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Il fiele nel cuore

Nives Tharafeo

"Il fiele nel cuore" di Nives Tharafeo

Mille Battute | Milano www.millebattute.it Grafica, editing e impaginazione: Master Writers - www.masterwriters.it In copertina: Foto di Nihan Güzel Daştan @Pixabay Elaborazione grafica a cura di Master Writers

Prima edizione: giugno 2021

I fatti narrati in questo romanzo sono di fantasia, qualsiasi riferimento a persone reali o fatti accaduti è puramente casuale.

Tavola dei Contenuti (TOC)

Il fiele nel cuore 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 L'autore Nota dell’editore

1

Era il giorno di Halloween del 1995. La nebbia avvolgeva la città con il suo spesso manto. Il Monviso era tutto imbiancato. Eleonora impiegò circa dieci minuti per raggiungere a piedi la fermata del 16 da corso Cairoli. Dopo una buona mezz’ora arrivò all’ospedale Umberto I. Stretta nel suo cappotto di lana, entrò all’obitorio. La Sala Settoria si trovava al piano seminterrato del padiglione 11. Si avviò verso una stanza accompagnata da un’addetta che, poco prima di entrare, le porse una piccola busta di plastica trasparente. Conteneva una collana con un ciondolo a forma di chiave e una piastrina. Quel cimelio era tutto ciò che le rimaneva di sua sorella. Si avvicinò al vetro che occupava l’intera parete. Il corpo era disteso su una barella d’acciaio. Ebbe un attimo di cedimento. Subito dopo fece un cenno col capo e l’inserviente abbassò la zip del sacco di plastica nera. Eleonora avvertì dei brividi acuti. Il volto di Letizia era bianco, ingrigito dall’effetto delle luci al neon. Sulle protuberanze del naso e della fronte luccicavano dei piccoli cristalli di ghiaccio. Sembrava dormire profondamente. Sul suo viso, incorniciato da una massa di capelli castano scuri ancora setosi, notò una leggera smorfia. Letizia aveva sempre avuto l’argento vivo addosso. Come quella volta che, da piccole, si erano inzuppate quando un temporale le aveva sorprese mentre giocavano in cortile. Mamma Lidia si era affacciata alla finestra della cucina e aveva gridato loro di andare a ripararsi. Invece di entrare nell’androne, Letizia si era messa a fare giro giro tondo piroettando come una trottola sotto la pioggia incessante. Eleonora rideva come una matta, mentre la mamma continuava a strepitare come un’aquila. Le venne in mente una poesia di Jorge Luís Borges, che tante volte aveva riletto. Ci sono momenti in cui si deve vivere la propria vita per capire sé stessi. Perché si cambia, il nostro mondo cambia, cambiano le cose senza che te ne accorgi, un mattino è come se ti svegliassi dopo i cento anni della Bella Addormentata. E ti

chiedi cosa è successo a te, nel frattempo: se tutto è cambiato così, dov’eri tu che non te ne accorgevi. Chiedi, ma nessuno risponde. Ci sono momenti in cui si deve vivere la vita attraverso la vita degli altri. Altri che soffrono, altri che ti hanno aspettata a lungo, altri che dopo anni di silenzio finalmente parlano. Altri che hanno bisogno di un compagno nell’attesa delle loro attese. E altri per i quali il tempo che a nell’aspettare è già un dono. Non sai bene se la vita è viaggio, se è sogno, se è attesa, se è un piano che si svolge giorno dopo giorno e non te ne accorgi se non guardando all’indietro. Non sai se ha senso. In certi momenti il senso non conta. Contano i legami. Eleonora si soffermò in particolare sull’ultima frase: contano i legami. Quelle parole, potentemente suggestive, non smettevano di risuonare nella sua testa. Avrebbe voluto dare un ultimo bacio a Letizia, ma le separava quel maledetto vetro. Il freddo impregnava ogni singola mattonella bianca di quella gelida stanza. Si legò la sciarpa al collo. Aveva dimenticato di indossare i guanti e ora le sue mani erano screpolate. «Perché non hai voluto ascoltarmi? Perché?» disse con un tono duro di rimprovero verso sé stessa. Chiese di poter rimanere alcuni minuti da sola con Letizia. Molteplici ricordi si intrecciarono nella sua mente.

2

Il padre Nicola era un affermato cardiologo; diversi istituti ospedalieri del nord Italia se lo contendevano per affrontare operazioni molto delicate. Parte del merito andava a sua moglie: una donna amorevole che aveva contribuito non poco a dargli una stabilità emotiva. Tra di loro c’erano quindici anni di differenza. Lidia, all’epoca venticinquenne, accompagnò la madre all’ospedale San Paolo di Savona, perché da tempo soffriva di una grave aritmia cardiaca. Il suo medico di base le aveva consigliato di farsi visitare da un noto specialista. La lista d’attesa del dottor Gandolfi era lunga e non era stato semplice ottenere l’appuntamento di martedì pomeriggio. Mentre aspettavano il loro turno, arono in corridoio due infermiere. «Hai sentito anche tu quel che si dice in giro?» disse la prima, sorridendo maliziosa. «Eccome. Pare che il suo fascino abbia colpito ancora» le rispose l’altra, con un sorrisetto altrettanto beffardo. Lidia prese a eggiare avanti e indietro nella sala di attesa. Si soffermò a guardare fuori i anti che andavano al Prolungamento, i giardini che conducevano al mare. L’aria era frizzante ed erano tutti imbacuccati nei loro giacconi. Non si accorse che l’assistente del dottore le stava chiamando. Le indicò con la mano di avviarsi nella stanza della visita. «Buongiorno, dottore. Accompagno mia madre» disse Lidia con tono sommesso. Era entrata per prima. La madre la seguì lenta insieme all’assistente. «Avanti, avanti» le rispose cordiale il dottore, senza distogliere lo sguardo dal suo ricettario su cui stava facendo delle annotazioni. Impacciata, Lidia fece per sedersi, ma si sentiva in soggezione.

Trascorsero alcuni istanti di assoluto silenzio; il dottore seguitava a scrivere appunti. «Ecco la signora Musso» lo interruppe finalmente la sua assistente. Egli levò gli occhi dal suo taccuino per abbozzare un saluto e fu a quel punto che si accorse meravigliato della reale presenza di Lidia. Lo colpirono i suoi occhi, di un colore verde profondo. «Preparo il lettino per la visita o preferisce che prima compiliamo la scheda della paziente?» gli domandò la sua assistente. Non ci fu nessuna risposta. «Mi scusi, da dove cominciamo?» gli ripeté l’assistente, a cui seguì un colpetto di tosse che emise Lidia per interrompere quella strana atmosfera. «Predisponga il lettino» si decise alla fine a rispondere. Mentre la madre si preparava per la visita, il dottore non smise di fissare il volto candido di quella giovane donna in una maniera ai limiti dell’insolenza. In imbarazzo, Lidia giocherellava con il gancio della sua borsetta e sentiva le mani tutte sudate. Per l’incallito scapolone fu un vero colpo di fulmine. Dopo meno di un anno da quel primo incontro erano già sposati.

Per tradizione, i Musso erano ceramisti di rilievo, ma Lidia aveva preferito diventare maestra d’asilo. Amava molto quel lavoro, pur avendo messo in conto che forse non avrebbe più potuto dedicarvisi a tempo pieno. Il marito non gliel’aveva impedito esplicitamente, ma le aveva fatto intendere che la sua carriera veniva prima del resto. Per la sua competenza medica, prendeva parte a numerosi convegni di settore, a cui ogni tanto la moglie lo accompagnava. Riuscire a conciliare le attività lavorative di tutti e due sarebbe stato difficile. Con la nascita delle figlie, Lidia preferì dedicarsi a loro: a poco più di un anno e mezzo dal matrimonio nacque Eleonora e due anni più tardi Letizia. Si erano sistemati in un appartamento signorile nel centro di Savona. Le due bambine erano cresciute circondate dal profondo amore materno. Il padre,

invece, aveva dei modi burberi, incapace di slanci di tenerezza verso le figlie. Era sovente in trasferta e al ritorno portava loro dei piccoli regali. Credeva che bastasse così poco per ottenere il loro affetto. Eleonora, più forte di carattere già da piccola, non sembrava soffrirne, a differenza di Letizia. Tuttavia, il legame che univa le due ragazze era molto forte e in grado di colmare altri vuoti. Si impegnavano nello studio, specie Eleonora, che stava ormai terminando il liceo classico Chiabrera, nel tempo in cui Letizia frequentava l’istituto di ragioneria Paolo Boselli. Quando Eleonora si diplomò, a luglio del 1980, il padre la sorprese regalandole un anello d’oro con zaffiro. Ancora una volta, ciò che non riusciva a esprimere con le parole, lo manifestava con i doni. Eleonora aveva già espresso l’intenzione di proseguire gli studi all’università di Genova per specializzarsi in medicina odontoiatrica. Ai primi di settembre il padre era stato invitato a un convegno specialistico a Torino e, in quell’occasione, la moglie andò con lui. Per non lasciare le figlie da sole, Lidia chiese alla sorella di prendersene cura per alcuni giorni. Sandra aveva quarantasei anni, due più di lei; non viveva a Savona, malgrado vi tornasse di tanto in tanto per andare a trovarla. Accettò quindi di buon grado, anche perché il marito Corrado, rappresentante farmaceutico, proprio in quel periodo doveva andare a Genova per lavoro. Si erano conosciuti sedici anni prima a Savona durante le vacanze estive. Corrado viveva a Torino con la famiglia ma, come molti piemontesi, trascorreva l’estate in Liguria. Frequentavano la stessa spiaggia, dove si erano incontrati. Il loro sentimento crebbe a poco a poco, finché compresero di essersi innamorati. Si sposarono nel giro di due anni. Sembrava andare tutto a gonfie vele tra di loro, tanto che avrebbero voluto allargare la famiglia. Dopo una serie di esami medici scoprirono di non poter aver figli e inizialmente la notizia li sconvolse. Eppure ciò non li separò; alla fine, se ne fecero una ragione.

«Ciao Sandra, il convegno è terminato. Non vedo l’ora di tornare a casa. Sono sfinita e francamente pure annoiata. Partiremo tra poco. Da voi come va? Le ragazze si sono comportate bene? Mi raccomando, non le viziare troppo» disse Lidia al telefono, per avvisare dell’imminente rientro. «Stai serena. Le ragazze sono state bravissime e vi aspettano con ansia. Ma non

vi converrebbe partire di giorno? Che cosa cambia una notte in più?» le rispose la sorella. «Sarebbe stato meglio, ma sai com’è fatto Nicola. E poi ho proprio voglia di dormire nel mio letto. Non mi va di restare ancora in questa anonima stanza di albergo. Ci vediamo più tardi» disse Lidia accomiatandosi. Quel maledetto sabato sarebbero dovuti arrivare per cena. Alle nove, però non si erano ancora visti. «Si saranno attardati» disse Corrado, mentre erano ancora tutti seduti a tavola. «Papà avrà trovato dei colleghi con cui parlare dei suoi interventi. Povera mamma» gli fece eco Eleonora. «Magari avranno deciso di rientrare domani, come le avevo suggerito» disse Sandra. Alle ventidue e trenta suonò il telefono. Erano ancora tutti svegli a guardare un programma in televisione. «Sarà la mamma che ci avvisa che fino a domani non li vedremo» fece Letizia, con aria compiaciuta. «Rispondo io» disse Corrado, che due minuti prima era andato in cucina. «Pronto. Sì, sono il cognato. Come dice? Può ripetere, per favore? Un incidente? Quale incidente? Oh Santo Iddio!» «Che cosa succede?» gli domandò Sandra. «Di quali rilievi sta parlando?» sbraitò Corrado, in preda a una totale agitazione. «Certo, mi occupo io di tutto. Mi dia il tempo necessario e vi raggiungo sul posto.» «Ma si può sapere che diamine ti hanno detto?» ripeté Sandra, urlando. Corrado riagganciò il telefono con un’espressione persa nel vuoto. «Ti decidi a parlare? Mi vuoi dire chi era al telefono?» insistette la moglie.

Con la cornetta grigia del consunto apparecchio Sip ancora tra le dita, Corrado si sedette sulla poltrona accanto. «Zio, ci fai paura. Ci dici che cosa ti hanno detto?» disse Letizia avvicinandosi verso di lui con gli occhi supplicanti. «Per favore, non tenerci sulle spine. Si tratta di mamma e papà, non è vero?» disse Eleonora. «È terribile» si decise a parlare Corrado «hanno avuto un brutto incidente e la polizia ha chiesto che un familiare si rechi sul luogo per i rilievi del caso.» «Che cosa significa? Mamma e papà stanno bene?» disse Letizia. «Mi dispiace, ragazze. È meglio che vada. Sandra, resta qui con loro. Vi chiamo appena mi sarà possibile.» Un’ora dopo quella telefonata, Corrado giunse a Fossano nel punto dove era avvenuto l’incidente. Il viadotto autostradale “Generale Franco Romano” della Torino-Savona era alto ottanta metri e da lì molti si erano gettati nel vuoto, rendendolo tristemente noto come il ponte dei suicidi. Riuscì a parlare con i carabinieri, i quali gli dissero che l’auto era finita giù dal cavalcavia e sull’asfalto erano ancora evidenti le tracce di una brusca frenata. Un testimone oculare, che procedeva sulla corsia opposta, aveva affermato che l’auto aveva sterzato all’improvviso e il conducente aveva perso il controllo, andando a sbattere contro uno dei piloni e poi era volata di sotto. Le ipotesi erano che si fosse trattato di un colpo di sonno o di una distrazione. Le due vittime erano morte sul colpo. Dai documenti recuperati, Corrado confermò che si trattava dei cognati.

Furono sepolti nel cimitero di Zinola, nella tomba della famiglia Gandolfi. Una calda brezza caratterizzò quella lugubre giornata, illuminata da un sole sbiadito. Letizia, più fragile, continuava a piangere disperata. Ora si aggrappava alla sorella, ora se ne allontanava, in un misto di dolore e di isterismo. Eleonora, coperta dai suoi occhialoni scuri, appariva imibile e gli zii temevano che sarebbe potuta crollare secca. Le amavano come fossero state figlie loro. Sandra

si convinse che la tragica morte della sorella avrebbe potuto sortire qualcosa di buono. D’intesa con il marito, ritenne che la soluzione migliore sarebbe stata quella di adottare le nipoti, anche se per loro avrebbe comportato il trasferimento da Savona a Torino. Rientrati a casa dal funerale, prese Eleonora da parte. «Tesoro mio, non ci sono parole che possano consolare te e tua sorella. La vita spesse volte è ingiusta. Ci mette di fronte a prove durissime di cui non sempre ne comprendiamo il significato. Ciò che conta è reagire, sempre. Prendetevi tutto il tempo che vi serve, io e lo zio ci saremo, non lo dimenticare.» «Lo so, zia. Se non ci foste stati voi, non so proprio come avremmo fatto» rispose Eleonora, seduta sul suo letto con gli occhi che fissavano il pavimento. «Forse non è il momento giusto, ma desidero dirtelo ugualmente» disse zia Sandra, che teneva le mani incrociate, come se stesse pregando. «Che cos’altro c’è?» «Ne ho parlato a lungo con lo zio e anche lui è d’accordo. Tu sai quanto volessi bene a tua madre. E sai anche quanto avrei desiderato un figlio.» «Che cosa c’entra adesso?» «Saremmo felici se tu e Letizia veniste a vivere con noi. La nostra casa è spaziosa e sarebbe bello avervi vicine. Mi rendo conto che per voi non sarebbe facile cambiare città.» «Come sarebbe? Non voglio lasciare la nostra casa. Qui c’è tutta la nostra vita, i nostri ricordi, gli oggetti di mamma e papà. Non possiamo cancellare tutto come se niente fosse.» «Non ti preoccupare. La casa resta e ci torneremmo per le vacanze e tutte le volte che vorrete.» «Dici sul serio?» «Certamente, angelo mio. Accetteremo la vostra decisione, qualunque essa sia» disse la zia, abbracciandola forte e dandole un bacio sulla fronte prima di uscire

dalla stanza. Eleonora ò una notte insonne. Aveva avuto troppe emozioni in un colpo solo. La settimana precedente erano tutti insieme: lei, Letizia e i loro genitori. E all’improvviso gli accadimenti avevano stravolto le loro vite. La proposta degli zii avrebbe potuto sembrare intempestiva in quella circostanza, eppure non era del tutto fuori luogo. Erano troppo giovani per badare a sé stesse. Tutto sommato, l’opportunità di trasferirsi non era insensata. Adesso veniva la parte difficile: chissà come l’avrebbe presa Letizia.

La mattina seguente, Eleonora era già in piedi di buonora e per far indorare la pillola alla sorella le preparò una ricca colazione, come quelle che era solita allestire la mamma di domenica, quando si ritrovavano per iniziare piacevolmente assieme la giornata. «Non senti che buon profumo di caffé?» disse Eleonora sull’uscio della porta della camera. «Hai voglia di farmi compagnia? Ho preparato le omelette con la marmellata che ti piacciono tanto. Ieri sera non abbiamo mangiato nulla e non possiamo restare a stomaco vuoto. Dai, alzati.» «Non ne ho voglia. Preferisco restare a letto» le rispose Letizia, tirandosi il lenzuolo sul viso. «Mica stai male solamente tu, che cosa credi? È dura anche per me. Soprattutto ora che la situazione potrebbe mutare.» «Mi sembra che lo sia già» «Se vieni a fare colazione, ne parliamo» aggiunse Eleonora con tono misterioso, dirigendosi verso la cucina mentre la cuccuma del caffé borbottava. Letizia fece un balzo dal letto. Prese la sua vestaglia rosa a pois; non riuscì a infilarsi le babbucce e le trascinò lungo il corridoio. «Adesso mi spieghi» disse alla sorella, raggiungendola in cucina. «Siediti e abbassa la voce. Gli zii stanno ancora dormendo. Facciamo colazione

e ti racconto tutto» ordinò alla sorella, che eseguì senza fare storie. Eleonora le versò il caffé nella sua tazza preferita, quella gialla, e poi si sedette a sua volta. «Mangia con calma. Gustati il tuo caffellatte e le omelette.» «Non tenermi sulle spine. Che cosa devo sapere?» le domandò Letizia, con i capelli arruffati e le guance rosse. Avvicinò la tazza alle labbra, con gli occhi sgranati pieni di curiosità mista a timore, come il condannato a morte negli attimi che precedono la sua esecuzione. Aveva sedici anni ma pareva una bambina indifesa. Invece Eleonora, malgrado i suoi diciotto anni, aveva le spalle larghe per tutte e due. «È buona l’omelette, vero?» domandò Eleonora. «E piantala. Dimmi di che si tratta» rispose Letizia. «Ieri sera la zia mi ha fatto una proposta che, sul momento, non mi ha entusiasmato. Ci ho rimuginato tutta la notte.» «Quale proposta?» «Mi ha detto che sarebbero tutti e due felici se andassimo a vivere con loro a Torino. Sai quanto sono affezionati a noi. E noi a loro. Considerata la situazione attuale, credo che sarebbe una soluzione ragionevole.» «La fai facile, tu. Dovremmo lasciare la nostra casa, la nostra vita? Non ci penso proprio ad andare a Torino. Scordatelo!» disse Letizia paonazza, dopo aver posato la fetta di omelette che stava per mangiare. «Ragiona per un attimo. Io sono maggiorenne, ma tu no. Adesso come adesso non avrei i mezzi per badare a entrambe. Sai che il mio desiderio è di proseguire gli studi; vorrà dire che, anziché all’università di Genova, andrò a quella di Torino.» «È chiaro. Per te è tutto liscio e tranquillo. Ti sei già fatta i tuoi piani. A me non pensi? Non sono come te» disse Letizia sempre più esagitata. «Abbassa la voce. Non credi che anch’io stia male? Se crolliamo tutte e due, chi

ci reggerà? Per tua informazione, la nostra casa di Savona resta. La zia è stata inequivocabile su questo punto. Quindi potremo tornarci ogni volta che vorremo.» «Davvero?» disse Letizia facendo un grosso respiro di sollievo, portandosi le mani sulla fronte. «Sicuro. Completerai gli studi in un’altra scuola e farai nuove amicizie, senza perdere quelle vecchie. Considera poi che una grande città offre maggiori opportunità.» «Però dovrei ambientarmi e ricominciare tutto daccapo.» «Non vedo quale sia il problema. Hai sempre stretto amicizia con tutti. Vedrai che sarà molto meno complicato di quanto immagini. Gli zii ci aiuteranno. Senza mamma e papà non sarà mai più lo stesso, ma una famiglia ce l’abbiamo ancora» disse Eleonora prendendo la foto collocata sulla credenza che le raffigurava insieme ai genitori in uno scatto di pochi anni prima. «A qualsiasi conclusione arriverai, ne discuteremo insieme. È chiaro che o andiamo tutte e due, o non se ne fa nulla. Non ti lascerò mai. Se non mi prendo cura io di te, chi lo farà?» «Nessuno» rispose Letizia, scoppiando in una risata fragorosa. «Riflettici sopra» disse Eleonora, dandole un buffetto sulla guancia.

A Torino si integrarono bene. Vivevano in una zona tranquilla, in un grande appartamento al quinto piano di via Chieti all’angolo con corso Belgio. Letizia aveva terminato la scuola di ragioneria e le era bastato ottenere il diploma. Dopo alcune brevi esperienze, aveva trovato lavoro come contabile in una piccola società farmaceutica. Eleonora, al contrario, era sempre chiusa in casa a studiare: dopo il corso di laurea in medicina, si stava specializzando in odontoiatria. «Non ti sei rotta le scatole di stare china sui libri? Esci ogni tanto dal tuo eremo» la canzonava Letizia.

«A breve ho l’esame di anatomia e ti assicuro che è tosto. Non ho tempo per le distrazioni.» «Quanto sei monotona. Qualche volta potresti staccare. Potremmo uscire insieme noi due da sole o con le mie amiche. Ne sarei contenta. Un po’ d’aria non ti farebbe male.» «Voglio arrivare preparata.» «Sei davvero noiosa.» In quell’istante zia Sandra rientrò dal supermercato e le sentì che stavano battibeccando. «Ragazze, siamo alle solite?» «Tranquilla, zia, il topo di biblioteca se ne sta rintanato nel suo rifugio.» «Suvvia, dateci un taglio. Letizia, aiutami con la cena. Sono di ottimo umore e ho anche preparato il vostro dolce preferito.» «Che cosa si festeggia?» domandò Eleonora con aria curiosa. «Non mi dirai che hai fatto la torta di carote?» «Che cosa bolle in pentola?» le fece eco Letizia. «Oh, insomma, mi volete tirare matta. Volevo aspettare che ci fosse anche lo zio, ma tanto vale» disse la zia un po’ spazientita. «Considerato che il periodo di ferie è alle porte, avremmo pensato di trascorrerlo al mare.» «Dove?» domandò Eleonora. «Non lo indovinate proprio? In questi ultimi anni siamo andati poco a Savona e stavolta vorremmo arci le vacanze, sempre se a voi fa piacere.» «Sì, sì» risposero in coro le due ragazze mettendosi a saltellare lungo il corridoio come due bambine che avevano vinto alle giostre. «Avete avuto un’idea splendida» disse Eleonora. «Così non avrai scuse e potrai andare alla spiaggia. Finalmente potrò rivedere i

miei vecchi amici» aggiunse Letizia. «Già, ma soprattutto vi godrete la casa. Sarà come avere vicino i vostri genitori» concluse la zia con un velo di tristezza. «Allora è deciso, si parte.»

Nella tarda mattinata di sabato 1° agosto del 1987 arrivarono a Savona, dopo un viaggio estenuante. Molti torinesi si erano mossi per le vacanze estive verso la Liguria e si era creato un traffico a dir poco allucinante. Almeno un paio di volte lo zio aveva inveito contro due automobilisti incoscienti che avevano azzardato dei sori rischiosi. Accaldati, affamati e stanchi giunsero a destinazione. L’appartamento di via Montenotte, una delle arterie principali della città, era all’ultimo piano di una palazzina vicino all’incrocio con via Astengo. Aveva una terrazza che si sporgeva sulla strada da cui si vedeva il mare in lontananza. Dal lato opposto, una veranda minuta che si affacciava sull’ampio cortile interno, simile a quello delle case di ringhiera. I balconi delle case prospicienti a loro volta davano sulla via parallela. Un paio di anni prima era stato annesso l’ascensore che nella costruzione originale non era previsto, come nella maggior parte delle abitazioni liguri. Cinque piani a piedi in salita su dei gradini ripidi avrebbero fatto stramazzare chiunque. Appena varcarono la soglia, Eleonora corse ad aprire tutte le finestre. Voleva far entrare dappertutto il sole abbacinante e sentire effondere il profumo del mare. L’arredamento era rimasto intatto. Dopo la perdita dei genitori erano tornate in diverse occasioni, ma era stato perlopiù per una toccata e fuga. Era quindi la prima volta che si sarebbero fermate a lungo. Constatarono con dispiacere che il piatto di ceramica appeso in salotto era caduto per terra. Il gancio che lo reggeva si era staccato; uno dei pochi ricordi delle ceramiche Musso si era frantumato in mille pezzi. Forse era un segno del destino; non bisognava lasciare spazio alla malinconia. Le giornate di vacanza furono scandite da ritmi ripetitivi: al mattino gli zii andavano alla spiaggia con la nipote minore, lasciando Eleonora a casa a

studiare. Letizia aveva ritrovato la sua vecchia compagnia di amici. Aveva tanta voglia di divertirsi insieme a loro. Si incontravano anche alla sera e nel fine settimana andavano in discoteca. Durante una serata di inizio agosto conobbe Alberto presso Il Covo di Capo San Donato a Finale Ligure, uno dei locali più gettonati. Con affaccio sul mare e sul porticciolo turistico, per accedervi si doveva salire con l’auto su una strada impervia. La struttura, un vero e proprio richiamo per il popolo della notte, era sempre stracolma di giovani che vi si riversavano da diverse parti della Riviera per scatenarsi nelle due piste. Letizia ci era andata con il suo gruppo, otto in tutto. Arrivarono con una Fiat Uno blu e una Ford Fiesta grigio metallizzato. Le luci, che costeggiavano il cammino, si distinguevano da lontano. A partire dalle ventidue cominciarono ad arrivare frotte di ragazzi sui venti trent’anni, con la musica che suonava a tutto volume. La consumazione era obbligatoria e il gruppetto si fiondò al bar per ordinare il cocktail preferito, il Cuba libre, a base di coca-cola e rum. Avvicinandosi al bancone, Letizia notò un ragazzo ben messo che stava aspettando il suo turno. Era alto circa un metro e ottanta, capelli mori ricciolini, con una piccola cicatrice sul lato destro della fronte. Aveva un fisico palestrato che si indovinava dalle forme della maglietta celeste e dai jeans che indossava. Il suo piglio era ancor più affascinante per i suoi occhi scuri penetranti, di quelli che si riconoscono in maniera distinta in mezzo a una folla. I loro sguardi si incrociarono per una frazione di secondo, sufficiente a far scoccare una piccola scintilla. Quando se ne accorse, Letizia abbassò gli occhi. Non era andata lì per fare conquiste, le interessava solamente trascorrere una serata in allegria. Fu lui a prendere l’iniziativa e le si avvicinò. «Ciao, che cosa prendi?» le domandò sfrontato, agitando tra le mani il biglietto per la consumazione. Letizia temeva di parlare a vanvera e lo fissò rimanendo in silenzio. «Guarda che non mordo. Questo è il terzo drink e ti assicuro che sono lucidissimo. Se posso, vorrei offrirtelo io. Allora, che cosa prendi?» le domandò, sempre con l’aria sicura di sé, aggiustandosi il ciuffo. «Non saprei. Che cosa mi consigli?» balbettò Letizia. Pareva una scolaretta al suo primo giorno di scuola.

«L’Angelo Azzurro. È un miscuglio di Gin, Triple sec e Blue curaçao. È forte e, se vuoi osare, non hai che da provare. A proposito, il mio nome è Alberto.» «Io sono Letizia. Seguirò il tuo consiglio. Posso sorseggiarlo e se poi non mi andasse, lo finirai tu.» «Così mi piaci. Due Angeli Azzurri, per favore» disse con tono perentorio al barista, indaffarato ad agitare le braccia mentre scuoteva con vigore lo shaker. «Sei di queste parti? Non ti avevo mai vista prima.» «I miei amici ci sono già stati. Per me è la prima volta. Me ne hanno parlato tanto ed eccomi qua.» «Non mi hai detto da dove vieni.» «Da Savona. Sono in vacanza con la mia famiglia.» «Che coincidenza, pure io. I miei hanno un attico vicino al porto, proprio di fronte alla Torretta. Vista mare tutto il giorno. Una delizia. E tu dove abiti?» Letizia era restia a dare confidenza a quel perfetto sconosciuto. Faceva troppe domande per i suoi gusti ma al contempo ne era intrigata. Come una calamita, Alberto riusciva ad attrarre a sé la preda individuata tessendo la sua ragnatela con dovizia, finendo per spuntarla. Sonia, una delle amiche del gruppetto, aveva seguito Letizia. Le luci blu le illuminavano a strisce il volto infiorato da un numero rilevante di lentiggini. Aveva assistito alla scambio tra i due e la mise in guardia. «Fai attenzione. È il classico belloccio che sa di piacere e non si fa troppi problemi. Non lasciarti incantare. Siamo appena arrivate, non sarebbe meglio guardarsi attorno?» le sussurrò all’orecchio. Letizia non proferì parola ma le lanciò un’occhiata interrogativa; nella sua ingenuità, non colse appieno il senso di quel discorso. «Fa’ come vuoi. Ti ho avvisata. Resta pure a chiacchierare con il tuo playboy. Intanto vado a farmi un giro in pista» le disse l’amica, mentre si allontanava dimenandosi al ritmo assordante della musica disco, sulle note di Born To Be

Alive di Patrick Hernández. La seguì un’altra ragazza, Lisa, che faceva parte del gruppo di Alberto. Una tipa avvenente, che stava parlottando con lui prima che arrivasse Letizia; si lanciò sculettando al richiamo della musica dietro la scia di altri giovani, mentre il deejay stava mettendo I Will Survive di Gloria Gaynor. «Lasciami indovinare» proseguì Alberto porgendole il cocktail, «stai in zona Valloria.» «Non proprio. Sto in via Montenotte, hai presente?» rispose Letizia assaggiando il beverone. «È in pieno centro. Peccato che il mare si veda con il binocolo» disse Alberto ridendo di gusto, già sotto l’effetto dell’alcool. «Bevilo tutto d’un fiato e andiamo a buttarci. Il disco di In Zaire mi fa impazzire» aggiunse invitando Letizia a ballare. Trascorsero la serata ballonzolando sui cubi, sulle note di una ricca carrellata di musica dance anni Ottanta. Andarono avanti sino a notte fonda, finché gli amici, che l’avevano data per dispersa, riuscirono a recuperarla alle due del mattino per far rientro a casa. «Devo andare. Mi ha fatto piacere conoscerti e mi sono divertita tanto. E ho scoperto che l’Angelo Azzurro non è male» disse Letizia salutandolo frettolosa. «Aspetta. Vorrei rivederti. Ora che sei a Savona potremmo andare insieme al mare, uno di questi giorni. Lasciami il tuo numero di telefono o dimmi a quali bagni vai. Magari o a trovarti.» «È proprio tardi. Non vorrei che i miei amici se ne andassero via senza di me. Vado ai bagni Alba, sul lungomare. Se ti capita di are, mi troverai lì» disse Letizia allontanandosi.

Già dai primi giorni aveva assunto un aspetto molto più rilassato. Si vedeva che era radiosa e non soltanto per la buona compagnia dei suoi amici, con i quali del resto si svagava parecchio. Si alzava di buon umore, canticchiando intanto che girava per casa. Era chiaro che c’era qualcosa nell’aria. «Piccola mia, ultimamente sei sempre allegra» le disse zia Sandra.

«La nostra bimba avrà qualche segreto» continuò lo zio, ammiccando alla moglie. «Chissà quale segreto avrà» sbuffò Eleonora. Si era levata da poco anche lei. Le profonde occhiaie tradirono la sua lunga nottata ata sui libri. «Che cosa c’è di strano? Vi do fastidio se canticchio?» domandò Letizia che si sentiva sotto esame. «Al contrario» rispose la zia posando sulla tavola il pancake con la marmellata fresca, accompagnata dallo sfrigolio della pentola ancora calda di burro. «A me fai venire mal di testa. Già mi scoppia per conto suo» si intromise Eleonora, con una punta acida. «Figurati, il mal di testa non te l’ho fatto venire di certo io. A forza di stare sempre chiusa nella tua stanza, altro che mal di testa.» «Ragazze, fate le brave. Eleonora prendi un antidolorifico. E tu, Letizia, canticchia pure. Ci chiedevamo se ci fosse una ragione particolare» disse la zia toccando il marito con il gomito, facendo una risatina complice. «Poverina. Sta tutto il giorno in spiaggia a far bisbocce con i suoi amici e dovrebbe pure essere triste? Casomai dovrei lamentarmi io che il mare lo vedo solamente da qui» fece Eleonora con un gesto del mento per indicare l’azzurro che appariva all’orizzonte. «La colpa è tua, che non vuoi mettere la testa fuori. Potresti farti due bagni ogni tanto» disse Letizia infastidita. «Proprio non ti entra in zucca? Non ho tempo per distrarmi. Studiare costa fatica. Anche a me piacerebbe essere spensierata come te, che ti occupi di quale vestito mettere oggi, che colore scegliere per lo smalto, per quanto tempo stare sotto il sole o in quale discoteca andare alla sera. Magari facendo pure strani incontri» rispose Eleonora con tono grave, mentre brandiva la forchetta per tagliuzzare il suo pancake. «Di quali strani incontri parli?» domandò zio Corrado, rimasto in silenzio ad assistere alla scenetta familiare. Lo zio era sempre stato molto comprensivo con le nipoti, verso le quali si comportava ormai come un padre.

«Di quali strani incontri parli?» ripeté, forse preoccupato che Letizia non avesse combinato qualcosa di strano. «Ma pensa a studiare, invece di punzecchiare me» bofonchiò Letizia, davvero innervosita. «Cominciamo bene. È una giornata splendida, c’è il sole e siamo in vacanza. Che cosa si può volere di più?» sorrise zia Sandra che tentò di sdrammatizzare la situazione. «Mi dispiace. Mi duole la testa» proseguì Eleonora, con gli occhi sofferenti. «Vorrei anch’io che il mio cuore battesse per un ragazzo» aggiunse con una smorfia sarcastica ed enigmatica.

Con i suoi occhi verdi da cerbiatta e l’aria innocente, Letizia aveva fatto breccia nel cuore di Alberto. Ancora non si era reso conto di essere caduto nella rete che l’inconsapevole Letizia gli aveva gettato. Alla sera se la sava con gli amici. Si alzava prima di pranzo e da quel momento aveva inizio la sua giornata. Ma quel mercoledì, più che andare a divertirsi, si era incaponito di voler rivedere Letizia a tutti i costi. I ricordi della notte si erano sovrapposti per poi scomporsi, fino a creare una realtà alterata. Da quando l’aveva incontrata non faceva che pensare a lei. Non era da lui. Avvezzo a esercitare il suo fascino da bel tenebroso, si buttava da una conquista all’altra con una certa disinvoltura. Di legami seri proprio non ne voleva sapere. Invece Letizia era apparsa all’improvviso e lo aveva confuso. Si preparò con calma e decise di fare una eggiata verso i bagni Alba. Dal porto al Prolungamento ci volevano all’incirca quindici minuti a piedi. Poteva incamminarsi per via Paleocapa e proseguire lungo corso Italia oppure are dal porto, costeggiando il mercato comunale verso la Fortezza del Priamar che dominava la città, a difesa degli attacchi dei villeggianti che d’estate prendevano d’assalto il capoluogo ligure. Decise per la prima alternativa, al riparo dal sole cocente per un bel tratto. Alle tre del pomeriggio molti erano ancora a casa in attesa di raggiungere la spiaggia quando il sole fosse stato meno rovente. Molti altri invece, più stoici,

rimanevano in spiaggia da mattino a sera, preferendo abbrustolirsi. Letizia andava a casa per pranzo e tornava in spiaggia subito dopo. Stava cercando il suo pacchetto di sigarette. Rovistò nella borsetta di jeans con i manici tondi di bambù, seduta su una delle panchine che facevano da cornice alla eggiata sul lungomare. Aveva intenzione di gustarsi quei cinque minuti in santa pace. E voleva percepire il profumo del mare, quell’odore di salsedine che si appiccica sulle labbra riarse aumentando la voglia di tuffarsi in acqua. Stava osservando il mare quando un tipo le si parò davanti. «Ma guarda chi si vede» esordì Alberto rallegrato. Letizia, meravigliata, stentò a credere di ritrovarselo di fronte così presto, per di più alla luce del giorno anziché nel buio della notte. Credette di aver avuto una visione, dovuta a un colpo di sole o al fumo che talvolta le causava dei lievi giramenti di testa. «Non ci posso credere. Tu sei...» disse sbalordita. «Alberto, in persona. Vedo che ti ricordi di me. Vuol dire che hai buona memoria» rise spavaldo. «L’altra sera abbiamo ballato insieme quasi tutto il tempo e vuoi che non me ne ricordi? Piuttosto, che ci fai da queste parti?» «Ti avevo detto che abito vicino al porto. Avevo voglia di andare alla spiaggia libera a fare un tuffo.» «Oggi c’è da morire con questa canicola. La spiaggia libera però è dall’altra parte. Hai sbagliato strada?» disse Letizia con l’aria di chi la sa lunga. «A essere sincero, speravo di rivederti. Mi avevi detto che ti avrei trovata ai bagni Alba» rispose Alberto colto in castagna. Dopo aver finito di fumare la sigaretta, Letizia tenne gli occhi puntati su di lui, scrutando ogni minuscola reazione. Si tormentava i capelli arrotolando le ciocche tra l’indice e il medio. Un’alchimia era scattata tra i due. Da quel primo appuntamento ne seguirono altri, sempre più ravvicinati. Al mattino Letizia andava in spiaggia e restava con i suoi amici; Alberto invece

faceva le ore piccole di notte e al mattino recuperava le ore perdute di sonno. Trascorrevano insieme il resto della giornata, incollati come due francobolli. Alberto aveva una Vespa 125 Arcobaleno rosso fiammante e con quella gironzolavano su e giù per la città o in altri luoghi limitrofi. Talvolta raggiungevano il bosco del convento dei Cappuccini in zona Valloria. Situato alle spalle della città, era il luogo ideale per ammirare il mare dall’alto e fare romantiche eggiate mano nella mano. La sua amica Sonia le aveva ripetuto di stare in guardia con quel tipo. Tra le amicizie comuni, correva voce che avesse fama di seduttore. Letizia non voleva sentire ragioni. Si stava innamorando sul serio. Era sempre raggiante e con la sua presenza diffondeva attorno a sé un’atmosfera lieta. Non si poteva non amarla. Ma la vivace euforia che la caratterizzava in quei giorni non era ata inosservata. Gli zii e la sorella avevano compreso che, senza ombra di dubbio, c’entrava un ragazzo. Alberto andava sempre a prenderla sotto casa. Eleonora si affacciò alla finestra per scoprire qualche dettaglio, dal momento che Letizia non era propensa a svelare granché sul suo conto. Si erano dati appuntamento per il primo pomeriggio. Avevano intenzione di recarsi alla spiaggia libera di Varigotti: incastonata in uno scenario pittoresco, con le case tinta pastello del borgo a fare da sfondo, e più indietro coperta da alte montagne rocciose che proteggevano tutta la baia dai venti, aveva un mare limpido e pulito. Letizia scese ad aspettarlo e per le scale incontrò Fabio Barzoni, che abitava al quarto piano. Si conoscevano dai tempi delle scuole medie ed era capitato diverse volte che lei si fermasse a mangiare a casa sua per fare i compiti assieme. Anche se avevano proseguito percorsi scolastici differenti, tra di loro era rimasta una grande amicizia, che si poteva definire fraterna. Fabio era un bel ragazzo: occhi azzurri, fisico alto e asciutto. Soprattutto di buon cuore. Malgrado Letizia si fosse trasferita a Torino, la familiarità tra di loro era rimasta immutata. «Come stai? È un sacco che non ci vediamo» le domandò Fabio. «Mea culpa» gli rispose Letizia con finta aria imbarazzata. «Dovrei farmi

perdonare» proseguì, arrivati nell’atrio. «Mi mancano le nostre belle chiacchierate di un tempo. È la prima estate che mi fermo più a lungo a Savona. Nel ato recente siamo venuti giusto a fare una capatina. Avrei potuto are da te almeno per un saluto veloce» aggiunse sentendosi in difetto. «Non è così grave. Anch’io sono sempre preso; a causa dello studio non mi concedo molti diversivi. Veronica, la mia ragazza, se ne lamenta parecchio, ma non ho alternative se non voglio andare fuori corso. Quindi sei perdonata» disse Fabio con un sorriso sincero, e uscirono dal portone. «Stai andando al mare?» «In realtà sto aspettando Alberto, un ragazzo che ho conosciuto da poco e che ho iniziato a frequentare» rispose Letizia arrossendo. Un paio di minuti dopo, Alberto arrivò elegante e tronfio sulla sua Vespa. Si accostò al lato del marciapiede su cui Letizia lo stava aspettando e vide che si stava intrattenendo con un ragazzo. Il suo stato d’animo si tramutò dal gioioso al cupo. Letizia era la sua ragazza. Non tollerava di dividerla con nessun altro. Nella sua testa si era già immaginato il peggio, senza sapere che quel ragazzo era un semplice amico. Secondo il suo modo di pensare, un ragazzo non può essere amico di una ragazza. Aveva senz’altro un secondo fine e questo lo irritava maledettamente. Non si fece problemi e si diresse verso i due con occhio torvo. «Letizia, hai intenzione di farmi aspettare? Muoviti. Se vogliamo andare alla nostra spiaggetta sarà meglio avviarci. Rischiamo di non trovare posto» disse Alberto sprezzante. «Un attimo, arrivo subito» gli rispose Letizia senza dargli peso più di tanto. «Mi hai sentito? Ti ho detto di muoverti» continuò Alberto, alzando la voce. Fabio intuì l’andazzo. Accampò la scusa che non voleva fare tardi al suo appuntamento con Veronica per congedarsi in fretta. «Magari ci vediamo in un’altra occasione, così parleremo con più calma» disse e lanciò un’occhiata sfuggente a quello strano tipo. Fabio era molto posato e la sua buona educazione gli avrebbe impedito di essere irrispettoso verso il prossimo. Non si sarebbe mai sognato di rivolgersi alla sua fidanzata in quel modo. Faticava a comprendere come una creatura tanto dolce e solare come Letizia potesse uscire con un ragazzo del genere. Preferì non immischiarsi. Si allontanò e le fece un timido cenno con la mano.

Letizia si diresse verso Alberto e lo guardò di sbieco. Non le era proprio andata a genio la sua condotta. «Come ti sei permesso di parlarmi così, di fronte a un mio amico?» lo rimproverò imbronciata. Fece giusto due i che Alberto la strattonò per un braccio, costringendola a salire sulla Vespa. «Smettila con i tuoi capricci. Lo vuoi capire che dobbiamo sbrigarci?» disse Alberto con arroganza, mettendo in moto. Letizia ò il resto del pomeriggio con il muso. Non riuscì a godersi appieno quella meravigliosa spiaggia dove andavano sovente. A poco valsero i tentativi di Alberto di farsi perdonare. Secondo lui non era successo nulla di grave. Era talmente offuscato dal suo egocentrismo da non mettersi neanche in discussione. Eppure, erano piccole avvisaglie da non sottovalutare. Eleonora l’aveva capito. Aveva seguito l’intera scena dalla finestra e non se ne capacitava. Dalla rabbia furiosa che le era montata aveva tirato un pugno contro il muro. Avrebbe voluto scendere e mettere quell’individuo al suo posto, visto che non l’aveva fatto sua sorella. Per il rimbombo sulla parete la zia era accorsa spaventata. Letizia rientrò poco prima di cena con la pelle del viso arrossata. Di solito si proteggeva dal sole con un cappello di paglia, ma stavolta se l’era dimenticato in camera. In apparenza era tranquilla. «Ciao zia, non sono in ritardo, vero?» disse appena varcò la soglia di casa, dove l’attendeva anche Eleonora sul piede di guerra, pronta a farle una bella ramanzina. «Va tutto bene?» le domandò caustica. «Che domande. Mi sono soltanto scottata un po’. Metterò della crema e domani andrà meglio» le rispose Letizia stizzita. «Come se niente fosse. Tu minimizzi sempre.» «Quanto la fai complicata per una scottatura.» «Non mi riferivo a quello e lo sai bene.»

«Davvero?» «Non prendermi in giro. Ciò che ho visto oggi non mi è piaciuto per niente.» «Chissà che cosa hai visto.» «Quanto basta per poterti dire che dovresti darci subito un taglio con quel mascalzone. Da uno simile è meglio scappare alla svelta.» «Intanto non è un mascalzone. Se permetti, decido io se voglio continuare a vederlo.» «Ecco, lo sapevo. Non lo capisci che uno così è meglio perderlo che trovarlo? Vi conoscete da poco tempo e chissà di che cosa sarà capace quando prenderà più confidenza. Gli permetterai ancora di trattarti senza nessun riguardo?» «Perché non badi agli affari tuoi?» «Che discorsi fai? Sei mia sorella e se qualcuno ti offende pretendi che rimanga indifferente?» «Perché non dici piuttosto che sei gelosa?» «Gelosa, io? Di chi? Di quello là?» «Quello là ha un nome. Senti, mi hai seccata con la tua aria saccente. Se anche tu avessi un fidanzato, non staresti a sindacare sulle mie scelte. Esci fuori a vedere il mondo. Così ti schiarisci le idee. Sei solo invidiosa. Se fossi innamorata, la realtà ti apparirebbe con occhi diversi.» «Zia, hai sentito che cosa va blaterando?» disse Eleonora furiosa. «Stellina, tua sorella ha ragione. Mi ha raccontato tutto e non le posso dare torto. In tanti anni di matrimonio, tuo zio non ha mai osato rivolgersi a me mancandomi di rispetto. Un uomo non deve farlo mai. Il rispetto reciproco è alla base di ogni rapporto, sempre.» «Brava zia, ti ci metti anche tu adesso. Avete deciso di fare comunella e mettervi contro di me?»

«Ti sei bevuta il cervello? Sarà pure un bel ragazzo, però non è un buon motivo per consentirgli di comportarsi come gli pare. Non fa per te. Devi stargli alla larga, il più lontano possibile» disse Eleonora accalorata nella discussione. «Basta, mi hai proprio scocciato. Zia, scusami, ma preferisco andare a riposare.» Letizia sbatté forte la porta della sua stanza. Era ottenebrata da ciò che provava per quel mascalzone, come lo aveva definito Eleonora. Difficile combattere contro le ragioni che il cuore non vuole e si ostina a non voler ascoltare. Talora quel sentimento che si crede essere amore può giocare brutti scherzi. Non sempre lo si comprende per tempo.

Letizia seguì il suo impulso e portò avanti la sua relazione con Alberto. Anche dopo le vacanze estive, si rividero a Torino dove entrambi vivevano. Le intemperanze del carattere di lui parvero domate e tra i due filava tutto liscio. Trascorse più di un anno. Alberto, che frequentava la facoltà di giurisprudenza, doveva dare l’esame di diritto penale prima di concedersi una pausa. Non era uno studente modello. Gli bastava studiare quel tanto che gli avrebbe permesso di superarlo, senza dare troppo peso al voto. Il padre era un avvocato penalista di successo e a Torino aveva uno studio ben avviato, che avrebbe lasciato al figlio. Del resto, gli pareva logico che Alberto ne seguisse le orme. La scelta del percorso universitario in giurisprudenza era stata quindi obbligata. La strada gli era stata spianata senza che avesse dovuto fare grandi sacrifici. I genitori, che avevano un’alta opinione di lui, come quasi sempre accade con i figli unici, presupponevano che avrebbe avuto un futuro brillante. L’avvocato Guido Barberis si avvicinava alla sessantina e voleva sistemare il figlio istruendolo secondo le sue regole. Era un uomo di bell’aspetto, molto distinto e dotato di un discreto fascino, caratteristiche che Alberto aveva ereditato. Dava molta importanza alla sua posizione sociale, ma anche all’influsso con cui riusciva a fare presa sul gentil sesso in particolare. Benché sposato da più di trent’anni anni con Egle Giordano, non si faceva il minimo scrupolo a concedersi qualche scappatella. Per lui erano semplici avventure di

breve durata. All’ovile ci tornava sempre. D’altronde era lui a sostentare la famiglia e si sentiva in diritto di prendersi le sue libertà. Nella sua magnanimità, aveva dato alla moglie la possibilità di non dover lavorare; avrebbe dovuto occuparsi soltanto dell’educazione del figlio e della casa, con tanto di domestici al suo servizio. Non c’era dunque niente di male se a volte tardava la sera, adducendo la scusa di appuntamenti di lavoro fissati all’ultimo momento, o se doveva stare via il fine settimana per partecipare a dei corsi di aggiornamento professionale. Era un uomo e aveva tutti i diritti di questo mondo. Così era sempre stato e così sarebbe stato ancora. Le idee di indipendenza che le donne portavano avanti non erano nelle sue corde, anzi lo disgustavano. Gli dava addirittura noia dover difendere delle clienti che, secondo lui, alzavano troppo la cresta nelle cause per cui richiedevano la sua assistenza. La moglie, peraltro conscia di quale fosse la mentalità del marito, non soltanto fingeva di non accorgersi delle sue infedeltà, bensì lo appoggiava sommessa. Il loro era un matrimonio combinato tra famiglie altolocate. Per Egle era stato naturale accettare l’impegno di sposarlo. L’insegnamento che le era stata impartito prevedeva, tra l’altro, di assecondare il marito senza replicare. D’altro canto, aveva una bella casa, un figlio maschio e tutte le comodità che desiderava. Non avrebbe mai fatto nulla per far sfigurare il buon nome che l’avvocato Barberis si era fatto. Al contrario, si curava per essere sempre impeccabile e suscitare invidia, perché dal suo punto di vista ciò avrebbe accresciuto la stima nei confronti del marito. Poco più che cinquantenne, con qualche filo bianco nei capelli, che non avrebbe mai lasciato incanutire, andava dal parrucchiere per tingerli di castano scuro e ogni settimana si faceva fare la messa in piega. Alquanto snob, vestiva in maniera curata anche nei minimi dettagli, che si evidenziava dall’attenta scelta degli accessori. Li abbinava a gioielli di cui faceva sfoggio; regali che quasi sempre le faceva il marito tornando dalle sue trasferte di lavoro. Alberto era il suo amatissimo figlio e lo viziava parecchio. Gli era molto attaccata, ai limiti dell’invadenza. Aveva avuto un parto difficile e per questo aveva preferito non avere altri figli. Lo accontentava su ogni sua pretesa ed era pronta a difenderlo contro tutti, come farebbe una leonessa con i suoi cuccioli. L’indulgenza materna, che spesso il marito disapprovava, aveva reso Alberto un perfetto narcisista. Un legame del genere può dare origine nel figlio maschio a dei comportamenti che da adulto lo porteranno a commettere degli errori nel

rapporto con le compagne, provocando fratture ben più gravi. A Egle sfuggivano queste sottigliezze. Alla relazione con Letizia non aveva dato quindi l’importanza che meritava. I genitori di Alberto erano convinti che si trattasse di una delle tante relazioni del figlio, sebbene durasse da più tempo, e di cui prima o poi si sarebbe stancato. Rimasero sorpresi quando lui comunicò loro che per le imminenti vacanze di Natale avrebbe ritrovato Letizia a Savona. Insieme avrebbero festeggiato il capodanno. Difatti, pochi giorni dopo il Natale, che avevano preferito trascorrere a casa, Letizia e i suoi familiari si erano trasferiti nel capoluogo ligure. La città brulicava di luminarie appese dappertutto. In piazza Sisto IV, di fronte al palazzo del Comune, stavano montando un palco per il concerto di fine anno. I locali vicino al porto erano addobbati con festoni variopinti; l’atmosfera era frizzante, complice il vento gelido dell’inverno che trasmetteva una particolare attrattiva allo scenario marittimo. Frotte di gente si stipavano lungo le vie del centro come tante formiche, invitate ad acquisti anche superflui dalle attraenti vetrine agghindate a festa. Alberto era impaziente di rivedere la sua Letizia. Il suo ardore per lei era possente, fino alla possessività. Letizia se ne sentiva lusingata, ma a pensarci bene non c’era molto di cui rallegrarsi. Si erano trovati con alcuni dei loro rispettivi amici sotto i portici di piazza Mameli. Insieme si risolsero a are il capodanno ai Pozzi di Loano. I locali avevano organizzato serate a tema, certi che li avrebbero riempiti senza difficoltà. La discoteca era ubicata lontano dal centro abitato ed era un villaggio del divertimento. Aveva tre palchi, due piscine, ristorante e pizzeria, oltre a un vero e proprio anfiteatro per spettacoli di cabaret, teatro e concerti. La capienza arrivava a oltre cinquemila persone. Figurarsi la bolgia che al veglione di San Silvestro si sarebbe addossata in uno dei locali più noti e frequentati della Riviera Ligure. In compagnia del folto gruppo di amici salutarono l’inizio del nuovo anno ballando fino all’alba. Soltanto una nota stonata infastidì Letizia.

Del gruppo faceva parte anche l’attraente Lisa. Si compiaceva di essere al centro dell’attenzione, a maggior ragione in quel contesto. Letizia si era accorta che faceva un po’ troppo la civetta con Alberto e se n’era crucciata. Da buon mistificatore qual era, egli riuscì a rassicurarla di non aver nulla da temere. Si giustificò affermando che era semplicemente un’amica di vecchia data, niente di più. A parte questo dettaglio, del tutto insignificante stando ad Alberto, la serata si svolse in un clima effervescente. Il sabato successivo si erano dati appuntamento per le quattro del pomeriggio in piazza del Popolo. A pochi i da via Montenotte distava piazza Mameli che, con i suoi portici circondava un crocicchio di vie: da un lato conducevano verso il mare, dall’altro verso il porto e da un altro ancora verso la stazione ferroviaria. Al centro della piazza si ergeva il monumento ai caduti inaugurato nel 1927. Da allora, ogni giorno alle diciotto si commemorano i caduti di tutte le guerre con ventuno rintocchi della campana; in quel lasso, i pedoni e il traffico si fermano in segno di rispetto. Da lì si giungeva a piazza del Popolo dove, fino al 1980, sorgeva la vecchia stazione ferroviaria. Il punto abituale in cui i due si trovavano era l’incrocio che superava via Paleocapa. Alberto, tutto baldanzoso, era arrivato in anticipo di cinque minuti, trepidante all’idea di ritrovare la sua Letizia. Solitamente puntuale, quel pomeriggio lei indugiò. Alberto dapprima cercò di pazientare: poteva aver avuto un contrattempo, anche se gli suonava strano. Guardò ripetutamente il suo Rolex, andando su e giù per quel tratto dei portici. Si fecero le sedici e dieci minuti e di Letizia non si vedeva neanche l’ombra. In breve, la sua pazienza si trasformò in irritazione. Esasperato da ciò che riteneva una grave mancanza nei suoi confronti, decise di andarle incontro. Girato l’angolo di piazza Mameli, la vide all’inizio di via Montenotte che stava conversando con Fabio Barzoni. Il suo sdegno manifestamente aumentò: si fece il sangue cattivo a mano a mano che si avvicinava verso di loro. Si piazzò proprio davanti e li guardò in cagnesco. Letizia cercò di fare finta di niente, mentre Fabio, che aveva colto l’ostilità di Alberto, non seppe più dove puntare gli occhi. «Ancora lui» esclamò Alberto senza troppi preamboli. «Devo pensare male?»

«Che cosa vai cianciando?» rispose Letizia con un vago senso di smarrimento. «Questa è proprio bella. Avevamo o non avevamo un appuntamento? Ti sto aspettando da un quarto d’ora. Ti pare corretto?» «Scusami, hai ragione.» «Me ne infischio delle tue scuse. Dì piuttosto che ti piace flirtare con il tuo amico Fabio» disse Alberto con tono brusco. «Sei fuori di testa. Lo sai che è un caro amico. Me lo sono trovato davanti mentre uscivo per venire da te e abbiamo fatto due parole. Ho perso la cognizione del tempo e ti chiedo scusa. Da qui a fare insinuazioni assurde però ce ne a.» «Ti consiglio di non prenderti troppe libertà con la mia ragazza» disse con gli occhi fuori dalle orbite, rivolto a Fabio. «Non mi faccio menare per il torrone da uno come te.» «Ti sbagli di grosso. Sei fortunato che non sono un attaccabrighe. Preferisco lasciar cadere le tue accuse infondate. Non mi abbasso al tuo livello. Letizia, mi dispiace per l’accaduto. È meglio che vada, prima che la situazione ci sfugga di mano.» «Bravo, sparisci dalla mia vista» disse Alberto, mentre Fabio lanciava un’occhiata d’intesa verso Letizia e si infilava i guanti. «Si può sapere che cosa ti è preso? Tutto d’un tratto sei uscito di senno?» strepitò Letizia con le vene delle tempie visibilmente sporgenti. «Mi hai forse preso per fesso? Non mi va giù che dai confidenza a uno che per me è un perfetto estraneo. Mettiti bene in testa che sei la mia ragazza. Mi fa impazzire chiunque si prenda delle licenze con te e per di più alle mie spalle.» «Ti ripeto ancora una volta che è un amico di infanzia. Non c’è proprio un bel niente tra di noi di ciò che ti immagini. Dacci un taglio.» «Sarà. Comunque non ti azzardare più a essere in ritardo ai nostri appuntamenti. Detesto aspettare. Ormai dovresti saperlo» aggiunse Alberto polemico con voce inflessibile. Voleva a tutti i costi avere l’ultima parola.

Contrariata dalla sua villania, Letizia lo scrutò con diffidenza, scrollando il capo. Le premesse per un pomeriggio idilliaco erano svanite in pochi minuti.

Come ogni lunedì, le bancarelle del mercato di Savona si sistemarono per le vie del centro. Zia Sandra si fece accompagnare da Eleonora per scegliere un regalo per suo marito. Due giorni dopo l’epifania sarebbe stato il suo compleanno e aveva pensato a un paio di cravatte raffinate, per le quali lui aveva una predilezione. Le abbinava con molta attenzione ai completi che indossava, specialmente quelli di lavoro. Le luminarie, ancora appese lungo le vie, oscillavano sotto la spinta del vento che permeava quella giornata gelida. Uscendo dal portone, trovarono i primi banchi colorati che si distendevano lungo via Montenotte. Con lentezza si dilettarono a curiosare ovunque, alla ricerca di chissà quali oggetti. In realtà, se non fosse stato per il freddo, una eggiata all’aria aperta l’avrebbero fatta volentieri, proprio per respirare l’atmosfera vivace che circondava scene pittoresche come quella. Il venditore di frutta e verdura gridava: «Forza donne, un chilo di carciofi a mille lire». Gli faceva eco quello che vendeva i formaggi che, per non essere da meno, alzava più forte la voce urlando: «Da questa parte, formaggi campagnoli a millecinquecento lire, tre al prezzo di due». Più avanti, il bancone delle golosità, accerchiato da una nutrita ressa. La venditrice attirava i clienti, soprattutto i bambini, al motto: «Krapfen caldi alla crema». Un brusio esuberante faceva da sfondo, mentre la fiumana di gente si accalcava da ogni parte. Bisognava farsi largo per infilarsi in mezzo, ma le due donne volevano are in rassegna tutti i banchetti. Osservando quello dei casalinghi, Eleonora rimase colpita da una brocca di vetro a forma di anatra e decise di acquistarla. Girando su via Montenotte, il mercato proseguiva anche in via Guidobono, dove furono attirate da un bancone che vendeva cravatte. «Quante ce ne sono. Abbiamo l’imbarazzo della scelta» disse zia Sandra.

«Guarda quella blu a pois. E quella grigia a strisce. Credo che allo zio piaceranno. Che ne dici?» aggiunse Eleonora infervorata, prendendole in mano. «Direi che rispecchiano i suoi gusti. Sono certa che saranno di suo gradimento» disse zia Sandra rigirando le cravatte. Dal marciapiede di fronte si avvistava un andirivieni di persone dalla panetteria. Il profumo del pane e della fugazza appena sfornata inebriavano gli astanti, lasciando una scia nell’aria decisamente invitante. Due ragazzi vi sostavano proprio davanti con un pezzo di pizza in mano ancora fumante e sembravano a loro agio. «Hai visto chi c’è laggiù?» disse Eleonora aggrondata. «Dove?» rispose zia Sandra incuriosita, con gli occhi che frugavano qua e là. «Vicino alla panetteria. Quello non è Alberto?» continuò Eleonora con tono assai contrariato. Non l’aveva visto molte volte. Vi si era imbattuta per caso a Torino con la zia intanto che aspettava Letizia durante uno dei loro appuntamenti. La sorella lo aveva presentato ottenendo per tutta risposta, soprattutto da parte di Eleonora, una reazione di totale indifferenza. Si sovveniva quindi perfettamente della sua faccia. «Ora lo vedo, è proprio lui» continuò la zia, rimasta di stucco. «Non hai anche tu l’impressione che stia facendo il cascamorto con la ragazza che gli è accanto?» proseguì Eleonora con tono rancoroso, con le mani serrate come se volesse sferrare un pugno. La ragazza guardò l’orologio e fece cenno ad Alberto che doveva andarsene. Le due donne si diressero apposta verso di lui e videro che salutava l’amica dandole un buffetto affettuoso sulla guancia. «L’ho sempre detto che è un sordido essere» disse Eleonora piena di livore, con le guance infiammate più dall’ira che dal freddo. «Che cosa vuoi fare?» le domandò la zia, spaventata dallo stato della nipote,

mentre cercava di trattenerla a sé. «Nulla. Non vale nemmeno la pena di sporcarsi le mani con quello lì» continuò Eleonora, trascinando a forza la povera zia che non capiva quali fossero le sue intenzioni. Alberto era rimasto impalato con lo sguardo sognante e non si era minimamente accorto delle due. Soltanto quando gli arono vicino e lo guardarono di traverso senza salutarlo, si mostrò sorpreso. Comprese che il loro cipiglio era di rimprovero per essere stato colto in flagrante con la sua amica Lisa: forse lo avrebbero detto a Letizia. Tra sé e sé pensò che una scusa l’avrebbe trovata. La capacità di mistificare la realtà non gli faceva per niente difetto, anzi era molto abile a trasformare i fatti secondo il suo intendimento e a convincere chi aveva di fronte della bontà delle sue parole. In un modo o nell’altro, l’avrebbe scampata come sempre. Eleonora avrebbe voluto davvero spaccargli il muso ma il suo forte autocontrollo non glielo avrebbe consentito. Tuttavia, la scena a cui aveva assistito non le era andata giù per niente. Proseguendo verso piazza del Popolo, incapparono nella signora Pastorini, una vecchia conoscente della famiglia Gandolfi. Sulla cinquantina, aveva sempre vissuto a Savona. «Eleonora, quanto tempo. Non mi riconosci?» esordì quella, attonita. Teneva al guinzaglio il suo inseparabile cagnolino che abbaiava con insistenza. Eleonora, ancora scossa, aveva un’aria inviperita: il sangue le era andato alla testa e nemmeno il vento freddo poteva fare granché per affrancarla da quel calore che le era salito fin sulle tempie. «Sei tutta rossa in faccia. Hai problemi di pressione alta?» incalzò l’altra. «Mirella, devi scusarmi. Probabilmente la colazione mi è rimasta sullo stomaco. Tu piuttosto, come stai? Vedo che non ti separi mai dal tuo bassotto.» «Meno male che c’è lui a farmi compagnia. Mia figlia è nell’età critica dell’adolescenza e non ci si può parlare.» «Da piccola era una bimba tanto graziosa» intervenne zia Sandra.

«Un’altra epoca, ormai. Siete qui per le vacanze?» «Purtroppo volgono al termine. Ci sarebbe piaciuto restare ancora, ma torneremo più avanti.» «Ti trovo bene. Meglio l’aria di mare che il grigiore di Torino. E poi qui ci si conosce più o meno tutti. Immagino che in una grande città non sia così» disse Mirella con una leggera stoccata, dettata soprattutto dall’invidia di essere sempre rimasta a vivere in una città di provincia. Non avrebbe disdegnato di trasferirsi più al nord, se non fosse stato per quel disgraziato di suo marito che l’aveva abbandonata, per di più con una bambina piccola. A quel punto, i suoi sogni di una vita diversa altrove si infransero. Dovette rimboccarsi le maniche per tirare avanti e non poté far altro che restare a Savona. Lavorava da anni come parrucchiera in un salone del centro. Se si volevano sapere i pettegolezzi su Tizio o Caio, bastava domandarglielo. Da buona impicciona, non avrebbe tenuto a freno la lingua; era più forte di lei. «Piuttosto, come sta Letizia? Non è con voi?» domandò Mirella con interesse lezioso; era chiaro che moriva dalla voglia di spettegolare. «Stamattina è rimasta a casa. Volevamo fare un bel giro al mercato senza fretta. Lei si sarebbe annoiata» rispose zia Sandra. «Allora ho visto bene.» «Visto che cosa?» domandò Eleonora, che iniziava a sbollire la rabbia e aveva assunto un tono cortese. «L’avrò notata da lontano due o tre volte in giro per la città. Però non ero proprio sicura che fosse lei. Me la ricordavo diversa.» «Diversa come? Fisicamente non è cambiata molto» la incalzò Eleonora, con la pressione che ricominciava a salire. «Forse avrò visto male. In quanto ad aspetto fisico non è cambiata granché, in effetti» disse Mirella che non aspettava altro che di spifferare tutto. «Aveva qualcosa di strano?» domandò zia Sandra, alquanto irritata dai modi stucchevoli della loro interlocutrice.

«In parte sì. Era con un bellimbusto che non aveva l’aria molto gentile con lei. A dire il vero, mi è parso un po’ sgarbato nei suoi confronti. Letizia è una così cara ragazza e sono rimasta stupita. Può darsi che abbia interpretato male.» Mirella fece un sorrisino tirato, come il bimbo che ha messo il dito nella marmellata e poi finge di essere estraneo all’accaduto. A quelle parole Eleonora non riuscì a trattenersi. Ebbe un tale tremito di furore che la brocca di vetro acquistata poco prima le cadde, andando in frantumi. «La tua brocca! Quanto mi dispiace. Era così carina» fece Mirella con aria di compatimento forzato. «Non ha importanza. Era solamente una brocca» disse Eleonora mentre raccoglieva i cocci. «Ora devo proprio andare. Mi ha fatto tanto piacere rivedervi e vi auguro una buona giornata» disse Mirella allontanandosi petulante e trascinando dietro di sé il suo povero cagnolino. «È davvero una serpe!» esclamò zia Sandra.

3

La città cuoceva sotto il sole come un pollo allo spiedo. Eleonora stava preparando la seconda parte dell’esame di anatomia e aveva studiato fino a tarda notte. Stremata anche per la stanchezza, si accasciò sulla poltrona di vimini in sala. Il cuscino morbido la avvolse a sé, finché si assopì. Zia Sandra si era adagiata boccheggiando sul divano dell’ingresso. Dopo neanche mezz’ora che si era appisolata, Eleonora si svegliò di scatto ed eruppe in un grido acuto che tuonò nel silenzio della casa. «Che cosa succede?» domandò la zia con voce stentorea. Eleonora aveva la bocca aperta come se le si fosse parato dinanzi un fantasma. Un caldo sudato pallore le ricopriva la faccia come una maschera. Sembrò mancarle il respiro. Si sentiva in affanno, in preda a un attacco di panico; esattamente come quando Letizia, che all’epoca avrà avuto quattro anni, era stata colta da quella che sembrava una crisi epilettica. Per curare una brutta tosse, il medico le aveva prescritto la Neo Borocillina in pastiglie. Nel giro di poco più di un’ora dopo l’assunzione delle pasticche, aveva avuto una crisi talmente violenta da dover essere ricoverata d’urgenza. In ospedale erano riusciti a salvarla, scoprendo così che la sua allergia alla penicillina avrebbe potuto esserle fatale. In seguito all’accaduto, i genitori avevano ritenuto opportuno metterle al collo una collana con una piastrina. Da un lato, vi avevano fatto incidere il gruppo sanguigno e, dall’altro, un avviso della sua allergia al medicinale. Per consolarla della brutta esperienza, la mamma le aveva regalato una grande bambola di pezza, da cui non si era più separata. La stessa identica reazione emotiva che Eleonora stava provando in quel momento, pensando a quanto Letizia fosse in balia di Alberto, con il quale trascorreva ormai la maggior parte del suo tempo. «Corrado, aiutami. Eleonora sta male.» La zia le alzò delicatamente la testa poggiandola su un guanciale e cercando di tranquillizzarla. Lo zio, che stava

facendo la sua pennichella nella stanza a fianco, accorse all’istante e tutte e due si adoperarono per soccorrere la nipote. L’attacco si placò dopo pochi minuti. «Bambina mia, quante volte ti ho detto che di notte devi dormire. Dovresti scollarti dai quei libri ogni tanto per liberare la mente.» «Ci hai fatto morire dallo spavento» aggiunse lo zio. «Un incubo terrificante. Una visione orribile» disse Eleonora che lentamente si stava riprendendo. «Calmati, è ato» la confortò lo zio con tono mite. «Ho sognato che mi si avvicinava un corvo: nel becco teneva gli occhi di Letizia. Spaventoso.» «Sei troppo esaurita. Prenditi due giorni di intervallo e vai al mare, ti farà bene» la ammonì lo zio con sincera bonarietà, dissimulando il ribrezzo per quel sogno raccapricciante. Il sentimento di angoscia scaturito nel dormiveglia, alla vista di quel corvo mostruoso, trascinava con sé qualcosa di malvagio e l’abbandonò a fatica nel corso della giornata. Gli zii avevano ragione: sarebbe stato un vero peccato trascorrere le vacanze in una località marittima senza andare alla spiaggia almeno una volta. Seppur micidiale, il sole invitava all’ozio. Eleonora tralasciò i sensi di colpa e sfruttò al meglio quella breve interruzione. Fu anche l’occasione per godere della compagnia di Letizia e fingere che andasse tutto bene.

Alcuni giorni prima della fine del mese di agosto, Eleonora ricevette la telefonata della custode della casa di Torino. La avvisava di avere in giacenza una lettera a suo nome. «Buone notizie?» le domandò la zia con tono indiscreto. «È arrivata una lettera dall’università. Non so perché, ma mi sento emozionata»

rispose Eleonora eccitata, camminando irrequieta intorno al tavolo della cucina come se avesse la tarantola. «Tra una settimana torniamo a casa e lo scoprirai.» «Non posso aspettare. Domattina prenderò il treno e andrò a Torino, così mi tolgo il pensiero.» «È così importante?» «Lo spero proprio. Anzi, sai che faccio? Chiedo a Letizia di accompagnarmi. Stare lontana da quello scellerato non le nocerà» aggiunse Eleonora, contenta di poter prendere due piccioni con una fava. «Chi era al telefono?» domandò Letizia, che quella mattina si era alzata più tardi del solito. «Letizia cara, verresti con me a Torino? Devo ritirare una lettera. E poi è tanto che non stiamo insieme io e te. Che ne dici? Mi fai contenta?» domandò Eleonora con voce melliflua, intanto che preparava un secondo caffè. «Se ci tieni così tanto, perché no? Un paio di giorni al massimo però. Vorrei tornare a Savona» rispose spontanea Letizia. «Allora è fatta. Grazie, sorellina.» Eleonora le diede un bacio sulla guancia.

Alle nove di quella sera, Alberto suonò il citofono a casa di Letizia. Avevano in programma di fare una eggiata sul lungomare del Prolungamento. Sarebbe stato romantico rimanere seduti sulla riva ad ammirare il chiarore della luna che si rifletteva sul mare con i suoi tentacoli luminosi protesi all’infinito. Scesero la gradinata del piazzale Eroe dei Due Mondi, di fronte al monumento a Garibaldi, posizionato con lo sguardo rivolto a Nizza. Letizia si tolse i suoi sandali rossi e alzò la gonna lunga per camminare a piedi nudi sull’arena. Vi affondava a ogni piè sospinto lasciando le sue impronte, come fanno gli uccellini di primo mattino sulla sabbia perfettamente lisciata. Le onde del mare piatto fluttuavano con dolcezza, congiungendosi all’unisono al lontano vociare che si udiva provenire dall’esterno della piscina comunale di fianco al piazzale.

I due ragazzi si tenevano per mano e assaporavano quegli istanti di calma apparente. A un tratto si fermarono e si sedettero sul molo roccioso, con la luna che illuminava i loro volti. Letizia si mise a rivoltare il ciondolo a forma di stella della sua collana. Era un gesto che compiva quando era nervosa. «È davvero una bella serata» proruppe Alberto per rompere il silenzio che era sceso. «Già» rispose Letizia continuando a giocherellare con la sua collana. Alberto la tirò a sé per abbracciarla. «C’è qualcosa che non va?» le domandò, notando la sua ritrosia. «Dovrei darti una notizia.» «Ti ascolto.» «Domattina devo andare a Torino con mia sorella. Soltanto per un paio di giorni, promesso.» Un’onda più forte si era infranta sulle rocce e aveva sparso i suoi spruzzi tutt’attorno. «Accidenti, mi sono bagnato i pantaloni!» esclamò Alberto con fredda collera, seguito dalle risate di Letizia. «Ti stai divertendo? Io per niente» aggiunse Alberto con la fronte aggrondata e un timbro di voce irritato. «Non ti stavo in prendendo in giro. È una situazione buffa.» «Ti pare buffo che decidi di andartene e me lo dici a cose fatte, senza avermi perlomeno chiesto prima se a me stava bene?» Alberto si era fatto minaccioso e i suoi occhi sembravano quelli di un forsennato. «Non è il caso che te la prendi tanto per un po’ d’acqua.» «Fingi di non capire? Non mi va che tu te ne vada. A fare che cosa, poi?»

«Te l’ho già detto: accompagno mia sorella.» «Tua sorella non è capace di andarci da sola? Per quanto mi riguarda, tu non ci vai» disse Alberto e afferrò Letizia per un braccio. «Smettila, mi stai facendo male» rispose Letizia che tentava di divincolarsi. Alberto le lasciò il braccio e si sistemò la maglietta. «Tu resti qui. Tua sorella può arrangiarsi per conto suo.» Letizia si rabbuiò e lo guardò con occhi sofferenti. «Non volevo essere sgarbato. È che non sopporto l’idea di starti lontano anche per poco. Tua sorella è in grado di cavarsela benissimo anche senza di te» aggiunse lui con voce raddolcita. Le diede un bacio apionato e a lei bastò per sciogliersi come neve al sole. Decisero di rientrare anche se non era molto tardi. Letizia aprì piano piano la porta di casa e appoggiò la sua borsetta di jeans sul mobile dell’ingresso. Erano ancora tutti alzati a guardare un film in televisione. «Hai fatto bene a tornare prima. Domani bisognerà svegliarsi presto» disse Eleonora andandole incontro. «Mi dispiace, ma non posso venire con te.» «Sarebbe a dire?» Eleonora si fece scura in volto e le si parò davanti con le braccia conserte. «Sarebbe che non posso. Non insistere.» «Scommetto che è stato quello là, non è vero?» «Se anche fosse, che cosa cambia? Tanto non vengo.» «Complimenti! Fatti comandare da quella carogna. Possibile che tu non sia in grado di decidere con la tua testa? Gli permetti di sopraffarti? Apri gli occhi una buona volta!» «Adesso piantala.»

«Ragazze, che cos’è questo baccano?» domandarono gli zii attirati dai toni accesi tra le due. «Niente di grave. Vostra nipote è totalmente inebetita. Non muove un o se quello là non l’autorizza.» «Basta, devi finirla» urlò Letizia con gli occhi lucidi. «Dimenticavo: la mia sorellina è innamorata. Se per te questo è amore, al tuo posto starei all’erta.» «Insisti?» «Ragazze, non bisticciate, per favore» intervenne zia Sandra. «La chiudiamo subito. Domani partirò da sola. Che cuocia nel suo brodo. Prima o poi ci sbatterà la testa e se ne accorgerà» concluse Eleonora e augurò a tutti la buonanotte.

Non chiuse occhio. Era troppo eccitata per riuscire a dormire serena. Continuava a rigirarsi nel letto alla ricerca della posizione più comoda per conciliare il sonno. Si addormentò che era quasi l’alba. Meno di due ore dopo si risvegliò di soprassalto. Un’altra immagine agghiacciante la turbò: di nuovo il corvaccio nero le si avvicinò in sogno, portandole il cuore di Letizia. Presagi che non suggerivano nulla di buono. Al mattino partì da sola per Torino. Quando arrivò a casa si sbrigò a recuperare la lettera che attendeva con ansia. Vedendola arrivare, la custode posò il secchio e si asciugò le mani sul grembiule. Aveva appena finito di lavare il pavimento dell’androne. Andò verso il suo gabbiotto e prese la busta. Gliela porse con cautela come se stesse consegnando un oggetto delicato ma di valore. In effetti, quando la aprì e ne lesse il contenuto, Eleonora non si trattenne dalla gioia. Scoprì di aver vinto la borsa di studio per la specializzazione in medicina odontoiatrica presso l’università di Lione. Era talmente beata da dimenticare il malumore che fino a quel momento non l’aveva abbandonata. Anziché prendere l’ascensore, salì le scale di corsa. Non stava più nella pelle dall’emozione. La giornata era soleggiata e dal balcone si distingueva la cupola della basilica di

Superga, che dominava la città. Una miriade di pensieri contrastanti turbinavano nella sua mente. Si era prodigata tanto nello studio che finalmente cominciava a coglierne i frutti. Si preparò un caffè espresso. Ne aveva un assoluto bisogno dopo la notte ata in bianco. Lo sorseggiò mentre il sole invadeva la stanza e i suoi raggi la ammantavano con il loro calore. Provò un senso di leggerezza. Si sentiva pronta a scalare il mondo. Doveva a tutti i costi condividere la notizia con gli zii. «Pronto, zia. Ho fatto bene a tornare.» «Racconta, di chi era quella lettera che aspettavi?» «Non lo indovineresti mai» rispose Eleonora galvanizzata. «Sono tutta orecchi.» «Ho vinto una borsa di studio all’Università di Lione.» «Lione? Ciò significa che dovrai trasferirti.» «Per circa un anno. Dopotutto non è così lontana e vedrai che tornerò almeno per le feste comandate» aggiunse Eleonora, che aveva già fatto i suoi piani. «Piccola mia, se tu sei felice lo siamo anche noi. Non ti nego che ci mancherai, ma è la tua occasione.» «Non vi libererete di me così in fretta» disse Eleonora in tono scherzoso. «Dopodomani mi recherò alla segreteria dell’università. Dovrebbe essere aperta e avvierò le pratiche per il trasferimento. C’è soltanto un tarlo che mi rode» aggiunse con voce turbata. «Per le spese non devi preoccuparti» disse Sandra. Voleva rincuorarla, perché sapeva quanto la nipote ci tenesse a non gravare troppo sugli zii. Aveva uno spirito indipendente e voleva esserlo anche dal punto di vista economico; già mentre studiava, di tanto in tanto si dava da fare con delle ripetizioni di latino e italiano. «Il problema non è quello» continuò Eleonora corrucciata, mentre avvoltolava tra le dita il filo della cornetta.

«Dunque?» domandò sorpresa la zia. «Sono in ambasce per Letizia. Temo di lasciarla nelle grinfie di quel balordo e non vorrei che la plagiasse del tutto. È troppo vulnerabile e lui potrebbe approfittarne. D’altronde non posso rinunciare a questa opportunità.» «Stai serena. Veglieremo noi su di lei. Tu ora pensa al tuo futuro. Si aggiusterà tutto, vedrai» disse la zia con un ostentato tono rassicurante. Con le mani stringeva con forza un lembo della veste. In cuor suo nutriva gli stessi timori.

Intanto Letizia si godeva gli ultimi giorni di ferie a Savona. Nel fine settimana peregrinava con gli amici da una discoteca all’altra. Una di quelle sere la scelta ricadde sul Gulliver. Posizionato sulla collina alle spalle di Noli, nel paese di Voze, con una vista mare strepitosa, era un altro locale storico che richiamava una baraonda di giovani. Il frastuono assordava l’ambiente. Sotto quel fragore di musica e di voci, bisognava urlare per riuscire a farsi sentire da chi era vicino. Tanta era la confusione e la calca di persone che continuava ad arrivare che c’era il rischio di perdersi. Il gioco di luci laser che si muovevano in sintonia con la musica illuminavano i volti indefiniti della marea di giovani nel locale. Per far decollare la serata si diressero dapprima verso il bar a ordinare la consumazione. Un ragazzo, appoggiato al bancone, stava centellinando la sua bevanda alcolica. Aveva lo sguardo trasognato e fissava l’ampio specchio a parete del bancone. Perso nei suoi pensieri, era come se stesse riflettendo su chissà quali massime esistenziali. Non aveva l’aria di chi si stava divertendo, sebbene fosse madido di sudore per aver probabilmente ballato parecchio. Alzò il bicchiere per avvicinarlo flemmatico alle labbra e finire l’ultimo sorso del suo intruglio. Lo posò e fu a quel punto che vide, di riflesso sullo specchio, un volto familiare, proprio alle sue spalle. Si girò di scatto e osservò attentamente la ragazza che subito riconobbe. «Letizia!» esclamò Pietro piacevolmente attonito. «Non avrei mai creduto di

incontrarti qui!» Lei rimase per un attimo di stucco e credette si trattasse di uno scocciatore. Lo rimirò meglio e gettò la sua attenzione su un particolare: gli splendidi occhi azzurri. «Pietro, sei proprio tu?» rispose con un sorriso meravigliato. «È davvero insolito ritrovarci in questo luogo.» «Non l’avrei mai detto» disse Letizia tradendo la sua emozione per quell’incontro inaspettato eppure gradito. «Ti trovo in forma. Non sei cambiata affatto.» «Se lo dici tu» rispose lei, lusingata per il complimento, benché fingesse di nasconderlo giocando con il ciondolo che indossava. Aveva una predilezione per le collane. Ne possedeva una sfilza e le cambiava di continuo. Aveva l’abitudine di carezzarle quando era agitata ed era diventata una sorta di tic che l’aiutava a tenere a bada le sue ansie. «Perché non ci spostiamo verso quell’angolo più appartato? C’è un divanetto dove poter star comodi e chiacchierare senza che tutta questa cagnara copra le nostre voci.» Pietro era un vecchio compagno di scuola dell’istituto Boselli. Avevano frequentato le stesse classi per i primi due anni, fino a quando Letizia si era trasferita a Torino. All’inizio erano rimasti in contatto e si scrivevano delle cartoline. A poco a poco la loro corrispondenza epistolare si era diradata fino a perdersi del tutto. Le era capitato di distinguerlo da lontano a eggio per la città quando vi era tornata nelle precedenti occasioni. L’aveva visto in compagnia di alcuni amici e non aveva osato andargli incontro. Erano ormai trascorsi più di dieci anni da quando aveva lasciato Savona. Eppure gli occhi azzurri di Pietro erano inconfondibili. Tra di loro c’era stata una semplice simpatia che non aveva avuto modo di sbocciare. L’immagine idealizzata di certi batticuori giovanili fa sì che si conservi un ricordo edulcorato, fantasticando su come sarebbe potuta andare se gli eventi avessero preso una piega diversa. Talvolta è piacevole cullarsi in pensieri affini che catapultano in un’epoca in cui tutto suonava più leggero e

semplice. Dura poco. La realtà richiama a sé e ci si accorge che non poteva andare diversamente. Ognuno aveva fatto la propria vita; ma quella simpatia tra di loro era tuttora evidente. Lo si evinceva dal modo in cui si guardavano e dal loro parlare fitto fitto. Letizia rideva divertita alle battute di Pietro e la loro complicità era innegabile. Alberto non l’aveva persa di vista. All’inizio aveva creduto si trattasse di un semplice scambio di convenevoli, malgrado la sua gelosia avesse iniziato a obnubilarlo. Intanto si era scolato con calma la sua consumazione al bancone. Vedendola allontanarsi, il mostro che lo consumava dentro aveva bussato con grinta e nessun freno l’avrebbe più trattenuto. Diceva di avere fiducia in Letizia. Con il bicchiere in mano, si nascose dietro alla colonna su cui era appoggiato il divanetto. I due stavano conversando amabilmente. Cercò di origliare ma il rumore assordante sovrastava le loro voci. A quel punto non riuscì a trattenersi. «Eccoti finalmente. Non ti trovavo e mi stavo preoccupando. Invece tu eri qui seduta bella comoda con questo cialtrone.» Alberto gesticolava oscillando le braccia come un direttore d’orchestra. «Cialtrone a chi? Chi è questo? Lo conosci?» ribatté Pietro, che si era alzato per prendere a cazzotti il pazzo scatenato sbucato dal nulla. «È il mio fidanzato. Perdonalo, non sa quello che dice. Forse ha bevuto un po’ troppo» disse Letizia mortificata, con voce tremante. «Sono lucidissimo. Non ti posso perdere di vista un attimo che ti imboschi con il primo che capita» la interruppe Alberto che sembrava sotto l’effetto di qualche sostanza stupefacente, più che dell’alcool. «Bada a come parli, imbecille.» «Smettetela subito. Siete impazziti tutti e due?» al colmo dell’imbarazzo, Letizia non sapeva più che cosa fare. «Ti spacco la faccia.» Indignato, Alberto aveva perso ogni freno inibitorio. «Fatti avanti e vediamo a chi spacchi la faccia» lo incitò Pietro, che non era certo

il tipo da farsi mettere i piedi in testa. «Alberto, stai esagerando. È un mio vecchio compagno di scuola. Ci siamo visti per caso al bar e stavamo semplicemente scambiando quattro chiacchiere. Adesso non posso nemmeno parlare con un amico?» Letizia gli si rivolse con tono pacato. La tensione si tagliava con il coltello e doveva trovare la maniera di spegnere la miccia che si era innescata. «Per te sono tutti soltanto amici.» Alberto sprizzava bile dagli occhi. «Dimentichi forse che vivevo a Savona fino all’adolescenza. Avevo la mia vita e anche degli amici. Che cosa c’è di strano? Sei tu che trascendi per futili motivi.» Letizia si adoperò per rabbonirlo, dando una spiegazione logica, sebbene non avesse nulla di cui giustificarsi. «Ringrazia il cielo che hai trovato una persona perbene come lei. Al suo posto non avrei avuto per te la sua stessa comprensione» soggiunse Pietro che aveva inquadrato il suo interlocutore. Appoggiò il bicchiere sul tavolino a fianco e, rivolto a Letizia, disse: «Mi ha fatto piacere vederti. E mi spiace che la nostra conversazione si debba interrompere. Spero di ritrovarti in un’occasione meno incasinata.» «Fossi in te non ci conterei» insistette Alberto, che teneva ancora il bicchiere in mano. Metà del contenuto l’aveva versato per aria a forza di agitare le braccia. «Ma levati dai piedi!» Pietro gli ò accanto e gli diede una spallata. «Insomma, ne ho le scatole piene di questi tuoi comportamenti infantili. Sei un gran villano. A me non verrebbe mai in mente di comportarmi come hai dato spettacolo stasera. E ne avrei motivo» il volto di Letizia si rannuvolò al pronunciare le sue ultime parole. «Che significa che ne avresti motivo?» «Significa che ti ho visto fare gli occhi dolci a Lisa e non mi è garbato affatto. Ma non mi sognerei di farti una scenata di gelosia come hai fatto tu.» Alberto non parve scomporsi e la guardò con una certa aria furbesca, mentre Letizia lo esaminava con circospezione.

Sonia l’aveva adocchiata dalla pista e le fece segno di raggiungerla sulle incalzanti note del brano Another One Bites The Dust dei Queen. Era il suo gruppo musicale preferito e al primo accenno Letizia se ne lasciò trascinare seguendo il ritmo. Aveva bisogno di smaltire la sua irritazione e di allontanarsi da quel paranoico di Alberto. Si fecero le cinque del mattino e si udì un rombo incessante di motori. Durante il tragitto, Letizia e Alberto non si dissero granché, se non nell’ultimo tratto. «Sei silenziosa. Non è da te. Ce l’hai ancora con me?» Erano le cinque e quarantacinque quando arrivarono sotto casa di Letizia. Nella città dormiente, non c’era anima viva in giro. Gli uccellini intonavano frammenti di gorgheggi, salutando le prime luci dell’alba. «Non è questione di avercela con te. È che non ho digerito ciò che è successo.» «Ero fuori di me. Forse ho ecceduto, lo ammetto.» «Il fatto che te ne renda conto è già qualcosa. Però queste tue scenate mi urtano. È inammissibile che non sia nemmeno libera di parlare con dei vecchi amici. Mi fai sentire come in prigione. Mi sento soffocare. Dici di avere fiducia in me e poi, da come ti comporti, non sembrerebbe.» «Ti ho già detto che ho perso le staffe.» «Appunto, fino alla prossima volta. Ci ho rimuginato sopra e credo che una pausa farebbe bene a entrambi. Avrai modo anche tu di rifletterci» Letizia aveva un’aria accigliata. Afferrò la maniglia della portiera e stava per scendere dall’auto, ma Alberto la bloccò. «Aspetta, ti prego. Lo sai che a te ci tengo più di chiunque altro. Non voglio perderti.» L’abbracciò forte. Sentì il profumo dei suoi capelli sudati. La avvinghiò a sé ancor di più, quasi volesse avvilupparla con tutto il suo corpo. «Non respiro» Letizia tentò di divincolarsi, come un uccellino che si dibatte per uscire dalla sua gabbia dorata ma non può far altro che svolazzare su e giù all’interno di uno spazio limitato. «Volevo che lo sentissi pure tu. Anch’io non respiro senza di te. Ti prometto che

cambierò e non si ripeterà più ciò che è accaduto stasera. L’amore che ho per te è così grande che arrivo a sragionare. Ma non posso vivere senza di te.» La voce di Alberto si fece addolcita. Gli occhi di Letizia, persi nei suoi, erano pieni di commozione. Bastava poco per convincerla che non era successo niente di grave. O forse era l’amore a fare prodigi.

4

Eleonora si era alzata di buonumore. Malgrado il sole abbacinante invitasse a cullarsi in luoghi più ameni della grande città, a lei poco importava. Si era crogiolata fantasticando su ciò che l’attendeva. Come anticipato alla zia, si recò all’università. L’ultimo lunedì di agosto non c’erano molti studenti perché i corsi erano ancora sospesi. Con o deciso, andò dritta verso l’ufficio della segreteria. Prima di lei c’erano soltanto due persone. Con una mano, agitava nervosa il suo ventaglio bianco; con l’altra, sventolava la lettera ricevuta nei giorni precedenti. La fila procedeva lenta e sui volti delle due impiegate si leggeva lo sfinimento per le pratiche che avrebbero dovuto attivare. Eleonora si mise a sbuffare, mentre la lettera le scivolò dalle mani. Si abbassò e la raccolse. Il foglio si era stropicciato e pazientemente lo lisciò. L’orologio appeso sul muro della stanza segnava le dieci. Quell’attesa di circa mezz’ora le parve interminabile, quando finalmente arrivò il suo turno. L’addetta della segreteria, alla quale mostrò la comunicazione, controllò tra la sfilza di cartelline che aveva sulla cassettina alle sue spalle. Le spulciò una per una, finché trovò quella corrispondente a Eleonora. ò svogliata gli incartamenti tra le dita. Eleonora chiuse il ventaglio e si mise a tamburellare sul ripiano dello sportello. L’addetta, forse infastidita da quel rumore scandito, si alzò dalla sua postazione per chiedere un’informazione alla collega. Le ventole a soffitto erano in funzione ma servivano soltanto a smuovere l’aria calda. Eleonora riprese a sventagliare. Dopo una manciata di minuti l’addetta, inalterata, ritornò al suo posto. Le confermò che nel giro di due settimane sarebbe potuta partire per Lione e le fece compilare dei moduli. Sulla strada del ritorno, si fermò in una panetteria, attirata dal profumo inebriante delle brioches appena sfornate. Volle concedersi un piccolo lusso e ne acquistò due alla crema. Una volta entrata in casa, tirò un sospiro di sollievo misto a una sensazione di ebbrezza. Accese lo stereo e, da buona amante della musica classica quale era, si mise ad ascoltare la nona sinfonia di Beethoven. Le tapparelle erano rimaste abbassate. Andò verso il balcone: chiuse gli occhi e inspirò a pieni polmoni il refluo di aria calda che si propagava dall’esterno.

Si toccò il grosso anello d’argento che portava all’anulare. Aveva una forma triangolare ed era di foggia eccentrica, come tutti quelli che amava indossare. Era una sua piccola debolezza. Lo fece roteare più volte intorno al dito. Era un gesto che ripeteva quando era sovrappensiero. Sarebbe stata lontana da Letizia per parecchio tempo. In tanti anni, era la prima volta che si sarebbero separate così a lungo. Malgrado le loro divergenze, sapeva di essere per lei un punto di riferimento. Fissando dal balcone le alture della città, osservò l’estremità della basilica di Superga. Ebbe un tuffo al cuore. Sapeva ciò che lasciava, ma era pronta all’imminente cambiamento. Sbocconcellò le sue brioches, assaporandone ogni singolo morso. Il ritmo incalzante della musica in sottofondo la conquistò con sempre maggiore intensità. Per lei si apriva un nuovo capitolo.

A metà settembre del 1988 arrivò a Lione con un volo diretto da Torino. Non appena poté immergersi nel luogo, scoprì una città moderna e ricca di monumenti storici. Si respirava un’aria spumeggiante. Le piacque sin da subito e vi si ambientò facilmente, anche grazie alla sua conoscenza della lingua. Nel pensionato universitario, dove alloggiava, aveva fatto nuove amicizie. Poco più di un mese dopo conobbe un giovane specializzando se, Antoine. Era un giovane di bella statura, proiettato verso una luminosa carriera. Molto più maturo dei suoi trentatré anni, dava l’idea di essere una persona equilibrata. I suoi occhi cerulei calamitavano lo sguardo altrui, emanando un fascino discreto. Nacque una storia che all’inizio sembrava promettente. Eleonora visse con lui una parentesi di spensieratezza che le alleggerì il peso degli studi cui si dedicava durante il giorno. Apparentemente, tra di loro andava tutto a gonfie vele. Eppure non ci volle molto perché arrivassero a un punto di rottura. Una sera, mentre erano a cena in un locale, il tizio seduto di fronte al loro tavolo si era messo a fissare Eleonora. O per lo meno così aveva creduto Antoine, che si era infuriato. La piazzata che ne era seguita li aveva costretti ad abbandonare il locale. Nel tragitto verso casa, Antoine aveva accusato Eleonora di essersi vestita in modo troppo provocante. In fondo, la colpa era stata sua se quel tipo non le aveva tolto gli occhi di dosso: secondo lui, con il suo abbigliamento lo aveva stuzzicato. In un primo momento lei non poté credere alle proprie orecchie. Da uno come Antoine non si sarebbe aspettata di dover sentire simili

sciocchezze. E soprattutto non aveva nessuna intenzione di confutare le accuse infondate, dettate da insicurezza e da un’ingiustificata gelosia. Non ci pensò due volte. Gli diede il benservito e lo piantò in mezzo alla strada. Era cresciuta vedendo quanto la madre si sentisse insoddisfatta per aver accondisceso alla volontà del marito contro sé stessa. Si era ripromessa di non permettere a nessuno di tarparle le ali, né tantomeno di sottometterla. Non avrebbe rinunciato né alle sue aspirazioni, né alla sua autonomia, anche a costo di rimanere da sola. Antoine ne aveva fatto le spese. Senza nessun rimpianto da parte di Eleonora.

Intanto la relazione di Letizia con Alberto si era fatta ancora più salda e sembrava che lui avesse imparato a contenere le proprie intemperanze. Gli zii non avevano perso occasione per metterla in guardia, ma la cocciutaggine amorosa di Letizia aveva prevalso sopra a ogni scetticismo. Voleva convincerli a ricredersi sul conto di Alberto. Era stanca di sentirsi sempre sotto tiro. Se l’avessero conosciuto meglio, forse avrebbero ridimensionato il loro giudizio negativo. Il mercoledì mattina dell’ultima settimana di agosto del 1989, Letizia si alzò prima del solito. In casa regnava una quiete assoluta. Dalla finestra della veranda che dava sul cortile interno si scorgevano poche persiane aperte. I gabbiani volteggiavano impavidi alla ricerca di cibo e con i loro garriti rompevano quel silenzio sospeso. I raggi di luce dorata filtravano simmetrici dentro la cucina. Un leggero riverbero illuminò il tavolo. Letizia l’aveva apparecchiato con cura e aveva messo sul fuoco la caffettiera. Aveva disposto le tre tovagliette gialle. L’odore di caffè si effuse, lasciando dietro di sé una scia dall’aroma invitante. Zia Sandra si avvicinò proprio mentre Letizia si stava versando la bevanda nella sua tazzina. «Come mai già in piedi?» domandò la zia stropicciandosi gli occhi. «Di solito sei una dormigliona.» «Ci tenevo a coccolarvi un po’. Normalmente è il contrario e una volta tanto volevo toccasse a me» rispose Letizia con aria innocente.

«Che cosa c’è sotto?» la zia glielo domandò con uno sberleffo di curiosità. «Perché dici così? Da quando non c’è Eleonora, mi sento sola.» «Non è vero, ci siamo noi. E poi tra poco tornerà. Al tuo posto non sarei triste.» «Lo so. Non ti nascondo però che senza la mia roccia mi sento un po’ persa» continuò Letizia. Teneva la tazzina tra le mani e si gustava il suo caffè a piccoli sorsi. «Che cosa si festeggia oggi?» lo zio Corrado si unì al resto della famiglia, ancora tutto spettinato. «Quanto tempo è che non mi capitava una colazione simile?» Fece l’occhietto a Letizia, sicuro che la zia avrebbe bofonchiato. «Non dargli ascolto.» «Hai visto?» lo zio si rivolse alla nipote con aria complice. Si voltò verso la moglie e, abbracciandola, le diede il bacio del buongiorno. «Siete proprio uno so. È bello vedervi così uniti. Spero anch’io di avere la vostra stessa fortuna.» «Che cosa intendi?» zia Sandra si era rabbuiata. Appoggiò sul piattino l’involucro della bustina di zucchero che aveva già versato nella sua tazzina. «C’è qualcosa che non va?» Anche zio Corrado smise di sorridere. «Perché? Intendevo dire che spero anch’io un giorno, non molto lontano, di avere accanto una persona che mi ami profondamente come vi amate voi. Riempie il cuore a vedervi. Tutto qui.» «Per un attimo ho creduto che fosse capitato qualcosa di spiacevole con Alberto» disse zia Sandra tirando un sospiro di sollievo. Intanto il suo caffè si era raffreddato. Riprese a sorseggiarlo senza curarsene troppo. «Al contrario. Con Alberto filiamo d’amore e d’accordo. Anzi, a questo proposito, avrei una richiesta importante da farvi.» Con sincera bonarietà, Letizia fece una pausa. «Tesoro mio, non avere timore. Se possiamo esaudirla, sai che puoi fare

affidamento su di noi.» Con delicatezza, zia Sandra sistemò la sua tazzina. Si girò verso il marito, che a sua volta attendeva di conoscere il seguito dello strano discorso di Letizia. «Vorrei che conosceste meglio Alberto. Vi accorgereste che è un bravo ragazzo.» La voce di Letizia si era fatta affabile. Si mordicchiò le labbra e poi proseguì. «Sarei felice se potessimo invitarlo a pranzo domenica prossima, quando saremo a Torino. Sono sicura che lo vedreste sotto una luce diversa.» Terminò la frase emozionata e si toccò la massa di capelli arruffati. Rimase in trepida attesa di un cenno di assenso. Lo zio Corrado scrollò la testa e guardò la moglie con rara sorpresa. Letizia provò un senso di vago smarrimento. A quel punto intervenne zia Sandra che le diede una risposta pacata. «A dire la verità non ne comprendiamo il motivo. Non devi convincere noi. Può essere che siamo in parte prevenuti sul suo conto. Ciò che però a noi sta a cuore è che tu sia felice. La prima a dovere essere certa che è lui la persona che fa per te sei tu stessa. Il nostro giudizio ha un valore relativo» le disse con tatto ma con tono fermo. Gli zii non volevano urtare la sua sensibilità. «Allora è deciso» la voce di Letizia si fece altisonante. «Ti aiuterò a preparare un pranzo coi fiocchi. Voglio che sia tutto perfetto» proseguì con aria furbetta. «Se davvero ci tieni così tanto...» proruppe spontaneamente zio Corrado. Sul volto di Letizia si spalancò un sorriso enorme. Si avvicinò verso gli zii e li baciò sulla fronte. Sprizzava gioia da tutti i pori. Si preparò per andare alla spiaggia. Il volto di zia Sandra si rannuvolò a un tratto, mentre zio Corrado non parve turbarsi. Il cono della luce del mattino si era già spostato oltre la veranda. Abbacinati dalla luce accecante, i gabbiani insistevano con i loro striduli suoni.

La sera stessa Eleonora telefonò agli zii. Era molto soddisfatta per la sua esperienza ormai prossima alla conclusione. L’anno di specializzazione era stato

davvero formativo e aveva molte aspettative per il suo futuro professionale. Aveva raccolto gli ultimi gettoni per chiamarli dalla cabina telefonica all’interno del pensionato. «Pronto?» rispose zia Sandra, che aveva appena finito di sparecchiare la tavola dagli ultimi avanzi della cena. «Ciao zia» la voce di Eleonora era squillante, sebbene la linea telefonica fosse disturbata da rumori di sottofondo. «Che bella sorpresa! Stavamo giusto pensando a te. Quando potremo rivederti?» zia Sandra non celò la sua esultanza. «Verso metà settembre. Ho ancora un paio di settimane per sistemare i preparativi di rientro. La parte burocratica è la più fastidiosa.» «Due settimane ano velocemente. Dalla tua voce sento che sei contenta.» «Contentissima. È stata un’esperienza favolosa. Però mi mancate tanto e non vedo l’ora di tornare da voi.» «E noi non vediamo l’ora di riabbracciarti.» «Come ve la state cavando? Letizia sta bene?» «Sì, tutto a posto» zia Sandra non sembrò molto convincente. «Sicura? Non si direbbe dalla tua inflessione.» Eleonora si fece sospettosa. Sapeva cogliere le minime sfumature dal tono della voce. «Tanto lo verresti a sapere in ogni caso.» «Non tenermi sulle spine. Sputa il rospo.» «Letizia ha tanto insistito perché invitassimo Alberto a pranzo.» «Che cosa? Non avrete mica accettato?» «Che altro potevamo fare? Tua sorella era così pimpante. Come potevamo rifiutare?» La zia pronunciò esitante le ultime parole.

«E io che mi illudevo che le sarebbe ata. Proprio non le entra nella sua bella testolina che è l’uomo sbagliato per lei.» Eleonora ebbe un moto di rabbia difficile da contenere. «Non ti scaldare. Si tratta semplicemente di un pranzo» cercò di giustificarsi la zia. «Promettimi che non ti lascerai irretire. Conosci la mia opinione su di lui. Uomini del genere non cambiano. Possono camuffarsi dietro a gesti eclatanti o a belle parole. Tutto fumo. Cerca di stare in campana. Non mi è mai piaciuto e continua a non piacermi» disse in modo spiccio. Non aveva più gettoni e la comunicazione s’interruppe bruscamente. L’oscurità della notte si addensò sulla fine della giornata.

5

Le vacanze erano terminate e a Torino si boccheggiava per l’afa opprimente. Zia Sandra non aveva granché voglia di preoccuparsi delle specialità per il pranzo da organizzare quella domenica. Avrebbe voluto sistemare la casa dopo quasi un mese di assenza, ma Letizia era entusiasta e non voleva deluderla. Al mattino presto si era già messa ai fornelli. Aveva steso la tenda verde del balcone per ombreggiare l’ariosa cucina. Il filo d’aria che ava sotto il caldo rovente era sufficiente a non renderla inospitale. La zia aveva previsto un menù semplice a base di piatti freddi. Voleva fare bella figura, pur senza strafare. Alla fin fine, l’ospite non era del tutto gradito. Come antipasto optò per degli affettati e del prosciutto con melone. Decise che un’insalata di riso, condita con una varietà di verdure e formaggio a tocchetti, fosse un buon primo. Del roast beef con insalata sarebbe stata la seconda portata e come dessert aveva previsto della panna cotta. I piatti freddi erano adatti per la stagione e allo stesso tempo non avrebbe dovuto cucinare in maniera elaborata. Letizia aveva dormito poche ore. Era elettrizzata all’idea che Alberto fosse stato invitato ufficialmente. Aveva il privilegio di alzarsi di buon umore. Quella mattina il suo animo era ancora più allegro. Si era messa in testa di dover dare una mano nella preparazione del pranzo. La sua specialità erano i dolci e la zia le lasciò l’incarico di occuparsi della panna cotta. Con il grembiule bianco a fiori rossi, zia Sandra era vicino ai fuochi. Stava mescolando il riso. Si asciugò la fronte. Fissava il vuoto e il cucchiaio di legno le scivolò per terra. «Stamattina siamo un po’ distratte.» Con voce ironica, Corrado andò verso di lei per darle un bacio. Sandra non si era accorta della sua presenza. «Ho capito. Stamattina il caffé me lo preparo da solo» aggiunse lui, facendo finta di essere offeso.

Sandra rimase imperturbata. Il marito fece rumore apposta con un bicchiere. «Scusami, non mi ero accorta che fossi qui.» «Ho notato. È il caldo che ti sfianca?» «Fosse per quello, riuscirei a farmene una ragione» disse con il volto accaldato. «Che altro c’è?» le domandò e intanto prese la scatola del caffé dal mobiletto della dispensa. «Sai che non faccio i salti di gioia per questo pranzo.» «Se è per quello, nemmeno io. L’abbiamo fatto per non scontentare Letizia.» Corrado la confortò con quelle parole, dandole a intendere che era dalla sua parte, come sempre. Afferrò la scatola di latta con i biscotti al cioccolato e la mise sul tavolo. «Non è il caso di prendersela troppo. È solo un pranzo. Non diamogli più importanza di quanto sia necessario. Ci comporteremo normalmente.» «Sarà, però avrei preferito evitarlo. Sai come la penso» aggiunse la moglie con tono polemico continuando a mescolare il riso. «E come la pensi, zietta cara?» Letizia sbucò dal salotto. La stanza era attigua alla cucina e vi si poteva are anche dal balcone. Aveva un vestitino che le stava d’incanto: lo sfondo era color pesca con stampe floreali dalle tonalità tenui. Era elegante senza esagerazione. Quel vestito le calzava a pennello. «Penso che stai una meraviglia. Pare fatto su misura per te.» La zia la guardò estasiata. Letizia era proprio bella. «Concordo con tua zia. Hai messo a soqquadro l’armadio?» lo zio sogghignò di gusto. Smorzò l’aria tesa che stava aleggiando. La nipote finse di imbronciarsi. Le piaceva fare la bambina, specie da quando Eleonora era andata all’estero. Era sempre stata la cocca di casa e, da quando c’era soltanto lei, gli zii l’avevano viziata ancora di più.

Con la mano destra teneva il lembo della sua veste e sfilò in cucina come in erella, tra le risate divertite degli zii. Quando del fumo iniziò a salire, la zia smise di ridere e si affrettò a controllare la cottura del riso prima che bruciasse. Si respirava una strana elettricità. Doveva essere un classico pranzo della domenica, eppure erano tutti inquieti. «Che ne dite allora? Può andare?» Letizia fece finta di assumere un’espressione meditabonda. «Mi metti in confusione. Devo badare al pranzo.» Zia Sandra stava aggiungendo acqua alla pentola di cottura e camminava avanti indietro dal lavello ai fornelli. «Piccola cara, farai un figurone. Anche se non hai bisogno di un abito per essere più deliziosa.» Lo zio cercò di tranquillizzare la nipote e la accarezzò dolcemente. «Vado a scegliere gli orecchini da abbinare e torno ad aiutarti con la panna cotta» disse Letizia rivolta alla zia, facendo attenzione a non sgualcire il suo bel vestitino. La cappa di caldo si era fatta opprimente. La zia accese la ventola a soffitto per smuovere l’aria, ma fu peggio.

Zio Corrado si stava abbottonando la camicia bianca e iniziò a imprecare perché non trovava la sua boccetta di dopobarba al vetiver. Un suono squillante interruppe i preparativi. Era quasi mezzogiorno e mezza. Alberto era arrivato in anticipo di dieci minuti. Impeccabile nella sua tenuta, indossava dei pantaloni blu di tela e una camicia azzurra di lino. Continuava a raschiare la voce in attesa che gli rispondessero al citofono. Teneva in mano dei pacchetti e cercava di bilanciarsi per non farli cadere. Letizia si spostò veloce verso la finestra del salotto per spiare ogni sua movenza. Osservò che, a dispetto della sua consueta compostezza, era teso come la corda di un violino. Continuava a toccarsi la tasca destra dei pantaloni come se avesse una contrazione nervosa.

«È vestito di tutto punto» Letizia avvisò gli zii ad alta voce. «Da come si muove, deve essere agitato.» «Agitato lui?» disse zia Sandra con una punta di ironia. Corrado la guardò per invitarla ad abbassare i toni. Non era il caso di rendere più penosa la situazione. Alberto entrò nell’androne e pigiò il tasto dell’ascensore. Si vedeva che l’edificio risaliva agli anni Cinquanta. Fu ancora più evidente quando entrò nell’ascensore in legno: le antine si aprivano manualmente e per poco non fece cadere ciò che teneva con difficoltà. Letizia sentì che l’ascensore era arrivato e si lanciò sul pianerottolo con il cuore in gola. Un enorme mazzo di fiori gli copriva il volto. Da quando si conoscevano, non ricordava che avesse avuto la finezza di regalargliene. Si intenerì. «Che buon profumo. Sono per me?» «Mi aiuteresti?» Alberto chiuse la porta cigolante dell’ascensore. «Entrate. Letizia la stava aspettando.» Lo zio, pacifico, lo accolse. La zia invece si presentò poco dopo. Si era appena sistemata la sua chioma selvaggia di colore biondo cenere. Anche se non vedeva l’ora che fosse tutto finito, ci teneva ad apparire al meglio. Per non sfigurare, si era messa l’abito grigio di lino. Aveva il pregio di slanciarla e di conferirle un aspetto giovanile. Era abituata a indossare un abbigliamento comodo, soprattutto jeans, ma in quell’occasione fece un’eccezione. Alberto le andò incontro sorridente. «Questi sono per la padrona di casa» e le porse le calle bianche. Sandra fu colta alla sprovvista e apprezzò la cortesia dell’ospite. Tuttavia non sarebbero stati dei fiori, anche se belli, a renderlo diverso ai suoi occhi. «La ringrazio, è molto gentile da parte sua, ma non era il caso. Invitandola oggi abbiamo semplicemente esaudito un desiderio di Letizia» gli disse acida. Voleva che gli fosse ben chiaro il contesto. Letizia strabuzzò gli occhi.

Lo zio Corrado fece finta di nulla e pregò Alberto di accomodarsi. Il giovane aveva colto chiaramente la diffidenza nei suoi riguardi e non fece nemmeno una piega. «Mi sono permesso di portare dei dolci. Li ho presi dalla pasticceria Cravero e spero siano di vostro gradimento.» «Non dovevi. Ma sono certa che li apprezzeremo. È una pasticceria famosa per le sue squisitezze. Nulla da invidiare a quelle di mia zia. Ha preparato un pranzetto da leccarsi i baffi.» Letizia cercò di rendere l’ambiente più disteso. Gli zii stavano mettendo Alberto sotto la loro lente. Temeva che lui se ne sarebbe seccato, senza considerare invece che era in grado di fronteggiare la situazione a proprio vantaggio. La sala da pranzo era stata addobbata con il servizio di cristallo che usavano per le occasioni speciali, come a Natale. Del resto, gli ospiti andavano trattati come si conveniva, almeno nella forma. Alberto si mostrò all’altezza della situazione. Si complimentò con zia Sandra per i manicaretti e ogni volta strizzava l’occhiolino a Letizia. La zia non era di certo il tipo da farsi raggirare, però rimase al gioco. «Vi ringrazio molto. La vostra accoglienza mi ha impressionato» disse Alberto quasi con gli occhi lucidi. «Trattiamo sempre gli ospiti con ogni riguardo» rispose la zia, lanciandogli una sottile frecciatina. «Che ne dite di are al dolce? Vado a prendere il vassoio di pasticcini che ci ha portato Alberto.» Letizia gli rivolse un’espressione innamorata. Pose poi il suo sguardo verso la zia alla ricerca di un cenno di assenso. Tornò con il cabarè che stese sul tavolo e tolse l’involucro. Assaggiò per prima un pasticcino alla panna. Aveva l’espressione di chi assapora un frutto proibito. Un rivolo le colò da un lato della bocca. Alberto glielo asciugò delicatamente con il tovagliolo. Dopo averlo adagiato sul tavolo, esordì: «Vorrei cogliere questa piacevole circostanza per fare una comunicazione importante.» I suoi occhi sprigionavano un barlume fiammeggiante.

«Sicuro di stare bene?» Letizia glielo domandò con ansia. Lo vedeva su di giri. Pensò che forse aveva avuto un bicchiere di troppo. «Sto benissimo. Come sapete, io e Letizia ci frequentiamo già da un paio di anni» proseguì allegro. Zia Sandra fece un greve sospiro di pesantezza. «Continui pure» gli fece lo zio. Sperava che Alberto non avesse colto la punta di ostilità esternata dalla moglie. «Non so se Letizia vi ha raccontato della mia carriera di avvocato. Lavoro nello studio di mio padre, che sono certo conoscerete di fama.» Si interruppe e diede un colpetto di tosse. Voleva catalizzare l’attenzione per rimarcare ancora una volta la sua posizione sociale. «Come dicevo, saprete che ha uno studio importante e ha intenzione di armi il testimone quando deciderà di ritirarsi.» Gli zii lo ascoltarono attentamente, senza riuscire a comprendere dove volesse andare a parare. La zia tentò di alzarsi da tavola con la scusa di rimettere a posto, ma il marito la trattenne con la mano. «Or dunque, ciò che sto cercando di dire è che ci sono tutte le premesse a favore.» Alberto tradì un insincero imbarazzo. Inghiottì la saliva e il suo pomo di Adamo si spostò a ritmo. «A favore di che cosa?» domandò Letizia che fino a quel momento era restata in silenzio. Il secondo pasticcino allo crema era rimasto nel suo piattino. Come gesto automatico, cercò di afferrarlo. Con sorpresa, vi trovò invece una scatoletta blu. Alberto finse di non essersene accorto, intento a sua volta a scegliere un dolcino. «Da dove salta fuori questa scatoletta?» Letizia notò che anche gli zii erano attoniti quanto lei. Alberto le sorrise compiaciuto. La forma del pacchettino non lasciava dubbi sul probabile contenuto. Letizia lo rivoltò più volte, tentennando se aprirlo o se lasciarlo com’era. Cominciò a sudare. «Che cosa aspetti?» Alberto la sollecitò a scoprirne il contenuto. Si versò dello spumante nel calice di cristallo.

Tutti gli occhi erano puntati addosso a lei. «Caspita! Ma sei matto!» All’interno, vi trovò un anello in oro bianco con un brillante. Una sorpresa del tutto inattesa. «Ti piace?» Alberto lo disse con il tono sicuro di chi sapeva di aver fatto centro. Non si sa chi fosse più meravigliato, se lei o gli zii. «E me lo domandi? È bellissimo.» Letizia aveva gli occhi umidi e stava per piangere dalla gioia. «Era da un po’ che ci pensavo. Quale occasione migliore di questa?» dalle parole di Alberto si intuì che aveva in serbo altro da aggiungere. Infilò l’anello al dito anulare sinistro di Letizia e si fermò a contemplarla. Gli zii non osarono esprimere alcun commento. La zia si alzò da tavola per la seconda volta, ma il marito le lanciò di nuovo un’occhiataccia e lei desistette. Guardò l’orologio sulla parete. Era una vecchia pendola a muro che suonava ogni mezz’ora. Era uno dei ricordi dei suoi genitori. Il suono ora le rimbombava con fastidio nelle orecchie. Se avesse potuto, l’avrebbe fatto volare dalla finestra. «Sono ormai due anni che usciamo insieme.» «Non era necessario che mi fi un regalo così importante» lo interruppe Letizia, radiosa e disorientata allo stesso tempo. «Permettimi di aggiungere che questo è il momento giusto per ufficializzare quella che considero molto di più di una semplice storia.» Alberto diede un’enfasi particolare nel pronunciare l’ultima parola. Osservò attentamente gli zii per coglierne le reazioni. «I vostri rapporti riguardano soltanto voi» interruppe lo zio, alquanto infastidito da quella che considerava un’inutile messinscena. «È chiaro. Credo però che riguardi anche voi se la mia intenzione è di chiedere la mano di vostra nipote.» Alberto fece un ghigno di soddisfazione. Alla fine c’era arrivato. Zia Sandra diede inavvertitamente un colpo al tavolo con il ginocchio, nel tentativo di spostare le gambe dalla sedia. Lo zio parve imibile. Letizia,

rimasta a bocca aperta, si ò una mano sulla fronte. Guardava Alberto come paralizzata da un incantesimo. E in un certo senso di incantesimo si trattava. Fino ad allora non aveva preso in considerazione l’idea del matrimonio. E non perché non fosse innamorata di Alberto. Non ne avevano mai parlato prima; ricevere la proposta in quel contesto la spiazzò. «Poco importa ciò che pensiamo noi. Conta ciò che desidera Letizia. È lei a doversi esprimere. Oggi non si usa più chiedere la mano di nessuno.» Zia Sandra lo freddò con naturalezza. Voleva smorzare il suo entusiasmo. Non aveva molta fiducia in quel ragazzo. L’ultima parola però spettava a Letizia. «Amore mio, mi vuoi sposare?» Alberto prese le mani di Letizia tra le sue e le baciò con tenerezza. «Non so che cosa dire.» Intanto lui stringeva forte le sue mani. «Ebbene?» Alberto diede un piccolo segnale di insofferenza. Un bambino viziato come lui non avrebbe accettato un rifiuto. Staccò le mani da quelle di Letizia. Abbassò lo sguardo e con la fronte aggrottata si ripiegò su sé stesso. «C’è bisogno di chiederlo? Certo che sì» Letizia gli si gettò con le braccia al collo. Si sentiva frastornata. «Non dovrai preoccuparti di lavorare. Con uno studio ben avviato come quello che erediterò, penserò io a tutto» disse Alberto tutto tronfio. Un calabrone entrò e andò a posarsi su un piatto. La zia si allontanò di scatto da tavola e rovesciò la sedia, mentre lo zio si affrettò a spalancare la finestra per scacciare l’insetto.

Eleonora era stata in pensiero per il pranzo che la zia le aveva preannunciato. Il suo rientro a Torino era imminente ma doveva sistemare tutto con solerzia. Eppure quel chiodo fisso non l’aveva abbandonata neanche per un istante. Con gli ultimi gettoni che le erano rimasti, chiamò la zia dalla solita cabina telefonica. Per comporre il numero girò compulsiva la rotella. Lo fece con tale foga da allentarne la vite. Infilò i gettoni a uno a uno nell’apposita fessura.

L’ultimo le era scivolato per terra e l’aveva raccolto in tutta fretta. «Pronto zia, come va?» esordì con il fiato corto, come se avesse corso come una disperata. «Abbastanza bene. Tu, piuttosto, a che punto sei con i preparativi?» domandò a sua volta la zia, che voleva eludere ogni riferimento alla novità della giornata. «Procedono. Non mi manca molto.» «Bene. Finalmente tornerai a casa.» Eleonora percepì qualcosa di strano nel tono della sua voce. Qualcosa doveva essere successo per forza. «Com’è andato il pranzo?» Eleonora batté le nocche contro la vetrata della cabina telefonica. Seguì una manciata di secondi di silenzio. Eleonora tamburellò le nocche con maggiore insistenza. «Qualcosa ci sarebbe» la zia indugiò a rispondere. Non era da lei tergiversare. Si espresse con un tono flebile. «Ecco, me lo sentivo. Scommetto che riguarda quel mascalzone.» Con gli occhi fuori dalle orbite, Eleonora trepidava nell’attesa di conoscere la risposta. Aveva smesso di picchiettare con le dita. «Verso la fine del pranzo ha sbalordito tutti regalando a tua sorella un anello con brillante.» La zia fece una pausa. «Si vede che voleva mettersi in mostra davanti a voi. C’è forse dell’altro?» «Ne parleremo appena sarai a casa. Il resto può attendere.» La zia si era ficcata in un vicolo cieco e non sapeva come uscirne. Era combattuta. La preoccupazione aveva preso il sopravvento sulla gioia. «Lascia perdere per il momento il mio rientro. Voglio sapere che altro mi nascondi.» Eleonora si stava innervosendo.

La voce metallica della cabina le ricordò che doveva aggiungere altri gettoni se non voleva che la comunicazione se interrompesse. «Ci mancava anche questo» un’accentuata acredine caratterizzò la sua voce. Inserì alcuni gettoni e proseguì: «Per favore, zia, dimmi tutto prima che la conversazione si interrompa. Sarebbe davvero seccante finirla così». La zia comprese che ormai la frittata era fatta. «Va bene. Il pranzo di oggi nel complesso non è andato male. È che alla fine ci ha colti tutti impreparati, compresa tua sorella.» «Impreparati a che cosa?» Eleonora la incalzò. «Sul fatto che ha chiesto di sposarla. Con tanto di anello di fidanzamento. Letizia cadeva dal pero. A quanto pare, non ne avevano mai parlato prima.» La zia fece un grosso sospiro. Finalmente si era tolta un peso. «Spero che non sia stata così ingenua da acconsentire senza prima rifletterci.» «Se si è innamorati, c’è poco da riflettere. Quando tuo zio me lo chiese, ero così felice da non avere il minimo dubbio. È stato del tutto naturale.» «Vorresti dire che Letizia non ha esitato ad accettare?» Eleonora aveva la voce infiammata e le palpitava la giugulare. «È così. Ne era entusiasta.» Zia Sandra abbassò la voce sconsolata. «Non è possibile! È completamente dissennata!» gridò Eleonora furibonda. La giugulare si era gonfiata e sembrava dovesse esploderle dal collo. «Si dice che l’amore è cieco. Tua sorella ha i paraocchi ma è adulta e non possiamo impedirle di fare le sue scelte.» «Possiamo però farla ragionare, se riteniamo che stia commettendo un errore.» «Al cuor non si comanda. Non puoi pretendere di farla ragionare se il suo cuore batte per quello sciagurato.» Nella voce di zia Sandra si percepì un sentimento di rassegnazione. Durante tutto il tempo della telefonata non aveva fatto altro che attorcigliare il filo della cornetta. Era talmente aggrovigliato che sarebbe stato

inutile srotolarlo. «Hai detto bene. Quello porterà soltanto sciagure» disse Eleonora colpendo l’apparecchio telefonico.

La settimana successiva all’invito degli zii di Letizia, Alberto aveva organizzato a sua volta un pranzo a casa dei genitori. Voleva dare loro l’annuncio, confidando sulla loro benevolenza. Letizia aveva perso l’intera mattinata a scegliere l’abito adatto. Voleva apparire impeccabile per il suo primo incontro con i futuri suoceri. In fondo all’armadio aveva scovato il vestito celeste che non metteva da una vita. Sul suo fisico asciutto, le stava d’incanto con il cinturino blu. E il cerchietto celeste tra i capelli sarebbe stato perfetto. Si era truccata in maniera leggera, dando risalto ai suoi bellissimi occhi verdi. Sulle sue labbra carnose aveva preferito un lucidalabbra rosa tenue al posto del rossetto. Le unghie, laccate con uno smalto della medesima sfumatura, le conferivano un aspetto da brava ragazza. Sperava di fare colpo su di loro, o quantomeno di ingraziarsi le loro simpatie. Alberto era ato a prenderla alle undici meno un quarto con la sua Fiat 124 Spider bianca. Gliel’avevano regalata i genitori per la sua laurea tempo addietro e ci scorrazzava di tanto in tanto. In città preferiva girare con lo scooter, un Benelli. Quella però era una circostanza speciale. Ed essendo domenica, avrebbe fatto la sua bella scena con Letizia. Una volta salita a bordo, sfrecciarono con le chiome al vento, come in una memorabile scena del film Casablanca con Humphrey Bogart e Ingrid Bergman. Film in bianco e nero che Letizia amava particolarmente.

I genitori di Alberto vivevano sulle prime alture di Torino. La loro villetta, in stile liberty, era circondata da un ampio giardino molto ben curato. Il padre l’aveva acquistata da un vecchio aristocratico senza discendenza per togliersi uno sfizio. Una cancellata alta due metri e mezzo la cingeva tutta attorno: di ferro battuto massiccio, conferiva un aspetto imponente e sontuoso alla facciata. Il resto era

nascosto da una fitta e alta siepe che proteggeva da sguardi indiscreti. Alberto era sempre stato vago con Letizia su dove vivesse. «Caspita! Sembra una reggia» disse lei piena di stupore, come Alice nel paese delle meraviglie. «E non hai ancora visto all’interno» disse Alberto con prosopopea. La prese per mano e la condusse verso l’ingresso. Ancora prima che battesse due colpi, il fido Ambrogio aprì la porta. Sulla cinquantina ata, era al servizio della famiglia Barberis da oltre vent’anni. Incarnava l’immagine del perfetto maggiordomo: bardato nella sua livrea con tanto di guanti bianchi, esibiva un perfetto aplomb. «Non credevo fossi così dannatamente ricco.» Il commento sfuggì d’istinto a Letizia. Si portò una mano sulla bocca per ricacciare indietro ciò che ormai le era già scappato. «Che differenza fa? Mi basta sapere che mi ami.» Alberto scoppiò in una risata talmente sonora da mettere in imbarazzo persino l’indifferente Ambrogio. «Vedo che ti stai divertendo, mio piccolo caro.» Una voce femminile, dal timbro secco, richiamò Alberto all’ordine. Non volava neanche una mosca; si era abbattuto un silenzio colmo di disagio. Letizia strinse la mano di Alberto come una bambina impaurita in cerca di protezione. Egle Giordano apparve all’ingresso, sbucando dal nulla. Era vestita di tutto punto: pantaloni di popeline bianchi abbinati a una camicia grigio perla di seta, con un foulard celeste scialbo appoggiato sulla spalla sinistra per puro vezzo. Al collo le pendeva un collier d’oro dalle maglie spesse. Alle dita, anelli di diversa foggia con pietre preziose, quali un rubino e uno smeraldo. Oltre a un bracciale, rigorosamente d’oro, al polso destro. Si teneva appoggiata a un bastone da eggio nero con il pomello a forma di aquila, più per incutere un certo timore reverenziale che per effettiva necessità. Si era piazzata davanti a loro e non aveva nessuna intenzione di muoversi di un centimetro. Cominciò a squadrare Letizia dall’alto in basso. Osservò con cura ogni più insignificante dettaglio: le stava facendo la radiografia dalla testa ai

piedi. «Non mi presenti la tua amica?» disse Egle con autorità, rompendo quel silenzio innaturale e fastidioso. Letizia non sapeva più dove dirigere il proprio sguardo. Egle era riuscita nel suo intento di metterla in soggezione. «Certo, mamma. Ti presento Letizia, la mia fidanzata.» Alberto lo disse con convinzione. Non voleva che la madre pensasse che Letizia fosse una semplice amica, né tantomeno che non venisse trattata con ogni premura. «Buongiorno signora. Sono lieta di fare la sua conoscenza. Alberto mi ha parlato così bene di lei.» Letizia disse la frase più banale che le potesse venire in mente in quel frangente. «Vorrei ben vedere che non fosse così.» Egle si affrettò a ribattere con una stoccata che zittì la povera Letizia. «Mammina cara, sei splendida. Sembri una regina.» Quando voleva, Alberto sapeva essere un abile adulatore. La madre conosceva bene il figlio, ma le piaceva ricevere le sue smancerie. «Non sembra una ragazzina, mia madre?» disse continuando a riempirla di moine, mentre la madre fingeva che non le importasse. Letizia si astenne dal fare commenti. Temeva di parlare fuori luogo. Alberto le lasciò la mano e si diresse a dare un bacio di saluto alla madre. «E papà dov’è?» si affrettò a domandare. «È nel suo studio. Sta finendo di scrivere l’arringa finale di quel processo che lo ha tanto impegnato» gli rispose la madre. «Ambrogio, vai ad avvisarlo che suo figlio è arrivato ed è in compagnia.» «Subito, signora.» Come un robot addomesticato, Ambrogio eseguì l’ordine. Letizia si sentiva come un pesce fuor d’acqua in quell’ambiente così distante dal suo. Essere definita in compagnia non era propriamente una buona premessa. Tutto sommato le bastava che ci fosse il suo Alberto con lei. Il resto non contava. Così almeno credeva.

Dopo alcuni minuti si spostarono nel grande salone, preceduti dall’impeccabile Ambrogio che aprì le porte per fare strada. La stanza era grande quasi quanto la metà dell’appartamento in cui viveva Letizia con gli zii. Una parte di esso era arredata con divani in pelle che facevano da sfondo alla zona salotto; sul lato opposto, c’era un grande tavolo in rovere che poteva ospitare fino a dieci persone. Ed è lì che avrebbero consumato il pranzo. Letizia ne stava ammirando lo sfarzo quando il padre di Alberto fece la sua comparsa. L’avvocato Barberis, esterrefatto di trovarsela davanti, la guardò accennando un mezzo sorriso che Letizia corrispose timida. La moglie, che aveva colto il loro scambio di sguardi, arcuò il sopracciglio destro a mo’ di rimprovero per la gentilezza che, secondo lei, il marito aveva manifestato nei confronti di quella che considerava una semplice ospite. L’avvocato si ricompose in fretta e assunse un atteggiamento formale. «Benvenuta a casa nostra» disse a Letizia con fare falsamente cortese. «Ringrazio di essere qui oggi e di potervi finalmente conoscere.» Letizia lo disse con sincera spontaneità. La madre di Alberto non proferì una parola, ma dal suo incedere si capì che non ricambiava con altrettanta partecipazione. «Ora che le presentazioni sono state fatte possiamo sederci a tavola» disse avvicinandosi al suo posto. «Ambrogio, possiamo cominciare con l’aperitivo.» Era la padrona, abituata a dare ordini al personale di servizio che eseguiva senza battere ciglio. La casa era il suo unico regno. Con il marito la questione era assai diversa. Letizia seguì Alberto con gli occhi. Non osava avvicinarsi al tavolo; aveva paura di fare la mossa sbagliata. Alberto se ne rese conto e le indicò dove sedersi. Come gli era stato insegnato, da galantuomo scostò la sedia per farla accomodare. Ambrogio fece portare l’aperitivo, a mano a mano che i commensali conversavano ingannando il tempo con chiacchiere di poco conto.

Il pranzo che Egle aveva imbastito era degno di un principe. Naturalmente non aveva cucinato di persona, ma aveva fatto comprare le vettovaglie dalla Gastronomia Steffanone, la più antica di Torino. Come antipasto aveva previsto l’insalata russa e il vitello tonnato. A seguire, gli agnolotti del plín al ragù di carne; come secondo, la lingua di vitello con il bagnetto verde e il brasato al Barbaresco. Per finire, la torta di pasta frolla alle mele. Per l’intera durata del banchetto, Letizia sentì di essere sotto i riflettori. La madre di Alberto in particolare continuò a scandagliare con il suo sonar ogni minuzia. La stava studiando per capire che cosa il figlio ci avesse trovato di speciale. Lo fece con i sui modi snob, alquanto irritanti. Nella sua genuinità, Letizia riuscì a reggere. Le costò parecchia fatica, come se si fosse inerpicata su per delle balze. Prima di arrivare al dessert, Alberto prese coraggio. Non che fosse un pavido, al contrario; era consapevole però che, per i suoi, la notizia sarebbe giunta improvvisa. «Cara mamma, ci hai deliziato con una carrellata di prelibatezze. Ne convieni, Letizia mia adorata?» disse, e la guardò con occhi da pesce lesso. In cuor suo credette di mostrarsi languido. Letizia invece si trattenne a stento dal ridere. «Gli ospiti vanno trattati con ogni zelo» gli rispose la madre guardando con la coda dell’occhio quella che riteneva nulla di più che un’amica del figlio. Letizia fece lo gnorri. Prese a toccare nervosamente il ciondolo della sua collana. Sul dito anulare portava l’anello d’oro col brillante che Alberto le aveva regalato la settimana prima. Egle lo notò ed ebbe un leggero sussulto. Paventò ciò che non avrebbe mai voluto che accadesse. Diresse il suo sguardo verso il figlio che, in preda a un contenuto impeto, moriva dalla voglia di proseguire il discorso iniziato. «Sappiamo che le buone maniere non ti fanno difetto, mamma cara.» Con nonchalance e con piaggeria, Alberto aggiunse: «Letizia non è una semplice ospite. Ho voluto che la conosceste perché presto la situazione cambierà.» Il padre, che lo aveva osservato senza blaterare, posò il calice di vino rosso che

stava per portare alle labbra. «Figliolo, a quali cambiamenti ti riferisci?» L’avvocato Barberis si era appena asciugato la bocca con il suo tovagliolo e attendeva proteso. «Al fatto che ho chiesto la mano di Letizia e lei ha accettato. Ci sposeremo tra sei mesi.» Nella stanza calò il silenzio. La notizia li travolse come un uragano. I genitori di Alberto si erano trasformati in due statue di ghiaccio. Fredde e immobili. «Vi ho lasciato senza parole, non è vero?» Alberto sembrava davvero compiaciuto. Si avvicinò a Letizia e le prese una mano. «Ne sono profondamente innamorato. Forse è la volta buona che metterò la testa a posto.» «Non siete ancora troppo giovani per un o così impegnativo?» esordì la madre di Alberto con malcelato sbigottimento. «Tua madre ha ragione. Forse sarebbe meglio rimandare più avanti ogni decisione. Almeno fino a quando la tua posizione non sarà meglio consolidata» intervenne il padre. Sul volto di Alberto si spense il sorriso luminoso che aveva stampato fino a quel momento. Letizia non aprì bocca. Era rimasta davvero molto male. Si sentì colpita dallo sguardo sprezzante della madre di Alberto, che seguitò a osservarla per alcuni istanti che le parvero interminabili. La leonessa aveva tirato fuori gli artigli. Del resto, da un tipo spocchioso come lei, sarebbe stato difficile immaginarsi una risposta diversa. «Dovresti stare a sentire i tuoi genitori» Letizia spezzò quella cappa ambigua che aveva avvolto l’atmosfera. «In fondo, che fretta c’è?» aggiunse, mentre le mani le tremavano. Riuscì a contenersi stringendole al tovagliolo. Egle alzò un sopracciglio con fare interrogativo e rincarò la dose: «Nessuno vi corre dietro». «Insomma, dovreste condividere la mia gioiosità e invece soltanto questo sapete dirmi? Di pensarci ancora? Mi spiace deludervi ma la mia decisione è presa.» La

fredda accoglienza dei genitori aveva sì spento in Alberto il suo fervore, ma non al punto da fargli cambiare idea. «Letizia farà parte della famiglia e non sarà più una semplice amica.» Lo disse baciandole la mano che stringeva teneramente tra le sue. Si rivolse alla madre e proseguì: «Ora dovremo definire i dettagli, ma possiamo farlo con calma». Alberto fece un sospiro e tirò a sé Letizia, la quale non aggiunse altro per non peggiorare la situazione. «Ne sei davvero convinto?» disse il padre, che in cuor suo sperava che il figlio non commettesse una leggerezza. «Ci puoi scommettere.» «Se non possiamo indurti a prendere tempo, vorrà dire che proveremo ad adeguarci, non è vero cara?» disse l’avvocato alla moglie. «Il bene di mio figlio viene prima di tutto. Se è proprio ciò che desideri, cercheremo di farcene una ragione.»

In un modo o nell’altro, Alberto ce l’aveva fatta a metterli al corrente delle sue intenzioni. «Direi che in fondo è andata bene» disse a Letizia, ancora sottosopra per quella giornata particolare. «Non mi sembra poi tanto bene» gli rispose, adombrata per l’accoglienza ricevuta. «Aspetta e vedrai. Non credevano che fi sul serio con te. Dobbiamo lasciare che abbiano il tempo di digerire la notizia. Sono sicuro che si risolverà tutto senza complicazioni.» «Ne sembri persuaso. Francamente io un po’ meno. E tua madre poi...» Letizia buttò lì la frase per sondare quale sarebbe stato l’effetto su di Alberto. «Mia madre che cosa?» il tono di Alberto si fece seccato. «Tua madre non mi ha dato l’impressione di essere molto espansiva. Forse non le piaccio granché.»

«Non crearti problemi inutili. Mia madre ne ha ate tante. Il suo carattere si è indurito, ma ti garantisco che sotto quella scorza si nasconde un cuore tenero.» Com’era ovvio, Alberto difese la madre a spada tratta. Letizia lo comprese forte e chiaro. Avrebbe avuto un bell’osso duro contro cui combattere. «Vedrai che quando ti conoscerà meglio non potrà che apprezzarti.» «Chissà. Vedremo.» «Sarà così.» «Visto che il dado è tratto, bisognerà scegliere la chiesa. Mi piacerebbe tanto che celebrassimo il nostro matrimonio in quella dei Cappuccini a Savona. Quanti bei ricordi.» Con aria trasognata, Letizia si sistemò il ciuffetto ribelle di capelli che le copriva parte della fronte. «Scordatelo. Voglio una cerimonia in grande. I miei ci terranno su questo.» «Non dobbiamo invitare chissà quante persone. Non sarebbe bella una cerimonia con pochi intimi?» «Con le spese che sosterrebbero i miei, non vogliamo dar loro la gioia di fare una festa in pompa magna?» «Spiegati meglio.» Letizia si era fatta scura in volto. «C’è poco da spiegare. Non credo che i tuoi zii abbiano le stesse disponibilità economiche dei miei.» «Come ti permetti? Sei un gran maleducato!» «Non è il caso che ti scaldi tanto. Sto dicendo la verità, senza offesa.» «Senza offesa, un corno! Non sarò di famiglia ricca come la tua ma ho una famiglia che mi vuole bene.» «E chi ha detto il contrario? Anch’io ti voglio bene, se è per questo. Altrimenti credi che vorrei sposarti?» «Guarda che ci si sposa in due. Non sei soltanto tu a sposare me.» Letizia se l’era presa sul serio. Staccò la sua mano da quella di Alberto.

«Non facciamola tanto lunga. Per la chiesa direi che la Gran Madre qui a Torino non sarebbe affatto male.» «Insomma, tu decidi e io devo assecondarti. Che a me piaccia o non piaccia, chi se ne frega, no?» Letizia era un fiume in piena. Prima si era trattenuta, ma ora doveva sbottare. «Quanto la fai difficile. Pensa allo scenario. La chiesa è in una posizione invidiabile con il Po che fa da cornice. Vedrai come sarà emozionante.» «Affidati alla tua bella parlantina. Tanto sono sempre io che devo cedere. A dirla tutta, non è che mi vada tanto bene.» Letizia era profondamente amareggiata. «Lo sai che non è così.» Alberto si rese conto in ritardo di aver ferito la sua sensibilità. Dall’alto del suo egocentrismo, non era portato ad accogliere altro da sé. Parlava di matrimonio, di una vita condivisa insieme a Letizia, mentre in realtà non vedeva che sé stesso. Dava per scontato che lei lo avrebbe seguito senza fiatare, come sua madre aveva fatto con suo padre. Questa era l’impostazione che aveva ricevuto. Lo stesso schema che avrebbe voluto ripetere, convinto che fosse giusto così e che Letizia non avrebbe avuto nulla da ridire. Invece aveva fatto male i suoi conti. Letizia era accondiscendente ma non sottomessa. «Sai che facciamo? Teniamo tutto in sospeso. Non c’è nessuna scadenza e possiamo aspettare a sposarci.» Letizia lo disse con assoluta convinzione. Proprio lei, innamorata com’era, gli aveva appena detto che potevano rimandare il matrimonio. Alberto non si capacitava che la sua futura moglie stesse dando un calcio a una simile opportunità. Non si capacitava che la prescelta osasse mettere in discussione una decisione che lui aveva già preso. «Stai scherzando?» «Per niente.» «Ti avviso che se stai facendo i tuoi giochetti, con me non attacca.» «Nessun giochetto.» Lo scambio di battute assomigliava a una partita di ping pong: a un colpo di

pallina ne seguiva immediatamente un altro. «Stai cominciando a darmi sui nervi.» Sempre più irritato, Alberto fece per prenderla per i capelli. «Fattela are.» Lucrezia si lisciò i fulgidi capelli castani prima che Alberto avesse il tempo di tirarglieli. «Anzi, sai che faccio? Vado a casa e ci dormo su. È stata una giornata pesante.» «Se te ne vai, domani potresti non ritrovarmi.» Alberto fece apposta a titillarla. Si piantò con le braccia incrociate, impedendole il aggio. «Vedi tu.» Letizia ripensò al comportamento della madre di Alberto e la rabbia le montò. Il tipo di suocera dalla quale è meglio tenersi a debita distanza. Ecco spiegato il suo cambiamento di umore. «Non te ne andare. Hai il potere di farmi uscire dai gangheri. Non so quante volte te l’ho detto che non posso vivere senza di te.» «E con questo?» Letizia non voleva dargliela vinta. La sua vocina interiore le aveva fatto scattare un allarme. Se il suo fidanzato aveva l’audacia di fare delle affermazioni che suonavano offensive, che cosa sarebbe successo una volta diventato suo marito? Ritenne che il comportamento di Alberto in quella circostanza fosse da imputare alla tensione che l’idea del matrimonio gli stava causando. Pensava che tutto si sarebbe appianato. Ancora una volta cercò di giustificarlo, ignorando quella vocina. Non voleva accrescere il nervosismo e decise che sarebbe stato meglio rivedere la scelta della chiesa in un secondo momento. Non aveva più voglia di restare con lui e si fece accompagnare a casa. Dopo il loro battibecco, non lo aveva degnato di una parola per tutto il tragitto. Una volta arrivati, cercò di allontanarsi alla svelta. «Mi lasci così, senza nemmeno un bacio?» le disse Alberto. «Hai proprio una bella faccia tosta.»

«Non ti si può dire niente. Te la prendi troppo. Non abbiamo trascorso una bella giornata? Ho anche reso ufficiale la nostra relazione. Che cosa vuoi di più?» Alberto si aggiustò il suo pullover che era solito portare sulle spalle, giusto per darsi un tono. Tentò di abbracciare Letizia che invece si divincolò. «Non voglio proprio niente. Adesso sono veramente stanca. Una sana dormita farà bene a tutti e due. Ti saluto.» Uscì dall’auto sbattendo la portiera. Nella fretta rabbiosa di andarsene dimenticò sul sedile il foulard arancione che aveva messo per proteggersi i capelli durante la corsa con la decappottabile. Alberto provò a chiamarla, ma lei aveva già chiuso il portone di casa dietro di sé.

Erano ate poco meno di tre ore da quando Letizia era rientrata. Si rinchiuse nella sua stanza e da lì non si mosse praticamente per tutta la sera. Non aveva nemmeno voluto cenare, adducendo la scusa di un fastidioso mal di testa. Gli zii avevano cercato di sapere com’era andato il pranzo dai futuri suoceri. Avevano capito che qualcosa era andato storto, però non avevano fatto domande. Sapevano che sarebbe stata Letizia a confidarsi, qualora lo avesse ritenuto. Aprì la finestra della camera per lasciar entrare quell’odore di sole caldo che si sentiva nell’aria di fine estate. La vista dava su corso Belgio e a quell’ora c’era ancora un gran movimento di gente. Osservò una coppia di ragazzi che si abbracciavano. Chissà da quanto si frequentavano, pensò Letizia. Nei primi tempi con Alberto anche lei aveva provato lo stesso batticuore. Non appena si lasciavano, le mancava terribilmente. Quanti baci si erano dati, fino a consumarsi le labbra. Fu assalita da una forte malinconia mescolata a tristezza. Si accese una sigaretta. La inspirò lentamente e cominciò a vagare con la mente. Come poteva un ragazzo dolce e affettuoso, come sapeva essere quando voleva, diventare così brutale fino al punto di ferirla nell’intimo ed essere incapace di cogliere il dolore che le causava? Possibile che si trovasse di fronte a una sorta di Dottor Jekyll e Mister Hyde? Non voleva crederci. Preferiva concedergli un’attenuante che le apparisse plausibile. Ne era talmente innamorata da are sopra a tutto. Eppure la sua vocina interiore più e più volte l’aveva messa in guardia, ma aveva preferito ignorarla, respingendola con forza. Invece avrebbe fatto meglio ad ascoltarla, proprio come avrebbe dovuto dare retta a sua sorella.

L’amore, si sa, può fare miracoli, ma dovrebbe essere nel bene e non nel male. Bisognerebbe darsi il coraggio di ribaltare certe situazioni prima che degenerino. Facile a dirsi. Se Eleonora fosse stata lì con lei, avrebbero avuto uno scontro. Perlomeno avrebbe avuto una controparte con cui ragionare ad alta voce. Con Alberto era diventato difficile confrontarsi. Probabilmente gli era costato parecchio informare i genitori delle proprie intenzioni. Si convinse che sicuramente era quello il motivo per cui era diventato offensivo. Non sapeva nemmeno lui ciò che stava dicendo. Non era colpa sua, povero Alberto. Tutto si sarebbe accomodato. Diede un’ultima boccata alla sigaretta prima di spegnerla. Il filo dei suoi pensieri fu interrotto dallo squillo del telefono. Si precipitò a rispondere. Il cuore le martellava forte nel petto. Forse era Alberto che voleva scusarsi per il suo comportamento. «Pronto?» rispose trafelata. «Pronto, Letizia. Che bello sentirti» udì dall’altra parte della cornetta. «Eleonora come stai?» Letizia cambiò voce, ando da un tono agitato a un tono piatto. Si sedette sulla sedia accanto al telefono. In capo a una settimana Eleonora sarebbe tornata a Torino. I suoi preparativi erano agli sgoccioli. «Che accoglienza calorosa» disse ironica Eleonora. «Chi credevi che fosse? Non ti fa piacere sentirmi?» «Certo che sì. Sono soltanto stanca. Tutto qui. Allora, tra pochi giorni ci rivedremo finalmente.» Voleva fingere di essere tranquilla. Un leggero tremore nella sua voce la tradì. «Va tutto bene?» «Come dovrebbe andare?» «Ecco, lo sapevo. Dai, vuota il sacco. Che cosa c’è che non va?» Eleonora aveva intuito quale, o meglio chi, fosse la causa del suo malumore. «Niente di particolare. È stata una giornata... diciamo diversa» Letizia stentava a tirare fuori ciò che la tormentava.

«È qualcosa che ha a che fare con quello là?» Eleonora non pronunciava quasi mai il nome di Alberto. «Ricominci? Se questo è il tenore della conversazione, ti o subito la zia.» Era evidente che Letizia fosse molto nervosa. Eleonora sapeva di doverci andare cauta quando toccava quell’argomento. Fece lo sforzo di contenersi. «Aspetta. La zia la saluto dopo. Raccontami che cos’hai. Non ho molti gettoni» disse Eleonora con tono quieto. «Diciamo che il pranzo a casa dei genitori di Alberto non è andato esattamente come speravo.» «Ti hanno trattato male?» Eleonora iniziò a battere le dita contro il vetro della cabina. «Sono stati educati, come si conviene a persone del loro lignaggio. Pura forma.» Letizia aveva bisogno di sfogarsi. Eleonora, seppur severa nei suoi giudizi, restava comunque il suo punto di riferimento. «Come ti sono parsi?» «Non particolarmente coinvolti. Soprattutto la madre. Non ha perso occasione per farmi intendere quanto conti il figlio per lei.» «E lui ti ha difeso?» «Non più di tanto.» La risposta che diede Letizia lasciò percepire la sua profonda delusione. «Se posso dirtelo, non è un buon segnale.» Eleonora cercò di dosare le parole per evitare che Letizia si richiudesse a riccio. «Lo so da me. Non è finita qui, però.» «C’è dell’altro?» «A dire il vero sì. Forse è pure peggio.» «Che cosa ti ha fatto, quello...» Eleonora si trattenne in tempo e non terminò la

frase. La collera le stava salendo. «Stavamo discutendo tra di noi sulla scelta della chiesa ed è venuto fuori sottolineando la disparità economica tra le nostre famiglie. È un’affermazione che mi ha ferito profondamente.» «Accidenti, è senza ritegno. Sei ancora in tempo per tirarti indietro. Non lo devi sposare per forza. Pensaci bene. È un o troppo importante per prenderlo a cuor leggero. Soprattutto alla luce di quanto mi hai appena detto. Nessuno te ne farà una colpa se deciderai di mandare tutto all’aria.» «Non è in discussione il sentimento che provo per Alberto. È il contorno che non mi piace.» Letizia cercò di minimizzare come al solito. «A breve sarò a casa, così ne potremo parlare.» Furono le ultime parole di Eleonora. Aveva esaurito i gettoni e la comunicazione si interruppe.

Alle tre del pomeriggio della domenica successiva Eleonora rientrò a Torino, dopo l’anno della sua specializzazione. Gli zii si erano offerti di andare a prenderla alla stazione di Porta Nuova, ma la nipote volle raggiungerli a casa direttamente. L’accoglienza fu davvero festosa. Il periodo di lontananza aveva lasciato un vuoto e quando poterono riabbracciarla capirono quanto la sua assenza fosse pesata a tutti. Nell’aspetto fisico non era cambiata. Aveva soltanto accorciato di poco la sua folta chioma. Ora, al posto della coda di cavallo, usava un fermaglio per raccogliere lateralmente i capelli e chiuderli al centro sulla nuca. Una pettinatura che le conferiva un’aria bon-ton. Sembrava diversa. Più consapevole del proprio valore e più determinata a lottare per la propria indipendenza. La sua intenzione era di fare pratica presso uno studio dentistico e, dopo qualche anno di esperienza, aprirne uno tutto suo. Sistemarsi con un uomo non era tra le sue priorità, a differenza di Letizia. A sentire lei, il suo amore per Alberto era sincero. A Eleonora però non era ancora del tutto chiaro se lo fosse davvero o se fosse innamorata dell’idea dell’amore. Faticava a comprendere le ragioni che avevano spinto la sorella a ritenersi appagata al pensiero che con il matrimonio si sarebbe potuta realizzare. Avevano avuto gli stessi genitori e la stessa educazione. Eppure, erano molto dissimili.

Eleonora si era persuasa che la perdita dei genitori avesse dato un duro colpo alla sorella. L’anaffettività del padre le aveva penalizzate e la più fragile delle due ne aveva evidentemente risentito. Di ciò ne era convinta. Letizia aveva il carattere accondiscendente della madre e inconsapevolmente ne stava ricalcando il modello. Eleonora, al contrario, ne era conscia e temeva che Letizia sarebbe stata infelice con quel tipaccio. Si sa, il raziocinio poco o nulla può contro le ragioni del cuore. Inutile persistere a combattere contro ciò che non si può sconfiggere. Eleonora avrebbe dovuto mettersi in testa che ormai Letizia era risoluta, giusto o sbagliato che fosse. Non poteva essere lei a dirigere la sua vita. Poteva consigliarla e continuare a proteggerla per quanto le fosse concesso. Non poteva però pretendere che le obbedisse soltanto perché era la sorella maggiore. Doveva limitarsi ad accettare le sue scelte, anche se non le condivideva. E starle vicino. Letizia aveva bisogno di lei più di quanto osasse ammettere con sé stessa. Desiderava essere appoggiata e non criticata. Eleonora sapeva che il suo sostegno era fondamentale affinché Letizia affrontasse serena il cambiamento che si apprestava a vivere.

La mattina successiva la zia aveva imbandito la tavola per la colazione con invitanti leccornie. Voleva che la nipote maggiore si sentisse finalmente a casa. Le aveva preparato la sua torta favorita, quella di carote. Erano tutti svegli, a parte Eleonora. Gli zii avevano già preso il primo caffé della mattinata, mentre Letizia aveva messo a scaldare il bricco del latte. «Quante emozioni. Il viaggio, il tuo matrimonio, il rientro a casa. Eleonora sarà ancora stravolta» disse zia Sandra a Letizia, che aveva posato le bustine dello zucchero di fianco alla sua tazza e si accingeva a preparare un’altra cuccuma. «Sono sicura che appena sentirà l’odore del caffé la vedremo comparire.» Letizia era più allegra del solito. A dire il vero, era radiosa. Di lì a pochi minuti il caffé era pronto. Come aveva previsto, spuntò Eleonora. «Tesoro caro, hai riposato bene? Credevo che avresti dormito a lungo» le disse la zia con un sorriso enorme. Il sole stava inondando la stanza: il cinguettio degli uccellini vibrava con maggiore incanto. Sembrava che parteciero a quel momento di felicità familiare.

«In realtà mi sento ancora sottosopra, ma non mi andava di restare a letto. E sono stata attratta dal profumo di caffé appena fatto» disse Eleonora stropicciandosi gli occhi. Il suo volto era rilassato. Si sistemò i capelli in disordine e si mise a sedere. «Che vi avevo detto?» disse Letizia sogghignando. Zio Corrado, all’opposto, era di poche parole. Ci metteva un po’ a carburare. Aveva l’abitudine di prendere un caffé doppio per darsi la carica. Quella mattina, diversamente dal solito, se lo gustò adagio. Si stava beando nel rivedere di nuovo la famiglia al completo. Che cosa c’era di più importante? «So che ti devi riassestare, ma vorrei tanto che trovassi del tempo per me» disse Letizia con un’inflessione soave nei confronti della sorella maggiore. «Che cosa bolle in pentola? Sono ancora mezza addormentata ma non rintronata. Quando usi quel tono, c’è qualcosa sotto» le fece eco Eleonora che stava per dare un morso alla torta di carote. «Non ti si può nascondere nulla.» «Ti conosco come le mie tasche. Parla pure.» «Vorrei tanto che mi accompagnassi insieme alla zia a scegliere l’abito da sposa.» Il pezzo di torta stava per andarle di traverso ed Eleonora si mise a tossire. La zia si affrettò a darle un bicchiere d’acqua. «Mica ti devi sposare domani.» «Perché rovini sempre tutto? Per una volta non potresti cercare di essere felice per me e mettere da parte i tuoi dubbi?» «Sai benissimo come la penso e qual è l'opinione che ho di quello là.» «Ti pregherei di chiamarlo con il suo nome. Credevo che dopo un anno ti fossi abituata, ma devo constatare che le mie speranze sono cadute nel vuoto.» «Ragazze, siamo qui tutti insieme sereni. Perché guastare una giornata così

bella?» intervenne zia Sandra per calmare le acque. «Avevo le migliori intenzioni di rendere speciale questa giornata» disse Letizia sull’orlo di una crisi di nervi. Negli ultimi tempi le capitava di avere sbalzi di umore improvvisi e ingiustificati. «Eleonora, tua sorella ha fatto la sua scelta e il nostro compito è di arla fin dove possiamo.» Zio Corrado, generalmente restio a intromettersi, stavolta fece un’eccezione. Una folata di vento fece sbattere la tenda del balcone contro le finestre. I gabbiani che volteggiavano attorno si misero a garrire in modo irritante. La zia, sorpresa quanto le nipoti per la sortita del marito, non volle gettare altra benzina sul fuoco. «Vostro zio ha ragione. Eleonora cara, fai un piccolo sacrificio, se è per il bene di tua sorella. L’aiuteremo insieme a scegliere l’abito più bello.» La zia le rivolse uno sguardo implorante e aggiunse: «L’abito sarà il nostro regalo. Così vedranno che anche noi possiamo permetterci di dare un contributo sostanzioso. Dobbiamo lasciarli sbalorditi. Per Letizia sarà un giorno importante e dovrà essere splendida». «Che cosa significa dare un contributo sostanzioso? Non siamo di certo dei morti di fame» risuonò Eleonora che aveva preso a scaldarsi. Aveva lasciato la sua torta preferita nel piatto e non sembrava volesse finire di mangiarla. «Bisogna ammettere che la famiglia di Alberto ha delle possibilità economiche superiori alle nostre» disse Letizia a difesa del suo fidanzato. «E con questo?» disse Eleonora, che aveva puntato le mani sul tavolo. «È una semplice constatazione.» «Sorellina, chi se ne importa se quello là ti ha fatto rimarcare che proviene da una famiglia ricca, che può concedersi ciò che gli pare e bla bla bla.» «È un dato di fatto. Non siamo alla loro altezza da questo punto di vista.» Letizia si sentiva sotto accusa ed era scattata sulla difensiva. Le sue pupille erano diventate fisse.

«Stai ben attenta a ciò che fai. Un uomo che fa leva sull’aspetto economico ancora prima del matrimonio sarà sempre pronto a rinfacciarti tutto anche dopo, e sarà pure peggio. Se non sarai in grado di renderti finanziariamente indipendente, dovrai ingoiare bocconi molto amari.» «Meglio rimanere da sole e rinunciare a costruirsi una famiglia come te?» Con quelle parole Letizia volle pungere sul vivo la sorella. «Sono scelte di vita diverse. Per sentirmi appagata non ho bisogno di un uomo. È questa la differenza tra me e te.» Eleonora sapeva tenerle testa e non si lasciò scalfire. «Vorresti dire che non sono brava come te? Avanti, dillo!» «Non era ciò che intendevo. Hai travisato il senso del mio discorso.» «Tu non hai bisogno di nessuno, non è vero? Esisti solamente tu e di me non ti importa.» «Adesso basta!» Zio Corrado intervenne scocciato. «Smettetela subito! Non posso tollerare simili comportamenti da parte vostra.» Scese un silenzio ombroso. Nessuno osò fiatare. «Scusa zio, non era mia intenzione sconfinare» disse Letizia dopo pochi minuti. Tremava come una foglia. «È vero, zio» aggiunse Eleonora, «ci siamo lasciate trasportare. Vorrei che mia sorella capisse che sono dalla sua parte. Se mi infervoro tanto è per amor suo. Vorrei che fosse una donna libera e non una moglie soggiogata.» I toni si erano abbassati. Eleonora con calma proseguì: «Nessuno ti obbliga a sposarlo. Sei ancora in tempo a tirarti indietro se non ne sei convinta». «Non capisci che lo amo?» Letizia aveva gli occhi gonfi. Delle lacrimucce le rigarono il volto. «Se non vuoi accontentarmi, farò senza di te.» Fu quella frase ad addolorare Eleonora più di tutto il resto. Non poteva rischiare

di perderla. «Se è ciò che vuoi, ti accompagnerò a scegliere l’abito.» «Sul serio? Non sai quanto mi fai felice.» Letizia la guardò rapita. Si era rasserenata come una bambina alla quale avevano dato lo zucchero filato.

6

Sei mesi dopo si celebrò il matrimonio nella chiesa della Gran Madre, come voleva Alberto. Era il 3 marzo del 1990. Quel sabato, contrariamente alle previsioni, pioveva. Letizia non aveva chiuso occhio. Si era alzata con un fortissimo mal di testa. Lo stormo di cornacchie, che era abituato a posarsi sugli alberi del giardino di fronte, gracchiava più forte del solito. La mattina era iniziata in preda all’agitazione, a dispetto della quiete che normalmente regnava in casa. Lo zio si stava lamentando perché non riusciva a trovare la cravatta blu che aveva scelto per il suo completo. Dal canto suo, la zia non ricordava dove avesse ficcato gli orecchini di oro bianco e si aggirava avanti e indietro per le stanze. Eleonora era l’unica a dominare la situazione. In cuor suo, sperava che Letizia ci ripensasse. Poteva ancora mandare tutto a monte. Raggiunse la sorella in camera. Si avvicinò di soppiatto. Aprì cauta la porta: Letizia stava guardando fuori dalla finestra. Si teneva una mano sulla fronte e faceva delle smorfie di dolore. «Come mai non ti stai preparando?» le domandò vedendo che aveva ancora addosso la camicia da notte. Letizia non rispose. Stava osservando distratta uno stormo di uccellini che si librava da un albero all’altro. Volteggiavano come se stessero eseguendo uno spartito: prima andante, poi moderato e infine allegro. Era assorta. Per un attimo il suo malessere parve momentaneamente scomparso. «Ti senti bene?» Eleonora glielo ripeté con più vigore e le cinse il collo. Letizia si girò con gli occhi lucidi. Aveva uno sguardo strano. «Mi sono levata con un mal di testa terribile. Non ho la forza di fare niente. Ogni rumore mi infastidisce.» «Prendi un analgesico. Vedrai che funzionerà. Non vorrai far attendere il tuo

amato proprio oggi?» Eleonora glielo disse con una punta di ironia. «Non cominciare. Non è il momento.» «Che cosa aspetti a vestirti?» La porta della camera era aperta e la zia, sempre indaffarata a cercare i suoi orecchini, entrò. «Si sta facendo tardi. Abbiamo un sacco da fare prima di uscire.» «Ho un mal di testa che mi paralizza. Ora prendo un antidolorifico e sono sicura che andrà meglio.» «Sei agitata, è normale. Succede a ogni sposa. Ti aiuto io, così ti tranquillizzi.» «E se fosse un segnale?» proruppe Eleonora. Continuava a battere sullo stesso chiodo. «Segnale di che genere?» La zia non riusciva a capire. «È il suo inconscio che l’avverte dell’errore che sta per compiere.» «Zia, dammi una mano tu con il vestito. Vado a prendere la pasticca e torno subito.» Letizia accostò la finestra mentre la pioggia picchiettava incessante sui vetri.

La chiesa era gremita. Per l’evento, i futuri suoceri avevano invitato ospiti in vista del bel mondo torinese, oltre a diversi parenti. Dell’organizzazione puntigliosa se ne era occupata la madre di Alberto, senza badare a spese. Doveva essere tutto perfetto. Su questo, Egle Giordano non transigeva. Il buon nome dei Barberis doveva fare bella mostra di sé. Eleonora e la zia erano già arrivate. Non si sentirono a loro agio. Oltretutto, la maggior parte degli invitati erano quasi tutti estranei. La Rolls Royce grigia, affittata per l’occasione, fece il suo ingresso trionfale davanti al sagrato. Ad attenderla, lo sposo accompagnato dalla madre. Egle Giordano era fasciata in un raffinato tailleur celeste. Indossava un intonato cappellino con la veletta che le conferiva un’indubbia eleganza. Era molto

emozionata: il suo adorato Alberto si sarebbe maritato, ma al contempo avrebbe dovuto contendere il suo affetto con una rivale. Letizia scese dall’auto accompagnata dallo zio. Eleonora e la zia si affrettarono ad andarle incontro e la aiutarono a sistemare il drappeggio di organza che faceva da strascico. Il suo vestito era di semplice fattura, con degli strass che impreziosivano il corpetto e parte della gonna. Sembrava una principessa e fu ammirata da tutti. Alberto le si avvicinò e la guardò con occhi imbambolati. La madre gli diede un leggero pizzicotto sul braccio: la cerimonia doveva iniziare. Accanto al figlio, dispensava sorrisini a destra e a manca. Se quella giornata fosse stata memorabile, così come si prospettava, il merito sarebbe andato a lei. Le parve dunque lecito meritarsi una certa visibilità. Se avesse offuscato la sposa, non sarebbe stato un gran male. «Cara, sei davvero incantevole» disse a Letizia con il suo vuoto sorriso e la salutò con un bacio sulla guancia. «La ringrazio.» Letizia era chiaramente commossa. I suoi occhi verdi brillavano di una luce profonda. Gli orecchini di perle, che le avevano regalato gli zii, incorniciavano il suo viso delicato come quello dei dipinti preraffaelliti. «Hai scelto un modello stupendo. Ti sta a meraviglia. Peccato solamente che sia un po’ troppo scollacciato.» Egle Giordano fece il suo appunto con un candore disarmante. Il sorriso smagliante che illuminava il volto di Letizia si trasformò in un attimo in uno sberleffo di disappunto. Sarebbe stato compito del suo futuro marito difenderla. A maggior ragione in quel preciso momento e, a maggior ragione, agli occhi della madre. Alberto invece non fece nemmeno una piega. Non aveva colto o fingeva di non aver colto la punta di rimbrotto espressa da sua madre. Zia Sandra corrugò la fronte in segno di fastidio per quella uscita inopportuna. Ci pensò Eleonora a intervenire. «Ha ragione. Fa freddo e ci voleva un abito più accollato. Non vogliamo che la nostra Letizia si ammali proprio oggi, non è vero Alberto?» Eleonora lo disse con un sarcasmo così lucido da far arrossire i ciottoli del selciato. Fissò Alberto mascherando malamente il suo totale disgusto per quello che per lei era sempre e

soltanto un mascalzone. «Non oggi, chiaramente.» Alberto non le badò più di tanto. «Però, cara signora, deve ammettere che una donna bella come la nostra sposa ha tutto il diritto di essere al centro dell’attenzione, le pare? Non sarà una scollatura a rendere imperfetta la cerimonia.» Eleonora increspò le labbra in un sorrisetto tirato, restituendole la pariglia. Egle Giordano, da gran signora quale si riteneva, incassò stoica. Non si sarebbe abbassata di livello, soprattutto con persone che non appartenevano al suo rango. «Certamente. Tutti noi desideriamo il bene della sposa e dello sposo» rispose serafica a Eleonora. Provava disgusto al pensiero che si stesse imparentando con quella gentucola. Se avesse potuto, lei pure avrebbe impedito quel matrimonio, anche se per altri motivi. Ma la decisione non era nelle sue mani. Quando il prete pronunciò la fatidica frase, a cui seguì il consenso degli sposi, tutti ne furono toccati, tranne Eleonora. Per l’intera durata della cerimonia continuò a sfiorare l’anello che portava all’anulare. Era di forma tonda, in argento martellato, con delle incisioni in rilievo. Eccentrico e originale come piaceva a lei. Se lo rigirò ripetutamente, come se fosse stato un amuleto che con un incantesimo avrebbe potuto impedire il matrimonio che tanto avversava. Invece non poté far altro che prendere atto che con quel mascalzone erano diventati ufficialmente parenti. Gli sposi varcarono la soglia della chiesa per ricevere i tradizionali auguri. Eleonora abbracciò forte la sorella. Si diresse poi verso Alberto. Non lo abbracciò né lo baciò. Guardandolo dritto negli occhi si limitò a dirgli: «Adesso che è tua moglie, trattala con la massima cura. Te l’affido, anche se continuerò a vegliare su di lei». Lo trafisse con lo sguardo. Lui non contestò e semplicemente la ringraziò. I festeggiamenti proseguirono presso Villa Sassi, una fascinosa e antica dimora. Posizionata nella zona che ne portava il nome, era immersa in un grande parco secolare. Il cielo si era aperto dopo l’acquazzone del mattino: che la sposa si fosse bagnata

sotto la pioggia fu interpretato di buon auspicio. Eleonora non credeva a simili scempiaggini. Pioggia o meno, secondo lei era lo sposo che non andava bene. Suo malgrado, dovette fare buon viso a cattivo gioco. Mentre gli ospiti della famiglia di Alberto più o meno si conoscevano, non si poteva dire lo stesso per la famiglia della sposa. Eleonora e gli zii rimasero piuttosto in disparte. Egle Giordano invece si comportava come una perfetta padrona di casa. Elargiva sorrisini di circostanza a chiunque le fe un cenno. Si sentiva la vera protagonista, rubando la scena alla sposa. Letizia ne fu seccamente contrariata. Secondo lei, Alberto avrebbe dovuto farlo notare alla madre; non aveva però fatto i conti con la sua devozione filiale. Nel giardino della Villa c’era uno stagno. Un gruppetto di anatre starnazzanti stava girando in circolo per andare a beccare dei tozzi di pane che qualcuno aveva gettato loro. Difatti, lì vicino era stato allestito il ricco buffet. I camerieri, impettiti nelle loro divise, erano pronti per servire le delizie che abbondavano sulla tavolata. La calca cominciò ad addensarsi per addentare gagliardamente quel ben di Dio. Tenendo a braccetto zia Sandra da una parte e zio Corrado dall’altra, Eleonora arrivò nei pressi del buffet. Fece sedere gli zii a un tavolino poco distante. Il ciarlare serrato degli invitati aveva originato un suono indistinto che non aveva nulla di gradevole. Avvicinandosi al tavolo del rinfresco, Eleonora colse sotto a quel brusio lo scambio di battute di due signore della buona società torinese. «È stata davvero una bella cerimonia» disse una sfiorando la sua pochette turchese perfettamente abbinata al vestito che indossava. «Ne convengo. E che dire di Alberto? Magnifico» le fece eco l’altra, stretta in un elegante tubino verde smeraldo che si armonizzava con il cappello e le scarpe. «Non si può dire altrettanto della sposa.» «Già. Con tutte le donne che poteva avere, è andato a prendersene una che non ha nemmeno un briciolo di charme. Che cosa ci avrà trovato, lo sa soltanto lui.» «Senza contare che non appartiene a una famiglia altolocata come i Barberis. Le persone del nostro mondo sono tutt’altro.»

«E si vede.» Si misero a ridacchiare come due galline spennacchiate, riempiendo il loro immondo gozzo con dei modi non propriamente degni di persone appartenenti a un ceto elevato. Il frammento di quella conversazione mandò Eleonora su tutte le furie. Prese i piattini che il cameriere le aveva allungato e si allontanò dando uno spintone a una delle due signore. Proseguì tenendo i piattini non saldi a sé: il contenuto ballonzolava su e giù in armonia con il suo incedere adirato. Gli zii videro che stava arrivando verso di loro con un’espressione fortemente indispettita. Letizia intanto stava conversando con alcuni dei pochi amici di Savona che aveva invitato, quelli ai quali era più affezionata. Tra di loro c’era anche Sonia, che le aveva fatto da damigella. Per il suo carattere solare era il tipo che attaccava bottone anche con i sassi. Non aveva avuto difficoltà a intrufolarsi tra i commensali e a chiacchierare con alcuni di loro, come se li conoscesse da chissà quanto. L’orchestra accompagnava l’indistinto vociare con le sue note pacate di sottofondo. Egle Giordano aveva persino suggerito quali canzoni eseguire per aprire le danze nel tardo pomeriggio. Al suo segnale, l’orchestra attaccò con You Are The Sunshine Of My Life di Stevie Wonder, dedicato chiaramente agli sposi. In quei minuti Letizia fu al centro dell’attenzione, come era logico che fosse. Ciò che tuttavia le interessava era soltanto poter stringere quello che era diventato suo marito. Quale traguardo migliore per lei, che lo aveva sempre sognato da bambina? Si sentiva come se stesse vivendo la fiaba di Biancaneve: insieme al suo principe azzurro guardava al futuro, certa che la felicità li avrebbe seguiti negli anni a venire. Al termine del primo giro di danze seguì uno scrosciare di applausi. Sembrava un film. Le danze poi andarono avanti e molti si buttarono a ballare. Alcuni dei brani li scelsero gli sposi. Erano i maggiori successi della disco dance anni Ottanta. Era un modo per ricordare i bei tempi in cui frequentavano le discoteche, dove si erano conosciuti. Uno dei loro brani preferiti era Crazy Little Thing Called Love dei Queen. Quando l’orchestra lo eseguì, il giardino si trasformò in una pista da ballo all’aperto. Il ritmo incalzante aveva trascinato la

maggior parte degli ospiti, soprattutto i giovani. Molti erano ridicoli nei loro movimenti; altri si scimmiottavano a vicenda. Quelli che non partecipavano alle danze guardavano divertiti gli altri. Terminata la carrellata della musica dance si ò a quella dei balli lenti. Le note di Dreams Are My Reality, colonna sonora del film Il tempo delle mele, scatenarono nei cavalieri presenti una vera e propria ricerca della dama con la quale accompagnarsi. Un giovane, che era rimasto abbagliato dalla bellezza di Letizia, le si approssimò e con garbo le domandò se poteva concedergli un ballo. Intanto Alberto, tutto accaldato, si era allontanato per andare a dissetarsi. Non appena si voltò, vide il tipo che stava cingendo la moglie sui fianchi. Si avvampò in volto. Se avesse avuto un lanciafiamme tra le mani non avrebbe esitato a usarlo. Si precipitò letteralmente verso di loro. Lisa cercò di trattenerlo a stento. Anche lei era stata invitata al matrimonio del suo amico. Gli era andata incontro ammiccando mentre stavano per prendere da bere. «Come osi ballare con mia moglie?» Alberto rimproverò con durezza il malcapitato, che d’acchito non seppe che cosa rispondere. Strabuzzò gli occhi e lo fissò con aria interrogativa. «Lei è mia. Ti è chiaro il concetto?» «Alberto, stai dando i numeri? Che cosa c’è di male in un ballo?» Letizia usò un tono che voleva essere rasserenante. Lo fece tuttavia con aria colpevole, come se avesse mancato lei nei confronti del neo marito. Un atteggiamento di sottomissione che le sarebbe costato caro. Per togliersi dall’impaccio, il giovane si scusò con Alberto e con Letizia. Con naturalezza si defilò, mettendosi al riparo dalle occhiatacce che si era attirato. L’orchestra continuò a suonare. Eleonora aveva seguito la scena, o meglio la scenata, come tutti gli altri astanti. Il sentimento di insofferenza verso quello che lei riteneva un mascalzone si rafforzò alla luce di quell’episodio increscioso. Ora che Letizia ne era diventata la moglie, la situazione si era complicata. Aveva dato proprio un bello spettacolo davanti a tutti. Nessuno che lo avesse criticato per il suo comportamento. Al contrario, la maggior parte giustificò la sua reazione. Un marito geloso della propria novella sposa aveva tutto il diritto di impedire a chiunque, seppur in buona fede, di prendersi delle libertà anche piccole con colei che, in quanto sua moglie, gli apparteneva.

In fondo, che cosa c’era di anomalo? Un paese che aveva abolito il delitto d’onore soltanto nel 1981, sotto sotto legittimava il fatto che la moglie venisse considerata alla stregua di una proprietà del marito e non una persona dotata di una propria autonomia. Del resto, con una madre come quella di Alberto che cosa si poteva pretendere? Aveva educato il figlio secondo certi assurdi concetti. Invece di contestarli, vi si era conformata lei per prima. Dunque, che cosa c’era da aspettarsi? Ma Letizia era sua sorella e non le andava giù che si fosse legata a quel brutto soggetto. Proprio non le andava giù. Un amore che sacrifica la libertà dell’altro, che amore può essere? In preda a questi pensieri, fu assalita da un’incontenibile irritazione. La coppa di champagne che teneva in mano le scivolò e si ruppe in tanti miseri pezzettini.

7

Come tutti gli invitati, raccolti in processione prima di lasciare Villa Sassi, anche Eleonora non poté fare altro che augurare agli sposi una felice luna di miele. Nell’insieme, non si può dire che il matrimonio non fosse andato bene. Letizia non aveva di che lamentarsene. Egle aveva organizzato tutto alla perfezione e, malgrado la sua invadenza, aveva regalato ai due giovani un matrimonio strabiliante. Il viaggio di nozze faceva parte del pacchetto che sempre lei aveva scelto: la meta sarebbe stata Parigi. Anche in questo caso ci azzeccò. I novelli sposi partirono il giorno successivo. L’hotel in cui soggiornarono si trovava proprio vicino alla Torre Eiffel, che dalla finestra della loro stanza si vedeva per intero. Trascorsero quindici giorni indimenticabili in una città in cui da ogni angolo si respirava un forte romanticismo. Alberto fu davvero premuroso e pieno di carinerie: in un certo senso, Letizia ritrovò l’uomo affettuoso conosciuto anni prima. Aveva coronato il suo sogno sposando colui che amava e con il quale voleva costruire una famiglia. Chissà perché in certi fugaci momenti la sua felicità pareva offuscata da un vago sentimento di inquietudine. Voleva afferrare quella gioia immensa che stava vivendo per trattenerla stretta a sé. Ma è impossibile possedere la felicità. Come in ogni bella favola, le due settimane furono memorabili ma arono veloci. Ancora però non era finita: avrebbero iniziato una nuova vita a Torino in una casa tutta per loro. L’attico che i genitori di Alberto avevano regalato ai due giovani si trovava in pieno centro. Collocato in una palazzina che faceva angolo con piazza Castello, godeva di una posizione invidiabile: dalla terrazza si poteva scorgere, in fondo a via Po, la chiesa della Gran Madre e, più in lontananza, la basilica di Superga. Dall’aeroporto di Torino Caselle raggiunsero direttamente la loro dimora. Egle intanto era ata per un ultimo sopralluogo per accertarsi che fosse tutto in ordine prima del loro arrivo.

«Mi sembra tutto così strano. Non sto più nella pelle. E tu?» disse Letizia molto eccitata, nel taxi. «Che domande. Finalmente sei tutta mia» rispose Alberto mezzo assonnato ma contento. «Non mi importa se all’inizio dormiremo per terra. Sistemeremo con il tempo la nostra casetta» proseguì Letizia sempre più euforica. Come gli aveva anticipato sua madre, Alberto trovò le chiavi nella cassetta della posta. L’ascensore li portò a pochi i dall’ingresso del loro nido d’amore. «Sei pronta?» le domandò Alberto, curioso quanto lei di entrare. «E me lo domandi? Prima di aprire però dovresti fare ciò che si fa in questi casi» gli rispose Letizia guardandolo con occhi birichini. «Che cosa si fa in questo caso?» «Lo sposo prende in braccio la sposa per varcare la soglia.» «Sei tutta matta» disse Alberto sghignazzando. «Allora? Sto aspettando.» «Va bene. Chiudi gli occhi.» Alberto accostò le valigie di lato e sollevò Letizia. Con due manovre degne di un equilibrista riuscì a infilare le chiavi nella toppa e a dare due giri di chiavistello. «Ci siamo quasi. Non aprire gli occhi. Te lo dico io quando puoi farlo.» «Sì, però fai presto. Non resisto ancora per molto.» «Veramente sono io che non resisto a tenerti in braccio.» Scoppiarono a ridere di cuore, come due adolescenti che l’avevano combinata grossa.

«Ora puoi aprirli.» Alberto la fece scendere e la mirò estasiato. Letizia aprì gli occhi. Guardò dritto davanti a sé e poi tutto attorno. Esaminò la stanza che si dischiudeva sul fondo. I muri, dipinti di un giallo ocra pallido, davano una sensazione di calore e di accoglienza, rendendo l’attico ancora più luminoso di quanto già non fosse. Superato l’ingresso, una libreria fungeva da parete divisoria con la cucina a vista che, a sua volta, comunicava con il salone. L’arredamento, di pregio, era di indubbia classe. Altro che dormire per terra. Letizia non sapeva se esultare o se adontarsi. Nella sua testa aveva fantasticato con mille progetti per sistemare la loro abitazione. Invece non avrebbe dovuto nemmeno preoccuparsi di acquistare uno specchio da appendere alla parete. C’era anche quello. E di stile. «Allora, mogliettina mia, che te ne pare?» Alberto si stava gongolando, convinto che Letizia fe altrettanto. «Veramente...» lei tentennò a rispondergli. «È uno splendore, non trovi anche tu?» «Bella è bella, però...» «Però? C’è qualcosa che non ti piace? Possiamo sempre modificare qualche dettaglio.» «Non si tratta di qualche semplice dettaglio.» «Qual è il problema? Che cosa c’è che non va?» Alberto stava per spazientirsi. «Credevo che avremmo scelto noi l’arredamento.» «Direi che mia madre ha fatto un lavoro egregio con il suo architetto. Che sia impeccabile è indubbio.» «Tua madre. Sempre tua madre di mezzo.» Letizia corrucciò la fronte e serrò le labbra.

«Ringrazia il cielo che c’è lei. Ha investito tempo e denaro per realizzare il progetto.» «Non discuto. Ma, se permetti, avrei voluto costruirla pezzo per pezzo per renderla più consona ai nostri gusti. Sarebbe stato più divertente ammobiliarla poco alla volta.» «Ci mettiamo a discutere su queste baggianate?» «Se per te sono baggianate, lasciamo stare.» «Dovresti essere al settimo cielo, visto che oltretutto ci possiamo permettere di abitare in un attico in pieno centro, in una casa ristrutturata con materiali nobili e con suppellettili di prima qualità che valgono una fortuna.» Con la sua arroganza, Alberto aveva spento ogni slancio in Letizia. «Se la metti su questo piano è inutile discutere. Mi pare chiaro che non capisci, o non vuoi capire.» Letizia, amareggiata, aveva rinunciato a continuare una discussione che ormai appariva sterile e non avrebbe portato a nulla. «Su quale piano la dovrei mettere? Sai quante al tuo posto si leccherebbero le dita di avere la disponibilità economica che io ti posso offrire?» Dalla dolcezza iniziale, Alberto era ato a modi indiscutibilmente insolenti. «Tanto hai sempre ragione tu. Lasciamo perdere. Mi farò un bagno caldo. La vasca sarà nuova di zecca. Vado a inaugurarla.» Letizia si sentì assalire da forti crampi allo stomaco. Forse era a causa della stanchezza. Un bagno rilassante l’avrebbe rimessa in sesto. Voleva convincersi a non rimuginarci oltre, specie per l’ingerenza della suocera. Eppure, il tarlo la rodeva. Non c’era nulla da obiettare sul fatto che la casa fosse stata ben curata; però, non rifletteva il suo desiderio. Una casa senz’anima. Più la guardava, più le suonava fredda. Era tutto troppo. Troppo bella, troppo nuova, troppo perfetta. Quasi angosciante. Le ricordava il film Rebecca, la prima moglie di Alfred Hitchcock. La fedele governante aveva custodito gelosamente gli effetti della sua precedente padrona, Rebecca, appunto. Con una cura maniacale per la casa, dove non volava neppure un granello di polvere, l’aveva trasformata in una sorta di mausoleo. La stessa impressione che ebbe Letizia. Sicuramente avrebbe

apportato delle modifiche. Per un attimo ebbe nostalgia di Eleonora: se fosse stata lì con lei, forse avrebbe saputo trovare il modo di risollevarle il morale. Superate le prime diffidenze, piano piano si ambientarono. Nei giorni successivi Alberto rientrò al lavoro nello studio del padre. Letizia invece si dedicò alla gestione del loro attico. Si dilettava di tanto in tanto ad apportare delle semplici migliorie per abbellirlo e renderlo più accogliente: un soprammobile, un portaombrelli, delle tende per ravvivare l’ambiente o un mazzo di fiori colorati per vivacizzare le stanze. Piano piano lo trasformò da asettico a luogo vissuto. La terrazza era il suo piccolo angolo di paradiso. L’avrebbe sfruttata soprattutto in estate. A parte la vista formidabile, rappresentava la sua finestra sul mondo. Da lì poteva osservare le persone che si muovevano in piazza e sentirsi viva. Un pomeriggio si risolse ad andare a far visita agli zii e a Eleonora. Non li vedeva dal giorno del suo matrimonio. La grazia rarefatta della primavera già spargeva un suo lieve accenno. Ne approfittò per fare una lunga eggiata fino alla vecchia casa in corso Belgio, che distava all’incirca una mezz’oretta. Voleva respirare quell’aria soave che invitava a stare all’aperto e ad avvertire su di sé i caldi raggi del sole per scaldarsi con i suoi riflessi. L’accoglienza che ricevette, quando rivide i suoi, fu a dir poco calorosa. Era mancata a tutti. Raccontò del viaggio di nozze, di quanto Parigi fosse spettacolare, di quanto la casa fosse nuova di pacca. E gli zii attenti ad ascoltarla e a condividere il suo entusiasmo.

Nel primo anno di matrimonio Letizia e Alberto andarono avanti a tubare come due piccioncini. A dispetto delle previsioni catastrofiche di Eleonora, che continuava a non vedere di buon occhio la loro unione, il periodo fu realmente eccezionale. Malgrado le pressioni a cui era sottoposto sul lavoro, Alberto era sempre pieno di attenzioni per la moglie. Era capace di slanci improvvisi molto eclatanti. Per il suo compleanno, che cadeva il 10 maggio, le aveva regalato un collier con uno

smeraldo a forma di goccia. Altre volte le portava delle rose rosse, senza che vi fosse una ricorrenza speciale. Erano talmente affiatati da fare invidia. Tuttavia, sempre più spesso il lavoro lo fagocitava. La sua carriera era in ascesa e il padre aveva investito su di lui le migliori aspettative, affidandogli poco per volta cause di rilievo. Voleva che acquisisse un’esperienza tale da portarlo gradualmente a argli il timone del suo studio. A tal fine, partecipava a dei corsi di aggiornamento professionale che potevano cadere anche di sabato e di domenica. Non sempre Letizia lo seguiva. Per non restare tutto il tempo da sola ne approfittava per andare a trovare gli zii, sempre pronti a riceverla a braccia aperte.

Tutto procedeva nel migliore dei modi, mentre l’estate era già ata e un’altra stava finendo. Per coglierne gli ultimi sprazzi, prima che i ritmi frenetici dello studio assorbissero di nuovo Alberto, trascorsero alcuni fine settimana a Savona. La brezza marina sollecitava alla quiete e spazzava via dolcemente le nubi di aggio che ingombravano il cielo con le loro forme curiose. Uno di quei sabato sera al mare preferirono cenare in terrazza. Impareggiabile era lo spettacolo che si poteva godere dall’attico dei genitori di Alberto. Si affacciava sul porto e le osterie e i ristorantini che lo circondavano si animavano dopo un certo orario. Le barche ormeggiate fluttuavano al ritmo delle onde piatte, facendo risuonare le lanterne. Alcuni addirittura vi alloggiavano e si beavano cenandovi a luci soffuse. Letizia stava sistemando la tavola in terrazza; Alberto era andato a comprare un testo di farinata mista all’osteria in via Pia. Si prefigurava una serata piacevole. Ci mise un po’ a tornare. «Eccoti, finalmente. Ho un certo languorino» disse Letizia famelica aprendo la porta. «C’era la fila. D’altronde è sabato e non c’è da stupirsi» rispose lui senza nascondere un leggero nervosismo.

«L’avevo immaginato. Ci sono ancora molti vacanzieri in giro.» «Difatti. La prossima volta ci vai tu a romperti le scatole» le ribatté con fare scontroso. Un nugolo di gabbiani volteggiava chiassoso sopra al porto. Sapevano che a quell’ora avrebbero potuto trovare un copioso banchetto su cui gettarsi. «Ciò che importa è che ora siamo qui io e te a gustarci la nostra cenetta. Guarda quanta gente c’è. Non è un’atmosfera straordinaria?» disse Letizia cercando di rompere il lugubre silenzio che per pochi istanti li aveva avvolti. «Sai quanto mi frega. Sbrigati a mettere in tavola. Mi fa schifo mangiare la farinata fredda.» Alberto aveva assunto un tono molto sprezzante senza che ce ne fosse un reale motivo. Letizia ne rimase raggelata. «Allora, perché te ne stai lì come un baccalà? Ti vuoi muovere?» Letizia non gli rispose. Andò in cucina a prendere una brocca che riempì di acqua. Tornò alla terrazza e, mentre stava per appoggiarla sulla tavola, inciampò sul gradino esterno. La brocca le sfuggì di mano e cadde. «Ma sei scema? Hai visto che cosa hai combinato? Sei proprio un’idiota.» Alberto aveva gli occhi infiammati. Il suo sguardo incuteva terrore. Letizia aveva battuto il ginocchio e, sebbene le dolesse, restò ammutolita. «Mia madre ci teneva molto a quella brocca di cristallo. Andrà in bestia quando lo saprà.» Lei tentò di balbettare qualcosa ma le parole non le uscivano di bocca. «Adesso pulisci. E vedi di fare in fretta, altrimenti butto la cena dalla finestra. Mi sono già stufato abbastanza per stasera.» Letizia lo fissò tetra. Poi prese una scopetta e si mise a pulire. Ormai la serata era compromessa. La mattina successiva si alzò con un forte dolore allo stomaco. Aveva dormito male. Decise di prepararsi un tè.

Poco dopo Alberto la raggiunse in cucina. Era di buonumore. «Spero di non essere in ritardo per la colazione.» Letizia non disse nulla. Si stava massaggiando l’addome in attesa che la teiera bollisse. «Che cos’hai? Perché quella faccia da funerale?» «Dopo la tua sfuriata di ieri sera, me lo domandi pure?» Letizia a quel punto gli rispose con durezza. «Che cosa vuoi che sia successo? Ero molto stanco e mi sono girate. Non è il caso di farne una tragedia» disse Alberto minimizzando l’accaduto. «Ma davvero? Hai proprio una faccia di bronzo. Mi hai trattato come una pezza da piedi e hai l’audacia di dire che non è successo niente?» Letizia era su tutte le furie. «D’accordo, forse ho esagerato un pochino. E dai, sei o non sei la mia piccola Letizia?» Alberto si avvicinò per abbracciarla ma lei tentò di divincolarsi. Lui la strinse forte e, malgrado la resistenza opposta, riuscì a darle un bacio. «Ti chiedo scusa. Non volevo essere sgarbato. Non so che cosa mi abbia preso. Non succederà più, te lo prometto. Facciamo pace?» le disse guardandola di sottecchi. La riluttanza di Letizia durò poco. Tutto tornò tranquillo come se nulla fosse stato. Gli animi si erano rasserenati.

Uno scuro temporale era sospeso nel cielo di settembre e rombava con sorda minaccia. Di lì a poco le prime gocce punteggiarono i vetri. In quella casa tutta vuota risuonava l’eco della pioggia. Un altro anno era ato e il peso della solitudine talvolta si faceva opprimente. Per ingannare le ore che scorrevano lente, Letizia si dedicava al ricamo, un antico atempo che le aveva insegnato sua mamma. Le serviva anche per distrarla da pensieri nefasti. Lo stesso avveniva quando rileggeva un libriccino

che raccoglieva le poesie di Jorge Luís Borges che le aveva donato Eleonora. Però aveva pure bisogno di uscire. Non poteva rimanere relegata in casa. E se lo faceva, doveva ricordarsi di informare Alberto dei suoi spostamenti. All’incirca ogni due ore le telefonava e, a parole, pareva amorevole. Si preoccupava di sapere se stesse bene. In realtà era un modo per tenerla sotto controllo. Se doveva uscire per qualche commissione doveva avvisarlo, se voleva evitare i suoi rimbrotti. Lo stesso valeva se andava a trovare gli zii. Un pomeriggio, stanca dei suoi ricami, andò da loro. La conoscevano bene e avevano captato che non fosse pienamente tranquilla come voleva far credere. Non ci volle molto per capire che avevano ragione. La sua apparente serenità fu intaccata quando confidò loro il desiderio di trovare un lavoro che la impegnasse e le permettesse di avere almeno un minimo di autonomia economica. Zia Sandra le ripeté che disporre di denaro proprio le avrebbe consentito di non essere totalmente alla mercé del marito. Doveva farlo prima di tutto per sé stessa. Un concetto che infinite volte Eleonora le aveva ripetuto fino alla nausea: dipendere da un uomo era la peggiore condanna che le potesse capitare. In modo particolare se l’uomo in questione era Alberto. Zio Corrado, del resto, aveva molti contatti grazie al suo lavoro. Un tempo era spesso in trasferta; ultimamente lo era di meno. Proprio uno dei suoi referenti gli aveva segnalato che lo studio dei commercialisti Baldani stava cercando un’impiegata amministrativa. Non si fece scappare l’occasione. Pensò subito alla nipote e riuscì a farle fissare un appuntamento. Letizia tenne per sé la notizia. Lo avrebbe detto ad Alberto se fosse andata bene. E un minimo di scaramanzia non avrebbe guastato. Lo studio era in via Bertola, nemmeno lontano da dove abitava. Si presentò in anticipo rispetto all’orario concordato. Era molto agitata. Se non avesse ottenuto il posto non sarebbe cambiato nulla. In realtà, per una questione di dignità personale, ci teneva parecchio. Affrancarsi dal controllo del marito sarebbe stato un traguardo notevole. Se Alberto l’amava davvero, come sosteneva sempre, l’avrebbe sicuramente sostenuta nelle sue scelte. Il colloquio andò molto bene: fece un’ottima impressione al titolare dello studio. In capo a pochi giorni, le comunicò che era stata selezionata tra le candidate. Non appena ebbe la conferma, chiamò gli zii per ringraziare soprattutto zio

Corrado. Le sembrò di toccare il cielo con un dito. Manco avesse vinto alla lotteria, sebbene per lei in un certo senso fosse così. Per festeggiare la notizia decise di preparare una cenetta a lume di candela. Era sicura che Alberto ne sarebbe stato felice quanto lei. Si mise a preparare il bunet al cioccolato. Per l’occasione si era messa in ghingheri. Aveva scelto l’abitino color albicocca che le donava molto, in sintonia con la sua lucente chioma. Si era truccata in modo leggero, mettendo in risalto la sua delicata bellezza. Aveva sistemato i capelli con un cerchietto color bronzo che le conferiva un aspetto ordinato. Altrettanto curate erano le sue mani; si era laccata le unghie di un rosa tenue. Aveva allestito la tavola con la tovaglia rossa a cuoricini bianchi. Aveva messo i piatti del servizio buono e i bicchieri di cristallo. Ora mancava soltanto Alberto. Erano già le sette e mezza di sera ed era in ritardo rispetto al solito orario. Non l’aveva avvisata. Letizia si impensierì ando dall’esultanza all’apprensione. eggiò dalla cucina al salotto. Controllava a intermittenza se lo vedeva arrivare. Anche se la giornata era fredda e piovosa, uscì sulla terrazza e si accese una sigaretta. Quando era sovrappensiero se ne lasciava tentare più del normale, a dispetto dei suoi buoni propositi. Stava per spegnerla quando udì suonare alla porta. Era Alberto. Non era riuscito a trovare le chiavi nella sua borsa portadocumenti e si era messo a pigiare sul camlo con insistenza. Letizia girò con due mandate le chiavi nella toppa. Aprì la porta e lo accolse con un bacio apionato che lui contraccambiò con distacco. Capì che c’era qualcosa che non andava. Non aveva preso l’ombrello e si era bagnato. Aveva bisogno di cambiarsi e di asciugarsi. «Dammi dieci minuti. Faccio una doccia veloce e poi possiamo cenare» disse lui, che aveva oltreato il corridoio dell’ingresso e si stava dirigendo verso il bagno. «È tutto a posto? Quando ho visto che non arrivavi mi sono allarmata.» Letizia lo seguì, ma Alberto non le fece caso.

Tornò in cucina per finire con gli ultimi ritocchi. Aveva comprato anche un piccolo bouquet di fiori e l’aveva collocato a centrotavola. «Ho una bella notizia da darti. Se ti sbrighi, ti racconto tutto.» Fremeva al pensiero di annunciargli la novità del suo nuovo lavoro. Aveva intenzione di informarlo verso la fine del pasto. «La cena è pronta?» disse a voce alta Alberto che, uscito dal bagno, si stava riassettando. «Aspettavo che finissi. Metto subito in tavola» gli rispose calma Letizia. Alberto arrivò e si sedette affamato e nervoso. «Allora, che si mangia stasera?» le domandò con tono brusco. Era lampante che avesse avuto una giornata difficile. Non si era manco accorto di quanta cura Letizia avesse prestato a imbandire la tavola. «Ho preparato la torta salata che ti piace tanto» gli rispose, sempre con il suo tono pacato. «Con tutto il tempo che hai a disposizione potevi prepararmi qualcosa di meglio.» «Credevo di farti contento.» «Pensi di cavartela così?» «Che cosa stai dicendo? Se non ti va, ti preparo qualcos’altro.» «Come no. Così chissà a che ora mangeremo.» «Come sei suscettibile. È successo qualcosa al lavoro?» «Sei tu che mi irriti. Potresti occuparti meglio della casa. Non sai fare proprio niente.» La scontrosità di Alberto mortificò Letizia, che lo osservò perplessa. «Che fai lì imbambolata? Spicciati che ho fame» proruppe lui con fredda collera.

Aveva urtato la sua fine sensibilità e il buio era sceso su di lei. Probabilmente aveva avuto qualche problema con una delle cause che stava seguendo. Preferì non contraddirlo per non acuire la tensione. Gli servì la cena, limitandosi a poche parole. Alberto la divorò senza assaporarla. Il suo fare irrispettoso l’aveva gettata nello scoramento più totale. Per finire, aveva preparato il budino al cioccolato. Gli pose una fetta sul suo piattino da dessert senza fiatare e con lo sguardo basso. «Speriamo che si salvi il dolce. La torta salata era insipida.» Ci fu un silenzio di tomba. Alberto tagliò il primo boccone quando, a bruciapelo, le domandò: «Qual era la bella notizia che dovevi darmi?». Gli occhi di Letizia sfavillarono. Cercò di contenere il suo impeto e con evidente disagio attaccò la sua risposta. «Ho ricevuto un’interessante proposta di lavoro. Sai quanto sia importante per me non dipendere da te in tutto e per tutto.» Letizia continuava a parlargli con garbo. «Incomincio dopo Pasqua, vale a dire fra pochi giorni.» Fece appena in tempo a finire la frase che Alberto si alzò di scatto. Batté un pugno forte sul tavolo e un tonfo tremendo si levò. Letizia si spaventò a morte e fece un leggero movimento all’indietro. «Te lo puoi scordare! Voglio una moglie che badi alla casa e ai figli che verranno. Non ti ho di certo sposata perché assi il tuo tempo fuori.» Alberto alzò la voce fortemente contrariato. «Non voglio che sia soltanto tu a contribuire economicamente» lo rimbeccò Letizia. «Ti ho già detto che è un aspetto di cui non ti devi preoccupare. È compito mio provvedere alla famiglia. Già vivi alle mie spalle, visto che pago tutto io, per cui fai quello che ti dico. Perciò levati dalla testa certe idee balzane. Fine della discussione.» Alberto era fuori di sé.

«Le mie non sono idee balzane. E poi ho già accettato.» «Che cosa credevi? Che ti dessi il mio benestare?» «Non credevo proprio un bel niente. E poi non devo avere il tuo benestare.» A quelle parole Alberto non ci vide più e le diede uno schiaffo. «Te lo ripeto per l’ultima volta. Sarà meglio che ti togli certi grilli dalla testa. Con questo non c’è altro da aggiungere.» Lo sbalordimento per l’ingiustificato e inaspettato ceffone stroncò in lei ogni possibile reazione. La paura aveva avuto il sopravvento e la paralizzò. Scoppiò a piangere disperata e delusa. Sì sentì come una tigre in trappola. Era triste vedere che le sue sacrosante ambizioni venissero fiaccate proprio da colui che invece avrebbe dovuto incoraggiarla più di chiunque altro. Era pur vero che, per costruire la propria carriera, Alberto si stava impegnando sodo. Qualche sacrificio sarebbe stato necessario anche da parte di sua moglie. Ritenne che era meglio non creare altre frizioni. Se avesse fatto di testa sua sarebbe stato peggio. Dopotutto erano sposati da meno di tre anni. Ci rimuginò a lungo per riuscire a convincersi che lui avesse ragione: una brava moglie cerca di facilitare il marito e per far funzionare il matrimonio bisogna scendere a compromessi. A conti fatti, lui aveva già una posizione. A lei il compito di stargli accanto. Però la sensazione di essere come un cane in catene non l’aveva abbandonata. E questo no, non era giusto affatto. Oltretutto, doveva pure subire i suoi malumori? Possibile che l’amore si fosse sbiadito? Non era giusto per niente, disse a sé stessa. Avrebbe dovuto restarsene a casa tutto il santo giorno e aspettare che rientrasse per servirgli la cena che lui avrebbe schifato come era appena successo? Voleva accanto un marito premuroso e affettuoso, non un uomo scontento che riversava su di lei le proprie frustrazioni. La ridda di pensieri contrastanti le attraversò la mente intanto che sparecchiava. Si era messa il grembiulino rosa a pois per non sgualcire il suo bel vestitino. Alberto si era spostato nella stanza a fianco per la consueta telefonata serale alla madre. Il loro legame era molto saldo e non si era allentato neppure dopo il matrimonio. E questo Letizia mal lo digeriva.

Quando udì che stava parlando con lei, uscì sulla terrazza. Si sedette comoda sulla poltrona di vimini. Apparentemente serafica, si accese un’altra sigaretta. Erano già le otto e mezza di sera ma non era ancora buio. Le giornate si stavano allungando e lo scorcio luminoso che si apriva sullo sfondo contornava il paesaggio attorno. Si godette ogni singola boccata come se fosse l’ultima, aspirando per gradi. La porta finestra era rimasta socchiusa e riuscì a distinguere alcuni stralci della conversazione di Alberto con sua madre. «Sì, ho cenato. Non posso dire di aver mangiato bene. La torta salata non era un granché.» Alberto usò un tono da maestrina che urtò Letizia. «E la sai l’ultima? Letizia si era messa in testa di andare a lavorare. Aveva persino avuto un’offerta. Le ho detto che era fuori questione. Ti pare? Voglio una moglie che stia a casa, non una girovaga.» L’impostazione della telefonata sembrava quella tra un bambino e la mamma che gli chiede se ha fatto tutti i compiti per bene. «Certo che lo sono anch’io. Tu sì che sei una gran donna. Suppongo che papà ti sarà grato per l’appoggio che gli hai sempre dimostrato. Vorrei che in questo mia moglie ti assomigliasse.» Letizia aveva chiuso gli occhi per sentire il profumo della primavera. Gli uccellini tenevano un vivace concerto con il loro cinguettare, radunati sull’albero prospiciente. Come le comari di paese, mormoreggiavano incessanti comunicando tra di loro senza sosta. «Davvero. Hai ragione, mamma. La sorella non è un buon esempio per lei. Troppo indipendente. È capace di imbonirla con idee sbagliate. È una che non si sposerà mai, te lo dico io. E chi la sopporterebbe una così? Troppa libertà, figurati. Quando avremo dei figli, non voglio mica affidarli a degli estranei. Deve essere la madre a occuparsene. Sì che ci stiamo provando. Per ora, ancora niente. Lo so che alla mia età eri già madre. Ci vuole più del previsto. Prima o poi ti arriverà un nipotino, fidati.» Letizia seguì ancora buona parte del loro colloquio telefonico. Non si capacitava delle esternazioni del marito. Voleva che lei si comportasse come una copia

fedele di sua madre. La suocera, in quanto donna, aveva dato ragione al figlio invece di tentare di mettersi nei suoi panni. Secondo lei, Alberto aveva fatto bene a stroncare sul nascere certe iniziative che, con ogni evidenza, reputava bizzarre. Dal suo punto di vista era chiaro che la modernità portava a risultati balordi. Da non crederci. Ciò che, nondimeno, più di tutto aveva infastidito Letizia era il fatto che avessero tirato in ballo Eleonora, additandola come un cattivo modello. Una critica a sproposito e arbitraria. Sempre secondo la loro limitata prospettiva, il suo compito sarebbe stato quello di mantenere alta l’immagine del marito e di impegnarsi per dargli un erede. Interpretazioni frutto di una mentalità introvertita, oltre che maschilista. Parole che affondavano come lame. Peggio ancora perché dette da una donna. Una girandola di riflessioni turbinavano vorticose nella sua testa. Il peso della solitudine si fece opprimente. Anziché contare su di un marito che la spalleggiasse, si trovava a dover combattere contro un nemico. Proprio lui che, al contrario, avrebbe dovuto essere il suo amico più fidato. Proprio un bel affare. In breve vide infrangersi i suoi sogni. Ormai apparteneva a suo marito. Era lui a disporre della sua vita. Non era questo il valore che lei dava al matrimonio. Per di più, un matrimonio i cui confini venivano invasi dall’intromissione della suocera, senza che ne avesse titolo. La colpa era di Alberto che glielo consentiva. Quante volte Eleonora aveva cercato di metterla in guardia. Fu investita da forti spasmi allo stomaco. Spense subito la sigaretta e buttò il mozzicone nel posacenere sul tavolino di fianco alla poltrona di vimini. Rientrò in casa e finì di riordinare la cucina.

A fatica, provò a rassegnarsi alle volontà del marito. In certi giorni il senso di vuoto le si affacciava prepotente. Il tic-tac inesorabile dell’orologio a muro della cucina rimbombava nella quiete della sua splendida casa solitaria. Quando il silenzio diventava assordante, accendeva lo stereo per ascoltare i dischi dei Queen, nello specifico i brani più rock, come ad esempio Hammer To Fall; oppure lo sintonizzava sulle frequenze di Radio Beta. Era una stazione che trasmetteva in prevalenza la disco music anni Settanta e Ottanta. Proprio quella

dei bei tempi in cui era più spensierata, quando aveva conosciuto Alberto: ripercorse mentalmente il momento in cui l’aveva abbordata in discoteca al bancone del bar fino all’incontro al Prolungamento di Savona. Di colpo realizzò quanto il potere delle illusioni l’avesse suggestionata. Il principe azzurro che aspettava, e che credeva di aver trovato in Alberto, non era arrivato in sella al suo destriero per portarla in un luogo magico o nel suo castello. L’aveva sì rapita, ma l’aveva lasciata ad aspettarlo ancora. L’aveva mistificata facendole credere di esserne il suo idolo, mentre si stava rivelando in modo più o meno occulto il suo carnefice. Certe volte le mancava persino l’aria per respirare.

8

Dopo circa tre anni di pratica presso uno studio dentistico, Eleonora stava per aprirne uno per conto proprio. La sua determinazione la stava portando esattamente dove avrebbe voluto essere. Stava dando alla sua vita l’andamento che si era prefissa e poteva ritenersi soddisfatta dei traguardi raggiunti. Si doleva molto nel vedere che sua sorella non era pienamente appagata. Glielo aveva detto e ripetuto, sperando sempre di sbagliarsi. Se però si fosse impuntata a criticarla per il suo matrimonio avrebbe ottenuto un unico risultato: intaccare il loro rapporto. E non era quello il suo intendimento. Per ottenere la sua attenzione, cercava di blandirla con le parole, anche se le riusciva arduo. Non era nelle sue corde girare attorno ai problemi. Era una che andava dritto al punto, senza inutili panegirici. Ma con Letizia doveva andarci con i piedi di piombo. Anche gli zii si erano resi conto da parecchio che qualcosa non andava. Non sapevano come aiutarla. Ultimamente non si confidava molto con loro, per non dire affatto. In parte per non tormentarli, in parte perché non voleva subire le loro recriminazioni. Arrivò l’estate e, come era loro consuetudine, ad agosto avrebbero trascorso alcune settimane a Savona. Chiesero a Letizia se voleva unirsi a loro per alcuni giorni. Si sarebbe svagata e sarebbero stati di nuovo insieme. La sorella li avrebbe raggiunti di venerdì. Avrebbe ritrovato quel calore familiare che tanto le mancava. Non diede loro una risposta immediata. Preferì temporeggiare. Era assillata da timori di altro genere. Ne ebbe difatti la riprova quando avvisò il marito della loro proposta. Com’era prevedibile, lui non acconsentì. La scusa che addusse fu che una moglie non lascia da solo il marito per andarsene in vacanza. Ci sarebbero andati insieme quando lo studio legale avrebbe chiuso per le ferie, chiaramente ospiti in casa dei genitori di Alberto. Avrebbe potuto vedere gli zii a Savona, una volta arrivati.

Era un altro macigno che le cadeva sulla testa. La sera stentò a prendere sonno, arrovellandosi per il sussiego con cui Alberto le aveva manifestato il suo disappunto per quella che, in fondo, era una richiesta innocente. Nel dormiveglia le riaffiorò lo sguardo della madre. La sua immagine carezzevole le rimase impressa per alcuni secondi. Restò a letto con gli occhi sbarrati finché si levò alle prime luci dell’alba. Si mise la vestaglia gialla di cotone e andò sulla terrazza. Aveva dimenticato di svuotare il posacenere. Per fortuna Alberto non l’aveva notato. Guai a lei se se ne fosse accorto; le avrebbe fatto un sacco di storie. L’arietta mattutina le accarezzò il volto. Un profumo, avvolgente e conturbante allo stesso tempo, si diffondeva nell’aria. Dischiuse gli occhi per inspirarne l’aroma e farsene avviluppare. I suoi capelli scarmigliati ondeggiavano leggiadri sfiorando le guance. Il silenzio muto della città dormiente era intercalato da frammenti di miti gorgheggi che gli uccellini intonavano. Aprì gli occhi e si sedette sulla sua poltrona di vimini. Si accese una sigaretta. Si appoggiò su un bracciolo portando a sé l’altro braccio e aspirando vaporosamente. Il caldo venticello faceva scivolare lontano il fumo espirato. Quegli attimi erano tutti suoi. Era come se con ogni tirata sentisse prepotente il sapore per la vita, che le parve assumere un connotato diverso. Un sapore di libertà che le faceva difetto. Per il semplice fatto di averle messo un anello al dito, per Alberto era diventata scontata. Non era così che doveva essere. Dov’era finito quel ragazzo di cui si era innamorata? Il matrimonio aveva cambiato le regole del gioco, ma era stato un cambio troppo repentino. Forse un figlio avrebbe migliorato la situazione. Avrebbe avuto un esserino tutto suo da accudire, riversandogli tutto l’amore che aveva da dare e di cui era capace. Alberto se ne sarebbe compiaciuto e la loro famiglia ne sarebbe uscita rafforzata. Alberto voleva, Alberto diceva, Alberto qui, Alberto là... e lei non aveva nessuna voce in capitolo?

La luce del giorno, non più divorata dalla notte, stava avanzando solenne.

Si era determinata di andare a trovare gli zii. Attese che Alberto uscisse. Le pigliò una grande stanchezza, ma non se ne lasciò opprimere. Gli zii stavano ancora facendo colazione in compagnia di Eleonora. Di solito attaccava per le dieci e poteva quindi prendersela comoda. Letizia arrivò con dei cornetti ancora caldi che aveva appena comprato dalla panetteria vicina. Si adoperò con tutte le forze per apparire allegra, come era nella sua indole. Ma l’espressione del suo volto rivelava esattamente il contrario. Eleonora non poté resistere e la punzecchiò senza inutili divagazioni. «Che cosa è successo stavolta?» le domandò allungandole la tazzina con il caffé ancora fumante. «Ho dormito poco. Sono molto stanca» le rispose Letizia con un tono poco convincente. «Hai avuto i soliti problemi di stomaco?» intervenne la zia che la osservava con aria preoccupata. «Già» le rispose Letizia acquiescente. «Bambina mia, sicura che non c’è altro? Non ce la racconti giusta.» Anche zio Corrado la fissò con aria turbata. «A dirla tutta, non posso venire con voi a Savona.» Gli zii rimasero a bocca aperta. «Come sarebbe? Perché?» disse zia Sandra incredula. «Non l’avete ancora capito? È tutta opera di quello là.» Eleonora sprizzava bile dagli occhi. «È a causa di Alberto?» domandò zio Corrado, allontanando dalla bocca la sua seconda tazzina di caffé. «E di chi altri?» Eleonora non rispettò i buoni propositi che si era fatta di non infierire su quel tasto dolente. Letizia farfugliò qualcosa avvilita.

«Non mettere il dito nella piaga. Non vedi che tua sorella è giù di corda?» Zia Sandra provò ad attenuare lo sconforto che li aveva colti. «Perché ti sei accontentata?» Eleonora non diede retta alla zia e proseguì: «Accontentarsi vuol dire accettare le situazioni come sono, anche se sono sbagliate». Letizia l’ascoltò senza controbattere. Una grande agitazione si impadronì di lei. Si fissarono per un tempo che parve lunghissimo. Con energia, Eleonora continuò: «Non hai malizia, non sei in grado di accorgerti del male che ti circonda. Purtroppo il male prospera nel suo cuore, non nel tuo. Tu sei un’anima pura. E anche tremendamente cocciuta». Poi, piena di tenerezza, diede una carezza alla sorella. A Letizia lampeggiarono gli occhi. C’era un fiume di lacrime trattenute con grande pena. «Potrà trarre in inganno chiunque, ma a me non la fa. Sarà il caso che ci parli e lo prenda di petto. A me non fa paura.» Eleonora sottolineò spavalda le ultime parole. «Non ne vedo la ragione. Non è accaduto nulla di irreparabile. Ci vedremo lo stesso a Savona» le ribatté Letizia con la gravità del suo sguardo. Come già in ato, cercò di sdrammatizzare, incosciente del baratro verso cui stava precipitando.

Come sempre in estate, Savona pullulava di vacanzieri. Era un dilemma districarsi in mezzo allo sciame di turisti che invadevano le spiagge. A dispetto dei presupposti, Letizia trascorse dieci giorni sereni con Alberto. Riuscì anche a vedere gli zii come aveva promesso, raggiunti al venerdì da Eleonora. Alberto le aveva permesso di are il sabato con loro senza la sua presenza. Avevano pianificato di godersi il mare, fare tanti bagni e pranzare al piccolo ristorante dello stabilimento balneare in fondo al Prolungamento, nella zona delle Fornaci. Fu una giornata indimenticabile. Il calore della sua vera famiglia

la ripagò delle amarezze dell’ultimo periodo. Era finalmente spensierata e solare. Era tornata a essere la Letizia autentica. Verso il tardo pomeriggio accusò un forte senso di spossatezza. In effetti il colorito del suo aspetto era di un bianco smunto. Stando a lei, era da imputarsi al caldo che le impediva un buon riposo. Intimamente, era in ansia per le proprie condizioni di salute. Non valeva la pena di indugiare oltre e quindi l’accompagnarono a casa. Si sarebbero sicuramente rivisti a Torino.

Al rientro dalle vacanze decise di fare delle analisi. Aveva preso appuntamento con il medico di famiglia che, come primo o, le aveva prescritto dei normali esami del sangue. Una mattina presto, subito dopo che Alberto era uscito per andare al lavoro, si recò presso un laboratorio nei paraggi. Nel giro di tre giorni ritirò l’esito. Era inequivocabile: aspettava un bambino. La sua reazione istintiva fu di una gioia immensa. Una piccola creatura aveva preso forma e stava crescendo dentro di lei. Quale altro miracolo era paragonabile a quello? Provò una sensazione di benessere, di vivacità esuberante. Sì sentì in pace con sé stessa. Sì guardò allo specchio e vide nei propri occhi una luce diversa. La sua espressione era distesa. Le sembrava di camminare sulle nuvole. Il suono incalzante del camlo della porta la riportò con i piedi per terra. Andò ad aprire. «Come mai sei già a casa così presto?» domandò Letizia ad Alberto che entrò tutto trafelato. «Ho dimenticato dei documenti. Servono proprio oggi per la causa che dovremo dibattere.» Alberto era di fretta e si precipitò a recuperare la cartellina. Stava per uscire quando, senza volerlo, fece scivolare un foglio appoggiato sul ripiano dell’ingresso. Lo raccolse per rimetterlo al suo posto. Gli cadde l’occhio e ne lesse il contenuto. Restò fermo impalato con un piglio inebetito. Alzò

dubbioso lo sguardo verso Letizia. «Ho letto bene quel che c’è scritto?» le domandò guardingo mentre la sua borsa portadocumenti gli sfuggiva dalle mani. «Ho ritirato il risultato poco fa. Avrei voluto farti una sorpresa e dirtelo stasera. Anche se, a dire la verità, mi sento un po’ confusa pure io.» Letizia si portò le mani sul grembo e lo accarezzò con delicatezza. «È una notizia fantastica» aggiunse lui con foga. Letizia lesse nei suoi occhi una felicità straripante. Dopo tanto, era la prima volta che rivedeva il suo Alberto. «Dobbiamo festeggiare. Avremo un bambino, ma ti rendi conto?» «La fatica dei nove mesi tocca a me» gli rispose lei piena di allegria. «Devo dirlo ai miei. Non vedo l’ora di dare la lieta novella. Il loro primo nipotino. Il mio erede. Dobbiamo assolutamente festeggiare.» Alla parola erede Letizia mutò d’improvviso espressione. «Puoi anche aspettare a comunicarlo ai tuoi. Sarebbe più giusto che ci godessimo io e te questo momento, che è solamente nostro. Alle nostre famiglie lo diremo tra qualche giorno.» «Perché attendere? È una notizia troppo bella per tenerla nascosta. Mia madre si potrà occupare di te, visto che non dovrai affaticarti.» Letizia fece una smorfia di disgusto. Strinse ancor di più le mani sul grembo. Comprendeva la lecita apprensione di Alberto, ma non era così indifesa da non saper badare a sé stessa. Senza dimenticare che gli zii le sarebbero stati vicini. E così pure Eleonora. «Non mi pare il caso di gravare su tua madre» osservò Letizia strizzando gli occhi dalla tensione. «Che cosa dici? Mia madre impazzirà dalla contentezza quando saprà di diventare nonna. E vedrai che ti darà una mano» disse Alberto sottolineando con

forza il ruolo che sua madre avrebbe avuto. «Scusami tanto, lo apprezzo ma con tua madre non ho molta confidenza. Dimentichi forse che ci sono anche i miei zii e mia sorella? Sinceramente mi sentirei più tranquilla con loro.» La frase le era uscita diretta. Alla fine glielo aveva detto e si sentì più leggera. Non aveva però calcolato che Alberto l’avrebbe presa molto male. «Come ti salta in mente? Vorresti sottintendere che mia madre non ti farebbe stare tranquilla? Si vede che non la conosci proprio!» Alberto si era fatto aspro. La sua mimica facciale lo aveva addirittura trasformato. Letizia non osò contraddirlo per paura di irritarlo ancora di più. «Sarà meglio che ti metta a riposo. L’avviso strada facendo così può are nel pomeriggio per vedere come stai» disse Alberto ancora sottosopra per la novità. «Non serve. Non sono mica invalida» gli ribatté Letizia stizzita per l’atteggiamento prevaricatore e indelicato del marito. Avrebbe voluto che la abbracciasse forte e la baciasse con ardore. Invece il suo pensiero era prima di tutto per i suoi e in particolare per sua madre. A volte aveva la sensazione di trovarsi di fronte a un’altra persona, a un altro Alberto. Credeva di conoscerlo, ma era come se il matrimonio avesse segnato i confini tra un prima e un dopo del tutto opposti. Adesso che aspettavano un figlio avrebbero dovuto sentirsi ancora più uniti. Invece le sembrava di riconoscere in lui un estraneo, o peggio un avversario che si ostinava a soffocarla e a tenerla legata a sé come una devota mogliettina. Lo amava ancora, malgrado tutto, benché i suoi sentimenti cominciassero a vacillare. Non aveva più intenzione di annullare sé stessa, lasciando che suo marito prendesse in mano le redini della sua vita. Dove stava scritto che dovesse essere così? Quando il prete celebra il matrimonio, non pronuncia forse la formula «di amarvi e onorarvi per tutti i giorni della vostra vita»? Non deve essere reciproco il sostegno e il rispetto? Senza tenere conto che, benché si atteggiasse a marito perfetto, alla fine era ancora attaccato a sua madre. Un bambino cresciuto che ancora non aveva tagliato il cordone ombelicale. Chissà se sarebbe diventato adulto una volta per tutte, specie ora che era prossimo alla paternità. Una bella parte di colpa andava sicuramente alla madre, che lo aveva

tenuto troppo attaccato a sé. Un’altra parte andava al padre che gli aveva instillato un’educazione maschilista che la madre, a sua volta, non soltanto non aveva contrastato ma, al contrario, vi si era uniformata. O più semplicemente era lei a ingigantire la situazione e a crearsi dei castelli in aria. Era più verosimile che Alberto volesse essere protettivo con lei. Forse lei per prima era spaventata dalla maternità. La sua esistenza sarebbe cambiata e ciò le causava uno stato angoscioso. Eppure, ancora una volta, Alberto diede dimostrazione di indelicatezza. Avrebbero dovuto condividere loro due, e soltanto loro due, quella gioia finora segreta. Letizia desiderava che Alberto le dimostrasse soprattutto con i fatti, più che con le parole, che era lei la persona più importante del mondo, la luce dei suoi occhi, e che senza di lei non poteva vivere. Quando gli esponeva le sue rimostranze, lui ascoltava con attenzione. Alla fine però non cambiava nulla. Era troppo accondiscendente e lui se ne approfittava. E lei ne soffriva molto. Nella mente le ribollirono queste e altre elucubrazioni. L’imminente cambiamento avrebbe forse migliorato la situazione tra di loro? Il frutto del loro amore avrebbe suggellato la loro unione per sempre: non era qualcosa di prodigioso? Il primo pensiero invece fu di dirlo a sua madre. Sempre sua madre tra i piedi. Possibile che non ci arrivasse a capire che, così facendo, la feriva? Aveva sposato Alberto, non sua madre. A quel punto, dal momento che si era affrettato a informarla, Letizia fece lo stesso con i suoi. Prese il telefono e, trascinando la prolunga, lo portò dall’ingresso al salotto. Si sedette comoda sul divano e girò la rotella. La mano le tremò. Per due volte sbagliò a comporre il numero. Ci riuscì al terzo tentativo. «Pronto?» rispose zia Sandra con voce accogliente. «Pronto zia, sono io. Come state?» rispose Letizia titubante. «Noi stiamo bene. Tu, piuttosto? Hai una voce strana.» «Sto bene. Volevo sapere se rimanete in casa. Vorrei are da voi.» «Perché non vieni per pranzo, così mangiamo assieme?» zia Sandra colse la palla al balzo. Le era chiaro che Letizia avesse qualcosa. «Buona idea. Mi farà bene. Soprattutto in questa circostanza.» Dalla modulazione della voce, Letizia lasciò trapelare la sua beatitudine.

«Come, in questa circostanza?» l’apprensione di zia Sandra era palpabile. «Vi racconterò tutto più tardi» proseguì Letizia con tono misterioso. «Non si tratta di una brutta notizia, vero?» «Tutt’altro, zia» disse Letizia, insolitamente euforica. «Non vorrai mica dire che... Ho indovinato?» «Credo proprio di sì.» «È meraviglioso, bambina mia. Sicura che te la senti di venire da noi? Non è che ti strapazzeresti troppo?» La zia era frastornata. In breve anche il resto della famiglia condivise la bella notizia. Gli zii erano al settimo cielo; Eleonora non tanto: la sorella si sarebbe sempre più legata a quello che per lei restava un mascalzone. La sola parola cognato la faceva inorridire. Tuttavia non poteva farle mancare il suo affetto, tanto più ora che ne aveva maggiormente bisogno e che la maternità l’avrebbe resa ancora più fragile. Doveva quindi mettere da parte la sua avversione. Egle si affrettò a chiamarla nei giorni successivi. Voleva accertarsi che stesse bene. Tutto a un tratto era diventata premurosa. La assillava chiamandola anche più volte. All’inizio Letizia se ne stupì ed era pronta a cambiare idea sul suo conto. Per un attimo si era illusa che il suo atteggiamento fosse sincero. Ben presto dovette ricredersi. Difatti non ci volle molto per capire che l’interessamento della suocera era destinato non tanto a lei, quanto al futuro nipote. Alberto fece di tutto per convincerla affinché sua madre andasse a trovarla, ma Letizia riuscì a scansare tale rischio. Imputò al mal di testa e alla sensazione di fiacchezza il motivo per cui preferiva starsene in pace. Ci mancava pure la presenza della suocera in casa. Alberto se ne risentì in parte, ma non voleva che la moglie si sfiancasse e alla fine lasciò perdere. Era affettuoso e la viziava con piccoli gesti che per lei significavano molto.

Un sabato mattina, prima di uscire per andare al lavoro, l’avvisò che la sera avrebbe fatto tardi. Doveva incontrare un cliente e sarebbe andata per le lunghe. Non era certo di rientrare per cena. In ogni caso glielo avrebbe detto nel corso del pomeriggio, quando l’avrebbe chiamata come faceva sempre. Uno scuro temporale era sospeso nel cielo, pronto a esplodere. Letizia avrebbe voluto uscire per andare a comprare i primi regali di Natale per i suoi. Per sé e per Alberto le sarebbe piaciuto tanto ordinare la culla che aveva adocchiato in un negozio in via Roma. Era a dondolo, di legno bianco con il velo, e sarebbe stata perfetta. Non voleva però andarci da sola. Avrebbe potuto farsi accompagnare dalla zia o da Eleonora. Lo scrosciare della pioggia la fece desistere dai suoi propositi. Il fragore continuo colse di sorpresa lo stuolo di persone che quel sabato si erano riversate per le strade con il medesimo proponimento. La città si era lustrata a festa e l’atmosfera vivace aveva ben disposto gli animi. Una patina di umidità si insinuò avvolgendo ogni cantone visibile. Il suo grigiore sembrò rinsaldare l’impressione che forze misteriose aleggiassero su Torino, da sempre riconosciuta come esoterica. Una ressa incredibile di gente si addensò rifugiandosi lungo i due lati che costeggiavano via Po. A conti fatti, fu un bene che non fosse uscita. Per i regali c’era ancora tempo. Colse il pretesto per mettere in ordine gli armadi. C’erano delle giacche del marito da portare in tintoria. Si cambiava di frequente la camicia e i suoi completi duravano al massimo due giorni. Alberto si era già lamentato che gli servivano i suoi abiti puliti. Non poteva mica rischiare di non avere il cambio pronto. Letizia li radunò e ne controllò le tasche una a una prima di metterli in una sacca per portarli alla lavanderia. A parte qualche fazzoletto, generalmente non c’era altro. Stava per chiudere la sacca e notò di averne dimenticato uno. Ripeté l’operazione con la medesima cura. Era in procinto di piegarlo quando brancicò qualcosa nel taschino interno. Non ci aveva fatto caso prima. Meno male che non le era sfuggito, altrimenti Alberto l’avrebbe accusata di essere stata negligente. Tastò la stoffa. Riconobbe il fruscio di un foglio di carta. Rivoltò la giacca all’interno e vi trovò un minuscolo biglietto. Era stato ripiegato talmente per bene che sarebbe stato impossibile recuperarlo. Lo srotolò lentamente e lesse ciò che vi era scritto. D’improvviso sbiancò.

Lasciò cadere la giacca. Era attonita. Ebbe un leggero giramento di testa. Rilesse il biglietto. Trottolino mio, abbiamo ato un weekend a dir poco strepitoso. Mi manchi da morire. Spero che troverai una buona scusa per restare con me anche la prossima settimana, come mi hai promesso. Dopo tutti questi anni hai sempre un effetto esplosivo su di me. Ho tanta voglia di rivederti. E non soltanto quello. Tanti baci. La tua gattina Lisa. Ebbe un altro sbandamento. Si accasciò sul letto. Lo lesse ancora e ancora. La vista le si annebbiò. Non poteva essere uno scherzo. Lisa lo aveva persino firmato con il proprio nome in chiaro, incurante di poter essere identificata. Significava che da anni Alberto intrecciava una relazione con quella che aveva sempre definito una semplice amica di vecchia data. Quelle parole davano a intendere, senza ombra di dubbio, che in pratica la tresca andava avanti da sempre. Nemmeno con il loro matrimonio l’aveva interrotta. Per la sua avvenenza, Lisa era il tipo di donna che faceva perdere la testa a un uomo. Ma non al suo Alberto. Non poteva essere stato così meschino. Aveva dunque recitato la parte per così tanto tempo? Com’era possibile? Anche adesso che aspettavano un bambino? Che razza di padre avrebbe potuto mai essere uno così? Aveva dato forse per sottinteso che lei non lo avrebbe scoperto? O che ci sarebbe ata sopra come sua suocera, che faceva finta di non vedere le scappatelle del marito? Se era questo ciò che pensava, aveva fatto male i suoi conti. Non aveva la benché minima intenzione di partecipare a quel gioco al massacro. Lo aveva giustificato tante volte per i suoi eccessi. Aveva subito oltre il consentito, sempre in nome di quei sentimenti che si era persuasa li unissero. Il mondo le era crollato addosso e stavolta non poteva perdonargliela. Da spudorato ipocrita, gliel’aveva fatta troppo grossa. Era stata tutta una farsa sin dall’inizio. Così come era fasullo il mondo da cui proveniva: ciò che soprattutto contava era mantenere le apparenze. L’ambiente da cui proveniva lei invece era più modesto, ma certamente più genuino. Non aveva bisogno di ricorrere a sotterfugi. Lei era candida. Non indossava nessuna maschera. I suoi sentimenti erano sinceri e non gli avrebbe permesso di calpestarli ancora. Non dopo quella batosta. Tutto ciò in cui aveva creduto fino a quel momento svanì di colpo, specie ora con la gravidanza. Dovevano essere una famiglia: ma quale famiglia?

Ripensando alle volte che Lisa si era intrufolata casualmente durante i loro incontri, la assalì un moto di rabbia. Pure al loro matrimonio aveva fatto la smorfiosetta con lui, ma non ci aveva dato importanza. A ben guardare, la verità era sempre stata sotto ai suoi occhi. Eleonora non glielo aveva ripetuto fino allo sfinimento? Ci aveva sempre visto giusto. Qualsiasi scusante Alberto potesse addurre a propria discolpa, non l’avrebbe ascoltato. Anzi, avrebbe chiesto la separazione. Se necessario, avrebbe cresciuto da sola suo figlio. Ma le sarebbe stato impossibile continuare a condividere la sua vita e il suo letto con un uomo nel quale non riponeva più nessuna fiducia. Le aveva sempre mentito; le aveva fatto credere di essere per lei l’uomo perfetto, che l’amava e con il quale costruirsi un futuro. Invece aveva cercato in tutti i modi di soggiogarla e, per amore, lei aveva abbassato la testa e mandato giù tanti bocconi amari. Gli aveva concesso ogni attenuante sempre in nome di quel suo amore, talvolta asfissiante. E alla fine si era rivelato un comune fedifrago, né più né meno come tanti altri. Con Lisa, poi. Altro che amica di vecchia data. Come un fiore avvizzito, la sua storia con Alberto si era svuotata di qualsiasi significato. Il loro matrimonio era arrivato al capolinea. Prese una compressa di valeriana e andò a dormire. Era troppo sconquassata per ragionare con lucidità. Rimandò all’indomani ogni decisione.

Mancava un mese all’inizio dell’inverno. Il Monviso si mostrava in tutta la sua maestosità con le cime ricoperte di un bianco brillante. Come uno scialle che copre le spalle, ai suoi estremi confini Torino si presentava ammantata e sprigionava un fascino suggestivo. I portici del centro brulicavano di gente che si era già messa in moto per gli acquisti di Natale, incurante del freddo a cui era abituata. Alberto era già in piedi. La cena, che lo aveva trattenuto fuori casa la sera precedente, si era protratta oltre il previsto. La moglie non lo aveva sentito rientrare. Si era messo in testa di andare a fare una eggiata con lei. Era di ottimo umore e stava preparando la colazione. Non era da lui. Letizia lo sentì trafficare in cucina. Si avvicinò piano, come portando il peso del mondo sulle sue spalle. Si fermò a osservarlo fuori dalla stanza. Non aveva una bella cera.

«Amore mio, che fai in piedi? Ho cercato di non fare chiasso» disse Alberto, che non l’aveva sentita arrivare. Letizia aveva lo sguardo perso nel vuoto e non rispose. «Volevo portarti la colazione a letto. Nel tuo stato non devi stancarti.» Letizia non ci badò. Aveva la mente altrove. «Ieri sera sono tornato molto tardi e tu già dormivi. Mi dispiace di averti lasciato da sola ma non ho potuto esimermi. Mi farò perdonare.» L’ultima parola attirò l’attenzione di Letizia. «Farti perdonare? Fosse soltanto per una cena» gli disse con aria sarcastica. «Ho capito, ce l’hai con me. Non te ne faccio una colpa» le rispose Alberto con tono condiscendente. «Ma guarda un po’! Tu non ne fai una colpa a me? Ne sei davvero sicuro?» Letizia era tornata nel mondo reale ed era sul piede di guerra. «Che ti prende? Ti ho chiesto scusa. Mi sembra sia sufficiente. E poi, nel tuo stato, non ti fa bene agitarti.» Come sempre succedeva, per Alberto bastavano due moine per sistemare la faccenda quando prendeva una piega storta. Non accettava però che sua moglie si mettesse a insistere. Secondo lui, Letizia era in preda a uno scombussolamento ormonale che ne alterava l’umore. «Hai davvero una bella faccia tosta. Per te è tutto normale. Secondo te, sono io a essere scombinata. Povera Letizia, è incinta. Avrà le sue paturnie. Bisogna capirla. Sei tu che devi capire me? Sei soltanto un insopportabile bugiardo!» In preda a una marcata ansietà, Letizia stava perdendo ogni autocontrollo. La sua arrendevolezza lasciò il posto a una collera feroce. L’atteggiamento comionevole del marito la fece sentire doppiamente presa in giro. Scostò con forza la sedia e si sedette esausta.

«Ma si può sapere che cos’hai? Capisco che la gravidanza ti stia sconvolgendo. Ma da qui a insultarmi senza un motivo mi sembra eccessivo. Tutto perché sono tornato tardi ieri sera? Non mi sembra il caso. Cerca di calmarti. Alla colazione ci penso io.» Alberto le si avvicinò prudente. Voleva darle una carezza. Era rammaricato per la sua reazione che reputava esagerata. Letizia allontanò con uno scatto di repulsione il suo gesto amorevole. «Non mi toccare! Mi dai il voltastomaco! Non ti voglio più vedere!» Letizia aveva gli occhi fuori dalle orbite. Stavolta fu Alberto a intimorirsi per davvero per la violenta reazione. «Ti ha dato di volta il cervello? Si può sapere che cosa ti ha preso?» «Ti ascolti quando parli? Dopo tutto ciò che hai combinato in questi anni, sei proprio un irriverente! Dovresti vergognarti. Ammesso che tu ne conosca il significato.» La sopportazione di Letizia aveva superato il limite. Non era più disposta a recitare la parte della brava mogliettina. «È chiaro che non sei in te. Hai bisogno di riposo e di qualcosa per tranquillizzarti. Vado in farmacia.» «Bravo, vattene e non tornare più. Anzi, no. Me ne vado io.» «Che cosa stai dicendo?» «Sto dicendo che non resterò un minuto di più con te. Faccio le valigie e ti lascio la tua vuota casetta. Ti lascio campo libero con Lisa. Così non dovrai più ingegnarti per raccontare storie, soprattutto a te stesso. Non voglio più vivere nella menzogna. E nemmeno continuare a essere la tua schiava. È finita.» «Che cosa c’entra Lisa?» Piccato, Alberto finse maldestramente di non capire. Era diventato bianco come un cencio e questo lo tradì. «Eccome se c’entra. Finalmente ho aperto gli occhi. Mia sorella mi aveva messo in guardia fin dall’inizio e io ti ho sempre difeso. Che ingenua sono stata!

Mentre tu ti divertivi alle mie spalle con quella. Per non parlare delle tue assurde scenate di gelosia se io scambiavo due parole con un amico, quando eri tu ad avere la coda di paglia.» «Come puoi affermarlo con certezza?» domandò Alberto, che non concepiva di essere stato colto in fallo. «Che importanza ha? Avresti dovuto stare più attento, invece di lasciare nelle tue giacche i foglietti che vi siete scritti. Scommetto che avevate già una relazione quando mi hai conosciuta. Perché mi hai sposata allora?» gli rispose Letizia livida di rancore. Nel frattempo anche Alberto si era seduto. Era rimasto senza parole. A propria difesa aveva ben poco da dire. Per pochi istanti si guardarono fissi negli occhi. Sembrò un’eternità. Il tempo si era cristallizzato. Letizia non voleva dargli la soddisfazione di vederla scoppiare in un pianto isterico. Ricacciò indietro le lacrime che non aspettavano altro che di sgorgare copiose. Il freddo fuori si era fatto più pungente ed era penetrato anche nei loro cuori. Alberto accostò la sua mano a quella di Letizia. «Ti amo. Nessun’altra conta più di te. Non voglio perderti. Soprattutto ora che avremo un bambino. Non posso vivere senza di te.» Il suo rammarico sembrò sincero. «Amarmi? Questa è bella! Tu ami soltanto te stesso. Non sai che cosa vuol dire amare. Volevi al tuo fianco una moglie docile da poter esibire e da tenere al guinzaglio. Stupida io che ci credevo. Invece, le volte che facevi tardi al lavoro o che seguivi i tuoi corsi nel fine settimana, in realtà te la stavi sando con lei. E io qui da sola ad aspettarti. Mi sono bevuta tutte le tue frottole. Chissà quante risate alle mie spalle. Adesso è finita. Con me hai chiuso.» Stava per singhiozzare. Prese un fazzoletto e se lo portò alla bocca. «Di che cosa ti lamenti? Ti ho sempre lasciata libera di fare ciò che volevi. Ti ho dato una bella casa, una vita agiata. Che cosa vuoi di più? Provvedo io a tutto, e

ancora hai da dire?» Superato lo scetticismo, Alberto alzò la cresta a dispetto del biasimo che Letizia gli aveva vomitato addosso. «Ho parlato a vanvera finora? Non resterò più con te sotto lo stesso tetto.» Letizia si alzò dalla sedia e iniziò a gesticolare animatamente. «Che cosa ti credi? Non sei in grado di fare niente senza di me. Non vali nulla. Non sei buona a tenere in ordine la casa. Non sai cucinare nemmeno la pasta. Sei soltanto capace di vivere alle mie spalle. Se non ci fossi io, non sapresti cavartela. Ma dove vuoi andare? Povera cretina! Non vai da nessuna parte. Non ti lascerò andare, tantomeno ora che porti in grembo mio figlio.» Anche Alberto si era alzato. Le si piantò davanti e le parlò dandole dei leggeri scapaccioni. L’arrogante pienezza della sua persona aveva preso il sopravvento. Letizia mise le mani davanti al volto per proteggersi. La violenza irrazionale di Alberto non si fermò. Diventò brutale: dai ceffoni ò a strattonarla con veemenza. Le diede uno spintone così forte da farla cadere in malo modo. Non si arrestò di fronte alle sue grida di dolore. Vide nei suoi occhi lo spasimo assoluto del terrore. Stava per accadere qualcosa di terribile, qualcosa di definitivo. Alberto continuò a percuoterla con pugni e calci, come in preda a un raptus. Desistette soltanto quando vide che Letizia perdeva sangue, mentre lo implorava di smettere per il bambino che aspettava. La furia, che si era impadronita di lui fino a poco prima, si placò. L’ombra del subitaneo rimorso lo spinse ad agire per arginare i danni che aveva causato. Si risolse a chiamare i soccorsi, mentre lei si contorceva tutta. L’ambulanza arrivò tempestiva e Letizia fu ricoverata d’urgenza alle Molinette. Sul suo corpo erano evidenti i segni della violenza che aveva patito. Durante il trasporto riuscì a chiedere all’operatore sanitario di avvisare la sua famiglia.

9

Eleonora si precipitò dopo aver ricevuto la telefonata dall’ospedale. Aveva preferito andarci da sola. Gli zii erano troppo agitati e non sarebbero stati di grande aiuto in quel momento difficile. Li rassicurò promettendo che li avrebbe informati appena avesse avuto notizie. La freddezza con cui affrontava le situazioni le avrebbe consentito di non farsi sopraffare dagli eventi. Ancora non sapeva con quale tragedia doveva misurarsi. All’ingresso dell’ospedale riuscì ad avere le indicazioni per raggiungere la stanza in cui si trovava Letizia. Era appena uscita dalla sala operatoria. L’infermiera la ragguagliò sulle condizioni di salute della paziente, informandola che non era stato possibile salvare il suo bambino. Anche Alberto era presente. Malgrado la sua forza d’animo, Eleonora trasalì e dovette appoggiarsi a una seggiola. Temeva che Letizia non avrebbe retto a quella notizia. Chiese di poter essere lei a comunicarlo alla sorella. Avrebbe trovato le parole adatte. «Sorellina, sono qui. Resterò tutto il tempo necessario» le disse andandole vicino. Si espresse con grande dolcezza e le strinse la mano. «Che cosa è successo? Mi ricordo soltanto dell’ambulanza.» Letizia aveva lo sguardo confuso, ancora sotto l’effetto dell’anestesia. Continuava a toccarsi l’addome. «Tesoro mio, lo supereremo insieme.» Eleonora continuò a parlarle con un tono mite e la baciò sulla fronte. Letizia dapprima assunse un’espressione allucinata. Gli occhi diventarono lucidi e scoppiò in un pianto dirotto. Restarono abbracciate l’una all’altra. L’infermiera ò per la prima medicazione. Tolse le bende dalle braccia, su cui erano chiaramente visibili dei lividi. Dopo che fu uscita, Eleonora domandò alla sorella come se li fosse procurati.

«Sono scivolata in bagno.» Letizia non sapeva mentire. «Dimmi la verità. C’entra per caso quello là?» Eleonora si stava scaldando e dovette fare appello alle proprie forze per non perdere le staffe. «È colpa mia. Sono stata malaccorta» le rispose Letizia con le lacrime che le avevano intriso le guance. «Non cercare di difenderlo. Persisti ancora, dopo ciò che ti ha fatto? Non la può are liscia. Devi denunciarlo. E non devi temere, ci sarò io al tuo fianco.» «Ti prego, non tormentarmi. Non ne posso più.» «Mi dispiace. Adesso hai bisogno di riposare. E io da qui non me ne vado. Però da lui non ci torni più.» Eleonora adoperò un timbro delicato ma fermo. L’avrebbe allontanata a tutti i costi dalle grinfie di quell’essere abietto. Uscì un momento dalla stanza. Alberto era sempre lì fuori che aspettava. Fece per domandarle come stava sua moglie ma si dovette fermare. Eleonora aveva assunto un’espressione bieca e lo apostrofò malamente. «Ringrazia il cielo che siamo in un ospedale, altrimenti ti avrei già rotto il muso. Guai a te se provi ad avvicinarti ancora a lei.» Alberto non replicò e preferì andarsene via con la coda tra le gambe.

La testardaggine di Letizia ebbe la meglio. Non sporse denuncia contro il marito; preferì lasciar cadere tutto. Eleonora mal comprendeva l’assurda ostinazione di sua sorella. Avrebbe dovuto punire quell’infame. Fosse stato per lei, avrebbe già risolto la questione. Gli zii si erano dati molta pena da quando Letizia era stata ricoverata. Poteva andarle peggio. E ciò li aveva fatti sprofondare in uno stato di prostrazione. L’avevano cresciuta come una figlia e non potevano reggere al fatto che uno scellerato, che avrebbe dovuto prendersi cura di lei, fosse diventato il suo aguzzino. Anche loro avevano sempre nutrito parecchi dubbi sul conto di Alberto. Ora ne avevano la riprova. E neanche loro l’avrebbero lasciata tornare da lui.

Le dimissioni dall’ospedale seguirono alcuni giorni dopo. Letizia tornò a vivere dagli zii, che l’avrebbero protetta e coccolata. La sua vecchia cameretta era rimasta intatta. Zia Sandra si era affrettata a sistemarla nel modo più confortevole possibile. Riuscì a recuperare il grosso orso di peluche a cui Letizia era molto affezionata e lo posò sopra al letto. Glielo aveva preparato con il cuscino alto, quello con la federa azzurra. Aveva messo il copriletto giallo. Era tutto pronto per riaverla a casa, dalla sua famiglia. Per rendere accogliente l’atmosfera, zio Corrado aveva addirittura appeso dei palloncini colorati lungo l’ingresso. Letizia si sentì al sicuro e si commosse per l’affetto da cui fu riempita. Esplose in un pianto liberatorio. Chiese a Eleonora un unico favore: andare a casa sua in un orario in cui Alberto era al lavoro per recuperare alcuni effetti personali e, in particolare, un piccolo scrigno che teneva nascosto in un cantuccio nell’armadio della camera matrimoniale. Per lei rivestiva un’importanza peculiare. Di tutto il resto non le importava. Alberto poteva tenersi tutto, ma proprio tutto. Non si sarebbe messa a barattare la sua libertà con oggetti insignificanti. Il giorno seguente Eleonora fece ciò che la sorella le aveva chiesto e, dopo essere uscita dall’appartamento, lasciò le chiavi nella cassetta postale. Alberto le trovò alla sera. Le prese e le guardò come se tenesse in mano una reliquia. Il rimbombo dell’ascensore, che era arrivato al piano, lo fece guizzare. Capì che la moglie faceva sul serio. La chiamò per telefono dagli zii, ma non gli permisero di parlare con lei. Dopotutto, Letizia aveva preso coraggio. Le ci volle un po’ per riprendersi, ma l’amore che la circondava fu un vero toccasana. Aveva deciso che era giunto il momento di dare una svolta alla sua vita. Poiché a Natale mancava un mese e mezzo, si impegnò parecchio per rendere speciali le festività con i suoi cari. Aiutò la zia a scegliere i regali e a stilare un menù adatto. Si sentì rinascere, libera dal giogo che troppo a lungo l’aveva oppressa. Paradossalmente, l’aborto che aveva dovuto affrontare le era stato salvifico. Era pronta a lasciarsi tutto alle spalle. A sua volta, Eleonora si diede un gran daffare per aiutarla a trovare un nuovo appartamento.

10

La custode dello stabile in corso Fiume, dove Eleonora si era trasferita da circa un anno, le segnalò che al terzo e ultimo piano di un edificio in via Cosseria, all’angolo con via Curtatone, c’era un appartamento sfitto. La zona, con tanti caseggiati di pochi piani, era molto pacifica. Un paio di giorni dopo Natale prese appuntamento per una visita. L’agente immobiliare, un ragazzotto sulla trentina dallo sguardo vispo, le aspettava davanti al portone. Letizia era visibilmente emozionata. Il cuore le batteva forte. Stava per compiere un altro salto. Da un lato ne era contenta, dall’altro era attanagliata da un vortice di pensieri nebulosi che la facevano sentire disorientata. Eleonora colse perfettamente lo stato d’animo della sorella. Il suo sostegno in quella circostanza era fondamentale. «Avanti, prego» disse il ragazzotto con fare cortese. Letizia entrò per prima. Si strinse nel suo cappotto rosso, un regalo degli zii. Il freddo era tagliente come un bisturi affilato. La neve era scesa la sera prima, ma non aveva attecchito. Nell’appartamento la temperatura era glaciale. Era disabitato da tempo, come rimarcò l’agente immobiliare. Non era molto grande: un semplice bilocale, ben diverso dalla casa coniugale in cui aveva vissuto fino ad alcune settimane prima. Stranamente, Letizia si sentì a casa. «È davvero confortevole» disse con gli occhi pieni di stupore. «Se volete seguirmi, vi mostro la cucina e la camera. Il bagno rimane in fondo» aggiunse il ragazzotto con accento professionale. «Non è male per niente. C’è anche il balcone?» domandò Eleonora con interesse. «Stavo per arrivarci. La porta finestra del salotto apre direttamente sul balcone.

In lontananza si intravede uno scorcio della chiesa di Santa Maria del Monte dei Cappuccini. A piedi dista soltanto settecento metri. Da lì si gode un ammirevole panorama su Torino» osservò il ragazzotto, compiaciuto per aver saputo stimolare la curiosità delle sue clienti. Letizia andò a vedere. Si infagottò nel suo cappotto coprendosi il mento con il bavero. Rimase a osservare la visuale per alcuni minuti. Chiuse gli occhi. Sentì nell’aria un odore intenso che le penetrò fino alle ossa: quello della libertà ritrovata. Tornò dentro e accostò la finestra. «Non mi serve altro per decidere. Lo prendo» disse con convinzione. «Molto bene. Andrò in ufficio a preparare i documenti per l’affitto. Potrà occupare l’appartamento da metà gennaio. Vorrei solamente farle notare che la porta d’ingresso ha una chiusura a scatto. Bisogna avere l’accortezza di tenere sempre a portata di mano le chiavi, altrimenti si rischia di non entrare più in casa. Comunque, se mi consente, ha fatto un’ottima scelta» aggiunse il ragazzotto, soddisfatto per aver concluso la trattativa senza alcun intoppo. «Ne sei proprio certa?» domandò Eleonora fissando la sorella con assoluto stupore. «Mai stata più sicura» le rispose Letizia infilandosi i guanti neri di pelle. Si accomiatarono dall’agente immobiliare e andarono dagli zii per condividere con loro la novità. Abitavano a una buona mezz’ora di distanza. Una bella eggiata era quello che ci voleva per smaltire l’adrenalina. Era da parecchio che Eleonora non vedeva Letizia così allegra. Camminarono a braccetto, entusiaste di assaporare la fervida atmosfera natalizia che si avvertiva per le strade. «Ci avete messo un po’. Venite a scaldarvi. Stavamo giusto preparando il tè» disse zia Sandra che era stata in pensiero per la prolungata assenza delle nipoti. «Proprio quello che ci vuole. Fuori fa un freddo becco» le rispose Eleonora fregandosi le mani.

«Abbiamo tanto da raccontarvi, non è vero sorellona?» intervenne Letizia mentre si stava sfilando i guanti. «Anche noi abbiamo qualcosa per te» aggiunse zio Corrado con aria sdolcinata. Le due ragazze gli lanciarono un’occhiata interrogativa. Dall’angolo della cucina spuntò una coda bianca che subito sparì. «Hai visto anche tu?» domandò stupita Letizia alla sorella. «Che cosa dovrei aver visto?» Letizia intanto aveva fatto alcuni i tra gli sguardi di complice giocondità degli zii. «E tu da dove sbuchi?» Rimase stupefatta di trovarsi quel cucciolo che, tutt’altro che impaurito, prima le abbaiò e poi le saltò addosso espansivo. «È tenerissimo. Come vi è balenata l’idea di prendervi un cagnolino?» «A dire la verità, lo abbiamo preso per te. È una razza molto socievole. E soprattutto è molto affettuoso e anche un buon cane da guardia.» Zio Corrado evidentemente si era ben informato. «Siete matti!» Letizia non riuscì a contenersi dalla gioia. «Ti sarà di grande compagnia quando ti trasferirai» disse Eleonora. «Come sarebbe?» Zia Sandra, entrata in cucina, stava per prendere la teiera bollente, ma si fermò. «Sarebbe che siamo andate a vedere un appartamento in uno stabile che è abbastanza vicino a dove abita la mia sorellona.» «Così potrò andare a trovarla spesso.» «E dunque?» la incalzò la zia. «È un bilocale molto grazioso e luminoso. Gode di una buona posizione e mi sono trovata subito a mio agio.» Gli occhi di Letizia luccicarono.

«Significa che ci lasci? Proprio ora che ci eravamo abituati ad averti con noi?» si espresse la zia con una punta di malcelata contrarietà. «Non vado mica al Polo Nord. E porterò con me questo cucciolo adorabile. Bisogna trovargli un nome. Fatemi pensare. Lo chiamerò Billy.» «È giusto così» si intromise zio Corrado. Anche lui cercò di nascondere lo stesso dispiacere, dissimulando che non ci fosse nulla di strano nella decisione che Letizia aveva preso. «La nostra bimba ha bisogno dei suoi spazi. E anche di ricominciare daccapo una nuova vita. Noi ti staremo sempre accanto, lo sai. Dal momento che tua sorella non abita lontano da te, credo che non te la toglierai dai piedi tanto facilmente. Dico bene, Eleonora?» «Ci puoi scommettere. Le starò appiccicata come una cozza.» Finirono tutti a risate. Billy si mise ad abbaiare e a saltellare, accrescendo il clima festaiolo con la sua simpatia.

A metà gennaio Letizia si trasferì nel nuovo appartamento con il suo ormai inseparabile Cavalier King. Durante il fine settimana la famiglia l’aiutò con il trasloco, benché non avesse molto da portare con sé. Quando lo videro, l’appartamento piacque anche agli zii. Letizia ce la stava mettendo tutta per superare i momenti dolorosi degli ultimi tempi. C’erano giorni in cui l’assaliva un’afflizione che le appariva insostenibile. Per fortuna ci pensava Billy a metterla di buonumore. Anche Eleonora la marcava stretta. Le telefonava ogni mattina e alla sera ava spesso a trovarla per cenare insieme. A poco a poco Letizia iniziò a rifiorire. I patimenti che Alberto le aveva inflitto per anni cominciarono lentamente a perdere consistenza.

Eleonora insistette perché non rimandasse la chiusura del suo matrimonio. Doveva chiedere la separazione ufficiale e tagliare tutti i ponti con quel mascalzone. Tra i clienti del suo studio dentistico figurava un avvocato. Sulla cinquantina,

aveva un’esperienza consolidata in diritto civile ed era una persona affidabile. A lui si rivolse affinché esaminasse la vicenda. Gli raccontò in via confidenziale tutto ciò che c’era da sapere. L’avvocato Costa prese a cuore la vicenda e si prodigò per seguirla in prima persona. Alcuni giorni dopo diede appuntamento a Letizia nel suo Gabinetto, a pochi i dalla stazione di Porta Susa. Discussero a fondo i termini per un divorzio consensuale, sebbene vi fossero tutti gli elementi per un divorzio giudiziale. Era però la soluzione più ragionevole per arrivare alla separazione ufficiale accorciando i tempi e le spese. Ciò che era avvenuto, rappresentava già di per sé un fatto che rendeva intollerabile la prosecuzione della convivenza. Letizia però non aveva sporto denuncia, malgrado le esortazioni di Eleonora. Voleva interrompere ogni legame con Alberto nel più breve tempo possibile. Per riuscirci tuttavia era necessario che anche il marito ne accettasse le condizioni. Questo era il nodo più difficile da sciogliere. L’avvocato Costa avrebbe fatto recapitare una prima richiesta presso lo studio Barberis. Avrebbero studiato i aggi successivi sulla base di ciò che ne sarebbe conseguito. In ogni caso, per arrivare al divorzio, dopo la separazione, ci sarebbero voluti ancora tre anni. La strada si prospettava dunque ancora lunga. Letizia non si scoraggiò per questo. Non aveva nessun ripensamento ed era determinata ad andare fino in fondo. Non lo avrebbe mai perdonato dopo ciò che le aveva fatto e non era disposta a scendere a patti. Voleva disintossicarsi da quell’amore malsano e doveva recuperare sé stessa insieme alla propria dignità.

Il gelido inverno portò altri mutamenti con il nuovo anno. Prima di Natale aveva risposto a un’inserzione per la posizione di impiegata amministrativa presso un’agenzia di assicurazioni. Il destino volle essere benevolo con lei: ottenne il lavoro. Avrebbe iniziato il primo febbraio. Fu un altro punto a favore della sua autostima che Alberto, al contrario, aveva sempre sminuito. Il 1995 non poteva iniziare meglio. Al sabato era attesa con Eleonora a pranzo dagli zii. Mise il cappottino al piccolo

Billy e ò a prendere la sorella. Imbacuccate nei loro paltò, camminarono fino alla fermata di piazza Vittorio Veneto per prendere il 15. La zia aveva trascorso l’intero pomeriggio a preparare delle pietanze appetitose con l’aiuto dello zio. Le riunioni di famiglia rappresentavano sempre delle occasioni uniche e quella lo sarebbe stata ancora di più. Zia Sandra aveva trafficato non poco per stendere la pasta, ma i suoi agnolotti erano leggendari. Per non parlare del sugo di carne che diffondeva per tutta la casa un odore inconfondibile. Come se non bastasse, si diede da fare per rendere gustoso il vitello tonnato, un altro suo piatto forte. Per chiudere in bellezza, si era cimentata con il budino agli amaretti. Le due ragazze arrivarono tutte intirizzite e citofonarono a più riprese. Non vedevano l’ora di riscaldarsi. Quando zio Corrado andò ad accoglierle, le loro esclamazioni di meraviglia riecheggiarono concordi. Gli effluvi sparsi non si erano mescolati tra di loro. La casa sapeva di buono, di calore familiare. Persino Billy si mise a latrare contento. Ma il dono più importante per gli zii era che Letizia si riprendesse. E la notizia del suo nuovo lavoro fu la ciliegina sulla torta.

La risposta alla lettera dell’avvocato Costa non si fece attendere. Alberto la ricevette in studio. L’impiegata che la ritirò gliela consegnò nel suo ufficio. Alberto, alla sua scrivania, era scuro in volto; teneva una mano sulle gambe incrociate e l’altra appoggiata sul corposo fascicolo della causa che doveva esaminare il giorno successivo. Sul momento non ci fece molto caso. L’occhio però gli cadde dapprima sul colore marroncino della busta e subito dopo sul nome del mittente. Il desiderio di conoscerne il contenuto lo solleticò. Prese la busta e la strappò frettoloso. Mosse gli occhi da sinistra a destra come schegge impazzite. Diede un’altra scorsa al contenuto. Pian piano, il suo volto assunse un colore cinereo. Con una mano tra i capelli, la sua posa divenne immobile, come quella delle statue di cera del museo di Madame Tussauds. La pressione gli salì alle stelle. Uscì dalla stanza e si avviò verso l’ufficio del padre. Spalancò furioso la porta.

«Che modi sono questi? Non vedi che sto parlando al telefono? Da quando in qua si entra senza prima bussare?» lo apostrofò seccato il padre. «Vorrei che leggessi questa» gli rispose gettandogli sulla scrivania un pezzo di carta stazzonato. «Abbia pazienza, ho un imprevisto. La richiamo più tardi» disse il padre chiudendo la sua telefonata. Alberto si mise a camminare avanti e indietro come se lo avesse morso una tarantola. Suo padre prese la lettera. A mano a mano che procedeva nella lettura, si allentò il nodo della cravatta. «Tua moglie è completamente fuori. Che cosa si è messa in testa?» esordì, sbigottito quanto il figlio per quella comunicazione. «Non ne ho idea. Fatto sta che cita la separazione consensuale. Se accettassi, non soltanto significherebbe che sono d’accordo, ma che in un secondo momento si arriverebbe al divorzio. Lei mi appartiene e non la lascio andare da nessuna parte.» Alberto parlava in modo sconnesso. Era chiaro che dall’alto della sua presunta superiorità maschile non ammetteva che la moglie gli si fosse rivoltata contro, scardinando le false certezze su cui aveva costruito il suo matrimonio. Era inammissibile che fosse arrivata a tanto. L’idea di aver perso il controllo su di lei lo faceva impazzire di rabbia. «Quando lo saprà, tua madre darà in escandescenze. Nella nostra famiglia nessuno ha mai preso in considerazione un’eventualità simile. I tempi sono cambiati. Purtroppo in peggio» disse il padre. Nemmeno lui riusciva a raccapezzarsi. Posò la lettera sulla scrivania e congiunse le mani come se stesse pregando. Si soffermò a riflettere. Alberto non si era bloccato un secondo. «Avevo tentato di parlare con lei almeno un paio di volte. Ero pentito e volevo chiederle scusa, starle vicino. Ma non ha voluto saperne. Credevo avesse soltanto bisogno di tempo. Invece mi fa scrivere dal suo avvocato.» «Figlio mio, lascia che ti dica che io e tua madre eravamo dubbiosi sulla tua scelta di sposarla. Hai voluto fare a tutti i costi di testa tua. Mi dispiace dovertelo dire, ma i fatti stanno dimostrando che hai commesso un errore.»

«Non ti ci mettere anche tu. Non ho bisogno delle tue lezioni di morale.» Alberto provò fastidio per la forzosa paternale del genitore. «Bada a come parli. Non ti permetto di usare quel tono con me.» «Proprio tu ti alzi in cattedra? Tu che ti sei sempre fatto gli affaracci tuoi, convinto che la mamma non sapesse, quando la verità è che ha sempre finto di non sapere? Non ho bisogno di prendere lezioni da te.» «Ti ritieni migliore di me? Della tua storia con quella… come si chiama? Ne vogliamo parlare? Pensi che tua moglie non sapesse? La differenza tra me e te è che io ho sposato una donna capace di guardare oltre a certe piccolezze. Tua madre sa che sarei sempre tornato da lei. La famiglia non va sfasciata. Qualche peccatuccio è normale. Ma il buon nome della famiglia va difeso al di sopra di tutto. Per colpa tua, invece sarà infangato. Oltretutto hai superato con eccellenti voti l’esame da avvocato; hai una fulgida carriera davanti e ti fai trattare in questo modo. Sei soddisfatto?» Il padre di Alberto era intriso fin dentro il midollo da una ristretta mentalità maschilista e si preoccupava solamente di salvare la faccia. Però su un punto aveva ragione: Alberto non era molto diverso da lui. Gli bruciava tuttavia che sua moglie, che considerava una sua proprietà, volesse rompere il vincolo coniugale e liberarsi dal suo dominio. Ciò che sua madre non aveva mai fatto perché sarebbe stato sconveniente, e non perché non ne avesse avuto motivo. «Capisco che sei sconvolto e accusarsi l’un l’altro non giova a nessuno. Adesso calmati. Dobbiamo essere lucidi e studiare una strategia per dirimere la faccenda» tagliò corto il padre, punto sul vivo. Si accese un sigaro e aprì la finestra.

11

Letizia iniziò il suo nuovo lavoro. Ne era rimasta fuori a lungo per volontà di Alberto, ma superò l’impaccio. La sua voglia di rimettersi in gioco le diede la spinta giusta per integrarsi in fretta, malgrado l’inesperienza e l’insicurezza di non farcela che ogni tanto le affiorava. Nell’agenzia di assicurazioni erano soltanto in dieci. Con il suo carattere solare, si fece presto benvolere da tutti. Le prime settimane volarono. Tornava a casa contenta. Non appena apriva il portone, Billy percepiva la sua presenza e si metteva a guaire come un pazzo. A cena, spesso Eleonora le teneva compagnia. «Stasera ho portato le lasagne. Vanno scaldate in forno per cinque minuti. Le ho comprate nella rosticceria di via Sommacampagna. Così non dobbiamo cucinare» disse Eleonora e le diede il sacchetto con il vassoio, mentre adagiava la sua borsa all’ingresso. Si sistemò la coda di cavallo e l’aiutò ad apparecchiare. Billy stava sempre appresso a Letizia e scodinzolava imperterrito in attesa di ricevere anche lui un ghiotto boccone. Con i suoi occhioni marroni ispirava una tale tenerezza che era impossibile resistergli. Suonò il telefono. Letizia si affrettò a rispondere. «Sarà la zia. Vorrà accertarsi che non moriamo di fame.» Eleonora rise forte intanto che aprì il forno. «Pronto?» Nessuno parlò. «Pronto? Pronto? Chi è? Insomma c’è qualcuno? Pronto!» Letizia lo ripeté più volte. Nessun segnale. Riagganciò risentita. «Che cosa ti ha detto la zia?» le domandò Eleonora, che si era chinata verso Billy per carezzarlo. «Non era la zia.»

«E chi era allora?» «Non lo so. Chiunque fosse, non ha detto mezza parola. Questa storia comincia davvero a darmi noia.» «Vuoi dire che è già successo altre volte?» Eleonora si tirò su e cambiò espressione. «Sarà almeno la quarta volta in una settimana» disse Letizia corrugando la fronte. «Perché non me l’hai detto?» «Perché non ci ho dato importanza. Potevano aver sbagliato numero» aggiunse Letizia contrariata. «Non sarà mica quello là?» Eleonora ebbe uno strano presentimento. «Che senso avrebbe? Se è per la separazione, può rivolgersi al mio avvocato.» «Letizia, stai attenta. Non sottovalutare le circostanze.» «Non essere sempre così sospettosa. Mi metti in subbuglio. Senti, non pensiamoci più. Sarà stato un cretino qualsiasi che aveva tempo da perdere. Piuttosto, non dimentichiamoci le lasagne, sennò le mangiamo bruciate.» «Sei la solita ingenua. Intanto stasera resto a dormire da te.»

L’avvocato Costa ricevette una lettera da parte dello studio Barberis. Era la risposta alla richiesta di separazione consensuale. Ne sfogliò brevemente il contenuto: Alberto non accettava la proposta. Letizia ne fu subito informata. Il suo avvocato le consigliò di attendere prima di controbattere. Le suggerì di non cambiare idea e di reiterare la medesima proposta. Non era nell’interesse di nessuna delle due parti arrivare a una separazione giudiziale, specie di Alberto. Soprattutto Letizia voleva chiudere il suo matrimonio senza strascichi penosi. Per fortuna aveva il suo lavoro che la impegnava e le impediva di soffermarsi a pensare su ciò che stava ando.

Il suo umore tuttavia a tratti era sereno, a tratti si faceva cupo. Anche in ufficio se n’erano accorti, ma su interrogativi specifici glissava sempre. Il suo collega Enrico, con il quale divideva l’ufficio, aveva imparato a conoscerla un pochino. Era un giovane sulla quarantina, di aspetto gradevole e di carattere estroverso. Non le aveva mai fatto domande sulla sua vita personale. Aveva fiutato il malessere che lei si portava addosso, dietro la sua allegria esteriore. Però non era un ficcanaso. Cercava di essere sempre gentile con lei: aveva dei modi garbati e anche per questo era apprezzato dagli altri colleghi. Non si era sposato, sebbene avesse avuto una lunga storia che era poi naufragata un paio di anni prima. Non se n’era crucciato troppo e soprattutto non aveva perso la sua serenità. A lui era stato affidato il compito di affiancare Letizia. Diligente, l’aveva seguita o a o, affinché imparasse bene e in fretta a svolgere le pratiche assicurative. Ciò contribuì a creare tra i due un rapporto collaborativo. Se aveva dei dubbi, Enrico era sempre disponibile a darle le opportune indicazioni. Per Letizia non era quindi un peso andare al lavoro. Senza contare che, con l’indipendenza economica raggiunta, la sua autostima ne guadagnò tantissimo. Nessuno le avrebbe più detto che non valeva niente o che non era capace di fare niente. La primavera fece il suo ingresso. Era la stagione che Letizia amava di più. I colori, la temperatura piacevole, le rondini che svolazzavano simboleggiavano una rinascita che per lei era soprattutto morale. L’orario lavorativo dell’agenzia al venerdì terminava nel primo pomeriggio. Tornava a casa a prendere Billy e ne approfittava per andare al parco del Valentino. Le piaceva camminare lungo il Po: osservare il lento scorrere del fiume le dava un senso di calma profonda, mentre Billy si divertiva a esplorare nuovi odori dimenando la coda. Quando erano stanchi, si sedevano sull’erba. Letizia rimaneva sdraiata a guardare il cielo. Due o tre volte ebbe l’impressione che qualcuno la seguisse. Non vide nessuno dietro di sé e ne concluse che si trattasse di semplici paranoie. Non si era ancora del tutto disintossicata dalla storia venefica con Alberto e credette di avere delle allucinazioni. Erano scherzi che, con buona probabilità, le giocava la sua mente. Dopo la eggiata, che la ricaricava parecchio, rientrava ancora più appagata. Come d’abitudine, aspettava che Eleonora la raggiungesse per cena. Non quella

sera però. L’indomani aveva un corso di aggiornamento professionale a Genova e doveva alzarsi presto. «Cucciolino mio, stasera ce ne restiamo soli soletti. Guarderò uno di quei film in bianco e nero che adoro. Mi pare che diano Anime in delirio con Joan Crawford.» Le storie d’amore tormentate con un lieto fine le erano sempre piaciute tanto. Era più facile sognare a occhi aperti e immaginare di vivere in un mondo ideale. Un canale privato talvolta li metteva in onda e Letizia non se ne perdeva uno. Si preparava una tisana per rilassarsi e si accoccolava sul divano con Billy al suo fianco. Quando Eleonora si fermava per cena non si attardava oltre per guardarli con lei; non soltanto non li amava granché, ma li riteneva fuorvianti e illusori. Proprio per questo invece Letizia li apprezzava. Era bello immaginare che l’amore trionfasse sempre contro tutto e contro tutti. Peccato che succedesse soltanto nei film. La realtà era molto più molesta e Letizia lo sapeva meglio di chiunque altro. Ma per lei era forse era un modo per esorcizzare il ato. Una di quelle sere stava seguendo, tutta rannicchiata, la scena dell’incontro tra la protagonista e il suo amato. Billy si era steso su un lato del divano. Di tanto in tanto apriva un occhio e poi l’altro per richiuderli tutti e due subito dopo. Il telefono suonò. Il giorno prima aveva creduto di abbassare la rotellina che ne regolava il volume, collocata sotto la base del vecchio apparecchio Sip. Senza accorgersene, aveva ottenuto per sbaglio l’effetto contrario. Billy schizzò in aria come se l’avesse colpito un fulmine, scatenando di riflesso un’identica reazione in Letizia. «Chi può essere?» esclamò stupita per l’ora tarda. «Proprio sul più bello. Volevo vedere come andava a finire tra quei due» disse parlando tra sé e sé a voce alta. Il telefono intanto seguitò a trillare e il suono sembrò farsi più forte. «Tranquillo Billy, non è successo niente. Sarà Eleonora.» «Pronto?» Silenzio.

«Pronto? Pronto? C’è qualcuno?» iniziò a innervosirsi. Negli ultimi mesi le telefonate si erano susseguite a intervalli, sempre con il medesimo copione. All’inizio non se ne curò. Chiunque fosse, non diceva nulla. Non capiva se il suo ignoto interlocutore volesse sentire la sua voce o intimorirla, o tutte e due. «Mi hai davvero stufato. Dovresti piantarla. Trovi divertente chiamare e startene lì muto? Io credo che sia molto stupido da parte tua!» Billy l’aveva seguita e stava ringhiando. Aveva captato che qualcosa non andava. Letizia stava per mettere giù la cornetta. Ne aveva davvero abbastanza. Specie da quando Eleonora le aveva instillato il dubbio che fosse Alberto. Recitò il suo breve monologo con tutto il fiato che le era rimasto in gola. Si muoveva nervosa attorcigliando il filo della cornetta. «Adesso basta. Chiunque tu sia, non chiamare più. Altrimenti farò denuncia.» Stava per abbassare la cornetta e si sentì un suono flebile. «Aspetta» disse la voce dall’altro capo del filo. «Chi parla?» Letizia rimase spiazzata. «Non mi riconosci? Sono Alberto.» «Alberto? Come mai ti fai vivo? Che trucchetti sono questi?» Letizia si fermò e si appoggiò alla schienale di una delle sedie in cucina. «È da tanto che vorrei parlare con te. Non me ne hai mai dato modo. Avevo provato a cercarti dai tuoi zii, ma non me l’hanno permesso. Non sapevo come rintracciarti. E poi mi arriva la lettera del tuo avvocato.» Alberto pronunciò le sue frasi con tono lento e sofferente. Letizia ebbe un fremito. Billy si accucciò ai suoi piedi e non si staccò per tutto il tempo. «Che cos’altro ti aspettavi? Ti ricordi ciò che è accaduto o sei in preda a un’amnesia?»

«Lo so, lo so, ho sbagliato. Ti chiedo umilmente perdono.» Alberto la stava supplicando e sembrò sincero. «Non credi che sia un po’ tardi per le tue scuse?» «Ti ho lasciata libera di prenderti il tempo necessario per riflettere su di noi. Non pensi di avermi punito a sufficienza? Che bisogno c’è di arrivare alla separazione? Puoi fare una vita da signora, come mia madre. Perché rovinare la famiglia?» Letizia si imbufalì. «Non so nemmeno perché ti sto prestando attenzione. Hai detto una serie di scempiaggini, una in fila all’altra. Non ho agito per punirti. La famiglia l’hai sfasciata tu, nel momento in cui hai deciso di farti i comodacci tuoi. Io aspettavo un bambino che tu, e soltanto tu, mi hai impedito di avere. Vita da signora? Non voglio più sentire le catene del matrimonio se questo è il prezzo da pagare. Meglio soli che male accompagnati.» «Dopo tutto ciò che ti ho dato? Mi hai scritto tramite un avvocato in un modo freddo e formale. Non potevamo parlare insieme, anziché arrivare a tanto?» Alberto stava cercando ogni possibile appiglio. Non voleva accettare che la rottura fosse definitiva. «Possibile che tu sia così poco perspicace o, peggio, così offuscato da te stesso da non capire? Ah, dimenticavo: il mondo ruota intorno a te. Di me non ti è mai importato un fico secco. Altrimenti avresti cercato di metterti nei miei panni. E adesso che cosa vuoi? Pensi che bastino due paroline dolci per mettere tutto a posto? La frattura è insanabile. Non c’è altro da aggiungere. Avrei preferito che la separazione fosse consensuale per velocizzare la pratica ed evitare inutili ripercussioni. Se però non vuoi che ci mettiamo una pietra sopra in modo civile, dovremo ricorrere alla separazione giudiziale. Volevo evitarlo.» Letizia gli sciorinò concitata il suo discorso. Non sapeva nemmeno lei da dove le fosse venuta la forza di rispondergli in modo così reattivo. Lo aveva amato con tutta sé stessa. I suoi sogni infranti le avevano causato un profondo turbamento che ancora non aveva completamente superato. Da un lato, le dispiaceva che si fosse arrivati a un epilogo così amaro. Dall’altro lato, tuttavia, aveva ancora ben presente il ricordo dei momenti tragici vissuti. Se soppesava il bello e il brutto del suo matrimonio, la bilancia pendeva

inevitabilmente sul negativo. Non voleva dunque farsi abbindolare. Era riuscita a liberarsi dalla schiavitù di un marito padrone. La libertà, faticosamente conquistata, era troppo preziosa per rinunciarvi. Non sarebbe tornata indietro. Al contempo, le dispiacque che Alberto stesse soffrendo, come sembrò farle credere. Malgrado tutto ciò che le aveva fatto. In qualche modo, una parte di lei gli era ancora legata. Da bravo manipolatore qual era, Alberto seppe toccare le corde giuste. Se avesse ceduto, per lei sarebbe stata una sconfitta su tutti i fronti. Non se lo poteva permettere. Alberto l’aveva già mortificata troppo in nome di quello che lui considerava amore. L’amore non porta distruzione. «Per quale motivo non vuoi concedermi una possibilità?» Alberto continuò abilmente a usare un tono mansueto. «Direi che ne hai avute fin troppe. Non c’è altro su cui discutere. Riflettici e vedi tu se è il caso di finire in tribunale. Non ho più voglia di starti a sentire.» Letizia non si fece intenerire. La sua parte razionale alla fine prevalse. «Sei una maledetta. Te la farò pagare. Non crederai mica di cavartela così. Avevano ragione i miei: non avrei dovuto sposarti. Lo fai per i soldi, vero? Vuoi spolparmi? Te la farò vedere io, sgualdrina che non sei altro!» Il tono tramutò di colpo. Alberto, che fino a poco prima si era contenuto, diede libero sfogo al suo risentimento. Non si sforzò più di apparire calmo. La sua vera indole venne allo scoperto. «Sei soltanto un bastardo!» Letizia riagganciò e sbatté forte la cornetta. Il tonfo fece sobbalzare il piccolo Billy. Letizia aveva la pelle d’oca. Strinse tremolante la collana con i due ciondoli che indossava sempre: la piastrina della sua allergia alla penicillina e una chiave. La tirò forte che quasi la spezzò. Prese un calmante e andò a dormire, dopo aver controllato parecchie volte che la porta di casa fosse ben chiusa. Trascorse una notte agitata; si risvegliò più volte e faticò a riaddormentarsi. Diversamente dal solito, Billy rimase ai piedi del suo letto e non di fianco a lei. La mattina seguente si alzò malvolentieri. Avrebbe preferito restarsene a casa. Controllò per l’ennesima volta che la porta principale fosse chiusa. Ancora

addormentata, si preparò abulica e andò in ufficio. La freschezza dell’aria primaverile le fu indifferente. Faticò a tenere gli occhi aperti. Incedette con o fiacco, guardandosi sempre le spalle. Ebbe una strana sensazione. «Buongiorno Letizia. Dobbiamo assolutamente occuparci della pratica della signora Tinca. Mi ha già chiamato due volte» esordì Enrico, che la incrociò all’ingresso. «Ciao Enrico. Dammi un momento. Mi serve un buon caffé forte» rispose Letizia sottotono. «Che cosa ti è successo? Hai un’aria strana.» «Ho soltanto dormito male.» Letizia si accostò alla sua scrivania. Si tolse lo spolverino e aprì la cassettiera. Enrico la fissò con assoluto stupore. Capì che non era il caso di insistere con altre domande. Si diresse alla fotocopiatrice. La giornata trascorse in modo snervante per Letizia. Parlò molto poco con il suo collega e non era espansiva come gli altri giorni. Tra una pausa e l’altra, Enrico tentò di farla sorridere raccontandole degli aneddoti su alcuni clienti. Lei lo guardò accennando soltanto un mezzo risolino. Si vedeva che aveva la testa da un’altra parte. Prima di salutarsi al termine della giornata lavorativa, Enrico si limitò a dirle: «Spero che domani starai meglio. Se ti andrà di parlarne, troverai un amico pronto ad ascoltarti». «Sei gentile, ti ringrazio.» «Cerca di riposare. A domani.» Le mise una mano sulla spalla e abbozzò un sorriso. Letizia non se la sentì di tornare subito a casa. Raggiunse Eleonora nel suo studio. Le propose di andare a cena fuori, senza tardare troppo per non lasciare Billy da solo oltre il dovuto. La sorella si stupì di vedersela comparire davanti senza preavviso.

«Che bella sorpresa! Non mi aspettavo che mi raggiungessi qui.» «Non ero in vena di aspettare che venissi tu da me. Sentivo la necessità di sgranchirmi le gambe. E mi piacerebbe che una volta tanto mangiassimo qualcosa di diverso. Adesso che le giornate si sono allungate sarebbe un peccato non approfittarne.» «Ti conosco troppo bene e mi sa che qualcosa ti disturba. Hai due occhiaie profonde.» «Sarà per il cambio di stagione. Sai che lo patisco.» «Mi racconterai tutto dopo. Mettiti comoda. Finisco con l’ultimo paziente.» Letizia eseguì senza contestare. Un’ora dopo si ritrovarono nella trattoria Il Nostro Bicerin, all’inizio dei portici di piazza Carlo Alberto. La temperatura era gradevole. Molta gente era assiepata nei locali attorno e il brusio di sottofondo faceva da perfetto incastro alla cornice di quella serata inconsueta. Il cameriere le fece accomodare nell’ultimo tavolino all’aperto e ordinarono subito i loro piatti. «Hai avuto una buona idea. Dovremmo farlo più di frequente» disse Eleonora sorseggiando l’aperitivo che il cameriere aveva portato nell’attesa che consumassero la cena. Si sciolse i capelli e si rassettò subito. Letizia cominciò a tamburellare impaziente. Eleonora le toccò la mano. «Raccontami che cosa ti sta frullando in testa. Si vede lontano chilometri che sei distratta da qualche pensiero.» «Mi prometti che non ti arrabbierai?» Letizia era incerta se confidarsi con sua sorella. «Che cosa ci può essere di così terrificante?» Eleonora drizzò le antenne, ansiosa di sentire che cosa avesse da raccontare. «Ieri sera mi ha chiamato Alberto. È stato odioso.» «Che cosa?» Eleonora saltò su di botto.

«Per favore, abbassa la voce. Se non la pianti, non ti racconto niente.» «Canaglia! Come ha potuto?» «Ha esordito dicendo che mi ama, che vuole un’altra opportunità e non vuole che ci separiamo.» Letizia si fermò e bevve il suo bicchiere di spumante. Eleonora fremette e aprì con uno gesto d’ira un pacchetto di grissini. «Mica gli avrai dato corda? È un millantatore fatto e finito. Dimmi che non ti sei lasciata influenzare» continuò Eleonora mentre spezzettava i grissini. «Dapprima mi ha fatto pena. Sembrava sinceramente costernato.» Letizia abbassò lo sguardo: ripensò a quella conversazione che ancora le risuonava nelle orecchie. «Pena, un corno! Ce lo siamo detto e ripetuto: devi evitarlo come la peste. Che altro ti ha detto?» «A un certo punto il suo tono è cambiato. Mi ha rinfacciato ciò che ha fatto per me, ricordandomi che sono ancora sua moglie.» «Che faccia di bronzo! Con che impudenza poi!» «Ha finito per insultarmi e gli ho chiuso il telefono in faccia» gli occhi di Letizia si fecero umidi. Una lacrimuccia le rigò il volto. «Che carogna! Non devi versare nemmeno una goccia per quello scellerato. Non dimenticare tutto il male che ti ha fatto. Non merita nessun perdono. Lo so io che cosa gli ci vorrebbe a quel delinquente.» Eleonora non riuscì a stare ferma sulla sedia. Si muoveva a scatti senza trovare una posizione comoda. «Non piango per lui. Provo commiserazione per me stessa. Che cosa ho fatto di male nella vita per meritarmelo?» «Tu non hai fatto niente. Purtroppo ti sei innamorata della persona sbagliata.» Eleonora prese un fazzoletto e asciugò il viso di Letizia. «Ora pensiamo a gustarci il nostro risotto al Barolo» proseguì quando i piatti furono serviti.

La calma delle settimane successive fu soltanto fittizia. Alberto aveva concesso una tregua a Letizia. Ben presto riprese a telefonarle. Talvolta di sera, talvolta di mattina presto e altre ancora persino nel cuore della notte. Come se conoscesse in modo preciso le sue abitudini e i suoi orari. Il tenore delle sue chiamate era sempre identico: divorato dalla gelosia e dalla perdita di controllo sulla sua vita, alternava un connubio delirante di frasi d’amore, richieste di perdono, insulti e minacce. Letizia era sempre più terrorizzata e voleva cambiare numero. Probabilmente sarebbe servito a poco. Lui l’avrebbe trovata comunque. Dimagrì di alcuni chili e il suo volto appariva più emaciato. Eleonora e gli zii erano molto preoccupati. L’avvocato Costa, che consultò per essere ragguagliata sull’evolversi della richiesta di separazione, le consigliò di nuovo di sporgere denuncia. Letizia era in preda ai suoi fantasmi. Alberto la stava logorando. Il male, insito in lui, lo spingeva ad accanirsi contro di lei in maniera più o meno sottile. Non le dava pace. Avrebbe dovuto essere più categorica nel dirimere la questione, ma voleva addivenire alla separazione consensuale. Decise di lasciar are altro tempo prima di fare le mosse successive. Di comune accordo con gli zii, Eleonora ritenne che sarebbe stato utile farle cambiare aria. La convinse a chiedere alcuni giorni di ferie per portarla al mare nella loro casa di Savona. Luglio era il periodo idoneo per andare in spiaggia e soprattutto per rilassarsi. Ottenne senza difficoltà i giorni di ferie. La sua trasformazione non era ata inosservata ai colleghi, ma avevano capito che era inutile fare domande. Letizia non si sarebbe sbilanciata. Enrico si dimostrò molto comprensivo. Tastò il terreno con delicatezza e la invitò a prendere un aperitivo dopo il lavoro. In quell’occasione, Letizia accettò. Le avrebbe giovato confidarsi con una persona che considerava amica o forse qualcosa di più. O forse voleva semplicemente provare a uscire dai binari che l’avevano condizionata nell’ultimo anno e mezzo. Non poteva rimanere fossilizzata in una realtà stagnante. Doveva aprirsi a qualcosa di nuovo, sempre andandoci con i piedi di piombo. Anche perché l’ombra di Alberto aleggiava

ovunque su di lei. Quella strana sensazione di essere seguita non era frutto della sua fantasia. Alberto la pedinava di nascosto. Quella sera la vide conversare in atteggiamento intimo con un uomo fuori dal lavoro, nel bar dove i due si erano diretti. Realizzò che tra di loro c’era del tenero e da quel giorno smise di chiamarla.

Andare a Savona fu come ritornare alle origini. Si sentì rinfrancata, come non succedeva quando andava con Alberto nell’appartamento dei suoceri al porto. La casa, dove aveva vissuto con i genitori fino alla loro tragica morte, manteneva sempre intatta la propria gradevolezza. Le affiorarono i ricordi più disparati: era come se rivedesse il volto di sua madre e di suo padre e una tremenda nostalgia la investì. Erano ati tanti anni, eppure era come se non se ne fosse mai andata. Loro l’avevano amata tantissimo. La sua vita, piena di belle speranze, era stata castrata da un farabutto che non era stato realmente in grado di amarla per come era, ma per come lui avrebbe voluto che lei fosse. Aveva creduto di conoscerlo e di poterlo amare per tutta la vita, finché la morte non li avesse separati. Le favole finiscono sempre con un «vissero felici e contenti». Ma questo, appunto, succede nelle fiabe. L’aveva compreso a sue spese. Si era trovata di fronte a un estraneo che avrebbe voluto incatenarla a sé per il resto dei suoi giorni. Ne aveva conosciuto il lato peggiore. Lei aveva una concezione idealizzata dell’amore, difficile da applicare in un mondo in cui prevale una cultura e un’ottusa mentalità maschilista. Non voleva però rinunciare all’idea di rifarsi una vita e di innamorarsi ancora. Al contempo, era troppo scottata per tornare a sognare. Eleonora aveva sempre avuto le idee più chiare di lei: non è con un uomo accanto che una donna si realizza. Bisogna prima di tutto partire da sé stessi. Un rapporto alla pari, in cui esiste un reciproco rispetto, può avere maggiori possibilità di funzionare. Il matrimonio allora non rappresenta una prigione, ma una scelta consapevole. È altrettanto vero che ognuno è figlio del proprio tempo e dell’educazione ricevuta. Letizia aveva assistito allo scricchiolare del matrimonio dei genitori, per l’insofferenza della madre che non era riuscita a emanciparsi. Avrebbe dovuto servirle da monito. A sua volta, Alberto aveva ricevuto un’educazione

che non lo aveva portato a una piena cognizione di sé. Eppure, in fondo al suo cuore, era ancora capace di provare tanta pena per lui. Se voleva liberarsene una volta per tutte non poteva però cullarsi in questi stupidi sentimentalismi.

Le due sorelle si concessero tanti bagni, tuffandosi nelle acque della spiaggia libera sottostante il belvedere che si fruiva dall’alto della fortezza del Priamar. Gli unici rumori erano il frinire delle cicale e lo sciabordio delle onde. Alla sera andavano a so per il Prolungamento o verso la Torretta. Costeggiavano i locali sul lungomare e i graziosi negozietti attraversando il dedalo di carruggi, scortate dall’amato Billy. L’aria di mare ebbe un effetto benefico anche su di lui. Prima ancora di uscire, scodinzolava per prendersi da solo il guinzaglio. Era davvero buffo. Una sera riuscirono anche ad andare al festival dell’Unità. Per lunghissima tradizione, si era sempre tenuto ai giardini del Prolungamento. I numerosi stand gastronomici, con i loro tavolini all’aperto, insieme a stand di altro genere, ne occupavano un’ampia area e animavano il mese di luglio. C’erano anche le giostre per i bambini. Era un appuntamento fisso per la città e un evento unico, al quale anche le due ragazze avevano partecipato negli anni addietro. Nel 1994, per un paio d’anni, la manifestazione fu trasferita nella zona di uno stabilimento dismesso, la Metalmetron. Collocato in via Stalingrado, era piuttosto fuori mano e per raggiungerlo bisognava prendere una corriera. Ci andarono giusto per vedere com’era, benché l’attrattiva fosse diversa. Ciò che contò per Eleonora fu di vedere infine che Letizia era più serena. Durante il viaggio di rientro fecero una breve sosta al cimitero di Zinola, per un saluto ai genitori. Deposero un mazzo di rose bianche sulle loro tombe. Poi imboccarono l’autostrada e in serata arrivarono a Torino.

Trascorsero altri mesi, ma sulla separazione ci fu un silenzio totale da parte di Alberto. Non aveva più nessun senso trascinarla per le lunghe. L’avvocato Costa, con il benestare di Letizia, gli scrisse un’ultima lettera. Gli intimò un riscontro, in assenza del quale sarebbero automaticamente ati alla separazione giudiziale,

senza ulteriori comunicazioni. Letizia era stata fin troppo tollerante: la prima lettera che gli aveva fatto recapitare risaliva a inizio del 1994. Se a ottobre del 1995 non erano ancora giunti a un accordo, non rimaneva altra strada da percorrere. La sera di giovedì 26 ottobre Alberto la chiamò. Erano mesi che non dava notizie di sé. Letizia aveva lo stereo e aveva inserito una cassetta con la musica dei Queen. Aveva già cenato senza Eleonora. La pioggia non aveva smesso per tutto il giorno e avevano preferito rimandare il loro appuntamento serale. Uscì sul balcone a fumare una sigaretta. La tettoia fungeva da riparo, sebbene tirasse aria. Sbirciò di lato e intravide la sua vicina, la signora Pezzotti, trascinarsi stancamente verso la stanza attigua. Era sull’ottantina e viveva con il suo gatto persiano, una palla pelosetta. Non si era mai sposata. Non dava l’idea di essere stata una bella donna da giovane. Capitava che si incontrassero sul pianerottolo o nell’androne. Faceva sempre un sacco di domande. Un po’ troppo impicciona per i gusti di Letizia che, difatti, cercava di essere cortese senza darle troppa confidenza. Qualche volta si era lamentata perché Billy abbaiava forte. Letizia se ne era scusata, senza darci peso più di tanto. La solitudine può rendere acidi; per questo, cercò di capirla. Stava per spegnere il mozzicone quando si udirono dei trilli. Chiuse in fretta la finestra. Pensò che fosse la zia per il saluto della buonanotte. Quasi inciampò nel filo della cornetta, aggrovigliato e penzolante da un lato. «Pronto?» Nulla. «Pronto?» Letizia ebbe un tuffo al cuore. Cominciò a sudare. «Pronto? Allora?» «Pronto, Letizia» quella voce era inconfondibile. Si lasciò cadere di peso sulla sedia. Le gambe le cedettero. «Perché mi chiami?»

«Spero di non disturbarti. Come stai?» Alberto era stranamente docile. Letizia si sentì spaesata. «Io sto bene.» Ce la mise tutta per mantenere un tono risoluto. «Sono contento. Io invece non tanto. Sto ando un brutto periodo.» «Non so che cosa farci. Non mi avrai chiamato per informarmi dei fatti tuoi? Non mi interessa.» «Come sei dura. Non voglio tediarti. Cercherò di essere breve.» «Bene, fai in fretta.» Letizia si strinse allo schienale della sedia. «Ho ricevuto l’ultima lettera del tuo avvocato.» Alberto seguitò con voce equilibrata. «Se la chiudiamo, sarà meglio per tutti. L’abbiamo trascinata fin troppo.» «In tutto questo tempo ho avuto modo di riflettere. Da quando te ne sei andata per me è stato un inferno, credimi.» «Ancora con questa storia? Di acqua sotto i ponti ne è ata. Ormai dovresti esserti abituato, come ho fatto io.» «Sei ingiusta. Se mi vedessi, ti accorgeresti che sono un’altra persona. Mi sono domandato in che cosa ho sbagliato. Ho fatto del mio meglio per renderti felice, ma ho fallito.» «Meno male che lo ammetti. Meglio tardi che mai» gli rispose sarcastica. «Ti chiedo perdono con il cuore in mano per tutto quello che ti ho fatto. Non volevo che andasse così.» «Nemmeno io, se è per questo. La frittata è fatta e te ne devi fare una ragione anche tu. Non ha senso piangere sul latte versato. È troppo tardi.» Letizia cominciò a perdere la pazienza. Non capiva dove Alberto volesse andare a parare. «Non potremmo vederci e parlarne faccia a faccia? Non l’abbiamo mai fatto

dall’incidente. Forse mi aiuterai a capire. E se poi proprio non vorrai concedermi una seconda possibilità, firmerò le carte per la separazione consensuale, come tu desideri.» «Puoi ripetere?» Letizia non credette alle proprie orecchie. «Ti confermo tutto. Dimmi quando.» Alberto sembrò un arrendevole agnellino. Ci mancò poco che si mettesse a piangere. «Mi prendi alla sprovvista. Non era in programma che ci incontrassimo. Lo fa il mio avvocato per me.» Letizia si mise sulla difensiva. Le era suonato un camlino d’allarme: sia gli zii, sia Eleonora le avevano con forza raccomandato fin dall’inizio di non incontrarlo mai, specialmente da sola. Sarebbe stato molto pericoloso. Glielo avevano ripetuto fino alla nausea. Fragile com’era, avrebbe potuto rischiare di cadere in trappola senza nemmeno rendersene conto. «A questo punto siamo? Non vuoi nemmeno più parlare con me direttamente? Che ne è stato della Letizia che amavo tanto? Che ne è stato di mia moglie, la mia luce? Mettiti una mano sulla coscienza: mi paragoni a un appestato? Non puoi manco avvicinarti a me? Se è finita, voglio che me lo dici guardandomi negli occhi. Non chiedo altro. Soltanto un’ultima volta.» Letizia lo ascoltò, ma era fortemente combattuta. Alberto aveva fatto leva su un punto debole: quello affettivo. Come un abile ragno, seppe tessere la sua tela. La preda ci cascò in pieno. «D’accordo. Possiamo vederci, in un luogo affollato però. Domani alle sei e mezza in un bar in zona, dalle mie parti.» Le parole le uscirono di bocca istintive, senza concedersi del tempo prima di pronunciarle. E non poté rimangiarsele. «Ti ringrazio dal profondo. Non sai quanto sia importante per me. Chiariremo ogni dubbio una volta per sempre. A domani.» Letizia lasciò scivolare la cornetta. Crollò sulla sedia e rimase in catalessi. Billy, accanto a lei per l’intera durata della conversazione, la scrutò stralunato. «Non guardarmi così. Sono estenuata da questa vicenda. Forse è la volta buona

che ci metteremo la parola fine.» Tornò in sé e si alzò per andare a bere un bicchiere d’acqua.

Fu una lunga notte. Non riuscì a prendere sonno al solo pensiero di rivedere Alberto dopo quasi due anni. Le faceva strano. Una carrellata di ricordi, alcuni piacevoli, altri sgradevoli, la sollecitarono con insistenza. Ogni fotogramma fu amplificato. Gli occhi strabuzzati erano rivolti al soffitto. ò diverse ore in quello stato. Persino la luce, che filtrava attraverso le tapparelle, la disturbò. Per conciliare il sonno avrebbe dovuto oscurare completamente la stanza. Il buio però le incuteva terrore. Fu attanagliata dall’angoscia: si rese conto di aver commesso un grosso sbaglio. Avrebbe dovuto seguire i consigli dei suoi: sarebbe stato meglio non dargli un appuntamento di persona, e per di più da sola. Avrebbero dovuto casomai trovarsi nello studio del suo avvocato. Che cosa le era baluginato? Possibile che Alberto avesse ancora presa su di lei, al punto da riuscire a convincerla a fare a modo suo? Non c’era verso di spezzare le catene? Non se ne sarebbe mai liberata. Forse anche lui aveva sofferto e soffriva tuttora. Non era stato facile per nessuno dei due. Magari era davvero un’altra persona. E se gli avesse permesso di fare ammenda? Dopotutto era ancora suo marito. Macché: quelli come lui sono incorreggibili. Hanno il fiele nel cuore. Inutile illudersi. Aveva la memoria corta? Che idiozia! Se c’è violenza, di sicuro non è amore. È brama di possesso, di dominio, ma non è amore. E Alberto non sapeva amare. Per lui andavano bene le donne come Lisa: storie senza impegno che potevano protrarsi per anni. In fondo, un uomo con un comportamento del genere non è forse tremendamente maschilista, oltre che un gran narcisista? Per lui la donna è un oggetto da soggiogare e comandare a suo piacimento. Non ha rispetto, né comprensione per l’altro. È impregnato di tracotanza fino alle midolla: si sente superiore e si arroga dei diritti, perché è stato così da sempre. La testa le stava scoppiando. Quei confusi pensieri raggomitolati si susseguirono senza sosta.

Non poteva mica avere la pretesa di cambiare il mondo. Poteva però cambiare la sua vita, allontanando da sé il male non soltanto fisicamente, come aveva fatto, bensì mentalmente. Il percorso in quella direzione l’aveva già avviato ed era soddisfatta di sé stessa per i risultati realizzati nella sua nuova vita. Malgrado ciò, non si era lasciata proprio tutto alle spalle. Era giunto il momento di voltare finalmente pagina. Alle prime luci spuntò l’alba. I suoi colori pastello, come dita affusolate, si allungavano per toccare il cielo che avrebbe voluto trattenerle a sé. Una palla di fuoco rovente, sbocciata dall’orizzonte, si stagliò ergendosi verso l’alto. Continuò a sbadigliare, benché ormai non ne volesse sapere di dormire. Tanto valeva alzarsi. Per tirarsi su le ci voleva un doppio caffé forte. Lo preparò lemme lemme e lo sorseggiò con pacatezza. Uscì sul balcone per fumare la prima sigaretta della giornata. Osservò la quiete mattutina, abbellita dal cinguettio ridondante degli uccellini. Il fumo espirato avvolse come una nube quella sfera infuocata che sembrava si potesse toccare con un dito. Billy la seguì come un’ombra. Con il muso urtò lievemente il vaso di rose e sfiorò le sue gambe. Sovrappensiero, Letizia ebbe un sussulto. Non si era accorta della sua presenza. Seguitò ad arrovellarsi il cervello. Dal suo ricovero in ospedale non aveva più visto Alberto. Il solco che li aveva divisi era stato scavato in profondità. Impossibile ricucire ciò che non si poteva più rammendare. Quanta tristezza nel suo cuore! Eppure un tempo lo aveva amato. Le mancava il ragazzo adorabile che sapeva essere. Ricordò il giorno del suo matrimonio. L’amore le aveva dato la forza di scalare le montagne. Ciononostante, l’uomo che aveva sposato era anche quello che le aveva procurato nocumento; quello che, con il suo insano amore, le aveva tolto la voglia di vivere. Un uomo che non avrebbe più voluto al suo fianco. Anzi, prima chiudeva la pratica di separazione, meglio sarebbe stato per tutti e due. Al diavolo! Queste oziose e incoerenti riflessioni si altalenarono in modo farraginoso. Doveva smetterla di torturarsi. Aveva fatto la scelta giusta: ogni ripensamento sarebbe stato inutile, oltre che deleterio. L’avrebbe incontrato soprattutto per fare

un favore a sé stessa. Cancellò alla svelta la punta di commiserazione che provò per lui. Tolto il dente, tolto il dolore. Non confidò a nessuno dell’appuntamento. Se lo avessero saputo, gli zii glielo avrebbero impedito o quantomeno le avrebbero fatto la predica affinché si cautelasse. Per non parlare di Eleonora, che le avrebbe fatto per l’ennesima volta il lavaggio del cervello. In più, si sarebbe imbestialita. E non a torto. Pervicace com’era, fece quindi di testa sua. Era convinta di saper gestire la situazione. Non sapeva che si sarebbe trovata di fronte a un infido nemico. D’improvviso la vita le apparve nella sua immensa bellezza. Era pronta ad accoglierla nella sua pienezza. Doveva soltanto abbandonare la zavorra che fino ad allora l’aveva appesantita interiormente. Si accorse di aver tergiversato a lungo. L’orologio a cucù suonò le sette. Uscì dal suo torpore e si preparò per andare al lavoro. In ufficio, il primo che incocciò fu Enrico. L’accolse atteggiando le labbra a un largo sorriso. Era chiaro come il sole che nutrisse per lei dei sentimenti, sebbene non avesse mai osato dichiararsi apertamente. E Letizia sorvolava. Prima voleva affrontare la separazione. Non se la sarebbe sentita di legarsi a qualcuno. Non ancora. «Buongiorno Letizia» le disse mentre apriva la porta e la faceva are da bravo gentiluomo. «Ciao Enrico» gli rispose toccando involontariamente la sua mano. «Ci prendiamo un aperitivo stasera?» Almeno una volta settimana condividevano quella che era diventata una consuetudine. «Stasera proprio non posso. Ti andrebbe di rimandare a domani?» Letizia gli rispose enigmatica. «Peccato.» Enrico fece una smorfia di rincrescimento. Stava per domandarle quali altri programmi avesse, ma si astenne dal farlo. Non voleva darle l’impressione di essere inopportuno.

«Non ce l’hai con me? Amici come prima?» Letizia si era rammaricata per la sua risposta. «Amici come prima. Ognuno ha i suoi piccoli segreti.» Enrico le fece l’occhiolino. Come ogni venerdì, Letizia decise di non modificare le sue abitudini. Billy l’aspettava per la eggiata al parco del Valentino. Un largo tappeto di fogliame rossiccio era sparpagliato lungo i viali. Un gruppo di addetti era intento a spazzarlo ai lati per raccoglierlo in grossi sacchi. Avanzò calma con Billy che la seguiva infreddolito. Si accese una sigaretta. Ne assaporò ogni singola boccata, come se fosse l’ultima. Si fermò vicino a una panchina che fiancheggiava il Po. Vi si sedette e vide scorrere la sua vita. Era come se il fiume se la portasse via. Durò alcuni istanti. Avvertì un fruscio tra i cespugli più indietro. Di nuovo quella sensazione di essere spiata. Si voltò, ma intorno non c’era anima viva. Con la sua coltre, l’umidità avanzò costante e in breve lo scenario mutò. Si alzò dalla panchina e richiamò Billy. Erano già le cinque. Un’altra ora e mezza la separava dal fatidico appuntamento. Provò un sentimento indistinto di leggerezza e di pesantezza assieme. Quando entrò in casa, restò un paio di minuti con il cappotto addosso, talmente era intorpidita. Avrebbe voluto farsi un bagno caldo ma decise di rimandare.

Il fischio della teiera l’avvisò che era già trascorsa un’altra mezz’ora. Tracannò il suo tè senza sentirne il sapore. Una sciocca frenesia la spinse a scostare di continuo il polsino della camicetta e a controllare il quadrante del suo orologio da polso, un bracciale con il cinturino d’argento. Era un altro ricordo dei suoi genitori. Dopo tanti anni funzionava ancora perfettamente. Uscì sul balcone a fumare. Mancavano meno di dieci minuti all’orario

prestabilito, quando suonò il citofono. Rientrò in casa di corsa per rispondere e lasciò accostata la porta finestra del salotto. «Chi è?» domandò affannata. «Sono Alberto.» Seguì una pausa di una manciata di secondi. «Letizia, ci sei?» la voce di Alberto era composta. «Sono qui. Mi hai colto di sorpresa. Non dovevamo incontrarci alle sei e mezza al bar Kiss in corso Moncalieri? E poi come fai a sapere dove abito?» Letizia ebbe un attacco di panico. L’aveva presa in contropiede ed era andata in confusione. La vocina interiore la martellò assillante, ma si fece prendere dagli eventi. «Ti spiegherò tutto.» Alberto sembrò sicuro del fatto suo, dimostrando ancora quanto fosse prevaricatore. «Dammi cinque minuti e scendo.» Letizia riagganciò la cornetta. Sospirò profondamente. Sentì una morsa che la stringeva e si portò una mano al petto per acquietare quell’emozione. Cercò di allacciare il bottone del polsino senza riuscirci e il suo nervosismo si accrebbe. Si guardò allo specchio posto a lato della porta di ingresso. Il suo volto aveva cambiato colore. Prese una bustina di zucchero per riaversi. Di sotto, Alberto stava friggendo. Non gli andava di restare fuori al freddo ad aspettare. Chissà che cosa aveva in mente. Con le mani in tasca fece due i avanti e indietro, quando un’inquilina uscì. Non gli parve vero. Balzò veloce prima che il portone si richiudesse. Non sapeva in quale appartamento vivesse Letizia. Salì le scale controllando le targhette di ogni porta. Al terzo e ultimo piano lo trovò. Aveva la lingua di fuori. Sì appoggiò al muro del ballatoio. Riprese fiato. Si aggiustò la sciarpa e i capelli. Tutto impettito, commise un gesto sconsiderato: anziché suonare il camlo, prima bussò con insistenza e poi tentò invano di aprire la porta. Credeva di trovarla aperta. Non aveva però fatto i

conti con Billy, che si mise ad abbaiare come un ossesso. Letizia, disorientata, sgranò gli occhi. Billy non smetteva di abbaiare. Era un cane tutt’altro che aggressivo e non era da lui comportarsi così. Doveva farlo smettere, se non voleva sorbirsi le lamentele della vicina. Guardò attraverso lo spioncino e riconobbe Alberto. Non sapeva che cosa fare. Billy saltellava ringhioso. «Sono io. Mi apri per favore? Tieni a bada il tuo cane. Non vorrei che mi mordesse.» Alberto era desideroso di entrare. Un rumore provenne dall’appartamento di fronte. Era la dirimpettaia: importunata, voleva curiosare chi avesse causato tanto baccano. Letizia ruotò la serratura un istante dopo. La Pezzotti fece giusto in tempo a scorgere di spalle un uomo. «Come hai fatto a entrare?» domandò Letizia richiudendo la porta dietro di sé. Billy aveva smesso per un attimo di abbaiare. Si era piazzato in mezzo ai due e ringhiava contro Alberto. Letizia lo coccolò affettuosa. «A vederlo dà l'impressione di essere un cagnolino innocuo» aggiunse Alberto spostandosi di lato. «Di solito lo è.» Letizia si adoperò per sembrare normale. Continuò ad accarezzare Billy e guardò Alberto con sospetto. «Ti trovo bene. Sei più bella di quanto mi ricordassi.» Alberto fece un vano tentativo di darle un buffetto sulla guancia. Si comportò come se non fosse successo mai nulla tra di loro. Letizia non gradì la sua effusione e si scostò sdegnata. «Avresti dovuto aspettarmi di sotto. Non ti avevo invitato a salire in casa mia. E poi come hai fatto a scoprire dove abito?» inghiottì la saliva un paio di volte. Il suo disagio era palese. «Sei sempre prevenuta nei miei confronti?» Alberto le rispose con la sua solita spocchia. Stava giocando come fa il gatto con il topo.

Nella sua espressione c’era qualcosa di indefinito, di inafferrabile. Un lampo diabolico brillò nei suoi occhi. Letizia sembrò presagirlo. Alberto, imperturbato, non fece una grinza. «Vedo che ti sei sistemata bene. Possiamo sederci e parlare con calma?» «Ti posso concedere quindici o venti minuti al massimo.» Letizia non era per niente tranquilla. Si gingillò con i ciondoli della sua collana. «Come sei cambiata. Una volta eri così affabile.» «Hai detto bene: una volta. Non sono più la stessa Letizia che hai sposato. Non sono rimasta a macerarmi nel dolore. Quel che è stato, è stato.» Lo fronteggiò intrepida. «Come vuoi. Non voglio rubarti più tempo del necessario» disse Alberto in apparenza rassegnato. «Avrei voluto fare un bel bagno al rientro, ma dato che sei qui vado a preparare la vasca. Ti concedo fintanto che l’acqua non la riempirà.» I suoi dolori di stomaco si ripresentarono lancinanti. Era da parecchio che non le capitava. Non lo diede a vedere. «Saranno sufficienti. Non mi offri da bere?» Quel non so che di indecifrabile e di ambiguo trasparì di nuovo. «Ci possiamo accomodare di là. Ti posso offrire uno spumantino. Sopra il lavello ci sono dei bicchieri. Intanto vado ad aprire il rubinetto.» Letizia gli fece segno di avviarsi in cucina mentre lei si allontanò verso il bagno. Tornando indietro si rimirò allo specchio dell’ingresso. Si osservò nel dettaglio. Fece un bel respiro per darsi un contegno. Alberto si era già seduto. Si era anche preso la briga di versare la bevanda. Letizia si sedette di fronte a lui distanziata. Alberto alzò il calice e la invitò a fare una specie di brindisi, sebbene non vi fosse nulla da festeggiare. «Alla tua» disse con uno sguardo perverso.

«Salute» gli fece eco Letizia, trangugiando smaniosa. «Dunque» attaccò Alberto «non c’è modo che tu possa rivedere la tua posizione? Non vogliamo riprovarci? È stata dura senza di te. Ho capito un po’ in ritardo quanto fosse immenso il mio amore per te.» Pronunciò il suo discorsetto senza un grande convincimento. Sembrò quasi farsi gioco di lei. Letizia sghignazzò divertita dopo aver posato sul tavolo il suo bicchiere. Billy non si era staccato da lei nemmeno per un istante. «Senti, direi che le tue sono ciance inutili. Devo spiattellarti tutto daccapo? Credo sia superfluo. Davvero pensi che oggi potrei volere ancora un marito come te? Voglio dedicarmi a me stessa e non essere la moglie dell’avvocato Barberis. E non dobbiamo dimenticarci un altro particolare: dovrei dividerti con un’altra? No, grazie. Per chi mi hai preso? Non sono mica come tua madre. Voglio accanto un uomo che sappia valorizzarmi e rispettarmi. E voglio la mia libertà. Non sono più sotto il tuo ascendente. Questo è quanto.» Alberto la fissò assente. Era perso nei suoi pensieri. Poi aggiunse: «Resterai per sempre mia moglie, almeno nel mio cuore». Si espresse con una romanticheria che suonò artificiosa. «Una separazione consensuale ci risparmierà un sacco di lungaggini. Se sono i soldi che temi, non ti preoccupare. Non ti chiederò nulla. Sono pronta a rinunciare a qualsiasi pretesa. E te lo posso mettere nero su bianco. Ti chiedo soltanto di firmare l’accordo di separazione. Niente di più. Come vedi, non ti chiedo molto.» Letizia gli snocciolò di filato e senza enfasi le sue rivendicazioni. «Quindi non hai intenzione di arretrare. Nella mia famiglia non c’è mai stato un divorzio. Non avrei voluto essere io il primo a inaugurare questa dannata tradizione. Mi ero illuso in un primo momento che ci fosse uno spiraglio per trovare un terreno di incontro. Vedo che mi sono sbagliato. Almeno me lo hai detto in faccia. Ti avevo promesso che avrei firmato, se questo era il tuo intendimento, e lo farò» disse Alberto, esternando un’assoluta freddezza, quasi non fosse scalfito dalla sentenza inappellabile che Letizia gli aveva appena esplicitato. «È molto ragionevole da parte tua. Prima o poi ti renderai conto che è la soluzione giusta per entrambi.» Letizia si sentì sollevata. Tuttavia era davvero singolare che Alberto avesse accettato di scendere a patti senza difficoltà dopo

che per mesi si era rifiutato di farlo. Non era comunque il caso di porsi domande inutili. Ciò che contò per lei fu di aver raggiunto il suo scopo. «Posso usufruire del tuo bagno prima di uscire?» «Vado a chiudere il rubinetto della vasca.» Alberto la seguì a o di carica. «Che bella felce!» esclamò vedendola posizionata sopra il lavabo. «Assorbe l’umidità e vivacizza l’ambiente» rispose lei chiudendo il rubinetto. Sistemò l’accappatoio bianco di cotone sullo sgabello e lasciò Alberto da solo. Billy rimase fuori dalla porta a fare la guardia. Non si fidava di quella presenza estranea in casa. «Bene, ora vado» disse Alberto dopo essere uscito dal bagno. «Mi dispiace che finisca così. Nel bene e nel male, ci siamo amati. In un certo senso, sarai mia per sempre.» Declamò il suo commiato in modo sibillino. Sul suo volto apparve un ghigno enigmatico. Letizia lo scrutò con curiosità. Non colse il significato di quelle parole. Fece spallucce e lo congedò. Finalmente se n’era andato. Prese il telefono e lo trascinò con la prolunga. Sparse dell’olio di lavanda nella vasca. Vi entrò poco per volta immergendo prima i piedi. A mano a mano, il forte calore la lambì procurandole una sensazione di benessere. Aveva bisogno di allentare la tensione accumulata. Suonò il telefono. «Ciao sorellina. Che stai facendo di bello?» «Un bel bagno. Sono davvero felice di sentirti» rispose Letizia allegra. «Che tono effervescente!» «Si sente?»

«Va tutto bene?» «Benissimo.» «Sei strana. C’è qualcosa che dovresti dirmi?» «Forse. Penso che sia la volta buona che si aggiusterà tutto.» «Non farmi preoccupare. Stasera non riesco a are per cena, visto che piove a dirotto.» «Non ti preoccupare. Ora ho bisogno di rasserenarmi dopo questa giornata intensa.» «Che ti è capitato?» «Qualcosa di inimmaginabile ma propizio.» «Quanti misteri! Senti, ti andrebbe domattina di andare a fare un giro al mercato di Porta Palazzo?» «Certamente. Se pioverà ancora, staremo al riparo, visto che è al coperto. Tra l’altro volevo comprare una borsa blu.» «Allora erò da te per le dieci. E mi racconterai tutto per filo e per segno.» «D’accordo. A domani. Buonanotte sorellona.» La voce di Letizia scemò lentamente. Si era rilassata del tutto. La pioggia scese incessante. I suoi picchiettii si abbatterono sui vetri rompendo il silenzio della notte.

12

Eleonora si svegliò a più riprese. Fu sopraffatta da un inusitato rimescolamento. Nemmeno lei seppe spiegarsene il motivo. Il buio si congedò all’arrivo della torbida luce del mattino. Le nuvole grigie si addensarono nel cielo plumbeo e non lasciarono presagire nulla di buono. Era ancora presto. Decise di supplire alla sua stanchezza con una ricca colazione. Preparò delle crêpes alla marmellata di fragole, accompagnate da un bicchiere colmo di succo di frutta. Bevve due tazzine di caffé. Se la prese comoda, gustandosi serafica il rito del buongiorno. Avrebbe voluto tornare a dormire ma aveva dato appuntamento a sua sorella. Al mercato avrebbero trovato un mucchio di gente accalcata a intralciare con gli ombrelli. Ma non importava. Non avrebbero rinunciato al piacere di stare insieme. Si mise la dolcevita beige e i pantaloni neri di flanella. Indossò il suo impermeabile grigio e prese l’ombrello rosso a strisce bianche. Il vento per poco non glielo piegò appena uscita. Per fortuna abitava vicino a Letizia. Era impaziente di salire da lei per bere un altro caffé. Arrivò dopo pochi minuti. Citofonò. Nessuna risposta. Citofonò ancora, ma sempre a vuoto. Era davvero insolito. Forse stava sul balcone a fumare la sua maledetta sigaretta. Le aveva detto tante volte di smetterla con quel vizio. Alzò lo sguardo ma non vide nessuno. Citofonò di nuovo. Niente ancora. Era proprio molto bizzarro. Stava per pigiare ancora il tasto sul citofono quando il portone si aprì. Una signora stava uscendo e il suo arrivo fu provvidenziale. Tra l’altro, aveva preso a diluviare con maggior forza; se fosse rimasta ancora lì, si sarebbe inzuppata come un pulcino. Con il cuore in gola, salì le scale alla svelta. Incrociò il signor Germini che si accingeva a fare la sua eggiata quotidiana. Era sui settant’anni e viveva nell’appartamento sottostante a quello di Letizia. Aveva un figlio che abitava a

Verona e andava a trovarlo di tanto in tanto. Era vedovo e di solito attaccava bottone con tutti. «Che coincidenza. Dica a sua sorella di tenere a bada il suo cane.» Malgrado la sua consueta giovialità, il signor Germini fu un pochino sgarbato con Eleonora. «Buongiorno signor Orazio, che cosa ha combinato quella povera bestiola?» «Non ho potuto dormire tutta la notte per i suoi latrati.» Il signor Germini aveva subìto di recente un’operazione di cataratta e non si era ancora pienamente ristabilito. «Lo trovo inverosimile. Non è da Billy lamentarsi. Al contrario, è così quieto.» «Sarà, ma resta il fatto che stanotte non ho chiuso occhio per colpa sua. Lo sente? Anche adesso continua a guaire.» Eleonora tese l’orecchio. Salì fino all’ultimo piano. Arrivò davanti alla porta dell’appartamento di Letizia che Billy stava grattando dall’interno. Suonò con ostinazione. Picchiò forte. Non aveva con sé il doppione delle chiavi che Letizia le aveva dato. Non c’era mai stato bisogno di utilizzarlo. Si sentì il rumore di una serratura che si apriva: la dirimpettaia uscì a vedere che cosa stesse succedendo. Teneva in braccio il suo gattone. «Cos’è questo fracasso?» domandò impaurita e al contempo seccata. «Mia sorella non risponde al camlo.» «Il suo cane ha fatto chiasso tutta la notte. Mi spiace doverlo dire, ma se succede ancora dovrò avvisare l’amministratore. Dica a sua sorella di tenerlo sotto controllo. Questo è un condominio ammodo.» «Ho detto anch’io lo stesso. Stanotte è stato un vero inferno» si intromise il signor Germini che aveva seguito Eleonora, ritardando la propria sortita. «Sono davvero desolata. Come ho già detto, è un comportamento anomalo. Ed è altrettanto anomalo che mia sorella non risponda. Stamattina avevamo appuntamento. Se avesse cambiato idea, mi avrebbe sicuramente avvisato.»

Eleonora girò in tondo con gli occhi a terra e le mani in tasca. Poi guardò verso la finestra del pianerottolo e si voltò verso la signora Pezzotti. «Posso are dal suo balcone?» «Ma dico, è matta? Neanche per sogno» rispose la Pezzotti esterrefatta. Non riuscì a finire la frase che Eleonora si era già precipitata in casa sua. I due la videro mentre allungava una gamba e poi l’altra scavalcando il balcone dell’appartamento di Letizia. «Dev’essere andata via di testa. Ci vuole una bella sfacciataggine. In casa mia, oltretutto.» Eleonora trovò accostata la porta finestra dell’abitazione. Anche questo era inspiegabile. Billy la riconobbe e le si avvicinò guaendo con la coda tra le zampe. Lo carezzò premurosa. Il cagnolino le si appoggiò con il suo musino emettendo dei versi simili a un pianto. «Cucciolino, che c’è? Dov’è Letizia?» Prima piano e poi in modo più energico pronunciò il nome della sorella. Avanzò guardinga ispezionando stanza per stanza. In cucina vide un golfino appeso su una sedia e due bicchieri. Ciò rivelava che aveva avuto visite. Un paio di scarpe erano disseminate in corridoio. Letizia le avrebbe messe nella scarpiera. Di sicuro non le avrebbe lasciate in giro per casa. Il salotto sembrò in ordine e così la camera da letto. Non restava che il bagno. La porta era socchiusa: una leggera nuvola di umidità si diramava all’esterno. Con circospezione dischiuse la porta. Billy l’aveva seguita e di pari o i suoi guaiti aumentarono di intensità. Un terribile spettacolo le si presentò dinanzi. La vide esanime nella vasca; il telefono era rovesciato sul pavimento. Le si gettò accanto: Letizia non rispose. Sembrava la Bella Addormentata. Ma il suo sonno era eterno. Eleonora cacciò un urlo talmente straziante che le pareti sembrarono tremare. Il Germini e la Pezzotti, che erano rimasti fuori in attesa di notizie, trasalirono all’unisono. Il gatto della Pezzotti emise un miagolio di orrore e scappò dritto in

casa. Invano batterono alla porta. La Pezzotti, terrorizzata, si avviò a chiamare il 112. Qualcosa di orrendo doveva per forza essere accaduto. Nel giro di quindici minuti arrivò una gazzella dei carabinieri a sirene spiegate. Una calca di curiosi, tra anti e altri inquilini, si radunò all’esterno della palazzina. I due carabinieri salirono veloci fino all’ultimo piano con una mano sulla pistola. La Pezzotti indicò la porta dell’appartamento da cui provenivano le grida. Uno dei due carabinieri bussò. Con tono severo intimò a Eleonora di aprire. Lei, che non aveva mai nessun cedimento, era ridotta a uno straccio. Dal dolore non sentiva più nulla. Dopo alcuni minuti iniziò a percepire una voce che le parve lontana. Ridiscese nel mondo dei vivi e si trascinò verso l’ingresso singhiozzando. «Me l’ha ammazzata, me l’ha ammazzata» disse sconvolta dalla disperazione. Urlava parole sconnesse e diede dei pugni contro il muro. Le accuse di Eleonora lasciarono tutti smarriti. «Chi ha ammazzato chi? Signora, si calmi. Chi altri c’è in casa?» domandò uno degli agenti. Eleonora continuò a blaterare. Era evidente che non fosse in sé. Si portò le mani sul volto e continuò a gemere. Anche Billy era stranito. «La signora è venuta a trovare la sorella con la quale aveva appuntamento» intervenne il Germini. L’agente, sempre con la mano sulla fondina, ò in rassegna le stanze finché non arrivò davanti alla porta del bagno. Si arrestò alla vista del cadavere di Letizia, immersa nell’acqua con il capo penzoloni. Di primo acchito, non osservò alcun segno di violenza. La Pezzotti, curiosa com’era, cercò di entrare ma fu bloccata dall’altro agente. Eleonora non si dava pace. Ripeteva come un disco rotto le sue accuse contro l’ex cognato. Fu necessario avvisare il magistrato per gli ordinari accertamenti. La folla dei vicini si ammassò sul pianerottolo. Il loro vociare era così concitato da

soverchiare la pioggia torrenziale. Gli eventi delle ore seguenti si avvicendarono in modo frenetico. Eleonora vide sé stessa sdoppiata. Avvertì la sensazione di trovarsi dentro a un film dell’orrore. Un incubo che non poteva essere reale. Letizia non poteva essere morta. Era frutto della sua immaginazione. Come le era venuto in mente che non ci fosse più? Quale assurdo scherzo del destino poteva essersi accanito contro di lei? Era impossibile. Letizia si stava disponendo per andare al mercato di Porta Palazzo. Avrebbero scovato una varietà di articoli da comprare. Le aveva detto che voleva acquistare una borsa blu e lì l’avrebbe trovata. Quella spaventosa immagine era una semplice proiezione angosciosa. Non poteva essere altrimenti. Quando il sacco mortuario le ò dinanzi, deposto sulla barella chiusa, comprese che non era un sogno. La visione inquietante di ciò che restava della adorata sorellina la fece di nuovo strillare come un’aquila. Il medico legale non riscontrò nessuna traccia riconducibile a un omicidio. Furono comunque disposte delle indagini, trattandosi di morte sospetta. Eleonora riferì al magistrato i suoi dubbi. Era convinta che Alberto c’entrasse in qualche modo. «Quel maledetto. Quel bastardo schifoso. Me l’ha ammazzata come una bestia. Non so come. Ma sapevo che sarebbe potuto succedere. Me lo sentivo.» Eleonora si interruppe un attimo. Tirò su con il naso e proseguì: «È un essere immondo. Un reietto. Quel bastardo maledetto.» «Signora, si calmi. Capisco che per lei è doloroso, ma la invito a chiarire. Le sue accuse sono molto gravi» le disse il magistrato. Fasciato nel suo impermeabile marrone, stava ancora gocciolando dalle maniche. L’ombrello non gli era servito granché. Con i suoi collaboratori usò un tono scostante, dando disposizioni sulla procedura da seguire in un caso come quello. Nei confronti di Eleonora assunse un tono diverso. Le rivolse le domande con molta discrezione. «Sono convinta che è stato il suo ex marito. La perseguitava. Non si rassegnava all’idea di averla persa. Quel verme ripugnante. Ieri sera avevo parlato con mia sorella al telefono. Non si è confidata, ma mi ha accennato a qualcosa che

avrebbe cambiato in meglio la sua vita. È stato quello là.» Gli agenti interrogarono i presenti. Nessuno aveva visto niente. Avevano sentito soltanto i latrati di Billy per tutta la notte. Ciò fece supporre che la morte fosse sopraggiunta la sera precedente. A quel punto la Pezzotti si fece avanti. In condizioni normali era una linguacciuta di prima categoria, ma in quel frangente si era fatta da parte. Poi comprese che, data la complessità della situazione, non poteva esimersi dal riferire ciò che aveva visto e sentito. «Avrei qualcosa da dire.» Con voce bassa, si approssimò dimessa al magistrato. Si aggiustò gli occhiali che le erano scesi sul naso. «Venga avanti. Dica pure» le fece cenno il magistrato. «Ieri, poco prima delle sei e mezza, qualcuno ha picchiato forte alla porta della mia vicina. Il cane si è messo ad abbaiare come un dissennato. Ho aperto la porta e ho intravisto un uomo che poi è entrato» disse la Pezzotti con un nodo alla gola, mentre rilasciava la sua testimonianza. «È certa che fosse un uomo? L’ha visto in faccia? Saprebbe riconoscerlo?» «Sicurissima. L’ho visto di sfuggita ma credo che sarei in grado di riconoscerlo. Non scorderò la sua voce. Ho udito soltanto due parole ma aveva un accento peculiare» rispose con sicumera. «Bene. Raccoglieremo la sua dichiarazione. E la chiameremo se si renderà necessario un riconoscimento.» Eleonora andò dietro agli inservienti che stavano trasportando fuori dall’edificio il corpo senza vita di Letizia. Si scagliò contro di loro. Non voleva che nessuno gliela portasse via o che ne insudiciasse l’angelica figura. Gli agenti dovettero trattenerla a forza. Eleonora non volle sentire ragioni. Si diede una calmata quando sentì il muso di Billy strofinarsi sulla sua guancia. Mogio mogio, era rimasto accucciato in un angolo dell’ingresso. Mosso da pietà, il signor Germini lo aveva preso in braccio e glielo portò. Lei lo strinse a sé, versando le poche lacrime che ancora le restavano.

Il magistrato la fece accompagnare dagli agenti a casa degli zii. Loro non sapevano ancora nulla. Al sabato mattina andavano a far spese alle bancarelle dei dintorni. Ma quel sabato, per la pioggia, decisero di rimandare. Avevano finito da poco di pranzare quando suonò il camlo. Non aspettavano visite. «Corrado, apri tu? Sto finendo di impilare i piatti in lavastoviglie.» «Chi può essere? Le ragazze avevano detto che sarebbero ate stasera.» «Vai a vedere, così lo scopriamo.» Corrado posò sul divano il giornale che stava sfogliando e si alzò. Osservò dallo spioncino e riconobbe Eleonora scortata da due agenti. Cambiò espressione all’istante. «Sandra, puoi venire?» «Che cosa c’è? Non sei capace di aprire la porta?» «Puoi venire, per favore?» «Vengo, vengo. Ma si può sapere che ti ha preso?» «È Eleonora con due carabinieri.» Anche Sandra mutò d’espressione. Si fece seria. Non le andò più di scherzare. Si tolse il grembiule e si diede un’aggiustatina ai capelli. Aprirono la porta. «Bambina mia, che succede? Perché Billy è con te?» Sorretta da un agente, Eleonora non riuscì ad aprire bocca. Poi, senza vani preamboli e con un sottilissimo filo di voce, disse: «Letizia è morta». «Che cosa dici?» domandò zio Corrado. Con le mani tra i capelli, ebbe una fitta acuta di dolore. «Il bastardo ci è riuscito» aggiunse Eleonora con voce arrochita. La zia svenne.

Il magistrato dispose l’autopsia e ne informò la famiglia di Letizia. In prima battuta, il medico legale aveva affermato che potesse trattarsi o di un infarto fulminante o di un malore. Le accuse lanciate dalla sorella della vittima prestarono il fianco ad altre ipotesi. Non appena Eleonora apprese la notizia, lottò per opporvisi. Non voleva che il corpo della sorella venisse ulteriormente oltraggiato. Un altro scempio dopo ciò che aveva ato era insopportabile. C’erano tuttavia troppe domande a cui bisognava dare risposta. Non c’era quindi alternativa. La mattina presto di lunedì 30 ottobre fu eseguita la necroscopia. Diversamente dalle prime congetture, il medico legale stabilì che la morte era stata causata da una reazione allergica da penicillina. Collocò l’ora del decesso tra le 19 e le 21 di venerdì 27 ottobre. Proprio la sera in cui Letizia aveva visto Alberto, benché non lo sapesse nessuno. Quando il magistrato comunicò l’esito ai familiari, nessuno di loro riuscì a darsi una spiegazione. Oltretutto Letizia indossava sempre una collana con una piastrina su cui era incisa la sua allergia. Non avrebbe mai e poi mai assunto un farmaco che contenesse la penicillina. Doveva essere stato qualcun altro a causarne il decesso. Con maggior risolutezza, Eleonora attribuì ad Alberto la responsabilità. Anche gli zii se ne persuasero. Confermarono al magistrato la consapevolezza della nipote della propria allergia. Raccontarono pure di quanto fosse violento l’ex marito; probabilmente le aveva addirittura causato un aborto. Indizi che il magistrato ritenne sufficienti per convocarlo in caserma quel giorno stesso. Non ne cavarono granché: il presunto sospettato riferì di non vedere la moglie da tempo. E aveva un alibi: quel venerdì era a casa dei genitori. Su ordine dell’autorità, una pattuglia venne mandata a casa loro ed essi attestarono la versione del figlio. Non c’erano quindi prove a suo carico. Le indagini però non si fermarono. Difatti, era stato altresì disposto nel frattempo un sopralluogo nell’appartamento di Letizia. Se il presunto assassino avesse lasciato delle tracce, la squadra della Scientifica le avrebbe trovate.

L’abitazione fu perlustrata da cima a fondo. Avrebbero scandagliato nel suo privato. Un’altra crudele violenza nell’intimità di Letizia. Durante l’ispezione trovarono in camera da letto un secrétaire chiuso a chiave, su cui era appoggiata una bambola di pezza. La stessa che la madre aveva regalato a Letizia dopo il primo attacco allergico. Non trovarono la chiave. L’aveva imbustata il medico legale prima dell’autopsia. Letizia la indossava come ciondolo della sua collana. Nessuno poteva ancora saperlo. Forzarono quindi la serratura. All’interno trovarono un piccolo diario di pelle rossa. Letizia vi aveva annotato le sue riflessioni, i maltrattamenti fisici e psicologici subiti dal marito negli ultimi tre anni di matrimonio. Era corredato da alcune Polaroid con le immagini dei lividi sul corpo. La macchina fotografica, che il padre le aveva donato per la sua promozione alle scuole medie, le era tornata utile. Non per immortalare momenti di bellezza o di felicità, ma per testimoniare le sue tribolazioni. Una beffa del destino. Dietro la sua apparente fragilità, e senza presagirlo, Letizia era stata prudente. O forse, in cuor suo, sapeva che qualcosa di ineluttabile le sarebbe potuto succedere. Per questo aveva documentato tutto. Quasi una sorta di un testamento. «Vieni un po’ a vedere» gridò al collega uno degli agenti. «Dove?» «In bagno. Guarda che cosa ho trovato.» Una pianta e del terriccio erano sparsi sul pavimento. Il primo agente aveva involontariamente urtato il vaso di felce collocato in alto, sopra il mobiletto del lavabo. Ciò che attirò la loro attenzione fu il ritrovamento di un elemento che con ogni evidenza vi era stato nascosto: un flaconcino di Streptosil. Di colore beige con il cappuccio marrone, conteneva la polvere prodotta dall’Istituto De Angeli a base di penicillina, largamente utilizzata per il trattamento locale delle infezioni cutanee e mucose. Sul fondo della confezione era ancora appiccicato lo scontrino della farmacia. L’assassino aveva commesso il suo o falso. Il terzo agente intanto prelevò dalla cucina un bicchiere su cui sembrava esserci un alone di polvere bianca. Lo inserì in una busta di plastica per le opportune analisi di laboratorio.

Eleonora non riuscì a darsi pace. Non poteva concepire la propria vita senza Letizia. Fu come se le avessero strappato il cuore. Una parte di lei non c’era più. Il suo tormento fu indescrivibile. Anche per gli zii fu scioccante. Era impossibile per loro rassegnarsi all’idea che la famiglia si fosse spezzata. Non sarebbe mai più stato come prima. Per zia Sandra fu oltremodo struggente. Amava quelle due ragazze di più che se fossero state figlie sue. Dovette ricorrere a dei sedativi prescritti dal medico. La perdita dell’adorata nipote la gettò nella più buia disperazione. Non aveva pianto a dirotto come ci si sarebbe aspettati. Si chiuse in un totale mutismo che durò per diversi giorni. Per fortuna zio Corrado le restò vicino e la accudì con tutto il suo amore. Lui non l’avrebbe mai lasciata sola. Toccò quindi a Eleonora occuparsi della penosa parte burocratica successiva all’autopsia. Le sue condizioni psicologiche non le permisero di tenere aperto lo studio. Molti pazienti rimasero tristemente colpiti dalla notizia del suo lutto. In particolare l’avvocato Costa, che non ci dormì la notte. Se avesse adottato una linea più dura, anziché dare ascolto a Letizia, forse la vicenda si sarebbe risolta in modo diverso. Anche lui si sentì in colpa per non essere riuscito a evitare un epilogo così drammatico. Si offrì di accompagnare Eleonora all’obitorio. Voleva darle il proprio sostegno, ma lei preferì sbrigarsela per conto suo.

13

L’inserviente che l’accompagnò, prima di far estrarre il corpo di Letizia dalla cella frigorifera, le consegnò una busta di plastica. Conteneva gli effetti personali della vittima, tra cui una collana con due pendenti: una piastrina e una chiave. Eleonora tolse la collana dalla busta e se la rigirò tra le mani. «Piccolo amore mio» disse con un refolo rotto dall’emozione, «perché non hai voluto ascoltarmi? Perché? Perché?» Era annichilita dal profondo senso di colpa. Le si gonfiò la giugulare. Il dolore si mescolò alla rabbia che rivolse contro sé stessa. Si biasimò per non averla saputa proteggere. Se avesse vegliato meglio su di lei, sarebbero ancora insieme. Il maligno è multiforme. Si camuffa e sa trarre in inganno anche il più scaltro. Riconoscerlo non è sempre immediato. Eleonora non lo aveva mai potuto soffrire. Alberto apparteneva a una categoria di uomini, peraltro largamente diffusa, da cui tenere le distanze. Lo aveva inquadrato già la prima volta che lo aveva visto dalla finestra molti anni prima. Non aveva affatto gradito il modo in cui aveva trattato sua sorella. Letizia però aveva pagato un prezzo troppo alto per la sua caparbietà. Uno squarcio aveva interrotto il suo cammino, proprio ora che stava risalendo la china e iniziava a metabolizzare il suo vissuto. Tutto questo era paradossale. Eleonora ne contemplò il guscio freddo e inerte adagiato sulla barella d’acciaio. Non avrebbe più potuto abbracciarla, accarezzarla, confidarsi con lei. Letizia non meritava di finire così la sua giovane vita. Nessuna donna lo merita. Anche se il confine con l’altro mondo era stato varcato, e nessuno sarebbe tornato indietro, Eleonora poteva lottare per ottenere giustizia. Dopo un buon quarto d’ora l’addetta le si avvicinò cauta. Con riserbo, le premette sulla spalla.

«Signora, mi scusi, il tempo è scaduto. Non possiamo lasciare troppo a lungo il corpo all’aria. Dobbiamo richiuderlo nella cella frigorifera.» Eleonora si voltò. Si ò un fazzoletto sugli occhi arrossati. «Letizia, amore mio, perdonami. So che sarai sempre vicino a me.» Annuì con il capo all’inserviente al di là del vetro. Questi richiuse la zip del sacco nero di plastica. Di nuovo Eleonora provò dei brividi correre lungo la schiena. Di nuovo quella sensazione, come se le stessero strappando la carne dalle ossa. L’addetta, che con ogni probabilità era abituata a scene simili, sebbene non ci si abitui mai alla morte, la prese dolcemente per un braccio e l’accompagnò fuori dalla stanza. Eleonora la seguì senza fare storie. Apprezzò quel gesto caritatevole nei suoi riguardi. Infine le domandò: «Ora potrò seppellirla e darle la pace che non ha avuto?». «Il magistrato ha già dato il via libera» le rispose l’addetta. Eleonora restò seduta in una specie di sala d’attesa dove era stata fatta accomodare. Tutte le sue certezze erano crollate. Tuttavia non poteva permettersi di crogiolarsi in sentimenti funesti. Sebbene tutto avesse perso di significato, doveva reagire ed essere forte. Lo doveva a Letizia e agli zii, distrutti quanto lei. Con o lento si avviò verso casa. Tornò temporaneamente da loro. Avevano bisogno tutti e tre di sostenersi a vicenda. Soprattutto zia Sandra, che tribolò parecchio a riprendersi, come il povero Billy. Da un paio di giorni non mangiava e se ne stava tutto il giorno nascosto dietro il divano. Era ancora traumatizzato.

Il loro cordoglio fu reso maggiormente devastante per l’efferatezza dell’omicidio. A seguito delle indagini preliminari e degli esami, la Scientifica riscontrò tracce

di penicillina in uno dei due bicchieri rinvenuti in casa di Letizia. Ciò che incastrò Alberto furono due prove schiaccianti. La prima riguardava il flaconcino di Streptosil. Era stato così sciocco da lasciarvi attaccato lo scontrino. Da una verifica presso la farmacia Pantagalli, dove il flacone era stato comprato, la polizia confermò che l’acquirente era stato proprio lui. La seconda prova fu determinante. In uno dei due bicchieri analizzati furono rinvenute le sue impronte. Una prova inconfutabile. Era stato davvero imprudente. Non si era preoccupato di sciacquare il bicchiere. Magari credeva di essere al di sopra di ogni sospetto. Un brillante avvocato come lui sarebbe rimasto impunito; probabilmente confidava nell’intervento del padre, che avrebbe escogitato la maniera per non farlo accusare. Letizia era sua moglie e lo sarebbe stata per sempre. Quale tribunale lo avrebbe condannato con una pena grave? Semplicemente perché voleva far valere come marito i suoi diritti, che la moglie voleva calpestare? Che cosa c’era di tanto stravagante? La sua cieca ostinazione non gli aveva permesso di comprendere che aveva compiuto un omicidio. E lo aveva preparato nei dettagli. Non si era trattato di un incidente o di una casualità. Aveva tolto la vita a un essere umano. Quell’essere umano che diceva di amare. Eleonora aveva ragione a nutrire forti sospetti su di lui. Li aveva sempre avuti.

Alberto fu quindi arrestato con l’accusa di omicidio volontario con l’aggravante della crudeltà, per aver utilizzato un espediente in grado di causare alla vittima un’orrenda agonia, come dimostrò l’autopsia. Il suo fermo avvenne in contemporanea a quello dei suoi genitori. Una pattuglia dei carabinieri andò a prelevarli. Gli agenti suonarono al cancello della loro villa poco dopo le otto del mattino. Stavano facendo colazione. Dopo la separazione, Alberto era tornato a vivere nella loro enorme casa. Era servito e riverito in tutto, con la madre che lo vezzeggiava come se fosse stato

ancora un bambino. Che cosa voleva di più? Ambrogio, il fido domestico, aprì il cancello e avvisò immediatamente i suoi padroni. «Che ci fanno i carabinieri a quest’ora?» domandò Egle ansimante, portandosi le mani sulla bocca. «Me ne occupo io» rispose il marito, sicuro del fatto suo. Indossava un elegante completo grigio. Doveva andare in tribunale a dibattere una causa per violenza privata. Alberto, seduto, continuò imperterrito a mangiare le sue fette biscottate. Non sembrò affatto turbato. Gli agenti entrarono e senza troppi convenevoli articolarono la formula di rito. «Abbiamo un mandato di arresto per il signor Alberto Barberis» disse uno di loro con tono perentorio. Alberto stava versando il caffé nella sua tazzina. Posò la caffettiera. Con aria di sfida si volse indifferente verso l’agente. «Mio figlio non ha fatto niente. Vi state sbagliando» iniziò a berciare la madre. «Per favore, non dire nulla» intervenne il marito. «Su quali basi? Dev’esserci un equivoco» sentenziò Guido Barberis, pronto a entrare nella parte del difensore. «Ve lo dirà il magistrato. Noi abbiamo l’ordine di eseguire l’arresto» gli rispose l’agente senza mostrare nessun tentennamento. Poi proseguì: «Signor Alberto Barberis, nato a Torino il 31 luglio 1960, la dichiaro in arresto per l’omicidio di Letizia Gandolfi. La prego di seguirci». «Non è possibile. Mio figlio non c’entra nulla.» Egle si dimenò inscenando una crisi di nervi. Il marito la prese per le braccia e gliele strinse forte. «Egle, smettila. Non serve a niente. È tutto un grosso malinteso.» «Abbiamo un ordine di arresto anche per i signori Egle e Guido Barberis per falsa testimonianza e complicità in omicidio premeditato. Vi preghiamo di

seguirci» aggiunse l’agente. «Vi siete ammattiti» dichiarò il padre di Alberto, arricciando le labbra. «Vi preghiamo di non opporre resistenza e di seguirci in caserma.» Alberto non fece nessun commento. Sì infilò la giacca. Guardò la sua sagoma riflessa nello specchio del corridoio. Si stirò il doppiopetto e si mise in ordine i capelli. «Eccomi» disse con un sorriso beffardo, e seguì uno degli agenti. I genitori, increduli, a loro volta li seguirono. Prima di uscire, Guido Barberis si indirizzò al devoto Ambrogio: «Chiama subito l’avvocato Giordani e spiegagli la situazione». «Domani ne parleranno i giornali. Il nostro buon nome è rovinato» si limitò a commentare la madre di Alberto. In effetti, presto si sparse la notizia. Per diversi giorni non si parlò d’altro. L’opinione pubblica si spaccò in due: da una parte, c’era chi parteggiava per Alberto e lo considerava un povero marito, vittima di una moglie che non aveva saputo stare al suo posto; dall’altra parte, c’era chi non giustificava l’atrocità di un omicidio premeditato nei confronti di una giovane moglie, vittima di violenza domestica, che si era giustamente ribellata sfruttando e utilizzando l’unico mezzo che aveva a disposizione, vale a dire la separazione. Per coloro che non conoscevano la situazione da vicino era facile sparare sentenze. Per la famiglia di Letizia fu altro dolore che si aggiunse.

Il magistrato autorizzò le esequie. Furono celebrate sabato 4 novembre 1995 nel piccolo cimitero di Sassi. L’ironia della sorte volle che la sua sepoltura avvenisse proprio non lontano da Villa Sassi, dove Letizia si era sposata. Come un cerchio che si chiude, così Amore e Morte si ricongiunsero.

All’ingresso del cimitero un piccolo corteo avanzò lentamente e in silenzio. Lo guidavano Eleonora con gli zii Sandra e Corrado. Dietro di loro, l’avvocato Costa e, poco distanti, Fabio con la moglie Veronica e l’amica Sonia, giunti appositamente da Savona. Tra gli altri, anche alcuni condomini tra i quali si riconobbero il Germini e la Pezzotti, ancora sconvolti per l’accaduto. Più in disparte i colleghi di Letizia. Tra di loro c’era anche Enrico. Aveva lo sguardo tetro. La sua faccia era tirata e la barba incolta. Teneva una mano in tasca e l’altra, a pugno, appoggiata al mento. Le sue guance erano umettate. Soltanto il vento di quella gelida giornata ruppe il silenzio irreale della cerimonia. Al termine della commovente omelia pronunciata dal sacerdote, Eleonora prese la parola per accomiatarsi dalla sorella. «Per tutti quanti noi qui presenti, che ti abbiamo conosciuta, è indubbio che la tua perdita è irrimediabile. Il tuo nome era sinonimo di gioia. I nostri genitori te lo diedero con l’augurio che la vita ti arridesse. Invece il destino si è accanito ingiustamente contro di te. Eri un’anima limpida. Hai soltanto avuto la sfortuna di incontrare l’uomo sbagliato. Un uomo che non ha saputo amarti per la tua bellezza. E mi riferisco soprattutto alla tua bellezza interiore. Non ha saputo cogliere il tuo valore recondito. Avrebbe dovuto traghettarti verso lidi gloriosi. Invece è stato il traghettatore della tua morte. In un certo qual modo, la vera vittima è lui. Figlio di un mondo maschilista, non è riuscito a evolversi e a superare quelle barriere intellettuali che da sempre ci condizionano e dividono il mondo in dominatori e dominati. Per educazione e mentalità, lui appartiene alla prima categoria. Non ha aperto i propri orizzonti, ma si è adeguato alle leggi che governano questo mondo da secoli. Connaturati alla tua uccisione sono stati un profondo odio e una matrice culturale maschilista e patriarcale. È stata l’apice di una serie di violenze volte a minacciarti per impaurirti. Chissà quanti strattoni, schiaffi, scenate, ricatti morali hai dovuto subire negli anni in cui sei stata sposata. E quante lacrime inghiottite nel silenzio. Noi avevamo compreso che eri infelice, ma non avevamo capito fino in fondo l’effettiva gravità del rischio in cui saresti incappata. Hai subìto senza chiedere aiuto e all’inizio ti sei rassegnata a convivere con il tuo carnefice. I giornali hanno scritto che la tua morte è stata la conseguenza di una folle gelosia, di un amore malato che ha scatenato un raptus. Il tuo omicidio non è stato dettato da una furia obnubilante: è stata una violenza nata e alimentata da una radice culturale che considera la donna come oggetto da possedere e non come una pari. La tua fine è stata progettata e attuata in modo disumano. La causa è stata innescata dal tuo rifiuto di portare avanti un matrimonio che non funzionava più. Volevi essere una donna libera. Ti sei

ribellata, non volevi più stare entro certi limiti di obbedienza e di sottomissione. E per quello là era inaccettabile. Motivato dall’odio, dal disprezzo e dal senso di possesso doveva castigarti annientando la tua identità, fino a condurti alla morte. Non si è trattato di uxoricidio o di delitto d’onore: si è trattato di un assassinio perpetrato a mente lucida e pianificato con premeditazione. L’astio che ha covato dentro di sé è stato anche il frutto di un’educazione imbevuta di gretto sessismo. Un’educazione impartita da due genitori che si sono adattati a una società fondata su di un sistema patriarcale, di cui loro stessi si sono fatti portavoce, soprattutto la madre. Aveva il potere di insegnare al figlio il rispetto per le donne. Invece lei stessa si è basata su falsi stereotipi. I genitori sono quindi colpevoli quanto lui. Anche se materialmente non hanno commesso l’azione omicida, hanno però contribuito a creare un clima nefasto, aizzando il figlio sino a portarlo a compiere un atto estremo, e per di più mentendo per salvaguardarlo. Tutto ciò e ignobile. Fintanto che non si supereranno certi limiti culturali saremo costretti ad assistere ad altri episodi come quello che è capitato a te. Ecco perché mi auguro che la giustizia faccia il proprio corso e sia appunto equa. Sarebbe moralmente inconcepibile che la fe franca. Nessuno potrà riportarti in vita, ma mi batterò fino alla fine dei miei giorni affinché vi sia una giusta punizione. Come minimo, dovrebbero infliggergli l’ergastolo. Non so se si arriverà a questa sentenza. Se gli riconosceranno le attenuanti, potrebbe beccarsi pochi anni di carcere. Se ciò avvenisse, sarebbe un’onerosa ingiustizia e una sconfitta per noi e per la società. Se dovessi seguire il mio istinto, vorrei che patisse un’identica morte, ma sarebbe una conclusione troppo semplice per lui. Deve continuare a convivere ogni giorno della sua abominevole esistenza con il fantasma del tuo ricordo e del nefando atto consumato contro di te. Questa sarà la sua condanna. E se dovesse uscire dal carcere prima del previsto, ci sarò io a ricordarglielo. Sarà la mia missione per non aver potuto impedire che accadesse. Non sono riuscita a proteggerti. Perdonami, se puoi. Quello là non ha distrutto soltanto la tua vita. Ha distrutto anche la vita delle persone che ti amavano, che ti amavano veramente. Riposa in pace, angelo mio.» Per l’intera durata del suo discorso non volò neanche una mosca. Eleonora, comata e con il viso contratto per la commozione, scostò gli occhialoni scuri per asciugarsi il rigagnolo di lacrime che le aveva solcato le guance. Poi gettò sulla bara di Letizia una rosa rossa e del terriccio.

L’aria fresca del vento smosse le fronde degli alberi. Un corvo nero, rimasto eretto sulla punta di una pianta circostante il luogo della sepoltura, si librò emettendo il suo caratteristico verso rauco e stridente. Gli astanti sollevarono lo sguardo e ne seguirono la traiettoria finché non scomparve all’orizzonte. Gli zii si avvicinarono al sepolcro. Zio Corrado sosteneva zia Sandra che non riusciva a stare in piedi. Aveva il volto coperto da un velo nero di pizzo. Con un braccio era appoggiata al marito. Nella mano dell’altro braccio stringeva un fazzoletto che si portò alla bocca per soffocare i singhiozzi. Anche loro gettarono del terriccio sulla bara di Letizia. Le persone in fila, che accompagnavano l’onoranza funebre, ripeterono dignitosamente a una a una il medesimo rito.

Alberto fu trasferito nella Casa Circondariale Le Vallette. Al suo arrivo gli fu ordinato di togliersi i vestiti e di depositare gli effetti personali. Là dentro non era più l’avvocato Alberto Barberis, promettente principe del Foro, ma uno dei tanti detenuti in attesa di giudizio, come quelli che in ato aveva difeso o fatto sanzionare. Una guardia lo precedette per condurlo nella sua cella. Al tintinnio delle chiavi, raccolte in un grosso mazzo, si accompagnò il cigolio della porta inferriata. Alberto la oltreò e, scortato da un’altra guardia, percorse un lungo corridoio. Sulle braccia reggeva un involto di coperte, asciugamani e stoviglie. Con il busto ritto, conservava un aspetto borioso. Pareva non avesse ancora realizzato che non stava andando a fare una vacanza in un hotel di lusso. Stava per essere rinchiuso in gattabuia insieme ad altri reclusi. Al silenzio carico di curiosità, che aveva segnato il suo iniziale aggio, seguì un parapiglia.

«Guardate chi è arrivato!» disse una voce proveniente da una cella. «L’avvocato del diavolo.» Seguì una risata generale unita al fragore delle stoviglie battute da tutti i prigionieri sulle sbarre. «Vedrai come renderemo piacevole la tua permanenza.» «Quelli come te non li vogliamo.» Alcuni detenuti gli sputarono addosso. «Mi hai fatto prendere sei anni, farabutto» gli disse uno, imputato a un processo per furto ed estorsione che proprio lui aveva fatto dichiarare colpevole. «Adesso ti renderemo la vita un inferno, delinquente di un avvocato.» «Pezzo di merda. Il tuo fetore si sente da lontano.» Alberto cercò riparo camminando incollato alla guardia. Era soltanto un piccolo assaggio del calvario che lo attendeva. Pure Lisa lo aveva abbandonato. Quando aveva appreso del suo arresto, aveva preferito dileguarsi. Un conto era essere l’amante di un facoltoso avvocato; un altro conto sarebbe stato quello di essere l’amante di uno spregevole assassino.

L'autore

Nives Tharafeo è nata a Milano nel 1966. Laureata in Lingue e Letterature Straniere Moderne presso l’Università Statale di Milano coltiva la ione per la pittura, i racconti e le poesie. Il fiele nel cuore è il suo secondo romanzo, dopo L'ombra del ramo spezzato (Mille Battute, 2020)

Nota dell’editore

Mille Battute edizioni, editore indipendente, è un’associazione (ente terzo settore) senza scopo di lucro che nel proprio statuto prevede la divulgazione di contenuti culturali. La pubblicazione dei titoli del nostro catalogo nel formato elettronico e-book gratuito ha come fine unico, oltre a promuovere l'opera dell’autore, quello di divulgare il nome e le attività dell’associazione. Tali attività comprendono eventi a tema, corsi, workshop in Italia e all’estero riguardanti il viaggio e l’avventura, la scrittura e la fotografia. Alla base del nostro pensiero e delle nostre iniziative vi è un’idea di libertà, di condivisione e di crescita interiore, senza vincoli di genere, etnia, ideologia politica e credo religioso. Nelle nostre pubblicazioni diamo voce ad autori esordienti, alle storie che raccontano frammenti di vita vissuta o immaginata appartenenti a qualsiasi genere narrativo, purché in esse vi si possa riconoscere la traccia di un movimento, un moto a luogo, sia esso in senso proprio o figurato. Crediamo nel lavoro che facciamo e negli autori che pubblichiamo, nei loro messaggi di amore e fiducia o di disagio e sofferenza, al di fuori delle logiche e delle dinamiche di mercato, in sintonia con la necessità di narrare, ognuno a suo modo, l’atto di acquisizione di una coscienza attraverso l’esperienza. La selezione e la cura della parte tecnica dei titoli in catalogo sono affidate a Syntagma (www.syntagmaservice.it), i curatori editoriali che si occupano di editing, impaginazione e veste grafica. Grazie a tutti i lettori

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