© Romano Augusto Fiocchi, 2014 Tutti i diritti riservati www.romanofiocchi.it Prima edizione in e-book: marzo 2014.
© Romano Augusto Fiocchi, 2007 © Edizioni Cardano, 2007 Prima edizione in brossura: dicembre 2007. ISBN 978-88-8893-637-6
In copertina: Lucilio Fiocchi, Vicolo Terenzio.
Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo elettronico, meccanico o altro senza l’autorizzazione scritta dei proprietari dei diritti e dell’editore.
I libri sono avventure che nascono in tanti modi e per tanti motivi; questo, scritto come altri su un treno, è nato per tenere fede a una promessa.
r.a.f.
Romano A. Fiocchi
LA LEGGENDA DELLE PERLE DI FIUME
RACCONTO
Pasquale Massacra è stato ammazzato il 16 marzo 1849. Molti cittadini non sanno chi sia. Alcuni lo sapevano e l’hanno dimenticato. La donna con gli orecchini ad anello non lo dimenticherà.
(da un’inesistente ballata pavese del XX sec.)
La sera del 16 marzo 1999, avvolta in una nebbia che pesava sull’anima, la donna con gli orecchini ad anello si fermò davanti alla porta di casa ad ascoltare. Il rumore dei i che la seguivano era cessato e la voce della città vecchia aveva coperto ogni cosa. Così la donna con gli orecchini ad anello chiamava il silenzio: la voce della città vecchia. Tanto più intensa, quella voce, quanto più inquietante si faceva la nebbia di marzo. Forse perché l’ultima nebbia invernale. Si ricordò le parole di suo nonno materno: – Il giorno dell’ultima nebbia invernale i muri di via Pasquale Massacra si ricoprono di un’umidità fine come perle di fiume e narrano una leggenda. Ma nonostante tutti i suoi anni di studio e di insegnamento, la donna con gli orecchini ad anello non aveva mai capito quale fosse quella leggenda, tanto meno aveva sentito i muri raccontarla. Eppure, al civico sette di via Pasquale Massacra aveva ato cinquantasei anni. Una vita da zitella, tutta casa, chiesa e scuola. Aveva abitato con i genitori e li aveva accuditi sino al loro tramonto. Adesso era sola.
Infilò la chiave nella toppa. La mano tremava.
Zitella per scelta, pensò, perché tanti anni prima era stata anche sul punto di. Fidanzarsi? Certo, perché no. Gliel’aveva portato la nebbia di via Massacra, l’uomo giusto, una sera di marzo che si erano quasi scontrati per strada, distratti entrambi da un’eco di grida concitate che sembravano provenire da piazza Borromeo. Lui le aveva rivolto la parola e si era subito presentato. Si chiamava Walter. Voce profonda e vellutata. Dopobarba dall’odore intenso. Di chi erano invece quelle grida, là verso il Borromeo? – Niente, – disse lui. – Il fantasma di Ricciardino Langosco si sta battendo come un leone contro i mercenari di Matteo Visconti. Cose che accadono solo da queste parti, – e rise. Non era una leggenda. Era successo davvero settecento anni prima. Walter raccontò che il 2 ottobre 1315 il traditore Marchetto Salerno aprì le porte della città ai mercenari tedeschi. Ricciardino Langosco accorse con pochi fedelissimi
ma finì infilzato come un pollo sullo spiedo. Le truppe dei Visconti irruppero nelle vie e misero a sacco la città. Uccisioni stupri devastazioni, i soliti svaghi dell’epoca. La donna con gli orecchini ad anello ascoltò in silenzio e rimase turbata. – In fondo, – la consolò Walter, – non è che una delle tante crudeli assurdità della storia. Walter era stravagante, eclettico, animo d’artista e vulcano di idee nuove, del tipo: bisognava cambiare l’architettura del mondo, i rapporti tra gli uomini, i confini tra le nazioni, bisognava smontare i sogni, fare questo e fare quello. La storia era un immenso fatiscente edificio che andava ricostruito dalle fondamenta. E Walter dava l’impressione che sarebbe stato uno dei nuovi architetti. Walter studiava al Politecnico di Milano. Facoltà di architettura, per l’appunto. Iniziarono a frequentarsi come due buoni amici. Era il periodo in cui la donna con gli orecchini ad anello stava preparando la sua tesi sulla letteratura neoclassica. Per la testa le turbinavano i nomi ormai leggendari di Defendente Sacchi, Tullio Dandolo, Eustachio Fiocchi, Pio Magenta, Angelo Teodoro Villa, tutti esponenti della cultura dell’epoca che orbitavano intorno all’ambiente universitario. Walter l’aiutava nelle ricerche. Le insegnò a perlustrare gli archivi della biblioteca civica Bonetta e delle varie biblioteche di Facoltà. La donna con gli orecchini ad anello era felice. E sperava. Un giorno era successo. Walter l’aveva baciata. Era stato durante una festa di compleanno, dopo il terzo bicchiere di spumante. Un bacio fulmineo, inaspettato. Attorno a loro un sacco di gente che chiacchierava, lanciava battute, si scambiava pacche sulle spalle, indifferente davanti alla magia di quel momento. La donna con gli orecchini ad anello credette di sognare. Due giorni dopo, quando lo rivide, Walter si dichiarò innamorato – oh, non di lei: della pittura. Aveva deciso di mollare il Politecnico e di iscriversi a Brera. Per questo sarebbe andato ad abitare a Milano. – Vedi, Anita, – disse chiamandola per nome. – Walter è anagramma di “viva l’arte”. La donna con gli orecchini ad anello si irrigidì:
– Ma noi due, Walter? – Noi due cosa? – fu la sua risposta. Walter si trasferì a Milano. La donna con gli orecchini ad anello avrebbe voluto scappare di casa e raggiungerlo. Era un modo come un altro per fargli capire che le era rimasto il suo sapore sulle labbra. Ma non lo fece, e perse il suo unico potenziale fidanzato. Da allora per molti anni rimase fedele a quel sogno, senza sapere se avrebbe mai potuto essere ricambiata. Anzi, quando qualcuno le chiedeva se avesse il moroso, rispondeva di sì, che abitava a Milano e lo vedeva di rado. Invece non lo vide più.
Di nuovo un fruscio. Un’ombra guizzò dietro l’abside di San Luca, sparì nel grigio. La donna con gli orecchini ad anello si voltò. Il muro di mattoni a vista che collegava la sua abitazione all’abside della chiesa luccicava di umidità: l’alito del Ticino saliva fin lì. Non solo l’alito. L’ombra che l’aveva seguita poteva essere uno degli spiritelli fluviali che approfittavano della nebbia per nascondersi nei vicoli della città e derubare per scherzo gli ignari anti. La donna portò le mani alle orecchie e controllò i suoi orecchini ad anello. Si diceva che gli spiritelli abitassero i resti della Torre del catenone, antico avamposto abbattuto dalle artiglierie di sco I e sepolto sul fondo del fiume. Leggenda popolare, questa. O piuttosto – storia? Ma sì, quanto c’era di storico e quanto di leggendario nelle Vite parallele di Plutarco? Eppure nel Medioevo le Vite erano considerate delle fonti autorevoli e Plutarco uno storico. Storia e leggenda sono come la morte e le malattie: ogni tempo ha le sue.
Sorrise, la donna con gli orecchini ad anello, ed entrò in casa. Niente più spiritelli, gli orecchini ad anello erano al sicuro.
Qualcosa però il suo Walter le aveva lasciato: l’amore per l’arte. Si era così apionata al mondo della pittura che aveva adibito la stanza dei genitori a biblioteca e l’aveva riempita di monografie di artisti italiani e stranieri. Dei pittori della sua città possedeva tutte le pubblicazioni uscite negli ultimi trent’anni, a cominciare dai volumi sulla Civica Scuola di Pittura e sulle
collezioni pubbliche conservate presso il Castello visconteo, via via sino alle monografie su Antonio Oberto, Ezechiele Acerbi, Giorgio Kienerk, Clelio Pasquali. Non si perdeva una mostra né una conferenza né un seminario che fossero organizzati nel raggio di trecento chilometri. Era spesso a Piacenza, dove seguiva con costanza tutti gli eventi promossi dal professor Stefano Fugazza, cuore e motore della Galleria d’arte moderna Ricci Oddi. Più di una volta arrivò a pensare che lì avrebbe potuto incontrare Walter. Anzi, si chiese se alla fin fine il suo interesse per gli appuntamenti d’arte non nascondesse l’inseguimento dei suoi fantasmi. In ogni caso, Walter l’avrebbe riconosciuta?
Chiuse i battenti di legno, chiuse le ante di vetro e posò sul tavolo il catalogo della mostra del 1950 preso in prestito alla biblioteca Bonetta. Persona colta e affabilissima, il direttore Felice Milani. Non solo l’aveva aiutata nella ricerca, ma vedendola così apionata all’argomento aveva autorizzato il prestito nonostante le disposizioni sulle pubblicazioni datate. Che fosse lui il misterioso inseguitore che l’aveva pedinata fin sotto casa? Voleva controllare le condizioni di salute del libro? Via, allora non sarebbe stato così affabile. Ma quell’ombra. Chissà chi. Lo spiritello fluviale. – Walter? Si guardò nello specchio, la donna con gli orecchini ad anello. No, bella non era mai stata. Il tempo aveva cancellato anche quella patina di apparente bellezza che è la gioventù. Ora che gli anni l’avevano distanziata da quel periodo d’oro, vedeva quanto la sua figura fosse tozza. Quanto ripugnante quel naso rincagnato, con un vistoso neo proprio nel mezzo. Quanto fossero estroflessi quegli occhi da civetta. Quanto la infastidisse quella giogaia sotto il mento. E i capelli: stopposi, poco folti, che stavano in ordine soltanto il giorno della parrucchiera. Insomma, cos’aveva di bello. Il sorriso? Neppure quello. Mala occlusione dentale, un’infinità di otturazioni. Una volta Walter le aveva detto che aveva le orecchie di una statua greca. Almeno quelle. Lei allora le aveva adornate con degli enormi orecchini ad anello. E da quella volta non li aveva mai smessi. I suoi amori erano stati a senso unico, la donna con gli orecchini ad anello sempre innamorata ma nessuno che volesse innamorarsi di lei. Anche quel collega durante i primi anni di insegnamento, il giovane professor Scotti. Assomigliava a Walter, come tutti gli altri di cui si sarebbe innamorata. Modi gentili, sempre galante con lei, il giovane professor Scotti dava l’impressione che. Si sposò con un’altra dopo neppure sei mesi e la donna con gli orecchini ad
anello tornò a consolarsi con il suo sogno più antico. Le piaceva pensare che Walter, da qualche parte nel mondo, si ricordasse di lei.
Senza togliersi il soprabito la donna con gli orecchini ad anello aprì il catalogo e scorse le tavole fuori testo. Lievi mende. Un libro. Cos’è un libro. È un mezzo di trasporto per idee che vogliono attraversare il tempo. Noi saliamo sul treno o su un aereo, le idee su un libro. Un modo come un altro per viaggiare. Quella monografia sulla mostra dedicata cinquant’anni prima a Pasquale Massacra aveva viaggiato nel tempo ed era arrivata a lei. Sarebbe andata anche oltre, dopo di lei. Nei secoli a venire? Nei millenni? Fino a quando avrebbe resistito quel mezzo di trasporto, fatto di pasta di legno assottigliata, sbiancata, riempita d’inchiostro? Fino a quando sarebbe durato l’edificio adibito alla sua conservazione, l’istituzione stessa della biblioteca, l’immenso parcheggio di parole e di idee stipate negli scaffali della Bonetta e di tutte le altre biblioteche del mondo? Cos’era rimasto dell’antica biblioteca di Alessandria? Cenere.
Rumore di tacchi davanti all’uscio. Un ante solitario. O l’inseguitore misterioso? Si fermarono. Lontano, il rintocco di una campana. Voce che veniva dall’ignoto e attraversava il silenzio, si accavallava con la voce della città vecchia. La donna con gli orecchini ad anello tolse il soprabito. Le sue forme. Goffaggine assoluta. Diede le spalle allo specchio per non vedersi e tornò al catalogo, realtà più solida di quel suo corpaccio deformabile nel tempo. La mostra era stata allestita al Castello visconteo in occasione del centenario della morte di Massacra. Fece scorrere alcune pagine. Soliti ringraziamenti circostanziali dell’Assessore alla cultura, solita introduzione del curatore, finalmente le riproduzioni dei dipinti. Le due insegne per la bottega di arrotino, di quando il giovane Massacra era apprendista da Paolo Santi, verniciatore appunto di insegne. Sulle due tavole di legno sfilavano coltelli da campagna, a serramanico, roncole, temperini, trincetti, forbici, cesoie, tutti riprodotti con precisione immacolata. Iperrealismo ante litteram. Scorse altre pagine. Eccolo. La madre di Ricciardino Langosco rinveniva il cadavere del figlio. La nudità della morte proiettata in una scenografia da
melodramma. Una tela enorme concepita da un Massacra appena ventisettenne. La sera del primo incontro con Walter, quella sera in cui la donna con gli orecchini ad anello credette di sentire le grida dei mercenari tedeschi che trucidavano il Langosco, Massacra, altrove nel tempo, ritraeva la scena. – Davvero altrove? Se per qualche strana intersecazione dei piani temporali alcuni avvenimenti fossero slittati nel tempo – nel tempo, non nello spazio – non avrebbero potuto accavallarsi certe situazioni, non avrebbero potuto diventare contemporanee, quando invece le separavano i secoli? La morte di Ricciardino Langosco, la ricostruzione storica eseguita dal Massacra, l’incontro tra la donna con gli orecchini ad anello e Walter: tutti eventi sincroni. Se in uno spazio-tempo lo spazio è la costante, non avrebbe potuto diventarlo anche la variabile del tempo?
Un rumore in strada. Restò in ascolto, la donna con gli orecchini ad anello. Qualcosa di inquietante era là fuori.
Sfogliò di nuovo il catalogo, la mano le tremava. Sotto la scena della morte del Langosco veniva riportato il commento di Giuseppe Rovani, scritto nel 1856 o giù di lì. Già letto. Una sviolinata a favore di Massacra. Parole che in fondo meritava. Se non fosse morto così giovane, Pasquale Massacra sarebbe stato uno dei più grandi pittori dell’Ottocento italiano. Chissà, il nostro Courbet! La donna con gli orecchini ad anello voltò la pagina e trovò l’autoritratto. Massacra era lì, gli occhi ansiosi puntati sull’osservatore. Sguardo febbricitante, presago del dramma. Un capolavoro di sensibilità e di autoescavazione psicologica. Eppure così naturale nella tensione emotiva da sembrarle familiare. Gli occhi, certo, l’espressione degli occhi era la stessa di quelli di Walter. Sfogliò altre pagine. Ecco. Il Ritratto di giovinetta proveniente dalla Civica Scuola di Pittura. Sì, era questo che cercava. Viso regolare, capelli separati da scriminatura geometrica e raccolti dietro la nuca, sopracciglia sottili, profilo greco, espressione pensosa su occhi da cerbiatta, labbra innamorate, mento appena prominente. Alcuni dicevano che fosse il ritratto della sorella Ernesta. Ma secondo altre fonti, tra cui lo stesso catalogo, era un semplice Ritratto di giovinetta. Per la donna con gli orecchini ad anello, chissà perché, era l’amore segreto di Massacra. Avrebbe voluto essere così, la donna con gli orecchini ad anello. Essere lei al
posto della giovinetta. Sentirsi addosso gli occhi di Massacra. Sentire il respiro del pittore mentre dipingeva, la sua tensione, il suo slancio romantico, e poi, più da vicino, l’odore della sua pelle, la ruvidezza della sua barba, la forza vitale delle sue dita capaci di dominare un pennello allo stesso modo di un pugnale. Avrebbe voluto stringere quelle mani fra le sue.
La donna con gli orecchini ad anello trasalì. Qualcuno aveva toccato la porta. Udì una voce: – Nell’arte del dipingere insigne / Nell’amore della patria insuperabile / Qui da austriaco tradimento sorpreso / Solo disperato d’aiuto / I più animosi dal suo pugnale freddati / Giacque colpito a morte / Italia e libertà benedicendo.
Erano le parole della lapide murata sull’istituto delle Canossiane, in fondo a corso Garibaldi. Ogni volta che ci ava davanti si fermava a leggerle. Parole così pesanti nel loro suono e nel loro senso che potevano esistere da sé, via da quel muro, non recitate da nessuno ma libere di girare là fuori, in lungo e in largo davanti a casa sua, in quanto parole in sé. La donna con gli orecchini ad anello era certa che se avesse aperto di colpo la porta non avrebbe trovato nessuno. Allora le venne alle labbra una frase molto poetica: – Le parole non sono nulla se non tentativi di esserci che l’uomo scaglia verso l’infinito.
La donna con gli orecchini ad anello aprì di colpo la porta e invece lo vide. Era seduto per terra accanto al muro di fronte. Toccava i ciottoli della strada uno per uno, li contava. Il ciclope cieco con le sue pecore. Alla luce fioca del lampione brillò un rettangolo bianco. Un taccuino per annotare il numero dei ciottoli? La donna con gli orecchini ad anello fece un o avanti. Non era un fantasma, per quanto la nebbia rendesse diafana la sua ombra. E neppure sembrava che non si fosse accorto di lei. Piuttosto aspettava che la donna con gli orecchini ad anello si avvicinasse. – Ciao, Anita, – disse.
Voce profonda e vellutata, come una volta. Soltanto un po’ arrochita. I capelli, di un grigio sporco, gli scendevano a congiungersi con la barba sfatta. Un cappottone stanco di essere indossato ingolfava e sformava la sua figura. Accanto ai piedi, un bastone con l’impugnatura ricurva. La donna con gli orecchini ad anello non si muoveva più. Pensò che i veri fantasmi non fossero quelli che avano i muri ma quelli di carne e d’ossa che sopravvivevano a loro stessi. Lui tossì, ficcò il taccuino in una tasca del cappottone e provò ad alzarsi. Sollevò il bastone e lo fece roteare come uno spadone medioevale. Scacciava gli altri fantasmi, quelli finti. – Walter! – disse lei. – Vieni dentro o ti prenderai un malanno. Walter soffocò il riso in un verso gutturale, trattenendo tra i bronchi alcuni colpi di tosse. Si alzò puntellandosi al bastone e camminò verso la donna con gli orecchini ad anello. Trascinava una gamba. Il braccio sinistro penzolava a lato del busto come uno straccio appeso alla spalla. La donna con gli orecchini ad anello lo accompagnò in casa e lo fece accomodare nel soggiorno. Il suo cappottone umido portò dentro un odore di cimitero autunnale. Niente più dopobarba dall’aroma intenso. La donna con gli orecchini ad anello lo guardò. Sembrava una cavaliere errante reduce da mille battaglie. Quel braccio inerte, quella gamba morta. Ictus, pensò la donna con gli orecchini ad anello. La parola evocò qualcosa di antico e lei si immaginò quanto fosse stato bello se il cavaliere errante le avesse parlato in latino: Ictus est, domina mea. – È successo qualche anno fa, – disse invece Walter, – dopo una vita ata a dipingere quadri invenduti. Metà di me stesso ha deciso di non funzionare più, compreso lui, lì nel mezzo. Un ciondolo inutile come il braccio, – rise di nuovo, finendo con un colpo di tosse. – Sono un mezzo uomo, Anita, in tutti i sensi. Ma non mi sono arreso. Eh no, mi sono detto, ora che ho la chiave stanerò la verità, stanerò tutti i fantasmi, e li erò a colpi di spada, – e ancora una volta fece roteare il bastone sopra di sé con l’unica mano rimasta viva. Gli occhi della donna con gli orecchini ad anello si fecero lucidi. – Non è come pensi tu, – continuò Walter. – È stata una mia scelta, una protesta contro la vita. L’anima della vita è la morte. Ho desiderato così a lungo capirla, la morte, che la mia volontà ha rifiutato la vita in una parte del corpo. Solo in
una parte, in modo che l’altra potesse rendersi conto. – Vuoi dire che non è una malattia? – La malattia è una forma di filosofia. E io, come tu sai, sono sempre stato filosofo.
Restarono in silenzio per qualche minuto, guardandosi negli occhi e vedendosi con gli occhi di trent’anni prima: Walter il giovane artista, Walter filosofo stravagante, Walter assetato di esperienza, e lei, la mite studentessa di Lettere moderne, lei che pendeva dalle labbra di un Walter inesperto e irruente, lei che sognava chissà quale vita. Lei che portava gli orecchini ad anello. Sempre gli stessi. Quanti anni, pensarono entrambi. Walter disse che si era sposato, ma era stato un matrimonio “finito in merda”. Colpa delle sue fisime. Si era messo in testa di aprire uno studio in zona Brera. Ne trovò uno soppalcato con tanto di vetrine al piano terra. Lì incominciò a riempire di colori uniformi grandi lastre di masonite, che poi spaccava, riassemblava ed esponeva in vetrina accompagnandole con titoli scarni e ripetitivi, del tipo: Cicatrice 52, Cicatrice 53, Cicatrice 54 e così via. Non le comprava nessuno. Si indebitò fino al collo. Andò avanti così per diversi anni, infine dovette lasciare lo studio in Brera, troppo costoso, e si ritirò in un sottoscala verso la periferia. Da allora Walter cominciò a bere. La moglie non aveva voluto secondare le sue pazzie e l’aveva mollato non appena l’aveva visto spaccare le lastre di masonite. Niente figli, meglio così. – Com’era lei? Bella? – chiese la donna con gli orecchini ad anello. Walter non rispose e la donna con gli orecchini ad anello se la immaginò somigliante al Ritratto di giovinetta. – All’epoca era bella, – disse ad un tratto Walter. – Non l’ho più rivista. Il cuore della donna con gli orecchini ad anello, fermo a trent’anni prima, fu trafitto da una punta di invidia. Cambiò argomento: – E ora che fai? – disse. – Ho smesso di bere, se è questo che vuoi sapere. Ho finito anche di credere
nella provocazione dell’arte moderna. Dormo sulle panchine e mangio alla mensa del povero dei frati di Canepanova. Poi ci sono i ciottoli. Sotto gli occhi perplessi della donna con gli orecchini ad anello, Walter incominciò ad esporre la più stramba delle teorie. I suoi studi iniziali di architetto, sommati al suo amore per l’arte, l’avevano portato a credere all’esistenza di un linguaggio elementare che potesse esprimere l’universalità attraverso la sintesi di tutti i valori. I suoi lavori su masonite erano stati, oltre che una provocazione, una ricerca in tale senso. Era convinto che oltre ad essere un obiettivo perseguibile e realizzabile, fosse già stato raggiunto da qualche parte all’insaputa di tutti. Che esistesse insomma un Aleph in grado di concentrare su di sé tutti i possibili rapporti tra arte e vita, storia e antistoria, che consentisse di invertire i fattori, smontare e rimontare incastri per comprendere il meccanismo. Giocare con gli elementi della vita per svelarne i segreti. La donna con gli orecchini ad anello l’ascoltava inebetita, faticava a capire. Walter era un fiume senza argini. Si fermava soltanto quando la tosse gli tormentava i bronchi. Al centro del discorso era la pavimentazione di acciottolato della città. Per quanto assurdo potesse sembrare, ogni singolo ciottolo era – come lo chiamava Walter – un neoideogramma. Le infinite combinazioni dei neoideogrammi e le loro posizioni fornivano infinite ma ineludibili chiavi di lettura della realtà, della storia, della vita. Collegavano date avvenimenti persone cose, come le note su un pentagramma collegavano melodia armonia voci strumenti matematica tempo. Le fece l’esempio della morte di Massacra: 16 marzo 1849. Ebbene, il giorno successivo di centoquarant’anni dopo sarebbe crollata la Torre civica. Era tutto scritto. Se si partiva dal punto dell’acciottolato di piazza Duomo che segnava l’avvenimento del 16 marzo 1849, centoquaranta ciottoli più in là si sarebbe trovato l’insieme di ciottoli che fissava nel tempo il crollo della torre: il 17 marzo 1989. Un gioco di significati e di significanti che non era ignoto alle generazioni precedenti: una storica fotografia di Chiolini ritraeva dei vecchi seduti per terra che si dice strapero l’erba tra i ciottoli di piazzetta Garavaglia. L’essenziale è sempre dietro l’apparenza: non strappavano l’erba, contavano i ciottoli e cercavano di scoprirne la chiave. La donna con gli orecchini ad anello scosse la testa ma fu inutile. Walter andò avanti per un pezzo a tossire parlare tossire. Lo schema linguistico dei ciottoli era più rigoroso delle regole degli scacchi. Ciascun metro quadrato di pavimentazione conteneva un certo numero di ciottoli, significativo e variabile, a
seconda che fosse o meno attraversato da trottatoie oppure forato da tombini di ghisa. Il rapporto tra il numero di ciottoli di una via, la loro densità e dimensione non era casuale. Inoltre, trattandosi di elementi modellati dalla natura, ossia costruiti attraverso l’azione erosiva e levigatrice delle acque primordiali di un fiume, si inserivano in un ambiente artificiale creando un tutt’uno artistico dal significato preciso. Certo, preciso ma spesso occulto, perché un neoideogramma apparentemente uguale ad un altro cambiava valore a seconda del contesto in cui era inserito, come un elemento algebrico che fosse elevato a potenza in base alla sua posizione nell’equazione. Ecco perché la cosa che più lo mandava in bestia erano le riparazioni maldestre, le pezze di catrame che andavano a sostituire i ciottoli dopo un intervento sulle condutture sotterranee. Lì operai inconsapevoli manomettevano significati e strutture, interrompevano la logica di un’intera via. E ci volevano secoli di paziente lavoro da parte del tempo e delle intemperie per ricomporre nuovi significati. Walter le mostrò un ciottolo oblungo, grigiastro. Glielo mise in mano. Era freddo al tatto. Alcune scalfitture su un lato, alcune venature ancestrali sull’altro. La donna con gli orecchini ad anello era sempre più allibita. Walter se lo fece riconsegnare e lo girò tra le dita, l’accarezzò con i polpastrelli, lo portò alle narici. – Sa ancora di fiume, – disse. Proveniva dalla pavimentazione di via Massacra, all’incrocio con corso Garibaldi. In quel punto decine e decine di ciottoli erano stati divelti per i lavori della rete fognaria e ammucchiati sul marciapiede. Un disastro irreparabile: si erano perse per sempre le coordinate della collocazione di un affresco di Pasquale Massacra, il Cristo in croce. Affresco importantissimo e misterioso. Se ne conosceva l’esistenza grazie al cartone preparatorio donato ai Musei civici dai discendenti dell’ingegner Marozzi, che fu amico e mecenate del pittore sino alla sua tragica scomparsa. Secondo Walter, il cartone del Cristo in croce conteneva un particolare inquietante che l’affresco avrebbe confermato con maggiore evidenza: il volto di Cristo era quello di Massacra. Un autoritratto in odore di blasfemia. Le autorità ecclesiastiche locali sostenevano che l’affresco non fosse mai stato realizzato, tanto meno che un pittore dell’Ottocento avesse potuto ritrarre il proprio viso al posto di quello di un Cristo sofferente sulla croce. Alcuni accademici la pensavano diversamente, anzi, proprio per questo erano convinti che l’affresco
fosse stato occultato in una cappella o in una residenza nobiliare o in una cascina della Bassa, che fosse stato insomma dipinto per una visione privata. Quanto a Walter, disse che secondo lui era lì da qualche parte, nascosto sotto l’intonaco di una stanza della casa al civico sette di via Massacra. – Casa mia? – disse stupita la donna con gli orecchini ad anello. Non era la prima volta che Pasquale Massacra dipingeva sui muri di un’abitazione privata. Il ritratto di Angelo Siro Ricci, ad esempio, pittore scenografo e soprattutto suo amico, era stato dipinto all’interno di casa Chiesa, in seguito demolita per l’ampliamento dell’Università. Ma grazie ai ciottoli Walter aveva fatto una scoperta ancora più impressionante: esisteva l’eventualità che il 16 marzo 1849 Pasquale Massacra fosse caduto trafitto dalle baionette austriache ma non fosse morto. Salvato dall’amico Angelo Siro Ricci e dall’ingegner Marozzi, si sarebbe rifugiato nel sottosuolo, la mitica città sotterranea di cui parlavano le cronache medioevali, e lì avrebbe continuato a dipingere sino alla vecchiaia. Non sarebbe uscito in superficie nemmeno dopo l’armistizio di Villafranca, quando gli Austriaci avevano lasciato per sempre la Lombardia. Questo raccontavano i ciottoli. Il problema di fondo era che i ciottoli potevano esprimere la solidità di un evento come la sua semplice eventualità che si verificasse. Niente dunque provava che Massacra fosse sopravvissuto davvero. Ma c’era chi, fin dall’epoca, sapeva qualcosa di più. Ad esempio Carlo Sara, che per alcuni anni resse la direzione della Civica Scuola. Carlo Sara cercò in tutti i modi di alimentare la leggenda e a cavallo dei due secoli, quando qualcuno cominciò a chiedersi dove fosse sepolto il corpo del pittore eroe e se mai fosse stato ucciso per davvero, realizzò vari dipinti intitolati La morte di Pasquale Massacra. Consegnava così alla Storia, quella scolpita nel tempo, il mito ineludibile della sua morte. La donna con gli orecchini ad anello, sempre più sconcertata, scosse di nuovo la testa. Tutti quei discorsi, quelle citazioni, quei ragionamenti astrusi. Ma sì, l’ictus. Si era preso anche mezzo cervello. – Tu sei folle, – gli disse. – No, Anita. È la magia di una città antica. È il peso di tutti coloro che l’hanno abitata in duemila anni di storia. Li senti ancora camminare nelle sue vie,
percorrere i suoi vicoli, respirare lungo i muri di mattoni nudi. Massacra è uno di loro. E presto lo saremo anche noi. La donna con gli orecchini ad anello trasse un sospiro: – Fantasie, Walter, – disse. – E in ogni caso, se Massacra non fosse morto nel 1849, oggi lo sarebbe per vecchiaia. – Non ne sarei così sicuro, la vita nel sottosuolo è misteriosamente longeva.
All’improvviso Walter alzò il bastone. Con la bocca tirata da una parte lanciò un sibilo: silenzio. Qualcuno per la strada. I i, quei i di prima. Non erano mai appartenuti a Walter. Non potevano essere i i di un uomo che camminava con l’aiuto di un bastone. – Merda! – disse Walter. Si alzò di scatto e si trascinò fino alla porta. Tossì. Uscì quasi di corsa, arrancando come un cinghiale ferito. La nebbia se lo inghiottì. La donna con gli orecchini ad anello afferrò il soprabito e gli fu subito dietro. – Walter! – gridò. La nebbia era così densa che dovette seguirlo a tentoni, tastando il muro per assicurarsi di procedere nella giusta direzione. I mattoni erano ricoperti di un’umidità fine. Ad un tratto si fermò. Sulla parete tra la casa della donna con gli orecchini ad anello e l’abside di San Luca era avvenuta una cosa straordinaria. Un portale ad arco murato da mezzo millennio, il cui profilo era intaccato dallo stipite di una finestra della canonica, si era schiuso quel tanto da permettere il aggio di una persona. Walter l’aspettava all’interno. Le disse che da tempo cercava quel corridoio segreto, l’acciottolato gliene aveva segnalato l’esistenza. Ma non aveva mai trovato la chiave d’accesso. Qualcuno che la possedeva l’aveva lasciato aperto. Di proposito o per dimenticanza. Si trattava di un cunicolo stretto costruito all’interno di una parete di mattoni. Dentro il buio era netto. L’aria rarefatta. Man mano che scendevano i gradini, gli occhi si abituavano all’oscurità e una strana luminescenza sembrava sorgere dal fondo e riflettersi sui muri. Se la donna con gli orecchini ad anello non si fosse
fidata di Walter, avrebbe potuto pensare che la stesse guidando verso l’Inferno. E ricordò a se stessa numerose citazioni dantesche. L’odore del sottosuolo le riempiva le narici. Walter si muoveva con disinvoltura, nonostante il bastone. Continuava a rassicurarla con la voce profonda e vellutata, talvolta spezzata da un crepitio di colpi di tosse. Sapeva dove li avrebbe condotti il cunicolo. I mattoni delle pareti erano rivestiti di una polvere bruna che restava attaccata alle dita. Secondo Walter era la polvere del tempo sprigionata dal crollo della Torre civica. Quando il colosso di mattoni si era accasciato su se stesso, parte della struttura si era sgretolata liberando sulla città un velo impalpabile che aveva ricoperto ogni cosa: strade, case, monumenti, automobili. Ne avevano parlato anche i giornali, ma nessuno sapeva che era penetrata nel sottosuolo, nelle cantine più sotterranee, nelle cripte longobarde, nelle fognature romane, nella falda acquifera, nei aggi segreti che serpeggiano sotto la città vecchia. La polvere del tempo. Che era come dire la polvere magica della vita che è stata e che continua ad essere in ciò che noi siamo e in ciò che ci vive attorno. Questo le disse Walter. Intanto aveva infilato il bastone in una tasca del cappotto, bucata per utilizzarla a mo’ di fodero. L’impugnatura ricurva sporgeva come un’elsa. Walter ava la mano viva sulle scanalature dei mattoni. Raccoglieva la polvere del tempo. La soffiava via con la sua bocca storta.
I gradini di mattoni si alternavano a brevi tratti in piano pavimentati di terra battuta. Si scendeva sempre, fin dentro le viscere della città vecchia. Eppure la luce non diminuiva né si intensificava, come se le pareti brillassero di energia propria. Cresceva invece l’umidità pungente, ti mangiava le ossa e dava sempre più la sensazione di penetrare in un regno di morti, con il rischio di entrare a farne parte. Ora Walter procedeva aggrappandosi ai mattoni con la mano viva. Ad un tratto si fermò: – Gaston Bachelard aveva ragione, – disse. – Scendere con il pensiero in un mondo sotterraneo, in un luogo che ad ogni o rivela la sua profondità, è anche scendere in noi stessi. Era tipico di Walter improvvisare citazioni di autori che molti neppure conoscevano. Chissà dove li aveva letti. Forse erano invenzioni sue, fantasmi del
suo mondo di artista. Fu allora, grazie a quella citazione, che la donna con gli orecchini ad anello si immaginò di compiere lo stesso percorso trent’anni prima. Oh, restare sola con lui in quei luoghi segreti, tutt’e due giovani, lontano dal resto della città, dal resto del mondo! Ma il Walter di allora era un altro. E anche lei, la donna con gli orecchini ad anello, era un’altra. Estranei fra loro, ora, ed estranei rispetto a quel che erano trent’anni prima. Camminavano non so da quanto tempo, quando all’improvviso sbucarono in una galleria con l’ampia volta in mattoni. Dai miasmi che rilasciavano i vecchi muri si intuiva che stavano percorrendo un tratto di fognatura romana. Un abate del XIV secolo aveva scritto che le sue dimensioni erano così monumentali da entrarci un uomo a cavallo. Quella specie di cloaca maxima si ramificava sotto la città peggio di una ragnatela informatica, con gangli di connessione in posizioni assolutamente impreviste. Senza una carta topografica del sottosuolo l’uomo dal braccio inerte e la donna con gli orecchini ad anello si sarebbero persi nell’oscurità della città sotterranea o, come la chiamava lui, dell’anti-città. E vi avrebbero vagato per secoli. Se ciò non accadde fu perché la luminescenza si fece più viva, proveniente da un punto preciso, come se li volesse guidare. Le vie secondarie si perdevano nel buio profondo, segno che non portavano da nessuna parte. Scesero con circospezione gli ultimi gradini e davanti a loro si aprì un ambiente vasto quanto piazza Borromeo, illuminato da lampade a carburo appese alle pareti. Il soffitto era sorretto da un centinaio di colonnine sormontate da capitelli romanici, come nelle cripte di certe chiese. Le volte a crociera erano nude, rivestite soltanto della polvere bruna che aveva uniformato ogni cosa. Aggrappato ai capitelli, ricchi di motivi vegetali, proliferava il più classico dei bestiari romanici: aquile, demoni, mostri alati, draghi, sirene bicaudate, grifi e leoni rampanti. Ma anche maschere, scene di lotta, con draghi che azzannavano figure umane, Sansoni che stritolavano leoni smisurati, creature infernali che contendevano agli angeli le anime dei defunti, Gilgamesh battaglieri che affrontavano animali mai visti, evasi da epopee antichissime. In mezzo a quella che sembrava la navata centrale, le colonne si facevano più slanciate e la volta si inarcava creando una cupola, che in realtà era un gigantesco pozzo di aerazione le cui finestre mettevano in comunicazione con pozzi più piccoli e collaterali. Sotto la cupola c’era un cumulo di imponenti detriti che saliva fino all’altezza dei capitelli. Era quel che restava della Torre civica. Polvere di mattoni, polvere di calce, polvere di ceramica, polvere di
ciottoli, polvere di granito. La loggetta del Pellegrini, il materiale di riempimento della muratura a sacco, le ciotole di ceramica, tutto frantumato. Mille anni trasformati in polvere e nascosti lì, sottoterra, perché nessuno più li vedesse e sprofondassero nel calderone degli oblii storici. – Siamo nell’anti-città, – disse Walter, – la città delle cose che sono state, di quelle che potrebbero essere, di quelle che non saranno mai. Ma la cosa più sconcertante doveva ancora venire: in una cripta adiacente, di presumibile origine longobarda, una folla dipinta popolava un quadro di enormi dimensioni. Era una tela di almeno tre metri e mezzo per sette che suggestionò la donna con gli orecchini ad anello ed evocò nella sua memoria lo straordinario Studio del pittore di Courbet. Le linee prospettiche del quadro convergevano sull’immagine di un cavalletto dove troneggiava, dipinto nel dipinto, il Ricciardino Langosco di Massacra. Si trattava di una versione diversa da quella nota. Qui il Langosco non era già morto ma agonizzante, con una lancia infilzata sotto il costato. C’era, in quella lancia, tutta la violenza del corpo estraneo introdotto a forza nella carne viva, la fitta atroce che attraversava i nervi del moribondo e gli annebbiava il cervello. Accanto al dipinto nel dipinto si era ritratto il pittore stesso, pennello in mano, viso girato per tre quarti verso chi osservava. Gli occhi ansiosi. Era lui, Pasquale Massacra. Sembrava Walter da giovane. Alle sue spalle, in piedi, una modella nascondeva le sue nudità in un telo e contemplava il dipinto sul cavalletto: la cosiddetta Ernesta, o comunque la modella del Ritratto di giovinetta. Oh, come la donna con gli orecchini ad anello avrebbe voluto essere lei! Lei in tutto, anche quel corpo giovane e snello. Il suo viso, i capelli raccolti con scriminatura geometrica, le sopracciglia sottili, gli occhi da cerbiatta. Poter stare così vicino a Massacra, contemplare le sue mani, sentire il suo respiro. A destra e a sinistra del nucleo cavalletto-pittore-modella, emergevano sempre più stagliate le ombre di altri personaggi. Tutta gente ritratta in atto pensoso, obbligata ad esistere su quella tela perché chiamata lì dalla capacità evocativa dell’autore. E perciò costretta a pensare. Erano loro, i mitici maestri della Civica Scuola di Pittura. Walter si avvicinò e sfoderò il bastone per indicarli ad uno ad uno. Li conosceva tutti. C’era Cesare Ferreri, con un blocco di disegni sottobraccio. Al suo fianco, barba e capelli ricci, Giacomo Trecourt: in testa si era messo un turbante bianco, come nel celebre autoritratto. Il Kienerk, altro storico direttore, atteggiava le labbra pronto a sputar fuori qualcuna delle sue salaci battutacce toscane e faceva l’occhiolino al milanese Pietro Michis, amante
perduto di Venezia. Allievi e insegnanti si confondevano, proprio come era stato nella scuola, dove i cambi generazionali avevano trasformato gli allievi in assistenti, insegnanti, direttori. La donna con gli orecchini ad anello riconobbe Ezechiele Acerbi, pizzetto e cappello alla contadina indietro sulla nuca, così come si era ritratto in uno dei suoi dipinti più noti. Oberto, scosso da una risata beffarda da uomo del Ventennio, gli appoggiava una mano sulla spalla. Sul lato sinistro altri direttori entrati nella storia: Buzio, Savoja, Beri, e lui, Carlo Sara, che guardava Massacra con un’espressione di connivenza. In mezzo a questi, circondati da un alone di leggenda, Tranquillo Cremona e Federico Faruffini. Faruffini reggeva in mano una boccetta, forse il cianuro con cui si era ucciso. Cremona mostrava un cartoncino con lo schizzo di una ciociara. Dietro di loro, sul fondo del dipinto, figure più timide, alcune appena abbozzate nella penombra: Viriglio, Buresch, Romeo Borgognoni, Erminio Rossi, Antonio Villa, Annibale Ticinese, Magenti, Galbi, Beolchini, Luigi Testa, Contardo Barbieri, Comini, Primo Carena, e due pittrici: Lina e Giovanna Nascimbene. Tutti quei nomi, il fior fiore della pittura. La donna con gli orecchini ad anello era disorientata. Ma non finiva lì. Il dipinto, di lenta lettura per le sue dimensioni e la varietà dei personaggi, avrebbe rivelato un’altra inquietante sorpresa: dietro il gruppo più complesso di figure, in controluce sul vano di una porta, la sagoma di un uomo si appoggiava ad un bastone. In quel momento la voce profonda e vellutata di Walter la chiamò dal fondo della cripta, dietro il dipinto. Walter era lì, davanti a una massa impressionante di quadri accatastati. C’erano il Ricciardino Langosco dipinto nel dipinto, due ritratti della cosiddetta Ernesta, soggetti storici, figure intere, volti di donne e di uomini. Tutti appartenevano alla stessa splendida mano. – Pasquale Massacra non è morto, – disse Walter. – Tutti questi dipinti, dove tanta gente ritratta sarebbe nata e morta dopo di lui, ne sono la prova. La donna con gli orecchini ad anello arretrò terrorizzata. No, non bastava rinchiudersi nel sottosuolo per essere in vita dopo centottanta anni. Eppure anche il suo amore per Walter era stato rinchiuso nel sottosuolo del suo cuore ed era sopravvissuto oltre ogni ragionevole durata. E nella solitudine aveva alimentato i suoi sogni. Allo stesso modo, giorno dopo giorno, anno dopo anno, i sogni di un pittore sopravvissuto avevano accumulato un patrimonio di dipinti nel luogo più segreto della città: il sottosuolo. Era dunque possibile? La donna con gli orecchini ad anello accennò di sì con la testa. I sogni erano più veri della realtà.
Quel che accadde poi, la donna con gli orecchini ad anello non lo saprà mai. Le lampade a carburo si spensero da sole e il buio invase il vasto ambiente. Il terrore di vagare per l’eternità in quel reticolato sotterraneo si impossessò di lei che restò immobile, senza neppure chiedere aiuto a Walter. Ma una voce profonda e vellutata le sfiorò l’orecchio. Walter era lì, vicinissimo. E fu il salto nel tempo. La voce di Walter nel buio – senza vederlo, senza vedere se stessa – la proiettò nel ato. Era ancora studentessa, e lui, Walter, che continuava a parlarle emettendo quel suono profondo e vellutato, era lo speranzoso architetto che avrebbe cambiato il mondo. Il corpaccio informe dello specchio non esisteva più. Neppure quell’uomo mezzo paralizzato, con il braccio inerte. Tutto era tornato come prima, tutto si poteva rifare, tutto poteva ancora cambiare. L’odore dell’umidità secolare si era condensato nella massa nera che li circondava. Al buio, le punte delle dita di una mano arono come un brivido sul collo della donna con gli orecchini ad anello, vicino alla nuca. – Dove sei, Anita? – disse Walter. La donna con gli orecchini ad anello non rispose. Gli prese la mano e se la portò sul cuore. Gesto posticipato di trent’anni che scatenò l’oscurità intorno a loro. La massa nera, il silenzio, l’odore penetrante dei secoli avvolsero la donna con gli orecchini ad anello. Perse l’orientamento, perse ogni dimensione. La testa le girava, il respiro si faceva affannoso, ma lei non mollava la mano di Walter. In quel turbine di sensazioni distingueva soltanto il suo abbraccio, il suo fiato sulla bocca. Lui le parlava con la voce profonda e vellutata, le diceva parole d’altri tempi. Tutto vorticava intorno, come in un gorgo oscuro dove nulla può restare fermo. Salvo il tempo. Due braccia che ti stringono, ti sollevano, una guancia glabra, labbra che cercano labbra, calde, vive. Eppure i loro corpi avevano la consistenza dei ricordi. Esseri senza corpo ma che del corpo sentivano la presenza. Come il mutilato con l’arto amputato. Anche loro: mutilati dei loro corpi di allora. Fu un amplesso travolgente, in piena lievitazione. La donna con gli orecchini ad anello non capiva più chi fosse lei, chi Walter, in che luogo si trovassero. L’aria si faceva soffocante. Rotolò sui gradini, contro le pareti, sentì la polvere della Torre civica appiccicarsi alla pelle e otturarle i pori. La donna con gli orecchini ad anello chiuse gli occhi per paura che qualche luce improvvisa le mostrasse la
verità. Non capì più nulla. Non sentì più nulla, se non la voce profonda e vellutata di Walter che sussurrava più volte il suo nome. Le sembrò di muoversi nello spazio siderale, o di scalare crateri di immensi vulcani spenti. Qualcuno l’aiutava, la sorreggeva. Il fiato corto, senza più forze, fu investita da una ventata di aria fresca che le sferzò il viso, le entrò nei polmoni. E all’improvviso fu la luce. Si trovarono in strada, sotto il lampione. A qualche metro, l’abside di San Luca. Walter si era appoggiato alla parete di mattoni, in mano stringeva il bastone. Fece un lungo sospiro e si incamminò zoppicando, il braccio come uno straccio appeso alla spalla. La donna con gli orecchini ad anello lo seguì, ancora frastornata. Cos’era stato? Un’allucinazione dovuta all’emozione di quella scoperta? Un’iniziazione al mistero della città sotterranea, a quell’altro mondo di cose appartenenti al ato, o meglio: a un ato potenzialmente differente da quello che effettivamente era stato? Davanti al civico sette di via Massacra si fermarono. Walter tossì. – Ti senti meglio, ora? – le chiese. – Sì, meglio, – disse la donna con gli orecchini ad anello. – Non capisco, credo che mi sia mancata l’aria. O forse, credo che qualcosa sia come rimasto sospeso nel tempo, qualcosa che avrebbe dovuto accadere e non era ancora accaduto. E che ora. Non so, Walter. Ma tu, con questa tosse, sei sicuro che non vuoi entrare? Walter rise e tossì di nuovo: – I ciottoli mi attendono, – disse. – Ci sono misteri che vanno chiariti.
Restò sull’uscio di casa, la donna con gli orecchini ad anello. Ci restò a lungo, gli occhi ficcati nella nebbia. Walter era apparso e scomparso come un ricordo. La voce della città vecchia si era ripresa ogni cosa, penetrava nella sua casa. Silenzio. E nebbia. Suoni di gocce che cadevano da luoghi imperscrutabili. Era l’umidità che condensava su qualche grondaia, sulle inferriate, sulla ringhiera di un balcone. ò un’auto, i fanali scavarono dei coni evanescenti nella massa grigia, le ruote tamburellarono sopra l’acciottolato. Il ringhio metallico si assopì in fondo alla via.
La donna con gli orecchini ad anello stava per richiudere la porta e lasciare fuori quella desolazione, quando dei i precipitosi la fermarono. Dalla nebbia affiorò un uomo sui trent’anni, agile, di bell’aspetto. Pizzo, baffetti, occhi aggressivi. Era vestito con una giacca di panno, camicia e panciotto. Ridicole ghette ai piedi. Era molto agitato. Cercava dove nascondersi, glielo disse in dialetto stretto. La donna con gli orecchini ad anello restò titubante. L’uomo si mise a gesticolare: era questione di vita o di morte – sacramento! La donna con gli orecchini ad anello lo fece entrare, chiuse la porta e spense la luce. Trattennero il fiato. In strada dei i pesanti, trascinati. Dio mio, pensò la donna con gli orecchini ad anello, che fosse Walter? Walter impazzito, Walter che nella sua metà sopravvissuta, e perciò spietata, dava la caccia a quell’uomo? Pensò a uno sgarbo durante la sua permanenza a Milano, a qualcuno che l’aveva ostacolato nella già difficile attività artistica, a una sete di vendetta che andava placata. – Oh, non il Walter di allora: il Walter di adesso, il Walter reso grezzo dalla vita. L’oscurità non era assoluta. Dal lampione della strada si propagava un riverbero leggero che entrava attraverso la finestra e definiva le ombre degli oggetti di casa. Gli occhi dello sconosciuto brillavano, tutto il suo essere era in ascolto, sospeso nel silenzio. Chi era, si chiese la donna con gli orecchini ad anello. Perché Walter lo inseguiva? Cosa mai aveva compiuto un uomo dall’aria così esasperata? La donna con gli orecchini ad anello cercò di rasserenarlo, gli prese le mani – mani dalle dita nervose. Chissà che mestiere. Lui la osservò con lo sguardo di un lupo. La donna con gli orecchini ad anello non aveva mai visto uno sguardo così. Neppure con Walter, che ai suoi tempi, con le donne… Ma adesso era proprio Walter che andava fermato, il Walter attuale. Per salvare lui stesso, per impedirgli di commettere una bestialità. La nebbia e il silenzio portarono altre voci, lontane. Walter non era solo. Le possibilità di scamparla, per quel poveretto, erano ridotte. La donna con gli orecchini ad anello decise di agire. Aprì la porta, ma già nell’atto di aprirla sentì l’inutilità del gesto, l’impossibilità di fermare il corso delle cose già avvenute e di quelle che devono ancora avvenire. – Walter! – gridò. – Er ist hier! – fece eco una voce rauca.
Fu allora che l’ospite lanciò un’imprecazione, le baciò la mano e si immerse nella nebbia, dalla parte opposta rispetto alla voce rauca. Il baciamano la stordì. Avvertì i i dell’uomo che si allontanava di corsa. Forse ce l’avrebbe fatta. All’improvviso qualcosa di lucente balenò sotto il lampione. Grida da animali sgozzati attraversarono il silenzio. Poi un tonfo, un altro. La nebbia nascondeva un terribile scontro. Ancora i di corsa ed ecco riapparire il suo ospite. La donna con gli orecchini ad anello lo accolse e chiuse prontamente. Basta, avrebbe chiamato la polizia. Si voltò. L’uomo era accasciato su una sedia vicino al tavolo. Con una mano stringeva un pugnale insanguinato, con l’altra si comprimeva all’altezza della cintura. I suoi occhi erano vitrei, il viso sbiancato. La donna con gli orecchini ad anello tremava. Gli tolse delicatamente la mano dal ventre. Il palmo era colorato di rosso. Appena sotto il panciotto una chiazza gli inzuppava i pantaloni. La donna con gli orecchini ad anello vi appoggiò un fazzoletto e premette. Sentì il fiotto caldo inarrestabile da cui la vita stava uscendo. Fermalo, fermalo dunque! La donna con gli orecchini ad anello perse la testa. Aprì l’uscio, gridò. Nessuno per strada. Era sola. Alzò il ricevitore ma non c’era la linea. Il ferito, intanto, osservava il catalogo aperto sul Ritratto di giovinetta e con un dito l’accarezzava. Gesti inconsulti di chi sta morendo. L’espressione sofferta si era fatta più rassegnata, la bellezza del suo viso più intensa. Un Cristo in croce. No, Walter non c’entrava. L’eroico cavaliere da un solo braccio e una sola gamba non poteva aver voluto la sua morte. Anzi, se fosse stato lì l’avrebbe soccorso. La donna con gli orecchini ad anello si riaffacciò alla porta e la nebbia materializzò due ombre. Chiese aiuto, in casa sua un uomo stava morendo. I due si precipitarono, ma prima di entrare, quasi per rassicurarla, vollero presentarsi: Angelo Siro Ricci e l’ingegner Giuseppe Marozzi. La donna con gli orecchini ad anello trasalì. Nomi già sentiti. Anche il ferito, che si rinfrancò non appena li vide. L’ingegner Marozzi si rivolse alla donna con gli orecchini ad anello e con grande garbo la pregò di cercare aiuto al ristorante in fondo alla via. Ricci comprimeva la ferita nel tentativo di fermare l’emorragia. La donna con gli orecchini ad anello era frastornata. Marozzi, Ricci, ma allora. Il ferito non poteva essere se non lui. Prese il soprabito e si buttò per strada. Pochi i e la fretta la fece inciampare in un corpo disteso. Un soldato. Sulla giubba bianca, attraversata da una bandoliera, spiccava una chiazza bordò. In fianco, riverso sui ciottoli in una pozza di sangue, un altro cadavere in divisa. Con le mani stringeva ancora il
moschetto. La donna con gli orecchini ad anello ebbe un sussulto. La nebbia le soffiò negli orecchi il gemito lontano di un altro ferito. Incominciò a correre, così, alla cieca. Le sembrava di correre nel vuoto, le sembrava che la nebbia riempisse tutto l’universo e lei vagasse in una nuova dimensione, dove il tempo era in realtà spazio-tempo. Ansimava. Arrivò quasi per caso in fondo alla via. Le luci del ristorante erano spente. Udì allora un colpo di tosse e una frase che avrebbe potuto entrare nel novero delle citazioni epiche della città: – Il giorno dell’ultima nebbia invernale non si mangia, si delira. Era Walter, nella penombra di un lampione, seduto per terra a contare i suoi ciottoli. La donna con gli orecchini ad anello gli prospettò l’urgenza e lo convinse a seguirla. Ma Walter procedeva senza nessuna fretta, la bocca storta in un mezzo sorriso, come se già sapesse cosa l’aspettava e in quale modo sarebbe intervenuto. Arrancava con ritmo regolare, bastone alla mano, senza sforzarsi. Era il cavaliere errante ma vittorioso. Aveva perso metà degli arti, i bronchi marci di tosse, ma aveva conquistato il regno. La donna con gli orecchini ad anello non riusciva a capacitarsi: lungo la strada i corpi dei due soldati erano spariti, nessun ferito gemeva. Anche quando irruppero in casa non c’era più nessuno. Walter la rassicurò con voce profonda e vellutata: – La storia ci insegue con i suoi fantasmi, Anita, lo so. Sono fantasmi veri, le loro vicende sono scritte nei ciottoli, come le nostre. Quella volta, ricordi, il Langosco agonizzante trucidato dagli uomini dei Visconti… Io lo vidi davvero, così come lo vide Pasquale Massacra prima di dipingere il suo capolavoro. Fu allora che mi convertii alla pittura, l’arte di trascrivere i sogni. Tu invece hai assistito alla morte di Massacra, la sua difesa da leone, il colpo di baionetta nel ventre, la disperazione dei suoi amici. Ecco cosa c’entrava il Cristo in croce: non era l’affresco nascosto in casa tua, ma lui stesso, Massacra, che in casa tua sarebbe morto sulla croce della patria. La patria, pensò la donna con gli orecchini ad anello. Suono vuoto per cui sono scomparse generazioni di uomini. Si può morire per la libertà, non per la patria. La libertà è un’ideale, la patria un concetto territoriale ossia un’ideologia da branco. Tutti quei soldati italiani morti in Grecia Albania Russia Africa perché la
patria prevalesse su altre patrie. La donna con gli orecchini ad anello scosse la testa. – Morte inutile, – disse. – Certo, per questo il suo fantasma ritorna. Tutti coloro i quali hanno qualcosa da raccontare sulla propria morte in un modo o nell’altro ritornano. Parole nostalgiche. Alla donna con gli orecchini ad anello sembrò che le avesse rivolte a se stesso. – Allora, – disse lei, – è questa la leggenda misteriosa che narrano nelle sere di nebbia i muri di via Pasquale Massacra, la leggenda del pittore eroe che è morto e che rimuore il 16 marzo di ogni anno trafitto dalle baionette austriache? – Mia povera Anita, – disse Walter. – Le leggende generano leggende. C’è la leggenda che vuole il fantasma di Pasquale Massacra ucciso nelle sere di nebbia dai soldati austriaci. C’è la leggenda che lo vuole sopravvissuto e nascosto nel sottosuolo della città, con la sua vita ipogea, la collezione di dipinti che là sotto ha continuato a realizzare. C’è anche la leggenda che racconta di un pittore fallito che da giovane dipingeva su lastre di masonite che poi spaccava. Un pittore che, abbandonata la provocazione, ha studiato l’arte di Massacra e in trent’anni ha prodotto centinaia di imitazioni e le ha nascoste nel sottosuolo della città. Oh, questo pittore fallito non morirà da eroe, come quell’altro. Del resto hai ragione tu: le morti eroiche sono utili quanto le inutili. Il pittore fallito morirà accovacciato sul gabinetto alla turca di un bar, impegnato nel più banale degli sforzi. Tanto beffarda, a volte, è la Signora dell’Eternità. – Ma insomma, Walter, – disse la donna con gli orecchini ad anello. – La tua fuga a Milano, i dipinti del sottosuolo, la lettura dei ciottoli, la tua malattia, la tua morte. Parli come se tutto fosse già accaduto, come se tu fossi il fantasma di te stesso. Chi sei, Walter? – Te l’ho detto. Per alcuni sono il pittore fallito che spaccava le lastre di masonite. Per altri sono l’imitatore dello stile di Pasquale Massacra, che dopo trent’anni di imitazioni ha finito per identificarsi con lui. Per altri ancora sono Pasquale Massacra, sopravvissuto alle baionette dei soldati austriaci e nascosto nel sottosuolo della città per continuare a dipingere. E per me, Anita, sono ciò che i ciottoli vogliono che sia. Le leggende sono come le fughe di specchi: si riflettono una nell’altra. Alla fine si disperdono. Lo stesso accade alle nostre
identità. Siamo destinati a rifletterci l’uno nell’altro, a disperderci nella storia di questa città, nella storia dell’universo. Le persone e i personaggi si fondono nel tempo come i sogni che proiettati all’infinito si fondono con la realtà. Anche tu, la donna con gli orecchini ad anello, sei già parte di una leggenda. Dopo queste parole, Walter la guardò negli occhi, prese il bastone e aprì la porta. Fu questione di un istante: un soldato cacciò in avanti il fucile e gli piantò la baionetta nel ventre. Walter cadde all’indietro, la donna con gli orecchini ad anello cercò di sorreggerlo. Dopo l’assalto, il soldato si ritrasse e fu subito ingoiato dalla nebbia. Un silenzio irreale invase la casa, rotto appena dal respiro affannoso di Walter. La donna con gli orecchini ad anello aveva cercato di trascinarlo sino alla sedia ma Walter si era accasciato a terra. Ora giacevano così, lei con la schiena appoggiata al muro, Walter abbandonato tra le sue braccia. – Inutile chiamare i soccorsi, – disse Walter con un filo di voce. – Anche questo è destinato a ripetersi. – Nelle sere di nebbia? Walter non rispose. Aveva gli occhi sbarrati. La donna con gli orecchini ad anello guardò fuori dalla porta. La nebbia si era alzata all’improvviso. Il muro di fronte, illuminato dal lampione, era ricoperto di un’umidità fine come perle di fiume.
Pavia, luglio 2007
Romano Augusto Fiocchi è nato a Pavia nel 1961, vive tra Pavia e Milano. Ha pubblicato i racconti Il libro OGM (2005), La leggenda delle perle di fiume (2007), Il gatto del soldato (2011), il romanzo veneziano Il tessitore del vento (2006), le raccolte di racconti Capricci pavesi (1986), PazzaPavia (1989), Dipinto a testa in giù (1994), Un mistero in via Cardano (2004). Giornalista pubblicista, ha collaborato a testate locali su carta e on-line. Sito Internet: www.romanofiocchi.it.