Ghiaccio e Fuoco Christopher Bunn
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Traduzione di Vittorio Villeri
“Ghiaccio e Fuoco” Autore Christopher Bunn Copyright © 2014 Christopher Bunn Tutti i diritti riservati Distribuito da Babelcube, Inc. www.babelcube.com Traduzione di Vittorio Villeri “Babelcube Books” e “Babelcube” sono marchi registrati Babelcube Inc.
Sommario
Titolo Pagina Copyright Pagina Ghiaccio e Fuoco | Una storia di Rubini, Ombre e Amore | Di Christopher Bunn | Per tutti coloro che non sono mai stati nel regno di Lune. Nota dell'Autore
Ghiaccio e Fuoco
Una storia di Rubini, Ombre e Amore
Di Christopher Bunn
Per tutti coloro che non sono mai stati nel regno di Lune.
C'era una volta una bambina. Si chiamava Matilda ed era una principessa. Matilda era l'unica figlia del Re e della Regina di Lune. Se avete prestato attenzione durante le lezioni di geografia, saprete che Lune era un piccolo regno che si trovava diversi giorni più a ovest del posto più a ovest che riuscite a individuare sulla vostra mappa. Saprete anche che la principale fonte di reddito del paese erano i rubini che vi si estraevano. Questi erano di una deliziosa sfumatura di rosso e fruttavano molto bene. Dalla miniera si ricavavano anche smeraldi e ametiste, che però erano di scarso valore in confronto ai rubini e venivano quindi usati come fermaporte, fermacarte o giocattoli per bambini. Matilda ne aveva tanti di siffatti giocattoli, ma li trascurava in favore di altre occupazioni. Amava infatti ciangottare e fissare fasci di luce vaganti. Adorava spargere la farina d'avena a terra dal suo seggiolone. Gioiva nel rosicchiare i mobili o i migliori pizzi della Regina o le orecchie dei pazienti bracchi del Re. Tuttavia, come i bambini tendono a fare, col tempo, Matilda diventò una ragazzina. Divenne buona amica dei bracchi, dopo che l'ebbero perdonata, e migliore amica di Peter, l'unico figlio di Jim Snow, il capo minatore del Re. “Vorrei tanto che giocasse con altri bambini,” disse la Regina. “Bambini più adatti. Bambini che si lavano regolarmente dietro le orecchie.” “Sei davvero sofisticata, mia cara,” disse il Re. “E se creassimo Jim Snow conte?” “Se ciò ti compiace,” disse il Re. La regina conferì a Jim Snow il titolo di conte. Gli consegnò una fusciacca di seta color porpora da indossare ai banchetti al castello. L'uomo si trascinò a casa per il suo pranzo a base di patate lesse. Trascurò di riferire alla moglie della loro recente elevazione sociale, infilò la fusciacca di seta nel cassetto dei calzini e se ne dimenticò immediatamente. Sua moglie la trovò diverse settimane dopo e temo l'abbia usata per lucidare le porcellane. A Matilda non interessavano certe cose. Le interessava di più acchiappare rane nel fossato del castello insieme a Peter. Le rane erano di un verde e nessuna di loro voleva farsi prendere. Era un'attività magnifica per tutti coloro
che vi prendevano parte, quella di acchiappare rane. I bracchi del castello avanzavano lungo il ciglio del fossato e di tanto in tanto saltavano in acqua. Cercavano di inghiottire le rane con le loro bocche bavose, ma riuscivano soltanto a ingoiare acqua. A loro le rane sembravano buone da mangiare. Cosa pensassero le rane, invece, è meglio non riferirlo. Cacciare rane è un'attività impegnativa e faceva venire fame ai bambini. Dopo un pomeriggio nel fossato si ritrovavano sempre nelle cucine del castello. La cuoca dava loro pane e formaggio, e un nodo di salsiccia, se era di buon umore. Era più vecchia di chiunque altro nel regno e, pertanto, era più saggia di tutti. I bambini, tuttavia, erano interessati più al pane e al formaggio che alla saggezza. Come fanno le ragazzine talvolta, Matilda crebbe in altezza ed età. All'approssimarsi del suo diciassettesimo compleanno, era quasi una signorina. Quasi, dico io, perché Matilda aveva proprio un caratteraccio. Le signorine, ovviamente, non lo hanno. Sono amabili, suonano bene il pianoforte e ricamano in maniera ammirevole. Matilda aveva ereditato il suo caratteraccio dal bisnonno, il quale aveva il vizio di invadere le nazioni limitrofe. C'era da aspettarselo, dunque, che Matilda litigasse spesso con Peter. O perlomeno, era lei a litigare. Peter era, come sapete, figlio di un minatore, e i minatori hanno sempre una buona quantità di pietra in loro. Il che comporta siano delle persone forti e pacifiche. Ovviamente, significava anche che Matilda lo trovasse esasperante quando era in vena di una buona, violenta e lunga zuffa. In un freddo giovedì di dicembre erano impegnati in un litigio del genere. O perlomeno, lo era Matilda. Peter cercava semplicemente di essere ragionevole. “Bene, se tu non vuoi portarmi giù alla miniera,” disse Matilda, “Ci andrò da sola!” “Non credo sarebbe saggio,” disse Peter. “E perché?” Si trovavano all'atrio del castello. Matilda sollevò uno stivale da accanto l'attaccapanni e lo soppesò pensierosa in mano. “Perché,” disse Peter. “La miniera è buia e pericolosa e non è un posto adatto a
una ragazza.” “Ah non lo è, vero?” “No.” “Buio e pericoloso?” “Soprattutto per le ragazze.” “E io sono una ragazza?” “Sì.” Matilda gli lanciò contro lo stivale. Peter lo schivò e lo stivale andò a colpire il ciambellano che ava di là. “A proposito,” continuò Peter. “ Anche io devo andarci. Abbiamo aperto una nuova vena nella galleria inferiore e a Papà serve una mano.” Matilda afferrò un altro stivale, ma Peter era già al sicuro fuori dalla porta. In tutti i loro anni di scavi, i minatori non si erano mai spinti così in profondità nella montagna. C'era un caldo soffocante giù nelle gallerie. La luce delle torce sembrava smorzata e attenuata, oppressa, forse, dall'orribile massa della montagna che incombeva su di loro nell'oscurità. I picconi mordevano la roccia con un suono brillante, argentino. L'aria odorava di ferro e fuoco. “Guarda qui, figliolo,” esordì Jim Snow. Nelle mani del vecchio minatore c'era una pietra dalla forma irregolare che brillava di un rosso intenso e ardente. “Mai visto un rubino come questo prima d'ora, eh? Sembra quasi ci sia del fuoco intrappolato al suo interno. É caldo, anche. L'ho trovato giù nella nuova vena. Tieni, faresti bene ad andare a mostrarlo al Re.” Peter discese la montagna. I bracchi del castello gli corsero incontro al galoppo non appena si avvicinò al ponte levatoio, guaendo e ululando. Sbavarono su Peter e ignorarono il rubino nella sua tasca. Non potevano mangiarlo, quindi non aveva importanza. Riuscivano a sentirgli addosso l'odore della salsiccia e del cavolo che aveva mangiato a pranzo e furono profondamente delusi non avesse avuto l'accortezza di infilarsi qualcosa in tasca.
Peter sporse con cautela la testa oltre l'entrata anteriore e non scorse nessuno. Sentì, tuttavia, del trambusto provenire dal retro del castello; avanzò, allora, attraverso il giardino delle rose, il giardino d'acqua e il giardino delle erbe, sino a quando non giunse nel frutteto. Lì trovò il re intento a raccogliere mele. O per meglio dire, una dozzina di giardinieri raccoglievano le mele e il Re supervisionava dabbasso. “Tu, laggiù!” gridò il Re. “Prendi quella sopra la tua – no, non quella! Quell'altra! Bene, sali più in alto. Più in alto, ho detto! Non mi importa se il ramo si sta spezzando. Portatemi quella mela! Ah, Peter. La cuoca ha promesso torta di mele per cena. La mia preferita.” “Sire, se voleste dare uno sguardo a questa.” Peter estrasse la pietra dalla tasca. Il Re la osservò. Poi batté le palpebre. Quindi la fissò. Rigirò più volte il rubino tra le mani. “Ce ne sono altri di questi?” chiese il Re. “Sì,” rispose Peter. La vena si rivelò essere piena zeppa dei nuovi rubini. Più i minatori scavavano in profondità, più i rubini diventavano grandi. Ogni giorno, Jim Snow inviava un mulo dalla montagna al castello, il dorso stracarico di gerle ricolme sino all'orlo. Il Re era affascinato dai nuovi rubini e adibì la torre nord del castello a tesoreria per le nuove gemme. Il falegname del castello costruì mensole e armadietti e vetrinette in legno di noce. “Non vorrai mica venderli?” chiese la Regina, guardando di traverso uno dei rubini. Sembrava che una fiamma ardesse dentro la pietra. Il che, per qualche motivo, la mise a disagio. “Ma certo che no!” ribatté seccato il Re. “Sembra ci siano delle fiammelle racchiuse al loro interno,” osservò la regina. “Spero proprio tu non dia fuoco al castello. Tuttavia, non mi dispiacerebbe riarredare.” “Lo hai fatto la primavera scorsa, mia cara.”
“Davvero? Beh, è stato molto tempo fa. Se hai intenzione di dar fuoco al castello, per piacere mettilo in programma per un giorno di sole. Per prima cosa vorrei far portar fuori tutta la biancheria dalle domestiche. Per di più, potrebbero sfruttare una buona asciugatura. E anche gli arazzi. Sai quanto sia difficile lavar via il puzzo di fumo dai tessuti.” “Nessuno darà fuoco al castello!” “Ma sembra proprio siano in fiamme,” borbottò la Regina. Quel pomeriggio, giù alla miniera, nella galleria più profonda, Jim Snow guardava fisso quanto gli si parava dinnanzi. “Guardate qui, signore,” disse uno dei minatori. “Dopo pranzo abbiamo aperto un varco nella parete. Dà su questa grotta naturale. Solo che, non è troppo naturale, se capite cosa intendo.” Attraverso il varco nella parete della galleria, baluginava della luce. Jim riusciva a scorgere uno spazio immenso. Una grotta enorme rischiarata da un bagliore scarlatto. Centinaia di migliaia di rubini erano conficcati nelle pareti della grotta. Scintillavano come fiamme di candela. Tuttavia, solo una minima parte della luce proveniva da loro. La vera fonte della luce si trovava al centro della grotta. Jim sgranò gli occhi. La fissò per un istante ancora, riflettendo, quindi si voltò e se ne andò. Il Re era intento ad ammirare i suoi rubini nella torre nord quando Jim Snow salì le scale. “Bellissimi, non è vero?” disse il Re. “Splendidi oggetti. Vorrei quasi poterli mangiare. Spremerli per il mio succo mattutino, magari. “I rubini non si mangiano,” disse Jim, che non possedeva molta immaginazione. “Difficili da digerire, immagino. Preferisco cavoli e patate.” “Sì, sì,” disse il Re. “Patate. E ora cosa volete, Snow? Un ducato? Vostro figlio investito cavaliere? E sia. Qualsiasi cosa vogliate. Non mi avete, ehm, portato altri rubini, vero?” “No, sire. Non ho potuto portarvi quello che ho appena visto. È insolito. Sì, immagino sia il termine appropriato. Dovrete venire alla miniera.”
Il Re andò. Non era mai stato alla miniera prima di allora. Aveva sempre voluto, certo, ma saltava sempre fuori qualcosa. Un sandwich al prosciutto. Un'inaspettata e sgradita visita della zia Gertrude. Scoiattoli che saccheggiavano i giardini reali. “Perbacco, fa proprio caldo qui dentro,” osservò il Re. “Aspettate di arrivare ai livelli inferiori,” disse Jim Snow. “Questo è niente.” Occorsero loro due ore per raggiungere la galleria più profonda della miniera. Per allora, il Re stava sudando copiosamente, ma continuava risoluto ad arrancare. “Quanto... quanto manca ancora?” ansimò il Re. Jim Snow non disse nulla. Si limitò a indicare di fronte a loro. Una luce fioriva nell'oscurità. L'aria sfrigolava per il calore. Un grande globo di fuoco scarlatto ardeva in quella notte interminabile sotto la montagna. Il Re avanzò incespicando verso la grotta. “Quello è... quello è...?” Fu incapace di terminare la frase. “Sì,” disse Jim Snow. “Quello è un rubino. Uno grosso. Il più grosso che abbia mai visto.” Il Re lo contemplò tra gioia e stupore. Strisciò in avanti e toccò la pietra. Ritrasse subito la mano. Il rubino era caldo come un fornello. “Lo voglio, Snow!” esclamò. “ Devo averlo!” “Non sarà così facile,” disse Jim Snow cupamente. “Vedete come si sviluppa dalla colonna di roccia? Mi sembra proprio che sia il rubino a sorreggere il soffitto; inoltre si trova proprio al centro della grotta. Potrebbe sostenere l'intera montagna, per quanto ne so. Forse faremmo meglio a lasciarlo dov'è. Dovremmo puntellare l'intera grotta con travi e pietre prima che io abbia la fortuna di toccare quella cosa. Ci vorranno settimane, nel migliore dei casi. “Non mi importa,” disse il Re. “Lo voglio.” “Ma non è tuo.”
La voce giunse da qualche parte dalle profondità delle tenebre. Era una sorta di sussurro, di fruscio. Sembrava il rumore delle fiamme che divorano il legno. “Chi c'è là?” chiese il Re, facendo un o indietro. “Chi sei? Mostrati!” “Siamo qui. Siamo qui. Siamo i guardiani della montagna. Noi facciamo crescere i rubini. Sono nostri. Nostri!” “Fate crescere i rubini? Sciocchezze!” ribatté bruscamente il Re. “I rubini sono miei. Mi appartengono. Questa montagna è mia.” Le ombre frusciarono. “Sciocco. Tuo è l'esterno. La sottile pelle delle cose. Ti lasciamo prendere i rubini freddi, poiché sono morti. Non valgono nulla. Ma ora i tuoi servi estraggono quelli caldi. Quelli deliziosi e croccanti. Settantatré, per la precisione.” “Ha ragione,” mormorò Jim Snow. “Settantatré rubini, da questo mattino.” “E adesso osi rubare il vero cuore della nostra montagna?” La voce si fece più agitata. “Non accadrà mai!” “Ma devo averlo!” berciò il Re. “Devo. Vi darò qualsiasi cosa!” “Qualsiasi cosa?” chiese la voce, meravigliata. Le ombre frusciarono di nuovo, come se si consultassero. Sussurrarono e borbottarono e poi ridacchiarono. O forse era solo il suono delle rocce che cozzavano l'una contro l'altra. “Molto bene, re. Potrai prendere il cuore della montagna. In cambio, il prossimo umano che entrerà in questa grotta diverrà nostro servo per l'eternità o per un giorno. Qualunque sia il più lungo.” “Mi sembra giusto,” disse il re. “D'accordo! Ehm, Snow, vi dispiacerebbe far entrare uno dei vostri minatori? Non vostro figlio, ovviamente; là c'è un brav'uomo.” “Cosa?” proruppe Jim Snow, inorridito. “Salve, Padre!” chiamò una voce alle loro spalle. Entrambi gli uomini si voltarono. Il Re si fece pallido in volto. Matilda stava in piedi all'ingresso della grotta, una torcia in mano.
Sorrise a entrambi. “Non guardatemi così sconvolti. Siete proprio due sciocchi. Ho sempre desiderato visitare la miniera. Certo che è profonda! L'aria è così calda che riesco a malapena a respirare. Non so quanto mi ci è voluto per arrivare fin quaggiù.” “E quaggiù rimarrai,” sibilò la voce nelle tenebre. L'oscurità crebbe. Le luci fiammeggianti dei rubini nella grotta si affievolirono. Le ombre inghiottirono la Principessa. Il Re e Jim Snow intravidero i suoi occhi terrorizzati, e poi scomparve. “Mi sembra giusto,” sussurrò la voce nelle tenebre. “Mi sembra giusto, specialmente per noi. Un cuore per un cuore. Un ottimo scambio.” “Fermi!” urlò il Re. “Non potete farlo! Siete dei mostri! Morirà, quaggiù!” “Non preoccuparti,” disse la voce. “Siamo mostri, è vero, ma persino i mostri sanno essere piuttosto comprensivi. Le insegneremo a respirare fuoco.” E con ciò, la voce scomparve; il Re s'incollerì e batté i pugni contro le pareti della grotta fino farsi sanguinare le mani, ma non servì a nulla. Con l'ultimo colpo, l'enorme rubino si staccò e cadde ai suoi piedi. Il Re lo fissò. “Sono stato imbrogliato,” gemette. “Raggirato. Rovinato.” “Venite,” disse Jim Snow. “La troveremo.” Avvolse il rubino nella sua giacca, dato che era ancora terribilmente caldo per toccarlo. ò il braccio attorno alle spalle del Re e lo aiutò a uscire dalla grotta. Nessuno, tuttavia, fu in grado di trovare la Principessa. Tutti i minatori del regno la cercarono nella miniera durante i sette giorni successivi. Strisciarono lungo tunnel e gallerie. Si calarono in antiche cavità esaurite che si snodavano nell'oscurità. Martellarono pareti e rivoltarono rocce. Ma non c'era nessuna Principessa. C'erano solo l'oscurità e il calore tremendo e l'eco beffardo dei loro i. Peter Snow la cercò assieme agli altri. Non lasciò la miniera durante nessuno dei sette giorni, ma portò seco un sacco con pane e acqua, così come una coperta in
cui avvolgersi per riposare. A dire la verità, era più che affezionato alla sua vecchia compagna di giochi, sebbene lei fosse una Principessa e lui solo il figlio di un minatore. La Regina non prese bene la notizia. I capelli le divennero bianchi e si ritirò nelle sue stanze. Il re ava le giornate a camminare avanti e indietro. A volte si inerpicava su per la montagna per consultarsi con Jim Snow. Altre stava alla finestra della torre nord, a fissare la vetta innevata della montagna. Sul finire del settimo giorno, Jim Snow trovò suo figlio che perlustrava un tunnel abbandonato nelle gallerie a est, la torcia in mano. “È scomparsa, Papà,” disse Peter tristemente. “Credo non sia in nessun posto.” “Ci sono più posti che nessun posto,” disse suo padre. “Ma non oggi. Va' a dire al Re che per il momento sospendo le ricerche. Gli uomini sono stanchi morti e hanno bisogno di riposare.” Peter arrancò giù per la montagna. Un fitto strato di neve copriva il suolo e appesantiva i rami dei pini. Rabbrividì nel mantello di lana. Dopo sette giorni trascorsi al calore della miniera, la temperatura glaciale all'esterno era praticamente insopportabile. Giù a valle, il castello si ergeva avvolto nella neve e il fossato era ghiacciato. Un fuoco fumava nel focolare dell'atrio del castello. Peter cercò di riscaldarsi le mani mentre aspettava il Re, ma le fiamme erano di ben poco aiuto. “Ah, Peter.” Il Re si trascinò avanti. Sembrava vecchio in modo allarmante. “L'avete...? Cioè... piuttosto, ci sono notizie? Notizie di Matilda?” “Temo di no, sire,” disse Peter. “Mio padre sospenderà le ricerche, per il momento. Gli uomini sono molto stanchi. Sette giorni, sire, come sapete.” “Sì, sì, lo so,” disse il Re. Provò a sorridere, ma non ci riuscì. “Ti ringrazio,” disse sommessamente, quindi si allontanò per la sala. Peter si diresse alle cucine del castello e sporse la testa attraverso la porta. “Entra pure,” disse la cuoca. “Nessuno si è mai riempito lo stomaco rimanendo sulla soglia a fissare i tavoli. Ecco, prendi un po' di zuppa calda. Crema pepata di
barbabietola. Potrebbe scaldarti.” Quasi ci riuscì. Peter vuotò due scodelle, seduto al tavolo della cucina. Cercò di non starnutire. “Prendere una principessa non è proprio come prendere una rana,” sentenziò la cuoca. “Soprattutto questa.” “Che vuoi dire?” chiese Peter. La cuoca gli riempì una terza scodella. “Con le rane è semplice. Dai loro ciò che vogliono. Deliziosi insetti. Ora, cosa puoi dare a quelle creature sotto la montagna? Cosa vogliono?” “Di sicuro volevano una principessa,” disse Peter mestamente. “E l'hanno avuta. Non riesco a immaginare come possano volere qualcosa di più.” “Loro non sono te, tuttavia suppongo ci sia tanta pietra nella loro zucca quanto nella tua. Pensa!” Lo colpì leggermente sulla testa col suo mestolo. “Vivono nelle profondità di una montagna, una montagna che si protende costantemente verso il cielo. Ma il cielo appartiene loro? No.” “Allora è questo che vogliono?” chiese Peter. “Il cielo?” “Forse sì. Forse no. In realtà non lo so.” “Chi potrebbe saperlo allora?” “Il vento,” disse la cuoca. “Dovrai chiedere al vento.” E allora Peter andò a chiederlo al vento. Si abbottonò la giacca, si calò il cappuccio sulle orecchie e avvolse la sciarpa ben stretta al collo. La cuoca gli diede due patate al forno calde e fumanti, una per tasca, per tenere calde le mani. Salì a fatica gli scalini della torre nord. Il Re stava gironzolando per la sua stanza dei rubini, sospiroso e tetro, le gemme che brillavano nelle tenebre. Peter ò in punta di piedi e il Re non lo notò. Delle scale portavano dalla stanza alla cima della torre. Peter salì, aprì la botola e si ritrovò sul tetto. Faceva terribilmente freddo lassù. Il mondo si stendeva bianco intorno a lui. Il vento gli ava accanto sibilando, scaraventandogli la neve sul viso e spazzando lo spoglio tetto.
“Ehilà?” disse, voltandosi come se in qualche modo potesse vedere il vento. “Mi scusi. Mi domandavo se...” Il vento sogghignò e si affrettò. Peter sprofondò nel silenzio e cercò di ascoltare. Riusciva a sentire il vento sibilare attraverso la merlatura sottostante. Riusciva a sentirlo scuotere i rami ghiacciati dei meli giù nel giardino. Riusciva a sentirlo fare sbatacchiare le finestre della torre. Non v'erano parole nella voce del vento, solo un impetuoso, limpido mormorio. Ma Peter era paziente, se non altro. Dopotutto era figlio di un minatore e c'era della buona pietra in lui. Sopportò e attese. Il freddo gli scivolò dentro. Non riusciva più a sentire il naso o i piedi o le orecchie. Le patate nelle sue tasche divennero di ghiaccio. Le sue mani si congelarono. Ghiaccioli gli scendevano dal naso. Non era sicuro se fosse trascorsa soltanto un'ora o se si trovasse lì da giorni. I suoi occhi erano chiusi a causa del gelo. Il freddo si era addentrato in lui sino a non fargli sentire nient'altro. Il suo cuore si congelò proprio nel bel mezzo di un battito. Riusciva a sentire il vento soffiargli attraverso come se fosse divenuto semplicemente parte del cielo. Il vento rise. “Molto bene,” disse. “Molto bene. Non è necessario essere così cocciuti.” E il vento gli disse cosa doveva fare. Peter sollevò la botola e ridiscese le scale. Tutt'intorno, il castello era silenzioso. Che fosse notte? Che fossero le sue orecchie congelate a non funzionare più? Del ghiaccio si formava sul pavimento laddove poggiava i piedi. Al suo approssimarsi, i bracchi, che sonnecchiavano davanti al focolare nell'atrio del castello, uggiolarono e si ritrassero. Il fuoco si tramutò in fredde ceneri al suo aggio. Uscì. Era notte e la luna lo fissava col suo unico occhio argenteo. Dei ghiaccioli pendevano dal cancello del castello. Erano enormi, grandi all'incirca quanto il tronco di un albero. Il vento vi fischiava attraverso e uno dei ghiaccioli rovinò ai piedi di Peter. S'infranse al suolo e un enorme, brillante gemma di ghiaccio giaceva tra i frammenti. Peter la raccolse e la infilò nella giacca. S'inerpicò su per la montagna attraverso la neve, al chiaro di luna. Il vento gli danzava attorno, mulinando in aria fiocchi di neve. L'ingresso della miniera si apriva sul fianco della montagna. Peter si fermò, ma il vento lo spronò.
Le pareti della miniera emanavano calore tutt'intorno a lui. Una fiamma guizzò ai margini del suo campo visivo. Discese sempre più in profondità nella miniera. L'aria era quasi irrespirabile. Ma dove Peter camminava, ghiaccio cresceva sui suoi i e aderiva alle pareti quando vi si puntellava per non perdere l'equilibrio. Dopo un po', raggiunse il fondo della miniera e l'enorme grotta che vi era situata. Fiamme lambivano le pareti. I rubini brillavano nelle tenebre, colmi di fuoco e immersi nel silenzio. “Vi ho portato il cielo,” disse Peter ad alta voce. Non ci fu alcuna risposta, ma l'oscurità attorno a lui sembrò diventare ancora più silenziosa. Qualcosa stava ascoltando, lo sapeva. “Il cielo,” ripeté. Le ombre frusciarono. “Il cielo?” sussurrò una voce. Le ombre strisciarono più vicino. Non ne era certo, ma credeva di scorgere delle forme nelle tenebre, molte. Occhi che lo fissavano. “Cos'è il cielo per noi?” C'era brama nella voce. “Noi siamo qui, esso è lì e tutto ciò che noi non siamo giace nel mezzo.” “Giusto,” ammise Peter, ghiaccio che si crepava nella sua gola, “ma ve ne ho portato un pezzo. Una gemma del cielo, più pura di un diamante, pura come il vento.” “Mostracela. Vogliamo vederla! Mostracela adesso.” Peter estrasse la gemma dalla giacca. Alla luce delle fiamme, brillava d'un chiarore pulsante che mandava stelle che scintillavano nell'oscurità. Nonostante il calore di quel luogo, il ghiaccio non si sciolse. Non cadde nemmeno una singola goccia d'acqua, tale era il terribile freddo del corpo di Peter. “Ahh,” mormorò la voce. “La vogliamo. La vogliamo per sempre. Daccela.” Delle mani si allungarono dalle ombre. “Non ancora,” disse Peter. “Bisogna essere giusti. Come posso cedervi un simile gioiello senza qualcosa di eguale in cambio?” Le ombre tremolarono, agitate. “Rubini. Il tuo peso in rubini.” “No. Sono stanco dei rubini.”
“La memoria del fuoco, forse? Terrà caldi i tuoi sogni. I draghi eseguiranno i tuoi ordini. No? Preferiresti la forza del ferro? Le tue ossa non si romperanno mai e il tuo cuore mai si fermerà. Vivrai per sempre. Chi non lo vorrebbe?” “No. Il ferro si arrugginisce alla pioggia.” “Giusto, giusto. Può darsi,” disse la voce. Le ombre strisciarono più vicino. “Che ne dici dei segreti di mille anni, strappati dalla polvere delle ossa di uomini morti, granello dopo granello? Potresti dominare il mondo con tali segreti, o dopo o, miglio dopo miglio, anima dopo anima. No? No, certo che no.” La voce esitò, vacillò, quindi si fece più forte. “Abbiamo una ragazza. Niente di meno che una principessa. L'abbiamo riempita col fuoco e le abbiamo dato una fiamma per cuore.” “Non mi interessano granché le principesse,” disse Peter distrattamente. “Ma una ragazza, beh, potrebbe essere qualcosa.” “Oh, è la migliore delle ragazze,” disse la voce, avida. “Il suo tocco può sciogliere la pietra. I suoi occhi sono pieni di fiamme. Le sue labbra possono...” “Senza dubbio,” intervenne Peter. Rigirò più volte la gemma di ghiaccio tra le mani. Luce danzava nell'oscurità a ogni suo movimento. Le ombre tremolarono. “Te la porteremo,” disse la voce. Pietra grattò pietra e Peter intravide un immenso, orribile spazio profilarsi in lontananza, sempre più in profondità e giù nel nulla. Le vere radici della montagna, perse nell'oscurità. Una fiamma vi si mosse, avvicinandosi. Una ragazza. Matilda. Si ergeva tra le ombre. Fuoco ardeva luminoso nei suoi occhi e scivolava lungo la sua figura. Aprì la bocca per parlare. Peter riuscì a scorgere il suo nome sulla lingua di lei. “Immagino andrà bene,” disse, e lei chiuse la bocca. “Dacci il cielo,” disse la voce. “Dacci il gioiello. Ora!” Le ombre strapparono l'enorme gemma di ghiaccio dalla presa di Peter. Prese Matilda per mano. Fiamme gli lambirono il braccio. Per un istante, credette di sentire del calore alle dita, ma poi scomparve. La mortale freddezza del suo corpo era intatta.
“Vieni,” disse, la voce bassa e pressante. “Prima che si sciolga.” Fuggirono, su e su attraverso l'oscurità. Su attraverso i lunghi, solitari tunnel di pietra. I loro i riecheggiavano per le gallerie di roccia e si perdevano nei condotti che si addentravano sino alle radici della montagna. Ghiaccio e fuoco schioccavano e brillavano debolmente alle loro spalle. Giunsero all'ingresso della miniera. Entrarono dei fiocchi di neve, sospinti da un improvviso alito di vento. Non c'era il sole del mattino, solo un accecante cielo candido per la neve che cadeva. Le dita di lei strinsero quelle di lui. La neve sfrigolava ed evaporava sotto i suoi piedi. Quella che le cadeva intorno si trasformava in pioggia. Dietro di loro, d'un tratto la montagna tremò, furiosa. Neve e pietra precipitarono dai versanti scoscesi. L'ingresso della miniera crollò in una valanga di roccia. Nel vento, udirono i gemiti e gli ululati dell'indistinta, remota furia delle ombre. Poi vi fu solo silenzio. Peter e Matilda arrivarono al castello. Al aggio di Matilda, il ghiaccio nel fossato si crepava e si scioglieva, per poi congelarsi di nuovo non appena ava Peter, che le era alle calcagna. La porta prese fuoco sotto la sua mano. Nell'atrio, un paggio sedeva di fronte al focolare a lucidare degli stivali. Li fissò a bocca aperta. Non appena Matilda si avvicinò, il fuoco divenne d'improvviso più caldo. “Trova mio padre, il Re,” ingiunse Matilda. Il paggio si alzò goffamente e svanì. Giunsero il Re e la Regina, agitati, con un sorriso che andava da orecchio a orecchio. Il Re fece per sollevare Matilda tra le braccia, poi balzò indietro, scintille che gli covavano nella barba. “Ma che succede?” urlò. “Acqua! Secchi! Svelti! Il castello è in fiamme!” “Non proprio,” disse Matilda. “Temo che qualsiasi cosa io tocchi diventi piuttosto calda. Immagino potrei diventare una cuoca e semplicemente infilare la mano nella zuppa per bollirla. Spero veramente ne sia valsa la pena per quel rubino, Padre.” “Sciocchezze,” disse il Re. “Oh, mia cara,” disse la Regina, che sembrava sul punto di svenire.
“Sono lieto tu sia tornata, Matilda,” disse il Re.” Stavo per richiamare l'esercito, prendere la miniera con la forza e, ehm, beh, fare qualcosa. A ogni modo, tutto è bene ciò che finisce bene.” Ma non finì bene, perlomeno non nel castello. Matilda cercò Peter, ma il ragazzo era sgusciato fuori dalla porta ed era sparito. Andò a letto, poiché trovò di avere ben poco da dire ai suoi genitori. Inoltre, di tanto in tanto, quando parlava, delle fiamme le scaturivano dalla bocca. Il che sembrava mettere a disagio i suoi genitori. Matilda non riuscì a chiudere occhio. Né ci riuscì nessuno dei suoi servitori. Il suo letto continuava a prendere fuoco, così come il comò e gli altri mobili nella stanza. I servi stazionavano fuori dalla porta con secchi pieni d'acqua. Ogni qualvolta il fumo filtrava nel corridoio, il ciambellano bussava e annunciava una catena umana di servitori che si avano i secchi. Ovviamente, distoglievano tutti educatamente lo sguardo, come se non volessero vedere la Principessa nella sua camicia da notte. La maggior parte del castello era di cattivo umore quando giunse il mattino. A colazione, il Re si lamentò dell'inspirazione di fumo, la Regina si addormentò nel suo porridge e Matilda incendiò il tavolo. I paggi dormivano in piedi e il ciambellano non si trovava da nessuna parte. “Credo andrò a fare quattro chiacchiere con la cuoca,” disse Matilda, alzandosi dalla sua sedia fumante. “Non darle fuoco,” brontolò il Re. La cuoca stava cuocendo del pane nelle cucine. “Ecco,” disse, porgendole una pentola piena di impasto per il pane. Osservò con interesse l'impasto che si cuoceva rapidamente nelle mani della ragazza. “Utile,” disse la cuoca, “ma non proprio pratico.” “No, non lo è,” disse Matilda. Una lacrima le scivolò lungo la guancia ed evaporò. “Credo che ciò che ti serve sia una eggiata nei giardini.” La cuoca sospirò e annuì, quindi tentò di sorridere. “Assicurati di non incenerire i meli. Ecco, prendi
questo.” Porse alla Principessa uno zaino di pelle. La pelle cominciò a consumarsi. “Dammi un bacio, figliola,” disse la cuoca. “No, no, non mi preoccupo di una scottatura o due. Lo sa il Cielo se non mi brucio sempre con il fornello. Adesso, fila via.” Matilda eggiò nel frutteto dietro al castello. Il terreno era coperto da un fitto strato di neve. I meli si ergevano congelati in sagome scheletriche. Ma c'era anche qualcos'altro tra i meli. Peter. Alzò lo sguardo mentre lei si avvicinava. “Oh, ciao. Credo di essermi addormentato.” Sorrise e il ghiaccio che gli foderava il volto si crepò. La sua pelle era blu e sembrava scolpita nella pietra. Lei gli prese la mano nelle sue. Il freddo terribile delle dita di lui si attenuò un po'. Le fiamme che lambivano la mano di lei si ritirarono lungo il braccio. Per un istante, Peter credette che il suo cuore si fosse riscaldato abbastanza da battere una volta, lentamente. Si fissarono l'un l'altra. “Ecco,” disse Matilda, porgendogli lo zaino. “Faresti meglio a prendere questo, prima che prenda fuoco. La cuoca lo ha riempito con pane e formaggio. E salsiccia, ovviamente.” Peter si gettò lo zaino sulle spalle. Quindi, senza una parola, partirono. Andarono a nord, oltre le montagne, oltre il grande mare ghiacciato. Non furono mai più visti nel regno di Lune. Si diceva che fossero infine giunti in una landa di neve perpetua. Lì, Peter costruì a Matilda una casa di ghiaccio, cui non avrebbe dovuto temere di dar fuoco. Il fuoco di lei gli dava calore. E, a primavera, il suo cuore riprese a battere. Ma se a causa del fuoco del suo tocco o semplicemente del suo amore, nessuno lo sa.
Nota dell'Autore
Sono stato a Lune una volta, molti anni fa. Non dista molto dalla Svizzera, dove risiedevo allora. Se prendete il treno della sera da Losanna, è solo una corsa notturna, dipende da quanto bene riuscite a dormire. Ovviamente, Peter e Matilda erano già scomparsi da molti anni la prima volta che mi recai a Lune. Udì la loro storia durante il mio soggiorno all'ostello della gioventù non lontano dal castello. Inizialmente pubblicai Ghiaccio e Fuoco in una raccolta di racconti intitolata The Mike Murphy Files, ma la versione contenuta nella raccolta è più breve di questa. Le altre storie della raccolta sono umoristiche (o perlomeno, lo sono per me), mentre Ghiaccio e Fuoco proviene da quel luogo singolare al confine tra la nostra terra e il regno incantato. L'umorismo esiste, lì, ma deve sempre servire un padrone più grande che non semplicemente se stesso. Se volete leggere altri miei racconti, per piacere visitate il mio sito web: www.christopherbunn.com. Ultimamente scrivo per lo più fantasy epico. Se è ciò che fa per voi, vi consiglio di provare il primo libro della mia Trilogia di Tormay. Si intitola Il Ragazzo e il Falco, e inaugura la storia di un ragazzo di nome Jute. Temo si sia cacciato in un mare di guai a causa di una semplicissima scelta. Ha vissuto numerose avventure lungo il cammino, ovviamente, quindi non preoccupatevi per lui. Trattandosi di un fantasy epico, la storia coinvolge anche molti altri personaggi: lady Levoreth, un assassino di nome Ronan in cerca di una via di fuga dalla sua vita, un mago riluttante e, ovviamente, il falco. A ogni modo, se avete apprezzato Ghiaccio e Fuoco, o un qualsiasi altro dei miei racconti, per piacere trovate il tempo di dirlo a un amico o di lasciare una recensione su Amazon, o dovunque l'abbiate trovato. Per diffondere la voce riguardo ai miei racconti dipendo immensamente da questo tipo di cortesia da parte dei lettori. Grazie.
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