finalmente riabbracciarlo in serata. Non aspettavo altro.

Capitolo VIII

Alle 20:00 in punto salutai sbrigativamente Loretta che, sull’uscio della bottega, si apprestava ad abbassare la serranda. Non ebbe il tempo di farmi un cenno di risposta che scappai via, per confondermi tra le persone che eggiavano. Anche i vicini sull’uscio dei negozi stavano concludendo come noi la loro giornata e il silenzioso ritorno a casa di tutti i lavoratori della zona proseguiva nel suo rito quotidiano, tra un «Ciao» in lontananza e qualche sorriso che raccontava la gioia del ritorno serale nel riparato e confortevole guscio di casa. Avevo bisogno di una doccia. Volevo cambiarmi in fretta e, a differenza di chi in casa propria ritrovava il calore di un rassicurante focolare in grado di rifocillare l’anima, volevo solo scappare dalla realtà che mi attorniava. Da tempo sognavo di cambiare la mia banale e insofferente vita quotidiana, ma solo lentamente cominciai ad avvertire la necessità di andare a vivere da sola, magari in un monolocale che potesse permettermi maggiore autonomia e indipendenza. Arrivata al punto in cui ero, però, non avrei più potuto lasciare le cose come stavano, perché sentivo il bisogno di risolvere una situazione nella quale non mi sentivo a mio agio, nell’irrisolutezza in cui avevo scoperto di naufragare. Mi confortava l’idea di trovare un appoggio morale in colui che aveva rapito il mio tempo all’abisso nel quale mi sarei adagiata, se non fosse intervenuto a restituirmi la possibilità di riappropriarmene. Avevo sempre sperato giungesse un momento in cui potessi sentirmi davvero padrona di me in tutto e per tutto e quel momento pareva esser giunto, anche se mi rendevo conto che, a quel punto, non ero più io a possedere la speranza, ma era quest’ultima a possedere me. Mi strinsi nelle spalle. Cominciava ad alzarsi un vento gelido. Accelerai il o cercando di farmi largo tra la gente che correva a casa. Sebbene fosse ormai buio, decisi di accorciare il cammino prendendo la solita stradina di campagna. Calpestavo foglie cadute d’alberi che si spogliavano in mezzo ai sentieri di quel

percorso e ripensavo al mio incontro. Sapevo che prima di riabbracciarlo, avrei dovuto porgli una serie di domande, perché ciò che mi tormentava stava superando ciò che mi confortava. I sentimenti si accavallavano tra loro come le gambe di una bella donna e le sensazioni riscoperte dopo anni privati, per mio stesso volere, del desiderio di riappropriarmi di un corpo sconosciuto alle mie stesse fantasie, emergevano in superficie dalle profonde acque del mio essere. Di cosa siamo fatti, dopotutto? D’aria, d’acqua, d’amore o del nulla più completo? Io mi sentivo fatta di tutti questi elementi amalgamati assieme e lo percepivo in ogni o intrapreso, in ogni parola pronunciata, nella direzione d’ogni sguardo cercato, in ogni carezza data e ricevuta, in ogni momento della vita, nella fluttuante consapevolezza di essere umanamente salvata da un’anima a lungo provata. Ma non volevo tornare al ato e non volevo che quest’ultimo venisse a trovarmi. Non ne avevo bisogno e non desideravo rammentarlo neanche per riflettere sugli errori commessi o sulle scelte intraprese, perché ero sempre stata ciò che avevo sentito di essere e questo non sarebbe potuto cambiare. Il ato non si può cambiare. Il presente, forse, si può modificare e il futuro si può solo incontrare. Io volevo incontrarlo, ma non prima di riuscire a modificare i i di un presente che ne sconvolgeva i giorni, nell’apparente riflesso di un tempo confuso.

Raggiunsi il cancello d’entrata della tenuta Monti. Costruita su tre piani e contornata da un giardino che si estendeva nella selvaggia bellezza della natura circostante, pronta a struggere l’animo umano per la suggestiva e imponente poesia che offriva a chi sapeva coglierne ogni più sinuoso aspetto, quella casa mi aveva allevata come una principessa inconsciamente prigioniera di una gabbia dorata. Non avrei potuto immaginare che in quella casa si nascondesse il mistero ancora fitto attorno alla scomparsa di mio padre e alla mia esistenza. L’ingresso mi accolse infreddolita nella mia giacchetta di cotone color salmone sopra ad un abitino color panna molto semplice che arrivava alle ginocchia.

Non appena superai la soglia, ritrovai lo sguardo incupito e indagatore di mia madre. Abbassai gli occhi e feci per dirigermi in camera senza proferir parola, ma lei mi afferrò per un braccio e, con una sicurezza ostentata da un portamento vòlto al rimprovero che non mi piacque, mormorò «Io lo so che sei stata tu!». La guardai con noncuranza, perché non sapevo a cosa si riferisse e feci per divincolarmi dalla stretta con cui mi tratteneva con forza, ma me lo impedì. «Pensi di poterti comportare in questo modo?», chiese senza tradire la compostezza naturale del suo modo d’essere, austero e, allo stesso tempo, fintamente cordiale. «Non so di cosa parli!», le feci sapere senza indugiare, infastidita dal suo modo di rivolgersi a me, quasi fossi un’estranea e non sua figlia. «Non farne parola con anima viva, Deana», mi sussurrò. «Altrimenti non ne usciremo!». «Lasciami!», le dissi ancora una volta, pur consapevole che, probabilmente, quelle parole mi avrebbero permesso di accedere all’anticamera di una confessione inimmaginabile. «Si cena puntualmente a tavola», aggiunse, lasciando il mio braccio, senza dire altro. «Strano», commentai. «Di solito mangi in camera e ora che ci ritroviamo per casa Don Carmine e sua figlia a fare il bello e il cattivo tempo, decidi di sederti a tavola?», un sorriso che rasentava un’ironia amara mi corrugò la fronte e le guance e aggiunsi «Strano che non riservassi la stessa considerazione a me che sono tua figlia! Forse non lo meritavo?», le chiesi e, senza attendere alcuna risposta, proseguii «Non ti sei mai chiesta se avessi bisogno di fare due chiacchiere serenamente a tavola con mia madre, da quando… », ripensai a mio padre, Gentile Monti. Sì, era lui mio padre e lo sarebbe rimasto per sempre. Infine, senza terminare la frase, scappai in camera. Non avevo alcuna intenzione di cenare e men che meno in loro compagnia. Il lungo tavolo in noce nel doppio salone adiacente all’ingresso era stato sempre e solo imbandito quando era presente mio padre. Poi più nulla. Era stato svuotato

d’ogni forma di vita come l’assenza del capofamiglia era riuscita a svuotare le nostre esistenze. Quel tavolo non ci aveva più ritrovate insieme a condividere le stesse portate e a chiacchierare come si fa abitualmente durante i pasti in una normale famiglia, se non nel corso di ricorrenze particolari che vedevano ospiti d’eccezione pronti a condividere con mia madre qualche cena frugale a cui avevo partecipato. Nel tempo avevo finito spesso col mangiare da sola sul bancone della cucina che offriva comodi sgabelli bianchi oppure in camera, dove un’ampia scrivania sapeva ospitare qualunque cosa, dal vecchio personal computer di una vita ai tramezzini fai da te preparati rapidamente, quando la fame richiamava all’ordine lo stomaco oppure sul lettone che avevo voluto a due piazze solo per non sentirmi stretta nei limitati spazi di un singolo che mi avrebbe fatta sentire ancor più sola di quanto non fossi sempre stata. Corsi in una camera fredda e oscurata dal sopraggiungere della notte. Nulla la illuminava, anche la luna era andata via. Forse le nubi la coprivano o forse aveva deciso di non fare più capolino dalla mia finestra al pian terreno. Mi diressi in bagno, accesi la luce e mi diedi da fare per far riscaldare il vano doccia con l’acqua bollente che fumava in quel ristretto spazio di silenzi ricercati. Mi spogliai buttando via tutto, persino le malinconie che nuocevano all’anima. Nulla riuscì a liberarmi di più di quell’acqua con cui scivolava anche la mia solitudine. O forse era solo una sensazione data dalla consapevolezza che da lì a poco lo avrei ritrovato ancora una volta? I capelli arricciati dall’umidità sulle spalle disegnavano le poesie dei miei pensieri e un brivido corse leggiadramente giù per la schiena. Cosa intendeva mia madre nel dire: “Non farne parola con anima viva”? A cosa si riferiva? Alle carte scomparse? Ma era davvero convinta che le avessi prese io? Era così sicura di ciò che diceva? Come aveva potuto? Non riuscivo a immaginare chi avesse potuto prenderle, ma, di certo, se ne fossi entrata in possesso, non glielo avrei fatto sapere. L’avevo trovata una vera vigliaccata il non avermi rivelato la vera identità di mio padre, del mio padre biologico e il matrimonio che si apprestava a fare.

Non c’era una sola cosa che quadrava in tutto ciò che stava accadendo e non riuscivo a credere che fosse pura casualità. Se la relazione di mia madre con Don Carmine durava da anni, al punto di farmi risultare figlia sua e non di Gentile Monti, voleva dire una sola cosa: mio padre Gentile era stato tradito da sempre, vista la vicinanza e l’affettuosa amicizia che avevano condiviso in tre. Perché mio padre aveva deciso di avventurarsi nel bosco da solo nel cuore della notte? Cosa lo aveva spinto a rifugiarsi in un luogo così impervio e pericoloso e, soprattutto, come si era spinto fino al dirupo che lo aveva consegnato al mare? Che avesse scoperto la tresca di mia madre? Che avesse scoperto che non ero sua figlia? No. Mi portai le mani alle labbra. Chiusi l’acqua e rimasi immobile nel vano doccia mentre il vapore che mi aveva ripulita avvolgeva ancora il mio corpo. Sì. Doveva essere successo qualcosa del genere. Forse mio padre quella notte aveva scoperto qualcosa che lo aveva spinto a scappare, ad andar via, a rifugiarsi altrove, ma perché in quel bosco? Perché? E soprattutto: come era finito in cima al dirupo? Non era possibile che ci fosse arrivato da solo, oltreando il labirinto nel bosco. No, non potevo crederci. E non potevo credere all’ipotesi che avesse deciso di togliersi la vita. Mio padre amava la vita, non lo avrebbe mai fatto. Se quella notte si fosse introdotto nel bosco per errore e se, invece, avesse voluto andare sulla collina o altrove e fosse stato costretto o magari si fosse sbagliato per colpa di qualcuno? Non poteva essere. Stavo volando con l’immaginazione. Stavo immaginando l’inimmaginabile. Stavo pensando troppo, non dovevo, non volevo, non era giusto. Uscii dalla doccia e afferrai l’accappatoio bianco appoggiato su una mensola. Mi guardai allo specchio. Ero pallida. Troppo. Mi sentivo stanca. Il viso era spento e provato. Avevo già sonno, ma dovevo resistere. Dovevo andare all’appuntamento. Scelsi cosa indossare per non perder tempo: una camicetta bianca, jeans, un maglione e semplici scarpe da tennis. Volevo essere sportiva e comoda per percorrere i sentieri che conducevano alla collina.

C’erano pochi lampioni a illuminare la strada che da casa arrivava alla collina, ma, fortunatamente, per chi conosceva bene il percorso come me, non era difficile riuscire a raggiungerne la vetta in breve tempo. Erano appena le 20:45 quando cominciai ad avviarmi, ma in corridoio trovai Felicia che, al telefono con qualcuno, lasciava intendere qualcosa che non mi piaceva. La stanza che aveva scelto di occupare, che poi non era altro che una di quelle solitamente destinate agli ospiti, era poco distante dalla mia. Nell’uscire dalla mia camera, per una volta dalla porta piuttosto che dalla finestra, notai che Felicia, di spalle, conversava amabilmente al telefonino e sospirava «Ci siamo dovuti trasferire perché ormai la casa era già stata affittata e dato che ci hanno pagato una sostanziosa caparra, non abbiamo potuto tirarci indietro!», notavo una certa soddisfazione nella voce. Cercai di captare altre parole e di comprendere il senso del discorso che, intanto, proseguiva ignara d’esser udita «Sì, te l’avevo detto che prima o poi si sarebbero sposati! Hanno dovuto aspettare perché non hanno potuto fare diversamente, ma già conosci il motivo. Monti era rovinato. Che cosa avrebbe potuto fare mio padre? Non ha avuto scelta!». Quelle parole mi confo le idee e mi lasciarono allibita. Con chi stava parlando Felicia? A chi stava rivelando quelle confidenze? Cosa significava che Monti era rovinato? Perché non me ne aveva fatto parola? Ero all’oscuro di molte più cose di quelle che avrei potuto immaginare, che vergogna! Avevo da sempre considerato Felicia un’amica, le avevo confidato i miei problemi, i disagi in famiglia e lei come mi stava ripagando? Non potevo credere alle mie orecchie! Ma perché? Eppure lei era mia sorella! Ma come avevo potuto non capirlo? E perché mi stavano nascondendo verità che avrei dovuto conoscere per prima? Fu una sua risata a interrompere i miei interrogativi e un’esclamazione che mi offese «Poverina, non ha capito niente!». Sapevo si riferiva a me e, prima che potesse accorgersi della mia presenza, decisi di fare marcia indietro e di rientrare in camera. Decisi di utilizzare la finestra per uscire, perché sapevo che per quella sera mi avrebbe evitato altre spiacevoli scoperte.

Chiusi a chiave la stanza e raggiunsi il giardino. Mi allontanai felinamente sperando di non esser notata da Betta attraverso la finestra della cucina al piano terra o, peggio, da mia madre o da Don Carmine. Dal giardino vidi che il salone era ben illuminato e immaginai che la tavola doveva esser stata già piacevolmente imbandita come da troppo tempo non si faceva per ospitare una cena degna di tale nome. Giunsi in vetta alla collina per le 21:20 pensando di poterlo aspettare se non lo avessi trovato o magari di trovarlo già ad aspettarmi. Ma non c’era. L’aria era umida, quasi pungente sul viso arrossato dal freddo e il maglione che mi ricopriva sembrava non riuscire a riscaldarmi come avrebbe dovuto. Tutt’intorno c’era solo buio. Era impossibile intravedere il mare che alla luce del giorno faceva bella mostra di sé, ma potevo sentirlo. Ne sentivo le onde, il canto delle onde che si agitavano e di notte avvolgevano ogni sensazione in un’atmosfera quasi irreale. Sbattevano contro gli scogli e le udivo agitarsi più del solito. Le sentivo conversare, le sentivo mormorare nella spuma delle loro tenebre e nel ghiaccio della loro stagione più fredda. D’improvviso qualcuno mi coprì gli occhi. Istintivamente dal tocco capii che era lui. Liberò la mia vista per cingermi la vita, mi strinse da dietro e sussurrò al mio orecchio «Fa freddo». Arrivò in anticipo anche lui. E ne fui felice. Sorrisi, ma non pronunciai parola, né emisi alcun suono. Mi voltai per ritrovarmelo di fronte a condividere i pensieri che mi attanagliavano e i sospiri che mi riempivano. Infine risposi «Ora non più». Sorrise lievemente. Aveva una maglia a collo alto, jeans e un paltò del colore della notte. Mi prese il volto tra le mani e sfiorò delicatamente le mie labbra stampandovi il saluto che mi aspettavo. Rimasi a guardarlo in silenzio mentre mi fissava. Mi piaceva il contatto con la sua pelle calda e morbida e la determinazione del suo tocco mi trasmetteva un

inaspettato senso di sicurezza. In quel momento non nacquero parole che avrebbero potuto interrompere l’idillio di un ritrovarsi a contatto con la brezza marina e il sottile suono delle onde in lontananza. Ci guardavamo muti. Il fiato produceva il vapore d’un calore che i nostri corpi avrebbero voluto ritrovare nell’intimità di un luogo caldo, al chiuso, che ci permettesse di sentirci appartenere l’una all’altro ancora una volta, per ritrovarci come una cosa sola. «Perché sei… », mormorai, ma m’interruppe portandomi la mano destra sulle labbra e la mia frase morì nel silenzio di un nuovo bacio. Il contatto labbra della sua bocca ammorbidiva le mie intenzioni, deviava i miei intenti e la voglia di sapere, di chiedere, di cercare, di capire. «Devo partire domani», sussurrò tra le labbra che sfioravano le mie, riuscendo a farsi udire in modo quasi impercettibile. «No», sussurrai, portando una mano intorno al suo capo e l’altra ad afferrare il suo volto. «Aspetta, non puoi», avevo assunto un tono quasi implorante senza rendermene conto. «Non andartene» gli chiesi con l’animo di chi sta sperando di esser ascoltato e considerato a ogni istante. «Tornerò» rispose. «Te lo prometto» sussurrò dolcemente, mentre il vento cominciava ad abbattersi violentemente sugli olivi che agitavano le fronde, quasi a esprimere disappunto per me. Gli olivi erano sempre stati i miei migliori amici, i confidenti con i quali avevo condiviso dei segreti inconfessabili, nel ricordo di un tempo che mi voleva affranta prigioniera delle mie spesso errate convinzioni. Gli olivi non mi avrebbero tradita e lo sapevo. Lo avevo sempre saputo. «Aspetta», ripetei quasi timorosa che d’improvviso se ne sarebbe potuto andare senza chiarire ciò che desideravo chiedere «Perché sei andato via l’altra notte? Cosa è successo?», domandai fissandolo dritto negli occhi. «Non mi hai lasciato un solo messaggio!», esclamai, ricominciando a baciarlo sulle labbra che mi offriva a un centimetro di distanza.

«È successo qualcosa», rispose accarezzandomi il volto arrossato dal freddo. «Cosa?», gli chiesi allora incuriosita. «Ti eri appena addormentata», prese a raccontare nel ricordo della nostra prima notte insieme. «Poi ho udito un rumore», mi rivelò. «Qualcuno ha cercato di entrare in camera. Ho visto, nella semioscurità, la maniglia della porta muoversi. Ho capito che era chiuso a chiave e che chi stava cercando di entrare non riusciva, ma ho preferito lo stesso andare». Lo fissavo e mi chiedevo chi fosse, con chi mai avessi condiviso il letto e non riuscii a rispondere, ma volevo sapere tutto. «Cosa hai fatto?», allora chiesi rapita dal suo racconto. «Mi sono rivestito e sono uscito dalla finestra». «Ma… », accennai a una domanda, ma lui proseguì. «Mi sono nascosto fuori, sotto la finestra. Ho cercato di vedere, di spiare, ma era buio, troppo per capire», concluse. «Vuoi dire che qualcuno si è introdotto nella mia stanza, malgrado fosse chiusa a chiave?», chiesi. «E come?». «Non lo so, avranno forzato la serratura o usato qualcosa per far scivolare a terra la chiave all’interno, perché a un certo punto ho sentito un rumore metallico». «Aspetta», dissi per interromperlo. «Dimmi se hai visto chi entrava: è importante!». «Non sono sicuro, era un’ombra. Era l’ombra di qualcuno che ha cominciato a rovistare ovunque mentre dormivi». Non potevo crederci. Ecco perché al mio risveglio, la mattina seguente, la mia camera era sottosopra! «Ma hai notato altro?», chiesi. «Voglio dire: hai notato se hanno preso qualcosa, se hanno fatto qualcosa di strano?».

«Era troppo buio. Me ne sono andato per evitare problemi», terminò senza aggiungere altro. Poi mi abbracciò in una stretta più forte. Ma chi mai poteva essersi introdotto furtivamente nella mia camera? E, soprattutto, cosa cercava? Forse le carte scomparse? O, forse, qualcos’altro? Non avrei potuto rispondere a quelle domande da sola, avrei dovuto scoprirlo. Mi strinsi al suo abbraccio sperando che mi proteggesse da tutto, a cominciare dal vento che quella notte tentava di travolgere le nostre anime. «Dimmi dove vai», gli chiesi all’interno della sua stretta. Avevo bisogno di saperlo. «Devo tornare nel mio Paese per qualche giorno, ma torno. Te lo prometto», rispose. «Il tuo Paese?», chiesi nel divincolarmi improvvisamente dal calore prodotto dal suo forte abbraccio. «Il Belgio», rispose con un mezzo sorriso smorzato dalla rigidità del nostro contatto infreddolito dall’infuriare del vento nel cuore della notte. Era malinconico e lo percepivo da ogni espressione del volto, da ogni parola pronunciata, da ogni sguardo lanciato su di me e dalla forza con cui mi teneva ancora stretta a sé. «Il Belgio?», ripetei sussurrando con lo sguardo attonito e la voce bassa. «Sono belga», rispose. «Un militare belga», sorrise ancor più lievemente. Sorrisi e non riuscii ad aggiungere altro se non «Non sono mai stata in Belgio». Mi guardava sereno e disse «Se vuoi, ti ci porterò». Poi mi abbracciò di nuovo, stringendomi più di prima. «Sì», risposi agganciandomi al suo paltò. «Portami via con te», aggiunsi nel vento che ci sbatteva contro la propria furia. «Un giorno lo farò», proseguì sfiorando il mio capo con le mani nella stretta del

nostro interminabile abbraccio. «Tienimi tra le tue braccia per sempre», mormorai. «Chiunque tu sia», aggiunsi con un filo di voce che si disperse nell’aria gelida. Si divincolò. Mi guardò serio, ma i suoi occhi sorridevano, sebbene tradissero una lucidità forse dovuta a emozione, forse a commozione, forse solo al vento che pungeva ogni centimetro di noi. «Sono Mark e sono innamorato di… », s’interruppe aspettando che gli suggerissi il mio nome. «Deana», proseguii, accorgendomi solo in quel momento che, come io non conoscevo il suo nome, anche lui non conosceva il mio. « … di Deana», ripeté, quindi, con un nuovo sorriso che terminò sulle mie labbra per imprimervi un ulteriore bacio.

Gli olivi dialogavano convulsamente e confusamente tra loro e il mio cuore batteva più forte. La gioia era infinita e la nostra storia solo iniziata. «Mark», mormorai mentre il mio labbro inferiore si perdeva nella sua bocca ancor più vogliosa della mia «Perché torni in Belgio?». «Mio fratello Adam si sposa e devo esserci», rispose. «E quando torni?», gli chiesi, senza neanche fargli gli auguri per il lieto evento. «Tra qualche giorno. Ma tu aspettami», sorrise. «Aspettami esattamente qui». Accarezzai il suo volto fissandone ogni lineamento. Era perfetto e attraente in ogni sua espressione, ogni parola, in ogni sguardo, in ogni momento. Di lui mi piaceva tutto ciò che conoscevo. «Parli molto bene l’Italiano», commentai, a quel punto, riflettendo sul suo buon esprimersi. Fino ad allora ero stata talmente rapita da non accorgermi che fosse straniero.

Dopotutto, nulla me lo aveva fatto intendere, perché il suo accento era corretto. «Ho viaggiato molto, parlo diverse Lingue», rispose fissandomi. Sorrisi e aggiunsi «Ricorda che ti aspetterò qui». «Dammi pochi giorni. Devo trattenermi per aiutare i miei genitori a traslocare. Ho un po’ di cose da fare». «E poi?», sospirai nel pensare che sarebbe stato di certo richiamato in caserma. «Non preoccuparti», mi rispose. «Devo essere a riposo. Un brutto incidente mi ha permesso il rientro per qualche tempo». «Da dove mi chiamavi prima di arrivare a Sorrento? E poi… », ero un fiume in piena, avevo bisogno di sapere, anche a costo di risultare sgradevole o poco riservata «Cosa facevi prima a Venezia e dopo a Firenze?». «Stavo girando l’Italia. Un amico italiano mi ha invitato nel suo loft milanese e ho pensato di andarmene in giro per qualche tempo. Non avevo mai visitato città magnifiche come Venezia e Firenze». «Mi hai salvato, Mark. Lo sai?», dissi quasi a volergli ricordare il nostro primo incontro. «Non parliamo di questo», percorreva con lo sguardo tutti i lineamenti del mio viso «Parliamo del futuro, di noi», fece una pausa «Quando torno, ti sposo». Il silenzio accompagnato dal fischiare del vento seguì a quella sua del tutto inattesa frase. Non feci che sorridere, come un’ebete. Imbarazzata. Felice. Cos’altro? Ah sì, anche esterrefatta. Ci salutammo con la promessa che ci saremmo rivisti qualche tempo dopo sulla collina, che ci saremmo giurati amore eterno e che mi avrebbe portata in Belgio. Lo salutai. Si era fatto troppo tardi. Volle accompagnarmi al cancello di tenuta Monti. Era troppo buio e la zona era isolata. Non se ne sarebbe andato prima di avermi portata al sicuro tra le mura domestiche.

Ci tenemmo per mano per tutto il percorso. Lo sentivo vicino e soprattutto mio. Lo sentivo dentro e mi sembrava di poterne percepire ogni sensazione, ogni pensiero. E sentivo che avrebbe potuto essere lo stesso per lui. «Tienimi stretta ancora una volta», gli chiesi, giunti a destinazione nei pressi del cancello della tenuta. Non volli che mi accompagnasse all’interno per impedire a chi ci avrebbe potuti scorgere di tempestarmi di domande e rimproveri per non essermi presentata gioiosamente, come avrei dovuto, alla cena di famiglia che avevano programmato. «Aspettami», ripeté baciandomi un’ultima volta, avvinto dalla ione e dal calore che emanava da ogni nostro contatto e travolgendomi con impeto e voglia di appartenerci, nell’entusiasmo che sa accendere l’amore appena sbocciato. Eravamo un tutt’uno, i petali di una rosa che fiorisce in un terreno arido in mezzo a sterpaglie senza fiori. Una rosa che lotta per restare in piedi e conservare i petali intatti, malgrado l’invadenza del tempo e del vento che la investono nel tentativo di spogliarne ogni bellezza. Eravamo uniti da un abbraccio che bruciava. Uniti in una stretta che legava tra le dita e le labbra bramose di noi, allacciati da infiniti sospiri rotti di voglie reciproche. Infinita voglia d’unione nel contatto portato dalla ruvidezza d’una ione ancor più rovente nell’aria. Sì, solo la rinfrescante aria autunnale avrebbe potuto raffreddare l’ardore del nostro bacio. Di quel nostro indimenticabile bacio.

Capitolo IX

Rincasai sperando di non esser notata. Avevo lasciato le imposte socchiuse per poter rientrare di soppiatto. Accesi la luce e mi sedetti ai piedi del letto. Avevo fame. Erano le 22:12 e decisi di andare in cucina a riempire lo stomaco. Appena aprii la porta, notai sotto di essa un biglietto e lo raccolsi “Devo parlarti” c’era scritto, ma non era firmato. Chiusi la porta della mia camera e mi recai in cucina dove Betta era intenta a lavare le stoviglie. «Si sono arrabbiati», mi disse appena vide che mi precipitavo al frigo. «È rimasto qualche avanzo della cena?», chiesi senza neanche fare caso a quel che mi aveva detto. «Per favore», sospirò Betta quasi intimorita, prima di essere interrotta dall’arrivo di mia madre «Il tuo comportamento è stato vergognoso!», esclamò non appena mi vide. «Carmine l’ha presa molto male!», aggiunse. «Per favore, non ho voglia di parlare: ho solo fame!», esclamai cercando di piluccare in qualche piatto riposto in frigo: c’era un’insalata russa, qualche tramezzino, uova, melanzane alla parmigiana, il classico the freddo che mia madre beveva nel pomeriggio. «Non hai capito!», esclamò ancora mia madre chiudendomi il frigorifero, mentre rimanevo immobile innanzi al suo gesto indisposto dal mio atteggiamento di noncurante superficialità. «Da oggi chi non mangia a tavola, non mangia più!», sentenziò senza mezzi termini. «Stai scherzando?», chiesi scandalizzata dalla sua esclamazione che reputavo fuori luogo. «No!», rispose con fare di chi sa il fatto suo e non cederà a nessuna supplica o

atteggiamento d’insulso pietismo. «Non mi puoi impedire di mangiare: ho fame!», risposi, facendole capire che stava esagerando, che non era giusto il suo modo di agire. «Se avessi avuto fame, ti saresti unita a noi a tavola: c’era molto da mangiare», commentò mia madre nel suo completo di camicetta bianca merlettata degli anni ‘80 e una gonna grigia che le scendeva compostamente e severamente fino alle ginocchia. «Visto che non sei abituata a rispettare le regole, ne pagherai le conseguenze. Anche per quel che concerne il lavoro», fece una pausa e si allontanò dal frigorifero guardando il pavimento. «Oggi ho discusso a lungo con tuo padre», si voltò a guardarmi con aria fiera e aggiunse «Mi riferisco a Carmine, naturalmente. E abbiamo deciso che ogni volta che ti assenterai, non percepirai più l’intero stipendio, come una qualunque impiegata. Come Loretta», concluse con una smorfia che somigliava più a un ghigno di soddisfazione che a un’espressione ironica. «Mi sembra giusto, visto che Loretta ha spesso dovuto sacrificarsi per lavorare al tuo posto ogni volta che hai voluto». «Mamma, senti… », cercai di parlare, ma fui interrotta nuovamente «Quindi, a ogni assenza ti sarà decurtato il corrispettivo in denaro e, naturalmente, ogni volta che non ti presenterai a tavola, non mangerai». Si diresse verso il salone e, nel rivolgersi a Betta, disse «Controlla che non tocchi cibo, se lo fa e non glielo impedisci, ti licenzio!», terminò e se ne andò. «Non è possibile!», esclamai alzando la voce, nell’intento di farmi sentire fino al salone. «Volevo avvertirti prima, ma non ti ho trovata». Betta aveva le mani nell’acqua insaponata con cui ripuliva le pentole e neanche mi guardava in faccia. «Mi hai scritto tu il biglietto che ho trovato sotto la porta?», le chiesi a quel punto. «Sì, volevo farti sapere quello che mi aveva detto di dirti tua madre, ma la porta era chiusa e sono dovuta tornare in cucina a preparare la cena». «Non ci posso credere!», ripetei ancora frastornata «Non era mai successa una cosa del genere, mai!», battei i pugni sul bancone della cucina e mi accomodai su di uno sgabello.

«Domani la colazione è prevista per le 8:00. Se non ci sarai, non mangerai», mi fece sapere Betta «Il pranzo è per le 13:30 e la cena, beh, se non sei a tavola per le 21:15… », fece una pausa e riprese deglutendo «Hai capito». «Sì, ho capito, ma non posso crederci!», ripetei alzandomi e dirigendomi in camera. Avevo una fame che mi divorava, ma tacevo, perché non avrei potuto fare altro che ubbidire. Le parole di mia madre erano state assolute. Se non avessi fatto quello che aveva detto, probabilmente Betta ne avrebbe pagato le conseguenze. Da anni, ormai, in casa erano state installate delle videocamere di sorveglianza in punti strategici. Mia madre avrebbe potuto controllare ogni mio o, se avesse voluto e, di sicuro, ce n’era una anche in cucina. Le videocamere a circuito chiuso erano state installate solo nei luoghi di uso comune: nel salone, nello studio, nei corridoi e nel giardino o, meglio, lungo il viale d’ingresso, dal cancello alla casa. Un momento, se c’era una videocamera di sorveglianza nello studio, allora poteva anche esistere un video nel quale si sarebbe potuto scoprire chi aveva rubato le carte che cercavano! Non ci avevo pensato. A ogni modo, ci dovevo provare. Decisi di avventurarmi quella stessa notte, quando tutti si fossero ritirati nelle proprie camere, all’interno della segreta dietro la libreria dello studio: un aggio che portava a una stanza nella quale era stato allestito il quartier generale della sorveglianza. Non ricordavo esattamente come si entrasse. Non lo facevo da quando ero un’adolescente. Dopotutto, non ne avevo alcun motivo e poi quella stanza mi trasmetteva una strana fobia. Non avevo mai avuto problemi a restar chiusa in ambienti ristretti, ma quel posto non mi piaceva. Le pareti erano state dipinte da mio padre di un marrone scuro. Era di pochi metri quadri, ma, essendo quasi del tutto vuota, sembrava più ampia. Sapevo che c’era un tavolinetto con una serie di monitor da cui si sarebbero potuti controllare i punti strategici in cui erano montate le videocamere. Mi pareva di ricordare che sulla parete destra ci fosse un mobile in metallo grigio che conteneva una serie di vecchie videocassette. Ricordo che una volta mia madre mi rivelò che al marito piaceva rifugiarsi in quel luogo per godersi

delle pellicole che reputava indecenti, dal momento che era stata arredata anche con un piccolo mobiletto in legno su cui campeggiava un vecchio televisore e un lettore di cassette VHS di fronte a una comoda poltrona in pelle nera. Era da tanto che non tornavo in quella stanza. Non sapevo neanche se qualcosa fosse cambiato o se fosse stata lasciata intatta come un tempo, sebbene Alfonso, il nostro guardiano che si occupava della gestione della sorveglianza e del controllo della nostra sicurezza da anni, ci andasse per organizzare e controllare le registrazioni. I tempi erano cambiati anche per quel che concerneva la tecnologia e, di certo, non dovevano più esser presenti i monitor e il lettore VHS, che un tempo, invece, erano utilizzati per le registrazioni. Ma lo avrei scoperto presto. Sì, quella notte avrei attuato il mio piano. Dovevo scoprire chi aveva rubato le carte e chi era entrato in camera mia. Forse la videocamera che si trovava nel corridoio al piano terra aveva inquadrato qualcosa. E poi mi sarei preparata un bel discorsetto da fare a Felicia. Ero stanca di are per la stupida della situazione. Il suo “Poverina, non ha capito niente!” non mi era piaciuto e non riuscivo più a mantenere delle apparenze che mi stavano facendo fare persino la fame. Mia madre non si era mai comportata in quel modo. Non mi aveva mai punita così severamente e men che meno mi aveva impedito di piluccare in frigo. La donna che avevo innanzi era un’altra persona. Non era più lei. Come poteva impedire a sua figlia di sfamarsi? Come poteva agire in modo tanto cinico e malvagio? Cosa le era capitato? Da quando era tanto cambiata? Cosa le era davvero accaduto per cambiare in quel modo? Avrei scoperto anche quello. Avrei dovuto scoprirlo soprattutto per me stessa. Dovevo difendermi. Mi buttai sul letto in attesa della notte. Cercai di non addormentarmi. Sapevo che mia madre andava a letto a mezzanotte in punto. Non conoscevo gli orari di Don Carmine e Felicia, ma se mi fossi introdotta nello studio verso le 2:00 difficilmente avrei trovato qualcuno ancora sveglio. Ripensai a Mark. Finalmente conoscevo il suo nome. Finalmente sapevo

qualcosa in più di lui. E già mi mancava. Avrei voluto fosse lì con me. Avrei voluto condividere ancora una notte nello stesso letto prima del saluto, prima di dover aspettare per riabbracciarlo. Era belga. Non conoscevo il Belgio. Non c’ero mai stata e non era incluso nella lista dei Paesi che mi sarebbe piaciuto un giorno visitare. Per forza di cose, però, da quel momento era riuscito non solo a entrare nella mia lista, ma anche a scalarla di punto in bianco. Scoprii di sapere poco o nulla di quel Paese e, per ingannare il tempo ed evitare di addormentarmi, decisi di fare una ricerca in internet. Digitai nel primo motore di ricerca a disposizione la parola: Belgio. E le voci si susseguirono una più interessante e incalzante dell’altra. Il Belgio sembrava un Paese tutto da scoprire. Capitale: Bruxelles. Lingue ufficiali: Olandese, se e Tedesco. Suddiviso in tre regioni: le Fiandre, la Vallonia e la Regione della Capitale Bruxelles, ufficialmente bilingue. Moneta: Euro. Religione: per l’80% cattolica. Bene, ma era ancora poco, avrei dovuto studiare di più. Al suo rientro in Italia, volevo farmi trovare preparata. Volevo che sentisse la mia vicinanza alle sue origini e la mia voglia di conoscerne ogni aspetto. Decisi di leggere la storia del Paese. Decisi di scoprirne le risorse. Decisi di avvicinarmi alla sua cultura. M’informai persino sulle specialità gastronomiche, data la fame che avevo in quel momento. Scoprii che era meravigliosamente internazionale e incredibilmente affascinante. Sì, ci sarei voluta andare. Meritava un bel viaggio! All’una di notte, intanto, giacevo affranta sul mio cuscino in attesa di avventurarmi per la casa: avrei fatto tappa anche in cucina… già, ma come avrei fatto con la videosorveglianza? Se fossi stata sorpresa a mangiare, l’indomani Betta ne avrebbe pagato le conseguenze e non avrei potuto permetterlo. Sapevo che mia madre era solita controllare il lavoro del guardiano. Mi sembrava di non avere scelta. Non potevo riempirmi lo stomaco. Era tutto tremendamente assurdo. Intanto cominciai a prepararmi. L’1:07 e la paura che avanzava. Già, paura di cosa? Paura di esser scoperta? Paura di scoprire verità scomode? Paura di trovare

cosa? Non lo sapevo neppure io, ma provavo paura. Non ce l’avrei fatta ad aspettare le 2:00, così decisi di mettermi in moto. Aprii lentamente la mia camera, girando la chiave senza fare rumore e attraversai il corridoio. Sapevo che la videocamera mi avrebbe ripresa, ma avrei potuto dire che non riuscivo a dormire e avevo deciso di farmi un giro. Entrai nello studio. La videosorveglianza era presente anche lì, ne ero sicura, anche se non sapevo in quale punto, né tanto meno da quale angolazione sarei stata ripresa. Accesi il lume sulla scrivania e cominciai a rovistare nei cassetti, ma non vi trovai nulla se non scartoffie, block notes, appunti, cartelle bancarie, ricevute di pagamento delle imposte e buste da lettera. Spensi la luce e, a tentoni, mi avvicinai agli scaffali su cui erano sistemati i libri. Cercai il pulsante che avrebbe aperto il aggio dietro al mobile. Non riuscivo a trovarlo. Non ricordavo a quale altezza fosse e non ricordavo dietro quale volume, visto che la libreria era stata più volte risistemata per cercare vecchi documenti di famiglia, per riordinare, per selezionare volumi di particolare interesse storico e, naturalmente, per spolverare. Lo ricordavo a metà altezza all’interno del secondo o del terzo ripiano, ma, infilando la mano in mezzo ai libri fino a toccare il fondo del mobile, non riuscivo a trovare alcunché. Che fosse stato spostato? O nascosto? Non potevo crederci, doveva esserci! Sbuffai. Dovevo trovare quel pulsante: era di metallo, lo ricordavo bene. Da bambina mi era stato indicato un sacco di volte. Papà voleva che fossi a conoscenza di tutto in casa, al contrario di mamma che, invece, amava custodire segreti. A mamma piaceva gestire la situazione, comandare, organizzare, pianificare con o senza il consenso altrui. Papà Monti era ben diverso da lei. Non avendo trovato il pulsante, decisi di sfilare per metà i volumi sui due scaffali, a uno a uno. Decisi di sgomberare lo spazio necessario a ritrovare col tatto la protuberanza. Trovato! Era situato molto più giù di quel che ricordassi, in basso all’interno di una nicchia sul secondo scaffale. Dopo averlo premuto, il mobile si sganciò

spostandosi in avanti. Rimisi a posto i libri e feci pressione sulla fessura per riuscire a infilarmi all’interno della stanza. Entrai. Era buio, ma sapevo esserci un interruttore. Lo trovai subito e accesi la luce di una vecchia lampadina appesa al soffitto con fili elettrici malconci. Decisi di richiudere la stanza tirando verso di me la maniglia in metallo inchiodata al muro. I 7 piccoli monitor in fondo al tavolo erano in parte accesi, alcuni trasmettevano immagini della casa, altri sembravano fuori uso. Davanti c’era un computer che visualizzava le varie aree dell’abitazione. Vicino al tavolo c’era il mobile in metallo grigio che ricordavo contenere le cassette VHS e un vecchio lettore. Aprendo le ante scorrevoli, su quattro ripiani vidi una pila di videocassette e DVD recanti le date delle registrazioni. Sarebbe stato difficile trovare quella della notte in cui erano sparite le carte e in cui qualcuno aveva deciso di rovistare in camera mia quando ero in compagnia di Mark. Avrei dovuto controllare le date e magari sbirciare il contenuto dell’Hard Disk esterno che si trovava sul tavolo a fianco della tastiera. Già, ma come avrei potuto metterci mano, se non sapevo da dove cominciare? Temevo di far pasticci. C’era un altro apparecchio sul tavolo usato per gestire i video e le registrazioni, ma non sapevo come farlo funzionare. D’un tratto, sullo schermo del computer scorsi qualcuno vagare per la casa. Chi era? Mi avvicinai meglio allo schermo e riconobbi Felicia. Cosa stava facendo in giro per casa a quell’ora della notte? Intuii che Felicia era diretta in uno dei ripostigli in fondo al corridoio del terzo piano. Ma perché? Cosa stava combinando? Mah, ero curiosa, oltre che tentata di coglierla in flagranza, ma, sul punto di uscire dalla stanza, udii delle voci nello studio.

Mi bloccai. Non me l’aspettavo. Mi precipitai a spegnere la luce, sebbene fossi consapevole che all’esterno non si sarebbe potuta notare, decisi comunque di essere prudente. Appoggiai un orecchio al muro nella speranza di riuscire a capire chi fossero e cosa stessero dicendo. Riconobbi la voce di Don Carmine. «Hai sistemato tutto?», gli sentii chiedere a qualcuno in sua compagnia. Allora andai a controllare sul computer le immagini provenienti dallo studio, illuminato solo dal lume sulla scrivania. «È tutto a posto!», esclamò il tizio alto, magro, dai capelli lunghi e dai modi bruschi presente nella stanza, mentre si accomodava spavaldamente su una delle sedie accanto alla scrivania. Don Carmine, invece, rimase in piedi. «Nessuno deve saperlo, ci siamo intesi?», chiarì Don Carmine. «E nessuno lo saprà. Ma per chi mi ha preso? Lei lo sa che faccio lavori puliti, caro Don Carmine, mica sono come Donna Mimosa che fa i guai e poi vuole che qualcuno l’aiuti!», esclamò il tipo. «Stai attento a non fare il nome di Donna Mimosa, che puoi are qualche guaio. Ci siamo intesi?», esclamò Don Carmine. «E chi ha detto niente!», rispose prontamente quest’ultimo. «Ma Le faccio presente che grazie ai miei mazzi si sta facendo la famiglia, caro Don Carmine. E quando La sposava Donna Mimosa, se Lei non avesse avuto tra le mani le sue proprietà?». «Taci!», lo invitò Don Carmine con un gesto della mano che sembrava volerlo mandare a quel paese, l’individuo proseguì imperterrito. «E poi diciamocelo: quelle carte non servivano a nessuno, lo sa pure Lei!». «Ricordati che Mimosa mi ama, mica è come quelle con cui vai tu!», esclamò Don Carmine sedendosi sulla poltrona appartenuta a mio padre che troneggiava dietro la scrivania «E non parlare di carte! Tu non ne sai niente e niente ne deve sapere Mimosa! Lei mi amerà sempre. Quella roba le avrebbe provocato solo altro dolore. Non poteva più tenerla in questa scrivania. Il ato ormai è

ato e anche ben sepolto!». «Sì, certo! Lo sanno tutti che Donna Mimosa La ama», sorrise beffardo lo strano tipo. «La ama con le proprietà del marito fallito». «Zitto!», lo richiamò all’ordine Don Carmine alzandosi in piedi. «Falla finita e dimmi quanto ti devo!». Il tipo parve pensarci, poi gli fece vedere la mano sinistra intera e le sue cinque dita bene in vista dicendo «Cinque». «Vuoi scherzare?», lo riprese esterrefatto «Non ti darò 500 Euro per un lavoro che non ne vale neanche 50!». Il tipo fece una strana smorfia e si alzò «Lei non me li dà? E io Le faccio una bella sorpresa!», fece per andarsene, ma Don Carmine lo raggiunse alla porta. «No, tu non mi fai nessuna sorpresa! Facciamo una cosa: ti pigli 200 Euro e non ti fai vedere fino a quando non ti chiamo io!», esclamò prendendolo per il bavero della giacca. «Ma veramente?», rispose quello che sembrava ubriaco o, forse, drogato, aveva uno strano modo di parlare, pareva stralunato e aveva un o indeciso e barcollante. «Sì!», rispose Don Carmine che si diresse verso la cassaforte nascosta dietro a un grande quadro raffigurante la costiera Amalfitana, appeso vicino alla finestra. Aprì la cassaforte e gli consegnò delle banconote. Probabilmente i 200 Euro di cui aveva parlato. Ma come era venuto a conoscenza della combinazione della cassaforte di famiglia? Sicuramente doveva essere stata mia madre. Il tizio si mise in tasca le banconote senza battere ciglio e alzò la mano destra in segno di saluto prima di aprire la porta dello studio e di andarsene. «Certo che casa mia è proprio ben frequentata di notte!», mi veniva da ironizzare, mentre rimanevo immobile innanzi allo schermo di un computer che mi offriva la visione dello studio per capire se Don Carmine se ne fosse andato finalmente a dormire.

Dunque, era stato Don Carmine a far sparire le famose carte che mia madre cercava! Ma cosa c’entrava mia madre? Da quali guai l’avevano fatta uscire? In che modo l’avevano aiutata? Chi era quello strano tipo? E Felicia? Che ruolo aveva in quella situazione? Non mi piaceva ciò che avevo scoperto. E, di certo, mi sarebbe piaciuto ancor meno quello che ancora avrei dovuto scoprire! Che Felicia avesse ragione nel dire: “Poverina, non ha capito niente!”? A cosa si riferiva? Beh, avrei dovuto sbrogliare la matassa! Lo dovevo al benessere e alla serenità della mia vita. Ma non mi spiegavo perché quel tipo avesse detto a Don Carmine che mia madre aveva deciso di sposarlo solo per interesse. E poi cosa significava che Monti era un fallito? In che senso? Che ciò che avesse detto fosse attinente alla sua scomparsa? Che c’entrasse qualcosa persino Don Carmine? E mia madre, che ruolo aveva in quella storia? Mi sarei dovuta dar da fare, non sarei potuta rimanere con le mani in mano, una ragione per sposarsi dopo così tanti anni di vedovanza doveva esserci. Attesi cautamente che Don Carmine uscisse dallo studio dopo essersi scolato almeno un paio di bicchierini di cognac. Fu un’attesa interminabile. Non riuscivo più a sopportare di starmene chiusa in quella stanza senza vie d’uscita se non quella del finto muro con cui si accedeva allo studio. Finalmente verso le 2:21 se ne andò e fui libera di uscire. Ero stanca e affamata, ma decisi di andare al terzo piano per scoprire cosa stesse facendo Felicia. Quando mi avvicinai al ripostiglio, udii delle risate provenire dall’interno. Aprii senza bussare, indispettita che Felicia fe i propri comodi in una casa che non era sua. La trovai seminuda distesa sul tappeto che ricopriva una buona parte di pavimento con un ragazzo a torso nudo, intenti a sarsela su un plaid in mezzo ai pacchi e alle scartoffie disseminate per la stanza polverosa. «Cosa ci fai tu qua?», chiese Felicia con un punto di domanda e cercò di coprirsi un seno fuoriuscito dalla camicia da notte tra le braccia del ragazzo che, invece, non pronunciò una sola parola.

«Ma che stai facendo?», le chiesi senza usare mezzi termini. «E chi è questo?», la interrogai chiedendole del ragazzo. «Come ti permetti di entrare in questa stanza senza neanche bussare!», rispose, trattenendo per un braccio il ragazzo che, invece, aveva intenzione di andarsene. «No, come ti permetti tu di appartarti con uno sconosciuto in questo ripostiglio!», sbottai. «Ti sei trasferita solo da qualche giorno e già ti permetti il lusso di fare i comodi che credi?», le chiesi indignata. «Domani facciamo i conti a tavola: te la preparo io la colazione!». «Io non mi metterei a fare la morale, dopo averti vista con un uomo che ti accompagna al cancello e con cui hai fatto chissà cosa!», mi rinfacciò. Doveva avermi vista con Mark e si era subito presa la briga di farmelo sapere. «C’è solo una piccola differenza tra noi, io sono a casa mia e tu no!», risposi. «Non credo proprio», contestò con fermezza lei. «Forse non ti hanno ancora informata che siete sul lastrico da anni e che tutto quello che ci circonda è come se appartenesse anche a me, visto che mi spetta almeno il 50% del patrimonio di mio padre!». «Beh, se ti riferisci a Don Carmine, domani ne parleremo anche in presenza di mia madre, visto che mi avete nascosto un bel po’ di cose!», esclamai rabbiosamente. «Io me ne vado!», si intromise il giovane che recuperò il maglione per terra con l’intenzione di andarsene. «No, resta!», gli chiese Felicia. «Non ti sta cacciando nessuno!», chiarì, afferrandolo per un braccio mentre raccoglieva il suo maglione per infilarselo. «Felicia!», la richiamai all’ordine, ma mi ignorò. «Lui può restare proprio come me!», specificò poi a chiare lettere. «Ne riparleremo a colazione!», minacciai e me ne tornai in camera piena di rabbia.

Non sopportavo la situazione che si era venuta a creare. Mia madre mi doveva delle spiegazioni, a quel punto. Non sapevo fossimo sul lastrico. Sapevo che Don Carmine aveva in mano l’azienda appartenuta per generazioni alla famiglia Monti a cui aveva, nel tempo, aggregato l’attività produttiva della sua famiglia di origine. Sapevo che i genitori di Don Carmine avevano iniziato le loro redditizie attività raccogliendo le olive e gestendo un paio di botteghe oltre alla cooperativa dei nonni, ma che, per una serie di sfortunate coincidenze e difficoltà economiche dovute alla non sempre florida raccolta annuale e alla fallibilità di un esercizio commerciale, si erano ritrovati poi a occuparsi solo della bottega “Il moro”, quella in cui lavoravo con Loretta e della cooperativa. Sapevo pure che Don Carmine, a differenza dei genitori contadini che poca dimestichezza avevano con gli affari, aveva un particolare fiuto e lo aveva dimostrato portando alla propria attività un’inaspettata rinascita, non appena iniziò a divenirne l’amministratore. Mio padre, Gentile Monti, gli aveva dato una mano, anche preso dalla solidale amicizia che li aveva sempre uniti. Come fratelli. Poi, però, a stravolgere i loro rapporti era giunta mia madre di cui si erano innamorati entrambi. Ancora non mi spiegavo il motivo per il quale fossimo sul lastrico. Papà Monti ci aveva lasciato in un momento florido per l’azienda, anche se mia madre si era sempre dimostrata incapace di gestirne le sorti soprattutto quando, una volta rimaste sole, occuparsi degli affari di famiglia era risultato più difficile e complesso di quello che avremmo potuto immaginare. Mia madre avrebbe preferito occuparsi sempre e solo della famiglia piuttosto che degli affari e il restare vedova le aveva ulteriormente complicato la vita. Sapevo che aveva chiesto appoggio a Don Carmine in nome del legame che li univa, un sentimento che era rimasto immutato negli anni. Non potevo dimenticare che avessero tradito Gentile Monti e che io fossi il frutto di una relazione clandestina a scapito di un uomo che non lo meritava. Era pur sempre il padre che mi avevano sempre fatto credere di aver perso e non avrei permesso a nessuno di mortificarne il ricordo. La mia camera accolse nel silenzio notturno la mia stanchezza. Non avevo voglia di cambiarmi. Mi buttai sul letto vestita. Sfilai le scarpe da tennis e mi distesi sulla coperta.

Notai di avere ancora addosso l’odore di Mark. Un odore particolare, un odore unico, inconfondibile, che mi sarebbe rimasto a lungo nelle narici e nel ricordo di quella lunghissima notte. Speravo che il tempo asse in fretta. Volevo fosse già mattina e, in effetti, lo era quasi, dal momento che erano le tre ate. Mi addormentai colta da un sonno accentuato dalla spossatezza accumulata in seguito agli eventi che si erano susseguiti negli ultimi tempi. L’alba non si fece attendere e il cielo ricominciò a illuminarsi oltre l’orizzonte. La finestra lasciata socchiusa mi portò la freschezza di un’aria autunnale che arrivò a rinfrescare per prime le spalle. Avevo freddo. Mi svegliò il rumore di una porta sbattuta in corridoio. Ero stanca. Avevo degli strani dolori alle ossa. Avevo dormito vestita e mi ero certamente raffreddata. Sbirciai con un occhio socchiuso l’ora all’orologio appeso di fianco alla porta e notai che erano già le 7:10. Volevo ancora dormire, ma sapevo di dovermi alzare. Sapevo che una doccia mi avrebbe ritemprata. Inoltre, avevo bisogno di cambiarmi. Quando mi presentai in salone puntuale per la colazione imposta a tavola da mia madre, non trovai altri che Betta. «Cosa è successo? Non si è presentato nessuno a far colazione?», sorrisi ironicamente, mentre mi accomodavo. «Sono in cucina. Adesso arrivano», mormorò Betta, sistemando in tavola il pane affettato per esser assaporato con un sottile velo di burro fresco e marmellata. Quando giunse mia madre, Betta corse in cucina. Sembrò volesse evitarla. Si notava che la temeva. Ma io, invece, non mi sarei mai dovuta far intimorire soprattutto dalla presenza di Don Carmine, qualunque fosse il suo ruolo in quella casa e nella nostra vita. «Dobbiamo parlare, mamma», le anticipai compostamente, mentre mi servivo una tazza di latte caldo nel quale immergevo un cucchiaino di miele. «Hai dormito male a digiuno?», mi chiese ostentando un mezzo sorriso che giudicai assolutamente fuori luogo. «Sto parlando seriamente», cercai di riafferrare le redini di un discorso che

voleva sfuggirmi di mano a ogni costo. «Ti dispiace se parliamo dopo?», mi chiese poco prima che Don Carmine fe il suo ingresso in soggiorno.

Capitolo X

«Cosa vuoi dirmi?», iniziò a chiedere mia madre dopo aver fatto una silenziosa colazione come me che, all’arrivo in sala di Don Carmine e Felicia, rimasi del tutto indifferente. «Controlli sempre i video registrati nella stanza della sorveglianza?», le chiesi senza indugiare, quando rimanemmo sole in corridoio, poco dopo esserci accertate che Don Carmine fosse uscito e Felicia si fosse rintanata nella sua camera. «Perché me lo chiedi?», rispose con un’ulteriore domanda. «Don Carmine conosce quella stanza?», le chiesi sottovoce, nel timore che qualcuno potesse sentire le nostre parole, mentre si udiva solo la presenza di Betta che dalla cucina maneggiava delle stoviglie. «No» fu la sua risposta. «Non la conosce», e cercò di abbassare anche lei la voce. «Hai controllato i video degli ultimi giorni?», la incalzai. «No», rispose «Lo fa Alfonso da anni, perché dovrei scomodarmi io?», mi ricordò. Alfonso era una persona di fiducia da sempre. «Per esempio, perché ieri ho scoperto che Don Carmine ha fatto entrare in casa uno strano tipo a cui ha dato ben 200 Euro per far sparire le carte che cercavi!», le rivelai. «Sei sicura?», chiese ostentando una composta titubanza in merito alla mia rivelazione. «Certo!», risposi «Ma perché credi ti abbia sottratto quelle carte? Di che cosa si tratta? A chi appartengono?».

«Di sicuro avrà avuto i suoi buoni motivi. Non dimenticare che Don Carmine ha molti dipendenti stagionali!», cercò una motivazione banale e deviò le risposte. «Già, compresi quelli che lavoravano per noi? E poi, dico io, che senso ha fare una scenata di rimprovero a Betta, se le ha fatte sparire lui quelle carte?», intavolai un discorso a cui tenevo. «Deana, sai bene che da quando Gentile Monti è morto abbiamo dovuto sobbarcarci importanti responsabilità. Come avremmo potuto farlo da sole? Credo che Carmine volesse solo aiutarci». «Ed è per questo che hai deciso di consegnargli l’azienda di papà?», chiesi indispettita per quel suo superficiale atteggiamento. Pareva avesse sempre una risposta pronta per tutto. «Non è Gentile Monti tuo padre. Mi sembra arrivato il momento di cominciare a chiamare ciascuno nel modo giusto!», mi riprese. «No, cara mamma. Non puoi impormi di chiamare padre un uomo che mi avete sempre fatto considerare un amico di famiglia. Non puoi!», esclamai cominciando ad alterarmi. «Ricordati che ora, comunque, le nostre sorti economiche sono nelle sue mani e devi trattarlo con la dovuta considerazione e il rispetto che merita per gli anni in cui ci ha aiutato a sopravvivere in assenza di Gentile». «Hai ragione, ma non per questo devo sentirmi in dovere di chiamarlo padre!», le ricordai. «Fa’ come credi», concluse. «Ora ho da fare», fece per andarsene, ma la trattenni impedendole di dirigersi verso la porta del salone. «Siamo sul lastrico, mamma?», chiesi ricordando con amarezza le parole che mi aveva sputato addosso Felicia la notte precedente, quando l’avevo sorpresa nel ripostiglio in compagnia di un ragazzo. «Chi ti ha detto una cosa del genere?», mi chiese quasi timorosa di ammettere la verità. «È stata Felicia. La scorsa notte», le feci sapere. «Dopo averla sorpresa nel

ripostiglio del terzo piano mezza nuda in compagnia di un ragazzo!», la informai. «Voglio solo sapere se è vero e come sia possibile una cosa del genere, visto che papà ci ha lasciato un’attività che godeva di ottima salute!». «Deana… », fece per rispondermi, ma sembrava le mancassero le parole. «Mamma, ti prego, dimmi la verità per una volta. Cosa è successo alle attività di papà?», avevo bisogno di sapere. «Non lo so», rispose fingendo di non interessarsene. «E arrivati a questo punto, credo non conti più molto». «A cosa ti riferisci?», le chiesi con un filo di voce, cercando di interpretare le sue parole «A quale punto?», incalzai. «È troppo tardi, Deana», rispose, ma non sapevo a cosa si riferisse. «Per cosa è troppo tardi? Che vuoi dire?», chiesi ancora, ma non mi rispose e continuai a chiederle «Ma cosa ti è successo per reagire in questo modo? Cosa?», insistei con un tono che rasentava l’implorazione. Le sue parole seminavano in me ulteriori dubbi. Mi avrebbero fatto pensare qualunque cosa. Cosa avrei dovuto capire? Cosa avrei dovuto interpretare? A cosa si riferiva? Perché era troppo tardi? Tardi per cosa? «Ci sono momenti che ci portano a compiere determinate scelte, Deana. Scelte che non avremmo mai immaginato di compiere. Scelte che costano, che fanno male, che possono danneggiare, ma che sono spesso necessarie. Ricordalo!», pareva perdersi in un lontano ricordo. Pareva assentarsi per rifugiare ogni sua banale scusa dove nessuno avrebbe immaginato di trovarla. Lei se ne andava chissà dove e io non avrei mai potuto raggiungerla. Andò via e mi lasciò con maggiori dubbi. Sola a riflettere e a comprendere tutto e il contrario di tutto. Ero dispiaciuta per le sue parole. Non riconoscevo in esse la madre che mi aveva cresciuta. Non riconoscevo la donna che pensavo fosse sempre stata, combattiva e fiera. Nella donna che mi ritrovavo innanzi trovavo solo una persona oberata di sofferenze dovute a una serie di condizionamenti.

Il suo rapporto con Gentile Monti era sempre stato magnifico, almeno per ciò che sapevo e per quello che mi era stato raccontato. Si amavano Gentile e Mimosa. Si amavano davvero. Ci avevo sempre creduto, come le loro famiglie, come aveva dimostrato la loro tanto breve quanto meravigliosa unione. Poi il nulla si era impossessato del loro rapporto. Poi qualcosa si era intromesso, qualcosa che aveva interrotto un legame che a troppi era parso quasi indissolubile, se non fosse stato per la comparsa di Don Carmine e per quella sua voglia di potere. Voleva mia madre. L’aveva sempre voluta e alla fine l’aveva ottenuta. Non sapevo se con le buone o con le cattive. Non sapevo realmente in che modo. Anche se io ne ero la prova lampante. Io ero loro figlia e avrei dovuto rassegnarmi a quella rivelazione, a quella realtà che mi stava scomoda, ma che avrei dovuto comunque accettare senza poter opporre resistenza. Per quanto ne fossi scandalizzata e sconvolta, non avrei potuto farci un bel niente. Ero un fatto compiuto. Ero la prova che il loro legame era stato vissuto in tre e non certo in due come in qualunque normale matrimonio. E Felicia era nella mia stessa condizione. Anche lei era figlia di Don Carmine e, probabilmente, anche lei aveva dovuto accettare una situazione familiare insostenibile. Anche il matrimonio dei suoi era stato composto da tre persone, tre legami, tre rapporti inconciliabili. Sua madre, Don Carmine e mia madre. Le nostre erano state due famiglie distrutte. Completamente distrutte da rapporti multipli che avevano ucciso l’amore. L’avevano prima offeso, poi usato, condannato, sfruttato, lacerato e infine massacrato. E io ne ero uscita ferita. Traumatizzata. Del tutto sconvolta. Se non fosse stato per Mark, se non fosse stato per lui e solo per lui… Sì, ero diventata debole. Troppo per reagire, per decidere di ricominciare davvero, ma, ormai, per come si erano messe le cose, sapevo di dover scoprire la verità. Lo dovevo alla memoria di Gentile Monti. Non avevo mai creduto che avesse deciso di togliersi la vita, perché non avrebbe avuto alcun motivo farlo. Non avrebbe avuto alcun plausibile motivo, a meno che… Andai in bottega. Avevo bisogno di rilassarmi altrove. E il mio altrove era il

centro cittadino. Il momento in cui mi lasciavo andare tra i sentieri percorsi per raggiungerlo, tra le viuzze seminascoste dalla selvaggia vegetazione che circondava la tenuta Monti, tra odori di campagna che salivano alle narici intensi come profumi studiati in laboratorio e qualche saluto alle persone che conoscevo e che m’incontravano sul cammino. Mi mancava il tempo della serenità. Mi mancava ciò che avevo scoperto con mio padre Gentile, quando ero solo una bambina. Quando ero troppo piccola per apprezzare ciò che mi sarebbe poi mancato per il resto della vita. Ciò che non sarei più riuscita a godermi in sua assenza. Ciò che faceva troppo male da vivere in solitudine. I più piccoli e insignificanti piaceri della vita. I dettagli vissuti nell’apprenderne l’esistenza e che non riuscivo più a sentire nel profondo, perché ero troppo inaridita dalle tempeste che avevano investito la mia vita. Anche se sapevo che avrei dovuto combattere. Reagire. Ricominciare. Sebbene costasse fatica e fosse un compito arduo. Loretta aveva gli occhi lucidi quando incontrai il suo sguardo, una volta giunta in bottega. «Cosa è successo?», le chiesi con un filo di sana curiosità. «Ho litigato col mio ragazzo», disse cercando di nascondere l’emozione che rivelava un attimo di debolezza. Lei, dopotutto, i problemi aveva sempre preferito lasciarli a casa. «Mi dispiace», le dissi senza aggiungere altro. Non volevo risultare inopportuna. Se avesse voluto parlarmene, lo avrebbe fatto da sola. Intanto, rovistando nella borsa di finta pelle scura mi accorsi di aver dimenticato il cellulare e, dato che era l’unico mezzo per restare in contatto con Mark, sentii la necessità di tornare a casa a recuperarlo. Forse avrei fatto bene a non tornarci. Almeno non in quel momento. Eppure, ingenuamente, lo feci, dicendo a Loretta che sarei tornata subito pur non dicendole dove sarei andata. Rifeci di corsa la strada verso casa, cercando di non urtare i anti, cercando di non inciampare nei fossi in cui mi sarei imbattuta lungo il cammino irto di ostacoli, tra il fogliame degli alberi semispogli e le stradine scoscese che non erano altro che scorciatoie create dai residenti per raggiungere il centro in breve

tempo. Corsi, ma mi fermai a tratti per riprendere fiato. Era davvero troppo importante recuperare l’unico mezzo con il quale sarei potuta rimanere in contatto con Mark. Era troppo importante in quel momento. Raggiunsi il cancello e, senza accorgermene, m’imbattei in Alfonso, il guardiano. «Ciao Alfonso, come stai?», dissi col fiatone. «Buon giorno», sorrise e alzò una mano in segno di saluto, a due i da me. Alfonso era un signore sulla cinquantina che aveva cominciato a lavorare con Gentile Monti molti anni prima. Educato e ben disciplinato, si era sempre fatto apprezzare per la puntualità e per la correttezza. Aveva conosciuto e frequentato mio padre Gentile da giovanissimo e, in seguito, seppur avessero deciso d’intraprendere strade diverse, si erano sempre tenuti in contatto. Al punto che un giorno Monti decise di assumerlo alle proprie dipendenze, perché era uno dei pochi di cui aveva piena fiducia e al quale aveva affidato il controllo della sicurezza della tenuta. Non avevo mai chiesto ad Alfonso cosa fosse accaduto la notte della scomparsa di Monti. Quella notte lui non c’era. E il giorno successivo eravamo tutti troppo preoccupati e sconvolti per chiedergli cosa avesse visto nelle registrazioni di quella sera. Non gliel’avevo mai chiesto. E lui, comunque, non aveva mai affrontato l’argomento. Qualche sorriso. Qualche saluto. E niente altro. Il tempo aveva fatto il resto. Alfonso era un tipo discreto e, senza dubbio, attento agli umori che lo circondavano. Quella mattina lo rividi dopo tanto tempo e ne approfittai per fare una pausa che mi permettesse di invitarlo a trattenersi con me fuori dal cancello «Hai mai riguardato con attenzione i video che riprendono la notte della scomparsa di mio

padre?». «Era da anni che non mi si faceva questa domanda», rispose fissando il terreno ai suoi piedi. «Perché? Chi altri te lo ha chiesto?», domandai incuriosita. Dopotutto, all’epoca io avevo solo cinque anni ed ero una bimba indifesa che non faceva che piangere. «La polizia volle verificare le registrazioni, ma non c’era niente che rivelasse il motivo per cui Suo padre avesse deciso di uscire quella notte», sentenziò. «Che vuoi dire?», lo incitai a proseguire. «Suo padre nei video era molto tranquillo o almeno così pareva. Usciva evidentemente dalla camera da letto che condivideva con Sua madre, quando lo riprese il primo video, quello nel corridoio del secondo piano, intendo», fece una pausa, grattandosi il capo semicalvo, nel tentativo di cercare le parole giuste con le quali raccontare ciò che era ato sotto i suoi occhi «Poi compare nel video all’ingresso e, infine, in quello che riprende il cancello», terminò. «E mia madre? Era presente nei video?», chiesi ciò che più mi premeva sapere. «Credo di sì, ma non ricordo con certezza. Sono ati molti anni. Quei video sono stati archiviati sia dalla polizia che ha dichiarato la sua scomparsa imputabile a cause accidentali sia dalla famiglia di Sua madre», dichiarò. «Chi della famiglia di mia madre ha visto il video?», chiesi. «Credo un paio di sorelle e i loro mariti», cercò di ricordare quel che sapeva e di cui non parlava da tantissimo tempo. Il suo sguardo era malinconico e ancora imbarazzato nel parlare di quella misteriosa e sconvolgente circostanza. «Zia Anna e zia Rosy li hanno visti?», chiesi insistendo. «Sì, certo. Sua madre era troppo sconvolta. Le due signore accorsero alla tenuta il giorno seguente, quando furono chiamate da Donna Mimosa che rese nota la scomparsa del marito». «E arrivarono le mie zie?», insistei, perché non ricordavo affatto la loro presenza

in casa. «Sì, arrivò pure Don Carmine», raccontò. «Anzi, se non sbaglio, Don Carmine fu il primo a occuparsi di avvertire le autorità», e il silenzio tornò a sovrastare le nostre anime. Alfonso fece per entrare in tenuta, ma lo trattenni per chiedergli «E cosa scoprì la polizia? Quale fu il verbale stilato in seguito alle testimonianze dei coinvolti e alle indagini?». «Sono stato interrogato pure io, signorina. Lei non può ricordarlo perché era troppo piccola. Siamo stati interrogati tutti e nessuno sapeva il motivo per cui Don Gentile avesse deciso di andarsene a so in piena notte verso il bosco. E poi, la conoscono tutti in paese la storia del bosco. Nessuno ci si avvicina se non vuole fare una brutta fine». «La polizia lo sapeva? Voglio dire, cosa hanno appurato in seguito?». «La polizia ha indagato, cercato, appurato. Hanno usato pure le unità cinofile per intensificare le ricerche. E i cani, lo sa bene, hanno fiuto, sono addestrati. Ma Don Gentile non fu trovato nel bosco. Il suo corpo lo restituì il mare nei giorni a seguire e si suppose che si fosse buttato o fosse accidentalmente caduto nel dirupo». «Tu hai prestato servizio nella notte?», cercai il suo sguardo che non arrivava. «Voglio dire, a che ora te ne sei andato quella sera?». «Alle 22:00, come sempre. Ho programmato le registrazioni per l’intera notte e me ne sono andato», sospirò. Si portò una mano sul fianco e decise di entrare. Cominciava il suo lavoro. Doveva ispezionare i dintorni prima di dare uno sguardo alle registrazioni della notte. «Aspetta, Alfonso», lo trattenni ancora «Don Carmine non conosce la stanza della sorveglianza, vero?». «No, la conosce solo Lei e Sua madre», confermò. «Perché?», chiese con una smorfia del volto che gli corrugò la fronte. «Perché non dovranno mai conoscerla», dissi con decisione.

«Si figuri! Io sono a servizio vostro. Conoscevo Don Gentile da anni già prima di lavorarci assieme e Le pare che mi metterei appresso a gente che non mi interessa?». «Grazie, Alfonso», terminai e mi congedai, precedendolo all’entrata della tenuta per dirigermi verso casa. Alfonso cominciò a fare il giro d’ispezione. Il giro della tenuta, dei dintorni, della casa e, infine, discretamente, l’accesso allo studio. In casa, però, c’era solo Betta che spolverava «Già tornata a casa?», si stupì nel rivedermi tanto presto. «Sì, ho dimenticato una cosa in camera», dissi precipitandomi, senza neanche guardarla. «Aspetta», disse cercando di trattenermi «Devo dirti una cosa» mi incuriosì. «Cosa?», mi affrettai subito a dire, prima di allungare il o per attraversare il corridoio. «Vieni con me un momento», mi chiese con fare discreto, indicandomi il giardino. «Che succede, Betta? Devo scappare in bottega, non posso trattenermi, lo sai!», sbuffai facendole capire che avevo premura. «Il giardiniere che viene due volte al mese, ha trovato qualcosa», disse sottovoce avvicinandosi in punta di piedi, nel timore che qualcuno, fin anche le pareti, potesse sentire. «Cosa?», chiesi ancora più curiosa da quella strana novità. «Seguimi!», disse facendomi strada. La seguii esterrefatta, pur consapevole di perdere altro tempo prezioso, se Don Carmine fosse ato per la bottega e non mi avesse trovato, avrei avuto dei seri problemi, almeno per una volta. Betta si guardava intorno, temendo il rientro improvviso di qualcuno. Qualcuno

che avrebbe potuto spiare i nostri i. Capii di dover stare attenta. Capii che il gioco a cui stavo partecipando si sarebbe potuto fare pericoloso e che quel che avrei potuto scoprire avrebbe sconvolto le mie giornate successive. Poco distante dal nostro giardino, dove le siepi si ergevano oltre lo steccato per raggiungere la libertà della vegetazione che ci circondava a perdita d’occhio, c’era un olivo che pareva mezzo sradicato. Le sue lunghe e profonde radici mostravano un’irregolare e frettolosa solcatura ai margini. Il terreno era stato spostato in malo modo e da esso emergeva qualcosa o, meglio, la punta di qualcosa. Betta prese tra le mani la pala lasciata appoggiata al tronco dal giardiniere e cominciò a spostare il terreno. Era un oggetto argentato, qualcosa di… ma come? Una cassetta argentata! Mi accovacciai per guardarla meglio. La presi tra le mani. Era chiusa. Forse sigillata. Ma non particolarmente pesante. «Che cos’è?», chiesi guardando una Betta silenziosa che mi scrutava senza aprir bocca. «Non lo so», disse poi «Il giardiniere mi ha detto di aver trovato questa cosa e ho pensato di dirlo prima di tutto a te», mi fece sapere. Sorrisi. Avevo qualcuno dalla mia parte. Ne ero contenta e sussurrai «Grazie Betta». Poi mi alzai e mi diressi verso la camera, dicendole «Non farne parola con nessuno e riferiscilo anche al giardiniere. Lo ricompenserò per il suo silenzio», terminai. «Va bene», rispose, mentre cercava di risistemare con la pala il terreno. Tornai in camera e appoggiai la cassetta sul letto. Chiusi a chiave la stanza e accostai la finestra. Tirai le tende, per impedire che qualcuno potesse spiare dall’esterno. Dovevo trovare il modo di aprirla per vedere il contenuto. Ma, come? Non pareva particolarmente logorata dal tempo e soprattutto dalla terra nella quale era stata trovata.

Mi diressi verso l’ultimo cassetto dell’armadio in cui custodivo dei documenti e una busta con i risparmi per le emergenze. Presi 50 Euro. Mi diressi in cucina. Trovai Betta a preparare il pranzo e le ai la banconota, dicendo «Porta questi soldi al giardiniere. Ringrazialo da parte mia e chiedigli di non far parola a nessuno di quello che ha trovato». «Vado», rispose Betta, prendendo la banconota dalle mie mani e dirigendosi verso il giardino dove l’anziano dipendente di casa Monti stava ripulendo il terreno dalle erbacce secche. Attesi che Betta uscisse dalla cucina per prendere un coltello dal cassetto e tornai in camera. Richiusi a chiave. Avevo l’affanno, pur non avendo corso. Ero spaventata. Ero preoccupata. Avevo l’ansia. Ma dovevo aprirla. Mi precipitai ai piedi del letto e cominciai ad armeggiare con la cassetta introducendo la punta del coltello nella fessura del coperchio. Davanti e dietro. Con forza, con tenacia, con insistenza. Con la speranza di trovare qualche risposta alle mie domande. Non riuscivo. Non ce la facevo. Sembrava ben serrata, seppur non vi fosse una toppa che fe presagire l’esistenza di una chiave. Niente. Sospirai. A quel punto squillò il telefonino che avevo lasciato sulla scrivania. E solo il suo insistente trillo mi ricordò di dover tornare rapidamente in bottega. Lessi sul display illuminato il nome di Loretta. Risposi «Dimmi». «Ma dove sei finita?», mi sentii dire dall’altro capo a bassa voce «Don Carmine è qui e mi ha già chiesto come mai non fossi ancora in bottega!», proseguì, facendomi intendere che, nel frattempo, stava intrattenendo dei clienti e forse non avrebbe badato alle sue parole «Torna veloce come un fulmine con un paio di caffè! Gli ho detto che sei andata al bar a prender qualcosa. Corri!», terminò, poi, chiudendo la comunicazione. M’infilai rapidamente il telefonino nella tasca interna del jeans e riposi la cassetta sotto il letto insieme al coltello. Mi precipitai verso l’uscita prima di esser notata da qualcun altro. Temevo d’incontrare mia madre al ritorno dal suo solito giro di spese. Le piaceva collezionare aromi per la cucina e andar per funghi, anche se quest’ultima

attività la praticava di rado. Inoltre andava a trovare le sue amiche di gioventù, quelle con cui l’amicizia non si era interrotta e che erano rimaste a vivere nei dintorni. Corsi come una forsennata per i soliti sentieri, nella speranza di non incappare in qualcuno di mia conoscenza che avrebbe potuto riferire a mia madre di avermi vista in giro, invece che in bottega. In paese la gente amava spettegolare. L’aria si era rasserenata. Il sole avrebbe riscaldato l’intera giornata. Speravo durasse. Speravo riscaldasse ancora la mia fredda pelle. Soprattutto in assenza di Mark e nell’attesa di ritrovarlo ancora fra le mie braccia. Avevo voglia di sentirlo, di sapere dov’era e cosa stesse facendo in quel momento. Di certo era in viaggio verso Roma e da lì si sarebbe imbarcato su di un volo diretto a Bruxelles. Forse mi avrebbe chiamata, una volta giunto a destinazione. Forse mi avrebbe raccontato il matrimonio del fratello e probabilmente avrebbe parlato di me alla sua famiglia. Ero eccitata alla sola idea. Eccitata e felice. Una sensazione che non conoscevo mi pervadeva e mi piaceva. Volevo non mi lasciasse un solo istante, perché mi faceva sentire viva come nessun altro. Mi mancava il suo sguardo così intensamente brillante. Così gioioso, così vorace dei miei occhi, della me osservata da ogni angolazione. Mi mancava la sua stretta forte, protettiva, risoluta e travolgente. Mi mancava la sua voce. La profondità delle sue parole. Sì, grazie a lui avevo scoperto la bellezza di udire parole che ci rincuorano, che ci rafforzano, che ci confortano, che ci proteggono, che ci lusingano, che ci ammaliano, che ci rapiscono, che ci tentano, che ci portano via lontano a volare con la fantasia e l’illusione che attraverso di essa saremo più liberi da ogni assurda convenzione, da ogni fatua convinzione, da ogni voluttuoso pregiudizio. Entrai in bottega con un sorriso che celava a stento l’affanno per aver corso verso un bar lungo la strada per prendere un paio di caffè. Non avevo idea di quanto tempo fosse ato dal momento in cui Loretta mi aveva chiamata, ma feci buon viso a cattivo gioco e finsi un atteggiamento normale. Don Carmine, col suo solito sigaro spento in bocca seduto a borbottare con Loretta dietro al bancone, mi accolse con un segno della mano che stava a

indicare che finalmente mi ero fatta viva «Eccola coi caffè, era ora!», esclamò a mezza bocca. «Ho cambiato bar!», feci sapere, di modo che non potessero andare a informarsi dai conoscenti al “Bar dell’angolo” e non potessero calcolare e quindi controllare la durata della mia assenza. «In che senso?», chiese Loretta cercando di mettermi a disagio. Forse si stava vendicando per le volte in cui mi ero presa la briga di assentarmi dal lavoro senza avere il permesso e senza ritrovarmi una parte di stipendio decurtato. A lei non erano mai andate giù le preferenze che mi erano riservate, pur non sapendo che Don Carmine me le concedeva in virtù del fatto che io fossi una delle sue figlie naturali. Dopotutto, in paese nessuno lo sapeva e se si fosse scoperto, se ne sarebbero dette di cose! Probabilmente, si sarebbe iniziato a parlare dello stesso argomento per anni. Le vecchie comari vestite quasi sempre di nero, con il solito scialle ricamato sulle spalle per ripararsi da eventuali colpi di vento e il foulard colorato in testa che non perdevano mai occasione d’indossare in qualunque stagione, attraverso i quattro denti ancora in bocca, ostentavano un’illibatezza conservata tutta la vita, ma con la quale non si rendevano conto di rasentare il ridicolo, una volta oltreata una certa età. Beh sì, a loro piacevano i pettegolezzi familiari a sfondo sociale: l’idea di poter are da orecchio a orecchio piccanti novità aventi per oggetto i fatti privati di qualche compaesano sarebbe stato un diversivo troppo interessante per potervi rinunciare. «C’era troppa gente al bar dell’angolo», sorrisi porgendo loro i due caffè ancora caldi. In quel momento in bottega non c’erano clienti e per dimostrare buona volontà mi misi a far le pulizie, come era giusto fare ogni Santa mattina al nostro arrivo. Volevo dimostrare a Don Carmine di essere una buona impiegata, di saper fare il mio lavoro, di potermi impegnare a rispettare le regole che mi avrebbe imposto con maggiore severità in accordo con mia madre. Loretta, chiaramente, era all’oscuro di tutto. Avrei voluto parlargliene, ma sapevo di dover trovare l’occasione e il momento più opportuno. Notavo Don Carmine osservarmi. Osservare ogni mia espressione del viso, ogni

mio movimento, insomma mi controllava. E non mi piaceva. Avevo la strana sensazione che volesse studiarmi, volesse capirmi, ma io non volevo che mi capisse. Volevo che mi ignorasse, perché volevo starmene per conto mio. Non accettavo l’idea di doverlo considerare mio padre. Era un’ipotesi completamente campata in aria. Non avevano fatto nulla per dirmi quale fosse la vera identità di mio padre. Per anni avevano giocato con i sentimenti delle persone. Loro. Sì, lui e mia madre e, forse, ma di questo non potevo avere la certezza, anche Felicia, sebbene sapessi quanto avesse sofferto nel perdere sua madre in un incidente stradale in compagnia del fratello, suo zio. Già, un incidente che aveva reso Don Carmine vedovo e, pertanto, libero da vincoli. Un incidente strano. Un incidente capitato solo qualche anno dopo la scomparsa di mio padre. Certo, le casualità possono esistere quando si parla di incidenti, ma il destino forse ci aveva messo del suo e non riuscivo ad accettarlo. Era una situazione assurda e spiacevole. Vergognosa e deprimente.

Capitolo XI

Quella giornata fu difficile. Rimanemmo tutti in bottega. Poi, all’ora di pranzo, tornammo a casa. Don Carmine mi diede un aggio con la sua auto. Mi disse che voleva riavvicinarsi a me per i sentimenti che provava nei confronti di una figlia finalmente consapevole di essere tale. Rimasi silenziosa per il breve tragitto verso casa. Non avevo voglia di stare a sentire le sue prediche e il suo desiderio di riavvicinamento in qualità di padre. Una parola troppo importante per essere intavolata con chi consideravo solo un estraneo, un amico di famiglia, un amico di papà, di quello che mi avevano sempre fatto credere tale, di quello che mi aveva cresciuta fino alla sua scomparsa. Non capiva quanto potesse essere complicato. Non capiva quanto potesse essere difficile la mia situazione. Non poteva capirlo perché era abituato a prendere le cose come venivano e ad accettarle come tali senza battere ciglio, senza fare opposizione, senza dire la sua, senza alcuna forma di ribellione, senza reagire. Lui era diverso. Eravamo diversi. Due persone agli antipodi. Due persone caratterialmente troppo distanti per ritrovarsi improvvisamente vicine. Non avevamo nulla in comune, se non la ione per le attività appartenute alle nostre famiglie, l’amore per gli olivi, il desiderio di raccoglierne al meglio i frutti, di farli apprezzare attraverso una produzione degna del nome e di circondarci di tutte quelle preziose essenze che la natura offriva spontaneamente in ogni angolo. Sarebbe bastato poco. Sì, forse il nostro unico punto d’incontro era quella terra. La stessa che ci aveva visti nascere, crescere, maturare, invecchiare, forse un giorno anche morire. Quella terra che ci stava sotto i piedi e ci nutriva. La terra che era appartenuta alle nostre famiglie di origine, ai nonni e ai bisnonni e, prima di loro, a coloro che l’avevano seminata e coltivata, per permettere ai figli dei figli di ereditarne le preziose peculiarità. Quella terra ci univa e solo essa ci avrebbe davvero divisi. Proprio come quel luogo mi aveva divisa dall’uomo che avevo sempre considerato mio padre e che il mare aveva deciso di attirare a sé in una fredda, buia e dolorosa notte. Quando la luna sale a sorvegliare le onde per indicare il

cammino ai pescatori in mare. Proprio nel cuore della notte, quando essi lavorano e qualcuno dall’alto li osserva. Mentre qualcuno dorme e qualcun altro resta insonne. Mentre il vento sale e gli olivi cantano la loro gioia nell’offrire alla terra i gioielli con cui l’ha coronata madre natura. La tavola a cui ci sedemmo offrì un lungo e disarmante silenzio interrotto solo dall’urtare delle posate contro le stoviglie o dal aggio della saliera e dell’oliera tra le bottiglie di vino e l’acqua minerale. Nessuno guardava in faccia nessuno. E tutti parevano avere un buon motivo per tacere. Mangiavo con noncurante rapidità per riuscire a finir prima il pasto e potermi riposare un’oretta chiusa in camera. Il caffè non lo prendevo. Chiesi «Con permesso», e mi alzai. Nessuno mi degnò di uno sguardo. Tornai in camera. Entrai. Chiusi a chiave. Sospirai. Mi sedetti sul letto. Era giunto il momento di aprire la cassetta. Ci sarei dovuta riuscire a ogni costo. Avevo un coltello e un’ora di tempo a disposizione, prima di esser chiamata per tornare in bottega usufruendo del cortese aggio offerto da Don Carmine. Ripresi quindi in mano cassetta e coltello e cercai di aprirla. Non riuscivo. Non c’era verso e non sapevo come fare. Mi riposai. Le mani mi facevano male. Riposi il tutto sul letto e cercai per la stanza qualcosa che potesse aiutarmi ad aprire la cassetta con maggiore destrezza. La cassetta, però, non aveva una toppa in cui poter infilare una chiave o un oggetto affilato con cui tentare un’apertura a scasso, ma era semplicemente serrata molto bene. Forse la ruggine e l’umidità del terreno avevano fatto il resto, sigillandola. Decisi di recarmi in cucina per chiedere aiuto a Betta, visto che era stata lei a segnalarmela.

«Usa un martello», mi disse a voce bassa, mentre gli altri avevano appena terminato di pranzare e si stavano godendo il caffè davanti alla tv. «Un martello?», chiesi perplessa. «È semplice: appoggi la scatola su un piano rigido e dai una bella botta tra il coperchio e il fondo», terminò «Capito?», chiese vedendomi spalancare gli occhi nel tentativo di comprendere. «Non puoi venire ad aiutarmi?», le proposi a braccia conserte. «Non posso, devo finire di lavare le stoviglie e devo restare in cucina», aggiunse. Sospirai «Hai ragione, allora lo faccio io. Dove trovo il martello?». Insomma, avrei dovuto riuscirci da sola, non potevo contare sull’aiuto di nessuno. Tornai in camera e sistemai la cassetta sul tappeto per attutire il rumore. Il primo tentativo andò a vuoto, presi meglio la mira e colpii con forza. Finalmente la ruggine cedette e la cassetta si aprì lasciando fuoriuscire delle carte ripiegate in quattro e qualche vecchio documento appartenuto a Gentile Monti. Le raccolsi e mi sedetti sul letto per leggerle. Alcune erano lettere prive di busta e mai spedite. Indirizzate da Gentile a mia madre Mimosa, avevano date differenti ed erano scritte a mano, di suo pugno. Sì, riconobbi l’inconfondibile ed elegante grafia di un uomo che aveva sempre amato scrivere nella sua vita. Sapevo che da giovane mio padre aveva l’abitudine di scrivere lettere d’amore a mia madre, ma non sapevo dove fossero custodite, sebbene fossi sempre stata curiosa di leggerle. Finalmente ne avrei avuto l’occasione. Una lettera era datata 22 Marzo 1977. Oltre trenta anni prima. Forse a quel tempo Gentile Monti già corteggiava Mimosa Casale. Forse. La carta era ingiallita, ma non usurata e leggibile. Insomma, si era conservata bene.

C’erano anche dei vecchi documenti d’identità di Gentile Monti e qualche foto in bianco e nero di quando era un giovanotto. Era affascinante scoprirne il volto da ragazzo. Non ricordavo di aver mai visto una sua foto da giovane. Forse in famiglia ne avevano tante e ne parlavano, ma a me non le avevano mostrate. Nei miei ricordi non riaffiorava alcuna immagine, e i pochi che avevo si stavano affievolendo, consumati dall’inesorabile ar del tempo. Avevo voglia di scoprire ciò che mi era stato taciuto. Ciò che sentivo di avere il diritto di sapere, perché mi chiamavo Deana Monti. Decisi di leggere la prima lettera che avevo raccolto.

Sorrento, 22 Marzo 1977

Mimosa mia, speravo leggessi le mie lettere, ma da quanto ho potuto capire, i tuoi genitori ti controllano la posta. Comunque, ti scrivo anche questa. Forse te la consegnerò a mano, forse la conserverò, non so. Ma desidero dirti quanto è forte quello che provo per te e quello che so sta nascendo fra noi. Oggi Carmine mi parlava di te, mi diceva di aver trascorso una bella serata in compagnia dei vostri amici comuni e non mi è piaciuto percepire la soddisfazione con cui mi faceva sapere della vostra uscita. Perché non mi hai detto di essere uscita anche con lui, oltre che con i tuoi vecchi amici del liceo? Perché tenermi nascosta una cosa del genere? Avrei voluto accompagnarti, esserti vicino, corteggiarti, baciarti, tenerti per mano e mille altre cose. C’è qualcosa che non mi convince nel tuo rapporto con Carmine. Non mi piace la complicità che lui ostenta di avere con te. Non voglio neanche considerare l’ipotesi di un suo corteggiamento. E soprattutto l’ipotesi di una tua scelta. Perché, a questo punto, dovrai pur scegliere. Non potrai tenerci sulle spine.

Farci illudere, farci sperare e aspettare ancora per troppo tempo. Non sarebbe giusto. Io, comunque, sarò sempre qua. Pronto a rivelarti quello che provo, quello che vorrei costruire con te, quello che vorrei ci unisse. Qualunque cosa ti venga detta, scegli me. Scegli l’amore. La fedeltà, la voglia di costruire insieme un futuro fatto di noi e delle nostre scelte e sposami. Sono qua. Aspetto un tuo gesto, una tua parola, un tuo bacio. Non te ne dimenticare.

tuo Gentile.

Una lettera molto romantica e molto commovente. Sì, sapeva come dirle le cose, Gentile Monti. E le diceva bene. Decisi di leggere anche le altre, perché volevo rivivere quel momento. Il momento del loro amore, il momento in cui erano riusciti a sposarsi nel lontano 1978, il momento in cui tutto pareva costellato di bei presagi e di una vita da vivere serenamente nelle terre che offrivano tutto ciò di cui qualunque famiglia avrebbe potuto avere bisogno. Raccolsi nel mucchio una lettera datata 20 Dicembre 1981.

20 Dicembre 1981

Mimosa, come me lo hai potuto nascondere? Come hai potuto? Cosa credevi? Che non ne sarei mai venuto a conoscenza? Che la tua tresca non sarebbe mai emersa dalle luride acque infangate nelle quali avete consumato la vostra vergogna?

Avete consumato il vostro rapporto in mezzo al fango della nostra terra, in mezzo alla pioggia, nel cuore della notte, quando pensavate che mai nessuno vi avrebbe potuti scorgere sotto le luminarie dei sentieri che portano alla collina, sotto i fulmini di un cielo rabbioso, e non avete avuto alcun pudore! È stato, dunque, questo il tuo regalo di Natale? È stata questa la tua sorpresa? L’amara sorpresa che volevi riservarmi? Hai consumato una notte che rimarrà per sempre nella nostra vita. Per sempre. La notte di un tradimento che non potrai mai dimenticare, perché te lo rinfaccerò per il resto della tua esistenza.

Gentile.

Quel messaggio si riferiva al tradimento che mia madre aveva consumato con Don Carmine anche se non era nominato esplicitamente. Ma dovevo indagare ancora. Dovevo assolutamente scoprire ciò che c’era da scoprire. Fino in fondo. Fino a svuotarne l’intero sacco. Raccolsi un ulteriore messaggio, datato 10 Marzo 1982, non a caso il mio anno di nascita. E visto che la data della mia nascita è il 15 Settembre, in Marzo mia madre doveva essere già in mia attesa. Per la precisione al terzo mese di gravidanza. 10 Marzo 1982

Ancora non riesco a capacitarmene. Ancora non riesco a credere a ciò che hai avuto il coraggio di confessarmi. Come hai potuto dirmi che non sei sicura della paternità del bambino che hai in grembo? Come hai potuto confessarmi una cosa del genere? Come? Stai distruggendo tutto ciò che di meraviglioso speravo di coltivare con te attraverso l’amore che nutrivo quando mi sono innamorato, quando pensavo potessi essere un’ottima madre per i miei figli e invece scopro che questo figlio, probabilmente, non sarà neanche mio.

Non ho parole. Me le hai levate tutte dalla bocca.

Gentile.

A quel punto, mio padre aveva confessato il suo dolore. Non trovavo giusto ciò che gli era stato fatto. Non era giusto e reputavo privo di senso l’atteggiamento di mia madre. Quel suo primo tradimento sotto la pioggia, in mezzo al fango, nel cuore di una notte illuminata solo dai pochi lampioni tra i sentieri che portavano alla collina, era stato solo l’inizio di un triangolo che si sarebbe protratto per anni. Presi tra le mani l’ultimo messaggio presente nella cassetta che era datato 21 Novembre 1982 e ne ebbi la conferma.

21 Novembre 1982

Ora lo so con certezza. Questa figlia non è mia. È vostra e non ve lo perdonerò mai. Mi avete condannato all’infelicità di un’esistenza che sperava di essere normale, ma che non lo sarà mai. Come avete potuto farmi una cosa del genere? Come avete potuto insudiciare i nostri legami? L’affetto per un amico e l’amore per una donna sono sentimenti che non hanno nulla a che fare tra loro eppure tra noi si sono amalgamati nel più bieco e vile dei modi. Carmine me lo aveva detto. Ti amava. Troppo per resisterti, ma mai avrei pensato che potessi cedere alle sue lusinghe. Si è sposato con una brava donna solo per mascherare il legame che c’è tra voi? No, non posso crederlo. Non voglio crederlo. È stato infame il vostro atteggiamento, vile come la peggiore delle carognate che si possano fare a un uomo a cui si è legati.

Forse l’ho sempre saputo. Forse ti amava troppo. Forse avrei dovuto capire che non saresti mai stata solo mia. Avrei dovuto capire che saresti stata sempre e solo nostra. Che ti avremmo dovuto condividere, perché non avresti potuto appartenere a uno solo. Semplicemente perché, forse, uno solo non ti bastava. Non ti è mai bastato. Tu hai sempre voluto tutto, tu volevi riempirti di tutto e costruire tutto solo per te. Eri troppo egoista per amarci davvero. Perché se sei stata la donna di entrambi, non crederò mai che tu abbia realmente amato uno dei due. No, donne che amano più uomini allo stesso modo e cedono alle tentazioni negli stessi letti che dividono con la famiglia, non saranno mai donne che provano veri sentimenti. Sei confusa. Lo sei sempre stata e cerco di comprenderti, ma, arrivati a questo punto, non ho altro da dirti. Non voglio spartire alcunché. Non voglio spartire altro che una figlia bisognosa di due genitori. Voglio fare il padre e questa figlia porterà il mio cognome. Lo devo a lei e alla tua famiglia. Cosa direbbero i tuoi genitori se scoprissero quello che hai fatto? Ti butterebbero in pasto ai lupi, in mezzo al giudizio della gente, al paese che mormora e non perdona, alla vergogna pubblica, alla maldicenza di chi neanche ti conosce. Ti svergognerebbero per un peccato che è giusto rimanga tra le mura domestiche, quelle di una farsa che stiamo chiamando a tutti i costi matrimonio, solo perché è troppo tardi per rimediare e non voglio scandalizzare il mondo per colpa di ciò che ci ha distrutto.

Gentile.

Avevo le lacrime agli occhi e non riuscivo a pensare. Non riuscivo a emettere alcun suono. Era la conferma. Non ero sua figlia, benché avessi sempre pensato e sperato di esserlo. Come aveva fatto? Come aveva potuto mia madre avere due uomini allo stesso tempo, senza riuscire a scegliere e a decidersi? Come aveva potuto sposarne uno se sapeva che non sarebbe riuscita a rinunciare all’altro? Non riuscivo a immaginarla prima tra le braccia di Don Carmine e poi tra quelle di Gentile Monti. Un giorno con l’uno e il giorno seguente con l’altro. Non ci

riuscivo davvero. E condividevo pienamente quel che Monti aveva scritto su quel pezzo di carta: “… donne che amano più uomini allo stesso modo e cedono alle tentazioni negli stessi letti che dividono con la famiglia, non saranno mai donne che provano veri sentimenti.” La pensavo allo stesso modo. Perché non poteva essere altrimenti. Come aveva fatto a nascondere ai nonni e alle amiche, per non parlare del paese intero, un tale triangolo? Come aveva fatto a nascondere di avere rapporti con due uomini allo stesso tempo e di gestire due famiglie come fosse stata una sola? Don Carmine aveva scelto di sposare la madre di Felicia per comodo, probabilmente. Gli serviva una facciata che potesse impedire qualunque sospetto, che potesse mascherare la realtà dei fatti. Mia madre e Don Carmine avevano avuto tra le mani i destini di due famiglie. Chissà se la madre di Felicia ne era a conoscenza. Chissà se aveva mai scoperto il tradimento del marito. E Felicia? Da quanto tempo sapeva? E soprattutto come lo era venuta a sapere? Le mie domande si moltiplicavano ed erano ancora troppe rapportate alle poche risposte che riuscivo a darmi. Che cosa avrei potuto fare per conoscere il destino di Gentile Monti? Cosa? Frugai tra le altre carte uscite dalla cassetta. Le lessi tutte. C’era persino un certificato medico nel quale si diceva che Gentile Monti aveva problemi alle ossa dovuti ai reumatismi. Poi trovai delle ricevute di pagamento effettuate in vece di Monti e firmate da Don Carmine. Non potevo crederci. Cosa poteva aver pagato Don Carmine? Che le cose in azienda davvero non andassero? Mi sembrava strano. Mi sembrava anomalo. Avrei voluto trovare qualcosa in più, ma a parte un anello e qualche altra vecchia e spiegazzata ricevuta, non trovai nulla. Il contenuto della misteriosa cassetta era lì, innanzi a me e mi diceva poco più di ciò che già sapevo. D’un tratto udii dei rumori in corridoio e decisi di nascondere la cassetta con le carte. Le infilai dentro alla bell’e meglio e feci scivolare sotto il letto anche il coltello e il martello. Qualcuno, infatti, bussò alla mia porta. «Chi è?», chiesi col cuore che galoppava nello stomaco e un senso di disagio imprecisato. «Apri, è ora che torniate in bottega. Don Carmine ti aspetta in auto!», disse la voce di mia madre. «Va bene, arrivo!», le feci sapere. Corsi in bagno a lavarmi i denti. Ripettinai i capelli che lasciai sciolti e andai.

Il ritorno in bottega in compagnia di Don Carmine fu silenzioso. Ci tenevamo a debita distanza e tra noi aleggiava un’aria sconosciuta, un’aria estranea, come ci sentivamo essere. Avrei voluto andare in bottega a piedi, per conto mio, magari percorrendo gli stessi viottoli di campagna che erano stati testimoni, molti anni prima, del tradimento di mia madre con Don Carmine. Cominciai a chiedermi dove mi avessero concepita. Cominciai a farmi domande inutili che non sarebbero servite ad altro che a tormentarmi. Non avrei voluto ripercorrere gli anni della loro storia, né tanto meno scoprire altarini poco onorevoli, ma avrei voluto che fossero stati più sinceri, che mi avessero confidato quello che era successo e come erano andati gli affari. «Come vanno gli affari?», gli chiesi a un certo punto, lungo il percorso che ci portava in centro. «Abbastanza bene», rispose lui, senza batter ciglio. Pareva avesse sempre una risposta pronta. Ma quell’abbastanza bene non mi convinceva e non mi bastava e presi a fare domande che avrebbero messo alla prova la prontezza delle sue risposte. E una risposta data in fretta, si sa, spesso è una risposta che rispecchia la verità, perché non si ha il tempo di amalgamarla a parole inutili. «Che cosa vuol dire “abbastanza bene”? È cominciato il raccolto?», chiesi ancora. «No, il raccolto comincia a fine Ottobre. Mi sto organizzando coi dipendenti stagionali. Sai, tutto dipende da come sarà l’anno. Ancora non so quanta gente ci vorrà per gestire la molitura. Le reti sembrano belle piene, penso che il raccolto quest’anno ci darà delle belle soddisfazioni», terminò frenando a un semaforo divenuto improvvisamente rosso. «Quindi significa che si produrranno maggiori quantità di olio!», commentai, fingendo disattenzione. Guardavo fuori dal finestrino il panorama che si offriva alle auto di aggio. Immense distese di olivi si estendevano per chilometri e chilometri fino a pendii

pronti a scendere verso il mare. «Quindi significa che produrremo una quantità d’olio sufficiente a non farci temere una brutta stagione», rifletté ad alta voce Don Carmine sempre con il suo inutile sigaro in bocca. «Vuoi dire che grazie a te l’azienda di papà non conosce periodi bui?», domandai con un sottile tono d’ironia, in cerca di una provocazione che lo fe parlare. «È possibile che… », sospirò guardando il semaforo ancora rosso, «Gentile non fosse in grado di gestire come si deve l’azienda, perché mal condizionato da una famiglia contadina che poco poteva capire di affari», disse, oltre ogni mia aspettativa. «Vuoi dire che i miei nonni lo condizionavano malamente?», chiesi dubbiosa. «Beh, capirai che c’è chi ha il fiuto per gli affari e chi, invece, deve arrancare perché non in grado di gestire determinate cose», sentenziò lui, mentre il semaforo divenne finalmente verde. «Gentile Monti non era in grado di gestire l’azienda di famiglia perché mal consigliato o perché privo di talento per gli affari?», chiesi. «Probabilmente entrambe le cose», terminò senza aggiungere altro. «A quando risale il tuo ingresso nella sua azienda?», deglutii e tossii per schiarirmi la voce, tradendo un certo imbarazzo. «Intendo dire, a quando risale l’idea di metterti in affari con lui per aggregare l’attività delle vostre aziende e per unire le forze con i pochi possedimenti di cui disponevano i tuoi?». «Non eri neanche nata, Deana. Tutto risale a molto tempo prima della tua nascita», rispose senza girarci intorno. E quelle parole sembrarono avere quasi un doppio senso. Lo intuivo. Quel “tutto risale a molto tempo prima della tua nascita” voleva essere l’ammissione di ciò che sapevamo. Già in troppi.

Capitolo XII

Il pomeriggio alla bottega ò rapidamente. Mentre Don Carmine se ne andava a eggio per il Corso chiacchierando con le comari di sua conoscenza, con qualche collega, con i vecchi amici del Bar dell’angolo e con tutte le persone di aggio, io e Loretta gestivamo gli affari. I turisti non mancavano. Soprattutto tedeschi che, persino in autunno, si presentavano con i loro calzoni corti, le scarpe sportive, il cappellino da alpini e qualche cartolina sventolata con l’intenzione di chiedere dove imbucarla. Il tempo ò inesorabile e quel pomeriggio senza ulteriori novità risultò uguale a molti altri. Quando rincasammo, la cena era già pronta e la tavola bene imbandita. Avrei voluto rifugiarmi in camera, ma, sapendo che mia madre avrebbe trovato il modo di non farmi mangiare, decisi di andare a lavarmi le mani e di accomodarmi con gli altri. A tavola l’atmosfera era la solita. Seria. Indifferente. E nessuno badava all’altro. Li osservavo uno a uno e mi sembravano ridicoli. Uno più dell’altro. Nessuno dei tre mi rivolgeva un solo sguardo. Nessuno dei tre pareva accorgersi della mia presenza. Ciascuno restava sulle sue, consumando diligentemente il pasto con gli occhi bassi, i pensieri chissà dove e le parole inesistenti. Sarebbe dovuta essere quella la mia nuova “famiglia”? La mia nuova condizione familiare? No, non lo accettavo. Non mi piaceva. E ripensavo alla stanza della videosorveglianza, alla segreta nello studio che conoscevamo solo io e mia madre. Sapevo che Alfonso controllava le registrazioni di ogni notte, ma non ero convinta che raccontasse a mia madre ogni movimento. Avrei voluto chiederle se Alfonso le avesse riferito dei movimenti notturni in casa o se avesse omesso qualcosa, ma non sapevo come intavolare il discorso.

Mi mancava quell’armonia che si rifletteva nei nostri volti quando Gentile Monti era ancora al suo posto e quando niente mi avrebbe fatto presagire il suo destino. Mi alzai da tavola prima del dessert. Non ne avevo voglia. Sentivo la necessità di lasciarmi andare sul letto a un momento di relax, tenendo il cellulare a portata di mano con la speranza che Mark chiamasse. Una volta in camera, chiusi a chiave la porta. Accesi la televisione e mi distesi per un momento. Fissavo il display del telefonino, in attesa di qualcosa. Qualunque cosa. Anche un semplice messaggio di poche parole. La televisione trasmetteva uno show con i soliti comici che chiacchieravano, si sbeffeggiavano, sorridevano, raccontavano, esprimevano e interpretavano il loro numero. Man mano che avano i minuti le parole si facevano più tenui, meno percepibili, più distanti, mentre gli occhi mi si chiudevano e le palpebre si facevano sempre più pesanti. Ero stanca. Avevo bisogno di riposo. Ma feci ancora uno sforzo per seguire lo show, per capire cosa stessero dicendo, per sorridere alle battute degli attori come il pubblico che le telecamere inquadravano. Intanto il sonno mi rapiva. La televisione rimase accesa, mentre io mi addormentai. Senza accorgermene. E uno strano sogno raccolse i miei respiri. Un sogno che mi avrebbe risvegliata di soprassalto nel cuore della notte. Un sogno che mi avrebbe, forse, fornito una rivelazione. Una tanto scottante quanto inimmaginabile rivelazione. Sognai Gentile, mio padre. Lo rividi in giardino. Nel nostro giardino. Era notte. Il buio inghiottiva i dintorni sebbene, a poca distanza, qualche opaca luminaria cercasse di tratteggiare i lineamenti del suo volto. Ero piccola. Ancora una bambina. Solo una bambina e lui mi sorrideva. Mi salutava. E si allontanava con o leggero, felino, voluttuoso, deciso. Avrei voluto seguirne le orme riflesse sul ciglio del sentiero. E andare via con lui, ma mia madre mi trattenne. Mia madre, col suo sguardo severo di sempre e l’incontenibile voglia d’imporre la sua volontà, mi teneva a forza per un braccio,

mentre piagnucolavo e chiedevo di “papà”. «Dove va papà?», chiedevo a mamma. «Perché non andiamo con lui?», alzavo gli occhi per guardarne l’espressione, ma non trovavo che una maschera. Il suo volto era imibile. Lui non pareva ascoltarmi. Se ne andò senza voltarsi neanche una volta. Poi la visione ben distinta del dirupo con cui il boschetto misterioso, attraverso un lugubre labirinto di sterpaglia, si gettava in mare e il vento che lo investiva in piena faccia. Era il vento della notte. Quello che si alza lentamente poco dopo l’imbrunire. Quello che punge più degli altri. Quello che sembra in attesa di ritrovarci sul ciglio di un abisso per poterci trascinare in mare in modo inaspettato. Quello che viene da molto lontano e corre incontro alla pelle per schiaffeggiarla. Un lampo nel buio. In mezzo al mare in burrasca. Le nubi nel cielo in tempesta e il mare che sbatteva contro gli scogli sottostanti. Le onde violente. Feroci. Forti. Imponenti. Travolgenti. Spumeggianti. Deliranti. Che lo chiamavano come ammalianti sirene intorno al loro Ulisse. Che pronunciavano il suo nome. Che lo invitavano a raggiungerle. Che avrebbero voluto afferrarlo per un polso e tirarlo giù, negli abissi. Il freddo, imibile, penetrava in ogni poro della sua pelle. Il vento più furioso gli si scagliava addosso. Un urlo. Un urlo violento. Netto. Acuto. Distinto. Ma mio padre non era Ulisse e non aveva potuto chiedere a nessuno di legarlo per esser salvato. Una pioggia che cominciava a scendere impetuosa, sottile, ma sempre più decisa. Il suo volto a guardarsi un’ultima volta le spalle e due mani. Due mani verso l’abisso. Freddo. Gelato. Ghiacciato. L’abisso come non lo si può immaginare. Poi, il nulla più completo. Il buio del nulla nella sua completezza. E con esso la fine di un tempo che a lungo avevo reputato sereno e felice. «No!», gridai di colpo, svegliandomi di soprassalto. E la camera buia ad accogliere il mio sguardo terrorizzato. Smarrito nel vuoto. Solo la luce del televisore nella stanza a illuminare quel brusco risveglio e il silenzio a sovrastare la scoperta e l’incubo. «Non è possibile», sussurrai col fiato corto, quasi avessi corso o fatto qualche sforzo per riemergere alla realtà. «Mia madre era…», deglutii, ansimai e portai entrambe le mani alle labbra, quasi timorosa di dire ciò che stavo pensando. Eppure lo dissi, piano, cautamente, a me stessa «Era lì con

lui», e il filo di voce che ero riuscita a trovare per dirlo morì su quell’ultima decisiva parola. Quell’incubo aveva materializzato un terribile sospetto. Il peggiore dei sospetti. Non volevo pensare che fosse andata così. Mia madre non era stata lì con lui su quel dirupo, quella notte, nel pieno del buio, nel silenzio che lasciava spazio al fischiare di un vento pronto a sbattere la propria violenza contro chiunque avesse raggiunto il limite. Sul dirupo col quale il boschetto terminava la corsa verso il mare. Nel luogo in cui erano scomparse tante, troppe persone. Lungo un cammino di non ritorno. Lungo un percorso che non conosceva vie d’uscita. Quel luogo mi aveva sempre fatto paura e con esso l’idea che le persone che vi si erano avventurate avessero avuto tutte lo stesso destino. Ma non tutti gli scomparsi erano stati rinvenuti. Non tutti erano stati restituiti dalle acque gelide del mare. Alcuni erano diventati una semplice leggenda. Protagonisti di una storia che non aveva avuto fine, perché era solo possibile immaginarne l’epilogo, nella misteriosa consapevolezza che ciascuna di quelle persone fosse stata attratta da un richiamo che non poteva esser ignorato. Un richiamo muto. Qualcosa che nessun altro avrebbe potuto percepire nello stesso momento e allo stesso modo. Ma a mio padre, no. A lui non era andata in quel modo. Ne ero sicura. Lui in quel bosco, su quel dirupo, si era avventurato da solo, per scelta, per volontà, o no? Anche se una qualche spiegazione ci sarebbe dovuta pur essere. Anche se un motivo per cui vi si fosse recato ci sarebbe dovuto pur essere. Non lo sapevo ma, a quel punto, avrei dovuto scoprirlo. Lo dovevo a lui. Alla sua memoria. E soprattutto a me e al fatto che non riuscissi a uscire da un labirinto che mi tormentava. Da un qualcosa d’irrisolto che mi legava le mani. Dovevo sbrogliare la matassa. Dovevo sciogliere ogni nodo. Dovevo farlo, se volevo tornare a vivere un’esistenza serena. Controllai l’ora. Erano appena le 2:00. Dovevo cambiarmi. Andare a dormire con un normale abbigliamento notturno. Mi diressi verso il bagno per rinfrescarmi, ma prima controllai che la porta della stanza fosse chiusa a chiave. Non ero sicura di aver girato la chiave nella serratura. Giusto il tempo di appoggiare la mano sulla maniglia che questa si abbassò. E non per mia

iniziativa. Mi ritrassi immediatamente e feci un o indietro. Qualcuno stava cercando di entrare. Mi portai le mani sulle labbra per non emettere alcun suono. Avevo paura. Ero immobile innanzi alla porta come ipnotizzata dal lento movimento della maniglia che tradiva la presenza di un qualcuno fuori. Qualcuno pronto a entrare. Qualcuno pronto a forzare la serratura. Mi voltai verso il televisore. Non sapevo cosa fare. Non sapevo dove nascondermi. Non avrei mai potuto fingere di dormire e poi ero ancora vestita. Ma la maniglia cominciò a ruotare. O era qualcosa all’interno della serratura? Forse era stato introdotto qualcosa nella toppa per far cadere la chiave che, in effetti, vacillava. Si muoveva. Ruotava. Feci un ulteriore o indietro. In silenzio. Senza fiatare. Il respiro affannoso che usciva dalla mia bocca riscaldava convulsamente le mani che la coprivano per evitarmi di pronunciare una sola parola. Poi la chiave cadde a terra. Mark aveva ragione. Nella notte che avevamo trascorso insieme qualcuno si era introdotto nella camera per mettere tutto a soqquadro alla ricerca di qualcosa. Già, ma cosa? Chi cercava d’introdursi nella mia stanza di notte? Non lo sapevo. Ma sapevo di dovermi nascondere. Indietreggiai ancora. E ancora. Fino a toccare il letto poco distante. Pensai che fosse meglio uscire dalla finestra. Ancora una volta. Magari nascondermi in giardino. Magari avrei dovuto scegliere un posto in cui poter scoprire chi fosse l’intruso. In punta di piedi raggiunsi la finestra che avevo lasciato socchiusa per lasciar are un po’ d’aria fresca. Aprii lentamente le imposte per non esser udita e scavalcai il davanzale senza scarpe. Mi diressi poco distante. Dovevo trovare un posto comodo da cui poter spiare. Vedere. Sbirciare. Capire. Dovevo scoprire chi stava entrando, a ogni costo. Ebbi un’idea. Mentre udivo forzare la porta, pensai che il video di sorveglianza in corridoio avrebbe ripreso la persona fuori dalla camera. E pensai che, non appena ne avessi avuto l’opportunità, mi sarei precipitata a controllare. Dopotutto, in ogni corridoio di notte la luce restava accesa per una decisione presa da quando ci eravamo trovate sole in casa, in seguito alla scomparsa di mio

padre. Decisi di cercare un’altra entrata. Rapidamente. Se fossi stata fortunata, avrei potuto trovare qualche altra finestra socchiusa o magari accedere dalla porta del seminterrato che aveva un lucchetto interno malconcio. Dal seminterrato avrei potuto prendere la scaletta a chiocciola che portava alla lavanderia. Una piccola stanza adiacente alla cucina. In seguito avrei potuto dirigermi verso la mia camera e cogliere in flagrante chiunque vi si fosse furtivamente introdotto. In realtà, non avevo il coraggio di affrontare l’intruso a viso duro, senza scappare, ma dal corridoio illuminato sarebbe stato diverso, quasi casuale. Senza pensarci ulteriormente gattonai verso la discesa che portava al seminterrato. Non cercai un’altra finestra, perché avevo il dubbio che Betta le avesse controllate tutte prima di ritirarsi nella sua stanza. La finestra della mia camera era l’unica a esser gestita esclusivamente da me. Ero sempre stata gelosissima del mio spazio nel quale rinchiudevo la mia privacy e per nulla al mondo avrei permesso a qualcuno di accedervi senza il mio consenso. Riuscii a raggiungere la vecchia porta del seminterrato e a forzarla dandole uno strattone con la spalla. Era buio e i miei i riecheggiavano nella cantina silenziosa. Tenevo le mani avanti per evitare di urtare gli oggetti sparsi sul cammino. Trovai la scaletta a chiocciola in un angoletto in fondo alla stanza. Salii tutto d’un fiato e trovai la porta da cui si accedeva alla lavanderia. Diamine! Chiusa a chiave! Certo, che stupida! Avrei dovuto immaginare che se la porta del seminterrato era facilmente apribile dall’esterno, quella da cui si accedeva alla lavanderia avrebbe dovuto essere chiusa per impedire a chiunque di entrare in casa. Tornai indietro di corsa. Rifeci il percorso in senso inverso. Decisi di fare il giro della casa: avrei dovuto trovare una finestra aperta.

Intanto, la notte dormiva profondamente. Le stelle osservavano dal cielo e la luna sbucava da qualche nube distratta in mezzo a una brezza che alzava le urla del mare, in lontananza. Potevo udire le onde unirsi in un coro che cullava i sonni di chi viveva nei dintorni. Se solo avessi voluto, avrei potuto raggiungere una spiaggetta privata che si estendeva per un paio di chilometri, lungo una discesa frastagliata che lasciava poco spazio a una stradina pedonale accessibile solo ai residenti. Era una vita che non andavo in quella spiaggetta. Non me la sentivo. L’ultima volta che ci ero stata avevo 9 anni ed ero immersa nella totale solitudine delle mie angosce, dei miei dolori e della malinconia che non mi lasciava vivere. Era stata troppo dolorosa la scomparsa di mio padre. Era stata troppo pesante. Pesava sulle mie spalle più di ciò che avessi potuto immaginare e soprattutto non accennava ad alleggerire la sua presenza nella mia vita. Ero cresciuta come una bimba costretta a diventare adulta dalla sera alla mattina, senza che nessuno mi avesse mai fatto presagire un tale destino, né tanto meno con la voglia di riuscire a dimostrare di poter superare le peripezie emozionali che la vita aveva tenuto in serbo per me. Non lo sopportavo. Non lo avevo mai sopportato. Stavo ancora male. In quel momento, però, non avrei mai potuto immaginare che vicino a me c’era qualcuno che portava un peso molto più grande. Non me n’ero mai accorta e non ero mai riuscita a captarlo. Poi, però, qualcosa aveva cambiato le carte in tavola. Non trovai neanche una finestra aperta, a parte quella da cui accedevo solitamente alla mia camera. Ma, nel raggiungere l’ingresso principale, scorsi qualcuno che stava uscendo. Mi nascosi dietro a un albero e mi mimetizzai nel buio. L’ingresso era illuminato da un paio di lampioni nel portico di destra e in quello di sinistra da cui uscì... No! Ancora? Sì, ancora lui. «Allora ci vediamo domani», sentii dire a Felicia che lo salutava all’uscita. Era in compagnia dello stesso ragazzo con cui l’avevo sorpresa nel ripostiglio. Che fossero stati loro due a entrare nella mia camera? Ma, per quale motivo?

Corsi verso la finestra. Il buio non mi spaventava più da anni, ormai. Era ancora aperta. Prima di entrare, mi accertai che non vi fosse più nessuno. La porta era socchiusa e la televisione ancora accesa. Accesi il lume sul comodino. Tutto era in ordine. Mi guardai attorno con attenzione e cercai qualche indizio. Ma non trovai nulla. Solo la chiave della porta a terra. Lasciata ai piedi del letto. La raccolsi e la infilai di nuovo nella serratura. Tutto sembrava perfettamente in ordine. Ma, forse, erano stati davvero quei due a entrare nella stanza, alla ricerca di chissà cosa. Avrei dovuto trovare una soluzione per smascherarli alla luce del giorno. Quella notte ebbi paura. Troppa per affrontare in modo diretto una situazione che mi aveva presa in contropiede, poiché ero già sconvolta dall’incubo che mi aveva svegliata. Mi diressi verso l’uscita. Volevo sorprenderli insieme. Cantargliene quattro. Ma incontrai in corridoio solo Felicia di ritorno dal suo congedo notturno. «Ancora in piedi a quest’ora?», mi chiese, sorpresa d’incontrarmi nel bel mezzo del corridoio. «Potrei dire la stessa cosa di te!», le risposi senza indugiare e proseguii «Allora, cosa cercavate tu e il tuo amichetto nella mia stanza?». Incontrai un’espressione sorpresa che reputai una grossissima presa per i fondelli, ma tentai di mantenere la calma. «Non so di che cosa stai parlando». «Dai che lo sai. Vi ho visti in giardino! Lo stavi salutando dopo che vi siete messi ad armeggiare nella serratura della mia porta», proseguii «Ma che volevate?», chiesi, fissandola dritto negli occhi. «Credo tu abbia bevuto», rispose Felicia con noncuranza. «Non so a cosa ti riferisci. Non ho capito neanche di che stai parlando!», chiarì, incrociando le braccia. «Non ti credo!», risposi senza indugi. «È la seconda volta che succede!», esclamai sul punto di perdere la pazienza. «Vi intrufolate nella mia camera e non ne capisco il motivo».

«Ma chi si intrufola nella tua camera? Tu sei matta! Perché non vai a dormire, invece di andartene a eggiare in giardino a spiare la gente! Che vuoi?». «Chi è quello con cui stavi? Da quanto tempo lo conosci?», le chiesi, in preda a una rabbia incontenibile. Sapevo che non avrei ottenuto nulla, ma provai a informarmi lo stesso con labbra tremanti. «Questi sono affari miei. E poi, come ti permetti di intrometterti nella mia vita privata?». «Senti, fino a prova contraria, non sei tu a far domande», precisai. «Qualcuno si è introdotto per la seconda volta in camera mia nella notte, alla ricerca di qualcosa che non so. Avrò pure il diritto di chiedere!». «Certo, ma lo stai dicendo alla persona sbagliata!», esclamò alzando lievemente la voce. «Non urlare!», la zittii, a quel punto. «Vuoi svegliare il resto della casa?». «Beh, al punto in cui siamo e per quello di cui mi stai accusando, forse dovresti svegliare tu il resto della casa, per annunciare l’introduzione di estranei nella tua stanza, visto che sei l’unica a esser stata disturbata», si difese come poté. «Non è il caso di svegliare tutti, dal momento che siete stati voi!», esclamai ancora, sicura delle mie affermazioni. «Ma voi, chi? Ma stai scherzando?», si difese Felicia. «Io incontro un ragazzo che mi piace e devo dar conto a te? Ma neanche mio padre mi fa le domande che mi stai facendo tu!». «Che fine ha fatto Mauro?», le chiesi, riferendomi al ragazzo con cui era fidanzata ufficialmente da un paio di anni. «Non sono affari tuoi. Ci siamo presi una pausa», mi informò. «E ora, se permetti, me ne andrei a dormire. Si è fatto molto tardi!», fece per andarsene quando le sbarrai la strada. «Dimmi che cercavate nella mia stanza!», continuai il mio interrogatorio, ma non ebbi successo.

«Non siamo stati noi. Eravamo nel ripostiglio al terzo piano, Deana. Ci vediamo sempre là di notte, lo vuoi capire?», cercò di non alzare troppo la voce e se ne andò. «Se non eri tu, allora… », non riuscii a terminare, perché si era già allontanata e non volevo alzare la voce per farmi sentire dal resto della casa. In realtà, in fin dei conti, mi erano venute a mancare le parole. E le mie convinzioni erano cadute. Anzi, precipitate nell’oscuro abisso di pure illazioni. Ma, allora, chi era stato a introdursi nella mia stanza? Chi? Tornai in camera a riposarmi. Avevo bisogno di dormire. Avevo bisogno di rinfrescarmi il viso. Avevo perso troppo tempo alla ricerca di un’altra entrata per sorprendere chiunque si fosse introdotto furtivamente. Non sarebbe dovuto più accadere. Spensi prima la televisione e poi il lume sul comodino. Infine, mi lasciai andare sul letto. Ero stanca anche per cambiarmi. Mi addormentai col pensiero di dover scoprire cosa stesse capitando tra le mura di casa e rifeci il mio incubo. Anche se qualcos’altro, quella stessa notte, turbò il mio sonno. Una nuova scoperta. Una notte che riemerse in superficie. La superficie del presente.

Rividi di nuovo mio padre in giardino. Rividi di nuovo il suo sguardo serio e il suo o lento. Rividi il giardino in penombra e riprovai la voglia di raggiungerlo. Ma mia madre, alle mie spalle, mi tratteneva. E lui scomparve nel buio del sentiero che conduceva al bosco. Di nuovo il dirupo. Di nuovo la notte. Buia come non mai. Di nuovo le onde che sbattevano violentemente contro gli scogli sottostanti e un urlo. L’urlo del vento che annunciava una tempesta. L’urlo del mare che ribadiva la sua imponenza. L’urlo delle cicale. No. Non era il vento in tempesta, né il mare imponente e non erano le cicale che riecheggiavano nei dintorni. Quell’urlo mi apparteneva. Lo sentivo. Lo rivissi dalla gola di un sonno inquieto. Sì, ero io! Era il mio urlo! Quello di una bambina che rincorre il padre scomparso nel cuore

della notte. L’urlo di un’innocente sfuggita dalle mani della mamma. L’urlo di un’immagine che raccolse la verità. Una verità scomoda, dolorosa, rimossa e riemersa quando meno lo avrei immaginato. Sì. Riapparve la me bambina. Riapparve coi riccioli rossastri e scompigliati, il vestitino rosa e i calzini bianchi. Riapparvero le mie guanciotte paffute, le mie mani allungate a cercare di riafferrare quel padre scappato. Un pezzetto di stoffa della sua camicia. O dei pantaloni. Non importava. Contava solo riafferrarlo. Ma non ci riuscii. Sì. Ero sfuggita dalla stretta presa di una madre autoritaria che imponeva la sua volontà. Sfuggita per riconoscere nel vuoto la mia identità. La forza che mi muoveva. La stessa che rincorse i i di mio padre. La stessa che riuscì a seguirlo per addentrarsi nella voracità di un bosco che inghiottiva qualunque cosa e, se non riusciva a trattenerlo, lo sputava in mare dal suo dirupo. Sì. Quel bosco inghiottì anche me. Quel bosco mi riconobbe coraggiosa interprete di un sentimento filiale pronto a dimostrare il proprio valore. E in esso mia madre ci seguì. Seguì me e lui, mentre la notte ci divorava da dentro. Ci prendeva dalle viscere e ci trasformava in qualcosa in cui non ci saremmo mai più riconosciuti. Cambiammo io e mia madre quella notte. Tutto cambiò. L’incubo non si arrestò. Rividi i suoi i ai margini del dirupo e i miei, tremanti, a pochi metri. Poi mia madre ad afferrarmi finalmente per un braccio. Lui si volse ancora una volta. Il mare lo chiamava. La luna lo osservava. Il silenzio lo travolgeva. Il cuore lo portava. Mia madre lo raggiunse. Pareva intenzionata ad afferrarlo, ma lui si divincolò. Le gambe tremavano e le onde ai suoi piedi danzavano. Il mio pianto più forte e la mano di mia madre nel vuoto. La paura e l’addio. Il silenzio e l’urlo. Un tuffo e la notte che finiva.

Mi svegliai di soprassalto. Ancora una volta. Sudata, ansimante, impaurita, tremante e pallida. La notte era ata. L’incubo mi aveva lasciata e l’alba ritrovava la mia strada.

L’argento di un cielo che si risveglia col giorno raggiunse le pareti della mia stanza attraverso i vetri di una finestra che mi riportava un paesaggio ancor sonnolento. La delicata luce di un’alba ristoratrice riportò conforto e pace ai miei dolori e la voglia di ricominciare si affacciò con timidezza nella mia vita, come se aspettasse il momento più opportuno. Volevo ricominciare. Ma volevo farlo solo dopo aver scoperto ciò che sentivo irrisolto. Ciò che mi tormentava dal profondo. Ciò che mi distruggeva l’esistenza. Quell’incubo mi aveva rivelato cose che non riconoscevo possibili. Ero stata anch’io nel bosco? L’avevo oltreato per raggiungere mio padre? E mia madre? Mia madre era stata lì con noi? Perché non distinguevo il sogno dalla realtà? Poco alla volta, avrei dovuto chiarirmi. Sentivo il bisogno di sapere. Era davvero successo quello che avevo sognato? Oppure era stato frutto di una fantasia tormentata da paure inconsistenti? Avevo rimosso ogni cosa. Se era tutto vero, allora lo avevo rimosso. Forse la verità era stata troppo dolorosa. Forse aveva sradicato un ato che sentiva di dover celare. La verità si nasconde abilmente ovunque per non raccontare ciò che sa di poter cambiare, perché distrugge sempre chi la riconosce. Lentamente.

Capitolo XIII

Il display del mio telefonino segnalava, attraverso l’icona di una busta da lettera, l’arrivo di un paio di messaggi. Non ci avevo fatto caso o, forse, quando erano arrivati non ero in camera. Entrambi risalivano alla notte precedente ed erano di Mark che diceva “Distanti fa ancora più freddo. Ma tornerò tra un paio di giorni. So che mi aspetterai. A presto, Mark”. Nell’altro messaggio, invece, diceva “Mio fratello si sposa e io penso a noi. Quanto vorrei averti qui con me. Tutto ci aspetta. Sono tuo, Mark”. Sorrisi. Mi piacquero. Erano parole che mi trasmettevano sicurezza, che mi portavano lontano. Il Belgio era lontano, ma la gioia di immaginarmi accanto a lui era a portata di mano. Raggiunsi il bagno per una doccia. La giornata si sarebbe fatta intensa. Avevo molte cose da fare e da scoprire. E dovevo farlo prima che si fossero sposati, perché sentivo che mia madre e Don Carmine nascondevano ancora qualcosa. Volevo conferme. E sapevo di poterle trovare, sebbene non sapessi esattamente dove. Ma non erano lontane, lo sentivo. Arrivai puntualmente in sala per la colazione. Finsi buon umore. Finsi nello stesso momento in cui avevo intuito che chi mi circondava, in realtà, fingeva per primo. Felicia esternava noncuranza. Era la solita di sempre. Mia madre, invece, era più taciturna del solito e Don Carmine sembrava evitare il mio sguardo. Erano tutti strani. Intanto Betta portava in tavola latte e caffè e io mi apprestavo a consumare una bella colazione. «Andiamo in bottega in auto anche oggi?», chiesi a Don Carmine che non mi rispose. Lo guardavo, ma non alzava gli occhi.

«Dea, stamattina vai a piedi», mi rispose mia madre. «Carmine ha un servizio da fare. Vi raggiunge più tardi». «Va bene», sussurrai sorseggiando caffè. Imburrai un paio di fette biscottate e a morsi mi dedicai alla colazione. Anche Betta era taciturna e più veloce del solito. Scattava da una parte all’altra della sala in direzione della cucina e viceversa. Ma decisi di non fare più caso a loro. Prima di uscire, però, mi accorsi di aver dimenticato in camera il cellulare, tanto per cambiare, e corsi a recuperarlo. Lo ritrovai tra le cose sparse sulla scrivania e mi precipitai all’uscita. Volevo farmi una eggiata. Non mi piaceva correre ogni volta che andavo in bottega. Intravidi da lontano Felicia che usciva e mia madre che entrava nello studio in compagnia di Don Carmine. Attraversai la cucina per un saluto furtivo a Betta che fece cenni per attirare la mia attenzione. Entrai in cucina, guardando verso lo studio per accertarmi che non mi vedessero confabulare e mi avvicinai. «Che c’è?», le chiesi sottovoce, mentre ripuliva le stoviglie della colazione e organizzava la lista della spesa per poter fare un pranzo come si deve. «Devo dirti una cosa», mi sussurrò fingendo di continuare a occuparsi delle faccende domestiche. Poi si fermò. Sospirò e proseguì «Nella notte di ieri credo di aver visto qualcuno che usciva dalla tua stanza». La guardai incuriosita. L’espressione che avevo in volto era di chi, pur aspettando una notizia da tempo, non credeva più di riceverne «Che vuoi dire?». Betta tossì. Appoggiò i guanti e disse «Non so che ora fosse, ma avevo bisogno di andare al bagno», fece una pausa per accertarsi che non arrivasse qualcuno a interromperci e continuò «Sai che non ho il bagno in camera come te. Io uso quello che sta nel corridoio». «Vieni al punto, Betta», sospirai.

«Allora, sono uscita dalla mia stanza in fondo al corridoio. Ecco, io… », esitò per un attimo nel quale capii il suo imbarazzo e terminò «Ho visto tua madre uscire con qualcosa fra le mani». Cambiai espressione. Mi rabbuiai. Betta mi fissava silenziosa, con lo sguardo di chi implora di tacere, ma non potevo. Dunque, era stata lei! Era stata mia madre a forzare la serratura della mia camera e a entrare! Non potevo crederci. Non volevo crederci. E io che avevo accusato Felicia e il ragazzo con cui s’incontrava di notte al terzo piano! Ma cosa avrebbe mai potuto prendere in camera mia? «Hai notato cosa avesse fra le mani?», chiesi a Betta, sperando che mi dicesse qualcosa. «No», rispose repentina. «Sai, non ci ho fatto caso. Ho solo capito che tu non eri in camera. E che c’era qualcosa di metallo per terra, fuori dalla porta. Ma non sono rimasta a guardare cosa fosse», poi abbassò ancor di più la voce. «Lei era di spalle, non ha fatto caso a me e io mi sono infilata nel bagno, per cui non si è accorta della mia presenza. Alla fine ho socchiuso la porta e ho aspettato che si allontanasse». Mia madre che forzava una serratura? Non riuscivo a immaginarla svolgere una tale impresa! Eppure… ma no! Mi sembrava strano. Troppo strano. Betta riprese le sue faccende, come se non mi avesse detto nulla. Io pensavo, invece, a cosa mia madre avesse potuto avere fra le mani e a cosa avesse potuto portar via dalla mia camera. Poi improvvisamente ricordai la scatola lasciata sotto il letto e corsi a vedere se c’era ancora. Corsi trattenendo il fiato. Non importava se dallo studio avessero sentito dei i veloci in corridoio. Non importava più nulla. Quella scatola doveva restare tra le mie mani. Entrai in camera e mi accovacciai per sbirciare sotto il letto ancora disfatto. E il vuoto che vi trovai mi fece comprendere cosa avesse a lungo cercato mia madre. Misi nella borsetta a tracolla il cellulare che avevo ancora in mano e mi

precipitai in direzione dello studio. No, non ci stavo più a quel gioco! Bussai ed entrai solo dopo aver udito un chiaro «Avanti», poi richiusi la porta alle mie spalle e dissi «Ho bisogno di parlare con te!», rivolgendomi a lei. Mia madre, seduta di fronte a Don Carmine che si apprestava a uscire, rispose con un semplice «Sei ancora qua?», riferendosi al fatto che non fossi ancora andata in bottega. «Sì, devo solo chiederti una cosa», mi affrettai a dirle, con la speranza che non rifiutasse di ascoltarmi, mortificandomi davanti a Don Carmine. «Mimosa, intanto, io vado», disse quest’ultimo dirigendosi verso l’uscita e appoggiandomi una mano sulla spalla nel armi accanto. «Va bene», gli rispose lei. Poi, rivolgendosi a me, indicò la poltrona che aveva di fronte, dove poco prima era seduto Don Carmine, nel salottino vicino alla scrivania. «Dimmi», disse guardandomi dritta negli occhi. Non aveva perso severità, né alterigia. Era sempre stata austera e continuava a esserlo, imperterrita. «Vorrei che mi restituissi quello che hai preso ieri notte in camera mia», fu la mia richiesta, senza mezzi termini. Volevo essere chiara e diretta. Ero stanca dei sotterfugi e delle bugie che mi avevano vista crescere in quella casa. «Non so a cosa ti riferisci», fu la sua risposta, senza tradire una sola emozione nello sguardo. «No?», sorrisi ironicamente. «Non è vero. Lo sai molto bene» risposi in tutta tranquillità, ostentando una sicurezza che non mi apparteneva. Eravamo faccia a faccia e non avevo intenzione di andarmene se prima non avessi chiarito quel che c’era da chiarire. «Non mi piace il tuo atteggiamento, Deana», mi fece sapere. «Sei cambiata», commentò. «Posso capire che aver scoperto la vera identità di tuo padre possa averti sconvolta, ma non giustifico più il tuo modo di agire nei confronti di Carmine, che poi è il tuo vero padre».

«Già», sorrisi ancora. «Peccato tu mi abbia fatto sempre credere che il mio vero padre fosse Gentile Monti», terminai, non togliendole lo sguardo di dosso. «Non è stato facile per nessuno, Deana. Lo sai meglio di me quanto sia stato difficile superare la scomparsa di tuo…», stava per dire “di tuo padre”, ma poi si corresse « …di Gentile». «Mamma, ti prego, non mentirmi più. So bene cosa c’è scritto in quelle carte. Le ho già lette. Conosco il contenuto di quella scatola. Conosco bene i sentimenti di Gentile Monti. E penso di poter intuire anche altro!», mi sorpresi a ipotizzare. «Le ha fatte sotterrare Don Carmine per nasconderle a me?». «Deana…», cercò di dire qualcosa, ma la interruppi prima che potesse aggiungere altro senza lasciarmi finire. «No, mamma. Ora, ascoltami tu. Avete nascosto troppe cose. State per sposarvi. Dovete lasciarvi tutto alle spalle. Perché, allora, non farla finita con segreti e finzioni? Perché non mi dici davvero cos’altro io debba sapere prima che… », sospirai «… Don Carmine diventi tuo marito?». «Sai già tutto, Deana», fece per alzarsi, nel tentativo di concludere una conversazione che sembrava starle stretta, ma mi alzai anch’io e la invitai con un braccio a risedersi. «Me ne vado in bottega, se mi dici quello che devi dirmi», sussurrai senza timore. «Nulla, Deana. Proprio nulla», fu la sua fredda e decisa risposta. «Sai, la scorsa notte ho avuto un incubo», cominciai a raccontarle, mentre lei si riaccomodava, accavallando le gambe. «Ho sognato l’ultima sera in cui siamo state con papà», mi fermai e mi corressi per evitare che lei lo fe prima di me «Voglio dire con Gentile». Non riuscivo a chiamare per nome l’uomo che avevo sempre reputato mio padre. Non riuscivo a parlarne come se si trattasse di un estraneo, non potevo. «Sei solo tormentata dai brutti ricordi», commentò lei. «E dal dolore per la sua assenza».

«Sì, è così», confermai. «Ma c’è di più, mamma. C’è molto di più», studiai ogni sua muta espressione, una più distaccata dell’altra e proseguii «Il sogno continua. Mi racconta molto di più», alzai lo sguardo oltre la vetrata della finestra che dava sul giardino. Il sole splendeva alto. Era una bella, ma fredda giornata d’Autunno, ormai. Sì, una giornata davvero fredda. «Il sogno mi racconta che quella notte, sul dirupo, eravamo con papà. Eravamo insieme. Che tutti e tre abbiamo oltreato il bosco. Che tutti e tre abbiamo urlato». «Deana, ascolta…», cercò d’intervenire per interrompere il mio racconto, ma non ci riuscì, perché io proseguii comunque. «No, ascoltami tu, ora! Non ricordo cosa papà urlasse e non ricordo cosa gli dicesti tu. Ricordo solo di avervi visti entrambi ai margini del dirupo. Ricordo che faceva freddo. Che stava per infuriare una tempesta. Che le onde del mare sbattevano violente contro gli scogli ai nostri piedi e si alzavano verso di noi distruggendosi in mille squarci. E che il mare era agitato come noi», avevo gli occhi lucidi e non potevo farci nulla. «Ricordo la tua mano verso di lui. Ricordo il mio pianto e la paura», e le lacrime cominciarono a rigare copiose il mio viso. «Ricordo che quella notte in casa avevate litigato. Ricordo di aver udito le vostre voci concitate dalla mia cameretta. E ricordo che papà decise di uscire. Che lo vidi allontanarsi in giardino e volevo seguirlo, ma tu me lo impedisti», avevo la voce che tremava, ma continuavo, perché non potevo più trattenere il dolore che mi pervadeva fino alle viscere, fino al cuore e scorreva nel mio sangue. «Ricordo di averlo chiamato e di esser riuscita a divincolarmi dalla tua stretta. Correvo dietro di lui. E tu correvi per raggiungere entrambi. Poi il vuoto», cominciai a singhiozzare. «Poi non ricordo il bosco, né il nostro aggio per oltrearlo, ma ricordo il dirupo. Lo stesso dell’incubo. Lo stesso che si erge oltre il bosco. Lo stesso da cui papà è volato via», mi si era arrossato il viso e abbassata la voce «E tu, mamma. Tu ricordi cosa mi dicesti?», ma lei taceva. Mi contemplava senza fiatare. «Tu, cara mamma, mi dicesti “Papà è volato in cielo”!», esclamai e continuai. «Ora ricordo cosa mi dicesti, ma quella mano, mamma, la tua mano verso la sua schiena non riuscì ad afferrarlo e io…», terminai in un pianto dirotto, coprendomi il volto tra le mani. No, non avrei più potuto proseguire. Mi alzai e uscii. Avevo bisogno di aria. Di sole. Avevo bisogno di uscire da quell’incubo. Volevo scappare e quella mattina riuscii a farlo solo per raggiungere il mio posto di lavoro in bottega.

Quella mattina non fu come le altre. Quella mattina rimasi muta per tutto il tempo. Loretta capì che qualcosa non andava, ma non mi fece domande. Sapeva che, se ne avessi avuto voglia, sarei stata io a raccontarle cosa non andasse per il verso giusto, come avevo sempre fatto da quando ci conoscevamo. Don Carmine in bottega non ci mise piede. Quel giorno la bottega fu tutta nostra. E fu meglio così, perché avrei potuto riprendere fiato. Avrei potuto allontanare il dolore e la terribile sensazione di disagio che avevo cominciato a provare dal momento in cui mi era stata rivelata la natura del nostro legame. Non tornai a casa per il pranzo. Chiesi a Loretta di andare a comprare un paio di panini nella salumeria più vicina e decisi di rincasare solo a tarda sera. Non mi andava più di condividere una tavolata di menzogne con le persone che, facendo parte della mia famiglia, avrebbero dovuto esser sincere, ma non lo erano. No, non potevo più continuare in quel modo. Non sarei riuscita a resistere a lungo in quella situazione. Pensai persino di raggiungere Mark in Belgio. La voglia e il desiderio di ritrovarmi fra le sue braccia erano superiori a ogni altra cosa in quel momento. Dopotutto, cosa mi tratteneva ancora? Nulla. Al mio luogo di origine ero vincolata solo da brutti ricordi e non riuscivo più a patir le sofferenze che mi imponeva. Raccolsi la voglia di andar via con il coraggio dell’amore e attesi nuove notizie di Mark. Speravo di parlargli della mia voglia di andare da lui. Di trascorrere la mia vita con lui. Sì, ci vuole coraggio per amare. Coraggio per lottare per amore e per arrivare ovunque esso ci porti. Oltre ogni prerogativa e immaginazione, perché l’amore può salvarci dalla voragine in cui spesso cerca di spingerci la paura di vivere. Nel percorrere la scorciatoia che collegava il centro cittadino al viale dal quale si accedeva alle proprietà di alcuni residenti lungo una stradina di campagna, decisi di raggiungere il bivio che divideva il bosco dalla collina. Era ormai sera e speravo di ricordare altro. Di ritrovare quella stessa notte di molti, troppi anni prima che, nello stesso luogo, mi aveva strappato la felicità. A casa non mi avevano vista per tutta la giornata. Non ero tornata per pranzare

né per cenare. Non ne avevo neanche voglia. Con Loretta quel giorno ci eravamo godute due bei panini con bresaola e pecorino e un babà alla crema. Tutte quelle calorie mi sarebbero bastate per il resto della giornata. Erano appena le 21:00 e cominciava a tirare vento, come ogni sera nel periodo autunnale. Indossavo un sottile abitino a tinte pastello ed ero coperta da una giacchetta di cotone beige che non riusciva a proteggermi dal freddo della notte pronta ad avanzare sulla pelle delle mie gambe. Ormai ero tormentata dai dubbi, dai sospetti, dai timori di scoprire verità troppo scomode da accettare e non riuscivo a oltreare l’idea che ci fosse qualcos’altro in ballo. Che mi era stato nascosto altro. Che mi era stato rivelato solo ciò che era convenuto farmi sapere. Quel mistero mi spronava a cercare la soluzione all’enigma, quasi fosse stato un puzzle di cui risultava complicato comprendere il disegno. Quella sera la stradina era deserta. I pochi lampioni illuminavano a stento il percorso e la sensazione di aver sbagliato strada si fece largo tra molti altri dubbi. A un certo punto sperai d’incontrare qualcuno di aggio pronto a confortarmi. Lungo il cammino, infatti, erano presenti altri vialetti di fortuna che s’intersecavano creando una ragnatela di scorciatoie. In quel momento indossavo scarpe a mezzo tacco scomode e poco adatte al percorso di campagna in cui mi ero avventurata e mi pentii presto di non essermi diretta subito verso casa. Giunsi a destinazione, nel punto in cui il bivio divideva il bosco dalla collina, e mi fermai a osservare entrambe le direzioni. Era buio e faceva sempre più freddo. Non ricordavo nulla. Sentivo solo ululare il vento tra le foglie degli olivi in mezzo alle reti stese sotto i rami. Non riuscivo a concentrarmi. A ricordare l’incubo. A riflettere intorno a qualche dettaglio scorto in esso, perché la stanchezza mi spossava e sentii il bisogno di appoggiarmi a uno degli alberi ai bordi della stradina. No, non ricordavo nulla in quel preciso momento, sebbene cercassi di ritrovare in me la bambina che ero stata. La stessa che quella notte aveva seguito il suo papà con la voglia di afferrarlo, per restare sempre insieme.

Lo squillo improvviso del cellulare nella borsetta che portavo a tracolla mi fece trasalire. Rabbrividii. Poi risposi «Sì?». «Deana, dove sei?», era la voce preoccupata di mia madre che non aveva mie notizie dalla mattinata. Dopotutto, non solo ero andata al lavoro scossa dalle lacrime provocate dalla nostra conversazione nello studio, ma non mi ero neanche presentata per pranzo e cena. «Sono…», mormorai indecisa, «poco lontano», risposi sbrigativamente. «Vieni a casa. Fa freddo. È notte», rispose lei con un tono diverso da quello che aveva ostentato la mattina. «Arrivo», risposi, ben consapevole che in quel momento non sarei riuscita a concludere niente in mezzo al vento e al freddo che mi avvolgevano. Ero davvero molto stanca. Ripresi la via del ritorno. Quella sera la luna non spuntava. C’erano delle nubi che si estendevano per chilometri. Il cielo ne era ricoperto. Presto sarebbe piovuto e sperai di arrivare al riparo in tempo. Mai come quella sera ricordavo di aver scorto nella voce di mia madre la preoccupazione per la mia assenza. Appena rincasata mi accolse con l’apprensione che ogni madre, di solito, riserva alle preoccupazioni che creano i figli anche e soprattutto da adulti. «Allora, dove sei stata?», mi chiese venendomi incontro all’ingresso, mentre Don Carmine e Felicia nel salone conversavano amabilmente davanti a un vasto assortimento di cioccolatini e a qualche bicchierino di liquore. «Stavate festeggiando la mia assenza?», domandai con ironia e con un’espressione acida guardando il quadretto che si mostrava fiero nell’altra stanza, alle sue spalle. «Non scherzare, lo sai che ero preoccupata per te!», esclamò mia madre con fare più serio.

La abbracciai come non ricordavo di fare da tempo. Troppo tempo. Un tempo infinito. Troppi eventi e troppi anni ci avevano allontanate. Poi, le incomprensioni personali e il dolore per il disintegrarsi della nostra famiglia avevano fatto il resto. Lei ricambiò il mio abbraccio e m’invitò ad andare a fare una doccia e a scendere a mangiare qualcosa. Betta aveva tenuto in caldo la cena per me. Infine, se avessi voluto, avrei potuto unirmi a loro nel salone per assaggiare qualche gustoso cioccolatino del vasto assortimento offerto a Don Carmine da un amico di vecchia data nel corso della giornata, in occasione di un appuntamento di lavoro. Era troppo tempo che non ritrovavo quella mamma. La stessa di quando ero solo una bambina. La stessa che mi raccontava le fiabe e da grande mi aiutava a fare i compiti. Sì, era davvero troppo tempo che non riconoscevo in lei la stessa persona, che la trovavo cambiata, che l’avevo allontanata per il dolore di aver perduto un uomo che aveva tenuto unita una famiglia ormai distrutta. Quell’abbraccio mi aveva rammentato e riportato per un istante l’amore materno che si riceve senza falsi pudori soprattutto da bambini, quando si ha bisogno di maggiore attenzione e protezione, per crescere e prepararsi alle intemperie della vita. «Parli sul serio?», sorrisi divincolandomi dal suo abbraccio e riferendomi alla cena. «Certo. Non sei venuta a pranzo, non ci sei stata a cena. Chissà quali porcherie ti sarai mangiata in giro!», aggiunse, prima di allontanarsi per tornare dagli altri. «Vado a farmi una doccia e al massimo pilucco qualcosa. Non ho molta fame», terminai. Nel are salutai Betta che, come sempre, era indaffarata in cucina e corsi in camera. Avevo bisogno di una doccia che mi rigenerasse. Avevo bisogno di rilassarmi. Ero stanca e stressata. Non potevo lasciarmi tormentare dai dubbi che scaturivano da ogni incubo. Sentivo la necessità di dedicarmi esclusivamente a Mark e alla bellezza del sentimento che era nato fra noi. Avevo bisogno di lui. Un bisogno estremo. Un bisogno che mi aiutava ad andare avanti e a superare le difficoltà incontrate lungo un percorso fatto di troppe insidie, senza neanche sapere come oltrearle.

Mark rappresentava un nuovo inizio, l’alba che avevo atteso tutta la vita. Il tempo dedicato all’amore che fa vivere davvero. Il modo migliore per vivere. L’amore mi aveva fatta rinascere. E rinascere era qualcosa di meravigliosamente indescrivibile. Lo immaginavo nel suo Belgio. Al matrimonio del fratello. Elegante in un qualche completo grigio o beige che esaltasse la sua fisicità. Tra sorrisi e congratulazioni di gente che neanche conosceva, in mezzo a invitati che forse aveva avuto modo di salutare solo in poche occasioni. Lo immaginavo stringere mani, abbracciare il fratello e la sposa. Sorridere in mezzo alla sua famiglia. Sorridere per circostanza e per gioia. Sorridere per la voglia e per il dovere. Unico nel suo solare sorriso di vita. Attraente e silenzioso. Sì, lo immaginavo quasi come fossi stata presente al suo fianco. Lo immaginavo e mi rilassavo sotto l’acqua calda della doccia. Lo immaginavo tra le mie braccia e accarezzavo i capelli come faceva lui. Desideravo su di me il contatto delle sue morbide labbra. Desideravo provare il piacevole brivido che mi davano le sue mani ogni volta che sfioravano la mia pelle. Desideravo sentire il suo braccio attorno alla vita. E la stretta con la quale mi teneva avvinta a sé. Una stretta forte, decisa, travolgente e ionale. E la gioia di sentirmi sua e di sentirlo mio. Non avevo mai provato nulla del genere per un uomo in tutta la mia vita. In ato avevo avuto solo eggere cottarelle che non erano mai diventate storie importanti. Fino a quel momento non avevo mai avuto la mia favola, sebbene l’avessi sempre desiderata, come ogni bambina. E nel crescere, nulla cambia, perché il mito del Principe Azzurro resta intatto nel tempo. Il mito di un uomo ideale che si pensa e ci si illude di poter un giorno incontrare. Non importa dove o quando. Ma da qualche parte del mondo e in un qualunque momento della vita. Mark aveva la regalità di quel Principe e un fascino che non gli si poteva negare. Un fascino nordico nella sua estrema limpidezza. Di lui mi era piaciuto tutto ciò che avevo conosciuto. Tutto ciò che mi aveva mostrato. Tutto. Anche le sue cicatrici. Non avevo voluto chiedergli come se le fosse procurate.

Forse un giorno glielo avrei chiesto. Forse. Quando avrei provato ancora una volta la voglia di sentirle del tutto mie. Sì, come il suo corpo. I suoi muscoli scolpiti anche nella delicatezza del suo animo. Mark era il dono dell’attesa. Sì, il dono ricevuto dopo una lunga, interminabile attesa. Quando non si conosce il motivo per cui l’amore si fa attendere e vorresti che corresse da te il prima possibile, perché sai di averne bisogno, ti chiedi se mai arriverà o se rimarrà solo l’illusione di una bimba mai cresciuta che ha bisogno di protezione. Poi, però, l’amore arriva. E trasforma il pianto in riso, il dolore in gioia, la paura in coraggio, la debolezza in forza, il torpore in risveglio, l’apatia in energia, oltre ogni immaginazione. E ci si comincia a chiedere cosa sarebbe stato di noi se non l’avessimo incontrato. Si comincia a capire cosa sarebbe della vita senza l’amore. L’amore che porta ovunque. All’uscita della cabina doccia, mi avvolsi in un lungo asciugamano bianco e iniziai ad asciugare i capelli con il phon pronto sul mobiletto del bagno. Il calore prodotto dal vapore aveva riscaldato l’ambiente. Non avevo più freddo. Mi sentivo meglio. Molto meglio. Cercai di sbrigarmi e andai a fare una capatina in cucina. Era vuota. Evidentemente Betta aveva finito le sue faccende e si era ritirata nella sua stanza. Non sentivo più neanche la composta scorrevolezza delle conversazioni che avevo notato al mio ritorno a casa dal salone dove si brindava tra un cioccolatino e l’altro. Forse erano andati a dormire. Ma, possibile fosse già tanto tardi? Diedi un’occhiata all’orologio della cucina e notai che erano quasi le 23:00. Forse, al termine di una giornata più stancante del solito, avevano deciso di raccogliere quella normale voglia d’intimità che prende vita quando si ha maggiore bisogno di relax, tra le mura della propria stanza meglio che in qualunque altro luogo della casa. Avevo bisogno anche io di relax. Sbirciai in forno e trovai un’invitante porzione di parmigiana di melanzane sistemata in un piattino che sembrava destinato a me.

Lo presi e, forchetta alla mano, mi rifugiai in camera. Decisi di godermi direttamente a letto quell’interessante piattino. Accesi la televisione e appoggiai la schiena su un paio di guanciali sistemati contro lo schienale del letto. Avvicinai il telecomando e, tra una forchettata e l’altra, cominciai a fare zapping. Quella sera non sembrava esserci un programma interessante, così mi fermai a guardare un canale che offriva servizi su sfilate di abiti da sposa. Magnifici. Uno più elegante e delizioso dell’altro. Sarebbe stato meraviglioso indossarne uno. Sarebbe stato meraviglioso poterlo indossare in breve tempo. Ci sarebbe stato solo l’imbarazzo della scelta, perché quegli abiti erano superlativi. Ultimai il piattino di parmigiana che deposi sulla scrivania e mi cambiai per andare a dormire. Ma non ero sazia. Perché la fame d’amore che provavo dentro, consumava le mie viscere dai giorni ati a soffrire una solitudine che non cessava. La solitudine è dentro noi, sempre. È uno stato d’animo, una condizione interiore che ci portiamo ovunque. Un vortice che ci abbraccia nel corso del tempo, per tirarci nel suo abisso di cristallo, dove fa più freddo. Un freddo che nasce da dentro per arrivare fuori, fino al sottile strato di una pelle che non resiste al desiderio di contatto e calore umano, per la voglia di carezze che riscaldino il cuore e l’anima nei giorni più difficili e nelle notti insonni di anni ati a respirare silenzi colmi di niente. Il niente divora ogni sentimento, abbraccia ogni dubbio o indecisione, ogni grande timore e ogni vero dolore. Ma a dominare il niente è, senza ombra di dubbio, il tutto: l’amore. Bello come i giorni che scorrono lenti nel leggiadro e silenzioso manto di una natura che abbraccia i suoi esseri a ogni istante. Meraviglioso come le notti che fluttuano nell’esistere d’un cielo che accende stelle pulsanti di vita lontana.

Sereno come il sole che scende al tramonto per rialzarsi all’alba, nel timido fruscio di foglie che danzano tra rugiada e sospiri. Il sole ha bisogno di tutta la notte per rialzarsi, perché scotta a ogni caduta e s’innalza di nuovo a ogni nuova luce del giorno. L’amore distante mi mancava nel torbido risveglio di un tempo che mi vedeva solitaria amante di un ricordo. Mi mancava allo sbatter di palpebre silenziose d’istanti morenti. Malinconia che si schiude come un fiore. Lacrime che bruciavano per il dolore. E il mattino che mi portava un niente rivestito da tutto. Riconosco subito il niente: lo ritrovo violento in ogni cosa e nel mondo. Mi baciava in un sogno che non riconoscevo e morivo d’una nostalgia che chiamavo col suo nome. Era lontano nel rumore del giorno che produceva caos fuori e dentro me. Mi raccoglieva come una mela caduta dall’albero quando pioveva e mi divorava avidamente tra un sospiro e l’altro. Abbracciando il cuscino, lo immaginai vicino, ma non c’era. Non sarebbe bastata una pacca sulla spalla né un sorriso o un abbraccio per consolarmi, in un tempo che scremava i suoi giorni più bui. Avrei voluto volare via, lontano, dove il sole era più alto nel cielo limpido, mano nella mano, per sempre, con l’amore e l’illusione che nulla ci avrebbe separati. Il primo sguardo a Venezia, il primo bacio a Firenze, la prima notte a Sorrento e tutto il resto per il mondo: la vita, i sogni, le aspirazioni e la voglia di goderne ogni sfumatura. L’amore comunque e ovunque. L’amore che non parla una sola Lingua, ma le parla tutte. L’amore senza confine e senza fine, l’amore che vibra ed emoziona. Quello che ti prende e ti agita, ti scuote e ti smuove dal profondo, mettendo in moto tutti i sensi, facendo scoprire l’esistenza di ogni arto, ogni centimetro di pelle e anima, perché anche quella vibra e scuote ogni istante d’esistenza. È un fragile incanto rivestito d’argento che scorge già lontani mattini di Primavera come l’età vorace che disperde i propri giorni. Incuriosita, lo avevo osservato a lungo in una Venezia che splendeva di luce propria, mentre le sue gondole danzavano come leggiadre ed eleganti étoiles rivestite d’una storia avvolta da un fresco manto di canali che si riversano nei misteri dei ricordi.

Avevo perduto ogni speranza nel preciso istante in cui essa aveva deciso cosa fare di me. Ma siamo noi a possedere la speranza? No, è la speranza a possedere noi. È forte e viva, decisa e irrequieta, esuberante e intraprendente, vivace ed emozionante, seducente e trascinante. La speranza sa che non possiamo farne a meno e quando si rende conto che arriviamo a vivere anche a briglie sciolte, a causa dei dolori infertici con furia mortale dalla vita, la senti riappropriarsi della tua esistenza e del controllo che pensi di avere su di essa.

Capitolo XIV

Nei giorni che seguirono la bottega “Il moro” fu subissata di turisti che acquistavano a più non posso ogni genere di prodotti: dalle confezioni di pasta artigianale ai più svariati liquori e dalle bottiglie di olio prodotte da Don Carmine alle marmellate fornite da un amico che possedeva una cooperativa agricola nelle vicinanze. Ricordo che con Loretta avemmo così tanto da fare da non riuscire a rincasare per l’ora di pranzo, perché le comitive portate da pullman provenienti soprattutto dal resto d’Italia, di solito arrivavano nel centro cittadino per le gite giornaliere nell’ora di punta. «Oh, finalmente è arrivato lo spuntino!», esclamò Loretta, quando intravide il ragazzo che lavorava in una salumeria poco lontano e aveva il compito di rifocillare i negozianti della zona che, come noi, avevano deciso di restare aperti con orario continuato. «Cosa hai ordinato tu?», le chiesi prima che il ragazzotto vestito più da barista che da garzone del salumiere entrasse col suo vassoio. «Ho ordinato un paio di panini napoletani, una sfogliatella riccia per me e una frolla per te, due bottigliette d’acqua frizzante e due caffè ben zuccherati!», sorrise andando incontro al ragazzo che appoggiò il vassoio sul bancone, vi sistemò le ordinazioni e, prima di andarsene, attese la classica mancetta quotidiana. Notai che negli ultimi tempi Loretta mostrava di avere una fame maggiore rispetto al ato e cercai di capire a cosa fosse dovuta «Sei un po’ ingrassata negli ultimi tempi», commentai con un lieve sorriso mentre addentavo il mio panino. «Mangi un sacco più di me!», esclamai. «Ma che dici? Ordiniamo le stesse cose!», si difese. «Già, ma chissà poi di cosa ti rimpinzi a cena quando torni a casa!», le feci notare. «Io assaggio giusto qualcosa. Mi siedo a tavola solo per non farmi

rimproverare di continuo». «Forse mangio un po’ più di te, ma ho un buon motivo per farlo», aggiunse, sorseggiando la sua bottiglietta d’acqua frizzante, tra un boccone e l’altro. «Sarebbe a dire?», le chiesi, guardandola esterrefatta. Percepivo già da un po’, ormai, che nell’aria ci fosse qualche novità. «Siamo in due, dobbiamo nutrirci», sorrise volgendo lo sguardo verso di me con una commozione pronta a renderle gli occhi lucidi. «No», sbottai soffermandomi sulla “o” finale per esternare un misto di stupore e gioia che si amalgamavano alla commozione e all’entusiasmo con cui mi sorprese «Non posso crederci!», esclamai, infine, appoggiando il mio panino avvolto in un tovagliolo di carta sul bancone e l’abbracciai con affetto «Ma me lo dici in questo modo?», le accarezzai la nuca con il palmo di una mano. «E come dovrei dirtelo, allora?», Loretta sorrise, una lacrima le scese sulla guancia più paffuta. «Ne ho avuto conferma solo una settimana fa». «Sono immensamente felice per te», le sussurrai all’orecchio tenendola ancora tra le braccia «Devi essere felice, Loretta. Te lo meriti». «Grazie, tesoro. Lo sono già. Lo sono immensamente», mormorò lasciando poi libere le lacrime di gioia che aveva trattenuto fino a quel momento. «Di quante settimane sei?», le chiesi divincolandomi dall’abbraccio e osservandole la pancia che spuntava leggermente dall’abitino accollato in cotone color verde pastello che le donava. «Di otto settimane», rispose, appoggiando sul bancone la bottiglietta di acqua che aveva tenuto in una mano fino a quel momento e tenendo solo il panino nell’altra. Poi si accarezzò delicatamente la pancia con la mano libera. «Sono due mesi!», esclamai entusiasta. «Sei già a due mesi!», ripresi. Ero davvero felice per lei. Mi strinsi nelle spalle. Loretta era riuscita a portarmi in una dimensione ancora sconosciuta e a far brillare il mio sguardo.

Inutile confessare che in quell’istante sognai lo stesso destino per me. Volai molto alto e molto lontano con l’immaginazione. E sperai che la vita giungesse a invadere di nuove esistenze il futuro che desideravo con Mark. Sognai di sentirmi come si sentiva Loretta e di vivere come lei in uno stato di grazia che, attraverso nove mesi, l’avrebbe resa mamma. Rabbrividii al contatto di un’emozione che mi commosse. Sì, quel giorno anche il mio volto si ricoprì di lacrime, di estrema gioia e, allo stesso tempo, d’immensa speranza. Quella sera tornai a casa illuminata dal magico chiarore di una nuova luna. Tornai serena. Più serena del solito e non avrei potuto immaginare che presto qualcosa d’inaspettato avrebbe ulteriormente incrinato la mia esistenza. Qualcosa che mi avrebbe catapultata in una realtà sconosciuta e imprevista. Per quanto, fino ad allora, avessi dialogato con mia madre e ci fossimo riavvicinate, non ero riuscita a farmi restituire le carte appartenute a Monti. Le stesse che erano state nascoste in una cassetta di metallo da seppellire per paura che qualcuno potesse trovarle. E, probabilmente, le stesse che erano sparite da uno dei cassetti della scrivania nello studio qualche tempo prima. Sebbene le avessi confessato di conoscerne già il contenuto, aveva sostenuto che le carte le appartenessero, perché scritte da suo marito che per me non era altro che un estraneo. Non mi piaceva quel suo modo di agire, perché sapeva che per me Gentile Monti aveva contato molto di più che per lei. Soprattutto perché il rapporto tra marito e moglie è totalmente diverso da quello tra genitori e figli e non accettavo le sue considerazioni. Non accettavo giudizi e sentenze, perché ero cosciente che lei per prima non si sarebbe potuta ergere a giudice. Lei che aveva tradito mio padre e mi aveva mentito per tutta la vita. Lei che continuava a tacere intorno a quanto accaduto la famosa notte della scomparsa di Gentile e aveva ordito i tanti, troppi sotterfugi che erano riusciti a dividerci e ad allontanarci. Proprio lei voleva giudicarmi! Non ne aveva alcun diritto. Inoltre, non mi sarei data per vinta fino al momento in cui non fossi riuscita a scoprire cosa fosse avvenuto la notte che aveva inevitabilmente cambiato le nostre vite.

Non sarei mai riuscita a vivere serenamente se non avessi portato a galla ciò che ancora sembrava celare il mio ato, tra le spoglie vesti di un inconscio che comunicava solo attraverso i sogni. Lo stesso ato che stava molestando il mio presente e incatenando il mio futuro. Sì, il mio presente subiva continue molestie da parte di quel ato tanto oscuro quanto invadente che mi vincolava alla continua consapevolezza di andare incontro a un futuro schiavizzato da catene che solo la verità avrebbe potuto spezzare. E Mark continuava a mancarmi come non mi era mai mancato. Non avevo sue notizie. E l’assenza di notizie me lo faceva sentire più lontano. Non sopportavo più l’attesa di una chiamata che non arrivava o di un messaggio che mi invitava semplicemente a pazientare, perché comunque ci saremmo presto ritrovati. Avevo bisogno di altro. Avevo bisogno di molto altro. Pensai di scrivergli un messaggio, seppur cosciente che avrebbe potuto non riceverlo. Avevo un numero senza prefisso internazionale. Immaginai che il numero in mio possesso doveva appartenere a una compagnia telefonica italiana e non certo belga. Decisi di cercare in internet il prefisso del Belgio. Non fu difficile. Era 0032. Così, davanti al numero di cellulare che avevo, aggiunsi il prefisso +32, e composi il messaggio: “Sono già ati diversi giorni distante da te. È sembrato un secolo. Scrivimi o chiamami. Mi manchi. Tua Dea”. Sospirai. Poi decisi d’inviarlo e all’opzione “Invia” risposi premendo OK. Il messaggio era partito. Speravo lo ricevesse e mi rispondesse. Deposi il telefonino sulla scrivania, al solito posto. Lo stesso in cui lo dimenticavo sempre quando uscivo. Avrei dovuto solo aspettare. L’indomani si affacciò con una splendida giornata. Quando aprii le imposte, il sole era già alto in cielo e il clima si presentò più mite del solito. Decisi di fare una eggiata per rilassarmi un po’. Era domenica, il giorno del

riposo assoluto, ma non mi andava di rintanarmi in casa. Avevo bisogno di uscire. Avevo bisogno di riabbracciare i miei olivi. Di sentire la brezza marina sfiorarmi la pelle. La salsedine a contatto con le labbra già più secche. Il mare cantare la vita da cui era animato. Avevo bisogno di raggiungere la mia collina. Di riflettere e magari sdraiarmi sotto un albero a leggere qualcosa. Bussarono alla mia porta e corsi ad aprire. Don Carmine mi guardava sorridente «Che ne dici di accompagnarmi a fare un giro tra i nostri oliveti?», mi propose. L’idea mi sembrava carina e accettai. Dopotutto, la visita alla mia collina poteva aspettare. Mi attese un buon quarto d’ora in salone, mentre mi rinfrescavo e cambiavo. Optai per un abbigliamento informale, da domenica mattina: jeans, scarpe da tennis, camicetta bianca e maglioncino di cotone ripiegato a coprire le spalle e annodato davanti. Legai i capelli in una comoda coda e mi presentai a colazione. Quella mattina pareva splendere tra i raggi che il sole faceva scorrere in mezzo ai rami ricchi dei “gioielli” offerti dagli olivi. Le reti mi sembravano più colorate del solito. Verdi, gialle, bianche, nere. Tutte enormi, pronte ad abbracciare un’immensa pioggia di olive che, a partire dal mese di Ottobre, avrebbero iniziato a esser raccolte dai dipendenti delle cooperative della zona, tra cui quella di Don Carmine, così come quella appartenuta a Gentile Monti. «Il raccolto quest’anno si preannuncia ottimo!», disse Don Carmine, mentre eggiavamo tra gli olivi contornati di reti. «È una buona notizia», commentai senza aggiungere altro e tenendo quasi sempre lo sguardo basso, sulla terra che calpestavamo. «Deana», si fermò a osservarmi «La metà di quello che vedi sarà tuo un giorno, lo sai. Lo dividerai con Felicia», mi ricordò. Che ironia! Avrei dovuto dividere con Felicia anche ciò che avevo sempre considerato solo mio, visto che portavo il cognome Monti e tutto ciò che ci circondava, anni prima, era appartenuto a quel padre che mi aveva cresciuta come tale. E ora, di punto in bianco, ciò che sarebbe dovuto essere naturalmente mio, almeno in parte, era legalmente finito nelle mani di Don Carmine e, un giorno, sarebbe finito in quelle di Felicia. «Ascolta», cercai di interrompere un discorso che mi infastidiva, malgrado non capissi dove fosse diretto. «Non sono venuta a eggiare con te per parlare di

queste cose. Vorrei trascorrere una domenica serena. Vorrei che non parlassimo di niente», chiesi esplicitamente. «Io, invece, vorrei che ci avvicinassimo come un padre e una figlia, Deana. E vorrei che i tuoi rapporti con Felicia migliorassero». «Non credo che possa accadere», anticipai senza mezzi termini. «Penso sia tardi». «Perché tardi?», mi chiese con disappunto, ignorando gli anni di silenzi e bugie che avevano riempito la vita di tutti. «Perché mi avete nascosto per troppo tempo quello che avreste dovuto dirmi da subito!», esclamai. «Avete nascosto una verità che fa male!», affermai evitando il suo sguardo diretto e proseguii cercando l’orizzonte. «Questa verità ora fa troppo male. Non ce la faccio. Abbiate comprensione per me e per i sentimenti che ho provato per l’uomo che mi avete sempre fatto considerare mio padre!», terminai, infine, ricominciando a camminare e allungando il o con l’intenzione di allontanarmi. Don Carmine proseguiva lento dietro di me e non aggiunse altro. No, non poteva sentirsi chiamare “padre” da me. Non poteva chiedermelo. Non avrei potuto, non ci sarei mai riuscita. Ci distanziammo di diversi metri e, giunta poco più lontano, nel voltarmi gli dissi «Torno a casa» pur sapendo che, invece, mi sarei rifugiata sulla collina. Avevo bisogno di pace. Avevo bisogno di sentirmi libera e serena. Non riuscivo più a eggiare al suo fianco. A quel punto, mi accorsi che la sua vicinanza cominciava a darmi fastidio, a irritarmi. Non la accettavo più. Non dopo aver saputo quello che avevo saputo. Proseguii a o rapido con lo sguardo basso e una malinconia crescente. Si sarebbero potuti arrampicare sugli specchi. Per me avrebbe fatto lo stesso. Nulla avrebbe cambiato la mia opinione, perché da quegli specchi non facevano altro che scivolare. Don Carmine sapeva bene di aver perso la mia stima e la possibilità di “essermi padre”. Avevano aspettato troppo. Avevano sbagliato e non era possibile tornare indietro.

Non era possibile riparare i danni provocati o colmare le mancanze. Era stato tutto deciso in principio. Lo sapevano. Lo avevano sempre saputo. Loro avevano sbagliato e loro avrebbero pagato con l’indifferenza. La verità era che soffrivo. Troppo per dar loro ascolto. Soffrivo di un dolore mai provato. Ero disorientata e molto irritata. Erano stati crudeli e ingiusti. Come avrebbero potuto chiedermi di accettare quella situazione? No, era impossibile continuare in quel modo. Troppo doloroso e assolutamente impossibile. Raggiunsi la collina in mezzo al profumo emanato dagli olivi, tra reti che sembrava creassero delle onde sopraelevate e lontani fischiettii di contadini che coltivavano la terra. Sì, quella terra trasmetteva pace. Era in grado di portarmi in una dimensione nuova. Era in grado di portarmi lontano, attraverso essenze naturali e canti popolari appartenenti a un tempo che era solo sembrato ato, ma che si sarebbe potuto riproporre in qualunque momento come in un sogno ristoratore che porta con sé la voglia di esser realizzato. Raggiunsi l’olivo che regnava incontrastato in cima alla collina e mi sedetti per terra, in mezzo alle sue radici e alla meravigliosa sensazione di protezione che mi trasmettevano. La pace che si poteva trovare in quel luogo era qualcosa di unico. Qualcosa che non avevo mai provato in nessun altro luogo. La giornata era limpida e l’orizzonte nitido. In lontananza si potevano ammirare l’isola di Capri e buona parte del Golfo di Napoli. Il sole quel giorno era tornato a riscaldare quelle terre e i suoi abitanti. Era tornato a rincuorare chi già si deprimeva al pensiero di dover superare un Inverno considerato spesso troppo rigido e che raccoglieva facile malinconia. Istintivamente misi mano alla borsetta per cercare il telefonino, nella speranza di trovarvi un messaggio di Mark. Ma mi accorsi di non averlo portato con me. L’avevo dimenticato ancora una volta sulla scrivania! Non era possibile! Decisi comunque di restarmene un po’ in pace. Per conto mio. Avevo bisogno di

silenzio. Solo di silenzio. Volevo sentirmi in pace con me stessa e percepire quel senso di serena beatitudine che mi aveva sempre trasmesso solo quella terra e l’immagine di quei luoghi di incontaminata bellezza. La terra sotto la mia pelle portava la vividezza di un’essenza di erbette e gelsomino che arrivava alle narici per confondersi con gli odori di una natura pronta ad amalgamarsi alla brezza marina. E il senso di una gioia tanto agognata mi parve soavemente raccolta nella semplicità che mi circondava con armoniosa freschezza. Quante volte si rincorre la felicità e la gioia di una vita che sembra quasi sempre sfuggire! Quante volte si crede di non poter mai afferrare l’essenza stessa di una vita che offre disagi pronti ad allacciare distratte malinconie al tempo! Eppure avevo la sensazione che la gioia potesse emergere da ogni cosa, attraverso la vitalità che sconfinava oltre ogni naturale magnificenza. Sì, la gioia è ovunque, se riusciamo a captarla. La gioia del creato e della natura che ci offre ciò che di meglio esiste al mondo è ovunque, se la si comprende. E la felicità non è altro che una sua naturale mutazione. Si cerca quel che non si conosce, senza sapere che ciò di cui si ha più bisogno è, invece, a portata di mano. Senza sapere che la gioia esiste nella semplicità stessa delle cose e che la felicità ne è solo una spontanea mutazione temporale. Avrei potuto cercare la felicità ovunque, senza trovarne l’ombra, perché essa era sempre stata lì, tra le radici dei miei olivi, in mezzo alla terra che custodiva le mie origini, tra le onde di quel mare che aveva strappato serenità alla mia infanzia, in mezzo alla sospirata sensazione che sarei mutata per sempre nel dolore di un’errata consapevolezza. Avrei potuto cercare ovunque ciò che sentivo mancarmi, senza riuscire mai a trovar nulla di ciò che realmente mi servisse a vivere bene, perché ciò che desideravo, in realtà, era stato sempre mio, non mi aveva mai abbandonata, non mi aveva mai ripudiata, non mi aveva mai dimenticata. Quella natura, quelle radici così grandi e possenti, che erano anche le mie e quella terra frastagliata come gli scogli di un litorale che si offre scivoloso e complesso nel suo insieme, erano da sempre parti integranti della mia essenza.

Tornai a casa più serena. Avrei voluto restare sulla collina ad ascoltare il mare nel silenzio di quel tiepido mattino di sole, ma poi sentii la necessità di tornarmene tra le mura domestiche per trovare il conforto di un po’ di sana familiarità. Nel rincasare, pensai di potermi precipitare in camera per vedere se il telefonino annunciava un messaggio di Mark, ma incontrai lo sguardo indagatore di Betta che dalla cucina preparava il pranzo. «Tutto bene?», allora decisi di fermarmi a chiederle, mentre nell’aria un inconfondibile odore di sugo insaporito di spezie si estendeva oltre l’ingresso e Betta ripuliva un pollo sotto l’acqua del rubinetto. «Certo, se non fosse che tua mamma ha deciso di farmi impazzire», sbuffò, senza nascondere il disagio e il disappunto. «Perché?», le chiesi, incuriosita dalle sue parole. «Prima mi chiede di preparare il merluzzo, dopo invece mi chiede il pollo…», fece una pausa durante la quale richiuse il rubinetto e si asciugò le mani, dopo aver riposto il pollo ben ripulito in un grosso tegame che conteneva olio ed erbette aromatiche, poi riprese « …e io che pensavo di potermi rilassare almeno la domenica!», esclamò come chi è più propenso a gettare la spugna per arrendersi che di mettersi ai fornelli per un giorno festivo. «Mi spiace», seppi dire appena, mentre con lo sguardo basso non pensavo ad altro che a rintanarmi in camera per controllare il telefonino «Posso darti una mano?», le chiesi, invece, quasi senza volerlo. «No, figurati», rispose senza mezzi termini. «Lo dicevo per sfogarmi con qualcuno. In questa casa non si può mai dire quel che si pensa!», terminò mentre accendeva il forno destinato ad accogliere il tegame che conteneva il pollo. «Allora, io vado in camera», le dissi per scappare via, prima che lei avesse il tempo di aggiungere altro. Raggiunsi la mia camera con la speranza di chi aspetta a lungo un messaggio, ma, quando entrai, nello scorgere il telefonino dimenticato sulla scrivania, notai che sul display c’era solo un avviso che notificava la mancata ricezione del

messaggio. Avrei dovuto immaginarlo. Qualcosa non andava. Probabilmente, il numero in mio possesso apparteneva a una compagnia telefonica italiana per cui, se lui si trovava in Belgio, non avrebbe potuto rispondermi senza avere con sé il numero attivo. Mi buttai sul letto sconfortata. E mi chiesi quanto altro tempo sarebbe ato prima di rivederlo. Ormai conosceva la collina come mio rifugio e avrebbe potuto raggiungerla senza problemi, se lo avesse voluto, una volta a Sorrento. Intanto udii dei rumori in corridoio. Mi alzai dal letto silenziosamente. Qualcuno eggiava in un andirivieni poco discreto. Appoggiai un orecchio alla porta per origliare e per capire di chi si trattasse. Chiusi lentamente facendo girare la chiave nella serratura con la speranza che chi fosse all’esterno non ci fe caso. Poi improvvisamente udii qualcuno, di cui non riconobbi la voce, dire «Dobbiamo parlare». E i i che sembrarono divenire doppi, si allontanarono. Solo in quel momento decisi di aprire la porta. Feci capolino dalla camera e notai che il silenzio cominciò a pervadere il corridoio. A o felino mi diressi verso il salone. Vidi che la porta dello studio era chiusa, ma qualcuno all’interno sistemava qualcosa: sedie, cassetti, documenti. Appoggiai l’orecchio alla porta e solo quando udii dire «Allora» con la voce grossa di Don Carmine, mi allontanai. Ebbi paura che qualcuno potesse notarmi: Betta, per esempio, a cui non volevo dare spiegazioni o far vedere che in famiglia ci fossero segreti fino al punto di doversi spiare a vicenda e, naturalmente, Felicia che avevo ritrovato come una perfetta estranea pronta a tradire la mia fiducia. Con cautela mi guardai attorno. Il silenzio pervadeva anche il mio corpo. Sentivo solo i battiti del cuore. Poi un rumore distrasse la mia attenzione e fui costretta

ad allontanarmi: Betta attraversava il corridoio per preparare la tavola per il pranzo. Le andai incontro pensando di poter fingere che nulla stesse accadendo, invece avevo lo stomaco sottosopra. «Posso aiutarti?», chiesi, andandole incontro. Lei mi notò solo quando pronunciai parola. Aveva in mano delle stoviglie. «Non è necessario», rispose senza mezzi termini, non degnandosi di voltarsi. Intanto, alle mie spalle, dallo studio, il rumore prodotto da un tonfo mi fece voltare. Betta, invece, parve non accorgersene. Decisi di dirigermi verso lo studio per capire cosa stesse accadendo. Bussai, ma nessuno rispose. Eppure sapevo che c’era qualcuno all’interno. Continuai a bussare con insistenza. Ma invano. Poi la porta si aprì e il volto adirato di mia madre uscì a fissarmi come se fosse stata diretta a me la rabbia che era maturata qualche minuto prima all’interno dello studio. «Cosa ci fai tu qui?», mi chiese con una voce che non riconobbi, seria e pallida in volto, come se avesse ricevuto una terribile notizia. «avo», risposi «Ho sentito un tonfo e ho bussato, ma non mi avete sentita», le feci sapere, per giustificare la mia vicinanza alla porta. «Non ti ho insegnato a origliare», fu la risposta repentina e secca di mia madre che si diresse verso la sua stanza. Intanto, la porta aperta mi rivelò una scena poco gioiosa: Don Carmine, in piedi appoggiato con entrambe le mani sulla scrivania, con fare serio, aveva il volto basso e taceva. Appoggiai una mano sulla porta per aprirla del tutto ed entrai silenziosamente. Mi udì. Capii che mi udì, ma non fece un solo movimento. Mi ignorò. «Cosa è successo?», gli chiesi con un filo di voce, sperando che mi sentisse e potesse rispondermi.

Don Carmine non accennò ad alcuna risposta. Rimase immobile. Fermo come una statua. Muto come non lo avevo mai scorto. Non capii nulla di ciò che era appena accaduto. Qualche istante divise il nostro silenzio, mentre dall’esterno si sentiva solo l’andirivieni di una Betta più indaffarata del solito. Alzai lo sguardo e una stanza tetra mi restituì l’immagine dello studio. Mi apparve tutto molto più grigio e triste di quanto non fosse sempre stato. Quel silenzio era in grado di spezzare il resto dei pochi equilibri rimasti in casa. L’atmosfera era diventata pesante. L’aria irrespirabile. Io insofferente a ogni cosa, ormai. Era una sensazione strana e, allo stesso tempo, inverosimile. Sentivo che qualcosa d’indefinibile aleggiava tra noi. Sentivo che qualcosa si era spezzato in modo definitivo e la mia famiglia non esisteva più da quella famosa notte. Quando Gentile Monti aveva deciso d’intraprendere la strada che portava al bosco e poi al successivo dirupo. No, non ricordavo i particolari di quella notte. Non ricordavo di aver oltreato il bosco misterioso e di esserne uscita viva con mia madre, dopo aver rincorso mio padre per chiedergli di rincasare. Da quella notte tutto cambiò nella mia vita. Tutto.

Capitolo XV

La verità sarebbe ben presto emersa. Fino a quella domenica, la quiete. Poi, il diluvio. Fu tutto cancellato, tutto spazzato via da venti che non avrebbero avuto alcuna pietà. Erano forti le correnti che si ergevano su di noi. Temibili le loro raffiche improvvise. E noi eravamo divenuti inermi spettatori di una verità che aveva deciso di emergere dopo anni di insabbiamenti, dopo anni di muto dolore e quasi assordante silenzio. La bottega era la solita. La mia stradina verso il centro, deserta. La collina quasi spoglia per il sopraggiungere di un freddo che stava prendendo piede lentamente, riuscendo a farsi largo ovunque. La mia vita sconquassata da parole che sarebbero rimbombate nei timpani per il resto dell’esistenza. La mattina successiva uscii di buon’ora. Avevo delle commissioni da fare. Anche per conto di Don Carmine che aveva deciso di restare a casa, dopo essersi dichiarato “troppo stanco”. Non si sentiva bene, ma aveva rifiutato la visita del medico di famiglia. Presi le redini di una situazione che sarebbe andata deteriorandosi. Loretta era incinta e non avrebbe potuto sobbarcarsi da sola le fatiche e le responsabilità del negozio. Felicia non si era mai interessata agli affari paterni. Mai. Aveva sempre voluto solo privilegi. Aveva sempre voluto godere appieno di un benessere che era subentrato nella sua vita solo grazie ad anni di fatiche di una famiglia contadina. Aveva solo raccolto dei frutti che erano stati seminati da altri. A chiunque sarebbe piaciuto mettersi nei suoi panni. Dopotutto, a chi non piacerebbe poter solo raccogliere, senza alcuno sforzo né alcuna fatica o merito, quel che un nonno o un genitore sono riusciti a seminare? Avevo dovuto controllare da sola la molitura delle olive che si avviava a divenire olio. Un prodotto che avrebbe dovuto fungere da marchio di fabbrica. Un prodotto che avrebbe dovuto permettere alla famiglia di star serena per tutto l’anno.

Insieme a Betta avevo dovuto dividere varie commissioni. Lei si sarebbe occupata delle faccende di casa e io di quelle “esterne”. Anche mia madre si era rintanata in casa e, benché non ne capissi né tanto meno ne condividessi la scelta, non aprii bocca per polemizzare. ai all’ufficio postale a ritirare un paio di pacchi destinati a Don Carmine, parlai con qualche suo compare che spesso si intratteneva in piazza con gli amici di una vita e arrivai in bottega per l’ora di pranzo. Sapevo che non sarei riuscita a are da casa, così decisi di ordinare un paio di piatti caldi in una rosticceria. Scelsi per Loretta un bel piatto di gnocchi di patate insaporite da un sugo alla cacciatora e un contorno di verdure miste. Mentre per me un’insalata di pollo con verdure alla griglia. Due bottigliette di acqua minerale e due caffè. Quando feci il mio ingresso in bottega con i pacchi e un ragazzo della rosticceria che, invece, aveva il compito di portare i piatti da me scelti, Loretta era indaffarata nella vendita di un paio di cestini assortiti di prodotti alimentari che due turisti volevano acquistare. Entrai con cautela e discrezione. Appoggiai i pacchi nel retro, chiedendo al ragazzo della rosticceria di appoggiare il vassoio sul nostro bancone centrale e gli lasciai una mancia di 5 Euro. La vendita dei cestini si concluse a stretto giro di posta e fummo finalmente pronte a goderci i piatti che ci aspettavano sul bancone. Loretta aveva il pancino che sporgeva delicatamente dalla maglietta di flanella bianca su un paio di pantaloni scuri e sorrideva a ogni battuta. La vedevo serena, allegra, gioiosa ed ero felice per lei. Se lo meritava. Come si meritava una vita fatta delle soddisfazioni che solo una bella famiglia avrebbe potuto darle. «Come vanno le cose a casa? Don Carmine ha deciso di non uscire?», mi chiese, mentre gustava i suoi gnocchi fumanti. «Non so cosa dirti: hanno deciso di rintanarsi entrambi in casa dalla sera alla

mattina», sentenziai, senza mezzi termini, mangiando la mia insalata. «Ma non dovevano occuparsi dei preparativi per il matrimonio?», mi chiese Loretta. «Non saprei cosa dirti. È da un po’ di giorni che non ne parlano più o, per lo meno, io non ne sento parlare. Poi, non saprei... ». «E Felicia? Non si vede neanche lei nei dintorni: che fine ha fatto?», domandò. «La vedo poco, è spesso fuori. Oppure se è a casa, sta nella sua stanza. A volte mi è capitato di incrociarla a tavola, ma niente di più. Il dialogo con lei si è concluso già da tempo. Non parliamo come una volta. Siamo diventate le estranee che non avrei mai immaginato». «È diversa da te: si è sempre tenuta un po’ sulle sue. È una persona introversa», disse Loretta, senza pensarci due volte. «È sempre stata così: più che introversa, la definirei strafottente. Ma non è una sorpresa per me, mi ero accorta da tempo del suo carattere. Ci siamo allontanate in modo spontaneo, automatico. Semplicemente, a un certo punto della vita, non abbiamo avuto più niente da dirci». «Mi spiace», mormorò Loretta abbassando lo sguardo, mentre appoggiava il suo piattino di stagnola e apriva la bottiglietta di acqua. «Dispiace anche a me, ma era diventato difficile sostenere la parte delle buone amiche. Non era possibile continuare», terminai, mangiando con la lentezza che mi aveva sempre distinta a ogni pasto. Verso le 14:00 la piazzetta era deserta. I pochi negozi aperti chiudevano le ampie porte in vetro oppure abbassavano le serrande e il sole che spuntava ogni tanto da qualche nube di aggio non faceva che illuminare le malinconie di una stagione che, col tempo, sarebbe diventata più rigida. Noi, per scelta, lasciavamo la serranda sollevata anche quando mangiavamo. Avevamo deciso di restare aperti fino alla sera e, comunque, di goderci la pausa pranzo. I turisti sarebbero arrivati verso le 15:30, come quasi ogni pomeriggio almeno

fino alla fine di Ottobre, se le giornate di sole lo avessero permesso. Eravamo convenzionati con alcune agenzie di viaggio che ci pubblicizzavano presso i turisti stranieri. Le agenzie nei dintorni organizzavano gite fuori porta, escursioni per il Golfo di Napoli e le isole e la possibilità di conoscere e visitare buona parte della nostra penisola. Questo tipo di collaborazioni ci permetteva un buon rientro economico e soprattutto una sorta di campagna pubblicitaria che, nel tempo, consolidava il nostro fatturato annuale. La giornata sembrava ancora lunga, forse la più lunga della mia vita e ci rilassammo lasciandoci andare a qualche confidenza tra ragazze. Poi decisi di spolverare la bottega. Quella mattina, presa come ero stata da impegni in giro per la città, non ero riuscita a occuparmene e avevo detto a Loretta di non muovere un dito, perché non volevo si affaticasse più del dovuto o si mettesse a pulire gli scaffali più alti su una scaletta di fortuna. Per tutto il pomeriggio venni colta da una strana inquietudine, ma non ne feci parola. Sentivo un indefinibile e sottile dolore percorrermi il corpo. Avevo bisogno di rilassarmi. Non sapevo a cosa fosse dovuto, né volevo immaginarlo. Ero solo stanca. Non avevo neanche voglia di rincasare. Non volevo rivedere il volto scuro di Betta che faceva meccanicamente il suo dovere tra le stanze o in mezzo ai fornelli, né quello di una madre che non riconoscevo più e men che meno quelli di un Don Carmine più strano del solito o di una Felicia più insulsa del normale. Non sentivo più mia quella casa e non sentivo più mia quella situazione familiare. Quel mio focolare domestico non esisteva più. Non era lo stesso. Non potevo più rifugiarmici, non mi sentivo più al sicuro, non mi sentivo più serena come lo ero stata un tempo davvero lontano. Troppe cose erano successe e niente più sarebbe stato come prima. Niente avrebbe potuto riportarmi a essere la bimbetta felice che ero stata e restituirmi l’ingenuo sorriso di una volta. Niente più avrebbe potuto farmi tornare la persona che avevo sempre creduto di essere. Lo sapevo. Ne ero perfettamente cosciente.

I turisti quel pomeriggio non mancarono. Avemmo il nostro solito da fare, ma con la gioia di chi si sente libero di agire come crede, perché sa che il titolare non si affaccerà a controllare né tanto meno a rimproverarci se qualcosa si trova fuori posto. Per la prima volta, forse, io e Loretta ci sentivamo libere e serene in quel contesto. E la gioia di rilassare il nostro tempo emergeva in ogni momento. I clienti lo percepivano e ne erano soddisfatti. Uscirono tutti, quel pomeriggio, con un qualcosa di acquistato. Proprio tutti. Io e Loretta ci abbracciammo, come ogni tanto eravamo solite fare, al momento della chiusura. Ci salutammo, ma, prima di andare, accarezzai il suo pancino e sorrisi. Era la vita a pulsare sotto il palmo della mia mano e l’energia che mi trasmise portò una positività che riemerse da qualche dimenticato angoletto del mio essere. Ero più serena dopo quel tocco. Più tranquilla, mentre la sera si era fatta ormai scura e le tenebre cominciarono ad avvolgere la solita selva da attraversare. Non avevo mai avuto paura di quel cammino. Mi era sempre stato amico. Non avevo mai avuto alcun timore. No, non lo avevo mai avuto. Cominciai a camminare con la lentezza che mi piaceva adottare quando sapevo di non avere fretta. Poi, a un certo punto, già a metà cammino, ricordai di aver dimenticato i due pacchi arrivati per Don Carmine e mi dissi che non avrei potuto rimandare, che sarei dovuta tornare indietro a riprenderli. La sera era inoltrata. Erano già le 20:20 quando decisi di tornare indietro e la strada era illuminata solo dalle solite e diradate luminarie lungo quel percorso di fortuna. Non mi scoraggiai. Tornai indietro alla volta della bottega. Non incontrai nessun viandante per il cammino. Il silenzio si fece più fitto e le foglie secche che cadevano dagli alberi, venivano calpestate dai miei piedi come un tappeto di schegge, emettendo secchi rumori sotto le scarpe. Si alzò una brezza che ava abilmente tra i ramoscelli degli olivi con l’essenza di un profumo quasi sconosciuto. Alzai gli occhi a guardare il muoversi di alcuni rami e a udire il fruscio prodotto dal loro movimento come chi si ferma ad assistere al aggio di qualcosa d’importante.

Quel fruscio arrivò alle mie orecchie come una melodia. Il danzare di una poesia che si esprimeva attraverso la voce del vento. Era pura poesia quel battere di ciglia degli olivi e quel danzare di braccia che si ergevano oltre le infinite speranze di chi aspetta che il cielo porti ancora la pace attraverso l’arrivo della notte. Riaccesi la luce non appena rientrata in bottega. Lasciai la serranda semi abbassata per poter infilarmi e recuperare i pacchi postali e uscire di nuovo senza perder tempo. Richiusi il negozio e ripresi il cammino alla volta di casa. Erano appena le 20:42 e la piazzetta era già mezza vuota. Le auto avano frettolose per le strade e i marciapiedi si rivestivano di solitudini sopite. Il cammino ricominciò tranquillo, anche se con un’inquietudine maggiore. Ebbi la sensazione di essere seguita, anche se non ne ero del tutto sicura e, puntualmente, nel voltarmi non intravedevo nessuno. Dopotutto, mi dissi che se qualcuno mi seguiva, avrei dovuto udirne il calpestio sulle foglie smorte sulla strada, mentre invece non sentivo altro che il mio quieto e regolare procedere. Intanto, il buio si era fatto più fitto. La notte avanzava e la strada restituiva ombre e oscurità non sempre svelate agli occhi di chi vi si imbatteva. Un rumore alle spalle mi fece sussultare. Mi voltai col cuore in gola. Non vidi nessuno, ma cominciai a rabbrividire. Affrettai il o. Cominciai ad aver paura. Percepivo una presenza. Non sapevo cosa o chi, ma non mi piaceva. Decisi di non voltarmi. Le viuzze che si allungavano oltre le siepi in mezzo alla boscaglia confondevano il mio orientamento. Qualche residente aveva fatto costruire nuove stradine in mezzo per poterci are anche in bicicletta. Ma non volevo confondermi. Non sarebbe stato da me. Non sarebbe stato normale. Conoscevo come le mie tasche quel luogo, non avrei potuto sbagliare strada. Intanto il mio o procedeva deciso verso casa e la paura cominciò a are. Anche se l’insicurezza da cui mi sentivo quasi toccare si faceva largo come i

miei piedi sulla strada. E quando il cellulare cominciò a squillare, ebbi un sussulto tale da farmi quasi cadere i pacchi che portavo. C’era un messaggio in arrivo: “Sono a pochi i da te, Mark”. Spalancai gli occhi e mi voltai, ritrovandomi tra le sue braccia senza quasi capirlo. I pacchi mi caddero rovinosamente a terra e la sua stretta mi avvolse in un impeto che non ricordavo possibile nella perfetta solitudine che in sua assenza mi aveva trascinata a pensare al peggio. Pensavo non tornasse. Pensavo mi avesse dimenticata. Da giorni non mi scriveva e da altrettanti giorni stavo cominciando a disperare. Invece era lì. Di nuovo con me. Mi strinsi a lui come non ricordavo di aver ancora fatto. Trattenni il respiro fino all’impossibile. Sentii il suo fiato sul collo e le parole arrivarmi all’orecchio «Sono di nuovo qua, con te». Gli occhi si inumidirono. Il vento li invase in quell’abbraccio e mi fece rabbrividire. Sentii quasi mancarmi le forze. Poi, per fortuna, mi ripresi. La sorpresa era stata inimmaginabile. «Eri tu ora, alle mie spalle!», esclamai, ancora stretta alle sue braccia. «Volevo farti una sorpresa: vedere dove andavi, cosa facevi, perché fossi tornata indietro», mi fece sapere, accarezzandomi la schiena con una mano. «Ma quando sei tornato?», gli chiesi poi cominciando a divincolarmi dal suo abbraccio che allentò la presa. «Stamattina», rispose sorridente, fissandomi dritta negli occhi a pochi centimetri dal viso, tenendomi ancora stretta. «E cosa hai fatto? Dove sei stato? Cosa è successo?», cominciai a domandargli senza fare neanche una pausa. «Alloggio in una pensione a pochi i dal centro», mormorò con voce roca. «Il tempo di arrivare a Sorrento da Napoli, di fare una doccia, qualche chiamata e un giro nei dintorni», rispose.

«E perché non mi hai chiamata all’ora di pranzo?», gli chiesi a quel punto. «Ti avrei raggiunto, ovunque ti trovassi». «Immaginavo avessi da fare, visto che sono tornato all’improvviso senza avvertire. Ho preferito aspettare che finisse la giornata», sorrise osservandomi per intero. «Sì, ma se avessi saputo che tornavi stamattina, io non so», sorrisi con una punta d’imbarazzo. «Sarei venuta in aeroporto, a Roma o a Napoli, e poi saremmo venuti a Sorrento insieme e…», tentai di proseguire, ma m’interruppe con un bacio che durò qualche secondo. Mi era mancato da morire. In quell’istante capii quanto mi fosse mancato. E soprattutto quanto avessi patito la sua assenza. Accarezzai i suoi capelli cortissimi. Lo osservai e sorrisi. Eravamo di nuovo insieme. Questo contava. Raccolse ai miei piedi i pacchi caduti e mi accompagnò a casa. Mano nella mano. Di nuovo. Era tornato da me quando meno lo avrei creduto possibile. Quando meno lo avrei immaginato. Era di nuovo con me. La strada divenne meno minacciosa in sua presenza. Il vento meno gelido. La notte meno buia. L’Autunno meno sfiorito. Arrivammo vicino al cancello di casa in breve tempo. Mi consegnò i pacchi e disse che mi avrebbe aspettata sulla strada. Avrebbe voluto portarmi al ristorante. Aveva qualcosa da dirmi. Qualcosa di importante. Sorrisi, compiaciuta e felice. Lo invitai comunque a entrare, dicendo che volevo presentarlo alla mia famiglia, ma rifiutò. Disse di volermi parlare da solo. Non capii il suo atteggiamento. Non compresi la sua scelta, ma la rispettai. Sorrisi ancora, lo baciai e mi avviai verso casa. Il silenzio che proveniva dalla boscaglia si fece più lontano e il vento rimase ad aspettarmi fuori, come Mark.

In casa non sembrava esserci nessuno. Feci capolino in cucina. Trovai Betta intenta a infornare qualcosa, ma non me ne curai. La salutai di sfuggita, appoggiai i pacchi sul tavolo del soggiorno e mi diressi verso la mia camera. Attraversai il corridoio, ma nell’avvicinarmi allo studio, attraverso le porte chiuse udii un’accesa discussione tra mia madre e Don Carmine e compresi che qualcosa stesse per accadere. Qualcosa che squarciò la notte. La mia notte illusoriamente serena con Mark, dopo tanta attesa. Non riuscii a resistere alla tentazione di ascoltare le animate parole che fuoriuscivano come fulmini che fanno rimbombare i sottili vetri e rimasi ad ascoltare ciò che l’un l’altra si stavano urlando contro. «Se non glielo dici tu, lo faccio io, hai capito?», distinsi la chiara e squillante voce di mia madre che pareva più alterata del solito. «Sei una stupida se pensi che possa capire!», le urlò contro l’inconfondibile voce di un Don Carmine più irato che mai. «E tu sei un idiota ad aver creduto che tutto potesse andare liscio come l’olio!», rispose mia madre. «Sei stata tu ad ammazzarlo!», urlò più forte Don Carmine e raggelai nell’udire quelle frasi che, in un primo momento, avevo trovato insensate. Poi, capii tutto. «Ma sei stato tu a non fare quello che dovevi!», gli rinfacciò mia madre «Avresti dovuto prendere le redini della situazione, invece di lasciarmi la parte più difficile!». «E che pensi di fare ora? Di dirlo a Deana? Di andarti a costituire? Di distruggere la nostra vita?», Don Carmine era fuori di sé, così come mia madre. Non potevo più restare a origliare. Dovevo entrare. Aprii la porta. Agghiacciarono, entrambi. Il rumore delle loro parole divenne improvvisamente silenzio. Si trasformò del tutto, come le loro facce stravolte nel ritrovarmi innanzi. Muta, irrigidita, ferita, seria, angosciata, delusa, amareggiata, arrabbiata, risentita, sconvolta.

«Di cosa state parlando?», chiesi con un filo di voce che si percepì appena in quella stanza animata dal caos di una rabbia che stava facendo emergere ciò che non avrei mai immaginato. «Deana… », mia madre pronunciò appena il mio nome, ma Don Carmine la interruppe «Diglielo!», le intimò «Ora!». Mia madre aveva lo sguardo basso. Gli occhi rossi velati di lacrime. Il volto stravolto. I lineamenti irriconoscibili. Sconvolti da qualcosa che non aveva saputo o voluto rivelare e contro cui, in quel momento, si trovò improvvisamente a combattere. Contro ogni previsione. Contro sé stessa. «Che cosa devi dirmi, mamma?», le chiesi con la voce rotta da un pianto che cominciò a straziarmi con l’acutezza di un dolore che lentamente si fece largo in me «Che cosa hai fatto, mamma?», le chiesi in modo quasi impercettibile. La voce cominciò a mancarmi. Lei non rispose. Guardai Don Carmine che evitò i miei occhi. Erano entrambi in piedi: lui dietro la scrivania e lei davanti. Lui portò lo sguardo alla scrivania e si gettò sulla poltrona come un peso morto. Lei guardò nel vuoto. Un vuoto che diceva tutto. Lo capii dal suo sguardo. Lo capii dalla follia che vi aleggiava. Lo capii dalle espressioni del viso. Feci un o indietro. Lento, incerto, tremante, angosciante, delirante. Non era vero. No, non potevo crederci. Volevo sentirlo dalla sua bocca. Volevo sentirlo da lei. Doveva finalmente dirmelo. Doveva! «Mamma!», urlai d’un colpo, provocandole un sussulto che la riportò al presente e le permise di ritrovare il mio sguardo fisso su di lei. «Sono stata io, Dea», rispose, senza mezzi termini, «Sono stata io, Deana», ripeté come un automa. «Tu?», le chiesi, ma volevo che chiarisse, volevo che lo dicesse con fermezza. Volevo che non tremasse. Che non temesse nulla. Volevo uscisse allo scoperto tutto quel dolore che avevamo tenuto dentro per tanto, troppo tempo.

Un dolore che ci aveva quasi fatto compagnia. Un dolore che aveva portato le nostre vite ad autodistruggersi, a mortificarci, a punirci, ad assisterci in una lunga, infinita e angosciante agonia. Quella che ci avrebbe portato alla fine dei nostri giorni senza alcuna verità. «Mimosa», la voce severa di Don Carmine tentò di spronare nuovamente mia madre a continuare. A parlare. A rivelare. A dire tutto. «Queste mani…», le alzò quasi in cerca di carità e le fissò, nell’indicarmele, «sono le stesse che hai visto nei tuoi incubi. Le stesse che pensavi avessero cercato di afferrare tuo padre, le stesse che hai creduto potessero esser capaci di salvargli la vita», s’interruppe nuovamente, restando a fissarle, come se potessero essere loro a parlare al suo posto, come se potessero essere loro a rivelare quel che avevano fatto. «Non è vero», mormorai con un sottilissimo filo di voce, voltandomi a guardare Don Carmine che si coprì il volto. Le lacrime si fecero largo sul mio viso, senza quasi che me ne accorgessi. Le mie mani tremarono e la voce divenne più roca «Allora, nei miei incubi, tu…», sussurrai timorosa di poter dire qualcosa di più grande di me «Con quelle mani, tu…», le lacrime bagnavano copiosamente il mio volto fino al mento, fino a bagnarmi la camicetta, fino a scendere sul pavimento. Mia madre rimase immobile, con il viso di chi sembrava rivivere quell’assurda notte. La notte in cui Gentile Monti aveva perso la vita volando dal dirupo oltre il bosco. Quello dal quale nessuno sembrava fosse mai uscito vivo. Nessuno tranne noi: me e mia madre. Perché? Come aveva fatto? Come aveva fatto a riconoscere la strada che ci avrebbe riportate a casa? Chi altri c’era con noi quella notte? Chi? Guardai ancora Don Carmine, poi mormorai tra i singhiozzi «No». Lo fissai. Continuava a coprirsi il volto. Non poteva guardarmi in faccia. Non avrebbe mai potuto. Era la vergogna a impedirglielo. Era la paura. Il rimorso. La colpa. «C’eri anche tu quella notte?», gli chiesi, senza avere alcuna risposta. Poi tornai a guardare mia madre e le dissi «Tu non lo afferrasti, tu…», i singhiozzi

interrompevano a tratti le poche parole sensate che cercavo di esprimere e la verità cominciò a confondermi «Tu, con quelle mani…», e la voce mi si spezzò, «… l’hai spinto giù». Il silenzio che regnava sovrano in quella stanza divenne troppo pressante. Quel silenzio mi schiacciò. Avevo creduto che Gentile Monti si fosse suicidato dopo aver scoperto che mia madre aveva una relazione col loro comune amico. Avevo creduto che, dopo un furioso litigio, lui si fosse incamminato verso il dirupo per porre fine alla sua esistenza. Avevo immaginato che mia madre lo avesse rincorso per salvargli la vita. E io che ricordavo appena quella notte, non ero riuscita a trovare alcuna pace. E non ero mai riuscita a capirlo né a scoprirlo. Come avevo fatto? Erano stati entrambi su quel dirupo. Ci aveva successivamente raggiunti anche Don Carmine che aveva seguito i nostri i e, in seguito, accompagnato me e mia madre a casa. Li guardai entrambi. Li fissai. Con le mani alla bocca come chi non è più nella condizione di parlare o non ha più nulla da dire. Dimenticai Mark. Dimenticai tutto. Con le mani tremanti, come un automa che non sa neanche dove sta andando, cominciai ad avviarmi verso l’uscita dello studio, mentre mia madre immobile in piedi, appoggiata con un fianco alla scrivania, fissava il vuoto e Don Carmine si lasciava andare a un silenzio che, presto o tardi, avrebbe inghiottito entrambi. Betta dalla cucina mi vide are senza fiatare e senza guardare altro che il vuoto. Uscii di casa. Un lampo improvvisamente squarciò il cielo nella notte e, allo stesso tempo, anche le nostre vite, desideroso di spazzarle via con la sua pioggia furente. Raggiunsi il cancello e fissai il buio che nella notte pareva infradiciarsi come quel momento di folli scoperte pronto a infangare la nostra esistenza. Mi misi sotto la pioggia, cominciando a bagnarmi come un pulcino. Senza tuttavia sentire l’acqua sulla pelle. Senza percepire il suo getto che colpiva i miei capelli e rigava la mia faccia, le mie braccia, le mie gambe. La pioggia m’inzuppava per intero, ma non la sentivo. Non sentivo più nulla.

Cominciai a correre all’impazzata verso un’uscita che avevo già oltreato senza neanche accorgermene e senza avere una meta, perché non sapevo dove andare, come non sapevo più chi fossi e dove mi trovassi. Cominciai a correre. Veloce. Come non ricordavo di esserlo mai stata. Infangai le scarpette a mezzo tacco da cui liberai i piedi per proseguire la mia folle corsa verso il nulla. Dimenticai che Mark, a pochi i dal cancello, mi aspettava. Irrequieto e sereno, allo stesso tempo, malgrado l’improvvisa pioggia da cui cercò di ripararsi appena sotto uno degli imponenti olivi che affiancava l’entrata principale della tenuta. Corsi come una folle, andogli di fianco, ma non vedendolo. Corsi più veloce che potei. Senza sapere dove mi sarei riuscita a fermare e se fossi mai riuscita a fermarmi. Volevo andare lontano. Scappare. Impazzita di dolore e di rabbia. Scappavo dal dolore, ma non sapevo che esso stesse scappando con me e me lo sarei trovato ovunque. Mark mi vide correre con il viso sconvolto e mi seguì. Corse per capire e sapere, parlare e guardarmi in faccia ancora una volta. Mi chiamava. Lo sentivo. Ma non volevo fermarmi. Era tardi. Troppo tardi per fermarsi. Ma correva. Correva veloce anche lui. Era a pochi i, ma non mi afferrò. Ero veloce. Scappavo come una furia da qualcosa di cui speravo di liberarmi una volta per tutte. Volevo correre verso la collina. Volevo raggiungerla nel più breve tempo possibile. Nella melma di pioggia e fango in cui finivano i nostri piedi, pareva scomparire ogni nostra orma. La testimonianza di ogni nostro aggio. Sudicia come non lo ero mai stata e come non mi ero mai sentita, correvo verso il niente che sapevo e speravo mi potesse divorare nel buio della notte. La notte di pioggia mi riportò alla mente quella che aveva inghiottito Gentile Monti. Quella in cui era scomparso in fondo al mare. Quella che aveva distrutto la mia vita per sempre.

Sì, quella notte sembrava la stessa e, allo stesso modo, senza accorgermene, raggiunsi il bivio che divideva il bosco dalla collina. Lo attraversai diretta verso il niente. Lo cercavo. Lo chiamavo, lo volevo il niente. Sapevo che la notte, prima o dopo, me lo avrebbe offerto, generosa come la pioggia che ci purificava l’anima, per lavarla da ogni impurità. Non riconobbi più la strada che pensavo dovesse portarmi alla collina. Non riconobbi più i miei i e la voce di Mark che, poco dietro di me, cercava di afferrarmi. Entrai nel labirinto. Entrai anche io in quel labirinto. Come ci ero uscita da bambina con mia madre e Don Carmine? Come avevamo fatto a uscirne? Come ci eravamo salvati? Come? Non lo sapevo. Non lo avrei mai saputo. Eppure era giunto il momento di scoprirlo. Pur non volendolo. Avevo capito, ormai tardi, di essermi imbattuta nel bosco. Lo stesso di cui si raccontavano misteriose vicende di ogni genere sugli avventurieri. Lo stesso di cui un giorno Mark, nell’udire che se mi ci fossi mai incamminata, non ne sarei uscita, mi aveva detto «Io ti troverei ovunque. Sono un militare». Piansi al ricordare quelle parole. Piansi e mi fermai. Finalmente. Piansi e arrestai la mia corsa. Mi accasciai a terra. Fradicia e distrutta. Mi accasciai a riposare e a piangere. Ero in un corridoio di selva. Uno dei tanti da cui era composto il famoso labirinto all’interno del bosco. Piansi a lungo, dolorante, e singhiozzai senza pausa, mentre la notte mi lasciava compatire da un cielo che mi sbatteva addosso le proprie lacrime furenti. Sentivo la voce di Mark chiamarmi, ma non avevo più fiato e la voce mi si era rotta in gola. Rimasi per terra inzuppata di fango in mezzo all’erbaccia. In mezzo al buio che mi inghiottiva. Nella notte. Rivissi tutto. Rivissi l’inferno. Udii ancora la voce di Mark e mi parve insostenibile. Mi coprii le orecchie per non sentirla più. E ripresi il cammino. Mi sarei diretta ovunque mi avrebbe portato il percorso. Ovunque, a tentoni, nel più completo buio, purché gli incubi finissero e il dolore

non mi cercasse più. Scappavo anche da Mark. Improvvisamente. Inspiegabilmente. Scappavo da ogni cosa. Era troppo il dolore. Ma cominciai a inciampare. La pioggia invadeva ogni angolo del mio corpo. La sentivo impetuosa e voluttuosa, imponente e invasiva. I lampi continuavano a squarciare il cielo e a illuminare per pochi attimi quel luogo tanto impervio. La voce di Mark continuava a farsi sentire. Era più forte di prima. La sentivo più vicina. Decisa a trovarmi. Era addolorata come qualcosa che nella disperazione cerca di farsi largo per raggiungere la salvezza. Forse lui sarebbe stata la mia salvezza. Ancora lui. Ma, a quel punto, non volevo più. Non volevo che mi salvasse. Non volevo che mi ritrovasse. E continuai a camminare. Scappai anche da lui. Scappai con tutte le mie forze. Le ultime rimaste. Ma mi accasciai ancora. La pioggia mi stava consumando al contatto con la pelle, gli sterpi laceravano il mio vestito. La pioggia stava rallentando la mia corsa, perché al contatto col terriccio umido, mi spingeva a usare maggiore forza, quando la forza invece, ormai, mi mancava. La voce di Mark pareva impazzita. Nei dintorni risuonava sicura eppure non riusciva a trovarmi. Mi tappai le orecchie con i palmi delle mani. Non volevo sentirlo. Ero troppo stanca. Avevo bisogno di riposare. Ero priva di forze. Non riuscivo più a rialzarmi. Ferma. Immobile, per terra, in mezzo al fango e in mezzo al buio della notte che infuriava di tempesta e dolore, mi lasciai andare. La voce di Mark continuava a chiamarmi, ma la percepivo distante. I tuoni che seguivano ai lampi erano sempre più violenti sopra di me. E il freddo, che avvolgeva il mio corpo sulla terra bagnata, mi pungeva.

Sentii uno stordimento e non capii. Percepii solo uno strano odore e le forze mancarmi. Avrei voluto trascinarmi via, mentre la voce di Mark si avvicinava debolmente.

Capitolo XVI

Il sole era già alto in cielo. Splendeva vivo e forte come non mai. Mentre le acque del mare si trascinavano a stento a riva e il frusciare del loro andirivieni ci raggiunse da lontano, sentivo le onde bagnarmi i piedi sulla battigia. I raggi del sole mi abbagliarono. Riscaldarono il mio corpo fradicio e decisero di raccontarmi l’inizio di un nuovo giorno. Un giorno atteso a lungo. Alzai una mano a riparare lo sguardo, perché il sole sul viso m’impediva di vedere. Mi guardai attorno. Dov’ero? Non lo sapevo. Mi trovavo su di una spiaggia. La sabbia sotto di me era un morbido tappeto di nuvole che ondeggiava per qualche metro brillando di luci sconosciute. Poi gli scogli, tutt’intorno, che circondavano quel luogo. Niente altro. Cominciai a sollevarmi, per capire. Il mio vestito era sporco e stracciato ai bordi lungo le ginocchia. I piedi indolenziti, la schiena dolorante e la testa pesante. Ricordavo molto bene quel che era accaduto la notte precedente. Sì, lo ricordavo e quasi me ne stupii. Poi l’immagine di Mark che si avvicinava, mi distolse da ogni pensiero. Lo guardai sedersi sulla sabbia accanto a me e cercai il suo sguardo. Era davvero lui accanto a me ancora una volta? Serio, mi disse «È tutto finito», e mi abbracciò stretta, distendendosi al mio fianco. «Finito?», gli chiesi con un filo di voce, senza capire a cosa si riferisse. «Cosa vuoi dire?». Lui sorrise «Te l’avevo detto che ti avrei ritrovata. Ovunque», e mi accarezzò

delicatamente il viso segnato dalla difficile notte trascorsa. «Dove siamo?», gli chiesi, senza riuscire a orientarmi. «Non riconosci questa spiaggia?». «No», risposi, colta da uno stordimento totale. «È una spiaggia che si trova poco distante dal bosco. Immaginavo la riconoscessi», rispose. Eppure non la riconoscevo. Mi sentii in colpa. Improvvisamente. Temevo avesse capito che la notte precedente avevo cercato di scappare anche da lui. O forse lo aveva capito e lo aveva superato. Mi aveva voluta raggiungere a tutti i costi. «Come mi hai trovata?», gli chiesi, allora, incuriosita da ciò che potesse esser successo dopo aver perso i sensi. Dopotutto, ero entrata ancora una volta nel bosco e ancora una volta ne ero uscita. «Ero quasi riuscito a raggiungerti, prima che entrassi nel bosco», sospirò. «Non ti ho afferrata, ma ero poco dietro di te, a pochi metri». I suoi occhi cercarono di scovare nei miei il motivo per cui fossi fuggita la sera precedente. Notai volermi quasi interrogare, senza usare alcuna parola. Non sapevo cosa dirgli, né tanto meno come spiegarmi. Non sapevo cosa fare. Sentivo un dolore allo stomaco e le lacrime scorrermi sul viso, quasi senza volerlo o poterlo impedire. «Scusami», lo abbracciai, presa da una confusione che non mi aveva permesso di affrontare con lucidità l’accaduto. «Non volevo. Non potevo», ricominciai a piangere più forte. «Non piangere», mi abbracciò. «Ti riporto a casa», cercò di sollevarmi di peso, prendendomi in braccio, ma glielo impedii. Lo guardai dritto negli occhi e gli dissi «Non torniamo a casa. Portami in Belgio. Portami via con te!».

Mi guardò sorpreso. Lo abbracciai ancora. Speravo di potermi tenere stretta quel momento ancora a lungo. Speravo potesse capire e portarmi via nel più breve tempo possibile. Volevo volare lontano. Più lontano possibile. Non volevo tornare alla cruda realtà. Non volevo. Non potevo. Non lo avrei sopportato. «Non mi hai ancora detto di sì», sorrise, portandosi una mano in una delle tasche dei pantaloni stile militare che indossava con degli stivali a cui la sera prima non avevo fatto caso. Il suo sguardo cercò ciò che aveva recuperato in tasca e me lo porse senza aggiungere altro: era una scatoletta. La guardai esterrefatta. Poi lo osservai indicarmi con lo sguardo che potevo aprirla, ma non disse nulla. La presi tra le mani. Avevo uno strano timore. Ma poi mi decisi e la aprii. Al suo interno un anello in oro bianco faceva bella mostra di sé. E rimasi allibita. Non me l’aspettavo. «Era ciò di cui avevo bisogno di parlarti ieri a cena», disse con voce seria. «Non potevo più aspettare». «Ma…», cercai di dire qualcosa che m’impedì di pronunciare portandomi le dita sulle labbra, per poi avvicinare le sue e sfiorarle per un bacio. «Non mi hai ancora detto di sì», ripeté, con tono e sguardo che mai avevo visto più seri, nella trepida attesa di chi spera in una risposta che gli riporti il sorriso. Mormorai «Sì». Mi abbracciò, rasserenato. E tirò un sospiro di sollievo. Poi mi baciò fino a farmi mancare il fiato. E il sole illuminò di nuovo la mia vita nel momento in cui non avrei mai immaginato potesse accadere ancora. «Adesso, se vuoi, possiamo andare in Belgio», sorrise. Annuii, felice, mentre infilava l’anello al mio anulare sinistro.

Ero felice come non lo ero mai stata in tutta la mia vita. Gli chiesi di riaccompagnarmi a casa e ci avviammo. Stordita ma felice, mi ritrovai mano nella mano con l’uomo con cui sapevo avrei condiviso il resto della vita. Lungo il cammino gli raccontai ciò che era accaduto la sera precedente. Ebbi il timore di perderlo. Paura che ciò che aveva segnato negativamente la mia vita lo fe scappare, ma sapevo anche di doverlo fare. Stare con me doveva essere una libera scelta. E volevo che decidesse in piena autonomia e cognizione di causa. Ebbi paura. Ma lo feci ugualmente e lui non mi deluse. Neanche per un istante. La sua mano strinse con più forza la mia e la serenità del suo sguardo mi diede la forza di andare avanti. Mi ero liberata di un masso enorme. Legato al mio collo, mi stava inabissando nel dolore di un ato che non mi avrebbe mai restituito ciò che avevo perso o di cui ero stata privata. Quel masso mi aveva portato a vivere un dolore lancinante, inimmaginabile. Quel masso mi stava portando oltre. Sapevo che non sarei mai riuscita a liberarmi da sola. Sapevo che, prima o dopo, qualcuno lo avrebbe fatto con me e per me. E quello era il momento tanto atteso. Rincasai, decisa a chiedere a mia madre di costituirsi, ma quando vi giunsi, mano nella mano con Mark, trovai solo un’agitatissima Betta. «Che succede?», le chiesi guardandola dimenarsi per l’ingresso che era rimasto aperto. «Tua madre e Don Carmine sono andati in Questura», era rossa in volto e agitata. «Mi hanno detto di dire a Felicia di stare tranquilla, ma non è in casa e non è tornata neanche ieri sera!». La abbracciai, divincolandomi dalla stretta di Mark che mi teneva vicino a sé «Mi spiace, Betta», sospirai. «Mi spiace tanto». «Perché?», mi chiese. «Cos’è successo?», cercò di comprendere. «Ti spiegherò tutto quando Felicia tornerà. Hai provato a chiamarla?», chiesi

ancora. «Sì, ma il telefonino risulta irraggiungibile», si affrettò a rispondere con l’ansia che le usciva dal petto con il fiato corto di chi sembra aver corso. «Va bene, calmati. Vedrai che rincaserà», cercai di portarla in salone, invitando Mark a entrare.

Felicia rincasò solo all’ora di pranzo. Non volle credere a ciò che le raccontai. Mark, taciturno, mi accompagnò con lei in Questura.

Sì, Mark aveva ragione. Era tutto finito.

Finalmente finito.

Vivere da rassegnati

è come vivere da spettatori di una condanna.

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