Terra E Cielo 4g11j

Andrea Forte

Terra e Cielo

SG EDIZIONI

Capua Caserta Italia

Copertina

Roberto Gravante

Designer

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Table of contents

INTRODUZIONE GIANO BIFRONTE IL NOME PERFETTO IL BANCO DEL SORRISO NOTE AL BUIO LA CADUTA DEGLI DEI UNA TERRA DI LATTE E MIELE L'ANIMA DIVERSA LA COLOMBA E IL PICCIONE BIANCO UDII UN CANTO IL PONTE DELLA MEDITAZIONE PAURA UNA COLOMBA IN UN MONDO DI CORVI BATTITI DI CUORE ANGELI CUSTODI LA COLOMBA E IL CORVO CERVO BIANCO ANGELI INNAMORATI

CAMMINO SEGRETO BACIO DI FIORI IL SALUTO DELLA MONTAGNA L'UNICA COSA CHE SO DI TE GRAZIE

INTRODUZIONE

Sono racconti diversi tra loro, ma in cui è possibile rintracciare due fili conduttori: sono racconti di ispirazione religiosa e sentimentale/amorosa. L'autore però non crede sia possibile vivere la seconda senza la prima, che viene quindi volutamente espressa in una dimensione di eternità religiosa. Sono racconti che intendono esprimere, attraverso trame realistiche o attraverso metafore, il dramma e la bellezza della vita religiosa e di quella sentimentale. Un racconto per sua natura non deve riprodurre la realtà, ma esprimerne il senso, che come tale non coincide con il fatto, ma risiede in esso, e di esso può servirsi, ma può servirsi anche della metafora, dell'immaginazione, senza per questo togliere al racconto la sua capacità di incidere nella vita di ogni giorno. I protagonisti sono molteplici, ma tutti al servizio delle domande fondamentali che nelle due dimensioni suddette ognuno dovrebbe farsi. Soprattutto i racconti affrontano il tema del dolore e della morte, che costituiscono le prove principali, seppur forse non uniche, attraverso cui la fede e

l'amore devono are per essere se stessi. Non sono perciò racconti necessariamente a lieto fine, ma intendono mostrare, nella maggior parte dei casi in essi esposti, come anche la fine sia al servizio di qualcos'altro, di un senso. Lo stile cerca di servire l'idea che il senso non si traduca in esposizione razionale delle cose, ma possa essere, con la parola, solamente accennato, accarezzato dalla dolcezza dell'espressione, dall'abbondanza dei termini, per portare sul foglio un soffio di verità, non il suo ritratto. I colloqui tendono ad entrare nella “carne” della questione, il che, essendo il senso delle cose la questione, rende per certi aspetti, non tanto lo stile, quanto il dibattito, forse un po' ricercato, ma la storia nel suo complesso e le parole usate cercano di renderlo più leggero nella sua drammatica quanto fondamentale “pesantezza”.

GIANO BIFRONTE

Che tutto parli,che tutto taccia. Che tutto sia, che tutto smetta di essere Che un uomo preghi, che Dio risponda. Che un uomo bestemmi, che Dio condanni. Che sia la follia, che sia la genialità. Che ci sia un un senso, che nulla lo abbia. Che la vita continui, che la vita si fermi. Che sia L'eternità, che sia solo un'istante... Che cosa conta per chi soffre? Nulla, e tutto. Per sempre, e neppure un attimo. Scavava. Scavava. Terra? Sì, per noi. No, per lui. Scavava nel proprio dolore, nei propri ricordi, con quella vanga dava graffi di rabbia a una terra che non si lamentava, colpi a un destino che non cambiava, accuse a un Dio sordo, urla di carne ad un vuoto d'aria. Sempre più profonda. Una tomba non è mai abbastanza profonda, perché potrà pure accogliere un morto, ma non la sua anima. Per essa non c'è un punto abbastanza in basso, per essa il grembo materno non ha abbastanza latte. E il dolore di quell'uomo glielo ricordava. “Più in basso! Più in basso!”. Gettava terra a destra, gettava terra a sinistra. Non a sufficienza, non abbastanza per

impedire alle forze di andarsene, alle ginocchia di crollare. -Come faccio a scavare in cielo!? Le ginocchia precedettero di poco le lacrime, e tutte insieme furono accolte dalla terra, tutte insieme furono accolte dal cielo. Lasciò andare il corpo del suo cane nella buca. Lo seppellì, ma dimenticò di non doverlo accompagnare. Poi fece quello che fa ogni persona cosciente dei propri limiti, andò a cercare conforto, ma non solo. Fu senza pietà che andò dal suo padre spirituale. Questi stava pregando di fronte ad un piccolo altare in sagrestia, occhi chiusi, con la sua fede che sussurrava a Dio. -Padre Rafael. Lacrime. Padre. Padre Rafael si girò, lo riconobbe, ma rimanendo in ginocchio, si rigirò di nuovo verso l'altare. La sua figura tozza ma ben radicata si confaceva a quei capelli brizzolati, a quella pelle già segnata dagli anni. -Ci sono più lacrime che parole sul tuo volto Davide. Un volto pallido, su cui il chiaroscuro della luce – o della vita – disegnava delle ferite. -E nella mia voce ci sono più accuse che rispetto. A Davide uscirono parole non meditate, sincere, provocatorie. -Il dolore è sempre un'accusa. Non si scompose padre Rafael.

-Allora posso accusare Dio? -Certo. Silenzio di entrambi. L'accusatore di Dio in piedi, a fare la sua requisitoria, il difensore in ginocchio, a pregare per quel ragazzo. -Accusalo, avanti. -Nel mio cuore l'ho già fatto. -No, non l'hai fatto. -Perché no? -Perché per accusare il Dio del cielo, devi arrivare fino in cielo. Sei arrivato in cielo? Sei all'altezza di Dio? -Dio si è abbassato così tanto da portarmi via il mio cane, credo che in quel momento siamo stati alla stessa altezza. -Forse lo siete stati, ma solo perché insieme al cane, Dio ha portato in cielo anche il saluto con cui lo hai lasciato. -Non ho visto il cielo. Dov'è? -Lo sai. -Non lo so! -Ti batte dentro. -Il mio cuore?

-Il tuo cielo è il tuo cuore. Lì Dio ha portato il tuo cane, lì dove batte il tuo amore. -Avevo un cane, e lo amavo. Ora non c'è più quel cane. E... -E lo ami ancora di più. -Ma... -La morte è al servizio dell'amore. -Questo non mi dà pace. -Perché sei in guerra. -Perché non esiste la pace. Quando due cuori sono simili, sono le intelligenze a scontrarsi: padre Rafael e Davide erano sempre stati uniti e da sempre si separavano. -In un credente guerra e pace sono sempre insieme. -Non posso credere in questo modo. -Non esiste altro modo di credere. -Sì invece. Prima credevo, ed ero in pace... con il mio cane. -Evidentemente credevi al tuo cane, non a Dio. Ora è il momento di credere a Dio. -Ora è il momento che Dio si spieghi meglio. -Si è già spiegato. Continuava a stare in ginocchio. -Si alzi, perché sta in ginocchio a pregare mentre parla con me? -Perché così Dio mi suggerisce le parole più adatte per te in questo momento. Ma si alzò

ugualmente. Posso pregare anche facendo altro, Dio mi ascolta comunque. -Si vede che Dio a lei la ascolta due volte, a me neanche una visto che non ha salvato chi amavo. -Amore della Verità o paura della verità? -Cosa? -Amore della Verità o paura della Verità? -Lontano dalla Verità. -Dio è ovunque, se gli stai lontano vuol dire che gli sei vicino. -Perché? -Perché devi prima averlo nel cuore per volerlo poi allontanare. -Lei non vuole ascoltare le mie ragioni, per lei Dio è una risposta prima del problema. Si girò verso un'uscita che il suo cuore stava già prendendo. -Aspetta. Lo fermò senza timore del ricatto che quel commiato implicava. Seguimi. Se vuoi, aggiunse. E si diresse verso l'altare della chiesa. Due i seguirono i suoi, quattro i seguivano la verità, uno la vedeva e la adorava, l'altro la vedeva e la accusava. Uno lo sapeva, l'altro no. Ma quei quattro i andavano verso lo stesso punto. Quattro i come quattro chiodi piantati a terra, di fronte a un crocifisso a lato dell'altare. Quattro i come i quattro chiodi di quella croce. -Pensi che non abbia sofferto? Disse padre Rafael a Davide - Pensi che altri non

abbiano sofferto per la sua morte. Eppure hanno creduto. -Non ho la loro fede. -Sarebbe impossibile, visto che si tratta della loro fede, ma puoi avere la tua. -In chi mi ha tolto la felicità? -In chi te l'ha data. Cosa avresti avuto senza di Lui? Non pensi che anche il tuo cane sia una sua creatura? -Nessuno gli ha chiesto nulla. Solo che nel momento in cui fai un dono, riprenderselo è ingiusto. -Un dono, non un regalo. -Troppo sottile come distinzione per non sembrare una scusa. -Troppo vera per essere una scusa. -Una scusa sembra sempre vera, è la sua natura. -Chi fa un regalo, non lascia se stesso dentro quel regalo. Ti regalo una macchina? E' tua, fanne ciò che vuoi, su di essa non ho più alcun diritto. Ma una macchina non posso donartela. Perché non potrei essere vivo in lei e donarti la mia vita attraverso essa. La mia vita stessa invece sì, posso donartela. Quando si dona qualcosa si dona sempre se stessi in quella cosa. Dio dona, non regala, e se a te sembra che la morte prevalga, chiediti se può prevalere anche su Dio, Dio che è in ognuno di

noi. Anche nel tuo cane. Non gli ha tolto la vita, perché era vivo grazie a Lui, l'ha richiamata, perché la vita ritorni a chi né è il Creatore. -Dà una cosa, la riprende a suo piacimento, e fa soffrire la persona a cui la toglie, dopo che questa non gliel'aveva chiesta, ma se l'è ritrovata in dono. -Il suo piacimento... Non sarà piuttosto il tuo dispiacimento? Non ti va bene che lui riprenda ciò che è suo, anche se è suo, solo perché te non vuoi. Davide si sentì stufo di quella discussione in cui nessuno convinceva l'altro. -Sia quel che sia, abbiamo ragione e torto tutti e due. -Non permettere a te stesso di lasciarti nel dubbio. Non permetterti di credere che non esista soluzione. Scegli che Dio fa schifo, scegli di non credere, ma non scegliere di non scegliere! Si guardarono, il padre sentì il rispetto di quegli occhi troppo affranti per trasmettere una nuova fiducia, ma ancora troppo credenti per perdere una fede forse già compromessa. Rabbia, accusa, tribunale, condanna. Un cuore deluso può creare tutto questo nell'istante stesso in cui pensa che il dolore abbia l'ultima parola, su di un foglio in cui sia lui a firmare. E il dolore si firma sempre odio, se non si guida la sua mano. Padre Rafael provò ancora -Lasciati dire dal dolore tutti i suoi segreti, Non farlo mentire, non dargli

un foglio bianco. -Mi creda, il dolore me li sta comunicando e come i suoi segreti, sono lancinanti, e mi hanno aperto gli occhi. -No, te li hanno chiusi. -Anche a quell'uomo sulla croce li ha chiusi. Non li vede che sono chiusi, non vede il sangue su quella fronte piena di spine, o il sangue che scorre dai chiodi conficcati in mani e piedi o... -O quello che esce dal costato aperto? Certo, è morto, tu lo accusi proprio di questo, non aver sconfitto la morte, ma lo avresti accusato anche se non fosse mai morto, gli avresti detto che un'immortale non capisce veramente chi deve morire. -Se avessi comunque mosso un'accusa, vuole solo dire che in un modo o nell'altro lui non è la soluzione. -Una non soluzione di cui però vuoi parlare da almeno un'ora, di cui contempli il presunto fallimento su questa croce da almeno dieci minuti. Un po' troppo per chi vuole rinunciare a credere. Ti lascio qui ora. Non possono essere delle parole a ricucire un cuore. Non le mie, né quelle di altri. Se davvero ti senti abbandonato da Lui e vuoi abbandonarlo a tua volta, allora esci dalla chiesa, io sentirò dalla sagrestia i tuoi i che se ne andranno. Altrimenti rimani quanto

vuoi, in ogni caso finché non sentirò i tuoi i, non ti rivolgerò parola, lascerò a te e a Lui il tempo di parlare. Non aspettò la risposta di Davide: non avevano senso altre parole tra di loro. Del resto Davide non rispose comunque. Padre Rafael se ne andò pensando per l'ennesima volta quanto fosse vero che solo con il sangue dell'anima si accede alla vera fede. Che la felicità senza dolore è ingenuità, che la felicità dopo il dolore è fede. E' fede... ma i i li sentì poco dopo aver chiuso la porta della sagrestia. Chiari, decisi, umiliati, stanchi, arrabbiati. Con ogni o schiaffeggiava il crocifisso, con ogni o schiaffeggiava il suo padre spirituale. Il dolore di Davide uscì da quella chiesa e dalla vita di quel sacerdote, accompagnato dalle lacrime di quest'ultimo. Padre Rafael aspettò che fosse uscito, poi si diresse alla croce: -Scegli sempre la strada più difficile eh? Non potresti fermarli e parlargli subito ogni tanto. So che che la tua è la strada migliore, ma perché deve sempre coincidere con quella più atroce? Perdonami se non sono stato all'altezza. Gettò la testa nella mano, gettò il cuore nello sconforto. Ti prego Padre

mio, ti prego, fai abbaiare il suo cane anche dal cielo. 5 anni dopo... Padre Rafael stava andando verso l'altare. Quella schiena gli pareva così familiare, così... Rimase fermo, chiuse gli occhi per dire grazie, li riaprì e quella schiena era ancora lì, quell'uomo guardava il crocifisso. Quell'uomo si girò e trovò seduto dietro di sé il suo vecchio padre spirituale – lo era ancora? Si rivolsero parola saltando gli anni di silenzio, perché due cuori simili vivono fuori del tempo. Non lo hai mai dimenticato vero? Chiese Padre Rafael -Credo che Lui non voglia dimenticarmi. -Non potrebbe. Come sai che si ricorda di te? -Sono diventato padre. A volte nego a mio figlio qualcosa, altre volte gli tolgo ciò che gli ho concesso. Lui piange, ma io lo faccio comunque, e so che è per il suo bene. -E lui ti perdona? -Non gli importa per più di cinque minuti quello che lo ha fatto piangere. E' solo contento che io ci sia. -L'hai perdonato? -Dio? No. Ma non ho mai smesso di amarlo. Come mio figlio con me. Non mi perdona, mi ama e

basta. Lasciò il suo vecchio padre spirituale a contemplare da solo il mistero che la sua fede scorgeva in quell'uomo crocifisso. Un mistero d'amore.

IL NOME PERFETTO

Un uomo indeciso come tanti, un uomo indeciso e insicuro. Come tanti appunto. Considerato quindi normale, senza nessun dubbio circa la sua capacità di costruire se stesso e una famiglia. Ma con una consapevolezza, aveva cioè capito il suo spaesamento, le sue radici assenti, la voce di una sicurezza mai posseduta e troppo spesso simulata e aveva da sempre progettato: che con suo figlio sarebbe stato tutto diverso, a partire dalla scelta del nome, tutto sarebbe stato attentamente valutato, tutto considerato, tutto perfetto, prima di essere scelto. Sua moglie stava per partorire. Diana era una donna forte, lo si capiva da come aveva avuto il coraggio di sposare un uomo con più ambizioni che intenzioni, con forza più nelle parole che nel cuore, ma, come ogni donna matura, sa che l'amore è coscienza delle debolezze, è amore anche delle debolezze, per quella sfumatura indiscreta che danno ai pregi, per quel tono di fragile vittoria che danno alle virtù, perché contraddicono la perfezione. Chi ama se stesso sa amare gli altri e non cerca la perfezione, e lei amava suo marito Isacco. Chi non ama se stesso, crede di amare gli altri a

tal punto da non volerli far diventare come se stesso... il se stesso che loro amano. Lei osservava la vita di quellìuomo, a volte le sembrava felice, a volte triste, non come tutti, ma di una felicità come solo una forte auto-illusione può creare, e per pochi istanti, poi l'ignoranza fugge di nuovo via, e si ritorna coscienti di sé, tristi. Lui l'amava? Lei sperava di sì. Non l'aveva sposato perché era sicura che lui l'amasse, ma perché era sicura di amarlo, ed era sicura che lui non sarebbe stato capace di amare più di quanto amasse lei. “Giuri di amarla per sempre”? -Sì aveva risposto lui. E lei gli aveva creduto. Le dava tutto, forse non era quanto dava lei, ma tutto, l'amore si misura in qualità, non in quantità. Quanto mi ami è la domanda stupida di chi non ama ma vuole essere amato. Mi ami? È la domanda di chi ama troppo per sopportare l'idea che l'amato o l'amata non ci ami. “Sì” aveva risposto lui a quella domanda. Tanto basta per scambiarsi cuore e tempo, tanto basta per farlo per sempre. Guardava sua moglie, spesso e mai. Anzi, non si potrebbe dire con certezza se non la guardasse proprio quando non lo faceva. L'amava, ma sapeva di non saper amare quanto lei, proprio per questo credeva all'amore che sua moglie provava per lui. Con lei si permetteva

una malinconia che con gli anni non era più riuscito a nascondere, del resto era sicuro che sua moglie l'avesse sempre conosciuta, pur senza mai lamentarsene. La guardava in giardino, sotto il pergolato, con l'edera che scendeva su di lei e sembrava farle piovere coriandoli addosso, quasi come se quell'edera la festeggiasse, quasi come sentisse la sua gioia di vivere. La sentiva anche lui, ne gioiva per lei, ne soffriva per sé, le dispiaceva per lei. E le rimaneva lontano, a guardarla, e guardandola le dava l'abbraccio che non le dava, si avvicinava senza muoversi, le sorrideva sperando che il suo amore fosse più forte dei i che non riusciva a percorrere. Lei a volte si accorgeva di quel suo sguardo, e sorrideva anch'ella, silenziosa si avvicinava, prendendogli la mano lo faceva alzare e lo portava nel punto in cui prima si trovava da sola, per far piovere edera e coriandoli su entrambi, e continuavano a non dirsi nulla... e continuavano ad amarsi. La gravidanza non era stata inattesa. La loro villetta appartata sembrò ascoltarli, sembrò aver sentito Diana dire ad Isacco di essere in cinta, sembrò aver respirato il silenzio cosciente, non stupito, di lui, sembrò aspettare il suo sorriso e il rilassamento di lei. Sembrò partecipare alla gioia di quella

famiglia così precaria. L'amore si spande, nello spazio e nel tempo. Luce per nove mesi, luce per tutta la casa, per tutto il giardino. La vita sembrava già cullare chi non era ancora nato. Sostituire il presente parlando del futuro. Nove mesi non sono niente. Ma sono anche troppo lunghi... troppo perché il carattere di lui non fe riemergere quell'antico desiderio... la perfezione. -Che nome gli mettiamo? Le chiese in veranda una sera dopo cena, in cui guardavano il giardino e godevano il ritorno di un po' della frescura che il giorno esiliava. Diana percepì una domanda tesa, si sentì a disagio. - E' ancora presto. -No non lo è, che nome gli metteresti? Insistette lui. -Mancano tre mesi. Ribatté lei. -Manca il nome. Continuò Isacco. -D'accordo ci pensiamo quando manca un mese va bene? Adesso godiamoci il fatto che è solo nostra figlia, ti va? La faccia di Isacco divenne pensierosa, con un velo di angoscia a contrarla. Non riusciva più a stare in silenzio, ma se del nome non poteva parlare... Si alzò, prese le chiavi e uscì, ma non era arrabbiato, e lei lo sapeva, aveva capito cos'aveva, camminare gli avrebbe smorzatola paura di non

riuscire a dare un bel nome a quella pancia tonda. Sorrise a se stessa e al marito così ansioso che stava camminando fuori casa. Chiuse gli occhi per ascoltare dentro se stessa la famiglia che si stava costruendo. Quante cose la notte sa di due genitori che aspettano la nascita del loro bambino, quanti segreti raccoglie sotto-forma di speranze, di scherzi, di sussurri. La notte è la testimone di una piccola lampada accesa, di una penombra in cui quattro mani accarezzano un solo ventre, e la finestra aperta fa uscire verso il mondo tutto quell'amore. La notte ascolta un messaggio e lo porta a Dio. Il tempo ava divorando l'attesa e ogni nome che sembrava andasse bene, poi non dava tranquillità al padre, che cambiava idea e si ricominciava. Quello che per Diana doveva essere un dovere piacevole, trovare il nome ad un figlio, si trasformò in una lotta contro un'incontentabilità sempre meno celata, sempre più impaziente, alla ricerca di qualcosa che esisteva solo nel suo timore di suo marito. -E' proprio così che trasmetti alla bambina tutta la tua insicurezza! Aveva alzato la voce per l'ennesima volta, per farlo riflettere su quanto fosse inutile lottare con l'assoluto. -Non esiste in questo mondo, cercarlo, chiamarlo, farne un nome, è ridicolo! Ma lui aveva fede in quell'assoluto che da sempre gli mancava, che mai aveva

sentito forte dentro di sé, non avrebbe rinunciato a nessun particolare, dal nome fino all'università, con ogni cosa avrebbe detto a sua figlia “sii forte e decisa, il meglio esiste, il bene esiste, si può credere, si può vincere, esiste una vita senza paura”... senza paura è il mito di chi ne è divorato, di chi conosce solo l'albero che fa ombra e non il sole tra le fronde. Lei lottava contro un mito mentre lui adorava un dio. arono mesi, la bambina nacque, ma ancora non aveva un nome. I primi giorni dopo la sua nascita i loro litigi a quel proposito si interruppero, perché di fronte alla bellezza le armi vengono sempre deposte. Lei aveva accolto quella nuova vita già da nove mesi, vederla fu un qualcosa in più rispetto a quanto già aveva sentito. Quella bambina colmò lo spazio che prima nella madre era occupato dall'immaginazione, ore impegnate nel gioco amorevole del percorrere con il pensiero come sarebbe stato il proprio bambino. Per il padre fu diverso, per quel padre a cui la vita sembrava un caffè amaro, la bambina appena nata apparve come una goccia di miele. Quella bambina era la firma di Dio, il suo consenso alla sua vita, alla sua felicità. Un giorno la vide ritornare scura in volto. Ho registrato la bambina. Era l'esecuzione di una sentenza che lei aveva emesso

dentro di sé la notte scorsa. Lui fu letteralmente spiazzato, con la bocca semiaperta, cercando di emettere un dissenso troppo stupito per diventare parola, con gli occhi che presto si inumidirono, abbassò lo sguardo verso il pavimento in cui era stata calpestata la sua eterna indecisione, la sua lotta inutile. Si alzò, guardò quel giudice inflessibile e la bambina che sorrideva quasi a prendersi gioco di suo padre. -Si chiama.... -No! -Si chiama Addis! -No! Fu l'unica parola che gli uscì, piena di rabbia, di indignazione, verso se stesso, per aver costretto sua moglie a quel gesto. Gesto di cui però si ostinò a voler trarre conseguenze estreme. Non poteva accettare di dire a se stesso quanto quel gesto fosse legittimo, sofferto, obbligato. Non poteva perdonare se stesso: proprio essersi programmato la perfezione gliela fece sfuggire. L'inseguirla aveva costretto sua moglie a tradirlo e sua figlia ad avere un nome scelto solo da uno dei genitori. -Dove vai? Non credeva possibile di aver fatto quello che aveva fatto, per punirlo, per scuoterlo. Meritava di maturare, e l'unico modo in cui lei poteva concederglielo era

sacrificare se stessa e la figlia allontanandolo. Per dare a se stessa un vero marito e a sua figlia un vero padre. -Amore mio non posso restare. Isacco parlò come giudice di se stesso. -Non ti meriti di restare. -Già così pare per il vostro bene. -Così pare...Ti aspetterò, già ti aspetto... da anni. Ma poi un'ultima frase che lui pronunciò, che lei non aveva previsto... -Mi aspetti sì, aspetti che lotti da solo contro me stesso, per godere poi dei frutti di questa vittoria a cui non avrai partecipato. La guardò pieno di un'abissale malinconia, e le bruciò le parole con bacio che le inchiodò un addio in gola. Il rumore di una porta che si chiudeva e i sorrisi di una bambina, questa la famiglia che a Diana era rimasta. Non si aspettava di rimanere sola in questo modo, in un'istante, lo aveva fatto sentire abbandonato in una lotta con se stesso. Già, ma lotta o martirio? A cosa le stava conducendo suo marito? Avrebbe capito in futuro? Quanto di questo futuro sarebbe ato prima di riavere la sua famiglia, la loro famiglia? Ne sarebbe ato tanto, troppo per una moglie ancora innamorata, troppo per una figlia costretta a

vedere il padre “tutte le volte che il padre voleva”, cioè il padre non abitava con loro. Quel padre che a lei era sembrato non adatto, quel padre il cui tempo trascorreva nel senso di colpa per un nome che non aveva trovato, e nella rabbia per un perdono verso la moglie altrettanto inaccessibile, proprio quel padre si stava dimostrando il migliore. E la figlia ricambiava. Mi ami ancora? Gli chiese Diana, dandogli il permesso implicito di ritornare Isacco la guardò sorridendo e basta, malinconico come sempre, silenzioso come sempre, e come sempre imputato di se stesso, come sempre consapevole di non aver ancora raggiunto la serenità per perdonarle quel gesto che pur aveva compreso, né la pace con se stesso e le sue debolezze. -Ancora non tornerai? Continuò Diana. -Vi faccio del male così, lo so. Lotto per voi, non pensare che non voglia tornare, lotto con voi, contro me stesso, non chiedermi di tornare e basta. Chiedimi se voglio averti di nuovo accanto nella lotta che sto conducendo. Vuoi? -Chiedilo. -Vuoi avermi con te in questa lotta? -Perché non l'hai chiesto subito? Lei rimase silenziosa. Isacco si rispose da solo:

-Perché anche tu non sei sicura di farcela, e io non voglio coinvolgerti né costringerti ancora a gesti che farebbe male a tutti. -Ti amo ancora, ancora di più. Diana, parole e lacrime. -Lo so, anch'io. -Torna! Lo sottolineò con gli occhi umidi, con una speranza ancora forte, eppure già delusa dalla prevedibile risposta. Lui le confermò con gli occhi che quella delusione aveva ragione. Si alzò e uscì salutando sempre con quel sorriso, ma nessun coriandolo scendeva su quella famiglia che si amava e si separava. Ancora una volta la schiena di suo marito che fuggiva via da una porta che si chiudeva, e ancora una volta una bambina che sorrideva. Fino a quando sorriderai? Finché non ti renderai conto. Il tempo si ferma, si mette a servizio della sofferenza, obbedisce quando questa le chiede di dilatarsi, di rendere eterni gli istanti, di immobilizzare i secondi, cosicché tutto esploda... Diana esplose. Amore e lontananza da sempre lottano insieme e insieme fanno soffrire. Una mano distante dall'altra, baci dati ad occhi chiusi verso persone presenti solo nel proprio cuore, ma lontane, sempre più lontane. Non erano i chilometri a dividerli, ma il bene di una

bambina. L'assurda situazione di dire all'amore di farsi indietro, un o , due, mille, per farli compiere alla bambina quei i. Ma i i possono diventare troppi, e le lacrime tradire il bene, rinnegarlo, accusarlo. Scegliere il rischio, “Fatemi male”, sembrava dire la bambina che ancora non parlava, “fatemi male, ma dormite con me, fatemi male ma tornate insieme, fattemi male, rischiamo tutti e tre, fatemi male e mi farete del bene”. Questo le sembrò di leggere, questo Diana si convinse di aver letto, questo scrisse a suo marito in un messaggio. Questo lesse Isacco. Un tempo per deporre le armi, un tempo che piange come una bambina, un tempo di latte, una tempo di veglie notturne, un tempo di ninna nanne. Un tempo in cui una moglie innamorata apre la porta ad un marito ancora suo. -Vuoi qualche parola? Le chiese prime di entrare. -Nessuna parola. Tu la vuoi? -Nessuna parola. La abbracciò, la baciò. Fu una cena con l'agnello più grasso, fu una cena con il vino... e con il latte. Le guardava, sua moglie in piedi sotto il pergolato a cullare la figlia, sotto una

pioggia di coriandoli. Lei si girò. Silenzio e sorrisi, e due braccia materne che adagiano la piccola in quelle paterne. Stettero padre e figlia, stette la sera, stette il fresco, stettero insieme. Fronti unite, un padre chino sulla sua creatura. -La mia goccia di miele, goccia d'oro. Tu per me ti chiamerai sempre Miele. Ecco il nome perfetto. Perché la perfezione esiste solo per chi ama. Fu il loro segreto, Diana non lo venne mai a sapere. Giusto o sbagliato che fosse, un segreto è prima di tutto un'altra cosa, è una complicità, quella di un padre che chiama Miele la figlia, quella di una figlia che si chiama Addis, ma che si sente Miele.

IL BANCO DEL SORRISO

L'ospedale. E' la terra in cui si vive, è la terra in cui si muore. E' il luogo dell'ultima lotta, è il luogo dell'ultima resa. Nei suoi letti c'è chi dice buongiorno, nei suoi letti c'è chi dice addio. Il bisturi e la falce si contendono i pazienti. Una medicina è il confine tra la salute e la malattia, un parente o un amico fanno la differenza tra la compagnia e la solitudine, con l'amore si fa un o verso la speranza, senza amore si fa un o verso la disperazione, con la fede l'aldilà consola, senza fede il nulla distrugge. Nei suoi corridoi l'anestesia addormenta le voci, le convince al silenzio, ma c'è ancora chi piange, c'è ancora chi prega, con un insulto o con un grazie si risponde al responso del medico... “Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”. Ripeteva quelle parole e quei gesti ogni giorno, da almeno due settimane. Le sensazione che nessuno rispondesse si faceva sempre più forte, non rispondeva il Padre, non rispondeva il Figlio, non rispondeva lo Spirito Santo. Eppure c'erano, ascoltavano, lui a questo aveva sempre creduto, per questo le sue lacrime bruciavano ancora di più

sul suo volto, per questo le ginocchia dolevano di più dopo averle piegate. Si rimise a sedere sul legno di quei banchi, scricchiolante come le vite che vi si adagiavano. -Se questo legno potesse parlare, direbbe anche lui di averne abbastanza. A parlare era stata una voce femminile alle sue spalle. L'uomo si girò indietro e vide una donna che gli poteva esser coetanea: sulla trentina, con i capelli rossi scuri, un bel viso, occhi verdi e un sorriso che stonava con il buio della cappella, con le lacrime che lui stava versando, con l'uomo appeso alla croce, con tutte le persone che per un motivo o per l'altro stavano dentro l'ospedale. Decise che questa stonatura non meritava una risposta, si girò nuovamente. Lei non disse nulla, al silenzio anche una sola parola appare di troppo, e lei lo era già stata, di più avrebbe significato fare guerra al suo dolore. L'uomo però si sentiva osservato, e provò disagio nel mettere la testa fra le mani. Si girò di nuovo con l'intenzione di rimproverare quella donna inopportuna, ma non la ritrovò. Perché si era continuato a sentire a disagio? Ancora una volta si girò, e se la trovò a fianco. Dopo un istante di muta sorpresa l'istinto trovò la voce: -Lei è veramente fuori luogo lo sa? Può allontanarsi?

Lei, mostrandosi preparata a quelle parole, non fece un o: -Anche io? -Perché chi altro ho allontanato? -Beh Dio non mi sembrava che le stesse molto vicino. -Non sono assolutamente affari suoi e non so chi lei sia, se ne vada. -Se davvero non vuole che io stia qui, perché non si è alzato appena mi ha vista al suo fianco? -Non capisco il ragionamento, comunque non voglio parlare con lei. -No infatti lei non vuole parlare con qualcuno, vuole solo essere sicuro che quel qualcuno la ascolti. Lui la guardò fisso negli occhi, e nell'assurdità del dolore che provava, sentì la verità di quelle parole, si mise il volto tra le mani senza il disagio precedente e... non si allontanò. Lei lo lasciò nel suo silenzio non più imbarazzato e pensò a quello che aveva appena fatto, affascinata da quell'uomo con un velo di barba di qualche giorno, i capelli fluenti anche se un po' arruffati, pensò al coraggio spudorato appena avuto, alla timidezza svanita, e al suo ritorno con forza raddoppiata in quel momento, tanto da arrossire e sperare di non essere vista da lui, che ancora teneva le mani sul viso. Avrebbe voluto avere un'altra volta il coraggio di poco prima, cercò le parole da dire, ma non riuscì ovviamente a trovarle. Lui del resto non si accorse minimamente del

dramma di quella donna sconosciuta. Almeno, a lei così parve. Così a lei parve, così lei si sbagliò. L'uomo continuava a pregare, a pensare, a piangere, ma più sommesso di prima. C'era lei. Chi era? Non importava, eppure importava eccome. Non era nessuno, pensava, eppure era l'unica che stava con lui in quel momento. Non l'aveva voluta e lei era rimasta. -Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Si accomiatò con queste parole rivolto all'altare e la lasciò al suo imbarazzo maldestramente nascosto. Non aveva senso palare con lei, non aveva senso interrompere il proprio dolore, accettare la dissacrazione. Come ogni persona buona, anche quell'uomo, nel momento in cui suo padre stava per morire, si sentiva in colpa per il poco tempo dedicatogli, per la scarsa attenzione. Ogni pensiero era una sentenza su se stessi, ogni sentimento verso il genitore era un'assoluzione: un figlio ingrato e un genitore perfetto. Suo padre aveva diritto a tutto il tempo di suo figlio, al suo pianto, alle sue preghiere - perché i genitori hanno anche diritti, ma a volte un figlio se ne accorge solo quando il padre o la madre reclamano l'ultimo. Decise di aspettare alla macchinetta del caffè che quella donna uscisse dalla chiesa, poi sarebbe rientrato e avrebbe continuato a frustare il proprio animo con quel lungo addio

filiale. Non uscì nessuno. Nessuno nei primi dieci minuti di attesa, nessuno nei successivi. ata mezz'ora si convinse di stare rientrando solamente perché il suo cammino interiore esigeva un'espiazione continua, non perché fosse incuriosito da quella donna di cui sentiva che lo stava aspettando. Notò come lei si fosse spostata, la trovò all'ultimo banco. Le si avvicinò senza curarsi del rumore dei suoi i: voleva farle sapere che era rientrato e andole davanti farle capire come non fosse lì per lei, voleva farle capire che... ma non riuscì a non fermarsi, perché a volte la vita chiama con più forza, perché a volte si ascolta con più fede. -Perché mi ha aspettato? -Tu perché hai aspettato che uscissi? -Perché volevi rubarmi il tempo. -Eppure sei qui a dedicarmi il tuo tempo. -Mi ci costringi. -Sei libero di oltrearmi. Stava piangendo. -Perché piangi? “ Perché le stava dando del tu? ” -Pensi di essere stato l'unico ad aver sofferto qui dentro? -Penso di avere il diritto di piangere da solo, non di essere il solo che piange. -No pensi che piangere sia un diritto, invece è un'opportunità. Il confronto delle

aveva teso i loro volti, ma chi condivide le lacrime condivide il suo ato, condivide la paura che non ritorni più: lor si erano visti piangere. -Senti non so chi sei, né perché stiamo parlando..., ma lei lo interruppe, appoggiando, da seduta, la guancia sullo schienale del banco davanti, continuando a guardare nella direzione di quell'uomo. -Per quanto ancora vuoi chiedere a te stesso perché continuiamo a parlare, invece di accettare che ti va evidentemente di farlo? Non mi rispondere con le parole. Ammutolì ogni protesta di lui, più che sensata per quella situazione,già, più che sensata, già, ma per chi? Per la razionalità? Per l'autocontrollo? Per l'idea che abbiamo della normalità delle cose? Si sedette a guardarla nello stesso modo in cui le lo guardava. -Adesso che sai di voler parlare con me, ti va di parlare? Lui la guardò rilassato, e ormai non si chiese perché lo fosse. -E' faticoso salirle vero? -Cosa? -Le scale che stai percorrendo, quelle del rimorso per il tempo trascorso troppo velocemente, quelle dei sorrisi che avresti potuto regalare, quelle...

-Quelle del figlio che avrei potuto essere. -Non sei l'unico a cui succede, e tra di noi gli occhi si riconoscono, no? Non attese la sua risposta. Il banco su cui siamo seduti è importante per me sai? -Non vuoi sapere chi sta morendo di persona a me cara? Non vuoi che ti chieda chi è morto di persona a cui tenevi? -Stiamo qui in questa situazione, direi che sono comunque importanti. Conta questo, nient'altro. Vuoi sapere perché questo banco è importante per me? -E' importante, conta questo nient'altro. Sorrisero la prima volta. Voglio comunque che me lo racconti. -L'avrei fatto comunque. Sorrisero di nuovo. -Sono molte le persone care che ho perso. Quando la morte mi ha preso qualcuno la prima volta, io ho cercato di inseguirla per portare indietro quella persona, l'ho inseguita pregando Dio tutto il tempo che rimaneva a quella persona, poi dopo la sua morte ho accusato Dio per tutto il tempo in cui avevo ancora la forza di piangere. L'ho fatto da quel primo banco lì. Fece un cenno con la testa per indicarlo e si riabbassò, lui non guardò. Lei ne fu contenta. -Perché non guardi? So che è il primo, e che è importante, conta questo e nient'altro. Si sorrisero di

nuovo. Quando in un discorso i sorrisi aumentano, quando prendono possesso delle parole, quando prendono possesso dei volti, non serve più parlare, sono sufficienti gli sguardi, bastano le intuizioni, si anticipa ciò che dice l'altro, si finisce ciò che sta per dire. -Poi è successo nuovamente immagino. -Sì, la morte è tornata, e il colpo mi ha tolto ciò che rimaneva di me, ma di una me che non mi piaceva. -Cosa non ti piaceva? -Non mi piaceva, è questo che conta, nient'altro. Sorriso. Non amavo veramente, per questo non riuscivo a soffrire veramente, era solo disperazione, non dolore, il dolore è un amico, la disperazione ce lo rende nemico. -.Non riesco a fare questa sottile differenza ora. -Se la riuscissi a fare subito non ci saremmo incontrati. Entrambi pensarono, senza dirlo, che sarebbe stato un peccato, lui però sentendosi in colpa verso suo padre. -Il senso completo di quell'affermazione gli sfuggì, ma gli bastò la sensazione che fosse qualcosa di vero, e sorridendo le chiese in silenzio di andare avanti. -Ho pianto un banco più lontano dall'altare quella seconda volta, in seconda fila. Mi allontanavo da

Dio, sempre di più, ogni banco su cui indietreggiavo era un o fatto contro chi mi aveva deluso. -Perché allora continuavi a pregarlo? -Perché Dio è l'ultima cosa che rimane a chi crede e a chi non crede. Non mi importava essere ipocrita, non che lo fossi totalmente, ancora gli credevo, sempre meno, ma ancora gli credevo. L'uomo alzò la testa e contò con lo sguardo il numero di file dei banchi della chiesa. -Sono molte file, hai sofferto davvero molto. Il suo commento le rivelò una profonda comione, e l'espressione dolce con cui gliela comunicò segnò la fine della loro estraneità. -Mi sono disperata davvero molto più che sofferto. Aveva sentito il bisogno di correggerlo. -Quest'ultimo banco è stata la tua ultima battaglia? -La mia prima vittoria. -Che risposta hai dato al dolore? Cioè alla disperazione. Glielo chiese con la spontaneità e l'apprensione di chi cerca una risposta per sé. -Alla disperazione nessuna, la disperazione fa vedere le cose come se fossero insensate, è il massimo del non senso, che risposta vuoi dargli? Nessuna, non avrebbe senso interrogare la follia. Ho interrogato il dolore. -Cos'hai scoperto?

-Cosa mi ha detto? -Sì -Il dolore niente, mi ha detto di cercare altrove, di chiedere a Dio, cioè a Colui che avevo più vicino di tutti proprio perché non avevo mai smesso di accusarlo. -E che ti ha detto? -Cosa non ha mai smesso di dirmi. Cioè che proprio il fatto di essere vicino, rende Dio, Dio. -Che ne sai che ti è stato sempre vicino? -Lo so perché invece di guardare solo a chi non c'era più, ho guardato a chi c'era ancora nella mia vita. -Questo non annulla la morte degli altri. -No ma rende evidente che la loro lontananza era solo da me, non da Dio. Dio è vicino a chi viene, è vicino a chi va, è vicino a chi lo ama, è ancora più vicino a chi lo accusa. -Hai detto lontano da te, non da Dio. Quindi comunque lontano da te? Ho capito che quando una persona muore, Dio si siede al centro tra te e lei, questa è lontananza che consola. Lui non disse nulla, lei lo vide solo riflettere, ma i suoi occhi rivelavano una riflessione fatta con il cuore, gli sorrise. In quel momento un medico entrò in chiesa, lo stava cercando. Lo riconobbe in

quella strana posizione con una donna, si avvicinò e gli mise una mano sulla spalla. Lui rispose alzando la testa e il dottore gli fece un cenno negativo con il capo. Annuì silente, mentre le lacrime riprendevano il loro regno sulle sue guance. Anche il dottore non disse più nulla, strinse solo un po' di più la mano sulla sua spalla, poi se ne andò. Riabbassò la testa e si guardarono nuovamente, lei gli mise una mano sul volto per asciugargli le lacrime. -Va a salutarlo -Vado. Si alzò continuando a guardarla, poi si allontanò, ma non da lei, non da Dio, non da se stesso, per questo si avvicinò veramente a suo padre. A quel padre, alla sua immagine, sorrise mentre camminava. La ritrovò seduta all'ultimo banco della chiesa, dove si erano lasciati senza neppure dirsi i rispettivi nomi. Prima di avvicinarsi stette fermo a guardarla. Uno sguardo che la chiamò, che la volse, uno sguardo a cui lei sorrise, gli sorrise dall'ultimo banco della Chiesa.

NOTE AL BUIO

Di cosa parla la storia della musica? Dei grandi compositori, dei direttori d'orchestra, degli esecutori geniali? Certamente. Alla storia della musica appartiene però anche chi è stato salvato dalla musica. Nei momenti felici o infelici, una canzone o una sinfonia, eseguita o solamente ascoltata, hanno accompagnato quelle emozioni. Solo questo? No, la musica ci porta oltre, oltre quei momenti, è sintesi di una vita intera, ne rivela il senso, la salva. Come l'ha salvata a... Non potevano vederla, ma applaudivano lo stesso, applaudivano verso quel volto perduto nelle luci spente di un palcoscenico, come l'antro di una caverna in cui un mostro divora la felicità. Da lì, nel fondo di un buio che coincideva con la profondità delle loro stesse anime, lei suonava. Una melodia che faceva dimenticare i colori, che eliminava i contorni, che faceva della vista un sopruso. Questo aveva ottenuto con la sua musica, di chiudere loro gli occhi, di renderli estranei, l'udito è il re che lei benediceva. La ragazza con il violino però poteva vedere loro, tutti eleganti, per sembrare all'altezza della sua

musica, e le loro mani battevano, emettendo scintille di suono, moltiplicando gli spettatori, uno in più per ogni battito, accendendo in lei il fuoco di una consolazione fragile, ma unica, quella di chi si vede ammirata anche se nascosta. Paradossalmente l'oscurità aveva dato una maschera di mistero ad un'esecuzione già meravigliosa. Il suo dramma, chiudendo il sipario sul suo viso, aveva spalancato le porte di un fascino arcano, l'antica attrazione che ogni velo produce. Suonava nascosta per la propria vergogna, ma quando suonava quella vergogna diventava solo l'aspetto più intimo del proprio pudore, cioè l'aspetto più bello. Aveva il viso sfregiato, la sua guancia sinistra era stata praticamente aperta in due da una corda di violino scattata all'improvviso dallo strumento per un difetto di fabbricazione. Per molti mesi non volle suonare, chiusa nella rabbia verso un oggetto che aveva mentito, perché come altro definire chi produce un suono che sembra il lamento della dolcezza, e lo mutila con lo sfregio. Il tempo, poi, mostra al cuore il libro dei ricordi, dei successi, delle fatiche, riporta dentro le orecchie suoni mai dimenticati, canti senza parole, emessi accarezzando quelle corde. Perdonò il violino, perché amava la musica più di se stessa, ma non accettò per se stessa di essere ridotta ad

uno squarcio su una tela, così nascose la tela. Concerto dopo concerto si sparse la voce, e poi la fama, della violinista senza volto. Tutti quasi ne dimenticarono il nome, pur sapendo chi fosse. Ormai lei era trasfigurata in qualcosa di superiore, sola musica, senza una figura umana che la suonasse. Era il buio a suonare, la perfezione del suono puro, l'illusione della musica perfetta. La melodia volava nell'aria, viva di una vita propria, andava a salutare ognuno dei presenti, ad ogni posto lasciava un fiore, risvegliava un ricordo, esaltava il presente, faceva dimenticare che il dolore è sofferenza, è grida, ma non ora, non quando a lei, la musica della violinista senza volto. Il suo violino era disperato, ma trasformava il pianto di dolore in un canto che sorava la gioia. Tutti avrebbero accettato l'infelicità, se fosse stata sempre accompagnata da quella musica. In quei momenti, durante i concerti, le sue lacrime erano note scritte, suonate, donate, risorte, divinizzate. Anche lei alla fine, in uno dei suoi concerti, cadde incantata da se stessa. Il suo corpo continuò a suonare senza che si accorgesse di non pensare più all'esecuzione, senza che si accorgesse di aver chiuso gli occhi come tutti, e nel dolce oblio, non percepì il chiarore della luce oltre le palpebre

stregate: la curiosità irrispettosa di un ascoltatore aveva le luci del palco da cui si esibiva. Finora il silenzio era stata la mano con cui la sua musica aveva eggiato intrecciata, ma, ancora con gli occhi chiusi, si accorse che le mani si moltiplicavano, che la prendevano a schiaffi...erano i mormorii inorriditi degli spettatori, che vedevano il suo volto umiliato per la prima volta. I sussurri diventarono una disapprovazione spudorata che la risvegliò dall'incantesimo. Aprì gli occhi e si accorse del tradimento, e nelle espressioni disgustate vide se stessa lacerata, ricucita, perduta, e stonò, una, due volte, di continuo. Abbandonò il palco facendosi sostituire dal pianto. Avevano voluto vedere più del necessario, e ora sarebbero stati condannati a sentire dentro di sé il pianto sconfitto della violinista che fuggiva; le coscienza rimordono spesso dopo l'errore, non prima, e la ferita era stata riaperta. Abbandonò la musica? No non poteva, sarebbe coinciso con il suicidio, ma tra la morte e la resurrezione ci sono tre giorni, in cui lei decise di esibirsi in concerti per non vedenti, con il palco . Lo fece senza farsi pagare, perché anche loro erano stati feriti dalla vita, e lei suonava per riscattare entrambi, per dire a se stessa e a loro, che le persone non si dividono in belle o brutte, in

vedenti o non vedenti, ma in profonde o superficiali, che nei suoi suoni c'era tuta la bellezza che il suo volto aveva perduto, che nei suoi suoni si poteva vedere meglio che alla luce. Non è necessario che ci sia il sole perché si possa vedere, questo impararono i non vedenti da lei, e non è necessario che ci sia il buio per nascondersi agli ignoranti, quelli già non vedono nulla, questo imparò lei dai non vedenti. Preparò un nuovo concerto, e fece specificare che sarebbe stato al buio. Il grande ritorno della violinista senza volto! Tutti accorsero per i biglietti. La sera del concerto il sipario si aprì su un'oscurità tranquillizzante, ma dal quel profondo mare non proveniva nessun suono. Iniziarono i borbottii, finché una voce femminile non interruppe le loro perplessità: “Se non volete vedere la realtà, non potete neppure sentirla, è inutile che suoni.” La voce aveva un tono inflessibile, segno di una consapevolezza maturata nella lacerazione e non lasciava dubbi sull'alternativa proposta. “Io suono con luce accesa, e voi dimenticate la finzione della musica senza un volto che la suoni, come se la musica possa esistere senza un cuore in cui vivere, che la viva a sua volta, e la suoni. Senza personalità non esiste la musica!” Non la musica, ma i musicisti sono vivi,

loro suonano, la violinista suona, e il suo volto sfregiato fa parte del violino tanto quanto le corde e ogni altra parte. “Oppure ve ne andate e continuate a far finta di ascoltare musica altrove.” Il silenzio degli spettatori sembrò aver sostituito la violinista nell'eseguire il concerto, e suonava un requiem alle ipocrisie, alle vergogne, alle false sensibilità. Una persona si alzò, si diresse verso un lato del palco, sparì qualche momento dietro una tenda, ed ecco! Le luci si accesero. La violinista era al centro, con il suo violino e la sua bellezza trasfigurata, impreziosita dalla cicatrice, perfettamente imperfetta, brutalmente meravigliosa. Lei si volse verso quel ragazzo che ritornando al suo posto applaudiva - e in fondo l'applauso è il primo strumento musicale - trascinando con sé l'intera platea. Si guardarono, e lei capì che la musica non solo resuscita la bellezza, porta l'amore. Suonò.

LA CADUTA DEGLI DEI

Il rumore era secco, deciso, ripetuto, perché ripetuti erano i colpi delle asce di quei due boscaioli. Il silenzio intorno moltiplicava quei suoni, e li rendeva angoscianti. I loro movimenti erano gli eredi dei movimenti secolari, e sempre uguali, che in quei boschi avevano ricavato la legna. Eppure i boschi erano ancora lì, in vita, e lasciavano fare quegli uomini, come se anche gli alberi sapessero la profonda verità che ogni boscaiolo sa: che la vita non va sprecata, va sacrificata, la legna non va depredata, va chiesta. I colpi delle accette sono come la recita continua di un rosario, di una preghiera rivolta a quelle vite silenziose, austere, immobili. I veri boscaioli sono persone malinconiche, perché tolgono la vita, e la tolgono a chi non può protestare, ma per questo sono anche persone rispettose, rispettano la dignità con cui un albero accetta il suo destino, la dignità con cui gli altri alberi lo osservano morire. I boscaioli sono i testimoni di un mondo sacro, che fornisce legna, protegge dalle frane, frena le valanghe, ospita gli animali, produce aria. Le ore lassù non sono scandite dalle lancette, mai dai colpi delle asce: un boscaiolo esperto sa

quanti alberi riesce ad abbattere in un giorno, e quanti colpi servono ad abbattere un albero e misura il tempo con questa conoscenza. Se non ci fossero loro a modificare le cose, i boschi rimarrebbero sempre uguali, alberi immobili nello stesso punto, il sole di giorno, la luna di notte, e il tempo che si trasforma rapidamente in eternità. Perché se le cose non si muovessero, e non cambiassero, non ci accorgeremmo neppure che il tempo scorre. I boscaioli sono fratture di tempo in un mondo eterno, sono movimento in un mondo statico. -Perché chiudi gli occhi ogni volta che cade un albero? Chiese il boscaiolo più giovane al mastro. -Prego. -Come preghi? -Ringrazio l'albero di averci dato la sua vita. -Non si sarebbe comunque potuto rifiutare, commentò il ragazzo. -E' proprio questo che rende il dono più generoso. -Cioè? -Cioè non è nella loro natura rifiutare il martirio. Sono puri. -Sembra quasi che per te siano divinità. Il mastro sorrise. -Sai non è del tutto sbagliato. Conosci il paganesimo antico? -Giove e tutti gli altri intendi?

-Sì. -Sì, so che c'erano tanti dei. -Ognuno aveva una sua personalità, una sua verità. Così sono questi alberi, tutti sacri, tutti veri, tutti uguali, eppure tutti diversi. Guarda questo qui appena caduto, era possente, un vero guerriero, possiamo dire che sia come Marte, il dio della guerra. E quello lì? Guarda come sale al cielo, sembra la saetta in mano a Giove, e ognuno di loro possiede nella corteccia, e nelle foglie, elementi curativi, sono come Asclepio, il dio della medicina. -E questo qui chi sembra? -Nessuno perché ti ci stai solo appoggiando per evitare di tornare a lavorare. Risero entrambi, e si misero a sezionare il tronco che avevano tagliato poco prima. Trasportare le sezioni sulla zattera ormeggiata al torrente che attraversava i boschi era la parte più faticosa, ma anch'essa era fatta dal mastro con grande cura. Appoggiarono le parti delicatamente sull'imbarcazione, poi legarono il tutto e sciolsero il nodo che teneva ferma la zattera e quella scivolò via verso la valle, sparendo velocemente grazie alla forte pendenza che aumentava la corrente dell'acqua. Il mastro chiuse nuovamente gli occhi. -E adesso per cosa preghi?

-Ho dato l'ultimo addio all'albero. Sai perché il trasporto a bordo e lo scioglimento degli ormeggi li svolgo lentamente? Perché è il rito funebre dell'albero, la sua vita scivola via sull'acqua. -Forse esageri, commentò il ragazzo, al tempo stesso attratto da quel modo religioso di vivere il proprio lavoro. Chissà se con gli anni anche lui avrebbe finito per vivere la cosa a quel modo. Un giorno, anch'esso scandito dalle asce dei due boscaioli, divampò un incendio proprio in quei boschi. Non fu il fumo ad avvisarli, ma gli alberi. Già. Gli alberi, perché ora non rimanevano in silenzio, ora il loro terrore era comunicato attraverso lo spavento degli animali in fuga, che portavano la notizia dei loro verdi custodi in fiamme. -Qualcosa non va. Il mastro annusò l'aria. -Credo sia un incendio, ma non è ancora vicinissimo. -Dobbiamo andarcene, dare l'allarme. -Tu chiama, io preparo la roba per allontanarci. Le fiamme vennero circoscritte, ma non domate, e non lo furono per molto tempo, troppo perché l'animo religioso e sensibile del mastro potesse sopportare, sopportare di vedere bruciare tutti quegli alberi. Il ragazzo lo vide piangere, silenzioso come gli alberi, con i riflessi del fuoco sul volto, che risaltavano ancora di più il suo dolore. Ad un certo punto il mastro parlò:

-Vedi, sembra che ci osservino, che ci chiedano perché la loro vita deve bruciare, andarsene senza un motivo. Sembra che ci chiedano perché noi, che siamo i loro custodi, lo abbiamo permesso. -Cosa avresti voluto fare? Si permise di obiettare il ragazzo, -Non è colpa tua. Ma la voce del mastro era stata troppo ferma perché non annunciasse qualcosa in più rispetto a quello che aveva detto. E infatti il mastro riprese a parlare: -Sono vecchio, ho ato la vita con loro, e ora li vedo morire, non voglio assistere, né posso farlo, è mio dovere essere con loro fino alla morte, loro sono stati con me tutta la vita. -Non capisco dove vuoi arrivare. Chiese inquietato il ragazzo. Il mastro non si era girato a guardarlo neppure una volta, ma ora si girò, gli fece un sorriso, poi riprese a guardare i boschi in fiamme, a poche decine di metri di distanza da loro. Iniziò a camminare verso il fuoco. Il ragazzo appena si rese conto delle sue intenzioni si gettò a fermarlo, ma il vecchio lo fermò con un ceffone: -Lasciami la mia dignità. E proseguì verso gli alberi in fiamme. -Tu non ragioni, sei scioccato dall'evento! Gli urlò dietro il ragazzo, e poi si gettò nuovamente verso il mastro, che questa volta gli dette un pugno lasciandolo tramortito a terra. Lo vide sfocato, allontanarsi sempre di più, e poi sparire nel fuoco.

-No!No!Mastro!No!Aiuto! -Che succede? Era accorso qualcuno. Il mastro è andato tra gli alberi. -Come? -Sì, aiutatelo! Era disperato perché si era lasciato sorprendere dal colpo anche la seconda volta. Qualche decennio più tardi... L'escursionista sentì nel silenzio assoluto quei colpi secchi, decisi, ripetuti, stette un attimo attento, ne capì la direzione, e andò a vedere. Trovò un boscaiolo al lavoro, proprio in quel momento vide che l'albero stava per cadere. Un attimo dopo si schiantò a terra, e vide il boscaiolo chiudere gli occhi. -Mi scusi? Posso chiederle perché chiude gli occhi? -Ringrazio l'albero per la sua vita, che mi ha donato. -Cioè? -Lei è credente? -Come scusi? -Lei è credente? -Sì ma non per questo prego quando vedo un albero cadere. -No, lei non è credente. -E perché non sarei credente? E dovette accettare di parlare con quell'uomo che

già aveva cominciato a sezionare il tronco caduto, e che non lo guardava neanche. -Lei non si accorge della vita che ha intorno in questo momento, come farebbe ad accorgersi della vita di Dio, che neanche si vede. -Ma quale vita? Chiese perplesso il turista. Il discorso però per il boscaiolo era finito, neppure gli alberi lo guardavano più, perché il turista non capiva, perché il turista non sentiva, perché il turista non credeva. L'unica risposta fu il rumore dell'ascia sul legno. Secco, deciso, ripetuto.

UNA TERRA DI LATTE E MIELE

Dov'è finita la promessa? Dove le ricchezze? Questo chiedevano gli israeliti, e lo chiedevano ai loro sacerdoti. Perché? Perché la Palestina, la terra promessa, era fatta di sabbia, era arida, l'acqua scorreva senza gioia, quasi più una lacrima che quei territori versavano per comione verso la loro miseria. Come si sa, una goccia d'acqua disseta meno della sua assenza, perché ne crea un desiderio ancora maggiore, ma almeno lascia sopravvivere...già, folli, ma vivi. Gli israeliti sopravvivevano, ma non di più. Quale risposta si può dare alla sete? Nessuna. Per questo il sommo sacerdote, e il clero con lui, minacciavano ancora più forte: a chi diceva “ho sete”, rispondevano “bestemmi”, a chi diceva “la terra non dà frutti”, rispondevano “bestemmi”. Un popolo, però, non beve minacce, non beve paura. Un giorno di un'estate particolarmente calda, al culmine di un altro anno di siccità, il popolo si radunò nella piazza davanti al Tempio. Gridava, la folla, piangeva, la folla. Il sommo sacerdote, impietosito, decise di uscire. Quando la folla lo vide avvicinarsi senza paura

della loro rabbia, si calmò. Conquistatosi il silenzio, il sommo sacerdote iniziò a parlare: -Dio aveva promesso. Una terra di latte e miele sarebbe stata la ricompensa per la nostra fede. Per il dolore che abbiamo sopportato. Qui, invece, nulla! La piazza era sbigottita. Ognuno dei presenti aveva sentito uscire ogni tipo di ingiurie da altri, ma da altri che non erano del clero, da altri che non erano il sommo sacerdote. Ora proprio lui, anche lui, invece che spiegare perché, si univa al loro coro, e questo fece loro ancora più male dell'arsura, perché gli toglieva la speranza, li privava dell'ultima ancora a cui chiedere. Il sommo sacerdote però non aveva finito di parlare. Riprese a farlo: -Sapete perché mi guardate così? Sorpresi, delusi. Perché solo ora avete sentito il peso di ciò che significa perdere la fede in Dio. Vi ho fatto assistere, con le mie parole, allo spettacolo misero di un uomo di fede che sembra rinnegarla, allo spettacolo di un uomo che accusa Dio di tradimento. Così è come se aveste sentito voi stessi parlare, e non ne siete stati contenti. E' così? La folla annuì. -Noi siamo qui, ad urlare perché non viene rispettato un nostro diritto, giusto? La folla annuì di nuovo. -Invece no! Noi non abbiamo alcun diritto. Perché Dio punì Mosè? Perché batté due volte sulla

roccia per far uscire l'acqua, dopo che Dio gli aveva detto di battere una volta sola. Non si era fidato, e così Dio lo allontanò dalla terra promessa. Noi stiamo commettendo lo stesso errore di Mosè. Egli in fondo voleva assicurarsi l'acqua, e in quel momento si era dimenticato che l'acqua è un dono, che va chiesto una volta, non preteso due volte, e da subito. Noi stiamo commettendo lo stesso errore. Il dono lo pretendiamo, così Dio ci ha allontanato da Lui, e dall'acqua promessa, come ha allontanato Mosè. Dalla folla si alzò una voce che replicò: -Avrai pure ragione, ma noi comunque moriamo di sete. Forse è vero, abbiamo dato per ovvi dei doni. Ma abbiamo pregato, e comunque Dio non ci ha dato l'acqua, e pregare non è pretendere, non più. Altre voci assecondarono quel ragionamento, e tra quanti non lo fecero, mostrarono però con lo sguardo di condividere con il pensiero. -Non fermatevi all'acqua! Rispose il sommo sacerdote. In ogni cosa, noi pensiamo che è nostra, mai che ci è stata donata, mai che dovremmo custodirla. Le nostre preghiere non valgono più, e sapete perché? Perché anche la preghiera è un dono, un dono che Dio ci ha fatto per poter parlare con Lui,

un dono che Lui si aspetta che gli facciamo. Le nostre preghiere invece non donano a Dio nulla, pensiamo che siano formule magiche con cui chiedere qualcosa. Da quanto tempo non dite una preghiera di ringraziamento. Sento che chiedete, e chiedete, oppure vi pentite, per avere quello che non avete ottenuto con la prima preghiera, senza neppure sapere di cosa vi dovete pentire, lo fate per interesse e basta. Pensate che Dio non lo sappia? Solo ora avete paura, e non perché Dio vi ha allontanati, o meglio non avete paura di allontanarvi da Dio, ma ne avete se Dio non vi disseta. Non vi importa di Dio, ma dell'acqua, e appena Dio non la concede, la vostra fede lascia il posto alla rabbia. -Sì ma allora come dovremmo pregare, se serve ancora qualcosa? Ancora una volta uno parlò, ma la domanda era di tutti. -Non dovete dire a Dio di concedere l'acqua. Non “Dio mi pento, quindi concedi l'acqua”, invece dite “Dio sono con te, e se anche non avessi l'acqua, io sarei con te, perché Tu sei con me”. Lesse nei loro volti disperazione, ma anche consenso, anche il ricordo di una fede che ora cominciava a far sentire nostalgia, a far sentire la lontananza. A far sentire Dio. -Preghiamo, nel Tempio. La voce del sommo sacerdote guidò la voce di tutti.

Continuò a non piovere, i fiumi non si ingrossavano. arono mesi in cui la fede riconquistata degli israeliti fu messa alla prova. Questa volta però non rinnegarono Dio alla prima delusione. -Dio soffre con noi. Continuava a ripetere il sommo sacerdote. -Non per l'acqua noi crediamo. Il tempo ava, la sete aumentava, e il sommo sacerdote, che temeva il manifestarsi, nuovamente, di fenomeni di allontanamento da Dio, prese una decisione radicale. Andò tra la folla, e disse: -Credo che Dio è con me, e per dimostrarvi questo, priverò me stesso dell'acqua, e il resto del clero della metà della loro acqua quotidiana. -Così morirai! Fece la folla. -Così voi avrete più acqua, e manterrete la fede, poiché io vi donerò il sacrificio di una vita, della mia vita, che continuerà a credere nonostante tutto, pure quando questo caà la morte. Morì. Morì di sete. Morì credendo. Proprio in punto di morte però, lo andò a trovare un uomo. Quello che aveva parlato la prima volta che il sommo sacerdote si era rivolto alla folla. -Chi sei? -Sono quello che vi contraddisse quando ci avete detto di avere fede. Con immensa fatica il sommo sacerdote sussurrò: -Sono contento di conoscerti.

Lo aveva detto intervallando lucidità e frasi senza senso, la sete lo stava facendo lentamente impazzire. -Volevo dirti grazie. Volevo pure darti questo, e gli avvicinò una brocca d'acqua. -No, obbiettò il sommo sacerdote, “lasciami compiere il mio sacrificio. -Ora puoi bere, sta piovendo, disse sorridendo il ragazzo. Sorrise anche il sommo sacerdote. -Grazie Dio. Allora dammi da bere. L'uomo versò acqua in un bicchiere, ma quando lo avvicinò al sommo sacerdote, si accorse che era morto, con un sorriso. Con le lacrime agli occhi disse: -Grazie. -La vita del sommo sacerdote ha avuto senso, l'acqua non serviva più, ha compiuto la sua opera. Questo spiegò il nuovo sommo sacerdote al popolo. Il nuovo sommo sacerdote era quell'uomo.

L'ANIMA DIVERSA

Quanti di noi trovano l'amore nel corso della loro vita? Quello vero, che non sempre coincide con la persona che ci accompagna fino alla fine. Quello puro, quello che il destino aveva preparato, quello che una nostra svista, un errore, un'incomprensione, una colpa, ci hanno fatto perdere in eterno. Solitamente la consolazione sta nel credere che, se non è durata, è perché, evidentemente, non faceva per noi, non era quella giusta. Ma in cuor nostro sentiamo contemporaneamente un sottile quanto lancinante senso d'angoscia, e alla bugia appena detta al nostro cuore, viene risposto con una fitta, un attimo di silenzio, un ricordo doloroso, la profezia di un futuro che avrebbe potuto essere, ma che non sarà mai più. A tutti coloro che hanno vissuto in questo modo, Dio volle offrire una seconda opportunità. Lui, il Dio dell'amore, il Dio che donò Eva ad Adamo, il Dio che donò Paolo a sca, e li lasciò uniti anche all'inferno, il Dio che benedisse con Isacco l'unione di Abramo e Sarah, il Dio, in sostanza, che non dimentica di averci creato in due, che non dimentica come nella vita un cuore solo avrà

meno meriti, e meno colpe, che sa quanto sia difficile essere se stessi da soli, dopo averci creato per essere insieme, il Dio che non può rimproverare troppo chi si è inasprito perché non amato, chi si è perso perché non amante. Dunque chi è Dio? Dio lo si scopre solo la seconda volta, dopo aver visto male la prima, dopo essere caduti, dopo aver sbagliato strada e, appesi al ramo sbagliato, siamo costretti a ricrederci, a chiedere scusa, ad aprire gli occhi. Ecco la seconda opportunità che Dio concesse ai morti, a coloro che nella vita non godettero della vita stessa. Il Signore approntò una bottega tra le nuvole e intorno ad essa gli angeli cantavano e con le loro canzoni descrivevano ciò che Dio stava facendo: altri sette giorni, ancora una genesi da raccontare, ma questa volta tutti dedicati all'amore. Tristi invece, in fila, stavano di fronte a quella porta d'aria tutte le persone che nella vita mossero i loro cuori come randagi, senza una casa. Ferme, in attesa del proprio turno, in cui Dio avrebbe loro chiesto, come, dopo l'esperienza terrena ata, sarebbe dovuta essere l'anima gemella che gli era tanto mancata, e lui l'avrebbe creata lì, per loro, come un artigiano.

Ci si aspetterebbe che bussino a quella porta solo anime prive di corpo. Dio, tuttavia, le aveva resuscitate insieme ai corpi, poiché sapeva che lasciare ad aspettare corpi che non erano stati amati sarebbe stato inutile, nessuna vera lacrima d'amore avrebbe salutato quelle lapidi. Nessuna anima, dal cielo, avrebbe pregato perché il dolore dell'amante rimasto fosse placato. Quando nessuno piange perché cielo e terra sono separati, è inutile tenerli separati. Così dunque il Signore aveva resuscitato anima e corpo di quei poveretti. Tra di loro ve ne fu uno, che giunto il suo momento, aprì la porta e si trovò di fronte al Signore, che lo accolse con il sorriso paterno che la fede di quelle anime era abituata a conoscere, a credere. -Allora, disse il Signore, -hai le idee chiare? Questa è l'ultima opportunità che posso concedervi, ricordalo, quindi devi cercare di avere un'immagine chiara dentro di te di quale persona potresti amare, io la leggerò nel tuo cuore, e nella mia solitudine la creerò. L'uomo, un po' intimorito dal peso di quel monito, e quasi per pararsi da quelle parole dette con aria severa, rispose: -Signore, prima che tu scruti il mio animo, vorrei chiederti una cosa. -Certamente. -So che non spetta a noi fare domande sui misteri che appartengono al tuo

operato, per questo ciò che sto per chiederti non è pronunciato da una voce dubbiosa e da un'anima vacillante, quanto piuttosto, da una fede che si vede stupita dalla bontà intrinseca di questa non dovuta, né richiesta, seconda opportunità. -Non ti preoccupare, poiché sono Dio, so distinguere un saldo timore da un'ipocrita tremore. L'uomo, tranquillizzato, continuò: -E' proprio questo che non capisco, e cioè perché, se nella vita abbiamo un tempo non infinito a disposizione, in cui poter fare delle scelte e cercare chi più si avvicina al nostro cuore, una volta persa questa opportunità, tu ne concedi un'altra? Perché allora non darne altre ancora dopo di questa, se anch'essa fallisse? E poi non si tratta in questo caso di reincarnazione, mentre tu hai sempre insegnato la resurrezione? -Figlio mio, rispose bonariamente il Signore, -tu sai che sono onnipotente, ma lo sono in quanto Padre, e quale padre, potendo tutto, e dopo aver adeguatamente rimproverato i suoi figli, non concede loro una seconda opportunità? Se fossi stato solo onnipotente, e non padre, questo favore che vi faccio diventava il gioco con cui una divinità capricciosa trascorreva una noiosa eternità, ma non è così! Ti meraviglia che io possa concedere una seconda possibilità creando

per voi l'anima gemella perduta, dopo che per darvi sempre un'altra possibilità ho permesso che mio Figlio morisse? Ti sei meravigliato quando, in vita, hai sentito della sua morte? Senza che mi rispondi. No non ti sei meravigliato, quasi a voi uomini sembra essere stato un atto dovuto per tutte le vostre sofferenze. Inoltre, figlio mio, continui a ragionare secondo la logica del mondo terreno dove al merito corrisponde un premio, e alla colpa una punizione, e io non dico che non mi comporto così, ma non mi comporto solo così. Ti hanno insegnato che sono misericordioso, che concedo più di quanto ricevo, ma ora sei meravigliato perché in vita non hai sinceramente creduto a questo mio tratto se non a tuo favore, hai imparato il catechismo a memoria, e la mia misericordia era per il vostro cuore solo una comoda dottrina con cui perdonare voi stessi dopo gli errori; ma la mia misericordia non è la droga con cui evitare di sentirsi colpevoli, con cui giustificare i propri i pur sapendo che sono sbagliati... “Tanto poi Dio mi perdona.” No, la mia misericordia è il dono che vi faccio di prendere continuamente su di me le colpe che commettete, purché me le doniate nel pentimento confessato, e io a voi lascio solo il ricordo lieve di un peso che rammenti l'errore, e vi

permetta, in seguito, di correggere la via. Se siete davanti a me dopo la vostra morte, è perché, in fondo, avete accettato con sincerità quel peso, vi siete corretti, e avete avuto fede in qualcosa di migliore, più giusto, più bello, e nel mio cuore avete già guadagnato ciò che chiami gratuito: il mio amore soppesa dopo aver donato, non prima. Chi è innanzi a me non può che stupirsi e ricordare a se stesso che tutto per voi è stato sempre fatto in modo gratuito. Abbi fede che non si tratta di reincarnazione: la vita non può morire, né quindi può reincarnarsi. Io sono la vita che non permette alla vita di morire, ma solo di continuare diversamente. E ora dimmi con coscienza chi pensi sia la tua donna della vita. Rinfrancato da quelle parole, l'uomo iniziò a descrivere tutte le caratteristiche che nella sua vita aveva apprezzato nelle donne. Il Signore ascoltò con attenzione, e alla fine disse: -D'accordo, torna domani, e troverai la donna della tua vita. L'uomo, felice e impaziente, uscì dalla bottega e richiuse la porta dietro di sé. Appena si fu girato per andar via, vide dall'altra parte della strada una donna meravigliosa, tutto il desiderabile abitava nei suoi occhi, nel senso che essi comunicavano, nelle movenze, nel corpo, così come nella voce, che, da lontano, gli sembrava di udire. In un attimo seppe cosa fare: si girò di

scatto, bussò alla bottega, ed entrò senza aspettare risposta. -Signore ascoltami, so che dovevo dirti tutto prima, ma ho appena incontrato qua fuori una donna speciale, e vorrei inserire almeno una sua caratteristica tra quelle che ti ho elencato prima. -Va bene, rispose il Signore, -ma ad un patto. -Certo, quale? Ribatté l'uomo. -Ogni caratteristica che vuoi inserire in più, te ne dovrò togliere una da quelle che hai inserito. -D'accordo! Rispose ancora l'altro, troppo felice all'idea di possedere almeno una delle qualità che aveva notato poco prima. Uscito nuovamente dalla bottega e salutato il Signore, ancora una volta fece per andarsene, quando incontrò nuovamente con lo sguardo quella ragazza bellissima di fronte a lui, e anche lei sembrava guardarlo...non resistette: -Signore scusami se entro ancora, sono mortificato, ma vorrei chiederti con tutto me stesso di concedermi ancora un'altra qualità da inserire nell'elenco, togli in cambio una qualsiasi dell'elenco iniziale. -Va bene. Rispose con aria comprensiva il Signore. Chiusa la porta dietro di sé, l'uomo decise di guardare basso per evitare di

guardare dall'altra parte, e cercare la ragazza con gli occhi, ma un vento forte soffiò, e gli fece alzare la testa di scatto, l'inconscio e il desiderio fecero il resto...una porta che si apre, un favore da chiedere, una rinuncia fatta con piacere. Continuò così a rientrare, finché non ebbe sostituito tutte le caratteristiche richieste la prima volta. -Certo, commentò il Signore l'ultima volta, -sei molto indeciso come tipo, e sorrise. -Scusami davvero tanto Signore, non so che dire. -Non ti preoccupare, ora però vai, perché mi rimane poco tempo fino a domani per completare l'opera che ti renderà felice. -Certo certo, a domani. Il giorno dopo, con un'ansia che non gli permetteva di respirare, l'uomo si diresse alla bottega del Signore, bussò, ma non rispose nessuno, bussò ancora, e ancora, e ogni volta con più nervosismo, finché non si trattenne più, e dominato dalla paura che fosse tutta una truffa, fosse veramente stato il gioco di un dio capriccioso, oppure una punizione per la sua domanda, urlò: -Signore! Signore! Avevi promesso! E due accenni di lacrime si fecero strada al bordo dei suoi occhi.

Sentì una voce dietro di sé: -Ciao scusa... -Sì? Disse, e notò che era la ragazza straordinaria che aveva ammirato il giorno prima, e quasi dimenticò la disperazione di poco fa. -So che cerchi il Signore, ma lui non c'è, e mi ha detto di darti questa lettera da leggere. Lui ancora stordito prese la busta tra le mani, l'aprì e lesse... Figlio mio, hai imparato così poco durante il tuo cammino terreno? Eppure credevi in me, e sinceramente. Come hai potuto credere che, dopo avervi dato una vita fatta di tanti anni, mesi, istanti, in cui decidere chi volevate essere e con chi stare, potessi darvene un'altra come se niente fosse: la vita è unica e per questo, solo per questo, ha valore. Il fatto che essa abbia fine con la morte doveva rendervi migliori, autentici, invece di perdere tempo. Avevi ragione a pensare che una nuova vita sarebbe stata un reincarnazione, che io non ho mai voluto per voi. Inoltre non sai ancora che qui, nella dimensione in cui siete, non esiste il tempo scandito dalle ore? Non ti sei accorto che se avessi voluto darti una nuova compagna di vita avrei saputo farlo senza chiederti come la volevi, e senza dirti che dovevi ritirarla come fosse un pacco, il giorno dopo? Ancora, figlio

mio, hai continuato a ragionare come quando eri sulla terra, e cioè a considerare gli altri, la donna della tua vita, un tuo riflesso, una lista di caratteristiche che ti piacciono o non ti piacciono, un oggetto da possedere, da fabbricare, da richiedere su ordinazione a Dio. Non sai che io sono al di sopra dei vostri desideri? So di voi quello che voi non sapete di voi stessi, so da sempre quale sarebbe stata per ognuno di voi la donna della vostra vita e da sempre so che non sareste riusciti a coglierla, a custodirla come il dono che era, un mio dono appunto, non un vostro merito. E non solo non avete colto i miei doni, ma non avete colto di essere doni voi stessi per quelle persone, e non le avete mai trovate, e se trovate perse e i peggiori tra voi neppure le hanno mai cercate. Ho posto io fuori dalla porta la ragazza che tanto ti incantava e che non potevi fare a meno di cercare di riprodurre descrivendomela, perché ciò che da sempre so che è la donna della tua vita, per sempre voglio che lo sia, al di là della vita in cui non l'avete accompagnata, per questo ho deciso che il Purgatorio, in cui ti trovi tu ora, mentre ti facevo credere di essere già in paradiso, fosse costituito dalla disperazione che ti ha colto poco fa, perché imparaste definitivamente quanto avere

fede sia affidarsi a qualcuno che sa più di voi e che perciò sa scegliere per voi meglio di voi. Il purgatorio è il luogo in cui espiare la colpa di non aver amato e di non essersi fatti amare in vita. Adesso siete veramente degni di bussare alle porte del Paradiso, e di farlo insieme, come io da sempre ho voluto che voi due foste nell'unica e eterna vita che vi ho dato, perché il Paradiso, la felicità senza fine a cui vi ho destinati non esiste, se non nell'amore che ho pensato mentre vi pensavo. Un ultima cosa figlio mio. La verità risponde anche se non urli, si annuncia con un sussurro e a volte è proprio dietro di noi, basta girarsi. Ora prendile la mano, vi aspetto... non fece in tempo ad alzare gli occhi dalla lettera, che lei gli prese la mano. Lui, sorpreso – e allo stesso tempo arrendevole a quel gesto così voluto – chiese: -Ma come facevi a sapere che c'era scritto di prenderti la mano? Lei, sorridente disse: -Guarda, e gli mostrò una lettera, -Ne ha data una anche a me, leggi. Figlia mia....

LA COLOMBA E IL PICCIONE BIANCO

E' antica la legenda, antica quanto l'emozione che le è collegata. Dall'oriente all'occidente si narra che Dio, dopo aver detto ad Adamo di dare i nomi agli animali, e aver aspettato che ogni essere vivente avesse il suo nome, andò da Adamo, e gli disse: -Ti ho permesso di nominare ogni forma di vita che non sia la tua, così, in base al significato che le altre vite hanno per te, tu gli hai dato un nome. Sono stato tuttavia costretto a non permetterti di dare il nome ad un animale a cui tengo, perché quell'animale non è a tua disposizione come gli altri, ma è a mia disposizione, lui e il suo significato. -D'accordo, fece Adamo. Io però non credo di aver saltato alcun animale durante l'assegnazione dei nomi. -Infatti non era presente tra quelli davanti ai tuoi occhi, perché lui è sempre davanti ai miei. Solo ora, che hai compreso quanto importante sia dare alla vita un nome che la esprima, posso permetterti di posare lo sguardo su quest'altro essere. Aprì le mani, e ne uscì una colomba che volò nel cielo.

Adamo, a cui una folata di vento proveniente dalle mani di Dio e dal battito d'ali della colomba, sorpreso, e al tempo stesso ammirato dal colore di luce della colomba, disse: Signore, è bellissima! Come l'hai chiamata? -Colomba. -Signore perché ti è così cara, oltre alla sua bellezza? -Per il suo significato. La pace! -Signore, qui non c'è guerra. -Nei cuori c'è sempre la guerra. Questa colomba è il segno della mia pace, e ogni volta la sua presenza sarà annunciata dal vento. Ricorda, il suo nome, colomba, significa colore conferito all'ombra, cioè ogni volta che ci sarà una guerra, voi uomini dovrete cercare di riportare la pace, dovrete cercare di colorare le ombre. Lei apparirà per incoraggiarvi a fare ciò, io la invierò per questo. La colomba è pace. -Non scorderò queste parole Signore. Ma l'uomo è l'uomo e le guerre, come Dio aveva predetto, scoppiarono, sempre peggiori, eppure ogni volta una colomba riportava l'annuncio della pace. Quante volte ancora Dio avrebbe perdonato i suoi figli, per quante volte ancora avrebbe richiamato la loro memoria? Giunse il giorno in cui non

si videro più colombe. Neppure negli anni a seguire, né nei decenni, né nei secoli. Questo avrebbe dovuto far tremare gli uomini, poiché era chiaro che Dio era adirato, ma gli uomini, che sono sempre gli uomini, invece di pentirsi, pensarono che non c'era neppure più Dio a ostacolare i loro piani risvegliando nella coscienza di uomini onesti il desiderio della pace, così ne approfittarono per aumentare le guerre e il dolore. -Perché ci hai abbandonato? Si chiedeva quell'uomo che non perdeva la fede e non la perdeva perché continuava a parlare a Dio. A Dio così si rivolgeva: -Io ti parlerò anche se non vuoi rispondermi. Ti parlerò anche se forse sono io a non sentire la risposta. Non ti permetterò di condannarmi anche al silenzio, dopo tutto quello che già sta succedendo. Lo sai che se smettessi di parlarti, smetterei di sperare. La tua voce si sente solo se anch'io ti parlo, non ti permetterò di stare in silenzio. Eppure il mondo era quello che era, e la speranza, senza le colombe, era solo una parola, che eggiava anonima sulle labbra di quell'uomo che non voleva morire disperato. Era l'unico che continuava a pronunciare quella parola. Nessuno si era più permesso di dirla, prima gli uomini smisero di farlo ad alta voce, poi smisero perfino di pensarla e una volta ridotta

al silenzio, la speranza si spense anche nei cuori. Si spense nei cuori di chi aveva paura che gli oppressori lo sentissero, si spense nel clero, che era farisaicamente convinto che in assenza di colombe non si potesse nominare la speranza: -Dio non vuole più donarcela la pace, dicevano, altrimenti manderebbe delle colombe, ma non ci sono colombe, quindi quella parola è di nuovo solo sua, bestemmieremmo se la nominassimo. Quell'uomo però non si voleva arrendere, diceva: -Se Dio volesse davvero toglierci la speranza, avrebbe fatto prima a toglierci la vita, ma non ce l'ha tolta, quindi vuole che continuiamo a sperare, almeno che ritornino le colombe. Gli rispondevano che Dio era stato chiaro: -La colomba è la pace, senza la colomba non c'è pace. Ma quell'uomo era sempre quell'uomo. Un giorno scese da una piccola collina e vide dei piccioni ai piedi di essa. Avvicinandosi a loro, essi volarono via, ma tra quelli uno lo sorprese, era bianco! Così bianco da sembrare una colomba! A lui comunque aveva fatto lo stesso effetto e, seppure solo per un istante, aveva sperato. Ebbe un'intuizione: -Dio, oggi ho vista un piccione bianco, mi ha fatto l'effetto di una colomba. Mi sono accorto che era

un piccione bianco solo perché ero molto vicino, e gli ho visto il colore grigio presente su parte della coda, ma se volasse in cielo, e non si poggiasse mai a terra, chi si accorgerebbe della differenza? Basta addestrare il piccione, che dovrei prima catturare ovviamente. Lo so Dio, è un trucco, ma forse anche il tuo non mandare più colombe è un trucco. Darebbe tanta speranza, e forse gli uomini troverebbero la forza di ritrovare la pace. Tento, sei d'accordo? Silenzio. -Dio, quando ti chiedo se sei irato, tu non rispondi, e deduco quindi che lo sei. Allora vale anche se ti chiedo se sei d'accordo: non rispondi, quindi lo sei. Se non lo fossi potresti sempre impedirmelo, ma non lo impedisci, quindi sei d'accordo. E magari quel piccione lo hai mandato proprio tu eh? Silenzio L'uomo sorrise. -Sì, come pensavo. L'uomo catturò il piccione bianco, e lo addestrò a ritornare da lui dopo aver volato per un po' sopra la gente. La prima volta che tentò, si accorse che la gente non era più abituata a guardare in cielo, ed essendo il piccione addestrato a volare molto alto, si rischiava che non ci fosse nessuno che lo vedesse. Così urlò:

-Guardate! Una colomba! Guardate! E tutti alzarono gli occhi. -E' vero! -Eccola! -Dio sia lodato! -Aspettate, fece qualcuno, non c'è vento, la colomba appare sempre con il vento. Perché non c'è vento? -E' vero. -Sì non c'è vento. L'uomo non ci aveva pensato. Si allontanò deluso dal proprio errore e aspettò che ritornasse il piccione bianco. -Bravo, non è colpa tua, mi ero dimenticato il vento. Sai che facciamo la prossima volta? Ti porto sempre con me nella giacca, appena c'è un po' di vento, ti libero di nascosto. Così fece. Ogni volta tornarono i sorrisi, le speranze e alla fine, dopo tanti anni, tornò anche la pace. L'uomo morì, ma ormai il piccione bianco non sapeva fare altro che volare alto sopra la gente, e andare a poggiarsi dove la gente ava di rado, cioè sulla lapide dell'uomo che l'aveva addestrato. L'uomo si trovò Dio di fronte. -Signore...

-No, parlo io. -Certo, non volevo... -Sai che la colomba è legata alla pace, se non ci sono colombe, non è pace. Lo sapevi? -Sì. Rispose l'uomo continuando a guardare Dio negli occhi, e aspettandosi un rimprovero. -Tu invece hai deciso di andare oltre, hai capito che la colomba annuncia la pace, non è la pace. Hai capito che non è lei a portare la pace, ma dove c'è la pace, la colomba trova il suo posto. Hai capito che dovrebbero essere gli uomini le colombe che portano la pace. Tu sei stato una colomba e io voglio ricompensarti. -Grazie Signore, non mi aspettavo questo. -Ma ci hai sperato, giusto? E sorrise. Sorrise anche l'uomo: -Sì. -Allora dimmi, cosa vorresti? -Vorrei che il piccione che mi ha accompagnato in questo cammino rimanesse con me per sempre, ma non ora, solo quando verrà anche il suo momento. -E' già con te. E una colomba si poggiò sulla spalla dell'uomo. E' morto pochi giorni fa, sulla tua tomba. L'uomo guardò la coda:

-Ma questa è una colomba. -No, è il tuo piccione, che in vita si è comportato come una colomba, annunciando la pace, così ho pensato che meritasse una promozione. -Grazie. -Ah dimenticavo, disse il Signore. -Sì? -Il tuo piccione ha poggiato, prima di morire, un ramoscello d'ulivo sulla tua tomba. Sorriso.

UDII UN CANTO

Entra credente, entra. Anonimi volti accarezzati dai loro cappucci si girano, ombre sugli occhi, occhi velati scrutano e si stendono verso di te, ma nulla rivelano, perché nulla sono, senza nome e con un nome solo, un’identità perfetta ne racchiude mille senza perdersi. Per sempre liberate dai vincoli dell’individualità egoista, rimangono se stesse nell’unico riconoscimento che conta: lo sguardo divino non chiede nome, non pretende l’educazione delle buone maniere, distingue ben altro, perché la visione di Dio è al tempo stesso udito, tatto, gusto, olfatto, vista, e nessuno di essi come noi lo concepiamo. Ascolta voci che dormono la vita di questo mondo, esistenza sorda a cuori muti. Grida inascoltate, solo grida, singhiozzano un cantarsi addosso che nulla restituisce. Aquiloni vocali che rimangono sempre legati al filo di questa terra, peggiore della morte è la condizione di vivere sapendo che non si vivrà in eterno: cieli troppo distanti per lacci troppo corti, e teli volanti per un’aria che in fondo sorregge, ma incatena. Voci che scalano mura di pietra colpiscono attenzioni perplesse: “Possibile che cattedrali sonore

vengano scolpite nel cielo? E chi è l’architetto?” Domanda errata, che vuol dire chi? Non esiste individuo, esiste la vita, attraverso cui la fede in Dio canta la sua origine, una destinazione che fa ombra, o illumina fino ad accecare, la propria personalità. Ora siediti, ma con il corpo, lascia che il cuore voli con loro: le ali sono il primo dono che Dio ha dato. Ascolta perché l’orecchio non per altro vive se non nella sconfitta della vista: non si può vedere con l’occhio il mondo dietro il mondo, il vero mondo, per questo lo spirito risiede nell’orecchio, non più senso della distrazione, del rumore, non più asservito a divinità persuasive quanto inutili. Quei volti cantano il sonno della sopravvivenza, invitano alla resurrezione, è ritorno e nuovo inizio. Segui loro e il corpo seguirà te, l’hai dimenticato che è il custode dello spirito, che vive e si compie nella libertà della sua vocazione protettiva? Solo questo potresti pensare: “Certo, l’intelligenza quando trova un risultato si sposa con l’entusiasmo”…e si ferma, paradosso dell’intelligenza è la sua seconda faccia, la stupidità, ma tu vai oltre viandante del mondo, pellegrino in questa basilica dei cuori e delle ombre umane, ascolta, è la melodia dello Spirito che esce dai travi, che dice il segreto della carne e delle ossa, corde vocali

vibrano fisicamente lo spirito, perché la casa fa entrare ed uscire. Ascoltali! Vengono ad aprire le porte della tua voce, girano chiavi con l’anima, perché lo jubilo emerga, è il tempo di vegliare, stendersi tra le nuvole: unico riposo che un Dio autentico potrebbe concedere. Ottimo! Siediti vicino a loro, non li riconoscerai, e loro non ti saluteranno….sono già la tua famiglia, neppure la ginnastica delle loro guance rivela tratti riconoscibili, ma ascolta! È la voce che viene da dentro, lì è l’anima, lì, nella materia canora, fisica ma invisibile, che l’anima, presente, ma incorporea, diventa materia palpabile, dunque udibile. Ecco! Anche tu stai muovendo le labbra. Tanti fiori non profumeranno mai quanto la fede che senti, quanto quell’essenza dello spirito. Pensi che siano loro ad averti mosso? Hai forse visto mani sulle tue spalle, insensibili al tuo stesso cuore, trascinarti in un posto di cui non avevi idea? Eppure loro non si sono mossi, come radici piantate su banchi che sembrano barriere contro le velleità degli innumerevoli “non credo”, popolazioni scettiche, o rabbiose, o disperate, che si travestono di legittimità con la retorica e il dolore. Come se il dolore non lo si possa cantare, come se non lo si possa cantare retoricamente, come se non fosse la finestra più grande da cui guardare lo spirito.

Torneremo a casa, esiliati in un mondo di parole….quante volte hai sentito solo separazione, scansione, dov’era la melodia, la fluidità, il mare che una parola contiene in potenza….perché la vera parola è canzone, o lo sarebbe stata, ma l’uomo ha sbagliato. Tu sei qui, ora, a ricordare, e quei volti sono troppo gentili, troppo anonimi per essere giudici di una lontananza che tu vedi, come ognuno di noi, meglio di ogni altro guardando dentro di te. Noi cantiamo, viandante, così che la tua memoria sciolga le catene della presunzione e del dolore, noi cantiamo il mondo che avremmo potuto essere, che non siamo stati, ma che sarà, cantiamo il destino, accompagniamo il pellegrinaggio. Non pura emotività, non travolgente sentimento, ma spirito, cioè equilibrio, l’uomo tutto intero torna sulla terra e reclama i diritti di Dio, ama nuovamente Dio, per questo è già risorto, con una melodia? Ma sente già tutto, oltre la voce, assapora lo spirito della voce, la vita che la anima, una voce diversa dalla sua. Lo Spirito risponde, il Signore svela nei canti il segreto della preghiera. Ricorda viandante che Dio prega prima di te, canta prima di te, soffre prima di te, e poiché c’è un prima, c’è l’Emmanuele, Dio con noi, per noi: la voce è da dentro, dal cuore, non dalla gola.

Pensi di conoscere i segreti del mondo: “Esso è dolore!” Grida inaudite tentano una sensibilità provata. Non veniamo a dirti che non è vero, ma ribadiamo che qualcuno lo seppe prima di te; non diciamo aspetta l’altra vita, non diciamo scommetti sulla ricompensa, noi diciamo che la vita è già in questo canto, compreso il dolore, non solo il dolore. Moriamo con ogni parola, viviamo in ogni parola, ma siamo oltre le parole….la vita è sempre oltre i suoi dolori, oltre le sue felicità, la vita non sei più tu, torna a casa! Chi è la casa? Mille sentieri di fuga aprono strade ignote, aprono a canti diversi, sentiamo le sirene che sussurrano, “forse…forse saremmo venuti con te...” Ma abbiamo seguito Pietro, Giacomo e Giovanni su quel monte, quando Lui si è trasfigurato, lo seguiamo con i nostri canti. Più ancora di questo abbiamo seguito quel ragazzo, quel bambino, quando da solo, va a parlare con il Padre. Cosa senti piccolo nostro, di cosa ti parla? Quanta nostalgia! Anche tu hai lasciato una casa, eravate in tre e vi amavate, a quale esilio ti abbiamo costretto? Anche tu tornerai a casa, ora il tuo Spirito però canta con noi….Ricordavi qualcosa da quaggiù? O te lo raccontava Lui? Come avete fatto a separarvi? Quante domande a cui non hai fatto scrivere risposte, eppure noi le cantiamo, le domande e le risposte. Cantiamo

degli angeli con cui sei sceso e il mondo ha cantato per te quando te ne sei andato e noi abbiamo visto solo il buio. Tu pure ora vedi buio, anche tu canti, canti il buio, che è il ritornello dello scettico. Noi non diamo risposte: domande e risposte sono il gioco di un maestro con un alunno, di un giornalista con un intervistato. No, al di là di questo gioco, noi diciamo che esiste una Parola che ci unisce, e questa Parola è una canzone, il Logos si è fatto carne annunciato dal coro degli angeli.

IL PONTE DELLA MEDITAZIONE

Una ragazza si trovò di fronte a un ponte, sopra un fiume. La riva dove si trovava lei le sembrava bellissima, eppure non era soddisfatta. In apparenza c'era tutto, ma lei non riusciva ad essere veramente felice, finché un giorno iniziò a guardare al di là del fiume, all'altra riva: avrebbe tanto voluto attraversare il ponte, ma l'altra riva era immersa nel buio, il cielo sopra di essa era nuvolo, e, in lontananza, un bosco di alberi spogli rendeva il posto ancora più tetro. Stava per rinunciare, quando decise di rivolgersi al guardiano del ponte: -Salve! -Salve a te! -Scusi, lei sa cosa c'è dall'altra parte del ponte, e se è pericoloso? -Non ti piace qui dove sei? -Mi sembra tutto così immobile qui, lì invece sembra così misterioso, sono curiosa, però ho paura. -Capisco. Forse dovresti attraversare e basta, se vuoi posso accompagnarti. -Davvero? Mi farebbe un favore! Comunque piacere, io sono...ma fu interrotta: -Il nome me lo dirai quando saprai chi sei, per ora sono io che mi presento. Piacere! Io sono il

Dottor Arte. -Ma lei sa già cosa c'è dall'altra parte quindi? -Io so come arrivarci senza paura. -Quindi non lo sa cosa c'è? -Quindi lo vedrai con i tuoi occhi, non è più bello? -Sì in effetti. -Vuoi andare subito? -Sì certo. Si misero fianco a fianco, e fecero un primo o sopra il ponte. Lei si guardò i piedi perché aveva paura che continuando a guardare l'orizzonte terribile verso cui si dirigeva, avrebbe perso il coraggio e sarebbe tornata indietro. Ma lei il coraggio lo aveva, almeno quello di fare il primo o. Così notò sotto i suoi piedi la scritta all'inizio del ponte che diceva : EXTRA ME. -Che vuol dire? -Vuol dire “fuori di te.” -In che senso? -Nel senso che tu prima non eri più soddisfatta di ciò che vedevi, cercavi il senso delle cose fuori di te, ma il senso è in noi. Tu ora hai calpestato EXTRA ME, cioè quel modo di cercare la verità. Le sembrò possibile come spiegazione. -Facciamo qualche altro o.

Proseguirono, e lei ora non aveva la necessità di guardare per terra, decise di alzare il viso, ma per prudenza tenne gli occhi un po' socchiusi, non non così tanto però da non notare che stava calpestando, prima che alzasse la testa, la scritta INTRA ME. -Che vuol dire? -Vuol dire che prima cercavi la verità fuori di te, ma non la trovavi, così l'hai cercata dentro di te, ma sei solo a metà del percorso, perché in te c'è la forza, ma da dove proviene la forza? Essere chiusa in te stessa non è sufficiente. -Facciamo qualche altro o. Lei ora teneva gli occhi aperti, ma era talmente concentrata a guardare per terra per vedere se ci fossero altre scritte che si dimenticò di guardare di fronte, e così non notò che il paesaggio dell'altra riva era diventato mano a mano più limpido, più verde. Vide l'ultima scritta alla fine del ponte: ULTRA ME. -Che vuol dire? -Sopra di me, oltre me. -Cioè? -Cioè devi andare oltre te stessa, per essere veramente te stessa , per donare te stessa. -Ma come faccio?

-L'hai già fatto, hai attraversato il ponte, l'hai fatto con me, con l'arte. Lei sorrise. -Perché mi sento così libera? -Perché prima non lo eri, ora hai fatto un percorso. Guarda. E indicò la riva su cui erano giunti. Lei si voltò. Il paesaggio era totalmente diverso, bellissimo, più di quello da cui lei era partita. -Ma com'è possibile? -Le cose sono belle se noi siamo capaci di vederle belle. Ora tu sai come si fa, perché sai chi sei. Adesso va. -Grazie. E andò avanti, ma dopo un po' si girò: -Dottor Arte, come si chiama questo ponte? -Ponte della Meditazione. E tu come ti chiami? -Anna.

PAURA

Sali... sali scale di cui non vedi la fine, guardi i piedi che sempre più faticosamente, gradino dopo gradino, li calpestano, sorandoli. Senti il fiato sempre più grosso battere il ritmo di una morte da cui non riesci a fuggire. Corri! Non guardare intorno a te quel buio in cui anche le scale stanno sospese. Buio e vuoto. Ma come si reggono queste scale? Devi stare attento! Non c'è balaustra, le mani non possono aggrapparsi...ma vogliono? Ancora uno, ancora uno, c'è tempo per arrendersi, ora è tempo di ruggire una forza che ancora possiedi. Vedo che corri, ma i tuoi occhi tradiscono una spudorata assenza di coraggio: i piedi non stanno obbedendo alla fede, ma al panico, ecco il dio che può muovere chi vuole, e se vuole può farlo dopo avere, con la stessa forza, immobilizzato la vittima che ora corre. E' sempre così, prima il panico ferma, la preda diventa troppo pesante. E' questo il dramma in cui il fuggitivo è protagonista, in cui gli si mostra, distorto ma immenso, un anticipo di atto finale, in cui la tragedia si concluderà con la caduta, dell'uomo e dei suoi dei, cantata dal coro di paure mai spente. Di fronte allo spettacolo, pietrificato, lo sfortunato

prende atto, ma l'unica lucidità che rimane è quella di chi sente di essere infinitamente incapace di pensare ad una via d'uscita, ad una soluzione a cui non crede più. La paura diventa terrore, e se la paura poteva ancora vedere, ancora sperare, anche se preoccupata, ancora valutare, anche se ansiosa, il terrore no, il terrore cerca gli occhi sgranati, scuote il corpo con tremiti che fanno scivolare via i ragionamenti, fa posto ad un'unica autocoscienza, che il corpo non si controlla e fugge, perché la mente è fuggita prima di lui. Tuttavia, pur non sapendo perché, le scale le hai prese, non sapevi fosse la via giusta, ma il terrore, per un attimo rallentatosi ad osservare meglio i propri trofei, posati sopra le ceneri di una serenità ormai dimenticata, è stato superato in quell'attimo dall'istinto di sopravvivenza...e hai preso le scale. Con un istante di calma, che il ritmo regolare della corsa ti da, pensi che pur non vedendola, la fine ci dovrà pur essere. Sembra! Ma sì! Infatti! Eccola là! Una porta, uno spiraglio di luce che proviene da sotto, sottile, ma messaggero di vita, di salvezza. La mano si poggia fiera sulla maniglia, non vuole neppure soffermarsi un attimo a sorseggiare la vittoria così duramente conquistata - eppure lo

meriterebbe - ma meglio rimpiangere un'azione ata, comodamente distesi di fronte al fuoco di un camino, e rimpiangere ipocritamente una stretta di mano non data a se stessi, meglio questo, che perdere un attimo di più in quel posto. Ma quale posto?...Noi stessi. Preme, ma non si apre nulla, com'è possibile?! Ritenta! Forsennato, ma ancora nulla...e più forte di prima, il panico torna sorridendo: -Non eri te ad essere scappato, e con quali gambe l'avresti fatto? Sono io che ti ho lasciato fuggire. E come se la vittima davvero vedesse qualcuno che gli stesse parlando, allunga la mano per scansarlo, e correre giù per quelle scale appena salite. A forza di correre inciampa, rotola giù, urta, vede il mondo girare e fargli male. Per un attimo, mentre rotola, si sente come estraniato, si guarda cadere, come se non lo riguardasse più, e le lacrime scendono a cercare di scavare un solco in quel viso la cui pelle ormai è deserto. Da fuori, continuando a guardarsi cadere, non può non portare una mano alla bocca, commosso, mentre il pianto non si ferma. Eccolo di nuovo a terra, ai piedi delle scale, spossato, ferito, quasi morto. Disteso, alza con le ultime forze la testa, per guardare il primo gradino. Vorrebbe rialzarsi, riprovare, arrivare nuovamente a quella porta e aprirla con un calcio, ora lo saprebbe fare, lo sente, certo. Ma lo

sentiva pure quando le energie le aveva, e nonostante questo era tornato di corsa indietro. Allunga il braccio, la mano tenta di raggiungere le scale, ma questa non è la storia di Lazzaro, non c'è nessuno a dirci di alzarci e camminare. Non c'è più salvezza, rimanga, almeno, la pietà.

UNA COLOMBA IN UN MONDO DI CORVI

Noè attese giorni e giorni che la colomba tornasse, attese un segno da un mondo annegato, una speranza per un'umanità deludente. Guardava l'orizzonte tutto uguale intorno all'Arca. In quel silenzio immobile il tempo si ampliava, scherzava con le ore, con i giorni, li moltiplicava insieme alle paure di chi crede che sia la fine. Mosè dava alle sue speranze un appuntamento per il giorno dopo, ma invece della colomba si presentavano lo scoramento e la disillusione, come le spine di una rosa, facevano sanguinare una fede che troppo ingenuamente di quella rosa sentiva solo il profumo. -Dove sei? Sussurrava alla colomba... e forse alla sua fede. Dov'era la colomba? Dopo tanto volo finalmente un ulivo, finalmente un po' di riposo per le sue ali, che avevano accarezzato l'aria chiedendole la forza di sorreggerla, ma la fatica aveva trasformato il battito delle ali, le carezze delle piume, in schiaffi affaticati, nello sforzo di fare un metro in più, nello sforzo di uno sguardo quasi chiuso dalla stanchezza. Il verde delle foglioline fu una mano offerta da un

universo ancora vivo, nuovamente sveglio. Finché non esistono speranze concrete, i nostri nemici non si fanno avanti. Ritornano agguerriti di fronte ad un nostro salto in avanti, di fronte alla ribellione di chi non cede. I nostri nemici temono la nostra libertà, e quando essa compare, loro si armano. Uno stormo di corvi volò incontro alla colomba che stava poggiandosi su uno degli ulivi. Niente riposo, comprese subito la colomba. Niente ulivo minacciarono gracchiando i corvi, e volevano far pagare alla colomba il prezzo della speranza. Una colomba vola sola, perché essa è il cosmo intero, i corvi volano in gruppo come tante ombre di un mondo in frantumi. Una colomba vola verso il sole, i corvi volano quando le nuvole lo coprono. Una colomba è silenziosa, i corvi gracchiano. Il silenzio è un canto. Il gracchiare è un urlo. La colomba riuscì ad evitare gli assalti dei predatori, che come tante grida provenienti da un mondo caotico, reclamavano il loro dominio sull'armonia. Ogni loro attacco era lo spazio che l'incubo si ricava nei nostri sonni, era come il sudore che si appiccica ad una corsa altrimenti fresca. La colomba riuscì lo stesso a prendere un ramoscello d'ulivo, ma il suo peso, il peso delle speranze,

la rallentò, e per poco i corvi, le cui ombre ormai la sovrastavano, stavano per ucciderla, quando essa iniziò a volteggiare a spirale verso il sole, verso l'alto, evitando assalti eccessivamente sicuri. Sali colomba, sali! Con le foglie verdi distese dall'aria a farti da mantello. Seminò la nera rincorsa, e riprese il suo cammino verso l'Arca. Per questo ci aveva messo tanto a tornare: volando sempre più verso l'alto aveva aumentato la distanza da percorrere. Si posò di fronte allo sguardo commosso di Noè. Il suo volto deluso e vecchio si trasfigurò, e il suo sorriso gli restituì la ata giovinezza, ora animata da un futuro che bussava nuovamente al suo cuore. Prese il ramo d'ulivo, e seppe che le sue mani stavano cullando il destino del mondo, il perdono di Dio. Si accorse solo dopo un po' della piuma nera caduta dal ramo. La raccolse...e capì. Capì che, nonostante tutto, l'umanità non era cambiata.

BATTITI DI CUORE

Mille volte, o forse di più, aveva aperto il petto delle persone, mille volte, o forse di più, aveva operato cuori troppo malati per continuare a battere senza il suo aiuto.....e ormai da mille volte, o forse di più, la sua ione per questa missione aveva smesso di renderlo felice. Aveva conosciuto i punti deboli del corpo, ne aveva provato comione, li aveva guariti, ma il tempo è il punto debole che nessun dottore può guarire, perché il suo segreto non è scritto nei libri universitari su cui aveva studiato, e nessuno dei suoi maestri era stato in grado di dominarlo: il segreto del tempo è il suo scorrere, nascita e morte come soffi di vento che nulla può trattenere....e lui aveva iniziato a guardare al proprio bisturi come ad una matita che incide una linea grigia in un foglio infinitamente grande e bianco: aveva davvero senso continuare a tracciarla? A quel bianco così ignoto e anonimo importava di quella riga? C'era davvero qualcuno dietro quel mantello di carta a dare senso al tratto di matita? La risposta del dottore all'inizio era stata un sì deciso, ma il tempo scorreva anche per lui, e nel tempo, per i mille o forse più cuori curati, ne trovò mille o forse

più impossibili da curare...e dovette assistere a vedere scivolare via da loro il ritmo di quei battiti, con il loro sapore intenso di vita...e insieme ad essi vide scivolar via se stesso: successe a lui ciò che succede sempre a spiriti troppo sensibili ma al contempo privi di una propria fede: la verità delle cose, la gioia così come il dolore sono un peso troppo grande per chi non sa quale messaggio si nasconde in essi, fino al giorno in cui ti chiedi se esista davvero un messaggio, fino al giorno in cui non te lo chiedi più, e la risposta alla domanda di prima è no. Questo è il dottore che stiamo per incontrare.... -La sala tre è pronta, disse l'infermiera. -Perfetto. L'anestesista? Rispose distrattamente il dottore. -Sta già procedendo. -D'accordo, arrivo fra un minuto. Tornò in ufficio, ricontrollò la cartella della paziente, e si riconfermò in mente i aggi dell'intervento. Uscì in un corridoio così uguale a quelli di tutti gli ospedali, non tanto per le mura, o le sedie, o i pavimenti, ma per quella orribile luce al neon, così bianca e trasparente da sembrare l'essenza stessa del disinteresse verso il paziente, sembrava dire: “Non mi importa chi sei, se sei malato, se soffri, se hai paura, io non ti voglio conoscere, sto qui e illumino”.....ma non fa luce,

perché illuminare significa fare lo strumento, far luce vuol dire riscaldare, fare “caldo” ad una persona che in quel momento della sua vita ha “freddo”, dargli una speranza, fare in modo che nasca un sorriso per dimenticare in quell'unico istante la malattia, mentre la luce al neon te la ricorda. -Tutto pronto? chiese entrato in sala. -Sì dottore. -D'accordo cominciamo, bisturi... Doveva essere l'ennesima volta di un intervento che lui aveva praticato sempre senza particolari imprevisti, ma l'imprevisto si chiama così proprio perché non capita spesso...e questa volta per quella bradicardia grave.... Appena il cuore fu scoperto alla sua vista, con un battito così debole, sentì qualcosa dentro il suo di petto, e nel suo di battito, un che di irregolare, una sorta di rallentamento. “Che succedeva?!” Il suo battito si era regolarizzato su quello così debole della paziente... -Dottore tutto a posto? Sentì dire dal suo secondo. Si risvegliò dai suoi pensieri, e, come preso da una frenesia, capì per una sorta di consapevolezza interiore, che quella volta non si trattava di salvare solo la paziente, ma di salvare se stesso: se fosse

riuscito a rendere più forte quel cuore, anche il suo sarebbe tornato normale. Ma perché? A volte siamo certi di cose che non potremmo mai giustificare all'intelligenza di un altro, eppure ne siamo consapevoli e agiamo di conseguenza. Così fece di tutto per dare forza a quella donna, e lo fece nel più breve tempo possibile....più il suo cuore veniva messo a posto, più sentiva anche il normalizzarsi del proprio. Quando ebbe finito, l'infermiera, fu stupita da tanta fretta e al tempo stesso precisione. -Dottore, avete fatto un lavoro magnifico. -Grazie, rispose guardando un'ultima volta quel volto con gli occhi chiusi. Si sentiva così rilassato, e, ma non si sa come, proprio nel momento in cui sentiva questa nuova calma, vide disegnarsi un sorriso sulle labbra della donna addormentata. Impercettibile, ma reale ai suoi occhi. -Guardate tutti! Sta sorridendo. Lo esclamò rivolgendosi meravigliato a tutta l'equipe. -Io non vedo niente. -Neanch'io. -Io neanche. I suoi pensieri si confo nuovamente, e per calmarli non seppe reagire diversamente da così: -Basta! Pronunciò quasi ad alta voce.

-Non ne voglio sapere nulla, tornerò domani per visitarla una volta sveglia. E uscì come se non ci fosse qualcosa o qualcuno di sensato da cui congedarsi con un saluto. La mattina seguente andò verso la stanza della paziente, entrò e la trovò vuota. -Infermiera mi scusi, la paziente della 33 l'avete spostata? -No, ha voluto firmare per uscire e se n'è andata, non siamo riusciti a fermarla, le abbiamo detto che è pericoloso non riguardarsi, ma non ha voluto sentire ragioni, si è fatta dare dal medico del turno precedente a questo tutte le indicazioni farmacologiche per la convalescenza. -Ma come!? esclamò con una tristezza che meravigliò lui stesso: era preoccupato, ma non arrabbiato. Ripensando all'episodio della sala operatoria, irrazionalmente, gli venne da pensare che se non fosse stata attenta al suo cuore ci avrebbe rimesso anche lui. -Ha lasciato un recapito? Ha detto che tornerà per le visite di controllo? -Sì dottore, è segnato sulla sua cartella, come con tutti i pazienti, ha detto solo che non se la sentiva di dormire in ospedale perché dice che durante il sonno indotto dall'anestesia ha sentito un peso enorme e leggero al tempo stesso, che non la faceva respirare per quanto la faceva stare bene, e quando si è svegliata ha detto di cercare qualcuno ma non sapeva dire con precisione di chi si trattasse. Sembrava molto strana. Le ho detto che forse aveva fatto solo un bel sogno visto che

prima di svegliarsi sorrideva. Ma a quel punto è stato come se si fosse impaurita, e ha detto che doveva andarsene, voleva solo sapere a chi stava sorridendo...Che domanda è? Gli ho detto che non sono mica nei suoi sogni. -E poi? Chiese ansioso il dottore? -E' andata via, ma non si agiti, ha detto che avrebbe seguito alla lettera le istruzioni delle ricette e sarebbe tornata per le visite di controllo. -No, non tornerà, è fuggita come me dopo l'operazione” disse tra sé e sé. -Come dottore? -Scusi pensavo a voce alta.... Comunque non importa, la salute è sua, non voglio neanche sapere i giorni delle visite, falla controllare da un altro collega. Sono molto stanco, sarebbe stata l'ultima visita oggi, quindi vado. Non era solo stanco, era angosciato, ma perché? L'infermiera lo guardò attentamente. -Dottore non so di cosa lei sia preoccupato, e non so se neppure lei davvero lo sa, visto che è sempre più agitato per qualcosa, in ogni caso ho la sensazione che se non fe lei le visite a quella donna, sarebbe come fuggire un'altra volta, ho sentito quello che ha detto poco fa. -Le ho detto che non tornerà qui a farsi visitare. Ma che stava facendo? rispondeva a quella

considerazioni su cose totalmente folli! -Sono stanco di gente che ha sensazioni, presentimenti e cose varie oggi, arrivederci. Non aspettò che l'infermiera ricambiasse. Ci sono momenti nella vita in cui fuggire è vigliaccheria, altri in cui è prudenza, e raramente l'una è presente senza almeno un pizzico dell'altra, ma sta a noi decidere quale delle due prevalga. Di fronte a ciò che non è possibile spiegare e al tempo stesso ci coinvolge, ignorare o addirittura fuggire non è così strano, soprattutto per quel dottore, a tal punto abituato a non dar più valore alla vita, da non credere neppure più alla forza di certe emozioni: e quando esse sopraggiungono, non solo lo sorprendono, ma lo terrorizzano; e soprattutto per una ragazza così malata e abituata a non poter vivere forti emozioni, perché avrebbero potuto rendere il suo cuore già debole ancora più a rischio. Dunque, sia l'uno che l'altra, e per motivi che si completano a vicenda poiché uno ha la forza ma non la vita, l'altra ha la vita ma non la forza - fuggono. Del resto, non tutte le ioni di questo mondo sono soltanto una reazione affettiva a persone o eventi fortemente significativi per noi, in un modo o nell'altro. In certe occasioni le emozioni sono messaggere spudorate, che rivelano i veri significati di ciò che viviamo, e

rendono consapevoli di verità belle o brutte, ma in entrambi i casi scomode. Per chi come il dottore, non crede alla verità, quando questa si fa sentire, la reazione prevede tutto tranne che l'ascolto di ciò che quella stessa verità comunica. Per chi invece, come la donna, ha ancora una speranza, la paura nasce dal fatto che non c'è più solo la speranza, ma ciò in cui si spera si fa sentire con ancora maggior forza, e allora prendere veramente contatto fa paura, anche se si era già certi della sua esistenza. Qualche mese più tardi, quasi un anno, la mente impaurita del dottore era riuscita ad ingabbiare nel dimenticatoio quelle sensazioni, e a far sì che il tempo agisse sul suo cuore con un riposante oblio. Non che si fosse totalmente dimenticato di ciò che aveva vissuto, ma aveva preferito pensare che fosse stata una giornata diversa a causa di una particolare stanchezza, e che questa, di conseguenza, avesse ampliato la percezione degli eventi, dando peso a cose che non lo avevano. Inoltre non si era più ripetuto nulla del genere successivamente, quindi perché preoccuparsi? In realtà uno spirito come il suo faceva lo sforzo di dimenticare solo perché sentiva la presenza di ciò che era successo: negando non faceva che dare ragione al fatto che qualcosa di anomalo gli era capitato, ma non

sapeva comunque spiegarlo. Aveva quindi deciso di lasciarlo lì da parte...ma in una parte dentro di sé, che, per nascosta che fosse, non fece mai volare via. Seduto ad un tavolino di un Caffè del centro, in cui amava andare quando aveva un'intera mezza giornata a disposizione, dopo, o prima del lavoro, leggeva il giornale e beveva qualcosa. Sul tavolino poggiava di solito un libro che leggeva in quel periodo, e che avrebbe aperto appena finito il giornale. Così fece anche quel giorno d'autunno, abbastanza chiaro perché fe già troppo fresco, ma anche abbastanza scuro perché si potesse ammirare il sole. Ogni tanto alzava lo sguardo dal libro, e poteva capitare di guardare cadere una delle foglie color rosso o giallo dagli alberi: quei colori, così come il fatto che le foglie cadessero, lo mettevano a proprio agio: le sentiva affini al suo carattere malinconico, cioè vivo ma con una grande paura della felicità. Una foglia di una bella tonalità, ma cadente, era proprio questo per lui: la malinconia di una vita che non rinuncia a splendere anche se si avvia a morire stesa sull'asfalto. Si rallegrava inoltre al pensiero che insieme a tutte le altre cadute prima di lei, avrebbe dato anch'essa il suo contributo nel fare della terra uno splendido tappeto per i piedi dei anti. La fissava e rifletteva per un po' a

queste cose, o meglio più che rifletterci come la prima volta che gli erano venute in mente, ormai le sentiva e basta. Faceva un piccolo sorriso tra sé e sé, e riprendeva a leggere. Lui sapeva bene che a quel punto non leggeva veramente, piuttosto assaporava lento la lettura per accompagnare la piacevolezza dello scorrere di quegli attimi così tranquilli....e tanto era il piacere a volte, che chiudeva gli occhi per interiorizzare meglio tutto quel rilassamento. Anche questa volta aveva chiuso un istante gli occhi quando il cuore gli iniziò a battere fortissimo. Aprì gli occhi di colpo e si ritrovò a guardare di fronte a sé, verso un tavolino che era proprio davanti al suo. -Salve, mi scusi se la disturbo, ma non ho potuto fare a meno di notare che sta leggendo lo stesso libro che ho portato oggi con me, e che lo accompagna con lo stesso coktail, inoltre siamo allo stesso bar...beh insomma un bel po' di coincidenze, ho pensato meritassero una presentazione. La donna seduta di fronte a lui disse tutto questo con un sorriso che faceva fatica a nascondere una grande agitazione, a nascondere l'ansia per i ricordi che nei suoi battiti erano nascosti. Lui aveva sempre apprezzato le donne dinamiche, gli facevano capire subito che erano interessate,

ma lui poteva giocare a corteggiarle ugualmente, solo con più tranquillità sul risultato, ma era anche dubbioso su questo modo di fare, convinto com'era fosse l'uomo a dover fare il primo o: residui di maschilismo o autentica visione del mondo. Lui fece un cenno di cortesia con un piccolo sorriso, mostrandole di essere complice di quella considerazione: -Direi che meriterebbero anche una condivisione delle opinioni riguardo a questo evento. -Mi farebbe piacere.” rispose lei, calmando l'ansia di aver dovuto cominciare a parlare. -Si parla meglio allo stesso tavolo, non crede? Il dottore accennò con lo sguardo alla sedia vuota del proprio tavolino. -Non mi sarei permessa di chiederlo, ma volentieri, e si alzò cercando di non apparire impacciata dirigendosi da lui. -Mi dica la verità. Iniziò a parlare il dottore dopo un attimo in cui si erano osservati in silenzio e un po' imbarazzati, rendendosi entrambi conto che ognuno dei due si sentiva troppo contento di quell'incontro per far sembrare la cosa innocente come loro volevano credere. So che come prima domanda può non essere opportuna, ma lei, sia da come mi ha rivolto parola, sia per come si è

mossa arrivando qui a sedersi, mi sembra troppo timida, anche se non in apparenza, per fare lo sforzo con se stessa di rivolgere parola ad un estraneo solo per delle coincidenze. La mia idea è che lei non crede, non dico alle coincidenze in generale, ma a quelle di oggi no di certo, perché dunque avvicinarsi a me? La frase poteva sembrare eccessiva nella sua sincerità, addirittura un modo per dissacrare e smascherare l'indiscrezione di quella donna estranea, ma lo disse con una tale sottile ironia delle labbra e delle sopracciglia, che si muovevano per fare da contorno alla sua considerazione, che lei rispose senza soggezione: -Lei è molto intelligente. E' vero, sono timida, abbastanza perché anche chi non è attento ai dettagli lo noti, e certo non mi bastano una o due coincidenze per disturbare uno sconosciuto. Lui la interruppe con sguardo provocatorio: -Beh forse ha anche considerato che sono uno sconosciuto piuttosto bello. -Non sia impertinente, replicò lei con una smorfia che fingeva sdegno, ma rivelava un pudore lusingato. -Perché dunque questo disturbo? E le garantisco che solo lei lo chiamerebbe così, sorrise il dottore. -Come le ho detto lei è intelligente, ma anch'io sono attenta ai dettagli e lei è nervoso quanto me per

un motivo più profondo di quello che potrebbe scatenare in un uomo adulto l'avvicinarsi di una donna perlomeno non brutta. Quest'ultima cosa la disse con una leggera malizia per ricambiare la battuta di lui. -Ha ragione. -Allora è vero, c'è un motivo più profondo? -No, intendevo sul fatto che lei non è brutta. Disse continuando a giocare con le parole per evadere senza troppa convinzione dall'osservazione di quella donna. -Allora su, mi dica il motivo per cui è nervoso. -Non si nasconda nel fatto che io ho i miei segreti, per evitare di rivelare i suoi. Segreti, tra l'altro, che l'hanno spinta qui, quindi parli lei per prima, e se sentirò di poterlo fare, io le dirò perché sono un po' agitato. -In fondo perché tergiversare? Affermò lei, scurendosi un po' in volto, ma assumendo anche un velo di sollievo, quel sollievo di chi, pur non sapendo perché, sente che si sta liberando di un peso, o meglio, di chi sta chiarendo una parte di sé a se stessa. Riprese lei: -Vede, l'ho osservata per un po'. Faceva fatica a parlare speditamente: l'interiorità non mostra mai il volto completamente, e prima di uscire di casa si regge anche con le unghie ai

lati della porta, guardando con rammarico al comodo nascondiglio del silenzio che sta per lasciare. -Più la osservavo più mi tornava in mente un sogno che ho fatto quasi un anno fa ormai. -Spero un bel sogno.” Disse piano il dottore -Non saprei, ma aspetti che finisco il racconto. Mi trovavo, a causa di una malattia al cuore, ad essere operata, sempre in questa città, e mentre ero addormentata e mi operavano, mi sono sentita leggerissima, quasi come se avessi trovato la metà persa con la malattia, quell'io fatto di mille possibilità mai realizzate per colpa del cuore, come se tutte le rinunce fino a quel momento fatte svanissero, e fossero raccolte davanti a me perché io potessi dir loro addio. -Credo siano sogni normali che l'ansia dell'operazione può suscitare. -La prego mi lasci finire, disse lei con un sorriso accondiscendente. -Mi scusi. -Non è stato solo una bella sensazione. Quando mi sono svegliata, mi sono sentita di dover cercare qualcuno o qualcosa che mi aveva liberata dalle catene e reso la vita, e soprattutto la speranza, Chiesi all'infermiera se qualcuno mi avesse fatto visita e parlato dopo l'operazione, mentre ero ancora addormentata, magari un'amica, ma l'infermiera mi disse di no. Non so spiegarle perché, ma

in quel momento il mio cuore si è fatto così pesante. -Potrebbero semplicemente essere i postumi dell'operazione. -E' diventato pesante, continuò lei ignorando il suo commento, -in corrispondenza di un'ansia fortissima, sentivo il peso dell'assenza di qualcuno, ed era un silenzio assordante, ho sentito di dover andar via da quel posto, perché lì era successo qualcosa che mi aveva reso felice, non saprei dire cosa, e poi questo qualcosa non era lì al momento del risveglio. Appena mi sono sentita più in forze ho preferito lasciare l'ospedale. Il dottore aveva cercato di interrompere con qualche ipotesi il racconto perché aveva paura di ciò che riaffiorava dentro di lui, aveva paura di quelle coincidenze con la sua ata paziente, e più il racconto proseguiva, più quella donna che aveva davanti iniziava ad apparirgli simile alla donna che aveva operato tempo addietro. -Io cosa c'entro con tutto questo? -Lei mi ha ricordato quella sensazione di leggerezza che ho avuto nel sogno durante l'operazione, e, so che è irrazionale, ma ho sentito di dovermi avvicinare sperando che cessasse l'agitazione. Il volto del dottore si fece serio, aveva deciso di non voler più evitare di prendere seriamente la cosa.

-Mi ascolti, io sono un dottore, per essere esatti un cardio-chirurgo, e circa un anno fa, diciamo poco meno, mi trovai a dover operare una paziente che soffriva di brachicardia. Durante l'intervento mi successe qualcosa di strano, che ho sempre cercato di rimuovere, ma anche adesso mi provoca una fortissima inquietudine: mentre operavo, nel momento in cui vidi quel cuore così debole, fu come se il mio perdesse forza con lui, fino al punto in cui sentii i miei battiti in sintonia con quelli di quel cuore. -Forse è una cosa automatica seguire il ritmo di ciò che sentiamo, sarebbe capitato a chiunque, disse lei ironicamente per ricambiare le battute fatte da lui precedentemente. Il dottore accennò un sorriso divertito, ma si capiva che voleva continuare a parlare. -Dovetti procedere il più in fretta possibile, come se sentissi che potessi star meglio solo facendo star meglio quel cuore... e quando tutto fu finito, il mio e il suo battito andavano ancora all'unisono ed erano più forti insieme. -E poi cosa fece? Chiese lei senza più nascondere un personale coinvolgimento in quella storia. -Volli guardarla in volto prima di uscire dalla sala operatoria, e quando lo feci, vidi che le labbra accennavano un piccolo sorriso che mi meravigliò.

-Le nostre storie sembrano combaciare alla perfezione ma sono sicura che lei conosceva bene la sua paziente prima di operarla. Uscì tutto velocemente, e sperando tanto nell'impossibile: che lui dicesse di no... E così disse! -Quel giorno dovetti sostituire d'urgenza il collega che aveva in cura quella donna. -Ma allora... cercò di intervenire lei..., e i loro cuori, senza che loro lo sapessero, andavano nuovamente all'unisono. -Allora potrei invitarla a cena, il sole sta tramontando e io avrei appetito, se lei fosse libera sarei contento. Il dottore aveva capito tutto ciò che c'era da capire e non voleva parlarne più. -Sa, disse lei, -mentre parlavo avevo l'impressione che lei avesse interesse a girare attorno al discorso, per evitarlo: sembrava come vedere una persona da lontano, finché non si avvicina c'è sempre un minimo dubbio se sia la persona riconosciuta o no. Lei parlò più per tranquillizzare se stessa che con lui. -Ma io non le ho ancora confermato di essere quel dottore. -No infatti, ma il sole fa più luce proprio al tramonto e io ora vedo tutto benissimo. Lui le vide formarsi sul viso quel sorriso che non aveva mai dimenticato...

ANGELI CUSTODI

Nevicava. Nevicava sempre quell'inverno, su quelle montagne, su quel sentiero scosceso, l'unico, che conduceva alla chiesa dell'eremita. I i del facchino erano esperti, apparteneva a quella montagna tanto quanto quei gradini scavati nella roccia, tanto quanto il vento che salutava le cime. Eppure, pensava il facchino, eppure non era giusto fare quel percorso: l'eremita doveva comprare quello di cui aveva bisogno come tutti. Voleva fare l'eremita, bene, voleva stare lontano dagli altri, bene, ma allora non poteva servirsi degli altri per il cibo, abitando in quella parte scoscesa e solitaria della montagna. Perché allora si era offerto volontario quando, come ogni mese, il principale del supermercato aveva chiesto chi volesse andare a consegnare il cibo al vecchio monaco? Forse proprio perché non era giusto, perché voleva dirglielo in faccia. Ogni scalino, però, ogni sferzata di vento, lo convincevano che non era poi così folle vivere lassù, dove la verità delle cose è gelata, immediata, ti ghiaccia il volto, ti affanna, ti fa scivolare, ti ricorda

che solo salendo si conquista qualcosa. Si fermò un attimo a riprendere fiato, e concesse al suo sguardo di divagarsi sul paesaggio, dopo aver poggiato il sacco con le provviste. Sì, decise tra sé e sé, qui ci si riappacifica con le difficoltà, invece che sentirsene oppressi. Per questo l'eremita ha il coraggio di vivere quassù, perché è questo luogo a dargli il coraggio. In fondo anche lui si era offerto senza paura del percorso e del tempo: quelle montagne danno coraggio. Sentendosi ripagato della propria scelta, e avendo ormai perdonato dentro di sé l'eremita, riprese il sacco e ricominciò l'ascesa. La porta della chiesetta affacciata sul nulla era di legno antico quanto la creazione, pensò il facchino. Quasi si sentì in colpa a colpirla con il pugno per bussare. Bussò ancora, dopo aver atteso un po' senza che succedesse alcunché, e fu sorpreso quando il legno pesante si mosse, non avendo sentito nessuno arrivare alla porta dall'interno. Osservò il volto scavato dell'eremita. Ne fu colpito perché la serenità emanata dalla sua persona rendeva la sua vecchiaia più giovane. -Salve, sono qui per le provviste. L'eremita però non rispose, si limitò ad assentire con un cenno del capo, poi si girò e camminò

verso il balcone della chiesetta, la cui balaustra era unita al soffitto da colonne. Sentì di aver ottenuto il permesso di entrare per poggiare il sacco. L'ambiente non era più ampio di un piccolo salone. Notò un altare ricavato dalla parete, anch'essa di roccia, un letto che consisteva in un rettangolo di pietra con della paglia poggiata sopra insieme ad un cuscino. Un tavolo e una sedia, entrambi di legno, era addossati alla parte della porta, tra questa e il balcone. Un piccolo camino, sufficiente comunque per quello spazio, era sulla medesima parete, tra la porta e l'altare. Era tutto così semplice che i pochi dettagli erano ancora più evidenti. Dei libri sul tavolo, un crocifisso sulla parete di fronte alla porta. Nel tempo che ci aveva messo ad osservare l'eremita era ritornato a sedersi di fronte al balcone, con lo sguardo perso sul mondo silenzioso e innevato. Non si era accorto dei suoi i, del resto era così minuta la sua figura che il suo peso sulla pietra era inavvertibile. -Le ho lasciato vicino al tavolo le provviste. Ancora una volta la risposta non arrivò. Adesso basta, pensò, chi crede di essere, sta qui chiuso da talmente tanto tempo che non ricorda più com'è il percorso per arrivarci?

-Senta, lo sa che essere un monaco non mi impedisce di dirle che lei è davvero maleducato. Un grazie dopo tutto questo percorso e con questo tempo lo potrebbe pure dire. Mentre lo disse pensò che non avrebbe avuto risposta neppure in quel caso, e invece... -Non sto mancando di rispetto a te, sto rispettando il silenzio. Vuoi ascoltarlo? Fu il facchino a non rispondere questa volta. Pensò all'offerta, e si sedette a fianco dell'eremita. La sua rabbia? Si era accomodata anch'essa a vedere il paesaggio. -Prima di rispettare il silenzio, deve ringraziare per il lavoro. -Grazie, disse l'eremita senza guardarlo. Era sincero. Stettero in silenziosa contemplazione della neve che cadeva, del vento che chiamava, del tempo che si fermava, e di loro stessi, che pregavano semplicemente perché vivevano. Il tempo ricominciò a scorrere quando il facchino concesse al monaco: -Sa rendere onore alle cose. -Tu non sai farlo? -Le rispetto, ma dall'esterno, ne vedo e ammiro la bellezza, ma se esse abbiano uno spirito e come esso sia, non lo so, e non saprei rispettarlo. -Sai parlare bene di quello che non sai, però. -A forza di non saperlo. -Perché vivi tra questi monti? “L'eremita cambiava argomento?”

-E lei? -Come prima mi hai fatto notare, si deve rispondere, e rispondere con una domanda ad una domanda significa evadere. -Ha ragione. Vivo qui perché questi posti parlano, mi comunicano pace. Lei? Perché una scelta così radicale? Lei non vive tra le montagne, lei ci vive sopra. Non è troppo? La sua domanda era quasi un'accusa, un'accusa alla risposta che si aspettava di ricevere. La fede gli avrebbe detto. E infatti lo disse, ma la giustificazione che ne dette lo stupì. -Per fede, per il mio modo di vivere la fede. Tu sei credente? -In quello che sento. -Quindi anche in quello che ti dicono le cose? Hai detto che ti comunicano un senso. -No, ho detto che comunicano, se quello che mi comunicano fosse così chiaro, sensato, io non sarei qui incuriosito a guardare questo vuoto colorato di bianco, e opaco come le mie opinioni su qualsiasi Dio lei pensa che esista e debba essere glorificato da uno stile di vita difficile, e forse inutile, se mi permette. L'accusa era diventata un vero tribunale, dove l'imputato non era l'eremita, ma la fede, e l'eremita era l'avvocato difensore. Il facchino era il procuratore e, per auto-nomina, giudice.

-Ti sei già permesso. Commentò sorridendo l'eremita. Il vento ò tra le loro guance, portando con sé il freddo del clima, e ricevendone in cambio il freddo di quella ostilità così poco celata nella voce del facchino. -Anch'io credo nelle cose. Riprese l'eremita. -Come te credo nella neve, credo in questi monti. Credo che in essi ci sia un messaggio. Parlano come dici te. Ti sei mai chiesto cosa dicono? -Non penso che la natura parli come parliamo noi, non dice, in senso letterale, solo ci fa sapere che siamo vivi. -Perché in essa c'è la vita. -Sì. -Quindi credi nella vita? -Sì, credo in quello che sento, e la sento. -Quindi credi nella cose, nella vita che c'è in esse. Io credo pure nell'origine della loro vita. -E' quest'origine a chiederti di chiuderti qui? -Perché io sono forse più degno di tutti questi monti messi insieme? Di tutto questo vento? Di tutta questa neve? Di tutti gli animali che abitano questi luoghi? Loro sono tutti qui. -Un uomo lo è? Più degno? -Un uomo lo è solo se dimostra di custodire tutto quello che vale meno di lui, e che gli è stato

donato. -A lei sono state donate queste cose? -Voglio raccontarti una storia. Si dice che non sia solo Dio a soffrire per come gli uomini si comportano, ma anche gli angeli, soprattutto gli angeli custodi, che sono quelli a noi più vicini. Non vogliono però mostrarsi a Dio in quel modo, così si nascondono tra le nuvole, e piangono. Il loro pianto è la nostra pioggia. Tutti gli angeli custodi rimasti senza la persona a cui erano stati destinati, si sentono soli dopo la sua morte, una solitudine fredda, e per non rimanere così, si fanno forza unendo le nuvole in cui piangono, facendo diventare il cielo coperto totalmente da nuvole gelate dalla loro solitudine. Il loro dolore diventa neve, cioè lacrime ghiacciate. A volte piangono meno, e allora la neve si scioglie sulla roccia di questi monti, che in quel momento sembrano i volti stessi degli angeli bagnati dalle lacrime. A volte piangono di più e allora la neve ricopre totalmente queste cime soffocandone il pianto in una maschera di cristallo bianco, dove il dolore degli angeli rimane immobilizzato per sempre. -Perché Dio permetterebbe questa sofferenza? -Gli angeli nascono per servire, quando non possono far più nulla per noi, Dio concede loro di

lasciare anch'essi un ricordo sulla terra, cioè la neve. Così gli uomini che vedono nevicare sapranno per sempre che la loro vita non andrà mai perduta, ci sarà sempre un angelo a ricordarli. Chi muore solo, non è solo, il suo angelo è con lui, e lo piangerà. Il rumore che voi chiamate il rumore del vento, è il suono prodotto dal coro angelico nel suo pianto celeste. -E lei perché è qui? E' ancora vivo, e il suo angelo non dovrebbe ancora piangere. -Io non ho un angelo. -Come? Non lo abbiamo tutti? -Sì, io sono il tuo, un giorno piangerò per te. -Cosa? Era attonito. Forse rimanere qui al freddo e da solo questi anni le ha tolto la lucidità. -Sono qui per ricordarti che sono con te. -D'accordo, avevo avuto l'impressione che lei fosse una persona assennata, ma non è così. Si alzò. -Le auguro di ritornare alla realtà. Non erò più a portarle le provviste. Ormai era alla porta, guardò la sua schiena ostinatamente rivolta verso di lui. Non rispondeva. Tentò ancora: -La saluto. Ancora nulla. E' proprio andato pensò. L'eremita piangeva, non poteva dire più di quanto gli era stato concesso, gli angeli custodi non possono comunicare direttamente, possono solo proteggere.

Ormai il facchino era sui primi gradini della discesa, ma girò e andò di corsa verso la porta, che prese a pugni urlando: -Mi senti? Sei pazzo! Che diritto hai di far sentire un uomo meno solo con una bugia, mi fai schifo! Lo dirò a tutti! Anzi no! Non lo dirò a nessuno, non ti permetterò di spargere la tua bugia tramite me! Il facchino non sentì più parlare dell'eremita, ne volle informarsi. arono anni, decenni. Il facchino fu seppellito nel cimitero del piccolo paesino sui monti. Quel giorno nevicò.

LA COLOMBA E IL CORVO

Quella ragazza la chiamavano Colomba. Perché era ingenua, perché era pura, perché era buona. Per lei l'amore era sempre stato un incontro nato bene, sperato molto, ma finito nel nulla. L'amore nel suo cuore era un sogno che il vento faceva scivolare ogni volta via sulle acque della vita. Sempre “la prossima volta andrà meglio”, si diceva. Mai oggi. Oggi, invece, era la parola d'ordine della vita del Corvo, un ragazzo della stessa città. Lo chiamavano così perché si accontentava di essere lo sfogo di ragazze che si erano lasciate da poco, come un corvo che si ciba degli avanzi, trasformandosi in avanzo egli stesso. Un giorno la Colomba e il Corvo volarono vicini. Lei fu conquistata dalla sua fame, dalla sua impetuosità, dalla sua rabbia, e come tutto ciò che è bianco, dimentica che la vita è anche nera; al contrario del nero, che non vede l'ora di poter sporcare il bianco. Ci fu un bacio, fugace, poi il corvo, accorgendosi che non avrebbe avuto di più, salutò quell'ennesimo oggi, accampando una scusa. Colomba invece salutò l'ennesima speranza rimandata. Delusa da se stessa, decise di volare

più basso. Non voleva più aspettare che gli altri si fero avanti per mettere a suo agio la sua timidezza eccessiva. Si convinse di dover rincorrere quel corvo, a cui era stata indifferente, di dover fare la crocerossina, sporcarsi, se voleva essere davvero felice in un mondo che non è sempre bianco. L'illusione, purtroppo, è di credere che l'amore renda uguali al ribasso, che invece di far diventare bianco il nero, invece di migliorare il corvo e trasformarlo in colomba, renda nero il bianco, basta che si diventi uguali. Questo non è amore, ma una stretta di mano tra l'ingenuità dell'una con l'egoismo dell'altro. Colomba entrò in una relazione che le avrebbe fatto rimpiangere la solitudine di mille speranze disattese, ebbe il suo oggi, il suo ora, ma era l'ora dei lividi. Un'omissione che la voci le avevano taciuto. Il Corvo lo chiamavano così anche perché menava le sue ragazze, lasciando loro dei lividi neri. Così anche le piume della colomba si tinsero di nero, nero di dolore, nero di tristezza, nero di occhiali scuri per nascondere occhiaie e occhi gonfi. Nero di vestiti che così meglio coprivano macchie di sangue che non andavano via. Colomba ancora innamorata, invece di guardare il nero, guardava il bianco che non c'era, invece di

vedere le proprie ali spezzate, vedeva le ali che avrebbe potuto donare al Corvo. Finché un giorno non rimase nulla di bianco in lei, tranne le pupille dilatate dalla paura, tranne l'intonaco della parete che fissava inebetita dopo mesi di agonia. Il Corvo non aveva più nulla da rubarle, se non il resto dei suoi giorni come serva. Sicuro di sé come ogni insicuro, un giorno lasciò la gabbia aperta, e lei volò via. Il Corvo rimase nero, ora anche di rabbia. Lei ritornò bianca? Non subito, un po' di nero non andava via, era la voglia di vendicarsi. Fortunatamente il suo cuore si era allontanato abbastanza presto da quella condizione, per ritornare quello che era un tempo, per smettere di pensare alla vendetta, chiedendo invece giustizia. Ora il suo bianco splendeva come la luce, perché era rimasto bianco anche vicino al nero. Ora volava ancora più in alto.

CERVO BIANCO

Una legenda è come un'immagine riflessa nell'acqua di un lago. Chi non ci crede, deve dimostrare com'è possibile che l'immagine la veda chiunque, chi ci crede deve dimostrare com'è possibile che cercando di afferrarla, si afferra solo acqua. In quei boschi, alcuni dissero di aver visto il cervo bianco, altri dissero di non averlo mai visto. Chi lo vide era pazzo? Oppure un profeta? Un folle? Un sacerdote? Un testimone? No, solo persone che credevano. Esse custodivano nel cuore l'eterna verità che ogni credente sa, che se si crede a qualcuno, non servono dimostrazioni, serve fede, e speranza. Esse speravano. Tra coloro che non credevano, però, c'era il rispetto per la fede degli altri, e decisero, tutti, che non avrebbero mai cacciato il cervo bianco, se mai qualcuno lo avesse visto. Una legenda però è come il vento, va lontano e soffia anche nelle orecchie più indegne. Alcuni bracconieri presero le armi e cercarono il cervo bianco, e a chiunque pregasse loro di non ucciderlo, loro rispondevano: -E' solo un animale, perché gli altri cervi possono essere sacrificati e lui no?

-Lui è più di un cervo! Fu la risposta. -E perché? Chiedevano i bracconieri. -Perché lui è rappresenta la nostra fede, la nostra speranza. Non potete. -Affidatevi a qualcos'altro, invece che a un animale! Non avevano capito nulla, non sapevano che il cuore dell'uomo non crede perché esiste un cervo, ma il cervo esiste perché l'uomo crede, e non smetterebbe mai di credere. Se non al cervo, crederebbe a qualcos'altro. Quando c'è un uomo c'è qualcosa in cui crede. Continuarono la caccia, e ogni sera chiudevano i loro occhi cechi. Più non lo trovavano, più diventavano cechi, più non lo trovavano, più chi credeva credette di più, e tra quelli che solo rispettavano, il rispetto quasi divenne fede. -Non lo troverete mai. -Forse, ma se sarà così, vorrà dire solo che non esiste. L'ennesima alba avrebbe portato l'ennesima delusione? Non quella volta. Il cervo li guardò, da lontano, ma non tanto da non essere colpito con i fucili. Se tuttavia il cervo era a distanza del loro fucile, loro erano a distanza del suo sguardo, sereno, fiero, antico come quei boschi, libero... e vero. -Ci ha visto e non se ne va, è pure stupido. Ragionò a voce alta il primo tiratore. -No, tu lo sei, guarda attentamente, è come se ci stesse dicendo che noi non

abbiamo visto lui per tutto questo tempo, ma lui vedeva noi, e oggi ha deciso di farsi vedere. L'occhio del cacciatore allora si fa più attento, nel mirino non c'è più una preda. L'esitazione è il primo o della fede. Intanto gli abitanti, informati da uno dei bracconieri che il cervo era stato trovato, accorsero, e presto li raggiunsero, però non videro nulla. -Come non vedete? Esclamò spazientito il capo dei bracconieri, -Ho appena impedito a uno dei miei di sparare! -No, niente. Risposero tranquillamente. -Lì! Indicavano i bracconieri. -Lì! Continuarono a indicare finché uno dei credenti non li fermò, e disse loro: -Non abbiamo bisogno di vedere, noi già ci crediamo, voi ne avevate bisogno, e lui si è mostrato. I bracconieri non videro più il cervo bianco, ma non dimenticarono mai... e ci credettero.

ANGELI INNAMORATI

Custodi. Questo sono gli angeli. Dall'eternità vegliano su gli uomini, ognuno su uno diverso. Si dice che una persona diventi infelice solo quando il suo angelo si distrae, quando volge lo sguardo altrove, e allora la persona cade: tanto sono potenti gli angeli, tanta è la loro responsabilità. Come le persone si incontrano, così li angeli custodi si incontrano, si conoscono, e a volte...anche loro si amano. Non dovrebbero, non è previsto, perché li distrae dal loro compito, annulla quello che sono, dei servitori. Servi dell'amore, non protagonisti dell'amore. Se ciò accade, se essi si amano, nulla possono nascondere al loro padre nel cielo. Egli, il Padre, infatti li vide. Vide le loro ali allontanarli dagli uomini, vide la loro attenzione concentrarsi su altri angeli, vide la loro luce diventare meno chiara, riflettere meno la Sua, così li convocò. -Angeli, disse, -perché abbandonate le persone che vi ho affidato? Perché disobbedite all'amore che io ho per loro, a cui per protezione ho inviato voi? Non vi sembra più degno, come una volta,

proteggere i miei figli, custodirli? A queste domande sofferenti, gli angeli innamorati non seppero che rispondere, ma uno di loro, il più innamorato di tutti, stringendo le ali attorno all'angelo donna da lui amato, avvicinò la propria luce a quella di Dio, e disse: -Signore, re del cielo, la verità è la tua parola, hai ragione a domandare, ma so anche che ti aspettavi che ciò sarebbe successo. Ci hai dato occhi che squarciano il buio, cuori che battono per il bene, le nostre ali sferzano l'aria del paradiso e coprono come mantelli le spalle fragili degli uomini, noi combatteremo per loro una battaglia fino alla fine dei tempi. Il vento del tuo Spirito soffia attraverso il nostro volo, come te Signore, soffriamo per le ingiustizie, cerchiamo di indicare il bene, di conciliare la felicità con la giustizia, la morte con la fede, diamo la nostra benedizione alle mani che in preghiera che ti supplicano, noi siamo dove gli uomini si amano, noi siamo dove smettono di amarsi, per convincerli a tornare sui loro i, noi siamo con loro, e loro imparano da noi. Noi però Signore, anche noi, come possiamo non imparare da loro? Da loro che Tu ami più di tutto il creato, da loro in cui ti sei incarnato, da coloro i quali tu unisci in matrimonio. Loro si sposano Signore, e

tu benedici e unisci l'amore di due persone, e loro non ti amano meno per questo, anzi ti amano di più, vogliono che tu li unisca con una forza che loro non hanno, con una forza in cui loro credono, con la tua forza. Vogliono rendere sacro l'amore reciproco tra di loro. Te chiamano per far questo, a te si appellano i cuori che si innamorano, “rendi sacro” dicono, “rendi eterno” implorano, “il nostro amore, oltre la morte” continuano. Tu questo vuoi per loro Signore, ma per noi? Per noi non potresti volere la stessa cosa? Anche noi ti ameremmo, dona anche a noi una felicità maggiore, e saremmo servitori anche migliori di quello che siamo. La nostra luce non si spegnerà perché è la tua luce, nella tua luce ci siamo conosciuti noi angeli, nella luce del tuo amore per gli uomini noi impariamo ad amare, nella luce dell'amore che loro provano sposandosi noi abbiamo imparato ad amarci, cosa c'è di male in questo Signore. Ci hai creato immortali, ma un'immortalità senza amore non ci sembra di poterla più vivere, e al tempo stesso non vogliamo l'amore senza l'eternità della tua approvazione, il tuo sì sarà il nostro matrimonio, il tuo no avrà il nostro rispetto, e la nostra più assoluta obbedienza. Qui, umili, pronti ad accettare tutto quello che Tu decidi, proprio perché sei Tu, noi ti imploriamo di riconoscere l'amore che ci hai donato di provare.

Silenzio. Così parla il Signore, con il silenzio del suo sguardo, e con esso osservava gli angeli chini sulle ginocchia, le ali richiuse su se stessi. -Il segreto della creazione, è nel mio amore, disse, -se guardaste in esso, potreste osservare i miei piani, potreste vedere le cose come io le vedo. Avete visto quanto amo l'umo, avete visto come approvo l'amore che loro provano a vicenda, avete imparato che l'amore cresce, che non è una cosa che si può guardare e rimanere neutrali, avete visto che l'amore è sempre un maestro che ci precede nella felicità, avete visto che l'eternità è tale solo se innamorata. Io sono eterno, perché Io sono amore. Non potrei altrimenti aver creato nulla, non potrei altrimenti salvare nessuno. Non chiedetemi perciò di approvare ciò che in cuor vostro sapere appartenervi, perché ve l'ho già donato. Amatevi, poiché io sono Dio, poiché io sono l'Amore, poiché io sono. Non potreste riuscire a non amarvi. Un amore a cui Dio non dice sì, forse è amore, ma non durerà in eterno. Si dice che gli angeli che ancora non siano innamorati, cerchino inutilmente di scoprire quanto duri l'eternità. Si dice che gli angeli innamorati sappiano cos'è l'eternità. Così gli angeli si sposarono, si sposarono in quella chiesa chiamata cielo, di

fronte a quel sacerdote chiamato Dio.

CAMMINO SEGRETO

Sentiero. Un sentiero porta sempre da qualche parte, e pure non è questo quello che affascina. Di un sentiero piace sempre l'inizio, ci ricorda qualcosa, la nostra origine forse, la nostalgia per qualche sogno mai realizzato, o ci trasmette una pace che le giornate non hanno. Un sentiero è un sogno che sta sempre per iniziare, che non finisce mai. Non importa dove conduca, importa che tu voglia sognare, che tu voglia andare in un mondo che non ho potuto vivere, o che possa ritornare in un ato troppo felice per lasciarlo sfumare in una memoria sempre più sfocata. Lontano. Porta sempre lontano un sentiero. Laggiù. Dove? Non è dato sapere; ma promette, un sentiero promette sempre. Promette di portarti dove l'incanto esiste, dove la felicità e già tua, dove la paura non riesce ad entrare. Davanti a un bosco, un sentiero è sempre nei boschi. Prima non c'è nulla, è tutto senza alberi, è tutto senz'ombra, è tutto vuoto. Poi il bosco. Poi il sentiero. Poi tu, la tua vita, i tuoi sorrisi, le lacrime, i ricordi, le speranze. Chi entra in un sentiero ha fede in questa promessa. Cammini, cammini, non sai

per quanto, non sai per dove, non sai perché, alla fine non sa più chi sei, sai solo che così facendo ti senti felice. Più cammini più i posti sono vivi, più cammina più i posti sono i tuoi posti, sono luoghi che ti appartengono da sempre, non parli con nessuno, ma sei in comunicazione con tutto. Poggi la mano su un albero, avvicini il piede ad un sasso. Qui tutto sembra già scritto, il destino è un sorriso che ci aspetta ad una fine che non vorresti arrivasse mai. Già, non arriva mai. Non può arrivare la fine. Non può, se tu non dici la parola fine, se non smetti di sognare e non cominci a vivere, se non ti accorgi che stai in un sogno sì, ma in un sogno si sta sempre da soli, in un sogno l'amore è illusione, in un sogno il sentiero è infinito perché non ci sono decisioni che contano i i, non ci sono sentimenti che diventano ricordi, non c'è il tempo di essere qualcuno, è un sogno, solo un sogno in cui potresti essere qualcuno, ma non lo sei mai se non ami. Ecco che il sogno diventa angoscia, il sentiero una strada stretta, gli alberi ai lati dei custodi ostili, il destino una catena. Allora capisci, capisci che in quel sentiero non c'è fine, che non devi andare avanti, che andare avanti significa fuggire, che la meta è alle tue spalle, che tornare indietro vuol

dire salvarsi, vuol dire ricominciare, vuol dire ritornare a vivere. Ti giri e corri, pestando senza rispetto quello che prima evitavi, urtando rami e ricordi, non guardando più nulla, pensando solo a tutto quello che hai perso pur di sognare, sognare e basta. Ma ormai non hai più bisogno di correre, chi sa che deve vivere è già arrivato, è già sveglio, già sai che la vita è l'unico sogno che può essere vissuto, già sai che tutti gli altri sogni sono solo illusioni.

BACIO DI FIORI

Dio volle baciare la vita, così, dopo averla creata e per completare veramente l'universo, creò l'uomo. Era la cosa più bella che il cosmo avesse mai visto, una creatura straordinaria, ancora senza macchia... Dio si innamorò della sua creatura, per questo, dopo aver baciato la vita con l'uomo, volle baciare anche l'uomo e creò la donna! Ma l'uomo, anch'egli folle d'amore per il suo Dio, pensò si trattasse di un fardello e disse a suo Padre: -Così la mia vita è appesantita! Ma il Padre suo gli rispose: -E' frutto del mio amore per te, aspetta prima di giudicare. L'uomo aspettò e visse con lei i momenti più belli, più autentici, che l'anima di una persona possa provare. Così decise che fosse giusto donarsi tutto a quella meravigliosa creatura, andò da suo Padre e gli chiese: -Padre, come tu hai baciato la vita creandomi, come tu hai baciato me creando lei, permetti ora a me di baciarla. Dio, commosso dalla capacità di emozionarsi di suo figlio, volle soddisfarlo, così dette l'ultimo

tocco alla Creazione: e nacquero i fiori: perché un uomo potesse baciare la sua donna, il fiore divenne un bacio creato da Dio affinché l'uomo potesse darsi alla sua donna. La donna ne fu così colpita, da dire all'uomo: -Amore, mio, tu hai fatto tutto per me, e io tutto per te, ma Colui che ha fatto tutto per noi, non lo abbiamo ancora ringraziato, è Lui che dobbiamo baciare! Ecco allora che l'uomo e la donna andarono da Dio e gli dissero: -Padre, tu hai creato noi e hai permesso che diventassimo una cosa sola, un solo bacio in cui tutta la realtà risultasse legata...permettici di restituirti quel poco di felicità che è nelle nostre capacità di donarti. Al che Dio rispose loro : -C'è un'unica cosa che vorrei, che voi siate davvero una cosa sola, ma per esserla, creo ora il sacramento del matrimonio: sposatevi! Siate un solo spirito, e un solo corpo, e il creato sarà completo! Fu Dio stesso, quel giorno, ad unirli nel sacro vincolo. Così nacque il matrimonio, nacque per la gratitudine dell'uomo a Dio per avergli donato la donna, fu il bacio con cui l'uomo ricambiava suo Padre. Questo era il paradiso terrestre: una catena infinita di baci di gratitudine con cui l'Amore

legava il Padre ai figli, con cui riportava i figli al Padre.

IL SALUTO DELLA MONTAGNA

Non era una turista qualsiasi, non stava lì senza dare senso alle cose, non le trattava come cose, perché le montagne non lo sono, perché non lo sono i boschi, non lo sono i sentieri, i panorami, la neve, gli animali, i cieli. No, questa ragazza nei luoghi lasciava qualcosa, e quei luoghi lo sentivano, per questo la notte precedente al giorno della sua partenza, le montagne innevate si rivolsero alla luna per chiedergli di fare più luce possibile, e la luna così fece, e le montagne videro che non c'era nessuno in giro, allora si rivolsero agli alberi, e gli chiesero di fare largo alla neve che sarebbe scesa, e loro questa volta non l'avrebbero fermata. L'istante dopo, dalle montagne si staccò la neve, ci furono valanghe che arrivarono fino sulle strade su cui avrebbe dovuto viaggiare la ragazza la mattina seguente. Fu come se la montagna avesse pianto, e con le lacrime avesse bagnato le strade rendendole inagibili. Il giorno dopo la ragazza pensò che fosse solo sfortuna, ma poi girandosi verso quelle montagne percorse dalla strada su cui lei viaggiava, voltandosi verso gli alberi immobili, che sembravano osservarla, le sembrò che c'era qualcosa di triste nel lasciare quel

posto. Non appena ebbe questo pensiero, un vento soffiò tra i rami, dai monti, e fu come un pianto, lei così lo percepì, e i rami piegati dal vento erano le lacrime che segnavano le guance delle montagne. Lei si avvicinò alla neve posata intorno ad uno degli alberi sul ciglio della strada, le poggiò una mano sopra, e poi sull'albero, e guardò tutto, tutto il paesaggio. Era come se gli dicesse che non dovevano impedirle il aggio, perché loro sarebbero partiti con lei, li avrebbe portati con sé, nei propri occhi, in cui rimase impressa l'immagine di quel paesaggio. Questo le montagne avevano ottenuto. Così si rivolsero al sole, e gli chiesero se potesse sciogliere la neve sulla strada, e il sole lo fece. La ragazza partì. Da quel giorno, ogni volta che la ragazza sorrideva, sulle Dolomiti splendeva il sole, e ogni volta che piangeva, nevicava, e c'erano valanghe. Firmato: Il ragazzo che vide quegli occhi

L'UNICA COSA CHE SO DI TE

“Vorrei che questa storia fosse la mia, vorrei provare nella vita i sentimenti che provarono quei due ragazzi, ma ho già ricevuto il dono di chi è stato testimone. Ho già ricevuto il dono di chi sente che può cambiare...” Così scriveva quell'uomo sulla quarantina, con la barba di due giorni, i capelli leggermente arruffati, la maniche della camicia rivoltate, seduto alla sua scrivania, di fronte ad una finestra da cui scivolava via l'ultima goccia di primavera per lasciare il posto ad un'estate che già faceva sentire i i del caldo sulla sua pelle, sudata anche per la tensione di quel nuovo inizio. Così lui lo percepiva, e come ogni inizio, ha bisogno di un battesimo, di una purificazione: per questo scriveva questa storia, perché era stata lei ad aprire i suoi anni ad un senso. Seppe di dover iniziare, e così scrisse... Sentì i diversi, più pesanti, più decisi, e poi un botto, l'urto del manganello contro il muro. -Buongiorno, mi chiamo Ermes, sono il nuovo custode di questo braccio del carcere. Questa è

l'unica cosa che dovete sapere, per il resto, non ci vedremo mai, né io voi, né voi me. Addio. Di nuovo i suoi i, ora sempre più distanti, poi il silenzio, il vero carceriere, il vero aguzzino di quella prigione. Un momento, pensò il ragazzo, ha usato il plurale! Quindi c'è qualcun altro con me! Non aveva mai sentito alcun rumore attraverso le mura, né porte che fossero state aperte per imprigionarvi qualcuno, almeno non da quando lui era lì. Aveva provato ogni tanto a chiamare per sentire se ci fosse stato qualcun altro, ma solo il nulla si era scomodato, e per regalargli una delusione. Finché non aveva deciso d parlare proprio con il vuoto. -Ciao vuoto, diceva, come stai oggi? Niente da fare? Beh sei vuoto, in effetti non ci sei, e rideva da solo, sconsolato e superiore, perché l'ironia lo teneva almeno sveglio, lucido. Chi sa ridere del dolore, muore con onore, si ripeteva, chissà dove l'aveva sentita, o forse se l'era inventata. Ormai i ricordi sfuggivano, il tempo era solo un'idea lontana, forse un mito che gli avevano insegnato in chissà quale ato, ormai a tratti buio. Il giorno e la notte non esistevano più rispetto al sole e alla luna, ma rispetto alla veglia e al sonno, che potevano coglierlo a qualsiasi ora di quella che i liberi

chiamano giornata. Si sarebbe potuto aiutare con i pasti per scandire le ore, ma a parte il fatto che erano tutti uguali, spesso glieli portavano a pochissima distanza l'uno dall'altro, altre volte non glieli portavano proprio. Tutto dipendeva dall'arbitrio dei custodi. I custodi del carcere del tempo, dove veniva rinchiuso chi lo stava sprecando. Non ti toglievano la libertà, andavano oltre, perché essere liberi significa avere un tempo in cui si è liberi, loro ti toglievano il tempo che non usavi, e ti dicevano che tanto non usandolo non eri libero comunque. A questo era arrivata l'umanità, ad avere paura della libertà altrui a tal punto, da incarcerarla con questa scusa. Chi spreca il proprio tempo, spreca il tempo degli altri che lo trascorrono con lui. Questo affermava la sentenza, nelle sua premessa. Poche righe dopo chio la questione. Non si era sposato, non aveva deciso di dare senso al proprio tempo, la società avrebbe fatto altrettanto, lui non avrebbe avuto un senso per nessuno. Rinchiuso. Nessuno avrebbe fatto lui visita, nessuno avrebbe più sprecato tempo perfino a nominarlo. Lui, semplicemente, era ato, era il ato. Aveva provato a spiegare che non si era sposato perché non si era innamorato. -Perché non ti sei innamorato, nessuna ti merita? Il tuo tempo vale troppo? Non capisci che non

possiamo permetterti di essere da esempio? Quante persone vorranno evitare di impegnarsi, si vedranno che lasciamo fare anche ad uno solo che rifiuta di impegnarsi? L'umanità stava per morire proprio perché nessuno si prendeva l'impegno di farla vivere. L'amore non si sceglie, si vive. Se tu non ami non vivi, e se non vivi come possiamo rispettarti? -L'amore è una scelta, aveva ribattuto, e solo dopo una responsabilità. -No! Tuonarono i giudici sposati di quella teocrazia del Tempo e dell'Amore. Ci sono cose che non si scelgono, l'amore è tra queste. Il matrimonio è la forma più alta di un amore. Il giorno in cui ti mostrerai disposto ad amare sarai liberato, ma da te stesso, non da noi. -Peccato che in carcere è difficile che mi innamori. -Il peccato l'hai commesso tu, non amando. -E va bene! Questa volta a erompere era stato lui. Non amo, è colpa mia? Nessuna mi ama, è colpa mia? Io sono libero, e finché non amo non mi sposo, o preferite un matrimonio senza amore. I volti dei sette giudici arono dal rosso precedente, al bianco, come se una pennellata li avesse ridipinti uno dopo l'altro. -Questo tribunale pregherà perché l'amore ti salvi, e l'amore non esiste senza il matrimonio. -Ma pensa, è una tesi interessante. Ve lo ripeto, se non capita?

-Siamo nati per amare, è impossibile che non capiti. -Beh io sono qui, direi che è possibile? E poi perché non arrestate anche tutte le ipotetiche donne colpevoli di non avermi amato, magari beccate la donna della mia vita, anche lei è colpevole di non amare nessuno visto che non ci siamo ancora trovati, perché non la arrestate? Ops, e rise, è solo che è impossibile capire chi è la donna della mia vita, visto che solo io potrei saperlo, ma io appunto non l'ho trovata. Se la trovate fatemi un fischio, anche nel caso in cui fosse una donna già sposata eh. E rise di nuovo, guardando i volti indignati della corte. -Eh già, non ci avevate pensato, ma non è così matematica la cosa, uomo libero, donna libera, amore, matrimonio, a volte ci sono matrimoni che non vanno, cose che non funzionano, divorzi. Cosa fareste in quel caso? Magari, se fosse propria una delle vostre mogli? -Chiunque divorzia, cioè rinuncia alla propria responsabilità, va in carcere, anche fosse una delle nostre mogli, e allora vedrai che la ritroverai lì. Stava per ribattere quando intervenne l'avvocato dell'accusa: -Lei di cosa vive? -Di rendita. Cioè non lavora? -Cioè campo con i soldi miei.

-Cioè non li ha guadagnati lei? -Li ho ereditati, sono miei. -Lei non ama una donna, e non lavora per la comunità, cosa fa per gli altri di preciso? -Non devo necessariamente fare qualcosa per gli altri, gli altri cosa fanno per me? -La comunità garantisce la sua sicurezza, ad esempio. -La comunità mi arresta, ad esempio. -Lei si ostina a non capire. -Direi la stessa cosa verso di voi. -Basta così, si alzò il presidente della corte. Questo tribunale la condanna a rimanere in isolamento, con la privazione del tempo e della libertà, finché lei non dimostrerà di amare. Si alzarono senza aggiungere altro che il rumore dei loro i e il fruscio delle loro toghe, mentre lui, colpito da quell'inflessibilità, finalmente realizzò la portata della sua disgrazia. Due poliziotti lo portarono via. Uno di loro gli disse: -Mi dispiace. -Fai parte del sistema, non ti dispiace veramente. Perché ad esempio il clero non viene obbligato a sposarsi? -Non lo sai? Il celibato è stato proibito anche per loro.

-Ah bella mossa, e se non volessero come li obbligate? Li arrestate tutti? -Non ti rendi conto che i preti e le suore già si volevano sposare, il concilio dell'Amore ha solo riconosciuto un dato di fatto. -Ah il concilio dell'Amore ho capito, sorrise amaramente. -L'ironia è inutile, l'amore è un dato di fatto, tu finisci in prigione perché sei fuori dalla realtà, sei fuori dai dati di fatto. -Allora fammi il favore del dato di fatto di stare in silenzio. -Non ti preoccupare, ne avrai fin troppo. La sua cella era senza finestre, la lampadina perennemente accesa, la cui luce si affievoliva solo per permettergli di riposare, ma in orari che non coincidevano con il giorno e la notte, l'unica aria esterna proveniva dalla piccola fessura che si apriva nella parte alta della porta, che veniva aperta solo per la consegna del pasto e il suo consumo; del pasto gli confondevano volutamente il nome per fargli perdere la cognizione del tempo. I primi giorni mantenne l'intelligenza attenta, i sensi vigili, come se da un momento all'altro gli sarebbe potuta capitare l'occasione di fuggire, ma non fu possibile, era semplicemente chiuso lì, senza tempo, senza libertà, senza speranza. Più la sua mente razionalizzava questa realtà più la

sentiva impazzire, prima per la rabbia, poi per la vera e propria follia. -Ehi Non Esisto? Sentì una voce da fuori, la prima dopo giorni in cui il deserto aveva dominato su ogni suono -Chi è? -Sono il tuo custode -Come ti chiami? -Ti devo consegnare questo. Aprì la fessura della porta, e gettò un giornale. Lui prese quell'oggetto che sapeva così tanto di mondo, di concretezza, di ritorno ad un'umanità, seppure solo in bianco e nero. Rivide dei volti, dopo tutto quel tempo in cui l'assenza di specchi l'aveva costretto a vedere gli uomini solo attraverso un se stesso senza faccia. Gli venne in mente che poteva leggere la data del giornale così poteva capire quanto tempo stava ando, ma si accorse che le pagine erano strappate proprio in corrispondenza della data. La rabbia salì improvvisa, come un fulmine si tradusse in pugni e calci ripetuti sul ferro della porta, ma era l'inutile disperazione di grida inascoltate, Dopo minuti eterni di indifferenza da parte di tutto l'universo, ritornò a sedersi ridendo di se stesso, e si ricordò di come l'aveva chiamato, “Non Esisto”.

-Ehi, mi senti, senza nome mi senti, io non sono Non Esisto, io sono Non Voglio, io sono Non Voglio amare quando lo dite voi, lo so che mi senti...In realtà no, non lo sapeva. I giorni arono più lenti degli anni, gli anni si presentarono con il mantello dei secoli, e la vivacità del suo spirito si attaccò ad ogni fantasia per non cadere nelle profondità della pazzia, da cui più nessun concetto sarebbe uscito, e le emozioni si mantennero sane perché si abituò a provarle solo collegate ai suoi ricordi, dove il mondo esisteva ancora. Rilesse qualche migliaio di volte gli articoli di quel giornale, che gli avevano consegnato solo per fargli leggere quanto era bravo il pontefice a capo della teocrazia: abolizione dell'esercito, abolizione del celibato del clero... Bravo, bravo, pensava, attento che poi aboliscono anche te se non ti sposi. Sorrise con se stesso. Si era programmato di leggere il giornale ogni mattina, anche se era sempre lo stesso. In sostanza fu il crearsi un ordine nel nulla, che lo mantenne vivo e intelligente. La sua intelligenza però pagava il prezzo alla verità e la verità non lo dimenticava mai nella sua solitudine, nella sua eterna solitudine. Quando Ermes divenne custode ormai erano ati anni, anni che il ragazzo non contava più da...

Da quanto non provava a contare? Mah, rise. Poi chiamò Ermes, come chiamava il custode precedente perché si imponeva di parlare con loro anche se loro non parlavano con lui: meglio sentire il suono della propria voce che non sentire nulla. Così parlava a nessuno, e a tutti, anzi era così libero di dire tutto a tutti che quasi iniziò a pensare che la vera sincerità potesse esistere solo in solitudine. -Ermes! Ti ho sentito sai? Hai usato il plurale prima, vuol dire che non sono solo. Ermes, silenzioso, pensò alla prontezza della mente di quel ragazzo che aveva subito capito l'aiuto che gli stava offrendo: non poteva fare di più per lui, ma non voleva fare di meno. Il ragazzo diventato uomo si mise a cercare di ricordare cosa aveva visto prima di entrare in cella, e realizzò che a destra della sua porta non c'erano altre celle, neppure di fronte, per quello che poteva vedere nella propria mente. Sì, c'era solo una fila di celle a partire dalla sua e proseguiva alla sua sinistra. La ragazza diventata donna aveva reagito all'opposto dell'altro condannato. Non volevano parlare con lei? Lei non avrebbe più parlato. Tenne per sé le sue parole. Del resto, probabilmente non c'era

davvero nessuno là fuori. Un giorno la porta della sua cella si aprì, un uomo con il amontagna le chiese di uscire: -Devo trasferirti in un altra cella. -Cosa cambierebbe? -Nulla se non ti sbrighi. -Che vuol dire? -Nulla se non ti sbrighi. Si alzò e percorse qualche centinaio di metri in quei corridoi così classici per una prigione, per una prigione antica riadattata. Un palazzo d'epoca pensò, e lo apprezzò, ma avrebbe apprezzato qualsiasi cosa avesse visto fuori dal suo cosmo quadrato di pochi metri. Tutta quell'aria diversa da quella che sapeva di chiuso, tutto quello spazio, quasi la tramortirono, e paradossalmente non vedeva l'ora di arrivare di nuovo in cella, nell'unico mondo che l'avevano abituata a conoscere. Il mondo di fuori l'aveva rifiutata, umiliata, ora era lei a non volerne vedere neppure due metri in più, oltre la sua caverna con la porta di ferro e la luce elettrica. Ermes aprì la cella n. due dopo essersi assicurato che nella n. uno l'uomo dormisse, così da non vedere né sentire: sarebbe stato preso da una tale felicità all'idea che ci fosse una compagnia umana vicino

che le sue emozioni compresse non avrebbero retto, avrebbe fatto domande , lei avrebbe capito che c'era qualcun altro e lui lo stesso presi dalla felicità avrebbero gettato una luce eccessiva su quell'azione che Ermes compiva senza il permesso di nessuno, ma essendo l'unico guardiano di quel settore, aveva una certa libertà di scelta, meglio però che non diventasse troppo evidente. -Entra. Per lei non cambiò nulla, se non il fatto che capì che era notte, e si ripromise di tenerlo a mente per la scansione della sua misera vita. -Grazie, della tua gentilezza. Perché ormai la gentilezza era che qualcuno la portasse bruscamente da una cella a un'altra, cioè le dicesse una decina di parole. Il custode la guardò, non disse nulla. Tutto tornò come prima. Sapere che era notte, cioè sapere che momento era, le diede conforto, addirittura una felicità, seppure ormai la felicità per un essere annichilito come lei era al massimo sapere più o meno che ore fossero. Fino alla mattina dopo, quando lei sentì Ermes presentarsi e capì che la voce era la stessa del custode della notte. Aveva usato il plurale! Ma era buio quando l'avevano portata lì e lei era troppo

abituata alla luce elettrica per vedere immediatamente bene dove fossero le altre celle, solo le sembrò di essere entrata nella seconda. Pochi istanti dopo non poté più sbagliarsi, la voce di un uomo proveniva dalla sua destra, un'altra voce! Due voci in poche ore, le sembrava una festa dopo anni di silenzio. Era una voce ironica, intensa, aveva carattere. Non ebbe però il coraggio di bussare alla parete, non ancora perlomeno. Ricordava ancora l'ultima volta che aveva bussato, era stato all'ufficio delle registrazioni per dire che non si era ancora sposata né aveva intenzione di farlo senza che si fosse innamorata. La arrestarono con l'accusa di aridità, e le portarono via la libertà, e il tempo per viverla, perché lei, dicevano i giudici, tanto non usava il tempo che aveva avuto in dono. Le avevano detto alla registrazione che era solo una formalità, aveva altro tempo per innamorarsi, ma era la scusa per attirarli lì, dove poi nessuno, arrestato all'istante, poteva più andare a dire in giro quello che succedeva a chi non si sposava. Da quel giorno ci furono solo le canzoni che lei ricordava a farle compagnia, ma mai cantate con la voce, sempre dentro di sé, perché erano sue, non le avrebbero tolto anche loro, non le avrebbero

chiuse dentro quella cella a marcire, no, la sua musica era la sua ora d'aria, il segno di una libertà mai persa del tutto, era la sua forza di volontà. Sentì bussare alla parete... -C'è nessuno? Ma la donna non si sentiva parlare da tantissimo tempo, e la paura della propria stessa voce, in più strozzata dalla gioia per quell'insperata compagnia, le fecero perdere la velocità della risposta. -C'è nessuno? Quel nessuno, quella donna, piangeva, piangeva di se stessa che non riusciva a rispondere, piangeva per quell'uomo che cercava compagnia quanto lei ma non l'avrebbe ricevuta. Infine piangeva tutte le lacrime mai piante dai suoi occhi combattivi, e con quelle lacrime prese coscienza che nel suo mondo pioveva da anni. Non riuscì a trattenere la forza del pianto e alle lacrime si aggiunsero i singhiozzi...e lui la sentì. Avrebbe potuto chiedere chi fosse a piangere, o chiedere perché piangesse, ma dal pianto aveva riconosciuto che si trattava di una donna, e sul perché, beh bastava guardarsi intorno. -Fai bene a piangere, anch'io non ce la faccio più, se avessi delle lacrime per quest'occasione ti farei compagnia, ma le ho finite ieri a cena, vuoi qualcos'altro, tipo un sorriso? Nella

sua voce c'era uno scherzo sul dramma, un'ironia sulla loro condanna, uno sfregio al sistema. Sentì solo che il pianto ora si intrecciava ad una lieve risata, che si faceva strada nel dolore , mordendolo e sputandolo via pur di sostituirlo, se non negli occhi, perlomeno sulle labbra. -Io...Io... stava balbettano qualcosa. -Non riesci a parlare? Strano con tutta la gente che ci circonda. Lei si sentiva a suo agio, più rilassata da quel modo di fare, che la faceva stare in silenzio finché avesse voluto, ma le parlava lo stesso, lei di questo aveva bisogno, di una voce che le desse attenzione, di un suono che non le asse accanto, muto, indifferente, aveva bisogno che i rumori la guardassero negli occhi, e le dicessero che non c'era speranza ma almeno era viva. Lui aveva bisogno del contrario, aveva parlato a non si sa chi per anni senza ricevere mai risposta, ora aveva bisogno di sapere che c'erano delle orecchie attente. Riprese a parlare: -Ti posso offrire qualcosa? Questa volta la donna rise di gusto, e anche lui, non tanto perché trascinato dalla propria battuta, ma dalla risata di lei: sembrava riportare il mondo in quelle celle, sembrava creare un mondo diverso, addirittura più puro di tutto quello che aveva vissuto fuori, con la dittatura, il processo, le accuse.

Quella risata non accusava nessuno, era solo splendidamente innocente, assolveva chiunque, voleva solo ridere, e rideva. Rise per tanto tempo, per tutto il tempo necessario a colmare i suoi anni di silenzio, le parole non pronunciate, gli scherzi mai più vissuti, le telefonate mai più fatte o ricevute, rise per le gite fuori città percorse solo con la macchina della sua mete, per i viaggi percorsi solo con le emozioni. Anche a lei piacque la risata di lui, calda, coinvolgente, libera. Finalmente ebbe la forza di parlare, affannata ma quasi... felice -Non ridevo così da...boh! E scoppiarono a ridere di nuovo. Entrambi cercarono di continuare quella risata il più possibile, quando gli sarebbe ricapitato? La buttarono fuori dai loro cuori per farla rimanere nell'aria, per respirarla e ridere di nuovo nei momenti di futura tristezza. Ermes li sentì ridere per così tanto tempo, che alla fine fu coinvolto anche lui, e rise tra sé e sé. -Come ti chiami, gli chiese lei? -Mi chiamavo Andrea, forse mi chiamo ancora così, ma non mi ci chiama nessuno quindi è inutile avere un nome. -Io mi chiamo Federica, e non rinuncio al nome, e nemmeno tu al tuo. Tu ti chiami, non chiamavi,

Andrea. C'era stata una nota di tristezza in Andrea nel fare quella considerazione, lei se ne accorse, e volle ricambiare l'allegria che lui le aveva donato prima, con la sua forza rinata. -Ti leggo qualcosa del giornale? -Di quand'è? -Boh, disse lei ridendo di nuovo, mi hanno tolto le date, ma ce l'ho da tanto tempo. Andrea lesse i primi titoli del suo. -Ma è lo stesso del mio? -Accidenti, come è possibile, ci sarà un errore sono sempre così gentile qui, non avranno mica dato una copia uguale a tutti senza pensare ai nostri gusti? -Già, fece Federica, poi ci danno la copia nuova del giorno ogni mattina. Sarà un caso che abbiamo conservato la stessa copia. Altre risate. -Grazie, le disse Andrea, stavo per intristirmi io. -Lo so. Da quanto tempo sei qui? -Non te lo so dire, forse anni, ma hai visto come fanno, è tutto sfasato, e non riesco a scandire i giorni. -Per me è uguale. Immagino che ci abbiano arrestato per lo stesso motivo allora, aridità.

-Assolutamente, totale. Tu sei arida? Chiese Andrea scherzando -Certo, sono cinica, anaffettiva, scettica, direi anche nichilista, tu? -Anche peggio, per farti capire che persona sono, ti basti sapere che non mi sono sposato perché non ero innamorato. -Oddio, ma sei orribile! Che schifo! Consolati comunque, stesso peccato. -Aia, come convivi con il senso di colpa verso la società? Lei, con la voce piena di sorrisi: -Non ci dormo. -Eh già è questo il problema, che poi non dormendo, uno a lavoro rende meno, ti succede? Federica si stava tenendo ormai lo stomaco per le risate. -Ti prego basta, dopo tutto questo tempo senza niente, adesso questa conversazione potrebbe uccidermi. Si aspettava una sua risposta ma non sentì nulla. -Ci sei? -Ma era lei ad aver ucciso lui... scherzò di nuovo Andrea, e lei si sentì letteralmente male. -Ho i crampi, pietà, rischio di sprecare il pranzo, sai che ci tengono a farci mangiare bene...e Andrea si sentì male quanto lei, guardando la ciotola vuota del pasto precedente. Ermes si alzò e li lasciò soli. Sì, ora scherzavano perché condividevano la loro esperienza, ma forse si piacevano davvero. Camminando ripensò a sua moglie, perduta tempo

addietro. L'amore che ancora provava per lei gli confermò che aveva fatto la cosa giusta. Aveva studiato i caratteri di quei due detenuti per mesi, prima di decidere di avvicinarli. La sentenza di chi veniva rinchiuso in quel carcere prescriveva che non si potesse uscire finché non ci si fosse pentiti, ma era impossibile perché non ti permettevano di vedere nessuno da cui comprendere il significato dell'amore. Era il trucco del sistema, per tenerti prigioniero per sempre, perché sei scomodo, non ti adegui, sei libero. -Chi vive ridendo muore felice, citò Federica ad Andrea. -O stupido -Forse, rise lei, ma comunque felice. -Comunque stupido. -Sei ottimista oggi? -Sembra? -Come le cose più ovvie. Le loro voci scambiate erano sempre allegre, perché non scambiavano solo scherzi, condividevano un modo di vedere il mondo, di stare al mondo, ridevano della vita negli stessi suoi aspetti, ironizzavano sulle stesse contraddizioni. “ami un sorriso”, questo sembravano dirsi quando parlavano, ma se ne avano due, perché chi lo donava lo riceveva, e poi ne

riceveva due, tre, mille. Furono i loro sorrisi a creare nuove stelle nel cielo dei loro soffitti, erano i loro sorrisi a illuminare il buio della loro malinconia, come comete che guidano verso la salvezza, loro si seguivano sorridendo, si sentivano e gli sembrava di vedersi. -Cosa facevi te prima di essere arrestata? Chiese Andrea, cominciando quell'antico rito di conoscenza che l'amore recita prima di sciogliere le catene della lontananza, prima di avvicinare gli estranei, che non sapendo perché vogliono starsi comunque vicini. -Giurisprudenza, avrei voluto fare l'avvocato. Aveva risposto amaramente, e lui capì: -Per difendere quelli che venivano arrestati perché non si sposavano? Ti hanno arrestata perché saresti diventata scomoda allora, con la solita scusa che neanche tu ti eri sposata. -Sì è andata così, te invece? -La scusa è uguale, e in un certo senso facevamo lo stesso lavoro. Insegnavo filosofia all'università, insegnavo a pensare, in un mondo che non vuole che pensiamo, che ci liberiamo. Diciamo che facevo l'avvocato della loro capacità di pensare. -Ti manca? So che è inutile la domanda, ma magari ti fa piacere sentirla. Era vero, quella domanda fu come una carezza sul suo mondo perduto, e Andrea colse l'occasione

per restituirla al mondo di lei: -E a te? -Grazie. -Grazie a te. Non lo sapevano, ma inconsciamente si appoggiavano alla parete che li separava, per starsi più vicini. La curiosità non tardò a domandare quello che l'amore pretende di sapere, e cioè la verità, su tutto, anche sull'aspetto. Non che l'amore non possa vivere senza, le parole a loro erano bastate, anzi a tal punto che proprio perché bastarono per farli innamorare, che poi l'amore chiese altro, altre immagini...l'amore può esistere senza quelle immagini, non vuol dire che deve. -Come sei? chiese Andrea. Lei, imbarazzata, ma felice perché rispondendo avrebbe guadagnato il diritto a fare a lui la stessa domanda: -Ho i capelli neri, nerissimi, cioè li avevo, ora dopo anni che non mi guardo allo specchio, e con questa luce falsata forse sono più opachi. Tu come li hai? -Biondo cenere. -Hai la barba? -Sì perché non avendo avuto serate eleganti negli ultimi anni non mi sono rasato

spesso. Risero tutti e due. -Come sono i tuoi occhi? Continuò Andrea. -Questo non te lo dico. -Perché? Perché in questo nostro mondo non ci sono occhi, non possiamo vedere nulla di quello che vorremmo. Ora era diventata triste. Pianse. -Non importa sai. Sicuramente sei anche più bella di come ti immagino, ma già quello che immagino mi piace. Le cantò una canzone. Non aveva una bella voce, ma era una voce che viveva solo per lei, che ascoltava solo lei, da settimane ormai, ma era come se la sua voce le appartenesse dal primo vagito, era come se i loro sorrisi fossero le porte da cui le loro voci potevano uscire e incontrarsi. Cantò...e lei, che si era tenuta le sue canzoni per sé, perché niente nell'universo valeva così tanto da meritarle, lei sentì che lui, che ora era tutto il suo universo, le meritava: cantò anche lei, cantò prima con lui, poi Andrea capì, senza saperne il motivo, l'importanza di quel canto, di lasciarla cantare da sola, per loro due. La voce di Federica meritava il suo pubblico. La sua voce lo portò in un mondo lontano, in una vita ata, per salutare le cose care, e poi nel futuro, il futuro

tutto uguale a cui erano condannati, e lo percorsero insieme ascoltandosi, eggiando con la voce nei boschi bui della ripetizione delle loro giornate, scavalcando insieme la noia, scansando le paure con le note, e dicendosi che almeno non avrebbero camminato soli verso la fine della loro storia. Ermes sentì la canzone, e né Andrea né Federica seppero mai che nel mondo lontano dove si erano trasferiti cantando, portarono anche Ermes, che si fermò più indietro, tra i ricordi di sua moglie. La fine della canzone le strappò lei dall'abbraccio della sua memoria, e gli incollò due lacrime sulle guance., a ricordargli che in quel carcere c'erano tre prigionieri, non due, solo che almeno due si amavano, lui sopravviveva solamente. Andrea aveva paura, ogni amore porta con sé la paura, alcuni la dominano, altri la ignorano, altri la fanno vincere, ma comunque amore e paura vanno insieme, perché l'amore è tutt'altro, tutt'altro rispetto a tutto quello che si è fatto finora. La paura di Andrea era di essersi innamorato di Federica solo perché era l'unica a stare lì, ma allora era finzione quell'ansia nell'attesa che lei si svegliasse ogni giorno, per poterle parlare, era finzione la voglia di spaccare quel muro, era finzione avere la schiena appoggiata sulla stessa parete, erano bugiardi i sorrisi condivisi, erano false le risate

coinvolgenti, erano inganni le confidenze. No, in quella cella buia e immortale non potevano esistere bugie, non c'era abbastanza spazio per la falsità, lì dove la sua sofferenza aveva assunto un aspetto eterno, lei gli aveva portato il senso delle giornate, con lei le contava, con lei il tempo ava, ma era proprio questo che ora temeva, che l'eternità fosse troppo breve per amarla. Ecco la nuova paura che portò l'amore, il compimento della sentenza: “Quando ti innamorerai uscirai.” -Tu sai quello che ci è successo vero? Chiese Federica. -Sì, e loro se ne sono accorti, avremmo dovuto sussurrare invece che parlare, annuire invece di commentare. -E come avremmo fatto, la parete avrebbe impedito di sentirci se avessimo parlato piano. No, io non sono pentita. -Come ci ritroveremo? Faranno in modo di non farci sapere dove saremo. -Ti va di pregare? E' l'ultima notte insieme. -Pregare chi? Il Dio di questa dittatura, di questa teocrazia? -Sai che Dio non c'entra nulla con loro, Lui è rimasto nei nostri cuori, e questi cuori li ha avvicinati. Sentì Andrea inginocchiarsi al centro della parete che li separava, si inginocchiò nello stesso punto anche lei.

-Hai appoggiato le mani al muro? Chiese Federica -Certo. -Infatti le sentivo sulle mie, gli confermò delicatamente. Chi comincia? -Io... Dio, siamo alla fine delle nostre disgrazie, ma è davvero così? Davvero il fatto che potrei non rivederla, è la mia salvezza? Nel silenzio, Dio, nel vuoto, nel nulla, quando sono solo le speranze a impedirti di diventare pazzo, tu mi hai fatto un dono, ma ora mi allontani da lei...Ancora un mistero, ma io non ce la faccio più, Dio, con i tuoi misteri. Sento che lei è più forte di me, dalle la forza di sperare anche per me, che un giorno io e lei saremo insieme, perché io... Ma lei lo interruppe... -Perché lui, Signore, ha dato tutte le sue forze a me, e non gli è rimasto nulla. Se piange, se ti accusa, non ti arrabbiare. Amen -Amen Amen, sussurrò nel cuore Ermes. Andò verso casa, ormai convinto di ciò che doveva fare. La notte non li aveva ancora salutati, ne approfittarono per salutarsi e dirsi quello che non si erano mai detti, quello che nessuno sguardo averebbe potuto tradire, nascosto dietro il muro; ma la voce, le loro voci, quante volte si tradirono? Mille. Si erano detti tutto mille volte tra

una parola di un discorso e un'altra di un altro, e quei non detti erano rimasti sospesi nell'aria, in attesa che il destinatario accorresse ad aprire la lettera, in attesa che quella lettera fosse spedita con parole esplicite. -Andrea parlò per primo: -Ti amo. Con quelle parole ruppe il muro, con quelle parole le prese la mano, le accarezzò i capelli, le baciò le labbra, con quelle due parole, che l'umanità ripeteva come le più belle e semplici del mondo, con quelle parole che nessun secolo avrebbe reso fuori moda, con quelle parole pronunciate sotto i cieli di ogni paese, con quelle parole oltreò la prigionia, e fu di nuovo libero, libero con lei che rispose: -Ti amo, e, appoggiando la guancia bagnata da lacrime di commozione sul freddo della parete, stette con lui in silenzio fino all'alba, cioè fino a quella che loro credevano fosse l'alba. Furono interrotti dalla chiave che apriva la cella di Andrea. -No! Amore mio! Era Federica, che alzatasi, seguì con la sua mano sulla sua parte di muro, lo strusciare della mano di Andrea, fino alla porta. Andrea guardò il muro prima di uscire. -Ti amo!

Ma la risposta di lei arrivò in una cella buia e vuota, e quelle sue parole le ritornarono indietro a portarle il messaggio della sua nuova infelicità. -Finalmente ti vedo in faccia, disse Andrea ad Ermes, ma lui non poteva rispondere, almeno non finché fossero stati nel carcere. Iniziò a parlargli solo dopo che si fu allontanato abbastanza dai quartieri della zona. Probabilmente non lo seguiva nessuno, era il solito rilascio di routine di un prigioniero politico, che mai avrebbe sospettato un suo tradimento. -E' ingiusto ciò che avete subito. Andrea rimase sorpreso e perplesso: -Cos'è un pentimento? Non smetterò di odiarvi perché siete pentiti. -Non, siamo, sono pentito. Andrea lesse nella sua voce un pentimento ben controllato, come se il suo ravvedimento fosse cosa assodata da tempo dentro di lui. -Scusa, da quanto tempo lo pensi? -Abbastanza. -Abbastanza da decidere di trasferire Federica nella cella vicino alla mia? Ermes lo guardò sperando che questo bastasse a guadagnargli il perdono. -Resta il fatto che tu, anche se pentito, mi allontani dalla donna che amo proprio per obbedire ancora ai miei nemici.

-Ai nostri nemici. -Cioè? -Cioè penso si potrebbe definirlo tradimento. L'ultimo atto della mia custodia era liberarvi in caso di amore, ma il sistema è fatto per non farvi innamorare, io l'ho tradito già in quel momento avvicinandovi, e quando mi hanno ordinato di liberarvi per farvi vivere senza amore, allontanandovi senza possibilità di ritrovarvi, ho disubbidito ancora. Cioè sto disubbidendo ancora. Andrea era sorpreso: -Quindi dove stiamo andando ora? -Ora dove ti pare a te, l'importante è che domani ti fai trovare qui, e gli ò un biglietto. E' il posto in cui lascerò domani Federica, dopo la scarcerazione. -Rischi la vita. -La mia vita mi ha abbandonato qualche anno fa, non mi permetterò di abbandonare anche la giustizia. -Cosa ti è successo? -Mia moglie è morta prima che io decidessi di fare questo lavoro. Quando l'ho persa e ho capito quanto fosse speciale l'amore, ho odiato tutti quelli come te e Federica, che potrebbero amare ma non amano, che sprecano tempo. Solo osservandovi ho riscoperto quanto amore

e libertà siano legati. Solo osservando da dentro il regime ho capito quanto l'amore sia solo la scusa per eliminare gli oppositori. -E' una storia triste, gli concesse Andrea. -La vostra lo è stata di più. Ermes finì di scrivere, si accorse che era quasi l'alba ormai, aveva scritto senza interruzione. Si diresse verso il carcere per liberare Federica. La trovò ridotta ad un gomitolo di lacrime in un angolo della cella, la svegliò. Rimase muto come lei fino a che non ritenne di poter spiegare quello che aveva detto anche ad Andrea. Lei reagì con un tale sorriso da farlo sperare di nuovo in un perdono. Andrea e Federica si videro per la prima volta, si sorrisero, si avvicinarono lentamente, quasi avessero paura che la velocità fe loro perdere qualche dettaglio, ma loro volevano fissare nella memoria ogni istante,. Si sfiorarono le mani, ma non si dissero nulla, dopo tutte le parole che si erano detti in cella, cos'altro aggiungere nell'immediato? Ora lasciarono il diritto di esprimersi ad altro, a quei sorrisi che si chio in un bacio, a quegli occhi che si schio almeno un istante per divorare l'altro, e nutrirsi della sua immagine una volta richiusi.

Ermes si era girato e un po' allontanato. Voleva salutarli prima di andarsene, ma non voleva interromperli. Eppure l'interruzione ci fu lo stesso... Sentirono il rumore dello sparo, e Ermes cadde. -Ermes! Federica si avvicinò. Si inginocchiò di fronte a lui, gli prese la mano: -No! Andrea Rimase in piedi dietro di lei. -Perdonatemi riuscì a dire Ermes. -Certo, certo, ma adesso cerchiamo un medico. Andrea già andava verso la macchina per avvicinarla e portarlo in ospedale. -No, riuscì a fermare entrambi. Vi prego, vorrei solo un mazzo di rose rosse, non voglio presentarmi da mia moglie senza fiori, non la vedo da un sacco di tempo. Federica piangeva e senza dire nulla guardò Andrea, che annuendo salì di corsa in macchina, e sparì alla ricerca del primo fioraio. Gli misero i fiori in mano. -Grazie, disse Andrea, e Federica lo imitò -Grazie a voi, ma la sua voce era ormai un rantolo, eppure entrambi, Andrea e Federica, sapevano che la sua anima se ne stava andando felice, verso sua moglie. Prima di lasciarlo, quell'anima mostrò un lieve sorriso sul volto. Morì così, sorridente e con le rose in mano, per andare a bussare

da sua moglie. Fuggirono, avrebbero cercato anche loro, ma per trovarli avrebbero dovuto sapere cos'è l'amore, quanta forza possiede, e il regime non sa nulla dell'amore con cui loro sopravvissero. Fu l'amore a trovare il regime, a sconvolgerne l'edificio, un papa si era dimesso, uno nuovo venne eletto...qui sibi nomen imposuit Franciscum.

GRAZIE

Scese le scale come ogni ragazzo, cioè con una certa fretta, senza neanche guardare i gradini e con il pensiero ancora più veloce, attento a tutte le cose da fare. Lo notò a lato del portone del suo palazzo, ma solo con la coda dell'occhio, senza soffermarsi, eppure bastò un istante a focalizzare l'immagine di quell'uomo con tutto ciò che essa rivelava di sé: un barbone come tanti, con uno sguardo rassegnato, triste, abiti sporchi. Quando si voltò e proseguì per la sua strada, quel ragazzo che pure non era insensibile, si dimenticò subito di lui. Del resto l'ombra di un uomo può conquistare un attimo di pietà, non un tempo più lungo, e neppure un attenzione più profonda. Al ritorno a casa lo trovò sempre nella stessa posizione, questa volta poté guardarlo di fronte e notò la luce dei suoi occhi, una vita di privazioni non l'aveva ancora spenta evidentemente. Due sguardi intelligenti non hanno bisogno di presentarsi, si capiscono perché hanno la stessa natura, per questo il ragazzo e l'uomo si sorrisero. Un lieve sorriso, malinconico per entrambi, felice per entrambi.

Malinconico perché entrambi avevano sofferto e soffrivano, felice per lo stesso motivo, perché il dolore li aveva resi consapevoli, vivi. Tutto questo in un sorriso? Il cuore può fare un salto oltre il possibile, può provare e trasmettere ciò che non si conosce, ma ha bisogno di tempo per germogliare. Il tempo che trascorse fino alla mattina successiva. Il ragazzo porse una sacca all'uomo. Vestiti usati, pensò quest'ultimo, anche se la sacca gli sembrò troppo pesante. La mano inoltre, tastandola, si accorse che erano... libri! Ancora non si dissero nulla, ancora non c'era bisogno di dirsi nulla, e già si stavano dicendo il necessario. Un cenno del capo di entrambi confermò la sintonia del giorno precedente. Il ragazzo voltò le spalle come il giorno addietro, ma non gli voltò la sua considerazione, non poteva ormai negarla alla gratitudine di quegli occhi un po' meno tristi. L'uomo sporco e solo si era guadagnato un ricordo nella memoria del ragazzo. Perché quel regalo? Era un ragazzo come tanti. Come tanti studenti che non hanno troppi soldi, non poteva permettersi più di una cena fuori a settimana, o più di un cinema a settimana, neppure più di un viaggio l'anno, ma come ogni ragazzo sensibile e senza tanti soldi, sa che può investirli

comprando più di un libro, due libri, tre libri e altri ancora, e trascorrere il tempo in cui non può spendere per divertirsi, leggendo, conoscendo, esplorando se stesso e il mondo grazie a quegli amici di carta - quanto tempo regalato a tutti loro e a se stesso - così decise che l'uomo del portone, che aveva tempo ma non aveva un soldo, poteva leggere come lui. Lo avrebbe gradito, ci avrebbe scommesso, perché i suoi occhi gliel'avevano detto: occhi intelligenti, occhi ancora affamati di vita, di felicità, di conoscenza... di amicizia. Non li lesse subito: preferì dedicarsi qualche attimo al pensiero che qualcuno lo avesse degnato così tanto della sua attenzione da fargli un regalo, per di più uno sconosciuto – ma in fondo per un barbone tutti sono sconosciuti, cioè nessuno vuole conoscerlo. Aprì la sacca come fosse una cripta, dove il suo io era stato sepolto, sepolto dalle avversità, dall'indigenza, ma sepolto vivo, e vivo si ritrovò, vivo si riscoprì leggendo dopo tanti anni che non lo faceva più. Non smise un attimo, tanto che non si accorse del ritorno del ragazzo, il quale non lo disturbò, ma anzi, felice di quanto il suo regalo fosse stato gradito, ò oltre. Per comprendere la profondità di un'amicizia non serve raccontarla tutta, basta narrare l'inizio... e a

volte la fine. Anche quel giorno scese le scale di corsa, si aspettava le solite due chiacchiere con l'uomo al portone, ma quella mattina non lo vide. Cercò con lo sguardo attorno, chiese al bar, all'edicola. Poi un pensiero... corse alla libreria dietro casa sua. Chiese di lui e il commesso gli disse che gli aveva lasciato un regalo, che il ragazzo ricevette avvolto nella stessa sacca che lui aveva usato per portargli i libri. La aprì e trovò un libro di filosofia. Il titolo non è importante, la scelta del genere sì. Aprì il libro e trovò un biglietto. C'era scritto grazie. Si chiese come avesse potuto pagare un libro di più di trenta euro, quando lo sguardo gli cadde sul settore dei libri usati e trovò tutti quelli che aveva regalato a quell'uomo, capì che li aveva venduti per fare il regalo a lui. Quando quel giorno ritornò a casa, gli venne spontaneo guardare al lato del portone, dove lui stava sempre seduto, ebbe un'idea. Aprì lo zaino e tirò fuori un pennarello nero. Su quella parte di muro, il muro di quell'uomo, scrisse “Grazie”.