Alain Voudì
Cedimento strutturale
Romanzo breve
Prima edizione marzo 2015 ISBN 9788867757121 © 2015 Alain Voudì Edizione ebook © 2015 Delos Digital srl Piazza Bonomelli 6/6 20139 Milano Versione: 1.0
TUTTI I DIRITTI RISERVATI
Sono vietate la copia e la diffusione non autorizzate. Informazioni sulla politica di Delos Books contro la pirateria
Indice
Il libro
L'autore
Cedimento strutturale
Nell’episodio precedente di Trainville:
Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Nel prossimo episodio di Trainville:
Delos Digital e il DRM
In questa collana
Tutti gli ebook Bus Stop
Il libro
Braccata dai Federali, Joanna cerca di raggiungere la California. Ma il pericolo maggiore viene sempre da dove meno te lo aspetti
Joanna e Danielle affrontano assieme il difficile viaggio verso la California, dove sperano di riprendere il contatto perduto con la Resistenza. Ma nel frattempo, a loro insaputa, grandi forze si stanno muovendo nel paese: i federali sono di nuovo sulle loro tracce, e il governo pianifica un'azione militare contro i Navajo di Serpe Veloce. Riusciranno le due ragazze a raggiungere Sacramento prima che la situazione precipiti?
L'autore
Alain Voudì, genovese, classe ‘63, consulente direzionale, ha pubblicato due racconti in appendice ai Gialli Mondadori nel 2012, e un terzo, trasmesso su Radio 24 nel corso della trasmissione Giallo 24, è poi stato incluso nella raccolta omonima edita da Mondadori. Un suo racconto è stato finalista nel 2012 al Premio Stella Doppia di Urania, un altro ha vinto la prima edizione del concorso Tessisogni e un terzo è stato segnalato al Premio Robot, edizione 2012. Altri suoi racconti si possono trovare in numerose antologie, tra le quali 365 Racconti Horror, 365 Racconti sulla fine del mondo e 365 Storie d’amore di Delos Books, oltre che sulle riviste Robot eWriters Magazine Italia e nelle raccolte Il Cerchio Capovolto (I Sognatori, 2011 e 2012). È autore di diversi racconti della serie The Tube.
Dello stesso autore
Antonino Fazio, Alain Voudì, Giorno Zero The Tube ISBN: 9788867751020 Antonino Fazio, Alain Voudì, Il bacio della morte The Tube ISBN: 9788867751327 Alain Voudì, Franco Forte, Rinascita The Tube 2 ISBN: 9788867752690 Alain Voudì, Alla deriva Chew-9 ISBN: 9788867752836 Alain Voudì, RIG Delos Crime ISBN: 9788867753338 Alain Voudì, Arrivo a Trainville Trainville ISBN: 9788867753611 Alain Voudì, Alla scoperta di Mister Pennyworth Trainville ISBN: 9788867753796 Alain Voudì, Trainville: Andata e ritorno Trainville ISBN: 9788867754021 Alain Voudì, Fuga da Trainville parte II Trainville ISBN: 9788867754250 Alain Voudì, Fuga da Trainville parte I Trainville ISBN: 9788867754267 Alain Voudì, Laguna Beige Urban Fantasy Heroes ISBN: 9788867754748 Alain Voudì, Il mattatore Senza sfumature ISBN: 9788867755165 Alain Voudì, Gioco d'azzardo Trainville ISBN: 9788867756889 Alain Voudì, Eva Weiss, Una questione di età Delos Crime ISBN: 9788867757077
Nell’episodio precedente di Trainville:
Di nuovo sola al mondo dopo la morte del suo amato tutore Jim Pennyworth, Joanna decide di lasciare Columbus, Georgia, dove è rimasta dopo la sua drammatica fuga da Trainville, e recarsi in California, a Sacramento, dove spera di trovare lo scienziato europeo noto alla Resistenza come “L’Inventore”, che potrebbe essere l’unica persona al mondo in grado di restituirle almeno in parte la memoria perduta. Accompagnata dalla sua nuova amica Danielle Barryson, avventuriera e giocatrice d’azzardo, Joanna si imbarca perciò sull’aeronave Gran Torino, un enorme dirigibile progettato in Italia e appena acquistato dal colonnello Hart, fondatore della Atlanta Airways, che ha anche assunto il giovane ingegnere italiano Amedeo Negri per assisterlo nel montaggio e avviamento. Ciò che nessuno sa, però, è che Amedeo è in realtà un ufficiale operativo del Servizio Informazioni della Regia Marina, incaricato dall’Ammiraglio Brin di infiltrarsi negli States per raccogliere informazioni sulla tecnologia della Sabbia radioattiva. Nel frattempo Bradley, ex Federal Marshall di Trainville e ora commissario straordinario per la Pennyworth Corporation, scampa a un’accusa di tradimento grazie all’insperato aiuto di un misterioso faccendiere, che prima ottiene il suo proscioglimento manipolando la Commissione Senatoriale d’Inchiesta, e poi lo costringe a collaborare di nascosto per la Liberty Sands, principale concorrente della Pennyworth nel mercato della Sabbia. Dopo un’estenuante serie di ritardi dovuti alle continue richieste di modifica del progetto dal parte del colonnello Hart, il 12 ottobre 1891 la Gran Torino si alza da Columbus diretta a San Francisco per il proprio viaggio inaugurale, portando con se grandi speranze, ma non solo quelle…
1
A bordo dell’aeronave Gran Torino, nei cieli dell’Alabama, a poca distanza da Montgomery
12 ottobre 1891, ore 18.00
Fu solo al tramonto del primo giorno di viaggio che Amedeo si permise di rilasciare il fiato e staccarsi dall’orbita sala macchine-ponte di comando per fare una pausa. Malgrado le sue fosche previsioni, le prime sei ore di volo erano filate via in un batter d’occhio, mentre la Gran Torino macinava miglia su miglia inseguendo il Sole nella sua discesa verso ovest. Nessuno degli apparati di bordo aveva dato segno di fatica, e il sorriso sul volto del colonnello Hart si era fatto sempre più aperto e rilassato col are delle ore. Abbiamo fatto centocinquanta miglia, si ricordò. Ce ne restano altre duemila: abbiamo ancora tutto il tempo per schiantarci da qualche parte. Ma quel momento non sembrava più così imminente come aveva temuto: la grande aeronave pareva non aver risentito delle interminabili modifiche alla struttura che il colonnello aveva imposto; anzi, Amedeo dovette ammettere che la differenza di spinta dei nuovi motori a Sabbia, malgrado il loro carico tendesse a sbilanciare la nave a poppa, contribuiva a stabilizzarne l’assetto più di quanto non avesse creduto possibile durante i test. Si augurò solo che continuasse così fino all’arrivo. Entrando nel salone panoramico per la prima volta dal decollo, non poté non ammirare lo spettacolo grandioso del sole, basso e rosso sull’orizzonte, proprio
davanti alla prua. A giudicare dalle teste allineate lungo la grande vetrata, la sua emozione doveva essere condivisa più o meno da tutti i eggeri. Un’altra cosa su cui il colonnello aveva visto giusto era l’entusiasmo del pubblico per la novità. Come Hart aveva previsto, infatti, i biglietti per il volo inaugurale erano andati completamente esauriti, sebbene forse non con la rapidità che avrebbe desiderato. L’ultima cabina, infatti, era stata occupata solo il giorno prima della partenza, e Amedeo aveva preso come un segno del destino il fatto che a prenotarla fossero state proprio le due donne che aveva accompagnato a visitare la sala macchine. Ringraziando il Cielo la ragazza più giovane, Miss Joanna, sembrava essersi perfettamente ristabilita dal malore che l’aveva colta durante la sua prima permanenza a bordo. Notandola tra la gente allineata lungo il vetro, la raggiunse in silenzio. – Visto da qua è un’altra cosa, vero? – le sussurrò all’orecchio. La ragazza sobbalzò, voltandosi a guardarlo, poi si aprì in un sorriso compiaciuto. Amedeo notò che le sue guance si erano arrossate, e gli occhi le luccicavano d’eccitazione.. – Sì, è bellissimo – confermò lei mormorando. In effetti, notò Amedeo, nessuno dei eggeri stava usando il proprio normale tono di voce, quasi non volessero disturbare lo spettacolo, o come se si trovassero all’interno di un luogo sacro. Be’, dopotutto che c’è di più sacro del cielo stesso? si chiese. – A che altezza siamo? – gli domandò la ragazza dopo un istante. – Per ora ci siamo fermati a circa cinquecento piedi, per farvi ammirare il panorama; ma dopo il tramonto saliremo fino a mille, o anche più: dipende da quanto vento troveremo in quota. – Così in alto! Amedeo rise. – Durante i test, in Italia, siamo arrivati oltre i tremila metri! In piedi, fanno… ehm… – si interruppe incerto. – Quasi diecimila! – esclamò subito Miss Joanna.
Amedeo la fissò meravigliato. – Sì, è esatto – confermò. – Brava: io non riesco mai a ricordare se devo dividere o moltiplicare per tre. Miss Joanna arrossì ancora, distogliendo gli occhi imbarazzata. – A me sembrano già troppi cinquecento – intervenne Miss Danielle tetra. – Più in alto saliamo, più forte sarà il botto quando cadremo. – Oh, suvvia! – la riprese ridendo Amedeo, che aveva pensato la stessa cosa più volte, sebbene sapesse che una caduta da cento piedi ammazza esattamente quanto una da diecimila. Anche Miss Joanna protestò, affibbiando all’amica un’allegra spintarella. – Piantala di gufare! – la rimproverò divertita. Amedeo tossicchio, assumendo un tono molto ufficiale. – Posso assicurare a entrambe che ho tutta l’intenzione di non far precipitare la nave, almeno finché siete a bordo – garantì, perfettamente sincero. Si augurò solo di riuscirci.
Il sottotenente Robert Alexander si dondolò indeciso sui piedi, davanti alla porta dell’ufficio del suo superiore, e fissò per l’ennesima volta il foglio che stringeva nel pugno. Il rapporto arrivato il giorno prima dal Comando di Atlanta poteva essere una sciocchezza, e Robert se ne rendeva ben conto; ma poteva anche non esserlo. A quanto si diceva del Vecchio, se lo avesse disturbato per nulla sarebbe stato mangiato vivo; ma se avesse sorvolato su un indizio e poi questo si fosse rivelato importante, avrebbe dovuto sopravvivere non solo alla furia del superiore, ma anche alla propria. Tutto sommato, quindi, la sua decisione di parlare aveva un senso. Con un sospiro, raccolse il coraggio a due mani e picchiettò le nocche sul vetro.
Nessuno verrà mai rimproverato per aver suggerito un’idea, si ripeté poco convinto. O per lo meno, così gli avevano insegnato a West Point, prima di sapere dove sarebbe stato destinato per il suo primo incarico operativo. Il Vecchio, però, non era noto per la sua tolleranza coi subordinati. Questa consapevolezza non contribuì a fermare il fremito alle ginocchia, nel momento in cui il maggiore lo invitò a entrare. Robert prese fiato, socchiuse la porta dell’ufficio e si affacciò esitante. – Ha un momento, Signore? – chiese. – Penso che dovrebbe dare un’occhiata a questo rapporto. Il maggiore Arthur MacArthur lo scrutò per un momento aggrottando la fronte, ma poi gli fece un cenno d’invito con la mano. Robert sospirò di sollievo: il Vecchio non sembrava essere in giornata no. Gli consegnò il dispaccio e rimase immobile mentre MacArthur lo scorreva velocemente con lo sguardo. – Uhm – grugnì il maggiore, con un’espressione che non lasciava presagire nulla di buono. – Due donne espulse da una casa da gioco a Columbus? Mi aiuti a ricordare, tenente: da quando in qua ci occupiamo anche di gambler? Robert deglutì, stringendo i denti. – Da quando la più giovane delle due corrisponde alla descrizione di una delle fuggitive del caso Pennyworth, Signore – rispose tutto d’un fiato, cercando di mantenere salda la voce. – Ricorda? Le due domestiche evase da Trainville. Invece di esplodere, MacArthur sollevò un sopracciglio. – Davvero? – borbottò, riabbassando lo sguardo sul foglio, stavolta con espressione incuriosita. – Ah, già: la cicatrice sulla guancia. Coincidenza notevole. – Sì, Signore, l’ho pensato anch’io. Columbus quadrerebbe. Il Vecchio tamburellò le dita sulla scrivania, pensoso. – Sì, ha ragione, quadrerebbe – assentì infine. – Non è detto che siano loro, ma meritano un tentativo: telegrafi al Comando locale e le faccia trattenere e identificare immediatamente.
Robert sospirò di sollievo. – Sì, Signore. Il Vecchio lo guardò negli occhi. – Il suo nome, tenente? – Alexander, Signore. – Il cognome! – lo rimbrottò il Vecchio, seccato. – Alexander è il cognome, Signore: sottotenente Robert Alexander. – Ah – sbuffò il maggiore, sogghignando. – Già. Be’, buon lavoro in ogni caso, sottotenente Robert Alexander – concluse, congedandolo. Robert uscì dall’ufficio sentendosi trenta libbre più leggero.
L’ufficiale timoniere Ed Smith osservò la schiena del colonnello Hart che aguzzava gli occhi nel buio fuori dall’oblò. Il cielo sopra il Mississippi era nero come il buco del culo di un negro. Soffocando uno sbadiglio, gettò un’occhiata al grande orologio appeso alla paratia interna: l’una e mezza del mattino. Dal piano superiore non si sentiva più niente da almeno un’ora, quando l’orchestra aveva riposto gli strumenti, chiuso la festa da ballo e aperto quella da letto, almeno per le coppie sposate… e per i fortunati che avevano potuto accalappiarsi le uniche due donne non accompagnate a bordo. Bella fregatura, farsi il turno di notte proprio la sera della partenza. Smith avrebbe scommesso sull’accoppiata ingegnere-sfregiata: quando era sceso per iniziare il proprio turno in plancia, l’aveva visto nel salone, tutto intento a conversare amabilmente con la ragazza mentre l’amica rosicava tutta sola in un angolo. L’ingegnere era un tipo abbastanza a posto, per essere uno straniero; ma i suoi gusti in fatto di donne… be’, non dovevano esserlo altrettanto: potendo scegliere, Smith avrebbe preferito l’altra ragazza, quella con l’aria da dura. Sorrise, al pensiero. Quella sì che dev’essere una che sa il fatto suo, nella ginnastica da letto.
Il colonnello picchiettò il bastone da eggio contro il vetro con un gesto nervoso, richiamandolo al presente. – Siamo sicuri della rotta, vero? – domandò. – Sì, colonnello – gli ripeté, paziente. – Dritti verso ovest. Se aguzza la vista, proprio davanti a noi dovrebbe esserci Jackson. Hart avvicinò il naso al parabrezza fin quasi ad appoggiarvisi, ma scosse la testa seccato. – Non si vede niente, là fuori. Smith trattenne un sospiro. – Si vede che i dixies sono andati tutti a dormire. D’altro canto, non è Jackson che sia proprio l’ombelico del mondo. Hart ringhiò qualcosa tra i denti. Solo in quel momento Smith ricordò che anche il colonnello era un dixie. Be’, se ne farà una ragione. – Velocità? – domandò il colonnello un attimo dopo. – Velocità nell’aria, tren… – Che m’importa della velocità nell’aria? È quella al suolo che mi interessa! Smith trattenne uno sbuffo spazientito. – Velocità stimata rispetto al suolo, circa diciassette nodi. – Sono pochi! – protestò Hart. – Ho promesso a quella gente che avremmo impiegato cento ore, e per Dio, arriveremo in cento ore, dovessi uscire a spingere di persona! Come stanno i motori? – Caldaie al cinquanta percento del carico – riferì, invocando la santa pazienza. – Io le ho pagate al cento percento! Aumenta il regime. – Colonnello, l’ingegnere si è raccomandato…
– L’ingegnere ha collaudato i motori, e mi ha garantito che funzionano benissimo. Aumenta, ho detto. L’equipaggio tecnico della Gran Torino era composto da sole sei persone; quando il comandante non era di turno, era l’ufficiale timoniere il responsabile della nave. Ma il colonnello Hart ne era il proprietario, e contraddirlo non era mai una buona idea. Senza commentare, Smith spostò l’indicatore del regime dal “Mezza potenza” al “Tre quarti”. Cento piedi più indietro, l’ufficiale di macchina diede ricevuta dell’ordine e regolò le valvole del vapore nelle caldaie per aumentarne la pressione. La Gran Torino rispose con un fremito, e la vibrazione della tela argentata del rivestimento salì di un semitono. Hart annuì soddisfatto. – Così va meglio – bofonchiò. – Vento? Era la terza volta che lo chiedeva negli ultimi dieci minuti. Smith non ebbe neppure bisogno di consultare l’anemometro. – Diciotto nodi, da una quarta a tribordo – rispose sicuro. – Sì, sto compensando – aggiunse subito, per prevenire la domanda successiva. – Ancora così forte? – sbottò il colonnello irritato. – È peggiorato, salendo. Vuole che provi a riabbassarmi? Il colonnello esitò, tornando a guardare fuori dall’oblò. – No – rispose infine. – Non mi fido. L’ufficiale sollevò gli occhi al soffitto, ma tacque. Alla prova dei fatti, volare nel buio non era poi così diverso da navigare nel buio, salvo per la possibilità di precipitare; in compenso, in cielo non c’erano iceberg contro cui poter sbattere. Però comprendeva il nervosismo di Hart: senza un punto di riferimento fisso, ci voleva poco a immaginare di essere a un pollice dallo sfracellarsi al suolo. – Sei sicuro che non stiamo scendendo? – domandò ancora il colonnello,
inquieto. – Sì, sono sicuro – sbuffò. – Barometro, altimetro e giroscopio confermano quota e assetto. Hart bofonchiò qualcosa sotto ai baffi, tanto piano che Smith non riuscì a capirlo. – Come ha detto, colonnello? – gli chiese. – Niente – sbottò lui con un gesto infastidito. – Proviamo a salire ancora, per vedere se il vento migliora. Smith trattenne a stento una risposta scocciata. Per fortuna il tratto più difficile, l’aggiramento della Sierra Nevada, sarebbe arrivato in pieno giorno: non voleva pensare a come avrebbe potuto reagire il colonnello, immaginandosi schiantato contro i fianchi delle montagne nel buio. Con ogni probabilità li avrebbe fatti salire così in alto da morire tutti soffocati. A quanto gli aveva riferito l’ingegnere, era già successa una cosa del genere, in Francia, a bordo di un pallone aerostatico. – Sì, signore. Salgo a millecinquecento piedi – confermò paziente, regolando la leva di controllo. Sopra la sua testa, un complesso macchinario iniziò a ronzare, pompando nuovo elio nei palloni di sostentamento; contemporaneamente, una delle vasche di zavorra sotto i suoi piedi si aprì, facendo piovere il suo contenuto sulle pianure sottostanti. Smith si domandò quante possibilità ci fossero che qualche dixie si fosse appena preso in testa una secchiata d’acqua a ciel sereno. Sperò tante: non gli erano mai piaciuti i sudisti. Ma nemmeno i negri, se era per questo, o i chicanos, o i cinesi, o gli europei. Giusto l’ingegnere si salvava: lui almeno ne capiva qualcosa, del suo lavoro. Non di donne, però. – Millecinquecento piedi – annunciò infine. – Vento costante. Il colonnello si voltò di scatto, con espressione incredula. – Come, millecinquecento? Non ci siamo nemmeno mossi! – Siamo a millecinquecento piedi, colonnello – ripeté. – Vuole che salga ancora? Senza rispondere, Hart agitò la mano verso di lui in un gesto stizzito. Sempre in
silenzio, si voltò verso l’uscita e vi si diresse zoppicando, aiutandosi col bastone. – Vedi di non precipitare, piuttosto – bofonchiò lasciando il ponte di comando. Smith attese di sentire il portello richiudersi, poi si abbandonò a un sospiro di sollievo. La notte sarebbe stata ancora lunga, ma ora un po’ meno di prima. Chissà se qualcuno è riuscito ad accalappiare la dura, si chiese.
– Adesso capisco perché hai insistito per salire su questa baracca invece di prendere la Circle, che costava la metà – sibilò Danielle, in un tono più acido di quanto avrebbe voluto, non appena Jo sbucò da dietro al paravento. Joanna, che stava ancora sistemandosi la camicia da notte, si bloccò a metà del gesto e la scrutò con aria perplessa. – Te l’ho detto – le rispose aggrottando la fronte. – Dobbiamo evitare i federali, e i convogli sulla Circle ne sono pieni. – Sì, certo: me lo hai detto – la riprese. – E naturalmente il tuo bell’italiano non c’entra nulla con tutto ciò. Joanna arrossì, evidentemente colta in castagna. – Che cosa? – sbottò. – Non far finta di non capire: l’ho visto, sai, che gli sei stata dietro tutto il tempo! Mi meraviglio soltanto che tu non l’abbia perfino seguito nella sua cabina! Joanna spalancò la bocca, come per fingersi indignata. – Ma che accidenti stai dicendo? – esplose, alzando la voce. Danielle le fece cenno di abbassare il tono. – Guarda che sono qui, non c’è bisogno di urlare – la rimproverò con un sibilo adirato. – A meno che tu non ci tenga a far sapere a tutta la nave quanto sei… – Si interruppe, trattenendo appena in tempo un insulto irreparabile.
– Quanto sei, che cosa? – sibilò Jo in risposta. Danielle gesticolò, in difficoltà. – Ti rendi conto della figura che hai fatto stasera, davanti a tutti? – Quanto sei, che cosa? – ripeté Joanna, senza lasciarsi sviare. – Quanto sei ridicola – improvvisò – a cincischiare come una colomba con quel tipo! – Ridicola? – sbuffò Jo. – Io, sarei ridicola? Ma ti ascolti? – Urla un po’ di più: forse a terra qualcuno non ti ha ancora sentito! – insistette, cercando di rimediare alla situazione. Non aveva avuto davvero l’intenzione di iniziare un litigio, ma la tensione accumulata durante la festa doveva essere maggiore di quanto avesse immaginato. – Guardati tu, piuttosto – la aggredì Joanna, per fortuna abbassando la voce. – Te l’ho già detto: o impari a portare la biancheria, oppure te ne vai dietro il paravento, per cambiarti. Mi metti a disagio, così, e te l’ho anche detto! Sentendosi avvampare, Danielle afferrò la camicia da notte dalla propria cuccetta e se la drappeggiò addosso. Approfittò del gesto per nascondere il viso e arsi il tessuto sulle guance per scacciare una lacrima di umiliazione. Aveva sperato di svegliare un po’ Joanna, offrendosi svestita, ma evidentemente quello che aveva sortito era solo l’effetto opposto. Si morse le labbra, inghiottì l’orgoglio, e si fiondò dietro al paravento senza alzare lo sguardo. – E poi non stavo cincischiando – puntualizzò Joanna in tono imbronciato, mentre lei si infilava la camicia da notte da sopra la testa. – Credici o no, abbiamo parlato per tutto il tempo dell’aeronave. Mi ha solo spiegato come funziona, nient’altro. Non abbiamo cincischiato proprio per niente. E se non mi credi, il problema è tuo – concluse. Danielle la sbirciò tra le fessure del paravento e la vide girarle la schiena, arrampicarsi nella cuccetta superiore e nascondersi tra le coperte. Finendo in fretta di sistemarsi, si affrettò a imitarla e si gettò nella cuccetta in basso. Quando aveva saputo che l’unica cabina ancora disponibile era una doppia aveva ringraziato il destino, pur mettendo in conto che i due letti potessero essere separati. C’era rimasta male, quando aveva scoperto che invece
erano addirittura sovrapposti. Si tirò addosso la coperta e spense il lume, facendo precipitare la cabina nell’oscurità e nel silenzio più totale. ò un intero minuto, prima che sentisse un sospiro provenire dalla cuccetta superiore. – Dani, sei ancora sveglia? – sussurrò Joanna nel buio. – Sì – mormorò. – Senti, mi spiace di averti detto quelle cose. Danielle sentì lo stomaco sfarfallare. – Anche a me – confessò. – Scusami. – Non abbiamo fatto niente di male, davvero. – Lo so, ti credo. Dimentica quello che ti ho detto. Le cinghie sopra la sua testa cigolarono, mentre Jo si rigirava nel buio. – Dani, se ti chiedo una cosa, prometti che non ti arrabbi? – Che cosa? – Prima promettimi che non ti arrabbi. – Va bene: non mi arrabbio, promesso. Le cinghie cigolarono di nuovo. – Dani, ma tu sei gelosa? Lo stomaco di Danielle ruzzolò, togliendole il respiro. Trattenne il fiato, colta del tutto alla sprovvista: e così, la piccola e ingenua Jo se n’era accorta, alla fin fine. E adesso?
Gemette in silenzio, combattuta. La ragione stava cercando di trattenerla, implorandola di negare tutto e di non affrontare mai più il discorso; e il cuore, tanto per cambiare, spingeva invece per farle confessare i propri sentimenti, sperando per il meglio. Sì, sono gelosa, avrebbe voluto farle dire. Ci resto male quando ti vedo flirtare con un uomo, e vorrei che tu sorridessi a me come sorridevi a lui stasera, e vorrei… Ma la ragione, inorridita, la bloccò prima ancora che potesse completare quel pensiero imperdonabile. No! le suggerì invece. Ma che ti salta in mente? Gelosa, io? Di cosa? Danielle sospirò: come si poteva darle torto? Era la ragione, dopotutto. Rassegnata, stava quasi per aprire bocca quando il cuore tornò alla carica. Se non glielo dici ora non ci sarà un’altra occasione, le ricordò tetro. Rimpiangerai questo momento per tutta la vita, sappilo. Danielle strinse forte le palpebre, per impedire altre obiezioni. In un modo o nell’altro, era giunta l’ora di por fine al conflitto una volta per tutte. Prese fiato, si fece forza, e soffiò fuori la propria paura. – Sì – sussurrò con un filo di voce. – Un pochino sì. Scusami. Dal buio sopra di lei le giunse un singhiozzo soffocato. – Oh, Dani, scusami tu! – gemette Joanna, agitandosi tanto che Danielle temette di sentirla precipitare sul pavimento. – Non lo avevo capito, davvero! – No, è colpa mia: lo so che non ne ho motivo – ammise, col cuore che le martellava in petto. – Davvero, Dani, credimi, non abbiamo fatto niente di male: parlavamo solo della nave e di nient’altro! – Ti credo, ti credo. Lo so come sei fatta – ridacchiò dolce. – E ti ho rovinato la serata! Oh, scusami, Dani! Come faccio a farmi perdonare?
Danielle deglutì. Sebbene in cuor suo l’avesse già perdonata, non poté impedirsi di sorridere nel buio, al pensiero di esigere da lei almeno un bacio riparatore. Stava per domandarlo, quando Joanna la prevenne. – Anzi: lo so, come posso farmi perdonare! – esclamò felice. – Domani sera, dopocena io me ne resto in cabina e lo lascio tutto per te, promesso. Il cuore di Danielle precipitò nello stomaco. – Cosa? – balbettò, incapace di credere alle sue orecchie. – Davvero, scusami: non avevo capito che ti pie Amedeo! Danielle chiuse gli occhi, sconfitta. – Non fa niente – riuscì solo a bofonchiare, prima di affondare la testa nel cuscino augurandosi di scomparirvi per sempre.
2
Dipartimento della guerra, B Street NW, National Mall, Washington, D.C.
13 ottobre 1891, ore 10.00
Memore del successo della volta precedente, Robert bussò alla porta del maggiore con più convinzione, ed entrò non appena questi glielo permise. – Abbiamo un rapporto urgente da Columbus sulle due evase del caso Pennyworth, Signore – gli annunciò, porgendogli il dispaccio. – Gli agenti mandati a prelevarle riferiscono che proprio ieri le sospette si sono imbarcate in tutta fretta su un’aeronave diretta a San Francisco. MacArthur trasecolò. – Un’aeronave? – chiese. – Abbiamo un’aeronave? – Sì, Signore: appena acquistata dagli italiani, ho verificato i permessi di importazione. Il Vecchio chiuse di scatto la bocca e affondò il naso nel rapporto. Robert attese che arrivasse al punto interessante e si permise di sottolineare l’ovvio. – Noterà che la cabina in cui viaggiano è stata prenotata il giorno stesso in cui ci è arrivata la segnalazione da Atlanta, Signore. Il maggiore annuì, con le labbra che disegnavano una linea sottile sotto ai baffi dalle punte arricciate. – Vedo. Difficile pensare a una coincidenza, vero? Come se si fossero accorte di
essersi tradite e avessero tolto le tende di corsa. – Sì, Signore, è quello che ho pensato anch’io. Che facciamo? MacArthur sospirò. Posò il foglio sulla scrivania e si raddrizzò contro lo schienale della sedia, unendo le punte delle dita con un’espressione pensosa sul volto. – Be’, non c’è molto che possiamo fare, mi pare – constatò alla fine. – Come c’è scritto qui, non sono previsti scali fino a San Francisco. Telegrafi alla sede di là e dica loro di mandare qualcuno a prelevarle appena sbarcate. – Non avvertiamo il comandante dell’aeronave? – E come? Con le bandierine? Coi segnali di fumo? – Non lo so, Signore, non ci avevo pensato. È solo che… MacArthur lo squadrò attento, con la sua migliore faccia da mangiatenenti. Robert deglutì, esitante. Nessuno verrà mai rimproverato per aver suggerito un’idea, si ripeté per l’ennesima volta. Il Vecchio si schiarì la voce, come preparandosi all’esplosione. – Sì? – sibilò interrogativo. Robert deglutì ancora. – Be’, a bordo ci sono trenta eggeri, Signore, oltre a quasi venti persone di equipaggio, tra tecnici, inservienti, cuochi e perfino un’orchestra da ballo. – Sì, l’ho letto. E allora? – E allora prego che quelle due terroriste non abbiano progetti strani in mente, Signore. Solo questo.
Amedeo fissò incredulo il colonnello Hart.
– Santa Fe? – ripeté. – Non si era mai parlato di Santa Fe! – No, infatti no – confermò il colonnello. – Stanotte ho deciso di cambiare rotta. – E non le pare il caso di comunicarlo anche a me? Hart, bontà sua, arrossì lievemente. – Glielo comunico adesso: ho deciso di are più a nord del previsto, per accorciare il viaggio. Stiamo andando più piano di quanto mi aveva promesso, e dobbiamo recuperare. Problemi? – Certo, che ci sono problemi! – esclamò Amedeo indignato, sbattendo una mano sulla cartina. – Innanzitutto, io non le avevo promesso niente: anzi, le avevo raccomandato di non forzare le macchine, almeno i primi giorni. Invece stamattina mi alzo, e la prima cosa che scopro è che lei stanotte ha fatto portare la potenza a due terzi. – Le caldaie reggono benissimo, come vede – ribatté Hart imibile. – E l’ha detto lei, alla fine del test, che venticinque nodi è una velocità ragionevole. – Sì, ma venticinque nodi nell’aria, non rispetto al suolo! Quella che conta ai fini dello sforzo sulle strutture è la velocità nell’aria, ricorda? In questo momento siamo oltre i trenta nodi, e l’involucro è già quasi al limite del carico di progetto! – Mi aveva detto che c’è un bel margine di sicurezza, no? – Ma i margini di sicurezza servono per sicurezza, appunto: non per essere sorati! L’accordo che avevamo era di seguire la rotta sud, puntando su Phoenix e Los Angeles per tenersi a sud delle Montagne Rocciose e a ovest della Sierra Nevada: invece adesso lei mi sta dicendo che vuol sorvolare le Rockies e costeggiare la Sierra a est? – Esatto. In questo modo dovremmo risparmiare almeno dieci, forse dodici ore di viaggio. Se non di più. Amedeo scosse la testa, incredulo. La nuova rotta li avrebbe portati a sorvolare zone in cui le cime delle montagne più alte superavano i quattromila metri. Più o meno come cercare di sorvolare le Alpi: un’impresa che non era mai neppure stata tentata. Prese fiato e cercò di mantenere un tono ragionevole.
– Colonnello, secondo la cartina, Santa Fe è a oltre settemila piedi di altitudine: vuol dire che dovremo volare almeno a ottomila, se vogliamo stare tranquilli, se ne rende conto, vero? – E allora? L’ha detto lei che nei collaudi la Gran Torino ha raggiunto anche i diecimila! Vuol dirmi che ha mentito? – Il collaudo è il collaudo! – sbraitò Amedeo, scordandosi il proprio proposito. – Qui abbiamo dei eggeri a bordo! E siamo in pieno ottobre, e abbiamo modificato la struttura, e cambiato il gas, e… oh, ma sant’Iddio! – imprecò. – Possibile che gliele debba dire io, queste cose? Hart si raddrizzò, colpito nell’orgoglio, e impugnò il bastone come un’arma immaginaria. – Ingegnere, resti al suo posto! – gli ordinò. – Apprezzo i suoi suggerimenti, ma le ricordo che questa nave è mia, e decidere come condurla è una mia responsabilità. Lei si limiti a farla funzionare come deve, e lasci il resto a me, intesi? Amedeo aprì la bocca per rispondere a tono, ma all’ultimo momento rinunciò a parlare, rassegnato, e si limitò a fissare Hart in silenzio, lasciando che il messaggio trapelasse senza bisogno di parole. Si arrangi, decise infine. Certe lezioni vanno imparate sul campo. Con una smorfia di compatimento si strinse nelle spalle e uscì dalla plancia diretto alla sala macchine, a verificare che almeno le caldaie funzionassero. Ne avrebbero avuto bisogno, di lì a breve.
Danielle approfittò della colazione per cercare di aggiustare le cose con Joanna, dopo la lite della notte precedente. – Sai che ti dico? – le chiese d’un tratto, in tono svagato, con lo sguardo perso oltre le vetrate del salone panoramico. – A pensarci bene, l’italiano non è abbastanza ricco per i miei gusti.
Joanna rimase per un momento col cucchiaio del porridge a mezz’aria, sorpresa; poi si aprì in un ghigno divertito. – Mi prendi in giro? – No, dico davvero: che me ne faccio di un uomo, se non è pieno di soldi? Te l’ho detto che gli uomini sono bastardi: se non sono nemmeno ricchi, allora preferisco farne a meno del tutto. Gli occhi di Jo brillarono maliziosi. – Guarda che l’ho capito, cosa stai cercando di fare, sai? – la avvertì. – Grazie, ma come ti ho detto a me interessa solo per via della nave: per il resto, è tutto tuo. Campo libero, davvero: io non so che farmene. – Be’, io nemmeno – le assicurò sincera. – Come preferisci – concluse Joanna, riempiendosi la bocca di zuppa d’avena. Danielle la osservò, studiandola attenta. – L’hai visto, prima? – le domandò dopo un istante. Joanna, che stava ancora sorbendo il suo porridge, scosse la testa, e una goccia di latte le sfuggì tra le labbra e le colò lungo il mento. Mentre si ripuliva, ridacchiò imbarazzata. – No – rispose infine. – Dov’era? – L’ho intravisto diretto verso la sala macchine. Era tanto nero in volto che sembrava aver fatto colazione col carbone. – Davvero? – Uhm. Speriamo che non ci sia qualcosa che non va. Joanna rise. – Dai, come sei catastrofica! Dovresti imparare a rilassarti un po’, sai? – Sarà, ma io non mi sentirò al sicuro finché non rimetteremo i piedi a terra. Avremmo fatto meglio a prendere la Circle.
– Ti ho detto che non voglio più avere a che fare coi federali. – Sì, ti capisco – annuì comprensiva. – Sai invece cosa non mi hai ancora detto? – Cosa? – Perché proprio Sacramento? Cosa c’è lassù? Joanna si rabbuiò, e si riempì la bocca con un altro cucchiaio di porridge, forse per evitare di dover rispondere. Masticò a lungo. – Devo cercare una persona – bofonchiò infine. – Una persona? – sobbalzò. – Un uomo? Joanna annuì in silenzio, senza guardarla. Danielle spalancò gli occhi. – Un membro della… – gesticolò, abbassando la voce e guardandosi intorno. – Insomma, un amico del tuo Jim? – Più o meno – mormorò Joanna, col capo chino sulla ciotola. Danielle trattenne il fiato. – E sta a Sacramento? – Così dicevano, sì. Spero ci stia ancora. – Chi è? È importante? – domandò subito. – È ricco? Joanna ridacchiò, sbrodolandosi ancora. – Ma dai! – la riprese, asciugando il tavolo col tovagliolo. – Chi è? – insistette Danielle, sempre più curiosa. – Non lo so come si chiama – ammise Jo imbarazzata. Danielle sobbalzò. – Come sarebbe, non lo sai? – chiese, allibita. – Vuoi dirmi
che stai attraversando in volo il continente per cercare un tizio di cui non sai nemmeno il nome, e che forse sta a Sacramento, ma non sei sicura neppure di questo? Jo abbassò la testa sulla ciotola, mortificata. – Più o meno – confermò mogia. – Be’, buona fortuna! – le augurò Danielle, sospirando. Joanna mugolò qualcosa di indistinto, a bocca piena. – E perché è così importante? – le domandò ancora Danielle. Joanna sospirò. – Forse può aiutarmi a riprendere contatto con… gli amici di Jim – rispose, abbassando la voce. – E c’è anche un’altra cosa, che forse può fare per me. Forse. Spero. Danielle annuì, sporgendosi in avanti sul tavolo. – Questo l’ho capito, ma come fai a trovarlo? Chi è, cosa fa? – Non lo so – ripeté Joanna sottovoce. – Ma so che una volta, prima del Decreto Edison, era uno scienziato importante, che lavorava addirittura per il governo, e proprio per quel motivo dopo il Decreto ha dovuto scappare e cambiare perfino nome. Secondo Jim, se c’è qualcuno che può procurarmi quel libro è lui. – Libro? Quale libro? – chiese Danielle, disorientata. Non ricordava che Joanna non le avesse mai parlato di alcun libro. – Un libro straniero, penso tedesco. – Un libro proibito? – allibì Danielle, abbassando la voce a un sussurro e guardandosi intorno spaventata. – Quello di Marx? – No, macché: un libro di fisica – rispose Jo stupita, parlando normalmente. – Fisica? – Sì, fisica. Annalen der Phisik und qualcosa, non ricordo bene il titolo. Fisica, comunque.
Danielle batté le palpebre, attonita. – Ma… che cosa…? – Storia lunga – minimizzò Joanna, spingendo via la ciotola ormai vuota e sbocconcellando una fetta di pane tostato. – Roba di quando ero piccola. Secondo Jim, rivedere quel libro potrebbe aiutarmi a ritrovare la memoria, almeno in parte. E inoltre… – Inoltre, cosa? – Non lo so, non sono sicura – borbottò Joanna. – Ma Jim dice che i suoi amici lo chiamavano l’Inventore, e a me questo nome sembra ricordare qualcosa. Anzi, sono strasicura che mi ricorda qualcosa… solo che non so cosa – concluse sconsolata. Danielle sospirò. Una delle poche cose di Joanna che aveva ormai capito era quanto le pesasse la mancanza dei ricordi d’infanzia, e quanto ciò contribuisse alla sua instabilità emotiva. – Magari non è importante – cercò di consolarla. – Magari no – convenne Joanna con voce triste. Ma non sembrava tanto convinta.
Il maggiore MacArthur squadrò Robert con aria severa. – Preferirei essere interpellato, prima di prendere iniziative del genere, tenente – sibilò minaccioso. Robert deglutì. – Ho solo chiesto informazioni, Signore – azzardò. – Non mi permetterei mai di dare ordini senza il suo consenso. Il Vecchio ringhiò, come indeciso tra il mangiarlo subito o tenerselo per cena. Nel dubbio, Robert preferì intervenire. – Stavo valutando la questione “comunicazioni” – precisò, additando i fogli nelle
mani del superiore – e mi sono procurato qualche dettaglio sull’aeronave: equipaggio, rotta prevista… cose così, solo per farmi un’idea del problema. – E…? – E credo di aver trovato un modo per comunicare con loro – rivelò. – Se lei è d’accordo, naturalmente – aggiunse in fretta. Il maggiore socchiuse gli occhi e si appoggiò allo schienale. – Ossia? A giudicare dall’espressione, il Vecchio sembrava essere più incuriosito che infuriato. Robert respirò di sollievo. – Controllando l’equipaggio, ho notato che sia il comandante sia l’ufficiale timoniere vengono dalla Marina: quindi immagino che siano pratici di segnalazioni. – Credevo che avessimo escluso le bandierine, tenente. – Certo, Signore. Però le navi comunicano anche di notte. Il maggiore si illuminò. – Segnalazioni luminose! – Infatti, Signore – sorrise Robert. – Secondo quanto mi hanno trasmesso da Columbus, l’aeronave dovrebbe sorvolare Phoenix domani. E in Arizona, proprio da quelle parti… – … c’è il maggiore Volkmar con i suoi reparti di eliografisti – completò MacArthur annuendo sovrappensiero. – Ottima idea, tenente. – Potrebbe essere l’occasione per avvertirli della presenza di due terroriste a bordo, e ordinare che vengano sorvegliate fino all’arrivo. Così, anche se avessero qualcosa in mente… Il Vecchio scosse la testa. – No, diventa troppo complicata – obiettò. – Meglio tenere le trasmissioni più semplici possibile, per evitare incomprensioni: limitiamoci a ordinare loro di
atterrare immediatamente. Di tutto il resto ce ne occupiamo noi una volta a terra. – “Atterrate subito” – concordò Robert. – Mi piace: semplice, veloce da trasmettere e inequivocabile. MacArthur assentì. – Telegrafi a Phoenix e organizzi l’operazione – ordinò, restituendogli i fogli che gli aveva mostrato. Robert aveva appena aperto la porta, sollevato per la mancata ramanzina, quando sentì il Vecchio schiarirsi la voce. Deglutendo, si girò lentamente. – Mi dica, Alexander – esordì il maggiore – non è che vuole soffiarmi il posto, vero? La sua espressione era seria, ma Robert intuì, più che vedere, un lampo divertito nello sguardo del superiore. – Chi lo sa, Signore – si permise di rispondere. – Magari, quando lei sarà diventato generale, potrei farci un pensierino. Il Vecchio sorrise, ma il suo sguardo assunse subito un’aria triste. – Non trattenga il fiato, allora – borbottò. – In tempo di pace, le promozioni arrivano col contagocce. – Eh! – sospirò Robert. – Non si sa mai cosa sperare, vero? I suoi istruttori, a West Point, sembravano divisi su quel punto: una scuola di pensiero, formata per lo più dai reduci dalla Guerra Apache, sosteneva il concetto “avere un bell’esercito serve per evitare una brutta guerra”; ma un’altra parte degli insegnanti, specie tra i più giovani, sembrava invece contare sullo scontro campale, tanto come metodo per affinare le tattiche quanto come mezzo per scalare le gerarchie. Suo padre, magistrato, avrebbe sicuramente dato ragione ai primi e torto agli altri. Ma Robert non era mai stato tanto d’accordo con lui, fin dai tempi delle loro liti a proposito del proprio futuro; e quando aveva rifiutato l’iscrizione alla
facoltà di legge per domandare invece l’ammissione all’Accademia, i loro rapporti si erano ulteriormente raffreddati. Visto che il maggiore sembrava averlo preso in buona, osò dar fiato a una domanda che aveva in mente già da un po’. – Posso chiederle una cosa, Signore? – azzardò, richiudendo la porta che aveva appena aperto. Il Vecchio lo fissò sorpreso, ma gli annuì. – Lei ha fatto la Guerra Apache, vero? MacArthur si raddrizzò sulla sedia, sorridendo fiero. – Sì. È lì che mi sono guadagnato questa – rispose, indicando il nastrino azzurro della Medal of Honor. – E un brevetto da colonnello, che però non è sopravvissuto alla pace. Perché? – Ecco, Signore, volevo chiederle: che cosa pensa di questa situazione coi Navajo? È davvero così seria come dicono i giornali, oppure si sgonfierà come le altre volte? Il Vecchio si lasciò sfuggire un’espressione seccata. – Bah, i giornali! – borbottò ostile. Poi si masticò l’estremità dei baffi e proseguì, come sovrappensiero. – Se me l’avesse chiesto un mese fa, avrei detto che con Serpe Veloce e i suoi Navajo s’andava d’amore e d’accordo. Ma ora? E chi lo sa più? A sentire il Comando dell’Arizona, non sono mai stati così tranquilli e collaborativi; a sentire la Casa Bianca, sembra quasi che stiano per scalparci tutti quanti. – Forse alla Casa Bianca sanno qualcosa che noi non sappiamo. – Be’, sarebbe la prima volta – si lamentò il maggiore. Poi fece una smorfia, forse rendendosi conto di ciò che si era lasciato sfuggire. – Ma per quanto ci riguarda, seguiremo alla lettera gli ordini dei nostri superiori, come abbiamo sempre fatto – si corresse, fissandolo severo. Robert si raddrizzò, scattando sull’attenti. – Certo, Signore: come sempre! – si affrettò a concordare.
– E facciamo che questa conversazione resti tra noi. – Naturalmente, Signore – garantì. – Come sempre.
3
Trainville, in sosta presso la Circle Station di Washington, D.C.
13 ottobre 1891, ore 20.00
Bradley posò la stilografica sul portapenne e si massaggiò gli occhi, soffocando uno sbadiglio. Se aveva sperato di ereditare da Pennyworth agi e vita sociale, aveva sbagliato i suoi conti: la vita da magnate si stava rivelando molto meno interessante e molto più piena di seccature di quanto avesse immaginato osservando il suo predecessore. Durante il precedente aggio a Washington aveva dovuto subire l’umiliazione della Commissione d’inchiesta, ma questo l’aveva messo in conto. Era stato abile a tirarsene fuori col minimo danno, e sperava con ciò di aver chiuso la storia, finalmente libero di fare il suo ingresso negli ambienti benestanti della capitale. Quella speranza, però, almeno fino a quel momento era andata delusa. Non solo i numerosi inviti che aveva spedito per eventi in società erano caduti nel vuoto, ma perfino i contatti di lavoro di Pennyworth, dai quali si era atteso una doverosa collaborazione, si erano invece dimostrati molto distaccati nei suoi confronti, limitando i rapporti al minimo indispensabile e declinando con garbo ogni ulteriore coinvolgimento personale. Sulle prime, Bradley si era sentito offeso da quella sorta di ostracismo sociale; ma, ripensandoci, si era poi convinto che la freddezza con cui i suoi inviti venivano accolti non dipendesse da sé, ma dalla sedia che era stato chiamato a occupare, quasi che il solo nome “Pennyworth” fosse diventato ormai sinonimo di “terrorista”. Questo avrebbe anche spiegato l’improvviso crollo nelle vendite che stava mettendo in crisi la società che gli era stata affidata dal Tribunale. Scosse la testa, fissando con espressione torva i fogli su cui era al lavoro.
Quando aveva sottratto la compagnia a Jimmy Twopence, i suoi bilanci gli erano sembrati sani, ancorché messi in difficoltà dalla concorrenza spietata della Liberty; ma a giudicare dai conti che vedeva scritti davanti ai suoi occhi, la situazione da allora era precipitata, e le prospettive di continuare a ricavare un profitto dalle attività commerciali della Pennyworth si facevano più fosche ogni giorno. Se non avesse fatto qualcosa al più presto per rimediare, tutti gli sforzi che aveva fatto per scalare la società l’avrebbero lasciato sovrano, sì, ma di un regno di mosche. Un discreto bussare di nocche sulla porta dello studio lo distrasse dai suoi pensieri. – Sì? – rispose con voce stanca. La porta si aprì, rivelando il viso imberbe di uno dei suoi aiutanti, a cui aveva provvisoriamente assegnato il ruolo di suo valletto personale. – Una carrozza l’aspetta fuori, signore – lo informò il ragazzo. – Una carrozza? – ripeté Bradley, stupito. – Che carrozza? – Un carro a Sabbia Concord, signore. Modello ’89, credo. Bradley chiuse gli occhi e si portò una mano alle tempie, esasperato. Prese un lungo respiro e si impose di non urlare. – Svegliati, Wes! – sbottò infine. – Intendevo di chi è! – Non saprei, signore. Hanno detto solo di portarle questo, e che lei avrebbe capito – balbettò il ragazzo, arrossendo come un moccioso. Si avvicinò alla scrivania e gli porse il vassoio d’argento che teneva in mano, in mezzo al quale spiccava il rettangolino bianco di un biglietto da visita capovolto. Perplesso, Bradley raccolse il biglietto da visita e lo girò. Era bianco anche dall’altro lato.
– Salga, Mister Bradley, si accomodi! – lo salutò poco dopo una voce nota che
proveniva dall’interno della carrozza. Bradley strinse le labbra, eseguendo l’ordine mascherato da invito. L’uomo che gli stava davanti, come aveva immaginato, era lo stesso misterioso individuo che pochi mesi prima aveva manovrato la Commissione Senatoriale di inchiesta, facendolo assolvere dalle accuse di negligenza nell’arresto e nella successiva dipartita di Mister Pezzogrosso Pennyworth e pretendendo in cambio da lui la piena collaborazione con la Liberty. – Non credevo ci saremmo rivisti – osservò a denti stretti. – Come scoprirà, Washington è più piccola di quanto non sembri – sorrise il suo ospite. – L’ho forse sottratta a qualche importante evento sociale? Bradley serrò le labbra in silenzio. Dal tono della sua osservazione, era ovvio che l’uomo sapesse perfettamente che cosa stesse facendo Bradley fino a poco prima. Che diavolo, pensò cupo, mi va già bene se non sa cosa c’è scritto sui rapporti che ho sulla scrivania. O su quelli che mi arriveranno domani. Sospirò, lasciando cadere il discorso. – Lei va sempre in giro offrendo biglietti da visita in bianco? – domandò invece. Lo sconosciuto sorrise, battendo il pomolo del bastone da eggio contro il tetto della carrozza. In uno sbuffo di vapore, il veicolo si mise in moto e si diresse verso l’uscita della stazione. – Mi pagano per essere discreto – confessò il faccendiere in tono divertito. – Capisco – bofonchiò Bradley, chiedendosi dove fossero diretti, ma sapendo che sarebbe stato inutile domandarlo. – Ma questo non mi aiuterebbe a trovarla, nel caso avessi bisogno di lei. – Non deve preoccuparsi di questo, Mister Bradley: non sono mai molto lontano. Già, rifletté lugubre. E questo non dovrebbe preoccuparmi, vero? Ma non aprì bocca, limitandosi a guardare fuori dal finestrino per capire quale fosse la loro destinazione.
– Ha letto i giornali, di recente, Mister Bradley? – domandò lo sconosciuto. Bradley schioccò le labbra. – Avete fatto un bel servizio al mio predecessore – osservò. – Stavo quasi pensando di cambiare nome alla società, vista la condanna morale che ci ha colpito. – Se lei ce lo avesse portato vivo, avremmo potuto processarlo in Tribunale – gli ricordò l’uomo in tono cortese. – Così, invece, dobbiamo accontentarci di un processo mediatico. Altrettanto efficace ma più rumoroso, come vede. Io però non mi riferivo al defunto Mister Pennyworth: mi riferivo alla situazione coi Navajo. – I Navajo? Mi aveva detto che presto non sarebbero più stati un problema, no? – È così. Ma le cose non succedono da sole, e nemmeno io posso decidere di far scoppiare una guerra a mio piacimento. Per ottenere ciò che vogliamo, è necessaria la collaborazione di tutti; e devo ammettere che il nuovo Segretario alla Guerra si è già dimostrato molto attivo, sotto questo aspetto. Molto più di lei. Bradley socchiuse gli occhi, sentendosi arrivare una nuova tegola. – Ho rescisso unilateralmente tutti i contratti di fornitura in essere coi Navajo, come eravamo d’accordo – ricordò. – Ho perfino due diverse cause aperte con loro, nelle Corti dell’Arizona e del Territorio Navajo. L’uomo liquidò le sue grane legali con un cenno infastidito della mano. – Dettagli – sbottò. – A me serve qualcosa di più concreto di una causa civile. – Per esempio? Che altro vuole da me? – Per esempio, ho bisogno che lei mi trovi qualche documento che dimostri la complicità dei Navajo nelle attività terroristiche del defunto Mister Pennyworth. Bradley boccheggiò, incredulo. – I Navajo? Che c’entrano i Navajo? Non avevamo detto che Pennyworth era in combutta con la Corona Britannica? – Non posso far la guerra agli inglesi, Bradley – lo rimproverò l’altro seccato. – È Serpe Veloce e la sua gente che devo incolpare adesso: per questo ho bisogno
che lei mi trovi quei documenti. – Ma… ma abbiamo già perquisito a fondo gli archivi Pennyworth una volta, ai tempi dell’arresto, e non abbiamo trovato nulla del genere! – protestò. – Dove vuole che li cerchi? Lo sconosciuto strinse le labbra in una smorfia severa. – Impari ad ascoltarmi, Bradley: io non le ho detto di cercarli, le ho ordinato di trovarli. Come, sono problemi suoi. Prima che Bradley ritrovasse il fiato per obiettare, l’uomo batté nuovamente il pomolo del bastone contro il tettuccio e fece fermare la carrozza. Solo in quel momento Bradley si accorse di essere di nuovo nel piazzale della stazione. Ancora incapace di parlare, fissò lo sconosciuto che gli stava di fronte, chiedendosi per la centesima volta chi fosse quell’uomo e quanto esteso fosse in realtà il suo potere. In ogni caso, rifletté sconsolato, abbastanza per distruggermi. Visto che il colloquio era evidentemente terminato, abbassò il capo, aprì lo sportello della carrozza e uscì. Si era già incamminato verso la banchina di Trainville, quando lo sconosciuto si affacciò al finestrino e lo richiamò. – Ah, Bradley – gli annunciò, quasi sovrappensiero. – Credo che le farà piacere sapere che abbiamo ritrovato le domestiche che si è lasciato sfuggire. L’esercito le sta arrestando proprio mentre parliamo: stavano cercando di scappare a bordo di un pallone dirigibile, pensi un po’! Bradley lo fissò attonito. Stava quasi per obiettare d’istinto che non era possibile arrestare due morte, ma si trattenne in tempo, per fortuna. In ogni caso, ciò che affermava l’uomo era impossibile: della vecchia si erano occupati i suoi uomini, e all’indianina aveva provveduto lui stesso, prima strozzandola con le sue mani, e poi gettandone il cadavere dal treno in corsa durante la loro prima e unica notte assieme. Per quanto il ricordo di quell’episodio fosse ormai sbiadito fino quasi a svanire, di una cosa era assolutamente certo: la meticcia con la cicatrice era morta, morta e stecchita, quando l’aveva gettata fuori. Poteva dimenticare i dettagli, ma quello lo ricordava con esattezza.
Era evidente che l’uomo doveva sbagliarsi… a meno che non si trattasse di un’altra delle sue macchinazioni. Annuì con un sorriso forzato. – Bene! – esclamò soddisfatto. – Quindi anche questa è finita bene, dopotutto. – Forse – ammise l’uomo. – Ma non per merito suo, Bradley: non certo per merito suo – gli ricordò, battendo di nuovo il bastone sul tettuccio per far ripartire la carrozza.
4
A bordo dell’aeronave Gran Torino, nei cieli del New Mexico, trenta miglia a nord di Albuquerque
14 ottobre 1891, ore 07.30
Danielle si era svegliata con un brutto mal di testa, gli occhi gonfi e il naso otturato. La temperatura nella cabina era scesa notevolmente rispetto al giorno prima; e già allora le era sembrata molto più bassa di quella di Columbus. Il cielo, fuori dall’oblò, era di quel colore incerto che non sa decidersi a diventar giorno. Si rigirò dall’altra parte con un brivido e si imbozzolò nelle coperte. Il movimento, accompagnato dal cigolio delle strisce di cuoio che sostenevano il materasso, provocò un movimento analogo sopra alla sua testa. – Dani, sei sveglia? – mormorò Joanna dall’alto. – No – borbottò sottovoce, rannicchiandosi ancora di più. – Andiamo di sotto a vedere l’alba? – la ignorò Jo con voce sognante. – Ma tu sei scema! – le rispose senza muoversi. – Si gela. – Esagerata! – rise Joanna. – E poi per forza hai freddo, se continui a dormire mezza nuda! Dai, vestiamoci e andiamo di sotto, così fai colazione e ti scaldi. Il solo pensiero di alzarsi da letto le provocò una nuova fitta di dolore dietro agli occhi e attorno alle tempie. – Non me la sento di mangiare – confessò. – Ho un mal di testa che mi schianta,
e per di più mi sa che mi sto prendendo un raffreddore coi fiocchi. Sono io che ho la febbre, oppure oggi fa un freddo cane? – Un po’ sì, fa freddo. Ma siamo anche a metà ottobre. – A Columbus, a metà ottobre, fai ancora le gite in barca sul fiume. E se c’è il sole devi portarti l’ombrellino e il ventaglio. – Be’, caso non te ne fossi accorta, qui non siamo più a Columbus. Danielle gemette. Se n’era accorta, e anche la sua emicrania se n’era accorta. – Dovevamo andare all’est, altro che all’ovest – si lamentò. – Ma stai male? – le domandò Joanna, improvvisamente preoccupata. – Ho mal di testa – ripeté. Joanna si agitò nel letto. – A dire il vero, stamattina un po’ ce l’ho anch’io – ammise. – Vuoi che ti porti qualcosa da sotto? – Non ho fame, grazie. Ho freddo. – Se bevi qualcosa di caldo ti scaldi. Ti porto un caffè? Per un momento, Danielle fu tentata dal miraggio di scaldarsi abbracciando il corpo caldo dell’amica. Ma sapeva che sarebbe rimasto per sempre solo un miraggio, appunto. – Vuoi proprio alzarti, eh? – le chiese rassegnata. – Dai, così vediamo l’alba – propose Jo. – E tu ti scaldi. Lo so io, come vorrei che tu mi scaldassi, pensò. – Con la fortuna che ho, come minimo sarà nuvolo – brontolò invece, scostando controvoglia le coperte e rabbrividendo nell’aria gelida della cabina.
Non era nuvolo. Al contrario, il cielo attorno a loro era limpido come il cristallo e, sebbene il sole non fosse ancora spuntato all’orizzonte, risplendeva già di un bel colore azzurro cupo, che rendeva misteriose e affascinanti le sagome nere delle montagne che sfilavano ai fianchi della Gran Torino. – Sai che l’Arizona me la figuravo diversa? – domandò Joanna perplessa, rompendo il silenzio nella sala deserta. Come Danielle aveva immaginato, tutti gli altri eggeri dovevano essere ancora sepolti nei propri letti, al calduccio. Il guaio è che sembravano esserlo anche i cuochi, visto che della colazione non si vedeva nemmeno l’ombra. – Infatti quello là sotto è il New Mexico – la corresse una voce divertita alle loro spalle. Danielle si voltò di scatto, sorpresa, e vide l’italiano affacciato alla porta del salone. – Buongiorno – lo salutò mogia, mentre Joanna lo fissava con la fronte corrucciata. – Facendo finta che sia già giorno. – Buongiorno – rispose l’ingegnere mentre le raggiungeva davanti alla vetrata. – Come mai già in piedi? Letti scomodi? – Freddo – lo informò rabbrividendo. Amedeo serrò le labbra in una smorfia. – Già – ammise. – Siamo saliti parecchio, stanotte. L’osservazione strappò Joanna dal suo silenzio. – Saliti? Non mi pare che siamo molto più in alto di ieri. – Rispetto al suolo no, è vero: in questo momento voliamo a una quota di circa mille piedi, come ieri. Ma è il suolo che è salito: da qualche parte, là sotto – spiegò indicando un punto nel buio, alla loro destra – c’è Santa Fe, che è a un’altezza di oltre settemiladuecento piedi: duemiladuecento metri, a casa mia. E inoltre siamo in mezzo ai monti, come potete vedere.
– Dovreste fornire delle coperte più pesanti – brontolò Danielle, rabbrividendo ancora. – O mettere una stufa in cabina. – New Mexico? – la interruppe Joanna, ignorandola. – Santa Fe? Ma non dovevamo sorvolare Phoenix, Arizona? Amedeo annuì serio. – Già. Ma il colonnello ha preferito cambiare rotta per accorciare il percorso. Pazienza: invece dello Hollow vedremo il Grand Canyon, se il tempo ci assiste. – Peccato – sbuffò Jo con un’espressione delusa. – Ci avrei tenuto a salutare i Navajo dall’alto. – Ammesso che non ci abbattessero prima loro a frecciate. – I Navajo sono pacifici! – scattò Jo, attirandosi un’occhiata stupita dell’ingegnere. – A leggere i giornali non si direbbe – interloquì dubbioso. – I giornali scrivono solo stupidaggini e menzogne! – lo aggredì lei con voce alterata. – I Navajo sono molto più pacifici di noi; e questo lo so di sicuro, perché ci ho vissuto assieme per sei mesi, anni fa, e se avessi potuto ci sarei rimasta per sempre. – Davvero? – si stupì Amedeo. – Deve essere stata un’esperienza interessante! – Eccome! – confermò Jo, addolcendo la voce. – Mi hanno salvato la vita. Senza sapere chi fossi, e senza chiedere nulla in cambio. Senza Serpe Veloce, oggi non sarei qui. – Be’, un grazie a Serpe Veloce, allora! – le sorrise lui. – Già – borbottò Jo, abbassando lo sguardo. – Mi sarebbe piaciuto rivedere lo Hollow, almeno dall’alto. – Detto fra noi, sarebbe piaciuto anche a me. Ma il colonnello ha deciso così, e la nave è sua. Peccato. Jo sospirò, stringendosi nelle spalle.
– Già – ripeté rassegnata. Poi sembrò ripensarci. – Ma non avremo problemi, a infilarci così tra le montagne? Non sarebbe meglio sorvolarle? – Non ce la faremmo nemmeno volendo: non abbiamo abbastanza spinta. E poi non sarebbe una bella idea comunque, per via dell’altitudine. – Per il freddo? – intervenne Danielle, interessata suo malgrado. – Sì, anche, ma soprattutto per l’ossigeno: già a questa quota inizia a sentirsi la differenza, e se salissimo ancora potrebbe essere un problema per molti. Perfino io, che in montagna ci sono nato, stamattina mi sono svegliato col mal di testa. – Ehi, anch’io! – sobbalzò Danielle. – Ho un mal di testa tremendo fin da prima di alzarmi! – E anch’io, un pochino – aggiunse Joanna. – Non sapevo dipendesse dall’altezza. E quelli che quassù ci vivono, come fanno? – Il fatto è che siamo saliti troppo in fretta – spiegò Amedeo con espressione dispiaciuta. – Il nostro corpo non ha avuto tempo di abituarsi alla quota. Sono sicuro che domani andrà già meglio. – E io devo tenermi il mal di testa fino a domani? – gemette Danielle, sconfortata. – Su, su: ti erà! – la rincuorò Joanna, battendole benevola una mano sulla spalla. Poi tornò a rivolgersi ad Amedeo. – Non sarebbe possibile mantenere la cabina sotto pressione? Ricordo che in Dalla Terra alla Luna, Verne sigillava ermeticamente il proiettile, così da non far sfuggire l’aria nella spazio: non si potrebbe fare così anche qui? Amedeo la fissò con gli occhi sgranati. – Ha letto Dalla Terra alla Luna? Joanna gli sorrise. – È stato il primo libro che ho letto. – È il mio libro preferito! – esclamò lui entusiasta. – Anzi, no: il mio preferito è Ventimila leghe sotto i mari!
– Vero! – replicò Jo felice. – È ancora più bello! Dentro di sé, Danielle gemette. Come se la matematica non fosse abbastanza, adesso ci si mettevano pure i libri a tenere Joanna lontana da lei e appiccicata all’italiano. Sospirò, tornando a osservare fuori dalle vetrate. Quei due sembravano fatti l’una per l’altro: non si poteva metterli assieme in una stanza che subito iniziavano a parlare di cose di cui lei nemmeno sospettava l’esistenza, o che comunque non la interessavano affatto. Da un lato era sinceramente contenta per lei, ma dall’altro… be’, sì, era gelosa di Amedeo, come Jo aveva intuito la prima sera. La cosa più difficile da mandare giù era il fatto che nessuno dei tre ne aveva la minima colpa per quello stato di cose: o se colpa c’era, era sua, per il modo storto in cui era fatta. Si morse il labbro, tirando su col naso per trattenere un sospiro sconfortato. Solo in quel momento si accorse di una cosa, fuori dal vetro, che la strappò all’istante dai suoi pensieri deprimenti. – Ehi! Stiamo andando a fuoco! – esclamò atterrita, indicando la lunga scia bianca dietro la coda della Gran Torino. Il suo richiamo fece scattare i due piccioncini, che si voltarono di colpo verso di lei. – Là! – indicò ancora. – C’è fumo! A quelle parole, Amedeo impallidì e si precipitò in avanti per vedere meglio. Un attimo dopo lo vide rilassarsi. – No, non è fumo: è solo condensa – sospirò sollevato. – Condensa? – domandò Jo dubbiosa, sporgendosi per guardare a sua volta. – Sicuro? A me pare il vapore delle caldaie. – No. Se venisse dalle caldaie inizierebbe già a partire dalla nostra coda, e sarebbe più denso. E poi le caldaie sono del tipo a doppia espansione e doppio circuito: recuperano tutto il vapore.
– Davvero? Non lo sapevo. E perché? – Non possiamo rilasciare nell’atmosfera il vapore che è stato a contatto con la Sabbia – le fece notare l’ingegnere. – È radioattivo. – Ah, giusto – ammise Jo sottovoce. – E allora? – E allora, quella là fuori è solo una scia di condensa: l’aria che usiamo per raffreddare le turbine si scalda e si carica di umidità mentre è in sala macchine; quando esce, raffreddandosi di colpo, l’umidità si condensa in una nuvoletta di vapore, proprio come il fiato quando si respira all’aperto in una giornata di gelo. – Capito – annuì Jo soddisfatta. – Non ci avevo pensato. Danielle li fissò entrambi. Sembravano sicuri di sé. – Quindi non mi devo preoccupare? – domandò per sicurezza. – Non di andare a fuoco, no – le garantì Jo ridacchiando. – Peccato: speravo di scaldarmi un po’. – Credo che ci siano modi meno pericolosi – azzardò Amedeo con aria divertita. – Per esempio, avete già fatto colazione? A giudicare dal profumo che sento, credo che le cucine abbiano aperto, alla buon’ora. Vi va di essere mie ospiti? – Credo che mangerei un bufalo – accettò Joanna. Danielle strinse i denti, irritata. – Non mi sembrava avessi così fame, prima che arrivasse l’ingegnere – bofonchiò. – Era prima di sentire l’odore di pancetta arrosto – cercò di giustificarsi lei, arrossendo fino alla punta delle orecchie. Danielle si sentì subito in colpa per la cattiveria gratuita. – Vero, fa venire fame anche a me – mentì rassegnata. Non è colpa sua, si ricordò. La colpa è solo mia, non sua. Continuare a ripeterselo non era servito a molto, fino a quel momento. Ma che
altro poteva fare?
Per quanto nessun militare lo ammetterebbe mai a voce alta, fra tutte le qualità che un buon soldato deve possedere, l’istinto è quella che riveste la maggiore importanza, specie sul campo di battaglia, laddove può letteralmente rappresentare la differenza tra una pensione di guerra e una medaglia alla memoria. Il sottotenente Robert Alexander, che avrebbe compiuto ventotto anni da lì a tre giorni, era troppo giovane per averne esperienza diretta; ma ciò nonostante fu proprio l’istinto a fargli raddrizzare i peli del collo e lanciargli una scossa lungo la colonna vertebrale alla vista del rapporto, all’apparenza innocuo, del Comando di Albuquerque. Di per sé, si trattava di una semplice nota quotidiana, del tutto simile a quelle che riceveva ogni mattina dai Comandi territoriali dell’Esercito; ma una riga di quel dispaccio, aggiunta a margine del rapporto come fosse un abbellimento, una semplice nota di colore da parte del corrispondente, lo fece rabbrividire. Notata all’alba un’insolita formazione nuvolosa: una sottile scia candida che per un paio d’ore ha tracciato una linea perfettamente rettilinea nel cielo altrimenti sereno poco a nord di Albuquerque. Non sapendosi spiegare il motivo della propria inquietudine, Robert rilesse due volte la frase incriminata, e anche dopo aver accantonato il rapporto nell’attesa di quello che aspettava dal Comando di Phoenix, per lui molto più importante, il pensiero continuò a tornargli a quel aggio, come se l’istinto cercasse di comunicargli qualcosa di grave. Fu solo quando, a metà mattinata, ricevette infine il rapporto da Phoenix, che la sua mente collegò i due fatti: sconvolto dalla implicazioni di ciò che aveva appena intuito, raccolse i due dispacci e si precipitò nell’ufficio del Vecchio. – Quindi – riassunse il maggiore dieci minuti dopo – secondo lei questi due rapporti sono collegati: l’aeronave non ha seguito la rotta prevista, non ha sorvolato Phoenix, e ha invece deviato verso nord, ando su Albuquerque e lasciando dietro di sé quella misteriosa scia citata nel secondo rapporto.
– Sissignore: è quello che penso. A Phoenix non si fa vedere, e solo poche ore prima appare una scia nei cieli del New Mexico: non credo sia una coincidenza, Signore. Il Vecchio scosse la testa, dubbioso. – Anche ammettendo che le due terroriste siano in qualche modo riuscite a prendere il controllo dell’aeronave (e sono due donne, tenente!) e l’abbiano davvero dirottata verso nord, non vedo lo scopo di incendiarla, dopo. Se avessero voluto farla precipitare, Phoenix sarebbe andata altrettanto bene di Santa Fe, non crede? Robert si morse il labbro inferiore. – E se quella scia non fosse fumo? E se avessero invece scaricato nell’aria qualcosa di diverso, che sembra fumo ma non lo è? – suggerì. – Ossia? – Sabbia, Signore. Sabbia radioattiva. Ci sono due caldaie cariche, a bordo: sarebbe bastato loro aprirne una e far precipitare al suolo la Sabbia. Quella zona è arida e montuosa, Signore; i terreni coltivabili sono pochi: basta un niente per contaminarli, rendere impossibili i raccolti e inabitabile l’intera regione. Il Vecchio prese un lungo respiro e si appoggiò all’indietro sulla sedia. – Calma, tenente, calma – raccomandò, distendendo verso di lui le mani aperte. – Non salti a conclusioni catastrofiche: non abbiamo alcuna prova di quanto sta ipotizzando. Quella nuvola potrebbe essere qualunque cosa: perfino una nuvola. – Lo spero, Signore. Ma se invece non lo fosse? Il maggiore unì le punte delle dita davanti al volto e sembrò immergersi nelle proprie riflessioni. – No – sentenziò infine. – Se avessero voluto contaminare una regione, Phoenix sarebbe andata altrettanto bene. Invece, sempre ammesso che i due rapporti siano collegati, la domanda che dobbiamo farci è: perché dirottare verso nord? Cosa c’è a nord?
Robert lo fissò perplesso. – Il Colorado? – azzardò. – Il Wyoming? – Il Canada, tenente. Il Canada. Robert sobbalzò, inspirando con violenza. – Non vogliono far precipitare la nave! – esclamò, in un lampo di comprensione. – E non è neppure la nave che vogliono – completò per lui il Vecchio, sempre più accigliato. – Sono le sue caldaie. Vogliono portare oltre confine due intere caldaie a Sabbia dell’ultima generazione, con tutta la Sabbia al loro interno! Roberto barcollò, sentendosi cedere le ginocchia al pensiero. – Mio Dio – mormorò. – Non ci avevo pensato. – Devo avvertire subito il Segretario – decise il maggiore. – Non possiamo esserne certi, ma non possiamo trascurare la possibilità che lei abbia ragione, tenente. – Un momento! – lo interruppe Robert. – Ma se davvero vogliono contrabbandare le caldaie e la Sabbia, perché a nord? Avrebbero potuto dirottare verso sud, invece, e a quest’ora sarebbero già state al sicuro oltre il confine messicano. – Al sicuro? – lo corresse MacArthur. – In Messico? Ci sarebbe bastato un telegramma a Chihuahua per ordinare ai Rurales di catturarli per noi e riconsegnarceli con un bel fiocco sulla testa. No, è solo a nord che possono stare al sicuro: sono anni che la Corona britannica non vede l’ora di mettere le mani sulla nostra tecnologia, o su un bel carico di Sabbia. Se ano quel confine, li abbiamo persi per sempre. Robert inorridì. Quando aveva suggerito al Vecchio l’ipotesi delle due evase, mai più si sarebbe aspettato di finire in un incubo del genere. – Che facciamo, ora? – domandò, cercando di controllare il tremito nella voce. – Allerti tutti i Comandi lungo la rotta per il Canada e quelli di frontiera:
quell’aeronave non deve lasciare gli States, a costo di abbatterla a cannonate. Io vado dal Segretario, a scoprire chi è l’idiota che ha autorizzato l’installazione di tecnologie strategiche su una nave civile.
5
A bordo dell’aeronave Gran Torino, da qualche parte appena a est della Sierra Nevada
15 ottobre 1891, ore 12.00
Smith abbassò il sestante e consultò l’indice graduato. – 37° e 36’, più o meno – annunciò alla fine. – Difficile fare una lettura più precisa, in queste condizioni. – Ce la faremo bastare – lo rassicurò Amedeo, chinandosi sulla cartina spiegata sul tavolo di navigazione. Seguì col dito la linea del parallelo più vicino e cercò di interpolare a occhio. Uno scossone più violento degli altri lo fece barcollare, tanto che dovette afferrarsi al bordo del tavolo per non perdere l’equilibrio. Il comandante, in piedi dietro al timone, compensò la spinta del vento e riconquistò la stabilità, almeno per il momento. Amedeo gettò un’occhiata verso il colonnello Hart per assicurarsi che stesse bene, ma il colonnello distolse lo sguardo. Ma certo, pensò Amedeo scocciato. Sorvoliamo le Rockies in pieno autunno! iamo a est della Sierra, che problema c’è? Strinse le labbra per impedirsi di polemizzare. Anzi, c’era già da ringraziare il Cielo per essere sopravvissuti al aggio delle Montagne Rocciose, per fortuna meno disastroso di quanto avesse previsto. I guai veri erano iniziati solo dopo, nella regione desertica chiamata Great Basin, che in quella stagione era spazzata da venti impetuosi e bizzarri che avevano sballottato la Gran Torino e provocato
più di un malessere tra i eggeri. Oltre naturalmente a far perdere la rotta alla nave. Tanto più che ormai è inutile stare a discutere: qui ci siamo, e qui ci tocca gestircela, se non vogliamo lasciarci le penne. – Allora, la buona notizia è che siamo ufficialmente in California. – riferì in tono pratico – Quella cattiva è che siamo troppo a sud: almeno cento miglia fuori rotta, direi. – Cento miglia? – sobbalzò Hart. – Come diavolo abbiamo fatto a sbagliare rotta di cento miglia? – Col vento che c’era, mi meraviglio che non siamo finiti in Messico, altro che cento miglia! – sibilò Amedeo. Smith abbandonò il finestrino, avvicinandosi alla carta per controllare, e Amedeo posò il dito sul punto dove stimava essere. – Secondo me, quella laggiù è la Mammoth Mountain – spiegò, indicando il massiccio innevato alla loro sinistra. – E se ho ragione, allora fra meno di un’ora dovremmo sorvolare questo lago qui, il… – si avvicinò alla carta per leggere i caratteri microscopici – … Mono Lake? Può essere? – Sì, Mono Lake – confermò Smith. – Sono d’accordo, anche secondo me siamo più o meno in questo punto. Salvo errori. – Non mi siete di grande aiuto, sapete? – brontolò il comandante. – Mi spiace: con questa carta, più precisi di così non si può essere – gli fece notare Smith. – Che rotta suggerite? – tagliò corto il comandante. – Nord-nord-ovest, circa 340° – propose Smith. – Sorvoliamo il lago, proseguiamo fin quasi al Lake Tahoe, poi viriamo a ovest, ci rimettiamo sulla rotta che avevamo previsto e aggiriamo il massiccio del Round Top – spiegò, puntando il dito sulla mappa. – Cento miglia! – ripeté il comandante. – A questa velocità arriveremo al valico
che sarà quasi notte! Non potete dirmi che dobbiamo aggirare una montagna nel buio! No, abbiamo bisogno di valicare la Sierra entro un paio d’ore al massimo: trovatemi un o più vicino. Smith serrò le labbra, fissando Amedeo negli occhi. Senza aprire bocca, posò il dito su un altro punto della cartina. Amedeo si abbassò per controllare. L’unica mappa della zona che avevano a bordo era una vecchia carta geologica, probabilmente realizzata per le prospezioni minerarie ai tempi della corsa all’oro, la cui scala era di gran lunga insufficiente per le loro necessità. Per fortuna, almeno le linee altimetriche erano abbastanza evidenti. C’era solo da sperare che fossero anche accurate. Il dito dell’ufficiale indicava un o che sembrava aprirsi alle spalle di un massiccio chiamato Mount Dana, prospiciente al Mono Lake che doveva essere poco avanti a loro, e si inoltrava in una zona disabitata che sulla carta veniva indicata come Yosemite, seguendo una strettissima valle attraversata da un fiumiciattolo dal nome illeggibile. Amedeo scosse il capo, allarmato: in un budello del genere, col vento che c’era, non avrebbero avuto scampo. Smith strinse ancora di più le labbra, annuendo: probabilmente aveva avuto la stessa impressione. L’unico altro valico a disposizione, per quanto se ne potesse giudicare dalla carta, era a metà strada tra i due; ma anche quello sembrava abbastanza tortuoso e impervio, e in ogni caso irraggiungibile prima del buio. – Niente da fare – sentenziò Amedeo, raddrizzandosi. – L’unica scelta che abbiamo è di tornare indietro e aggirare la Sierra a sud, come era previsto fin dal principio. Per lo meno, di quella zona abbiamo le mappe. – Non se ne parla nemmeno – intervenne Hart lapidario. – Colonnello, qui rischiamo di… – Non se ne parla – insistette lui. – Sarebbero almeno, quante? Cento, centocinquanta miglia a sud, e poi altre duecento a nord, per tornare indietro?
– Ragioni, colonnello! – lo pregò Amedeo. – Arriveremmo lo stesso a San Francisco domani in giornata: più o meno cento ore dalla partenza, come aveva promesso ai eggeri. Anzi, forse anche meno, se dall’altro versante della Sierra troveremo meno vento! – Sciocchezze! – sbraitò Hart, alzandosi dalla sedia e puntellandosi al bastone per zoppicare fino al tavolo da carteggio. – Dietro a quelle montagne, a poche miglia da qui, c’è la nostra destinazione – esclamò, indicando le cime a ovest – e io non ho intenzione di perdere una giornata per arrivarci. Dov’è questo o che dobbiamo valicare? – domandò, chinandosi sulla carta. Esitante, Smith allungò il dito e lo posò a metà strada tra il Lake Tahoe e il Round Top. Il colonnello sbuffò. – Cos’è questa? – domandò, indicando una linea sulla cartina. – La Circle, nel tratto tra Carson’s City, Jackson e Sacramento. – Perfetto! – esclamò Hart soddisfatto. – Se da quel valico ci ano i treni, allora possiamo farcela anche noi. Saliamo di altri cinquecento piedi, rotta per 340° e macchine avanti tutta. Saremo là prima che faccia buio. Amedeo, Smith e il comandante si rimpallarono un’occhiata perplessa, ciascuno quasi pregando gli altri due di obiettare; alla fine, però, il comandante sospirò. Liberò nell’aria della California la penultima vasca di zavorra rimasta e spostò la barra di regime su “Piena potenza”. Pochi istanti dopo, la struttura della Gran Torino si scosse ed emise un cigolio lugubre, come a lamentarsi per il sovraccarico. Amedeo chiuse gli occhi, strinse i denti e incassò la testa nelle spalle, quasi temendo l’arrivo di uno schianto; ma, dopo quello che gli sembrò un tempo infinito, il rumore finalmente cessò. I quattro uomini rilasciarono il fiato in un unico sospiro collettivo. Fu Hart il primo a riprendersi. – Molto bene – bofonchiò soddisfatto, allontanandosi dalla plancia. – Chiamatemi quando arriviamo al o. Solo dopo che fu uscito, il comandante si schiarì la gola.
– Non lo prenda come segno di sfiducia, ingegnere – azzardò esitante – ma non crede sarebbe più prudente allontanare i eggeri dal ponte panoramico? – Stavo per proporglielo io – confessò Amedeo. – Vado a occuparmene di persona. E controllo anche la situazione in sala macchine, non si sa mai. Uscendo dal ponte di comando, scosse la testa demoralizzato. Era in momenti come quelli che sentiva tutto il peso della sua impreparazione: nessun ufficiale dei Servizi, per quanto laureato in ingegneria, poteva sperare di sostituire un vero ingegnere aeronautico professionista, specialmente nei momenti di crisi. Si chiese quante cose si fosse lasciato sfuggire, e pregò di non doverlo scoprire a breve.
Il timoniere Ed Smith picchiettò la punta dell’indice sull’altimetro, per accertarsi che la lancetta non fosse inceppata. Storse le labbra e gettò per sicurezza un’occhiata di conferma al barometro: le letture dei due strumenti combaciavano. – Comandante – sentenziò – stiamo perdendo quota. Il comandante si staccò dalla vetrata e affiancò l’ufficiale al timone. Studiò gli strumenti per qualche istante poi annuì. – Quando ci siamo infilati sotto le nuvole la temperatura esterna è calata – osservò indicando il termometro, che segnava quasi quindici gradi centigradi sotto lo zero. – L’elio si contrae e perde spinta. – Rilascio un po’ di zavorra? – No. Ne è rimasta una sola vasca, e voglio tenermela in caso di emergenza. Gonfiamo i palloni di assetto, invece, e proviamo a risalire sopra le nuvole. Vorrei approfittare dell’ultimo sole prima del tramonto per accumulare un po’ di calore. – Aye – confermò Smith, regolando i manometri.
Trenta piedi sopra la sua testa, le valvole dei serbatoi di elio compresso si aprirono, pompando nuovo gas nei palloni di prua e poppa.
– Il problema – confessò l’ingegnere con espressione preoccupata – è che nei miei calcoli non ho mai considerato l’eventualità di continuare a volare con un vento contrario così forte: in casi del genere, da noi le aeronavi atterrano e aspettano che i, o cambiano semplicemente rotta. – Lo sapevo che andava a finire male – gemette Danielle alle sue spalle. Joanna la ignorò, riportando l’attenzione su Amedeo. Quando l’ingegnere aveva chiesto a loro e agli altri eggeri di tornare nel salone al piano di sopra e lasciare libero il ponte panoramico, l’aveva fatto con un sorriso tranquillizzante sulle labbra, scusandosi anzi per l’improvviso abbassamento della temperatura dovuto alla quota e al vento, che soffiava impetuoso da nord e faceva vibrare la struttura della Gran Torino e fischiare i cavi metallici all’esterno. Ma la sua espressione, quando le aveva prese da parte per una parola in privato, non era più tranquillizzante come allora. E la richiesta che le aveva appena fatto lo era ancora meno. – Ma io non so nulla di carichi, aerodinamica, resistenza dei materiali o che altro – obiettò intimorita. – Non capisco a cosa potrei essere utile. – Queste cose le so io – le garantì l’ingegnere. – Ma mi ci vorrebbero ore per fare i calcoli, e per allora saremmo già arrivati… o schiantati da qualche parte. Davvero, Miss Joanna: mi farebbe molto comodo qualcuno come lei in sala progetti, ora. Joanna esitò, rendendosi conto della responsabilità di cui l’italiano voleva farle carico. Per tutti gli anni ati a Trainville, e perfino nei mesi successivi alla sua fuga, a Columbus, la matematica era stata per lei niente più che un divertimento, un hobby apionante, o al massimo qualcosa che le permetteva di mantenere un certo grado di controllo del mondo, e niente più. Quello che l’ingegnere le stava chiedendo, invece, poteva rappresentare la
differenza tra la vita e la morte di decine di persone innocenti. Ma con quelle premesse, di certo non poteva rifiutarsi di dare una mano. Deglutì, sforzandosi di non far tremare la voce. – Quand’è così, l’aiuterò volentieri – gli assicurò. – Vengo anch’io – intervenne subito Danielle. – Non mi ci lasciate qui da sola: scordatevelo. Amedeo annuì serio, avviandosi verso la sala macchine.
A parità di temperatura e umidità, a diecimila piedi di quota la pressione atmosferica è appena due terzi di quella a livello del mare, e decresce ancora, in maniera esponenziale, con l’aumentare dell’altezza. Inoltre, come il comandante aveva correttamente ricordato al suo timoniere, una delle più interessanti caratteristiche dei gas, e forse la più utile, è la loro capacità di contrarsi col freddo ed espandersi col caldo; cosa che permette, tra le altre cose, il volo delle mongolfiere. Non appena l’aeronave sbucò al di sopra dello strato di nuvole, il sole riprese a scaldare la superficie di alluminio del suo rivestimento esterno. Lo strato di ghiaccio che si era formato sulla sezione centrale respinse i deboli raggi del tramonto; ma le zone rimaste libere, ossia la prua e la poppa, li accolsero invece con sollievo, trasmettendone il calore all’elio contenuto nei rispettivi palloni sottostanti, che subito iniziarono a dilatarsi. Come succede in un palloncino troppo gonfio, se la differenza di pressione tra l’interno e l’esterno cresce troppo anche il tessuto di cui sono fatti gli aerostati può strapparsi; per questo motivo, i progettisti della Gran Torino avevano previsto una serie di valvole di sicurezza: quando la pressione all’interno dei palloni si avvicinava troppo al limite, le valvole si aprivano e lasciavano sfuggire l’elio in eccesso; una volta tornata sotto controllo, le valvole si richiudevano in automatico, per impedire ai palloni di sgonfiarsi eccessivamente. Con la diminuzione di pressione dell’aria all’esterno e con l’aumento di quella
dell’elio all’interno, le valvole dei palloni di assetto di prua e di poppa entrarono in funzione per ripristinare l’equilibrio; o almeno, questo è ciò che provarono a fare. Purtroppo, le valvole della Gran Torino erano di metallo; e il ghiaccio, come si sa, tende a inceppare i meccanismi metallici.
– Sette e un quinto – rispose Joanna, abbassando la matita. – Come, sette? – sobbalzò Amedeo. – Sette cosa? – E che ne so? Sette è il risultato del conto che mi hai fatto fare, non so cosa significhi. – Non può fare sette, dai! – protestò lui, che era da tempo ato al “tu” senza nemmeno accorgersene. – Saremmo già precipitati da ore! – Non so neppure di cosa stai parlando, ma ti assicuro che, con la formula e i numeri che mi hai dato, il risultato fa poco più di sette virgola due-e-qualcosa. Amedeo si alzò dal tavolo da disegno e le si affiancò, esaminando la pagina su cui lei aveva appena finito di scrivere. Joanna lo osservò a labbra strette, un po’ seccata per la sua mancanza di fiducia. Se non gli andavano bene i suoi calcoli, allora perché l’aveva tirata in mezzo? – Il conto è quello – gli ripeté. – Se il risultato non ti piace, allora il problema è nella formula, o nei numeri che mi hai dato. – Merda! – esclamò lui, battendo all’improvviso la mano sul foglio. Poi arrossì, guardando con un’espressione imbarazzata lei e Danielle, seduta in un angolo con le labbra tirate. – Scusate: mi sono lasciato trasportare – balbettò. – Lascia perdere – lo rassicurò, ponendogli una mano sulla sua. – Dov’è il problema? – Hai ragione, ho sbagliato io – ammise lui con una smorfia, puntando il dito su un aggio. – Ti ho dato la pressione espressa in chili per centimetro quadrato,
mentre la superficie era in pollici quadrati. Errore mio, scusa: ho fatto confusione. Joanna sospirò. – Eh, lo capisco – lo consolò. – Come si fa a lavorare con tutte queste unità di misura diverse? Se questa è ingegneria, allora io mi tengo ben stretta la mia matematica! Amedeo fece una smorfia triste, poi scosse la testa stizzito. – Dai – lo sollecitò lei in tono comprensivo. – Non ci vuol niente a correggere, basta moltiplicare la superficie per sei e mezzo: ci metto un attimo. – Aspetta, meglio controllare anche gli altri numeri – suggerì Amedeo. – Sai com’è: prima di sbagliare di nuovo. Joanna annuì, riando i dati sul foglio. – Sei sicuro di questo CD=0,15? – domandò. – Cos’è? – Coefficiente di resistenza aerodinamica. Non cambia con l’unità di misura perché dipende solo dalla forma geometrica. Per la Gran Torino è 0,15: il più basso che siamo mai riusciti a ottenere alla Rebaudengo. – Okay, bravi. E questo ρ=1,204, che cos’è? – La densità dell’aria, a pressione e temperatura normali, espressa in chili per… – si bloccò, impallidendo d’improvviso. Joanna spalancò gli occhi, allarmata. – Che c’è? Che hai? – Oh, merda! – esclamò di nuovo lui balzando in piedi. – La temperatura! Ci era arrivato, ma troppo tardi.
Stando a un noto detto popolare, se ci sono due o più cose che possono andar male, lo faranno tutte, e nell’ordine peggiore possibile. Una valvola grippata dal ghiaccio può bloccarsi in posizione aperta o in posizione chiusa; i palloni di assetto della Gran Torino erano tanto a prua quanto a poppa; e il vento, pur soffiando imperterrito da nord, poteva essere tiepido e umido oppure freddo e secco, a seconda di ciò che aveva raccolto nel suo percorso stretto tra l’altopiano a est e la Sierra a ovest. Scovare la peggiore combinazione possibile di tutte queste variabili non era facilissimo, ma il caso ci mise tutto il suo impegno: la valvola di sicurezza del pallone di poppa si era bloccata in posizione aperta, e stava allegramente rilasciando nell’atmosfera l’elio che fino a quel momento lo aveva mantenuto gonfio; la valvola di quello a prua, invece, si era bloccata in posizione chiusa, e la seta multistrato del suo rivestimento era da tempo ben oltre il limite dello sforzo. Coi motori dell’aeronave spinti alla massima potenza, sarebbe bastata una raffica di vento un po’ più forte delle altre per ottenere l’effetto di sbattere contro un compatto muro d’aria. Fu proprio in quel momento che il caso decise di intervenire. Il primo a cedere, come ovvio, fu il pallone di assetto a prua. Già innaturalmente gonfio com’era, la pressione del vento contro cui la Gran Torino combatteva bastò ad aggiungere quel tanto da indurre le stremate cuciture a chiedere pietà. Con uno strappo lacerante che risuonò in tutta l’aeronave, il pallone si afflosciò di colpo, aggrovigliandosi lungo la parte frontale del longherone e drappeggiandosi sconfitto sulle cabine di prima classe a prua. Al rivestimento esterno, pur intatto, venne così a mancare il o interno del pallone, proprio nel momento in cui la spinta dell’aria, fuori, era maggiore: la delicata calotta frontale di alluminio si accartocciò su se stessa, col risultato di far crollare il suo tanto vantato coefficiente aerodinamico da un meraviglioso 0,15 a un disastroso 0,84. La differenza, in proporzione, fu la stessa che c’è tra il piantare un chiodo in una parete appoggiandolo di punta e il cercare di piantarlo appoggiandolo invece di testa. Con un tragico lamento di metallo torturato, tutta la sezione di prua della Gran
Torino collassò all’indietro e il ponte eggeri si inclinò bruscamente in avanti. Quando Amedeo, alla presentazione dell’aeronave, aveva affermato che anche il solo pallone centrale sarebbe bastato per sostenere il peso di tutta la Gran Torino, tecnicamente aveva detto il vero; ma quest’affermazione doveva essere presa nei limiti di una presentazione a un pubblico generico, e non teneva comunque conto della possibilità di perdere all’improvviso l’assetto durante il volo. Con entrambi i principali palloni di manovra indisponibili, tutto il peso dell’aeronave gravava davvero sul grande pallone centrale, ancorato nel baricentro del longherone a cui era appesa la struttura interna. Per quanto l’enorme trave reticolare fosse in origine l’elemento di gran lunga più solido e ben progettato del velivolo, Amedeo aveva dovuto rivederne più volte la struttura, a causa delle continue modifiche richieste da Hart durante il montaggio. In più, la situazione era anche aggravata dalla spinta a piena potenza dei motori a poppa contro il muro d’aria a prua. Compresso a entrambe le estremità, e tirato verso l’alto al centro e verso il basso in punta, il longherone si inarcò come la schiena di un gatto spaventato. Cercando di seguire il o cui era agganciata, la navicella si spezzò letteralmente in due parti, sollevandosi al centro; la parte anteriore, investita in pieno dal vento, si staccò dai i e precipitò nel vuoto, portando con sé gran parte delle cabine, oltre al comandante e all’ufficiale timoniere, entrambi ancora in plancia. La parte posteriore, con i motori ancora accesi, fu più fortunata: pur inclinata di almeno trenta gradi a poppa, restò tenacemente aggrappata ai resti della Gran Torino che, finalmente libera da quasi tutto il suo carico iniziale, stava adesso schizzando verso l’alto. Ma la scatto suicida durò poco: malgrado tutti gli accorgimenti che i progettisti avevano preso per proteggerlo, anche il pallone centrale era rimasto seriamente danneggiato nello schianto, e l’elio fuoriusciva copioso dagli squarci nella tela ricoperta d’alluminio. Con tragica lentezza, l’aeronave ferita a morte si abbassò per la sua prima e ultima discesa verso i boschi che coprivano il versante est della Sierra.
6
Da qualche parte della Sierra Nevada, vicino al Lake Tahoe
18 ottobre 1891, ore 6.30
Joanna aprì gli occhi, ma continuò a non vedere nulla. Si sollevò a sedere di scatto, rabbrividendo per il freddo e per il timore improvviso. Le ultime braci del focolare brillavano tanto fioche nel buio da non illuminare altro che se stesse. Il suo movimento, però, non era ato inosservato. – Buongiorno – mormorò una voce nell’oscurità. Joanna sospirò di sollievo. – Buongiorno – rispose sottovoce, per non disturbare gli altri superstiti ancora addormentati. – Sognavi? Ti ho sentita lamentarti. Joanna rabbrividì ancora, stringendosi attorno alle spalle il brandello di tela strappata che da tre giorni usava come coperta. Si avvicinò al focolare e allungò le mani sulle braci per scaldarsi. – Un incubo – ammise piano. – Ti ho svegliato? – Ero già sveglio – le garantì Amedeo.
Joanna raccolse un ramoscello e lo usò per attizzare la brace, alla ricerca di un po’ di luce e tepore. – Come sta? – chiese, accennando al giaciglio di fianco a lui. – Male – sospirò Amedeo, triste. – La febbre è salita ancora, e stanotte delirava. – Ce la farà? L’italiano si sollevò a sedere e si avvicinò a sua volta al fuoco. In silenzio, appoggiò un ramo sui tizzoni della sera prima e si chinò a soffiare con delicatezza. Qualche secondo dopo una fiammella si alzò dalla cenere e avvolse la corteccia resinosa, facendogli danzare ombre oscure sul viso. – No – le rispose infine. Joanna chiuse gli occhi, sconfortata. Non conosceva di persona l’ufficiale di macchina, ma l’averlo vegliato per tre notti, dopo l’incidente, l’aveva in qualche modo legata a lui. Nonostante tutto, aveva sperato che le sue sofferenze avessero un senso, e che alla fine si sarebbe salvato. – Vuoi che gli cambi le bende? – si offrì. – L’ho già fatto io mentre dormivi. Non è un bello spettacolo, fidati: ora sta marcendo anche l’altra. Anche se ci salvassero oggi, non credo che per lui farebbe differenza, nemmeno amputando tutte e due le gambe. Joanna sospirò. – Poveraccio. – Già. Se anche l’ufficiale fosse morto, dei cinque superstiti della sala macchine sarebbero rimasti solo loro tre, e solo perché al momento dell’incidente si trovavano nell’angolo riservato alla sala progetti: l’ufficiale e il tecnico che erano al lavoro oltre la paratia erano stati scagliati dall’urto contro le turbine, e non se l’erano cavata con qualche piccolo danno come loro. Joanna si augurò
che qualcun altro dei eggeri fosse riuscito a salvarsi, e che magari il relitto della Gran Torino, che aveva ripreso quota ed era stato trascinato via dal vento subito dopo che loro erano saltati, contenesse ancora qualcuno in vita. Ma le probabilità non erano molte, a sentire l’ingegnere. Secondo lui, erano già stati fortunati loro cinque: se le caldaie si fossero rotte durante il primo schianto, la Sabbia radioattiva che contenevano li avrebbe uccisi in pochi minuti. Le probabilità che avessero retto anche al secondo urto, o magari addirittura a un terzo, erano molto basse, a suo dire. Joanna si accarezzò inconsciamente la cicatrice sulla guancia e rabbrividì ancora. Forse, tutto sommato, non era il caso di augurarsi che fosse rimasto qualcuno vivo a bordo. – Un morto in più sulla mia coscienza – mormorò Amedeo, abbassando la testa. Joanna lo fissò sorpresa. – Non è stata colpa tua! – Ah, no? E chi ha modificato la nave, mille volte, senza il permesso del costruttore, e magari sbagliando chissà quanti calcoli ogni volta? – Non hai deciso tu di fare quelle modifiche! – Ma neanche mi sono opposto, però. Joanna sospirò. Lo conosceva appena, ma negli ultimi giorni aveva imparato che quando faceva così era inutile parlargli. – Ti dobbiamo la vita – mormorò comunque. – Se io e Dani fossimo rimaste nella nostra cabina come gli altri eggeri… Lasciò in sospeso la frase, stringendosi le spalle nella sua coperta improvvisata. Amedeo non diede segno di averla sentita, e continuò a tenere lo sguardo fisso sulle fiamme.
Nonostante l’ira del Vecchio non fosse diretta verso di lui, Robert si fece comunque piccolo e incassò d’istinto la testa tra le spalle.
– Come si fa a perdere un’aeronave di quattrocento piedi, con cinquanta persone a bordo? – ululò il Maggiore, paonazzo. Robert strinse i denti. La domanda non sembrava rivolta a lui, quindi pensò bene di tacere. – Che cazzo hanno al posto degli occhi le guardie di frontiera? Come cazzo hanno fatto a non vederla are? – imprecò ancora il Vecchio. Solo in quel momento sembrò ricordarsi della sua presenza. – Non se ne stia lì impalato, tenente: faccia finta di essere intelligente, dica qualcosa! Robert prese fiato, incastrato. – E se davvero i terroristi non avessero ato il confine? Il Vecchio lo scrutò con uno sguardo assassino. – Voglio dire – aggiunse di corsa, prima che il MacArthur pensasse di sfogarsi su di lui – non potrebbero essere atterrati da qualche parte per attendere che smettiamo di cercarli, per poi portare la nave in Canada appena abbassiamo la guardia? Il Maggiore strinse i pugni, ma almeno non lo aggredì. – E perché diavolo dovrebbero rischiare, visto che di certo non possiamo disporre cannoni lungo tutto il confine? – obiettò ringhiando. – Ammesso poi di riuscire davvero ad abbattere un’aeronave a cannonate, visto che non mi risulta che sia mai stato fatto. – Magari vogliono prima scaricare gli ostaggi – azzardò Robert, resistendo all’impulso di tergersi il sudore dalla fronte. – Oppure preferiscono smontare le caldaie e trasportarle via terra. O magari via mare, chi lo sa? Il Maggiore, che sembrava aver accumulato pressione man mano che lui azzardava le prime ipotesi che gli venivano in mente, si sgonfiò all’improvviso. – Via mare? – domandò accigliato. – E perché? Robert si ricordò di respirare e sollevò le sopracciglia.
– Dopotutto, che le terroriste fossero dirette in Canada era solo una nostra ipotesi. E se non fossero gli inglesi, ad avere organizzato il colpo? – Ah, no? E chi altri? – Per esempio, chiunque sapesse che abbiamo acquistato un’aeronave, e che ci abbiamo installato le caldaie a Sabbia. MacArthur lo fissò assorto, considerando l’idea. – Gli italiani? – mormorò. Robert si strinse nelle spalle. – Perché no? Le nostre caldaie sono la tecnologia più avanzata del mondo: qualunque nazione civile pagherebbe una fortuna per poterne esaminare una da vicino. – Gli italiani – ripeté il Vecchio, con lo sguardo perso nel vuoto. – Uhm. E quel tizio, il colonnello Hart, che ruolo ha nella vicenda? È loro complice, oppure si è fatto fregare? Ottenuto il successo di calmare il Maggiore, Robert pensò che fosse il caso di non insistere troppo su un strada che si era inventato lì per lì. – Signore – gli ricordò – la mia è solo un’idea, non volevo accusare nessuno. Forse era giusta l’ipotesi iniziale, e l’aeronave ha ato la frontiera di notte. Volando abbastanza alta, magari in una zona montuosa, potrebbe essere ata inosservata. – Può essere – concesse MacArthur, accarezzandosi i baffi pensoso. – Però nessuno l’ha vista. E quella degli italiani è una pista interessante, dopotutto. In fondo, lo vede che anche lei non è del tutto un idiota, tenente? – Signorsì – assentì Robert sollevato. – Che facciamo, quindi? – Indaghiamo sul costruttore, tanto per iniziare. Chi è? – Aeromobili Rebaudengo, di Torino, Italia. Fornitori anche della Regia Marina e dell’Esercito Sabaudo.
– Ma pensa! – sbottò il Maggiore socchiudendo gli occhi. – E a nessuno, qui, è venuto in mente di indagare su di loro. – Non saprei, Signore. Non mi occupo io dei permessi di importazione. – Allora si informi. E verifichi anche come ci è arrivata l’aeronave negli States. In volo? Per nave? Chi l’ha trasportata? Chi ha addestrato l’equipaggio? Voglio conoscere vita morte e miracoli di ogni persona a bordo di quella nave, terroriste incluse. Robert gonfiò il petto e annuì. – Ci penso io – garantì, soffocando un sospiro di sollievo. Era sopravvissuto a un altro giorno col Vecchio. Forse aveva qualche speranza di cavarsela, dopotutto. Forse.
Dopo che Joanna ebbe posato l’ultima pietra sul tumulo dell’ufficiale di macchina e Danielle vi ebbe piantato la croce improvvisata con due rami legati fra loro, le due donne si voltarono verso di lui, come in attesa di una parola. Amedeo tossicchiò imbarazzato. – Harry era un bravo meccanico – improvvisò. – Non meritava di morire, ma sono certo che, se avesse potuto scegliere, avrebbe voluto andarsene stando in mezzo alle sue macchine, proprio come ha fatto. Con la coda dell’occhio, vide Miss Danielle stringere le labbra in una smorfia scettica. Esitò un istante, annaspando alla ricerca di qualcos’altro da aggiungere, ma la verità era che lui e l’ufficiale non avevano mai scambiato più che poche parole, se non per lavoro. In effetti, non sapeva quasi nulla della sua vita privata. – Non aveva una famiglia – ricordò – ma tutto l’equipaggio della Gran Torino era diventata la sua famiglia, e ora anche lui è con gli altri, per l’eternità. Possano volare assieme per sempre – si augurò. Non sapendo che altro dire,
concluse. – E così sia. Le due donne borbottarono un amen poco convinto. Rimasero tutti e tre così per qualche istante, in silenzio e con gli occhi bassi; poi Miss Danielle prese fiato. – Che facciamo adesso? – chiese, dando voce alla domanda a cui tutti stavano pensando. – Non ci verranno a cercare, vero? – domandò Joanna con voce rassegnata. – No, credo proprio di no – ammise. Era inutile suscitare false speranze: anche se a quel punto l’agenzia di San Francisco avesse dato l’allarme, nessuno a terra sapeva del cambio di rotta della Gran Torino, e se anche qualche ricerca fosse stata fatta, sarebbe stata sul versante sbagliato della Sierra. – Allora sarà meglio incamminarci – borbottò Miss Danielle in tono pratico, voltando le spalle alle due tombe e dirigendosi verso il loro accampamento provvisorio. Joanna rimase ferma a osservarla per un po’, come indecisa, poi sembrò riscuotersi e gli si rivolse. – Da che parte andiamo? Tu lo sai dove siamo? – Non troppo distante dalla civiltà, per fortuna – le rispose, indicando la sottile striscia azzurra all’orizzonte, lontano, verso nordest. – Quello laggiù dovrebbe essere il Lake Tahoe, quindi noi dovremmo essere da qualche parte sul versante settentrionale del Round Top – ipotizzò, ricordando la carta che aveva studiato a bordo dell’aeronave. – E quella pista a fondo valle, andando verso ovest, dovrebbe portare dalle parti di Jackson, penso, o di Placerville, non ricordo bene. Comunque, di un centro abitato. – Mi ricordo Placerville – annuì Joanna. – Ci a la Circle. – Sì, è vero, l’ho visto sulla carta. – Però Trainville non ci si ferma – aggiunse lei con voce assorta. – Va diretta dall’Oregon a Sacramento, senza fermate intermedie.
– Ah – rispose lui, senza capire. Trainville doveva essere una delle città viaggianti che avano ogni tanto da Columbus. Era rimasto impressionato, la prima volta che ne aveva vista una: quelle locomotive erano in grado di trainare centinaia di vagoni, ciascuno grande quanto un palazzo. Quando avevano trasportato la Gran Torino, ancora smontata, da New York a Columbus, erano riusciti a stivarla tutta in un singolo vagone, e senza neppure dover smontare la navicella. Certo, in Italia non avrebbero avuto neppure il posto per far are ferrovie del genere: con vagoni di quelle dimensioni, ogni curva avrebbe occupato la superficie di una cittadina di provincia. Ma si sapeva che in America era tutto più grande, perfino l’aria che respiravano. Più volte, sentendo parlare gli americani, si era chiesto come potessero indossare abiti normali senza farne scoppiare le cuciture a ogni nuova fanfaronata. – Allora? – li richiamò Miss Danielle dal focolare. – Vogliamo star qui un altro giorno, oppure ci mettiamo in marcia?
Seduto alla scrivania che era stata di Mister Pezzogrosso Pennyworth, Bradley soppesò la busta sigillata che teneva in mano, pronta per essere consegnata al corriere di fiducia di un tizio del quale neppure sapeva il nome. Le carte che vi aveva infilato dimostravano senza possibilità d’errore che, in stretto accordo coi Navajo, Pennyworth stava preparando una serie di attentati da eseguirsi con ordigni caricati con la Sabbia radioattiva dello Hollow, con l’intento di destabilizzare il governo di Washington e permettere ai pellerossa di conquistarsi nuove terre coltivabili all’ovest. Creare quei documenti gli aveva causato infiniti ripensamenti, e bella una serie di dolori di stomaco; non tanto per il loro contenuto (prima si fosse liberato dei Navajo e meglio sarebbe stato per gli avvocati della compagnia), quanto per l’esigenza di far ricadere la complicità nel complotto sulle spalle del solo Pennyworth, escludendo qualsiasi coinvolgimento della società che portava quel nome, e che adesso era guidata da lui. Aveva già fin troppi guai a ricostruire la propria credibilità, e un nuovo scandalo, arrivando alla stampa, avrebbe probabilmente posto fine una volta per tutte alle attività commerciali della Pennyworth Corporation.
Che probabilmente è quello che la Liberty preferirebbe, rifletté amareggiato. E sospetto che né alla Liberty né a quello stronzetto di Washington freghi un accidente di me e della mia situazione. Ripercorse ancora una volta con la mente il contenuto dei documenti che aveva preparato, chiedendosi in che modo certe frasi avrebbero potuto essere interpretate, o magari distorte, dalla stampa. Era ancora immerso nei propri dubbi, quando sentì bussare alla porta. L’individuo che venne introdotto da Wes nel suo studio era forse l’uomo più anonimo che avesse mai incontrato. Dai lineamenti regolari, non era né alto né basso, né magro né grasso, e del tutto privo di alcun tratto caratteristico degno di nota. Se avesse dovuto descriverlo, non avrebbe saputo da dove iniziare, e probabilmente la sua descrizione sarebbe andata bene per metà dei maschi bianchi degli States. – Immagino che sia venuto per questa – lo salutò Bradley, visto che il nuovo arrivato non sembrava voler aprire bocca. Come volevasi dimostrare, l’uomo si limitò ad annuire; fece un o avanti e tese la mano verso la busta. – Ehm… – esitò Bradley, stringendola. – Non… Come faccio a sapere che è davvero lei la persona che sto aspettando? Lo straniero inclinò la testa di lato, socchiuse le palpebre e lo fissò negli occhi a labbra strette. Bradley tossicchiò imbarazzato. – Sa com’è – si giustificò. – I documenti qui dentro sono… be’, molto riservati. L’uomo annuì serio e tese ancora la mano. Oh, va’ al diavolo. Gli porse la busta in silenzio. L’uomo la soppesò per un istante, poi se la infilò nella giacca, all’altezza del cuore. Dopo averlo salutato con un cenno secco del capo, gli voltò le spalle e uscì dalla stanza. Non aveva detto una sola parola per tutto il tempo.
Come un biglietto da visita in bianco, rifletté Bradley con un sospiro rassegnato. Decisamente, prendere il posto di Pennyworth si stava rivelando una scelta molto meno piacevole di quanto avesse immaginato.
Danielle esaminò i solchi sovrapposti che correvano lungo il fondovalle, in direzione vagamente est-ovest. Se ne potevano riconoscere almeno quattro serie, di diverso spessore, età e profondità: segno che la pista doveva essere notevolmente trafficata da carri di tutti i tipi, oltre che dai cavalli le cui tracce erano ovunque. – Direi che non ci sono dubbi: la pista è questa – dichiarò soddisfatta, rialzandosi e spazzolandosi le ginocchia. Indicò alla loro sinistra. – Di qua c’è la California, Jackson o Placerville che sia, e di là il Nevada, immagino Carson’s City. Che si fa? Destra o sinistra? – California – rispose subito Joanna, come c’era da aspettarsi. Danielle esitò, guardando l’ingegnere per cercare o. – Forse sarebbe meglio dirigerci verso il villaggio più vicino – propose. – Siamo malconci, indifesi, senza un soldo e senza cibo. Guardò Joanna, che strinse le labbra, e poi l’italiano, che distolse lo sguardo. – La California non se ne va mica – aggiunse. – Ingegnere, lei che ne pensa? Amedeo si morse le labbra, con un’espressione poco convinta. – Siamo praticamente sul o – osservò. – A parte forse qualche baracca di minatori, non credo ci siano grossi villaggi in nessuna delle due direzioni per almeno una giornata di cammino. – Però per la California è tutta discesa – insistette Joanna. In effetti, aveva ragione: almeno per quanto avevano potuto vederne scendendo dal fianco del monte, in direzione ovest la pista continuava a scendere fino a dove si poteva seguire con lo sguardo. In direzione est, invece, saliva ripida per
almeno un paio di miglia, probabilmente per tornare sull’altro versante della Sierra; cosa ci fosse dopo, era impossibile vederlo da dove stavano. Poteva anche essere un deserto, per quel che ne sapeva. – Così pare – ammise. – California, allora? Joanna annuì soddisfatta, e si voltò per incamminarsi. – Sì, credo che sia la scelta migliore per voi – disse l’italiano senza muoversi. Danielle lo scrutò interdetta, e anche Joanna tornò a voltarsi, con un’espressione interrogativa sul viso. – Se non vi fermate per strada, dovreste arrivare a qualche posto abitato prima di notte. – Come sarebbe, per noi? – domandò Joanna. – E tu? – Io torno a est – annunciò l’ingegnere. – Il mio permesso di soggiorno è quasi scaduto, per cui… – A Placerville ci a la Circle – gli ricordò Joanna, tornando sui suoi i per raggiungerlo. – Da lì puoi prendere un treno per Reno, o per Salt Lake City, e poi… – Credo che andrò a est, se non vi spiace – la interruppe lui. – Non vuoi venire con noi? – balbettò Joanna incredula. La domanda cadde nel silenzio. Danielle li fissò entrambi, immaginando cosa asse nella testa dell’una e dell’altro. In cuor suo, non poteva negare che la scelta dell’italiano le avrebbe tolto un sassolino dagli stivali. Per quanto un po’ le dispie per lei, Joanna sapeva fin dall’inizio che lui avrebbe dovuto tornare al suo paese, e un taglio netto sarebbe stata la scelta migliore per entrambi. E poteva anche capire l’imbarazzo di lui, quando la notizia del disastro sarebbe arrivata a San Francisco e a Columbus. Forse sparire era davvero la scelta più saggia. – Be’ – sospirò. – Quando è così… Joanna la fulminò con uno sguardo ferito, ma prima che potesse aggredirla l’ingegnere tossicchiò, richiamando la sua attenzione.
– Ormai la parte pericolosa è ata – si giustificò fissandola serio. – Da qui in poi ve la caverete anche senza di me. Joanna deglutì. – E tu? – balbettò. – Credo che anch’io me la caverò – le rispose Amedeo con un sorriso triste. Danielle decise di intervenire, prima che la situazione divenisse troppo pesante… o che l’italiano cambiasse idea. – Ci salutiamo qui, allora – concluse. – Ci salutiamo qui – confermò lui con uno sguardo d’intesa.
Dall’alto del o, Amedeo si voltò indietro e percorse con lo sguardo la pista che scendeva alle sue spalle. Le due ragazze non erano più in vista. Un po’ gli era spiaciuto doversi separare da Joanna: quella ragazza aveva una mente eccezionale, per una donna; e inoltre, o almeno così gli era parso, poteva avere un qualche tipo di coinvolgimento con quel fantomatico movimento di resistenza, sul quale non sarebbe stato male cercare di informarsi. Ma non poteva correre rischi: al disastro sarebbe di sicuro seguita un’inchiesta formale, e lui, per quanto ne sapeva, era l’unico sopravvissuto tra i responsabili della compagnia. Non solo la stampa e l’opinione pubblica gli avrebbero attribuito tutta la colpa dell’incidente, ma era quasi scontato che le indagini avrebbero anche scoperto la sua identità segreta, cosa che sarebbe costata la vita a lui e che avrebbe inoltre messo in imbarazzo il Servizio Informazioni della Regia Marina, generando pericolose ripercussioni diplomatiche tra l’Italia e gli States. Sparire era la soluzione migliore, dunque: ma non poteva farlo con le due testimoni di mezzo. Infilò la mano in tasca e ne estrasse i documenti del defunto tecnico addetto alle
caldaie dell’altrettanto defunta Gran Torino, che aveva scambiato coi propri prima di seppellirlo. Henry Ford, lesse. Ventotto anni: ci sta. Addio, Amedeo Negri da Cuneo, Italia. Buongiorno, Henry Ford da… Greenfield, Michigan. Greenfield, si ripeté. Suona bene: dovrò informarmi su dove sia questo posto, decise, incamminandosi in direzione est.
Fine dell’episodio
Nel prossimo episodio di Trainville:
Trainville 8 – La Setta
Non appena lo sceriffo fu fuori dalla portata d’orecchio, il secondo viaggiatore si volse verso il Reverendo con aria perplessa. – Di che parlava? – domandò, nel suo buffo accento straniero. Il Reverendo gli sorrise benevolo. – Io e lei siamo uomini di scienza, professore, ma questa è gente semplice – spiegò divertito. – E si sa che i bambini hanno bisogno delle loro favolette, finché non saranno grandi abbastanza da farne a meno. Perfino la scienza, talvolta, richiede qualche piccolo compromesso. Sono certo che mi capisce, non è vero? Il professore aggrottò la fronte e distolse lo sguardo. Il Reverendo, dentro di sé, sorrise compiaciuto: il suo messaggio era arrivato a destinazione forte e chiaro. Il professore aveva troppi scheletri nell’armadio per permettersi di fare lo schizzinoso.
Danielle assentì a labbra strette; poi posò la mano sulla spalla di Joanna, che fissava Fiona con l’aria di voler cercare grane, e la spinse gentilmente a seguire Maggie verso le scale. Non vi erano ancora arrivate, che Fiona le richiamò. – Se non avete di che pagare, stanotte non dormirete qui – ricordò loro, strillando da una parte all’altra del locale. – Caso non ve ne foste accorte, questo non è l’Esercito della Salvezza.
Il chiarimento ebbe l’effetto di provocare uno scoppio di sghignazzate divertite dei clienti e qualche urlo di approvazione da parte delle ragazze che sedevano loro in grembo.
Ripensandoci in quel momento, a Joanna sembrò impossibile di essersi davvero sentita prigioniera a bordo del famigliare vagone 47 di Trainville. Ora sentiva la mancanza di tutto: della scomoda cuccetta nell’angolo della cucina, dei suoi adorati libri, di Miss Waters. E di Jim, naturalmente. Per quanto, negli ultimi giorni, avesse cercato di non pensare al possibile destino del suo tutore, la sua mancanza le provocò un tale vuoto allo stomaco da toglierle il respiro. Non puoi essere morto davvero, lo pregò in silenzio. Ti prego, ti prego, ti prego: non essere morto. Ho ancora bisogno di te. Ti prego. Si rannicchiò ancora più strettamente, sollevando le ginocchia al seno e abbracciandole strette con entrambe le braccia, poi vi nascose il viso e pianse.
Quando Jonas li raggiunse, vide che il cane aveva azzannato la ragazza al polpaccio, facendola cadere, e quella cretina scalciava per liberarsi, così che ora i due sembravano impegnati un uno stupido tiro alla fune. – Fermati, bestia – intimò all’animale, dandogli un calcio. – Se te la mangi non ci pagano. Sta’ buono! – Una seconda pedata convinse l’animale a mollare la presa e allontanarsi ringhiando, e il minatore si chinò per studiare lo scempio che aveva fatto. La stupida scoppiò in lacrime, tenendosi stretta con entrambe le mani la gamba che grondava sangue. – Sei ancora viva, di che ti lamenti? – le chiese, cercando di farla smettere. Tutti quegli strilli gli peggioravano il mal di testa. Rimase a guardarla per un po’, incerto sul da farsi.
– Quante balle per un morsetto – borbottò. – Fa’ vedere. Si chinò sulla gamba straziata e toccò esitante i lembi della ferita aperta, che sanguinava copiosamente. Imbarazzato, tirò su col naso e si pulì le dita sui pantaloni. – Ecco, guarda cos’hai fatto – la rimproverò, indicando la ferita. Poi si raddrizzò, incerto sulle gambe, e la guardò indeciso. – Sarà meglio che ti sistemo un po’ – concluse alla fine. – Non voglio mica che mi muori dissanguata prima della Cerimonia.
Delos Digital non usa DRM
Delos Digital ha scelto di non imporre ai propri ebook protezioni dalla copia che costituiscano una limitazione all'uso da parte dell'acquirente. Siamo convinti che i sistemi di protezione basati sulla criptazione danneggino solo chi acquista il libro onestamente. Il lettore che ha speso i propri soldi per acquistare questo ebook deve esserne il proprietario: questo libro non diventerà illeggibile cambiando computer, o spostando il file su un lettore di ebook o su uno smartphone. Per usarlo non è necessario un software che si colleghi a un server di autenticazione. Fermo restando che la legge e l'onestà dell'individuo vietano di ridistribuire il volume acquistato - e in definitiva il buon senso lo sconsiglia, perché autori ed editori hanno bisogno di guadagnare per portare avanti il proprio lavoro - il lettore può sentirsi libero di leggere il file con il dispositivo o computer che vuole e deve sapere di poterlo conservare e convertire in eventuali formati futuri per salvaguardare il suo acquisto. Quando possibile, Delos Digital utilizza il social DRM, ovvero scrive all'interno del libro il nome dell'acquirente; una sorta di "ex libris" elettronico. La criptazione del file viene usata solo nei casi in cui è obbligatoriamente richiesto dal contratto con l'autore. Nel caso di questo libro non è stato necessario. È comunque possibile che al libro venga applicata un'encriptazione drm dal negozio da cui lo si è acquistato. Delos Digital vuole combattere la pirateria nel modo che riteniamo migliore: rendere i nostri ebook acquistabili in modo facile e rapido, e metterli in vendita al prezzo migliore possibile.
in questa collana
Alain Voudì, Cedimento strutturale Braccata dai Federali, Joanna cerca di raggiungere la California. Ma il pericolo maggiore viene sempre da dove meno te lo aspetti ISBN: 9788867757121
Trainville Alain Voudì, Arrivo a Trainville Trainville era immensa: i grandi vagoni a due piani si allineavano a perdita d’occhio. Era una città, una città che correva sui binari. ISBN: 9788867753611 Alain Voudì, Alla scoperta di Mister Pennyworth Perché i federali stanno indagando sul magnate della Sabbia? Quali altri segreti nasconde, oltre a dare rifugio su Trainville a una clandestina? ISBN: 9788867753796 Alain Voudì, Trainville: Andata e ritorno Nubi di tempesta si addensano su Mister Pennyworth e sui suoi traffici clandestini, e la festa per il sedicesimo compleanno di Joanna diventa l’occasione per cercare di metterla al sicuro oltre confine. Ma lasciare gli Stati Uniti potrebbe non essere così facile... ISBN: 9788867754021 Alain Voudì, Fuga da Trainville parte I Quando le leggi di uno Stato si fanno ingiuste, l’unico posto ammissibile per un uomo giusto è nelle sue prigioni (Henry David Thoreau, 1849) ISBN: 9788867754267 Alain Voudì, Fuga da Trainville parte II Il drammatico finale della prima stagione di Trainville! ISBN: 9788867754250 Alain Voudì, Gioco d'azzardo Joanna è in fuga da Trainville. Ma un incontro inatteso cambierà la sua vita ISBN: 9788867756889
Gli ebook rapidi ed emozionanti
Ultimi volumi pubblicati
Erotismo
Sara Meis, Attimi infuocati - Senza sfumaturen. 39
Elena Arrosi, Crash - Senza sfumaturen. 40
Laura Gay, Adorabile bastardo - Senza sfumaturen. 41
Emiliana De Vico, Gommosa alla fragola - Senza sfumaturen. 42
Evelyn Storm, Incontriamoci allo Sweet Temptations - Senza sfumaturen. 43
Lily Carpenetti, Onda d'amore - Senza sfumaturen. 44
Enis Miller, La tentazione - Senza sfumaturen. 45
Viola Redoux, Fuori controllo - Senza sfumaturen. 46
Laura Gay, Una notte indimenticabile - Senza sfumaturen. 47
Silvya Gift, L'inquilino - Senza sfumaturen. 48
Macrina Mirti, Una donna responsabile - Senza sfumaturen. 49
Tiziana Cazziero, L'ultima notte - Senza sfumaturen. 50
Massimo Soumarè, Il circolo delle stagioni - Senza sfumaturen. 51
Silvia Forte, Claudia Graziani, Giochi e delizie - Senza sfumaturen. 52
Luisa Lajosa, La calda estate di Linda - Senza sfumaturen. 53
Fantascienza
Walter Jon Williams, Il giorno dell'incarnazione - Biblioteca di un sole
lontanon. 8
Robert Silverberg, Manoscritto trovato in una macchina del tempo abbandonata Biblioteca di un sole lontanon. 9
Kristine Kathryn Rusch, Stealth - Biblioteca di un sole lontanon. 10
Aliette de Bodard, Fratello della nave - Biblioteca di un sole lontanon. 11
Robert Silverberg, Tempo da leoni a Timbuctù - Biblioteca di un sole lontanon. 12
Robert Reed, La notte del tempo - Biblioteca di un sole lontanon. 13
Greta Cerretti, Hypnosis - Chew-9n. 27
Andrea Montalbò, I cancelli del delirio - Chew-9n. 28
Diego Matteucci, I Prediletti - Chew-9n. 29
Fabrizio Fondi, Save Them - Chew-9n. 30
Simonetta Brambilla, Spirali di ghiaccio - Chew-9n. 31
Andrea Montalbò, Mandato di cattura - Chew-9n. 32
Mauro Antonio Miglieruolo, Signora morte - Classici della Fantascienza Italianan. 29
Lino Aldani, Arie di Roma andalusa - Classici della Fantascienza Italianan. 30
Donato Altomare, Ti ringrazio, o Signore, per le ali che mi hai dato - Classici della Fantascienza Italianan. 31
Luigi Pachì, Enigma Owens - Classici della Fantascienza Italianan. 32
Mariangela Cerrino, Natale a Isola Nove - Classici della Fantascienza Italianan. 33
Mauro Antonio Miglieruolo, Dio è atterrato - Classici della Fantascienza Italianan. 34
Lino Aldani, Trentasette centigradi - Classici della Fantascienza Italianan. 35
Vittorio Catani, L'angelo senza sogni - Classici della Fantascienza Italianan. 36
Renato Pestriniero, La scopata - Classici della Fantascienza Italianan. 37
Giuliano Giachino, Playmaker - Classici della Fantascienza Italianan. 38
Donato Altomare, Terrore sotto la città - Classici della Fantascienza Italianan. 39
Lino Aldani, Ontalgie - Classici della Fantascienza Italianan. 40
Luigi Pachì, Freddy - Classici della Fantascienza Italianan. 41
Mauro Antonio Miglieruolo, Il giardino dei rovi - Classici della Fantascienza Italianan. 42
Renato Pestriniero, Si è verificato un errore - Classici della Fantascienza Italianan. 43
Donato Altomare, Allontata da me questo calice amaro - Classici della Fantascienza Italianan. 44
Fabio Belsanti, Etrom - L'Essenza Astrale - Il Richiamo - Etrom - L'essenza astralen. 1
Fabio Belsanti, Etrom - L'Essenza Astrale - L'Arena degli Inesistenti - Etrom L'essenza astralen. 2
Fabio Belsanti, Etrom - L'Essenza Astrale - La Prova - Etrom - L'essenza astralen. 3
Maico Morellini, La Speranza di Rea - I Necronautin. 9
Maico Morellini, Nessuno è degno - I Necronautin. 10
Emiliana De Vico, La donna degli armenti - Odissea Digitaln. 10
Luca Vido, Buen retiro - Odissea Digitaln. 11
Luca Di Gialleonardo, Direttiva Shäfer - Odissea Digitaln. 12
M. Caterina Mortillaro, Cicerone - Memorie di un gatto geneticamente potenziato - Odissea Digitaln. 13
Andrea Franco, Enrico Luceri, Fata morgana - Odissea Digitaln. 14
Luigi De Pascalis, Ludus Magnus - Odissea Digitaln. 15
, I colori dell'eros - Odissea Digitaln. 16
Nicola Verde, Sa morte secada - Odissea Digitaln. 17
Peter Watts, L'isola - Robotican. 24
Fredric Brown, Arena - Robotican. 25
Aliette de Bodard, Preghiere di fucine e fornaci - Robotican. 26
Tom Godwin, Le tortuose vie del dovere - Robotican. 27
Nancy Kress, La donna che osservava le rane - Robotican. 28
Vittorio Catani, Anima - Robotica.itn. 11
Claudio Chillemi, Né la prima né l'ultima volta - Robotica.itn. 12
Silvio Sosio, Ketama - Robotica.itn. 13
Mauro Antonio Miglieruolo, Concerto spirituale - Robotica.itn. 14
Roberto Guarnieri, Il camino degli dei - Robotica.itn. 15
Valentino Peyrano, Kumbhalgarh - Tecnomante 2n. 5
Valentino Peyrano, Verum Factum - Tecnomante 2n. 6
Fantasy
Carlo Vicenzi, I cento blasoni - Il romanzo - Fantasy Tales I Cento Blasonin. 5
Liudmila Gospodinoff, La città delle ombre - Il romanzo - Fantasy Tales La città delle ombren. 3
Paolo C. Leonelli, Aria - Urban Fantasy Heroesn. 9
Daniele Picciuti, Room 12 - Urban Fantasy Heroesn. 10
Giallo
Maurice Leblanc, La perla nera - Arsenio Lupinn. 8
Maurice Leblanc, Herlock Sholmes arriva troppo tardi - Arsenio Lupinn. 9
Enrico Solito, Sherlock Holmes e la banalità del male - Sherlockianan. 51
Luca Sartori, Sherlock Holmes e il labirinto della solitudine - Sherlockianan. 52
Luca Martinelli, Sherlock Holmes e il furto dell'astrolabio - Sherlockianan. 53
Cristina Pollastro, Sherlock Holmes e l'avventura del pescatore sull'Avon Sherlockianan. 54
Massimiliano De Luca, Sherlock Holmes e l'avventura dell'uomo che non era lui - Sherlockianan. 55
Antonella Mecenero, Sherlock Holmes e il caso del detective scomparso Sherlockianan. 56
Patrizia Trinchero, Fantasmi afgani - Sherlockianan. 57
Luca Martinelli, Sherlock Holmes e il mostro di Croydon - Sherlockianan. 58
Matthew J. Elliott, Sherlock Holmes e l'avventura dell'inquilino straordinario Sherlockianan. 59
Patrizia Trinchero, Senza traccia - Sherlockianan. 60
Arthur Conan Doyle, La maledizione dei Baskerville - Sherlockianan. 61
Samuele Nava, Uno studio inutile - Sherlockianan. 62
Sergio Cova, Sherlock Holmes e il fantasma di Mrs Julia - Sherlockianan. 63
Matthew J. Elliott, Sherlock Holmes e la paziente vendetta cinese Sherlockianan. 64
Antonella Mecenero, Avventura a Parigi - Sherlockianan. 65
Roberto Vianello, Sherlock Holmes e la Corsa per la Coppa d'Oro Sherlockianan. 66
Horror
Lu Kang, Non festeggiate Halloween - Halloween Nightsn. 14
Gerard Daniel Houarner, Oscure presenze - Halloween Nightsn. 15
Paul Melniczek, Divorato - Halloween Nightsn. 16
Carmine Cantile, L'alba di un nuovo giorno - Halloween Nightsn. 17
Romance
Naria Canarego, Scerì - Chic & Chickn. 1
Roberta Gregorio, Petali di orchidea - Chic & Chickn. 2
Nora Noir, Minorca mi amor - ioni Romantichen. 23
Marco Canella, Baciati dalla luna - ioni Romantichen. 24
Catherine BC, Samhain: la soglia - ioni Romantichen. 25
Daniela Jannuzzi, La maschera del ato - ioni Romantichen. 26
Alexandra Maio, Lascia che il vento ti pettini i capelli - ioni Romantichen. 27
Stefania Fiorin, L'appuntamento - ioni Romantichen. 28
Mary Jo Putney, Il demone danzante - ioni Romantichen. 29
Jo Beverley, La sposa perfetta - ioni Romantichen. 30
Ledra, Emiliana De Vico, Il bigamo - ioni Romantichen. 31
Scrittura creativa
Laila Cresta, Mondo Haiku - Scuola di scrittura Scrivere benen. 2
Laila Cresta, Scrivere poesia - Scuola di scrittura Scrivere benen. 3
Franco Forte, Il viaggio dello scrittore - Scuola di scrittura Scrivere narrativan. 6
Marco P. Massai, L'idea narrativa - Scuola di scrittura Scrivere narrativan. 7
Stefano Di Marino, Come scrivere spy story - Scuola di scrittura Scrivere narrativan. 8
Marco P. Massai, Infodump ed eccesso di informazioni - Scuola di scrittura Scrivere narrativan. 9
Spionaggio
Andrea Valeri, I cancelli di Ares - Dream Forcen. 42
Stefano Di Marino, Bambole invisibili - Dream Forcen. 43
Marco Donna, Lady pirata - Dream Forcen. 44
Andrea Valeri, Caccia alla vipera bianca - Dream Forcen. 45
Alessio Gallerani, Diamanti e acciaio - Dream Forcen. 46
Stefano Di Marino, Trappole orientali - Dream Forcen. 47
Stefano Di Marino, Triangolo d'oro - Dream Forcen. 48
Marco Donna, Barracuda mon amour - Dream Forcen. 49
Marco Donna, L'ultima Milonga - Dream Forcen. 50
Sadie Löve, Debiti da pagare - Dream Forcen. 51
Andrea Valeri, Vendetta rovente - Dream Forcen. 52
Stefano Di Marino, Tentazioni boeme - Dream Forcen. 53
Steampunk
Roberto Guarnieri, Sherlock Holmes e il Circolo dell'Arca - Il circolo dell'Arca IIn. 1
Roberto Guarnieri, Nikola Tesla e il Circolo dell'Arca - Il circolo dell'Arca IIn. 2
Roberto Guarnieri, Arsenio Lupin e il Circolo dell'Arca - Il circolo dell'Arca IIn. 3
Roberto Guarnieri, Il capitano Nemo e il Circolo dell'Arca - Il circolo dell'Arca IIn. 4
Roberto Guarnieri, La macchina del tempo e il Circolo dell'Arca - Il circolo dell'Arca IIn. 5
Alain Voudì, Gioco d'azzardo - Trainvillen. 6
Alain Voudì, Cedimento strutturale - Trainvillen. 7
Storico
Oriana Ramunno, L'ira dell'angelo - History Crimen. 18
Luigi De Pascalis, La cena di Dumas - History Crimen. 19
Salvo Figura, La pulce e il cappio - History Crimen. 20
Luca Di Gialleonardo, Trenta baiocchi - History Crimen. 21
sco Grimandi, La reliquia - History Crimen. 22
Sandra Ludovici, Caligine primeva - History Crimen. 23
Marzia Musneci, Idi di febbraio - History Crimen. 24
Federico Torresan, La locanda dei fiorai - History Crimen. 25
Tecnologia
Carlo Mazzucchelli, Nei labirinti della tecnologia - TechnoVisionsn. 9
Antonio Fiorella, JxJ: mine vaganti - TechnoVisionsn. 10
Carlo Mazzucchelli, 80 identikit digitali - TechnoVisionsn. 11
Carlo Mazzucchelli, App Marketing: lo sviluppo non è che l'inizio TechnoVisionsn. 12
Thriller
Maria Cristina Grella, Straniera - Delos Crimen. 15
Antonino Fazio, Il volto nudo - Delos Crimen. 16
Federica Leonardi, Re di cuori - Delos Crimen. 17
Marco Minicangeli, I killer di Jahve - Delos Crimen. 18
Ilaria Tuti, Lena delle farfalle - Delos Crimen. 19
Luca Di Gialleonardo, Mario non sbaglia - Delos Crimen. 20
Alain Voudì, Eva Weiss, Una questione di età - Delos Crimen. 21
Zombie
Antonino Fazio, Il richiamo del sangue - The Tube 2n. 5
Camilo Cienfuegos, La congiura dei ripulitori - The Tube Exposedn. 18
Andrea Montalbò, La torre - The Tube Exposedn. 19
Alan D. Altieri, Dark Zero - Parte prima - The Tube Nomadsn. 9
Alan D. Altieri, Dark Zero - Parte seconda - The Tube Nomadsn. 10