Tranquillitudine: Tranquille Inquietudini Oniriche 1j5z2t

Table of Contents

TRANQUILLITUDINE PREMESSA TRANQUILLITUDINE – CALABRIA TRANQUILLITUDINE UNA PREDA PER DUE DOPOLAVORO UN WEEKEND QUALSIASI IL BUON SAMARITANO NEW YORK, 11 settembre 2001 AUTOSTOP MATRIMONIO DIVERSO MIO FIGLIO SARAH E MICHAEL LETTERE STO MALE I PERCHÉ NON MOTIVATI DELITTO E CASTIGO OGGETTIVITÀ: QUESTA SCONOSCIUTA!

SCELTE IL DONO PIÙ GRANDE METE LETTERA CON RISPOSTA* MAMMA TAPPARELLE

ARALLU

Eterodossa

1

© 2012 Gilgamesh Edizioni Via Curtatone e Montanara, 3 – 46041 Asola (MN) [email protected] - www.gilgameshedizioni.com

ISBN 978-88-97469-68-1

È vietata la riproduzione non autorizzata. Le riproduzioni potranno essere concesse dall’editore con specifica autorizzazione e soltanto con un numero di pagine non superiori al 15% del volume.

In copertina: Fotografia di Ermanno Prandini

© Tutti i diritti riservati

Fabio Segala

TRANQUILLITUDINE

Tranquille inquietudini oniriche

Gilgamesh Edizioni

La solitudine è fonte di felicità e di tranquillità dell’animo.

Arthur Schopenhauer

PREMESSA

Tranquillitudine. Cos’è questa parola inventata? Uscita dalla bocca di una zia che parla l’italiano come viene, è una parola che mi ha fatto riflettere. Si nota che è un vocabolo composto. La parola principale che la compone è tranquillità. La seconda parola a cui l’ho associata, appena l’ho sentita, è stata solitudine. Nei giorni successivi, però, ho pensato anche ad abitudine e, infine, a inquietitudine. Il primo abbinamento a cui ho pensato è stato tranquillità e solitudine. Solitudine in senso positivo del termine, come ricerca di noi stessi. Quella solitudine che si cerca in un posto tranquillo dove abbandonare tutti i pensieri e le noie della vita quotidiana. Perché la tranquillità si cerca per rimanere soli e per allontanarsi dalla vita frenetica. Di solito la si trova in un posto caro al cuore o in un luogo che ci ha colpito positivamente. Questa tipologia di tranquillitudine la si ritrova nel primo racconto, autobiografico. L’unione di tranquillità e abitudine si riferisce a quella serenità che pochi trovano, a quanti soddisfatti della loro vita così com’è non cercano altro. Per loro l’esistenza va bene così. È quella tranquillità ottenuta con un lavoro appagante, una buona relazione di coppia, l’amicizia fine a se stessa o con la casa dei propri sogni, da vivere ogni giorno. Quando però l’abitudine della vita è vista, al contrario, come oppressione e ostacolo alla vita stessa, si inizia a soffrire di quella tranquillitudine formata da tranquillità e inquietitudine. È la sensazione che provano le persone che insoddisfatte della loro vita cercano di cambiarla, e quando si accorgono che potrebbe essere tutto vano si inquietano e si sentono impotenti. Allora si rinchiudono in sé, divenendo solitari al punto di vivere la tranquillità-solitudine secondo un’accezione negativa, per cui la solitudine è conseguenza di scelte sbagliate, legate all’inquietitudine che si sta vivendo.

Volendo compendiare, la tranquillitudine (in ogni sua accezione, positiva o negativa) è il filo conduttore, il leitmotiv dei racconti che seguono. Attesto che li ho scritti tutti mentre mi trovavo in uno stato di tranquillitudine. Ciò che ne viene è un'opera che si compone di due parti: la prima, intitolata TRANQUILLITUDINE, è composta da racconti di fantasia, ad eccezione del primo che è autobiografico; la seconda, intitolata LETTERE, è costituita da lettere mai spedite o pensieri di vario genere. Alcune storie contengono scene erotiche. Probabilmente, a volte, troverete che i racconti abbiano una trama e un finale scontati, ma siccome sono narrazioni di sogni che ho fatto, si concludono esattamente come li ho sognati.

TRANQUILLITUDINE – CALABRIA

Che ricordi mi evoca questo momento? Sono di fronte alla ditta per cui lavoro. Davanti a me ho un po’ di campagna. Nel piazzale del parcheggio sventolano delle bandiere. C’è una leggera brezza che, accarezzando gli anelli che reggono le bandiere, crea un dolce tintinnio contro le aste. Nella fattoria che si trova vicino alla ditta, di fronte a me, in qualche punto imprecisato del cortile, galli e galline cantano. E la brezza avvicina a me l’odore del marcio del lago. I erotti fischiettano l’inizio di un nuovo giorno. Sta cominciando a schiarire appena, il sole è ancora nascosto dietro l’orizzonte. Calabria: ecco cosa mi evoca questa scena. Le estati ate in collina in Calabria, dai miei nonni, dove suoni e odori simili a questi erano ricorrenti tutta la giornata. In Calabria, mi ricordo, la sera si andava a dormire presto, mai una volta dopo le dieci. Ci si svegliava pure presto. Avevo una sveglia abbastanza precisa. Mi svegliavo spesso di soprassalto e ricordo che tendevo l’orecchio. La mattina presto mio nonno transitava con le vacche dietro la camera dove dormivo, quand’ero bambino, o con le pecore quand’ero ragazzo, per portarle al pascolo. Il tintinnare delle bandiere mi ricordava quel preciso momento della giornata. Quelle bestie, con i loro versi e il loro scamlare, attivavano le mie orecchie e dopo il loro aggio iniziavo a sentire gli altri rumori, effimeri, di inizio giornata. Mia nonna, mia madre e mia zia, le uniche donne di famiglia perché i miei zii erano ancora single, parlottavano in dialetto stretto in cucina, magari davanti al camino , anche d’estate per cuocere certe vivande. Al che mi alzavo. Nella camera che condividevo con lo zio più giovane, a metà

altezza tra la finestra e il soffitto, c’era una presa d’aria chiusa da una graticola. Da lì, guardando la luce che filtrava, capivo se il sole era sorto o meno. Se vedevo una luce giallastra voleva dire che era accesa la luce del portico e che quindi era ancora buio, se vedevo una luce fioca stava albeggiando, mentre se vedevo luce chiara il sole era già sorto. Ma il più delle volte, al più stupido pretesto, mi alzavo, solo per vedere l’alba. M’infilavo le ciabatte e mi trascinavo in cucina, dove mamma, nonna e zia mi salutavano con un buongiorno. Da lì uscivo per andare in bagno, posizionato, come si usava una volta e dov’è stato fino alla ristrutturazione della casa, avvenuta qualche anno fa, all’esterno della casa. Mi svegliavo con acqua gelida, perché mia nonna accendeva il boiler solo la sera, per la doccia, e rientravo. Tornavo in camera e, senza svegliare mio zio, mi vestivo e tornavo in cucina. Sul fuoco trovavo ancora quel latte caldo, appena munto, che solamente quand’ero ormai grande, dopo la morte di nonno e la vendita di tutte le bestie, era stato sostituito da quello confezionato. Mi apprestavo a berlo insieme a biscotti e dolcetti, la maggior parte delle volte fatti in casa. Il mio abbigliamento da vacanza era sempre lo stesso: jeans, scarpe da ginnastica, camicia e maglione d’inverno; shorts, scarpe da ginnastica e t-shirt d’estate. Ecco che allora uscivo in cortile dove era parcheggiata la nostra Ford Taunus, sostituita a fine anni ottanta da una Fiesta. Spesso incrociavo mio nonno che, risalendo la china della collina, tornava dal pascolo dove aveva lasciato le bestie e, dopo avermi dato un bacio sulla guancia, si dirigeva ad aprire il cancello del vialetto d’ingresso. Quand’ero piccolo, mio padre e il mio zio più giovane, quello con cui dormivo e che aveva nove anni più di me, lo accompagnavano al pascolo. Mi sedevo su una delle panche del belvedere. Una delle fortune della casa di nonna era che dal suo cortile si vedeva la strada salire la collina, la comunale cui era collegata e dietro questa tutta la vallata sino alla statale che univa i vari paesi.

La statale ava su un torrente. Sullo stesso, parallele alla statale, correvano la ferrovia e dietro di essa l’autostrada che percorrevamo per arrivare lì. La ferrovia… avo giornate intere a vedere i treni are, ne transitavano parecchi mentre ero seduto al tavolo in cemento intento a svolgere i compiti delle vacanze. La mattina presto me ne stavo sedevo al belvedere e sentivo la natura prendere vita. Alcuni uccellini cantavano già, nonostante fosse ancora buio. Sentivo in lontananza le vacche muggire mentre venivano portate fuori dalle stalle. Qualche gallo, in risposta, cantava l’alba che doveva ancora arrivare, qualcuno veramente cantava anche a sole bello alto. Poi, dietro la collina più alta, filtrava il primo raggio di luce e la maggior parte dei galli cantava, seguiti dalle galline che annunciavano le prime uova del giorno. Vedevo mia nonna correre a prelevarle per poi farci la frittata di mezzogiorno. Mio nonno, invece, entrava nell’orto a dare la zappata e l’innaffiamento del mattino. Con la luce apprezzavo la bellezza della tranquillità (tranquillitudine). Guardavo il cortile di nonna: il cancello che dava sulla strada, appena rientrante, il vialetto d’ingresso, lungo una ventina di metri con, alla sua destra, l’orto principale, che si stendeva fin dietro casa, e alla sua sinistra un altro piccolo orticello. Oltre quest’orticello c’era il grande pozzo affiancato dall’abbeveratoio per le bestie. Al di là c’era il vialetto sterrato che portava ai pascoli e agli oliveti, sul bordo del quale per tanti anni era rimasta, vittima di edere, la vecchia Simca di mio nonno. Il vialetto asfaltato si allargava a piazzale davanti casa e lì parcheggiavamo la nostra Ford, a lato della quale era sempre pronta all’azione l’Ape 50 di mio nonno. Poi, quando mio zio prese la patente, a rimpinguare il parco mezzi fino al tempo del suo matrimonio, si aggiunse una Fiat Uno. Nell’angolo del piazzale c’era sempre la cuccia di qualche fido cane; in trent’anni i miei nonni ne avranno avuti una cinquantina, questo perché in

parecchi scappavano nottetempo o morivano. Quando il sole s’era ormai levato, si svegliava anche mia sorella, e le donne di casa intanto avevano già preparato la seconda colazione: panino al salame, alla soppressata o al capocollo era d’obbligo alle otto di mattina. D’estate si andava al mare, quando invece si decideva di rimanere a casa era sacro il sonnellino pomeridiano che iniziava all’una e che durava un’ora o due. Quand’ero ragazzino tornavo in camera e dormivo per bene. Un’estate mio nonno, che stava raggiungendo una certa età, si era portato uno sdraio sul belvedere, per dormire all’aperto sotto l’ombra di due Spini di Giuda. Quando compii vent’anni quello sdraio divenne mio, fu l’anno in cui mio nonno ò a miglio vita. E coricarmi lì me lo faceva sempre ricordare. Era bello svegliarsi con il sole che filtrava dai rami e si frangeva sulla mia fronte. Allora guardavo il panorama e sentivo il tintinnare delle bestie al pascolo. Qualche gallo ritardatario cantava ancora. Sentivo muggiti e belati, mentre trattori, in lontananza, aravano i campi. Quanto mi mancano quelle vacanze da giovane spensierato. Adesso vedo mia nonna per pochi giorni all’anno, in occasione di qualche festività o in prossimità di eventi familiari rilevanti. Le mie vacanze ormai hanno altre mete. Ma quei pochi giorni che trascorro in quella vecchia casa, oggi risistemata, dove mia nonna vive sola da anni, mi fanno davvero dire: “Casa dolce casa”. E vorrei arci il resto della mia vita.

TRANQUILLITUDINE

UNA PREDA PER DUE

Era una notte come tante di quella lunga estate e anche se minacciava temporale da un minuto all’altro, decisi di uscire. Sarei andato alla festa sulla spiaggia del fiume. Sapevo che avrei incontrato qualcuno che conoscevo. Era una festa annuale. Avrei incontrato parecchi amici, ma anche diversi ex fidanzati. Anzi, molti dei miei ex adesso sono i miei migliori amici. La festa era organizzata dal gruppo gay della città e un paio di miei ex facevano parte degli organizzatori. Mi era stato detto che quell’anno la raccolta fondi per l’associazione si sarebbe compiuta con un’asta di alcuni ragazzi presi a caso tra la folla. «Stai attento che potresti essere uno dei candidati.» mi punzecchiò qualche sera prima Cristiano, un mio carissimo amico. «Che tema avete scelto quest’anno?» chiesi quella sera. «Vita da college. Mi raccomando vestiti a tema! Ma per uno stilista non dovrebbe essere difficile!» «Mitico davvero!» La sera della festa arrivò. Il cielo era buio con grossi nuvoloni e vento sostenuto. Ero vestito da professore di chimica. Incontrai Alessandra e Giacomo che stanno insieme da quindici anni e non hanno la minima intenzione di sposarsi. Mi stavano tartassando le orecchie con le avventure che avrebbero vissuto nel loro prossimo viaggio in Brasile, quando fui salvato da Marco. L’ultimo dei miei ex. «Adriano, vieni con me che devo farti vedere una cosa.» «Guarda che il tuo cazzo lo conosco già molto bene.» «Non si tratta di quello, stupida! Guarda là che manzo! Cristiano l’ha già avvicinato per l’asta ma hanno concordato un prezzo base troppo alto.» «Quanto?»

«Diecimila euro!» «Wow! Sono tantissimi. Saranno in pochi a contenderselo.» «Tu, ad esempio.» Mi stupii che fosse lui a indicarmi un nuovo arrivato dato che era ancora innamorato di me. Eravamo molto distanti dal ragazzo che mi veniva indicato e, osservandolo, di spalle mi sembrava il classico palestrato, di cui vado pazzo, ben tornito, bicipiti contenuti appena dalla maglietta. Eppure quella sagoma, a differenza di qualsiasi palestrato, mi ricordava qualcuno. Ma un piccolo particolare, quasi indefinito a quella distanza, mi rivelò chi era. Dal bordo della maglietta, sul braccio destro, sbucava un tatuaggio. La coda di un dragone viola. Chiunque avrebbe potuto sfoggiare un tatuaggio simile ma quello non era un disegno comune. Infatti in quel periodo conoscevo solo una persona con un tatuaggio simile e mai avrei sospettato di una sua possibile omosessualità. Quando si voltò ebbi conferma che si trattava di Lorenzo, il nuovo modello della casa di moda, che per sport praticava molto pugilato. Oltretutto era stagista proprio al mio ufficio, dove mi era capitato di vederlo nudo. Per quanto ne sapevo, neppure lui era a conoscenza della mia omosessualità. Decisi che avrei partecipato all’asta. Ma prima avrei dovuto incontrarlo per svelarmi. Ma non avrei fatto la sfacciata mossa di apparirgli improvvisamente davanti. Mi sarei trovato di fronte a lui per caso e lui si sarebbe dovuto stupire. Non aspettai a lungo, pochi secondi dopo me lo ritrovai di fronte. «Sapevo che ti avrei trovato qui Adriano Conversi.» «Ciao Lorenzo. Mi aspettavi?» balbettai. «Al lavoro sapevo di piacerti. Parteciperai alla mia asta?» «Hai una base molto alta.» «Per restringere la cerchia. Non voglio finire in mano di qualche nonnetto impotente.»

«Sarebbe uno spreco. Bello come sei.» «Grazie.» Arrossii. Facemmo due i lungo il fiume. Era molto simpatico. Prima che chiamassero a raccolta i candidati all’asta, lontano dallo sguardo indiscreto dei presenti, mi baciò. «A dopo, bello. Tanto vincerai tu!» «Contaci.» Cristiano chiamò sul palco i ragazzi messi all’asta. Erano una decina. Uno più bello dell’altro. Cristiano aveva occhio e buon gusto. Io però guardavo solamente Lorenzo, che continuava a farmi l’occhiolino. Lui sarebbe stato addirittura l’ultimo in asta. Meglio per me. Avrei avuto sicuramente nove rivali in meno. Gli altri ragazzi furono aggiudicati per cifre molto inferiori ai diecimila di base di Lorenzo. Cristiano lo presentò. «E ora un pezzo unico. La sua base d’asta è parecchio alta. Diecimila euro!» Si sentì un mormorio tra il pubblico. Qualcuno fece un oh di stupore. «La sua base è così alta per un semplice motivo. Lui è Lorenzo Brindani, un conte.» Lo stupore accrebbe. «Allora si parte da diecimila.» «Undicimila.» feci io. «Dodici.» replicò una voce. «Tredici.» aggiunsi. «Quindici.» disse un’altra voce.

«Sei ambito Lorenzo.» sentenziò Cristiano. «Sedici.» aumentai. Le offerte salirono fino a ventimila euro, mia ultima offerta. «Qualcuno offre di più! Ventuno? Ventidue?» chiese Cristiano «Battiamo il prezzo finale. Venti e uno, venti e due, venti e.» «Cinquantamila.» lo fermò una voce. Una voce che mai avrei voluto sentire. Una voce che avrei voluto dimenticare per sempre. «Ragazzi che offerta! Qualcuno offre di più?» «Centomila.» la mia voce uscì senza che me ne accorgessi. Un oh amplificato alla massima potenza si estese per la spiaggia. La folla si aprì al aggio della voce dei cinquantamila. La voce tanto odiata mi si affiancò. La folla fece ring attorno a noi. Qualcuno del reparto luci ci puntò addosso i proiettori. Lo vedevo bene ora. Era di fronte a me. Vestito in un tight viola melanzana con cappello piumato giallo canarino e una pashmina azzurra. «Ciao Adriano.» mi salutò sfrontato. «Ciao Pasquale.» lo ignorai. «Allora fratellino come te la i?» sarcastico. «Stavo bene finché non hai offerto quei cinquanta, fratellino!» feci, pieno di rabbia. Pasquale Devino è stato il mio primo grande amore. C’eravamo fidanzati a quindici anni. Ci siamo lasciati a venticinque. Dieci anni di amore e odio. Stavamo insieme ma allo stesso tempo ci scannavamo. Abbiamo lavorato persino insieme. Eravamo stilisti noi due: Devino e Conversi, a diciotto anni avevamo pure fondato insieme la DeCo. Poi a venti siamo diventati rivali d’affari. La Total Look, la mia nuova casa di

moda, primeggiava nelle vendite e nelle sfilate. Da noi venivano a vestirsi molte star. Pasquale invece aveva fondato la Karbon, che sfornava completini come quello che indossava, ma in pochi ne erano clienti. Qualche star di film porno, qualche eccentrica nobile dell’Europa. Un mese fa Pasquale era finito di nuovo nel mio letto. Ma era un pretesto per rubare i bozzetti della mia collezione, tranne quello chiuso in cassaforte. Lo so fa molto Beautiful. Il bozzetto salvato era quello del vestito nuziale. Decisi di proporre un revival delle creazioni ate e chiamai la sfilata “Anniversasposi: cinque anni di abiti nuziali alla Total Look”. Fu un successone. La Karbon con i modelli rubati ebbe un po’ di mercato. Ma noi primeggiavamo ancora. «Pasquale, come vanno gli affari?» chiesi ironico. «Sempre a vantarti tu! Solo perché hai vinto anche quest’anno. L’Anniversasposi non è farina del tuo sacco. Chi te l’ha proposto?» «Non lo saprai mai.» «Ehi ragazzi.» intervenne Cristiano «Abbiamo un’asta in corso. La terminate? Eravamo rimasti ai centomila di Adriano.» «Duecentomila.» offrì Pasquale. «Trecento.» ribattei. «Cinquecento.» ringhiò Pasquale. «Non puoi permetterlo. La Karbon ha fatturato solo trecentocinquanta quest’anno.» «Come fai a saperlo? Venderò la Karbon.» «Illuso. Cris, io offro un milione di euro.» «Ooooohhhhh!» il boato della folla. Pasquale sbiancò. Si strinse la pashmina al collo, puntò il bastone da eggio nella sabbia e ruotandolo girò le spalle al palco e se ne andò.

DOPOLAVORO

Non so se abitare vicino al dopolavoro della propria ditta sia una situazione positiva o meno. Per fortuna non ho mai dato la reperibilità sennò la mia libertà avrebbe preso il volo. Purtroppo capitava spesso che i miei colleghi smontando dal lavoro mi venissero a trovare, così, invece di pagarla al bar, la birra la scoccavano puntualmente a me. Qualcuno approfittava per verificare se mi ricordassi del mio turno mensile. Come quel venerdì sera. Filippo smontava dal pomeriggio e benché la mattina dovesse rimontare alle sei ò a ricordarmi che anch’io mi sarei dovuto presentare per coprire una malattia. Quella sera ero stato a una cena e quando alle dieci e mezza circa tornai a casa, trovai Filippo attaccato al mio citofono. Ci salutammo e lui mi ricordò di puntare la sveglia. Io ero un po’ abbattuto, a causa del turno che mi attendeva. E quella sera pareva proprio che il destino mi fosse particolarmente avverso… Appena Filippo si allontanò vidi un ragazzo sui trentacinque anni staccarsi dalla sua compagnia e avvicinarsi a me. Mi salutò benché non lo conoscessi. «Ciao. Volevo chiederti una cosa.» «Dimmi pure…» «Io mi chiamo Fabio e sono operatore al confezionamento e dai discorsi dei miei colleghi ho sentito dire che tu sei gay. È vero?» «Purtroppo, sì.» «Come sarebbe a dire purtroppo? Sei un mito per l’intero reparto perché hai avuto il fegato di dichiararti.» «Però non l’ho fatto di mia spontanea volontà.» «Ok. Però ti volevo chiedere… »

«Dimmi Fabio. A proposito, sai che ti chiami come me?» «Sì, lo so. D’ogni modo, io ho un problema. Sono felicemente fidanzato con Elena, ma ultimamente mi sta succedendo una cosa strana.» «Mi hai preso per uno psicologo?» «No, ma puoi aiutarmi solo tu. In pratica quando faccio sesso con lei, al culmine del rapporto, quando sto per fare quella cosa, insomma chiudo gli occhi come sempre e di colpo mi appaiono i volti dei miei amici o dei miei colleghi.» «Quindi, non riuscendo a capire se sei attratto anche dai ragazzi, vorresti?...» «Vorrei avere un rapporto con un ragazzo; e siccome non conosco nessuno eccetto…» «Sei venuto da me.» «Appunto.» «Di solito dico di no a queste richieste, non sai quante ne ho ricevute in questi mesi, mi spiace ma non posso. Per rispetto al lavoro.» «Aspetta a rinunciare. Parliamone!» Parlai con Fabio per un’altra oretta circa, finché lui, molto emozionato, si avvicinò al mio viso e mi baciò. Ma il destino era ancora in agguato. Il quartiere del dopolavoro era un ritrovo di spacciatori e prostitute per cui, ogni ora, una volante dei carabinieri perlustrava la zona. Per nostra sfortuna ò nel preciso momento in cui Fabio e io ci stavamo baciando. I due carabinieri, molto giovani e carini, accostarono subito e ci raggiunsero. «Documenti prego.» «Scusi?» chiesi incredulo. «Qui siamo in piena violazione dell’articolo sull’oltraggio al pubblico decoro.» «Veramente io abito qui e mi conoscono tutti.» dissi allungando la carta

d’identità. «È vero Carlo. Il signor Soriani abita proprio a questo civico.» «Allora vuol dire che vi stavate dando il bacio della buonanotte?» «Veramente era il primo bacio della serata.» intervenne Fabio paonazzo. «Stavamo per entrare in casa.» «Carlo, io li lascerei andare.» «Hai ragione, Alberto. Per questa volta a.» «Signor Soriani, avrebbe da accendere? Siccome siamo fermi ho voglia di una sigaretta.» «Alberto, siamo in servizio.» «Carlo, è tutta notte che ho voglia. Qui non ci vede nessuno.» Accesi la sigaretta a Carlo e, non so come, ci ritrovammo a chiacchierare tutti e quattro, seduti sui gradini dell’androne del mio palazzo. Fabio era accanto a me, nervosissimo; Carlo, invece, era alle mie spalle. Le sue gambe si appoggiavano delicatamente alla mia schiena. Alberto stava in piedi di fronte a noi. Chiacchierando del più e del meno, mi ritrovai ad accarezzare la caviglia di Carlo che spuntava dal calzino bianco. Quando se ne accorse, balzò in piedi di scatto. «Fabio! Cosa fai?» «Scusa, non volevo.» «Alberto, andiamo che sta per finire il turno.» Appena partirono guardai l’orologio. Si erano fatte le cinque. Entro un’ora avrei dovuto montare il turno. Entrai in casa con Fabio e chiamai al lavoro dicendo che non sarei riuscito ad andare. Mi dissero di non preoccuparmi, perché era già arrivato il collega rientrato dalla malattia.

Fabio e io ci buttammo sul divano e ci baciammo nuovamente, quasi ridendo. Da lì al letto il o fu breve. Alle sei e mezza il mio camlo suonò. Nudo mi affacciai alla finestra. Sull’androne del palazzo c’erano Alberto e Carlo in borghese. Li feci salire mentre in fretta e furia Fabio e io ci rivestimmo. Appena aprii la porta, Carlo si fiondò tra le mie braccia e Alberto raggiunse Fabio che si era affacciato dalla camera. Ci alzammo dal letto verso mezzogiorno e pranzammo insieme, Fabio volle brindare. «Cavolo!» disse alzando il bicchiere «Per essere stata la mia prima esperienza gay mi sono proprio divertito!» Alberto e Carlo ci fissarono stupiti, io alzai il mio bicchiere e guardando Fabio mi misi a ridere. Ridemmo tutti. Quel giorno era nata una bella amicizia di sesso.

UN WEEKEND QUALSIASI

Una tranquilla sera, di un weekend qualsiasi, ero a casa mia, un piccolo appartamento in centro, ristrutturato e arredato da me; ero intento a pulire mentre guardavo un film in dvd, acquistato un’ora prima al sexy shop. Mi ero trasferito in quest’appartamento da un mese circa e non conoscevo i miei vicini, se non di vista. Finalmente respiravo fuori dalla grigia vita familiare. Finalmente, come a lungo desiderato, potevo starmene comodamente nudo in casa mia. E proprio così mi trovavo quella sera, mentre spolveravo con un piumino la libreria. Il dvd mandava scene orgiastiche di un gruppo di ragazzi in palestra. Avevo la mente libera dall’impegno del lavoro; il giorno dopo avrei potuto dormire fino a tardi. Ma qualcuno suonò alla porta. Scrutai dallo spioncino e, con mia enorme sorpresa, intravidi alla porta il mio dirimpettaio, un ragazzo sui vent’anni circa. In fretta indossai i pantaloni di una tuta da jogging che avevo posato sul divano e, dopo aver messo in stop il dvd e selezionato un programma qualsiasi in televisione, aprii la porta e invitai l’ospite a entrare. Mi porse un mazzo di rose rosse e due bottiglie di vino rosso. Bonarda, il mio preferito. Mi sorrise io mi sentii resuscitare. Al mio invito di accomodarsi glissò, prendendo a esaminare ogni minimo particolare del mio appartamento. Io invece osservavo lui: si era presentato in vogatore blu, jeans tagliati ad altezza ginocchio e un paio di infradito che esaltavano due piedi da favola, sul destro dei quali era ricamato un tatuaggio tribale. Aveva un fisico scolpito e depilato, avrei voluto essere come lui. Invece ero magro come uno stecco e avevo il torace villoso. La prima cosa che notò del mio arredamento erano i quadri. Li avevo realizzati

io: erano due lastre di plexiglas, unite da una cornice appesa con una corda. Si creava così un doppio quadro che voltavo a seconda degli ospiti che avevo: da un lato mostravano foto artistiche di ragazzi in pose molto provocanti, dall’altro semplici poster che riproducevano classici d’arte. Ovviamente nella fretta erano rimasti voltati dal lato sbagliato. Facevano bella mostra due o tre ragazzi vestiti solo di boxer o slip. Poi mi chiese di brindare a me e allo stupendo lavoro d’arredamento che avevo fatto. Estrassi dalla credenza due calici e stappai una delle bottiglie. Lo accompagnai a visitare casa, gli illustrai il soggiorno dove eravamo, lo condussi in cucina e addirittura in bagno e in camera. Vide il televisore e mi chiese se stavo guardando qualcosa di particolare, gli risposi che stavo facendo zapping. Gli offrii un altro bicchiere di vino e continuammo a parlare. Siccome nella visita aveva visto diversi souvenir della Jamaica mi chiese se volevo farmi una canna con lui; la cosa mi sorprese ma poi accettai. Era parecchio tempo che non me ne facevo una. Mi spiegò che gli era arrivata dalla Colombia tramite degli amici e mi garantì che era di buona qualità. Lo osservai scrupolosamente mentre rollava, era molto meticoloso. Accese la canna, me la porse e io cominciai a tirare, tossendo pesantemente e mettendomi a ridere. Fu subito contagiato dalla risata. Per calmare la tosse che si alternava al riso mi versò un bicchiere di vino. Tracannai il bicchiere e mi sentii avvampare. Nel giro di un’ora avevamo già fatto fuori le due bottiglie di vino e la vodka che tenevo in casa. Lui, nel frattempo, aveva rollato altri tre o quattro spinelli. Eravamo fatti all’ennesima potenza. Ridevamo come pazzi. Nella foga di una lotta con i cuscini cadde sul divano e colpì il telecomando. Sullo schermo il quiz venne sostituito dal film che stavo guardando prima del suo arrivo e del quale mi ero completamente scordato. A quella vista Andrea, così si chiamava, stupito si avvicinò e mi baciò. Si coricò

sopra di me, che ero visibilmente eccitato e mi baciò il torace. Si tolse il vogatore e mi portò sul mio letto. Completò lo spogliarello togliendosi i jeans mostrando il suo fidato arnese senza la protezione di biancheria intima. Mi tolse a forza i pantaloni che indossavo e si trovò di fronte al mio pene nudo e crudo. La notte ò movimentata. Ci addormentammo verso le due di notte, abbracciati. La mattina dopo lo trovai in cucina a prepararmi la colazione e mi salutò con un bacio da favola. Poi tornò a casa a prepararsi per il lavoro e ci salutammo. Il mio vicino divenne il mio ragazzo.

IL BUON SAMARITANO

Viaggiando spesso mi capita sempre più di vedere coppie gay baciarsi, abbracciarsi o solamente tenersi per mano in pubblico. Una volta non ci badavo, non me ne accorgevo. Quand’ero fidanzato con Niccolò, mi raccontava che con i suoi ragazzi non si era mai vergognato di tenere loro la mano mentre eggiava in città. Si sentiva libero di fare quello che voleva. Con me però era costretto diversamente: io non me la sentivo di baciare un ragazzo nel centro della mia città. Poi ho conosciuto Alessandro. Per gli amici e per tutti quelli che conosciamo, Alex è il mio attuale compagno. Stiamo insieme da dieci anni e con lui mi sono liberato della mia timidezza in pubblico. Oggi chiunque incontro in centro sa che Alessandro è il mio compagno. Ho rivisto anche Niccolò una sera. Certi compagni del liceo si sono stupiti di vedermi mano nella mano con Alessandro. Glielo presentavo e mentre lui allungava la mano destra per presentarsi vedevo le loro facce indugiare sull’altra mano incollata alla mia. Viaggiando spesso, per lavoro, vedo poco Alessandro e quindi, quando sto lontano per molto tempo, la sera lo chiamo a casa. Una sera, un paio di mesi fa, gli raccontai una piccola avventura che mi era capitata nel pomeriggio. «Ciao, amore mio.» «Ciao, cucciolo. Dove sei?» «A Roma. Oggi mi è successa una cosa carina.» faccio io sorridendo. «Cosa ti fa essere così felice?» mi dice sentendomi euforico. «Oggi pomeriggio mi trovavo a Orvieto, e mi sono incantato a guardare due ragazzi seduti su una panchina, in chiaro atteggiamento da innamorati.»

«Cosa stavano facendo?» «Uno appoggiava la testa sulla spalla dell’altro e si tenevano per mano.» «Ebbene?...» «Il problema era che erano seduti davanti al Duomo! Mi giro di scatto e vedo un vigile urbano che si sta chiaramente dirigendo verso di loro.» «Hai fatto il buon samaritano?» «Insospettito, a o rapido vado verso il vigile, che era uno che conosco per via del lavoro che sto seguendo a Orvieto.» «Che hai fatto? Lo hai steso con un pugno?» «Ma che dici? Mi vede che sto andando verso di lui e mi saluta deviando un attimo il suo cammino ma io riesco a bloccare la sua avanzata.» «Lui sicuramente si è scusato dicendoti “Scusa ma vado di fretta!”.» «Allora io gli faccio “Scommetto che stai andando da quei due!”.» «Cosa ti ha risposto?» «Mi fa “Ma insomma hai visto queste scene?”» «E tu che hai risposto?» «“Quali scene? Ti turba vedere due che si vogliono bene? Non è mica atto osceno?”» «Ha titubato?» «Due panchine più in là c’erano un ragazzo e una ragazza, stessa scena. Gli chiedo di intervenire con loro. Stava rispondendo con “Ma loro sono normali” e altre parole di chiaro stampo discriminatorio. Lo guardo male e lui si zittisce subito.» «Com’è finita?»

«Si allontana subito. Io faccio per andarmene, quando mi sento chiamare da uno dei due. Avevano sentito parte della mia chiacchierata con il vigile. Mi chiedono cosa ho detto di preciso. Gli dico che ho detto al vigile di farsi i cavoli suoi. Mi ringraziano. Poi, sorridendomi, si presentano.» «Stai attento però quando fai il buon samaritano.» «Sai amore da dove arrivavano?» «Da dove?» «Da Varese, come te, amore mio! Gli ho chiesto se per caso ti conoscevano» «E cosa ti hanno risposto?» «Non ci crederai. Uno dei due era il tuo ex, Marcello.» «No dai! Impossibile!» «Anche lui non ci credeva quando gli ho detto che eri il mio ragazzo. Mi ha lasciato il suo numero, così quando andiamo a Varese mi ha chiesto di fare un’uscita a quattro.» «D’accordo.» «Buona notte, amore mio.» «Buona notte, cucciolo.» Con Alex adesso siamo a casa di Marcello e Davide per una cena ridanciana, durante la quale ci si raccontano particolari di quella divertente scenetta.

NEW YORK, 11 settembre 2001

Eravamo a New York da due settimane, io e il mio fratello gemello Andrea. Avevamo visitato qualsiasi cosa: il Chrysler, l’Empire State Building, le Twin Towers, il MOMA, la Statua della Libertà, il Queen’s, Little Italy, Broadway e tanto altro. Eravamo molto stanchi. Dovevamo trascorrere altre due settimane in America, nonostante non avessimo più voglia di rimanerci un solo giorno di più. Ma Andrea mi chiese di resistere fino alla sera di sabato. Io acconsentii e finalmente sabato arrivò. «Che noia fratellino, sono stufo di stare in stanza. Andiamo a fare due i?» «Certo Luca, a me va bene. Poi andiamo al Rush.» «Ammetto che sia il miglior locale gay di New York, ma mi sono stufato di andarci.» «Dai, facciamoci un giro, fratellino…» Sia io che Andrea siamo gay. Anche se Andrea l’ha capito cinque anni dopo di me, mentre si preparava per salire i gradini dell’altare. Iniziammo a eggiare per quelle strade, affollate anche di notte. Le sere precedenti eravamo andati al Rush, e tutte le volte avevamo rimorchiato un paio di ragazzi. Poi però la discoteca mi stufò. Iniziai a calciare una lattina di Pepsi che era rimasta sul marciapiede. I miei lanci rimbombavano sul lastricato. Continuai così fino a quando un tiro un po’ più lungo mi diede il tempo di distrarmi con una vetrina. le lastre che formavano il marciapiede. L’ultimo tiro fu un po’ lungo quindi feci in tempo a distrarmi con una vetrina. Andrea, vedendomi così assorto, ne approfittò: sollevò con la punta del piede la latta e la scaraventò in aria. Il rumore che ne seguì era diverso dal tintinnare della lattina sul marmo. La sentimmo colpire un qualche oggetto metallico.

Pensai che Andrea avesse beccato un’automobile, ma poi alzai lo sguardo: aveva intercettato un’altra lattina calciata da qualcun altro, e ora era caduta a terra e insieme formavano un singolare accoppiamento. Andrea bofonchiò qualcosa. «Fratellino, guarda, stanno facendo un sessantanove.» «Andrea, pensi sempre al sesso.» Ci voltammo verso la fonte del lancio e vedemmo due ragazzi. Rimanemmo sconcertati. Ci trovammo di fronte un’altra coppia di gemelli. «Grande Filippo! Come ci sei riuscito?» esclamò in italiano uno dei due. «Ma dai Pietro… è successo per caso.» rispose l’altro. Erano semplicemente adorabili. Ci guardavano stupiti. Poi uno di loro, quello con i capelli tinti di un appariscente biondo platino, si avvicinò per attaccare bottone. «Hi. That magnificent launch!» «Grazie.» rispose Andrea, lasciandoli ulteriormente stupiti. «Siete italiani!» ci fa Filippo, il moro. «Di Cavriana.» faccio io. «Scherzi?» chiede Pietro, il biondo. «Noi siamo di Ghedi.» precisa Filippo. «Ma dai. Trenta chilometri da noi!» conclude Andrea. Ci presentammo, loro erano Filippo e Pietro Savignani, avevano ventisette anni, noi ne avevamo trenta. Decidemmo insieme di andarci a bere una birra. Al Rush non andammo più quella sera. A fine serata Pietro fece la sua proposta. «Possediamo una villa di famiglia nel Jersey. Vi va di continuare le vostre

vacanze con noi?» «A me piacerebbe uscire da New York.» rispondo io. «Si può fare.» annuisce Andrea. «Andiamo a chiudere il conto all’hotel e poi siamo vostri.» Raggiungemmo un garage pubblico dove Filippo aveva parcheggiato una Volvo V70 e ci accompagnarono in albergo. La receptionist si dispiacque per la nostra partenza. Arrivammo alla villa quasi all’alba. Una vecchia casa coloniale che il padre dei ragazzi aveva ereditato da uno zio. Ci buttammo a letto appena Pietro e Filippo ci fecero vedere la camera degli ospiti. Ci ritrovammo a pranzo. Pietro mi propose di andare a fare due tuffi in piscina. Ovviamente accettai subito perché Pietro mi piaceva un sacco e avevo curiosità di vedere dove finiva il tatuaggio che avevo intravisto la sera prima sbucare dai boxer. «Io non ho voglia.» commentò Andrea. «Se vuoi» gli fece eco Filippo «abbiamo un maneggio. Ti va una cavalcata nel bosco? Abbiamo un villino sulla collina, era un vecchio mulino.» «Adoro cavalcare. E adoro i vecchi mulini.» rispose Andrea. Filippo e Andrea si erano intesi subito. Per loro cavalcata significava sesso. Li lasciammo andare. Quando tornarono per la cena, Andrea sembrava distrutto. Filippo lo aveva cavalcato per ore. Vidi una strana luce negli occhi di mio fratello. Si era innamorato di Filippo. Non potevo dagli torto. Anch’io in piscina ne avevo combinate di tutti i colori con Pietro. Il tatuaggio che avevo intravisto la sera si era rivelato un dragone che attorcigliava la sua coda lungo la coscia destra di Pietro. Le zampe anteriori del dragone artigliavano gli addominali all’altezza del fegato. Quelle posteriori invece graffiavano la chiappa destra e l’inguine, proprio all’altezza del pene. Ovviamente ero finito a farci sesso. E che sesso. Ed era chiaro a tutti che i giochi erano fatti. Insieme decidemmo che da quel momento Andrea e Filippo

avrebbero dormito nella camera degli ospiti e io mi sarei infilato nel letto di Pietro. A fine cena, dopo aver visto una videocassetta, si spensero le luci in soggiorno e salimmo la scala padronale per raggiungere le camere. Pietro mi condusse alla scaletta che portava in mansarda dove si trovava la sua camera. Andrea e Filippo si coricarono sul vecchio letto a baldacchino e si abbracciarono addormentandosi profondamente. Io, arrivato in mansarda, mi diressi all’abbaino e scrutai il cielo punteggiato di stelle. Vidi una stella cadente. Espressi il desiderio di rimanere tutti e quattro insieme. Per sempre. «Il tuo desiderio sarà esaudito. Staremo sempre insieme.» mi disse Pietro. «Ma come fai a sapere cosa ho desiderato?» «Siamo fatti della stessa pasta, amore mio.» Pietro mi aveva chiamato “amore mio” e ci conoscevamo da appena due giorni. Sorrisi. Mi si accostò alla finestra, mi prese per le spalle e, massaggiandomi, mi chiese di fare l’amore. Non mi negai. Con Pietro e Filippo dividemmo la settimana più bella della nostra vita. Pietro mi chiese di tornare con lui a Ghedi. Andrea invece chiese a Filippo di seguirlo a Cavriana. Entrambe le richieste furono accettate. Filippo prima di partire doveva concludere un affare a New York e Andrea voleva rimanere con lui. Filippo però lo esortò a partire con noi: «Tranquillo amore mio. Sono solo tre giorni.» Ma tre giorni dopo le Twin Towers crollarono. Filippo sarebbe dovuto partire per l’Italia quello stesso giorno. E in effetti la sera, il suo aereo non sarebbe arrivato. Andrea lo chiamò subito al cellulare. Filippo non era rintracciabile. L’angoscia si riversò nei nostri occhi. Avevamo versato lacrime tutto il giorno per la tragedia, quindi pensammo subito al peggio. Filippo era tra le vittime? In tre sperammo di no.

«Amore mio, che hai?» mi chiese Pietro. «Pietro, ho paura.» «Ti ricordi la prima sera in mansarda? Hai visto una stella cadente e hai espresso un desiderio. Ti ho promesso che sarà esaudito.» «Spero tu abbia ragione.» La sera eravamo tutti riuniti davanti al computer di Pietro a seguire le notizie in diretta quando lampeggiò il segnale di una videoconferenza. Pietro rispose. Attraverso la webcam s’intravide una mano che cercava di pulire l’obiettivo. Infine si vide un volto impolverato. Era Filippo. «Fratellino!» «Filippo!» «Amore!» «Ciao ragazzi. Qui è tutto un casino. Mi sono salvato per poco. Ma sono stato investito dalla polvere del crollo. Mi mancate. Spero di tornare a casa presto. A costo di farlo a nuoto.» «Ti aspetterò, amore mio. Anche se dovesse are un secolo.» Filippo tornò a Cavriana dopo quattro mesi. Aveva sostenuto visite mediche, incontri dallo psicologo… E quando lo ritennero in grado di sostenere un viaggio in aereo, lo fecero partire. Adesso stiamo tutti insieme. Il mio desiderio si è esaudito. Siamo tornati a New York lo scorso anno e siamo andati a Ground Zero. Abbiamo cantato insieme “I will survive” e abbiamo pregato. L’undici settembre prossimo festeggeremo sette anni insieme e fanculo alla crisi del settimo anno. Noi l’abbiamo già superata.

AUTOSTOP

Era già un mese che viaggiavo senza meta in autostop, alla ricerca di un luogo che mi pie. Il primo a darmi un aggio fu un motociclista gay che mi aveva fatto scoprire posti irraggiungibili con l’auto e che di notte mi aveva fatto capire che l’amore non ha confini. Sono stato con lui una settimana e ci siamo lasciati con la promessa di ritrovarci. Il secondo aggio, durato poche ore, l’ho avuto da un contadino burbero. Appena si è fermato mi ha fatto salire sul cassone del suo pick-up, perché davanti sedeva la moglie. Mi sono coricato sul fieno e mi sono guardato nuvole e stormi di uccelli attraversare il cielo e mi sono goduto la bellezza di una cicogna che è venuta ad appollaiarsi vicino a me. Il terzo aggio me l’hanno dato tre amici diretti al mare. Ridevano e scherzavano su tutto, e anch’io con loro. Mi presero in simpatia. Stetti in loro compagnia una settimana, scoprendo quanto può essere bella l’amicizia. Ci scambiammo i numeri di cellulare prima di partire con un pullman di volontari diretto in un paese colpito da un terremoto. Mi trattenni nella tendopoli una settimana. Quando estrassero un padre e un figlio vidi il sacrificio di quel padre per salvare il figlio. Gli dovettero amputare una gamba. Era rimasta schiacciata sotto una trave per proteggere il piccolo di pochi anni. Alla fine della settimana capii che era bello poter aiutare chi ha bisogno. Poi feci l’ultimo autostop. A raccogliermi su un vecchio calesse fu un signore di bell’aspetto, vestito di un elegante abito bianco; notai che sulla seduta di legno, per non sporcarlo, aveva appoggiato un foglio di giornale. Disse che mi avrebbe ospitato nella sua tenuta e che forse aveva lavoro per me. Arrivammo davanti a un enorme cancello dove, altrettanto ben vestito, un contadino ci venne incontro. «Signore, ha portato un nuovo operaio?» «No Pietro. È solo un ospite temporaneo. Puoi aprirci il cancello, devo dare una

sistemazione all’ospite.» Quando arrivammo alla villa, il vecchio mi disse che avevo finalmente trovato la mia meta. Gli chiesi come ne fosse sicuro. «Perché io sono Dio.» Alzatosi mi mostrò il foglio di giornale su cui era seduto. Un articolo, di tre giorni prima, parlava di un autostoppista trovato svenuto in un campo di grano. La foto sbiadita quindi si animò e comparve il mio volto. Poco dopo, la foto mutò e questa, quasi fosse la diretta di un reality show, mi mostrò che ero in un letto d’ospedale e intorno a me girava gente. Vidi il motociclista gay, il burbero contadino, i tre amici del mare, i volontari del pullman e il padre con la stampella. Chiesi se ero morto. Dio mi disse che ero in coma e quindi non era ancora il momento della mia dipartita. Villa Eden, così si chiamava, era sì la mia meta finale ma, mi disse, che lo sarebbe stata molti anni dopo. ai diversi giorni nella villa e tutti i giorni accendevo la tv in camera, mi sembrava strano che Dio avesse la tv in camera come in un hotel, e vedevo in tv quella gente al mio capezzale. Chiesi quando sarei tornato tra loro. Dio mi chiese cosa avevo imparato da quel viaggio. Gli dissi che avevo riconosciuto la capacità di amare, che la gentilezza è insita anche nel più diffidente degli uomini, il valore dell’amicizia e la capacità di offrire gratuitamente l’aiuto a chi necessita bisogno. «Bravo. Allora puoi svegliarti.» E mi soffiò sul volto. Aprii gli occhi di colpo e alzai la schiena, ero disteso in un campo di grano già trebbiato. I miei amici mi dissero che erano tre ore che dormivo. Ero con loro a fare una gita. Mi dissero che mi ero perso una cicogna appollaiata vicino a noi. Poi guardai i miei amici e rimasi incredulo, perché stava succedendo una cosa che non capivo. Di fianco a me avevo il mio ragazzo, il più bello mai conosciuto, che mi diede un bacio spaziale e, come Dorothy che si svegliava dal sogno di Esmerald City e nei parenti rivedeva gli amici conosciuti nel sogno, in lui

riconobbi il motociclista. Poi c’erano mamma e papà che erano venuti con noi e in loro riconobbi il contadino e la moglie. I miei amici, seduti a cerchio, erano i ragazzi del mare e i volontari. Poi c’era il mio migliore amico. Era diventato papà da poco e giocava con il figlio, pur avendo una protesi al posto di una gamba persa al lavoro. Possibile che fosse solo un sogno? Lo raccontai a tutti. Qualcuno sorrise all’inizio, dandomi del pazzo, ma alla fine tutti ne trassero qualcosa di positivo. Sentimmo gracchiare e una piuma di cicogna cadde tra le mie mani. Quel giorno capii una cosa. Che quello che uno ha può renderlo felice e che bisogna godersi ogni istante della vita.

MATRIMONIO DIVERSO

Mentre Alessandro Rosi stava stilando la lista dei suoi invitati al matrimonio si ricordò all’ultimo momento di suo cugino Andrew. Gli sovvenne di quando, ancora ragazzi, Andrew veniva a trovarlo d’estate. Erano quasi fratelli. Si assomigliavano parecchio. Anche troppo. Spesso si scambiavano i vestiti, spacciandosi l’uno per l’altro. Andrew ebbe la sua prima avventura sessuale a tredici anni. Alessandro due anni più tardi. E fu proprio Andrew a fargli scoprire il sesso; quell’estate sarebbe rimasta impressa a fuoco per sempre nei suoi ricordi. Tanto che riemerse mai così vivida tre giorni prima del matrimonio con Anna. Alessandro decise di chiamare il cugino. Scoprì così che Andrew era andato a vivere da solo dopo la rottura con il suo ultimo boyfriend e che non avrebbe potuto partecipare al matrimonio. Alessandro, la sera dopo, decise che sarebbe andato in un locale gay per curiosare il mondo del cugino, scoprendo che i ricordi a volte fanno brutti scherzi. Sarebbe infatti finito “al muro” parecchie volte, con suo immenso piacere… Ma la sera dopo, alla festa di addio al celibato, maturò l’idea più azzardata della sua vita. Si divertì come non mai e alla fine della festa chiese di essere accompagnato a casa. Si offrì volontario Alberto. I due si conoscevano dalle scuole medie. Ma per Alberto fu un pretesto per chiedere una conferma ad Alessandro. «Devo chiederti una cosa.» disse, una volta chiusi all’interno dell’abitacolo. «Dimmi.» rispose Alessandro.

«Può essere che tu ieri sera fossi al Greenwich?» «Come fai a saperlo?» «Me l’hanno detto. Non vorrai mentire al tuo migliore amico?» «Che intendi?» «Che ieri sera ti ho visto.» «Anch’io ti ho visto.» Fu in quel preciso istante che Alessandro baciò Alberto. Raggiunsero un vecchio parcheggio abbandonato. Durante il rapporto Alessandro domandò se suo cugino Andrew pensasse ancora a quella lontana estate. Poi Alberto gli fece una domanda. «Cosa farai con Anna, adesso?» «Domani farò saltare le nozze. Poi con calma venderò la ditta e incasserò tutti i miei soldi e me ne andrò in America da mio cugino. Anzi adesso lo chiamo per chiedergli se può ospitarmi.» «E che farai in America?» «Non lo so. Troverò un lavoro part time. Tanto ne avrò a sufficienza per campare.» «Anna ti odierà a vita.» «Lo so, ma ho capito che sposarla non è il mio destino. Mi dispiace abbandonare anche voi. I miei amici.» «Perché Alessandro?» «Mi devi aiutare domani. Mi serve un complice per scappare.» «Secondo me stai parlando in preda ai fumi dell’alcool. Domani ci ripenserai.»

Ma Alessandro ribadì questa sua volontà anche la mattina seguente. Alberto si trovò costretto ad aiutare il suo migliore amico. Per la vendita della ditta non ci sarebbero stati problemi, perché Alessandro aveva già ricevuto proposte di acquisto da una multinazionale e la mattina stessa prese contatto il mediatore. Il lunedì seguente avrebbe stipulato il contratto. Entro un mese sarebbe partito per gli Stati Uniti. Ma la prova più dura l’avrebbe affrontata poche ore più tardi. Al “Sì, lo voglio” di Anna aveva già deciso che sarebbe seguito come un fulmine a ciel sereno il suo “no”. Alla formulazione della domanda se qualcuno voleva opporsi alla celebrazione di quel matrimonio, Alberto si alzò in piedi. Alessandro lo incenerì con lo sguardo. «Io, in qualità di testimone dello sposo, mi oppongo.» «E perché mai?» domandò il celebrante. «Perché io amo Alessandro e non voglio sposi la persona sbagliata.» «Come dice?» chiese stupito il parroco. «E ieri sera anche lui si è accorto di non amare Anna, dopo che abbiamo fatto l’amore.» Alessandro si mise le mani nei capelli. Alberto lo afferrò per una mano e se lo tirò dietro in una corsa fuori dalla chiesa. Alessandro una volta in auto s’infuriò. «Che cazzo ti dice il cervello?» «L’ho fatto d’istinto.» Alessandro fece per dare un pugno ad Alberto, ma invece si mise a ridere. «Hai visto la faccia di Anna mentre dicevi quelle cose?» «Sì, sembrava una statua di gesso!» Appena usciti dalla città, si diressero verso la casa che sarebbe dovuta essere il nido d’amore dei due sposi. Presero al volo tutti i vestiti di Alessandro e i suoi

effetti personali. Alessandro si trasferì da Alberto e il mese dopo partirono insieme per la California, diretti da Andrew.

MIO FIGLIO

Una notte, mentre tornavo a casa, era all’incirca l’una, ero incazzato nero perché il mio appuntamento programmato da mesi era saltato. Avevo conosciuto Edison in chat e subito era nato un feeling. Ha voluto parlarmi fin dalla prima sera e mi ha tenuto al telefono due ore. Si lasciò andare a confidenze che io non avrei mai rivelato a uno sconosciuto. Si fece voler bene subito. Poi, tramite mail, ci scambiammo una foto. Lui mi disse che ero carino e che gli piacevo. Strano a dirsi perché, se lui era un tipo alla Colin Farrel, io a confronto sembravo la brutta copia di Ugly Betty. Lui era troppo per me. Glielo dissi, ma lui insisteva sul fatto che voleva un ragazzo come me: naturale e sincero. Comunque, ci scambiammo mail per un paio di mesi, finché non gli proposi un incontro dal vivo. Lui accettò con il fuoco dentro. Decidemmo di trovarci la seconda domenica di novembre nel parcheggio di un centro commerciale, nei pressi del lago, sotto il totem luminoso dell’insegna. Una settimana prima dell’incontro lo chiamai. Il telefono suonò libero per parecchi minuti, ma non ebbi risposta. Idem per la successiva settimana. Mi rispose la sera prima dell’incontro. Disse che aveva avuto dei problemi in famiglia e che non aveva risposto per quel motivo; che ora tutto si era risolto e che l’indomani ci saremmo visti. Io mi presentai al parcheggio quasi un’ora prima. Giunte le ventuno lui ancora non si vedeva; gli avrei tuttavia concesso una mezzora di ritardo. Ne arono due di mezzore. Iniziai a chiamarlo. La prima volta il cellulare era spento. La seconda era occupato. La terza mi rispose al primo squillo. Si scusava enormemente ma sua madre, gravemente malata – quello era stato il problema che lo aveva impegnato tutta settimana – era morta proprio nel momento in cui lui stava uscendo di casa. Mi promise che si sarebbe fatto perdonare, che avremmo rimandato l’uscita. Conclusa la conversazione, presi la via di casa. Con una voglia di sesso tra le gambe. Per un mese mi ero tenuto casto per quella sera ed era comprensibile che

avessi il cazzo duro come il marmo. Sta di fatto che lungo la strada del ritorno iniziò a diluviare; cacciai due bestemmie, spero lassù mi perdonino… Stavo tornando sconsolato verso casa, col cazzo duro fuori dalla patta dei jeans, non riuscivo a tenerlo chiuso da quanto mi scoppiava, quando nella pioggia vidi la sagoma di qualcuno che faceva l’autostop. ando accanto a questa figura in movimento notai che era un ragazzo sui vent’anni con uno zaino in spalle. Non ebbi il tempo di rimettere il cazzo nei pantaloni, così lo coprii solamente con il maglione. Mi fermai in un distributore di benzina dove lui mi raggiunse correndo. Calai il finestrino quel poco che bastava per sentire dove fosse diretto. Con un accento dell’est mi fece il nome del mio paese. E siccome mancavano ancora una decina di chilometri, gli dissi di salire. Appena montato in macchina, si tolse la cuffia inzuppata e la appoggiò alla bocchetta dell’aria calda. Si scosse i capelli biondi e girandosi verso di me mi sorrise. Mi ringraziò e si presentò. Si chiamava Arij. Prima di partire gli chiesi un paio di informazioni. Di dove fosse, quanti anni avesse e cosa ci faceva sotto quell’acquazzone a quell’ora. Mi disse di essere rumeno, di avere vent’anni, cosa che confermò l’impressione che avevo avuto, e di essere scappato da casa e di voler raggiungere il convento di Sant’Antonio, retto dal parroco del mio paese. Voleva farsi frate. A quell’affermazione il mio cazzo nascosto ebbe un sussulto. Gli proposi di venire da me per la notte. L’avrei accompagnato io l’indomani da don Mario. Lui disse che non era il caso di darmi altro disturbo se non il aggio. Partimmo. E parlammo un po’. La cosa fu più forte di me. Mi accarezzai il cazzo attraverso il maglione. Arij forse se ne accorse e mi chiese cosa facevo in giro a quell’ora. Mentendo, gli dissi che ero stato a una cena e che stavo tornando a casa. Lui disse “peccato”. Ed io chiesi perché. Lui senza rispondere prese la mia mano posata sul cambio e se la mise sul pacco, vistosamente duro. Poi infilò la sua dolce mano sotto il mio maglione e scoprì il mio membro. Si chinò e iniziò a succhiare. Le vene scoppiavano. Si alzò quasi subito e mi chiuse per bene la patta. E poi girandosi verso il suo finestrino si mise a piangere. Lo lasciai fare.

Arrivammo davanti casa mia. Entrati gli chiesi se voleva da bere. Sedendosi sul divano mi domandò un bicchiere di aranciata. Ne portai due. Mi sedetti sul pouf di fronte a lui. Gli tenni le mani, gelide. Lo guardai negli occhi per la prima volta. Erano di un verde smeraldo profondo. Si velarono di lacrime. Bevve il primo bicchiere. Poi si sfogò. Mi disse che voleva chiudersi in convento a causa di quello che aveva fatto in auto. Si vergognava di essere gay e che non era scappato, ma che l’avevano cacciato di casa proprio per quello. In convento avrebbe smesso di pensare a quelle cose. Bevve il secondo bicchiere. Lo baciai sulla fronte. Gli dissi che si sbagliava. E che glielo avrei dimostrato. Iniziai a raccontargli la mia storia che finì un paio d’ore più tardi. Eravamo tutti e due stanchi. Dissi ad Arij che poteva dormire sul mio letto e che io avrei dormito sul divano. Lui disse che non voleva rimanere solo e mi chiese di dormire insieme. Io tentennai. Ma poi lo vidi triste e lo accontentai. Ci dirigemmo in camera mia e ci spogliammo. Io rimasi in boxer e m’infilai sul lato sinistro del letto, ficcandomi sotto la trapunta. Arij invece, tolti i jeans, rimase praticamente nudo e si mise a letto così. Si avvicinò a me e dandomi le spalle mi tirò a sé. Ci trovammo uniti e si mise il mio braccio attorno al torace. Ci addormentammo così. Verso le sette mi svegliai. Eravamo ancora in quella posizione. Con il mio membro duro che puntava il suo bel fondoschiena. La voglia era tanta. Volevo trattenermi ma l’istinto prese il sopravvento. Mi calai i boxer e appoggiai il mio pene turgido al suo buchetto che al solo contatto si schiuse come un fiore. Iniziai a penetrarlo con molta dolcezza. Il mio membro stava sfondando burro. A metà strada lui si voltò e baciandomi disse che potevo continuare. Il mio pene non se lo fece dire due volte. Lo spinsi fino alla base. Rimanemmo agganciati in quella posizione per un buon quarto d’ora. Poi mi chiese di farlo. Iniziai a spingere. Lui sapeva che morivo dalla voglia di… e quindi invitava il mio pene a muoversi. Anche se scoppiavo dalla voglia fu un rapporto lento. Dopo mezzora di su e giù scoppiai. Mi abbandonai dentro di lui. Lui si sfilò e, girandosi del tutto, con un leggero colpo di mano, ricambiò il mio godimento. Poi mi baciò. Infine fece per alzarsi. Mi disse che ora che aveva avuto il suo

miglior rapporto poteva raggiungere il convento. Gli dissi che stava facendo una pazzia. Gli chiesi di rimanere sempre con me. «Come puoi giustificare la presenza di un giovane rumeno a casa tua?» mi chiese. «Be’, in effetti… Ho quasi il doppio dei tuoi anni.» replicai. «Adottami» disse convinto. «Non posso, perché sono single.» spiegai. «Peccato! Volevo abitare con te.» Avevo paura di quello che stava dicendo. Ma ormai mi ero innamorato di quel ragazzo. «Ci penso io! Entro una settimana io sarò tuo figlio.» affermò rissoluto. Dopo una settimana mi presentò dei documenti in cui lui risultava essere nato da una relazione tra me e sua madre, deceduta da poco. Non capivo come ci fosse riuscito, Arij era a tutti gli effetti mio figlio, quei documenti erano tutti originali e legali. A quel punto mi chiese se avessimo continuato il nostro rapporto. Io gli dissi che eravamo padre e figlio solo sulla carta ma che la verità la conoscevamo solo noi. Ma gli dissi che semmai un giorno lui avesse conosciuto un altro ragazzo e voluto intraprendere una relazione con lui mi avrebbe reso felice. Non ci volle molto, l’anno successivo mi disse di essersi innamorato, non di uno, bensì di due ragazzi. Me li presentò entrambi. Ovviamente in due momenti. Voleva il mio parere su quale dei due scegliere. Gli dissi che doveva farlo lui. Lui insistette affinché fossi io a decidere. Il primo ragazzo che mi presentò mi lasciò di stucco, dopo tre anni rividi Edison, il ragazzo della chat che avrei dovuto incontrare la sera in cui conobbi Arij.

Il secondo ragazzo era una persona semplice che mi disse di essere novizio a Sant’Antonio e che, mi confidò, voleva abbandonare il saio perché avendo conosciuto il mio Arij aveva iniziato ad avere dei ripensamenti. Gli chiesi come si erano conosciuti. Il ragazzo mi disse che Arij faceva il volontario in convento. Però alla fine dissi ad Arij che il ragazzo del convento era molto più affine a lui e con questa scusa riallacciai il rapporto con Edison. Per il venticinquesimo compleanno di Arij ci concedemmo una vacanza in Grecia tutti e quattro insieme. Ci divertimmo un casino. E capimmo di essere diventati una famiglia un po’ fuori dall’ordinario.

SARAH E MICHAEL

Sarah e Michael si conoscevano dal già al liceo, ma semplicemente si ignoravano. Al liceo D’Annunzio, Sarah era la ragazza che nessuno degnava di uno sguardo, perché considerata la bruttina della scuola: portava l’apparecchio, aveva grossi occhiali tondi anni ’80 e i capelli sembravano covoni di paglia al vento. Vestiva da maschiaccio, jeans e felpe alternati a vecchie salopette della madre hippy. Tutti pensavano fosse di famiglia povera. Conoscevano tutti Ellen, la madre texana, una donna che dimostrava trent’anni ma che era rimasta agli anni ’70. Il padre di Sarah, invece, nessuno sapeva chi fosse. Ellen aveva divorziato dal suo ultimo marito quando Sarah era ancora piccola. Quest’uomo, oltre a riconoscere Sarah come figlia, pagava con regolarità gli alimenti. Tuttavia, per un capriccio, Ellen aveva iniziato a chiamare la figlia con il suo cognome da nubile. Sarah però a tredici anni volle conoscere il padre. Così anche lei avrebbe saputo chi fosse costui. Michael, invece, era figlio della proprietaria di una ditta di arredamento. La contessa Ponti era rimasta vedova quando aveva pochi anni, e qualche anno più tardi si risposò con l’imprenditore Novelli che gestiva una catena di calzaturifici. Al liceo Michael Ponti frequentava Alice Gervasi Lodi, figlia di un marchese, cugino alla lontana di sua madre. Per quanto sembrassero affiatati a scuola, in realtà a casa si odiavano, perché vivevano quasi da fratelli. Ironia della sorte, Alice, per evadere da questo mondo troppo sfarzoso per i suoi gusti, si era trovata un’amica non aristocratica con la quale si confidava. Quest’amica era Sarah. «Sei così poco popolare che a volte vorrei essere al tuo posto e poter scomparire dagli sguardi della gente.»

«Io, invece, vorrei essere al tuo posto. Gioielli e vestiti nuovi tutti i giorni.» Queste due frasi erano ormai diventate un segnale di riconoscimento, tipo messaggio in codice, quando Alice si presentava a casa di Sarah. Ellen si stupiva di come una marchesina potesse frequentare una mezza hippy come sua figlia, a tal punto che pensava fosse tutto uno scherzo. Ma una volta, affrontata Alice a muso duro, un giorno che sua figlia non era in casa, si rasserenerò scorgendo negli occhi della ragazza un velo di malinconia. E pensò a come la sentiva ridere in compagnia di Sarah. Alice, poco prima della fine del quarto anno, si lasciò con Michael e iniziò a frequentare un bulletto dell’ultimo anno compromettendo pure la sua amicizia con Sarah. L’estate seguente Alice, di ritorno da una festa insieme con questo tale, fu coinvolta in un incidente e rimase paralizzata. Andrea, invece – questo era il nome del ragazzo – ci lasciò le penne e si scoprì che si era farcito di droga come una torta lo è di crema. Alice allora chiese al padre di avere sempre accanto a sé la sua amica del cuore e dopo vari dubbi da entrambe le parti, Ellen e Sarah si trasferirono a Villa Gervasi. A Ellen fu offerto un lavoro come governante, ma ben presto il padre di Alice, anche lui vedovo come la cugina, s’invaghì di lei sino a chiederle di sposarlo. Ottenendo il consenso di Sarah e di Alice, accettò, avvertendo di ciò l’ex marito. Rodolfo cominciò a dare una sistemata a Sarah. La fece visitare da diversi specialisti: il dentista le tolse l’apparecchio, con un intervento laser corresse il lieve difetto visivo. Alice, dal canto suo, accorciò i capelli e riuscì pure a trovare un’acconciatura decente per l’amica. Alla fine Sarah diventò un cigno. E non ò inosservata, tanto che Michael la invitò al ballo di fine anno. Sarah era indecisa sul da farsi, non sapeva come dire all’amica dell’invito ricevuto. Quando Alice lo seppe, però, non si scompose. Anzi, pensava che Michael fosse perfetto per la sua amica. Dopotutto, anche se costretta su una sedia a rotelle, aveva ricevuto comunque l’invito di un compagno di classe, non ricco, ma

carino da morire. Sembrava che le parti si fossero davvero invertite. La contessa Ponti un giorno organizzò una cena per conoscere la famiglia di Sarah, ignorandone l’origine umile. Il cugino le aveva mentito sul modo con cui aveva conosciuto Ellen. La sera della cena Ellen, accompagnata da Rodolfo, con Alice e Sarah, accompagnata da Michael, si presentarono alla villa puntualissime. La contessa Ponti le avvertì che il marito era impegnato in una riunione di lavoro e che le avrebbe raggiunte entro breve. La cena iniziò con un ampio antipasto a buffet. Nel momento in cui si serviva il primo si sentì la porta aprirsi. «Ecco mio marito!» annunciò la contessa. «Ciao cara, scusate il ritardo. Appendo il soprabito e arrivo.» Quando il marito della contessa entrò nel salone da pranzo Ellen e Sarah gli volgevano le spalle. Lui si avvicinò. «Caro, ti presento le nostre ospiti. La moglie di mio cugino e sua figlia. La signora Ellen e Sarah.» Il marito della contessa raggelò all’annuncio degli ospiti, che in quel preciso istante si voltarono, mostrando i volti di due donne che lui conosceva fin troppo bene. «Papà!...» si fece sfuggire Sarah. «Papa?...» ripeterono Alice e Michael stupiti, guardandosi negli occhi. «Caro?...» rimase sbigottita la contessa. «Ecco… Signora contessa.» prese parola Ellen «Ernesto Novelli, suo marito, è stato il mio primo marito ed è il padre di Sarah.» La contessa e Rodolfo, che era a conoscenza di un ex marito di Ellen, si guardarono un attimo e scoppiarono a ridere a crepapelle. «Be’, cugina, io direi che il mondo è proprio piccolo.»

«In effetti, cugino, ti devo dare ragione.» La cena continuò e sul primo matrimonio di Ellen ed Ernesto fu tutto chiarito. La contessa e Rodolfo non se ne ebbero mai a male. Mesi dopo, appena finita la scuola, ci fu il ballo di fine anno. Sarah e Michael, pur scoprendo di essere fratellastri, continuarono la loro storia d’amore che sbocciò in un bellissimo matrimonio pochi anni più tardi e dal quale nacquero diversi figli. I nonni erano felicissimi di essere circondati da tutti quei marmocchi. Alice si sposò, insieme al ragazzo che l’aveva accompagnata al ballo, lo stesso giorno di Sarah, e si fecero da testimoni a vicenda. E vissero felici e contenti. E non è solo un modo di dire…

LETTERE

STO MALE

A Carlo Alberto 15.10.1996

Sto male: sto iniziando a odiare questa società e i suoi tanti mali: droga, stupri e violenze. Stranamente, in una società così tecnologica, così avanzata, non esiste alcun rimedio a tanti mali. Vada pure per i divertimenti, per i vizi e gli ozi ma poi si inizia a stancarsi delle cose di tutti i giorni e s’inizia a cercare qualcosa di più soddisfacente: ad esempio droga ad libitum che porta all’assuefazione, alla morte!

MA IO DICO NO!

C’è un rimedio: aiutare quelle persone in difficoltà in mille modi diversi; esistono, perciò, due vie: il volontariato e la vita consacrata a Dio. Nel volontariato esistono mille associazioni: CARITAS, CROCE ROSSA, Case di Accoglienza, ANLAIDS (e tante altre associazioni contro droga e AIDS), CROCE VERDE, UNICEF, FAO e tante altre. Nella vita consacrata si può essere sacerdoti, suore, frati o missionari. Io ho iniziato a percorrere la prima strada ma, per caso, potrebbe essere che sto iniziando a virare, svoltare o invadere la seconda? Non voglio prendere scelte affrettate, devo pensarci sopra e decidere con molta

calma. Ho amici che hanno fatto la scelta di servire Dio e io sono felice per loro. Questa riflessione non è per fare entrare tutti negli ordini sacerdotali della Chiesa Cattolica, ma piuttosto per sensibilizzare rispetto a un’istituzione che va a rotoli e decade inesorabilmente. Ho un portico davanti a me, è diritto e senza fine, ha dei bellissimi archi, dei portoni di buona fattura che ogni tanto si aprono su alcune delle mie esperienze o su alcune soluzioni a svariati problemi. Il fatto è che non so dove conduca, forse a Dio, forse a casa mia, non so! L’unica cosa che so con certezza è che ho iniziato a percorrerlo molto piano, molto lentamente finché non troverò il portone giusto per me. La corsa della vita è frenetica come quella di una corriera: ha le sue fermate e deve stare attenta a far salire determinate persone (i bambini appena nati) e farne scendere altre (i morti), ma però deve tenere dei posti per le persone imperfette (i nomadi, i barboni, i sieropositivi e gli invalidi fisici e psichici). Nella società, teoricamente, dovrebbero esserci anche due diversi tipi di conforto: gli amici e l’amore. Gli amici sono pochi o molti? Io penso di averne tanti, ma solo tu mi sei veramente vicino come un fratello. Gli altri sono gli altri. Tra gli amici c’è un capo, un leader, il più maturo che guida tutti nella notte come un faro. In amore esiste chi è costante e chi no. Costante è il treno che percorre la rotaia diritta, incostante è il vulcano che erutta cenere e lapilli in ogni direzione. Se potessi amare, sarei costante, fedele. Senza essere più importante dell’altra persona, ma servirla con la voglia di crescere insieme.

Tuo amico, per sempre, Fabio.

I PERCHÉ NON MOTIVATI

Alla Società 13.01.1997

Dopo diversi anni ho incontrato un ragazzo, un mio amico, che mi ha rivelato la sua appartenenza a quel gruppo di persone che hanno fatto una scelta di vita: quella di sentirsi liberi di essere omosessuali. Non gli ho confidato che anch’io lo sono. Ma questo incontro mi ha fatto riflettere, tanto che mi sono chiesto una cosa molto importante per noi gay. Perché molte persone ci odiano, giudicandoci a priori? Noi non dobbiamo scusarci di nulla, ma tantissime persone ci scansano e ci evitano.

Quando fu scoperto l’AIDS, la colpa andò immediatamente ai gay, perché la malattia fu isolata per la prima volta in un uomo che aveva alle spalle una lunga lista di rapporti con altri uomini. Siamo oggetto di giudizi e di colpe. Ma i perché dove sono? Io penso non ci siano e che esistano tutt’al più solo pretesti per polemizzare sulla nostra scelta di vita o per nascondere la paura. Le persone dicono: “Io li odio perché sono immorali. Io piuttosto di fare l’amore con un altro uomo mi ammazzo. E poi fanno sempre sesso non protetto. Così contagiano il mondo intero.” “A me danno fastidio quando si travestono da donne e vanno a battere in mezzo alle prostitute. Appena li vedi le scambi per delle donne e poi zac al momento

clou ti sbattono l’uccello in faccia e ti viene da vomitare.” (Come se andare a prostitute fosse una condotta morale!)

Ma anche tra di noi c’è qualcuno a cui non piace mostrarsi. Leggevo un libro molto interessante al riguardo, del quale non ricordo il titolo, che spiegava come molti ragazzi si sentano sessualmente disorientati. Una testimonianza di questi giovani, ad esempio, riporta: “Io non vado mai oltre al bacio perché sono in una fase di transizione. Non ho capito se sono gay!” (Tesoro, se hai pomiciato già più di due volte ho una notizia per te: SEI GAY!!!) Un altro dice: “Io non cerco l’amore eterno. Mi piace solo fare sesso. Allora faccio la marchetta.” Ci credo che poi la gente ci giudica male!

Qualcuno ci contesta per il fatto che vogliamo sposarci tra noi, adducendo che se il nostro matrimonio non porta figli è qualcosa di sterile, improduttivo. Dicono: “A cosa serve?”. Ad amarsi liberamente, senza nascondersi, ad esempio. Ci sono ragazzi che hanno preferito fuggire di casa piuttosto di rivelare che sono gay, altri che invece dicendolo vengono cacciati o mandati in terapia da uno psichiatra. In pochissimi casi vengono accettati e amati come figli. Io non so se dirò mai ai miei che sono gay*.

Dovremmo essere tutti tutelati, etero e gay. Ugualmente.

.

Fabio.

(**) È successo nel marzo del 2003.

DELITTO E CASTIGO

A Paolo 03.02.1997

Carissimo amore mio, devo dirti delle cose molto importanti. Comprendo il tuo rifiuto alle mie avances, ma come puoi dirmi di no se non conosci il mio modo di amare o di baciare. Non ho mai baciato e forse nemmeno tu. Iniziamo insieme. Per favore, prova a darmi un solo bacio. Ne sarò felice. Lo sarò anche se dirai che non ti è piaciuto e che non hai provato nulla nel darmelo. In questo momento sto pensando al suicidio. Tu non mi ami, per cosa dovrei vivere? Impediscimelo. Deciditi.

Ti amo, Fabio.

OGGETTIVITÀ: QUESTA SCONOSCIUTA!

Alla Società 15.07.1997

Oggettività: questa sconosciuta! Nessuno può essere oggettivo, si è sempre soggettivi. Se si analizza un brano, un testo, una poesia, in teoria non si dovrebbe interpretarla secondo il proprio sentire, ma con la mentalità dell’autore. Tutto ciò però è impossibile! La vita è soggettiva, gli avvenimenti, la mondanità, tutto è soggettivo. La critica di un film, di un’opera teatrale, di un determinato stile architettonico, di una statua, tutto è soggettivo. Nulla è oggettivo; due persone diverse esprimono opinioni diverse su una stessa cosa che la società invece vorrebbe fosse vista in modo univoco, omologo.

Fabio

SCELTE

A Carlo Alberto 17.05.1997

Ormai ho fatto la mia scelta. È una via diritta e diretta a un termine infinito, non posso tornare indietro e non ho fughe laterali, tipo uscite di sicurezza.

Ormai mi devo dedicare solo alla preghiera, a Dio, senza pensare alla sessualità, all’ozio e ai vizi, devo impegnarmi nel mio lavoro di studente per ottenere dei buoni risultati e pensare bene alla mia idea di diventare sacerdote. Se è cosa buona per me o meno. Devo arrivare alla maturità e poi, dopo il diploma e il militare, forse, si vedrà.

Il tuo amico, Fabio.

IL DONO PIÙ GRANDE

Ai Donatori di Sangue 18.05.1997

Quale gioia! Era il primo giorno di festa quando decisi di diventare donatore di sangue. Compilai il modulo con i miei dati e iniziai a fare le analisi. Speravo di essere idoneo. Il tredici febbraio ricevetti la cartolina che la domenica seguente mi sarei dovuto recare in sede. Potevo donare! Quale gioia! Mi presentai, un piccolo test, poi, via a donare! Vedere l’ago entrare e pompare sangue, ero felice. Mi guardavo intorno e tutti guardavano me. Era la prima volta e tutti erano preoccupati. Alla fine un bel cerottone e una mangiata di panini al salame. Avrei voluto una foto! Buona la prima. Alla prossima!

Un donatore.

METE

Alla Società 19.05.1997

Quali le mie mete? Le mie destinazioni? Qual è il mio destino? Io non lo so, non lo so dire e se lo sapessi non vorrei dirlo. Ma però, vorrei saperlo? Quello a cui miro, le mie ambizioni, sono una scelta? È quello che cerco veramente dalla vita? No! Mi è stato dato tutto senza che io lo volessi o lo cercassi. Ho degli amici, sono andato a scuola per una futura carriera, ma non ho l’amore, la comprensione degli altri. Le mie mete ora? Carriera, amore, carità. E non obbligatoriamente in quest’ordine.

Vostro, Fabio.

LETTERA CON RISPOSTA*

A Davide, Andrea e Roberto 24.06.1997

Sono gay. Che c’è di male? È una condizione un po’ diversa dalle altre. Sono gay e ne vado fiero. Se vorrete essermi amici bene, idem se non lo vorrete. Fabio

Caro Fabio, non c’è nessun problema se sei gay. È una scelta come le altre, anzi, più difficile. Non vorremmo aver offeso la tua sensibilità con le nostre risate. Sii te stesso e basta. Davide, Andrea, Roberto

(*) Stavo studiando in biblioteca quando di fronte a me si sono seduti questi tre ragazzi molto carini. Ho iniziato a osservarli e loro sorridevano ogni volta che alzavo lo sguardo. Una volta andati in bagno, o a fumare, ho lasciato loro un biglietto e poi son andato a far finta di cercare un libro. Al mio ritorno ho trovato la loro risposta sul medesimo biglietto.

MAMMA

Alla mamma 01.07.1997

Cara mammina, chi ti scrive è tuo figlio che tanto t’ama. Sai benissimo che ce la farò anche se mi vedi svogliato. Ho sempre fatto del mio meglio, il possibile per superare le difficoltà con le mie capacità. Per questo ti chiedo di non preoccuparti o arrabbiarti quando mi vedi svogliato. Qualsiasi cosa succeda nella mia vita, tu resterai sempre la mia mammina. Se vivrò solo, se mi farò prete, se mi sposerò, se mi drogherò, io ti avrò sempre nel mio cuore.

Ti voglio bene mamma, Fabio.

TAPPARELLE

A un amico immaginario 13.12.1997

Caro amico, la tapparella si chiude su un altro giorno che è ato pensando ai tuoi amici che oggi non hai visto e che forse non vedrai nemmeno domani. Ciao giorno, che sei già ato e che ora metti insidie tra noi e il nuovo giorno.

Forse non ci sentiremo più, caro amico, questa sarà la mia ultima lettera.

Tuo amico, Fabio.