Una Specie Di Solletico 3h87

Kociss Fava

Una specie di solletico

EEE-book

Kociss Fava, Una specie di solletico

© Kociss Fava

Prima edizione: marzo 2013

Edizioni Esordienti E-book

Tutti i diritti riservati, per tutti i Paesi.

Le illustrazioni originali e la copertina sono © Marta Schiavinato

GHIRLANDE FIORITE

Cari mamy e papy,

è il momento del vostro primo fiore. Come si prepara un fiore l’ho appreso da Lisye, il mio vicino nel cerchio. È indietreggiato di qualche o, ha chiuso gli occhi ed è stato rapito da un altrove che non conoscevo. Quando è tornato tra noi teneva una bella margherita gonfia e gialla, con tanti petali. L’ha infilata in una collana, con altri fiori, cingendo il collo della sua colomba. Ora provo io. Non so cosa ne uscirà, ma bisogna pur cominciare. Sono da poco entrato nella vostra vita, eppure mi dedicate i pensieri migliori. Mi avete addobbato di speranze nuove. Sono davvero piccolo. Un puntino attorno al quale hanno preso a girare le vostre esistenze. È accaduto qualcosa di portentoso tra di voi. Una scintilla si è accesa tra due corpi abbracciati stretti ed eccomi, ho fatto il mio ingresso nel cerchio. Io sono l’ultimo arrivato. La mia venuta al cerchio è la risposta al vostro richiamo d’amore. Non vi conosco ancora, ma so per certo che staremo bene insieme.

Vostro Molly.

Macchiolina abbassa il collo. Le infilo una margherita piccina e rinsecchita. Sono un po’ dispiaciuto, confidavo in un risultato migliore. Con addosso quel principio di collana, Macchiolina sbatte le ali e fa un verso di gola. Significa che è contenta. È il suo modo di incoraggiarmi. Macchiolina è la mia colomba. Tutta bianca, tranne un occhio nerocerchiato che brilla di luce propria. La curiosità di un’anteprima le ha lasciato il segno. Aveva nostalgia delle stelle. Da qui non si possono vedere, tranne che attraverso un pertugio segreto. Lei lo ha scovato e si è accostata per spiare. Ritirandosi, una stella le si è conficcata nell’iride e un poco di notte le è rimasto appiccicato, incorniciandone lo sguardo. – Ti chiamerò Macchiolina! – ho esclamato, quando ho saputo della sua avventura. Lei si è coperta la testa con un’ala fingendo una disperazione che non c’era. – So già che mi darai da penare – la sua secca replica. Ma poi ha accennato a un volo sul posto emettendo un allegro gorgheggio.

Cari mamy e papy, so che siete in due. Il mio amico Lisye prepara un fiore alla volta, ma li distribuisce su due ghirlande. Ne ho chiesto il motivo. Secondo Lisye, arrivato al cerchio prima di me, lì fuori siete in due ad aspettarmi. Il mio unico arrivo deriva dall’incontro di un doppio desiderio. Anche di questo ho chiesto spiegazione. Lisye smarrito, mi ha rivelato che per le domande difficili ci sono le colombe. Macchiolina si è girata da un’altra parte, fischiettando e facendomi intendere che non era il caso di insistere su argomenti così misteriosi e profondi. La mia curiosità è grande e so che anche per tutti gli altri compagni del cerchio lo è. Per ognuno di noi c’è una colomba, ci è di aiuto nel progredire con la conoscenza. Quando ho saputo che Macchiolina poteva esaudire la mia sete di sapere, l’ho sommersa di richieste. Lei si è risentita e ha detto che non si poteva procedere senza un minimo di disciplina. Da quel momento avrebbe risposto a una domanda al giorno e non di più. Le ho chiesto cosa fosse un giorno. Lei me lo ha spiegato e io mi sono arrabbiato perché era in ben altro modo che volevo giocarmi la facoltà di risposta. Ho imparato cosa sia un giorno e pure a essere più prudente. Intanto ho preparato il secondo fiore. È più grosso del precedente. Emana anche un lieve profumo. Sto facendo enormi progressi con voi, mamma e papà. Lo faccio are per l’altro filo e poi lo sistemo su Macchiolina che esulta col battito d’ali. Ecco fatto, ora ho anche io due ghirlande. Sto diventando grande.

Vostro Molly.

Cari mamy e papy,

nel mio cerchio siamo in dieci prossimi a giungere: Bell, Sirni, Mett, Giabby, Pitty, Billo, Desira, Giuppy, Lisye, che già conoscete e Molly che sono io, ultimo arrivato. Tutti i cerchi sono occupati in numero di dieci. Quanti cerchi ci sono? Tanti da perderci la vista a contarli. Per non fare la fatica ho impegnato così la domanda del giorno a Macchiolina. – Ma quanti sono i cerchi? – Tanti quanti le stelle. Non sapendo cosa fossero le stelle, stavo già per arrabbiarmi dell’inganno, quando Macchiolina mi si è posta di fronte e ha chiuso un occhio. Ha tenuto spalancato quello con le luci rubate alla notte. Un’improvvisa vertigine mi ha tuffato in quel turbine di brillanti corpuscoli. Sfiorandoli a uno a uno, ho toccato la loro infinità. Giunto alla stella più remota l’ho esplorata da vicino e ho riconosciuto il nostro cerchio. Mi sono visto dall’alto che fissavo con intensità la mia colomba. Macchiolina fabbrica spiegazioni impastandole di creatività, distribuendole con stile leggero. È bello pensare di essere stella quando vieni scrutato dall’occhio di un angelo. Cari mamma e papà, cosa vedete quando vi guardate negli occhi l’un l’altra?

Vostro Molly.

I cerchi sono circondati da sterminati campi di grano e fragorosi ruscelli di acque chiare. Le spighe gonfie fluttuano, mosse da un vento silenzioso. Il vento non riposa mai e soffia sempre nella stessa direzione. Si direbbe che provenga da molto lontano. È il vento che ci nutre. Ci raggiunge dopo essere ato attraverso i chicchi di grano e dopo aver piallato le superfici d’acqua. Ci sfama una brezza carica di sapori, soffiataci addosso da un orizzonte remoto. È facile individuare gli “anziani” del cerchio. All’arrivo appare una macchia rosso scuro. All’inizio è solo un puntino piccolo, quasi invisibile, in mezzo a tanta trasparenza. Poi cresce di volume e comincia a pulsare. Si chiama cuore. È un vaso, da riempire con un po’ di roba buona. Emozioni, sentimenti, un pizzico di sapienza. Servirà per il nostro avvenire, per i nostri primi giorni da arrivati. Quando il vaso è colmo è il momento di andare. Giuppy e Billo hanno il cuore molto grande. Solido e robusto per il loro viaggio. Chissà dove stanno per recarsi? Ammiro quei colpi battuti con regolarità. Guardo il mio cuore ancora acerbo e per la prima volta lo sento stringere. Una nostalgia al contrario. Per qualcosa che ancora non è stato. Vorrei tanto seguire Giuppy e Billo nella loro prossima traversata. Poi la nostalgia si spegne. Nel mio vaso ha trovato posto un nuovo desiderio. Con il cuore un po’ più grande saluto Giuppy e Billo, che in questo periodo preferiscono star soli, e raggiungo gli altri a giocare.

Cari mamy e papy,

sapeste…, mi è accaduta una cosa straordinaria. Ve la racconto, vi riguarda da vicino. Seduto con Lisye, discutevamo che ne sarà delle nostre colombe, una volta che vi avremo raggiunti. Lisye sosteneva che rimarranno qui e verranno affidate ad altri nuovi arrivi, in questo cerchio oppure in altri. Io affermavo che si sbagliava. Ero del parere che le colombe ci avrebbero seguito. Che voi due avreste allargato un po’ di più le braccia e accolto volentieri anche Macchiolina e il suo carico di stelle. A un tratto ho avvertito un calore intenso. Sono stato rapito dal cerchio e spinto verso l’alto, come sospeso da una corrente tiepida. Poi sono planato lentamente al mio posto. Macchiolina non ha voluto attendere la mia domanda. – Quello che ti è capitato si chiama abbraccio. Tuo padre ha stretto a sé tua madre. Ti sei trovato rannicchiato nel bel mezzo del loro amore. Nella mossa di tuo padre c’è il desiderio per il tuo arrivo. Nell’accoglienza di tua madre è presente la certezza di averti già in sé. Dopo il vostro abbraccio, il vaso che porto nel mezzo si è trovato a traboccare per abbondanza di riempimento. Si distinguono tenui palpitazioni. Così ho scoperto che oltre ad abitare nel cerchio, sono inquilino nel tuo grembo, mamma. Che giunga da lì il vento che soffia sempre? Mi nutri con il sapore e con l’odore della tua maternità. Mi raccomando, continua a darmi ospitalità. E tu, papà, stringi spesso la mamma. Mi fa stare bene e mi irrobustisce il cuore, accorciando le distanze tra di noi.

Vostro Molly.

Capita ancora di prendere il volo, rapito da un abbraccio inatteso. Altre volte c’è una spinta minore, una capriola in salita. È quando papà carezza il grembo di mamma e mi arriva un calore congiunto. Se il vento rinforza o attenua, capisco il verso di quello sfioro. Chiudo gli occhi e all’ombra di quel gesto, il cerchio mi sembra lontano e noi tre tanto vicini.

Giungono suoni in lontananza. E luce e caldo e freddo da fuori. Li reca il vento. ano attraverso la nostra trasparenza. Vanno a riempire i nostri centri pulsanti che fanno esperienza di sensazioni. Se ho capito bene questo significa crescere. Il cuore ne fa bottino e matura il desiderio per un viaggio di sola andata.

Cari mamy e papy,

d’un tratto il vento si è fatto intenso. Una luce potente si è avvicinata fino a sfiorare il cerchio. Le nostre colombe come impazzite. Alzatesi in volo hanno intonato un canto dolce e solenne. Ho sentito il cuore battere forte al aggio del Custode. Come descriverlo? Secondo Macchiolina assomiglia a un vegliardo. Vorrei approfondire cosa sia un vegliardo, ma procedo con il fiore. Oramai mi vengono proprio bene, sapete? Le ghirlande si fanno spesse di petali colorati e profumati. Il Custode provvede a noi. È Lui che ci ha regalato le colombe, dono di tutta l’esistenza, presente e futura. Ha uno sguardo buono e quando si avvicina a un cerchio le colombe si alzano per dargli il benvenuto, danzando e cantando. Deve essere molto importante se tutti e dieci i nostri angeli si scomodano così. Ho sentito dire che il Custode si avvicina a un cerchio in prossimità di una partenza. Quindi qualcuno sta per abbandonarci. Metto da parte questo fiore, credo stia per accadere qualcosa di importante.

Vostro Molly.

Cari mamy e papy,

Giuppy ha lasciato il cerchio. Da un po’ il cuore aveva cominciato a picchiare con forza. Un rosso scuro gli singhiozzava nel petto. Pareva voler scappare fuori da un momento all’altro. Giuppy era divenuto taciturno e pensoso. La sua colomba non lo abbandonava mai. D’un tratto Giuppy si è come avvolto su stesso, mentre una strana luce dall’alto lo attirava a sé. Era l’ombra del Custode che lo illuminava. – Che ti avevo detto? È il grande tuffo, lo riconosco –, ha proclamato Lisye con emozione. La luce è divenuta accecante. Giuppy ha iniziato a volare verso l’alto, preceduto dalla sua colomba inghirlandata. Ha sfiorato il Custode, si sono guardati per un attimo, poi ha proseguito verso uno spazio chiaro sopra di noi. A stento riuscivamo a non chiudere gli occhi. Poi la luce si è affievolita e le colombe hanno smesso di cantare. Il Custode se n’era andato. Triste, mi sono voltato verso lo spazio da dove si era appena tuffato Giuppy e con sorpresa l’ho visto riempito da una piccola trasparenza. Nel mezzo non c’era che una capocchia di spillo rossa. Abbiamo così conosciuto Jores, accogliendolo con gioia. Ora sono avanzato di un gradino, anche Lisye mi tratta con più importanza.

Vostro, non più ultimo arrivato, Molly.

Devo corteggiare Macchiolina un bel po’. Resiste ai miei assalti, ma poi cede. – Quello a cui hai assistito è il grande tuffo, l’ultimo atto con il quale salutiamo il cerchio e partiamo per l’altrove. – E dove andiamo? – Altrove! Abbiamo appuntamento con il mondo che nasce Molly. Ci si tuffa una volta per sempre e si raggiunge chi ci ha chiamato alla vita. – Allora è come afferma Lysie. Qualcuno ci aspetta? – Per chi pensi di aver preparato tutti questi fiori che ho intorno al collo? Sono le tue lettere per mamma e papà. Le consegniamo ai destinatari. Di persona. – Come faremo a riconoscere mamma e papà? Se ci sbagliassimo con altri? – Non ti devi preoccupare, per i primi tempi penseranno loro a tutto. Ma non dovevo rispondere a una domanda per volta, Molly? Questi erano i patti. – No, queste sono le regole che hai stabilito tu. Macchiolina mi guarda sorpresa. Dopo un momento di silenzio continua: – Si vede che stai crescendo. Il tempo a e molto devi ancora imparare. Regola revocata. Da domani nessun limite alla tua curiosità. – Senti Macchiolina, quanto devo attendere ancora per il mio grande tuffo? – Molly, birbante, da domani ho detto. Macchiolina sbatte le ali e le ballano attorno al collo le ghirlande che ho preparato per mamma e papà. Per ciascun fiore una lettera in pronta consegna.

SGUARDI D’ALTROVE

Cari mamy e papy,

nel cerchio è uno so senza fine. Con Lisye e gli altri compagni trascorriamo le giornate tra corse, giochi e grandi scoperte. Ci carezza il vento e le colombe fabbricano ali per voli futuri. Con Macchiolina le chiacchierate si allungano. Spalanca il mio cuore di curiosità per poi innervarlo di nuovi saperi. Tutto questo mentre la seppellisco di fiori multicolori. Eppure, nonostante questa attività scatenata, sono sempre più distratto, impegnato ad ascoltarvi. Sì, proprio ad ascoltare voi due. È come se la barriera che ci separa si fosse ridotta a un sottile diaframma. Un oblò di carta velina. Non giungono più soltanto rumori, avverto anche sussurri e sospiri. Percepisco il movimento dei vostri pensieri, la loro forma e contenuto. Macchiolina dice che è l’inizio della nostalgia per la mia nascita. Sono poteri destinati ad aumentare per poi scomparire. Servono a maturare un sentimento di attesa. Si è creato uno squarcio tra i nostri destini e con la mia piccola anima riesco a contemplare le vostre. Sapere che voi due mi attendete con amore, mi darà la forza per lasciare questo luogo d’incanto. Il vigore per l’ultimo, o meglio il primo slancio. Per questo ogni tanto lascio i miei compagni di cerchio, e mi concentro per ascoltarvi.

Vostro Molly.

Cara mamy,

approfitto di questa finestra aperta sul tuo cuore per sbirciarvi dentro e preparare un fiore tutto per te. Scopro un desiderio di maternità sbocciato in età giovane e portato presto a compimento. Della qual cosa non posso che esserti grato! E pazienza se hai dovuto abbandonare il lavoro. Hai messo da parte l’aspirazione di fare la maestra a tanti bambini per dedicarti completamente alla crescita del tuo. Ti piace condurre i laboratori, cose pratiche, dove si usa accoppiare le mani all’immaginazione. Ripensi a quando modellavi la creta e mostravi a una classe di occhi sbalorditi come trarne un vaso, un cavallo, una statua di ballerina. Ora il tuo ventre custodisce l’impasto che darà corpo alla tua opera più importante. Saranno necessarie tante cure e lunghe correzioni. Dureranno anni le rielaborazioni e le cotture. A volte il compito di mamma ti spaventa. Capita soprattutto di notte, quando c’è tanto spazio e i pensieri si allargano. Papà dorme accanto, russa e tu, sveglia, ti senti sola e schiacciata dalla responsabilità. Allora posi una mano sulla pancia e cerchi il pugno di argilla. Quando mi hai trovato provi a catturare con la punta delle dita il battito del mio cuore. Su quello ti concentri per regolarci il tuo. Forse è solo uno scherzo della fantasia ma funziona e sulla certezza di un ritmo condiviso ti addormenti tranquilla, non più sola. Ti lascio con questo fiore a dedica esclusiva. Una primula rossa. Chissà se è bello e colorato come quelli che costruisci tu con la cartapesta, per regalarli ai bambini della scuola? Se manca qualcosa so che me l’insegnerai.

Tuo apprendista, Molly.

Caro papy,

è giunto il tuo momento. Ho cominciato con mamy per dovere di ospitalità, perché mi è più vicina. Ma anche a te voglio bene. Vedrai che al termine ci sarà un bel girasole da aggiungere alla tua collezione. Intanto mi godo la scena di un episodio a cui ripensi spesso. Tu e mamma siete in macchina, tornate dalle compere. È pomeriggio ma fuori c’è il buio del pieno inverno. I lampioni che costeggiano la strada vi illuminano a singhiozzo. Luce. In mezzo a un lungo monologo, inserisci una battuta spiritosa. Buio. Mamma ride e tu sei soddisfatto per l’esito dello scherzo. Luce. Stai per riprendere il discorso, ma mamma ti interrompe. Buio. C’è silenzio. Luce. Mamma dice “Credo di essere incinta”. Buio. C’è molto silenzio. Luce. C’è ancora silenzio ma qualcosa si apre sul volto della mamma, un sorriso dolce e tu pensi di non averla mai vista così bella. Anche tu sorridi e vorresti dire qualcosa di importante e adeguato alla situazione Riesci solo a spiccicare un “Sono contento” e a stringerle la mano per un attimo, mentre senti una grande confusione in testa e il fiato si fa corto e irregolare. Così sei venuto a sapere di me. Ti avevo promesso un robusto girasole, m’è uscito un ranuncolo fragile. Credo assomigliasse al tuo stato d’animo di quel giorno. Altro che eroe senza macchia né paura, come ami descriverti. La tua carriera di babbo è cominciata in punta di piedi. All’appuntamento più importante ti sei presentato scalzo e nudo. Come al momento di ciascuna nascita.

Tuo, Molly.

È affascinante guardarvi da dentro. Mi ano i vostri pensieri tra le dita. Li rigiro e ammiro con calma. Ne osservo i mutamenti. Una volta sono stato quasi investito da un macigno rotolato fin qui da Mamma. A malapena sono riuscito a schivarlo. Si trattava di una sua preoccupazione. Qualche comare in vena di buoni consigli le aveva rivelato che le donne magre come lei, difficilmente riescono ad avere latte bastante per il nascituro sino allo svezzamento. Rincasata si è chiusa in camera da letto a piangere. Papà, rientrato dal lavoro, è corso a consolarla. Sa che in questo periodo è molto suscettibile, anche ai venticelli leggeri e maligni. Le ha fatto notare che certo era di costituzione sottile, ma prima di rimanere incinta. Ora il nuovo inquilino le garantiva un profilo fitto di curve da ovunque la si ammirasse. Mamma ha cominciato a mischiare al pianto una manciata di risa, in equilibrio sopra un maltempo che si andava dissolvendo. Poi il colpo di grazia. Papà ha aggiunto che avendo aumentato di due taglie il reggiseno, all’inquilino non sarebbero di certo mancate le scorte. Qui mamma si è completamente rasserenata. Mi sono voltato e al posto del macigno più niente. Solo una farfalla che volava via, lieta tra le correnti.

Cari mamy e papy,

se ho capito bene non è solo con sentimenti di gioia che mi aspettate. Ci sono anche degli inconvenienti… Riguardano soprattutto te, mamy. L’ospite che ti cresce dentro ha cambiato la tua vita e portato sconquasso nel tuo corpo. Ritmi saltati, consuetudini sciolte. Ti sei ritrovata iscritta d’ufficio a una natura nuova e mutevole. Che presenta delle sorprese. Ti aspettavi fin dal primo giorno di aumentare di peso, è accaduto il contrario. Lo stomaco si è reso ingovernabile. L’olfatto, divenuto senso preponderante e suscettibile, ha stritolato l’appetito, rendendoti ostile ogni sorta di cibo. Papy l’ha battezzata "l’era del tonno". In assenza delle cene preparate con le tue mani, la scatoletta era divenuta sua compagna di lunghe e penose serate. Quanto è durato? Due mesi, tre. Un tempo infinito, a detta del papy. Ora va molto meglio, la nausea è ata e la tendenza invertita. Hai scoperto con soddisfazione quanto ti piace abbuffarti per potenziamento di razione. Ma è giusta causa. Serve a nutrirmi e a moltiplicare rotondità di mamma. Anche il papy è contento, dice che riesci più morbida all’abbraccio. Il tonno in scatola è ormai un ricordo a dispensa traboccante.

Vostro Molly.

Macchiolina, anche lei si affaccia per osservarvi. Allunga il collo e rimane in ascolto. Penso che la sua sapienza sia limitata al presente e non copra gli eventi futuri. Il mio angelo infila la testolina tra i vostri giorni di attesa per scoprire come state vivendo i preparativi del nostro arrivo. Vuole capire chi sono le persone per cui si lascia seppellire di lettere scritte da qui. Quanto più chiara deve essere la sua percezione del mondo che sta per nascere! Un giorno ho chiesto al postino carico di fiori cosa ne pensasse di quanto accade lì fuori. Per lei ha risposto il suo sguardo, dove una stella incagliata si è accesa.

Ogni tanto Lisye viene a controllare come me la o. Le sue sono visite discrete, di chi non vuole arrecare disturbo. Si avvicina, il tempo di scambiarci un’occhiata e ha già raggiunto gli altri al cerchio. Il suo sguardo sembra voler dire che non vede l’ora che torni a giocare con lei e con gli altri compagni, ma lascia che mi prenda tutto il tempo necessario. Lisye ha già vissuto la sua apertura sul mondo che sta per nascere. Quando è tornato tra di noi aveva il cuore raddoppiato. Da allora gli è rimasta un’espressione saggia e distaccata. Diresti che abbia pensieri molto importanti. Tutti lontani da qui.

Cari mamy e papy,

deve essere un mondo ben strano il vostro. Vi ho sentiti discutere e chiedervi se sarò maschio o femmina. Pare che sia molto importante corrispondere a una categoria o all’altra. Un’appartenenza, quella del sesso, che condizionerà tutta la mia vita futura. Anche voi due siete l’uno e l’altra, anche se da qui non capisco bene in che ordine. Volendo potreste scoprire la mia natura, ma vi tenete in serbo la sorpresa per il giorno in cui nascerà il mondo. Se penso ai miei compagni, non riesco a immaginare che un giorno apparterranno a due condizioni tanto diverse. Le due metà del cielo, le chiamate voi. Chissà se Lisye sarà maschio o femmina? A Macchiolina, esperta di voli ed esploratrice di notti stellate, ho chiesto se conosce a quale metà apparterrò. – Non posso prevedere il futuro, Molly. Però mi sono fatta un’idea ben precisa.– Qui ha sorriso, ma non ha voluto condividere la sua previsione. Mi dispiace tanto, nessun indizio scovato. Che poi non saprei come recapitarvi ora. Vi lascio alle vostre congetture senza potervi girare anticipazioni.

Vostra metà del cielo, Molly.

Quando nascerà il mondo ci saranno degli episodi importanti che scandiranno la mia esistenza. Tappe fondamentali, vengono chiamate. La prima sarà la mia nascita. Mamy sarà presente senz’altro. Papy? Forse! Voglio dire… lui sta cercando di fare resistenza, ma è cinto d’assedio dall’insistenza di mamy. – Certo che assisterai in sala parto! – Non credo sia una buona idea. C’è il rischio che il dottore e le infermiere badino più a me che a te, quando sarò svenuto. – Da oggi in poi ti chiamerò cuor di leone. Comunque non puoi lasciarmi sola. Avrò bisogno di qualcuno che mi tenga stretta la mano e mi rassicuri. Qui mamy si è fatta dolce e papy è corso ad abbracciarla. Ma si è staccato quasi subito. – No, no, non se ne parla nemmeno. Le urla, il sangue, le infermiere che trafficano con affanno. Poi ho saputo che talvolta la donna, in preda al dolore, copre di insulti il marito. – Vedrai che a noi andrà diversamente. – Sì perché io non ci sarò. Rimarrò fuori in corridoio a eggiare nervosamente su e giù, chiedendo aggiornamenti continui, attendendo il vagito trionfale di nostro figlio. Insomma, mamy la do per certa, papy si vedrà al momento. Io scommetto che ci saranno entrambi e anche Macchiolina è d’accordo con me. Dicono che possiedo una spiccata abilità nell’esprimermi. I miei fiori dai colori vivaci suscitano ammirazione. Macchiolina sfoggia le più belle ghirlande del cerchio. Ho scoperto di essere figlio d’arte. Ho un papà scrittore. Qualcosa del suo talento deve essere scivolato fin qui, in groppa al vento, finendo con l’investirmi. In realtà, non si tratta proprio di uno scrittore. Non produce romanzi e se cercherete un suo volume in libreria rimarrete delusi. Il suo mestiere è

meccanico in officina. Ha familiarità con il lubrificante e le sue mani recano il callo delle chiavi inglesi. Non ha mai scritto un libro. Papy prepara briciole, come usa dire lui. Poi le regala ai eri del cortile, ai bambini che giocano nel parco. Qualche volta al sole che tramonta. Ne prende una manciata generosa dalla tasca, schiarisce bene la gola e poi le sparge. Nel mondo che sta per nascere si chiamano poesie.

Come rimase male mamma, la prima volta che accettò l’invito di papà di andare a trovarlo. Sopra la credenza della cucina faceva bella foggia un numero enorme di bottiglie. Panciute e tondeggianti, oppure filiformi, parevano straripare dal piccolo ripiano di legno. Attraversate dalla luce del sole, proiettavano sulla parete un mosaico cromatico che andava dal verde oliva al marrone scuro. "Oddio, sto frequentando un alcolista", fu il pensiero di mia madre. Scoprì che papy è astemio. – Ti rivelo un segreto – esordì lui, decifrando la sua espressione perplessa. Le bottiglie erano vuote di liquido e piene di poesie. Le rivelò che da quando l’aveva conosciuta il numero di bottiglie era quasi raddoppiato. Stava decidendo se smettere di scrivere o cambiare mobile. – Ma come mai lì dentro? – chiese mamy. Papy spiegò che i suoi scritti non meritavano il riparo di un quaderno. Le sue erano poesie di poco conto, precarie. Potevano al massimo trovare ospitalità tra pareti di vetro, fragile giaciglio, come i disperati messaggi dei naufraghi. Versi buoni solo per il lancio nell’oceano, con nessuna speranza di essere letti. Quest’ultimo pensiero impressionò molto mamy. Si fece seria e le si velò lo sguardo. Papy capì di aver esagerato e corse ai ripari. – Soprattutto, avere tanti vuoti in esposizione aumenta la stima degli ospiti nei miei confronti. Come posso raccontare di essere un duro manovale se non reggo neppure l’ombra di un bicchiere? Non mi crederebbe nessuno se spiegassi che le mani ancora sporche di grasso servono a far scivolare lì dentro poesie, con l’inchiostro ancora da asciugare.

C’è questa cosa nel mondo che sta per nascere, che si chiama mare. È molto grande e respira. Questo respiro fa bene alle mamme e alle creature che tengono in grembo. Mi ci hanno condotto e il vento che sempre soffia portava un sapore nuovo. La mamy e il papy hanno eggiato a lungo. A piedi nudi, il mare faceva solletico. Poi il sole è tramontato e mamy ha avuto brividi di freddo. Ha chiesto di essere riaccompagnata a casa. Lui ha esitato un po’, prima di estrarre qualcosa da sotto la giacca. Mamy, per un momento stupita, ha riso di gusto a quella mossa. Ha detto che era proprio matto. Papy ha accolto quel giudizio dicendosi d’accordo e sottoscrivendolo. Dopo aver preso slancio sbuffando per lo sforzo, ha scagliato lontano una piccola bottiglia di vetro. Verde, come il colore del mare nel momento in cui veniva inghiottito dalla notte.

Cari mamy e papy,

torno a parlarvi da lontano. Si è chiuso l’oblò. Il pertugio che mi permetteva di sentirvi e vedervi così vicini ha esaurito il suo tempo. Ora tutto è affidato al vento e a questi fiori che fabbrico con rinnovato impegno. È accaduto all’improvviso. Dal nulla è apparso un oggetto, colorato di verde. Si dirigeva verso di me. Mi ha attraversato e ha proseguito la sua corsa. Qualcosa di bianco mi è rimasto appiccicato addosso. L’ho portato a Macchiolina. Si è concentrata e dopo un momento di riflessione mi ha spiegato che si trattava di una poesia manoscritta ("Pessima grafia, non c’è che dire!" ha sottolineato con disappunto). Macchiolina l’ha letta. Parla di me, dell’attesa per il mio arrivo. Della gioia per il mio arrivo. Del sottile dispiacere di non riuscire a comunicamela fin da ora. Terminata la lettura Macchiolina aveva gli occhi lucidi. – Com’è bella – è riuscita a pronunciare con voce incrinata. – Devono proprio volerti già un gran bene. Ho guardato verso il luogo da cui proveniva l’oggetto verde. Vi ho visti per un attimo, per la prima volta senza filtri e in ogni particolare. Poi nulla più.

UNA SPECIE DI SOLLETICO

Mett, Lisye. Appello concluso. Sono loro i rimasti dei presenti al mio approdo. Gli altri, tutti giunti dopo. Il cerchio si è rinnovato tra partenze e arrivi. Avviene così da sempre. I nuovi venuti ci guardano con ammirazione. Di certo l’esperienza appena vissuta ha marcato il nostro aspetto. Lo sguardo gettato al di fuori ha lasciato un segno indelebile. Ora posseggo un cuore che batte a stantuffo il tempo di una marcia incalzante verso il mondo che deve nascere. Un bum– bum risoluto ritma, mescolando l’impazienza al timore per ciò che dovrà essere. Un piccolo strattone mi distoglie dalle riflessioni del ritorno. È Gnappy, il più piccolo, arrivato dopo il mio rientro al cerchio. – Perché la tua colomba è coperta di fiori?– ha chiesto indicando Macchiolina, curva sotto il peso delle mie ghirlande. – Ci sono due persone speciali, che tu non conosci, che non vedono l’ora di incontrarti. Se hai desiderio di dir loro qualcosa, fa come faccio io. Ho misurato alcuni i di distanza. Carezzato dal vento, nel silenzioso disparte, mi sono messo a scrivere a mamma e papà.

Cari mamy e papy,

rientrato dalla spedizione, nulla è come prima. Alla spensieratezza di giochi senza fine con i compagni si sono sostituiti lunghi momenti di solitudine, inframmezzati da dialoghi con Macchiolina e con Lisye. A dire il vero, la mia colomba è meno loquace di prima. È un po’ strana da quando sono tornato. Sta sulle sue e risponde solo se interpellata. Come se cominciasse a vedere esaurito il suo compito. A svezzamento compiuto tiene in serbo sotto le ali chissà quale sorpresa per i tempi a venire. Forse anche lei subisce lo sconquasso del grande tuffo che si avvicina. Vista la ritrosia di Macchiolina, ne approfitto per stare con Lisye. Ha voluto sapere cosa avessi visto e provato. Era molto curioso e mi ha fatto un sacco di domande su di voi. Quando parlavo di te, papy, si faceva serio e attento in modo particolare. Concluso il resoconto ho voluto saperne di più su quanto era capitato a lui. La sua risposta mi ha sorpreso. Ma ve lo racconto con il prossimo fiore. Questo è materia di insegnamento per Gnappy. Aspetta a bordo del cerchio il mio rientro e la scoperta di un modo di comunicare con chi ha appena cominciato ad attenderlo.

Vostro Molly, maestro di missive tra i due mondi.

Cari mamy e papy,

nel mondo che sta per nascere Lisye ha assistito a luci e ombre. La donna che lo porta in grembo è una pianista di talento. Si esibisce in luoghi chiamati teatri. Lisye afferma che è molto brava a suonare e questo è un bene. È una pianista di sangue blu e questo pare sia proprio un problema, perché il futuro papà non ce l’ha dello stesso colore. Lui è un uomo che per vivere cura altre persone. Medico si dice. Anche lui è bravo nella sua attività e pure questo è un bene. Ma c’è il problema del colore. La famiglia di lei, nobile e potente, non ha mai accettato quell’unione, anzi l’ha da sempre ostacolata. Lisye rimpiange quel periodo in cui trascorreva ore ad ascoltare la sua futura mamma mentre suonava i tasti in madreperla di un pianoforte a coda. Quel suono dolce si è andato sostituendo con terribili boati. Rombi cupi e fragore di grida hanno zittito il pianoforte. La musica cessava mentre un lugubre tambureggiare cresceva di vigore. La nuova parola correva sulle bocche di tutti. Guerra. Mentre pronunciava queste parole Lisye ha assunto un’espressione molto seria. Non che ne conoscesse di preciso il significato, ma di riflesso capiva quale atteggiamento comportava anche il solo parlarne. A tastiera muta si era ispessito il silenzio tra i suoi genitori. Dai loro scarni discorsi Lisye aveva inteso che andavano maturando preoccupazioni serie per suo padre. In quanto medico avrebbe dovuto svolgere la sua attività al servizio del suo Paese dove ce ne fosse stato maggior bisogno. Quel posto si chiama fronte. Pare che nella villa dei genitori di sua madre, sia tornato il buon umore. I saloni spalancati a grandi feste e balli per la nobiltà al riparo dagli eventi. Lisye terminò il racconto dicendo che l’oblò si era richiuso mentre suo padre riceveva una lettera con il sigillo delle autorità.

Macchiolina non dorme mai del tutto. Si appisola traballando su un dormiveglia che le permette di continuare a controllarmi. Tiene chiuso l’occhio stellato. Così fa i sogni migliori. Con l’altro spento a mezzo mi guarda confabulare con Lisye. Osserva come gesticolo con entusiasmo, mentre gli spiego il mio progetto. Lisye, dapprima incerto, si lascia convincere, aprendosi a un sorriso di speranza. Poi Macchiolina vede che mi dirigo verso di lei. Le sussurro il mio piano a un

orecchio. Spalanca entrambi gli occhi e apre il becco, ma senza che ne esca alcun suono.

Macchiolina ci ha condotto senza esitazione verso il luogo richiesto. Eppure da quella prima esplorazione non ci era più tornata. Chissà quante volte avrà provato il desiderio di affacciarsi di nuovo da quella balconata mozzafiato? – Ecco, siamo arrivati – dice. Io e Lisye ci scambiamo uno sguardo perplesso, non vedendo nulla. – Lassù, guardate. Pur lanciando lo sguardo più in alto possibile non vediamo altro che un minuscolo scintillio, una fessura remota. – Ma è un accesso piccolissimo! – protestiamo noi, con malcelata delusione. – Dipende dal punto di osservazione – Macchiolina mi afferra con le zampe e spicca il volo verso quella fioca luce. Lo stesso accade a Lisye con la sua colomba. In un istante percorriamo la distanza enorme che ci separa dal pertugio lucente. Meraviglia, davanti a noi si spalanca l’universo punteggiato da una moltitudine di stelle e pianeti. – Avevi ragione Macchiolina, è davvero magnifico, le dico senza staccare gli occhi da quel panorama indescrivibile. – È lì che andremo a stare, quando nascerà il mondo?– chiede Lisye. – Lo vedete quel puntino, azzurro con strani disegni e sagome frastagliate in superficie? Quella è la terra, il luogo in cui vi attendono i vostri genitori. Il momento è propizio. Faccio un cenno a Lysie, che mi rimanda il segnale d’intesa. Ci stacchiamo dalle nostre colombe e spicchiamo un balzo verso le stelle,

mirando al pianeta azzurro. Le colombe non capiscono cosa stia accadendo. Si spaventano vedendoci sgusciare dalla loro presa e sporgere verso l’universo. Ci siamo quasi, par già di toccare con mano la terra. Macchiolina e la colomba di Lysie ci gridano qualcosa, ma noi non riusciamo a sentirle. Stiamo per attraversare il diaframma dei due mondi quando qualcosa va storto. Una forza invisibile ci impedisce di proseguire. Segue un gran rumore, poi cominciamo a precipitare e da lì non ricordo più nulla.

Cari mamy e papy,

il tentativo di fuga è fallito. Macchiolina ci ha rivelato che non è dato di attraversare il varco. Siamo stati respinti e precipitati. Privi di sensi, le colombe ci hanno accudito e riportato al cerchio. È seguita una bella ramanzina. Ho confessato a Macchiolina che l’idea era stata mia. Volevo che raggiungessimo anzitempo il mondo che sta per nascere. Dovevamo impedire che il padre di Lisye partisse per il luogo chiamato fronte. Macchiolina alla mia dichiarazione di colpevolezza ha riso bonariamente. – Molly, piccolo mio, l’intenzione che hai avuto è buona. È segno di una schietta amicizia. Ma non potete ancora raggiungere la terra. C’è un tempo stabilito per farlo. Prima di allora non vi è data la possibilità di interagire con chi vi attende. Al termine del suo discorso le ho domandato: – Ma tu avevi capito perché ti abbiamo chiesto di accompagnarci fin laggiù? Macchiolina ha risposto, sbattendo le ali e con un gridolino furbo. Questo è il resoconto del mio fallito tentativo di evasione.

Vostro Molly, fuggiasco mancato

È accaduto d’improvviso. Gnappy, piccolino, caracolla sotto il peso della sua colomba e delle prime ghirlande. Le esibisce a tutti con un pizzico di orgoglio, chiedendo conferma della loro buona riuscita. – Sono per la mia mamma e per il mio papà. Ti piacciono? È il mio turno di ispezione e gli rispondo, che sì, sono proprio riuscite bene. Fragranti di profumo e dense di significato. Mi guarda dal basso verso l’alto e il suo piccolo cuore si incendia di fierezza e guizza altrove contento, alla ricerca di nuovi consensi. Senza raggiungerli. La sua corsa si blocca d’improvviso. Un’aria fredda, di cui ignoravo l’esistenza, gela il nostro cerchio e spegne il cuore di Gnappy. Da rosso scolora in un blu profondo. Noi compagni assistiamo paralizzati e increduli. Si sbriciolano le collane che non raggiungeranno mai nessuno. La sua colomba con un gemito triste, prende il volo allontanandosi per sempre. Gnappy comincia a scomparire. Si guarda attorno impaurito, mi vede. Con gli occhi chiede “perché?”. Allungo una mano verso di lui, vorrei trattenerlo, ma continua a scomparire. Solo il blu che gli ha mangiato il cuore è ancora nitido e certo. Poi l’aria fredda si porta via anche quello. La morte chiude le sue fauci. Sazia. Mentre il cerchio si ridestava da quel maleficio, mi sono mancate le forze e ho sperimentato il buio, il cielo della notte, visto attraverso il pertugio, derubato di tutte le sue stelle.

Ha piovuto a lungo dopo l’addio di Gnappy. Poi è tornato il sereno. Ma io non ero in grado di smettere di piangere. Pioveva salato. Salato è il mare, mi aveva raccontato Macchiolina. E io non ero capace di trovare una relazione tra quell’enorme ansimante distesa blu e il dolore che traboccava dagli occhi. Ho implorato risposte a Macchiolina. Lei ha detto che è un dolore grande conoscere la morte prima ancora che il mondo nasca e che per un dolore così grande non ci sono risposte, c’è solo il tempo.

Il tempo di una risposta è arrivato in sogno. Ho visto Gnappy di spalle. Il Custode lo teneva per mano. Si allontanavano lungo un sentiero in salita. In cima al sentiero c’era una porta intarsiata, con due colonne ai lati. Si è spalancato l’uscio. Gnappy si è voltato e mi ha sorriso. È l’ultima immagine che ho di lui. Sono avanzati entrambi e la porta si è richiusa alle loro spalle. Recava, fra tanti, il suo nome inciso sul frontale. Non so dove si trovi Gnappy, ma ora ho gli occhi asciutti e la certezza che abbia un posto dove stare e che un altro calore gli restituisca quello scippato da un abbraccio rifiutato.

Lo confesso, gli ultimi avvenimenti mi hanno piuttosto scosso. Quanti episodi tristi e lieti, quante avventure da perderci il fiato solo a raccontarle. E non mi sono ancora mosso dal grembo di mamma! Poverina, devo averle provocato un bel po’ di trambusto. Fremiti e scosse, un terremoto nella pancia che va lievitando. Allora mi chiedo, come sarà vivere nel mondo che sta per nascere? Quanto sarà grande? Quante persone ci vivranno? Quali incontrerò? È una sfilata di domande che mi spaventa e un poco mi opprime. Mi conforta l’avere potuto vedere, seppur da lontano, le persone che mi attendono. Primizia di un amore già cominciato. Sono robuste le braccia di Papà, mi terranno al riparo. È melodiosa la voce di mamma, mi saprà ninnare e consolare. Talvolta, quando sono triste, o anche solo pensieroso, ci pensa Lisye a tirarmi su. Mi solleva di colpo, facendomi ruzzolare in aria per poi trascinarmi con vigore. – Dai, raggiungiamo gli altri a giocare. – Va bene,– rispondo io docile. Ma prima gli chiedo a bruciapelo – Lisye, ma quanto è grande il mondo? Lisye mi guarda senza smettere di sorridere, rimane incerto un istante e poi: – Sarà grande abbastanza per tutti e due, non preoccuparti. Non ci calpesteremo.– Tira via dritto, senza lasciare la forte presa a cui mi ha agganciato.

Cari mamy e papy,

ho avuto modo di vedervi, quasi sfiorarvi e qualcosa di voi è ato fin qui. Mi sono fatto un’idea precisa di come siete. Ma voi come mi immaginate? Quando toccate quel grembo che mi contiene, io sussulto di gioia per un calore regalato. A voi rimane una sensazione nuova incollata alla mano in cambio di una carezza. E poi cos’altro? Il tempo che ci separa si fa sottile e gli interrogativi si moltiplicano. A volte mi sorprendo a chiedermi se sarò all’altezza delle vostre aspettative. Sarò forte, bello, amabile quanto meritate? Secondo Macchiolina mi sto prendendo troppe preoccupazioni. Dice di fare come Lisye che vive gli ultimi giorni nel cerchio in modo spensierato. Che l’amore è nel cuore e negli occhi di chi ama. Questa è una bella frase. È riuscita a calmare il mio turbamento. Se mi guardate con gli occhi di chi ama sarò di sicuro forte, bello e amabile quanto basta.

Con questa certezza vi saluto, vostro consolato Molly.

Da quando il nostro tentativo di fuga è fallito, non sono più tornato sull’argomento con Lisye. Il rimprovero delle nostre colombe è stato il sigillo apposto su un’avventura impossibile. Lisye appare sereno, il suo cuore stantuffa vigoroso. Eppure mi chiedo quali siano i suoi veri sentimenti. Se ogni tanto pensi a quella lettera ricevuta dal padre, latrice di un destino forse tragico. Macchiolina lo descrive sereno, ma io ho notato che durante i nostri giochi si allontana in silenzio per ritornare al cerchio con uno sguardo pensieroso e gonfio di orizzonti lontani. Ho deciso di seguirlo, mantenendomi a distanza perché non mi veda. Mentre Lisye si allontana, la sua colomba, ormai sepolta di ghirlande, gli sonnecchia su una spalla. Risale per un po’ il ruscello che scorre vicino al nostro cerchio. Poi l’abbandona per avventurarsi su di un piccolo sentiero che si snoda tra i campi di grano. Il percorso ha qualcosa di familiare. Ne ho conferma quando d’improvviso Lisye si arresta puntando lo sguardo verso l’alto. Guardo anche io all’insù e riconosco la balconata di stelle, il varco di Macchiolina. Trattengo il fiato, per non disturbare la sua contemplazione. Vedo il puntino luminoso rispecchiarsi negli occhi di Lisye, per poi traboccare e rigargli le guance. Ma non è tristezza. Sembra quasi stia sorridendo. Mentre cerco di decifrare i segni sul suo volto, si rivolge a me: – Ci siamo. – …? – Sì Molly, sento che è giunto il momento anche per me. Con l’imbarazzo addosso per essermi fatto scoprire, non so cosa replicare. Lisye si volta, mi sorride con uno sguardo luminoso, come mai gli ho visto prima. Mi prende per mano e mi riconduce al cerchio.

Lisye si è tuffato. Vive la sua vita altrove. Provo un gran vuoto che non avevo

avvertito con gli altri partiti. Dovrei essere contento per lui, che finalmente ha raggiunto i suoi genitori. Per lui preoccupato, nel caso sia approdato in un paese in guerra. Eppure la sua mancanza è tutto ciò che sento, non c’è spazio per altri sentimenti. Ne parlo con Macchiolina, che mi rivela: – Lisye è per te qualcosa di unico. Un compagno che nella sua diversità è tagliato su misura per te. Possiede quello che a te manca, è attratto da ciò che tu possiedi. Nel mondo che sta per nascere si chiama anima gemella. – Vuoi dire l’altra metà del cielo? – L’altra metà del tuo cielo Molly. Trascorrerai la vita a cercarla. – Ma rivedrò Lisye un giorno? – Può darsi, il mondo là fuori è grande, ma non infinito. Oppure ne riconoscerai alcuni tratti in un’altra persona. Un riflesso di identica fattura alimenterà la tua attrazione verso di essa. Macchiolina, bontà sua, è andata sul complicato. Quello che ho capito è che nel mondo che sta per nascere mi metterò alle calcagna di Lisye e, costi quel che costi, lo ritroverò.

Sono percorso da fremiti. Un formicolio a singhiozzo mi scuote. È una specie di solletico, dichiaro a Macchiolina. Mi squadra socchiudendo gli occhi. Una scintilla si accende in quello nerocerchiato. Con fare importante annuncia: – Molly, ci siamo. Quelle sono le contrazioni di tua madre. Il momento del grande tuffo è arrivato. Un po’ me l’aspettavo, mi emoziono comunque. Il mondo sta per nascere. Il protagonista sono io. Devo prepararmi...

Vediamo un po’, non dovrebbe mancare niente. Sono riuscito a farci stare tutto

nella valigia: emozioni, ricordi, avventure. È bella pesante, ma non voglio abbandonare nulla. Tutta roba buona per il viaggio e per i primi giorni. Perché Macchiolina si avvicina fischiettando e con quell’aria vagamente malandrina? – Molly – si schiarisce la gola e prosegue – Molly, c’è una cosa che ancora non ti ho detto...– –...? – Il tuo bagaglio, posalo pure. Non viene con noi. – Cosa? Con tutto l’impegno messo per racimolare e mettere insieme queste esperienze? E guarda un po’ come ho piegato tutto per benino. – Vedi Molly, ora possiedi un cuore forte, robusto per la traversata. Ma dovrà giungere sgombro e pulito nel mondo che sta per nascere. – Vuoi dire... – ...che dimenticherai tutto quando nascerai. – Ma... – Anche il nome che ti ha accompagnato rimarrà qui. Sbigottito da quella rivelazione netta e forte non so cosa replicare. Allora continua lei: – Solo questi fiori eranno.– Dà una scossa leggera alle ghirlande che le ballano attorno al collo. – Andranno dritte dritte verso i destinatari, investendoli di una sensazione nuova ed esaltante che proveranno appena ti vedranno. Diventare genitori, il momento più importante nella vita di una donna e di un uomo. Macchiolina ha un’aria radiosa mentre pronuncia queste parole. Ma anche quando ha finito riflette una luce crescente e che si spande su tutto il cerchio. Il vento si fa più forte. Io e Macchiolina ci guardiamo e nel sibilo del vento sappiamo che sta arrivando il Custode.

Cari mamy e papy,

ho forse il tempo per l’ultimo fiore. L’aggancerò come posso agli altri, prima che io e il mio angelo ci tuffiamo. È tremenda l’emozione. Ho il cuore che palpita con furore. Ancora pochi istanti, poi ci incontreremo e staremo insieme per sempre. Una forza irresistibile e antica mi sta sollevando verso il Custode, verso il mondo che sta per nascere, verso di voi. Tutto si fa luce eppure non vedo più. Neppure riesco a distinguere Macchiolina che mi precede di poco. La sento gridare qualcosa a proposito di stelle vicine e, nel mezzo, il pianeta azzurro. Le forze vengono meno, è tempo di abbandonarsi per fiducia e sfinimento di sensi.

Vostro...

ECCOTI GIUNGERE

Riemergo a fatica dal pozzo di tenebre in cui sono precipitato. La testa imbottita di sonno viene ata da parte a parte da uno squillo di tromba che chiama adunata. “La sveglia” penso “sono già trascorse due ore.” Ricordo subito che quello è il giorno del parto. Al mattino, albeggiava appena, avevo accompagnato Anna in ospedale, per il ricovero concordato. A malincuore l’avevo salutata per raggiungere il posto di lavoro. Il tentativo di dedicarmi a qualche progetto da completare si era ben presto rivelato inutile. La mente veleggiava altrove e la concentrazione evaporava con spontaneità. Nel primo pomeriggio, verso le due, non ho più retto. Ottenuto il permesso di uscire in anticipo, ho salutato i colleghi rincasando. La tensione del momento si faceva pagare lautamente e in moneta sonante. Sfibrato dagli ultimi giorni di attesa, avevo deciso di riposare in modo da prepararmi nel caso in cui all’ospedale avessimo fatto le ore piccole. “La sveglia” penso, e invece è il telefono. Una voce che è più un lamento, mi interroga: – Quando vieni? – La spoglio della sua veste di sofferenza e traduco, “Guarda che ci siamo. Sbrigati!” Rispondo che in un attimo sarò lì. Guardo l’orologio, sono le tre. Ho dormito una mezz’ora eppure mi è sembrato un’eternità tanto era spesso e coriaceo quel sonno. Ho anche sognato. Il brusco richiamo alla realtà sta già disperdendo le immagini, trasformandole in una manciata di sabbia colorata. Ne agguanto i lembi prima del completo dissolvimento. Che sogno strano. Fiori, colombe e nostro figlio che già ci conosceva per abbondanza di sensazioni. Lo dovrò raccontare ad Anna. Salto su in macchina e mi precipito in ospedale. Indosso una giacca molto leggera sopra la camicia. È il primo di ottobre, ma splende un sole caldo. Corro spedito, chiedendomi se arriverò in tempo per assistere al parto. È buffo però. Oggi è cominciato ottobre, mentre la data prevista per la nascita di nostro figlio, secondo i calcoli, era il ventun settembre. Dieci giorni che separano la stagione dell’uva matura da quella delle prime castagne. Le due versioni dell’autunno, quella della luce brillante in coda all’estate e quella che fa indossare i maglioni rossi e gialli al bosco e alle siepi.

Quanto sono stati lunghi questi dieci giorni! Al lavoro ogni mattino la domanda di rito giungeva immancabile al caffè: – Allora, ci sono novità? – e io sempre a spegnere l’entusiasmo dell’interlocutore, proclamando il nulla di fatto. Ogni giorno Anna decifrava i segnali che la sua enorme pancia spediva in superficie, senza mai rilevare alcunché di significativo. Con lei scherzavo: – Quanto bene si trova nostro figlio nel suo reame provvisorio. Non ne vuole sapere di venire al mondo. Che sia un tipetto pigro? E ora eccomi qua con il piede destro che a stento si trattiene per non inclinare a fondo l’acceleratore. Arrivo all’ospedale e parcheggio da qualche parte. Sarà solo un problema a cose fatte rintracciare la macchina. Mi inoltro nel dedalo complicatissimo di reparti e corsie, strutture sorte a fine Ottocento e accavallatesi nei decenni a costituire una matassa non più districabile. Orientandomi con i cartelli e ricorrendo all’ancor fresca memoria del mattino, quando ho accompagnato Anna, raggiungo il reparto di ginecologia. Mi fanno accomodare su una lunga panca. Devo avere un aspetto piuttosto trafelato e inquieto, tant’è che il collega seduto accanto, uno slavo sui quarant’anni, mi raccomanda di stare tranquillo, che tanto le donne sanno partorire da sole. Sì certo, ha ragione, rispondo allegando un mezzo sorriso posticcio. Invece che calmarmi, immaginare Anna che dà alla luce la creatura, senza di me e circondata da estranei congratulanti in camice bianco, mi inquieta terribilmente. Agguanto la prima infermiera che a. Sto per chiederle dove si trova Anna, quando riconosco i lamenti di mia moglie provenire dalla stanza accanto. Muto, lascio parlare l’indice puntato, per favore è di la che devo andare. L’infermiera capisce e mi scorta nella sala travaglio. Nel medesimo ambiente, diviso in scomparti da leggeri separé, tre–quattro donne stanno vivendo gli spasmi della vigilia. Situazione precaria quanto imprescindibile. Penso a una trincea, a un accampamento di fortuna collocato lungo il fronte di una battaglia decisiva. Una di queste donne è in piedi, riversa in avanti. Abbracciata al letto per mantenere la posizione e non arretrare. È Anna. Quella che si lamenta più di tutte. La raggiungo, sfilando davanti agli altri scompartimenti con gli occhi tenuti bassi da uno schiacciante senso di

pudore. Un uomo è sempre un estraneo in quel sacrario di sofferenza dispensatore di vita. Anna mi racconta a denti stretti che da un’ora le sono “partite” le contrazioni e non riesce a rimanere distesa per via dei dolori. Dimentica di dirmi che è contenta e sollevata che l’abbia raggiunta, ma lo considero implicito nella situazione. Sul letto vedo la nostra copia del Conte di Montecristo. Un volume di quasi mille pagine che ha iniziato a leggere da quando è rimasta a casa dal lavoro. Chissà perché mi pare un intruso, quel libro. Sono pagine ricche e vibranti da assaporare in silenzio e con calma. Fuori luogo in quel trambusto. Sono contento di averla raggiunta, ma vederla in quello stato di sofferenza e grandiosità mi fa sentire impotente e del tutto spettatore. Un uomo insomma. Fortuna vuole si liberi una delle tre stanze adibite al parto di cui l’ospedale è fornito. Pulita e spaziosa, le pareti tinte di un rosa pastello. Ritengo che il colore sia sbagliato. Non abbiamo voluto indagare quest’aspetto della faccenda. Abituati a non muovere un o senza averne valutato prima rischi e benefici, ad aver ingegnerizzato la nostra vita infarcendola di bilanci, ci siamo riservati la sorpresa migliore. Ma non è stato possibile sottrarsi ai pronostici di parenti, amici, semplici conoscenti. Persone incontrate in coda alla cassa del supermercato. Qualcuno mosso dall’intuito, altri sulla base di precise teorie che consideravano forma, dimensione e altezza della pancia, in molti ci hanno regalato l’azzardo. Con una concordanza stupefacente nell’esito: nove su dieci sarà maschio. Alla lunga la statistica monocolore del vaticinio ha finito con l’influenzarci. E quella pancia è divenuta gradualmente un lui nei nostri pensieri e nei nostri discorsi. Ora la tinta alle pareti ha l’impudenza di sollevare dubbi proprio in dirittura d’arrivo. Sono le quattro del pomeriggio quando facciamo il nostro ingresso, non proprio trionfale, in sala parto, Anna piegata in due e io che la seguo goffamente. Ci saremmo rimasti per più di dodici ore. Appena entrati, l’ostetrica invita Anna a sdraiarsi. Lei non ci pensa neppure e si posiziona sopra il pallone. Ce l’avevano spiegato al corso preparto che avremmo trovato il pallone e la liana. Confesso di aver pensato, per giustezza di collocazione, più a un circo che a una sala di ospedale. L’evidenza del mio errore la diede Anna che, tranne il gran finale, trascorse quasi tutta la notte là sopra, appesa alla fune. Il pallone di plastica è alto circa mezzo metro. Ancorato a terra in un punto, permette di compiere dei movimenti circolari in grado di

lenire il dolore alle parti basse. Per reggersi, una corda. Nodi a intervalli regolari danno la possibilità di impugnature ad altezza variabile. Dietro il pallone un sedile la cui prerogativa è di diventare marcatamente scomodo dopo la prima mezz’ora di utilizzo. Quello era il mio posto. Mi garantiva la prima linea, la posizione migliore per esercitare il massaggio sulla schiena, in merito al quale avevo ricevuto debita formazione nelle ultime settimane. L’ostetrica, dopo essersi assicurata della nostra sistemazione, esce. La rivediamo altre due volte a intervalli di due ore.Capiamo che queste visite sporadiche sono chiaro indizio che ci troviamo ancora lontani dal traguardo. Anna sul pallone, appesa alla liana, reclama la mia opera di massaggiatore. Applicare poca pressione ma omogenea. Mano aperta, movimenti in senso orario sulla zona lombare. Avanti così, con garbo e fermezza tutta la sera e gran parte della notte. Parliamo anche. I nostri discorsi sono resoconti del momento che stiamo vivendo, senza concessione alcuna ad argomenti esterni. A ato o futuro. Uno scambio sul posto di sensazioni immediate, zeppe di emozione per la troppa importanza di ciò che sta accadendo. Avviene il cambio turno del personale. Chi ci ha accolto e accompagnato in sala parto stacca. Noi continuiamo. Facciamo conoscenza con la nuova ostetrica, quella che ci auguriamo condurrà a fatti concreti. È una donna del sud. Bassa di statura, forme abbondanti. Ha un tono di voce dolce e pacato e lei stessa appare placida nelle movenze e nel carattere. Prende le consegne e le informazioni del caso: come si sente signora, quando sono cominciate le doglie, è il primo figlio, quanti anni ha? Parte chiede a voce, parte legge nella scheda personale che ci accompagna. Quando esce ci domandiamo quando l’avremmo rivista. Ormai sono già le nove e fuori è buio da un pezzo. Anna ha degli eccessi di dolore. Le doglie. Durano poco, ma cadono con regolarità. Sono movimenti preparatori dell’utero, remoti e necessari. Quando sente che si avvicinano, tutta la sua concentrazione è spesa per tenerle a bada e io sparisco. Salvo ricomparire a picco superato con i miei massaggi. Nella visita di controllo successiva l’ostetrica ha un pensiero gentile nei miei confronti. Venuta a sapere l’ora i cui siamo entrati in sala, capisce che ho saltato cena e mi procura da mangiare. Derrate tipiche del luogo. Sgranocchio due fette

biscottate, poi uno yogurt. Bianco, magro. Ringrazio la mia benefattrice.

Anna ora è impegnata a gestire al meglio gli spasmi, a calcolare durata e intervalli. Sapere quando smetteranno, quanto ci vorrà prima della successiva ondata le consente di dosare le energie. Sfruttare al meglio le pause, cercandovi brandelli di riposo. Su questo è di un’abilità sorprendente. Nel corso della nottata l’ho vista più volte, con i miei occhi, addormentarsi tra una doglia e l’altra. Microriposi da cui si destava con dispiacere maggiore per il sonno interrotto che per la fitta in arrivo. La notte si stiracchia lunga lunga, ricoprendoci e riempendo ogni interstizio con il suo silenzio odoroso di disinfettante. Ogni due ore entra per la visita di controllo l’ostetrica. Il tempo viene scandito dalle doglie di Anna. Prime avvisaglie, picco di dolore, ecco è ata. Sono ammirato dalla capacità di sopportazione del corpo e della mente femminile. Mi chiedo quanto sia stato utile per le donne far ricorso a questa energia elastica e iva, nella storia di accompagnamento con l’uomo. Diciamo da Adamo in giù. Mi chiedo quante volte vi abbia fatto ricorso Anna durante i nostri anni di vita insieme. Per il resto le massaggio la schiena, parte bassa, attento a non fuoriuscire dalla zona assegnata. Tanto è sensibile e bisognosa di pressione dove mi ha indicato, quanto suscettibile nel verso opposto a essere toccata in altri punti. Anche questa bizzarra geografia corporea di emozioni tattili è parte del meccanismo del parto. Congegno dormiente e sepolto, riattivato per la specifica circostanza. Ogni tanto chiedo pausa e interrompo le frizioni, non potendo contare su di un cambio. Mi alzo, riporto le gambe e il busto in stazione eretta e eggio per un po’, lo spazio di pochi i. Riattivo la circolazione del sangue, scaccio il torpore che mi invade le carni. Massaggiandomi le mani ne trovo i palmi morbidi, gli interni levigati. Per mancanza di asperità e calli, si accende il ricordo vago di un sogno avuto non so più quanto tempo prima. Lontano, come stivato in una vecchia soffitta. La soffice coperta della notte comincia a ritirarsi. Sfila verso ovest sollevando lembi d’oriente da cui filtrano i bagliori dell’alba. Non più notte, non ancora giorno. La situazione precipita per accorciarsi degli intervalli e approssimarsi della

nascita. Ricordo concitazione e affaccendamento, quasi irriverenti nei confronti della solenne lentezza che fin lì ci aveva accompagnato. Anna è ora finalmente sul letto, la ripulsa a sdraiarsi svanita. L’ostetrica è presidio fisso ai bordi e anche un medico si fa vedere di tanto in tanto. Si inaugura la nuova fase. Anche ora ho un ruolo che giustifica la mia presenza. Devo aiutare Anna a tenere il ritmo del respiro. Inspiriamo, una, due volte, espiriamo lungo e profondo. Io forte, lei quasi con rabbia. Lo slancio di vogatore parte dai polmoni e viene trasferito al basso ventre per spinte da atleta. L’ostetrica suggerisce con dolcezza ad Anna che se vuole, se le è di aiuto, può gridare. Lei accoglie l’invito accompagnando la spinta con una potenza di urlo inaudita. Sembra funzioni. Se non proprio sollievo, le garantisce un canale di sfogo per la fatica e il dolore del momento.

Inspirare breve uno-due, espirare a fondo, spinta e urlo da frantumare i vetri. Dopo poche sequenze, piomba in stanza il medico chiedendo perentorio ad Anna di smettere di gridare in quella maniera scellerata, altrimenti sveglia l’intero reparto. Visto che c’è, per farsi ulteriormente ben volere, ci racconta di una paziente nella stanza vicina che con appena due spinte s’è sgravata. Anna rispetta la consegna del silenzio e lo fulmina solo con gli occhi. Tra i denti serrati le rimane impigliato un brusio che termina in “...nzo!”. Inspirare breve uno-due, espirare a fondo, convogliare la forza dell’urlo represso nella spinta. Ci siamo. Il medico sopra Anna preme con forza e precisione il ventre. Da questo aiuto, dall’unione della spinta interna ed esterna viene alla luce la creatura. – È femmina! – esclama l’ostetrica. – Sì, proprio una bella bambina – rinforza il medico, recuperando qualche punto di credito. Le mani scorrono rapide su quel corpicino, gli infilano una cannuccia sottile in bocca e nella gola. Questo le apre i polmoni e sento nettamente il primo respiro

di mia figlia. In quel momento riprendo a respirare anch’io senza sapere quando avevo smesso. – Come si chiama questa bambina? – Rachel e– pronunciamo. Io con orgoglio, Anna rantolando dal letto, dove giace esausta senza staccare gli occhi dalla bambina. Pronunciamo quel nome, da tempo preparato, come il primo vestito da farle indossare. L’ostetrica prende nota su di un braccialetto che fissa al polso della neonata. Ora tocca ancora a me. Avevo chiesto di poter essere io a recidere il cordone ombelicale. Mi viene ata una pinza di plastica colorata. Dopo che l’ostetrica ha interrotto il flusso di sangue del cordone con un piccolo laccio emostatico, eseguo l’operazione. Taglio netto per separare madre e figlia, per desiderio di inserirmi in un legame finora a due. Poi mi viene consegnata la piccina avvolta in un asciugamano di morbida spugna. Sono il primo ad abbracciarla. A me sembra molto leggera, anche se la bilancia sentenzierà quasi quattro chili. Basterebbe una mano sola per reggerla. Piange pochissimo e tiene gli occhioni scuri spalancati, già curiosi. Anna sfinita la reclama. La deposito con una delicatezza nuova, ma da ora in poi tutto è nuovo, sopra il petto della madre. Al suo posto. Così può continuare a ricevere calore e nutrimento, seppure da questa parte del mondo. Ma già ci chiedono di liberare la stanza che occupiamo da tempo immemore. Entra una squadra di addette alle pulizie e infermiere. Una di queste prende in custodia Rachele, nostra figlia, per lavarla e riconsegnarla poi alla mamma che viene condotta alla sua camera da letto su di una sedia a rotelle, la sua corona di alloro. Lenzuola e coperte vengono rimosse e uno straccio con disinfettante viene ato sul pavimento. Le finestre spalancate per far entrare l’aria fresca del principio del giorno. Ormai non mi trovo più nel luogo magico dove è nata mia figlia ed esco con le mani in tasca. La sala parto deve essere disponibile a breve per un nuovo miracolo. The show must go on. L’ospedale è immerso nel sonno e io in punta di piedi entro nella stanza dove si trovano Anna e, al suo fianco, Rachele.

Saluto la mamma con un bacio leggero sulla fronte e un “Sei stata proprio

brava”. Lei socchiude gli occhi e sorride appena, stringendo la creatura a sé. Poi esco, devo avvertire i parenti. È da un bel po’ di tempo che non diamo nostre notizie. Mi sembra giusto cominciare dai genitori di Anna. È molto presto, staranno dormendo. Uno squillo uno, e subito mio suocero risponde “Pronto?” Mentre gli do la notizia me lo immagino da ore che eggia avanti e indietro al telefono in ingresso, insonne come il resto della famiglia. È la volta di mia madre. Quando le comunico che è nata una nipotina, esplode di gioia. Finalmente una femmina in famiglia, lei che aveva avuto solo figli maschi. Bene, avvertiti i quattro nuovi nonni della nostra e loro promozione generazionale, mi avvio al parcheggio per tornare a casa. C’è ancora poca luce quando giungo a destinazione. Esausto, mi lascio cadere nel letto che mi sembra più soffice del solito. Gli occhi mi si chiudono in compagnia dell’ultimo pensiero. Oggi è il più bel giorno della mia vita. È nata mia figlia. Oggi, due ottobre, è la commemorazione degli Angeli Custodi. Di sicuro Rachele non ha fatto il viaggio da sola.

Sono da poco entrato nella vostra vita, eppure mi dedicate i pensieri migliori. Mi avete addobbato di speranze nuove. Sono davvero piccolo. Un puntino attorno al quale hanno preso a girare le vostre esistenze. È accaduto qualcosa di portentoso tra di voi. Una scintilla si è accesa tra due corpi abbracciati stretti ed eccomi, ho fatto il mio ingresso nel cerchio.

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