Giorgio Monticolo
Vite arroccate
AVVERTENZA: l’autore assicura, formalmente, che i personaggi e le vicende di questo libro NON corrispondono a persone o fatti reali che li abbiano, anche solo in parte, ispirati. Poiché, però, è possibile – e in alcuni casi probabile – che esistano persone o fatti le cui caratteristiche richiamino i personaggi e/o le vicende narrati in questo libro, l’autore assicura che si tratta di una pura coincidenza: NON è di loro che si racconta qui.
© 2015 - Giorgio Monticolo
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Indice
Uno Due Tre Quattro Cinque Sei Sette Ringraziamenti
A Claudia G.M.
Uno
Il tempo è prezioso, molto prezioso. E me lo ripeteva ogni santo giorno mio padre e, prima di lui, mio nonno, buonanima. E vale più dell’oro e di quello che potreste avere o solo sognare d’avere. Perché? Perché siamo fatti di tempo. Eh sì, sì, cari amici miei, altro che cincischiare, altro che svagarsi, altro che bivaccare: questo e tanto altro ancora m’hanno insegnato gli anni ruggenti addietro, vissuti per strada e felicemente trascorsi in compagnia della mia amata bottiglia, questo è vero, è innegabile, e le infinite mattinate ate a cantare, a ridere, a giocare a carte e a osservare le persone. E anche ora che barcollo mezzo ubriaco verso la fermata del pullman che, dopo più di dieci anni, Cristo santo, dieci anni, mi riporterà finalmente al mare, al mio mare, non posso fare a meno di pensarci e ripensarci ancora. Curioso, no? Solo il tempo, compagno dolce e infame, fatto di secondi, minuti, ore, giorni, settimane e mesi, t’insegna il vero valore della vita, il più autentico dico io e, non in ultimo, purtroppo, ti rammenta di quel terribile e finito numero d’istanti che, volenti o nolenti, caro amico mio, ci separano dal nostro cadavere. E voi, invece, voi, miei poveri imbecilli, siete talmente avviluppati dai mille impegni di cui volete riempirvi le giornate che, spesso, dico io, troppo spesso, vi dimenticate che di giornate, se ben le contiamo, non ve ne rimangono mica poi tante. Ed è difficile svegliarsi accanto a un morto, specie se, quel morto, era tuo amico. Anzi, un cugino, per come ci chiamiamo noialtri, anime pie da marciapiede che
viviamo allegramente per la strada e che condividiamo valori che la cosiddetta gente perbene, che si lava tutti i giorni col sapone e l’acqua calda e che dorme nelle case di mattoni con il tetto, la porta e le finestre, neppure si ricorda più. Per noi, la vita, la sincerità, la condivisione, il rispetto, la fratellanza, l’altruismo e la comione, sono valori ancora vivi e in cui crediamo. E non conta che lavoro fai o non fai più, quanti soldi hai in banca, se abiti ancora a casa tua o l’hai persa, perché l’altro ieri è venuto l’ufficiale giudiziario a pignorartela e t’ha sbattuto fuori, non c’importa se la notte dormi da solo in macchina, accovacciato sul sedile posteriore con una coperta addosso pensando ripetutamente a tua moglie che ha chiesto la separazione dopo più di vent’anni di matrimonio, o piangi ogni due minuti prima della tua dose giornaliera di valium: ci vai bene lo stesso. Se sei qua e adesso, insieme a noi e in mezzo a noi, è importante, molto importante. La tua vita è importante, i tuoi sentimenti sono importanti, il tuo cuore che batte è importante, il tuo credere ancora in qualche cosa per cui valga la pena alzarsi dal letto la mattina e continuare a vivere è importante. Il resto è distrazione di massa. Che tu lo voglia accettare o meno. E sembra impossibile solo a pensarci, cazzo: ci bevi, ci fumi, ci mangi assieme, tutti i santi giorni attaccati come gemelli siamesi, ora dopo ora, risata dopo risata, sorso dopo sorso, e poi, in un attimo, così, come se nulla fosse, quello prende e muore, schiatta, se ne va e senza neppure avvisarti o dirti addio. Va bene che non gli puoi mica chiedere il preavviso a uno che muore, eppure, per i cugini, per quelli che vivono come me, come noi, tutto il benedetto giorno sulle panchine gelate o tra l’immondizia di mezza Cagliari, è facilissimo, soprattutto durante l’inverno. Moriamo come piccioni. Il giorno dopo ci trovano già bell’è che freddi, rinsecchiti e con gli occhi sbarrati, quando ormai è troppo tardi e non c’è più nulla da fare. Mio padre soleva anche ripetermi che il ricordo di chi hai avuto accanto ti scalda
la memoria, la tiene viva, pulsante, e tu ci pensi e ci ripensi in continuazione al preciso momento in cui i tuoi cugini hanno lasciato per sempre questo sporco mondo, fatto solo d’ingiustizie e sacrifici. Da poco è toccato anche a Paolo. Povero Paolino. Ci ha lasciati che erano circa le sei di mattina. Albeggiava appena e faceva freddo, un freddo cane. Io e Marco eravamo ancora in dormiveglia e, a dire la verità, non ce ne siamo neppure accorti. Beviamo tanto, a volte tantissimo, e tutti quanti. Questo è il problema. Non abbiamo nessuna scusa. Eravamo ubriachi fradici: ecco perché non ce ne siamo resi conto. Per di più Marco aveva pure fumato un’erbetta niente male, di quelle che ti fanno ridere a crepapelle e che ti lasciano quel tipico sorrisetto idiota stampato sulla faccia - avete presente? - sino all’indomani mattina. Sì, tranne quella lì. La sera prima, ata la sbornia pazzesca in Piazza Matteotti sotto la palma di fronte alla stazione dei pullman, abbiamo fatto la spesa, un po’ di shopping, come lo chiamiamo noialtri falliti cronici. Dodici birre chiare e una bottiglia di vodka alla fragola. Dolcissima. Questo me lo ricordo bene. E io canticchiavo sottovoce tra me e me e, a tratti, nonostante la sigaretta in bocca appena accesa scroccata al solito vecchietto che, guarda caso, s’impietosisce a veder lì buttato sulla panchina senza far nulla uno che potrebbe essere suo figlio, fischiettavo un motivetto da paura, di quelli da rifare dopo, con
calma e con l’armonica a bocca nel parchetto di via Roma, il parchetto dove di solito ci esibiamo, o meglio, dove di solito mi esibivo io con il resto della combriccola. Ma gli altri riscuotevano, mica stavano lì a grattarsi. Camminavano su e giù per la piazzetta, spargevano la voce in giro e dicevano a tutti i presenti quanto sono bravo. A squarciagola. Questo lo fanno Mauro e Paolo, o meglio, lo facevano. Ora non ci sono più. Sono sotto terra tutti e due. Stecchiti e sepolti. Che ricordi, ragazzi. Andavano in giro per il lastricato di mattonelle consumate da una vita e, come puri deficienti, urlavano ai quattro venti che eravamo arrivati - Dio, se si sentiva che eravamo arrivati! - e facevano un casino della madonna, battendo le mani per aria come ossessi e attirando l’attenzione dei anti sbigottiti che non sapevano se credere o meno a quello che vedevano. Ma diciamo le cose come stanno: noi non siamo degli esibizionisti del piffero, e non azzardatevi a pensarlo nemmeno per un istante. Potrei anche offendermi! Tiriamo su questo siparietto solo perché abbiamo un disperato bisogno di qualche spicciolo che, per voi, sicuramente sarà nulla, tanti ne avete, suppongo, ma, a noi, serve per tirare avanti, e a denti stretti, sino al miraggio dell’alba del giorno che segue. E meno male che qualcuno arriva sempre e si svuota le tasche. E per noi poveracci, per noi reietti, è un bene, una manna dal cielo. Ma il merito è anche dei ragazzi, mica solo il mio, è dei miei compari, i miei cugini, sono i ragazzi che si danno da fare, scherziamo? Cercavano in tutti i modi di richiamare gli sguardi indifferenti di chi ci ava intorno, facendo una cagnara matta e infastidendo, come bravi tafani da spiaggia, gli avventori che stavano in gruppetto a chiacchierare, e fracassavano l’anima, e i cosiddetti, anche a quei pochissimi felici isolati che cercavano di leggersi il giornale in santa pace, baciati dal sole del mattino e accomodati sulle panchine più distanti dal centro della piazzetta, quelle accanto ai cassonetti della plastica.
E io, intanto, suono, m’arrangio come posso e Marco m’accompagna con la sua chitarra acustica rosso amaranto, quella che le manca l’ultima corda, il mi cantino se non sbaglio (io di chitarre non me ne intendo parecchio), e che gli ha regalato a malincuore la vecchia suora del Buon Astore - e spero con buona pace delle altre sorelle! - per toglierselo di torno quella volta che è stato polemico oltre misura e ha cominciato a bestemmiare a voce alta perché dentro la mensa non c’era più posto e noi avevamo talmente tanta di quella fame d’avere la bava alla bocca e gli occhi fuori dalle orbite. Lui, suona la chitarra, vi dicevo, batte il piede su una vecchia scatola metallica mezzo ammaccata di biscotti all’avena che non mangio da una vita e poi entro io e faccio la mia parte. E quando suoni in mezzo alla gente, il sangue che ti pulsa nelle vene lo senti sia nel cuore che nel cervello, e ci sono delle rare giornate di fine febbraio, inizi di marzo, che quando ti rimetti in piedi e inizi a camminare con la musica che ti ronza ancora nella testa, il tuo corpo è il primo a vibrare, e non smetti d’avere la pelle d’oca e ti sembra che tutto quello che hai fatto abbia un senso. Se potesse vedermi anche quella vecchia ciabatta di mia madre, ragazzi, che soddisfazione che sarebbe! Per il sottoscritto, naturalmente, mica per quella lì! Che Dio la stramaledica! Ma non crederebbe ai suoi occhi. È proprio lei che ha sempre sostenuto che se c’è una cosa, nella vita, che non avrei mai e poi mai potuto fare, ebbene, quella cosa è suonare. “Sei negato!” mi diceva, scatarrandomi contro, quella vecchia ciabatta, grassa e isterica. Figuriamoci cosa penserebbe adesso, al vedermi accompagnare un chitarrista esibizionista e ubriacone come Marco, e per giunta con l’armonica a bocca! Non so se penserebbe esattamente quello che dicono i miei soci alla gente lì intorno per invogliarla a venire a vederci suonare, e cioè che oramai sono un musicista di strada maturo e affermato.
Ma chi cazzo se ne frega! Quella è morta e non può né dire né pensare più niente. E comunque noi suoniamo, ci divertiamo e ci basta. Niente di che, intendiamoci, facciamo solo rumore, anche se lo facciamo talmente bene che qualcuno lo scambia persino per improvvisazione. E questo qualcuno, guarda caso, applaude ogni volta e lo fa per circa un minuto. È l’unico, e dico l’unico, che ci lancia qualcosa sopra i dieci centesimi. Qualcun altro, invece, un po’ meno simpatico, ci definisce semplicemente “fannulloni scansafatiche con le pezze al culo” e, se non è tanto di buon umore, specie di lunedì mattina, nel caso in cui il Cagliari abbia perso la sera prima al Sant’Elia, aggiunge, cinicamente, “aberrazioni sociali”; a ben pensarci, in quegli stessi giorni, dopo qualche istante, puntualizza sempre: “mangiapane a tradimento e braccia rubate all’agricoltura”. Al che noi pensiamo tutti e quattro in coro un solenne: “ Ma Vaffanculo!” Qualcun altro ancora sbuffa di noia, alza le spalle e se ne va via, forse a casa. E io, in fondo, lo rispetto. Ma sto zitto, lo tengo per me e non lo dico a nessuno. I miei soci non lo sopporterebbero, sono troppo orgogliosi e permalosi. Ma nonostante tutto, nonostante la sfiducia, le offese e i compatimenti vari dei piccolo borghesi che s’ostinano a guardarci dall’alto verso il basso e che non scuciono nemmeno un euro manco a pregarli in turco antico, noi continuiamo cazzo se continuiamo! - andiamo avanti con la nostra esibizione e a oltranza. Alla faccia loro! Perché quella è l’unica cosa che conta - cribbio! - prima della fine, prima della noia, prima della morte, prima d’andare a sederci e a bere e per tutto il resto della giornata. Ma il clou arriva quando il solito Marco si mette in bocca un quarto di mozzicone di sigaretta già dal sottoscritto e fa finta d’impegnarsi in quello che sta facendo, poi prende d’improvviso la bionda che gli sta sempre di fianco, le da una sorsata lunga, tenendo il collo della bottiglia in verticale e cercando di bere tutto d’un fiato, e si lancia in un assolo improbabile. E noi lì, come scemi, a urlare e ad applaudire. Oh, Yes! Ci lanciano i centesimi, niente di che, capiamoci, di questi tempi non ci compri
quasi neanche più una birra, ma poi facciamo sul serio e andiamo a timbrare il cartellino nel nostro ufficio preferito, quello che si trova proprio davanti al supermercato di via Tuveri, all’incrocio con via Puccini, e lì ci sediamo, ci sediamo tutti e quattro intorno a una vecchia scatola di scarpe e raccogliamo quelle offerte che la gente dapprincipio non ci vuole dare, perché puzziamo di sudore e siamo sporchi del vomito della sera prima, ma che poi, gira e rigira, guarda caso, ci da ogni volta, anche perché tiriamo fuori lo stesso pezzaccio di cartone rettangolare di tutti i giorni, con su scritto che siamo disperati e alla canna del gas perché ci hanno licenziato, o perfino che siamo cassaintegrati (nessuno di noi ha mai veramente lavorato in vita sua, ma la cassa integrazione, come da tradizione, la tiriamo fuori tutti gli anni sotto Natale!), e sempre con famiglia e figli piccoli a carico. Sarò molto sincero: funziona più nei fine settimana e comunque, ragazzi, ricordatevelo, dopo il giovedì. Riusciamo anche a far finta di piangere, per essere più convincenti. Che poi, dire far finta, non è corretto, visto che le lacrime, sino a prova contraria, le versiamo per davvero. Ma il fatto è che nessuno di noi quattro piange per un motivo valido. Sì, questo lo confesso, lo devo confessare. Piangiamo per nulla, o meglio, piangiamo per qualcuna di quelle piccole monetine sonanti che voi, cani borghesi senza cuore, potreste avere in più in saccoccia e non ci vorreste comunque dare, ma che a noi, sì, a noi, poveri Cristi da marciapiede, farebbe parecchio comodo. L’idea non è mia ma del solito Marco, che ha inventato un escamotage - oserei definire geniale! - per tirar su e più in fretta i due spiccioli essenziali per i panini e, naturalmente, dulcis in fundo, per la solita cassa di birra, che non può mai mancare, e specie la notte, a quelli come noi, pavidi angeli disgraziati senza né casa né domani. Il trucco consiste semplicemente nel mettersi i semini macinati del peperoncino tra la parte interna della palpebra inferiore e il bulbo oculare. Prima nell’occhio sinistro e poi in quello destro. Si lacrima da far paura - non ne sarete stupiti, spero! - ma a noi basta per riuscire a far commuovere chi ci lascia almeno un euro.
Siamo in quattro e lo facciamo a turni di due per volta. Due di noi piangono a dirotto, fregandosi le guance e le arcate ciliari con le mani luride, gonfie e sbucciate, e gli altri due, e qui sta il bello, li consolano e cercano di motivare le persone a fare una donazione. E la pagnotta quotidiana, signore e signori, è assicurata.
Due
La giornata era talmente fredda che l’avrei dovuto prevedere. Sì, forse, l’avrei dovuto prevedere. E sapete perché ho i sensi di colpa? Sapete perché la cosa mi tocca così da vicino? Perché era nell’aria, quell’aria che respiravo anch’io, con i miei polmoni marci e saturi di questa vita d’inferno, che ci avrebbe lasciato, Paolo, cazzo, era nell’aria, perché da giorni, dico, da giorni, e di questo ne ero cosciente, non era più lui, era il fantasma di sé stesso. Giuro, avessi bevuto un po’ meno, sarei riuscito anche ad accorgermene, magari un attimo prima che potesse aver bisogno d’aiuto. Magari avrei fatto in tempo a chiamare almeno l’ambulanza. Magari … magari … E invece no, non ero in me e ho continuato a dormire. Ma è normale. Chi fa questa vita, sappiatelo, quando è ubriaco fradicio, ma fradicio che più fradicio non si può, si lamenta sempre e incomprensibilmente. Che sogni o stia per entrare in coma non fa alcuna differenza. Farfuglia, tossisce, biascica e balbetta qualcosa d’irripetibile, sbava un po’, scoreggia e rutta, ma poi, come per miracolo, smette, e il giorno dopo, cascasse il mondo, tutto quanto finisce lì, davanti al solito gigantesco e centenario ficus di Largo Gennari, dove pisciamo, ridiamo, vomitiamo e cantiamo. Badate bene, non è presunzione, si tratta soltanto di riconoscere e constatare l’evidente ciclicità di una vita condotta all’insegna dello sbando pressoché totale. Ah, dimenticavo, mi chiamo Mario - tanto piacere! - e una delle cose più strane e peggiori che mi siano mai capitate, da quando sono un senzatetto, è la sensazione pregnante d’essere evitato.
Le persone non vogliono avere a che fare con noi: ci vedono quasi come degli appestati. E non solo perché siamo sporchi, puzziamo e non sembriamo raccomandabili, ma anche perché sono convinte che ogni qual volta rivolgiamo loro la parola sia per chiedere soldi. Dovessi mai aver bisogno di qualcos’altro, so già che non potrei fare affidamento sulla disponibilità altrui. L’altro giorno, per esempio, dovevo sapere che ora fosse. La ragione è che m’ero dilungato un po’ troppo con l’esibizione e rischiavo di far tardi alla mensa. E vi sembrerà una barzelletta ma non ci riuscivo. Le persone mi evitavano come un birillo, come un ostacolo, come una schizzata di merda volante da un autospurgatore che svuota un pozzetto intasato. Mi piazzavo di fronte al bersaglio, cercavo d’attirare l’attenzione ma al contempo d’essere gentile e garbato, e non appena l’interessato alzava lo sguardo, come per incanto, chiudeva le orecchie e inseriva il pilota automatico: uno così, se ti ferma, vuole soltanto chiederti dei soldi, quindi, se puoi, evitalo come la morte, anche perché potrebbe derubarti, scipparti o rapinarti, se solo gli manifesti un po’ di disponibilità. E la cosa è durata più di mezz’ora. Cazzo, un incubo! Non avevo l’orologio e nessuno si voleva far avvicinare. Poi, per puro miracolo, ho avuto un’illuminazione. Allora mi son seduto per terra, ho incrociato le gambe, ho posizionato il piattino per le offerte e ho cominciato a fare la stessa domanda ma da lontano: e non ci crederete - cacchio, neanche io ci credevo! - ma una vecchia con la gobba mi ha risposto. Tombola. E non è mica strano, anzi, è normale, una realtà assodata, quasi un principio socialmente riconosciuto, oserei dire: un poveretto, un mendicante, un morto di fame, se una cosa te la chiede da pari, allora sì, sì che lo eviti come la peste, scansandolo e ignorandolo come si conviene, ma se, invece, lo vedi così come t’aspetti che sia, un questuante supplichevole e in ginocchio, assai bisognoso di quei celeberrimi slanci di carità di cui solo tu, mio generoso signore piccolo borghese, puoi essere l’artefice, ben appollaiato come sei, e sin dalla nascita,
sulla punta di quell’inarrivabile piedistallo d’ottone lucidato da cui elargisci solo ciò che ti sembra più opportuno e conveniente elargire, allora sì, sì che ti degni di rispondergli. Beviamo sempre: a qualunque ora e tutti i santi giorni. Come minimo, in quattro, riusciamo a consumare una cassa intera di birra, ma poi ci sono anche gli extra: vino in cartoccio, liquori, vodka, mirto e tutto quello che gli amici e i conoscenti riescono a portarci alla panchina del parco. E poi, per principio, beviamo solo in compagnia: quando si stappa una bottiglia si è sempre al completo o anche di più. Quando si beve si canta, si discute, a volte si litiga pure, perché scappa qualche parola grossa, ma poi tutto quanto finisce lì, tra risate, cori, pacche sulle spalle, partite a carte e una fumata. Poi, certo, ci sono anche quei momenti di forte depressione che degenera in rabbia e in urla verso il vuoto, verso il cielo, verso la strada rumorosa e trafficata dell’ora di punta. Ma la cosa che più mi colpisce è che i anti ci temono e tirano dritto, voltano la faccia e accelerano il o: nessuno si preoccupa più per noi. Sembra quasi che, in qualche maniera, come dire, si vergognino di averci tra i piedi, di averci come concittadini. Un pianto disperato, un urlo di rabbia, un rancore inespresso da giorni che non vedeva l’ora di fuoriuscire dal petto: queste cose non fanno più breccia nel cuore di chi ci circonda e ci a accanto. Il nostro aspetto è una barriera, non ci fa più percepire come esseri umani degni di rispetto e considerazione: è l’equivalente del grasso per un obeso cronico. Ogni nostra manifestazione, ogni nostra reazione, è percepita come anomala in sé, inopportuna, nella migliore delle ipotesi. Ci compatiscono, ci fanno le elemosina, ci sopportano, ma non ci vedono per quello che siamo, per chi siamo. E chi siamo per chi ci vede?
Siamo un problema, siamo vittime della società, siamo il sintomo di qualcos’altro che non va bene, di cui vergognarsi e da evitare, ma non siamo più persone con nome e cognome e degne di un saluto o di una stretta di mano. Siamo chiusi in un sacchetto di carta e tiriamo pugni contro le pareti per riuscire a evaderne. Ecco chi siamo.
Tre
Sì, va bene, è vero, lo ammetto: per un motivo o per l’altro, tra sbornie, coliche, nausee e capogiri, non ci sentiamo mai bene, ma, quel giorno lì, è stato diverso. Dio mio, se è stato diverso. Rantolava, Paolo, ogni tanto singhiozzava, si premeva la pancia per il dolore e, a tratti, sembrava anche piangere, o almeno mi pare di ricordare così. Allora, dato che ero troppo ubriaco per stargli vicino, mi sono girato più o meno verso di lui che mi stava sulla destra, se non sbaglio, e, da sotto il cartone, ho cominciato a raccontargli quella storiella che spaccio a tutti quando stanno male, hanno bevuto troppo o, peggio ancora, quando sono depressi o in crisi d’astinenza. E il protagonista sono io. Sì, davvero, sono proprio io. In persona. E questa storiella fa ridere, fa tanto ridere. E sapete perché? Perché nessuno mai crederebbe al sottoscritto, tanto è amara e tragicomica allo stesso tempo, anche se glielo giurassi in ginocchio e baciandomi gli indici delle due mani incrociati. Ebbene gli ho raccontato che io, questa vita, questa vita da condannati a morte, non l’avrei dovuta sfiorare nemmeno per sbaglio, tanto ero borghese di famiglia bene. Figlio unico e viziato, genitori impiegati, appartamento in centro e casa al mare, con tanto di prato e caminetto. Carriera scolastica normale, non un fenomeno ma neppure un idiota, e poi la morte dei miei in un incidente stradale.
Impatto frontale con un alcolizzato cronico al volante. Uno come me. Niente di più, niente di meno. Ed ecco, udite, udite bene, la svolta. Giovane, molto giovane, ventitre anni per la precisione, disoccupato e senz’alcuna esperienza di lavoro alle spalle, e nessuno, e dico nessuno, che mi abbia dato uno straccio di possibilità come commesso in un supermercato o stura cessi in un magazzino. La cosa singolare, però, era che tutti storcevano il naso quando m’offrivo di svolgere anche quei lavori più umili. Ma come, un borghesuccio figlio di papà al verde? Un po’ strano, non trovi? a fra un paio di mesi che adesso non posso. Non ce l’hai qualcuno che ti possa aiutare? Uno zio, un amico? E qualche risparmio da parte non lo tieni? E intanto c’erano da pagare le rate dei mutui che non mi potevo più permettere, i miei, che dovevano essere seppelliti con tanto di funerale medio borghese e la vita che costava cara. Troppo cara. Almeno per me. Vuotato il conto corrente di famiglia e venduti i mobili seminuovi a un approfittatore che me ne ha pagato neanche un terzo del valore, sono rimasto con una sacca di vestiti e quello che ho addosso. Poi c’è stato il pignoramento delle case e mi sono ritrovato per strada. I parenti? Spariti. Volatilizzati. Sei in gamba, sei giovane, vedrai che qualcosa la trovi di sicuro se t’impegni. Ehi, ma devi impegnarti, mi raccomando! Manco in televisione ho sentito un marketing tanto idiota. Fatto sta che così mi dicevano, così mi son sentito dire e così mi son detto anch’io per un paio di mesi.
Poi, però, la realtà, mi si è spiaccicata in faccia come una cagata d’uccello. Gli zii li incontravo al supermercato: mi salutavano con nonchalance, abbracciandomi, dandomi un bacio sulla guancia, chiedendomi come stessi e insistendo per pagarmi la spesa da dieci euro che avevo nel cestino. Ma di più non potevano fare. Alzavano le spalle gli zii incravattati e le zie impellicciate. A casa loro, manco a dirlo, non c’era posto per me, e poi ero grande e avrei dovuto “cavarmela da solo”. È curioso: anche se adesso li rivedo ogni tanto e da lontano, per fortuna, nel mio immaginario di ex piccolo borghese, questi personaggi infidi, subdoli e parenti solo all’anagrafe, è come se li intravedessi fluttuare perennemente in un liquido torbido, in una dimensione parallela fatta di rituali solo loro e intrisa della paura folle e irrazionale di perdere ogni cosa, compresa l’invidia delle persone che li circondano fin sul pianerottolo di casa. E provoca una stranissima sensazione accorgersi di come loro stessi s’ammirino profondamente nel compiere quei piccoli gesti ripetitivi, da tramandare di generazione in generazione, che dovrebbero incorniciare il senso dell’essere signorili e del distinguersi agli occhi della gente comune. Che Dio li perdoni! E poi, “Cavarmela da solo perché ero grande!”, era diventata un’espressione di senso compiuto così ridicola, a forza di sentirmela ripetere come una filastrocca da chi aveva avuto talmente tanti di quei calci in culo nella vita, intesi come facilitazioni o spintarelle d’ogni genere, che faceva ridere solo il sentirgliela pronunciare. I figli dei miei zii, i miei cugini, avevano la mia stessa età e continuavano a fare, invece, esattamente, tutte quelle cose che facevo anch’io quand’erano vivi i miei genitori. Loro mica dovevano crescere, non ce n’era alcun bisogno! Ma io no, non più, perché ero grande, ero rimasto solo e potevo, anzi, dovevo cavarmela con le mie forze. Ma di soldi per partire non ce n’era neanche l’ombra, i cosiddetti parenti non
concedevano neppure un prestito con interessi da usura e allora ho cominciato a scroccare i pasti e un letto agli amici. Almeno finché ho potuto. Poi sono ato alle loro cantine. In fondo mi bastava poco, molto poco, solo un materasso ammuffito e il sacco a pelo che avevo sempre dietro. Per tirare a campare facevo quel che potevo. A volte chiedevo le elemosina la domenica mattina, davanti alla chiesa, ai cosiddetti credenti che entravano a sentir messa, e mangiavo alla mensa del Buon Astore. È lì che ho conosciuto Marco. Aveva già la chitarra sotto braccio. Diceva ai quattro venti che l’aveva vinta a carte (ma io sapevo che non era vero!) e che ne era orgoglioso. Suonare, non la sapeva suonare. Faceva sempre i soliti quattro accordi in Do maggiore. - Chi se ne frega degli altri! - diceva in continuazione - Solo con questi qua, caro mio, puoi fare la metà del repertorio dei cantautori italiani! Io lo ascoltavo e ridevo, ridevo sempre quando mi parlava. Il suo ottuso e assurdo buon umore mi faceva quasi impressione. Era un pezzente, questo è sicuro, ma non abbassava mai la testa. Non si vergognava affatto di fronte a chi ci ava accanto, specie se vestito in abito fresco di lavanderia, con la scia di colonia e le buste della spesa. Il suo motto era “finché riesco a mangiare, sono il padrone assoluto della mia vita e faccio quello che voglio”. E mangiare, mangiavamo; solo che dovevamo recarci davanti al Buon Astore piuttosto presto la mattina, altrimenti rischiavi di perdere i bigliettini per riuscire
ad accodarti e a entrare in mensa, ed eravamo costretti a metterci in fila dietro le badanti rumene, sempre le prime ad arrivare, i venditori ambulanti marocchini e quelli senegalesi. Ora è diventata un’abitudine e, lì, mi sento a casa. Dopo aver ingurgitato rigatoni scotti e polpette al sugo, usciamo subito per scroccare al primo che ci capita a tiro una sigaretta e andiamo su una panchina a provare. Tanto non c’è altro da fare. Lui le progettava le cose in grande, io, invece, pensavo solo a come sbarcare il lunario. È lui che mi ha iniziato a dormire per strada. Era veramente ben attrezzato: cartoni da imballaggio per ripararsi da spifferi e sguardi indiscreti, coperte, calde ma piene di polvere, bidone di metallo, dove bruciare sia la carta trafugata dal cassonetto sia qualche cassetta della frutta o, in alternativa, i pezzi di legno più grossi, i migliori, quelli che riuscivamo a rubacchiare in tarda mattinata, verso mezzogiorno, mezzogiorno e mezza, a Monte Urpinu, dopo che avevamo scoperto dove li nascondevano i manutentori del parco, e tutto quello che si riusciva a raccattare in giro. E poi c’era l’alcol: quello non poteva mancare mai. Mai. Dalla mattina alla sera e fino a mezzanotte, prima di addormentarsi: è lì che ho iniziato a bere e non ho più smesso. In fondo che m’importava, avevo solo ventiquattro anni ma, in poco più di uno, la mia vita era cambiata radicalmente e in modo irreversibile. Da borghese a barbone. E poi, guardate voi che coincidenza: due parole che iniziano e finiscono nello stesso modo ma che hanno significati diametralmente opposti. Non trovate? “Itinerante!” precisava sempre Marco, correggendomi come fa il maestro con i bambini della sua classe. E stamattina, stamattina, porco mondo, è stato bello risvegliarsi al Belvedere e ammirare, ancora una volta, l’alba di un altro giorno dalla statua di Frate Sole.
Sei in città e sei in campagna al tempo stesso, e puoi godere di un panorama stupendo, da cartolina per turisti del continente seduti sul bus decappottabile che sale e che scende, silenzioso, tra le curve di viale Europa: vedi il mare, le vecchie saline di Stato, lo stadio e tutto il quartiere Sant’Elia. Talvolta ti senti perfino un privilegiato, perché neanche il più ricco sfondato di Cagliari potrebbe permettersi il lusso di svegliarsi e guardare, in vestaglia e pantofole, dal balcone di casa propria, uno spettacolo del genere. Ma noi, sì. Noi, sì. E se ci capitava di dormire nei pressi di via Angius, una traversa di via Sanjust, andavamo a fare i nostri bisogni dietro la statua di Padre Pio, nell’omonima piazzetta. Il posto ce lo prestava Corrado, il mitico Corrado. Celeberrimo signore dei piccioni e noto stitico del quartiere, l’ha eletto suo cesso personale e, con una bomboletta spray di colore blu che porta sempre nella bisaccia bisunta e indossata a tracolla, l’ha ribattezzato solennemente scrivendo sul muro della facoltà di teologia che vi confina i caratteri “W.C.” Menomale che le persone che portano i fiori davanti alla statua, i credenti, i figli spirituali, non se ne sono mai accorti. Sono fermamente convinto che chiunque faccia le pulizie in quell’aiuola dove ci appartiamo quasi quotidianamente per liberarci dei rispettivi fardelli, tra gerani e gardenie sempre ben potati e annaffiati (della concimazione ce ne occupiamo noi!), pensi che siano stati i cagnacci di qualche maleducato. Ed è molto meglio così, credetemi. Bel tipo Corrado. È seguito e accerchiato dai piccioni. Ne ha due sulla spalla, i suoi fidi, e tre o quattro che lo seguono a piedi. Lo stuolo dei fedeli volatili lo piantona dappertutto, implacabile, anche se solo s’apparta per pisciare, e gli s’accalca intorno quasi come un esercito di guardie del corpo, persino quando il poveretto cerca di rimettersi a posto la patta dei pantaloni, immancabilmente mezzo inondata dall’urina acida e giallognola riversata poco prima addosso alla statua.
Quattro
Ancora non ci credo ma è tutto vero. Quella mattina mi ha svegliato il suo respiro pesante, quasi di piombo, poi l’ho sentito ansimare e, mentre mi rendevo conto che l’aria sarebbe fuoruscita dal suo petto per l’ultima volta, ho incrociato lo sguardo di Paolo. Gli occhi sbarrati, disperati e rassegnati, tutt’uno e in una frazione di secondo. Una richiesta d’aiuto che nessuno di noi, nelle nostre condizioni d’alcolizzati cronici, avrebbe mai potuto accogliere in così poco tempo. E pensare che, proprio lui, era stato uno di quelli che aveva scommesso che saremmo arrivati sani e salvi, e tutti e quattro, alla nuova bellissima primavera che stava per riaprire i battenti. Anzi, se ben ricordo, era stato proprio Paolino il primo a lanciare la scommessa. S’era impegnato con una bottiglia di quello “buono”, forse troppo buono per uno come lui, e che sapeva benissimo di non potersi permettere. Un moscato di Tempio dell’anno scorso, per la precisione. Povero Paolino … E sapevamo tutti - perché lo sapevamo! - che, se anche avesse vinto, dico, se anche avesse vinto, sarebbe tornato da quel cazzo di supermercato trionfante, sì, nello sguardo - quello era da lui! - ma con le solite quattro lattine della peggio birra. Ma chi se ne frega, dico io, a chi non ha niente piace illudersi. E non soltanto di vincere una scommessa (cosa piacevole in sé, vista e considerata la nostra perdurante condizione di perdenti cronici, o di falliti, come preferite) ma anche di ritirarlo questo famoso primo premio che da una vita si è
sempre desiderato stringere tra le braccia. E il primo premio di un alcolizzato cronico come Paolo, o come me - non ha alcuna importanza, non mi offendo! - la tanto attesa vincita di una scommessa come quella, è una bottiglia di quello “buono”, di quelli che vedi sempre ben esposti sui ripiani più alti degli scaffali dei supermercati o dentro le mezze false botti tanto ma tanto chic, vicino all’area di degustazione per borghesi con bancomat o prepagata, dove, a malapena, ci fanno entrare e se, e solo se, ci vedono sobri. Quelli come noi, miei cari, sfilano davanti al corridoio vini esattamente come quei bimbi obesi messi a dieta che devono accompagnare i genitori, sì, a fare la spesa, ma ando per il reparto dolci: sguardo basso, rasoterra, talvolta solo un’occhiata di sfuggita per afferrare mentalmente quello che ti piacerebbe consumare lì, d’un fiato, mentre nessuno ti può vedere né sentire. Paolo non c’è più, è morto, anche se, a dirla tutta, la scommessa l’aveva già persa quando se ne è andato Mauro, il primo di noi quattro a lasciare quest’inferno in terra conosciuto come paradiso per vacanzieri. E Mauro era il più forte. Non voglio dire che fosse un uomo resistente. Anzi. È solo che era una sagoma, uno di quelli che non ti scordi più dopo che li hai conosciuti e che speri di rincontrare in un’altra vita. Trent’anni, una laurea in tasca e la sfortuna d’avere avuto un padre come Paolo. Dai suoi racconti gli aveva prosciugato tutto in tre anni, dalla morte della madre. Poi se ne è andato per un infarto e lo ha lasciato con debiti e creditori. Lui ha fatto appena in tempo a finire di studiare ma non è riuscito a trovare un lavoro che gli abbia permesso di pagare gli strozzini per tenersi la casa o, almeno, la macchina. In breve, è finito come me, come noi. E, noi, abbiamo trovato lui. Mauro, però, non era tanto tagliato per fare l’uomo di strada - e chi lo è, d’altra parte - e non ha neppure cercato d’adattarsi a questa sua nuova e ingrata vita.
Ha tenuto duro, certo, finché ha potuto, ma non ha saputo resistere sino in fondo e, alla fine, come la maggior parte di noialtri che vive questa vita che non è una vita, non ha retto fisicamente. Era già piuttosto magro di suo, purtroppo, e, nonostante tutti i miei sforzi per stargli vicino e fargli da chioccia, non ce l’ha fatta. Ricordo persino com’era buffo, goffo e pieno di paure, il ragazzotto, e, in modo particolare, all’inizio, durante i suoi primissimi mesi di rodaggio per la strada, periodo magico durante il quale abbiamo vagabondato, bevuto e accattonato assieme, tutti e quattro assieme. Si vergognava come un ladro, il giovane! E lo capisco, in fondo, perché anche io ero come lui … preciso! Pensate addirittura che, agli esordi, agli esordi della sua nuova vita, non voleva neppure mettersi seduto a chiedere le offerte. Vicino a noi, voglio dire! S’accomodava sulla panchina di fianco e ci lasciava fare. Capito? E noi, gli accattoni, i barboni, i questuanti, lì, a guardarlo e a ridere, mentre lui, il ragazzotto di famigliola bene, faceva finta di non conoscerci nemmeno e leggeva, leggeva senza tregua un giornale di tre giorni prima e fischiettava nervosamente, il pivello, mentre lo stomaco gli gorgogliava rumorosamente dalla fame e dalla sete. Ma tanto lo sapeva pure lui che da com’era spettinato, sporco e male in arnese, nessuno avrebbe mai potuto pensarla diversamente da come la pensava quando gli gettava un occhio addosso. E poi si rallegrava troppo - diciamocelo - quando qualche vecchietta, in tarda mattinata, finita la messa di mezzogiorno, usciva, apriva la saccoccia e ci donava qualche monetina. “Patetico e sopra le righe” lo definiva Marco scuotendo gravemente la testa, squadrandolo con fulminante disapprovazione e inarcando il sopracciglio
sinistro. E come dargli torto, d’altronde glielo si leggeva sia nello sguardo, supplichevole e oltremodo implorante, quasi da cane bastonato, sia nei repentini cambiamenti d’espressione. Non aveva alcun contegno, era letteralmente privo di self-control e professionalità. Per non parlare, oltretutto, dei suoi sospiri di sollievo. Per quelli era diventato una specie di macchietta della comitiva. Erano intensi, raschiati e angoscianti. E ne faceva uno dopo l’altro. E ansimava. E gettone dopo gettone: quello che i non addetti ai lavori chiamano “elemosina”, per intenderci. Stava in disparte, il ragazzo. E anche se un po’mi dava fastidio - sarò sincero m’immedesimavo in lui, perché sapevo che, specie all’inizio, è dura. Poi è vero che ci fai il callo, ma quando cominci e sei ancora troppo abituato alla tua vecchia vita da persona normale, è veramente dura, snervante e sfiancante. Agli inizi della sua carriera da itinerante mi ricordo pure che, dopo un giorno e mezzo di digiuno e dopo che Paolino gli aveva fatto intendere che, nella società di cui eravamo contitolari noi quattro perdigiorno, “tutti!”, e gli aveva ribadito solennemente il “tutti!”, dovevamo raggranellare qualche spicciolo per poter tirare a campare, cominciò a non fare troppo il difficile. E mi ricordo persino che prima che si trasformasse e diventasse come me, che sono in strada oramai da sette anni, o otto - non ricordo più, in realtà! - prima che le mani gli si gonfiassero e gli si riempissero di piaghe e prima che la faccia gli si ricoprisse di quel sudiciume che ti si mischia al sudore e alla barba se non riesci a fartela almeno ogni tanto, ricordo che, in tre giorni di piattino e mano tesa, aveva tirato su abbastanza per mangiare panini e bere a volontà per almeno una settimana.
E rideva, se era tranquillo e sereno. Cazzo se rideva. E, dopo la birretta di mezzanotte, parlavamo sempre a quattrocchi, io e Mauro, e di lui mi ricordo sempre e mi ricorderò finché campo, e quando ci ripenso mi vien da sorridere, tanto gli voglio ancora bene, che m’aveva detto che, lì, con noi, sul marciapiede, si sentiva a “casa”. “A casa …”, con tre morti di fame accattoni come il sottoscritto. “In famiglia”, aveva sussurrato dopo due minuti, in verità. “… È difficile che sia la stessa cosa …”, e questo glielo avevo ribadito quella volta che stavamo seduti dietro in pullman, sull’uno se non sbaglio, e andavamo verso il porto a chieder soldi ai croceristi in partenza. “Magari, fra due o tre anni di questa vita, se ci saremo ancora, tu e io, ne potremo tranquillamente riparlare. Ma, comunque, per adesso, è vero, ne è la migliore approssimazione”. Ho sempre sperato che non s’arrendesse mai al diventare come noi, un barbone incattivito, pieno di cicatrici e calli nell’anima. Però, sta di fatto che più ava il tempo e più mi rendevo conto che cominciava a somigliarci. E quando Pippo Merdona, il tamarro per eccellenza di Piazza del Carmine, ha provato a mettergli le mani addosso, mi ricordo che l’abbiamo protetto e portato da parte per insegnargli che non si fanno le invasioni di campo e quali sono le zone di competenza, di nostra competenza. Gli abbiamo fatto presente quali siano le regole da seguire e come ci si deve comportare, cosa si può e si deve fare e cosa, invece, non si può né si deve fare, perché non è tutto come sembra e anche quelli come noi, che stanno nell’immondizia e nel sudiciume e che dovrebbero ragionare come se non avessero più nulla da perdere, hanno un codice di comportamento da tenere sempre ben a mente, non so se etico - no, etico forse no, ma non sta a me né dirlo né stabilirlo, io sono di parte - ma, comunque, un codice. Mauro ha smesso di prendersi cura di sé dopo che ha rincontrato Sandra, la sua
vecchia fiamma, la sua ragazza storica, quella che l’ha lasciato dopo che è finito sul lastrico e prima che asse completamente dall’altra parte, quando la metamorfosi era solo agli inizi e, anche se sei di fatto già come noi, assomigli ancora abbastanza a quelli, diciamo così, “normali”. Mi ricordo, quasi come se fosse ieri, quando mi diceva sorridendo come un idiota che gli piaceva uscire in macchina con lei, aprirle lo sportello da vero gentiluomo, andare a cena a mangiare cinese e tutto il resto. E poi stop. Finito. Dopo il aggio dall’altra parte lei non si é fatta più sentire né vedere: non un colpo di telefono, non una visita, niente di niente. E non l’ha sentita, se non ricordo male, per almeno tre mesi. Poi, boom! Era stravaccato di fianco a me vicino alla banchina del porto, mangiava avidamente un panino alla mortadella coi pistacchi e sorseggiava rumorosamente e ridacchiando la metà lattina di birra che gli aveva lasciato Paolo in cambio del mezzo toscano rimediato, per puro miracolo, dal barbiere della stazione. Fu quasi per una frazione di secondo, ma la vide eggiare dall’altra parte del marciapiede. E non era sola. Era mano nella mano con un tipo distinto, un fighetto: giacca e cravatta, gemelli ai polsi e orologio che si vede luccicare da molto lontano. Noi? Noi non siamo riusciti a trattenerlo, questo è vero, ma, per come lo conosco io, e io lo conosco bene, ve l’assicuro, lui non avrebbe mai accettato la sola idea che lei lo potesse riconoscere lì, seduto insieme a noialtri pezzenti a cantare e a scuotere il barattolo delle offerte, mentre qualcuno dei tanti, tra i anti o i vacanzieri in bermuda, ci gettava dentro qualcosa, o peggio, quando qualche cliente del supermercato lì vicino usciva fuori col pane o la frutta in una busta e ce la porgeva con il solito sguardo idiota di chi pensa d’aver fatto la propria buona azione quotidiana. Fatto sta che mentre attraversava la strada trafficata senza guardare, rischiando, tra l’altro, d’essere asfaltato da qualche pirata al volante, cercava d’attirarne
l’attenzione, prima coi gesti, poi iniziando a chiamarla. E noi dietro, come cretini, a dirgli di lasciar perdere, che, tanto, anche a sbracciarsi come un forsennato, quella non l’avrebbe mai riconosciuto e che, in ogni caso, tutto sommato, sarebbe stato molto meglio così. Ma lui niente. Testardo come un mulo. Duro come il marciapiede sul quale dormiamo la notte. Tra l’altro, nell’immenso frastuono generale, la stronza manco si girava e andava avanti così, come se nulla fosse, tirava diritta e con la borsetta ciondolante, presa com’era dal guardare quelle stramaledette vetrine di quei cazzo di negozi dove lui, sicuramente, non l’avrebbe mai più potuta far entrare. Poi si ritrovò alle loro spalle e la chiamò a voce alta e per nome, e io assistetti, seppur da lontano, a una scena straziante che, tutt’ora, non riesco ancora a dimenticare e per la quale mi maledico con tutto me stesso perché non sono riuscito a fermarlo in tempo. Non ci fu una parola, non un cenno, non un gesto, non un piccolo ravvicinamento. Solo un atroce scambio di sguardi. Lei, che ci avrei scommesso quel che volete, non s’aspettava minimamente di trovarselo lì tra i piedi, piombato nel bel mezzo di uno shopping spensierato e rilassante, dapprima - e non c’è neanche da stupirsene - si rivelò sorpresa e smarrita, quasi colta da un fulmine a ciel sereno - anche perché l’immagine di Mauro che, diciamocelo, non è mai stato un granché in realtà, era diventata, dopo i primi mesi di separazione, un ricordo lontano e sbiadito della sua vita ata - poi, però - e questo mi colpì, a dirvela tutta - la sua espressione cambiò di botto, radicalmente e in peggio. Se, in un primo momento, infatti, il suo volto pareva macchiato di quel fastidiosissimo senso di colpa dovuta al fatto che era sparita, per mesi e come un ghiacciolo al sole, dalla tragedia familiare del nostro socio, appena s’accorse di cos’era diventato e di come s’era ridotto, per un secondo infinito, il suo squallido imbarazzo si tinse di sfida mista a disgusto. Lo squadrò da capo a piedi e, mentre lo faceva, e centimetro dopo centimetro, lui
fece altrettanto con lei. Poi, però, il viso di lei - e questo me lo ricorderò finché campo - si torse in una specie di terrificante mezzo sogghigno, una diabolica smorfia di disprezzo, e scosse gravemente la testa, quasi a dire - ma guarda che fine ha fatto sto poveretto! Sorrise con estremo sarcasmo, la cagna, scuoiandola viva e cospargendola di sale, la dignità del nostro socio, che, non si sa come (anche se, io, sospetto che fosse, non mezzo, ma totalmente ubriaco), continuava a guardarla interdetto, e, a un certo punto, da persona mostruosamente insensibile qual era, si girò di nuovo dall’altra parte, ridandogli le spalle e riprendendo la mano del suo amichetto di compere. E quel momento fu per Mauro, non solo, una rivelazione scioccante (e lo fu anche per me, a dir la verità!), come lo erano state la fame, la sete e la vergogna dopo i primi interminabili dieci giorni da itinerante, ma rappresentò anche la liberazione da un peso. S’accorse, e proprio in quel preciso istante, che la sua vecchia vita, e tutto quello che aveva fatto con lei e tutto quello che si sforzava di riuscire a non dimenticare, erano morti. ati. Erano ati come i ricordi dei pranzi di natale, come la biancheria pulita che sua madre gli metteva in bagno tutti i santi giorni, come ciascuno di quegli sterili rituali di cui era fatta la sua realtà piccolo borghese che, malgrado tutto, non voleva ancora mettere da parte. Ma proprio il riscontro del disgusto di lei fu come uno squarcio nello stomaco e lo fece ricadere, di piombo e con tutti e due i piedi, nel presente, un presente che non riconosceva più perché mal si conciliava con quello che si ricordava da sobrio o con quell’altro che si sognava la notte, dopo che aveva bevuto con noi dietro la stazione dei treni. Gli scappò una risata, di quelle gustose, rumorose, reboanti e che riecheggiano sulle facce da culo della gente che, di tanto in tanto, e specie quando sente qualcosa di strano che irrompe nella quieta monotonia in cui s’è impantanata, si gira per vedere che cosa ci sia che non va o non è al suo posto, quel posto che la percezione borghese da a ogni cosa o persona. Rise ancora di più e più di gusto quando gli scappò un rutto fragoroso e difficile da nascondere, persino nel rumore del traffico di punta.
Poi, infine, diede un sorso alla birra, quella birra che neanche si ricordava più d’essersi portato appresso - come tutti noi del resto - si girò e ci tornò incontro. E fu proprio da quel momento in avanti che, malgrado ogni nostro avvertimento sul fatto che durante l’estate sia necessario mangiare più del solito per far fronte alla cattiva stagione che incombe - un po’ come fanno gli scoiattoli prima di andare in letargo - lui, al contrario, decise soltanto di bere per dimenticare. Ricordo che riusciva a are anche quattro giorni con solo un panino nello stomaco, di quelli preconfezionati che i droghieri perbene buttano via nella spazzatura perché sono scaduti e non possono più essere venduti neanche ai miserabili come noi. Trascorreva tutto il suo tempo sdraiato a bere, a guardare il cielo e le nuvole che lo solcavano leggere. Di giorno lo portavamo a Monte Urpinu. La sera veniva a mendicare con noi al quartiere del Sole e, la notte, la trascorrevamo tutti e quattro insieme in una stradina dietro Largo Gennari. Che tempi ragazzi. A noi ci sembrava quasi quasi di fare gli assistenti sociali. Ma Mauro alle volte non parlava, non mangiava e non dormiva. Gli bastava bere e stare sdraiato. Tutto qui. Talvolta leggeva e bofonchiava in solitudine. Poi è arrivato l’inverno e se l’è ingoiato vivo. Certo, c’è anche da dire che non avevamo giacche abbastanza buone - non di quelle pesanti, per lo meno! - né cibo a sufficienza. L’estate era andata tra bisbocce al Poetto e bevute sulla scalinata di Bonaria, e anche quei pochi turisti che ci davano qualche spicciolo ogni tanto erano spariti nel nulla. Ripartiti. Arrivederci, cari pezzenti! Faticavamo come bestie a portarcelo dietro, i ragazzi si lamentavano di continuo
per quanto ci costava sorreggerlo e, a volte, non smettevano di bestemmiare e dare in escandescenze, nonostante io stesso cercassi d’infondere loro un po’ di fiducia sul fatto che, prima o poi, gli sarebbe ata anche questa, come la peggiore delle sbornie. Ma niente, la situazione rimaneva tale e quale. Fino a quel giorno lì. L’abbiamo salutato con una carezza sul viso, come si fa tra noialtri invisibili, e ci siamo allontanati. Senza fretta, come se nulla fosse. Poi, Marco, ha chiamato la polizia da una cabina del porto e, tutti e tre, dopo essercelo giurato con uno sguardo, abbiamo cercato di buttarci dietro le spalle sia la sua faccia che la sua voce, per sempre, ovvio, ma senza dimenticarcele mai, specie dopo che l’ambulanza se l’è caricato e portato via a sirene spiegate.
Cinque
Non so per quanto tempo ancora riusciremo a sopportare questa vita, ma oramai che importanza ha? Quelli come noi non esistono. Come vi ho già detto sono invisibili, quindi, non esistono. O meglio, ci vedono solo quando s’accorgono che siamo morti, perché siamo immobili come pietre e sono giorni che non ci alziamo più e restiamo sdraiati nella stessa posizione. E se sei già invisibile, o inguardabile - fate voi - e devi sparire anche per una seconda volta, tanto vale non pensarci troppo. Manco i parenti mi salutano più, m’ignorano e tirano dritto. Il giorno in cui ci siamo incontrati per caso, di fronte alla pizzeria dove andavo anch’io quand’ero ancora come loro e uno di loro, hanno fatto finta di non conoscermi. Anzi, ho notato che mia zia prima s’è fiondata dentro, come un ratto in un tombino semiaperto, poi ha scosso la testa e, subito dopo, ha sussurrato qualche cosa all’orecchio di mio cugino. Sicuramente gli ha detto di far finta di niente. Di far finta di niente gli avrà detto. Mah, parenti … A proposito: io in pizzeria adesso non ci entro più perché non me lo posso permettere, ma la pizza la mangio lo stesso, sappiatelo. Mi basta star fermo e in piedi davanti alla vetrina, ma dall’altra parte del marciapiede, e guardare intensamente il pizzaiolo grasso e con la barba ispida che lavora dietro il bancone, o sua moglie, che incassa i soldi dei clienti. Ho capito che se ci vado dopo le dieci e mezza di sera e riesco ad aspettare una quarantina di minuti circa, quello mi manda sempre uno dei suoi scagnozzi
ragazzini porta pizze motorizzati, che paga una miseria, con una margherita fumante e tutta per me. E se è di buon umore, mi ci mette pure un uovo sopra. E forse, quella pizza, è l’unica cosa che non condivido con i miei compari. Dico loro che vado a pisciare. Che poi vado sempre a pisciare, la notte, verso le dieci e mezza. Tanto quelli s’addormentano di botto e neppure se ne accorgono se resto via più del tempo necessario. Potrei anche non tornare più indietro tanto sono fradici a volte. Che poi di compari, in realtà, m’è rimasto soltanto Marco, ma ogni tanto ci risvegliamo con qualcun altro che ci dorme accanto perché s’è infilato di soppiatto sotto i cartoni per non morire di freddo. Fanno finta di niente i poveretti, s’avvicinano al bidone scoppiettante per riscaldarsi le mani e i piedi, e poi, la mattina dopo, te li senti russare di fianco. Da un po’ ci siamo stabiliti alla fine di via Verdi, tra i palazzi e i binari della metropolitana leggera. Esiste un piccolo spazio recintato e sufficientemente appartato, con il fondo in terra battuta e coperto dal balcone del primo piano: beh, noi dormiamo lì. Spesso, quando sono abbastanza sobrio e mi sforzo di ascoltare le fesserie di chi ci giudica quotidianamente dall’alto della sua piccola puntuale rendita mensile, mi rendo conto che le persone non capiscano quanto sia facile perdere tutto e diventare come noi. Pare sia tutta colpa nostra, a sentirne tanti. E la cosa tragica è che più si va avanti e meno si riesce a comprendere e a far comprendere appieno il concetto di totale impotenza e ininfluenza sul proprio destino. “Vai a zappare la terra!”, ti dicono, sicuri di sapere cos’è meglio per te, oppure, nella migliore delle ipotesi, “Vai a scaricare le cassette al mercato o al porto!” E, a dire la verità, ci sono pure andato, sia al porto che al mercato civico, ma, di lavoro, neanche l’ombra.
O meglio, qualcosa da fare c’era, solo che si trattava di pregare il solito caporaletto di turno, uno scimmione basso, bitorzoluto e inverosimilmente snob, e di sgobbare gratis per un paio di settimane. Ma quella era la prova - badate bene - perché se riuscivi a reggere i ritmi da mulo senza che ti si rompesse la schiena o ti venisse un infarto, poi, e solo poi, t’allungavano in nero due euro l’ora. Quando l’ho raccontato a Marco, quello s’è messo a ridere e m’ha detto di smetterla di cincischiare e di riare il pezzo con l’armonica, che d’imprecisioni la gente si stanca e poi la birra la dobbiamo razionare. Nella migliore delle ipotesi ci definiscono ubriaconi, alcolizzati o drogati. Alcuni ci danno persino dei “parassiti” o dei “rovina famiglie”, inutili bocche da sfamare che pesano come fardelli insostenibili sui bilanci dello Stato sociale o delle associazioni che si prendono cura di noi. Che poi che paroloni … “si prendono cura di noi!” Al massimo ci danno da mangiare una pastasciutta al sugo scotta e insapore (anche se hanno il coraggio di chiamarla al ragù di manzo!) o ci rifilano, sbuffando e sopportando l’aria che respiriamo, qualche abito usato, letteralmente, e dico, letteralmente, inguardabile. Una volta, Marco mi ha confidato che le “signore della carità”, quelle che ricevono le decine di sacchi di vestiti per noi poveracci, li aprono e arraffano tutto quello che appare in buone se non in ottime condizioni. Scarpe quasi nuove, abiti praticamente mai usati e freschi di lavanderia, maglioni e camicie. La parte migliore se la tengono, quella meno peggio se la vendono agli zingari e il resto lo rifilano a noi. Ma a me del look non me ne frega un’acca. In fondo sono un senzatetto e bado solo alla pagnotta e all’alcool quotidiano. Una questione di stile. A mio modo e per quello che rappresento sono e continuerò a essere un alto profilo. Che poi vorrei anche sfatarlo, e una volta per tutte, questo falso mito di chi ci vorrebbe vedere tutti quanti alcolizzati.
Alcuni lo sono, è vero, ma altri no. Paolo lo era, non c’è alcun dubbio, ma, forse, era l’unico tra noi. Beviamo per abitudine, a volte per pura malinconia, ma ne possiamo fare tranquillamente a meno, sappiatelo! Siamo molto più forti di quanto pensiate! Certo, la vita è più allegra e colorata dopo due sorsate di vodka alla fragola, ma si sta bene anche da sobri, che diamine. E poi io non bevo per dimenticare, o meglio, per qualche sera l’ho fatto pure io, ma, il più delle volte, se non sempre, butto giù per il freddo e l’umidità. E Marco fa la stessa cosa. Come fareste, voi, se foste al nostro posto, quando fuori si ghiaccia e, bidone a parte, non c’è nessun’altra fonte di calore se non una tracannata di liquore a quaranta gradi? Difficile rispondere, vero? Lo so bene, perché anche io, al posto vostro, me ne starei tappato in casa, nella mia adorata tana, guarderei la televisione fino a tarda notte, sul divano, magari abbracciando mia moglie e con la pancia piena e gonfia di birra, e, di tutto il resto, me ne fotterei altamente. Sì, avete capito bene, me ne fotterei altamente e fino a quando non sopraggiunga il sonno, che, Dio lo benedica, lava via tutti i brutti pensieri sino alla mattina dopo. Poco fa, vi dicevo che, secondo un diffusissimo luogo comune, si pensa che sia difficile diventare come noi. Invece è facilissimo. Provate a pensare di non avere più un’entrata fissa, magari la vostra piccola pensione, immaginate di perdere la casa e la macchina, se ne avete ancora una. Dove andreste a dormire? E a mangiare? Quanto pensate di poter contare su quelle persone che salutate tutti i giorni per strada, in coda alla posta o prima di timbrare il cartellino in ufficio? E sul vostro
vicino di casa? Quanto ci fareste affidamento? Quando si sta come noi, nelle nostre condizioni, non ti viene soltanto più facile riprogrammare la scaletta delle priorità, ma riesci anche a vedere le persone per quello che sono realmente. E, dopo qualche mese, ti basta un colpo d’occhio per soppesarle. Riesci a comprendere l’animo umano, assapori sia la vera empatia che il dispiacimento autentico, rivaluti le piccole elargizioni fatte al solo scopo di ripulirsi la coscienza e ignori quegli inutili incoraggiamenti a credere in una svolta improvvisa, e in meglio, delle nostre vite. Marco dice che siamo dotati di un terzo occhio, l’occhio dell’uomo di strada. Io, invece, non saprei che dire. Per me è solo una questione d’abitudine. Punto e basta. Alcuni c’indirizzano persino dai preti. Già, i preti. Me lo ricordo, come se fosse ieri, l’atteggiamento di Don Tal dei Tali, il parroco della chiesa dove ogni domenica mattina andiamo a chiedere le elemosina. C’incoraggiava a darci da fare mentre mangiava ravioli al sugo di salsiccia. Noi lì, in piedi come idioti, dentro casa sua, mani dietro la schiena, testa bassa, occhi gonfi e barba lunga, mentre quello masticava, biascicava e parlava. Ogni tanto qualche piccolo pezzo di pane sugoso misto a raviolo sbavato gli cadeva dalle fauci, che innaffiava puntualmente ogni due bocconi col vino portatogli dai fedeli. Io m’incazzavo sempre, Mauro si metteva a ridere e gli altri facevano finta di niente e borbottavano tra loro. L’incontro si concludeva, tutte le benedette volte, con la solita frase “… e mi raccomando, miei cari, abbiate fede nella bontà del Signore …” che ci faceva invertire i ruoli: Mauro usciva da casa del prete bestemmiando a voce alta e a me veniva da ridere. Ma che ci volete fare, ci si andava così, senza aspettarsi nulla, giusto per farsi
due risate o cercare di scroccargli quei regali che detestava. Due mesi fa, per esempio, siamo riusciti a scucirgli due buste di mandarini e un panettone. Va bene, “scucire” è una parola grossa, e c’è da dire che il prete si teneva ben strette le sue cose, diciamo solo che i mandarini gli davano l’acidità di stomaco e odiava i canditi del panettone da due soldi. Mai che fosse stato davvero generoso per una volta in vita sua e ci avesse allungato due bottiglie di quello buono, o almeno uno spumante per capodanno. Macché, quello si teneva tutto. Mauro un giorno aveva notato che dalla cucina di casa sua s’accedeva a una piccola stanzetta attigua dove si poteva trovare ogni ben di Dio, dal vino bianco alla vodka, dal lambrusco al cannonau. Il prete non si faceva mancare mai niente. Noi morivamo di fame e di freddo e a lui non mancava niente. Ma i mandarini e i panettoni, porco mondo, quelli sì che li condivideva! Uno dei pochi momenti in cui ci sentiamo persone come gli altri è la domenica pomeriggio, quando gioca il Cagliari. Ci mettiamo sulla panchina di una piazzetta qualsiasi, tra le tante che frequentiamo, accendiamo la radiolina, ci sintonizziamo sulla frequenza giusta e ascoltiamo la partita. È un momento magico. E non solo perché ci piace quello che sentiamo, specie se la squadra stravince o anche se solo resiste, cazzo, mentre ciascuno di noi s’accarezza quella dannata sciarpa rossoblu unta, bisunta e stropicciata da morire trovata nel cassonetto dietro Piazza Repubblica, ma perché accade un piccolo miracolo, un miracolo vero. Le persone che ci ano di fianco ogni minuto, spesso, ci sorridono e ci chiedono il risultato e, Cristo santo, guardano noi, poveri diavoli della fogna accanto, come se non vedessero più quelle bottiglie di birra semivuote o i nostri vestiti sporchi o le facce disperate da discariche ambulanti.
Diventiamo come loro, cittadini in carne e ossa, esseri umani e tifosi come tanti. E i tifosi non hanno classe sociale o estrazione. Sono tutti uguali. E allora vedi il piccolo borghese, che durante tutta la settimana ci guarda sempre in cagnesco, rallentare il o, fermarsi, sedersi e chiederci come va la squadra. E noi ci dimostriamo cordiali, molto cordiali, e, da veri signori quali siamo, ci dimentichiamo ogni maledetta volta di come siano sgradevoli le persone che ci circondano quotidianamente fuori da questa parentesi sportiva domenicale. Non dura troppo, certo, solo i novanta schifosissimi minuti della partita, ma è precisamente in quel frangente che ci sentiamo come tutti gli altri e smettiamo d’essere degli emarginati. E fa piacere, ve l’assicuro.
Sei
Dopo la morte di Mauro e Paolo siamo rimasti soli. Anche Marco è cambiato: non suona più nulla e ha cominciato a bere senza sosta e a non dormire la notte. Da qualche tempo ha smesso persino di parlarmi, quando ci rannicchiamo come topi sotto i cartoni luridi, maleodoranti e mezzo stracciati, nelle rispettive solitudini di fine giornata. Ora, la notte, fumo da solo. Fumo sempre da solo. Per tenermi compagnia fischietto e canticchio al buio. Ogni tanto penso all’ipocrisia delle persone. Io, Marco e tanti altri come noi, perché siamo un mare tanti siamo, un mare siamo, non esistiamo. Siamo stati cancellati dal campo visivo di chiunque. Ci ano accanto o ci scavalcano con un saltello mentre siamo riversi per terra ubriachi, con la schiuma alla bocca o la patta dei pantaloni semiaperta, ci gettano qualche spicciolo quando ci vedono seduti a chiedere le elemosina, ma non ci considerano come loro, persone come loro. Eppure basta così poco per ritrovarsi nella nostra condizione, basta così poco per dormire tra i cartoni e per mangiare wurstel e bere birra e stare tutto il giorno seduti sulla panchina di ferro di un anonimo parchetto cittadino. E quando sei solo bevi, e quando bevi canti, e quando canti gridi a squarciagola per tutto quello che pensi non ti sia stato dato e invece ti è dovuto. Rivedi chi t’ignora, chi gira lo sguardo quando pisci sul muro di cinta di un condominio signorile che non sarà mai il tuo perché tu non hai né avrai più una casa.
Non pensi più a quando morirai, perché questa vita ti ha già ucciso. Letteralmente. E se non t’ha ucciso t’ha reso invisibile, trasparente, incorporeo. Qualcuno ci considera addirittura errori, sbavature, aberrazioni del borghesemente normale. E se non fossimo poi così diversi da chi ci giudica? E se bastasse così poco e così poco tempo per ridurre uno dei tanti, diciamo così, “decorosi”, in uno di noi, un disadattato, un emarginato cronico? Ma la cosa veramente strana è un’altra: tutti ci vorrebbero aiutare, soccorrere, dare una mano, e tutti non ci vorrebbero vedere più lì, per terra, seduti, senza fare niente e con l’anello e il collo di una bottiglia infilati in bocca, ma quando si tratta di darti una possibilità concreta di poter cambiare, ognuno ti lascia al tuo destino. Ci penseranno le istituzioni, dicono i più, ci penserà il Comune o la Regione. Perché preoccuparsi troppo di fare o di non fare qualcosa? Quando sono sobrio, parlo e faccio presenti queste cose, tutti mi consigliano di non stare a rimuginare invano e di darmi da fare: le persone anziane mi suggeriscono di andare a diserbare o a zappare il giardino del cognato o del vicino di casa, i più giovani mi ribadiscono che sia essenziale smettere di bere e curare l’aspetto, alcuni mi scrivono sopra un pezzetto di carta l’indirizzo mail di un’associazione o di una cooperativa sociale e mi incitano a recarmi il più presto possibile al centro d’impiego più vicino. Ma quando si parla di soldi, tutte le benedette volte, lasciano cadere la cosa e si tirano indietro. Buffo, non trovate? È come se, per salvarti dalla prostituzione, ti chiedessero in cambio di prostituirti. L’altro giorno, poi, avantieri se non sbaglio, ho chiesto l’ora a una tizia sulla sessantina che mi ava davanti, e quella m’ha risposto, stizzita e con tono sbrigativo (manco le avessi domandato dei soldi o una sigaretta), che non aveva mica tanto senso che uno come me, un fannullone, un ubriacone seriale, s’interessasse veramente a sapere che ora fosse, visti gli impegni della giornata che mi vedevano protagonista tra la panchina di Largo Gennari, il supermercato
di via Tuveri e la mensa del Buon Astore. Morale? Vorrebbero a tutti i costi salvarci la vita e ci vorrebbero come loro, identici, speculari, puliti e sorridenti, ma come loro lo siamo già, lo siamo già, vi dico, perché se provassimo ad avanzare una qualsiasi richiesta che anche uno di questi signorotti per bene piccolo borghesi farebbe al nostro posto, e se mai, volesse Iddio, potessero trovarsi, almeno per una volta, nella stessa schifosa e irrisolvibile condizione in cui ci barcameniamo noi ogni maledetto giorno che siamo costretti a viverla, pure di fronte a uno come loro storcerebbero il muso, farebbero la solita smorfietta da snob con la puzza al naso e in senso d’assoluta disapprovazione, e di no con la testa. E di questo ne sono sicuro. Di questo, vi dico, ne sono matematicamente sicuro. La verità? Noi non abbiamo alcuna possibilità d’uscire dal pantano in cui siamo finiti. Dobbiamo morire. Solo la morte ci renderà persone e cittadini come tutti gli altri. Ma bando agli scoramenti. So già qual è il mio destino ed è inutile lamentarsi. Ah, dimenticavo: la prima cosa a cui ti devi abituare, e forse la più importante, quando sei uno senza fissa dimora, è la risoluzione del problema della sistemazione notturna. Per la gente come noi, dormire al riparo, significa riuscire a salvaguardarsi fisicamente, e, talvolta, vuol dire davvero salvarsi la vita. So già cosa potreste pensare e, a questo proposito, vi garantisco e vi do la mia parola d’onore che noi quattro, e già da parecchio tempo per giunta, abbiamo deciso, di comune accordo, d’abbandonare l’idea di sfondare le vecchie case disabitate per occuparle abusivamente. Spesso, infatti, questa manfrina, significa, non soltanto, beccarsi una denuncia, di cui tra l’altro poco c’importa, ma vuol dire soprattutto rischiare di prendere un sacco di botte. E questo capita perché pagare uno o due delinquenti, con anfibi e mazze ferrate, è molto più economico e conveniente di una parcella da avvocato. E allora, dopo i primi interminabili e inutili tentativi, abbiamo lasciato stare - sì,
meglio lasciar stare! - anche perché a seconda di chi viene inviato per buttarti fuori la notte, si rischia la pelle per davvero. Alcune volte sono i veri e propri professionisti quelli che vengono a farci visita. Che Dio li benedica! Nella maggior parte dei casi non hanno alcuna intenzione d’alzare le mani. Usano la voce, certo, gli spintoni, strabuzzano gli occhi, e fanno pure sventolare in alto i manganelli. Ma quando vedono che siamo talmente ubriachi o male in arnese da far paura, o perfino ammalati (una volta Paolo aveva la febbre a quaranta e li abbiamo supplicati in ginocchio di lasciarci lì dentro almeno fino alla mattina successiva), chiudono un occhio e fanno finta di aver fatto il loro lavoro. E in fondo, al posto loro, anch’io farei lo stesso. Tanto pagare li hanno già pagati, e perché allora rischiare un’imputazione per omicidio colposo o lesioni aggravate? Ma quando ti spediscono i novellini, i violenti vanno per la maggiore e le cose sono ben diverse. Tanto per cominciare non fanno molto rumore, anzi, entrano quasi in punta di piedi. Accendono le torce elettriche, tirano fuori manganelli e catene, e iniziano a dartele di santa ragione. E chi c’è, c’è. Chiunque si trovi all’interno dell’immobile occupato viene picchiato selvaggiamente. Non importa che sia solo, vecchio o malandato. Quelli menano e basta. Punto. E se non ti svegli o non riesci ad alzarti per le botte e i dolori, è peggio per te. Gran parte di noialtri viene fracassata. Non t’ammazzano mai, questo è vero, e, che io sappia, non è mai capitato e devo darne atto ai committenti. Però, e questo mi preme sottolinearlo, poco ci manca che ti rendano invalido a vita. Braccia rotte, gambe maciullate, nasi e crani sfondati. Per non parlare di quando portano i cani. Siete mai stati morsi, voi, da un american pitbull?
Io scappo. E non ho altra scelta. E non solo perché non sono un granché di fisico, ma anche perché non saprei come affrontarli. In fondo, quando sei un disperato come noi, spesso, se lo sei mai stato, smetti persino d’essere aggressivo. E non è solo l’alcol, la fame, la sete, il freddo o i ricordi che non ano mai. È l’autocommiserazione. Chi piange sé stesso non ha alcuna voglia d’essere combattivo, anche se si tratta solo di difendersi. Io non so se riuscirò a resistere ancora a lungo, ma mi fa veramente incazzare l’idea di dover confermare quelle statistiche che abbassano le nostre aspettative di vita di circa vent’anni rispetto alla media.
Sette
Marco non parla più da tre giorni e, da tre giorni, non s’alza nemmeno da sotto i cartoni. È più di una settimana che a le sue giornate a fissare un punto nel vuoto del cielo e non vuole bere neanche un sorso. Oggi l’ho guardato meglio. Aveva gli occhi chiusi. Gli ho dato una scossa, anzi, uno scossone, ma mi sono accorto che non respirava più. Marco è morto, e non so neanche da quanto né come. La cosa strana è che, ieri notte, l’ho sentito pregare per la prima volta in vita mia e, nonostante fossi ubriaco fradicio, ho notato che piangeva e a dirotto. E io che ridevo, ridevo come un bambino idiota perché credevo che fe finta. Sono stanco, stanco di vivere così. Basta. Stamattina mi alzo da questo cumulo d’immondizia e vado altrove. Non so ancora dove, non ci ho neppure pensato. Magari troverò altri compari, altri sbandati, altri rifiuti umani, come me. So bene che alcuni di voi che non hanno mai provato questa vita mi definirebbero un avvoltoio, ma non me ne importa niente: mi prendo sia la chitarra sia il cappello di Marco. Tanto a lui non servono più. Il portafoglio senza un soldo e con dentro solo la carta d’identità, invece, glielo lascio addosso.
Servirà più tardi, a chi di dovere. Ho deciso di chiamare l’ambulanza, questo sì, mi sembra giusto e doveroso, ma non resterò qui, non resterò qui ad aspettare di rispondere alle domande di routine del solito strampalato medico di turno che non ha neppure la pazienza d’ascoltarmi o dei poliziotti che verranno a fare i primi accertamenti. No, questo no, non riuscirei a reggerlo. Cosa faccio adesso, dite? Mah, non saprei, in fondo le nostre giornate sono tutte maledettamente uguali. Ma dato che sono solo, sapete che vi dico? Oggi vado al mare: erano dieci anni che non lo vedevo.
Ringraziamenti
Ringrazio mia moglie, la mia famiglia, la mia città, Cagliari, e tutti coloro che la abitano.