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Realizzazione eBook: CreaLibro Progetto grafico e illustrazione di copertina: Carin Marzaro – www.enjoykerin.com Editing: Davide Moroni Ufficio Stampa: Claudia Ronchi Communications Realizzazione dei materiali digitali: Ideo
Cristiana dalla Zonca
A tempo di donna
Indice
Prologo
Nove mesi
Settembre
Maria Rosa
Sara
Grazia
Anna
Ottobre
Maria Rosa
Sara
Grazia
Anna
Novembre
Maria Rosa
Sara
Grazia
Anna
Dicembre
Maria Rosa
Sara
Grazia
Anna
Gennaio
Maria Rosa
Sara
Grazia
Anna
Febbraio
Maria Rosa
Sara
Grazia
Anna
Marzo
Maria Rosa
Sara
Grazia
Anna
Aprile
Maria Rosa
Sara
Grazia
Anna
Maggio
Maria Rosa
Sara
Grazia
Anna
Epilogo
Giugno
Prologo
Rifletti. Quante volte hai camminato davanti al tempo, voltandoti indietro e incitandolo con le mani, perché sembrava immobile e tu avevi fretta. E quante gli sei corso appresso fino a sentir scoppiare il cuore, con i muscoli che bruciavano, e nonostante i tuoi sforzi, ti sei dovuto arrendere, in ginocchio, guardandolo andare talmente veloce che sembrava volasse. Poi ci sono state volte in cui avete trascorso la notte assieme, a bere e ricordare, mentre aspettavi rassegnato un’alba inevitabile. E una volta sola in cui l’hai deriso, beffato e, presuntuoso, hai deciso di ignorarlo. Ce n’era talmente tanto che l’avevi confuso con il mare; per quanti secchi riempissi restava sempre pieno. E così hai continuato a vivere, ridendo, come se fosse un tuo diritto.
Nove mesi
Non era accaduto nulla di particolare in quei nove mesi. Trieste aveva continuato a dormire sul suo golfo, come un’attrice di teatro avanti con gli anni che ancora vuole apparire bella e lo fa usando molto trucco, mantenendo quell’atteggiamento altero, da gran signora, che appartiene un po’ ad altri tempi. La bora era stata clemente, aveva soffiato poco, senza dare mostra di sé. Non c’erano state automobili rovesciate in mare, alberi spezzati, anziani riversi nelle ripide discese attrezzate di paletti per sostenersi. La pioggia, invece, era stata il tormento dell’inverno; l’umidità, come una cappa che avvolgeva e immobilizzava tutto, portava a riva gli escrementi del mare, senza il conforto purificatore del vento. Siamo in un quartiere vicino al centro, ma non troppo, uno di quei posti che esistono solo in questa città, dove ville e appartamenti di lusso convivono vicino alla media borghesia, con i suoi brutti palazzi degli anni Settanta, e a case popolari in equo canone, e nessuno ci fa caso o sembra darci peso, perché Trieste è troppo snob per considerare importanti le differenze sociali. Proprio in questo perimetro limitato che si erge più alto sul mare, la vita di quattro donne aveva subito dei mutamenti importanti. Loro sì che avevano notato le differenze e si erano accorte del are del tempo, anche se in modo diverso.
Settembre
Maria Rosa
Seduta a terra, le mani a cingere le ginocchia, fissa il muro. Le scritte incise, ragnatele più chiare, si confondono davanti ai suoi occhi vitrei, bui. Sono ventiquattro ore che non dorme. Il tessuto ruvido le punge la pelle, sente freddo ma non si muove. La luce entra dalla grata e solleva un pulviscolo opaco; tutto è opaco qui dentro, grigio. Anche lei. Incredula, ripercorre le ultime ore a casa, pensa a se stessa in terza persona, come se fosse un’altra Rosa, un’altra storia. Non riesce a credere di aver avuto il coraggio. Si era svegliata alle 5 del mattino per preparare la torta di Lea. Si sarebbe sposata quel sabato e, anche se era invitata, sapeva che Mimmo non l’avrebbe lasciata andare: non approvava le sue amicizie sul lavoro e in più Lea era di colore, era negra, come avrebbe detto lui, quindi non glielo aveva nemmeno chiesto. Ma era una sua amica e con le altre ragazze dell’ipermercato avevano deciso di organizzare una piccola festa dopo il turno, quel venerdì. Così le avevano assegnato il compito di preparare il dolce e lei voleva che fosse speciale, perché Lea era una sua amica e le voleva bene. Era l’unica ad accorgersi quando Rosa stava male; un giorno, scostandole i capelli e vedendo il livido sul collo, l’aveva guardata con quei suoi occhi, così neri e così dolci, ed era rimasta in silenzio, facendole solo una carezza. Queste cose Rosa le ricordava e voleva che la sua torta fosse quasi un dolce nuziale. Così, la notte non aveva dormito per paura di non svegliarsi, si era agitata nel letto pensando a tutti i dolci che avrebbe potuto preparare, e quanti ne conosceva! Da bambina al paese la nonna le permetteva sempre di aiutarla in cucina. Non poteva mettere la sveglia – mamma mia quanto si sarebbe arrabbiato Mimmo se lo avesse svegliato con quel trillo assordante – e così era stata ferma, ad aspettare l’alba e pensare agli ingredienti, a come li avrebbe mescolati e alla gioia della festa che l’aspettava. La crema era già pronta, ce n’era abbastanza e la consistenza era buona, né
troppo fluida né troppo compatta. La frutta tagliata a fettine regolari era disposta sui piatti, in ordine sopra i fuochi, i colori accesi già da soli bastavano a metterle allegria. Ora era la volta di stendere la pasta frolla, fare quattro infornate per i quattro rettangoli che servivano a fare una torta bella grande che avrebbe assemblato nel retro del supermercato, legandoli con i riccioli di panna, in modo da creare anche un bel decoro. Aveva alzato la testa per asciugare il sudore dalla fronte, la cucina era esposta a est e il mattino era già inondata di sole; a settembre era anche piacevole, ma nei mesi estivi era quasi una sofferenza. Si era resa conto con stupore che erano già le sette del mattino, Mimmo si sarebbe alzato a momenti e guai se la colazione non era in tavola, così aveva abbandonato a malincuore la pasta gialla e si era adoperata a mettere su la moka e a sbattere le uova. “Che fai? Non eri a letto, me ne sono accorto sai? La tua parte era fredda. Perché ti sei alzata prima? Cos’è, un giorno speciale?” “Non avevo più sonno, mi sono destata e sono venuta a sbrigare le faccende.” Lo sguardo abbassato, Rosa sbatteva le uova, aggiungendoci piano un po’ di latte e un pizzico di sale, per farle morbide, come piacevano a lui. “E le faccende sono la frutta e la crema? Non sono faccende di casa queste. Solo se lavori per questa casa ti puoi alzare prima, altrimenti si sta a letto con il proprio marito, è chiaro? E per chi è questa torta che fai? Sentiamo, per chi devo pagare? Perché la pago io questa frutta, lo sai, vero? E guardami negli occhi quando ti parlo!” “Ma niente, c’è una piccola festa al lavoro, così mi è sembrato carino partecipare anch’io.” “Ma tu non puoi, Rosa, primo perché dopo il lavoro devi tornare a casa, devi pulire, non vedi che schifo ‘sta cucina, è piena di polvere e non mi va bene vivere in un porcile, siamo d’accordo? E poi quelli non sono tuoi amici, ti sfruttano, ti fanno lavorare per una paga da fame che devi spendere per comprare la frutta per loro; non va bene, credi a me, sei sempre la solita ingenua.” “Può darsi, Mimmuzzo, ma mi fa piacere, che male c’è ogni tanto a farsi qualche
amico? Su, mangia, l’uovo si fredda, guarda che bel sole.” “Un sole che mi farà sudare come un maiale in quel cesso di cantiere. A questo serve, il tuo sole. Comunque la torta la puoi portare perché sono generoso, ma alla festa non ci stai, te ne torni subito indietro, Rosa, e voglio che mi chiami quando esci e appena arrivi a casa, così controllo, ultimamente ti prendi troppe libertà e non vorrei che iniziassi a mentire come la moglie di Vincenzo, che diceva di essere al lavoro e invece aveva l’amante.” “Ma che amante vuoi che abbia, Mimmo? Sto sempre qua.” Rosa aveva cominciato a stendere la pasta, il mattarello scivolava bene, era di quelli col cilindro in marmo, di una volta, fatti per braccia forti e poca farina. Guardava Mimmo che mangiava con i gomiti sul tavolo, quegli avambracci pieni di peli, le mani callose, lo sguardo basso, cattivo, la nuca con un principio di stempiatura, la fronte abbronzata e i capelli neri che cominciavano a indebolirsi, a diventare più fini. “Certo che non hai l’amante tu, brutta che sei, ma guardati, nemmeno una donna sembri più, secca, grigia, una vecchia buona solo a far da mangiare. Dovrei trovarmela io l’amante, ma una donna stavolta, una donna vera, e sì che un tempo mi sembravi carina. Comunque, alle quattro a casa.“ Ed era stato lì che aveva commesso l’errore, perché le lacrime le erano salite agli occhi e l’emotività aveva avuto il sopravvento. Intuiva sempre quando lei teneva a qualcosa e così la rovinava, perché era un uomo meschino. “Ma c’è la festa per Lea, ci tengo stavolta.” “Allora è questo, è per quella negra, per quei bastardi morti di fame che vengono nel nostro Paese a rubarci il lavoro, a creare delinquenza, a portare via soldi nostri. Non farmi bestemmiare, Rosa, che San Michele ci guarda! Sai che ti dico? Non ci vai proprio al lavoro oggi, ora telefoni e ti dai malata, e lo fai subito, Rosa, o sono guai per te.” E con un colpo secco aveva ribaltato la frutta a terra, rompendo tutto con un frastuono insopportabile, e le fettine tagliate con tanta cura si erano mischiate alle schegge della ceramica, sparsa sul pavimento; un arcobaleno di colori che non avrebbe più potuto usare. Era stato un istante, di follia o forse di lucidità; gli anni di soprusi, umiliazioni, insulti le erano piombati addosso tutti insieme, sopraffacendola, e non si era
nemmeno accorta di aver sollevato il mattarello, colpendo, più volte, quante? Dieci, venti, cento? Non avrebbe saputo dirlo: lanciava il mattarello alla cieca su quella testa troppo tonda per essere umana. Potevano essere ati minuti, ore, pochi istanti, la mente era chiusa in un’altra dimensione. Solo quando aveva visto colare un serpentello grigio, denso, che si era mescolato con l’uovo strapazzato, come fosse un albume marcio aggiunto dopo, e il sangue che appiccicava i capelli, dove prima c’era una tempia liscia. Solo quando aveva visto il buco, la testa reclinata immobile in una posizione innaturale, il caffè rovesciato sulla tavola imbandita. Solo allora aveva sentito il silenzio. Così aveva chiamato il 113 e con voce mite aveva chiesto se potevano mandare una pattuglia, perché non era sicura, ma forse aveva fatto del male a suo marito. Quando l’agente le aveva gentilmente chiesto le generalità aveva dato nome, cognome, indirizzo. “Non tocchi niente” le aveva raccomandato, “chiamiamo noi l’ambulanza.” “Vi aspetto”, aveva mormorato. Poi si era seduta a guardare fuori, a sentire i rumori della città, la signora del terzo piano che ricordava la merenda al figlio che andava a scuola, un cane che abbaiava. Che cosa penseranno i carabinieri di questo disordine, si era chiesta; che non so nemmeno tenere una casa. Ma le avevano detto di non toccare nulla, doveva sforzarsi di non riordinare. Però un caffè glielo posso preparare, aveva ragionato, in fondo non sono nemmeno le otto del mattino, gli farà piacere un bel caffè forte, appena fatto. Aveva tirato fuori la caffettiera grande, quella per otto, e preparato il vassoio, con le tazzine belle, regalo di nozze di zia Maria, quelle che tenevano nella vetrinetta in salotto, e scelto i cucchiaini tutti uguali. Aspettando, mentre piegava i tovagliolini con una R e una D ricamate sopra, si era tolta il grembiule e rassettata le pieghe della vestaglia da casa, poi si era ata le mani tra i capelli, ricomponendoli nella crocchia; voleva essere in ordine all’arrivo dei carabinieri. In tutto questo Mimmo era lì, immobile, finalmente in silenzio. Ora di mezzogiorno Maria Rosa Favia, nata a Spinazzola, provincia di Barletta-
Andria-Trani (BT) il 15 ottobre 1968, varcava l’ingresso della Casa Circondariale per aver ucciso il marito, Domenico Rizzi detto Mimmo, con una serie ripetuta di colpi contundenti inferti con un mattarello di marmo e legno del peso di oltre tre chili; almeno così recitava il verbale dei carabinieri che avevano proceduto all’arresto.
Sara
“Apri questa porta, Sara, ti avverto, sto perdendo la pazienza!” La voce di Luca di là dal muro è imperiosa e la maniglia si muove su e giù come mossa da una forza propria. “Lasciami in pace!” grido arrabbiata afferrando un asciugamano e stringendomelo attorno al corpo nudo; nella fretta e per la rabbia non ho preso nemmeno la maglietta. “Tre mesi, Luca, ho sospeso la pillola solamente per tre mesi! E lo sapevi! Cazzo, non sei capace di controllarti, come un quindicenne alla prima scopata!” “Sara, non essere ridicola, può succedere di perdere il controllo.” “Cosa significa? Che dovrei sentirmi lusingata?” “Ma è stato un attimo, me ne sono accorto subito, è impossibile che tu sia incinta! E poi non ti sono finite le mestruazioni ieri? L’hai detto tu che le avevi ancora.” Scuoto la testa, proprio non ci arriva. “Lo so anch’io che è improbabile, non è questo il punto. È che tu non pensi! E io sono stufa di farlo per due.” “Sara, è mezzanotte, vieni a letto. Mi dispiace, tesoro, non succederà più, non ti toccherò nemmeno con un dito fino a che non ricomincerai la pillola, lo giuro. Ma ora vieni, ti assicuro che non può essere successo niente. Sono un medico, puoi fidarti di me.” “Intanto non sei un medico, ma un tecnico radiologo, il che conferma la tua idiozia e poca preparazione in materia; secondo, a letto non vengo, ti odio e non voglio stare con te!” “Come vuoi, io vado a dormire, buonanotte.” Sento i suoi i allontanarsi, “Ci teneva proprio, eh?!”, mormoro furiosa. Lo so anch’io che le probabilità di essere rimasta incinta sono irrisorie, ma non
sopporto la sua superficialità: se dobbiamo stare attenti, stiamo attenti, porco cane! È che Luca è sempre così, lui fa le cose e alle conseguenze ci pensa dopo. Non che ci saranno conseguenze, stavolta lo so anch’io, ma è una questione di principio. Scivolo sulla parete e mi accuccio sul pavimento stringendomi le ginocchia tra le braccia. La verità è che sono stanca. Vivere insieme è bello, ma molto faticoso. Per far fronte alle spese ho trovato un lavoro part-time a termine in un call center assicurativo: quattro ore in cuffia a stilare preventivi e stipulare polizze, senza pausa. Al pomeriggio il tirocinio, mi mancano ancora duecento ore e poi grazie al cielo sarà finito e potrò cominciare a studiare per l’esame di Stato. Luca ha avuto tutto facile, non si rende conto della fatica che sto facendo io. Le persone che frequentano il centro di accoglienza hanno sempre tanti problemi e a volte, davanti al loro sconforto, mi sento così inutile. Vedo i tutor che cercano di parlare in maniera sensata, propositiva, ma non c’è molto da fare se si ha il marito disoccupato, i figli che hanno preso una cattiva strada e il mutuo da pagare. Io so di essere fortunata. Luca ha un lavoro sicuro; la casa, così come l’abbiamo messa su, è proprio carina e per due più che sufficiente. La zona poi è bellissima, dalla finestra della cucina vedo uno scorcio di mare. Quando avrò superato l’esame e mi sarò finalmente iscritta all’albo, potrò cominciare a esercitare; spero che ci sia un concorso comunale che mi confermi al centro di assistenza familiare, ma se così non fosse ci sono altre opportunità, e in ogni caso la libera professione. Mi piace fare la psicologa, mi aiuta a capire gli altri, ma anche me stessa. In fondo era quello che desideravo e sto riuscendo a ottenerlo. Mi o le dita tra i capelli, m’innervosiscono per quanto sono lisci e fini, mai lunghi come vorrei, e mi alzo per sciacquarmi la faccia. Come ogni volta che piango, mi è comparsa una chiazza rossa in mezzo alla fronte e le labbra si sono gonfiate. Tiro indietro i capelli in una coda e mi bagno ripetutamente con l’acqua fredda. Dovrò andare a fare le mèches, almeno la riga, altrimenti con la ricrescita spunta il color topo, altro che cenere come dicono i parrucchieri. Anche se sono stata al mare sono sempre pallida, mi arrosso appena e dopo pochi giorni, voilà, di nuovo bianca. Che palle. Stringo la bocca sottile in una linea dura giudicando me stessa. La verità è che ho sempre bisogno di tenere le cose sotto controllo. Una ragioniera, ecco quello
che sono, altro che psicologa, dal mio mestiere si dovrebbe almeno imparare un po’ di flessibilità. Ma io non ce l’ho, zero. Odio l’imprevisto, mi fa tremare. In ogni istante della giornata devo sapere esattamente cosa sto facendo e quale sarà il o successivo. Un programma serrato, rigido. Il lunedì la ginnastica, giovedì la lavatrice, sabato mattina la spesa. Ogni settimana, tutto l’anno. Ferie decise e prenotate con mesi di anticipo, a me non succede di cambiare idea o perdere un aereo. Pranzi e cene organizzati in freezer, con poca fantasia ma sempre pronti all’ora giusta. Programmi televisivi a cadenza settimanale, un libro al mese sul comodino. L’auto pulita, i tagliandi fatti. Scuoto il capo, che persona noiosa sono. Ma non riesco a cambiare. L’ordine mi conforta e mi motiva. Solo che ultimamente ho preso tantissimi impegni, perché un altro problema per me è avere la giornata sempre piena. La mia cronica incapacità di rilassarmi e gestire i tempi vuoti è stata oggetto di lunghi studi quando il soggetto della psicoterapia sono stata io: autodifesa. Intellettualizzo troppo, non so stare sola con me stessa, di base mi amo poco e sono insicura. E quindi? Non è una sorpresa né per Luca né per me. Però mi devo scusare, la scenata che ho fatto è stata eccessiva. Rientro in camera piano, nel buio mi avvicino a Luca, che dorme con il viso contratto. “Scusa”, mormoro al nulla accarezzandoli i capelli, “ho esagerato”. “Sei sempre nevrastenica.” “No, è che lo sai che mi piace avere tutto sotto controllo.” “Il sesso è mancanza di controllo, Sara, o almeno dovrebbe. Ma il tuo cervello lavora sempre. Rilassati, no? Avevamo ato una bella serata, devi sempre rovinare tutto.” “Ti ho chiesto scusa.” “Mi hai chiesto scusa.” Nell’immobilità che segue aspetto un gesto; solitamente allungherebbe un braccio per stringermi a sé, il viso nel suo collo, ma stanotte è immobile. “Luca...”
“Sono stanco.” Non sopporto che non sia tutto a posto tra di noi, mi fa star male, mi toglie il respiro. Piango piano, ma neanche troppo, perché voglio che mi senta, e sussulto con la pancia. “Smettila di muovere quella pancia, non riesco a dormire se mi stai addosso.” Singhiozzo più forte. “Sara, cos’è che vuoi?” Si mette a sedere esasperato. “Sono stanco, ho la sveglia tra cinque ore, non sono arrabbiato, voglio solo pace, ok?” Annuisco con le mani sugli occhi. “Vieni qui, dai.” Mi prende tra le braccia. “Sei una rompicoglioni, lo sai, vero?” “Sì” ammetto con voce flebile. “Non so perché lo faccio, ma mi viene il panico. Odio non avere il pieno comando su tutto, lo so che è un mio difetto, cercherò di cambiare. Sono anche tanto stanca. Lavoro tutto il giorno, tra uno spostamento e l’altro esco al mattino alle sette e mezza e prima di dodici ore non sono a casa. E non finirà, perché dopo il tirocinio ci sarà lo studio, e poi l’esame e poi il lavoro...” Mi zittisce con un bacio. “E poi i figli, e poi la scuola, e poi il mutuo, e poi e poi e poi... Vivi, Sara! Non lo puoi sapere sempre il “poi”, nemmeno tu. Se sei stanca prenditi tempo, alla fine del tirocinio fai una pausa.” “Non posso”, ancora lacrime, “perché cosa faccio a casa tutto il giorno? Divento pazza. Ho il terrore delle ore vuote. Non è semplice, Luca, lo sai, ho quasi trent’anni, sono precaria in un call center, se non mi do una mossa comincerò a esercitare all’età della pensione”. “Sempre drammatica.” Mi scuote, mi bacia, mi fa ridere. “Ora dormi però, hai tutti gli occhi gonfi, basta piangere, non è successo niente di grave.” Mi accoccolo accanto a lui, infilo i piedi tra le sue cosce e cerco di rilassarmi mentre lo sento prendere sonno.
Perché non riesco a rendermi le cose un po’ più facili? È vero che sono sempre di corsa, come se la mia vita dovesse sempre correre su una giostra, come se tutte le giornate dovessero portare qualcosa, avere un fine. Vorrei saper godere il tempo, lasciarlo scorrere e liberarmi dai pensieri. Nel buio mi mangio le mani. Mi pento. Accendo la luce e metto lo smalto amaro. Anche alle due del mattino devo fare qualcosa di utile. “Tanto sono così brutte, poco cambia se le unghie sono mangiate”, penso mentre le osservo, piccole, tozze, corte e quadrate e con il sangue rappreso sulle pellicine. “Che schifo”, mormoro. “Da domani smetto.” Non ho sonno. Accendo piano la televisione, cerco un film e lo sintonizzo in lingua originale, almeno che sia utile per l’inglese, non ho mai tempo. Poi, facendo una lista mentale delle cose da fare già tra poche ore, scivolo finalmente nel sonno.
Grazia
Il piede batte a ritmo nel mocassino di camoscio rosso, punta tacco, punta tacco, baby un, due, tre; mi viene in mente una canzoncina dei tempi delle scuole medie, probabilmente un balletto stupido che facevamo noi amiche durante la ricreazione. È più di un’ora che aspetto. Sfilo il cellulare dalla borsa e mando un messaggio a Alfredo: Non sono ancora entrata, andrà per le lunghe, ti chiamo io; so che mio marito è un apprensivo e probabilmente vaga per lo studio con il cellulare in tasca tormentando i suoi geometri. Meglio si metta tranquillo. E meno male che sono raccomandata, penso mentre mi guardo intorno. La figlia di una mia collega è radiologa e questo mi ha evitato le liste d’attesa tipiche di chi fa in privato un esame in regime di Servizio Sanitario Nazionale: nonostante la mia ricettina rossa ho aspettato solo una settimana per avere l’appuntamento. “Perciò non lamentarti, Grazia”, mi ammonisco tra me e me. Estraggo dalla borsa le verifiche d’ingresso della Prima B, inorridisco già a una prima occhiata. Va bene che è un compito per testare il livello della classe, ma paiono veramente indecenti. Dovrebbero tornare in prima media, non essere al liceo, che capre! Possibile che non siano più in grado di fare le quattro operazioni senza una calcolatrice? Sono trent’anni che insegno matematica e riesco ancora a stupirmi. Scuoto la testa, inforco gli occhiali e, mentre la penna rossa segna con vigore i fogli protocollo, la mente divaga e mi ricorda perché sono qui. L’estate è stata faticosa quest’anno, la mamma di Alfredo è peggiorata, questo morbo di Parkinson sembra non darle più tregua, e convincerla ad accettare una badante in casa è stato un enorme dispendio di energia. Del resto non c’è altra soluzione, se non una clinica specializzata, cosa che abbiamo escluso a priori. Ha novant’anni, povera donna, se il Signore se la prendesse nel sonno farebbe a tutti una grande cortesia. Anche perché, lavorando entrambi, mica possiamo occuparcene noi!
Così, niente ferie o quasi, giusto qualche giorno a Capalbio e un ferragosto piovoso in montagna a casa di amici. È che io ero sempre tanto stanca. Come se un malessere diffuso mi avesse fiaccata sin nelle viscere. Ho perso cinque chili in tre mesi, niente di che, non avevo mai fame. Nemmeno al mare le grigliate di pesce, mia ione per cui negli anni non ho mai fatto eccezioni e che mi rifiuto categoricamente di dividere con alcuno, quest’anno sembravano non avere più alcun appeal. E Alfredo lì a preoccuparsi: “Ma cos’hai? Perché non mangi? Non hai mai fame, devi andare a farti vedere da qualcuno.” “Ma su che non è nulla, meno mangi e meno mangi, si sa, lo stomaco è un sacchetto elastico, mi si sarà ristretto. Mica è colpa mia se non ho appetito... Non mi tormentare, Alfredo!” “Ma nemmeno una pasta con le vongole? O una sogliolina?” “No, guarda, sto bene così.” Rigiravo la forchetta nel piatto per creare un effetto vuoto nel cibo troppo abbondante. “Ho sempre un peso sullo stomaco e digerisco male, secondo me ho una colite nervosa causata da tua madre, bisogna trovare una soluzione. Anche oggi la signora Pierina ha chiamato tre volte per lamentarsi. Dice che fa i capricci, che è intrattabile, le risponde male e non vuole mai farsi aiutare. Io non ci sto dietro, te lo dico, o la risolvi tu questa storia o si va in una clinica. A settembre ricomincia la scuola e come faremo? Tu sempre tra il cantiere e lo studio, io ho i miei impegni, sono anche vicepreside e dovrò studiare per il concorso se voglio diventare dirigente.” “Hai ragione, lo so, mi appoggio a te come se mia madre fosse un problema tuo. Ti prometto che me ne occuperò, ma tu vai dalla dottoressa appena rientriamo in città, d’accordo?” “D’accordo.” Avevo annuito e così era stato. Il mio medico di base è una donna, Carmela Bene; gentile e scrupolosa, mi ricevette il giorno successivo alla mia chiamata.
“Mi dica tutto”, chiese facendomi accomodare sul lettino e avvicinandomi il fonendoscopio alla schiena. “Sono dimagrita un po’ nell’ultimo periodo, niente di importante, ma non ho più fame. Ho sempre un senso di peso gastrico e un malessere diffuso. Non che sia terribile, ma è persistente. Ultimamente poi ho cominciato anche ad avere anche dei forti dolori alla schiena. Mi sa che sto invecchiando.” “Quanti anni ha esattamente?” “Cinquantotto.” Annuì. “Mi spieghi meglio questo dolore alla schiena.” “È diverso dal solito, è come se s’irradiasse dallo stomaco e mi prendesse tutte le fasce muscolari, fino a dietro; avevo pensato a una colite, anche perché ho spesso la pancia gonfia, ma in realtà problemi intestinali non ne ho.” Auscultò, mi girò, mi palpò, mi toccò provocandomi dolore, poi finalmente mi lasciò rivestire. Mi sentivo come se mi avessero picchiata, eppure era stata delicata. “Facciamo così, Grazia, le lascio una lista di esami da fare e vediamo i risultati. Se poi il dolore persiste facciamo anche un’ecografia.” Così, mi sono fatta bucare e prelevare una serie di fialette con codici strani, che comunque non hanno mostrato nulla, ma neppure soddisfatto la dottoressa Bene. E ora eccomi qui ad aspettare a digiuno questa benedetta ecografia, con i terribili compiti della Prima B, che, causa la loro ignoranza e il mio nervosismo, dovranno essere annullati, posto che nessuno arriva nemmeno lontanamente al sei. Ho i crampi. Mi sfilo gli occhiali che pendono alla catenina, risorsa indispensabile per noi smemorati, e mi massaggio il naso. Liscio gonna e maglia e ricomincio il mio battito ritmato punta tacco. Il telefono emette una vibrazione: la donna delle pulizie mi avverte di essere malata. “Di male in peggio”, mormoro, ho lasciato la casa con le finestre spalancate, i tappeti stesi fuori e il cielo minaccia pure pioggia.
Finalmente un’infermiera mi chiama, mi fa accomodare in una piccola stanza e m’invita a cambiarmi dietro il paravento. “Resti pure con la biancheria” sorride gentile. La dottoressa Fantini entra e sorride. “Professoressa, buongiorno, scusi se l’ho fatta aspettare, ma qui le mani non bastano mai, se appena c’è un ricoverato da rivedere scala tutta la lista d’attesa. Allora, vediamo, sentirà un po’ di freddo.” Il gel m’intirizzisce la pancia facendomi venire la pelle d’oca, mentre la sonda dell’ecografo scivola veloce sulla pelle, premendo in alcuni punti. Avanti e indietro, avanti e indietro, a fondo. Il viso della Fantini resta inespressivo, ma è concentrata e non chiacchiera più. Seleziona alcune immagini, le ferma, torna indietro, scatta una sorta di foto. Io sto in silenzio, nel grigiore pieno di ombre e chiazze chiaroscure non riconosco un solo organo del mio addome. “Mi attenda un attimo, per favore.” Esce e ano i minuti. Tocco il gel con un dito: è vischioso e fresco, inodore. Non c’è molto da guardarsi in giro, l’ecografo grigio è l’unica nota di colore della stanza. Aspetto annoiata. Una mattinata persa, non riuscirò nemmeno a are in posta se continuiamo a questi ritmi, figurarsi da mia suocera. La Fantini rientra con un altro medico, alto, brizzolato, molto distinto nel camice bianco. “Il Professor Pucci”, lo presenta con reverenza, “primario di radiologia.” “Piacere”, dico intimidita, porgendo una mano. Magari avrei preferito non essere in reggiseno color carne contenitivo e con un telo di carta a fermare gli slip. “Buongiorno, signora”, la sua stretta è ferma e asciutta. Poi inforca gli occhiali, rotondi, con una leggerissima montatura. Sarà acciaio o titanio?, mi chiedo, mentre nessuno bada a me, ma solo al monitor, e il sensore ricomincia la sua gimkana sul mio addome dolorante. Me li compro anch’io, penso, appena ricevo lo stipendio vado dall’ottico, questa montatura di plastica da ragazzina ormai è
ata di moda, in fondo sono una signora. Penso ad altro mentre osservo i loro indici ‘incrociarsi su un fermo immagine; poi il monitor si fa nero e mi lasciano con l’infermiera. Mi asciugo con la carta e mi rivesto. Sono le 12.15, potrei andare oggi a comprarmi gli occhiali, sono in vena di spese. Rientrano. I visi seri. L’esame è confuso, sarà necessaria una TAC, le liste sono un po’ lunghe anche in privato, ma ci sarebbe un buco tra due settimane nel primo pomeriggio, mi può andare bene? Alle 14.30 allora? “D’accordo, ma potete dirmi di cosa si tratta?” “Sarebbe prematuro”, rispondono. “L’eco è positiva, evidenzia una massa non ben definita a livello del pancreas, ma ne parliamo il 15 ottobre, senza la TAC non avrebbe senso, e no, non occorre che sia a digiuno. Nello stordimento che mi coglie l’unica cosa che mi resta fissa in mente è il codice identificativo paziente, numero 54336.
Anna
Labbra serrate, occhi chiusi, Red di Taylor Swift a palla nelle cuffiette. Avvolta nella coperta sintetica, non mi accorgo della hostess che mi chiama. Non posso sentire. Una mano mi scuote le spalle, un viso cortese mi indica che è iniziata la fase di atterraggio. Allaccio la cintura. Stropiccio gli occhi e guardo fuori, nel buio. Guardo ma non vedo. La bocca assume una piega amara, non riesce a non schiumare di rabbia, a non provare dolore.
Si rivede a piangere di frustrazione sul marciapiede, quello stesso mattino. Una volta di più lei non c’era. L’autista aspettava in silenzio, i bagagli già caricati. C’era da are in tribunale a prendere suo padre, che l’avrebbe accompagnata. Almeno lui. Il telefonino aveva squillato, la sua voce: “Tesoro, mi dispiace ma non ce la faccio. C’è stato un omicidio e un fermo, mi hanno affidato il caso, non posso davvero venire. Mi dispiace tanto, amore, ma in fondo nelle ultime settimane siamo state tanto insieme. Divertiti e chiamami quando arrivi, sai che sto in pensiero” si era interrotta per rispondere a qualcuno, con il tipico tono professionale che Anna proprio non sopporta. “Dicevo, manda un messaggio quando atterri e poi ci sentiamo su Skype, così mi racconti com’è la casa. Ti voglio bene, tesoro, tanto”. Aveva chiuso così, senza lasciarle il tempo di ribattere. E allora Anna aveva gridato, tutto il dolore che si era incastrato in gola e aveva bisogno di essere liberato, tutto quello che avrebbe voluto dirle. Che era una stronza, una madre di merda, che non aveva bisogno di Lei. Che magari l’aereo sarebbe caduto e Lei sarebbe stata rosa dai rimorsi, o forse no, ma in quel caso si scordasse di avere una figlia. Quando sarebbe stata vecchia e malata di Alzheimer col cavolo che Anna se ne sarebbe presa cura, cree pure sola o con uno dei suoi assistiti.
Piangeva, urlava a un telefono muto, in mezzo alla strada, tutta la sua sofferenza. Poi l’aveva scagliato via, lontano, quel testimone di plastica della sua pena. Una ragazza che aveva già visto in giro, una biondina inutile, glielo aveva riportato e le aveva ato un fazzoletto di carta. “Non piangere, non ne vale la pena.” Aveva un tono gentile e un viso un po’ scialbo, ma con begli occhi verde mela. “Grazie”, aveva mormorato soffiandosi il naso, “me ne dai un altro?” “Ma certo, tieni pure il pacchetto. Sei in partenza?” L’aveva chiesto senza curiosità, la domanda sorgeva da un dato di fatto. “Sì, vado a fare un anno all’estero. In Canada. Solo che parto tardi perché sono dovuta andare due settimane in Grecia con mia madre; sai, ha una figlia sola da esibire con i suoi amici altolocati.” Si era accorta di avere un tono amaro. Provava imbarazzo davanti a questa donna sconosciuta che le porgeva i pezzi del cellulare. Aveva pulito il marciapiede con la scarpa da ginnastica e ricomposto il telefonino attaccando la batteria che era volata dall’altro lato della strada. Non sapeva cosa dire. “Mi chiamo Sara, abito qui vicino, ti vedo ogni tanto con le tue amiche. Siete una più bella dell’altra.” Anna aveva sorriso, ringraziando, mentre l’autista le faceva cenno che era ora di andare. “Allora ciao. E... Grazie.” “Ma figurati, fai buon viaggio.” Quando era salita in macchina, Anna si era girata e aveva salutato di nuovo con la mano, chiedendosi cosa aveva pensato di lei quella estranea, se conosceva sua madre, l’avvocatessa di grido che appare sempre sui giornali, la donna elegante e di successo che non le assomiglia affatto.
La verità è che Anna non sa ancora di essere bella, anche più di sua madre. È minuta, con un viso tondo, regolare, punteggiato su guance e naso da minuscole lentiggini. Ha una bocca rossa, dal pigmento scuro, grande e generosa, e due occhi blu che sembrano fanali. Una massa di riccioli neri incornicia il profilo da Madonna. Sono capelli sottili, lucidi, che formano una nuvola disordinata. Guarda fuori dal finestrino e torce le piccole mani da bambina, con le dita minuscole e le unghie tonde. Almeno c’è papà, pensa accigliata. Sono ate ore, ma la sua rabbia non è scemata. Col cazzo che le mando un messaggio appena arrivo, decide; che stia pure in pensiero, se lo merita. Mi ha spedita dall’altra parte del mondo per liberarsi di me; meglio così, potrà dedicarsi alle sue disgrazie a tempo pieno, ma è ora che anch’io mi faccia la mia vita, in fondo ho diciassette anni compiuti. Tira su il cappuccio della felpa e guarda avvicinarsi le luci della città.
Fuori dal gate c’è un corridoio lungo e, in fondo, tutte le persone in attesa. Mi guardo intorno smarrita, ho visto delle foto della nuova famiglia, ma fatico a distinguerli. Poi appaiono dei palloncini colorati e un grande cartello “WELCOME HANNA” retto in alto. Sorrido e saluto, avvicinandomi. Phoebe e James mi abbracciano con trasporto; in un eggino troppo piccolo per contenerla, la piccola Coleen dorme. Sono diversi dal vivo. Phoebe è bianchissima e lentigginosa, con i capelli di un arancione chiaro, quasi rosato. James invece ha la barba e gentili occhi castani, una stretta di mano vigorosa. Sono enormi vicino a me, alti e sovrappeso, ma il loro abbraccio è morbido e caldo. Li guardo inebetita, non capisco bene quello che dicono; speriamo sia la stanchezza, altrimenti sono fritta. In macchina Phoebe mi racconta che per la sera successiva ha organizzato un party; i vicini hanno due figli gemelli della mia età e in fondo alla strada un’altra coppia ospita un ragazzo se che andrà nella mia stessa scuola: già programma di farmelo conoscere, per fare un bel gruppetto. Poi mi racconta della città e di aver raccolto un sacco di depliant sulle attività sportive del quartiere, o almeno questo è quello che mi sembra di capire. Annuisco, sorrido molto e mi spreco in grandi “Grazie”.
Mi guardo intorno, James mi spiega la geografia di Vancouver: “Non usare mai il mare per orientarti, Hanna, è da tutte le parti.” Mi piace come mette la “H” davanti al mio nome. Poi arriviamo a casa. È amore a prima vista. Una casetta blu con il tetto spiovente, delle oche di legno attaccate alla porta che sorridono e danno il benvenuto agli ospiti. Sul retro, una grande terrazza si affaccia sul giardino. In garage tre biciclette, Phoebe ha pensato anche a me, sono appoggiate al muro tra tricicli e giocattoli da bambino. James trascina le mie enormi valigie al terzo piano, le solleva come fossero fragili ventiquattrore e non trolley da 20 chili l’uno, e insieme mi mostrano orgogliosi la mia stanza. Un letto in legno con lampada e comodino, pareti celesti, due abbaini grandi da cui si vede il cielo stellato e una scrivania bianca con i cassettini, con sopra un bigliettino con la wi-fi. Di fianco all’armadio si apre la porta del bagno. È un piccolo mondo privato, tutto azzurro. Tutto mio. Phoebe ha messo asciugamani in tinta, saponette e flaconi di crema profumata. C’è attenzione nella cura di questa stanza, c’è attenzione per me. Mi lasciano il tempo di cambiarmi prima di chiamarmi per la cena. Ho disfatto le valigie, mi sono fatta una doccia e ho scritto a mio padre. Quando sento il rumore delle stoviglie, scendo. La piccola Coleen sta mettendo dei fiori e un disegno che assomiglia a uno sgorbio su quello che credo sia il mio piatto. Phoebe sta infornando una torta e James ha il camino. “Ciao.” Mi chino ad altezza bambino. Coleen corre a nascondersi dietro le gambe di sua madre, che ride. Poi dai solidi polpacci esce un visino roseo. “Ciao, ti piace Franny?” “Credo di sì, ma non la conosco.”
Coleen allunga una manina piena di adesivi: la protagonista di un fumetto mi sorride con i codini e gli stivali ai piedi. “Le assomigli”, sentenzia la piccola, annuendo. “Franny ha i capelli riccioli e gli occhi come i tuoi, ma lei è canadese, non italiana.” “Hai ragione. Be’, meglio così, io sono venuta qui per imparare.” “Allora se vuoi posso giocare con te, la mamma ha detto che sei mia sorella, ma allora perché prima non c’eri?” “Perché vivevo da un’altra parte, ma adesso sono qui.” In meno di un minuto mi trovo le mani piene di adesivi, mentre la bambina chiacchiera e mi spiega i nomi dei personaggi e i genitori ridono compiaciuti. È una famiglia, questa, non come a casa, dove ogni sera ceno sola davanti alla TV o scappo di sopra appena posso, uccisa dalla noia dei miei genitori. Il rancore sale, di nuovo, ostinato. Dalla terrazza arriva odore di carne alla brace: James ha preparato il barbecue e con un gesto plateale mi invita a mettermi a tavola. La notte, a letto a guardare il cielo, mi rannicchio nel pigiama a fiorellini. Non so perché, ma mi sento tanto sola, mi viene da piangere. Stringo al petto l’orsetto che mi ha prestato Coleen per dormire e controllo di nuovo il cellulare, ma niente. Poi la stanchezza vince su tutto e crollo addormentata. Poco dopo, quando il cellulare lampeggia mostrando il nome “Mamma” e vibra per gli sms che chiedono se sto bene e come è andata la prima sera con la nuova famiglia, sto già sognando.
Ottobre
Maria Rosa
Non credevo che avrei potuto trovare confortevole la vita in carcere. Ne parlano tutti come della peggior iattura; quando c’era stato mio cugino Pino, a casa ne avevano fatto una malattia. Lo descrivevano come l’inferno sulla terra e tutti erano concordi nel dire che una volta uscito nessuno era più lo stesso. Forse per gli uomini è così, loro hanno meno capacità di adattarsi, o forse Pino, che spacciava droga ed era pieno di donne, soldi e belle macchine, aveva molto da perdere stando in galera. Ma questo non vale per me. Da quando sono qui provo una gran pace. Non ho ancora fatto amicizia con le compagne, perché mi hanno tenuta separata, ma forse dopo il colloquio di oggi con l’avvocato qualcosa cambierà. Le vedo camminare a gruppetti in cortile, giocare a pallavolo, ridere e fumare mentre parlano a voce un po’ troppo alta per come piace a me; mi ricordano le urla a casa e devo sforzarmi di non tapparmi le orecchie. Ma sembrano allegre, a parte una lite ieri, in cui quasi si ammazzavano di botte se non le separavano; per il resto, non paiono persone cattive. La più malvagia qui dentro sono io. Io ho ammazzato Mimmo, gli ho tolto la vita colpendolo alla testa trentadue volte con il mattarello di marmo. Gli ho spappolato il cranio. L’unica cosa che sono riuscita a dire alla prima udienza davanti al Giudice per le Indagini Preliminari è stata: “Non l’ho fatto apposta”, e chiedere scusa. Fatto sta che sono ate due settimane, in cui ho dormito, mangiato, mi sono lavata, ho preso aria, come dicono qui, al ritmo fisso imposto dalle regole che ci sono dentro. Regole rigide, ma tranquillizzanti. Il tempo in carcere scorre, ma non trascorre. È stata la prima cosa che ho capito. Come il colore grigio, il colore della colpa, dell’espiazione. Tutto è grigio qui dentro, trascurato, umido, come le macchie di muffa sulle pareti e le infiltrazioni dal tetto. Umido e monocromatico, per non evadere nemmeno col pensiero, per non dimenticare il motivo per cui si è qui. La guardia che mi ha dato i vestiti al mio arrivo si chiama Tamara. Le manca un dente davanti, un incisivo, e dice sempre che appena va in pensione e prende i soldi se lo fa fare tutto d’oro. Anche alcune donne al paese l’avevano così. Si
vede che ne prenderà molti, di soldi, perché si sa quanto costa l’oro, anche se poi a rivenderlo prendi due lire, come quando Mimmo mi ha venduto la catenina della Prima Comunione, con il medaglione con la Madonna, regalo di mamma e zia Lina. Ero così triste, ma c’aveva i debiti del poker e non si poteva fare diversamente. Comunque Tamara oggi è arrabbiata con me perché ho girato il verso del letto, mettendo il cuscino dove di solito stanno i piedi, così quando mi sveglio vedo il cielo, fuori dalla finestrina alta della cella. Non si possono prendere iniziative, ha detto. “Come ti permetti di cambiare il verso del letto senza chiedere? Se è fissato così per tutte c’è un motivo, di notte quando iamo vi dobbiamo vedere tutte uguali nella cella, che ti credi di essere a casa?” Io lo so di non essere a casa, solo non mi pareva così grave. Lei però ha buttato tutto all’aria, mi ha mollato due ceffoni e m’ha fatto rimettere tutto in ordine, com’era prima. Ha detto che se lo faccio di nuovo mi fa la perquisizione, quella come quando sono arrivata, che ti frugano dentro e ti lasciano nuda. Poi mi ha dato un pizzicotto al seno e se n’è andata. Avevo le lacrime, ma non volevo piangere. Tamara non è davvero cattiva, ma non devi mai disubbidire, perché se lo fai la obblighi a usare le mani, la fai diventare una bestia come voi, così dice. Penso a tutto questo mentre sto seduta in questo stanzino vuoto, aspettando il nuovo avvocato. Un clack clack sferraglia dietro le mie spalle, una guardia mi ordina di alzarmi con voce imperiosa mentre mi toglie le manette dai polsi; dietro la sua rigida efficienza compare una donna alta, molto elegante, che si scosta i capelli dal viso e aspetta sorridendo che ci lascino sole. “Buongiorno, Maria Rosa, sono Gaia Altieri, il suo avvocato difensore. Ci siamo intraviste alla convalida del fermo, quando mi è stato affidato il suo caso, ma in quell’occasione non c’è stata l’opportunità di parlare. Annualmente prendo in carico una causa pro bono, è il mio modo per dare un contributo al sistema e ricordare a me stessa l’ingordigia che contraddistingue la mia specie, e, se vorrà, quest’anno sarà di lei che mi occuperò, per assisterla al processo. Ho visto l’incartamento e scambiato due parole con il Giudice dell’Udienza Preliminare, ma prima di farmi un quadro preciso della situazione bisogna che senta la sua versione dei fatti.”
Fisso atterrita questa donna altera che mi sovrasta mentre cerco di ricomporre i capelli con le mani, lisciandoli dietro le orecchie, e sistemo la camicia spianando le pieghe sul davanti. Muta, mi chiedo come devo sembrarle. Magra, spenta, con il fisico acerbo di una vecchia che negli arti è rimasta bambina. Come devono sembrarle le mie mani, troppo grandi per essere attaccate a polsi così fini, come uno sbaglio, uno scherzo in più che la natura ha voluto farmi. Le torco, così grosse, con le nocche screpolate e le falangi larghe. “Rosa, posso chiamarla così? Mi deve parlare, se vuole che l’aiuti.” “Lei è una signora... Che ci fa una signora con una come me?” “Io sono un’avvocato. Il suo, se me lo permetterà. Ha voglia di raccontarmi com’è andata?” “È andata che l’ho ammazzato.” Chino la testa piena di vergogna. “Questo lo so, ma le va di spiegarmi perché? Rosa, avremo un’udienza davanti al Pubblico Ministero e dobbiamo decidere che linea difensiva avere al processo. Io non posso consigliarla per il meglio se lei non si fida di me. Ho bisogno di sapere quello che è successo dal suo punto di vista.” Poi si sporge in avanti, mi prende una mano, l’accarezza e non sembra farle schifo, non si ritrae al tatto delle screpolature, dei calli. Mi guarda negli occhi seria, senza esitazioni e giudizi, senza ribrezzo o pena. Quelle pupille castane, i capelli ben pettinati, le rughe d’espressione attorno alla bocca, il trucco sobrio raccontano una storia diversa dalla mia. Evocano libri, università, successo, cultura, mentre io sono solo miseria, ignoranza, privazioni. Ho un disperato bisogno che qualcuno mi aiuti, e mentre l’abisso che ci separa diventa palpabile la distanza si colma e comincio a raccontare. Saranno ate almeno tre ore, perché il cielo si è fatto scuro e qualcuno ha i neon; la Altieri si è alzata due volte: una per prendere dell’acqua e una per i caffè. Per il resto non ha staccato un attimo gli occhi dai miei, continuando a prendere appunti, come se il suo cervello e la sua mano seguissero percorsi indipendenti. Si vede che ha studiato, io non sarei in grado di fare due cose
insieme: se scrivo senza stare attenta alle lettere faccio un sacco di errori. A un certo punto ha tirato fuori dalla borsa un elastico e si è fatta la coda ai capelli, poi ha tirato su le maniche del maglione, appena sotto i gomiti, come a dire “rimbocchiamoci le maniche”, e tutto senza mai smettere di guardarmi. È tosta quest’avvocato. Quando smetto di parlare resta un attimo in silenzio e puntella il tavolo ritmicamente con la punta della matita, poi esclama: “Bene! Rosa, sarà necessario che ripeta tutto quanto mi ha raccontato oggi davanti al Pubblico Ministero, è molto importante che lo faccia. Qui non si tratta di omicidio volontario: lei è stata vittima per troppo tempo, possiamo invocare la semiinfermità mentale e puntare su un proscioglimento.” “NO!” Ho usato un tono troppo alto, ha spaventato anche me; è stato un urlo strozzato, involontario, che mi è uscito senza controllo dalla gola. “Non sono matta! Ho ucciso mio marito e pagherò per questo, ma la vergogna di are per pazza, mai.” “Va bene, si calmi ora, abbiamo ancora un po’ di tempo per decidere. Se non sarà d’accordo su questa linea troveremo un’altra strada, ma deve capire che, anche se in maniera sicuramente eccessiva e drastica, lei ha risposto ad anni di abusi e privazioni, sia fisici che psicologici. Rosa, lei è una donna violentata, in tutti i modi in cui questo è possibile, nell’anima prima che nel corpo.” “Mimmo era mio marito.” “Marito non significa mostro.” Mi torco le mani, me le osservo mentre si stringono lasciando i segni bianchi sulla pelle; la vera spicca sul colorito spento. “Le ho portato dei vestiti, me li ha dati la sua amica Lea, le manda a dire che la verranno a trovare e che se ha bisogno di qualcosa glielo faccia sapere. Intanto ho preparato delle carte per versare una parte della pensione di suo marito sul libretto carcerario; che l’abbia ucciso o no, per la Legge lei è la vedova e ne ha diritto. Così almeno potrà prendersi un paio di cose allo spaccio, deve solo firmarmi la delega. Tra le altre cose, mi hanno informata che verrà trasferita in una cella comune con altre donne; non è stata reputata pericolosa e quindi non
c’è esigenza di isolamento. La psicologa del carcere l’ha trovata tranquilla e non vede alcun motivo di somministrarle una terapia, ma se dovesse avere ansia o insonnia non esiti a chiedere. C’è un’infermeria e possono darle qualcosa che la sedi. La prigione può essere molto pesante, Rosa, per cui non abbia vergogna a domandare aiuto.” “Avvocato, non c’è bisogno di terapia! Io è una vita che sto in prigione, almeno qui nessuno mi disturba o avanza delle pretese. Non sono mai stata così in pace, mi manca solo una televisione e per il resto sto bene, davvero.” Mi accarezza una spalla: se non fosse così distante da me in tutti i sensi, direi che nei suoi occhi c’è tenerezza. “Avvocato, lei ha gli occhi buoni”, le mormoro piano. Poi, non so perché, le chiedo: “Ha figli?” “Sì”, sorride. “Una ragazzina, anzi, una ragazza ormai.” “E com’è? È bella? Come lei?” “Anna è bellissima”, risponde e negli occhi ha una luce tenera. “È in Canada ora, a fare un anno all’estero.” Resta un attimo silenziosa, sospesa. “Mi manca molto.” “Anna”, mormoro, “che bel nome.” Gaia Altieri si ricompone, nasconde il viso sotto i capelli sciogliendosi con un gesto rapido la coda, raccoglie le carte e si sforza di non farmi intravedere, tra le ciglia, il lucido luccichio di una lacrima. “Ci vediamo la settimana prossima, non appena fissano un’udienza. Purtroppo i tribunali sono intasati e può darsi che ci voglia un po’. Qui ha i miei numeri: studio e cellulare. Per qualsiasi cosa”, e rimarca il “qualsiasi” unendo pollice e indice e puntandomeli addosso, “mi chiami”. Poi se ne va. Con lei esce la bellezza e la scia di profumo evapora, assorbita dal linoleum e dal cemento freddo delle pareti; resta impregnato negli abiti l’odore della speranza.
Sara
“L’offerta di preventivo le arriverà oggi stesso all’indirizzo di posta elettronica che ci ha fornito. La ringrazio per averci contattato e le auguro una buona giornata”. Mi sfilo la cuffia e mi massaggio le tempie, l’orologio sulla parete segna le 10.45, ancora un’ora e un quarto e poi me ne posso andare. Sbadiglio per l’ennesima volta con la mano davanti alla bocca e mi appresto a prendere una nuova chiamata. Mio Dio, che sonno. Non riuscivo ad alzarmi dal letto questa mattina; e sì che ieri mi sono addormentata presto, non ho nemmeno finito di vedere il film, Luca mi ha sfilato gli occhiali e mi ha portata a letto per mano. “Sara, hai un’aria oggi, cosa c’è, covi un’influenza?” Daria, mia collega e vicina di postazione, mi guarda perplessa. “Sai che forse sì. Sono stanchissima e da un paio di giorni ho anche una sensazione di nausea persistente. Non lo so, è un malessere generalizzato.” “Guarda che è in giro, anche mio figlio, appena tornato al nido, si è preso la gastroenterite e l’ha ata a tutti.” “Mi manca solo quello. Ma sì, sarà qualche microbo raccattato al centro, solo che in questo periodo non posso proprio permettermi di stare male, devo finire questo benedetto tirocinio.” “Prova con l’echinacea, dicono funzioni”, e mi sorride rispondendo al telefono. Mezzogiorno arriva in un tempo interminabile, credo di avere la febbre. Avverto il tutor che mi prenderò il pomeriggio libero, desidero solo un letto, non ho nemmeno la forza di mangiare. Mi stendo sul divano chiudendo gli occhi feriti da un insistente raggio di sole, ripromettendomi di alzarmi tra pochi minuti; solo cinque, penso stringendomi al petto la coperta di cotone.
Il trillo del telefono mi sveglia di soprassalto, fuori è buio. “Pronto?”, rispondo assonnata e istupidita. Stavo addirittura sognando. Scuoto la testa per riprendermi e guardo l’ora: le sette e venti. Ma dov’è Luca? “Tesoro, ciao, sono la mamma, ho chiamato tre volte sul cellulare e poi per scrupolo ho provato a casa... Ma cosa fai a casa?” “Non sto molto bene, credo di avere l’influenza. Avevi bisogno?” “Solo se puoi are a prendere del gelato o qualcosa di dolce per cena.” Il mio silenzio la lascia interdetta. “Sara, te lo ricordi che stasera tu e Luca siete qui a cena con tua suocera?” “A dire il vero me lo ero dimenticato... Scusa, mamma, come ti ho detto sto poco bene, possiamo rimandare?” “Sara, non se ne parla! Luca e sua madre saranno qui a momenti. Prendi un’Aspirina, un Aulin, quello che vuoi, ma alza il sedere e vieni qua immediatamente, sai che da sola con quella donna sono in un terribile disagio! E lascia stare il gelato, chiamo Luca perché lo prenda lui. Spicciati!” E sbatte giù la cornetta. Questa cena delle suocere vedove sta diventando un vero incubo; va bene che è un appuntamento mensile, ma darei un braccio per tornare a dormire. Invece mi alzo, sfinita, con i segni della coperta sul viso. Il trucco non ha rimediato di una virgola il mio aspetto, tanto che al mio ingresso i commenti si sprecano: “Che hai?”, “Che aspetto orribile!”, “Non mi baciare che mi ammalo anch’io!”, “Povero cucciolo”. “Il povero cucciolo ve lo aveva detto che non era in forma”, brontolo sedendomi. Le melanzane alla parmigiana di mia madre hanno un aspetto disgustoso, le metto nel piatto per educazione, ma appena avvicino la forchetta alla bocca esplodo in un conato e corro verso il bagno. Mentre vomito e mi reggo i capelli so già che domani mi rimprovererà per aver vomitato la sua cena davanti alla consuocera e averle fatto fare una figuraccia. “Le hai confermato una volta di più che cucina meglio di me! Per forza poi che Nadia dice che preferisce organizzare da lei!”, mi dirà piccata. E forse finalmente le dirò che è vero, anche se so
benissimo che la parmigiana l’ha preparata Anita; da quando lavora da noi, ed ero ancora una bambina, ha sempre cucinato lei, mia madre scalda solo le pietanze in forno. Credo che non sappia nemmeno tagliare le melanzane. Rientro pallida e avvilita. “Luca, ti prego, possiamo andare? Mi sento malissimo.” L’occhiata di mia mamma è come una lama: “Tesoro, stenditi di là, ti preparo una camomilla, intanto noi finiamo di cenare e poi andate a casa.” andomi a fianco mi stringe il polso come usava fare quando ero bambina e non voleva rimproverarmi in pubblico, il suo segno eloquente, dato il dolore, per dire: “Zitta e buona, obbedisci e non ti succederà niente!” “Va bene” mi rassegno massaggiandomi piano “ ma appena avete finito andiamo”. Prostrata, ascolto la loro conversazione immaginando di aver contratto chissà che malattia. Giro il collo e chino il capo: no, non dovrebbe essere meningite. Sollevo il maglione, ma non ci sono segni di rash cutaneo. Niente dolori alla gola, né muscolari. Sarà davvero un virus gastrointestinale... Mi sa che domani resterò a casa e chiamerò la dottoressa.
Ho trascorso la mattina in trance. La telefonata con la dottoressa è stata ridicola. “Tosse?” “No” “Raffreddore?” “No” “Mal di gola?” “No” “Diarrea?”
“No” “Rapporti a rischio?” “Cosa?” “Ha avuto rapporti a rischio nell’ultimo periodo o usa un metodo anticoncezionale sicuro, come la pillola?” “No, io...” “Ho capito. Faccia un test di gravidanza e in caso sia negativo mi richiami, ma probabilmente le serve solo un po’ di riposo. Se fosse positivo le consiglio di contattare il suo ginecologo.” Ho chiuso il telefono chiedendomi per la millesima volta, ovvero in concreto ogni volta che ci ho a che fare, perché non avessi ancora cambiato medico, dato che questa era veramente odiosa, e, per la millesima volta, mi sono risposta che più forte della sua antipatia è sempre stata l’idea di farmi una fila di qualche ora necessaria per assolvere questa procedura. Poi ho contato i giorni, una, due, tre volte. Sull’agenda, sul calendario in cucina, sul telefonino. Faceva sempre trentuno. “Idiota. Idiota e stronza. Idiota, stronza e sfigata”. Mi sono infilata una tuta senza nemmeno pettinarmi e mi sono precipitata in farmacia. “Un test di gravidanza”, ho chiesto a occhi bassi. “Singolo o doppio?” “Doppio, grazie.” “Da fare prima della presunta mestruazione o al primo ritardo?” “Al primo ritardo.” “Da fare a qualsiasi ora del giorno o a digiuno?” “Ma quanti ce ne sono?”, ho chiesto seccata.
Una dottoressa più anziana è accorsa: “Scusi, c’è qualche problema? La ragazza è una tirocinante, posso aiutarla io?” “Voglio solo un test di gravidanza da fare subito, anzi me ne dia due. Sono in ritardo di soli tre giorni, ma penso di avere l’influenza, perché non sto bene, sono sempre ansiosa, ho un periodo stressante al lavoro e dormo poco.” Stringo il portafoglio tra le mani. “Vede? Ho gli occhi arrossati e ieri ho vomitato. Inoltre sono praticante anch’io, in un centro ASL allo sportello famiglia, quindi s’immagini i microbi con tutti quei bambini, sono sempre raffreddati. Infatti vorrei anche dell’echinacea, mi hanno detto che rinforza le difese immunitarie... Saranno sicuramente basse, e comunque ho sempre risentito dei cambi di stagione.” Mi hanno guardata come se fossi pazza; senza commenti mi hanno porto una scatola doppia e uno sciroppo naturale: “Sono quaranta euro”. “Ammazza! Costa la prevenzione!”, ho ridacchiato isterica. La dottoressa ha sorriso, imbarazzata per me, e mi ha consegnato il solito pacchetto in carta farmaceutica; poi, impietosita, ha mormorato: “Vedrà che è solo stanchezza”. Ho scelto la mia tazza preferita, quella con la Statua della Libertà in cui tengo le penne, l’ho lavata e sciacquata sei volte prima di utilizzarla e nel dubbio per la seconda pipì ho preso un bicchiere dalla lavapiatti pulita. Poi ho intervallato i test di alcune ore, per essere sicura che la colazione non interferisse causando un fastidioso falso positivo. Ho imparato le istruzioni praticamente a memoria, controllando anche in internet di aver capito bene. Ho aspettato ogni volta qualche minuto in più, ma non troppo, per non falsare il risultato. E comunque, in entrambi i casi, sono comparse quelle due linee rosse. Non ho proferito verbo per un tempo infinito. Poi un urlo isterico mi è uscito dalla gola, rimbombando nella casa silenziosa mentre mi piegavo su me stessa alzando i pugni al cielo: “Luca, ti odio!”
Grazia
Gentile Signora... La procedura che Le proponiamo appare opportuna per soddisfare al meglio le esigenze diagnostiche e/o terapeutiche... I benefici che Lei può trarre appaiono, a nostra opinione, superiori rispetto ai rischi comunque connessi alla procedura in questione... renderla pienamente consapevole del suo stato di salute ed affinché lei possa condividere le scelte ed in piena coscienza...
Mi sembra di non capire più nulla. Seduta sul bordo di questa seggiolina di plastica bianca fisso con occhi vacui l’infermiera, so bene che devo firmare questo modulo, necessario per la TAC con il mezzo di contrasto; i rischi in realtà sono pochi e sicuramente inferiori ai benefici, eppure mi sembra che firmare quel modulo sia un azzardo troppo grosso per me. L’infermiera mi osserva spazientita. “È una procedura standard, dobbiamo solo essere sicuri che lei sia informata di tutto, vuole che le chiami la dottoressa?” “No, no, mi scusi.” Mi affretto a inserire i miei dati e restituisco il foglio; mentre attendo il mio turno mi guardo le mani. Forse avrei bisogno di una manicure ben fatta, ma sono comunque belle: lunghe, affusolate, con le unghie naturalmente ovali e la pelle quasi priva di macchie. Ho sempre curato molto le mie mani, pensando che parlassero di me. Sono quella che sarebbe comunemente definita come una donna elegante, forse un po’ altera, per il modo di tenere dritta la schiena e il collo lungo. Retaggio di un busto adolescenziale, ma questo non lo sa nessuno. L’attesa di oggi non è lunga, né si presenta alcuna allergia al mezzo di contrasto. Tanto terrore per nulla, penso, avrò fatto la figura della cretina, venti minuti con quel modulo in mano. Scuoto la testa e sto per avviarmi quando una voce affannata mi costringe a girarmi.
“Signora Moretti, aspetti, la dottoressa Fantini desiderava parlarle un attimo prima che andasse via. Chiede se cortesemente può fermarsi in sala d’aspetto, sarà da lei tra poco.” “Ma mi hanno detto di are tra qualche giorno a ritirare il referto e che potevo andare.” Sono un po’ interdetta da questo cambiamento di programma, non mi sono mai piaciuti. “Non so che dire”, ammicca, “mi è stato chiesto di riferirle questo”. “Va bene, dove devo andare?” “Venga, di qua.” Mi guida gentilmente verso una saletta al primo piano; su tutti e quattro i lati si aprono delle file di porte con le targhe dei medici. Mi sistemo accanto a quella con il nome Fantini e sospiro. “Alfredo, ciao amore, ho finito. Sì tutto bene. La dottoressa vuole parlarmi un attimo per cui non o da te in studio, finito qui vado direttamente a casa. Ho una montagna di compiti da correggere e quel maledetto orario che mi sta facendo impazzire. Ci vediamo stasera, sì, a in rosticceria, non ho fatto la spesa, ciao, ciao.” Chiudo il telefono e inganno il tempo studiando una volta di più l’orario definitivo. Non ho mai capito perché debba essere ogni anno io a farlo, ma la preside è stata chiara: “Come mia vice spetta a te, Grazia, e spicciamoci, perché è già metà ottobre”. Sospiro, non è mica colpa mia se la professoressa di ginnastica insegna in tre scuole diverse e se la Martoni vuole il sabato libero perché ne ha diritto, visto che la sua sezione ha il tempo corto. È come incastrare un puzzle: fino a che tutti i tasselli non vanno a posto la figura non è completa. Provo a invertire religione e tedesco e mi rassegno a lavorare la prima ora del lunedì, cosa che odio, quando la porta alle mie spalle si apre e la Fantini mi fa cenno di entrare. Mi alzo raccogliendo le mie carte, scusandomi perché nel piegarle per metterle in borsa mi cadono a terra, e solo dopo tutte queste manovre, aver varcato la soglia e aver posato la mia tracolla a terra, alzo lo sguardo sul suo viso.
C’è un attimo in cui le cose non dette sono più chiare di un profluvio di parole. In cui il linguaggio del corpo, i muscoli tesi della mascella, il modo in cui le mani stringono inutilmente la penna, comunicano in un silenzio assordante. Non proferisco verbo e lentamente mi siedo. “Professoressa.” Nient’altro. Solo il mio titolo. Quello che per anni mi ha etichettata davanti al mondo. Quello che sono. È questa la terra di nessuno, quello spazio tra due confini che da bambina non capivo e di cui sempre chiedevo spiegazioni. O la terra di mezzo dei romanzi fantasy. Sono quei pochi attimi in cui intuisci ma non sai, in cui vorresti fermare il tempo, per avere il conforto dell’incertezza, ma non puoi, perché lui ti è diventato nemico e ha cominciato, inesorabile, a correre più veloce di te. “La TAC ha rivelato quello che temevo. Mostra chiaramente una massa del pancreas che infiltra le più importanti strutture vascolari adiacenti, rendendolo purtroppo inoperabile. Inoltre abbiamo riscontrato una piccola lesione al fegato...” Non sento più, percepisco solo un ronzio come se uno sciame di mille api mi avesse invaso la testa. Mi o le dita tra i capelli, penso che dovrò prenotare il parrucchiere, sono troppo lunghi, sfiorano le spalle. Ho quasi sessant’anni, rimugino tra me e me, è ridicolo avere i capelli ancora così lunghi, mi farò un carrè, o magari un caschetto con la frangia laterale... Sì, è più fine. È straordinario come, nei momenti tragici, la mente schermi i cattivi pensieri e vaghi tra le amenità, come non fossimo presenti a noi stessi. Lo sguardo mi cade sulla borsa, dentro la quale intravedo le chiavi della macchina. “Oddio, sarà scaduto il parchimetro!” Non me ne sono accorta, ma ho urlato. La dottoressa, di fronte a me, sobbalza. “Mi scusi, è che mi è venuto in mente che devo aver sforato l’orario del parcheggio... Sono spiacentissima, ma mi sa che devo andare, di questi tempi
con le multe ci vanno giù pesanti e io ho uno stipendio da insegnante.” Sorrido. La Fantini tiene lo sguardo fisso su di me. “Professoressa Moretti, ha capito quello che le ho detto?” Mi scuso ancora, mi sono distratta solo un attimo, faccio per alzarmi. La dottoressa si alza con me, posa entrambe le mani sul ripiano del tavolo. “Professoressa, mi ascolti, la situazione è grave, deve farsi vedere da un oncologo. Ho il nome di un bravissimo collega che le posso raccomandare, ma deve andarci il prima possibile.” “Ma perché? Perché devo vedere un oncologo? Io, io...” Ripiombo seduta. La parola non detta rimbomba nell’aria. Senza distogliere lo sguardo, con voce piatta mormoro: “Quanto?” “Non sono in grado di dirglielo, deve farsi vedere dal collega, solo la biopsia potrà darci una risposta.” “Ho capito.” M’interrompo, poi chiedo: “È così grave?” “Purtroppo sì, ma è un approccio sbagliato questo, ora non dobbiamo interrogarci sulla gravità della malattia, ma sulle possibilità che la medicina ci offre.” “Le possibilità, già.” Mi alzo, afferro il foglietto con il nome dell’oncologo e senza salutare barcollo alla porta. Lontano da me, ma non abbastanza perché non possa sentirlo, è scattato il timer.
Il tempo è mutato tre volte nel tragitto verso casa, da bianco il cielo si è un po’ aperto per poi tornare grigio scuro e cominciare a piovere. Ho infilato le chiavi nella toppa con mani insensibili, ho bevuto un bicchiere d’acqua con la lingua atrofizzata, mi sono seduta davanti all’orario scolastico con occhi ciechi. Non ho respirato, ma solo fatto entrare e uscire meccanicamente l’aria dai polmoni. Non ho camminato, solo messo un piede davanti all’altro per raggiungere il divano. Non ho sentito dolore graffiandomi le braccia, anche se i segni rossi e il sangue
mi hanno segnalato di smetterla. Non ho vissuto. Sono solo rimasta lì, muta, apatica, con la testa vuota. I i di Alfredo non mi hanno scossa, e nemmeno il suo grido spaventato quando mi ha scorta nel buio. Ha la luce della lampada e mi ha guardata, spaventato: “Grazia! Mi hai fatto morire di spavento! Che c’è? Che è successo? È mia madre?” Mi prende per le spalle, mi sbatte come una bambola di pezza, la testa dondola. “Grazia! Per l’amor di Dio, rispondi!” Non sollevo nemmeno il collo. “Non era colite. È cancro.”
Anna
Da:
[email protected] Oggetto: mamma
Ciao Anna, come stai? Provo a scriverti sperando che con le email sia più facile parlarci dato il fuso. Qui tutto procede regolarmente, io impegnatissima tra lo studio e questo nuovo caso che sta facendo scalpore in città e papà sempre sepolto tra le carte in tribunale. Scotty ha preso il raffreddore e starnutisce, dorme sempre ai piedi del tuo letto e ha riempito il tappeto di peli, si vede che gli manchi. E tu? Come va con l’inglese? Capisci tutto o hai problemi? Che corsi hai scelto poi a scuola? Hai fatto nuove amicizie? Facci sapere un po’ di novità. Ti voglio bene, la mamma
Da:
[email protected] R: mamma
Ciao Mamma, tutto ok. Inglese bene, quegli sfigati della scuola internazionale almeno questo me lo hanno insegnato. Qui parlano un po’ in slang, ma a parte i primi giorni in cui
qualcosa non la capivo adesso è ok. Ho scelto se come seconda lingua, il corso è carino e lo fanno in tanti. Stasera vado a una festa, speriamo bene. Dai un bacio sul muso del mio amore, lui può stare in camera mia tutto il tempo che vuole. Agli altri è VIETATA!!! Un bacio a papi Anna
Wind in my hair, you were there, you it all Down the stairs, you were there, you it all It was rare, I was there, I it all too well
Canto a squarciagola dimenandomi in mutande e reggiseno: “Ommioddio, Taylor, ti amo!” Saltello tenendo la spazzola come microfono e modulo la voce quando vengo interrotta dal suono insistente di una videochiamata su Facebook. È Stefania, la mia migliore amica. “Stefy!” “Ciao, straniera, come te la i? “Boh... Scazzo, stavo cantando Taylor, tu?” “Male, ho preso tre in matematica. La scuola è iniziata da meno di un mese e sono già in punizione: niente cellulare, né computer, né TV per una settimana.” “Ma se sei su Facebook!” “Mia madre non c’è, se mi castiga e non controlla che si fotta.” Rido. “Hai ragione. News?” “Solo tragedie. Seba si è messo con la Ferri, quella della Terza B, insopportabile.
Stanno appiccicati tutto l’intervallo.” “Seba... Seba?”, chiedo mentre una punta di dolore mi lacera il petto. “Sì, il tuo Seba. Ho preferito dirtelo io piuttosto che lo venissi a sapere da Facebook.” “Hai fatto bene... Boh, chi se ne frega”, rispondo spavalda. Sebastiano e Carlotta, il mio Seba e quella troietta di terza, ho un fastidio che mi fa prudere le mani. Penso alla canzone Should’ve said no di Taylor: in fondo alla fine ha avuto ragione lei a non riprenderselo dopo l’altra e lui è rimasto fregato. “Poi la prof di mate, la Moretti, non l’abbiamo più, le hanno lasciato la Terza C e le han dato una prima. È arrivato uno nuovo, stronzissimo, infatti mi ha dato tre.” Stefy ridacchia dal computer. “Ma ti sei tagliata i capelli?” “Sìììì, finalmente te ne sei accorta, ti piace?” Muove la testa da entrambi i lati e mi mostra un taglio corto con il ciuffo, la fa più grande. “Ti sta benissimo, forse dovrei fare qualcosa anch’io.” Mi accorgo di avere i capelli raccolti in cima alla testa fermati con una matita, li sciolgo e li scuoto per mostrarli alla mia amica. “Ma che dici, sei scema?! Tu sei bella così. Invece di far parlare me, ché in ‘sto mortorio non succede mai niente, a parte che mi son fatta Stefano sabato sera, ma boh... Tu?” “Come Stefano? Di nuovo!”, esclamo sorpresa. “Eh sì, che vuoi, sono recidiva!” “Io bene. Vediamo... Scuola ok, seguo un paio di corsi interessanti; oh, in matematica siamo chilometri avanti. Poi, fammi pensare, mi son fatta nuove amiche: Sherry Lyn, che è la gemella mia vicina di casa, e la sua amica Nicole, e poi Erin, che è fuori di testa, rido veramente un sacco.” “Boys?”
“Carini, simpatici, un po’ sfigati.” “Ma non ti piace nessuno?” “Al momento no, ma stasera ho una festa in fondo alla strada dove c’è anche un tipo se, mi han detto figo ma ancora non l’ho visto, ti farò sapere. Anzi, stai là e dimmi se ti piace il mio completo nuovo.” Alzo davanti allo schermo la minigonna a pieghe nera e la maglietta scollata in pizzo e mostro tutto alla mia amica. “Bella! Mi piace un sacco. Scarpe?” “Ballerine o stivali neri.” “Mmm... Stivali! Trucco?” “Eyeliner e rossetto rosso.” “Top!” Ci sorridiamo. “Ti devo salutare, credo sia rientrata mia madre, ti chiamo appena torno nel mondo dei vivi. Che palle...” “Ti voglio bene!” “Ti voglio bene!”
Disappunto. Mi guardo i piedi avvolti nel collant nero, ho dovuto lasciare le scarpe all’ingresso. Non mi era mai capitato prima. Me li rigiro uno sopra l’altro imbarazzata, tutto quel pensare a che scarpe mettere andato in fumo. La padrona di casa mi ha chiesto se volevo dei calzettoni per non scivolare, delle antisdrucciolo in pratica. Ma che sei scema, volevo dirle, ho diciassette anni, non due! Meno male che a parte la cucina e i bagni hanno le case tappezzate di moquette. E comunque sono strani questi canadesi. Non hanno un cellulare decente che sia
uno, quasi non lo usano, e ora stanno tutti addosso a tale Kevin, il fratello grande di una tizia sfigatissima, che ha portato delle birre. Capirai. Pensavo che il proibizionismo fosse finito da un pezzo. Odio questa festa, le patatine al ketchup e alla cipolla, la musica orribile e questi sfigati cronici. Mi infilo le cuffiette e mentre la MIA musica parte a palla controllo l’ora, appena le nove e mezza, potrei accampare una scusa e andarmene. Mentre dondolo a ritmo pensando se sia meglio dire che devo studiare o che non sto bene, e che devo comunque resistere ancora un’ora, altrimenti rischio di trovare Phoebe sveglia con le sue domande moleste, lo vedo. Nei rosa dicono che quando incontri l’amore della tua vita tutto scompare. Si fa buio intorno e solo tu e l’oggetto del tuo desiderio rimanete illuminati da un cono di luce. Be’, non è proprio vero, però in quel momento non sento più la musica, nella penombra i miei occhi intercettano solo il suo viso, le gambe si fanno gelatina, e mentre spalanco la bocca e resto lì, impalata, come una cretina, il bicchiere mi scivola di mano e la Coca Cola si spande a terra. Incurante del liquido ambrato che sta creando una macchia scura sulla moquette, mi fiondo a cercare Sherry Lyn e l’afferro per un braccio trascinandola in un angolo. “Sherry, chi è quello?!” “Chi?” Deve aver bevuto una birra è più rincretinita del solito “Ma come chi?! Quello! Dai! L’unico che si possa guardare!” E indico il biondo puntando l’indice. “A me piace Soulo”, puntualizza lamentosa, “ma lui nemmeno mi vede.” “Va bene, Sherry, ce ne occupiamo dopo, adesso concentrati.” L’afferro per le spalle e la guardo bene in faccia. “Dimmi chi è quel ragazzo e trova qualcuno che me lo possa presentare.” “È François, il ragazzo se che fa un anno qui. Fattelo presentare da Nicole, che fa biologia con lui.”
“E perché noi non siamo nel loro corso?”, chiedo stupefatta. “Perché abbiamo biologia al secondo semestre.” Cazzo, cazzo, cazzo, ma perché mi sono fatta fare il piano di studi da questa sfigata? Ok, Anna, devi stare calma, respira. “Va bene, Sherry, ora sentimi, troviamo Nicole, subito. Poi ti giuro che penso io a un modo per farti baciare Soulo.” La spingo per la schiena e la indirizzo tra la gente che balla; dobbiamo recuperare Nicole, ora! Dopo un’ispezione di tutte le stanze, finalmente eccola, è in terrazza, dove si crepa di freddo. Mi tocca uscire scalza e congelarmi i piedi. Cosa non si è disposte a fare per amore! “Nicole, Nicole!” Le salto addosso. “Devi presentarmi il ragazzo nuovo, quello se, e dirmi tutto quello che sai di lui!” “Ehi, calma, scendi di lì.” Ride e mi a la bottiglia di birra, bevo un lungo sorso. Lui è a cinque metri da me e se non sono diventata pazza mi sta guardando. “Viene da Parigi, ha la nostra età, gioca a rugby, è figo da paura, ha due sorelle e un fratello a casa, non chiedermi i nomi perché non me li ricordo, a Natale raggiunge i suoi a New York... Mmm... Non capisce niente di biologia. Mi sembra non ci sia altro. Ah no, invece sì che c’è dell’altro: se la tira tantissimo! Non capisco perché non l’hanno mandato a Montreal, invece che qui da noi.” “Sei pazza? Ringrazia il cielo, altrimenti non l’avrei mai incontrato. Oddio, tremo...” “Sì, ma solo perché sei nuda e ci sono dieci gradi!”, mi risponde la mia amica stringendosi nel maglione e osservando scettica la mia magliettina in pizzo. Mando un messaggio vocale alle mie amiche in Italia, e pazienza se non ho rete, i miei pagheranno per una volta. “Camilla, Stefania, non avete idea di quello che è successo! Ho incontrato l’uomo della mia vita, è un figo da paura, un se, tenete le dita incrociate, ché sto andando da lui! Stanotte vi scrivo tutto!”
Attraverso il prato tirandomi dietro Sherry Lyn e Nicole per darmi coraggio, ci avviciniamo al gruppetto e cominciamo a chiacchierare; giuro che se continua a fissarmi così muoio. Alla presentazione e al mio sorriso idiota segue un suo cenno del capo, in cui il ciuffo di capelli biondi si solleva e gli ricade sugli occhi, provocandomi un arresto cardiaco. “Sei italiana?” mi chiede con voce roca. “Sì”, balbetto incoerente. “Allora tu una sigaretta con me la fumi volentieri, sì?” Anche l’accento è da brivido. Non ho mai fumato in vita mia, ma non è questo il momento di fare la sofistica. “Ma certo!”, rispondo sorridendo, e sfilo una Gauloises dal suo pacchetto con aria da donna fatta. Aspiro il fumo acre e mi viene da vomitare, ma inghiotto la nausea e la tosse che sale e, alzando la testa, con quello che secondo me è il mio sguardo più sexy, soffio la nuvola densa nel freddo della sera.
Novembre
Maria Rosa
Una cella è come una casa: quando entri per la prima volta, devi farlo in punta dei piedi per non disturbare e lasciare che chi ci abita già si abitui, piano piano, a te. In questo modo mi sono guadagnata l’amicizia e la stima della mia nuova famiglia. Il piede di Evelyn sbuca dal lenzuolo del letto sopra il mio e penzola nell’aria proprio di fianco al mio viso; è la prima cosa che vedo quando apro gli occhi. Evelyn è tutto il contrario di me. Alta, le arrivo a malapena al petto, viene dal Congo e parla se. Ha occhi neri come il carbone, ma con la parte bianca bianchissima, così di notte la vedi sempre anche nel buio. Anche i palmi delle sue mani e dei suoi lunghissimi piedi sono bianchi rispetto al resto, ma non come gli occhi. La notte, quando non riesce a dormire e aspetta che le pillole facciano effetto – deve prenderle perché altrimenti ha gli incubi e sogna che le portino via i suoi figli –, canta delle canzoni dolci; io non le capisco, ma il ritmo è lento e malinconico, mi fa quasi sempre piangere. Evelyn è in carcere perché ha portato in Italia un chilo di cocaina. Dice che l’ha dovuto fare, altrimenti la sua famiglia moriva di fame e con i soldi presi i suoi figli possono studiare, ma non ha più notizie e comincia a pensare che forse gli amici di suo fratello non abbiano pagato come promesso. Ha scritto un paio di lettere, ma da casa ancora nessuna risposta. Mi chiama “souris”, che vuol dire topolino, per la mia statura e il colore dei miei capelli. I miei capelli sono stati causa di grandi discussioni perché anche Diana e Daniela, le due ragazze rumene che vivono qui con noi, vogliono che me li tinga. Diana dice che al suo paese la faceva sempre alle amiche e anche a sua madre, che era una perfezionista, e che, se chiedo all’avvocato di portare il colore che dice lei, davanti al giudice farò un figurone. Loro due sono molto eleganti e curate nell’aspetto, perdono un sacco di tempo a farsi le mani, tingersi le unghie con lacche colorate, applicare piccoli brillantini. Quando hanno visto le mie, di mani, hanno riso come matte, “è impossibile vedere una cosa così brutta, povera souris”, e giù a ridere ancora.
Sono dentro per prostituzione e furto, ma dicono di non aver mai rubato nulla, solo ogni tanto qualche carta da dieci euro per le sigarette, ma quello non è mica un reato! Sono sorelle, anche se non si assomigliano. Diana è bionda, con i capelli corti, ma non sono sicura che sia il suo colore vero; è un po’ sovrappeso e ha un seno enorme. Daniela invece è magra, con le gambe lunghe, piatta come una tavola, capelli neri, lisci, lunghi fino al sedere. In loro però c’è qualcosa che ti fa dire che sono parenti strette, forse il naso o il modo di muovere le mani quando parlano. Vengono da un piccolo buco vicino a Bucarest, così dicono, e speravano di trovare qualcosa di meglio in Italia che non vecchi porci e la galera. Ma tra un anno saranno libere e allora torneranno a casa, dove vogliono aprire un salone di bellezza vero, non solo parrucchiere ma anche mani e piedi; così si curano tanto, per fare pratica, e per questo vogliono fare delle prove anche su di me. Ma io sono una povera donna di paese, da noi certe cose le fanno solo le donnacce. Quando l’ho detto la prima volta volevo morire di vergogna, ma loro si sono messe a ridere e dandosi di gomito hanno risposto: “Appunto!” Sto bene qui, è bello avere delle amiche. Parliamo di tutto tra di noi, delle loro famiglie, dei fidanzati (solo quello di Evelyn è libero), della vita nei nostri Paesi. Loro sanno che ho ammazzato Mimmo, ma non gli importa, anzi, quando ho raccontato com’era la nostra vita insieme mi hanno detto: “Sei una povera scema, Rosa, dovevi ammazzarlo dieci anni fa!” Sanno che oggi sono nervosa perché devo incontrare il magistrato, per questo non chiacchierano come al solito, ma mi aiutano a prepararmi in silenzio, porgendomi il vestito nero che mi ha portato l’avvocato e aiutandomi a raccogliere i capelli in una treccia ordinata. Non sembrano nemmeno le stesse che ieri, quando dopo il colloquio sono rientrata con il pacchetto ben fatto con dentro calze, scarpe e vestito, tutti nuovi di zecca, sono esplose in gridolini di gioia obbligandomi a sfilare avanti e indietro per questi tre metri quadri. “Sembra proprio una signora, la nostra souris!”, esclama Evelyn squadrandomi da capo a piedi. “Fagliela vedere a quel pagliaccio, che se c’era lui al tuo posto vuoi vedere dove lo mandava tuo marito!” Diana e Daniela mi stringono le spalle, una per parte. “Mi raccomando, Rosa, fai come ha detto il tuo avvocato, racconta tutto senza vergogna”, bisbiglia Diana accorata al mio orecchio.
Dietro la porta di ferro il viso concentrato di Gaia Altieri mi attende. Corridoi, ascensori, un’aula austera. Tutto mi è ato davanti come se stessi vedendo un film. L’avvocato e il Pubblico Ministero hanno parlato, i miei dati sono stati letti ad alta voce, c’è un signore che scrive tutto seduto a un tavolino; io sono come in apnea, mi fisso le scarpe e non riesco a seguire il filo del discorso, persa nella mia ossessione: “Cosa penserà di me questo giudice così distinto dagli occhi scuri?” La realtà di ciò che sono mi investe fredda, paralizzante: sono un’assassina. Sento mormorare il mio nome, Maria Rosa Favia vedova Rizzi, vedo l’Altieri incoraggiarmi con la mano ad alzarmi, senza una coerenza precisa alzo lo sguardo al giudice e inizio la mia storia.
Mi chiamo Maria Rosa Favia e sono nata a Spinazzola, provincia di Barletta, il 15 ottobre 1968, e il 20 settembre di quest’anno ho ucciso mio marito con trentadue colpi alla testa perché lo odiavo. Ho avuto un’infanzia normale, credo, mia madre faceva la casalinga, come la nonna e la bisnonna prima di lei; a Spinazzola le donne stanno in casa. Il babbo andava per mare e c’era poco i primi anni, fino a che non ha avuto un incidente in cui ha perso un braccio e l’hanno mandato a casa con la pensione di invalidità. È stato in quel periodo che ha cominciato a bere; io avevo più o meno undici anni e già capivo quando era il momento di filare, anche se non sempre era possibile. Le botte si prendevano sempre, a volte di più a volte di meno, ma erano accettate con rassegnazione, come fosse il destino delle donne, o perlomeno di quelle di casa mia. A quindici anni ho incontrato Domenico, Mimmo, e ci siamo fidanzati. Io lavoravo per una zia che aveva un negozio di alimentari e dato che mi piaceva chiacchierare stavo alla cassa e facevo le consegne dei panini per il pranzo. Mimmo lavorava al cantiere e quando gli portavo il panino e la birra aveva un modo di guardarmi, con gli occhi socchiusi dietro la sigaretta, che mi faceva tremare. I suoi muscoli parevano scolpiti sotto la canottiera di cotone, era bello come un Dio. Quando ho compiuto diciotto anni siamo scappati, abbiamo ato la notte al mare, stretti, al riparo in una baracca di pescatori, e il giorno dopo, al nostro rientro, il danno era fatto. Il babbo era felice che me ne andassi, una bocca in meno da sfamare; mamma
invece non disse una parola, tirò fuori due paia di lenzuola bianche, alcuni asciugamani, una tovaglia in cotone grezzo e mi arrangiò il suo vestito per farmi essere una sposa dignitosa, vestita di bianco, con un rinfresco come si deve e si usa dalle nostre parti. Dovevano continuare a camminare a testa alta, diceva. Poi la partenza per il nord, dove c’era lavoro. Dopo l’entusiasmo iniziale, il carattere di Mimmo venne fuori. All’inizio gli episodi erano rari, sporadici, un pugno ogni tanto, un ceffone, mai niente di più. Accadeva se quando rientrava non mi trovava a casa, se avevo fatto amicizia con qualcuna che non gli piaceva, se aveva problemi al lavoro. Poi ci fu la crisi e Mimmo restò disoccupato per sei mesi. In quel periodo cambiò, iniziò a frequentare il bar, beveva, giocava soldi che non avevamo; in quel periodo rimasi incinta. Una sera, mentre ricamavo una camicina per il bambino – ero incinta di ventuno settimane e la pancia si cominciava a vedere –, Mimmo tornò a casa più ubriaco e violento del solito. Mi ero persa dietro il ricamo e come una stupida avevo dimenticato l’arrosto in forno; solo quando mi disse che c’era puzza di bruciato mi ricordai della nostra cena. Mi scusai, ma lui si arrabbiò moltissimo. I soldi erano pochi, la carne non si poteva comprare tutti i giorni, e quella me l’aveva regalata una vicina cui avevo aggiustato degli orli, per gentilezza, perché ero incinta, perché non poteva pagare. Mimmo aveva fame, aveva bevuto, aveva perso al gioco, era aggressivo. Sfilò la cinghia e mentre mi percuoteva io piangevo e gridavo: “Il bambino, ti prego, Mimmuzzo, il bambino!” Ma la rabbia è cieca, e più guardava la carne carbonizzata, più la violenza saliva: pugni, calci, strattoni. Non lo so nemmeno più. Svenni, e quando mi risvegliai ero all’ospedale. Niente più bambino, niente più utero, niente. Un guscio vuoto. Le prime parole che mi disse al rientro a casa furono: “Vali ancora meno, Rosa mia, sei una rosa apita, fatta di spine. Che me ne faccio ora di una come te, nemmeno un figlio mi potrai dare, e lo sai perché? Perché sei maledetta dal Signore.” E così mi sentivo, una dannata. I soldi scarseggiavano, i cantieri erano fermi; perciò, quando vidi che all’ipermercato cercavano personale, non ci misi molto a convincere Mimmo a lasciarmi andare. Un paio d’ore al giorno, entro le cinque del pomeriggio a
casa, che doveva comunque essere in ordine e con la cena in tavola alle otto precise, non si discuteva. Mi alzavo all’alba per riuscire a fare tutto, ma che gioia il mondo lì fuori. Sentire le storie della gente mentre avo i pezzi sul nastro, vedere la loro vita scorrere sui carrelli, mamme con bambini che toccavano tutto, si scusavano ma a me strappavano solo un sorriso e tanta tristezza nel cuore. Anziani che rubavano di nascosto, lasciando qualcosina nel carrello, come avessero dimenticato di metterla su. Non dicevo nulla, sapevo sulla mia pelle quanto fosse difficile arrivare alla fine del mese. E le colleghe, sempre con qualcosa di nuovo da raccontare: quanta vita c’era in quel supermercato, tanta che nemmeno fossi campata cent’anni l’avrei vissuta. Per Mimmo facevo tutto, il mio unico terrore era che si accorgesse di quanto ci tenevo al mio lavoro, di quanto mi piaceva, e che me lo portasse via. E infatti se ne accorse: ero troppo allegra, diceva, cantavo impegnata nelle faccende. “Che hai da cantare, Rosa? I disgraziati come noi non cantano! C’è qualcosa che mi nascondi? Perché se vengo a scoprire che te la intendi con qualcuno ti ammazzo!” Divenne sempre più geloso, mi aspettava all’uscita del lavoro e se mi vedeva ridere o chiacchierare con qualcuno erano botte. Non ne potevo più, la vita mi aveva dato così poco... E anche quel poco era così difficile da mantenere. Ma si sa, un marito è per sempre, eravamo sposati davanti a Dio e se il Signore questo aveva scelto per me lo dovevo sopportare. Poi forse aveva ragione Mimmo: io non valevo, non valgo nulla. Figli non ne posso avere, non ho studiato, la mia famiglia è lontana, c’era solo lui a prendersi cura di me e dovevo essere grata che non mi lasciasse in mezzo a una strada. Che avrei fatto allora? Poi, quel giorno, non so, ci tenevo così tanto a fare la torta per Lea, a partecipare alla festa, non ci ho visto più. Non so che mi ha preso, signor giudice, so solo che un attimo prima impastavo e un attimo dopo l’avevo ucciso. Sono colpevole, signor giudice, l’ho ammazzato io.
Il procuratore è stato ad ascoltare, immobile, gli occhi senza espressione, attento, con le sue mani lisce e dalle unghie curate impegnate a prendere qualche appunto. Alla fine del mio racconto si è tolto gli occhiali e si è massaggiato in mezzo agli occhi, come a voler togliere con quel gesto la stanchezza per l’ennesima storia di miseria che si trovava a sentire.
“Avvocato Altieri?”, chiede sollevando di poco il capo in segno interrogativo. “Chiediamo il rito abbreviato, con tutte le attenuanti. La mia cliente è colpevole, ma anche vittima, e non s’intravede alcuna intenzionalità; non c’era una premeditazione né la volontà di uccidere. Semplicemente, in un attacco di rabbia, motivato da una situazione di violenza fisica e psicologica protrattasi per quasi vent’anni, la situazione è sfuggita di mano. Per la difesa si tratta di omicidio colposo.” “Avvocato Altieri, la sua cliente non ha colpito una volta, bensì trentadue: questo non può dirsi un gesto inconsapevole. C’è la reiterazione, il che lo rende un reato volontario. Posso venirle incontro sull’omicidio preterintenzionale. L’accusa si riserva comunque il diritto di esaminare le prove e concorda sulla necessità di una perizia medica, sia fisica che psichica, prima di deliberare.” Rimango seduta con il mento sollevato, non voglio che vedano che ho paura. Paura di parole che non capisco, della loro cultura, della loro istruzione, dell’odore di vita normale che intravedo sotto gli abiti scuri e i modi gentili. Quando le guardie mi portano via sono sollevata, finalmente posso togliermi la maschera, quel vestito da signora, e tornare nel mondo degli inferi, con le mie compagne di cella, l’unico mondo che conosco e che ha posto per una come me.
Sara
La mia ginecologa mi segue da quando ho cominciato a essere seriamente sessualmente attiva, cioè più o meno da dieci anni. Quindi mi ha vista tre volte. La prima per conoscerci, la seconda per prescrivermi la pillola, la terza per farmela sospendere per qualche mese dopo anni di ininterrotta assunzione. Forse è per questo che quando entro scarmigliata e prendo posto di fronte a lei investendola di parole la vedo irrigidirsi, tirare il mento indietro e sollevarsi a sedere più eretta con le mani sui braccioli. Sta cercando di difendersi. “Dottoressa, come sta? Non ci siamo viste per anni e ora due visite in pochi mesi! Eccomi qui con una bella sorpresa! Incinta! Che dire?!” Spalanco le braccia con enfasi a sottolineare il mio disappunto. “Certo non me l’aspettavo! Comunque, inutile piangere sul latte versato:, e mentre lo dico mi asciugo l’ennesima lacrima all’angolo degli occhi: da quando ho scoperto di aspettare un bambino non faccio altro che piangere. “Sono venuta perché dobbiamo parlare, ci sono delle priorità: la prima è che io assolutamente non voglio ingrassare, quindi mi dia una dieta, delle tisane, pastiglie, veda lei cosa, ma mi tolga questo senso di fame. In secondo luogo, per quanto possiamo tenerlo nascosto? Ho un lavoro da precaria con il contratto in scadenza e non è il caso di perderlo proprio ora. Terzo, ho fatto questi esami del sangue, come mi ha consigliato un’amica che ha partorito da poco, ma è escluso che io possa farli ogni mese, ho troppa paura. Deve trovare un modo di vedere come sto senza prelievo; so che posso sembrare infantile, ma la mia è una vera e propria fobia dell’ago. Quarto, non so cosa fare, perché come avrà capito questo figlio non era programmato e non sono sicura di volerlo, ma ormai c’è, che faccio? Lo butto via? Insomma, è un casino. Da qualunque parti la si guardi non c’è una soluzione.” Finalmente tiro il fiato, fermo le mani, devo essermele ate nei capelli almeno dieci volte e le congiungo composte davanti a me mentre la fisso in attesa di risposte. “Sara Gallo, giusto?” mi chiede.
“Sono io.” “Allora, Sara, prima di tutto vediamo di capire un po’ di cose. Di quante settimane è incinta?” “Non lo so, però i test erano positivi e questo esame, questo HCG o quello che è, be’, hanno detto che i valori sono compatibili con una gravidanza in atto.” Tiro fuori dalla borsa il foglio piegato in quattro, già un po’ sporco e con un’orecchia d’asino, e lo liscio vergognandomene un po’. “Va bene, dia qui.” Lo guarda usando le mani come pinze, probabilmente le fa schifo pensare a cosa ci sia dentro la mia borsa, e in effetti sul tavolo è caduta qualche briciola di cracker che mi affretto a far sparire con la manica. “Data dell’ultima mestruazione?” “9 settembre.” Gira veloce una rotella di cartone rosa, che all’apparenza non sembra nascondere chissà quali poteri misteriosi, aggrotta le sopracciglia ed emette la sentenza: “Bene, data prevista per il parto: 16 giugno”. “Come la mia amica Simonetta”, esclamo, sentendomi subito un’idiota. “A parte la sua amica, intende tenerlo o no?”, domanda, estraendo la penna dal taschino del camice e prendendo una cartellina pre-compilata dal cassetto; poi mi guarda negli occhi. Non posso scappare: “Be’, penso di sì, sì”, dico a voce alta alzando il mento decisa, ”in fondo ho trent’anni, giusto? È un’età in cui si può diventare madri”. “Se è così, dobbiamo mettere a posto alcune cose. Il peso: non si dimagrisce in gravidanza. Possiamo tenerlo sotto controllo se lei non mangia molto e tenerlo sul chilo, chilo e mezzo al mese, ma per i primi tre mesi la dieta è esclusa. Per il lavoro, se sta bene può continuare senza alcun problema. Gli esami del sangue sono indispensabili, quindi si faccia coraggio.” Fallendo su tutta la linea delle mie richieste, esco dallo studio che è già quasi buio, con fogli e prescrizioni infilati a casaccio nella borsa, e mordicchiandomi il labbro inferiore ignoro la macchina parcheggiata e mi avvio verso il mare a
piedi. Che colore ha il mare all’imbrunire, un blu indefinibile con le increspature più scure, cangiante nel suo lento cullare. Seduta a gambe incrociate sul molo, fisso l’orizzonte sparire e le luci accendersi sulle ombre della sera. Un figlio. Ma lo so, io, cosa vuol dire? “Papà”, mormoro piano al cielo “ Che cosa devo fare?” Mi distendo sulla pietra guardando in altro e cerco invano una risposta. La responsabilità di un altro essere umano, metterlo al mondo, crescerlo, averne cura. E se non fossi in grado di farlo? “Come non sono stata in grado di fare più niente dopo che tu te ne sei andato”, rammento a me stessa ricordando i due anni vuoti buttati via, senza la forza di sentire emozioni, congelata nel dolore della perdita mentre mia madre andava avanti per entrambe. Lei sì che ha saputo fare la madre. Poi era arrivato Luca e con lui era tornato il sorriso, e dietro le sue insistenze la laurea e ora anche il tirocinio. In qualche modo mi aveva tirata fuori dal buco e mi aveva spinta a ricominciare. Ma quanta fatica. E adesso, adesso che finalmente le cose stavano andando bene, che nella mia vita c’era di nuovo ordine, arriva questa botta in testa a gettare tutto all’aria. Un figlio va programmato, pensato. Ci vuole una casa, un lavoro sicuro, tempo a disposizione. Due genitori adulti e consapevoli. Mentre mi dico queste cose mi ricordo di avere trent’anni, non proprio pochi a dire la verità, adulta dovrei esserlo anche io. La voce di mio padre mi arriva da dentro: “Nella vita non si fanno le scelte facili, si fanno le scelte giuste, Sara”. Ero in seconda liceo e avevo paura di difendere una compagna debole da alcune bulle di cui volevo disperatamente essere amica; sapevo che se avessi preso le sue parti mi avrebbero etichettata come una sfigata e mai avrei avuto la chance di far parte del loro gruppo. E meno male, visto come erano finite, tossiche da paura prima dei diciotto anni. Ma all’epoca così corteggiate e piene di feste, vestiti, inviti. “Il problema è che le scelte giuste a volte sono proprio difficili, papà”, ho risposto al buio. “E come faccio a sapere che questa sia giusta, poi, non ho alcun margine d’errore, né la possibilità di un reso.”
“Segui il tuo istinto e affronta la vita a viso aperto.” “Non eri male con le massime, papà, non eri male davvero”, mi dico caustica. Sospiro. Resto a infreddolirmi nel freddo e umido che sale dal mare, con le braccia conserte, le ginocchia sollevate e i piedi ben piantati a terra per un tempo indefinito. Mi fa male la schiena, ho freddo, mi bruciano gli occhi a furia di tanto piangere e mi cola il naso. Ho quattro fazzolettini di carta appallottolati a fianco e due sono strizzati nel pugno della mano. Il cellulare suona e la scritta Luca lampeggia dal display, ma non ho voglia di rispondere. Sei messaggi tra sms e segreteria telefonica testimoniano il suo amore e la sua preoccupazione, ma il corpo e l’anima coinvolti in questo dialogo interiore sono solo i miei, nell’egoismo di questo momento non c’è spazio per Luca, ma solo per me e la possibilità di questo bambino. Forse anche questo è diventare madri, escludere il mondo, chiudere tutti fuori e decidere, ispezionando e setacciando ogni brandello di noi stesse, se possiamo accettare una nuova vita. Mi alzo ripulendomi il cappotto. “Sono troppo vigliacca per abortire, solo l’idea mi fa terrore, quindi, caro mio”, e mi batto la pancia con una pacca decisa, “vediamo di andare d’accordo, chiaro?” In qualche modo mi conforta questo parlare a un puntino in una pancia che non c’è. “E vedi, se non ti vuoi vergognare, di non farmi diventare un bue!” Afferro la borsa e con o incerto e poi via via più deciso percorro la strada a ritroso, cercando di scacciare i dubbi dalla testa come fossero molesti mosconi. Entro in una cartoleria che sta chiudendo. “Mi scusi, la prego, è importantissimo, devo consegnare una tesina domattina prima delle otto, ce l’ha una cartellina rigida con l’elastico?” Sorrido prendendo il resto. Apro la portiera e per prima cosa distendo tutti i fogli con cura, li infilo nella mia nuova cartellina rossa e solo dopo quest’operazione meticolosa metto in moto l’auto, dò un bel colpetto alla targa in una retromarcia un po’ troppo energica e sgommando, perché le ruote sono sgonfie, mi avvio verso casa, organizzandone, tra un semaforo e l’altro, la nuova disposizione.
Tra me e Luca c’è un clima di tregua; dopo la lotta armata delle prime settimane sono stanca di fare la guerra. Una volta presa la decisione, gli ho comunicato che intendevo portare avanti la gravidanza e che, nonostante fossi conscia del fatto che in quei momenti fossimo in due, non riuscivo a perdonargli la superficialità con cui aveva agito mettendomi al muro e cambiando per sempre la mia vita. “Mi perdonerai il giorno che avrai tuo figlio in braccio”, mi ha detto voltandomi le spalle per dormire, l’altra sera. Probabilmente è vero. Ho comunque la sensazione di attraversare un campo minato da sola e non mi piace, vorrei riuscire a condividere ciò che provo con lui; magari riuscirò a farlo quando mi sarò abituata all’idea. Nel frattempo non ho nemmeno troppo tempo di pensare, tra un vomito e l’altro a volte non a nemmeno mezz’ora. L’altra sera ero finalmente rilassata davanti alla pizza maxi e alla birra ordinate per cena e volevo provare davvero a essere conciliante, ma come Luca ha iniziato a masticare mi si è cominciato a rivoltare lo stomaco, e alla vista del carciofino nel piatto ho ceduto. Poi, uscita dal bagno, avevo una fame da lupi e ho addentato il mio triangolo di pizza con foga, sotto il suo sguardo a metà tra il disgustato e lo sconvolto. Tempo di finire la pizza ed era successo di nuovo. È strana questa nausea, stai malissimo, vomiti, hai una fame da lupi, stai male di nuovo. Un’altalena alimentare. È talmente frequente che sono andata in un negozio di animali e ho comprato un rotolo intero di buste di plastica per cani, quelle che di solito si trovano nei contenitori a forma d’osso colorato attaccati ai guinzagli. Ho riempito di sacchetti tutte le borse, le tasche, i vani della macchina, l’ingresso, la cucina, il salotto. Sono ovunque nei nostri gloriosi settantacinque metri quadri. La cosa sta creando problemi anche al lavoro: visto che non potevo più fare assenze hanno cominciato ad accorgersene. Io mento, ma il pacchetto di salatini e le polsiere con la pallina anti-nausea mi hanno tradita. Al momento, quindi, la mia vita è abbastanza movimentata nelle ore di veglia, che tra l’altro sono paurosamente calate. Dormo infatti in ogni dove, anche solo per cinque minuti mentre la parrucchiera mi lascia con il balsamo nel lavatesta, o se appoggio la testa sul bracciolo del divano, o se apro un libro, nella vasca da
bagno, mentre aspetto che l’acqua bolla e sussulto al trillo del timer. Sono in deficit continuo e ogni occasione è buona per recuperare cinque minuti di energia. Dopo quasi due mesi di screzi, finalmente Luca ha avuto un gesto di tenerezza nei miei confronti. Saranno state le nove e un quarto, e mentre aspettavo l’inizio del film mi sono un attimo appisolata sul divano. Ho sentito le sue mani sfilarmi piano gli occhiali da vista, prendermi dolcemente per mano e rimboccarmi le coperte nel letto. Poi, prima di chiudere la luce e la porta, si è chinato sulla mia pancia e vi ha posato un bacio lieve, ha sussurrato “ti amo” ed è uscito. In quel momento mi sono svegliata e, perfettamente lucida, mi sono chiesta se non fosse il caso di finirla con questo stillicidio: era ora di far entrare anche lui nella mia, che poi è la nostra, avventura. Da domani voglio che le cose cambino, voglio che diventiamo una famiglia. Sorridente e piena di buoni propositi, mi sono addormentata sognando un bambino con i suoi capelli e i miei piedi.
Grazia
È la seconda ora di martedì, tra dieci minuti suonerà la camla della ricreazione, poi ancora un’ora dalle capre della Prima B e via in ospedale. Che giornata! E sì che di solito il martedì ho l’orario che preferisco: le prime due ore in Terza C, la mia classe preferita, poi il supplizio della prima e alle 11.15 via, finito. Poso gli occhiali sulla cattedra e mi soffermo a guardare Elena, che si mangia la guancia mentre tenta di risolvere il problema. Ha delle scarpe veramente brutte, sproporzionate. Le caviglie spariscono e le gambe sembrano due stecchini magri; chissà perché si mette questa specie di carro armato tondo sul piede... Andranno di moda, ma certo che in nome della moda ’sti ragazzi riescono davvero ad annullarsi. Finalmente ce la fa, con un piccolo aiuto arrivato dalla Ferri, che si è sporta dal secondo banco e ha parlato a voce nemmeno troppo bassa, ma pazienza. Oggi mi sento benevola. “Va bene, Elena: otto.” Un sorriso le si spalanca sul viso e gli occhi si aprono sotto la frangetta nera mentre posa il gesso. “Grazie, prof!” Saltella al posto e fa fatica a trattenere la gioia, mentre a batte un cinque alla Ferri, che sorride. “Professoressa, scusi, ma non è giusto.” La voce gracchiante di Vincente mi arriva all’orecchio mentre sto già scrivendo sul registro. “Cosa non è giusto, Massimo?” “Be’, Elena non era da otto, e poi le hanno suggerito!” “Ah sì? E tu come lo sai?”
“L’abbiamo sentito tutti, professoressa.” “Qualcun altro ha sentito?” Ventisei visi si guardano e mi guardano muti. Sento Elena mormorare un “Che stronzo” e vedo la Ferri cercare qualcosa sotto il banco. “A quanto pare sei l’unico, Vincente.” “Ma professoressa, la Ferri si è perfino alzata!” “Carlotta?”, la interrogo reggendo gli occhiali. Mi risponde facendo spallucce: “Non so di che parla, prof.” “Benissimo. Nemmeno io. Vincente, controllati, e ti avverto: alla prossima spiata l’otto della Maschio diventa un nove e tu ti prendi un due, chiaro? Elena, invece di messaggiare a tua madre da sotto il banco, portami il libretto che glielo scrivo io il voto. Ora, martedì prossimo c’è compito in classe, lo sapete da almeno una settimana, domani e venerdì non interrogo ma facciamo esercizi; preparatevi, perché non voglio schifezze.” Detto gli esercizi per casa mentre la camla suona e li vedo alzarsi e filare via. Il ragazzo di Carlotta Ferri è già sulla porta ad aspettarla, con quel maledetto pacchetto di sigarette che fuoriesce dalla tasca; ma cosa ci troverà in lui? E poi non è lo stesso che stava con Anna l’anno scorso, quello per cui mi aveva preso anche due impreparati, lei sempre così brava? Mah, mi sembrano tutti uguali. Vorrei dire a Carlotta che merita di più mentre la vedo allungarsi per baciarlo e aggrovigliare la sciarpa al collo per accompagnarlo a fumare, ma in fondo mi fanno pure tenerezza mentre si avviano abbracciati. Elena, Ilaria e Chiara escono ridendo con i telefonini in mano; meno male che sarebbero vietati, tutte e tre con quelle orribili scarpe nere e i golfini scollati. Quattro maschi spostano i banchi per una partitella a briscola. Vincente si avvicina alla cattedra e mi fissa mentre raccolgo le mie cose. “Cosa c’è, Massimo, cosa vuoi ora?”
“Volevo solo sapere se nel compito ci sarà anche algebra o solo geometria.” “Solo geometria, Massimo, tutto il programma finora svolto, l’ho detto e ripetuto almeno dieci volte. “Vabbè, io per sicurezza rio anche algebra.” “Ecco, bravo.” “Allora c’è!” “Ma no che non c’è!” Sto perdendo la pazienza. “Ma se vuoi riarla, male non ti può fare. Ma perché non vai in giardino o a farti un giro in corridoio invece di stare qui a tormentarmi?” “Preferisco stare in classe”, e se ne torna al banco piccato, con il suo maglioncino girocollo giallo, il colorito spento e quell’accenno di scoliosi. Figlio unico di genitori anziani; meno male che io e Alfredo non ci siamo accaniti, dopo i quaranta: quando abbiamo capito che di figli non ne sarebbero venuti abbiamo deciso di non cercarli più, ma mica siamo tutti uguali. Esco con il registro sottobraccio avviandomi a prendere un caffè; prima di affrontare la prossima ora ho bisogno di un doppio espresso. Mentre aspetto in coda al distributore vedo Stefania e Camilla, mie alunne dell’anno scorso, farmi un cenno di saluto con la mano. “Salve, prof”, in coro, appiccicate come sempre. “Buongiorno, ragazze, e la terza della banda dov’è?”, chiedo, ricordandomi il terzetto memorabile che mieteva vittime tra i maschi della scuola. “Anna è in Canada, è andata a fare l’anno all’estero.” “Ah, è vero, che brava, salutatemela tanto quando la sentite.” “Certo, prof, ci si vede”, e sculettando sincronizzate si perdono nel corridoio.
Oggi dopo la scuola c’è l’ospedale. L’oncologo mi ha convinta a fare una biopsia
ecoguidata per vedere quanto sono coinvolte le strutture adiacenti. Un ago mi entrerà nella carne e andrà a prelevare campioni di tessuto, sperando non siano già marciti, mangiati dal tumore. Alfredo mi aspetta nell’atrio, con l’aria stazzonata e gli occhi rossi dell’ultimo mese. Era un uomo così distinto, e invece ora è lo spettro di se stesso. Dovrò dirgli di radersi e darsi una regolata, in fondo la malata sono io e ci si aspetta che sia lui a occuparsi di me. Già mentre formulo il pensiero mi sento ingiusta. Da quel pomeriggio di ottobre non c’è stato giorno che non mi abbia svegliata portandomi a letto un vassoio con il caffè, il pane tostato, il giornale e un sorriso stampato in faccia. Gli accarezzo una guancia avvicinandomi: “Caro.” Mi stringe una spalla e senza una parola chiamiamo l’ascensore. Il dottor Zanetti, l’oncologo che mi segue, è già lì ad attenderci, e mentre ci dà la mano e ci fa accomodare ordina a un’infermiera di avvertire del mio arrivo e di portarmi il necessario. Indosso la camiciola sentendolo spiegare di nuovo a mio marito come eseguirà la procedura, e ascolto Alfredo porre ancora una volta le stesse domande. “È pericoloso? Ci sono dei rischi? Sentirà dolore? Ma secondo lei andrà bene?” Mamma mia, sembra Vincente! “Alfredo, basta, ce l’hanno già spiegato. Ti prego, tesoro, non essere un incubo! Dottore, lo affidi a qualcuno e andiamocene, ché prima facciamo questo esame e meglio è.” “Che piglio, signora, ma bisogna aver pazienza, spesso chi ci è vicino è più spaventato di noi.” Come non avere pena per Alfredo? Del resto è davvero uno straccio. Mi chino a baciarlo e gli stringo la mano. “Aspettami qui, tesoro, ma stai tranquillo, andrà benissimo e stasera ce ne andiamo al cinema e poi a cena fuori.” “Sì, sto qui, non mi muovo. Tu fai la brava e non preoccuparti, mi sono portato il
giornale.” Mi incita con il pollice alzato e apre il quotidiano mentre l’infermiera mi scorta in sedia a rotelle fuori dalla stanza.
Non c’è stato cinema, né pizza, dopo. Seduti ai due lati del tavolo in cucina, ci fissiamo come due naufraghi oltre i bicchieri di birra che dopo due ore abbiamo deciso di aprire. Fuori è buio, saranno le sette ate. “Vuoi che prepari qualcosa per cena?”, domando a bassa voce. “No, non ho fame, ma se vuoi che ti prepari qualcosa io... O preferisci che ordini una pizza?” “No, non ho fame nemmeno io.” Il silenzio cala di nuovo sopra le nostre schiene piegate. Tagliuzzo il tavolo con la punta del cavatappi e per la prima volta da quando siamo usciti dallo studio medico do voce ai miei pensieri: “Non è una tragedia.” “ Ah no?”, esplode Alfredo. “E cos’è, Grazia? Dimmelo tu, spiegami. In fondo sei tu la professoressa, quella che ha studiato, cosa cazzo è allora? Perché io forse sono stupido ma non lo capisco: se non è una tragedia questa, allora cosa lo è?” Batte un pugno sul tavolo e fa saltare i tappi a terra; il tintinnio del metallo sembra riportarlo a una dimensione di normalità. Si risiede. Stanco. “Tragedie sono quelle che colpiscono i bambini”, puntualizzo. “Potremmo andare in America.” Rido sarcastica. “Primo, con quali soldi. E poi, perché?” “Per avere un altro parere, perché lì la medicina è più avanti, per fare un tentativo. Quanto ai soldi, potremmo ipotecare la casa, o venderla, se necessario.”
“E andare a vivere dove, poi? Sotto un ponte? Non essere ridicolo!” “E va bene, sono ridicolo! Uno stupido uomo ridicolo che ti ama, non vuole perderti ed è disposto a tutto per te!” “Non alzare la voce con me, Alfredo! In America se vuoi ci vengo a fare un viaggio, nient’altro! E la casa non si tocca, ci abbiamo messo una vita per averla!” Sospiro, prendo le sue mani tra le mie. “Tesoro, devi rassegnarti, io una vita l’ho avuta, con te, ed è stata ed è meravigliosa. Grazie a Dio non ci sono figli a soffrire. Le cose brutte capitano, l’hai sentito anche tu il dottor Zanetti, no?” “Può darsi che si sbagli”, china la fronte sulle nostre mani. “Grazia, forse sbaglia, non dobbiamo darci per vinti, non ancora.” “Qui non è questione di darsi per vinti, amore mio, ma di essere realisti!” Metto la mia fronte sulla sua nuca e le parole del dottore entrano nella nostra cucina, aleggiano su di noi, come se le stesse pronunciando ora. Mi era bastato vedere il suo viso durante l’esame per capirne l’esito. Anche i medici sono esseri umani e io sono sempre stata brava a decifrare il linguaggio del corpo; lavorare a contatto con gli altri mi è servito. Dopo, nel suo studio, spostando il fermacarte da sinistra a destra e viceversa aveva tentato di tergiversare. È difficile emettere una condanna. Alla mia domanda su quanto tempo mi rimanesse, aveva glissato, con un tentativo penoso di rendere la medicina una scienza appartenente all’insieme delle probabilità, non a quello dell’esatto. E se l’era presa con la statistica, che per sua natura è menzognera, basti conoscere la favoletta del Trilussa. “La ricordate? Quella dei tempi dell’università!” Nessuno aveva riso. Poi con la stilografica nera mi aveva prescritto degli integratori e si era scusato, rammaricato, di non poter fare nulla per me. “Non soffrirà, Grazia, la malattia è priva di una sintomatologia reale, e al bisogno provvederemo con gli antidolorifici.” Mi aveva dato il suo numero di cellulare, invitandomi a chiamarlo all’occorrenza, senza paura di disturbare.
“Vivo da solo, mia moglie e le mie figlie non mi hanno seguito, quindi non si faccia scrupoli, se sveglia qualcuno, sveglia solo me.” La qualità della vita sarebbe stata buona fin quasi alla fine, e non era poco. Capivo che lo diceva per rasserenarmi, e gliene ero grata. Come tutti, anch’io temevo il dolore più di ogni cosa. Non c’era niente da fare, nessuna cura, nessuna chemioterapia: il tumore al pancreas è una sentenza di morte e “in casi come questo, più tardi lo si sa e meglio è, anche se a dirlo può sembrare paradossale”. Infine, dopo le insistenze di Alfredo, si era sbilanciato, sfinito. Come eravamo sfiniti noi. “Sei mesi.”
Le nostre teste si toccano e una lacrima scivola piano sulla tovaglia a fiori.
Anna
Da:
[email protected] Oggetto: sport
Ciao tesoro, come stai? Perché non scrivi mai? Sarà la quarta mail che ti mando senza risposta! Tutto bene? Volevo sapere se hai deciso che sport fare, mi raccomando, è importante, sai che in Canada mangiano male e rischi di diventare cicciona se non ti muovi, e questo non lo vogliamo, vero? Il tuo allenatore di atletica mi ha detto che se vuoi ti manda un programma per allenarti da sola, l’ho incontrato l’altro giorno, ti saluta. Fammi sapere se vuoi che glielo chieda. Con noi tutto bene, il mio processo procede, abbiamo scelto il rito abbreviato nella speranza che con le attenuanti la pena sia clemente. Vabbè, non ti annoio con il mio lavoro, so che non ti interessa. Mi sono iscritta a un corso di pilates con la mamma di Camilla, ti saluta anche lei. Mi ha detto che a scuola va così così, c’è un nuovo professore di matematica molto severo che le ha detto che con il programma sono molto indietro. Tu con la matematica come sei? Studia, mi raccomando, altrimenti il prossimo anno con la maturità sono guai. Qui non fa ancora freddo, e da te? C’è già la neve? Ti prego, rispondi, vogliamo avere tue notizie, e non il solito sms. Papà ti manda a dire che gli manchi e che stare senza di te è uno schifo. Ti voglio bene,
la mamma (e papà)
Da:
[email protected] Oggetto: Che palle questo sport!
Ciao mamma, certo che se non riesci a rompere con lo sport non sei contenta, anche a 9.000 km di distanza riesci a preoccuparti del mio peso! Sì, in Canada mangiano male, e sì, sono ciccioni; se vedessi Phoebe e James ti verrebbe un colpo, quindi rassegnati, diventerò grassa anche io. Si chiama libero arbitrio! Comunque stai serena, faccio atletica, non occorre che mi mandiate programmi di allenamento, mi arrangio da sola, dì a Franco di farsi una vita!!! Per il resto tutto ok, non scrivo perché non ho tempo, sto sempre sui libri. Neve ancora niente, è prevista per la prossima settimana, sperano per il Thanksgiving, quando mi mangerò un tacchino intero! erà Stefania a prendersi il mio libro di biologia dell’anno scorso, le ho dato il tuo cell, per favore, rispondile! Baci a tutti Anna
PS: X papà, sai che ho visto un procione davanti a casa che mangiava dal cestino della spazzatura? Qui è pieno, sono bellissimi!
Mercoledì 13 novembre, sono ati venticinque giorni e tredici ore da quando ho conosciuto François. Venticinque giorni e tredici ore che non ci parliamo, perché non si è mai degnato di salutarmi, anzi, eggia per il corridoio con quegli idioti dei suoi amici che ridacchiano ogni volta che mi vedono e ano
oltre, mentre lui si dà arie da gran figo giocando con l’accendino e quella troietta bionda di Jasmine lo segue con le sue amichette del gruppo cheerleaders, che se non sei cerebrolesa non ti prendono. Odio questa scuola, il Canada e Vancouver, anzi Raincouver, con il suo tempo infame. Piove da due settimane, ma si può? Mescolo lo yogurt mentre rifletto su come è cambiata la mia vita in questo arco di tempo. Prima ero una ragazza normale, adesso sono una stalker, come Bella di Twilight; be’, lei si è trasformata in un vampiro mentre io in una maniaca ossessivo compulsiva, ma entrambe per amore. So esattamente a che ora François arriva a scuola e dove parcheggia la bicicletta, so le materie che ha ogni giorno e l’orario completo degli allenamenti di rugby. So che il venerdì va con i suoi amici a mangiare il salmonburger da Cardero e che il sabato gioca a tennis. So che la sera va a Granville Island a cercare qualche locale quebecoise mezzo se e mangia una cosa orribile, la Poutine, patatine fritte con sopra formaggio e sugo d’arrosto. Acquisisco le informazioni da Nicole, che non solo non studia più biologia, impegnata com’è a chiedergli i particolari della sua vita, ma ha persino litigato col suo ragazzo a causa di questa nuova amicizia e non mi sopporta più. Non fa niente, mi dico mentre sbuccio una banana, un giorno i miei sforzi saranno ripagati. Nella mia camera sono comparsi post-it con frasi d’amore: You are my Sunshine, All I need is you neeeding me, Dear heart WHY him? E così via, il che mi fa sentire romanticamente demente e terribilmente sola. Non so cosa mi abbia fatto questo ragazzo, ma qualunque cosa sia non mi era mai successa prima. Ogni volta che lo vedo mi si chiude lo stomaco, mi sudano le mani, le mie maledette guance si arrossano. Non ho il coraggio di affrontarlo, di salutarlo per prima. L’altro giorno nel parcheggio stavo quasi per farcela, ma poi Jasmine e le saltellanti sono arrivate, con quelle orribili gonnelline corte su cosce bianche e cellulitiche, e io, semplicemente, non ce l’ho fatta. Sono scappata. Di nuovo. Nemmeno le mie amiche a casa mi sopportano più. I primi giorni, quando
inviavo via snapchat gli scatti che gli facevo di nascosto dietro le colonne o in mensa, ridevano, poi si sono stufate. Parlo solo di lui, dicono, non racconto nient’altro. Ma non c’è nient’altro. Che mi interessi almeno. E sì, nemmeno di loro mi interessa. Ma avessero visto i suoi occhi blu e come quel ciuffo gli ricade sulla fronte, o le sue spalle, be’, in quel caso non avrebbero tanto da criticare. Mi sono comprata un pacchetto di sigarette e un accendino Zippo, così, in caso lo incontrassi di nuovo, non volevo essere impreparata, ma Phoebe li ha trovati e ha chiamato mia madre in Italia. Apriti cielo. Non gliene fotte niente di me, Phoebe, tranquilla. Volevo dirglielo, era talmente preoccupata. Non fa la madre quando vivo sotto il suo tetto, vuoi che la faccia a 9.000 chilometri di distanza? Figurati... Ma sono stata zitta, in fondo anche Phoebe deve capire. Lei e Jason mi hanno proposto di parlare con uno psicologo, ma per cortesia. Scuoto la testa pensando al pianto che mi sono dovuta fare per dissuaderli. Infilo le mie cuffiette e batto i talloni nei miei nuovi Doctor Martens al ritmo triste di The Scientist dei Coldplay e, mentre le note mi entrano nella carne, gli occhi mi si riempiono di lacrime. Mi manca il mio cane, l’unico in grado di capire quando sto male, l’unico con cui posso davvero parlare. Mi manca Stefy, che mi fa ridere con i suoi tre in matematica e i congiuntivi mancati. Mi manca la mia scuola che cade a pezzi, dove conosco anche l’ultimo sgabuzzino per le carte geografiche e so come far ripartire il distributore automatico se s’inceppa o non dà il resto. Voglio tornare a casa, dimenticare il se stronzo, mangiare una pasta vera e rannicchiarmi tra le zampone di Scotty a piangere nel suo pelo. Voglio discutere con mio papà sull’orario del sabato notte e ubriacarmi marcia in Piazza Unità con le mie amiche prima di andare a ballare. Nel silenzio della mensa vuota una mano mi batte la spalla e mi sfila la cuffietta dall’orecchio. “Ehi, bella italiana, che fai qui da sola?” Spalanco gli occhi ancora lucidi trovandomi un François sorridente a un centimetro dal naso.
“Che c’è, stai male? Hai una faccia...” “Solo un po’ di raffreddore che mi fa lacrimare gli occhi”, mento spudorata. Brava, Anna, non hai perso il controllo, mi dico battendomi un cinque virtuale. “Senti, volevo chiederti se ti va di venire con me a downtown sabato, mi serve una consulenza per il contratto telefonico, forse mi compro l’iPhone... È che questi qui sono indietro di dieci anni sulla telefonia, quindi se venissi tu...” “Eh già, sono come dire... dei Nativi”, rido con lui riferendomi al nome dei primi abitanti indiani della zona. “Comunque sì, volentieri.” “Ok, allora se mi dici dove stai ti vengo a prendere con la bici e andiamo insieme.” “Seconda incrocio Alma Street, al 1682, la casa blu.” “Super, io sto in fondo alla tua strada. Allora a sabato, o per le 10.” Aspetto che esca e mi metto a saltare come una cretina. Il mondo è di nuovo tinto di rosa. “Ti amo, Kitsilano Secondary School”, grido mimando Rocky Balboa a pugni chiusi. Poi un pensiero mi folgora: cosa cavolo mi metto sabato?” Raccolgo sciarpa, cappello e libri e corro a cercare Erin prima che sia troppo tardi: qui è indispensabile una consulenza seria.
Ore di discussioni animate e preparativi hanno generato il look giusto. Capelli volutamente arruffati, tanto con questo umido la piastra non sono mai riuscita a usarla, le mie Doc, jeans e dolcevita nero. Eyeliner nero e gloss appena rosato. Semplice ma sofisticata. Due grandi cerchi d’argento alle orecchie e il giaccone a quadri neri e rossi completano il tutto. Ma quanto è bella questa città?, mi chiedo estatica mentre guardo François fare domande al commesso del negozio. Voglio viverci per sempre, penso convinta. Dopo tre tappe da operatori diversi e un hot dog con dentro di tutto consumato su una panchina, siamo andati a pattinare.
Io sono bravissima, pattino da quando ero bambina, e anche con questi trabiccoli di plastica riesco a essere fluida. François invece è un disastro, legnoso e incerto scivola vicino alla balaustra e cade all’indietro ridendo, facendo un mulinello di gambe in aria. “Sembri uno di quei personaggi scemi dei cartoni”, lo derido pattinandogli attorno. Lo aiuto a rialzarsi e ci diamo la mano. La mano! Mi pizzico una guancia per essere sicura di non sognare, ma a quanto pare è tutto vero. Siamo talmente presi e persi negli occhi l’uno dell’altra da non accorgerci che un ragazzino grosso come un camion ci sta franando addosso. Finiamo a terra, attorcigliati e doloranti. Il ghiaccio è davvero duro, ma i nostri visi sono così vicini che si possono toccare. Il suo sguardo si fa intenso. Oddio, mi sta per baciare! Mentre François ancora disteso fa per alzare il collo e raggiungere le mie labbra, un urlo isterico irrompe sopra di noi: “Ragazzi! Anche voi qui! Fico!” Non ci posso credere. Increduli ci giriamo mentre Jasmine, le sue scagnozze e gli amici di François ci piombano addosso. Mi rialzo pulendo i jeans dalla neve e togliendo il ghiaccio dalle dita dei guanti di lana. Non so dove guardare. Trattengo a stento lacrime di nervoso e frustrazione, mentre le battutine sul fatto di averci trovati insieme si sprecano alle mie spalle. François non sembra accorgersene, ride e racconta cosa è accaduto, indicando il ragazzino ciccione, poi si fa accendere una sigaretta a bordo pista e ricomincia ad atteggiarsi da gran viveur. Non si rende conto di quanto io sia ferita. Sfilo furiosa i pattini e li sbatto sul bancone: “Anna, che fai? Vai già via?”, chiede la mia rivale falsamente mielosa. “Sì, è tardi, devo studiare!” “Che peccato...”
Ma perché Jasmine non muore?, mi chiedo, seriamente incazzata. Mi avvio a o di marcia, veloce, buia. “Anna, ehi, Anna?” “Ora che c’è?”, rispondo spazientita. François si ferma di colpo. “Stai calmina. Volevo solo dirti ciao. Ci si vede in giro.” Ecco, brava Anna, bravissima. Sei riuscita a rovinare tutto. Complimenti davvero. Cammino veloce a testa bassa, sta pure ricominciando a piovere, e sì che sembrava una giornata così bella! Quando arrivo al parcheggio delle bici vedo la mia catena tagliata a terra. “Ci mancava solo questa.” Sospiro e con la catena in mano mi avvio all’autobus. A casa il viso di Phoebe e Jason non lascia dubbi, persino Coleen si mette a piangere vedendomi. Sono fradicia, rossa di raffreddore e di pianto, con la catena che mi penzola da una mano nera di olio e i jeans rotti sul ginocchio. Uno spettacolo penoso. Appena vedo Phoebe mi lancio tra le sue braccia carnose e scoppio in un pianto irrefrenabile sul suo petto morbido. “Oh, tesoro, cosa è successo? Jason, prepara un tè per questa bambina. Vieni, andiamo a fare un bagno caldo, raccontami tutto. Coleen, va’ a vedere la televisione, ché Anna non sta bene. Oh, povero cucciolo, sembri un pulcino spaurito.” La voce calda, il bagno profumato e il pigiama di pile migliorano notevolmente la mia situazione. Racconto a Phoebe le mie pene d’amore, come non avevo mai fatto con nessuno, e resto sorpresa dalla sua comprensione e dalla lucidità dei suoi consigli. “I si sono tutti dei mezzi bastardi, ma noi donne sappiamo essere più streghe di loro, se vogliamo. Ora sentimi bene, non guardarlo più e stai con altri ragazzi a ridere e scherzare ogni volta che ne hai l’occasione. Gli uomini sono
come pecore, se piaci a uno piaci a tutti.” “Ma Jasmine?” “Lascia a Jasmine il suo quarto d’ora di gloria, alla festa di Natale sarai così bella da stenderli tutti. Ti porto io questa volta a comprare un bel vestito.” Sarà stato il suo tono deciso, o il suo viso determinato, ma mi ha convinta.
Dicembre
Maria Rosa
Il dolce tipico di Natale a casa mia erano le cartellate, ne facevamo sempre tante, vassoi interi. Da piccola avo ore ad aiutare mamma e nonna in cucina a dare alla pastella la forma giusta. “Fai attenzione, Rosa, devono sembrare l’aureola santa di Gesù Bambino; se le fai male Lui mica viene a portare i doni”. E così stavo attentissima e ci mettevo tutta la mia cura. Poi, una volta fritte, la nonna le spennellava di miele, zucchero a velo o vino cotto, e le mangiavamo aspettando la Messa di mezzanotte. Al mattino, ecco il dono: che gioia immensa! Le cartellate ho continuato a farle, tutta la vita, ma il dono, quello più grande, la gioia intendo, non c’è stata più, e così, nonostante lo zucchero, sono diventate un dolce amaro. Oggi è la Vigilia ed è giorno di visita. Seduta sul letto, sto fissando il cielo bianco oltre la grata quando mi vengono a chiamare. “Rosa, muoviti, hai visite!” “Visite? E chi è venuto?” “E io che ne so, mica sono la tua segretaria. Su, su, spicciati, ché non posso perdere tutta la mattina con te.” Tamara non è di buon umore oggi, dice che le feste la fanno “uscire scema”, avrà la suocera ospite per dieci giorni e già le sembra di impazzire. Entro nella saletta e il viso di Lea mi accoglie sorridente; regge un pacchetto avvolto in carta colorata e un sacchetto di carta. “Rosa, Rosina mia, come stai?” Mi a la sua mano calda sul viso in una carezza prolungata. “Lea, che grande sorpresa! Non mi aspettavo visite.” “E che ti lasciavo sola a Natale?! Vieni qua, fatti vedere. Ti ho portato del pan dolce, l’ho fatto io, con le uvette e i pinoli; e poi un pensierino”, mi dice
porgendomi il pacchetto. Dentro la carta dorata, un paio di guanti in lana a righe di tanti colori e una sciarpa coordinata, con due pon pon alla fine. “Così quando fai il tuo giretto non hai freddo alle mani e al viso; ci ho messo alcune gocce di vaniglia per farti sentire il profumo delle feste.” Accarezzo la lana soffice senza parlare e due lacrime tonde cadono sulla formica blu. “Che c’è, Rosetta, non sei contenta? Ah, quasi dimenticavo, questo è da parte del padrone; li vendiamo alla cassa del supermercato e quando ha sentito che venivo mi ha detto di portartene uno, ché ti mettesse un po’ di allegria.” Affonda le mani nella sua sacca ed estrae un cd di canti di Natale. La guardo inebetita. “Certo che sono contenta, anzi, più che contenta, mi fai pure piangere. Non merito tanta attenzione”. “Ma che dici, sei ammattita? Anche le altre ti salutano, hanno detto che verranno, ma lo sai, tra gli orari di questi giorni festivi e le famiglie, fino all’anno nuovo sarà un macello. Ho detto: tranquille, li porto io gli auguri a Rosa. E allora, come va?” “Bene, va bene, davvero.” Ci prendiamo le mani. “Sai, da quando sono qui provo una gran pace, sembra assurdo ma non devo più guardarmi le spalle, non fisso l’orologio contando le ore affannandomi perché tutto sia pronto, non sono più in preda all’ansia e alla paura. Vivo in una cella di tre metri per tre con altre donne e per la prima volta nella mia vita sento di avere uno spazio e di essere libera. Strano, no? Dovevano chiudermi in galera perché fossi libera. Le giornate scorrono piano, lente, vestite di una nuova tranquillità. Conosco persone nuove e ognuna ha una storia da raccontare, e che storie, Lea, sapessi... In confronto io sono stata fortunata. Ci sono ragazze che erano state mandate a prostituirsi in strada, a rubare. Poche di loro hanno commesso un reato da sole, come me per esempio, quasi tutte sono state obbligate da qualcuno: il padre, il marito, a volte un figlio. Sono brave diavole, povera gente che ha creduto di trovare un tesoro in questo Paese, e invece? Solo un mucchio di cenere. Pensa che mi parlano, mi chiedono aiuto, come se io, una povera ignorante, fossi capace di dare un consiglio. Così pensavo all’inizio e lo dicevo pure: ‘Non venite a chiedere a me, non so nulla della vita io’, ma loro, testarde: ‘Tu sai ascoltare, Rosa’. Capisci,
Lea? Io so ascoltare, che cosa straordinaria, vero? Io, che non sono mai stata ascoltata da nessuno. Per la prima volta mi sento utile, è come se”, mi interrompo, ho quasi paura di dirlo ad alta voce, “è come se proprio a me che ho ucciso qualcuno fosse stato fatto il dono di una nuova vita.” “Ma è vero, Rosa, è tutto vero. Tu sai ascoltare, senza giudicare, è una dote preziosa e rara. E basta infliggerti da sola questa pena: hai ucciso, è vero, ma hai tolto una vita che valeva poco e tu stessa venivi accoppata ogni giorno. Chi ti dice che se non l’avessi fatto per prima non sarebbe toccato a te? In fondo sei stata menata molte volte, sarebbe bastata un po’ di violenza in più, che sbattessi la testa, e non è detto per caso. La tua è stata legittima difesa, amica mia, e verremo tutti a testimoniare se sarà necessario.” Lea mi stringe, mi abbraccia, i suoi capelli intrecciati si appiccicano alle mie lacrime. Non ci accorgiamo nemmeno che l’ora è ata finché una guardia non ci richiama. “Allora Buon Natale e grazie, salutami tutti, anche il signor Franco del magazzino, e ringrazia tanto il padrone.” Lea mi prende una mano, l’appoggia sul suo ventre. “Aspetto un bambino, Rosa”. E con quest’ultima notizia mi bacia leggera e se ne va tra il tintinnio dei suoi bracciali. Rientro in cella e ho voglia di ballare. Diana e Daniela sono spente, nervose, non vogliono condividere la mia allegria. Insisto che è Natale, che è nato il Signore, che siamo comunque noi quattro e questo non ce lo porta via nessuno. Evelyn mi dà man forte, insieme facciamo partire il cd di canzoni mentre spezzo in parti uguali il pan dolce. Piano piano l’atmosfera inizia a cambiare e in un attimo eccoci, sedute vicine sulla brandina, a cantare Tu scendi dalle stelle tenendoci per mano.
Stasera cena di gala, panettone e pandoro per tutte e un bell’albero di plastica decorato nella sala comune. Siamo davanti alla televisione a guardare il classico film sul Natale, quando dalle poltrone in fondo alla sala scoppia la rissa.
C’è un gruppetto di donne, quattro, seguaci di Adriana, una naziskin piena di piercing e svastiche tatuate che non sopporta gli stranieri. Nutre un odio profondo per Evelyn, e anche con Diana e Daniela non va proprio d’accordo: le chiama rispettivamente “negra” e “maledette rom” e di solito sputa al loro aggio e fa qualche battutaccia, ma finora non si era mai spinta oltre. Probabilmente la goccia che ha fatto traboccare il vaso è proprio il Natale: tutti là fuori sono felici e, se guardi alla tua condizione qui dentro, è facile farsi prendere dalla rabbia, soprattutto se, come Adriana, già di tuo non propendi per la tolleranza; va poi considerato che Adriana è qui per aver ferito un poliziotto durante una lite xenofoba scatenata dal suo uomo, e che abbiano preso solo lei l’ha fatta davvero incazzare. Noi quattro e altre ragazze stavamo guardando il film e dal fondo arrivavano urla di scherno e schiamazzi; dopo aver chiesto silenzio tre volte, Evelyn si è alzata e ha intimato loro di tacere. Come sempre sono partiti gli insulti e, a seguire, le mani. Adriana e le sue seguaci sono violente, e stasera non devono aver preso i tranquillanti prescritti dalla psicologa, perché non si fermano nemmeno davanti alle minacce delle guardie. Selena, la sua fedelissima, spegne la sigaretta sul braccio di Evelyn e poi inizia a prenderla a schiaffi. Diana e Daniela intervengono, ma anche Adriana ha un suo seguito: oltre a Selena ci sono Ilenia e Sharon, tra le poche italiane nel penitenziario. Insomma, in breve la situazione degenera. Tento di separarle, ma mi prendo un calcio nelle reni che mi costringe a terra, mentre Daniela fa partire un dente a Ilenia. Adriana tira fuori un coltello, le guardie vedono lo scintillio sospetto e si tuffano su di lei. C’è una confusione tremenda, si sente solo urlare: è Adriana che sbraita tirando calci e pugni mentre in quattro tentano di fermarla. Si levano cori da stadio che inneggiano alla violenza, è come se fossimo a un incontro di wrestling dal vivo. Intanto arriva un’infermiera che, mentre le altre bloccano Adriana a terra, le inietta qualcosa in vena, un sedativo credo, e dopo poco riescono a portarla via. Io resto sempre annichilita da queste liti. Non voglio dire che siano all’ordine del giorno, ma frequenti sì. Non mi aspettavo che le donne menassero così tanto le mani, nella mia ingenuità lo ritenevo un affare da uomini.
“Tutto a posto, Rosa?” Evelyn si avvicina, ha la maglietta strappata e i capelli in disordine, e si tiene una mano sul braccio bruciato aspettando che la dottoressa ritorni a chiamarla. “Sì, sto bene, tu piuttosto?” “Tranquilla, ci vuol altro che una fottuta razzista per abbattermi.” Diana e Daniela sono intere, arrabbiate per non essere riuscite a farsi valere abbastanza. “Ma se le hai fatto partire un dente a quella poveretta!”, esclamo reggendomi la schiena. “Poveretta? Poveretta? Rosa, ti sei fumata il cervello? Quella è una tagliagole!” Sharon è a terra, piange supina; non è un bello spettacolo. Tamara e altre due guardie tornano più furiose che mai; già fare il turno di notte a Natale non è il massimo, se poi ci sono grane, figurarsi! Tutte in cella e luci spente anche se non sono nemmeno le 22.00. Il mattino dopo, mentre scorro con il mio vassoio la fila del pranzo, vedo Adriana seduta in una posizione rigida e innaturale, con Sharon di fianco a imboccarla. Ha lo sguardo vuoto, vacuo. “Che le è successo?”, chiedo alla mia vicina in fila. “Quello che succede a tutte quando fanno casino: le danno la terapia, le bruciano il cervello con gli psicofarmaci. Se le va bene si sveglia per il prossimo Natale”, risponde afferrando un pezzo di pane.
Sara
Quando ti svegli pensando di andare incontro a una bella giornata sai già, nel tuo intimo, che ti si ritorcerà contro. È cronaca di una morte annunciata, come diciamo io e la mia amica Cinzia. E infatti è iniziata proprio con Cinzia la mia discesa agli inferi. Sto litigando davanti al distributore automatico dell’ospedale, che non mi da né l’acqua né il resto, quando mi tornano in mente le sue parole di stamattina. Già ero nervosa per l’ecografia e questo benedetto tri test, che comporta un odioso prelievo del sangue, e stavo cercando di farmi del training autogeno per non avere un attacco di panico davanti alla dottoressa, pregando Luca di tenermi la mano, quando è squillato il telefono. “Ciao, Cinzia, telepatia! Che bello sentirti, sono nevrastenica per l’ecografia e il prelievo. Però spero riescano a vedere il sesso, anche se è un po’ prestino.” “Mamma mia, Sara, che palle sei diventata. Avevo chiamato per invitarti a pranzo, ti devo raccontare del tipo della palestra... Se le cose continuano così, entro una settimana me lo porto a letto! Ieri mentre facevo i dorsali continuava a fissarmi, l’ho visto nello specchio.” Risatina. “E poi mi ha offerto un frullato alle proteine, uno sballo! Ha dei bicipiti che il marmo è soffice al confronto!” “Ah, ma va? Che figata. Senti, non lo so per il pranzo, alle undici devo essere in ospedale e c’è sempre da aspettare.” “Va be’, non puoi rimandare?” “Cosa?” “‘Sta cosa, questa ecografia o quello che è, tanto stai bene, no?”
“Ma Cinzia, devo fare il tri test! E poi viene anche Luca... Sai, forse sapremo il sesso del bambino. Insomma, io ci spero, è importante l’appuntamento di oggi.” “Da quando sei incinta è tutto importante. Sei una noia. Comunque fatti tuoi, se non avrai più un’amica e frequenterai solo poppanti è un problema tuo. Vabbè, chiamerò Serena.” “Ma Cinzia, stiamo parlando del bambino!”, ho replicato scioccata. “Sì, ma del tuo, di quella cosa che ti sformerà e ti rovinerà il fisico per sempre, e che hai voluto fare anche se non ce n’era assolutamente bisogno. Niente più vacanze, serate, discoteca, aperitivi alcolici. Te lo sei scelto, Sara, ora non biasimare me se non ti seguo. Siamo amiche da vent’anni e mi spiace dirti che sei cambiata, e in peggio. Non volevo farti questo discorso oggi, in realtà volevo renderti partecipe della mia vita e vedere se c’era ancora una possibilità per noi, nonostante tutto, ma mi sa di no. Saluta il paparino, ci si vede.” Ero rimasta così, con il telefono in mano, a guardare Luca. “Sono cambiata?”, gli ho chiesto. “Sì, e grazie a Dio. Cinzia a cinquant’anni sarà ancora in latex a dare la caccia ai ragazzini, lascia perdere e preparati, ché siamo in ritardo.” “Luca, non voglio diventare una matrona grassa che parla solo di pannolini.” “Neanche io, ma se fossero tutte come la tua amica il mondo si sarebbe già estinto. Forza, non pensarci e andiamo a vedere il nostro clone.” “Ma è l’unica amica che ho!”, ho esclamato disperata. “Tesoro, che dire? Ce ne faremo una ragione...” Così, eccomi qui a battere furiosamente il pugno sul display mentre aspetto che mi chiamino. Mi siedo sconsolata gettando la borsa al mio fianco mentre osservo il sedere di Luca che cammina su e giù parlando al telefonino. “Vai fuori”, dico, muta, mimando il gesto, “non puoi tenere il telefono qui in
radiologia, ci sono le macchine”. In quel momento una voce gentile mi chiede il permesso di sedersi. Sposto la borsa scusandomi e alzo lo sguardo: un signore distinto con gli occhi arrossati prende posto accanto a me ripiegando il giornale. “Scusi”, mormoro imbarazzata, stringendomi ancora di più per fargli posto. “La prego, s’immagini.” Il suo sguardo cade sulla protuberanza che si intravede dal vestitino. “È incinta?”, chiede meravigliato. “Sì, di sedici settimane.” “Che bello, è meraviglioso, io e mia moglie non abbiamo avuto figli, anche se devo dire che ci abbiamo provato; li desideravamo tanto, ma non sono venuti.” Allarga le braccia. “Ah”, non so che dire, “come mai è qui, aspetta qualcuno? Oddio, mi scusi, sono stata indiscreta, è che la gravidanza ha fatto convolare tutte i miei neuroni in pancia e non ho più un cervello. Non volevo farmi gli affari suoi. Mi scusi davvero.” Ho le guance in fiamme, non so cosa mi sia preso, e in cuor mio maledico Luca e il suo telefonino: se stesse con me eviterei queste figure. “Non deve scusarsi, si figuri, non ha fatto niente di male. Aspetto mia moglie, è qui per una TAC.” “Oh”, mormoro. “Sì, pare le abbiano trovato un brutto male.” “Mi dispiace.” Cerco Luca con lo sguardo, sempre più in difficoltà. Una porta si apre dietro le mie spalle e una signora alta ed elegante si avvicina con o elastico e un sorriso sulle labbra. Che bella donna, penso, come vorrei essere così snella e longilinea anch’io. “Alfredo, tesoro, sei pronto? Se Dio vuole abbiamo finito.”
Il mio vicino si alza e, premuroso, l’aiuta a infilarsi un raffinato cappotto blu doppiopetto. “Arrivederci, signora, tanti auguri e Buon Natale”, mi saluta prendendo sua moglie a braccetto. “Anche a lei, Buon Natale.” L’elegante signora ci guarda perplessa; mi accarezzo la pancia chiedendo aiuto e fortuna al mio bambino, mentre una brutta sensazione mi assale.
“La prego, faccia piano”, ansimo sudata guardando la mano di Luca, rosso purpureo a causa della mia morsa, mentre l’infermiera mi fa il prelievo per questo odioso tri test che dovrebbe escludere la Sindrome di Down. “Su, su, cosa farà al momento del parto, cadrà per terra come un pero?”, domanda sarcastica. Non mi do nemmeno la pena di rispondere. Penso a mia madre, a mio papà che mi portava a raccogliere funghi, a quanto è stata cattiva Cinzia. Respiro contando fino a venti e poi grazie al cielo l’agonia finisce con del cotone idrofilo da premere dove è stato fatto il prelievo. “Portate subito il campione in laboratorio, così forse ce la facciamo ad avere i risultati prima di Natale”, sbraita sgarbata la dottoressa, mentre mi spreme un quintale di gel sulla pancia e accende l’ecografo. Personale in verde che si muove da una saletta all’altra, medici in camice che ordinano esami, un’inserviente in rosa china a terra a raccogliere scatole di rifiuti ospedalieri da smaltire. Il mio fidanzato proteso in avanti e il manipolo grigio che va su e giù sul mio addome mentre l’ecografista preme dei tasti e annuisce. Tutto quanto sparisce. Il mondo diventa una scatola grigia e all’interno ci sei solo tu, meraviglioso piccolo mio che nuoti allegro nella mia pancia. Vedo le tue manine strette a pugno, la testa oblunga, il naso importante. Due
minuscoli piedini scalciano nel liquido: vuoi nuotare, amore mio? Come sei bello. Il cuore mi scoppia nel petto e lacrime di gioia scendono dalle mie guance senza che me ne renda conto, bagnandomi i capelli, entrando nelle orecchie e nel colletto di tessuto. Cosa cerchi di dirmi, cuoricino? Hai girato il viso verso di me, guardiamoci negli occhi mentre ti giuro amore eterno. Dottoressa, faccia attenzione, lo sta disturbando. Una coscia lunga appare in primo piano e due puntini rossi prendono le misure prima che venga scattata una foto. Un cuore batte, forte, veloce, in un petto che mi appartiene più del mio. Mio figlio.
Ho tenuto la sua immagine in mano tutto il giorno. Salendo in macchina, per le scale di casa, pranzando con una mano sola, e ora sul divano mentre controllo la posta sul pc. Non ho smesso di sorridere nemmeno un minuto. Nemmeno quando ho aperto l’email in cui il responsabile delle risorse umane mi comunica che il mio contratto, con scadenza il trentuno dicembre, non verrà rinnovato per esubero del personale, anche se so che non è vero e che l’hanno fatto perché sono incinta e la legge glielo consente. Be’, chissenefrega! “Che giornata di merda”, sentenzio ad alta voce. “Come sono felice.”
Oggi è la vigilia di Natale. Seduta sul divano, guardo Luca addobbare l’albero, mia madre va avanti e indietro per la cucina apparecchiando la tavola e tra un’ora arriverà Nadia con la cena.
Pacchetti colorati di carta rossa lucida, impreziositi da un nastro d’oro, giacciono a terra abbandonati. Ero così entusiasta di questo Natale. Con la mia organizzazione di ferro avevo preparato pacchetti uguali per tutti, menù dietetico ma gustoso, un albero vero in vaso con la base ricoperta di cartapesta, lumini bianchi alle finestre, una corona dell’avvento con le candele rosse e piccoli bastoncini di zucchero appesi ai rami. Sto scegliendo il cd da ascoltare, chiacchierando senza posa silenziosamente con la mia pancia e sgridando Luca, che ultimamente non mi dice abbastanza volte ti amo, quando rispondo distratta a una telefonata in cui la voce professionale di una signorina mi comunica che il tri test è risultato positivo con una percentuale di 1:82, come se sapessi cosa vuol dire, e che mi hanno fissato l’amniocentesi per il 3 gennaio alle dodici, in Ospedale. Il mondo si può spegnere con un interruttore; in questo caso è il tasto centrale del mio smartphone.
Grazia
Si dice sempre che Natale è dietro l’angolo, e mai come quest’anno è stato vero. La scuola ha chiuso il 21 dicembre e, con buona pace di tutti, i ragazzi si godranno le vacanze. Gli ultimi compiti non sono stati una “eggiata di salute”, ma mi sentivo buona e così i quattro sono diventati cinque e i cinque si sono magicamente trasformati in sei, con somma irritazione di Vincente, che è rimasto ahimè ancorato al suo nove. Questa mattina il cielo è plumbeo, forse nevicherà; rimescolo il cucchiaino nella tazza di tè, cercando di scrollarmi la sgradevole sensazione che la notte mi ha lasciato addosso. Nel sogno ero chiusa in una scatola di plexiglas circondata dal buio di un bosco, e gridavo e mi dibattevo ma nessuno poteva sentirmi o vedermi. Le energie mi abbandonavano e l’ossigeno cominciava a mancare. Le mani lasciavano sulle pareti le loro impronte grondanti di sudore. Al centro della stanza, su un cubo in lacca rosso, un vecchio orologio rumoroso, con le campane tonde di metallo, scandiva il tempo con il suo tic tac inesorabile. Mi sentivo soffocare e sapevo che era la morte che mi aveva chiusa lì ad aspettarla, per impedirmi di scappare. Il nero di fuori entrava dalle trasparenze delle pareti rendendo il mio terrore nudo, esposto. Quando ho aperto gli occhi albeggiava, ma io so di avere il buio dentro di me e non riesco a tirarlo fuori. Ingoio le pastiglie per fermare il dolore epigastrico che mi tormenta al centro dell’addome; è l’unica presenza della malattia, che per il resto non svela i suoi intenti. Gli esami del sangue della settimana scorsa mostravano inalterati i valori dei marcatori tumorali, che segnalano la presenza e il progredire della malattia dalla concentrazione che hanno nel sangue; avrebbero potuto darmi speranza, ma i medici hanno subito voluto sottolineare quanto il dato fosse poco significativo, scuotendo la testa, mormorando un “bene” moscio e facendo presente di nuovo che “questo non cambia nulla”.
Forse dovrebbero incidere le parole di Dante all’ingresso del loro reparto: “Lasciate ogni speranza, voi che entrate”; così, solo per mettere le cose in chiaro. In un sorso finisco il tè e mi alzo. Basta brutti pensieri, è Natale e ci sono un sacco di cose da fare. La casa non è mai stata così bella, io e Alfredo ci siamo dedicati ad addobbarla con rami di vischio, vasi di pungitopo e agrifoglio pieno di bacche rosse. L’abete sta in centro al salotto, decorato con bastoncini di cannella, biscotti fatti in casa a forma di cavalluccio a dondolo, stella, alberello e cuoricino. Nastri rossi, palle di vetro trasparenti e mille lumini completano, con una stella cometa d’oro, la nostra fatica. Un piccolo Presepe è ai piedi del tronco, appoggiato sulla cartapesta e il muschio. È così bello, pieno di sassolini, ponticelli, specchietti per l’acqua, manca solo Gesù bambino. Ecco, penso con una nota di rammarico, questo manca ed è sempre mancato in questa casa, la gioia di un bambino. A che serve un albero a due vecchi come noi? O saper fare la glassa? O quella corona dell’avvento con le candele rosse? L’avere un termine mi ha scatenato il fenomeno dei rimpianti, dei rimorsi, delle parole mancate, delle azioni non compiute per poco coraggio, pigrizia, miopia. Stendo il pan di spagna con il cucchiaio di legno e infilo la teglia in forno. Mi pulisco le mani nel grembiule e ricordo ad Alfredo di prendere il pesce e il vino: stasera deve essere speciale. I piccoli segnaposti e i dolcetti di pasta di zucchero con la faccia di Babbo Natale sono distesi sul vassoio. Finita la torta devo ancora andare dal parrucchiere e are a prendere il regalo per mio marito, dopodiché potrò finire di preparare me stessa e la cena, cercando di fare in modo che i miei boccoli non profumino di gambero.
Siamo raggomitolati sul divano, sotto la coperta di cachemire color panna che mio marito mi ha regalato, guardiamo la neve scendere piano dietro i vetri mentre le note di Stille Nacht riempiono la stanza. A terra, accanto a noi, una minuscola palla di pelo rossiccia, bianca e nera emette il suono gutturale tipico
dei gatti appagati. È il mio regalo di Natale per Alfredo: si chiama Nina, l’abbiamo battezzata poco fa con due gocce di ito, e ha appena due mesi. Nella cullina rossa dorme pacifica mentre mio marito la accarezza piano. “È bellissima, grazie.” “Era tanto tempo che ci pensavamo, così mi sono decisa. Un cane sarebbe stato troppo impegnativo in questo periodo, ma vedrai che saprà farti comunque compagnia. Non sopporto il pensiero che tu restii solo.” “Non ho voglia di parlare di questo stasera, stanotte me la voglio godere fino in fondo, non voglio chiudere occhio, ma stare qui, abbracciato a te e a Nina”, e la solleva portandocela in grembo, “a raccontarci storie, accarezzarci e scaldarci mentre scende la neve”. Mi stringo a lui, nemmeno io ho voglia di brutti pensieri. Mi alzo con la scusa di rabboccare il nostro ito, Alfredo cambia cd e inserisce nello stereo un Bruce Springsteen della prima era. In bagno, di nascosto, prendo due antidolorifici: il dolore è come un coltello che mi traa dallo sterno alle reni, ma non gli permetterò di rovinare questa serata. Quando torno vedo una pila di album di fotografie ai piedi del divano; seduti per terra iamo la notte a rivivere il matrimonio, i viaggi, l’India e Kuala Lumpur, le discese pazze sugli sci di quando avevamo ancora le ginocchia e i tendini sani, le pazzie di Las Vegas, il freddo dei fiordi dei mari del nord e l’acqua cristallina delle Baleari. Che vita abbiamo avuto. Avventurosa eppure sicura, tranquilla nel suo scorrere ogni giorno con la certezza incrollabile che ci saremmo comunque amati. Alle cinque del mattino non nevica più, il ito è finito e così pure il panettone scavato con le mani. Nina ci dorme in grembo e stretti stretti, a mani intrecciate, ci addormentiamo anche noi.
Puntuali come orologi, Esther e Delia, le mie amiche e colleghe storiche, varcano la soglia con Andrea e Maurizio, i rispettivi mariti, mentre Eugenio, il cugino di Alfredo venuto su da Roma, è già in salotto a preparare gli aperitivi con sua moglie Clara. Hanno portato un altro dolce, champagne e una chitarra per “fare un po’ di musica”. Sarà, anzi, deve essere un Capodanno speciale. Io brillo nel vestito di lamé dorato con gli orecchini e la catena coordinati e le scarpe in tessuto e anche le mie amiche non scherzano in paillettes nere e raso rosso fuoco. Mentre ci complimentiamo a vicenda, e mentre gli uomini si dedicano a portare a termine il rito degli aperitivi, dalla cucina facciamo uscire tartine e voulavant. Oggi si pasteggia a Moët & Chandon in calici di cristallo. La cena è superba. Ostriche come antipasto, tartare di tonno, pesce spada e salmone, e per finire un’enorme spigola al sale con patate lesse e maionese fatta in casa. Nella pausa prima dei dolci ci scateniamo a ballare e proviamo a improvvisare un karaoke mal riuscito con la console del figlio di Esther, che per l’occasione ha pure comprato il gioco. Che risate! Chi se lo ricordava che Eugenio è così stonato e che Clara sembra un travestito cubano mentre canta le note basse di Ligabue! Sudati e pieni di gioia brindiamo all’anno che verrà, con Lucio Dalla a farci compagnia, e nelle sue parole ritroviamo quel lontano 1978, con l’omicidio Moro e Incontri ravvicinati del terzo tipo di Spielberg. In fondo ne abbiamo tante di cose lasciate dietro le spalle, possiamo essere soddisfatti, mi dico, e poi chissà cos’altro potrà succedere; in fondo ci sono già internet, i tablet, i film in 3D. Non riesco proprio a immaginare cos’altro possa portare questo 2014 che io non abbia già visto. E tra un anno saranno tutti qui, a brindare ancora, forse un po’ più tristi, ma poi, piano piano, erà. Ci saranno altri anni nuovi e altri Natali, tramonti rosso fuoco e albe rosa. Il mare avrà quel suo modo di muoversi anche nelle mattine in cui non c’è un alito di vento e la puzza di alghe e pesce sale dai pontili. Settembre vedrà le giornate accorciarsi e ottobre porterà via con sé le foglie già
secche, compariranno i primi ricci di castagne. Nel ciclo della vita alcuni vanno avanti, altri si fermano. La malinconia mi assale. Per un momento mi attanaglia la paura. Davvero non m’importa più di sentire il calore del sole? Ma che differenza fa, Grazia, mi rammento a bassa voce: che differenza fa? Volto le spalle, ma chi mi conosce già sa. Delia mi abbraccia e Clara mi stringe una mano. Gli uomini hanno gli occhi rossi e Esther si assenta in bagno con una scusa. “Basta ora”, dico risoluta. “Basta. Non si comincia un anno nuovo piangendo, altrimenti porterà lacrime.” Ho fatto una gaffe, anche se non volevo, così per distrarre l’attenzione da me stessa prendo la borsa dalla seggiola in soggiorno e porgo alle mie amiche tre buste chiuse. Contengono i biglietti per un weekend lungo a Parigi, che proprio devo rivedere, con il coupon di un albergo a quattro stelle in pieno centro e una serata allo spettacolo del Moulin Rouge. Mi guardano stralunate, non si aspettavano una sorpresa del genere. “È per la settimana di carnevale, quando le scuole sono chiuse.”, spiego felice, battendo le mani eccitata. “Che meraviglia! Lusso sfrenato, Parigi arriviamo!” Clara mi abbraccia e questa volta di gioia. Esther e Delia non la smettono di parlare: “Bisognerà andare anche al Louvre però, io insegno Storia dell’Arte”. Delia non ha ancora finito la frase che Esther la interrompe subito: “Eh no, cara mia, non cominciare a fare programmi, questa vacanza è all’insegna del divertimento. Niente cultura. Niente file ai musei. Solo shopping, i negozietti delle vie di Parigi, molto alcol e molto cibo. Voglio brasserie e croissant, fare la colazione in camera svegliandomi tardi e andare a letto esausta all’alba dopo aver eggiato lungo la Senna. Saremo di nuovo come quattro studentesse, un po’ rugose e con la pancia, ma immensamente divertenti e piene di fascino”. “Brava Esther, è proprio ciò che intendevo quando ho scelto Parigi”, esclamo
sorridente battendole un cinque a mano aperta. “Se lo dice Grazia, allora è legge, visto che è lei che paga. Delia, rassegnati, ti divertirai anche senza La Gioconda, credimi.” Clara la prende sottobraccio e la porta con sé in cucina a prendere i dolci. È l’ora della tombola, del Mercante in Fiera e di finire quelle due bottiglie di champagne che ancora ci aspettano in frigo.
Anna
Da:
[email protected] Oggetto: Natale
Ciao cucciola, come va? Noi bene. Quest’anno, dato che non ci sei, abbiamo deciso di are la vigilia a Salisburgo; ci faceva tristezza stare a casa da soli, poi raggiungeremo degli amici in montagna per trascorrere il Capodanno in rifugio. Siamo quattro coppie, speriamo sia carino! Papà ci teneva tanto a sciare qualche giorno e io ho bisogno di staccare. Poi già il 2 torniamo in città. Ho pensato tanto ai tuoi regali, ogni anno in questo periodo scappavo dallo studio e correvo per negozi, ma adesso che non ci sei non mi viene nemmeno voglia! Devo dire che questa regola della tua organizzazione di non permettere di raggiungere i figli per le feste mi sembra abbastanza stupida, poteva essere un’occasione per stare insieme e raccontarci un po’ di cose, in fondo sono già ati tre mesi! Bah, la accetto ma non la condivido. Cosa desideri allora? Vuoi che ti mandi i nostri regali, vuoi fare un viaggio, o che? Fammi sapere, anche se sei lontana voglio comunque che tu trascorra un bel Natale. Ti voglio bene e mi manchi da morire. Un bacio sul tuo bel nasino. La mamma
Da:
[email protected]
R: Natale
Mamma, ho diciassette anni, magari “bel nasino” è un po’ patetico! Grazie per il pensiero, ma se mi mandi dei soldi è meglio di tutto, così mi compro io un po’ di cose che mi piacciono. Salisburgo è un’ottima idea, e anche il rifugio, vi divertirete. Ci sentiamo il 24 per gli auguri. xoxoxoxo Anna
Da:
[email protected] R:R: Natale
Ma perché non sei mai affettuosa? Non riesci proprio a fare uno sforzo?!
Da:
[email protected] R:R:R: Natale
Mi hai fatta tu così!
Mi avvolgo nelle coperte sforzandomi di tenere gli occhi serrati per non perdere le immagini, il ricordo.
Non tolgo il trucco, né i vestiti, per conservare il più a lungo possibile la bellezza di quanto ho vissuto, perché non voglio, in alcun modo, che i, mai. Mi copro il viso con i capelli e li mescolo alla pelle, così, come ha fatto lui solo pochi istanti, ore, fa. Dietro le palpebre chiuse, che conservano i resti dell’ombretto argentato e mi riempiono le ciglia e le guance di brillantini, rivedo le luci.
La palestra addobbata da palloncini rossi, una sfera con gli specchietti appesa chissà come, festoni di finto abete intrecciati con lumini colorati e nastri cremisi che cadevano fino a terra. Sul parquet le ombre tonde delle lampade a intermittenza psichedelica tingevano i vestiti e i visi di fucsia, blu, verde, rosso vivo. La musica rimbombava dalle casse e al centro, sotto il palco su cui sarebbero state consegnate le targhe ai migliori studenti dell’anno ato, un paio di tavoli lunghi erano stati uniti per offrire punch e soft drink analcolici, facendo finta di non sapere che fuori, nei bagagliai delle auto, parecchie casse di birra erano in attesa dei primi avventori. Anna non aveva certo bisogno di bere quella sera, era già ubriaca di attesa, ebbra di gioia. Ballava al centro dello stanzone come se avesse avuto l’argento vivo addosso, e ce l’aveva. Non si era mai sentita così bella e a suo agio in un vestito come quella sera. Phoebe, dimostrando un gusto e un intuito non comuni, le aveva creato il look perfetto. Chi avrebbe mai immaginato che i suoi Doctor Martens si sarebbero sposati con il vestitino di tulle nero, stretto sul corpetto scollato con la gonna corta che si apriva come un tutù? Eppure, era la combinazione giusta. Calze velate, trucco argento sopra la linea nera della matita, rossetto rosso scuro. Coleen vedendola le aveva detto: “Sembri Biancaneve, Anna”.
I riccioli neri, scomposti ad arte, ricadevano come boccoli soffici sulle spalle bianche, danzando al ritmo delle sue gambe esili. Katy Perry e Lady Gaga mescolavano il loro talento alle giovani voci che le sovrastavano con acuti inesperti. Era tesa, ma anche contenta. Si stava divertendo un mondo e cominciava a pensare che non aveva importanza, che lei era bella e piena di amici, che non aveva alcun bisogno che lui arrivasse alla festa: che rimanesse pure a bere e fumare dove voleva. Rideva alle battute dei suoi compagni, volteggiava tra le braccia di Soulo e faceva l’oca con Timothy, il campione di hockey con due cosce da paura e gli occhi del colore del ghiaccio. Era spudoratamente giovane e convinta di avere diritto a prendersi tutto. Mani tese, braccia sudate, Anna aveva fatto una ruota e, rialzandosi, non c’erano le braccia di Soulo a sorreggerla, ma due mani forti che spuntavano da una felpa dei Vancouver Giants. Uno strattone. “Che cazzo fai?” Quando aveva alzato la testa, gli occhi di François erano vitrei. “Hai bevuto?”, gli aveva chiesto, scocciata. “Lasciami il braccio, mi fai male!” “E così hai deciso di farti riconoscere? La puttanella italiana che la fa annusare a tutti.” “Sei disgustoso e puzzi d’alcol.” Anna si era liberata ed era andata via, offesa. Chi si credeva di essere quel se del cazzo per dare a lei una lezione di buone maniere?! Insegnasse il bon ton a sua madre, anzi, lo imparasse lui. Furiosa, si era massaggiata il polso e aveva seguito gli altri fuori, nel parcheggio gelido. Le birre avano di mano in mano; incuranti del freddo e della saliva che si mescolava, i ragazzi stavano andando su di giri. Anna si strusciava su Timothy e i suoi amici: erano troppo carini, e lei troppo euforica. Nicole e Erin la seguivano preoccupate, mentre Sherry Lyn protestava perché voleva ballare.
“Ok, tranqui, va bene, torniamo dentro. Scusate, ragazzi, ma la musica ci chiama.” Anna aveva afferrato le sue amiche per mano ed erano corse di nuovo dentro, ridendo, stupide, spensierate. Gli abbracci e i “ti voglio bene” si erano sprecati sulla pista. Poi il DJ aveva optato per un paio di lenti. Un buuu pieno di disappunto si era levato dalla sala; tutti si erano ritirati ai bordi, troppo timidi per un contatto fisico. Ormai si è bravi solo dietro uno schermo o tramite un sms. Il professore di ginnastica aveva invitato la professoressa di storia e Anna e le sue amiche avevano riso a crepapelle quando lei gli aveva appoggiato la guancia sulla spalla forforosa. Ridevano talmente che nessuna l’aveva visto o sentito avvicinarsi. A questo punto, Anna stringe ancora di più il lenzuolo. Lo attorciglia tra le mani. Le gambe fredde fremono sotto il piumone mentre ricorda quello che è accaduto dopo. Ha tanto sonno, vorrebbe dormire, ma ha paura che, se cede, domani non ricorderà più tutti i dettagli. François che la prende per mano, che le riordina un ricciolo ribelle dietro l’orecchio, che la invita a ballare. Il lento muoversi sulla pista attaccata al suo corpo, il suo odore nelle narici, le mani che le cingono la vita. Come aveva potuto ridere del DJ solo pochi minuti prima? Il DJ era un genio! François le aveva sussurrato parole in se che lei non aveva compreso, ma non importava, il suono di per sé era pura melodia. Erano tornati fuori, lei con addosso la giacca di lui, rabbrividendo ma non solo di freddo. Lui fumava e Anna lo guardava come se fosse la cosa più bella che si possa vedere al mondo: la Statua della Libertà, il Gran Canyon, il mare turchese della Sardegna, un tramonto in barca. Ecco, questo è François per lei, tutto questo
insieme, mille stelle cadenti nella notte. Lo guardava inebetita, senza più pensare. Il mondo era a un o, quel o che non aveva il coraggio di fare per paura di rovinare tutto. Dio, quanto era bello. Le palpebre si chiudono su quel viso amato, sulla mano che si allunga, timida, a spostare il ciuffo per guardarlo negli occhi.
François mi ha baciata. È il 24 dicembre e ci sono un sacco di cose da preparare. Le voci allegre di Coleen, Jason e Phoebe arrivano dalla cucina. Dall’abbaino si intuisce un cielo che promette neve. Devo alzarmi e raggiungerli; ho anche tanta fame. Infilo le pantofole e mi guardo allo specchio accarezzandomi la bocca.
François mi ha baciata. Rido e scendo le scale correndo. “Pancake o cereali?”, chiede sorridendo Phoebe. “Com’è andata la festa? Dalla tua faccia direi bene.” “Meravigliosamente bene! Mi sono divertita tantissimo e il vestito ha avuto un successo strepitoso.” “Allora qualcuno ti ha notata?” Mi strizza l’occhio mentre mi versa del succo d’arancia. “Direi di sì!” Nascondo il viso arrossito nello sciroppo d’acero. “Ti sei fidanzata, Anna?”, chiede Coleen. “Sì, tesoro, con Babbo Natale, e gli ho chiesto, dato che adesso siamo
innamorati, di portarti tanti regali, più che mai.” “Davvero?” Sgrana gli occhi sbalordita. “Certo! Ma solo se mi aiuti a preparare i biscotti.” Le accarezzo i capelli e comincio a mangiare, e mentre mastico un pensiero mi travolge di nuovo e mi chiude lo stomaco.
François mi ha baciata. Respiro chiudendo gli occhi e stringo le gambe sotto il tavolo. Phoebe ha preparato i biscotti di zenzero che io e Coleen dobbiamo colorare con la glassa di zucchero e cioccolato. Creo occhi e naso e cerco di comporre a forma di bocca una gelatina rossa. I bottoni sono caramelle di zucchero.
François mi ha baciata. Aiuto Jason ad appendere le luci colorate in giardino; tutta Kitsilano è piena di addobbi, sembra un festival dell’illuminazione. Infilo i lumini tra i rami spogli degli alberi e cerco uno spazio per il pupazzo di neve gonfiabile alto quasi due metri che abbiamo comprato come decorazione. Ho le mani congelate e rido accettando il tè caldo mentre il giorno scompare.
François mi ha baciata. Alle quattro guardo Natale sulla cinquantaseiesima strada con Coleen, cercando invano di farla addormentare, e sento le mie amiche italiane per gli auguri.
Non posso raccontare loro nulla, non ancora. Devo tenere tutta questa emozione chiusa dentro, perché imploda e mi riempia, ancora e ancora, della stessa inesauribile gioia che da ieri notte non mi abbandona. Il mondo è tinto di rosa, azzurro, verde mela e sta tutto dentro la mia pancia, nutre il mio stomaco, mi scorre nel sangue. Per questo chi ama non mangia, non ne ha bisogno: la linfa vitale a da vene e arterie, come l’ossigeno.
François mi ha baciata. Con i calzettoni rossi e i buffi cappelli di stoffa con il pon pon bianco brindiamo cantando Jingle Bells. Il salmone e le patate ricordano le cene della vigilia italiane, ma qui c’è un’altra atmosfera e da dietro le tende, timidi, i primi fiocchi bianchi scendono ad augurarmi un Buon Natale. Rido con Jason tentando di arrostire i marshmellow sul fuoco del caminetto, infilzandoli sullo stecchino, come faceva Snoopy nei Peanuts, e ripiego sulla coppa di gelato con gli Oreo preparata da Phoebe per compensare il nostro esperimento fallito.
François mi ha baciata. Scartiamo i regali uno a uno. È bellissimo vedere Coleen tentare di entrare da sola nel costume da principessa e sentire l’aspettativa e la gioia di questa famiglia. Quando apro il mio pacco e trovo il maglione bianco con il cappello e i guanti coordinati che avevo ammirato in una vetrina, mi lancio tra le braccia di questa signora canadese, che la mamma la sa fare davvero. C’è amore nei suoi occhi mentre mi stringe chiamandomi tesoro. C’è amore nei miei quando timida le sussurro “Ti voglio davvero bene Phoebe”.
François mi ha baciata.
E il suo messaggino con gli auguri mi manda in estasi. Allora è successo davvero. Si ricorda di me. Mi sta pensando. Mi ama. Ama me! Stringo il cellulare tra le mani e me lo porto al petto, mi trasmette il calore delle sue parole, che mi scuotono da dentro. Quando gli altri vanno a dormire resto sul divano a guardare le luci dell’albero e la neve che vola fuori dai vetri. Stringo la tazza di cioccolata calda tra le mani e rivedo la scena mille e mille volte davanti agli occhi. Il suo viso che si inclina, la mia mano sui suoi capelli, il suo collo, le sue labbra morbide sulle mie. Dal display del cellulare un WhatsApp di Stefy mi avverte che è già sveglia. Digito veloce: François mi ha baciata! Il ciuffo biondo??? GRANDE!!! Sì, molte volte. E “Jasmine coscia forte”? Raccontami! Che muoia! Stefy, ci baciavamo tutto il tempo, tanto che la musica era finita e sono venuti a dirci di andare via! Ahahahahahah. Benone! E brava Anna! E poi: Appena puoi mandami una sua foto decente, ho solo quelle di quando lo stalkeravi di nascosto. Sì, sì, appena ne ho una te la mando. Vediamo cosa succede adesso, è a New York con i suoi. Boh, però mi ha scritto gli auguri. Andrà benone, beata te! Io sempre qua con questi sfigati. Ma dai, vedrai quanto ti diverti a Capodanno in montagna, io starò qua a non far niente. Poveretta lei, a non far niente in Canada, mentre aspetta che torni Ciuffetto. Ahahahah, scema, vado a nanna, ti voglio tanto bene! Anch’io! Mi manchi!
Salgo in camera e mi avvolgo nel piumino caldo. Speriamo che queste vacanze ino in fretta. Mi addormento con il sorriso sulle labbra e un unico pensiero in testa.
François mi ha baciata.
Gennaio
Maria Rosa
Ho avuto un malessere, una colica renale, mi hanno detto, “un dolore paragonabile alle doglie”, come ha sostenuto l’infermiera; ma io che ne so, di doglie non ne ho mai avute. So solo che sono stata davvero male. Sudavo, gemevo, la febbre è arrivata a trentanove e mezzo. A quel punto perfino Tamara si è preoccupata, lei che non è un’allarmista, e ha chiamato l’infermeria. Mi hanno fatto delle flebo e dopo diverse ore di spasmi sembra che abbia “fatto” il calcolo, cioè devo aver espulso il cristallo di sale nella pipì e il dolore è cessato, lasciando dietro di sé indolenzimento e tanta stanchezza. Ma che piacere queste lenzuola bianche, fresche, il cuscino morbido e il caldo tiepido di questa stanzina, così come la mano asciutta della suora che mi ha accarezzato la fronte. “Lei è una madre”, le ho detto, “una mamma deve essere così quando suo figlio sta male.” “Sono la madre di tutti”, mi ha risposto con la sua voce melodiosa. “Sì, anche quella che io non sono e non ho avuto.” Poi mi sono addormentata. Mi sono svegliata e c’era una gran pace, il silenzio interrotto soltanto da i leggeri, voci basse, ogni tanto una macchina che emetteva un piccolo beep a segnalare la necessità di un controllo. E allora sono rimasta così, con la testa girata a guardare fuori, tra la fessura lasciata dalle tende bianche, questo cielo ancora più bianco di gennaio. Chissà se nevicherà, mi sono sussurrata. Che odore ha la prigione? Questo dell’infermeria mi è noto: disinfettante, ammoniaca, alcol. Non mi sono resa conto di parlare ad alta voce, ma la madre mi ha sentita e vuole sapere. “E la prigione? Non intendo la cella, per quella è facile trovare una
risposta.” “Sì, è vero, la cella sa di corpi, di cibo cucinato su un fornelletto da campo, del sudore degli incubi notturni, di fumo”, rispondo, “ma la prigione in sé, il ferro grigio che ci esclude dal mondo, e che al tempo stesso a me ne ha regalato uno, è diversa”. Se avessi le parole, direi che la prigione ha l’odore che ti entra nelle narici quando fissi per ore la linea più scura di un’infiltrazione che ha creato la muffa, quello di una crepa che la malta non ha trattenuto. Ha l’odore del carboncino della matita che ha scritto quelle parole sul muro, o della vernice scrostata dalla parete. Ha l’odore del tempo che a immobile, di un presente immenso e comunque troppo piccolo per contenere il dolore. Ha l’odore della colpa, che come il sangue scorre nelle tue vene e non riesce a essere espulso, rigettato. Ma non le ho, ho solo pensieri confusi a cui non riesco a dar voce: non sono certo come l’Altieri, io. “Allora è brutto.” “No, non è vero, perché da me, nel chiuso di uno spazio stretto, è venuta per la prima volta una sensazione di pace, di poter fare ciò che voglio senza paura.” “Lo sa chi regala questa sensazione? Quella dea alata chiamata Libertà, che viene da dentro, da noi stessi, e non, come è facile credere, da fuori.” Ascolto la suora e penso che è vero. Perché io sono libera ora, e protetta. Dalla violenza subita per talmente tanto tempo da diventare una seconda pelle, dai doveri di figlia, moglie, donna, sempre un gradino sotto la soglia della dignità. “Se le dicessi che per me la prigione ha l’odore di un abbraccio affettuoso, di braccia calde che mi stringono... Ha l’odore di un pasto cucinato da qualcun altro per me, di un sapone dello spaccio che sa di gardenia e che posso comprare senza chiedere il permesso. Ha l’odore dello smalto per le unghie e dell’acetone, che non avevo mai usato prima, o della prima sigaretta che ho fumato. Ha l’odore del meraviglioso profumo dell’avvocato Altieri, che sa di lusso, di belle case, cameriere e giardini curati... Se le dicessi tutto questo, mi crederebbe?” Non ho il tempo di sentire la risposta, perché l’oggetto dei miei pensieri entra sorridente e appoggia la valigetta a terra.
“Avvocato, che piacere.” “Che scherzi mi fa, Rosa! Quando mi hanno chiamata mi sono spaventata. La lascio un paio di giorni e guardi cosa mi combina!” Sorrido. “Avevo voglia di vederla e non sapevo come fare.” “Non faccia la furba, sa benissimo che basta farmi chiamare.” “Scherzavo, avvocato.” “Senta, Maria Rosa, se se la sente vorrei parlarle di una cosa piuttosto urgente. Ieri ho visto il giudice, la situazione è alquanto spinosa. Il problema di fondo è la violenza del reato, soprattutto per la reiterata sequenza di colpi. Però il procuratore Barzaglio è rimasto molto colpito dalla sua testimonianza, si è reso conto che siamo nell’area grigia della legittima difesa. So che non vuole sentir parlare di perizia psichiatrica e non le nascondo che se acconsentisse renderebbe tutto più facile. L’accusa non vede l’ora di archiviare il caso e con l’infermità mentale potrebbe addirittura essere assolta. Io vorrei ci pensasse bene, potrebbe essere fuori in sei mesi e riprendere la sua vita.” “Ma che vita, avvocato, che vita? Io non ce l’ho, una vita.” Stringo il lenzuolo tra le mani e tento di sollevarmi. Sollecita, si china e mi aggiusta i cuscini dietro la nuca; poi, in un eccesso di empatia, si siede sul bordo del letto e mi stringe un polso. “Potrebbe tornare a casa, riprendere il lavoro, essere libera, insomma.” Scuoto piano la testa. “Ma io sono libera. Ho trovato anche delle amiche qui, cosa che non avevo mai avuto, che mi accettano per quello che sono. Io ho ucciso mio marito, ma non sono pazza, e per questo è giusto che paghi. La casa che avevamo era in affitto e una settimana fa mi è arrivato lo sfratto. Quindi, come vede, un posto dove tornare non ce l’ho. E nemmeno un lavoro. Qui dentro c’è chi si prende cura di me: una sensazione nuova, mai provata. C’è chi mi parla e mi accetta per ciò che sono, un’ignorante, ma forse non così stupida come mi avevano sempre fatto credere. Ascoltano le mie parole, i miei consigli, se ne rende conto? E nessuno mi può più fare del male, perché ci sono le guardie a proteggermi. Pensi che adesso ho persino l’autonomia di spendere i miei soldi, anche se, Dio mi perdoni, è la pensione di Mimmuzzo quella che mi mantiene.
Posso sperperare come mi pare, allo spaccio, comprare la cioccolata, lo shampoo, senza chiedere l’autorizzazione. Avvocato, io lo so che per lei tutto questo è assurdo, ma per me è un incanto. E poi, immagini, pare che dato che me ne sto buona, senza dare fastidio a nessuno, mi premiano e verrò inserita in un corso di sartoria che comincerà il mese prossimo. È fatto per ‘le protette’, così le chiamano: ragazze giovani che hanno commesso reati minori, a cui vogliono dare l’opportunità di imparare un mestiere, ma dato che io sono brava e la psicologa, che ne è la coordinatrice, dice che il mio aiuto potrebbe essere prezioso, forse mi faranno partecipare. Ahhh”, scuoto il capo, “il destino mi ha fatto un regalo: ho tolto la vita a Mimmo, ma ora ne ho una io.” “Rosa, se non accetta potrebbe essere condannata a vent’anni per omicidio volontario e scontarne almeno nove, lo capisce questo?” “Sì, e capisco anche che Dio mi ha fatto la Grazia.” “Uscirà a più di cinquant’anni, se tutto va bene... E che farà allora? Il tempo a, Rosa, e rende tutto più difficile.” “Purtroppo a, è vero, perché se potessi scegliere gli chiederei di fermarsi qui: ho delle amiche, sto al caldo, che posso volere di più?” Gaia Altieri si alza e rumoreggia con i suoi tacchi altri sul linoleum verdognolo. Non può capire, questo lo intuisco, ma deve accettare. Armeggia con il telefono, mi chiede di rifletterci ancora, si informa dall’infermiera sui tempi della dimissione, si messaggia con qualcuno e poi, sconsolata, mi comunica che tornerà domani e che a breve avrà bisogno di una risposta. Ma la mia testa è già lontana. Penso a che se mi dimettono in tempo domani sera posso guardare la puntata di Un posto al Sole con le mie amiche e che mi devono fare il riassunto di quelle che ho perso; che sabato c’è Amici di Maria e che ho una voglia pazzesca di fumare una sigaretta in cortile. Perché sì, io, Maria Rosa Favia, non sono più una donna perbene come voleva il mio Mimmo, e mi piace fumare.
Il rito della televisione è qualcosa di speciale: alle 21.00 c’è un Un posto al Sole
e lo guardiamo tutte assieme. Ceniamo sempre più in fretta, ridendo, come bambinette di scuola, e scostiamo le seggiole ancora bevendo o masticando, con impeto, facendo rumore; poi via, in fretta, per assicurarsi i posti in prima fila e il telecomando. Non è semplice ottenere il cosiddetto “bastone del comando”: per poter guardare la nostra telenovela abbiamo dovuto barattare un pacchetto di sigarette alla settimana con tale Elvira, che sembra essere un po’ la capocosca. Comunque ne vale la pena. La prima volta che l’ho visto, ho pianto. Quando Arianna ha scoperto che non sarebbe mai diventata madre a causa della chemioterapia le lacrime hanno cominciato a scendermi giù da sole, sembravo una fontana. E Giorgio, poi, impermeabile all’amore dopo la morte della moglie Valeria. Che personaggi. Mi portano in un’altra dimensione, come tornassi ragazzina; e la sera infatti mi addormento immaginando che avventure così romantiche capitino a me. Diana e Daniela mi prendono in giro: “Gli uomini sono porci, Rosa, avessi fatto il nostro mestiere avresti capito prima la loro natura. Tutti come il tuo Mimmo, che credi? Morissero ammazzati pure loro farebbero un favore all’umanità. Hanno moglie e figli e non sai che porcherie vengono a chiederti”. Parla e aspira il fumo Diana, mi sembra un’attrice, e anche stavolta, quando glielo dico, ride. “Attrice di porno”, ribatte sua sorella, dandole una pacca sul sedere. “Con quel seno sembra la Moana dei tempi d’oro!” Evelyn invece mi capisce, lei è una sognatrice in fondo, come me. “Rosetta, a marzo ricomincia Tierra de Lobos, la più bella telenovela d’amore mai esistita. È ambientata in Spagna alla fine del 1800, e tu non sai che storia: amore, gelosia, tradimenti. Da perderci il sonno. Guarda”, dice, e da sotto il materasso tira fuori una vecchia rivista con un servizio su Cesar Bravo, il protagonista, sfogliato talmente tante volte da aver creato le righine bianche sulla fotografia a furia di consumarne l’inchiostro. E così, quando chiudono le luci, noi due parliamo e lei mi racconta le puntate che non ho visto, in modo che a marzo sarò pronta. “Allora, Cesar è innamorato di Alumenda, ma lei è promessa a Felix, il medico del paese figlio del sindaco.”
“Ma non può lasciarlo?”, chiedo, ingenua. “No, Rosa. È un matrimonio combinato, e poi il padre di lei, Antonio Lobo, odia i fratelli Bravo e Cesar è uno di loro.” “Aahhh, come al mio paese: anche lì c’era la Lisetta che doveva sposare il figlio del fabbro perché erano promessi, anche se lei amava il Giuse.” “Non è come il tuo paese, Rosa, questa è la Spagna. E vedessi che vestiti, e che case: gente ricca, non morti di fame.” Io la ascolto e mi beo delle sue storie meravigliose e sogno di vestiti con la sottogonna, di ventagli di pizzo e purosangue selvaggi su cui cavalcare. Che mi dicano ancora che devo tornare libera.
Sara
L’infermiera tiene la garza con una pinza d’acciaio, la imbeve di iodio e me la a sulla pelle mentre il medico fa scorrere il manipolo dell’ecografo sulla mia pancia per trovare il punto giusto in cui inserire l’ago. “Va bene qui”, dice con voce decisa e si solleva dallo sgabello per aiutare a stendere il telo verde sul mio addome. Solo un piccolo cerchio di carne rimane esposto, ritagliato nella stoffa: da lì faranno il prelievo. Fino a quel momento ero riuscita a essere relativamente calma, avevo talmente pianto negli ultimi dieci giorni che quasi non vedevo l’ora che tutto finisse; ma adesso, mentre vedo l’ago sollevarsi, be’, è un’altra storia. Il fiato diventa improvvisamente corto. “Mi scusi, mi scusi, dottore, si fermi un attimo, ho una crisi d’asma, un attimo, la prego.” Mi rendo conto di urlare. Le punte delle orecchie si sono arrossate e anche la base del collo è calda e pruriginosa. Il cuore mi batte all’impazzata, porto le mani alla gola e faccio per scendere dal lettino. L’infermiera mi tiene giù. “La prego, si calmi.” Mi levo le sue mani di dosso e mi alzo in piedi facendo scivolare a terra il tessuto sterile. Sarà tutto da rifare. “Mi spiace”, ansimo, “chiamate il mio fidanzato. Luca, Luca!” grido. Voglio scappare. Luca entra dalla porta sconvolto, facendola sbattere per la violenza. “Che succede?”
“Luca, non posso, io non ce la faccio... Ci ho provato, ma... Luca...” “Sara...” Mi avvolge in un abbraccio. “È tutto sbagliato, tutto. Non vedi? Io non voglio, Luca, non voglio, andiamo via, andiamo a casa.” Scoppio a piangere tra le sue braccia, medico e infermiera escono per lasciarci soli, pregandolo di tranquillizzarmi. “Tesoro, è un esame da niente, basta non guardare e prima che tu te ne accorga sarà finito.” “Voglio andare via, via!” Il mio grido è un lamento prolungato, una nenia che mi dilania, non riesco a fermare gli ansiti e le lacrime che mi inondano il viso. “Portami via di qui, ti prego.” Mi accarezza la schiena oltre la camiciola dell’ospedale e sussurra piano parole che non capisco. A poco a poco il panico lascia il posto a un’immensa stanchezza. “Sara, ascolta, andrà tutto bene, lo so che hai paura ma devi avere un po’ di ottimismo, devi credere in te stessa e in questo bambino. Ti ricordi che il dottore ha detto che ci sono tanti falsi positivi al tri test e che facciamo questo esame proprio per essere sicuri?” “Sì.” “E allora facciamolo e leviamoci il pensiero.” “Va bene”, mormoro annuendo, “ma chiedi se puoi restare.” Mi distendo rassegnata inspirando ed espirando rumorosamente, a pieni polmoni, mentre la macchina organizzativa rientra in funzione, non senza avermi prima somministrato un blando sedativo. “Altrimenti come la tenevamo giù quella pazza?!”, diranno più tardi alla mensa ridendo di me. Chiudo gli occhi esausta stringendo la mano di Luca oltre la spalla, posandoci la guancia sopra; guardo il muro e poi la lampada del soffitto, cerco disperatamente di non pensare a un ago che mi entrerà nel ventre evitando il corpo del mio
bambino, per definire se è degno di venire al mondo o meno. “Se è fallato la colpa è mia”, vorrei dire all’infermiera, “perché all’inizio non l’avevo voluto, non l’ho amato da subito, ero piena di dubbi. E così non me lo sono meritato, un figlio sano, sono stata punita perché sono cattiva.” Ma sto zitta. Direbbe anche lei che non è vero, come hanno fatto Luca, mia madre, mia suocera e persino Cinzia, pentita e piagnucolante nella sua telefonata per gli auguri di Natale. Ma la cassiera dell’ipermercato me lo aveva detto che le donne che hanno cattivi pensieri sui bambini che portano in grembo vengono maledette dal Signore; era successo anche a lei, che infatti di figli non ne aveva più potuti avere. “Luca, ti ricordi la cassiera dell’ipermercato sotto casa nostra? Quella piccolina con i capelli grigi e le mani enormi, meridionale.” “No, come mai ti viene in mente?” “Non so, mi aveva raccontato una storia, ma è un po’ che non la vedo.” “Avrà cambiato lavoro.” “Sì, probabilmente è così.” Il nuovo corso dei miei pensieri è interrotto dal medico, che si alza con un “Finito” soddisfatto, mentre solleva una provetta piena di liquido amniotico trasparente e limpido. “Guardi che meraviglia, questo certo è un ottimo segno.” “Meno male”, rispondo con voce flebile e un sorriso tirato, guardandomi finalmente il ventre. Un piccolo puntino scuro si distingue appena sulla pelle brunita di iodio, su cui l’infermiera sta ando del cotone. Mi domando se quel minimo segno del mio dolore rimarrà visibile. “Ora due giorni a riposo, tra letto e divano, e poi può riprendere a fare tutto, anche se con moderazione; tempo due, tre settimane le arriveranno i risultati.” Mi rivesto in fretta dietro il paravento.
Il medico ci dà la mano sorridente quando usciamo; avanti un altro, le poltroncine in sala d’attesa sono tutte occupate. Con la testa sulla spalla di Luca e la cartellina rossa stretta al petto guardo a terra fino casa.
Mi sveglio sudata e ansante e, per un attimo, fatico a ricordarmi chi e dove sono. La luce gialla dei lampioni entra dalla strada e getta ombre sul muro. Mi guardo le mani, non riesco a tenerle ferme. L’incubo mi ha steso addosso un’angoscia pazzesca. Scalcio le coperte con i piedi e mi alzo per prendere un sorso d’acqua. Mio Dio. In bagno lo specchio mi rimanda l’immagine di uno spettro giallastro con le occhiaie viola. Ho sognato che il bambino era una bambola di pezza con tutti gli arti staccati e io dovevo comporlo nel modo giusto; solo così avrei avuto un bambino normale. Ma non ci riuscivo. Provavo e riprovavo, pregando Luca di aiutarmi, ma lui era indifferente: “Devo guardare la partita”, rispondeva ai miei appelli. Alla fine avvitavo la testa e mio figlio mi sorrideva, con gli occhi a mandorla e le labbra screpolate. “Non posso andare avanti così”, dico ad alta voce facendomi scorrere l’acqua sui polsi. Da quando ho perso il lavoro mi sto rincoglionendo, le ore di tirocinio non bastano a riempirmi le giornate e ho troppo tempo libero in cui la testa sfugge e pensa, pensa, pensa, a nulla di buono. E comunque da febbraio avrò finito. Devo decidere cosa fare di me stessa, e anche di questo bambino, nel caso il responso dell’esame sia positivo. Assorta mi accarezzo il ventre ormai prominente, mi o la mano sulla rotondità in modo circolare e mi avvio pensierosa in cucina. Ho fame. Come fa una donna incinta a non ingrassare se si mangerebbe due etti di pasta sei volte al giorno, mi chiedo aprendo il frigo. Va bene che sono contenta di aver smesso di vomitare – con questa cera mi mancavano solo i capillari rotti – ma nell’ultimo mese avrò preso almeno tre chili, devo cominciare a fare più attenzione.
Il mio proposito si articola mentre mi riprometto di mangiare più frutta e verdura, bere latte e fare più moto, dato che ho abbastanza tempo libero. Basta pane, pasta, dolci dopo cena e basta vaschette di gelato davanti al televisore per combattere la depressione. Il dialogo prosegue mentre metto una padella a scaldare sul fuoco con due wurstel tagliati a metà e cerco la senape nella porta del frigo. Mi verso una dose generosa di succo di pera, la mia ultima grande ione, e metto a scaldare il pane. Sono le tre e quaranta del mattino, l’ora giusta per un hot dog. Siedo e divoro il morbido involucro, la senape esce dal fondo del panino e atterra con un ricciolo sulla mia pancia tesa. La raccolgo con un dito e lì, in quell’istante, avviene il miracolo. Uno sfarfallio, il battito di un’ala, una piccola onda d’aria che crea, spostandosi, un vuoto. Immobile, mi fisso l’ombelico. Nel silenzio notturno tutto tace, forse è stata un’impressione. Un lungo sorso di succo ed eccolo di nuovo. E allora un mantello mi avvolge, caldo e compatto. Il piatto con i wurstel cade a terra, ma non ci bado e resto incantata e stordita per lo stupore. Il mio bambino è vivo, si muove, nuota e fa le capriole dentro la mia pancia. È un buongiorno festoso, il nostro, nel buio di una notte d’inverno che presto lascerà posto all’aurora e poi a un’alba fredda e rosa che segnerà l’inizio di un nuovo giorno, una nuova vita, mia e sua, insieme. Non ti farò mai nulla di male, ti proteggerò dentro il mio corpo e poi tra le mie braccia, comunque tu sia, e se nessuno ci vorrà ce ne andremo insieme. Sono Ercole, Superman, Wonder Woman ora. “La tua mamma è una psicologa, sai, ha studiato, può mantenerci.” Parlo a mio figlio attraverso i tessuti, i muscoli, le membrane, l’acqua che ci separa e lo protegge. “Il mese prossimo finisco il tirocinio e dato che non ho un lavoro mi metterò a studiare giorno e notte per l’esame di stato. Voglio farlo prima che tu nasca. Compreremo una bella targa di ottone e prenderemo una stanza in affitto
in un multi-studio; la nonna ci aiuterà con i soldi, vedrai. E poi magari ci sarà un concorso, un posto sicuro, ce la caveremo bene. Non avere paura, amore mio, ci penso io a te. Sono brava a organizzare le cose, sai? Sono una su cui si può contare.” “Con chi parli, Sara?” Luca mi fissa dalla soglia mezzo addormentato “Si muove, si è mosso, davvero! È un miracolo, Luca, non puoi capire, è come se tutti i nervi, tutte le cellule del mio corpo si siano allertate per dargli finalmente il benvenuto.” Luca si inginocchia e bacia la camicia da notte abbracciandomi i fianchi, poi posa la guancia sul grembo gonfio e sta lì, fermo, a respirare. “Può darsi che sia malato”, lo avverto. “Può darsi di no.” “E se lo è?”, chiedo con voce stridula. “Non rinuncerò mai a lui.” Luca chiude gli occhi e tace.
Grazia
Al contrario del ato il rientro a scuola è stato entusiasmante, avevo una gran voglia di rivedere i ragazzi e trovare i loro visi rilassati, le chiacchiere e i mille racconti bisbigliati durante l’ora. I regali di Natale li portano tutti addosso: maglioni nuovi, orecchini pendenti, braccialettini di cuoio regalati dal fidanzato. Che tenerezza! Sto diventando sdolcinata. A fine ora faccio il mio annuncio. Ho deciso di riservare questo trattamento solo alla Terza C; i ragazzi di prima, in fondo, quasi non li conosco. “Ragazzi, sono contenta che vi siate riposati durante le vacanze, perché adesso cominciamo a correre. Per chi ha avuto l’insufficienza e fa i corsi di recupero con la collega sappiate che fino al compito di fine mese non interrogo, però a scuola state attenti e studiate. Per gli altri andiamo avanti in modo da fissare i prossimi compiti in classe; direi uno a febbraio, uno a marzo e uno ad aprile, così siamo a posto con i tre voti. Poi eventualmente ci teniamo maggio per chi è in difficoltà. Altra novità: organizziamo le interrogazioni programmate, così finiamo in tempo i due giri. E qui si comincia dalla settimana prossima con chi non ha da fare recuperi.” Un coro di “Nooo”, “Ma prof, perché?”, “Ma se la scuola finisce a giugno perché noi dobbiamo fare tutto entro Aprile?”, “Prof, così ci uccide”, etc. si leva all’unisono. Faccio cenno di tacere. Mi sfilo gli occhiali e li guardo bene in viso. “Può essere che io da fine aprile mi assenti, dovrò fare un intervento chirurgico e non voglio che l’ultimo dei supplenti giudichi senza criterio alunni che ho da tre anni e conosco bene.” “Ma prof...” Ancora proteste. “Credetemi, non sarò severa, e per chi avesse un voto incerto la o il collega avrà comunque modo di fare verifiche successive e tempo per organizzare i recuperi.
Io lascerò comunque tutto scritto.” Ventisei teste annuiscono, più o meno contente; Susanna Brilla al secondo banco fissa la finestra con aria sognante. “Che c’è, Susanna, pensi alla matematica, ché hai un’aria così beata?” Si rimette seduta composta e arrossendo mi sorride: “Mi scusi, prof, è che...” “È che Susanna è innamorata! Prof, è innamorata cotta!” Nardi ride e trascina con sé tutta la classe mentre la povera Susanna, sempre più rossa, china la testa sotto il banco perché non sa più dove guardare.
È un pomeriggio di pioggia e non avendo grandi impegni e poca voglia di pensare ho deciso di tuffarmi nel ato. Così sono andata in cantina a prendere quella che io e mia madre chiamavamo ”La scatola del bye bye”, ovvero i ricordi salvati di amicizie finite male, amori impossibili, cotte consumate con le amiche al telefono stropicciando una foto, regalini dei fidanzati, biglietti di concerti, istantanee di gite scolastiche e vacanze in campeggio. È tutto qui, in una vecchia scatola di latta che aveva contenuto delle bottiglie di amaro in confezione natalizia, dato l’enorme Babbo Natale che brinda dal coperchio. Pesco con le mani e trovo un vecchio diario; c’è scritto “Michele” in ogni pagina, “Michele ti amo”, “Michele forever”, “G&M”, cuori intrecciati e frecce di Cupido. Michele... Che fine avrà fatto? Saranno trent’anni che non lo vedo e non lo sento, da quell’incontro casuale per non so che anniversario della maturità. Ho i ricordi un po’ confusi. Michele era stato il mio primo amore, quello con la A maiuscola. Incontrato al mare, avevamo scoperto di vivere nella stessa città, e nemmeno così lontani, e una storia estiva si era trasformata in una relazione durata cinque anni, dai diciassette ai ventidue. Dentro la scatola ci sono un mucchio di nostre foto; ne accarezzo una che ci immortala sorridenti con le chitarre vicino a un fuoco. Che anni!
C’è una sua ciocca di capelli in una scatolina di vetro e un vasetto pieno di minuscole conchiglie rosa che aveva raccolto per me in Sardegna, me lo ricordo ancora. Poi, avvolte in un nastro rosso, le lettere. Quante! Lettere piene di sentimento, in cui mi giurava amore eterno, poesie, pezzi di canzoni. Poi l’ultima. Devo andare via, diceva così, è la mia ultima possibilità di seguire i miei sogni, Grazia, prima che mio padre mi chiuda in un ufficio. Voglio dipingere, vedere il mondo, essere libero. Mi chiedeva di andare con lui, ma io non potevo farlo. Avevo sudato tanto per la laurea, e l’abilitazione all’insegnamento era un obiettivo che la mia famiglia inseguiva da sempre: un posto sicuro, comodo per una donna che voglia costruire una famiglia, da cui non ti manderanno mai via. Io non ero ricca come Michele, mia madre era una casalinga e mio padre faceva il ferroviere, per loro una figlia laureata era il riscatto sociale da sempre agognato. Ma lui non voleva capire. Mi chiamava borghese, poveraccia, sosteneva che mi stavo chiudendo alla vita. Di sicuro il problema di avere uno stipendio se il suo progetto non fosse decollato non lo riguardava, la ditta di papà sarebbe sempre stata lì ad aspettarlo, così come la giacca e la cravatta che avrebbe dovuto indossare. Era finita. Ovviamente. Non avevamo retto l’urto della lontananza, c’erano meno metodi per comunicare allora, ma credo sarebbe andata allo stesso modo anche in tempi più moderni, certe cose non cambiano mai. Chissà se aveva avuto successo. Forse un modo per scoprirlo c’era e Google poteva essere un prezioso alleato. Smanetto un po’ al pc, di Michele Corsi a quanto pare ce n’è più d’uno, ma di acquerelli o pitture nemmeno l’ombra. Provo a vedere se la ditta di famiglia esiste ancora: eccolo lì, amministratore delegato. Che carriera, mi dico sorniona. “Compagno di scuola, compagno di niente, ti sei salvato o sei finito in banca pure tu?", canticchio Venditti allegra e presa da un impulso invio una mail. Caro Michele, dopo tanti anni di silenzio mi è venuta voglia di sentirti. Ti ricordavo eterno viaggiatore e, invece, eccoti qui. Che ne diresti di raccontarci gli ultimi anni davanti a un caffè? La tua Grazia. Inviato.
Tre giorni dopo siamo seduti, un po’ più vecchi e un po’ più imbarazzati in un bar affollato del centro. Sorseggio il mio tè e lo osservo. “Sei sempre bellissima, com’è che per te gli anni non ano mai?” “Adulatore...” È vero, sono una bella donna, mi sono mantenuta magra negli anni e cerco di essere sempre curata, ma lui non sa che dietro al mio aspetto di oggi c’è un parrucchiere, un trattamento al viso e un nuovo tailleur pantalone che mi è costato una fortuna. Si sa, la vanità è femmina. “Nemmeno tu stai male”, rispondo gentile. “Sei sempre stata una pessima bugiarda! Guardami: ho la pancia, non ho praticamente più capelli in testa e senza occhiali sono una talpa. Graziella”, mi dà un buffetto sulla guancia, “che bello vederti”. “Allora, come stai? Alla fine hai chiuso i sogni in un cassetto e sei rientrato nei ranghi?” Si alza. “Usciamo, ho bisogno di fumare.” Lascia qualche spicciolo e io lo seguo fuori; è una bella giornata ma il freddo è pungente. “Ho provato, sai, intendo davvero. Ma ho fallito. I miei quadri non valevano nulla e dopo anni di vagabondaggi inutili e di LSD, sempre mantenuto da mio padre, ho avuto una crisi più brutta delle altre. Sono venuti a prendermi, mi hanno ricoverato e ripulito e reinquadrato in casa. Dopo sei mesi mi pareva di impazzire. Così sono fuggito in India, al seguito di un santone di cui all’epoca i miei amici alternativi parlavano assai bene, ma anche lì è finita male. Il santone altro non era che un truffatore che mi ha succhiato l’eredità di mia nonna Paola. Così, a quarant’anni suonati, ho messo la testa a posto. Sono tornato e mi hanno accolto come il figliol prodigo. Mio padre era già malato all’epoca e non vedeva l’ora di avere qualcuno cui affidare tutto. Ho fatto un po’ di gavetta, assai poca, giusto il necessario per imparare il mestiere, e poi la scalata: direttore, consigliere e infine amministratore delegato e presidente. Facile e incolore. Ho sposato una donna di vent’anni più giovane, il cui unico obiettivo erano i miei soldi e la posizione sociale, ho due figli che adoro ma vedo poco, e sono così vile che mi vergogno di guardarti negli occhi.”
Schiaccia quella che sarà la terza sigaretta sotto la suola e s’infila le mani nelle tasche. Mi fa pena, specie se ricordo la sua vitalità e l’entusiasmo contagioso che aveva un tempo. È un uomo spento, rassegnato, solo. “E tu?”, chiede guardando dritto davanti a sé. “Io ho fatto quello che dovevo. Sono diventata insegnante e lavoro da più di trent’anni nello stesso liceo. Mi sono sposata con un brav’uomo che mi ama molto e abbiamo avuto una vita buona, piena di bellissime cose. Con l’eredità dei miei genitori sono riuscita finalmente a comprare casa, sai che era una mia fissazione. Figli non ne ho avuti, non sono venuti e dopo anni di tentativi e lacrime ho smesso di cercarli. Oggi quando leggo di donne ultracinquantenni o più che partoriscono ancora mi chiedo se non sia contro natura o, viceversa, se avendone avuta la possibilità non l’avrei fatto anch’io. È l’unico rimpianto che ho.” “Quindi tu ce l’hai fatta a essere felice?” “A modo mio sì, ma avevo altre aspettative.” Siamo rimasti a camminare e a rievocare il ato per un’altra ora; poi, infreddoliti, ci siamo ricordati di avere dei doveri ad aspettarci. Un bacio sulla guancia, una stretta di mano e la promessa di rivederci hanno chiuso il nostro incontro.
È sera, preparo la cena e suonano alla porta. Strano, penso, è presto per Alfredo. Apro al fattorino che mi lascia un rettangolo di carta, dentro c’è un piccolo acquerello, un mio ritratto da ragazza, seduta in un campo di fiori. Nel biglietto poche parole: È sempre stato il mio portafortuna, se fossi stato meno stupido o più coraggioso sarei venuto a cercarti anni fa, sei sempre stata l’unica. Michele. Lo stringo al petto e piango, per quei ragazzi ingenui pieni di speranze e desideri uccisi dalla vita, piango per la giovinezza perduta, per questo tempo che corre veloce e mi sfugge dalle mani. Per le cose che vorrei ancora fare, per Alfredo e Nina che resteranno da soli, per i fiori che ci saranno in montagna quest’estate.
Per la prima volta piango perché morirò e Michele non lo saprà.
Anna
Da:
[email protected] Oggetto: anno nuovo , vita nuova
Ciao Anna, Come sai a gennaio io parto sempre con la lista dei buoni propositi e quest’anno al primo posto ci sei tu! Basta litigate inutili, basta recriminazioni, sei mia figlia e ti adoro, quindi ho deciso di cambiare o. D’ora in poi dobbiamo parlarci di più, sei quasi una donna, è ora di dare una svolta al nostro rapporto. Comincio con lo scusarmi se a Capodanno ti abbiamo inviato solo un sms, la linea andava e veniva, non riuscivamo a chiamare e non volevo lasciarti senza auguri. Però ti abbiamo pensata, abbiamo parlato di te quasi tutta la notte e brindato a che fossi sempre felice. Ci manchi talmente! Non voglio stare mai più così a lungo separata da te! Bisogna che quando torni ci regaliamo un po’ di tempo insieme, noi due sole, ci sono tante di quelle cose che voglio dirti e mi sembra di non sapere più nulla di mia figlia, pensa un po’. Tu come stai? Hai ripreso la scuola? Cosa hai combinato per le vacanze? Lo so che sei rimasta a Vancouver, non pensare me lo sia dimenticato, voglio solo sapere se avete organizzato qualcosa di particolare o se sei stata a qualche bella festa. Saluta Phoebe e ringraziala del bellissimo biglietto di auguri. Scrivimi presto, Ti voglio bene, tantissimo.
La mamma
Da:
[email protected] R: anno nuovo, vita nuova
Ciao mamma, speriamo sia una vita nuova perché per il momento mi pare abbastanza uno schifo! Se le premesse per un buon 2014 sono quelle di questa prima settimana mi sa che ora di marzo mi sparo! Staremo insieme quando torno, ok, ma avrò anche bisogno di vedere le mie amiche! Per le vacanze non ho fatto niente di che, un giorno a sciare a Grouse Mountain e un paio di volte a pattinare in centro. Capodanno festa a casa con vicinato :( Vado, scusa ma non è giornata, magari ti scrivo in un altro momento. Saluti a tutti e un abbraccio al mio Scotty che mi manca da morire. A.
Allungo di nuovo la testa a controllare il display nero e premo un tasto qualsiasi per accertarmi che funzioni. Niente. Ma perché non scrive? Puntello la matita sul testo di biologia battendo il piede nervosamente contro il muro. Inutile studiare, la testa è da un’altra parte e la meiosi non trova spazio nei miei pensieri. Afferro il telefonino con entrambe le mani. “Suona, bastardo”, gli intimo con occhi di fuoco, ma lui nulla, inerte nelle mie mani, una scatola di plastica nera, perfida. Lo scaglio attraverso la stanza e subito mi alzo, in preda al panico, a controllare che stia bene, sia sano e funzioni ancora.
Lo spengo e riaccendo e controllo di nuovo. Ma l’infame, perfettamente in salute, rimane muto. Faccio un’ulteriore prova telefonando a scuola, giusto per accertarmi una volta di più che sia tutto ok, e quando sento scattare la segreteria riattacco. Tra l’altro mi mangerò tutto il credito andando avanti così. Cosa posso fare? È dal 29 di dicembre che non lo sento. I primi giorni ho scritto io dei messaggini esca: Tutto ok? Che fai? Baci :), tanto per capire che aria tirava, e poi ho mandato anche gli auguri di Capodanno, tanto per essere certa di non are dalla parte del torto. Ma non avendo ricevuto indietro nemmeno un “Crepa!”, il giorno 2 mi sono arresa. Certo che inizia bene questo 2014, alla faccia! Ormai è il 10, la scuola è ricominciata e ieri l’ho pure visto in corridoio che rideva con quei cretini dei suoi compagni di squadra. Stronzo! Fino a quel momento avevo sperato fosse malato, che i suoi se lo fossero riportati in Francia e lui non avesse più modo di mettersi in contatto con me, che fosse in coma per un incidente, insomma, tutto, ma non a scuola a ridere come se niente fosse. E ancora non mi scrive. E ieri non mi ha nemmeno salutata, non è venuto a cercarmi. Ma perché?, mi chiedo mentre le lacrime mi bruciano gli occhi. Andava tutto bene. Era stata una serata meravigliosa, possibile che mi sia illusa fino a questo punto? Per la centesima volta, solo nella giornata di oggi, e la diecimillesima da quando è iniziata la mia agonia, ricontrollo lo schermo del mio cellulare. Nero. Infilo le cuffiette e mentre She will be loved dei Maroon 5 fa da colonna sonora al mio sconforto penso che sono io a non andare bene, sono io la più sfigata della terra, quella che non vuole nessuno, quella carina sì, ma non abbastanza, la meno cagata al mondo. Ma perché?! Cosa c’è di così sbagliato in me?! Anche con Seba, a un certo punto era sparito, e ora a sentire Stefy è come un cagnolino
dietro a quella troietta di Carlotta. Io ti amo, François, dico a me stessa nel silenzio della mia stanza, ma perché tu no? Posto un patetico stato su Facebook, In attesa che qualcosa accada, e dopo averlo pubblicato mi sento ancora peggio, faccio davvero pena. Anche al mio iPod, che ora suona Bad day di Daniel Powter e sembra l’unico in grado di capirmi davvero e sintonizzarsi con il mio umore. Cosa farebbe Taylor al mio posto? Oh, Taylor, aiutami! Risoluta mi metto dritta a sedere: gambe intrecciate a terra e schiena appoggiata al bordo del letto. Stringo gli occhi e cerco un contatto telepatico, con Taylor Swift, con François, con qualcuno che mi dia una soluzione, mentre penso intensamente scrivi, scrivi, scrivi. Un beep e una vibrazione accendono il display, ho quasi paura di guardare. Apro la bustina e leggo: Buona giornata, cucciolo, ti voglio bene, papà. Stavolta lo lancio davvero e non vado a raccoglierne i pezzi.
Il piano fatto con Erin e Sherry prevedeva che sabato alla partita di hockey io avrei dovuto essere la più bella; ecco perché adesso che manca un’ora al nostro appuntamento sono ancora nuda davanti all’armadio, che si è svuotato mano a mano che provavo vestiti e li gettavo a terra. Non so cosa mettermi. Quando mi vede deve morire, capire cosa ha perso! Alla fine la soluzione migliore sono i jeans, quelli che mi stanno meglio sul sedere, e il maglione bianco con cappello e guanti ricevuto per Natale. Metto il phard e un po’ di rossetto: ecco qui, sembro proprio Biancaneve, ha ragione Coleen. Ancora una ata di matita e rimmel nero e i miei occhi blu diventano più scuri. Perfetto, Anna, mi dico da sola sorridendomi davanti allo specchio. Ora l’idea è di non filarlo per niente, mai. Neanche un’occhiata. Deve strisciare.
Arriviamo a partita già iniziata, come previsto, tanto per farci notare, e ci sediamo in tribuna con gli amici di Soulo. Sorrido in continuazione e mi sforzo di fare battute stupide, anche se non lo vedo e a dire la verità sono nervosa e non ho una gran voglia di ridere. Ma bisogna attenersi al piano. All’intervallo, mentre saluto Timothy, che mi manda un bacio a fior di labbra dalla panchina, una gomitata di Erin mi avverte del suo arrivo. Vai, Anna, è il tuo momento. Restituisco il bacio a Tim e gli faccio il cenno della vittoria con la mano, lo sguardo pieno di promesse. Poi mi siedo sulle gambe di Chris, l’inutile biondino che non guarderei mai ma che oggi, solo per il fatto di appartenere al genere maschile, fa proprio al caso mio. Sorseggio la sua coca con aria da donna vissuta e arriccio le labbra fingendo che il gas mi sia entrato nel naso. Sono tutta una moina costruita ad arte, ma spero proprio che da fuori non si veda. Dalla chat mi arrivano continui aggiornamenti dalle mie amiche. Ti sta guardando. Bene, penso, e mi chino su Chris a sussurrargli che ho voglia di pop corn. Attenzione Jasmine all’attacco, scrive Sherry. In che senso?, chatto veloce Biblico, fa lei, gli sta arpionata addosso con la lingua sul collo. Chris mi parla ma non lo ascolto, lo odio, è molesto e stupido. E poi è brutto e non è servito a niente. Resisto alla partita anche se vorrei morire, non vedo l’ora che finisca per potermene tornare a casa e affondare la mia disperazione sotto il cuscino.
Al fischio finale tutti si alzano in piedi. “Che si fa? Hamburger in centro?”, chiedono un paio di ragazzi. Soulo organizza che si vada tutti da lui, take away e partita di basket alla TV. “Grazie, ma io vado a casa.” Scuoto la testa davanti ai “Ma dai, Anna”, “È sabato” e “A Tim chi glielo dice”, e mi avvio all’uscita. Tra l’altro che freddo boia fa in questo palazzetto del ghiaccio?! Ho il naso che tra un po’ mi si stacca. Supero il parcheggio e m’immetto sulla strada principale per prendere l’autobus. Quanto vorrei tornare a casa, casa mia in Italia, a Trieste, che sarà pure piccola e sfigata ma assai meglio di questo posto di merda. Mi mancano le mie amiche, la mia scuola, la mia lingua. Sono arcistufa di parlare inglese, di avere freddo e di farmi maltrattare. Voglio tornare indietro. Due ragazzi asiatici mi sorano ridendo tenendosi per mano. Tutto il mondo sembra avere qualcosa per cui essere felice, tranne me! L’autobus percorre le strade larghe piene di luci, ma non le vedo, non mi dicono assolutamente nulla. Come un automa scendo e cammino piano, a testa bassa, verso Alma Street, calcio la neve sporca raccolta a grumi sul bordo della strada. Nemmeno mi accorgo che inizia a piovere. Una mano mi afferra per la spalla, mi forza a girarmi. Infastidita, alzo il viso. François mi guarda tenendomi per le braccia e dice qualcosa che non riesco a sentire. Mi sfilo le cuffiette. “Perché te ne sei andata?” “E a te cosa importa?”, chiedo stizzita. “Io... Volevo...” Non ho nessuna voglia di starlo ad ascoltare, mi giro e riprendo a camminare. “Anna, ascoltami!”
Un tuffo al cuore. “François, cosa vuoi?”, sbotto spazientita. “Non ti sento da due settimane, che c’è ora di così importante che dovrei stare a sentire?” “Mi sei mancata.” “Bel modo di dimostrarlo.” “Anna, scusami.” “Non c’è niente di cui scusarsi... Ehi, è stato un bacio, che ti credi? Non montarti troppo la testa, amici come prima.” “Anna, io non voglio essere tuo amico” “Ah. Boh, in effetti non è che tu mi sia così simpatico, sopravvivrò.” Altri due i verso la mia porta blu in fondo alla strada. “Mi dispiace di non essermi fatto vivo, non c’ero con la testa. Pensavo fosse una cosa così, ma poi, stasera, vederti con quegli idioti mi ha fatto andare il sangue al cervello. Non voglio tocchino ciò che è mio.” Rido sarcastica: “Io non sono di nessuno, men che meno tua.” “Sì invece.” Mi prende la mano, mi abbraccia stretta, così stretta che non riesco a muovermi, mi piega il collo indietro e mi bacia. Oddio, come mi bacia! Le ginocchia non mi sostengono, le mani formicolano e dalla pancia un’onda di calore mi scalda tutto il corpo. Vorrei non smettesse mai. “Adesso ripetilo che non sei mia”, mi sussurra sulle labbra. “Non sono tua...” La voce è flebile e le mie mani tra i suoi capelli mi smentiscono, ma non posso fermarle, sono animate di vita propria. “E invece sì, Anna, sì che lo sei, la mia meravigliosa Biancaneve.” Sta piovendo a Vancouver, siamo fradici, non ci saranno più di due gradi e si sta alzando un vento gelido.
Ma non è vero. Io e François siamo in una bolla calda di sole, isolati dai rumori e dalle luci del mondo, con le mani calde che aprono le giacche e accarezzano il corpo sopra i vestiti, che entrano sotto i maglioni per cercare un centimetro di pelle di cui appropriarsi. Siamo persi nel magico incontro delle nostre bocche, nello strofinarsi dei nostri visi, inebriati di parole d’amore. Non avrò più fame, né sonno, né sete: tutto ciò di cui ho bisogno per continuare a vivere è qui.
Febbraio
Maria Rosa
Il rumore di una porta che si chiude, lo sferragliare del metallo, poi si ferma in un antro piccolo in attesa che la seconda porta si apra; mentre aspetta, il cuore accelera: e se restasse chiusa là? Stai calma, Angela, respira, si ripete in testa mentre conta fino a cento. Di nuovo quel clac fastidioso, un corridoio lungo, un’altra porta tagliafuoco e poi le scale. È tutto grigio, volutamente tetro, psicologicamente inquietante. Arrivata al terzo pianerottolo, una sorvegliante la accoglie. “Buongiorno, sono Angela Roio, sono qui per tenere il corso di sartoria organizzato dalla Regione”, si presenta. “Si accomodi, la stavamo aspettando, le detenute sono già raccolte in sala.” Non un sorriso, né un accenno di cordialità. Angela segue la guardia ed entra in uno spazio grande, sottotetto, male illuminato. Due lunghi tavoli sono posizionati al centro con una scatola di cartone aperta che contiene tutto il materiale di cui ha fatto richiesta al Ministero: forbicine, rigorosamente senza punta, aghi, rocchetti di filo, ditali. A terra due grandi sacchi neri, che presume contengano gli scarti di cui si serviranno. Le macchine da cucire sono ai due angoli della stanza e la lunghezza della parete è occupata da dodici donne mute: le detenute. Occhi di diverse forme e colore la studiano su volti duri, le braccia sono conserte, un paio di loro fumano con aria di sfida. Angela odia il fumo, ma non le sembra il caso di dirlo ora. Nel silenzio innaturale una figura minuta si fa avanti; sembrerebbe una bambina se non avesse quel viso da vecchia, con i capelli castani spenti raccolti in una treccia lunga. Le porge una mano grande, forte, nerboruta, sproporzionata rispetto a quel corpo minuscolo.
“Dottoressa Roio, buongiorno, io sono Rosa e sarò la sua assistente durante le duecento ore di corso, perché so già qualcosa di questo mestiere. Ho fatto riparazioni, orli, balzane e anche qualche vestito, cose semplici da cartamodello creato in casa.” Angela ricambia la stretta e sorride: “Buongiorno, sono Angela e non sono dottoressa, ma solo sarta. Spero andremo d’accordo e faremo tante belle cose insieme. Vi insegnerò a trasformare vecchi materiali in creazioni nuove, come borse, sciarpe, cappelli. Impareremo la tecnica del patchwork, sia per le coperte che per piccoli, chiamiamoli arazzi, da appendere alle pareti. Se ne avrete voglia e ci metterete impegno sono sicura che ricaverete grandi soddisfazioni dal lavoro manuale”.
Angela si è presentata a tutte, ha stretto le mani e memorizzato i nomi, scusandosi in anticipo se per caso ne avesse sbagliato qualcuno. Dopo un po’ ho visto che cominciava a rilassarsi e non aveva più paura, probabilmente pensava fossimo dei mostri e ora si è accorta che siamo donne normali; non come lei, certo, perché qualcosa di male l’abbiamo fatta, ma non necessariamente cattive. Abbiamo trascorso due ore a prendere visione dei materiali dividendo i tessuti per gruppi. Prima di andarsene, Angela ci ha chiesto di pensare a che lavori ci piacerebbe fare e anche di metterci d’accordo per i turni alle macchine da cucire. Questo è un compito che dovrò svolgere io, tra le ragazze sono la responsabile della riuscita del corso e comunque Angela mi considera la sua “assistente”. Quando l’ha detto mi sono fatta tutta rossa in viso. È così bella, ha gli occhi grandi e un bel portamento; mora e formosa, mi ricorda le mie donne del sud. È pure intelligente, altrimenti mica insegnerebbe la sartoria, spiego alle altre mentre torniamo in cella commentando la novità.
Ho fatto i turni e ci ho divise in due gruppi che ruoteranno a seconda dei lavori sotto la supervisione mia e di Angela. Angela ha cominciato a tagliare da un cartamodello e ad assemblare creando
delle borse ricavate con il nylon degli ombrelli vecchi; con lei ci sono Mavus, Sandra, Faraa, Zara, Esperanza e Anele. Io invece sto insegnando la tecnica del patchwork: tagliamo rombi di cartone e li rivestiamo con gli avanzi delle vecchie stoffe, ognuna seguendo la propria fantasia, poi vedremo cosa ne verrà fuori. Nel mio gruppo siamo io, Maiell, Efia, Nala, Isabel, Carmen e Cesira. Quanto alle macchine da cucire, ci è parso democratico che ogni gruppo ne avesse una, anche se Angela vuole che una delle tre lezioni settimanali sia dedicata a cucire a mano; sostiene che è una cosa che bisogna saper fare. All’inizio non c’era un bel clima, tutte ci tenevano a sottolineare che venivano al corso solo per avere sul libretto i soldi erogati dalla Regione e contavano quante sigarette e patatine potevano prendere in più allo spaccio. Un po’ era dipeso anche dal discorso che ci ha fatto Angela quando è tornata per la seconda lezione.
Le ansie di Angela non la facevano dormire la notte. Forse aveva preteso troppo da se stessa, peccando di superficialità. Non credeva che il carcere l’avrebbe impressionata, era una che non si spaventava facilmente e con donne vittime di situazioni difficili si era già trovata a lavorare, ma in luoghi aperti. Il punto non erano le persone, ma le porte, quel rumore sinistro, lo sferragliare duro dei catenacci, l’andito assolutamente vuoto e isolato tra un aggio e l’altro, dove da solo, in piedi, avevi il tempo di temere che anche per te le porte non si riaprissero più. E poi la colpa. Quel terribile senso di oppressione al petto quando uscivi e finalmente ti riappropriavi del mondo esterno. La luce del sole era più calda allora, e i rumori delle automobili più melodiosi, ma al tempo stesso pensavi a chi ti eri lasciato alle spalle e avevi l’impressione di aver tolto loro qualcosa riprendendoti la tua libertà. Aveva chiesto un colloquio con la psicologa della Casa Circondariale, voleva un parere. Sapere se solo lei si sentisse così o fosse una sensazione comune. E in effetti lo era: per tutti coloro dotati di un’anima che andavano dentro e poi potevano tornarsene fuori, lo era eccome. Le aveva consigliato di mettere dei paletti, l’aveva avvertita che c’era il rischio che la strumentalizzassero, che approfittassero di lei per portare fuori messaggi o chissà che altro, di non farsi circuire, perché anche questo era comune.
Così, al secondo incontro si era corazzata e già nell’incedere deciso percorrendo la sala da cucito aveva posto la prima linea di confine. “Perché questo progetto funzioni bisogna che ci sia un patto reciproco tra di noi. Io non sono una vostra amica, sono qui per lavorare e permettervi di farlo a vostra volta il giorno che uscirete di qui. Non potete chiedermi di portare messaggi, lettere, oggetti di alcun tipo ai vostri amici o parenti, non intercederò mai per voi presso le sorveglianti, farò rapporto settimanale alla direzione per riferire sul vostro interessamento e coinvolgimento al progetto e sui vostri progressi. Vi insegnerò a cucire a macchina e a mano, punto. In più, ecco qualche regola per rendere le nostre ore insieme più piacevoli: primo, non si fuma in mia presenza. So che è difficile, ma chi non è disposta a questo sacrificio per un paio d’ore la settimana non merita di essere qui. Secondo: non si bestemmia, sono cattolica e mi dà fastidio. Terzo: non si alzano le mani, avete il tempo di farlo quando io me ne vado. Ultimo: si chiede ‘per favore’ e si aspetta il proprio turno. Ci siamo capite?” Tutte le teste annuirono. “Bene, al lavoro dunque.” Così avevamo cominciato, diffidenti e silenziose, a tagliare, cucire, disegnare. Le ore erano volate senza che volasse una mosca. Ogni tanto sollevando la testa vedevo il viso di Angela corrucciato; credo non fosse contenta della piega che avevano preso le cose, ma al tempo stesso temesse di non riuscire a portare a termine il suo compito in maniera diversa.
La terza settimana le cose sono cominciate a cambiare. Angela è entrata con un vestito a fiori, portando con sé un sacchetto pieno di piccoli bottoni, che evidentemente avevano ato il vaglio della sicurezza. “Sono per le decorazioni, ho pensato che le borsette potrebbero venire ancora più carine se ci applicassimo dei bottoncini, e poi un’amica mi ha detto che organizza un’asta benefica alla Croce Rossa, una sorta di Pesca Magica, e mi sono offerta di mettere in palio alcune delle nostre cose. Ci darà 10 euro a pezzo, che ne dite?”
Le brillano gli occhi e non riesce a nascondere l’entusiasmo. “Dobbiamo consegnare almeno cinque pezzi entro tre settimane. Se ci dividiamo i compiti e un gruppo taglia, uno cuce e uno ricama ce la dovremmo fare. Che ne pensi, Rosa?” “Penso che sia una bellissima idea, e che sì, certo che ce la facciamo.” Batto le mani eccitata, è così entusiasmante avere un progetto vero, e poi, Angela chiede la mia opinione, la mia, di Maria Rosa Favia: solo per questo venderei l’anima al demonio. Una sorvegliante entra accigliata. “Che cazzo è questo rumore? Si lavora o si batte la fiacca? Ci metto un minuto a rimandarvi in cella se continuate a fare casino.” Angela gira la testa di quarantacinque gradi e con le mani ben piantate sui fianchi fissa negli occhi la guardia. “Signorina, le regole che valgono per le signore qui presenti valgono anche per lei, le parolacce non sono accettate nel mio laboratorio, quindi usi altri termini e altri toni se vuole che andiamo d’accordo. Le mie collaboratrici non possono risponderle, ma io sì, vede, non sono una sua assistita.” “Calma, calma, nessuno intendeva offendere.” “Meglio così. Ora se non ha altro da comunicarci la prego di riprendere il suo servizio il più silenziosamente possibile, abbiamo bisogno di concentrazione.” La guardia si allontana, con il suo grosso posteriore ondeggiante nei pantaloni blu troppo fascianti per il suo fisico massiccio, mentre tra di noi ci scambiamo occhiate compiaciute e sornione. Quanti punti ha guadagnato oggi Angela! Mentre affido alla Cesira il compito di scegliersi quattro ragazze per il ricamo sento Esperanza chiedere ad Angela se pensa che si potrebbero fare anche delle fasce per legare i capelli, perché ne vorrebbe regalare una a sua figlia per il compleanno che cade a metà aprile. Angela le accarezza affettuosamente una mano. “Come si chiama tua figlia?” “Maria.”
“E quanti anni compie?” “Otto.” “Ti prometto che non avrà mai visto una fascia più bella di quella che le faremo insieme.” Esperanza la abbraccia di slancio e Angela, dopo una prima, timida esitazione, ricambia la stretta. Ho come l’impressione che da oggi qualcosa sia cambiato.
Sara
Luca la guarda dormire e la trova bellissima. È questo il problema. Sara ha le mani appoggiate in grembo in un atavico istinto di protezione e le gambe raccolte in posizione fetale. La sua pelle, così rosa e delicata da far intravedere le vene violacee in trasparenza, si è arrossata a contatto con la ruvida coperta di lana. I capelli biondi, fini e sottili, hanno mantenuto la consistenza di quelli di un bambino e si adagiano lievi sul suo profilo addormentato. Un orecchio sbuca tra le ciocche. Se fosse sveglia per lei sarebbe un cruccio, correrebbe a prendere un elastico per tirarli tutti indietro furiosa. Sara sorride nel sonno, le palpebre vibrano, chissà che sogno c’è dietro a tutte le smorfie che ano sul suo viso; in ogni caso, dev’essere un sogno allegro. Le a un dito sulla guancia. Quanto vi amo, pensa intenerito davanti a quel pancione che non finisce di stupirlo. Lei si vede brutta e goffa, lui non l’ha mai vista così bella. Sa che non è stato un periodo facile e che ha dovuto violentare il suo carattere, sempre organizzato e preciso, per accettare l’imprevisto sconvolgente che è stato questa creatura, ma spera che le farà bene, che la aiuterà a correggere quel suo difetto di voler sempre sapere in anticipo cosa succederà e di voler pianificare le cose al millimetro. In fondo la vita sfugge a queste logiche. Abbandonata sul cuscino c’è la carta dell’ospedale, l’amniocentesi ha dato esito negativo, come era prevedibile, ma non per Sara. Ha talmente saltato e riso e gridato di gioia che l’ha dovuta mettere a letto con una camomilla, fino a che finalmente si è addormentata. “Una bambina, Luca, è una bambina”, urlava tra le lacrime. “E ora che facciamo, come la chiamiamo? Ti piace Marta? Forse troppo corto. Bisogna che
ci pensiamo, anche a qualcosa che stia bene con Sara, meno banale però! Greta? Compreremo tutto rosa!” Era esagitata e felice come forse non l’aveva mai vista, e impaziente, finalmente, come tutte le mamme del mondo, di stringere sua figlia tra le braccia. “Mancano ancora quattro mesi, non ce la posso fare ad aspettare così tanto, speriamo nasca un po’ prima.” E poi, rivolgendosi alla pancia: “Ehi tu, piccoletta dispettosa, muoviti a crescere, ché la mamma adesso ha fretta.” E rideva, rideva. Quelle due XX le sembravano meravigliose. Sara si muove, sente una presenza, non ha voglia di svegliarsi e di aprire gli occhi, sta facendo un sogno bellissimo. È in un campo pieno di fiori con la sua bellissima bambina bionda che corre e inciampa chiamando “Mamma”. Ha circa due anni e le scarpe da ginnastica rosa; la vede così, un neonato non lo riesce a immaginare, vede già una bambina. Apre gli occhi e sorride a Luca; pensa che magari avrà la sua bellissima bocca. Poi corruga la fronte e si mette a sedere. “Ho tanta fame.” Luca ride, Sara è un pozzo senza fondo da un po’ e la ginecologa l’ha già sgridata per l’eccessivo aumento di peso. “E cosa vorresti, sentiamo...” “Gelato.” “Ma è febbraio, fa un freddo cane.” “Gelato di pistacchio e cioccolato.” si stiracchia e fa le faccine, sa che non si può avere voglia di uscire in questa giornata gelida di vento e pioggia. “Non farmi uscire, ti prego.” Non ne ha proprio voglia.
“No, no, tranquillo, mangerò una pera, mi fa anche meglio, a livello di salute e calorie”, risponde lei con un tono deluso e malizioso che però nasconde un sorriso. Sa benissimo che andrà fuori; deve, se non vuole andare incontro a un muso lungo. “Dove lo trovo?” “Al supermercato di via Combi, se non c’è pistacchio va bene crema.” Luca si alza e guarda fuori: finalmente tira vento, speriamo pulisca l’aria. Portare l’ombrello non ha senso, in giornate così non si riesce nemmeno ad aprirlo. “E va bene, vado.” Sara sorride soddisfatta, si accomoda meglio sul letto e accende la TV, “Oh, c’è Glee, che bello! Dai, fai presto.” Non lo guarda più, persa nel programma demenziale di cui si è apionata da quando è incinta: una volta solo documentari o film d’essay, ora qualsiasi cosa sia per ragazzine le piace. A Natale si è fatta regalare il decoder di Sky per la camera da letto. “Per quando dovrò allattare di notte”, aveva detto. Dieci minuti dopo, quando Luca torna bagnato fradicio, la scena che gli si para davanti agli occhi è molto diversa: una Sara gonfia di lacrime guarda muta la televisione con un fazzoletto appallottolato in mano. Eppure il programma è lo stesso. “Che succede?”, chiede allarmato. “Ma niente”, risponde Sara tirando su col naso mentre il mento le trema. “Solo Brittany e Artie si sono fidanzati, lui è in sedia a rotelle e lei è una cheerleader! Pensa, non è vero che gli adolescenti non hanno personalità allora! Oh, Luca, è così piena di sentimento questa storia.” Si asciuga gli occhi e afferra vorace la tazza piena di gelato. “Scusa, fai silenzio, non sento niente se parli”, e si rituffa nel suo mondo a parte. Luca se ne va scuotendo la testa, le donne incinte non sono tutte giuste!
Apro la porta con il gomito e cerco disperatamente di sfilarmi il cappotto e la sciarpa, aggiustandomi il maglione di lana. Fa un caldo da crepare in ospedale e sono goffissima con la pancia e tutti questi strati che indosso per coprirmi dal freddo. I bottoni non si chiudono più, ma comprare un altro cappotto a fine febbraio non ha senso; con un po’ di fortuna dal mese prossimo mi arrangerò con una mantella di lana. Cerco di non far cadere la mia preziosa cartellina, ben ripiena di carte, ricette e certificati, e mi guardo intorno. Una fila di dodici pance è in attesa nel corridoio. Ognuna di loro regge una testa diversa, che però, in questa sala, è l’ultima cosa che si nota. Le pance si valutano tra loro: chi è agli inizi, chi come noi (io e la mia piccola intendo), altre più avanti, quasi a termine. Cerco posto vicino a una coetanea di gravidanza, cercando di essere socievole e di fare amicizia: chissà che non ne nasca un corso di acquagym o pre-parto, e poi, in futuro, due i a Villa Rivoltella o sul lungomare. Non è facile essere la prima di tutte le proprie amiche ad avere un bambino. Ti schivano, le inibisce il tuo corpo che si trasforma, sono imbarazzate quando parli dei tuoi disturbi o di quella cosa innominabile chiamata “voglie”. Per loro sei una donna a metà, una portaerei, un gigante che non esce più di casa, che ha male alla schiena, ha le macchie, non si tinge i capelli né organizza una seduta di shopping per un abitino con i lustrini da mettere a Capodanno; al limite pantaloni con l’elastico in vita o ampie camicie da uomo. La mia prescelta indossa dei sandali Birkenstock, vede il mio sguardo e sorride. “Ciao.” Sporge il mento indicandosi i piedi. “Non mi va più nessun paio di scarpe.” “Piacere, Sara”, ricambio cordiale. “Nemmeno a me, queste le ho comprate ieri e sono 39 e mezzo, io di solito ho un 38 scarso.” Ammicco verso le mie Nike bianchissime. “Mi sa che poi le dovrò regalare.” “Mi chiamo Sonia”, dice allegra. “Quando hai la scadenza?” “Il 16 giugno”, rispondo fiera. “E tu?”
“Ma dai, io il 14! È maschio o femmina?” “Femmina.” “Anche la mia! E come la chiami?” “Eh... Ancora non so, l’abbiamo saputo da poco e ci stiamo ancora pensando. E tu?” “Io la voglio chiamare Eva, come la prima donna.” “Bello, mi piace.” Ma perché tutti hanno le idee chiare e io invece non riesco più a decidere niente? Un’altra pancia si sporge dalla sedia. “Anch’io ho la scadenza a giugno, verso la fine però; un maschietto, Pietro.” Indica il suo ombelico. “Io invece sono Giada.” Saluto entusiasta; ma che bella questa complicità materna! “È il primo figlio per tutte?”, chiede una voce dal fondo. Annuiamo. “Beate voi, io con un altro bimbo di un anno e mezzo a casa sono sfinita. Piacere, Roberta.” “E questo secondo cos’è?”, chiedo curiosa. “Un altro maschio, mannaggia, si chiamerà Andrea.” “Manchi solo tu con il nome”, mi fa notare Roberta, come se non me ne fossi accorta. “No, anch’io. Saluti a tutte, sono Chiara, e mio figlio o figlia non vuole far sapere di che sesso sia e sta sempre girato.” “Se fa dispetti è una femmina”, sentenzia Giada. “Hai avuto molti brufoli?”, chiede Sonia. “I brufoli sono del maschio.”
“Hai il viso disteso, sarà una femmina”, Roberta chiude la discussione. “Vabbè che è il primo, ci credo che sei distesa, col secondo...” Dibattito singolare, penso tra me e me. Ho avuto i brufoli, non sono affatto riposata in viso, eppure è femmina; magari il vomito era un segnale, vai a sapere. Meglio che stia zitta se non voglio rendermi antipatica. Una volta conosciute le pance è la volta delle cartelline. Come funghi iniziano a spuntare foto di ecografie, con somiglianze palesi a tutte le madri presenti, nel naso, nella bocca, nella fronte. Buste di plastica trasparenti con dentro esami del sangue e curve glicemiche fanno capolino, e così scopro che tutte abbiamo avuto un motivo per stare in pensiero: cresce poco, la pressione è troppo alta, può esserci un rischio di placenta previa, ci sono delle cisti in testa non ancora riassorbite. Tutte abbiamo mentito al medico togliendoci almeno un chilo e mezzo o due a ogni visita, umiliate e colpevoli su quelle bilance che ci facevano sentire come elefantini. Tutte abbiamo avuto incubi, abbiamo pianto per un nonnulla, ci siamo prese un bicchiere di Coca Cola a mezzanotte per il piacere e la sicurezza di sentire, dentro di noi, un movimento familiare. Le mamme parlano e fanno amicizia e progetti e le pance si studiano da vicino. Chissà se anche i bambini stanno comunicando e mormorando, in un linguaggio a noi ignoto, che le loro mamme sono troppo apprensive, esagitate, che quando frignano troppo li fanno sussultare e che le hanno dovute far vomitare per mesi per dissuaderle dal mangiare il salame sulla pizza, il pollo al curry e quell’odioso caffè che al mattino proprio non si può digerire. E si raccontano dei papà che anelano di sentire un movimento che però per dispetto loro non fanno mai. E di come cantano così stonati, convinti che sia una bella cosa far conoscere in anticipo la propria voce. E ridono di noi, questi piccoli esseri quasi soprannaturali, guizzando felici nell’acqua, facendo smorfie e giravolte, ognuno al calduccio nel proprio sacchetto. Io e Sonia ci siamo aspettate e dopo l’ospedale siamo andate a bere un frappè. Tira fuori dalla sua borsa di seta indiana un dépliant sgualcito. “Ecco, vedi, mercoledì e venerdì dalle 11.00 alle 12.30; è molto rilassante.” Vedo già la faccia di Luca quando gli dirò che vado a fare un corso di yoga in gravidanza, ce l’ho proprio davanti agli occhi. Facendo spallucce mi segno gli orari sulla mia agendina.
“Perfetto”, rispondo entusiasta. Gli faremo vedere come le sue donne sanno fare la posizione del grillo e la candela.
Grazia
Gli animali hanno un sesto senso che noi umani non possediamo più. Nina, il mio batuffolo rossiccio ancora cucciolo, si è accorta che non sto bene. Ha preso l’abitudine di strusciarsi tra le mie caviglie e i miei piedi quando mi vede accucciata in bagno a vomitare e mi sta a fianco nei pomeriggi silenziosi in cui l’unico sollievo è raggomitolarmi sul divano in posizione fetale, stringendomi l’addome e prendendo più antidolorifici del necessario per essere in forma e sembrare sana e allegra al rientro di Alfredo. Tanto che male possono farmi?, penso ogni volta che aumento la dose o la frequenza delle pastiglie; non devo mantenermi sana per nessuno, anche perché, a conti fatti, io sana non lo sarò più. Alfredo non parla della mia malattia. Abbiamo siglato un tacito patto per cui fino a che sarà possibile, e speriamo sia a lungo, continueremo a condurre una vita normale, affidandoci al Signore e alla buona sorte. I martedì sera andiamo al cinema e poi a mangiare fuori. Cerchiamo di organizzarci i weekend, per non trascorrere inutilmente a casa tutte le domeniche: facciamo gite fuori porta, eggiate, visite a mostre e musei. E parliamo, parliamo, come non abbiamo mai fatto prima. È che vogliamo dirci tutto, non rischiare di dimenticare nemmeno una frase, un piccolo particolare, sentiamo il bisogno compulsivo di condividere ogni cosa. “Hai visto che belli i piatti di ceramica nella piattaia del ristorante?”, chiede Alfredo mangiando la polenta morbida al timo. “Sì, potremmo chiedere dove si comprano. Senti, credi che ce la darebbero la ricetta di queste costine d’agnello? Sono deliziose, potremmo rifarle a casa.” Compriamo, ossessivamente, le cose che ci piacciono. Sperimentiamo cibi, degustiamo vini. Poco importa che io li rigetti quasi subito, o che continui a trascorrere il mio tempo tra trattorie tipiche mentre ogni mese perdo sempre più peso. Siamo contenti così, e tanto basta.
Per la prima volta nella sua vita, mio marito mi ha accompagnata in un grande outlet a rifarmi parte del guardaroba. Seduto su una seggiolina troppo stretta per lui, è stato ore a dare giudizi su gonne, abiti e golfini che mascherassero la mia magrezza. “Devi vestirti a cipolla, Grazia, la massa di tessuto confonde; mettici una mantella o una sciarpona lì sopra, anche perché così non avrai più freddo.” È vero, da un po’ ho sempre freddo. Mi giro sorridendo, cammino con gli stivali di camoscio stile modella anni Ottanta, incedendo sicura nel corridoio fuori dai camerini. Rido. “Che bello guardarti”, mi dice, e poi di nascosto gira il viso, per non mostrarmi gli occhi troppo lucidi. Siamo rientrati pieni di borse e sacchetti; domattina ci sarà la TAC, e poi finalmente il tanto atteso viaggio a Parigi. “Non ti dispiace che stia via con le ragazze?” “Ma figurati, ne sono felice.” “Ma sarai solo.” “Affatto. C’è Nina e poi noi mariti ci stiamo organizzando.” Mi abbraccia stretta. “Vai e divertiti, ti proibisco di pensare ad altro che non sia tu, promesso?” “Promesso.” Appoggio la guancia sul suo petto di lana morbida e restiamo così, in una coccola muta.
Sdraiata sul lettino, fisso il tomografo, che all’interno del tunnel di scansione sta raccogliendo in modo preciso e inappellabile le immagini del mio addome. Devo restare immobile e anche se il corpo obbedisce la testa è frenetica. Cosa troveranno? Sarà cresciuto? Magari è regredito e starò meglio; no,
regredito è impossibile. Ma potrebbe essersi fermato. Le ultime analisi erano buone. Certo che qualche mese in più mi farebbe comodo, e poi non è che stia così male. A essere ottimista non ci perdo niente. Oddio, e se invece è peggiorato? Come faccio a partire? Alfredo sarà distrutto. Cerco di concentrarmi su qualcosa di bello e mi viene in mente la ragazza incinta che Alfredo ha incontrato quella volta all’ospedale. Era così fiera della sua pancia, non si accorgeva nemmeno della forza che sprigionava accarezzandosela su quella panca di formica verde. La forza vera, quella che solo la vita che crea la vita può dare. E Alfredo era così commosso da lei, così bionda, pulita, pura. Mi è rimasta impressa, e ora la uso, quella giovane donna sconosciuta, come un talismano portafortuna. “Signora, abbiamo finito; resti distesa ancora per un po’, così vediamo che non ci siamo reazioni allergiche al mezzo di contrasto”, la voce del dottore arriva dall’altoparlante. Afferro il tecnico radiologo per un braccio. “La prego, può chiedere al dottore di venire un attimo?” “Certo, glielo chiamo subito.” La dottoressa Fantini entra nell’arco di pochi minuti. “Mi dica, professoressa.” “Dottoressa, com’erano le immagini?” “Non ho ancora avuto il tempo di vederle bene, mi lasci refertare prima di esprimermi.” “In caso sia peggiorato, potrebbe parlare anche con l’oncologo e fare in modo che per il momento mio marito non lo sappia? Devo assentarmi qualche giorno e vorrei fosse tranquillo.” “Capisco. Posso chiederle dove va?” “A Parigi con le mie amiche per quattro giorni, è il mio regalo di Natale.” “Facciamo così allora: io ora mi prendo tutto il tempo di fare la diagnosi e parlo con il collega, il dottor Zanetti, e poi ci sentiamo. Quando torna?”
“Domenica prossima.” “Benissimo. Allora vada, si goda il viaggio e lunedì, dopo il suo rientro, mi chiama e ne parliamo, va bene? Così sta più tranquilla, tanto grosse sorprese non ci possono essere.” Mi accarezza una mano mentre mi alzo e mi accompagna alla porta. All’uscita Alfredo scatta in piedi. “Allora?” “Tutto a posto, nessuna reazione al farmaco, sua moglie è una paziente ideale. Ci sentiamo dopo il sedici, ma da una prima occhiata direi che la situazione è inalterata; come accennavo già a sua moglie, non mi aspetto grosse sorprese.” Un sospiro di sollievo riempie la sala d’attesa. Ce ne andiamo contenti, il suo braccio sulle mie spalle. Non vediamo la Fantini scuotere la testa e fare cenno alla collega di fare silenzio: vuole regalarmi una settimana di pace.
Parigi è bella sempre ed è bella tutta. Dai vassoietti scarni dell’Air , ai tapis roulant del Charles De Gaulle, al trenino per il centro, al taxi incastrato nel traffico, al cadere dei primi fiocchi di neve. È bello l’Hotel D’Aubusson, ex villa seicentesca riadattata in Saint Germain, e il loft a due stanze e salottino che si affaccia direttamente su Rue Dauphine, con le sue travi a vista, il caminetto in pietra di Borgogna e il bagno in marmo. Sono belli i letti a baldacchino con cuscini più morbidi e alti del solito, ma soprattutto siamo belle noi: allegre, sorridenti, amiche. Formiamo un quartetto strano. Io, così magra e alta, con gli occhi felini azzurro ghiaccio, che se potrei esserlo davvero. Clara, piccola e rotonda, con i suoi chemisier morbidi in cachemire e l’immancabile tracolla di pelle scura. Esther, ancora così bionda nonostante il are degli anni, con il viso perennemente abbronzato segnato dal trucco e da mille piccole rughe. E Delia, la più procace, corvina con la bocca carnosa e il seno generoso che non esita a mettere in mostra. Belle signore eleganti, dalla sfacciata grazia italiana, che parlano a voce troppo
alta, inciampano salendo su un taxi e al ristorante finiscono sempre il pane. Clara ha già fatto incetta di campioncini in bagno. “Ma scusa, potevi almeno aspettare l’ultimo giorno, ora cosa usiamo?”, esclama Esther scocciata. “Devi sempre farti riconoscere! Io non la divido la camera con te!” “E invece devi, perché Delia sta con Grazia; gli accordi erano così. E poi non lo sai che gli ultimi giorni non rabboccano più? Si vede che viaggi poco: se devi rubare meglio farlo subito, non a soggiorno finito.” “Io viaggio”, puntualizza stizzita, “però non rubo; questa è la differenza tra di noi”. Clara fa spallucce e riempie la mensola dei suoi prodotti; non so come ci staranno le altre cose se lei da sola occupa già tutto questo spazio. “Andiamo a cena? Sono già le otto e muoio di fame.” Delia infila il cappotto e si avvia. Le brasserie di Saint Germain sono il luogo ideale per questa prima sera; ne scegliamo una e ci accomodiamo ordinando formaggi e vino. Quattro donne piacenti attirano gli sguardi anche se sono di mezza età e stasera abbiamo voglia di sentirci ancora belle e giovani, così quando arriva una bottiglia offerta da due brizzolati signori al banco non ci facciamo pregare. Il vino rosso scende nelle gole, il sapore del formaggio e del fegato d’oca si mescola con l’odore acre di fumo che ancora impregna il locale. Le chiacchiere scivolano via veloci e al rientro in albergo abbiamo appena la forza di inviare un sms ai nostri mariti a casa prima di crollare stravolte sulle trapunte damascate. I giorni volano, tra splendide colazioni a buffet con tanto di croissant e uova al bacon, magazzini Lafayette, eggiate sugli Champs Élysées, visite alla chiesa di St. Sulpice, gelati all’antico Cafè Procope e alla bibliothèque Sainte Geneviève per fotografare la meravigliosa sala di lettura, sempre accompagnate da qualche fiocco di neve. E poi Place Vendôme, un aperitivo al Ritz – siamo o non siamo gran signore? – e un finto acquisto alla Maison Cartier, fingendoci ricche ereditiere in cerca del bracciale giusto. Per scappare poi ridendo, come ragazzine.
Che momenti meravigliosi e indimenticabili, quanta vita!
È sabato, ultima sera, il programma è ambizioso. Zuppa di cipolle dalla Mère Catherine e poi spettacolo al Moulin Rouge. Abbiamo iniziato con quattro coppe di champagne, seguite da una prima e velocemente una seconda bottiglia di Bordeaux. Come da questo viaggio erano state cancellate le visite ai musei, così stasera è vietata l’acqua. Ci reggiamo a malapena in piedi quando arriviamo al cabaret e nemmeno lì ci lesiniamo una bottiglia di Veuve Clicquot mentre ci godiamo lo spettacolo. Rientrando abbiamo eggiato a lungo e ballato. “Anch’io voglio essere una ballerina, mollo tutto e mi rifaccio una vita a Parigi, tanto Maurizio è così noioso!” Delia mima una danzatrice ed esegue dei i maldestri sul pavé del Lungosenna. “Anche Andrea è noioso e ha la pancia; odio la sua pancia, lo voglio lasciare!” Esther grida al cielo: “Ti voglio lasciare, hai capito?” La guardiamo stranite. “Ma davvero?”, domando incredula. “Dopo più di trent’anni di matrimonio?” “Sì, davvero! Ma non lo farò, perché più della mia insofferenza mi peserebbe il fatto di rimanere sola. Ormai i figli sono grandi e se sono andati e a me è rimasto invecchiare con lui. Che fregatura! Avessi almeno la fortuna di incontrare qualcun altro, scapperei a gambe levate. Ma siamo realiste, ho quasi sessant’anni, chi vuoi che mi prenda?” “Non sapevo che le cose andassero così male”, mormoro cercando lo sguardo delle altre due, che però si sentono troppo investite della parte di ballerine per badare a noi. “Ma non vanno male, solamente...”, esita, “vanno. Ogni tanto vorrei ancora provare qualche emozione, accendermi, divertirmi con lui come abbiamo fatto noi qui in questi giorni, ma non è possibile. Vuole stare sempre a casa, guarda ogni tipo di sport, scoreggia senza alcun freno inibitore, sostenendo che ormai
siamo come fratelli. Forse ha ragione, è questo che negli anni siamo diventati: fratelli”. C’è amarezza nella sua voce. “E io mi chiedo per chi continuo ad andare in palestra e a fare i lettini abbronzanti e la ceretta ogni mese. Almeno i fratelli si dimostrano tenerezza, non dico che vorrei il sesso, questo no, ho archiviato quel capitolo, ma potremmo almeno dormire abbracciati, no? Tu e Alfredo lo fate ancora?” Arrossisco. “Be’, sì.” “Ma voi vi siete amati sempre più degli altri.” Resto in silenzio, mi sembra un po’ alterata e non mi pare il caso di raccontarle di Michele. E poi è una cosa che voglio conservare solo per me. Alzo lo sguardo al cielo e mi avvio, incedendo non troppo dritta nemmeno io. All’arrivo in camera nessuna di noi è molto lucida. Clara cade aprendo la porta e si spezza un tacco. “Poco male, erano vecchie!”, biascica ridendo. Poi vedono i pacchetti che ho lasciato sui cuscini e sulle risa e gli scherzi scende il silenzio. Le quattro del mattino ci trovano sedute sulla moquette dell’elegante salottino, ognuna con la sua cornice d’argento in mano, a fissare la foto che ho fatto stampare, noi quattro sorridenti in cima alla torre Eiffel con la neve che cade mentre ci abbracciamo strette. Una giapponese gentile si era offerta di realizzare lo scatto. Un “Grazie” in pennarello nero e le date dei giorni del viaggio sono segnati nell’angolo destro, per ricordare. Per non permettere di dimenticare. Dalle credenze del salotto, dalla scrivania dello studio, dal comodino. Noi quattro. Amiche. Per sempre.
Anna
Da:
[email protected] Oggetto: SCUOLA!
Anna, Mi è arrivata la tua pagella online, cosa stai combinando? Ti chiamo domani alle tue quattro del pomeriggio, vedi di farti trovare a casa. Non sono per niente contenta di te! Mamma
Da
[email protected] R: SCUOLA!
Ok
L’amore annulla tutto e il suo peggior nemico è la scuola. Come si può spiegare a un genitore che non te ne frega niente di un brutto voto perché non ha nessuna importanza, perché tu vivi in un altro mondo dove conta solo come stai, e adesso sì che sei veramente e totalmente felice? Non è questa l’unica cosa che gli dovrebbe importare?
Come lo spieghi a dei quarantenni disillusi, con il cuore che non batte più da talmente tanto tempo che ne hanno dimenticato il suono, che studiare è inutile e non serve, perché tu hai bisogno solo di lui per sopravvivere, per respirare, e se non lo vedi lo pensi, e se non lo pensi lo sogni, e se non lo sogni è perché sei già tra le sue braccia. Che il tempo è poco e devi, devi trascorrerlo con lui, baciarlo, guardarlo, accarezzarlo. Che il cibo è più buono se lui ti sorride e la giornata inizia e finisce con un suo messaggio. Che con un gesto può farti sprofondare dall’estasi alla più cupa disperazione, in un nanosecondo, e non puoi farci proprio niente. Come spieghi che non t’importa di loro, genitori arrabbiati e delusi, che hanno speso per te così tanti soldi per mandarti all’estero a studiare, e pretendono serietà? Che non t’importa più di sentire le amiche, di uscirci insieme il pomeriggio, perché il tuo tempo adesso ha un unico padrone: il tuo cuore? Che fa niente se non avrai il diploma, o non andrai all’università, o addirittura vivrai sotto un ponte, purché voi due siate insieme? Come spieghi il fatto di aver collezionato in un mese una B in matematica, materia in cui eccelli, una C in inglese, una D+ in biologia e una C in se? Non lo spieghi. E, infatti, stai lì ad ascoltare muta la ramanzina su Skype, e ti metti lo smalto sulle unghie, tanto hai detto che la videocamera è rotta e non ti possono vedere. E mentre la voce di tua madre si fa stridula e riecheggia nella stanza fai una fatica boia a non canticchiare e pensi sia una sfigata, una cretina, una che quello che stai provando tu non l’ha mai vissuto. “Mi hai capita, Anna?” Il tono duro di chi vuole mostrare i muscoli. “Sì, mamma” e intanto pensi che sia una fallita del cazzo. “Altrimenti prendi un aereo e torni a casa.” Questo no, mai, è l’unica cosa che non ti possono fare. Allora preghi, piangi, inventi scuse, dici che ti senti sola, che la lingua è difficile, che ti manca tanto casa e finalmente intuisci che forse se l’è bevuta anche stavolta.
Premi il tasto “termina chiamata” dal tuo computer e finalmente tiri un sospiro di sollievo. Ti affacci alla finestra – chissà che sta facendo ora François –, gli mandi un messaggio e con una scusa dici a Phoebe che esci un attimo, che hai bisogno di schiarirti le idee e vai a fumare sulla spiaggia. Eh già, fumare, nemmeno questo piacerebbe a tua madre. E poi, proprio mentre pensi che forse lei ha ragione, che devi impegnarti di più, che tu a scuola eri sempre brava e non sai che ti stia succedendo, eccolo arrivare, dinoccolato, bellissimo, e allora, di nuovo, niente ha più importanza.
Penso a tutto questo mentre guardo Erin, Sherry Lyn e Nicole che mangiano insieme e ridono lanciandosi il pane. Vorrei avvicinarmi, fare la pace con le mie amiche; mi mancano le chiacchiere e i momenti insieme. Sono tutti lì i miei amici: Soulo e Sherry si sono messi insieme alla fine, ma sono capaci di stare con gli altri. In disparte penso a come fare a mettere le cose a posto, mi strofino le punte delle scarpe, mi tocco i capelli. Poi vedo arrivare François, che mi fa cenno di andare. “No, dai, stiamo qui oggi.” “Ma abbiamo solo mezz’ora”, si lamenta, “poi devo correre all’allenamento.” Mi tira per la giacca, mi ruba la sciarpa, mi bacia, ride. Sconsolata, mi avvio guardandomi indietro, ancora una volta ho ceduto. Devo trovare una soluzione, penso mordendomi le labbra. Ma François è così carino. Il punto è che non ce la faccio. Ad alta voce, guardandolo negli occhi, dico: “Ti amo da impazzire”.
Butto la borsa per terra mentre sfilo le scarpe bagnate e il giaccone, grido un “Ciao” generico e faccio per avviarmi su per le scale, quando la voce allegra di Phoebe mi invita a raggiungerla in cucina.
“Anna, vieni a vedere che bella sorpresa!” Mi affaccio alla porta e tutto mi aspettavo di vedere tranne Mia Madre! “Mamma!” “Ciao, Anna.” Calma, seduta a sorseggiare un tè, elegantissima e sottile, in netto contrasto con la morbidezza burrosa di Phoebe fasciata nella tuta da ginnastica. “Che ci fai qui?”, chiedo sbalordita. “Be’, come si dice: ‘se Maometto non va alla montagna, la montagna va a Maometto’. Al telefono sei telegrafica, quando ti si trova, non rispondi alle mail, non invii uno straccio di messaggio per dirci come stai, e così sono venuta a vedere di persona. Tra l’altro, mi diceva Phoebe che le tue difficoltà scolastiche non si sono proprio risolte, anche se adesso Jason ti aiuta con biologia.” “Sei la solita esagerata, potevi chiamare, e invece tu che fai? Prendi un aereo e ti precipiti a controllarmi dall’altra parte del mondo. Alla faccia della fiducia.” Phoebe si alza e con la scusa di portare Coleen in piscina si dilegua per lasciarci sole. Anche se parliamo in italiano non ci vuole un genio per capire che l’atmosfera è tesa. “Anna, sono tua madre. È mio dovere sapere come stai.” “Come se te ne fosse mai importato!” Apro il frigo per prendere una Coca Cola e la bevo direttamente dalla lattina. Chissà se avrà il coraggio di riprendermi ora che non siamo a casa sua. “Usa un bicchiere, prenderai un sacco di malattie.” Eccola qui, signore e signori, vi presento mia madre! Appoggio bene le labbra all’alluminio prima di prendere un altro sorso. “E come hai fatto a trovare il tempo? Il tribunale ha chiuso o i tuoi clienti sono stati tutti liberati? O magari sono morti?”
Scuote la testa, sembra avvilita. Si liscia la gonna nera e sfila un fazzoletto dalla borsa per pulirsi un ipotetico granello di polvere dal naso. “Anna, sono venuta a vedere come andavano le cose, da casa non avevo nessun controllo, e sì, forse è stata poca fiducia, ma tu problemi a scuola non ne hai mai avuti.” “Tanto non lo avresti saputo.” “Ma perché ce l’hai tanto con me? Perché sei sempre in guerra?” “Perché non te ne è mai importato un tubo di come stavo, di quello che facevo, di chi erano i miei amici. Sei sempre e solo stata concentrata su te stessa e sul tuo lavoro. A volte mi domando perché mi abbiate fatta: avevate già i delinquenti come figli, a cosa vi servivo io?! Adesso sei qui a piagnucolare, ma dov’eri il giorno che sono partita, mamma? E il giorno del mio compleanno l’anno scorso? E quando ho avuto la varicella due anni fa? Te lo dico io dov’eri: a lavorare. Cosa mi hai detto quando non sei venuta all’aeroporto?” Scimmiotto la sua voce: “Mi dispiace, Anna, ma stavolta si tratta di un omicidio, capisci da sola che non posso venire”. Sbatto la Coca Cola nel cestino. “Be’, lo sai che c’è, mamma? No, non lo capisco da sola e non solo non lo capisco, ma non me ne frega niente, perché anche se te ne sei accorta solo ora, io sono tua figlia da diciassette anni!” Non riesco più a trattenere le lacrime e morirei piuttosto che darle questa soddisfazione, corro via e mi chiudo in camera, finalmente libera di singhiozzare sul cuscino. Non sono scesa a cena e neppure a guardare la TV; penso che se me no sto qui barricata forse il dolore erà. La odio. Adesso doveva venire, a rovinare tutto come fa sempre, mentre per la prima volta andava tutto bene. Ma che cazzo ha nella testa?, mi chiedo furiosa. Nemmeno Red, mio calmante per eccellenza, sortisce alcun effetto oggi: chissà se Taylor ci ha mai litigato, con sua madre. Provo a cercarlo in internet, nelle interviste dice di sì, ma vatti a fidare. Anch’io qui in Canada ho raccontato meraviglie sulla mia, il grande avvocato. Arriccio la bocca in una piega amara.
Bussano. “Anna, apri. Se vuoi che parta domani dobbiamo parlare, altrimenti resto qui finché non abbiamo risolto questa storia.” Dio me ne scampi! Giro la chiave e torno sul letto a gambe incrociate, veloce come un gatto. Si siede sul bordo, accarezza la trapunta, gira lo sguardo sulla stanza. “Che bello qui.” “Sì.” Alzo le spalle. “Phoebe mi ha voluto far trovare la camera perfetta.” Spero di ferirla almeno un po’ e a quanto pare, dai suoi sospiri, è così. “Anna, io ti voglio bene, è possibile che tu non lo capisca? È vero, tante volte ho sbagliato, ma il fatto che io sia venuta fin qui, attraversando un oceano, dovrebbe farti capire che ci tengo a te. Perché non mi hai mai detto che soffrivi delle mie assenze? Ogni volta eri fredda, sembrava non t’importasse. Anche prima di partire, è vero, ho detto che non potevo venire all’aeroporto... Ma potevi partire qualche giorno dopo e ti avrei accompagnata, te l’avevo anche proposto, come mai questo non lo ricordi?” “Andando avanti ai tuoi ritmi sarei arrivata qui a maggio.” “Non essere sarcastica. Avevamo appena trascorso due settimane insieme, e ci sei voluta venire tu a studiare qui; se sei onesta lo sai che io ero contraria a mandarti via per un anno intero.” “Tanto, sola per sola, almeno ho imparato l’inglese”, replico facendo spallucce. “Ma non sei mai stata sola! Quando non ci sono io c’è sempre papà, e la sera ceniamo sempre tutti assieme, se ti degni di scendere, è ovvio. Sei tu che non parli, che sembra un dispetto farti stare con noi, che ancora con il boccone in bocca ti alzi per tornare in camera a chattare su quel maledetto Facebook. È vero, forse non siamo stati i genitori perfetti, ma chi lo è? Si fanno errori, Anna, non sempre in malafede.” Rifletto in silenzio. Un po’ è vero che anche io ho smesso di parlarle, mi pareva da sfigati, nessuna delle mie amiche parla con la madre. È vero che non ho mai avuto voglia di stare con loro due, che a tavola mi faccio due palle così. “A
tavola parlate solo di lavoro”, alzo il mento con aria di sfida, “per forza che non vedo l’ora di tornare in camera mia”. “Ma solo perché ogni tentativo di parlare con te ha come risposta “sì”, “no”, “mmm”. Monosillabi, Anna! Sei bugiarda se dici che non ci interessiamo a te, che non ti chiediamo sempre della scuola, degli amici, di invitare qualcuno a casa. Ti ho pure fatto mettere a posto la cantina per fare le feste, e papà ha comprato il ping pong, ma tu niente, mai anima viva.” È vero, tra l’altro la cantina è fichissima, ma mi scoccia che conoscano i miei amici, li criticherebbero e basta. “È che voi non mi capite. Tu, non mi capisci.” “E allora spiegami! Sono qui apposta! Ti prego, tesoro, diamoci una possibilità. Se ho sbagliato, e certamente ho sbagliato, ti chiedo scusa, ma lasciami rimediare.” “Ho un fidanzato”, borbotto. “Lo sapevo che c’era qualcosa! Racconta!” Sale sul letto e si accomoda con il viso tra le mani e i gomiti appoggiati. Sono un po’ in imbarazzo davanti a questa mamma che vuol fare l’amica, però per la prima volta da anni mi è simpatica e sento un moto di amore verso di lei. Non voglio ammetterlo nemmeno a me stessa, ma quanto mi è mancata! Mi sporgo dalla sua parte. “Si chiama François, è di Parigi, è qui anche lui per l’anno all’estero. È bellissimo, mamma.” E così, superato il primo intoppo, le parole cominciano a scivolare, facili, spontanee. Le racconto della prima volta che l’ho visto, del nostro primo bacio alla festa di Natale, di quando pensavo di morire perché non mi scriveva più e di come l’ho riconquistato e adesso è mio. E insieme a questo le spiego il mio problema con le amiche, la paura che questa storia sia troppo esclusiva, e che, anche se di lui non so fare a meno, ho bisogno di stare anche con gli altri. Le parlo come non abbiamo mai parlato e mia madre ascolta e consiglia con un’arguzia che non mi sarei mai aspettata negli affari di cuore. “Ma lo sai che sei brava, mamma?!”
“Eh, lo so, non per niente vinco tutte le cause”, ridacchia. “Senti, non so tu, ma io ho una gran fame, che ne dici di scendere in cucina e vedere se la brava Phoebe ci ha lasciato qualcosa? Ho l’impressione che il cibo qui non manchi.” “Oddio, sono ingrassata?” “Ma no, non intendevo te, scema! Ma la mia surrogata americana è un po’ cicciotta.” Ridiamo. Scendiamo al buio, alla chetichella, per non svegliare nessuno. In effetti in frigo c’è cibo per un esercito. Preparo dei sandwich al pollo, formaggio e maionese, mentre mia madre cerca invano qualcosa di forte da bere. “Questi canadesi, ma come si fa a non avere del vino in casa?” Scuote la testa sconsolata accontentandosi di una birra analcolica. Poi è il suo turno di raccontare. Mi parla del processo alla cassiera dell’ipermercato sotto casa, della pena e della rabbia che le procura la sua ostinazione a non voler chiedere l’infermità mentale. “Si prenderà vent’anni per aver ucciso un uomo che la stava uccidendo da anni, capisci? Almeno avessi uno straccio di appiglio per la legittima difesa, ma niente... Il bello è che quel giorno non l’aveva nemmeno sfiorata, probabilmente l’unico dal matrimonio.” Mi chiede di una ragazza, “ be’, non proprio ragazza, sarà sulla trentina” che l’ha fermata per chiederle come stavo e se mi trovavo bene. “Ma chi è, scusa?” “Come è fatta?”, chiedo. “Bionda, un po’ slavata, carina nell’insieme...” “Una vicina che mi ha soccorsa mentre facevo una scenata perché tu non mi accompagnavi all’aeroporto.” “Ah, bella figura mi hai fatto fare, chissà cosa ha pensato!”
“Be’, te lo meritavi, mamma.” Mi racconta di aver visto la mamma di Stefania a una cena, che nella mia vecchia scuola è rimasto tutto uguale e che manco molto alle mie amiche. Di aver proposto di lasciarci andare da sole una settimana in campeggio l’estate prossima. “Ma la mamma di Stefy sostiene che sarà impossibile, è arrivato un nuovo professore di matematica al posto della Moretti e pare che la tua amica non riesca ad arrivare al sei nemmeno con due voti sommati insieme.” “Povera Stefania”, rido, “ora che non ci sono più io a arle i compiti per lei è dura!” Chiacchieriamo del più e del meno fino alle quattro del mattino. Domani non andrò a scuola e le mostrerò la città. “Dobbiamo recuperare il tempo perduto”, mi sussurra baciandomi la testa e rimboccandomi le coperte. Sta per uscire quando la fermo. “Mamma?” “Dimmi, amore.” “Dormi con me?” Non dice una parola, si infila semplicemente nel letto e mi avvolge da dietro stringendomi a sé. Sembra la cosa più naturale del mondo, ma non l’avevamo mai fatta. “Ti voglio bene, mamma.” “Anch’io.”
Marzo
Maria Rosa
Ieri tra le risate generali Angela mi ha tagliato i capelli. Le mie compagne di stanza, come mi piace chiamarle, mi tormentavano da mesi e, saputo che c’era un posto dove si potevano maneggiare forbici, non hanno esitato ad avvicinare le altre in cortile. Così, Faraa si è fatta promotrice e tra le risate generali mi hanno seduta mettendosi tutte attorno in cerchio e hanno aspettato ridendo e dandosi di gomito che Angela, loro prima sostenitrice e complice, finisse il lavoro. In fondo qui dentro chi è sarta può anche improvvisarsi parrucchiera. Le sue mani erano delicate mentre mi pettinavano le ciocche lunghe sollevandole dal collo, e quando mi ha fatto una carezza sul viso, affettuosa, mi sono sentita un calore nuovo. Io carezze in vita mia ne ho avute ben poche: quelle di mia madre nemmeno le ricordo, da mio padre e dalle zie erano schiaffoni, e Domenico... Be’, a Domenico non piaceva accarezzarmi; solo per fare quella cosa lì sotto, quella con la bocca, da svergognata, allora sì che mi accarezzava i capelli, ma più che altro per tenermi bassa la testa. Di carezze date con il cuore, manco una. Per questo forse quella mano bianca e liscia mi ha scaldata, lasciando una scia di fuoco sul suo tracciato. Ho chiuso gli occhi, stretti stretti, pregando lo fe ancora. Toccami di nuovo, chiedevo in silenzio, sporgendo il mento in fuori per esporre il viso, e intanto stavo lì, come un baccalà, a farmi sforbiciare. Finito il lavoro mi ha guardata, i capelli alle spalle e una frangia svasata che ricade sulla destra del viso. “Bella eh, la Rosa?”, ha domandato girandosi verso le altre. “Bella, bella”, hanno riso in coro. Non ho neppure guardato lo specchio, mi è bastato vedermi negli occhi suoi per essere felice. “Molto moderna”, mi ha definita. Moderna, io? Non so nemmeno che vuol dire “moderna”! Una volta rientrata in cella il mio tormento non è finito, perché a quel punto Diana e Daniela non volevano più saperne del mio color topo e di quegli orribili fili grigi. Così, eccomi con un sacchetto di plastica legato al collo, seduta con la schiena rivolta al piccolo lavandino, mentre mi applicano chiacchierando una vischiosa crema che “mi cambierà la vita”. Le discussioni sulla tonalità sono state infinite, ma i colori allo spaccio erano solo quattro, così si è optato per un castano ramato. Speriamo bene.
Evelyn sta a guardare mentre prepara il pranzo sul piccolo fornelletto che abbiamo qui; sta cucinando un piatto africano a base di salsa di pomodoro, fagioli e mais, e l’insieme, con l’odore chimico della tintura, è veramente disgustoso. Finita l’applicazione mi legano il sacchetto in testa e resto così, con la scritta COOP di sbieco sulla fronte, vergognandomi come una ladra. “Ché ti vergogni, Rosa? Accoppi il marito e ti vergogni per la tinta? Ma mica sei tutta normale tu!” Evelyn ride con i suoi denti bianchissimi. Mi sottopongono a un doppio shampoo, il lavandino è intriso di rosso brunito, mettono lozioni e sa il cielo cos’altro, poi spazzolano, tirano fuori da sotto il letto degli strani biscioni di gomma con cui legano i capelli a ciocche, ano il phon e voilà: dopo due ore di tortura finalmente mi concedono di guardarmi allo specchio. “Incredibile”, mormoro stranita fissando l’estranea che mi guarda a bocca aperta. Onde morbide mi contornano il viso, il colore ravviva gli occhi e anche la pelle sembra più rosa. Bella. No, penso, bella è una parola troppo grossa per me. Però gradevole, ecco, questo sì. Non mi ero mai colorata i capelli, né ero andata da un parrucchiere; da bambina ci pensava la zia, che era pratica di tante cose, e poi al matrimonio avevo messo i fiori freschi su un pettinino, ma mi ero preparata a casa. Dopo no, non c’era il tempo, o i soldi, o semplicemente non valeva la pena di alimentare una stupida vanità. “Stai bene così, Rosa, tanto bella non lo saresti comunque.” La voce di Mimmuzzo mi risuona ancora nelle orecchie. E invece guarda qui, mi dico. Chissà se la mia vita sarebbe stata diversa se mi fossi potuta tagliare e tingere i capelli. “Ma la storia non si fa coi “se”, Rosa mia”, mi dico scuotendo il capo mentre le mie compagne seguono il filo dei loro pensieri, lontani anni luce dai miei. “Pensa con un filo di trucco cosa potresti diventare”, mi dice Diana da dietro le
spalle, sistemandomi l’acconciatura. “Va che se la Rosa esce e si fa are per matta si trova pure un fidanzato”, sentenzia Daniela. Matta. È questo che tutti vogliono che io dica. Di essere paranoica, schizzata, demente. Che gli abusi mi hanno fatta uscire di senno, che non ho ucciso per colpa ma perché non c’ero con la testa da troppo tempo. So che lo dovrei fare, l’avvocato Altieri sarebbe contenta, il giudice non farebbe difficoltà ad accettare questa tesi e sarei di nuovo libera. Libera. Strana parola. Sola in un mondo ostile, ecco cosa sarei. Senza le mie amiche, senza il corso di sarta, senza i commenti la sera davanti la televisione aspettando Tierra de Lobos. Libera da cosa? Qui io sono libera, qui ho la mia vera dimensione, qui ho trovato il coraggio di farmi tingere i capelli. Possibile che nessuno capisca che io, là fuori, non ci voglio tornare?! È tanto difficile accettare che il carcere mi ha dato tranquillità? Una famiglia? Un ruolo? Forse sono davvero fuori di testa, ma fosse così, va bene, tenetemi, a maggior ragione, potrei diventare pericolosa per me stessa e per gli altri abbandonata lì fuori. Quanto al fidanzato, sorrido a Daniela: non è necessario che sappia che nessun uomo mi toccherà mai più.
Ciabattine, cuffia, pinza per i capelli, accappatoio e doccia gel, dovrebbe esserci tutto. Mi avvio con o veloce alle docce. È tardi, ma la giornata è stata pesante e ho bisogno di lavarla via, insieme al puzzo di fumo che non mi sono ancora abituata ad avere sempre addosso. Per fortuna non sono troppo fiscali con gli orari. Il getto scorre e per forza d’abitudine lo spengo mentre m’insapono. Ed è allora che sento i rumori: sospiri rochi, un gemito soffocato. Mi ritraggo stringendomi al mio stesso corpo e mi sciacquo veloce, ma un piccolo grido proveniente da destra mi raggela. Devo ammetterlo, sono anche curiosa. Sporgo la testa di un po’, avvolta nel comfort dell’asciugamano, e vedo Zara e Selena, una nuova arrivata che ancora non conosco, baciarsi sotto l’acqua,
con le mani che scivolano sui corpi bagnati. Ho troppa vergogna per restare a guardare, non posso credere a quello che vedo. Corro via, come se avessi un fuoco sacro dietro i calcagni, e in accappatoio e ciabatte mi fermo trafelata dentro la cappella, trovo un banco vuoto e mi siedo. Sono troppo imbarazzata per pensare, ho le guance in fiamme e il fiato corto. Nella fuga non mi sono accorta di aver lasciato tutte le mie cose nel bagno. Una figura arriva da dietro, in silenzio, e mi porge i miei effetti in un sacchettino. Mi alzo di scatto ed ecco Tamara con la sua divisa azzurrina, lo sguardo fisso e un’aria strana. “Rosa, non essere così imbarazzata, le cose che hai visto accadono spesso qui. Se si sta troppo tempo da sole, senza alcun contatto con il mondo esterno, capita di avere bisogno di... Sì, di affetto. E lo si cerca dove si può.” Parlando mi si avvicina, mi sfiora il mento e poi scende, il collo, la clavicola, fino allo scollo dell’accappatoio. Non capisco dove voglia arrivare. “Ma sono...” Mi manca il coraggio di dirlo, faccio un respiro. “Sono due donne!” “Sì, sono due donne, e allora? Forse erano così anche prima, forse lo sono diventate, forse sono rimaste troppo deluse dagli uomini e si sono voltate a cercare da un’altra parte. O, semplicemente, a loro va di farlo a quel modo. E a te? Piacerebbe a te?” Non ho il coraggio di muovermi, Tamara ha un tono di voce diverso, si sfila il manganello dalla cintura e usandolo come una seconda mano mi apre la scollatura. “Vediamo che c’è qui sotto?” Accarezza i seni con la gomma fredda, tremo di paura, non so se ne ho più di quello che sta facendo o di lei e del suo sguardo cupo; vorrei fermarla, ma non so come. Avvicina la bocca al mio viso. Puzza d’aglio, di fumo, di denti mal lavati. Istintivamente indietreggio.
“No!”, strillo a voce un po’ troppo alta. “No lo dico io, ‘sta ferma e non i guai, va bene?” Il suo fetore mi è più insopportabile delle sue mani. Mi stringe i seni, con cattiveria. “Le zinne vecchie della Rosa... Che c’è, che rabbrividisci, solo a quell’Angela le fai toccare, pensi che non me ne accorgo di come la guardi? Pensi che Tamara sia una stupida?” Mi morsica. “Ah!” Gemo di dolore. “Statti zitta, ché non ho finito con te.” Mi slaccia la cintura e mi ritrovo nuda, tremante e senza difese davanti a lei, la guardia, come tante volte è successo con Mimmo o mio padre, impotente di fronte all’ennesimo sopruso. Chino il capo, io lo so che è questo ciò che merito, accetto le mani di Tamara frugare dentro di me, mi ricordano un dolore lontano che, stupida, avevo creduto di poter dimenticare. Delle voci provengono dal corridoio, Tamara si allontana di scatto e veloce mi intima di rivestirmi. “Ehi, Tamara, che fai qui? Vieni a farti un caffè?” Le altre guardie non sembrano nemmeno far caso a me, mezza nuda, nella cappella. “Arrivo, mi ci vuole proprio”, sorride e si volta a guardarmi. “Fila in cella, Rosa. Se ti piglio un’altra volta entrare in chiesa così conciata sono guai seri, per oggi i, ché sono di buon umore, le mie colleghe ti hanno salvata, ma che non succeda più, mi hai capita?” Poi abbassa la voce e, cattiva, mi sussurra: “Se parli sei morta”. Annuisco e raccolgo le mie cose, a testa china scappo via veloce. Da dietro la voce di Tamara mi deride. “Ma guardala, pare un coniglio spaurito!” E giù a ridere di gusto. “Scappa, scappa, coniglietto.” Nella mia brandina, sotto la spessa coperta marrone, mi stringo il corpo che non
riesce a stare fermo, cerco di impedire alle gambe di saltare e intanto penso a che avrà voluto dire con quella frase su Angela: com’è che la guardo io? “Stupida, stupida, stupida.” Batto la testa sul ferro della testiera e a occhi sbarrati accolgo il mattino.
Dopo diversi tentativi impacciati sono riuscita a raccontare ad Angela quello che ho visto nella doccia la sera prima. Di Tamara non ho detto nulla, avevo troppa vergogna, ma delle due donne insieme, be’, volevo sapere che ne pensava lei di questa cosa. “Non ti sembra anormale, Angela? Saranno malate?”, chiedo tutta rossa senza alzare il viso, infilando il rocchetto nella macchina da cucire “Ma no, Rosa, che malattia e malattia! Mica siamo più nell’Ottocento, che certe cose non si sapevano. Tu devi capire che è normale, specie in ambienti chiusi come questo. Non è un fenomeno isolato. Che t’importa cosa fanno, se non vengono a chiederti nulla? Io lo so che tu vieni da un mondo antico, dove si trova un uomo, ci si sposa, si va a letto solo con lui tutta la vita e se ti bastona o t’ammazza è comunque per volontà di Dio... Ma è un mondo che non esiste più.” “Ma allora tante donne lo fanno?” “Quante non lo so, qualcuna di certo sì. E comunque lo fanno anche gli uomini.” “Anche gli uomini?” Sono stralunata. Angela ride di gusto e scuote il capo. “Ma dove ti hanno trovata, sotto un cavolo?” “Ma tu lo sapevi?” “Sì, lo sapevo” “E non hai mai detto niente?” “E che dovevo dire? Sono solo una sarta, una volontaria non troppo ingenua che sa riconoscere la solitudine. Non fanno male a nessuno, non creano problemi, si
attardano, diciamo così, un paio di volte la settimana sotto la doccia: chi sono io per giudicarle o magari farle punire? Se ci trovano conforto allora vuol dire che va bene.” “E credi lo sappiano anche le sorveglianti?” “Credo di sì. E credo che non gli importi nemmeno. Comunque, sai, alcune di noi sono più tolleranti, altre magari ne ricavano un tornaconto a stare zitte, altre ancora sono così pure loro.” “Davvero?” Spalanco gli occhi. “Davvero.” Sorride davanti al mio stupore, poi stancamente si alza e ripone gli scampoli tagliati. “Forse è difficile spiegare la vita a una ultraquarantenne che ha l’esperienza di una bambina di dieci anni, come me.” “Ma che dici? Mi fa piacere che parliamo.” Mi cinge le spalle e le stringe piano. Vorrei chiederle se a lei è mai successo, ma il coraggio proprio non mi viene. Vorrei dirle di Tamara, ma a che servirebbe? E se poi quella mi ammazza davvero? “Statti zitta”, mi ammonisco, “lo sai bene come va a finire”.
Sara
Studio. Tutto il giorno. Ho ato la prima prova dell’esame, il tema di psicologia generale. Ora mi restano il progetto e il caso clinico e, a Dio piacendo, l’orale. Questa eliminazione diretta è abbastanza stressante, ogni volta ci sono meno soldati sul campo di battaglia, così mi piace immaginarlo. Se tutto va come spero, entro maggio avrò finito, poi nascerà la bambina, dopodiché mi occuperò per un paio di mesi di lei a tempo pieno e intanto comincerò a crearmi una situazione lavorativa autonoma. Respiro. Andrà così. Deve andare così. Il rumore della pioggia mi distrae, è una di quelle giornate in cui non ti alzeresti mai dal letto, già buie prima che faccia sera. Guardo la pioggia scivolare sulla porta-finestra della cucina e mimo, armata di righello, uno sparo al frigorifero, mio acerrimo nemico e tentazione irresistibile. Non cederò. Ho comprato solo cose sane, non posso continuare a mangiare come un bue. Ogni volta che faccio la doccia inorridisco davanti allo specchio spalmandomi l’olio di mandorle: non si assorbe mai e mi fa sembrare una caramella succhiata. Comincio a vergognarmi davanti a Luca, non voglio veda la ritenzione idrica, le caviglie come salsicce, l’ombelico in fuori e quell’orribile linea scura che sta comparendo in mezzo alla pancia, un’ombra che la divide in due. E sì che la mia non è nemmeno grossa, Sonia mi ha detto che la sua è larga un dito; vabbè che è una moracciona, però... Fisso alternativamente il frigo e la pioggia, e la testa si perde. Sono rimasta molto colpita ieri al supermercato: ero in coda alla cassa con il carrello pieno e Lea, la cassiera extracomunitaria incinta che mi è tanto simpatica, con i suoi grandi sorrisi e le teorie strampalate sul parto, mi diceva che i nostri bambini saranno amici; lei avrà un maschietto, Abdul (eccone un’altra che sa già il nome). Tra un beep e l’altro le ho chiesto dove fosse finita la sua collega, Rosa, quella piccola e magrolina che afferrava tre prodotti alla volta.
“Eh, la Rosa non se la a bene, sta al Coroneo, la prigione in centro, ad aspettare il processo. Ogni tanto la vado a trovare, se vuoi le porto i tuoi saluti. Sai che se Abdul non era maschio gli davo il nome Rosa, come lei.” “Scusa, al processo per cosa?” “Ma non lo sai? Ha ammazzato il marito, ma era ancora settembre.” Fa un gesto come a dire “ne è ata d’acqua sotto i ponti”. “Ha fatto bene, sai, la riempiva di botte. Nessuno lo sapeva, ma io vedevo i segni. Come mio padre: anche in Africa picchiano le donne. Ma Abdul sarà diverso, lui nasce in Italia.” Annuisce convinta e sbatte gli spinaci in fondo afferrando le zucchine. “Ma come ha ammazzato il marito?”, chiedo strabuzzando gli occhi mentre le o le mele. “Con il mattarello, così, una mattina che ha perso la pazienza, povera anima.” S’interrompe per mimare il gesto di una testa che viene fracassata e poi subito si fa una specie di segno sulla fronte per cacciare via i pensieri cattivi. Sono esterrefatta. “E come sta? Ce l’ha l’avvocato?” “Ce l’ha, ce l’ha. Quella che sta nella villa, in viale Terza Armata, non mi ricordo il nome, la difende gratis. Ma tu non leggi i giornali?” “Eh no, non molto, ho avuto un periodo un po’ intenso”, mi giustifico, vergognandomi un po’. “Salutamela tanto quando la vedi.” Pago in fretta ed esco. Rosa un’assassina, che storia. Mi pareva così gentile e mite, certe cose non te le aspetti proprio. E sì che sono quasi psicologa, mica li avevo visti i segni. Eppure... Un ricordo inutile, una giornata qualsiasi. L’avevo incontrata per strada, l’avevo salutata, Rosa mi aveva risposto con il suo solito tono, a voce bassa, mite. “Buongiorno.” Ricordo di aver notato il cappotto liso, il viso stanco e segnato e di aver pensato che per alcuni la vita era più dura che per altri.
L’avevo guardata allontanarsi, un po’ ingobbita per il peso delle sporte. Poi il portamonete a terra, di stoffa rossa, con dei fiorellini dorati, unica nota di colore su un marciapiede di vita grigia. “Signora Rosa, aspetti”, le ero andata dietro. “Credo sia suo, le dev’essere scivolato dalla tasca.” “Oh, grazie.” Due occhi stupiti, poco abituati alla gentilezza. Aveva alzato il viso e lì, nel movimento del collo, eccolo, quel segno nero. Aveva notato il mio sguardo perplesso e si era affrettata a rimettere a posto la sciarpa. “Si è fatta male?”, avevo chiesto, esitante. “Oh, non è nulla, sono così maldestra, un barattolo mi è scivolato addosso dallo scaffale.” “Oh.” “Sì, be’, grazie allora. Arrivederci.” “Arrivederci.” Forse avrei dovuto capire, ma poi non ci avevo più pensato. Strano come i collegamenti vengano in mente dopo, a cose fatte. È tanto più facile non vedere.
Le mie riflessioni sono interrotte dal telefono. “Hai iscritto la bambina al nido?” “Ciao mamma, buongiorno anche a te, come stai?” “Sara, la tua ironia è irritante, te l’ho mai detto? Allora, l’hai iscritta o no?” “Mamma, la bambina nasce tra tre mesi.” “Appunto. Vuoi lavorare o dopo tutti i sacrifici che abbiamo fatto io e tuo padre ti ridurrai a fare la casalinga obesa?” Non sopporto che nomini mio padre, specie nei suoi deliri organizzativi.
“Mamma, non posso iscriverla prima della nascita, non ha nemmeno un nome. E poi, scusa, anche per scaramanzia, metti che qualcosa vada storto?” “A parte che al limite disdici”, è sempre così delicata mia madre, “comunque fai tu, solo non vorrei contassi su di me, ecco tutto, ho anch’io le mie cose da fare.” “Sì, lo so, non ti preoccupare, non facevo affidamento. Comunque Nadia si è detta disponibile.” Conto fino a dieci e come previsto arrivata al quattro è già esplosa. “Vuoi lasciare la bambina a quella?” “È pur sempre la nonna.” In cuor mio gongolo. “Va bene, Sara, questa conversazione finisce qua, non ci sei con la testa.” Sbatte giù la cornetta. Dopo neanche un minuto richiama. “Io sono la nonna”, e sbatte giù di nuovo. Riafferro il righello scuotendo il capo divertita, mia madre non cambierà mai. Chino la testa e m’immergo nei disagi familiari.
Il volantino diceva: “Ostetrica professionista offre corso pre-parto in casa per piccoli gruppi”. L’indirizzo del palazzo è esatto, la zona non sembra delle migliori, piena com’è di bar che servono alcolici già di primo mattino, ma non voglio farmi influenzare. Il contatto me l’ha procurato mia suocera. “È l’amica di un’amica di Gloria, la mia parrucchiera, mi ha detto che anche se costa un po’ ci vanno tutte perché sei molto ben seguita, non c’è paragone con quelli gratuiti in consultorio.” Così, eccomi. Suono e salgo a piedi, l’ascensore non c’è. Arrivata al terzo piano, uno zerbino con un vaso di fiori è messo di traverso per tenere la porta semiaperta. Entro con un timido “Salve” e attendo indecisa in corridoio. Una donna sulla sessantina in caffetano arancione mi viene incontro. “Accomodati, cara, le altre sono già in salotto.”
Il salotto è una stanzetta buia, con un divano liso in ciniglia beige su cui stanno sedute quattro donne con il pancione. Davanti, un tavolino con dei bicchieri di carta e un thermos; un’altra signora un po’ meno giovane gesticola dalla poltrona. “Buongiorno, accomodati.” Mi indica una seggiola. “Io sono Milvia e la mia collega Rossana l’hai già conosciuta.” La donna in caffetano mi tocca una spalla come a confermare una relazione già in essere. C’è un odore strano, mi guardo intorno e compaiono dei gatti, saranno quattro, forse cinque. Si strusciano sinuosi e ambigui sulle gambe delle mie pari, gli occhi inquietanti che ci fissano. Mi fanno terrore. Non ho mai amato molto la natura e gli animali, sono una di quelle che scappano davanti a un ragno e possono morire per una cavalletta. Ma nonostante io non abbia mai avuto aspirazioni da veterinaria, questo appartamento buio pregno di olezzo animale non mi sembra tanto igienico per delle donne incinte. “Voi lavorate all’ospedale?”, chiedo. “Io sì”, risponde pronta Milvia, “mentre Rossana è in pensione, ma ci lavorava fino a due anni fa e conosce tutti; è un’autorità lì dentro”. “Ah, bene”, mormoro, chiedendomi se conoscano il significato di toxoplasmosi. Rossana spiega come si svolgerà il corso: una volta la settimana, per cinque settimane, tratteranno la respirazione, alcune tecniche di rilassamento e ci insegneranno qualche trucco. Poi, se ti sei trovata bene, ti possono aiutare anche dopo il parto, con l’allattamento, i primi bagnetti, la caduta del moncone ombelicale. Rabbrividisco. Una signora chiede se avrà le ragadi. “Certamente”, rispondono all’unisono: ma niente paura, loro sanno come curarle e non farle sanguinare. Fanno una battuta volgare. Mi stringo nel poncho e tiro un calcetto al gatto soriano senza farmi vedere. “Bestiaccia”, gli sussurro, “vattene via”. Un’altra ragazza, che si è appena tolta le scarpe e si è distesa a terra con due felini sulla pancia, chiede come funziona con il parto.
“Be’, noi sconsigliamo di correre in ospedale, ma tante di voi dicono “sì, sì”, giurano che ascolteranno, e poi all’ultimo gli prende la tremarella e scappano su.” Indica le strada per il Burlo, l’ospedale infantile, in una linea fittizia che a in mezzo a noi. “Perché, se non si va all’ospedale, dov’è che si va?”, chiedo perplessa. “Ma cara! Qui!” “Qui?!”, chiedo con voce stridula. Devo avere una faccia allibita, perché si sente obbligata a specificare. “Be’, anche a casa vostra, se avete difficoltà a muovervi; certo, costa qualcosina in più, ma se non ci sono altre di voi, quella notte, si può anche fare.” Milvia annuisce con vigore: “Tieni conto che il travaglio a casa è tutta un’altra cosa, stai nel tuo letto con tuo marito, compagno o quello che è, vicino, e quando vediamo che si è prossimi al parto prendiamo la macchina e andiamo in ostetricia. Le volte in cui siamo più fortunate le nostre ragazze stanno in sala parto solo mezz’ora”, si danno di gomito. “Comunque anche qui non è male, c’è anche una bella vasca da bagno dove ci si può rilassare tra una contrazione e l’altra.” Si accende una sigaretta e nessuna sembra farci caso; anzi, la ragazza a terra le chiede pure un tiro. Rossana prosegue spiegando i cosiddetti trucchetti per accelerare il parto: l’olio di ricino, un po’ di sesso – e strizza l’occhio –, alcune manovre strane di cui non colgo il significato. Poi si lanciano in una diatriba sui medici, boriosi, incompetenti, con poca manualità, e sostengono di averli levati d’impiccio più di una volta, con l’istinto pratico della levatrice, perché l’esperienza vale più della grammatica e i dottori, con tutti quei loro modi garbati, tante volte le decisioni non le sanno prendere. Parlano, parlano, e tutte pendono dalle loro labbra. Inizia il processo d’iscrizione. Sono cinquanta euro di acconto da dare oggi per garantirsi il posto – “sono piene così”, mostrano chiudendo le dita di entrambe le mani – e il saldo di centocinquanta dopo il primo incontro. Per il parto invece c’è una tariffa a parte: cinquecento euro in casa propria, quattrocento lì da loro. Un bel risparmio. In ospedale di soldi non ne possono chiedere: per questo si arrabbiano tanto se
poi le “loro” ragazze cambiano idea, ma dato che non sono avide, né interessate, se sono in turno una mano te la danno ugualmente. Certo, poi magari qualcosina si usa dare. Per il dopo ci si accorda, senza fretta, tanto lo sanno quanto bisogno abbia una neo-mamma di una guida esperta. Mi alzo per andare in bagno, Milvia mi accompagna tenendomi per il braccio. Le sue unghie color corallo sono lunghissime. “Non buchi i guanti con questa manicure?”, chiedo con studiata ingenuità. “Non me lo dire! Infatti appena posso non li uso, anche perché mi si strappano sugli anelli.” Accende la luce e mi porge un rotolo di carta igienica nuovo. Il bagno è piccolo, stretto, un mosaico degli anni Settanta con fughe nere e piastrelle mancanti. La famosa vasca dove rilassarsi ora contiene lo stendino, lenzuola e asciugamani di spugna scuri gocciolano sulla macchia di calcare del fondo, e la lettiera dei gatti, con piccole palline nere sospette, giace mezza rotta sotto il lavandino. Mi viene da piangere. Credo che opterò per le classiche nove ore di travaglio primiparo nel comfort di una struttura sanitaria, che puzzi di alcol ma non di gatto e dove i guanti siano obbligatori. In silenzio prego il signore che Milvia quel giorno sia malata. Lascio, vigliacca, i cinquanta euro, ma so bene che non mi vedranno mai più.
Grazia
Il ricevimento pomeridiano dei genitori rappresenta un girone infernale dantesco. Schiere di madri e padri sudati e innervositi dall’attesa e dal mancato rispetto del numero assegnato scalpitano alle porte dell’aula, e più il pargolo è ignorante più assumono un atteggiamento aggressivo. Mi piace la matematica, da sempre, e sin da ragazzina sognavo di fare questo mestiere, ma in pomeriggi come questi, con trent’anni di colloqui alle spalle e dopo aver aver affrontato ogni categoria di “essere umano”, devo dire che invidio i colleghi di educazione fisica e religione, che hanno solo pochi questuanti ad attenderli. La madre e il padre di Vincente avevano naturalmente il numero uno e sono venuti insieme. Non avevo granché da dire loro, sennonché il figlio aveva un nove consolidato e che continuasse così. In realtà se avessi voluto davvero fare l’educatrice e non solo l’insegnante le cose che avrei dovuto consigliare sarebbero state molte e diverse, ma hanno sessant’anni, non cambieranno loro e nemmeno lui, quindi in un impeto di cinismo mi sono ribellata e li ho liquidati in quattro minuti. La madre di Girometta della Prima B è stata un’altra storia. Suo figlio sco la matematica proprio non la capisce, non c’è niente da fare. Va a ripetizioni il pomeriggio, studia sodo, ma questo agognato sei non vuole arrivare. Mi guarda torcendosi le mani, un po’ vergognandosi e un po’ speranzosa di aver suscitato la mia pena. In realtà sco non ha nessuna voglia di studiare, è amico di tutti, ride e scherza, non sta mai fermo. Ci credo che vada a ripetizioni, non è un’aquila, ma studiasse un’oretta ogni tanto il sei l’avrebbe eccome. Lo vedo mentre calcia il pallone in cortile o quando sfreccia con il motorino salutando i compagni, o mentre fa la corte a Greta, che gli a il compito ogni volta che può. Ma è talmente giovane, così carino con le mani affondate nelle tasche e il cappuccio tirato su, così mingherlino, che non riesco mai a prendermela troppo con lui. “Signora, lo faccia applicare. La matematica è costanza e tanto esercizio, oltre allo studio delle regole. Per il resto mi basta almeno un sei nello scritto e siamo a
posto. C’è tutta la volontà di aiutare sco, ma lui deve dimostrare impegno.” “Grazie, professoressa, grazie. Studierà, glielo prometto, altrimenti giuro che gli torco il collo. La ringrazio tanto, lei è una donna così sensibile, così umana.” Ci mancava poco che mi dicesse che ero anche intelligente, interessante e bella, penso scuotendo il capo. Ed è a capo chino che mi trova la madre di Alice della Terza C. Alice è anche carina come ragazza, ma è maleducata, poco seria e non ha voglia di fare veramente nulla. Va malissimo in tutte le materie, risponde spesso male, si rifiuta di uscire alla lavagna e spesso nei compiti in classe scrive solo il nome e il cognome. Sappiamo tutti che i genitori sono divorziati e che vive un brutto periodo, ma questo non giustifica le continue assenze e il rendimento a dir poco scarso. Non mi dà nemmeno la mano, scandisce il cognome e la classe di sua figlia e parte in quarta con una sequela di insulti. “Siete impreparati, ridicoli, dei pagliacci. Questa scuola fa schifo, come del resto voi insegnanti. E lei, mia cara professoressa Moretti, con quello sguardo gelido e sadico, invece che insegnare genera terrore. Se mia figlia non sa la matematica la colpa è sua, sì, sua, che non è in grado di spiegare e di seguire i ragazzi in difficoltà. Mi ero accorta dal primo momento che faceva preferenze, otto e nove ai suoi pupilli, mentre chi non le è simpatico arriva a stento al sei. Sono stufa di veder scaricare le vostre frustrazioni sulle spalle di Alice, vergognatevi tutti. Andrò al provveditorato, dall’assessore, fino a Roma in Ministero se sarà necessario, quindi o le dà la sufficienza o, la avverto, la sua carriera finisce qua.” Inutile dirle che sua figlia ha l’intelletto di un mulo, o la voglia di fare di un ghiro. Che pensa solo a fumare e si mette la lacca sulle unghie durante le mie ore. Che è un caso perso, com’è persa la madre e gran parte di quest’umanità smarrita incapace di assumersi una responsabilità. Così le rispondo che “Alice sarà bocciata, e non perché ce l’abbiamo tutti con lei, ma perché lo merita e anche se siamo solo a fine marzo recuperare tutte le materie sarà praticamente impossibile. Quindi vada pure al Ministero, signora mia, forse è la sua unica speranza.”
Che sfinimento. Alle sette spengo la luce, sono tra gli ultimi, scambio un saluto stanco con i pochi colleghi esausti rimasti e mi avvio verso casa. Una cosa buona della mia malattia è che, se Dio vuole, questo ricevimento collettivo per me è l’ultimo. o dal veterinario a vaccinare Nina e per premiarla le compro una bustina di anatra e coniglio per cena. Nel trasportino la mia gatta miagola e appena entrata in casa corre a giocare con il suo gomitolo rosso, inseguendo il filo per tutto il salone. Piccola. Le accarezzo il pelo folto mentre emette i suoi suoni gutturali e mi lecca la mano con la sua linguetta ruvida. La serata scorre veloce: cena, un vecchio film in TV e un lungo bagno caldo per rilassare i muscoli prima di dormire. Alfredo si addormenta stringendomi la manica del pigiama tra le dita, da qualche mese ha la mania di afferrarmi nella notte, sostiene che altrimenti non riesce a dormire. Sospiro. E dopo, come farà? Mi alzo piano cercando le pantofole a tentoni senza fare rumore; Nina apre un occhio dalla cuccetta, ma sono solo io a muovermi, quindi beata si rimette a dormire. Il bollitore fischia, verso l’acqua sui fiori di camomilla in infusione, mescolo un cucchiaino di miele nella tazza e aspetto la temperatura giusta per bere. Che buio, che silenzio. Stringendo più stretto il nodo della vestaglia apro il cassetto dello scrittoio e muovendomi nell’oscurità torno in cucina. La biro nera è nel vasetto blu vicino alla finestra.
Caro Alfredo, non avrei voluto scrivere mai questa lettera, ma il tempo mi sfugge tra le mani e temo, se rimando, di non avere più la lucidità e la forza per farlo. Quello che la dottoressa Fantini non ci ha voluto dire il giorno dell’ultima TAC, e che mi ha comunicato solo dopo il mio rientro da Parigi, regalandomi così gli ultimi giorni spensierati, è che la situazione è peggiorata. I marcatori del
sangue sono saliti in maniera esponenziale e le metastasi si sono estese a tutto il fegato. La bestia cresce dentro di me e io non riesco e non posso fermarla. Mi dispiace, amore mio, avrei voluto più tempo da are insieme, ma questo corre più veloce e tra un po’ non riuscirò più a rincorrerlo. Non lascio dietro di me grandi cose, ma quelle poche sono per te. Un unico desiderio, ti prego: dai alle mie amiche Clara, Esther e Delia qualcosa di mio, a tua discrezione. E il mio orologio d’oro a Marta, la figlia di Eugenio di cui sono madrina di battesimo. Grazie, Alfredo, per i meravigliosi anni che mi hai dato, per i tuoi sorrisi al mattino, per la barba che cresceva ogni giorno a pungermi il viso la sera. Grazie per il dono della tua amicizia, per le mancanze che mi hai perdonato. So di non essere mai stata una donna facile, ma, credimi, amare è accettare qualcuno così com’è, pregi e difetti compresi, e tu, facendolo, mi hai dimostrato non solo che questo sentimento esiste, ma anche che può e sa durare. So che la mia partenza ti farà soffrire, ma se qualcuno manca vuol dire che qualcosa ti ha dato. Come possiamo sperare che non sia doloroso lasciarci quando abbiamo condiviso così tanto? Credimi, amore mio, non sarebbe proprio possibile, perciò accetta questa sofferenza come prova di quello che è stato, ed è, un grande amore. Non ho rimorsi e questo mi dà una gran pace, né rimpianti, se non di non essere riuscita a darti una famiglia, anche se sai quanto ci ho provato. Vorrei che mi fi cremare e spargessi una parte delle mie ceneri sulle pendici del vulcano Haleakalā, lasciando che si fondano tra la lava e scorrano fino a diventare eterna pietra, in quell’isola di Maui che è una vita che dobbiamo visitare. Temo dovrai compiere quel viaggio da solo. Io ne farò un altro. Spero di non provare dolore; quanto alla paura, non ne ho. Ho sempre pensato che oltre a questa vita ci dovesse essere qualcosa di più e di meglio: non sarò mica nata solo per fare la professoressa?! Non lascio grandi segni di questo mio aggio nel mondo, ma spero vivamente di farlo nel prossimo. Mi piace immaginarlo come un luogo di pace e serenità,
pieno di musica e colori, dove potrò aspettarti leggendo i miei libri, accanto alla riva di un fiume o sotto un albero frondoso. Ti raccomando Nina e, se fra qualche tempo ti sarà possibile, qualcuno che ti faccia compagnia. Nessuno potrà toglierci mai ciò che abbiamo avuto: la solidarietà, la comunione di pensiero, le chiacchierate fino all’alba e i tramonti in riva al mare. Ricordati le nostre canzoni, cantate a squarciagola nei lunghi viaggi in macchina, le camminate nei boschi per insegnarti a raccogliere solo i funghi commestibili (cosa che non hai mai imparato), mangiare il gelato con due cucchiai direttamente dalla vaschetta e leggerci i libri ad alta voce davanti al fuoco di un camino. Ricordati che ti amo, sempre e comunque, e che non c’è nulla, tranne forse la trippa di tua madre, che non mi piaccia di te.
La tua Grazia
Chiudo la busta e la nascondo nel mio cassetto; non è ancora il momento di fargliela avere. Piano piano m’infilo nel letto ormai freddo, abbraccio mio marito da dietro, incollando il mio corpo al suo, ne respiro l’odore. Non è vero che non ho paura, ho mentito, Alfredo, ho una paura terribile di morire, ma questo non voglio dirtelo. Si nasce e si muore soli e devo trovare dentro di me la forza di fare quest’ultimo salto. L’unica cosa che mi auguro è di arrivare alla fine talmente esausta da provare sollievo, o di rimanere folgorata nell’incoscienza del sonno.
Anna
Da:
[email protected] Oggetto: Non hai idea di cosa mi è successo!
Ciao mamy, come stai? Io benone! Con François tutto perfetto, sono strafelice!!! Mi è successa una cosa assurda, ti ho dovuto scrivere subito. Ero in mensa con le amiche e ci stavamo facendo i fatti nostri quando Paige, una della banda di Jasmine, è venuta a dirmi che Jasmine mi voleva parlare e di andare fuori. Insomma, arrivo in cortile e quella comincia a insultarmi davanti a tutti dicendo che io le ho rovinato la vita, che da quando sono arrivata non ho fatto che creare problemi, che perché non me ne torno in Italia che tanto qui non mi vuole nessuno, etc. I maschi stavano lì a guardare come scemi, François non c’era, era con la squadra, finché Soulo le ha detto: “Ehi, Jas, stai calmina”, ma lei niente, ha continuato! Allora le ho risposto, le ho detto che è una sfigata invidiosa e che problemi con me li ha solo lei! Che è una gelosa di merda e che non avevo nessuna intenzione di stare lì a farmi insultare, perché è per via di François che mi odia, mamma, lo voleva per sé e non le va giù che stiamo insieme. Allora lei mi ha risposto che se non stavo zitta mi abbassava di altri cinque centimetri, che mi faccio chiamare Biancaneve (che poi io non mi faccio chiamare in nessun modo, è François che mi dice così, oddio, lo amo, boh, va be’, questo non c’entra) e invece sono l’ottavo nano!!! Ti rendi conto?!
Le ho risposto che se il metro di misura erano le sue cosce, era nano anche uno di un metro e ottanta, visto che lei avrà due metri di circonferenza! Allora è andata via di testa, mi è venuta addosso, ha cominciato a tirarmi i capelli, mi ha dato uno schiaffo e voleva mordermi! Sembrava indemoniata! Le ho tirato un calcione e le ho ficcato le dita negli occhi, ero furiosa. A quel punto qualcuno ha chiamato aiuto e Mrs. Flynn è venuta a dividerci e poi il solito, sai, no? Hanno convocato a scuola Phoebe e James e quelle capre dei suoi, hanno voluto ci chiedessimo scusa e che ci dessimo la mano (io non gliela volevo dare, ma altrimenti mi sospendevano e avevo paura che ti arrabbiassi), e poi ci hanno dato la punizione di pulire le aule ogni pomeriggio per un mese! Due palle! Ma per fortuna possiamo andare in gita. Comunque sono contenta perché le ho fatto un bel livido sulla quella coscia elefantina, sbucava persino dalla gonnellina da cheerleader. Quando l’ho raccontato a Stefy era sconvolta, ha detto che questa è fuori, che devo stare attenta. Comunque tu sei avvocato, se mi faceva male la mandavamo in galera! Ora scappo, altrimenti non studio e poi con te son guai :) Ti voglio bene, mi manchi un sacco
Anna
PS: Racconta tu a papà!!!
Da:
[email protected] Oggetto: ma questa è pazza!!!!!
Tesoro, ma cosa combini? Certo che ti sei difesa come un leone! Questa è pazza,
ma vera, di quelle da manicomio! Dev’essere stato uno spettacolo davvero disgustoso. Non possiamo liquidare l’argomento solo con una mail, è necessaria una telefonata, a che ora ti trovo su Skype? Fammi sapere, dobbiamo assolutamente parlare! Ho portato Scotty a fare i vaccini, dimmi brava, ché me lo sono ricordato anche se tu non c’eri! Ti sono arrivati i soldi? Ricordati di comprarci le magliette uguali con le cupcakes, io taglia S rosa o azzurra, scegli tu, ma uguali!!! Non vedo l’ora di sentirti, ce la facciamo già stasera? Ti mando baci e abbracci dappertutto: capelli, guance, naso, boccuccia e orecchie!
Mammina
PS: avevo tanta paura che ingrassassi tu e invece sono io che ho preso tre chili!
“Sherry, smettila di spingere, mi rovini la tuta nuova!”, protesto scansandola e arranco nella neve cercando di trascinare la valigia che sembra essersi impantanata. “Porco cane, si è rotta una ruota! Sherry! Aiutami!” Ma Sherry è come impazzita, è terrorizzata che, dopo due settimane di programmazione puntigliosa, non ci mettano nella stessa stanza. È dal giorno che ci hanno annunciato questa settimana bianca a Whistler che non si dà pace, ha persino preteso di consegnare a ognuna di noi la lista con il cibo specifico da portare per mangiare di notte, così ho dovuto rinunciare alle scarpe con il tacco per fare posto a quattro tubi di Pringles.
L’hotel è mastodontico, proprio di fronte alle piste, e ha pure una piscina calda all’aria aperta, cosa che ci è costata tre spedizioni in centro perché scegliere un costume da bagno a marzo, pallide come si è, e sapendo che tutti i maschi ti guarderanno, non è affatto facile. In tutto questo casino suona pure il cellulare, un sms di mamma: Hug :). Sorrido. Da quando è partita ci sentiamo ogni giorno e ci mandiamo questi messaggini stupidi, come mamma e figlia nel film di Miley Cirus, LOL, che ci siamo guardate tre volte di fila abbracciate sul divano prima che lei partisse. Ha fatto in tempo anche a conoscere le mie amiche, con l’idea di invitarci tutte a cena fuori mi ha sistemato le cose. Prima le ha stese con la sue gambe da urlo e i tacchi a spillo – non è che qui in giro si vedano mamme belle e eleganti come la mia – e poi ha chiacchierato tutto il tempo, dicendo che era contenta che io avessi delle buone amiche e affidandomi a loro. Risultato: dalla settimana successiva abbiamo ricominciato a vederci e siamo pure insieme nella squadra di atletica. François è rimasto, ma ora che anche Sherry si è messa con Soulo e Nicole con Chris è tutta un’altra musica. La missione della vacanza è trovare un uomo a Erin; fa la difficile, ma secondo me il tipo del corso d’inglese è perfetto per lei, hanno pure la stessa ione per la musica techno, che fa veramente schifo! “Ce l’ho fatta, ragazze, guardate un po’ qui.” Sherry sventola un cerchio di legno con il numero 12, dev’essere la nostra stanza. Anzi, più che una stanza è una suite: due camere, salottino e bagno. Che figata! “Ma così non possiamo dormire tutte insieme!”, sbotta Erin lasciando cadere a terra la valigia. “Che palle!” “Eh già, ma va be’, tanto in camera si va solo a dormire.” Sherry cerca di mediare, ma mi viene una super idea. “Ragazze, mettiamo i piumoni qui in salotto, spostando il tavolo e la poltrona ci stanno tutti, e se abbiamo freddo ci scaldiamo con il camino. Le camere le usiamo solo per metterci i vestiti, tanto anche la TV è qui.” Senso pratico da adolescenti: perché dormire comode su un letto se in salotto per terra si sta in quattro? “Anna, sei un genio!” Erin mi abbraccia. “Lo sapevo che gli italiani hanno
qualcosa in più!” Rido. “Fosse per questo...” L’abbraccio anch’io e ci mettiamo a saltare come due cretine scoprendo che fuori nevica. “Palle di neve”, grido spalancando la porta. Dopo tre minuti siamo già fradice e dalle altre stanze escono i nostri compagni, si degenera in una battaglia senza fine, nemmeno le mutande sono più asciutte. Il prof di biologia comincia a urlare come un pazzo: “Stasera a dormire alle dieci, niente eggiata in centro! E correte ad asciugarvi, altrimenti invece di sciare sarete a letto con la febbre!” Mi sa che un po’ c’ha pure ragione.
Sole, neve, un mondo di risate. I canadesi per lo sci sono fermi all’altro secolo, altro che! Gli ski- sono una molletta di metallo con appiccicato sopra un adesivo e per farti rallentare mettono gli omini in giubbotto catarifrangente a urlare slow down a fine pista. François ha pure preso la multa per averne sommerso uno di neve frenandogli a un centimetro con lo snowboard. Mi sto divertendo da impazzire, peccato che sia già giovedì, domani pomeriggio si torna a casa, ma stasera discoteca! Ci siamo truccate tutte insieme e io ho messo il vestitino nero attillato, quello a tubino, con un reggiseno super push-up sotto. Sto da urlo, me lo dico da sola per una volta. Ballo scatenata sulla pista senza fermarmi un attimo, tanto non si può bere, quindi tanto vale sballarsi così. Finalmente Erin è stata invitata da un ragazzo, sabato pomeriggio escono e stasera lui le sta addosso come un cagnolino. È carino, peccato per quegli occhialetti tondi, ma magari glieli facciamo cambiare. Tra amiche ci siamo messe d’accordo: stanotte io dormirò in una stanza con François e Sherry con Soulo. Sono emozionata all’idea di stare abbracciata a lui e temo e spero che accada anche qualcosa d’altro. Di più. Ho diciassette anni, delle mie amiche italiane sono l’unica ancora vergine e anche tra le canadesi una
delle poche. E poi, io François lo amo davvero e voglio ricordarmelo tutta la vita, sempre che non lo sposi, perché a oggi la mia intenzione sarebbe di andare a vivere a Parigi assieme a lui. Ci perdo le notti a immaginare una piccola soffitta solo per noi, studiare alla Sorbona, camminare abbracciati e fare l’amore ogni notte. Poi, certo, avremo dei bambini, ma non prima dei trent’anni; dobbiamo viaggiare e io vorrei specializzarmi in genetica in America. Chissà se lui diventerà un giocatore di rugby professionista; in quel caso potrebbe essere un problema, forse sarebbe meglio se studiasse anche lui, magari medicina o ingegneria. Ecco, mi sono persa di nuovo, questo sognare a occhi aperti sta diventando un’abitudine. Scuoto i capelli e mentre Mika canta nelle casse Relax, take it easy canto a squarciagola abbracciata alle mie amiche finché purtroppo non arriva il momento di andare via.
Caro diario, le parole non basteranno mai a spiegare le sensazioni che ho provato l’altra notte tra le sue braccia. Mancherà sempre un pezzo, non riusciranno a catturare l’emozione, perché quello che ho vissuto è stato perfetto. Ma voglio provare comunque a scrivere, per non dimenticare, per sentire di nuovo, ogni volta che aprirò le tue pagine, questa dolce morsa che mi stritola lo stomaco. Essere tra le braccia di François, accarezzare il suo corpo nudo, illuminati solo dalla luce che proveniva dal camino, è stata la cosa più bella della mia vita. All’inizio mi vergognavo, non sapevo come comportarmi e lui mi pareva così sicuro di sé. Ma poi ha confessato che era la prima volta anche per lui e da quel momento in poi mi sono rilassata e tutto è stato facile. Quando ha cominciato a baciarmi, sotto le coperte, in quel letto enorme, Dio, ho pensato di morire! Esiste al mondo qualcosa di simile all’amore che provo per lui? Io non credo. Abbiamo fatto l’amore due volte. La prima è stata veloce e mi ha fatto un po’
male, la seconda invece è andata molto meglio. Mi ha sussurrato tutto il tempo che ero bellissima, che ero il suo amore, la sua Biancaneve, che mi amava con tutto il cuore, e mentre lo diceva sapevo che era vero, perché tremava talmente che era impossibile il contrario. Tremava per me. Guardandomi negli occhi, con i suoi fianchi attaccati ai miei, proprio come un film. Poi abbiamo fatto come i grandi: François aveva una bottiglietta di Jack Daniels, rubata nell’albergo di New York, e l’aveva tenuta per un’occasione speciale. L’abbiamo versato in due bicchieri e ci siamo accesi una sigaretta, mi sono sentita davvero donna in quel momento, con il lenzuolo tirato su a coprirmi e la testa appoggiata al suo petto. Poi, ok, abbiamo anche mangiato due pacchi di patatine e siamo morti dal ridere facendoci il solletico, ma questo non conta. Ci siamo addormentati abbracciati, talmente stretti che quasi non riuscivo a respirare, e prima di chiudere gli occhi ho pregato che il tempo si fermasse e che il giorno dopo non arrivasse mai. Invece è arrivato. Non so quando ci ricapiterà di stare di nuovo da soli, ma devo riuscire a farlo succedere. È stato troppo bello addormentarmi con lui e trovarlo accanto al mio risveglio. Lo so che abbiamo tutta la vita per questo, ma non credo di poter aspettare. Ti amo, François, con tutto il cuore, per sempre. Lo giuro.
Scrivo i nostri nomi dentro un cuore, mi metto il rossetto più rosso che ho e suggello il nostro amore stampandoci la mia bocca sopra.
Aprile
Maria Rosa
Sono entrata in aula da un ingresso secondario, scortata come sempre dalle agenti del carcere. Non c’è ancora nessuno, solo l’avvocato Altieri che mi aspetta silenziosa, assorta a testa bassa su alcuni documenti che ha davanti. Oggi è un’udienza importante, lo so, ma non riesco comunque a farmi coinvolgere, sono molto più concentrata su altri progetti. A fine mese ci sarà la sfilata delle borse che stiamo preparando al laboratorio: Angela ha detto che ci farà un video, perché in realtà è venuto fuori un evento importante, il Comune ha addirittura concesso gratuitamente uno spazio e sarà presente anche la stampa. Io devo ancora decidere alcuni modelli e sono tesissima per la paura di sbagliare. Assurdo, specie per chi pensa che oggi, qui, si deve decidere della mia vita. Gaia Altieri mi nota, sorride e mi viene incontro. “Rosa, la vedo bene, come sta?” Mi stringe la mano. “Non c’è male, grazie”, rispondo sorridendo e facendo una mezza giravolta per farle ammirare come mi sta bene addosso il completo blu scuro che mi ha fatto recapitare. “Si è tinta i capelli e li ha anche tagliati! Sembra molto più giovane così”, pare compiaciuta. “Ci voleva qualcosa di speciale per questo processo, già l’ho fatta diventare matta abbastanza con tutti i miei rifiuti alla sua linea di difesa”. Non voglio sappia che dell’udienza non mi importa nulla e che il mio unico pensiero è che Angela sarà in aula e tutta questa cura l’ho messa per lei. “In effetti è vero.” Non sorride più, da donna empatica diventa avvocato, cambia tono di voce e anche se è di sicuro un effetto involontario vedo che le si irrigidiscono i muscoli del viso. Il procuratore Barzaglio entra e siede al tavolo di fianco al nostro; pare molto sicuro di sé nel completo gessato, prende appunti con quelle lunghe mani bianche che mi hanno colpita fin dalla prima volta che l’ho incontrato.
All’ingresso del Giudice per l’udienza preliminare si alzano tutti in piedi, io compresa. “Ma è una donna!”, mormoro all’orecchio del mio avvocato. “Sì, speriamo ci favorisca.” Non ha capito che la mia affermazione era di stupore e per nulla mirata all’interesse nei confronti di una riduzione della pena. Ma non importa, da lei non posso pretendere di più. “Già lo fa gratis”, penso. Il Gup Claudia Roncaglia concede il rito abbreviato come richiesto dalla Altieri, che spera non solo di evitare l’ergastolo, ma di ottenere un sostanzioso sconto al momento della condanna, viste, a suo parere, le mie numerose attenuanti e il fatto che fossi incensurata. La discussione tra avvocati si protrae, i termini sono molto tecnici e non riesco a cogliere pienamente il motivo del contendere, ma so, perché me l’ha comunicato ieri quando è venuta a colloquio per riare la linea di difesa, che desidera comunque depositare una perizia psicologica che aiuti il giudice a capire la condizione di maltrattamenti continui in cui mi ero trovata a vivere. Anche l’avvocato Barzaglio deposita una memoria, riguarda l’“irreprensibile” vita di Domenico Rizzi, lavoratore instancabile e marito devoto, a suo dire, che non avendo mai avuto alcun problema con nessuno, e tantomeno con la giustizia, si era trovato a morire mentre faceva colazione e si apprestava a raggiungere il suo luogo di lavoro, in una soleggiata mattina di settembre, vittima di una moglie crudele: io. Io che non solo l’avevo colto di sorpresa, come dimostrava l’autopsia che aveva tracciato la traiettoria dei colpi, ma l’avevo fatto da dietro, precludendogli qualsiasi possibilità di difesa, e avevo colpito e colpito e colpito determinata a uccidere. Credo sia stato a questo punto che mi sono estraniata, che senso aveva stare a sentire? Pensassero ciò che volevano, io avevo altro di cui occuparmi. Mi dispiaceva per Mimmo, forse non sarebbe dovuta andare così; ero pentita, ma anche sollevata di non averlo più intorno. Mentre il dibattimento prosegue, resto a testa china. Mi è stato tanto raccomandato di avere un’aria mesta e dimessa, ma in realtà sono molto più interessata al mosaico del pavimento, un marmo antico venato qua e là, non ne avevo mai visto uno così bello. E quando mai avevi visto il marmo, Rosa?, mi chiedo, e mi viene da ridere.
Abbasso ancora più il capo e inizio a tormentare l’orlo del vestito: c’è un filo che pende solitario, vorrei fargli un nodino perché non disfi tutta la trama dell’orlo, ma è troppo sottile e quando mi chino a raccoglierlo con due dita il mio avvocato mi lancia uno sguardo assassino, come a dire: “Rimettiti subito seduta composta”. E così sono qui a far finta di interessarmi, cosa che forse dovrei fare, al mio futuro. Lo sguardo mi cade sulla borsetta di una signora, forse una giornalista, visto che sta prendendo appunti come una forsennata, appoggiata a terra. È deliziosa: rotonda, con la tracolla lunga e un ricamo di perline multicolore. A chiuderla un grosso bottone bluette. Questo è un modello che sicuramente potremmo replicare. Cerco di fissarmi bene i particolari in mente e medito su quale stoffa si potrebbe utilizzare per il modello. Chissà se Angela riesce a procurarsi delle perline... E ci vorrebbe anche un bel cordone colorato, tipo quelli che si usano per legare le tende... Sì, per la tracolla sarebbe perfetto. Non devo scordarmi di dirglielo appena la vedo. Una mano mi stringe il gomito invitandomi ad alzarmi in piedi, lo faccio composta. Sento la Altieri mormorare un “Grazie, Vostro Onore” e vedo il giudice uscire dall’aula. La prossima udienza, quella definitiva, è stata fissata per giugno. Entrambe le memorie sono state accolte come prove; non è proprio quello in cui il mio avvocato sperava. Mi saluta irritata mentre gli agenti mi prendono in consegna. “Rosa, capisco che lei forse non se ne rende conto, ma io qui sto cercando di salvarle la vita. Ora la prego, almeno quando è in aula davanti al giudice, cerchi di far sembrare che la cosa le interessi invece di comportarsi come una quindicenne annoiata!” Con queste parole, senza un gesto di saluto, gira i tacchi e se ne va, mentre io vengo scortata dalle guardie in quella che ormai è la mia nuova casa. Scortata da entrambi i lati e con le braccia tra le mani delle guardie riesco comunque a girare il capo e a fare un sorriso silenzioso alla mia amica, che dal fondo mi guarda con il pollice alzato.
L’eccitazione è palpabile nell’aria, nessuna di noi riesce a stare ferma. Angela intima per la sesta volta il silenzio, spegne le luci e fa partire il video. La sala comunale è piena di gente e le ragazze, pettinate ad arte da un parrucchiere locale, sfilano su una sorta di erella con le sedie disposte ai lati. Hanno vestiti colorati e al braccio le nostre borsette! Le luci si accendono e spengono al ritmo della musica, è incredibile. Dalla televisione si sentono gli applausi del pubblico, la presentatrice ringrazia le detenute, noi, e le mie amiche saltano sulle seggiole battendo le mani, ma io non sento più. Lacrime copiose mi scorrono sul viso. Le lacrime che non ho versato per le botte, quelle che ho trattenuto quando ho perso il mio bambino, le lacrime mancate di una vita sprecata, sono tutte qui, oggi, nella sala comune, irrefrenabili. Evelyn se ne accorge, chiede imperiosa di tacere e fa stoppare il filmato. Mi si avvicinano tutte, curiose, perplesse; non capiscono perché io sembri così disperata quando tutto sta a dimostrare il nostro successo. Non possono capire. È la prima volta nella vita che io, Maria Rosa, provo una soddisfazione. Vedere quelle borsette indossate, il pubblico, l’entusiasmo, è troppo per chi, come me, non ha mai avuto nulla e fino ad oggi non se ne era mai veramente accorta. Bisogna essere forti anche per sopportare la felicità, perché può travolgerti. Tento, balbettando, di spiegare quanto sia contenta, come sia bellissimo aver fatto parte di tutto questo, continuo a mormorare: “Grazie, grazie a tutte, voi non sapete cosa significhi questo per me. Dovessi morire oggi, morirei felice. Grazie, grazie, grazie”, e bacio le mani di Evelyn, di Angela, di Faraa, che mi guarda con gli occhi lucidi pure lei, e di Cesira, che si allontana scontrosa accendendosi una sigaretta per non mostrare la debolezza delle sue emozioni. La mia vita è tutta qui, oggi, mi sento così immensamente piena di felicità che potrei scoppiare. Non avrei mai creduto che Dio, quello stesso di cui tante volte ho dubitato, mi avrebbe regalato una gioia così grande. Angela interviene: “Basta piagnistei! Forza, Rosa, e che mai, è una bella giornata, la vuoi rovinare? Stai facendo piangere tutte, smetti di frignare. Avanti, alzati, asciugati gli occhi e vieni qui, che le sorprese non sono finite!” “Hai ragione, Angela, scusatemi, sono una scema, ora la smetto.”
“Ecco, brava.” Angela spegne il televisore e riprende la parola. “La prima bella notizia è che, visti il successo e l’incasso che ho già provveduto a dividere e a far versare sui vostri libretti, una Cooperativa presente alla sfilata ha deciso di commissionarcene altre. Fanno parte di una rete equo-solidale sparsa un po’ ovunque in tutta Italia e credono di poterne assorbire un centinaio. Ora, ho già iniziato a mandare avanti tutte le pratiche burocratiche e a chiedere alla direzione carceraria di aumentare il monte ore, perché almeno dieci pezzi al mese li dobbiamo consegnare. Ho anche chiesto un’altra assistente, perché da oggi Rosa diventerà la responsabile del laboratorio in mia assenza, così potrete lavorare anche nelle ore libere e non solo nei giorni in cui ci sono qui io. Ecco, Rosa, qui c’è il permesso del direttore in cui ti affida la responsabilità di questo progetto.” “Questo...”, esito, “Questo vuol dire che staremo sempre insieme?” “Sempre non lo so e nemmeno te lo auguro, ma spesso, ecco, sì. Abbiamo tanto lavoro da fare.” “Io voglio solo stare con te, altro non m’importa.” “Anch’io voglio stare con te; su, vieni a vedere che bel permesso ti hanno fatto, è tutto scritto qui, su questa bella carta intestata. Mi sa che lo dovremo incorniciare.” È davvero troppo, mi avvicino tremolante e ho gli occhi talmente appannati da non riuscire a leggere una singola riga di questo foglio di carta che per me vale oro. Ricomincio con i miei ringraziamenti lacrimosi ma vengo stoppata subito e rimandata al posto. “Seconda cosa, più importante: Esperanza, vieni qui, mi pare ci sia un compleanno tra poco...” Esperanza si avvicina e Angela le porge un pacchetto incartato nella velina rosa. Lo apre piano e dentro c’è una fascia elastica rossa, alta quattro dita, con un ricamo cucito a mano di perline multicolore a formare il nome Maria e a lato dei bellissimi fiori azzurri. “È la cosa più bella che io abbia mai visto, Angela, non credevo sarebbe venuta così bella, nessuno avrà una fascia così! Maria sarà felicissima!”
“E deve essere anche orgogliosa, perché questa l’abbiamo fatta insieme, ma la prossima voglio che tu la faccia tutta da sola, tua figlia deve sapere quanto sei brava.” Ci avviciniamo tutte per vedere da vicino questa meraviglia, già eccitate pensando al sorriso della bambina di Esperanza quando vedrà questo bellissimo regalo fatto dalla sua mamma. “Così saprà che la pensi sempre”, mormora Evelyn. “Sì.” La voce di Esperanza è roca, riavvolge il pacchettino come tenesse in mano un gioiello di cristallo e, fedele all’atmosfera di oggi, nasconde l’ennesima lacrima e corre in cella a riporre il suo prezioso dono. I nomi hanno un significato e la Madonna stessa deve aver suggerito alla mamma di Angela quale doveva essere il suo. È così bella, buona e pura, mi fa paura la consapevolezza di non poter più vivere senza di lei.
Sara
Entro in casa arrossata e furiosa, sbatto la porta, calcio via le scarpe da ginnastica per liberare quei maritozzi che sono diventati i miei piedi e mi lascio cadere come un sacco sulla poltrona. La primavera è esplosa e con lei i miei gonfiori: mani, piedi, caviglie, cosce, viso, guance; ma almeno le giornate si allungano, sono quasi le sette ed è ancora chiaro. Luca aveva avuto il suo glorioso quarto d’ora di pausa-relax prima che entrassi io, sconvolgendo la quiete come un uragano. “Non posso più uscire, dovrò vivere tappata in casa fino alla nascita e in ospedale dovremo andare di notte, di nascosto.” Agito i piedi in aria muovendo le dita. “Sono scesa a comprare tre cose, tre”, sottolineo il concetto mostrando le dita della mia mano e mi sono saltate addosso, come iene.” Proseguo: “La farmacista mi ha fermata, ‘che tenera con questo pancione’, e senza neanche chiedere se poteva o meno mi si è lanciata sulla pancia accarezzandola e sballottandola a destra e sinistra, chiedendo ‘Si muove? Si muove o no questa piccolina?’”, altero il tono della voce in falsetto per rendere l’idea. “Poi ho incontrato l’avvocato, la Altieri, quella che ha spedito la figlia in America. Mi ha tenuta un quarto d’ora a parlare su quanto bene si trovi la figlia, si è lasciata andare ai ricordi della sua gravidanza, su quanto sia bello avere una femmina, quanto facciano compagnia, bla, bla, bla. Tanta compagnia che lei la sua l’ha mandata dall’altra parte del mondo e il giorno in cui è partita nemmeno c’era! Volevo dirle: ‘Cara signora, spero di avere con la mia bambina un rapporto migliore di quello che ha lei con la sua’, ma sono stata zitta. Ancora me la ricordo la povera Anna come piangeva; tra l’altro non so se te l’ho detto ma è lei che difende la cassiera, la Rosa, speriamo che come avvocato sia meglio che come madre...” Mi alzo per prendere un bicchier d’acqua che, mi rovescio per metà sulla maglietta mentre bevo, ma poco male, mi succede di continuo anche con il cibo, come se questa pancia fosse una collina esposta e invalicabile. E, in fondo, questa è solo acqua, così continuo il mio monologo.
“Non avevo fatto nemmeno venti metri che due anziane mi hanno toccato la pancia dicendo che era per buon augurio. Finalmente entro dalla cartolaia; non l’avessi mai fatto! Quaranta minuti, Luca, quaranta a parlare dei suoi aborti, del parto, ventiquattr’ore di travaglio, il bambino era già incanalato, non potevano più fare il cesareo, allora hanno usato la ventosa, il piccolo è nato con la testa oblunga. Le hanno dato cinquanta punti tra interni ed esterni e non si è potuta sedere per settimane. Io ero inorridita! Allora è intervenuta un’altra signora che stava comprando matite e quaderni, ma con l’orecchio teso. Si è raccomandata che mi comprassi la ciambella, perché anche lei non si è potuta sedere per un sacco di tempo, causa problemi di emorroidi però, e comunque anche il suo parto è stato un incubo, per non parlare dell’allattamento, insomma se non avesse avuto la ciambella su cui accomodarsi sarebbe morta.” Bevo un altro sorso d’acqua per riprendere fiato. “Lo so, Luca, ecco perché si dice ‘è stato un parto’... Perché è un incubo!” Getto indietro la testa. “E con questo allattamento, poi: tra mastiti, ragadi, bambini che non crescono, bilance per pesarli prima e dopo ogni poppata mi sa che compriamo un bel biberon con il latte in polvere e la finiamo qui. Sono annichilita. E non è ancora finita: dulcis in fundo, incontro la vecchia del quarto piano con la nipotina che mi impiastriccia tutta la maglietta di lecca lecca per toccarmi il pancione.” Mostro il tessuto appiccicaticcio con le impronte impresse. “Ma dico, se una ha la gobba la trattano così? Tutti la fermano e le saltano addosso in strada dicendole: ‘Ci scusi, ma toccare la gobba porta bene’? Ma non si dovrebbe mantenere una distanza di cortesia, come la linea gialla degli aeroporti, e chiedere il permesso? Tutti a tuffarmisi addosso, non ce la faccio più.” In tutto quest’arco di tempo Luca non ha parlato, non sì è girato, e io non ci ho fatto caso. “Ti ho tradita.” “Eh? “Ti ho tradita.” “Ma cosa dici?” Finalmente alzo gli occhi, il suo viso è una maschera. “Stai
scherzando.” Mi rendo conto di avere un tono isterico. “Luca, sono incinta!” “Come se potessi dimenticarlo. Non volevo, davvero, non ti avrei fatto questo, ma è successo. Non cerco giustificazioni, so di non averne, semplicemente non ne potevo, non ne posso più. Sei sempre stata un’egocentrica, lo sapevo, ma da quando aspetti questa bambina, Dio, Sara, il mondo gira esclusivamente intorno a te, io non esisto più. Tu dai ordini, pretendi, ti lamenti e mai, mai una volta che tu abbia chiesto come sto, come la sto vivendo io, questa storia.” “Se non sbaglio ne sei stato tu l’artefice”, il mio tono si è fatto acido. “E che cazzo! Siamo stati in due, non ti ho mica stuprata. Potevi decidere diversamente se non lo volevi, ti ho lasciato tutta la libertà, ma a che serve parlarne ora, nemmeno in quella decisione mi hai coinvolto. Me l’hai semplicemente comunicato, come fai sempre!” “Se non volevi il bambino potevi dirlo.” “Io la voglio la mia bambina, certo che la voglio, il problema è che non sono sicuro di volere più te.” “Ed è per questo che sei andato con un’altra?” Parlo dal di fuori, come se assistessi a una pièce teatrale, mi sembra incredibile che tutto questo stia succedendo a me. “Non avrei dovuto, ma quando me ne sono reso conto la frittata era fatta.” “E chi è lei?” “Non ha importanza.” “Ne ha per me! Chi cazzo è, Luca? La conosco?” “È l’unica cosa che t’importa, vero? Di non aver fatto una brutta figura. No, non la conosci. È una che ho conosciuto in ospedale, una rappresentante farmaceutica, siamo andati a cena con un po’ di colleghi del reparto, e poi...” “Risparmiami i particolari... Alla faccia della fiducia, penso che tu sia a lavorare e invece... E lei com’è? È magra, vero?”
“Ma che c’entra!” “C’entra, c’entra eccome! Cos’è? Avevi le voglie perché io sono troppo avanti con la gravidanza? Ti faccio schifo con la pancia grossa, la cellulite, i piedi che nemmeno me li vedo più? E allora niente di meglio di una troietta ben vestita con il culo secco, giusto? Il bidone lo mettiamo da parte per un po’!” “Sara, non è questo il punto, il problema siamo noi due, io non ce la faccio più ad andare avanti così. Solo l’idea di tutta la vita con te che mi comandi a bacchetta, che mi programmi anche quante volte devo pisciare, mi mette addosso un’ansia insopportabile. Mi dispiace, vorrei trovare una soluzione, per la bambina, per noi, ma non so come. Sei sorda e cieca a ogni segnale.” “Quindi la colpa è mia. Mi metti incinta, mi incastri, mi fai le corna, mi vuoi lasciare nella merda da sola e la colpa è mia.” “Vedi? Anche ora, non dici ‘Luca ti amo’, non ti disperi dalla rabbia e dalla gelosia, è solo l’apparenza il tuo problema. Tranquilla, nella merda non ci resti, provvederò a entrambe come posso, questa figlia è mia come tua, non la rinnego né me ne pento”. Solo allora noto le borse. “Che pensi di fare?” “Andarmene, almeno per un po’, fino a che entrambi non avremo capito cosa vogliamo veramente e avremo messo un po’ d’ordine nei nostri sentimenti.” “Vuoi lasciarmi?” Adesso sì che sono entrata in scena, il terrore che vivo è vero: come faccio da sola, incinta? Non può succedere davvero a me! “Non lo so, ho bisogno di tempo, ho bisogno di prendere le distanze e pensare.” Il mondo dev’essere impazzito! Fino a un’ora fa tutto era a posto e adesso... Che faccio adesso? Non riesco a ragionare. “Vai allora, vattene, non abbiamo nessun bisogno di te. Sei una merda, Luca, una merda.” Gli lancio addosso il bicchiere, che lo colpisce e si infrange a terra e scappo via, lontano. Che schifo.
L’ho lasciato lì come un cretino. No, la cretina sono io. “Quando torno non ti voglio trovare”, ho gridato sbattendo la porta. “Chiaro?!” Ero talmente stordita e ferita che ho fatto fatica a mettere a fuoco i pulsanti dell’ascensore. Ho vagato in preda al panico, sono arrivata a piedi su a San Giusto, nel piazzale accanto alla cattedrale, e mi sono fermata a guardare la città dall’alto. Il tramonto è rosa stasera, la luce colpisce bassa i tetti rendendo i contorni più dolci, c’è un nuovo profumo di foglie frondose; non mi va giù una serata così, sembra farsi beffe di me. Persa nel dolore e nella vergogna, mi accorgo appena del rumore dei motorini e dei clacson del rientro a casa. Per me possono crepare tutti. Mi ha tradita. Non riesco a crederci. Lacrime copiose mi solcano il viso. Non so se è l’orgoglio ferito, il pensiero di un’altra donna o la paura di essere senza nessuno a farmi più male. Scuoto il capo, ho bisogno di parlare con qualcuno, ma non so proprio con chi. Ho sempre faticato con le amicizie, non riesco a instaurare legami profondi perché sono troppo chiusa. Un rapporto per nascere e crescere ha bisogno di essere coltivato, curato, come un fiore. Sono una brava ascoltatrice, ma quando è richiesto a me di aprirmi per dimostrare che c’è una confidenza reciproca, mi chiudo come un riccio. Così la relazione resta monca, sbilanciata, e dopo un po’ tutti si stufano di raccontare i fatti propri a chi di sé non racconta nulla. Inizia a diffidare. Cinzia, l’unico legame che avevo mantenuto negli anni nonostante fosse una persona abbastanza egoista e non propriamente brillante, si è volatilizzata, spaventata dal cambiamento del mio corpo quasi più che da quello della mia anima. Al tirocinio c’era qualcuno con cui andavo più d’accordo, ma non fino al punto da raccontare il mio tumulto interiore, così dal nulla poi. Ci sarebbe Sonia, in questi mesi abbiamo legato molto. Viviamo le stesse cose e questo ha accelerato la nostra relazione. Inoltre le bambine sono coetanee, quasi gemelle di pancia, quindi la nostra idea è di continuare a vederci anche dopo, siamo sicure che Eva e la mia ancora anonima figlia diventeranno amiche.
Ma come faccio? La chiamo e le dico: “Ciao, Sonia, non è che posso venire da te? Sai, il mio fidanzato mi ha lasciata e non sono proprio in un bel momento”. Assurdo. Ci sarebbe mia madre, ma già la sento: “Te l’ho sempre detto che non mi piaceva, con quella madre tutta perfettina, non sono gente come noi. E adesso? Cosa dirò alle mie amiche? Che sei stata mollata da incinta? Meglio se tiriamo su una storia che a lasciarlo sei stata tu... E non sognarti di dire a nessuno che ti ha tradita, mi raccomando! Sai che figura?!” No, mia madre è da escludere, come mi sento io sarebbe l’ultimo dei suoi pensieri. Sono davvero una sfigata, non ho uno straccio di posto dove andare. “Siamo noi due”, dico alla mia pancia in subbuglio. “Mi sa che prima ne prendiamo atto e meglio è.” Al mio rientro la casa è buia, vuota. Sono tornata mille volte prima di Luca e non dovrebbe spaventarmi, ma stasera so che è diverso. Perché nessuno infilerà la chiave nella toppa dopo di me. Non ci sarà una cena da preparare, né un film in due sul divano. Non ci saranno i rumori di una casa, solo la mia figura silenziosa che vaga tra le stanze, come se ci fosse qualche segnale da cogliere, un elemento che mi aiuti a capire. Appoggiata alla parete mi lascio scivolare a terra e resto lì, immobile, a fissare il muro, con in testa un unico pensiero fisso: ma come lo tiro su un figlio da sola?
Grazia
La spiaggia di Lindos è composta di piccoli sassolini; li adoro, se si attaccano al corpo basta arci sopra la mano per farli sparire e l’acqua, dove il fondale non è sabbioso, ha una limpidezza diversa. Il profumo di Rodi m’invade le narici. Quanto amo la Grecia! È un posto che non ti tradisce mai. Il cielo è sempre azzurro, il mare turchese e il sole splende così caldo, anche in aprile, da farti venire voglia di non tornare a casa mai più. Tutto sommato è una scelta che farei, tanto non è che abbia bisogno di particolari cure o di un’assistenza sanitaria. Potrei stare a fumare marijuana sulla spiaggia fino a stordirmi e dimenticare il dolore. Mangiare foglie di vite ripiene di riso, moussakà, tzatziki e bere vino afrodisiaco e ouzo per digerire. E poi ballare il sirtaki fino a cadere per terra stremata di sudore, senza più fiato. Aspettare che la piovra cuocia sulla brace mentre le lente nenie notturne ci accompagnano al calar del sole. Sentire sulla pelle l’odore del sale, del sole, del mare. Avere i capelli aridi e scomposti dal vento, camminare scalza raccogliendo i sassolini più chiari, comprare un cappello di paglia, leggere un libro, fare il bagno nuda. E spegnermi così, un mattino, senza preavviso, magari mentre dormo sulla battigia, quando le parche avranno deciso di tranciare il mio filo. Questa è l’ultima vita che volevo e Alfredo me l’ha regalata. Facciamo di nuovo l’amore, abitudine che avevamo un po’ perso, e la doccia assieme. Lui non guarda la mia magrezza, l’addome gonfio, le occhiaie. Vede nei miei occhi l’allegria del sole, il lento ritmo di chi finalmente gode di quanto ha. Io nei suoi vedo la gioia di avere ancora questi momenti, che resteranno scritti con l’inchiostro indelebile nelle pieghe del suo cuore; vedo un uomo che guarda la donna che ama e la trova, comunque, bella. Nella piazzetta c’è Eustathios, un giovane pittore che per pagarsi gli studi fa ritratti a carboncino; parla un po’ di italiano. “I migliori turisti”, dice. “Italiani spende, no come inglesi”, e ride mostrando il collo forte e la lunga chioma nera raccolta in una coda. Ci fa un ritratto: dietro una bouganville e il muro di una
casetta, scenario inventato dato che siamo seduti su due piccole seggioline pieghevoli, in primo piano su uno scalino di pietra. I visi vicini, le mani intrecciate, il particolare della catenina che porto al collo. Coglie in noi un’espressione che non pensavamo di avere, tormentosa, affamata. “Cosa non va in coppia così bella? C’è amore in voi, ma anche dolore. Dimenticate il dolore, questa terra è fatta per essere goduta, perché è la più antica e bella al mondo.” “Hai ragione, Eustathios, è una terra incantata.” “Domani se volete mio cugino vi porta in barca e cucina per voi il pesce fresco.” Guardo Alfredo, tentata: “Che ne dici?” “Perché no?!” Mi stringe la mano. “Ma è il nostro ultimo giorno, perciò deve essere indimenticabile. Dillo a tuo cugino. Io pago bene, ma voglio il massimo.” Il nostro nuovo amico chiama qualcuno al cellulare, parla velocissimo in questa lingua difficile e ci assicura che saremo trattati come principi. “Ore nove sul molo, vedrai che Grecia così nemmeno la immagini!” Nel buio notturno, mentre il ventilatore a pale gira piano, srotolo il ritratto. Com’è bello! Nel mio sorriso c’è una dolcezza nuova che riconosco poco come mia. “Che fai?”, chiede mio marito dalla terrazza. “Non dormi?” “Guardavo il ritratto, non trovi sia bellissimo?” “Bellissima sei tu. Io con quella barba e l’espressione truce non mi piaccio molto.” “Ma si vede che ci divertiamo”, protesto. “Uffa, non sei mai contento.” “Certo che sono contento, solo che vorrei fermare il tempo qui. Ora. In questa stanza tirata a calce bianca e azzurra. E non tornare più indietro.” “Lo so, ci ho pensato anch’io, ma come facciamo?”, rido. “Ti troveresti a dover sbrogliare troppe pratiche burocratiche e non avresti l’aiuto di nessuno. E poi
voglio che tu ci possa tornare, in questo paradiso; se ci morissi, non ci verresti più.” “Non lo farò comunque.” Esita. “Grazia, e se ce ne andassimo insieme?” Non credo di aver capito. “Dove?”, chiedo stupita. “Via dal mondo.” “Ma cosa dici?” La mia voce sale e mio marito mi intima silenzio. “Non vorrai svegliare tutti?”, mi redarguisce severo. “Mai più, Alfredo!” Il mio indice si leva imperioso. “Non dirlo mai più, mi hai capita? Tu non lascerai questo mondo con me, non lo puoi fare, sarebbe un insulto alla vita. Come puoi dirmi una cosa simile? A me, che vorrei con tutta me stessa restare e non posso farlo, e tu, tu che puoi, che fai? Butti via tutto! Per paura? Vigliaccheria? Perché non hai le palle di stare da solo? Come si può dire una bestialità simile a chi deve morire e non vorrebbe, come si può?!” Scoppio in lacrime, l’assurdità di quanto ha detto mi pare troppo grande da sopportare, una cattiveria senza pari. Lui potrà rivederlo questo mare, sentire l’acqua fresca causargli la pelle d’oca per l’effetto del freddo in contrasto al calore del sole. Avrà gli occhi accecati dalla luce del primo mattino e godrà dell’uva dal grappolo. “Su, calmati ora, dicevo così, per dire, lo sai che sono un cretino”, mi si avvicina, mi stringe, blandisce la mia rabbia e il mio dolore. “Su, su...” Piccole pacche sulle spalle, come si fa con i bambini. Mi asciugo gli occhi col dorso della mano. “Non voglio che tu dica certe cose.” “Mi dispiace, scusa”. Mi tiene abbracciata, prigioniera del suo amore, la sua testa nel mio collo, le sue mani tra i capelli. “Hai sempre avuto un buonissimo profumo.” Sorrido. In fondo capisco il suo smarrimento, Alfredo non ha nemmeno la fede a sostenerlo. “Se credessi in Dio sarebbe più facile.” “Lo so, ma è un’altra delle cose che ti ho fatto fare anche per me.”
“Non si può essere credenti per interposta persona.” “Oh sì, io ci sono riuscito benissimo.” Mi addormento esausta, cullata dai suoi baci.
Amore mio, lo sai cos’ho qui? Ho la tua lettera, quella che mi hai scritto con anticipo per poi nasconderla nello scrittoio. Dopo tutti questi anni ancora non sai che ci tengo il libretto degli assegni in quel cassetto? Così, ahimè, l’ho trovata e, come giustamente immagini, l’ho letta. Che cose belle e dolorose hai scritto. Quanti “grazie” che sarei io a dover dire a te. Te lo ricordi, Grazia, che quando eravamo giovani avevo sempre la mania di farti fare le cose che io avevo già fatto? Rammenti come mi rimproveravi perché non sperimentavamo mai niente di nuovo insieme, ma ti portavo in posti che già conoscevo, a fare viaggi dove ero già stato? Era una cosa che odiavi. “Ma non possiamo scoprire le cose insieme, contemporaneamente?”, mi dicevi piena di disappunto. Persino al primo appuntamento, per trovare il ristorante adatto, con la vista sul mare e l’atmosfera giusta, mi ero informato a lungo e avevo offerto tre cene ad amici diversi, prima di scegliere quello dove si mangiava meglio e dove poi ti avrei invitata. È una mia debolezza, andare in avanscoperta per essere certo che quello che troverai ti piacerà. Entro sempre per primo nei luoghi dove andiamo, do un’occhiata veloce e se vedo qualcosa che non sia adatto a te, via. Stavolta però mi hai messo in forte difficoltà: nessuno a cui chiedere, nessuna certezza che starai bene. Se l’avessi, sarei più tranquillo. E così ho pensato tanto e ho deciso: ci vado io per primo. Mi guardo un po’ intorno, scelgo con cura le cose che ami, ci preparo un nido, ti aspetto. Sai, nulla mi trattiene.
Oh, lo so, è un peccato mortale, ci ho pensato. C’è in effetti il rischio che poi non si sia insieme, ma sono un bravo diavolo, chiederò al Signore di chiudere un occhio. Vedi che non avere troppa fede a volte aiuta? Sono certo della Sua flessibilità. Scherzi a parte, tesoro, la verità è che proprio non ce la faccio a vederti morire, solo l’idea di guardarti mentre ti spegni a poco a poco mi è insopportabile. Nella nostra vita hai programmato tutto tu, sin dagli inizi, e, anche stavolta, come hai gestito con maestria le cose! Tutto a posto: la scuola, gli studenti, la casa, il gatto a tenermi compagnia... Mancava che mi trovassi già un’altra donna, sono certo che se avessi potuto avresti fatto anche questo. Ma non è quello che voglio io. Io ho avuto te. Ho voluto te. Punto. E senza di te non posso vivere. È una certezza assoluta, un assioma, come dite voi matematici. Spero mi perdonerai, spero troverai conforto nel sapere che sono sereno e non potevo fare nulla di diverso, spero che il sapere che sono già di là ad aspettarti farà sì che tu non abbia paura. Spero che troverai una soluzione per far portare entrambi su quel vulcano, o ovunque tu voglia. Ieri ho parlato di nuovo con il tuo medico, mi ha confermato che non ci sono speranze, che la fine è inevitabile. Avesse detto altre parole, forse... Non lo so. Perfetto non lo sono mai stato. Avrei voluto ce ne andassimo insieme, ma dovevo saperlo che la tua fede ti avrebbe impedito questo gesto. E poi, diciamocelo, sei sempre stata più forte di me, ti sarei stato d’impiccio e preoccupazione, anziché d’aiuto. Mi dico che in questo modo renderò anche a te le cose più semplici, magari avrai meno pensieri se io non ci sono, andarsene sarà più facile. Allora ciao, amore mio. Ciao, donna meravigliosa che mi hai fatto il dono di condividere i tuoi anni con me. Ti aspetto nella nostra nuova casa: sarà bianca e piena di luce come piace a te. Ti amo da morire. Alfredo
Non ci sono lacrime, ma solo lucida follia nei suoi gesti. Non pensa già più a lei, che giace addormentata e fiduciosa, non pensa alla sofferenza che l’accoglierà al mattino. Chiude la busta e la poggia piano sul comodino, accanto a quei mille vasetti di pastiglie che odia con tutto se stesso. La bacia ripetutamente, sulla fronte, sui capelli, sulla bocca, senza fare rumore. Vuole imprimersi i suoi lineamenti e il suo calore bene in testa e nel cuore. Poi, meticoloso, si infila la sua vestaglia di lana rosa, sistemandosela in modo che gli copra tutto il corpo, il collo, per inalare quel che resta del suo profumo. Chiude gli occhi e si estrania. La vede china sugli scogli, com’era solo poche ore fa; la vede piangere in bagno all’appuntamento mancato con l’arrivo di un figlio; la vede sporca di zucchero a velo ai banchetti di Natale; la vede giovanissima in cucina con l’arrosto bruciato; la vede gridare impazzita davanti a una falena. Adesso può sorridere. Con la mano a chiudere i lembi morbidi si sporge, fa un profondo respiro, lo sguardo alle stelle. Poi è un attimo, di estremo coraggio e codardia.
Il sole filtra dalla finestra aperta, delle urla confuse in una lingua che non conosco provengono da fuori. Ormai sveglia, mi stiracchio incuriosita, getto uno sguardo al cielo e, trovandolo così blu, sorrido. La sveglia sul comodino segna le otto. Ma dov’è Alfredo? Ci aspettano alle nove al molo, dobbiamo spicciarci. Il rumore stonato di una sirena rompe la quiete e si fa sempre più vicino. Qualcuno bussa alla porta. Mi alzo a fatica, l’addome mi duole, cerco la vestaglia e mi o le dita tra i capelli per non farmi vedere troppo in disordine. Certo che al mattino ho un colorito da far spavento, penso mentre insistono alla porta.
Ma dov’è la vestaglia? L’avevo lasciata ai piedi del letto, ne sono sicura. “Signora? Signora? Sono il direttore, la prego, apra.” “Arrivo.” Apro la porta. “Ma che succede?” “Signora!” Non servono altre parole. Un disegno macabro diventa chiaro nella mia testa. Mi lancio verso la finestra e mi affaccio sul cortile. La vestaglia è lì, una macchia rosa, scomposta, tra le pietre grigie. E allora eccolo arrivare, il dolore. Cado in ginocchio, le braccia inermi lungo i fianchi, un urlo muto. Piango tutte le lacrime di questi mesi di angoscia. Piango per l’egoismo e la viltà di chi non si è reso conto di che meraviglioso dono sia esistere. Piango per non averlo più, nemmeno io, questo dono. Piango di paura, mi spezzo dal male. Urlo al cielo la mia rabbia, la mia disperazione, mi divincolo, scalcio, vacillo. Alfredo ha perpetrato il peggior tradimento, quello alla vita, che mai come ora mi è tanto cara. Lacero la veste di battista che indosso e solo la forza fisica di chi mi è accanto mi impedisce di strappare tutto. Lo sguardo cade sulla toilette; fisso il carboncino: i visi amati che si sorridono non sembrano nemmeno più i nostri.
Ho una brutta ascite, un versamento eccessivo di liquidi nell’addome; sapevo che prima o poi si sarebbe presentata. La paracentesi la fanno in day hospital e mi prelevano più di cinque litri di liquido. Il sollievo è quasi immediato. Parlo con il dottor Zanetti, siamo molto chiari l’uno con l’altra: la fine è vicina. “La situazione peggiorerà velocemente, Grazia”, ormai a volte ci scappa il tu, “Hai bisogno di un’assistenza domiciliare se non vuoi farti accudire in ospedale.” “No, no, preferisco di no. Se conosci qualcuno mi faciliti le cose.” Il mio tono è monocorde, l’aspetto terribile. “C’è un’associazione che opera in ospedale con cui mi sono sempre trovato molto bene. Provvedono a tutto,: letti, materiali medico-sanitari, assistenza
domiciliare ventiquattr’ore su ventiquattro. Inoltre, avendo base qui, siamo in contatto continuo. È personale qualificato. Possono somministrare farmaci e starti accanto fino a... sempre, insomma.” “Sì, va bene, che vengano a casa. Di questo sono certa. Voglio le mie cose. Il mio letto. Fammici parlare.” Afferro la borsa e faccio per andare, non c’è molto altro da dire. “Grazia, scusa se te lo chiedo, ma c’è qualcosa che non va? Non intendo la malattia, parlo di te... Sembri assente, disinteressata.” “No, no, sono solo stanca, e occuparmi di queste cose non mi fa certo piacere.” “Posso chiedere di tuo marito? Come mai oggi non c’è?” “Oh, Alfredo dici? Sua madre sta molto male, la sta ricoverando in una clinica. L’Alzheimer ormai è completamente fuori controllo.” “Mi dispiace molto, altri pensieri certo non ci volevano, pover’uomo; salutamelo tanto.” “Non mancherò.” Mi alzo e gli porgo garbatamente la mano, non voglio intuisca i miei pensieri. Del resto, che gli dovevo dire: “Mio marito? Si è ammazzato. Sa com’è, dottore, avere una moglie con il cancro non è cosa per tutti, ma vedrà, sarà tutto più facile, in fondo chi non sogna di crepare solo?”. E poi magari con il fatto che non avevo più nessuno mi faceva ricoverare: ci manca solo che l’ultimo lascito di Alfredo sia che mi impediscano di morire in pace in casa mia! Me ne vado in fretta, rabbiosa. Quello stesso pomeriggio arriva Ilenia, grande, forte, dignitosamente sovrappeso. Mi chiama prima “signora”, poi “Grazia”, poi “tesoro”. In un’ora siamo già amiche. Impariamo a conoscerci. “Perché fai questo? Non hai una famiglia, dei figli tuoi di cui farti carico?”, le chiedo curiosa. “Siete tutti miei figli, voi ammalati, altri non ne ho.” “Sì, ma perché hai scelto questo lavoro? In fondo avresti potuto fare la semplice
infermiera, perché proprio accompagnare le persone alla fine?”, insisto. “È il mio modo di dire ‘grazie’”, e mi guarda con occhi sereni.
Anna
Da:
[email protected] Oggetto: estate
Ciao piccola, So che ci siamo sentite solo poche ore fa, ma stanotte mi è venuta un’idea fulminante: che ne dici di invitare François da noi ad agosto? Può fermarsi anche tutto il mese e se andiamo da qualche parte per una settimana ce lo portiamo dietro. Se vuoi posso anche parlare con i suoi genitori, magari sua madre si sente più sicura se ci sono degli adulti, perché ho pensato che un ragazzo solo, non so, c’era il rischio che gli dicessero di no. Che ne pensi? Dormi bene, a domani Mammina
Da:
[email protected] R: estate
Penso che sei un genio!
Grazie!!!! Sei la migliore mamma del mondo :) Buonanotte, tvb Anna
La felicità esiste e sta di casa a Vancouver, in Alma Street. È nella cucina incasinata di Phoebe piena di cibo spazzatura e musica, nei disegni di “Franny magici Piedini” che colora Coleen, nella camicia a scacchi di Jason, chino con me sui libri di biologia. È andare al canile a prendere Sophia, terranova di quattro mesi, palla di pelo nero con gli occhi più dolci del mondo, e are la giornata nella spiaggia libera dei cani per insegnarle inutilmente a riportare la pallina, dopo aver speso venti dollari per un aggeggio stupido in plastica rossa fatto apposta per questo. È vederla disubbidire agli ordini e tuffarsi nell’oceano gelido, felice, per poi uscire e scrollarsi su di te, lasciandoti fradicia, sporca di sabbia, mentre ti atterra per leccarti il viso. È correre in bicicletta sul lungomare la sera, vedere i grattacieli di downtown illuminati, che si specchiano nell’acqua del fiordo, e, con il vento in faccia, scoprire meravigliata una sensazione di assoluta bellezza e libertà. La felicità è un pic-nic con le amiche mangiando sushi da asporto con le bacchette, distese nel parco in felpa e Crocs, perché qui che tu sia vestita alla moda non importa a nessuno, neppure se hai una scritta Hollister di un metro ricamata sul petto e sai che in Italia i tuoi coetanei morirebbero per questo. La felicità è ripetere inglese sulla spiaggia di Jerico Beach, con la testa appoggiata ai tronchi, mentre il tuo ragazzo dorme appoggiato sulla tua pancia, e tu guardi lui, il sole e il libro in un’alternanza perfetta. La felicità è credere che durerà per sempre, perché, anche se è già aprile, tu troverai il modo di tornare, e tutto sarà rimasto immobile, uguale, ad aspettarti, nella perfezione di questo tempo infinito che è tuo.
Quattrocento metri, un giro di pista, il respiro è affannoso, ma è normale: questa è la distanza più dura, non per niente si chiama “giro della morte”. o il segno bianco e continuo a correre, i calzoncini gialli appiccicati al sedere, incurante dei commenti idioti dei ragazzi della squadra di football. Ho un brufolo enorme in mezzo alla fronte, di quelli rossi e gonfi che non vanno via in nessuna maniera, una specie di bernoccolo purulento. L’ho talmente ricoperto di correttore che adesso sembra un bottone di ceramica crepato. Tra l’altro mi fa pure male. Continuo a correre sperando di eliminare la ritenzione idrica che mi assilla da giorni; faccio continuamente la prova premendomi le dita sulle cosce: resta l’impronta bianca e l’acqua nei tessuti non se va. Devo aver bevuto litri di tisana dall’altro venerdì, ma l’unico risultato è stato quello di farmi diventare incontinente. Ottocento metri, mi pare di aver preso un buon ritmo. Corro con le ginocchia alte, le braccia composte, e cerco di accelerare. L’allenatore con il cronometro in mano alza un pollice nella mia direzione. Ho dei nervi che mi consumano. Non so più cosa fare per scaricarmi. Porco cane. Taglio il traguardo dei mille in 3:02, è un tempo da gara. “Non è attendibile”, dico a Judd, che mi si avvicina entusiasta battendomi la spalla. “È inutile che esulti, è stata la forza nervosa.” “Allora vedremo di innervosirti prima di ogni gara, mi farò dare una mano dal tuo fidanzato.” Il mio fidanzato, già: se lo avessi davanti lo ammazzerei con le mie mani. A casa sono un’anima in pena. Dico a Coleen che non ho tempo per giocare con lei, gli esami sono tra un mese e devo studiare.
“Mi spiace che tu non lo capisca, ma ai grandi non sempre è concesso divertirsi”, il mio tono è davvero odioso e lei se ne va, mogia, con le bambole strette al petto, senza dire una parola. Mi preparo un tè caldo e afferro un biscotto; mentre sgranocchio sovrappensiero, Sophia si avvicina scodinzolante, ma non è proprio il momento. “Levati dal cazzo, Sophia, non ce n’è per te oggi!” Phoebe mi guarda perplessa, ma continua a stirare. Salendo le scale inciampo in una scarpa e mi rovescio addosso il tè bollente. “Merda! Ma non potete tenere un po’ di ordine in questa casa?!” Mi chiudo in camera e sbatto la porta. Quando Phoebe entra senza bussare mi trova seduta alla scrivania con la testa tra le mani. “Anna, ora basta, non è il modo di comportarsi, questo... Anna, ma che hai? Tesoro, cosa è successo?” Allarmata mi si avvicina e si inginocchia al mio fianco, tenta di togliermi le mani dalla faccia, ma oppongo resistenza. “Niente.” “Come niente? Su, non è da te essere così. Anna? Dai, Anna, non fare la bambina.” “È solo che... Ma non sarà niente...” “Cosa non sarà niente?” La guardo in faccia, ho gli occhi arrossati, le lacrime pungono per uscire. “Ecco, io...” Prendo un gran respiro. “Ho un ritardo di cinque giorni.” “Fuck!” “Esatto, fuck!” “Ok, sentimi, hai preso sempre precauzioni o no?”
“Sempre, tranne una volta...” Ora è lei a coprirsi la faccia con le mani. “Cristo, Anna, tua madre mi ammazza!” “Puoi pensare a me e non a mia madre ora?”, le urlo isterica. “Sì, sì. Senti che facciamo. Ora vado a comprare un test, lascio Coleen da Catherine, la signora di fronte, che giochi un po’ con suo figlio Jamie... Poi andremo in qualche modo a recuperarla, le dico anche che la tenga per cena.” Phoebe organizza tutto ad alta voce. Si alza, uscendo centra la porta, non fiata nemmeno, si massaggia solo il gomito continuando a parlare, grida a Coleen di mettersi le scarpe, veloce, c’è il suo amichetto che la aspetta. Intanto cerca il portafoglio, le chiavi di casa, chiama Catherine per avvertirla, s’infila l’impermeabile alla rovescia e in due minuti esatti è già fuori dalla porta. Io resto immobile in preda alla più cupa disperazione. Chiamo François, ma ha la segreteria telefonica. “Dove cazzo sei?”, sbraito scuotendo il telefono. Lo vedo precipitare dall’altro lato della stanza, ma oggi non è la giornata di correre a riprenderlo. “Muori!”, gli urlo dietro, come fosse una cosa animata. Phoebe rientra affannata e rossa in viso, ha delle chiazze sul collo e sulle guance; le vengono sempre quando è agitata. Mi consegna il pacchetto e aspetta, seduta sul mio letto, torcendosi le mani, non smette di piagnucolare, su mia madre, sulla responsabilità, che no, non si possono prendere in casa adolescenti figli di altri, ecco a cosa si va incontro. Esco dal bagno terrea reggendo lo stick in mano. Aspettiamo. Niente. Nessun segno. Sembra fallato, non dà alcun risultato di quelli previsti nelle istruzioni. “Devi farne un altro.” “Ora non mi scappa più.”
“Oh Sant’Iddio!” Si alza e corre a prendere una bottiglia d’acqua, me la sbatte addosso. “ Ecco, bevi!” Lei intanto ingolla da un bicchiere un liquido ambrato. “E quello cos’è?”, chiedo. “Scotch”, risponde bellicosa. “Scotch?! Ma non eri astemia?” “Astemia quando posso, non santa.” Sarà l’acqua o l’agitazione, ma subito mi torna lo stimolo di andare in bagno. Posiziono la provetta, la riempio e giusto un attimo prima di immergervi lo stick mi accorgo che, sì, la mia pipì è rosata. Strappo frenetica la carta igienica e mi asciugo. Eccola, finalmente, l’agognata macchia rossa. “Phoebe, Phoebe!” Corro in camera così come sono, mutande abbassate e pantaloni a mezz’asta, saltellando. “Oddio, che c’è?”, grida allarmata. “Sangue!” Le mostro trionfante la prova della mia mestruazione. E ci mettiamo a ballare, abbracciandoci e saltando, felici. Io su due piedi uniti, lei come un bisonte stravolto. Invoca il cielo, ringrazia i vivi, i morti, i Nativi canadesi che mi hanno graziata, tenta un rimprovero ma non le riesce, cadiamo sul letto e come due sceme scoppiamo in un pianto dirotto. Due ore dopo, quando Jason torna dall’ufficio, stenta a capire cosa sia successo per averci ridotte in quello stato.
Maggio
Maria Rosa
Il sole entra dalla grata e disegna i riquadri sul pavimento che sto spazzando; oggi è giornata di pulizie generali. Mi fermo a fissare l’azzurro del cielo e seguo, per quei pochi centimetri consentiti dall’ampiezza della finestra, il volo di una rondine. È primavera inoltrata. “I campi saranno rossi di papaveri”, mormoro più a me stessa che alle altre, “non mi ricordo più l’odore di un prato”. “E nemmeno del mare”, risponde Daniela, che sta ando un panno sul lavandino. “O di un mercato”, Diana sbuca dalla cuccetta in cui sta rifacendo il letto. “Anche quando sei in cortile, che pure è all’aria aperta, non so, gli odori non arrivano. È come se anche lì avessero chiuso lo spazio: c’è l’aria ma non c’è la vita.” Evelyn è distesa, ha un forte mal di pancia, così l’abbiamo esentata, e ci guarda dall’alto del suo letto a castello rannicchiata sul fianco. “Sì, è vero.” Daniela si siede. “Siamo chiuse in una scatola a dimenticarci del mondo mentre il mondo si dimentica di noi.” “Avrei voglia di tuffarmi nell’acqua”, dice Daniela. “Sai quando è gelida e rabbrividisci tutta e poi ti stendi al sole, ma ci metti un po’ a scaldarti e hai tutta la pelle d’oca...” “Io invece avrei voglia di una grigliata: l’odore della carne che sfrigola perché il grasso si scioglie, mentre sei distesa e bevi il vino, aspettando, e c’è il calore del fuoco e una sensazione di appagamento e pigrizia e appetito, tutto insieme.” “Diana, che tu avessi una predilezione per il cibo non era difficile da capire, basta guardarti”, Evelyn ride gemendo dall’alto. “Io invece vorrei una danza africana, i colori con cui ci si tinge il viso per le feste, gli oli profumati sulla pelle, che diventa lucente come onice nera, e il sudore misto al profumo che invade l’aria mentre si balla fino a cadere sfinite.”
“Io mi metterei seduta in un bosco, per ascoltare nel silenzio il rumore del muschio quando è intriso dell’acqua del fiume, le formiche che creano un formicaio, lo spezzarsi di un ramo, un uccello che si alza in volo. Sono stata solo una volta in montagna, festeggiavamo il primo anniversario di matrimonio e abbiamo fatto un pic-nic in una radura. Ombra verde e legna, non l’ho mai dimenticato.” “E invece siamo qui a spazzare... Accendi la musica, dai.” Diana si spazientisce se diventiamo troppo nostalgiche, dice che le facciamo venire i pensieri brutti. “Chiedilo alla tua Angela se ci mette in una bottiglia l’odore che c’è fuori e se un giorno di questi ci porta anche un po’ di vento per scacciare via gli spiriti maligni.” Sorrido. “Glielo chiederò, promesso, e le chiederò anche di metterti in un vasetto odore di bistecca e patatine fritte, così sarai ancora più contenta.” “Ecco, brava, e ora spazza, ché questa cella è un vero porcile.” La mia Angela, Diana ha detto proprio così; allora si vede che ci apparteniamo. Mentre la scopa scivola sul linoleum mi incanto a pensare a noi. Le mani che si sfiorano andoci le forbici, io che esito un secondo di più, le nostre chiacchiere intime, i racconti della sua vita fuori, dove forse non ce l’ha un’amica come me. A volte di notte la sogno e il mio corpo si scalda. Non faccio niente di male, non mi tocco come fanno le altre, ne avrei troppa vergogna. Una volta, ecco sì, ci ho provato, ma ho subito ritratto la mano, era una cosa sporca. No, io immagino di stare sdraiata accanto a lei su una spiaggia, di posare la testa sulla sua spalla e addormentarmi, vorrei tenerle la mano.
Ho fatto un tatuaggio, una rosa rossa piena di spine sull’avambraccio destro, e oggi faccio fatica a cucire perché mi fa male, così mi scuso con Angela mentre mi siedo e glielo faccio vedere. “Come mai tante spine?”, mi chiede. “E che rosa non ha le spine?”, rido. “Certo non io.”
“Tu ti sei punta troppo, ecco perché hai messo tutte queste spine. Peccato, sarebbe stata una bella rosa.” Per un po’ tagliamo i cartamodelli in silenzio; oggi siamo sole, dobbiamo preparare la nuova collezione e Angela ha fatto una visita extra, per cui solo io ho avuto il permesso di venirla ad aiutare. “Ho saputo dalle guardie che hai rifiutato la perizia psichiatrica; ma così non avrai l’infermità mentale e rischi una pena molto severa.” “Sì, è vero. Tutto, ma pazza no. Non m’importa di are il resto della mia vita qui, è più una preoccupazione della Altieri che mia. In fondo, a essere sincera, non sono mai stata così bene. Lavoro con te, ho delle amiche... Certo, prima o poi usciranno, ma me ne farò altre. E anche il direttore e le guardie non sono poi così male... Solo Tamara certe volte è cattiva, ma sempre meglio di quanto abbia mai avuto prima.” “Rosa, c’è una vita fuori di qui, la stai buttando via.” “Io non ce l’ho una vita, non ho niente fuori di qui. Io ho solo te.” “Ma che dici?” Angela finalmente mi guarda. “Sì, solo te. E di qui non me ne vado, perché altrimenti non ti vedo più.” “A parte che potremmo vederci fuori...” “No, non è vero. Io avevo Lea fuori, e lei era buona, ma non ci vedevamo mai. Ora ho te, non ci sto senza di te.” Angela scuote la testa. “Rosa, è una follia, ci sarei comunque per te.” “È che io, tu non capisci, proprio non posso stare senza di te, Angela.” Non so da dove, ma il coraggio di dirlo è venuto fuori. “Non dire scemenze.” Si alza, comincia a camminare nervosamente intorno al tavolo, mette una distanza fisica tra di noi. “Ti sei bevuta il cervello.”
“No, davvero, ma non come pensi tu, non è mica come le donne che fanno cose brutte, o le guardie... Io voglio solo starti vicino, che siamo noi due e parliamo e mi insegni le cose, perché tu mi tratti bene, non come gli altri.” “Ma, Rosa, questo non c’entra con la tua pena, confondi le cose.” “No, c’entra invece, perché con nessuno volevo stare mai come con te, anche tutto il giorno, e ti ho trovata qui, e se esco e poi non ti trovo?” Cerco di spiegarmi, anche se non mi è affatto facile. “Ho avuto modo di riflettere tanto in questi mesi e mi sono resa conto della miseria in cui vivevo. Non avevo identità, né proprietà, neanche un volto o un nome. Ero trasparente, per tutti. Se si accorgevano di me era solo per farmi del male. In carcere ho scoperto di avere dei gusti, cose che mi piacciono e cose che odio, ho scoperto persone, anche cattive, sì, ma che non mi mettono sotto e, se lo fanno, vabbè, tu mi spiegherai come devo fare. Voglio tenermi stretto questo tempo. Siamo in tante in cella, è vero, e c’è la puzza, ma non ci sono le botte, le umiliazioni... Non ci sono uomini.” “Ma questo non è il tuo tempo, Maria Rosa, questo è lasciarsi vivere, non vivere davvero. Devi uscire di qui, portare questa esperienza con te e farti una vita tua.” “E come?”, le chiedo. “Come? Chi mi aiuterà? Dove andrò? Non ho nulla, Angela!” “Non è vero. Stai imparando un mestiere che potrai esercitare, che ti aiuterà a sopravvivere. Avrai la possibilità di prenderti una piccola casa in affitto, vivere le tue giornate come vuoi. Sarai indipendente e libera.” “Magari potrei avere delle piante? E tu mi verresti a trovare?” Il seme dell’illusione mette facilmente radici in un terreno fertile come lo sono io ora. “Sì, e a primavera sbocceranno i fiori. E magari avrai un piccolo terrazzino, con una seggiola, per guardare la sera, ma non devi più dire che non puoi fare a meno di me. Non è vero e mi mette a disagio. Devi promettermi che mi vedrai solo come una buona amica. ” “Ma perché vuoi che esca? Non ti piace stare con me?” “Sì che mi piace, ma non è giusto.”
“È che tu sei buona, per questo forse non sai quanto sono cattive le persone...” “Non tutti, credimi, alcuni sono gentili.” Mi guarda intenerita. “Oh, lo so che non ci puoi credere, ma è vero.” “Ma se io non cambio idea, tu resti e lavoriamo insieme lo stesso?” “Certo.” “Questo va bene.” Rimango un attimo in silenzio. “Credi che potrei anche leggere un libro nel terrazzino, come quelli di cui parli tu?”, chiedo esitante. “E come no! E magari nel tempo che ti resta da stare qui potresti prendere un diploma.” “Un diploma?”, chiedo esterrefatta. “Io? Un diploma? Come quelli veri? Delle persone che studiano intendo?” “Sì, un diploma di quelli veri, con tanto di voto finale.” Ride. “E poi fare un corso professionale di sarta, e insegnare questo mestiere alle altre detenute e farti pagare per questo. E con i soldi che guadagni avere un tuo posto dove stare.” “Mi prendi in giro, Angela?” Scuoto il capo. “Stiamo parlando di me, una miserabile assassina ignorante.” “Sì, di te: una brava donna, onesta, generosa e molto sfortunata. Che ha commesso un errore, un reato grave, e lo sta pagando senza tirarsi indietro, ma merita, quando avrà saldato il suo debito con la giustizia, di avere un’opportunità.” “Va bene, Angela, ma anche se io ti credo, non erò per pazza; no, troppa vergogna, e poi è vero quello che dici: ho commesso un reato e devo pagare. Si fa quello che è giusto. Mimmo era un uomo cattivo, ma non meritava di morire. In fondo qualcosa mi aveva dato.” “Cosa? Cosa ti aveva dato?” “Be’, mi aveva sposata.” “Sì, per avere la serva in casa.” Si alza e mi si mette di fronte, mi prende le mani
e fissa lo sguardo nel mio. “Rosa! Apri gli occhi! Basta pensare a te stessa come una nullità: non lo sei, né lo sei mai stata. È una vita che te lo fanno credere, ma non avresti ottenuto le gratificazioni che dici se lo fossi davvero. Qui dentro tutti ti rispettano e ti vogliono bene, ti sei guadagnata la stima di chi ti sta attorno e l’hai fatto da sola, per ciò che sei.” “Vabbè, ma qui è facile.” “E perché è facile? Forse le donne che sono qui dentro valgono di meno?” “No, no, non intendevo questo. È che, non so, qui dentro mi è sembrato tutto facile, non ho mai avuto paura.” “Perché sei stata te stessa.” “Non dirmi cose che non credi”, mormoro piano, ho il timore di ascoltare davvero le sue parole. “Non lo farei mai.” “Sai, oggi riesco a immaginare che la mia vita sarebbe stata diversa se avessi incontrato prima persone come te. Forse ci avrei creduto.” ano alcuni minuti in cui lavoriamo in silenzio. “Angela, sai come si chiama quello che mi hai dato?” “No, come?” “Speranza. Si chiama Speranza.”
Sara
Mercoledì, ore 9.30, yoga. Elisabetta, l’insegnante, è di Milano. Dopo una laurea in fisica della materia e un master alla SISSA, notissima scuola triestina di Studi Scientifici Superiori conosciuta a livello internazionale, si è lasciata con il collega con cui conviveva da nove anni e per cui aveva rinunciato alla natia terra lombarda, ha fatto un fagotto con poche cose ed è partita alla volta dell’India a cercare la pace. Il risultato delle sue peregrinazioni è una scuola di yoga e massaggi ayurvedici in pieno centro. Il corso per donne in gravidanza è iniziato da qualche mese e siamo tutte abbastanza avanti, tranne la stessa Elisabetta, che ha da poco scoperto di essere incinta e con la sua mente in continuo fermento sta ora pensando di proporre delle lezioni di massaggio indiano per neonati. Entra con un vassoio e delle tisane drenanti e mentre sorseggiamo il finocchio benefico ci racconta entusiasta della sorpresa di oggi. “Vedrete cosa vi faccio fare, altro che la solita meditazione...” Si sfrega le mani, lì, a terra con le gambe incrociate, magra, con un pancino da nulla. Come mi piacerebbe a volte trovare la pace interiore che ha lei, avere la forza di pensare sempre in positivo, lasciarmi trasportare dagli eventi. Ma ognuno deve fare i conti con se stesso, e purtroppo io non sono fatta così. Distese sui materassini, io e Sonia ci sorridiamo iniziando a rilassarci e a modulare il respiro; sembriamo un po’ dei capodogli riversi. Una musica dolce si diffonde dalle casse: rumori di foresta, acqua e il canto di qualche uccellino tropicale accompagnano la voce di Eli. “Mettetevi in savasana o la posizione del cadavere, distese a pancia in su o sul fianco, e respirate con l’addome e il torace.” La posizione del cadavere non promette niente di buono, si levano delle risatine. “Guardate che gli indiani hanno ragione: chi è più rilassato e senza pensieri di un cadavere? È morto. Forza, svuotate la mente e guardate scivolare via i pensieri.”
La ragazza dietro di me l’ha presa in parola: il suo respiro si trasforma, nell’arco di pochi minuti, in un lento e poderoso russare. Non riesco a concentrarmi, la mente corre. Manca un mese alla nascita e con Luca non ho ancora risolto niente. Vado avanti facendo finta, nessuno ancora sa che se n’è andato di casa. Mento, prima di tutti a me stessa. Parlo con mia madre di completini e body, cerco con Sonia le migliori offerte di carrozzine su Ebay, ho persino sostenuto l’esame di Stato di nascosto, senza dire ancora ad anima viva di averlo ato, altrimenti sai quante spiegazioni. Non so per quanto ancora potrò farcela. Ma a essere sincera questo tempo in solitudine è utile anche a me. La notte, quando mi rigiro nel letto senza riuscire a prendere sonno, penso agli ultimi mesi e mi rendo conto che qualche colpa, e non proprio poche, l’ho avuta anche io. Quello che più mi turba è che non ho provato nessuna gelosia per il tradimento, non ho mai immaginato Luca tra le braccia di quella puttana sfascia-famiglie – è così che l’ho soprannominata, per me continua a non avere un volto né un nome. Mi dà fastidio che mi abbia tradita, ma fastidio, non dolore. Lo amo davvero? È possibile amare senza provare alcun senso di possesso? Cosa mi manca realmente di lui? Un’altra presenza in casa o Luca in sé? C’è poi tutta questa differenza? Dov’era finita la complicità del nostro rapporto, la ione, le risate? Non me le ricordo nemmeno più. Oh, certo, Luca che fa la spesa e porta le borse, che mi massaggia la schiena dolorante, che mi abbraccia all’ecografia, che ascolta le mie lagne, quello sì che mi manca, ma possono queste cose da sole reggere una storia? Forse ha ragione, e di essere stata insopportabile e Saracentrica me ne sto accorgendo solo ora. Se voglio ricomporre le cose bisogna che prima di tutto mi metta a lavorare su me stessa; poi, forse, potrò iniziare di nuovo a pensare a lui. Riguardo alla bambina o da momenti di incertezza a grandi entusiasmi, ma è una cosa diversa: è mia figlia, mi appartiene, farò forse più fatica, ma non la vedo come un ostacolo, anzi, non vedo l’ora che nasca. Mi accarezzo il pancione, lo guardo e le parlo: “Stanotte ti ho sognata di nuovo. Eri bionda e delicata, ma non riuscivo a vederti in viso. Sapevo con certezza che eri tu, ti chiamavo perché ti girassi, ma invano. Eri distesa in un prato, intravedevo le gambe e le braccia muoversi, sentivo il tuo pianto, e attraversavo l’erba alta cercando di localizzarti e prenderti, ma ogni volta il rumore sembrava provenire da una direzione diversa; comunque non avere paura, le mamme non li perdono
mai i loro bambini.” “Ora facciamo la posizione del tempo, kalasana, per bilanciare le vostre energie. Spostate il peso da un piede all’altro sempre concentrate sul respiro.” Elisabetta prosegue e io cerco di contare le mie inspirazioni e sentire, come vorrebbe lei, le piante dei piedi. In realtà mi prudono un po’, perché ultimamente la circolazione non è buona, ma fa niente. Penso che non ti lascerò mai sola in un prato, tanto per non correre rischi. La terza posizione, pensata proprio per noi, è il gesto della giumenta o ashivi mudra, per rilassare i muscoli del perineo. Accucciata a terra, Sonia mormora piano: “ Certo che tra cadaveri e giumente non siamo messe molto bene.” Veniamo invitate al silenzio, ma sempre in modo garbato, calmo, tollerante, come è proprio dell’ambiente che ci circonda. Cerco di restare seria, ma mi sta salendo il panico: non posso fare a meno di vedere con occhio esterno la situazione in cui mi trovo. La pancia sfiora il materassino e divento paonazza per lo sforzo di alzarmi. Mi do un contegno in attesa che venga svelata la sorpresa di oggi, il canto carnatico, inventato da un ostetrico se dei primi del Novecento e che si dice sia molto efficace. Mentre quindici donne gravide con pance a vista si esprimono in una sinfonia di vocali “aaaa”, “ooooo”, “eeeee”, “iiiiii”, “uuuuu”, “mmmm” per rilassare utero e gola, intimamente collegati, perdo l’equilibrio e rotolo su un fianco. “Aha”, esclamo cercando di sollevarmi, ma il suono è decisamente meno melodioso. In preda all’ansia affondo il viso nella coperta senza riuscire a respirare. Elisabetta e Sonia mi sono accanto in un attimo. “Sara, stai bene?” Elisabetta mi tocca il braccio preoccupata. “Sì, sì”, bofonchio rauca e mi metto a tossire. “Alzati, ce la fai?”, mi dicono con tono inquieto mentre mi aiutano a sollevarmi. “È tutto ok , tranquille, solo che mi sta salendo la nausea, sarà che non ho fatto colazione... Meglio che vada a casa, scusate.”
Mi alzo e scappo, veloce, senza dare a nessuno l’occasione di approfondire come sto.
Il messaggio in segretaria era chiaro: Luca vuole vedermi. Nonostante questo, l’ho ascoltato sei volte, tanto per capire che effetto mi faceva la sua voce. È più di un mese che non è in casa, un mese di lacrime, di recriminazioni, in cui sono andata avanti come un automa con il pilota automatico. So che lo devo vedere, anche se ho paura, così dopo aver composto e cancellato il numero per giorni mi sono decisa a inviare un asettico sms fissando l’appuntamento. Mi sento un mostro con la maglietta larga e i leggings scuri che mi fasciano le cosce lasciando spuntare due caviglie troppo gonfie, ma fa caldo, sono incintissima e vaffanculo lui e la sua miss: in fondo in grembo porto sua figlia! La sera è dolce e profuma di maggio. Seduta sulla pietra, fisso il mare. Il cielo è rosso e turchese con qualche striatura nera, nuvole che spennellano l’orizzonte. Luca beve una birra in silenzio. “Mi sei mancata” “Anche tu”, rispondo, “ma non so se più per abitudine o davvero.” “Non è facile, eh?”, chiede, scuotendo il capo. “No.” o le mani su un mucchietto di sassolini, avanti e indietro. “Senti, Sara, io credo che entrambi abbiamo una responsabilità. Almeno ci dobbiamo provare a far funzionare le cose.” “Non è una eggiata, Luca, rivedere e riuscire a far rinascere un rapporto è praticamente impossibile.” “Sì, lo so, ma è un dovere verso la bambina.” “Ma se non andavamo d’accordo in due, vuoi che con un neonato in mezzo sia più semplice? Credi che le notti insonni, l’allattamento, gli ormoni post-parto ci
aiuteranno?”, ribatto con più di una punta di scetticismo. “E allora? Gettiamo la spugna? Così, senza averci nemmeno provato?” “Non sto dicendo questo, penso che forse dovremmo procedere a piccoli i.” “Tipo?” “Tipo che restiamo separati ma condividiamo del tempo insieme. Tipo che erai del tempo a casa con noi, ma non ancora in maniera stabile. Tipo che impareremo a essere genitori e vedremo se possiamo essere ancora una coppia.” “E pensi che così, da sola, con me solo qualche ora al giorno tra i piedi, ti sarà più facile?” “No, penso che sarà durissima”, rispondo sincera guardandolo negli occhi, “ma per una volta non voglio programmare, voglio provare e vedere come va. Mi sembra già un o avanti.” “Notevole”, commenta. Il suo tono è difficile da interpretare: ammirato o sarcastico? “Luca, non ti capisco, cosa vuoi da me? Sei andato a letto con un’altra, sei andato via di casa, ti sei preso i tuoi tempi, cosa ti aspettavi? Che fossi qui a braccia aperte a pregarti e supplicarti di tornare?” “Forse sì, forse pensavo, o speravo, che avessi più bisogno di me.” “Anch’io pensavo mi amassi. Vedi, entrambe le nostre aspettative sono andate deluse.” “Ma io ti amo!” Lo dice con forza. “Ma abbastanza? E, più importante: io ti amo? O eri una comoda e piacevole abitudine? Penso che sia questo il nostro dovere e la nostra responsabilità oggi, capirlo e sforzarci di essere comunque sereni, se vogliamo crescere ed essere dei bravi genitori.” “Un figlio ha bisogno di una mamma e di un papà.”
“E infatti ci siamo”, dico convinta. “Ci siamo.” “Vieni qui.” Mi prende la mano e mi trascina a sé; solo ora mi accorgo che mi è mancato il suo odore. “Sara, io voglio provarci davvero.” Sono ati nove mesi e il caldo sta tornando. Per me è come se fossero stati cinque anni, per lo stravolgimento che hanno portato nella mia vita. Non riesco a credere che sia stato un tempo così breve. Mia figlia sta per nascere, una figlia che non volevo perché non l’avevo deciso io, che mi ha costretta a fare i conti con le debolezze che celavo sotto un bisogno assoluto di controllare delle cose. Non l’ho programmata, è capitata. Forse non per caso. È venuta a insegnarmi ad accettare che le cose accadono e si può solo imparare a gestirle. È venuta a darmi il coraggio di prendere in mano la mia vita. È venuta a mostrarmi che si può amare senza essere deboli e a darmi la forza di ricostruire. Guardando indietro vedo la strada percorsa; se sono una donna, ancorché incompleta, lo devo a lei. Un giorno la ringrazierò di avermi forzato la mano. C’è una brezza leggera, increspa il mare di piccole onde e crea un effetto argenteo mentre il sole va a dormire. La città con le sue luci riposa quieta sullo sfondo, abbraccia tutto questo blu e lo accoglie tra le sue amorevoli braccia, i palazzi ottocenteschi stagliati come sentinelle. Giro la testa e alzo gli occhi in su. Mi piace il viso di Luca con questo accenno di barba, la bocca morbida umida di birra. “Margherita.” Lo dico ad alta voce, guardandolo. “Eh?” “Voglio chiamarla Margherita.” “Margherita.” Ne assapora il suono, prova a immaginarla. “Marghe, Margie,
Margina...” Rido, e la pancia sussulta. “Le piace.” Contraggo il viso in una smorfia di dolore, i suoi calci cominciano a fare male. “Anche a me.” Si china a baciarmi, sollevandomi un po’ il viso tra le grandi mani. “E allora, che Margherita sia.” Mi rimetto giù, finalmente in pace, quasi felice, una mano intrecciata nella sua. “Ce la faremo”, affermo fiduciosa. “Ne sono sicura.” La sera scende silenziosa, interrotta dal grido di un gabbiano.
Grazia
“Sono stremata, Delia, non c’è nulla di umano o nobile nell’attesa. Il dolore è troppo per essere sopportato e io per prima non ne posso più. Mi sono arresa, non potevo comunque vincere, è sempre stata una lotta impari. Sono stufa e tanto, tanto stanca. Speravo di arrivare alla fine esausta, e così è. Il lato positivo è che lo sfinimento uccide ogni cosa attorno a sé, come fosse un diserbante chimico che si porta via tutto, a tratti anche la paura. So che non ti parlo di Alfredo, ma cosa potrei dire? Sono stata abbandonata, sono rimasta sola. La rabbia che ho dentro a volte mi fa orrore. È vero, avevo cercato di organizzare tutto al meglio, avevo preso la morte come un dovere spiacevole ma inevitabile, cui bisognava arrivare preparati. Persino la lettera d’addio l’avevo scritta in anticipo. Ho gestito la mia fine come ho fatto per tutte le cose della vita. Ne ho assunto il gravoso compito e mi sono adoperata al meglio per portarlo a termine con dignità. Ma il gesto di mio marito mi ha spiazzata. Mi ha semplicemente, comodamente, abbandonata. Non voleva vedere, non poteva affrontare la malattia, la sua puzza, il corpo che marcisce, il dolore. E come sempre davanti alle cose odiose, è scappato.” La mia amica mi guarda in silenzio, mi tende la mano sulla coperta. “Cristo, te ne rendi conto? Non poteva, così ha detto, semplicemente non poteva. E allora scusa, cara Grazia, grande amore della mia vita, sei sempre stata una donna forte, arrangiati, sono certo che ce la farai. Come avessi alternative. Vuoi sapere che penso? Che questa è la fine di chi non ha figli: una morte solitaria per una vita sterile. Che aggio inutile. Cosa lascio al mondo, eh? Nulla, Delia. Tanta fatica per comprare questa casa, ma perché? E soprattutto, per chi? Pensavo avremmo condiviso tutto, anche i momenti brutti, nella salute e nella malattia, si dice, no?” Rido sarcastica. “Forse in quel momento non era attento.” Accarezzo il pelo morbido di Nina, la mia voce è piena di amarezza. “Ho comprato pure questo gatto, ci pensi a fin dove mi sono spinta? Pure il gatto, perché non fosse solo. Che idiota. E ora, a chi lo do? È solo una preoccupazione in più.” “A parte che Nina me la tengo io, e questo è deciso, smettila di parlare così. Vite
vuote e inutili le hanno altri, tu sei comunque circondata da affetto, da amici, hai costruito rapporti solidi, pieni di calore umano. I tuoi studenti stessi ti hanno sempre adorata.” “Sì, certo, come si può adorare una professoressa di matematica. No, la verità è che io non lo posso perdonare, tutto qui. Ho un rancore sordo. Ma che matrimonio è stato allora? Trent’anni a pensare di avere il marito perfetto, di essere la coppia dell’anno, e questo che fa? Va a prepararci il nido. Così ha scritto, guarda.” Tiro fuori da sotto il cuscino la lettera stropicciata di Alfredo e la mostro alla mia amica scuotendo il capo. “Grazia, però così non va, cosa ti stai facendo? Devi perdonare, anche la debolezza, anche la vigliaccheria, anche l’essere stata amata meno di quanto ti aspettassi, altrimenti non troverai pace.” Scuoto il capo. “Non posso.” “Devi. Vuoi andartene così? Piena di livore? Prima l’hai giustificato con tutti, sembrava il martire, il povero marito accecato che aveva compiuto un gesto insano. E ora? Perché ora non più?” “Perché lo odio! Perché muoio e ho paura! Ho talmente paura che mi sembra di soffocare e pensare di trovarmelo all’altro mondo invece che rendermi serena mi riempie di collera. Io muoio, muoio sola, capisci?!” Grido impazzita e stringo le lenzuola con ferocia. Ma com’è che nessuno capisce questo terrore, nudo, puro? Nina salta giù dal letto spaventata, Delia mi stringe forte tra le braccia piangendo, Ilenia arriva, la scosta, efficiente inietta nella flebo un sedativo. In pochi minuti le palpebre mi si fanno pesanti, la voce si impasta mentre chiedo scusa. “Succede sempre.” Ilenia controlla il flusso della flebo e lo rallenta. “Non deve spaventarsi, sono reazioni normali. Tra un po’ alla paura subentrerà la rassegnazione e poi sarà talmente esausta da desiderare la fine. Non soffrirà, si spegnerà, semplicemente, intontita dai calmanti e dalla morfina.”
“Non sopporto che abbia paura.” Delia ha uno sguardo terrorizzato “Tenga, ne ha bisogno anche lei.” Ilenia le allunga una pastiglia. “La sciolga sotto la lingua, ogni tanto è necessario un piccolo aiuto.” “Vorrei essere io d’aiuto.” “Ma signora, lo è! Cosa ne sarebbe di Grazia se non ci fosse qui lei?” “Certo che suo marito questa non gliela doveva fare.” “Mah”, la guarda con piglio pratico, “magari è stato meglio così.” Delia chiede a Ilenia di aprire la finestra, vuole che il profumo di maggio invada questa stanza, la stagione è avanti e il glicine della terrazza già in fioritura. Le ore ano. Io, mezza intontita, mi agito sul cuscino.
Nel sonno confuso vedo Don Augusto che mi ascolta serio, composto nel suo ruolo. Le sue mani pallide hanno tracciato sulla mia fronte la croce e tentato con le parole del Signore di darmi conforto e armonia. È un sogno in cui non ho più peccati, né rimorsi. Non ho rimpianti. Il mio bilancio alla fine ha un segno più nell’ultima riga. Sono ata di qui camminando a schiena dritta e ho costruito perché regnasse la serenità. Spiego al parroco che non ci sono stati forse grandi picchi emotivi, né montagne russe che fanno tremare le viscere, ma non erano nelle mie corde. Ho avuto ciò che volevo, gli dico serena, una vita buona. Sento la mano di Delia accarezzarmi la fronte e le molle arrugginite della poltrona stridere sotto il suo peso. Starà qui, immobile, un’altra notte, a vegliare dolce il mio sonno tormentato, che cara. Vorrei riuscire a parlarle, chiederle di avvicinarsi, dirle che verrà la pace, presto, di pazientare ancora solo un po’. Dirle di non avere paura della mia paura.
Ma le parole mi restano in gola.
“Non riesco più a mangiare e nemmeno a dormire. Trascorro le mie notti sulla poltrona accanto al letto, vegliandola. A volte sembra serena quando l’effetto della morfina o dei sedativi è attivo, in altri momenti invece si contorce per gli spasmi, anche involontari, causati dal dolore. E allora le asciugo la fronte sudata, le accarezzo i capelli. A volte, nel sonno, sorride. Sto sveglia perché l’unica cosa che desidero fare è starle accanto, per quanto ancora mi sarà possibile farlo. I suoi capelli hanno perso consistenza e colore. Non sono più serici e lucidi come un tempo. La sua pelle è tirata e giallognola, le sue membra contratte. Della donna che ho amato, la mia amica così bella, non è rimasto quasi nulla, ma a volte, se non è stordita dai farmaci, nei suoi lunghi occhi azzurri c’è ancora luce, e colore. Sono tormentata dagli incubi, dalle immagini dell’ospedale, corridoi lunghi e vuoti, illuminati nella notte dal neon e eggiati da famigliari silenziosi che vagano come ombre in cerca di spiriti benigni. Ormai odio gli ascensori d’acciaio bui, i disinfettanti, i farmaci che trasudano dalla pelle e riempiono questa vita con l’odore della malattia. Perché ha un odore la malattia e solo chi ci ha vissuto può conoscerlo così bene. Ha un odore talmente definito da permeare per sempre le tue narici e da coprire tutto il resto. Non ti assuefai, mai. Quando è sveglia cerco di raccontarle cose gradevoli, mi invento aneddoti buffi sulla scuola, le dico che la mandano a salutare e che arrivano tanti messaggi in segreteria. Non vuole vedere più nessuno. Ilenia la solleva per lavarla come fosse un uccellino, a me non è permesso avvicinarla in quei momenti o assistere. Le sento parlare in bagno, mentre le lava i capelli e li spazzola con gesti morbidi, o quando le massaggia il corpo con l’olio, come si farebbe con un bambino appena nato. La cura è la medesima. Le ho comprato un’acqua profumata per il corpo, dice che non vuole puzzare e gliela spruzzo piano sulle mani. Hanno talmente tanti buchi e tanti aghi da essere ridotte un colabrodo, ma sono belle comunque. Non voglio che smetta di
curarle, sono sempre state la sua fissazione; è una vita che mi ricorda di quanto una signora si riconosca dalle mani. La mia estetista è venuta e le ha fatto la manicure, pensa, sono anche riuscite a ridere. Dio mio, ridere... Sembra un paradosso, vero? La convinco a usare le camicie da notte più belle e le faccio mille complimenti su quanto le doni il pizzo e soprattutto il rosa. Ma, nonostante questo, ho l’impressione che non basti. Di non riuscire a fare abbastanza. L’altra notte, nonostante le sue proteste, l’ho presa tra le braccia. L’abbracciavo cullandola, piano piano, sussurrandole ricordi lontani e vecchie melodie per farla addormentare. Nel sonno a un certo punto ha aperto gli occhi, con immensa fatica, perché tutto le costa fatica ormai, e mi ha accarezzato il viso; mi ha detto: ‘Grazie, Delia’. Avrei voluto morire io. Credevo che il cuore mi si sarebbe fermato, lì, in quell’attimo, in quella poltrona, e lei sarebbe caduta a terra. Invece no, il bastardo ha continuato a battere e io l’ho maledetto insieme a quel Dio in cui una volta ho creduto.” Ilenia guarda Delia silenziosa; questo per lei è un vecchio film, e anche se si è molto affezionata a Grazia sa come gestirlo e superarlo. Non ha condiviso una vita con lei: vacanze, estati, compleanni, le mille stupide e inutili feste comandate di cui si compone una vita. “Mi sento inutile, non mi rassegno a lasciarla andare.” Esther ascolta nella luce calda della cucina. Apre la porta finestra per far girare l’aria, si sente soffocare. Capisce Delia, anche lei prova sensazioni analoghe, e vedere la sua amica, quella sorella che non ha avuto, spegnersi inesorabilmente senza fare rumore uccide un po’ anche la sua anima. Dal buio arriva il suono di una marmitta rotta e una saracinesca si abbassa bruscamente su due ragazzi che ridono. La vita continua. Clara chiama ogni due giorni e la irrita con le sue scuse. “Poi anch’io mi pento, sai, so che ha dei figli e non può gestire tutto, ma questo suo modo di scusarsi per non esserci... Non so, non lo sopporto. Se non ci sei, non ci sei, fa nulla, ma non chiedere la mia assoluzione, altrimenti prendi un treno e vieni.” Esther si a una mano tra i capelli con aria stanca. “Sono ingiusta... È che c’è troppo dolore e assistere a quest’agonia mi strema.”
“Se la chiamassimo verrebbe al volo, e lo sai, ma cosa cambia? Io e te siamo fantasmi ormai. Non pensavo sarebbe stata così dura.” “Del resto, dopo il gesto di Alfredo, cosa potevamo fare? Lasciarla morire sola? In un letto d’ospedale? Forse sarebbe stato meglio, non lo so, ma è stata irremovibile, come potevamo forzarla? È che c’è troppa, troppa angoscia, e mi sembra tutto sbagliato. Non ci saremmo dovute essere noi due qui; cioè, sì, ma non solo. Ci doveva stare suo marito. Io ogni tanto ci ripenso e, giuro, non riesco a capire. Come ha fatto ad abbandonarla? Come? Non me lo sarei mai aspettato.” Delia annuisce, nemmeno lei sa che dire, il suicidio di Alfredo li ha lasciati tutti attoniti. Specialmente per il crollo che ha avuto Grazia. I medici sostengono che ci sarebbe stato comunque, e forse è vero, lei non può saperlo, ma certo è che tutto è precipitato. Grazia ne parla poco, malvolentieri, si rende conto di essere un peso e si scusa di continuo, promette che durerà poco. Esther siede al tavolo, la testa tra le mani, gli occhi gonfi arrossati di chi ha pianto tanto e dormito poco. Delia la guarda smarrita, non c’è niente che si possa fare per alleviare la loro pena. Pensa che forse la fine sarà un sollievo, per tutti, la sua amica per prima, ma si sente subito in colpa e caccia via questa idea immonda. Come può augurarsi che muoia? “Voler bene a qualcuno significa non volerlo veder soffrire, per questo ricordati che conta il come, non il quanto.” Le parole razionali di Grazia le riecheggiano in testa, ma non può, non riesce a condividerle. Se lo fe, poi non si potrebbe perdonare. Ma cosa c’è da perdonare?
Anna
Da:
[email protected] Oggetto: guarda che sballo
Mamma! In allegato hai la foto del vestito per il ballo di stasera, non è bellissimo?!!!! Mi sta da Dio! Ti devo dire una cosa, ma ti prego, non ti arrabbiare: non voglio tornare a casa. Cioè, non è che non voglio, ma l’idea di lasciare tutti gli amici, di non vederli più, e soprattutto di lasciare François mi uccide. Ho paura di perderlo, mamma. Piango tutto il giorno, sono tristissima. Ti prego, aiutami Tua figlia infinitamente infelice
Da:
[email protected] R: guarda che sballo
Tesoro mio, figlia infinitamente infelice, cominciamo dalle cose futili: il vestito è bellissimo, quell’azzurro è identico ai tuoi occhi. Ti prego, fatti fare tante foto e mandamele, sarà una serata splendida e voglio che la ricordi tutta la vita. Per quanto riguarda il resto, è assolutamente normale che tu ti senta così.
Figurati se mi arrabbio, me l’aspettavo, vuol dire che ti sei trovata bene. Non devi preoccuparti di perdere gli amici, rimarrete in contatto. Ci sono le mail, Facebook, e poi vi vedrete, sarà un’occasione per viaggiare di più, stai certa che in Italia ci capitano prima o poi. Ricordati che anche loro se ne vanno al college, quindi se anche rimanessi lì sarebbe comunque tutto diverso. Veniamo a François, tasto dolente. Punto primo: Parigi è a due ore di aereo. Punto secondo: tra un anno finisci la scuola e se la storia andrà avanti magari potrai andare a studiare lì. Punto terzo: se è vero amore, durerà, nonostante gli ostacoli. Almeno tu, alla tua età, devi crederci. Tornare sarà difficile, ma anche bello. Ritroverai i vecchi amici, sentirai tutti i racconti di questi nove mesi in cui sei stata lontana, e ti aspetta un anno di scuola speciale, perché sarà l’ultimo. Non avere paura, vai incontro alla vita con entusiasmo e fiducia. Il mondo è pieno di possibilità, Anna, e tu puoi coglierle tutte, pensa solo a quanto ti ha cambiata quest’esperienza. Ora asciugati gli occhi, scaccia i brutti pensieri e preparati per la tua festa. Guarda che poi voglio i dettagli! Se hai bisogno, scrivi, sono in studio fino a tardi a rovinarmi gli occhi al computer :( Sono sicura che sarai la più bella! Mom
La palestra non sembra più nemmeno quello che è, solo il parquet segnato dalle
aree di tiro del basket la tradiscono. Hanno ricoperto il soffitto con dei teli, illuminandolo con piccoli lumini, in modo da farlo sembrare un cielo stellato. Le pareti sono decorate con dei pannelli bianchi a forma di grata, intervallati da porte-finestra, riempiti di fiori finti e edera a decorare dei graziosi balconcini: un giardino fiorito di notte, cornice perfetta per il Prom della Kitsilano High School. I tavoli e le sedie sono tutti rivestiti di bianco, con dei fiocchi a cocche lunghe a raccogliere gli strascichi, e in fondo, sul palco, due troni in velluto rosso aspettano il re e la reginetta del ballo. Che incanto. Io e le mie amiche ci facciamo fotografare all’ingresso; siamo arrivate insieme, con una limousine bianca enorme presa a noleggio per l’occasione dai nostri genitori. Abbiamo il braccialetto con il fiore intonato al vestito e non ci siamo mai sentite così belle. Valeva la pena venire in Canada solo per questo, penso estasiata davanti a tutta questa magnificenza. Altro che le solite feste in discoteca. Dalle casse esce una musica lenta, di apertura, e tutto è pronto per accogliere la band che suonerà dal vivo. Il mio vestito è lungo, di raso azzurro, senza maniche, scollato a cuore, con il contorno della scollatura tempestato di piccolissimi Swarovski che riflettono le luci della sala. Forse non sarò eletta, ma mi sento una regina stasera. Phoebe mi ha acconciato i capelli, li ha stirati con spazzola e phon e ha modellato i riccioli con il ferro caldo, in modo da renderli soffici e definiti, poi ne ha raccolti un po’ dietro la testa, fermandoli con un pettinino di strass. Mi cadono sulle spalle incorniciandomi il viso, truccato per l’occasione con un ombretto blu notte. Inutile dire che François con lo smoking è impressionante. Quando l’ho visto, così alto, abbronzato, con le spalle fasciate nella giacca nera, mi è caduta la mascella. Ma è possibile che un ragazzo così bello sia mio? Evidentemente sì, perché mi stringe con aria di possesso e non stacca la mano dal mio sedere da almeno mezz’ora. L’atmosfera è allegra ma al tempo stesso nostalgica, è una delle ultime volte in cui saremo tutti assieme: tra meno di un mese io tornerò in Italia, François sarà a
Parigi e i nostri amici si divideranno nei vari college del Paese. Per cui, tra i balli e le battute, non mancano i ricordi. “Anna quando sei arrivata dicevi tutte le parole sbagliate.” “Ti ricordi alla festa di Natale quando Timothy ha tentato di baciarti? François quasi lo ammazzava quella sera.” I miei amici ridono, non sanno che le loro parole sono come stilettate nel mio cuore gonfio di tristezza, mi sento mancare al pensiero di lasciarli. Ci si bacia tantissimo, ci si promette amicizia eterna, ci si abbraccia tra amiche garantendo che si resterà tali per tutta la vita, ed è, deve essere vero. I due fotografi impazzano per la sala, attenti a immortalare ogni momento. Così eccoci, io, Sherry Lyn, Nicole ed Erin, in fila con i nostri vestiti eleganti. Azzurro, rosa, giallo e lilla, sembriamo un arcobaleno. Abbracciate sul balconcino, con i fiori tra i capelli, mentre esibiamo i polsi decorati, con le cosce esposte in posa sexy e lo spacco. Il punch di stasera è un po’ alcolico, e già in macchina non ci eravamo fatte mancare un goccetto, galantemente offerto dal fratello grande di Nicole per l’occasione, così la vena dolce amara è enfatizzata da un accenno di sbornia. Dopo un’ora di danze scatenate siamo andate a rifarci il trucco in attesa dell’elezione dell’anno. Il preside, microfono alla mano, ringrazia tutti i presenti, studenti e professori, e un rullo di tamburi precede l’annuncio tanto atteso. “Il re dell’anno scolastico 2013/2014, eletto all’unanimità, è il nostro ospite se, capitano della squadra di rugby, François Mercier.” Un applauso scosciante accompagna la salita di un François sorridente e soddisfatto sul palco. “Almeno mi ha mollato il sedere”, sussurro a Erin ridendo.
“Be’, scontato, che fosse il più bello si sapeva”, mormora Nicole. “Ora vediamo chi è la regina... Credete che sarà Anna?”, chiede Sherry. “Ma figurati! Sono troppo bassa! E poi vorranno una canadese.” La voce del preside ci interrompe. “Regina del ballo di fine anno della Kitsilano High School è...”, sospensione tattica, “Jasmine Turner.” Incuranti del rumore, ci guardiamo sbalordite. “Jasmine?! Con quelle cosce!” La nostra nemica bionda e prosperosa sale sul palco reggendosi graziosamente la gonna di tulle bianco. “Lo sapeva, ecco perché è venuta in bianco.” Erin mi dà di gomito. “Sembra una meringa”, ride con una punta di cattiveria. Dal soffitto scende una pioggia di coriandoli argentati, mentre un cono di luce inquadra i vincitori che vengono insigniti di fascia, scettro e corona. “Grazie a tutti”, gracchia Jasmine nel microfono, “è un grande onore per me essere la regina di questa scuola che mi ha vista crescere, e sono lieta di avere un compagno così straordinario al mio fianco.” Alzo gli occhi al cielo. “Spero proprio che a questo punto non vorrai negarmi un ballo, François.” Un coro si leva dalla platea e sulle note di We are the champions, impacciati dai decori e dal volume del seno fiorente della regina di primavera, il mio ragazzo e quella squinzia bionda e culona iniziano a ondeggiare abbracciati. “Bleah, che spettacolo deprimente”, sentenzio, gelida. “Anna, falla finita, re e regina devono ballare assieme, se fai così sembri gelosa.” Rispondo a Soulo mostrandogli la lingua e sto a guardare questo orrendo
spettacolo a braccia conserte. È vero, sì, sono gelosa e non vedo l’ora che finisca. Ma quanto dura questa canzone!” “E ora sentiamo cosa ha da dirci il nostro re.” Il preside Shubert a il microfono. “Grazie a tutti, merci beaucoup!” Dio, quando parla se mi fa uscire di testa. “Sono felice di aver trascorso un anno in questa bellissima scuola, in cui ho imparato tante cose e ho vinto, con la mia squadra, il campionato studentesco.” Si interrompe per il frastuono della squadra di rugby, che fischia e batte le mani. “Grazie per avermi eletto re del ballo con questa bellissima regina.” Bacia la mano di Jasmine e un rossore molesto mi inizia a salire dal collo. “Ma come re, anche se merito una regina”, complice le fa l’occhiolino, “penso di avere il diritto di scegliere una principessa al mio fianco: Snow White, vuoi concedermi questo ballo? Anna, amore mio, vuoi ballare con me?” Un fascio di luce si dirige velocissimo dal palco al mio vestito; mentre le mie amiche urlano, io sono muta nel cono luminoso, l’unica cosa che riesco a fare è un cenno d’assenso con la testa. La cantante, in chiffon rosso, sfila il microfono a François, che scende le scale per venirmi incontro. Intorno a noi si crea un cerchio vuoto. Mi prende la mano, mi guida, mi guarda, mi sorride. You are beautiful di James Blunt suona sui nostri visi vicini. “Ti amo”, sussurro, i miei occhi nei suoi, emozionata. “Ti amo”, mi risponde baciandomi il naso. “Giurami che non finirà, che il nostro amore sarà più forte dei chilometri, che non mi dimenticherai appena tornato a Parigi. Giurami che siamo diversi, che per noi due per sempre vale, e non è una cosa detta così.”
“Te lo giuro.” “Giurami che staremo insieme tutta la vita.” “Anna, sei stata, sei, sarai, il mio primo, grande e unico amore. Non finirà. Mai. Non basterà la distanza a dividerci, perché io verrò da te. Già quest’estate, in agosto. E poi troverai il modo di venire tu. E andremo avanti così fino a che non erà quest’anno e potrai venire a studiare in Francia, se è ancora quello che vuoi.” Annuisco con energia. “Ma anche tu dovrai essermi fedele, non dovrai dimenticarmi davanti al primo stronzetto che ti inviterà a uscire.” “No, no!” Seria, mi faccio la croce sul cuore. “E quando ci vedremo faremo l’amore, come solo noi due possiamo fare”, mi stringe più forte, “e quando invece saremo separati eremo il tempo a sognarlo.” Mi bacia sulle labbra, mi fa svenire così, io non posso pensare di non stringerlo più a me. “Voglio are questa notte con te, voglio dormire nel tuo letto e scivolare via prima che sia mattina e i tuoi genitori si alzino.” “Va bene”, mormoro. Qualsiasi cosa, e fanculo le conseguenze. “Voglio addormentarmi con te tra le braccia e, appena sveglio, aprire gli occhi e vedere il tuo viso.” Appoggio la testa al suo petto. “François, smettila, così mi fai piangere.” “Sei tutta la mia vita”, mi sussurra in un orecchio ,“non posso vivere senza di te.” Dondoliamo vicini, incuranti degli altri, in uno spazio senza tempo che
appartiene solo a noi.
Per sempre è qui, ora, in questa palestra con le luci abbassate, nelle parole e nei baci di due ragazzi abbracciati. Che si amano. Per sempre.
Epilogo
Giugno
Signore e signori, il comandante vi dà il benvenuto a Venezia, la temperatura esterna è di ventidue gradi con cielo sereno...
Anna non ascolta più, è stravolta dopo diciotto ore di viaggio, di cui otto in attesa a Calgary; l’unica cosa che desidera è appoggiare i piedi sulla terraferma. Mentre aspetta i bagagli, alza la testa a fissare il grande tabellone nero: “Parigi, atterrato”. Non può fare a meno di pensare che tra meno di due mesi sarà di nuovo qui ad aspettarlo. François. Una lieve morsa le stringe lo stomaco. Già le manca, ma nel salutarsi non hanno provato alcun dubbio, o paura, perché loro due sanno di avere tutto il tempo del mondo. Un nuovo sorriso le riempie il viso ed è così, felice, che appare a suo padre quando sbuca dalla doppia porta dell’area “Arrivi”. “Anna!” La stritola in abbraccio. Dio, quanto gli è mancata. “Papà!” La testa schiacciata sul suo petto, un calore familiare che aveva dimenticato. “La mamma ci aspetta a casa, lo sai, no?”, le chiede preoccupato. Anna annuisce. Nove mesi fa si sarebbe arrabbiata, ma oggi ha capito tante cose. Sua madre l’ha chiamata ieri: “Anna, attendiamo il verdetto in giornata; se sarà negativo, come presumo, dovremo decidere se presentare o meno appello e può darsi che non riesca a venire in aeroporto. Non voglio nuove incomprensioni, quindi dimmi se per te è un problema o se possiamo vederci a casa; ti giuro che ci sarò”. Le ha detto di stare tranquilla. Adesso si parlano, riescono a dirsi le cose. “Dovrai raccontarmi tutto. Sembri cresciuta, cambiata, hai un’aria... Non so,
diversa...” Suo padre non smette di guardarla. Anna ride, è diversa; lei, primavera della vita, è un bocciolo in fiore. Abbracciati si avviano verso l’uscita.
Stravaccata sulle valigie, scomposta e stanca, apre svogliata il quotidiano locale che suo padre ha lasciato nel vano del carrello. Lo sfoglia pigramente pensando ad altro, ma si riscuote davanti alla fotografia della madre.
DELITTO DI VIA LOCCHI: DICIOTTO ANNI ALL’UXORICIDA Trieste, 19 giugno – Condannata con rito abbreviato Maria Rosa Favia, rea confessa di aver ucciso il marito colpendolo trentadue volte alla testa con un mattarello di marmo. Per la difesa si è trattato di legittima difesa dopo anni di abusi. L’avvocato Altieri valuta un ricorso in appello.
E così stavolta non ce l’aveva fatta; in effetti, aveva poche speranze. Anna si ricorda le parole di sua madre al telefono, solo qualche settimana prima: “Non sono sicura che Rosa sia ancora pronta a uscire, non perché penso sia pericolosa, questo no – se non l’avesse ucciso lei, sarebbe sicuramente finita ammazzata un giorno o l’altro – ma perché sta appena cominciando a scoprire se stessa e, in questo, l’ambiente chiuso del carcere paradossalmente può aiutarla. È come sospesa in un tempo indefinito, inizia per la prima volta a capire che la violenza non fa parte della normalità. Adesso lavora, ha una psicologa che la segue, ha stretto delle relazioni. Se uscisse, sarebbe persa, è come un bambino piccolo, ha bisogno di imparare la vita e poi potrà cominciare a viverla.” “Mamma mia”, mormora Anna, che continua, incuriosita, a girare le pagine. Arrivata alla cronaca locale, due articoli accostati attirano la sua attenzione. Stanno lì, a piè di pagina, uno di fianco all’altro, e nero su bianco evidenziano, per mano di un giornalista che forse ama il paradosso, l’ironia dell’esistenza. A sinistra, verso l’interno della pagina destra del giornale, una mamma stringe
un neonato in braccio e sorride alla macchina fotografica dal sedile di un taxi. “Margherita aveva fretta di nascere e non ha neppure potuto aspettare che la sua mamma arrivasse all’ospedale. Da sinistra a destra, Ugo Lipizer, il conducente del taxi numero 33, mamma Sara e la piccola Margherita, di tre chili e duecento grammi.” Sotto la didascalia l’articolo racconta:
Trieste, 19 giugno – Sara Gallo, psicologa di trent’anni, si è svegliata intorno alla mezzanotte con forti dolori alla schiena e le acque già rotte. Dato che il compagno, Luca Pagani, era fuori casa, la giovane puerpera non si è persa d’animo e ha chiamato un taxi, regalando a Ugo Lipizer l’onore di essere l’eroe del giorno. All’arrivo all’ospedale infantile Burlo Garofalo, la neo mamma era già in fase espulsiva, così ai medici del pronto soccorso ginecologico non è restato altro da fare che aiutare Margherita a venire al mondo. Mamma e figlia stanno bene – ha dichiarato il medico di turno dottor Barnobi – e già domani potranno tornare a casa.
Anna guarda bene la foto, il nome le dice qualcosa: sì, decisamente si tratta della loro vicina, la biondina scialba, come ha detto sua madre. “Che storia!”, dice al vuoto.
Nell’articolo di destra non ci sono fotografie, ma un titolo sobrio.
AVEVA 58 ANNI MORTA LA PROFESSORESSA DI MATEMATICA GRAZIA MORETTI Trieste, 19 giugno – Gentile, solare, premurosa. Così viene descritta Grazia Moretti, storica insegnante di matematica e vicepreside del Liceo Scientifico
Galileo Galilei, dalla collega e amica Delia Scani. Ma l’indole tenace e la volontà di ferro dimostrata negli ultimi mesi nulla hanno potuto contro la malattia incurabile a cui si è arresa martedì scorso, tra le braccia amorevoli dei suoi affetti più cari. Aveva solo cinquantotto anni. La Moretti, nata a Trieste nel 1954, ha sempre avuto un legame speciale con il Liceo Scientifico Galilei, di cui era stata studentessa e presso il quale, dopo la laurea in scienze matematiche, era tornata a insegnare. Oltre a questa grande vocazione, condivideva con il marito la ione per la musica, la pittura e il teatro, dove, nonostante fosse professoressa di una materia scientifica, non mancava mai di portare i suoi alunni. L’ultimo saluto le sarà tributato venerdì 20 giugno alle 10.30 nella Chiesa di Notre Dame de Sion di via don Minzoni 5, alla presenza di studenti, colleghi e amici.”
“Ma no!”, esclama stupefatta. “È morta la Moretti. Quell’idiota di Stefy non mi ha detto niente!” Invia febbrile un sms. Ma è morta la prof di mate? Sì, poveretta. Ma non potevi dirmelo? Tanto eri in aereo, cmq sei arrivata? Sì, sono a Venezia. Figo! Tra poco ci vediamo! Ma tu vai domani al funerale? Sì, sì, viene anche mia mamma. Boh, verrò anch’io :( Ti chiamo da casa
Top :) Non vedo l’ora di vederti :)
Ma pensa, la Moretti, poverina. Le dispiace, si ricorda con affetto di quella professoressa alta e altera che la chiamava sempre Annina. Che vita di merda. Che peccato.
***
Nove mesi, quattro donne, quattro storie, un unico denominatore comune: il tempo, solo padrone. Perché è così che accade: un giorno, un giorno qualsiasi, in cui non è successo ancora niente di speciale e nemmeno te l’aspetti, il tempo ti cade addosso e comincia a scorrere dettando nuove regole, con cui, tuo malgrado, dovrai imparare a vivere.
Quel giorno di giugno, il 19, con il cielo poco nuvoloso, ventidue gradi e una leggera brezza termica che sale dal mare, trova Rosa imbambolata e confusa a fissare il suo avvocato. “Ma perché fare ricorso? Non riesco a capire.” “Per cercare di avere una riduzione della pena, anche se non siamo sicuri che vada a buon fine; dal mio punto di vista vale comunque la pena di tentare, nella peggiore delle ipotesi resterà invariata.” Gaia Altieri lo spiega di nuovo, per la terza volta, senza perdere la pazienza, anche se sa che sua figlia sta arrivando e vuole correre a casa. “Ma così quanti anni farò?”, chiede Rosa sollevando il capo. “Considerati i sei anni in meno, il fatto che era incensurata e la buona condotta, meno di nove, e non è detto tutti dentro.”
“Ma allora va bene, avvocato, di cosa si preoccupa? Va bene così. Nove anni non sono molti per aver ucciso Domenico. E poi io sto bene qui, davvero.” Rosa alza su di lei due occhi fiduciosi. “Ho appena cominciato a vivere, avvocato, mi ci lasci abituare. Il mondo, ora, non lo posso affrontare. Ho bisogno di tempo.”
Quel giorno di giugno trova Sara immobile, incantata a fissare sua figlia. Le ha già contato due volte le dita delle mani e dei piedi, incredula davanti alla perfezione della vita. Margherita ha i capelli scuri, la bocca arricciata, e un naso minuscolo nel visino regolare. Gli occhi, ancora gonfi, fanno fatica ad aprirsi. Sara sorride ai suoi tentativi di svegliarsi: la palpebra che trema e prova a trovare uno spiraglio sul mondo, la mimica di uno sbadiglio, il collo che si reclina perché non ha ancora i muscoli per reggere la testa. Se la posa sul seno e la culla, le fa sentire il battito del cuore, l’unico suono che Margherita conosce. La piccola le stringe il dito, muove le labbra a cercare la suzione, uno spasmo della guancia sembra aprirle un sorriso. “Amore mio, questi mesi non avano mai”, sospira accarezzandole una guancia, “non vedevo l’ora di incontrarti di persona, sai? Sei molto più bella di come osassi immaginare.” La bacia sulla lanugine del capo, attenta a fare piano, e le sussurra: “Non ti lascerò mai, mai, mai”. Ringrazia Luca e la sua mancanza di autocontrollo per averle fatto un regalo così bello. Nel viso di Margherita trova i tratti di lui e non può, proprio non può non amarli. Quando alza gli occhi e lo vede lì, fermo sulla porta, con quell’aria timida e quegli stupidi palloncini in mano, una gioia inesprimibile le riempie il cuore. Sorridendo, con la mano gli fa cenno di entrare.
Quel giorno di giugno trova Delia smarrita, in una casa vuota, non sua, piena di persone di cui non le importa nulla che le girano intorno come formiche operose. Hanno portato da mangiare, rispondono al telefono, e tutto questo le sembra inutile, grottesco.
In silenzio si alza e chiude a chiave la porta della camera. Fissa il letto. Quanto lo odia, quel letto da ospedale, le fa repulsione solo l’idea di toccarlo. Prende Nina in braccio, il ricordo più vivo che le resti di quella sorella che ha accompagnato fino alla fine. Bussano, è Esther; le apre la porta e dietro di lei scorge il viso smunto e pallido di Clara. Si siedono, loro tre e quello stupido gatto, si guardano intorno smarrite. “Certo che questa carta da parati è orribile.” Esther sfiora con la mano il muro rivestito da grandi fiori gialli. “Sì, l’aveva scelta Alfredo, vi ricordate? Aveva fatto rivestire la stanza la settimana in cui eravamo in gita a Firenze con la scuola. A Grazia era venuto un colpo, ma credo non abbia mai trovato il coraggio di dirgli quanto le fe schifo.” Delia sospira. “Un’altra cazzata di quell’idiota.” “Be’, perché, quando le ha regalato quell’anello tremendo con la mosca morta dentro la pietra? Quella cos’era?” A Clara scappa un mezzo sorriso. “Sono stati sposati per trent’anni e ogni santo compleanno le ordinava la torta panna e ananas. E sì che lo sapevamo tutti che Grazia era allergica, che la mangiava e poi prendeva il cortisone. Ogni anno.” Delia scuote il capo. “Chissà perché non gli ha mai detto niente? L’ha sempre protetto, trattato più come un figlio che come un marito”, Esther riflette ad alta voce. “Forse per questo si è sentito legittimato a fare quello che ha fatto.” “Sì, forse sì.” Rimangono così, a parlare di come i rapporti siano infinitamente più complicati di come appaiano; e ricordando, a poco a poco, riescono anche a ridere, sul materasso nudo di quell’amica che non c’è più.
Quel giorno di giugno trova Anna, sfinita e sporca dal viaggio, con la testa reclinata sul finestrino. È in dormiveglia, troppo stanca anche per addormentarsi davvero.
Guarda il paesaggio autostradale scorrere fuori, pensa a tutte le cose che deve fare. Vedere gli amici, andare una settimana in campeggio in Croazia, avere un’idea geniale per l’agosto con François, poi un altro anno di scuola, la certificazione linguistica in se, scappare a Parigi. Entrare a Medicina non sarà facile, forse dovrebbe considerare di studiare altro. Quante cose! Ma Anna ha un sacco di tempo, può fare tutto, esattamente tutto quello che vuole, con l’arroganza spensierata dei suoi diciassette anni. L’uscita dalla camionale porta direttamente all’imbocco della strada costiera. Il suo mare le appare blu, brillante, come i suoi occhi, sembra darle il bentornato a casa. Ha una voglia pazzesca di infilarsi un costume e tuffarsi in acqua con le sue amiche. È finita la scuola, questo pomeriggio saranno tutti lì, vede già il lungomare affollato. Tira fuori il telefono e inizia a messaggiare.
Dal palco d’onore, languida e immota, la città osserva, spettatrice silenziosa delle vite altrui.
...e la storia continua
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